La Morta Innamorata

di CyanideLovers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Desideri Nascosti ***
Capitolo 2: *** Qualcosa di stregato ***
Capitolo 3: *** Ricordi Pericolosi ***
Capitolo 4: *** Terrore allo Specchio ***
Capitolo 5: *** Intermezzo: Il Grande Vuoto ***
Capitolo 6: *** Strane Premonizioni ***
Capitolo 7: *** Ouroboros ***
Capitolo 8: *** La tomba del compositore ***
Capitolo 9: *** La morta innamorata ***
Capitolo 10: *** Epilogo parte prima: un sonno quieto ***
Capitolo 11: *** Epilogo parte seconda: Il fantasma nella casa. ***
Capitolo 12: *** Epilogo parte terza: Il vero primo giorno del resto delle loro vite. ***



Capitolo 1
*** Desideri Nascosti ***


Attenzione: Questa è una storia dark/horror. Al suo interno troverete molte scene violente con chiari riferimenti a dissociazione, depersonalizzazione, schizofrenia, depressione e attacchi di panico abbastanza violenti. Ci sono scene di sangue e violenza fisica espliciti. Le scene di violenza sessuale, anche se chiari, non sono così espliciti ma vorrei avvertirvi prima che procediate con la lettura. Allo stesso tempo, ho prestato molta attenzione a scrivere scene di conforto e quelle che vengono definite le "grounding techniques".
Detto questo, buona lettura, spero che la storia vi piaccia.
Stay health, stay safe. 

“Invece, ho amato come nessuno su questa terra ha amato mai, di un amore furioso, così violento,
ch'io stesso mi stupisco che il cuore non me ne sia scoppiato.
Che tensione paurosa! Che notti! Che notti!”

Théophile Gautier, La Morte Amoureuse

In una casa, durante una tempesta, Padova, Italia, 1713

Quella notte il compositore fece un sogno.

(O almeno, quello che sembrò un sogno.)

Larghetto affettuoso, in 12/8.

La musica pervadeva l’aria.
Allegra, triste, lenta e veloce, passionale e malinconica, bianca e nera.

“Chi è che suona così magistralmente, nel buio della notte?”

“Il nome è Crowley” rispose l’uomo dal completo nero e lenti scure, che accarezzava dolcemente le corde di un violino nella penombra dello studio.

“Chi siete voi?”

“Perché siete in casa mia? Come siete entrato?”

“Tu mi hai invitato.”

Allegro, in 2/4

L’uomo abbassò lievemente il capo, come un cenno o un saluto, senza mai smettere di suonare, rivelando impossibili occhi gialli.

“Dio mio, occhi di serpente!” Esclamò il veneziano, spaventato, ma poi rimase in silenzio mentre le note invadevano l’aria della notte.

Un ghigno.
L’uomo tremò.

“Angelo o Demone, uomo nell’ombra, tu che suoni una così bella sonata, cosa puoi volere da un povero musicista come me?”

“Il punto non è cosa io voglio da te,” rispose il demone e la mano scivolò leggera sulle corde, “il punto è cosa tu vuoi da me.”

Non c’erano altri rumori in casa, né scricchiolii delle vecchie travi in legno né il mugolare del vento tra le imposte malferme, neanche il ticchettio del vecchio pendolo. Solo il suono del violino invadeva la stanza e il rombo dei tuoni fuori dalla finestra.
Come se lo studio non fosse più nella sua casa ma in un’altra dimensione.

L’uomo trasalì, capendo improvvisamente chi o cosa avesse davanti.
Non è importante capire come facesse a saperlo, l’importante è che avesse capito.

“Non farò un patto con un demone, non venderò la mia anima all’inferno.”

“Bene.” Rispose Crowley con un sorriso impossibilmente affettuoso, “Umani, sempre uguali.”

Rise.

“Sempre così preoccupati. Vi ho donato la possibilità di conoscere la differenza tra il bene e il male, giusto e sbagliato.”

Rise ancora.

“Ma io conosco gli uomini come te, Giuseppe. Sempre annoiato, sempre alla ricerca di qualcosa… e il bene è noioso dopo un po’. Ma dimmi, cosa cerchi? Un po’ di fama e talento, la promessa di essere ricordato in eterno?”

Gli occhi del giovane si illuminarono.
Ah, eccolo, pensò il demone.
La vera condizione umana, l’estenuante ricerca di quel qualcosa.

“Potresti farlo davvero?”

Questi umani, sempre così curiosi.

“Ah, cos’è la dannazione quando il tuo ricordo può vivere in eterno?” Chiese il demone. “Quando qualcuno ci ricorda in eterno, quando il nostro ricordo è avvolto da ammirazioni e elogi, quando saremo per sempre il grande compositore, il grande inventore, perchédovremmo temere le fiamme dell’inferno?”

Andante-Allegro-Adagio, con alternanza di 2/4 (Allegro) e 4/4 (Andante, Adagio).

“Il mio capo si è un po’ indispettito quando ha sentito dire che tu suoni meglio di lui.”

Un tuono, un fulmine.

Ah, sorrise il demone.
Per una volta c’era la giusta atmosfera.

“Non gli piace quando qualcuno mette in dubbio uno dei suoi talenti preferiti. Ma in fondo credo che sia normale, è sempre stato un tipo orgoglioso.”

Un fulmine, un tuono.

“Ma io ho detto, vediamo cosa succede muovendo un po’ le acque. Ho sempre amato gli umani, sempre così pieni di desideri nascosti e inventiva. Geniali, davvero. Questo non è neanche il mio mestiere, per intenderci. Io non stringo contratti, io tento la gente, sussurro all’orecchio. Ma questo è qualcosa di diverso. Quelli la sotto la prendono sul personale a volte.”

“Un’esagerazione, se ti interessa la mia opinione. Ma in fondo sono un demone, a differenza degli umani io non ho il libero arbitrio. Una gran scocciatura, credimi.”

“Sussurrare e tentare è più nel mio stile poi lascio poi fare tutto a voi altri. Secondo me siete ormai in troppi, quelli lì sotto non vogliono capire che, dato il numero crescente, è ormai diventato estenuante fare questa specie di servizio porta a porta e tentarvi uno ad uno, si dovrebbe guardare il quadro generale. È semplice economia, amico mio.”

“Ma in fondo” disse il demone rallentando il suo lungo e sconclusionato monologo “cosa c’è di più seducente? Non una donna, non il denaro, non è neanche il rispetto o la fama.”

“È la promessa di vivere in eterno nel cuore e nella mente degli uomini.”

Pioggia.

“Pensaci Giuseppe, essere il più grande compositore di tutti i tempi, colui che ha scoperto un nuovo modo per suonare il violino.”

Pioggia, pioggia.

“Lo senti vero? Il terzo suono.”

“È proprio lì, fra le due note, si percepisce ma non si sente veramente, come se stessero suonando due violini. Uno invisibile e uno visibile.”

Un tuono.

“Come fai?” Chiese il compositore.

“No, no, no, amico mio. Un diavolo non rivela mai i suoi trucchi.”

“Ma posso regalarti questa mia sonata. È tua se la vuoi.”

“La mia mano è al tuo servizio, basta un solo cenno e io trascriverò le mie migliori note per te.”

L’uomo si mosse indeciso.
Un movimento nervoso, spostò il peso da un piede all’altro.

Il demone sorrise dolcemente.
Aveva già vinto.

“E la mia anima?”

“Bhé, la risposta mi sembra ovvia.”

“E se io avessi una controproposta?”

Oh,
Umani, sempre così pieni di sorprese.

“Che genere di proposta?”

“Tu potresti riscrivere questa sonata.”

Così testardi, così orgogliosi, così così arroganti.

“Se io riuscirò a eseguirla meglio di te potrò tenermi la mia anima e la mia musica,”

Un ghigno.

“Se non dovessi riuscirci potrai reclamare la mia anima.”

Pioggia, pioggia, pioggia;
tuono, lampo, tuono.
Il demone sorrise.

“Una notte sognai che avevo fatto un patto e che il diavolo era al mio servizio. Tutto mi riusciva secondo i miei desideri e le mie volontà erano sempre esaudite dal mio nuovo domestico. Immaginai di dargli il mio violino per vedere se fosse arrivato a suonarmi qualche bella aria, ma quale fu il mio stupore quando ascoltai una sonata così singolare e bella, eseguita con tanta superiorità e intelligenza che non potevo concepire nulla che le stesse al paragone. Provai tanta sorpresa, rapimento e piacere, che mi si mozzò il respiro. Fui svegliato da questa violenta sensazione e presi all'istante il mio violino, nella speranza di ritrovare una parte della musica che avevo appena ascoltato, ma invano. Il brano che composi è, in verità, il migliore che abbia mai scritto, ma è talmente al di sotto di quello che m'aveva così emozionato che avrei spaccato in due il mio violino e abbandonato per sempre la musica se mi fosse stato possibile privarmi delle gioie che mi procurava.”*

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 1770

Se credete a quelle vecchie dicerie secondo le quali i demoni danzano sulle tombe dei morti, vi sbagliate.
Prima di tutto, i demoni non danzano. Non bene per lo meno.
In secondo luogo, la maggior parte delle tombe sono benedette
e nel caso non lo fossero è solo perché sono tutte ammucchiate nei cimiteri e quelli sono sempre terreni consacrati.

Le poche tombe lontane dai terreni consacrati e non benedette sono spesso sepolcri pagani o di persone credute possedute del demonio. Molti diavoli ridono a quest’ultima credenza perché, spesso, queste persone non sono mai venute a contatto con entità soprannaturali.
Dunque, i demoni non ballano sulle tombe.

Tutti i demoni in generale tendono a star ben lontani dalle chiese come dai campisanti, difficilmente un diavolo ha voglia di testare la sua fortuna per scoprire se, al primo contatto con il suolo, prenderà fuoco o soffrirà solo di qualche scottatura.
Infondo, la curiosità, quando se ne abusa, spesso e volentieri ci porta addosso qualche sventura.

In più l’acqua dei campi santi — da quella delle fontanelle alla pioggia agli annaffiatoi — così come nelle chiese, diventano in poco tempo acqua santa, considerando che tutti noi sappiamo i terribili effetti del liquido sui suddetti demoni potrete immaginare con quanta cura gli angeli caduti evitino questi luoghi.
Acquisite queste conoscenze, potrete dunque immaginare perché la vista del demone Crowley mentre camminava per i vialetti del cimitero, dritto come un chiodo e dimenticando la sua ridicola andatura per una volta, fosse una visione quantomeno inusuale.

Non sapeva perché fosse lì.
C'era
come una forza al di fuori della sua portata lo guidava, vincolandolo al suo contenitore di carne, costringendolo a mettere un piede davanti all’altro, togliendogli perfino la possibilità di tirarsi indietro o di reagire al dolore che stava provando.

Camminò lungo il sentiero fino ad arrivare davanti alla piccola chiesa e vi entrò, mantenendo lo sguardo spento che lo aveva accompagnato per tutto il suo pellegrinaggio.
Nella chiesa non c’era nessuno, solo una donna vestita a lutto, un lungo velo nero le copriva la testa e il volto, così lungo che sfiorava il bel pavimento della chiesa.

“Tu devi essere il demone Crowley.” Commentò la donna quando sentì i passi lenti e striscianti dell’uomo dietro di lui.

“Perché mi hai chiamato?” Chiese lui, la voce monotona come la sua camminata, imprigionato com’era, anche le emozioni erano blindate nella sua mente.

“Tre giorni fa lui è morto.”

Soho, Londra, Inghilterra, 499 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata

La prima e l’ultima volta che accadde davanti ai suoi occhi, Aziraphale pensò che fosse una di quelle strane cose che Crowley era solito fare.
Avevano passato una piacevole serata in uno di quei ristorantini alla moda che l’angelo amava tanto. Circondati da cibi deliziosi e buona musica, l‘angelo e il demone avevano riso e scherzato e, dopo svariate bottiglie di vino, erano arrivati a riesumare vecchie avventure, le più imbarazzanti ovviamente, e avevano iniziato a ridere di gusto al ricordo di tanti momenti passati insieme.

Poi, a un tratto, qualcosa accadde.
Fuori dalla porta del locale un giovane ragazzo si era fermato con un violino in mano. La custodia era aperta e qualche buonuomo gli aveva già lanciato qualche spicciolo per supportarlo, il ragazzo pareva essere mezzo morto di fame ma non appena aveva iniziato a suonare le note si erano infilate sotto la porta, attraverso i tavoli, le sedie, le colonne decorate, tutti avevano smesso di parlare per un istante.

La musica era bellissima, allegra evagamente malinconica.
Aziraphale guardò Crowley che rimase in silenzio per molto tempo, lo sguardo fisso verso qualcosa che non poteva vedere, perso nei suoi pensieri.
Poi la musica cambiò, più allegra e energica, qualcosa che non sembrava davvero di questa terra.

Fu allora che avvenne.
Con uno scatto, Crowley si alzò dalla sedia.
All’inizio Aziraphale lo aveva seguito con lo sguardo, un sopracciglio inarcato come a voler fare una domanda
ma l’uomo alto e magro davanti a lui non aveva detto una parola, non cercò scuse per il suo comportamento né prese la giacca. Si alzò dalla sedia e uscì dal locale, lasciando l’amico con la bocca mezza aperta.

“Per favore, cancelli l’ordine del dessert e mi porti il conto.” Si affrettò a chiedere alla cameriera l’angelo e nel giro di dieci minuti era già fuori dal locale, il cappotto stretto al corpo, la sciarpa pesante e la giacca del demone tra le braccia.
Crowley, nel frattempo, aveva afferrato bruscamente il violino del ragazzo e aveva ripreso a suonare la stessa melodia ma con più passione e con fioriture e cadenze che non aveva mai sentito prima che rendevano la musica ancora più passionale e ultraterrena.
Lanciò uno sguardo di scuse al ragazzo che se ne stava seduto sulla neve. Lui Guardava Crowley come se fosse Dio in persona, stupito dalla maestria del demone.
Aziraphale gli diede dei soldi, un cappotto caldo e morbido che il ragazzo non
capì mai da dove fosse spuntato, e gli assicurò che avrebbe avuto molta fortuna nella vita se solo fosse tornato a casa il prima possibile.
Il ragazzo li lasciò con riluttanza, ancora incantato da come Crowley muoveva l’archetto sulle corde del violino.

“Crowley” lo chiamò Aziraphale. “Crowley, che diavolo stai facendo?”

Il demone non rispose, non sembrò minimamente turbato dal tono infastidito dell’amico— in verità sembrava non averlo minimamente sentito— continuò a suonare guardando dritto davanti a se, come se non fosse neanche cosciente dell’amico accanto a lui.

“Mio caro, mi spaventi, che ti prende.”

Un movimento dell’archetto.
Dita lunghe che scivolano sulle corde.
Sguardo vuoto, come un fantasma, come un morto.

“Il tuo corpo finirà per morire congelato, mio caro, almeno metti la giacca.”

Lui lo ignorò, continuò a guardare dritto davanti a sé e continuò a suonare, senza fermarsi fino all’alba.

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 1770

“Chi sei tu?”

“Elisabetta.”

“Sei la moglie del compositore.” Commentò Crowley vagamente intrigato.

La donna continuò a dargli le spalle, lo sguardo fisso sulla tomba davanti a lei.

“Mio marito era un brav’uomo.” Disse dopo un lungo silenzio. “Era stato per tanto tempo un uomo violento e superbo, sempre alla ricerca di qualcosa, sempre nervoso, sempre ansioso.”

“Ma era un brav’uomo.”

La donna avrebbe avvertito il tono sarcastico, se solo Crowley fosse stato in grado di controllare il suo tono di voce. Il commento era stato detto con il tono più blando che si potesse immaginare, con grande disappunto del demone.

“Lo era.” Confermò la moglie. “Mi ha sposato in segreto e quando mio zio, il cardinale di questa città, lo scoprì, fu costretto a fuggire.”

“Piansi per molto tempo.”

“Lo amavi?”

“Lo amo ancora. Quando riuscimmo a ritrovarci, quando fu tutto detto e tutto perdonato tornammo in questa città e trovammo il modo per vivere una vita tranquilla.”

Crowley si avvicinò a lei. Il dolore che si irradiava dalla suola delle scarpe era a malapena sopportabile e i piedi sembravano non volersi alzare un centimetro dal suolo. Non se ne preoccupò più di tanto, la donna aveva un’aura molto più minacciosa.
C’era qualcosa in lei, qualcosa, qualcosa, che non riusciva a mettere a fuoco.
La sua immagine era vibrante, come quando fa molto caldo e l’orizzonte sembra tutto tremolante.

“Se mi hai evocato per chiedermi di riportarlo in vita, mi dispiace, non posso aiutarti. Niente sfugge alla morte.”

“No.”

“No?”

“Mio marito ha vissuto gli ultimi anni della propria vita nel terrore e nell’angoscia, continuando a suonare quel suo maledetto violino ancora, ancora e ancora. Non mangiava più e non dormiva più.”

“Se cerchi vendetta, posso capirti.”

“Però tu sai bene che io gli ho solo offerto una scelta.”

“Poteva scegliere una vita tranquilla, moglie e figli, ma ha scelto una vita fatta di applausi, fama e notorietà.”

“Non ti azzardare a parlare in questo modo di mio marito!” Stillò lei con uno sguardo folle negli occhi. Si lanciò contro di lui e lo spinse contro una delle colonne della chiesa.

“Sai che è vero.”

Lei strinse la sua mano intorno al collo e lui sorrise dolcemente.

“Sai, di solito mi piacciono le donne come te.”

La mano al suo collo si strinse.

Lui sorrise ancora, stava andando tutto secondo i suoi piani.

Il suo piano— che poteva sembrare stupido— era quello di essere ucciso. Ovviamente un essere umano non ha armi per eliminare davvero un demone, tolta l’acqua santa che era ben lontana dalla moglie in quel momento, se lei lo avesse fatto sarebbe tornato all’inferno. Ci sarebbero state molte scartoffie e un paio di domande imbarazzanti, in una cinquantina d’anni sarebbe potuto tornare a camminare libero per il mondo.

“Così forte e fiera, non ti limiti a vivere la tua vita tranquilla, in silenzio come tutte le altre, tu non rimani in disparte a piangere il tuo molto morto marito. No, tu ti vesti come un mostro per evocare un demone.”

“Per fare cosa?”

“Spaventarlo?”

“Ucciderlo?”

Lei rilasciò la presa intorno al collo del demone. Crowley sentì di poter finalmente muoversi più liberamente, non poteva ancora sollevare i piedi dal terreno consacrato ma riusciva a muovere le braccia e poteva di nuovo controllare la sua voce, il suo tono, le ultime parole avevano un leggero sibilo nascosto fra le lettere, gli occhi erano di nuovo di un brillante color giallo.

“Maledirlo.” Rispose la donna, tornando al centro della navata.

Crowley rise a quelle parole.

“Non puoi maledirmi, tesoro. Sono un demone, sono già dannato per l’eternità.”

Lui rise.

“Sei stato maledetto da Dio.”

“Ma non sei mai stato maledetto da una donna morta e innamorata.”

La risata morì come era nata.
Le parole erano calme, fluivano come un ruscello che pigramente scorre fra le rocce.
Il demone si ricordò perché esisteva il detto: la donna ne sa una più del diavolo.

“E io ti maledico Demone Crowley.”

“Ti maledico perché io lo amavo.”

“Ti maledico a soffrire come ha sofferto lui.”

“E non ti dimenticherai mai di me.”

“E non smetterai mai di vedere la mia faccia.”

“E ricorderai sempre che qui, ora, in questa chiesa, io ti ho maledetto.”

“E non potrei mai più ascoltare il suono dell’opera che hai composto per mio marito.”

“E quando succederà, tu inizierai a suonare, inizierai a sentire l’irrefrenabile desiderio di toccare di nuovo un violino, e non potrai più lasciarlo andare.”

“E soffrirai come ha sofferto lui, e la paura e il terrore ti strangoleranno e perderai la persona che ami di più.”

“E piangerai e urlerai.”

“E niente ti salverà.”

“Perché Dio ti avrà anche maledetto e tu sei caduto e bruciato all’inferno.”

“Ma questo sarà anche peggio dell’inferno.”

“Perché è una donna morta e innamorata che ti maledice.”

“E la mia maledizione farebbe rabbrividire Dio in persona.”

Così parlò.

E prima che il demone potesse dire una sola parola, lei estrasse la pistola dalla tasca del vestito e si sparò.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

*Secondo un aneddoto, riportato dall'astronomo francese Jérôme Lalande nel libro "Voyage d'un Français en Italie, fait dans les années 1765 et 1766" ("Viaggio di un francese in Italia, fatto negli anni 1765 e 1766"), l'ispirazione che porterà Giuseppe Tartini alla creazione della sonata “Il trillo del diavolo” deriva da un sogno, fatto in una notte del 1713, descritto così dal compositore.

Sono certa che la moglie di Tartini, Elisabetta Premazore, fosse un amore di ragazza. Dato che ci sono pochissime notizie sulla sua vita, se non che ha sposato il compositore e che i suoi parenti non erano inizialmente favorevoli al matrimonio, il personaggio della moglie del compositore è totalmente inventato, completamente fuori personaggio (mi auguro per il povero Tartini) e il suo nome, così come quello del compositore, verranno citati solo questa volta.

Spero che la storia vi piaccia, non credo che dovrete aspettare molto per il prossimo capitolo, ho già buttato giù la bozza, quindi è solo da correggere. Intanto vorrei ringraziare @setsy che è stata una fantastica beta-reader
I vostri commenti mi danno spesso la forza di continuare a scrivere quando sono le cinque del mattino e la mia insonnia non mi abbandona.

PS: mi sto mettendo all’opera per correggere la storia dato che c’erano molti errori di battitura e vorrei ringraziare in primis Setsy per il suo aiuto come beta-reader e Aspirina Effervescente che da qui in poi ha scritto il 60% della storia e che, come sempre, mi porta a scrivere le storie più dark che si possano immaginare.

Mentre rileggo la storia non posso fare a meno di scusarmi con tutti i personaggi di Good Omens, in particolare Crowley, che davvero non si meritavano tutta questa ansia.

 

  

 

 

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Capitolo 2
*** Qualcosa di stregato ***


Padova, Italia, 1770 

  

La prima reazione di Crowley fu quella di strisciare. 

(In fondo lui è un serpente, strisciare è nella sua natura.) 

Nell’esatto momento in cui la donna aveva esalato il suo ultimo respiro, si sentì libero di muoversi e cadere in avanti, in ginocchio, verso di lei. 
Il sangue gli era schizzato in faccia e cadendo si era sporcato le mani, le braccia, e l’unica cosa che riusciva a pensare era l’orribile sensazione appiccicosa contro la pelle. 

Sconvolto, la guardò per un’ultima volta: aveva uno sguardo terrificante, gli occhi spenti e sgranati, un’espressione sofferente e nonostante il velo poteva vedere il volto rigato dalle lacrime, gli occhi rossi, le occhiaie di chi non aveva dormito per giorni. 
Crowley si girò su un lato, cercò di alzarsi, ma il corpo non sembrava rispondere ai suoi comandi dopo aver passato così tanto tempo nella chiesa. Cercò di strisciare, di allungarsi verso l’uscita e gattonò per tutto il sentiero, il sangue che lo seguiva come un serpente. 

Strisciare era nella sua natura, dopotutto. 

 

Soho, Londra, Inghilterra, 500 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata 

  

Crowley aveva suonato per ore finché qualcuno non gli aveva strappato di mano il violino, esasperato. 
Ovviamente, quel qualcuno era Aziraphale. 
Il demone aveva seguito con le braccia il violino, come se non fosse capace di lasciarlo andare del tutto. Quando staccò finalmente le mani dallo strumento e dall’archetto lo fece con un sospiro dolorante. 

“Mio caro, per quanto ami sentirti suonare, è l’alba e tu sembri esausto.” 

Il demone in effetti sembrava sul punto di crollare a terra per la stanchezza: aveva lo sguardo perso nel vuoto, gli occhi continuavano a ondeggiare sulle spalle dell’angelo tanto che quest’ultimo si girò per controllare che nessuno li stesse osservando. 
Ma dietro di lui non c’era niente e Aziraphale tornò a concentrarsi sull’amico che tremava per il freddo e la fatica. 

Non era la prima volta che succedeva. 

“Caro ragazzo, andiamo da me, ti preparo una tazza di tè caldo.”
 

“Angelo,” lo chiamò Crowley, lo sguardo ancora perso nel vuoto. “Puoi vederla?” 

Aziraphale si girò ancora una volta, ma le strade erano deserte, si prese un momento in più per aumentare le dimensioni della sua aura in caso ci fossero presenze che non erano visibili ai suoi occhi. 


“Chi?”


“Nessuno.” 

Anche questo era già successo. 

Si incamminarono verso la libreria, Crowley vagamente cosciente della mano intorno al suo braccio, come se l’angelo accanto a lui avesse paura che potesse crollare da un momento all’altro e si stesse tenendo pronto ad afferrarlo, se fosse successo. Prima che se ne rendesse conto, erano già arrivati davanti alla porta della piccola libreria. 
Guardò il suo riflesso nel vetro della porta e, improvvisamente, fu troppo cosciente di quello che era appena successo. 

“Scusa, devo andare.” 

“Andare?” Chiese Aziraphale, “Andare dove?” 

“A casa.” 

“A casa?” 

“Ho cose da fare, persone da tentare.” 

“Persone da tentare?” Domandò l’angelo alzando un sopracciglio. 

“Le piante… devo annaffiare le piante. Controllare la posta.” 

“Oh,” 

“E poi c’è un film che vorrei guardare, magari dormire per un po’.” 

“Certo, capisco.” Rispose l’angelo, lo sguardo leggermente preoccupato. “Mi sembri un po’ stanco.” 

“Forse, forse…” 

“Ci vediamo per cena? Tra una settimana magari.” 

“Certo. Splendido, fantastico, una settimana, ok… ok… si può fare. Offro io la prossima volta.” 

Aziraphale lo guardò sparire nella sua vecchia Bentley e rimase lì finché la macchina non girò l’angolo. Entrando nella libreria, non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione di solitudine mista a preoccupazione che gli aveva lasciato addosso il demone. 

  

 

Mayfair, Londra, Inghilterra, 1770 

  

Crowley si ritrovò nella sua casa di Londra in un istante. 
Nonostante fosse molto tempo che non tornava lì, su nessuna delle superfici avevano osato posarsi né polvere, né sporcizia. Le piante erano di un verde brillante, ricche di fiori e prive di macchie. Le piante di Crowley erano forti e testarde, non erano stupide: sapevano che anche la minima imperfezione le avrebbe portate alla distruzione. Spinsero la clorofilla a lavorare ancora di più, d'altronde potevano crescere con il minimo ammontare d’acqua e di sole. Le piante erano come il loro padrone; anche nelle avversità avrebbero finto di stare bene e fatto di tutto pur di sopravvivere. 

Il demone abbassò lo sguardo sulle mani incrostate di sangue e improvvisamente si sentì disgustato da quella visione, tutto quello che poteva vedere era solo rosso, sangue, la donna morta davanti a lui, lacrime negli occhi e uno sguardo…
morto, morto, morto. 

E sapeva che, in quanto demone, avrebbe dovuto apprezzare quella vista... ma il sangue era così appiccicoso e denso, così rosso e puzzava di ferro arrugginito e di fango rancido, le sue mani tremavano e non riusciva a capire come fosse possibile che i suoi vestiti fossero così inzuppati di sangue. 
Passò molto tempo in quello stato, agitato, tremante e molto, molto solo. 
Per giorni non fece altro che lavarsi le mani ma nonostante tutto, ogni volta che si portava le dita lunghe al volto, tornavano a essere bagnate e viscide di sangue fresco. 

Le piante sentirono la sua disperazione e iniziarono a tremare. Nella loro breve vita non avevano conosciuto terrore più grande del serpente dell’Eden. Non sapendo nulla del mondo, le piante conclusero che se c'era qualcosa che poteva spaventare il demone più tremendo che avessero mai conosciuto, doveva essere qualcosa di davvero terribile. 

Dormì per molto tempo. 

Non tanto quanto avrebbe voluto in realtà. 

Ogni volta che si specchiava la donna era dietro di lui.  

Riflessa nello specchio del bagno; 

riflessa nei vetri delle grandi finestre; 

riflessa nell’argenteria. 

Nel marmo lucido; 

nei piatti d’argento; 

nei calici di vino; 

nelle sue lenti scure. 

Sempre dietro di lui, senza mai andare via, senza mai essere stanca, nei suoi sogni era solo una figura nera e terrificante che piangeva di fronte a una tomba. 
Il viso rigato dalle lacrime, il volto nascosto da un velo nero. 
Mai abbastanza nascosto. 

E morta, morta, morta. 

Alla fine si abituò alla sua maledizione. 

Si abituo a non specchiarsi più. 

Si abituò a fingere che non fosse terrorizzato. 

Quando le stagioni iniziarono a cambiare e l’estate cedette il passo all’autunno e l’autunno all’inverno e l’inverno alla primavera, dopo anni e anni, Crowley guardò il suo riflesso e scoprì che la donna era sempre lì, con la promessa di tormentarlo finché la terra non avesse smesso di girare o lui non sarebbe morto. 

Si svegliò dopo tre mesi, ancora rannicchiato dietro il letto, sudato e tremolante con la sensazione di aver fatto solo uno strano sogno. 

Un brutto sogno, ecco cos’era.

Un sogno, niente di più. 

Così si alzò da terra, le giunture vagamente doloranti per essere rimasto in quella posizione accovacciata per tutti quelle settimane, senza essersi mosso neanche una volta. 

Un sogno. 

Se ne convinse per un momento, un lunghissimo secondo, finché non si guardò allo specchio. 
Lei era sempre lì, spaventosa e bellissima, meravigliosa e terrificante. 
Crowley la guardò, la studiò per un momento. 

“Vattene.” Comandò guardandola con odio. 

Ma lei rimase lì, giudicandolo in silenzio. 

  

  

Mayfair, Londra, Inghilterra, 1860 

  

Una donna, lacrime, uno sparo. 

Crowley si svegliò con un sussulto. 

Ancora. 

Una donna, lacrime, uno sparo. 

Ancora. 

Una donna, lacrime, uno sparo, lacrime, sangue. 

Ancora. 

“Ti maledico perché io lo amavo.” 

Lacrime, uno sparo, sangue. 

Ancora. 

Sangue, sangue, sangue. 

  Ancora. 

  

Crowley si svegliò con un sussulto. 

Per un secolo, ogni notte, sempre così. 

Un secolo. 

Cento anni. 

Mille e duecento mesi. 

E lei era lì per ogni secondo, ogni istante. Non c’era modo di sfuggirle. 

Tuttavia Crowley era certo che con il tempo ogni ferita si poteva rimarginare. Era un demone dopotutto, avrebbe certamente trovato un metodo per eliminare quella scocciatrice.  Quindi per molto tempo aveva vissuto consumando un’incolmabile fiducia nel futuro. 

Aveva fatto di tutto, ovviamente, per liberarsi della donna: 
aveva fatto ricerche, distrutto i corpi con le fiamme dell’inferno, aveva sigillato di nuovo la tomba, era fuggito dall'Italia e non vi era più tornato. 

Aveva cercato di dormire… ma lei lo seguiva, perennemente, anche nei sogni. 


Si era sciolto in un turbinio di alcool e droghe perché, nonostante tutto, gli umani riuscivano a stupirlo sempre, e si era abbandonato al piacere unico di tutte quelle sostanze che lo lasciavano come un corpo vuoto contro il materasso sporco di una vecchia baracca. 

Aveva cercato di lasciarsi andare ai piaceri della carne, all’estasi del corpo,
ma la sua pelle era intorpidita e insensibile. 
E lei lo guardava sempre, qualsiasi cosa facesse. 
E lui aveva così tanto freddo e niente riusciva mai a scaldarlo. 
Così continuò con il suo continuo ciclo di distruzione sistematica. 

dormire;
droghe;
alcool;
violenza. 

Ancora.
Tutto da capo. 

  

Non aveva più voce per urlare e l’incrollabile fiducia nel futuro, che lo aveva accompagnato per più di cinque millenni, si era consumata inevitabilmente. E ormai i suoi sorrisi iniziavano a essere sempre più duri e forzati, somigliavano a una paresi permanente, ma alla fine del giorno non aveva mai il cuore di lasciarsi andare e semplicemente morire. 

Con il tempo, tutto cambia: si era ormai abituato a non incrociare lo sguardo con specchi e superfici lucide per paura di incontrare il suo sguardo. Si era abituato alla sua maledizione. 
La maggior parte delle volte non era così male. Riusciva a gestire la cosa, soprattutto quando aveva bevuto abbastanza vino da riuscire a dimenticare.  

Certi giorni era peggio. 

Basta. 

Ti prego basta. 

Vai via. 

Ma lei, ovviamente, non lo avrebbe mai lasciato. 

Gli ci era voluta un’incredibile forza di volontà per alzarsi dal letto e riuscire a scrivere una lettera all’angelo per chiedergli di incontrarlo a St. James. 
Quell’unica sera passata con Aziraphale, mangiando crêpes e bevendo vino francese, era stato il solo momento in cui si era sentito di nuovo se stesso. 
Ma niente era come prima ormai. 

E lui era stanco, così stanco. 

Quindi si arrese. 

Pregò, per una volta, per un po’ di pietà da parte dell’angelo. 

Pregò, ancora, per la fine di quella tortura. 

Non si stupì comunque quando le sue preghiere non vennero ascoltate. 

  

  

Una baracca diroccata, Nei bassifondi della città di Londra, Inghilterra, 1920 

  

Crowley sapeva di star facendo un errore. 

Sapeva che stava sbagliando. 

Non gli importava, comunque. 

Un secolo passato a dormire eppure si sentiva ancora incredibilmente esausto. 

E lei era sempre lì, ovviamente. 

Ovviamente, ovviamente, ovviamente. 

Il demone rise. 

Perché, davvero, non trovate che sia divertente? 

Un angelo caduto e maledetto da Dio in persona che è più spaventato di una donnetta morta un secolo e mezzo prima. 

Rise. 

Non riusciva più a guardarsi allo specchio, non riusciva a dormire, non riusciva a mangiare, l’alcool lo disgustava e le droghe non bastavano più.
(Questo ovviamente non lo fermava mai. Nonostante il disgusto, lui ne voleva sempre di più, di più, di più). 

Così se ne stava giorno e notte su quel vecchio materasso sporco, completamente distaccato dal corpo, fluttuava in mezzo al dolore, alla nausea e al disgusto, mentre più in basso un uomo strisciava sopra di lui, lo baciava.
Lo sfiorava, non in modo gentile. 


Lo prendeva per i capelli.
Non era importante. 


Davvero, perché avrebbe dovuto importargli, non è che fosse consapevole di quello che stava succedendo. 

E Crowley ride, ride. 

Perché gli umani sono così meravigliosi, più spaventosi di Dio e Satana. 

Crudeli. 
Malvagi. 
Terrificanti. 

Per un momento non vide nulla, solo la donna che si avvicinava verso di lui: la sua mente in questo momento era un fiume di nebbia bianca e grigia, fumo nero, una terra desolata e lui era al centro, fluttuava inesorabilmente di qua e di là e tutto era bruciato e lei era lì che lo guardava, non rideva e non parlava, lo guardava e basta e Crowley avrebbe solo voluto urlare: vattene, vattene, per l’amor di qualcuno, lasciami solo. 


Ma tutto quello che riuscì a mugugnare fu un misero: scusami, Scusami, mi dispiace, mi dispiace.  

E lui cercò di scappare ma l’uomo lo afferrò per le braccia costringendolo a rimanere fermo ma a Crowley non importava. Il demone iniziò a urlare guardando la donna che si avvicinava verso di lui, terrorizzato. 

E improvvisamente tutto divenne troppo: 
la nebbia era troppo densa, non vedeva dove si trova; 
il respiro era affannoso, i polmoni bruciavano. 
Lo stomaco si contraeva e sussultava tra gli spasmi, la sensazione era quella di un serpente enorme che cercava di risalire per la gola. 
Gli occhi erano grandi, spalancati, le pupille dilatate all’inverosimile.

Non vedeva niente, era diventato cieco?
L’uomo non sembrò notarlo. 

Il suo tocco era doloroso, bruciava, lo soffocava. 

Un demone? Il diavolo? Satana? 

L’uomo era pesante e puzzava di alcool e era sporco, disgustoso, come uno di quei demoni che non erano mai usciti dall’Inferno. 

Era all’inferno? 

Crowley emise un suono patetico, una specie di mezzo sibilo e un mezzo ululato sottile, un sussurro dolorante: 
“Aziraph” 

Non riuscì a finire la parola. 
L’uomo lo aveva preso per la gola, cercando di soffocarlo, e lui non riusciva a muoversi, non riusciva a vedere e soprattutto non riusciva a respirare. 

Poi tre cose avvennero, prima che perdesse del tutto conoscenza: 

Gli occhi erano una fessura sottilissima, tra le ciglia e le lacrime riuscì a vedere vagamente della luce. 

Il peso sopra il suo corpo era improvvisamente sparito, non c’erano più mani intorno al collo e lui sentì di poter di nuovo respirare. Crowley aprì la bocca violacea con un sussulto e cercò di inalare quanta più aria possibile; i polmoni bruciavano, il corpo tremava e il demone sentì i polmoni muoversi sotto la carne, spasmi violenti come quando stai sott’acqua per troppo tempo. 
Qualcuno lo sfiorò delicatamente, gli asciugò le lacrime dal viso e lui continuò a tremare in modo patetico. 
Mani gentili avvolsero il suo corpo nudo in una coperta pulita e lo strinsero contro un petto morbido. 

“Mio caro ragazzo, cosa hai fatto?” Mormorò la voce più bella che avesse mai sentito. 

Di tutto, avrebbe voluto dire, ho mandato all’inferno un uomo innocente. La sua unica colpa era quella di essere troppo brillante. 

Quella donna mi ha maledetto. Poi si è sparata. 

Sono morti per colpa mia. 

Adesso lei mi tormenta da un secolo e mezzo. 
Ti prego, ti prego, uccidimi. 

Ma non riuscì a dire niente di tutto ciò e, prima che potesse anche solo emettere un suono, si addormentò: 
per la prima volta, dopo un secolo e mezzo, venne cullato in un sonno senza sogni. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Ragazzi, grazie per gli amorevoli commenti, siete stati tutti gentilissimi <3
Come si dice "Questo è il motivo per cui non possiamo avere cose belle."
Nota molto importante, questa storia è scritta a quattro mani da me e da Aspirina_effervescente ma se devo essere del tutto onesta è più lui che scrive..io mi limito a scrivere note su musica e a fare ricerca ahah
Ringraziamo sempre Setsy che ci ha aiutato a correggere la storia, buffo come ci si dimentichi che le regole grammaticali siano importanti quando si scrive una storia, e chi se lo aspettava ahah

Seconda cosa, meno importante, il blog che curiamo da un anno (Cyanidechan ) vi aspetta nel caso voleste vedere qualche fanart creata dalla sottoscritta o semplicemente aveste voglia di chiacchierare con noi o seguire i nostri deliri giornalieri.
Il prossimo capitolo arriverà con un po' di ritardo perchè siamo tutti preparando esami ma dovrebbe essere comunque pronto circa in una settimana.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Come sempre, aspetto con ansia i vostri adorabili commenti e suggerimenti 

Buona giornata, miei cari <3

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Capitolo 3
*** Ricordi Pericolosi ***


Aziraphale non era uno sprovveduto. 
Poteva avere l’aspetto e un carattere soffice e dolce, troppo buono e troppo permissivo. 
Ma non era di certo uno sprovveduto. 

Se c’era una cosa che aveva imparato a conoscere, dopo seimila anni di amicizia, era il demone che era rimasto al suo fianco per tutto quel tempo. 
Si definiva, orgogliosamente, un esperto di Crowley. 
Aziraphale conosceva tutte le sue espressioni, quando era contento, felice ed eccitato, curioso o insicuro.

Per esempio: 
Aziraphale aveva imparato che non c’era niente che il demone amasse di più della musica. Lo aveva scoperto molto presto; in un giorno di primavera mentre entrambi stavano seguendo, come erano soliti fare, Adamo ed Eva. 

Caino e Abele erano nati da poco e la donna stava cullando il più piccolo, mormorando una canzone antica come l’universo. Aziraphale non era sicuro di ricordare dove l’avesse già sentita: la canzone era poco più di un mormorio, priva di parole, una ninna nanna dolce e rassicurante, familiare. 
L’angelo era rimasto incantato dalla donna e dai movimenti lenti e calcolati e aveva visto il piccolo, che fino ad allora non aveva smesso di urlare e lamentarsi, soccombere al sonno e addormentarsi tranquillo.
 
Accanto a lui, il demone la guardava come un angelo che guarda Dio: gli occhi brillavano di un giallo potente e caldo, la bocca piegata in un sorriso dolce. 
“Stai bene, Crawly?” Aveva domandato lui, notando le lacrime che scivolavano dagli occhi del demone accanto a lui. Crowley si era portato una mano alla guancia e un’espressione sorpresa si era formata sul suo viso: 

“Questa canzone… mi ricorda qualcosa.” 

Nessuno dei due aveva mai più parlato dell’accaduto. Nessuno dei due aveva mai accennato al fatto che La Canzone era sospettosamente simile a quella che Dio cantava un tempo, quando l’universo era giovane, gli angeli non si erano ribellati e si divertivano a creare il firmamento insieme a lei. 
Quando ancora era tutto bello e non esistevano il dolore, l’angoscia, la disperazione. 
Quando ancora il grande motore dell’universo non era nient’altro che l’amore dell’onnipotente. 

Dopo quell’episodio, nel corso del tempo, aveva sorpreso Crowley più e più volte destreggiarsi con diversi strumenti: il demone suonava con maestria il pianoforte e il violino, l’arpa —Crowley, quando Aziraphale lo aveva sorpreso, si era giustificato sostenendo che fosse ironicamente diabolico che un demone suonasse l’arpaAziraphale aveva riso insieme a lui provando una leggero imbarazzo quando si scoprì a pensare che il demone suonasse in modo angelico— sapeva suonare il basso, il sassofono e la batteria, la balalaica e il sitar, la chitarra e un altro numero indefinito di strumenti. 
Una delle sue più grandi soddisfazioni era stata quella di aver inventato il Jazz.* 
Aveva scritto opere liriche insieme ai più grandi compositori e l’angelo non ricordava più quante volte aveva accompagnato il demone ad assistere a rappresentazioni del Don Giovanni e del Barbiere di Siviglia e del Scorate Immaginario. 
Conosceva tutti i nomi dei più grandi compositori, sapeva nominare ogni sinfonia dopo aver ascoltato una manciata di note. 

