WEEKEND

di insiemete
(/viewuser.php?uid=664171)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ɪɴᴛʀᴏ ***
Capitolo 2: *** ᴠᴇɴᴇʀᴅì ***



Capitolo 1
*** ɪɴᴛʀᴏ ***


 

bastano tre giorni per innamorarsi e tutta la vita per dimenticarti

 

 

 

 

⋅•⋅⊰∙∘☽༓☾∘∙⊱⋅•⋅

storia breve, 3 capitoli

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ᴠᴇɴᴇʀᴅì ***





Sono le nove di sera e trascino la mia carcassa verso il mio appartamento: all'undicesimo piano di un grattacielo nell'immediata periferia londinese. Le mie gambe ardono, sembrano fiammiferi infuocati mentre percorro la diciottesima rampa di scale.

L'ascensore è rotto.

Infilo la chiave nella serratura e faccio tre giri nel verso della luce. La lampadina mi illumina il viso, le guance arrossate per il freddo dell'inverno.

È venerdì sera ed è il giorno del mio ventunesimo compleanno.

Mi sfilo gli stivali dai piedi e mi accomodo sul divano esalando un respiro. Sento le labbra bruciare, il sapore acre del mio sangue.

Odo il mio cellulare squillare e lo porto all'orecchio. «Buon compleanno principessa,» sfrigola, mia sorella, dall'altra parte della cornetta.

«Grazie» mi affretto a dire, senza enfasi.

«Per che ora arrivi?» domanda.

Guardo l'orologio a muro: le avevo promesso che sarei passata per le nove e mezzo. Non ho molta voglia, ma so quanto lei ci tiene a festeggiare i compleanni in compagnia della sua famiglia.

«Mi cambio e arrivo» aggiungo prontamente, per non farla rattristare.

 

⋅•⋅⊰∙∘☽༓☾∘∙⊱⋅•⋅

 

Madison ha invitato poca gente alla rimpatriata: Owen, suo marito, Astrid, la vicina di casa e Timothéè, un mio compagno di liceo. Vengo accolta da tante braccia e tutti mi lasciano un piccolo dono tra le mani. Ringrazio, imbarazzata.

Hanno preso una torta cioccolato e caramello: la mia preferita. Mia sorella mi dice di soffiare sulle candeline. Lo faccio con poco entusiasmo.

«Spero tu abbia desiderato con cura» intercala il marito, dandomi una pacca sulla spalla in maniera affettuosa.

Non ho desiderato nulla.

Da anni odio i compleanni. Mamma è venuta a mancare proprio il giorno del mio quindicesimo giro intorno alla Terra e da allora non vi ho trovato più motivo di festeggiare. È un giorno di lutto.

Madison ha sempre cercato di non farmelo pesare, provava a farmi dimenticare quel tragico momento traviandomi verso uno più bello. Ma credo sia impossibile non pensarci. Non ho ricordi di istanti felici in questo giorno.

Timothée mi prende la mano e mi guarda negli occhi. «Ti è piaciuto il mio regalo?» domanda.

Faccio cenno di sì con il capo. Mi ha preso una borsa di qualche marca famosa. Non serviva.

«Hai qualche programma per questa sera?»

Premo le dita nel palmo. «No, a dire il vero credo che andrò a dormire.»

«Se ti serve compagnia io non ho niente da fare.»

Declino l'offerta.

Noto un velo di tristezza nel suo sguardo e mi dispiaccio. Gli butto le braccia al collo e lo abbraccio, lui rimane sorpreso. «Sono felice che tu sia qui.»

Timothée ed io siamo diventati amici troppi tardi. Ci siamo cercati tutta la vita e ci siamo trovati nel momento meno consono. Ogni giorno lo penso e lo ringrazio, ogni sera aspetto il suo messaggio. Mi fa splendere.

«Il mio desiderio più grande è che tu non esca dalla mia vita.»

In quattro anni non avevo mai ammesso i miei sentimenti: non gli avevo mai detto quanto fosse importante e fondamentale. Come la mia casa: lui è una costante, le fondamenta per la mia persona, il tetto che protegge il mio cuore. Mi accoccolo alla sua spalla, inalo il dolce profumo di gelsomino in fiore. È sempre lo stesso, ma non riesco a detestarlo.

«Sei speciale» sussurra sulla mia fronte, ci lascia un bacio.

Lascio che una lacrima cada dai miei occhi. Non voglio asciugarla, non sono intenta a nascondere i miei sentimenti. Questo è uno dei momenti in cui piangere fa bene, piangere ti aiuta. Penso a mamma, a cosa direbbe vedendo quello straccio di figlia: vestiti logori, occhi incavati, labbra increspate di dolore. Sarebbe fiera di me? Mi chiamerebbe ancora "piccola"? Così piccola da esser stata abbandonata, così fragile da non esser stata fortificata.

Un singhiozzo dà sfogo alla mia liberazione. Lui mi abbraccia ancora più forte.

«Mi manca, voglio andare da lei» urlo, contro la sua spalla.

Sento una mano sulla schiena, un'altra mi massaggia i capelli. Madison e Owen si sono stretti attorno a noi. Ora piangono pure loro.

