Pokémon Black and White: Early Summer Girls

di Momo Entertainment
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Speranze, sogni, scoperte ***
Capitolo 2: *** Quando tutto è nuovo, anche tu ti rinnovererai ***
Capitolo 3: *** Tempesta di sentimenti ***
Capitolo 4: *** Vero amore, falso amore ***
Capitolo 5: *** Una perfetta adulta ***
Capitolo 6: *** Legami attraverso il tempo ***
Capitolo 7: *** Tale la natura degli uomini, quale quella dei Pokémon ***
Capitolo 8: *** Fare la cosa giusta ***
Capitolo 9: *** Nessuno può vedere nel mio cuore, solo tu ***
Capitolo 10: *** La principessa del nulla ***
Capitolo 11: *** La felicità è in una ragazza ***
Capitolo 12: *** Un bacio completamente nudo ***
Capitolo 13: *** La vita non è fatta solo per spettacolo ***
Capitolo 14: *** Noi siamo un po' diverse ***
Capitolo 15: *** La vendetta è un piatto che va servito freddo ***
Capitolo 16: *** Vedete? È sangue umano, non divino ***
Capitolo 17: *** Inseguitrice di sogni senza speranze ***
Capitolo 18: *** Io desidero ***
Capitolo 19: *** Non avere paura delle dissonanze ***
Capitolo 20: *** La vetrina delle vergogne viventi ***
Capitolo 21: *** Le figlie degli altri ***
Capitolo 22: *** Girls' Style ***



Capitolo 1
*** Speranze, sogni, scoperte ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Pokémon Black and White

Early Summer Girls

Capitolo 1Risultato immagini per new png logo

Speranze, sogni, scoperte

Estate.

Stagione di amore, stagione di caldo, ma soprattutto stagione di lotte Pokémon.

E Iris non vedeva l'ora di affrontarle tutte.

I raggi del sole penetravano nella sua stanza e la illuminavano piacevolmente, fasci di luce sfioravano delicatamente il viso color cacao della ragazzina, la quale si era appena svegliata. Considerò l’essere riuscita a sciogliere le membra e scacciare lo spettro del sonno senza nemmeno scagionarlo con l’acqua gelida una vittoria personale.

«Buongiorno Unima! - avrebbe voluto urlare dalla finestra - Sono l'unica che oggi ha voglia di uscire oggi? Non voglio stare a casa con il tempo così bello...»

Mentre si pettinava i capelli viola in due codini, osservava la città di Boreduopoli, ritrovando i suoi palazzi antichi in armonia con gli edifici di architettura moderna che avevano fatto innamorare la ragazzina della regione di Unima esattamente al loro posto; edifici naturali, incantevoli e dalla replicazione inarrestabile come la digitale purpurea, senza che la mano dell’architetto sbuchi da dietro lo stelo.

Prima che potesse scendere le scale per dirigersi a fare colazione il suo Axew, che la seguiva fedelmente ormai da cinque anni, le saltò in braccio, facendole un leggero solletico.

«Mi chiedo se... Il sole che sorge a Boreduopoli è lo stesso sole che sorge nelle altre città di Unima? - Gli domandò la ragazzina. E quando le pupille del piccolo drago si dilatarono a tal punto da farle quasi rimangiare la poeticità di tale aforismo mattutino – Sì, okay, vabbè. Ho voglia di succo di Baccamela.

Ah, e le batterie del Pokédex! Dovevano scaricarsi proprio all’inizio della stagione…»

La vita per una giovane Allenatrice di quindici anni è un'avventura che si viveva ogni giorno, triste o felice che fosse, proprio come un viaggio alla scoperta di se stessi. Solo che una volta in cammino c’è altro sulla strada, oltre al viaggiare. E quando questi pensieri le passavano per la mente era solita condividerli con il suo più caro amico: con altri si sarebbe vergognata, ma ai Pokémon si può dire tutto.

Così il Capopalestra Aristide, suo "nonno", le aveva insegnato. Poteva averle mica insegnato qualcosa di falso? Impossibile. Allora, Iris schioccò le dita senza fare rumore, qual era il suo ultimo vero bisogno incombente? Succo.

L'uomo di mezza età sedeva, come al solito, davanti alla tazza di caffè fumante. La barba bianca trasmetteva sempre un atteggiamento severo e autoritario. Aveva un'aria preoccupata e nello stesso tempo seccata. Tra le mani callose stringeva saldamente una lettera con tanto di timbro ufficiale, aveva già sviscerato la busta senza pietà.

«Nonno, stamattina sei tutto il tempo in palestra? Puoi darmi uno strappo fino ai…» Cercò di intervenire la ragazzina, ma appena le iridi gialle dell’uomo le si piantarono addosso con sguardo inquisitorio, prima le scivolò dalla mente il resto della sua richiesta, poi si mise a stilare la lista delle cose più o meno inerentemente scorrette che potuto commettere in quei circa dieci minuti da quando si era alzata.

Ad allentare la tensione e a concedere alla ragazzina di prendersi finalmente il suo agognato bicchiere di succo prima che i sensi di colpa per chissacché le incenerissero la gola, sua “nonna”, l’unico essere vivente immune alle occhiatacce di Aristide, la salutò dolcemente.

«…buongiorno.» Inspirò dal naso e provò a concentrarsi sul sapore della bevanda.

«È sconcertante. Davvero.» Quelle furono le uniche parole che uscirono dalla bocca del vecchio Capopalestra.

Ad Iris sembrava che il sole di Unima stesse per spegnersi.

Ma più che un'ansia di paura, le sembrava che sotto ci fosse un retrogusto positivo da assaporare. Lo dedusse dal leggero cambiamento dell’espressione dell’uomo. Le stava sorridendo, dietro la barba e dietro quella severa facciata.

Aristide passò la lettera alla ragazza, che per non sovraccaricare ancora di più la sua mente ferma alla schermata di caricamento, evitò i paragrafi più lunghi e più tronfi.

Stagione competitiva 201x/201y – 42simo mandato del Campione Nardo

Con l’approvazione non-governativa e apolitica dell’Illustre Lega Pokémon della regione di Unima

Si avvisa i gentili Allenatori della regione che il ritiro definitivo di Nardo dal ruolo di Campione della regione di Unima, sarà imminente.

In ricorso alla sua sostituzione, sono stati scelti cinque Allenatori specializzati di sesso femminile che concorreranno in una serie di lotte Pokémon per il posto di Campione ufficiale della Lega Pokémon.

Il Campione, Nardo.

Iris non poté fare a meno di sgranare gli occhi leggendo la lista delle candidate. Le cadde l'annuncio per terra e lo raccolse solo per rileggere per la terza volta il suo nome.

Quel giorno di sole estivo non poteva essere normale. Quegli interi mesi afosi e intrisi di novità non sarebbero stati come quelli passati.

«Eh... Io? Campionessa? Ora?! Ma soprattutto, come fa il Campione a conoscermi?!»

«Non ci credo! Non ci credo! Non ci crederai! Dimmi che non sto sognando!»

Urlava la ragazza dai capelli rossi che si precipitava lungo il corridoio di casa.

La giovane sbatté la lettera firmata dalla Lega Pokémon sul tavolo, davanti agli occhi di suo nonno. Il viso di lei dimostrava sempre un essere di buonumore, ma quella mattina aveva un’espressione quasi euforica.

Il suo Swanna volava libero sopra la sua testa, circondandole i capelli color rosso fuoco con le sue bianche piume: i suoi occhi azzurri esprimevano la stessa felicità della sua Allenatrice che era ormai al settimo cielo.

Fino a quel momento era sempre stata una semplice Capopalestra. Ricevendo quel pezzo di carta però, le si era aperta la porta verso una possibilità che avrebbe potuto cambiarle la vita, che si prospettava diventare sempre più ardua.

L'anziano signore cercava di focalizzare le scritte stampate sulla carta. Non badò di leggere tutta la lettera, gli bastarono poche parole: l'obiettivo, Lega Unima. Il nome di colei che lo avrebbe forse raggiunto: Anemone Reyez, Capopalestra di Ponentopoli, sua nipote.

«Nipotina mia...» Non fece in tempo a terminare la frase che la ragazza subito lo interruppe.

«È fantastico. Finalmente l'opportunità che aspettavo, volevo dire, aspettavamo, è arrivata! Dovrò impegnarmi un sacco, allenarmi giorno e notte se voglio vincere il titolo di Campionessa!» Continuava a ripetere Anemone, sempre più entusiasta del traguardo raggiunto.

Il vecchio signore non poté fare a meno di notare che gli occhi azzurro cielo di sua nipote brillavano come piccole perle. Riusciva a vedere nei suoi occhi tutti i sentimenti che in quel momento assediavano la mente della sua adorata nipote.

D'un tratto, smettendo di sorridere, lei si fece seria. Scese dalle punte dei piedi e piombò con i talloni sul pavimento, parlando con lo sguardo basso.

«Se divento Campionessa... Guadagnerò molti soldi... E forse ci libereremo dai debiti, finalmente... Dopo, come prima cosa, rinnoverò tutti i nostri apparecchi.»

L’uomo le andò vicino, appoggiandole una mano sulla schiena, sentendo il tessuto non stirato della t-shirt.

«Certo, tesoro.»

«Potremmo acquistare altri A300 più grandi e cominciare a spedire componenti oversize. O sostituire tutti i motori e le ventole per fare tratte più lunghe, anche fuori dalla regione. – deglutì e la sua voce si impastò con tremori – E-E… Uh, un giorno tu potrai andare in pensione… e, oh, sto piangendo? Ahah.»

Avrebbe voluto dilungarsi, ma ormai i singhiozzi avevano soffocato le sue parole e le lacrime già irrigavano il viso color caramello.

Non avrebbe partecipato e forse vinto solo per se stessa. Lei non era nulla senza la sua famiglia, lo sapeva benissimo. Anche se aveva già diciassette anni non sentiva alcun desiderio di ribellione, non aveva senso. Non si diventa adulti compiendo sciocchezze: per crescere bisogna assumersi le proprie responsabilità, che siano leggere o pesanti, e portarle a termine con impegno e serietà.

Così doveva fare una Capopalestra e anche una Campionessa. E chiunque altro voglia fregiarsi del titolo di “brava ragazza”.

Le lacrime si mescolavano sulle guance, un acquerello di commozione, ansia, felicità, dolore... Ogni goccia salata sul suo viso rappresentava una delle mille emozioni che provava in quel momento.

Essere “brava” è difficile, se non riesci a fare a meno di scoppiare a piangere fra le braccia di tuo nonno. Anemone lo aveva già stretto fra le sue braccia. Ogni volta che lo faceva si sentiva un po' più forte, più pronta ad affrontare le imminenti sfide che la attendevano.

Ormai non aveva più scelta.

«Vincerò io, te lo prometto!» Gli disse, con un pianto di sfogo in sottofondo.

Ora che lo aveva promesso alla persona a cui era più legata, Anemone non poteva assolutamente permettersi di perdere. Avrebbe vinto e basta, senza alcuna distrazione, senza permettersi neanche un singolo atto di egoismo.

La vittoria non apparteneva a lei, dopotutto.

Fra le concorrenti ne spiccava una sia per la sua bellezza e soprattutto per il sarcasmo.

La giovane modella, quando ricevette la lettera non poté trattenersi una risata che suonava quasi maligna.

«Patetico, letteralmente! - commentava mentre si rigirava i capelli nero lucido fra le dita - Davvero Nardo ha esaurito tutta la sua inventiva? Scegliere quattro sfigate che si trucidino fino allo stremo solo per ottenere un titolo che vale meno di zero?! Povero vecchio idiota...»

Continuava a fissare la lettera quasi con aria schifata. Poteva quasi immaginarsele: quattro Allenatrici totalmente incognite che si comportavano come dive di un reality, sabotandosi, alleandosi e pugnalandosi alle spalle solo per ottenere un minimo di attenzione.

«Non dovresti parlare così di Nardo. - le disse severamente Corrado, mentre le accarezzava il viso dalla pelle bianca e perfetta - Ti ricordo che lui ti ha...»

«Non mi interessa. - lo interruppe bruscamente la ragazza, per evitare che le ricordasse ancora ciò che ormai considerava "passato" - L'idea di questo torneo è stupida. Basta.»

Corrado le si avvicinò ulteriormente. Erano distesi l'una sopra l'altro, davvero vicini.

Nulla di speciale, lo aveva fatto un sacco di volte; e in più si sentiva stressata: tutta colpa del suo lavoro da modella, era solo una sfida quotidiana in cui un giorno senza il viso illuminato da un flash ristagnava nella sua memoria come un giorno di assoluta e deprimente oscurità per la stanchezza e la fatica.

Il prezzo della fama era quello, alla fine.

«Ti sbagli. Primo: Nardo non è un idiota. Secondo: le Allenatrici sono cinque e non...»

Si ritrovò ad essere nuovamente interrotto mentre cercava di far ragionare la modella viziata che era distesa sopra di lui.

«Chi è la quinta?» Gli chiese con disinteresse, alzando un sopracciglio nascosto sotto la frangetta.

La lettera le cadde dalla mano leggendo il nome della fortunata. Stava per cacciare un urlo dall'umiliazione che si era procurata criticando le altre concorrenti, lo soppresse fra i denti e le uscì solo un mugolio di discontento. Avrebbe voluto imprecare, ma avrebbe dimostrato al suo ragazzo di non avere una delle qualità necessarie per una modella del suo calibro: l'autocontrollo.

O la repressione. Alla fine, si trattava di due nomi diversi per indicare essenzialmente la stessa cosa, no?

«Calmati, amore...» Le disse lui, dandole un bacio sulle labbra. Sopportare le crisi nervose della sua tanto bella quanto isterica ragazza per lui era diventata una stressante abitudine.

«Non desideri diventare una Campionessa, invece che essere solo una semplice Capopalestra?» Aggiunse con voce calma.

«Semplice?! - replicò lei seccamente - Sono la top model e la Capopalestra più famosa di Unima: ho fama, soldi, una vita sociale e un'abbondante taglia di reggiseno: non posso desiderare di più!»

La risposta della fidanzata lasciò Corrado senza parole. Non l'aveva mai vista così scettica e stressata da qualcosa che riguardasse le lotte Pokémon.

Intanto lei continuava a tormentarsi nervosamente le unghie finte coperte di smalto.

Ogni tanto guardava con i suoi occhi azzurro chiaro quelli di Corrado, perdendosi nelle sue fantasie erotiche momentanee. Anche lui sembrava ricambiare, forse anche lui la amava.

La modella accennava un sorriso con le sue fini labbra e lui le accarezzava con il dito i lineamenti perfetti del suo viso prolungando quel tocco protraendolo fino alle spalle e al busto.

A rompere l'atmosfera che si stava scaldando ci pensò la sua piccola Emolga che si appoggiò sul petto della ragazza, distraendola dai suoi pensieri precedenti. Corrado la guardava, seccato dalla sua disattenzione.

«Forse... - si convinse lei, mentre coccolava dolcemente il suo Pokémon - dovrei partecipare. Anzi, devo. Voglio mostrare io a quelle perdenti chi comanda e chi si merita quel titolo davvero. Un buon PR non mi fa male di certo.»

Intanto Emolga era atterrata elegantemente sulla sua spalla; lei, alzandosi, immaginando di fissare il suo pubblico di fans sfegatati.

«Del resto, io sono io. – Aggiunse - Io sono la stella più brillante di Unima. Elettrizzare chi mi ama è mio dovere.»

La modella se ne andò con elegante portamento, pensando e ripensando alla frase appena detta.

La notizia della dimissione del Campione aveva sconvolto tutta Unima, ma quattro persone in particolare ne avrebbero risentito particolarmente.

La Lega di Unima in quegli ultimi tempi era in completo subbuglio: sempre più Allenatori volevano sfidare il Campione e l'istituzione più importante della regione ne aveva promesso uno nuovo, forte e deciso. O almeno, i tabloid avevano riposto questa aspettativa nell’istituzione, quindi i membri stessi l’avevano a loro volta trasferita sulle spalle di Nardo per non addossarsi nessuna delusione.

Niente e nessuno avrebbe distolto i Superquattro dal loro lavoro di assistenti della personalità più importante nel circuito pro nella regione, tre su quattro dei membri si erano accomodati per tempo di fronte a bicchieri riciclabili di caffè annacquato e portatili in bilico fra lo stand-by e le dieci schede aperte nel browser.

Seduti ad un tavolo, tre dei quattro Allenatori si passavano tra le mani la tanto attesa lettera.

«Apri quella lettera! - ordinò Antemia, la ragazza dai capelli viola che mordicchiava nervosamente una penna. - Nardo avrà di certo scelto te. Sei il suo preferito.» Aggiunse guardando verso il muscoloso uomo seduto di fronte a lei.

«Basta con le tue cavolo di presunzioni!» Disse Marzio, battendo un pugno sul tavolo.

«Chi ha contribuito al successo di Nardo? Tu e i tuoi stupidi libri, genio!»

«Parla l'allievo, il cocco del maestro...»

«Brutta stupida...» Marzio non riuscì a finire l'insulto che fu interrotto dalle parole pacate e calme di colui che sedeva alla sua destra. Era davvero umiliante che la sua collega lo interrompesse, facendolo passare sempre per uno scemo.

«Davvero, siete proprio immaturi. Datemi quel pezzo di carta. Vi ricordo che non siete solo voi due a concorrere per il posto di Campione.» Era la voce calma e pacata dell'affascinante e misterioso Mirton, membro dei Superquattro di Unima, specialista di tipo Buio.

Era abituato ad essere etichettato con quel titolo che deteneva con disinvoltura.

Non gli importava nulla dei titoli, ancor meno degli onorifici e dei fans. Il suo era un lavoro, veniva pagato per vincere. Nient'altro. Voleva lottare e diventare forte. Nelle lotte non c'era spazio per le cose superflue.

«Ci siamo anche io e.…» Cercò di continuare, venendo però interrotto dalla voce squillante di Antemia.

«Tu?! Ma se sei diventato Superquattro solo per stare con lei!»

Ora i suoi colleghi avevano davvero superato il limite. Non si consideravano più amici, ma rivali per il posto di Campione, in modo che il vincitore avesse la soddisfazione di comandare a bacchetta i suoi futuri dipendenti. Ma ciò era comunque superfluo al concetto di "lotta".

Mirton aprì la busta, sotto gli occhi dei colleghi che continuavano a spintonarsi per conoscere il nome del fortunato scelto proprio dal loro capo, Nardo.

Un attimo dopo Antemia mormorava imprecazioni fra i denti mentre Marzio si scrocchiava frustrato le dita delle mani. Solo Mirton sembrava aver accettato con sportività la propria sconfitta.

«Vado ad avvisare Catlina della sua vittoria. Ne sarà contenta. O magari le darà così fastidio che non si presenterà nemmeno all’incontro. – Si guadagnò insofferenza, come se quella di rifiutare ed oltraggiare il buon nome dello staff potesse essere per lei un’opzione – Ad ogni modo, è in ritardo per la riunione.»

Alzandosi con fare rilassato dal tavolo, il giovane uomo si diresse nella stanza dove la giovane Allenatrice dormiva, come al solito, persa nel suo mondo.

Per Catlina, la più giovane fra i Superquattro (anche se la differenza di età fra questi era quasi nulla), dormire era molto più di una semplice funzione vitale: le bastava chiudere gli occhi per qualche secondo e lasciare che la sua mente si obliasse dal mondo terreno, il mondo delle cose superflue.

Se chiudeva gli occhi il suo subconscio, quella parte del cervello che c'è ma non si fa sentire perché coperta dalla ragione, le mostrava le immagini, i ricordi e le sensazioni che credeva aver perduto per sempre nei labirinti del tempo: i sogni che le attraversavano la psiche per lei rappresentavano tutto.

Inutile dire che Mirton la trovò addormentata quando entrò per avvisarla della sua vittoria sugli insopportabili colleghi. Non voleva svegliarla bruscamente: ci teneva a lei, nonostante le sue manie disinteressate, ma non poteva dimostrarglielo perché lei doveva restare solo un'amica.

Un’amica che non poteva disfarsi di una delle uniche fonti di socialità che possedeva in una regione a lei straniera, su cui quindi aveva carta bianca per cercare di farla arrossire e protestare come solo un fiore delicato privo di più nobili attenzioni sa fare.

Mirton le infilò una mano nella scollatura del pigiama: Catlina dormiva di schiena, con i lunghi capelli biondi che le incorniciavano il viso. Non aspettava altro per tormentarla, come si fa tra amici, con quei piccoli gesti fatti per infastidire l'altro e magari poter ricevere una risposta.

Le accarezzava delicatamente il seno, stringendolo leggermente fra i polpastrelli delle dita, in cerca delle parti più morbide e sensuali della giovane addormentata.

Catlina sfiorava con le labbra il polso di lui, inconscia di ciò che era intorno a lei. Sentiva solo una dolce sensazione di solletico e qualcosa di caldo sul petto.

Ma le parole di quel principe immaginario spezzarono quel momento di ipotetico erotismo.

«Svegliati! Devi svegliarti e vivere quest'occasione. Sarai Campionessa se ti sveglierai, non puoi vivere per sempre di sogni.»

Catlina aprì gli occhi di colpo.

Con la fronte sudata, sentiva il suo cervello ripeterle "Svegliati!" come un forte colpo in testa. Aveva sempre avuto paura di quella parola, ora più di prima. Ma non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di ciò, che cacciò un urlo di imbarazzo.

«Ben svegliata, principessa.» La sbeffeggiò lui.

«Mmh... – La notizia mancò del tutto il suo entusiasmo, i capelli avevano preso lo stampo del cuscino e anche la testa – eh…?»

«Da oggi sarai la nuova Campionessa della regione. Complimenti, ce ne vuole per raggiungere il top dei top senza fare nemmeno la fatica di alzarsi in tempo per il lavoro.»

«Davvero? Sono io la Campionessa ora?»

«No.»

«Okay, allora posso stare a letto almeno altri trenta minuti. Arrivederci e a dopo.»

Mirton quasi rise immaginandosi lei a rivestire quel ruolo.

«Unima... È così piccola vista dall'alto. Anche in mezzo a una foresta di grattacieli, prendiamo ad esempio Austropoli, se prendi l’ascensore per salire al centesimo piano, ti sembrerà di poter dire “sembra una miniatura”. Una grande scacchiera, con i pezzi neri e bianchi che dalla prima vila paiono immobili, ma in realtà ci sono delle mani che da bordocampo decideranno le sorti del re, della regina, dell’intera partita.

molte persone la considerano ancora un impero vasto e incontaminato. Persone che mirano solo alla grandezza, al desiderio di arricchirsi, di diventare importanti, non importa se per la via del bene o del male.

Porsi davanti a sé un obiettivo è bene, ma essere disposti ad usare qualsiasi metodo, anche il più crudele per portarlo a termine... Mi sembra una sciocchezza.

Nessuna motivazione può mettere in ombra il senso di responsabilità che un Allenatore ha davanti a sé... Nessuna. Nemmeno un desiderio che...»

«Camilla?» Il richiamo di Nardo riportò la giovane Campionessa della regione di Sinnoh sulla terra, facendola cadere dalle nuvole e lasciandola un po' stordita. Le sarebbe servito un bel respiro profondo.

Era solita fantasticare, ragionare ad alta voce sulle questioni importanti ma non urgenti per chiarire i suoi pensieri; non desiderava assolutamente che nessuno, neppure un Campione tanto rispettato come lui osasse commentare o giudicare strana questa sua azione insolita.

«Non parlavo da sola. Stavo solo...» Si scusò, in preda all'imbarazzo.

«Sembri agitata. Non è da te.» Cercò di cambiare argomento l'uomo, comprendendo il suo disagio.

«Lo sono. – Controllò l’ora dal cellulare - Solo un poco però.» Camilla continuava a fissare lo splendido panorama che dalla terrazza più alta della Lega Unima si apriva.

Infinito. Era tutto quello che di fronte a lei e alle altre quattro ragazze restava da vivere.

«Essere agitati vuol dire essere pronti. Se tu avessi sottovalutato le tue future avversarie o se avessi rinunciato senza prima combattere, ora non saresti pronta.»

«Concordo.» Rispose ella, pensierosa come sempre.

Un'altra volta Camilla osservò la regione di Unima che si estendeva grande e prospera sotto i suoi occhi color platino, dilatati per catturare al meglio ogni particolare di quel panorama.

Non vedeva l'ora di incontrare le sue avversarie, di combattere contro di loro fino allo stremo delle forze e di stringerci amicizia allo stesso tempo.

«Toglimi una curiosità Nardo: come mai le concorrenti sono tutte femmine di età compresa fra i quindici e i vent'anni?»

«Mi pare ovvio, Camilla.»

«Giusto. Era una giusta cosa dare una possibilità ad Allenatrici dotate di così tanto talento...»

«Scherzi!? Dovrò andare in pensione, ma prima voglio vedere combattere delle giovani ragazze prosperose, no?!»

«La vecchiaia non ti giustifica questa visione maschilista...»

«E la tua giovinezza non giustifica la tua timidezza e la tua mancanza di voglia di esporti, cara Camilla!»

«Non cambierà mai questo maniaco...»



Behind the Summery Scenery #1

1. Questa rubrica è Behind the Summery Scenery, la versione (brutta) degli angoli autore. Qui ci sono curiosità, riferimenti, spiegazioni ed easter eggs dell'autrice, abbagliata dalla propria vanità incommensurabile per accorgersi che NO ONE CARES.

2. La stesura della fan-fiction direttamente su computer è cominciata nell'agosto 2013, anche se il concept e la trama generale erano stati ideati già nell'aprile di quello stesso anno. Entro il 2015 erano già stati scritti i primi 12 capitoli e pubblicati insieme, gli altri sono stati scritti e pubblicati uno dopo l'altro, con in media 6 mesi di distanza l'uno dall'altro.

3. Le aspiranti Campionesse in origine dovevano essere sei: le ragazze che ci sono ora a cui si sarebbe dovuta aggiungere Antemia, membro dei Superquattro di Unima. Avrebbe dovuto avere la stessa età di Catlina (19 anni) ed indossare uno yukata viola, dato che il colore iniziale di Iris doveva essere il rosso.
Ho dovuto eliminare Antemia dalla storia perché mi sono resa conto di non essere in grado di gestire troppi filoni narrativi e perché lei non ha molte relazioni canoniche con le altre ragazze (non fraintendetemi, come personaggio la adoro lo stesso).

4. La storia era inizialmente pianificata per durare solo 12 capitoli ed avere un sequel (che avrei voluto chiamare ES2, letto に "ni" come in giapponese). Idea anch'essa scartata.

5. Questo capitolo è decisamente il più corto di tutta la long. Tutta colpa della mia pigrizia.

6. Nonostante volessi trasmettere un senso di crescita e di leggero cambiamento in tutte le ragazze, non sono mi sono mai decisa a cambiare la capigliatura che Iris tiene per tutto il primo videogioco e l'anime: era una cosa troppo carina da gettare via.
Però ogni tanto le ragazze cambiano pettinatura, lo specificherò sempre. Mica siamo come nei videogiochi in cui i capelli sono di plastica, oh.

7. Il titolo del capitolo è cambiato: in precedenza era "Destini, sogni, obiettivi". Rigiocando a Pokémon Bianco di recente, ho rivisto la intro che recita, secondo la stessa fomula del tricolon, appunto "Speranze, sogni, scoperte".

8. Ogni anno la grafica della storia cambia. L'anno scorso il tema era il colore fucsia, e la scritta del titolo era in font Eggs proveniente da Fontgenerator. Questo perché io e la mia beta abbiamo un inside joke basato sul fatto che l'anagramma(?) di ESG sia EGGS e quindi nelle nostre chat la storia è chiamata con l'emoji dell'uovo.

Ora la grafica è tutta nera, rosso sangue, è assolutamente perfetta per tagliarsi le vene sulle note dei MCR e dei Good Charlotte, assolutamente GOFFIC! Io ovviamente sono Tara Gillersby e Daisuke è Raven (fangz 4 da help, daiskeyy! E preps stahp flaming)

9. Anche il divisore dei paragrafi è cambiato; prima erano due ondine e un fiore. Adesso è il simbolo delle palestre in Nero e Bianco.

Update: il sito di hosting di immagini che usavo ha chiuso. Quindi il simbolo è stato sostituito con questo altro fiore. Credo sia... un girasole?

10. Questo punto è importante. Sto revisionando tutti i capitoli estensivamente. I capitoli revisionati, ripuliti da vecchi refusi, tell don't show, aberranti paragoni che sfondano il meta e altre schifezze accumulate negli anni, sono quelli con un checkmark verde. Siccome sono al corrente dell'importanza storica e filologica dietro ad ogni aspetto della internet culture, la "versione brutta"di ESG non è scomparsa nel nulla: tutti i capitoli con i veecchi errori sono stati diligentemente archiviati nella Wayback Machine. Basta che copia-incolliate gli stessi URL ed avrete uno snapshot di come appariva il capitolo prima della grande riforma dell'inizio del 2021.

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Capitolo 2
*** Quando tutto è nuovo, anche tu ti rinnovererai ***


ESGOTH 2




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Quando tutto è nuovo, anche tu ti rinnoverai

 

Ed il giorno tanto atteso finalmente arrivò, con un mattino di sole cocente.

Appoggiata sopra la scrivania stava la seconda conferma delle cinque prescelte. Leggendola e rileggendola tutte le volte che le capitava sotto gli occhi, Iris si rendeva conto di aver fatto uno sbaglio.

Sentiva che qualcosa dovesse andare storto: quando doveva barrare la casella per accettare la partecipazione e firmare con la sua calligrafia inclinata non le aveva lasciato un tremore alle mani intenso quanto l’afferrare la maniglia dell’armadio.

E tutto iniziava da lì, in quella camera: come si sarebbe dovuta vestire?

L'abbigliamento era il suo ultimo pensiero quotidiano, eppure aveva concepito l'idea che un Allenatore di successo dovesse vestirsi in una certa maniera, in modo che tutti lo riconoscessero in mezzo ad una folla di semplici dilettanti e lo ricordassero come un modello da imitare.

Il concetto di basarsi soltanto sull'immagine per dimostrare il suo valore era un'idiozia, lo sapeva. E allora lei era la prima degli idioti, quando a tavola chiamava le varie personalità del mondo delle lotte “tizio dai capelli ics” o la “signora (che era qualsiasi donna oltre i 25 anni) con il vestito ipsilon" in attesa che fosse suo nonno a ricordarle.

«Quelle diciture stanno bene nei problemi di algebra, non per appellare persone con una serie di vittorie il triplo più lunga della tua.»

Sicuramente le altre Allenatrici non si erano poste il suo problema: loro già avevano un'immagine ed una carriera, mentre lei era solo una nullità venuta dal caso.

«Devo essere me stessa.» 

Si ripeteva invano.
Ancora si chiedeva perché Nardo avesse scelto proprio lei.

«Inutile darsi arie. Sono uno zero, non posso nasconderlo.» 

Iris si lanciò sul letto, schiacciando il viso contro il cuscino. Sentiva di aver perso. Senza neppure combattere, senza conoscere le sue avversarie, a dispetto del suo amore per le lotte e per le sfide. Non si sentiva degna di essere chiamata "Allenatrice".

Axew le saltò fra i capelli, solleticandole leggermente la testa, come faceva sempre per consolare la sua piccola amica; la ragazzina lo abbracciò forte, per sfogare nel piccolo draghetto la frustrazione che la stava divorando.

«Andiamo. Se faccio tardi farò una figura orribile.»

Si disse, indossando i suoi abiti casual ai quali non avrebbe rinunciato solo per trasformare la sua immagine in quella di un'estranea che contasse solo un poco più di lei: la maglia larga di colore giallo pallido, nelle cui maniche aveva lo spazio per tenere le sue Poké Ball, la gonna rosa, che le donava un pizzico di femminilità e le scarpe da ginnastica preferite sarebbero bastate a farla sentire chi voleva essere: se stessa al massimo del proprio potenziale.

«Vado.» Si limitò a dire questo per salutare Aristide, presa dalla tensione di quegli istanti fatidici.

«Essere Campioni non significa solo lottare. Ricordatelo, cara.»

Le rispose l'anziano Domadraghi, per fornire una perla di saggezza alla sua” nipotina”, che in quel momento era più cresciuta che mai.

Iris sembrò ignorare quel consiglio; alle sue orecchie pareva insensato e privo di logica.

«Ma non sarà uno di quei consigli che i vecchi danno per incasinarti la vita ma che ti tornano utili quando sei nei guai fino al collo?! Almeno spero che sia così...»

Il cammino per la Lega Unima non era più impervio e difficile: la vecchia Via Vittoria era stata chiusa e un passaggio più agevole collegava la città di Boreduopoli con la Lega.

In poco tempo Iris, in tutta la sua piccolezza, si ritrovò davanti l'edificio più maestoso che avesse mai visto in vita sua: un'enorme scalinata introduceva gli sfidanti a un ampio padiglione dorato, che si ramificava in quattro scalinate (dovevano condurre alle stanze dei Superquattro).

Le pareti ritraevano dipinti con scene di lotte, vittorie e sconfitte di chi aveva lanciato la stessa sfida prima di lei e delle altre ragazze, contribuivano a rendere quel posto talmente spettacolare che a stento si riusciva a distaccarvi lo sguardo: il Campione doveva averla progettata così per far sentire gli sfidanti che vi entravano infimi ed insignificanti. E l'effetto aveva rivelato la sua efficacia su Iris, che non si era mai sentita così piccola e impotente.

Salita la gradinata, la ragazzina riprese fiato: stupore, paura e curiosità si mescolavano nel suo cuore, sentiva esploderle nel petto. Dopo poco capì di non essere sola, o meglio, la sola: due ragazze, sicuramente più grandi di lei di qualche anno, erano sedute a ridosso dell'enorme statua che si erigeva nel centro dell'aurea sala.

Iris, in silenzio, le analizzò attentamente, spinta da forte curiosità: una si mordicchiava nervosamente le unghie, fissando lo schermo del cellulare; aveva capelli rosso fuoco un po' disordinati legati in una coda sul lato, la carnagione abbronzata simile alla sua ed uno sguardo preoccupato, che però lasciava intravedere un’espressione gentile dietro due grandi occhi azzurro cielo.

Iris aveva voglia di andarle a parlare, almeno di potersi presentare. Ma dovette resistere, seppellire la sua indole di bambina curiosa e nascondersi dietro la freddezza ed indifferenza di un'Allenatrice adulta.

«Ma a quindici anni... Si è già adulti?» Pensò.

Cercò di focalizzarsi sull'altra, che pareva l'esatto opposto della rossa: capelli neri - tinti probabilmente - con una singolare acconciatura che somigliava ad un semplice taglio corto, se non per due lunghi ciuffi che le ricadevano lungo le spalle, arricciati vagamente come una saetta o un tuono.

Un'altra cosa che Iris non poté fare a meno di notare era l'abbigliamento delle due giovani: una tuta di colore azzurro, molto attillata, che copriva il petto della rossa, lasciando scoperta la pancia, e il top color argento della mora, con una scollatura che lasciava intravedere il seno in maniera intrigante ed esibizionista.

La ragazza, dalla pelle bianca e diafana, continuava a sistemarsi il mascara, guardando superba il suo riflesso nello specchietto, come se fosse inconscia del fatto che intorno a lei ci fossero altre persone.

«Chissà perché so già chi non sopporto... Il tipo di persona che ha almeno due Pokémon rosa in squadra e si fa insegnare le mosse dal suo fidanzato, ma cosa ci fa qua? Almeno non sono io quella presa peggio…» 

Pensò Iris, continuando a fissarla con aria incuriosita e disgustata allo stesso tempo.

Ma appena la mora sentì che qualcuno la fissava con così tanta presunzione, chiuse violentemente lo specchietto e fulminò Iris con lo sguardo più freddo e accusatorio che la ragazzina avesse mai visto.

Incrociare i suoi occhi la spaventò a morte.

«La smetti di fissarmi, ragazzina?!»

La mora le graffiò l'autostima con quelle parole velenose. Le fece stringere le palpebre per un attimo, un sollievo nel dischiuderle e ritrovarla impegnata con il suo trucco, lontana dalla sua visibile paura.

Iris sentì il sangue gelarle nelle vene: sarebbe sopravvissuta contro avversarie che avrebbero fatto di tutto pur di metterle i piedi in testa?

Una voce maschile chiamò le tre ragazze, non per nome, disse semplicemente: «Entrate».

Un ascensore era nascosto sotto la statua al centro del padiglione: dopo essere sceso di un paio di piani, una grande scalinata di marmo si erigeva di fronte a loro.

Lei e la rossa continuavano a fissare tutto con immenso stupore; la mora invece, sembrava del tutto indifferente, come se avesse visto di meglio nel corso della sua vita.

«Benvenute, aspiranti Campionesse!» Le accolse Nardo, che stava in cima alla gradinata di fronte a loro.

Quella scala... Doveva rappresentare il loro cammino, lungo e impervio per diventare ciò che sognavano.
E salire fino in cima... Il privilegio di guardare tutti dall'alto, di poter sottovalutare i propri nemici, di potersi sentire grande...

Persa nei suoi pensieri, Iris notò con sorpresa che a loro tre si era aggiunta un'altra ragazza.

Cercò di non fissarla a lungo, per evitare di scatenare in ella la stessa reazione della mora di un attimo prima: dimostrava più o meno vent'anni. Aveva capelli mossi e lunghi, color biondo chiarissimo e il loro dolce profumo di vaniglia li rendeva i capelli più belli che Iris avesse mai visto.

Non riuscì a guardarle bene tutto il viso, perché la sua attenzione era stata catturata dagli occhi di lei: non erano i classici occhi profondi che attirano l'attenzione con i loro riflessi di luce, di questi ne aveva visti miriadi nei film e nelle pubblicità; erano occhi vitrei e vuoti, che quella teneva quasi socchiusi, in un’espressione che non faceva trasparire alcun sentimento.

E Iris ne era alquanto spaventata, anche se continuava a fingere un atteggiamento calmo e rilassato, come le sue avversarie.

A ridestare la sua attenzione fu la prorompente voce di Nardo.

«Ragazze... Sono commosso. Sapevo che nessuna di voi avrebbe rifiutato questa possibilità. Vi chiederete perché proprio voi. Ma questa non è la domanda a cui ho intenzione di rispondere. Infatti voglio spiegarvi cosa dovrete fare se vorrete arrivare quassù, dove sono io...»

«Questi discorsi non mi fanno paura...» Pensò Iris, assaporando quel retrogusto di pericolo e di sfida che si celava dietro a quelle parole.

Ma le azioni del vecchio Campione contrastavano totalmente con i pensieri della ragazza: alle sue spalle un enorme braciere d'improvviso si accese e la sua ombra era proiettata al cospetto delle ragazze: grande, nera e minacciosa danzava tra le fiamme rosse al suono di una risata spaventosamente potente.

«Mi correggo, questo fa paura!» Riuscì a ribattere la ragazzina, in preda a quell'improvviso spavento. Tutte le ragazze avevano già avvertito che la loro sfida per diventare Campionesse non sarebbe stata semplice.

«Non fatevi alcuna illusione! - Riprese Nardo - non dovrete combattere l'una contro l'altra. Non osate neppure considerarvi "avversarie"!

Le regole sono semplici: vi sottoporrò a una serie di prove di lotta di vario genere: in singolo, in doppio, multipla... E a prove di altro tipo. Vi insegnerò tutti i trucchi e le nozioni per essere in grado di guidare una regione e allo stesso tempo di eccellere nella lotta.

Alla fine della stagione vi scontrerete l'una contro l'altra nel Torneo Regionale di Unima Femminile, che per ragioni di tempistica potrete abbreviare con la sigla TRUF, e da qui sarà decretata la nuova Campionessa in carica da quest'anno.

Non conoscerete alcun risultato dalle vostre prove e per evitare che tra di voi vi siano contrasti e rivalità sarò io stesso giudice e arbitro di ogni prova e siete tutte e cinque molto belle e dotate, non farò alcun favoreggiamento. Detto questo...»


Nardo si interruppe bruscamente.

A causa della vecchiaia doveva aver dimenticato cosa dire; è normale, quando si deve formulare un accurato discorso d'incitazione o si ha di fronte ben quattro ragazze in età prematura.

«Detto questo...» La rossa cercò di invitarlo a riprendere il senso della frase.

«Questo lo ha già detto.» Ammise con aria sarcastica la mora, che tratteneva a stento una risata di commiserazione.

Se è vero che quattro secondi bastano a creare imbarazzo, il momento aveva già perso la sua serietà da un bel pezzo.

«Nardo, non mi hai ancora presentata a queste adorabili ragazze. Mi dispiacerebbe passare inosservata.»

Una voce femminile, profonda e dolce ravvivò immediatamente il calore perduto con il gelarsi dell'atmosfera.
Più che ad una ragazza sembrava appartenere ad una donna.

L'attenzione delle quattro ragazze era stata attirata come da una calamita: scendendo la gradinata con passo leggero e aggraziato, si avvicinò a loro.

Continuava a sorridere, scostandosi i lunghi capelli biondi dal viso, con un gesto perfetto della mano.

A vederla da vicino pareva finta; era abbastanza bella da aver attirato l'attenzione di tutte e quattro le giovani, che non riuscivano a staccarle gli occhi di dosso.

Iris si sentì avvolta dalla sensazione più strana della sua vita, che superava anche la frustrazione e l'imbarazzo degli attimi precedenti: sentiva le mani sudarle, tastando con le dita gocce calde che scendevano lungo i palmi bagnati.

Avrebbe voluto dirle qualcosa ma, in quel posto esageratamente grande, di fronte ad una persona così importante si sentiva troppo piccola perfino per proferire parola.

Si limitò a fissare i suoi occhi: grigio platino, lucenti come gocce di rugiada al sole, dai lineamenti perfetti e naturali. Sul viso non sembrava avere make-up, cosa di cui si compiacque parecchio, dato che neppure lei si truccava.

«Sono Camilla Kuroi, Campionessa della regione di Sinnoh. Non parteciperò effettivamente a questa competizione: semplicemente vi aiuterò nel vostro cammino grazie ai miei anni di esperienza. In poche parole sarò la vostra leader.
Sarà un piacere per me lavorare con delle ragazze carine come voi.»

Iris la fissava, come tutte le altre del resto, ma con la sensazione di aver tralasciato qualcosa.

Lo sguardo della ragazzina fu attirato da altro: abbassando il viso, le sue voglie di bambina vennero represse da uno stimolo adulto, che la spingeva a non staccare le pupille da una visione tanto dolce quanto oscena.
Si sentiva spaventata, non più dalla ragazza che aveva di fronte, ma da se stessa e dalle sue voglie irrefrenabili e perverse.

Iris chiuse gli occhi per un secondo, cercando di dimenticare ciò che aveva fatto, anche solo vagamente. Era lì da neanche poco tempo e già si stava trasformando.

«Cosa cavolo ho appena fatto? Nulla, ho... solo guardato per un secondo, senza toccare. Toccare sarebbe... - Continuava a bisbigliare agitata nella sua mente, come se le altre la potessero sentire e giudicare come perversa. - Eh?! Basta, basta, basta... Non è successo niente e non succederà niente.»

Iris tirò un sospiro di liberazione, cercando quasi di esalare quegli attimi di paura ed agitazione. Con un briciolo di ottimismo, provò a ribaltare la situazione a suo vantaggio, per trovare una giustificazione alle sue gesta assolutamente paranormali.

E ci riuscì.

«Se ho sentito il desiderio di vederle il seno... Significa che non sono più una bambina... Si! Diventerò più grande. Diventerò più forte... Diventerò più adulta.»

Ed eccolo, il fatidico momento.

La tensione era paragonabile a quella di un primo giorno di scuola: nuove compagne, completamente sconosciute, dalle quali non si poteva prevedere alcun gesto o alcuna risposta. Bisognava solo essere se stessi.

Ora che erano sole, loro cinque, come se il destino avesse voluto far incontrare proprio lì e vederle crescere insieme, essere loro stesse sarebbe stato difficile per tutte.

Infatti nessuna proferiva parola. Solo un lungo e vuoto silenzio riempiva la sala.

Per un'ultima volta Iris, confidando in tutto il suo coraggio, cercò di capire chi avesse di fronte: una mora sarcastica e viziata, una rossa che sembrava determinata ma nascondeva un velo di paura dietro ai suoi occhi azzurri, e due bionde: una disinteressata e assorta, ed un'altra che sorrideva con orgoglio alle sue apprendiste.

E lei: una ragazzina. Ma non trovava gli aggettivi adatti a descrivere chi fosse.
«Sono solo una ragazzina.» Iris giunse a questa conclusione solo perché la mora esibizionista le aveva sputato quell'etichetta in viso pochi minuti prima.

Ad interrompere le sue riflessioni fu la voce della ragazza dai capelli rossi che, con chissà che coraggio, si era sforzata di sorridere e di presentarsi per sciogliere quell'atmosfera gelida come il ghiaccio.

«Io mi chiamo Anemone Reyez. Ho diciassette anni e sono Capopalestra a Ponentopoli... Se la conoscete. Piacere.»

Si era limitata all'essenziale, non avrebbe potuto fare altro.

L'unica che sembrò ricambiare la presentazione fu la bionda sorridente che le diede due baci sulle guance come atto di gentilezza, ridendo dolcemente per ricambiare il suo coraggio.

«Il piacere è mio.» La accolse calorosamente.

Ora era il momento di farsi avanti.

Iris raccolse in un intrepido respiro tutta la sua audacia, ricordandosi che anche le sue compagne, per quanto autoritarie e fredde potessero sembrarle, erano umane e quindi potevano, anzi dovevano, serbare un po' di ansia, o la situazione sarebbe rimasta bloccata a quel gelido silenzio in eterno.

«Il mio nome è Iris Calfuray, piacere di conoscervi. Ho quindici anni e vengo da...»

Iris si interruppe un attimo, per decidere che dire, per decidere che impressione dare a quelle ragazze. Avrebbe davvero rivelato le sue origini? Voleva che le sue avversarie la commiserassero? E se invece di commiserarla se ne fossero altamente fregate, o peggio, l'avessero derisa?

Non serviva una bugia. Una mezza verità sarebbe bastata a coprire quella parte di lei che riemergeva con ogni genere di ambiguo pretesto.

«... Boreduopoli. Non sono ancora un'Allenatrice qualificata ma - e qui una frase ad effetto ci stava proprio bene - spero di diventarlo.»

Ovviamente Camilla la accolse con i classici baci sulle guance, il premio che Iris si aspettava dopo aver dimostrato il proprio coraggio, nel suo piccolo.

«Quindici anni... Come sei giovane! Sei la più piccola del gruppo, sai?»

Iris non riusciva ad essere sarcastica, a risponderle un secco "grazie, fin lì c'ero arrivata anch'io".
Non stava parlando con una ragazzina come lei, ma con una donna bella e fatta alla quale poteva solo portare rispetto (e quindi evitare di farsi trip mentali in sua presenza).

Ora l'atmosfera era più calda. Non ancora calda come una coperta di lana, ma non più fredda di un blocco di marmo, una situazione già più piacevole.

Camilla la ispirava davvero tanto. Se voleva davvero diventare Campionessa lei era il modello giusto da seguire. E magari sarebbe potuta perfino diventare sua amica, con un briciolo di fortuna.

Ma, come in tutte le situazioni non totalmente calde, ancora si sentiva un pizzicante refrigerio nell'aria.

Infatti la mora e la bionda spenta non avevano ancora proferito parola, ma non per via dell'ansia: i loro volti (uno sorrideva perfidamente, mentre l'altro non lasciava trasparire alcuna emozione) non parevano umani. Gli umani percepiscono il caldo ed il freddo e la felicità, l'ansia e anche la paura.

Camilla camminò davanti ad Iris con il suo passo deciso, porgendo una mano alla ragazza vuota, che sembrò stupita e un po' disturbata dal gesto della Campionessa di Sinnoh.

«Catlina, dovresti presentarti anche tu. Sono certa che queste ragazze sarebbero molto contente di conoscerti.»

Iris si sentì un po' turbata da quell'affermazione. Si sentiva invadente, anche se non poteva averne colpa. Del resto, prima o poi avrebbe dovuto conoscerne almeno il nome.

Camilla si rivolse di nuovo a lei e alle altre due ragazze.

«Io e lei ci conosciamo già, veniamo entrambe da Sinnoh. -E sorridendo alla bionda, che sembrava innervosita e imbarazzata allo stesso tempo, la invitò a farsi avanti. - Siamo amiche d'infanzia.»

«S-Sì... - la giovane si bloccò un attimo, per riprendere respiro da quella situazione snervante - Sono Yamaguchi-Haato Catlina, lavoro qui alla Lega, piacere di conoscervi.»

Ancora Iris non aveva capito.

Non capiva perché avesse così tanta paura di presentarsi, perché continuasse a guardare tutti con quello sguardo spento e annoiato, perché i suoi capelli continuassero ad accarezzarle il naso con quello strano odore di vaniglia.

Non capiva neppure come facesse una ragazza aperta e gentile come Camilla ad essere stata amica di un cadavere parlante del genere...

Ma nessuno è se stesso nei momenti gelidi. Se avesse aspettato di vederla in un altro stato era sicura che sarebbe stata diversa.

«Hai dei capelli bellissimi, Catlina.» Disse la ragazzina, imitando la tattica che aveva usato Camilla su di lei.

E quella non si dimostrò del tutto insensibile, del resto.
Le tornò indietro un "grazie", in un misto fra il nervosismo e l'imbarazzo.
Interessante. Iris non poté non pensarlo.

Ora ne mancava una; mancava la più tosta però.

Iris si sentiva forte: due su tre già la consideravano una a posto, ed era un buon risultato per una che era partita con il presupposto di non potercela fare.

Scambiò un'occhiata con Anemone, intendendola al volo (o almeno sperando di avere inteso, altrimenti avrebbe solo fatto la figura della stupida), e si diresse davanti alla ragazza mora, che non smetteva di sorridere nascondendo a fatica quanto ritenesse in realtà tutto ciò patetico.

«Vorrei sapere che ci trova da ridere... Ma del resto il riso abbonda sulla bocca degli stolti...» 

Pensò Iris, cercando forza nella saggezza. Un make-over totale di trucco e capelli non poteva arrivarle in dieci secondi, ma era comunque abbastanza tempo per elevarsi per intelligenza rispolverando armi usate da generazioni di ragazzine insicure.

Iris aveva bisogno di forza morale per affrontare gli occhi di quella ragazza, quegli occhi che prima l'avevano trucidata e che continuavano a perforarle la pelle, paralizzandole le membra.

Almeno con lei c'era un'altra, che doveva essere immune alle sue prepotenze, e quindi le avrebbe garantito sicurezza, come quando si affronta un bullo non con qualcuno più grande, ma uguale all'ostacolo.

Iris provò ad attaccare bottone, con la frase più lecita in quel momento.

«Ciao. – la salutò dolcemente, cercando di dimostrare una minima felicità nel conoscerla - Tu sei...» Cercò di invitarla a risponderle.

Grave errore. Grave, gravissimo errore.

Tutte le ragazze, persino Camilla, si erano accorte dello sbaglio enorme, del crimine contro la persona, dell'oltraggio al mondo adulto che aveva involontariamente commesso.

Una ragazza libera e ribelle come Iris, che viveva le travagliate vicende dell'adolescenza in bilico tra una bambina ingenua e un'adulta emancipata non poteva leggere riviste, stare sui social network o chattare: ma la mora non sembrava averlo capito; come dice il proverbio, non conoscendo poteva solo disprezzare e per farlo si sarebbe servita della sua arma migliore: i suoi occhi azzurri.

«Davvero non sai chi sono? È un po' strano, vedendo come mi fissavi prima...»

Ecco che iniziava con una delle sue freddure, che potevano abbattere anche un muro.

«S-Scusa, abbiamo iniziato con il piede sbagliato - cercò di scusarsi chinando leggermente il capo la ragazzina, che era tornata a sentirsi piccola ed impotente con una sola frase - ti chiedo di perdonarmi. Mi chiamo Iris, piacere.»

«Riesco quasi a toccare la paura che provi in questo momento, - rispose guardandola dritto negli occhi, fingendo di tastare qualcosa di astratto con la mano - se fossi davvero dispiaciuta scoppieresti a piangere. Miliardi di mie fans lo fanno quando glielo chiedo. Ma tu sei troppo piccola e lo considereresti crudele...

...Almeno quanto detesti il fatto che tutte le ragazze in questa stanza abbiano le tette più grandi delle tue.»

Solo sentendo quella frase, Iris era letteralmente morta nell'animo.
Quelle parole erano state definitivamente crudeli, aveva ragione quella ragazza, erano così dolorose che stavano per farla piangere.
Quella modella l'avrebbe schiacciata come un Rulloduro.

«Non è divertente, smettila di comportarti come se fossi in una anime.» Anemone si pose con scioltezza davanti alla modella, come per difendere Iris.

La rossa non avrebbe permesso che tra le due nascesse un'antipatia che si sarebbe protratta fino alla sfida finale: sapeva benissimo che una ragazzina non può competere contro le elaborate, spietate e pesanti offese che quella mora sapeva lanciare.

Perché sì, Anemone aveva avuto l'occasione di leggere in una rivista di quella ragazza dai capelli nero tinto.

Camelia si fece più seria. Si avvicinò alla rossa, sorridendole beffarda come se quella avesse assestato un colpo assolutamente nullo.

«Sta' zitta tu. I tuoi vestiti valgono la metà di te, io mi farei delle domande.»

Anemone si paralizzò, come un Tipo Volante colpito da una forte scarica elettrica... Si notava così tanto che i suoi vestiti erano di seconda mano?

Continuò a fissarla, sperando di non essersi messa ancora contro la persona sbagliata.
Sarebbe stata una gara di sguardi ed avrebbe vinto chi avesse ridotto l'altra a distogliere lo sguardo per l'umiliazione.

Iris però era stufa. Non voleva farsi odiare.
Lo aveva detto anche Nardo che non erano avversarie, ma compagne.

E l'intervento salvatore di Camilla glielo fece ricordare.

«Sei Camelia Taylor, la top model più famosa di Unima... Vero? - domanda retorica, non sapere chi fosse lei era pari a non sapere chi fosse Arceus - Dovresti accettare le scuse di questa ragazzina. Non credo avesse cattive intenzioni, mi sembra troppo giovane per pensare a quel genere di cose. Per favore riflettici, non intendeva insultarti.»

Iris non aveva seguito tutto il discorso, si era fermata a "quel genere di cose", chiedendosi se Camilla fosse troppo ingenua per considerarla una pervertita o se fosse lei un'ottima attrice.

Ma era certa di una cosa: Camilla le aveva salvato la pelle. Ancora.
E spettava a lei completare l'opera, considerandosi definitivamente un'ottima attrice.

«Scusami tanto. Se ti fissavo - iniziò, con tono adulatore - è perché sei molto bella... I tuoi fan te lo avranno già fatto notare, ma io ti ho conosciuta solo adesso e già ti ammiro molto. Se sei così attraente d'aspetto, sarai anche un'Allenatrice fortissima...»

E lì si interruppe, ansiosa di vedere la reazione della tanto divina quanto fredda Camelia.

«E va bene, ti perdono. - e sorridendo sarcasticamente ancora una volta - Del resto, sei più piccola di tutte noi. In tutti i sensi... - poi si rivolse alle altre tre apertamente - non è vero?»

Poi la modella si girò, accarezzandole con la punta delle dita la guancia: sentire quel tocco caldo sul viso la fece leggermente rabbrividire.

Quali potessero essere le sue intenzioni, cosa volesse trasmetterle con quel gesto ancora non le era chiaro.

Ma l'unico modo per far svanire tutte le domande, tutti i dubbi e tutte le incertezze di quel momento era aspettare: forse in poco tempo si sarebbero rivelate grandi amiche...

O forse no.

Come c’è sempre un lato positivo, in tutto ce n'è anche uno negativo.

Nella vita ci sono amici e nemici, ed una semplice regola non poteva impedire alle ragazze di serbare odio l'una per l'altra; in una competizione ci sono vincitori e vinti., quindi una vincente e ben quattro perdenti. C'era quindi maggiore probabilità di restare a mani vuote per lei.

Iris non sapeva più che cosa pensare. Voleva andarsene da tutta quella paura e a tutti quegli sbalzi d'umore che la stavano portando ad un esaurimento nervoso.

Si era presentata, aveva rivelato il suo nome, le sue presunte origini ed il suo ruolo nella società.
Ora, dicendo addio, desiderava sparire nel suo anonimato, nella sua piccolezza ed insignificanza.

Sicuramente le sue compagne si sarebbero comportate in maniera più adulta di lei.

«O forse no...» 

Pensò Iris, osservando quelle ragazze che per ragioni a lei ignote non riusciva ancora a chiamare "compagne".

«È incredibile, no, anzi, terribilmente imbarazzante! Com'è possibile che a io quindici anni non abbia neppure un accenno di seno?! Ci sono sempre passata sopra, era un dettaglio abbastanza trascurabile... Finché quella maledetta tettona non me lo ha rinfacciato!

Su cinque ragazze quattro - e mi vergogno più ad averlo notato che a dirlo - hanno le tette incredibilmente grandi! Okay, detto così non sembra terribile.

Immaginate di essere completamente piatte... No aspettate, probabilmente chi legge è un maschio. Quindi, ricominciamo.

Immaginate di essere una femmina quindicenne completamente piatta, che si ritrova a dover convivere con delle ragazze con le tette enormi, che solo a guardarle si sciolgono le palpebre per l'invidia e che tu sogni di avere da quando sei nata.
Ma così sembra la trama di un manga pornografico... Immaginate ancora una volta, per favore. Immaginate... le mie compagne (le chiamo così solo per formalità).

Anemone (è molto carina secondo me...), capelli rossi, grandi occhi azzurri e tipico seno da anime-ecchi; ha anche la pelle del mio stesso colore.

Camelia, capelli neri, trucco in ogni centimetro della faccia e fisico da classica modella francese (ma sinceramente, quelle freddure le vengono al momento o se le fa scrivere?).

Catlina, con i capelli di una principessa, gli occhi di uno spettro, e il petto che sembrava esploderle in quel vestito così raffinato (chissà che shampoo usa...).

E Camilla... Non so se essere spaventata o incantata da lei. Di solito le ragazze belle come lei vantano un meraviglioso fidanzato... Come deve essere fortunata, la nostra leader.

Non vi chiedo però di immaginare me: dicendo di essere piatta, mi sono tolta qualsiasi speranza di farmi apprezzare.»


j

Behind the Summery Scenery #2

1. Nelle prime fasi della pubblicazione della storia ho avuto diversi problemi con l'htlm sopratutto per quanto riguardava le spaziature, il carattere e la dimensione del font e soprattutto la disposizione delle frasi. Senza l'aiuto di Barks non sarei mai riuscita ad impaginare decentemente la storia. Questo problema penso sia la maggior causa dell'insuccesso della storia durante i primi momenti della pubblicazione.

2. Il titolo di questo capitolo è leggermente cambiato ancora: prima era “Quando tutto è nuovo, anche te stesso”, poi "Quando tutto è nuovo anche tu lo sei".

3. Non capisco perché, ma cliccando sul titolo della storia dal menù delle ultime aggiornate verrete indirizzati qui al secondo capitolo invece che al primo, e ancora non riesco a spiegarmi il perché dopo sei mesi.
Update 2.0: falso allarme, sono riuscita a risolverlo. Mi sento una hacker, lol.

4. La scena in cui da un braciere infuocato l'ombra di Nardo si proietta minacciosa è puramente reale: nella Hall of Fame in Pokémon Nero e Bianco c'è davvero un braciere, spento però. Inoltre, riguardandola bene, la struttura esterna della Lega Unima è tutt'altro che maestosa e ammaliante: sembra un'aborto figlio di un tempio greco, una ziqqurat e la Cappella Sistina. 

5. Ho adorato descrivere la scena in cui Camelia rinfaccia ad Iris l'avere un seno piccolo e ancor di più ho adorato scrivere il monologo finale: penso che questa insicurezza renda il personaggio di Iris più sexy dal punto di vista caratteriale. E no, non ho nulla contro le sue tette, se ve lo stavate chiedendo.

6. Questo è l'ultimo capitolo in cui le ragazze indossano i loro vestiti originali del gioco/anime/manga fino alla fine della storia.

7. Ho fatto una modifica nella versione 3.0 della storia. "Grazie per aver avvisato adesso, mongoloide." Sì, grazie.

Parto dicendo che dare dei cognomi a dei personaggi in un franchise che dà nomi di persona così eccentrici non è facile.

Inventi dei cognomi tu: ti senti un cretino. Scegli dei cognomi preesistenti: ti senti un cretino poco originale. Mescoli le due opzioni: ti senti un doppio cretino. E, cosa incredibile, non mi piace sentirmi più cretina di quello che già sono.

Ora, prima le ragazze avevano tutte e 5 dei cognomi giapponesi. Perché, se Unima è ispirata all'America queste 5 whitebeasts devono fare cultural appropriation ed avere dei cognomi che non rispecchiano la loro nazionalità? 

Quindi, ho detto, proviamo così.

Catlina e Camilla sono effettivamente giapponesi (Sinnoh = Hokkaido = isola nord del Giappone. Due giapponesi bionde e tettone, ma pur sempre giapponesi, lol), quindi i loro di cognomi, Yamaguchi-Haato e Kuroi rimangono uguali. Guardate, ve li so scrivere anche con i kanji 山口・心音 e 黒井、sono tutti kanji facili da scrivere.
Così sì mi diverto a scrivere 50 e 84 tratti, giappominchia che non sono altro.

Tornando a noi: Anemone fa di cognome Reyes ora. In qualche modo è latina/messicana e questo cognome me gustava, olé. No, non me ne frega niente se gli spagnoli nella realtà non dicono olé.

Per Camelia, un mio amico simpatico e poco razzista, ha scelto Taylor, perché appena senti Taylor pensi subito ad una bianca (mep) con gli Ugg ai piedi (che ho anch'io) che beve un caramel macchiato da Starbucks (come piace a me) e usa "totally like" ad ogni interiezione (this is like, totally me, n'stuff). 

Per il Calfuray di Iris ho dovuto fare ricerche, quindi link qui perché sono stufa di scrivere.

Ancora scusatemi per aver scombussolato l'ordine del cosmo a metà storia.

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Capitolo 3
*** Tempesta di sentimenti ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
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Early Summer Girls

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Tempesta di sentimenti

 

Se sulle mani della nostra eroina dai capelli viola fosse comparso uno strumento per riportarla indietro nel tempo, di sicuro ne avrebbe usufruito senza alcun ripensamento.

Il tempo, nel quale Iris aveva riposto tutte le sue speranze, in quel momento la stava tradendo con lo scherzo peggiore che quella mistica entità potesse giocarle: passare, lasciando le cose terribilmente invariate.
Scorrendo lento, per farle assaporare ogni istante lungo, pesante ed infinito, si prendeva gioco dei suoi sentimenti.

Si era ripromessa che si sarebbe comportata da adulta.

E fino a quel momento aveva mantenuto alla lettera la sua promessa: da quando era lì non aveva mai riso, se non per compiacere le altre ragazze; si era limitata a sorridere come chiunque fingeva un'improvvisata spensieratezza d'animo che, giorno per giorno, invece di giovarle in modo da farla risultare una ragazza simpatica e amichevole, le si era ritorta contro, ferendola dentro tutte le volte che le ragazze non la guardavano.

Ecco ciò che spaventava Iris, che continuava ad essere ignorata, insieme ai suoi rimorsi i quali parevano invisibili agli occhi altrui.

Parlare con quelle era difficile non solo poiché erano di almeno due anni più grandi di lei (la frase di Camilla "sei la più piccola del gruppo", aveva perso il suo dolce significato originario, diventando la palese scusa per isolarsi), ma anche perché quelle erano quattro Allenatrici completamente diverse, sia per quanto riguarda l'aspetto fisico, sia per quello caratteriale.
Sapere cosa dire, parlando con ognuna, le risultava praticamente impossibile.

Tutto ciò le pareva strano: Iris Calfuray era sempre stata una ragazza aperta, estroversa, socievole. Così la descrivevano gli altri, ancora ai tempi in cui era bambina.

Ma da quando era lì, la paura dei giudizi, il panico che ogni suo movimento sbagliato le sarebbe stato rinfacciato a vita e il terrore di rimanere sempre l'ultima avevano zittito la sua voce squillante e paralizzato ogni suo movimento.

«Mi sento un'asociale. E non ha senso cercare di rimediare: le altre sanno il fatto loro. Sanno di sentirsi apprezzate, io no. Resterò sola tutto il tempo, sarà un incubo, io...»

E si interruppe lì, cercando un pensiero alternativo, o almeno di ascoltare le conversazioni per distrarsi da quella depressione che incombeva su di lei.

Ma non ci riuscì e, seguendole in silenzio, finse di stropicciarsi un occhio.

«Sarebbe davvero umiliante se mi vedessero piangere...»
Si disse per farsi forza, fallendo miseramente nel tentativo.

 

Se Iris non riusciva a distrarsi da sola, il fato aveva svolto il lavoro sporco per lei: durante l'allenamento era scoppiato un terribile temporale, conseguente ad un acquazzone che lavava le impurità della terra sotto un cielo di nuvole nerissime.

Ormai era sera. Per ripararsi Nardo aveva proposto loro di ristorarsi in casa sua e, intuitivamente, avevano tutte accettato (anche se si erano limitate a seguire il consenso della loro leader, che sembrava gioire all'idea).

Quindi, dopo la corsa più disperata sotto la pioggia battente che la ragazzina (e non solo) avesse affrontato, si era ritrovata lì, nella casa del suo mentore.

Nessuna delle giovani si aspettava un posto così.

Un'enorme magione, costruita interamente in legno e carta di riso, rispecchiava l'antico ma mai antiquato stile giapponese, che nella regione di Unima non sembrava poter in alcun modo dominare sull'architettura tipicamente occidentale.

Porte scorrevoli, pavimenti foderati e lampade di carta rendevano quell'ambiente davvero inusuale ma altrettanto piacevole, con la sensazione di star camminando tra le stanze e i corridoi di un misterioso e affascinante passato, che spaziava tra quadri rappresentanti tipici paesaggi nipponici, come fiumi e montagne, ideogrammi dipinti raffinatamente con inchiostro nero opaco su porte e stipiti.

«Ho sentito dire che nel giardino della casa del Campione sia presente un onsen, il tipico bagno caldo giapponese, realizzato interamente in pietra, come uno di quelli più antichi.»
Aveva detto loro Camilla, per rendere l'atmosfera più conviviale.

Nonostante la situazione fosse stata leggermente rovinata dal penoso aspetto delle ragazze, completamente fradice e spettinate, Nardo cercò di trattarle con quanta più ospitalità possibile, per ottenere la loro fiducia.

Conoscendo in anticipo le loro intenzioni, porse loro un enorme borsa bianca di lino.

«Siete bagnate dalla testa ai piedi. Toglietevi i vestiti, per favore.»

Subito però le ragazze, data la loro mente giovane e aperta, furono in grado di delineare il doppiosenso in quella frase.

«N-Nardo, non pretenderai che ci spogliamo sotto i tuoi occhi?!»
Disse in rimando Catlina con tono scioccato e imbarazzato, ma pur sempre contenuto.

L'uomo scoppiò a ridere fragorosamente, rendendo quella situazione anche più strana di quanto non fosse. Poi se ne andò, lasciando la borsa ai suoi piedi.

Iris non si chinò a guardare nella borsa, aspettando che fossero le altre ragazze a scoprirne il contenuto.

«Sono... kimono?!»

Fu l'analisi abbastanza stupita di Anemone, che non si aspettava un tale trattamento da parte di un uomo che conosceva da poco più di una settimana.

La ragazza dai capelli rossi sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla.
Indubbiamente fu quella di Camilla, che aveva già estratto i vestiti e li mostrava alle ragazze.

«Più precisamente sono degli yukata. Si riconoscono per la particolare fascia sotto il petto che serve a legarli. Sono anche famosi poiché, a differenza di altri tipi di kimono, non necessitano alcuna misurazione per le spalle e il petto. Quindi non esiste una taglia, ma si possono indossare a proprio piacimento.»

Quel bel discorso pronunciato dalla giovane donna fece viaggiare Iris con la mente, trasportandola in un universo alternativo, reso così affascinante dall'antichità come un vino che matura il suo sapore pungente con anni ed anni di quiescenza.

Le donne dovevano essere piuttosto importanti, realizzò, in quella società così lontana dalla sua; le femmine lì meritavano lunghe maniche, una copertura decorosa abbinata ad un tessuto morbido e confortevole adornato da motivi colorati e fantasiosi: un capolavoro di vestiario.

La moda della regione di Unima di certo non poteva vantare nulla di così raffinato, anche se si sforzava non riusciva a proiettare la stessa idea di dignità e bellezza espressa da un tradizionale kimono su cose furiosamente occidentali come jeans stretti e maglie attillate.

«Capito? - Iris sprofondò nella vergogna quando Camelia le rivolse uno sguardo di commiserazione - Fanno addirittura dei kimono per le sfigate come te. Che pena, scommetto che non ti servirà neanche la cintura...»

E terminò con il classico tono derisorio.

Iris sospirò. Ignorare era così difficile se si metteva in ballo il suo orgoglio. Avrebbe voluto controbattere, o almeno poter ordinare al suo Axew di tagliarle la gola e sentire che commenti quell'insensibile aveva al riguardo...

«Aspetta, da quando mi interessa possedere un paio di tette?!»

...e realizzò quanto fosse caduta in basso.

Si allontanò da Camelia che si godeva soddisfatta la frustrazione crescente.

La spiegazione semplice e professionale della leader aveva catturato l'attenzione di Iris, la quale desiderava indossarne uno più che mai, dato che, non avendo taglie, il problema di essere la più piccola sperava che non sarebbe riemerso, in teoria.

Lei e le altre Allenatrici li osservarono uno per uno, scambiandosi qualche volta dei consigli, per far sì che anche una banale situazione come quella divenisse un momento per socializzare, come delle "amiche" farebbero.

A favorire tutto ciò fu proprio il carattere così dolce e aperto di Camilla.

«Anemone - attirò la sua attenzione con successo - dovresti prendere questo azzurro. Si intona perfettamente con i tuoi occhi.»

Lei si girò, un po' confusa per l'affermazione e per il fatto che... Avesse notato i suoi occhi.

«Sì… Hai ragione. Grazie!»
Le sorrise la giovane, rispondendo, un poco imbarazzata alla gentilezza dell'amica, che glielo stava infilando partendo dalle braccia.

Intanto Iris e Catlina continuavano a guardare gli altri abiti, passandosi fra le dita quel tessuto morbido e delicato, come fosse fatto di petali di rosa.

Gli yukata rimasti erano tre: uno bianco latte, uno rosa pesco molto tenue e uno viola chiaro, quasi lilla. Quello attirava maggiormente la ragazzina.

Il colore si abbinava perfettamente ai suoi capelli e, mentre si rigirava il kimono violetto fra le mani, si chiedeva chi potesse aver cucito o dove Nardo avesse comprato quegli indumenti.

«A proposito, perché Nardo dovrebbe possedere degli abiti femminili?»
Domandò a Catlina, che sembrava indecisa su quale dei due vestiti scegliere.

«Forse perché non sono suoi.» Le rispose con tono calmo la ragazza.

«Cosa intendi?» Insistette la ragazzina in viola.

Le mostrò chiaramente lo sguardo più perplesso che riusciva a fare.

«Che non appartengono a lui, forse.»

«Grazie genio, ti farò un monumento per questa risposta illuminante!» Si disse Iris sottovoce.

Poi, sapendo benissimo di non sapersi comportare da ragazzina sarcastica, cercò di immaginare come mai le risposte di quella giovane dagli occhi spenti fossero così vaghe.

Iris non fece in tempo a girarsi che vicino a lei era apparsa Camilla.

«Non dovresti giudicare Catlina così presto.»

Beccata. Una ragazza più grande di lei aveva sentito le sue private osservazioni, facendola sentire talmente in imbarazzo, che non riuscì a trattenere la sua indole repressa di bambina imbarazzata e dispiaciuta allo stesso tempo.

«Scusa, io... Non intendevo offenderla, per favore, dimentica ciò che ho detto... Scusa, scusa ancora!»

«Stai calma, non hai offeso nessuno... Catlina è una brava ragazza. Ti basterà poco tempo per accorgertene.»

E, come al solito, le sorrise con aria gentile, dimostrandole di averla perdonata.

Iris continuava a rimuginare se fidarsi o no dell'affermazione di Camilla. Sperava, in cuor suo, che Catlina fosse davvero una brava ragazza, ma che prima dimostrasse di provare emozioni, come una vera ragazza.

Era rimasta in piedi, tenendo in mano l'ultimo kimono rimasto: era viola. Questo colore, come si può evidentemente notare, sembrava essere stato dipinto da Dio sulla tela del mondo solo per rappresentare quella ragazza, l'innocenza e il fiore dal quale aveva preso il nome: l'iris; la fascia che lo legava presentava dei piccoli e raffinati disegni di fiori dai petali piccoli come chicchi di riso.

Si chiedeva se il più brutto fosse stato lasciato a lei, dato che era rimasto per ultimo, per via della sua lentezza nello scegliere un colore.

Era quello il suo colore? Il colore dell'abbandono? Un colore ormai sfiorito ed ignorato?

Lo guardò un attimo come fosse un dono intoccabile, irreprensibile.

Avrebbe voluto rimanere lì ad ammirarlo e basta, solo toccarlo sembrava darle l'impressione di scombussolare un qualche equilibrio antico, il primo yukata che vedeva in vita sua.

«Non vi spogliate?»

Queste parole scossero la psiche di Iris.
Le parve uno scherzo sporco al sentirlo così d'improvviso.
Ma dopo essersi voltata capì che era davvero un incito.

Tenendo fra le gambe lo yukata giallo acceso, abbagliante come un lampo, Camelia si era già tolta i vestiti bagnati di pioggia; indossava solo l'intimo, che si stringeva contro il suo corpo umido e perfetto.

Il resto delle ragazze la guardarono sbigottite: dovevano ammirare il suo coraggio o vergognarsi della sua impudicizia?

Non dissero nulla. L'ennesimo loro silenzio, l'ennesima nuvola sotto quella pioggia battente. Si limitarono a seguirla.

Iris le guardò sfilarsi i pantaloni, togliersi gli indumenti fino alla semi nudità, nei loro occhi increduli e vuoti.
Lei si sarebbe chiaramente rifiutata, se solo avesse avuto un briciolo di autorità. Si conoscevano da poco e non ancora non avevano avuto una vera conversazione.

Quando comprese che anche lei avrebbe dovuto mostrare a quelle donne il suo corpo di bambina provò il più forte imbarazzo della sua vita.

Qualcosa violava la sua dignità, e le pareva di sentire le risate commiserevoli e crudeli di Camilla, Anemone e Camelia alla vista del suo corpo: Iris ripensò ai loro grandi seni, alle loro curve perfette e alla loro pelle diafana. Loro non si vergognavano di certo.

Aveva quindici anni, quest'ambizione non l'aveva mai sfiorata, ma volle porsi un obiettivo ulteriore alla vincita del titolo di Campione:

«Quest'estate voglio diventare sexy.» Bisbigliò a se stessa, mentre si infilava lo yukata.

Camilla capì, e le sorrise.


 

L'ospitalità di Nardo non aveva più freno: l'uomo si era offerto di preparare loro una cena speciale, per premiarle della pazienza e tolleranza dimostrata in quei giorni, soprattutto durante gli ardui allenamenti a cui le sottoponeva.

A vedere il risultato di quell'atmosfera eccessivamente forzata, Iris si sentì come estranea a quel posto, a quella regione o anche all'intero universo.

L'uomo fece accomodare le ragazze, che dimostravano parecchio entusiaste in quell'aria nuova ed estranea.

La cena era in perfetta sintonia con l'ambiente tipico orientale. Un buon assortimento di piatti deliziosi, non esageratamente ricchi o pesanti, era imbandito su un tavolo a gambe basse, con cinque cuscini disposti intorno.

Con gli occhi bassi ed un falso sorriso sulle labbra Iris si arrese al suo stesso isolamento.
Aveva mangiato poco, il suo stomaco le sembrava essersi riempito e poi svuotato più volte durante quella lunga serata.

Era seduta accanto alle sue compagne, ma nonostante ciò percepiva un'inviolabile distanza fra se stessa e tutto quello che in quel momento la riguardava.

Era zitta, immobile. Si limitava ad ascoltare Anemone, Camelia, Catlina e Camilla conversare; parlavano del loro lavoro di Allenatrici professioniste, delle loro lotte, delle loro vittorie, ridendo e interagendo senza alcuna difficoltà l'una con l'altra, mentre lei, inabile di intromettersi in una semplice conversazione per via dell'infinita paura che provava, contribuiva al suo stesso isolamento.

Inginocchiata lì, in quel posto che le pareva alieno, indossando abiti non suoi, Iris si sentiva bloccata dal terrore inconfondibile della solitudine.

Continuava a guardarsi intorno, cercando un'ipotetica via d'uscita da quell'incubo di volti sconosciuti ed orribili sensazioni che trasalivano lungo il suo corpo.

«Voglio morire...» Si ripeteva nella sua testa, quasi pensando che le altre la potessero leggere nel pensiero in quella situazione terribilmente imbarazzante. Ma non sarebbe successo, si augurò in maniera pessimistica.

A quelle ragazze non importava minimamente di lei, non vedevano quanto lei stesse soffrendo a causa loro e della loro indifferenza: come tutti i vincenti, dovevano essere spietate ed egoiste, ignorando chi era inferiore a loro.

Ancora Iris le vedeva ridere, scherzare e, ormai del tutto disinteressata alla loro conversazione, nutriva un misto di odio e disprezzo nei loro confronti, il quale si mescolava alla sua tristezza e vuotezza interiore.

E mentre il mondo girava vorticosamente, andava avanti, lei era paralizzata in quegli istanti infiniti, dolorosi come se li stesse passando all'inferno, sentendo la solitudine roderle le viscere e spaccarle il cuore, lei... Si sentiva sola.

Per una delle poche volte in tutta la sua vita Iris provava un sentimento maggiore del suo precedente orgoglio.

Voleva sparire da quel mondo, sparire e tornare a casa, per non commettere quel suo fatalissimo errore: di aver creduto in sé stessa in maniera così tracotante.

 

La notte era giunta portando con sé, oltre ad un cielo nero e tetro, ancora un terribile acquazzone, che continuava a scagliare le gocce di pioggia contro i vetri con il tipico frusciare sordo e gemente, mentre i tuoni irrompevano nel silenzio con i loro frastuoni.

Cinque stuoie, tipiche nei dormitori d'oriente, erano state stese sul pavimento di una grande stanza da Nardo, per dare un posto in cui dormire alle sue ospiti.

La stanza non era del tutto buia: dalla finestra penetrava la luce dei lampi che illuminava per pochi istanti le pareti e poi scompariva nell'oscurità.

Uno di quei bagliori fulminei aveva raggiunto il viso di Iris, rivelando delicati riflessi bianchi lungo la sua pelle: la ragazza sentiva il cuscino bagnarsi sulla guance, mentre la sua mente era caduta nel baratro della tristezza; e dopo che un altro tuono aveva scatenato il suo poderoso boato, a stento aveva trattenuto un grido di disperazione.

Non ce la faceva più.

Sentiva che il momento di mollare tutto e tornare sui propri passi era giunto, anche se ormai si sarebbe dovuta rassegnare agli scherzi sadici del tempo.

«Essere un Campione non significa solo lottare...»

Lei aveva provato a lottare, con tutto il suo impegno e tutte le sue forze.
Ma aveva perso. Aveva perso sia le lotte Pokémon che quelle della sua vita: non c'era più speranza che una come lei potesse diventare Campionessa.

A quel punto ad Iris Calfuray non restò che piangere.

Mentre le lacrime scendevano leggere e allo stesso tempo dolorose lungo i suoi occhi presi dallo sconforto, le capitò di sentire una strana sensazione: non era una bella sensazione, ma le impresse uno stimolo per distrarla da questa depressione.

E appunto in quel momento Iris sentì qualcosa sfiorarle, anzi battere, sulla sua mano.

Girandosi si accorse che i suoi non erano gli unici occhi a brillare alla luce dei lampi nel buio di quella stanza: un paio di occhi grandi, color azzurro cielo, la fissavano con un'espressione sorridente, contrapposta al suo viso angosciato e depresso.

Le ci volle poco per realizzare chi avesse di fronte, nonostante la sorpresa iniziale. Le fu comunque gradito incontrare occhi del colore di cielo limpido in una notte di pioggia battente.

«Non riesci a dormire, vero?»

Le domandò sottovoce Anemone, avvicinandosi a lei.

«N-No...» Si limitò a risponderle la ragazzina, che cercava di nascondere, per ragioni di integrità, le lacrime che poco prima scendevano copiose sul suo viso.

«Neanche io.» Le arrivò in risposta.

Iris si sentì sorpresa a sentire ciò, ma non aveva alcuna intenzione di auto-illudersi e ferirsi involontariamente come aveva fatto fino a quel momento.

O forse sarebbe stato meglio... parlare? Finché stava zitta Iris si era procurata solo dolore.

“Chi tace acconsente, sorridi e stai zitta, fai come fanno gli altri” erano diventati i suoi nuovi precetti e non le procuravano altro che dolore - se proprio doveva andarle bene anche umiliazione - e solo in quel momento aveva finalmente capito che continuare a sorridere innocentemente e ad assecondare tutti riusciva solo a far si che tutti ignorassero i suoi veri sentimenti.

Non era felice, era depressa e disperata, odiava quel posto e desiderava soltanto tornare a casa, in un'atmosfera che non fosse gelida come il ghiaccio e tra volti amici, che avrebbero certamente dato importanza ai suoi stati d'animo silenziati dall'imbarazzo.

Ora che sapeva ciò che voleva, le serviva un modo per sfogare tutta quella frustrazione su quella ragazza che aveva osato rivolgerle la parola.

«A te piace stare qui?»

Sì, così poteva funzionare. Era casuale e niente favorisce il discorso più del caso.

La ragazza tirò un mezzo sospiro e si lasciò andare con la testa contro il cuscino.

«Diciamo che mi ci devo abituare. Mi piacciono le novità, anche se ce sono tante in poco tempo. Gli allenamenti... Sì, sono un po' duri, ma penso di cavarmela.»

Iris non sapeva cosa rispondere anche se dopo qualche secondo Anemone ricominciò a parlare.

«Tu?» Glielo chiese come una domanda qualsiasi, ma Iris era comunque zitta, senza alcuna parola da proferire.

Quella domanda le aveva ridato la sensazione di piangere.

«E’ difficile da spiegare... N-Nel senso che... N-Non sono brava a socializzare con persone più grandi di me, scusa.»

E si voltò dall'altro lato, per nascondere il pianto che stava sfogando su di lei, senza farglielo però capire.

«Lo so, ho visto che sei un po' timida... Ma mica tutti possono essere socievoli ed aperti, è questione di personalità. - La rossa si scostò i lunghi ciuffi ribelli e spettinati che continuavano a caderle sul viso ogni volta che si distendeva. - Esempio pratico: sono ancora arrabbiata con Camelia per avermi dato della stracciona. Ci sono rimasta male, devo averla presa sul personale...»

«Non dovresti lasciarti insultare così...» Le rispose lei, a bassa voce.

Senti chi parla, la ragazza che aveva subito passivamente tutti gli insulti fino a quel momento di pianto, si commiserò lei stessa.

«Ho intenzione di perdonarla.»

Anemone esibì un flebile sorriso. Incredibile.

Iris sapeva che non lo avrebbe mai fatto. Se la sarebbe legata al dito, se lo sarebbe ricordato per sempre, avrebbe aspettato paziente la sua vendetta, lasciandosi rodere dall'interno.

Non farlo era puro scandalo, a suo parere.

Che razza di problemi aveva quella là, quella che prima le parlava solo per poi farle la morale.

«Perdoneresti qualcuno che ti ferisce e ti fa sentire sola?»

La ragazzina si domandò se stesse parlando della sua situazione o di quella della compagna.

«Tra compagne si fa così. È difficile, ma io vorrei avere tutte voi come amiche. Non so tu.»

A quel punto Iris aveva capito che anche Anemone, sebbene fosse circondata dalle attenzione delle altre, si sentiva un po' sola, di quella solitudine che si prova quando ci si sforza di compiacere gli altri, risultando estranei perfino a se stessi.

Doveva pensarci lei a tirarla su, nel suo piccolo poteva farlo.

«Ho solo tolto il sorriso falso dal viso, tanto non è più carino. Non ho ragione di tenerlo segreto. Non farmi sentire triste e ridammi le mie lacrime...»
La rossa fissava il soffitto, concentrata in ciò che diceva.

Iris non poté trattenere un sorriso.

«Anemone?» Attirò la sua attenzione

«Sì?» La ragazza si girò verso di lei.

«Perché il tuo serissimo monologo è il testo di una canzone?» Iris sogghignò.

«O-Oh mio Dio, la conosci anche tu?!» Anemone si illuminò d'improvviso, spaventando quasi la sua interlocutrice.

Non credeva davvero di avere gli stessi gusti musicali di qualcuno, e ciò la rese felice.

Non doveva farsi manipolare come una marionetta vuota, per una volta: essere se stessa era il premio più grande che il suo interesse nei confronti della ragazzina poteva darle.

Entrambe scoppiarono a ridere: con una risata, condividendo per pochi istanti la felicità di un'intera vita, era possibile avvicinare una persona lontana mille metri, superare qualsiasi ostacolo e gettare le basi per una solida amicizia.

«Zitta, che se le altre ci beccano, ci ammazzano!»
La cercò di zittire la rossa, che a stento si tratteneva.

«E come pensi che lo facciano?! Sono in coma totale, non mi sorprenderei se domani non si svegliassero.» Le ribatté Iris.

«Ti sfido a toccare Camilla senza che si svegli.»

«Okay, ci proverò nella mia prossima vita!»

Dopo un poco la loro conversazione volse disinibita mente su altro.

«Secondo te chi di noi è fidanzata? Me lo chiedevo poco fa.» Sussurrò la più giovane.

«Iris, è mezzanotte passata e abbiamo parlato fino ad adesso di anime, manga, idol, che taglia di reggiseno possa portare Camilla e che cosa mangeremo domani per pranzo. Davvero c'è bisogno di chiederselo?»

«Lo sapevo. Ma magari, non è che tu stai con...»
Cominciò lei, per scusarsi di aver fatto una domanda così sciocca solo perché aveva esaurito gli argomenti.

«Non mi interessano i maschi.»
Le rispose con tono serio e pacato Anemone, scostandosi un altro ciuffo rosso dal viso.

Si stupì di aver detto ad alta voce una cosa del genere.

«Devo averla spaventata... - pensò silenziosamente - lei non è come me.»

E Anemone infine scoppiò a ridere, anche se Iris la fissò incerta.

Ma ben presto la sua simpatia e la sua dolcezza la catturarono in quella risata.

Le due passarono una buona oretta a chiacchierare, a ridere, e perfino a confidarsi in quella stanza scura, in quella notte tetra, in quel mondo turbolento.

«Anemone.»

Iris attirò sottovoce la sua attenzione; la ragazza era distesa sul fianco sinistro, con una mano sotto i capelli rossi che li scostava dal cuscino. Il kimono le si era tutto stropicciato e il nastro che glielo legava in vita si era snodato, mostrando la scollatura ed il reggipetto che stringeva il seno della ragazza.

«Tu hai un obiettivo in particolare? Se capisci... Un qualcosa in cui... credi fermamente e faresti di tutto per realizzare.»

Iris si distaccò un attimo da quella confessione azzardata.
Pensava che lei non capisse. Ma il risultato fu contrario: Anemone si avvicinò a lei e le accarezzò i capelli.

Una ragazza più grande di lei di due anni, a cui aveva attribuito i peggiori pregiudizi, che aveva giudicato crudele e insensibile ed escluso dalla sua vita senza alcuno scrupolo, le accarezzava i capelli e stava per confidarsi con lei pur conoscendola da pochi giorni.

Iris sentì il cuore spezzarsi nello stomaco e le lacrime che prima aveva versate per via della solitudine adesso voleva destinarle al rimpianto del suo egoismo.

Dopotutto non era lei la vittima.

«Sì. Penso che tutti ne abbiano uno. - Le sussurrò Anemone, con tono di assoluta fiducia - Io però non sto lottando per un qualcosa destinato a me. A me non spetta niente»

Iris a quelle parole si sconvolse a tal punto da interrompere la ragazza nel mezzo del parlare.

«Ma che dici?! Sei un'Allenatrice bravissima, bellissima e molto dolce... - e, sentendo il rimorso della sua crudeltà, aggiunse quasi in lacrime - tu ti meriteresti molto più di tutti...»

Anemone le sorrise compassionevole e si alzò per abbracciarla.
La ragazza dai capelli rosso scarlatto non si era mai sentita tanto compresa.

Le pareva strano: nessuno, nessuno tranne quella bambina aveva mai apprezzato il suo altruismo; forse la sua indole gentile non le aveva solo arrecato danni incurabili, forse un giorno le avrebbe giovato più sull'animo che in senso materiale.

Tutto ora pareva più chiaro anche a lei: quella ragazzina dalla pelle caramello come la sua era speciale. Non in senso di forza o di talento.

Speciale perché sapeva vedere il mondo con gli occhi più puri che il cielo avesse mai aperto: gli occhi di una bambina timida e sensibile.

«Vedi cara, - le sembrò opportuno approfondire la faccenda - mio nonno gestisce da tempo una piccola compagnia aerea, ma ora sta fallendo. Siamo pieni di cambiabili non pagate e di debiti che crescono come montagne ogni giorno. Se diventassi Campionessa... Con tutti i soldi che guadagnerei riuscirei non solo a pagarli... Ma anche a trovare una pensione adeguata per il nonno.»

Iris provava un misto di comprensione e tristezza pensando alle nobilissime intenzioni di Anemone.

«Lo spero tanto! S-Se non dovessimo essere una contro l'altra farei il tifo per te di sicuro!»
Le disse sorridendole, asciugandosi con la manica del kimono due lacrime che le erano uscite dall'occhio sinistro.

«Vuoi molto bene a tuo nonno, vero?» Aggiunse Iris, essendo curiosa a proposito delle origini della pilota rossa.

«Ovvio. È parte della mia famiglia. Credo che tu possa capire comunque, è lo stesso bene che puoi volere tu a tua mamma e tuo papà, no?»
Le rispose, poi chiuse gli occhi, per cercare di addormentarsi.

«S-Sì, ma credo sia un po' diverso...» Ma lasciò perdere, visto che l'altra non la stava più ascoltando.

Iris, prima di decidersi finalmente a dormire, rifletté un attimo: come si spiegava la gentilezza di Anemone? Davvero ha obiettivi così toccanti?

Non la stava forse illudendo con parole dolci per poi attaccarla alle spalle? Che c'entrava suo nonno?
Iris non lo sapeva.

L'ultima ed unica certezza che ebbe modo di constatare prima di cadere fra le soporifere braccia di Morfeo fu che la pioggia stava ancora scrosciando rumorosa, disegnando nervature cristalline sui vetri.

Sapeva inoltre di essere stanca, di aver un serio bisogno di dormire e di aver provato troppe, troppe emozioni diverse in un giorno solo.

 

 

«Iris, forza, svegliati!»

«...Che ore sono?»

«Le dieci!»

«Non possiamo stare a letto altri cinque minuti?»

«Se magari moltiplichiamo un paio di volte il cinque arriviamo fino a mezzogiorno? Siamo in terribile ritardo! Alzati, scansafatiche! Nardo ci pesta...»

«Anemone... hai l'orologio al contrario.»

«Ah, scusa. Oh, guarda, sono le... Quattro e mezzo di notte...»

«Dimmi subito: "Scusa, torna pure a dormire" e ti perdono.»

«Sì. Scusa, torna a dormire e ripetimi che sono bellissima.»

«Ma c'era proprio bisogno di lanciarmi un cuscino in faccia?!»

«"Scusa, torna a dormire" non l'ho ancora sentito.»

 

 

Behind the Summery Scenery #3

1. Inizialmente i capitoli avrebbero dovuto avere dei titoli in inglese basati su giochi di parole ed allusioni, come succede nei titoli per versione anglo-americana nell'anime Pokémon: 

1)      Destinies, dreams and desires (tutti e tre i nomi iniziano con la lettera D)

2)     When everything is new, even yourself (il verso di una canzone riadattato)

3) Feelingstorming (inserendo la parola inglese per "sentimenti" nella parola "brainstorming", si crea la vera e letterale 'tempesta di sentimenti').

Ho dovuto cambiare i miei piani ed utilizzare titoli in lingua italiana dopo la scioccante scoperta che ora l'inglese non fa più così tanto figo. Come cambiano le mode, eh?

2. Inizialmente Camelia non ci sarebbe dovuta essere in questo capitolo, per seguire la sotto-trama che la lega con Corrado. Ho voluto inserirla per darle l'ulteriore possibilità di prendere Iris in giro, posticipando così il proseguire di quel filone narrativo che interessa la mora.

3. L'idea di riunire le ragazze sotto un solo tetto mi è stata dettata dai numerosi anime ecchi-harem che ho visto: ho notato che le ragazze si trovano più volentieri a conoscersi meglio se sono costrette a vedersi sempre più spesso.

4. Penso sia utile ricordare che questo microcosmo pseudo-giapponese in cui le ragazze si ritrovano a vivere sia una specie di metafora per indicare un distacco dalla fremente e intricata società anglo-americana che si fa sempre più padrona del mondo, un distacco che porta le ragazze in un ambiente più semplice e umile, in cui sono i valori morali e non quegli estetici a far da padroni. 
E, seconda ragione, non vorrete dirmi che ho studiato il giapponese per niente!

5. Uno degli antichi valori orientali a cui accennavo prima è il rispetto reciproco che è bene intercorra fra giovani ed anziani, ma anche fra persone di età leggermente differenti.

Anemone ed Iris dovrebbero rappresentare questo perfetto equilibrio.

La loro "coppia" ho deciso di denominarla ChocolatShipping per il fatto che si tratti di un'amicizia basata sul rispetto e gentilezza reciproca ma comunque aperta onestà, rispecchiando la dolcezza del cioccolato al latte e l'amarezza di quello fondente, vista dal lato simbolico. Dal lato pratico siccome Iris ed Anemone sono le uniche allenatrici di colore del gruppo, trovo un modo molto più carino e decisamente meno equivoco descriverle come “le ragazze dalla pelle color cioccolato”. 

8. Il nuovo spaziatore fra i vari paragrafi è, oltre alla nostra beneamata ondina e la sua gemella perduta, un fiore. Come mai? Sono sicura che potete arrivarci, è una questione etimologica... okay, nell'update 3.5 i fiori se ne sono andati, quindi ve la posso pure spoonfeedare io la spiegazione, pikoly angyely miei owo.

I nomi delle ragazze sono actually tutti nomi di fiori! Abbiamo l'iris, la camelia e l'anemone, l'orchidea del tipo cattleya e i fiori della shirona, o white-fruited nandina. Grazie Wikipedia!

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Capitolo 4
*** Vero amore, falso amore ***


ESGOTH 4



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Pokémon Black and White

Early Summer Girls


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Vero amore, falso amore

 

Aria di sfida.

Aria torbida, pungente, di chiuso e di umido, un'aria soffocante, calda e forte traspirava dalle pareti di quel vecchio capannone abbandonato, uno di quelli nati dalla ruggine e dall'incuranza.

La dotazione era sorprendente; in poco tempo era stato montato tutto l'occorrente per le ricerche necessarie allo sviluppo dei piani prescritti: un computer dallo schermo ultrapiatto, radar per la segnalazione a distanza, videocamere minuscole, sonde ed attrezzature di altissima tecnologia.

Ma ciò che rendeva quel laboratorio davvero inquietante erano le cinque ragazze, nelle loro uniformi nero lucido, che osservavano come vipere assetate di prede il monitor del computer.

«Hai i dati?» Partì la domanda.

«Ovvio. Quelle cretine non si sono neppure accorte che le spiavamo.»
Le rispose una voce subdola, che si passava altezzosamente la mano sui lunghi capelli blu notte.

Lo schermo immediatamente si riempì di numeri, codici e cifre che si sovrapponevano; bastò premere un tasto che quel intricato gorgo di numeri si dileguò nella scritta "Accesso Consentito".

Gli occhi delle cinque ragazze si fissarono allo schermo come assorbite.

«Vediamo la prima.»

Un'immagine, prima sfocata, poi resa più che visibile, quasi tridimensionale, era apparsa. Poi una tabella, in cui numeri e scritte ripagavano il duro lavoro di giorni e giorni di spionaggio.

Una voce robotica, metallica ed inquietante, si levò dagli altoparlanti, che riecheggiava lungo le pareti di ferro del capannone.

«Taylor Camelia.
Diciassette anni. Nata il 31 luglio.
Provenienza: Unima, Sciroccopoli.

Occupazione: top model, vincitrice di numerosi premi e concorsi di bellezza...»

Mentre l'automa parlava, venne interrotto da una voce che rompeva quel momento di assoluta serietà.

«Bravo, genio di un computer, questa la conoscono tutti. È la modella più famosa di Unima. La gente la considera "l'astro più brillante"; è il sogno erotico di tutti i maschi e la masturbazione di tutti i depravati. Se c'era bisogno che questa macchina me lo spiegasse...»

La ragazza non fece in tempo a finire la frase che la compagna a lei vicina la schiaffeggiò con forza, per farla tacere. Ma la giovane non si arrese, e riprese la frase.

«E pensate che quella è pure fidanzata... Con... - e qui si fermò, guardando con astio il monitor che mostrava il bellissimo corpo della modella - il mio ex...»

«Lo hai detto Jasmine, ex. Il mondo non gira intorno a te.»

La interruppe ancora la leader che si era spazientita, non sopportando che una ragazza più grande di lei agisse in maniera così immatura di fronte ad un compito così serio.

«Petto: novantatre centimetri; busto: sessanta centimetri; vita: novanta centimetri...»
Continuava la voce robotica, illustrando in tre dimensioni il corpo della ragazza, arricchito di minuziosi particolari che rendevano la sua perfezione quasi simile all'originale.

Jasmine finse di sputare contro lo schermo. Gliel'avrebbe fatta pagare a quella modella così perfetta e vanesia. Anche se al momento non sapeva precisamente come.

«Andiamo avanti.»

Propose la ragazza dai capelli mori, che mostravano riflessi biondi alla luce dell'apparecchio.
Non riusciva a sopportarla, anche senza conoscerla davvero Odiare i propri nemici faceva parte del loro lavoro.

«Reyes Anemone.
Diciassette anni. Nata il 6 agosto.
Provenienza: Unima.
Occupazione: pilota semi-professionista...
...Petto: novantadue centimetri; busto: cinquantotto centimetri; vita: novanta centimetri...»

«Mi sorprende che la rossa non sia ancora sul lastrico... Quella compagnia aerea è in crisi da quasi quattro anni ed i piloti che ci lavorano hanno uno stipendio da far la fame. Se perdesse quella competizione non mi stupirei nel vederla disoccupata a vendersi per strada pur di guadagnare qualche spicciolo!»

«Come sei sadica Alice... - la interruppe Lucinda, la ragazza dai capelli blu cobalto - Non tutti hanno successo come te nella vita...»

«Non me ne importa. Il mondo non è fatto per le perdenti come lei. Lo rovinano e basta. Ora toglietemi questo rifiuto umano da davanti agli occhi o vomito.»

Senza opporsi alla capricciosa richiesta della giovane, una delle cinque si affrettò a selezionare con il mouse un'altra delle sventurate ragazze finite sotto il loro mirino.

«Yamaguchi-Haato Catlina.
Diciannove anni. Nata il 13 dicembre.
Provenienza: Sinnoh, Memoride...
...Petto: novanta centimetri; busto: sessanta centimetri; vita: novantuno centimetri...»

Unica erede legittima dell'intero patrimonio monetario e terriero della famiglia aristocratica degli Hato, una delle più ricche famiglie della regione di Sinnoh...»

Il marchingegno esponeva i dati raccolti sulla terza componente del gruppo, come aveva fatto per le prime due.

Questa volta però non si levò alcuna parola, alcun commento sgradito e irrilevante o alcuna critica.

Forse l'appartenere ad una classe sociale così elevata era riuscito a far tacere le loro inutili chiacchiere, o forse tutte e cinque le spie si erano già stancate di interrompere ogni volta quel delicatissimo lavoro di stalking con le loro battute demotivanti e sciocche: le cinque Allenatrici erano modelli tridimensionali dentro ad un monitor.

Non potevano sentirle o sentirsi offese.

Solo Sabrina ebbe il coraggio di inquadrare il viso della giovane ereditiera bionda.

«Ha un viso completamente inespressivo. Sembra un morto vivente.»

Esaurite le informazioni su Catlina, la leader, nominata così nonostante fosse la più giovane, si alzò in piedi: le bruciavano gli occhi per via del fissare uno schermo al buio completo; aveva le mani e il petto sudati in quell'uniforme nera; ma sopratutto, non aveva riscontrato alcun soggetto pericoloso all'interno di quel team.

Le pareva anormale che nessuna delle cinque prescelte determinasse un pericolo per la riuscita del piano centrale, e che tutto quello che le prime tre ragazze avevano causato era astio, ribrezzo e addirittura indifferenza.

Non poteva essere così. Così terribilmente semplice.

Una di quelle sgualdrine sarebbe diventata Campionessa, se loro non avessero avuto l'incarico appunto prescritto.

«Non riesco davvero a capire quanto Nardo sia stupido! Ma lo sa che una di quelle stupide ragazzine dovrà guidare l'intera regione in futuro?
Mi sono rotta, se queste sciaquette saranno davvero capaci di crearci problemi io...»

Ma non riuscì a terminare la frase, quando ad esserle presentata dal computer fu l'inevitabile causa del fallimento della loro importantissima missione.

«Nome: Kuroi Camilla.
Età: vent'anni, Nata il 15 aprile.
Provenienza: Sinnoh, Memoride...»

E il silenzio fu subito infranto dalla voce di Lucinda, che si teneva il collo dell'uniforme stretto nella mano tremante.

«La Kuroi! Maledizione a te Georgia e alla tua sete di rissa! - e alzandosi anche lei in preda all'ira, spinse forte la leader contro il muro di ferro arrugginito, che risuonò all'impatto della giovane - sai che quella è già Campionessa di una Lega da quando aveva quindici anni?!»

Le altre tre ragazze la degnarono di una modesta attenzione, che Lucinda si era procurata con il gesto più azzardato e deplorevole che un semplice membro potesse fare.

Questa intanto faceva risuonare il metallo battendoci contro l'intero palmo della mano più volte.

«A Sinnoh si bacia la terra dove lei cammina. Si dice che in dieci anni non sia mai stata sconfitta e non penso che all'undicesimo ci basti un po' di fortuna per rovinarle il record. E poi...
Altro che masturbazioni, quella non la vogliono solo i ragazzi, anche moltissime ragazze se la sognano nuda!»

«Ragazze, guardate che misure...»
Disse incantata, ma con una triste preoccupazione in volto Alice.

«Perché, le altre ti parevano normali?! Sembravano uscite da un hentai giapponese!»
Le rimandò Jasmine.

«Secondo gli standard di qui, io direi di sì. - Alice rispose alla domanda sul se fossero normali con una certa delusione - Da quanto ho capito alle persone di Unima piace proprio chi ha un bel visino da verginella innocente accompagnato dai due bei meloni enormi...»

«Che schifo assurdo.» Fece per concludere l'altra.

«Attualmente molte delle entrate monetarie nelle casse della regione derivano dalla mercificazione della bellezza, basti pensare a posti come il centro della regione, sono praticamente dei bordelli a cielo aperto... Che le abbiano tirate fuori da qui, queste "belle" ragazze?»

Prima che quella conversazione venisse catalogata nell'assurdo e cadesse nel dimenticatoio, Jasmine provò ad immaginare le quattro Allenatrici che aveva appena visto con addosso una provocante lingerie di pizzo più a scopo di esposizione che di occultamento, a notte fonda le giovani ragazze in bella esposizione su una vetrina che tentavano di accattivare i passanti con frasi di spudorata e falsa innocenza, sorridendo senza motivo, tutte orgogliose del loro rivoltante mestiere.

«Hey... Questa notte posso essere io il tuo Pokémon e tu il mio "padrone", conosco tante "mosse", perché non ci "alleniamo" insieme, sarà una "lotta" indimenticabile, però ha il suo prezzo...
Ma questo non è un problema per te, uh?»

«Jas, che stai blaterando?» Le domandò sempre Alice, non ancora del tutto interessata.

«Eh?! No, aspetta, l'ho davvero detto ad alta voce? Mi auguro che le nostre reclute siano tutte etero o avranno seri problemi a confrontarsi con delle oche del genere...»

Era vero: le nostre eroine erano abbondantemente sviluppate, come ogni fiera donna merita di essere.

«Petto: novantanove centimetri; busto: sessantadue centimetri; vita: ottantotto centimetri...»

Tutte le maligne spie, dalla sadica Alice, all'invidiosa Jasmine, fino all'inerte Sabrina fissavano il modello che rappresentava Camilla in ogni minuzioso dettaglio, talvolta ingrandendo la visuale per osservare meglio le parti più belle e straordinarie della giovane dea delle battaglie.

Lucinda intanto nutriva un terribile rimorso per il gesto compiuto contro il suo capitano, non tanto per il valore morale del far del male ad una compagna, ma per l'imbarazzo che avrebbe avuto ricevendo una punizione da parte dei suoi superiori.

Non le andava di umiliarsi di fronte a quelle vipere delle sue compagne.
Sapeva che non avrebbero avuto alcuna pietà per lei.
I loro cuori erano freddi e rugginosi come le pareti di quello sporco magazzino, nella periferia malfamata della città di Sciroccopoli.

«Zitte, lesbiche schifose! - Le richiamò all'ordine la leader - il quartiere generale ci sta contattando.»

Tutte le spie si ricomposero a malincuore, cercando però di nascondere il dispiacere dietro un'aria sicura e seria davanti ai loro superiori.

La videochiamata si avviò. Lo schermo di colore nero opaco cominciò ad emettere una roca voce maschile.

«Avete ispezionato le informazioni sulle cinque Campionesse?»

«Sissignore.» Risposero in coro.

«Ci sono particolari segnalazioni?»

«Sissignore. La loro leader è Campionessa di Sinnoh, Kuroi Camilla, un evidente ostacolo se si considera la sua esperienza in battaglia. Per il resto del gruppo, non costituiscono alcun problema: se le affrontiamo singolarmente, con degli incontri uno contro uno riusciremo a sconfiggerle.»

Disse la leader, in tono sicuro.

Le altre quattro ragazze si guardarono con aria dubbiosa riguardo la precedente affermazione.

«Se è solo la loro leader a causarvi problemi la soluzione è più che ovvia: attaccatela in gruppo. Non riuscirà mai a sostenere una battaglia violenta cinque contro uno.»

«Sissignore.»

Risposero ancora in coro, per dimostrare di essere disposte ad eseguire l'ordine, qualsiasi cosa esso richiedesse.

Prima di chiudere la chiamata, l'entità di fronte a loro le esortò a ripetere il loro motto.

«Chi siete voi?»

Le ragazze risposero più determinate che mai, come se nessun sentimento di paura avesse mai attraversato i loro cuori.

«Il Neo Team Plasma.»

La voce si fece più minuziosa e provocativa.
«E il vostro scopo?»
  

«Individuare le possibili future Campionesse ed eliminarle, affinché l'organizzazione Plasma possa riottenere, dopo i precedenti fallimenti, il monopolio su tutta la regione di Unima!»

«E ovviamente... Farete tutto per eseguire questa missione?»

«Ovvio...» Partì con sottigliezza Alice.

«Senza dubbio!» La susseguì Jasmine.

«Lo faremo...» Si aggiunse Sabrina.

«...e con ogni mezzo adempiremo alla missione...» Ammise Lucinda con orgoglio.

«...senza alcun risentimento.» Completò la leader Georgia.

«Bene - completò la voce maligna - buona fortuna. Sarà meglio per voi averne. In caso contrario... - e cominciò a sogghignare in maniera feroce e terrificante - sapete cosa vi aspetta.»

La chiamata si chiuse e lo schermo divenne nero.
Piombò ancora l'oscurità totale in freddo posto, in cui altrettanto fredde ragazze sorridevano come vipere assetate di sangue.

Prima di abbandonare la base, Lucinda si rivolse a Georgia, a bassa voce, per evitare che le altre la sentissero.

«Ne manca una. Se sono cinque una l'abbiamo saltata forse...»

Cercò di spiegare la ragazza dai capelli cobalto, in modo da ragionare con lei, ma il suo discorso fu troncato già all'inizio da una risposta aspra e disinteressata.

«Lascia stare, quella non rappresenta un problema, non rappresenta nulla.»

Poi, girandosi verso Lucinda, la ragazza le strinse forte il braccio, facendoglielo girare intorno alla schiena, tenendolo fermo, piegato in una straziante posizione contorta. Poi aggiunse, prima di liberarla da quel dolore.

«Prova solo a toccarmi un'altra volta e... Sei fuori dal team.»

Georgia si liberò della compagna con una spinta.

Lei era la leader. Lei decideva chi poteva vivere e chi no.

 

«Camelia scusami!»
Anemone si morse il labbro come una bimba che per sbaglio combina un malanno.

Non lo aveva certamente fatto di proposito, di rovesciare quel flacone di tinta per capelli nera sul braccio della compagna.

Si assicurò che lo yukata giallo che indossava fosse intatto.
Lo era, ma restava il fatto di aver sprecato più di metà di quel liquido, e quindi metà dei soldi spesi per comprarlo.

«Te ne comprerò una bottiglietta nuova, promesso!» Cercò di rimediare al suo errore.

Intanto la modella cercava di ripulirsi il braccio destro coperto di quel liquido appiccicoso e nero.

Certamente la irritava, ma stranamente non se la sentiva di commentare: quella ragazza imbranata si era scusata almeno una trentina di volte a dieci secondi dall'accaduto e le aveva perfino promesso di ricomprarle un flacone nuovo.

Incredibile, Camelia al suo posto le avrebbe semplicemente ricordato come funzionasse la forza di gravità e le avrebbe versato il poco rimasto sulla testa.

Per un attimo, la seducente e aggressiva ragazza sentì uno strano peso sullo stomaco.
Pesante, lamentevole e doloroso che il suo corpo pregava di rimuovere.
Poteva essere... Rimorso?! Cos'è il rimorso? Cosa poteva saperne lei di rimorso?

«N-Non è nulla. Tanto quella tinta da quattro soldi mi lascia sempre delusa. - e si sforzò di sorridere forzatamente - I miei capelli sembrano comunque plastica sporca.»

Camelia si stupì di aver insultato una parte del suo prezioso e amato corpo.
Amava i suoi capelli. Fino a poco tempo fa erano biondi, un biondo acceso e uniforme.

Aveva ereditato quel colore perfetto dai suoi genitori... credeva. Almeno da uno dei due, ne era sicura... Poi capì, in un certo senso, di non avere neppure il sangue dell'unica persona per lei rimasta.
E di punto in bianco aveva cambiato look, come se una tinta potesse mascherare tutti gli anni in cui i suoi capelli biondi erano stati scossi dal vento.

D'un tratto la modella ebbe l'impulso di afferrare irrazionalmente i capelli di Anemone, prendendo fra le dita una ciocca rosso fuoco, trattenendo la ragazza, che protestò per il dolore.

«Invece guarda che ben steso il tuo colore... Nessun segno di ricrescita e nessun uso di riflessante... Questa tinta ti sta davvero bene, sai?»
Ammise compiaciuta. Non aveva mai fatto un complimento prima d'ora.

Anemone rimase sbigottita.

Esisteva. L'altra faccia di quella modella crudele e meschina c'era e premeva per farsi sentire. La rossa però dovette smentirla su un solo particolare.

«I miei capelli sono rosso naturale. Non me li tingo.»

«...Scusami.» Le arrivò in risposta.

«Stai tranquilla, me lo chiedono ogni tanto...» 
Ma Anemone fu troncata sul dire.

«No, scusa se ho detto che ti vesti male appena ci siamo incontrate.  Bel modo di presentarci, eh? Sembra impossibile, ma ero davvero nervosa.»

Camelia provò un gran sollievo nel dirlo. Ma sentiva che c'era ancora del marcio.

Dubitò però che Anemone credesse ad una cosa così patetica: si chiedeva quando avrebbe potuto smettere di giocare la parte dell'antipatica.

«Oh... - missione compiuta, Anemone si sentì toccata - sei perdonata, senza problemi.»
Le rispose in modo piuttosto solare.

Le due ragazze si scambiarono un sorriso contemporaneamente.

Anemone aveva mantenuto la parola data la sera precedente concedendo il suo inestimabile perdono a colei che l'aveva così pesantemente offesa, e aveva addirittura fatto trasparire il lato amichevole di quella ragazza.
Già aveva visto Camelia, aveva riconosciuto quell'icona di ragazza perfetta, di idolo dei giovani e modello da imitare per avere successo nella vita.

Le due diciassettenni provarono ad abbozzare una piccola conversazione quando una voce acuta e totalmente fuori luogo  irruppe nella stanza.

Le due si voltarono di scatto.

«Anemone, dobbiamo andare...»

La voce di Iris si abbassò gradualmente, appena vide l'unica ragazza di cui si fidava con l'unica persona da cui voleva stesse lontana.

Non riteneva affatto che il veleno che scorresse nelle vene di quella vipera con i capelli colorati potesse in qualche modo contagiare la purezza di quella creatura che le pareva discesa in Terra per lei dal paradiso terrestre o che costei mangiasse volontariamente il frutto proibito pieno del degrado morale e comportamentale di cui la modella si faceva portavoce.

Eppure nutriva questo istinto protettivo nei confronti della rossa da un po'.

A volte questo istinto le piaceva un sacco, altre volte le sembrava la cosa più disgustosa del mondo. Ma alla fine sapeva che era tutto per il suo bene, per il bene della sua fragilità interiore.

Non la definì gelosia, ma una sorpresa sgradevole.

Era il momento di vendicarsi, pensò.

«Così impara anche ad insultare il mio seno!»
Iris pose sulle sue spalle il dovere di vendicare tutte le ragazze vittime di pregiudizi riguardo alle loro taglie; il coraggio che ci mise era lo stesso.

Passò davanti a Camelia con nonchalance e prese la mano di Anemone nella sua, trascinandola fuori, senza che lei ponesse resistenza ed evitando spudoratamente la tentazione di godersi gli occhi iniettati di invidia dell'altra.

Sentì completo il suo piano di vendetta degno di una tragedia shakespeariana appena percepì le forti mani della rossa stringere a loro volta le sue.
Le batté il cuore, sapeva bene di non aver mai tenuto per mano una sua amica.

Per sciogliersi da quella tensione cominciò uno dei soliti discorsi che faceva con la ragazza rossa, che innocentemente la seguiva, da brava amica che dimostrava di essere.

«Sai che alla fine io e Camelia abbiamo fatto pace?» Le disse Anemone, con dolcezza.

«Non mi interessa, - rispose lei - mi fai vedere le immagini che hai nel cellulare?»

«...okay, ma non scioccare.» Che bello, la sua preziosa amica aveva già dimenticato quel rifiuto umano con cui aveva parlato pochi secondi prima, pensò all'apice della sua più euforica crudeltà.

Iris aveva vinto una battaglia, mentre teneva stretto con la mano il suo unico e prezioso premio.

 

Camelia rimase a fissare un punto per un poco.

Cercò di figurarsi come mai fosse svanito tutto così in fretta, come in un sogno, e a malapena ricordava ciò che le era accaduto dopo essere ritornata alla realtà.

Poi si sbloccò. Alla ricerca di uno spiraglio di normalità per recuperare se stessa dal coma che l'aveva strappata così violentemente all'ordine naturale delle cose, prese il rossetto e cominciò a bearsi dell'effetto delle labbra pallide che diventano spesse e vistose come quelle di una cortigiana di fine settecento.

Notò che il rosso acceso faceva un forte contrasto con la sua pelle bianca e limpida.

Era sempre troppo facile trovare mille difetti con un solo sguardo nel piccolo specchio portatile.

Camelia ormai era talmente abituata alla sensazione del trucco sul viso che le bastarono pochi secondi per tracciare due linee nere come la pece a cerchiarle gli occhi, anche se la pressione fatta con l'eye-liner le aveva causato una piccola lacrima di fastidio sospesa a metà occhio.

Dopo aver aggiunto ombretto e abbondante mascara le sembrò abbastanza per convincersi a non riconoscersi più e una rabbia improvvisa si trasformò in un brivido lungo tutto il suo corpo, paralizzandola.

Camelia chiuse con tale violenza quello specchietto portatile da frantumare il vetro tra le sue stesse mani.

Non era possibile; quella stupida ragazzina gliela stava portando via.

Le voleva portare via l'unica ragazza che le sembrava a posto in quella gabbia di matti, l'unica che avrebbe mai accettato le sue scuse e che non la obbligava a farsi odiare per ottenere rispetto.

Si fissò interdetta le unghie coperte di smalto lucente, senza il coraggio di aprire il suo specchio ed osservare la sua immagine rotta in mille pezzi e sfigurata del tutto.

"Non ci credo... Mi faccio portare via l'unica amica che portò mai avere senza far nulla?  Quella ragazza, non voglio che nessuno me la rubi. Oddio. Suonano come le parole di una fidanzata gelosa...»

La ragazza si alzò in piedi, uscendo dalla stanza, e fece cadere dalla mano l'oggetto.

«Gliela farò pagare a quella mocciosa...  Non deve proprio capire come ci si senta ad essere completamente soli.»

La mora sorrise perfidamente al destino: più nella vita si arrivava in alto, più si faceva carriera e si guadagnava rispetto, più ci si rendeva conto di non aver mai avuto nulla.

Le venne il terrore di diventare questo tipo di Campionessa.

 

Mentre innumerevoli disgrazie e calunnie erano imminenti, le nostre eroine erano talmente occupate ad allenarsi che a malapena ricordavano di essere avversarie e di doversi combattere a vicenda.

Si limitavano a sostenersi per il momento, per cercare di rendere quell'atmosfera di insopportabile competizione più vivibile, altrimenti sarebbero rimaste esauste durante le vere sfide, quelle che le attendevano al Torneo Nazionale Femminile di Unima.

Quella che si stava impegnando al massimo per la vittoria, ma anche per socializzare al meglio, era sicuramente Iris che, memore di quella sera di temporale interiore, si era sentita talmente in colpa per aver pensato malamente della ragazza che l'aveva consolata ed apprezzata nella sua piccolezza.

Da quella sera, Iris seguiva Anemone in qualsiasi cosa, ponendosela come unica guida e punto di riferimento: se Anemone l'avesse d'improvviso lasciata sola, lei sarebbe di nuovo caduta in quella depressione, resa ancora più pesante dal rifiuto da parte di colei che poteva considerare la sua unica amica.

Tutto quello che la rossa faceva lo faceva anche lei, ciecamente, come se glielo stesse ordinando; se le dava un consiglio in lotta, Iris si imponeva il rigore morale di seguirlo; se le chiedeva qualcosa, lei lo faceva senza discutere, senza porle alcuna domanda; e quando si trovavano in spogliatoio si prendeva la libertà di guardarla cambiarsi, fingendo di continuare innocentemente le loro conversazioni.

Ogni tanto però, le veniva voglia di avvicinarsi a lei, di poter sentirle la pelle con il dito indice, di vederla sorridere e di realizzare pienamente che Anemone per lei c'era, che lei meritava il suo amore, che la distingueva dall'indifferenza di tutte le altre.

«Hai un filo che ti scende dal reggiseno» o «hai un capello sul collo» o ancora «ti tolgo una cosa dai capelli» erano le frasi con cui era solita esordire per entrare in contatto, ricevere un "grazie" e un bacio sulla guancia.

In quei momenti la sua coscienza le stringeva lo stomaco, ricordandole amaramente cosa le fosse successo di fronte a Camilla il primo giorno.

Non doveva eccedere ne' nella timidezza, ne' nell'estroversione.
"Nulla di troppo", come dicevano gli antichi Greci.

Eccedere... In quella competizione, come una mossa spropositata e irragionata poteva mandare a monte l'intero esito di una lotta, una parola altrettanto inadeguata sarebbe riuscita a scaturire un tale attrito che in pochi secondi si sarebbe trasformato in un incendio divampante.

Ma questa, come altre preoccupazioni, non sfioravano neppure la mente della giovane aspirante Campionessa.

Iris era rimasta sola, quel giorno, nella loro stanza da letto.
Si era solo trattenuta più del previsto, quindi il pensiero di solitudine non avrebbe potuto fare la sua comparsa.

Silenziosamente stava piegando le sue cose, mentre canticchiava a tratti le parole della canzone che aveva ascoltato proprio prima degli allenamenti sul suo mp3: non ricordava le parole esatte, ma ripeteva quelle essenziali per il significato della canzone a voce bassa, imitando la voce della cantante.

In questo sottofondo, Iris cominciava a conversare con se stessa, per chiarire leggermente di più quello che le passava per la mente, come se ci fosse stata solo lei nel mondo in quell'istante.

«Devo muovermi, se Anemone mi sta aspettando.»

«Le voglio bene, è davvero gentile, e simpatica, e pure bella.»

«Che peccato essere in competizione.»

«Ed è la prima diciassettenne che legge manga. Brava ragazza, ha una cultura rispetto a tutte le snob esibizioniste che alla sua età pensano solo al sesso. Chissà se ha letto...»

E si bloccò. La sensazione che le paralizzava la schiena come una scossa le pareva familiare.

Il cuore le finiva di nuovo in gola, arrestando ogni suo movimento, gelandola nel bel mezzo dei suoi pensieri con quel presentimento di essere osservata, di aver compiuto qualcosa di sbagliato senza neppure saperlo.

Iris si sentiva talmente a disagio che non voleva assolutamente sapere che cosa sarebbe dovuto succederle.
Desiderava solo non doversi trovare ad essere in quella sgradevole sensazione di colpa.

Alla fine le tocco girarsi, sapendo che evitare il destino era praticamente impossibile.
Lo fece e se li ritrovò ancora davanti, gli stessi occhi freddi, blu, chiari, che il primo giorno l'avevano tramortita e spaventata nella stessa maniera.

Li temeva proprio, gli occhi di Camelia.

Iris, in tutta quell'ansia, si era interdetta per un secondo sull'espressione della ragazza che era stata dietro di lei fino a quel momento.

Sembrava stressata.
L'eye-liner nero che le segnava il contorno delle palpebre le dava un'aria più cupa, più devastata e vissuta.

Il trucco era leggermente sbavato sull'occhio sinistro; quel nero comunque faceva risaltare l'iride azzurro chiarissimo, che tendeva quasi al blu platino, data la lucentezza dei riflessi che parevano quasi specchi.

Non riusciva proprio a capire cosa si celasse sotto quelle maschere. Per quel che le risultò, la ragazzina si mosse indietro, presa dallo spavento e capace solo un ansimo, espirando ed inspirando l'aria dalla bocca, come se fosse davvero morta.

«Tu e la rossa mi considerate stupida solo perché sono una modella, vero?»

Lei rimase zitta. Non aveva idea di come controbatterla.

Quella ragazzina, dai capelli viola e la pelle abbronzata, dimostrava meno di quindici anni.
Le pareva troppo innocente per meritarsi di essere attaccata dalla sua ira più spietata.

Ma Camelia aveva imparato dalla vita che ogni cosa è costruita su due lati: un lato buono, debole e apparentemente fragile che si mostra rivolto all'esterno in modo che tutti lo vedano e ne siano ingannati dall'apparenza.

Ma quando la situazione comincia a farsi complicata e la paura di soccombere aumenta, il lato nascosto si mostra alla luce, capovolgendo quella medaglia forgiata dalla crudeltà.

Allora quel lato, spietato, meschino e subdolo prende il sopravvento.
E da lì non resta che soffrire, magari dovendolo fare pure in silenzio, per evitare la vergogna.

«Non fingere di aver ragione. Sembri solo più patetica di quanto tu non sia già.»

A quel punto non le restava che continuare a difendersi attaccando.

Sapeva che c'era qualcosa sotto, che, come lei, chiunque era capace di prenderla alle spalle.

Infatti Iris aveva trovato il coraggio di risponderle.

«Cosa vuoi?»