“Certo che amo la musica,” aveva detto una volta il demone dopo la loro ottava bottiglia di vino “La musica è qualcosa di assolutamente diabolico. Il diavolo è un ottimo musicista, d’altronde. C’è una ragione se noi abbiamo i migliori compositori: pensa a tutte quelle melodie che ti rimangono in testa per giorni, se non per settimane. Tutte quelle canzoncine fastidiose nelle pubblicità. Dovresti vedere che lavorone ho fatto negli anni ’80 in Italia.** Ci sono canzoni che mi hanno fatto guadagnare encomi e perfino medaglie!” E poi aveva riso di gusto versandosi un’altra bottiglia di vino. 

Crowley canticchiava quando guidava, cantava sotto la doccia, quando ubriaco e, con grande divertimento dell’angelo, aveva cantato la marsigliese completamente ubriaco in piazza della concorda. Il demone, si vergognò per la seconda volta a quel pensiero, cantava come un angelo. 

Poi qualcosa era cambiato. 
Non lo aveva notato subito. Era stato graduale e spalmato nel tempo. Non sapeva dire quando era iniziato: il demone alternava momenti di deliziosa euforia nei confronti della musica a lunghi silenzi e sguardi persi. Erano secoli che non lo aveva più visto prendere in mano un violino. Quando se ne accorse fu come quando scopri che un amico di vecchia data è morto e che lo hai saputo dopo molto tempo. La realizzazione arrivò in una serata solitaria passata a ripescare dalla memoria vecchi aneddoti. 

L’angelo aveva chiesto: Perché non suoni qualcosa, vecchio serpente? 
Un ghigno per nulla angelico era stampato sul suo viso, il tono giocoso. 
Il demone aveva guardato il violino come se da un momento all’altro potesse trasformarsi in un mostro e divorarlo. 

“No, meglio di no.” 
Aziraphale non aveva mai più visto il violino che era rimasto per mezzo secolo nel suo negozio, abbandonato e dimenticato. 

 

 Con il tempo l’angelo aveva imparato a leggere i segni, a vedere oltre la facciata di modi e di parole sempre troppo drammatiche, troppo esagerate, troppo leggere. 
Riusciva a vedere la tristezza negli occhi serpentini del demone, la paranoia e l’ansia che sembravano attanagliare il cuore e la mente del suo più caro amico. 
Aveva imparato che c’erano cose che poteva dire e cose che era meglio far finta di ignorare. Come uno studente diligente aveva appreso quali erano gli argomenti che poteva affrontare con lui, cosa poteva provocare il demone e cosa lo avrebbe allontanato. 

Ma questo era qualcosa di diverso. Per la prima volta non sapeva come comportarsi. 
Era troppo facile vedere che c’era qualcosa di profondamente sbagliato. 
Inizialmente non ci aveva fatto caso; Crowley è un demone, si era giustificato, è normale che faccia cose strane. 
Era sempre stato un tipo nervoso, paranoico, guardingo. 

Negli ultimi secoli, tuttavia, era diventato sempre più silenzioso, distante. In diverse occasioni Aziraphale lo aveva colto a guardare nel vuoto, come se stesse guardando qualcosa che lui non poteva vedere. C’era sempre quello sguardo di profondo terrore nei suoi occhi quando succedeva, il più delle volte mascherato perfettamente dietro lenti scure e un atteggiamento strafottente, finta sicurezza e risposte sarcastiche. 

 

L’angelo non sapeva cosa fosse ma negli anni aveva iniziato a notare un numero sempre crescente di segnali allarmanti: se dormire per un intero secolo non fosse già abbastanza di per Aziraphale aveva avvertito un brivido corrergli lungo la schiena quando il demone gli aveva chiesto, in punta di piedi, di fornirgli dell’Acqua Santa. Non era mai riuscito a scrollarsi di dosso quella sensazione di pericolo a quelle parole perché, anche se Crowley gli aveva assicurato che fosse solo per protezione, il suo sguardo perso nel vuoto lo aveva spaventato, come se a parlare con lui non ci fosse il solito vecchio serpente, l’amico di sempre, il suo compagno di bevute dai commenti sarcastici e intelligenti, ma un guscio vuoto. 
Seduto accanto a lui poteva fiutare tutto l’alcool che aveva bevuto nelle ultime settimane, le droghe e tutto il dolore che sembravano fuoriuscire dalla sua aura come lingue di fuoco nero. 

(Tutte quelle volte che si era presentato nel cuore della notte nella libreria, i segni delle violenza, lividi e tagli, gli occhi sgranati e l’aura che emanava solo terrore e disperazione. Quei silenzi così carichi di significato, quelle lacrime, quella sensazione di impotenza e qualcosa che non riusciva mai ad identificare. 
Il desiderio di evocare la sua spada di fuoco, di brillare come una stella nella notte, come il sole ed eliminare dalla faccia della terra chiunque avesse osato toccare con le sue mani luride l’unica persona che avesse mai amato.  

L’impotenza. 
Aziraphale dimenticava sempre di essere un angelo e un servo di Dio in quei momenti.) 

 

Terrorizzato, ecco cos’era Crowley. 
E Aziraphale avrebbe voluto gridare a pieni polmoni: 
Cosa ti succede, amico mio? Parlami, ti prego parlami 
Il dolore di perderti sarebbe troppo grande. Non farmi questo, dimmi cosa ti spaventa così tanto. 

Non lo faceva mai. 
Perché all’epoca pensava che fosse meglio non attraversare certi confini. 
Aziraphale capì, una notte trascorsa nella sua libreria, circondato da libri, mentre beveva l’ennesimo bicchiere di vino da solo, di essere l’essere più stupido dell’universo. 

 

 

 

 

 

 

Londra, Inghilterra, 30 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata

 

“Da quanto tempo non dormi?” Chiese un giorno Aziraphale, guardando l’amico seduto sul divano, mentre sorseggiava un bicchiere di vino. 

“Non saprei, qualche decennio?” 

“È molto strano da parte tua.” 

“Non abbiamo davvero bisogno di dormire, Aziraphale.” Rispose Crowley con tono vagamente seccato. 

“No, certo.” Commentò l’angelo. “Ma, per esempio, io ho l’abitudine di mangiare, è un mio hobby come ben sai.” 

“Chi non lo sa?” 

L’angelo ignorò il tono sarcastico. 

 

Ma da molto tempo mi sono abituato talmente tanto al cibo che, se non mangio, dopo uno o due giorni, ho una fame terribile e mi sento un po' debole.” 

“Pensi che io sia debole?” Chiese Crowley con un sorrisetto malevolo. 

“Assolutamente no, mio caro.” Commentò l’altro con un sorriso dolce. “Penso che tu sia esausto. Voglio dire, perfino io che non amo dormire — una vera perdita di tempo se vuoi la mia opinione — dopo tutta la faccenda della scampata apocalisse ho dormito per qualche giorno, giusto per ricaricarmi. E tu hai fatto ancora di più, insomma, tenere insieme una macchina in fiamme, fermare il tempo, spostare tre persone su un piano diverso, tutta la noiosa faccenda dello scambio di corpi… non so come tu possa —“ 

Aziraphale” lo interruppe Crowley. “Smettila, sto bene.” 
Il suo viso rivelava la menzogna che si celava dietro le sue parole; occhiaie profonde, di una terribile tonalità di viola e nero, avevano messo le tende da mesi sotto gli occhi gialli e lucidi dell’amico, lo sguardo febbricitante, il volto così magro che gli zigomi sembravano pronti a bucargli la faccia. 

Crowley non stava affatto bene. 
Poteva vedere le mani tremolanti, lo sguardo perso nel vuoto, lunghi fasci di paura che attraversavano la stanza come lampi, il corpo di Crowley era sempre più magro, sciupato, sembrava malato. 

Ma soprattutto, il suo corpo era incredibilmente freddo. 
Lo era sempre stato, davvero, Crowley era un animale a sangue freddo d’altronde. Ma ultimamente, ogni volta che gli capitava di sfiorargli la pelle, Crowley sembrava una statua scolpita nel ghiaccio. 
La cosa più sconcertante era l’odore però: dolce, come miele, come fiori di campo marci. L’odore delle droghe, del sesso e dell’alcool, troppo forte per essere una cosa di una sera, troppo forte per essere un semplice passatempo. Sembravano più una dipendenza ormai. 

 Qualcosa che aveva già visto e che ancora lo tormentava. 

 

(L’immagine di Crowley fuori di sé, devastato, patetico, riverso contro un materasso lurido, i capelli lunghi e rossi stesi sul cuscino come un ventaglio o una macchia di sangue, completamente nudo, mentre un uomo lo sfiora e lui piange disperato. Lo chiama, pronuncia il suo nome con talmente tanto dolore nella voce che, come una preghiera, raggiunge immediatamente Aziraphale. E lui in un attimo si ritrova dall’altra parte della città, in una catapecchia sporca e angusta, l’aura divina lo circonda e brilla come il sole. Scaraventa l’uomo lontano, senza curarsi se sia ferito o meno. Non gli importa, l’uomo non merita la sua pietà. Si preoccupa solo del suo più vecchio e caro amico, avvolge coperte calde e pulite intorno al suo corpo troppo magro.  
Le sue braccia sono ricoperte di vene nere, gli occhi segnati da profonde occhiaie nere, la pelle è febbricitante e sudata, gli occhi sembrano non vederlo neanche. 
E quando si ritrovano di nuovo nella libreria, più precisamente sull’appartamento sopra di essa, Aziraphale lo stringe al petto come se fosse qualcosa di assolutamente fragile e preziosissimo, qualcosa di così effimero che potrebbe sparire da un momento all’altro. 

E questo non va bene, si dice. 
Crowley, per sua natura, non dovrebbe essere Effimero. 
Lui, per definizione, dovrebbe essere Eterno. 

Così lo prende tra le braccia, con la delicatezza di una madre, reverenziale e dolce, lo fa sedere nella vasca da bagno, gli lava il corpo, il più delicatamente possibile, gli bacia le nocche delle dita. 
Per tutto il tempo lui continua a mormorare: 
Vai via, ti prego, vai via, vattene. 

Ma non sembra parlare con Aziraphale, quindi lui continua a lavargli via lo sporco dai capelli e le lacrime dal viso, lo istruisce con comandi semplici con tono dolce e rassicurante, “Alza il braccio, mio caro, ecco così, inclina un po’ la testa, chiudi gli occhi, alzati.” Crowley non risponde, non sembra essere lì con lui, ma fa quello che gli dice, si fida ciecamente. È terrificante quando gli mostra il suo lato più vulnerabile, quando è così fragile e aperto, quando non parla e il suo corpo e tutto quello che rimane di lui. 

Aziraphale lo avvolge piano in asciugamani puliti, lo porta a letto e aspetta finché non è sicuro che il demone si sia addormentato. 
Finché il suo corpo non ha smesso di tremare. 
Finché non è sicuro che abbia smesso di ripetere: Lasciami solo, fa male, non ce la faccio, non posso… 

Ma anche dopo, Aziraphale si stupisce nello scoprire che non riesce ad allontanarsi da lui. Quindi rimane lì, prende un libro e cerca di distrarsi con un romanzo, anche se alla fine si rende conto che sta ignorando il libro perché è troppo concentrato nello sfiorare i capelli di quella bellissima creatura, la quintessenza del peccato e del desiderio, che una volta sembrava l’essere più divino del paradiso quando dormiva ma che adesso sembra perennemente tormentato tanto nella veglia quanto nel sonno. Aziraphale gli sfiora una guancia troppo magra e sussurra: 

Quando ti sveglierai, lo farai dopo aver sognato ciò che ami di più al mondo). 

Crowley spostò il suo sguardo dal viso dell’angelo a un punto non ben identificato nel vuoto e la sensazione di paura per un attimo sembrò aumentare. 
Aziraphale si girò, come faceva sempre quando il suo amico aveva questi momenti. 
Ma non c’era niente. Non c’era mai niente. 

“Dovresti provare a riposare, mio caro.” 

 

Londra, Inghilterra, 500 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata 

 

Lei era sempre lì con lui. 
Riflessa in ogni superficie lucida che incontrava. 
La vedeva sempre e ne sentiva la presenza quando si sforzava di non guardare. Cercò di non farci caso, cercò di ignorarla ma Crowley sapeva che era sempre dietro di lui. 
E avrebbe voluto dimenticare, avrebbe voluto cancellarla, incenerirla, ma uscendo dalla libreria, dopo aver suonato per tutta la notte, si sentiva così tanto stanco che non riusciva più a trattenersi. 
Quindi si voltò di scatto verso una vetrina e gridò: 
LASCIAMI IN PACE. 

Ma l’unica reazione che ottenne fu solo quella di spaventare solo una manciata di pedoni e qualche turista. 
Non era come se non avesse mai provato a parlarle, lo aveva fatto spesso in realtà. 
Non erano mai conversazioni piacevoli. 

 

(Aziraphale dice: Tu vai troppo veloce per me, Crowley. 
E lei gli sussurra: Non ti amerà mai. Lui è un essere puro, tu sei disgustoso. Un uomo che prova piacere nel distruggere ogni cosa bella in questo mondo. 

Warlock la abbraccia per una gamba, le sue belle forme femminili lo svolgono e se lo porta in grembo. Delicatamente, perché lui è un bambino solitario e Crowley sa cosa significa sentirsi soli. 
E lei sorride: Ho sempre desiderato diventare madre, tu mi hai tolto la possibilità di sentire crescere la vita dentro di me. 
E dice: Sei un demone, non saprai mai cosa significa amare.  

La libreria brucia, fogli e vecchi libri prendono fuoco come niente, e lui non respira, si sente soffocare, e grida, grida: 
Bastardi, hanno ucciso il mio migliore amico. 

E lei ride sguaiatamente: Saresti dovuto morire tu tra le fiamme, non lui. 
E ride: Adesso sei solo al mondo. 
Ride: Cosa ti fermerà adesso dal distruggerti? 

Ed è una tortura costante, la pelle brucia, è troppo calda, il cuore esplode e fa troppo male e lei per la prima volta lo tocca, lo abbraccia da dietro e lui è così scosso che neanche si stupisce del contatto, non lo registra. 
E lei allunga la bocca in un sorriso maligno e dice: Non sentirai più le sue tenere braccia accoglierti in un abbraccio. 
E lei stringe la presa: Non ti bagnerai mai più nella sua luce divina. 
E dice ancora: Sei solo. 

Ancora: Solo. 
Ancora: Lui è morto, morto, morto). 

 

Si svegliò con un grido che perforò l’aria della notte. 
Perché, con sua grande sorpresa, stava cadendo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

*Nel libro, si fa riferimento al fatto che Crowley potrebbe aver inventato il jazz. Non è proprio un riferimento così esplicito ma visto che il Jazz era considerata “la musica del diavolo” è sempre stata una mia headcanon.
**Io qui mi sto ovviamente riferendo alla canzone “Kobra” della Rettore. Quella canzone urla CROLWEY ad ogni parola, ancora non ho conosciuto nessuno che non abbia iniziato a cantarla nei primi cinque minuti del primo episodio. Se dite di no, state solo mentendo.

In realtà Crowley ama la musica, questo è un fatto, ma come già detto nel capitolo precedente non posso togliermi dalla testa che sia sempre stato sia appassionato di musica che un ottimo musicista/cantante.

Mi dispiace del ritardo, ho avuto davvero tanta difficoltà a scrivere questo capitolo e potrebbero esserci diversi errori perché l’ho scritto sull’aereo e penso di essere troppo stanca al momento per correggerlo.
Ciao <3

 

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Capitolo 4
*** Terrore allo Specchio ***


La prima sensazione che provò fu stupore. 

Poi la caduta. 
Metri e metri, chilometri e chilometri. 
Dieci miliardi di anni luce giù, stava cadendo, cadendo, cadendo. 

Niente poteva fermarlo. 
La sensazione era quella di totale terrore e gridò perché non c’era nessuno a sentirlo e pianse, anche se sapeva bene che nessuno sarebbe arrivato a salvarlo e sentì ogni fibra del suo essere che si allungava, si sfibrava, si lacerava e si strappava, ogni molecola del suo corpo che andava in putrefazione e si scioglieva. 

Denti, capelli, gambe e braccia. 

Tutto si rompeva, diventava polvere di stelle, e lui non sapeva cosa fare, senza neanche sapere dove iniziasse lui e finisse il vento che gli frustava il viso. 
C’era un rumore assordante che lo faceva tremare nel profondo e lui urlava: Cos’è questo? Cos’è questo? 
Ma nessuno rispondeva, solo l’incessante rumore che si irradiava come un’onda intorno a lui e realizzò improvvisamente che era lui che gridava e non riusciva a fermarsi. 

Il dolore non è la parte peggiore. 

Faceva male, incredibilmente male, non riusciva a sopportarlo, era come essere bruciati vivi e venire buttati in una vasca di acqua ghiacciata allo stesso tempo. 
Stava annegando nel fuoco liquido e stava bruciando nell’acqua eterea. 
Questo non avrebbe dovuto spaventarlo. Non sapeva perché non avrebbe dovuto. 

Perché? 

Era una cosa terrificante, congelare e bruciare. 
Ma non è questo che faceva paura. Non davvero. 
Non questo. 

Ciò che faceva veramente paura era il liquido nero che lo avvolgeva e lo soffocava, lo attanagliava e si stringeva intorno a lui, come le spire di un serpente, il liquido era viscido, puzzava, come quello di un cadavere in putrefazione da giorni, gli finì nella gola, bruciava e era freddo, lo riempiva dentro e sentiva una voce che diceva: È questo che sei ora. 

Poi, improvvisamene divenne buio. Nero, oscuro, terrificante. 
L’oscurità era così profonda da dargli l’impressione che, se l’avesse contemplata troppo a lungo, gli avrebbe risucchiato via ogni brandello di coscienza. Chiudere gli occhi era stato una forma istintiva di difesa, come protendere le braccia verso qualcosa per aggrapparsi mentre sentiva la realtà disgregarsi. 
Si rese conto che non c’era bisogno di chiudere gli occhi. Non più. 

Questo perché non aveva più degli occhi, si erano sciolti ed erano colati via, e il vento faceva male, sferzava intorno a lui, gli entrava nel cervello, mentre sentiva ogni parte di quello era e che era stato sparire per sempre. 
Un istante che durò una vita o persino un’eternità, come fosse sospeso nella spaccatura tra due mondi. 

E lui grida: MADRE, MADRE AIUTAMI, MADRE TI PREGO. 
E piange: Ho solo fatto una domanda. Una, due o trecento, a chi importa. 
E sbavava e le sue lacrime erano sangue, come quello che aveva sulle mani: Madre, scusami, Madre, perdonami, Madre, Dominae, Signore, Dio, Padre, Madre. 
Aiuto. 

 Nel retro del battistero della chiesa c’era una donna. E la donna non era proprio una donna, ma una figura vibrante e non proprio lì, era sempre dietro di lui, sempre alle sue spalle, indossa un abito nero e portava un velo da lutto che scivolava su tutto il suo corpo e la ricopriva completamente. 
Un sudario nero come la notte, come le tenebre, come qualcosa di stregato. 
Non la vedeva mai, non veramente, ma la sentiva sempre alle sue spalle e lei si muoveva con andatura lenta senza mai lasciarlo veramente. 
Non importa quanto andasse veloce, lei era sempre lì alle sue spalle. 

E arrivava, arrivava, camminava lenta ma non si fermava mai, mai, era sempre lì e lui correva sempre più veloce ma lei era sempre alle sue spalle e per favore, per favore, vattene, vattene, ho bisogno di dormire, voglio riposare ma tu sei sempre qui e non vai mai via e ti prego devi lasciarmi andare, lasciami, lasciami andare.  

La vedeva sempre, quando si specchiava nello specchio del bagno, quando guidava dallo specchietto retrovisore, quando camminava, riflessa nelle vetrine dei negozi, quando beveva e lei era una figura che annegava nel vino rosso. 

E lui ogni tanto si fermava, si girava, e chiedeva: Che cosa vuoi? 
E lei sorrideva perché, anche se non poteva vedere attraverso il velo, lui lo sapeva che i suoi occhi erano due braci spente e le sue labbra erano rivolte verso l’alto in un sorriso malefico. 

Lei dice: E soffrirai come ha sofferto lui, e la paura e il terrore ti strangoleranno e perderai la persona che ami di più. 
E piangerai e urlerai. 
E niente ti salverà. 
perché Dio ti avrà anche maledetto e tu sei caduto e bruciato all’inferno. 
Ma questo sarà anche peggio dell’inferno. 
Perché è una donna morta e innamorata che ti maledice. 

  

 

 

 

 

Si svegliò gridando a pieni polmoni e la sensazione di cadere fu sempre più forte. 

Da dov’era caduto? 
Dal letto. 

Sentiva le coperte avviluppate intorno al suo corpo, lo stringevano e non erano coperte, erano mani e lo strattonavano e lo colpivano e lo costringevano a terra. 
Da dov’era caduto? 
Dal paradiso. 
No. 
Dal letto. 

Iniziò a scalciare, a strisciare per cercare di liberarsi. Il pavimento era freddo ma lui stava bruciando, qualcuno aveva dato fuoco al suo appartamento e il fuoco era ovunque e lui stava — 
Bruciando. 

Brucia, brucia, brucia. 

E lei era lì, perché ovviamente era lì. Lei era sempre lì. 
Stupido lui che si stupiva sempre. 

 

Adesso. 
Questa volta era troppo vicina e forse lui aveva dormito troppo, aveva aspettato troppo, si era rilassato troppo e lei era a un centimetro di distanza e lui non riusciva a fare altro che gridare. 

Stava affogando, boccheggiava in un mare di fumo liquido, di fiamme e le sue ali stavano bruciando di nuovo e vedeva le piume incenerirsi e sparire in cumuli di cenere. 
E le sue mani erano insanguinate e lei rideva. 
Dalle pareti iniziò a colare liquido nero, acido, sangue, e per terra c’era solo zolfo e cenere. 
E il liquido nero era pece infiammabile e le pareti presero fuoco e tutto era rosso, nero, giallo e bianco. 
Lei rideva, rideva, rideva. 

 

Quando finalmente riuscì a districarsi dalle coperte, si mise in piedi e le sue gambe tremavano così tanto da farlo barcollare e lei rideva attraverso lo specchio della sua camera da letto e per un momento — quell’unico momento in cui era riuscito a smettere di gridare e piangere — il suo appartamento fu pervaso da un silenzio mortale, solo le sue risate tagliavano l’aria e lui non pianse, non urlò. 

Crowley era stanco, stanco. 
Stanco. 

Stanco. 
Stanco. 

Così dannatamente stanco. 

Quindi andò nel grande salone dove c’era il camino e prese l’attizzatoio, i suoi occhi erano vuoti e privi di espressione, non sapeva cosa stesse facendo, l’unica cosa che desiderava era che lei sparisse, che se ne andasse all’inferno, questo diavolo di donna che lo tormentava da duecentoquarantanove anni e che non stava mai zitta. 
E non sapeva se era meglio quando lei lo guardava con disgusto e con fredda indifferenza o quando parlava e riversava su di lui parole che ferivano come coltelli affilati. 
Così rimase immobile nel salone per quelle che erano sembrate ore, guardando il suo appartamento mentre si riempiva di acido nero, fumo e fiamme. 

Li ignorò. 
Camminò per l’appartamento trascinando mollemente l’attizzatoio pesante e per un istante si fermò davanti allo specchio, e ci fu quell’unico momento di calma, quasi di pace, prima che tutto andasse in malora. 

(Lei ride. 
Beh, questo è stato proprio un bel fiasco.) 

Afferrò l’attizzatoio e iniziò a distruggere tutti gli specchi di casa, adesso con cura maniacale, poi con follia omicida, lanciò la sua furia contro la finestra, e schegge di vetro e frammenti di specchio volavano intorno a lui, lo graffiavano e tagliavano ma lui non si fermò finché ogni cosa che avesse mai amato — pochi oggetti, un dipinto regalatogli da un vecchio amico, una statua di un’aquila, le sue amate piante — era andata in malora, distrutti, tutto distrutto. 
La rivelazione lo colpì nel momento esatto in cui aveva iniziato a provare un dolore lancinante. Un enorme frammento di vetro si era conficcato nel braccio, un altro nella spalla, uno nella gamba e il sangue stava colando contro ciò che rimaneva delle piante che aveva tanto amato. 
Si guardò in torno, il sangue scivolava tra le schegge di vetro, e realizzò che tutto il pavimento ne era cosparso e la sua immagine distorta danzava insieme a quella di lei. 

Magari, Crowley pensò, non è questo il punto. Il punto è che lei ha ragione: io sono un demone.  

Non aveva senso nascondersi dietro un appartamento elegante, una bella macchina, la musica, occhiali da sole e un nome da umano. 
Lui era Crawly. 
Lo era sempre stato. 
Si era solo illuso di poter essere qualcosa di diverso — un brav’uomo magari — e si era illuso di poter ottenere il perdono e l’amore di un angelo. 

Lui era Crawly. 
Il Serpente dell’Eden. 
Crawly. 

E Crawly era malvagio, spregevole, aveva ucciso due persone innocenti. 
Crowley odiava Crawly. 

Crowley e lei guardarono Crawly lasciare andare l’attizzatoio e il rumore fu l’unica cosa che echeggiò per l’appartamento. Un rumore sordo e forte che lo fece rabbrividire, come il rintocco finale di una campana. Arrivò in bagno e prese le sue vecchie scorte e Crowley lo guardò ingurgitare quante più pillole poteva in un colpo solo, lo guardò conficcarsi nel braccio una siringa e spingere, spingere, finché tra le vene non si formò un enorme buco nero, lo guardò mentre i suoi occhi si dilatavano all’inverosimile, diventavano rossi. 

E lei e lui diventarono una cosa sola, tanto che non capiva più dove iniziasse lei e dove finisse lui. 
E lui ride: Va bene, va tutto bene. 

E lei dice: Adesso sai cosa devi fare. 

E Crawly sorrise. 

  

 

 

 

 

Londra, Inghilterra, 507 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata 

  

Crowley non sapeva quando era riuscito a seminare Crawly. 
Ci era riuscito tuttavia, facendo quello che sapeva fare meglio: correre, scappare, andare sempre più veloce. 

Non si preoccupò della pioggia che sferzava il suo corpo o degli sguardi dei passanti nascosti sotto gli ombrelli neri. Avrebbero dimenticato presto quello che avevano visto, ricordando solo un vago senso di urgenza, disperazione, una commissione importante da fare e la mancanza del tempo necessario per compierla. 

Crowley correva, correva, correva a perdifiato, correva come se tutto l’inferno gli stesse alle calcagna. 
Correva come un uomo disperato corre, quando sente la morte avvicinarsi. 
Il cielo era scuro, nero. Nuvole cariche di pioggia si scontravano producendo tuoni e lampi come se ad aspettarlo ci fosse di nuovo la fine del mondo. 

La fine. Presto, molto presto, sarebbe arrivata. 
Ma Crowley aveva fretta e non se ne preoccupò. 

Corse fino ad arrivare fino a un piccolo appartamento, in un quartiere che non riconosceva del tutto, ma che aveva già visto un paio di volte. 
Suonò tre volte al campanello della casa. Quando la risposta non arrivò abbastanza in fretta, suonò e suonò ancora. 

“Madam Tracy, come posso aiutarla?” La voce della donna era un misto tra l’infastidito — probabilmente per il modo maleducato in cui il demone si era attaccato al campanello — e lo zuccheroso. In un altro momento Crowley ne sarebbe stato annoiato o avrebbe riso, dipendeva di solito dal suo umore. 
Adesso il tono non gli fece provare nessuna emozione. Aveva davvero troppa fretta. 

“Madam Tracy! Si, ecco, sono Crowley, apri per favore? Cerco Shadwell, è urgente. Apri, apri, apri…” non riuscì a smettere di parlare, o di saltellare da un piede all’altro, troppa fretta, troppa pioggia, troppo tutto. 

E lui stava arrivando. 
E lei lo seguiva. 

“Crowley? Tesoro, che diavolo...?” 
“Cerco Shadwell, è in casa? Devo parlare con lui. È importante. Apri. Devo parlare con Shadwell. Deve darmi una cosa. Presto, fai in fretta. Presto. Presto.” 
“D’accordo, sì. Tranquillo, sali pure.” 

Crowley arrivò all’appartamento in tempo record. Un po’ perché le sue gambe lunghe gli permettevano di essere molto più veloce — quando si ricordavano come una persona normale dovrebbe correre — e un po’ perché fece gli scalini a tre a tre. 
“Tesoro, che cosa succede?” Chiese la donna aprendo la porta con uno sguardo preoccupato. I capelli erano rossi e ricci come sempre, il trucco un po’ pesante e Crowley decise che era bellissima. 
Bellissima Madam Tracy. Meravigliosa Madam Tracy. Santa Madam Tracy. 
“Tutto bene, tutto ok.” Rispose velocemente lui. “Shadwell? Ho bisogno di lui, deve prendere una cosa per me.” 
“Tesoro, Shadwell è uscito ma tornerà tra qualche istante. Che ne dici se intanto ti preparo una bella tazza di tè? Magari ti do anche degli asciugamani, sei bagnato fracido…” 
“No, no. tranquilla. Va tutto bene. Non c’è bisogno.” Rispose lui, ancora con l’adrenalina e un altro centinaio di sostanze che gli scorrevano in corpo. 
“Ho solo bisogno di Shadwell.” 
“D’accordo.” Rispose lei, incerta. Stava per aggiungere qualcos’altro ma il rumore del portone dell’appartamento che si chiudeva li fece sussultare entrambi. 

Crowley, che non era riuscito a stare fermo un solo secondo da quando era arrivato saltò sul posto, allungò tutto il suo corpo verso la porta d’ingresso. Quando Shadwell arrivò finalmente nell’appartamento, Crowley quasi gli si lanciò a dosso. 
“Che diavolo?!” 
“Shadwell!” Urlò Crowley con il tono di tre ottave più alto. “Madame Tracy, c’è Shadwell!” 
“Lo vedo.” Rispose la donna, alzando un sopracciglio. 
“Ascolta, tesoro, perché non ti siedi un momento? Posso prepararti un tè, qualcosa di rilassante magari, mi sembri piuttosto agitato…” 
“No, no.” Rispose lui muovendo le braccia come un maniaco. “Shadwell, Shadwell ho bisogno di un favore. Posso pagarti, molto, moltissimo. Di una cifra e sarà tua. Posso farti diventare anche più ricco della maledetta Regina.” 
“Tesoro…” commentò Madame Tracy che, da buona inglese, non vedeva di buon occhio chi parlava in malo modo della sovrana. 

“Sergente, ti ricordi quando negli anni settanta stavo progettando una rapina in una chiesa?” Chiese Crowley, ignorando la donna e focalizzando tutta la sua attenzione verso l’uomo anziano. 
Lui si tolse il cappotto fradicio e il cappello e lo guardò perplesso. 
“È stato tuo padre, no?” 

“No, no. Shadwell io sono un demone, non invecchio, quello ero io.” Rispose Crowley, portandosi una mano al petto, lo sguardo lucido si fece ancora più intenso. “Un angelo caduto se ti piace di più l’idea. Un ribelle, un rivoluzionario, un dannato, un ripudiato… dipende comunque dai punti di vista.” Disse mentre tremava, non sembrava più in grado di fermarsi. “Onestamente, come hai fatto a non capirlo prima? Mi hai visto con le ali nere e tutto il resto. Cosa pensavi che fossi, un fagiano?” 

Crowley iniziava a perdere la pazienza. Davvero, perché questi stupidi umani non capivano quanto fosse di fretta? 
Crawly e la donna stavano arrivando, poteva sentirli, ma loro continuavano a guardarlo come se fosse pazzo. 

Bhè, non lo era. 
Non lo era. 

“Ma non è questo il punto.” Continuò lui. “Devi prendermi una cosa in chiesa. Mi serve subito. Posso pagare.” 
“Cosa?” Domandò Shadwell, stanco e stupefatto dalla confessione del demone. 

Si sentiva leggermente a disagio: se lui era un demone… avrebbe dovuto esorcizzarlo? Ma ci aveva provato con quell’altro, la Checca Del Sud, non aveva ottenuto grandi effetti tuttavia, dato che alla fine era tornato come se ne era andato. In più, dopo più di un anno, sia lui che la donna avevano partecipato a diversi brunch con i due e, nonostante non gli piacesse ammetterlo, si erano entrambi affezionati a quegli strani giovanotti. 
“Ho bisogno che corri alla chiesa più vicina, ho bisogno di acqua santa. Non posso prenderla da solo per… motivi personali. Puoi farlo tu per me, si?” 
Il suo sguardo era quello di un maniaco, balbettava e inciampava sulle sue stesse parole, sibilava, parlava alla velocità della luce. 

Shadwell sussultò. “Acqua santa?” 
“Sssssi, confermo, ho chiessssto acqua ssssanta. Sssssto forse parlando un’altra lingua?” 

“Tesoro, ecco la tua tazza di tè.” Disse Madam Tracy spuntando alle sue spalle. Gli prese il gomito, delicatamente, lo fece sedere al tavolo, e gli posizionò la tazzina fra le mani. 
Madam Tracy era inglese dopotutto, in situazioni di estrema difficoltà sapeva che non c’era soluzione migliore di una buona tazza di tè. 

“Non voglio il tuo dannato tè, donna!” Tuonò Crowley lanciando la tazzina per terra e rovesciando il tavolo. La sua voce era così potente e minacciosa che ogni pianta della casa e i vetri iniziarono a tremare, tre dei quali si incrinarono. Entrambi gli umani fecero un salto all’indietro, spaventati dallo scatto d’ira del demone. “Voglio dell’acqua santa, ora. Subito.” 
“Hey, insomma!” Tuonò Shadwell e Crowley fece a sua volta un passo indietro. Sembrava terrorizzato, spaventato oltre ogni modo, tremava come una foglia nel bel mezzo di un tifone. 

Madam Tracy, intanto era sparita nella stanza accanto. 
Il demone si sentì orribile, non voleva spaventarli. 
Questo è stato un errore, pensò. 
Lorosono brave persone, non meritano questo. 
Sono uno stronzo, un bastardo, non avrei dovuto, forse se corro abbastanza veloce riesco ancora a prendere da solo l’acqua. 

Crowley si portò le mani ai capelli, tirò forte, mentre il respiro diventava sempre più corto e gli occhi si spalancavano sempre di più. Iniziò a camminare intorno alla stanza e il sergente lo guardò senza sapere davvero cosa fare. 
“Adesso calmati, ragazzo” disse in modo un po’ burbero. La voce, in realtà, nascondeva il tono dolce di un padre. “Cerca di calmarti, spiegaci cosa sta succedendo.” 
“No, no, no” iniziò a mormorare Crowley, cercando di parlare tra le ondate di panico che lo stavano soffocando. “Questo è tutto sbagliato. Tutto sbagliato.” 

Poi si fermò per un momento e sgranò gli occhi: “Un errore. Questo è stato un errore. Ma non importa. Posso prenderla da solo.” Realizzò. Infondo aveva camminato più di una volta lungo una navata di una chiesa. Non aveva neanche bisogno di un contenitore per portarla via, bastava semplicemente che immergesse le mani dentro l’acquasantiera e avrebbe finito il lavoro. 
Si incamminò verso la porta ma braccia forti e mani dure lo bloccarono. Il sergente Shadwell lo stava tenendo fermo ma la sua mente era annebbiata dal panico e dalla paura che stava provando, e iniziò a piagnucolare senza riuscire a scappare dalla presa ferrea. 

“Ho bisogno dell’acqua, per favore, per favore, per fav—” 
Non riuscì a finire la frase. 

Questo per due motivi: 
il primo è che quando un grosso vaso colpisce qualcosa fa un rumore terribile, quasi quanto il rumore di un corpo che colpisce il legno scuro di un parquet. 
Il secondo è che Madam Tracy, tornata dalla stanza accanto, aveva preso il grosso vaso in porcellana, quello che utilizzava per tenere fiori di capo, e lo aveva spaccato in testa del demone. 

Il Sergente Shadwell la guardò come se fosse la Madonna in persona: quel tipo di sguardo fra il terrorizzato e il reverenziale e lo stupefatto. 
Madam Tracy guardò Crowley, riverso sul pavimento, il suo corpo sottile e i suoi capelli rosso fuoco che creavano uno strano contrasto con il legno scuro, con uno sguardo tra l’annoiato e l’esasperato. 

Almeno, pensò lei, adesso potrò prendere la mia maledetta tazza di tè. 

 

 

 

 

 

 

Note:

Bhè, che dire, questo capitolo è stato particolarmente divertente da scrivere.
Vivo per le storie dove ci sono Madam Tracy e Shadwell e non potevo escluderli da questa.
Il capitolo è arrivato un po’ in ritardo e vi chiedo scusa per questo ma sto preparando degli esami e mi trovo un po’ in difficoltà nel gestire studio e scrittura.
Non riesco a farne a meno comunque, continuo ad avere problemi di insonnia e scrivere mi aiuta a rilassarmi quindi direi che ci stiamo facendo tutti un favore.
In ogni caso, in circa una settimana dovrei riuscire a pubblicare un altro capitolo.
Vorrei ringraziare tutti quelli che hanno lasciato un commento sotto questa storia, vi adoro.
In breve tempo risponderò a tutti ma davvero ragazzi/e, grazie.

Il prossimo capitolo è già in cantiere, premetto che probabilmente sarà un po’ pesante perché si parlerà di temi molto delicati e ci tengo a ricordare a tutti che, nonostante piaccia a tutti un po’ di sano angst, non amo parlare di questi temi con leggerezza. La mia intenzione è quella di fare una profonda analisi sull’argomento e di trattarlo con tutto il rispetto che ne conviene.
Ma parleremo di questo nel prossimo capitolo altrimenti ho come la sensazione che non riuscirei ad evitare spoiler.
Un saluto, cercherò di rispondere a tutti i vostri commenti in poco tempo, siete davvero persone meravigliose.

Ciao<3

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Capitolo 5
*** Intermezzo: Il Grande Vuoto ***


 

"I sogni passano attraverso i muri di pietra, illuminano le stanze più buie e gettano le tenebre in quelle illuminate, e i loro personaggi entrano ed escono ovunque a loro piacimento, ridendosela di tutti i lucchetti."
  J. Sheridan Le FanuCarmilla 

 

 

 

 

 

 

 

Soho, Londra, Inghilterra 1970 

 

“Vai troppo veloce per me, Crowley.” 

Teoricamente un angelo non dovrebbe mai odiare. 
Teoricamente un angelo è un essere d’amore e compassione. 
Aziraphale, in quegli anni, iniziò a odiarsi profondamente. 

Il fatto era questo: non vivi a Soho per più di un secolo senza fiutare immediatamente i più loschi pettegolezzi.  
Le dicerie secondo cui qualcuno stava organizzando una rapina in una chiesa arrivarono alle sue orecchie un sabato mattina: sussurri e congetture, niente di più, che si erano sparse attraverso la sua rete di informatori — all’epoca poco più affidabili del sergente Shadwell — e Aziraphale capì subito che si trattava di Crowley. 

La sua prima reazione fu quella di arrabbiarsi: Chissà quali piani diabolici stava architettando il demone in questo momento. 
Poi arrivò la delusione: Sono sempre stato un illuso nel credere che Crowley potesse cambiare la sua natura. Lui era un demone, l’avversario, era stato stupido sperare che potesse essere diverso dagli altri demoni. 
Infine, dopo essersi calmato e aver quasi consumato il tappeto persiano a furia di andare avanti e indietro, iniziò a ponderare ciò che potesse significare il gesto del suo nemico. Cercando di essere per un momento onesto con sé stesso, iniziò a pensare alle ultime volte in cui aveva visto il demone. 

Crowley, che era sempre troppo in guardia e spaventato. 
Crowley, che si ferma a fissare un punto nel vuoto come se ci fosse un drago pronto a divorarlo in un sol boccone. 
Crowley, che si guarda allo specchio come se vedesse Satana in persona. 
Crowley, steso su un materasso lurido che lo chiama disperato e che — 
Crowley che gli chiede, lo prega, di dargli dell’acqua santa. 

Oh, pensò Aziraphalebuon Dio sono davvero l’angelo più idiota del Paradiso. 

Quindi ecco quello che avvenne: Aziraphale aveva miracolosamente trovato la Bentley dell’amico e ci si era infilato dentro, aspettando con calma che tornasse in macchina. Gli aveva passato un termos pieno fino all’orlo di acqua santa e lo aveva guardato scorgendo tanto di quel dolore nel suo viso che si era sentito intrappolato nel turbinio di quelle emozioni. 
E improvvisamente il termos aveva cambiato colore e il piccolo contenitore di metallo adesso era ricoperto di tartan proprio come la sua cravatta nella speranza che, se mai il suo migliore amico avesse deciso di compiere una stupidaggine, si sarebbe fermato alla sua vista perché forse, se avesse pensato a lui, avrebbe messo da parte quegli oscuri pensieri. 

Così quando il demone disse: Posso darti un passaggio? Ovunque tu voglia.  
Lui si fermò un attimo e disse: Vai troppo veloce per me, Crowley. 
E non c’era logica in questo, davvero. Era stata una cosa idiota da dire, se ne rendeva conto. 

L’angelo più idiota del Paradiso: Aziraphale. 

E per tre anni era rimasto in silenzio nel nella sua libreria, scacciando tutti i clienti che cercavano di comprare i suoi libri nei modi più sgarbati, leggendo montagne di libri per capire cosa fosse che spaventasse tanto l’amico. 
Ma non c’era niente che potesse tormentare un demone. 

Dopo tre anni di solitudine, trovò Crowley nell’ultimo posto in cui avrebbe pensato di poter andare: in una discoteca. 
Non sapeva perché si era infilato in quel carnaio; la musica era troppo forte, le luci accecanti e c’era troppa gente. 
Fece un sospiro che si perse nel bel mezzo della musica forte e rumorosa. 
Dio, quanto odiava quei posti. 
Gli ci volle un esagerato ammontare di tempo per individuare il demone. 

 

 

 

 

 

Da qualche parte, in qualche posto, dappertutto e ovunque: il tempo non esiste quando la musica è così forte che non puoi sentire neanche il tuo battito cardiaco. 