Come al solito, ci siamo dimenticati di festeggiare.

 

⋅•⋅⊰∙∘☽༓☾∘∙⊱⋅•⋅

 

Me ne vado da casa di mia sorella con le mani nelle tasche e lo sguardo basso. Voleva riaccompagnarmi ma ho preferito declinare l'offerta. Ogni tanto fa bene prendere una boccata d'aria.

Non faccio mai a tempo a vedere quanto è bella Londra di notte. Solitamente torno a casa sempre sul tardi e tutto ciò che faccio è coricarmi sul letto e aspettare di essere portata in un posto migliore.

A volte dimentico quanto può essere mozzafiato questa città.

Decido di prendere la metro qualche fermata più avanti. Magari a Kensington, penso. Non lo so, voglio camminare. Aspetto che arrivi sabato, voglio che questo giorno finisca il prima possibile.

Alzo il naso a guardare le vie trafficate, le luci ad intermittenza, i sorrisi amorevoli che si scambiano le persone. Vedo tanta felicità ma sento solo freddo.

Mi stringo nel mio giubbotto e sfrego tra di loro le mani. L'inverno si sta facendo sentire.

È notte, ma posso affermare con sicurezza che il cielo è fosco, malinconico. Le nuvole, che non sanno parlare ma hanno il potere di piangere, guardano la città minacciose.

Noto un Pub poco lontano dal Victoria and Albert Museum e decido di entrarvi.

 

⋅•⋅⊰∙∘☽༓☾∘∙⊱⋅•⋅

 

Il locale è mesto, caliginoso; quasi fosse il mio riflesso. Tavoli color mogano, panche scure, cuscini porpora. Pareti tappezzate da carta di fibre della più grigia sfumatura.

Il ragazzo al bar non si accorge del mio ingresso, proprio come il resto della gente.

Mi accomodo e mi tolgo i guanti, sfregando i palmi sui jeans. Della musica anni 90 risuona nelle mie orecchie.

Il ragazzo si avvicina con un taccuino in mano e mi fa un sorriso di circostanza. «Cosa posso portarti?»

«Qualcosa di caldo.»

Una manciata di minuti dopo torna con una teiera fumante. Inzuppo l'acqua con una bustina di Taylors. La intingo finché non si colora di nero. Un po' come la mia giornata. Sorseggio la bevanda lentamente, sentendo la bocca, la faringe, l'esofago, lo stomaco e l'intestino esaltarsi al tepore. Stringo gli occhi.

Al di fuori, le nuvole hanno deciso di scaricare la loro collera sulla cittadina; cadono capricciose sugli abitanti, sui turisti, sulle luci natalizie. Il vento spira, colpisce le tende, fa vorticare le foglie con insolenza. Lo sento spirare dal battiscopa, dal perlinato sopra il mio capo.

La metro è lontana. Non ho nemmeno un ombrello con me.

Cerco nella tasca il mio cellulare. Decido di chiamare un taxi, non me la sento di continuare sotto quella tempesta. Non lo trovo. Controllo anche nei pantaloni. Devo averlo lasciato a casa di Madison.

«Cazzo» dico, passando una mano tra i capelli.

Mi alzo e mi avvicino al bancone. Il ragazzo che ha preso la mia comanda alza gli occhi. Mi guarda come prima: impassibile, nessuna emozione traspare dal suo volto.

Indossa una polo rossa a maniche corte e subito mi sento rabbrividire. Noto un tatuaggio, più che complesso, sbucare dal suo bicipite destro, parzialmente lasciato allo scoperto.

«Cosa ti serve?» domanda, passando un panno dentro un bicchiere da cocktail.

«Avrei bisogno di un taxi» intercalo.

Senza rispondere, prende il cellulare e compone qualche numero. Lo porta all'orecchio mentre riempie una flûte con del vino. Si limita a grugnire qualche parola.

«Spiacente, non ci sono taxi in servizio.»

«Cosa? E perché?»

«Sta nevicando, non te ne sei accorta?» proferisce atono.

Mi avvicino ad una finestra e sposto la tendina. Ha ragione, non me ne sono accorta. La neve ora cade a fiocchi sul catrame. Non c'è più nessuno per strada. Le poche macchine rincasano.

«Ho bisogno di un passaggio. Hai provato con Uber?»

Il barista sembra infastidito dalle mie domande. «Tutti i mezzi sono bloccati. Non siamo molto preparati a queste nevicate improvvise. Ma da dove vieni?»

Mi mordo il labbro. «Non so come tornare a casa.»

Comincio a spaventarmi. Sono bloccata a miglia e miglia da casa mia. Non ho il cellulare e soldi in tasca. Non posso nemmeno tornare da mia sorella, Pimlico è lontana da qui.

Mi passa il telefono. «Chiama qualcuno che possa venire a prenderti.»

«Non conosco i numeri a memoria.»

Sbuffa e alza gli occhi al cielo. «C'è un hotel molto carino proprio qui di fronte. Prenota una camera.»

Lo guardo torva. «Ti sembro una che ha soldi da buttare?»