La giovane dai capelli mori urtò la ragazzina con la spalla per provocarla.

Poi le tenne fermo il collo con la mano, facendo attenzione a non spezzarsi le unghie finemente ornate di smalto.

A seguire emise una risata nasale di un istante, come era sua abitudine fare per commiserare tutto ciò che le pareva falso, insignificante e non meritevole di esistere.

«Faccio la top model. So che ad ogni bacio corrisponde uno schiaffo e ad ogni amicizia corrisponde un tradimento. Quindi so come funzionano queste cose. Ho idea di quello che vuoi fare. Ah, ovviamente non ti lascerò farlo...»

"«Cosa... Io...» Riusciva a vedere Iris sconvolta, e non lo sopportava.

Sapeva riconoscere la verità dalle menzogne, sapeva vedere il male nella più pura delle innocenze.
Camelia aveva capito di essere davvero sola in quel mondo di falsari.

«Sei così falsa che ti leggo in faccia quello che pensi - poi, in preda alla rabbia cieca, alzò il volume della voce - davvero, chi vuoi prendere in giro? Idiota, il mondo è pieno di gente come te!»

«Smettila di fare così, non capisco...»

Cercò di ribellarsi Iris, ma la giovane Capopalestra la troncò sul dire con un grido scomposto.
Si rese conto di essere davvero un'isterica. E che l'isteria fosse davvero un disturbo della personalità.

Poi la spinse lontano da sé.

Sentiva la sua voce diventare rauca e affievolita, mentre il trucco cominciava ad inumidirsi sotto gli occhi.
Davvero vergognoso per una ragazza di diciassette anni del suo conto.

Deglutì l'insulto più grande alla sua dignità.

«Tu credi di poter convincere Anemone ad odiarmi, credi di poterla convincere che il bene che le voglio è falso, stupida! Non conosci la vita, Iris... non sai davvero cosa significhi soffrire! E questo non ti autorizza a usare un altra persona per i tuoi interessi!»

A quel punto Camelia non aveva più un filo di voce per continuare, si sentiva esausta solo stando in piedi.

Ansimava piano, e sentiva sulla guancia il calore di una lacrima che scorreva giù lenta rigandole la pelle di quelle scintille delicate.

Non si sentiva sfogata, perché il dolore che portava dentro le pareva ingigantito, ed era pronto a divorare i suo bellissimo corpo, partendo dalle parti più sensibili del suo subconscio.

Ormai era decisa ad abbandonare quella competizione, di gettare tutto all'aria.

Sarebbe tornata al suo lavoro di modella, tra le persone che si limitavano a guardare il suo aspetto e non si preoccupavano di capire i suoi veri sentimenti.

Ma si era accorta che a vederla umiliarsi in quel tormento non c'era solo Iris, che la guardava sconvolta, ma anche... Anemone.

Forse aveva sentito tutto, e ora la odiava per aver insultato la sua amica.

O forse era appena giunta lì e si chiedeva perché la Capopalestra tanto orgogliosa e meschina ora piangesse come una bambina isterica.

Camelia si bloccò per un istante, mentre Iris diceva qualcosa che non aveva capito ad Anemone.
A quel punto non le rimase altro che scappare.

Si voltò di scatto, coprendosi il viso con la mano e corse fuori.

Sentiva il bisogno di fuggire dal mondo, da tutta quella gente incomprensiva e insulsa, che sembrava vedere ogni cosa solo come appariva.

La giovane, disperata, si sedette al centro di un enorme stanzone, che pareva trascurato da tempo. Nardo era troppo eccentrico e ricco per curarsi di un posto così rovinato della sua infinita magione.

Doveva essere un vecchio garage, che si era trasformato con il tempo in un ripostiglio per i vecchi mobili, per poi mutare ancora in un luogo in cui il nulla predominava insieme al disordine e all'abbandono.

Si sedette su una vecchia poltrona, per cercare di riordinare i suoi pensieri.

Si appoggiò la mano sul viso, notando che tutto il trucco nero era colato, disegnandole un alone scuro sotto gli occhi, e il mascara viscoso e appiccicoso si mischiava con il sudore che aveva sulle mani.

Le pareti erano ricoperte di muffa odorosa, che colorava il luogo di grigio fumo.

Dalle finestre, dai vetri sporchi e rotti, trasparivano fasci di luce, che riflettevano meste ombre sul pavimento spoglio e costellato di calcinacci e sporcizia.

Il mondo non le era mai parso così freddo, inospitale e finto.
Mai fino a quella sera.

«Non ho mai conosciuto mia madre. Non so se sia morta, o cosa le sia capitato.
So solo di non averla mai conosciuta. Per tutta la mia infanzia ho vissuto con mio padre.
Nonostante questo però, è stato il periodo più felice della mia intera vita.

Non eravamo ricchi, anzi. Abitavamo nella periferia di Sciroccopoli.
Anche se non avevamo molti soldi, ogni tanto riuscivamo a permetterci dei piccoli lussi: papà mi portava al luna park, e mi faceva salire sulla ruota panoramica.

Da lassù ogni cosa, ogni persona e perfino ogni paura spariva nel nulla, lasciando solo una grande immensità nera, e si vedevano migliaia di luci colorare il vuoto... Vorrei rivedere quelle luci, qualche volta.

Mio padre era un uomo che sembrava onesto e sincero.

Lavorava molto duramente per mantenerci entrambe, ma non rinunciava mai a darmi tutte le attenzioni e tutto l'affetto che meritavo. Gli sono sempre stata grata per tante cose, e tutt'ora mi sembra di non avergli mostrato tutta la gratitudine di cui era degno.

Non mi sono goduta l'infanzia fino alla fine perché credevo fosse infinita, che nulla sarebbe mai andato storto.

La vita per una bambina della mia età era così bella che sembrava quasi vera.

Ma poi, crescendo, ho scoperto che non c'era mai stato nulla di vero.

Tutto quello che mi pareva chiaro e cristallino era avvolto in una polvere soffocante e allusiva, a partire dalle certezze principali di una qualsiasi bambina: la propria famiglia.

«Camelia cara, sei davvero bellissima, come la stella più luminosa del cielo.»
Me lo ripeteva tutte le sere prima di addormentarmi, anche se io mi mettevo a ridere: ma se lui non me lo avesse ripetuto così tante volte io non me ne sarei mai convinta, perché per amare bisogna essere in due.

Solo in due.

Avevo più o meno dieci anni, facevo ancora le medie.
Una notte papà era molto stanco. Mi ha mandato subito a dormire, con gran fretta, mi sembrava quasi scocciato.
Si era perfino dimenticato  di augurarmi la buona notte, e di ripetermi ancora quanto fossi importante per lui.

Così non riuscivo a dormire: continuavo a rigirarmi nel mio letto, chiedendomi come mai papà avesse deciso di interrompere proprio ora l'amore che prova un genitore per la figlia.

Mi sono alzata per controllare. Ero troppo in pensiero per lui, che aveva pensato solo a me in tutta la sua vita.
Forse era solo stanco... No, non era vero.

A questo punto credo che la mia infanzia, così come la mia felicità si sia fermata.

Sul divano, a torso nudo, c'era mio padre; era disteso, ma appena mi ha vista si è rialzato. Sopra di lui c'era una donna. Nuda, non indossava nulla, e gli teneva i polsi. Non ho idea di chi fosse o se la conoscessi. Ma a prima vista era talmente brutta che ancora oggi mi pare la donna più brutta che abbia mai visto.

Eccessivamente corpulenta, mi osservava con gli occhi di una vipera, trafiggendomi l'anima nel modo più doloroso possibile.

Cercavo di liberarmi da quello sguardo terrorizzante, ma l'immagine che avevo davanti mi schifava e spaventava allo stesso tempo...

Ne ricordo i particolari, perché non me la sono mai dimenticata, così crescendo e comprendendo la parte più orrida e crudele del mondo, la me stessa adulta è riuscita a fornirsi le spiegazioni  che quella bambina tanto ingenua e fragile non riusciva a capire.

Quella donna doveva essere una prostituta. Credo che sia così perché dopo di quella ce ne sono state molte altre: more, bionde, magre, alte... Io le trovavo tutte bruttissime.
Ogni notte papà si lasciava sedurre a mia insaputa, cercando di ridar vita all'eccitazione e la passione che il dover badare una figlia gli aveva tolto.

Poi c'è stato l'alcol.

Quando papà era solo o depresso l'aria aveva un odore pesante e dolciastro, diventando un veleno irrespirabile. Il pavimento si riempiva di rifiuti, sporcizia e vetri rotti, che a furia di pestare mi hanno fatto versare un bel po' di lacrime e di sangue.

La nostra casa, la nostra vita ed il nostro rapporto, tutto era diventato invivibile.

Poco a poco ho smesso di spaventarmi nel vedere quelle scene; abitando nella periferia malfamata e regredita ne avevo già sentito parlare tante volte dalle mie compagne di scuola più grandi.

Ma nel mio cuore di ragazzina mi sentivo devastare da una tristezza interminabile, che è finita per sfociare in una rabbia repressa, che ancora oggi tento invano di soffocare. È ben risaputo che la tristezza porta la rabbia e viceversa.

La persona di cui mi fidavo ciecamente, che tanto ammiravo ed amavo mi ha abbandonato per quei vizi disperati, che sembravano ignorare che mio padre una ragione di vita ce l'aveva già: ero io l'unica che poteva abbracciarlo, baciarlo e passare le serate con lui.

Ho taciuto per quasi sei mesi.
Ho capito che la sua vita privata non è affar mio. Ma per me era impossibile ignorare.
Allora di notte mi affacciavo dalla mia camera e vedevo mio padre ridere, piangere, bere, o bestemmiare mentre ero indecisa se nascondermi sotto le coperte o restare li a guardare.

Provo odio per chiunque osi far soffrire una persona con una bugia e farei assistere a quelle scene tutte le persone false, ipocrite e bugiarde di questo universo.

E poi mi sono stancata, perché se io non avessi detto la verità non l'avrebbe detta neanche lui.

«Chi era quella che ti sei portato a letto ieri sera?»
Papà mi ha cominciato a fissare male. Non si aspettava tale impertinenza. Non se l’aspettava da me, almeno.

«E quella dell'altra sera, e quella di due giorni fa?»

Poi silenzio. Chissà se si sentiva imbarazzato o era semplicemente stressato.

«So tutto, non provare a difenderti. Ora dimmi la verità...»

A quel punto mio padre mi ha tirato uno schiaffo, anche se sono fermamente convinta che non me lo meritassi.

Per fargli capire la sua stupidità, per provare soltanto a fargli riflettere su ciò che faceva ho imparato a rispondere con sarcasmo, dato che lo avrei ferito di più io con le parole che lui con un colpo della mano.

«Chissà cosa hai toccato con quella mano...»

Ci siamo guardati negli occhi. Un'ultima volta negli occhi.
E poi sono scappata, perché avevo paura.

Mio padre ha alzato la mano, ma non capivo cosa volesse fare.
Nel mio inconscio pensavo che mi volesse picchiare: me lo meritavo.

Gli avevo dato del porco senza alcun pudore, e mi ero permessa di intromettermi nella sua vita pensando di essere il suo unico interesse.

Ci si merita davvero uno schiaffo perché si vuole proteggere una persona?

Tanto ormai ero già uscita di casa ed ora non c'è più tempo per un ripensamento riguardo ad una situazione di sei anni fa. Sono corsa via pensando solo una cosa.

«Ti odio, ti odio. Io odio tutti i maschi.»
Ero furiosa. Paragonati a quel momento i miei precedenti attacchi isterici non sono nulla.

Ma dato che la rabbia non nutre il corpo mi sono stancata subito. Mi sono distesa sulla panchina del parco, perché se fossi tornata a casa avrei rivisto papà farsi una prostituta, mi avrebbe presa a schiaffi e non mi avrebbe voluta più.

Bene per lui, neanche io lo volevo più, che se ne restasse nel suo mondo fatto di sesso a pagamento e menzogne altrettanto pagate.

Però volevo il mio letto, perché faceva un freddo terribile lì fuori.
Poco dopo comunque ho chiuso gli occhi e mi sono addormentata.

Non ho idea se quella sera mio padre mi avesse cercata, non mi sarei fatta trovare da quel bugiardo.
La mattina dopo mi sono risvegliata sulla stessa panchina.
Ancora mi domando come abbia fatto ad addormentarmi con quel gelo.
Di fronte a me stava un uomo alto. Aveva la pelle rugosa ed indossava al collo sei Pokéball.

In quel parco desolato mi trovavo di fronte a Nardo, Campione della regione di Unima.
Ero troppo stanca e non capivo che cosa stesse succedendo.

Ma l'uomo mi si è seduto accanto, mettendo sulle mie spalle infreddolite un mantello color porpora. Non sapevo se ringraziare o meno.

«Perché sei scappata?» Mi ha chiesto, come se sapesse già cosa mi fosse successo.

«Perché il mondo è pieno di gente falsa e bugiarda.»
Come facessi a rispondere tal cosa a dieci anni? Allora non c'era sempre e sopratutto solo sarcasmo nel mio cuore.

Nardo mi ha guardata negli occhi.

«Sei una ragazzina determinata, testarda e soprattutto molto bella: potresti diventare una Capopalestra in futuro. Continua sempre a cercare la verità, come l'Eroe Bianco del mito della fondazione di Unima.

«Ora portami via da qua, prima che mio padre mi trovi.» Gli ho risposto.

E dopo tre anni sono riuscita ad essere come volevo: la stella più brillante della regione di Unima.

Lavorare come modella mi piace.

Posso proporre il mio concetto di bellezza alle persone che sono stanche delle solite donne finte ed amorfe. Farei di tutto per i miei fans.

La bellezza finta è solo uno spreco.

Se si desidera davvero essere belli bisogna considerare la bellezza come una cosa pura, vera, un dono speciale della propria vita che nessun tipo di trucco o ricostruzione può portare.

Se fosse così non esisterebbero cose orribili come le bugie e l'inganno

 

Camelia aveva smesso di piangere.

Sotto gli occhi l'alone di trucco si era seccato, facendoglieli bruciare leggermente.
Non si sentiva sfogata, provava solo più incomprensione.

Ma almeno, rimuginando il passato aveva trovato la forza di uscire e affrontare le conseguenze della sua scenata, pronta a subire a testa bassa insulti e polemiche.

Si sentiva davvero stupida ad aver fatto ciò.Se quella ragazzina avesse sabotato Anemone... fatti suoi.
Lei doveva solo vincere la competizione, mica proteggere le sue avversarie.

Mentre si alzava da quella poltrona lercia, Camelia sentì un brivido lungo la gamba, come se fosse uno stimolo a non arrendersi ora.
Non fece in tempo a muovere un secondo passo che il brivido si faceva più insistente. Si fermò a riflettere un attimo.

«Ah, è il cellulare che vibra...» Si rese conto a malincuore.

«Ciao amore, come va, stai massacrando quelle ragazzine?»

Sentire la voce del suo amore, che sembrava aver percepito da lontano la sua tristezza, fu quasi capace di strapparle un sorriso dalle quelle labbra che avevano lo stesso sapore delle lacrime salate.

«Corrado, sto male, per favore...» lo riprese lei, tornando alla cruda realtà.

«Ti si è spezzata un'unghia o ti è calato il seno di due centimetri?» Scherzò maliziosamente lui.

Questo era davvero troppo. Alla ragazza venne voglia di buttare giù il telefono gridandogli che era un insensibile; il fatto che lei stessa avesse disfatto con le sue lacrime il suo raffinato ed elaborato make-up era il suo ultimo problema.

E dover spiegare al suo ragazzo un giorno o l'altro di essere la figlia di un alcolista donnaiolo era il penultimo.

«Calma. Ti volevo dire che questa settimana mi fermo ad Unima e se volevi...» Qui il tono del ragazzo si fece allusivo, ottenendo l'interesse sperato della sua ragazza.

«Volevo?» Camelia si fece interessata.

«Potevo fermarmi da te per vedere quanto sei diventata forte...»

«In lotta o a letto?» lo interruppe, questa volta ridendo.

«Secondo te? Ho voglia di vederti e sopratutto di toccarti, amore.»
Camelia stava già eccitandosi all'idea serata.

Sapeva che si sarebbe sentita meglio, tra le braccia della persona che era capace di sopportare sia le sue battute sia le sue crisi.
Corrado era l'unico uomo che non riteneva di dover per forza odiare.

«Anche io. Mi vesto sexy, promesso.»
Dando un bacio all'aria come se potesse raggiungerlo, la ragazza chiuse la telefonata.

Si sentiva più sollevata e, per risolvere la questione, era pronta ad affrontare le sgridate delle sue compagne, anche se non sapeva esattamente che spiegazioni dar loro: terzultimo problema.

«Ehi, sei qui!»

Era la voce di Iris, la riconosceva.

Ma non c'era solo lei. C'erano anche Anemone, Camilla e Catlina.

Camelia si chiedeva se si fossero scomodate per cercarla. Il semplice fatto che fossero lì in quel momento rendeva tutto più imbarazzante.

Iris le prese la mano con delicatezza: gliela lasciò andare quasi subito ma la modella la strinse a sé, in gesto di scusa.

D'improvviso sentì le braccia calde di Anemone in torno al collo.

Non erano sicuramente arrabbiate con lei. Cercavano solo di consolarla.

«Sei gentile a preoccuparti per me. Grazie... E, uhm, perdonami se ho fatto la doppia spola fra te ed Iris. 
Ma il problema è che siete entrambe adorabili, non saprei davvero chi di voi due...»
Le sussurrò la rossa, prima di interrompersi per l'imbarazzo dell'ultima affermazione.

Intanto tutte continuavano a domandarle come si sentisse, a darle baci, a cercare di compatirla.

Non ce la faceva più ad odiarle, e per sfogarsi, Camelia si lasciò a qualche risata, dal sapore più dolce delle precedenti.

Poi tirò a se Iris, che già era un po' frastornata, e le stampò un bacio sulla guancia.

«Scusa. D'ora in poi vi tratterò un po' meglio dato che siete delle vere amiche.«

«Amiche!? Quando mai io e te siamo state amiche? Toglimi le mani di dosso!» Le urlò la ragazzina dai capelli viola.

Non se l'aspettava, eppure non esitò al sfoggiare tutta la sua abilità nel controbattere alle compagne. Amava quel suo talento dopotutto, anche se non c'era molto da inorgoglirsi nel saper rispondere per le righe solo per far ammattire gli altri.

«Iris è un'antipatica, stava per farmi piangere prima. Dovreste evitarla, è proprio una cattiva ragazza.» Le venne il terrore di aver offeso la diretta interessata però.

Ma dopo poco la mora riuscì a vedere come Iris sorridesse, fino a scoppiare in una risata, alla quale si unirono tutte, lei compresa.

Condividere gioie e dolori senza nascondere il proprio lato più sensibile, questo era il significato dell'amicizia che le nostre eroine stavano a poco a poco capendo, trovandosi ad essere insieme, anche solo per pura casualità nelle situazioni belle e brutte in modo da rendere il dolore, che provato in solitudine diventa insopportabile, quasi simile alla felicità.

«Forza ragazze, abbracciamoci, non resta altro - disse raggiante Camilla - è più bello abbracciarsi solo quando si hanno sentimenti da condividere che ripetere a caso questo gesto per nulla.

Forze di odio e amore ci uniscono e dividono, ma torneremo tutte insieme ad essere un gruppo, prima o poi.»

Lo aveva detto in tono più serio, guardando un punto lontano, come se in quell'esatto punto ci fosse stato lo sbocco per riuscire a trasformare loro, cinque ragazze in una cosa sola.

«Ma... queste citazioni filosofiche ti vengono così o te le prepari di notte?» 
Le rispose Camelia sorridendole.

Una risata si levò dal gruppo.

Tutte si abbracciarono intorno al corpo di Camelia, che sembrava sentire su di esso di aver trovato delle amiche vere, quelle che con gli occhi non vedono il colore del trucco o il modello dei vestiti, ma riescono a scoprire e rendere loro ogni parte del suo inconscio, che invece di offenderla e vendicarsi delle sue prese in giro avevano preferito farle capire che non aveva bisogno di fingere per sopravvivere nel mondo.

Lei non era sola, come nessuna tra loro doveva essere.

 

«Ragazze, una di voi mi ricorda perché Nardo ci ha messe in punizione?» 

Domandò stressata Iris, mentre strappava a mani nude una delle tante tracce di muffa dalle pareti di quella stanza.

«Abbiamo saltato gli allenamenti di questo pomeriggio.» 

Le rispose Anemone ansimando, mentre cercava di ripulire il pavimento da tutta quella sporcizia, dovendosi spesso chinare per raccogliere i calcinacci.

Per quanto Nardo fosse buono e comprensivo era ben risaputo in tutta Unima che il Campione era solito punire i suoi allievi con punizioni esemplari, tanto da meritarsi il rispetto di tutti i maestri della regione.

«Aspettate, non è possibile per me essere in punizione stasera - si lamentò Camelia agitata, ricordandosi che cosa quella sera la aspettasse - io ed il mio ragazzo dobbiamo...»

La mora si interruppe prima di rivelare al gruppo la sua più intima vita sentimentale con tanta sfacciataggine, lasciando la frase a metà.

Ciò che naturalmente seguì fu un silenzio di imbarazzo, mentre le altre la fissavano con sguardo incredulo, sperando che Camelia non intendesse continuare la frase con il pensiero sconcio che avevano intuito.

Purtroppo il senso era esattamente quello: se fosse rimasta lì a ripulire quel posto, non avrebbe potuto godere della notte d'amore che tanto desiderava.
In queste situazioni chiunque è solito pensare quanto sia ingiusta la vita.

«Voi non potete capire, siete ancora single... E vergini, probabilmente.»

Si giustificò Camelia, per cambiare discorso e togliersi dalla precedente situazione di imbarazzo con più scioltezza possibile.
Intanto si era resa conto che ormai tutte le unghie finte le si erano spezzate con tutto lo sporco scrostato dai pavimenti e dalle pareti.

La punizione era tanto faticosa quanto umiliante, un ottimo esempio per riflettere sulle proprie azioni, degno di un uomo saggio.

«Ehi, signorina dalle grandi esperienze amorose, io alle scuole medie avevo un ragazzo! L'ho anche baciato in bocca una volta!»

Le rispose Anemone con tono infastidito, anche se tratteneva a stento una risata.

Poi, per farle capire l'errore che la mora aveva commesso, prese un grosso pennello ancora imbevuto di colla e, con un gesto rapido del polso, riuscì a sporcarle di quel fluido appiccicoso gran parte del viso, rendendolo lucido di quel miscuglio marrone chiaro.

La rossa, per quanto infantile fosse quel gesto, voleva entrare in confidenza anche con colei che prima le pareva la più antipatica; cercare di andare d'accordo con tutte, come aveva fatto anche con la timida Iris, era parte del suo carattere solare ed aperto.

«E quanto siete stati insieme?»

La provocò ancora Camelia, rispondendo nella stessa maniera con cui era stata imbrattata lei prima. Cercò solo di mirare ironicamente verso la bocca, per far assaggiare ad Anemone il gusto amaro e indigesto del suo fantomatico bacio in bocca.

La rossa a quel punto dovette tirarsi indietro, dato che la risposta a quella domanda era in grado di sminuire tutto l'orgoglio di cui prima si era vantata.

Si limitò a rispondere a malincuore.

«Due settimane... Poi mi ha lasciato.»

Partì un finto applauso di incoraggiamento per la rossa e il suo più che patetico record, ed a dare il definitivo segnale per dar inizio alla battaglia fu Iris gridando «Rissa! Rissa!» più che entusiasta.

Le due continuarono a sporcarsi di colla e vernice a vicenda, come due ingenue bambine che portano avanti uno dei loro soliti litigi, dimenticandosi chi avesse iniziato e chi avesse continuato.

Fare amicizia poteva essere ridere anche di quello.

«Siete davvero immature.»

Tentò di riportarle alla realtà, con tono fermo e contenuto Catlina, la quale mai aveva provato tanta stanchezza in vita sua; il dolore alle ossa la stava consumando, ed ogni singolo rumore la infastidiva.

A quel punto fu compito della leader riportare le due ragazze sudate e sporche di colla appiccicosa e polvere bianca al loro dovere, con il suo solito ottimismo.

«Ragazze, tornate al lavoro. La fatica serve a fortificarvi.»

«La dici facile tu che devi solo sorvegliarci!»

Le rispose Iris, che davvero non capiva perché dovesse essere punita per aver cercato di fare del bene ad una compagna.

Forse quello che stava facendo serviva davvero a fortificare.
E a far sudare. Sopratutto a quello, a suo parere.

«In realtà sono contenta perché che ha deciso di premiarci per il lavoro svolto in questi ultimi giorni: vuole trasformare questo vecchio garage abbandonato in una sauna a nostra disposizione. Pensate: potremmo rilassarci in una nube di intenso vapore caldo dopo aver finito gli allenamenti.»

Camilla era davvero eccitata all'idea di poter entrare in stretto contatto con le sue nuove apprendiste Campionesse mediante la condivisione di un momento privato come una sauna.

«E quindi noi dobbiamo lavorare come degli operai clandestini per ottenere qualcosa che già ci spetta a prescindere?!»

Le ribatté Iris, ormai stufa di tutto quel lavoro pesante.

«Esattamente.» Rispose a quella domanda retorica così impudente una voce profonda.

Nardo si era materializzato nella stanza, come se fosse apparso dal nulla: aveva pianificato di spaventare le ragazze, in modo da verificare il lavoro svolto fino a quel momento; un vero maestro è capace anche di cogliere alle spalle i propri allievi.

Lo stupore delle giovani fu più che evidente. A quel punto l'uomo si espresse.

«Ho visto con i miei stessi occhi chi merita questo premio, nonostante la vostra pessima condotta di oggi: avete saltato il vostro allenamento, atto davvero disonorevole per un allenatore, non solo del vostro calibro, ma di qualsiasi genere. Spero che questi straordinari vi abbiano aiutato a riflettere sulle vostre precedenti azioni.

Iris, Camilla, Catlina, siete libere di andare; avete riflettuto abbastanza e il vostro lavoro ha sostituito gli allenamenti mancati di oggi: potete cambiarvi e servirvi a cena.»

Dopo aver ringraziato Nardo (Iris non aveva capito neppure la ragione di quel castigo, figurarsi se in cuor suo si sarebbe degnata di ringraziarlo veramente...), le tre volsero le spalle all'uscita, come prigionieri appena scarcerati. Anemone e Camelia si guardarono con preoccupazione, mentre Nardo lanciò loro un'occhiata severa.

«Voi due - disse, guardandole negli occhi - avete bisogno di comprendere più a fondo i vostri errori.
Resterete qui, finché non avrete completato anche il lavoro delle vostre compagne. - Poi analizzò le due ragazze, aggiungendo - E per favore, evitate di aggravare ancora di più la vostra posizione... Avete lo stesso odore di una fabbrica di vernice.
»

L'uomo se ne andò, per raggiungere le tre che aveva deciso di aggraziare.

Guardandola bene, Camelia si era resa conto che quella ragazza rossa di capelli accanto a lei le somigliava parecchio: il viso appiccicoso e lucido, sporco di polvere biancastra, mista al sudore e allo sporco di quel posto orrido era identico al suo.

Era impossibile: la pelle bianca e diafana della modella aveva conformazione e colore totalmente diversi da quella abbronzata e spessa della pilota sua compagna di sventura.

Dovevano essere i suoi occhi.

Chissà perché Anemone doveva avere gli occhi del suo stesso colore.

E i lineamenti del suo viso le piacevano: le linee morbide e non troppo marcate riuscivano a tacere il suo senso critico riguardo alla bellezza.

La ragazza mora non voleva perdere l'occasione di avere un'amica che fosse così piacevole avere accanto.

Era giunto il momento di gettare via tutti i vecchi pregiudizi e mostrare ad Anemone quanto la faccia nascosta di se stessa fosse generosa e ben disposta nei suoi confronti.
Rivolgendosi un sorriso a vicenda e incrociando i loro sguardi, alle due ragazze, sole, sporche e miserabili venne contemporaneamente da ridere.

Camelia riteneva davvero indimenticabile potersi mettere a ridere senza dover pensare che in futuro quella stessa persona l'avrebbe fatta piangere.

 

 

«Camelia, scusami tanto... È colpa mia se stasera non potrai vedere il tuo ragazzo.»

«Non preoccuparti, sono così stanca che non le ho neppure le forze per odiarti...»

«Mi parli un po' del tuo ragazzo? Insomma... Com'è?»

«Come te lo immagini? Deve essere il mio ragazzo, non può essere altro se non perfetto.»

«Allora è vero che gli opposti si attraggono!»

«Allora è vero che una relazione con te non può durare più di due settimane!»

«Scusa. Se davvero è così...

Non è che daresti una mano a... Farmi piacere un ragazzo? Vorrei un fidanzato che sia fighissimo ma che mi tratti in modo dolce, e che sia anche sexy...»

«Credimi... Potresti trovarne uno, se curassi un po' di più l'aspetto, ti vestissi decentemente e ti comportassi in modo più sensuale. Saresti la ragazza dei sogni di tutti, secondo me.»

«Ehi, se vuoi saperlo io ho ben presente il genere di ragazza che intendi! Ragazze che appena le vedi ti sanguina il naso da quanto sono belle e carismatiche.»

«Davvero? Sono idol, attrici, modelle come me?»

"In un sacco di manga che ho letto il protagonista maschile seduce la protagonista femminile rivelando di essere il ragazzo dei suoi sogni... A volta la stupra perfino, ma farebbe di tutto pur di avverare il sogno d'amore della sua amata..."

«Cosa?!»

«No-Non sono una perversa! È vero, ogni tanto ho letto qualche manga hentai per maggiori di diciotto anni, ma il protagonista era di una bellezza assoluta! Poi io preferisco il genere ecchi, specie se oltre a dei bei ragazzi ci sono anche delle ragazze molto dotate...»

«Cara Anemone, hai molto da imparare in materia di amore.»

 

 

Behind the Summery Scenery #4

1. Per i "vecchi" lettori, che seguivano la storia già da prima: questo capitolo comprende anche, come potete vedere, quello che era il 4(1), ossia  il sub-capitolo "Le ragazze del crimine/Gelosia", ed il contenuto del 4(2), omonimo di questo. 

R.I.P. Sub-capitoli: 2013-2017

2. Sto editando e ho notato che c'era una sequenza separata dai divisori per nulla. Fixato nel 3.5

3. Per scegliere le cinque antagoniste da contrapporre alle ragazze, ho dovuto tenere una specie di "audizione", basandomi sulle opposizioni e somiglianze con le personalità delle protagoniste: ho letto in un giorno più di venti pagine di personaggi femminili della serie Pokémon su Wikipedia e siti annessi, e casualmente tutte le ragazze che ho scelto provenivano da regioni diverse. Non posso assicurare che tutte siano le mie bias.

4. "Neo Team Plasma" non è un nome ufficiale. Lo ho scelto io, nel caso vi sembrasse di averlo già sentito nei sequel di Pokémon Nero e Bianco.

 5. Per il cosiddetto effetto Mandela, durante tutta la storia mi riferisco ai membri del Team Plasma come "reclute". Rigicando ai giochi tuttavia , mi sono accorta che i membri si chiamano in realtà "seguaci", visto che il Team Plasma non era ancora un'istituzione al tempo, ma un gruppo ideologico.

6. L'idea di assegnare a ciascuna delle ragazze un passato triste o difficile è nata in primo luogo dal mio interesse implicito per la psicanalisi freudiana, in secondo luogo dalla visione di alcune opere (fra cui molti anime) in cui in base a diverse esperienze passate delle protagoniste si ricavano effetti e conseguenze nel loro agire presente e si offre buono spunto per una crescita futura.

7. La storia di Camelia è ispirata a quella di Cosette de "I Miserabili" di Victor Hugo anche se all'inizio avrebbe dovuto essere completamente diversa: si sarebbe comunque dovuta ambientare nella periferia della sua città nella stessa situazione di malessere e degrado, ma doveva essere sua madre in persona a disilluderla rivelandole di mantenere lei e sua figlia lavorando come prostituta, siccome suo padre l'aveva abbandonata ancora quando era piccola lasciandola senza sostanze.

8. La scena iniziale in cui Iris e Camelia litigano l'avevo pensata molto più violenta: Camelia avrebbe dovuto spingere Iris contro il muro per prenderla a schiaffi, lei per difendersi le avrebbe tirato un calcio sulla pancia e abrebbe ricevutoin risposta una ginocchiata sull'inguine e per liberarsi avrebbe dovuto, ehm, stritolare il seno dell'altra. Prospettive dolorose, insomma.

9. Se siete interessati a scoprire come la storia della stanza malandata con la poltrona sporcasia nata perché non date un'occhiata qui e qui?

10. Scommetto che non ve lo ricordate, ma nel Percorso 4 di Pokémon Nero 2/Bianco 2 potete notare una zona antecedente alla città di Sciroccopoli costituita da degli edifici prefabbricati con dei graffiti sui muri e tantissime allenatrici femmine sulla strada; la stessa zona viene chiamata "Villaggio di Sciroccopoli" nell'anime, "Nimbasa Town" in inglese.

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Capitolo 5
*** Una perfetta adulta ***





A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 5

Una perfetta adulta

 

Per le nostre ragazze oltre al dovere veniva, gratificandole, anche il piacere.

La ragazza dai lunghi capelli dal profumo di vaniglia levò nell'aria di quel pomeriggio estivo un grande sospiro.

L'aria espirata si unì al vapore denso e caldo della grande vasca di pietra circondata da bellissime statue e colorate aiuole, ricadendo silenziosamente in minuscole goccioline nell'acqua calda.

Non era un sospiro arreso o annoiato: era un sospiro di sollievo.

La giovane si lasciava avvolgere dalla gradevole sensazione dell'acqua calda che le accarezzava la pelle chiara, infondendo una forza rigenerante nelle sue membra affaticate; il liquido alla temperatura perfetta sembrava farla rinascere dalle sue ceneri, in un corpo più forte e in un animo più nuovo di quello che aveva.

Catlina aveva sempre desiderato poter cambiare tutto di se stessa, bruciando il suo ego precedente senza lasciarne alcuna traccia. Desiderava questo, spesso.

L'acqua nell'onsen del giardino di Nardo raggiungeva il livello del suo petto e sulla superficie il suo viso si rifletteva tremolante, come uno spettro che la fissava con espressione incerta: lei e lo spettro si guardavano negli occhi, come in attesa di dirsi qualcosa; ma quando capì che lei e l'anima racchiusa in quello specchio erano la stessa persona, con un gesto violento della mano sconvolse la superficie dell'acqua, facendo sparire nella luce da cui era venuto quello spirito nefasto e morente.

Ma lei non poteva sparire, lo sapeva benissimo.

Catlina stuzzicava con le dita il laccio del costume che indossava.

Non si ricordava dove lo avesse comprato, quindi doveva essere un regalo dei suoi genitori; così costoso, finemente ricamato, degno di una principessa, si chiedeva perché dovesse stare sul suo corpo.

La prima cosa che non sopportava di se' era sicuramente la pelle: il pallore dava l'idea di una persona morta, di un cadavere.

Se poi guardava il suo corpo nei punti meno visibili, come le braccia, le gambe, la schiena, ma anche un sacco di altri posti, notava che i segni della sua tristezza non sparivano: aprendole la pelle, sollevando i lembi della cute, sporcate di sangue seccato, pelle morta o da punti di sutura, numerose cicatrici erano ancora lì, costringendola a nascondere la maggior parte del suo corpo agli altri.

Ma lì era sola, quindi poteva permettersi di stare semi nuda senza creare scalpore.

Detestava inoltre il suo viso. Quello le faceva quasi paura.

A partire dai quindici anni, all'inizio dell'adolescenza, i suoi occhi avevano cominciato a subire una deformazione troppo evidente.

Le palpebre diventavano pesanti, sotto l'occhio erano comparsi i segni di occhiaie e borse, i contorni si erano smorzati: era quello il risultato ottenuto, dopo tutte quelle notti insonni, e dopo tutto quello che aveva sopportato negli anni.

Il corpo cambia nel tempo, a seconda delle cure fisiche e psicologiche che una persona vi presta.
Se una persona si trova ad essere felice, l'aspetto fisico rispecchia questa condizione interiore.
Il risultato della situazione interiore instabile della ragazza aveva così portato i suoi occhi a svuotarsi ed intristirsi tanto da non poterne sopportare la vista.

Poi si contava tutto quello che la sua autostima aveva cancellato: voleva tagliarsi i lunghi capelli biondo chiaro perché credeva di averli troppo disordinati, dimagrire fino a che non le si vedessero le costole, ricorrere alla chirurgia estetica per ogni dettaglio imperfetto, anche se sarebbe stato inutile.

Perché ciò che devastava davvero era l'orribile impressione che l'animo morto che infestava il suo corpo aveva dato alle sue nuove compagne.

Vedendola così pallida e inespressiva dovevano aver pensato che lei fosse una persona malata, antipatica e asociale, che non merita alcun tipo di affetto o attenzione.

Forse il rispetto che le riservavano nasceva solo dal fatto che fosse più vecchia di loro, non sicuramente dalla vitalità e dall'energia dei suoi gesti...

Ma era meglio così. Meglio essere priva di sentimenti che ferire le persone.

Mentre lo pensava Catlina aveva tirato troppo l'elastico del pezzo inferiore del bikini, che aveva finito per slegarsi sotto la tensione procurata dal nervosismo; i lacci ondeggiavano elegantemente nell'acqua come alche mosse lentamente dalle onde, rivelando con grazia il fianco candido della ragazza.

Lei però era assorta, raccolta in un isolamento forzato dalla sua mente, che la designava dal prestare attenzione alle cose del mondo reale.

Chiuse gli occhi, in modo che la luce non la infastidisse, e iniziò a concentrarsi fermamente su quel silenzio di primo pomeriggio.

Provò a concentrare le forze sulla sua pelle macerata dalle cicatrici, facendo traspirare l'acqua calda per lavarla e purificarla: ora che il suo corpo aveva raggiunto quello stato di piacere che un bagno caldo sa dare, il suo cervello si era chiuso in una profonda meditazione, uno stato di concentrazione in grado di riportarle l'equilibrio perduto.

A prima vista sembrava che stesse innocentemente dormendo.
Una tecnica imparata dopo anni di allenamento di Pokemon di tipo Psico.

«Potrei essere diversa... Sarebbe bello se riuscissi a guadagnarmi il rispetto e l'ammirazione delle altre ragazze - parlava da sola, nella sua mente riempita di mille pensieri, avvolta nel dolce e rilassante vuoto di quel silenzio - così vitali, così energiche... così... sono così carine...»

Il pensiero di non riuscire ad abbattere il suo carattere chiuso e isolato disturbava Catlina nel profondo.

Non desiderava veramente restare sempre sola; sapeva inconsciamente che in qualche modo avrebbe dovuto comunicare con qualcuno, rivelare i suoi pensieri.

Non poteva continuare a riempirsi di indifferenza... O sarebbe esplosa in una reazione rovinosa.

Ci teneva tanto a risultare calma e composta e forse preferiva davvero che a sentirsi vuota dentro fosse lei e non gli altri.

Il corpo della ragazza era sempre lo stesso, anche dopo quel bagno purificante.

La frustrazione comportata dai quei pensieri tanto deludenti sulla sua persona aveva portato Catlina a stuzzicare con le dita anche l'altra estremità del costume: quel gesto non le rendeva giustizia, ma almeno frenava i suoi impulsi di alzarsi e sfogarsiqualche sciocchezza.

Continuandolo a tirare però, anche il secondo laccio finì per slegarsi.

La pelle dei fianchi chiari e ben delineati veniva mostrata quasi argentea e limpida sotto la superficie dell'acqua: il movimento della corrente faceva scivolare con eleganza le mutandine di quel bikini rosa e bianco, semplice e raffinato.

La natura giocava uno scherzo a suo favore, rivelando silenziosamente quanto il suo corpo potesse risultare grazioso e puro in una innocente semi nudità, accarezzandola con l'acqua per calmare i suoi tormenti interiori.

Non si era accorta però di essere osservata, in quella sua trance di piacere.

Chi la guardava non si sentiva imbarazzato ne' per lei, che veniva guardata, ne' per sé stesso, che assisteva ad una scena tanto sublime quanto oscena.

Non si era posto neppure il problema di sapere perché la ragazza si fosse chiusa in sé stessa (aveva ben capito che non stava dormendo) o perché si fosse slegata il pezzo inferiore del costume, se fosse semplicemente esausta per gli allenamenti o se avesse solo bisogno di un momento per sé.

Ciò che desiderava sapere era bensì a cosa pensasse.

Per ora si limitava a guardarla, pensando se fosse opportuno disturbarla; poi giunse alla conclusione che sicuramente non le sarebbe dispiaciuto così tanto se qualcuno le dedicava un po' di attenzione.

E andò da lei.
«Come ai vecchi tempi.» Pensò Camilla, sorridendo amaramente.

La giovane Campionessa si tolse delicatamente il kimono bianco, mostrando il suo corpo scolpito da Dio con la massima perfezione; esibiva un costume due pezzi nero, il colore che le donava una certa autorità e maturità, sposandosi perfettamente con i suoi occhi grigio platino.

Il costume che indossava non poteva certamente nascondere le curve che la giovane donna aveva formato crescendo: il seno si protraeva in avanti, rigonfio e sviluppato a dovere in modo provocante e sensuale, raccolto a malapena nel reggipetto nero decorato di pizzo.

La parte inferiore del corpo presentava ancora due prosperose curve che delineavano il bacino, disegnandole la carne delle cosce in modo impeccabile.
Il sedere è argomento a parte, che merita comunque menzione per la sua rara bellezza.

Camilla fece attenzione ad entrare nell'onsen senza distrarre Catlina dalla sua meditazione.

Le si sedette accanto, non troppo vicino però.

La guardava in silenzio, osservando come il suo viso fosse cambiato.
Erano passati ben dodici anni dall'ultima volta in cui si erano viste, era ovvio che lei fosse cambiata.

Le persone non cambiano da sole, è il tempo che modella la vita di ciascuno secondo le imprecise e varie regole del destino; le loro vite avevano preso strade diverse e appena si erano rincontrate per un'altra casualità non aveva saputo davvero come dovesse comportarsi: era certo sorpresa di rivedere un'amica di così lunga data.

Ma rivederla così diversa... Camilla non se lo aspettava.

«Così calma, così riflessiva...» Si ripeteva.

Ma del resto anche la giovane donna da quando era bambina era cambiata moltissimo, non solo nell'aspetto fisico, ma anche nel carattere.

Era certa di una cosa: entrambe erano cambiate in meglio.

Lei era diventata la figura di maggior rilievo nella sua regione natale.
Il suo volto ora era conosciuto a tutti, il suo nome famoso quasi più di quello di Camelia.

Camilla Kuroi sapeva ormai di essere ammirata ed amata da migliaia di Allenatori suoi fans, ma aveva deciso di non assumere alcun atteggiamento che potesse risultare superbo o esibizionista agli occhi altrui.
Era bella d'aspetto, forte in lotta e buona di cuore. Per questo la Campionessa di Sinnoh veniva adorata da tutti.

A quel punto a Catlina capitò di accorgersi di qualcosa.

Sentiva vicino a sé una presenza familiare, che non le dava eccessivo sospetto.
Forse era solo una sua impressione, ma per lei valeva davvero la pena di interrompere per un poco la sua meditazione e scoprire chi fosse accanto a lei.

Tirò un forte sospiro seccato e con fatica riaprì gli occhi spenti, i quali provavano fastidio alla visione della luce solare, che le faceva lacrimare le pupille.

Non le servì molto tempo per voltarsi e capire che Camilla era seduta esattamente alla sua destra.

La Campionessa non stava guardando lei, sembrava piuttosto concentrata sul suo riflesso sull'acqua.

Ma appena si rese conto che si era svegliata si girò verso di lei, sorridendole gentilmente.

Le emozioni che in quel momento nacquero nel cuore della giovane senz'anima furono innumerevoli.

Prima di tutte si pose l'imbarazzo dello scoprire che le mutandine del suo costume bianco si erano slegate e avevano mostrato per tutto il tempo in cui Camilla era stata presente lì il suo girovita nudo.

Non erano scese fino a scoprirle le parti intime, ma era comunque imbarazzatissima.
Per un momento Catlina sentì le guance scaldarsi, ed in breve queste diventarono di un rosso pallido.

Con fretta e quasi maldestramente si sbrigò ad allacciarsi il costume.

Che orribile figura aveva fatto, proprio davanti ad una persona che era diventata così importante...
Desiderava sparire. Doveva essere apparsa agli occhi della bionda una buona a nulla che si da solo un sacco di arie.

Non si sarebbe più dimenticata di quel momento.

«Non preoccuparti, non è successo nulla, non c'è nessuno nelle vicinanze.»

Le disse Camilla con voce pacata: non voleva metterla assolutamente a disagio.

Catlina si ricompose in fretta, respirando però sempre più nervosamente.

«Si... È stato solo un incidente.»
Poi rimasero in silenzio per qualche secondo.

Camilla doveva sfruttare il suo carattere dolce e aperto in quell'esatta occasione.

«È passato molto tempo dall'ultima volta in cui abbiamo fatto un bagno insieme - portarle alla mente vecchi ricordi forse sarebbe stata la strategia giusta - te lo ricordi? In quei momenti c'eravamo solo noi. Senza alcuna vergogna...»

«Avevamo sei anni; non sapevamo cosa fosse la vergogna.» Rispose lei, totalmente scettica.

Al pronunciare quella frase, nella mente di Catlina era affiorato un ricordo.

Non era un ricordo concreto.

Le era parso di vedere nella sua testa un'immagine, una vecchia fotografia della sua memoria che credeva di avere smarrito nelle viscere del tempo.

Si ricordava vagamente dei corpi magri e pallidi che lei e Camilla avevano da bambine: entrambe bionde, i loro genitori che continuavano a ripetere che sembravano due sorelline, più che altro perché non riuscivano mai a fare a meno l'una dell'altra.

E si ritrovavano a condividere inconsapevolmente anche un bagno.
A godersi la loro infanzia giocando nude nella vasca da bagno calda riempita di soffice schiuma bianca, nella residenza a Memoride della famiglia Hāto.
  

Le fece tristezza. Inoltre si ritrovava ancora più imbarazzata di prima, paragonando il loro rapporto di allora con la convivenza forzata di quel momento.

Catlina cercò quindi di svuotarsi per l'ennesima volta, esprimendo tutta la sua indifferenza e apatia in uno sguardo composto; voleva bene a Camilla, davvero.
Non voleva ricordarle che quei giorni di spensieratezza non sarebbero tornati mai più.

Camilla le rispose, per confrontare la sua indifferenza.

«Che strano, mi chiedo cosa stiano facendo le altre ragazze...»

Sarebbe stata la Campionessa in grado di toccare con le sue parole il cuore freddo, apatico e chiuso dell'Allenatrice al suo fianco?

Parlarono per un po', le due ragazze.
Ma la loro attenzione fu subito attratta da altro. Qualcosa di davvero insolito.

Di fronte a loro, nel bordo opposto dell'onsen, una figura piccola e gracile stava seduta, con i piedi immersi nell'acqua.

Una bambina. Non serviva occhio esperto nel capirlo.

Le due Allenatrici continuarono a conversare, fingendo di non averla notata; ogni tanto le gettavano un'occhiata per capire che cosa stesse facendo, e sopratutto chi fosse.

Quella indossava un costume rosa: era abbastanza piccola per non avere l'obbligo di indossare il pezzo superiore.

Aveva i capelli dello stesso colore di una buccia di un mandarino maturo; tagliati corti fino al collo, due treccine ai lati del viso impedivano alle ciocche ribelli di caderle sugli occhi. La pelle era leggermente abbronzata.

La bambina nuotava nell'onsen per i fatti suoi, immergendosi nell'acqua come in una piscina.
Ogni tanto si voltava verso le due ragazze. Non le aveva mai viste.

Facendo attenzione che le due bionde non la notassero si avvicinava sospettosamente, immergendosi poi improvvisamente, pensando che le due sconosciute non la vedessero.

Ma alla fine la sua innocente curiosità la spinse ad avvicinarsi a Camilla e Catlina, che si erano già accorte che la bambina dai capelli vermigli dimostrava un certo interesse nei loro confronti.

«Ciao, come vi chiamate?»

Domandò lei, nuotando tranquillamente, dato che l'acqua le arrivava oltre il petto solo se stava in piedi. Ciò era considerato un gesto di maleducazione nella cultura del bagno giapponese, se entrambe ricordavano bene.

«Io mi chiamo Camilla.» Le rispose dolcemente la Campionessa.

Molti suoi fans erano anche bambini, quindi sapeva più o meno come trattare questa piccola curiosa.

Catlina invece non aveva idea di come comportarsi con una persona così piccola: la dolcezza non era il suo punto forte, e in quella situazione così snervante le riusciva difficile perfino sorridere.

Ma si era decisa a non voler più dare l'impressione di essere un'apatica a nessuno, specialmente ad una bambina che invece di allontanarla semplicemente avrebbe rischiato di spaventarsi.

Ai bambini non piacciono le cose vuote, tanto meno le persone vuote.

«Io, Catlina.» Glielo disse imitando dolce e zuccherato il tono di Camilla.

Se si impegnava poteva davvero farcela.

La piccola continuava a scrutarle con i suoi piccoli occhi.

«Io mi chiamo Giulietta. Quanti anni avete? Io: così.» E mostrò la mano aperta alle due ragazze, per indicare la sua età. Cinque anni, come le cinque piccole dita della sua mano.

Catlina, per rispondere al suo gioco, fece segno a Camilla di mostrarle entrambe le mani aperte. La Campionessa lo fece subito, poiché voleva davvero vedere quanto la sua vecchia amica fosse cambiata in meglio.

Lei poi aggiunse le sue di mani, nascondendo il pollice: cinque, cinque, cinque, e poi quattro.

Giulietta contò ad alta voce le loro dita, toccando la punta con un colpetto del suo indice.

«Diciannove?»

Catlina annuì, sorridendo.

«Davvero? Quanti... - poi si rivolse a Camilla - tu?»

Alla bionda bastò aprire il pollice per rivelare alla piccola l'età dell'amica.

«Venti! Siete grandi allora...» Esclamò contenta.

Doveva essere davvero soddisfatta di aver contato giusto.

Poi Giulietta smorzò il suo entusiasmo. Rimase a guardarle per un po'.
Per una bambina che vede ogni cosa come se fosse la prima volta, vedere due ragazze molto più vecchie di lei in un posto così familiare era un evento incredibile.

Sentiva nel suo cuore una forza, quella forza che solo i più giovani hanno, di farsi avanti nei momenti più rigidi, discernendo senza indugi le persone di cui ci si può fidare.

Le bastava guardare gli occhi delle due giovani donne per sentirsi a suo agio. Si andò a sedere vicino a loro, che la accolsero senza pretesti.

«Conoscete il nonno?»

Le due bionde si scambiarono un'occhiata perplessa.

Forse sapevano esattamente di chi parlava, ma pareva loro troppo strano per essere possibile.

«Chi è tuo nonno?» Le domandò Camilla con tono interrogativo.

Necessitava solo una conferma: la risposta la conosceva bene.

«È Nardo il mio nonnino! È anche il Campione della Lega, anche se non so cosa significa.» Esclamò la piccola.

Se lo aspettavano, Catlina e Camilla.

La bionda calma e riflessiva ragionò un momento: lavorava alle Lega di Unima da quattro anni, ma ne' lei ne' i suoi colleghi avevano mai sentito menzionare una nipote. Forse non le dava importanza, forse era di lontana parentela... Ma significava una cosa, un'implicazione che la logica non sembrava spiegare. Catlina smentì la sua presunta apatia pronunciando ad alta voce il suo sgomento.

«Ma quindi... Nardo... Ha dei figli?!»

Il vecchio Campione serbava ancora dei segreti, a quanto pareva.

Ma alla piccola Giulietta sembrò un dettaglio più che marginale.

«Che belle che siete... Voglio essere come voi quando sono grande.» Disse.

Guardando i lineamenti del viso di Camilla, il fisico perfetto e la sua dolce indole era normale per una bambina provare ammirazione, una piccola invidia per il fatto di essere piccola davanti a due ragazze mature, sviluppate e cresciute.

L'ammirazione e l'invidia parevano lo stesso sentimento, ma nessuna delle due sembrava fermare la determinata Giulietta dal conoscere le sue nuove amiche.

E, come tutti i bimbi, sfruttava la sua innocenza.

«Mi prendi in braccio?»

Lo domandò a Catlina, che si sentì pervasa da una sensazione mista di spavento e sfida.

Le pareva davvero insolito che qualcuno di avvicinasse a lei con così tanta scioltezza, senza qualche dubbio o sospetto sulla sua personalità.

Se una persona tanto fragile come una bambina di cinque anni si aspettava da lei amore, lei gliene avrebbe dato.

Catlina guardò un'ultima volta lo spettro dell'acqua: non lo avrebbe scacciato.
Se le due figure dovevano perfettamente combaciarsi, voleva che il sorriso timido e abbozzato che mostrava sulle labbra candide in quel momento lo riproducesse anche lo spettro morto e privo di anima, senza alcuna paura.

«Basta con i muri interiori, e basta chiudersi in se stessa. Ho finito di comportarmi come una bimba viziata che pensa che tutto il mondo sia contro di lei.
Non so accettare me stessa, non so accettare gli altri, non so accettare nulla com'è.
Non sono cambiata per nulla. Ma adesso voglio diventare adulta. Una perfetta adulta.»

La bionda si alzò in piedi e accolse Giulietta a braccia aperte: lei le saltò in braccio ridendo.

Le sue braccia bianche si erano indebolite con il tempo, ma quello spirito di gentilezza le ridava la forza di tenere in braccio una creatura così leggera.

A vederla da vicino Giulietta sembrava persino carina.

Di certo più carina di lei, pensò rammaricata la ragazza.

La piccola non le aveva chiesto un abbraccio per nulla comunque.
Per quanto sembrasse ingenua all'apparenza, aveva progettato tutto nei minimi dettagli, come un esperto Allenatore prepara la strategia vincente per una lotta complicata.

Ne aveva visti tanti di tagli nella sua vita, ma quello che Catlina aveva sul petto era davvero strano.
Voleva saperne di più, perché non è giusto che gli adulti non dicano mai i loro segreti ai piccoli.

«Come ti sei fatta questo?» Sussurrò sul suo orecchio.

Indicò con l'indice una cicatrice sul corpo pallido della giovane.

Una cicatrice profonda, di color fosco correva sul petto della giovane, segnando una linea che partiva da poco sotto il collo e scendendo verso il basso si immergeva nella carne, scomparendo nell'insenatura del suo seno. Davvero inusuale.

Catlina si spaventò a quella domanda.
Non voleva rispondere.
Una domanda così fastidiosa suonava più come un rinfacciarle un'imperfezione fisica che semplice curiosità.

Sapeva anche in cuor suo che è tipico per i bambini fare domande irriverenti, e aveva idea di quanto sarebbe stato antipatico zittirla con un "non sono affari tuoi" o altro.
Sicuramente Camilla avrebbe trovato un modo di risponderle senza violare la propria dignità.

«Me lo sono fatto quando ero piccola... - mormorò imbarazzata - non mi ricordo bene...»
Era ovvio che se lo ricordasse, che domande.

«Ti ha fatto tanto male?»

«Si, abbastanza.» Così almeno non mentiva, e se ne sentiva quasi sollevata.

«Ti fa ancora male?»

«No... Non mi fa più male da un po'...»

«Sei forte, è per questo che non ti fa male.»

Catlina le sorrise, imbarazzata.

La stava ancora tenendo in braccio, e le sue braccia la stringevano sempre più stretta.
Le batteva il cuore, mentre abbassava gli occhi per la timidezza.

La piccola aveva cominciato a toccarle la cicatrice, accarezzandola con i polpastrelli: si trovava in un punto molto delicato, uno di quei punti in cui la pelle si fa più sensibile, liscia al tatto, tiepida.

Quel taglio percorreva tutto il contorno del seno destro della ragazza, a tratti profondo e scavato, a tratti leggero, in una parte del derma che si teneva nascosta per puro imbarazzo.

Giulietta se ne era accorta però.
«Continua!»

Appena lo esclamò infilò il dito nel reggiseno della ragazza, cercando di seguire quella linea sconosciuta, per sapere dove andasse a finire.

Facendo pressione con la mano, le abbassava il costume, mentre rideva innocentemente, nonostante non avesse mai visto il petto di una più grande di lei.
Era solo curiosa, la sua tenera età non serbava alcun intento secondario, ovvio.

Catlina non poteva neppure fermarla poiché, se avesse liberato una delle mani l'altra non avrebbe retto il peso della bambina.

In viso era arrossita di nuovo, contraendo il viso in un'espressione imbarazzata.

Giulietta le stava togliendo il reggiseno, mostrando la parte più bella e sublime della bionda: di forma rotonda, le linee costituivano due sfere perfette che si protraevano in avanti; la pelle pallida raccoglieva elegantemente i seni alla giusta consistenza, gonfi e arrotondati in maniera graziosa ed esuberante contemporaneamente.

Novanta centimetri sposavano perfettamente il suo corpo, gonfiandole a dovere il petto, rendendo le sue doti degne di nota.

Camilla assisteva a tale meravigliosa scena sorridendo in silenzio.
Aveva notato che anche Catlina continuava a sorridere, nonostante lottasse a stento per recuperare la dignità di donna che il reggiseno del costume rappresentava per lei e stesse perdendo, a giudicare dalla situazione.

«Un bambino può insegnare tante cose ad un adulto. A sorridere senza motivo, per esempio.» Pensò.

In seguito Giulietta si avvicinò a lei.

«Vieni anche tu!» Disse.

E la trascinò per mano, per inviarla a unirsi a loro.



 

Camilla sentì qualcosa di freddo sfiorarle il braccio.
Doveva essere il vento, o una goccia di acqua che scendeva dalla sua spalla.

Non ci prestò molta attenzione.

Dopo qualche minuto però si toccò la spalla destra. Sulle dita una sensazione di appiccicoso, di denso.
E ancora il freddo.

Non aveva idea di cosa fosse e la questione le pareva sospetta.

Poi Giulietta le puntò l'indice contro, spaventata.
«Camilla, hai sangue!»

A quel punto la giovane si guardò: una scaglia affilata di ghiaccio trasparente si era conficcata nella sua pelle, praticandovi un foro.
Da lì una grossa goccia di sangue rosso cremisi scivolava lungo la sua pelle bagnata.

Nello stesso momento le parve di sentirne un'altra di quelle gocce, che cadeva nell'acqua.
Poi un altra che le colpì la fronte. E ancora e ancora.
E non si fermarono, ma continuarono a cadere più veloci e affilate.

L'istante dopo una pioggia di schegge ghiacciate si era infittita moltissimo.

Zampillavano come frecce nell'acqua dell'onsen, creando un secondo di scompiglio, che non lasciò il tempo a nessuna delle tre di fiatare.

Camilla si guardò intorno. Nulla. Solo quell'atmosfera tagliente.

La ragazza si concentrò al massimo, e dopo pochi secondi si diede all'allerta immediata.

"Uscite dall'onsen, veloci!"

La piccola e Catlina uscirono confusamente con uno scatto, seguendo l'ordine alla cieca, prese dal terrore.

E lei non si era sbagliata: una potentissima scarica elettrica invase l'acqua, ottimo conduttore d'elettricità, provocando un fragore spaventoso accompagnato da un bagliore di luce accecante. Poi l'acqua si smosse, esaurendo la sua furia improvvisa.

Una scarica del genere era talmente micidiale che avrebbe potuto mandare K.O. un Pokemon anche di tipo non eccessivamente debole all'elettro, e una persona umana quindi ne sarebbe stata letteralmente fritta.

Le tre stavano distese a terra, atterrite da quell'uragano di lampi.

La paura nei loro cuori si percepiva nell'aria che odorava di bruciato. Una voce di vipera ruppe poi il silenzio.

«Che riflessi, mi aspettavo che la Scarica del mio Ampharos vi friggesse come tempura!»

Una ragazza era apparsa sull'altro lato della vasca, di fronte a loro: indossava un'uniforme nero scurissimo, riconoscibile era solo uno strano disegno tribale bianco stampato sul tessuto.
Nonostante il design dark appariva a tratti abbastanza femminile.

Non si riusciva a distinguere alcun viso da quella voce, dato che un passamontagna nero avvolgeva il volto della ragazza; solo gli occhi e i capelli marroni chiaro venivano lasciati fuori, per terrorizzare al massimo le loro prede.

«Non scherzare, non dobbiamo perdere tempo.»

Le rispose un'altra donna nell'ombra con i capelli azzurro chiaro raccolti in una coda, che era apparsa poco distante dalla prima.

Questa, alzando il braccio, chiamò a sé uno Skarmory dal piumaggio argentato, che rispose con uno stridio acuto al suo richiamo.

Le due si guardarono per accertarsi un'ultima volta. Era il segnale di battaglia.

In preda alla confusione la giovane Campionessa raccolse tutto il suo coraggio: era solita riflettere molto, ma se si trattava di una lotta non poteva essere impreparata; dopotutto, se queste l'avevano attaccata non poteva che contrattaccare.

Ma per lottare le serviva almeno un Pokémon. E lei lo aveva.

Sfilandosi leggermente il reggipetto del costume l'astuta Allenatrice teneva nascosta nel bel mezzo del seno una Poké Ball: una tattica sicuramente originale e pratica, per avere a propria disposizione i suoi fedeli compagni nei momenti più impensabili.

«Ma questa tiene le Poké Ball nelle tette?!» Domandò la prima avversaria.

«Immagino che in questa regione sia normale...» Ma la seconda non ebbe tempo di controbattere.

«Allora volete lottare? Bastava chiederlo, no?» Rispose sarcastica la Campionessa.

«Ma sei stupida?» Si sentì dire per la sua uscita.

Camilla mandò in campo la sua Milotic, che con grazia ed eleganza si immerse nell'acqua. Una creatura acquatica davvero eccellente, famosa in tutta Sinnoh per la sua bellezza e potenza in lotta.

E la battaglia cominciò, sotto gli occhi sconcertati di Catlina e Giulietta.

La battaglia si presentava fin troppo facile per le due vipere: davvero una Campionessa che Lucinda aveva definito tanto terribile era in grado di schierare un Milotic, tipo Acqua contro un Ampharos, che con un paio di mosse superefficaci lo avrebbe mandato al tappeto?

«Wow, è proprio vero che quelli di Sinnoh sono tutti imbecilli. Ampharos, usa Tuonopugno, alla stessa potenza di prima!» Urlò, fiera della sua strategia.

Jasmine veniva dalla regione di Johto, ed era Capopalestra nella città di Olivinipoli. Sebbene privilegiasse i tipi forti in resistenza come Acciaio e Roccia, si era spinta fino ad allenare anche tipi forti in attacco. 

Quell'Ampharos rappresentava il perfetto equilibrio tra i due.

Il pugno del Pokémon Elettro stava per colpire fatidicamente il lungo serpente marino, quando Camilla decise di dimostrare a quelle villane contro di chi si erano poste.

«Milotic, Geloraggio! Salta e colpisci l'acqua!»

Lo ordinò con una tale disinvoltura che il Pokemon Acquatico eseguì l'ordine all'unisono: si dimenò un poco e poi spiccò un balzo abbastanza alto da uscire dall'acqua dell'onsen.

Volteggiando in aria, il raggio gelato colpì l'acqua che finì per congelarsi solo in superficie, come un laghetto ghiacciato d'inverno.

Esattamente al momento giusto.

Il pugno caricato di elettricità da Ampharos fu assorbito dalla massa crescente di ghiaccio, rimanendovi intrappolato; non fu in grado di colpire Milotic, che era riatterrato sulla superficie ghiacciata leggiadro come una foglia, per evitare di rompere il sottile strato di ghiaccio.

La Campionessa si sentiva quasi euforica quando lottava.

Con il tempo la voglia di vincere ad ogni costo si era sostituita con il semplice godersi le lotte fino alla fine, come se si trattasse di una questione personale.
Quando lottava sorrideva, il suo sguardo seducente traspirava una forza incredibile temperata da anni di allenamento.

La situazione si era fatta pesante per la compagna, tanto che Alice prese il controllo, per soccorrerla. 

Quella era la Capopalestra dalla città di Forestopoli, che volando in alto come un Pokémon tipo Volante riusciva a guardare tutti con sdegno, data la sua vanità, conosciuta in tutta Hoenn. Lei era cento metri su nel cielo, mentre il mondo sotto di lei era piccolo e insignificante come un puntino; lei poteva solo guardare le nuvole avanti a sé, testimoni del suo orgoglio.

Alice mandò il suo Skarmory a tutta velocità contro il ghiaccio. La mossa Alacciaio avrebbe frantumato il ghiaccio di sicuro, dato che il tipo Acciaio era adattissimo a ridurre materiali all'apparenza resistenti, come Roccia e Ghiaccio, in polvere.

O almeno così sperava.

L'intrappolare Ampharos nel ghiaccio era solo il primo passo della strategia di Camilla.

Pazientemente, ma con l'adrenalina alle stelle, aspettava che l'uccello fosse alla giusta distanza.

Milotic si ritrovò il Pokémon avversario davanti agli occhi, ma non fu un problema, poiché Camilla gli aveva già ordinato di utilizzare Surf.

La mossa, per quanto innocua potesse sembrare ebbe un effetto devastante sul campo ghiacciato: l'acqua della vasca si riversò in superficie, rompendo la lastra in mille frammenti taglienti come schegge.

Un'onda altissima si formò in breve. L'acqua e il ghiaccio non potevano ferire il piumaggio d'acciaio di Skarmory, ma erano solo un astuto diversivo, dato che nel ghiaccio stava ancora il corpo di Ampharos congelato.

Lanciando con l'onda d'acqua tra il Pokémon elettrico e l'avversario avvenne uno scontro violentissimo, data l'alta potenza con cui la mossa era stata effettuata; entrambe i Pokémon nemici caddero rovinosamente sul ghiaccio.

Esausti. Ampharos e Skarmory erano stati stremati dalla potenza della giovane bionda.

Camilla aveva guadagnato un'altra vittoria, che avrebbe per sempre tenuto come ricordo.

Ma le insidie non sarebbero finite.

Jasmine e Alice avevano mandato in campo i loro Pokemon più forti, tentare l'impresa con il resto del loro team sarebbe stato pressoché inutile, data la potenza e l'astuzia della loro avversaria.

«Passiamo alle maniere forti. Facciamola fuori ora, o ce la ritroveremo fra le scatole a vita.»

«Raduno il resto.»

Le due ragazze, che erano allo stremo dopo quella battaglia, fecero cenno ai tre membri mancanti di intervenire.

In un istante altre tre ragazze in nero si materializzarono, seguendo un piano molto più semplice di quello proposto.

La prima spia, che aveva i capelli rosa scuro, quasi fucsia, si schierò di fronte alla Campionessa, mandando in campo un Pokémon.

Era la leader. Si riconosceva per via di uno strano oggetto cubico che aveva legato sulla cintura, non si capiva bene se le servisse per la lotta, a dire la verità la Campionessa non riusciva proprio a figurarsi cosa fosse, ma stava di fatto che era l'unica nel gruppo a possederlo.

E per l'onore di quella fascia Georgia non poteva permettersi di perdere.

Se fosse riuscita in quella missione tanto particolare, superare le altre sarebbe stato semplice. 

Con un po' di fatica sarebbe riuscita a soddisfare i desideri dell'organizzazione per cui si era prestata, e avrebbe finalmente ottenuto ciò che desiderava lei.

Perché per lei combattere lì contro la Campionessa di un'altra regione era insignificante. 

I suoi desideri e quelli del team non coincidevano.

Non pensava che uccidere la Campionessa Camilla di Sinnoh gli sarebbe stato utile in qualche modo.
Ma doveva farlo, e lo avrebbe fatto.

«Se falliamo ora siamo dannate. Vai Beartic, per l'orgoglio del Neo Team Plasma!»
Gridò agguerrita il nome dell'organizzazione per la quale operava, riempiendo i suoi occhi di determinazione e aspra cupidigia di sangue.

Altre due reclute del team, una dai capelli cobalto ed una dai capelli neri e lunghi la assistevano.

«Al vincitore la prima mossa - affermò la bionda, ansimando - Milotic, Pietrataglio!»

Eseguendo l'ordine con diligenza, Milotic rilasciò la schiera di pietre taglienti come rasoi contro il Pokémon tipo Ghiaccio, pensando che la semplice efficacia della mossa servisse a risolvere velocemente il conflitto.

Ma Sabrina, la prima delle due reclute, scostandosi i capelli neri con un gesto nervoso della mano, comunicò telepaticamente con uno dei suoi Pokémon: la psiche della ragazza era dotata di questo potere soprannaturale da sempre, tanto che si diceva che da piccola piegava i cucchiai con la semplice forza del pensiero. 

La Capopalestra di Zafferanopoli era l'entità mistica di Kanto; nessuno aveva mai capito se il suo fosse un potere soprannaturale o se fosse un trucco. L'alone di mistero che la circondava incuteva paura a qualsiasi allenatore. 

Il Pokémon scelto da Sabrina fu ovviamente il più forte della sua squadra, Alakazam, che subito entrò in contatto con la psiche della sua Allenatrice.

Il Pokémon psichico deviò una ad una le pietre scagliate, riversandole confusamente, in base al piacere sadico della sua Allenatrice.

Uno di quei proiettili vaganti colpì in pieno la piccola Giulietta, sfrecciandole vicino come una freccia che non centra il bersaglio in pieno, ma lo sfiora con invisibile grazia.

La bambina si accasciò a terra per un dolore ben superiore di quello che aveva provato nella sua relativamente breve esistenza. Il petto della piccola grondava di sangue, mentre lei lo copriva con la mano: piangeva e gridava. Aveva troppa paura in quel momento, come ogni bambino chiudeva gli occhi sperando che fosse solo un brutto sogno.

Camilla resse la piccola sul suo corpo, abbracciandola con tutta la sua forza: se la forza di un Campione non aveva limiti allora la cosa più nobile che potesse fare era cederne a chi la necessitava di più.

Se a Giulietta fosse successo qualcosa se ne sarebbe sporcata la coscienza a vita.

«Camilla, anche tu sei forte... Io non voglio morire!»
Lo disse in lacrime, attaccandosi al corpo della giovane. Il dolore la trafiggeva e quell'enorme ferita sembrava divorarle gli organi.

Gli innocenti non dovrebbero patire certe sofferenze, riservate solo ai peggiori malfattori.

«Mocciosa schifosa... Vedi tu se mi devo preoccupare di un essere insignificante come te!»
Le gridò seccata Georgia. Non c'era tempo per commuoversi durante le missioni.

Camilla invece ne restò toccata. E, ormai stremata, decise di condurre la lotta fino alla fine.

Ordinò a Milotic di usare Gigaimpatto, ma fu inutile.

Erano in cinque contro una, tre molto allenate, preparate a quella lotta.
Aveva capito di essere il loro bersaglio.

A quel ritmo infernale si unì l'ultima recluta.
Una ragazza giovane, dai capelli azzurro intenso. Non aveva occhi cattivi, ma si sforzava di serbare lo stesso odio delle sue compagne.

Si vedeva però che non se la sentiva di affrontare una Campionessa.
Camilla la trovava commiserevole, in un certo senso.

Lucinda allora si strinse il cuore e lanciò in campo la Poké Ball il suo Pokémon più fidato: Empoleon. Il suo Piplup si era evoluto fino allo stato finale, o meglio, l'evoluzione gli era stata imposta dalla sua Allenatrice, che desiderava la sua forza e la velocità per affrontare avversari che da sola l'avrebbero sottovalutata. 

Lucinda si sarebbe sentita forte, se avesse sconfitto la ragazza bionda. E decise per questo di azzardare un colpo cieco, con una mossa così potente che non aveva idea di come controllare. Doveva farlo però, adesso.

«Empoleon usa Idrocannone!»

La rinomatissima mossa. Si dice sia la più potente di tutte le mosse d'acqua, che solo certi tipi Pokémon davvero legati ai propri Allenatori possono imparare.

Camilla non perse la calma.

Una mossa di Tipo Acqua contro un Tipo Acqua... Era una scelta azzardata, da principiante.
E lei con i principianti non voleva avere a che fare.

«Schiva Milotic!» Gli ordinò pacatamente.
Troppo facile però.

Il serpente acquatico schivò la mossa brillantemente, ma qualcosa andò storto. 

Il getto d'acqua alla massima pressione non seguì la traiettoria calcolata. Milotic eseguì il gesto di schivata, ma il flusso fu deviato nella direzione opposta, rendendo questa azione inutile.
La Campionessa cercò di capire l'intento di una mossa così potente, ma non si spiegava dove volesse andare a parare, o meglio, che cosa volesse colpire. Non se lo sapeva spiegare.

Camilla notò poi che il getto andava nella sua direzione...

Verso di lei... Con irrefrenabile e incredibile potenza distruttiva... Contro di lei.
Un fragore enorme si sentì e poco dopo Camilla si ritrovò a terra, bagnata fradicia, piena di sbucciature e lividi su tutto il corpo e il costume a brandelli.

Sulle labbra sentiva il sapore del suo sudore, del suo sangue, del fango... La sconfitta era davvero disgustosa.

 Ma la Campionessa desiderava troppo godersi la sua giovinezza per arrendersi così.

«Non perderò contro nessuno!» Si ripeteva quando era ancora un'Allenatrice in armi.

Il suo amore per la lotta era nato in gioventù, ed era cresciuto come un fiore di loto nel suo animo: lentamente, ogni germoglio si era schiuso, rivelando verdi foglie giovani pronte ad essere inondate di linfa vitale.

Passo per passo era migliorata, senza dover chinare il capo alle sconfitte ma alzandolo orgogliosamente puntando verso le future vittorie.

Il loto aveva fatto sbocciare il suo ultimo petalo quando cinque anni prima era stato annunciato il Campione della regione di Sinnoh: Camilla Kuroi, quindici anni, dalla città di Memoride, dove vigeva un antico detto, nato dalla speranza che gli Allenatori riponevano nella figura del mentore supremo che un giorno avrebbe guidato la regione:

«Essere un Campione non significa solo lottare...
...significa anche proteggere.»

Camilla pronunciò quelle parole a denti stretti, rialzandosi da terra.

Non percepiva più sulla pelle lo sporco, il sudore e la fatica degli attimi precedenti, anche se effettivamente erano ancora lì presenti.

I capelli biondo platino della giovane donna brillavano fulgidi ed il ciuffo ribelle che le copriva l'occhio sinistro rifletteva i raggi del sole come foglie d'oro.

Le ferite, grondanti di sangue, rosse, dolorose come spade per la mente e pungenti come spine per il cuore c'erano ancora...

Come quelle di Catlina.

Aveva visto che teneva ancora le cicatrici di quel triste evento che aveva tristemente segnato la sua infanzia, ma ormai i tagli si erano riempiti di una nuova forza, e il sangue si era trasformato in un fluido vitale pronto a nutrire il suo corpo.

Quegli occhi maturi e profondi, che potevano parere inespressivi, erano cambiati nel tempo, come aveva sospettato all'inizio: la sua migliore amica d'infanzia, che aveva dovuto abbandonare per via delle ingiustizie del destino era diventata una donna determinata, viva e matura; ma sopratutto gentile e generosa.

Diventare migliore e diventare più forte. Quello sarebbe stato il suo obiettivo d'ora in poi.

«Camilla!» Si sentì chiamare.

Indubbiamente era Catlina.
Sotto il suo braccio teneva la piccola Giulietta, che esibiva ancora lo sguardo sconcertato e spaventato di prima.
La bambina le stringeva il braccio con forza, come una figlia alla madre. Davvero ammirevole.

«Prendi!» Catlina glielo disse quasi sorridendo, per incitarla a vincere quella battaglia in onore della giustizia e della prevalenza degli innocenti sui malfattori.

La ragazza le lanciò una Poké Ball, quela del suo tanto fidato quanto potente Garchomp, il mitico drago che rispecchiava a fondo il suo animo rinato dalle ceneri dopo innumerevoli sofferenze.

Ora Camilla era pronta per far valere i suoi ideali e cambiare, come aveva fatto la sua compagna.

A gran voce chiamò il nome del suo Pokémon, che si mostrò alle nemiche in tutto il suo vigore fisico.

Le grandi mandibole, gli artigli affilati, il poderoso corpo e la coda lunga rendevano quel Garchomp un nemico temibile per qualsiasi avversario, anche per un Pokémon Ghiaccio.

«Garchomp, Dragobolide, ora!»

Gridò con tutto il fiato che le rimaneva in gola e tutto l'orgoglio che conservava nel cuore.

Dalla bocca del drago si levarono migliaia di meteore blu metallico, dalle scie brillanti e luminose.
Dividendosi per tutto il campo di battaglia, coloravano il cielo come fuochi d'artificio, rendendo spettacolare l'effetto di quando esse prendono fuoco a contatto con l'attrito dell'aria.

La luce illuminò la bellissima Campionessa che sotto quella luce, con il corpo lacerato dalle ferite per l'orgoglio, sporco di sangue versato per la giustizia e bagnato dal sudore di chi non si vuole arrendere per nessuna ragione al mondo, e il costume ormai strappato in molti punti ricordava più che similmente l'aspetto di una leggendaria eroina dei libri antichi nella sua fulgida armatura, tornata per salvare la sua patria in difesa dei più deboli e, mostrando il proprio corpo in tutta la sua bellezza e potenza.

Non aveva perso, sicuramente.

Il Neo Team Plasma ne fu ovviamente sconcertato: dopo che i meteoriti lanciati da Garchomp si erano schiantati a grandissima velocità al suolo, colpendo i tre Pokémon rimasti in campo avevano annunciato la ritirata generale. 

Avevano calcolato che i Punti Potenza della mossa Dragobolide, la mossa di tipo Drago più potente al mondo e che solo i veri Allenatori dal cuore puro meritano di padroneggiare, erano addirittura cinque, un altro solo utilizzo avrebbe potuto disintegrare non solo le loro intere squadre di Pokémon, ma anche loro in persona.

Per evitare di morire in tali umilianti circostanze le cinque, ormai distrutte, sconfitte e lacerate fino all'ultimo dovettero sospendere la loro missione di tentato assassinio.

«Voglio lottare... Con lei... Ancora...» Disse Lucinda, ansimando sia per la stanchezza, sia per la preoccupazione di venire punita per non aver portato a termine un incarico talmente importante.

Che Georgia si fosse davvero arresa però lo dubitava.

Sapeva che quella ragazza avrebbe addirittura ucciso e commesso atti immorali pur di guadagnarsi il suo ambito premio.

Così il Neo Team Plasma ricevette la sua prima sconfitta, grazie al coraggio di una giovane donna bionda, e sparì, alla luce de tramonto, tornando ai suoi quartieri sudici e malfamati.

 

Camilla a quel punto desiderava solo lavarsi decentemente e fasciarsi le ferite.
Era il minimo che potesse desiderare.

Poi ripensò a Giulietta e alla terribile lesione che quelle pietre maledette le avevano procurato.

Si precipitò in casa del Campione, sperando che le non fosse successo nulla di grave.

«Alza il braccio.» Sentì la voce di Catlina, ferma e composta.

La stava guardando da non troppo vicino, e lei non doveva aver percepito la sua presenza. Giulietta aveva eseguito l'ordine: la bionda senz'anima le aveva bendato con bianche fasce le ferite, stringendole le garze intorno al petto.

Catlina osservava bene se il suo operato era stato fatto adeguatamente, per evitare ascessi o lesioni sul corpo della piccola. Ne aveva abbastanza di sentire e vedere sangue, lacrime e ferite; vederne e rivederne avevano inclinato il suo cuore ad un sentimento di ribrezzo e pesante indifferenza, togliendole in apparenza tutta la compassione.

Non è che non provasse alcun sentimento: non desiderava semplicemente dare a vedere ciò che provava. Era inutile, secondo lei.

«Mi fa malissimo...» Le disse Giulietta, con un tono più di lamento che di sofferenza.

«Scusa, cerca di sopportare.» Le rispose lei.
Le tremavano le mani all'idea di starle facendo del male, anche involontariamente

Camilla si fece avanti, in silenzio, attirando però la loro attenzione. 

Con uno straccio bagnato si lavò il bacino imbrattato di fango e acqua, pulendolo da tutto quello sporco; dopo di che ci passò sopra del cotone imbevuto di disinfettante: il bruciore era davvero fastidioso, ma cercò di nascondere quel fastidio.

Giulietta poi la chiamò, e le andò vicino, aggrappandosi al suo costume, se tale si poteva ancora definire.

«Io lo sapevo che eri forte! Le hai sconfitte, brava!»
Le disse contenta, come se avesse subito dimenticato tutto.

E la abbracciò.

In seguito però, come ogni bambino preso dal tipico rimorso di aver escluso qualcuno dal proprio affetto, prese la mano a Catlina, che ancora seguiva confusamente le sue imprevedibili mosse, e abbracciò anche lei, con le sue piccole braccia, sfiorando le loro pelli dolcemente.

Per quanto le due ragazze fossero diverse di aspetto, comportamento, personalità e carattere, erano riuscite a provare in un'involontaria sincronia lo stesso, strano sentore: non sempre i bambini sono dolci e affettuosi, ma non sono neanche sempre cattivi, a volte sono imprevedibili, altre volte le loro azioni sono più che scontate, mai troppo coraggiosi, ma neppure troppo codardi...

Se Catlina e Camilla avessero vissuto più a fondo la loro infanzia forse avrebbero compreso quel sentimento fugace e indistinto.

«Giulietta!»

A chiamare la piccola era una voce femminile, ma non apparteneva alle nostre protagoniste.
Era più matura, ma non profonda, quasi melodiosa e piacevole all'udito.

La voce si fece volto. Una donna, che donna non sembrava, prese la piccola per mano.

Giulietta lasciò le due ragazze e si ricongiunse di malavoglia a lei.

Una persona mediamente alta: aveva gli stessi capelli vermiglio di Giulietta, ma li teneva lunghi, sciolti lungo le spalle.
Vestiva con un vestito ocra, sembrava quasi cucito a mano.
Non era per nulla vecchia; dimostrava solo trent'anni o più, e il sorriso rassicurante e sereno rendeva quella donna affascinante.

La donna si fece più cupa quando notò la fasciatura della bambina.

«...Cos'è successo?» Le domandò preoccupata.

«Delle ragazze vestite di nero mi hanno colpita con delle pietre che facevano malissimo, ma lei - e indicò Catlina - mi ha curato e lei - indicando Camilla frettolosamente - le ha sconfitte con i suoi Pokémon!»

Le due Allenatrici non sapevano cosa rispondere.

La donna in fronte a loro doveva pensare che si trattasse di uno scherzo, ma guardando poi i tagli presenti sul corpo di Camilla (che ancora sanguinavano e le bruciavano) e rendendosi conto che la fasciatura di Giulietta era effettivamente vera si zittì.

Guardò invece le due, che erano lì immobili, pervase da un leggero nervosismo.

«Siete due delle cinque Allenatrici scelte per il titolo di Campione, giusto?» Domandò in tono serio.

«Sì.» Risposero in coro.

«Ho capito, - poi chiamò a sé Giulietta - andiamo, tuo fratello e il nonno ci aspettano.»

«Ma mamma... Posso restare con loro a giocare un altro po', per favore...» Supplicò lei.

«No. Saluta le tue amiche, vi incontrerete un'altra volta» Le rispose con tono fermo, ma gentile.

Le due si fermarono a riflettere.

Era incredibile che da quel dialogo semplice fossero emerse così tante verità: quella donna era la madre di Giulietta, che era la nipote di Nardo e che aveva un fratello.

Nessuna di queste parentele era a loro nota, ma non ne avrebbero proferito parola né con le altre ragazze, né con Nardo stesso. Era preferibile il silenzio ad un'inutile confusione.

La donna si rivolse ancora a loro.

«Scusatemi, se non mi sono presentata; sono Marina, la figlia di Nardo.
Grazie per aver badato e protetto la mia piccola. Siete davvero onorabili.» 
E sorridendo se ne andò.

Nei loro cuori, in quello puro e determinato di Camilla e in quello calmo e riflessivo di Catlina si era anteposto un desiderio: se avessero avuto ancora l'occasione di incontrare quella bambina ne avrebbero fatto tesoro.

Non era nulla di speciale quella piccola, era semplicemente stata la prima bambina ad aver insegnato qualcosa a due ragazze che stavano lottando con le loro stesse mani contro il destino, la solitudine e il tempo.

E anche se avessero dovuto versare litri sangue, di sudore e lacrime non di sarebbero fermate, perché finché loro non si sarebbero stancate di combattere, gli innocenti e i puri di cuore non sarebbero più stati oppressi, sia da altri essere umani che dalla vita stessa.

Dovevano di nuovo crescere insieme, la bionda sorridente e la bionda apatica, e partire dagli albori di un'infanzia mai vissuta, per percorrere la strada della giustizia mano nella mano, come avevano sempre desiderato fare le due fanciulle.

Giulietta, prima di andare seguendo la sua mamma, si rivolse alle sue nuove amiche con entusiasmo.

«Da grande voglio diventare forte e bella come voi!»

E non vedeva l'ora di crescere, nei suoi occhi di bambina.

 

 

«Sono davvero indecisa... Che costume dovrei indossare, Catlina?»

«Non lo so. Camilla... Io penso che tu stia bene con tutto.»

«Non possiamo ridurci a questo: indossare un costume è molto più che...»

«...Indossare un costume?»

«Stavo per dire la stessa cosa. Intendo... Scegliere il taglio, la scollatura, gli attacchi e il colore... È una scelta difficile per una ragazza.» 

«Continuo a non capire di cosa ti preoccupi. Hai un bellissimo fisico, è questo il punto. Nessun costume può farlo passare inosservato.»

«Mmmh... E se non indossassi un costume?»

«C-Cosa?!»

«Se non indossassi un costume il mio fisico sarebbe senz'altro valorizzato! La bellezza è naturale, no? Non è questione di taglie, ma di coraggio!»

«C-Camilla non puoi andare in giro nuda! È imbarazzante!»

«Ma... Io intendevo l'usare un bikini al posto di un costume vero e proprio...»

«...Scusa...»


 

 

Behind the Summery Scenery #5

1. Siccome ho bisogno di tempo (e righe, molte righe) per sviluppare a dovere la personalità di Catlina, ho pensato di dedicare i capitoli multipli di cinque per intero a lei. 
Update: non so la matematica, quindi dopo questo e il capitolo 10 me ne sono sbattuta di questa regola. Fuck the system. Fuck you.

2. L'idea delle cicatrici si ricollega ad una rivelazione che lei stessa lascia in Pokémon Platino e trova conferma in Nero/Bianco. Provate a parlarle dopo averla sconfitta alla Lega.

3. L'ambientare questa e numerose altre scene in una piscina giapponese e lo stesso atto di inserirne una nella storia deriva dalla concezione nipponica del bagno, in cui le persone condividono un momento di pace e profonda intimità insieme.

4. Però, essendo Unima una regione fortemente americanizzata, anche alle ragazze sembra piuttosto strano. Inserire un posto in cui il fanservice faccia da padrone era lo scopo vero e proprio, se devo essere sincera...

5. Sia Catlina, che Camilla provengono dalla città di Memoride, hanno la stessa età e ammettono di conoscersi a vicenda da quando erano piccole. Tutto è canonico e confermato nei giochi e nell'episodio dell'anime in cui si scontrano (che ho visto ventordicimila volte).  

6. Ho scritto questo capitolo tutto in una notte per far sì che il mio vecchio correttore di bozze lo trovasse pronto dal sabato per la domenica: a mezzanotte meno un quarto ero così fusa dallo scrivere che avevo perfino pensato di far perdere Camilla. Mi sono corretta prima di commettere una blasfemia colossale nei confronti della santa leader, tranquilli.

7. Per editare questo capitolo sto usando Open Office perché in 7 miliardi di computer al mondo quello di mia zia è l'unico a non avere Word. Credeteci. Oh, e caro HTLM di Efp: ti odio. Ti auguro un parto doloroso plurigemellare con Jack lo Squartatore come assistente di maternità.
Update: ho un computer nuovo ancora e il mio papà, a cui piace troppo la legalità, ha pagato euri in più per il pack di Windows.
Grazie papi, ma stavolta non serivia.

8. Sebbene io sia apertamente contro gli OC (= original characters, personaggi creati dai fan e poi inseriti nei vari fandom), i personaggi di Giulietta e Marina mi erano utili per lo sviluppo caratteriale di Catlina e Camilla. (insomma, non prendetemi per ipocrita, ma non potevo costituire i capitoli in cui appaiono come infiniti monologhi interiori, capitemi...)

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Capitolo 6
*** Legami attraverso il tempo ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
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Early Summer Girls

Capitolo 6

Legami attraverso il tempo

 


«Ma siete serie?!»
Reagì Iris di impulso, non credendo a tali parole.

«Ma che cosa...»
La ripresero Anemone e Camelia, esibendo uno sguardo sconcertato e incredulo in perfetta sincronia.

«Se ve lo stiamo dicendo in prima persona non possiamo che essere serie.»
Le rispose Catlina con il dire più rilassato e calmo che aveva.
I suoi occhi però trapelavano un alone di inquietudine e preoccupazione.

C'era chi voleva lei e Camilla morte. Proprio loro, in tutta la regione, in tutto l'universo.

Dalla disfatta nell'onsen, le due bionde avevano riflettuto a lungo sull'accaduto, senza però mai menzionarlo direttamente, come un grosso nodo alla gola che le stava strangolando con il terrore di venire di nuovo attaccate. Per scioglierlo avevano deciso di riferire tutto sia a Nardo, sia alle loro compagne più giovani.

«Allora cosa dobbiamo fare? E perché vi hanno attaccate?
Ma sopratutto... Come avete fatto a combattere senza Pokémon? Nardo non ci autorizza a tenere con noi i nostri Pokémon quando non stiamo lottando...»

Domandò Iris sospettosa, per distrarsi dal pericolo e per colmare questo dubbio che sembrava insignificante, ma costituiva un vero e proprio buco nel senso dell'accaduto (la ragazzina effettivamente non era a conoscenza del "posto nascosto" in cui la Campionessa di Sinnoh nascondeva le sue Poké Ball...).

Tutte si guardarono un attimo intorno. Da dove nascesse tutta quell'ansia era un mistero.

Camilla aveva parlato di ragazze vestite di nero che l'avevano attaccata, di una lotta abbastanza straziante, di mosse potenti, di una vittoria inaspettata... Una favola al vento.

Eppure tutte e cinque le ragazze si sentivano a disagio, come se si trovassero nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Iris aveva notato la loro ansia dal fatto che tutte avevano gli occhi bassi. Non aveva idea se dovesse abbassarli anche lei in compatimento.

«Nardo che cosa ha detto?» Domandò.

Le dolevano i muscoli dall'ingiustificata tensione.

«Dobbiamo parlare con una persona riguardo ciò.» Le rispose secca Catlina.

«Ci deve informare sul da farsi. Non vorrebbe che accadesse nulla alle future Campionesse.»
La ammonì Camilla.

«Davvero strano: detta così sembra la trama di qualche anime di seconda categoria...»
Fu Anemone a commentare a bassa voce, rigirandosi tra le dita una ciocca dei suoi capelli rossi.

Poi rimasero ancora in silenzio, come quando si erano conosciute.

Era da quasi mezz'ora che continuavano a discutere davanti a bicchieri di bevande gasate svuotati senza trarre conclusioni. Come se scagliassero colpi senza una meta precisa, che inevitabilmente finivano per fallire.

Precedentemente le cinque ragazze avessero imparato a ridere all'unisono; ora si ritrovavano sedute in cerchio, a condividere inconsciamente quella preoccupazione ed estenuante ansia.

Quanti brutti sentimenti restavano ancora, prima di poter ritornare a condividere quelli belli con quelle ragazze? Se lo domandava la ragazzina dai capelli violetto, mentre si osservava dubbiosa le maniche dello yukata, che lei e le altre indossavano ormai come una seconda pelle.

Si consolò, pensando che non era sola in quella sventura immonda. Doveva infatti dividere tutto quel suo stress per altre quattro persone. Più coloro che si occupavano di proteggerle.

«Ragazze, la Professoressa vi aspetta.» Era la voce di Nardo.

Le cinque Allenatrici si alzarono, sospirando ancora aria pesante.
A passi lenti seguivano Camilla attraverso la casa del Campione, verso la sala principale.

«Però... Certo che siete davvero delle brave compagne... - pensò bene di dire Camelia per smorzare la situazione - andate a fare un bagno e non ci invitate! Quando non vi inviterò alla mia prossima sfilata mi inventerò una storia credibile quanto quelle dei cartoni che guarda Anemone!»
E diede una leggera spinta con le dita alla spalla di Catlina, ridendo.

La ragazza bionda la guardò come per rimproverarla, ma decise di non risponderle, per evitare di sembrare una suscettibile e permalosa.

«Certo che voi modelle siete proprio ignoranti... Si chiamano a-ni-me
Le ribatté Anemone, infastidita dal fatto che una sua amica avesse preso in giro la sua più grande passione.

Infine Iris rise piano. Era contenta che in quei momenti ansiosi e seri ci fosse qualcuno così disposto a tirarla su di morale.

 

Le cinque si inginocchiarono rispettosamente su dei cuscini adibiti nell'atrio. La stanza era abbastanza larga e luminosa che la atmosfera da claustrofobia precedente si era dissolta come neve sotto i raggi del sole primaverile.

Iris si sentiva quasi un peso levato di dosso in quell'ambiente.
Finché il sole splendeva fuori abbattersi alle paure del futuro le era impossibile.

Ma quel senso di libertà se lo tenne dentro, stretto stretto: in quella circostanza doveva far la parte della rispettosa, lasciar parlare le sue compagne e ascoltare diligentemente, o la vita di qualcuno sarebbe stata messa in pericolo.

Si continuava a fissare le maniche decorate dell'abito: le decorazioni variopinte ricamate sull'abito catturavano la sua attenzione qualora non sapesse dove guardare.

Dalla luminosa porta finestra si intromise tra i suoi pensieri una donna; alta, dai capelli raccolti ordinatamente sopra la testa, con addosso un elegante camice azzurro.
Un esemplare di Minccino osservava le cinque ragazze con occhietti curiosi.
Una buona prospettiva, per colei che avrebbe dovuto guidare le ragazze in quel difficile momento.

Tutte le giovani Allenatrici abbassarono il capo in segno di rispetto.

«Calfuray, Reyes, Taylor, Yamaguchi, Kuroi.»

Ciascuna di loro trasalì sentendo il proprio cognome pronunciato con quella risolutezza.
La donna le guardò serie.
Poco dopo però i suoi zigomi si rilassarono in un radiante sorriso.

«È molto strano chiamare delle ragazze della vostra età in maniera così formale, non credete? Lasciate che mi presenti.

Sono la Professoressa Aralia Juniper. Lavoro per il centro di ricerche di Soffiolieve, e mi occupo dello studio dei Pokémon, specialmente limitato a quelli della regione di Unima.

Di solito sono sempre occupata all'iniziazione degli Allenatori, sapete com'è, consegnare loro il Pokédex, lo starter... Ma Nardo ha richiesto la mia presenza.

Mi ha già riferito tutto a proposito dell'attacco, ha ripetuto esattamente le vostre stesse parole.
Me lo confermereste un'ultima volta, come formalità?»

Camilla e Catlina si guardarono confuse, per poi ricomporsi subito, evitando di esitare nella confermazione di una cosa così seria, che non poteva assolutamente avere un margine di falsità.

«Si.» Risposero in coro. Rispondere in perfetta sincronia dava alle due la sensazione di una impercettibile unione: in fondo, le loro voci suonavano bene insieme.

«Ci sono particolari che non mi sono stati riferiti?» Le interrogò di nuovo.

Dopo un secondo di silenzio, la leader si fece avanti con voce sicura, come sempre. 

Iris non riusciva davvero a concepire che esistesse gente come Camilla Kuroi, così incredibilmente priva di difetti, o così tanto brava nel nasconderli e simulare quell'immacolata perfezione morale.

«In effetti sì. Durante la lotta una delle avversarie, aveva i capelli blu se non mi sbaglio, ha ordinato al suo Empoleon di usare Idrocannone.»

«Nardo me lo ha riferito, - la interruppe la professoressa, con tono sospettoso - continua.»

«La mossa avrebbe dovuto colpire il mio Pokémon, ovviamente. Ma il getto è stato lanciato in modo che non lo sfiorasse nemmeno: infatti ha colpito me, in pieno.
Io mi chiedo - Camilla fece una pausa, per riflettere - perché una mossa così potente non è stata usata per colpire il Pokémon ma l'Allenatore in persona?»

Iris, Camelia, Anemone e Catlina la fissavano impietrite da un'osservazione tanto arguta. Un dettaglio così strano poteva davvero avere un peso. Erano davvero preoccupate, ma non potevano non ammirare che quella ventenne da Sinnoh fosse geniale.

La professoressa la guardò meravigliata, nonostante pochi secondi dopo si fece cupa in viso, riflettendo silenziosamente, con un ansia crescente nel profondo.

Se durante una lotta un Allenatore ordinava al proprio Pokémon di attaccare l'Allenatore avversario, era una colpa pari ad un'aggressione volontaria.

I Pokémon e gli umani erano stati designati per la convivenza pacifica e la collaborazione reciproca: attaccare e ferire un proprio simile, anche fosse un nemico, era considerato reato dalla legge di ogni regione.
E quindi, chi metteva in atto tale crimine non era altro che un criminale.
Così diceva la legge: a Kanto, a Johto, a Hoenn, a Sinnoh e ovviamente anche a Unima.

«Se vi avesse colpite secondo la volontà dell'Allenatore...»

Cominciò la professoressa.

Era ovvio. Una mossa tanto potente quanto precisa come Idrocannone non poteva permettersi di fallire un colpo per sbaglio, specie a così ravvicinata distanza.
E il dolore provato sulla pelle e il colore del sangue perso in quell'impatto Camilla non li avrebbe mai associati al caso.

La professoressa riprese, con tono teso e basso, come si trattasse di una nefasta predizione.

«... Sareste state testimoni di una battaglia violenta

In quel preciso istante, con quelle taglienti parole un pezzo di cuore fu reciso a ciascuna delle innocenti ragazze che, indossando i loro yukata, avevano sempre considerato la lotta, un legame profondo che legava gli umani ai Pokémon e viceversa.

Era piuttosto deludente, anche se necessitavano chiarimenti.

Battaglia violenta...
Il solo sentirlo menzionare aveva richiamato nella mente di Iris una delle tante parole, forse un vero e proprio insegnamento di suo nonno Aristide.

Quando si è ancora bambini la capacità di ascoltare e accogliere ogni nuovo concetto come utile sia nel presente che nel futuro è davvero alta: involontariamente nella mente della ragazzina si era cristallizzato il ricordo di molte conversazioni, di discorsi non immediati, ma abbastanza nitidi per essere rievocati con una parola chiave.

Aristide, come Capopalestra, aveva accumulato talmente tanta esperienza a proposito di Unima, la sua regione natale, che non trasmetterla ad una creatura a lui cara sarebbe stato egoista.

Iris era quindi cresciuta sotto discorsi, leggende e storie che le generazioni di Unima si tramandavano, anche inconsciamente.

La regione infatti, vantava di una storia culturale che non si limitava ad una cronologia di eventi in successione, ma il tempo aveva fondato radici mitiche sul suo suolo, dandole quasi un'origine attribuita a Pokémon Leggendari e a bellicosi popoli.

La giovane ricordava che alla dichiarazione della costituzione della regione era stato stabilito che la lotta, al di fuori degli scopi pacifici, era illegale.

«Ma questo tipo di lotte non era stato dichiarato illegale, se non sbaglio, dopo la fine della guerra che ha interessato Unima?» Domandò ad alta voce, in preda alla curiosità e al timore allo stesso tempo, in cerca di conferma da parte di qualcuno più esperto di lei.

«Esattamente. Ma a quanto pare esistono ancora organizzazioni criminali che ne fanno uso...»

Le rispose la professoressa Aralia, con tono deluso.

«Organizzazioni criminali, dice?» Fioccò un'altra domanda, questa volta di Anemone.

«Ragazze, vi ricordate?» Iris si illuminò.

La sua memoria selettiva, che ricordava solo le cose più importanti, era il suo asso nella manica.

«...ricordare cosa?» Le arrivò in risposta, con tono acido.

Ovvia confusione generale, mista ad occhiate interrogatorie che sembravano dirle di tacere e non aprire più bocca per sparare sciocchezze a vanvera.
Finché la ragazzina dai capelli violetto non avrebbe completato la frase, nessuno avrebbe capito nulla, come da cliché.

Camilla le rivolse uno sguardo comprensivo; aveva capito che Iris non avrebbe parlato sotto tutta quella tensione.
"Continua." Le disse, poggiandole delicatamente la mano sulla spalla.

Così Iris fece un respiro.

«Tutte voi l'anno scorso ricoprivate il titolo che avevate prima di arrivare qui?
Nel senso, eravate tutte Capopalestra, o Superquattro, o no?»

Eppure ogni minimo dettaglio lei lo ricordava.

 

«Sì, era un anno fa. In estate, una delle tante estati che ho passato a Boreduopoli, con mio nonno.

Eravamo usciti per una passeggiata, quando in mezzo alla piazza si era radunata una grande folla. Una folla trepidante, sottovoce si faceva domande, scambiava commenti silenziosi e osservazioni sarcastiche. 

E a parlare lì in mezzo c'era un tipo dai capelli verdi, molto alto, per mia opinione... affascinante. Come molti vociferavano si faceva chiamare N.
Così, con una semplice consonante, e si diceva fosse il capo di un'organizzazione misteriosa chiamata "Team Plasma".

«I Pokémon sono compagni insostituibili per gli umani... Il loro abuso è contro la legge che dai tempi remoti controlla questa regione... Il nostro legame non dipende dalla forza, ma dall'amicizia... Nessuno deve lottare per i propri fini, o a danno del prossimo...»
Come un profeta predicava queste parole.

Io ne ero rimasta persuasa in qualche modo... La giustizia mi sta molto a cuore e credo che nessuno sia mai riuscito a capire questo concetto più dei Pokémon con cui ho passato molta della mia vita.

Qualche mese dopo quell'incontro nella piazza le cose sono cambiate.

Aristide, un giorno, è stato chiamato insieme ad altri Capipalestra per una missione davvero importante, di cui però ha dato vagamente il resoconto: ha detto solo che nell'organizzazione aveva preso il comando un uomo scellerato, che ha trasformato gli scopi pacifici in un piano di conquista e sottomissione dell'intera regione, causando distruzione e rovina all'interno della nostra cara Unima.

E da quel giorno non si è più parlato di ciò, non si è più parlato di N e di cose come la libertà e la giustizia; tutti hanno finto di dimenticare un pezzo di storia, come se tutto quel disastro non fosse accaduto se non pochi giorni prima.

Team Plasma... Non so se si tratti della stessa organizzazione che ha aggredito Catlina e Camilla... Ma credo che quelle divise non me le scorderò mai più.»

 

«Aspetta... - la fermò Anemone - anche a Boreduopoli ci sono state? Me le ricordo anche io! A Ponentopoli, anche nella nostra piazza, lo stesso N con le stesse reclute! So che era un anno fa perché ho ricevuto la stessa chiamata degli altri Capipalestra!»
Le rispose, entusiasmata da una preoccupazione nascosta.

«La stessa chiamata al castello di N? Strano, non ti ho riconosciuta quando eravamo lì. E dire che dovremmo aver lottato insieme... Certo che mi ricordo quel giorno, ero a letto con il mio ragazzo quando ci hanno chiamati.»

Si intromise anche Camelia, sorridendo a quelle combinazioni del fato.

«Cosa c'entra il tuo ragazzo ed i vostri, come dire, "affari privati" in tutto questo?» Le domandò la rossa.

«Tu invece cosa stavi facendo in quel momento? Qualcosa di meglio?» Controbatté Camelia, con apparenza velenosa.

«Beh, vediamo... Ah, sì che mi ricordo! Ero nella mia stanza che...

Leggevo un manga in cui il protagonista doveva risvegliare un drago da una pietra per salvare il destino del suo paese e sconfiggere i cattivi ma poi rimane bloccato nella trasformazione e rischia di sparire lasciando la protagonista femminile che è segretamente innamorata di lui...
...Ma mi state ascoltando?!» 

La ragazza interruppe il suo farneticare da fanatica sfegatata.

«Allora lo vedi come c'entra anche la tua noiosa e tristissima vita da nerd, Anemone?»
La modella le diede il colpo di grazia.

«Oddio.» Ad Iris venne un mezzo attacco di cuore.

«Cosa c'è?» Le domandò la compagna più grande, leggermente preoccupata.

«Ho letto anche io quel manga.» Ammise lei, fiera di se stessa.

«Ho assoluto bisogno di persone normali con cui conversare, ora.» La mora fece finta di essere sull'orlo della disperazione, coprendosi il viso con le mani completamente sconcertata.

«Parla quella che cambia fidanzato come ci si cambia i vestiti!»

Iris si accorse di aver esageratamente alzato la voce facendo la classica figura della bambina irascibile, ma non poteva farne a meno: sentire la compagna dai capelli neri che parlava incessantemente di tutti i suoi moroso occasionali e delle loro caratteristiche come se elencasse i Pokémon del Pokédex Nazionale la irritava parecchio, visto che non ci voleva molto a capire che lo faceva per vantarsene.

Prima che potesse almeno avere un secondo per respirare, percepì alle sue spalle un:
«Se non vuoi sentire tappati le orecchie, questi non sono discorsi per bambine.»

Ed in risposta anche il fatidico: «Aspetta, ma era rivolto a me o a Iris?» della rossa.

Le tre ragazze più giovani partirono d'improvviso in una feroce litigata, che consisteva pragmaticamente parlando nella sovrapposizione tutt'altro che soave dell'esposizione dei loro punti di vita gridati a squarciagola pur di sovrastare le altre tutt'altro che calme interlocutrici.

«Possiamo far passare dieci minuti senza che una di noi non parli ad alta voce dei propri fatti personali e concentrarci sul problema in se'?»

Chiese Catlina che ormai era esasperata da tutta quella confusione.
Le ragazze ad Unima, a suo parere, erano decisamente molto rumorose nell'indole.

«Tu che stavi facendo durante il momento dell'attacco alla Lega, Catlina?»
Le fu chiesto in modo piuttosto impertinente da Camelia, che sembrava avere intenzioni tutt'altro che benevole nei suoi confronti.

Decise di non risponderle, vista la sua spudorata mancanza di rispetto, ma fece l'errore di voltare la testa troppo velocemente, dando l'impressione di voler evitare apposta la domanda.

«Oh, - Anemone la osservò stupita, poi si rivolse visibilmente stizzito - siete davvero crudeli, la continuate a mettere in imbarazzo...»

Iris volle farsi avanti, sentendo il suo cuore bucarsi a quelle parole così accusatorie. Sapeva che ormai non avrebbe più sopportato osservare sugli altri la sofferenza che aveva provato lei nell'essere ignorata.
«Mi dispiace tanto... Forse stavi passando un momento difficile...» Ma fu interrotta.

«Ma se stavo semplicemente dormendo!» 
Fu una rara occasione assistere alla composta biondina che scomponeva improvvisamente il suo carattere.

«Erano le tre di notte quando l'attacco del Team Plasma è avvenuto, voi non avete seriamente nulla di meglio da fare a notte fonda, se non dormire?!»
Cercò dopo poco le sue dovute spiegazioni più civilmente, con un leggero sconforto nella voce.

«Evidentemente tutte voi non avete niente di meglio da fare, sfigate che non siete altro.»
Camelia scoppiò visibilmente a ridere, mentre Anemone si lasciò cadere letteralmente all'indietro affogando tutta la serietà di quella discussione a cui era appeso il destino della regione.

E poco dopo perfino le due ragazze più anziane decisero di rompere quella scena di serietà forzata.

Solo i supereroi, i guerrieri e i duri a sangue freddo sanno affrontare le situazioni di massima difficoltà senza piangere e ridere, guardando sempre dritto, senza fermarsi o indugiare.

Ma loro erano comunque ragazze, dopotutto.

Affrontare la realtà con quello stoicismo spaventoso non faceva per loro, assolutamente no.

Il passato, ovvero gli eventi trascorsi e non più modificabili, non è una via stretta e individuale, propria di ciascuna persona. Il passato è più definibile come un enorme labirinto dove nessuna curva, nessun sentiero e nessun muro è uguale e dove ogni minuscolo essere umano dissemina le proprie esperienze di vita.

Basta solo però che due persone si incontrino per pura casualità nel medesimo punto per ritrovare quell'unico sentiero fatto di ricordi comuni ed esperienze vissute contemporaneamente per ripercorrere una strada di stadi e conseguenze che si ripercuotono nel presente. 

Il destino, invece, subentra solo nella parte in cui le due o più persone si rincontrano, chissà dove e chissà quando, per ricordare il loro passato insieme.

Iris, Camelia ed Anemone avevano avuto come punto comune la stessa origine, l'essere state presenti nella stessa regione nello stesso predestinato momento, ed aver vissuto insieme la sciagura del Team Plasma.

Mentre le tre ragazze stavano cercando di chiarire, di esporre e mettere insieme il poco che sapevano alla professoressa sorse un dubbio.

«Se tutte e tre siete a conoscenza di questo "Team Plasma", è possibile che i delinquenti che hanno aggredito le vostre compagne siano la stessa organizzazione?»

La domanda necessitava davvero di una lunga riflessione.
Calò il silenzio, per facilitarla.

Con il coraggio di un legame dal passato Iris provò a rispondere, con la stessa concentrazione necessaria per un difficile compito in classe.

«Beh, sappiamo entrambe che erano vestiti di scuro... È qualcosa.»

«Tutti i membri di organizzazioni criminali si vestono con colori scuri. È troppo vaga come ipotesi.
Anche il Team Galassia che aveva creato tutto quella confusione a Sinnoh qualche anno fa era perennemente vestito di nero, e con questo?»
La contraddisse Catlina, in modo fermo. Sperava con tutto il cuore che lei e Camilla non fossero le vittime di gente tanto infame.

«Non c'è qualcosa di più distintivo? Non lo so... Tipo un accessorio, un simbolo, una scritta... Insomma, qualcosa che nel giro di un anno non sia cambiato...»
La incitò Anemone, che si stava davvero interessando alla faccenda, ed aggiungendo:
«Oddio, mi sento troppo in una di quelle serie lunghissime ed intricatissime sui detective.»

E ancora, fu Camilla a dare prova della sua intelligenza, che non riusciva a far tacere, anche se la sua ipotesi potesse essere sbagliata. Prima si prova, poi si cambia idea.

"Potrebbe essere qualcosa come una Spugna di Menger sul fianco sinistro?"

Disse con tono profondo, attirando l'attenzione di tutto il gruppo, come faceva sempre grazie al suo carisma.

Si riferiva allo strano accessorio di Georgia, che doveva aver ereditato dal leader precedente.

«Una che cosa?!» Partì acida come un pompelmo la domanda di Camelia.

«La Spugna di Menger, frattale tridimensionale derivato dal tappeto di Sierpiski e dimostrazione topologica del teorema di Cantor; definizione: il cubo unitario è uguale alle tre dimensioni del cubo ovvero altezza, larghezza e profondità rappresentate da tre numeri sottratte ai tre enti geometrici basilari cioè punto, linea e piano a cui si aggiunge il solido completo che appartengono all'insieme erre dei numeri reali e si rappresentano rispettivamente con zero, uno, due e tre; e dal teorema di Heine-Borel scopriamo che possiamo ricavare il suo spazio frattale...»

«Anemone, ma ti sembra vagamente una spiegazione comprensibile ad un essere umano dotato di intelligenza, diciamo, normale e vita sociale?!»

«Si chiama, diciamo, - caricò particolarmente tale espressione, pur di farla pesare alla compagna il più possibile - "matematica" e la insegnano a scuola, certo che Camelia, a volte sei proprio bionda dentro!»

«...era un insulto a noi ragazze bionde?» Domandò timidamente Catlina, che si osservò i lunghi capelli simili a fili di seta con un certo disgusto apparente.

A quel punto la ragazzina dal kimono viola si rese finalmente conto di non sapere più che discorso stessero seguendo la sua mente e le sue orecchie (che non si era tappata, nonostante il presagio nefasto dei precedenti ed innumerevoli fidanzati di Camelia come principale argomento di conversazione). Si sentiva severamente confusa.

E piuttosto inutile, sebbene non ritenesse altrettanto necessari tutti quegli scambi di battute dai quali si era volontariamente distaccata non comprendendone ne' la causa ne' le conseguenze.

Serviva davvero un moderatore in quei momenti, come nei simposi greci era sempre il padrone di casa a destare gli ospiti ubriachi e furibondi dalle loro ciance per indirizzarli verso argomenti di conversazione più seri ed utili.
Tale ruolo fu impersonato, senza farla aspettare troppo dalla leader in persona.

«Ragazze.»

Disse con assoluta calma e gentilezza, al contrario dell'urlo poderoso ed intimidatorio che Iris si sarebbe augurata di sentire.
Tuttavia l'effetto fu lo stesso ma senza perdite inutili di voce, con le tre giovani litiganti che si girarono diligentemente verso la bionda, ammutolite di colpo.

«Immaginate un cubo.» Esortò il gruppo Camilla, figurando un cubo immaginario con le dita.

Siccome ciò che la ragazzina aveva chiesto interiormente con particolare ardore era una spiegazione facile da seguire e poco confusionaria iniziò subito il ragionamento, immaginando prima un cubetto di ghiaccio, una zolletta di zucchero e infine un banalissimo ed astratto cubo di legno, come trasportando il mondo delle idee dentro quello delle cose concrete, nel suo cervello.

«Ora immaginate di tagliare questo cubo in ventisette cubi più piccoli, come un cubo di Rubik.

Ora viene il bello: bisogna rimuovere il cubo centrale di ogni faccia e in più quello più nascosto al centro. E poi fate la stessa cosa con i cubi che sono rimasti.

E andate avanti su tutti gli altri, sempre più piccoli, fino ad arrivare ad ottenere cubi di dimensioni infinitesimali.»

Tutte e cinque seguirono attente quel ragionamento.

«Ma sapete cos'è davvero interessante della Spugna di Menger?»
Qui Camilla lasciò trapelare decisamente molto più entusiasmo e senza indugio riprese a parlare.

«Il fatto che contemporaneamente esista e non esista.

Certo, la sua area frattale si può calcolare tranquillamente con la formula che Anemone aveva accennato, è un numero che va via via diminuendo in base ai cubi che si rimuovono fino ad essere infinitamente piccolo, ma il rapporto dell'area totale e del numero di cubi creati è un numero reale: il numero uno.

Però tutto questo non sarebbe mai possibile nella realtà.
Se togliamo tutti quei blocchi, quell'oggetto finisce per scomparire, no?

Che paradosso, la sua area è zero ed uno contemporaneamente.
È materia ed antimateria, ente e nulla allo stesso tempo.
Credete che sia un caso il fatto che...»

Iris stava davvero per gridare dalla sorpresa.

Lo sapeva: quella... Cosa, per cui Camilla si era disturbata a trovare un nome, la indossava anche il tizio dai capelli verdi! Non ricordava precisamente se la portasse sul fianco destro o sinistro, ma il fatto che quella Campionessa avesse intuito il suo stesso ragionamento la sbalordiva.

Non poteva essere telepatica quella ragazza... Ma a lei non importava.

Iris scusava la sua inferiorità semplicemente con il fatto che Camilla fosse perfetta, e che le persone perfette facciano le cose perfettamente nel momento perfetto, grazie alla loro perfezione: l'anafora delle scuse palesi, insomma.

«Si! Esatto. Me la ricordo perfettamente: aveva detto, intendo, N aveva detto che era una metafora di un mondo infinito, una specie di utopia che c'è ma non è realizzabile e che nasce dai tre fattori di collaborazione, lealtà ed empatia... Più o meno come Anemone ha detto.»

«Che dolce, hai davvero ascoltato il mio discorso?» Le chiese la diretta interessata.

«A-A dire la verità ho capito solo che hai detto qualcosa sul tre e... poi mi sono persa. Sono una frana in matematica. E in scienze. E in letteratura.
Però non sono bionda.»

Ammise Iris, conscia di star causando chissà che danni psicologici all'amica rossa.

Tuttavia Camelia strofinò affettuosamente la testa color scarlatto della pilota, che le sorrise.
A quest'ultima faceva davvero piacere che fosse proprio Camelia ad apprezzare il suo ragionamento, le sorse persino la speranza di poter ricambiare con delle lezioni accelerate di matematica topologica a tutte le volte Camelia le stava dando una solida istruzione nella materia in cui era sicura di avere un profitto piuttosto carente, l'amore.

La professoressa si riprese dallo stupore di vedere un gruppo di avversarie così unito e annunciò ciò che ormai era ovvio, distraendo le cinque da quell'apparente tranquillità.

«Allora è confermato? Team Plasma, giusto? Credo che vista la ferocia delle sue reclute avrete del filo da torcere.»

Per confermare la loro ipotesi, la professoressa avrebbe ovviamente svolto adeguate ricerche una volta ritornata al suo laboratorio.

Era davvero preoccupata per quelle giovani Allenatrici: era un vero peccato che dovessero affrontare una serie di torture dalle quali erano totalmente innocenti.

Certo che la giustizia non è proprio di questo mondo.

«Abbiate cura di voi stesse. La regione di Unima ha fiducia in voi.»
La professoressa se ne andò, lasciando le ragazze con ancora dei dubbi.

 

I silenzi non erano più così frequenti per le ragazze. Avevano capito che la comunicazione fra di loro era tutto, dato che non sapevano ancora intendersi al volo.

Cercarono tutte per l'ennesima volta l'aiuto di Camilla, che sembrava già avere la risposta.

Iris si domandò un attimo se Camilla non si sentisse esaurita da tutta la fiducia che veniva riposta in lei.
Doveva avere abbastanza sicurezza di non deludere nessuno in quel suo cuore gentile e coraggioso.

Intravedeva attraverso la stoffa bianca del suo yukata le fasce che racchiudevano le ferite, e avrebbe fatto, nel suo piccolo, qualsiasi cosa affinché avesse avuto vendetta.

«L'unica cosa che possiamo fare è stare in guardia. Non abbiamo informazioni in merito a tutto questo, ma se continuiamo ad allenarci saremo in grado di evitare altri attacchi a sorpresa.»
Concluse la Campionessa, sistemandosi il ciuffo biondo sull'occhio sinistro.

«Si, ma tu hai idea di come funzioni una lotta violenta? Io, personalmente, non ho mai lottato per uccidere un Allenatore.» Le ricordò Camelia.

Nessuna di loro cinque aveva nel cuore talmente tanto odio e mania di sangue per uccidere. Erano tutte troppo innocenti, troppo immotivate.

La Campionessa rifletté un attimo.
«Sarei davvero curiosa di sapere da dove sono nate queste lotte violente...»

Ancora, Iris si ricordò di qualcosa.

La sua mente aveva viaggiato nel tempo per la seconda volta e aveva riportato alla luce un tesoro che all'apparenza pareva una vecchia cianfrusaglia senza valore.

Una canzone.
Una canzone che ricordava intonare con la sua voce acuta e nasale quando era bambina.

Quando era piccola non faceva caso al significato delle parole, ma ora che ci rifletteva, prendendo singolarmente ogni frase si componeva il vero senso della storia.

Se la ripeteva in mente, avendo capito perché da generazioni e generazioni i bambini della regione di Unima la cantassero e ripetessero come un gioco.

In qualche modo i legami del tempo erano stati capaci di connettere la ragazzina ad un passato lontano e dimenticato... E di disconnetterla dal mondo reale.

Iris infatti non si era accorta di stare canticchiando a bassa voce, finché non si sentì scrollare con forza le spalle.

Appena riprese conoscenza non poté fare a meno di sprofondare in un intuitivo imbarazzo.
Eppure nessuno la stava deridendo. Un vero e proprio miracolo?

No. Iris doveva togliersi dalla testa che quelle cinque fossero ragazze normali, disposte a prendere in giro qualsiasi gesto di cui non conoscevano la motivazione.
Come lei, volevano la giustizia.

«La canzone che stavi cantando... La conoscete anche a Boreduopoli? Non lo sapevo! Credevo che l'avessero inventata a Ponentopoli.»

«Non credetevi unici, la sappiamo anche noi del centro di Unima.»

«Ehi, voi di Sinnoh la conoscete?»

«Si, è abbastanza famosa anche nella nostra regione.»

«Se una canzone è un grande pezzo di storia non può passare inosservata, giusto?»

Le ragazze si guardarono e sorrisero.
Lo sapevano che in un modo o nell'altro condividevano tutte lo stesso passato.

 

"Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
La Pokéball dove andrà sei io la lancerò? 

Nella regione viveva un vecchio e saggio re, padre di due giovani cavalieri:
Uno era bianco come la verità, l'altro nero come gli ideali,
Tra i due una guerra scoppiò, e... e... Un Drago si risvegliò. 

Fuoco, lampi, venti, fulmini,
La terra si copre di rosso sangue, mentre il Drago brucia tutte le città. 

Il Cavaliere Bianco era forte e gentile, voleva per tutti una sola verità,
Il Cavaliere Nero era un vero uomo che combatteva per le proprie idee.
È un vero peccato che... alla fine... Morirono entrambe. 

Si corre, si scappa, ma tutti vedono che la regione è morta insieme a loro.
Un Allenatore piange sotto la luna. 

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
Lanciamo la Pokéball verso la libertà!"

 

«Ora capisco...» Sospirò Camilla.

 

La giornata era ancora lunga, ma dopo tutti quei discorsi Iris non aveva la minima voglia di cominciare gli allenamenti pomeridiani.

Quello che la aspettava lo sapeva: lotte per incrementare l'attacco, la difesa, la velocità, la resistenza... E poi sempre contro le sue quattro compagne, le stesse di ogni giorno, sempre bravissime, sempre fortissime.

Da quando era lì e Nardo aveva insistito affinché le ragazze lottassero una contro una, Iris non aveva vinto una sfida.

Anche se si impegnava non poteva certamente confrontare la propria abilità in lotta con quella di due Capopalestra, una Superquattro e perfino una Campionessa, come una formica non può assolutamente misurarsi contro un elefante.

A dire la verità il problema erano lei e la sua eccessiva competitività: questo è uno dei peggiori veleni che possono intossicare il cuore di un Allenatore.

Come in ogni competizione, in lotta si vince e si perde.

Accettare l'esito di una lotta significa trattenere una parte di sé, in modo che i propri sentimenti non feriscano in nessun modo l'animo del proprio avversario: se si vince si trattiene l'orgoglio e la vanità, se si perde si trattiene la rabbia e la delusione, se si pareggia la frustrazione e l'indifferenza.

Ciò che rende una lotta indimenticabile (che si tratti di Pokémon o di vita) non sono le mosse o l'esito, ma i sentimenti trattenuti nel proprio cuore, che si imprimono nella memoria come un ricordo eterno: se però questo ricordo diventa pesante, aspro, pieno di rimorsi e di umiliazione si desidera poterlo modificare.

La ragazzina di soli quindici anni riteneva di aver ricevuto più sconfitte che vittorie nel corso della sua vita.

Ognuna di queste sconfitte si era impressa in lei e gli errori involontari che l'avevano portata al fallimento non smettevano di tormentarla neppure fuori dalla lotta.

Era un comportamento davvero infantile, lo sapeva, ma Iris non sapeva perdere.
Eppure veniva sempre descritta come una ragazzina solare, gentile, altruista... ma che odiava che le sue debolezze fossero mostrate agli altri.
Nessuno doveva avere accesso al suo dolore, e finché gli altri non lo vedevano neppure lei lo vedeva.

Eppure il suo rifiuto di lottare era ingiustificato dal momento che le quattro ragazze si dimostravano abbastanza gentili e comprensive nei suoi confronti, senza prenderla in giro o commiserarla (ad eccezione di Camelia che ormai traeva un sadico divertimento dal suo bullismo contro di lei).

Ma Iris voleva di più, spinta dalla sua stessa curiosità.

Davvero la potenza che Anemone, Camelia, Catlina e Camilla utilizzavano nello sconfiggere lei e la sua squadra era sufficiente a vincere una vera lotta?