 

Crowley sapeva di non essere un ottimo ballerino. 
Era un demone e, come tutti i demoni mancava, per ovvi motivi, di grazia. I suoi movimenti erano goffi quando cercava di ballare, troppo rigidi e troppo veloci. 
Ma aveva sempre amato ballare. C’era sempre un’atmosfera peccaminosa nelle discoteche. L’aveva già avvertita in minima parte durante i balli dell’aristocrazia, nelle corti, ma nelle discoteche nessuno cercava di fingere. I corpi non erano rigidi, imbalsamati in mille regole che lui spesso dimenticava di seguire. Nelle discoteche tutti erano liberi, mezzi nudi, sudati, i capelli erano sciolti, le gonne corte, l’odore dell’alcool e del fumo danzava tra di loro come una presenza mistica. 
Le luci al neon illuminavano la stanza intermittenza e le persone sembravano apparire e scomparire costantemente. 
Non erano davvero reali. 

Era stata una vecchia prostituta a insegnargli quel trucco. 

I capelli di Crowley erano così lunghi da sfiorarle il sedere, oscena e seducente. Le sue forme femminili e generose erano fasciate da un completo di lingerie, dei pantaloncini così corti che difficilmente potevano definirsi pantaloni, un kimono nero, legato floscio alla vita, che non lasciava niente all’immaginazione, semi trasparente con il disegno di un serpente sul fianco. 
Qualcuno, durante la festa, le aveva scritto la parola “PECCATO!” Sullo stomaco con il rossetto e Crowley aveva riso, divertita dall’ironia. 

“Chiudi gli occhi e lasciati andare.” Aveva detto la prostituta, impietosita dal modo orrendo che aveva Crowley di ballare. “Muoviti lentamente, come se stessi scopando con un Dio greco. Lentamente, come se il posto, il mondo e il tempo ti appartenessero. Aveva detto. 
“Ignora la musica, ignora tuttiNon esiste nessuno al di fuori di te.” 

Crowley scivolava e si muoveva come un serpente tra la folla di persone, le luci al neon che andavano e venivano, nessuno esisteva, solo lei, solo i suoi capelli quando infilava le dita tra di essi, solo i suoi occhi quando li apriva e li chiudeva. 
Scivolava e strisciava, si muoveva in modo flessuoso, peccaminoso, invitante. 
Promettendo una notte di peccato, di follia, di fuoco. 

Attraente come solo le cose pericolose possono essere; come le fiamme, come il mare, come un serpente, come una mela rossa e succulenta che potrebbe essere velenosa quanto deliziosa. 
Il suo corpo era pura tentazione. 
Diceva: Dai un morso. Mordi. Divora. 
 
La prostituta aveva detto: Ci sono solo due regole quando balli in una discoteca. La prima è che non ci sono regole. La seconda è che niente è importante. 

(Crowley si fermava spesso a pensare alla prostituta. Era stata, probabilmente, il primo umano che avesse mai amato. Quasi quanto aveva amato Aziraphale. Lei era sempre dolce con lei. Le accarezzava i capelli lunghi e rossi, le sussurrava parole gentili. Non la giudicava mai, la nutriva con pasticche e alcool, la baciava dappertutto. Se Crowley avesse mai provato l’esperienza di avere un genitore — più in senso umano che divino — avrebbe detto che aveva amato la vecchia prostituta come una madre.  
La donna non aveva mai avuto figli e, in generale, dava a Crowley pessimi consigli ma faceva del suo meglio.  
Una madre è come Dio, aveva detto lei—magra e malata per via della malattia e la vecchiaia—ti cresce, si aspetta che tu l’ami a prescindere di tutto. Quando decidi di andartene per vivere la tua vita, diventi improvvisamente Satana. Crowley aveva riso, per l’ironia di quelle parole e la donna era scivolata in un sonno profondo senza mai più risvegliarsi.  
Accanto al piccolo Warlock, Crowley capì improvvisamente che desiderava essere come lei. Così gli disse le stesse identiche parole un giorno, mentre la donna sussurrava maligna al suo orecchio che non avrebbe mai potuto amare qualcuno come un figlio.) 

Mentre il demone si protraeva nel suo strano ballo, un gruppo di uomini aveva iniziato a guardarla, interessati. 
Sguardi peccaminosi e spaventosi la squadravano come un pezzo di carne. Se fosse stata un po’ più lucida forse ne sarebbe stata disgustata. 
Ma Crowley non lo era e comunque il suo corpo serviva a quello: tentare e assicurare un po’ di anime all’inferno. 
Ma era stata una ragazza ad avvicinarsi a lei per prima. Superò tutti in velocità e coraggio, sfidò le onde di persone tra di loro e l’afferrò per i fianchi. 

Fantastici umani, sempre così coraggiosi.  

La ragazza aveva la pelle scura, occhi neri e grandi da cerbiatto. Il demone la guardò e ripensò a Eva, bellissima e fatalmente coraggiosa, intelligentissima, provocante. 
Crowley osservò Eva—che non è Eva— mentre la prendeva per le braccia e le baciava il collo, i seni, le spalle. La sua pelle divenne carta in cui avrebbe potuto scrivere un poema erotico, pieno di similitudini tra lei e i fiori che crescevano nel suo appartamento. 

Due uomini dietro di loro iniziarono a urlare qualche tipo di insulto, ma loro non se ne preoccuparono. Iniziarono la loro danza finché Crowley non aprì gli occhi e lo vide: il momento esatto in cui la ragazza realizzò che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nei suoi occhi ed è abbastanza intelligente da andare via. Rimase in mezzo alla folla, guardando il punto esatto in cui, fino a qualche istante fa, Eva-non-Eva l’aveva abbracciata e si sentì improvvisamente sola. 

Ma la regola d’oro delle discoteche è: Nulla è importante, neanche il tuo cuore spezzato. 

Così, quando un altro giovane si avvicinò, Crowley lo accolse tra le braccia. Si lasciò sfiorare in modo possessivo, lasciò baciare in modo violento, perché il suo cuore era vuoto, la sua pelle insensibile, e c’era un enorme serpente che strisciava e si aggrovigliava dentro di lei. 
L’uomo la teneva stretta, facendola appoggiare contro un muro e, se nei suoi occhi avevano iniziato a formarsi delle lacrime, nessuno se ne curò. 
Poi il ragazzo si fermò. La ragazza dai capelli rossi ebbe giusto la forza di aprire un occhio. Dietro di loro, un piccolo essere dai capelli biondi e dall’aura accecante teneva stretto il polso dell’uomo in una presa d’acciaio. 

“Zira.” Commentò Crowley, senza sembrare troppo sorpreso. 

“Chiedo scusa.” Disse Aziraphale con il tono duro e fermo, quello che usava quando era arrabbiato. “Credo che la mia vecchia amica abbia bisogno di prendere un po’ di aria. Tu capisci naturalmente.” 
“Io… ehm… certo?” Rispose l’uomo, sbalordito dalla forza dimostrata da un uomo dall’aspetto soffice come quello dell’angelo. 
“Perfetto, meglio che tu vada allora.” Lo incoraggiò con un sorriso finto e forzato. “E sarà meglio che non ti veda mai più approfittare di una ragazza in un momento vulnerabile perché altrimenti, che Dio mi dia la forza, giuro che ti mando al creatore in quattro e quattr’otto.” 

(L’uomo, dopo quella sera, smise del tutto di andare nelle discoteche. Si trovò un buon lavoro e dopo qualche anno una ragazza che divenne sua moglie. Adesso i due hanno tre bambini e lui è un buon padre di famiglia, di quelli che aiutano i figli a fare i compiti, che ascoltano tutti i loro problemi e cercano di aiutarli come possono, che amano immensamente la moglie. Insieme portano i bambini in chiesa la domenica mattina e poi, nel pomeriggio, fanno lunghe passeggiate sulla spiaggia). 

Aziraphale tornò a concentrarsi su Crowley ma lei non aveva osato guardarlo. Si sentì improvvisamente in imbarazzo per il suo comportamento. La nausea prese il sopravvento e si portò una mano tremolante alla bocca, disgustata da sé stessa. 
“Mia cara, perché fai tutto questo?” 
“Cosa?” Domandò lei. 
“Tutte queste droghe, il bere, le ragazze e i ragazzi. Perché?” 

Lei rise. 

“Sai che non ti fa bene.” 
Crowley si staccò dal muro. Il movimento gli provocò delle spaventose vertigini e Aziraphale si protese verso di lei, per sostenerla. Crowley si liberò immediatamente dalla presa. 
“Guardami, angelo.” Crowley fece una semi piroetta, allargò le braccia con uno sbuffo. 
“Stavo per fottermi quel tipo ma adesso accanto a te mi sento così profondamente vuota.” Rise ancora “Guardami. Sono sola, completamente sola. Perfino l’inferno mi ha abbandonata." Aziraphale si accorse delle lacrime che sembravano voler cadere dalle ciglia cariche di mascara dell’amica. 

“Sono un essere ridicolo.” Commentò, come se fosse un dato di fatto. 

Aziraphale si avvicinò a lei. Crowley era sempre stato un uomo bellissimo ma la sua forma femminile era l’apoteosi del peccato carnale. Bella, invitante, maliziosa, magra e snella, boccoli rossi che dondolavano contro il suo collo lungo, la pelle color caramello, i seni come coppe di champagne. Meravigliosa, seducente, divina. 
Labbra carnose, color rosso sangue, da divorare. 
Crowley sembrava essere sbucata fuori da un quadro preraffaellita. 
Aziraphale deglutì. 

“Guardami,” comandò lei. “Sono un angelo caduto. Nessuno potrà mai amarmi.” 
“Mia cara… torniamo a casa. Ti preparo una buona tazza di .” Aziraphale la prese per le braccia e iniziò a farsi strada tra la gente, proteggendola da sguardi lascivi e tocchi indesiderati mentre sentiva il corpo accanto a lui che iniziava a tremare. 

Ma Crowley lo guardò e si chiese come fosse possibile che quell’angelo fosse lì per lei. 
Quando vivi all’inferno non hai molta scelta tra il fuoco e la tortura. La vera definizione di demone era quella di essere perennemente alla ricerca del peccato e del dolore. Era quello che era. Non poteva cambiarlo. All’inferno, se non muori per le botte, il fuoco, il dolore, la tortura e il sangue — e quando parlava di morire non intendeva morire in senso umano, avercela quella fortuna, intendeva in un modo molto più intrinseco. Era il suo spirito che stava morendo, non il suo corpo— quello che ti uccide veramente, sono quei giorni tutti uguali, monotoni, in cui non succede niente di nuovo. 

Sempre la solita routine. 
Taglia, affetta, uccidi. 
Scartoffie su scartoffie. 
Ma lei era andata via da quel posto, aveva trovato un modo per vivere sulla terra dove il cielo era azzurro e c’erano i fiori. E c’era Aziraphale. Sempre Aziraphale. 

E quindi si inginocchiò davanti a lui, come aveva visto fare Maria Maddalena davanti a Gesù Cristo, un gesto di pura devozione. E come lei si lasciò andare verso di lui, gli prese i palmi delle mani, li baciò e il viso dell’angelo avvampò al gesto. 
Come il sangue o come una mela colta dall’albero. 
E non c’era nessuna traccia di tentazione nei suoi movimenti, solo amore incondizionato. 

Si abbassò, gli baciò i piedi, e Aziraphale si abbassò piegando un po’ le ginocchia, le prese il viso tra le mani, le spostò un po’ i capelli per vederla meglio. 
Con il pollice eliminava le lacrime dai suoi occhi. 

“Cosa fai, amica mia?” 
E Crowley vorrebbe urlare: Amami, Amami, Amami, ti prego amami. 
Perché il mondo è un posto terrificante e tutti muoiono e mi sento così solo e ho paura che, se un giorno dovessi fermarmi, questo buco nero dentro il mio petto finirà per risucchiarmi e io smetterò di esistere.  

Ma invece disse: “Sto per morire, angelo.” 
Aziraphale la guardò con un sorriso dolce, e si inginocchiò accanto a lei. “No, mia cara.” 
Crowley aggiunse: “Amami, per favore. Solo per qualche minuto fingi di essere mio. Fingi di amarmi tanto quanto io amo te. Un minuto, un secondo. Ti prego.” 

Aziraphale la guardò, questa bellissima creatura che era Crowley; si chiese come fosse possibile che questo essere dannato sembrasse la cosa più sacra che avesse mai stretto tra le mani. 
A volte le ricordava la sua spada: sacra, fiammeggiante e letale. 
“Non posso, mia amata.” 

Crowley iniziò a piangere e aggiunse: Pensi che sia colpa mia? Se gli umani sono così crudeli? 
Pensi che sia colpa mia, se non fanno altro che uccidersi l’un l’altro? È colpa mia? È davvero colpa mia? 

Qual è il punto di tutto questo?” Domandò l’altro con un tono esasperato. 
“Il punto è…” rispose lei, “che morirò presto. Ho rotto tutti gli specchi di casa. Sono tipo dieci miliardi di anni di sfiga, angelo.” 

E lei spiega: C’è questa stronza, questa moglie morta, che non fa altro che guardarmi, costantemente, e non mi lascia mai in pace. 
Forse sto impazzendo? 
Non lo so, non lo so, non lo so. 

Crowley tremava, perché faceva freddo e la sensazione di vuoto cosmico era tornata, come se qualcuno avesse cancellato all’improvviso tutte le stelle, la luna e il sole, come se nel suo petto ci fosse un enorme buco nero che risucchiava tutto quello che trovava. 
Aziraphale la guardò, passò una mano delicata e tonda tra i suoi capelli e disse: 
“Vorrei che ti svegliassi, stupido serpente.” 

 

 

 

 

 

In un incubo, nella mente di un demone che sogna di farsi un bagno caldo.  

 

Crowley si svegliò con un sussulto. 
Era sdraiato dentro la sua vasca da bagno, i petali di rose rosse dondolavano sull’acqua limpida. 
Neanche nei roseti più belli e grandi del mondo c'era un profumo simile. Immergendosi nell'acqua calda il profumo lo invase completamente. Era come una sinfonia paragonabile allo strimpellare solitario di un violino. Ed era anche di più. Crowley chiuse gli occhi e sentì che i ricordi più sublimi si ridestavano in lui. 

Tornò a quando era nel Giardino, l’erba soffice che solleticava il suo stomaco, Adamo ed Eva che danzavano lentamente sul prato. 
Tornò ai giorni in cui c’era sempre l’angelo accanto a lui, a quando non c’era niente di cui essere spaventato. Tornò a un giorno di pioggia con il sole e vide i contorni di un mazzo di rose sul davanzale della finestra, che oscillavano nella brezza notturna; udì uccelli cantare qua e là e, da lontano, la musica di un ballo di gala. 
Udì un bisbigliare fitto fitto nell'orecchio, e sentì sensazioni mai provate prima. 
Oblio; era così rilassato che si sarebbe addormentato di nuovo da un momento all'altro. Non se ne preoccupò. L'acqua era perfetta, non c’era niente di importante. 

Per un attimo dimenticò la donna, il compositore, l’angelo, paradiso e inferno, la guerra che non c’era mai stata e tutto il resto. 
Dimenticò di essere un demone, di essere immortale. 
Dimenticò i suoi occhi, le sue ali, il suo nome. 
Non importa. 
Ci penserò domani. 
Non importa. 

Lentamente si sentì scivolare sempre più dentro l'acqua. Si portò una mano alla testa per bagnare un po' i capelli. L’acqua era densa, leggermente viscosa. Non gli dava fastidio, ma gli lasciava una sensazione appiccicosa tra le dita. 
Si tirò un po' su, e qualcosa dentro l'acqua lo sfiorò. 

Sangue. Era immerso in una vasca ricolma di sangue denso e scuro. 

Quando capì, quando realizzò, dette un grido terribile, come se stesse bruciando vivo. 
Pezzi di due cadaveri iniziarono ad emergere dal sangue e il viso della moglie morta lo osservava con uno sguardo vitreo stampato sul volto, occhi bianchi, il viso scarno e scavato, i capelli biondi ormai di un rosso profondo e disgustoso. Il compositore fluttuava accanto a lei e braccia si estesero verso di lui, cercando di afferrarlo e affogarlo in quel mare di sangue e carne. 
Intorpidito, riuscì a malapena a buttarsi fuori dalla vasca. 

 Se il grido non avesse lacerato la nebbia nella sua mente, sarebbe annegato in sé stesso: una morte atroce. 

L’acqua non era più chiara e trasparente, ma di un rosso così scuro e dall'odore così penetrante che scacciò via ogni suo pensiero. 
Il profumo che sentiva fino a qualche momento prima adesso gli faceva girare la testa e le gambe erano così molli che, cercando di alzarsi il più in fretta possibile, cadde per terra. 
Il sangue stava traboccando dalla vasca. Dal pavimento l’unica cosa che riusciva a vedere era: rosso, rosso, rosso. 
La stanza, il bagno, era completamente avvolto dalle tenebre e Crowley sentì una voce che rideva maligna. 

Non riusciva neanche a pensare in quel momento. Desiderò soltanto di scappare da quel posto. Strisciò un po' verso la porta, cercando di alzarsi in piedi, ma a ogni respiro aveva dei violentissimi capogiri. 

(Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutto il resto della tua vita.) 

Ogni millimetro che faceva verso il corridoio, la luce si faceva sempre più forte, accecandolo. 
L’odore di morte e corpi in decomposizione lo soffocava, lo disgustava. 

Trascinandosi fino al corridoio, tutto ciò che vedeva era confuso; Il soffitto si fondeva con il pavimento, girava tutto, e non capiva bene neanche dove stesse andando. 
Cosa avrebbe dovuto fare? 

Quando raggiunse il corridoio, le luci iniziarono a spegnersi una dopo l’altra. 
Per un momento ringraziò qualcuno per quella piccola grazia: le luci erano così forte che non riusciva a vedere nulla — ma poteva anche essere il sangue che lo ricopriva e che colava dalla sua fronte, gli offuscava la vista, e tutto quello che riusciva a vedere erano solo ombre rosse e terrificanti — ma poco dopo si rese conto che le luci si stavano spegnendo e la sagoma davanti a lui era una donna con un lungo velo nero che le nascondeva il viso. 

Pietà, pensò, uccidimi. 

Non lo avrebbe fatto, comunque. 

L'avrebbe divorato o torturato fino a farlo impazzire e poi l'avrebbe lasciato lì; in un corridoio, ricoperto di sangue e lembi di pelle, pazzo e solo. 
Crowley chiuse gli occhi, abbandonando la testa contro il pavimento freddo. 

Poi sentì una voce: Non temere, mio caro. 
Ci sono io qui con te. 
Va tutto bene. 
Svegliati, amore mio. 
Svegliati e torna da me. 

E la voce era luce, illuminava il suo corridoio scuro e spaventoso, la donna fece un passo in dietro e lui sospirò profondamente. 
Grazie. 

 

 

 

 

Ancora, da nessuna parte, il tempo è relativo, non è importante, potrebbe essere ieri come oggi. 

 

La pioggia lo colpiva così forte che il suo corpo sembrò soccombere sotto la grandine. 
“Non potete uccidere dei bambini.” Aveva esclamato e l’angelo aveva stretto le labbra in una linea sottile, annuendo. 

Cosa vuol dire? Sei d’accordo con me o mi stai dicendo che lo farete comunque? 
Ti odio, vi odio, è per questo che sono caduto. 
Bastardi, siete tutti dei bastardi. 

E poi il suo era diventato un lamento mesto e tremolante. 
“Non i bambiniNon si uccidono i bambini.” 

L’acqua ormai gli arrivava alla vita ma lui si rifiutava di arrendersi. Fece salire un bambino e la sua sorellina di qualche anno più piccola su un albero. Almeno un terzo degli altri erano già morti, annegati; non sapeva dove fossero gli altri. Non ci sarebbero stati encomi per questo. 
Il contrario, forse. 

Stai facendo tutto questo per ripagare i tuoi debiti? Chiedeva la stronza morta, con il suo fottuto velo nero che le ricopriva la faccia, mentre lo guardava cercare altri sopravvissuti. 
Sai benissimo che non servirà a niente. 
È per questo che lo fai, giusto? 
Perché sai che sei destinato a fallire.  
Non ne salverai nessuno, non ci provi neanche. 
È per ingannare quell’angelo? Per indurlo a credere che sei una brava persona? 

Piccole mani erano sbucate dall’acqua e avevano iniziato a tirarlo verso il basso e il terreno sembrò sparire sotto i suoi piedi: i bambini erano privi d’occhi e avevano un sorriso maligno dipinto in faccia, da sotto l’acqua sembravano sirene terrificanti. 

Vieni con noi. 

Crowley ci aveva provato, aveva resistito finché aveva potuto, ma l’acqua era nera e profonda, la pioggia troppo intensa, lo soffocava e bruciava. 
Brucia. 
Brucia. 
Ricordava un liquore scadente e sapeva di non poter davvero morire soffocato, non aveva neanche bisogno di respirare, ma l’acqua era densa come mercurio liquido, bruciava come lava, e in un momento di panico realizzò: questa è acqua santa. 

Lei ride. 
Non sembra preoccuparsi del fatto che non dovrebbe poter ridere sott’acqua. 
E i suoi vestiti e i suoi capelli fluttuano e si avviluppano intorno a lui, come un serpente con le sue spire. 
Ha paura. 

Paura. 

 

In ogni posto e in ogni luogo o in nessun posso e in nessun luogo. 

 

Si svegliò, ancora. 
Non sembrava fare altro negli ultimi giorni. 
Saltava da un incubo all’altro costantemente e si chiese, nella nebbia della sua mente logora, quanto forti fossero quelle droghe che aveva ingoiato la notte prima. 
O la settimana prima? 
O era già un mese? 

Comunque. 

Adesso era di nuovo nel suo appartamento. l’aria notturna gli gelava le ossa ma sembrava una sera tranquilla, non una stella in cielo. Niente luna. Solo profonda oscurità. 
Intorno a lui, un milione di schegge di vetro lo circondavano come soldatini armati di lame affilate. 
Lei era riflessa in ogni frammento di specchio e lui ricordò vagamente che, da qualche parte, rompere gli specchi portava sfortuna. 
Il demone Crawly era davanti a lui. Il suo sguardo era curioso, come se si aspettasse qualcosa da lui. 
Rimasero in silenzio per molto tempo. 

Immaginate questo: due demoni identici, uno di fronte all’altro. Entrambi indossano un completo nero, hanno capelli rossi e occhi gialli con pupille verticali. Entrambi hanno un tatuaggio sulla guancia destra, il marchio del serpente. 
Entrambi hanno ali nere spiegate dietro di loro. 
Sapreste trovare la differenza tra i due? 

In mezzo a loro c’è una donna. La donna indossa un lungo abito nero, un velo nero, guanti neri e non ha gli occhi; solo due abissi scuri dai bordi rossi, come una brace che si sta per spegnere. 
La donna ha una mela in mano dall’aria succulenta. 

Il demone Crawly fece un passo in avanti e il demone Crowley uno in dietro. 
La donna li guardò in silenzio. 
Riuscite a capire la differenza? 

Uno di loro si accorse di avere una lunga scheggia di specchio nella mano destra, affilata come un coltello. La guardò con curiosità. 
L’altro si accorse di avere la sua copia esatta nella mano sinistra. 
Riuscite a capire la differenza? 
 
Il demone rise. 
Lei rise. 
L’altro li guardava senza sorridere. 

Lei dice: Uccidilo. 
Lui dice: Se lo uccido, tu te ne andrai? 
Lei dice: Sono parte di te. 
Lui dice: Se lo uccido, prometti che non farai del male all’angelo? 

Lei dice: Se lo uccidi, io scomparirò. 
Lui dice: Va bene. 

E la sua mano era già intorno alla gola dell’altro, la lunga scheggia di vetro conficcata tra le costole e l’altro cade; morto. 

Immaginate questo: 
Ci sono due demoni in una stanza vuota e buia. 
Il vuoto non è veramente un posto vuoto, è l’anima del demone. 
, tecnicamente non è davvero vuoto se ci sono tre persone al suo interno, ma avete capito quello che intendo. 
Il vuoto è nero e fa paura. 
Lo potreste chiamare anche il grande vuoto. Il vuoto cosmico. Tre esseri in tutto l’universo. 

Comunque. 

Ci sono due demoni in una stanza — che-non-è-una-stanza — vuota. 
Uno è steso per terra, ricoperto di sangue, morto. 
L’altro è in piedi, una lunga scheggia di vetro scivola dalle sue dita, cade e si frantuma. 
Sapreste individuare chi è chi? 

Intanto che voi decidete, uno dei due si svegliò. 
In un letto.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Spero che il capitolo non sia stato troppo forte per voi perchè, rileggendolo, per me lo è stato.
Adesso probabilmente avrò problemi nel fare il bagno nelle vasche… fortuna che ho solo la doccia a casa hahah.
Questo capitolo, ad essere onesto, è stato il primo che ho scritto.

In pratica: una notte non riuscivo a dormire, ero stressatissimo per gli esami, come al solito la mia insonnia mi causa un sacco di problemi e quindi ho iniziato a scrivere.
Ne esce fuori questo delirio di 4.454 parole che non hanno ne capo ne coda.
da qui ho iniziato a delineare una vera e propria storia che è quella che state leggendo voi ora.
Siamo a circa 4/5 capitoli dalla fine, ho appena realizzato che fino ad ora la trama vera e propria non si è mossa molto, ma io vi prometto che da adesso in poi le cose si faranno più chiare…e brutte.
Piccolo Spoiler: Mi odierete tantissimo nei prossimi capitoli.

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Capitolo 6
*** Strane Premonizioni ***


Soho, Londra, Inghilterra, 507 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata, un quarto d’ora prima che Crowley arrivasse davanti alla porta di Madame Tracy. 

 

“Stupidaggini, non c’è niente di cui preoccuparsi.” Brontolò Aziraphale dopo aver perso il segno del libro che stava leggendo per la dodicesima volta. Ora, che Aziraphale fosse preoccupato non è che fosse una grande novità. Era sempre stato bravo a preoccuparsi. Era il suo stile come diceva spesso Crowley. 
Aziraphale, il santo protettore degli ansiosi e degli ansiolitici. 

Comunque, dopo una settimana, non era ancora riuscito a tranquillizzarsi. Tecnicamente aveva passato secoli senza incontrare Crowley, ma dopo tutta la faccenda dell’apocalisse mancata si erano trovati sempre più spesso a gironzolarsi intorno. 
Aziraphale non era stupido, anche se a volte ne dubitava. Non era abbastanza cieco da farsi ingannare dagli atteggiamenti menefreghisti e falsamente rilassati del demone. Aveva visto troppo negli ultimi secoli per non accorgersi che c’era qualcosa di profondamente sbagliato nel suo più vecchio amico. 
Di solito, si nascondeva dietro la scusa: Crowley è un demone. È normale che seduca gli esseri umani, che si diverta bevendo troppo e provando fin troppe droghe. 

Aziraphale era, essenzialmente, un bugiardo. 
Mentiva a sé stesso continuamente. 
Perché non c’era niente di seducente nel modo in cui gli umani toccavano il corpo del demone. Non c’era niente di divertente nel modo in cui si riduceva quando beveva. Non c’era niente di malvagio nel modo in cui sembrava sempre profondamente spaventato. 

A volte era come se potesse vedere nell’anima di Crowley, un profondo strappo, una ferita che non sembrava mai restringersi, rimaneva aperta e sanguinante e si rifiutava di richiudersi. 
E c’erano cose che diceva a volte, piccole frasi, che gli facevano addirittura dubitare che Crowley fosse un demone: c’era stata quella volta in cui aveva cercato di proteggere i bambini durante diluvio e aveva fallito miseramente. 
Il modo in cui lo aveva trovato quando ormai tutta l’acqua era sparita. 
Il modo in cui si guardava intorno, i cadaveri dei bambini stesi sulla terra ancora umida, con quegli occhi spalancati, grosse lacrime che scivolavano giù e cadevano sulla sabbia bagnata. Il modo in cui aveva iniziato a chiamarli per nome, uno ad uno. 

Aziraphale aveva chiesto: Perché lo fai? Sono morti. 
Crowley si era girato e lo aveva guardato come se avesse detto la peggiore delle bestemmie. 
Lo aveva guardato, occhi spalancati: Morti, sono morti. 
Lo aveva ripetuto fino a che non era diventato un mormorio sommesso, finché non aveva smesso di girare intorno ai bambini e si era seduto accanto a loro, mani e testa affondati nelle ginocchia. 
(La vista del suo nemico in quelle condizioni, aveva provocato ad Aziraphale una particolare fitta di dolore al petto). 

 

C’era stata quella volta in cui si era ubriacato senza mai riprendersi per un’intera settimana e poi si era lasciato torturare dai postimi della sbornia del secolo, solo perché aveva scoperto cosa fosse l’Inquisizione Spagnola. 
Aziraphale lo aveva trovato il giorno dopo nel suo appartamento. Dopo aver chiesto in giro, preoccupato per il demone che era sparito di punto in bianco senza neanche mandargli un messaggio. La locandiera di un piccolo ostello —perché ovviamente Aziraphale aveva prima di tutto cercato in ogni taverna della città, non era uno sprovveduto — lo aveva indirizzato verso un appartamento sontuoso poco lontano dicendo: 
“Abbiamo dovuto mandarlo via, il poveretto. Era qui da una settimana e sembrava mezzo morto.” 

Aziraphale lo aveva trovato raggomitolato su sé stesso, in un angolo del suo appartamento. Febbricitante e sudato, completamente fuori di sé. 
“Ho scoperto che nonostante tutto, ho ancora un infinito potenziale non sfruttato di sofferenza, angelo.” Aveva detto Crowley, ridendo tristemente, e Aziraphale aveva immediatamente capito che non si stava riferendo solo all’inquisizione ma anche alla sua caduta dal Paradiso. 
“Sono solo così deluso, così stanco di loro.” Aveva mormorato. “Pensi che sia colpa mia se gli umani sono così crudeli? Pensi che sia colpa mia, se non fanno altro che uccidersi l’un l’altro? È colpa mia? È davvero colpa mia?” E aveva iniziato a piangere disperato e Aziraphale non aveva potuto far altro che cullarlo tra le sue braccia. 
Era un angelo dopotutto. Consolare chi soffre era nella sua natura. 

 

C’erano delle volte, delle notti, in cui Crowley si presentava nel suo negozio, mezzo nudo o con i vestiti lacerati e lo sguardo così perso e spaventato da lasciarlo senza fiato. In quelle occasioni l’angelo caduto non parlava mai, non emetteva un suono. 
(La prima volta che accadde, Aziraphale gli aveva fatto almeno un milione di domande, tutte senza risposta. Non sapendo se fossero stati demoni o angeli o semplici umani). 

Crowley in quelle notti sembrava sempre distrutto. 
Alla sua mercé. 
Avrebbe potuto fargli di tutto e il demone non avrebbe mosso un dito per fermarlo. 
Ma Aziraphale, folle angelo qual era, lo prendeva tra le braccia, lo accompagnava su per le scale, fino alla sua camera da letto. Con delicatezza lo aiutava a spogliarsi, gli lavava via il trucco, la sporcizia, gli faceva indossare una morbida vestaglia perché, qualche volta, il suo corpo nudo faceva paura. C’erano troppi segni e marchi, troppi tagli e lividi. Sembrava troppo fragile. 
Così lo prendeva fra le braccia e aspettava che il demone si calmasse, anche quando i suoi occhi erano vuoti e lontani, anche quando non sembrava vederlo, quando guardava un punto distante nella stanza, Aziraphale poteva sentire che era accanto a lui e questo bastava. 

La mattina dopo Crowley spariva. 
Riusciva sempre a defilarsi nel momento in cui l’angelo lasciava la stanza. 
Ogni volta che lo vedeva, dopo quelle notti, Crowley sembrava stare bene, tanto che Aziraphale spesso si chiedeva se non se lo fosse immaginato. 

C’era una certa dolcezza in Crowley, era solo difficile da notare. 
Poteva vederlo quando era circondato da bambini, soprattutto. 
Tornando indietro a quando entrambi stavano lavorando nella villa dei coniugi Dowling, uno come tata e l’altro come giardiniere, il demone era quello che dava sempre i peggiori consigli al bambino. Eppure, c’erano quelle volte in cui il piccolo Warlock piangeva e lei lo stringeva al petto, lo abbracciava, oppure quei momenti in cui Crowley, sicuro che nessuno potesse sentirlo si sedeva accanto al bambino, cantava dolci ninne nanne con quel tono gentile e amorevole, gli baciava la fronte quando pensava che il bimbo si fosse già addormentato. 
Poteva vedere la gentilezza nei suoi occhi, quando lo guardava, quando Aziraphale diceva qualcosa di un po’ rude, un commento sarcastico, e Crowley sorrideva come se si fosse appena accesa una luce in una stanza molto buia e — 

Oh. 
Che stupido. 
Aziraphale: L’angelo più stupido del paradiso 

 

 

 

 

Mayfair, Londra, Inghilterra, 508 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata 

 

Aziraphale lo aveva cercato, ovviamente. 
Era apparso davanti alla porta dell’appartamento di Crowley e aveva suonato più e più volte ma nessuno gli aveva risposto. Ma lui era ancora preoccupato: Crowley tendeva sempre ad arrivare in ritardo ai loro appuntamenti — elegantemente in ritardo, la voce del demone lo corresse nella sua mente — ma non ne aveva mai mancato uno senza avvertire prima. 

Questa volta invece non si era presentato e quella spiacevole sensazione non lo aveva lasciato andare. Quindi si era avventurato nell’appartamento, solitamente ordinato e immacolato, dove sembrava essere passato un tifone. L’aria era fredda, vetri sparsi per tutto l’appartamento, le piante distrutte. Aziraphale sentì un brivido corrergli lungo la schiena. 
“Dove diavolo sei, folle di un serpente?” 

 

 

 

 

 

Soho, Londra, Inghilterra, 508 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata 

 

Non era riuscito ancora a calmarsi. Aziraphale aveva cercato dappertutto, in tutti i bar che conosceva, in tutti i loro posti segreti, nei bassifondi della città. 

Lo squillo di un telefono. 

Poi un pensiero lo colse alla sprovvista: E se un demone l’avesse attaccato? Se Inferno e Paradiso avessero capito il loro trucco dello scambio di corpi? Se Crowley fosse stato catturato Aziraphale non era sicuro di poterlo a salvare. 

Un altro squillo. 

E se fosse morto? Crowley si era comportato in modo così strano negli ultimi tempi, sembrava sempre esausto e malato, e se gli fosse successo qualcosa? 

Aziraphale guardò il telefono con uno sguardo di disapprovazione, cercando di ignorarlo. L’aggeggio, intimorito, aveva smesso immediatamente di suonare. Qualche istante dopo si fece coraggio e tornò a squillare. 
(Era un telefono di una certa annata, d’altronde, con molta esperienza e aveva un unico lavoro da fare: squillare. Non sarebbe stato un angelo edonista e fissato con i libri a impedirgli di fare il suo dannato lavoro). 
Se è un altro cliente giuro sull’onnipotente che gli do la scossa attraverso la cornetta. 

“Mi dispiace informarla che il negozio è chi —” 
“Mr. Fell?” 
La voce dall’altra parte della cornetta era apprensiva e con il fiatone, come se avesse corso fino al telefono e lo avesse chiamato senza davvero pensare a cosa dire. Poteva sentire l’urgenza nella sua voce, la fretta di recapitare un messaggio importante. 

“Madame Tracy?” 

La donna aveva parlato velocemente, spiegando quello che era successo, e l’angelo aveva sentito crescere l’ansia che aveva provato per tutta quella settimana, gradualmente a ogni parola della donna. Poi l’ansia si era trasformata in panico, puro panico e terrore. 
“Madame Tracy, non importa come ma dovete fermarlo.” Strillò lasciandosi invadere dal panico. “Non mi importa cosa fate, non dovete fargli prendere l’acqua santa, a qualunque costo!” Disse cercando di mantenere un tono calmo ma fallendo clamorosamente “Lo ucciderebbe, lo ucciderebbe definitivamente. Cercate di farlo ragionare, tramortitelo se dovete, non mi importa. Io sto arrivando.” 

 

Aziraphale non ricordava l’ultima volta che aveva corso così velocemente. Per un attimo si era chiesto se non fosse stato meglio estendere le ali e volare fino all’appartamento ma decise di non farlo: se Crowley era così disperato da chiedere dell’acqua santa probabilmente era in pericolo. Forse, ragionò Aziraphale, avrebbe dovuto combattere. 
In ogni caso, l’appartamento non era lontano. 

Quando arrivò fu accolto da Madame Tracy e dal Sergente Shadwell, la prima seduta al suo tavolo da tè mentre sorseggiava da una tazzina, l’altro in piedi mentre camminava nervosamente per la stanza. 
“Dov’è?” Domandò Aziraphale allarmato, notando che Crowley non c’era e la stanza sembrava troppo tranquilla. 
“Nella stanza degli ospiti, tesoro.” Sospirò lei. 

Aziraphale si avvicinò, lentamente. 
La stanza da letto di Madame Tracy era di un orribile color rosa acceso, per terra e sui mobili c’erano peluches di ogni forma e misura, oggetti per il piacere, profumi e trucchi. Tutto rosa. 
(Aziraphale trovò un attimo per alzare il sopracciglio, silenziosamente giudicando i gusti della donna sull’arredamento). 

Poi la sua attenzione venne catturata dal demone che dormiva disteso sul letto, ammanettato alla testata con un paio di manette ricoperte da una pelliccia rosa. 
Il corpo di Crowley era ricoperto di tagli e lividi scuri, alcuni dei quali erano stati medicati. 

“Stava sanguinando,” spiegò la donna sempre bevendo il suo tè, come se tutta la faccenda non l’avesse intimorita neanche un po’. Aziraphale provò un certo senso di rispetto nei suoi confronti. “Sembrava piuttosto grave ma, ecco… non sapevamo quanto fosse sicuro chiamare un’ambulanza.” 
Lui la ignorò. In un altro momento si sarebbe scusato per il disturbo, li avrebbe ringraziati per aver aiutato Crowley, per averlo fermato. 
Ma non aveva tempo, aveva bisogno di assicurarsi che lui stesse bene. 

Madame Tracy non aveva bisogno né di scuse, né di ringraziamenti. Si affrettò a tirare via dalla porta Shadwell che guardava l’angelo con una strana espressione in viso e, con un tono gentile disse: 
“Ti preparo una buona tazza di tè, tesoro.” 
Aziraphale mormorò un “Grazie” e tornò a concentrarsi sul demone. 

Crowley assomigliava a un cadavere che si era appena ricordato di essere ancora abbastanza vivo da strisciare fuori dalla sua tomba, la pelle che una volta era di un caldo color caramello era bianca e sbiadita, malata. 
Grigia, quasi trasparente. 
Gli occhi erano chiusi e le lunghe ciglia poggiavano su occhiaie profonde e aloni violacei. 

Perché non sei venuto da me, stupido serpente? Urlò nella sua testa. 
Tu vieni sempre da me. 

 

Crowley si era girato e rigirato nel letto. 
O meglio, ci aveva provato nonostante le manette che lo costringevano a una posizione supina. Gli occhi si muovevano sotto le palpebre in modo frenetico, mormorava cose senza senso, piangeva. 
Aziraphale aveva cercato di svegliarlo, aveva provato a scacciare i sogni tormentati in ogni modo ma aveva solo ottenuto dei brevi momenti di tranquillità tra un incubo e l’altro. 
Aveva provato a scuoterlo, sfiorarlo delicatamente cercando di tranquillizzarlo ma ogni tocco sembrava produrre solo altre lacrime e sospiri sofferenti. 

Era stata una notte difficile per tutti. Madame Tracy gli aveva ceduto la sua stanza degli ospiti, quella rosa, e aveva dormito nella sua stanza tranquillizzando l’angelo che no, non creavano nessun disturbo e che si, capiva la situazione ed erano i benvenuti a restare per tutto il tempo necessario. 
Shadwell, d’altra parte, aveva dormito sul divano nel soggiorno sostenendo che non avrebbe mai lasciato la donna in balia di due demoni — sembrava impossibile fargli capire che Aziraphale era di fatto un angelo e, per definizione, l’opposto di un demone — ma in realtà era preoccupato per il ragazzo dai capelli rossi tanto quanto Madame Tracy. 

Aziraphale aveva sorriso per quella gentilezza. Era sempre stato un solitario e raramente si era mischiato con gli umani fino ad arrivare a definirli degli amici, — con qualche piccola eccezione come nel caso del suo barbiere, Oscar Wilde, il primo proprietario del Ritz e la ragazza che per prima aveva inventato le crêpes — gli umani erano troppo fragili e le loro vite erano troppo brevi. Aziraphale amava mischiarsi fra di loro, amava tutti gli aspetti e tutte le diverse personalità di ognuno di loro. Amava il fatto che fossero tanto buoni quanto malvagi, il loro modo di creare sempre nuove tradizioni e nuovi modi di godere dei piccoli piaceri, il modo frettoloso e confusionario che avevano di vivere. 

Rimaneva sempre un po’ in disparte, in una linea di mezzo, non era mai abbastanza coraggioso di amarli fino in fondo. Tutte le volte che si era avvicinato troppo, era sempre finito in modo doloroso. 
Le loro vite erano brevi, sbocciavano e si affievolivano in un battito di ciglia. 
Aziraphale non invecchiava mai, non moriva mai, e lui restava sempre scottato dal dolore che ogni addio provocava. 

(Non voleva ammetterlo a sé stesso ma quelle morti non erano niente in confronto alla sola idea di perdere Crowley. La sua ancora di salvataggio, il suo punto fisso nell’universo, l’unica persona con cui potesse veramente parlare, che era con lui dall’inizio del tempo. L’idea di dover affrontare il mondo da solo lo terrorizzava. Ma soprattutto—e questo lo aveva realizzato nello stesso istante in cui aveva sfiorato la mano del demone che gli porgeva una borsa piena di libri nel bel mezzo di quella che una volta era una chiesa— Crowley era un fuoco che si era acceso nel suo cuore. Bruciava, brillante e caldo, con forza e, spesso, in modo doloroso. Ma il calore di quelle fiamme scaldava il suo essere e Aziraphale sapeva che sarebbe morto congelato se quel fuoco si fosse estinto.) 

Aziraphale pensò, all’incirca verso la terza tazza di tè, che quegli umani che ruotavano intorno a loro fossero i primi umani che sapevano cosa fossero e che li avevano accettati così com’erano. Non riuscì a sopprimere un altro sorriso. 
Crowley, pensò, quando loro ci lasceranno sarà terribilmente doloroso ma credo proprio che ne sarà valsa la pena. 