Lui non risponde e io sento le lacrime bruciare nei miei occhi. Una sfugge al mio controllo.

Non poteva andare peggio questa giornata. Torno a sedermi e prendo un giornale. Tento di focalizzarmi sulle notizie ma ho la vista annebbiata. Ho voglia di gridare, sfogarmi, piangere tutte le mie lacrime e prosciugarmi... sino all'ultima goccia, sino all'ultimo battito.

Vorrei scappare. Sento gli sguardi dei clienti su di me. Il cuore mi dice di andare ma la mente mi ferma.

Mi passo un fazzoletto sugli occhi. Sono gonfi e probabilmente arrossati.

La sedia di fronte a me si sposta e il barista si siede. Incrocia le braccia al petto e mi guarda con la testa storta. Ha gli angoli della bocca alzati.

«Dov'è che abiti?»

Ho la testa chinata ma alzo lo sguardo. «A New Malden, perché?»

Lui inarca un sopracciglio. «Ti porto io a casa.»

«Cosa? Davvero?» domando sbalordita, mostrando il mio viso.

 

⋅•⋅⊰∙∘☽༓☾∘∙⊱⋅•⋅

 

Aspetto fino alla fine del suo turno. Alle tre di notte appone il cartellino "chiuso" sulla porta d'ingresso e scopa fra i tavoli. Io sono distrutta, ho faticato a tenere gli occhi aperti per il restante della nottata.

Gli dico che posso dargli una mano, così da finire prima. Mi domando come abbia ancora la forza di reggersi in piedi dopo un turno così pesante. È tutto solo da ore.

Prendo in mano uno strofinaccio e pulisco i tavoli.

Il tempo non ha smesso di spaventare: la neve è diventata sempre più abbondante, un'ora fa sono entrati in funzione gli spazza neve e la gente getta sale dalle finestre sulle scale. Domattina Londra sarà un batuffolo bianco.

In mezz'ora abbiamo finito e il ragazzo mi dice di seguirlo sul retro. C'è uno spiazzo, la sua macchina è lì parcheggiata. Prende una pala e cerca di liberarla da quella trappola. Io tolgo la neve dal parabrezza.

«Sali su, accendi il motore» dice, lanciandomi le chiavi in mano.

Obbedisco ed entro, giro la chiave nel quadro e aspetto che il circuito entri in funzione. Tremo, vapore gelido esce dalle mie labbra increspate.

Qualche istante dopo lui è al mio fianco.

«Sei sicuro di riuscir a guidare?» domando, mentre lui torce il busto per uscire in retromarcia. Poggia una mano dietro il mio collo, sento il tepore che emana la sua pelle.

Grugnisce qualcosa.

«Non so ancora come ringraziarti» aggiungo, quando siamo sulla strada. Il silenzio nell'abitacolo mi mette soggezione, lui non sembra intento a voler accendere la radio. Probabilmente vuole concentrarsi e io rispetto la sua scelta.

Nemmeno in questo caso ricevo risposta. «Tu dov'è che abiti?» chiedo, quando fa una brusca curva a sinistra.

«A Kingston.»

Mi mordo il labbro. Kingston è una cittadina molto ricca, incomparabile a New Malden e soprattutto alla mia abitazione. Gli vorrei chiedere se abita vicino a Tom Holland ma preferisco tacere, non mi sembra un ragazzo di molte parole.

Guida prudentemente. Non accelera né frena bruscamente e non toglie mai gli occhi dalla strada. Non lo conosco eppure sento di potermi fidare di lui.

«Io sono Fanny, comunque.»

Posa per un istante lo sguardo su di me. Gli tendo la mano ma lui non ricambia.

«Tom.»

Sorrido. «Sei l'amorevole Spider-Man del quartiere?»

Arriccia le labbra, nascondendo un sorriso. «Sfortunatamente mi hanno rubato il posto.»

Approfitto del momento per guardarlo. Ha i lineamenti delicati, un po' di barba sulle guance, i capelli mossi e spettinati, pelle diafana, naso piccolo, labbra leggermente pronunciate. Gli occhi sono scuri, incorniciati da folte ciglia e sopracciglia basse, regalandogli uno sguardo serio.

Probabilmente si è accorto della mia curiosità, così si volta a osservarmi. Abbasso lo sguardo sulle mie mani.

Si schiarisce la voce. «Tu cosa fai nella vita?»

«Lavoro in una ferramenta.»

Lui sembra molto intrigato. Probabilmente non se lo sarebbe aspettato. «Sì, faccio la cassiera.»

Abbozza un sorriso e io ricambio. Guardo l'ora sul cruscotto. Sono quasi le quattro. Sento gli occhi pesanti e, senza accorgermene e senza volerne, mi addormento non avendo poi più così freddo.

 

⋅•⋅⊰∙∘☽༓☾∘∙⊱⋅•⋅

 

Ehi, innanzitutto perdonatemi se questo capitolo non è niente di che; ho voluto provare a scrivere qualcosa dopo molto tempo, spero con tutto il cuore che i prossimi capitoli possano piacervi. Un bacione, Elena. 🤍

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3873192