Iris voleva vedere quelle giovani nel pieno delle loro forze, utilizzare i loro Pokémon più potenti e mettere in atto le strategie che rivelassero la loro astuzia e bravura in lotta.

Sapeva che le ragazze fanno di tutto per abbattere i loro rivali, e qualora le fosse capitato di vedere Allenatrici professioniste affrontarsi in delle lotte in cui la vittoria e la sconfitta sono ad un passo l'una dall'altra ne avrebbe tratto insegnamento.

«Le mie compagne... Come si comporterebbero in una battaglia violenta?»
Si chiese fra sé e sé.

Ogni passo della ragazza risuonava nel terreno in un calpestio di erba frusciante e foglie cadute.
Il sole era alto nel cielo: non aveva idea di come passare qual pomeriggio. 
Aspettava solamente che quel sole calasse e mettesse a tacere tutti gli impicci della giornata nell'oscurità della notte.

Fare la strada più lunga, quella che attraversava il piccolo bosco, era una buona idea per perdere tempo.

Ma un rumore imprevisto mise all'erta la ragazza.

Da quando aveva sentito dell'attacco nell'onsen Iris non riusciva a liberarsi dalla preoccupazione di venire attaccata dal Team Plasma e di restarci secca.

Le pareva ingiusto che dovessero uccidere proprio lei, trucidandola poi per mezzo dei loro Pokémon.
Perché quell'organizzazione aveva rinunciato al suo obiettivo di pace e unione per darsi alla fantomatica e banale "conquista del mondo"?

Iris però era già pronta per combattere, con la Pokéball in mano.

Se doveva morire voleva almeno lottare con tutte le sue forze la sua ultima lotta, perché anche se fosse stata sconfitta il suo cuore morto non avrebbe ricordato alcuna frustrazione: solo l'ultimo e preziosissimo orgoglio di essere morta per una giusta causa.

Si mosse con cautela, la massima attenzione a non cadere in un imboscata, l'adrenalina alle stelle. E riecco, il rumore che prima aveva riecheggiato attraverso la foresta.

Era simile ad un ruggito.

Iris sentì un brivido lungo la schiena e nello stomaco una crescente ansia.

Sul suolo avvertì un fortissimo tonfo, mente ciottoli, terra, rami e foglie si alzavano dal terreno di alcuni centimetri costringendola a gettarsi a terra, senza neppure il tempo di gridare.

«Mi hanno trovata, mi hanno presa, ora mi uccideranno.»
Pensò, con una lacrima sospesa a metà dell'occhio.

 

 

«Però... Certo che siamo davvero intonate! Noi cinque dovremmo creare un gruppo di idol.»

«Iris, con le tue steccate sulle note alte? Neppure il sintetizzatore ci potrebbe salvare.»

«Se dovessimo creare un gruppo io sarei comunque la prima a lasciarlo.»

«E che scusa ti inventeresti?»

«Bullismo da parte delle compagne!»

«Credimi, sei io fossi la solista del gruppo venderemmo talmente tante copie da costringerti a chiudere la bocca e farti cantare solo con i microfoni spenti!»

«Camelia, i fan ti apprezzerebbero di più se ti limitassi a sorridere, annuire e mostrare le tue tette ad una massa di pervertiti.»

«Appunto. A differenza tua a me non serve saper cantare finché ho la bellezza per guadagnarmi i fan. Quindi direi che mi accontento del ruolo di faccia-carina del gruppo.»

«Parli come se in campo musicale constasse solo essere belli per avere successo...»

«Dai, non essere così pessimista: anche in campo politico, artistico, personale e del marketing conta solo la bellezza, davvero credevi che cose come il talento e la passione possano rimediare la mancanza totale di tette e carisma?»

«Ma certo, come puoi provare che non è così?»

«Le vendite, tesoro, dai un'occhiata agli indici di vendite dei miei photobook!»

«Ritiro tutto, meglio una carriera da solista!»

«Certo che è davvero divertente prenderti in giro!»

La canzone è un fandub ispirato alla canzone tradizionale giapponese "Edo no Temari Uta" ("La canzone della palla del periodo Edo" letteralmente).
La canzone, un ritornello pensato per i bambini, racconta sinteticamente degli eventi storici più importanti del periodo Edo, che si può collocare nel periodo storico in cui il Giappone era un impero feudale. Ho utilizzato la base della canzone sostituendo le parole riferendole al mondo dei Pokémon. (Per chi volesse ascoltare la canzone originale, consiglio vivamente la versione del gruppo °C-ute).
Lo scopo era di evitare un lungo flashback per raccontare la storia della regione di Unima, ma nel caso ci fossero incongruenze o incomprensioni vi prego di segnalarle.

 

 

Behind the Summery Scenery #6

 1. L'idea delle "battaglie violente" nasce dal fatto che Pokémon è una serie davvero troppo poco violenta, e mi serviva il fattore "violenza e sangue a caso che fanno proprio figo e attirano il pubblico, e poi posso strappare i vestiti delle ragazze con le mosse e lasciarle in intimo - ok, dimenticate l'ultima cosa che ho detto...

2. Anche qui sono stati aggiunti dei piccoli siparietti fatti a dialogo fra le ragazze.

3. Il manga a cui fa riferimento Anemone è ovviamente quello di Pokémon Adventures Nero e Bianco. Quindi su, non fate i tirchi, andate in edicola e dategli una letta, o dico alla vostra mamma che avete salvate nel telefono le doujinshi hentai di qualche ecchi di seconda serie - cosa?! Ancora riferimenti impliciti alle abitudini poco ortodosse dell'autrice?!

4. La storia della Spugna di Menger che indossa N e le nozioni di matematica sui frattali topologici sono in parte corretti, in parte scopiazzati da Wikipedia. Sinceramente, questo serviva a farvi capire che Camilla non è scema. Lo avete capito alla fine, mi auguro.

5. Il "flashback" che ha avuto Iris è uno scorcio aggiuntivo che avranno tutte le protagoniste oltre alla vera e propria backstory, che si focalizza su eventi più recenti e connessi ad una specifica situazione canonica.

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Capitolo 7
*** Tale la natura degli uomini, quale quella dei Pokémon ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 7

Tale la natura degli uomini, quale quella dei Pokémon

 


Un boato, un ruggito, e un tonfo si mescolarono insieme, creando un frastuono assordante, abbastanza forte da impedire ad Iris di sentire il suo stesso urlo.

Un polverone color ocra si era alzato e l'odore di terra calda inebriava l'aria. Per la ragazzina dai capelli viola alzarsi e riprendersi dalla confusione pareva impossibile.
Mosse leggermente braccia e gambe: nulla di rotto, per fortuna.

Allora si rialzò in piedi, tremando come una foglia in preda al panico. Dove poteva scappare se ormai si sentiva già morta?

Tutto le sembrò normale apparentemente, e si sentì proprio stupida per aver davvero pensato di essere in pericolo di vita. Poi si accorse di ciò che era effettivamente accaduto.

«Un... Dragonite?» Sussurrò piano, in preda alla paura.

Le era noto che spesso i Pokémon tipo Drago si affrontavano per la conquista del territorio in battaglie molto cruente e che il perdente spesso veniva scaraventato a terra dal vincitore, in segno di sconfitta. La natura è molto crudele, ma il suo ciclo è inevitabile.

Il drago, dalle squame color ambra, che riflettevano l'arancio acceso sotto il sole, giaceva a terra, struggendosi in un'agonia spaventosa.

Pareva piuttosto indebolito... Abbastanza da essere catturato.

Dopo aver avuto la grazia di essere ancora viva dopo quell'impatto, Iris pensò che incontrare per caso un esemplare così raro e potente e non catturarlo sarebbe stato un vero e proprio spreco di tempo.

«Una vera macchina da guerra mi capita davanti e io non ne approfitto?»

Davvero, l'eccitazione di allenare un Dragonite le dava alla testa.

Tutta la potenza e l'agilità le poteva sfruttare senz'altro per sconfiggere le sue compagne e guadagnarsi la loro ammirazione. Non era motivata da alcun odio, ma Iris desiderava talmente tanto vincere ameno una lotta da essere disposta a tradire i suoi vecchi precetti di allenamento ed impegno.

«E poi dicono che la vittoria non ti piove dal cielo... Axew, vai!»

Ce la poteva fare: Dragonite era già più che indebolito e per catturarlo sarebbero bastati tre o quattro leggeri attacchi da parte del piccolo draghetto verde della ragazza.

«Dragospiro!»
Il suo Pokémon eseguì l'ordine alla perfezione.

Se era un ordine della sua Allenatrice non poteva farsi intimidire da nulla; nonostante la sua stazza, quel piccolo Axew aveva affrontato tutte le lotte senza mai arrendersi, senza mai pensare di doverne per forza uscire sconfitto. 
Certe volte anche gli Allenatori dovrebbero imparare dai loro Pokémon.

Il Dragonite dalle squame dorate invece appariva sempre più innocuo e calmo.

«Pokéball, vai!» Gridò eccitata.

Già era curiosa di conoscere le sue mosse in lotta.

La sfera rossa colpì il corpo del Dragonite, ma non fece il suo dovere, rimbalzando senza eseguire alcuna cattura.
Iris esitò, trattenendo un respiro nei polmoni. Come poteva essere?

«Maledette sfere ultra-commerciali da quattro soldi... Perché non posso permettermi delle Ultra Ball, ugh.» Pensò stringendo i denti.

La belva dalle squame color ambra si alzò lentamente dal terreno, sollevando ancora una polvere terrosa, muovendo il fogliame fitto di quel bosco. Si mise con un po' di fatica in piedi, e con un ruggito disperato mostrò alla ragazzina il corpo pieno di ferite e lercio di terra.

Aveva sentito la cattura, aveva percepito la sfida: e come ogni Pokémon selvatico aveva l'istinto di difendere la propria libertà lottando.

Emise ancora il suo verso, più agguerrito e inferocito di prima.
Axew tornò diretto sulle spalle della sua Allenatrice, che lo strinse al petto per proteggerlo.

Iris non aveva la minima idea di che cosa fare: non aveva il tempo per rimpiangere di aver tentato una cattura così azzardata, o di aver saltato gli allenamenti, o il classico rimpianto dell'essere semplicemente lì in quel momento.
La paura la costrinse però ad un attacco forzato, pensato solo a scopo di difesa in quel momento disperato.

«Axew, Ira di Drago, presto!» Gridò spaventata.

Il suo Pokémon eseguì l'attacco, ma la potenza di quel Dragonite si alimentava con la frustrazione della sconfitta precedente.

Avanzava minaccioso e Iris non aveva la minima speranza di sconfiggerlo, o di come fuggire lo scontro.
Lo sentiva attaccare ed il suo cuore scandiva un ritmo improponibile per mantenere la calma.

Il peso della sua tracotanza lo sentiva, la paura ormai l'aveva catturata come se quel momento sarebbe dovuto durare a vita; indietreggiando aveva cacciato diversi urli confusi e strazianti.

"Aiutatemi!"... A chi poteva gridarlo in quel momento?
E soffocò le sue lacrime, come una bambina.
 

Una voce ruppe la paura. Una voce sicura. Seria. Adulta.

«Garchomp, Pietrataglio!»

Iris si era già gettata in ginocchio, sotto la polvere e i sassi che il drago arancio aveva alzato con la sua ira.

Sotto i suoi occhi una pioggia di pietre si era scagliata contro il Dragonite iracondo, che cadde violentemente sulla terra, spargendo altro fumo caldo e soffocante nell'aria.
L'ennesimo impatto, l'ennesimo attacco di cuore per Iris.

La presenza che l'aveva salvata pareva irriconoscibile in quell'istante travagliato.
Ma la voce la conosceva, continuava solo ad ignorarla presa dall'imbarazzo.

Strizzò le palpebre, chiudendo gli occhi a forza e tese una mano. Non aveva più desiderio di difendere alcun orgoglio, voleva solo far passare quel momento di puro terror.

Ed ecco. La mano piccola e tremante della ragazzina dai capelli viola fu catturata da un arto più forte, più deciso e leggermente sudato, ma dal tocco delicato e generoso. Iris si sentì trarre, come se quella salvezza divina la trascinasse verso l'alto per salvarla dall'annegare in un ipotetico oceano di disperazione.

Tirò un sospiro di sollievo. Poi sentì il contatto di un corpo e delle braccia avvolgere la sua schiena. Riaprì gli occhi a fatica e la situazione le parve tanto strana quanto banale, come se si trattasse della classica scena di un manga.

Lei. impaurita, rigida come un giunco, che stava fra le sue braccia forti e protettive, e la guardava fissa negli occhi, in cerca di fiducia e aiuto.

E... Lei. Che la teneva stretta al petto e le sorrideva gentilmente, come sempre.

«Camilla... - Con una carezza, la Campionessa la scostò da sé - ...sei così calda... Non mollarmi, ti prego.»

La giovane donna si sistemò il ciuffo biondo sull'occhio sinistro, il ciuffo ribelle che non riusciva mai a pettinare in linea con gli altri e che finiva sempre per ricaderle sul viso; invece i capelli di Iris stavano sempre ben ordinati e raccolti.

Sulla terra umida e smossa, notò una Pokéball rossa, e la raccolse.

Ora aveva capito le vere intenzioni di Iris. E le avrebbe assecondate, se lo meritava.

Aveva intuitivamente capito che aveva tentato una cattura, nonostante fosse al di fuori della sua portata. Ma nonostante questo, chiunque tenti un impresa per confrontare i propri limiti secondo lei meritava un premio: del resto anche lei era solita fare così, quando aveva qualche anno in meno.

Dragonite ora era davvero allo stremo: l'attacco Pietrataglio era super efficace contro un Pokémon tipo Volante e Drago e doveva per forza averlo privato di tutta l'energia di cui disponeva.

Gettò la Pokéball in silenzio, esibendo un fiero sorriso.

Questa si mosse un poco. Poi uno schiocco sordo, e lo catturò.
Raccogliendo la sfera, la nube di polvere e terriccio si diradò.

La giovane donna dopo aver ritirato il suo fidato Garchomp dalla battaglia, si avvicinò alla ragazzina, la trovò in ginocchio; le accarezzò la testa e le porse la Pokéball, contenente il suo ambito premio. Si guardarono un attimo negli occhi.

Ma Iris sospirò, chinando il capo.

«Camilla... Non posso accettarlo. - e le tese il maledetto Pomo della Discordia, che non era assolutamente degna di tenere in mano - Perché sei venuta fin qui... A, uhm, salvarmi?»

Non valeva la pena porsi domande sulla ragione per cui si fosse scomodata nel cercarla. Non erano avversarie? Non combattevano entrambe per lo stesso titolo di Campione? Lei al suo posto non avrebbe approfittato di avere come compagna una debole di cuore?

Camilla le porse la mano per rialzars, e le appoggiò la Pokéball di Dragonite sulle mani per la seconda volta.

«Ho riconosciuto la tua voce. Ma per trovarti sono andata ad istinto.»

Ad istinto... Non aveva senso. Perfino Camilla lo aveva capito.
Eppure non aveva ancora focalizzato ancora il perché avesse interrotto l'allenamento così, di punto in bianco, per andare a soccorrerla.

«Questo Pokémon è tuo. Prendilo, lo hai catturato tu.» Le ripeté la giovane Campionessa.

Iris rifletté un attimo. Si sforzò di sorridere e di fare la persona matura.
«Starebbe meglio nella tua squadra, fra altri esemplari forti.»

«Nessun Pokémon è forte per natura; i Pokémon sono obbligati combattere per rinforzarsi ed evolversi. Come si fa a diventare forti senza prima aver sperimentato la debolezza? - la ragazza levò un respiro profondo - E se non esistesse la frustrazione, come potresti gioire di una vittoria?

Bisogna guardare al futuro, cercare i propri errori e sfruttare i punti di forza.
Vivere nel passato e nelle sconfitte passate significa serbare rancore verso se stessi e verso gli altri.
Sorridere al domani, anche se si ha pianto lacrime amare la sera prima... è così che si cresce.»

Camilla si era lasciata troppo andare, per l'ennesima volta. Quelle riflessioni le faceva da sola nella sua mente, ma la sua bocca le ripeteva ad alta voce, per convincerla pienamente di ciò che stava dicendo.
Era un brutto vizio il suo, un'imperfezione nel suo carattere. Non poteva farne a meno però.

«Scusami, certe volte dico tutto quello che mi passa per la testa...» Disse, ridendo.
Non se ne vergognava affatto. Nessuno è perfetto, neppure Camilla Kuroi.

Iris era rimasta davvero affascinata da quel dolce difetto.
Le parole di Camilla la facevano riflettere, il tono di voce profondo penetrava nei suoi pensieri.
Ripensò istintivamente a tutte le volte che si sentiva frustrata, inferiore e oppressa dalle sue sconfitte e alla reazione che aveva nei loro confronti.

Poi riguardò per l'ennesima volta il sorriso di Camilla.

«Capisco... Io sto facendo del mio meglio.» Disse un po' intimidita.

«Lo vedo. Nardo ha detto che sei davvero migliorata in queste settimane. - a quel punto Iris si stupì di quante inutili storie sull'essere una nullità aveva inventato invece di impegnarsi per davvero - anche le altre continuano a ripeterlo... Parlavano giusto di te mentre me ne sono andata, dicono che sono contente del tuo impegno e della tua simpatia. Ti considerano fortunata.» 
Disse gentilmente.

Iris subito si illuminò, come una lucciola appena cala il sole.
«Dici davvero?» Le rispose tutta eccitata.

Camilla le sorrise annuendo. Poi le venne un'idea, per convincere la sua piccola apprendista di essere davvero dotata di un certo talento.
Fece uscire Dragonite dalla Pokéball. Il drago, le cui condizioni erano leggermente migliorate, si guardò intorno sbigottito.
Fece segno ad Iris di posizionarsi esattamente di fronte a lei, allontanandosi di un po' di passi. La ragazzina eseguì l'ordine, senza contestare.

«Allora Dragonite, adesso devi scegliere chi di noi due sarà la tua Allenatrice. Scegli: preferisci stare in una squadra dove vincerai o in una squadra dove migliorerai?»

Camilla si sedette a terra, in silenzio. Iris fece lo stesso.

La ragazzina fissava il terreno, ed ogni tanto alzava lo sguardo verso la giovane donna.

Il suo yukata bianco aveva dei fiori ricamati; cercava di evitare lo sguardo verso la scollatura, ma non ci riuscì: si ricordò del primo giorno, di come i suoi occhi avessero fissato vogliosamente il seno della ragazza.
Ora invece vedeva che in quel corpo divino risiedeva anche lo spirito più dolce che avesse mai riscontrato in una ragazza più vecchia di lei: nessuna presunzione o lamentela, solo un cuore altruista e aperto.

«Va' da lei Dragonite, per favore.» Pensò.

Ma il Pokémon era ormai diretto verso di lei.
Istintivamente si rammaricò, poi rilassò il suo corpo irrigidito e cominciò ad accarezzargli il muso.

Non era spaventata: nella Palestra di suo nonno aveva accarezzato più volte i suoi Pokémon di tipo Drago, per quanto sembrassero grandi o minacciosi.
La conoscevano da tanto tempo, sapevano quanto fosse pura di cuore quella ragazza.

Intanto un sorriso si era formato sulle sue labbra. Un nuovo membro per la sua squadra, un nuovo amico con cui condividere emozioni ed esperienze.

 

Il pomeriggio in cui la giovane Campionessa aveva aiutato la sua apprendista a ritrovare la fiducia in se stessa non era ancora finito: infatti se si sbrigavano, potevano ancora concludere con la parte finale dell'allenamento senza che Nardo notasse la loro negligenza per la seconda volta.

Nessuna delle due aveva voglia di tornare in quel buio garage che le aveva tenute in punizione per una causa ingiusta.

Mentre camminava nella foresta, Iris poteva abbozzare delle conversazioni con la ragazza. Con lei poteva davvero parlare di cose serie, di ciò che la preoccupava, di ciò che desiderava nel profondo del cuore, di tutto quello che una quindicenne poteva serbare nel suo cuore adolescente.

Era felice che le sue compagne fossero così diverse caratterialmente: con ognuna poteva volgere le sue conversazioni dove voleva, dandole un'elasticità di personalità la quale procurava un vero sollievo al suo animo.

Finalmente cominciava a sentire quei legami. Lo disse a Camilla, aggrappandosi al suo braccio.

Questa le rispose mettendole la mano sulla spalla.
«Ho sempre pensato che noi fossimo destinate a diventare un gruppo.»

Prima di giungere a casa di Nardo, Iris si distaccò un secondo dalla ragazza.

«Camilla, posso mostrare a Dragonite le nostre compagne?»
Pareva una richiesta un po' strana, ma ora la Campionessa aveva piena fiducia in lei.

«Certo, vado ad avvisare il resto.» E la lasciò.

Iris fece uscire Dragonite dalla Pokéball.
Questo si dimostrò subito mansueto e continuò a lasciarsi accarezzare dalla ragazzina.

Iris indicò con l'indice il campo di battaglia dove le sue tre compagne si erano allenate fino ad ora. E decise di confidarsi con il nuovo membro della sua squadra.

«Guarda, quelle sono le mie compagne. Camilla, Anemone, Camelia e Catlina.»

Subito Dragonite la guardò impietrito. Cinque nomi erano tanti da ricordare per una creatura così bruta. Con un verso confuso fece capire alla sua Allenatrice la sua incomprensione.
Iris sospirò, e cercò di spiegare a quel Pokémon ciò che il Pokémon conosceva fin dalla nascita: la natura.

«Allora... Capelli neri, yukata giallo, Camelia.
Un po' come i tuoni, di notte.
Appaiono durante i temporali ed illuminano con un bagliore luminoso, accecante e bellissimo la terra, prima di colpire il suolo con la loro potente scarica elettrica.
Poi però svaniscono nell'oscurità, sotto la pioggia... Per rimostrarsi qualche secondo dopo, ancora più potenti di prima.»

«Capelli rossi, yukata azzurro, Anemone.
Lei è più come il vento.
Una brezza leggera che smuove le fronde degli alberi assonnati, o un tifone che agita le onde del mare o un uragano che sconvolge gli animi... Ma ciò che importa è che questo soffio di vita sia libero, senza che nessun otre lo contenga, come nel mito di Odisseo.»

«Poi... Ah, Catlina! Capelli biondi, yukata rosa.
Ricorda molto i fiori di sakura.
Infatti i germogli di ciliegio si mostrano timidamente durante l'inverno e nessuno li considera, poiché sembrano privi di colore e profumo. Ma quando i petali sbocciano in primavera... La grazia, la bellezza e l'eleganza del fiore di sakura sono ammirate da tutti.»

«Infine... Camilla. Yukata bianco...
Io penso che lei meriti un colore ancora più puro, quasi trasparente, come quello di un diamante.
Un diamante preziosissimo, brillante e cristallino ma allo stesso tempo duro e resistente. Chiunque trovi quel diamante si sente ricco, si sente fortunato, ma sopratutto protetto...

Io devo ancora decidere cosa voglio essere.»

Iris finì di parlare. Era fiera del gioco che aveva inventato: le ricordava quelli che faceva da bambina e così dei bei ricordi affioravano.

Inoltre Dragonite sembrava aver capito chi fosse chi, associando le ragazze ai colori e alle immagini suggestive che la sua nuova Allenatrice aveva creato.

«Andiamo ora, voglio che le altre ti vedano!»
E di corsa si precipitò sul campo di battaglia.

«Hey, eccomi!» Chiamò Iris, per attirare l'attenzione di tutte.

«Non sapevi che scusa inventare per marinare gli allenamenti, eh?»
Le rise dietro Camelia, prendendole la testa e strofinandogliela per prenderla in giro affettuosamente, come aveva preso l'abitudine di fare.

«Ma se non si fosse allontanata adesso non avrebbe catturato un Dragonite! - La riprese Anemone - un Pokémon di tipo sia Drago che Volante, è ufficiale, sono la tua Capopalestra preferita!»

«Anemone... No.» Rispose secca la modella.
Tutto quell'entusiasmo per una cattura lo trovava ridicolo.

«Semplicemente, un Pokémon del genere serve solo a raccattare Medaglie e rubare a noi Capipalestra il lavoro... - Camelia contorse il viso in uno sguardo falsamente deluso - se vuoi ottenere la mia Medaglia, un giorno, dovrai sudare parecchio.»

«In realtà avevo già tutte e otto le medaglie prima di venire qui.» Le rispose Iris.

La ragazzina si voltò e diede il cinque ad Anemone. Era contenta che la rossa apprezzasse il suo supporto.

«Ah, chissà che Capipalestra sfigati devi aver sfidato...» Scherzò ancora Camelia.

Le tre poi si voltarono, vedendo Camilla che parlava a bassa voce con Catlina, un po' più distante da loro. Le trovavano davvero mature e alquanto strane.

«Cosa stanno complottando quelle due?» Domandò Iris a bassa voce.

«Secondo me Catlina le starà chiedendo se prima voi due non steste facendo nulla di strano...»
Le rispose maliziosamente Anemone.

Iris storse il naso invece; non si aspettava queste cose da una ragazza che aveva descritto come "elegante" e "aggraziata".

«E perché dovrebbe? Lei e Camilla sono amiche e basta.»

«Ma se lei non ha fatto altro che ripetere fino ad adesso cose come "spero che Camilla stia bene’" o "mi chiedo perché ci metta così tanto" o "se le fosse capitato qualcosa" o anche "perché si è allontanata senza avvisare" e Camilla, Camilla, Camilla... Caspita, se è ossessionata!»
Le rispose con tono concitato Camelia.

Aveva imitato ironicamente il tono preoccupato di Catlina, soffocando un po' la voce come questa di solito faceva, smorzandola infine per sottolineare la frivolezza delle sue preoccupazioni.

«Beh, è normale che si preoccupi per noi...» Cercò di difenderla Iris, anche se aveva riso anche lei a quella presa in giro.

«Non lo ha mica detto il tuo nome.» Le rispose acidamente Anemone.

A quel punto Iris vacillò leggermente nei suoi pensieri: davvero una ragazza diciannovenne poteva provare gelosia nei suoi confronti? La disprezzava in qualche modo? Era per quello che con lei e le altre si comportava così freddamente e distaccatamente? Non sapeva spiegarselo.

Intanto le due ragazze più grandi e stavano riavvicinando a loro. Avevano uno sguardo più che soddisfatto.

«Ragazze, io e Catlina abbiamo avuto un'idea - disse entusiasta Camilla - per favore, digliela tu.» E fece segno alla sua compagna dal kimono rosa chiaro di parlare.

Questa fece un respiro, per calmarsi dalla tensione.

«Visto che sono ormai tre settimane che lavoriamo duramente e Nardo ha notato in noi molti miglioramenti, sopratutto in una persona in particolare - si riferiva ad Iris, sebbene indirettamente, come su richiesta di Camilla - io e Camilla abbiamo pensato di farci concedere a nome di tutte un "giorno di vacanza". In pratica un giorno in cui possiamo svagarci liberamente per conto nostro, per goderci l'estate. Cosa ne pensate?»

Tutte sorrisero un attimo.

Divertirsi e riposarsi d'estate sembra una cosa tanto lecita quanto banale, ma da quando le cinque avevano fatto il loro ingresso nella competizione non si erano mai concesse un vero giorno di pausa; un giorno in cui potessero tornare dai loro parenti e riabbracciarli, uscire con le amiche e vantarsi della loro fortuna o semplicemente dormire più del dovuto, senza dover sopportare la severissima sveglia delle sette meno un quarto.

«Per me va più che bene.» Approvò Anemone.

«Anche per me, ottima idea!» Le rispose subito dopo Iris in preda all'eccitazione.

«Fantastico, la nostra leader ha scoperto l'estate! Un applauso!» Incitò tutto il gruppo Camelia, la regina del sarcasmo.
Tutte la assecondarono, ma Camilla non se la prese.

Ad Iris venne un idea. Era l'idea giusta per prolungare quel momento di comune felicità ancora per un po'.

«Tutte voi domani sapete esattamente cosa fare?»

«Non ancora... Per una volta che siamo libere non sappiamo cosa fare...»
Ragionò la rossa. Il resto del gruppo annuì alla sua protesta.

Iris poté finalmente esporre le sue intenzioni.

«Che ne dite di andare in spiaggia a Spiraria? Siamo ancora a giugno, non ci saranno troppi turisti...»

Si sentiva un poco imbarazzata da quella proposta. Loro erano ragazze grandi, piene di impegni, amici, feste, incontri... E ragazzi.
Molti dovevano essere i ragazzi, per quelle giovani prosperose.

E subito Anemone, Camelia, Camilla e Catlina le diedero la risposta.

«Spero che l'acqua del mare sia abbastanza calda per farci il bagno, io odio l'acqua gelida...»

 «E che qualche pervertito non continui a provarci con la top model più famosa della regione...»

«Ho bisogno di un costume nuovo... Che non mi faccia sembrare grassa...»

«Ricordatevi la crema solare, o finiremo per scottarci sotto il sole, ed io ho la pelle delicata...»

Non si era ricordata ancora che ormai con loro non doveva avere paura.

In quel piccolo gruppo ogni idea era ben accetta, senza pregiudizi o lamentele.
Quelle risposte affermative così spontanee non le sembravano quasi reali: quale ragazza poteva davvero rinunciare ai divertimenti della vita adulta?

Quelle quattro, evidentemente.

«Ok, è confermato!» Ammise convinta.

«Ultima cosa... - Affermò Catlina in tono serio e risoluto, prima che tutte ritornassero ad allenarsi - se proprio dovete prendermi in giro, la prossima volta fatelo ad bassa voce. Non sopporto le persone rumorose.»

A tutte si gelò il sangue per un attimo.
Il tono di voce di quella ragazza senz'anima era flebile come un sussurro, ma abbastanza risoluto da far sembrare serio anche uno scherzo.

Le altre lo avevano più o meno dedotto ma Iris non notò alcuna differenza istantaneamente. Catlina era davvero una maestra nel nascondere i suoi sentimenti.

«Altrimenti cosa fai, lo dici a Nardo?»
Da qualche tempo Camelia aveva preso di mira con le sue battute anche la ragazza bionda, per smorzare un po' quell'aura gelida che la circondava. Lo faceva per il suo bene, anche se questa non le dava peso.

Catlina rifletté un attimo.
«Parlando seriamente, davvero potrei?» Si rivolse a Camilla.

«Dato che sei la seconda più vecchia in ordine di età e lavorando alla Lega hai una posizione di vantaggio... Non vedo perché Nardo non potrebbe ritenere adeguato punirle per la loro mancanza di rispetto.»
Le rispose pacificamente la Campionessa.

«Ah... Capisco.» Annuì la ragazza, cercando gli occhi complici della leader.

«Simpatiche insomma! Ci rispedite a costruire la sauna, mentre voi vi fate un bagno e ve la ridete, giusto?» Ribatté seccata Anemone.

Lei e Camelia sapevano meglio di tutte quanto fosse faticoso, stressante e umiliante quel lavoro. Avevano passato un intera serata in quel posto chiuso e afoso, un'esperienza che si erano ripromesse di non ripetere mai più.

«Ritiro tutto quello che ho detto: sei una leader orribile, tornatevene entrambe dalla regione da cui siete venute e non rimettete piede nel suolo di Unima neanche per allacciarvi una scarpa."» Aggiunse la mora, seccata come l'amica.

Catlina invece era davvero soddisfatta: si era guadagnata il rispetto che desiderava. Era ormai di autorità quasi pari a Camilla, il suo braccio destro.e
"Sub-leader", come si dice in linguaggio tecnico.
Decise quindi di sbandierare un poco di quel rispetto ottenuto con una minaccia alquanto efficace.

«Oggi mi sento buona e chiuderò un occhio su tutto questo. Quindi torniamo pure ad allenarci, prima che Nardo pensi che non stiamo ancora facendo nulla.»

Tutte la seguirono, Iris per prima si avvicinò a lei.

Le parlò a bassa voce, per evitare di irritarla.

«Dicevi sul serio, prima?» Chiese la ragazzina, con tono preoccupato.

Catlina si sentì sconfortata da quella domanda.

Era davvero così incapace di esprimersi, tanto da far sembrare uno scherzo innocente una vera e propria tortura? Pochi secondi le erano già bastati per farle desiderare di non aver mai compiuto una sciocchezza del genere.
Si girò verso di Iris, sforzando la voce verso il tono più dolce che avesse in gola.

«No, stavo solo scherzando... Non preoccuparti, non farei mai una cosa del genere...»

Iris aveva notato quanto quella voce fosse falsa ed improvvisata.
Ma resistette all'impulso di commiserarla e si unì al resto del gruppo.

Decise di sua spontanea volontà di offrirsi come avversaria per delle lotte di allenamento.

Anche se quelle lotte le avrebbe certamente perse, si sarebbe comunque impegnata ora; avrebbe combattuto senza lamentarsi e allo stesso tempo si sarebbe goduta l'amicizia che tra lei, i suoi Pokémon e le sue compagne continuava ad intensificarsi sempre più.

Aveva detto a Camilla che avrebbe fatto del suo meglio.

E Iris aveva giurato a se stessa di mantenere la parola data.

 

 

«Si! Non potevo avere fortuna più grande!

Chi lo avrebbe mai detto che proprio quella piatta fra le Allenatrici avrebbe catturato un Dragonite?

Ok, non l'ho esattamente catturato io, ma non penso che Camilla si offenda se mi prendo parte del merito...
Pubblicando un po' di foto sul mio blog! Con modestia, ragazzi.

Ed ora la descrizione:
Pokémon raro e potente, ottimo offensive-sweaper, IV perfetti, EV abbastanza alti e bilanciati, moveset completo di Dragofuria, Lanciafiamme e Terremoto, catturato con una semplice Pokéball...

Cosa sto scrivendo? Non ne ho idea, ma gli Allenatori esperti usano sempre una terminologia incomprensibile riguardante le lotte. Nonostante siano parole a caso, fanno sembrare tutto più figo, come quando nelle interrogazioni a scuola non sai neanche cosa stai dicendo e prendi un bel voto.

Non vedo l'ora di leggere i commenti positivi, di ricevere lodi e "Mi Piace", di sentire tutti incoraggiarmi...

"I Dragonite non si trovano allo stato selvaggio, genio!"

Se è per quello nemmeno i vostri Arceus cromatici al livello diceci si trovano allo stato selvaggio, ma non mi metto a chiamare la polizia per questo.

"Ma lo sai che le difese di quel Pokémon sono misere contro i tipi Ghiaccio, Roccia, e Drago? Sei fregata, cara."

Okay, ma io non ti conosco, quindi me ne frego.

"Chi è la maggiorata sullo sfondo? Per essere una foto a tradimento potevi aumentare lo zoom... Quella bionda sexy sì che vincerebbe contro chiunque!"

Ma perché i fan mi detestano così tanto!? Li capisco, sono solo gelosi, se non lo so cosa io cosa si prova in questi momenti...
(E che razza di gente frequenta la mia pagina... Devo guardarmi dai pedofili...)»


 

Behind the Summery Scenery #7

1. I team di Pokémon delle varie ragazze sono uno degli aspetti più complicati da gestire in una fanfiction a tema Pokémon: all'inizio volevo basarmi canonicamente solo sul videogioco, ma dopo aver ripensato al fatto che esistono tipo, cinque o sei versioni di ciascun team a seconda della difficoltà in cui si imposta il gioco e che i programmatori si sono a dir poco sprecati nel scegliere i Pokémon e le mosse, ho pensato di ricollegarmi all'anime sopratutto per quanto concerne discorsi come l'allenamento, l'acquisizione di nuove mosse e tecniche di lotta, il legame con il proprio allenatore. Per dirla breve, i Pokémon si comportano con il sentimentalismo e la caratterizzazione dell'anime ma non faranno le mezze seghe.

2. Il discorso che Camilla fa ad Iris si ispira al filosofo Eraclito, che basa la sua dottrina su uno scontrarsi di forze contrarie che a loro volta generano l'equilibrio del nostro mondo, un po' lo stesso concetto dello Yin e lo Yang dei taoisti.

3. Il titolo di questo capitolo è una parodia della famosa frase che Glauco dice a Diomede durante il loro incontro nell'Iliade: "Tale è la generazione delle foglie quale quella degli uomini."

4. Siccome questo in numero di BTSS non ho molto da dire, vi racconto questa. Mentre scrivevo questo ed il capitolo precedente a casa mia c'era molta confusione per via di esami, lavori di manutenzione e cugini molesti, e allora per aiutare a conciliarmi la scrittura ho voluto provare anche io a scrivere con le cuffie e la musica sulle orecchie, sapendo che ormai è una pratica diffusa fra molti scrittori. Per quanto io ami la musica, il risultato che ne era uscito era qualcosa di scioccante. Ancora non mi capacito di credere che scrivere, leggere o studiare siano attività fattibili con la musica.
In questo momento, mentre scrivo, sto ascoltando la musica. Non assicuro la correttezza ne' la coerenza di queste parole e ora tutti zitti, che è arrivata la parte della mia oshi.

5. Dite che nell'universo Pokémon esista facebook? Perché se fosse così, vi autorizzo a spammare immagini kek e a shitpostare come se fosse la meme war di due anni fa. FUCKING NORMIES REEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE.

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Capitolo 8
*** Fare la cosa giusta ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
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Early Summer Girls

Capitolo 8

Fare la cosa giusta

 


«Buongiorno!»
Disse Iris sorridendo.

Si era presentata puntualissima, e già indossava il costume: non si era posta troppi problemi nella scelta di quest'ultimo, non aveva alcuna intenzione di attirare l'attenzione sul suo corpo: avrebbe fallito miseramente contro le sue compagne e le loro curve prosperose e sensuali.
Inoltre rabbrividiva al pensiero che qualche ragazzo menzionasse il suo corpo senza badare al suo carattere, come se lei fosse solo un oggetto.

«Buongiorno.» Le risposero in coro Anemone, Camelia e Camilla.

Le loro voci erano rilassate e serene, come la sua.
Finalmente era arrivato. Un vero e proprio "giorno d'estate".

«Catlina?» Domandò la ragazzina, sedendosi a fare colazione con loro.

«Aspettiamola cinque minuti. Non è abituata a svegliarsi presto. In realtà non lo è mai stata.»
Le rispose Camilla.

«Perché?» Iris si incuriosì leggermente.

«Catlina viene da una delle famiglie più abbienti di Sinnoh, gli Hāto.
Sono un clan aristocratico molto antico con un vasto impero finanziario alle spalle, e lei quindi non ha mai avuto necessità di svolgere altri lavori oltre a quello di Allenatrice.»
Le spiegò la giovane Campionessa.

«Una principessa viziata che non ha mai alzato un dito, in poche parole.»
Puntualizzò Anemone, con una certa stizza nella voce. Avrebbe preferito non sapere quel dettaglio su Catlina.

Nonostante tutto, con il sole alto, l'acqua cristallina e cinque bellissimi corpi in costume da bagno, quella sembrava essere una bella giornata.

Le restanti ragazze stavano per andarsi a cambiare finché non bastò un suono a spezzare quella felicità.

La suoneria di un cellulare. Iris riconosceva il ritornello della canzone pop-rock.

«È il mio.» Camelia aveva già allungato la mano per rispondere; esitò un attimo però.

La ragazzina dai capelli viola aveva capito che della vita privata della ragazza mora non doveva impicciarsi. Non le aveva neppure chiesto perché quel giorno l'avesse aggredita con parole così violente e perché poi fosse scoppiata a piangere.

Era leggermente curiosa di sapere le sue ansie e preoccupazioni in modo da poterla capire meglio e perfino consolare, ma invadere la sua privacy significava entrare in un luogo che Iris temeva di più dell'inferno dantesco: il mondo degli adulti.

Quella diciassettenne modella doveva essere cresciuta troppo in fretta, si disse.

«Si? Dimmi...»
Da fuori si sentiva parlare una voce maschile, le parole non erano chiare.

Iris, Anemone e perfino Camilla stavano cercando di origliare almeno il nocciolo di quella chiamata, anche se ascoltare solamente la parte del destinatario in una conversazione non era per nulla utile.

Tutte cercavano di sembrare disinteressate, tendendo l'orecchio spinte dalla curiosità, fingendo che le relazioni della ragazza non interessassero loro.

«Corrado... Aspetta...»

Ad un certo punto però Iris vide Camelia dilatare i suoi occhi azzurri, esibendo un'espressione mista fra lo stupore e la delusione. Si preoccupò allora per la ragazza.

La mora si alzò, e cominciò ad allontanarsi dal resto del gruppo, in modo che non sentissero il contenuto di quella conversazione: aveva tenuto il cellulare spento per quasi tre giorni, non aveva controllato alcun sito per vedere se era ancora popolare e neppure aggiornato il suo stato sui social network.

Era certa che prima o poi la sua negligenza verso il suo lavoro e lo stile di vita eccentrico e maturo che aveva scelto sarebbe emersa a galla.

«Sono sola, dimmi.»
Disse, con un accenno di ansia.

«Ti ho chiamato almeno dieci volte in questi tre giorni, lo senti il telefono o sei diventata troppo figa persino per rispondere?»
La stessa voce maschile, profonda e attraente.

«Scusami amore, ho spento il cellulare e...»
Venne troncata lei, mentre spiegava le sue ragioni nella maniera più sincera.

«Smettila con queste scemenze, devi aver bevuto forte in questi giorni. Vuoi che ti creda?»
Le veniva risposto, con tono sempre più annoiato ed acido.

«Dovresti, sei il mio ragazzo. Poi sai che l'alcool non lo sopporto.»
Ammise Camelia, stroncando l'ingiustizia ricevuta. Desiderava chiudere quella chiamata in fretta.

La modella aveva bevuto solamente una volta, ad una festa, sotto costrizione del suo stesso fidanzato e delle sue stesse amiche. Era la prima volta, non conosceva il suo limite e per questo aveva esagerato: ricordava solo un caldo pazzesco, gente che rideva, la sua testa che pensava a mille cose in un secondo e il suo corpo che cedeva lentamente, l'aria, dal soffocante odore di vomito, alcool e sudore.

Da quel giorno non aveva più bevuto una singola goccia di birra o vino, guadagnandosi addirittura fama (e altrettanto scherno) per la sua sobrietà.

Ora che si sentiva una ragazza libera parlare così con il suo fidanzato le faceva ripensare a tutte quelle loro conversazioni, tutte avevano lo stesso suono: scambi di risposte sarcastiche, battute sporche, freddure anche offensive finivano sempre con il ribadirle la ragione per cui era disposta a sopportare tutto quel dolore: l'amore.

«Perché mi hai chiamato?» Gli disse, dopo un paio di insulti reciproci.

Voleva andare dritta al punto.

Corrado respirò, focalizzandosi sull'obiettivo di quella chiamata, ben più importante di quei litigi. Neppure lui li sopportava, ma assecondare la sua ragazza gli sembrava umiliante.

«Ho sentito che sei libera tutta oggi...»

No. Non era vero.

Camelia quel giorno voleva passarlo con le stesse ragazze che non l'avevano derisa quando potevano.

Per lei, quelle quattro, rappresentavano un genere di persona davvero raro, quasi paranormale: ridevano se si doveva ridere, piangevano se si dovesse piangere: mai il contrario.

E a tutta la sua diffidenza si era sostituita la voglia di amarle come vere amiche e di vedere i loro sorrisi, molto più dolci e gradevoli di quelli che era costretta a mostrare lei per avere in grazia l'odio degli altri.

Quel giorno doveva essere perfetto, sia per lei, sia per chi lei amava.
In quel momento però amava più loro che Corrado.

«Quindi?» Camelia fece finta di non capire.

«Sei stata dolce a darmi buca, due settimane fa. Non me ne frega di cosa avessi combinato per farti "punire", ma da quel giorno hai preferito nasconderti che chiedermi una seconda occasione.»

«Te l'avrei chiesta se l'avessi voluta, ma come vedi non sento ancora l'astinenza.»
Formulo ciò come risposta nella sua testa, sorridendo al suo stesso sarcasmo.

Non gli rispose così, però.

«Allora te la dovrei concedere...?» Socchiuse gli occhi.

«Hai capito, allora. Vieni con me oggi. Ho bisogno di stare con te; ho bisogno di farlo con te.»

Camelia a quel punto si accorse che i suoi occhi azzurri diventarono lucidi, nel suo cuore non riusciva a fermare le lacrime.

Fu il suo inconscio a parlare, con voce soffocata ed insicura.
«Anche io.»

«Vediamoci oggi che sei libera. - prima di chiudere la chiamata, Corrado aggiunse soddisfatto della sua ingannevole persuasione - ti amo.»

La giovane dai capelli mori respirò piano, attraverso le labbra dolci leggermente socchiuse. In mano le rimaneva il cellulare, nella sua mente nulla.

Non era riuscita ad esprimere ciò che voleva, la sua volontà si era piagata al peso delle sue ultime parole: ti amo.

Come poteva essere sarcastica, se per una volta qualcuno la apprezzava?

Camelia non avrebbe gettato via il suo amore: lo necessitava.
E l'amore le chiedeva di rinunciare ai suoi principi di verità, di lasciarsi sedurre da carezze e lusinghe, di mettere in secondo piano i suoi desideri egoisti.

Perché in quei giorni avesse deciso di farne a meno, si chiedeva. 

Perché sentiva il dolore di dover dare buca alle sue compagne, anche se quel dolore poteva essere anche il rimpianto di non poter andare con loro in spiaggia.

Amicizia o amore? Si chiese inutilmente lei. La risposta l'aveva già data.

«Se non mi amasse... Ma per fortuna mi ama. Ed io amo Corrado?
I giornali parlano così bene di noi...
Se mi lasciasse... Sarei ancora sola.»

Camelia si scostò subito da quell'orribile pensiero.
Finché avrebbe continuato ad assecondarlo, sia di fronte alla gente sia a letto, lui non si sarebbe stancato di lei, giusto?

Le ragazze chiedono amore in cambio di sesso, i ragazzi vogliono sesso ed in cambio danno amore.
I maschi per quella ragazza avevano tutti la stessa psicologia.

Si mise tanto trucco, quel giorno.

«Iris, ragazze, scusatemi, oggi non posso venire con voi... Esco con il mio ragazzo.»

E a quelle parole il sorriso di tutte si smorzò. Iris si morse il labbro, abbassando gli occhi come una bimba delusa. Ci restò davvero male.

Camelia evitò i suoi occhi tristi, la facevano sentire una patetica egoista, e morse anche il lucidalabbra amaro insieme al suo labbro.

Chissà cosa stessero pensando Camilla ed Anemone...
Un'approfittatrice, una leccapiedi, una doppiogiochista, una top model sesso-dipendente.

Eppure lei non poteva odiarle per averle rinfacciato la verità.

Lei le desiderava come amiche, e sarebbe andata in spiaggia con loro se non si fosse fatta sottomettere dal sentimento di appartenenza totale al suo fidanzato.

La giovane si sfilò l'intimo di fronte allo specchio, per indossarne uno che attirasse di più  l'attenzione di lui: con le dita sfiorò il corpo diafano della bellissima fanciulla riflessa; d'improvviso il suo polso si irrigidì: le venne voglia di prenderla a schiaffi.

«Sei una falsa schifosa. Se non sei sincera neanche con te stessa come pretendi che qualcuno sia sincero con te?!»

 

Iris si guardò le mani in silenzio: forse non era intenzione di Camelia ferirla, forse era il suo carattere permaloso ed infantile a farla sentire così. 

Si convinse infine a lasciar perdere.

Lei non aveva mai avuto un ragazzo, non poteva capire cosa significasse “fare qualsiasi cosa per amore”.
Si sentiva comunque scaricata. Immaginò che parole avrebbe usato lei per lasciare il suo futuro fidanzato senza ferirlo (nel caso non fosse il vero amore), ma non ci riuscì.

«Uh?! Un altro cellulare che suona?»

Iris si era già accorta che il cellulare di Anemone stesse suonando, non appena riconobbe la canzone che con lei ascoltava sempre.

La password la conosceva, ma chiese alla sua coscienza se fosse giusto rispondere in sua assenza.

Magari era urgente... Magari aveva tutte le possibilità di non esserlo.

Anemone non era popolare come Camelia, non aveva un ragazzo ed era stata la prima a confermare: non poteva darle buca in nessuna maniera.

Con una certa leggerezza, Iris rispose al telefono, mentre l'amica si stava cambiando.

«Pronto?»

Una voce maschile, di uomo anziano le rispose senza pensare che non si trattasse della rossa.
«Anemone, non capisco questo tuo comportamento: ho chiamato tre o quattro volte questa mattina, cosa ti è preso?»
Le disse, con tono calmo, ma molto intimidatorio.

«Eh...» Iris si stupì che non avesse riconosciuto che a parlare non fosse chi si aspettava.

«Lascia perdere, faremo i conti dopo. Nardo me lo ha riferito che oggi non ti devi allenare - Iris fu presa da un terribile presentimento. Sperò solo che si accorgesse che non stava parlando con Anemone - sei di turno oggi. Anche se oggi sei in vacanza abbiamo bisogno di uno stipendio per tirare avanti fino a fine mese, e non puoi permetterti di saltare nemmeno un giorno lavorativo o se ti licenzieranno ci ritroveremo a vivere per strada.»

Alla ragazzina dai capelli viola tornò in mente, come in un'illuminazione, il proposito per cui la dolce e amorevole pilota dai capelli scarlatto fosse con lei in competizione: vincere (nella possibilità che aveva nel riuscirci) non per lei, ma per la sua famiglia.

E lo stomaco di Iris si contorceva atrocemente, se doveva immaginare la sua amica più cara ridotta sul lastrico.

Trovava in un certo senso ingiusto che suo nonno la caricasse così severamente di lavoro per racimolare un magro stipendio a soli diciassette anni, quando alla sua età si vorrebbe pensare alle lotte, ai festival, ad uscire nei giorni di sole e leggere in quelli di pioggia, ai ragazzi...

«Ah, giusto. Ad Anemone non interessano i ragazzi...» Puntualizzò.

Si ricordò poi di avvisare l'anziano signore, anche se costui aveva ripreso ad ammonirla.

«Il tuo turno dura tutta la giornata, non distrarti mentre sei in volo...»

«Scusi, non sta parlando con sua nipote. Sono un'amica di Anemone, gliela passo immediatamente.» Lo interruppe lei, con tutto il suo coraggio.

Le avevano insegnato a rispettare gli anziani: è uno dei principi base per l'educazione dei giovani.

Si staccò il telefono dall'orecchio.

Avrebbe aspettato che la sua compagna finisse di cambiarsi, ma Anemone si era già precipitata giù. Era ancora in costume, e teneva i lacci del pezzo superiore con la mano; era corsa appena aveva sentito il cellulare suonare, ma doveva almeno coprirsi minimamente per riprenderselo.

«Iris, non rispondere, per favore!»

Era troppo tardi per augurarsi che lei la assecondasse. I piani della rossa andarono in fumo. Non aveva certamente predetto quella chiamata improvvisa, ma si era talmente convinta che non sarebbe avvenuta che al bruciarsi delle sue speranze le ribollì il sangue nelle vene.

Iris le consegnò il cellulare, e desiderò che le mani le venissero immediatamente mozzate.

Si sentì la colpevole di quel misfatto anche se non ne aveva alcun motivo. Cercò di capire se il suo danno fosse davvero così grande.

Quella conversazione era più semplice da capire di quella avvenuta poco prima da Camelia e il suo ragazzo: suo nonno le doveva star ripetendo ciò che aveva detto a lei.

«Si, capisco. Io però avevo altri impegni oggi.» Ammise Anemone con una certa frustrazione.

Iris fu rincuorata dal fatto che perlomeno si lamentasse con lui e non fosse accondiscendente e menefreghista come Camelia.

Purtroppo alla ragazzina non era noto che anche quest'ultima preferiva la loro compagnia a quella del suo superficiale fidanzato.

La ragazza rossa richiuse la chiamata. Dal suo sguardo Iris capì che ora erano in due a darle buca. Finse di non saperne nulla, però.

«Iris... - abbassò gli occhi, e cercò di smorzare un sorriso - oggi io non posso venire, devo lavorare, hanno bisogno di me. Mi ha chiamato mio nonno d'improvviso, scusami davvero tanto. Non ti dico di non restarci male, ma solo di capire che non è colpa mia.»
Il suo tono era rilassato, ma triste e flebile. Il suo cuore desiderava gridare, invece.

Ascoltò Iris risponderle con la voce più calma che aveva.
«Lo so. Voi ragazze avete le vostre responsabilità.»

Anemone sospirò. Questa frase le martellò il cervello e le graffiò il cuore.

Non lo faceva certo con piacere, di dover abbandonare il resto del gruppo, rinunciare a divertirsi solo perché glielo imponeva suo nonno. E la sua condizione economica. E la sua coscienza.

Anemone sentiva, giorno per giorno, che il peso delle sue responsabilità cresceva, e si ritrovava sempre più sola nell'affrontarle: spesso si domandava se valesse davvero la pena di dedicare sempre tutti i suoi sforzi al prossimo e non guadagnare assolutamente nulla per se stessa; non si consolava più neanche nel vedere il sorriso degli altri, le procurava un invidia tale da farle desiderare in un secondo di diventare egoista.

Poi il senso di colpa la divorava, e il baratro di frustrazione, rabbia e tristezza diventava sempre più profondo. E lei precipitava in esso all'infinito.

La nostra povera Anemone somiglia quasi ad un uccellino, che per la penuria di procurare il cibo per il suo nido si sporca le piume e si lacera il becco, rovinando il suo fulgido piumaggio.

Quando l'uccellino vede infine i suoi piccoli gioire alla vista del pasto, desidera in cuor suo che un cacciatore gli spari alle ali e smetta così di farlo soffrire e faticare solo per il vantaggio altrui. Poi però si rimette subito in volo, o i rapaci lo scoveranno di notte.

Erano già trascorsi diciassette anni della sua vita, eppure nulla era cambiato, nessuno sembrava davvero tenerci alla sua felicità...

Non si potevano dedurre quei pensieri da lei, dato che il dolce sorriso di Anemone nascondeva brillantemente tutta la frustrazione per il divertimento negato e l'indifferenza di chi la circondava.

Ogni giorno, ogni volta che il sole sorgeva il suo subconscio le sussurrava "oggi non vivrai per te stessa, ma per qualcun altro".

«Quanto odio la mia vita...» Mormorò la sfortunata.

In un attacco di cieca rabbia, Anemone scagliò con forza il suo cellulare per terra, sperando di distruggere tutto quel cosmo di soffocanti responsabilità insieme all'aggeggio.

Il telefono emise un tonfo sordo, e lo schermo si crepò, frammentandosi in mille pezzi di frustrazione accumulata nel tempo.
Le parve di sentire in gola un grido soffocato, poi lasciò la casa di Nardo il più in fretta possibile.

Testimone di ormai troppa rabbia, troppa tristezza e troppe, davvero troppe ingiustificate lacrime, Iris raccolse il cellulare della rossa.

«Ma come farà a comprarsi un cellulare nuovo?» Si chiese.


Ora che Camelia ed Anemone non sarebbero venute, ad Iris sembrò superfluo disturbare Catlina e supplicarla.
Rinunciò al suo piano di poter passare una giornata in spiaggia con le sue compagne in modo abbastanza maturo, ripetendosi un "almeno questa volta non è colpa tua".

La prese alla leggera.
Ma solo perché si era presa un altro impegno nel frattempo.

Un misto fra il destino, la sua inventiva e la collaborazione forzata di una cara amica.

«Camilla, io esco. Vado a fare shopping con un'amica.» Annunciò.
Le pareva quasi stano indossare dei vestiti casual dopo aver portato per quasi un mese quel kimono di colore viola.

«Davvero? Vai ai Magazzini Nove?» Le domandò la giovane.
Iris annuì.

Davvero sbalorditivo: Camilla conosceva a menadito ogni città e angolo di Unima, pur essendo originaria di un'altra regione. Si ricordò inoltre che Camilla era l'unica e sola a non averle dato buca all'ultimo minuto, sperò che in qualche modo anche lei trovasse altro da fare quel pomeriggio.

«Stai tranquilla, rimarrò qui con Catlina. Non voglio che passi tutta la giornata a dormire.»

Si congedò infine, contraccambiando gentilmente il sorriso che la Campionessa le dedicava sempre.

Quel giorno di vacanza, per la ragazzina si era trasformato in una specie di "missione".

«Oggi voglio restituire il sorriso a tutte... Le mie compagne. No, le mie amiche.»

E per cominciare al meglio le sue labbra ne esibirono uno per prime.

 

«Velia ti adoro! Sono così felice che tu sia venuta che ti abbraccerei!»

Esultò Iris, aggregandosi alla ragazza della sua stessa età, dai capelli argento platino e l'abbigliamento punk-rock che aveva cominciato ad indossare per rispecchiare il suo carattere ribelle e perennemente disinteressato alla banalità della loro generazione.

«Iris, da quando tu fai shopping? Preferiresti tagliarti i capelli piuttosto che venire qui, che cosa cavolo ti è passato per la testa?»
Le domandò Velia acida.

«Ho detto che ti avrei abbracciata, non che ti avrei dato spiegazioni... chi sei, mio nonno?»
Le rispose la ragazzina, per sbarazzarsi dei suoi commenti pesanti ed inutili.

«Almeno dimmi a che ti servo io, altrimenti potevi portarti una delle tue compagne maggiorate.»
La persuase a darle un indizio Velia.

Sapeva che la sua amica difendeva le sue idee ad ogni costo, per quanto assurde fossero.
La ammirava per quello.

Dopo essersi astutamente guadagnata la sua curiosità, Iris illustrò il suo piano a Velia, mettendoci tutto l'entusiasmo che aveva.

«Non siamo qui per fare shopping, ma mi sento in dovere di comprare dei piccoli regali per le mie quattro compagne. Alcune di loro stanno attraversando un brutto periodo... - ripensò in un secondo al cellulare di Anemone, agli occhi spenti e vuoti di Catlina che la portarono a ricordare come Camelia fosse scoppiata a piangere in sua presenza, finendo con le ferite che Camilla portava sul petto, come testimoni di quella lotta mortale - e vorrei tirarle su, nel mio piccolo...» 

Velia le sorrise. Le due quindicenni cominciarono ad avviarsi attraverso l'ampio e luminoso centro commerciale.

«Ma sei sicura che le tue compagne non abbiano semplicemente il ciclo?"
Le domandò Velia sarcasticamente.

Iris le aveva parlato di quell'esperienza che stava vivendo per diventare Campionessa e in cuor suo sperava davvero che la ragazzina dai capelli viola vincesse, anche se la divertiva assai prendere in giro il suo entusiasmo.

«Non dire scemenze!»
Iris non voleva permetterle di scherzare su di loro, per qualche ragione.

«Solo perché ci troviamo nel mondo dei Pokémon non significa che ne siano esonerate.» Le ribatté secca.

«Cambiando argomento, come sta andando?» Domandò Iris, salendo le scale mobili.

«Che cosa?» Le rispose l'altra, cercando di nascondere un velato imbarazzo guardando altrove.

«Il tuo singolo. Avevi detto che quest'estate tu e la tua band avreste debuttato nella scena musicale di Unima con la canzone che hai scritto. Allora?» Insistette.

«Ci sto lavorando, cara. - La giovane Velia aveva il talento per le lotte, ma anche per la musica - Però, ultimamente la musica rap sta diventando sempre più popolare qui ad Unima. Penso che il mio stile indie-rock-idol avrebbe comunque poco successo.»

«Non ho la minima idea di cosa siano quelle tre parole inglesi in mezzo alla frase, ma dovresti smetterla di trovare sempre tutte queste scuse.

È un po' di tempo che rimandi il tuo progetto. Comincio ad essere stanca di aspettare.»

Già da tenera età aveva imparato a cantare e suonare il basso e da un anno era la leader del suo gruppo. Per quanto negligente e ribelle potesse sembrare, Velia era una ragazza determinata e concentrata nel suo lavoro.

Purtroppo, a causa di incidenti, aveva perso la madre qualche mese prima.

Iris ne era a conoscenza, ovviamente.

«Ci lavori da troppo. Io voglio sentirla quella canzone...» Cercò di incitarla.
Non voleva che il dolore imperversasse sui suoi sogni, come era successo a lei più volte.

Quella tenerezza in effetti toccò la giovane ribelle.
«Se riuscissi a farla diventare un CD, la compreresti?»
La sottopose ad una prova di amicizia.

«Certo che no. Tanto io posso averlo gratis, in edizione limitata e anche con autografo!»
Ed Iris la abbracciò, anche se l'amica cercava di scacciarla agitando le spalle.

«Sbaglio o sei davvero diventata brava a ribattere?»

«Non ti sbagli, mi sono allenata con Camelia Taylor.»

«La modella? Sei seria?!»

«No, guarda, la mia fidanzata...»

«Iris, piantala, ero ironica, non sei divertente e nemmeno brava con il sarcasmo.»

«Ma perché non posso avere almeno un giorno di pausa da insulti e commenti acidi quest'estate?!»

 

In effetti lo shopping di quel giorno d'estate stava piacendo alle due ragazze: di solito avevano sempre avuto di meglio da fare che sprecare tempo e denaro, ma girare per negozi senza alcuna preoccupazione dava loro uno strano senso di libertà e di autostima.

Era forte fingere di essere adulte solo perché potevano davvero spendere soldi a loro piacimento, anche se Iris aveva dovuto ripetere a Velia almeno un centinaio di volte che erano lì per la sua "missione".

Dopo aver camminato a lungo, per negozi dal buon profumo, giardini interni e corridoi illuminati dalla luce del sole, Iris decise che ormai era ora di rivelare a Velia che sapeva benissimo cosa comprare, smettendo di perdere tempo.

In realtà, la ragazzina dai capelli viola aveva in mente il regalo per le sue compagne già prima di proferire l'idea concreta di comprarlo, ma l'aveva gelosamente tenuta per sé in modo da dare una sfumatura di casualità e gentilezza ad un pensiero che sembrava altrimenti troppo calcolato ed elaborato.

Cosa si macchinasse nel cervello di quella ragazza è davvero un enigma, specie se si trattava di come attuare le sue idee nel modo più indiretto (ma perfetto) possibile.

«Andiamo.» Incitò Velia con tono rilassato.

Iris conosceva quel negozio, c'era entrata abbastanza volte per rifornirsi durante il suo precedente viaggio, e sapeva ancora meglio che quello era il negozio più apprezzato dagli Allenatori per articoli riguardanti gli strumenti di lotta.

Esattamente. Sebbene Camelia, Anemone, Catlina e Camilla fossero completamente diverse sotto qualsiasi punto di vista, convergevano tutte in un unica caratteristica inevitabilmente comune (ad eccezione dell'avere un seno particolarmente pronunciato): erano Allenatrici.

Non importa se fossero qualificate, o avessero una loro Palestra o se addirittura occupassero un posto alla Lega: tutte loro erano accomunate dalla passione per le lotte Pokémon, una passione che aveva permesso che il gruppo evolvesse dal suo stadio di freddezza e diffidenza originale.

Una risposta elementare alla domanda iniziale era "uno strumento per la lotta".

«Guarda.» Le mostrò Iris.

Prese sulla mano quattro piccole pietre, grandi quanto una noce: i piccoli cristalli emanavano sottili ed eleganti fasci di luce che striavano di quattro colori la mano della ragazzina: giallo, azzurro, rosa e blu; Iris non li aveva scelti a caso.

«Sono rispettivamente un Bijou Elettro, Volante, Psico e Drago» Le illustrò, facendo riferimento ai tipi favoriti delle compagne.

«Aumentano al massimo la potenza di una mossa del rispettivo tipo un'unica ed indimenticabile volta... - Velia ne conosceva l'uso. Sorrise, compiaciuta dell'originalità dell'amica - bell'idea. Te ne saranno grate. Attenta però che non le usino contro di te.»

Iris provò una felicità davvero piacevole, come se già vedesse i loro sorrisi aprirsi e percepisse sulle guance baci e carezze.

Regalare le dava più felicità del ricevere e se la ricompensa per il suo altruismo era amore senza alcun imbroglio non avrebbe esitato a far loro altri pensierini, a dedicar loro più tempo e impegno.

Persa nelle sue fantasie, Velia dovette riportarla nella realtà. Ciò non le fece affatto piacere.

«Iris, guarda il prezzo: se uno viene 15 Pokédollari e te ne servono quattro, fai il conto...»

«Io ne ho 50, e sono tutti; se mi anticipi qualcosa ti restituisco tutto...» La supplicò.

«Ne ho solo 10 e non ci stiamo comunque: te ne vengono 3 però.»

O tutte o nessuna. Iris si era prefissata quello e non riteneva che nessuna di loro meritasse di essere esclusa da una tale gentilezza in modo così cattivo.

Quelle erano ragazze particolarmente sensibili.

«Mi arrendo. Andiamo, allora.»
Iris lo disse piano, e pensava di lamentarsi lungo tutta la strada di quanto i prezzi fossero pensati solo per gli Allenatori abbienti e fortunati, come se le lotte Pokémon se le potessero permettere solo i ricchi.

La vita costa troppo certe volte.

Mentre ogni passo si faceva più pesante e strascicato, una mano toccò leggermente ma con insistenza la spalla della ragazza, ed un sibilo le giunse all'orecchio, come un "hey" appena pronunciato. 

Alla sua attenzione non restò che farsi catturare.

«Sono bellissimi, vero? Ma mi sembra di aver capito che i soldi non ti bastino...»

Quell'ombra aveva l'aspetto di una ragazza giovane, probabilmente della sua stessa età, con i capelli color fucsia acceso tagliati non troppo corti, davvero alla moda.
Anche i vestiti erano quelli di una ragazza perbene, anche se il fatto che le sussurrasse all'orecchio senza nemmeno conoscerla rendeva Iris nervosa.

Uno strano presagio erano i suoi due occhi azzurro chiarissimo, lo stesso colore del ghiaccio riflesso al sole.

«Questi prezzi sono davvero esagerati... Ho sentito che queste pietre sono un regalo per delle persone a te speciali... Che sfortuna.
Non le potrai vedere sorridere neanche questa volta...»
Concluse la misteriosa giovane, con tono falsamente dispiaciuto.

Il fatto che costei "avesse sentito" troppe cose dava alla ragazzina dai capelli viola un grande fastidio: una maniera davvero maleducata di prenderla in giro. Iris avrebbe voluto assestarle uno schiaffo sonoro per aver origliato gli affari suoi (sopratutto la parte in cui nominava le sue compagne come persone speciali: era davvero capace di intendere che ci fosse qualcosa sotto?).

Si trattenne dal picchiarla. Non voleva sconvolgere la quiete pubblica, ma neppure perdere contro quella mocciosa viziata.

«La vita è così, non si può avere tutto.» Le rispose pacatamente.

Iris stava per alzare i tacchi definitivamente, quando la giovane le afferrò il collo della maglia di prepotenza: sentì come se la stessero strangolando unito ciò ad una rabbia crescente.

«Senti, mi sei simpatica, ho un piano per te.»
La ragazza dai capelli fucsia e gli occhi freddi come il ghiaccio sorrise in modo sinistro.

Traendola a sé, le indicò con il dito una giovane dai capelli marroni, con un elaborato vestito bianco, con degli occhiali da sole scurissimi.
Quest'ultima li abbassò sul naso, contraccambiano con un sorriso di complicità quello della ragazza misteriosa.

«Vedi quella con il vestito bianco? È una mia compagna.
Ha appena disattivato il sistema di sicurezza e l'anti-taccheggio... Una cosa semplice.

Ci basterà distrarre i presenti, ma a questo ci penso io: un rumore forte li sconvolgerà per un attimo, tanto per stare sicure. Poi è il tuo turno - e la ragazza fissò Iris con quegli occhi taglienti come una bufera di ghiaccio - di giocare sporco. Infila velocemente le quattro pietre da qualche parte, non importa dove, l'importante è che non si vedano ed esci subito.
Non sono ammessi errori.» 

Sottolineò in modo tremendamente serio.
Poi le fece l'occhiolino e si allontanò, come se Iris avesse acconsentito di sua spontanea volontà.

Ci pensò un attimo la nostra eroina, non si sarebbe data ad un furto così inconsciamente.

La giustizia era ciò che le stava a cuore, e per quanto rubare in un negozio sembrasse una sciocchezza dettata dall'adolescenza non le andava di violare l'ideale con cui suo nonno l'aveva fatta crescere.
Immaginò che sopportare il peso di un crimine non sia una cosa semplice; solo le persone spietate ci riescono senza rimorsi.

Tutto quel ragionamento fu vano: subito un forte boato riecheggiò per tutta l'area e, come aveva previsto la ragazza dai capelli fucsia tutti i presenti, clienti e commessi, si erano distratti in preda alla confusione.

«Lo faccio per le mie amiche...» Si rassegnò Iris.

Infilò velocemente i quattro bijou nella scollatura della maglia e li spinse fin dentro il reggiseno, in modo che non si vedessero (a mali estremi, estremi rimedi). Senza pensare uscì dal negozio, ora che la sua prima missione da ladra era stata completata magnificamente.

Ora aveva qualcosa su cui riflettere a lungo.

 

«Ottimo lavoro!» Si sentì applaudire con voce compiaciuta.

Era ancora la giovane dagli occhi di ghiaccio e i capelli corti fucsia acceso, che continuava a sorridere con falsa innocenza.

Accanto a lei c'era anche Velia, uscita prima di lei. Iris sperò con tutto il cuore che la vipera non le avesse rivelato nulla: quell'accusa sarebbe stata perfetta in qualsiasi litigio o disaccordo per sbatterla in prigione, portarla dalla parte del torto o ricattarla.
Però aveva seri dubbi che Velia se ne sarebbe mai servita.

«Incredibile, sei riuscita a convincerli a scontartele? Iris, sei un mostro di persuasione, ti userò come negoziatrice d'ora in poi!» La lodò questa.
Velia non ne sa nulla, allora.

Iris lanciò un'occhiata stupita alla giovane misteriosa: quindi si era inventata una scusa al posto suo per coprirla da un crimine, che non era un crimine perché era compiuto a fin di bene?
Iris doveva assecondare la sua montatura, per dimostrarle riconoscenza.

«È stata questa ragazza a convincermi a contrattare con i commessi, altrimenti sarei a mani vuote ora - e sfilò il bottino del furto con delicatezza dal suo minuto seno - grazie.»

«Di nulla.» La giovane era sempre rilassata, aveva ormai disteso la tensione iniziale. Poi aggiunse.

«Se è per qualcosa o qualcuno che ti sta a cuore bisogna sempre osare, non importa cosa comporti o se sia un bene o un male.»

Dopo quella frase calò un leggero silenzio fra le tre.

«Mi piace come pensi.» Ammise Iris.

Era davvero colpita da quella filosofia di vita: se hai la motivazione per fare qualsiasi cosa, buona o cattiva che sia, non potrai mai fallire. Il ragionamento non faceva una piega ed in più, come sappiamo, la ragazza dai capelli viola detestava perdere.

«Sembra il modo di pensare di una vincente.» Aggiunse Velia.

«Ma sai, non ci vuole molto ad applicarlo... Per esempio, - prese le mani di Velia, inquietandola leggermente - se non temi di ferire alcun Pokémon in lotta potresti arrivare a diventare qualcuno, tipo una Capopalestra.»
Quella ragazza era sicuramente ispirata.

«Io?! Una Capopalestra? Pensi in grande, sicuramente.» Ammise Velia in modo sarcastico.
Questa affermazione non sembra del tutto impossibile: quella ragazza ribelle ha talento per le lotte, ricordiamolo.

«O una Superquattro della Lega, o perfino il Campione della regione, che ne so...» Si ripeté costei.

«Perfino... il Campione?!» Quelle parole toccarono Iris.

Le diedero altro su cui riflettere.

Le tre ragazze chiacchierarono un pochino, ma Iris si astenne dal nominare la competizione alla quale aveva preso parte: non voleva tradire gli ideali di quella ragazza determinata e carismatica dagli occhi di ghiaccio.

Ecco, quella giovane dai capelli e l'aspetto alla moda vedeva bene come Campione.

«Allora, andiamo?»

Era giunto ormai un tramonto color arancio, che colorava il luogo con un gioco di luce che solo quell'estate sembrava aver mai regalato agli occhi delle tre.

Mentre le ragazze si separavano, alla giovane sorse un ultimo dubbio, da colmare all'ultimo momento.
Non era un dubbio però, era semplicemente una conferma.

«Scusa, non mi hai ancora detto il tuo nome!»
Le gridò, e la sua voce riecheggiò attraverso l'atrio semivuoto del centro commerciale.

«Eh?! Il mio nome? Calfuray Iris! - Cercò di enfatizzarlo, in modo che quella capisse - E il tuo?»

La ragazza misteriosa ora, potrà essere finalmente nominata.

«Georgia. Georgia Lang

 

 

«Perché hai deciso tutto di un tratto di farle commettere un furto?
Dovevamo solo raccogliere le informazioni mancanti, non farci amicizia!»

«Jasmine, zitta. Prendi carta e penna, piuttosto.
Calfuray Iris. Quindici anni, come me. Nata il 4 marzo. Provenienza: Villaggio dei Draghi...»

«Dove?!»

«Un misero paese al confine di Unima, ma è legalmente adottata a Boreduopoli.
...Petto: settantatre centimetri. Busto: cinquantadue centimetri. Vita: settanta centimetri. 
Comparate con quelle delle altre... Mi viene da ridere.»

«Già, ti divertirai molto nel farla fuori. È proprio vero che non significa nulla.
A proposito, non dirmi che ti ci è voluto un pomeriggio intero solo per ricavare queste quattro informazioni...»

«C-Certo che no, ho avuto anche altro da fare, ovviamente. Impegni da leader, cose del genere...»

«Ah sì, e cosa avresti scoperto? Un cavolo, penso.»

«Beh, non posso dire di non aver fatto nulla; noi tre siamo andate al karaoke, e devo ammettere che la ragazzina se la cavi bene con le parti rap nelle canzoni anche se i suoi acuti sono insopportabili, è del tutto negata con i giochi spara-a-tutto ma spacca di brutto in quelli ritmici, (ha fatto un nuovo record al primo tentativo) e mi ha stracciata due o tre volte, poi... Ah, il suo gusto preferito di gelato è alla frutta e...»

«...Ti diverte prendermi in giro, vero?»

«Mi dispiace, ma voglio vivere la mia vita prima di diventare come i cattivi dei manga, non so tu.»

 

Behind the Summery Scenery #8

1. Per quanto possa sembrare così, questo capitolo non è il frutto della cancellazione all'ultimo momento di un ipotetico capitolo in cui le ragazze sarebbero dovute andare in spiaggia per fare fanservice gratuito, avevo già pensato a questo sviluppo della trama ancora verso i primi capitoli della storia

2. Un particolare che pare stupidissimo e su cui invece mi sono ritrovata a ripensare molte volte è l'ambiguità che il mondo Pokémon serba nei confronti del reparto telefonia: nei videogiochi si usano i Pokédex o altri aggeggi strani per comunicare a distanza, ma ogni tanto nell'anime sbuca fuori qualche cellulare selvatico. Non ho mai capito come mai il perché.

Quindi ho scelto di rendere il tutto più realistico divulgando l'uso dei telefoni portatili per un semplice motivo: questa storia parla di adolescenti (più o meno), inutile mentirsi non ammettendo che il telefonino è parte integrante della gioventù di oggi.

3. In tutta la long le ragazze usano ed useranno molto, moltissimo i telefonini, per ragioni dell'intreccio, più che altro. Dunque, per far sì che voi lettori entriate al massimo nel vivo della vicenda, ecco che sono felicissima di annunciarvi che modello di cellulare hanno le diverse ragazze e qualche particolare IC riguardo l'utilizzo di esso:

- Iris possiede un Samsung Galaxy 4 Mini nero, rivestito da una cover rigida viola con il simbolo dell'infinito. Il suo sfondo è un collage di foto dei suoi Pokémon. Anche la tastiera e le icone del menù principale sono di colori sui toni del viola per abbinarsi alla cover. Siccome ha corta memoria, sua password è la sua data di nascita. Ciò permette a chiunque (soprattutto alle sue compagne e soprattutto a Camelia) di spiarne facilmente il contenuto.

- Camelia ha un iPhone 5s nero come la cover, che ha in aggiunta delle paillette dorate che formano un tuono. Da quando ha cominciato a lavorare come modella, scarica ogni giorno nuovi brani nel lettore musicale dimenticando però di cancellare quelli vecchi: le sue playlist prendono il nome dell'umore che ha quando le ascolta.

- Viste le sue modiche risorse economiche, il cellulare di Anemone è un apri-e-chiudi LG. Ciò non la fa sentire in imbarazzo con le amiche tanto quanto la rattrista il non poter andare su internet o scaricare applicazioni per fare i selfie. Sta comunque risparmiando per comprarsene uno nuovo entro la fine dell'estate.

- Il cellulare di Catlina è un Samsung Galaxy S6, con una cover gommosa rosa e dei brillantini bianchi. Cambia spesso telefonino visto che i suoi genitori gliene comprano uno ogni volta che esce un nuovo modello. Tuttavia lei lo tiene sempre in modalità silenziosa e non è raro che debba utilizzare tutto il suo credito telefonico per richiamare le persone a cui non ha risposto.

- Infine, Camilla ha ancora il suo iPhone 4s, sebbene lo schermo sia pieno di graffi e di crepe e non abbia ancora cambiato lo sfondo pre-impostato. Le capita spesso questa stressante situazione: scrivere messaggi chilometrici rifiutandosi categoricamente di utilizzare le abbreviazioni e ricevere risposte a monosillabi. È inoltre una maniaca delle visualizzazioni e dell'ultimo accesso.

4. Mi era passata per la testa la mezza idea di inserire anche Velia fra le protagoniste assegnandole il colore fucsia, ma avevamo già la ragazza con le tette piccole nel gruppo. Comunque sappiate che la adoro, e la shippo con la protagonista di Pokémon Nero2/Bianco2 (Mei o Rosa o Rina) per colpa della doujinshi "Sweet Collapse".

5. Allo stesso modo ho amato Georgia nell'anime, a mio parere la rivale delle compagne di Ash meglio riuscita, avrei sperato in un approfondimento migliore su di lei, ma pazienza. Mi piace di lei quella determinazione che mantiene anche sapendo che ciò che andrà a fare è qualcosa di scorretto, seppur necessario.

Ma chi voglio prendere in giro. Sbatte del character developement. A me piacciono le stronze e basta.
​Se le stronze hanno le tette poi, meglio ancora.

6.  Okay. Sicome Unima è basata sull'America e in America si usano i dollari, evitiamo ulteriori casini e non utilizziamo il sistema dei giochi: ora i soldi funzionano come gli $$$, boyz.

MONEY MONEY MONEYYYYY okay Army adesso mi volete bene, no? 

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Capitolo 9
*** Nessuno può vedere nel mio cuore, solo tu ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
🍦
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Early Summer Girls

Capitolo 9

Nessuno può vedere nel mio cuore, solo tu


Mentre guardava lo scorrere veloce e sfocato del paesaggio dal finestrino del treno di ritorno, Iris non poté fare a meno di sorridere. 
Sorridere al nulla era diventato un gesto così naturale e frequente che voleva assolutamente far notare al mondo l'esistere ed il manifestarsi della felicità.

Ricordò d'improvviso le parole di Nardo, di quattro settimane prima. 
Il Torneo... Femminile... Regionale... 

Insomma, il TRUF (le "ragioni di tempo" si erano trasformate in "ragioni di memoria" nel giro di poco tempo).

Nel suo precedente viaggio Iris aveva partecipato a diversi tornei di lotta Pokémon, a lotte nelle Palestre e sfide per vari altri propositi: alcune le aveva vinte, altre le aveva perse.

Si domandò ancora perché Nardo avesse tanto insistito affinché le future Campionesse vivessero tutte insieme nella sua tanto grande quanto bellissima residenza, condividessero ogni momento della loro giornata, dagli allenamenti ai pranzi e alle cene, perché ora si ritrovassero a combattere la minaccia del Neo Team Plasma insieme.

Insieme.

Non sarebbe stato più semplice organizzare un torneo immediato e decidere il futuro Campione per eliminazione? Il vincente prende tutto, alla vecchia maniera.

Iris riguardò i quattro bijou colorati, che riflettevano la luce del sole fra le sue dita. 
Giallo, azzurro, rosa, blu... 
Ormai quei colori li sapeva a memoria, come la frase che più di una volta le era tornata in mente.

"Essere Campione non significa solo lottare..." 

Aveva sentito suo nonno Aristide sussurrargliela nella sua testa ogni volta che il suo cuore era dubbioso, quando la sua mente era in cerca di distrazione dalla tristezza o quando nella sua vita incrociava gli occhi di qualcuno che forse sapeva darle la risposta.

La giovane immaginò che la frase non si potesse completare solo con un semplice verbo.


 

Il fruscio delle foglie ed il canto dei Pokémon selvatici creavano la colonna sonora di quel giorno di fine giugno. Inclinandosi leggermente, l'erba verde smeraldo accarezzava i piedi della ragazzina, che non aveva esitato nel rimettersi il suo adorato yukata viola. 

Il sole, prima arancione e rosso come una palla di fuoco, si stava spegnendo poco a poco mentre le nuvole velavano il cielo come coperte di seta.

Era tardi, ma Iris non si preoccupò di guardare l'ora: era fiera di essere probabilmente l'ultima ad arrivare in quel giorno di agognata vacanza, così avrebbe avuto l'occasione di sembrare una ragazza impegnata agli occhi delle sue care compagne...

Anche se ormai tutti i suoi tentativi di risultare impegnata fino ad ora erano falliti miseramente. La vita di chi è popolare non faceva per lei o per la sua personalità.

«Ragazze, sono tornata! - Chiamò, esagerando un po' nell'alzare la voce - Ragazze...?!»

Ci fu solo silenzio. Nessuna risposta.

Solo la brezza le ricordò che doveva arrendersi ed accettare il fatto che a nessuno interessasse la sua vita sociale o la sua presenza nel gruppo fosse un qualcosa di assolutamente bypassabile. 
Sospirò, ma l'impazienza nel consegnare gli agognati regali alle sue compagne la struggeva.

«Andiamo, forza!»

D'un tratto Iris sentì una voce, delle urla di incitamento per la precisione. Serie e profonde.
Aveva già capito a chi apparteneva, ed infatti si precipitò sul campo di lotta.

La visione della Campionessa di Sinnoh che lottava faceva battere il cuore della nostra eroina ogni volta, ogni singola volta. 

Lo stile di lotta di Camilla Kuroi viene descritto dagli sfidanti di tutte le regioni come "impeccabile": ogni mossa era destinata ad andare a segno, il danno inflitto non eccedeva o diminuiva mai della potenza desiderata, e la vittoria della giovane era sempre ottenuta in maniera schiacciante. 

Il suo cuore desiderava vacillare ogni tanto, giusto per sentire l'adrenalina nelle vene. Il gusto che provava nel lottare le regalava un'energia inesauribile.

Chissà se per la Campionessa lottare era qualcosa di naturale come respirare o era frutto di miriadi di macchinazioni e sforzi fisici e mentali.

«Focalcolpo, preciso ma potente, ricorda!» Gridava la bionda, con il suo sorriso agguerrito.

Inoltre quel Garchomp della regione di Sinnoh incuriosiva davvero tanto Iris: chissà se avesse avuto bisogno di anni per allenarlo ed evolverlo dal suo stadio evolutivo iniziale o lo avesse catturato direttamente in natura, come aveva fatto con il suo Dragonite. 
Aveva fatto bene a scegliere un Bijou Drago per lei. 

Rimase in silenzio, a contemplare il suo allenamento privato.

Sul campo di battaglia vi era dei bersagli bianchi, con i classici cerchi interni che denotano l'accuratezza del lanciatore. Quei bersagli però non era in plastica o carta, altrimenti sarebbe stato troppo facile per un'Allenatrice del suo rango: un disco di pietra spesso quasi mezzo metro doveva testare anche la potenza di colui che si cimentava nella sfida.

Inutile dire che lo scopo era ovviamente concentrare potenza e precisione per rompere il bersaglio e fare centro nel cerchio più interno. 

Camilla non si sarebbe arresa finché il suo obbiettivo non sarebbe stato completato.

Il suo Pokémon lanciò la sfera di energia concentrata a tutta velocità, non appena la giovane donna pose di fronte a sé il braccio con estrema concentrazione.

Un leggero vento provocato dall'impatto contro la roccia scosse i suoi lunghi capelli biondi.

Dopo che si alzarono alcuni ciottoli da terra e il bersaglio fu rotto, Iris decise di farsi notare.

«Sei bravissima!» La lodò. 

Camilla le rivolse lo sguardo in risposta, accennando un leggero inchino.

La pietra era stata frantumata dal Focalcolpo quasi del tutto, ma una piccola metà dipinta di bianco era ancora stabile: un errore minimo nella mira aveva portato la giovane ed il suo Garchomp al fallimento. 

Incredibilmente vero, ma Iris fece finta di non averlo notato.

«Sei tornata presto.» Le disse Camilla.
Iris si domandò seriamente se "tardi" per le persone adulte significasse orari improponibili per il corpo quali le quattro del mattino o le undici di sera.

«Dove sono tutte?» Le chiese.

«Hanno i loro impegni, lo sai. Anche tu oggi dovevi andare a fare shopping, giusto? Hai trovato ciò che cercavi?» Si interessò la bionda dallo yukata bianco.

«Certo.» Iris sorrise al suo stesso ingegno. 

Poi le venne in mente che oggi doveva essere il loro "giorno di vacanza"... allora perché Camilla si stava allenando?

«Tu oggi ti sei allentata?» Chiese rispettosamente. 

La giovane donna annuì.

«Mi pare ovvio. Avevo bisogno di insegnare e rinforzare una mossa di tipo Lotta. Se non ricordi la leader del Neo Team Plasma usa Pokémon di Tipo Ghiaccio. 
Non ci si allena mai abbastanza in questi casi.»

Ghiaccio... La connessione per noi è immediata ma la mostra eroina dai capelli viola avrà bisogno di ancora un po' di tempo per rendersene conto. 

Ciò di cui si accorse in quel momento fu di quanta dedizione Camilla poneva nella lotta. Una Campionessa, la più forte del gruppo, la leader, che rinunciava a divertirsi per dedicarsi ad un allenamento, perfino senza rimorsi. Aveva davvero tutto quel bisogno di allenarsi? 

Iris non sapeva come reagire. Decise di non essere guastafeste, magari la giovane donna ci teneva davvero che le sue vittorie fossero perfette e calcolate (e non azzardate e sofferte come le sue). Ci sono modi e modi di vincere.

«Hai fatto bene... che mossa era quella?» Domandò con falsa curiosità.

Lo sapeva bene che mossa fosse quella. Ma ormai la parte della ragazzina innocua ed innocente era la facciata che più amava mostrare alle sue compagne, specialmente alla bionda.

"Focalcolpo. È un genere di mossa che necessita sia precisione sia potenza, dato che ha il settanta percento di possibilità di fallire, o mancando il bersaglio o esagerando nel rilascio della sfera.»

La spiegazione fu davvero breve. 

La giovane dai capelli viola decise così di accettare quella sfida complicata con animo fiducioso. Dopo tutto ciò che quel giorno aveva fatto il suo cuore le ripeteva "posso farcela" come un ritornello. 

«Mmm... magari anche Dragonite potrebbe impararla... Tanto vale provare.»

«È una cosa complicata - la ammonì Camilla - non sono neppure in grado di fornirti una spiegazione precisa sul come attuare la mossa. Ma tu prova, se vuoi.»

Lo aveva detto come se il non riuscirci di Camilla implicasse il fallimento di chiunque altro per puro dogmatismo. Però c'è da dire che quelle parole erano tutto sommato veritiere.

La donna non voleva assolutamente tradire il principio di impegno e fiducia che aveva infuso in quella sua piccola apprendista, ma avrebbe bilanciato quella commiserazione con altrettanta gentilezza. Era il modo più giusto per non ferire il suo orgoglio.

«Quindi anche Camilla dovrebbe affidarsi solo alla fortuna per riuscire nella mossa? Davvero ciò non richiede talento, abilità o esperienza? Davvero io ed una Campionessa pluripremiata siamo alla pari in questa sfida?» Si domandò Iris.

Come al solito, il suo nuovo Pokémon di Tipo Drago brillava di fresco orgoglio. Dopo che la sua Allenatrice gli ebbe accarezzato affettuosamente il muso, si schierò di fronte ad uno di quei dischi bianchi di pietra.

Iris allora, come ogni Allenatore, chiuse gli occhi e concentrò la sua precisione e la sua potenza nel braccio sinistro, ponendolo avanti a sé, spingendo anche lei una metaforica sfera.

«Dragonite, Focalcolpo.»

Con grande concentrazione, lasciò che il cuore di Allenatore e Pokémon si combinassero.

Dopo un boato e l'alzarsi di un turbine di polvere, Camilla le appoggiò le mani sulle spalle distraendola dalla sua profonda concentrazione.

«Sei proprio un prodigio della lotta, sai? Più Nardo me lo ripete e più io me ne convinco. -  E Iris si ritrovò catturata per l'ennesima volta dal suo accattivante sorriso. - Ora perché non andiamo a farci un bagno nell'onsen per riposarci?»

La ragazzina capì che il suo sforzo le aveva giovato all'autostima, quindi il risultato non contava. 

Lasciò che la giovane Campionessa le prendesse la mano per accompagnarla nella bellissima vasca di pietra sul retro del giardino.

Prima però Camilla voltò lo sguardo indietro.

Il bersaglio che lei non era riuscita ad abbattere in precedenza, nonostante tutto il suo impegno, la sua esperienza e la sua buona volontà, quella ragazzina lo aveva letteralmente raso al suolo. 

All'inizio non ci credette, ma la cruda realtà la convinse a dimenticarsi della sua idea di perfezione.

Le strinse più forte la mano e camminò il più velocemente possibile, presa da un certo fastidio. Si ricordò della voce che correva su di lei e sul fatto che davvero fosse rimasta imbattuta per cinque, o forse più anni.

Ma andava bene così. 

Finché Iris non si accorgeva di aver vinto, lei non aveva perso. 
Finché nessuno vedeva i suoi fallimenti, neppure lei li avrebbe visti.

Del resto Camilla Kuroi è una Campionessa che non può assolutamente permettersi di perdere.

 

«Senti, mi aspetteresti? Devo mettermi il costume...» Accennò Iris, guardando il suo riflesso sull'acqua del tardo tramonto, somigliante a succo d'arancia.

«Non te l'ho detto che le altre ragazze faranno tardi e che Nardo è uscito? Ci siamo solo noi due, ora.» 
Le rispose Camilla, sorridendo.

Iris si fermò a riflettere totalmente basita. Cosa intendeva per "solo noi due"?

«N-Nel senso che...» Cercò di spiegarle la ragazzina. 
Un senso forse lo aveva trovato, ma le parve troppo irreale. 

Camilla le prese le mani ed in quel momento il cuore le scivolò in gola.

«Iris, mi slacceresti l'obi? La cintura dello yukata, intendo.»

Iris, ancora più confusa di prima, le sciolse la cintura, facendo scivolare il nastro sul pavimento. Perché stesse obbedendo così ciecamente, si chiedeva. 

Camilla fece lo stesso con lei.

«Lo sapevi? Nella cultura tradizionale orientale farsi il bagno con un'altra persona significa condividere un momento di profonda intimità e rispetto. È un'ottima occasione per conoscersi a vicenda. 
Può sembrare una cosa un po' strana, ma questa tradizione risale ancora alla Grande Guerra, non ha limitazioni di sesso ed età e porta solo benefici al corpo ed alla mente.»

Osservando un punto a terra, Iris ascoltò passivamente quelle parole senza averne decifrato neppure il senso da quanto si sentiva scossa dalla confusione.

E scossa anche dall'emozione, perché nel punto che stava ossessivamente fissando si erano accumulati, cadendo dolcemente come leggeri petali in primavera, prima lo yukata bianco, poi un reggiseno dalle coppe piuttosto ampie e dulcis in fundo, un paio di mutandine abbinate alla parte superiore dell'intimo.

La giovane donna intanto si era completamente spogliata, sotto gli occhi sconcertati e allo stesso tempo incantati della nostra eroina.

Le fantasie di Iris non furono mai così vivide: mentre quella pelle bianca come il latte si immergeva con grazia nell'acqua calda dell'onsen, i suoi occhi grigio platino scintillavano come perle di mari lontani. 

Un sorriso dolce la invitava ad abbandonarsi a quelle attenzioni amorevoli: era il suo cuore o il suo corpo a desiderare Camilla? 

Doveva ricompensare quell'apertura, quel desiderio di amicizia che una ragazza più grande le stava offrendo. 
Ma per farlo non poteva continuare a fissarla. Almeno non indossando ancora lo yukata e quel pesante imbarazzo.

In silenzio, Iris si sfilò l'intimo, respirando piano quell'aria densa e dolciastra e le si sedette accanto, facendo attenzione a non sfiorarla. 

Eppure Camilla le pareva davvero vicina.

Cercò di non farsi prendere da strane fantasie, anche se i suoi occhi non si staccavano più da quella pelle chiara, in perfetto contrasto con la sua: ogni particolare di quella ragazza, anzi, di quella donna, era semplicemente perfetto.

Come già abbiamo accennato il corpo della Campionessa di Sinnoh non era eccessivamente magro e la carne si concentrava nelle zone esatte, facendo risultare il suo fisico simile ad una clessidra: i seni fuoriuscivano leggermente dall'acqua e la loro forma rotonda li rendeva davvero invitanti. 

Camilla aveva visto il suo corpo cambiare drasticamente con il passare del tempo e soprattutto il suo petto crescere notevolmente, fino a raggiungere la misura della quale era più che modesta.

Secondo lei il seno non deteneva il vero valore di donna, provava solo un grande piacere nel mostrarsi e farsi apprezzare per com'era, senza alcuna presunzione: anche se era una vergine, la nostra Camilla desiderava terribilmente essere toccata, abbracciata e amata.

Scendendo verso il basso, la pancia e i fianchi avevano la forma di un imbuto, contendo perfettamente la tenera carne della giovane, che terminava nelle sue natiche lisce e rotonde, appoggiate contro la superficie della vasca,:schiacciate dal peso del suo corpo.

Ma per discutere della bellezza delle nostre protagoniste e lodare i loro meravigliosi corpi, ci saranno molti altri momenti in cui potremo ammirare la beltà delle ragazze della regione di Unima.

La giovane bionda si sistemò il ciuffo biondo sull'occhio sinistro, per poi appoggiarsi con i gomiti al bordo della vasca; rivolse uno sguardo di interesse a Iris.

«Dato che abbiamo l'occasione di conoscerci, chiedimi ciò che vuoi sapere di me. Anche cose banali, tanto per chiacchierare un po'.» Le disse.

 La ragazzina si chiese se ci fosse davvero qualcosa che desiderava sapere su di lei. 
Non voleva scadere in una domanda scontata, o il contrario, sembrarle invadente. 

Dovette pensare in fretta però. Dovette giocare una carta ad occhi chiusi.

«È vero che non sei mai stata sconfitta?»

Questa domanda in effetti necessitava dei chiarimenti: Camilla non aveva mai perso una lotta da quando era diventata Campionessa? Non aveva mai perso una lotta ufficiale? O davvero non aveva mai ricevuto una sconfitta in tutta la sua vita?

La nostra eroina, come noi, fu curiosa di saperlo.

«Sai, sono diventata la Campionessa della Lega Pokémon di Sinnoh a quindici anni, alla tua stessa età. È stato difficile arrivare fin lì. 

Se avessi "perso" come dici tu, anche una sola volta, dove pensi che sarei ancora ferma? A rimpiangere la mia sfortuna? A cercare la motivazione nei beni materiali? - la donna sorrise, con sguardo vincente - Certo che no. 
Non ho mai "perso" una lotta. 
Suppongo sia un bene: spinge a migliorare, ad evitare gli errori e ricercare la perfezione. Può sembrare assurdo, ma il mondo è pieno di assurdità, giusto?»

Dopo queste parole, l'ammirazione di Iris nei confronti di quella ragazza crebbe alle stelle.

Le precedenti parole di Georgia, che garantivano la vittoria a chi ha uno scopo da raggiungere, erano state smentite da quella teoria della soddisfazione. 

E aveva più fiducia nella sua leader che ammetteva modestamente la sua stessa invincibilità, che in un'estranea che l'aveva costretta a commettere un furto (ancora ne sentiva il rimorso).

«E non hai un obiettivo in particolare? Insomma, un qualcosa che desideri con tutto il tuo cuore e per cui faresti di tutto...»
Iris si ricordò di aver già posto questa domanda ad Anemone.

Camilla la interruppe però, mettendole l'indice davanti alla bocca.

«Shh, tu mi hai già chiesto quello che volevi. Ora anche io voglio sapere una cosa su di te.»
La giovane bionda le si avvicinò parecchio, tanto che ormai le loro cosce erano le une a contatto con le altre. 

Se si fosse girata di qualche centimetro, il suo seno avrebbe inevitabilmente toccato quello di Iris... Ma andava bene anche così.

«La tua pelle color caramello... Il colore scuro dei tuoi occhi... Il tono della tua voce... La forma del tuo corpo...» 
Sussurrò Camilla, mentre con le dita percorreva dolcemente il corpo della ragazzina. 

Solo in quell'istante il cervello di Iris la informò con secco realismo di essere nuda, di essere più giovane e accusandola con noioso moralismo di starsi facendo viziare da quelle coccole seducenti. Ma la ragazzina lo ignorò palesemente.

Quando il dito della Campionessa arrivò ad accarezzarle la punta del mento e la costrinse ad alzare lo sguardo per guardare direttamente quegli occhi color platino, Camilla arrivò al punto del discorso.

«Non provieni da Boreduopoli come ci hai detto, vero?»

Quell'atteggiamento da serpe maledetta che attraversa lentamente il corpo della sua preda per giungere infine a morderne il collo, spaventò Iris. 

Per una seconda volta, la Campionessa l'aveva smascherata. 

In effetti, si era chiesta tante volte fino a quanto la farsa della sua presunta origine detta al momento del loro incontro sarebbe andata avanti. 
Sperava davvero che le altre ci cascassero, che non le chiedessero spiegazioni o scoprissero di lei e il suo passato.

Mordendosi il labbro, decise di rimediare a quell'insulto non solo all'intelligenza di Camilla, ma anche a quella delle sue compagne, qualora lo avessero capito anche loro.

«Non sono proprio brava a mentire.» Ammise, imbarazzata.

«Credevo ti fidassi di me...» Le ribatté Camilla, con tono di ironico dispiacere.

«N-Non sono nata a Boreduopoli, ecco tutto. Ma ci vivo da quasi dieci anni, e per me è come una casa. 
Ma anche se ti spiego... Non capiresti...»

«Io non voglio capire. Voglio sapere. Puoi raccontarmi qualsiasi cosa, sta a me capire se stai mentendo o sei sincera.»

Un leggero silenzio inebriò l'atmosfera a quella risposta assai intelligente.

«... Sono stata adottata. Punto e basta. Mio nonno Aristide... Non è mio nonno naturale. 
Lo so, avrei dovuto dirlo subito, ma non mi piace venire commiserata. 
Anche se sono la più piccola, la più inesperta o la più debole voglio che voi siate sempre voi stesse. Non voglio trattamenti speciali e non vi devo deprimere con le mie storie.»

Iris respirò profondamente. Si sentì libera da un peso, appena Camilla le prese la mano.

«Capisco... Esattamente come mi ha detto Nardo.»

«Eh?!»

«Scusa, devo perdere l'abitudine di pensare ad alta voce - Iris credette di aver capito male. Subito la giovane donna riprese. - E allora da dove vieni?»

«Una domanda ciascuna, avevamo detto questo!» La riprese Iris, scherzando.

«No.» Fu la risposta pacata di Camilla.

«Come "no"?!» Iris si stava spaventando, rilassando ed eccitando tutto allo stesso momento.

«No. Non ho un obiettivo materiale. Lotto perché mi piace, mi soddisfa e mi sfoga. Non mi interessa altro, non desidero altro dalla vita.»
La giovane rispose alla domanda che Iris le aveva posto prima. 

Le due teorie sul senso della lotta, quella di Georgia e quella di Camilla, saranno una calda questione per un dibattito. Entrambe, per ora, sono valutabili corrette.

Iris volle contraccambiare: raccolse il suo coraggio, per svelare il suo segreto.

«Conosci il "Villaggio dei Draghi"? È un piccolo paese al confine di Unima. Io... Vengo da lì. N-Non me lo sto inventando, esiste davvero!»
Cercò di spiegarsi velocemente la ragazzina. Si sentì per un attimo patetica. 

Ma solo per poco, data la vasta conoscenza della sua interlocutrice.

«Si, lo conosco. Ma sei stata fortunata, lasciatelo dire.»
E mentre lo disse, Camilla ebbe l'istinto improvviso di spingere Iris contro il suo corpo. 

Allargando le gambe, le avvinghiò alla vita della ragazza, traendola verso di sé. 
Circondò il suo viso con le braccia, spingendo il suo volto contro il suo stesso grande seno. 

In quella posizione Iris non seppe più come reagire: non era mai stata così vicina a qualcuno. Non era mai stata nuda fra le braccia di qualcuno, di una ragazza più grande di lei, perlopiù.

Decise di arrendersi, lasciare che il desiderio di godersi l'amicizia di quella Campionessa imperversasse su ogni convinzione. 

Appoggiò il viso contro il suo seno bianco, sentendo sulla guancia la sua pelle liscia come la seta, la morbidezza e il calore della sua carne. Con delicatezza, appoggiò la mano sulla spalla di Camilla: l'umidità del vapore però la fece scivolare piano e, con una carezza, arrivò a toccarle il seno sinistro senza premerlo per paura di farle male. 

Iris riuscì a sentire il battito del cuore di quella vergine.

D'un tratto sentì sussurrarle all'orecchio.
«Stai crescendo cara. Stai diventando bellissima...»

Detto ciò, Camilla le stampò un bacio sulla guancia e la strinse ancora più forte.

Forse è stato un errore da parte nostra non rivelare che anche Iris, sebbene sia la più giovane fra le ragazze, avesse comunque un corpo decisamente apprezzabile.

I suoi quindici anni li dimostrava solo in altezza: non aveva mai dato valore al suo aspetto fisico fino a quelle fatidiche parole. 

Alta, snella e longilinea, la sua pelle dall'abbronzatura uniforme color caramello non si schiariva nelle parti intime, sul sedere e sul seno, confermandone la naturalezza.

E anche se più volte è stato ripetuto che le sue misure non fossero sviluppate come quelle delle altre ragazze, il destino doveva stare giocando il suo asso nella manica, un imbroglio alla visione comune di un'estetica esageratamente ingiusta. 

Forse era ancora giovane, non sapeva se fosse stato temporaneo, forse davvero la sua bellezza risiedeva in piccoli particolari, come la silhouette perfettamente bilanciata ed armoniosa che il suo corpo disegnava, quella propria di un'innocente fanciulla nata dalle ceneri degli stereotipi comuni, bruciati dalla semplicità e dalla purezza, come se si trattasse di una statua greca. 

Doveva avere più fiducia in se stessa, la nostra eroina.
E quella posizione ravvicinata ed intima la ispirava. 

Le due ragazze avevano sempre più una più voglia dell'altra, separarsi da quell'abbraccio vitale pareva impossibile. 

Se l'amicizia, il rispetto e la fiducia siano forme d'amore possiamo domandarlo solo a Dio.

«Camilla, - sussurrò Iris piano, schiacciando la guancia contro quel morbido seno - grazie.»

«Di cosa?» Le domandò la donna, leggermente curiosa.

«Di... Tutto. Di proteggerci, di incitarci, di aiutarci, di volerci bene... A nome di noi quattro siamo felici che tu sia la nostra leader. 
Più che una leader per noi sei... Come una sorella maggiore.»

A quel punto Camilla non seppe come reagire. 

Davvero, la spaventava leggermente tutta la fiducia che non solo la sua Iris, ma anche le sue tre restanti ragazze avevano posto in lei. Non poteva permettere che qualche desiderio o qualche ricatto strappasse quella fiducia, o avrebbe rischiato che una di loro finisse per perdere quell'agognato sorriso che aveva cercato di donare a quelle quattro ragazze già dal momento in cui le aveva viste dall'alto della Lega di Unima. 

Infatti, Camilla conosceva cosa si nascondesse sotto ogni sorriso di Anemone, Camelia, Catlina ed ora anche dietro quello radioso ed innocente di Iris. 
Aveva chiesto di approfondire a Nardo, prima.

Non poteva perdere, mai più, neanche per sbaglio, che si trattasse di lotte o di vita.

Per un po' Camilla si ritrovò a baciare inconsapevolmente la ragazzina fra le sue braccia, con baci leggeri e trasparenti, ma con un ritmo abbastanza regolare.

«No... Grazie a voi. I vostri sorrisi sono ciò che più mi interessa. 
Anche se un giorno finirete per scontrarvi per il titolo di Campione, non smettete mai di comportarvi come ora.»
Le sussurrò, respirando l'aria calda che traspariva dalla vasca. 

Ormai il sole era calato ed un tappeto di stelle illuminava il cielo nero, come i brillanti di una corona.
Per le due fu il momento di sciogliersi; Iris però non volle mollare la mano della Campionessa.

«Questa sera ci sarà un festival in città; potremmo andare a mangiare fuori, e magari guardare i fuochi d'artificio...»

«Non potrei essere più d'accordo.»
E sorrisero insieme, all'unisono.

Quell'estate, il sogno di ogni ragazza di quindici anni.


 

D'estate le notti si allungano. Diventano più luminose, più colorate, più rumorose. E la leggera afa scalda l'atmosfera, rendendo le notti ancora più calde.

Ancora più vive. E anche più romantiche, se il sesso di tarda serata in un parco completamente deserto alla periferia di Sciroccopoli si può considerare "romanticismo".

Evitare i paparazzi doveva essere la priorità, ma era una priorità così effimera che entrambe se ne dimenticarono subito, non appena la ragazza sentì il seno libero dal reggiseno sganciato, ma comunque coperto dal top che indossava.

«Ho bisogno di stare con te; ho bisogno di farlo con te.»

Corrado aveva mantenuto quella promessa, era riuscito ad ottenere brillantemente ciò che voleva, soddisfatto della sua abilità persuasiva: doveva ritenersi il ragazzo più fortunato del mondo, se la nostra modella dai capelli nero come la notte e gli occhi lucenti come l'alba gli stava baciando il collo, e seduta fra le sue braccia gli donasse il piacere tanto desiderato.

Camelia aveva notato come quella giornata si fosse consumata lentamente, come la cera di una candela accesa, silenziosamente, finché la fiamma non arriva ad arrostire anche la sua stessa base. 

Neanche una parola da colui che amava, neanche un segno d'affetto fino a quel momento in cui lei passava le sue umide labbra sulla sua pelle, ruotando la lingua con movimenti circolari, ispirando l'odore della sua carne ed il suo leggero sudore.

Davvero esilarante: lei non voleva neanche essere lì quel giorno.

Camelia era brava ad assecondare, a fare ciò che gli altri desiderano; in verità era a scopo di difesa, per non dover sentire il resto del mondo continuare a ripeterle che è ad essere sbagliata era lei e non la loro inutile opinione.

Si chiedeva se Corrado sapesse leggere il suo cuore, se capisse quanta paura ci fosse dietro il suo falso sarcasmo e la sua falsa sicurezza.

Sperò di no, che anche lui avesse bevuto la storia della modella orgogliosa, bella, dalla lingua tagliente e il fisico di una dea; sperò che la ragazza fragile e ferita, che piange in solitudine ripensando ai rifiuti subiti nel suo orrido passato non l'avesse mai conosciuta.

Ed intanto, mentre l'animo vacillava, le loro labbra si toccarono, la sua lingua spinta contro quella di lui, per spegnere il mondo intorno a loro non appena Corrado chiuse gli occhi, per assaporare quel momento di intensa passione.

Se la bocca della giovane non fosse stata occupata gli avrebbe chiesto: "Mi ami?"
Ed una voce dentro al suo cuore avrebbe aggiunto: "Mi ami veramente?"

I suoi occhi si alzarono al cielo per un momento: quella distesa vuota si era coperta di stelle per lei, proprio in quella notte buia. Ognuno di quei punti lucenti vegliava su di lei, perforando quell'oscurità crescente. 

Non era uno spettacolo da film, ma la sicurezza che quegli astri le infondevano le giovava particolarmente; era capace di apprezzare quella scena, decisamente più gradevole della sua snervante ed insapore giornata... 

Si chiese se anche Camilla, Catlina, Iris ed Anemone le stessero guardando.

Se solo avesse rifiutato quell'appuntamento, il suo corpo non si sarebbe riempito di tanto dolore. 

Non le era chiaro se stesse odiando di più se stessa, il suo ragazzo, o il loro amore.

E mentre fissava il cielo, Camelia desiderò più luce per la sua giovinezza; anche se, quella terra non era il luogo esatto in cui andarla a cercare. 
Le stelle non cadono a terra, non cadono mai così in basso, neanche per far avverare i desideri.

«Sei distratta stasera... Lascia che ti riporti alla realtà.»
Quella voce era di Corrado, proprio quella voce le fece cadere l'intera volta celeste sulla testa. 

La sua mano le circondò la testa, infilandosi fra i suoi capelli nero tinto, esercitando pressione, con quella forza che solo il desiderio di lussuria sa dare. 

Il ragazzo spinse la testa di Camelia verso il basso, mentre le mani di questa cercavano appoggio: la destinazione di quel gesto sarà un deplorevole cliché, abbastanza adeguato a quell'atmosfera però. 

Possedendo letteralmente la ragazza più sexy di Unima sulle sue ginocchia, non poteva che desiderare di ridurla schiava di ogni suo piacere, ignorando totalmente la sua dignità.

Quella muta notte di periferia sarebbe stata testimone delle voglie sessuali di un ventenne da lungo tempo astinentw se la nostra eroina non avesse finalmente detto la verità. 

Senza mezzi termini, senza contare su quelle inutili battute che rendevano il suo dolore interiore simile ad uno scherzo. 

Si stupì di quanto fosse facile dire “no”, di quanto il suo suono, detto con convinzione fosse tanto potente da fermare tutte le torture a cui le sue stesse bugie la stavano sottoponendo. 

Troppo semplice ed indolore, per essere reale.

Il suo fidanzato infatti la scortò con occhi truci: quanto deve essere frustrante non riuscire ad ottenere il sesso orale tanto agognato...

«Che ti prende? Seriamente, stai diventando davvero stupida in questi giorni.»
La aggredì lui. Non doveva aver considerato di sembrare più aggressivo che mai.

«Amore, non ho voglia stasera, - cercò di difendersi la ragazza, suonando davvero patetica - non muori se per una sera non te lo succhio.»

Lui accese svogliatamente una sigaretta, la cui cenere brillava di un rosso acceso. 
Tenendola con l'indice ed il medio la passò alla giovane.

«Fai un tiro, se sei nervosa.»
Per lui questo metodo funzionava, e non aveva voglia di trovare un'alternativa per convincere la sua ragazza a calmarsi.

«È inutile. - lo fermò lei, gettando il mozzicone acceso a terra - lo sai che...» 
Stava per cominciare un discorso che ripeteva da quando lei e Corrado si erano appena conosciuti, e così le loro voci si unirono svogliatamente in un coro per nulla sincronizzato.

«Ah... Se fumi le tette ti si ammosciscono, perché il fumo distrugge l'elastina, una proteina che rende la pelle tonica...»
La giovane aveva ripetuto in modo convinto la sua teoria per la quale si teneva lontana non solo dagli alcolici, ma anche dal tabacco. 

Corrado invece dopo averla presa in giro ripetendo le sue stesse chiacchiere, si zittì.
Del resto, era l'ultimo a poter commentare, se per primo aveva messo le mani dentro il reggipetto di Camelia, toccando insieme ai suoi morbidi seni un pezzo di paradiso.

La ragazza scese dalle sue ginocchia: si sentiva violentata dentro.
A quel punto Corrado sospirò: un sospiro troppo breve e sonoro per sembrare involontario o dispiaciuto. 

Camelia si rese conto che stava per cominciare un lungo discorso.

«Il nostro amore non ha senso. Tu non hai assolutamente voglia di impegnarti in una relazione seria.» Ammise, rilassando il corpo in una posizione più comoda. 

«Credevo che il nostro amore avesse senso finché nelle foto sorridevamo e io ti lasciassi insultarmi, sfruttarmi e sopratutto toccarmi senza pretesti...»

Dopo aver realizzato ciò che aveva detto, a Camelia venne voglia di prendersi a schiaffi, questa volta più forte, magari perfino offendendosi da sola. La sua mente aveva tradotto quella freddura con un "sei un egoista che mi toglie la libertà di scegliere, sono io la vittima qui, non obbligarmi a fingere di essere interessata a te".

Lo aveva ferito in pieno; ma quel ragazzo non sarebbe scoppiato a piangere, come avrebbe fatto lei. 
Si ricordò di essere lei ad avere bisogno di lui, non il contrario.

Il giovane dai capelli biondo saetta volle segnare la sua stoccata finale. 
Era inutile. Le ragazze viziate, che pretendevano così tanto “rispetto” non gli piacevano. 

Chissà se quella modella falsa come i suoi capelli tinti avrebbe imparato a vivere nel mondo prima o poi, o si sarebbe convinta fino in fondo che il cosmo girasse intorno a lei.

Corrado estrasse il cellulare, quel maledetto cellulare dalla tasca, illuminando lo schermo in mezzo a quella notte buia: i suoi occhi funsero da magnete   contro quelli di lei, attratti più che altro dallo sfondo del telefono; l'ennesima foto di loro due che sorridevano.

Con nonchalance lo pose sulla mano della ragazza, con un sorriso ambiguo sul viso.
«Camelia, sei una ragazza tosta, lasciatelo dire.»

Dopo questa confessione, la ragazza si decise a guardare lo schermo di quel cellulare. Ma se ne pentì amaramente.

«Quando ti deciderai a lasciare quella modella schifosa? È quasi un anno che io e te ci facciamo in segreto.
Non voglio essere la tua amante. Voglio essere la tua fidanzata.

Wow, che delusionali le tue ammiratrici. Neanche un cuoricino o un'emoji hanno messo.»

«Vai avanti senza commentare, puoi farcela se ti impeegni.»

«Il più presto possibile amore mio...? Poi la tizia risponde a te: quella stupida montata non ti merita. Io non sono come lei, lo sai. 
Non hai bisogno di fingere come lei. Hai proprio sprecato il tuo tempo con quella scema...
» 

Lo shock fu tale per Camelia che non riuscì ad emettere neanche una frase sensata per chiedere spiegazioni, anche se, cosa c'era da spiegarle? 

Tutto era stato pianificato a sua insaputa, quella relazione clandestina procedeva da abbastanza tempo, e ora che ne era venuta a conoscenza desiderò staccarsi i bulbi oculari. 

La ragazza trattenne l'istinto di cacciare un grido isterico, mentre il trucco pesante cominciava ad irritarle gli occhi. 

Incredibile. Il suo stesso fidanzato, la persona che lei amava e forse l'unico uomo della sua vita di cui si fidava, le aveva sbriciolato davanti agli occhi la sua maschera di sicurezza, solo per divertirsi nel guardare il viso che nascondeva sotto.

«Miyagi Jasmine, viene da Johto. Ha la tua stessa età ed è anche lei una Capopalestra. Uscivo con lei prima di conoscerti.
Dovresti incontrarla, è così una brava ragazza... - disse il giovane, con tono sadico - Esattamente il tuo opposto, direi.»

«Mi stai tradendo, vero?»
Camelia lo disse piano, quasi sussurrandolo. 

Come un deserto a corto di pioggia i suoi occhi le proibivano di piangere. 

A lui non poteva fregare di meno se la sua fragile ex si fosse sentita ferita, ormai quella “Jasmine” deteneva il posto di priorità nella vita di Corrado, un tatuaggio indelebile sul suo cuore.

Il ragazzo annuì. Il suo precedente comportamento fuori dal normale era solo la fine del loro amore. 

Questo stava per andarsene, lasciandola lì, in quel parco, in quella notte desolata, in quel mondo marcio e meschino. Era il suo "a mai più".

«Non mi puoi lasciare così! Non anche tu!»
Camelia gridò allungando un braccio per fermare quell'istante d'inferno, per riportare indietro quella persona che stava svanendo nell'oscurità. 

Aveva capito che la sua vita si stava ripetendo, ogni cosa ritornava a galla, come se non fosse più stata in grado di soffocare il suo miserabile passato. 

Ancora però nessuna lacrima era scesa.

Un rumore sordo, appena la mano di lui le colpì con violenza il viso, due volte.
Un istante dopo la ragazza si ritrovò a terra, sorreggendosi su un ginocchio. 

Non le venne spontaneo rialzarsi, ma posarsi una mano sulle guance, percependo la sua pelle tremare per il dolore, il suo animo per l'umiliazione.

Non era possibile, un altro schiaffo solo per aver detto come stavano le cose. 
Non le restò che farsi dare il colpo di grazia, mentre Corrado si era già allontanato.

«Non hai bisogno di nessuno, eh? - e con tono sarcastico, la guardò un ultima volta negli occhi - come sei falsa... E stupida.»

Dopo qualche minuto, solo il silenzio della notte si abbinava alla sua vuotezza interiore.

Per qualche ragione Camelia non volle sfogare i suoi sentimenti, anche se la sua snella e bellissima figura era l'unica rimasta in quell'angolo di nulla. 

Decise di andarsene.

Finalmente, di lasciare il parco della periferia della città natale.
Correre via, una volta per tutte, dal flashback lungo e doloroso che la sua mente le propinava da quando aveva messo piede lì. 

Ingiusto. Era come tenere un aspro limone stretto fra le labbra, l'essere tradita e rifiutata da colui che lei aveva provato ad amare con tutto il suo cuore e la sua forza. 

Le parve ironico ed umiliante. Non sapeva se ridere o piangere di tutto ciò.
Del resto, non era la prima volta per lei.

«Questo posto...  Fa schifo come sempre. Sono venuta qui un po' di anni fa, una notte.
La notte in cui proprio mio padre mi ha tradito, umiliato e dato della falsa per aver detto la verità.
Come farò a dimenticare? Lasciamo perdere...»

Mentre la ragazza camminava nella notte, sentì ancora il freddo sulle spalle. 

La solitudine spirava da un vento leggero, ma abbastanza tagliente da lacerarle il cuore.

Sorrise amaramente, passandosi una mano sui capelli, mentre, con le cuffie alle orecchie, ripeteva una triste canzone d'amore, e la periferia si faceva sempre più una lontana illusione.

«Gli uomini non fanno per me, ma io... Vorrei amare, un giorno.»

Prima di preoccuparsi dello scandalo che i giornali avrebbero tratto dalla sua falsità inconscia, Camelia si sforzò di accettare il volere del fato: che sia Corrado che suo padre dovessero avere entrambe gli occhi azzurri.

 

«Abbastanza penoso come giorno di vacanza.»

Il cigolio della suola di scarpa che striscia fastidiosamente sull'asfalto era solo la melodia, mentre una pioggia battente accompagnava i respiri infreddoliti e seccati di una giovane.

«Perché a Ponentopoli piova sempre, mi chiedo. E perché la pioggia e i miei impegni siano sempre sincronizzati.» 

Lanciò un'occhiata all'orologio, inevitabilmente preciso nel segnalare il ritardo capitale della sfortunata.

Il paradosso del dover lavorare a tempo pieno proprio nell'unico giorno di vacanza che avrebbe mai potuto ottenere fece gridare di rabbia l'inconscio di Anemone.

Quella era stata una giornata pesante e sgradevole, talmente tanto che le fece quasi rimpiangere di aver abbandonato il liceo per dedicarsi esclusivamente al suo lavoro. Si ricordò di quanto fosse divertente in confronto scarabocchiare sul quaderno di matematica, anche quando il sole alto nel cielo la invitava a disfarsi di quelle preoccupazioni.

La strada non si vedeva quasi sotto la luce fioca di lampioni, che illuminavano solamente gocce di pioggia grandi come secchiate. 

Anemone non aveva neanche più voglia di tenere le braccia sopra la testa per ripararsi.

Voleva gettarsi seduta lì in mezzo al nulla, solo per non pensare un attimo a quanto si sentisse presa in giro dal mondo: non avrebbe mai mostrato quella tristezza a nessuno.

Ma si trovò costretta a camminare, ripensando ai soldi che il suo sudore amaro aveva portato a casa. Ora avrebbe potuto sfamare se stessa e suo nonno. 
Poi il cibo sarebbe inevitabilmente finito. E avrebbe dovuto sudare ancora. E così all'infinito.

L'unica via che l'avrebbe estratta da questo baratro pauroso era il pensiero che il cielo non resta grigio per sempre, e che la notte è composta da un limitato numero di ore. C'era il domani per Anemone, completamente gratis. 
E i pranzi e le cene che Nardo preparava a lei e le sue adorate compagne.

La ragazza si sentiva davvero imbarazzata pensando di essere l'unica che desiderava diventare Campione solo per i soldi. 
La faceva sentire egoista, lei che egoista non era.

Un grido irruppe fra i suoi pensieri, riportandola alla realtà. 

«Hey tu, spostati, idiota!»

Anemone si voltò di scatto. 

Aveva ottimi riflessi, un fisico molto elastico ed era assolutamente conscia di essere la più agile e veloce fra tutte le sue sfidanti nella competizione. ma la tristezza e la stanchezza le appesantivano le gambe.
Rimase a guardare i fari accecanti di un auto, una bellissima auto, per qualche secondo, prima che questa le venisse quasi addosso. 

Socchiuse gli occhi, sotto quella pioggia.
«Fa che mi sia rotta le gambe... Io... Non ce la faccio più così...» Sperò inconsciamente.

Anemone si accorse subito di non aver perso i sensi come desiderava, di essere ancora nel bel mezzo della strada e di essersi solo sporcata come un gabbiano caduto in una chiazza di petrolio. 

Rimase zitta però.

«Avevi intenzione di suicidarti? Perché hai aspettato l'auto sbagliata - e sottovoce una voce femminile aggiunse - sporcare questo gioiellino con il suo sangue sarebbe assolutamente vergognoso...»

La giovane dai capelli rossi alzò lo sguardo, come se il mondo si fosse d'improvviso ingigantito: una ragazza era lì in piedi. 

Aveva i capelli di un violetto chiarissimo, totalmente diverso da quello dei capelli di Iris; erano raccolti in una coda, sistemati ordinatamente. 
Riuscì a notare nella foga come il suo trucco fosse impeccabile anche sotto la pioggia battente, per poi abbassare gli occhi e notare le scarpe di marca. 

Non le piaceva il suo sguardo. 
Doveva davvero essere seccata dal loro incontro, sebbene lo avesse deciso il caso.

«S-Scusami.» Balbettò Anemone, cercando di rialzarsi. 
Accennò un leggero inchino; doveva trattarsi di qualcuno più importante di lei, anche se cosa ci facesse una giovane riccona in giro a quell'ora le era ignoto. I ragazzi non frequentavano quelle vie.

«Ma almeno ce l'hai un ombrello?» La riprese la giovane riccona con tono acido.
La ragazza scosse la testa. La proprietaria dell'auto sbuffò, seccata.

Ma poco dopo le labbra di quest'ultima si contorsero in un sorriso forzato, come quello di una vipera. 

«Allora posso darti un passaggio. Ma attenta a non sporcarmi i sedili in pelle.»

Anemone tirò un sospiro di sollievo. Le disse a bassa voce la destinazione. 
Non era aveva mai visto un auto così lussuosa. 

Con la coda dei suoi occhi azzurri riuscì a spiare una targhetta, attaccata ad una specie di uniforme che la ragazza dai capelli azzurri indossava: Ogawa Alice, cognome e nome.

«Hai una bella uniforme, Alice.» Le disse con un sorriso. 

Voleva solo conversare, almeno per distrarsi. 

Quell'uniforme effettivamente le piaceva. Così attillata, dal colore blu scuro, ispirava una certa serietà. Aveva perfino un distintivo dorato sul petto, raffigurante un'ala.

«Uh?! - Alice si stupì che un'estranea (se così si può dire) le rivolgesse la parola. - È l'uniforme che a Hoenn viene data ai piloti che conseguono il rango più alto. Sottufficiale pluripremiato, dopo aver conseguito quattro brevetti. Diciamo che sono soddisfatta.»
Lo disse con molta sufficienza. Non la guardò neppure negli occhi.