 

 

 

 

 

La stanza da letto degli ospiti di Madame Tracy, Londra, Inghilterra, 508 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata 

 

Aziraphale era alla sua quinta tazza di tè quando il demone, con un mugolio dolorante, si svegliò. Aveva gli occhi lucidi e la pelle sudata, bianco come un fantasma e indebolito dalla febbre. Mormorò qualcosa di incomprensibile e l’angelo sussultò a quel rumore, spaventato che il demone non fosse davvero sveglio, ma che fosse l’ennesimo incubo. 
Crowley, riesci a sentirmi?” Aveva sussurrato piano, cercando di non spaventare troppo il demone. Lui rispose con una serie di consonanti e vocali indistinte, non una vera risposta. 

Poi un sibilo. “Zira?” 
Era doloroso vederlo in quello stato, eppure lo aveva già visto molte volte così. 
“Crowley?” 
“Dove… come…?” Provò a domandare ma il suo cervello non sembrava in grado di formulare dei pensieri concreti, ancora troppo annebbiato, come un computer che fatica a ricevere la connessione. 

“Ho cercato di eliminare tutte le sostanze che hai preso, Crowley.” Aziraphale lo guardò per un attimo, gli lanciò un’occhiata piena di risentimento perché non avrebbe voluto vedere il suo più vecchio amico in quelle condizioni, non di nuovo almeno. 
“Ti sei spinto troppo oltre, ancora una volta, non posso più fare miracoli su di te.” 

Crowley, d’altra parte, non sembrava aver capito dove fosse. Iniziò a muoversi in modo frenetico, cercando di liberarsi con la disperazione di un condannato a morte. Aziraphale capì subito: con un gesto veloce della mano le manette erano sparite e il demone si raggomitolò su sé stesso. Si portò un braccio sopra la testa e uno intorno allo stomaco, la fronte contro le ginocchia. La posizione istintiva di chi cerca in tutti i modi di proteggersi da un attacco imminente che sa di non poter evitare. 
Aziraphale avvertì una stretta al cuore e dovette combattere le lacrime che iniziavano a formarsi agli angoli degli occhi. 

“Crowley, capisci quello che sto dicendo?” Domandò. 
L’altro, al solo sentire il suono della sua voce iniziò a piangere come un bambino disperato. 
In un momento di disperazione, l’angelo si chiese se era per questo che Crowley era sempre così buono con i bambini. Era per questo che era troppo doloroso per lui sentirli piangere? Perché gli ricordavano la propria sofferenza? 

“No, mio caro, non piangere…” cercò di tranquillizzarlo con il tono più rassicurante che riusciva a utilizzare “Perché non sei venuto da me? Tu vieni sempre da me.” 
“Perché vuoi l’acqua santa? Cosa sta succedendo, Crowley?” 
Zira…” sospirò lui, spostando il braccio tremolante dal viso. “Zira, per favore, per favore…” 
“Almeno spiegami cosa sta succedendo.” 

“Per favore, per favore…” 

Aziraphale chiuse un attimo gli occhi. Non era sicuro di farcela. 
“Se anche tutto l’Inferno ti stesse inseguendo io combatterei al tuo fianco, lo sai. Ma ho bisogno di capire cosa sta succedendo”. 
Crowley lo guardò per un lungo, interminabile, momento. 

Aziraphale ripensò a quella volta in cui il demone gli aveva chiesto ‘sai quanto è lunga l’eternità?’ E lui avrebbe voluto rispondergli che sembrava un tempo estremamente breve rispetto a quella manciata di secondi passati a riflettersi in quegli impossibili occhi serpentini incrostati di lacrime e terrore. 
Ma Crowley fece qualcosa che non avrebbe mai immaginato: si districò tra le coperte rosa, si passò una mano sul viso, e iniziò a parlare con voce roca, un interminabile balbettio, frasi sconnesse che si rincorrevano l’una dopo l’altra, gli disse ogni cosa. 
La verità, solo la verità, nient’altro che la verità: 

Doveva essere una tentazione facile, aveva detto che sarebbe stata facile 
Lei non capisce, non volevo, non sapevo, ma lei adesso mi ha maledetto.  
Sono maledetto, angelo, maledetto.  
Adesso la vedo ovunque. 
Lui vuole uccidermi. 

Il demone piangeva, piangeva, piangeva. 
E poi continuò ancora più delirante, frasi senza senso. 

I bambini in Mesopotamia continuano a trascinarmi giù e io non so come salvarli, non ci riesco mai. 

Ho dato fuoco al mio appartamento.  
Ho rotto tutti gli specchi. 

Ti ho mentito… così tante, tante volte. 
Lei è un mostro, un fantasma, ho provato di tutto ma lei… 

Sono caduto e sono diventato un demone.  
Ho tentato tanti uomini.  
Ho fatto troppe domande.  
Il suo sangue sulle mie mani, non importa quante volte lo lavo via, è sempre qui. 

Ho ucciso le mie piante.  
Tutte, nessuna esclusa.  

Ho tentato Eva con la mela. 
Ho condannato tutta l’umanità. 

Crowley piange e si dispera, lo prega: Ti prego, uccidimi, uccidimi, uccidimi prima che lo faccia lui, non posso sopportare che sia lui a farlo, non ce la faccio se so che la prossima cosa che farà sarà uccidere te. 
Dice: Non ce la faccio più, finiscimi, distruggimi. Sono un essere disgustoso, sporco, vile, malvagio.  
Dice: Non capisco dove finisca lui e dove inizio io.  
Dice: Distruggo tutto quello che c’è di bello in questo mondo. 

 

Non era stato quello che aveva detto, pensò l’angelo. Ciò che lo aveva spaventato oltre ogni modo era stato il tono, quel sussurrare delicato e frettoloso. Il dolore nei suoi occhi. 
Crowley parlava come un peccatore che cerca perdono, come un condannato a morte che confessa i propri peccati e si prepara a ricevere l’estrema unzione. 
“Basta, basta, basta.” Lo fermò Aziraphale, inorridito. “Basta, mio caro, smettila di dire queste cose.” 
Gli asciugò le lacrime dal viso, gli baciò la guancia, la fronte. Crowley lo lasciò fare, non si mosse, come se si fosse appena trasformato in pietra. 
“Sistemeremo ogni cosa, Crowley.” Sussurrò, cercando di sembrare il più rassicurante possibile. “Ma non capisco cosa sta succedendo, cosa vuol dire che un fantasma ti vuole uccidere? Tu lo sai che i fantasmi non —” 
“No, no. È tutto sbagliato.” 
“Non importa, ci faremo venire un’idea. Ti posso proteggere ma tu non puoi —” 
“‘Sbagliato.” 
“Ascolta, ascolta. Dammi un po’ di tempo, vieni a stare da me, ho bisogno di capire cosa sta succedendo, troveremo una soluzione e —” 

“È tutto sbagliato.” sospirò per l’ennesima volta CrowleyAziraphale smise di parlare e si sedette sul letto per ascoltare quello che aveva da dire il demone. 
Cosa vuol dire sbagliato, mio caro?” 

“Il mio nome.” 
“Il tuo nome?” 
“Crowley… non è questo.” 
Aziraphale lo guardò muoversi, corrugando la fronte. “Cosa?” 

Crowley iniziò a ridere come un maniaco e i vetri della piccola finestra della stanza iniziò a tremare. 
“Crowley, non è il mio nome.” C’era uno sguardo in lui, qualcosa che non aveva più visto da sei millenni. Gli occhi erano completamente gialli. Le pupille, di solito sottili come fessure, dilatate all’inverosimile. 
“Crowley non è il mio nome, non più ormai. CrawlyCrawly, non lo capisci?” 

“Che stai dicendo?” 
“Lei ha detto che ti avrei fatto del male. Lei ha sempre ragione. Lei sa tutto. Adesso il mio nome è Crawly. E Crawly è un demone. Tu non puoi fidarti di un demone. Devi ucciderci. Ora.” 

Rise di nuovo, così forte che il suo corpo si muoveva in preda agli spasmi e improvvisamente le risate si trasformarono in lacrime e singhiozzi. Dondolava su sé stesso e Aziraphale strinse le mani intorno alle sue spalle. Il demone aprì la bocca per dire ancora qualcosa ma non pronunciò neanche una parola: gli occhi si aprivano e si chiudevano, la testa ciondolava da una parte all’altra, Aziraphale avvertì un tremolio costante sotto le mani e, in generale, sembrava esausto. 

“Il tuo nome è Crowley. Lo hai scelto tu questo nome. Anthony J. Crowley. Anche se non mi hai mai detto per cosa sta la J, questo è il tuo nome e mi rifiuto di chiamarti in un altro modo.” 
Crowley stava per aggiungere qualcos’altro — o forse stava solo muovendo la bocca senza emettere un suono, non riusciva a capirlo — ma venne interrotto da un timido bussare alla porta. Il rumore, anche se delicato, li fece sobbalzare entrambi. 
“Non mi farai del male, Crowley. Ma devi spiegarmi cosa sta succedendo. Chi è lei?” 

 

“Mr. Fell…” 
“Madame Tracy, davvero questo non è un buon momento… 
La donna fece capolino dalla porta. L’angelo si sentì un po’ in colpa, d’altronde quella era casa sua. 
“Lo so, tesoro. Ma è Anathema e sembra essere davvero urgente. 
Aziraphale guardò Crowley per un momento: il demone annuì piano e chiuse gli occhi, scivolando di nuovo nel letto nella posizione precedente. L’angelo si alzò, dandogli le spalle, asciugandosi una singola lacrima che aveva osato scivolare lungo la guancia. 
“Torno in un secondo, Crowley.” Mormorò contro la fronte sudata del demone, sembrava pronto ad addormentarsi di nuovo, gli occhi che si chiudevano e lui che cercava di combattere il desiderio di lasciarsi andare come meglio poteva. 
“Riposa adesso.” Lo incoraggiò l’angelo. 
L’istante dopo, la porta si chiuse e Crowley rimase da solo nel buio della stanza. 

 

 

 

 Anathema, mia cara, perdonami ma questo è il peggiore dei momenti, posso chiamarti più tardi?” Aveva provato a chiedere l’angelo. 
Madame Tracy aveva preparato la sesta tazza di tè e per la prima volta nella sua lunga vita, l’angelo provò un senso di nausea all’odore. Rifiutò la tazzina che la donna le porgeva con un gesto elegante e gentile della mano, ringraziandola con un sorriso triste. 
“No, ascolta Aziraphale… è davvero importante.” 
"È successo qualcosa?” Domandò preoccupato. 

“Crowley… Crowley sta bene?” 
Lui rimase per un momento in silenzio, combattuto se dire la verità o meno. 
“No.” sospirò in fine perché aveva sempre cercato di non trasgredire il decimo comandamento, anche se con scarsi risultati. 
“Ascolta, so che ti può sembrare impossibile… anche se è con te che sto parlando quindi sono piuttosto positiva all’idea che tu possa in effetti credermi.” 
“Di cosa si tratta?” 

“Sono mesi che faccio dei sogni. Premonizioni. Non hanno mai sbagliato però non sono molto chiare… sono come dei sogni confusi… ma la scorsa notte ho sognato Crowley e stava soffrendo così tanto che avevo bisogno di sapere se stesse bene…” 
Aziraphale guardò la cornetta come se potesse prendere fuoco da un momento all’altro. Brividi gelati si arrampicarono lungo la sua schiena come ragni che formano una tela. 

“Se è con te, devi tenerlo al sicuro.” Concluse la ragazza. 
Aziraphale lanciò uno strano sguardo alla porta della stanza dove il demone riposava. C’era qualcosa di diverso, come se la casa fosse diventata improvvisamente più silenziosa. Avvertì una sensazione che non riuscì a descrivere come qualcosa che manca, qualcosa di pericoloso, qualcosa di triste. La porta sembrò improvvisamente minacciosa. 

“Aspetta un momento, cara.” Mormorò. 
Poi con una manciata di passi decisi si avvicinò alla porta e l’aprì di scattò scoprendo che la stanza era vuota. 

 

 

 

 

 

La stanza da letto degli ospiti di Madame Tracy, Londra, Inghilterra, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata, qualche minuto dopo che il telefono lo squillo del telefono. 

 

Una voce dice: Sei pronto? 
Crowley risponde: Si. 

La voce è una donna. Un lungo velo nero le copre il viso. Non c’è niente di diverso, sempre uguale per trecento anni. 

Lui spiega: Avevo solo bisogno che lui sapesse. Non potevo lasciarlo senza dire niente. 
Dice: È il mio migliore amico.  

Lei dice: Sembra una brava persona. 
A differenza tua.  

Nel buio, un’altra figura arriva alle spalle di leiMi ha protetto con una delle sue ali dalla pioggia sulle mura dell’Eden. 
Non fargli del male. 
Lei annuisce. 

Crawly bacia le tempie del demone e potrebbe sembrare un gesto amorevole se il suo tocco non bruciasse come acqua santa. 

Tre persone in una stanza. Niente cambia. Sempre tutto uguale. 
La stanza è ricolma di oggetti e ninnoli ma per i tre è solo un pavimento e un letto, due demoni e una donna. 
La stanza è vuota perché è Crowley a sentirsi vuoto. 

Lei dice: Ci siamo. 
Dice: questo è il giorno in cui saremo liberi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Cosa? Un’intero capitolo quasi tutto su Aziraphale? Siamo impazziti?
A parte gli scherzi, amo Aziraphale, mi mancava giuro.
Madame Tracy sempre sul pezzo dispensando litri e litri di tè come solo una buona Inglese possa fare.
Dico, non avevate la sensazione che mancasse qualcosa? Ovvio, mancava Anathema!
Dio quanto amo questa ragazza, ma poi quanto è bella Adria Arjona? Davvero, troppo, mi sono innamorato all’istante, non poteva mancare da questa storia.
Eeeee… ah, prossimo capitolo succederanno tante cose, preparatevi, perché fino ad ora ci sono andato leggero.

Buon divertimento <3

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Capitolo 7
*** Ouroboros ***


Una voce sussurra: Chi entra in una tomba in cerca di speranza? 
Un’altra risponde: Un uomo disperato.

 

 

 

 

 

L’appartamento di Madame Tracy, Londra, Inghilterra, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata, qualche minuto dopo che il telefono aveva squillato. 

 

Cazzo, merda, dannazione, maledizione, cazzo, cazzo, cazzo. 
Aziraphale tornò verso il telefono mormorando a bassa voce e Madame Tracy lo guardò come se dovesse decidere se fosse il caso di andare a cercare un altro vaso. 
Anathema, dove sei adesso?” Domandò riprendendo in mano la cornetta. 
“Nel mio cottage a Tadfield” rispose la ragazza. “Che succede? È successo qual cosa —” 
“Non c’è tempo,” la interruppe l’angelo, “Sarò da te in una manciata di secondi.” 

Aziraphale mise giù la cornetta e iniziò a camminare nervosamente per la stanza. 
“Cosa faccio, cosa faccio?” Iniziò a mormorare portandosi le mani curate tra i capelli. “Ok, ok. Forse ho un’idea. Madame Tracy chiedo scusa per il pavimento.” 
“Il pavimento?” Domandò la donna stupita. 
Lui non rispose. Con uno schiocco di dita sulle assi di legno apparve un cerchio con dei simboli complicati al loro interno. 

“Ok, Madame Tracy, questo è estremamente importante.” Disse l’angelo entrando all’interno del cerchio. “Quando sarò scomparso dovete cancellare il cerchio. Non lo tocchi!” Si affrettò ad aggiungere l’angelo. Non sapeva cosa sarebbe successo a un umano all’interno del cerchio 
“Basta cancellare una linea e si disattiva — è disegnato con del semplice gesso — ci versi sopra dell’acqua e dovrebbe tornare essere innocuo” 
Aziraphale fece un gesto e la donna capì subito: si allontanò velocemente dal cerchio, vicino a Shadwell che aveva l’aria di chi aveva già visto una scena simile e che non era contento di vederla di nuovo. 
L’angelo sospirò profondamente e un paio di ali maestose apparvero dietro la sua schiena, poi una luce brillante apparve intorno a lui e in un secondo scomparve dall’appartamento. 

“Da quando i demoni hanno ali bianche?” Domandò Shadwell senza staccare gli occhi dal cerchio. 
Madame Tracy alzò solo gli occhi al cielo senza commentare: prese la tazza di tè dal tavolino e lanciò il suo contenuto contro il cerchio che smise immediatamente di brillare. 
“Preparo dell’altro tè.” Fu l’unica cosa che riuscì a dire la donna, andandosene in cucina e sperando che i due giovani stessero bene. 

 

 

 

 

Jasmine cottage, Tadfield, Inghilterra, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata, esattamente quattro minuti dopo che Aziraphale aveva messo giù la cornetta. 

 

Anathema, senza troppi giri di parole, urlò dallo spavento. Non se ne vergognò neanche un po’: quando Aziraphale le aveva detto che in qualche minuto sarebbe arrivato, si era in qualche modo aspettata di vederlo planare nel suo giardino o di trovarlo davanti alla porta di casa. Non di vederlo apparire nel suo soggiorno, barcollante e con le ali spiegate facendo cadere tutto quello che c’era sul suo tavolino da caffè. L’angelo aveva un aspetto orribile: il viso rosso e le mani tremanti, si guardò intorno arrossendo ancora di più alla vista dei libri sparsi per terra. Le sue ali si raggomitolarono subito contro la sua schiena e scomparvero. 

“Ah, scusa tanto cara. Sono un po’ arrugginito con queste cose. Di solito preferisco prendere l’autobus o farmi accompagnare da Crowley.” Disse cercando di alzarsi. L’angelo vacillò un po’ ma si rimise in piedi senza troppi problemi. 
“Oh,” mormorò lei “Pensavo che saresti arrivato volando o cose del genere.” 
“Si, , ci avrei messo troppo.” 

Newt era apparso dalla stanza accanto ancora in pigiama e Aziraphale arrossì per la terza volta nel realizzare che doveva essere molto presto. Fece un cenno al ragazzo e tornò a concentrarsi sulla ragazza che, seduta sul divano, si portò le mani al viso. 
Aziraphale, ho visto CrowleyNon credo stia bene…” 
Lui tremò a quelle parole. No, si disse, di sicuro non sta bene. 

“Mia cara, ho davvero bisogno del tuo aiuto. Ieri Crowley è andato da Madame Tracy chiedendo dell’acqua santa.” Lei trasalì a quelle parole e l’angelo si affrettò ad aggiungere. “Lei e Shadwell sono riusciti a fermarlo. Quando sono arrivato delirava, ultimamente ha questa brutto vizio di ingozzarsi con droghe e — e io non so come fermarlo. Non so come aiutarlo. Ha iniziato a dire cose senza senso e adesso è sparito e io —” 
“Sparito?!” 
“Ti prego, Anathema. Dimmi che sai dove si trova.” 

Lei lo guardò con le lacrime agli occhi, scuotendo tristemente il capo. Aziraphale si stropicciò gli occhi, disperato. 
“Ok.” Disse cercando di essere il più rassicurante possibile. Mise da parte tutte le sue paure perché Crowley aveva bisogno di lui e non era certo andando nel panico che lo avrebbe aiutato. “Raccontami il tuo sogno cara.” 
“Mi dispiace, è tutto così confuso…” mormorò la ragazza, guardandosi le mani. 
“Non importa, raccontami cosa riesci a vedere.” Disse sedendosi accanto a lei e mettendole un braccio intorno alle spalle. “Ad esempio, ti ricordi dov’era magari?” 
“Credo che sia in una chiesa.” Disse lei, dopo essersi presa un momento per riordinare le idee. “Una chiesa… non troppo grande o troppo piccola. Ci sono un sacco di statue di santi, cose così…” 

“Ok.” La incoraggiò lui anche se il pensiero di Crowley dentro una chiesa era tutt’altro che rassicurante. 
“Lui sta parlando con qualcunoHa paura.” 
“Va bene.” 
“E le sue ali…posso vedere le sue ali, sono nere. Insanguinate. Ci sono piume sparse ovunque…” 
Il cuore di Aziraphale iniziò a battere all’impazzata. 

“Questa chiesa che vedi… riesci a vederla bene nel tuo sogno?” 
.” Rispose dopo un momento di incertezza “Non sono sicura di riuscire a descriverla bene però… forse posso provare a fare qualche schizzo?” 
“Non sarà necessario.” Disse l’angelo prendendole le mani. “Anathema devo chiederti di avere fede in me, di aiutarmi. Non posso perdere Crowley…” 
Aziraphale, voi ci avete aiutato a salvare il mondo. Siete miei amici… miei e di Newt. Io voglio bene a Crowley e anche a te. Faremo qualsiasi cosa per aiutarvi.” 
Accanto a lei, Newt annuì con un sorriso dolce mettendo una mano sulla spalla dell’angelo. Aziraphale si ritrovò di nuovo a pensare, sorridendo a sua volta, quanto fosse meravigliosa quella sensazione di comunità e fratellanza che faceva sembrare l’amore del paradiso così freddo e sterile. 

Con uno schiocco delle dita erano di nuovo al centro del salotto. Un cerchio, con dei simboli mistici intorno a loro, disegnato con del gesso bianco, brillava. Aziraphale si ritrovò a dire le stesse parole a Newt che un’ora prima aveva detto a Madame Tracy: Non toccare il cerchio, versaci sopra dell’acqua finché non si spegnerà la luce, fai attenzione. 
Poi mise le dita intorno alle tempie della ragazza che lo guardava con aria sicura e confidente: Ripensa alla chiesa, disegnala nella tua mente. Tutti i dettagli che riesci a cogliere, non devi dirmeli, devi solo ricordarli.  

“Quando sei pronta, fai un solo cenno e noi ci ritroveremo lì. Mi dispiace trascinarti in questa situazione, cara.” Sospirò lui “Se ci fosse un’altra soluzione io…” 
Aziraphale, basta. Ho già detto che va bene. Adesso zitto, così posso concentrarmi.” 
Nonostante le parole dure della ragazza, l’angelo non fece altro che sorridere. Adorava i modi decisi di Anathema. Era sempre sicura di sé, sempre gentile, sempre pronta ad aiutare. Aziraphale combatté la paura di perdere Crowley, non era quello di cui aveva bisogno il demone. Chiuse gli occhi e si concentrò nel leggere la mente della strega. 
Anathema fece un lieve cenno con il viso e i due sparirono in un fascio di luce. 

 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. Un’ora prima che Aziraphale e Anathema sparissero dal Jasmine cottage. 

 

Quando entrò nella chiesa il demone e la donna erano già lì ad aspettarlo. 
Crowley guardò Crawly: nessuno dei due reagì all’effetto che aveva il terreno consacrato sui demoni. Crowley si avvicinò all’altare, le mani lungo il corpo, ignorando il tremore che si irradiava per tutto il suo essere. 

Questo è il giorno in cui saremo liberi. 

Ci sono due demoni all’interno della chiesa. Il resto lo sappiamo già. 
La chiesa è vuota e non è vuota allo stesso tempo, eccetera, eccetera. 
Non è questo l’importante. 
La donna ha in mano qualcosa. Ne parleremo dopo. 

Non è importante. 
Nessuno di loro lo è: a nessuno interessa. 

È il segreto per sopravvivere a questo mondo: niente ha importanza perché se avesse importanza vorrebbe dire che ha anche potere su di noi. Il segreto è che, non importa con quanta cura nasconderai e spingerai infondo i tuoi sentimenti e le tue paure. Alla fine riemergeranno e ti trascineranno giù, fino in fondo, si avvilupperanno alle tue caviglie e tu non troverai nulla a cui aggrapparti. 
Al primo segnale di debolezza, sei già fuori. Out. Crowley lo sa bene. Lui è un demone. Sa che ogni sua azione deve essere attentamente calcolata in funzione di non mostrare nessuna debolezza. 
(Crowley sa anche di non essere un buon demone. Onestamente, è terribile nel suo lavoro.) 
Ma non è importante. 
Non lo è più. 

Quindi si avvicina. 

Il demone Crawly è proprio davanti a lui, in piedi davanti all’altare. Parla come parlava Lucifero subito dopo la caduta, come quelle voci fuori campo di una pubblicità progresso o come un fanatico che tenta di farti aderire alla sua religione. Con questo voglio dire che parla in modo scontato, vaneggiando cose senza senso come se leggesse da un foglio prestampato con finti sorrisi e finta conoscenza. 

Crawly lo guarda con un’espressione seria in viso: Siamo i figli della notte. 

Crowley lo odia ma non può dire che si sbagli. Lui è un demone, nient’altro. I suoi occhi lo tradiscono e inizia a piangere. Intorno a lui, le statue sembrano reagire alla presenza dei demoni, del male puro, e dagli occhi di marmo bianco iniziano a scivolare lacrime di sangue. 
La chiesa è buia, gelida, rossa, bianca e nera. 

Crawly dice: Siamo gli abitanti del buio, ammantati nell’ombra più nera. 
Dice: Siamo gli angeli caduti, che si librano attraverso i cieli su ali d’ebano.  
Dice: Siamo quelli che tramano nell’ombra, che si aggirano nel buio per depredare senza cuore.  
Crawly ha un’aria quasi ferita quando dice: Siamo i prescelti che hanno osato esplorare i misteri del regno invisibile.  

Crowley odia Crawly. 
Crawly odia Crowley. 
Non c’è speranza per nessuno dei due, uno di loro morirà presto. 

Molto presto. 

Quello che accade dopo, succede molto velocemente ma, per motivi di chiarezza, vi verrà spiegato molto lentamente. 
L’esperienza è quella che si può avvertire quando si è su un aereo e senti un grosso scoppio al motore; l’aereo sta precipitando sempre più velocemente, non c’è niente che tu possa fare per fermarlo. Quindi ovviamente la prima reazione è quella di urlare. Mentre stai urlando noti qualcosa di strano però: il tempo rallenta, si muove come in una piscina ricolma di miele. Sei improvvisamente vigile e riesci a seguire ogni movimento come se avvenisse a rallentatore. 

La stessa sensazione la provò Crowley. 
Il demone Crawly ha una lunga scheggia dello specchio della sua stanza da letto. 
Crowley fa un passo indietro ma la donna lo afferra per le ali. Non aveva notato di aver manifestato le proprie ali, quando era successo? 
Crawly scatta verso di lui, lo prende per la gola, gli conficca la lama di vetro nella spalla e l’altro è vagamente cosciente del sangue che inizia a sgorgare come una cascata di vino rosso. Non ci fa granché caso solo perché la donna nello stesso istante gli aveva ritorto le ali, strappando quante più piume possibili. Le mani sono artigli lunghi come quelli di un’arpia, unghie nere circondano ogni singola piuma, lunghe e belle come quelle di un corvo, le strappa e le brucia. 

Crowley intanto grida; 

Poi reagì per puro istinto: non era qualcosa che amava fare, anche se gli era già successo in precedenza. Ha qualcosa a che fare con l’adrenalina e l’essere intrinsecamente un animale da caccia. Odiava quando succedeva. Non era mai nel pieno controllo delle sue facoltà mentali quando reagiva d’istinto. 
Con un movimento veloce e preciso strappò via la lama dal demone accanto a lui, sentì delle voci ma non riesce a capire chi sia, dove sia, cosa sta succedendo. L’idea di conficcare la lama nel cuore del demone davanti a lui lo esalta: se devi morire, dice, meglio farlo con stile e prendendosi qualche soddisfazione.  

Crawly dice: Siamo il serpente. 
Dice: Il demone che ha dannato l’umanità.  

Crowley urla in faccia al demone, una mano stretta intorno al suo collo: Maledetto, liberami, lasciami in pace. 
Muori, muori, muori. 

Crawly sorride: Non lo vedi? Siamo una cosa sola, io sono te e tu sei me. Stai lottando contro dei mulini a vento caro il mio vecchio ed astuto serpente.  
Sorride: Ma se ti fa stare meglio, uccidimi. Finiscimi. Mordi la mela.  

Oh, Crawly è un ottimo tentatore. Il migliore. è il suo lavoro dall’alba dei tempi. 

Crowley afferra la lama con più fermezza, la stringe e gli angoli gli tagliano la mano — Non importa, non importa — e in un istante il pezzo di vetro è conficcata nel petto del demone sotto di lui. Spinge, per essere sicuro che sia morto. 

Ma Crawly sotto di lui emette uno squittio sorpreso, il suo corpo è troppo soffice e caldo, i suoi capelli troppo chiari e gli occhi troppo belli. 
Vacilla e cade all’indietro. 
Crowley lo afferra prima che potesse cadere e scivola con lui a terra. 

Dice: Perchè vecchio amico? Ho fatto tutta questa strada solo per salvarti.  

 

(E soffrirai come ha sofferto lui, e la paura e il terrore ti strangoleranno e perderai la persona che ami di più). 

“No” 

(E piangerai e urlerai). 

“No” 

(E niente ti salverà). 

“NO, NO, NO, no no no.” 

 

Il demone piange sul corpo senza vita del suo nemico, migliore amico, amore e ragione di vita: l’angelo Aziraphale. 
Il suo volto è pallido, il corpo sempre più freddo, gli occhi vitrei, bianchi, morti. La camicia ha perso il suo solito candore perché adesso tra lui e l’angelo c’è un mare di sangue che li divide. 
L’angelo è morto. Lui lo ha ucciso. 
“Va tutto bene, va tutto bene.” Ripete ossessivamente Crowley baciando la bocca rosa e carnosa di Aziraphale ormai anche quella sporca di sangue. “Questo non è reale, è solo un incubo, non è reale, va tutto bene.” Continua a mormorare, cercando di sollevare il corpo sotto di lui per cullarlo ma fallendo miseramente perché il sangue è troppo viscido e scivoloso e il corpo dell’angelo pesante e impossibilmente reale. 

La donna si avvicina; con voce sommessa dice: Questo non è un incubo. 

Crowley piange e si dispera, urla, scalcia e sbava parole senza senso. Avvolge l’angelo tra le sue ali bruciate e distrutte. L’arco di piume da corvo lo disgusta, il suo amato non merita di essere incoronato in piume nere ma in oro e gioielli e quindi lui strappa tutte quelle che riesce a raggiungere. 
Odia Aziraphale, perché non gli ha concesso neanche un’ultima parola d’addio, lo odia perché lo aveva avvertito di stare lontano da lui, lo odia perché lo ama e un demone non è costruito per amare. Ne ha perso la capacità. 

Lo odia perché il vuoto dentro di lui adesso è un immenso buco nero che risucchia costellazioni, pianeti, comete, asteroidi, la terra, paradiso e inferno, e la colpa è tutta di Aziraphale che lo ha lasciato solo a custodire questo immenso nulla. 
Probabilmente lei sta dicendo qualcosa ma lui non l’ascolta. Ogni rumore è attutito e ovattato, sente solo il cuore immobile del corpo sotto di lui e il lento scivolare del sangue. L’odore lo disgusta, piange e le statue piangono con lui per la perdita dell’angelo che era destinato a proteggere l’umanità fino alla fine del tempo. 

Lei si avvicina, si ritrova davanti a lui. 
Crowley è completamente sdraiato accanto all’angelo; completamente ricoperto di sangue, completamente distrutto. 
Non gli importa. 

Lei lo guarda con quegli occhi di brace, quello sguardo privo di pietà e compassione. 
Il demone improvvisamente sussulta, emette un suono disgustato tra un singhiozzo e l’altro e si ferma all’improvviso. C’è qualcosa nella sua gola e lui si sente soffocare. Cerca di sputarlo ma fa male. Sangue nero inizia a sgorgare dalla sua bocca e fa così male che lo stomaco si contrae come se fosse pronto a vomitare ma il suo cervello gli ordina di non muovere il pezzo di un altro millimetro. La sua gola ha uno spasmo feroce. 
Fanculo, pensa disperato il demone. 

Si infila due dita in bocca e lentamente, lentamente, estrae un grosso pezzo di vetro dalla gola. L’effetto è immediato: singhiozza e cerca di inalare quanta più aria possibile perché il suo cervello si è di nuovo dimenticato che non ne ha bisogno. La pelle brucia, il corpo di Aziraphale accanto al suo fa male perché è reale e così presente e tutto è semplicemente troppo, troppo, troppo. 

Forse sta già morendo. 

Forse è proprio la morte di Aziraphale che lo ucciderà alla fine. Non riesce a concepire un mondo dove lui non è accanto a lui. Aziraphale è come il sole e tu non te ne vai in giro chiedendoti cosa succederà il giorno in cui non sorgerà mai più. È un pensiero inconcepibile perché è sempre stato lì e anche se non lo era, Crowley aveva dimenticato da tanto tempo com’era la vita prima che il primo sole nascesse. 

Lei lo guarda sempre con il suo sguardo menefreghista, il suo velo nero. 
Ha qualcosa in mano, presto spiegheremo cosa. 

Osserva il grosso pezzo di vetro e dice: “È ancora dentro di te.” 

,” dice Crowley con voce roca. Non cerca di nascondere le lacrime, non cerca di pulirsi gli abiti. Tutto fa male ma mai quanto la consapevolezza di aver perso per sempre l’angelo. Aziraphale è una figura immobile accanto a lui. Non sa perché se ne stupisce così tanto: Crowley aveva sempre saputo che prima o poi avrebbe ferito il suo migliore amico. Sapeva che ci sarebbe stato un giorno dove non avrebbe più trovato l’angelo ad aspettarlo nella sua libreria, niente più passeggiate al parco per dare da mangiare alle anatre, niente più mani morbide che si prendono cura di lui senza mai chiedere qualcosa in cambio, niente occhi azzurri, commenti sarcastici, bocca rosea, niente. 

Crowley avrebbe voluto dire qualcosa. 
Avrebbe voluto fare un dire qualcosa del tipo: “ti prego, mi dispiace, adesso capisco cosa ti ho fatto. Pensavo di sapere cosa si provasse a perdere la persona che si ama più di ogni altra cosa al mondo, adesso mi rendo conto che non lo avevo mai capito. Fa troppo male, questo vuoto dentro di me mi sta risucchiando, ti prego basta.” Ma la sua bocca era sigillata, il suo cervello un foglio bianco, non riusciva a pensare, a parlare. Tutto quello che sentiva era solo un rumore bianco di sottofondo. Crowley non era più una persona — non che lo fosse mai stato — non era più un angelo o un demone. Era come un televisore rotto che non riceve più nessun canale. Il suo cervello è uno schermo che emette solo rumori d’interferenza. 

Lui non è reale. 

Lei si china su di lui. In mano ha un violino dall’aria diabolica, rosso come le fiamme dell’inferno. Il demone lo riconosce subito perché è lo stesso strumento che aveva usato per tentare il compositore. 
Glielo porge e lui lo prende tra le mani tremanti. Le macchie di sangue si mimetizzano sul legno laccato. 
“Adesso sai cosa devi fare.” Disse lei. 

Morire non sembra più così terrificante se significa non vivere più con il vuoto lasciato da Aziraphale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

1)Per chi non lo sapesse, l’Ouroboros è un simbolo molto antico, presente in molti credi religiosi.
Rappresenta un serpente che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Apparentemente immobile, ma in eterno movimento, rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l'energia universale che si consuma e si rinnova di continuo. Capirete perché lo trovo così calzante quando immagino Crowley lottare contro Crawly.

2) Io non ho mai detto che questa sarebbe stata una storia a lieto fine.
*Risate malefiche di sottofondo.*

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Capitolo 8
*** La tomba del compositore ***


Ci sono tante vecchie tradizioni in Italia. 
Si possono trovare nei piccoli paesini del sud, fomentate dai vecchi che educano i figli a rispettare la morte in modo particolare. 
La veglia funebre in casa sottostà a certe usanze: si coprono tutti gli specchi della casa con dei lenzuoli, così che l’anima del defunto non vi rimanga intrappolata. Si fermano gli orologi. Le donne rimangono intorno al defunto per tutto il tempo e gli uomini generalmente vanno in un’altra stanza. La preghiera, il silenzio e il lamento ne dettano i tempi. 

Anche il pianto segue precise regole: si crede che le lacrime disturbino il cammino dei morti, che ne appesantisca i vestiti, per non tormentare i morti, il pianto è assolutamente vietato dopo il tramonto. 

Quando in questi paesini vi è un lutto, il carro funebre viene guidato lentamente per le strade, dalla casa alla chiesa al cimitero. Ogni volta che passa davanti un’abitazione o un negozio, finestre e porte vengono chiuse in segno di rispetto e per non far entrare il lutto in casa. 
Quando il corpo viene portato via, la casa deve rimanere deserta, una sola lampada a illuminare l’abitazione, una bacinella con dell’acqua e un asciugamano candido perché lo spirito del defunto potrebbe decidere di tornare dopo ventiquattro ore e aver bisogno di lavarsi dopo aver vagato nelle tenebre. 

Morte è sempre stata affascinata da questo tipo di tradizioni. 
Ovviamente, non hanno nessuna importanza per lei, non è certo una finestra o uno specchio a fermarla. 
Ma Morte ama e rispetta questo genere di usanze, questo rispetto ossequioso nei suoi confronti, questi gesti creati per poter dare un senso a quel nuovo vuoto dentro il cuore delle persone. 

Morte conosce tutte le tradizioni per onorarla e le rispetta tutte, indistintamente. 
Morte non è gentile e non è crudele. 

Morte è nata dal primo morso della mela perché è l’ombra della creazione, nata dagli uomini e vive negli uomini. 
A differenza delle credenze popolari, non è lei che uccide. 
Morte in realtà non è molto più che un valletto: accoglie l’anima, l’accompagna davanti al giudizio di Dio, torna indietro e ricomincia tutto da capo. Sono gli uomini che si uccidono tra di loro. È Guerra che uccide. Sono Carestia, Pestilenza e Inquinamento che sfiniscono il corpo e lo fanno ammalare. Soprattutto, è Tempo che uccide. Ma tutti insieme si inchinano davanti alla Morte. 

Morte non è mai crudele o gentile; 
Morte è solo inevitabile. 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

Non sapeva per quanto avesse pianto. 
Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto lì a singhiozzare e a pregare che tutto questo finisse. Il vuoto dentro di lui era un’enorme voragine e il suo corpo stava come implodendo: era scosso da violente convulsioni tanto i suoi singhiozzi erano forti, non c’era più aria nei polmoni da chissà quanto tempo, le labbra erano viola e gli occhi rossi per il pianto e la fatica. 
Nonostante questo, quando la donna ordinò di alzarsi, lui ubbidì. 
Prese il violino e si girò verso la porta. 

Crowley la guardò, gli occhi persi e vuoti, l’anima lontana dal corpo, lì e non lì, essere o non essere, la sensazione era quella di essere perso in una foresta oscura, tra il sonno e la veglia, insicuro se il suo corpo stesse seguendo le sue indicazioni o se si muovesse solo per puro istinto. Non riusciva a percepire bene cosa stesse accadendo in quel momento. Due mani scheletriche lo toccarono, lo presero per le spalle e lui riuscì a malapena a comandare al suo corpo di guardarla. 

Lei, che in vita sua non aveva mai fatto nulla di male, una donnetta e niente di più, era riuscita a dannare un demone. Che strano, pensò Crowley, che strano si disse. Come ci era riuscita? Come aveva fatto questo mostro, quest’entità malvagia a dannare qualcosa in modo peggiore di quanto non avesse già fatto Dio. Lei lo guardò, sorridente, e lui si sarebbe voluto sciogliere in un corpo di spire, tornare a terra e strisciare ai suoi piedi finché lei non avesse posto il suo piede sulla sua testa e non lo avesse schiacciato. Si ritrovò a pensare, in quella nebbia che non era altro che la sua anima offuscata dallo strazio e dalla disperazione, quanto amasse quella donna perché ormai era l’unica cosa che si frapponeva fra lui e Crawly. 
Lei, l’unica che potesse capire questo inesorabile dolore che bruciava più delle fiamme dell’inferno, più dell’acqua santa e del terreno sacro su cui stava camminando. 

Lei dice: Oggi è il giorno in cui saremo liberi. 

Lui sorride e pensa: Ti amo. 
Pensa: Ti amo, mia salvatrice, mia regina, mia signora.
Pensa: Ti amo perché tu, a differenza di Dio, hai almeno la decenza di darmi una via d’uscita da questa caduta. 

Quindi dice: Sono tuo. 
Dice: Ora portami dove dovrò essere seppellito.
Dice: Lava il mio corpo con acqua e olio santo con la stessa dolcezza che usava lui, fai quello che vuoi, sono tuo, tuo, tuo. 

 Il tragitto non era stato lungo ma per Crowley durò un anno o forse cento. Si ritrovò davanti ad una lapide con una pala in mano, senza essere davvero sicuro da dove fosse arrivata. Lui guardò la lapide e, nonostante la gola rovinata disse: 
“Questa è la tomba del compositore” 
Lei si mise dietro la pietra e l’accarezzò dolcemente. 
“Guarda meglio,” disse. 
La lapide che fino a un momento prima portava il nome del compositore adesso recitava con lettere incavate di un rosso brillante: 

Qui giace 
Anthony J. Crowley 
La sua più dolce bugia lo portò alla tomba 

 

In un altro momento il demone avrebbe riso ma il suo cuore non riusciva più a sopportare un altro secondo di quel vuoto che si allargava dentro di lui. 
La donna recita: Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita 
.” 
“Scava.” Ordinò lei. 

Crowley la guardò, questa piccola donna che era sfuggita alle grinfie di Morte solo per portarlo tormentare. Tanto crudele quanto meravigliosa quando gli chiedeva di scavare la propria tomba. C’è un gusto delicato in quel comando, un’ironia infernale nel gesto. Infondo, lui aveva metaforicamente costretto il compositore a scavare la sua stessa tomba facendolo impazzire con il suo violino. 
Così Crowley prese la pala e fece come lei le aveva detto. 

C’era una ragione se la terra di cimitero veniva usata per proteggersi dai demoni: non era impossibile da attraversare, lui ne era la prova schiacciante, forse un demone più connesso all’inferno avrebbe preso fuoco al semplice tocco, ma per Crowley era come acido che bruciava tutte le volte che sfiora la sua pelle. Più andava in fondo, più lui si riempiva di tagli e abrasioni, di bruciature e la pelle non faceva altro che friggere al contatto con il terreno sacro. Quando ormai aveva scavato per più di tre metri non fece altro che fermarsi sul posto. 

Lei dice: Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 

Lui non fece altro che annuire. 
Si inchinò per terra e prese una manciata di terreno umido e lo ingoiò. 
Bruciava ma non si fermò. 
Sentì con feroce soddisfazione, il serpente dentro di lui contorcersi e urlare.  

Lei alzò la ciotola e la portò sulla sua testa, pronta versare su di lui la benedizione finale. 
Lei dice: Questo è il giorno in cui saremo liberi. 
Dice: Adesso prendi in mano il tuo violino, serpente. 

Dice: Suona un’ultima volta. 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata.  

 

Aziraphale e Anathema apparirono in un fascio di luce nel piccolo giardino davanti alla chiesa. 
Era una giornata tranquilla ma le nuvole ammassate a est presagivano che presto ci sarebbe stata una tempesta e sarebbe stata terribile. L’angelo deglutì perché l’ultima volta che aveva visto delle nuvole simili era stata la prima volta che aveva conosciuto Crowley, vederle di nuovo gli lasciò una stana sensazione di inquietudine. 
Il cielo tuonò come ad annunciare un cattivo presagio, come a dire: durante la prima pioggia hai conosciuto il demone, mi chiedo se pioverà anche l’ultima volta che lo vedrai. 
Scosse la testa per scacciare quegli oscuri pensieri, non sarebbe finita così. Qualsiasi cosa minacciasse Crowley l’avrebbe fermata. 

Si voltò verso Anathema e capì immediatamente che anche lei stava provando la sua stessa inquietudine guardando l’edificio. La chiesa, dall’esterno, aveva mura bianche, era piccola e sembrava un tranquillo luogo di fede. Ma c’era qualcosa di incredibilmente sinistro come un’atmosfera maligna che permeava l’aria, un’aura di pura disperazione. Il luogo assomigliava più a una casa stregata che ad un luogo di culto. 

Non era l’edificio in sé ma la sensazione che dava. Sia Aziraphale che Anathema erano incredibilmente percettivi ed empatici verso queste emozioni — ovviamente, l’angelo più della ragazza, ma conoscendosi si erano ritrovati a notare le stesse sensazioni quasi simultaneamente — amore, gioia, passione, dolore, malinconia; leggevano queste emozioni con facilità a meno che qualcuno non cercasse di nasconderle a tutti i costi. La chiesa sembrava aver assistito a dolore e disperazione e adesso le pareti ne erano macchiate. Ma soprattutto, era la figura ammantata di nero sulla soglia che fece rabbrividire i due. 

Aziraphale fece un passo indietro, mettendo una mano davanti al corpo di Anathema. Un chiaro messaggio di indietreggiare e di nascondersi dietro di lui. Guardò la figura e in un momento sostituì le proprie paure con tutto il coraggio che fosse riuscito ad amministrare. 

Aziraphale guardò Morte e le disse: Non spiegherai le tue ali sul demone Crowley. 
E Morte rispose: NON PUOI DARMI ORDINI, SCIOCCO PRINCIPATO. 

Adesso è importante fermarci e capire una cosa: il decreto “Che l’uomo non osi dividere ciò che Dio ha unito” non è una scelta casuale di parole. L’unione di cui si parla non riguarda solo una coppia di persone o di entità ma ha una visione molto più ampia. Aziraphale, quando gli uomini erano stati scacciati dal paradiso terrestre, aveva donato la sua spada a Adamo per protezione e amore per le creature tanto care a Dio. Lei — che sapeva sempre ogni cosa —aveva guardato il guardiano e aveva chiesto dove fosse la spada e aveva subito perdonato quella piccola bugia che l’angelo aveva balbettato più per imbarazzo che per cattiveria. Lei aveva osservato il suo figlio più umile custodire gli umani non solo perché era quello il suo ruolo — ovvero il custode della porta orientale dell’Eden e dunque, per estensione, degli umani — ma perché lui li amava profondamente e con ceca devozione. 

Aziraphale era un custode. 
E come tutti i custodi aveva bisogno di un’arma per difendere e proteggere. 

Aziraphale aveva dato via la sua spada e nello stesso momento Guerra era nata per brandire la prima arma donata agli uomini. Ma nessuno avrebbe mai potuto dividerlo dalla spada fiammeggiante per il semplice motivo che Dio aveva benedetto l’unione. Con questo voglio dire che, non importa quanto lontano fosse Aziraphale dalla sua spada: lui era nato per combattere, per proteggere, e custodire, la sua arma sarebbe sempre apparsa nel momento della battaglia. 
Con un movimento della mano una spada ricoperta di fiamme sacre apparve nella mano destra dell’angelo e Anathema fece un salto all’indietro, sorpresa. 

“Non spiegherai le tue ali sul demone Crowley.” Ripetè Aziraphale, alzando l’arma e manifestando nuovamente le sue ali, con uno sguardo che suggeriva che fosse un angelo che non se ne andava spesso in giro uccidendo demoni e entità soprannaturali, ma che certamente era come guidare una bicicletta e una volta imparato non era qualcosa che si dimenticava facilmente. 
Morte lo guardò con quella che avrebbe potuto essere un’espressione divertita anche se era impoossibile da dire visto che la sua testa era un teschio. 
ABBASSA LA TUA SPADA, PRINCIPATO. Disse Morte, SONO QUI PERCHÈ LE CANDELE SONO STATE ACCESE, L’OLIO PREPARATO E CI SONO I TELI BIANCHI GIÀ SPIEGATI. 

Anathema si avvicinò piano ad Aziraphale e gli mise una mano sulla spalla “Cosa vuol dire?” Domandò guardando l’entità e stringendo all’interno della sua borsa un coltellaccio da cucina che si portava sempre dietro, in caso di necessità. 
(Non che si illudesse che avrebbe avuto un qualche effetto sulla Morte, ovvio, ma il gesto la faceva sentire un po’ più sicura di sé e comunque, se la Morte avesse deciso di mietere la sua anima non se ne sarebbe andata senza fare un po’ di baccano). 

“Qualcuno ha preparato tutto il necessario per un’estrema unzione… vuol dire che qualcuno sta per morire” spiegò velocemente l’angelo. 
ESATTO, aggiunse la figura avvolta dal sudario nero, PER ORA SONO QUI AD ASPETTARE. È IL MIO LAVORO. 
IO RACCOLGO ANIME. UNA PER UNA, SENZA NESSUNA ECCEZIONE. 
“Dunque fatti da parte. Ho fretta e non ho tempo da perdere per parlare con te.” 

Morte si spostò di lato e Anathema seguì l’angelo pronto a aprire la porta. Si fermò. 
“Quando entrerò nella chiesa, LEI mi vedrà.” Sussurrò così piano quelle parole che Anathema non era sicura se fossero dirette a lei o fosse solo un pensiero detto ad alta voce. 
LEI VEDE SEMPRE TUTTO. Commentò Morte con nonchalance. 
“LEI vede sempre tutto.” Ripetè l’angelo tra sé e sé mentre le sue mani tremavano contro il legno scuro. 

La verità era che da quando avevano fermato l’apocalisse, Aziraphale aveva evitato in ogni modo qualsiasi chiesa. Questo perché quei luoghi sacri erano come un faro nella notte. LEI vedeva sempre tutto e tutti, passato, presente e futuro. Tutte le possibilità dell’universo. Ma Aziraphale aveva paura che, una volta sotto l’occhio attento di Dio, nella sua casa, lui sarebbe stato giudicato per aver mentito, aver stracciato il copione del Grande Piano e per aver amato l’avversario. 
Sapeva che il giudizio sarebbe arrivato prima o poi come sapeva di non provare il minimo rimorso. 
L’unica cosa che gli diede la forza di spingere le porte della chiesa fu l’istinto primordiale di proteggere e custodire ciò che più amava: Crowley. 

Lo spettacolo che li aspettava era orrido. Il pavimento era come coperto da un orribile tappeto di sangue e piume nere. I banchetti della chiesa distrutti, colonne spezzate e tutte le statue piangevano sangue. Anathema si portò una mano alla bocca, disgustata. Aziraphale tremò perché la forza del dolore che permeava quel luogo lo colpì come una stilettata, d’istinto fece un passo indietro e si mise davanti alla ragazza, come a volerla proteggere da qualcosa che lei probabilmente non poteva avvertire. 
“Mio D —” sussurrò lei ma si fermò a metà esclamazione quando si ricordò quello che aveva appena detto l’angelo. Meglio non indisporre la grande signora dei piani alti. 

“A — Aziraphale… questo è proprio quello che ho visto nel mio sogno…” mugolò lei, spaventata. 
“Crowley…” sussurrò disperato l’angelo vedendo che, nonostante il disastro, non c’era traccia del demone. Ma allo stesso tempo una scintilla di speranza si accese nel suo cuore. Si portò una mano tremante al viso e pensò: Se è uscito da qui, forse è ancora vivo.  

Poi, improvvisamente, un raggio di sole colpì nel giusto angolo il piccolo rosone sul muro frontale della chiesa e diverse cose accaddero: Anathema guardò verso l’altare illuminato e la fuliggine e la polvere che dondolava nell’aria sembrarono improvvisamente tante pagliuzze dorate. L’interno della chiesa che un istante prima era sembrato il set di un film horror tornò a essere un luogo pulito, luminoso, i banchetti di nuovo al loro posto, le statue pulite, l’altare di nuovo candido. 

Anathema ebbe, vagamente, la sensazione di una voce dolce e rassicurante che sussurrava Non Temere.  
Alla ragazza vennero di nuovo in mente quei dolci momenti quando era bambina mentre la madre le pettinava i capelli o quando le rimboccava le coperte, quando le diceva che tutto sarebbe andato bene, quando le faceva il solletico e ridevano insieme di gusto o quando le cantava una dolce ninna nanna. Lei riuscì vagamente a pensare che quello fosse uno strano momento per ricordare qualcosa di così dolce e nostalgico, eppure quei pensieri erano così rassicuranti che rimase per un momento con gli occhi chiusi a gustarsi quelle immagini delicate. 
Aziraphale girò leggermente la testa verso di lei e quando la vide, con gli occhi chiusi e calde lacrime di gioia che scivolavano lungo le guance, le mise una mano intorno al braccio e la fece sedere sul banchetto più vicino, assicurandosi che stesse bene. 

Poi un’altra sensazione; nessuna voce aveva ancora parlato ma lei immaginò che una voce autorevole e calda dire: Aziraphale, Principato, angelo del cancello orientale, avvicinati. 
Lo immaginò solo perchè, l’angelo in questione, si era raddrizzato come uno spillo e si incamminò lentamente verso l’altare con la spada stretta in mano e un’espressione decisa in viso. Si fermò alla fine dell’ultimo gradino, inginocchiandosi davanti all’altare dopo aver baciato il lenzuolo bianco e rimase lì, immobile. 

Dominae” sussurrò Aziraphale con reverenza. 

Anathema lo guardò e per un momento l’angelo non era più il soffice proprietario di una libreria polverosa ma sembrò l’antico cavaliere di un libro medievale: poteva immaginarlo indossare un’armatura dorata con una spada stretta in pugno, l’espressione decisa di chi non permetterà mai che alcuna ingiustizia rimanga impunita davanti ai suoi occhi. L’angelo davanti a lei sembrava la più divina delle creature, in ginocchio con la testa poggiata delicatamente contro il bordo dell’altare, i capelli come fili d’oro che brillavano alla luce, gli occhi chiusi e le ali spiegate all’indietro. 

“Madre, sono il tuo umile e devotissimo servo. Ti prego, prestami orecchio.” Fece una piccola pausa e poi tornò a parlare “So che ti ho deluso oltre ogni misura e so che tu vedi ogni cosa del mondo e dell’universo e sono qui per ricevere il tuo giudizio.” Sussurrò e Anathema si sentì come un’intrusa a ascoltare mentre l’angelo si confessava. 
“Ma prima, Madre, Tu che mi hai affidato la spada fiammeggiante per difendere e proteggere, Tu che mi hai insegnato che bisogna amare il prossimo come noi stessi, che mi hai insegnato che non c’è peccato più grande che credere che neanche la più malvagia delle creature non meriti il tuo amore e perdono… permettimi di proteggere e difendere uno dei miei fratelli caduti.” 
“Lasciami cadere, se è questo che vuoi.” Sussurrò senza nascondere la sua tristezza, “Perchè io amo l’avversario, lo venero più di te.” Le parole risuonavano fra le colonne doriche e fra le navate, fra i granelli di polvere che dondolavano nell’aria e fra i testi sacri, “Il tuo giudizio è ineffabile e indiscutibile, mi inchino al tuo volere. Ti chiedo solo un’unica grazia, fa’ che questo sia un dono d’addio: lasciami vedere cosa tormenta il mio più caro amico.” 

“Lasciami salvare uno dei tuoi figli caduti, il demone che ha pianto per i bambini dell’arca e che ha donato agli uomini consapevolezza e conoscenza, il demone che protegge e salva e che mai una volta ha mosso la sua mano per portare morte e distruzione.” 
La luce si fece allora più intensa, ed entrambi furono investiti da immagini che, essere onesta, Anathema non riuscì a capire: c’era un giardino, un cimitero e due donne che parlano entrambe vestite di nero. Una di loro ha le labbra dipinte di rosso e Anathema ha la vaga sensazione che sia qualcosa di assolutamente indecente, la donna irradia frivola malizia ma sembra essere solo una maschera che nasconde dolcezza e amore. L’altra donna è giovane e bella ma il viso è stanco e malato. Poi vede la chiesa bianca e la sensazione che prova è di assoluta tristezza. Non sono davvero immagini, realizza la ragazza, sono tutte sensazioni. 

Sensazioni come quelle che provi quando guardi un film horror, quando il protagonista sta per aprire una porta e tu sei lì che vorresti urlare: Non farlo! 
Poi vede rosso, bianco, una mano su un’altra mano. Prova paura e una grande soddisfazione di una bugia detta per le ragioni più sbagliate, la convinzione di aver fatto un ottimo lavoro che non ti porterà altro che guai. 
Uno sparo, una risata, e sangue, sangue, sangue. 

“Oh!” Sussurrò una voce lontana. 

“OH!” Esclamò ancora più forte e Anathema sussultò riprendendosi dalla sua visione. Si sentiva vagamente confusa e debole ma la luce era ancora così intensa e una strana calma lavò via tutte le sue paure. Si chiese, vagamente, se ogni angelo del paradiso si sentisse sempre in quel modo… ma forse, pensò lei, forse quella era una miracolosa eccezione perché, se ogni angelo si sentisse ogni giorno in quel modo, non avrebbe mai sentito la necessità di iniziare una guerra. 
“Adesso capisco!” 

“Grazie, Oh grazie Madre.” Sussurrò delicatamente l’angelo mentre baciava l’anello d’oro che portava al dito con grande devozione — la stessa che useresti per baciare i piedi di un santo — si rimise in piedi e si inchinò leggermente: 
“Grazie per non averci abbandonato.” 

Aziraphale si voltò e iniziò a camminare velocemente di nuovo verso Anathema e la porta, mise via la spada. Non gli sarebbe servita. Aveva un’espressione decisa di chi sapeva cosa doveva fare, non sarebbe stato facile, ma non si sarebbe fermato finché non avesse portato a termine la sua missione. Intanto, la luce si affievoliva gradualmente e una voce gentile sussurrò alle loro orecchie: L’amore non è mai peccato. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Vi prego, non odiatemi.
la verità è che ci sono due versioni di questo capitolo: nella prima versione Aziraphale era veramente morto.
Però voi non potete immaginare il terrore che ho provato quando mio fratello e la mia ragazza hanno letto il capitolo precedente visto che sono entrambi grandi fan di Good Omens: si sono coalizzati contro di me e mi hanno fatto passare una settimana terribile fatta di minacce, occhiatacce, silenzi, nessuno dei due ha cucinato (e non potete capire quanto sono scarso in cucina, una volta mi sono tagliato cercando di aprire una scatoletta di tonno, davvero una roba imbarazzante) e non mi hanno neanche lasciato il caffe nella macchinetta al mattino. Selvaggi.
In più sono un romanticone ma io questo non l’ho mai detto.

 E quindi perché no, godetevi questo bel momento perché siamo a tre capitoli dalla fine e io ho ancora tantissime possibilità di far soffrire la nostra coppia preferita. 

*Per chi non si squacchera ogni volta che legge in una storia anche solo una parola in latino: Dominae vuol dire Signora. Visto che per tantissimo tempo le messe si sono sempre svolte in latino e che il latino per Dio/Signore è Domine ho usato la declinazione al femminile (visto che Dio è donna il che è puro oro per me) immaginando che gli angeli parlino in Latino. (Si, lo so che tecnicamente parlano in Enochiano ma chi ha il tempo di fare delle ricerche decenti? Yolo, buttiamoci sul latino)

Adesso vi auguro una buona serata, sappiate che ogni commento come sempre è un piacere per gli occhi.
Adesso vado a cercare su google: Come dire con il linguaggio dei fiori “Scusami cara se ho ucciso il tuo personaggio preferito, come vedi l’ho miracolosamente resuscitato, ti prego almeno rispondi ai miei messaggi.”
Si accettano consigli su come riconquistare la propria dolce metà ahah

 

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Capitolo 9
*** La morta innamorata ***


PS: Se ancora non lo avete fatto, il mio consiglio sarebbe quello di prendervi qualche minuto per ascoltare il “Il trillo del Diavolo”, dato che in questo capitolo la musica è particolarmente importante. Se non potete o non ne avete voglia va bene lo stesso, la musica verrà descritta in ogni caso.

 

 

 

Sonata per Violino e continuo in G Minore, B, g5

“Il trillo del Diavolo”

Larghetto affettuoso—Andante—Allegro

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

Nell’esatto momento in cui Anathema e Aziraphale uscirono dalla chiesa, il suono di un violino invase il camposanto. 
L’angelo si era guardato intorno, cercando di capire da dove arrivasse la musica. Il tempo stringeva e poteva sentire il suo cuore battere all’impazzata. Per un momento provò il desiderio di fermarsi e pregare per un intervento divino ma sapeva che sarebbe stato del tutto inutile. Ormai aveva dichiarato chiaramente da che parte si sarebbe schierato: né con l’inferno né con il paradiso ma solo con Crowley. Era suo compito proteggere e difendere le sue idee e non avrebbe potuto chiedere aiuto, non sarebbe stato giusto. 
Sarebbe stato un ipocrita. 

Dietro di lui, Anathema barcollò visibilmente. 
“Aspetta Aziraphale!” Lo pregò lei. “Cosa è successo esattamente? Porca miseria, ho appena incontrato Dio? Ma soprattutto, che sta succedendo con Crowley? Cos’erano quelle immagini? Sta bene? Non capisco!” 
Aziraphale si fermò sul posto e la guardò dall’alto in basso, squadrandola con i suoi meravigliosi occhi blu. “Oh, cara, scusami… non ho pensato a quanto questa situazione possa essere sconcertante per te. Si, quella era Dio, spero che non sia stato troppo per te.” Disse con tono incerto. 
“Spero che non —” balbettò lei, incredula “Aziraphalequella era Dio con la D maiuscola, la sola e unica, ovvio che sono sconvolta!” Disse la ragazza come se l’angelo avesse appena detto qualcosa di incredibilmente idiota. 

“Mi dispiace, hai ragione.” Rispose velocemente lui. “Ti prometto che ti spiegherò ma devo prima pensare a Crowley.” 
Poi aggiunse: “Ma tu sei visibilmente scossa, cara. Rimani qui a riposare, io devo andare da lui.” 
“Neanche per sogno.” Disse Anathema con tono deciso “Voi due mi avete trascinato in questo casino e che diamine, voglio aiutarvi!” Continuò sicura. “Quando tutto questo sarà finito mi dovrai spiegare tutto. Soprattutto mi dovrai spiegare perché parli di Dio al femminile perché, diamine, questo sì che è uno schiaffo in faccia al patriarcato!” Disse con una risata nervosa prendendo per il braccio Aziraphale e tirandolo verso il giardino, mentre lui cercava di processare il più velocemente possibile il cambio d’umore della ragazza. 

 

“Cos’è questa musica?” Domandò dopo un po’ Anathema. 
“Crowley.” 
La ragazza rimase per un momento in silenzio continuando a camminare velocemente. La musica era qualcosa di ultraterreno: triste e malinconica, era come se parlasse di un’anima ferita, di notti insonni. Era un valzer delicato tra due amanti che non si sarebbero mai più incontrati. Una giornata di pioggia, una lacrima che scivolava lentamente dal viso di una giovane donna. Ma era anche qualcosa di più: come un profumo che si scopre lentamente, un fiore che appassisce, un innamorato che si addormenta per non svegliarsi mai più, doloroso e delicato, la musica scivolava leggera fra le tombe e le statue del cimitero. 

“È bellissima.” Disse Anathema, commossa. 

Corsero a perdifiato finché Aziraphale non si fermò in un grande spazio aperto. Mosse la testa lentamente, osservando il mare di lapidi finché la musica non cambiò di punto in bianco e l’angelo indicò un punto lontano e riprese a correre. 
Adesso la musica si era trasformata in qualcosa di più sviscerale e disperato, come la lama mossa da un pazzo, veloce e febbrile, sembrava essere suonata da un posseduto. Non si fermò mai, neanche quando i due raggiunsero una tomba scavata di fresco. 
Un buco profondo tre metri con Crowley al suo interno. 

Il demone aveva nascosto le sue ali e Anathema pensò che fosse una fortuna perché già così era una visione orribile ai loro occhi. Era ricoperto di sangue e il suo viso era gonfio di lacrime, gli occhi sgranati e lo sguardo sfocato come quello di un cieco. Aveva tra le mani un violino che muoveva con agilità e destrezza, come se per lui suonare fosse semplice come respirare, a ogni movimento l’archetto lacerava la pelle della mano, del braccio, non sembrava cosciente del dolore che stava probabilmente provando in quel momento. Il corpo tremava, la pelle era bruciata e non respirava ma, nonostante questo, sembrava intenzionato a continuare la sua Sonata. 

 

“Crowley, Crowley basta!” Esclamò Aziraphale immediatamente in ginocchio davanti alla tomba. La ragazza notò con orrore che sulla lapide c’era scritto il nome del suo amico e si inginocchiò anche lei accanto all’angelo cercando di raggiungere il demone con le braccia, imploravano entrambi: “Crowley, ti prego, fermati!” 
Il demone non sembrò sentirli. 

“Lo so cos’è successo.” Disse Aziraphale alzando un momento gli occhi verso il cielo, guardando le nuvole e tornando a focalizzare tutta la sua attenzione sul demone sotto di lui. “So che sei sconvolto ma non è colpa tua. Non è mai stata colpa tua. Tu l’hai protetta, capisci?” 
Io li ho uccisi. Tutti e due dannati. Disse quella che avrebbe potuto essere la voce di Crowley se non fosse che il demone non aveva né aperto bocca né sembrava averli notati. 

“No, non li hai dannati, Crowley!” Insistette Aziraphale, guardando con terrore la ciotola d’acqua santa poggiata sul bordo più estremo della tomba, davanti alla lapide, proprio sulla testa del demone. 
L’angelo fece un profondo sospiro, cercò di parlare con chiarezza perché quella era l’unica cosa che potesse fare per salvarlo. 
“Torniamo nella libreria, andiamocene da qui, parliamone davanti ad una bella tazza di tè, caro.” Provò lui a dire. 
Crowley lo ignorò. 

“Crowley ascoltami: tu hai sempre dato una scelta a ogni singola persona che tu abbia mai tentato. Hai sempre detto, fin dall’inizio, che tentare una persona vuol dire dargli una scelta. Hai tentato Eva nel mangiare la mela ma le hai anche dato una possibilità di decidere… mangiare la mela ed essere punita o rimanere nell’Eden per sempre senza conoscere la differenza fra bene e male.” Disse con tono sicuro, senza davvero sapere se Crowley lo stesse ascoltando. 
“Anche io ho tentato degli umani. L’Accordo, ricordi? Quando toccava a me benedire e tentare nella stessa città, davo sempre una possibilità all’altra persona.” 


Lei dice: Io non ho mai avuto una possibilità. 
Crowley ripete: Lei non ha mai avuto una possibilità. 


“Si, è vero, è vero.” Rispose frettolosamente l’altro. “Ma non è tutto, giusto? Tu sai cosa è successo.”
 
“Lo so che è doloroso, mio caro ragazzo. 
“Ma ti prego, ricorda.” 
“Non puoi abbandonarmi, non puoi lasciarmi, Crowley!” 


Lei dice: 
Distruggi tutto quello che c’è di bello in questo mondo. Lo hai ucciso una volta, lo farai di nuovo. 
Crowley ripete: Distruggo tutto quello che c’è di bello in questo mondo. Ti ho ucciso una volta, lo farò di nuovo. 


“Questa è una stupidaggine. Non hai mai fatto altro che cercare di salvarmi e proteggermi, non mi hai mai ucciso 
perché sono qui davanti a te.” Poi fece un sospiro profondo, stringendo i pugni nella terra umida. L’aria era elettrica, la promessa di una tempesta che incombeva su di loro. “Era solo un incubo, Crowley. Un’allucinazione, un sogno. Non era reale.” 


Lei dice: 
È un fantasma, proprio come me. 
Crowley ripete: Sei un fantasma, proprio come lei. 


“No, Crowley.” Sospirò 
Aziraphale “Tu lo sai che non è vero, tu lo sai che i fantasmi non esistono, sono tutta una superstizione degli umani, non esistono.” Ripeté ossessivamente lui, cercando di mascherare il panico al pensiero che presto avrebbe iniziato a piovere e ogni goccia d’acqua al contatto con il terreno del cimitero si sarebbe trasformato in acqua santa per purificare le vecchie tombe. 
“Se mi hai mai amato, Crowley, devi ricordare.” 

Il corpo di Crowley si muoveva senza che lui avesse bisogno di controllarlo: quella era la sua Sonata, poteva benissimo suonarsi da sola. Le braccia continuavano a muoversi, precise e sicure, come se non si fossero accorte che il resto del corpo stava tremando. 

Chiuse gli occhi; 
Cercò di ricordare. 
Questo perché, come sempre, non c’era nulla che potesse negare all’angelo. 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 1770 
(Cos'hanno in comune tempo e morale? La risposta è la relatività: sono relativi alla nostra esperienza. 
Il tempo gioioso muore sempre troppo in fretta, quello triste e doloroso troppo lentamente.  
Una bugia è deprecabile per alcuni, per altri è sinonimo di salvezza). 

 

 Era una bella giornata. 
Questo non significa che non sarebbe successo qualcosa di terribile da lì a poco. 
Crowley aveva iniziato a odiare quello schema che aveva iniziato a crearsi: tutto succedeva nelle giornate più belle, in quelle tranquille giornate assolate, quelle sere dove puoi vedere le stelle e dove non c’è una nuvola in cielo. 
Come quando gli angeli cadono o quando qualcuno viene scacciato da un giardino, quando un bambino viene consegnato dentro una cesta, quando arriva l’Apocali 


(Una voce dice: No. 
Dice: Più in fondo. 
Dice: Vai più in fondo)


Era una bella giornata. 
Ma triste. 
Ed era al confine di un giardino. 
Perché?” chiese con veemenza. 
Perché ti è stato ordinato.” Rispose brusco l’altro. 
“No, spiegami.” Disse lei in modo astioso. “Tu vuoi che entri in una fottuta chiesa?” 
“A meno che tu non riesca a tentare una persona a distanza si, voglio che tu entri in una fottuta chiesa.” 
“Ma dai, i demoni non possono entrare nelle chiese.” Si allontanò leggermente dall’uomo cercando di fargli cambiare idea e fallendo miseramente. “A che pro, poi? Il compositore è morto, che c’entra la moglie?” 
“È lei che gli ha detto che suona meglio del Diavolo.” 
“State facendo tanto rumore per nulla,” si lamentò “è un modo di dire abbastanza comune qui.” 

“Conosci le loro usanze meglio di noi.” Disse lui, c’era una nota di scherno in quelle parole ma che Crowley ignorò. Era un demone dopotutto, non poteva certo aspettarsi che fosse gentile. 
Hastur la guardò dall’alto in basso: “Sei vestito come un coglione.” 
No, hey, questo no. Era vestito in modo splendido. 

“Sono vestito come una donna che sta per andare a un funerale.” Rispose alzando gli occhi al cielo e ringraziando qualcuno per gli occhiali scuri “Da queste parti le donne si mettono da una parte, gli uomini arrivano dopo e non possono parlare alla vedova.” 
Era questo che non capiva Hastur. Il povero idiota non poteva sapere quanto fosse più facile assicurarsi anime all’inferno se gli umani avessero iniziato a tentarsi a vicenda e per farlo aveva bisogno di mischiarsi tra di loro, farseli amici, studiarli. Che colpa aveva se alla fine era rimasto affascinato da tutte quelle tradizioni, usanze, la musica e le invenzioni? 

Hastur aveva una mentalità da quattordicesimo secolo, dopotutto, sarebbe stato inutile spiegargli che non avrebbe potuto presentarsi in una chiesa piena di aristocratici vestito come lui, con una tunica passata di moda da almeno quattro secoli e ricoperto di sporcizia dalla testa ai piedi. Crowley non sopportava i tipi come lui. Si era detto tante volte: meglio tenersi gli amici vicini e i nemici ancora più vicino.  

(Una delle migliori scuse per andare a cena fuori con Aziraphale, pensò con un ghigno). 

Hastur la tirò per il braccio, “Noi Siamo quelli che tramano nell’ombra, che si aggirano nel buio per depredare senza cuore.” Disse con un sorriso malevolo “Siamo gli angeli caduti.” 
“Quanto sei drammatico.” Commentò la donna dai capelli rossi. “Non c’è nessun bisogno di ripetere a pappardella le parole di Lui.” 

Hastur lo guardò con astio e aggiunse: “Non mi fido di te, Crawly.” 
Crowley fece sibilare la lingua tra i denti, infastidito: “, lo so. Cos’è che devo fare?” 
Hastur dice: “La moglie sembrava proprio disperata quanto quel tipo è morto… quelli di sotto vogliono vedere del sangue. Fai in modo che si uccida.” 

Crowley deglutì, il cuore iniziò a battergli nel petto ma lei era un demone e da tempo aveva imparato che era meglio non mostrare alcuna simpatia per gli umani, le conseguenze sarebbero state disastrose. 

“Suicidio? Ma c’è così tanta gente che si ammazza di questi tempi. Non sarebbe più divertente se avesse una relazione clandestina con, non so, il prete? Quello sì che sarebbe uno spettacolo.” 
Beelzebub ha ordinato così, ha detto che sarebbe divertente vedere la ragazzetta dare di matto nella casa di LEI e compiere uno dei peccati peggiori che si possano compiersi.” 
“Ah, vedo che Beelzebub ha avuto un’altra pessima giornata.” Brontolò lei, scura in volto. “Però sai… questo non è proprio… il mio stile.” Balbettò. 
“Io del tuo stile me ne frego.” Hastur stava iniziando a perdere la pazienza. “Ti avverto, se non lo farai ci saranno delle conseguenze.” 

“No, certo, lo so.” Mormorò “il mio era un suggerimento. Sai che sono sempre pronto per qualche azione malvagia, non sono molto convinto di questa cosa della chiesa ma ovviamente adoro questo genere di cose… ehm… sempre pronto a mettere zizzania e cose così.” 
“Sei il serpente che ha dannato l’umanità, Crawly. Non dimenticarlo mai.” 

 Crowley chiuse per un momento gli occhi, non era qualcosa che si dimentica facilmente. 
Ripensò all’ultima volta in cui si era ritrovato a pensare che tutta la sofferenza umana non fosse altro che colpa sua. Era successo da qualche parte in Spagna, quando si era incuriosito e si era avventurato in una prigione per scoprire perché avesse guadagnato un encomio per quella che gli umani chiamavano “l’Inquisizione”. 

Donne e uomini incatenati e torturati che gridavano e piangevano, il sangue fresco che zampillava come cascate dai loro corpi e voci che urlavano preghiere a un Dio che non li avrebbe ascoltati e lui si era ritrovato a pensare “Ah, questo è peggio dell’inferno, sono stato io a—” 


(C’era il suono di un violino, molto distante da lui, un suono vibrante che catturava la sua attenzione, prometteva terrore e disperazione.
 
Una voce dice: No, no, mio caro. Non pensare a questo. 
Dice: vai più infondo. 
Dice: stavi andando così bene, mio caro ragazzo)


 Era sul limitare del giardino.
 
Ma quello non era un vero giardino, era un cimitero. Crowley non era riuscita a trovare abbastanza coraggio per addentrarvici, non sapeva ancora se sarebbe morta bruciata non appena avesse appoggiato un piede sul terreno sacro. Si guardò intorno e vide una giovane donna camminare con il viso coperto da un velo nero e pensò, con un leggero risolino isterico, forse non dovrò bruciare dopotutto, forse avrò un po’ di fortuna.  

Un piccolo miracolo convinse la ragazza ad avvicinarsi a lui. 
“Buongiorno.” Disse la donna, la voce triste e sottile. 
“Oh, tu sei la moglie del compositore?” 
“Elisabetta.” Fu la sua unica risposta, annuendo leggermente. 

 “Lui è morto tre giorni fa.” Disse la ragazza dopo un momento di silenzio. 
Sembrava triste, disperata. 
Crowley la guardò: era bella, non quella bellezza lussuriosa che era la versione femminile del demone, una bellezza giovanile ed eterea. Aveva capelli di un biondo cenere, occhi azzurro mare. Crowley pensò in un momento di panico che fosse così bella e splendente che poteva quasi essere scambiata per un angelo. 
Come il suo angelo.  

Si prese un momento, dicendosi che ancora non era arrivato il momento per la sua tentazione, che doveva conoscerla meglio per capire come aggiudicarsi la sua anima.  

(Il serpente dentro di lui si mosse e sibilò, sussurrando viscidamente che quella non era altro che una scusa per guadagnare tempo). 

“Mi dispiace, cara.” Disse dolcemente, cercando di imitare il modo che aveva Aziraphale di consolare gli umani. “Cosa è successo?” 
“Non lo so, non lo so.” Mormorò lei. Poi si guardò in torno, come per controllare che nessuno potesse sentirla “Credo che sia stato un diavolo.” Sussurrò piano. 
“Un diavolo?” 

“Il mio Giuseppe era stato un uomo violento da giovane. Non con me, mai con me. Ma era sempre nervoso e cercava in tutti i modi di trovare fama e successo.” Spiegò lei “Non abbiamo mai avuto una vita facile. Ci siamo sposati di nascosto perché mio zio, il cardinale, non avrebbe accettato il matrimonio. Quando lo scoprì, lui dovette scappare.” Raccontò lei. 
“Quando riuscimmo a ritrovarci, quando fu tutto detto e tutto perdonato tornammo in questa città e trovammo il modo per vivere una vita tranquilla.” 
“Poi lui un giorno si è svegliato, ha preso in mano il violino e ha iniziato a suonare.” Sussurrò come se quella fosse la più grande tragedia dell’umanità, “E da quel giorno non ha più smesso. Non mangiava, non dormiva, non mi guardava. Non faceva altro che dire che sarebbe bruciato tra le fiamme dell’Inferno se non avesse suonato quella sonata meglio del diavolo del suo sogno.” 

Crowley deglutì. 
Non perché si sentisse in colpa, era stata un’idea del compositore, ma vedere questa giovane donna fredda e disperata, immaginarla pregare il marito di rilassarsi, di lasciare andare il violino, di trovare un momento per baciarla e abbracciarla era strano. Non avrebbe mai immaginato che le conseguenze di quella piccola tentazione lo avrebbero portato a questo. 

“Lo odio.” Disse lei. 
“Lo odio così tanto, spero che stia bruciando in questo momento.” 
“Il demone?” Chiese Crowley. 
Lei annuì. 

“Lo odio così tanto. Vorrei fargli provare lo stesso terrore che ha provato lui, vorrei che capisse cosa si prova a soffrire così tanto. Vorrei che provasse il mio stesso dolore per aver perso la persona che si ama di più al mondo. Più di Dio, più di ogni altra cosa che possa esistere su questa terra.” 
Crowley per un momento pensò che quello doveva essere il momento giusto, che sicuramente lei doveva essere una donna terribile, una peccatrice. Forse era giusto che morisse. Però poi, la ragazza, non sapeva dire perché, si avvicinò e l’abbracciò. 
“Cosa—” 

“Ah, mi dispiace, mi dispiace.” Sussurrò lei soffocando le parole, le lacrime erano talmente tante che attraversarono il velo scuro e le sporcarono il vestito. Crowley non ebbe il coraggio di lamentarsene. “Sei la prima persona che mi ha ascoltato, tutti mi dicono che non dovrei piangere, che lui è in paradiso ma loro non sanno niente, non sanno quello che diceva nel sonno, che sarebbe andato all’inferno... ma lui era così buono —” 

Crowley avvolse un braccio intorno a lei, la strinse a sé. Poteva vedere nella sua anima e quelle di prima non erano altro che parole vuote, figlie del lutto e della disperazione. Poteva vedere i suoi desideri e le sue aspirazioni, il sogno di una famiglia felice, bambini che corrono per un prato, il desiderio di essere madre. La sua anima raccontava di una ragazza gentile, che raccoglieva fiori in un campo e che li intrecciava per creare una bella composizione da regalare al marito. Parlava di una donna che aveva abbracciato ogni notte il suo innamorato, che sussurrava di non aver paura, che sarebbe andato tutto bene. Soprattutto, parlava di un amore nato nelle avversità, sbocciato dove c’erano stati solo contrasti, orrori. 
Proprio come — 

Si arrese. 
Le prese una mano, la accarezzò delicatamente. 
“Vai nella chiesa e restaci.” ordinò. “Vai nella chiesa e non uscire di lì, non ascoltare quello che ti dicono le voci.” La supplicò baciandole la mano. 

Era così giovane, così luminosa e bella. 
, aveva cinquant’anni, forse per l’epoca era tutto fuorché giovane, ma cosa sono cinquanta anni per un demone che ha vissuto per quasi sei millenni? Nulla, un battito di ciglia. E lui sapeva, lo sapeva, che per gli umani erano tanti ma per lui non erano altro che bambini. 

La sua anima era così giovane e fresca, così innocente. Mai un peccato, mai una parola d’odio, non era mai stata tentata dalla lussuria o dalla pigrizia, non era né orgogliosa né invidiosa. 
Non era giusto che finisse all’inferno. 

Così la lasciò andare e la ragazza corse verso la chiesa, senza neanche sapere perché fosse così importante entrare in quel luogo. Crowley aveva fatto in modo che pensasse che fosse per lei vitale essere lì, aveva bisogno di tempo per escogitare qualcosa, per trovare una buona scusa, un escamotage per cambiare la pena della donna. 

Poi una voce sussurrò al suo orecchio “Cosa stai facendo, serpente?” 
Hastur, dietro di lui, aveva sentito tutta la conversazione. 
“Ah, sai… è così arrabbiata, magari ucciderà qualcuno.” Disse cercando di non sembrare troppo spaventato. “Meglio un omicidio no? Molto peggio del suicido. Molto più drammatico.” 
“No.” Disse Hastur con un sorriso malefico. “Ti è stato dato un ordine. Non dimenticare, serpente, siamo demoni. Distruggiamo tutto quello che c’è di bello in questo mondo.” 

 Quando Crowley, di nuovo nei suoi abiti maschili che limitavano molto meno i suoi movimenti e più importante, avevano suole più spesse per resistere al terreno sacro, entrò nella chiesa cercando di non far caso al dolore che gli provocava camminare. Si sentiva svuotato ed esausto.  

Lui aveva bisogno di pensare, pensare, pensare. 
Intanto la donna piangeva, piangeva disperata. 

Era come se bastasse la sua aura per tentarla nel prendere una pistola e farla la finita. Il dolore arrivava in ondate, era come essere colpito da lame affilate e lui non faceva che pensare: 
Aziraphale è morto. Io l’ho ucciso, io. In questa chiesa. Il suo corpo disteso in un mare di sangue e — 


(E una voce dice: No, no mio caro. 
Dice: non hai fatto altro che proteggermi per tutto questo tempo.  
Dice: continua ad andare avanti, ci sei quasi, ci sei quasi). 


“Dio, almeno per questa volta, dammi un segno. Dimmi cosa fare, dovrei lasciare che si uccida? Dovrei salvarla?” 
Fu in quel momento che capì: avvertì l’insopportabile silenzio della chiesa, il vuoto, la certezza di essere in un posto dove Dio lo stava osservando, silenziosa e fredda come sempre, e che, come al solito, non aveva fatto altro che voltargli le spalle. Ed era normale, davvero, Crowley era un demone e non è che si fosse aspettato chissà cosa ma aveva almeno sperato che proteggesse uno delle sue figlie. 
“Sono come dei bambini questi umani. Non fanno altro che distruggersi tra di loro. Ma adesso lei è qui, in casa tua, tu dovresti proteggerla. Qual è il punto di avere un posto che chiami casa se non proteggi i tuoi figli?” 

Silenzio.

“Ti odio, ti odio così tantoNon è giusto, dovresti proteggerli.” 

Silenzio.

Pensò: Tutto questo è troppo per aver mangiato una mela o per aver fatto qualche domanda.  

 

Non sapeva da dove fosse arrivata la pistola. Se fosse stato per un momento più lucido, se fosse riuscito a muoversi, congelato dal dolore e dall’insopportabile silenzio di Dio, se non fosse stato ancora soffocato dal lutto di aver perso una madre che fosse non lo aveva mai amato, avrebbe ragionato e avrebbe capito che la pistola l’aveva sempre avuta la ragazza. 
Che, infondo, tutti i mali del mondo, le guerre e i lutti, non erano tanto colpa dell’inferno o del paradiso ma da tutti quegli umani che fanno scelte sbagliate. 

 Ma forse poteva risolvere la situazione: forse poteva convincere la donna ad ucciderlo, lei non sarebbe finita all’inferno perché di certo uccidere un angelo caduto non poteva essere un peccato. L’idea non era male, lui non sarebbe morto, avrebbe solo perso il corpo, e lei non sarebbe stata certamente condannata per aver ucciso un demone. I demoni erano diversi dagli umani, giusto? Era un po’ come fare servizio sociale, uccidere un demone di certo le avrebbe assicurato un posto tra i santi del paradiso. 

Lei piangeva e si disperava e lui si era avvicinato. La donna davanti all’altare era una figura terrificante, avviluppata nei veli neri e sciolta nel dolore di un amore perso per sempre. 

“Non posso vivere con questo dolore dentro di me.” Disse lei singhiozzando. “Ogni momento, ogni respiro è pura agonia.” 

“Sono io il demone che cerchi.” Disse lui “Spezzare la tua vita non avrebbe senso, vendicati piuttosto.”  

Lei lo guardò con gli occhi spalancati e lui si tolse gli occhiali da sole, rivelando i suoi occhi da serpente. Lei indietreggiò, le mani tremavano e la vide stringere più forte le mani intorno alla pistola. 