«Allora anche tu lavori nell'aviazione? - La nostra eroina non perse la speranza nell'attaccare bottone - Che coincidenza, anche io! Diciamo che... Non sono al tuo stesso livello. Ho iniziato da poco e sono ancora semi-professionista. E i nostri salari sono incomparabili, immagino che neanche lavorando una vita riuscirei a permettermi un auto bella come la tua.»

«Che ingiustizia» voleva aggiungere, mentre rideva innocentemente di quel pesante dato di fatto. 

Incredibile che quel cielo verso cui spesso alzava gli occhi per cercare calma e pace si fosse trasformato in un business perfido e selettivo, in cui c'è chi fatica ad arrivare a fine mese per sfamare la sua stessa famiglia, e chi ha abbastanza soldi da possedere un auto con i sedili in pelle e un'uniforme che sembri davvero un'uniforme (Anemone non vedeva l'ora di tornare a casa di Nardo e rimettersi il suo yukata azzurro, odiava la sensazione dei vestiti bagnati e freddi che si appiccicano alla pelle).

Ma mentre la nostra eroina si struggeva riguardo le ingiustizie della società, Alice esibì un ghigno quasi sadico. 

Per lei era divertente quella storia, talmente penosa che suonava come uno scherzo. 
Quella sfortunata desiderava essere commiserata; ma lei avrebbe fatto totalmente l'opposto. 

Cominciò a forzare una risata sarcastica, che spaventò Anemone.

«Davvero lavori?! Quindi non sei disoccupata come credevo!»

Lo sguardo di Anemone si mescolò fra lo stupore e l'indignazione. 

Non reagì ancora.

«Beh?! Che c'è da stupirsi? Una con i capelli tinti di rosso e così spettinati non può assolutamente far parte di una compagnia aerea...» Aggiunse con tono derisorio.

«I miei capelli sono rosso naturale.» Le spiegò con pacatezza.

Non ci credette: Camelia non era l'unica ad aver creduto che lei avesse sia i soldi che il tempo per colorarsi i capelli, quando a malapena si comprava dei nuovi vestiti. 

E il fatto che i suoi ciuffi fossero sempre così ribelli e sregolati era affar suo, non credeva?

Ma quel demone in vesti umane non si diede pace. Volle continuare, sadicamente.
«Che scempio... Se non usi i soldi per comprarti vestiti e trucchi, per cosa li sprechi? Manga, anime, CD, inutili merchandise e schifezze?! Sembri il genere di persona capace di farlo.»

Possiamo immaginare che colpo duro sia stato per la nostra Anemone. Non rientrerà perfettamente nello stereotipo della sfigata, ma come sappiamo, la sua passione per i prodotti d'intrattenimento giapponesi la portò a considerarsi sbagliata agli occhi della società.

Lei lavorava seriamente, leggeva e si svagava solo nel poco tempo libero. 
E inoltre la sua dieta si basava sul prezzo, mica sulle calorie. 

Normalmente non avrebbe badato all'opinione di altri ma... Se glielo diceva una vincente, una che nella vita ha successo e non deve vergognarsi della sua condizione economica e sociale, quell'insulto la devastava. 
Il sangue le ribollì nelle vene, ma ancora una volta rimase passiva, guardando quel mostro di ragazza con gli occhi di un bimbo maltrattato.

Con l'animo e il corpo a pezzi, Anemone giunse a destinazione. 

Era pur sempre in ritardo.

Dove quella Alice avesse trovato il coraggio di distruggere ogni valore morale, calpestando la sua dignità di essere umano, specie nella condizione misera e deplorabile in cui era ed ancora si ritrovava, si chiese a malincuore la giovane dai capelli rossi.

Sbatté la portiera di quella macchina in faccia a quella lurida viziata.

«Che maleducata... Pensi che ringraziarmi urti ancora il tuo orgoglio inesistente?!»
Gridò quella giovane, fingendosi nauseata.

«Che perdente. Un rifiuto umano. Il mondo è pieno di gente povera, miserabile e abbandonata a se stessa come lei.» Si disse Alice fra sé e sé.

«Zitta stupida. O il mio Swanna traforerà la tua testa con il becco.»
Pensò a denti stretti Anemone. Ma non fece nulla di quanto aveva minacciato. 

E la pioggia cadeva ancora più forte sulla sua testa.

Sfilandosi le scarpe zuppe con i piedi, Anemone ascoltava a tratti le sgridate che suo nonno le affibbiava sempre più spesso, tanto che ormai si era presa il privilegio di ignorarle. 

Ormai venire sgridata per aver fatto ritardo da suo nonno a diciassette anni aveva cominciato a diventare umiliante. 

Forse senza che qualcuno glielo ricordasse avrebbe agito da irresponsabile. 
Ma l'essere senza responsabilità era il lusso più grande che la ragazza non poteva permettersi.

Mentre si asciugava svogliatamente i capelli dalle ciocche ribelli con un asciugamano, le capitò di connettersi per un attimo alla terra e di sentire qualche parola di quella filippica, che non fosse stata coperta da un "si, lo so", "scusa" o "non succederà più".

«Hai perso forse l'abitudine di rispondere al telefono signorina?» Le domandò l'uomo.

«Caspita, io non ho più un cellulare.» Realizzò concretamente Anemone.

Dopo tutto quello che aveva passato in quel giorno d'inferno, l'aver frantumato in mille pezzi l'unico cellulare che aveva mai avuto era il suo ultimo problema. 

Si preoccupò di più delle spiegazioni che l'indomani avrebbe dovuto dare a Iris, testimone del suo attacco d'ira. 
«Devo averla spaventata a morte...» Si disse.

Ma la sua bocca era già intenta a difenderla in un'ennesima causa persa. 

«Si è rotto.»
No, non l'avrebbe bevuta. 

Non era stupido. Gliene importava di quell'aggeggio. 
Non gliene poteva mica comprare un altro. Lei non era ricca sfondata come Alice. 

Tutti quei pensieri si aggrovigliarono nella mente di Anemone, ripetendole ancora, come se non ne avesse già abbastanza, quanto la sua vita e la sua felicità stessero toccando il fondo, in una tristezza inevitabile.

Ormai quell'uccellino che la rappresentava era caduto in un cespuglio di rovi, con le piume sporche e il becco lacerato, ed ogni tentativo di liberarsi da quell'intrigo di spine e di dolore era vano, sempre più sofferto. 

Sarebbe stata solo colpa sua se non fosse giunto alcun cibo al nido, se i suoi piccoli fossero morti di fame.

«Ma tanto, chi se ne frega.»
Anemone troncò suo nonno prima che le potesse ribattere. 

Di ribelle era solo il suo aspetto, perché quell'uomo, che si era preso l'impegno di crescere una bambina talmente problematica, non si sarebbe mai aspettato una risposta del genere da lei.

La rossa sentì di essere stata una ragazza obbediente, dedita al lavoro e alla sua famiglia per troppo tempo.

«Chi se ne frega se non ho una vita sociale, se non posso comprarmi vestiti decenti, se non posso divertirmi per una sola volta con le mie uniche amiche. Tanto io servo solo a tirare avanti qui, come se non fossi neanche tua nipote...»

L'uomo stava per zittirla. 

Ma lei ormai se ne era già andata, si era già chiusa in quella camera che rappresentava il suo cuore, come una bambina viziata dopo un litigio.

«Io non sono per davvero sua nipote... Ho sprecato la mia vita.»

E dopo quel pensiero Anemone si abbandonò al pianto, accettando passivamente la sua condizione di schiava del suo stesso altruismo.

Non voleva scusarsi con nessuno. Non voleva mostrare quella sua depressione a nessuno. Non poteva contare sull'aiuto di nessuno. 
C'era solo lei in quel mondo.

Ma poco dopo capì che così nessuno si sarebbe mai interessato alla sua felicità.

 

«Ragazze, per favore ascoltatemi.»

Era abbastanza inutile che Camilla chiedesse "per favore" per essere ascoltata, ma ciò la faceva una leader più amichevole.

«Spero che la giornata di vacanza di ieri sia stata gradevole per tutte voi - e rivolse uno sguardo ad Iris, per ringraziarla della serata "molto intima" che le due avevano trascorso all'onsen - ma oggi Nardo mi ha specificatamente chiesto di ammazzarvi di lavoro.»

Anche mentre aveva formulato quelle parole alquanto inquietanti, la giovane Campionessa non aveva smesso di sorridere.

Le quattro ragazze non ne furono stupite: quell'uomo si divertiva troppo nel maltrattarle.

«Allora - riprese Camilla - voglio che facciate del vostro meglio, come se proprio oggi vi doveste scontrare nel TRUF.»

Ad Iris venne spontaneo pensare "Io adoro questa ragazza". 

Quando si trattava di fare del proprio meglio era molto più piacevole lottare, giocare solo per vincere era davvero noioso e stressante. 
E lei si era appena riposata, le serviva tempo per rimettersi al passo, come quando finisce l'estate e il pensiero della scuola si fa sempre più vicino.

Poi la Campionessa di Sinnoh si rivolse a Catlina, che si ritrovò un po' sbigottita dall'attenzione ricevuta, nello stesso modo in cui il primo giorno l'aveva invitata ad uscire dal suo silenzio e presentarsi.

«Catlina, ti dispiacerebbe lottare contro sia Anemone che Camelia contemporaneamente?»

Quella richiesta lasciò le quattro Allenatrici senza parole.

«M-Ma, due contro una è un po' sleale...» Cercò di spiegarsi la rossa.
Solo per il fatto che si trattava di un membro dei Superquattro necessitare l'aiuto di un'altra persona la metteva a disagio. 

Chissà cosa doveva pensarne Camelia.

«Ah... Una specie di lotta in doppio?» Iris voleva chiarire.

Di punto in bianco, Camilla scoppiò a ridere, sotto gli sguardi interrogatori delle altre.

«Ho detto che avrebbero lottato contemporaneamente, non insieme. - si spiegò finalmente - Camelia, fingi che Anemone non ci sia, e tu Anemone fai la stessa cosa. Lottate distintamente, insomma. Catlina schiererà due Pokémon, voi fate del vostro meglio per mandarli K.O. - E girandosi verso la ragazza dallo yukata rosa - Va bene per te?»

«Certo.» Gli angoli della bocca della bionda apatica si sollevarono per un secondo in un flebile sorriso.

Che divertente. Camilla davvero si aspettava che si sarebbe arresa solo perché era da sola contro due Capopalestra. Non la conosceva proprio.

«Ok, cominciate!» 

Dopo aver dato il via alla lotta, Camilla si sedette accanto ad Iris.

La ragazzina dai capelli viola fu molto fortunata, poiché le tre giovani schierarono proprio i loro Pokémon migliori, proprio secondo ordine della loro leader.

Brillante come il sole, quella zebra dalla velocità e potenza abbagliante di una saetta, Camelia aveva schierato la sua fidata Zebstrika, già elettrizzata al pensiero di lottare.

Un cigno dal bianco piumaggio si era librata in aria sopra la testa di Anemone. 
Quel suo Swanna stava per mostrarle il vero significato della parola "volare".

Catlina doveva giocare il ruolo sporco, ma si sarebbe affidata alla psiche, come sempre. 
In campo, il suo Reuniclus e il suo Musharna non sfioravano neppure il campo di lotta, fluttuando in uno stato di trance.

Prima di cominciare, gli occhi di Camelia e Anemone si incontrarono per un secondo. 
Nessuno dei due sguardi però ispirava sicurezza.

I loro corpi erano ancora fermi, del resto.
Fermi nella notte precedente, a quel 'giorno di vacanza' che vacanza non era stata, uno degli ieri più dolorosi per la vita di entrambe. 

Il loro contatto visivo si staccò non appena si resero conto di dover lottare da sole, contro nemici diversi, senza contare l'una sull'altra.
Ma quello non era il momento giusto, quello non era il luogo giusto.

Camelia sentì un leggero mal di testa, strofinandosi gli occhi.
Anemone invece capì che sulla sua gamba sinistra ancora doleva un livido.
Nonostante ciò, il dolore fisico era mille volte migliore di quel vuoto sanguinante e marcio che divorava il cuore.

La battaglia cominciò secondo un ritmo regolare, con la prima mossa alla mora e alla rossa.

Iris si accorse che però Catlina sembrava impassibile. 
Stava ragionando troppo nel scegliere il contrattacco e la sua strategia di lotta non si basava assolutamente sulla passività. 

La sua teoria fu contraddetta dalle azioni dei due Pokémon, che già avevano eseguito la mossa Psichico in perfetta sincronia, in una difesa perfetta.

In effetti, Reuniclus si muoveva seguendo il ritmo incalzante della Zebstrika di Camelia, schivando gli attacchi ripetuti; nel frattempo Musharna doveva star cercando il modo con cui sbattere il Pokémon Volante a terra, per ridurre la differenza di agilità.

Spaventoso. I Pokémon di Catlina si muovevano senza ricevere ordine.

«Stupefacente.» Puntualizzò Camilla.

«Catlina riesce a tenere testa a due lotte allo stesso momento, controllando due Pokémon diversi secondo piani diversi... E tutto questo nella sua mente.»

«D-Davvero?! - Iris non credette alle sue orecchie - Quindi sta, tipo, usando la telepatia?»

Esatto. A lei il rumore non piaceva, lo aveva espressamente detto e per rumore doveva intendere anche l'urlare i comandi in battaglia ai Pokémon.

«Catlina può agire con tutta la calma che le serve, dato che nessuno può predire la sua prossima mossa e l'avversario può contrattaccare solo una volta che la mossa è stata effettuata. Solo gli Allenatori di Pokémon Psico di livello altissimo possono destreggiarsi in questa maestria, Allenatori che hanno capacità intellettive superiori a quelle fisiche.»

Guardandola bene, Iris vide che gli occhi spenti della bionda fissavano un punto lontano, come se non guardasse neppure il campo di lotta. 
Aveva un'aria concentratissima. Non si sarebbe mai aspettata che quel cadavere fosse un'avversaria tanto temibile.

Intanto Camilla gettava l'occhio sul come lottassero le tre Allenatrici, fiera di quella specie di gioco che si era inventata. 
Le sue ragazze dovevano innanzitutto divertirsi, poi fortificarsi e infine preoccuparsi di sconfiggersi. 

Per un secondo si domandò sarcasticamente come fosse possibile che la sua cara amica di Sinnoh non l'avesse sconfitta nemmeno una volta. 
Era una ragazza piena di volontà, nonostante la sua espressione perennemente stanca.
Anche quando erano piccole, sei anni appena, quando le mosse dei Pokémon presi in prestito dai genitori di lei erano innocue e leggere, quando il famoso stile e le spudorate tecniche erano limitate ad un mero attacca-e-schiva.

La giovane donna chiuse gli occhi e scosse la testa: un ricordo triste era imperversato. 
Un ricordo che connetteva l'amore per le lotte e la loro amicizia con un filo sporco di sangue.

 

Dallo sguardo incerto che le due sfortunate Capopalestra si erano scambiate, la situazione  era solamente precipitata. 

Si chiarirono le idee: quella non doveva essere la loro giornata, era tutta sfortuna. 
Ma per un Campione non dovrebbero esistere le brutte giornate e la sfortuna. 

Solo l'inettitudine giustificava il fatto che Zebstrika e Swanna a malapena sopravvivessero fuori dalla Pokéball: attaccare era una rarissima chance, la quale finiva inevitabilmente sprecata; schivare era una fuga stancante, che invece non sarebbe più finita.

«Catlina mi deve odiare tanto... Sarà perché io a differenza sua mi prendo cura della mia pelle... Guardala, è pallida da far paura e tutte quelle borse sotto gli occhi non passeranno con qualche goccia di crema...»

Camelia non era nella posizione di distrarsi e fare una battuta scontata, lo faceva tanto per prendersi in giro. 
Gli avversari tosti vanno mandati giù in un colpo, le avevano insegnato. 

Ma se le era difficile perfino realizzare le mosse di Catlina, quanto avrebbe dovuto aspettare prima di trovarsi faccia a faccia con quel Pokémon Cellula, e sopratutto, quante gliene avrebbe suonate se Zebstrika se lo ritrovava di fronte?

A Camelia toccò giocare uno svogliato asso nella manica, gli occhi le bruciavano troppo.
«Scarica!»

Un'onda luminosa di pura elettricità si spanse in tutte le direzioni, creando un campo di luce che avrebbe prima o poi urtato tutti gli ostacoli presenti nel campo di lotta.

«Porca miseria! Ho colpito anche lo Swanna di Anemone...»
Camelia lasciò scappare un sospiro ansimante, coprendosi la bocca con le mani. Non si era accorta di aver commesso un grave errore. 

Le venne per l'ennesima volta voglia di picchiarsi con violenza. 
Solo per la sua brama di liberarsi da quella lotta stressante aveva inconsciamente causato la sconfitta per quella ragazza. 
Si morse il labbro, che fremeva dal bisogno di chiederle sinceramente scusa.

«A-Anemone, scusami, non avevo considerato che Scarica colpisse tutti i Pokémon in campo...»
Si degnò finalmente di rivolgerle la parola, se non altro anche la sua voce era del tutto rotta.

«Tranquilla, non fa nulla.» Anemone cercò di tranquillizzarla. 
La sua compagna non meritava di essere insultata, lo meritava meno di chiunque altro.

«Non fa nulla?! Il tuo Swanna è allo stremo delle forze, hai praticamente perso a causa mia.»

«Vero. Ma... - La rossa si interruppe e diede una forte scossa alla spalla di Camelia - Lo sai che stiamo ancora lottando?!» Le gridò.

«Pensi che me ne freghi ancora di questa stupida lotta? - E si voltò verso Catlina, che non aveva rotto per un secondo la sua concentrazione - Mi arrendo.»

Una Capopalestra che si arrende ancora prima di aver perso... Davvero deplorevole. 

Camelia non ci badò molto, e si avvicinò all'orecchio della ragazza che si era degnata di perdonarla. 
Com'era dolce poter dire le cose come sono... Senza essere odiata.

Indicò Swanna, la cui energia era sull'orlo dell'esaurimento.

«Conosce una mossa che sia potente? Non importa di che tipo sia, ma la tua squadra è veloce, più della mia. Usala ora e finiamo questo strazio.» Le sussurrò.

Quell'alleanza improvvisata (e fuori dalle regole) fu accolta da Anemone, ormai senza speranze. Come una luce nel buio, quella modella buona solo ad insultare stava cercando di aiutarla a modo suo. 

Non ci credette, ma annuì al suo piano.

«Baldeali!» E in quell'ultima mossa ci mise tutta la sua fiducia.

Tutte le ragazze incollarono gli occhi a quella che sembrava la mossa decisiva. O la va o la spacca, come si suol dire...

«Ma Baldeali non fa subire al Pokémon che la usa un contraccolpo pari a un terzo del danno inflitto?»
Iris espresse quel dato di fatto ad alta voce.

Era vero, in effetti. Bisogna sempre considerare i contraccolpi, non si può uscire da uno scontro diretto senza neanche un graffio, specie a quella velocità.

«Oh diamine, me ne sono totalmente dimenticata!»
Anemone si batté fortissimo la fronte.

Sia lei che Camelia avevano fatto la loro becera figura. Desiderò sparire dalla vergogna.

«Iris, perché non impari a stare zitta?!» Le gridò Camelia.

«Scusami se non ho inventato io le dinamiche di lotta. Poi non avevi detto che ti arrendevi e che non te ne fregava niente?»
La ragazzina alzò le mani aperte in segno di moderazione. 

Trovò divertente come neppure la modella sapesse reagire ad una sconfitta.

«A me no, ma a lei penso che importasse! Mi dispiace per te Iris, hai perso l'unica amica che avrai mai qui.» 
Camelia indicò Anemone, che la fissava frastornata. La rossa aveva avuto una brutta serata, e davvero non le andava che si scatenasse qualche litigio, un altro litigio, l'ennesimo fra Camelia ed Iris.

Inoltre era la sua stessa dimenticanza a procurarle la sconfitta, la mora aveva solo cercato di darle un consiglio per evitare il suo stesso errore. Il fallimento infine era pura sfortuna.

«Basta.»

La voce era quella di Nardo che fece trasalire le cinque, cancellando completamente la discussione precedente. Un vero dilemma è da dove fosse uscito ed in che modo avesse assistito alla lotta, se per tutto il tempo non si era visto.

I segreti alquanto equivoci, ma in un certo senso comprensibili di un Campione che desidera che i suoi successori siano allenati al meglio.

«Catlina, - La giovane bionda non reagì alla voce tanto risoluta dell'uomo, essendoci abituata - ottimo lavoro, controlli con sempre più maestria le tue abilità psichiche. Se mettessi tutta questa energia anche durante le lotte alla Lega invece di dormire in piedi... letteralmente...»

Lo aveva detto in senso affettuoso, tanto per non dare troppe arie alla sua dipendente. Catlina invece non batté ciglio. 
Non poteva negare di preferire l'ozio sopra ogni cosa.

Nardo rivolse poi il suo sguardo verso le due Capopalestra. 
Uno sguardo davvero truce, quasi volesse dannarle solo con gli occhi; fece rabbrividire sia la mora che la rossa.

«Per quanto riguarda voi due - Stava per cominciare la predica - "penoso" è l'unica parola che mi viene in mente per descrivere questo scempio di lotta. Sarò dritto al punto: sembravate ubriache, senza alcuna coscienza delle mosse che steste usando... Fino a tal punto da ignorare le regole che la vostra leader vi ha posto. Vergognoso.»

Essere sgridati da Nardo faceva sempre un certo effetto: perfino Camelia si ritrovò ad abbassare leggermente gli occhi. Anemone non riusciva nemmeno a guardarlo.

Che situazione imbarazzante e le situazioni imbarazzanti sono le più difficili da scordare. 

«Esattamente. Siete state smascherate. 
Ero certo che lasciarvi un giorno di vacanza non era una buona idea: voi adolescenti siete davvero prevedibili. - E rivolgendosi a Catlina, Camilla e Iris aggiunse - Questo vi insegni a tenervi lontane dagli alcolici, ragazze.»

La teoria di Nardo era una buona supposizione: secondo lui le due dovevano aver trascorso la giornata precedente fra feste e cocktail, ignorando gli effetti che questi danno al cervello (se una vodka rende quasi impossibile camminare, pensiamo al lottare).

Ma in verità, l'unica nube che annebbiava la mente di Camelia ed Anemone era un dolore interminabile, che non riuscivano ad ignorare per pensare alla vittoria.
Non erano loro stesse quel giorno, ma nessuna di loro due era conscia che la sua compagna stesse condividendo i suoi stessi sentimenti.

Le loro obiezioni si mescolarono in un tartagliare di parole insensate, l'uomo non voleva sentire scuse. 

«Avete bisogno di riflettere. E conosco già il modo in cui potrete dimenticarvi delle vostre serate hard...»

No. Non poteva davvero intenderlo. 

«Tutto -  Si dissero le due sfortunate Capopalestra con gli occhi - tutto ma non... Quello.»

«Magari la prossima volta dovrebbero lottare in doppio. Da sole sono proprio spacciate.»
Si disse Camilla. 

 

Il vecchio garage che si trovava sul retro dell'abitazione del Campione non somigliava minimamente ad una sauna, se non per il fatto che il caldo insopportabile già aveva lo stesso effetto di vapore professionale. 

Perlomeno il lavoro di Camelia ed Anemone nella loro precedente punizione aveva ripulito il pavimento dai calcinacci e dalla muffa.
E se avessero utilizzato la colla per i rivestimenti delle pareti invece che per tirarsela addosso avrebbero anche potuto evitare di venire punite ancora.

Anemone si era domandata se la sua impegnatissima compagna avesse davvero passato la serata precedente a calarsi alcolici ad una di quelle feste per celebrità riccone.

Non se la sentiva di chiarirsi il dubbio però. L'aveva vista diversa. Era pura intuizione.

Entrambe lavoravano per conto proprio, anche se evitare di guardarsi in pochi metri quadrati di spazio era impossibile. 

Osservandosi a vicenda, Camelia aspettava impazientemente che la rossa tirasse fuori uno dei suoi sorrisi venuti dal nulla, facesse un commento o una battuta per nulla divertente, così lei avrebbe potuto prenderla in giro; scherzare; magari ridere.

Camelia si stava macerando le labbra a morsi e la sua bocca aveva il sapore del sangue.
I suoi occhi invece pregavano per essere ripuliti da quel trucco pesante e fastidioso ed infine essere chiusi in un sonno profondo.

Passare il resto della nottata precedente sdraiata sul suo letto, leggendo e rileggendo vecchi messaggi, ad ingrandire i sorrisi che nelle foto apparivano reali ed immacolati, ascoltando a ripetizione la stessa canzone le cui parole descrivevano la sua vita l'aveva distrutta fisicamente e psicologicamente.

Senza accorgersene, per la seconda volta la ragazza dallo yukata giallo lasciò che le lacrime le facessero sfogare la sua frustrazione.

«Ma che ho fatto di male per meritarmi di essere tradita... Corrado...»
La sua voce aveva cambiato totalmente tono, diventando più sottile e piacevole. 

Ed Anemone lo notò subito. 

Non vedeva l'ora di poter finalmente rivedere quel lato di Camelia che le piaceva, che le provava quanto fosse fragile. 
Non ci credeva all'incarnazione dell'egoismo in lei, quale persona egoista si comporterebbe in maniera gelosa e protettiva, com'era stata nei suoi confronti la prima volta?

La rossa sorrise al pensiero di poter essere solo lei l'unica a consolarla, l'unica di cui avesse bisogno in quel momento. 
Le appoggiò la mano sul viso e fece incontrare i loro occhi, sperando di non venire scacciata. 

«Camelia, stai bene?»

Non era riuscita a trovare parole più originali, il suo cervello era troppo occupato a seguire la direzione in cui sue lacrime le scorrevano lungo il viso.

Per essere una modella, era ovvio che dovesse possedere occhi così belli, azzurro chiaro.
Anemone si augurò che la sua fosse solo ammirazione.

Tuttavia la mora non le rispose. 

La modella si ripeteva per l'ennesima volta quanto i suoi sentimenti fossero patetici e vecchi. Si sarebbe auto-minacciata di picchiarsi, ma avrebbe solo pianto di più.

Perché Anemone non la lasciasse sola e non continuasse il suo lavoro evitando che Nardo la potesse punire per la terza volta, si chiedeva. 

Alcune parole le giunsero alle orecchie, come una melodia curativa.

«Se continui a stare zitta finirai per riempirti di tristezza e continuerai a piangere la stessa cosa per sempre... Per quel poco che posso fare vorrei sapere che cosa è successo. Se non me lo vuoi dire significa solo che è una cosa che puoi risolvere da sola.
M-Ma ricordati che io ci sono sempre per te!»

E vide Anemone arrossire spaventosamente, coprendosi la bocca dall'imbarazzo per quelle parole.

Incredibile, esistono davvero le persone altruiste, sebbene sotto forma di Capopalestra rosse con evidenti problemi di schizofrenia, disposte a trasformarsi in psicologhe solo per fare un bel monologo profondo ed intelligente. Ma senza alcuna ipocrisia.

Il rosso sul viso di Anemone diventò intenso quasi quanto quello dei suoi capelli appena Camelia appoggiò la testa sulla sua spalla: non poteva risolvere tutti quei problemi da sola, ne aveva avuto la prova la sera precedente. 

Alla rossa venne l'impulso di accarezzarle i capelli neri, sperando che ora le avrebbe aperto il suo cuore chiuso con mille lucchetti di ferro.

«Anemone... - Glielo sussurrò con una voce limpida, come se avesse ingoiato le sue stesse lacrime salate - ti ha mai lasciato un ragazzo?»

«No. Non mi è mai capitato.» Le rispose piano.

«Stai mentendo. - La sua voce era ancora vellutata - Mi avevi detto che avevi un ragazzo alle medie, che ti ha lasciato...»
Camelia si ricordava il divertimento che aveva provato nel prenderla in giro quella volta, e ripescarlo dai suoi ricordi la fece sentire leggermente meglio.

«Me lo sono inventata, lo ammetto. Figuriamoci. Alle medie i maschi non mi lasciavano giocare con loro perché li picchiavo.
In diciassette anni di vita non ho mai baciato nessuno, vergogna cada su di me...  Ti ha fatto tanto male? Come succede nei film o nei libri?»
La rossa aveva cominciato ad accarezzarle anche la guancia umida, come se si trattasse di un'amica cara.

Sperò tanto che le amiche si comportassero così anche nella realtà, non solo negli anime per ragazzine. La mora infatti la strinse più forte, affondando gli occhi nella sua spalla.

«Peggio. Mi sento la persona più stupida del mondo.
Non riesco a dimenticarlo. Io lo amavo, e lui mi ha tradita... Non puoi capire quanto faccia male... Non riesco ad odiarlo... Ma tanto è solo colpa mia... Non tornerà mai più...
Alla faccia dell'amore che vince sopra ogni cosa.»

Tutte quelle parole miste a singhiozzi silenziosi fecero dimenticare ad Anemone della classica storia d'amore infranta da un tradimento. C'era qualcosa sotto.

«Non mi sembra la prima volta che ti lasci con un ragazzo, che hai quel genere di rapporti ... Non avevi altri fidanzati prima?  Hai reagito così anche per loro?»
Alla rossa parve giusto domandare.

«No... sono stata con molti altri, alcuni li ho anche lasciati io, ma lui... Lo amavo davvero. Significa che lui era davvero la persona più importante per me.» Si convinse ad ammettere Camelia.

«No, idiota. - Anemone le rispose secca, ma con un sorriso sulle labbra. - Significa che hai perso fin troppo tempo a cercare qualcuno a cui appenderti. Hai intenzione di concederti ogni ragazzo della Terra finché non ti rimarrà neanche un pezzo di cuore nel petto?
Io ci tengo a te, e non ti serve un uomo per essere felice.»

Camelia non aveva idea di cosa pensare dopo quel discorso. 

Non ci poteva credere, ma quella logica femminista e alquanto ambigua aveva un senso. 

Ogni ragazzo con cui si metteva e lasciava le portava via tempo, consumando la sua giovinezza come aveva fatto prima con la sua innocenza, poi con la sua verginità. 

Camelia non beveva o fumava ma era riuscita comunque a rovinarsi da sola nel corpo e nello spirito: e sperava che qualcosa sarebbe pure cambiato continuando così.

«E quindi?» Le domandò con lo stesso tono.

«Dammi il tuo telefono.» Le sorrise la rossa.

Pochi secondi dopo la sua disperazione per l'essere stata brutalmente scaricata si era trasformata nel rimorso per aver ciecamente affidato il suo cellulare a quella pazza.

«Cancella, cancella, cancella, cancella...» Ripeteva Anemone come una cantilena.

«Ma che stai facendo?»

«Ti riporto nel presente, mia cara. Il tuo telefono è in diretta connessione con il tuo cervello: quindi ci basta cancellare tutto ciò che ti ricorda le tue vecchie delusioni d'amore. - E continuando a spiare innocentemente la vita privata della modella, Anemone non si risparmiò qualche commento. - Q-Questa foto avrei fatto meglio a non vederla, immagino...»

«Non toccare i numeri in rubrica...» Camelia fu interrotta, mentre cercava di togliere il cellulare dalla stretta di ferro di quella ragazza.

«Salvi troppe persone con il nome "amore"... Di questo passo la prossima sarò io...»

«A proposito, dolcezza, tu non mi hai ancora dato il tuo numero di cellulare...» La investigò la mora.

«Ti prego, non voglio sentire parlare di telefoni almeno finché non me ne pioverà dal cielo uno nuovo. E più resistente alle cadute.»

Le due risero per un po' e provarono a loro stesse che il dolore non è invincibile, fa solo più paura quando si è soli.

 

 

«Non è possibile Camelia, hai avuto più fidanzati tu che delusioni io...»

«Anemone, non ti capisco: dici che si può essere felici anche senza un fidanzato e continui a lamentarti di essere sola, triste e ancora vergine...»

«Non mi sono mai lamentata di essere ancora vergine!»

«Ma i tuoi paradossi confondono me e i lettori, devi spiegarti meglio.»

«Come posso spiegartelo... È una cosa complicata... Aspetta, siamo alle battute di fine capitolo, non possiamo dilungarci! Mi risparmio un monologo.»

«Aspetta! Che significa?!»

«C'è un luogo e un tempo per ogni cosa, ma non è qui e ora.»

«C'è sempre quella persona che riesce a farti sentire meglio con la sua simpatia e le sue battute divertenti e ironiche, anche qui ed ora... Ma non sei tu, questo di certo.»

«...allora fai solo finta di diventare dolce e gentile, sotto sotto rimani sempre la solita Camelia antipatica, prepotente e con manie di bullismo seriale.»

«E tu rimani sempre la solita noiosa, asociale, bisbetica e vergine di sempre, allora...»

«Perché adesso torna in ballo il fatto che io sia vergine?!»

«Vedi che allora te ne vergogni, solo un pochino?»

«...Ti voglio bene, ma ti detesto a morte quando fai così...»

«E un'altra vittoria per la Dea del Sarcasmo, con la "S" maiuscola.»

 

 

Behind the Summery Scenery #9

1. Per quanto a noi occidentali possa sembrare strano, la cultura giapponese del bagno è ancora diffusissima tutt'oggi, se desiderate approfondire vi manderei su wikipedia senza problemi. Oppure guardatevi una VA di Anri Okita e Kaho Shibuya, due esperte nella questione. Eheh.

Update: Kaho-chan si è ritirata. Raga, cosa devo fare io della mia vita di merda ora?

2. A Unima c'è o non c'è un servizio ferroviario per i poveracci senza Pokémon Volante? Dove porta il treno che passa sotto il Ponte Propulsione? Quando gli headcanon incontrano la fantasia.

3. Tuttavia nuotare, lavarsi e sopratutto amoreggiare negli onsen è maleducazione, sappiatelo bene. Solo che Camilla se ne frega perché ho scoperto che la gente dell'Hokkaido è vista dai giapponesi delle altre regioni come cocciuta e individualista. Ma a noi gli stereotipi non piacciono, no?

4. I sub-capitoli servono molto allo scopo di  fanservice. Non sempre, ma spesso.

Update: i sub-capitoli non ci sono più, quindi il fanservice dilagherà anche nelle sezioni che servirebbero a portare avanti la trama principale e voi ne sarete felici.

5. Se pensate che la coppia Camilla X Iris sia del tutto campata in aria, vi suggerirei di guardare i primi episodi della serie Best Wishes 2 dell'anime e di ascoltare bene che cosa dice Camilla quando la si sfida in Nero/Bianco.

Anche per la loro coppia ho trovato un nome totalmente originale, SecretTimeShipping, visto che (quasi) tutte le interazioni amorose fra la Campionessa e la sua eramene avvengono all'insaputa delle altre tre e quindi in segreto. Si tratta di una relazione basata sul forte senso di ammirazione di Iris ed il desiderio di Camilla di amare ed essere riamata, con l'aggiunta di barriere congetturali quali i loro ruoli e la loro età... O forse è qualcosa di più?   

6. I due "notturni" descritti nelle prime due scene altro non sono che un ammasso di pretesti che dovevano essere comuni sia a Camelia che ad Anemone (incontrare indirettamente le cattive, subire un rifiuto, scontrarsi con un personaggio maschile, ecc.) per deprimerle.

7. La scena della lotta, ho notato, prende seriamente troppo spazio nel capitolo, ma d'altro canto, sono quasi tre capitoli che Catlina se ne sta con le mani in mano...

8. Dopo il dialogo finale fra Camelia ed Anemone doveva esserci una scena per risollevare lo spirito dopo tutta questa spirale di tristezza e depressione, ma per motivi d'intreccio è stata spostata al capitolo 13. Spoileratevela, provateci, su, io sto qui ad aspettarvi.

9. Se le due ragazze vi sono sembrate decisamente OOC in questo capitolo, beh, dovreste continuare a leggere: le vostre aspettative non verranno deluse. L'avvertimento è lì apposta.

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Capitolo 10
*** La principessa del nulla ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 10

La principessa del nulla

 


La luce del sole mattiniero prometteva una giornata di "vacanza" abbastanza buona, anche se Catlina non riuscì ad evitare di coprirsi la testa con le mani, senza neppure fare lo sforzo di alzarsi dalla stuoia in carta di riso su cui lei e le sue compagne dormivano.

Era sveglia, anche se il desiderio di richiudere gli occhi la struggeva. 

Poco dopo si accorse che le altre si dovevano essere già alzate; fece lo sforzo di unirsi anche lei al gruppo.

Non poteva proprio passare quel giorno di vacanza da sola, nel suo mondo di vividi sogni? 

«Buongiorno.» Salutò educatamente.

Camilla le stava sorridendo gentilmente, inginocchiata vicino al tavolo. 

Dal delizioso aroma zuccherino presente nella stanza la ragazza dedusse che stava preparando del tè, proprio come l'antica tradizione di Unima proponeva.

«È un po' tardi ora per un "buongiorno"; è l'una di pomeriggio.»
Le disse Camilla scherzando.

«Eh?!»
Catlina tirò un respiro sorpreso, lasciando l'aria a metà fra i polmoni e la gola. 

No, per lei era normalissimo dormire così tanto, era reduce di giornate intere passate senza neppure alzarsi dal letto o aprire gli occhi, quando i suoi genitori si domandavano se le fossero venute le piaghe da decubito.

Si ricordò invece dell'invito di Iris. Oggi si doveva andare in spiaggia, a Spiraria. 
Aveva confermato anche lei, e la sua dimenticanza aveva rovinato tutto. 

Non si sarebbe stupita se l'avessero definita un'asociale, ma quella volta le fece peso sul cuore, per una volta che desiderava aprirsi e condividere un'esperienza di svago con qualcuno.

La sua preoccupazione fu smentita dalla risata dolce di Camilla. 

«Tranquilla. Abbiamo dovuto annullare, causa: i soliti impegni dell'ultimo minuto. E non sapevamo se tu saresti venuta o no... Lasciamo stare. - la Campionessa decise di cambiare argomento - hai dormito bene?»

«Potevo rimanere a dormire allora...» Pensò la biondina, seccata e imbarazzata.

Catlina non sapeva come rispondere a quella domanda. 

Avrebbe dovuto raccontarle di aver fatto un sogno, quella notte. Dirle che per fortuna era un bel sogno.

Ripensava da tutta la mattina (o i pochi istanti passati fra quel momento d'imbarazzo e l'istante in cui aveva maledetto il mondo per il semplice fatto di esistere) a quel sogno.

Un sogno così dolce, carino e perfetto che sembrava più che un sogno un'illusione: una specie di primo appuntamento.
La ragazza sospirò, quel pensiero le gravava sopra la testa come la lama di una ghigliottina.

Ciò la imbarazzava. Parlare con Camilla dopo dodici anni la imbarazzava sempre; si limitò ad annuire, arrossendo leggermente. 

Rimase intanto ad osservare la sua compagna, rigirandosi una ciocca dei suoi lunghi capelli profumati alla vaniglia fra le dita, domandandosi come passare la restante metà di quella giornata.

Il silenzio di quella mattina fu improvvisamente rotto da un voce davvero armoniosa, e davvero familiare.

«Papà, sei in casa? Sono venuta a lasciarti la bambina.»

Si sentì un ritmo scandito da due passi incrociati: una corsa scalpitante e dei passi lenti e rilassati sul pavimento in tatami. E in più il cuore di Catlina, che aveva ricominciato ad agitarsi, mentre lei cercava di sopprimere tutta quella preoccupazione.

No, non poteva essere lei. Ancora.

«Buongiorno, Marina.»
Troppo tardi: Camilla le aveva già rivolto un rispettoso inchino per salutarla. 

La giovane donna dai lunghi capelli rosso vermiglione appariva raggiante, contraccambiando l'inchino. 

Dopo alcuni convenevoli (a cui solo Camilla rispose) sul come procedessero gli allenamenti e se si trovassero a loro agio nella casa di suo padre, la donna cominciò a guardarsi intorno.

«Ragazze, avete per caso visto Nardo? Oggi sono occupata e mi aveva promesso di badare a mia figlia almeno fino a stasera... Ecco, deve essersene dimenticato...»
Era davvero strano come Marina somigliasse ad una donna moderna, precisa ed impegnata, mentre suo padre Nardo aveva tutt'altra filosofia di vita. 

«È uscito un'ora fa. Non me ne stupisco comunque, da quando noi cinque ragazze conviviamo con lui il Campione ha altri pensieri per la testa...» Ammise Camilla. 

Ma una voce di bambina superò in acutezza la sua, echeggiando per tutta la stanza. Quella dolce voce aveva lo stesso volto di Marina, i suoi stessi occhi, i suoi stessi capelli arancio acceso.

E perfino la stessa sorpresa e felicità che aveva avuto nell'incontrare le due ragazze la prima volta.

«Mamma, ci sono le mie amiche Campionesse!»
Detto ciò la piccola Giulietta esultò, correndo ad inginocchiarsi vicino a Camilla. 

Catlina si scostò leggermente. Quella situazione era davvero snervante; sperò che la bambina di soli cinque anni sarebbe rimasta lì ancora per poco. 

«Giulietta, non dare di nuovo fastidio alle ragazze. Il nonno ha detto che oggi loro sono in vacanza.» Sua madre la rimproverò.

«Non sta dando alcun fastidio, non preoccuparti. - Camilla si era alzata, rassicurando la donna - Anzi, se Nardo non ha intenzione di tornare presto possiamo pensare io e Catlina alla piccola. Spero che tu abbia fiducia in noi.»

A quel punto la ragazza dallo yukata rosa pesco lasciò trapelare dalle labbra pallide un'esclamazione sorpresa: si chiedeva se il mondo si divertisse a metterla a disagio ultimamente. 

La giovane si era imposta di combattere la sua sociopatia, ma dopo che quella bimba le aveva quasi tolto di dosso il costume la prima volta, sentiva che una crisi di nervi era imminente. Solo il pensiero di rovinare il suo modo di fare composto e sicuro fece rallentare il battito cardiaco, cancellando tutta quell'ansia: era solo una bambina, del resto.
Anche Catlina lo era stata. 

Allora perché sentiva come se si fosse persa quella fase spensierata della sua vita? Perché non ricordava di essere stata felice per piccole cose? Perché la sua visione del mondo e quella di Giulietta non coincidevano?

«Certo che mi fido di voi ragazze. - A quel punto Marina si ricordò che sua figlia era sopravvissuta all'attacco del Neo Team Plasma solo grazie al loro intervento - So che mia figlia è in buone mani. Allora ci vediamo stasera. Giulietta, tesoro, fa' la brava.»

E dopo aver baciato sulle guance la sua bambina, Marina uscì da casa di Nardo.

Le due ragazze bionde e la piccola e vivace nipotina di Nardo avevano avuto la loro seconda occasione di rincontrarsi ed imparare a vicenda ancora qualcosa di nuovo.

 

«Stai preparando il tè? - La bambina si era inginocchiata vicino alla Campionessa di Sinnoh, osservando attentamente i gesti delle sue mani - Anche io lo so fare.»

Camilla le sorrise, fingendosi stupita. «Davvero? Prendi già lezioni alla tua età?»

«Si! Me lo ha insegnato un po' la nonna. Solo che adesso ho dovuto smettere.»

Entrambe le ragazze si guardarono dubbiose. Catlina in effetti si era domandata chi fosse la madre di Marina. Lei e Camilla sapevano talmente poco della vita privata del vecchio Campione da aver scoperto una settimana prima che costui avesse una figlia e due nipoti, un maschio ed una femmina.

«Tua nonna ti dava lezione di cerimonia del tè?» Le domandò la ragazza.

Tutto d'un tratto la piccola Giulietta prese sulla sua piccola mano una ciotola: i suoi occhi lucenti scortavano attenti tutte le foglie di tè, scegliendo la giusta miscela con la stessa attenzione e raffinatezza di un intenditore di alto livello. 

Fiori d'arancio, estratto di vaniglia, frutti di bosco, bacche selvatiche... Giulietta ne scelse una precisa quantità di ognuna, pestandole con un mastello, combinando potenza e delicatezza per evitare che le foglie perdessero l'aroma. 

Versato il miscuglio di polveri in acqua, lasciò bollire il tutto, mescolandolo e ripulendo il recipiente dai fondi. Scelte le giuste misure di zucchero e limone, la piccola ne porse due bicchieri alle ragazze.

Camilla e Catlina si guardarono felicemente stupefatte: a soli cinque anni conoscere il procedimento tradizionale per preparare il tè è difficile. 

Sua nonna deve averle insegnato ogni passaggio con molta pazienza e precisione.

Simulando un brindisi con le tazze di ceramica le due lo assaggiarono.

«Delizioso. Meglio di quelli che servono ai tea party dei miei genitori.» Pensò la bionda senz'anima.

Catlina per un secondo rimpianse di non essere nata ad Unima: la sua infanzia avrebbe potuto avere molto più colore e felicità, se solo l'avesse impiegata per qualcosa di originale, qualcosa di creativo, qualcosa che le piaceva. 
Rimpianse di aver sprecato troppo tempo a dormire, di aver realizzato qualcosa solo nei suoi sogni. 
Nel mondo reale non le era rimasto nulla, solo un enorme vuoto d'animo che a diciannove anni era troppo tardi per riempire.

D'un tratto la bambina fece cadere dalla mano una piccola tazza rotonda che si frantumò in mille schegge di vetro colorato. 
Il rumore risuonò fra i pensieri della ragazza, riportandola alla realtà.

«Io volevo bene alla nonna. Solo che poi è... N-Non abbiamo più potuto fare il tè insieme, o cucire o dipingere...»

Giulietta aveva esordito con tono davvero rattristato. 

Appena Catlina la vide stropicciarsi uno dei suoi grandi occhi non poté trattenere la sua compassione. 

Anche una bambina così allegra e spensierata poteva essere triste, evidentemente: non servono devastanti traumi infantili o eventi sconvolgenti, ad un bambino basta solo sapere che alcune esperienze felici non torneranno più per sentire il dolore di mille spade conficcate sul cuore. 

Le venne voglia di consolarla: ma la sua indole schiva la trattenne contro la sua volontà. 

Tuttavia si rallegrò, vedendo che Camilla già l'aveva fatta sedere sulle due ginocchia.

«Sì, invece. Puoi farlo con la tua mamma, il tuo papà e tuo fratello... Scommetto che non ti direbbero di no. - La consolava, mentre accarezzava i suoi capelli arancio. - Quando io e Camilla eravamo piccole ci allenavamo per lottare con i nostri Pokémon, sempre insieme, e anche se non eravamo le migliori abbiamo continuato ad allenarci... Anche se dopo ci siamo separate non abbiamo smesso di dedicarci con tutto il nostro impegno ed ora guarda... Camilla è la Campionessa della nostra regione natale.»

La ragazza senz'anima sentì il respiro tremare: sperò che quelle parole raggiungessero il cuore di quella bimba, o non avrebbe avuto senso trovare il coraggio per dirle.

«E Catlina lavora alla Lega Pokémon di tuo nonno.» Aggiunse Camilla.

Ancora le due sentivano la loro forte connessione: erano diverse, opposte, un libro aperto ed uno scrigno chiuso, eppure avevano per davvero passato il loro tempo insieme, volevano definirsi "amiche" anche se addirittura si facevano il bagno insieme, facendosi il solletico sulla pancia e slacciandosi il costume per gioco.

«Dice sul serio, non eravamo per nulla brave a lottare, giusto? - Camilla le rispose ridendo - Una volta sono svenuta, o meglio mi sono addormentata, perché non avevamo idea di come funzionasse la mossa Ipnosi...» Giulietta scoppiò a ridere.

«E dato che il mio Gible non aveva senso di orientamento ho quasi colpito Catlina utilizzando Fossa...» Continuò la giovane Campionessa. 

Le mancavano quei giorni.

«Non mi sono fatta niente - continuò a raccontarle la bionda introversa - ma Camilla ha sporcato di fango il mio vestito.»

«E allora?» Giulietta era sempre più interessata alle disavventure che le due ragazze avevano vissuto da piccole, solo che se le immaginava un po' più basse.

«Era un vestito da 270 Pokédollari.» E scoppiarono tutte a ridere. 

Camilla non ricordava che la risata della sua amica d'infanzia avesse un suono così gradevole e leggero. Catlina invece pensò a come lavarsi via quel sorriso da ebete dalla faccia. 
Poteva un sorriso far apparire il suo volto spento e vitreo più bello?

«Okay, continuerò anche senza la nonna, io voglio essere come voi!»
Giulietta si alzò in piedi e gettò le sue braccia attorno al collo delle ragazze. 

Voleva che quei momenti non finissero più. 
Sapeva che avrebbe imparato qualcosa dalle sue protettrici, dalle sue consigliere e amiche. 
Voleva farne tesoro e rendere suo nonno, sua madre e suo fratello orgogliosi di lei, come sua nonna probabilmente sarebbe stata.

Camilla si alzò in piedi, allontanandosi da loro. 
Giulietta le corse incontro, preoccupata.

«Dove vai?» Le chiese.

«Ad allenarmi. Ho bisogno di insegnare al mio Pokémon una nuova mossa.»

«Aspetta... - Giulietta si alzò in punta dei piedi e raggiunse la fronte di Camilla cosparsa di ciocche bionde. Con un leggero solletico, la bambina le stampò un bacio - i baci così li dò solo alla mia mamma... Ma tu sei speciale! Tu li davi i baci così a Catlina?»

«Certo. Ma non gliene ho mai dati abbastanza... - Camilla le sussurrò sull'orecchio. Poi la Campionessa socchiuse gli occhi - tu invece pensa a darne tanti alla tua famiglia: sicuramente, hai una mamma e un fratello fantastici, ricordatelo sempre.»

Catlina era ancora lì, a fissarla piena di dubbi e curiosità, con le stesse cicatrici nascoste e gli stessi sentimenti repressi nel suo cuore.
Poteva ancora provare a riportarla indietro, a non far svanire nel tempo la loro amicizia.

«La affido a te intanto, va bene?» Domandò all'amica.

«C-Cosa? Camilla, non puoi lasciarmi da sola con...» La ragazza era già andata in panico. 

Che cosa doveva fare con lei? Cosa doveva aspettarsi da lei? 
Lei non era aperta come Camilla, non aveva la sua stessa inventiva o il suo stesso carisma. Lei no, almeno.

Dopo che la Campionessa se ne andò, Catlina sorrise al suo fato.

«Giulietta, vuoi visitare un bel posto?»

«Sì! Dove andiamo?» La bimba era già al settimo cielo, saltando e battendo le mani.

«Promettimi una cosa però: - e si fece seria, come se fosse stata sua madre - quando sarai lì incontrerai tre persone. 
Ecco, queste persone sono molto... Eccentriche. E chiassose. E rompiscatole. E strane, molto strane. 
Quindi, te lo chiedo per favore, non mettermi in imbarazzo davanti a loro, va bene?»

«Catlina... Sembrano persone fantastiche! Va bene, lo giuro!»
E strinse il mignolo della ragazza.

La bionda si tolse lo yukata, per vestirsi con qualcosa di meno appariscente e nel frattempo pensò, incerta se riderne o piangerne: 
«Oh, passaci quattro anni insieme e cambierai idea...»

Era passato davvero velocemente il tempo da quando, a quindici anni, era diventata un membro dei Superquattro della Lega di una regione che non era nemmeno la sua regione natale.
 

«Ho cominciato il mio lavoro di Superquattro alla Lega Pokémon di Unima quattro anni fa.

Non è stato affatto semplice. 

Il mio corpo era davvero debole, mi sentivo come un bambino che non ha mai camminato con le sue gambe, dovrei incolpare i miei genitori di avermi viziata troppo. 
Ho lottato tanto per diventare più forte, ma il mio cuore rimaneva sempre debole ed impaurito dal contatto altrui.

Quando sono arrivata lì ho vissuto nella mia timidezza maniacale, in un silenzio spaventoso... 
«Nessuno mi vorrà vicino. Nessuno mi vorrà bene. Nessuno mi capirà.» Mi ripetevo.

«Hai davvero dei bellissimi capelli.»

A proferire quelle parole è stato Mirton, il candidato come maestro di Tipi Buio.
E da quando ho cominciato a lavorare qui ad Unima mi sono sentita nel mio mondo ideale.

Piano piano ho cominciato a sentirmi sollevata da tutta quell'ansia di rimanere sola ed isolata, e passo per passo ho cominciato ad abbozzare delle conversazioni, a parlare di me, ad aprire il mio cuore. Credevo di essere l'unica ad essere fuggita da qualcosa.

Ma l'ho fatto perché mi sentivo in debito: quando Mirton mi ha rivelato che i suoi genitori persero tutta la loro fortuna al gioco d'azzardo e che è stato costretto a vivere per strada tutta la sua giovinezza ho quasi pianto per davvero.

Così gli ho chiesto di seguirmi dove non ci avrebbero visto e mi sono tolta i vestiti; ho mostrato a quel ragazzo le mie cicatrici, tremando come se fossi stata nuda di fronte al mondo.

«Spariranno - mi disse - e potrai rinascere più bella, forte e dolce di quello che ora sei.»

Anche adesso sto lottando. 

Vorrei riuscire un giorno a distruggere la me stessa apatica ed introversa.
Per Mirton, per Camilla, per coloro che hanno voluto che la mia vita continuasse nonostante le cicatrici.
»

 

«Però non è giusto.» Mugugnò Giulietta.

Il sole caldo di piena estate copriva la fronte della bambina con piccole gocce di sudore, brillanti come perline di un diadema. 

La piccola stringeva solo il medio e l'indice della mano scarna ed esile di Catlina, dondolandola avanti e indietro con un ritmo altalenante.

«Che cosa?» Si fece coraggio di chiedere la bionda. 

Era sola con lei ora, non poteva tirarsi indietro dal conversarci (se con una bimba di prima elementare sia davvero possibile conversare). 

Intanto una leggera brezza dovuta all'altitudine dei rilievi accarezzava il suo vestito traboccante di trine e pizzi che ondeggiavano fra le sue snelle e bianche gambe.

«Che il nonno non mi ha mai portato qui.» Le rispose la piccola.

«È strano... Sei la nipote del Campione di Unima e non hai mai visitato la Lega Pokémon?»
Giulietta annuì, cambiando la sua espressione in un sorriso eccitato. 

Catlina era fiera della sua idea, anche se l'ultima cosa che voleva fare era visitare il suo posto di lavoro in vacanza.

La ragazza bloccò il suo passo davanti all'enorme scalinata, che conduceva al padiglione centrale dove aveva incontrato le sue compagne la prima volta.
Giulietta intanto aveva sgranato le sue iridi verde smeraldo, osservando la magnificenza della potenza rendere stupefatto ed impotente ogni avversario che osava sfidare il Campione e i suoi più fedeli assistenti e consiglieri: i Superquattro.

«È... Bellissimo... - la piccola correva con lo sguardo alto al soffitto, seguendo per filo e per segno ogni ornamento in stucco per capire dove terminava, come aveva fatto in precedenza con le cicatrici della ragazza - Mi fai vedere dove lotti? Posso andare dove si sfida il nonno? Ti prego, ti prego...» La supplicò, tirandole le balze della gonna.

Catlina sorrise, curvando le sue labbra frigide e perennemente bloccate in quell'espressione di indifferenza e dilatando i suoi occhi chiari: che bella sensazione. 

Avrebbe voluto portare in quel posto ogni persona triste della terra e fargli sperimentare la stessa felicità che Giulietta stava provando. 

Pensava genericamente ad un Allenatore che entra in quel luogo pieno di orgoglio e spavalderia, pronto a sconfiggere ogni avversario e rovesciare il Campione dal suo titolo con arroganza e sicurezza, per guardare Unima dal suo apice, contemplandone la piccolezza.

Invece l'immagine di una bimba che mette i piedi in paradiso solamente ammirando ogni dettaglio dell'imponente edificio rispecchiava l'idea di purezza e innocenza che lo sfidante ideale deve avere, oltre alla forza fisica.

«Certo. Vieni tesoro.»
La ragazza arrossì pensando a come aveva chiamato quella bimba, che continuava a farsi spazio fra le macerie della sua introversione distrutta.

I loro passi riecheggiavano, scandendo un ritmo uniforme all'interno del vasto corridoio.

Giulietta d'un tratto rallentò il passo, notando una strana figura lungo la sua via. 
Catlina sentì la piccola aggrapparsi alla sua gonna per attirare la sua l'attenzione; subito dopo la piccola vi ci si nascose dietro.

Le sembrava che quella figura ignota la scrutasse, come se l'avesse già vista e sfortunatamente riconosciuta.

«Catlina chi è quella ragazza?»

E con l'indice mostrò tutto il suo disinteresse per la privacy che una bambina possa avere. 
La giovane le abbassò il braccio, con discrezione.

Poco prima che potesse spiegarle che indicare la gente con il dito è maleducazione, la giovane che continuava a scrutare le si avvicinò: e sorridendo, si scostò i lunghi capelli nero notte dal collo.

«Siete la signorina Yamaguchi Hāto, dico bene?» Chiese educatamente.

Sia lei che Giulietta si guardarono sconcertate: come aveva fatto ad entrare alla Lega? 

Non c'erano altre entrate, oltre a quella principale... Doveva averle precedute, precedute in un agghiacciante silenzio, come se già avesse saputo che le due si sarebbero recate lì in quel preciso istante. 

Quasi come se le avesse lette nel pensiero.

«S-Sì... - balbettò la bionda - se era tua intenzione sfidarmi ti devo informare che noi Superquattro non possiamo accettare sfide fino alla nomina del nuovo Campione...»

«Non sono qui per questo.» La ragazza dai capelli neri la contraddisse in fretta. 

E subito, estraendolo da chissà dove, mostrò alla ragazza ed alla piccola un biglietto color rosso cremisi, con i bordi dorati, un tipo di carta molto raffinato.

Dopodiché la ragazza dai capelli neri e quegli strani poteri psichici girò i tacchi, e svanì come se il loro incontro fosse stato solo un miraggio.

Catlina diede una veloce occhiata a quel biglietto, per accorgersi che nello specifico si trattava più che altro di un invito: non sapeva che proprio quella sera a Libecciopoli sarebbe stato aperto un casinò. Ma se ne curò poco, presa com'era da altri pensieri.

«Che strana quella tizia.» Commentò la bimba ad alta voce.

«Catlina.» Una voce maschile, calma e seducente giunse al suo orecchio.

La ragazza ebbe l'ennesimo sussulto. Quella giornata la stava davvero esaurendo. 

«Avevo voglia di vederti.»

Quella voce si fece volto, stupendola ulteriormente. 

Ma non si lasciò incantare: si ricordava che Mirton le aveva fatto un torto, proprio il giorno in cui era stata avvisata della competizione, e se lo era saldamente legata al dito.

«S-Strano tu non abbia anche voglia di molestarmi e toccarmi il seno.»

Logicamente, Catlina ricordava ancora la sorpresa e l'imbarazzo provati mentre il ragazzo affondava le mani nel suo morbido e sviluppato seno, mentre lei fantasticava innocentemente nei suoi sogni. 

Non era giusto che il suo collega abusasse della suoi desideri per divertimento. 
Voleva solo una leggera vendetta, fatta per amicizia.

Ci fu un breve silenzio fra i due. 

Abbastanza breve da permettere alla piccola di scrutare il ragazzo con occhi curiosi: capelli neri, occhi scuri, un sorriso accattivante, quel giovane le piaceva.

«Anche tu hai visto che ha delle cicatrici da tutte le parti, anche sulle tette?»

La ragazza bionda percepì l'inutilità di averla ammonita riguardo al metterla in imbarazzo di fronte ai suoi colleghi, arrossendo di colpo, mentre Mirton continuava a sorriderle con sguardo vendicativo.

«Certo, la conosco molto bene - rispose, senza perdere il controllo - ma lei chi sarebbe?»

E si chinò per osservare quella bimba senza peli sulla lingua. 
Strano: era uguale identica a Nardo, la sua fotocopia in forma ridotta e femminile.

«Mi chiamo Giulietta!» Squittì la piccola.

«È la nipotina di Nardo, non chiedermi come l'ho conosciuta... - gli rese noto la bionda - piccola, lui è la disgrazia più grande capitata a questa Lega, Mirton.» 

«Hai gli stessi occhi di tuo nonno.»

Il ragazzo le scompigliò i capelli color arancio, mentre la piccola non smetteva di raccontargli del primo incontro con Catlina avvenuto nell'onsen e di come l'avesse difesa coraggiosamente insieme alla Campionessa di Sinnoh durante l'attacco del Neo Team Plasma.

«Catlina?» Mirton attirò la sua attenzione.

La ragazza si voltò verso di lui, fissandolo con i suoi soliti occhi spenti e vitrei, testimoni di chissà che orrori. 
Anche se erano davvero due occhi bellissimi, a suo parere.

«Sei libera stasera? Vorresti venire al casinò di Libecciopoli con me?»

Lo domandò con calma e nonchalance, come se si trattasse di una ragazza qualunque.

Ma nonostante tutto era davvero strano.

Mirton fece mente locale e non ricordò di aver mai invitato la sua collega ad uscire da soli per qualcosa che non riguardasse il lavoro.

Le parole di una frase che probabilmente non avrebbe avuto senso si bloccarono a metà della gola di Catlina, lasciandola con il viso più stupito che avesse mai mostrato in vita sua. 

Sperò stesse scherzando, proprio il posto che le aveva indicato quella strana persona poco prima, sperò si trattasse di una semplice coincidenza. 

Non era abituata ad uscire inoltre, sopratutto con i maschi.

Un altro silenzio brevissimo, prima che a Giulietta si illuminassero gli occhi.

«Un appuntamento! Catlina è stata invitata ad un appuntamento romantico!» Esultò.

Quella bambina aveva lasciato la sua mente farneticare e aveva alterato completamente il senso dell'intera frase, come aveva abitudine di fare anche suo nonno.

«Finalmente. Ti ci sono voluti quasi cinque anni per dichiararti.»

Una voce femminile, più profonda e rilassata si aggiunse nel bel mezzo del discorso. Apparteneva ad una bella ragazza della stessa età di Catlina: portava i capelli viola scuri tagliati corti, e con un dito si sistemava un paio di spessi occhiali da vista sul naso.

«Nei romanzi per ragazzine ci mettono molto di meno.»
Commentò ridendo, mentre accarezzava i capelli biondi di Catlina, rigirandoli fra le dita come se fossero suoi.

«N-Non era una confessione... Vero?»
La biondina si rivolse a Mirton, arrossendo più che mai, come se un bullo si stesse prendendo gioco di lei. 

Le ricordava le inutili battute di Camelia, in un certo senso, anche se quelle della mora erano in genere peggiori.

«Certo che no. - il ragazzo cercò di calmarla. Poi si rivolse alla collega - Cosa c'è Antemia, sei gelosa?»
Aguzzò il suo sguardo penetrante, facendole assaggiare la sua stessa medicina.

«Ti chiami Antemia? Perché sei gelosa di Mirton? Puoi trovarti un altro ragazzo, scusa... A lui già piace Catlina!»

Mirton ed Antemia fissarono la bambina interdetti. 
La seconda, in particolare, si chiese come avesse fatto a non notarla prima.

«So cosa stai per dire: - Catlina aveva già intuito - si chiama Giulietta ed è la nipote di Nardo. E sì, dice sempre cose di questo tipo.»

La piccola si trovava ancora a studiare queste persone, sempre più incuriosita. 

Si domandò perché sua madre non l'aveva mai portata in quel posto meraviglioso, pieno di persone altrettanto fantastiche. Si ripromise che ci sarebbe tornata un giorno.

«Allora Giulietta, che genere di fidanzato dovrei trovarmi?» Antemia si era chinata in direzione della bambina, accarezzandole la guancia. Ormai l'avevano inclusa nell'atmosfera, rifiutare una bimba così carina era una cosa impossibile.

«Mmmh... - finse una profonda riflessione - lui può andare!»

Ed indicò l'ultimo membro dei Superquattro rimasto, un ragazzo dalla potente muscolatura e la pelle color cuoio.

Scoppiò una risata generale quando Marzio, il maestro dei Pokémon Lotta scoprì che la bambina era più che seria nel suo abbinamento.

«Però siete strani...» Aggiunse, tra uno dei suoi commenti.

E mostrando alla dolce nipote di Nardo quel piccolo nucleo costruito grazie al percorso di apertura sociale e psicologica così lungo e delicato, Catlina si sentì fortunata ad aver avuto quell'occasione: sentiva le sue barriere cedere, il suo cuore aprirsi ed attirare dentro di se' ogni lato positivo di quel mondo così confuso e movimentato dalla quale voleva stare lontana.

Dopo aver visto lottare, parlare e ridere i cosiddetti "quattro re celesti" secondo l'antica denominazione Giulietta attirò l'attenzione della sua amica dai capelli biondi.

«Catlina.»

«Dimmi.» 
Prima che potesse finire di pronunciare la breve parola, Giulietta l'aveva trascinata di fronte a Mirton, prendendole la mano con foga.

Il ragazzo le mostrò il suo sorriso più calmo e rilassato, chiudendo le sue dita nella mano come se si trattasse di una principessa.

La guardò negli occhi un'altro secondo.

Mirton non poteva perdere quegli occhi, lo sentiva dentro.
«Allora, per stasera?»

Ci fu un breve silenzio, in cui sia Giulietta che Antemia e Marzio osservarono la biondina con un sorriso d'incitamento. 

Chissà se vedevano davvero quella innocente vergine e quel mago della seduzione insieme, come una coppia.

Dopo aver sospirato, la ragazza rilassò le labbra in un lieve sorriso lusingato.

«...Sì.»

E lì cominciò un applauso, tanto ironico quanto veritiero: finalmente, in cinque anni che i Superquattro della Lega si conoscevano la loro collega più timida e taciturna aveva chiaramente espresso la sua volontà a pieno tono e forse lo avrebbe fatto anche in futuro.

«È meglio se noi andiamo - Catlina si congedò - salutali Giulietta.»

La piccola non esitò ad abbracciare teneramente tutte quelle persone che conosceva da un giorno ma che eppure le ispiravano lo stesso calore e la stessa fiducia di una famiglia.

«Buona fortuna. La Lega di Unima ripone tutte le sue speranze nella futura Campionessa.»
A quelle parole anche Catlina accettò un abbraccio, senza sentirsi a disagio vicino a qualcuno.

Ed intanto la strada di ritorno si colorava dello stesso arancione dei capelli di Giulietta.

Piano piano la ragazza apatica stava schiudendo le catene che bloccavano l'accesso al suo cuore, disfacendosi di un anello di chiusura caratteriale ogni volta che la nipote di Nardo le rivolgeva i suoi dolci e vispi occhi.

La ragazza si sentiva felice, sorridendo senza un apparente motivo, come se fosse diventa la principessa del nulla, delle cose che il denaro non le poteva comprare.

 

«Quando l'innocente principessa e l'astuto giocatore d'azzardo si incontreranno...
Il loro non sarà un appuntamento normale...
Non terminerà con un bacio...

Il casinò di Libecciopoli è un luogo per persone avare, capaci di dare ad una persona lo stesso valore di un soldo d'oro...
Fin dove arriverà la loro fiducia? E fin dove arriveranno le grida della ragazza?»

Le amicizie, le confidenze, i dolori, e gli avvenimenti che le ragazze avevano dovuto sopportare in quel giorno che ormai non è più definibile di svago o vacanza le avevano portate faccia a faccia con le loro rispettive assassine, le complici dei loro stessi problemi: per tutto quel giorno i cinque membri scelti del Neo Team Plasma non avevano fatto altro che pedinarle.

Ma non avevano alcuna intenzione di agire nell'ombra.

Era passato un anno da quando i piani dell'organizzazione segreta erano stati mandati in fumo da un coraggioso ragazzo che aveva avuto dalla sua parte sia il Drago Nero che il Drago Bianco.

Se le cinque aspiranti Campionesse fossero morte in circostanze sconosciute i sospetti sarebbero ovviamente rinati.

Ma chi avrebbe mai potuto sospettare di una quindicenne che passa per caso in un negozio, di un'ex fidanzata o di una passante dall'auto lussuosa? 

Tieniti stretti i nemici ancor più degli amici. 
Quella regola vigeva in quella compagnia di vipere assetate di sangue, che non esitavano a rinfacciare anche ai loro colleghi di rango inferiore.

«Vedi di non combinare nulla fuori dai piani.»

La voce profonda ma allo stesso minacciosa di Sabrina aveva appena lasciato le sue labbra, mentre ripuliva con nonchalance un cucchiaio arrugginito con un panno.

Un'occhiata scocciata da parte della ragazzina dai capelli azzurro volò al cielo.

«Il tuo piano è lungo e stupido. - e le lanciò uno sguardo ancora più stizzita - hai dei poteri psichici dalla potenza paranormale e ti affidi ad un "piano"... Sabrina, certo che ti piace proprio complicarti la vita.»

Ma non appena Lucinda finì di parlare si sentì il rumore tipico del tessuto che si strappa. 

La giovane fissò impaurita l'uniforme viola-nero che indossava, notando che strappi sempre più grandi si formavano senza che alcuna mano o lama toccasse la stoffa. 

Cercò di trattenerla con le mani, ma la potenza esercitata dall'entità invisibile era mille volte superiore alla sua.

Il potere della mente, di ignorare il mondo materiale e creare una dimensione in cui ogni ordine e desiderio imposto dal cervello si attua in un inquietante silenzio era il potere di quella Capopalestra dalla regione di Kanto. 

Non lo aveva ereditato da nessuno, poteva vantare i suoi poteri psichici come una maestria acquisita, che la rendeva una temibile avversaria.

Sabrina non poté trattenere un ghigno, mentre mostrava alla sua compagna più giovane che anche quel vecchio cucchiaio era stato piegato almeno dieci volte su sé stesso, facendogli perdere addirittura le sembianze di un cucchiaio, sfigurandolo atrocemente in una tridimensionale figura indistinta metallica.

«Non ho detto che non li avrei inclusi nel piano.»
La diciannovenne rise divertita, al pensiero della sua apatica e composta nemica che gridava agonizzante, con le lacrime agli occhi.

Intanto il piano del Neo Team Plasma era già entrato in fase di esecuzione. Tutto il loro imbroglio si basava su un semplice punto cardine: la psiche.

Avrebbe giocato un gioco ingiusto, un gioco un cui esistono solo due alternative: una tradisce gli ideali di una persona, una tradisce la dignità dell'altra, una garantisce un centesimo in più, una garantisce un grido in meno.

«Se hai intenzione di includerli nel piano...»

Prima di poterla dar vinta alla compagna più anziana, Lucinda si fece pronta a ribattere, mostrandole un oggetto agitandolo leggermente piegando il polso in verticale.

«... Questa a che ti serve?»

 

Nell'attesa che precedeva quell'appuntamento (suonava eccessivamente commerciale, detto così) il giovane ed attraente maestro di Tipi Buio era intento a pensare, osservando la cenere dell'ennesima sigaretta consumarsi lentamente. 

Si era deciso a presentarsi sobrio, ma l'idea del sapore amarognolo del whisky in bocca aveva reso impotente la sua forza di volontà.

«Tsk... L'uomo incapace di controllare i suoi istinti non è un gentiluomo, dicono.
E un gentiluomo soltanto può infilare la mano contemporaneamente nell'intimo e nel portafogli di una riccona. Giusto?»

Mirton aveva pensato spesso a Catlina, da quando lei era stata scelta per guadagnarsi la possibilità di diventare il suo futuro capo, un giorno.

Si domandava se quella ragazza, così introversa e silenziosa avrebbe avuto la forza di affrontare sfide fuori dalla sua portata, se il suo cuore fragile e il suo corpo altrettanto delicato stessero sopportando indenni tutti tormenti a cui Nardo la sottoponeva.

Ma il suo dilemma più grande era sopratutto perché continuasse a preoccuparsi per una ragazza che non aveva nulla da offrirgli: lo attraeva la ricchezza di quella principessa di un'altra regione, ma amare solo i suoi soldi significava rinunciare alla sua bellezza.

Per quanto timida, asociale, taciturna ed inesperta in quel senso Catlina fosse, lui ne era sempre stato affascinato. 

Mirton vedeva le sue precedenti fidanzate come rose: quelle rose rosso sangue, rosso intenso come la passione, fanno a gara per farsi notare, distendono i loro petali e aguzzano le loro spine dalla brama di attenzione.

La giovane aristocratica che aveva incontrato almeno cinque anni prima invece, era una rosa di color pallido, un rosa spento, che si nasconde fra i cespugli, lontana dalla luce del sole e dall'occhio umano: eppure i suoi petali sono delicati come seta, il suo stelo nudo e privo di spine adatto ad essere dolcemente accarezzato.

«Basta con queste idiozie, - si decise il ragazzo - è solo una collega.»
Spense la sigaretta, schiacciando il filtro consumato sotto il tacco della scarpa. 

Era certo che il suo era amore non corrisposto. L'amore non faceva corrispondere i loro status sociali, le loro filosofie di vita, i loro gusti sessuali, i loro progetti per il futuro.

Ma era anche certo che un tentativo, fatto per divertimento, di scuotere l'animo teso della sua collega poteva farlo: scommise con se stesso se sarebbe stato in grado di portarsela a letto almeno entro fine estate.

La posta in palio, del resto, era assai degna di un qualche rischio.

 

L'unica preoccupazione della ragazza dai capelli biondi in quel momento era cosa indossare. 

Se solo lui le avesse dato un po' più di tempo per prepararsi avrebbe potuto chiedere ai suoi genitori di spedirle direttamente da Sinnoh uno dei suoi bellissimi e costosissimi vestiti da sera. 

Non traeva nessun piacere nel possederli, ma l'erede della famiglia aristocratica Hāto doveva per forza vestirsi al pari di una principessa.

«Non sei felice che hai un appuntamento?»
Le domandò Giulietta, che continuava a dondolare le gambe aspettando che la sua amica finisse di farsi una doccia.

Catlina intanto si era arresa nel ripeterle che il loro non era un appuntamento romantico. 

Per i bambini il concetto di amore è tanto semplice quanto meraviglioso: un ragazzo ed una ragazza possono amarsi sempre, nonostante la loro differenza d'età, la loro classe sociale, le loro personalità e qualsiasi altro pretesto che nella mondo dei grandi serve ad allontanare le persone dall'amore.  

Mica ci voleva una guastafeste come lei a rovinarle quel mondo. 
Catlina era ancora vergine a diciannove anni... Che ne sapeva lei di amore?

«Certo. Stavo solo pensando a come mi dovrei vestire, truccare e pettinare...» 
Le rispose pacatamente.

«Devi essere bellissima, ti serve un vestito che ti fa essere come una principessa.»
Affermò la bimba, convinta e determinata. 

Poi Giulietta sparì per qualche secondo, mossa da un'idea che poteva funzionare.

Catlina sorrise, mentre si apprestava ad indossare l'intimo, accarezzandosi la pelle bianca.

«Il primo appuntamento... Quante cose mi sono persa fin ora...» Pensò amaramente. 
Ritornò alla realtà, sentendo i piedini della bambina scandire un ritmo frettoloso.

«Per te. Un vestito degno di una principessa.»

La ragazza non poté credere ai suoi occhi. 

Quello che Giulietta teneva fra le sue piccole braccia doveva essere un vestito di alta sartoria, cucito con una stoffa quasi simile alla seta: il tessuto rosa chiaro, lo stesso colore dei ciliegi in fiore, aveva un taglio semplice e raffinato, con dei pizzi di colore nero che decoravano l'orlo gonna, lungo fino alle ginocchia, e anche la parte superiore. 

Quest'ultima si riduceva a due sensuali coppe di pizzo rosato e solo due sottili lembi di stoffa nera univano l'ampio spacco sulla schiena alla scollatura sul petto.

Quando se lo portò all'altezza delle spalle, per vedere se si adattava al suo corpo, sentì il mondo caderle addosso. 

Essere riportata alla realtà faceva sempre arrossire e scaldare le sue guance pallide.

«Giulietta, mi dispiace, ma non posso indossarlo.»

Disse la timida giovane con un filo di voce, come paralizzata.

«Perché no? Ti sta benissimo, dai, mettilo!» La piccola dimostrava già impazienza premendoglielo contro il petto per voglia di vederglielo addosso.

«Vedi... - Catlina cercò di farla ragionare - le scollature mostrano troppa pelle, è un po' troppo provocante per essere indossato davanti ad un ragazzo...»

Se immaginava la reazione di Mirton che la vedeva indossare quei quattro pezzi di stoffa cuciti insieme le veniva voglia di cancellarsi dal mondo: proprio lei che voleva passare inosservata agli occhi altrui veniva costretta a mettere in mostra quel corpo che più volte aveva desiderato cambiare drasticamente.

Era un paradosso davvero ingiusto.

«Davanti ad un ragazzo - la riprese la piccola - che ha già visto che hai le cicatrici?»

La biondina si chiese se 'le cicatrici' ora fossero diventate delle signore aristocratiche di alta classe sociale citabili addirittura con l'articolo davanti.

Giulietta aveva percepito l'imbarazzo della sua amica più grande, ed era diventato da poco un suo interesse aiutarla ad essere più libera e felice. 

In effetti aveva assolutamente ed indiscutibilmente ragione.  

Senza altra scelta, Catlina provò ad infilarsi quel capolavoro di alta sartoria.

«A proposito Giulietta, dove lo hai preso?» Le domandò.

«È un segreto.» La bambina si portò il dito indice alla bocca con massima serietà. 

Dopo qualche minuto passato a litigare con la cerniera posteriore, la biondina osservò incerta il suo riflesso allo specchio.

«Ti sta benissimo, sembra fatto per apposta per te.» Giulietta parlò per lei.

Pensò in cuor suo che mai nessun vestito avesse calzato così perfettamente le curve del suo corpo e messo in risalto il suo seno come quel gioiello color rosa pesco.

Rilassando le mani, Catlina le spostò dall'avvolgerle il petto per l'imbarazzo al sollevarle i lembi della gonna con un leggero ma elegante inchino, come se stesse ringraziando la natura di averla resa così bella, così bella come spesso aveva ignorato d'essere.

«Per rendere ancora più appariscente il tuo corpo dovresti toglierti il reggiseno. 

È brutto a vedersi.» Questa voce profonda e delicata non apparteneva certamente a Giulietta.

Appena Catlina si voltò poté riconoscere il sorriso radioso della sua amica d'infanzia.

Giulietta intanto si era già gettata fra le braccia di Camilla, raccontandole per filo e per segno ogni dettaglio sull'appuntamento dell'amica, talvolta inventando le parti che non ricordava bene.

«Che fortunata sei stata - Camilla glielo disse mentre cercava di sfilarle il reggiseno senza che si dovesse togliere il vestito - anche io stasera ho un appuntamento.»

«Eh?! - Giulietta le schizzò vicino, tutta eccitata - con chi?»

«Con una delle nostre compagne, Sakimura Iris. Abbiamo deciso di andare a cena fuori insieme oggi.» Fu la risposta dolce e gentile della Campionessa.

Intanto sia Giulietta che Catlina si guardarono incerte. 

Dal tono con cui lo aveva detto sembrava seria... Ma che cosa intendeva? 

Giulietta esordì con tono più che deluso. 
«Camilla, non puoi avere un appuntamento con un'altra ragazza.»

«Perché?» Le rispose questa, con tono falsamente abbattuto.

«Perché... - Giulietta si sforzò di trovare una ragione plausibile - perché no!»

La mamma ed il papà le avevano sempre insegnato che sono sempre un uomo ed una donna a volersi tanto bene, solo un uomo ed una donna possono fare le cose romantiche insieme, tutto questo senza una vera e propria ragione.

La giovane donna scoppiò a ridere, accarezzando la guancia dorata della bambina.
«Sì che posso, invece.» Le sussurrò all'orecchio.

In certi momenti l'estroversione e l'amorevolezza di Camilla erano leggermente inquietanti.

Ma del resto non potevano certamente sapere che ormai quella donna aveva già acquisito una certa intimità con la ragazzina dai capelli viola.

Per ora l'unica cosa che contava era rendere Catlina ancora più bella, mentre Giulietta passava la spazzola attraverso i suoi lunghi capelli biondi e Camilla si era concentrata sul limare e poi dipingerle le unghie dello stesso colore del suo vestito.

Per quella ragazza quella serata doveva essere indimenticabile.
Una ragazza nell'età in cui il corpo ha sete di forti sentimenti.

Dopo che Camilla se ne era andata al suo 'appuntamento' (Catlina si domandò ancora perché lo avesse chiamato così) lei rimase ad attendere qualche minuto il ritorno di Marina. Quella donna doveva essere davvero impegnata.

Appena la figlia di Nardo si ripresentò per portare a casa sua figlia non poté evitare di notare come Catlina fosse davvero tirata al lucido. Con un particolare davvero curioso.

Giulietta aveva ripetuto anche a sua madre la storia del famosissimo appuntamento della sua amica, dicendo di averla aiutata per il trucco e l'acconciatura in gran misura.

«Lo vedo amore, - Marina esibì uno dei suoi sguardi solari e armoniosi - ma perché indossa il vestito che la nonna aveva fatto per il mio matrimonio?»

Inutile dire che saputa questa cosa a Catlina era già venuto un'attacco di cuore.

Si sentì davvero stupida ad essersi fidata di una bambina di cinque anni, che l'aveva già messa nei guai una volta per altro. 

Ma sopratutto pensò a quanto doveva essere prezioso quel vestito se era stato cucito a mano dalla madre di Marina per il suo matrimonio, forse il giorno più speciale della vita di quella donna.
Non si sentì più degna di indossarlo e stava per scusarsi a capo chinato, quando Marina appoggiò le sue calde mani sulle spalle della biondina.

«Ma sta molto bene anche a te: il rosa è davvero il tuo colore.»

Prima di lasciare la casa di Nardo per raggiungere Mirton, Catlina non dimenticò di lasciare un bacio sulla guancia di Giulietta, per la prima volta di sua spontanea volontà.

«Sei una vera peste... Ma mi sei stata di grande aiuto.» Le sussurrò dolcemente.

«Buona fortuna con lui.» Si limitò a rispondere la piccola.

E mentre i tacchi alti battevano il ritmo del suo cuore eccitato, Catlina provò la stessa sensazione di una ragazzina ansiosa di incontrare il suo fidanzato per il loro primo “appuntamento”.

 

«T-Ti prego, non guardarmi così...»

La voce della biondina si mescolava alle chiacchiere delle persone all'interno di quel luogo, dall'inconfondibile profumo di legno verniciato e tappezzerie esotiche. 

«Questo vestito ti sta benissimo, stasera sei davvero... Diversa? Cosa devo dirti per toglierti quella faccia da trauma di dosso?»

Mirton le aveva già posato una mano sulla spalla nuda: aveva pensato a quelle parole solo per confortarla e infonderle più fiducia in se' stessa ma, guardandola bene, Catlina non era mai stata così bella e seducente. 

Perfino quel fiore così chiuso e delicato poteva apparire spettacolare, una volta schiusi i suoi petali e liberato il suo dolce profumo.

La ragazza abbassò gli occhi, sentendo le guance scaldarsi. 

Non era abituata a quel genere di complimenti.

Camminando al fianco del suo collega, Catlina non poté fare a meno di notare una strana sensazione nell'atmosfera di quel casinò appena aperto (a differenza delle altre regioni, Unima non ne aveva mai posseduto uno, se ricordava bene). 

Non ci volle occhio esperto per notare come tutti i tavoli da gioco fossero deserti, come tutti i presenti si concentrassero di fronte ad un tavolo più lungo come mosche attratte dal miele.

Non le diedero il tempo di fare altri ragionamenti che una voce femminile chiamò Catlina e Mirton per nome, con voce pacata e cordiale.

«Gentili presenti, vi chiedo di rivolgere la vostra attenzione a due ospiti di molto riguardo presenti stasera nel nostro casinò di Libecciopoli: il maestro di Pokémon Tipo Buio Polensky Mirton e la maestra di Pokémon Tipo Psico Yamaguchi-Hāto Catlina, la sua adorabile fidanzata.»

I due ragazzi si guardarono perplessi. 

A Catlina parve davvero esagerato essere accolta in modo così eclatante: essere un membro dei Superquattro era un onore, certo, ma non meritava che l'attenzione di quasi cinquanta persone fosse attirata su di lei e...

«Mirton, perché mi stai tenendo la mano?» Gli sussurrò.

Il giovane ruppe per un secondo il suo fare rilassato e indifferente, notando che effettivamente aveva catturato la mano della sua collega inconsapevolmente e si schiarì subito la voce.

«Sei o non sei la mia adorabile fidanzata?» Le domandò, scherzando maliziosamente. 
Traeva un certo piacere dallo stuzzicarla, l'espressione imbarazzata di Catlina era insostituibile.

«Sono una collega che ti crede un esibizionista perso.» Ammise secca la ragazza.

E camminando attraverso la lussuosa ed elegante sala per farsi avanti verso la donna che l'aveva chiamata, Catlina si compiacque dell'aver pareggiato i conti con lui, facendo sempre attenzione a non slogarsi una caviglia sui tacchi alti.

Mirton la seguì, e anche se il suo viso era quello di un uomo calmo, continuava a chiedersi se portare l'innocente ragazza in un luogo di gioco d'azzardo fosse stata la cosa giusta, se non nutrisse solo una forte invidia per l'agiata condizione economica della bionda.

Quando tutti gli ospiti in vestito elegante si scostarono per far spazio alla coppia, il giovane dal sangue freddo analizzò a che gioco quella massa di giocatori d'azzardo giocassero: un tavolo rettangolare ricoperto di spesso tessuto verde scuro recava trentasette caselle, numerate da zero a trentasei, di colori rispettivamente rosso e nero.

Invece di fronte ad un cilindro che recava le stesse caselle disposte in cerchio, una ragazza giovane e bella, dai capelli lunghi e neri teneva con grazia una pallina fra l'indice ed il medio della mano.

Doveva trattarsi della croupier, assistita da un esemplare di Alakazam.

«Benvenuto, speranzoso giocatore. Vedo che hai portato la tua fidanzata, come avevo previsto.»

Mirton percepì nella sua mente una voce. 

Doveva essere la mossa Telepatia, perché la stessa figura femminile che non si degnava di aprir bocca stava davanti a lui: la croupier dai capelli nero notte, solo per il divertimento provato nello spaventare le persone non muoveva le labbra, ma parlava.

Rimase calmo, mentre controllava con la coda dell'occhio Catlina che osservava attenta il gioco.

«È inutile che ti spieghi le regole: sai giocare meglio di chiunque altro alla roulette francese. Ma per essere sicura di vincere... diciamo che ho modificato leggermente le regole del gioco.»

Mirton volle approfondire quell'ultima espressione, troppo vaga per sembrare un minimo di inquietante. 

Gli bastò guardare il tavolo delle puntate per capirne la ragione.

Le persone invitate in quel casinò dovevano essere ricconi andati in bancarotta, nobili caduti in disgrazia o gente di mala conoscenza, abbastanza dipendenti dal gioco da tentare di arricchirsi girando una ruota in balia del caso. Fra bicchieri di vino pregiato e puntate alla cieca dovevano tenere assai al denaro, ritenendolo l'unica cosa importante al mondo.

Mirton non poté evitare di commiserarli: in passato i suoi genitori dovevano essere stati o troppo stupidi, o troppo disperati. 
Lui preferì di gran lunga la seconda opzione.

«Scusate gente, ma utilizzare soldi veri per le puntate è illegale.» Disse con tono secco, a nessuno in particolare.

«Ma così è più divertente, non è vero? - Rispose ad alta voce la croupier, sventolando i suoi capelli nero notte con la mano e ricevendo il consenso della massa di dipendenti patologici - prova tu stesso.»

E, invitando il giovane a puntare, lo ammonì telepaticamente.
«O tu o la tua innocente ragazza: scegli.»

Senza esitare, l'astuto giovane scelse di puntare su una vincita semplice.
«Settanta PokéDollari sul nero.»

Catlina osservava il collega in silenzio.

Si fece spiegare che il giovane avrebbe vinto se la pallina si fosse fermata su una casella di colore nero e che la posta in palio era il doppio della puntata. 

Mentre la ruota girava e la croupier lasciava cadere la pallina con un semplice movimento dell'indice, la ragazza dai capelli biondi rimase quasi incantata: quel gioco, per quanto basato sulla mera fortuna, necessitava di uno spiccato autocontrollo, di buon intuito e sopratutto molta risolutezza.

E Mirton possedeva tutto, con l'aggiunta di un certo fascino misterioso.

«Complimenti, il numero uscito è otto nero. La vincita è pari al doppio, quindi centoquaranta PokéDollari(*).»
Annunciò la giovane, che indossava un raffinato smoking viola scuro, una tenuta maschile che le conferiva autorità ed eleganza.

Una ragazzina più giovane servì la piccola ricompensa in un piatto d'argento.

«Allora, rilanci?» Domandò la croupier. La risposta la sapeva.

«Certo.»

Il ragazzo aveva realizzato molti anni prima che il denaro può essere ed è solo e sempre denaro. Non ha valori come la felicità o la soddisfazione, è solo metallo e carta. 

I soldi sembravano la metafora della superficialità, almeno quanto lo sguardo di Catlina: diceva solo "Yamaguchi-Hato", uno degli imperi economici più ricchi della regione di Sinnoh.

Mirton sorrise al fato. Qualche puntata fatta con cervello, buon fiuto, i numeri giusti e quei soldi sarebbero stati suoi.
on poteva comprarsi l'amore, ma almeno apparire all'altezza di quella principessa dal vestito rosa. 

Si rese finalmente e amaramente conto che a Catlina probabilmente non sarebbe mai interessato uno squattrinato, figlio di prodighi smoderati, della strada e della miseria... Se ne accorse in quel momento, dopo quasi quattro anni.

Sarebbe diventato ricco. Miliardario, schifosamente benestante per la sua dama dagli occhi spenti.

Quella di pochi istanti prima non era una vincita prodigiosa, il ragazzo lo sapeva benissimo. 

Nonostante questo gli occhi spenti e vuoti di Catlina lasciavano trapelare un velo di ammirazione mentre le sue labbra candide avevano abbozzato un sorriso.

Eppure quei sorrisi rappresentavano una sorta di maledizione interiore.

Senza alcun preavviso la ragazza dai capelli biondi si chinò a terra, come se l'avesse presa un dolore alla gamba destra, emettendo un debole spasimo.

«Catlina, stai bene?» Il ragazzo la soccorse gentilmente, prendendole la mano per aiutarla ad alzarsi. La giovane intanto aveva ripreso il suo portamento pacato.

«Non preoccuparti, devo aver storto la caviglia... Sono troppo alti per me questi tacchi...»
Ammise imbarazzata.

E dopo aver stretto la ragazza a se', come per invitarla con nonchalance a giocare con lui, Mirton le accarezzò la schiena, non intenzionato ad abbassare la guardia.

«La sua prossima puntata?» Domandò la croupier.

«Possiamo scommettere di più questa volta? - Chiese Catlina, in cerca del consenso del collega - o magari provare una combinazione diversa?»

Il giovane acconsentì, ma con cautela pensò a cosa sarebbe successo se la pallina non avesse centrato il numero o il colore desiderato: davvero in quell'ambiguo casinò era tutto in mano al destino? Il gioco era davvero così pulito e casuale come sembrava?

«Ho cambiato le regole del gioco, o non sarei riuscita a vincere.»

Ma ancora, dopo altre sei o sette puntate era sempre la coppia formata dalla fragile principessa e l'astuto giocatore d'azzardo a continuare ad arricchirsi in modo perpetuo e fruttuoso, sotto gli sguardi sconcertati dei presenti.

 

«Questa sera sembrate molto fortunati, voi due. - ammise la croupier dai capelli neri - signorina Yamaguchi, se posso suggerirle, potrebbe alzare la puntata fino ad un cavallo o ad un pieno, dato che, se permette, lei ed il suo fidanzato sembrate una perfetta coppia.»

In effetti la biondina sentiva davvero che il legame fra lei ed il suo collega che conosceva da ormai quattro anni si stava modificando: diventava più forte ed intenso, ed una piacevole sensazione d'affetto rappacificava la sua mente.

«Non riesco a muovermi. E mi fa male. Tutto il corpo mi fa davvero male... Proprio nella serata più speciale della mia vita... No, non può succedermi adesso...»

Se doveva essere sincera con se' stessa, la sua mente era l'unica parte del suo corpo che un dolore atroce non stava divorando.

Erano passati più meno tre quarti d'ora dal loro ingresso nel casinò e la giovane sentiva un dolore trafiggerle gli arti, la schiena e le interiora come mille frecce appuntite. 

Quel dolore improvviso alla caviglia aveva segnato l'inizio di queste ferite invisibili, che non squarciavano la pelle e non emettevano sangue.

Ricordava di aver provato solo una volta nella sua vita un dolore simile a quello: la volta in cui quell'incidente le aveva rovinato la vita e coperto il corpo con quelle orribili cicatrici, i memoriali per non farle dimenticare mai la sofferenza provata.

«La mia salute non ha fatto progressi da quel giorno...»

Corpo e psiche erano due universi distaccati, che agivano indipendentemente l'uno dall'altro: con questo semplice precetto Catlina continuava ad essere calma e posata, come al solito, trovando come unico sostegno il braccio di Mirton che le avvolgeva i sensuali fianchi.

«Possiamo provare?» Sussurrò la biondina al ragazzo. 

Questo si trovò costretto ad accettare.

«Un cavallo credo sia più appropriato. Scegli tu i due numeri, basta che siano vicini.»

Mirton le accarezzò la schiena che tremava leggermente, avvolta nel meraviglioso vestito rosa: quella sarebbe stata l'ultima puntata, percepiva che qualcosa in Catlina era strano, anche se era l'unico in tutta la sala. Ad eccezione di un'altra persona.

La ragazza apatica gli si avvicinò all'orecchio, mettendogli le mani intorno alla vita.

«Dodici e tredici.»

Il ragazzo non poté fare a meno di sorriderle.

«Tredici dicembre. Il tuo compleanno?»

«Ti porterà fortuna, vedrai.»

E dopo quest'affermazione, Catlina appoggiò sul bancone delle puntate una mazzetta di banconote, che doveva superare i diecimila PokéDollari.

Quella ragazza davvero desiderava un futuro di ricchezza e benessere per lo sfortunato collega, magari un futuro che includesse loro due, insieme.

«Che carina... Fossi in te la bacerei prima che sia troppo tardi.»

La voce femminile si ripresentò nella mente di Mirton, ma egli non cadde nella tentazione.

«Dodici e tredici, ed una puntata di centosessantamila PokéDollari totali.» Annunciò la croupier.

E mentre il cilindro girava e la pallina si mimetizzava nel movimento circolare, l'attenzione di tutti i presenti fu attirata verso la coppia. 

Il ragazzo però continuava a chiedersi dove fosse il cambiamento alle regole, se questo si limitasse all'utilizzo dei soldi al posto di un'unità monetaria provvisoria come le fiches.

La pallina, con generale sorpresa, cadde proprio dove non sarebbe dovuta cadere, paradossalmente.

«Il numero uscito è tredici. La vincita è pari a diciassette volte la posta.»

Detto ciò la croupier mostrò un sinistro sorriso, che pochi tra i presenti dovevano aver notato.

«Addio, signorina Yamaguchi, ora è troppo tardi.»

E con quelle parole Catlina si paralizzò, come se il suo fragile corpo si fosse crepato in mille pezzi di un dolore interiore. Una lacrima luccicante a metà dell'occhio provò che era ancora viva.

Le regole lo avevano reso un gioco di vita e di morte, una dipendenza dalla speranza e da sogni illusori, un intricato enigma irrisolvibile dalla psiche umana.

E una giovane ragazza innocente avrebbe pagato con la vita il prezzo del peccato più antico del mondo, con una morte lenta, dolorosa e misera per una gentildonna del suo rango.

«Cosa ho fatto...»

Il coraggioso ed astuto giovane sarebbe esploso in una violenta reazione, se solo la sua unica vera dipendenza, la droga dei suoi occhi non fosse ancora lì.

In piedi, ferma; con il suo fare riservato e composto, mostrando sul viso pallido la solita espressione indifferente a tutto e a tutti, accompagnata dagli stessi occhi vuoti, verdi ed inespressivi.

Neanche un lacrima o un grido: solo uno stupore ed una meraviglia potevano farsi spazio nel cuore di Mirton nel vedere Catlina ancora viva, ancora inerte a tutto quel dolore che devastava ogni nervo del suo già fragile corpo.

E la ragazza senz'anima sottoposta alla peggiore fra le torture, riuscì a proferire delle parole. 

«Questo gioco è truccato.»

Tutti i presenti la guardarono stupiti e sconcertati. Quella ragazza dai seni troppo grandi per sembrare reali doveva essere munita di uno straccio di prova altrettanto reale per contestare la loro insana cupidigia, paragonabile solo a quella della lupa dell'Inferno dantesco.

Eppure a Catlina non poteva importare di meno dell'opinione altrui, del pericolo e del dolore. 

Poteva solo reprimerli, come faceva con il desiderio di scoppiare a piangere e gridare: non poteva dare quelle soddisfazioni a certa gentaglia.

«Se non sbaglio, la pallina va gettata in senso opposto a quello in cui gira la ruota. Per le nostre puntate avete sempre girato la ruota in senso antiorario, e la pallina in senso orario.»

«Quindi, cosa intendete dire, signorina Yamaguchi?» Sabrina cominciò a sentirsi nervosa. 

Che anche quella giovane figlia di papà sapesse leggere nel pensiero come lei?

«Se fosse avvenuto così, la pallina si sarebbe fermata nelle caselle cadendoci dentro nel senso in cui gira la ruota, secondo i più banali principi fisici.

Quindi in senso antiorario.

Eppure ogni volta si è fermata dal verso opposto, in senso orario, come se avesse cambiato il senso del giro o avesse seguito una direzione opposta in partenza, violando palesemente le leggi del moto circolare.»

Prima di continuare quell'accusa pubblica, Catlina sorrise leggermente in mezzo a quel sentore che i muscoli, la pelle e i nervi le si stessero strappando. 

Incrociò gli occhi di Sabrina, che cercò di rimanere inutilmente calma, e si rivolse a lei.

«Vedo che anche tu sei esperta in Pokémon Tipo Psico: la mente umana è prodigiosa, certo, ma non ha tale potenza da influenzare l'ambiente esterno e di usare abilità come la telecinesi. Ma i Pokémon, sopratutto alcuni Pokémon ne sono capaci.

Lasciami dire che, in nome di Maestra di Tipi Psico, il tuo esemplare di
Alakazam è davvero bravo ad ammaestrare la mossa Psichico...
Ma non altrettanto a celarla.»

Appena Catlina finì di parlare, tutta la folla di giocatori d'azzardo ammutolì, in quella sala vuota. 

Il più lieve ed inopportuno dei sorrisi vagheggiò sulle labbra della bionda.
«Sembra che non mostrare la paura sia sinonimo di coraggio...»

Eppure nel silenzio irruppe la voce di uno di quei vecchi giocatori incalliti. 
«Se il gioco è stato truccato fin dall'inizio ci avete solo rubato dei soldi!»

E gli altri fecero eco.

«Tutta colpa di una croupier così affascinante... Come fidarsi delle dea della tentazione!»

Mentre tutte le menti ritardate dei presenti avevano realizzato quanto la sete di guadagno aveva fatto loro smarrire l'intelletto e la percezione dell'eccesso, Sabrina non riusciva più a reggere tutta quella pressione: il suo piano era stato sventato con una tesi, una confutazione e un'arringa pari a quella dell'oratore romano Cicerone quando sventò la congiura contro il bene comune della patria. 

E come se non bastasse, quella ragazza, che a chiunque sarebbe apparsa come una figlia di miliardari annoiata dal suo stesso benessere, presentava forse una psicologia, qualche tratto che non la rendesse simile ad una bambola di cera, bellissima ma abbastanza fragile da spezzarsi con un tocco.

«Riesci ancora a parlare, anche dopo che ti ho quasi strappato le labbra? - si riferì a Catlina, con un accenno di ansia - lo fai per amore, vero? Credo che lui - ed osservò Mirton come se si trattasse dell'indegnità impersonata - non sia abbastanza ricco, influente e meritevole di rispetto per poter comprarti quello che tu chiami amore.

Vorrei sapere tu faccia a sopravvivere senza sentimenti o emozioni, sei solo un'apatica ragazzina viziata.»

E pronunciando queste ultime parole Sabrina rivelò sotto lo smoking ben curato (riuscì a sfilarlo senza problemi, come se non avesse nemmeno le cuciture) la stessa uniforme scura che Catlina aveva visto nell'onsen, quando lei e Camilla erano state attaccate.

Neo Team Plasma.

Il punto cardine del ragionamento che la giovane aveva iniziato osservando gli spostamenti forzati con la mossa Psichico della pallina e che si concludeva con un retrogusto stantio e pietoso, che le ricordava come fosse realmente tramontata l'organizzazione dalle divise scure.

La falsa croupier dai capelli scuri estrasse con un gesto attento una pistola, la puntò contro di lei e di Mirton, che ancora reggeva il suo corpo tremante.

Due colpi risuonarono violenti, mirati con un'allegoria veramente sarcastica: non doveva aver senso puntare al cuore inesistente di Catlina; per ucciderla con sadismo voleva aspettare di far esplodere quel suo cervello, quell'ammasso informe di sogni irrealizzabili e teorie macchinose che già era corroso dal dolore più insopportabile.

Catlina poi sentì i sensi venirle meno, le membra più deboli che mai, la forza vitale che la lasciava; chiuse gli occhi per non vedere oltre.

«Noi siamo il Team Plasma. Il nostro nuovo obiettivo è l'annientamento totale delle cinque candidate al posto di Campione. I dettagli sono strettamente riservati.»

Sabrina formulò nella sua mente di chiromante, macchinatrice di sadici inganni, ma dall'impulso di una ragazza impaziente e violenta.

Non era pronta a subire lo scherno di tutta di tutte le reclute, delle sue compagne scelte, di tutta l'organizzazione per aver avuto bisogno di una pistola...

...E non aver ucciso il suo obbiettivo.

 

«Svegliati! Devi svegliarti e vivere quest'occasione. 
Sarai Campionessa se ti sveglierai, non puoi vivere per sempre di sogni.»

Una voce eterea, vuota sussurrò. Non era riconducibile a nessuno in particolare.

«Quella persona a te molto speciale ricambierà il tuo amore se ti aprirai, non puoi vivere per sempre senza sentimenti.»

Per quanto la ragazza senz'anima fosse inconscia, rifiutò ancora.

«Ma... Se mi sveglio il dolore può uccidermi. 
La solitudine può uccidermi. 
Le illusioni possono uccidermi. 

E io posso fare agli altri lo stesso male che ho provato io.»

«Svegliati, Catlina, per favore.»

Una voce profonda e gentile, ma allo stesso tempo preoccupata richiamò la ragazza alla realtà.

Catlina aprì poco a poco gli occhi: realizzò subito che tutto il dolore era sparito. 

Poi un senso di preoccupazione, di terrore e panico la spinse a guardarsi il prosperoso petto, sollevando la scollatura del vestito rosa: niente ferite. Niente colpi o segni. 

Solo le cicatrici di anni passati segnavano una traccia permanente sulla sua pelle bianca. 
Quindi non era morta, o peggio era rimasta viva dopo due colpi di pistola dritti nel cuore. 

Era solo svenuta, come stanca di vivere quella snervante situazione.

Però si ricordò di non trovarsi nel suo mondo di sogni caduchi, ma in una realtà permanente e terribile, una realtà che incorporava la persona che ora a lei sentiva più mancare.

«D-Dov'è Mirton?»
La voce soffice e fioca di Catlina suonava esattamente come quella con cui si svegliava ogni mattina.

«Il Neo Team Plasma aveva architettato un piano non solo per attirarti ed eliminarti quella sera, ma anche per guadagnare numerosi finanziamenti illeciti per le loro attività. 
Hanno allestito un falso casinò a Libecciopoli con la scusa che Unima è l'unica regione a non possederne uno.
La croupier è la stessa persona che ci ha attaccate, un membro del Neo Team Plasma, ma non la leader.»

«Non mi interessa, voglio solo sapere cosa sia capitato a Mirton.»

Catlina rispose pacata, ma comunque seria.

«Per essersi intromesso nella traiettoria dei colpi destinati ad ucciderti, è stato colpito da due proiettili in pieno petto, gli hanno quasi sfiorato il cuore. 
È stato ricoverato, ed è vivo. Ma immagino che ciò che conti è che ti abbia protetta con il suo stesso corpo... Lo ha fatto per te. 
Deve tenerci davvero a te.»

Dopo aver ascoltato queste parole, i pensieri confusi di Catlina si bloccarono un secondo sul fatto che perfino mentre le veniva riferita tale notizia, Camilla le sorrideva teneramente, tenendo ancora la testa della biondina appoggiata sulle sue ginocchia. 

Inoltre realizzò di trovarsi a casa di Nardo, e di indossare ancora l'abito di Marina.

Il cuore che per Catlina doveva essere inesistente cominciò a farle male. 

La mente della giovane non sapeva più nemmeno che cause associare all'estremo atto di altruismo del il suo "collega", o forse amico o forse qualcosa che non le era chiaro: Mirton doveva trovare davvero umiliante e ironicamente pietoso che proprio la ragazza segnata da tristi eventi, che non può mostrare ne' il suo vero corpo ne' il suo vero animo a causa di profonde, dolorose e incancellabili cicatrici, venisse ferita per la seconda volta, magari mortalmente. 

Erano solo un forte pietismo e una lacrimevole commiserazione a muoverlo?

Eppure Catlina si sentì pressoché soddisfatta di questa deludente supposizione: finché il sogno che coltivava inconsciamente da quando lo aveva conosciuto era presente, per lei era pure abbastanza.

Riuscì quasi ad immaginare il sangue sgorgargli copioso dal petto, poteva quasi percepire il suo stesso dolore. 

Volle per un secondo poter dividerlo con lui, ma si accorse che non ce l'avrebbe fatta: stava quasi per piangere come una bambina quando poche ore prima aveva percepito quei dolori localizzati su di sé. 

«Camilla, - la chiamò a bassa voce - ho bisogno di dormire.»

La giovane poi abbracciò la Campionessa di Sinnoh, percependo sulle guance i suoi lunghi e morbidi capelli biondi, sentendosi un po' a disagio. 

Camilla aveva ricambiato il suo gesto senza esitazione, ma ovviamente, dall'apatica amica d'infanzia a cui si era abituata non se lo sarebbe aspettato.

«Certo. Hai bisogno di riposarti. Mi dispiace soltanto che il tuo primo appuntamento sia andato male...» Le rispose quella.

«Tranquilla. Cose come i "primi appuntamenti" esistono solo nelle favole e nei sogni.»
Mentre la giovane senz'anima si coricava e chiudeva gli occhi, pensò a lui, ancora.

Avrebbe sognato Mirton inevitabilmente, avrebbe sperato che fosse lui ad accarezzarla, solo lui a vedere quelle parti di lei come la pelle e le lacrime che teneva celate a tutti, voleva sapere che dolcezza le sue labbra emanassero.

Per ora poteva solo immaginarlo. Ma le andava comunque bene.

 

 

«Oh... Camilla.»

«Cosa c'è Catlina?»

«Nulla... Mi è solo venuto un dubbio sul come tu abbia fatto a sapere dove mi trovavo per poi riuscire a riportarmi qui, proprio al momento giusto e senza che io me ne accorgessi, è strano...»

«Tranquilla, è stato un dovere più che altro: non appena ho sentito che il Team Plasma aveva creato tutto quel disastro il mio primo pensiero è andato a te, ho seriamente temuto per la tua sicurezza, e così sono corsa a salvarti...»

«In piena notte, facendo la strada da Ventura a Libecciopoli da sola e al buio?»

«E va bene, ho usato il telefonino per rintracciarti visto che era tardi e domani dobbiamo allenarci ma tu non hai risposto, sai che mi sono davvero preoccupata.
C-Certo che la tecnologia fa miracoli al giorno d'oggi, eh? Anche quando ti ho trovata, eri ancora perfettamente intatta, trucco e capelli compresi.»

«Certo, ti do ragione... A Sinnoh poche persone usano cellulari così sofisticati.»

«Ti ricordi? Cinque o sei anni fa usavamo le mail al posto dei messaggi, tenevi sempre sotto controllo il credito telefonico, avere la fotocamera era un privilegio e come se non bastasse...»

«...i telefonini avevano addirittura più di un tasto! Che bei tempi...»

«Quanto hai ragione, pensa che adesso perfino i ragazzini di dieci anni possiedono smartphone ultra-tecnologici di ultima generazione e li sanno usare meglio di me! Avrei voluto vederli a duellare contro i tasti per scrivere gli sms... Ah.»

«Tutto a posto, Camilla?»

«Catlina, a rimpiangere i bei vecchi tempi... comincio a sentirmi davvero vecchia.»

«Non hai tutti i torti...»

 

Behind the Summery Scenery #10

1. Visto che voglio evitare ogni genere di fraintendimento: questo capitolo (ed anche il prossimo) sono ambientati nello stesso giorno di vacanza in cui Camelia ed Anemone hanno avuto i loro disastri interiori ed Iris e Camilla ci danno la ragione per cui tutti siamo qui, lo yuri. Il salto temporale che viene fatto nel capitolo precedente dall'oggi al "domani" (il giorno dopo quello di presunta vacanza) include solo la lotta delle tre ragazze e la scena fra le due Capopalestra. Tutti questi capitoli si svolgono in concomitanza con gli eventi del sub-capitolo e della prima parte del nono capitolo, in sintesi.

2. Ho sempre nutrito una certa simpatia per la Lega di Unima: insomma, sono tutti e quattro giovani (in tutte le altre regioni gli Elite Four sono quasi ultrasessantenni, se ci pensiamo), il chara-design è ottimo e diamine, they're f***ing hot. Come se non bastasse, ho recentemente scoperto che questi quattro simpaticoni sono anche ispirati a personaggi della letteratura internazionale di grande successo! Quindi, scrittori di Efp: abbiate pietà di queste quattro anime in pena. Non basate tutto il loro IC sulle quattro informazioni che vi danno nel gioco, quando scrivete di loro.

3. Mi dispiace che Antemia qui faccia solo un cameo per fare battute. Ho intenzione di inserirla al più presto in un capitolo prossimo, fidatevi.

4. Avete mai provato a parlare con Mirton dopo averlo sconfitto? Dice una frase che ha a che fare con il fatto che non esistano solo il nero ed il bianco, ma numerose variazioni. Questa frase mi ha fatto pensare a "Cinquanta Sfumature di Grigio", perdonatemi. Ecco qui il suo IC! E poi la gente si limita a paragonarlo ad un vampiro... Provate ad immaginarlo mentre dice "Io non faccio l'amore, io scopo forte" (mai vista traduzione migliore di "f**k hard", ma dettagli...).

Update: okay, faccio un breve appello alle ragazze etero che leggono. Mi potete riferire se 50 Sfumature sia ancora una saga rilevante o sia caduta nel dimenticatoio insieme a Twilight, Moccia e Francesco Sole? Voglio sapere se sfottere ancora la James mi faccia guadagnare punti simpatia o no.

5. Anche l'interazione fra Catlina e Camilla è piuttosto limitata in questi due capitoli... Dovrei smetterla di procrastinare le sottotrame che non ho voglia di scrivere per concentrarmi sul fanservice.

6. La stesura originale prevedeva un piano del Team Plasma super-ultracomplicato in cui c'entravano i numeri totalizzati, il sistema limbico, la neurosi, ed un sacco di altre scemenze che sono state rimosse a favore di un semplice e cristallino "ora vi ammazzo tutti".

7. L'idea del casinò è una specie di desiderio represso personale, sapete, ho sempre sognato di andare a Las Vegas e fare su un bel malloppo fra roulette, slot machines e blackjack, anche se la fortuna non è quasi mai dalla mia parte.

8. Ho dovuto anche eliminare un trafiletto finale in favore di un qualcosa di più sbrigativo, una parte in cui Mirton e Sabrina dialogavano con la telepatia ed una scena sul Team Plasma. Fra tagli netti e riscrivere tali parti questo si è rivelato uno dei capitoli più difficili da scrivere.

9. Effettivamente Unima non ha un casinò, quello che ho immaginato si trova nella zone di Libecciopoli in cui nel primo gioco sorgeva il Deposito Frigo, nei sequel il Pokémon World Tournament.

 10. Chiedo venia a tutte le persone che sono venute qui per leggere di yuri e si ritrovano questo capitolo con forti accenni Mirton X Catlina. Non fatevi ingannare dall'apparenza.

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Capitolo 11
*** La felicità è in una ragazza ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
🍦
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Early Summer Girls

Capitolo 11

La felicità è in una ragazza

 

«Ah, capisco.»

La voce della ragazza dallo yukata azzurro e i capelli rossi venne trasportata dal vento leggero che rinfrescava anche quell'ennesima giornata di allenamenti.

Mentre lei e Camilla osservavano le loro tre restanti compagne allenarsi (la leader aveva riproposto loro il precedente esercizio del "combattere contemporaneamente, non insieme" contro Catlina, con l'unica differenza che ora al posto di Anemone c'era Iris a doversi scervellare per capire le mosse della bionda) loro due avevano avuto l'occasione di conversare.

«Ma dimmi, - aveva ripreso Camilla - come mai ti interessava saperne di più sul passato di Camelia? Siete già così amiche?»

In effetti, più che una conversazione, la giovane aveva chiesto direttamente a Camilla di parlarle della sua sarcastica, orgogliosa e allo stesso tempo fragile compagna.

Se avesse voluto informazioni su di lei le sarebbe bastato cercare il suo nome su internet e leggere i commenti nei blog idolatranti la modella; ma non era quello che Anemone desiderava sapere.
Voleva conoscere quella ragazza vedendola senza trucco o tinte, senza il bisogno di fingere o recitare.

Quelle lacrime che Camelia aveva mostrato solo ed esclusivamente a lei manifestavano il ricomparire di fantasmi del passato che la traumatizzavano ogni volta, come se rivedesse quell'attimo in cui quella bambina più o meno dieci anni veniva illusa, derisa e scandalizzata a vita dall'unica persona di cui si fidava.

Era una cosa triste, ma probabilmente tutti i fan che dicevano di amare la modella non ne erano mai giunti a conoscenza.

«N-No... Però ultimamente è un po' depressa, capiscila: il suo ragazzo l'ha lasciata, ha certi sbalzi d'umore ed è diventata anche più gentile... Per i suoi standard di gentilezza.»

«E pensi che tutto questo sia legato al fatto che quando era piccola suo padre si desse all'alcool e andasse a prostitute?»
Le domandò infine la giovane donna.

Seguì un certo silenzio, in cui Anemone guardò con un certo sconforto la sua compagna mora.
Stava lottando a fianco di Iris e probabilmente, se avesse prestato più attenzione alle loro parole, stava sgridando e deridendo la ragazzina per qualche errore di lotta.

Per essere bella, Camelia lo era fin troppo.

Non lo aveva stabilito certamente Anemone, ma se una ragazza, nell'era dei mass media e dei conflitti estetici, riusciva a mantenere un espressione naturale e seducente perfino quando piangeva con il mascara colato di sicuro era degna di essere definita bella.

E intelligente, se riusciva a capire quando le persone dicevano il falso o non avevano i soldi per vestirsi decentemente.

Inoltre era forte e sagace: la rossa si immaginò cosa Camelia avrebbe risposto al suo posto agli insulti che Alice, la riccona incontrata sotto la pioggia la sera prima, aveva gettato contro la sua sfortunata condizione sociale, mentre lei era rimasta muta e passiva come un Pokémon bastonato.

«Ah... Iris, lasciatelo dire, non hai proprio il senso dell'orientamento...»
Aveva esordito la mora, con tono di estrema commiserazione, come faceva da sempre.

«I-Io?! È colpa dell'abilità Statico che paralizza tutti i Pokémon in campo, dovresti ragionare sulle cariche prima di scaricare la colpa sugli altri!»
Tentò di difendersi la ragazzina, che si sentiva davvero vulnerabile a quelle prese in giro. Tentò anche lei una battuta.

La mora però la fulminò con una sguardo di gelida disapprovazione.

«...E nemmeno senso dell'umorismo... Sei davvero inutile, insomma. Pensa se ci trovassimo nel bel mezzo di una battaglia violenta... Non potrei utilizzarti neppure come scudo umano, dato che gli attacchi ti trapasserebbero il petto con estrema facilità...»
La voce della modella aveva quel tono tagliente e sarcastico che poteva abbattere persino una montagna, unito al suo solito sorrisetto maligno.

«A-Aspetta, cosa c'entra il fatto che io sia piatta in questo momento?!»

«Nulla, ma sappi che non è buona cosa farsi prendere dall'invidia nel mezzo di una battaglia violenta. Rischi di essere distratta e venire uccisa dall'invidia e non dagli attacchi.»

«Camelia, tu e le tue lezioni di vita...» Concluse Iris, stizzita ed umiliata.

«Ho vinto ancora. Dovreste prestare più attenzione.»
Catlina aveva appena ritirato il suo Musharna dal campo di lotta, fissando i corpi esausti degli altri due Pokémon con indifferenza.

«Bene ragazze, continuate così: se ci trovassimo nel mezzo di una battaglia violenta verremo ancora tutte morte trucidate, ma è un buon inizio.»
Camilla sorrideva mentre lo diceva e non si capiva se stesse scherzando, rimproverandole o incitandole ambiguamente.

Anemone scoppiò a ridere sonoramente, rivelando un sorriso naturalissimo e il suono della sua risata mentre il resto delle ragazze la fissavano stranite.

«Scusatemi, ma non rinuncerei a voi per un miliardo di Pokédollari!»

E mentre la sua mente razionalizzava per quanti anni un miliardo di Pokédollari avrebbero risolto i suoi ingenti problemi finanziari, il suo cuore le ricordò che quelle erano le sue uniche amiche.     

Disfarsene era impossibile.

Anche se si ricordò che ancora doveva ricomprarsi sia un cellulare sia la tinta che aveva promesso a Camelia.
 


«Ragazze, - era la voce di Nardo, con un'insolita profondità e serietà - degli uomini chiedono di...»
Ma l'uomo fu interrotto prima di completare la frase, dall'entrata di alcuni individui.

Per incutere un certo timore avevano abiti scuri, eleganti, tipici di quegli uomini di malafede che si vedono nei film. Sembravano piuttosto ricchi inoltre.

Scostarono dal loro cammino il Campione, ignorandone totalmente l'autorità e si scambiarono uno sguardo: le ragazze ormai tacevano tutte, davvero inquietate.

Iris sentiva le gambe dolerle dalla tensione, mentre cercava uno spiraglio di sicurezza negli occhi delle sue compagne.
Ma le loro espressioni erano tutte uguali, sottomesse e silenti. Fece anche lei lo stesso, temendo comunque il peggio.

«Tranquille, giovani aspiranti Campionesse - parlò uno di loro (dovevano essere cinque o sei) - non siamo qui per voi quattro.»

Quattro non è cinque.
Quindi qualcuna di loro c'entrava in quel losco affare perché quattro non è cinque.

E le ragazze caddero ancora di più nel panico.

Chi potevano cercare costoro, se nessuna di loro si sentiva personalmente presa in causa?
La paura era tangibile nell'atmosfera.
La sfortunata tra loro ne avrebbe sicuramente saputo qualcosa, ma taceva per rallentare inutilmente lo svolgersi del fato.

«Siamo dei Servizi Sociali della regione. - uno parlò, rivolgendosi a Nardo - sono fatti estremamente riservati.»
Con quelle parole il Campione fu costretto ad andarsene, mentre le cinque erano ancora lì, ancora più confuse dalla rivelazione.

Cosa c'entravano i servizi sociali? Iris si escluse a priori, con un leggero sollievo.

Ma essere sole con quegli uomini in nero rimaneva comunque inquietante.
Uno di quei tizi tutti uguali di apparenza si mosse e camminò pacatamente verso una di loro.

Non servì seguire la traiettoria completa della camminata, a tutte le "quattro innocenti" bastò vedere il viso di Anemone abbassarsi e nascondere l'espressione più addolorata che la rossa avesse mai mostrato loro.

Nessuna ebbe nulla da dire.

Invece di parlare con la diretta interessata, uno cominciò a parlare ad alta voce quasi a schernirla, rivolgendosi a tutte loro che erano rimaste incredule.

«Questa ragazza non ha i genitori.
È stata sotto tutela della famiglia Ayamoto per quasi dieci anni, all'insaputa della nostra organizzazione.
Un'adozione non accettabile dalla legge, dato che il cosiddetto "padre adottivo" o come lo chiama lei, "nonno" non ha assolutamente le risorse fisiche e sopratutto economiche per crescere una ragazzina.

Inoltre, come se non bastasse, l'uomo in questione non ha nemmeno una consorte, il che comporta un deviamento psicologico nei rapporti di relazione del soggetto interessato.
Hanno cercato di depistare la legge e i codici di adozione per un bel po', ma ora che la questione è venuta a galla, la signorina, in quanto minorenne, deve essere ricondotta in un istituto dove ci si prenda adeguatamente cura di lei.»

Finito di parlare, mentre Iris ad ogni frase si era morsa un pezzo di labbro, e tutte quante esibivano un'espressione scioccata e incredula, Anemone rimase in piedi, come paralizzata.

Per un secondo si pentì di essere nata.
I suoi occhi azzurro cielo si colorarono di scintillanti sfumature lucide, mentre le guance ormai erano già rigate di lacrime, che le cadevano copiose sui piedi.

Nessuna parlò, in preda allo sconforto: il cinque che diventava quattro.

L'uomo che aveva parlato si posizionò alle spalle della sfortunata, tenendole ferme le mani: riuscì a snodare la cintura del suo yukata, facendola cadere a terra.

I lembi di stoffa scivolarono verso il basso e rivelarono l'insenatura del seno di Anemone: coperto da un reggiseno piuttosto semplice, mostrava due abbondanti rigonfiature dove la pelle abbronzata della giovane si schiariva leggermente, diventando color dell'ambra.

Quel losco individuo prese sul palmo della mano uno dei due tesori della ragazza, schiacciandole la carne con le dita, mentre la ragazza si dimenava inerme nell'umiliazione, senza fare un vero e proprio tentativo di liberarsi.

La passività e l'impossibilità di reclamare una dignità non di donna, ma di essere umano, fece rabbrividire la pelle della rossa che si sentì sussurrare all'orecchio.
«Guarda come sei diventata bella e sexy... Fa' la brava ragazza e ti tratteremo bene, questa volta.»
E con la mano scese ad accarezzare anche i suoi perfetti fianchi arrotondati.

«La smetta! Questa è molestia sessuale, razza di maniaco pedofilo!»
Iris si fece avanti: non poteva sopportare oltre quello spettacolo orrido, la sua più cara amica umiliata e delle autorità abusare del loro potere.

Si stupì che dovesse essere lei ad interrompere quella tortura, ma non pensò assolutamente di accusare le altre, provò bensì fierezza del suo stesso coraggio e del suo senso di giustizia.
Tutti quanti si meravigliarono di come quelle parole violente pronunciate anche dalla più piccola del gruppo potessero suonare accusatorie e salvatrici.

Ma comunque Camilla trattenne la ragazzina dai capelli viola per il braccio dal fare qualche sciocchezza: si trattava comunque di autorità.

Con uno spintone l'uomo liberò la ragazza, che finì per scivolare a terra con il kimono ancora slegato ed occhi e viso bagnati. Non fece in tempo a rialzarsi che il suo molestatore in abiti eleganti la fulminò con lo sguardo, facendola sentire un'ameba.

«Lascerai la competizione per il titolo di Campione oggi stesso, capito ragazza?»
Anemone annuì, in preda alla paura.

Miserabile.
Non riuscì a definirsi altro agli occhi delle sue compagne.
Era pienamente cosciente del fatto che suo nonno non avesse mai avuto alcun diritto di occuparsi di lei, ma era lei a lavorare, a occuparsi di se stessa e della sua famiglia senza diritti o dignità.

Le cose continuavano ad andare sempre peggio... Ma almeno potevano continuare, prima che tutti i suoi sogni venissero distrutti dai servizi sociali della regione.

La storia l'avrebbe ricordata come uno di quegli aspiranti Campioni che nonostante i loro sogni e il loro talento sono costretti a rinunciare e a vivere di rimorso.
Ecco come Camilla, Iris, Camelia e Catlina l'avrebbero ricordata.
Un'avversaria in meno, una minaccia al loro successo eliminata.