“E poi?” Sussurrò lei “dopo che ti avrò ucciso, starò meglio?” 
.” Mentì lui. 
“Il letto dove mi sdraio tutte le notti sembrerà meno vuoto e freddo? Sentirò di nuovo la musica di mio marito, qualcuno mi bacerà, mi abbraccerà e mi dirà di non aver paura e che mi ama immensamente?” 
“Sì, sì.” Disse lui avvicinandosi ancora di più a lei. 

“Non è vero.” Disse lei quando ormai le mani erano scivolate lungo i fianchi e le spalle si erano abbassate. Gli occhi erano rossi, il viso magro e malato, il velo madido di lacrime e sudore. “Niente sarà più come prima, io un giorno morirò, vecchia e sola, e rimpiangerò solo di non aver posto fine a questa lenta agonia.” 
Quindi strinse la mano intorno alla pistola e se la portò alla tempia. 

“NO!” Urlò Crowley e veloce come un serpente le strappò di mano la pistola. 
Lei si gettò in avanti, cercando di strappargliela di nuovo di mano e per un momento era come se stessero danzando, lei tirava e spingeva, lui cercava di districarsi da lei, troppo fuori di sé per pensare a cosa stesse facendo. 

Il tempo si fermò per un momento, come se entrambi si stessero muovendo in una vasca ricolma di miele e per un momento lui fu troppo cosciente del dolore che gli provocava camminare su quel terreno. Perse l’equilibrio e tutto quello che sentì fu il rumore assordante dello sparo di una pistola riecheggiare nella chiesa, silenziosa come una tomba. 

 

 La ragazza era caduta con un tonfo davanti all’altare, quasi come uno di quei sacrifici umani a cui aveva assistito tra i pagani prima della comparsa di Cristo, finché il corpo non scivolò silenzioso per terra, con un braccio e il viso rivolti verso di lui. 

Il sangue si infilava tra le fessure dei mattoni del pavimento, gli era schizzato in faccia, sul lenzuolo bianco che ricopriva il tavolo di pietra e lui era caduto in ginocchio, facendo cadere la pistola che era ancora stretta nella sua mano. Si portò le mani al volto ma le allontanò subito quando scoprì, disgustato, quanto erano madide del sangue della donna. 

“Si è uccisa.” Disse Crowley 

Aveva bisogno di convincere sé stesso per riuscire a mentire davanti agli occhi senza vita di Beelzebub. Aveva bisogno di essere sicuro, di sembrare sincero. 

C’era un piccolo specchio vicino al corpo della ragazza, probabilmente scivolatole dalla tasca della gonna durante la lotta, lo prese e si guardò negli occhi e iniziò a ripetere ossessivamente: 
Si è uccisa. Si è uccisa. Si è uccisa. 

Si guardò mentre ripeteva quelle parole come un mantra, finché i suoi occhi non iniziarono a sembrare sinceri. Tutta la storia, per filo e per segno, raccontò a sé stesso la più bella e tragica storia d’amore. Una storia di terrore e paura, raccontò di un fantasma tanto terribile nella sua umanità perché aveva bisogno di qualcosa di più potente della semplice immaginazione. 

La paura, la paura ti fa tremare nel sonno, ti fa credere che le ombre prodotte da una lampada siano mostri pronti a distruggerti. La paura è potente, è il prodotto dell’immaginazione, è un meccanismo di difesa. Ti fa correre più veloce, ti fa sopravvivere. Crowley conosceva bene la paura, ci aveva convissuto per sei millenni.
La paura, in quel momento, sarebbe diventata la sua migliore amica. 

Quindi immaginò qualcosa di terrificante:
Una donna, lacrime, uno sparo. 

Ancora.
Una donna, lacrime, uno sparo. 

Ancora.
Una donna, lacrime, uno sparo, lacrime, sangue. 

Ancora.
“Ti maledico perché io lo amavo.”
Lacrime, uno sparo, sangue. 

Ancora.
Sangue, sangue, sangue. 

Ancora. 

Quando apparve Morte dietro di lui, non si mosse. Non sobbalzò. Rimase lì fermo, in ginocchio davanti alla donna. Ne studiò gli occhi, come il viso rimaneva nascosto eppure visibile sotto il velo, gli occhi vitrei e ciechi. Terrificante ma allo stesso tempo bellissima.  

Quando Morte si avvicinò lui disse “Si è uccisa.” 

OH, È QUESTO CHE È SUCCESSO? 
.” 
MENTIRE NON PORTERÀ A NULLA DI BUONO. NON MI IMPORTA COSA DICI, NON MI INTERESSA. IO PRENDO LE ANIME E LE CONDUCO ATTRAVERSO UNA PORTA. NON DECIDO IO DOVE VANNO E NON SO COSA TROVERANNO DALL’ALTRA PARTE. 

“Questo è qualcosa che mi tormenterà fino alla fine dei miei giorni, eh?” Domandò Crowley con un ghigno che celava una vena di panico. 
Morte non rispose. Di regola non dava mai false speranze. 

Quando Crowley strisciò via dalla chiesa e dal giardino era ormai sera. Non c’era nessun angelo ad aspettarlo su un muro alto e bianco ma un demone ricoperto di sporcizia, che lo guardava con odio e disprezzo. 
?” 
“Si è uccisa.” sussurrò piano. 
ripetè quelle parole a Dagon. 
Ligur. 
Beelzebub. 
E gli credettero perché Crowley ci credeva e quindi era quello che era successo. 

Cos’era un’anima in meno che mancava all’appello? 
Niente. 
Nessuno se ne accorse e dimenticarono presto l’accaduto.
Tutti tranne Crowley. 

 

 

 

 

Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, Padova, Italia, 509 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

Crowley tremava, le note iniziarono ad essere sempre più distorte, finché non lasciò andare il violino e l’archetto che finirono per terra con un rumore stridulo delle corde. Lui cadde davanti allo strumento, portandosi le mani alla bocca. Nello stesso momento un angelo scalciò via la ciotola d’acqua santa e il liquido si riversò sul terreno, non una goccia toccò il corpo del demone tre metri più in basso. 

“L’ho uccisa io, L’ho uccisa io.” Ripeté Crowley stringendo le dita intorno ai capelli e tirando forte, come se fossero la sua unica ancora di salvataggio. 

Aziraphale saltò giù nel fango insieme a lui e lo prese tra le braccia: aveva fatto apparire un paio di guanti bianchi sulle sue mani così che la sua pelle non toccasse quella del demone, per non sfiorarlo con le mani nude ed evitare di benedire il povero diavolo. Crowley sembrava già sull’orlo dell’estinzione. 
“Mio caro, mio adorato, tu non volevi farlo ma in realtà l’hai salvata. Lei adesso è in paradiso, al sicuro, Dio stesso me lo ha detto.” 

Crowley iniziò a piangere, urlare, e Aziraphale era convinto che sarebbe soffocato se non lo avesse preso fra le braccia. Il cielo sopra di loro era sempre più nero e minaccioso e lui lo coprì con le sue ali bianche, per proteggerlo nel caso avesse iniziato a piovere. 
“Andiamo via da qui, mio caro.” Sussurrò abbracciandolo dolcemente. Crowley non sembrò rispondere, non perché fosse perso nei meandri della sua mente ma perché il suo corpo aveva ceduto a tutto quello che era successo in quella settimana e era svenuto con ancora le lacrime che scivolavano lungo il viso. 
Aziraphale lo prese tra le braccia e guardò Anathema che li osservava dall’alto. 
“Prendi la mia spalla, cara. Torniamo a casa.” 

E in un istante i tre erano spariti, la tomba era ritornata a essere quella di prima e sul giardino iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Avete presente quando vi togliete un peso e finalmente, finalmente potete rilevare il super plot-twist che vi stavate tenendo dentro da un mese? È liberatorio ragazzi, giuro ahah.

Ci sono state due reazioni a proposito di questo capitolo che mi hanno fatto particolarmente ridere:
La mia ragazza che ha detto: Leggere questo capitolo è stato come guardare per cinquant’anni Beautiful per poi scoprire che era tutto un sogno di Brooke Logan.
Mio fratello, che mi ama molto: Questa è la dimostrazione che sei stato adottato e il motivo per cui non hai amici.

Però io volevo tanto scrivere una storia così, mi prudevano proprio le mani ahah
Il prossimo capitolo è particolarmente difficile quindi forse (forse) ci metterò un po’ di più a scriverlo. Questo ovviamente non vuol dire che ci metterò anni (spero) però magari invece di una settimana ce ne vorranno due… o magari no, il nostro metodo di scrittura è ridico e inconcludente.

Ma soprattutto, vi ringrazio per tutti gli amorevoli commenti che ho ricevuto fino ad ora, adoro leggere le vostre opinioni e vedo che qualcuno aveva un po’ intuito la trama mentre altri si aspettavano una sorta di scena epica che… non c’è stata (scusate, nessuno dei due sa scrivere scene di lotta, ci sentiamo un po' sfigati)

PS: non aspettatevi un capitolo troppo allegro, ci sono ancora molte cose di cui parlare.

 

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Capitolo 10
*** Epilogo parte prima: un sonno quieto ***


In un mattino pieno di domande, in cui una strega e un angelo dividono una tazza di cioccolata caldo. 

 

 “Non sono sicura di aver capito cosa sia successo” disse Anathema stringendo tra le mani la tazza fumante che gli aveva porto Aziraphale. 
“È molto semplice ma allo stesso tempo molto complicato.” Disse l’angelo sedendosi accanto a lei. “Vedi mia cara, lui ha qualcosa che gli altri non hanno.” 
“Cosa?” 
“Immaginazione.” 
“Ma questo… ok, ha una grande immaginazione, questo lo posso capire. Quello che non capisco è come possa aver immaginato un fantasma che lo ha quasi ucciso.” Disse Anathema guardando l’angelo, preoccupata. 
“Oh, ma è proprio questo il punto. La sua immaginazione è il potere più grande che ha.” Spostò un po’ il peso e si sedette in modo più dritto contro il divano bianco, sorprendentemente morbido nonostante l’aspetto nuovo e inutilizzato. 
“Ti faccio un esempio: Crowley immagina di poter guidare con la sua Bentley attraverso un muro di fuoco e ci riesce, ignora il fatto che dovrebbe mettere della benzina nel serbatoio e la macchina continua a funzionare lo stesso. Pensa che le sue piante possano capirlo e temerlo e, senza neanche che lui se ne renda conto, è così.” 
Lei lo guardò sorpresa “Suona come… sembra Adam!” 
L’angelo sorrise. 

“Ma Crowley non è l’anticristo, non può cambiare il mondo. Il piccolo universo che abbiamo costruito intorno a noi in sei millenni, che conosciamo come le nostre tasche, sembra tuttavia adattarsi alle sue aspettative. Ma riguarda sempre solo lui, in un certo senso. Anche se pensava che fossi morto nella mia libreria e ci credeva, io non sono veramente morto.” 
“Oh. Forse adesso capisco” disse lei, “ma perché immaginare un fantasma che cerca di ucciderti? Non ha senso”. 
“Non saprei risponderti con sicurezza. Vedi, i fantasmi non esistono. Morte non lascia sfuggire nessuna delle anime, sarebbe uno sfacelo altrimenti… tremo al solo pensiero di quante pratiche ci sarebbero da sbrigare.” Ripose con un leggero brivido, come se potesse ancora immaginarsi a compilare scartoffie su scartoffie del tutto inutili. “Non sono i cimiteri, le case o gli specchi a essere infestati o maledetti. Sono le persone che si sentono tali. Forse si è sempre sentito responsabile ogni volta che succedeva qualcosa… per ogni nuova guerra, per ogni cosa terribile che facevano gli uomini, finiva sempre per darsi la colpa.” 
“Per la mela?” 
“Credo di .” Aziraphale rimase in silenzio per un po’. 

Anathema fu quella che ebbe la forza di spezzare il momento: “Bè, si sbaglia.” Disse con fermezza, “Lui ci ha solo offerto una scelta. Scegliere se rimanere nel giardino, nudi e stupidi, o se uscire e prendere le nostre decisioni. E comunque non capisco cosa ci sia di così sbagliato nel conoscere la differenza tra il bene e il male, perché lasciare un albero di mele che non si possono mangiare nel bel mezzo di un giardino? Insomma, perché non piazzarlo sulla cima di una montagna altissima o che ne so, sulla luna? È frustante, è come se Dio avesse da sempre voluto che noi —” 
Si fermò di colpo. 
Aziraphale la guardò e sorrise teneramente. Era un sorriso che diceva: Ecco che ci risiamo. 
“Ohhh” disse lei, stupita “Bè, che diamine, questo è un po’ come barare.” 
E nessuno dei due disse altro ma rimasero tranquilli a sorseggiare la loro tazza di cioccolata calda. 

 

 

 

 

Mayfair, Londra, Inghilterra, 511 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

 La prima volta che si svegliò, il suo corpo sembrava essere più pesante del piombo. Tutti i suoi sensi sembravano fuori uso, troppo esausto per sentire o vedere qualcosa oltre l’oscurità che si celava dietro le sue palpebre chiuse come pesanti tende nere. 
Come un computer che torna online dopo un riavvio forzato, ogni senso tornò in una manciata di secondi: poteva sentire di essere su qualcosa di soffice, il terribile odore del disinfettante, il gusto acido della terra e del sangue nella sua bocca. Poteva sentire qualcuno parlare, riconobbe vagamente la voce di Aziraphale e di qualcun altro, lo scrosciare incessante della pioggia ma ancora non riusciva a trovare la forza di aprire gli occhi. 

Aziraphale stava parlando, forse con lui, la voce roca e distante e non riusciva a capire se fosse per l’emozione o per… qualcos’altro. 
Provò a dire qualcosa. Fargli capire che era lì. 
Aveva bisogno di aprire gli occhi, cercare quelli azzurri come il lago nell’Eden, ma le palpebre erano troppo pesanti, gli occhi bruciavano troppo e c’era ancora questo ricordo di Aziraphale riverso per terra, in un mare di sangue e lui era morto, morto, morto. 
C’era una pressione gentile sulla sua fronte, come il palmo di una mano, delicato come una piuma, e prima che potesse rendersene conto si addormentò di nuovo. 

 

 La seconda volta che si svegliò non fu gentile come la prima. 
Tutto faceva male, un dolore profondo come se qualcuno lo stesse vivisezionando o lo stesse scuoiando vivo o ancora, come se qualcuno gli avesse appena dato fuoco. 
Sentiva il corpo consumarsi, come il cerino di una candela, come un fiammifero. Bruciava e lui iniziò a gridare, non che volesse farlo, ma era così stanco e il dolore così intenso e potente e reale da eliminare ogni restrizione che si era imposto negli anni. 
Due mani gentili gli presero il viso, guanti candidi contro le sue guance, e una voce che scorreva come l’acqua che ripeteva: Va tutto bene, è tutto ok, non c’è niente di cui aver paura.  
Crowley avrebbe voluto credergli ma quella voce era di Aziraphale e l’angelo era morto davanti ai suoi occhi, in un mare di sangue. 
Lui lo aveva ucciso. 

Quindi al diavolo ogni senso di orgoglio, iniziò a piangere, a pregarlo di perdonarlo e dire: ti prego, ti prego scusa. Ti amo così tanto, avrei voluto tenerti al sicuro finché il sole non si fosse spento ma c’è un serpente dentro di me ed è malvagio. Combatte e divora, urla e sibila, le sue scaglie graffiano e lacerano e io non so come salvarti. Non ne ho più le forze. 
Ma la voce di Aziraphale dice: Io ti perdono. 
Si era riaddormentato subito dopo, cullato da un leggero mormorio come una canzone dimenticata da tempo ma che avrebbe sempre ricordato. 

 

La terza volta che si svegliò, fu per quello strano istinto che hanno tutti gli umani quando si svegliano di colpo quando qualcuno li osserva nel sonno. Era un demone, ricordò vagamente, che aveva iniziato quella tradizione per spaventare gli uomini… o forse era solo un riflesso istintivo, come un meccanismo di difesa? 
A volte era difficile trovare la differenza tra una bugia ben detta e la verità. 
Però qualcuno lo stava toccando, mani umane stavano avvolgendo qualcosa di bagnato intorno al suo braccio e lui iniziò a muoversi, cercò di liberare il braccio perché: no, non mi dire che è successo di nuovo, un umano, un umano, ho tentato un altro umano, non voglio, non vogl 
“Non ti muovere, per favore.” Disse una voce dolce e femminile mentre continuava ad avvolgere il suo braccio in qualcosa di freddo e umido. 
“No, mio caro, va tutto bene, va tutto bene.” Ripeté la voce di Aziraphale e Crowley si rilassò all’istante. “Anathema mi sta aiutando a medicarti, adesso mostrami le tue ali.” 

Dice: Veglierò io su di te. 
Dice: Adesso riposa mio caro, riposa. 

E Crowley ubbidisce. Non importava quanto fosse stanco o sofferente perché infondo, se era Aziraphale a chiederlo, non c’era forza al mondo che gli avrebbe impedito di esaudire ogni suo desiderio. 

 

Aziraphale guardò Anathema lavorare con minuzia e attenzione mentre avvolgeva candide garze intorno al corpo di Crowley. Il demone si era svegliato già due volte, entrambe nel panico più totale, prima delirando e poi cercando di scappare dalla presa della ragazza. In tutto questo, l’angelo aveva fatto del suo meglio per tenere duro, ancora non era arrivato il momento per lui di lasciarsi andare al pianto. Tutto il suo corpo fremeva, l’istinto primordiale di curare ciò che era stato ferito, ma sapeva bene che non avrebbe potuto toccare il demone, non ancora. Non voleva rischiare di danneggiarlo ancora di più, la sua luce sarebbe stata forse troppo per lui. Quindi rimase vicino, senza toccare, osservando con attenzione la ragazza lavorare. 

Fu investito da una sensazione di estrema gratitudine nei confronti della strega che si era rifiutata di andare via, di lasciarli soli nel momento del bisogno. 
“Non essere sciocco, Aziraphale.” Aveva detto lei con voce sicura e decisa, quando lui le aveva proposto di tornare a casa per riposarsi. “Se tu non puoi curarlo, lascia fare a me. Non voglio rischiare che qualcosa vada storto e non voglio lasciarti solo.” E poi aveva aggiunto, con un dolce sorriso “Siamo amici, no? Vi voglio bene, voglio bene a Crowley, ora smettila di preoccuparti e passami quelle garze.” 
L’angelo avrebbe voluto sottolineare che non avevano mai fatto niente per loro, di certo avevano creato più confusione che altro durante la mancata apocalisse, ma rimase in silenzio facendo apparire qualsiasi cosa le servisse, guardando la ragazza da vicino, seguendo le sue indicazioni. 

 

Quando Crowley si era svegliato per la terza volta, Aziraphale gli aveva chiesto di mostrargli le sue ali. Lo avevano girato su un fianco e lui aveva subito ubbidito, forse troppo stanco e vulnerabile per protestare. In un altro momento lui se ne sarebbe preoccupato, ricordando come Crowley era solito fare tutto quello che gli si chiedeva come un automa, quando entrava nella sua libreria a tarda notte, esausto e assente. 
Le ali erano apparse prendendo metà della stanza tanto erano grandi. Di solito belle e ordinate, adesso erano uno spettacolo orribile. Le piume, una volta di un meraviglioso color ebano e brillanti, non riflettevano più i colori del firmamento come ossidiana, ma erano sporche di sangue e i colori erano spenti e grigi. Le piume più lunghe erano state strappate, ritorte e spezzate, e c’erano dei grandi tagli lungo tutte le ali. 
Aziraphale aveva trattenuto un grido che forse avrebbe fatto tremare la terra, immaginando violenti terremoti e acquazzoni sconvolgere la città di Londra e le persone urlare per strada, spaventate. Soffocò quel desiderio, terrorizzato all’idea di quello che sarebbe successo se solo avesse espresso in quel modo tutto il suo dolore. Passò una mano tremante sull’ala sinistra e Crowley piagnucolò nel sonno, come se potesse sentire la paura avvilupparsi intorno al cuore dell’amico. 

“Oh, cielo.” Sospirò Anathema guardando le ali con occhi sgranati, “è stato lui a —” 
Aziraphale la guardò per un momento, senza riuscire a dire una parola. Aveva retratto la mano dopo un altro gemito di dolore dell’amico e guardava da lontano le ali, insicuro su come procedere. 
Aziraphale.” La voce sicura di Anathema lo svegliò dal suo divagare, “dobbiamo fare qualcosa, Aziraphale.” Lo incoraggiò lei. 
Rimase ancora in silenzio, ringraziando Dio per aver creato la ragazza perché non era sicuro che avrebbe avuto la forza di fare qualcosa se fosse stato da solo. “Qui c’è un osso che sembra rotto, dovremmo sistemarlo… credo.” Continuò lei incerta. “Non ne so niente di ali ma forse posso cercare in qualche libro, qualche pozione o unguento per quei tagli? Magari possiamo bendarle o cose così.” 
.” Sospirò lui “Ah, questa è tutta colpa mia. Se solo fossi stato più attento, se avessi capito prima… forse tutto questo non sarebbe successo.” 
“No, no Aziraphale.” Disse lei toccando con mani delicate l’ala destra e facendola appoggiare contro una sedia che aveva spostato per bilanciarne il peso. Si mosse verso di lui, abbracciò l’amico che sembrava sul punto di piangere. “Non potevi saperlo.” 
“Avrei dovuto. Lo conosco dall’inizio del tempo e non mi sono mai reso conto che stesse soffrendo.” Mormorò “No, ancora peggio. Sapevo che stava soffrendo e ho deciso di chiudere gli occhi e voltargli le spalle. Che razza di angelo fa una cosa del genere?” 
“Ma ora lo sai, no? Hai deciso di proteggerlo, di stare dalla sua parte. Adesso puoi aiutarlo.” 

“Ho paura, Anathema.” Disse lui con un sospiro tremolante “Ho paura perché se fosse stato un demone a tormentarlo, un angelo o tutto l’Inferno o anche il Paradiso, avrei potuto fare qualcosa. Combattere, difendere — non che sia il mio forte, ma avrei potuto provarci — ma questa è tutta opera di Crowley e come posso difenderlo da sé stesso?” 
“Lo so, lo so.” Disse lei muovendo la mano in modo circolare contro la sua schiena. “Ricordagli chi è. Ricordagli che lui non merita questo, ricordagli che gli starai sempre accanto.” 
Anathema si era spostata, dopo una leggera pacca sulla spalla, e si era messa a cercare tutto quello che potesse essere d’aiuto all’amico. Insieme avevano sistemato poi l’osso e Anathema aveva medicato i lunghi tagli, lisciando come poteva le piume rimaste e, con grande dispiacere di Aziraphale, aveva staccato quelle ormai spezzate. 

Finirono che era ormai l’alba e Anathema si sentì distrutta e sfibrata ma a vedere il demone che riposava nel letto, le lenzuola di nuovo candide, provò anche un senso di soddisfazione nel vedere l’amico finalmente tranquillo. 
Solo quando Anathema ebbe finito, Aziraphale trovò un momento per scusarsi, uscire dalla stanza solo per un momento e piangere in santa pace. 
Anche a un angelo sono concessi momenti di debolezza. 

 

 La ragazza non ricordava quando si era addormentata sulla sedia della stanza. Nonostante la posizione, era incredibilmente comoda e al caldo e realizzò, sorpresa, che l’angelo l’aveva avvolta in una coperta morbida. Crowley doveva essersi svegliato per la terza volta, senza gridare o piangere. Aziraphale gli parlava dolcemente, scostando i capelli selvaggi che coronavano il suo viso. Non sapeva cosa gli stesse dicendo, era più un mormorio sommesso che vere parole, ma lo guardava con devozione mentre gli passava un panno umido sulla fronte sudata. 
Anathema era incantata dal modo che aveva Aziraphale di toccare Crowley. Sarebbe rimasta lì per ore a osservarli, anche se quei gesti così intimi la facevano sentire una specie di voyeur. 
Gli lavava il corpo con soffici carezze, sussurrando parole gentili a bassa voce e con tono delicato. Allo stesso tempo, Crowley si lasciava manovrare come se tutte le sue ossa fossero di gomma, senza mai protestare o cercare di sottrarsi. La ragazza si strinse una mano al petto perché Aziraphale sfiorava il demone come se fosse una reliquia sacra, qualcosa di troppo prezioso per essere toccata a mani nude. 
Fragile, delicato. 

“Crowley?” Esclamò in un sussurro sommesso. 
Anathema sussultò perché fino ad ora il silenzio era stato totale. Crowley si era mosso leggermente sotto le lenzuola, avvicinandosi inconsciamente verso l’angelo che lo accarezzò delicatamente lungo le tempie. Anathema provò ad ascoltare la conversazione ma si arrese quando notò che le parole di Crowley erano quasi impercettibili e così sommesse che era come ascoltare un serpente sibilare. 
“Va tutto bene, mio caro.” Mormorò per l’ennesima volta Aziraphale. “Scusa se non ho capito prima, perdonami se sono stato così stupido, tu hai provato a dirmelo così tante volte e io ti ho lasciato da solo a soffrire per tutto questo tempo.” 

Anathema lo guardò: questo angelo vecchio come il mondo stesso — in realtà, ancora più vecchio — piangere davanti al corpo di un demone. Il sibilo si fece ancora più forte e Anathema sarebbe anche riuscita a percepire qualche parola se solo avesse avuto un udito migliore. 

Quello che non poteva sapere era che Crowley, esausto, non riusciva più a controllare la sua lingua che — la traditrice — legava ogni sua parola con uno strano sibilo, come un rumore di sottofondo. Di solito, quando succedeva quello spiacevole fenomeno, lui si imbarazzava talmente tanto che le guance si coloravano di un rosso furioso. Quando udiva lo stesso rumore, Aziraphale non riusciva a sopprimere il ghigno che era tutto fuorché angelico. 
Questo, diceva sempre Crowley, perché Aziraphale era un bastardo. 

 
Adesso, lo stesso rumore era a malapena percepibile per il demone e fonte di grande preoccupazione per Aziraphale. 
Sssono un essssere disssgustoso, angelo.” Sospirò Crowley, delirante per la febbre. “Sssono un demone, perché non lo capisci? Non puoi cercare il mio perdono, non ho niente da perdonarti, non dovresssti volere il mio perdono, stupido.” Blaterò mentre si agitava nel letto, come se cercasse di alzarsi ma non riuscisse a coordinare gli arti. 
“perché non capisssci che io non posssso essssere buono, che non ssso come sssi fa, finirò per dissstruggerti come ho fatto con quella coppia, tutto quello che tocco sssi logora, marcisssce e muore, non voglio che —” 
Aziraphale interruppe il suo fiume di parole. Gli prese delicatamente il viso tra le mani, con il pollice gli asciugò le lacrime, come aveva fatto tante altre volte. Gli baciò delicatamente la fronte, proprio in mezzo agli occhi. 
Aziraphale sorrise. 
Lo guardò con occhi amorevoli, azzurri e arrossati, belli come il mare al tramonto. Gli prese il viso tra le mani, gli accarezzò le guance con il pollice, un gesto di amore puro, incondizionato, qualcosa che va al di là di ogni umana concezione. 

Aziraphale dice: Ascoltami bene, Crowley. 
Dice: Ci ho messo tanto a capirlo — è una cosa che tu mi hai insegnato — Inferno e Paradiso, angeli e demoni, sono solo nomi per due fazioni. Non ci definiscono.  
Dice: Tu sei una buona persona perché lo sei; perché anche se sei un demone hai deciso di avere il libero arbitrio. Hai immaginato così intensamente di averlo che alla fine l’hai ottenuto. Lo hai usato per fare le scelte giuste.  
Dice: Tu sei un demone e una buona persona e io ti amo per questo, mio caro.  

Aziraphale gli baciò una guancia e diligentemente iniziò ad asciugare le altre lacrime che scendevano dagli occhi del demone. Gli occhi gialli da serpente erano un pozzo di oro liquido, belli come due gemme preziose sommerse in un lago profondo. 
Tanto belli da togliere il fiato. 

Crowley dice: Ti amo.  
Dice: Ti ho amato così tanto che fa male quando sei lontano. 
Aziraphale lo guardò e sospirò sollevato. “Lo so. Facciamo in modo che non faccia più male.” 
E poi: 
“Dormi, mio caro.” Sussurrò l’angelo “Io starò accanto a te finché non mi chiederai di andare via… e anche in quel caso potrei anche protestare.” Disse con una risata sommessa. “Adesso riposa, amore mio.” 

 

 

 

 

Adesso riposa, Amore mio. 

C’era una certa dolcezza nel modo in cui il suo corpo fluttuava avanti e indietro. 
Nell’oscurità era difficile dire cosa fosse sopra e cosa fosse sotto, ma non era una cattiva sensazione di per sé. 
Si sentiva totalmente distaccato dal suo corpo e forse era solo per pura abitudine che poteva immaginare di avere un corpo umano anche se era nello spazio. Indossare lo stesso vestito di carne per sei mila anni fa quell’effetto, dopotutto. 
Si sentiva leggero nell’oscurità: per un demone non c’è luogo che fosse troppo buio. Lo spazio non era proprio nero, era un’infinita accozzaglia di colori differenti che gli umani potrebbero solo immaginare. Se per loro il nero non è altro che la summa di tutti i colori, un demone poteva vedere tutti quei colori come sovrapposti in lunghe linee fluttuanti e distinguere ogni colore con facilità. Era qualcosa che aveva a che fare con le molecole, il modo in cui la luce si rifletteva. A Crowley non era mai importato molto, quindi non se ne preoccupò. 

Aveva sempre amato lo spazio. 
Ricordava con profonda dolcezza il suo vecchio lavoro in mezzo alle stelle, come poteva mescolare colori e nuvole di gas, usare la tavola periodica come una tavolozza di colori per creare qualcosa di bellissimo. E adesso era lì, cullato dalla vista di un milione di corpi celesti, costellazioni e pianeti, piccoli soli e stelle. Osservò come le Mireidi si muovevano intorno a Hadar e a Proxima, mentre le altre stelle che formavano Alfa Centauri giravano intorno a sé stesse, disegnando un bellissimo cerchio di luce. 
Nello spazio tutto era più semplice. Non c’era dolore, tortura, caduta e fuoco. 
Lì non era né un demone, né un angelo ma solo un’altra piccola porzione di polvere cosmica e forse sarebbe potuto rimanere in quel posto per sempre, se non fosse stato per quel profondo senso di malinconia e solitudine. 
L’unica cosa presente era questa opprimente consapevolezza di qualcosa che mancava, qualcosa di importante. 

Crowley valutò le sue opzioni: l’idea di rimanere lì era quasi allettante. Adesso che sapeva che sulla terra il mostro che lo aveva tormentato per trecento anni non era altro che frutto della sua immaginazione, l’idea di tornare indietro sembrava spaventosa. Lì, nell’oscurità, poteva cullarsi nella sicurezza di poter sopprimere Crawly anche senza di lei. 
Forse lì sarebbe riuscito a proteggere Aziraphale. 

Aziraphale. 
Cos’era quel nome che gli tornava sempre in mente? Era qualcosa — qualcuno — che era rimasto accanto a lui per così tanto tempo ma che adesso faticava a mettere a fuoco. L’universo era perfetto, luminoso e bellissimo, ma era vuoto e solitario senza il suo angelo. 

Angelo. 
Chiuse per un momento gli occhi, ricordò un arco di piume bianche e immacolate proteggerlo dalla prima pioggia. Una stanza piena di libri. Notti passate abbracciati e qualcuno che gli sussurrava all’orecchio “Ci sono io con te adesso, nessuno ti farà mai più del male.” 

Decise: ignorò il vuoto, la solitudine e la paura schiacciante del silenzio, iniziò a lottare per raggiungere la superficie. Tutto il dolore del mondo, l’inferno e la caduta erano nulla se accanto a lui ci fosse stato Aziraphale. 
Quindi si svegliò. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

Questo capitolo è stato un maledetto incubo da scrivere. Un incubo senza fine perché ahah surprise surprise, non so scrivere quelle scene dolci o in generale i lieti fine. 
 Ma soprattutto un grazie a tutti quelli che continuano a commentare, siete fantastici e bellissimi e io piango ogni volta che leggo un vostro commento perché siete sempre troppo gentili (ah, come ci siamo ridotti ahah) 
 

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Capitolo 11
*** Epilogo parte seconda: Il fantasma nella casa. ***


Mayfair, Londra, Inghilterra, 522 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

Per molto tempo aveva solo dormito. 
Niente sogni, niente incubi. 
Si svegliò come quando ci si sveglia dopo una pessima nottata: con un terribile mal di testa, la bocca secca e quella terribile sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente diverso, senza riuscire a capire cosa fosse cambiato. 

Fisicamente, poteva avvertire un tremolio costante sotto la pelle, come se avesse preso una forte scarica elettrica e stesse ancora subendo gli effetti delle scosse di assestamento. Tecnicamente, non era così lontano dalla verità. La pelle era calda, tirava e bruciava sotto le garze, non era troppo doloroso — era più fastidioso in realtà — quindi non se ne preoccupò. 
Sdraiato sul letto, girò leggermente la testa verso lo specchio alla sua sinistra. 

Lo specchio era in quella stanza da quando aveva comprato l’appartamento ma lo possedeva da molto più tempo. Una volta era proprio davanti al letto, lo aveva spostato quando si era reso conto che era sempre la prima cosa che vedeva quando si svegliava e l’ultima quando andava a dormire. Un’altra persona — umano, angelo, demone — lo avrebbe preso e gettato nel fondo dell’oceano; Crowley tremava alla sola idea di disfarsene. Se qualcuno gli avesse chiesto il perché, non avrebbe saputo rispondere. 
Ricordava indistintamente di averlo distrutto ma adesso lo specchio era di nuovo intatto. Tranquillo, come se non fosse stato l’oggetto che lo aveva tormentato per trecento anni. 

(Non che fosse stato l’oggetto in sé a terrorizzarlo, ovviamente, ma era di fronte a quello specchio dove Crowley aveva perso il suo savoir faire quella notte, quando aveva deciso di distruggere tutti gli specchi di casa. L’oggetto, adesso, lo faceva sentire giudicato. 
Si sentiva profondamente imbarazzato per quello che aveva fatto.) 

Sospirò profondamente, provò a sbattere le palpebre. 
Una. 
Due. 
Tre volte. 

Girò lo sguardo verso lo specchio. 
Dalla sua angolazione poteva vedere solo un angolo che rifletteva il muro bianco della sua camera da letto. 
“Oh,” sussurrò piano “se n’è andata.” 

(C’era stato qualcosa — qualcuno, lo corresse una voce nella sua testa — che lo aveva tormentato, angosciato e perseguitato per trecento anni e che aveva odiato per così tanto tempo che si era quasi convinto di —) 

“È andata via.” Ripeté più forte. 
La realizzazione avrebbe dovuto colpirlo forte come un colpo di pistola, come una freccia scoccata da un arco, ma invece lo lasciò con una strana sensazione di vuoto, quasi solitudine. 
Era uno strano sentimento. 

“Crowley.” Una voce lontana lo strappò dai suoi pensieri. “Sei sveglio.” 
La voce di Aziraphale lo fece trasalire, così alta in confronto al silenzio che lo aveva circondato fino a quel momento. L’angelo si mosse piano, come se, da un momento all’altro, Crowley potesse scattare come un animale stretto all’angolo, cercando di scappare o gridare. Avrebbe voluto dirgli che non c’era bisogno di essere così premuroso ma allo stesso tempo si sentiva in bilico, insicuro su come avrebbe dovuto reagire. 
“S’Zira” sibilò piano. 
L’angelo si era seduto sull’angolo del letto, così vicino a Crowley che poteva sentire il suo respiro delicato. Allungò una mano verso la sua fronte ma si interruppe a metà, come se si fosse appena ricordato di qualcosa. “Posso toccarti?” 

Crowley annuì, guardando con occhi sgranati l’angelo passare la mano fra i suoi capelli. Si spostò leggermente, un movimento quasi impercettibile, un chiaro invito a sdraiarsi accanto a lui che Aziraphale accettò di buon grado. Il demone si mosse piano, mascherando come meglio poteva l’espressione dolorante mentre spostava il suo corpo per appoggiare la testa contro il petto di Aziraphale. 
Così vivo, tu sei vivo, sei vivo, si ritrovò a pensare mentre ascoltava il battito cardiaco dell’angelo contro il suo orecchio. 

“Mi hai quasi fatto morire di paura,” disse Aziraphale dopo un lungo momento di silenzio, continuando a far scorrere le sue mani bellissime e morbide fra i lunghi capelli rossi, “Hai dormito per un’intera settimana, hai avuto la febbre alta per giorni e io per un momento ho quasi pensato che tu saresti —” si bloccò per un momento, come se non osasse finire la frase. Non che ne avesse bisogno, Crowley aveva già capito cosa intendeva dire. “Non puoi lasciarmi solo, stupido di un serpente, come farei a sopravvivere altrimenti? Un solo giorno è una tortura, non oso neanche immaginare un’eternità senza di te.” 
Crowley era rimasto per tutto il tempo con lo sguardo basso, senza osare guardarlo. 

Se fosse stato in grado di elaborare un po’ meglio le sue emozioni, probabilmente si sarebbe odiato per essere stato così egoista. Non sopportava il pensiero del suo bell’angelo con un vuoto nel bel mezzo dello sterno grande tanto quanto il suo, non avrebbe mai immaginato che anche lui potesse sentirsi solo. 
Non era lo stesso, però. Aziraphale, a differenza sua, poteva ancora sentire il calore e l’amore di Dio riempirgli il cuore. Cosa aveva invece Crowley? Niente, sempre niente. 

Non disse nulla però. Sarebbe stato un’ipocrita infondo. 
Aziraphale aveva Dio ma Crowley aveva lui. 
L’unico che potesse farlo sentire vivo. 
Quindi disse: Puoi restare un po’ con me? 
Aziraphale sorrise e lo strinse delicatamente a sé: Fino alla fine del tempo, se per te va bene. 

 

 

 

 

 

 Mayfair, Londra, Inghilterra, 528 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

Crowley, a volte, si sentiva come se stesse fluttuando. 
Non come quando era un angelo e volava da una nuvola all’altra creando complicati sistemi solari e costellazioni, quella era una sensazione di estrema leggerezza che non avrebbe mai più provato. 
No, lui era perfettamente cosciente del peso del suo corpo che lo ancorava al suolo, le gambe fastidiosamente pesanti che rendevano difficile anche solo l’atto di alzarsi dal letto. 
Mentalmente, emozionalmente, fluttuava. 

C’erano delle volte in cui rimaneva da solo nella stanza, i muri bianchi che si chiudevano intorno a lui, e la vista si offuscava, era in quel momento che sapeva che si sarebbe totalmente distaccato dal suo corpo. 
Non era di per sé una brutta sensazione, solo molto strana e lo faceva sentire insicuro, inadeguato. In ogni caso, quando era in quello stato non sentiva niente, non provava niente e si diceva che andava bene anche così. 

Però stava dormendo meno, gli aveva fatto notare Aziraphale “Perché stai dormendo così poco?” Gli aveva chiesto, inquieto. 
“Sto bene, ho dormito abbastanza.” 
“Abbastanza,” aveva ripetuto arricciando il naso “dormire una settimana per te è come fare un pisolino veloce per un umano.” 
“Non abbiamo davvero bisogno di dormire.” 
“Mio caro —” 
“Sto bene.” Lo interruppe. 
“Sono solo preoccupato per te. Guariresti più in fretta se —” 

A volte era incredibilmente cosciente del tempo che gli sfuggiva tra le mani. Come in questo momento. Poteva ancora vedere Aziraphale parlare, la bocca muoversi, gesticolare nervosamente, ma la voce si distorceva, le parole si mescolavano, i colori intorno a lui si fondevano creando una macchia scura. Quello era l’unico avvertimento che otteneva prima di distaccarsi completamente. 
Non se ne andava mai troppo a lungo ma era sempre più difficile da gestire ed era certo che Aziraphale se ne fosse accorto. 

(Il momento prima sta guardando Aziraphale che gli dice: “Va bene se ti cambio quelle bende? Vuoi mangiare qualcosa?” E l’istante dopo sta sbattendo le palpebre, le bende fresche e pulite contro la pelle tirano un po’, si rende conto che sta guardando una tazza di  fumante che non ricordava di aver preso in mano. Si gira e guarda Aziraphale negli occhi e cerca di mascherare il suo sguardo confuso. Sente la mancanza degli occhiali da sole. Probabilmente aveva perso due o tre ore di tempo in cui l’angelo aveva passato ad accarezzarlo delicatamente e adesso lo stava guardando come se —) 

Tecnicamente, sapeva che avrebbe dovuto essere contento di essere finalmente libero da quell’incubo. Magari arrabbiato per quello che era successo, magari triste. Qualsiasi cosa sarebbe stato meglio dell’apatia che provava in quei giorni. Rabbia, disperazione, tristezza, qualsiasi cosa che non fosse quella totale mancanza di sentimenti, quel vuoto che non sembrava volersi chiudere. Non c’erano più voci nella sua testa e l’unico rumore che sentiva era il disciogliersi e raggomitolarsi del serpente nel suo petto. 

Quando non succedeva, quando riusciva a focalizzare la sua attenzione su ciò che lo circondava, Crowley se ne stava seduto sul letto e pensava. 
A quello che era stato, a quello che è adesso. 
A quello che era successo, a quello che non era avvenuto. 
Catalogava con premura tutto quello che era successo veramente e quello che invece era stato solo frutto della sua mente. 
Aveva distrutto le sue piante, non aveva dato fuoco all’appartamento, era andato da Madame Tracy in cerca di acqua santa, non aveva combattuto con Crawly, aveva scavato la sua stessa tomba, la donna non era reale. 
Non reale. 

Spesso, camminava con la vaga sensazione che, dato che ormai la donna non c’era più, l’unico fantasma rimasto in quell’appartamento dovesse essere lui. 
Altre volte, girovagava sfiorando i muri con le dita, non tanto per mantenere l’equilibrio ma per essere sicuro che fosse vero. Si fermava ogni volta davanti allo specchio e si osservava per interminabili minuti (ore, giorni?) e non si riconosceva. Il riflesso davanti a lui era quello di un uomo (circa) con lunghissimi capelli rossi sistemati in una treccia morbida che lui assolutamente non ricordava di aver fatto, magro e pallido, aspetto accentuato dal maglione pesante di due taglie più grande. Aveva l’aspetto di un cadavere con quelle pesanti occhiaie nere e le bende che lo avvolgevano in ogni parte del corpo. Sembrava maligno e sinistro, forse per colpa degli occhi da serpente gialli che prendevano tutta la sclera e che luccicavano nel buio. 
Ogni tanto riconosceva di essere lui quello nello specchio, questo dopo ore a osservarsi, altre volte lo identificava come Crawly e la sensazione di non avere una forma fisica si faceva più intensa. 

(Crawly attraverso lo specchio lo guarda e dice “Strano eh?” 
E lui “Cosa?” 
Crawly inspira, espira e dice: "So che desideri che io sparisca, ma noi siamo un demone." 
Lui capisce, finalmente comprende che per tutto il tempo non aveva fatto altro che guardare il suo riflesso — non una donna diabolica — o magari aveva guardato Crawly. Spesso dimenticava la differenza. 
Dice: "E so che fa male, anche io sono caduto con te." 
“Sto bene.” 
“Oh, certo.” Ride Crawly “Lui sta bene.” ripete sarcastico. 
“Mai stato meglio.” 
“È la calma, no?” E stranamente il diavolo nello specchio sembra quasi dispiaciuto. “Noi siamo un demone, di certo non siamo fatti per la calma e la tranquillità. E forse è questo il punto. Chi sarà il prossimo a ferirci? Un angelo, un demone o un umano?” 

Aziraphale non mi farebbe mai del male.” 
“No, certo.” Concorda Crawly, sincero. “Lui non ci farebbe mai del male, ovviamente.” 
“Ovviamente.” 
“C’è da chiedersi se non lo farebbe per difendersi.” 
“No. Mi fido di lui. È di te che non ti fido.” 
“Sarebbe un mondo folle se i demoni se ne andassero in giro fidandosi gli uni degli altri.” Annuisce l’altro. “Ma non è solo quello.” 
“E cos’è?” 
“La vera domanda è: Questa calma, questa tranquillità… sono qualcosa che non fanno per noi. Siamo demoni. È il dolore che ci ha fatto nascere, domande senza risposta. Siamo fuoco e ghiaccio, polvere e fuliggine. C’è da chiedersi… questo è davvero reale?”) 

 

La cosa peggiore di quel senso di inadeguatezza — il vuoto, lo corregge Crawly in un sussurro, l’incapacità di riconoscere il proprio io, la solitudine, perché ti senti così solo? — era quando si sentiva così sbilanciato da preferire il buio della sua camera da letto dove chiudersi in sé stesso, piuttosto che affrontare il mondo esterno. Aziraphale aveva cercato di farlo uscire dall’appartamento tante volte, sempre con voce gentile, più un suggerimento che altro, ma lui non voleva. Odiava quelle mura, lo spaventavano, ma l’idea di uscire sembrava un concetto astratto. 
Non ricordava cosa fosse peggio. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla sensazione di fluttuare in aria senza sapere quando sarebbe tornato a terra. 
 
Ora, quello era un nuovo problema. dall’altra parte della porta c’era Madame Tracy e lui sapeva che aveva fatto qualcosa di irreparabile, aveva mostrato qualcosa di terribile alla donna e se ne vergognava. 

“Crowley... ” provò l’angelo “C’è Tracy di là, è venuta a trovarti.” 
Il demone al momento era sdraiato sul letto, avvolto da coperte morbide e calde e gli dava le spalle. Era sveglio ma non appena aveva sentito suonare il campanello si era girato dall’altra parte, fingendo di dormire. 
Ma era sveglio. Crowley lo sapeva, Aziraphale lo sapeva, probabilmente lo sapeva anche la donna nell’altra stanza. 
Non voleva essere scortese ma, con tutto quello che era successo, non aveva abbastanza energie per vedere nessuno. 
Non era la prima volta che succedeva e Aziraphale capiva sempre. Gli sfiorava delicatamente la spalla e poi sussurrava “Va bene, non ti preoccupare.” E poi tornava nell’altra stanza e spiegava all’ospite che il demone stava dormendo, ma che sarebbe stato sicuramente felice di incontrarla non appena si fosse svegliato. 
A volte era difficile esprimere a parole perché non provasse nulla in quei momenti. 

 Non era sempre così e forse quella, per assurdo, era la cosa più dolorosa. 

Aziraphale adesso lo baciava (non come faceva un tempo, perché c’erano sempre stati baci e carezze fugaci e poi catalogati come leggerezze, sempre appesantiti dal terrore che Paradiso o Inferno li scoprissero e dai ripensamenti dell’angelo e “Questo è stato un errore, Crowley. Non succederà mai più, non posso, non posso…” che lasciavano sempre il demone in una pozza profonda di disperazione. Era solo in quei momenti che si pentiva davvero di essere caduto.)  

No, lui adesso lo baciava la mattina appena sveglio, quando gli portava la colazione a letto, e Crowley aveva sempre difficoltà a processare quello che era appena successo, lo guardava e il suo cervello decideva di prendersi una vacanza — andava in down, errore di sistema, Crowley.exe has stopped workingplease reload — e l’angelo sorrideva in modo non proprio angelico guardando la faccia del demone diventare sempre più rossa. 

“Stai cercando di viziarmi?” Domandava lui. 
“Assolutamente no, il vizio non mi compete, come sai sono un angelo.” Diceva Aziraphale con una risata nascosta tra le parole “Ma dovresti mangiare qualcosa, amore mio.” 

Era la voce, pensava Crowley. 
La voce di Aziraphale, sentiva a malapena quello che stava dicendo ma in quell’istante semplicemente amava Aziraphale così tanto. Ogni cosa di lui lo faceva sentire bene, per un momento poteva dimenticare quella sensazione di apatia, il silenzio, la paura di vivere nel suo appartamento, si bagnava nel suono della sua voce e dimenticava il resto. Il suo unico tutto per cui valesse la pena vivere. 
Questo era il motivo per cui pensava che fosse ancora più doloroso. Perché, quando l’angelo usciva dalla porta, il senso di vuoto e di non-essere e di non-esistere si faceva ancora più intenso e forse ne sarebbe stato spaventato, avrebbe pianto e urlato, se solo fosse riuscito a provare qualcosa. 
È il niente che lo spaventava. 

(Questo perché quel saltare da un momento all’altro era già successo. 
Un attimo prima è in una discoteca, un pub, una fumeria d’oppio, una catapecchia; 

sbatte le palpebre e qualcuno lo stava toccando, volti scavati, umani sporchi e sudati, gli offrono qualcosa e lui neanche si chiede cosa sia, accetta tutto, perché è suo dovere assicurare anime all’inferno. 
 
Sbatte di nuovo le palpebre ed è sdraiato su un vecchio materasso. 

Sbatte le palpebre, 
ha la nausea e il corpo dolorante. 

Sbatte le palpebre, 
e sta barcollando per una strada deserta. 

Di nuovo. 
C’è una mano che lo sfiora e lui si sente al sicuro, ma comunque non riesce a smettere di tremare. 

Di nuovo. 
Si sveglia nella stanza da letto di Aziraphale, il corpo e i capelli puliti, sente la voce dell’angelo dietro la porta e capisce che sarebbe meglio se lui si levasse di torno, promettendo a sè stesso che non avrebbe mai più fatto una cosa del genere. 
Il punto è che Crowley è terribile nel mantenere le promesse a meno che non siano rivolte ad Aziraphale). 

Crawly lo guardava attraverso lo specchio, il suo viso l’esatto riflesso di sé stesso, e niente avrebbe potuto fermarlo ora che la donna era sparita. Lei, che in tutta la sua perfida, terrificante, oppressiva presenza era stata l’unica cosa che aveva protetto Aziraphale dal serpente dentro di lui, sempre pronto a scattare e a divorare. 

(, ammette Crowley un giorno davanti allo specchio del bagno, la voce piatta e bassa per non essere sentito dall’angelo, forse ho amato quella donna, l’ho amata come non avevo mai amato nessuno prima, perché lo ha protetto da te e non mi importa quanto abbia fatto male, niente è importante se può salvare Aziraphale. 
Crawly lo guarda tristemente e dice “Non gli ho mai fatto del male.” 
“Questo non vuol dire che non lo farai in futuro.”) 

Forse, sarebbe dovuto andare via. 
Forse, avrebbe dovuto spalancare le ali, inarcarle, e volare lontano in un’altra galassia in modo di non essere un pericolo per l’angelo. 
Forse, se solo Crowley fosse stato solo un po’ più coraggioso lo avrebbe fatto ma si sentiva debole, miserabile, forse aveva distrutto le sue ali per sempre e l’idea di allontanarsi da Aziraphale lo rassicurava, ma al tempo stesso sembrava qualcosa di così assurdo che non riusciva quasi a immaginarlo. 

Questo perché: 
Perché Aziraphale lo abbracciava delicatamente e lui si scioglieva al contatto, caldo e morbido e lui aveva troppo freddo. 
Perché l’angelo gli parlava con voce gentile, si prendeva cura di lui, la sua voce riempiva il silenzio, un continuo blaterale di cose che Crowley non capiva o che non gli interessavano, ma la voce era lì ed era quello l’importante. 
Perché Aziraphale con i suoi libri, il suo té e la sua cioccolata calda, i suoi riccioli biondi, i suoi occhi azzurri erano luce e colori nel suo mondo buio e grigio. 
Perché, si ripeteva spesso, l’angelo aveva detto di amarlo, aveva detto che si era sentito solo, e Crowley avrebbe fatto di tutto pur di non far affrontare anche a lui lo stesso vuoto cosmico che lo divorava. 

 

 

 

 

 

Mayfair, Londra, Inghilterra, 528 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 Aziraphale guardava Crowley dormire. 
Lo aveva fatto spesso nel corso del tempo, amava guardare il demone così rilassato e far scivolare una mano lungo una delle tempie, fra i capelli, ascoltando l’altro respirare piano. Probabilmente, era uno dei suoi passatempi preferiti. Non aveva mai preso l’abitudine di dormire, ma aveva sempre amato rimanere accanto a Crowley in quei momenti. 
Solo che adesso sembrava farlo meno, se ne stava sveglio tra le coperte e ogni tanto lo sorprendeva a fissare l’angolo dello specchio nella sua camera. 

(L’angelo avrebbe voluto prendere quel maledetto oggetto, frantumarlo per terra, tornare indietro nel tempo e maledire chiunque avesse peccato di tanta vanità nel creare una cosa simile.  
Non lo fece mai, non sarebbe stato giusto nei confronti di Crowley). 

Passava le notti a leggere libri su libri ad alta voce, perché il demone sembrava un po' più tranquillo quando l’appartamento era meno silenzioso. Spesso si ritrovava a pensare se sarebbero arrivati fino a quel punto se solo fosse stato più sincero con sé stesso. Avrebbe potuto trovare una soluzione più in fretta? C’era un modo migliore per alleviare le sofferenze del suo più caro e vecchio amico? 
La risposta era ineffabile e lui aveva iniziato a capire perché il demone detestasse tanto quella parola. 
 
Sembrava sempre stanco in quei giorni, forse perché stava ancora guarendo, la febbre e lo stress delle ultime settimane avevano consumato tutte le sue riserve di energia, — probabilmente ingoiare una manciata di terra benedetta non era la cosa più salutare per un demone — il corpo era molle, sempre riverso fra le lenzuola bianche, gli occhi chiusi come se non sopportasse la vista di ciò che lo circondava. 
C’erano volte in cui Crowley si addormentava — questo solo dopo giorni e giorni passati a combattere il sonno, non dormiva mai a lungo, al massimo qualche ora — e quando succedeva Aziraphale era sempre pronto a sfiorargli la fronte ed eliminare tutti gli incubi che avrebbero potuto disturbare il suo riposo. Non era importante cosa facesse, in ogni caso dopo poco tempo il demone si sarebbe svegliato con gli occhi sgranati, controllando ciò che lo circondava come se dovesse essere attaccato da un momento all’altro. 

L’angelo lo osservava e lo studiava, cercando di rimanere vicino ma allo stesso tempo lontano, rispettosamente aspettando che Crowley trovasse le risposte che cercava. 

Una volta gli aveva detto “Tu vai troppo veloce per me.” 
Forse, con il senno di poi, all'epoca non era ancora pronto ad affrontare i suoi sentimenti per il demone, non erano ancora maturati a sufficienza. Non voleva commettere lo stesso errore con lui, rischiando di farlo scappare o allontanarlo senza volerlo. 
Crowley aveva aspettato per sei millenni, Aziraphale era pronto a fare lo stesso per lui. 

Il problema era che Aziraphale stava camminando su un sentiero sconosciuto e questo lo spaventava. Il desiderio di combattere e proteggere il suo innamorato era potente, il vecchio guardiano dentro di lui si era come risvegliato. Non solo perché finalmente non doveva più temere ripercussioni celesti e neanche perché era ormai certo che non sarebbe caduto se avesse amato un demone. Aziraphale ci aveva pensato a lungo ed era arrivato alla conclusione che era solo perché lui, aveva finalmente deciso qual era il suo posto, aveva scelto di stare dalla parte di Crowley e dell’umanità, e questo aveva risvegliato in lui la necessità di proteggere ciò riteneva importante. 
Era un terreno inesplorato. 

Avrebbe potuto insistere, obbligare il demone a rivelargli quali pensieri lo assillassero, magari con una benedizione o semplicemente facendogli capire quanto lui ne avesse bisogno. Aziraphale sapeva che Crowley non si sarebbe tirato indietro alla sua richiesta. Il demone faceva sempre tutto ciò che desiderasse, quando glielo chiedeva. 
Ma sarebbe stato giusto farlo? Sembrava quasi una violenza nei suoi confronti e Aziraphale non poteva più nascondere le sue azioni dietro l’illusione di fare qualcosa di sbagliato per un fine più giusto. Si rifiutava di obbligare Crowley a rivelare i suoi pensieri più intimi, sarebbe stato come spingere all’angolo un animale ferito, di certo non avrebbe fatto altro che farlo indietreggiare o peggio, sarebbe potuto scappare. 

Quindi rimase in quella terribile via di mezzo, mettendo da parte i suoi desideri e rimanendo semplicemente accanto a lui. Lo aiutava a vestirsi di mattina, sciogliendo e rivestendo le bende madide di unguenti, perché Crowley non era né un demone né un angelo ai suoi occhi, ma un essere che dovrebbe essere sempre ricoperto di fiori e diamanti, di gioielli brillanti come i suoi occhi. Agate e giade a incorniciargli il viso, rose e rubini a per il capo, il corpo lavato con oli e profumi orientali e toccato solo per essere venerato, adorato, baciato con devozione e cura. 
Non era importante se per ora il demone non lo guardava, che fosse sempre perso nei suoi pensieri o se non lo ascoltava. Faceva male, era terribile vedere la persona che più amava al mondo così perso, ma Aziraphale poteva essere abbastanza paziente da aspettarlo e desiderando di poter dire: 
“Ti amo da centinaia di anni, ogni giorno un po’ di più. Mio dolce serpente sei bello come una pietra splendente, levigata dalle intemperie, che viene scoperta per caso da un bambino. Anche se sei fragile e spaventato in questo momento, non è forse vero che le cose più preziose sono spesso delicate e da maneggiare con cura? Non temere, ti stringerò finché non ti convincerai che c’è tanta di quella luce in te che anche l’inferno sembra un paradiso se tu sei accanto a me.” 

Aziraphale lo abbracciava, lo stringeva forte, finché non sentiva il corpo dell’altro rilassarsi quando era perso nei suoi pensieri. Appoggiava la testa contro la sua schiena e bisbigliava “Torna qui, ci sono io ad aspettarti, torna qui.” 

In quei momenti, non sapeva mai che fare, quindi gli pettinava i capelli che ormai erano diventati lunghissimi, li sistemava in una treccia di un rosso brillante. Quando Crowley si guardava allo specchio come se non si riconoscesse, Aziraphale si avvicinava piano a lui, gli diceva: 
“Toccagli la guancia, le labbra e il naso. Vedi? Quello sei tu, nessun altro. Se ancora non puoi vederlo, va bene. Ma non fargli del male, perché la persona davanti a te ha avuto davvero un millennio difficile e adesso ha bisogno di riposo.” 
Crowley lo guardava confuso, sbatteva le palpebre e si girava dall’altra parte, come se si vergognasse per quello che era appena successo. 

Quando era in quello stato, ogni tanto gli parlava. Aziraphale avvertiva sempre un brivido corrergli lungo la schiena, era come veder parlare un cadavere. 
“Sono così stanco di tutto questo.” Diceva mentre l’angelo gli prendeva le mani e incrociava le dita con le sue. Entrambi erano sdraiati nel letto, rannicchiati uno di fronte all’altro, con le coperte sopra la testa come a voler accentuare il senso di intimità. 
“Di cosa?” 
“Tutto, credo. Non riesco a sentire nulla. Sono stanco” 
“Di noi?” Sentì una fitta al cuore mentre diceva “Preferiresti che me ne andassi?” 
“Dovresti farlo.” mormorò Crowley. “Ma ti prego, non farlo. Non lasciarmi solo, non andare via.” 
“Non lo farei mai, mio caro.” Diceva e poi lo baciava teneramente. 

La verità era che Aziraphale non era abbastanza bravo con le parole ed era in una fase di stallo: Crowley non parlava quasi mai con lui, si girava dall’altra parte e sembrava così distante che ogni tanto sentiva la necessità di sfiorarlo per assicurarsi che fosse ancora lì. Aveva cercato di curare le piante ma di certo gli mancava il tocco del demone perché erano ingiallite e piene di macchie e questo non era altro che un altro fallimento al momento. 

Cercò di non pensarci e spesso si ritrovava a parlare con Madame Tracy e Anathema che gli dicevano di aver pazienza, di aspettare perché Crowley aveva solo bisogno di sfogarsi ma che ancora non aveva trovato il modo. 
Le due donne avevano un effetto calmante su di lui e non sembravano mai offendersi al rifiuto di Crowley nei loro confronti. 
“Sta dormendo.” Disse lui per la decima volta in un mese. 
“Lascialo riposare allora,” aveva detto con un sorriso delicato la più anziana “Dagli il tempo per processare tutto quello che è successo, non è facile e probabilmente ci metterà un po' più di tempo, devi solo essere paziente... ha bisogno di sfogarsi, piangere un po’ magari. Non voglio dire che starà subito meglio dopo, ma quello potrebbe aiutarlo.” 
Aziraphale la ringraziò ma poi disse di dover preparare altro , cercando di nascondere quanto fosse commosso dalla gentilezza dei quattro umani. 

 

 

 

 

 

Mayfair, Londra, Inghilterra, 548 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

C’erano due stanze che Crowley aveva evitato come se contenessero un veleno mortale: la stanza delle piante e quello dove aveva rinchiuso tutti i suoi strumenti musicali qualche secolo prima, fingendo che non fosse mai esistita. 
Aveva studiato con minuzia come Aziraphale aveva ripristinato il disegno di Da Vinci, la statua dell’aquila, i mobili e gli specchi. A occhi umani potevano sembrare come nuovi, come se niente fosse mai successo. Ma il demone poteva vedere le profonde cicatrici tra le molecole che costituivano la carta e la pietra e se quello era il risultato, non osava immaginare in che stato potessero essere le piante. 

Un giorno come un altro, fece un passo più in là, varcò la soglia della stanza dove celava al mondo il suo giardino privato. Non appena lo vide udì solo il tremolio delle piante e quel fischio fastidioso che avvertiva tutte le volte che era da solo in una stanza. Si portò per un momento le mani alle orecchie, chiuse gli occhi e sospirò. 

Le piante di Crowley lo amavano, profondamente. 
Questo perché il demone gli forniva tutto il necessario per essere perfette: il terreno mischiato con i minerali più nutrienti, acqua spruzzata a intervalli precisi, le posizionava in modo che il sole arrivasse sempre alla giusta angolazione, venivano curate sempre con cura e passione. Lui faceva di tutto per loro e di certo non era colpa sua se alcune foglie decidevano di ribellarsi come folli, si ingiallivano come una sfida prepotente nei suoi confronti, e lui era costretto a spogliarle dei loro confort, scacciarle dal loro bel giardino privato, e ripiantarle nel terreno duro e secco del parco alla mercé delle intemperie e degli animali. 
 

Loro continuavano ad amarlo perché, anche se era come un genitore severo e crudele, di generazione in generazione avevano iniziato a conoscerlo. Di foglia in foglia si erano passate il segreto di un Serpente triste e solitario, che non aveva bisogno di molto se non di sfogare la propria rabbia e di sentire di avere il controllo su qualcosa, fossero anche queste delle semplici piante. 
Quindi accettavano ogni giorno come una sfida: le piante di Crowley erano come il loro padrone, survivaliste. 

Misero in moto clorofilla e tutto quello che potesse servire per crescere in fretta, cercando di allungare i pochi rami e foglie che gli erano rimaste verso il demone. Crowley era in mezzo alla stanza, mani sulle orecchie e occhi chiusi mentre cercava di ignorare le gambe tremolanti, cercando di soffocare il silenzio che lo avviluppava. 
“Non ho bisogno della vostra pietà.” Disse lui senza neanche guardarle. Quando aprì gli occhi, loro stavano tremando, consce di avere un aspetto terribile. Crowley prese una foglia a caso, piena di tagli e la guardò. 
Per una volta evitò di gridare. Le piante avevano già visto il suo lato peggiore, meglio lasciarle riposare per un po’. 

Fu lì che lo trovò Aziraphale. Sembrava stanco e svuotato, indebolito da notti insonni o da un sonno che non gli aveva permesso di riposare veramente. In mezzo alla stanza tra le piante, che una volta erano state le più belle che avesse mai visto, ma che adesso tremavano con i rami spezzati e le foglie marroni come se fosse appena passato un tifone. 
“Crowley?” 
Il demone non rispose, non che si fosse aspettato il contrario. 
Aziraphale gli girò intorno, guardando il suo viso privo di espressione, aspettando che aprisse gli occhi. 
“Devo uscire.” Disse all’improvviso. Aziraphale si stupì nel sentirlo parlare. 
“C-certo, mio caro.” Balbettò “sei stato al chiuso per troppo tempo, dammi solo un momento, possiamo andare a dar da mangiare alle papere, pranzare al Ritz magari, fare una passeggiata —” 
“No.” Disse con voce decisa il demone “No, ho bisogno di stare da solo.” 
Aziraphale lo guardò, sentendo un brivido scorrergli lungo la schiena. “Capisco.” 
“Non ci metterò molto.” 
“Ti aspetto qui, preparo qualcosa per pranzo.” 

Crowley annuì, prendendo gli occhiali da sole dal tavolo, li indossò e poi uscì dall’appartamento, senza aggiungere altro. Aziraphale seguì ogni suo movimento, guardandolo dalla grande vetrata mentre camminava lungo il marciapiede. 
L’idea di seguirlo di nascosto lo aveva sfiorato più e più volte e quella manciata di minuti erano durati trenta volte tanto mentre lo spettava. Ma non lo aveva fatto, cercando di ristabilire un equilibrio che sembrava essersi spezzato. 

In realtà, il demone era stato di parola. Dopo meno di mezz’ora Aziraphale aveva sentito la porta di casa aprirsi piano e richiudersi e il demone si era diretto silenziosamente verso la camera da letto. L’angelo lo aveva osservato sfilarsi i vestiti e infilarsi a letto, senza dire una parola. 
Non commentò. Si sedette accanto a lui, gli accarezzò la base del collo e per la prima volta dopo essere entrato nella chiesa si ritrovò a pregare che qualcuno — Dio magari — potesse proteggere e curare il demone visto che lui non sembrava in grado di farlo al momento. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Note: 

Lo so, sono schifosamente in ritardo. Cos'è che avevamo detto, che dividendo il capitolo ci avremmo messo molto meno? ah, che illusi che siamo. 
Ok, ho avuto la febbre, sia io che Davide (Aspirina_effervescente, il ragazzo che sta scrivendo segretamente questa storia con la fidanzata pazza ma che sinceramente ADORO? ecco, lui è il mio coinquilino, si è beccato il raffreddore e me lo ha attaccato, lo stronzo, quindi per un'intera settimana siamo rimasti morenti a cercare di scrivere e studiare senza avere la forza di sollevare una pagina.) 

Anche se non sembra, questa è una storia a lieto fine, siamo molto eccitati all'idea di scrivere il finale perché è una di quelle parti che abbiamo iniziato a scrivere per prime  

Altra cosa importante: Qui potete trovare la copertina (per la versione tradotta che potete trovare su AO3) che ho disegnato per la storia perché sono appassionata di illustrazioni e probabilmente disegnerò altro in futuro. 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Epilogo parte terza: Il vero primo giorno del resto delle loro vite. ***


Probabilmente

non sei più chi sei stata

ed è giusto che così sia.»

(Eugenio Montale - "Gli uomini che si voltano", vv. 1-3)

 

 

 

 

Mayfair, Londra, Inghilterra, 530 giorni dopo l’Apocalisse che non c’è mai stata. 

 

Crowley ci aveva provato altre due volte. 
Era come se non uscisse dal suo appartamento da secoli, eppure la prima volta che aveva messo un piede fuori di casa era dovuto tornare subito indietro. 
In quei momenti, non riusciva a non pensare cosa sarebbe successo se, incrociando una vetrina o uno specchio, avesse di nuovo visto la donna. Sapeva che non sarebbe potuto succedere, ora che l’illusione era stata svelata sarebbe stato impossibile tornare indietro, l’idea lo tormentava comunque. 
Il vuoto era sempre presente, camminava come uno spettro tra gli umani che aveva sempre amato e odiato allo stesso tempo, ma che non avevano mai fallito di incuriosirlo, affascinarlo, stregarlo con le loro vite sconclusionate, le loro invenzioni geniali, il loro modo di essere né buoni né cattivi. 

Tutto faceva male, ogni movimento una fitta intensa, le bende tiravano sulla pelle che si stava riformando. Lontano da Aziraphale si sentiva perso. Al tempo stesso, un senso di oppressione lo assaliva ogni volta che incrociava il suo sguardo, insicuro su quanto tempo avesse perso tra una conversazione e l’altra. 
 
Gli occhi azzurro chiaro dell’angelo erano come un lago su cui si riflettevano tristezza e dolcezza, avvertiva ogni volta una leggera sensazione di disagio perché sapeva che avrebbe dovuto sentirsi allo stesso modo.  
A volte era difficile convivere con quella mancanza di sentimenti, soprattutto se accanto a lui c’era qualcuno che li esibiva in modo così palese. 

Non sapeva dove stesse andando. 
Si aggirava per la città senza una meta, perso nei suoi pensieri. A volte i piedi lo portavano da qualche parte, senza che la mente se ne rendesse conto. Questa volta, il suo corpo si era fermato davanti alla porta di un edificio. 
Crowley guardò il nome sul campanello, conscio che avrebbe dovuto suonare, spiegarsi e chiedere scusa. 

Aveva due scelte davanti a lui:  
Allungare il braccio e premere quel pulsante o girare i tacchi e attraversare la strada. Da quella parte, c’era un pub che prometteva litri e litri del liquore più scadente. La tentazione di annegare quella totale mancanza di quel qualcosa nell’assenzio e nel whiskey era allettante. L’idea di poter dimenticare cosa fosse successo solo per qualche ora, di potersi lasciarsi indietro le bruciature e le ali che non era sicuro sarebbero mai guarite… e forse il suo corpo sarebbe tornato ad essere una tela bianca su cui qualcuno avrebbe potuto scrivere qualsiasi storia avesse desiderato. Un demone dell’inferno che colleziona anime sudice e meschine, ecco cos’era, e sarebbe bastato per dimenticare, dimenticare, dimenti 

“Crowley?” 
La voce lo fece trasalire, si girò scoprendo con orrore che dietro di lui c’era Madame Tracy, sorpresa nel trovarlo davanti alla sua porta. 
“Ti serviva qualcosa, tesoro?” 
“Ah, ngk, no. Io ehm —” 
“Ti andrebbe una tazza di the?” Domandò la donna. 
“Ah, no. Non vorrei disturbare.” 
“Non essere sciocco, andiamo. Ti prenderai un raffreddore a stare qui fuori.” Lo prese per un braccio e lui si ritrovò a indietreggiare senza volerlo.  
La mano della donna rimase appoggiata per un momento sul suo avambraccio, un tocco leggero, impercettibile, come se sapesse delle bruciature che costellavano il suo corpo. Lei si avvicinò piano, prese il suo braccio con gentilezza e solo quando fu sicura che il tocco non gli procurasse nessun problema, lo accompagnò silenziosamente dentro casa. 

L’appartamento di Madame Tracy non era molto diverso da come lo ricordava: piena di ninnoli e stravagante, colori mischiati insieme che rendevano la casa stranamente piacevole alla vista. La donna si diresse in cucina e Crowley si domandò, per un momento, come mai fosse uscita di casa.  
Quando glielo chiese, lei rispose che non lo sapeva. Aveva avvertito la necessità impellente di uscire per un momento, forse per prendere una veloce boccata d’aria. Strano. 

 
“Dimmi tesoro, c’è qualcosa che posso fare per te?” Domandò la donna con un sorriso gentile sedendosi davanti a lui, solo il delicato tavolo di legno a dividerli. 
“Io—” iniziò Crowley, “Io vorrei chiederti scusa, Tracy.” Disse con lo sguardo basso. 
“Oh, Crowley,” sorrise lei “Non hai niente di cui scusarti.” 
“No, io devo farlo. Per favore.” Disse lui, senza guardarla in faccia, “Mi dispiace di aver urlato, di essermi comportato in modo tanto stupido con te e Shadwell.” Provò ad aggiungere altro ma gli si strinse la gola. Non era mai stato bravo in quel genere di cose. 
“Tesoro,” rispose lei “ti ho spaccato un vaso in testa e ammanettato al letto. Direi che siamo pari, no?” 
Lui non riuscì a soffocare una debole risata “, quella è stata una sorpresa.” 

Lei rise con lui e rimasero per qualche secondo in un confortevole silenzio, sorseggiando il tè ognuno perso nei propri pensieri.  
Madame Tracy, notò lui, era bella e aveva quell'aura che ricordava di aver visto solo intorno alle madri più amorevoli. Iniziò a chiedersi se avesse mai avuto figli. Scostò velocemente quel pensiero, notando che nella casa della donna non c’erano foto di bambini o di giovanotti e di certo quelle erano il genere di cose che una donna tiene in casa, anche se i figli erano cresciuti. O almeno, così aveva sentito dire. 

“Crowley,” disse ad un tratto la donna, scostandolo dal suo divagare “Posso farti una domanda?” 
“Certo.” 
Non aveva ancora toccato il suo . Le sue mani tremavano troppo. Sperò che la donna non lo notasse. 
“Tu sai che genere di persone vengono qui?” 

Lui arrossì per un momento. Ricordava quali fossero i due mestieri di Madame Tracy, di certo non la giudicava per questo (uno degli umani che aveva amato di più al mondo era stata una prostituta, d’altronde) ma per qualche strana ragione immaginare nello stesso contesto la donna gentile di fronte a lui era estremamente imbarazzante. 
Lei si lasciò sfuggire una risata argentina, come se avesse letto per l’ennesima volta quello che gli frullava in testa. 

“Non intendo quello, tesoro.” Disse in tono leggero scuotendo una mano “Voglio dire, sai chi viene qui per parlare con Madame Tracy?” 
“No.” Disse ancora un po’ rosso in viso. 
“Persone che hanno perso i loro cari.” disse lei e il sorriso divenne triste. “Sai, credo che la maggior parte di loro sapesse che era tutta una truffa. Perdere una persona che è stata vicina a noi per tanto tempo… bè, è destabilizzante.” 
Crowley strinse una mano al petto. Il serpente dentro di lui iniziò di nuovo ad agitarsi. 

“È così evidente?” 
“Tesoro mio, con questo lavoro ho visto così tante cose che sono diventata una specie di esperta.” 
“È solo che,” provò a dire lui, “lei era cattiva. Sussurrava cose, quasi costantemente, ed ero così abituato a sentirla e vederla che perderla… dovrei esserne felice, giusto? Contento, triste?” Domandò incerto “No, no, non dovrei essere triste, questo è fottutamente ridicolo. Non so cosa dovrei provare, non sento niente e —” smise di parlare, realizzando che non sapeva cosa dire. 

La donna lo guardò tristemente, gli prese la mano e la accarezzò teneramente. Durante quei mesi in cui Crowley si era rifiutato di vedere chiunque, afflitto dalla febbre e dalla stanchezza, Aziraphale non aveva mai abbandonato il suo fianco. Ogni tanto qualcuno dei quattro umani erano andati a trovarlo ma lui si era sempre rifiutato di vederli. L’angelo aveva accennato qualcosa a Crowley ma non sapeva quanto in là si fosse spinto nello spiegare cosa fosse successo. 
Non importava al momento. 

“Sai, tesoro, a volte amiamo persone che ci fanno del male.” Disse e lui si chiese come fosse possibile che lei avesse capito un sentimento così profondo che neanche lui riusciva a identificare. “E questo non è giusto, nessuno dovrebbe farci del male. Succede, purtroppo. Piangere la loro scomparsa non è da deboli o da stupidi, il vuoto che lasciano è comunque straziante.” Tracy lo guardò, il suo sorriso triste non sembrava mosso da pietà ma solo da un grande affetto. 
“Ne hai parlato con Aziraphale?” 
“Non voglio, è umiliante.” 
“Non vergognarti dei tuoi sentimenti, tesoro.” Disse lei “Quell’uomo ti ama così tanto, avresti dovuto vederlo. Avrebbe mosso mari e monti pur di salvarti. Ma adesso ha bisogno che gli parli, che gli spieghi ciò che provi.” 
“Non voglio che lui pensi che sia pazzo. Voglio dire, sicuramente già lo pensa, ma non posso dirgli che ho amato una persona che non è mai stata lì.” 
“Non essere sciocco adesso.” Mormorò lei “nessuno di noi pensa che tu sia pazzo.” 

“Il fatto è che…” disse stringendo più forte la mano intorno alla sua maglietta, accogliendo per un momento il dolore che sprizzava dalla sua mano “lei ha detto una cosa che mi ha spaventato, qualcosa di terribile.” 
“Cosa?” 
“Che lui — Crawly, il serpente — è ancora dentro di me.” Disse, per un momento avvertì una fitta al cuore, non fisica, non faceva davvero male ma allo stesso tempo il dolore era straziante. Avvertì gli occhi pungere e per la prima volta dopo settimane (mesi, anni?) iniziò a piangere. Nascose il viso tra le mani. “È qualcosa che non posso lasciare che accada, fa paura. Non posso perderlo, non di nuovo.” 
Il ricordo di Aziraphale senza vita sotto di lui, in un mare di sangue, lo perseguitava ogni volta che incrociava lo sguardo dell’angelo. 

Madame Tracy si alzò dalla sedia, per un momento Crowley pensò che lo avrebbe sbattuto fuori di casa. Invece si avvicinò a lui, lo abbracciò delicatamente lasciando che appoggiasse la testa contro il suo stomaco. Mani amorevoli come quelle di una madre gli accarezzarono i capelli e lei disse, tristemente: 
Sai già che devi dirglielo. Capisco che tu voglia proteggerlo, ma non riesco a immaginare tu che cerchi di fargli del male. Però voi due siete anche un po’ degli idioti e avete chiaramente bisogno di parlare.” 

“Sto impazzendo in quell’appartamento, non riesco a starci, ogni maledetto mattone mi ricorda cosa ho fatto e io non sono sicuro di poter affrontare quella casa così vuota quando Aziraphale se ne andrà.” 
“Perché dovrebbe andare via?” 
“Perché si spaventerà, scapperà via come fanno sempre tutti.” 
“Io non sto scappando, tesoro mioDi certo non lo farà lui.” 
“Tu non sai le cose che ho fatto, quante volte l’ho tradito.” 
“Ma lui ti ama nonostante tutto, no? Andiamo, facciamo una passeggiata, ti accompagno fino a casa così potrai parlare con il tuo bell’angelo. Porto con me un vaso, così se prova a scappare posso tirarglielo in testa. Disse con tono deciso la donna, senza rompere il loro abbraccio. 

Crowley emise uno sbuffo che sarebbe potuto sembrare una risata se non fosse stata soffocata dai singhiozzi. La donna aspettò pazientemente che si sfogasse. Il calore emanato dal suo corpo era come un balsamo lenitivo, e il demone si lasciò cullare per un momento da quel senso di dolcezza. Non aveva idea dove fossero finiti gli occhiali. In un altro momento si sarebbe vergognato del suo tracollo, così impetuoso dopo settimane passate a ignorare quei sentimenti troppo difficili da affrontare. 

Si sentì fluttuare, non come era successo in passato, c’era un improvviso senso di calma, di sollievo nel poter finalmente avvertire qualcosa. 
Quando si fu calmato, Madame Tracy lo aiutò a rialzarsi e si incamminarono verso la porta. 
Per la strada, a braccetto e stretti per schermarsi un po’ dal freddo, Tracy parlava del più e del meno, mentre il demone ascoltava, confuso dalla sua gentilezza. Ancora prima che potesse rendersene conto, erano davanti alla porta del suo appartamento. 

“Madame Tracy!” salutò Aziraphale con un sorriso, quando varcarono la soglia. 
Aveva uno sguardo preoccupato, probabilmente perché era sparito per delle ore, ipotizzò Crowley. O forse era per il suo aspetto, per il viso rosso e gli occhi gonfi dopo aver pianto. Magari era per tutte e due. 
“Buongiorno, caro. Sembra che io abbia catturato un bel ragazzo tra le mie grinfie questa mattina. Disse lei ridacchiando. 

“Crowley…” sospirò l’angelo sollevato. “Stai bene?” 
Lui non rispose, si sciolse dall’abbraccio della donna con un sorriso appena accennato, andandosi a sedere sul divano a braccia conserte. 
“Madame Tracy, posso offrirti una tazza di ?” Domandò l’angelo, sforzandosi di sembrare naturale, come se niente fosse successo. 
“Oh, no tesoro. Ho alcune commissioni da fare, ci vediamo presto.” Disse lei e poi rivolse lo sguardo verso Aziraphale portandosi un dito sulle labbra, sorrise e fece l’occhiolino. Girò i tacchi e uscì dalla porta, lasciandolo congelato sul posto, con un elegante sopracciglio alzato che diceva: Ma che diamine è successo? 

Per un po’ ci fu un silenzio imbarazzato, e l’angelo commentò: “Madame Tracy che rifiuta il , che mondo è questo?” 
“Probabilmente è uno dei sette segni di una nuova apocalisse.” Disse Crowley con voce roca. Aziraphale sussultò impercettibilmente, non più abituato ai commenti sarcastici del demone. 
Decise che era un buon segno. 

 Sedendosi accanto a lui disse “Com’è stata la tua passeggiata?” Non perché fosse la cosa più intelligente da dire, ma erano rimasti per così tanto in silenzio che credette che Crowley non avrebbe più parlato. 
“Sono spaventato.” Disse il demone, come se non avesse sentito la domanda. Non sapeva come iniziare quella conversazione, aveva paura di non riuscire a esprimere tutto ciò che provava e quindi decise di sputare il rospo, dire tutto il più velocemente possibile. “Sono triste, sono felice, non mi sento al sicuro… tutto insieme. Non so come spiegare…” disse incerto. 
“Fai del tuo meglio, mio caro.” Lo incoraggiò lui, stupito dalle sue parole. “Io rimarrò qui ad ascoltare, non importa cosa mi dirai.” 

Crowley emise un sospiro tremolante. Poi iniziò a parlare, gli spiegò tutto, di come avesse amato una donna crudele che non era mai esistita, del vuoto dentro di lui, il serpente nel suo petto e Crawly nello specchio. La costante paura che quella calma in cui stavano vivendo non fosse altro che una bolla di sapone pronta a scoppiare al minimo sbuffo di vento. Ancora peggio, che non fosse reale. 
“Ma Crawly è reale, angelo. Posso sentirlo mentre districa e intreccia le sue spire proprio al centro del mio cuore. Sono terrorizzato all’idea che un giorno prenderà il sopravvento e ti attaccherà.” 

Aziraphale rimase in silenzio, guardandolo intensamente con i suoi meravigliosi occhi azzurri. 
“Perché dovrebbe farlo?” Domandò con tono curioso. 
“Lui è un demone.” 
.” Rispose sincero l’angelo. 
“Ha condannato tutta l’umanità… è cattivo.” 
Aziraphale si prese un momento per pensare a cosa rispondere. Non aveva dubbi su quel che avrebbe detto ovviamente, sentiva solo la necessità di usare per una volta le parole giuste. 

“Credo che io e te ricordiamo Crawly in modo decisamente diverso.” Era doloroso dover parlare di lui in terza persona, per il suo bene lo fece comunque. “Mio caro, lui è lo stesso demone che ho protetto con le mie ali dalla pioggia, che mi ha fatto sentire il suono di un gishgudi per la prima volta. Quello che ha pianto per i bambini dell’Arca, che ha cantato per me durante quelle notti solitarie in Grecia. Crawly è lo stesso demone che non capiva come qualcuno potesse essere punito per aver chiesto solo un po’ di gentilezza. 

Crowley lo guardava con occhi sgranati, come se non riuscisse a processare quello che avesse appena detto “Ma lui… è un demone. Il serpente che si agita dentro di me, che ha condannato l’umanità. Mi ricorda costantemente che un giorno potrebbe prendere il sopravvento e ferirti.” Sospirò “Come puoi fidarti di lui?” 
“Questo è semplice, mio caro.” Rispose Aziraphale con un sorriso, neanche una nota di esitazione nella voce. “Io mi fido di te. Non ho niente da temere, non importa quante volte dovrò ripetertelo, tu non hai fatto altro che proteggermi. Adesso lascia che faccio lo stesso per te.” 

“Ma allora, come puoi fidarti di me? Ho ucciso una persona, Aziraphale.” Disse serio, con lo sguardo terrorizzato mentre calde lacrime gli solcavano il volto. “Non lo avevo mai fatto, lo giuro. Lo so che sono un demone, dovrei provare piacere per questo genere di cose, ma non avevo mai ucciso nessuno. Vorrei che andassi via, vorrei che restassi, vorrei dimenticare ma ho paura di farlo. So che hai detto che in questo modo l’ho salvata, ma non ce la faccio più a sentire discorsi come ‘tutto succede per un fine più grande’ perché questo non cambia il fatto che io abbia ucciso una persona innocente.” 
C’era tristezza nella voce tremolante del demone. Aziraphale lo guardò provando uno strano senso di sollievo nel vedere che il demone lasciarsi andare finalmente al pianto. 