Appena quei demoni in vesti umane se ne furono andati, Camilla non esitò a porre una mano alla rossa per aiutarla a rialzarsi; questa la scacciò con uno schiaffo, e si rialzò da sola, tenendo stretto il tessuto dello yukata come se rappresentasse la sua morale violentata, poi si allontanò il più velocemente possibile.

«Anemone...»
Iris riuscì a pronunciare il suo nome solo a bassa voce, chiamarla indietro non sarebbe servito a nulla.

«Ha bisogno di stare sola per qualche minuto.»
Cercò di tranquillizzarla la leader, mettendole una mano sulla spalla.

Intanto il vento soffiava più forte, più violento.


«La zona ad ovest di Unima è rinomata per le sue miniere: la Cava Pietraelettrica, il Monte Vite, la Cava Ponentopoli... Luoghi che impiegano lavoratori da tutta la regione. 

Purtroppo molti di essi perdono lì la vita per i più tristi motivi e in moltissimi casi queste sfortunate anime possiedono perfino dei figli: per questo proprio a Ponentopoli è stato istituito un centro di accoglienza ed educazione per i molti bambini che rimangono orfani.

Deve essere stata questa la sorte dei miei genitori naturali, perché ho scoperto di mia personale esperienza che più che "centro di accoglienza ed educazione" basterebbe il nome "orfanotrofio" per descrivere la solitudine opprimente che più volte ho provato.

L'unico modo per uscirne, per varcare i cancelli che separavano noi bimbi esclusi dal diritto naturale di avere una famiglia era, come ci ripetevano fino alla nausea gli istitutori, "essere buoni, così qualche mamma o papà vi vorrà adottare".

Ora, nessuno potrebbe dire che esistono i bambini buoni e i bambini cattivi.
Ma io ho imparato a mie spese che la vita sa essere assai crudele ed invece di assicurare a tutte le sue creature il calore di una famiglia, preferisce etichettarci già dalla nascita e identificarci fino alla morte con i nostri peggiori difetti e con le nostre paure.

Ricordo che la prima volta che venni punita corporalmente fu quando picchiai furiosamente uno degli altri bambini perché mi aveva offesa. 

Mi aveva presa in giro per via dei miei capelli e non ne aveva motivo.
I miei capelli rossi, di cui non vado assolutamente fiera, che mi fanno sembrare uno scherzo della natura, sono comunque un prezioso dono delle sante anime dei miei genitori defunti. 

«Cos'hanno i miei capelli di sbagliato? Cos'ho io di sbagliato?» 

Mi chiedevo, mentre uno dei maestri mi trascinava per i capelli (li portavo lunghi, una volta) ed io, in lacrime, cercavo di giustificare il mio operato manesco; questo riuscì a spogliarmi dei vestiti con la forza e percepivo il suo vigliacco senso di potenza nel riuscire a denudare una bambina indifesa.

E poi il colpo di grazia. Sempre reggendomi per i capelli come una bestia nuda ed inumana permise che tutti i bambini potessero ridere spudoratamente di me, perché ero stata cattiva. 
Sopratutto i maschi ridevano di me, si prendevano gioco del mio piccolo corpo ambrato di bambina, ed ora mi chiedo se una volta cresciuti ancora ridono quando vedono delle belle ragazze prosperose, questi bastardi.

Nonostante l'incancellabile umiliazione, il mio animo trovò il modo di reprimere la voglia di gridare e di piangere. Feci ciò che faccio anche adesso, ciò che mi aiuta ad essere forte.

Da quel giorno, ero molto, molto piccola quando successe, smisi di parlare per difendermi e per ogni altra ragione. Non mi avrebbero mai ascoltata.

Smisi di piangere, visto che non mi avrebbero nemmeno mai consolata.
Evitavo anche di guardarli negli occhi, tutti quegli individui che desideravano schiavizzarmi ai loro interessi perversi, le cause nobili sono sempre così poche che si contano sulle dita di una mano.

Preferivo guardare il cielo, cercavo di volare via da tutto ciò.
  
Per questo nessuno ha mai avuto la vaga idea di adottarmi; ho accettato di essere destinata a marcire in quell'orfanotrofio, di aspettare la maggiore età per farmi cacciare via da lì definitivamente, continuando a fissare il cielo come un'idiota, sperando di raggiungere quella libertà che non avevo mai ricevuto. 
Poi non avrei trovato lavoro e sarei morta per la strada o di fame o di freddo, come le maestre e anche i bambini mi ripetevano da sempre.

Sarei mai cresciuta, diventata una ragazza normale, una di quelle che pensa ai ragazzi, al suo futuro, a divertirsi e ad innamorarsi?
Certo. Se non mi fossi chiamata Ayamoto Anemone.

Era sicuramente scritto nel mio destino che la mia specializzazione sarebbe avvenuta con i Pokémon Tipo Volante; nel momento in cui sono stata strappata al futuro che gli istitutori mi avevano imposto fissavo un cielo azzurrissimo, che mi donava una certa pace interiore.

«Sei felice qui?»
Una voce anziana aveva rotto la mia "profonda meditazione". 

Felicità? 
Davvero a qualcuno poteva importare se un rifiuto della società era felice, con tutti i problemi che ci sono nel mondo? 

Io sono rimasta zitta, non avevo la risposta. 

Non avrei parlato comunque, il mio mutismo era solo peggiorato col tempo, portando via con sé la capacità di relazionarmi e di intraprendere rapporti con il sesso opposto. 
Inoltre gli adulti mi facevano paura. Un po' come succede ora.

«Certo. Perché dovresti rispondermi? - D'un tratto l'uomo mi accarezzò il viso e strofinò i capelli affettuosamente - Il Campione della Lega di Unima ha chiesto personalmente di te per allenarti nelle lotte e farti diventare una Capopalestra, ma tu stavi osservando un meraviglioso cielo infinito, la tua piccola mente spiegava le ali verso orizzonti illimitati... E io ti ho distratta. 
Ti chiedo assoluto perdono.»

Esisteva gente così pazza da nutrire speranze per me, effettivamente.
Ciò mi lusingava e allo stesso tempo spaventava mortalmente.

Avevo davvero paura di immaginare qualcuno subire i miei stessi dolori ed accettare passivamente ogni insulto e ingiustizia mi stava trasformando nell'incarnazione della pietà. 

Il corpo ha sete di amore, ed assecondare una misericordia invisibile la quale speravo atrocemente venisse prima o poi a salvarmi dalla sofferenza, rendeva il mio cuore ancora più arido; volevo che quell'uomo mi mostrasse i sentimenti che non avevo mai provato ma che desideravo inconsciamente.

«Portami via con te... Qui... Mi sgridano, mi picchiano e io non posso nemmeno dire cosa penso... 
Ti prego... Portami via...»

Mio nonno (nome che preferisco di gran lunga a "padre" che mi rifiuto di dimenticare) invece di compilare le carte di adozione e di pagare l'affidamento, mi ha proposto di gridare forte cosa ne pensassi di quell'orfanotrofio, degli istitutori, dei bambini che ridevano del mio piccolo gracile corpo dal color dell'ambra. 

Tanto non sarei mai più ritornata lì... In teoria.

«Stupidi, morite tutti, brutti stupidi, vi odio, non vi perdonerò mai!»
Quelle parole gridate da una bambina di sette anni con il cervello di una di tre sono state la mia più grande ribellione.

Poi ho dimenticato. 
Cosa il Campione mi aveva insegnato, a ribellarmi ad ogni abuso della mia pazienza e dignità, ho eliminato, e poi ho ripreso con la mia dipendenza. 

Ripreso a farmi mettere i piedi in testa dalla società, dal mondo, dalla mia "famiglia".

Ho pensato di ripagare la pietà che mio nonno ha avuto di me prendendomi sulle spalle tutte le responsabilità, come se la mia esistenza fosse stata una colpa da espiare.

Anche se ho sempre sognato di poter solcare il cielo infinito che tanto adoravo da piccola, io continuo a sperare che mi venisse alzato lo stipendio, magari di avere più tempo libero per compensare la mia mancanza di vita sociale, qualche volta vorrei perfino liberarmi una volta per tutte di mio nonno, la persona che mi ha strappato dall'inferno, pur di non doverlo più mantenere. 

Io per ora sopporto per contrappasso la pena di dovermi mascherare con un sorriso per nulla naturale, di cercare l'ottimismo che non esiste in nessun aspetto della mia inutile vita. 

Il mio futuro è stato disegnato dalla mia nascita: povertà, solitudine, depressione, responsabilità e colpe che mi perseguiteranno a vita, nessuno che mi capisca.

Potrei gridare all'infinito e non sfogarmi, piangere e nulla cambierebbe, e adesso che anche il mio sogno precipita dal paradiso in una fossa oscura ed infinita mi piacerebbe davvero che qualcuno me lo richiedesse...

Se mi sento libera... Se mi sento importante...
Ma sopratutto, se mi sento felice, ma ho paura di rimanere di nuovo zitta.»


Mentre Anemone ripensò piano piano al percorso che il suo inesorabile destino aveva compiuto per condurla lì dov'era, si rese conto di aver avuto sotto gli occhi i suoi ciuffi rossi spettinati tutto il tempo, si intromettevano nel suo campo visivo, ondeggiando trasportati dalla brezza estiva.

La facevano sembrare una ribelle, rappresentavano l'ossimoro con la sua personalità.

Davvero era tutto finito?
Avrebbe almeno voluto chiamare suo nonno, mentirgli per l'ultima volta dicendogli che lei sarebbe stata bene, che non doveva preoccuparsi, che si dispiaceva di essere stata una nipote (o una figlia, o una Capopalestra o qualsiasi cosa fosse stata per quell'uomo che non aveva nemmeno il suo sangue) sempre e comunque pessima.

Rimpianse di non avere più un telefono.
Ricordare come da brava adolescente nel pieno di una crisi di nervi lo aveva scagliato a terra la fece sorridere, quasi illudere di essere un po' normale nel profondo.

Trovò ingiusto inoltre non poter rivelare a Camelia che le aveva detto una bugia: non si sarebbe mai trovata un fidanzato, perché non voleva e basta. Glielo aveva promesso solo per farle piacere, e rimpianse ancora di essere così perdutamente buona e gentile solo per non ferire gli altri.

E ora avrebbe dovuto subire, ironicamente, i desideri carnali di quegli uomini schifosi e perversi, come tutte le ragazze della sua età che, suo nonno le raccontava, negli orfanotrofi più degradati venivano veramente usate come oggetti da sesso, non avendo altre doti o capacità nella vita se non il loro corpo.

Prima di andarsene definitivamente, la rossa si vide costretta a togliersi con dispiacere quello yukata azzurro intenso, che rappresentava ormai tutto l'orgoglio che aveva, come se la sua pelle fosse diventata aria, come se avesse indossato fino al fatidico momento del suo ritiro dalla competizione l'intera volta celeste sul suo corpo giovane e formoso.

Per la prima volta, il suo destino le sembrò troppo lontano e nefasto per potersene preoccupare al momento.
 


Quando la competizione al titolo di Campione era cominciata, Iris non aveva mai immaginato di vedersi dispiaciuta della perdita di un'avversaria: ma come poteva gioire del fatto che la sua prima amica la stesse abbandonando perfino contro la sua volontà?

Quell'estate la stava struggendo, troppe cose brutte capitavano una dopo l'altra.

Da quando si era mostrato il suo innato senso di giustizia nel difendere la rossa da quelle molestie vere e proprie, Iris aveva pensato ad oltre mille frasi da dire nel loro ultimo secondo insieme.
Ed aveva finito per scegliere quella che fra le mille suonava come la più egoista.

«Per favore, non dimenticarmi...»
Le aveva detto mentre la abbracciava in lacrime, per la prima e ultima volta.
Eppure non era lei ad avere il diritto di piangere, lo sapeva.

«Ma certo che non ti dimenticherò. - Anemone aveva un tono di voce dolce mentre sorrideva amareggiata - Se ti capita di sentirti di nuovo sola parla con le altre, sono sicura che ti ascolteranno.»

Con la coscienza che quella frase non l'avrebbe tirata su di morale, la ragazzina annuì e poco dopo, troppo poco dopo, si trovò costretta a rompere l'abbraccio e, strofinandosi gli occhi bagnati, si allontanò pensando come se fosse stato un funerale "era una brava ragazza".

Dopo di lei la rossa fece un leggero inchino di riconoscenza verso le compagne più grandi, per poi abbracciare prima Catlina e poi anche Camilla.

Iris notò come le parole di Camilla fossero cento volte più rassicuranti delle sue.

Camelia invece non pareva particolarmente scossa; era perfino truccata, quasi a dire che non avrebbe pianto neanche per farle un piacere.
Sembrava soltanto assorta, in un certo senso.

Iris se lo aspettava in fondo, ma le parve comunque scortese da parte della modella comportarsi così. Le idol non piangono sempre, al ritiro delle loro colleghe? O fingono di piangere e basta?

I loschi uomini nei loro eleganti vestiti fecero voltare la ragazza rossa, che rivolse, al limite del suo devasto emotivo, l'ultimo amaro sorriso alle sue più fortunate avversarie.

«Vi auguro tutto il meglio per il vostro futuro. Mi mancherete.»

E con quelle parole la giovane dai capelli ribelli, gli occhi profondi come il mare e il cuore violentato dall'indifferenza altrui lasciò quella che poteva essere la sua salvezza, la sua unica realizzazione nella vita, senza potersi voltare indietro.

«Che scemenza... Hey, voi, sottospecie di stupratori pagati, aspettate!»

Quel tono aggressivo, fermo e provocatorio, di una donna indipendente e spudorata, riuscì non solo a scuotere per la seconda volta il cuore di Iris, ma anche di Catlina, Camilla e perfino degli "assistenti sociali".

Gli occhi della ragazza di quell'azzurro freddo e cristallino erano veramente spaventosi al solo contatto visivo: erano determinati.

«Ma quella non è una di quelle stupide modelle onnipresenti nelle riviste?»
Uno di quei malviventi tutti uguali si fece identificare solo per quell'insulto.

«No, questa è anche una Capopalestra... - poi si rivolse alla mora, o al suo prominente petto, quasi lo avesse personificato - E dimmi, la medaglia la dai a chi ha le Pokéball grandi? E poi che cosa gli fai, un'Idropompa?»
Un'altro si distinse, facendo ridere fragorosamente il gruppo.

Le tre ragazze si guardarono schifate, Anemone si sentì inconsciamente in colpa, anche se non ne aveva motivo.

Eppure, dal punto di vista della modella la situazione era esilarante.

Talmente esilarante che individui grandi e grossi, che si sentivano potenti traumatizzando e poi abusando di un'innocente fanciulla, non le dicevano di tacere o di spostarsi, ma rimanevano in attesa di una sua risposta: tipico degli uomini abbastanza perversi da sottomettersi ad una ragazza...
Forse non era davvero esilarante, pensò infine.

Sollevando un lembo del tessuto dello yukata giallo come il sole a mezzodì, Camelia scoprì seducentemente la scollatura, rivelando un'accenno del suo orgoglio più grande, dando a quegli idioti una preview del suo ampio seno.

Qualche secondo dopo l'atmosfera di paradiso terrestre si tramutò in quella dalla schiera dell'inferno in cui i rei dei sette peccati capitali messi insieme scontavano la loro pena.

Un bagliore talmente forte ed improvviso costrinse tutti, anche le quattro ragazze, a coprirsi gli occhi: un Tuono scagliato a chissà quale voltaggio, dal boato devastante, sembrava troppo potente e fiero per essere visto da occhi umani.
Camelia invece osservò tutto il processo, senza problemi.

Un esemplare di Emolga si appoggiò con delicatezza sulla spalla della giovane dal paralizzante sarcasmo.

Era incredibile come quell'esserino così piccolo e delicato potesse usare una mossa potente come Tuono solo per mero divertimento.
Avrebbe voluto incitare la sua Allenatrice a ripetere la mossa fulminando a morte quei rifiuti umani, ma si limitò a fissare incuriosita le altre ragazze: sorridevano quindi dovevano avere fiducia in quella sua allenatrice un po' superba.

«La medaglia la do agli allenatori abbastanza intelligenti da sapere che una di tipo Acqua come Idropompa non verrà mai eseguita da un tipo Elettro.»
Ribatté Camelia con chiarezza quasi spaventosa.

«Camilla, questa idea delle Pokéball nascoste nel reggiseno mi comincia a infastidire.»
Iris sussurrò all'orecchio della leader in totale sincerità.

«Come mai? È una tecnica utile e semplice, e anche pratica per tenere le proprie Pokéball sempre a portata di mano...» Le rispose l'inventrice di quel trucco in persona.

«È immorale. - la riprese Catlina, davvero seria - E smettiamola di parlare di queste cose nel mezzo di una questione di tale importanza...»

Iris la interruppe.
«Tu almeno hai lo spazio per mettercele le Pokéball!» La ragazzina era ancora stizzita dal commento precedente (e da tutte le dozzine che aveva ricevuto nei giorni precedenti) riguardanti il proprio seno.

Gli uomini neri intanto erano zitti.
Erano stati sconfitti dal logos, l'arte di volgere un intera questione a proprio favore, come degli ignoranti; e da tali, uno sollevò una Pokéball, ma fu fermato nell'atto di mandare in campo il Pokémon.

«Non me ne importa niente se sapete gridare quattro mosse a caso. - facendosi spazio fra quei colossi, Camelia si trovò faccia a faccia con la rossa, che la fissava intimorita. Si perse un secondo in quegli occhi azzurri, ma fu solo un secondo - voglio scontrarmi con lei.»

La modella indicò Anemone con il dito indice, con l'unghia coperta di fine smalto.

Seguì un silenzio dietro quell'azzardata sfida.

«Se vinco io ve la portate via e potete anche sverginarla per quanto mi riguarda.
Se vince lei invece, ce la trascineremo dietro fino al TRUF.
Se i giornali dicessero che la Campionessa di Unima ha vinto il suo titolo a tavolino sarebbe penoso. Dico bene?»

Iris si chiese se Camelia fosse seria: non volle crederci, ma dal come aveva contrapposto quell'"io" ad uno sdegnoso "lei" sembrava di sì.

«Quindi voi cinque non siete così amiche come dice il Campione?» Si stupì uno di loro.
Camelia scoppiò forzatamente a ridere, con un pesante sarcasmo, gelando la situazione.

Poi si rifece seria, fulminando quegli idioti con gli occhi.

«Ve lo deve spiegare una stupida modella che questa è una competizione?
Il titolo di Campione è uno solo, stiamo combattendo tutte per quello. Levarci un'avversaria di torno fa sempre comodo, anche se vi dovete portare via questa sfigata perché non ha i soldi per mantenere lei e la sua stupida famiglia o qualsiasi cosa ci vada di mezzo... Non me ne frega.

Qui ognuna combatte per sé, non siamo "amiche" o altro.»

Catlina, Camilla e Iris la fissarono sconcertate.

Bugiarda.
Bugiarda, approfittatrice.
Bugiarda, approfittatrice, egocentrica, falsa.

«Bugiarda, approfittatrice, egocentrica, falsa, dal seno di morbidissimi novantadue centimetri.»
Pensò Iris in bilico fra ira e invidia.

Camelia aveva davvero finto di essere ferita nell'animo, di essere qualcosa di più di un'acida divinità della discordia, aveva finto perfino di voler bene a lei e alle altre?
Si poteva essere così bravi e simulare l'amore e la fiducia?
Rimase ancora devastata. Ora il suo tifo era tutto per la rossa.

«Accetto.»
Anemone si posizionò davanti alla modella.

Solo fissandola, con tutto il dispiacere che aveva nell'aver perso la ragazza dolce e simpatica che credeva di aver spremuto fuori da quell'ammasso di tinte per capelli e make-up, dichiarò a Camelia guerra.
Non sarebbe rimasta a guardare quella volta.

«Ma se vinco io, Camelia, lasciati tirare due begli schiaffi, te li meriti.»
Aggiunse la rossa alla sua posta in palio.


«La odio, quanto la odio, non mi è mai stata simpatica, lo sapevo che di lei non dovevamo fidarci; e che meschina, sfidare un'Allenatrice di Pokémon volanti solo per avere il vantaggio del tipo!
Fossi in Camelia mi farei fare una plastica facciale... A suon di calci in faccia.»

Iris era perfettamente conscia che quella battaglia non stabiliva solo se la rossa sarebbe rimasta: era una prova per testare l'autorità che le due diciassettenni contendevano, per capire chi delle due avrebbe continuato la sua strada di gloria e successo mettendo i piedi in testa all'altra.

Ovviamente, qualsiasi risvolto avesse avuto la lotta, il legame di amicizia che avevano cercato di stabilire da almeno un mese si sarebbe rotto definitivamente, trasformandosi in assoluta diffidenza e sospetti reciproci in tutto il gruppo.

Per quanto le dispiacesse, la ragazzina era ancora sconvolta, e non si sarebbe trattenuta alcun insulto.

Camilla intanto discuteva con Catlina sul fatto che ad Unima le lotte sembrassero sempre accese, cariche di pathos e adrenalina, un vero test di ideali e verità contrapposte: l'altra annuiva, cercando di seguire l'ingiustificata eccitazione dell'amica.

Calato un brevissimo silenzio, su quel campo che da loro era usato per allenarsi le due ragazze presero posizione, guardandosi dirette negli occhi.

Allo sfidato la scelta del genere di sfida.

«Hai presente come funziona una lotta aerea? È un tipo di lotta abbastanza popolare nella regione di Kalos: si usano solo Pokémon di Tipo Volante e l'intera battaglia si svolge in aria.
Vince il primo che fa toccare terra al Pokémon avversario.
Semplice, ma vediamo se riesci a starci dietro.»

Anemone liberò dalla Pokéball Swanna, il cigno dalle candide ali.

Sia la giovane sia il suo Pokémon non avevano mai considerato il filo a cui era appeso il loro destino tanto fragile e sottile: non era assolutamente il momento di indietreggiare, ma di dimostrare a se stessa come dovrebbe sempre essere, sia nelle lotte, sia nella vita.

«Non perderò, non darò la soddisfazione a quella stupida di vedermi sconfitta...
Non darò il dispiacere al nonno di vedermi sconfitta... Non tradirò i miei ideali.»
Mentre pensò queste parole, Anemone sentì lo spirito di un'innata ribelle dai capelli rosso naturale che si risvegliava: una sensazione fantastica.

«Va bene. Vado per questa lotta aerea.
Emolga, per favore, vai avanti tu: sei l'unico Pokémon Volante che possiedo, del resto.»
La modella sembrava piuttosto calma, scostando il piccolo Pokémon dal suo braccio.

Prima però Camelia sussurrò al suo compagno.
Fu parecchio concisa.
«Ricorda: dobbiamo perdere con dignità. Okay?» E fece l'occhiolino.

Quando Swanna ed Emolga si schierarono a più o meno sei metri da terra, l'ultima voce a gridare prima che si scatenasse la lotta decisiva fu un ovvio incito.

«Anemone, fai del tuo meglio!»
Iris incrociò le dita, mentre nella sua testa macchinava tutti i meccanismi di lotta possibili.

«Che la lotta cominci!»
Catlina si trovò costretta a fare da arbitro, dando il segno d'inizio della lotta decisiva. 

«Swanna, Eterelama!»

La rossa dilatò le pupille azzurre verso il cielo, focalizzando la vista fra le nuvole e quel blu immenso: era lì che da piccola cercava la pace da quel mondo spietato e crudele in cui si ritrovava a vivere; in quel momento però la sua attenzione era rivolta agli spostamenti aerei più che al Pokémon in sé: svolazzare e fuggire a caso era inutile.

«Mancato, maledizione!»

Era il momento di attaccare, di farsi valere, di dimostrare a Camelia che anche lei era una Capopalestra degna di quel nome, quel nome che che avrebbe mantenuto ad ogni costo.

Sapeva che la sua avversaria aveva il vantaggio del Tipo, ma non quello del luogo, almeno erano pari in questo campo.
Ma non solo.

«Segui Emolga, cerca di superarla in velocità!»

Le due diciassettenni si stavano sfidando a una corsa ai limiti delle leggi fisiche, raggiungendo velocità talmente assurde che non permettevano un attimo di respiro o di deconcentrazione né al Pokémon, né allo stesso Allenatore.

Uno sbaglio minimo e il secondo dopo si sarebbe ritrovata a terra, a mangiare la polvere.

«Che illusa, davvero credevo che Camelia volesse essere mia amica? 
Di potermi fidare di lei? Sono troppo buona. 
Perché non riesco ad essere anch'io egoista, opportunista e menefreghista?! 
Basta. Lo hanno voluto loro.»
Anemone strinse i pugni.

Era consapevole che quei tizi in nero la osservavano ancora, scambiandosi qualche commento, qualche battuta infame su di lei.
Ma al momento non erano importanti quanto la rabbia crescente in lei.
Doveva farci qualcosa con quel furore, non poteva affievolirsi, dimenticato nelle viscere del suo corpo.

«Swanna, usa Pioggiadanza!»
Il cielo, da azzurro limpido che era, si ingrigì tanto da ricordare vagamente quella sera di temporale estivo in cui Anemone ed Iris erano diventate amiche.
E grosse gocce d'acqua cominciarono a rovesciarsi a ritmo sempre più intenso.

Anemone era lì per vincere, ma nessun perdente può vincere senza una strategia.
 
«Attacco Rapido. Guadagnamo un po' di vantaggio così.»

«Wow, Anemone vuole davvero vincere. 
Immagino che questi colossi foderati di soldi vogliano davvero sverginarla... 
Davvero gli orfanotrofi in questa regione fanno così schifo? 
Pensavo che in materia di prostituzione minorile la periferia di Sciroccopoli toccasse davvero il fondo...»
Camelia non si sarebbe mai imposta di evitare i commenti durante le lotte.

Le infondevano fiducia, finché non perdeva il suo orgoglio personale andava tutto bene, secondo lei.

Probabilmente la rossa non aveva mai avuto questo genere di problemi, perché forse non conosceva alcun concetto di "orgoglio".
Secondo una certa etica morale se non si conosce qualcosa lo si tende a disprezzare e a scegliere la strada opposta a ciò pur di evitarlo.

«Emolga non lasciarti prendere alle spalle!»
La giovane pensò e ripensò alla situazione di Anemone, ma finì per rimuginare su sé stessa.

Di certo, da quando aveva incontrato la rossa, qualcosa in lei era cambiato.

Si chiese solo se una top model incapace di esprimere le sue volontà, isterica e problematica come lei riuscisse davvero a far diventare migliore una persona a sua volta.
Almeno che diventasse migliore di lei.

Si ricordò che ora Camilla, Catlina e sopratutto Iris la odiavano per il suo precedente doppiogioco.
Ma non ne avevano motivo.

«Eh?! Piove ora?! No... Le mosse di stato si usavano nelle lotte qualcosa come sei anni fa!»
La mora si sentì scossa.
Non andava bene. Non andava affatto bene per il suo piano.

Se avesse voluto farla finita subito alla modella sarebbe bastato, come visto in precedenza, usare la mossa Tuono, dalla potenza talmente elevata da trasformare qualsiasi Pokémon Volante in arrosto con un solo colpo.

Ma alla potenza non corrisponde certo la precisione: Tuono aveva addirittura la probabilità del settanta percento di fallire e i tentativi a disposizione erano pochi.
Una buona scusa per non usarla.

Però l'acqua è un ottimo conduttore di elettricità, questo è risaputo da tutti.
E con la pioggia la mossa Tuono, di Tipo Elettro, diventa infallibile.

«Camilla, come mai la traditrice non usa Tuono ora che può? Abbiamo visto prima che Emolga riesce ad usarla perfettamente... Perché non ne approfitta?!
È stupida per caso? Le tette le otturano il cervello?!»
Iris domandò all'amica, mentre da bordo campo osservavano lo spettacolo.

«Credevo che tu tifassi per Anemone...» Le rispose la donna.

La ragazzina ammutolì. Tutte e tre però avevano quel dubbio esistenziale.

Intanto la ragazza dai capelli neri e gli occhi azzurro chiaro cercò di ignorare meglio che poté tutte quelle critiche.

Le ricordavano i commenti negativi e le prese in giro che i suoi fan avrebbero potuto scambiarsi nel caso non avesse mostrato loro la se stessa creata apposta per apparire nelle sfilate, nei servizi fotografici o nelle interviste.

Non le restò che fregarsene e seguire le sue vere intenzioni.
«Anemone, ti prego, capisci dove voglio arrivare... So che non sei così stupida...
E che le tette non ti otturano il cervello.»

Camelia baciò la Pokéball di Emolga.

«Emolga, segui Swanna e vai più in alto che puoi. - E abbassando la voce aggiunse - fai in modo che non cambi traiettoria. Mi dispiace piccola mia, ma devi sacrificarti per la tua Allenatrice ora.»

Senza dubitare neanche per un secondo della fiducia che aveva nella modella, Emolga volò spedita, scagliata in linea retta come un proiettile, puntando verso un punto indefinito del cielo piovoso, bagnandosi il pelo e il muso di pioggia battente.

Anemone percepì le sue mani tremare, non ricordò di essersi mai agitata tanto per una lotta. Si sforzava di tenere gli occhi fissi in alto, richiudendoli ogni volta che una goccia d'acqua le finiva nell'occhio, facendoglielo bruciare.

«Swanna cerca di schivare tutto quello che puoi e continua a salire fin dove trovi bassa pressione dell'aria! Veloce!»

Dopo l'esperienza avuta qualche settimana prima, in aggiunta a questa, qualsiasi finale avesse concluso la lotta, si ripromise di cancellare Pioggiadanza dalla sua lista di mosse.
Ne aveva davvero abbastanza di pioggia.

La rossa aveva momentaneamente dimenticato che non solo Emolga le aveva palesemente mostrato di conoscere Tuono pochi minuti prima, ma anche che, qualora fosse anche riuscita ad approfittare della pioggia per potenziare le mosse Tipo Acqua di Swanna, sarebbe stato comunque tutto inutile: il vantaggio del Tipo era di Camelia e lo erano anche le resistenze che ne conseguivano.

«Che faccio? È ovvio che stia cercando di portarci il più in alto possibile per scagliare un Tuono micidiale... Ci schianteremo a terra... Sono spacciata. 
Cosa posso fare? 
Niente, è finita.»

Anemone chiuse un secondo gli occhi, sentendo la pioggia flagellarle le spalle.
Riusciva già a immaginarsi giacere nuda, dopo essere stata stuprata e psicologicamente rovinata da quegli aguzzini maledetti.

Le venne in mente un'ultima cosa.

«Essere il Campione non significa solo combattere. Significa anche...»

E la frase si completò per lei.
«Credere.»

«Se non credo io in me stessa nessuno lo farà mai al posto mio.»
La rossa alzò lo sguardo, come se avesse intravisto una luce salvatrice in quel cielo di nuvole tetre.

«Continua a salire, non fare in modo che Emolga ti raggiunga!»
Mentre il cigno dalle ali bianchissime si sforzava di raggiungere il paradiso sfrecciando attraverso l'aere come una freccia, Anemone si ricompose.

«Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei...»

«Cosa sta contando Anemone?» Iris domandò sconcertata, quasi gridando.
Ora sapeva che la rossa aveva in mente qualcosa.

«Siamo partite da 6 metri da terra, in stato di quiete. Swanna sale verso l'alto di 4 metri e mezzo ogni 2 secondi circa. Sono circa 2 metri al secondo per ogni tratto.»

«Nove. Dieci. Undici. Dodici...»

«Swanna è già a velocità 27 metri al secondo, ci vuole più potenza...»

«Sedici. Diciassette, sali sempre più in alto, più veloce, Venti...»

«Se ogni tratto vale 2 virgola 25, dovremmo essere a 100 metri da terra ormai.
100 è uguale 6 più un mezzo dell'accelerazione moltiplicata per il tempo, 25 alla seconda... Facendo i calcoli, 94 sta a 625 mezzi con... Caspita, siamo quasi a 200 chilometri orari!»

Prima di attuare la mossa decisiva, la ragazza osservò Camelia negli occhi, come per farle notare di non essersi arresa neanche un secondo.

Infine benedì la legge oraria del moto rettilineo uniformemente accelerato e la bassa pressione della pioggia che annichiliva l'attrito presente nell'aria.

«Ora! Sbatti Emolga al suolo con tutta la potenza che hai!»
Gridò a pieni polmoni.

Swanna calò in picchiata verso terra e, da un puntino bianco che viaggiava a chissà che velocità dalle cifre esorbitanti, diventava un corpo sempre più distinto.
Emolga, come previsto, fu costretta a fuggire da quel proiettile vagante, che presto o tardi si sarebbe abbattuto su di lei.

Seguì un attimo di stupore da parte di tutti, gli uomini in nero e la stessa Camelia compresi.

Solo un enorme boato segnalò una caduta assai violenta.

Seguì un breve silenzio.

Pochi secondi dopo il braccio di Catlina, che faceva da arbitro, si alzò finalmente verso il cielo, puntando definitivamente da una sola parte.

«Emolga non è più in grado di lottare. Il vincitore è...» Ma fu interrotta.

«Anemone, Anemone ha vinto! E quindi significa che resta, sì!»
Iris aveva addirittura fatto un salto di gioia, dopo aver abbracciato Camilla e aver gridato un paio di volte, dimenticandosi di essere ancora in dovere di dimostrare un minimo di maturità.

Ma era troppo felice.
La sua amica più cara non avrebbe dovuto rinunciare al suo sogno, non avrebbe dovuto vivere il resto della sua vita in modo vergognoso e disdicevole.

Il fatto più importante restava comunque che la rossa sarebbe rimasta ancora con lei.

«Come pensavo: Anemone stava contando i secondi che il suo Pokémon impiegava per salire verso l'altro ed applicarli alla formula...
Ah, voi ragazze di Unima siete belle ed intelligenti allo stesso tempo, che invidia!»
Ammise Camilla, sorridendo e rivolgendosi effettivamente solo a se stessa.

Lei, Catlina e Iris si erano radunate intorno alla ragazza, e nonostante fosse completamente fradicia di pioggia non esitarono ad abbracciarla.

Anemone si sentì la ragazza più felice del mondo.

Ora le nuvole nere cariche di pioggia che oscuravano il suo futuro si stavano dissipando e lasciavano spazio ad un nuovo ed abbagliante sole, esattamente come stava avvenendo nel cielo in quel momento, un cielo che diventava di nuovo azzurro dopo che l'effetto sul campo di Pioggiadanza si era esaurito.

«Voi altri; - Anemone si avvicinò al gruppetto degli "assistenti sociali" con un'aria di superbia mai vista prima - questa formula per l'accelerazione in aria non l'ho imparata a scuola: me l'ha insegnata mio nonno, serve a non far precipitare gli aerei.

Se proprio volete una ragazza con cui fare sesso, almeno pretendete che sia abbastanza stupida da farlo con voi.»

Tutte le ragazze la applaudirono, Iris le diede il cinque in segno di rispetto.

La rossa sentì rinata, con gli stessi occhi azzurri, gli stessi capelli rossi ma con un animo nuovo di zecca, senza più rimpianti per il passato o pessimismi per il futuro.
 

Ora che la sera stava calando, l'atmosfera si fece più calma.

«Hey ribelle, hai dimenticato la seconda parte della tua ricompensa?»

La rossa era rimasta ancora sul campo di lotta, a rilassarsi osservando delle nuvolette chiare striare il cielo blu terso.

Non si era aspettata che Camelia sarebbe giunta da lei di sua spontanea volontà a reclamarle ciò che avevano pattuito in caso di vittoria per la giovane di Ponentopoli.
Aveva sperato che se ne fosse dimenticata, ora che le cose si erano più o meno sistemate.

«Lo hai detto tu: potevi tirarmi due schiaffi se vincevi.
Ed è andata così... Sono qui, e se non lo hai ancora capito mantengo tutte le promesse che faccio.»

Gli occhi di Camelia non sembravano per nulla turbati, ma non apparivano neppure dispiaciuti o scocciati; la rossa capì in un secondo come mai la ragazza di fronte a lei non sentisse la pesantezza del rimorso o la rabbia della sconfitta: non ne aveva motivo.

Però Anemone si sentì solo più in dubbio, tentò di sollevare una mano rigida, ma non riuscì a compiere il movimento fluido e veloce che precede l'urto violento della mano contro il volto, quasi come se lo schiaffo lo avesse subito lei stessa.

«Camelia... Perché hai fatto finta di... H-Hai messo in scena tutta la storia della lotta, del fatto che ci odiassimo, e mi hai lasciato vincere...
Insomma, perché hai fatto tutto questo, voglio sapere.»
La giovane aveva cercato di formulare la frase il più decisa possibile, ma aveva finito per rispecchiare con le parole il caos che aveva dentro.

Non si era aspettata nulla di tutto ciò, e aveva capito che si trattava di una finzione solo alla fine della lotta, quando la rabbia che aveva dentro si era calmata ed aveva visto le cose con lucidità: un'allenatrice del rango della compagna che non colpisce al momento dell'attacco... Come aveva potuto non notarlo prima?

«Ah... Quindi hai capito perché non ho usato Tuono e approfittato della tua stupidità... - Camelia sembrava aver riflettuto su ogni singola parola - ma non è ovvio, scusa?»

«No, certo che non è ovvio! Non hai ripetuto almeno un miliardo di volte che tu non menti mai, che sei sempre piena di orgoglio, che non sei una doppiogiochista?!»

Dopo aver respirato affannosamente la ragazza rossa si sentì tremendamente in colpa, dato che provò a mettersi nei panni della sua avversaria, come da sempre faceva e non poteva fare più a meno.

Dopo tutto quello che Camelia aveva fatto per lei, fra cui rinunciare al suo orgoglio personale e attirare su di sé l'odio delle altre ragazze passando per una adulatrice della peggior specie, ciò con cui Anemone voleva ricompensarla erano due schiaffi, che pensò di meritarsi più di lei.

Ed invece all'improvviso la rossa si ritrovò a contatto con la pelle liscia e bianca delle braccia della top model, che rideva dolcemente, come se si fosse trattato solo di un equivoco poco importante.

Rimpianse ogni cattivo pensiero, anche se le era stato dettato dalla disperazione: si sentì un'ipocrita, che parla del perdonare e compatire le persone quando lei stessa aveva meditato i peggiori insulti nei confronti della compagna.

«Anemone cara... Ti hanno mai spiegato come funziona l'amicizia?
Non l'ho inventata io, dai... Se qualcuno ti fa un favore, o si risparmia di odiarti quando te lo meriti, sarebbe una cosa, diciamo, "umana" se si potesse ricambiare quella gentilezza, anche se va contro la propria morale o contro la propria personalità.
Tu non hai riso di me tutte le volte in cui ho fatto le mie scenate da bambina isterica.
Anzi. Sei quasi riuscita a consolarmi, e di questo ti sono grata.

Se io non ti avessi aiutata ora, che ne avevi bisogno... ah, i monologhi filosofici preferisco lasciarli a Camilla.
L'importante è che tu sei qui, e lo sarai per... altri tre mesi.»

Le due diciassettenni si strinsero abbracciate per un paio di secondi che diventarono minuti, respirando all'unisono, come se si sentissero sollevate dalle loro colpe.

In effetti, Camelia si era domandata spesso quando si sarebbe decisa a ringraziare degnamente la compagna di sopportarla durante i suoi periodi bui, di ascoltare ogni cosa dicesse, fra le sue inutili battute e le sue crisi isteriche, e di essere semplicemente diversa da quella massa di fantocci di trucco e bugie che costituivano la restante parte dei suoi amici.

Non fu mai così contenta di aver perso una lotta: poter vedere il viso di Anemone da quella distanza era un vero privilegio.

«Camelia, ti prego, voglio diventare tua amica.
Davvero. Sei semplicemente perfetta, sei anche bella e intelligente...

N-Nel senso, sei fortunata perché lo sei, n-non l'ho deciso io, da sola... - la stretta delle braccia di Anemone si fece più forte, schiacciando il suo seno contro quello dell'altra - Prometto che non ti minaccerò mai più con gli schiaffi, giuro.»

Sorridendole dolcemente, la mora spinse la ragazza via da sé, godendosi l'espressione delusa della pilota.
«Mi pare il minimo che tu non mi prenda a schiaffi dopo che ti ho evitato uno stupro! - ma dato che non avrebbe sopportato per molto il pensiero di essere detestata da lei, le abbracciò le spalle - Ora però torniamo dalle altre, così spieghi anche a loro quanto io sia perfetta, bella e intelligente, okay?»

Finita quella giornata estenuante, Anemone ringraziò il cielo di averle dato una vita così, non bella, ma particolare: ringraziò di avere così tante persone fantastiche intorno a lei, una famiglia che l'aveva valorizzata per i suoi difetti, di avere perfino una libertà nel cuore che nessuno mai le avrebbe potuto togliere.

 

 

«Wow Anemone, sei stata grande con quella... cosa di matematica durante la lotta.»

«Iris, quella non è una "cosa di matematica", ma una legge fisica vera e propria.»

«Oh, allora bisogna portare assoluto rispetto, mi inchino al cospetto alle leggi fisiche vere e proprie!»

«Non credevo mi toccasse fare la figura della secchiona qui, ma lascia che ti illumini:

Uno Swanna, nel salire verso l'alto in volo, parte da 6 metri da terra in stato di quiete. Percorre in volo 100 metri in 20 secondi.
Calcola l'accelerazione raggiunta al momento e il tempo necessario a raggiungere una velocità superiore ai 200 chilometri orari.

Iris, mi hai ascoltata?»

«Scusa, ma ho appena saputo che il prossimo capitolo sarà pieno di contenuti sexy... Sono così contenta!

E comunque credo che neppure i lettori abbiano capito ciò che hai detto: rimane il fatto che hai usato una mossa di Tipo Volante su un Tipo Elettro e ti consideri un genio...»

«Avevi per caso un'idea migliore? Non credo.
Comunque il fatto che il prossimo capitolo sia davvero ammiccante mi rende curiosa...
H-Ho detto curiosa, n-non eccitata!»

 

 

Behind the Summery Scenery #11

1. Il flashback di Anemone? Un parto. Inizialmente volevo farle fare l'acab ribelle trasgressiva e sarebbe dovuta scappare dall'orfanotrofio ed incontrare suo nonno per caso... so che non ha senso, per fortuna me ne sono resa conto prima di pubblicare.

2. In effetti, Anemone non somiglia neanche lontanamente a suo nonno (quello che appare nell'anime). Ora, so che ci sono diverse versioni, fra cui quella in cui Anemone è bianca come un lenzuolo (che io amo definire la "versione razzista"), io mi sono basata su questa per scrivere il suo personaggio come un'orfanella bisognosa d'amore. Viva l'abbronzatura sexy.

3. Io amo la fisica e, quando non è spiegata con i piedi, anche la matematica. I calcoli che la rossa fa durante la lotta sono tutti reali, mentre scrivevo li ho fatti su un foglio a parte, comprendono solo le formule delle leggi orarie del moto rettilineo uniforme ed uniformemente accelerato. 

4. La battuta sull'Idropompa fatta contro Camelia l'ho trovata in un sito di frasi da rimorchio a tema esclusivamente Pokémon. Ah internet, non sai più come stuprimi!

5. Qui una bella canzone che mi ha aiutata nelle scene finali. Qui una che si chiama come il titolo del capitolo.

7. L'idea del casinò è una specie di desiderio represso personale, sapete, ho sempre sognato di andare a Las Vegas e fare su un bel malloppo fra roulette, slot machines e blackjack, anche se la fortuna non è quasi mai dalla mia parte.

8. Ho dovuto anche eliminare un trafiletto finale in favore di un qualcosa di più sbrigativo, una parte in cui Mirton e Sabrina dialogavano con la telepatia ed una scena sul Team Plasma. Fra tagli netti e riscrivere tali parti questo si è rivelato uno dei capitoli più difficili da scrivere.

9. Effettivamente Unima non ha un casinò, quello che ho immaginato si trova nella zone di Libecciopoli in cui nel primo gioco sorgeva il Deposito Frigo, nei sequel il Pokémon World Tournament.

 10. Chiedo venia a tutte le persone che sono venute qui per leggere di yuri e si ritrovano questo capitolo con forti accenni Mirton X Catlina. Non fatevi ingannare dall'apparenza.

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Capitolo 12
*** Un bacio completamente nudo ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 12

Un bacio completamente nudo

 

Una sirena d'allarme risuonò nella silenziosa notte estiva, emettendo una luce rossa che girava a vuoto su se stessa illuminando con striature dello stesso colore i muri delle case intorno al museo della città di Zefiropoli: qualcuno o qualcosa doveva aver fatto irruzione nel museo, luogo di raccoglimento e studio di reperti rari e antichi.

«Polizia, polizia, presto, il Team Plasma ha colpito ancora! 
Stanno saccheggiando il museo e hanno messo K.O. tutti i Pokémon posti come sicurezza!»

Si sentiva gridare, e altre voci di civili spaventati si univano a quella baraonda notturna.

Giovani di svariate età, tutti vestiti di nero come le tenebre della notte, entravano ed uscivano dal museo come una colonia di formiche, trasportando oggetti più o meno utili allo scopo originale, senza un obiettivo preci

In quel momento di tensione e panico, che di sicuro al mostrarsi della mattina sarebbe finito su tutti i telegiornali della regione, una figura femminile snella e giovane sedeva solitaria sul tetto di un edificio in lamiera, abbastanza alto da permetterle di osservare il cielo: sapeva di non potersi permettere di snobbare le operazioni del Team Plasma come se non la riguardassero, ma era quasi sicura della sua intoccabilità di membro scelto.

La ragazza, la cui uniforme si mimetizzava nell'oscurità, sorrideva maliziosamente.

«Jasmine, cosa stai facendo qui? Perché non stai seguendo le reclute nel museo?»
Una voce un po' annoiata, ma comunque superba era comparsa alle sue spalle.

«Se non ti rispondo cosa fai, lo dici alla leader?

Alice, tanto non importa nemmeno a te se anche una di quelle stupide reclute di basso rango viene catturata dalla polizia... 

Piuttosto, siediti qui anche tu... Non mi vuoi proprio parlare?»
La ragazza le aveva fatto cenno di sedersi. 
Non lo aveva fatto certo per amicizia, ma per un disperato bisogno di qualcuno con cui vantarsi della felicità per cui sorrideva.
Era divertente sbattere in faccia la propria fortuna agli altri, faceva aumentare la soddisfazione, secondo Jasmine. 

Era come un antidepressivo preso in stato di totale felicità, un vera droga dell'anima.

«Senti, non istigarmi come fai sempre - Alice lo aveva detto, più che come un rimprovero, quasi come una supplica - ho avuto una brutta giornata.»

La giovane pilota della regione di Hoenn aveva comunque finito per sedersi accanto alla compagna, a discapito del suo forte orgoglio. Non era lei stessa quel giorno, si vedeva.

«Non mi dire... Il tuo piano di eliminazione per... - Jasmine schioccò le dita, come per far apparire in quell'istante il nome che non ricordava - per... la tipa che dicevi che era un "rifiuto della società", con i capelli rosso tinto... Com'è che si chiamava?»

Alice sospirò. Si pentì di essersi fatta coinvolgere in quella conversazione.

«Anemone. E ho scoperto che quei capelli rossi sono naturali.

Sì, il piano che avevo pensato per toglierla dalla competizione una volta per tutte è fallito. Avevi bisogno che te lo dicessi io quando già lo sapevi?»

Alice le rispose pacatamente, leggermente umiliata, aggiungendo un tono aggressivo solo alla fine, per evitare di ritrovarsi la dignità sotto i piedi. 

Ma la compagna non ne ebbe abbastanza, e si lasciò andare ad una forzatissima risata di commiserazione.

«Davvero?! Davvero credevi che la storia degli 'assistenti sociali' che hai pagato per portarsela via avrebbe funzionato?! E adesso non solo sei senza soldi, ma quando il capo lo saprà... Sei proprio sfortunata, cara mia. 

Avresti dovuto fare come Sabrina, che almeno si è divertita un po' a torturare con quel cadavere biondo foderato di soldi... Ed aveva anche uno smoking bellissimo, chissà chi glielo ha...»

«Non mi sembra che il tuo piano stia andando così bene.»

«Oh, ma il mio piano per sbarazzarmi di quella stupida modella opportunista ha bisogno di tempo. 

Lo sai che cosa fanno tutte le celebrità, una volta toccato il fondo della depressione con le tragedie private, sopratutto quelle amorose?»

Le domandò Jasmine, con aria piuttosto perfida.

«Che ne so, ci vanno giù pesante con alcol e droga?»

Domandò Alice, senza sprecarsi troppo.

«Si suicidano.»

Concluse soddisfatta la vipera con lo sguardo di un'innocente teen-ager. 

Alice invece rimase a fissarla, domandandosi se fosse lei la stupida che non ci arrivava o Jasmine che era già entrata nella parte dell'assassina psicopatica.

«Corrado era il mio ragazzo, ci sono stata insieme quasi due anni. Due anni... 

Poi arriva questa Camelia che lo 'costringe a ripensare alla nostra relazione', e una notte, ti dico che in quel momento ero felicissima perché presto sarebbe stato il nostro terzo anniversario... 

Mi arriva un messaggio. Guardo il telefono... E lui mi dice che fra noi è finita...»

Jasmine si coprì il viso, aveva il presagio di scoppiare a piangere in breve, come aveva fatto per qualche mese dopo che il Capopalestra di Sinnoh l'aveva lasciata. 

Aveva sperato a lungo di avere una vendetta tanto dolorosa quanto ironica nei confronti della bellezza che le aveva rubato il fidanzato.

Sapere che Corrado non era più interessato a Camelia l'aveva fatta gioire, quasi come se  la nuova fidanzata di lui avesse avuto il prezzo di una sigaretta e lei quello di un diamante, e l'idea di farle assaggiare la sua stessa medicina l'aveva resa euforica.

La notte in cui la modella era stata scaricata e tradita per la seconda dolorosissima volta, Jasmine sentiva l'amore del suo ex rinascere, come se in un bosco completamente distrutto da un incendio potessero sbocciare ancora fiori da sotto la cenere.

«Che storia triste, - Alice snobbò altamente tutta quella commiserazione forzata - ho letto manga anche più deprimenti.

Comunque, tanto per cambiare discorso...

Ma lo sapevi che ora la tua cara arcinemica e la rossa sono diventate amiche? 

Fanno di quei discorsi da far cariare i denti; mi dico, possiamo smettere di spiarle in tutto e per tutto? Mi fanno troppo schifo.»

E verso la fine Alice abbozzò un sorriso, tanto per distrarsi dal fallimento del suo piano e dalla ingente perdita di denaro che aveva subito.

«Vero! - asserì la brunetta - quelle cinque dovrebbero odiarsi a morte, non è difficile, sono una più insopportabile dell'altra, e invece ho sentito che due di loro si sono fatte perfino il bagno insieme... Nude.

Ti prego, dimmi se le ragazze a Unima sono tutte Allenatrici o spogliarelliste...»

«Non ho parole, solo insulti!»

Le due ex-Capopalestra, ora membri scelti del Neo Team Plasma risero insieme, dimenticando un attimo di fingere di odiarsi a vicenda.

Improvvisamente, il suono delle sirene e delle auto della polizia si era stabilizzato di fronte al museo, mentre le reclute del Team correvano in tutte le direzioni, tenendo saldamente tutti i tesori che avevano sgraffignato, non curandosi più dei loro compagni.

Le reclute rimaste indietro sarebbero state catturate dalle forze dell'ordine, ma poco importava: la regola imponeva ai membri dell'organizzazione il silenzio assoluto, anche sotto interrogatorio da parte di autorità. 

Chi osava trasgredire diventava un traditore, e solo chi avrebbe mai osato tradire il clan avrebbe saputo cosa gli sarebbe spettato.

Nel Neo Team Plasma non sembrava più esserci rimasta traccia di pietà.

Né nei confronti dei compagni, né tanto meno dei nemici.

«Vedrai... Sarà divertente come andrà avanti questa storia...» Concluse Jasmine.

«Quella del Neo Team Plasma?» Domandò confusa Alice, come non riuscisse mai a capire dove la compagna volesse andare a parare.

«No, la storia tra la rossa e la modella.»

 

Contando tutti i minuti, le ore e i giorni di quell'estate, contando tutte le lotte, gli affanni, le risate e i sogni che erano emersi fra allenamenti durissimi e momenti di assoluto svago, un'equazione composta da numerosi addendi infinitesimali chiamata "giovinezza" riusciva a risolversi con un risultato semplice e netto: cinque.

Come le dita di una mano, come le cinque regioni, le cinque statistiche di un Pokémon.

Il mese di giugno aveva velocemente consumato i suoi giorni, ed ora le cinque ragazze stavano cenando a casa del Campione, come avevano già fatto per trenta serate circa.

Ma dalla prima alla trentunesima l'atmosfera era cambiata, si era scaldata e raddolcita notevolmente: era il momento giusto per Iris per conferire alle sue quattro compagne quei regali che rappresentavano i premi per averle concesso la loro amicizia.

Effettivamente tutte se lo meritavano.

«Ragazze, potreste ascoltarmi un secondo, per favore?»

Le altre ragazze stavano parlando fra loro, con una certa disinvoltura.

«Sono l'unica che ha notato che oggi Camelia è senza trucco?» Anemone se ne uscì.

«Ho deciso di smettere di farmi il make-up finché sono qui, ogni volta mi finisce colato per ragioni "incognite"... Fra cui un'imbecille che insegna mosse altrettanto imbecilli come Pioggiadanza ai suoi Pokémon.»

Rispose la diretta interessata, come se non fosse una cosa di cui meravigliarsi. 

Pensò a quanti trucchi costosi aveva sprecato fra pianti e pioggia.

«Stai molto bene al naturale, hai un bel viso e la pelle pulitissima, non capisco a cosa ti serva mettere così tanto illuminante...» Si aggiunse Camilla.

«Camilla, l'illuminante si mette solo sotto gli occhi, non su tutto viso, quello è il fondotinta.»

La modella restò un po' scandalizzata, come quando Iris aveva osato ammettere di non aver mai sentito parlare di lei.

«Beh, devi fare comunque attenzione che non sia troppo scuro, è proprio difficile da mettere...»

Ribatté la Campionessa di Sinnoh, imbarazzata.

«Quello è il bronzer...» La corresse ancora Camelia, assai innervosita. 

Iris si domandò se scherzasse: in effetti Camilla non necessitava di make-up per essere sempre bellissima e radiosa, le era sufficiente sorridere.

«Dai, lasciatemi parlare un secondo... » Supplicò la ragazzina.

Ma non fu ascoltata. Odiava che Camelia fosse sempre al centro dell'attenzione, neanche fosse già lei la Campionessa: con un po' di maschilismo Iris preferiva lei e tutte le modelle in generale quando stavano zitte e sorridevano come bambole di plastica. 

Camilla intanto continuava il discorso.

«Bisogna dire che i canoni di bellezza qui ad Unima sono piuttosto restrittivi.»

«O semplicemente vogliono preservare l'umanità da catastrofi estetiche.» Continuò la mora.

«Per esempio?»

«Ah, ne so qualcosa. Le tette ricostruite, le plastiche facciali, i tatuaggi permanenti, i piercing dove non dovrebbero starci, le occhiaie di Catlina...»

La biondina sollevò leggermente confusa i suoi vitrei occhi verdi al sentir pronunciare il suo nome: era rimasta in silenzio fino a quel momento, come se stesse consumando la cena in una dimensione tutta sua. 

In realtà aveva seguito tutto il discorso, aspettando il momento perfetto per vendicarsi della modella che da un mese continuava a farsi beffe di lei, non rispettando la sua "autorità" di "seconda-più-vecchia-del-gruppo": la Yamaguchi era una ragazza abbastanza aristocratica che pretendeva serietà anche nei suoi scherzi.

«E qual è il migliore esempio di bellezza naturale - iniziò a bassa voce, pacatamente - se non i tuoi capelli che tre mesi fa erano biondi e invece ora svuotano bottiglie su bottiglie di tinta nera?»

Seguì un silenzio imbarazzante.

«Dimmi Catlina, che Pokémon selvatici abitano nella tua folta chioma indistinta?»

Il sarcasmo della mora era preciso e distruttivo come un cecchino esperto.

Iris fu lì per lì per afferrare l'occasione di parlare, ma le voci delle sue quattro compagne si sovrapposero l'una all'altra nel dibattito meno ortodosso esistente, dove vinceva chi avrebbe alzato di più il volume della voce. 

Dopo aver sospirato la ragazza cercò di ragionare.

«Ragazze. Ho intenzione di ritirarmi dalla competizione.» Disse in tono serio e profondo.

Anemone, Catlina, Anemone e Camilla la fissarono impietrite, ammutolite di colpo.

Ci furono altri due o forse meno secondi di silenzio tombale.

«Scherzavo. - disse poi in modo sciolto - Ora, smettete di fare discorsi in cui io non posso intervenire e ascoltate. Ho delle cose per voi.»

Dopo aver fatto un monologo abbastanza improvvisato ma comunque abbastanza edulcorato da far salire il diabete, sul fatto che in un mese erano diventate un gruppo unito e fuori dal normale, di aver passato giorni devastanti tutte sempre unite ed essersi complimentata con Catlina per aver zittito la bisbetica che stava rovinando l'autostima anche a lei, Iris mostrò un sorriso entusiasta e sfavillante.

La fatica impiegata nel sacrificare il suo unico giorno di vacanza alle sue compagne, per poi cercare un regalo adatto a loro ed infine farsi convincere da quella Korishima Georgia a rubare il suddetto regalo e mandare al diavolo la sua etica morale si era fatta ripagare da un sacco di baci, abbracci, coccole e perfino un "forse non sei proprio così inutile".

Si ricordò che forse avrebbero potuto approfittare dei Bijou del vario Tipo per inferire un colpo di grazia proprio contro di lei o i suoi Pokémon... 

Ma per un attimo Iris subordinò il diventare Campionessa all'amicizia sofferta.

Il resto della serata la vide quasi protagonista, non le sembrò nemmeno di avere il tempo per i suoi pensieri da quanto le quattro la coinvolgevano nelle loro risate, conversazioni e scherzi.

Per festeggiare al meglio il primo di luglio (solo in quell'anno e solo a casa del Campione fu considerato una festività a tutti gli effetti) Nardo in persona servì alle ragazze in dei bicchieri minuscoli una bevanda calda e incolore, dal sapore dolce-amaro impossibile da deglutire senza prendere aria prima di ogni sorso. 

Era piuttosto allettante però, pensò Iris.

«È sake, grappa tipica ottenuta dalla fermentazione del riso.» Spiegò l'uomo.

«Nardo, le ragazze sono per la maggior parte minorenni. Dimmi il tasso alcolico di questa roba.»

«Solo se prima ne berrai almeno tre bicchieri, cara Camilla.»

«Ah, è una sfida? Ora ti faccio vedere io come la Lega Pokémon di Sinnoh e sopratutto la sua Campionessa non valgono nulla di meno della vostra.»

Dopo tre bicchieri la giovane Campionessa si ritrovò inconsapevolmente a raccontare a tutto il gruppo di essere rimasta ancora vergine a vent'anni, ma di morire all'idea di farlo.

Non era davvero ubriaca, si sentiva solo libera ed indipendente dall'utilizzo della ragione.

Anche la ragazzina dai capelli viola ne bevve un bicchiere, e si sentì euforica al massimo: immaginò suo nonno Aristide a scoprire che quell'estate la sua cara ed in apparenza innocente nipotina aveva bevuto sake. E rise del fatto che non lo avrebbe mai saputo.

Se prima tutte si erano mostrate riluttanti nel ingurgitare quella sostanza calda e lattiginosa, dopo qualche bicchiere grande quanto metà di un pugno tre su cinque si ritrovarono a berla come acqua: era impossibile tenere una conversazione sensata (o pulita), dato che ogni parola pronunciata era un pretesto per scoppiare a ridere, perdendo la cognizione di tutto.

«Anemone, - Camilla aveva attirato l'attenzione della rossa, ridacchiando ad ogni sillaba - ci devi assolutamente dire con chi e sopratutto come vorresti farlo, la tua prima volta.»

La giovane Campionessa aveva enfatizzato il "chi" e il "come" quasi fosse una questione di vita o di morte.

L'argomento così sporco, interessante e intimo attirò l'attenzione di tutte, facendo rabbrividire Anemone: si sentì sciocca a non aver considerato che il passare l'estate circondata da ragazze comportava il continuo e ossessivo parlare di maschi.

Quella domanda la innervosì parecchio.

«Fare che cosa?» Domandò falsamente, rigirandosi una ciocca scarlatta fra le dita.

«Oddio, - la interruppe Iris - l'ho capito pure io, Anemone! Dai... Non essere stupida... Prima o poi dovremo farlo tutte... Che ragazzi ti piacciono? Ti prego, diccelo...»

Camilla e la ragazzina più giovane risero all'unisono. Tutta colpa dell'alcool. 

Stizzita per la mancanza di tatto, Anemone si inventò la farsa peggiore della sua vita: da sobrie non ci avrebbe creduto nessuna. 

Sperò solo che fossero tutte, ma proprio tutte sbronze. 
Se qualcuna l'avesse sentita... Era una cosa assai rischiosa da dire, ciò che disse.

«Non ne ho idea... Penso qualcuno come il fidanzato di Camelia, quello biondo di Sinnoh...  Sembra il ragazzo ideale... Da portare a letto... Credo...»

La rossa volle rimangiarsi subito l'intera frase, e il rimpianto di aver pronunciato queste idiozie la perseguitò tutta la serata. 

Ma continuando a ridere come tutte, lo nascose perfettamente.

Le giovani capirono che era mezzanotte passata solo quando si accorsero di non avere più forza in corpo neppure per fare l'ultima battuta probabilmente insensata o sporca.

Catlina si era già abbandonata da un po' al sonno, lasciando il dovere alle altre di portarla di peso nel suo letto. 

La biondina ebbe l'impressione di essersi sognata tutto ciò che le era successo da quando aveva accettato di partecipare alla competizione, e perfino che nei suoi lunghi e folti capelli abitassero davvero dei Pokémon selvatici.

Una volta calato il silenzio nella grande casa del Campione la notte sembrò infinita.

 

«Anemone, svegliati.»

La rossa aveva appena riaperto gli occhi, ma il buio totale che inondava la stanza le fece notare che era ancora notte. Da quanto confusa era, pretese che il sussurro percepito si facesse ancora sentire, altrimenti non doveva essere importante.

«Cambiati e vieni nell'onsen fra cinque minuti, voglio parlare di una cosa molto importante con te.»

La voce sussurrante si era avvicinata alle sue labbra, con cui percepì il dolce e leggero respiro.

Anemone prima dubitò delle sue capacità intellettive, poi si chiese se stesse "sentendo le voci", e infine realizzò di essere nel pieno della lucidità.

«Che scema, io stasera non ho bevuto» Si sgridò. 

Si spogliò nella stanza buia e uscì in silenzio, lasciandosi addosso solo il costume da bagno azzurro chiaro. 

Mentre nel buio tastava con le punte dei piedi le assi lisce del pavimento, Anemone provò a ricordasi tutto quello che aveva vissuto da quando era lì. 

Ogni giorno era divertente, una piacevole normalità si era stabilita fra lei e le altre quattro, un equilibrio di amicizia bilanciava i loro rapporti: capì però che tutto quel calore si sarebbe sciolto una volta terminata la competizione, niente di davvero permanente le legava.

Non si conoscevano abbastanza nel profondo, e tre mesi non sarebbero mai bastati a rivelare quanto una persona può essere psicologicamente contorta e piena di segreti.

La giovane si stupì del fatto che l'onsen funzionasse anche di notte; la luna si rifletteva fiera sulla superficie dell'acqua, come se con la sua luce volesse trasformarla in nettare e ambrosia.

Una ragazza era appoggiata mollemente sul bordo della vasca, la pelle bianca e diafana riluceva come fatta di vetro. Il costume nero e giallo non la conteneva in nessun modo, come se il suo corpo desiderasse far risaltare più delle stelle la bellezza delle sue curve e dei seni formosi.

Anemone sorrise e raggiunse la compagna, immergendo le gambe in acqua. 

«Se Nardo ci becca qui, stai sicura che non vedremo mai la luce dell'alba.» Scherzò.

«Qualche giorno fa ci hai fatto vedere quanto sei sboccata e anticonformista ed ora ti preoccupi di essere punita, da brava ragazzina? Cara mia, sei persa come ribelle...»

Mentre parlava, Anemone notò come Camelia fosse bellissima soprattutto senza trucco (e quasi senza vestiti): gli occhi azzurro pallido avevano contorni molto più definiti, la pelle un aspetto più uniforme e pulito, le labbra erano più asciutte e normali. 

«Infatti io non sono una ribelle, sono una persona normalissima.» Disse lei, timidamente. 

Quel simbolo di bellezza universale, la cui perfezione fisica rappresentava i desideri carnali di tutta la regione, la fissava sorridendo, dandole la stessa strana sensazione di intimità di quando l'aveva vista piangere.

Era perfetta, assolutamente desiderabile in entrambe i casi, e il fatto che fosse una modella di professione contava poco o nulla: da quello che Anemone aveva saputo da Camilla, la giovane prima di varcare passerelle e tappeti rossi era stata cresciuta nella periferia malfamata della sua città.

«E ne sono contenta. - le arrivò in risposta - Ma ora ascoltami.»

Si sedette accanto a lei. Aveva delle cosce fantastiche.

«Riguarda il mio ex.» Esordì la mora, assolutamente seria.

«C-Cosa?» Anemone si bloccò. 

«Corrado, il mio vecchio fidanzato; - Camelia riprese aria - quello che mi ha tradita, che mi ha stuprato la dignità e mi ha usata come se fossi una..»

«Ho capito, ho capito. Me lo avevi detto. 
Io però ti ho detto che capisco meglio le femmine dei maschi.»

«Ho deciso una cosa. Una cosa che forse non capirai... Ma hai detto che per me ci saresti stata, quindi non puoi abbandonarmi adesso...»

E d'improvviso la modella si interruppe.

La rossa stava per domandarle "che cosa?" ma si ritrovò gli occhi azzurrissimi della compagna piantati contro i suoi, in un espressione gelida ed accusatoria. 

La ragazza si era alzata in piedi, scuotendo improvvisamente la superficie dell'acqua.

«Anemone. - fece una pausa - Tu non ti sei mai innamorata. Vero?»

«N-No... Mi sono innamorata anche io.. .- a quel punto la rossa non seppe più che cosa rispondere, ma era comunque impaurita - Ma cosa c'entra con quello che volevi dirmi?»

«C'entra eccome. Tu, tu mi stai facendo impazzire, idiota che non sei altro.»

L'insieme di frasi che ne seguirono furono troppo sconnesse, troppo improvvise, troppo reali perché ci si potesse romanzare sopra, ciò che la sfortunata ragazza colse lo immaginò vividamente, come la concatenazione dei pezzi di un enigma.

«Hai detto che non mi serviva un uomo per essere felice, che non volevi spezzarmi il cuore, mi hai perfino chiesto di lasciar perdere l'amore e non lo puoi negare. 

Ma tuttavia sembra che tu sia anche abbastanza libera e abbastanza, come posso dire, "sincera" da essere più che disponibile a farti toccare da persone come il mio ex-fidanzato.

Poi ogni volta che Corrado mi spezzava il cuore eri sempre e dico, sempre con me, sempre con il tuo stupido sorriso per cercare di darmi consigli in materia di amore anche se tu effettivamente non se sai nulla, come vedo... per poi avere certi attacchi di rabbia in cui volevi quasi prendermi a schiaffi in faccia da quanto mi odiavi.

Mi hai dato della doppiogiochista e della lunatica chissà quante volte, quando quella che per un mese intero ha continuato a passare da sorrisi dolci ed innocenti ad attacchi di rabbia repressa e violenta sei stata tu.

Continui a tirarmi e mollarmi a tuo piacimento, come se ti dovessi stare accanto solo quando sei felice, bella e perfetta e per il resto non debba neppure guardarti. 

Non capisco cosa tu abbia. Se è così che ti dimostri verso chi ci tiene a te...»

E con un po' di amarezza, capì che probabilmente anche Camelia doveva aver bevuto un bel po'. Non si sarebbe mai aspettata da lei una confessione del genere, a meno che non fosse ubriaca o sconvolta. 

Quella ragazza aveva un orgoglio ferreo, e in quel momento nella sua testa qualcosa non funzionava bene.

L'aviatrice respirò affannosamente, terrorizzata da tutte quelle accuse repentine.

«Camelia. Perché mi dici queste cose?» Glielo sussurrò.

Ma non appena vide che la mora stava per afferrarla dal costume con un movimento drastico ed aggressivo, le venne naturale schivarla, finendo per scivolare all'indietro nell'acqua con un tonfo sordo.

In quel momento la soglia che divideva inquietudine e panico era stata superata con un balzo: tutte quelle infami calunnie fecero trasalire la parte d'animo che Anemone reprimeva d'istinto con una violenza ed irruenza mai vista ne' sentita.

«Perché accusi me senza guardarti un secondo allo specchio?
Non ti ascolti quando parli, falsa, isterica, opportunista e bipolare: ti stai praticamente descrivendo da sola!

E poi non mi sembra che ti sarebbe dispiaciuto poi così tanto se il tuo ragazzo fosse tornato a chiederti perdono in ginocchio, si vede dai messaggi del tuo cellulare quanto tieni tu alle persone che ti amano. 

 Tu, tu hai bisogno di "amanti", non di "fidanzati", se vuoi saperlo: se ti sono stata vicina in ogni tuo momento buio e non mi sono abbandonata all'odiarti come hanno fatto già le altre tre, era perché credevo potessi cambiare, credevo che potessi cancellare dalla tua vita la dipendenza da sesso e dal narcisismo che ti impedisce di piangere ogni volta come una bambina... Ma ammetto di essermi sbagliata.

Il tuo ego smisurato ti erge a padrona del tuo regno di assoluto e fantastico nulla, in cui sono gli altri a guadagnarci dalla tua stupidità e dal tuo falso altruismo.
Adesso spiegami, come fai ad amare in te stessa tutto ciò che ti fa schifo negli altri!»

Anemone glielo gridò così forte da perdere la voce con una sola frase.

Nonostante questo, la ragazza mora le si era posizionata davanti, squadrandola con un certo scherno negli occhi, come a sminuirla definitivamente.

«Anemone, sei tu la stupida che crede che "avere un fidanzato" significhi aprire le gambe e aspettare che finisca bene, basta che non ti scarichi e ti abbandoni come è successo a me. Sii onesta, non solo tu non hai mai avuto un ragazzo, ma non ti è chiaro neppure il concetto di amore fra uomo e donna, vero?»

Nonostante il tono isterico, la voce rotta e i gesti scoordinati della compagna, Anemone già all'inizio del discorso avrebbe voluto ordinarle di stare zitta, a partire da quando la mora aveva citato il deviamento psicologico nei rapporti di relazione che le rinfacciavano tutti gli insegnanti e gli psicologi da quando aveva sei anni, come se la sua fosse stata una malattia.

«Senti, se vuoi che sia onesta, io non ho nemmeno mai avuto una famiglia o un qualcuno che mi amasse a prescindere. Prova a spiegarmi tu il concetto di "amore", visto che la tua miserabile vita di narcisista figlia di una prostituta e di un alcolista ne è piena.»

Però aveva capito cosa intendesse Camelia: aveva scelto la persona sbagliata a cui mentire. La cosa che di più la spaventava era il conoscere su quali tremende verità che ormai teneva celate persino a se stessa la modella avesse fatto luce.

«Preferisco essere una narcisista che un'ipocrita che si nasconde dietro un falso sorriso per celare tutti i difetti che ti renderebbero più patetica ed odiata di quanto tu non sia ora.»

Anemone la spinse nell'acqua, per paura che la modella, ubriaca ed isterica, la volesse picchiare, e si sedette su di lei, ricevendo graffi e insulti in pieno viso; senza altra scelta per farla tacere, la rossa dovette giocare una mossa sporca, mandarla K.O. macchiandosi di impudicizia. 

Tenne ferme le mani di Camelia con gran sforzo e agguantò il laccio posteriore del reggipetto della modella, che continuava a ripetere la stessa cosa solo con parole diverse.

«Ti prego, sta' zitta! - le gridò la rossa, esasperata - Quello che ho detto prima era perché... Perché... È vero, ho mentito a te e a tutte le altre; so di essere malata, in un certo senso, ma... Camelia, io ti voglio bene, te ne voglio davvero tanto...»

Anemone fece una pausa; il tasto più dolente della sua sensibilità era stato toccato.

«...e non voglio che tu mi detesti.»

«Io ti detesto già, se vuoi saperlo. - la mora si stava dimenando per liberarsi del peso della giovane sopra di lei - Anche io ti credevo diversa, ma questa frase è troppo un cliché.

Ma tanto tu mi conosci solo come una bugiarda.

Quindi non mi conosci affatto.»

Il discorso fu fermato a metà. 

La ragazza dai profondi occhi azzurri fu talmente sconvolta che la mano con cui aveva fatto pressione sul reggiseno nero e attillato della modella tirò con forza il laccio di tessuto sottile che lo legava al collo della mora.

Non ebbe scelta: voleva che Camelia tacesse.

Le aveva mentito, lo sapeva meglio di lei: ma era ancora più consapevole di aver risparmiato alla sua unica amica la verità che nascondeva sotto un falso sorriso. 

Ci teneva a Camelia, glielo aveva già ripetuto. 

Tuttavia quell'incomprensione la stava uccidendo, e parlare a una sbronza marcia che voleva solo accusarla le parve inutile e doloroso.

«Sta' zitta, neppure tu sai tutto di me! Non è colpa mia se...»

In velocità, prima che l'altra potesse ribattere qualcos'altro, la ragazza che si sentiva ancora una volta senza l'orgoglio per cui aveva tanto combattuto afferrò la coppa destra del reggipetto della compagna, strappandoglielo letteralmente via.

Anemone aveva premeditato quel gesto solo per farla tacere, ma osservando come gli occhi di Camelia si erano dilatati in un'espressione mista fra sconforto e shock mentre si copriva i seni con le mani schiacciandoseli contro il torace, si pentì di quel gesto crudele e insensibile.

Fece di tutto per distrarsi dal suo primo seno nudo visto dal vivo, non contando il suo

«S-Scusami... Io...»

La ragazza dalla pelle ambrata non ottenne risposta. 

Non era la modella a dover parlare in quel momento, ma lei e la sua coscienza.

Gli occhi azzurri di Camelia la supplicavano di essere onesta, di dirle che cosa nascondesse a tutti. 

Si domandò se la mora si fosse mai sottomessa a qualcuno così come ora si presentava davanti a lei. Ad Anemone sembrò, per un secondo, di stare di fronte alla versione undici-dodicenne di Camelia, che dopo aver ricevuto un sonoro e umiliante ceffone in pieno viso si chiedeva perché dovesse essere lei quella in torto e non la spietata che le aveva appena tolto il reggiseno per evitare che le rinfacciasse la verità.

Provò un senso di forte ribrezzo ad essersi resa simile al donnaiolo, alcolista e violento padre che aveva descritto poco tempo prima con tono di assoluta deplorazione.

Ma per la rossa, spiegare ciò che la umiliava e rappresentava allo stesso tempo era impossibile; sentì la gola annodarsi, strozzando ogni vaga scusa e pensiero tangibile.

Sotto la luna estiva e il chiarore delle stelle riflesse nello specchio d'acqua, Anemone si gettò in ginocchio davanti alla compagna, singhiozzando con il viso fra le mani e poi piangendo copiosamente. 

L'acqua dell'onsen ondeggiava dolcemente.

Camelia continuò a fissare la ragazza in lacrime ai suoi piedi: sapeva in qualche modo la sua risposta. 

Le tornò in mente l'affettuosità che l'orfanella rossa dimostrava nei confronti di lei e di tutte le altre, di come si rivolgesse a loro come fossero sue sorelle, la sua adorabile paura dell'adolescenza, dell'essere diversa dai canoni di una diciassettenne normale, e infine del suo fantastico talento nel nascondere le occhiate che lanciava verso di lei e le altre tre... 

Non voleva che tutte quelle belle cose venissero consumate e sprecate da un uomo desideroso di carne, non voleva che quella sorte capitasse anche ad Anemone.  

«Sei bellissima.»

Le disse Camelia, sorridendole.

«N-Non sono io la top model da calendario qui.»

Anemone rise fra le lacrime.

«A volte parli proprio come un ragazzo... Mi piace.»

La guardò negli occhi.

«Camelia, io sono lesbica.»

Quella confessione costò ad Anemone un'immane fatica, era ciò che riteneva il suo più grande e scandaloso segreto. 

Si sarebbe sentita più pulita ad aver avuto come Camelia milioni di amanti piuttosto che essere ancora vergine perché non voleva arrendersi alla crudele legge della natura, che unisce in amore solo uomo e donna.

A quel punto la bellissima modella allentò la presa di mani e avambracci che aveva salda sul suo prosperoso petto, per spostare gli arti in una posizione più comoda: con le braccia conserte sembrava avere un atteggiamento volutamente superbo, quasi di sfida verso la compagna che, sconfitta, aveva confessato umilmente il suo segreto, apparendo quasi più miserabile della mora nella sua precedente scenata.

Anemone esibì una faccia alquanto delusa, presumibilmente del fatto che Camelia non scostasse le braccia e non le mostrasse la parte più bella e sensuale delle sue tette.  

«Tranquilla.»

Le due ragazze erano rimaste imbambolate a fissarsi qualche secondo, come se stessero premeditando una frase sensata per cancellare magicamente tutta quella litigata nata da una scemenza e sfociata in un segreto confessabile solo dopo un estenuante interrogatorio.

«Non ho nulla contro i gay, ma se me lo avessi detto prima non saresti costretta a inventarti di sana pianta i tuoi gusti sessuali.»

Il tono di Camelia era altamente sarcastico, ma solo per rassicurare l'amica di non preoccuparsi di incorrere in ulteriori insulti e scherno. 

La rossa sospirò.

«Nessuno reagirebbe come te.»

La ragazza aveva nascosto la bocca appoggiandosi al bordo dell'onsen con il braccio. Era la prima volta che affrontava la sua deviazione nei rapporti di relazione con il sesso opposto in prima persona.

D'un tratto sentì la mano della modella posarsi sulla spalla nuda e umida.

«Perché nessuno ti conosce come ti conosco io.» Le sussurrò all'orecchio.

Anemone si avvicinò alla compagna, e cominciò a parlarle, a spiegarle come mai non si riteneva degna di una vita amorosa normale; all'inizio era solo una leggera infatuazione per qualche eroina di manga e anime.

Poi però le toccò descrivere quanto detestasse le moine che le adolescenti facevano vedendo un ragazzo popolare, di come rimaneva indifferente agli idol e agli attori famosi come un Pokémon Volante colpito da una mossa Terra. 

Le facevano venire in mente l'umiliante punizione a cui gli istitutori del suo orfanotrofio la sottoponevano, provò a far capire alla compagna la vergogna provata nel rimanere seminuda davanti a degli stupidi bambini ignoranti che le ridevano in faccia.

Camelia le rispose che una volta cresciuti, quei ragazzini ignoranti e sessisti avrebbero pagato un occhio della loro testa marcia per guardarle la rossa spogliarsi dal vivo. Ma non se lo sarebbero mai meritato.

Le due giovani infine compresero di essere vittime di un destino affine quando scoprirono conversando casualmente di essere entrambe orfane di madre, immaginando insieme come sarebbe stato avere una donna che avesse condiviso con loro le fasi più buie e difficili del loro passato, ripetendo alle sue ipotetiche figlie di non essersi mai meritate così tanta sfortuna.

Esplicò in sintesi come si sentisse diversa, diversa nel senso di sbagliata: tratti somatici troppo singolari, carattere troppo contraddittorio, situazione economica pessima e interessi amorosi... 

La giovane dagli occhi azzurro cielo sentì di voler piangere ancora.

E si ricordò dolorosamente di come gli istitutori del suo vecchio orfanotrofio le torcessero l'orecchio per farla tacere qualora piangesse o gridasse.

«Ti capisco. E dico davvero, ho capito tutto.»

La modella seguì con il dito di una mano esente dal doverle sostenere il seno una lacrima dell'amica: questa brillava come una diamante.

«Anemone, io e te siamo più simili di quello che pensi.»

«A-Allora dovremmo conoscerci di più... Tu non hai un qualche segreto che tieni nascosto a tutti compresi tuoi fan? Io non voglio più mentirti, e penso nemmeno tu lo voglia.»

A quel punto il dialogo fra le due rimase fermo e seguì un lungo silenzio.

Le due diciassettenni si fissarono a lungo. 

Rifletterono un attimo sull'aver praticamente sviscerato il loro vero io, di essersi dette un sacco di falsità e di essersi ferite a vicenda, insultate e poi rappacificate troppe volte: e tutto solo per riconoscersi non simili, ma uguali, due gemelle opposte d'aspetto fisico e separate dal destino, riunite solo dopo una vita di ingiustizie e sofferenze, grazie all'occasione di quella notte estiva. 

Una notte di mezza estate più calda e intrigante di tutte quelle che entrambe le ragazze avevano passato nella loro gioventù in fiore.

«Anemone, che taglia porti?»

«Una coppa G. Perché?»

«Anche io. Vuoi vederle?»

«Non vedevo l'ora...»

Camelia comprese finalmente dove tutti i suoi fidanzati temporanei, le notti di tradimenti e l'accusa del suo ex di essere una falsa l'avevano portata.

Anemone le aveva fatto cenno di alzarsi e sedersi sulle sue gambe abbronzate e toniche, con la scusa del "tanto tu sei leggerissima": nessun uomo aveva mai risposto alla sua preoccupazione spasmodica di essere grassa in modo così dolce e spontaneo. 

La ragazza si sedette a gambe aperte sulle morbide cosce dell'amica.

Le due avevano la stessa età e conformazione fisica, sia la stessa altezza e peso. 

Si guardavano negli occhi, come a sigillare una promessa.

La luna e le stelle sembravano sorridere, Venere e il fato aiutano sempre gli audaci.

D'improvviso, la rossa sentì una forza smuoversi nel suo animo; la riconobbe, era la stessa ribelle incatenata che la pregava di mostrare il suo coraggio e di osare ciò che il buonismo e la misericordia reprimevano d'istinto. I capelli rossi della ragazza sembravano vere e proprie fiamme, resistenti perfino alle gocce d'acqua dell'onsen.

La giovane tenne ferma la mano della mora, chiudendola nella sua. 

Si sentì potente e dominatrice della sua vita, padrona assoluta dei suoi desideri appena 

scostò senza preavviso la mano di Camelia dal suo seno. 

Rimase incantata, quasi fulminata.

«Ritiro quello che ho detto prima... Sei una ribelle, definitivamente.»

La mora parlò come per sgridarla, enfatizzando ancora quel paradosso presente nella personalità della compagna.

«E-E tu un'esibizionista...» Si sentì rispondere, quasi balbettando.

Anemone non fu mai tanto eccitata come in quel momento: il seno prosperoso, sodo e rigonfio, colorato di un rosa candido, era di certo il particolare che distingueva Camelia fra tutte le sue colleghe modelle, quelle magrissime figure stilizzate. 

Nonostante l'abbondanza di carne che rimaneva compatta anche senza il sostegno del reggiseno, la figura della fanciulla rimaneva sempre snella e slanciata, facendo risaltare la profonda insenatura del petto prorompente. 

I capezzoli avevano lo stesso colore delle sue labbra.

Quei tesori, simboli di bellezza naturale e pura, meritavano di essere premiati con la stessa mela d'oro con cui il principe troiano Paride incoronò Elena la più bella tra le mortali. 

Così Camelia meritava forse il titolo di più bella fra le allenatrici, e conoscendola, Anemone capì che lo avrebbe accettato senza troppa modestia.

Si sentì un bacio stampato sulla guancia, mentre le braccia bianche della mora le circondavano il collo. 

Percepì i suoi polpastrelli che cercavano ansiosi la chiusura del suo reggiseno. La lasciò lavorare, più tesa che mai: era la prima volta che si spogliava, o meglio, si faceva spogliare da un'altra ragazza, e si chiese se dovesse ostentare lo stesso orgoglio della compagna o fingersi imbarazzata.

Scelse di rimanere a fissare gli occhi di Camelia, che, per una che si dichiarava profondamente eterosessuale fino a pochi momenti prima, si erano dilatati con l'espressione più compiaciuta ed estasiata che le avesse mai mostrato.

Infatti le tette della ragazza che sorreggeva la vita di Camelia con le mani trapelavano un qualcosa di esotico, di affascinante, di... diverso.

A differenza del colorito uniforme del corpo della modella, la pelle della rossa si schiariva per un buon centimetrato di pelle in cui la carnagione ambrata diventava più tenue e pura, con una breve sfumatura che le disegnava sul petto le coppe di un bikini inesistente, in cui si distinguevano i capezzoli rigidi alle estremità.

Con un certo piacere, Anemone notò che in quanto a conformazione e struttura il suo seno e quello dell'amica erano pressoché identici: la stessa elasticità, che glielo faceva vibrare quando si muoveva, la stessa perfezione delle rotondità, che sembrava quasi calcolata con una formula esclusiva della femminilità, e perfino la stessa taglia, che sinceramente non aveva mai pensato di condividere con nessuno.

Le due si sorrisero a vicenda, mescolando imbarazzo ed orgoglio nello stesso sentimento: non c'era nessuno oltre a loro in quel momento, e quindi non c'era mai stato nessuno per loro fino a quel momento: si desiderarono a vicenda, dal profondo dei loro cuori.

Mentre le mani lisce della rossa scorrevano sul suo corpo diafano immerso nell'acqua tiepida, toccandole con gentilezza le braccia e le spalle, il collo e le guance, la modella si avvicinò ancora di più a quel miracolo che solo da un mese aveva sotto gli occhi, ma a cui in un mese non aveva prestato comunque abbastanza attenzione.

Furono a tale distanza che i seni nudi di Anemone e Camelia si toccarono, comprimendosi gli uni addosso al corpo dell'altra, portando i loro occhi blu ad incontrarsi ancora. 

La rossa percepì le labbra della modella a pochi centimetri dalle sue, che tremavano, insieme al suo respiro, così dolce e pulito...

«Ma allora non sei ubriaca. Anche quando sei venuta a chiamarmi, il tuo alito non sa di alcool.» Asserì sorridendole.

«Quindi non hai sentito quando ti ho detto che io non bevo ne' fumo? Sei scandalosa, lasciatelo dire.»

Le rispose la compagna, con il suo tono di sarcasmo, che ora suonava perfino sexy.

«Me la perdoni questa?» Le mani di Camelia intanto accarezzavano i capelli fiammeggianti della ragazza che così disse.

Seguì l'ennesimo silenzio in cui le due fanciulle si guardavano non solo negli occhi, ma si osservavano il corpo, i lineamenti e l'anima. 

Nessuna delle due avrebbe mai creduto di incontrare la propria anima gemella incarnata nel proprio opposto: una giovane modella famosa e benestante, dalla lingua velenosa e dal sarcasmo pungente, con un orgoglio che vacillava fra il ricordo delle menzogne e della falsità di suo padre e la spola fra i mille fidanzati occasionali che volevano solo il suo corpo, e una aspirante pilota con ingenti problemi economici, con una bontà e una pazienza sempiterna, messa a dura prova da un passato senza una famiglia e l'impossibilità di innamorarsi e di essere riamata.

Due figure simili, simmetriche, desiderose solo di riunirsi, due gocce riflesse sullo specchio dell'acqua pura increspata da piccole onde dell'onsen in quella notte. 

Quella bellissima, unica, fatidica notte.

«Allora, hai voglia di dirmi quella cosa che hai accennato prima?»

Domandò la rossa, scostando i capelli neri della compagna per metterle ben in mostra il petto.

«Ora che sai che non sono ubriaca è inutile. - la modella guardò fiera i seni scoperti della compagna - Se una sbronza marcia ti avesse detto "ti amo" ci avresti creduto?»

«Ti sei finta ubriaca solo per potermi confessare i tuoi sentimenti? In questo caso, no.»

«In ogni caso sei stata tu a dichiararti per prima. Eri davvero troppo adorabile.»

«Finirò per diventare la tua vittima...»

«Del resto, il Tipo Volante è debole contro il Tipo Elettro.»

«Camelia, tu mi piaci veramente.»

«Anche tu, voglio provarti che anche tu mi piaci veramente.»

D'improvviso Anemone chiuse gli occhi. 

Una dolcissima sensazione di caldo soffocante la pervase nel viso, e le labbra, dopo pochi secondi di sorpresa estasiata, cominciarono a seguire il ritmo di quelle della modella: questa le mostrò le capacità seduttrici della sua bocca, partendo da un semplice stampo sulle labbra proseguendo con una sequenza più serrata e soffocante, mettendoci sempre più grinta e passione.

Non era di certo il primo bacio della mora, ma di sicuro il primo dato ad una ragazza; ed il primo di una ragazza che le aveva concesso di essere la prima ad abbandonarsi alle sue sempre più bagnate labbra. 

Le due diciassettenni continuarono a baciarsi appassionatamente, stringendosi in un abbraccio che sembrava mirare al fondere i loro corpi insieme, in una cosa sola.

Camelia, più esperta in fatto di pratica, mantenne solo una mano a sostenersi sul corpo ondeggiante dell'amica, e seguendo l'istinto cominciò a saggiare quel corpo ambrato quasi totalmente scoperto, toccando tutti i muscoli tesi e la pelle sudata dell'altra.

La rossa, nuova in quel misterioso universo, desiderò ancora una volta provare a sé stessa di non essere la sottomessa della coppia, e con coraggio provò a massaggiare il seno destro della mora, palpandone la celestiale morbidezza e sensibilità: fu tanto brava che presto la compagna la invitò a fare lo stesso con l'altra mano, impegnando la rossa a massaggiarle vigorosamente le tette, sovrapponendo le mani sopra i suoi seni per invitarla ad intensificare il gesto, una rotazione che la rilassava ed eccitava allo stesso tempo.

Camelia fece lo stesso, chiedendosi come mai non avesse mai provato attrazione per la bellezza femminile ed essersi dedicata ad un fare sesso meccanico e pragmatico, che spesso terminava con lei e il suo amante momentaneo che si fissavano come estranei.

Si ripromise che una volta finito avrebbe ringraziato Anemone e magari pregata di rifarlo altre cinquecento volte, finché il petto non le dolesse dai troppi massaggi erotici.

Quei baci che ogni secondo diventavano prima dieci, poi cento, poi mille si spostarono in diverse zone del corpo, finché entrambe le giovani non sperimentarono in prima persona il scambiarsi la saliva con veri e propri amplessi delle loro lingue assetate d'amore.

Le due innamorate si staccarono dal loro eterno bacio, gustando fino all'ultimo il sapore dolce e pungente della saliva e della pelle sudata. Anemone riprese fiato appoggiandosi al collo dell'amante, che la guardava divertita. 

«Che cosa adorabile, è già esausta.» Pensò l'altra.

Entrambe rimasero a fissare un poco il cielo stellato, una distesa di zaffiri, dimora di dei grandi amatori e ninfe voluttuose che brindavano in simposio al loro amore neonato, proibito e segreto, al piacere del corpo e della mente, ora svaga da ogni cattivo pensiero.

Se esistesse un dio dell'amore, sarebbe stato leggermente turbato di assistere ad una scena di effusioni così spudorate da parte di due giovani dello stesso sesso. 

Ma la realtà è ben diversa dai romanzi e dai manga, perché nessuna censura può nascondere il più puro degli amori nella sua forma più inusuale e spesso malgiudicata. 

Quel dio infine avrebbe riso e dedicato perfino una poesia in onore di tutte le coppie come Anemone e Camelia.

«Come faccio a dire a mio nonno che sono, anzi, sono sempre stata lesbica... 
Per te non deve essere un problema... Ma penso che spiegare ai tuoi fan che ora sei fidanzata con... Una come me non sarà facile. 
Ci criticheranno tutti, ci odieranno a morte. E pensa farlo scoprire ad Iris, Camilla e Catlina...»

Anemone era appoggiata alla spalla di quella che adesso voleva chiamare 'tesoro'.

I pregiudizi la spaventavano a morte, ricordandole come il mondo esterno fosse composto da un codice binario di assoluta e noiosa normalità: ogni numero al di fuori dell'uno e dello zero è considerato eretico, meritevole di biasimo nel cosmo dell'ordinario moderno. 

Nel Medioevo, se ricordava bene, gli omosessuali li bruciavano direttamente al rogo.

Sapeva inconsciamente che Camelia condivideva la sua stessa paura, ma la stringeva comunque per infonderle coraggio.

I loro corpi nudi sembravano fondersi l'uno con l'altro, uno spettacolo magnifico alla vista.

«Pensiamoci domani a queste cose, cara. 
L'unica cosa che voglio fare finché non arriva l'alba è guardare e già che ci siamo anche toccare un po' il tuo sedere. Perdona il maschilismo.»

Entrambe scoppiarono a ridere. 

Camelia però le fece notare di avere davvero un bel sedere, sodo e tonico. 

Anemone la rassicurò, girandosi di pancia e mostrando alla ragazza i suoi formosi glutei, mentre l'altra aveva già iniziato ad accarezzarla e a sussurrarle la sua ammirazione. 

Le piaceva la sua voce sussurrante della mora, era seducente e penetrante.

Entrambe si confessarono vicendevolmente di sentire un dolore piuttosto piacevole al basso ventre, poi convennero insieme sul fatto di star cominciando a sentirsi donne.

«Camelia, tesoro... Sono felicissima... ti amo. Non lo ho mai detto a nessuno, è strano per la prima volta...»

«Anch'io, ti amo davvero cara. Non sto scherzando.»

L'amore proibito delle due Capopalestra pregò il cielo di estendersi ben oltre quella fantastica notte, ben oltre quell'anno, oltre ogni giorno della loro vita.

Magari anche oltre quell'estate.


 

 

«Camelia, amore, prima che questa notte finisca e domani scoppi un casino micidiale voglio che tu mi risponda con tutta la sincerità che hai a questa domanda.»
 
«Credo di non avere scelta, se la metti così.»
 
«Credo che sia una questione di grandissima importanza, è un dubbio esistenziale che ho da un po' di tempo. Riguarda un paio di strategie... Ma non so se tu possa aiutarmi.»
 
«Anemone, siamo entrambe Capopalestra. Non ci può sorprendere più nulla.»
 
«Allora vado... 
Secondo te sono meglio le tette piccole o grandi?»
 
«P-Perché mi fai questa domanda, che cosa c'entra con le strategie?»
 
«C'entra eccome, è come con i Pokémon: immagina di avere un esemplare raro e potente e di non riuscire a controllarlo e perdendo così una lotta... 
Riusciresti a immaginarti delle coppe oltre la lettera F su una ragazza?!
Potrebbero creare disastri, mi dico, e si affloscerebbero e sarebbero brutte da vedere.»
 
«Beh, è vero: non sempre più grande è meglio.»
 
«E se comunque hai un seno piccolo trovare il modo di valorizzarlo è difficile, solo gli Allenatori esperti sanno sfruttare il potenziale dei Pokémon più innocui...
C'è sempre l'evoluzione, dopotutto, e molti strumenti utili per farle sembrare più gonfie e sode, e se non basta puoi usare degli aiuti come l'imbottitura, ma io mi chiedo...
Esiste un tipo di seno che possa piacere a tutti, universalmente?»
 
«Credo che la tua filosofica domanda si risolva: come nelle lotte esistono diverse strategie vincenti, così diversi tipologie di seno possono vincere il cuore delle persone.»
 
«Wow, Camelia, mi piaci sempre di più sapendo che sei così intelligente!»
 
«Però io non ho mai visto un Pokémon sopravvivere ad un attacco come Dragobolide.»
 
«E-E quale sarebbe la versione pettorale femminile di Dragobolide?»
 
«La coppa G. Questa mossa mi manda K.O. in un colpo.»
 
«Ah, neppure io resisterei ad un attacco del genere... È così sexy...»
 
«Certo che per essere una novellina stai imparando in fretta.»
 
«Tutto merito tuo, dei manga per i maggiori dei diciotto e delle fanfiction.»

 

Behind the Summery Scenery #12

1. Credeteci o no, neppure io so molto bene quale sarà il piano del Neo Team Plasma per annientare le nostre eroine. Nonostante i miei evidenti ritardi nella sceneggiatura, le scene in cui appaiono le cinque antagoniste sono molto easy da scrivere, non mi è mai capitato di doverci lavorare troppo a lungo. Sarà la mia parte oscura che emerge o il mio essere stufa di parlare delle solite cinque allegre scemotte.

2. Quando Camilla dice "le ragazze sono minorenni" intende secondo la legislazione giapponese, in cui la maggiore età si raggiunge a 20 anni. Questo fa della leader l'unica maggiorenne del gruppo dunque. Ma hey, qui siamo in 'Murica e Abe non ha potere qui.

3. Il dialogo fra Camelia ed Anemone è stato difficile da far uscir fuori: volevo che sembrasse un litigio realistico, ma mi trovavo ogni volta a cancellarlo e riscriverlo perché le due monologavano come in una tragedia tirando fuori argomentazioni assurde e divagando alla grande. Forse le battute sono un po' lunghe per essere dette nel bel mezzo di una sfuriata, ma provate ad immaginarle come il succo di ciò che l'ascoltatrice coglie dalle frasi sconnesse e brutali di quella che la sta accusando.
Dopotutto, noi nel parlare sentiamo ciò che gli altri ci dicono o ciò che noi vorremmo dire e non diciamo? Bella domanda.

4. Come avete trovato la scena lemon? Io volevo che fosse al contempo sexy e romantica.
Questo è il concept di questo capitolo: piacevole per gli occhi, piacevole per il cuore. Non avrei mai scelto di rappresentare una scena da rating rosso, perché sapevo che non servisse. Inoltre, buttarsi sul sesso senza sentimento andrebbe contro uno dei tre grandi capisaldi della storia (ripassiamoli prima dell'esame ancora una volta): tette, yuri e... sentimentalismi.

5. E sì, lo so che le due amanti infelici non sono completamente nude, ma in senso filosofico lo sono, aprendo il loro cuore l'una all'altra e rivelando i loro veri sentimenti... La prima volta nessuno va mai così oltre, dai, amo realistici.

6. Per la scena del bacio ho trovato ottimi spunti dal poeta latino Ovidio, nei suoi Amores e nell'Ars Amatoria. 

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Capitolo 13
*** La vita non è fatta solo per spettacolo ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
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Early Summer Girls

Capitolo 13

La vita non è fatta per spettacolo



Il secondo mese estivo, quello di luglio, nonostante si fosse aperto con una calorosa per quanto
ristretta celebrazione, non aveva portato molti cambiamenti alla vita quotidiana delle nostre eroine.
 
Ad essere sinceri, l'unica vera mutazione alle loro abitudini non fu un problema per via della sua imprevedibilità, dato che già da qualche giorno il meteo ne parlava, ma per la sua pesantezza ed inevitabilità: luglio è sicuramente il mese più noto per il suo caldo cocente.
 
Una calura così torrida e soffocante è la nemica numero uno degli allenamenti, se vista dal lato negativo; ma quella mattinata afosa si rivelò la scusa perfetta per fermare l'allenamento delle ragazze e fare una bella pausa in cui riprendere fiato.
 
«Non possiamo fermarci nel bel mezzo degli allenamenti. Se Nardo o Camilla ci scoprissero ci punirebbero senza pensarci due volte.»
 
Quelle parole proferite da Catlina non potevano avere senso: lei stessa aveva ostinatamente protestato pur di non alzarsi dal letto quel giorno, visto che la sera precedente lei e le sue compagne non dovevano aver dormito più di sei ore; una ragazza delicata come lei aveva bisogno di riposo, e con questo pretesto per lei veniva sempre prima l'ozio e poi il lavoro, mai il contrario.
 
Sedute all'ombra, le quattro ragazze si sorreggevano con le spalle appoggiate l'una sull'altra come le pedine di un domino dopo che vengono colpite; sentivano che sotto quella calura prima o poi il collasso totale era imminente.
 
Quell'anno l'estate si stava rivelando davvero troppo calda.
 
«Beh, se è per questo, Camilla ci aveva promesso che un giorno avremmo avuto una sauna tutta per noi: però io sto ancora sudando come un Minccino nel Deserto della Quiete.
Quindi mettiamoci il cuore in pace.»
 
Le rispose Anemone, che dopo un respiro esanime riprese il discorso più entusiasticamente.
«Io però volevo che Iris finisse di spiegarci questa cosa dei nostri nomi associati ad elementi naturali.»
 
«I-In realtà è tutto qui... Avevo pensato questa cosa con il mio Dragonite un po' di tempo fa, non so se abbia tanto senso...» Ammise imbarazzata la ragazzina, strofinando le dita nervosamente.
 
Iris aveva realizzato che il caldo, se unito alla fatica e alla noia, può risultare un'arma micidiale per il corpo e per lo spirito; per questo si era fatta coraggio ed aveva cercato di spiegare anche alle sue compagne quella specie di gioco che aveva inventato qualche settimana prima.
O questo o un silenzio di tomba, non aveva molte alternative.
 
All'inizio doveva essere solo un modo alquanto fantasioso per far capire al suo nuovo e brutale compagno di squadra chi fosse chi nel gruppo di aspiranti allenatrici, esattamente come si fa con i componenti di una band: pochi dettagli, ma fondamentali a riconoscere l'individuo.
Con il passare del tempo e con il fare esperienza, Iris finì davvero per associare con la mente le sue compagne proprio a quegli elementi.
 
Era una cosa stupida, in fondo.
Tuttavia, le tre ragazze piuttosto sudate ed esauste non sembrarono reagire poi così male.
 
«Che bell'idea, si può dire che hai fantasia.» Le rispose Catlina, accennando appena un sorriso.
 
«A me piace tantissimo quello che mi hai dato, sei fantastica!»
Anemone invece la abbracciò direttamente, facendo salire alle stelle l'orgoglio della ragazzina.
 
«E tu Iris, tu cosa sei?»
Tutte le ragazze lanciarono uno sguardo perplesso verso Camelia, stupendosi del fatto che per una volta stesse ascoltando un discorso che non la riguardasse personalmente.
 
«Non lo so. - Iris parlò come un profeta attorno a cui si è radunata una grande folla - Perché non mi aiutate voi a scegliere?»
 
«Deve essere un qualcosa di naturale, giusto? - la rossa aveva già messo la sua fantasia all'opera - Come la pioggia, il sole, una nuvola, il fulmine che ha Camelia o il mio vento?»
 
«Sì, ma questo non significa che ti devi limitare ai fenomeni atmosferici. Per esempio, io ho il fiore di ciliegio.» La ammonì la biondina di Sinnoh.
 
Ci fu un attimo di silenzio. Quell'atmosfera così tranquilla ed intima piacque molto alla ragazzina, lei e le altre tre ragazze stavano costruendo qualcosa insieme, qualcosa che, come un soprannome che prende piede, le sarebbe rimasto attaccato all'identità per sempre.
 
«Una Baccaliegia.»
Tutte si voltarono ancora verso Camelia, che teneva gli occhi alti come se loro, comuni mortali, non fossero state degne nemmeno del suo contatto visivo.
 
Quest'ultima si ripeté ancora più convinta.
«Il simbolo di Iris è una Baccaliegia.»
 
Ci fu un'altro momento morto, ma stavolta carico di forte imbarazzo e confusione per tutte.
 
«Ma mi spieghi perché io dovrei essere una Baccaliegia?» Le domandò Iris, acida.
 
«Te lo spiego subito. - le rispose l'altra, con il tono più disinteressato e dolciastro che aveva - Pensa a tutte le altre bacche: Baccamelon, Baccarancia, Baccanguria, Baccamango...
Cos'hanno tutte in comune rispetto alla tua Bacca?»
 
Iris ci rifletté un secondo.
«Beh, queste bacche sono molto più grandi. E rotonde.
E poi sono morbide, succose, lisce...
 
Aspetta. Grandi, grosse, rotonde, morbide...
E grandi...
Molto più grandi... -La ragazzina dai capelli viola se lo ripeté in testa un paio di volte - ...Molto, molto, molto più grandi...»
 
Alla fine la conclusione che ne trasse la lasciò così scandalizzata che la quasi gridò.
 
«Ma quindi io sarei una Baccaliegia perché non ho un seno grande come tutte voi altre?!»
 
Iris si coprì il viso con le mani per la vergogna: per l'ennesima volta Camelia l'aveva gettata nel ridicolo e la sua imbarazzante figura aveva fatto ridere sonoramente tutte le sue compagne, compresa la sua stessa aguzzina che in quel momento la osservava struggersi nella sua inadeguatezza pettorale con l'espressione di una vera sadica sul volto.
 
Questa era per lei la triste e sfortunata pena da scontare per l'essere una Baccaliegia.
Una Baccaliegia continuamente arrostita fino al midollo da un tuono di sarcasmo.
 
«Che cosa mi sono persa?»
 
Iris fu la prima a riconoscere la voce dolce e grave di Camilla, e l'unica a sperare in un suo miracoloso intervento salvatore.
La giovane donna sembrava più che serena a prima vista, sebbene fosse stata convocata da Nardo una mezz'oretta prima.
 
«Bullismo gratuito...» Fu capace di rispondere, guardando con occhi mesti lo yukata violetto che a malapena aderiva al suo corpo nonostante lo avesse tirato al massimo sotto l'obi.
 
La leader, mossa dal suo forte senso di giustizia, lanciò uno sguardo di fuoco verso l'unica legittima sospettata. Quest'ultima però non si fece trovare impreparata.
 
«Camilla, penso che Iris non abbia ben presente quanti vantaggi porti essere una Baccaliegia.
Per esempio, le Baccheliegia piacciono a tutti, a me compresa...»
 
«Certo, certo, come no... - Iris la interruppe, rivolgendosi a Camilla, furibonda - Ieri sera appena mi sono tolta lo yukata, lei ha fatto finta di misurarmi il seno con le mani, poi mi guarda tutta delusa e dispiaciuta e mi dice: "Non ci siamo proprio, se continui così rischierai di far morire di fame i tuoi futuri figli."
 
E quando mi nasconde i reggiseni e mi chiede se voglio prendere in prestito uno dei suoi...
Ah, e settimana scorsa mi ha chiesto se seguo qualche sub-cultura per cui avere il fisico da anoressica, i capelli viola Grimer e la pelle abbrustolita sono ritenuti sexy per una femmina!
 
Per non parlare di tutte le volte che mi si spoglia davanti solo per vantarsi delle sue enormi mongolfiere e mi fa domande imbarazzanti, del genere "dimmi Iris, non hai mai paura che ti si comprima la gabbia toracica in quel minuscolo corpicino che ti ritrovi? Sei tutta pelle e ossa, chissà come fai a respirare e a stare in piedi."
 
M-Mi sta facendo impazzire, io non la sopporto più!»
 
Tutte quante ammutolirono, ad eccezione della diretta interessata ed ideatrice di tali torture psicologiche, che continuava a sogghignare soddisfatta.
 
Anemone e Catlina, d'altro canto, si sentirono un po' complici del non fare effettivamente nulla affinché quegli atti di bullismo smettessero o per difendere la sfortunata vittima Baccaliegia.
 
Camilla invece se la legò al dito perennemente, notando come lo sguardo di Iris fosse contorto nell'espressione più addolorata e sconfitta che avesse mai visto, come un prigioniero che rivela le terribili disumanità con cui è stato ferocemente torturato per anni.
 
«Mi auguro che tu abbia un buon alibi anche per quello che sto per dirti, Camelia.
Tranquille voi altre, non siete escluse da questo annuncio neppure voi.»
 
La modella vacillò leggermente al venire chiamata così freddamente per nome, essendo piuttosto abituata ai confidenziali soprannomi che venivano dati dai fan alle idol come lei.
Tuttavia anche il resto delle ragazze, Iris compresa, ebbero un sussulto, curiose e preoccupate allo stesso tempo di conoscere di cosa stessero per venire accusate.
 
La leader sfoderò uno dei suoi soliti sorrisi, così maledettamente controverso in quella scena di forte ansia che spiazzò tutte le ragazze. Chissà di cosa doveva aver parlato con Nardo.
 
«Andrò dritta al punto. - a quel punto Camilla frugò nella manica del kimono ed estrasse un oggetto che nessuna, proprio nessuna si sarebbe mai aspettata di trovare in mano a lei - ve lo chiederò una sola volta. Rispondetemi con assoluta serietà...
 
...Di chi è questo reggiseno?»
 
In quell'istante, tutte si chiesero se stesse malauguratamente scherzando.
 
Iris si chiese se stesse scherzando su di lei visto il tema del dibattito precedente.
Decise di autoescludersi subito da quella snervante e ridicola querela.
 
«Non è di sicuro mio. Una Baccaliegia come me non indossa questo genere di indumenti.»
 
«Lo so, Iris. E so bene che non può essere neppure di Catlina.» Disse la Campionessa di Sinnoh.
 
«Come fai a saperlo? N-Non mi pare di averti mai mostrato che intimo indosso.»
Le domandò pacatamente la biondina. Era piuttosto curiosa di sapere anche lei.
 
«Vedete, quando io e Catlina avevamo sei anni, lei era una bambina terribilmente possessiva.
Che fossero i suoi Pokémon o i suoi giocattoli, era sempre pronta a non farli toccare a nessuno con scuse del genere "li sporcheresti", "non sai usarli" o "costano tanto tanto".
Ricordo che una volta stavamo giocando con delle bambole e non appena ho toccato la sua, lei ha cominciato a piangere ed a gridare per un intero pomeriggio...»
 
«C-Camilla, ma era proprio necessario che lo sapessero tutte?!»
 
La giovane principessa arrossì visibilmente e poté paragonare il disonore di quel momento solo a quando nell'onsen la leader l'aveva vista quasi senza la parte inferiore costume.
Ormai l'autorità e la posizione di sub-leader che stava cercando di costruirsi stavano entrambe andando in fumo. Perché quelle ragazze dovevano rispettare Camilla e non lei?
 
Mentre le giovani ridevano di lei, Camilla concluse impeccabilmente il discorso.
 
«Catlina non sarebbe così smemorata da dimenticare un oggetto così importante come un reggiseno, insomma... La conosco bene.» E rivolse un piccolo inchino alla compagna, quasi avesse intuito il desiderio di rimediare al orgoglio frantumato dell'amica d'infanzia.
 
Solo due sospettate erano rimaste, alla fine di tutto. Quest'ultime si fissarono negli occhi.
 
Ed proprio in quel secondo, in quell'istante intriso di panico e tensione, fu la spiccata sensibilità ai dettagli di Iris a notare una cosa che le fece contorcere il viso e gli occhi involontariamente.
 
Come poteva definirla: una forza, una connessione, una presenza? Era un qualcosa di labile che eppure sembrava esserci sempre stato, era tutto naturalissimo nonostante lei ne fosse rimasta esterrefatta.
 
Le due diciassettenni avevano stabilito per quasi meno di cinque secondi uno strano contatto visivo: osservano oltre le loro iridi, entrambe azzurre ma di tonalità diverse, e focalizzandosi meglio notò che qualcosa si erano dette, ma così silenziosamente che nessuno avrebbe mai afferrato neppure vagamente il concetto.
 
I loro visi non si erano incontrati a metà strada per puro caso, le compagne erano sincronizzate per via di una connessione solo loro e che non potevano condividere.
Paura, dolore, ansia, rimorso... Con uno sguardo ci si può dire molte cose, probabilmente...
 
Ma Iris non riusciva proprio a spiegarsi perché la superba e acida modella stesse tenendo stretta nella sua la mano della dolce ed amorevole aviatrice, che a sua volta faceva intrecciare le sue dita scure con quelle diafane di lei.
 
«Potrei avere da qualcuna di voi una risposta?»
Dal tono di voce, si sentiva che Camilla cominciava a spazientirsi.
 
Da quel punto in poi Iris sentì che si sarebbe trattato di un infame e letale gioco del prigioniero.
Conosceva bene quell'enigma tanto banale quanto irritante, lo utilizzavano spesso gli adulti del suo villaggio per far confessare piccoli furti o malanni commessi da più bambini.
Salvarsi la pelle da una punizione non è poi una cosa tanto semplice, se devi difendere un'altra persona oltre a te stesso: su questo concetto si basava il trucco.
 
E purtroppo per lei quella volta ci sarebbero state solo poche possibilità di cambiare il finale, conoscendo le sue due compagne, così diametralmente opposte da non poter avere nessun legame di complicità a rigor di logica.
 
Uno. Camelia scarica tutta la colpa sulla rossa e questa si arrende, come fa sempre.
Due. Anemone si ribella alla sua torturatrice e gliele fa pagare di santa ragione.
Tre. Entrambe rimangono mute, facendo solo un grande buco nell'acqua.
 
Dulcis in fundo, tutte le ragazze avrebbero dato per scontata l'opzione numero uno, vedendo la modella mora alzarsi con nonchalance. Questa guardò dritta verso la leader.
 
«Camilla.» Fece un respiro profondo e cominciò a parlare.
«Sono tutta orecchi.» Le rispose la giovane donna in veste di giudice.
Sia la ragazzina dai capelli viola sia Catlina ed Anemone rimasero col fiato sospeso.
 
«...Perché hai in mano il mio reggiseno?»
 
La leader rimase interdetta.
 
«Vedi, te lo chiedo perché non capisco come faccia tu a possederlo se è mio.
Io potrei pensare, che ne so, anche che tu lo abbia trovato per caso, ma non sono nata ieri, scusa.
 
Quindi direi che vado per l'idea che tu me lo abbia rubato perché sei una maniaca pedofila.»
 
Ci fu un secondo di silenzio seriamente scandaloso: davvero Camelia so era permessa all'apice della sua sfacciataggine di dare della "maniaca pedofila" alla sua leader, violando ogni genere di rispetto imposto dall'età e dai ruoli?
 
«Camelia, non ti conviene parlare così alla tua...» Cercò di parlare Catlina, con una certa autorità.
 
«Non mi interessa - la interruppe decisa la mora - se la tua leccapiedi ti difende.
Io voglio sapere perché una ventenne ancora vergine, in base a quello che hai detto ieri sera da ubriaca, ha in mano la mia biancheria intima.»
 
Catlina si zittì definitivamente: quella ragazza le aveva polverizzato anche quell'ultima briciola di orgoglio ed autorità che si era auto-conferita nominandosi sub-leader. Che umiliazione, pensò, non riuscire neppure a difendere la sua leader, non nulla di più meramente professionale.
 
«Te lo chiedo perché - ora Camilla era visibilmente irritata, ma si prodigava nel trattenersi - ho trovato questo indumento a bordo vasca nell'onsen. E mi costringe a supporre che ieri sera qualcuna di voi due abbia usato l'onsen senza il permesso mio o di Nardo.
Sapete cosa vi spetta se infrangete le regole e questa non è neppure la prima volta ma...
La terza, in precisione, per voi due.»
 
«Senti leader, quel reggiseno è una coppa G. È ovvio che sia mio.
Lo sa mezza Unima che quella è la mia taglia.»
Ammise la mora, così stizzita che si conteneva a stento da insultarla pesantemente.
 
«Come vedi le tette di una smorfiosa non sono una questione di interesse nazionale.»
Iris non riuscì a trattenersi quella battuta, rosa com'era dallo snervamento.
 
Camelia le rivolse un bieco sorriso veramente meritevole di sberle.
«Iris, le Baccheliegia non parlano. Zitta.»
Alla ragazzina tornò immediatamente la voglia di seppellirsi sotto tre metri di terra.
 
«Quel coso è mio, insomma, non ho altro da dire, se non che mi sarei aspettata il furto di un reggiseno da parte di paparazzi o miei fan, non dalla leader con cui sono costretta a convivere.»
La ragazza dal kimono giallo apparve più convinta che mai.
 
Finita quella frase, prima che Camilla potesse distillare l'ultima goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso rappresentato dalla sua pazienza, una voce prima esclusa dal dibattito si fece sentire.
 
«Smettetela per favore. Anche io porto la coppa G. E ieri sera ero anche ubriaca.
È mio, Camilla. Sono pronta a prendermi le mie responsabilità.
So che tu, in qualità di nostra guida morale, non ti macchieresti ma di un gesto così perverso.»
 
Mentre si costituiva così all'improvviso, Anemone era l'unica a non essersi mossa dalla sua posizione iniziale seduta all'ombra e mentre tutte si erano alzate in piedi con i nervi tesi, lei aveva parlato in modo piuttosto calmo e pacifico.
 
«M-Ma allora perché mi avevi detto di portare la F?!» Le domandò Iris scioccata.
«Iris scusami, ma so che sei sensibile a queste cose...» La rossa le rivolse uno sguardo dispiaciuto.
 
«Dai, dopotutto è meglio una piccola bugia a fin di bene che sbattermi in faccia la triste verità...
È per questo che preferisco mille volte Anemone a Camelia.»
La giovane se ne fece una ragione, poi si sedette circondando le gambe con le braccia e appoggiando il mento alle ginocchia. Si chiedeva proprio come sarebbe andata a finire.
 
«Anemone cara, - a dirla tutta, Camilla si sentì leggermente a disagio parlando con quel tono così mellifluo ed edulcorato alla rossa, neanche si trattasse di un piccolo Pokémon indifeso o di una bambina della stessa età della nipote di Nardo: tuttavia quell'irrecuperabile abnegante non le ispirava altro se non infinita pietà - so benissimo che il tuo intento è quello di proteggere Camelia. Ma io voglio che tu sia sincera.»
 
«Sono sincera, e confermo sia che quel reggiseno è mio, sia il fatto di aver usato l'onsen senza permesso. Mi dispiace molto di aver tradito la tua fiducia.»
Rispose umilmente la ragazza dallo yukata azzurro.
 
«Anemone, lo sappiamo ormai tutte che tu ti assumi sempre tutte le colpe per abitudine, basta.
Se ho detto che è mio, è mio, e non vedo l'ora do vedere in che modo Nardo ha intenzione di sfogare il suo sadismo su di me.» Ribatté la mora.
 
La situazione ora si era fatta tristemente familiare ad Iris, a cui sembrò di essere tornata indietro ai primi giorni passati con quelle ragazze, in cui fra loro aleggiava solo freddezza e diffidenza.
Aveva lavorato così tanto per far andare d'accordo le sue nuove compagne, eppure...
 
Camilla, la giudice imparziale ormai drasticamente divisa da testimonianze contrastanti, esibì un sorriso, come di consuetudine. Quello però fu il sorriso più maligno e strano che tutte le ebbero mai visto sulle labbra. Tutto d'un tratto la donna scoppiò a ridere come un'esagitata impazzita.
 
In quel momento Iris si chiese se non fosse finita in una gabbia di matte da legare invece che in una competizione fra allenatrici: lì con lei c'erano rispettivamente un'isterica, una bipolare, un'apatica (che doveva aver preso quel "leccapiedi" molto sul personale, visto che non aveva più aperto bocca da quel momento) ed infine una schizofrenica.
Proprio una bella compagnia con cui passare l'estate.
 
«Ho capito, ho capito - il tono di voce di Camilla sembrava quello di una tossicodipendente in stato di euforia - la vostra strategia. La vostra bruttissima strategia.
Volevate costituirvi entrambe in modo che io ne fossi commossa e chiudessi un occhio anche questa volta... Non sono stupida e questi giochi con me non funzionano.
E per aver cercato di imbrogliarmi così spudoratamente sarete punite entrambe.»
 
La donna riprese a parlare seriamente, con un tono duro come il cemento e squadrò con un solo sguardo dalla testa ai piedi sia Anemone che Camelia.
 
«Mi avete profondamente delusa: non solo una Campionessa, ma una qualsiasi donna perbene dovrebbe tenere nascoste le sue parti più sensibili per pura decenza.
E non posso immaginare che genere di motivo doveva esserci di levarsi il reggiseno nel mezzo della notte... Guardate, non voglio nemmeno saperlo.
Però sono certa che voi due vogliate sapere una cosa: la vostra punizione, ovviamente.»
 
Le due sventurate ragazze risposero in coro, senza dar troppa attesa alla giovane.
«...Sauna?»
 
«No. - tutte rivolsero l'ennesimo sguardo di disappunto a Camilla - Non capisco che genere di congiure tramiate voi due quando siete sole. Di sicuro non giovano ne' a me ne' a voi.
 
Per questo voglio che oggi non vi vediate fino al tramonto.
Andatevene dove volete lontano da qui, in giro per Unima, mi basta che non vi incrociate o parlate per nessun motivo al mondo. Dovete sciacquarvi la testa e rimettere a posto i vostri pensieri prima della competizione per il vostro bene, non perché una "pedofila" ve lo ordina.
Ora andate, per favore. Mi avete profondamente delusa.»
 
Nonostante la ferrea disciplina appena esercitata, Camilla non stava traendo nessun divertimento dal dover sgridare quelle sue adorabili apprendiste.
Non piaceva neppure a lei che Nardo fosse così insistente ed eccessivamente duro alle volte.
 
Le due colpevoli si separarono, senza neppure guardarsi in faccia un secondo.
Quell'atmosfera di terrore crollò definitivamente da quel punto in poi, lasciando una coltre di fumo allusivo che appesantiva l'aria e lasciava aloni di incoerenza dappertutto.
 
«Alla fine di chi era quel reggiseno, secondo te?»
Domandò Iris sottovoce a Catlina.
 
«Io mi domando ancora perché se lo sarebbero dovute togliere, in primo luogo.»
 
La ragazzina dal kimono viola analizzò tutti gli indizi che aveva racimolato in quella mezz'ora di aspra lite: gli occhi che si incontrano alla ricerca di aiuto reciproco; la mano dell'una stretta in quella dell'altra; la mancata difesa vicendevole; i piccoli particolari che ancora le mancavano per risolvere quell'enigma complicatissimo.
 
Tuttavia una risposta aveva considerato... Ma era una cosa così impossibile, così impossibile che se ne dimenticò subito.
 
«Camelia ed Anemone sono entrambe femmine... No, non è assolutamente possibile.»
 
Non c'era un singolo giorno in tutto l'anno, che fosse inverno o estate, che facesse caldo o piovesse a dirotto, sia di pieno pomeriggio che a notte fonda, sempre la metropoli di Sciroccopoli si prodigava nell'apparire il paradiso terrestre del ventunesimo secolo: le strade piene di auto incolonnate davanti ai semafori, famiglie di turisti con macchine fotografiche e Pokéball alla mano, grattacieli con i vetri rifrangenti e cartelloni pubblicitari al neon ovunque.
 
L'unica cosa che sembrava rallentare quella frenetica routine quel dì sembrava il caldo.
Ma era un particolare così insignificante che Camelia non ci diede alcun peso.
 
Aveva cercato invano di protestare, giustificandosi con il fatto che una stella della moda del suo calibro non poteva affatto mostrarsi in pubblico per questioni di sicurezza, prima di scoprire che per sua sfortuna bastavano un paio di occhiali da sole per permetterle di camminare sui marciapiedi affollati come una diciassettenne qualunque.
Nemmeno la maglia di marca piuttosto scollata e i pantaloncini di jeans firmati destavano alcun sospetto nei passanti... Piuttosto insolita come punizione.
 
Camelia non riusciva neppure a sentire il ticchettio dei tacchi alti sull'asfalto sporco di gomme americane, e tantomeno il dolore del camminarvici, abituata com'era.
Era una buona mezz'ora che la giovane camminava senza fermarsi un secondo, camminando spedita senza nemmeno una meta precisa, con quel suo andamento molto chic e fluido.
 
Teneva le cuffie sulle orecchie, assorta nei suoi pensieri.
Le parole di quella canzone le conosceva a memoria, eppure si sentiva confusa.
 
L'unica cosa che riuscì a rallentarla per un secondo da quel frenetico vagare silenzioso la costrinse perfino a sollevare la testa e scostarsi dagli occhi quegli occhiali da sole scurissimi: sopra un grattacielo, uno di quei cartelloni pubblicitari a led, mostrava una sua fotografia.
 
Camelia non sapeva che prodotto avesse pubblicizzato, non se ne sarebbe ricordata neanche provandoci, pensando a quante foto e riprese le avessero fatto in soli quattro anni di carriera. .
Del resto, era sempre la solita lei, la solita Camelia che vedeva allo specchio ogni giorno.
 
Solo che la lei nel cartellone pubblicitario sorrideva in modo davvero naturale e spensierato.
 
Era un sorriso così innocente ed accattivante che riusciva a distrarre anche dalla silhouette del corpo seminudo strategicamente coperto sullo sfondo. Chiunque se ne sarebbe innamorato.
 
Camelia, tuttavia, esibì uno sguardo disgustato e riprese a camminare più velocemente.
Non che le dispiacesse se anche tutta la regione l'avesse vista nuda su tutti i mass media.
Era bensì l'atroce menzogna che stava vendendo ai suoi fan che la disturbava.
 
In realtà, quando le telecamere erano spente, la ragazza aveva passato settimane intere cercando di perfezionare il suo sorriso per quel servizio fotografico, osservandosi davanti allo specchio, non trovandosi mai abbastanza naturale, sforzandosi di risultare perfetta almeno ai suoi stessi occhi.
 
Aveva passato notti del tutto insonni a piangere e soffocare grida disperate sentendo insieme ai morsi di un accenno di depressione anche quelli di un appetito che ancora non riusciva a controllare e reprimere come fanno tutte le professioniste esili come canne di bambù.
 
Le erano passate per la testa idee terribili, alcune delle quali stravolgevano completamente perfino la sua morale: quella che però le era sembrata la meno dannosa era quella di seguire Corrado per andare ad annacquare in qualche bottiglia di superalcolici la sua tristezza, come faceva lui.
Ricordava anche che sempre lui una volta l'aveva minacciata di rivelare a tutti i giornali che la sua ragazza era astemia. Lei gli aveva riso in faccia, in risposta.
 
Tutte quelle sofferenze, umiliazioni e ferite fisiche e morali per una fotografia.
Camelia si augurò di non essere l'unica a guardare più in fondo, senza fermarsi alle labbra lucide o agli occhi rilucenti per via del trucco, sperò intensamente che i suoi adorati fan, quelli che le avevano giurato di amarla senza neppure conoscerla, si ponessero le sue stesse domande.
 
E quel desiderio, alimentato dall'insoddisfazione e dalla confusione interiore della giovane, di sballarsi fino all'ultimo respiro, devastando da sola il suo stesso fisico e la sua psiche, l'aveva spesso convinta che perdere sé stessa sarebbe stata la chiave per ritrovare la voglia di ritornare apprezzare tutto ciò che ora detestava con tutto il cuore.
 
Dopotutto, quella città era immensa: rimediare droga ed alcool nella città perfetta di Sciroccopoli non era mai stato difficile, neppure per una come lei lo sarebbe stato, con le giuste conoscenze.
 
Ma in quella enorme, popolosa e sfavillante città ci sarebbe stato un qualcuno, una singola persona che sarebbe corsa disperatamente da lei per strapparle dalla mano la fatidica bottiglia di vetro o la siringa che l'avrebbe rovinata per sempre?
 
Chi era disposto a salvarla da tutto ciò? Dov'era quel qualcuno quando le serviva?
Ma sopratutto...
C'era mai stato un qualcuno per lei?
 
Tutto d'un tratto l'incedere deciso e spedito della ragazza mora si arrestò in modo automatico.
Realizzò che nonostante i tacchi alti, doveva aver camminato un bel po', senza neppure sapere dove fosse diretta. Era lì per punizione, ma al contempo per sua scelta.
 
Lo spettacolo idilliaco della metropoli affollata e caotica era letteralmente sparito, come se non ci fosse mai stato; sembrava che fosse stato tracciato un confine, un solco che divideva la parte ipocrita e benestante di Sciroccopoli dalla sua sorella più schietta e realistica.
 
Quello scenario invece si descriveva da solo; i muri coperti da graffiti senza arte, le strade sporche cosparse di volantini e rifiuti urbani, gli edifici prefabbricati da cui spuntavano spessi cavi che facevano a gara per accaparrarsi l'elettricità, perfino i passanti sembravano guardarla storto per via dei vestiti di marca, e l'aria era irrespirabile, come se perfino quella fosse stata un lusso.
 
Solo però chi aveva passato gran parte della sua vita nella periferia della città di Sciroccopoli poteva sapere che quel posto aveva conosciuto tempi peggiori per davvero.
 
Togliendosi con un gesto brusco le cuffie dalle orecchie, Camelia si lasciò scappare una risata in un misto fra autoironia e mera disperazione.
La vista del luogo in cui era nata e cresciuta la infastidiva ancor più del ricordo di esso.
Sembrava che nulla fosse cambiato, che quei bassifondi malfamati e miserabili aspettassero il suo ritorno da anni, come se non ci fosse altro posto destinato a lei.
 
Camelia si morse il labbro e sorrise amaramente, come la costringevano a fare quando era in preda alla tristezza ma il suo pubblico desiderava vederla felice per puro capriccio.
 
«Ho ancora moltissime paure. Ho ancora moltissime lacrime...
Anemone, muoviti e vieni a consolarmi.»
 
«Dovresti fare attenzione, ti trovi nella parte più pericolosa della città.
Sarebbe davvero disdicevole se ad una fra le future Campionesse capitasse qualcosa di male.»
 
Camelia strizzò le palpebre, perplessa. Quella non era la voce di Anemone, non lo era e basta.
La rossa non parlava così fluidamente, e il tono di voce non era così grave e profondo.
 
La giovane Capopalestra si voltò di scatto, e per la prima volta in tanto tempo sentì quel genere di panico che assale spesso le ragazze quando scoprono qualcosa di strano, di inquietante.
Cacciò un grido piuttosto femminile, spostandosi il più rapidamente possibile dalla figura stagliata dietro di lei. Aveva paura, ma una paura concreta, per una volta.
 
«Tranquilla, non voglio farti del male...» Ma la voce non ricevette alcuna attenzione.
 
La mora non indugiò oltre. Lei era un'allenatrice, non una stupida scolaretta incapace di difendersi: con un gesto deciso infilò la mano coperta di smalto nella scollatura del top che indossava, andando ad afferrare una sfera Poké posta esattamente in mezzo al suo seno.
 
«M-Ma perché questa ragazza tiene una Pokéball nelle sue... In quel posto!?»
Domandò lo sconosciuto, senza ricevere risposta e non meritandone nessuna la domanda.
 
La giovane aveva già provato quella tecnica una settimana prima e l'aveva trovata pressoché utile, per quanto ambigua sembrasse in apparenza.
Le piaceva più di tutto l'effetto di shock ammaliante che causava in chi la osservava.
 
Non esitò ulteriormente nel piazzargli contro la sua Emolga a scopo difensivo.
«Usa Scarica, veloce!»
 
«C-Cosa?! Ferma, ti prego...»
Ma costui non fece in tempo ne' a protestare ne' a fuggire che si ritrovò investito dalla scarica elettrica, che gli impedì ogni movimento, lasciandolo cadere seduto in quella strada lercia e deserta, in mezzo al nulla, come se si fosse trattato di un criminale.
 
Erano passato pochissimi minuti dacché Camelia aveva recuperato la sua disinvoltura e la sua nonchalance perdute. Fra le accuse, la punizione, il ritrovarsi nel ghetto da dove proveniva, un aggressore l'avrebbe pagata cara per averla pensata una preda facile.
 
«Senti, - cominciò a parlargli, piena di astio - non so chi tu sia, ma lo ripeto ai miei fan dopo ogni apparizione in pubblico: mi fa piacere incontrare e parlare con chi mi supporta, ma il tuo gesto mi sa tanto di stalker. E violenza su una donna.
Quindi, se non vuoi che ti denunci...»
 
Quello che credeva un maniaco la interruppe, muovendo le mani cercando di spiegare il malinteso.
«N-Non avevo alcuna intenzione di farti del male o di causarti qualche fastidio, mi dispiace, - si inchinò frettolosamente - ma personalmente non ti conosco neppure...
P-Però devi essere una persona famosa se hai addirittura dei fan...
A proposito, non hai caldo in un posto del genere? Hai camminato un bel po', non sei stanca?»
 
«Credo che a Nardo e alla mia leader pedofila non possa interessare di meno se io stia morendo disidratata o se io svenga per la fatica, tanto la prima cosa di cui si preoccuperebbero sarebbe di trovare un'altra ragazza per finire di costruire una sauna in un garage...»
Camelia si concesse di rispondergli con una punta di sarcasmo.
 
Ma subito si sfilò gli occhiali da sole con un gesto rapido appena si accorse che grandissima blasfemia avesse appena detto chi le stava di fronte.
 
«Aspetta... Davvero non sai chi sono io? - Costui scosse la testa e lei continuò - Mai sentito parlare Taylor Camelia, ta "Nuova Miss Unima", quella che l'anno scorso era bionda, l'idol dal seno perfetto, l'orgoglio della regione?!»
La ragazza fletté le gambe fino ad abbassarsi al livello di questo strambo individuo, sedendosi sui talloni in preda allo sconforto. Che situazione sgradevole.
 
«Ma seriamente, dove vivi per non sapere queste cose? In una grotta nel Monte Vite?»
Gli domandò delusa.
Aveva in qualche modo compreso che una ragazzina strana ed infantile come Iris potesse seriamente non averla mai sentita nominare, ma...
 
Quello che le stava di fronte, impacciatamente seduto, era un uomo adulto di circa trent'anni.
E la mora conosceva bene i desideri degli uomini adulti: bellezza e giovinezza.
Lei era da qualche tempo diventata emblema di entrambe, la sua bravura nelle lotte e la sua sagacia nel rispondere a tono erano qualità trasparenti in confronto ai suoi profondi occhi azzurri e il suo corpo snello e al contempo formoso, combinazione più unica che rara.
 
«S-Scusa, è un po' che non mi aggiorno sulle mode che seguite voi giovani... - si scusò il giovane uomo, grattandosi la nuca in evidente imbarazzo - a-ad ogni modo, forse dovrei presentarmi, prima di rimanere fulminato di nuovo o rischiare una denuncia.
Immagina se mia moglie Marina lo venisse a scoprire, il finire fulminato sarebbe mille volte la prospettiva migliore.»
La fanciulla trattenne una risata, pur cercando di ritornare stoica ed insolente in quel preciso attimo.
 
«Il mio nome è Ottaviano e mi era stato chiesto dall'ex-Campione Nardo in persona di sorvegliarti.
 
Sai, il mio genero è un tale dispotico, non hai idea di cosa abbia dovuto passare da quando io e sua figlia ci siamo sposati; è stato come passare dalla padella alla brace. Tale padre, tale figlia.
Amichevole in apparenza, ma basta conoscerlo più a fondo per passare alla gogna per un minimo disaccordo...»
 
Camelia rimase a fissare colui che aveva appena scoperto essere il genero di Nardo a bocca chiusa: non era fatto male d'aspetto, lo avrebbe definito un bell'uomo senza problemi.
 
Capelli corvini leggermente spettinati, mentre i lineamenti del viso erano dolci e non troppo marcati, i tratti erano fortemente orientali seppur la carnagione di costui fosse rosea.
Il corpo le ricordava gli atleti greci, media statura con i muscoli proporzionati agli arti: non sembrava certo un fotomodello pompato di steroidi, eppure le ispirava una certa idea di protettore, di difensore, in un certo senso di padre, da come Ottaviano aveva menzionato con affettuosa ironia la sua famiglia in qualsiasi frase.
 
Tutta quell'apparenza però aveva insegnato alla ragazza durante il corso degli anni una lezione durissima che non si sarebbe più scordata, data l'asprezza delle pene con cui la vita l'aveva punita più volte per la sua dimenticanza ed ingenuità.
«Lasciami in pace.» Gli chiese la mora, concisa come non mai, diretta altrove.
 
«E se ti succedesse qualcosa? - Ottaviano la seguì nel suo girare i tacchi, afferrandole un braccio con una stretta salda da cui la modella fallì dal liberarsi - Lo sai che in questo postaccio rischi uno stupro o di peggio? Vieni via con me, subito.»
 
«Ti ho detto di lasciarmi stare, non ho bisogno di te.» Gli rispose convinta.
 
«Dimmi cosa vuoi fare qui tutta da sola, nella parte più squallida della regione!»
 
«Te ne importa? - in lei ora si era destato un forte desiderio di provocazione, una specie di violenza verbale e psicologica che non vedeva l'ora di scaricare su qualcun altro - Chi sei per dirmi cosa fare, eh, mio padre?!»
 
Ottaviano riuscì, dopo diversi strattoni della giovane che si sentiva sua vittima, a trattenere quell'irascibile ragazza fra le sue braccia immobilizzandone il busto con estrema facilità, come un gladiatore non si lascia intimorire neppure da una leonessa inferocita.
 
«Se mi fai qualcosa, anche solo se mi graffi, giuro che ordino ai miei Pokémon di farti l'elettroshock!» Gli gridò, mai decisa a demordere o ammorbidire i suoi pregiudizi.
 
«Ti sei proprio fissata con il fatto che io sia qui per farti del male, non è vero?»
Ottaviano tuttavia le parlò pacificamente, allentando la presa con cui la tratteneva: era sicuro che non sarebbe comunque scappata, quella sua belva mansueta.
 
Ansimando in un misto fra rabbia e risentimento, Camelia gli sedette accanto, sul ciglio del marciapiede dismesso, ma decise di non rivolgergli la parola. Bello d'aspetto o no, simpatico nel fare battute o no, padre di famiglia o no, quello rimaneva a suo parere, un maniaco sessuale.
 
Intanto l'uomo scrutava con ingiustificabile interesse il panorama offerto da quel vicolo trasandato spostando continuamente lo sguardo da un punto all'altro, quasi fosse contento di quella situazione.
«Allora. Posso dire di essere rimasto letteralmente bloccato qui con te...»
 
La fanciulla si morse il labbro e rimase in silenzio.
I pomeriggi come quello sembravano non finire mai.
Infinità di tempo irrimediabilmente piene di ricordi orribili che le impedivano di vivere normalmente.
 
Intere giornate passate vicino a qualcuno che non le piaceva, che odiava; qualcuno che si divertiva a giocare con il suo cuore ribaltando sempre la situazione, rendendosi tutto d'un tratto amabile e poi detestabile, accarezzandola e violentandola a suo piacimento, come se lei fosse stata una bambola di stracci con un sorriso perennemente cucito in faccia e due occhi ciechi fatti di bottoni: ciò che vedeva e come si sentiva erano cose senza significato.
 
Alla fine, non era riuscita a fuggire da un bel niente. Tutto ciò che odiava era ancora lì.
 
«Hai detto che ti chiami "Camelia", giusto? - Ottaviano esordì, raggiante - Lasciatelo dire, il tuo è davvero un bellissimo nome, è il nome del fiore dell'amore.
Una camelia bianca, se regalata alla persona amata, significa "sei adorabile, mi piaci come sei".
Una camelia gialla, invece, significa "ti desidero con tutto il cuore".
E una camelia rossa significa "sono tua, per sempre".
 
È un nome veramente bellissimo, rimpiango il non averlo dato a mia figlia.
Chi ti ha dato questo nome stupendo deve amarti davvero tanto.»
 
Dal tono così appassionato e sognante con cui aveva parlato, sembrava che Ottaviano stesse ripetendo quel discorso più per se stesso che alla sua disinteressata ed indifferente interlocutrice.
Tuttavia l'uomo non riuscì a spiegarsi il forte presagio di lacrime che avvertiva sul volto che vedeva estremamente audace e sicuro di sé dipinto su quella singolare ragazza.
 
«Amarmi così tanto - Camelia emise una straziante risata nasale monofona - da abbandonarmi a me stessa per andare a prostitute? Non farmi ridere, per favore.»
 
La ragazza si stupì di non essere ancora scoppiata a piangere.
Da quando aveva cominciato a lavorare come modella era diventata un'abitudine per lei avere crisi isteriche sempre più violente e repentine, le dicevano che erano cose del tutto normali.
 
Andava bene piangere fino a seccarsi gli occhi, a patto che davanti alle fotocamere il giorno dopo si fosse fatta trovare attraente e sorridente, così i suoi fan le avrebbero ribadito come fosse bella quel giorno e poi, calata nuovamente la notte, constatasse ancora che si trattava di una bugia?
 
Ecco perché il rapporto che intercorreva fra lei ed i suoi fan lo considerava travagliato.
Non poteva dire di disprezzare dei folli che facevano ruotare intorno a lei la loro intera esistenza, ma esorcizzare tutta la pressione e l'ansia che le mettevano addosso le pareva difficilissimo.
Ancora non aveva dimenticato quella fotografia e quel sorriso naturalmente falso.
 
C'era chi la conosceva e chi no, chi la amava e chi no.
Ma se doveva nominare qualcuno che non l'aveva mai conosciuta e neppure mai amata, avrebbe pronunciato a denti stretti il nome del suo crudele ex-fidanzato.
 
Camelia aveva giurato a sé stessa che appena il caso avrebbe fatto rincontrare lei e Corrado, lei si sarebbe fatta vedere felice, spensierata e dimentica di tutti i torti subiti.
Che non le si avvicinasse ne' osasse parlarle, perché lei non aveva più bisogno di lui.
Avrebbe trovato qualcuno di migliore, non che ci volesse molto a trovare di meglio di un traditore.
 
Le sue compagne? Aveva consolidato da sola la certezza che ormai la odiassero.
Non le importava granché perdere l'amicizia di persone prive della capacità di difendere perfino la loro dignità come Iris o Catlina, meritevoli solo di estrema derisione (e anche soprannomi che evidenzino i le loro umilianti mancanze).
 
Aveva promesso di esserne amica, ma stava cominciando a trovarlo piuttosto stancante.
L'unica cosa che ebbe da ridire su Camilla fu invece quanto fosse stata divertente (e disgustoso, pensandoci bene) vedere la faccia che la bionda aveva fatto quando tranquillamente le aveva dato della verginella pedofila.
 
A quel punto Camelia fu certa solo di una cosa: lei era una ragazza decisamente sola.
Aveva sempre considerato l'essere senza una famiglia decente, degli amici veri o una relazione stabile come conseguenze del suo ego smisurato, come dettagli a cui poteva fare benissimo a meno.
 
Ma ultimamente era tutto come nuovo per lei. Quell'estate la stava cambiando.
Era cambiato tutto a partire, andando a ritroso, dal suo orientamento sessuale.
 
«Sei venuta qui, in questa periferia abbandonata e squallida, tutta da sola perché volevi ubriacarti o farti di cocaina o prendere pasticche?»
Dopo un breve silenzio, Ottaviano le pose tale quesito, conciso e dritto al punto.
Nella sua voce un denso alone di convinzione.
 
«Assolutamente no! Non farei mai cose del genere!»
Camelia non gli lasciò neppure il tempo di fare altre supposizioni meno macabre cotanto prontamente gli aveva risposto. Almeno su questo era stata onesta.
 
«Sono qui perché volevo riflettere, ma non sembro trarre nessuna conclusione da sola...»
Il semplice rispondere sinceramente riusciva ad infondere nella mora una grande fiducia nei suoi valori morali che le sembravano stati sciupati dall'incomprensione.
 
«Te la senti di parlarne? Sembra affliggerti pesantemente, se non riesci più ad essere te stessa.»
Le chiese Ottaviano, posandole una delle sue forte mani sulla spalla nuda.
 
«Non penso tu mi voglia ascoltare... So che noi ragazze siamo più sopportabili finché stiamo zitte.»
Decise di metterla sul ridere. Ma si rese conto dopo poco che quel "noi ragazze" era una specie di plurale maiestatis per il suo nome e cognome.
 
«Voi ragazze vi sentite non mai sole, a trattenere tutti i vostri dolori e le vostre emozioni per rendervi, come dici tu, sopportabili?»
L'uomo le parlò dolcemente, come se lei fosse stata sua figlia.
 
La fanciulla dagli occhi azzurri annuì, senza cercare di sviare o di celare ciò che era veramente.
Lei era sola, non molto diversa dalle bambine orfane che vivono in quella periferia, quelle che guardano con occhietti astiosi le giovane coppie benestanti e le famiglie felici con un'insaziabile sete di amore e compassione. Tuttavia esibì un mezzo sorriso totalmente spontaneo.
 
«Certo. Io non ho nessuno, se non me stessa e il mio sarcasmo. Lo so bene.
È questa la fossa che mi sono scavata da sola.»
Fece una pausa, poi riprese il suo discorso.
 
«Mi aveva detto che mi amava e non era vero, mi aveva detto che gli sarei mancata e non era vero, che sarebbe tornato, che gli piacevo così come sono, che ero l'unica per lui...
Sono tutte bugie.
Io ci ho creduto invece, sono stata stupida. Non capiterà più che mi faccia fregare da chi amo.»
 
Camelia non sapeva più a chi si stessero riferendo le sue frasi; a lei, al suo ex-fidanzato, ai suoi ammiratori, a quella persona che tanto odiava, non sapeva spiegarselo.
Sapeva però che in quella catena di sicurezza che si era forgiata sopra le sue ferite c'era un anello debole che ancora si conficcava nelle sue viscere più sensibili e la faceva vacillare.
 
La giovane e bellissima fanciulla si alzò in piedi, elevandosi sui suoi tacchi alti, squadrando l'uomo dall'alto al basso, alzando il tono della voce.
 
«Ma in fondo sono stanca di piangere e poi fingere e fuggire.
Sono stanca di tutte le storie d'amore cliché.
Voglio qualcuno che sappia amarmi sinceramente...
 
...È possibile che l'unica a riuscirci con me sia stata una ragazza?!»
 
Ad entrambe le due persone così estranee sembrò che in quella stretta calle dove neppure il vento poteva muovere una foglia e gli unici rumori che si sentivano erano suoni che provenivano da lontano, fosse calato ancor più silenzio, come se il cosmo si fosse indispettito al sentir le parole della ragazza mora pronunciate ad alta voce e non più imprigionate nel suo subconscio.
 
«Quindi ti sei innamorata?»
Le domandò Ottaviano, ancora seduto ad ammirarle le gambe snelle.
 
In quel momento, Camelia si sentì sollevata da un peso, ed annuì compiaciuta dell'intuizione corretta di costui. Era stata chiara e concisa nel suo discorso, aveva tolto una delle spine più dolorose con una sola frase.
 
«Sì. E la ragazza che mi piace è anche lei interessata alle femmine.»
Decise di enfatizzare come fosse stata una del suo stesso sesso a conquistare il suo cuore e non un ragazzaccio dal fisico pompato tutto fumo e niente sostanza.
 
«Sei molto fortunata, Camelia, - le fece presente l'uomo - da come ne hai parlato deve trattarsi di una ragazza fantastica.»
 
«Eccome se lo è. È sempre così dolce e gentile con tutti, non è in grado di detestare nessuno.
Anche se spesso la offendo e la prendo in giro, lei è sempre lì con me quando ne ho bisogno, ascolta tutto quello che le dico e non è un'ipocrita o una bugiarda... - lei sospirò - Almeno spero.
Ieri sera ci siamo baciate per la prima volta, ma non ho idea se anche lei stesse facendo sul serio.»
 
«Cosa intendi?» Ottaviano si alzò in piedi e le si avvicinò con cautela, senza neanche sfiorarla.
 
Per ora nessuno dei suoi figli aveva avuto quegli stessi intricati problemi amorosi, gli parve leggermente inusuale che un'adolescente tenesse discorsi su temi delicati ed imbarazzanti come la propria sessualità così apertamente, quella ragazza non doveva mai aver sperimentato in che cosa consistesse il clima di una vera famiglia, il costante nascondere le cose, molto probabilmente.
 
Eppure interpretò ciò come un'evoluzione, una visione più moderna ed elastica dell'amore.
C'era davvero bisogno di nascondere una cosa così bella e meravigliosa come l'amore in una sviluppata società contemporanea?
 
«Ho paura. - con un lieve gesto della mano, la ragazza richiamò a sé la sua piccola Emolga, che durante quella noiosa conversazione si era distratta andando ad osservare quei vicoli strani ed inquietanti più da vicino, come un cucciolo che vede com'è fatto il mondo vero per la prima volta - Ho paura di essere rifiutata da lei.
 
Fin da quando ero bambina ho sempre avuto il terrore morboso che le persone mi avrebbero abbandonata se non avessi soddisfatto le loro aspettative.
E se peggio, facesse solo finta di ricambiare i miei sentimenti, questo non riuscirei a perdonarglielo. Mi fa male, lo ammetto, ma non mi va che anche questa storia finisca male per me...»
 
Camelia non se ne era certo dimenticata fino a quel momento.
 
Aveva pensato tutto il tempo alla rossa, le sembrava quasi di vederla sorriderle in mezzo alle lacrime, voleva immaginarsela mentre le sussurrava che andava tutto bene, che c'era lei e non doveva più aver paura di nulla, le veniva voglia di scacciarla via in modo che smettesse di perseguitarla e poi richiamarla indietro come aveva fatto quando aveva finto di esserle ostile pur di mantenerla accanto a sé nella competizione.
 
Rimpianse di non averle parlato quella mattina, ma non le era stata lasciata scelta.
 
«Saresti disposta a fare qualsiasi cosa per lei, giusto?» Le domandò ancora l'uomo.
 
«... Sì. Più o meno. - lei si interruppe perplessa, per poi proseguire spedita, una volta che la motivazione perfetta le era venuta in mente - Questa mattina mi sono presa la colpa al posto suo per una storia che non sto a raccontarti, ed è per questo che sono qui, ora.
Quella ragazza mi fa impazzire, non sono più me stessa quando è lì con me.»
 
Non era un esempio magistrale di altruismo, ma alla fiera modella non venne in mente nulla di meglio per dimostrare di non essere un'egoista completa anche se sapeva bene di esserlo.
L'uomo annuì, sorridendole caldamente.
 
«Di sicuro non sei il genere di ragazza che vuole una storia d'amore solo per passare il tempo.»
 
«Non voglio un amore mediocre; voglio l'amore più brillante di sempre.»
 
Questa semplice affermazione fece sorridere Camelia con una naturalezza che aveva creduto di aver perso per sempre, ma che nessuna fotocamera avrebbe mai potuto catturare.
Ottaviano le prese la mano dalle esili dita coperte da una raffinatissima manicure, e la guardò negli occhi, contornati da un make-up a dir poco professionale e dal loro colore della rugiada.
 
«Credo - cominciò lui - che tu debba forse iniziare a separare la tua carriera di idol e Allenatrice dalla tua vita privata. Scommetto che la tua bellezza non appassirebbe se per due minuti non ti trovi sotto un riflettore o davanti ad una videocamera. Sei umana anche tu, sai?
 
Capisco ti posa spaventare il giudizio altrui, ma ci tieni davvero all'amore di qualcuno incapace di vedere la tua bellezza interiore? Penso che sia questo che ti faccia provare senso di solitudine.
Invece di "correre" come un allenatore che cerca di catturare un Pokémon selvatico fuori dalla sua portata, perché non aspetti semplicemente che colei che ti ha rubato il cuore non venga da te spontaneamente?
 
Hai molto da offrire come ragazza, cose che vanno ben oltre la tua bellezza ed... il tuo seno.
Parlando da padre di due figli, ciò che hai passato di brutto deve fortificarti, non traumatizzarti.
È la tua chance per catturare l'attenzione di questa persona.»
 
Dopo quel profondo sermone che la mora non poté permettersi di ignorare e da cui aveva ritagliato molte risposte ai suoi dilemmi precedenti che ora le parevano più insulsi che mai, la Capopalestra di Sciroccopoli scoppiò in una risata leggera, coprendosi le labbra con la mano.
 
«In parole povere, stai per caso dicendo che dovrei dichiararmi io per prima?»
Ancora Ottaviano le fece presente il suo consenso scuotendo il capo, come un generale da con assoluta austerità il segnale alle sue truppe per cominciare la battaglia.
 
Camelia si concesse cinque minuti per riflettere a tu per tu con i suoi sentimenti, senza cercare di trovare scuse per giustificare la fobia che aveva serbato in primo luogo.
Notò che ora lei ed Ottaviano stavano camminando a ritroso, ripercorrendo la strada che prima aveva intrapreso in stato di incoscienza, questa volta conoscendo bene ogni passo.
 
Aveva adorato come la notte precedente Anemone le avesse accarezzato e massaggiato i seni con le mani ed avesse accolto il suo bacio con così tanta passione.
Ma più di ciò le era rimasto impresso come un segno sul cuore come la tenera ragazza dai capelli rosso fragola le avesse dichiarato di amarla veramente, come aveva sempre sognato.
 
Ottaviano aveva senza dubbio ragione sulla pericolosità dell'amore dittatoriale con cui Camelia avrebbe voluto provare a soggiogarla, come mettendole una catena al collo per farle chinare la testa ad ogni movimento o parola sbagliata, mossa da tutta quella paura di essere imbrogliata ed abbandonata.
 
Eppure lei ed Anemone, senza contare gli inutili fronzoli come i ruoli sociali, avevano la stessa età, la stessa passione, la stessa altezza e conformazione fisica e perfino la stessa taglia di reggiseno: era un disegno delle stelle che fra di loro intercorresse un rapporto di assoluta parità.
 
E di conseguenza, se la mora avesse rinunciato a costruire quella catena in cui ogni anello era rappresentato da una bugia e da una debolezza e che una volta spezzatosi avrebbe permesso alla sua sfortunata amante di scappare via lontano da lei, una porta si sarebbe aperta, e da lì avrebbe potuto scorgere un assaggio di futuro per la sua relazione ancora agli embrioni.
 
Anemone non era una stella del cinema o della televisione, non aveva senso mentirle o temere di udire solamente menzogne uscire dalle sue labbra; nessuno doveva mettere un voto per giudicare il loro affetto reciproco.
 
Prima di sentirsi dire cosa fosse sbagliato, Camelia avrebbe voluto sentire che cosa fosse l'amore.
Nessuno glielo avrebbe potuto spiegare meglio dell'intuizione che aveva avuto dalle parole di Ottaviano, che aveva teorizzato un concetto talmente complicato da aver tenuto impegnati filosofi e sociologi per secoli e secoli.
 
Finalmente dai fatiscenti edifici in cartongesso sporcati dai murales, uno scorcio del mondo civilizzato si riusciva ad intravedere, mentre il sole pomeridiano continuava ad abbrustolire il cemento della parte più esterna della città del centro Unima.
 
«Mi hai convinta. - prima di proseguire il discorso, Camelia si assicurò di lasciar andare la mano de giovane uomo, che per qualche motivo aveva tenuto stretta alla sua per tutto il tragitto come una figlia intimorita all'idea di perdersi in un mondo grande e tremendo e sopratutto di separarsi dal suo papà - Parlerò con la ragazza che mi piace stasera. Le cercherò di spiegare cosa provo per lei.
 
Quindi… avrei bisogno di un passaggio fino a Ponentopoli, non è che potresti accompagnarmi o chiamarmi un taxi per favore...?
Ah, e voglio che quelle tre sfigate delle mie compagne vengano con me, ho bisogno di un po' di pubblico...»
La modella cercò di disegnarsi sul viso l'espressione più carina ed innocente che possedeva, per stuzzicare la fantasia di costui che era visto come puro e casto per paura della sua stessa moglie.
 
Ottaviano, dopo aver gentilmente provato a sistemare la questione del passaggio cercando di non cedere alle lusinghe di una ragazza più giovane di lui di almeno quindici anni per mantenere la sua virilità intatta, fallì miseramente e fece cenno alla giovane di seguirlo.
 
Tutte quelle volte in cui aveva ripetuto a Camelia di essere bella non lo aveva fatto per adularla o confortarla per pietà: trovava quell'adolescente molto affascinante, dai capelli lisci nero fulgido alla caratteristica frangetta leggermente sudata, il volto che nonostante la pluralità di sentimenti che la giovane gli aveva mostrato era perennemente segnato da uno sguardo orgoglioso e provocante e i vestiti alla moda che indossava risultavano quasi trasparenti nel nasconderle le curve del corpo.
 
«Posso chiedere a mia moglie di trasferire uno dei Pokémon che conosca la mossa Volo, così dovresti essere a Ponentopoli prima che faccia buio...»
Sebbene Camelia indossasse quel paia di costosi occhiali scurissimi, l'uomo si accorse che aveva lo sguardo perso, con probabilità stava pensando ad altro.
 
«Ottaviano.» Dopo un po' la ragazza mora attirò con una dolcezza suadente la sua attenzione.
L'uomo si trovò catturato dal leggero sorriso che esibì, non poté non trovarlo irresistibile.
 
«Sei proprio un ottimo padre. Sono sicura che tua figlia non avrà mai i miei stessi problemi.»
Le rivolse un ultimo saluto con la mano in modo piuttosto distaccato, come un generale che durante una celebrazione per la vittoria premia un suo soldato per l'audacia ed arguzia dimostrata sul campo di battaglia.
 
Camelia intanto ripensò a se stessa, e facendo ciò le venne in mente la sua Anemone con un riflesso spontaneo. Non vedeva l'ora di vederla, di confessarle cosa provava per lei.
 
Se la sera prima le aveva offerto una camelia bianca ripetendole quanto fosse bella nella sua particolarità, ora aveva bisogno che lei sapesse quanto la desiderasse con il cuore, ricordandosi che il giallo era anche il colore del suo kimono.
 
La camelia rossa le sarebbe servita solo in un futuro lontano.
 
Se la rossa avesse potuto conoscere tutti i tormenti e le realizzazioni che la sua compagna aveva vissuto parallelamente a lei quel giorno, di sicuro si sarebbe riuscita a spiegare quel sentimento che stava risiedendo in lei da quando aveva lasciato la dimora del Campione per dirigersi nella sua città per punizione.
 
Di certo non era ne' tristezza ne' rimorso. Anemone conosceva bene entrambe quelle emozioni, aveva appreso gli effetti che portano all'animo, e lei non li percepiva in quel momento: anche se le avessero dato la possibilità di tornare indietro nel tempo non avrebbe cambiato le sue azioni e non sentiva neppure il bisogno impellente di scusarsi per esse.
 
L'unico effetto che riscontrava su di sé era una specie di forte disattenzione, cosa che un'aspirante aviatrice non poteva mai permettersi: la ragazza si sforzò di concentrarsi sul suo lavoro a testa bassa. Dopotutto aveva scelto lei di auto-punirsi in quel modo.
 
Eppure la giovane dagli occhi azzurri non riusciva a togliersi dalla testa quelle odiose parole, quegli insulti indiretti verso la sua dignità che Camilla le aveva rivolto con quel tono eccessivamente compassionevole, abbastanza da darle quasi il voltastomaco.
A partire da quel "mia cara", a finire con il "sii sincera, per favore".
 
Sapeva benissimo dì non essere la prediletta della leader (se le avessero chiesto di identificane una nel loro gruppo avrebbe citato Iris come prima ed ultima della lista), e come se non bastasse le era stata propinata una versione dei fatti totalmente scostante dalle sue accuse, secondo cui lei aveva agito per puro buonismo e non per responsabilità.
 
Anemone si ricordò che quella non era la prima volta in cui veniva trattata dagli altri con estremo compatimento delle sue intenzioni, come se la sua persona non meritasse di trarre alcun vantaggio da nulla, come se lei dovesse sempre usare la propria schiena per proteggere il prossimo dai colpi di una spada.
 
E ultimamente quella situazione l'aveva seriamente stancata, nonché umiliata pesantemente.
Non era quello l'ideale di donna a cui aspirava, non voleva trasformarsi nella sottomessa figura femminile della storia antica e nella donzella in pericolo dei miti medievali.
 
Anemone aveva sempre nel cuore l'ideale di vivere come una ragazza moderna, fautrice del suo destino.
 
Era questa la possibilità che il destino le aveva messo davanti una volta entrata nella competizione, ma nel frattempo il termine "moderno" si era snaturato da solo, perdendo la sua romantica connotazione e trasformandosi in qualcosa di più attuale e concreto, una specie di "contemporaneo" con i piedi per terra, che non spiega ali immaginarie verso orizzonti irraggiungibili.
 
E ciò aveva lasciato la rossa totalmente spiazzata, visto che le ragazze contemporanee non riparino i motori degli aerei sporcandosi di olio e fumo come faceva lei pure in quel momento e le ragazze contemporanee non devono lavorare perché spinte dall'indigenza e dalle pressioni della loro famiglia e sopratutto non si fanno sgridare a quasi diciott'anni per aver fatto ritardo la sera o per non aver riordinato la propria stanza.
 
Tuttavia Anemone non odiava il suo lavoro e non lo considerava umiliante, visto che alla fine la paga le permetteva sempre e comunque di comprare qualche manga a fine mese o un vestito nuovo ogni tanto. Ma rabbrividiva al pensiero di dover analizzare la sua situazione con gli occhi di una sua coetanea abituata ad avere un guardaroba alla moda, a truccarsi ogni giorno ed avere per la testa un unico e cardinale pensiero, ossia i ragazzi.
 
Mentre questi pensieri annebbiavano la mente della giovane, questa non si accorse di aver allentato troppo le valvole che azionavano il nastro nei rotori del cargo a cui stava lavorando da qualche decina di minuti e che di conseguenza il motore aveva azionato le lamine che innestavano la combustione interna per far attivare i motori, tutto questo senza volerlo.
 
Anemone si spostò immediatamente non appena vide che il rotore stava per tranciarle la mano destra appoggiata pigramente sul nastro, usando le lamine circolari dei freni a disco come seghe circolari.
La ragazza si osservò il polso, scettica, staccandosi un attimo dalle sue riparazioni.
 
"Anemone, hai perso la mano destra? Guarda che non te ne comprerò una nuova..."
Imitò nella sua testa la voce di suo nonno.
 
Decise definitivamente di prendersi una pausa, dato che a lavorare a vuoto e male ci avrebbero rimesso solo lei ed il suo salario.
Forse le sembrò chiaro come il sole che sentimento stesse provando.
 
Si domandò ancora che senso avesse che le venissero affidate le responsabilità di una ragazza di diciassette anni se poi era ancora necessario che la trattassero come una bambina di sette.
Era veramente necessario essere rimproverata per qualsiasi cosa alla sua età?
 
La giovane pilota aveva decretato di aver vissuto abbastanza per fare le sue scelte, e molte di quelle scelte sarebbero andate ad influenzare la sua vita futura in maniera indelebile.
Ormai non poteva più scegliere che cosa fare da grande, come da piccola sognava fare, ma le rimanevano un sacco di altre decisioni da fare in campo privato, quelle erano molto più interessanti di quelle da fare sul piano sociale.
 
Non le andava di copiare quelle degli altri, delle altre sue coetanee. Lei era lei.
Decide di non negare l'evidenza a sé stessa, negare l'ovvio alla persona che per forza di cose doveva conoscerla meglio di chiunque altro: lei era diversa, differente.
 
E tutta quella libertà che la regione ed il mondo sembrava garantire le sembrò tutt'un tratto fasulla, un'illusione vera e propria: se lei aveva la libertà di essere se stessa, gli altri, reso ormai sinonimo di "nemici", avevano altrettanta libertà e approvazione nel disprezzarla e nel ridicolizzarla.
 
Allora, alzando gli occhi al cielo grigio di quel giorno coperto di nuvole spesse come gomitoli di ovatta, sentendo il cuore stringersi dentro la scatola toracica, ad Anemone sorse un forte dubbio, che ingigantendosi sempre più nella sua mente si trasformò in paura concreta.
 
Inconsciamente dilatò le pupille e si appoggiò al muro, scivolando con la schiena fino a sedersi a terra, come le gambe non reggessero più il peso del suo corpo.
 
Anemone sentì un baratro aprirsi sotto i suoi piedi, ma questa volta era diverso.
Avrebbe preferito qualsiasi cosa all'avverarsi del presagio che aveva appena avuto.
 
L'uccellino che ormai era associato a lei ora stava cadendo, con le ali legate, all'interno di un'oscura e profonda voragine, scagliato giù dai suoi simili come un arcangelo ribelle.
 
Molte altre volte alla fanciulla dai capelli rossi era sembrato di star precipitando nella tristezza e nell'incomprensione, ma tutte le volte sapeva che il burrone che apparentemente sembrava infinito in realtà aveva un fondo, una fine, e anche se lo avesse dovuto raggiungere con un impatto tale da fratturarle tutte le ossa, il suo uccellino giungeva al culmine, poteva dire "non può andare peggio di così", e poi ricominciare a stento a volare verso la luce.
 
Ma come già aveva percepito, la fanciulla concepì che quel baratro non sarebbe terminato presto, forse non sarebbe terminato mai: il suo piccolo uccellino allora sarebbe precipitato in eterno, senza trovare mai attimo di pace per osservare a che punto è arrivato, cosa ne è stato della sua vita mentre esso veniva inghiottito dalle fauci delle tenebre e della disperazione.
 
E tutto questo sarebbe stato perché quell'uccellino era diverso.
Il suo piumaggio era diverso. La sua voce era diversa. I suoi occhi erano diversi.
E aveva osato sfidare Dio, e le leggi della natura.
 
«Sono sicura che Camelia non ha i miei problemi...
...Ma di certo saprebbe come aiutarmi... Vorrei che fosse qui più di ogni altra cosa.»
 
Tutt'un tratto un suono si disperse nell'aria.
Alla tormentata ragazza parve familiare, non era però associabile ai forti rumori che fanno gli aeroplani, anche se suonava comunque come un qualcosa di elettronico.
 
Le sembrò anche che la grigia giornata si fosse illuminata per un nano-secondo, un biancore improvviso come un fulmine che squarcia il cielo notturno.
 
Andando a scavare nella sua esperienza, Anemone non poté evitare di associare quel suono ad un ricordo, visto che come ci è noto, la mente di quella ragazza lavorava per associazione di concetti e idee a tal punto da aver marcato la netta distinzione dei suoi pensieri fra dolci memorie ed orribili traumi in maniera irreversibile.
 
Da qualche tempo infatti, nella regione di Unima era esplosa la moda degli autoscatti.
Era una cosa sciocca, vana e andando a mettere le dita nella piaga, piuttosto narcisista, lo sapeva.
Ma per la povera sfortunata fanciulla, un minimo briciolo di concesso narcisismo ed egocentrismo velato rappresentava un vero e proprio lusso.
 
E quello di premere un pulsante di fronte ad uno schermo di dieci pollici o poco più sarebbe stato l'ennesimo lusso a cui avrebbe dovuto rinunciare, avendo lei ridotto il suo precedente telefonino ad un cadavere elettronico privato dell'anima funzionale, dopo essere stato scaraventato a terra senza neppure una vera ragione.
 
Ma nulla di tutto ciò accadde davvero; per l'ennesima volta la rossa ebbe prova che in quel microcosmo in cui era entrata da qualche mese, cose come l'indifferenza non esistevano.
 
L'ultima cosa che si sarebbe mai aspettata era successa quando la sua cara Iris (e dunque non di Camilla, vedendola sotto quest'ottica) le aveva proposto di sua volontà una foto insieme, per poi finire a farne e rifarne altre mille perché ogni singolo scatto aveva qualcosa che non andava.
Era un ricordo felice, che Anemone riportò a galla con una certa pace nell'animo.
 
Si voltò subito verso l'alto, ritrovandosi d'improvviso abbagliata e stordita da una luce artificiale che doveva essere un flash, prima di udire ancora, ancora quel suono: si trattava in conclusione di una fotocamera di cellulare. Che doveva aver fotografato lei.
 
La ragazza aveva sviluppato negli anni certi riflessi che le venivano quasi automatici, occhio vigile e sensibile al movimento anche di oggetti distanti, e un preciso ordine mentale nell'agire e dotandosi di tutti questi elementi messi insieme, più la stizza con la quale si ritrovava a passare la giornata, la ragazza partì senza bisogno di ulteriori indugi all'inseguimento di quel guardone non identificato: sbottonando i primi bottoni della camicia estrasse la Pokéball del suo Pokémon più veloce, sebbene la differenza di essa fra i vari esemplari del suo team fosse minima.
 
Scoprì come fosse effettivamente utile usare il proprio seno per trasportare oggetti, nonostante il suo iniziale essere restia a questo ingegnoso trucchetto insegnatole da Camilla e Camelia.
 
In lontananza, con le orecchie tappate dal vento e dall'altitudine, ad Anemone parve di sentire colui che l'aveva fotografata gridare qualcosa sulle linee di "no, si è accorta" con l'aggiunta di una qualche imprecazione.
 
Volle aumentare la velocità per raggiungerlo e fermare la sua fuga, ansiosa come non mai di fargli fare un salto da dieci o venti metri d'altezza, spinta com'era dalla rabbia e dalla confusione.
 
Che bisogno c'era di fotografare una come lei? Cosa aveva lei, una comune ragazza ne' bella ne' eccezionale, ne' meritevole di essere ritratto in una foto?
Sebbene la femminilità non fosse certamente uno dei suoi principali attributi, Anemone non avrebbe mai creduto a tutte quelle malelingue e alle stupide voci di corridoio che l'avrebbero definita un maschiaccio.
 
Man mano che la distanza fra di lei e il suo personalissimo paparazzo si accorciava, riuscì a proiettare nella sua mente un'immagine chiara del perché il suo obiettivo fuggisse così velocemente costringendola a sudare freddo pur di stargli alle calcagna.
 
Costui volava su di un esemplare piuttosto particolare di Garchomp che si differenziava da quello della sua leader per il colore più luccicante e scuro delle squame, doveva trattarsi di un esemplare raro: la giovane dai capelli cremisi non si diede per vinta e appena gli fu alle costole ordinò al suo Swanna di usare la nuova mossa che gli aveva insegnato.
 
«Swanna, usa Geloraggio!»
E si sentì un po' sciocca ad essersi accorta di quanto fosse inutile una mossa come Pioggiadanza per un tipo Volante ed Acqua solo dopo aver sperimentato una lotta a dir poco catastrofica.
 
La mossa andò a segno, congelando la parte posteriore del corpo del possente Pokémon Drago.
Non ci volle molto perché accadesse ciò che doveva accadere: gli aerei cadono sempre o di muso o di coda, detto gergalmente.
 
Mentre quel losco individuo e fotografo dilettante fu obbligato ad arrendersi nella sua fuga e dunque a rallentare bruscamente, disperdendo nell'aere qualche insulto rivolto a nessuno in particolare, la rossa gli si parò davanti, pronta a non permettergli in nessun modo di passarla liscia.
 
«Chi cavolo sei? E perché mi stavi fotografando?! Cancella subito tutte le foto che mi hai fatto, tutte!»
Anemone si degnò per un attimo di osservare quel il suo dannato stalker: non trovò una piega che non combaciasse con le sue basse, bassissime aspettative, come previsto.
 
Un ragazzo che non doveva avere ne' dimostrava più dell'età di Iris, con quella folta cresta di capelli arancio-rosso sulla testa lo avrebbe definito senza dubbio uno "yankii".
Portava una collana di Pokéball al collo, provando di essere lui l'Allenatore di Garchomp.
Per com'era vestito non lo avrebbe di certo considerato uno di quei ragazzi ossessionati dalla moda, aveva perfino meno stile di lei.
 
«Che te ne frega di chi sono, - la rossa per fortuna non si era aspettata che costui compensasse la mancanza di bellezza fisica con la profondità mentale - e comunque, perché non dovrei fotografarti?
Sei la ragazza più sexy che abbia mai visto.»
 
All'ultima frase estrasse dalla tasca un telefonino dallo schermo enorme dove figurava niente meno che lei in una posa involontaria, piegata in avanti intenta ad operare dentro il cofano di un aereo mentre i pantaloni le aderivano perfettamente al sedere.
 
«Spero tu stia scherzando.»
La ragazza si trovò così sconvolta che non riuscì a premeditare alcuna risposta a tono.
 
«Beh, non credo che una persona normale si farebbe fare un'abbronzatura a olio completa o si colorerebbe i capelli di un colore così eccentrico e che poi si metta vestiti stretti solo perché le mettono in risalto le tette e il fondoschiena, dai... O sei un'idol o sei una modella...»
 
Ma il ragazzo dai capelli arancioni non fece in tempo a terminare la frase che la rossa gli assestò un sonoro ceffone sulla faccia facendo risuonare e riecheggiare il suono ovattato della sberla tesa, non giurò di essersi trattenuta la potenza che aveva riservata nelle sue forti mani.
 
«Che pervertito, non sai quanto mi fai schifo!»
E lo schiaffeggiò un'altra volta, più forte di prima, sempre sulla stessa guancia.
 
Nessuno, nessuno l'aveva mai presa in giro così spudoratamente da meritarsi lo sfogo più drastico della sua ira, avrebbe preferito farsi sputare in faccia ad un così metodico e paradossale insulto.
L'unica cosa che desiderava ancora nella sua euforica e perfetta vendetta era che gli uscisse pure il sangue dal naso a quel verme.
 
Eppure quella parte di lei che le legava sempre le mani in situazioni in cui l'istinto più grottesco cercava di prevalere la portò a ritornare sui suoi passi: dopo qualche secondo di riflessione Anemone comprese di non aver colto il significato latente di quelle parole.
Qualcuno l'aveva quasi paragonata ad una modella con schietta onestà, e lei lo aveva ripagato con la violenza più bruta e scortese possibile, la violenza fatta a persone innocenti, quella che lei tanto diceva di disprezzare più di ogni altra cosa.
 
Non aveva preso a schiaffi nessuna delle numerose persone che finora avevano scambiato il rosso dei suoi capelli per una volgare tinta, perché aveva sentito il bisogno di cominciare proprio in quel momento?
 
«Scusa, scusa, scusa, scusami, mi sono lasciata prendere dalla rabbia, non volevo farti del male, intendo, non credevo di farti così tanto male... Scusami, ti prego!»
Parlando tanto velocemente da far sembrare la frase uno scioglilingua, Anemone abbassò ripetutamente il capo con gli occhi stretti nelle palpebre, in preda al più totale imbarazzo.
 
«Diamine, picchi forte per essere una femmina... - il ragazzo dalla cresta da ribelle si massaggiò la guancia pulsante dal dolore - il mio era un complimento comunque, ma qualcuno qui sembra non saper capire il sarcasmo...»
 
«E qualcun altro il concetto di "violazione della privacy", - ma alla rossa importava poco o niente se un pervertito le avesse anche detto di essere bella - sta di fatto che se non cancelli tutte le fotografie che mi hai scattato il cellulare rotto sarà l'ultima cosa di cui dovrai preoccuparti.»
"Di cui anche tu dovresti preoccuparti", le rinfacciò la reminiscenza di aver già fatto schiantare un telefonino al suolo in preda alla rabbia.
 
Il ragazzo la guardò bieco, pronto a giocare il suo asso nella manica, per prendersi gioco di lei.
 
«E cosa pensi di dire al Campione Nardo una volta che lo avrai fatto, "Nardo ho ammazzato tuo nipote perché ha osato guardare con spiccato interesse le mie deliziose curve?"»
 
Dopo che costui ebbe imitato il tono di un saccente specialista in materia, la giovane dai capelli cremisi lo stette a guardare in silenzio, mordendosi il labbro sia per la frustrazione che l'impotenza di non poterlo atterrare con un bel manrovescio.
 
«Così sei il nipote di Nardo...» Asserì a denti stretti.
 
«Esatto, nipote a tutti gli effetti, il mio nome è Fedio e alleno Pokémon da quasi dieci anni.»
Cominciò a parlare il ragazzetto, come se l'incidente avvenuto in precedenza non fosse stato altro che un malinteso facilmente trascurabile.
 
«Ah. - Se ci teneva a rimanere fino alla fine della competizione, Anemone si disse che avrebbe fatto meglio a non torcergli neppure un capello, neppure per sbaglio - E... Perché sei qui?»
Continuò a domandargli con tono apatico, come se tutti gli insulti che aveva premeditato le si fossero seccati in gola.
 
Allora Fedio la guardò negli occhi tutto sommato sorridendo, sistemandosi in posizione più comoda sul dorso del suo Garchomp.
 
«Avevo bisogno di una pausa, per rinfrescarmi le idee dopo tutti i casini che stanno succedendo ad Unima, ultimamente. Ogni tanto vengo qui in mezzo al cielo per starmene in pace lontano da tutto quel macello che mi aspetta giù a terra, tipo la scuola, mia sorella, i miei...»
 
La rossa non gli poté dar torto: anche lei considerava spesso l'opzione di staccare la spina dai problemi quotidiani per purificare corpo e spirito nell'aria fresca e pulita, attorniata da soffici nuvole e accarezzata dalla brezza leggera.
 
«Non so se lo sai, e se non lo sai sei proprio fuori, ma negli ultimi mesi tutta Unima non fa che parlare del ritiro di mio nonno Nardo dalla carica di Campione e della genialata che ha pensato per farsi sostituire...»
 
A questo punto il ragazzo si fece serio.
 
«Ha scelto completamente a caso cinque ochette incapaci di lottare, totalmente senza cervello ma con tette e sedere da record, tra cui ne sceglierà una che diventi Campionessa...
Che stupidata, non credi?
Normalmente non avrei nulla contro delle ragazze con le loro doti in bella mostra, basta che pensi alla Campionessa di Sinnoh o alla modella che è diventata Capopalestra...
 
Ma, in qualità di legittimo nipote primogenito dell'ex-Campione, allenato per quasi dieci anni e che ha sfidato più volte la Lega, il titolo lo avrei ereditato io, mi spettava legittimamente...
 
Certo che a volte la vita è ingiusta, ti ritrovi con il niente in mano solo perché delle stupide femmine munite di tette e Pokéball sanno da che lato prendere i potenti... Che ingiustizia...»
 
Fedio finì di parlare, scuotendo la testa in assenso, cercando forse di eliminare quel pensiero dalla sua testa.
 
«Oh, mi dispiace...»
Intanto Anemone si sentì il quadruplo più colpevole di prima, nascondendosi la bocca con la manica della camicia: si trovò divisa fra due emozioni.
 
Da un lato il potenziale avverarsi del suo sogno aveva distrutto ed mandato in fumo il sogno di qualcun altro, dall'altro tutto ciò era successo non secondo la sua volontà.
Il fato aveva giocato al povero Fedio uno scherzo meschino, se suo nonno non fosse stato un così esasperato estimatore della bellezza femminile forse le cose sarebbero andate diversamente.
 
In un certo senso riuscì a compatirlo e fu lì per lì sul punto di consolarlo.
Quella storia le ricordava quanto spesso a lei venivano negate cose che le spettavano di diritto perché alcune entità venute dal nulla se ne impadronivano senza alcun merito o discrezione.
 
Tuttavia la giovane aviatrice si trovò ancora a dover cambiare idea, riascoltando più attentamente le parole proferite da quella specie di microbo sputasentenze.
 
«Scusa, hai appena detto che le cinque Allenatrici che il Campione ha selezionato come potenziali Campionesse sono stupide ed incapaci solo perché sono femmine?!»
Gli domandò, furiosa. Eccolo, eccolo il nome del sentimento che dapprima provava: rabbia.
 
«... Può darsi. Tette e cervello vanno d'accordo come Heatmor e Durant, si dice.»
Rispose lui, senza mezzi termini.
 
Rimase a fissare divertito la mascella serrata della rossa, che stringeva i denti come un'innocente martire sotto tortura mentre riceveva lunghe e dolorose frustate alla sua dignità.
 
«Ecco perché mi fai schifo. No, anzi. Mi fate schifo.»
E nel culmine di quel tremendo sentimento represso, divenuto da rabbia a furia, Anemone con una decisa spinta frontale del braccio riuscì a spingere Fedio e lo divelse dal dorso del suo Pokémon, dopo che lui ebbe emesso la sua, sperava, ultima imprecazione contro il cosmo.
 
«Se mi ammazzi Nardo ti spedirà a pulire pavimenti per il resto della tua vita.»
«Lo farò col sorriso sulle labbra!»
 
Infatti il giovane perverso rimase aggrappato di fortuna all'ala di Garchomp, sospeso sotto chissà quanti metri dal suolo: lo scenario perfetto di un omicidio perfetto.
Prima che costui potesse dire le sue ultime preghiere si trovò piantati in pieno viso gli occhi azzurri di Anemone, che gli stavano trucidando la coscienza.
 
Se in quel momento avesse avuto l'ultimissima possibilità di ricorreggersi su qualcosa, Fedio avrebbe aggiunto gli occhi alla lista dei requisiti indispensabili per una donna perfetta, a parte seno e fondoschiena.
 
«Voi, tutti voi maschi mi fate schifo, mi fate schifo da sempre.
Siete l'incarnazione dello schifo morale, comportamentale, filosofico e sociologico della regione.
Pensi di farmi meno pena sparando quattro insulti a caso solo per farti più forte agli occhi di qualche stupida gattamorta?»
 
«Ti prego, non voglio morire!» La supplicò il ragazzo.
Anemone fece cenno al suo Swanna di reggere con il becco quel peso morto sostenendolo dalla sua preziosa collana di Pokéball. Non voleva liberarsi finalmente di quella zavorra umana prima che non avesse ascoltato tutto il suo discorso.
 
«A me no, però. E neanche alle mie compagne. Noi siamo ancora lucide. - La ragazza dai capelli cremisi scossi dal vento estivo sorrise trionfante. - Abbiamo il futuro della regione nelle nostre mani, noi femmine.
 
E non per ragioni superficiali come dici tu, come la bellezza estetica, ma perché abbiamo il coraggio di non omologarci alla vostra visione distorta e perversa di donna-oggetto e di non piegarci a novanta gradi per entrare nelle vostre simpatie.
E guarda un po' chi è che il mese prossimo avrà la possibilità di diventare la Campionessa e chi invece se ne starà a guardare con la mano infilata nei pantaloni...
 
Dopo tutto quello che mi avete detto e mi avete fatto...
Senza di voi maschi il mondo sarebbe un posto migliore!»
 
E fece cenno al suo Pokémon Cigno di mollare la presa.
 
Invece di seguire con lo sguardo il corpo del giovane che mentre precipitava inesorabilmente si trasformava in un puntino sempre più lontano ed insignificante, Anemone tenne bloccato il capo in direzione dell'orizzonte, quella linea immaginaria eppure tanto reale che separava nettamente cielo e terra e al contempo li mescolava in un unico elemento.
 
Quasi le sorse l'istinto bambinesco di tentare di raggiungerlo, l'orizzonte.
Ma ovviamente era solo un sogno represso, maledì Tolomeo per aver ipotizzato un mondo senza confini, una banalissima sfera senza un limite o un orizzonte da raggiungere.
 
La giovane aviatrice però sentì di aver varcato un confine non macroscopico, quanto una soglia interiore: prima di pensare a cosa ci fosse dall'altro capo della Terra avrebbe dovuto preoccuparsi di cosa esistesse al di là di lei stessa, delle sue sensazioni, dei suoi ricordi.
 
Solo lei non aveva mai visto di buon occhio gli uomini. Nessuna donna era mai stata in grado di condividere la sua accanita, lo sapeva.
 
Quel gesto simbolico che aveva appena compiuto, caricandolo di vivo pathos e soprattutto, di tutti gli ideali che riservava nel suo inconscio. Tutte quelle parole erano vere, erano la fede e la religione in cui la rossa aveva sempre creduto.
 
E quella ribellione, quel simbolico parricidio del genere maschile, quell'insita furia rappresentavano il suo intervento attivo in quella specie di guerra santa che combatteva da quando era piccola.
Ora però non era più una bambina docile ed indifesa, completamente aggiogata al pietismo degli altri. Ne era quasi certa.
 
Era il ricordo a motivarla, Anemone non avrebbe mai, mai, mai fatto nulla del genere, il suo cuore puro come le bianche ali di una colomba si era intorpidito e tutto ciò che riaffiorava nel suo inconscio in quegli istanti lo incancreniva ulteriormente, facendolo diventare color nero come il petrolio.
 
"Vi odio. Non vi perdonerò mai." La sua anima fanciulla ancora gridava, esasperata.
 
Come avrebbe potuto perdonare chi l'aveva umiliata rinfacciandole tutti i suoi difetti e annichilendo i suoi pregi? Come avrebbe potuto ricordare con un sorriso le violenze psicologiche e soprattutto quelle fisiche che avevano stuprato la sua dignità trasformandola in un ameba?
 
Anemone provò a convincersi che per fortuna doveva essere tutto finito.
 
Non avrebbe rincontrato nemmeno per caso nessuno dei bambini che erano all'orfanotrofio con lei e che inventavano ogni giorno nomignoli dispregiativi spesso basati sul suo colore dei capelli o sulle ramanzine che le rifilavano gli istitutori.
I suoi compagni del liceo ora probabilmente lavoravano tutti per una qualche famosa azienda come quella dei genitori di Catlina, tutti immersi nella loro monocromatica normalità.
Non aveva spiaccicato parola con nessuno dei suoi colleghi da quando era stata assunta, quindi un problema si eliminava alla radice.
 
Anemone strinse i pugni e chiuse gli occhi. Aveva fatto la cosa giusta?
Tutto questo lo aveva per difendere lei stessa e le sue care compagne.
Era la sua prima decisione da donna adulta e se ne compiacque.
 
«Hey.» Sentì alle sue spalle.
 
Riconobbe la voce, si voltò di scatto e si morse il labbro per la bile.
Si pentì di aver lasciato cadere anche la collana contenente le Pokéball, sarebbe bastato un grido per permettere ad almeno uno dei Pokémon in grado di volare posseduto da quel ragazzo di uscire automaticamente dalla sfera e salvarlo.
 
Fedio la squadrò tutto contento, seduto su di un Dragonite dall'insolito colore, come se avesse trovato il punto più sensibile di una ragazza senza nemmeno conoscerne il nome.
Infatti, lo aveva definitivamente trovato.
 
«Certo che tu hai dei problemi. Problemi seri. Sul serio non ti piacciono i maschi?» Chiese.
 
Quella strana ragazza dai capelli rossi nascondeva qualcosa. Lui lo aveva capito.
Era una cosa ovvia, gli dispiaceva lasciarla crede ulteriormente di averlo fregato.
Sarebbe stato un insulto alla sua intelligenza di donna.
 
«Che cosa strana, cavoli... Sei la prima lesbica che conosco, sono senza parole...»
 
Dopo quella scioccante rivelazione, perfino il vento d'altitudine si acquietò, il silenzio proruppe.
La giovane ragazza dagli occhi azzurri riuscì perfino a vedere l'orizzonte sfumarsi e perdere nitidezza fino a sembrare sciolto, prima di coprirsi gli occhi con i palmi delle mani.
 
Alla malora, l'essere spogliata del tutto di fronte ad una trentina di bambini e il vergognarsi di non avere abbastanza soldi per arrivare a fine mese: quella lì sentì come la più grande umiliazione della sua vita.
 
Non solo quel Fedio aveva smontato tutta la sua perfetta apologia delle virtù femminili, ma anche la sua filosofia di vita, il suo modo di essere e perfino i suoi gusti. Credeva di essere ormai immune al sarcasmo e all'umorismo nero, ma cosi era troppo pesante, perfino una ragazza di carattere mite come lei lo aveva percepito come gravissimo insulto.
 
Si sentì ridicola. Miserabile. Una stupida femmina, non poteva dargli torto.
Anemone odiava la superbia, la tracotanza e l'arroganza perché inevitabilmente spingono l'uomo in questa situazione di illusoria fierezza e di vittoria passeggera, prima di rovesciarlo nell'abisso della vergogna e della discriminazione.
 
Discriminazione...
Era quello il nome della voragine senza fondo in cui era caduto il suo uccellino, mentre il suo candido piumaggio viene insudiciato dagli sangue sgorgante dalle frecce di arcieri anonimi, le cui risa sdegnate riecheggiavano nelle profondità del baratro.
 
Anemone avrebbe voluto usare le mani, che in quel momento le coprivano gli occhi umidi e lucidi, per tapparsi le orecchie: già riusciva a sentire nella sua testa un fitto coro di voci indefinite, ridenti, che gridavano a squarciagola, o parlottavano alle sue spalle come veri vigliacchi, ed infine si univano tutti a gridarle contro, come se si trattasse di una bestia, di un fenomeno da baraccone, di uno scherzo della natura.
 
Lesbica. Lesbica. Lesbica...
 
La poca stima che i suoi colleghi di lavoro avevano per lei sarebbe automaticamente svanita, ogni occasione sarebbe stata buona per rinfacciarle il suo strambo orientamento sessuale.
C'era mai stata una regione con un Campione gay? Non lo sapeva.
Non le importavano i siti internet in cui le persone dicevano che era una cosa naturale e si proclamavano da bravi ipocriti sostenitori di questa specie protetta di persone strane e diverse.
 
La vita reale era stata semplice, sotto un falso viso.
Ma ammettere di fronte ad amici stretti, parenti, conoscenti di essere dell'altra sponda spaventava Anemone a morte.
 
La reazione di Fedio, che grazie al suo stupido vantarsene se ne era giustamente accorto, fu la prova latente che il mondo, dopo quasi diciassette anni, non era ancora pronto ad accettarla come persona.
 
Anemone si appoggiò alla morbida ala bianca del Pokémon Cigno che la osservava sconsolato, conscio di essere probabilmente uno dei pochissimi che non l'avrebbe mai giudicata, mentre lei piangeva sommessamente.
Non le importava più del suo orgoglio, voleva solo sparire in qualche luogo deserto per sempre.
Capì dolorosamente di non essere ancora libera, come credeva fino a pochi giorni prima.
 
«Ti prego. Non metterti a piangere... Mi fai sentire un infame.»
Fedio parlò onestamente: i ragazzi che fanno piangere le donne, a suo parere, erano veramente i peggiori, al pari dei mariti violenti e degli stupratori seriali.
 
Senza che la rossa riaprisse gli occhi, lui cominciò a scorrere sul telefonino le foto che le aveva fatto. Facendo uno zoom strategico, notò la targhetta in plastica nera appesa alla camicia che la rossa indossava in quel momento, dove erano scritti i dati identificativi in caratteri eleganti.
 
«Reyes Anemone, semi-professionista, ma... - e il tono del ragazzo perverso assunse un accenno di entusiasmo e stupore - hai un diploma in meccanica aerea? E hai qualcosa tipo cinquecento ore di volo? Oddio, fai roba seria per essere...»
 
«Una femmina?» Lo precedette lei.
«Una pazza. Io ti stavo dicendo che sei la prima ragazza gay che incontro in vita mia, non che se tu fossi stata un maschio avrei scelto una battuta sui Pokémon uccello per insultarti.
Mi stavi quasi per uccidere, cacchio. Non hai molti amici maschi, no?»
 
«Come tu non hai molte amiche femmine, immagino.»
La rossa si decise a guardare in faccia il suo interlocutore.
 
«Sappi che sei tu qui quella che ci guadagna. - Il giovane allenatore le fece l'occhiolino - Ti piacciono di più le tette o il lato b? Da quanto poi? E come hai scoperto che, uhm, ragazze si, maschi no?
Hai già la ragazza?»
 
La ragazza perse l'equilibrio sentendo quella serie di domande, dovette tenersi saldamente stringendo a pugni saldi il piumaggio del suo Swanna per evitare di cadere nel vuoto in preda alla confusione.
Non poté credere alle sue orecchie.
«Perché mi chiedi queste cose?» Domandò, senza farsi prendere dall'ira, per questa volta.
 
«Non so. - Il nipote di Nardo si mise comodo, disteso sul torso del suo Dragonite cromatico come se fosse seduto su una sedia a sdraio - Ho pensato che ti sarebbe piaciuto di più parlare di queste cose. Non so molto di te, se non che odi i maschi, sei un prodigio che guida aerei a meno di trent'anni e...»
 
Anemone lo interruppe, con una certa gioia lampante negli occhi.
 
«Sì. Ho la ragazza. Cioè, penso di sì, non le ho ancora parlato bene di questa cosa...
Mi sono sempre piaciute le ragazze nei manga e nei libri, ma non credevo che amarne una in particolare fosse così difficile...
Scusami per come mi sono comportata prima, io... Vedi... Non ho un buon rapporto con il genere maschile, ma forse perché come hai detto tu non ho amici, ma solo amiche. Ti ho giudicato male...
Scusa ancora...»
 
«Aspetta, hai detto che hai o non hai la fidanzata?»
 
«Non lo so... Se una ti bacia in bocca, si siede in braccio tuo per tutta la notte e ti tocca le tette, vuol dire che le piaci sul serio? Non sei solo...»
 
«Una delle tante?»
 
«Ecco. Lei era eterosessuale convinta fino a ieri, magari si vergogna di me... Non la biasimo...
A-Aspetta, che mi succede, perché ti sto dicendo tutte queste cose?!»
La ragazza rischiò ancora di finire giù per terra.
Non aveva mai parlato così apertamente dei suoi sentimenti con qualcuno. Con un ragazzo poi.
 
Fedio fece una carezza alla testa piumata del Pokémon di lei, disinteressatamente.
«Perché avrai raggiunto l'età per cui fare i repressi è da stupidi e infantili.
Secondo me la tua "ragazza", mi fa proprio strano dirlo, non si fa tutti i problemi che ti fai tu.
Anzi, magari sei proprio tu con i tuoi discorsi sul venire odiata perché ti piacciono le femmine a farla rimanere male.
 
Hai presente tutti quei discorsi, tipo sul fatto che Dio ha creato Adamo ed Eva e che la mossa Attrazione funziona solo fra Pokémon di sesso opposto? Onestamente, chi se ne frega.
Anche se qualcuno sapesse che ti piacciono le ragazze, cosa potrebbe dirti?
Certo, se ti metti a frignare e a gridare il tuo femminismo nazista contro noi poveri uomini ci credo che nessuno ti prenderebbe sul serio...
Basta che ne parli normalmente. Senza paura. Senza forzarlo troppo. Normalmente.
 
Se lei ti piace davvero, scusa, cosa te ne importa di quello che pensano gli altri? Tu sei tu.
Non hai detto che sai di essere diversa? E hai detto che ne sei pure fiera.
Non sono una ragazza, ma le cretine che credono di essere in un film non mi piacerebbero a prescindere... Devi essere più coraggiosa, Anemone.»
 
La rossa stette ad ascoltare quel ragazzino di quasi tre anni più giovane di lei come se dalla sua bocca sgorgasse oro colato. Si sentiva troppo coinvolta in prima persona per controbatterlo.
Coraggio: gliene serviva una tonnellata, una montagna di coraggio per fare quello che doveva fare.
 
Anemone capì di non potersi permettere altri sprechi di questa preziosa valuta allegorica, stava dilaniando le sue sostanze non concrete, ma psicologiche, pur di comprarsi l'approvazione altrui.
Era semplice per lei accusare la società di omologare i suoi cittadini, eppure era lei quella in prima linea quando si parlava di conformismo. Non poteva solo vestirsi e parlare come una ribelle.
Era giunto il momento per la giovane dagli occhi azzurri di cambiare le regole.
 
Si ripromise di decidere da sé d'ora in poi. Non importa quante volte sarebbe caduta a terra ed il suo viso si sarebbe coperto di lacrime e fango, non avrebbe più usato le poche forze che le rimanevano in corpo per lamentarsi della forza di gravità, ma si sarebbe rialzata per ridere alla faccia del mondo.
 
«Come farebbe Camelia, del resto.» Ammise sorridente, soddisfatta.
 
Avrebbe fatto come un ragazzo: l'avrebbe resa fiera di lei, l'avrebbe sconvolta e sorpresa nel migliore dei modi: lasciò correre selvaggia la sua immaginazione, immaginò di confessarle il suo amore con voce seria e seducente, quando le loro labbra si trovavano a pochi centimetri le une dalle altre, guardandola fissa gli occhi di lei che con la schiena al muro non poteva sfuggirle.
Proprio come nei manga che le piacevano tanto.
 
E se la scena si fosse svolta a ruoli invertiti, la rossa si sarebbe assicurata che il suo "sì" suonasse il più convinto e sincero possibile.
In nessun modo le avrebbe dato l'impressione di mentire o d'essere ancora nel dubbio.
 
«Camelia? Scherzi, o intendi proprio quella Camelia?!» Fedio diede d'escandescenze.
 
«Taylor, proprio lei, la modella. - Rispose pacatamente lei - Non lo sapevi che è una delle cinque ragazze adepte per diventare Campionessa? Io faccio il tifo per lei.
Non solo è fortissima come Allenatrice. È una ragazza perspicace, intelligente e dal cuore d'oro...»
E fu interrotta.
 
«Ma quindi la sua settima è vera o se le è ricostruite con la chirurgia estetica?» Fece lui.
 
«Non dirmi che Camelia è famosa in tutta la regione solo per le sue tette enormi?!»
Ribatté lei, essendosi quasi dimenticata di aver a che fare con il nipote di Nardo.
 
«No, anche per come risponde durante le interviste. Una volta le hanno chiesto quanto pesasse e sai che gli ha risposto quella? "Devo proprio far sentire tutti voi grassi o posso fare finta di aver mangiato questa sera?".
E quando l'avevano scoperta a letto con un tizio completamente sconosciuto si è difesa dicendo che lui era solo il primo, mancavano soltanto tutti gli altri suoi fan.»
 
La giovane aviatrice si fece raccontare meticolosamente tutte le voci che correvano sulla sua tutt'altro che dolce (anzi, piuttosto acerba) metà: alcune le piacquero, altre meno.
Lo fece solo per passare il tempo, voleva che il tramonto giungesse quanto prima pur di rivederla.
Inoltre parlare d'altro era l'unico modo che aveva per riconciliarsi con Fedio.
Tutto sommato era un ragazzo simpatico, decisamente molto più simpatico di quelli che aveva conosciuto in vita sua. Si augurò che trovasse presto una fidanzata, se lo meritava dopotutto.
 
Intanto il loro scenario, il cielo infinito, cominciava a sbiadirsi, il sole era ormai stanco di flagellare la terra e il vento caldo del sud accarezzava le loro schiene e i loro arti.
 
«Sei una pazza. - la canzonò ancora Fedio, riguardo una qualche battuta poco importante - Non mi stuferò mai di ripetertelo.»
Lei gli sorrise, scoppiando a ridere sonoramente, i denti bianchi come l'avorio illuminavano il viso dalla tonalità più scusa, la sua voce riecheggiava nell'aere gioiosa, spensierata.
 
«Sarà una pazza, - pensò fra sé e sé il giovane - ma al diavolo tutte le modelle di bikini e le attrici da quattro soldi: lei è la ragazza più bella che abbia mai visto.»
I due si congedarono tutt'altro che freddamente, promettendosi a vicenda di rivedersi.
 
Anemone senza indugiare ulteriormente, sapeva di avere una cosa piuttosto importante lasciata in sospeso e da portare a termine al più presto.
Anzi, forse due.
 
A quell'ora del pomeriggio, quando il cielo cominciava a indorarsi come zucchero caramellato, Anemone era solita tornare a casa dal lavoro: fu contenta di aver ormai perso la brutta abitudine di rimuginare su quanto la giornata lavorativa di quel determinato dì le avesse fatto schifo. Si ripromise un approccio più positivo nei confronti del suo lavoro.
 
«Sono a casa.»
Anemone addolcì la voce involontariamente, quasi avesse canticchiato quelle parole.
 
Non le servì neppure varcare la soglia del piccolo appartamento in cui viveva da quando aveva sette anni per assicurarsi che nessuna presenza fosse in casa.
Non lo aveva calcolato. Ma decise di andare avanti comunque.
 
Si precipitò nella sua stanza in punta dei piedi, aveva bisogno di guadagnare del tempo. Si tolse con assoluta noncuranza i vestiti che aveva indossato per tutta la giornata, convincendosi definitivamente che gliene servissero di nuovi. Si lasciò addosso solo una delle tante t-shirt prese ai concerti del suo gruppo preferito ed un paio di pantaloncini corti.
Rimase scalza, e per un attimo pensò che forse avrebbe fatto meglio a rinviare quella cosa che doveva fare, non avendo altra scelta.
 
La giovane si diresse alla ricerca di qualche oggetto intatto da tenere per quando sarebbe tornata a casa di Nardo, non ritenendo di doversi rimettere nella condizione di scroccare cose come felpe, gli elastici per capelli o lo shampoo alle sue compagne.
Detestava essere quella "povera" del gruppo. In tutti i gruppi, del resto, quella povera c'era sempre.
 
«Buonasera, è passato d'uso salutare?»
Lei si voltò di scatto. Si sentì ingenua a non averci pensato prima: era quasi ora di cena ed in dieci anni lei non ci aveva neppure mai provato ad avvicinarsi ai fornelli. Era sempre suo nonno a cucinare per lei, garantendosi di viziarla almeno un pochino.
 
«Scusa, non ti avevo proprio sentito. Tutto a posto qui?» Gli rispose, cercando di non suonare per nulla scocciata o arrogante.
 
«Come mai sei qui?» Il suo vecchio le rigirò la domanda.
 
«...Nardo ci ha concesso un altro giorno di vacanza, così ho pensato di passare a salutarti dopo il lavoro...»
 
No, non andava bene così. Non poteva cominciare subito con una bugia.
 
Dov'era andato a finire tutto il discorso sull'avere il coraggio di affrontare le difficoltà, come le aveva consigliato Fedio?
Non poteva mica dirgli "sono stata punita per essermi intrufolata in piena notte nella piscina privata del Campione della regione", dopotutto.
 
L'uomo di mezza età tuttavia non le rispose, continuando a preparare la cena in assoluto silenzio.
 
Anemone di colpo si ricordò che l'ultima volta in cui aveva visto e parlato con suo nonno era stata tutt'altro che piacevole. Rammentò di averlo accusato di rubarle la sua libertà, di sfruttarla e trattarla come se lei non fosse neppure sua nipote con le parole più aspre e violente che aveva mai proferito.
 
Perché lo avesse fatto, si domandò ancora. Per una brutta giornata? Per una verità taciuta per lungo tempo? Per ribellione? Non importava. Sapeva solo che se ne era pentita amaramente.
Ed ora lui aveva tutto il diritto di ignorarla.
 
Anemone capì dunque che ormai lei aveva rovinato tutto, quella non era più casa sua, lì non c'era posto per le ragazze viziate, che si credono adulte mature dopo i primi schizzi ormonali e si dimostrano invece testarde ed insensibili come bambine.
 
Stava per andarsene in silenzio, quando nella piccola stanza irruppe un suono.
Un suono squillante ed acuto, che sembrò alla rossa un'allucinazione uditiva, mentre il trillo si ripeteva insistentemente, e suo nonno distolse gli occhi da ciò che stava facendo, poi la guardò, impassibile.
 
«Anemone, per favore, rispondi.» Le disse con calma.
 
Lei lo prese come uno scherzo. Davvero, doveva aver scelto proprio il giorno sbagliato.
Casualmente e senza farsi troppi problemi, la ragazza premette il tasto verde, domandando chi fosse con tono parecchio innervosito dall'ennesimo imprevisto.
 
«Ciao Anemone sono io.»
La ragazza riconobbe immediatamente la voce così nasale e gentile, e si propose leggermente più entusiasta nei confronti della sua interlocutrice.
 
«Ciao Iris. Tutto bene? Cosa avete fatto oggi senza di noi?» Chiese.
 
«Niente praticamente, dovevamo allenarci, ma Camilla e Catlina sono andate a farsi un bagno per conto loro...» Le rispose la ragazzina.
 
«Ah, così Nardo lascia fare a loro tutto quello che vogliono e a noi no invece?»
La rossa aggiunse una nota di pungente disappunto a quel dato di fatto.
 
«Cosa ne so, quelle due controllano tutto e tutti senza che noi tre ne sappiamo niente, sono come la mafia... - la rossa rise a quel bizzarro paragone - Posso chiederti una cosa?»
 
«Certo, dimmi.»
 
«Ti dispiace se stasera, quando torni, stiamo un po' insieme? Mi sono annoiata tantissimo oggi, sono stata da sola tutto il tempo, hai voglia?»
 
In un certo senso, ciò che la ragazza dai capelli rosso adorava di Iris si riassumeva lì.
Quella dolce ragazzina le sembrava quasi un cucciolo abbandonato che vaga sconsolato per questo mondo egoista ed indifferente, alla ricerca di qualcuno che possa dargli amore ed accettarlo per com'è: un po' strano, poco cool, ma una buona persona.
E lei non aspettava altro che accoglierla fra le sue braccia.
 
Adorava che qualcuno avesse bisogno di lei. Già quando Anemone ed Iris si erano confidate durante la prima notte a casa del Campione, la prima si era domandata come potessero esistere persone tanto ingrate da non apprezzare quella bambina un po' troppo alta per essere tale.
 
«Ovvio che sì, possiamo stare ad ascoltarci la musica per gli affari nostri se quelle altre hanno di meglio da fare evidentemente...» Non le dava quasi mai fastidio, quando Iris la interrompeva.
 
«Non sei contenta?» La rossa si sentì domandare, una domanda dalla tonalità probabilmente retorica, ma lei non capì comunque. A volte figurare ciò che Iris dicesse od intendesse mediante i suoi pindarici giri di parole era un vero mistero.
 
«Contenta di cosa?» La interrogò, sbigottita.
Subito dopo sentì la ragazzina ridere divertita per via di un respiro che aveva emesso sul microfono. Non riusciva veramente ad arrivarci da sola, concluse infine.
 
«Hai il telefono nuovo, finalmente! - la assordò con uno dei suoi urli tanto acuti da sfiorare la quarta scala maggiore del pentagramma - È l'ultimo modello uscito, ha un sacco di applicazioni nuove, il display che si vede sotto il sole, la fotocamera interna, sai cosa significa? Possiamo farci i selfie! Che bello, se me lo lasci usare ti faccio vedere come si scaricano le app...
 
A-Anemone, c-ci sei ancora?»
 
La suddetta da un lato aveva avuto l'istinto di lasciar cadere il gioiellino grigio metallizzato sul pavimento, sentiva i muscoli della mano rammollirsi sotto il lieve peso dell'oggetto, dall'altro lo strinse con fare rapace, portandoselo davanti agli occhi.
 
«Sarà costato più del mio intero stipendio...» Mormorò fra sé e sé.
Anemone si sorprese di quante forme il perdono potesse vestirsi, pur di rapportare un rappacificamento quasi totalmente negato.
 
«La futura Campionessa non può andare in giro senza cellulare. - La risposta le arrivò alle spalle, la colse alla sprovvista. Era, ovviamente, suo nonno a parlare - Ed io invece, dovrò abituarmi a non avere più una bimba di sette anni a cui badare...»
 
Ma Anemone lo fece tacere, lo abbracciò mettendogli le braccia intorno al collo, stringendolo forte e facendolo barcollare. Non se lo aspettava.
Avere un cellulare nuovo, costoso, perlopiù dopo che aveva volontariamente frantumato il precedente, era sì bello; ma la coscienza di non aver mai e poi mai perso l'amore di suo nonno, suo unico e vero genitore, era simile ad un miracolo, a suo parere.
 
«Te lo sei meritata, ho saputo dei tuoi successi.» Aggiunse l'uomo, ilare.
«Appena divento Campionessa te ne compro uno uguale, voglio vederti usare uno di quegli aggeggi tecnologici che dici prosciugano il cervello.» Rise lei.
 
«Oh, comunque, dicevi?»
La ragazza si riportò il telefono all'orecchio, sperando che Iris fosse ancora in linea.
 
«Niente, - la rassicurò. Poi quest'ultima aggiunse con assoluta noncuranza - tanto adesso siamo arrivate. Ti dispiace aprirci?»
 
Anemone esitò un secondo, riflettendo su quelle due ultime battute con lo stesso sguardo perso e confuso che uno avrebbe impiegato per comprendere una lezione sulla trigonometria avanzata.
Quel giorno le stava regalando un infarto dopo l'altro.
 
«Stai scherzando?! Che vuol dire "stiamo", come "stai arrivando"?»
E, come da previsione, sentì suonare il campanello.
 
Prese un respiro profondo, si sistemò frettolosamente i ciuffi rossi che le cadevano sulla fronte ed i vestiti tutt'altro che eleganti, e si preparò all'inferno che la aspettava aprendo quella porta.
Era arrivato il momento di mettere a frutto tutto il suo coraggio, si disse.
 
Chiudendo la chiamata, Anemone alzò lo sguardo, adagiata alla soglia dell'uscio come se le gambe non riuscissero più a reggerla in piedi.
«Ma non stavi scherzando allora... Come siete arrivate qui?» Pronunciò a labbra socchiuse.
 
«Abbiamo scaricato un'applicazione che permette di localizzare anche i posti più remoti semplicemente partendo dall'indirizzo, abbiamo preso un taxi e, wow, che bel posto, sembra carino per viverci, già...»
 
La giovane aviatrice continuava a sbattere le palpebre automaticamente, alla stessa velocità con cui un colibrì sbatte le ali, pur di risvegliarsi da quella sottospecie di trance, da quella situazione da commedia degli equivoci.
 
Ma sicuramente, in modo già previsto o inaspettatamente, non poteva certo lasciare Catlina, Camilla ed Iris fuori casa, sarebbe stato scortese, una vera figura da pitocco che non può neppure permettersi di accogliere degli ospiti per via delle sue condizioni economiche.
 
Le sue compagne indossavano i loro vestiti casual, e mentre la rossa si divertiva a confrontare i diversi stili degli outfit delle compagne (tutti davvero molto carini, a sua opinione) suo nonno si avvicinò a loro, scrutandole con fare semplicemente confuso, senza far trasparire rabbia o seccatura dal volto.
 
«Ehm, nonno... Queste sono... le... le mie... - Anemone fece un respiro profondo - ...Le mie amiche.»
Poi riprese, dopo un'altra boccata d'aria degna di un'apnea di minimo venti minuti.
«Ragazze, questo è mio nonno.»
 
Anemone represse l'istinto di scappare via da quella situazione così imbarazzante.
Poteva peggiorare? La vita le aveva insegnato che ai problemi non esisteva mai un culmine, come nel disegno di una tangente, che cresce esorbitando all'infinito e si ripete ogni determinato periodo.
 
In quel preciso istante, ecco il gran finale, l'atto conclusivo di quel dramma ironicamente assurdo.
Eppure la rossa non aspettava altro: mentre le altre tre ragazze stringevano con la più assoluta riverenza la mano del suo vecchio, sentì le sue di mani che venivano afferrate da dietro e non appena si voltò il cuore le scivolò in gola.
 
Camelia. Era lì anche lei, come poteva non essersene accorta?
Solo per il gusto della sorpresa non ci fu lecito menzionarla, o forse la rossa era già troppo agitata.
 
Ora le condizioni per fare quello che doveva fare erano a suo favore.
Eccolo lì, il suo kairós, la sua occasione.
 
Dopo che le loro mani intrecciate in un momentaneo amplesso si erano sciolte, le due riuscirono solo a scambiarsi un vuotassimo e freddo "ciao", come avessero dimenticato l'intero contenuto dei loro presupposti.
Anemone sorrise, imbarazzata.
 
«Se io e Camelia non riusciamo a parlarci adesso... ho perso la mia occasione.
Ti prego Dio, dammi coraggio, fa che ieri sera... Abbia avuto un senso.»
 
Un sottofondo di tintinnio di piatti e posate animava quel piccolo appartamento.
Dove un uomo sulla sessantina avesse trovato le forze fisiche e monetarie per moltiplicare la cena che doveva inizialmente essere per due a servizio di un totale di sei persone come in un miracolo biblico ancora non se lo spiegava nessuna.
 
Quell'anziano signore non le aveva cacciate ferocemente di casa, come avrebbe fatto chiunque altro con ospiti inattesi, ma aveva gentilmente proposto alle quattro infiltrare di unirsi a cena con loro, promettendo di rassicurare Nardo come un vero genitore premuroso farebbe con le sue figlie.
 
E guai se nostre ragazze avessero rifiutato: il profumo di cibo oramai sopraffaceva l'aria di quel modesto appartamento, conferendogli un'atmosfera ancora più calda e familiare.
 
«Allora ragazze, - iniziò l'uomo, scherzosamente - mia nipote si comporta meglio, ora che ha delle amiche?» Senza alzare gli occhi, ascoltò la sopracitata rispondere nel più completo imbarazzo.
 
«Dai, smettila di farmi passare per un'asociale! - Poi, rivolgendosi alle quattro compagne - È per via della scuola e poi per il lavoro, per questo non esco molto con amici ultimamente.»
Tutte annuirono e sorrisero.
 
«Tu, che non ti sei presentata ancora, chi saresti?» Domandò il nonno della rossa, con il tipico tono affettuoso dei più anziani, che però la maggior parte delle volte viene percepito come burbero.
 
Ci furono due o tre secondi di quiete. Tutti le più varie categorie di occhiate si posarono su di una sola, finché non fu Camilla a riportarla con i piedi per terra.
«Camelia, sta parlando con te.»
 
Gli occhi della ragazza mora si dilatarono nello stupore più completo, e non perché costui non l'avesse riconosciuta. Riuscì a mormorare il suo nome a malapena, per poi abbassare lo sguardo fino ad osservarsi le mani; dopodiché Camelia lasciò che la sua mente si disconnettesse definitivamente dal mondo terreno.
 
Perché era lì, si chiedeva innanzitutto.
 
In una casa che non era sua, circondata da estranee che la fissavano allibite come se lei avesse chissà che strano morbo, a mangiare forzatamente carboidrati che non sarebbe riuscita a smaltire nemmeno con un digiuno di una settimana, ascoltando passivamente le conversazioni più noiose di sempre.
 
Alla fine però, Camelia ammise a sé stessa, che effettivamente era colpa sua, se aveva scelto la strada più lunga, e la più stressante. E, sotto un certo punto di vista, anche la più strana.
 
La modella ascoltava passivamente l'uomo di mezza età che tesseva le lodi di sua nipote, parlando di lei come un veterano Allenatore parla dell'esemplare più prezioso della sua squadra.
 
Aveva meticolosamente descritto la sua meraviglia ogni volta che la piccola Anemone tornava a casa da scuola con i voti più alti della sua classe, la sua passione per lo studio senza mai negligere l'aspetto pratico della branca aeromeccanica, dopo aver esposto i grandi progetti che aveva la rossa per il suo futuro; la divagazione finale in cui un perfetto sconosciuto descriveva il sorriso sfavillante della sua nipotina quando ad ella veniva detto che finalmente avrebbe avuto una famiglia che le avrebbe voluto bene, fece sciogliere il cuore a tutte.
 
Camelia sentì ancora quel sentimento di marcia invidia ristagnare in lei, senza che lo volesse.
Ma, come fece Apollo con i due serpenti che lo insidiavano fin dalla culla, la fanciulla strozzò quel sentimento orribile, fermandolo con un nervoso singulto ed un sorriso posato.
 
Normalmente avrebbe perso la testa solo sentendo una storia del genere. Si sarebbe data dell'egoista, dell'invidiosa che non sa gioire della fortuna altrui, sarebbe volentieri scoppiata a piangere.
Lo aveva fatto milioni di volte in passato, conosceva i suoi difetti ormai.
 
Nella realtà parallela in cui viveva, Camelia non riusciva neppure a concepire ciò che vedeva.
Come un cieco non potrà mai credere nella luce, la ragazza si guardava intorno, ascoltava stordita.
Era tutto troppo bello per essere vero, si sarebbe voluta disilludere.
Ma lo era. Era tutto così bello, bello e basta.
 
Un'appartamento così pulito e dal soave profumo di qualche essenza artificiale, niente cocci affilati di bottiglie rotte o avanzi di cibo stantio sul pavimento; quella che vedeva era una tavola calda imbandita, piena di vivande desiderose solo di farla ingrassare, nel peggiore dei casi; dov'era finito l'alcool, le poche bottiglie multicolore ancora integre che si moltiplicavano il sabato sera.
 
Ma se c'era una cosa che di sicuro invidiava ad Anemone al di là della pulizia e sobrietà di suo nonno, quella cosa risiedeva in quanto amore, quanto vero genuino amore genitoriale un vecchio non sposato senza neppure chissà che patrimonio riservasse ad una nipote che non era nemmeno sua, come la trattasse meglio di una principessa.
 
Intanto le altre tre ragazze, le due bionde ed Iris chiacchieravano allegramente, constatando come le conversazioni potessero andare avanti anche senza di lei.
Ormai il poco appetito che aveva le era stato lavato via, come se la sola visione del cibo la infastidisse. Approfittò di respirare due minuti, senza avere il suddetto sotto gli occhi.
 
Camelia ricordò di come lei avesse passato i suoi ultimi anni fra i servizi fotografici, le crisi davanti allo specchio, le sfilate sui tacchi alti finché i piedi non gridavano pietà, i trattamenti estetici simili a torture medievali, in aggiunta ai digiuni e le diete forzate più le lacrime di mezzanotte, e infine le interviste in cui le si chiedeva omertà spudorata, di mentire riguardo ogni aspetto della sua vita per evitare di essere licenziata ed essere mandata di nuovo in mezzo alla strada.
 
Certo, adorava alcuni aspetto del suo lavoro. La fama, i soldi, la notorietà.
Ma avrebbe rinunciato perfino ad essi pur di poter assaporare per un attimo la dolcezza di essere veramente importante per qualcuno.
 
Anemone era riuscita ad avere qualcuno che la amava sopra ogni cosa nella sua vita.
Lei no. Camelia sapeva di non essere riuscita a bastare neppure alla persona che avrebbe dovuto amarla per diritto di nascita.
 
"Che schifo non avere una famiglia. Ci guadagni solo l'ingrassare di meno." Pensò, cercando di ingoiare la cena offertale nel modo meno schifato dai monosaccaridi possibile.
Certo che la normalità faceva decisamente male dopo anni abituata a vivere l'inferno, osservò.
 
«Camelia, hai voglia di vedere la mia stanza?»
 
Senza fare chissà che sforzi, la mora si trovò gli occhi azzurri cielo in cui tanto adorava perdersi nei momenti bui a dirimpetto dei suoi: quanto li amava quegli occhi, come amava la voce di Anemone. Adorava tutto di lei (ad eccezione di ciò che odiava, non sapeva concederle questo privilegio).
La rossa intanto le aveva sporto una mano per condurla via.
 
Sorrise leggermente, divertita dal tempismo di quell'intervento salvatore.
Si chiese se davvero Anemone riuscisse a leggerle la mente e a percepire le sue richieste di aiuto disperate, capitava troppo spesso perché potesse trattarsi di una coincidenza.
 
«Certo.»
Le due fanciulle lasciarono la sala da pranzo mano nella mano, mentre le altre tre le fulminavano con occhiatacce perplesse. Con un semplice contatto visivo, la rossa rassicurò suo nonno sulle proprie intenzioni.
 
Era il momento: fare quello che doveva fare.
Dopo aver condotto la compagna nella sua stanza chiuse la porta, comprimendo la luce formatasi sul pavimento in un'oscurità creata dalle ombre.
 
Loro erano dentro, ecco ciò che importava, tutto il resto doveva starne fuori.

 
«Allora, dove nascondi tutti i tuoi manga porno? Sotto il letto, dentro l'armadio?»
 
La mora stava fissando la camera da letto di una normalissima adolescente della sua età come se si trattasse di un museo d'arte moderna.
 
«Intanto, non si chiamano "porno", ma "hentai". - L'altra ragazza strinse le braccia al petto deformando brutalmente l'immagine stampata sulla sua t-shirt - Secondo, sono io a doverti fare delle domande.»
 
Anche Camelia voleva riempire la rossa di domande, in verità.
Voleva farle un interrogatorio degno dell'inquisizione, chiederle ogni singolo dettaglio di tutti i segreti che da tutta la giornata tormentavano la sua mente: dov'era stata, cosa aveva fatto e sopratutto chi aveva incontrato quel giorno. La modella, se ne avesse avuto la possibilità, si sarebbe pure presa l'obbligo di sequestrare il cellulare alla compagna.
 
Eppure tutta quella gelosia era inutile. Ottaviano le aveva parlato di tempi e di spazi da concedersi a vicenda, di pazienza e di fiducia... Era così indisponente da ignorare tali preziosi insegnamenti?
 
Camelia fece un respiro profondo, pronta a gettarsi a capofitto di schiena, confidando nella presa salda della giovane pilota, come in quel gioco innocente che fanno i bambini.
 
Decise dunque di ammorbidirsi solo per quella meravigliosa ragazza davanti a lei.
Le circondò con le sue bianche braccia il collo adornato dai ciuffi rosso scarlatto, facendo tintinnare un paia di braccialetti finemente abbinati ai suoi abiti e che le impreziosivano i polsi, come una vestale romana, Camelia sentì le sue intenzioni le più pure del mondo.
Le prese le mani, ma con una forza mille volte maggiore di quella usata in precedenza.
 
«Molto azzeccato il tuo outfit.» Commentò alla fine.
 
Anemone socchiuse gli occhi e fece una smorfia impaurita. E se ne pentì, perché nel momento in cui riacquisì piena facoltà del suo campo visivo, l'universo e tutto il mondo era ancora lì, per sua sfortuna non era morta dopo quel colpo inaspettato.
 
Ancor meno giustizia gliene rendevano i suoi squallidi vestiti trasandati e fin troppo profani, paragonare la sua maglietta ed i suoi pantaloncini sbiaditi alla perfetta combinazione cromatica degli abiti di una top model la faceva sentire come una mendicante vestita di stracci al cospetto di una nobile d'alto rango.
 
«Ed invece tu sei sempre troppo bella, mi fai schifo.» Le disse, ridendo.
 
Ma per Anemone, quella fantastica giovane era bella già da quando lei stessa le aveva riempito la faccia di vernice. Non stava dunque mentendo.
 
«Perdonami se mi sono presentata a casa tua senza preavviso - cominciò la mora - e l'aver portato qui quelle tre cretine solo perché mi scocciava dovergli dare spiegazioni, che odio mi fanno venire, ma vedi, morivo dalla voglia di vederti, da tutta oggi...»
 
Probabilmente Camelia non si era ascoltata mentre parlava, il suo unico obiettivo era infondere sicurezza alla compagna, farle capire cosa voleva. Per dirlo però, aveva usato una voce che era solita utilizzare per flirtare spudoratamente, tradendo così la sua supposita benevolenza.
 
«N-Non preoccupartene, anzi, sono contentissima che tu sia qui. Io in realtà, volevo farti un'altra domanda, però prima una cosa.»
La rossa torse il collo per guardare in viso la compagna dietro di lei.
 
«Uh?» Fece questa.
 
Ma prima che l'altra potesse anche solo battere le sue ciglia agghindate di mascara nero pece, l'aviatrice eseguì una manovra inaspettata: riuscì a girarsi di centottanta gradi senza neppure il bisogno di mollare le mani della modella, invischiate nelle sue.
Le due si ritrovarono faccia a faccia l'una con l'altra, lo spazio occupato dallo spessore di mezzo capello separava i loro volti.
 
Il primo piano che Anemone ebbe del viso della compagna la mandò in fibrillazione: occhi così lucenti e perfetti, la pelle liscia da sembrare seta anche senza toccarla, il make up così raffinato erano i piccoli dettagli che il folgorante sorriso della compagna le offriva come distrazione.
Adorava gli occhi azzurri, la frangetta così ben curata, le labbra lucide che lasciavano intravedere i denti bianchi, gli zigomi dai tratti a dir poco angelici.
 
La rossa subito cambiò stato d'animo: ancora quella dannata questione era irrisolta.
 
«Dovresti ringraziarmi per averci almeno provato, io ce l'ho messa tutta e tu invece...
 
Hai rovinato tutto! Sono più stupida io che ho avuto la brillante idea di toglierti il reggiseno o tu, che non te lo sei più rimesso e lo hai perfino lasciato nell'onsen?!»
 
Nonostante ciò, Camelia rimase fissa a guardarla negli occhi.
 
«Credimi, volevo sputarti in faccia quando hai cominciato a fare tutte le tue scenate per convincere quella pedofila di Camilla... Sei una masochista o cosa? Io provo a difenderti e a fare una cosa buona di tanto in tanto ma no... Tu avevi bisogno di lasciare le tue tette libere un altro giorno, eh?»
 
«Non ti lamentavi mica mentre me le palpavi tranquilla e beata!»
 
«Perché io sono brava a lavorare di mani, ecco perché. Tu invece potresti rompere un braccio a qualcuno, hai la delicatezza di un Martelpugno.»
 
«Senti, era la mia prima volta...» Anemone ammise dunque, imbarazzata.
 
Tutta quella storia, tutta quella assurda faccenda che l'aveva portata ai peggiori tormenti interiori, a patire le dodici fatiche di Ercole pur di ottenere uno sguardo ravvicinato al volto di quella guastafeste opportunista che ora la stava insultando ingiustamente, era scaturita per via di un reggiseno coppa G.
 
E ciò era un guaio. Se solo il seno di una delle due fosse stato leggermente più piccolo, una taglia tradizionale, piccola ma apprezzabile, un qualcosa di facilmente reperibile in tutti i negozi di intimo, od una taglia più abbondante, simile ad una morbida coperta di carne molto più difficile da contenere per un indumento, le due ora non avrebbero di che litigare.
 
La verità era che, in quella fantastica notte di baci, abbracci, tocchi, sfioramenti, strette, massaggi e perfino qualche impudicizia, le due giovani innamorate non si erano neppure curate di ricordare il colore del reggiseno che indossavano.
 
Non ricordavano nulla del profano, delle cose che gli uomini usano per incriminarsi a vicenda e spargere odio. Le due giovani ragazze volevano solo la cosa più nobile per un cuore volto al bene ed alla rettitudine, fare l'amore sotto le stelle.
 
«Ieri sera...» Dopo un breve silenzio, la mora ricongiunse con lei lo sguardo.
 
Quelle semplici parole, "ieri sera", sembrarono portare la rossa in una dimensione onirica, facendole percepire ciò che in quella fatidica notte era accaduto come un sogno, come se le due avessero potuto interpretarlo soggettivamente, in base alle loro esperienze di vita.
 
Ma la realtà era una sola.
 
«...mi hai detto che sei lesbica. E che io ti piaccio. Ma hai paura delle opinioni degli altri. Delle altre, soprattutto.»
 
Anemone fece per aprir bocca, ma l'amica la zittì, parlando prima di lei.
 
«Non voglio spiegazioni da te. Non eravamo ubriache, ma io voglio sapere solo una cosa.
E non avere paura. Anche se la tua risposta sarà un "no" secco secco, sappi che va bene, potremmo restare amiche e ricordare questo momento come il più schifosamente melenso ed imbarazzante delle nostre vite.
 
Ma è vero, tutto quello che mi hai detto?»
 
Le due diciassettenni si lanciarono un altro sguardo seriosamente divertito.
Camelia, perché le pareva di giocare a sedurre un ragazzetto ingenuo, ma che nascondeva un'arguzia nell'ingegno che perfino lei faticava a prevedere.
Anemone, perché aveva fra le braccia una giovane libertina pronta a mettere in bella mostra le sue doti, pur essendo consapevole di valere molto più di una qualsiasi avance.
 
Anemone si sedette sul suo letto, cercando di apparire tranquilla.
«Certo. Guardati intorno. Pensi che una normalissima ragazza eterosessuale tenga nella sua stanza foto e poster di idol in bikini, ascolti solo gruppi femminili e legga manga e guardi anime piene di tipe con le tette più grandi di quelle di Camilla?»
 
Tuttavia, dopo quel commento profondamente ironico, la ragazza si rifece seria.
«Camelia, tu sei la mia migliore amica...»
 
A quello spettacolo di umana pietà, la giovane da capelli neri come la notte si smosse.
Andò a sedersi accanto a quella docile creatura sull'orlo di una crisi di panico, che sembrava boccheggiare alla ricerca di aria per riuscire a terminare la frase.
 
Tuttavia, scelse di non approfittare della debolezza psicologica della compagna per il discorso che aveva formulato in quel pomeriggio: stessa altezza, stesso peso, stesso colore degli occhi, stressa taglia di seno, stesso passato e stesse paure.
 
In quel momento, se la sua amica sentiva il suo cuore come un piccolo uccellino caduto dall'alto del cielo, scacciato dal suo stesso nido, era suo compito porgerle le mani per custodire e proteggere la sua insostituibile onestà e semplicità da ogni sorta di minaccia.
 
«Non serve che fingi di esserne sorpresa. O che fai finta di sorprenderti.
So bene che questa cosa mi rende diversa. Ma sai una cosa?
Non è una cosa congenita. Insomma, non è che sia una specie di trauma.
 
A me piacciono piacciono le ragazze per scelta. Come uno può scegliere il suo tipo preferito di Pokémon o decidere di allenarli tutti, io ho voluto scegliere il tipo di amore che mi piaceva di più.
Non me ne vergogno e non ho bisogno di essere compatita per questo.
Sono lesbica, non malata o confusa. »
 
Fece un respiro profondo, poi proseguì, con tono più sicuro, quasi spavaldo.
 
«Camelia, lo sai che sei proprio bella? Sì, te lo hanno detto migliaia di volte, ma sai, non è solo questo... Vorrei poterti guardare da così vicino, ogni giorno...
Scusami.
Non so dire niente di innovativo o di poetico. E quello che ti sto dicendo ora te lo avranno già detto tantissimi, quindi io ho il meno zero percento di possibilità...»
 
Aveva grande paura che la fedeltà, l'amore ed il sostegno che le avrebbe promesso non sarebbero stati abbastanza, aveva paura di essere l'ultima di una lunga fila di spezza-cuori che Camelia aveva radunato al suo seguito, come un branco di spiriti malevoli.
 
«Sono contenta di piacerti. - La modella parlò ancora più profondamente - Sai bene che so essere una grande antipatica, lunatica, isterica e spietata. Sei pronta a farti piacere tutto questo?»
 
Aveva evidenziato ognuno di quei dispregiativi così bene che la mente della rossa riuscì a rinvenire perfetti paradigmi di ognuno di quei difetti elencati così minuziosamente.
 
«Camelia, tu mi piaci tantissimo. Ti considero la mia migliore amica per questo.
Mi piaci quando sorridi e quando vorresti picchiarmi a sangue, con o senza trucco, nuda o vestita che tu sia, io adoro ugualmente la top model che risponde male agli intervistatori come adoro la ragazza che dice di odiare se stessa.
Credo di avere una cotta per te... Perdonami...»
 
Poco dopo aver ricominciato però, la rossa si sentì una vile all'ennesima potenza. Dov'era il tanto vantato "coraggio" che diceva di avere? Notò come le mani e le gambe le tremassero per l'ansia.
Si grattò la nuca perplessa, cercando di spostare le iridi lontano dallo sguardo della compagna.
 
«...ti prego scusami, scusa, non so se ce la faccio a dirtelo. È-È la mia prima volta... Tu sei la mia migliore amica, ed io...»
 
A quel punto, la modella pensò che se quella stupida innamorata così follemente di lei le avesse ripetuto ancora una volta quelle parole l'avrebbe sicuramente soffocata.
Si sedette sulle ginocchia della compagna, come aveva fatto la sera prima.
 
La guardò negli occhi. Era il momento. Non vedeva l'ora.
 
«Anemone, ad essere sincera non me ne frega nulla di essere la tua migliore amica.»
 
L'altra si stupì talmente tanto che l'espressione dipinta sul suo volto fece quasi ridere la sua seduttrice. Che trappole, che scherzi imprevedibili e fantasiosi gioca Cupido!
 
«Voglio portarti a fare shopping con me e comprarti dei bei vestiti che si intonino ai miei, uscire con te e tenerti per mano, farci un sacco di foto con il tuo bellissimo cellulare nuovo, portarti alle feste, alle mie sfilate, in discoteca così ti fai una vita sociale...
 
Io voglio essere la tua ragazza.»
 
Prima di scoppiare a piangere per la gioia, la ragazza dai capelli cremisi e gli occhi cerulei avvinghiò il torso della bellezza superbamente seduta sulle sue gambe con le sue braccia color ambrosia, la strinse a sé con tutta la forza che aveva e prese a baciarle le labbra, dimenticandosi del rossetto dal colore acceso finemente steso sulle labbra dell'altra.
 
La foga dettatale da quell'esplosione di passione improvvisa la portò a compiere un lavoro confuso e disordinato, talora morsicando il labbro della compagna, talora arrivando a coprire con i suoi baci anche la superficie sotto il naso ed al di sopra del mento.
Ma contro l'inesperienza il fatto che con il tempo sarebbe migliorata la consolò.
 
Immaginò tutte le occasioni in cui avrebbe potuto baciare Camelia in un futuro non troppo lontano: stelle candenti, San Valentino, il festival dei fiori di ciliegio, i regali, le celebrazioni, se una delle due fosse diventata la Campionessa della regione... Avrebbe speso la sua intera vita intenta a riversare il suo amore nell'idolo del suo cuore, tempio un tempo inviolabile e proibito.
Ora portava le stigmate del meraviglioso volto di Camelia.
 
«Camelia, davvero, perché non me lo hai detto non appena ci siamo incontrate che anche tu eri dell'altra sponda?» Si limitò a chiederle, con ognuno dei cinque sensi in completo tumulto.
 
«Ma non lo sono, infatti. Non faccio le cose che hai detto e non mi piacciono le idol.»
Le rispose l'altra, mentre accarezzava i capelli disordinati della sua amica.
 
Se le avessero dato un megafono abbastanza potente lo avrebbe urlato ai quattro venti, se lo sarebbe tatuata sulla fronte con inchiostro indelebile, lo avrebbe scritto in cielo con il suo aereo se avesse potuto. "Io sono fidanzata con una top model, alla faccia di chi pensava che nessuno mi avrebbe mai amata".
 
Voleva ringraziarla per aver fatto la prima mossa. Perfino quando era completamente ignuda davanti a lei, Anemone si sentiva a suo agio.
Amava Camelia proprio come amava se stessa. Perfino Dio e i moralismi della religione non potevano nulla contro la forza e la confidenza che la bella fanciulla dagli occhi azzurri le infondeva.
 
«Andiamo a dirlo anche alle altre, per favore!» Esclamò euforica.
 
«Mi amerai sempre?»
La voce della mora si approfondì, mentre questa spingeva la sua compagna sul letto, facendola distendere sul giaciglio della sua infanzia, ora luogo della realizzazione di loro desideri più intimi e sessuali.
 
«Ovvio!» Rise Anemone.
 
«Non mi tradirai mai, vero?» Camelia si fece più insistente.
 
«Certo che no.» L'altra si dimostrò più che interessata.
 
«Non mi mentirai e non mi abbandonerai?»
 
«Mai e poi mai.»
 
«Mi sarai sempre accanto, mi vorrai sempre bene, anche quando non me ne vorrà più nessuno?»
 
«Non capiterà. Io ti amerò come nessun altro. Non devi temere.»
 
«Dubiterai mai della mia fedeltà?»
 
«Preferirei morire.»
 
Dopo questa affermazione degna del cuore più nobile e puro dell'universo, ci fu un leggero silenzio. Camelia in quel momento esibì uno dei suoi soliti sorrisi soddisfatti, quando riusciva ad ottenere ciò che voleva il suo volto riluceva di gioia.
 
«Lo sai che tutte queste cose valgono anche per te?»
 
Sicurezze, non promesse. Anemone doveva sentirsi al sicuro da tutto l'amore corrotto e malato che lei aveva conosciuto, non avrebbe permesso che una tal divina creatura potesse trovare un supporto non stabile o peggio, una menzogna, e precipitasse con il viso nel fango più torbido, umiliata e ferita come era successo a lei.
 
Amare e vivere, solo lei ed Anemone, ignorando tutte le dicerie dei vecchi moralisti ed i pettegolezzi dei giovani invidiosi stimandoli come una moneta da un penny.
Il sole sarebbe tramontato e poi risorto per miliardi di anni, invece a lei ed alla sua amante sarebbe rimasta solo una cosa quando l'ultimo dei loro giorni sarebbe giunto, una notte lunga e perpetua.
 
Cominciò a baciarla: volle darle mille baci, poi cento, poi altri mille, poi per la seconda volta cento e quando ne avrebbero totalizzate alcune migliaia avrebbero perso apposta il conto per evitare di attirarsi il malocchio, affinché nessuno potesse invidiare una tale quantità di baci.
 
«Da oggi in poi siamo fidanzate, quindi.»
La rossa cominciò per gioco a stuzzicare con gli indici i seni della compagna come se potessero scoppiare al modo dei palloncini punzecchiati con uno spillo.
 
«Certo, dolcezza.»
Per ripicca, la ragazza che le sedeva sull'inguine tentò di scoprirne i punti sensibili facendole il solletico, guadagnandosi una risata sguaiata, infantile, liberatoria.
 
Nessuna delle due ebbe voglia di discutere la validità del loro amore.
Dopo gli incontri di quel lungo pomeriggio estivo, sia il saggio e gentil d'animo padre di famiglia ed il perverso ma affabile nipote di Nardo avevano ribadito alle giovani l'importanza dell'io e del noi, della libertà e della sottomissione, dell'orgoglio e della modestia.
 
Amore eterosessuale, amore omosessuale... Non necessitavano entrambe della stessa quantità di amore?
 
La risposta era scritta nei loro cuori, due metà divise ed ora riunite in un qualcosa di saldo e permanente come un fidanzamento.
 
«Anemone, Camelia, tutto a posto, ragazze?
Le vostre amiche hanno detto che non dovete tornare a casa troppo tardi, Nardo vi ha dato un coprifuoco da rispettare e...»
 
Non appena il vecchio pseudo-genitore aprì la porta della stanza di sua nipote ammutolì, fermando ogni azione o parola, come paralizzato.
Qual visione, la sua dolce nipotina che lo aveva lasciato quell'estate da poco più che una bambina inesperta delle cose di mondo ed ora si sdraiava, lascivamente, sotto le grazie di una ragazza praticamente sconosciuta!
 
Sentendosi leggermente colpevole, Anemone si morse il labbro.
Non intendeva assolutamente tenere la loro relazione un segreto, pensava di liberarsi con tutta calma del mondo da quell'abbraccio intossicante e riferire la grande notizia apertamente.
 
Eppure il cattivo tempismo aveva portato suo nonno, più le sue tre restanti compagne a fissare lei e la sua dolce metà sedute l'una sull'altra, mano su mano, bocca su bocca, con uno sguardo degno di un reality show, reazione più che lecita.
 
Ma le due erano consapevoli che le loro vita non era un film, un fumetto, un libro od un programma televisivo. Niente di tutto ciò era stato calcolato, la loro vita non era fatta solo per spettacolo.
 
Ancora silenzio. Solo qualche respiro profondo, il tremolio nervoso del piede di qualcuno, un primo piano sul viso di tutti e quattro gli spettatori sconcertati.
 
«Ragazze, nonno... Giuro che posso spiegarvi tutto.»
 
Anemone ricevette le occhiate più incredule, come se stesse parlando un lingua incomprensibile.
Che figura orribile, proprio ora che aveva risolto i conti in sospeso con entrambe le parti.
 
Mentre Camilla gesticolava confusamente e muoveva le labbra senza pronunciare davvero le parole per scusarsi del malinteso totale accaduto con la lavata di testa rifilata alle due sventurate amanti quella mattina, Iris continuava a dondolare il piede nervosamente, aveva sul viso una specie di ghigno soddisfatto ed in parte complice, o si stava trattenendo una risata o stava immaginandosi chissà che scena al limite dell'osceno e dello scandaloso.
 
Catlina l'avrebbero detta disgustata da quelle dimostrazioni così esplicite di impudicizia, ed invece era rimasta più che altro a fissare un punto nel vuoto, rimuginando chissà che cosa.
Nulla di cui stupirsi dunque.
 
Per evitare di prolungare ancora quel silenzio imbarazzante, Camelia scese dalla comoda posizione in cui si era sistemata per godere meglio dell'affetto della sua ragazza, quasi a sfidare tutta quella tensione solo per qualche bacio e due o tre abbracci.
 
«No, non ve lo può spiegare.» Concluse quella, con aria di sufficienza.
 
Per le due diciassettenni impegnate nella competizione per il titolo di Campionesse questo era solo l'inizio. Le vere sfide al loro legame affettivo non avrebbero comunque tardato a presentarsi.

 

 

«Lo sapevo! Io già lo sapevo!

Hai visto come si guardavano questa mattina? E si tenevano strette per mano come due fidanzatine, quelle che dieci giorni fa dicevano tanto di odiarsi e di non volersi più parlare... Ho sempre sospettato che Camelia ed Anemone si sarebbero messe insieme prima o poi!»
 
«Mi sembra esagerato e leggermente inquietante il voler prevedere le relazioni amorose di una persona, Iris.»
 
«E invece è una cosa molto divertente se la provi. Sai Catlina, tutte le persone su internet si divertono a creare delle coppie con i personaggi che sembrano uniti da un qualcosa di speciale.
Per esempio, se due persone si guardano fisse e si lanciano sguardi, cosa pensi possa succedere?»
 
«Magari quella persona ha qualcosa nell'occhio o deve sistemarsi il mascara.»
 
«Va bene, dai, pensa a qualcosa di più intimo, come prendersi per mano, darsi baci sulle guance, scambiarsi i Pokémon e...»
 
«Anche noi membri della Lega Pokémon ci scambiamo i Pokémon a volte, ma non mi sembra che scambiarsi i Pokémon sia come scambiarsi gli anelli ad un matrimonio.»
 
«Aspetta Catlina, non lo sai che scambiarsi i Pokémon è segno di amore implicito?»
 
«N-Non è così, io...»
 
«Qualcuno ci sta provando con te e tu non te ne sei neppure accorta! Dovremmo cominciare a shipparti sul serio, dobbiamo assolutamente inventarci un nome per questa coppia come fanno nei blog online!»
 
«Scipparmi?! Significa che mi deruberete? In quel caso potrei fare ricorso al mio avvocato.»
 
«No, qui non c'entrano i soldi, è tutta questione di amore e di scambi e di passione...»
 
«V-Voi di Unima avete davvero molta immaginazione.»
 
«Boh, siamo solo piuttosto aggiornati in campo di shipping e di fandom secondo me.»

 

Behind the Summery Scenery #13

1. Questo capitolo è definitivamente uno dei i capitoli che mi hanno richiesto più tempo per la stesura: avevo cominciato a scriverlo nel marzo 2015, quando ESG aveva appena cominciato la pubblicazione. Verso agosto dello stesso anno indovinate cosa succede? Mentre salvavo un progetto di inglese il file si è sovrascritto al testo del capitolo. In quel momento avrei avuto l'istinto di smettere con le fanfiction e darmi all'ippica.

2. Come avevo accennato in passato, ESG si compone di tre stagioni da 12 capitoli ciascuna.
Sono divise in base alla span temporale che occupa ognuna: la prima è ambientata a giugno, questa (ovvero la seconda) a luglio e la terza ad agosto.
Questo capitolo è ambientato esattamente il primo di luglio ed oggi è...
 
3. In questo capitolo mi sono divertita a creare una specie di parodia ai processi tipici dei telefilm e anche della storia antica: ho spulciato alcune cose dalla Prima Catilinaria di Cicerone e dall'Uccisione di Eratostene di Lisia.
 
4. Il titolo è cambiato ancora, yee. E ora torna tormale *whooosh*
 
5. Se nel 2013 per me 7 pagine di Pages (perché Word mi schifa assai) erano la lunghezza massima di un capitolo vero e proprio, ora invece stappo lo champagne se non sforo le 40 pagine.
La mia prof di italiano aveva ragione, dovrei dedicarmi all'ippica alle volte.

6. Qui assistiamo inoltre alla seconda puntata di "Momo e la coerenza", in cui la nostra protagonista introduce un nuovo O.C. dopo aver scritto una rabbiosa invettiva contro l'uso di tale tecnica di scrittura. Anyway.
Ottaviano è il mio imperatore romano preferito e le sue vicende biografiche mi hanno ispirata molto: a quanto pare lui era un ottimo padre, ma superbigotto e conservatore, e sua figlia Giulia, beh... era un po' la Camelia di turno.

7. Ora rispondo con tono molto sassy agli hater del punto sopra: Fedio invece esiste, lol.
E niente, se non ve lo ricordate andate a cercarvelo su Pokémon Central Wiki. Non posso fare tutto io.

8. Adesso Anemone ha il cellulare nuovo, un fantastico Samsung S6 con 32 giga di memoria. 
Non permetterà neppure che esso subisca un graffio per tutta la storia d'ora in poi, tanto che per evitare che lo schermo si rompa lo adagia sempre sulle sue morbide gambe.

10. La scena del limone duro fra le nostre esponenti delle unioni (in)civili poco legali è la trasposizione in prosa tradotta del Carme V di Catullo "Vivamus atque amemus". E' una bella elegia, leggetevela che è molto romantica. 

11. Questo è probabilmente il capitolo in cui ho raggiunto l'apice della prolissità. Infatti da qui in poi mi sono ripromessa di essere più sintetica, o quest'anno alla maturità mi bocciano sul serio. Spero di mantenere la mia promessa, per il bene dei lettori.
Update: non mi hanno bocciata.

12. La coppia Camelia X Anemone penso sia l'unica ampiamente accettata dal fandom presente in questa storia. Si chiamerebbe Airplaneshipping, ma siccome così mi sembra il nome di una compagnia di spedizioni leggermente migliore di Chinapost, in questa storia possiamo chiamarla StarrySkyShipping visto che Camelia è definita una "stella" che scintilla nel buio ed Anemone è il suo cielo, mediante il quale essa può brillare. Inoltre, le due si dichiarano amore eterno proprio sotto un cielo stellato, non è carino come nome quindi?

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Capitolo 14
*** Noi siamo un po' diverse ***


ESGOTH 5



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
🍦
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Pokémon Black and White

Early Summer Girls

Capitolo 14logo png

Noi siamo un po' diverse


Dopo pranzo e prima degli allenamenti pomeridiani, il Campione Nardo aveva sempre lasciato un'oretta vaca da impegni o programmi per le ragazze, nonostante il loro ruolino risultasse sempre e comunque fitto e pieno di impegni.
 
Dalle otto del mattino alle sei della sera, coprifuoco alle dieci e sveglia alle sette, tanti numeri e tanti orari scandivano la routine delle aspiranti Campionesse, le lancette dell'orologio non smettevano mai di ticchettare una marcia rigorosa, militare, esigente della loro concentrazione a tutte le ore del giorno.
 
Ma non in quell'ora di dolce e meritato ozio. 
La quiete lì rallentava lo scorrere del tempo, giocava a ribaltare la sabbia nella clessidra per far riprendere fiato alle ragazze.
 
«Axew usa Gigaimpatto! Dragonite vai con Tuonopugno!»
 
Solo una di loro sentiva gravare sulle sue spalle il dovere morale di non interrompere ancora l'allenamento, non per un desiderio spontaneo di migliorarsi ulteriormente, ma più che altro spinta dalla necessità di essere, se non migliore, almeno allo stesso livello delle altre.
 
Come ci è ben noto, Iris odiava perdere. Lo odiava e basta, non poteva farci nulla.
 
Recentemente, grazie a qualche consiglio benevolo e l'aver assistito a lotte a dir poco mozzafiato, aveva riacquisito una certa confidenza, che le aveva infuso di nuovo la voglia di mettersi in gioco.
Non che ciò avesse diminuito di molto il numero di sconfitte che subiva quotidianamente.
 
Ogni tanto faceva errori stupidi, per i quali valeva la pena battersi la fronte; altre volte invece non capiva neppure dove stesse sbagliando, sapeva solo che i suoi Pokémon erano piombati a terra, incapaci di continuare a combattere, e lei stava lì a guardarli sbigottita.
Era solo colpa sua se aveva perso, non poteva incolpare nessuno e ciò la frustrava.
 
Ad Iris non rimaneva altro da fare se non sfruttare ogni secondo antecedente al torneo per esercitarsi, allenare i suoi Pokémon, rimuginare sulle strategie, preparare piani per la battaglia.
Aveva trascurato questo suo dovere per troppo tempo, ed ora ne pagava le conseguenze.
 
I due draghi si lanciarono prontamente all'attacco, performarono le loro mosse mettendoci grinta e passione, obbedendo alla loro Allenatrice come soldati fedeli solo al proprio duce, con il petto in fuori e lo sguardo concentrato nelle loro azioni.
Iris riteneva entrambe i suoi Pokémon straordinari e per nulla al mondo avrebbe osato accusarli delle sue sconfitte.
 
Del resto, un allenatore che sgrida i propri Pokémon è come un contadino che sgrida la terra su cui lavora.
 
Il mese di luglio era da poco iniziato e già l'ondata di caldo che periodicamente investiva la regione cominciava a farsi sentire pesantemente, tanto che stare fuori all'aperto era diventato letteralmente impossibile: la calura ammattente rendeva lungo e faticoso il minimo movimento.
 
Lì sul campo di lotta dove erano sempre solite allenarsi, Iris continuava a farsi e disfarsi la coda di cavallo pur di trovare un modo per sollevarsi i capelli dal collo sudato, anche sventolarsi continuamente con le mani provocava sulla sua pelle sensazione di soffocamento e realizzò di star percependo in bocca una sete terribile.
 
Allenarsi sotto il sole cocente, sudare sette camicie (ed il suo yukata) per una competizione in cui non vedeva neanche un'assurda possibilità di vincita, impiegare l'unico momento libero della giornata per affaticarsi ancora di più... Era quello in significato dell'impegno?
Si chiese la ragazzina, ormai al limite della sopportazione.
 