(Era una sensazione particolare, essere contento nel vedere così disperato la persona che amava di più al mondo. Ma vedere Crowley così apatico, durante quelle settimane trascorse in un silenzio quasi mortale, quando solitamente era così energico e pieno di vita, era stato uno spettacolo terrificante. Dove c’era disperazione, paura e tristezza, potevano sbocciare anche speranza, coraggio e felicità e Aziraphale sentì che quello era il suo fine ultimo, la sua missione eterna: far rinascere tranquillità e passione nel cuore del suo più caro amico.) 

“Dovrei essere punito, Angelo. Non so come vivere con questo peso sulla coscienza.” Sospirò profondamente e aggiunse con un tono sconsolato: “Non so cosa fare, Aziraphale. Non ce la faccio più a essere solo.” 
L’angelo sorrise. Il guardiano dentro di lui spalancò le ali ed emise tanta luce da poter oscurare il sole. Nell’appartamento, lui non fece niente di tutto ciò ma accorciò le distanze, abbracciò il demone rispose: 

“Sai, mio caro, in questi giorni ho pensato molto.” Incominciò, accarezzandogli la schiena. “Ho pensato al tempo. A come sia breve per gli umani, a come sia infinito per noi. A come abbiamo agito da stupidi, soprattutto io, a come abbia disegnato una linea tra di noi che non è mai esistita. Ho pensato a come sembri così assurdo, ma anche così giusto, che il mio corpo si incastri perfettamente con il tuo, come se fossimo due metà di una mela che combaciano perfettamente.” Fece una piccola pausa, un dolce sorriso, poi riprese il suo piccolo monologo. “Non ti insulterò dicendo di capire cosa stai provando. L’unica cosa che posso dire è che tu l’hai salvata, Crowley. Se davvero credi di meritare una punizione per questo, amore mio, lascia che ti dica una cosa: Dio stesso mi ha comandato di salvarti. Hai scontato la tua pena, adesso è il momento per entrambi di andare avanti, iniziare un nuovo capitolo come esseri liberi. Non importa quanto sarà difficile, io sarò accanto a te in ogni momento.” Guardò Crowley mentre piangeva, e il demone avvertì un senso di sollievo espandersi dal centro dello sterno. Sembrava stanco e Aziraphale lo strinse un po’ di più a sé. 

“Quindi ecco cosa faremo: adesso ti accompagnerò a letto e mi sdraierò accanto a te. Tu ti addormenterai e io aspetterò che tu ti senta abbastanza riposato da svegliarti di nuovo. Torneremo alla libreria, raccoglieremo quei pochi oggetti che sono importanti per noi — i miei libri, le tue piante, il mio , la tua Bentley, i miei vestiti datati, i tuoi strumenti musicali — perché forse, è arrivato il momento di smettere di avere qualcosa che sia solo tuo o solo mio e finalmente avere qualcosa da poter chiamare nostro.” 

“Nostro?” 
“Una casa, per esempio. Un letto, un giardino. Degli amici, un cielo stellato, un vicinato tranquillo, giornate trascorse insieme e smettere di pensare a noi due come due entità separate ma come una sola.” 
“E tu faresti questo per me?” 
“Lo farei per noi.” 
“Ma... tu ami la tua libreria.” 
“Amo di più te.” Rispose lui con un soffice sorriso, “C’è solo una cosa che voglio da te se accetterai la mia proposta.” 
“Cosa?” Domandò Crowley con gli occhi che luccicavano per le lacrime, lo sguardo speranzoso. 
“Vorrei che cercassi di essere più gentile con Crawly. Io lo amo immensamente perché è parte di te. E se ancora non puoi vederlo, va bene, io ho abbastanza amore per entrambi… ma promettimi che ci proverai.” 

Crowley annuì piano, dimenticandosi come si usassero le parole per un momento. Aziraphale fu abbastanza soddisfatto anche così. Aspettò che il fiume di lacrime si placasse. 
Avvertì improvvisamente una stanchezza schiacciante, come se trecento anni di paura e terrore si fossero finalmente districati dalla sua schiena. L’angelo lo accompagnò a letto, come aveva promesso, si mise accanto a lui e quando furono entrambi comodi, iniziò a far scorrere le sue dita fra i suoi capelli. 
“Adesso dormi, amore mio. Io veglierò su di te, non permetterò a nessuno di disturbare il tuo sonno. Quando ti sveglierai, lo farai dopo aver sognato ciò che ami al mondo.” 

 

 

 

 

Quando ti sveglierai, lo farai dopo aver sognato ciò che ami di più al mondo. 

 Per la prima volta dopo secoli non sogna nulla di terrificante. 
Crowley sogna invece un giardino, l’erba morbida sotto il suo stomaco, due amanti che danzano nudi su di un prato. Sogna ali bianche che lo proteggono dalla pioggia, foglie di un verde brillante, qualcuno che gli sussurra parole dolci all’orecchio. 
Non erano niente di mondano quei sogni ma qualcosa di domestico che aveva sempre desiderato: cucinare per cena, stendere una tovaglia bianca su di un tavolo. Annaffiare delle piante, qualcuno che legge ad alta voce un libro. Un piccolo cottage con mobili di legno, una grande serra sul retro con muri di vetro per far entrare il sole. Indossare un vestito bianco e candido. Un divano rivestito di un terribile pattern tartan che avrebbe amato, notti tranquille spese a sorseggiare cioccolata calda e a guardare le stelle. Ogni tanto c’era della musica a volume alto, una macchina che sfrecciava veloce, il dolce suono di un pianoforte. 
In questo contesto, la cosa che sogna più spesso è un angelo che rimane sempre accanto a lui, che lo ama e che non smetterà mai di farlo. 

poi: 
sogna dei bambini che corrono in un prato. 
Qualcuno ruba una mela, mani piccole che si allungano e l’agguantano. I bambini ridono, qualcuno si arrabbia ma non succede nessuna disgrazia. Sono solo bambini, sono abituati fin dall’inizio all’idea di crescere e cambiare, mettersi nei guai e poi essere perdonati. La promessa di un amore, di neve che dondola e cade, di fiori che sbocciano. Sogna un’estate che inizia senza mai finire, in un giardino che è tutto loro, da dove non verranno mai scacciati e dove ci sono mele che nessuno ha vietato di mangiare. 

poi: 
sogna un cimitero. Sogna una ragazza, capelli biondi ed occhi chiari avvolta in un abito nero. La ragazza si avvicina e lui la guarda, incuriosito. Per un istante ne ha paura, vorrebbe iniziare a correre, scappare. La ragazza si ferma accanto ad una tomba. Forse sarebbe davvero fuggito se non fosse che la ragazza alza lentamente una mano e si sfila via il pesante velo dal viso; si svela. 
La guarda meglio e forse si era sbagliato. Il viso è dolce, i capelli biondi brillano come il sole, indossa un vestito leggero e bianco come la neve. 
E Dio, è bellissima. 
Lei sorride, lo guarda dolcemente e dice “Grazie.” 

poi: 
sogna di essere sul muro orientale dell’Eden. Accanto a lui, Crawly. 
I due demoni indossano una lunga tunica scura, rovinata e bruciata alle estremità, sono a piedi nudi, hanno lunghi capelli rosso fuoco, occhi gialli da serpente, ali nere spiegate dietro le loro schiene. Né angeli, né demoni, né umani avrebbero potuto capire la differenza tra i due. Lo stesso vale per loro. 

Bhè, questo è strano.” Dice quello a destra. 
“Dovrei forse dire Bhè, questo è stato proprio un bel fiasco?” 
“Non rubarmi le battute.” 
“Mi sembra giusto.” 

Per un po’ c’è un silenzio imbarazzato, i due riprendono a guardare l’orizzonte. 
“Ma tu hai capito cosa è successo?” Domanda uno, genuinamente confuso. 
“Ah, ehm…non del tutto, onestamente.” 
“Sai, credo di aver esagerato con te. Non hai mai cercato di fare del male a Aziraphale. Non credo che lo faresti mai.” 

Bhè, grazie per averlo notato finalmente.” Il tono è sarcastico e pungente, ma nasconde una vena di sollievo. “Comunque non credo che lui abbia granché bisogno di protezione. Da cosa lo abbiamo salvato, qualche scartoffia? Lui ti ha protetto e accudito per trecento anni senza mai chiedere nulla in cambio. È perfettamente capace di badare a sé stesso.” 

“È entrato in una chiesa chiedendo all’Onnipotente di farlo cadere, se davvero avesse creduto che fosse un peccatore per avermi amato.” 
“Che ha fatto?! Domanda scioccato l’altro. 

“Giuro su D— Sat— Qualcuno che quell’angelo non ha alcun senso di autoconservazione.” 
“Forse questo è il motivo per cui lo amo.” 
“Quando lo hai capito?” 
“Qui, su questo muro. Subito dopo aver detto che aveva dato la spada agli uomini. C’è una piccola pausa “Tu?” 
“Roma. Mi ha tentato ad andare a pranzo con lui. Riesci a crederci? Un angelo che tenta un demone.” 
I due ridono di gusto, ci mettono un po’ prima di riprendersi. 

“Stavo anche pensando… la mela.” 
“Tu non fai altro che pensare a quella maledetta mela.” 
“Non credo che tu abbia fatto del male dandola agli uomini.” 
“Io credo,” dice l’altro “che alla fine una mela sia solo una mela, gli umani sono sempre stati così, sia buoni che cattivi.” 
“Magari era semplicemente qualcosa destinato a succedere. Sai, ineffabile.” 
“Tu che parli di ineffabilità?” Domanda con un uno sbuffo “Davvero, questa è la conversazione più strana che abbia mai avuto.” 
“Forse Aziraphale ha sempre avuto ragione e noi siamo stati così stupidi da non rendercene conto.” 

“Noi?” 
“Tu e io.” Precisa l’altro. 
“Quindi tu… ehm… mi perdoni per essere caduto?” 
Lui si gira a guardarlo e per la prima volta i loro occhi si incrociano. Il demone davanti a lui ha gli occhi lucidi, specchi gialli che si riflettono nei suoi, luminosi come gemme. Allunga una mano verso di lui, abbracciandolo e creando piccoli cerchi tra le scapole, lungo l'attaccatura delle ali, cercando di consolare il demone che adesso piange fra le sue braccia. L’altro ci mette solo un momento per ricambiare il gesto. 

“Inizio a credere che forse non sia stato un errore cadere. Certo, ha fatto male, ma il Paradiso non faceva per noi, abbiamo sempre fatto troppe domande. Questo non significa che l’Inferno fosse meglio. Però se non fossimo caduti non avremmo mai incontrato Aziraphale.” 
Lui piange e il demone dai capelli rossi continua a disegnare piccoli cerchi lungo la sua schiena. “Sono stato uno sciocco a non capire che tu sei parte di me quanto io di te e mi dispiace, anche tu sei stato solo troppo a lungo. Non preoccuparti, adesso ci sono io qui per te.” 
Rimangono abbracciati ancora un po’. Quando si dividono entrambi hanno guance rosse e sembrano lievemente imbarazzati. 

Ma quanto sei gentile.” Dice uno dei due. 
“Ah, zitto.” Ridacchia l’altro. 

 

 

 

 

 

Il vero primo giorno del resto delle loro vite. 

Il vero primo giorno del resto delle loro vite inizia con il blu. Fili d’oro. Il colore rosa pesca. Crowley sbatte le palpebre un paio di volte, scoprendo che il blu non sono altro che gli occhi di Aziraphale che lo guardano mentre riprende conoscenza. I fili d’oro sono i suoi capelli, di solito così chiari da sembrare bianchi come la neve, che con il sole estivo che entra dalla finestra alle sue spalle diventano dello stesso colore di un gioiello, come se un’aureola gli incorniciasse il volto. Il rosa pesca è la sua pelle, morbida e calda. 
Crowley sbatte le palpebre. Lo fa lentamente, ripetutamente, perché l’angelo davanti a lui è una visione celestiale e lui fino a ora non aveva mai veramente compreso quanto fosse bello e luminoso. 

“Buongiorno, amore mio.” Cinguetta l’uomo. 

“Angelo.” Dice lui, con gli occhi lucidi, ancora un po’ assonnato. Chiude gli occhi per un momento, li riapre, l’angelo è ancora lì. Crowley si lascia sfuggire un sospiro di sollievo che non sapeva di star trattenendo. 
“Hai dormito bene?” 
“Angelo, io… quanto tempo?” 
“Un mese.” Dice lui, con uno sguardo rilassato. 
Crowley assaggia l’aria e c’è qualcosa di diverso, perché l’atmosfera intorno a lui sa di  al gelsomino, vecchi libri e legno caldo. 
“Siamo nella libreria?” chiede. 
“Nell’appartamento di sopra.” Conferma Aziraphale. “Visto che non ti svegliavi mi sono preso la libertà di spostare qui alcune delle tue cose, spero che non ti dispiaccia.” 

“No, no… va bene.” Crowley lo guarda, ancora sdraiato fra coperte morbide e candide “Io — angelo, Zira, io — ho fatto un sogno bellissimo, così tanti, non mi sono mai sentito così felice e credo… credo… credo che mi stia per venire un infarto!” balbetta. 
Si porta una mano al cuore, Aziraphale lo guarda, sgrana gli occhi. Crowley li vede diventare enormi mentre l’angelo porta una mano sul suo petto, ascolta il battito cardiaco veloce come quello di un uccellino. Ma Crowley non sembra sofferente, sorride rilassato, ha le lacrime agli occhi ma non sembra triste. 
“Ah, folle di un serpente.” Dice Aziraphale con l’espressione di uno a cui si sono arruffate tutte le penne. “Lo farai venire a me l’infarto.” 

Entrambi ridono, finché non piangono di gioia, finché le risate non si trasformano in baci, tanti baci, diciamo che i baci furono talmente tanti da essere impossibili da contare. Passa molto tempo prima che riuscissero a separarsi. 
Nessuno dei due sembrò incline a lamentarsene. 

Un centinaio di dichiarazioni d’amore più in là — e altri baci, ovviamente, frasi che sembrano uscite da un poema scritto nel quindicesimo secolo, perché Aziraphale non aveva mai smesso di parlare di Crowley come un nobile durante il Rinascimento, non che il demone fosse da meno dato che raramente rinunciava a un po’ d’effetto scenico — Crowley si ritrova seduto tra Anathema e Tracy, mentre sorseggia una tazza di tè e osserva Aziraphale mentre adagia i suoi preziosi libri in grossi scatoloni. Accanto a lui, Shadwell e Newt lo aiutano a smontare i pesanti scaffali. 

“Allora, Crowley. Quando avete intenzione di sposarvi?” Domanda Anathema. Crowley rischia per un attimo di soffocare con il tè che gli è appena andato di traverso. 
“Esatto, Quando?” Insiste l’altra. 
“Ah, ehm, ngk… non credete che sia un po’ presto?” 
“Presto?” Domandano in coro le donne, “Tesoro sono seimila anni che vi girate intorno come due gallinelle che beccano dalla stessa ciotola, direi che è arrivato il momento di far in modo che Aziraphale ti renda un demone onesto.” Dice Madame Tracy giocherellando coni capelli del demone che ha ancora il viso rosso nascosto nella tazza. 
“Non voglio andare troppo veloce per lui.” dice. 
“Oh, basta con queste stupidaggini.” Sbuffa Anathema. “Credo proprio che stiate andando alla stessa velocità.” 
“Dici?” 
“Ho detto quello che ho detto.” Dice lei, con tono fermo. 

“Dovete sbrigarvi a sposarvi, ho la mia età, non voglio sembrare una vecchia raggrinzita quando direte i vostri .” Dice Tracy ridacchiando. 
Per un momento Crowley ha una strana luce negli occhi, prende la mano della donna dai capelli rossi e la stringe un po’ più forte. 
“Tracy tu sei la donna più bella che io abbia mai visto. Se mi sposo non ti voglio al mio matrimonio, mi faresti sfigurare.” Dice, con un sorrisetto furbo. 
“Oh, tesoro, tu sei il demone più dolce che io abbia mai conosciuto.” 
“E io sono la ragazza più gelosa che sia mai esistita nell’universo! Insomma, devo andare a dire a Aziraphale che qualcuno sta cercando di rubargli il fidanzato?” Domanda sarcastica, Anathema. 
I tre iniziano a ridere, Crowley mette un braccio intorno alla spalla della ragazza. 
“Per ora sono anche felice così, il matrimonio è un concetto tutto umano, non ne abbiamo bisogno… credo.” 

Ha ancora il viso rosso come un pomodoro, quando Aziraphale appare da dietro uno degli scaffali. 
Può sentire Shadwell blaterare su come un demone abbia tentato all’ozio le due donne visto che si rifiutano di aiutarlo e Newt imprecare a voce molto bassa per essersi dato una martellata su un dito. 
“Di cosa state parlando, voi tre?” Domanda l’angelo con uno sguardo innocente. 
“Niente!” Rispondono in coro le due donne e il demone, tutti e tre con un ghigno sardonico in faccia. 

 La vita si muove velocemente quando non hai più paura di guardarti allo specchio.  
È un po’ come cadere, ma è una sensazione molto più dolce. Crowley e Aziraphale sono sempre stati due punti fermi in un mondo che si muove molto più in fretta di loro. Senza mai cambiare, ogni giorno, secolo, sempre uguali a quel primo pomeriggio di sei mila anni fa quando, per la prima volta, avevano parlato. 

Forse, dice un giorno il demone mentre guarda il cottage che avevano appena acquistato, anche per loro era arrivato il momento di cambiare. Decidono di comune accordo di darci un taglio con la magia, iniziano, o almeno ci provano, a vivere come due umani nella media, se non si conta che non invecchiano, che il cottage sembra contare molte più stanze del dovuto — cosa che farebbe ammattire qualsiasi geometra — e che la lavatrice è tanto benedetta quanto maledetta. 

Per ora, Crowley è ripreso con mano ferma da chiunque tutte le volte che solleva qualcosa più pesante di un foglio di carta. Questo perché Aziraphale afferma che, seppure le bruciature siano guarite quasi del tutto, le ali ci mettono molto più tempo. Crowley è ancora debole e fragile ma l’angelo gli assicura che stanno guarendo, che lui sta guarendo. Aziraphale gli dice che passerà presto e Crowley gli crede. 

(Per “essere ripreso con mano ferma” s’intende che il demone viene spesso fermato da qualsiasi atto che possa sembrare anche solo lontanamente Stancante — con una necessaria lettera maiuscola — nei modi più disparati. Gli aneddoti più esilaranti, per tutti meno che per il demone, sono quella volta in cui Shadwell lo aveva sollevato e trasportato fino al divano come un sacco di patate, dopo averlo sorpreso a cercare di recuperare alcuni dei suoi strumenti musicali per portarli in macchina. A poco erano servite le proteste, minacce, le (finte) maledizioni, l’uomo e Tracy lo avevano avvolto in una coperta talmente stretta da far sembrare il demone l’anello mancante fra l’occulto e un burrito. 

La seconda volta — Aziraphale ancora la racconta quando si ritrovano per Natale — era stato quando il demone si era incamminato fino al suo appartamento per recuperare la Bentley. Newt e Shadwell, le sue autoproclamate guardie del corpo, lo avevano seguito per tutto il tragitto cercando di non farsi notare. Crowley ovviamente se ne era accorto, ma aveva fatto finta di niente. Questo, finché Newt non aveva preso le chiavi della macchina. 
A poco erano servite le proteste dei due, Crowley si era, letteralmente, ancorato alla macchina strillando: 
“Neanche tra un milione di anni, neanche una piscina piena di acqua santa mi convincerà a lasciarti guidare la mia bambina. Ho visto cosa fai ai computer, non ti lascerò neanche sfiorare con un dito l’amore della mia vita!” 
“Ma senti un po’, e dire che credevo di essere io l’amore della tua vita!” Sbuffa, quel bastardo di Aziraphale, apparendo dal nulla. 
“Angelo, adesso non è il momento, — e comunque se tu hai abbastanza amore per me e Crawly io ne ho per te e la Bentley — il punto è che nessuno oltre me può guidare la mia ragazza.” 

Crowley non sapeva cosa fosse successo. Sapeva solo di essersi ritrovato nel sedile del passeggero, un’Anathema nervosa e sudata stava guidando lentamente la Bentley per le strade di Londra. Nonostante fosse un vecchio modello, quindi terribilmente difficile da guidare, la ragazza maneggiò la macchina in modo eccelso, soprattutto considerando che Crowley aveva osservato ogni suo movimento con l’espressione di un serpente che punta un topolino.) 

 

 

 

 

 Ci sono serate tranquille, adesso. 
Pomeriggi assolati, giorni spensierati, notti trascorse sorseggiando del vino costoso mentre si raccontavano vecchi aneddoti. 
Quando Crowley ispeziona il suo giardino, le piante tremano sotto il suo sguardo.  

Adesso, quando grida, sembra più una recita e le piante sono ben felici di fare la loro parte. Esprimono tutto il loro potenziale, le foglie diventano più verdi, quelle che possono fioriscono, le piante da frutto regalano prelibatezze. Tutto per rendere felice il loro amato serpente. 

(Ma soprattutto, sono terrorizzate da Aziraphale. L’angelo le elogia quasi costantemente ma quando nota una macchia su una foglia la guarda e dice “Davvero, non sono arrabbiato, sono solo molto deluso. Non credi che Crowley meriti di meglio?” Le piante decidono di comune accordo che sarebbe stato meglio se si fosse messo a urlare, non sopportano il senso di colpa. Il risultato è che il loro è il giardino più bello dell’intero villaggio.) 

C’è qualcosa che non aveva piantato che cresce nel giardino.  
Crowley se ne accorge solo qualche settimana dopo. Osserva il germoglio con le mani in tasca, un sopracciglio alzato. 
“E tu cosa sei?” Domanda. 
Ogni tanto lo minaccia. Non sembra mai spaventarsi e questo lo disturba immensamente. 

Trascorre un anno e il germoglio cresce e diventa un albero. 
“Un fottuto albero di mele, angelo.” Dice Crowley guardando preoccupato l’alberello che se ne sta tranquillo sul bordo del giardino. “Un fottutissimo albero di mele.” ripete. 
Aziraphale non ha bisogno di sentire, per l’ennesima volta, che c’è un albero di mele nel loro giardino. Può benissimo vederlo da sé. 

“Magari è un simbolo di pace.” Dice lui. “Un modo per Lei di dire che è felice che tu stia meglio.” 
“Allora avrebbe piantato un albero d’ulivo, non di mele.” 
“Magari è stato solo il vento che ha portato un seme nel nostro giardino, caro.” 
“Il vento?” 
“Una… casualità, magari.” 
“Stavi per dire Ineffabile, vero?” 
“Dico solo che forse non è altro che un semplice albero di mele.” 
“Non può essere una coincidenza.” 
“Bè,” dice Aziraphale sorseggiando del the “quantomeno non è un roveto ardente.” 

Per Aziraphale sarà anche solo un albero di mele ma Crowley non si fida. Vieta a tutti di mangiare le mele dell’albero per sicurezza, non lo annaffia mai e non lo cura, eppure l’albero cresce forte e rigoglioso. Ogni tanto, quando si sente particolarmente astioso nei confronti dell’albero, torna dentro casa e riappare qualche secondo dopo con un’ascia. La appoggia contro il tronco, giusto per tenere il punto e ricordargli che potrebbe abbatterlo. Non che ne abbia il coraggio, s’intende. 
 

Succede tutto un giorno di luglio di tre anni dopo: tutti stanno chiacchierando amabilmente mentre I Quelli giocano nel giardino. Adam e Dog si rincorrono, Pepper spinge Brian e gli urla di raggiungerlo, Wensleydale cerca di placare gli animi. Tutti ridono e tutti si divertono. 
Questo, finché Pepper non si arrampica sull’albero. Stacca uno dei frutti e lo morde. Adam grida qualcosa e lei gli lancia la mela e lui imita la ragazza. 
Crowley, che ha visto tutta la scena, si lascia sfuggire un urlo strozzato, ma si sbriga a soffocarlo con la mano. In piedi accanto a lui, Aziraphale gli mette una mano sulla spalla. Entrambi guardano il cielo limpido e per un momento c’è un profondo silenzio. 
Non ci sono tuoni. 
Fulmini. 
Saette. 
Nessuna voce tuonante, nessuna condanna, niente di niente. 
Il cielo è ancora limpido e Crowley lo guarda, sconvolto. 

Bhè…” dice Aziraphale deglutendo rumorosamente. “Questo  che ti fa tornare indietro con la memoria, vero?” 
Crowley lo guarda, ancora tremante. “Un vero viaggio per il viale dei ricordi, angelo.” 

 

 

 

 

 Quello che ama di più Aziraphale è guardare Crowley tornare a essere il vecchio demone di un tempo: sarcastico, audace, divertente, scaltro e gentile. 
Lo guarda prendersi cura delle sue piante, appisolarsi su ogni superficie orizzontale della casa, prendere pigramente il sole in estate, accucciarsi sotto una marea di coperte in inverno. 
Aziraphale lo osserva, cerca di assicurarsi che il demone sia al sicuro e che si senta tale. Di notte, si avviluppa intorno a lui, gli bacia la fronte, il naso, le guance, guarda mentre il demone arrossisce, lo sente tremare leggermente e lo stringe un po’ più a sé, perché in quei momenti Crowley sembra un po’ più fragile del solito. 
Ma lui è lì, solido e fermo. Lo guarda con i suoi occhi ambrati, le pupille sottili, gli prende le mani, incrocia le dita con le sue. Entrambi rimangono stesi sul letto. 
Lo facevano, qualche volta. Rimanevano distesi senza fare niente, semplicemente godendosi l’uno la presenza dell’altro. Aziraphale spalanca le sue ali sopra la testa del demone, coprendolo totalmente per tenerlo al caldo e al sicuro. 

“Angelo?” 
?” 
“Questo è reale?” 
“Certo, mio caro.” 
“Ogni tanto non ci credo. Sembra troppo bello.” 

C’è una pausa. 

“Crowley?” 
?” 
“Posso rivelarti un segreto?” 
“Tu puoi dirmi qualsiasi cosa, angelo.” 
“Anche io ogni tanto penso che sia un sogno. Per esempio, quando sono così felice.” 
“Davvero?” 
“Già. Però io so che è reale.” 
“Come?” 
“Sembra giusto... come se tu dovessi essere proprio qui in questo momento, accanto a me.” 

Un’altra pausa. 

Aziraphale.” 
“Dimmi pure, caro.” 
Anche io sento che questo è reale.” 

 

 

 

 

 Il vero, vero, primo giorno della vita di Aziraphale non era iniziato quando Crowley si era risvegliato. Non era stato neanche quando aveva visto il demone stare meglio, parlare con un tono un po’ più dolce, sorridere più spesso, dormire più profondamente. 
C’è ancora qualcosa che manca, si dice, come se tutti i pezzi fossero tornati al loro posto, meno che uno. Non sa cosa sia, non riesce a vederlo nell’insieme, come se fosse un piccolo dettaglio che potrebbe essere considerato insignificante, se non fosse incredibilmente importante. 
Aziraphale guarda il demone sonnecchiare sul divano e si dice che può anche aspettare e avere fede. 
Essere paziente. 
Essere coraggioso. 

Perché ogni alba era una benedizione, un bacio, una carezza. 
Aziraphale non ci rinuncerebbe per nulla al mondo. 

 

Il vero, vero, primo giorno della vita di Aziraphale inizia quando si sveglia un mattino — perché ormai ha preso anche lui l’abitudine di dormire, così come Crowley quella di mangiare — e sente l’acqua della doccia scorrere. Solo che non è solo acqua, c’è anche un altro rumore. 
Oh, pensa stupito, il rumore è Crowley che canticchia sotto la doccia. 

 

Il vero, vero, vero, primo giorno della vita di Aziraphale inizia quando Crowley canta una canzone dei Queen mentre cucina. Ha un sorriso meraviglioso, una voce così bella, così calda e morbida, che perfino i libri di Aziraphale si sporgono impercettibilmente dalla Libreria per ascoltare meglio. Crowley lo guarda, sorride ammiccante, lo prende tra le braccia e ignora per un momento la colazione:

Dining at the Ritz, we'll meet at nine precisely

I will pay the bill, you taste the wine

Driving back in style, in my saloon will do quite nicely

Just take me back to yours that will be fine

Aziraphale ride, lo guarda con uno sguardo che avrebbe fatto sciogliere anche un ghiacciaio. Crowley canta mettendogli le mani intorno alla vita. 
Ed è un po’ come se un vecchio amico che non aveva più visto da secoli fosse improvvisamente tornato da un lungo viaggio. Aziraphale realizza che gli era mancato terribilmente sentire cantare il demone. 

Il vero, vero, vero, vero, primo giorno della vita di Aziraphale inizia quando sono seduti nella Bentley e Crowley sta cantando così forte che riesce a malapena a sentire il rombo del motore. Guida la sua macchina veloce con lo stesso sorriso di quando stava per fare un dispetto a qualcuno. 

You're
 the first one 
When things turn out bad 
You know I'll never be lonely 
You're my only one 
And I love the things 
really love the things that you do 
Oh, you're my best friend 

Aziraphale lo guarda ed è bellissimo. Finalmente capisce perché Crowley ama così tanto la musica, la sua macchina e le sue piante. Capisce perché si era sempre circondato di tutte queste cose. Può sentire l’amore che riversa in ogni singola nota e parola. Prima erano le sole cose che confortassero il suo più vecchio amico. L’angelo le ama adesso, le ama tanto quanto ama lui. 
Quindi fa qualcosa che non aveva mai fatto prima: canta insieme a lui. 

I'm
 happy at home 
You're my best friend 
Oh, you're my best friend 
Oohyou make me live 
You're my best friend 

 

 

 

 

 Il vero, vero, vero, vero, vero, primo giorno della vita di Aziraphale è quando il demone suona la chitarra, o il pianoforte, o il sassofono, o uno qualsiasi dei suoi strumenti. Le dita si muovono veloci tra corde o tasti. A volte ha un’aria rilassata, altre divertita, ma il più delle volte sembra semplicemente felice. 

Forse il vero, vero, vero, vero, vero, primo giorno della sua vita è quando il demone torna a tentare gli umani, non come faceva un tempo quando era costretto a farlo per conto dell’inferno, queste nuove tentazioni sono tutte opera sua. 
 
Quindi rimane in mezzo alla strada, segue umani a caso, legge i loro desideri più oscuri. 
Dice: , compra quel vestito, saresti meravigliosa. 
Dice: Se tuo marito ti tratta male, dovresti lasciarlo. 
Dice: Se il tuo corpo non ti piace, cambialo. Non ti preoccupare di quello che dice la gente, fallo tuo.  

Crowley se ne va in giro, incolla qualche moneta al marciapiede, tenta alla ribellione, vanità, all'accidia e Aziraphale dovrebbe fermarlo ma c’è un’aria molto più felice adesso tra le strade di Londra, quindi decide che per ostacolarlo l’unica soluzione è invitarlo al Ritz per cena. 
(Perché è un angelo che conosce la sua nemesi da molto tempo, una cena è quel che ci vuole per fermare gli oscuri piani del serpente. Crowley ride, quando glielo dice.) 

 

 

 

 

  No, no. 
Il suo vero, vero, vero, vero, vero, primo giorno inizia in quel pomeriggio di maggio, quando sono in mezzo al giardino che non è mai stato così tanto bello. 
Si stringono la mano, ascoltano l’officiante che sta per sposarli, lanciandosi così tanti sguardi tra di loro che a un tratto lei è costretta a fermarsi e dire “Avete bisogno di un momento, signori?” 
Tutti ridono e loro arrossiscono ma poi tornano a guardarsi sorridendo entrambi come due bambini che hanno appena fatto una marachella. 
Dopo essersi scambiati i voti si girano per un momento e guardano i pochi amici che li hanno accompagnati, come se volessero imprimersi nella memoria i loro visi sorridenti. 
Peccato che tutti stessero piangendo. 

“Forse abbiamo esagerato.” Commenta Aziraphale per poi voltarsi verso Crowley. 
"Diamine , Angelo."  Dice Crowley che riesce a non piangere solo grazie a un miracolo — e un po' dell'aiuto della magia di Anathema perché la sera prima aveva rischiato di sporcare il suo vestito bianco piangendo come una scolaretta perché Domani ci sposiamo. e al Diavolo Il matrimonio è solo un concetto umano — "’Citare A Farewell to Arms’, di Hemingway è stato proprio un colpo basso." 

L’officiante dice: Mi è stato detto che Crowley e Aziraphale si conoscono da prima dell’inizio del tempo, che si sono innamorati a prima vista sul muro di un giardino, in un giorno di pioggia. Ma a vederli oggi così felici posso dire con certezza che non ci saranno nubi ad offuscare il loro cammino, che d’ora in poi il cielo sarà limpido perché hanno scelto di appartenersi per l’eternità. 
 
Lei fa l'occhiolino a entrambi e Crowley guarda Aziraphale, con un sopracciglio alzato, confuso. Però l’ombra dell’albero di mele gioca con la luce sui suoi capelli, i suoi occhi brillano e può sentire l’amore dell’angelo invaderlo completamente. Realizza di non essersi mai sentito così completo e felice. Ogni commento sarcastico viene subito dimenticato perché il demone rimane stregato dalla luce che irradia. 
 
(Però davvero, dice Crowley all'angelo trent'anni dopo in una sera tranquilla dopo la terza bottiglia di vino, Chi è che ha detto a quella donna del giardino e del muro? Perché io non l'ho fatto, tu neanche, Tracy e Anathema hanno detto di no... come cavolo faceva a saperlo? 
Era passato troppo tempo. Non avrebbero mai saputo la risposta.) 

 

 

 

 

O magari, il vero, vero, vero, vero, vero, primo giorno della sua vita è quando Crowley sorride sotto di lui, quasi rilassato, la pelle leggermente sudata e calda. Trema ma questa volta non è per paura. Aziraphale ha solo bisogno di esserne sicuro: 
“Va tutto bene, mio caro?” 
.” Dice quasi senza fiato. “Tu puoi fare tutto quello che vuoi, perché tu sei tu, e io non mi sono mai sentito tanto al sicuro come quando sono fra le tue braccia.” 
Aziraphale lo guarda e vede una luce nei suoi occhi, non solo desiderio, non solo amore incondizionato, non solo pace e felicità. C’è anche la promessa di rimanere insieme per sempre, il mondo potrebbe sparire e lui non se ne accorgerebbe perché lo sguardo di Crowley è ipnotico. 
“Ora stringimi.” Lo invita, il demone. “Ho bisogno di sentirti un po’ più vicino a me, ti ho desiderato per così tanto tempo, angelo.” 
Aziraphale fa come gli viene detto. Una volta Crowley avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui e adesso lui trova impossibile non esaudire ogni suo desiderio. 
“Ti amo.” Sussurra piano, Aziraphale, come se non volesse disturbare la tranquillità intorno a loro. “Ti amo da quel giardino, da quel muro, da quel temporale. Non ho mai amato se non te.” 

 

 

 

 

 Adesso, quando qualcosa di orribile succede nel mondo, quando gli umani diventano più terrificanti dei demoni e di tutto l’inferno, Crowley trema per paura e disperazione. Smette di incolparsi, e questo è quel che basta per permettere ad Aziraphale di stringerlo e consolarlo. 
 
Una volta, a Crowley non sarebbe importato. 
No, non è giusto dire così, perché il demone amava così tanto gli umani da addossarsi la colpa per ogni loro azione terribile. 
Ma prima si sarebbe messo a dormire per un secolo, o avrebbe iniziato a mentire a sé stesso dicendo che non era importante, sarebbe andato in un bar e avrebbe bevuto finché non fosse riuscito a dimenticare anche il suo nome. 
 
Invece, adesso, per una volta dice: Questo è importante. 
 
Ha passato tutta la vita a dire “Non è importante” — e se non tutta la vita, la maggior parte di essa — ripetendosi che non fosse importante la caduta, il dolore, cosa facesse di sé stesso. 
 
Aziraphale dice: È importante, perché tu lo sei per me. 
 
E quindi Crowley decide che , è importante, è essenziale e forse deve smetterla di pensare come faceva un tempo perché anche lui è importante. 
È una nuova prospettiva, a volte fa paura, a volte è rassicurante. 
Perché adesso quando si guarda allo specchio non vede un mostro, un demone. 
Ogni tanto vede Crawly, altre volte vede sé stesso. 
Ma anche quando succede, non è terrificante ma è come ritrovare una vecchia foto di quando si era più giovani. 

Aziraphale sente Crowley dire, con voce rotta dall’emozione, “Sono importante anche io.” e lui finalmente smette di aspettare che arrivi Il suo vero primo giorno. 
Si rende conto di essere stato ridicolo perché ci sono semplicemente troppi giorni, troppe nuove esperienze, da condividere con il demone. 
Non se ne rende conto subito, a un tratto inizia semplicemente a vivere il momento, finché un giorno: 

 

Ständchen 

  (Leise flehen meine Lieder) 

 Da Schwanengesang, D.957 No.4 

(Mentre un angelo prepara del  per lui e per il demone che ama.) 

 

Serata in D minore, 3/4 

La musica era iniziata dal nulla. 
Dolce e delicata, malinconica, bianca e nera. 
Il suono di un violino invade la casa. 
Le note volteggiano fra libri antichi e mobili nuovi di zecca. Al suono, l’angelo lascia andare la tazza di  e si guarda intorno. Il cuore batte all’impazzata. Sono ormai anni che non lo sentiva, troppi ricordi spiacevoli che si accavallano intorno al suono di un violino. 
Cerca il demone ovunque, lo trova sotto il pergolato della loro veranda. 

“Oh,” dice. 

L’uomo davanti a lui è vestito di nero dalla testa ai piedi, ha una morbida treccia che ciondola su una spalla, alto e magro, gli occhi chiusi e la guancia adagiata sul violino che sta suonando. 
Con il braccio segue l’archetto che tiene stretto in mano, come se stesse dipingendo più che suonando. 
La luce della luna lo illumina parzialmente, fa brillare l’anello d’oro all’anulare della mano sinistra, identico a quello che indossa Aziraphale. 

“Ricordi questa canzone, angelo?” 

Aziraphale chiude gli occhi, ascolta attentamente perché avrebbe giurato di non averla mai sentita prima, adesso che glielo fa notare il suono è curiosamente familiare. 

 

Moderato, tempo rubato. 

“Oh,” ripete. “La Canzone.” Dice sorpreso. 

L’avevano sentita sei millenni prima, quando insieme avevano seguito Eva e si erano fermati ad ascoltare la donna cantare per il piccolo Caino. Aziraphale ricordava con quanta ammirazione il demone avesse ascoltato la canzone, perché quel mormorio sommesso non era solo una ninnananna della prima madre per il suo bambino. Le note erano le stesse che Dio cantava ai suoi angeli prima della Caduta, quando l’universo era giovane e non esistevano ancora tristezza e disperazione. 

“Guarda le stelle, angelo.” Dice il demone. 

Lui lo fa, sorpreso quando si accorge che le stelle si muovono a ritmo della musica, come se anche loro fossero incantate dalla maestria con cui Crowley fa scorrere le dita lungo le corde. 
Un umano non lo avrebbe visto, riflette Aziraphale. Per loro le stelle non sono che punti fissi che fluttuano immobili nel cielo. Ma loro due possono vedere il movimento del cosmo, sentire il movimento della terra. 

“Una volta ho tentato un vecchio compositore.” Dice Crowley. “Gli ho chiesto di nascondere queste note per me in una sua composizione.” 

Una pausa. 

“Ero troppo affezionato a quella vecchia canzone, ma se i miei mi avessero sorpreso a suonarla— 

“Era un po’ che provavo a riscriverla.” dice. “Ho provato con il pianoforte, quando tu non c’eri. Con la chitarra e perfino con il sassofono. Con la lira e con l’arpa.” 

Un'altra pausa. 

“Sembra funzionare solo con il violino.” 

 

Dolce in crescendo, continuato. 

“Sembra un po’ malinconica.” Dice Aziraphale ascoltando le note meravigliose che si susseguono e si rincorrono l’una dopo l’altra. 

“Tutte le serenate sembrano un po’ malinconiche quando le suoni con il violino.” 

“Non ci avevo mai fatto caso.” 

Il demone apre gli occhi per un momento, lo guarda intensamente. 

“Sai, in questi giorni ho pensato molto.” 

?” 

.” 

“Hai scoperto qualcosa?” 

“Ho scoperto,” dice il demone “che è stato sorprendentemente facile perdonare Crawly. Facile, perdonarlo per essere caduto, avrei dovuto capirlo prima. 

Esita solo per un momento. 

“Forse adesso è arrivato il momento di perdonare anche Dio.” 

“Davvero?” Chiede sorpreso Aziraphale. 

“Forse questa canzone è malinconica perché Lei sapeva quello che sarebbe successo, magari ha provato a consolarci prima che cadessimo.” 

“Io—” dice inspirando profondamente, senza mai smettere di suonare. “Non ho mai desiderato tornare indietro. Non ho mai desiderato il cielo.” 

“Io, io, ho solo desiderato te per tutto questo tempo.” 

“Lo so, mio caro. La stessa cosa vale per me.” Sussurra Aziraphale 
Crowley è talmente tanto bello da oscurare le stelle che volteggiano sopra di loro. 

“Allora, angelo, lasciami finire di suonare questa mia serenata per te e permettimi di tentarti a passare l’eternità accanto a me. Questa vita sulla terra è così bella.” 

Aziraphale lo guarda. C’è una luce quella sera che non sa come descrivere, non ci sono lingue e parole umane che possano cogliere quel sentimento che si avviluppa intorno al suo cuore. 

“Tentazione compiuta.” Dice sorridendo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE: 

 
C’è un motivo se abbiamo scelto Ständchen di Schubert: l’arrangiamento per violino è particolarmente dolce ma è anche accompagnato da una canzone (una serenata) con un testo così perfetto per questo finale che quasi mi fa male il cuore. vi consiglio di ascoltarla e leggere il testo, perché personalmente ne sono innamorata. 

Ständchen, la canzone.
La traduzione.(serenata n.4)

Ci sono così tante cose che vorrei dire a proposito di questa storia. Prima di tutto grazie a Aspirina_Effervescente che mi ha aiutato a scriverla (anche se a un certo punto la sua parte sadica ha preso un po' il sopravvento e è stato molto difficile da gestire. Ma ti voglio bene lo stesso ahah) e Grazie anche a Setsy per essere stata una meravigliosa beta-reader, sei stata molto paziente con noi, grazie mille!

Poi, grazie mille a tutti quelli che hanno commentato o che commenteranno questa storia. Amiamo ascoltare le vostre opinioni!

Passate una buona giornata <3

 

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