«Che schifo che faccio, - cominciò con voce lamentosa, come il coro di una tragedia - forse sarei veramente dovuta partire per Hoenn o per Sinnoh e diventare Coordinatrice... 
E se mi avessero presa per un Varietà Pokémon? Tanto anche lì si tratta solo di improvvisare una stupida coreografia e sorridere in un vestitino ridicolo davanti al pubblico...»
 
Le venne voglia di sbattere al suolo la Poké Ball che stringeva fra le mani proprio come Anemone aveva gettato il suo telefonino in preda all'ira. Tuttavia sapeva che era ancora più stupido ed infantile arrabbiarsi per la propria inettitudine, e perciò si trattenne una scenata degna di una rappresentazione teatrale.
 
Tutti gli sforzi che stava facendo le sembrarono ancora una volta inutili.
Fare l'Allenatrice era difficile, fare l'Allenatrice le richiedeva troppa pazienza, fare l'Allenatrice costa tempo e molti soldi, fare l'Allenatrice le sembrava il genere di mestiere meno adatto a lei.
 
Iris fece per richiamare Axew nella sua Poké Ball con un mesto sorriso sulle labbra come aveva già fatto con Dragonite: ma proprio quando fu in procinto di proferire quelle parole le parve di vedere un intenso bagliore, dovette socchiudere gli occhi nocciola per via dell'intensità di quella luce.
 
Si preoccupò molto, e la prima cosa che fece fu constatare che il suo piccolo Pokémon Zanna stesse bene, ed il risultato della sua analisi la sorprese alquanto, ma in senso positivo.
 
Dopo che quel bagliore improvviso si fu dissipato udì un verso che ricordava solo vagamente quello del suo amato compagno di giochi, suonava come un ruggito molto più potente, non feroce od aggressivo, esprimeva uno stupore quasi pari a quello della sua Allenatrice.
 
L'ombra che il drago proiettava sul terreno era aumentata di ben mezzo metro, le zanne si erano allungate cospicuamente, proprio in quel pomeriggio estivo che sembrava così brutto e dimenticabile.
 
Quello che finora era stato definito un Axew, da adesso in poi dovrà essere appellato con il nome di Fraxure,
 
«Non ci credo, ti sei evoluto! Sono così fiera di te, adesso non sei più il mio piccolino, eh?»
Iris corse incontro al suo Pokémon e lo abbracciò, facendo pur sempre attenzione a non ferirsi con quelle lame così affilate che il Pokémon Mascellascia presentava sul corpo.
 
La ragazzina si sentì felice per lui. Conosceva allenatori che erano nati, vissuti e cresciuti al fianco dei loro amici Pokémon, e per lei non era stato così, lei e Fraxure si conoscevano da soli tre anni, eppure ciò non le aveva impedito di godersi l'amicizia del suo compagno drago come fosse millenaria.
 
Era fiera di lui. Lo ammirava in un certo senso, anche lei come persona sognava un giorno di evolversi, di diventare più grande e più matura, per affrontare i nuovi pericoli davanti a cui la vita l'avesse messa e per sperimentare su di sé il concetto di crescere, maturare sia fisicamente sia psicologicamente.
 
Fraxure ce l'aveva fatta nel frattempo, a lei rimaneva ancora molta strada da fare.
 
Continuò ad accarezzarlo, sperimentando come la corazza che gli ricopriva il torso fosse diventata ruvida e tagliente come carta vetrata. Improvvisò perfino una danza della vittoria, esultando e ridendo all'apice della felicità.
 
«Sai che facciamo adesso? - gli disse, molto in confidenza - Andiamo dalle altre e gli facciamo vedere che figata di Pokémon sei diventato adesso!
E al torneo regionale, noi due, le mie compagne... Le polverizziamo!»
 
E così corse ridendo tutta eccitata verso l'interno della casa del Campione.
 
Aveva l'obbligo di togliersi sempre le scarpe prima di entrare, con i piedi nudi compieva passi ritmici e gioiosi come una ginnasta, stendendo le braccia percepì una sensazione di fresco definitivamente molto più piacevole di quella sperimentata all'aperto poco prima.
 
Ormai conosceva abbastanza bene la residenza estiva di Nardo, anche se il gran numero di particolari che la addobbavano la stupiva ogni volta che vi si addentrava: ogni tanto riusciva a notare un nuovo quadro raffigurante paesaggi come mari in tempesta o vulcani in eruzione, qualche ideogramma dal significato sconosciuto finemente intarsiato sugli stipiti, e poi vasi, strumenti, perfino una katana nera in ebano faceva viaggiare con la mente i visitatori verso uno scenario orientale ed affascinante.
 
Tutto d'un tratto una voce roboante e profonda ma dal tono piuttosto allegro sorprese la ragazzina dalla carnagione ambrata, arrestando il suo incedere contento.
 
«Iris, - Nardo appariva come un personaggio davvero pittoresco perfino all'interno delle mura domestiche - ti vedo piuttosto contenta oggi...»
 
Mossa da quel senso di piccolezza che si prova di fronte ad una persona più anziana ed importante, Iris abbozzò un inchino, farfugliando una risposta monosillabica in preda all'imbarazzo.
 
«Ad ogni modo, carissima, - Nardo sembrò ritornare serio - oggi pomeriggio niente allenamenti: ho un lavoretto speciale da assegnare a voi cinque, una specie di missione.»
 
La parola "missione" evocò immagini ben definite nella testa di Iris, che già aveva associato il termine ad azione, sparatorie, intrufolarsi in fortezze protettissime, aggeggi tecnologici, esplosivi, un agire furtivo e scaltro dove non sono ammessi errori.
Una missione era un qualcosa di più importante di un semplice "compito" o "dovere", si caricava di un significato profondo e sociale, la difesa della patria e degli innocenti, la sconfitta del male per mano del bene, il trionfo della giustizia e della libertà.
 
Tutte teorie molto astratte, e magari il senso di quella parole era pure ironico.
Lasciò che il vecchio uomo pazzo continuasse, senza neanche fiatare.
 
«Ai Magazzini Nove, la zona commerciale di Unima, sono stati riscontrati alcuni disagi quali strane sparizioni dei Pokémon di numerosi clienti, che sono state attribuite a qualche banda di ladri giovanissimi. 
Per evitare che questi probabili furti si propaghino nel tempo ho chiesto personalmente di intervenire, ma vedi, siccome sto invecchiando e voi ragazzacce sembrate abbastanza a vostro agio in ambienti così affollati e caotici come i centri commerciali...
 
Oggi pomeriggio quindi, voglio che facciate del vostro meglio per acciuffare questi criminali, senza "se" e senza "ma", voglio che dimostriate alla regione di non essere solo dei bei visini che non sanno neppure da che lato tenere una Poké Ball.»
 
Il Campione della Lega le fece poi cenno di riferire alle altre. Lei annuì e con passo sveltito si diresse nella grande stanza in cui lei e le sue compagne dormivano.
Prima che potesse allontanarsi di tre o quattro passi, Nardo tuonò di nuovo.
 
«E allora? - Iris lo guardò per l'ennesima volta completamente sbigottita - Non mi dici perché sei così allegra oggi?»
Notò una certa dolcezza quasi tipica di un nonno in quella voce.
 
«...I-Il mio Fraxure si è evoluto.» Ricordò quella dannata regoletta secondo cui bisogna riferirsi al Pokémon evoluto con il nome del suo stadio corrente.
 
L'uomo le poggiò una delle sue possenti mani sul capo e le strofinò la testa, scompigliandole tutti i capelli violetti e poi le fece un segno di consenso col pollice.
 
Con tutto l'imbarazzo possibile, Iris si diresse speditamente alla sua meta.
Tranquillamente aprì la porta, giocherellando con la Poké Ball di Fraxure lanciandola da una mano all'altra a mo' di giocoliere e parlando in modo piuttosto amichevole.
 
«Vi devo dare una notizia bomba, e sottolineo "bomba", ma prima che mi dimentico; ho appena beccato Nardo e mi ha detto che oggi pomeriggio non ci alleniamo, dobbiamo andare ai Magazzini Nove perché ci sono tipo dei ladri di Pokémon che scippano i clienti e in teoria noi dovremmo trovare il modo di catturarli, quindi volevo sapere se...
 
Ma perché siete tutte mezze nude?!»
 
Dopo tre passi contati all'interno della stanza Iris si paralizzò e tutto quello aveva intenzione di chiedere riguardo alla loro importantissima missione lasciò immediatamente il suo cervello.
Era terribilmente confusa, e come fosse affetta da una qualche strana forma di autismo, cominciò ad analizzare la scena nei minimi particolari, senza spiaccicare parola.
 
Tanto per cominciare, la musica alta che proveniva probabilmente dal cellulare di una di loro (una canzone che a dir poco detestava per via dei bassi martellanti e dell'eccessivo uso del sintetizzatore) le stava sfondando i timpani.
In secondo luogo provò a focalizzarsi sul tremendo odore di chiuso che permeava l'ambiente, dovevano essere le finestre serrate per impedire il passaggio del caldo, la magione era munita dell'aria condizionata e lì dentro si rischiava addirittura l'assideramento da come la stessero tenendo al massimo.
 
Alla fine Iris non ce la fece più e si trovò inquadrata da quattro paia di occhi uniti a degli sguardi rilassati, indifferenti e poco scossi.
La fecero sentire un'intrusa, e, a confermare questo suo presentimento, constatò che le sue care compagne, per utilizzare un eufemismo, erano tutte e quattro impegnate nel farsi ligiamente gli affari loro prima che lei entrasse a disturbarle.
 
Aveva percepito dall'odore nauseabondo di tinta e prodotti alcalini che probabilmente anche quel giorno Camelia lo avrebbe consacrato all'adornare e abbellire la sua figura, i due lembi di capelli che di solito lasciava ricadere ai lati del viso ora erano pinzati da due forcine sopra la testa e la frangetta nera, sollevata anch'essa, ne lasciava intravedere la fronte e le sopracciglia.
 
A pensarci bene, la ragazzina non aveva mai contato neppure una volta in un mese di convivenza quanti tipi di cosmetici, creme, e balsami la sua compagna si mettesse pur di apparire sempre così bella esteticamente, scorse solo in quel momento la minuziosità che stava impiegando nel rimuovere i più piccoli residui di colore nero opaco rimastele sul volto.
 
Senza restarne troppo sorpresa, si sarebbe aspettata di vedere Anemone attaccata al suo manga momentaneo, in una stramba posizione di lettura con le gambe a ridosso della parete disposte verticalmente, teneva il piccolo volume al contrario di fronte al viso; nonostante anche a lei piacessero quel genere di prodotti d'intrattenimento nipponici, aveva avuto modo di scoprire come i suoi gusti in fatto di fumetti manga e quelli della rossa fossero totalmente diversi.
 
Riuscì a discernere sulla copertina l'immagine di una ragazza in tenuta di combattimento disegnata con proporzioni assurde, che avrebbero spinto gli stessi Raffaello e Michelangelo a strapparsi i capelli da come la testa di quell'eccentrica protagonista stesse sì sette volte nel corpo, ma almeno quattro o cinque anche nel suo seno.
 
Catlina e Camilla erano sedute insieme l'una a fianco all'altra. Anche questa volta ritenne una banalità, un dato di fatto a cui si era abituata con il tempo e non la insospettiva più che la biondina aristocratica stesse mostrando qualcosa sul suo cellulare alla leader.
Quest'ultima si dimostrava molto interessata, e alla ragazzina dai capelli viola dispiacque un po' che le due bisbigliassero e non le permettessero di ficcanasare nella loro conversazione.
 
Osservando bene come il dito esile della compagna più grande scorresse veloce attraverso lo schermo, immaginò si trattasse di messaggi. Per qualche ragione stupida non riusciva davvero ad immaginare una come Catlina con dei contatti così umani ed informali. Camilla intanto rideva.
A vederle così, le due ragazze di Sinnoh sembravano le classiche amichette che hanno combinato un qualcosa di speciale e che le compiace talmente tanto da poterne gioire solo fra loro.
 
Normalità e stupore, sconcerto e calma, una storia di ordinaria follia: alzandosi da terra la Campionessa fece cenno alla mora di abbassare il volume assordante della musica che proveniva dal suo telefono, la rossa fece disinvoltamente una capriola all'indietro portando il peso dei piedi e del sedere verso l'esterno e riuscì a sedersi sulle ginocchia senza sgualcire il suo diletto volume, la giovane dagli occhi vitrei fece per stirarsi le braccia e la schiena.
 
Iris notò come quella sensazione mista di due opposti complementari le facesse provare un forte imbarazzo, anche se ad indossare solo l'intimo in quel momento non era lei.
La sua solerzia e la sua tempestività avevano predisposto la scena in quel modo fortuito. 
 
«Si muore di caldo qua dentro, e non fare quella faccia da scema, siamo fra ragazze e le tette non ce le possiamo tagliare solo per fare un piacere a te.»
 
Camelia fu la prima a parlarle chiaramente infastidita, mentre continuava ad asciugarsi i capelli.
Guardò la ragazzina reclinando la testa, aspettandosi che questa reagisse alla provocazione.
 
Iris respirò nervosa, «Per favore non adesso, Nardo ha detto che è una cosa seria, risparmiati i commenti.»
Sperò veramente di non invischiarsi nell'ennesima battaglia persa contro la mora.
 
«Qui ad Unima non avete un corpo di polizia, delle forze dell'ordine, un sistema giudiziario? - le fece notare Catlina - Perché dovremmo occuparci noi di una cosa del genere?»
 
«Non so, lo ha detto Nardo...» Iris sentì che l'esaurimento nervoso era imminente.
 
«Siamo assicurate almeno?» Domandò la stessa, rigirandosi una ciocca di boccoli biondi fra le dita, suonando preoccupata.
 
«Cosa?»
 
«Voglio sapere se siamo assicurate, se siamo coperte da un'assicurazione al di fuori degli ambienti di lavoro. Io non esco di qui se in caso di incidente, infortunio o lesa proprietà non ho la sicurezza di venire risarcita per i danni fisici e morali.»
 
Non appena Catlina ebbe finito di spiegarsi usando un tono di assoluto rigore ed inflessibile professionalità, la rossa agguantò la massa incolta di capelli cremisi che le ricadeva sul viso.
 
«Oddio, questo vuol dire che dobbiamo... Uscire? Fuori? Nel mondo esterno?»
 
«Sì Anemone, dobbiamo andare ai Magazzini Nove, appena fuori Boreduopoli...» 
La più piccola del gruppo tentò di spiegare, ma fu interrotta.
La rossa parlò più velocemente e scoordinatamente, continuando ad afferrarsi manciate di capelli come a volerseli strappare dalla disperazione, coprendosi il volto con le mani.
 
«No, no, no, no, no, io là fuori non ci vado neanche morta!
 
Iris, lo sai cosa mi hanno diagnosticato un po' di tempo fa, quando mi hanno fatto tutti i test per l'aeronautica, eh? Cito testualmente, disturbo di personalità antisociale in stadio aggravato.
Io appena esco da una stanza per più di dieci minuti comincio a sclerare di brutto, e poi oggi è una giornata di sole, che tempo migliore per restarsene a casa a leggere manga?»
 
«Inoltre non abbiamo gli strumenti adatti e neppure degli indizi su chi siano questi ladri di Pokémon. - Continuò Catlina, sempre più cinica riguardo quell'assurdo progetto - Questa volta rischiamo davvero di finire in guai grossi, e se questi criminali osano torcermi anche un solo capello io chiamo i miei avvocati e vi faccio causa.»
 
Indicandola di scatto con l'indice, Anemone fece per alzarsi sulle ginocchia.
«Aggiungici i danni psicologici!» La rossa e la bionda annuirono simultaneamente per dimostrarsi reciproco consenso, la principessa e la povera per una volta d'accordo su qualcosa.
 
La ragazzina più piccola del gruppo stava soffocando l'impulso di gridare insulti e lanciare parole rabbiose alle sue compagne neanche fosse impossessata da un demone.
 
Era snervante come ragazze più anziane di lei, che godevano di titoli onorifici e rispetto garantito, sapessero comportarsi da vere e proprie bambine con le loro scuse infondate e i loro capricci.
Inizialmente si sentì di testare da sé la violenza fisica e psicologica, tanto per dimostrare che la banda criminale doveva essere l'ultima cosa che gli avvocati della bionda dovessero temere.
 
Pensandoci bene, non solo in quella determinata situazione, ma durante ogni qualsiasi litigio o discussione nata all'interno del gruppo, ad essere bloccata con le spalle al muro non erano mai le sue bizzose compagne, era lei quella che doveva arrampicarsi sugli specchi affinché quelle bestie in reggiseno di pizzo non la dilaniassero con i loro artigli coperti di smalto.
 
E voltandosi verso la sua ultima speranza, «Camilla, ti prego, aiutami tu...» mugolò con voce esasperata, prolungando il suono dell'ultima vocale per mostrare la sua pazienza agli sgoccioli.
 
La diretta interessata fece un respiro che parve quasi doloroso, si alzò in piedi sistemandosi l'orlo delle mutandine in modo che le coprisse decentemente le natiche (in effetti fu portata a riconsiderare il proprio discorso sul sacro pudore delle donne, essendo stata lei la prima a trasgredirlo) e si passò il palmo della mano sul viso.
 
«Ragazze, Iris ha ragione. So che a volte dover pensare alla giustizia o al bene della regione è una scocciatura mortale, ma è dovere di un Campione farlo, anche controvoglia...»
 
«Camilla, guarda che in verità Nardo non lascia la sedia del suo ufficio neppure per prendersi il caffè, spiegami dove lo vedi il senso del dovere.»
Domandò Catlina, infilandosi pigramente un vestito color beige rifinito di fiocchi e merletti, com'era suo stile e tirandolo in modo che le coprisse appropriatamente i fianchi.
 
In mezzo ad un cumulo indistinto di indumenti abbandonati a loro stessi, Camilla frugava senza guardare in faccia nessuna di loro. Anche lei si sentiva artefatte scocciata da quel brusco obbligo di uscire in una giornata così torrida, anche la leader era umana dopotutto.
Ma l'arduo compito di tenere alto lo spirito di quel manipolo di scansafatiche era comunque suo.
 
«Senso del dovere a parte, avete pur sempre una reputazione da difendere. E non mi sembra che passare settimane su settimane ad allenarci in segreto, ingozzarci di sushi e girare a vuoto per la regione abbia contribuito molto a renderla una buona reputazione.»
 
«Ma quale reputazione e senso del dovere, - Camelia, a dispetto di tutte, era appena uscita dal bagno con i capelli sistemati ad arte ed il trucco già sul viso - siete delle asociali depresse allo stato puro, mi viene il cancro solo a stare con voi.»
 
Mentre la mora era intenta a selezionare attentamente quale outfit avrebbe scelto per la giornata, Anemone le aveva circoscritto la vita con le braccia, domandandole sottovoce se avrebbe definito anche lei un'asociale depressa; senza opporre resistenza a quelle coccole la modella le esplicò il concetto con un «Sì, tu più di tutte.»
 
«Comunque, qual era la notizia bomba che dovevi dirci?» 
Camilla glielo domandò rivolgendole un sorriso attraverso il collo della camicia che stava infilando e che le aveva scompigliato il ciuffo biondo.
 
Soddisfatta del risultato ottenuto, Iris scelse di appartarsi per togliersi il kimono ed indossare i vestiti della vita quotidiana. Era tutto così maledettamente stupido e confuso, dava ragione alle sue compagne, non aveva senso esporre le nuove Campionesse a rischi di quel genere, figurarsi se avrebbero avuto anche la minima possibilità di incastrare quei dannati criminali.
 
Ma alla fine, se avesse dovuto cercare un senso ad ogni sua singola azione e decisione, probabilmente non si sarebbe trovata lì, a controllare se le fossero rimasti degli spiccioli nelle tasche per i biglietti del treno, in quel momento, a riempirsi le orecchie di urla e vociare femminile.
 

 

«Ah, quindi il tuo Fraxure si è evoluto mentre vi allenavate? Forte!»
 
Non appena le porte automatiche si aprirono, lo scenario del vasto e scintillante centro commerciale catapultò le cinque giovani, che per un mese erano come rimaste isolate dal mondo civilizzato, nella realtà a cui appartenevano prima di unirsi alla competizione, ovvero quella delle adolescenti che durante il weekend vanno a fare spese con le amiche camminando in linea retta l'una accanto all'altra anche a costo di intralciare la via ai passanti.
 
Lo scalpiccio delle suole (anfibi, tacchi alti, sandali, scarpe da ginnastica e ballerine nell'ordine) ticchettava sul pavimento il ritmo di una marcia irregolare e frenetica, come una schiera di soldati che si avvicina alla prima linea nemica.
 
Così le cinque stelle, le cinque speranze ed idoli di Unima avevano fatto il loro ingresso ai Magazzini Nove, dove l'affluenza di clienti non si fermava nemmeno per via della calura.
 
«Vi prego, ci guardano tutti, andiamo via.» Anemone a causa dell'agitazione finì per stritolare la mano della compagna che teneva racchiusa nella sua, che l'altra mollò immediatamente.
 
«Camelia, ti avevo detto che non potevi uscire in pubblico vestita così.»
Camilla camminava spedita in testa al gruppo, all'apice di quell'ipotetica formazione a piramide.
 
«Tranquilla leader, - la mora le rispose convinta - possiamo girare tranquillamente in incognito senza che veniamo disturbate dai miei fan, credici o no, bastano un paio di occhiali da sole come i miei per questo.»
 
«Non mi riferisco a quello, ma che senso ha indossare occhiali che ti nascondano gli occhi se hai la pancia, le gambe e la schiena praticamente nude?» 
 
«Perdonami se sono l'unica che ha stile qui.» 
La ragazza con la frangetta si sistemò indispettita la canottiera scollata e la gonna a vita alta che le lasciava però scoperto l'ombelico e la cui lunghezza non arrivava neppure a coprirle le ginocchia.
 
Catlina controllava silenziosamente il cellulare, in disparte nell'ala destra, come il nunzio che aspetta il segnale di guerra del nemico, o semplicemente un soldato che vuole evadere gli ordini del comandante.
 
«Avete presente i film d'azione? Non possiamo andare in giro così a vuoto, ci serve un piano almeno per trovarli questi ladri di Pokémon.»
Iris si fece avanti, aspettandosi già qualche insulto solo per aver menzionato la "missione".
 
«Propongo di usare Iris come esca. In tutti i piani c'è sempre un'esca.»
Dopodiché la modella cercò con lo sguardo l'approvazione delle altre con l'intenzione di molestare verbalmente la ragazzina: se quella giornata sarebbe stata così inevitabilmente penosa per lei, tanto valeva renderla penosa anche per le altre, sopratutto per Iris.
 
«Se ci dividessimo? - propose la biondina, riponendo il cellulare nella borsetta - Questo posto è enorme, e non sappiamo quanto questa compagnia di ladri sia numerosa...»
 
«Approvo! Approvo in pieno! Io e Anemone andiamo a controllare al piano superiore, chiamateci se trovate qualcosa, altrimenti non osate romperci, ciao.»
 
Ancora prima di terminare la frase la mora aveva preso la povera aviatrice per il braccio e la trascinò in direzione totalmente opposta a quella verso cui stavano camminando le altre tre.
Le ci vollero un paia di strattoni per convincere l'amica a seguirla di sua spontanea volontà, essendo questa dotata di grande forza fisica unita ad una confusione dettatale dall'agorafobia.
 
Le due bionde più la ragazzina arrestarono il passo qualche metro più in là per decidere il da farsi.
Dopo alcuni secondi di esitazione, la vibrazione del cellulare della giovane nobile si fece risentire, costringendo questa a riprenderlo in mano per l'ennesima volta.
La faccia che ella fece non appena gettò l'occhio su lo schermo fu la cosa più simile ad un'espressione stupita che Iris ebbe mai avuto modo di vedere sul suo volto.
 
Catlina poi sussurrò con discrezione un qualcosa all'orecchio della Campionessa, che sembrò capire tutto al volo, come si trattasse di una procedura da tempo pianificata che doveva messere messa in atto una volta suonato il campanello d'allarme.
 
«Iris, - cominciò a parlarle Camilla, con assoluta serietà - possiamo affidarti quest'area circostante? Penso tu sia quella che conosce questo posto meglio di tutte noi, no?»
Camilla in effetti era al corrente di quando la sua apprendista aveva passato il pomeriggio con Velia proprio in quell'identico posto, glielo aveva riferito lei stessa. La ragazzina annuì.
 
Ripetendole che i loro telefonini ora fungevano da walkie-talkie e di agire il più segretamente possibile, la Campionessa le fece un piccolo discorso accelerato di incoraggiamento non molto utile al suo scopo primario, ossia quello di incoraggiare.
 
Poi le due ragazze di Sinnoh si allontanarono rivolgendole uno o due sorrisetti e, continuando a bisbigliare, scambiarsi occhiate complici e complottando chissà che cosa, sparirono nella folla che si ammucchiava sulle scale mobili.
 
Iris fece un respiro profondo, rassegnata. 
Se loro erano in numero dispari, perché doveva essere sempre lei quella lasciata da parte, si chiedeva. Ma non ebbe voglia di starci a riflettere nel bel mezzo di un atrio affollato.
 
«Meglio se intanto comincio, allora, posso partire da questo piano e poi fare il giro lungo per perlustrare tutta la zona...» 
Cominciò ad incamminarsi su di una strada invisibile, avrebbe fatto di tutto per distrarsi in quel genere di momenti.
 
Quei momenti in cui la lasciavano irrimediabilmente sola, e non se ne accorgevano neppure.
Le sue quattro compagne, anche se non lo volevano, sapevano essere terribilmente spietate.
Lo sapeva. Ma non ci diede peso, era inutile.
 
«Non posso passare l'estate a piangere. Tanto vale che mi metta a fare qualcosa della mia vita.»
Iris si mescolò tranquilla al flusso di clienti presenti nel centro commerciale, decisa a controllare attentamente ogni angolo e portare a termine diligentemente la loro missione.
 
Poco ne sapeva la nostra eroina, è vero che nei momenti di solitudine si fanno gli incontri migliori ma anche gli incontri peggiori.
 
Era passata una mezz'oretta, che per la ragazzina si era frammentata in continue sessioni di rapide occhiate remissive all'orologio del telefonino, che richiudeva con tedio straziante per controllare passivamente la zona.
 
Come poteva riconoscere dei criminali ad occhio nudo? Ma prima di mettere il carro davanti ai buoi, quei criminali erano davvero presenti in quel giorno, in quel luogo?
Iris non lo sapeva. 
 
Aveva fatto due passi intorno all'androne principale, senza entrare da nessuna parte, ed ovviamente i risultati erano stati straordinariamente insoddisfacenti.
Ricontrollò il cellulare, per vedere se ci fossero messaggini o chiamate perse dalle altre componenti del gruppo, ma il non essere cercata accrebbe solamente la sua tristezza.
 
«Quanto le odio quando fanno così, quanto le odio...» Pensò a denti stretti.
 
Iris si fermò di colpo, in mezzo a quella corrente di persone che migravano da un negozio all'altro, le sembrò di essere ritornata a quegli attacchi di panico che aveva avuto il mese prima, di notte, quando era tutta sola. Terribilmente sola.
 
Mentre la piccola aspirante Campionessa stava per abbandonarsi ad una latente disperazione, percepì una mano stringerle e scuoterle la spalla animosamente, costringendola a voltarsi.
 
Non se lo aspettava e rimase ancor più confusa di prima. 
Ma tutto le era preferibile a quell'orrenda solitudine.
 
«Ehi ciao, ti ricordi di me?» 
 
Per tutti i Pokémon del mondo, certo che si ricordava di lei. Come poteva essersela scordata?
 
Iris osservò la giovane che aveva attirato così violentemente la sua attenzione. Non la trovò cambiata di una virgola dall'ultima volta.
Aveva ancora i capelli color fucsia acceso, non li avrebbe detti il prodotto di una tinta da quattro soldi, quel taglio sbarazzino corto tuttavia sprizzava una certa femminilità.
 
Era vestita normalmente, una camicia lunga aperta che seguiva pedissequamente la moda di quel periodo abbinata ad una maglia ed un paio di jeans non troppo scosciati.
Le scarpe che indossava erano identiche alle sue, solo di un colore diverso.
Iris l'avrebbe senza dubbio definita una ragazza trendy e piuttosto carina, una che sa far risaltare la propria figura senza bisogno di tacchi alti o reggiseni imbottiti.
 
«Sì che mi ricordo di te, - le rispose, contenta di rompere quel lungo silenzio - ma non mi ricordo come ti chiami, scusa, magari me lo avevi anche detto, ma non mi viene in mente...»
 
L'altra ragazza si mise a ridere istantaneamente; Iris si focalizzò sugli occhi di lei, non si sarebbe mai dimenticata quel colore così singolare ed affascinante: azzurro chiarissimo, il colore degli iceberg che emergono dall'acqua ghiacciata e sotto la luce del sole rilucono come zirconi.
 
«Tranquilla, non pretendo che il mondo intero mi conosca...
Comunque mi chiamo Georgia, c'eravamo viste qualcosa come un mese fa, sempre qui...» 
 
Iris le sorrise a sua volta, imbarazzata. Se avesse aguzzato di più la vista non solo si sarebbe ricordata il suo nome, ma l'avrebbe riconosciuta e salutata per prima.
Così l'aveva solo messa a disagio, probabilmente.
 
«Ma, cioè, sei qui da sola?» Georgia le domandò, curiosa.
 
Iris rispose, a malincuore, cercando di celare il dispiacere che aveva nella voce.
«No, nel senso... Sì, e-ero qui con delle mie amiche, ma se ne sono andate per gli affari loro e quindi io...»
 
La ragazza la interruppe.
 
«Certo che queste tue "amiche" sono proprio delle bastarde.»
 
Quella arricciò il naso, alzò le spalle e stesse a godersi la giovane dai capelli viola, che le stava mostrando un'espressione facciale senza prezzo, come se lei avesse detto chissà che perla di saggezza.
 
«Ma, no, è solo che forse avevano di meglio da fare, sono anche più grandi di me, quindi me la metto via...»
Nel parlare sforzandosi di mantenere il sorriso, Iris balbettò così tanto che l'altra ne ebbe quasi pena.
 
«Oddio, ti capisco! Ho pure io delle, come posso chiamarle, conoscenti? Anche no, e queste sono tutte più grandi di me, mi fanno venir voglia di tagliarmi le vene da quanto stupide sono.»
 
Iris si meravigliò che qualcuno la capisse, credeva di essere l'unica al mondo a dover sperimentare l'essere la più giovane del proprio gruppo e tutti gli svantaggi a ciò annessi.
«Io le mie devo vederle tutti i giorni, tu non hai idea del disagio che si prova...»
 
Scoppiarono entrambe a ridere. Ma intanto la ragazza si chiese se il suo cervello e la sua bocca fossero connessi l'uno con l'altro in quel momento.
Era vero ciò che stava sostenendo? Odiava davvero le sue compagne? Forse sì, forse no.
Non ebbe un secondo per pensarci concretamente.
 
«Senti, hai voglia se ci facciamo un giro noi due, fregandocene del resto?  
Guarda che la volta scorsa me la sono legata al dito, non succederà che io ti lasci vincere ancora a quel gioco con le pistole che abbiamo provato la volta scorsa all'arcade.
Vieni, dai, ti offro io due partite.»
 
«Oh cavoli, grazie Georgia, ma davvero, non serve che paghi tu...»
A dirla tutta Iris parlò solo per educazione: le erano rimasti davvero pochissimi soldi in tasca ed era  abbastanza sicura che suo nonno non gliene avrebbe anticipati altri prima della fine del mese.
 
«Dai Iris, non fare la rompiscatole, e andiamo.»
 
«Okay, va bene, mi hai convinta.»
 
Le giovani si incamminarono l'una accanto all'altra, ma la sensazione che condividevano non era quella di mera sopportazione e forzata convivenza. Avere la stessa eta fisica e mentale fece sì che le due si sentissero sincronizzate su molto aspetti della vita che le loro compagne più adulte consideravano stupidi e banali, togliendo alle ragazze che dovevano ancora avere quell'esperienza il brivido e l'entusiasmo tipica della giovinezza.
 
«Ma lo sai che hai proprio un bel cappello? Dove lo hai preso?» Iris indicò entusiasta il berretto nero sulla testa della sua nuova amica, molto moderno con la visiera rigida e piatta, le piaceva veramente, anche se lei personalmente non se ne sarebbe mai comprata uno.
 
«Ah, questo? - Georgia fece una smorfia sbigottita dall'osservazione così puntuale - È un'edizione limitata, è come se me lo avessero regalato e quindi sinceramente non lo so dove lo abbiano preso.»
 
«Per caso sai cosa vuol dire quel simbolo bianco sopra la visiera? A me sembra tipo un simbolo geroglifico ma magari è solo per bellezza e non ha nessun significato...»
La ragazza dai capelli corti la interruppe bruscamente, parlando con tono molto più serio del precedente.
 
«Questo simbolo è una Mano di Fatima. 
Simboleggia forza, prosperità e fortuna per il futuro.
Praticamente questa Fatima era la figlia illegittima di un grande profeta e per questo fu allontanata e costretta a vagare nel deserto finché, quando era ridotta allo stremo, incontrò Dio che le impresse sui palmi delle mani questi segni portafortuna e le disse di portare il suo messaggio di pace e speranza in tutto il mondo.
Solo che gli uomini non le credettero e per punirla le tagliarono il pollice ed il mignolo delle mani.
Insomma, ecco cosa succede a chi cerca di portare un po' di giustizia nel mondo.»
 
Fra le due ci fu un breve silenzio. La ragazzina dai capelli viola rimase a bocca aperta, quella era la seconda volta che le succedeva in presenza di quella misteriosa giovane dagli occhi glaciali.
Com'era intelligente, colta, sagace, decisamente attraente e perfino brava ai videogiochi!
Non aveva mai incontrato una come lei, ne restò completamente ammaliata.
 
«Wow, che cosa forte. È bellissimo e ha pure un significato profondo. Mi fai sentire una sfigata così...» Ammise onestamente, ma senza alcun tipo di gelosia o rancore.
 
«Cosa spari Iris, sei una delle persone più giuste che conosca. - Le rispose l'altra - Io mi sarei troppo incavolata se delle deficienti con le mestruazioni isteriche mi avessero scaricato così, ma perché frequenti gente del genere, scusa... 
Vabbè, chi se ne importa, muoviamoci o ci fregano il gioco.»
 
Mentre ridevano, scherzavano e si divertivano assieme, Iris si ripeté nella mente, rimuginando e rimuginando su quelle parole senza riuscire ad ignorarle o cancellarle dai suoi pensieri.
«Quattro deficienti con le mestruazioni isteriche.»
«Ma hai davvero tutta questa voglia di andare a cercare questi fantomatici ladri di Pokémon?»
A forza di strattonare, porre resistenza e camminare velocemente al seguito della sua personalissima despota, ad Anemone era venuto il fiatone.
 
Si domandava come facesse quella a camminare sui tacchi dodici a tale velocità senza scomporre la sua andatura flessuosa ed il suo incedere simmetrico e regale.
La stupì il fatto che anche nella vita di tutti i giorni Camelia camminasse incrociando i piedi uno davanti all'altro, come se stesse ancora sfilando sulle più famose passerelle di Unima.
 
«Che stupida che sei, - le giunse in risposta, e lei chiuse un occhio su quell'appellativo tutt'altro che gradevole - ti sembra una cosa normale andarsene ad un centro commerciale per giocare ai supereroi?
Almeno qui non abbiamo Camilla a stressarci ogni cinque minuti perché "non posso andare in giro vestita cosi" e scemenze varie...»
La mora non si fermò né rallentò di un millesimo di secondo.
 
«Dove stiamo andando? Perché cammini così veloce? Dai, sai che questo genere di posti non mi piace per niente.»
Anemone provò a far leva sulla sua presunta agorafobia: detestava i posti affollati, quella della sua presunta malattia forse non era neppure una balla, tanto che se non avesse avuto il bisogno di lavorare si sarebbe volentieri chiusa nella sua stanza a vita, a passare le giornate fra anime, manga e videogiochi.
 
«Tesoro mio... - rispetto a prima, gli occhi della rossa si illuminarono all'essere chiamata in tal modo - mi avevi fatto una promessa, ricordi?»
 
«C-Cosa ti avevo promesso?» Disse lei, sorridendo leggermente, divenuta curiosa di sapere cosa avesse inconsapevolmente promesso al suo tesoro.
 
Quando la sua compagna aveva rallentato di colpo il passo, si rese conto che ormai era troppo tardi; si trovò costretta a seguirla all'interno di un locale dall'asfissiante odore di tessuti sintetici.
La ragazza dai capelli carmini si era trovata nel corso del suo apprendistato da pilota a volare attraverso le tempeste, a fare manovre assai rischiose sottoposta solo alla forza di gravita, sospesa nel mezzo del nulla.
 
Infatti in quel momento avrebbe di gran lunga preferito dover guidare un aereo in mezzo ad un uragano piuttosto che entrare in un negozio di vestiti firmati.
 
Le luci così folgoranti la fecero sentire una cerva accecata dai fanali di un'automobile, sperò che fra le numerose ragazze che si dilettavano a sperperare i loro risparmi in comunissima stoffa valorizzata da una stupida etichetta non ci fosse nessuna delle sue colleghe di lavoro.
 
«Conosci questo posto?» Le domandò la compagna, che si guardava intorno come un Allenatore alla ricerca di Pokémon selvatici nell'erba alta.
 
«No, ti prego, portami via.» Lei ribatté secca, sul punto di scappare via terrorizzata.
 
Camelia sorrise; curvò leggermente il polso indicando con la punta dell'indice un grande poster appeso alla vetrina: un poster enorme, avrebbe potuto tappezzarci la sua stanza.
E alla rossa non parve poi così ostile ai suoi desideri questa cogitazione: una bella ragazza dai capelli biondi tagliati corti e la frangetta che le nascondeva le sopracciglia la stava fissando con un'espressione basita e scandalizzata, le labbra coperte di rossetto di color ciliegia.
L'osservatore aveva quindi l'impressione di aver colto la giovane in un momento intimo, la gestualità di ella consisteva nel voltare il capo girata di spalle, con le braccia diafane atte a coprirle il prosperoso seno, che si intravedeva a malapena dietro la schiena scoperta.
 
Ma ancor più appariscente di tutti questi allettanti dettagli era il nome vagamente anglofono della marca di blue jeans che appariva sullo sfondo, azzeccata come un pugno in un occhio.
 
«Questa marca la adoro, - la mora pronunciò il nome con il suo perfetto accento inglese, mentre l'altra non riuscì neppure a figurarsi come si leggesse quella parola - veste praticamente tutti i tipi di corpo. Non è solo per le anoressiche che portano la ventotto.»
 
Anemone non si sprecò neppure nel capire che cosa stesse a significare quel ventotto.
Povero numero, pensò. I numeri, a suo parere, stavano bene nelle equazioni, nelle espressioni a far compagnia alle lettere delle incognite, nei grafici cartesiani e nei problemi di fisica.
Anche lei in quel momento si sentiva un numero fuori dalla sua espressione lineare.
 
Però, a fare da contrappeso nella bilancia delle sue preoccupazioni, vedeva che Camelia era felice. Cioè, "felice" nella misura in cui una come Camelia poteva essere felice.
Stava osservando con apparente noncuranza i vestiti appesi alle attaccapanni, tradendosi però con il suo stesso sguardo, concentrato come se stesse affrontando un'importante lotta in Palestra.
 
«Sono una debole, una smidollata, la sottomessa delle due, perché mi lascio comandare così...»  Anemone cercò di ricondursi alla ragione. Poi riguardò la sua compagna.
«Ma cavoli, perché io la amo così tanto, peggio di una stupida!»
Si corresse: non compagna. Bensì fidanzata.
 
La cifra d'amore che stimava per Camelia era un numero con miliardi di zeri in coda, potenza di dieci all'ennesima, moltiplicata per altrettanti insiemi di numeri infiniti.
Il suo ego dunque rappresentava solo una frazione infinitesimale, zero virgola zero periodico.
 
La continuò ad osservare in religioso silenzio, mentre la Taylor faceva shopping.
 
«Anemone, amore.» Si sentì chiamare e suo malgrado non esitò a risponderle.
Le brillavano gli occhi. Si appuntò che fra le pochissime cose che riuscivano ad ammorbidire la sua morosa tenera come un blocco di cemento c'erano i negozi dal nome impronunciabile.
 
«Quale ti piace di più?» La modella le domandò.
 
Le mise davanti a scopo di confronto due t-shirt che differivano per il colore, non per il modello.
Una maglietta a mezze maniche lunghe fino ai gomiti, che però scopriva la pancia, il tronco aveva un taglio decisamente troppo corto.
Tuttavia non sembrava uno di quei top attillati per dare alle acquirenti la falsa speranza di far risaltare forme inesistenti: era larga, morbida, per nulla succinta.
 
Oggettivamente, Anemone poté dirsi interessata per la prima volta in tutta la sua vita ad una questione di vestiti. Quella maglia era oggettivamente bella.
 
«Non so, a te quale piace?» Si dimostrò piuttosto trasparente la ragazza.
 
«Quella che piace a te, altrimenti cosa mi faccio, le domande da sola?» Ribatté l'altra, pungente.
 
Non che ci fosse molta scelta, non si trattava di trigonometria, poteva farcela anche una stilista inetta come lei; Anemone si convinse: bianca o blu scuro.
Indicò dubbiosa la seconda, incrociando gli occhi spazientiti della fidanzata, alla ricerca di un minimo segno di approvazione.
Quella le sorrise: Anemone gioì di aver risposto giusto a quella specie di test in cui nessun libro di scuola le avrebbe potuto fornire la soluzione, non importa quanto avesse studiato.
 
«Definitivamente, - Camelia le pose l'indumento scelto davanti al petto - il blu è il tuo colore, cara.»
Le sussurrò all'orecchio, sempre più raggiante.
 
«A-Aspetta, Cami, io credevo che volessi comprarla per te...»
La sua protesta fu interrotta, o meglio, fu la pilota stessa ad interrompersi scoprendo che l'altra non aveva ancora finito di parlare.
 
«Non mi sembri una che mette gonne, ma voglio fare un tentativo, mi sento masochista oggi. - Scherzò la mora, proseguendo la sua attenta ricerca fra gli appendiabiti - Tranquilla, niente minigonne o tubini stretti, se la maglia è così corta puoi sempre coprire con... Vita alta, ecco.»
 
Anemone la guardò compiaciuta, mentre scrutava la gonna abbinata: graziosa, dello stesso colore blu notte della t-shirt, lunga fino al ginocchio e per nulla attillata sui fianchi.
Quel completo rappresentava il perfetto connubio fra fascino e semplicità, moderno e tradizionale.
La modella doveva aver ben presente che vestirsi bene e vestirsi poco fossero due cose totalmente differenti. Erano solo i suoi outfit piuttosto rivelatori a far combaciare i due concetti.
 
«La mia taglia?» La rossa interrogò la sua ragazza, per metterla alla prova.
Camelia si posizionò davanti a lei, come aveva fatto per confessarle il suo amore, facendo combaciare il suo girovita con quello dell'amata, disegnando con le mani due rette parallele tangenti ai larghi fianchi di entrambe le fanciulle.
 
«Trentotto... Trentotto. Abbiamo la stessa taglia.» Aggiunse semplicemente. 
Un'uguaglianza perfetta di proporzioni a dir poco perfette.
 
«La "trentotto" sembra molto. più grande della cosiddetta "ventotto".» 
Rimarcò Anemone, che aveva appena intuito che la taglia ventotto rappresentasse la magrezza ideale per antonomasia.
Probabilmente una vita sottile come quella dovevano possederla solo persone particolarmente esili di corporatura, come Iris per esempio.
 
«Infatti io e te tecnicamente siamo plus-size. Cioè, io lo sono per contratto, tu... Per proprietà transitiva, diciamo.» 
La fanciulla abbronzata sentì una specie di eccitazione sublime al sentir quella che un mese prima aveva definito un'ignorante nominare la proprietà transitiva, ma subito si riprese.
 
«Cami, ti ringrazio tantissimo, hai un gusto fantastico nello scegliere gli outfit, ma vedi... Io non posso neppure vagamente permettermi nessuna di queste cose di marca... Dico, sono bellissimi, però cosi costosi... Mi dispiace.»
 
La sua fidanzata stette a guardarla un po', e la rossa ebbe da convincersi che il suo personalissimo monologo sull'intoccabile situazione economica l'avesse salvata anche quella volta. Poi la stessa sua fidanzata riaprì bocca.
 
«Mi avevi promesso che ci saremmo vestite abbinate. - A distrarla da quel discorso le puntò ancora il dito contro, verso il basso però - Altra cosa, non dirmi che hai solo quelle schifo di scarpe, ti prego, non posso vederle.»
 
Anemone si chiese se quella famosa sera a casa sua decidendo di fidanzarsi con Camelia non avesse per caso firmato un qualche contratto in cui il vestirsi bene era una delle classiche clausole invisibili scritte in piccolo.
 
«Cami, tesoro mio, ti prego, ascolta: sai che se potessi mi vestirei meglio di una fashion blogger per renderti felice. Ma non posso. Non posso proprio. Scusami.»
E fece per restituirle quei bellissimi indumenti. Magari sul corpo di una top model sarebbero stati messi più in risalto che da una poveraccia dalle scarpe sporche.
 
«...Prima però dammi la soddisfazione di vederteli addosso, okay?»
 
Camelia aveva, nel frattempo, rimediato un paio di scarpe con una spessa suola bianca, calcolando bene se perfino un'imbecille sgraziata come la rossa ci sarebbe riuscita a camminare.
Si avvicinò così tanto al viso della sua fidanzata che stentò al trattenersi dal riderle in faccia.
Quando ottenne il consenso arreso e sottomesso della stessa aviatrice ebbe quasi fretta di vederla entrare in camerino. Quanto le piaceva prenderla in giro per poi stupirla.
 
«Forse avrei dovuto prenderle anche uno o due paia di reggiseni e mutandine... E un profumo da donna; - frugando nella borsetta, buttò un'occhio per vedere se l'altra avesse finito di cambiarsi - dovrei ancora avere gli sconti che mi hanno regalato, di quel servizio fotografico per la pubblicità dei jeans extra-slim, per fortuna hanno preso me e non una qualche modella stecca, o adesso questo negozio sarebbe in bancarotta...»
 
Si diresse sicura, sui suoi tacchi alti di pelle sintetica nera, alla cassa per pagare.
Fra i ricordi di Camelia si erano fossilizzati tutti i vestiti di marca che aveva comprato per Corrado, interi completi scelti ad hoc da lei, interi pomeriggi passati a trascinarlo per i suoi negozi preferiti, mano nella mano, per poi postare le foto fatte in quei momenti sui social.
 
Ora probabilmente lui indossava ancora i vestiti che lei gli aveva preso, tenendo per mano un'altra ragazza; aveva guadagnato dei bei vestiti da quella loro relazione troncata nel peggiore dei modi, con l'umiliazione ed il tradimento. Questa conquista poteva concedergliela. 
 
Aveva però imposto a se stessa il sorriso, come si sarebbe imposta lo stare a dieta dopo essersi abbandonata allo sfogo nervoso, anche solo per un singolo assaggio di cibo spazzatura. 
I vestiti sono tessuto. Tessuto e basta. 
Qualche bottone, qualche lustrino, ma fondamentalmente tessuto.
 
Sotto quel tessuto, sotto le giacche eleganti, i jeans all'ultimo grido e le camicie in seta risiedeva ancora lo stesso ragazzo, la stessa pelle e le stesse mani che avevano preso a schiaffi lei.
Quanti di questi ammassi di tessuto gli avrebbe comprato la sua futura ragazza affinché Corrado non lasciasse anche lei? Camelia rise internamente. Che pena le faceva quell'uomo!
 
«Metti tutto sulla carta di credito della mia agenzia, e dì al mio manager che sono "spese necessarie". - Parlando amichevolmente con la commessa, abbassò gli occhiali da sole leggermente, facendole l'occhiolino - Fallo e posso lasciarti un autografo.»
 
Tornò da Anemone, che sembrava ipnotizzata dalla sua stessa immagine riflessa nello specchio.
Continuava a tastare con le dita la stoffa morbida della gonna, come la favola di Alice che vede se stessa trasformata prima in gigante e poi in formica da una semplice bevanda.
 
«Ti piacciono? Sono tuoi ora.» Le domandò, abbracciandola.
 
 Anemone non si era mai sentita così in vita sua. Così carina, così elegante. Così femmina.
 
Aveva accettato di arrendersi ad essere il maschio della coppia, a dover indossare i pantaloni e cucirseli alla pelle per tutto il resto della sua esistenza. Lavorare con i motori, studiare la fisica, amare le donne come fanno gli uomini sembrava essere il suo destino.
Aveva perfino rimuginato sull'essere nata nel corpo sbagliato, di non meritare seni ed organi femminili quando di femminile in lei non c'era nulla. Ma cambiare sesso era l'ultima cosa a cui avrebbe mai pensato.
 
Incredibile come bastassero una gonna neanche troppo corta, scarpe con un leggero tacco basso e una maglietta a farle sentire il suo sesso di nascita. Magari un po' di make-up qui e lì sul volto, una borsetta abbinata e un taglio nuovo di capelli avrebbero fatto un'ulteriore differenza.
 
Nella relazione amorosa in cui ora era invischiata piacevolmente, Anemone non poteva dirsi né uomo né donna: entrambe le due fanciulle si continuavano a proteggere a vicenda, senza che ci fosse l'eroe e la damigella in pericolo.
E non solo quello. Il sesso d'appartenenza non doveva dettare loro ruoli all'interno della coppia, il loro slogan rivoluzionario e bilanciante era "uguaglianza".
 
«Li hai pagati tu. Ovvio che mi piacciono... Cami, non dovevi, adesso sono in debito con te a vita.» Continuava a fissarsi allo specchio la ragazza in blu, al settimo cielo.
 
«Le tue colleghe non li vedranno neanche vendendo l'anima questi gioielli. Saranno costrette a cercare delle imitazioni made in China o magari in qualche negozio di seconda mano...
Sei così bella, dammi il tuo cellulare nuovo, voglio provare la fotocamera interna.»
 
Anemone obbedì. Era la prima volta che fare shopping le era così tanto piaciuto.
Ricambiò il tenero abbraccio in cui la modella la avvolgeva, riuscendo finalmente la sua stessa soprelevazione con i tacchi. Nonostante il fastidio ai piedi, era tutto fantastico.
 
Uno scatto allo specchio che le ritraeva entrambe lo avrebbe di sicuro impostato come sfondo del cellulare. Sorrise il più naturalmente possibile, come faceva la sua Cami (aveva pensato a lungo di darle un soprannome che i suoi fans non utilizzassero) abituata ai flash dei paparazzi.
Si risparmiò l'annoiarla ripetendole ancora "ti amo", non voleva rovinare la foto.
 
In quel momento di urbana felicità, Camelia depose l'aggeggio tecnologico, ed incontrò lo sguardo della giovane dai capelli scarlatti e si tuffò nei suoi occhi azzurro limpido. Non poté farne a meno.
Catturò con la mano bianca il volto abbronzato della sua fidanzata, come per portarsi alle labbra un boccale di delizioso e fresco vino per quella giornata torrida.
Come si aspettava, la rossa non si oppose, fece per ricambiare il bacio schioccando il suo affetto sul perimetro labiale della ragazza. 
 
Sarebbe dovuto essere un momento memorabile. E lo fu. Ma non in senso positivo.
 
«Che schifo, due lesbiche che si limonano...» 
«Fatelo quando siete per gli affari vostri, esibizioniste!»
 
Anemone e Camelia ruppero subito il bacio, separandosi di alcuni centimetri l'una dall'altra.
La prima si mise le mani davanti alla bocca, come se il suo fosse stato un reato.
Sapeva però che la sua ragazza non provava neppure metà della vergogna che provava lei.
E di sicuro le avrebbe ricoperte di aspri rimproveri, se non fosse stata costretta a girare in incognito vista la sua fama.
 
Entrambe le diciassettenni si voltarono a cogliere chi avesse gridato loro tali ingiurie spudorate e non ci misero molto ad identificare i calunniatori, anzi, le due calunniatrici, che continuavano a bisbigliare come ipocrite ad alta voce fra loro credendo di non essere state sentite abbastanza.
 
Le due ragazzine che indossavano un'uniforme scolastica a luglio, con tanto di gonna scozzese e giacca di feltro con ricamato lo stemma accademico avevano voltato loro le spalle.
Come se il semplice bacio di due adolescenti dello stesso sesso fosse stato fonte di scandalo.
 
Quante coppiette di fidanzatini standard vedevano dimostrarsi effusioni affettuose molto più spinte in bar, palestre, in discoteca e addirittura per strada, sotto gli occhi dei bambini e di tutti i passanti, senza ricevere neanche un monito di licenziosità anche dalle persone più moraliste.
 
Uscendo dal negozio di cui non aveva ancora imparato a pronunciare il nome, Anemone si fece una veloce analisi di coscienza, come faceva sempre dopo aver fatto qualcosa di sbagliato, data la sua natura mite e gentile: aveva baciato la sua ragazza.
 
Non una prostituta raccolta per strada, non la morosa di un amico, non una donna sposata od una personalità pericolosa: la sua fidanzata. Con la sua buona volontà e tutta la comprensione del mondo, non riuscì ancora a capire cosa ci fosse di sbagliato.
 
«Sai a cosa pensavo? - Camelia le portò il braccio dietro la schiena, avvicinandola a sé dopo quel brusco distacco - Che potresti diventare più bella di molte mie colleghe modelle, se volessi. - 
Capì che la mora stava facendo di tutto pur di distrarla dal quel suo pentirsi e dolersi dei suoi peccati insistenti, era stufa di vederla stringere i denti neanche avesse un cilicio attorno alle cosce o una frusta sulla schiena - Potresti metterti un po' di lucidalabbra, sistemarti i capelli... Quando torniamo a casa ti faccio la manicure, posso?»
 
Stringendo saldamente il sacchetto con dentro la sua nuova gonna, i tacchi e tutto il resto, Anemone rispose sommessamente, infiammandosi nell'animo.
 
«Sì, però dopo che avrò fatto a pugni con tutti gli stupidi che riprovano a chiamarti in quel modo.
Altrimenti la manicure si rovina, no?»

 

Oltre all'essere il luogo di convoglio dei più famosi negozi disponenti di prodotti ogni genere, i Magazzini Nove si erano guadagnati una modesta fama locale grazie alla presenza di numerosi locali per lo svago ed il relax degli allenatori, sopratutto di quelli che stavano intraprendendo un viaggio lungo e faticoso alla ricerca di tutte le otto medaglie in vista dell'apertura a fine estate della Lega Pokémon.
 
Nell'attico del centro commerciale infatti, situato all'ultimo piano, vi era un giardino di palme verde e rigoglioso aperto trecento e sessantacinque giorni all'anno, per via del vetro trasparente che lo copriva come una cupola, simulando un effetto serra capace di mantenere in quel determinato spazio un clima quasi tropicale, caldo ma non torrido, umido e fresco al punto giusto.
 
Numerose varietà di fiori facevano capolino dai loro germogli, invitati dai raggi del sole a dischiudere senza paura i loro petali che l'inverno aveva raggrinzito e sciupato, ormai gli ibischi variopinti, le giunchiglie screziate, il narciso e il rododendro si erano spogliati dei loro boccioli e facevano quasi a gara fra di loro, per vedere chi avrebbe attirato su di sé la maggiore quantità di attenzione.
 
Neanche a farlo apposta, Camilla si ricordò che il suo nome di battesimo era, prima di tutto, il nome scientifico di una pianta, un arbusto più precisamente, dai piccoli e delicati fiorellini bianchi.
Il nome della ragazza che le sedeva accanto invece, era quello di una specie di orchidea.
 
«Allora, ti ha risposto?» Domandò gentilmente Camilla, andando alla ricerca degli occhi della compagna, che prontamente posò altrove il suo sguardo, cercando nella borsa per controllare.
 
Era seduta esattamente accanto a lei, eppure la sentiva lontana mille miglia. Le dispiaceva.
 
Aspettò che l'altra controllasse il costoso telefonino e le desse una risposta. Se avesse voluto però, constatò la Campionessa, sarebbe stato suo diritto controllare lei stessa il contenuto di quel messaggio tanto importante: erano settimane che seguiva attentamente la conversazione.
 
"La storia di una giovane aristocratica e del il suo collega che era quasi morto per lei", se avesse dovuto trarne un libro avrebbe scelto questo titolo.
 
La serata in cui Catlina aveva letteralmente vissuto l'inferno, trovandosi faccia a faccia con il Neo Team Plasma, dovendo sopportare un inspiegabile dolore e vedendo una persona a lei vicina beccarsi una pallottola in pieno petto, quella sera l'aveva lasciata dormire, come le aveva chiesto.
La biondina era già fortunata se la leader le aveva concesso di aspettare una notte, prima di subissarla di domande con una curiosità a dir poco impertinente.
 
«Dove siete stati? Cosa avete fatto? Dimmi, da quanto lo conosci? È un bel ragazzo? È ricco?»
La interrogava, mentre la sua amica di infanzia arrossiva imbarazzata e rispondeva a bassa voce.
Tuttavia le aveva risposto molto onestamente, tanto che Camilla se ne stupì.
 
Era una storia così carina e letteraria da meritarsi veramente un romanzo rosa.
Una giovane ricca da far paura ma timida ed inesperta, che rivolge la sua attenzione ad un giocatore d'azzardo, figlio della strada, cupo e misterioso come un'eroe del Romanticismo.
O almeno, una lettrice in preda alle tempeste ormonali avrebbe voluto leggerla così.
 
«Ha detto che sarà qui in cinque minuti o meno.» Rispose Catlina, finalmente.
Ci fu un attimo di silenzio fra le due, mentre Camilla rimuginava sul come romperlo.
 
«Sei nervosa all'idea di vederlo?» Le appoggiò una mano sulla spalla su cui ricadevano i capelli.
 
«...No, non direi.» Rigirandosi il cellulare fra le mani, la bionda chiuse gli occhi un secondo.
 
Quello, teoricamente, doveva essere il suo primo appuntamento, il secondo primo appuntamento a dirla tutta, visto com'era andato a catafascio l'esito del primo vero e proprio.
Ovvio che doveva essere nervosa. Dopotutto, Mirton la rendeva sempre e comunque agitata.
 
Catlina non si era mai veramente dimenticata di lui. A partire da quando l'avevano risvegliata a casa del Campione, dopo aver perso i sensi, aveva pensato a lui ogni notte.
Quanto avrebbe voluto comunicare con lui attraverso la telepatia, come facevano i Pokémon di tipo Psico... Non potendo, aveva preso a mandargli messaggi ogni giorno, uno dopo l'altro, per assicurarsi che stesse bene, fino all'ultimo respiro. 
 
Ad essere onesta, non sapeva bene neppure lei cosa stesse facendo, ecco perché si era affidata all'aiuto di Camilla, considerandola la più assennata in quel gruppo di quattro svalvolate.
Le aveva fatto leggere tutti i messaggi e quando l'occasione per uscire si era presentata grazie alla missiva di Nardo, lui le aveva chiesto di incontrarla al più presto.
 
Ora stava lì seduta ad aspettarlo, quell'anima dannata che le stava scombussolando la vita.
 
«Come sei messa con gli uomini, ultimamente?» Camilla lo disse con tono scherzoso.
 
«Ah... Io... C-Così così. - le rispose l'altra, senza particolare entusiasmo - Tu?»
 
«Parlando da Campionessa, sono l'ultimo dei miei pensieri, gli uomini. Ho talmente tante cose da fare che gli unici appuntamenti che penso avrò mai sono quelli con i miei sfidanti!»
Camilla rise alla sua stessa affermazione, da quanto veritiera era.
 
Catlina fece mente locale: erano secoli che qualcuno non le scriveva messaggi, il suo telefonino era sempre quieto, così come i suoi weekend erano sempre vuoti, anche se doveva ammettere di detestare quell'abitudine presa da quando era entrata a far parte della Lega, addormentarsi davanti alla televisione mentre cercava di guardare un qualche drama, magari non partendo neppure dal primo episodio.
 
Non si identificava in quelle ragazze snob dai gusti impossibili da soddisfare, ma le era altamente difficile trovare qualcuno che non la facesse sentire a disagio, figurarsi se del sesso opposto...
Al contrario, Mirton non si era mai fatti problemi nel portare nella sua stanza ogni notte una ragazza diversa, tanto che lei si trovava perfino perfino a salutarla la mattina dopo per aggiungere al danno la beffa.
 
Aveva cercato di riassumere tutto questo nel suo "così così".
Si accontentò del fatto che Camilla non le avesse chiesto ulteriori informazioni.
 
Inutile dire che appena la biondina vide avvicinarsi un ragazzo alto, dai capelli nero corvino ed un impeccabile abbigliamento il cuore le sembro sfondare la cassa toracica.
Si augurò che questo secondo primo appuntamento andasse per il meglio, in cuor suo.
 
Camilla invece aveva una visione molto più oggettiva di ciò che stava accadendo in quel momento, una visione meno da romanzo rosa e più da saggio esplicativo. Stava in disparte a guardare.
Intanto trovò una cosa assolutamente anormale come Catlina stesse seriamente abbracciando quel suo collega: non lo strinse forte, neppure lui lo stava facendo, era il gesto a sconcertarla.
 
Se ogni volta che incontrava quel ragazzo lei faceva ciò, il suo solo ed unico mezzo abbraccio dato all'amica di infanzia la sera dell'incidente non doveva valere che un soldo bucato. 
 
A sua opinione inoltre, era strano come Mirton continuasse a toccare con apparente incoscienza la giovane, mentre parlavano le sfiorava la pelle in continuazione; gesti del genere davano fastidio ad una persona aperta e socievole come la Campionessa, come poteva una fanciulla così introversa come Catlina trovarli vagamente sopportabili?
 
Era chiaro come il sole dove quel tipo volesse arrivare. La giovane donna non riusciva a capire come costui pensasse di scamparla liscia, pensava davvero che i suoi gesti potessero apparire privi di una seconda intenzione, neanche fosse stato un bambino.
 
Camilla con successo soppresse tutti gli istinti rabbiosi che quell'antipatico risvegliava in lei.
Si vedeva da com'era vestito quanto dovesse essere preso dagli aspetti importanti della vita, come i soldi, il gioco d'azzardo e i rapporti occasionali.
 
Quando costui le passò accanto non arrestò neppure il passo per rivolgerle la parola, proseguì dritto con la sua nuova preda, che lo seguiva fedelmente.
 
A culminare la sua arroganza ed il suo esibizionismo, il membro dei Superquattro di tipo Buio lanciò a Camilla un mazzo di chiavi tintinnanti, che la donna di riflesso prese al volo.
Gli rivolse un'occhiata omicida, mista alla più totale incredulità.
 
«Mettila dove vuoi, - non la guardò neppure negli occhi mentre parlava - ma non in seconda fila.»
 
«Non sono una parcheggiatrice.» La Campionessa di Sinnoh strinse i denti.
 
«Hai la patente, bionda?» La squadrò lui dall'alto in basso, quasi lei fosse una sua cameriera.
 
«Sì, ma non sono comunque una parcheggiatrice.» Ripeté lei, decisamente più stizzita.
 
Prima di lasciarla sola tenendo per la schiena la bionda, Mirton posò sulla mano della sua personalissima serva una banconota verde tutta stropicciata.
 
«Attenta a non graffiare la carrozzeria.» La ammonì, con il tono di un presuntuoso schiavista.
E alzò i tacchi, dirigendo con sé la sua piccola al loro secondo primo appuntamento.
 
Essendo una persona assolutamente razionale, Camilla rimase due minuti ferma a riordinare le sue idee, perché la confusione mentale che regnava nella sua testa le pareva incontrollabile: quel cretino o aveva davvero scambiato per una serva la Campionessa di una Lega di dignità pari, se non maggiore, a quella in cui lavorava lui, o l'aveva scambiata per la classica amica che si unisce come ruota di scorta agli appuntamenti degli altri.
 
Osservò attentamente anche la banconota che aveva fra le mani, insieme alle chiavi della vettura, e ne notò il valore monetario piuttosto cospicuo.
 
Camilla sorrise e subito si diresse a fare ciò che quel pallone gonfiato le aveva rudemente ordinato di fare. Aveva anche già una vaga idea di come spendere quei bei soldi.
 
«Grazie mille, idiota.»
Stirò con le mani ciò che costituiva la tattica di conquista di quel verme.
 
 

La ragazza dai capelli biondo platino lasciò che il buon profumo da uomo scelto apposta dal suo collega le inebriasse le narici prima di rompere il leggero abbraccio. I due non si stavano neppure sfiorando con le braccia, ma alla ragazza non importò granché.
 
Mirton era vivo. Era ancora vivo dopo essersi fatto quasi uccidere. Tutto questo per lei.
Era morto e poi risorto per lei. Non sapeva cosa dire, era tutto semplicemente straniante.
 
Una volta sedutasi, gli tastò impercettibilmente il petto, alla ricerca del punto fatale. Lo trovò senza fare troppi tentativi, una parte coperta da una spessa garza sotto la camicia.
Immaginò una ferita profonda e grave, ma non mortale: il buco lasciato la proiettile non avrebbe permesso a Thanatos di strapparglielo via, finché il Fato aveva deviato il colpo in una zona fra lo sterno e il primo ordine di costole, abbastanza lontano da cuore, polmoni ed esofago. 
 
«Sei carina, - iniziò lui, sorridendole beffardo - a preoccuparti per me solo quando sono quasi morto.»
 
«Ti hanno fatto la maschera o l'ago?» 
La biondina glielo domandò quasi sottovoce, continuando ad esaminargli il petto.
Il collega però le riservò uno sguardo confuso e velatamente spaventato.
 
«N-Nel senso... - cercò di spiegarsi, imbarazzata - per anestetizzarti, ti hanno fatto inalare il gas con la maschera o ti hanno bucato il braccio? Perché con la puntura di solito hai meno dolori post-operazione, fare maschere su maschere può anche peggiorarlo, il dolore.»
 
«Ah... E chi si ricorda... So solo che adesso non potrò fumare per almeno tre o quattro mesi...»
Mirton sviò apposta la domanda, emettendo qualche risata forzata, trovando veramente assurdo che una ragazza gli ponesse tali domande ad un appuntamento.
 
«Vorrei che tu la smettessi sia di bere che di fumare. Dovresti preoccuparti di più della tua salute.»
 
«E tu, Catlina, - prima che la ragazza potesse ribattere, lui le passò una mano sulla testa e poi sul volto, costringendola a chiudere gli occhi - tu ti preoccupi della tua salute?
Guarda, hai la pelle d'oca a luglio.»
 
Prima che ella potesse gettare un occhio sulle sue braccia bianche per vedere se la pelle si era intirizzita in seguito al fenomeno dell'orripilazione, Mirton si era tolto la leggera giacca in feltro pregiato di colore nero ebano e l'aveva posta sulle spalle nude della giovane di Sinnoh.
 
Catlina gli sorrise timidamente, per dimostrare che trovava comunque galante quel gesto tanto inusuale ed imbarazzante. L'uomo prese fra le dita una delle ciocche dei capelli, percependone la pulizia e la delicatezza.
Sembravano filigrana, la chioma di Berenice sul cui morbido flusso si disponeva il cosmo intero.
 
Quell'atmosfera fece tremare un qualcosa nel subconscio della bionda. Non sapeva cosa però.
Mirton sospirò e andò a raccoglierle la mano minuta per portarsela vicino alla bocca.
Quel qualcosa si rifece sentire, un po' più insistentemente.
 
«Ho intenzione di smetterla - cominciò, stupendosi di star parlando seriamente una volta tanto - con questa vita da miserabile. Senza soldi, senza lavoro, vivere alla giornata, che pena.
Dovrei mettere qualcosa da parte per il futuro, ho ventisei anni ormai, sto buttando la mia vita.
 
Se mi facessi una carriera invece di buttare continuamente soldi e tempo per scommesse e schedine, mi basterebbe trovare una con i piedi per terra e sarei anche a posto.
Magari, adesso mi darsi del pazzo... Sposarmi e mettere su famiglia qui ad Unima...
 
Non lo so, mi andava di parlarne con te, Catlina. Ci conosciamo da un po' ormai, quattro o cinque anni più o meno, volevo fartelo sapere. Non sono più lo scemo di un tempo.»
 
Finito di parlare i due si guardarono negli occhi. Ora che Mirton aveva imparato a decifrare i codici criptici celati nelle iridi verde acquamarina, poteva riconoscere una nota di ammirazione nella dolce e fragile fanciulla. Sembrava sorpresa inoltre.
 
Dopo che gli ebbe domandato se parlasse sul serio o stesse per l'ennesima volta scherzando, la invitò ad alzarsi in piedi e la chiuse in un abbraccio molto più vigoroso del precedente, toccandole la schiena con le mani.
L'uomo provò un certo piacere nel tastare la consistenza della carne, la sinuosità delle forme.
 
Catlina teneva le braccia attaccate al petto, leggermente turbata. 
Voleva abbandonarsi a quella confessione del suo amico assai nobile e virile, degna di un gentiluomo, ma sentiva il corpo rigido.
Un continuo sentore di freddo ed ansia le correva lungo la spina dorsale, ma non aveva alcun che di cui preoccuparsi, la pelle d'oca era uno dei sintomi più visibili di ciò che sentiva.
 
Respirava con lui, focalizzandosi sulla sua felicità. Era vivo ed era cambiato... Tutto qui?
Non era mai stata così vicina a qualcuno, ragionò. Mai così vicina ad un maschio in vita sua.
Mirton la stringeva possessivamente, ma senza metterci troppa forza. Era bello, era okay.
 
Il ragazzo sussurrò qualcosa al suo orecchio, respirandole sulla pelle ed accarezzandole la nuca.
Un breve sfiorarsi delle sue labbra seducenti le accarezzò la guancia rossa come una ciliegia.
La biondina chiuse ancora gli occhi. 
Non voleva vedere oltre. Non voleva sentire oltre.
 
«No, non adesso, avrei dovuto prendere le pillole e farmi le iniezioni, non ora, no!»
 
Infine, la giovane percepì la pressione dell'aria sopra la testa triplicarsi fino a schiacciarla, le dolevano le ossa al semplice stare in piedi, i legamenti incastrati in posizione bloccata.
Le mancava l'aria da quell'abbraccio. Voleva romperlo. Subito.
 
L'ultima cosa che Catlina sentì fu un colpo alla testa, un fortissimo colpo alla testa.
 
Non ci è più consentito seguire i pensieri e le elucubrazioni della giovane aristocratica, tanto che neppure ella fu in grado di intendere e volere in seguito a tale impatto alla sua labile psiche.
 
Mirton era sul punto di baciarla dunque. Aveva sentito il tempo quasi rallentare, l'attesa che volgeva ad unire le labbra dei due amanti sembrava infinita e molto romantica. Una sensazione rara, per uno abituato a baciare almeno sei o sette ragazze a settimana.
 
A riportarlo nella realtà e nel tempo materiale furono due fenomeni. Uno più inquietante dell'altro.
 
Aveva sentito Catlina scivolargli dalle braccia, cadere verso il basso come da svenuta.
Se fosse stato così avrebbe potuto ancora salvarla e sorreggerla a sé. Non successe.
Gli sembrò quasi che la ragazza lo stesse spingendo via con le braccia, lontano da sé.
 
Catlina pareva muoversi a scatti, agitando svariate parti del corpo con convulsioni aritmiche, come i pesci quando vengono privati dell'acqua, il suo corpo, le braccia, le gambe e la testa continuavano ad torcersi infernalmente, senza che la povera ragazza potesse controllarli.
 
Gli era caduta dalle braccia ed era distesa per terra, inerme, come presa da uno shock elettrico.
Il tutto era successo così ex abrupto che nell'impatto con il pavimento aveva anche battuto la testa.
 
Il Superquattro di Tipo Buio non poté udire neppure quella volta un grido, nemmeno una parola.
La ragazza era in un'agonia tremenda a vederla da fuori, come condannata ad un dolore straziante che solo lei poteva percepire e stava lottando per liberarsene.
 
Il cosiddetto "grande male" era tuttavia appena iniziato.
 
Sulle sue labbra si accumulavano grumi di saliva trasparente uniti a goccioline scarlatte, dovute probabilmente al contrarsi perfino di mandibola e mascella che le stavano macerando la lingua a suon di morsi.
 
Ironico. Prima del bacio Catlina aveva avvertito il primo segnale di quel pandemonio con un aumento di saliva. Data la sua natura di incorreggibile principessa, le rincrebbe molto l'aver sputato involontariamente a causa di una convulsione improvvisa, la primissima delle mille che la stavano investendo in quel momento.
 
Aver sputato in faccia al suo collega la fece vergognare come non mai. Che figura penosa.
 
Intanto, una gran folla di curiosi si stava raggruppando intorno alla ragazza sofferente, tenendosi a buona distanza da quello spettacolo tanto divertente quanto ripugnante.  
Ovviamente nessuno ebbe il coraggio di fare nulla per aiutarle la giovane dai capelli biondi.
 
Satana pareva aver invaso il suo corpo. Ora il suo male interiore era un divertimento per i più.
 
Mirton, preso dal panico, non capendo cosa stesse succedendo, alzò i tacchi.
 
Si sentì veramente uno scemo, non era possibile che quella ragazza, foderata di quattrini com'era, avesse sempre un nuovo problema, sempre una scusa per allontanarlo.
Inoltre era decisamente spaventoso quello che era appena accaduto. Se lo sarebbe sognato di notte.
 
Immaginò disgustato se Catlina avesse dovuto scoppiare in quelle strane crisi in ogni momento cruciale della sua vita e consequenzialmente rovinarlo. Il suo matrimonio, la cerimonia di avanzamento dell'età, perfino il suo primo bacio sarebbero stati tutti ricordi orribili.
 
«Non mi serve una ragazza del genere, - si disse - che vada a rovinare la vita di qualcun altro.
Avrà anche i soldi, ma come persona non vale nulla.»
 
Le gettò un ultimo sguardo, ma lei non sembrava neppure aver notato il suo allontanarsi.
 
Quella sera, immaginò il giovane uomo rimasto con solo polvere nelle mani, avrebbe avuto bisogno di distrarsi: una o due belle ragazze trovate a qualche raduno di ricconi avrebbero tranquillamente cancellato l'illusione di vero amore che Catlina rappresentava per lui.
 

Erano le quattro di pomeriggio. La radio funzionante nel locale aveva appena finito di trasmettere una canzone famosissima, la hit di quell'estate a parere di molti, ed aveva annunciato l'orario con inspiegabile entusiasmo.
 
I ventilatori sul soffitto sventolavano i clienti con le loro raffiche, in ogni singolo bicchiere presente sul tavolo ci dovevano essere almeno quattro o cinque cubetti di ghiaccio.
Quella catena di bar era la più famosa e frequentata della regione, eppure le bevande servite erano sempre di qualità scadente, di qualche marca commerciale, riempite di zucchero e carbonio.
 
Le nostre quattro allenatrici più grandi sedevano ad uno dei tavoli, le due di Sinnoh l'una accanto all'altra di fronte alle due di Unima.
Nessuna aveva voglia di conversare. Stavano tutte con gli occhi bassi, a leggersi e rileggersi il proprio nome scritto con una calligrafia a dir poco abominevole su una tazza di plastica.
 
Dopo un sospiro doloroso, Camilla si decise ad aprire bocca.
 
«Che giornata da schifo.» Commentò.
 
Le altre tre giovani provarono ad andare in cerca di una qualche antitesi, senza successo.
 
«...già.» Fecero in coro, guardando ognuna in una direzione diversa.
Quella giornata effettivamente stava facendo schifo. Molto schifo.
 
Com'era possibile che quattro su cinque candidate al titolo di Campione della regione, abili lottatrici e determinate personalità potessero trasformarsi in perfette disadattate sociali una volta messo fuori il piede dal campo di lotta?
 
«Cami. - Anemone riusciva a consolarsi solamente mediante l'idea di aver comprato nuovi vestiti - Finisco io la tua bibita, dammela se non la vuoi più, non sprechiamo cibo.»
 
La mora strappò dalle mani della compagna la lattina colorata prima che ella potesse afferrarla dando per scontato il suo consenso. Era strano: di solito era sempre il pensiero a confortare Anemone, mai il possesso.
 
«Che dolce, - le rispose in tono acidissimo - sei davvero disposta a riempirti di brufoli e mettere su cinque chili al posto mio, così mi sarà più facile scaricarti... Sono commossa, tesoro.»
 
«Aspetta, quindi se diventassi grassa e brutta non mi ameresti più?» Fece la rossa, sconcertata.
 
Dopo essersi riconnessa al pianeta Terra, Catlina fece un gesto con la mano.
«Camelia, posso averla io, per favore?» Le chiese senza lasciar trasparire alcuna emozione.
 
Dopo che la modella le ebbe passato la lattina, la giovane non si fece problemi a bere dal buco sulla parte metallica, cercando di ingurgitare la maggior quantità possibile di liquido.
Era l'unico modo non deplorevole che aveva di alleviare il dolore delle vesciche gonfie che sulla sua lingua si erano formate di conseguenza ai continui morsi, dilaniandole la carne.
 
Camilla le si avvicinò all'orecchio, appoggiandosi comodamente alla sua spalla.
 
«Non sapevo - le aveva detto, senza che lei potesse intendere il suo giudizio - che soffrissi di crisi epilettiche.»
 
Camilla aveva imparato una cosa nel quel mese in cui aveva avuto la possibilità di rivedere la sua amica di infanzia: se voleva approcciare la biondina doveva farlo nel modo più neutro possibile.
Niente commenti, niente domande, niente imbarazzo o commiserazione.
 
L'aveva trovata agonizzante, in preda a quelle convulsioni involontarie, e la prima cosa che fece fu, come da manuale di primo soccorso, toglierle dalle spalle la soffocante giacca da uomo per porgliela sotto la testa a mo' di cuscino, per evitarle una commozione celebrale.
Poi girare il soggetto sul lato destro, le avevano insegnato, per evitare che si soffochi.
 
«Mi dispiace per quel ragazzo. Sembrava una brava persona.» Le disse.
 
Le parole discordavano totalmente con i pensieri della Campionessa; no che non sembrava una brava persona. Certamente non lo era stato. Ne' con lei ne' con la compagna.
Lo sapeva, quel figlio della strada poteva portare solo guai e le sue previsioni si erano rivelate esatte. Si risparmiò un "te lo avevo detto", perché ci teneva alla sua amicizia.
 
«Pazienza. - Catlina ci aveva messo relativamente poco per riprendersi dal "piccolo male", lo stato di confusione che succede l'attacco di epilessia - È stata colpa mia, alla fine.»
 
Quanto sa essere ingiusta la vita, quando relega una ristretta cerchia di persone all'infelicità più ingiustificabile, mentre alle loro spalle il mondo continua a girare, gaio ed indifferente ai loro problemi. Così si sentivano le quattro, un mondo a parte, un mondo disprezzato dalla gente.
 
Si accordarono nel far riposare due minuti le loro squadre di Pokémon, trovandosi anche un Centro Pokémon all'interno dell'ampio locale, loro almeno lo meritavano. Poi se ne sarebbero tornate a casa e avrebbero fatto di tutto per dimenticare quella giornata.
 
«Certo che ci mettono un po' per ricostituire, - commentò la rossa - guardate che calca di gente c'è davanti al banco di accettazione, qui finiamo a mezzanotte se tutto va bene.»
 
«Ma se guardi bene, - cercò di rassicurarla la bionda - c'è quel gruppo di ragazzine che è là davanti da quando siamo arrivate. Le vedi, quelle ragazzine...»
 
«Ragazzine?! - la interruppe Camelia, ridendo - Bambine, direi. Non avranno più di quattordici anni!»
 
Dopo averle rivolto un'occhiataccia spazientita, Catlina continuò. «Quel gruppetto con le giacche blu, la gonna grigia e il fiocco rosso.»
 
«Sembra un'uniforme scolastica.» Camilla aggiunse quel piccolo dettaglio.
Anemone e Camelia sapevano di che stava parlando, e si offrirono di spiegare il tutto alle due amiche straniere.
 
«Sì, sono le uniformi della Municipale di Boreduopoli. 
 
È una scuola elementare, media e superiore privata per gli allenatori figli di ricconi e di personalità di spicco della politica e del mondo delle lotte.
Solo la retta scolastica costa più di quanto guadagno io in tre mesi, ci credo che vadano in giro con l'uniforme a luglio!»
 
Tutte e quattro le prosperose fanciulle scrutavano quella piccola folla di ragazzine in divisa scolastica in un misto di ammirazione e disgusto: le scuole e l'istruzione sono un diritto pubblico ed essenziale, come poteva esistere un'élite di allenatori prescelti che meritassero di imparare l'arte della lotta Pokémon a dispetto di chi doveva sudare per auto-istruirsi nello stesso ambito?
 
Ad un certo punto però, nella mente della leader si accese una scintilla di dubbio. 
Aveva aguzzato la vista attraverso il suo ciuffo prominente quanto il suo petto ed aveva notato un dettaglio molto particolare. Molto sospetto.
 
«Scusate, - attirò con la sua solita gentilezza l'attenzione delle altre - ma queste allenatrici in uniforme hanno per caso venti Poké Ball a testa?»
 
Camelia, Anemone e Catlina si voltarono, esibendo delle espressioni sbigottite, cercando di non dare nell'occhio e di non costringere la loro leader ad indicare per non farsi riconoscere.
 
«Guardate: la prima della fila è lì a prendere Poké Ball dal banco del ritiro da almeno mezz'ora.»
 
Battendo forte sulla spalla della sua ragazza, furono costrette a zittire Anemone, che aveva anche lei notato un particolare sospetto, come in una storia di detective.
«Oddio, guardate bene cosa fanno quelle due a destra, subito dopo la tipa al banco.»
 
Tutte stettero a guardare. 
 
«Guarda... Prende la Poké Ball... La passa sotto la gonna alla tizia vicina... Che la passa a sua volta... Ancora una volta... Poi arriva a quella all'uscita...»
 
«...e le infilano tutte in quella borsa da ginnastica.» 
Quando Camelia aggiunse l'indizio finale le altre diedero uno sguardo all'uscio, ma quelle ragazze si trovavano davvero in ogni angolo del bar, alcune stavano perfino fuori a fare da palo, probabilmente.
 
Non c'era più alcun dubbio.
 
Eccoli, eccoli lì i fantomatici ladri di Pokémon di cui parlava Nardo, o meglio, le ladre di Pokémon.
 
Il fatto che si trattasse di adolescenti benestanti desiderose di combinare qualche marachella e non poveracci disperati disposti a tutto la rendeva una situazione deplorevole.
 
Chiunque con un minimo di senso della giustizia ne sarebbe stato mosso.
E straripando le nostre eroine di senso della giustizia, non esitarono ad intervenire.
 
«Signori, quelle ragazze stanno rubando i Pokémon dei clienti, bisogna fermarle!»
Gridò Camilla, alzandosi subito in piedi ed indicando le suddette con fare allarmato.
 
Aveva attirato su di sé l'attenzione di tutti i presenti, che sotto uno scrosciante bisbiglio la vedevano come se fosse lei a disturbare la quiete pubblica, come se si trattasse di una matta.
 
Una di quelle bambine un po' troppo cresciute si accorse che si stava riferendo a loro, da vittima innocente si indicava il petto come San Matteo nella Vocazione del Caravaggio, ma solo dopo essersi consultata con le sue compari si degnò di parlare.
 
Era una ragazza come tante altre, normale in tutti gli aspetti, se non fosse stato per i capelli ed altri piccoli dettagli le componenti di quel vasto gruppo si distinguevano a malapena.
 
«Scusa, ma cosa stai dicendo? Cosa vuoi da noi?» 
Chiese con tono arrogante alla donna che doveva avere almeno cinque anni in più di loro.
 
«Avete idea - cominciò la bionda, sofistica - di quanta fatica hanno impiegato gli allenatori di questi Pokémon per allenarli e di quanto amore serbano nei loro confronti?
Se volete avere dei Pokémon forti, perché non allenate i vostri e non lasciate stare quelli che non vi appartengono? Avete preso le loro Poké Ball, lo hanno visto tutti.»
 
Le scolarette avevano preso a fare commenti, senza ascoltare una sola parola di quel discorso.
 
«Senti, noi non c'entriamo nulla!»
«Smettetela per favore, ci state mettendo in imbarazzo!»
«Non hai le prove per dire che noi stiamo rubando Pokémon, - questo fu l'unico vero intervento che interessò veramente Camilla - state solo facendo una figura da cretine così.»
 
Camelia si alzò per affiancare la sua leader, con il fare rilassato e poco rabbioso che le aveva portato fortuna nel contrastare dei signori di mezza età appartenenti ai servizi sociali.
Cosa potevano farle delle bambine, quando lei alla loro età già lottava a livello professionale?
 
«Sotto la gonna. C'è abbastanza spazio nelle tasche interne per contenere una sfera Poké.
Se dentro non c'è niente allora siamo noi le cretine, ma io da qui vedo dei rigonfiamenti rotondi e non penso che siano quello che penso...»
 
Parlò con tono denigratorio, falsamente dolce e civettuolo. La mora si chinò per osservare meglio, ma il dover indossare gli occhiali da sole in un luogo chiuso la impacciava parecchio.
 
«M-Ma siete pazze?! Sotto la gonna? Lasciateci in pace, pedofile!» Squittì una di loro, coprendosi con il lembo della gonna come se volessero violentarla o peggio.
 
«Aspetta, - altre due si fecero avanti - ma quelle non sono le due lesbiche che si limonavano in negozio?»
 
Indicò senza alcun pudore Camelia ed Anemone, che si scambiarono occhiate turbate.
 
«Sì, - seguitò l'altra, ridendo stupidamente - guarda cosa fanno queste sfigate pur di vedere una vagina che non sia la loro! Siete così penose da sembrare uomini!»
 
«Poverine, solo perché nessun maschio vi vuole vi masturbate a vicenda, scommetto che siete entrambe vergini, che schifo che fate!»
 
Le due incontrate prima nel negozio scoppiarono a ridere, senza risparmiarsi nessun insulto dettatogli dall'omofobia. E dunque dall'ignoranza.
Su quante cose si sbagliavano le due! Correggere ogni singolo di quei punti avrebbe richiesto troppo tempo, non si trattava di un test di comprensione.
 
Quella che sicuramente fu più toccata da quel discorso era Anemone, che non ne poté più di stare seduta a guardare: erano diciassette anni che stava metaforicamente seduta senza far nulla, ad ascoltare tutti quei mentecatti parlare di tutte le persone come lei quasi si trattasse di bestie da circo, solo perché non rientravano nello stato standard di cisgender o di eterosessuale.
 
Potevano chiamare lei "sfigata", "dall'aspetto di un uomo", "verginella" (da quand'è che essere vergine era diventato un insulto comunque?) e "schifosa". Lo avrebbe sopportato.
 
Ma quelle stupide avevano preso nel loro gioco anche una persona intoccabile per la rossa.
Non dovevano permettersi neppure di citare in simile giudizio la sua preziosa fidanzata.
 
«No, scusatemi, - cominciò Anemone al suo solito, scusandosi e poi arrotolandosi le maniche - io adesso le picchio una dopo l'altra.»
 
Ora che Anemone era uscita dal suo stato di calma e ed entrata nella sua modalità ribelle, le due bionde dovettero fare uno sforzo immane per trattenerla dal prendere a pugni una delle due ragazzine: la giovane dagli occhi azzurri aveva una forza decisamente mascolina nelle braccia e nelle gambe, derivata da tutti gli anni di lavoro in aeroporto.
 
Dulcis in fundo, la sua compagna dagli occhi tristi ricordò che purtroppo qualcuna di quelle piccole pulci fastidiose aveva trovato pane per i suoi denti dilettandosi nel vedere dal vivo una crisi epilettica, uno scaricamento da parte di un ragazzo in grande stile ed una sua amica venire a soccorrerla nel modo più indiscreto possibile.
 
Perché gli occhi umani sono sempre alla ricerca del ridicolo, dello scandaloso e dell'inusuale, si chiedevano. Le altre ragazzine intanto si divertivano ad imitare la leader ed il suo essere diventata una parcheggiatrice part-time contro la sua volontà.
 
La situazione stava degenerando. 
 
Ormai non solo i clienti nel locale e gli allenatori di quel Centro Pokémon, anche i passanti si accalcavano davanti alle finestre per vedere all'interno cosa stesse succedendo: quale occasione migliore per offrir loro un bello show? Come diceva anche un celebre imperatore romano, la folla va tenuta a bada con cibo ed intrattenimento gratuito.
 
La Campionessa di Sinnoh parlò, dopo aver raccolto intorno a sé le altre tre ragazze.
 
«Che ne dite di una lotta, qui ed ora, così ci fate vedere che questi Pokémon sono vostri?»
 
Un'onomatopea di entusiasmo da parte degli spettatori riecheggiò, il suono prolungato della lettera "o" conferiva al tutto una nota di sfida e sopratutto di possibile riscatto da quegli insulti umilianti.
Adesso la tensione nell'aria era pari a quella percepibile in un torneo nazionale.
 
Le piccole ladruncole stavano per obbiettare, ma alla fine diedero il loro consenso, decise.
In qualche modo c'entrava il loro orgoglio, non solamente il loro bottino in tutto ciò.
 
«E non tirate fuori scuse, voglio vedere se a scuola vi insegnano solo anche a fare le vigliacche!»
 
Gli gridò la mora, che era in qualche modo abituata al clima di lotta clandestina ed improvvisa.
Nella sua città, essere fermati nel bel mezzo della notte da qualche delinquente malintenzionato era una cosa normalissima, tanto che queste lotte costituivano un allenamento quotidiano.
 
Tutti i tavoli e le sedie erano stati spostati a ridosso delle pareti, un grande spazio al centro fungeva da rudimentale campo di lotta; come nei film western degli anni venti, perfino i dipendenti del locale sembravano eccitati dal combattimento imminente.
 
«Voi di Unima siete così... Così...» Catlina si sforzò di cercare una parola, esasperata com'era.
 
«...selvaggi?» Suggerì Anemone, che si stava sgranchendo le dita e le giunture con gran fracasso.
 
La biondina le diede conferma: una volta sistematesi nella loro metà campo, Camilla propose.
«A voi la scelta del tipo di lotta.» Spettava sempre allo sfidato questo arbitrio.
 
«Lotta multipla, - si fece avanti la loro capogruppo - ci alterniamo. Quando il Pokémon di una delle due componenti di una squadra va K.O. un'altra la sostituisce e avanti così.
Vincono le rimanenti in campo. Accettate, allora!?»
 
Camilla assicurò con lo sguardo tutte le sue tre apprendiste. Perché questo erano formalmente, le tre giovani con cui stava lottando ora. Ma quel ruolo era inutile per loro, come a lei era superfluo il titolo di leader. Ora dovevano solo combattere come squadra.
 
E Nardo non aveva insegnato loro ciò. Il titolo di Campionessa era fortemente impregnato di egocentrismo, indipendenza ed isolamento.
 
«Lottare insieme... Non contemporaneamente. Siamo una squadra ora.
Lo siamo sempre state, dopotutto.» Realizzò, in dispetto ai manuali e all'insegnamento scolastico.
Camilla si sistemò il ciuffo sull'occhio, con la Poké Ball in mano.
 
«Cami, - le fece segno - vieni un attimo qui.» La ragazza mora le venne incontro e si sedette su di una tavolino a gambe accavallate, nonostante la gonna cortissima.
 
«Solo la mia ragazza può chiamarmi così, non ti ci affezionare troppo, leader.» 
Fu contenta di trovare la modella pronta e carica di spirito energico.
 
Dopo qualche piccolo commento, le due lanciarono le sfere Poké all'unisono: ne uscirono Pokémon non troppo grandi, per via delle dimensioni pur sempre limitate del locale.
 
Camelia scelse la sua Flaaffy, dopo averne accarezzato la morbida lanugine elettrostatica.
Era il membro del suo team acquisito più recentemente, regalo di uno stilista straniero.
Per coincidenza, tutti i Pokémon della giovane Capopalestra erano esemplari femmina.
 
La Campionessa di Sinnoh volle andare sul sicuro invece. Il suo Spiritomb, ottenuto esplorando i sotterranei bui e spaventosi della sua regione, non aveva debolezze, la combinazione dei tipi Spettro e Buio era una difesa impareggiabile.
 
Due delle ragazzine si fecero avanti, chissà se le sfere che brandivano erano loro o semplicemente rubate ad altri, come le centinaia che avevano raccattato prima.
Un Watchog ed uno Swoobat erano piazzati contro di loro come avversari.
 
Al segnale di partenza, le due allenatrici in uniforme non esitarono ad attaccare: come previsto.
 
«Watchog usa Palla Ombra su Spiritomb!» Fece la prima, la sua voce si sovrappose quasi a quella dell'arbitro da quanto presto aveva parlato.
«E tu Swoobat, usa Raffica!» La seconda le fece eco.
 
Camelia scoppiò spudoratamente a ridere, indicando le sue avversarie e rivolgendosi a loro con tutta la cattiveria che aveva in corpo. Sollevò un pelo gli occhiali per vederle meglio.
 
«No davvero, Camilla, ti prego, dimmi che quelle due non hanno appena usato una mossa di tipo Volante ed una di tipo Spettro. Perché in questo caso ho perso tutta la speranza che avevo in questa generazione di sfidanti.
No, Camilla... io esco.»
 
La giovane top model si sentiva realmente sconfortata, specie perché quella generazione di sfidanti era quella che teneva il suo poster appeso al muro della propria camera, che veniva a tutte le sue lotte e alle sue sfilate, portando asciugamani e striscioni con il suo nome scritto sopra e contornato da cuori e tuoni (aveva chiesto lei personalmente di aggiungere i secondi).
 
Lottare con dei piccoli vanitosi tutti fumo e niente sostanza non era divertente, a suo parere.
Lei vendeva la sua immagine a quegli incompetenti, lei era il loro emblema dunque, non c'era verso che potessero davvero apprezzarla, non ne avevano la facoltà intellettiva.
 
«Flaaffy, rimani dove sei e usa Stordiraggio su Swoobat.» Ordinò, sempre ridacchiando.
«Doppioteam, per favore.» Camilla decise di stare al gioco e questa ne gioì ancora di più.
 
Era strano, pensò la mora, ma cominciava a tenerci sempre di più a quelle ritardate delle sue compagne. Non voleva averle sempre appresso, ma non poteva neppure viverci senza.
Era una relazione strana, tutto sommato le piaceva.
 
Prima che potesse trastullarsi nel pensiero di aver zittito quelle bambine, una delle due si fece risentire. Parlava con la compagna, comunque garantendosi l'attenzione di tutti.
 
«Scommetto che quella usa Stordiraggio anche sulle persone...
Così riesce a distrarle da quelle cosce grasse e flaccide che si ritrova!
Scusa, scusa tizia con gli occhiali, perché ti metti quella gonna corta? Fai solo schifo.»
 
«Già, avrà cellulite di noi due messe insieme e guarda... ha quelle due tette finte che fanno impressione e poi si vedono le costole, sembra un'anoressica dalle gambe in su!
Non puoi coprirti, ci fai un piacere sai, devi proprio andare in giro nuda?»
 
«E poi si chiede perché nessuno gliela dà!»
 
Camelia, per la prima volta in via sua, non seppe che rispondere a quelle provocazioni.
Due bambine l'avevano battuta nella sua specialità, il sarcasmo e la presa in giro.
 
Plus-size. Quanto odiava essere una modella plus-size. 
La giovane stella di Sciroccopoli, a volte, molte volte, non riusciva proprio a sentirsi fiera del suo corpo, non riusciva a vedersi bella neppure quando lo trovava scritto a caratteri cubitali nelle riviste di moda o nei cartelloni pubblicitari.
 
Se i suoi fans le mettevano un'ansia a dir poco insopportabile, sapere dell'esistenza di gente che la odiava senza un motivo valido era abbastanza per schiacciare quella ragazza.
Alla fine, anche Camelia sapeva di essere una ragazza.
 
La sola coscienza che esistesse chi la riteneva brutta, sproporzionata e magari pure stupida, uniti a tanti insulti e i mille difetti che riuscivano a trovarle sul momento, l'essere un'indossatrice di taglie leggermente più forti di quelle popolari la privava della sua femminilità.
 
Cosa doveva fare per soddisfare anche le richieste di quelle persone, che trovavano orrendi i suoi seni grandi, la vita magra (per quanto le fosse possibile per mantenere uno stato di salute sopportabile) ed il suo sedere sodo, che facevano innamorare tutti a prima vista? 
 
«Camelia, tranquilla. Con Stordiraggio hai confuso Swoobat, bella mossa.
Doppioteam ci fa guadagnare tempo. Cerca di distrarre anche Watchog in maniera tale da impedirgli di attaccare, poi al resto penso io.
Ti fidi di me, vero?»
 
Camilla le stava accarezzando le cosce bianche, si accorse, e per incitarla ad agire le stampò un leggero schiaffo su di esse, facendole tremare la carne morbida.
Poi le fece cenno che a guardarla in quel momento non c'erano solo gli stupidi esteti della generazione dell'insoddisfazione, lì a fare il tifo per lei c'era l'unica persona il cui parere importava alla mora, l'unica plus-size che avesse mai trovato bella quanto lei.
 
«Anemone... appena torniamo a casa ti faccio la manicure, ma tu mi insegni a farla pagare ai prossimi deficienti che ci insultano perché siamo lesbiche. E ne sono invidiosi. 
Del resto, io mi faccio una bella ragazza ogni sera, caso mai sono loro a masturbarsi, no?» 
 
«Flaaffy, - dondolò i piedi infilati nei tacchi dodici, spensierata - usa Attrazione su Watchog!»
 
Camilla, riuscita nel suo intento di consolare la giovane, ripropose il Doppioteam così efficace.
 
Tutti i presenti stessero a guardare con le dita fra i denti per l'emozione.
Nessuno sapeva cosa l'audace Campionessa e la carismatica Capopalestra avessero intenzione di fare, neppure le altre due loro compagne di squadra.
 
«A-Attrazione... Ha avuto effetto sul mio Pokémon?!»
 
La prima delle due scolarette gridò con aria sconvolta e furiosa alla sua amica, che anch'ella osservava spiazzata.
 
«Credo di sì... Non riesce più ad attaccare, cavolo!»
 
«M-Ma... - continuò la proprietaria del Pokémon innamorato - ...come ha fatto ad avere effetto quella mossa... la mia Watchog è femmina!»
 
Si udì un clamore collettivo da parte di tutti, le mani sul volto e la sorpresa negli occhi.
 
«Swoobat, usa Raffica, veloce!» 
Ma il Pokémon Pipistrello non ascoltò, cercava di muovere le ali ma finiva per sbattere in continuazione contro il soffitto, confuso com'era dal precedente attacco Stordiraggio.
 
Le due ladre di Pokémon si osservarono disperate, era l'inizio della loro fine.
 
«Se non possono attaccare, Spiritomb vai con Psichico a ripetizione!»
Camilla si lanciò all'attacco senza esitare, cogliendo l'attimo fortuito.
 
«Flaaffy, usa Riduttore, grazie.»
Camelia invece era sempre più calma e rilassata, seduta su quel tavolo.
 
Fra colpi violenti, urti e botte, le due pari in ardore e spirito alle Amazzoni, donne guerriere indipendenti dagli uomini e svincolate dalle catene della società, avevano distrutto non solo i due Pokémon in campo, ma anche quella legge naturale che impediva l'amore fra esseri dello stesso sesso.
 
La natura è multiforme e spesso benigna: Adamo ed Eva avevano stabilito che l'amore di uomo e donna è il germoglio della riproduzione della specie, ma se la mossa Attrazione era in grado di funzionare anche fra Pokémon dello stesso sesso i casi erano due.
O i manuali di lotta si sbagliavano sul campo di azione della mossa, o Camelia con i suoi Pokémon erano davvero così bella da risvegliare l'infatuazione estetica anche nelle ragazze. 
 
Comunque sia, ora Swoobat e Watchog giacevano al centro del locale, stesi a terra esausti.
 
Il pubblico lanciò una serie di grida confuse, non si capiva se il loro fosse supporto o disgusto.
Le due allenatrici vincenti di abbracciarono amichevolmente, con una certa difficoltà nel non stritolarsi il seno a vicenda al contatto dei loro petti prosperosi.
 
Camelia e Camilla stettero due minuti a godersi lo scroscio di applausi rivolto a loro, poi se ne tornarono alla loro postazione. Lo show deve andare avanti.
 
Anemone e Catlina, molto più timide e discrete, si avvicinarono alla postazione con gli occhi bassi, un po' in imbarazzo, ma con la fiducia infusa dalla vittoria delle loro compagne.
 
«Distruggile, amore mio.» 
Camelia sussurrò all'orecchio della rossa, che subito senti gli ormoni sobbalzare. Avrebbe ucciso qualcuno a mani nude se la sua dolce metà glielo avesse chiesto con la sua voce sexy.
 
«Liepard, vieni fuori!» Gridò una. Anche le loro subdole avversarie si erano date il cambio, e la prima aveva già schierato il suo Pokémon, con la mano tremante dall'agitazione.
 
L'altra sua compagna mimò il gesto, sperando di non trovarsi troppo svantaggiate dal dover scegliere i Pokémon per prime, così le nostre ragazze avrebbero potuto adattarsi con i tipi.
Più silenziosamente della sua amichetta, schierò in campo un esemplare di Krokorok.
 
«Maledizione, - puntualizzò la rossa, - proprio due Pokémon di tipo Buio dovevano scegliere?»
Altro che fortuna, lì ci voleva un miracolo per intercessione della grazia divina.
 
«Ti causa qualche problema, Anemone?» Le domandò gentilmente la bionda al suo fianco.
 
«A me personalmente no, - le rispose, con voce concitata - ma tu alleni solo Pokémon Psico, non hai solo lo svantaggio del tipo, ma le mosse Psico non hanno proprio effetto, sei nei guai...»
 
«Lo so. - Anemone si sbalordì della calma con cui l'altra l'aveva interrotta - Sono attrezzata per questo.»
 
«Oh, ah, okay... Ehm... Senti Catlina, posso chiederti un favore, prima che cominciamo? - le due giovani si accostarono in disparte, Anemone parlò sottovoce - Solo per questa volta che dobbiamo lottare insieme... Ti dispiacerebbe pronunciare ad alta voce i nomi delle mosse che vuoi far utilizzare ai tuoi Pokémon? Solo per comodità sai, insomma, non siamo tutti telepatici e...»
 
«Va bene. - La rossa non capiva come Catlina riuscisse a concludere prima di lei tutti i suoi discorsi - adesso però ascoltami tu.»
 
La giovane aristocratica mandò in campo il suo Reuniclus, il Pokémon Cellula di color verdastro, fluttuante in aria, un ammasso di tessuti epiteliali e liquido amniotico. 
 
Anemone annuì e si mise in ascolto, ma la sua misteriosa compagna non si decideva ad aprire bocca. Lei rimase a fissarla del tutto perplessa, sperando che ella si spicciasse.
La lotta stava per cominciare, e le loro avversarie si stavano già spazientendo.
 
«Catlina, per favore, sbrigati che devo ancora scegliere il mio...» E fu interrotta.
 
«Mi senti, Anemone, hey, riesci a sentire la mia voce?» 
 
Anemone avrebbe giurato di sentire perfettamente la voce della biondina, però ancora le sue labbra non sillabavano alcuna parola. Sbatté più volte le palpebre, ma la situazione era la stessa.
 
«Non fare quella faccia e ascolta. - la rossa era visibilmente terrorizzata, ma non poteva permettersi di perdere altro tempo - Il mio Reuniclus ha l'abilità Telepatia, che permette a Pokémon ed Allenatore di comunicare solo tramite il pensiero. Per favore, smettila di guardarmi così.
 
Il mio Pokémon conosce una mossa molto potente, Focalcolpo, di tipo Lotta, che farà al caso nostro. L'unica cosa che mi serve è che i due Pokémon nemici siano allineati in modo da colpirli entrambe con un solo colpo.
 
Tu devi riuscire a metterli in questa posizione. Hai una squadra molto veloce, ma se ci colpiscono troppe volte siamo spacciate. Sono sicura che puoi riuscirci, devi riuscirci...
 
A-Anemone, mi stai ascoltando?»
 
«Ah... S-Sì... Però... Wow, non è male questo modo di comunicare, molto privato... - la rossa prese a inviare occhiatine complici alla compagna - Questo significa che tu puoi sapere a cosa io sto pensando in qualsiasi momento?»
 
«Hai capito o no!?» Per un attimo la bionda persa la sua solita compostezza.
 
«Va bene, va bene, certo che a volte sei proprio una piccola principessa viziata... Ho capito.»
Anemone, sebbene stesse solo pensando a quelle parole, esibiva con il volto ogni singola espressione da affiancare alle sue risposte.
 
«Bene. Ultimissima cosa.» Catlina si fece ancora più seria.
 
«Che c'è?»
 
«Potresti per favore smetterla di guardarmi il seno? 
È imbarazzante durante una lotta, e ti ricordo che sei anche fidanzata.» 
La giovane di Sinnoh fulminò con gli occhi quella ragazza un po' troppo impressionabile.
 
«S-Scusami, ma sai, quel bel vestito che indossi te le mette proprio in risalto, - presa dalla vergogna, la rossa prese a ciarlare a macchinetta - le hai proprio belle rotonde, mi piacciono così...
 
M-Mettiamoci al lavoro, okay.
Unfeazant, esci e diamoci dentro!»
 
Ragionandoci, l'aspirante aviatrice non era mai stata in contatto così stretto con una persona dell'alta società come Catlina. Odiava ammetterlo, ma nonostante la sua indole buona e mite serbava non pochi pregiudizi nei confronti delle persone benestanti e ricche della regione.
 
Alla fine il denaro contava poco o nulla nel rapporto fra persone umane. In quel momento le due erano unite nella lotta contro dei ladri, nemici comuni a tutte le classi sociali. 
La rese molto contenta questo avvicinamento con Catlina, ancor più per il fatto che era nato dalla volontà spontanea della sua timidissima ed introversa compagna.
 
«La prima mossa ai perdenti, Liepard usa Ombrartigli su Reuniclus!» Gridò la prima.
 
Catlina fece un cenno col capo alla sua compagna di lotta, che afferrò al volo.
 
«Unfeazant, sono io che ti sto parlando... Usa Acrobazia volando a parabola contro Liepard. Tranquillo, Krokorok non può colpirti se ti alzi in volo appena te lo trovi davanti.»
 
Il Pokémon Uccello non esitò a porsi in difesa dell'esemplare Cellula, eseguendo alla perfezione il comando senza indugi. Non si sorprese neppure di sentire la sua Allenatrice parlargli attraverso la telepatia. In quel momento contava solo la vittoria.
 
«Catlina. - Anemone la chiamò. - Spacchiamogli il...»
 
«Ci siamo. - Asserì quella. Ecco che i due tipo Buio si trovavano uno di fronte all'altro.
Come si suol dire, uccidere due piccioni con una sola pietra. - Reuniclus, Focalcolpo!»
 
Ciò che succedette all'impatto con i due Pokémon fu un marasma di rumori caotici. La potenza della sfera emessa dalle acquose braccia del Pokémon aveva colpito entrambe gli avversari, andando a travolgere insieme ad essi anche tavoli, sedie ed altri soprammobili presenti in linea retta.
 
Il tutto si andò a scontrare contro la parete, lasciando oltre ad un boato significativamente forte, i segni visibili di danni materiali non poco onerosi da riparare.
 
Il pubblico numeroso e febbricitante rimase senza parole per alcuni istanti. 
 
«C'è qualcun'altra che vuole sfidarci? Eh?»
Anemone si rivolse con tono rissoso a tutte le altre ladre in divisa scolastica lì presenti. 
 
Nessuna osò farsi avanti, nessuna fiatava o aveva commenti per quella scomoda situazione.
 
D'improvviso il bar fu riempito da un sonoro scroscio di applausi, fischi ed urla gioiose; dimenticandosi subito del disastro causato dalla mossa Focalcolpo i presenti esultarono in coro, tutti facevano in modo di far sentire il loro apprezzamento alle quattro abilissime lottatrici.
 
Le nostre quattro eroine, quindi, avevano guadagnato la loro schiacciante vittoria.
 
«Prima di festeggiare, - Camilla si fece avanti, decisa - vediamo se ci siamo scordate di qualche Pokémon, che so, sotto la gonna...»
 
Senza porsi alcuna restrizione, la Campionessa di Sinnoh prese ad esaminare le gonnelline color grigio cenere delle ragazzine, trovandovi, senza sorpresa, una tasca interna attorno al bordo che lo ingrossava visibilmente.
 
La presa in sequestro intanto arrossiva di vergogna, l'umiliazione accresciuta da tutti quegli insulti mal pesati e sciocchi sbraitati contro le loro stesse giustiziere.
L'aspro sapore di sconfitta che lacerava l'orgoglio.
 
«Una, - mise la prima a terra, allineando poi le restanti, in modo che ognuno dei presenti osservasse bene - due, tre, quattro, cinque... Qui sotto c'è una squadra intera, a quanto pare.»
 
«E qui un box intero, gente!»
Camelia aveva rovesciato con noncuranza quell'enorme borsa posta all'entrata, riversando sul pavimento una centinaia di Poké Ball che rotolavano confusamente per terra.
 
Le altre componenti di quella banda estrassero la loro refurtiva volontariamente, per evitare di venire perquisite e dunque toccate maniacalmente dalle altre due ragazze.
 
La giustizia è una dea bendata, va guidata per mano alla ricerca del crimine come una bambina sperduta. Ma una volta che lo ha riconosciuto, ella agisce da sé, riportando nel mondo l'equilibrio corrotto dai misfatti figlii della cattiveria umana, come, in questo caso, i furti.
 
Dopo pochi minuti il locale pullulava solo di poliziotti ed agenti della sicurezza.
Troppo facile intervenire sul delitto solo quando è già stato smascherato, pensarono tutte.
 
«Ragazze. - L'infermiera del Centro Pokémon che stava assistendo quella banda di criminali in incognito si mostrò alle quattro, prima che se ne andassero - Vi ringrazio veramente per il vostro lavoro, non ho parole per descrivere il grande favore che ci avete fatto...
 
Erano un po' di giorni che quelle ragazzine si mostravano qui ai Magazzini Nove e da lì sono cominciate numerose sparizioni dei Pokémon di molti clienti che, pur denunciando il fatto, non ricevevano spiegazioni valide. Voi non solo avete riconosciuto l'autore dei furti, ma abete anche ritrovato i Pokémon spariti! Siete state grandi.
 
S-Se posso fare qualcosa, a nome di tutti, per ringraziarvi adeguatamente io...»
 
«Grazie mille, Infermiera Joy, - la leader parlò a nome di tutte - ma vogliamo niente.»
 
Lo spirito di eroismo ed abnegazione gonfiò il polmoni della donna, a cui era più caro il bene comune dei benefici personali. Non era così per le altre tre, tuttavia.
 
«Camilla, sei pazza per caso?!» La canzonò la rossa.
 
«Mi sono lasciata insultare da delle bambine di sei anni solo per il gusto di essere insultata? Camilla, sei uno scandalo, ritiro tutto quello che ti ho detto prima.»
Camelia fece per uscire, assieme alla sua ragazza e ai bei vestiti che le aveva comprato. 
 
«A me basterebbe, chiedo per favore, una bottiglietta d'acqua... - poi la biondina si rivolse alla leader - M-Mi si stanno gonfiando tutte le vesciche, ti prego di capire, Camilla...»
 
Tutte e quattro scoppiarono a ridere. Alla fine del giorno, ecco dove stava la bellezza nell'essere allenatori di Pokémon: risparmiare i sottomessi e debellare i superbi.
 
«I-In realtà il mio nome è Claudia...»
Si grattava il capo, perplessa. Poi continuò, esibendo un brillante sorriso - Vi auguro altrettanta fortuna per i vostri allenamenti, arrivederci ragazze.»
 
La proprietaria del Centro Pokémon non doveva sapere di aver davanti ai suoi occhi quattro delle cinque candidate al titolo di Campione della sua regione.
 
Ma dopotutto, chi mai poteva avere occhio così acuto o mente così vispa da distinguere a prima vista una ragazza da una Campionessa?

 

Ironico, una giornata orribile per uno può essere il giorno fortunato di un altro.
Fortuna e fortuna non giacciono mai l'una in braccio all'altra, ma al contempo evitano di  distanziarsi troppo, tanto che l'uomo sfortunato e miserabile condivide volente o nolente il suo spazio vitale con il più felice della Terra.
 
Ma Iris non ci fece caso, concentrata com'era nel muovere i piedi sui pulsanti giusti a tempo della musica, per rendere quei gettoni spesi degni di un nome nella classifica degli highscore.
 
La musica che caratterizzava l'ampio luogo climatizzato illuminato dai neon fluorescenti era un misto di techno ed elettronica, i bassi roboanti battevano un ritmo cadenzato a cui il sintetizzatore univa una melodia ripetitiva, adatta al ballo.
 
Le due ragazze avevano le orecchie ovattate dalla concentrazione necessaria per completare la canzone: come uno scienziato sforza l'occhio all'interno del microscopio per discernere i minimi particolari, la pupilla marrone nocciola di Iris si era dilatata per cogliere ognuna di quelle singole frecce colorate che affollavano lo schermo, scorrendo a una buona velocità.
 
La giovane con il cappello copiava i suoi stessi movimenti.
Ovviamente seguivano una combinazione di salti e battiti molto rigorosa, ma a vederle da fuori sembrava affette da uno strano morbo che faceva agitar loro le gambe come cavallette.
 
Finita la cascata di note finali, sul display si materializzò una scritta che portò sollievo ai piedi stanchi, non serviva un esperto madre lingua per capire cosa significasse "stage cleared".
Comparvero poi dei numeri che stavano a segnalare i punteggi raggiunti dalle giocatrici. 
 
«Non ci credo, mi hai battuta ancora, per di più senza sbagliare un passo!»
 
Il sorriso di Georgia tradiva il suo tono dispiaciuto, dimostrandone la sportività.
Mentre quella si aggiustava i capelli rosa acceso inondati da goccioline di sudore sotto il cappello, Iris si figurò definitivamente quanto ella, in confronto a lei, fosse veramente una bella ragazza.
 
«Non lo so, - le rispose, mentre cercava le lettere per comporre il suo nome e firmare i suoi record - sarà che ho i piedi veloci...»
 
Quanto avrebbe voluto scambiare la sua bravura ai videogiochi ritmici con una bellezza folgorante o una capacità di ragionamento da intellettuale o direttamente con una fortuna infinita.
Invece le toccava rimanere brava a muovere i piedi su una piattaforma luminosa, talento svalutabile quanto il semplice saper respirare.
 
«Comunque, grazie per avermi offerto queste partite.» Trovò opportuno ringraziarla ancora.
 
È noto che qualora dovesse ringraziare o scusarsi, la ragazzina si assicurava di farlo almeno sei o sette volte di fila. Era la paura di causare fastidi a renderla, a suo parere, ancora più fastidiosa.
 
«Scherzi? Questo ed altro per un'amica!» 
 
Georgia estrasse dalla borsa una bottiglietta d'acqua da cui bevve in maniera proporzionale alle energie spese per riuscire a vincere almeno quella partita. Quando ebbe finito porse con assoluta  naturalezza la bevanda alla sua amica dai capelli violetto, che si dimostrò piuttosto sbalordita.
Senza lasciare il tempo di farsi obbligare, accettò quel gesto nel modo più naturale che riusciva a mascherare.
 
«Davvero sto mettendo la bocca dove le ha messe un'altra ragazza?» Pensò fra sé e sé.
 
In normali circostanze avrebbe trovato il gesto a dir poco disgustoso, l'idea di pigliarsi la mononucleosi l'attirava ben poco. Ne bevve solo due gocce e restituì la bottiglia di plastica con lo stesso sorrisetto ebete di prima. 
 
Da quando era diventata così condiscendente alle richieste degli altri, si chiedeva.
Le sembrava che ognuno fosse padrone delle proprie scelte e fautore del proprio destino, tutti ad eccezione di lei.
 
Tutto sommato però, essersi piegata al volere di quella misteriosa ragazza incontrata per la seconda volta di numero non le stava dispiacendo per nulla, fino a quel momento.
 
Erano state a fare un giro per tutto il centro commerciale, facendo cose che a lei onestamente piacevano, non avendo di che fingere interesse o di cui lamentarsi: distribuendosi le linee delle canzoni al karaoke (mentre Iris se la cavava molto bene con le parti rap, Georgia aveva molto più controllo nella voce per le parti cantate) avevano scoperto di condividere pressoché gli stessi gusti musicali.
 
In altri modi simili, casuali e piacevoli coincidenze, avevano trovato tanti di quegli interessi comuni da sembrare un caso irrealistico, se non impossibile, che le due non si conoscessero da una vita.
 
Una persona che l'aveva spinta ad un furto e al successivo mentire per camuffarlo le ispirava molta più fiducia delle quattro "compagne" che da un mese erano entrate la sua vita e ancora le infestavano la testa come pidocchi.
 
Quel sentimento di liberazione la faceva in qualche modo sentire in colpa.
Nardo aveva detto a lei e alle altre che non dovevano definirsi "avversarie", ma "compagne".
Spiegarsi come mai l'assenza di esse la facesse provare tale felicità, portò Iris a formulare un'ipotesi, non troppo lontana dalla verità.
 
«Senti Georgia, non mi sembra di avertelo mai chiesto, tu quanti anni hai?»
La ragazza dai capelli fucsia stava giocherellando con il suo cappello molto chic. Le sorrise.
 
«Quindici. - rispose a suo perfetto agio - Come te.» 
E la indicò, facendole l'occhiolino come quando si erano incontrate.
 
«Forse, alla fine, con le altre mi sento male solo perché sono tutte più grandi di me... Sì, deve essere questo.» Iris fece un bel respiro, prendendo una boccata d'aria fresca.
 
«Aspetta però, - un dubbio le balenò subito e così si rivolse di nuovo alla sua coetanea - come fai a sapere quanti anni ho?» 
 
Georgia esitò visibilmente, passandosi una mano fra i capelli ed alzando le pupille al soffitto.
Contrasse i muscoli facciali, come se stesse cercando una risposta, ma per qualche secondo tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu un miscuglio di foni monotoni.
 
«Eh... M-Me lo aveva detto una tua amica, quella con cui eravamo uscite la volta scorsa... 
C-Cosa credevi, che sono una stalker per caso?»
 
Alla giovane Allenatrice sembrò una scusa più che plausibile, si perfino mise a ridere della propria ingenuità. Non poteva esserci nulla che non andava in tutto ciò.
O almeno, dalla sua prospettiva non c'era nulla di evidentemente sospetto.
 
Si sedettero sulle scale sporche tappezzate di chewing-gum nero e volantini stracciati.
Onestamente, Iris si augurò in cuore suo che tutta l'estate avesse potuto passarla così, come una normale ragazza di quindici anni.
 
«Hai voglia se usciamo anche domani?» Le domandò Georgia, che sembrava godersela come lei.
 
«Domani non posso, scusa...» Iris evitò di guardarla negli occhi.
Sperò che smettesse di chiederglielo in quell'istante, ma non successe.
 
«Vabbè, un giorno di questa settimana puoi?» Le aveva fatto quelle domande già in precedenza, per tre volte totali in quella giornata. La risposta però non sarebbe cambiata.
 
«Non posso proprio, - Iris fece sentire quanto ciò veramente le rincresceva - quest'estate sono... Piena di impegni, diciamo.»
 
«Non dire stupidate, - l'altra le diede una leggera pacca sulla spalla, guadagnandosene una a sua volta per ripicca, tanto le due erano vicine per scherzare anche in quel modo - è estate, dai.
Tu non vai a scuola, non lavori, non sei in viaggio e neanche in apprendistato...
Com'è che non sei mai libera? Mi nascondi qualcosa, ho capito!»
 
Iris le regalò una delle sue occhiate più sanamente divertite dei suoi scintillanti occhi nocciola.
Si ricordò di come la roccia (rappresentata dal marrone delle sue iridi) potesse distruggere il ghiaccio degli occhi dell'amica, secondo la legge delle resistenze e delle debolezze.
 
Per la prima volta in vita sua, ritenne una cosa dovuta prestare la sua fiducia ad un'estranea.
Inconsciamente pregò di non doversene pentire in seguito.
 
«Vedi Georgia, il fatto è che...» Aveva intenzione di parlarne con assoluta serietà, ma si bloccò al principio. Emise una risatina nasale e proseguì con tanta eccitazione ed un certo vanto.
 
«Uh?» Fece l'altra, incuriosita.
 
«...io sono una delle cinque scelte per diventare Campionessa della regione, non scherzo!
 
Hai sentito che entro la fine di quest'estate il Campione Nardo si ritira? Ecco, io sono contro altre quattro ragazze e chi di noi vince sarà la prossima in carica a partire da quest'anno.
Abbiamo un ritmo di allenamenti molto duro e se io manco anche ad uno solo mi ritrovo fregata al torneo di agosto... Per questo non posso uscire...»
 
Per dimostrare la veridicità delle sue parole, Iris estrasse subito dallo zaino la lettera che le era stata inviata dalla Lega Pokémon all'inizio di giugno e la passò all'amica, che la esaminò.
Era strano che questa la portasse sempre con sé, ma come prova poteva vincere anche i più diffidenti.
 
A parte suo nonno, solo Velia e pochi altri sapevano del suo ingresso nella competizione. Nardo aveva ordinato loro la più totale discrezione riguardo la questione del farlo sapere in giro.
In preludio al TRUF ci sarebbero state conferenze stampa, interviste e pubblicità a spargere la notizia, per garantire la più totale imparzialità da parte degli allenatori.
 
Georgia le restituì la lettera, e non proferì parola. Niente esclamazioni o domande a mitraglietta.
Solo il suo solito affascinante sorriso fuori luogo brillava sulla sua faccia. 
Come se quella rivelazione non fosse per lei una novità.
 
Dopo un po' parlò, notando che la ragazzina si stava di nuovo insospettendo. 
Scelse di non essere scontata però. Aveva dunque capito le aspettative della sua nuova amica.
 
«Ma allora quelle quattro mestruate che ti hanno lasciato da sola prima non sono le tue "compagne", sono le tue "avversarie".»
 
Ecco, lo aveva detto. Iris alzò gli occhi al cielo, esasperata. Perché aveva ragione, ecco perché.
Ma quelle "mestruate" facevano di tutto per farle credere il contrario.
 
«Scusa Iris, io ti reputo una persona intelligente. - Riprese, con tono serio e scherzoso insieme - Perché ci esci insieme? Perché ci parli? Non dovresti fare di tutto per sconfiggerle?
 
Hai visto come ti trattano, anzi, come ci trattano quelle più grandi. Ti capisco, sai?
Credono di essere adulte, ma in realtà sono solo delle bambinette con otto chili di trucco in faccia e il reggiseno push-up...»
 
«Oddio, - la interruppe Iris, ridendo - le mie "compagne" - fece le virgolette con le dita - sono uguali identiche a come le hai descritte tu! Fanno tanto le donne vissute, pensano di farmi lezioni di vita e invece al massimo sono capaci solo di gridare ed insultarsi solo per farsi valere.
 
E poi piangono, piangono, non fanno altro che piangere delle loro disgrazie passate e sono piene di problemi, una perché ha il padre alcolista, un'altra scopre di essere lesbica, un'altra soffre di tutte le malattie del mondo, un'altra è una pedofila...» 
 
Sebbene il tono della voce facesse pensare a cose detta a cuor leggero, Iris sentì lo stomaco diventarle di granito dopo averle pronunciate. Non aveva idea di quanto velocemente facesse effetto il rimorso.
 
«Hai presente quello che ti ho detto la volta scorsa, quando ci siamo viste?» Ribatté quella.
Iris deglutì un ulteriore ammasso di ghiaia. Neanche quello si era scordata.
 
"Se è per qualcosa o qualcuno che ti sta a cuore bisogna sempre osare, non importa cosa comporti o se sia un bene o un male."
 
Quella frase non sembrava la prima scemenza che balena in testa ad una ragazzina di quindici anni, doveva averla trovata su un libro di massime o di aforismi, faceva perfino rima.
«S-Sì... Andare sempre avanti senza badare alle conseguenze, giusto?»
Georgia le rivolse un sorriso compiaciuto e le accarezzò il braccio strofinandovi la mano.
 
«Brava. Se fai così vincerai di sicuro. - le disse. Poi cambiò argomento. - Quindi sei molto brava a lottare? Anche a me piacciono le lotte. Certo, non sono ai livelli di una Campionessa ma... Me lo insegneresti un qualche trucchetto, una strategia degna di un professionista?»
 
A culmine della sua imprevedibilità, mentre provava a parlare la ragazza della Mano di Fatima, dai poteri di veggente e delle lezioni di vita aveva preso a ridere sguaiatamente, come se stesse volutamente prendendola in giro.
 
Iris pensò di poterglielo concedere: aveva ricevuto insulti fisici e verbali assai peggiori da persone che credeva sue "compagne", del resto.
 
Quanto ammirava Georgia. Avrebbe voluto essere come lei, anche a costo di trasformarsi in un clone senza personalità propria voleva imitare il suo stile di vita: avanti senza fermarsi, non dipendere da nessuno, raggiungere i suoi obiettivi ad ogni costo...
 
Iris calcolò che l'ora doveva essersi fatta tarda. Non essendo munita di orologio fece per illuminare lo sfondo del telefonino, rimasto nella tasca dello zaino per tutto il tempo che era stata con Georgia (non voleva assolutamente venire distratta durante le sue sessioni all'arcade) e guardare l'ora.
 
Fece per smorzare un urlo che le usciva dal petto, insieme all'anima.
 
«Ho dieci chiamate perse e venti messaggi da quattro numeri diversi! - gridò quasi - Devo andare via ora, scusami Georgia, ma non posso restare ancora...»
 
Vedere lo schermo invaso dalle notifiche la faceva andare in panico già di suo, sapere che quelle notifiche provenivano dai quattro cellulari delle altre allenatrici (comunque, secondo che logica avrebbe dovuto rispondere ad una piuttosto che ad un'altra?) ad intervalli regolari le fece temere il peggio.
 
Non voleva andarsene, voleva restare lì, magari uscire a cena con Georgia e passarci la serata.
La vita da aspirante Campionessa non le aveva mai fatto tanto schifo fino a quel momento.
Fece per allontanarsi, quando l'altra la fermò per un braccio.
 
«Hey, aspetta, non mi hai ancora detto se ci rivedremo ancora... - anche lei estrasse il suo telefonino dalla borsa - Almeno mi dai il tuo numero di cellulare? Ti scrivo io poi.»
 
La accontentò, scrivendolo direttamente sul suo tastierino e salvandosi con nome e cognome.
Aggiunse un cuore alla fine di esso, fece per voltarsi ma la ragazza le domandava di più.
 
Intuì dallo sguardo che un semplice "ciao" non era un saluto degno del tempo così prezioso passato insieme; le due quindicenni si scambiarono un abbraccio e due baci sulle guance.
Separarsi dalla sua nuova amica le parve più doloroso di un parto cesareo. 
 
Per un mese intero, era come se la nostra eroina si fosse nutrita di pane secco, colazione, pranzo e cena, fino a guastarsi le papille gustative. A furia di mangiare sempre quel cibo insipido e disgustoso anche se fosse stato del pane leggermente meno secco lei non se ne sarebbe accorta.
Ma tutto d'un tratto, ecco che quella ragazza dai capelli color caramella l'aveva accompagnata in un mondo di dolcetti, cioccolata, ciambelle, pasticcini e zucchero filato, riportandole l'appetito e la felicità... Per poi vedersi lei costretta a nutrirsi di nuovo di quel pane secco.
 
Mentre si avviava dalle sue "avversarie", Iris aveva la mente vacua da ogni pensiero.
 
Poco sapeva che quello che lei credeva pane secco in realtà celava sotto la sua crosta spessa e croccante un ripieno morbido, dei più saporiti e variegati, una sinfonia per il palato.
Poco sapeva che dopo un'abbuffata così abbondante di dolci inevitabilmente le sarebbe venuto il mal di stomaco e le carie ai denti l'avrebbero fatta pentire dei suoi giudizi avventati.
Nonostante l'ora fosse più vicina alla sera che al pomeriggio, il sole era ancora alto nel cielo.
Forse per quello, forse per la corsa fatta attraverso un'intera ala del centro commerciale, quando la giovane dai capelli viola giunse davanti alle tre allenatrici che la aspettavano ebbe quasi la sensazione di stramazzare a terra.
 
Forse non era per nessuna delle due ragioni, in fondo.
 
«Scusatemi, - provò a parlare e le sembrava di respirare sott'acqua, le facevano male le narici e la gola - ero andata a fare la ricognizione come avevamo deciso, ma... 
H-Ho incontrato questa... Questa mia "amica" e... Avevo il cellulare spento e... e...
 
Siete arrabbiate con me, vero?»
 
Lo aveva già intuito dalle quaranta chiamate perse, il suo ricongiungimento al gruppo non sarebbe stato accolto con il bentornato. Non le sarebbero bastate scuse firmate dal capo di stato per calmare le tre.
 
Lei era una gomma da masticare appiccicata sotto la suola dei loro tacchi alti, un insieme di pensieri e sentimenti calpestati senza pietà, ma alla fine loro dovevano sempre lamentarsi della schifezza rosa che rimaneva ad inorridire la loro perfetta vita patinata. 
 
Ecco cosa Georgia cercava di farle capire da tutta la giornata. Lei non aveva amiche.
O almeno, fra le sue amiche non potevano rientrare persone del genere.
 
Non appena si trovò puntati addosso gli occhi di Camelia con il suo solito sguardo misto fra il disprezzo e un impulso trattenuto di scoppiare a ridere, le si gelò il sangue.
Si aspettò il peggio, che la lama della ghigliottina le trapassasse la nuca.
 
«Adesso capite - la mora parlava con le altre due, suonando piuttosto divertita - perché non la si può rispettare? Iris, hai un atteggiamento naturale da vittima, sei così piccola e indifesa che mi viene una voglia matta di insultarti e maltrattarti, non posso farci niente...»
 
Iris rimase zitta. Si sentiva patetica, ma tanto non avrebbe mai ricevuto la pietà che desiderava.
 
Mentre Camelia se la rideva, la rossa l'aveva abbracciata da dietro, ponendole la bocca vicino all'orecchio come se fosse diventata lei la sua coscienza. 
«Mi avevi promesso che l'avresti piantata con il bullismo su di lei. Se non diventi più gentile, Cami, sappi che ti lascio.»
 
«Vuoi sprecare un talento così grande per l'umiliazione? Considerati mollata, dolcezza.»
Mentre Anemone aveva assunto la faccia più confusa di sempre, Iris si spazientì.
 
«Siete arrabbiate con me?» Reclamò la loro attenzione.
 
La coppia di diciassettenni rise all'unisono, non potendo fare a meno di trovare assai esilarante quella parte della più giovane del loro gruppo. A volte pareva che Iris avesse quasi paura di loro.
 
«Noi no.»
Le rispose pacatamente Catlina, mentre le porse tranquilla la bottiglietta d'acqua da cui stava bevendo. Iris rifiutò nel modo più educato che conosceva. Non voleva più mettere le sue labbra in posti dove erano state anche quelle di altri, o meglio, di altre.
 «Nardo... Probabilmente sì.»
 
«Scusatemi, ci costerà una punizione, io...» Iris era di nuovo entrata in panico.
 
Stava camminando alla cieca su una corda da funambolo divisa fra l'odio e l'amore.
Le venivano le vertigini nel cercare di capire da che parte stessero quelle ragazze.
 
«Credo sia il cerchio della nostra vita. - la mora la interruppe - Noi cinque usciamo, facciamo le depresse, ci facciamo riconoscere e veniamo giustamente punite per questo.»
 
«Tutte le ragazze fanno così alla fine...» La biondina proseguì il discorso.
 
«Ma noi facciamo schifo pure in questo.» Anemone lo disse con estremo rincrescimento.
 
«Siete proprio sicure? Non vi credo.» 
Iris riuscì a calmarle alzando la voce ancora di più.
Il suo volto sembrava sull'orlo del pianto. Quella situazione la confondeva troppo.
 
All'orizzonte, interrompendo quella simpatica conversazione, apparve la leader, sorridente come al solito. O forse potremmo dire che la solare ragazza stesse sorridendo ancor più del solito.
 
Teneva in mano la borsa di un qualche negozio, grossa ed ingombrante, doveva aver speso un bel po' di soldi. Anche ciò era vero, ma quei soldi non erano del tutto suoi.
Aveva fatto in fretta per evitare che il negozio in questione chiudesse e poi aveva raggiunto le altre.
 
«Scusate il ritardo, - la giovane donna si scostò dal volto i capelli lunghi - e comunque ciao Iris.
Speravo che ci avresti messo un po' più di me, invece mi hai fatto fare la figura della ritardataria.
Grazie, eh?»
Scherzò.
 
«Prego, Camilla.» 
Con una faccia di marmo, Iris ringraziò almeno il fatto che qualcuno si fosse calcolato la sua presenza.
 
Stranamente la bionda aveva un non so che di diverso. Doveva essere stata la lotta avvenuta nel locale contro i ladri di Pokémon a caricarla così tanto, somigliava ad una bambina ansiosa di salire su una giostra.
 
La donna faceva loro questo effetto, eppure sembrava perfettamente conscia del suo apparire. Anzi, più che conscia, assolutamente fiera.
Fiera di essere diversa. Era diversa da altre ragazze uguali, ma uguale ad altre ragazze diverse.
 
Si rivolse alle suddette con una felicità inspiegabile.
«Ragazze, seguitemi nel parcheggio.»
 
«Camilla, dobbiamo andare o sennò perdiamo il treno, non scherzare.» La riprese l'altra bionda.
 
«Vi sembro forse una che scherza? - era incredibile come la stessa pazza euforica potesse piombare in atteggiamenti così paurosamente seri - È un ordine della vostra leader.
Seguitemi nel parcheggio, ora.»
 
Tutte e quattro ammutolirono, camminando a testa bassa come prigionieri di guerra.
 
Quanto l'uomo che proclama se stesso civilizzato possa trasformarsi in un selvaggio quando non ci sono telecamere di sicurezza a rimproverargli ogni singolo battito di ciglia si poteva vedere esemplificato nei parcheggi sotterranei.
 
L'illuminazione faceva le bizze, sembravano le luci stroboscopie di un video musicale, i graffiti coloravano i muri diroccati con vignette indecifrabili ma in qualche modo artistiche. Si sentiva l'eco dei passi che graffiano sulla ghiaia, le ombre proiettate sul cemento allungate di fronte a loro.
 
Camilla guidava le compagne. Non vi era anima viva in quel postaccio, un tappeto di cartacce accoglieva il loro ingresso e vi dovevano essere non pochi Pokémon selvatici ad abitare lì.
 
La leader si fermò proprio di fronte a una cosa che in quel parcheggio di periferia contrastava come una macchia di inchiostro su una camicia bianca, non aveva assolutamente senso di essere lì.
 
«Che pazzo parcheggia la macchina in un posto come questo?» Domandò Iris.
 
«E non è neanche una macchina a caso, è una cavolo di Cadillac! Chi l'ha messa qui?!» 
Anemone la succedette subito.
 
La vettura era un diamante caduto in un pozzo di catrame. La carrozzeria nero lucido dalle forme eleganti e classiche, come una vera signora, sprizzava il fascino sempre in voga di metà novecento. I parafanghi tondeggianti, il cofano lucente con il logo della casa automobilistica a troneggiare, i sedili in pelle rendevano quell'automobile un pezzo da museo.
 
Camelia, Iris, Anemone e Catlina stavano ad ammirarla, ma la leader le costrinse ad aprire bene le orecchie e dare ascolto solo a lei. La sua voce era ben amplificata dalla vastità del parcheggio vuoto.
Qual luogo e momento migliore per tenere un sermone?
 
«Ragazze care, in tutto questo tempo in cui siamo state insieme, in questo mese ho notato una cosa. Lo dico come vostra leader, come una che ci tiene, più che al vostro successo da Campionesse, al vostro benessere fisico e psicologico.
 
Vi lasciate intimorire molto facilmente, voi quattro. Intimorire e poi distrarre da quello che è il vostro scopo: credo che la vostra sia paura di essere giudicate dagli altri.
 
Voi tutte dipendete ancora troppo dal giudizio della gente, volete essere accettate in tutti i modi e alla fine vi lasciate colpire alle spalle da frasi del tipo "sei troppo magra, sei troppo grassa, non sei abbastanza bella, non sei come mi immaginavo, ti manca qualcosa." E penso che questo possa essere un problema.
Un problema per voi. 
 
Io ho fatto la vostra stessa identica strada tempo fa - beh, forse non proprio identica, a Sinnoh siamo molto più conservatori, e vi prego di non pensare che il Campione della regione debba dire, agire e comportarsi come vorrebbero gli allenatori.
Un Campione deve fare queste cose pensando al bene degli stessi allenatori.
Capite? Gli altri vi vedono, ma voi non vedete loro, vedete i loro disagi.
 
Quindi, da oggi in poi, basta con i vestiti firmati, basta con le perdite di tempo e di denaro e soprattutto... basta con i ragazzi. 
Non vi voglio neppure sentirli nominare, la vostra testa deve essere china sulla lotta sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro - eccetto l'ora di pausa dopo pranzo, quella è indispensabile.»
 
«Okay Camilla, lo promettiamo...» 
La mora fece per scherzare alzando pure la mano, la donna però riprese a parlare.
 
«Non dovete promettermelo a parole. Dovete compiere un gesto simbolico. Adesso. Tutte insieme. Come vere compagne di viaggio.»
 
Le due Capopalestra, l'esponente della Lega Unima e la ragazzina stettero ad aspettare la loro grande prova di coraggio sempre più incuriosite.
Un rito di iniziazione, quel luogo deserto e nascosto dava al tutto una sfumatura di sacralità, un sacrificio che poteva essere fatto solo tra loro e nessuno ne avrebbe avuto notizia.
 
La Campionessa di Sinnoh estrasse dalla pesante borsa alcuni oggetti.
Oggetti che non avevano niente a che vedere con il tipico inventario di una femmina che passa un pomeriggio di shopping.
 
Sempre quella lanciò uno di quegli utensili a ciascuna, solo quando si ritrovarono la bomboletta in alluminio fra le mani (dall'esperienza precedente la donna aveva appreso che era un riflesso incondizionato prendere al volo qualsiasi cosa lanciata) poterono realizzare che si trattava di vernice a spray.
 
Iris notò subito che ognuna aveva ricevuto la tintura dello stesso colore del proprio yukata, lo capì dal semplice fatto che la sua era viola, guarda caso.
 
Ma le giovani a cui spettavano l'azzurro, il giallo e il rosa chiaro dedussero qualcosa di ancor più strabiliante. Strabiliante in senso non positivo. 
 
Oh no, Camilla non poteva starlo pensando sul serio.
Non era così pazza. Neppure lei, la cui pazzia era sicuramente un punto di forza.
 
La loro guida, la loro capogruppo, quella che avrebbe dovuto indirizzarle sulla retta via del bene e della perfezione morale, camminando in direzione dell'auto, stappò la sua bomboletta e la agitò.
 
Nel frattempo, a tutte le altre venne un mezzo infarto.
 
«Camilla, fermati, non puoi fare una cosa del genere. - L'altra bionda riuscì a distoglierla dal suo intento per qualche secondo, ricevendo uno sguardo che voleva dirle "perché no?" - Questa è la macchina di Mirton.
Avrà speso tutto lo stipendio di sei anni per comprarsela, se scopre che siamo state noi...»
 
Quella non era una pazzia dunque. Quello era un piano puntigliosamente organizzato.
 
Il venire costretta a parcheggiare la macchina di un simile soggetto aveva fatto stillare la penultima goccia prima che il vaso della sua pazienza traboccasse. L'ultima vera e propria per la giovane donna era stata il vedere come quel Mirton avesse abbandonato una sua compagna, la sua cara amica d'infanzia nel mezzo di un grave malore, da bravo menefreghista.
 
Lì nessuno avrebbe potuto denunciarle. Per ringraziarlo di averla perfino pagata, Camilla aveva pensato di fargli una bella sorpresa, riverniciandogli di nuovo la sua preziosa Cadillac.
Una vendetta organizzata da Eris in persona.
 
«Catlina. - La leader la chiamò con dolcezza - Nel sedile del passeggero. Guarda.
È tua quella borsa? E quella giacca? C'è pure una cosa lunga di plastica...»
 
Camelia scoppiò subito a ridere e si lasciò scappare una pacca sulla spalla di Catlina.
«Quella non è una cosa lunga di plastica, quello è un preservativo!»
 
Attraverso i vetri, ognuna delle ragazze assistette a quella scena degna di una commedia.
La composta, educata, la bella e buona aristocratica di Sinnoh sgranò i suoi occhi spenti.
 
Tutti i messaggi inviati a notte tarda, il loro incontro dopo l'incidente, la giacca appoggiata sulle spalle, la sua falsa conversione ad una vita decente, il tentato bacio... 
 
...tutto questo, e quell'uomo aveva già trovato (o magari la teneva solo di scorta?) un'altra ragazza che occupasse il posto del passeggero nella sua macchina! 
Non trovò le parole.
 
La giovane si sentì doppiamente ferita ed umiliata: non le interessava se a lui schifasse il suo volto pallido e poco espressivo, le sue crisi epilettiche o il carattere non estroverso.
 
Mirton in realtà aveva sempre voluto una sola cosa: i suoi soldi. 
Perché grazie ai soldi era riuscito a comprarsi una macchina costosa e quale ragazza giovane e sciocca non è attirata dalle auto di lusso, anche se l'auto viene guidata da un pezzente?
 
Rivolse un'ultima occhiata alla leader. Poi anche Catlina tolse via il tappo.
 
Con il dito premuto sul beccuccio ed il polso tremante per l'eccitazione, le due di Sinnoh si limitarono a passeggiare intorno al perimetro della Cadillac e a tracciare delle linee rette non troppo spesse sulle portiere: una bianca a desta, una rosa a sinistra a far breccia in quel nero brutto e deprimente.
 
Le tre più giovani, Camelia, Iris ed Anemone avevano le labbra increspate in un sorriso scioccato: dov'erano finiti i due angioletti biondi tutte acqua e sapone che convivevano con loro?
La schiera degli arcangeli decaduti dal paradiso stava chiamando anche loro.
 
«Wow, che trasgressive! Il peggio che sapete fare sono due linee?»
Camelia le canzonò e si fece aiutare dalla sua ragazza per unire a quell'arcobaleno bicromatico il suo giallo acceso.
 
Anemone e Camelia si scelsero per i loro graffiti la superficie sul retro: subito dalla targa sparirono i numeri affogati in una barra azzurra come il mare, la modella invece fece una grande linea cuneiforme simile ad un gabbiano stilizzato.
 
«Non starai disegnando un pene, spero.» La rimproverò la leader, facendo riecheggiare quella parola imbarazzante per tutta l'area.
 
«È un cuore, se vuoi saperlo. - Camelia si difese completando lo scarabocchio e colorandone il centro rudimentalmente - Niente maschi hai detto e io mi sono già adattata.»
 
«Per me idem. Niente ragazzi, niente problemi. Io l'ho sempre detto, ma voi, ascoltarmi, mai...»
 
La rossa seguiva le finiture dell'auto tingendone i contorni con una certa pignoleria, per quanto il non essere una tagger professionista le permettesse, ed era già arrivata a coprire la superficie dei parafanghi.
 
«Avrei voluto saperlo anche io...» disse Catlina agitando la bomboletta, ormai agli sgoccioli.
 
Ogni tanto i colori si mescolavano e usciva una nuova combinazione, la pittura colava e le goccioline macchiavano anche il cemento ed il muro.
 
Il danno non era più riparabile già dopo cinque minuti: il colore nero faceva a malapena capolino da quell'ammasso di giallo, blu, bianco e rosa che lo soffocava. 
 
Non c'erano regole nel giocare con la pittura spray, ciò che ne era venuto fuori era un autentico disastro.
L'arte va capita, e in alcuni casi serba perfino un significato profondo. E quello era il caso.
 
Iris le stava a guardare, senza sapere cosa pensare. Era divisa interiormente.
Era colpa delle parole di Georgia, avevano avuto effetto su di lei come un veleno.
E ad esse si era contrapposto il discorso che aveva appena fatto Camilla.
 
Doveva scegliere se vivere nel mondo reale e farsi accettare dagli estranei che di lei sapevano poco o niente, oppure rinchiudersi in quel circolo di bambine disturbate e dar sfoggio anche lei dei suoi personalissimi disagi.
 
Non voleva che il mondo la vedesse come una ragazza guasta, marcia e rotta.
Non lo voleva per nulla, chi mai poteva desiderare di escludersi dal mondo volontariamente?
 
La risposta era in quelle quattro ragazze più grandi di lei, che si erano ritagliate il loro angolo neutrale in mezzo al campo di battaglia che era il mondo, tappezzato di mine antiuomo, filo spinato e gente che salta da una trincea all'altra pur di non venire uccisa sotto gli occhi di tutti.
 
Georgia altro non aveva fatto che rovesciarle un secchio d'acqua fredda in testa per renderla consapevole della verità. Anemone, Camelia, Catlina e Camilla non erano ragazze normali.
Nemiche o amiche, compagne o no. 
 
Suo nonno Aristide e pressoché tutti quelli che conosceva le avrebbero definite "cattive ragazze".
Ragazze deboli, problematiche e pietose, ma lei non trovava affatto calzata questa definizione.
 
Il giudizio della gente doveva farsi gli affari propri e lasciarle stare. 
Lasciarle sole, fra di loro. Punto e basta.
 
A svegliarla dal suo coma vegliante con una scrollata di spalle, la rossa la fece quasi cadere all'indietro. Ciò la infastidì, ma non gliene volle troppo.
 
«Buongiorno... - la riportò con i piedi per terra, mentre la ragazzina fece inutili sforzi per liberarsi dalla sua stretta soffocante - È il tuo turno ora.»
 
Vide che tutte la stavano guardando, aspettandosi qualcosa che lei non aveva di certo colto.
 
Camilla le venne incontro con le mani ancora imbrattate di bianco.
«Ti abbiamo lasciato libero il cofano, devi dimostrare di essere... Una di noi.»
 
«Io non so se...» Provò a spiegarsi, ma non ebbe il tempo di terminare.
 
«Non è convinta, Camilla. - la indirizzò l'altra bionda - Bisogna convertirla, credo.»
 
Senza bisogno di chiederlo, la modella la prese per le spalle, sorridendole come al solito.
«Iris è ancora troppo... Troppo...»
 
«Troppo normale. - si aggiunse la rossa, ponendosi dietro di lei ed intrappolandola così - Dobbiamo farti un bel lavaggio del cervello.»
 
«Che matte che siete.» La giovane fece per ridersela, ma non c'era via d'uscita.
 
«Che siamo, intendi.» 
 
«È una prova questa. - La Campionessa fece allontanare le altre. - Credo ci sia una specie di onore sotto, anche se non sembra. Fra tutte le persone che ci sono ad Unima, tutte quelle che ci sono nel mondo, di chi ti interessa di più l'opinione?»
 
«Non so... - cercò di rispondere ragionevolmente - mi interessa cosa pensano di me le persone a cui tengo, tipo i miei amici...»
 
«E noi non siamo tue amiche?» Camilla glielo chiese sorridendo.
 
Anche le altre tre esibivano sorrisi gentili, osservando compiaciute la loro opera d'arte.
 
La ragazzina di soli quindici anni non seppe più cosa pensare.
Camilla aveva ragione: lei era un burattino nelle mani degli altri. Non riusciva ad essere se stessa e ad esprimere i suoi veri pensieri con le altre persone. Con Georgia, quel giorno, in cui l'aveva lasciata parlar male delle sue compagne ne aveva avuto la prova.
 
Scusarsi per l'ennesima volta non sarebbe servito. 
Nell'amicizia non bastano le parole, servono i fatti, come in una causa giudiziaria.
Sorrise a sua volta.
 
«Lo sapete che la vernice è lavabile?» Disse.
 
Camilla e le altre si guardarono perplesse. Il loro impeccabile lavoro era davvero stato inutile?
Con le sue braccia magre ed abbronzate, Iris estrasse dalla borsa un altro oggetto che nessuna, 
nessuna, si sarebbe mai aspettata di vedere in mando ad una creatura così docile e carina.
 
Sollevandolo di poco da terra, Iris brandiva un martello di bronzo da chissà quanti chili.
 
«Questo no.» Asserì soddisfatta. 
 
Camilla partì e tutte le altre le rivolsero un applauso di rispetto, che le stette più a cuore di qualsiasi battito di mani che avrebbero potuto risuonare in tutta la regione.
 
Si avvicinò piano alla Cadillac, ormai sicura delle sue decisioni.
Nessuna, nessuna di loro era lì per dirle che stava sbagliando.
 
Portò l'attrezzo dietro le spalle e lo impugnò saldamente: con un fluido movimento degno di un effetto al rallentatore colpì il parabrezza più forte che poté, lasciandovi come ricordo indelebile una crepa grande come la sua testa.
 
Come ciliegina sulla torta, nella borsa vi erano alcuni cacciavite appuntiti, che le sue compagne usarono per decorare ulteriormente il tutto con dei bei graffi.
 
Anemone, vista la sua forza e le sue conoscenze di meccanica, riuscì a bucare tutti e quattro i pneumatici variopinti, la mora e la bionda si divertivano a scalfire i fanali scappando via appena la scossa elettrica li illuminava e Camilla non smetteva di rivolgerle sguardi di ammirazione.
 
Ciò che aveva fatto sul vetro infrangibile lo aveva in realtà fatto con i pregiudizi altrui.
Alla fine anche quelli erano in parte di vetro, labili e fragili. 
Non stava a nessuno giudicare il suo operato, come a lei non stava ascoltare e prendere come certezze ogni diceria sul suo conto.
 
In quel momento lei e le altre avevano compiuto un vero e proprio atto di vandalismo.
E nessuno, nessuno a parte loro avrebbe mai potuto comprenderne il senso.
 
«Prendi questo, - la ragazzina dai capelli viola decise di dare un'altra bella martellata agli specchietti retrovisori per vedere in quanti colpi riusciva a spaccarli - figlio di...»
 
«Iris! - Camilla le puntò contro la sua bomboletta viola come se si trattasse di un'arma da fuoco - Non voglio sentirti parlare così, rifallo e Nardo ti metterà in punizione!»
 
La più anziana e la piccola del gruppo scoppiarono a ridere all'unisono. Che scemenze.
 
«No, Iris ha ragione. - la biondina parlò alla leader - Non avevi detto "niente maschi"?
Niente vestiti firmati? Niente soldi sprecati? Niente tempo buttato via?
Ecco, posso assicurarvi che questo tizio è... tutte queste cose insieme.»
 
Dopo un paia di tentativi troppo deboli, Catlina riuscì a rimuovere con un potente incastro del cacciavite il logo della rinomata casa automobilistica dal portabagagli, esponendo la placca metallica come un trofeo.
 
«Non sapete che contenta sono. - Anemone era al contrario piuttosto concentrata sullo svitare ad uno ad uno i cerchi delle ruote - Niente più pianti, niente tradimenti, niente smancerie...
Siamo libere dalla tirannia maschile, insomma.»
 
«Niente smancerie? - le riprese la più piccola - E tutte le volte che tu e Camelia vi limonate di nascosto? Eh? Eh?»
 
«Da domani vi voglio vedere tutte femministe e costipate! Scherzi a parte, ma lo sai, Camilla, che questa è proprio una bella idea? No boy allowed.»
Camelia alzò gli occhi dal suo disegno, una specie di stella deforme circondata da cuoricini spastici.
 
«Regola numero uno: - cominciò la leader - non si parla di ragazzi.»
 
«E numero due: non ci si sente con nessuno e non si danno proprie informazioni attraverso i telefoni.» Continuò la rossa, fiscale come la prima.
 
«E se io - la provocò la sua fidanzata - volessi tradirti usando, che ne so, messaggi criptati?»
 
«In quel caso - riprese quella, minacciandola di spruzzarle la vernice addosso - ti rifaccio io la tinta adesso che ti dura per tutta quest'estate.»
 
«Bene, allora questi bei vestiti me li tengo io.»
E come sempre la mora l'ebbe vinta senza il benché minimo sforzo.
Poi si proseguì nel dettare la nuova costituzione vigente in casa di Nardo.
 
«Non invitare sconosciuti e conosciuti a casa di Nardo o rivolgergli la parola potrebbe essere la regola tre.» Propose anche Catlina, presa da un leggero entusiasmo.
 
«Chi viola le regole o copre una che le sta violando merita di essere punita insieme all'altra.
Niente bugiarde qui, siamo intesi?» La mora pareva più seria che mai.
 
Le quattro si sentirono la coscienza pulita e l'animo in pace per l'aver letteralmente distrutto una macchina creando quelle regole così chiare e rigorose.
Le brave ragazze si danno un regolamento del genere. Non quelle come loro.
 
Il tutto si poteva riassumere così: non parlare con i ragazzi, non messaggiare con i ragazzi, non uscire con i ragazzi, non favorire gli incontri con i ragazzi. 
In parole povere, bloccare ogni genere di rapporto interpersonale con il sesso maschile.
 
Quell'idea così definitivamente pazza non poteva essere frutto della mente di ragazze adolescenti.
Di adolescenti normali perlomeno...
Iris suo malgrado accettò questo patto diabolico, senza troppo rammaricarsi.
 
Sapeva di essere una che ci teneva alla sua immagine, ma di sicuro non si definiva una divora-maschi. Avrebbe potuto vivere anche senza.
Non aveva il fidanzato, non aveva ammiratori, al momento voleva solo andare d'accordo con le sue compagne.
 
E quelle quattro regole sembravano garantirle ciò.
 
Cosa gliene fregava se il resto del mondo le puntava contro il dito definendola nel peggiore dei modi ed insultandola per la sua diversità, finché aveva l'affetto di quelle che da sole si erano definite le sue amiche?
 
Aveva dato il suo pieno consenso, e per quello si sarebbe sicuramente guadagnata manifestazioni di vera amicizia ancora più concrete.
 
Rimasero a godersi lo spettacolo della distruzione della misoginia per altri dieci minuti, prima che veramente a Nardo potesse sorgere in mente la mezza idea di punirle davvero.
 
Lasciarono il parcheggio vuoto con l'orgoglio alle stelle, le nostre cinque eroine.
 
Non vi era nulla di più bello per le giovani dell'aver completato tutte il loro rito di passaggio.
Niente e nessuno avrebbe dovuto più intromettersi fra il loro essere contemporaneamente avversarie e compagne.
 
Iris fu certa che non lo avrebbe mai permesso, mentre tornava a casa del Campione ridendo di tutto ciò che era successo in quell'estenuante giornata.

 
 
La sala era buia, abbastanza vasta da impedire alla fievole luce delle lampade sul soffitto di illuminarla adeguatamente.
La grandezza dell'ambiente, d'altro canto, garantiva il perfetto rimbombo ad ogni genere di rumore.
Tuttavia l'unico di essi che in quel momento era possibile udire era il ticchettio lento di tacchi. Poi la voce della stessa persona che camminava.
 
«Sapete... - cominciò, proseguendo il suo vagabondare avanti e indietro lungo un segmento di pavimento - io non ho nulla contro le persone stupide.»
 
Oltre a colei che stava parlando, si contavano più o meno trenta presenze in aggiunta, un totale di persone disposte in riga militare secondo criteri matematici piuttosto rigidi.
I loro abiti erano neri in modo da confondersi con l'oscurità e risaltare durante il giorno.
I loro volti si distinguevano a malapena: i capelli erano tutti pettinati in una coda di cavallo in modo da non intralciare il loro campo visivo, bocca e naso coperti da una mascherina simile a quelle dei medici, soltanto che anche quella era di colore nero.
 
Perfino le loro espressioni facciali erano coordinate a puntino in quell'istante. Solo paura e vergogna si leggeva in esse, gli occhi abbassati pur di evitare gli occhi della leader.
 
«Diciamocelo: alla fine siamo tutti un po' stupidi, no?» Rise quella.
Nessuna rispose a quella domanda retorica, a cui seguì un breve e snervante silenzio.
 
La leader riprese poco dopo, sorprendendo ognuna di quelle cloni l'una dell'altra: accelerò d'improvviso il passo, si tolse il cappello che aveva addosso con un brusco gesto e tenendolo per la visiera, rivelò i capelli corti color fucsia acceso scombinati e schiacciati.
 
Stava per iniziare un brutto momento per ciascuna di esse, nessuna esclusa.
 
«A me da fastidio quando gli stupidi influenzano con la loro stupidità i piani dettati loro dalle poche persone intelligenti, facendo passare anche quelle per persone stupide! - la ragazza al comando fece un grande sforzo di calmarsi - Vi avevo dato un compito semplice, diamine.»
 
Il suo sforzo non fu ripagato ed ancora l'ira trascinò la giovane nel suo vortice.
 
«E ora, sapete, dico a voi, sapete che cosa mi fa uscire dai gangheri più di ogni altra cosa? Eh? Quando a mandare in rovina le persone già stupide ci riescono benissimo persone ancora più stupide!»
 
Con il cappello che agitava nella mano colpì violentemente la prima sfortunata di quella schiera di ragazze che le capitò a tiro. Poco le importava se si fosse anche trattato di una ragazza più grande di lei o più forte di lei. 
 
Perché Georgia Lang era non solo un membro scelto del Neo Team Plasma. Ne era la leader.
 
Quella giovane che aveva appena picchiato, una semplice recluta. Questa consapevolezza dei ruoli la rendeva non un soggetto ma un oggetto, impotente e destinata a subire le conseguenze del suo non agire da oggetto.
 
La giovane di quindici anni si passò le mani sudate sul viso. 
Chissà che ore erano, lì il tempo non scorreva mai, chissà che cosa avrebbe potuto fare in quel momento al posto di sgridare le sue sottomesse: andare al cinema, uscire con gli amici, allenare la sua squadra... Tutte quelle opzioni impossibili le fecero solamente aumentare la bile.
 
È vero, mentre quelle reclute inesperte stavano faticando per rubare i Pokémon ai Magazzini Nove, lei era andata al karaoke e all'arcade con una delle loro nemiche. Non poteva passare la sua estate a controllare quelle bambine, ma alla fine la colpa del loro fallimento era solo sua.
Non voleva ammetterlo a se stessa, però.
 
«Ma tanto, - riprese poco dopo, riacquistando sicurezza - voi cosa siete? Niente. Siete reclute, oggetti, schiave, mezzi per raggiungere l'obbiettivo, comparse senza volto nel libro della storia del Neo Team Plasma! Vostro compito non è essere ricordate. Voi dovete fare che noi, le protagoniste della storia vengano ricordate, così in futuro potranno dire "nonostante l'inettitudine delle loro reclute, i cinque membri scelti del team riuscirono ad ottenere il controllo sulla regione di Unima!"
Suona bene, vero?
 
Quindi non verrete punite, anzi, andate a dormire, facciamo finta che tutto questo non sia mai successo! Per la gloria del Neo Team Plasma, okay?»
 
E se ne andò con una disinvoltura tale da lasciar spiazzate tutte quante, tanto che neppure dopo che la leader ebbe lasciato la stanza il silenzio si ruppe.
 
Si incamminò diretta, abituata com'era a non perdersi in quell'edifico fatto apposta per sviare gli intrusi nella loro base segreta. L'area dopotutto era stata abbandonata e concessa ad alcune multinazionali affiliate al team recentemente, per via di una perdita di gas inesistente resa un affare serio da numerosi contratti e collaborazioni, talmente serio che proprio per caso il team avrebbe avuto proprietà dell'ex Deposito Frigo fino al termine (mai precisato) dei lavori.
 
Georgia aveva parlato del controllo della regione come obbiettivo da raggiungere, ma quello era già stato ottenuto anni prima. 
I politici più influenti, le aziende più importanti, interi villaggi e numerosi individui si prestavano alla protezione del Team Plasma per soddisfare i propri comodi nel modo più segreto possibile.
 
Eppure tutti gli abitanti della regione consideravano il Team Plasma acqua passata, un'organizzazione criminale che come molte vede il suo tramonto per mano di una personalità eroica. L'anno precedente infatti, due giovani allenatori, un ragazzo ed una ragazza avevano salvato Unima dalla catastrofe evocando i draghi leggendari Reshiram e Zekrom grazie ai loro cuori puri e l'aiuto di un misterioso individuo.
 
O almeno, questo era la versione che i mass media avevano divulgato.
 
Come la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, alcuni membri del team di diverso rango avevano istintivamente abbandonato gli ideali promossi dall'organizzazione al momento del suo scioglimento, speranzosi di dimenticare il passato da criminali.
 
Ed invece vi era chi non demordeva e nell'oscurità più totale continuava ad alimentare la fiamma in attesa di poter dare di nuovo inizio all'incendio; infine alcuni membri, i più recenti, erano entrati a far parte di questo nuovo capitolo dell'intricata storia, denominato come il Team Plasma nuovo da opporre a quello vecchio, i cui errori non si sarebbero ripetuti una seconda volta.
 
Come ulteriore rimando alla mitologia orientale, il simbolo del Neo Team Plasma era la Mano di Fatima visto che, per ragioni sconosciute, i membri reclutati erano tutti di sesso femminile.
 
Georgia si sistemò il cappello, per lei accessorio irrinunciabile. Fece segno di essere arriva ai gruppo dei membri scelti, che la aspettavano sulla soglia della grande Sala del Trono (com'era stata denominata).
Le altre quattro aspettarono che ella passasse avanti solo per poterla spingere e farla quasi inciampare.
 
«Perché hai mandato via quelle stupide senza punirle? - le domandò insistentemente Jasmine - Eh? Bipolare? Mi rispondi, bipolare?»
La giovane decise di ignorare quelle provocazioni e proseguire spedita.
 
Apparentemente le cinque erano state richieste in persona per assistere ad "una scoperta memorabile per la gloria del Team", come l'aveva definita il loro boss.
Non aveva rivelato loro nient'altro, doveva trattarsi di affari top secret se non potevano parlarne neppure mediante la loro apparecchiatura a prova di sbirri e di intrusione.
 
L'aspetto diroccato e malridotto ereditato alla compravendita del Deposito Frigo, loro nuova base, era rimasto intatto, perfino i luoghi in cui le reclute dormivano a prescindere dal loro rango somigliavano a veri e propri lager, del tutto scomodi, sporchi e invivibili.
Ogni luogo ad eccezione di quella sala, che aveva la fortuna di trovarsi sottoterra per sopravvivere persino ad un attacco nucleare.
 
Lì le pareti scintillavano d'oro, vi erano appesi probabilmente gli originali di quadri sottratti ai musei e alle gallerie d'arte più famose, un tappeto del colore della regalità si estendeva lungo la linea mediana del pavimento in marmo bianco. All'apice di una scalinata vi era ironicamente un trono principesco che sicuramente non era una semplice riproduzione, adornato di minerali preziosi come quello dei sovrani medievali.
 
Una vera e propria controparte della Sala d'Onore presente alla Lega Pokémon.
 
Le cinque ragazze nelle loro sudicie uniformi nere piuttosto scosciate si sentirono infime.
Proseguirono nel silenzio della notte, attraverso il corridoio rosso semi-illuminato.
Una volta giunte di fronte a quella specie di altare sopraelevato, una voce maschile parlò loro.
 
«Qui estis vos?» 
 
La domanda non era voluta, marcava solo l'inizio del motto rituale.
In latino, la lingua delle sacre formule, le giovani ripetevano la loro formula a memoria senza davvero conoscerne la lingua.
 
Tutte le ragazze, con Georgia posta al centro, si disposero in riga e subito si inginocchiarono in posizione di preghiera, con il torso chinato e la testa sopra la mani, in quella specie di próskinesis.
 
«Neo Team Plasma.»
Risposero in coro.
 
«Et quod est vobis perfaciendum?»
Chiese ancora, aspettandosi la solita risposta.
 
«Futurae Propugnantes quaerere et delere, ut Plasma societas adipisceri, postea multae anticae claedae, omnis regionis Unimae imperium possit!»
 
«Et facietisne omnia ad fungendum vestra missione?»
 
«Certe.» Partì con sottigliezza Alice.
 
«Sine dubitum.» La susseguì Jasmine.
 
«Faciemus.» Si aggiunse Sabrina.
 
«Omne perfungemur missione.» Ammise Lucinda con orgoglio.
 
«Sine ulla indignatio.» Completò la leader Georgia.
 
Finita la recitazione, i membri ebbero la possibilità di alzare il capo e guardare colui che stava di fronte a loro, seduto sul quello sfarzoso trono nascosto, come il re dei pitocchi.
 
Un uomo vecchio, la cui vista non era mai davvero gradita a nessuno, il cui aspetto sciupato dall'età e dalla vita fuggitiva contrastava con la cappa coperta di ricche pelli e disegni in filo d'oro che aveva addosso. Portava perfino una corona, la corona dell'impero latente che era ai suoi piedi.
 
Il suo ghigno non esprimeva altre emozioni se non la continua coscienza che la situazione, il luogo e le persone di fronte a cui si trovava erano completamente nelle sue mani.
Da lì forse, il simbolo della Mano di Fatima coperto di pietre preziose sul suo mantello.
 
Ghecis, il sovrano del Team Plasma, guardò le cinque e ancora mostrò quel riso raccapricciante.
 
Al suo fianco fece la sua apparizione un individuo in camice da laboratorio, dai capelli biondi spuntava un bizzarro ciuffo blu che gli circondava la testa senza però toccarla. Portava occhiali da vista non troppo spessi, non sembrava troppo vecchio ma neppure così giovane.
 
Avrebbe dovuto essere intimorito dal trovarsi a pochi passi dal capo di un organizzazione criminale così potente, eppure era intento a smanettare velocemente sul suo tablet.
 
Quando questo ebbe finito i suoi conti si avvicinò: sorrideva beffardo, come se non avesse paura di nulla. Al suo fianco vi era un esemplare di Klingklang.
 
«Eccole, - fece calorosamente, raccogliendo nella sua mano il volto di Lucinda, rimanendo ad esaminarne i lineamenti - proprio come me le avevi...»
 
«Avevate.» Lo corresse brutalmente l'uomo.

Poi lo scienziato riprese.
 
«...come me le avevate descritte, Ghecis: belle, in salute e soprattutto... Giovani...
Fanno al caso nostro. - mollò il volto della fanciulla e parlò a tutte - Non avete ancora eliminato nessuna delle candidate Campionesse?»
 
Quell'uomo aveva un atteggiamento decisamente troppo arrogante. Non poteva permettersi di chiedere i dettagli di un piano segreto le cui conseguenze si sarebbero sentite su scala nazionale con tale nonchalance, a meno che Ghecis non lo avesse volutamente informato.
 
«Nossignore.»
I cinque membri selezionati dovettero rispondere a malincuore, sempre mantenendo la loro serietà.
 
Costui tornò a ticchettare gli indici sul tablet, e il re del team si alzò dal suo seggio.
 
«Sono lieto, per quanto possa rendermi lieto sapere del fallimento continuo delle vostre missioni, - tutte abbassarono gli occhi a quell'aspro dato di fatto - di presentarvi il Professor Acromio, uno degli scienziati più brillanti della regione in materia di potenziamento delle prestazioni in lotta.»
 
Il professore fece solo un lieve cenno con la testa al posto di un inchino.
 
La sapienza nell'usare i vocaboli giusti al punto giusto con la giusta intonazione aveva garantito al vecchio dai capelli verdastro molti seguaci, tanto potente era la sua arte retorica.
 
«A differenza di altri cervelloni troppo occupati a difendere il loro orgoglio, come Aralia e Zania, quest'uomo si è offerto di aiutare la nostra modesta "famiglia" nel nostro scopo per un prezzo...
Molto interessante... A lei la parola, Acromio.»
 
«Se non le...» Fece per parlare, ma fu interrotto ancora più rabbiosamente dall'altro.
 
«Vi, maledizione, vi!» Ringhiò esasperato, cercando di non fare la figura dello stolto.
 
«Se non vi dispiace, preferirei essere chiamato con il titolo di Professore... Tornando a noi, ho qui con me un piccolo segreto che potrebbe garantire a noi, noi Team Plasma intendo, il dominio non solo su tutti i Pokémon presenti nella regione, ma anche sugli essere umani.
A sentirmi solo parlare vi potrà sembrare una barzelletta, ma lasciate che vi mostri i fatti.»
 
Una serie di occhiate perplesse partì dal principio di azione e reazione causato da Lucinda.
Davvero costui possedeva il segreto per la conquista della regione?
E anche se fosse stato vero, chi lo diceva che non si sarebbe rivelato un fallimento come quello dell'anno precedente?
 
Tutte furono curiose di scoprirlo e si sentirono in qualche modo onorate di poter essere le prime ad assistervi insieme al loro capo. Questo sicuramente faceva di loro le protagoniste assolute.
 
«Ora, voi siete giovani, care ragazze, nessuna di voi supera i vent'anni di età... Adesso ditemi...»
 
Acromio estrasse dalla tasca del camice una piccola fiala di vetro, da cui si intravedeva un liquido.
Era rosso, somigliava a sangue, ma molto più acceso e denso. Proseguì, quasi scherzando.
 
«...qualcuna di voi si è mai fatta di droga?»
 
Calò un velo di impenetrabile silenzio nella grande sala. Ghecis guardava stranamente divertito.
 
Che razza di domanda da porre a delle adolescenti! Davvero esistevano persone così bigotte da pensare che i giovani di Unima pensassero solo al sesso, all'alcool e alla droga?
Il problema era che costui doveva essere un brillante scienziato... Quello era un brillante scienziato  quanto loro erano delle tossicodipendenti, pensarono.
 
«I-Il mio ragazzo, - avendo l'ordine della più assoluta onestà, Jasmine disse l'unica cosa - il mio ragazzo si fa di cocaina, la inala, la usa come anti-depressivo...»
 
Le altre quattro, prima di domandarsi ancora di più lo scopo di quella domanda, si interrogarono sul come una potesse fidanzarsi con un drogato come Corrado e vantarsene apertamente. 
 
«Non importa, - proseguì il professore - c'è sempre una prima volta... Non voglio rovinarvi la sorpresa, perché... Perché non provate voi stesse che cosa fa? Forza, ce n'è per tutte!»
 
Per la prima volta, le ragazze del crimine con la lettera maiuscola, la cui filosofia di vita era andare sempre avanti senza rimorsi e fare ogni cosa per ottenere il successo, esitarono.
Dovevano aspettarselo. Fare qualsiasi cosa le stava portando a drogarsi per soddisfare le volontà del team ed ovviamente non potevano che dissentire.
 
Sapevano tutte, tutte che la droga di qualsiasi tipo è inutile, pericolosa e spesso letale.
Dovettero stimare quanto valesse la loro vita rispetto agli interessi del Neo Team Plasma.
Una scelta di proporzioni abnormi per delle ragazzine di età compresa fra i quindici e i vent'anni.
 
Mentre Alice, Jasmine, Sabrina e Lucinda valutavano ciò, la ragazza dagli occhi di ghiaccio si alzò in piedi.
 
«Fifone... - fissando quelle quattro codarde lo mormorò a denti stretti, per poi rivolgersi ai loro superiori - Mi offro volontaria io.»
 
Georgia non sembrava impaurita, nemmeno un poco riluttante al farsi manipolare da un clan di cui faceva parte da meno di un anno. Lo aveva scelto lei. Non si sarebbe fatta pregare.
Ricordava bene ciò che il giorno prima aveva detto ad Iris. Le era servito per convincersene ancora di più e ora non aveva motivo di negarlo e di passare per un'incoerente.
 
«Se è per qualcosa o qualcuno che ti sta a cuore bisogna sempre osare, non importa cosa comporti o se sia un bene o un male.»
 
Il professore esultò, agganciando alla bocca della fiala il beccuccio di una siringa con l'ago piuttosto lungo. Ghecis invitò la ragazza a mettersi comoda sul suo trono, stupendo tutti.
 
«Sarà come il vaccino, - pensava la ragazza, cercando di ignorare l'ansia che le provocava l'essere guardata dalle sue "non compagne" - Per fortuna che non ho paura degli aghi...»
 
Dopo averle annodato il laccio emostatico intorno al bicipite destro, sotto gli occhi basiti delle quattro ragazze e lo sguardo rapito del sovrano, la ragazza dai capelli fucsia si lasciò iniettare nella vena brachiale il liquido, osservando il livello di esso scendere dalla siringa per entrarle in corpo.
 
Dopo una piccola dose la puntura terminò, ed il professore estrasse l'ago, soddisfatto.
In quel momento doveva succedere qualcosa.
 
Fu una questione di secondi, che lo sguardo della ragazzina perse ogni contatto visivo e le pupille dilatate al massimo vagabondavano attraverso le orbite come in preludio ad uno svenimento.
Il viso totalmente assente, l'arrossarsi della sclera e la disfunzione delle facoltà percettive diedero ai presenti l'idea del classico effetto di droghe come la marijuana e l'hashish.
Nulla di originale.
 
Ma quello strano scienziato non aveva mostrato ancora nulla del suo misterioso esperimento.
Nella sala, ancora una volta, una fitta coltre di silenzio scese.
 
«Alzati. - comandò secco alla quindicenne in trance - Vieni qui davanti a me.»
 
A dispetto delle aspettative comuni, quella non zoppicava minimamente e non sembrava affatto confusa, camminò perfettamente come un androide pilotato dal suo creatore. 
Stava in piedi di fronte a lui, probabilmente attendendo il suo prossimo comando.
 
Senza che davvero nessuno, proprio nessuno potesse prevederlo, Acromio schiaffeggiò con forza la ragazzina di fronte a lui per ben tre volte, facendola finire per terra.
Aveva impresso tale potenza al braccio che sul volto di ella era comparso un ematoma.
 
Le quattro ragazze subito si allarmarono, respirando affannosamente per la sorpresa tutt'altro che piacevole, il dover restare al loro posto mentre una loro coetanea venire picchiata fece venire a tutte la pelle d'oca.
 
«Cosa le avete fatto?!» Lucinda ebbe il coraggio di urlare, quasi in lacrime.
 
Solo il pensiero che ciò dopo sarebbe toccato a lei era abbastanza per farla piangere.
 
Poco dopo, la vittima di quei manrovesci si rialzò in piedi, cercando di ricomporsi; ciò non le richiese uno sforzo eccessivo, era subito tornata nella sua posizione di prima, con lo sguardo ancora perso.
 
«Dimmi tesoro, - Acromio le domandò, anche se già sapeva la risposta - ti ho fatto male?
Sii sincera, zuccherino.»
 
Solo un eccesso di orgoglio avrebbe portato una docile fanciulla a non ammettere il proprio dolore dopo aver ricevuto tre schiaffi del genere, abbastanza violenti da causarle una botta visibile.
La ragazza rifletté un secondo. La risposta la sapeva, ed era anche sincera al cento percento.
 
«...N-No... No, non ho sentito niente, com'è possibile?»
 
«Ebbene signorine, - era disgustoso come quell'uomo ammiccasse a delle ragazze più giovani di lui di almeno vent'anni - questo è il Sangue del Drago. Vi piace il nome?
 
Un'iniezione di meno di cinquanta millilitri vi garantirà l'immunità per almeno una o due ore... 
La sua formula chimica composta di una tossina ad idrossido di idrogeno ispirata alle capacità immunitarie di alcuni Tipi Buio addormenta i nervi e impedisce la percezione del dolore.
 
Ora potreste pensare che il mio Sangue di Drago non sia altro che una semplice anestesia...
Sbagliato: la sua formula, ispirata all'abilità Insonnia di alcuni Pokémon, pone il cervello in totale attività evitando il coma post-assunzione.
 
Somministratela alle vostre reclute, ai vostri Pokémon, ha sempre e comunque effetto.
Potrei dilungarmi sugli aspetti teorici, ma al momento credo che sia inutile, visti gli effetti...» 
 
Nessuno aveva parole per descrivere il miracolo scientifico a cui avevano assistito, da come il professore ne aveva parlato questo Sangue di Drago doveva essere il vero e proprio elisir dell'immortalità, disponibile solo al Neo Team Plasma.
 
Con quella sostanza in corpo non avrebbero solo eliminato le cinque Campionesse. 
Avrebbero potuto conquistare tutte le regioni, catturare i Pokémon Leggendari, sfidare la morte in persona e vivere così nella memoria dei posteri.
 
«Klingklang, usa Raggioscossa!» Ordinò raggiante.
 
Ancora, la giovane fu pervasa dalle contrazioni involontarie seguitanti all'elettroshock per alcuni secondi, poi cadde a terra, ancora fumante per la carica ricevuta. Ma invece di morire fulminata, come sarebbe successo in natura, quella si rialzò ancora, incolume, anch'essa sorridendo vittoriosa.
 
«Vostra Grazia, - lei si rivolse così a Ghecis - se ci permettete di usare questo Sangue di Drago per eliminare definitivamente le ragazze di Nardo, posso assicurarvi che questa sarà la vittoria decisiva per il Neo Team Plasma.»
 
«Hai fegato questa ragazza. Come si chiama?» 
Domandò sorpreso Acromio, con gli occhi di nuovo chini sul suo tablet.
 
«Georgia, - esultò Ghecis, una gioia spaventosa se vista su di un essere ripugnante come quello - Georgia si chiama, è la leader di questo gruppo di imbecilli... - poi riprese a parlare a lei - Affido a te, carissima, il compito di dirigere le operazioni questa volta.
E voi altre - si rivolse a quelle, furibondo - ascoltatela, ogni suo ordine è un mio ordine.»
 
«Non la deluderò, Mio Signore.»

La ragazza dagli occhi glaciali fece una riverenza.
 
Non aveva motivo di deluderlo. Non aveva la possibilità di deluderlo. Ora erano invincibili.
Avrebbe adempito alla missione nel modo più epocale possibile.
Era abbastanza motivata da poter uccidere in quel momento, lo avrebbe fatto senza rimorsi.
 
Del resto, lei era entrata di sua spontanea volontà nel Neo Team Plasma e con sangue, sudore e lacrime, solo con i sacrifici era riuscita a diventarne leader. Credeva nei loro ideali, li avrebbe resi lei stessa unica ed incontrastabile verità per tutta la regione.
 
Dopo essersi congedata, stabilì che non avrebbe deluso Ghecis, suo secondo padre, come in passato lo aveva deluso suo figlio.
 
Quando fu sola, nella sua stanza fredda e buia, dopo essersi tolta l'uniforme e poi seduta sul suo letto con le cuffie sulle orecchie, accese il telefonino rimasto assopito sul fondo della tasca posteriore.
 
Prima di avere anche solo il tempo di rimpiangere la sua decisione, selezionò dalla rubrica il numero di Iris, vedendola ancora online perfino a quell'ora.
 
«Ciao, sono Georgia, hai voglia di uscire sabato sera?»
 
Scrisse sfruttando la sua velocità dattilografica, per poi abbandonare l'apparecchio sul cuscino e chiudere gli occhi per qualche minuto, per riposarsi dopo quella giornata così importante.
 
Presto i minuti si fecero ore e la giovane leader del Neo Team Plasma cadde fra le braccia di Morfeo.
Ancora il suo telefonino non dava segni di una risposta della destinataria. 

 

 

«In quanto leader e dunque responsabile del benessere dei miei sottoposti, mi sono accorta che questa storia è indiscutibilmente povera di insegnamenti per i lettori! Com'è possibile?
 
Certo, magari l'autore di questo disastro ha avuto di meglio su cui concentrarsi, meglio fermarsi a descrivere i seni di tutte le protagoniste invece di fornire un qualche messaggio educativo, una morale di fondo o un qualcosa di legalmente e politicamente corretto!
Vogliamo dare un'occhiata a cosa ci insegna questo capitolo di Early Summer Girls (perché poi il titolo deve essere in inglese? Non è già abbastanza confuso così?)
 
Numero uno: dai retta agli sconosciuti incontrati per caso e con losche intenzioni.
Numero due: usa i soldi forniti dall'agenzia per comprarti i vestiti firmati.
Numero tre: datti ad effusioni amorose in pubblico nel modo più vergognoso possibile.
Numero quattro: spia le persone che ti sembrano antipatiche.
Numero cinque: inizia una rissa in un locale frequentato contro le suddette persone.
Numero sei: umilia pubblicamente le su-suddette persone.
Numero sette: rivela agli sconosciuti del punto uno i tuoi segreti professionali.
Numero otto: dai il numero di telefono ai suddetti sconosciuti, così non sono più sconosciuti ma maniaci.
Numero nove: accetta denaro dagli sconosciuti (gli sconosciuti del punto nove sono diversi dagli sconosciuti dei punti uno, sette e otto) e compra il materiale adatto per...
 
A-Aspettate, è forse un modo per dire che anche io sono implicitamente un cattivo modello?!
...beh, sono una Campionessa, non una suora. Non lamentatevi con me, ma con l'autrice!»
«In quanto leader e dunque responsabile del benessere dei miei sottoposti, mi sono accorta che questa storia è indiscutibilmente povera di insegnamenti per i lettori! Com'è possibile?
 
Certo, magari l'autore di questo disastro ha avuto di meglio su cui concentrarsi, meglio fermarsi a descrivere i seni di tutte le protagoniste invece di fornire un qualche messaggio educativo, una morale di fondo o un qualcosa di legalmente e politicamente corretto!
Vogliamo dare un'occhiata a cosa ci insegna questo capitolo di Early Summer Girls (perché poi il titolo deve essere in inglese? Non è già abbastanza confuso così?)
 
Numero uno: dai retta agli sconosciuti incontrati per caso e con losche intenzioni.
Numero due: usa i soldi forniti dall'agenzia per comprarti i vestiti firmati.
Numero tre: datti ad effusioni amorose in pubblico nel modo più vergognoso possibile.
Numero quattro: spia le persone che ti sembrano antipatiche.
Numero cinque: inizia una rissa in un locale frequentato contro le suddette persone.
Numero sei: umilia pubblicamente le su-suddette persone.
Numero sette: rivela agli sconosciuti del punto uno i tuoi segreti professionali.
Numero otto: dai il numero di telefono ai suddetti sconosciuti, così non sono più sconosciuti ma maniaci.
Numero nove: accetta denaro dagli sconosciuti (gli sconosciuti del punto nove sono diversi dagli sconosciuti dei punti uno, sette e otto) e compra il materiale adatto per...
 
A-Aspettate, è forse un modo per dire che anche io sono implicitamente un cattivo modello?!
...beh, sono una Campionessa, non una santa. Non lamentatevi con me, ma con l'autrice!»

 

 

Behind the Summery Scenery #14

1. Dovrei scrivermi volta per volta le curiosità da annettere al capitolo, altrimenti devo fare uno sforzo mnemonico immane.

2. Eh, sì, questo capitolo pullula di Product Placements. Esatto, adesso ESG ha pure degli sponsor, che bello. No, scherzo.
Questo per dire che è vero, mi sono ispirata a luoghi, prodotti, cose che esistono nella vita reale sotto forma di brand e li ho trasferito nella storia per farla sembrare gggiovane: le ragazze vanno a bere da Starbucks, Iris e Georgia giocano al Pump it Up, Camelia e Anemone fanno shopping da Urban Outfiters, (o da Sisley, o da H&M... è uguale), cosa c'è di male?

3. L'outfit di Anemone l'ho creato con Polyvore. ve lo posterei qui, ma non aggiungo altro trash al trash.

4. E adesso scopriamo che Catlina soffre di crisi epilettiche.
Dunque, disclaimer: le informazioni che darò riguardo la sua malattia da qui in avanti sono frutti sia della mia cultura personale, sia di ricerche mediche a scopo informativo.
Quindi, se qualcuno che ci capisce più di me su questo argomento ha qualcosa da ridire me lo faccia sapere per favore.
In primo luogo perché non ci tengo affatto ad essere la prossima John Green, poi perché non mi dispiacerebbe imparare un qualcosa di utile una volta tanto.

5. La scena della lotta, parliamone. Spero di non aver offeso nessuno descrivendo le ragazzine del Team Plasma come giovani, facendo trasparire il classico stereotipo che interessa i ragazzini del secondo millennio.
Nel caso lo avessi fatto, consiglio a chi si è offeso di ripigliarsi, siete veramente messi male se riuscite ad immedesimarvi nella parte marcia di questa generazione.

6. Il simbolo sul cappello di Georgia è questo. Scusate amici, niente metaposting.

7. Questo capitolo comprende il 14 ed il sub-capitolo vecchio del 15.

8. Oh yeah guys, avete visto come le nostre cinque bad bitches vivono la thug life? La scena della macchina è tratta da un video musicale, in cui però si limitavano a fare un paio di strisce e a rompere un finestrino. Mi pareva opportuno esagerare per ottenere la perfetta vendetta contro il fidanzato traditore.
Voi però non fatelo a casa, eh.


9. Ragazzi che leggete la storia, non prendetevela per il "regolamento anti-uomini": sono solo lesbiche ed arrabbiate.
E comunque restate i migliori, you slayyyyyyyy.

10. A breve vi carico il design delle reclute del Neo Team Plasma, non sprechiamo il bel disegno che ho fatto.

11. Se non riuscirò a far dire entro la fine dell'arco del Team Plasma ad Acromio che "lui non è d'accordo" cancello la storia.
Get the reference, c'mon... Il trailer di Nero2/Bianco2... La piazza... Vabbé, I give up.

Update: e invece ce l'ho fatta. Momo delivering what ahe promises as per usual ^^

12. E per completare l'opera, domanda a sorpresa: ad alta voce leggete il titolo competo della long. Early Summer Girls.
Come avete letto la prima parola?
 [ˈɜːli] mi auguro. Perché se vengo a che ci sono persone che leggono Irly Sammerr Gars cancello la storia e non potremmo sentire Acromio dire che non è d'accordo.

13. Ultima, ma questa è più una comunicazione di servizio: in questa storia non ci sono spoiler relativi ai nuovi giochi Pokémon Sole e Luna. Canonicamente si parlerà in generale solo delle sei regioni fino a Kalos, per permettere a chi ancora non ha giocato di godersi in santa pace la sua avventura senza spiacevoli sorprese (E sottolineo "spiacevoli").
Ora però devo tornare a decidere chi fra le nuove allenatrici sarà la mia nuova waifu... Mmhh... Bella domanda...

Update: e adesso c'è pure Galar di mezzo! Santo piripillo ònó

11. La Cadillac. Perché ho voluto inserire una Cadillac? Beh, innanzitutto, è oggettivamente una bella macchinozza. Secondo, la citazione!!
....che non era, almeno in origine, a quello che state pensando voi.

Il rferimento originale a cui mi rifacevo durante la stesura del capitolo è alla macchina che guida Chance Wayne, il protagonista di Sweet Bird of Youth, la (tragi)commedia di Tennessee Williams - di cui cìè anche il film con Paul Neumann. Ad un certo punto, il fratello di Heavenly pronuncia la battuta "Oh, sì... [Chance] se ne andrà [da San Cloud]... ma noOoOoOon su quella Cadillac sfrecciante". Ecco, nemmeno Mirton se ne tornerà alla Lega sulla sua Cadillac sfrecciante.

Tuttavia, non potevamo - né io, né voi - prevedere che lo stesso modello di autovettura sarebbe diventato celebre poiché ha trasformato la calura nostrana in uno scenario degno di Rio de Janeiro. Per questo, incoraggio tutti i recensori ad utilizzare lo spelling Katuxano della parola Cadjillachi, in memoria della grande djiva in ascolto strike a pose, a cui tutti possiamo e dobbiamo avvicinarci.

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Capitolo 15
*** La vendetta è un piatto che va servito freddo ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing:
🍦
Seguiteci su instagram: @esg_offical_ig








Early Summer Girls

Capitolo 15

La vendetta è un piatto che va servito freddo

Quella sera fu una delle pochissime in cui le nostre eroine non avevano chiuso ancora gli occhi dopo le ore dieci. Niente coprifuoco per quel giorno, aveva detto Nardo.

Aveva preparato con le sue mani una cena abbondante a base di piatti tradizionali, concesso alle giovani un solo bicchiere di sake ciascuna (non avrebbe mai più ripetuto quell'errore fatto la sera del primo luglio) ed ora contemplava le figure delle sue ragazze danzare come lucciole nella notte, mentre giocavano con le stelle filanti ridevano e scherzavano.

Se lo erano meritate, in fondo.
Gli aveva affidato una missione con le aspettative di successo più basse dei loro piedi. Invece loro gli avevano obbedito con diligenza e non solo, si erano lanciate in una lotta così ben gestita da farlo inorgoglire dell'aver scelto proprio quelle cinque come nuove Campionesse.

L'unica notizia che lo aveva leggermente turbato era stata una segnalazione di uno dei suoi dipendenti alla Lega Pokémon, una cosa da poco, una banda di teppisti gli aveva sfasciato la macchina da capo a piedi prendendosi pure la libertà di ridipingergliela di viola, giallo, azzurro, rosa e bianco...

Ma al vecchio e bonario Campione in procinto di andare in pensione non importò granché.

Guardava i bastoncini luminosi che agitavano nelle loro mani, mentre strappavano un lembo di buio alla dea della notte e lo trasformavano in polvere cosmica, lacrime di luce brillanti come i gioielli dei monarchi orientali, secondo il vecchio Campione la risposta a tutti i problemi che la sua cara Unima stava affrontando risiedeva nel cuore dei giovani.

Voleva vedere chi fra quelle belle, abili ed astute ragazzine avrebbe cosparso il territorio arido della regione con una pioggia rinvigorente di idee e proposte che se messe in bocca ad una personalità come il Campione della Lega non sarebbero potute passare inosservate.

Nardo esaminò la grazia con cui elle muovevano gli stecchi di gocce scintillanti come una maestosa geisha muove il suo ventaglio nella danza giapponese, gli yukata si aprivano come tessuto senza corpo, ali d'aria.

Erano delle bambine, tutte quelle Allenatrici preservavano nel loro io un'innocenza rimasta inviolata, era quasi toccante vederle giocare a rincorrersi e sentirle scherzare così liberamente con tanto di minacce del genere "ti do fuoco ai capelli".

Solo una persona pura di cuore come un bambino può vedere la realtà da un punto di vista differente ed estrarre dal fango un tesoro, riuscire a ribaltare la sgradevole situazione di degrado, corruzione e malessere che investiva la regione in una nuova età dell'oro.

Ce l'avrebbero fatta, ne era certo.

In quel preciso momento, distraendo le giovani dai loro giochi, si udì un boato.

Somigliava al suono di un'esplosione causata volontariamente.
Una fitta colonna di fumo grigiastro intanto solcava il cielo d'avorio.

«Nardo, Nardo, - una voce femminile lo cercò di riportare alla realtà, ma al vecchio servì più tempo per accorgersene - è successo qualcosa, a nord, in direzione della Lega...»

«Ragazze, per favore, calmatevi. - il Campione si trovò circondato dalle cinque e parlò loro come a delle figlie - Non è nulla, dovete solo stare calme.»

L'istinto paterno non servì a migliorare di molto la situazione, tanto che subito squillò il telefono e la leader del gruppo, avendo riflessi sicuramente più veloci di egli, rispose.
L'uomo stette ad aspettare.
Sapeva che in quella situazione non era assolutamente possibile restare calmi.

Camilla teneva il telefono fra la spalla e l'orecchio, rivolgendosi a tutti i presenti lì.
«È la Professoressa Aralia. Dice di accendere la televisione.»

«Scommetto dieci Pokédollari che cominceranno dicendo "interrompiamo il programma per una notizia dell'ultimo minuto."»
Camelia si era già precipitata sul telecomando del televisore ultrapiatto.
In qualche modo fu come se la scommessa l'avesse vinta.

Senza il bisogno di cambiare canale, la testata del telegiornale esprimeva l'accaduto in semplici e fin troppo sintetiche parole, neanche stesse parlando in codice cifrato.

«Capo del Neo Team Plasma lancia una vera e propria sfida al Campione della Lega.»

La telecronista descriveva imperturbata la vicenda probabilmente per la quarta o quinta volta, tanto da avervi costruito sopra un bellissimo sermone utile solo ad acchiappare gli ascolti.
Dietro di ella, sullo schermo, comparve un volto che nessuno, nessuno nella regione di Unima avrebbe mai desiderato di rivedere una seconda volta.

«Come uno dei tantissimi sfidanti alla Lega Pokémon, mediante un videomessaggio caricato sul web è il temutissimo Ghecis Harmonia ad invitare il Campione Nardo a "sfidare la sua migliore recluta".

L'uomo si presenta ancora con il nome di re del rinato Neo Team Plasma, l'organizzazione criminale che si credeva estinta da ormai due anni ha infatti proposto al Campione in carica una sfida questa sera alla Lega, con il dominio sulla regione come posta in palio.

È nelle mani del Campione Nardo ora, decidere se presentarsi per difendere...»

L'uomo di mezza età spense il televisore e si portò una mano fra i capelli brizzolati.
Non poteva star succedendo di nuovo.

Due anni or sono si era trovato a sfidare il figlio, l'erede di quel pazzo megalomane pur di conservare la salvezza della sua cara patria: ma N lo aveva sconfitto.
Lui e i suoi Pokémon avevano combattuto fino allo stremo, eppure la carne marcia derivata dai residui di quell'essere era riuscita a prevalere sul buon sangue dei nativi di Unima.

Per la prima volta dovette dare il dispiacere alle ragazze raccolte intorno a lui di vederlo veramente preoccupato, anche se non in modo troppo lampante.

«Quindi è un tutto per tutto? Chi vince diventa il nuovo Campione?»
Domandò Catlina, dimostrandosi più collaborativa del solito.

«Però Ghecis ha detto che non lotterà di persona... Non so se ci sia da preoccuparsi, le reclute che abbiamo sconfitto noi erano delle incapaci, ma questa potrebbe essere anche un mostro per quanto ne sappiamo.»
Anemone provò a risponderle, ma si trovò ancor più arenata nei dubbi.

Nardo fece un respiro profondo ed alzandosi in piedi afferrò la cintura in cui teneva le sue sei Poké Ball. Dipendeva da lui e basta quella lotta.
Ma prima che potesse anche solo muovere un passo, Camilla lo fermò.

«Per favore, lascia andare noi.» Disse in tono compunto.

«Camilla, - fece per contraddirla - siete sotto la mia responsabilità. Se qualcosa dovesse accadervi...»

«Abbiamo battuto il Team Plasma già una volta. Possiamo farlo di nuovo.»
Affermò la donna, ancora più convinta.

«Sei proprio testarda... - l'uomo le sorrise quasi, stupito com'era dal comportamento della sua collega - è me che vuole Ghecis.»

«Ma le vere e proprie Campionesse della regione di Unima siamo noi cinque.»
Camilla estrasse dall'ampio seno una delle sue sfere Poké. In teoria aveva ragione.

«È nostro compito, ti prego. Non sei nelle condizioni di lottare contro una recluta del Team.
Lascia fare a noi, non ti deluderemo.»

Il vecchio riuscì a vedere negli occhi di ciascuna di esse una scintilla di paura.
Ma alle radici della forza vi era proprio l'avanzare lungo la propria strada nonostante la paura.
Che fosse l'amore per la patria natia, il loro orgoglio da aspiranti Campionesse, il senso innato di giustizia, non sembrava che ciò che aveva detto Camilla fossero solo parole di conforto.

Le altre quattro annuirono, dando la loro completa approvazione.
Il destino di Pokémon, umani, città e territori che condividevano un unico nome era nelle loro lisce manine delicate con le unghie dipinte di colori stravaganti.

«A-Abbiate cura di voi...» Nardo le lasciò, senza il coraggio di guardarle in volto.

Si erano allenate, erano discrete lottatrici, avevano buon senso. Sarebbe bastato ciò?
Non avrebbe mai offerto cinque giovani vite in sacrificio se quelle non fossero già state marcate con il sangue dell'agnello, predestinandosi alla morte sul campo di battaglia.

Quando mai avrebbe trovato altre candidate più volenterose, più benevole e pure di cuore da sottoporsi al rischio di un intero paese?

Dove le avrebbe trovate, se non fra le anime che viaggiano nei sussurri del vento estivo?

 
 
 
Se durante il giorno la Lega Unima riusciva a schiacciare i visitatori come moscerini al cospetto della sua maestosità, lo scuro velo della notte le bendava gli occhi, tutto quel luccichio visibile nelle fasi diurne del giorno veniva inghiottito da una visione più tetra e terrificante.

Somigliava ai castelli, alle prigioni, alle ambientazioni degli stage finali programmati per un videogioco, la tonalità gradiente era una scala di grigi che si esauriva nel nero totale.
Vi era scarsa illuminazione, la Lega Unima era famosa per il suo tendere al risparmio e neppure i Superquattro, a detta di Catlina, vi risiedevano al momento.

Le ragazze, dopo aver attraversato la Via Vittoria, salirono ogni gradino che conduceva al padiglione dorato come se stessero mettendo piede su un campo minato.
Si muovevano in gruppo, la leader in testa guidata dalla sua coetanea, le due diciassettenni in seconda linea, alla ragazzina più giovane toccò la retrovia invece.

«Dite che si sono accorti che siamo qui?» Chiese quella.

«Non lo so Iris, perché non gridi un po' più forte così ci sentono bene?»

Camelia le rispose così a tono che le venne pure la pelle d'oca. La ragazzina avrebbe volentieri contraddetto la sua molestatrice dicendole che quello era il suo tono di voce normale ma la biondina fece segno di stare in silenzio alle due.

«Vorranno attaccarci di sorpresa, questo è sicuro.»

«Mamma mia, - la modella mise ancora più enfasi alla sua scenata - ed io che credevo ci avrebbero avvisate appena gli girava di farci secche...»

La minore fra le due più anziane del gruppo stava giusto per rimproverarla quando Camilla intervenì.

«Camelia ha ragione. Smettiamola di dire ovvietà e pensiamo a cosa fare qui ed ora.
Qualcuna di voi ha per caso un piano?»

Si guadagnò quattro occhiate estremamente confuse.

«Un piano?! - Fece la rossa stravolgendo la voce - Da quand'è che noi usiamo un "piano"?
Cosa siamo, i personaggi di un anime mainstream?»

Per quanto sciocco potesse essere, le cinque per davvero non avevano un piano.

Si fermarono al centro della sala principale, radunate intorno alla statua di marmo che rappresentava i due draghi leggendari in punto di smaterializzarsi nelle rispettive pietre.
Non si spesero per ulteriori commenti, quando a parlar loro con il linguaggio dell'ansia fu il vento.

Iris sentiva i nervi tesi come le corde di un violino, più strabuzzava gli occhi per guardare i movimenti di ogni singolo atomo di ciò che la circondava, più le sembrava di non vederci nulla.
Stava perfino sudando, sperò di non macchiare lo yukata visto che non era stato dato loro neanche il tempo di cambiarsi i vestiti.

E la sua ansia non rimase sospesa nel vuoto, bastò un verso stridulo a mettere tutte in allerta: senza esitare mandarono in campo il primo Pokémon che avevano sotto mano.
O per meglio dire, sotto il seno.

Iris stette a guardare le sue compagne con sguardo schifato, com'era possibile che ora avessero preso tutte e quattro a tenere le Poké Ball in quel posto? Era forse una congiura contro di lei?

«...io vi detesto... Dragonite, vieni fuori.»
Dopo essersi ripresa lo chiamò fuori e come sempre lo trovò pronto a combattere.

Le altre nel frattempo avevano schierato rispettivamente Emolga, Swoobat, Reuniclus e Spiritomb.

Erano stretti in due cerchi concentrici alla statua, in quello esterno i Pokémon vigilavano come sentinelle, decisi com'erano a difendere le loro Allenatrici.

Queste non ebbero neppure il tempo materiale di escogitarlo un piano.

Pochi secondi dopo la sala dai soffitti affrescati si era riempita di presenze nemiche che continuavano a fuoriuscire a fiotti dai quattro corridoi che conducevano alle stanze dei membri dell'élite.

Oltre al buio pesto ad annebbiare la visione, una spessa nebbia aveva cominciato a diffondersi, rendendo l'aria irrespirabile e dolciastra.

«Ragazze cosa cavolo sta succedendo?!»
Iris non potendosi voltare ricercò vocalmente la presenza delle sue compagne.

Riconobbe la voce, era Anemone, lo capì da alcuni suoni acuti che giungevano chiari al suo orecchio nonostante la confusione; non capì esattamente cosa avesse detto però.
Riuscì ad afferrare due o tre parole come "Pokémon", "non si vede", "attacca".

«Dragonite, Tuonopugno!» Ordinò senza esitare.

Lanciò un'occhiata veloce ai lati, ma tutto quello che le pareva di vedere le sembrava il frutto di allucinazioni pesanti: vedeva buio, come se stesse tenendo le palpebre chiuse, ma squarciato da masse di fumo o aria che le frammentava la visione a mo' di occhio di mosca.
E poi chissà quanti Pokémon proiettili che le si lanciavano contro, urtandola e confondendola.

Sentiva che non solo lei, ma tutte stavano facendo in modo di proteggersi nella maniera più disordinata possibile a causa di tutte quelle distrazioni.
Sentiva le carotidi gonfiarsi sul collo, pompare il sangue fino al cervello mentre l'adrenalina le stava inibendo i sensi, il sudore scorreva freddo sulla sua esile schiena.

Dopo non troppi minuti però, Iris constatò dal potente ruggito che il suo adorato Pokémon non suonava affatto stremato. Lo sentiva carico come quando era uscito fresco di cure dalla sua sfera.

In effetti, il verso di Dragonite era diventata l'unica cosa vagamente simile ad un rumore.
Senza neppure accorgersene, il silenzio aveva di nuovo inghiottito la stanza, lasciandola lì con la saliva bloccata in gola, ad allungare il suo cocktail ubriacante al gusto ansia e confusione.

«Dragonite, stai bene?»
Chiese piano la giovane dal kimono violetto, facendo qualche passo dalla sua postazione.

Riuscì finalmente a vederlo, i contorni erano sempre più nitidi e quando fu abbastanza vicina lo accarezzò incontrando gli occhi vispi del Pokémon drago.
La ragazzina quindi diede un'occhiata più analitica attorno a sé.

«La nebbia è andata via...» Constatò, facendo qualche altro passo.

Senza volerlo, schiacciò qualcosa di non troppo piccolo con il piede, la qual cosa strillò al contatto e lei, spaventata a morte, fece lo stesso, potendosi pure riascoltare in tutta la sua ridicolezza grazie al fenomeno dell'eco.
Dopo essersi ripresa da quel mezzo infarto, posò lo sguardo verso il pavimento.

Non era una cosa. Erano tante, tantissime cose. E come dettaglio finale, realizzò che quelli che aveva urtato non erano cose.

«Guarda! - attirò l'attenzione del suo compagno - Sono degli Zubat, e ci sono anche delle sue evoluzioni. Sono questi Zubat ad averci attaccate prima...
Per fortuna che ho usato Tuonopugno, che è efficace contro il tipo Volante... Immagina se… Se…
E la nebbia... La nebbia... È Nebbia! Intendo, la mossa che... che causa la nebbia.»

Iris si rese conto che parlarne con il suo Pokémon non aveva poi così tanto senso.
La sua teoria aveva un senso; gli Zubat nemici avevano usato Nebbia in gruppo per ricoprire di essa tutto il padiglione per poi scagliarsi contro di loro alla rinfusa, poteva concederselo.

Ma prima che quella potesse gridare il vero e proprio fulcro delle sue paure, il vento di tarda serata ululò ancora nelle sue orecchie, come a volerle suggerire "scappa, scappa finché sei in tempo."

«Ragazze...» Sussurrò ad occhi sbarrati, cercando a tentoni nel buio.

«Ragazze...» Ripeté con voce tremante, come i suoi arti in quel momento.

«C-Camilla… Cat… Cami… Anemon... hey, ragazze...» Non ottenne risposta.

Non le vedeva intorno a sé, non sentiva le loro voci, non erano lì e basta.
E quella non era neanche la prima volta che le quattro Allenatrici la lasciavano sola, per Dio.

Ma allora perché il suo subconscio continuava ad invocarle disperatamente, come se potesse raggiungere con i pensieri i luoghi che neppure le parole riuscivano con fatica a sfiorare?

Evitò di perdere tempo a razionalizzare troppo con le mani in mano, non era da lei.
Dovevano essere sparite con la nebbia e la confusione, come un trucco di magia.

Nonostante la paura snervante, Iris sapeva che aspettare sempre il loro ritorno girandosi i pollici le aveva portato solo delusione nelle occasioni di separazione.
Se non fossero venute loro da lei, beh, la ragazzina non esitò a cercare tutte le possibili vie di fuga da quella sala.

Si voltò e Dragonite fu più sveglio di lei quella volta. La scalinata principale era bloccata.
Un cancello alto di ottone la rinchiudeva in quella casa degli orrori.

«Quello non è il cancello che si attiva quando un Allenatore sta sfidando la Lega?
È attivo ora... Questo significa che...»

Corse subito verso la prima delle entrate alle sale dei Superquattro e, come aveva previsto, la trovò inaccessibile: tornò alla sua posizione iniziale, reggendosi alla statua come se le si fosse aperta una voragine sotto i piedi.

Respirò ansimando, si passò le mani sugli occhi, fece rientrare il suo Pokémon per paura che potesse venirle sottratto perfino lui.

Essere un Campione significa... Lei non sapeva affatto cosa significasse.

Ma se ciò significava sovvertire l'ordine e la pace di un'intera regione, adescare delle persone innocenti con turpi inganni e poi sfruttarle come pedine per segnare lo scacco matto, se essere il Campione di Unima significava davvero cedere alla mostruosità pur di poter mettere un piede nella Sala d'Onore...

«Hey!»
Gridò Iris, con le mani a megafono, parlando verso l'alto.

«Mi senti, recluta di Ghecis?
Sono io, una delle candidate al posto di Campione! Dove sei? Dico a te, codardo!

Ti sei fatto battere i Superquattro dalle mie compagne, ma bravo, ti faccio l'applauso.
Hai pure il coraggio di definirti "Campione" e di prendertela con Nardo? Bene.

Io... Io sono qui. Non me ne vado finché tu e il tuo stupido Team non ve ne andrete a quel paese, che cosa vi ha fatto Unima, si può sapere?! Eh? Rispondimi!»

La ragazzina dagli occhi nocciola e i capelli disordinati riprese fiato.
Aveva gridato di gola, che ora le doleva atrocemente. Deglutì, armandosi di tutto il suo coraggio.

Pensò che Aristide sarebbe stato fiero di lei, nel vederla resistere anche dopo tutti quegli inciti a scappare via e mettersi in salvo la pelle a discapito della salvezza della regione, della Lega e delle sue care compagne. Ma non le importò più di tanto.

Iris non fece quella pazzia per un premio o perché qualcuno glielo aveva ordinato.
Lo fece per se stessa. Per se stessa e nessun altro.

Rifletté un secondo sulle sue prossime mosse, non riuscendo a star ferma.
Con le sue mani color dell'ambra andava tastando il perimetro freddo della statua centrale, giurò che se fosse diventata Campionessa avrebbe ristrutturato l'edifico della Lega ed eliminato quella maledetta statua fatiscente.

«...L'ascensore! L'ascensore del primo giorno, sì!»

Attraverso un corridoio stretto e buio, coperto da piastrelle nero lucido in cui la luce lontana si diffondeva seguendo linee disposte a raggiera, la mora fece i suoi passi in avanti.
Non sembrava esserci stata una via d'entrata e molto dubbiosa era sull'esistenza di quella d'uscita.

Ma era tutto così stupido, così stupido che le dava la nausea.

Non le interessavano minimamente le storie di odio prolungato e la facevano ridere i monologhi che i cattivi fanno per spiegare le loro intenzioni ed apparire figure profonde e traviate.
No, erano solo degli stupidi a suo parere. Sospirò annoiata e proseguì.

Camelia intravide la luce e lasciò che essa le riempisse le iridi azzurre stancate dalla precedente oscurità.

Il campo di lotta della prima stanza dei Superquattro infatti era completamente illuminato: lampade, riflettori, lo schermo ad alta definizione e perfino il tabellone con gli status dei vari Pokémon erano tutti accesi, irraggiando quel cubicolo nero come la scatola di Schrödinger.

Nonostante l'atmosfera di colori e luci preludeva ad un eccitante scontro, Camelia non poté far a meno di notare come le gradinate fossero vuote, nessuno era lì oltre a lei.

Si immaginò quella stessa situazione ad una sua sfilata, neppure un fan sugli spalti a supportarla, niente fotografi e niente giornalisti, solo lei e il suo esibizionismo a metterla in ridicolo davanti alla persona il cui giudizio per lei contava più di mille articoli sulle riviste di moda e di ogni commento sul web: lei stessa.

Sistemandosi la frangetta, la modella si diresse verso il centro del campo di lotta, sotto gli occhi degli spettatori invisibili.
Odiava il non essere osservata, anche quando sapeva di esserlo.

«Buonasera, Camelia.»

La mora storse il naso all'essere salutata così educatamente da un individuo che pochi minuti prima aveva tentato di ucciderla, seppur non mettendoci abbastanza impegno.

Si aspettava che adesso comparissero degli uomini forzuti o dei robot assassini per attaccarla come in ogni film d'azione che si rispetti, ma la voce presto si fece volto, comparendo dall'altra metà campo.

Una figura femminile, sottile e graziosa, indossava un vestitino nero con calze in pizzo abbinate, i capelli color biondo cenere sciolti sulle spalle, doveva avere la sua età ma provenire da un'altra regione per via della forma degli occhi e dei tratti del volto.

Le rivolse un sorrisetto innocente e lei lo ricambiò, guardandola di sbieco.
Poi la ragazza misteriosa riprese.

«Ho sempre voluto conoscerti di persona, sembri più umana che in foto.»

«Che carina, - ribatté la mora - sei una mia fan? Dove te lo faccio l'autografo, su quelle tettine piatte come tavole da surf che ti ritrovi?»

Incrociò le braccia sotto il petto, ergendosi come paragone di prosperità irraggiungibile.

La brunetta subito ebbe l'impulso di guardarsi il petto, la reazione classica a cui tutte le vittime di quella sua freddura intramontabile andavano incontro. Fece pure una smorfia da offesa.

«Certo che però sei proprio una maleducata, papà non ti ha insegnato che non si giudicano le persone, eh?»

Camelia non ritenne opportuno tirare quello scambio di battute troppo per le lunghe e esternare quel bel commentino che teneva sempre in riserva sulle facili abitudini sessuali di sua madre e la fissò spazientita.

«Come sai chi sono? Ti conviene rispondermi.» Tagliò corto.

La ragazzina così sboccata estrasse una Poké Ball, tenendola fra il pollice e l'indice.
Non sembrava troppo agitata, che fosse lei la fantomatica recluta di Ghecis?

«Diciamo che io e te abbiamo... - cercò le parole adatte - un amico in comune.
Però sai, lui non parla neppure bene di te. Dice che hai un caratteraccio, che sei lunatica e isterica, ah, e che quando glielo succhiavi sputavi tutto per terra pur di non ingoiare... Che schifo.»

Camelia mostrò un'espressione mista fra la disapprovazione ed il ribrezzo più totale.
Non le ci volle molto a capire chi fosse quel loro amico, quella principiante in fatto di sarcasmo aveva reso il tutto così ovvio che se se lo fosse scritto sulla fronte avrebbero perso meno tempo.

«Piacere comunque. - la giovane le pose davanti la mano affinché la mora gliela stringesse - Sono Jasmine, la ex di Corrado.»

Provandoci quasi piacere a recitare in quella farsa al limite del demenziale, la modella prese a leccarsi le dita della mano una ad una, passandovi la lingua e infilandole fra le labbra.
Voleva troppo che quella smorfiosa cogliesse l'allusione sessuale e ne rimanesse schifata.

Finita la simulazione di quel lavoretto orale con le sue dita, le strinse la mano ancora lucida di saliva.

«Io e Corrado ci siamo lasciati un mese fa. La migliore decisione della mia vita.
È tutto tuo, goditelo, Jasmine. Una cosa, fai parte del Team Plasma?»

«Neo Team Plasma.» La corresse quella.

«Quello che è.»

Ecco chi era dunque: la ragazza dei messaggi, quella con cui quell'uomo miserevole l'aveva tradita. Fece di tutto per controllare se nel suo cuore fossero rimaste tracce di rancore serbato contro colei che le aveva rubato il fidanzato, ma niente.

Aveva perso un centesimo e per rimpiazzarlo aveva trovato la banconota da cento.
Lei era felicemente fidanzata ora, non gliene importava più nemmeno di far invidia a quel verme.
La sua Anemone invece, chissà dove si trovava in quel momento...

«Indovinato, ma cosa importa ora? - Jasmine sorrise, osservando la saliva della modella assorbita dalla sua mano - Tu hai rovinato la mia relazione. Mi hai rubato il ragazzo.

Sei una modella famosissima, no? Puoi avere tutti i ragazzi che vuoi, perché proprio il mio?!
Ti diverti, eh? A darla a tutti come fosse niente, ti fai fotografare mezza nuda, ma appena ti si chiede di impegnarti in una relazione seria... Non sei capace, no.
Vuoi solo fare sesso senza dover per forza amare qualcuno, tu come tutte le tue amiche modelle, sei una specie di prostituta... Anzi, no. Peggio.

Almeno le prostitute si fanno pagare, tu cosa ci stai guadagnando?!

Mi viene voglia di ammazzarti così su due piedi. E sarà proprio quello che farò.»

Finito il suo discorso, Jasmine fece uscire dalla sua Poké Ball un esemplare di Steelix lungo chissà quanti metri e con passo aggraziato salì sulla testa del serpente di roccia, aspettando di essere trasportata in alto, godendosi la visuale dalla sua piattaforma.

«Non capisco. - fece la modella, in quel momento piccola come una formica ai suoi occhi - Pensi che terminarmi ti farà bene all'autostima? Cresci, per favore.»

Camelia era quasi sul punto di scoppiare a ridere da quanta pena le faceva la sua avversaria.
Che motivo aveva di odiarla a tal punto da volerla morta? Minacce a vuoto, le sue.
Se queste erano le nuove reclute del Team Plasma, avevano reso un'organizzazione già poco temibile ancora meno temibile nel giro di un anno.

«Sei proprio un'oca.» Si limitò a risponderle quella.

Jasmine non aspettò neppure che la modella scegliesse un Pokémon che potesse difenderla.

Con un semplice gesto del braccio, ordinò al suo Steelix di colpirla con la coda, un movimento netto e brusco. Non disse una parola: la violenza era la sua unica arma contro il sarcasmo devastante della sua avversaria.

La mora cadde a terra, senza neppure accorgersi dell'accaduto.
Avrebbe paragonato quella botta alla sberla ricevuta da Corrado al momento della loro rottura, ma quella volta le fece il triplo più male. Le sembrava che il cranio si fosse frantumato.
Si trovò confusa per una manciata di tempo, fece tantissima fatica a rialzarsi.

Camelia scoprì leggermente il seno, cercando a tentoni una sfera Poké.
«Emolga, per favore, Attacco Rapido.»
Non riusciva neppure a sopportare il suono della propria voce da quanto le doleva la testa.

«Credimi, nella vita non basta avere le tette per ottenere quello che vuoi.
Steelix, ancora Codacciaio!»

Il Pokémon di Johto prese Emolga in pieno non tanto per l'agilità del movimento, ma la coda era così grande e grossa da poter colpì qualsiasi cosa nel raggio di molti metri.
Pensandoci bene, la modella di Sciroccopoli non aveva scelta: lei era specializzata in tipi Elettro, cosa poteva fare contro un tipo Terra, perlopiù tanto potente?

Nonostante il danno considerevole, Emolga tornò volando fra le braccia della sua Allenatrice.

«Questa non è una lotta in palestra. - precisò la brunetta - Lo sai perché?»

«Perché gli sfidanti per regola devono avere più di dieci anni?»
Ribatté lei, cercando di tranquillizzare il suo Pokémon da quell'urto a dir poco illegale in un torneo o in uno scontro ufficiale.

«Sei una stupida e mi è stato ordinato di farti fuori dai miei superiori.»

«Ma ti prego... Emolga, usa di nuovo Attacco Rapido.»
Ordinò mettendoci abbastanza freddezza da camuffare la sua reale preoccupazione.

Escludendo la frivolezza a dir poco insopportabile di quella Jasmine, credeva che uno stato così avanzato di infantilismo esistesse solo nelle più degradate community online, non poteva negarle l'essere un'avversaria oggettivamente forte.

Sapeva che non esisteva una legge universale che garantiva ai Capipalestra l'intoccabilità, ma se si fossero davvero cimentate in una lotta seria già prevedeva un esito catastrofico per la sua squadra. Invece Jasmine volle proseguire in quello scontro senza regole.

L'avversaria ripeté il comando precedente, ma Emolga fu abbastanza fortunata nello schivare il colpo della coda di Steelix. Il Pokémon Scoiattolo scattò in alto, per arrivare alla testa di quel bestione.

Se c'era una cosa che rendeva l'Allenatrice dallo yukata giallo del tutto e per tutto simile ai Pokémon che allenava era la loro tempestività.
Corrado, che la definiva "isterica" e "lunatica", aveva afferrato il concetto.
Un cuore totalmente in balia dei sentimenti era il suo, nel bene e nel male era così.

Emolga, la cui velocità in volo si era temprata nelle lotte contro avversari ben degni della sua contesa, invece di scagliare il suo attacco contro il Pokémon come le aveva ordinato di fare la mora, si avventò impetuosa contro la recluta del Neo Team Plasma, che non ebbe modo di evitarla.

Camelia rise divertita ed applaudì per finta, soddisfatta al massimo delle sue doti di combattimento.

Osservarono Jasmine cadere a capofitto dalla sua posizione rialzata, dovevano essere una decina di metri minimo, e non osarono fiatare. L'atmosfera si rovesciò subito.
Quello a cui stavano assistendo non era una lotta Pokémon, ma un vero e proprio omicidio.

Dopo alcuni secondi non facilmente numerabili, la ragazza si schiantò a terra trascinando con sé il suo urlo disperato. La mora si rigirò le ciocche nere fra le dita, incerta se infierire ulteriormente o cominciare a preoccuparsi delle conseguenze legali dell'atto del suo Pokémon.

Le uniformi arancioni del carcere la ispiravano ben poco, così come l'idea di dividere la sua cella con ragazzacce piene di tatuaggi, piercing e storie di traumi per nulla interessanti.

«Beh, - fece lei, richiamando a sé Emolga - io direi che possiamo anche andare.»

La giovane Capopalestra ebbe solo il tempo di voltare le spalle.
Dopodiché tutto riprese a tremare, ancora sentiva il dolore della botta risuonarle in testa e la confusione le tappò le orecchie, come quando si metteva le cuffie per estraniarsi dal mondo che la stava facendo impazzire.

Sì ritrovò a terra, una marea di rocce e sassi annebbiava l'aria e le asciugò i polmoni.
Sperò subito di non essersi sporcata il kimono, quasi le venne da ridere per la frivolezza delle sue priorità...

Ma davvero, non le venne neppure voglia di comprendere cosa stesse succedendo.

«Chi è la stupida che deve crescere, adesso?»

Jasmine sembrava aver ripreso possesso del suo corpo, anche se non aveva ancora il controllo totale dei suoi arti; si alzò da terra faticosamente, come uno zombie che si risveglia dalla sua tomba.

La giovane di Olivinipoli sorrise maligna. Non se l'aspettava.

Essere sopravvissuta ad una caduta micidiale senza neppure avvertire l'impatto col suolo la fece sentire invincibile.

«Sono io che ho bisogno di una visita o quella tizia non è morta dopo essere caduta?
È vero. Queste reclute sono più forti di noi... Ma rimangono sempre un branco di stupide.»
Camelia aveva un sorriso beffardo sulle labbra.

«Steelix, usa Frana e finisci questa cretina. Voglio proprio vedere cosa dirà Corrado...»

 
La prima, la seconda, ma anche le altre tre sfide rimanenti, anche se troppo ingiuste nel loro svolgersi per essere definite tali, ebbero luogo in contemporanea.

Anemone fu svegliata dal suo stato di trance da un suono che le giungeva ovattato alle orecchie. Doveva trattarsi di musica, uno strumentale rock che faceva vibrare l'aria e non rientrava per nulla nei suoi gusti musicali.

Lei si trovava in un corridoio dalla forma di un parallelepipedo, le pareti bianche intrise di muffa e l'aria così afosa da trasformare l'umidità in acqua che gocciolava dal soffitto.
Come poteva trovarsi lì? Quella domanda ribaltava le leggi spazio-temporali dalle fondamenta.

Seguì pedissequa la musica, la quale passo dopo passo si faceva molto più forte e definita, come la colonna sonora di un film quando ci si avvicina alla scena clou.
La ragazza sentiva di essere agitata, ma le crisi di panico non rientravano nei suoi fantomatici disturbi mentali.

Uscita da quel tunnel quadrangolare si ritrovò in uno spazio ampio: i riflettori scorrazzavano liberi senza puntare la loro luce su qualcosa in particolare, le casse riproducevano quel ritornello rock e a sormontarne l'intensità sonora fu solo il suono di una campana, che batté due rapidi rintocchi.

Al centro della stanza del secondo membro dei Superquattro vi era un ring da pugilato.
O da lotta libera, o da wrestling, o da kick-boxing, secondo l'analisi poco professionale della rossa.
Era la tipica area quadrata sopraelevata delimitata da un perimetro in corda dove probabilmente si sarebbe svolta la lotta, visto che anche il tabellone dei knock-out era acceso.

Non che alla giovane dai capelli scarlatti dispiacesse uno scenario spettacolare per la sua seconda vittoria contro il Team Plasma, lei adorava quel genere di spettacolarità straniante che conferisce il pathos necessario ad affrontare una lotta.

All'angolo destro infatti, stava ad aspettarla la sua avversaria, collant rigorosamente neri ed una maglia abbinata le scopriva lo stomaco a dispetto del suo pudore.

«No... - disse ad alta voce Anemone, guardandola dal basso, sconcertata - Non tu...»

«Ciao, rifiuto umano.»

La accolse con calorosa familiarità la giovane. Le rivolse pure un inchino per prenderla ancora più in giro e tradendosi subito ridacchiando.
Anemone respirò a pieni polmoni.

«Sai che io ho un nome e cognome?»
Non ebbe tempo di pensare ad una risposta ad effetto e si sentì stupida anche nel ribattere così.

«Davvero? - l'altra si sistemava i capelli lilla in una coda bassa - Credevo facessi "rifiuto" di nome ed "umano" di cognome. E zitta, anche se mi dicessi come ti chiami non mi fa differenza.»

La giovane Capopalestra di tipo Volante le disse "come, scusa?" usando lo sguardo.
Onestamente, non se la ricordava così sfacciata e presuntuosa. Non così tanto almeno.

«Cosa mi guardi con quella faccia da scema? - la istigò ulteriormente quella - Se hai voglia di parlare, vieni qui sul ring.»

L'altra non si fece attendere e scavalcò la recinzione in elastico con un agile salto, trovandosi nell'angolo opposto a quello della recluta come in un vero match di boxe.
Si chiedeva per quanto tempo la smorfiosa avrebbe voluto fingere che loro due non si erano già incontrate ed avevano avuto modo di far conoscenza nella maniera più umiliante possibile. Umiliante per lei, ci teneva a sottolineare.

La storia della pioggia, del passaggio in macchina, dell'uniforme e dei capelli tinti le riecheggiava nella memoria ed era andata a catalogarla nella sezione dedicata alle figure imbarazzanti che desiderava cancellare a tutti i costi, come se si fosse registrato in una di quelle vecchie videocassette.

Alice, ne ricordava perfino il nome quando in realtà voleva eliminare anche il suo viso dai ricordi.

Anemone si preparò con la Poké Ball in mano nella maniera tanto estrosa che ben conosciamo, scacciando quei pensieri dalla sua testa per concentrarsi sullo scontro.

«Perché volete sfidare il Campione? Sapete che non accetterebbe mai una sfida contro dei vermi come voi.» Le parlò provando ad incuterle timore.

Alice però sembrava indifferente, quasi sapeva di avere la situazione in pugno.

«Cosa te ne frega, fatti gli affari tuoi per ora. - Si sgranchì le spalle, guadagnandosi un'altra occhiata stupita dalla ragazza rossa - Tu invece, che mi racconti, rifiuto umano?
Alla fine non ti hanno sbattuta fuori per pura fortuna, sappilo. Solo perché gli "assistenti sociali" che ho assunto erano tutti dei pervertiti e degli incompetenti assurdi.»

Anemone si spostò più volte i capelli scompigliati dalla fronte, sentendo il sudore accumularsi.

Quindi era stato pianificato tutto quello che aveva dovuto passare il giorno in cui credeva il suo sogno per sempre infranto, perfino le minacce e gli insulti che aveva sputato contro quella che ora era la sua fidanzata erano state il frutto di un piano.
Non aveva parole, davvero.

Le formicolavano le mani dalla rabbia bollente, ma decise di trattenersi ancora un poco.

«Vorrei sapere cosa ti ho fatto. - La rossa la approcciò piano - Non ci conosciamo neppure, Alice, e... Niente. Lo capisci anche tu che insultarmi così non ha senso.
Smettila, te lo chiedo con le buone. Il tuo è bullismo nei miei confronti. Lo sai.»

Anemone finalmente espirò, aveva parlato tutto d'un fiato. Sperò che funzionasse.
Qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso ha ben presente come le offese verbali e fisiche possano andare ad urtare in modo serio la dignità degli esseri umani, non importa il loro rango o i loro interessi o la loro origine. Ma non quell'aviatrice, a quanto pareva.

Tenendola sulle spine per qualche secondo, Alice stette in silenzio, facendole intendere che non si trattava di scherzi fra amiche, ma di disprezzo allo stato puro.

«Sei proprio patetica, la solita vittima della società che si domanda perché la gente la prende in giro... Ma oh, ti sei mai guardata allo specchio, lo vedi come sei messa?
E poi to chiedi perché tutti ce l'hanno con te, ma ti svegli?

Guarda che il mondo è pieno di esibizioniste lagnose come te che si credono fighe solo perché sono disagiate, problematiche ed incomprese, mio Dio come mi fate piangere, che fanno le alternative e falliscono pure. Sei il male della società, sei un rifiuto umano infatti.

Tu non è che non puoi essere una persona normale, sana di mente magari. Tu non vuoi.
Devi fare la diversa perché pensi che così la tua vita senza personalità e valore valga qualcosa di più e non vedi che stai solo facendo la figura della disadattata così! E te ne vanti?

Non vedo l'ora di farti fuori. Quelli come mi fanno schifo pure quando respirano.»

Detto questo calò il silenzio, ma non prima che quella vipera non avesse avuto l'ultima occasione di insultarla con esempi concreti tratti dalle lunghe sessioni di spionaggio delle loro avversarie.

«Poi anche tu ti ci metti... Le hai tutte, diamine!
Sei orfana, sei povera, sei un'otaku, impopolare, isolata, secchiona... E pure lesbica!
Nel senso, lo hai capito pure tu che nessuno vorrebbe mai riprodursi con una schifezza come te!»

La diciassettenne sbatté le palpebre ancora, incredula, mentre la recluta del Team vagabondava in circolo e non la fissava neanche mentre parlava.

La storia era sempre quella, le dispiaceva doverglielo ripetere, ma appena qualcuno tirava fuori il classico discorso omofobo non le rimaneva scelta.
Quella ragazza stava giocando a tirare la coda al gatto senza sapere di aver svegliato la lince che riposava nei meandri del subconscio della rossa, la ribelle strappata al suo habitat selvaggio in cui vige solo la regola della selezione naturale, occhio per occhio e dente per dente.

Attraversò la diagonale del ring mentre si sgranchiva le dita, senza smettere di camminare lentamente, si rimboccava le maniche del kimono azzurro. Guardava dritta quella viziata.
Non gliene importava se Alice le stesse ridendo in faccia.

La bella e dolce fanciulla la afferrò per il colletto nero dell'uniforme fino quasi a strozzarla e subito via con un potente gancio per cancellarle quell'espressione dal volto.

Si sentì quella soffocare un gridolino acuto e poi ammutolire non appena Anemone le sferrò una ginocchiata sullo stomaco, rapida però forte abbastanza da smuoverle le interiora.
Con tutta probabilità, la rossa finì velocemente il suo lavoro per paura che quella le vomitasse addosso.

Quando si assicurò di averla definitivamente stordita, i bicipiti tonici ed abbronzati si contrassero e diventarono di roccia, rivelando quanta forza a dir poco mascolina si nascondesse nel corpo dalle pronunciate curve di quella ragazza di Ponentopoli.

Dopo quella scarica di pugni, Alice crollò in ginocchio con le labbra tumefatte.

La campana di prima suonò i rintocchi necessari a cominciare il conto alla rovescia: dieci, nove otto, sette, sei... C'era davvero bisogno di regole in quella rissa brutale?
Anemone si guardò le mani ed ebbe la coscienza un po' più a posto nel non trovarle macchiate di sangue: ora sì che si sentiva una violenta e una disadattata sociale, che bella sensazione.

L'aviatrice di Hoenn sputò a terra un grumo di sangue, magari c'era qualche dente lì in mezzo.
Si alzò in piedi poco a poco, anche lei incredula come Jasmine di essere sopravvissuta a dei colpi a dir poco devastanti senza sentire neppure il solletico.

«Ma come ha fatto a rialzarsi dopo che l'ho pestata di botte?! Non capisco...» Pensò la rossa.

La recluta del Neo Team Plasma scosse la testa in verso orizzontale per scrollarsi via l'intontimento successivo ai pugni in faccia, sentendo il sapore del sangue che le colava dal naso sulle labbra.

Le due aviatrici stettero a guardarsi incredule: stava per cominciare il secondo round.

Anemone fece per dare inizio alle danze, ma qualcosa la trattenne.
All'inizio credeva fosse un sentimento involontario, ma era inutile che nascondesse a se stessa che il volersi fermare proprio in quel momento fosse il risultato di una ferma decisione.

Non era la prima volta che la ragazza rossa picchiava una persona che l'aveva presa in giro.
Perfino lei ne era cosciente, cosciente a tal punto da provarne più che mera vergogna.

Sentiva come se fosse regredita, involuta; in natura non è possibile che un Pokémon torni al suo stadio precedente dopo l'evoluzione però lei ci era riuscita comunque.
La scena del suo primissimo pestaggio le riaffiorò in mente, non troppo chiara ma non troppo fugace per non prenderla in modo profetico.

Dovevano essere passati circa dieci anni da quando aveva espresso tutta la sua frustrante incomprensione picchiando uno dei bambini all'orfanotrofio ed ancora, a quasi diciotto anni, non aveva imparato un metodo di difesa della propria dignità che non comprendesse la violenza.

Lo schiaffone dato a Fedio doveva averle insegnato a controllare i suoi impulsi, ed invece eccolo lì, l'ennesimo tentativo di restaurare il suo orgoglio ferito andato a rotoli a suon di calci e manrovesci.

Anemone inspirò a fondo, ricomponendosi a fatica.

Le venne il serio dubbio che la ribelle di cui tanto andava a vantarsi di essere altro non fosse che una bambina ferita, incapace di interagire con il mondo, pensò di meritarsi davvero l'essere una disadattata.
Inconsciamente maledì suo nonno per averla cresciuta così, ma se ne pentì.

«Allora? - Alice la provocò un'altra volta - Vuoi ancora sfogare la tua frustrazione sessuale su di me?»

«Vai a morire. - Le ribatté secca - Swanna, vieni fuori...»

La giovane fece per lanciare la sfera in campo, ma pochi attimi dopo non riusciva più a percepire l'oggetto rotondo presente nella sua mano: l'avversaria l'aveva letteralmente disarmata, se ne accorse quando le si posizionò davanti agli occhi il suo esemplare di Skarmory mentre depositava la Poké Ball di Swanna nelle mani della sua perfida Allenatrice.

«La rivuoi, lesbicona? - Riprese a prendersi gioco di lei, evidenziando bene l'ultima parola - Perché non chiedi alla tua fidanzatina di venirtela a prendere?
Quella che gira sempre con le bocce di fuori.»

La rossa non aveva calcolato la possibilità di non poter neppure cominciare a lottare perché privata del suo Pokémon, fino a quel momento non le era mai capitata una cosa del genere nella sua carriera da Capopalestra, e per quello rimase senza risorse.

L'avversaria non aspettò neppure una risposta ai suoi insulti, sapeva che non sarebbe mai giunta.
Fece un segno con la mano al suo Skarmory, il Pokémon Acciaio usò Aerasoio senza esitare.

Come quando era ancora orfana di padre e madre ed il classico bullo prima le rubava dalle mani la palla con cui stava giocando e poi cominciava a tirarle forte i lunghi capelli rossi e a graffiarle la pelle fino a farle uscire il sangue.

«Non provare a metterti contro di me, lesbicona, non hai speranze.» Concluse.
 
 
L'unica a non trovarsi sorpresa dall'uso della mossa Teletrasporto e a risvegliarsi in una stanza sconosciuta dopo aver perso i sensi ebbe la malaugurata idea di recarcisi spontaneamente nel luogo predisposto al terzo scontro.

A dirla tutta, a comandare i passi nell'oscurità della biondina di Sinnoh era il sonno.

La lotta di prima era bastata a stremarla fisicamente, si augurava di non incontrare niente e nessuno che le richiedesse di sforzare le sinapsi, voleva solo tornarsene a casa ed annegare il viso sul cuscino ed immergere la mente nel mare dei sogni.

Catlina percepiva le palpebre caderle sugli occhi, dover far ricognizione nel posto di lavoro a mezzanotte passata era tutt'altro che un sogno, era il suo peggiore incubo.
Quello insieme al lunedì mattina. Anzi, forse il secondo le faceva anche più paura.

Non ebbe timori nell'avanzare i docili passi nella completa oscurità dato che aveva progettato lei stessa l'intera sala di lotta e ne conosceva i minimi anfratti.

I suoi colleghi alla Lega ci avevano preso quasi gusto nel rimarcarle quanto i suoi gusti in fatto di design rispecchiassero perfettamente la mentalità di una quindicenne appena assunta, nonostante ciò non osava rinnegare che quello fosse il suo stile.

Fra tutte le geniali trovate che la sua fantasia di adolescente aveva progettato, quella che più di tutte adorava era di sicuro il sistema di illuminazione: il soffitto era dipinto di blu cobalto, costellato da piccoli puntini bianchi che ne bucavano il cupo manto.

Avere sopra i suoi occhi un cielo stellato le dava una bellissima sensazione di pace, come quando da piccola contava le stelle e poi ne perdeva il conto prima di addormentarsi.

Il campo di battaglia si trovava all'apice di un'originale scalinata a periferica che permetteva ai suoi sfidanti di perdersi nell'immensità del creato che lei aveva umilmente cercato di riprodurre nella sua stanza prima della sfida decisiva.

La ragazza dallo sguardo vuoto intravide un'ombra esile agitarsi nel buio, trovando uso pratico al piano di auto-difesa che si era organizzata: non si sarebbe fatta sconfiggere dal Team Plasma come la seconda volta, né sarebbe rimasta zitta a guardare come la prima.

Catlina ricordò di non essere più una ragazzina, doveva comportarsi da donna in quel momento.

Si fermò sul bordo del campo, attendendo con pazienza che l'ombra furtiva si accorgesse della sua presenza. Aveva la silhouette di una bella ragazza, abbastanza concentrata nel compiere un semplice gesto manuale da non accorgersi della proprietaria legittima di quella stanza.

«...L'ultimo sulla sinistra.» Disse pacatamente Catlina e non ebbe risposta.

Ricordò che quell'esatta reazione l'avevano già avuta Iris, Camilla e molte altre persone con cui si era trovata ad esternare le sue povere capacità retoriche.
Lei era come la tipica studentessa che non proferisce parole durante la lezione e quando viene interrogata deve fare i conti con una forte ansia da prestazione che alterai risultati.

Si appuntò in mente di specificare sempre il soggetto nelle frasi.

«L'interruttore delle luci. È l'ultimo sulla sinistra.» Si corresse.

«Perché non lo accendete voi, signorina?»
Le rispose la giovane al buio, alzandosi esausta dalla sua posizione a carponi.

Spinta ad abbassare la guardia dal sonno, dalla noia e dalla voglia irrefrenabile di lasciare quel posto, Catlina obbedì e portò il dito fin sopra l'interruttore più grande di tutti, ogni essere un minimo sveglio avrebbe intuito che fosse quello.

Ci cascò in pieno: la recluta la bloccò da dietro, prima che lei potesse illuminarle il volto e rivelare così la sua maledizione, come nel mito di Psiche la quale brucia la pelle di un dio con l'olio della lampada.

La mano era ferma intorno al collo della biondina, aggrappata al tessuto del kimono rosa, riusciva a sentire il fiato di quella pantera sul volto, tutti questi gesti in rapida successione per non permetterle di contrattaccare nonostante i suoi riflessi fossero comunque poco reattivi.

Catlina respirò piano. Non le stava stringendo la gola, ma si sentiva come se stesse soffocando.

«Siete molto ingenua, signorina.» Commentò la nemica al suo orecchio.
Aspettò un po' prima di ottenere risposta.

«Cosa vuoi farmi? - il tono della ragazza era calmo e monotono, non aveva neppure dato l'intonazione alla domanda - Credo di avere il potere per sistemare la faccenda, se quello che volete sono soldi. Non c'è bisogno di mettere in mezzo tutta la regione.»

Siccome quella recluta era così stranamente civile da averle dato del "voi" fino a quel momento (di solito perfino i domestici e le cameriere che lavoravano per la sua famiglia si limitavano al "lei"), la biondina pensò di provarci almeno a negoziare.

Avrebbe volentieri speso miliardi su miliardi pur di potersene andare a dormire al più presto.

«Non trovate che sia vile da parte di un membro dei Superquattro cercare di comprarsi la vittoria contro uno sfidante?»

Infatti, spostando la prospettiva al di fuori della Lega, uno avrebbe descritto la scena come una normalissima lotta intrapresa da Allenatori audaci per coronare l'apice del loro viaggio attraverso Unima, come succedeva nelle restanti cinque regioni ogni giorno da innumerevoli anni.

Ma una volta varcato quel cancello all'ingresso, lasciassero ogni speranza coloro che vi entravano: le sfide contro i Superquattro avvenivano tutte nello stesso momento, mentre probabilmente Ghecis accedeva alla Sala d'Onore indisturbato, pronto ad issarvi il vessillo del Neo Team Plasma a simbolo della sua vittoria.

Catlina ignorò la domanda e cominciò a sentirsi turbata. Non lo diede a vedere però.
Lei e le altre erano state usate come pedine per raggiungere il traguardo, dall'alto del suo trono l'uomo del terrore lanciava i dadi per stabilire la loro sorte.

«Perché non rispondete, principessa? - la recluta sapeva di starla infastidendo soltanto toccandola - Credevate che si trattasse solo di soldi? Mi dispiace deludervi.

Ci sono dei principi alla base del piano del Neo Team Plasma, principi morali ed etici.
Filosofie di vita che possono cambiare tutte le regole del mondo, ribaltare la situazione a nostro vantaggio. Ma non sono cose per voi.

Sono cose che valgono ben più dei vostri soldi, il denaro non può comprarle, capite?
Soldi e potere... Credete di poter corrompere la purezza delle nostre intenzioni.
Voi aristocratici non ne comprendete il valore perché ciò che a voi rimane è il vuoto.

Un vuoto interminabile da riempire con vestiti firmati, auto di lusso, cene di gala, divertimenti e vizi che logorano la mente e l'anima... Non vi è destinazione per vostre vite se non la totale disperazione.

Ma tranquilla... Non sarà il suo caso. Lasci che la preservi io stessa da tutto questo.»

Un suono metallico, scattante e meccanico riecheggiò lungo la sala.

Il suono letale del grilletto di una pistola.

Catlina percepì la fredda superficie metallica appoggiata sulla sua tempia.
Non mosse un muscolo, non respirò e se lo fece non fu visibile.

Il possesso di armi nella regione era diventato illegale dopo un referendum popolare in cui la popolazione, stufa di sottostare allo ius omnia e vivere nella paura della morte anche nei momenti di vita quotidiana, aveva espresso il suo volere concisamente.
"Fate le lotte Pokémon, non fate la guerra" era lo slogan.

A quanto pareva quell'obbiettivo era ancora lontano anni luce dal suo compimento.

Legislazione o no, la bocca della pistola era a distanza così ravvicinata dalle cervella della giovane di Sinnoh che il proiettile non avrebbe mancato il colpo neanche volendo e nessuno si sarebbe potuto interporre fra di lei ed esso.

Un colpo per Mirton, e poi un colpo per lei.
Lui si era preso il proiettile che spettava a lei ed ora era il suo turno pagare il fio.
Mirton non l'aveva salvata dunque, aveva solo posticipato la sua condanna.

Come se la stanza non fosse già abbastanza buia, Catlina chiuse gli occhi.

«Sei tu la croupier del casinò?» Chiese solo quello, con calma.

«Sospetto - rispose l'avversaria - che voi siate molto coraggiosa, signorina Yamaguchi.
O che siate talmente impaurita da dover nascondere la vostra paura per forza.

Certamente, sono io. Devo dire che il suo collega, quel gentiluomo che avete rifiutato in maniera così crudele per seguire i vostri squallidi interessi, lui ci ha messo di meno per riconoscermi.
Siete ancora innamorata persa di lui?

Non vi dispiacerebbe vederlo un'ultima volta prima di morire?»

Ci fu un altro suono proveniente dal grilletto, la biondina non poteva neppure vedere la pistola, non avrebbe riaperto gli occhi per nulla al mondo.

«...No.»

No. Se lo ripeté in testa un paia di volte, godendosi l'inattesa risposta della sua boia.
No che non voleva vederlo. Non aveva nulla da dirgli, magari se gli fosse piaciuto il lavoretto che lei e le sue compagne avevano fatto alla sua auto, ma nulla di più.

Ecco una delle tante volte in cui la ragazza introversa si era pentita di aver abbandonato il suo guscio per esporsi ai peggiori danni fisici e psicologici che il mondo esterno le aveva inferto.
Era stata una delle tante volte, ma anche una delle peggiori.

«Bene. Sono sicura che l'amore di quel ragazzo non rappresentasse nulla per voi.
Meglio morire che prestare considerazione ad una persona di rango inferiore, dico bene?»
Si espresse sempre la ragazza in nero.

Alla fine, dato il suo status sociale elevato e la tendenza della gente di dilettarsi del giudicare il prossimo, la sua più innocente timidezza e la paura di essere ferita sia nel corpo sia nello spirito venivano fraintese e scambiate per la più superficiale forma di materialismo.
Catlina lo odiava, ma non poteva farci nulla.

«Vieni ad aiutarmi... - pregò nella sua mente - Appena spara... Proteggimi...»

Se fosse stata davvero in procinto di morire, di certo non avrebbe rivolto il suo ultimo pensiero a quello sciagurato del suo collega. Prima veniva la sua famiglia, Nardo, le persone che l'avevano aiutata nel momento del bisogno, le sue quattro compagne... Ma non lui.

Non gli avrebbe dato la soddisfazione di farlo sentire desiderato e nemmeno di farsi sentire desiderabile, sapeva di non esserlo, sapeva di esserlo insieme ad altre mille ragazze.
Fece un respiro a pieni polmoni e si decise a formulare le sue "ultime parole".

«Chissà se quando si muore è come addormentarsi... Per sempre.»

«Avrete modo di scoprirlo da voi, signorina. - La recluta ripeté - Addio, ora...»

«Mi piacerebbe morire nel sonno, così, senza accorgermene, senza sentire dolore...»

«Zitta ora! Non mi interessa sentire le tue stupidate!»

Sparò. Un colpo decisivo, che non ebbe neppure il tempo di viaggiare per l'aria.
La giovane senz'anima non ebbe neppure il tempo di completare la sua presunta ultima frase.
Forse non era un torto compiuto a suo danno, morire era quello alla fine.

Niente preavvisi, niente ultime occasioni, una preghiera vana magari, una lotta contro gli istanti estremi che precedono l'addio al mondo e il passaggio definitivo attraverso le rive dell'Acheronte.
Catlina giurava di conoscere quanto sfocata fosse la linea che divideva vita e morte, quanto fosse difficile attraversarla con una sola falcata.

In quel momento però decise di smetterla di pensare alla morte.
Non aveva senso. Lei era viva e vegeta.

Il colpo sparato non le sfiorò neppure la tempia; rimbalzò invece, come se la pelle chiara della giovane fosse impenetrabile, fatta di roccia, e secondo il principio di azione e reazione il proiettile fu rispedito direttamente dentro l'imboccatura della pistola, facendola esplodere in mille frammenti lucenti.

La recluta sciolse la presa sul collo lasciando la bionda libera di muoversi, fu fortunata nel non rimanere ferita dalle schegge affilate in cui l'arma da fuoco si era smembrata.

«M-Ma... Cosa...» Non poté credere di non essere riuscita ad uccidere ancora Catlina.

L'altra volle preservare la sua incolumità: fece segno a Reuniclus di venire accanto a lei ed il Pokémon Cellula si precipitò al suo fianco scendendo dal nascondiglio in cui si era appostato per fare da angelo custode della sua allenatrice.

«È Specchiovelo. La mossa che ho usato... - Non riusciva proprio a nascondere la logopatia che la affliggeva - ...Me lo aspettavo comunque.»

Catlina aveva interiorizzato insieme ai suoi miliardi di difetti paranoici anche la sua ingenuità.
Aveva creduto di essere importante per un ragazzo, che costui si fosse innamorato di lei, era facile imbrogliarla con qualche buona parola e gesti fuori dall'ordinario.
Non era diffidente come Camelia o disillusa come Anemone e Camilla.

Ma di sicuro non era una sprovveduta. Aveva pianificato la sua difesa prima ancora di incontrare la sua nemica, l'esperienza precedente le aveva insegnato qualcosa.

Le aveva insegnato che non valeva la pena sacrificarsi per qualcuno che non si ama.
 
 
«Dobbiamo sbrigarci. Non abbiamo molto tempo.»

Recuperata la sua lucidità, Camilla non si concesse un secondo di distrazione.
Una volta in piedi non diede neppure un'occhiata all'ambiente circostante, il ciuffo folto doveva averle fatto sviluppare una lieve forma di occhio pigro. Camminò.

In quella stanza, a differenza delle altre tre, vi erano ampie finestre dagli archi a sesto acuto in stile gotico, le vetrate attingevano la poca luce proveniente dalla luna come un cercatore di acqua assetato in mezzo al deserto.

Abbinandosi all'ambientazione di fine settecento, un'imponente libreria in ebano raccoglieva volumi conservati con la massima cura, alcuni dei quali risultavano un poco ingialliti, la Campionessa di Sinnoh si sarebbe volentieri fermata a spulciare qualche titolo, se avesse potuto.

Le piaceva leggere, che fossero libri cartacei o che dovesse sgranare il suo occhio scoperto davanti al telefonino o al portatile. Si appassionava a numerosi argomenti, i suoi interessi volubili si rinfrescavano mese dopo mese.
C'era stato il periodo in cui aveva la fissa con l'arte, quello della mitologia, quello della storia...

Ed ora, soprattutto per via del compito di preparatrice che Nardo le aveva affidato, il tempo per leggere le si era ridotto a zero.
Insieme a quello per svagarsi, per uscire, per fare tutte le cose che fanno le donne della sua età.

In fondo non capiva come mai tutti i capi dei Team malvagi e le organizzazioni malavitose mirassero a conquistare il potere sulle regioni acquisendo il titolo di Campione.
Dovevano immaginarsi chissà che scenari, bere vino pregiato da coppe in cristallo massaggiati da fanciulle avvenenti in qualche villa con piscina sulla spiaggia.

Non potendo convincersi che esistesse tale dabbenaggine, Camilla proseguì.
Voleva sbrigarsi. Voleva sconfiggere subito la sua avversaria.

Sentiva idi dover tornare al più presto dalle compagne per controllare se fossero sane e salve. Le veniva il magone pensando che in quel momento potessero trovarsi in pericolo, ferite.
Sarebbero potute addirittura morire, era questione di attimi.

Certo, sconfiggendo la sua avversaria avrebbe facilitato l'ingresso di Ghecis alla Sala d'Onore.
Calibrò comunque che quattro vite dipendevano dalla sua scelta e lei aveva scelto di essere lì, a combattere per le sorti di una regione che non era nemmeno la sua.

«Eccoti.»
La voce grave di Camilla parlò.

La luce di diversi lumini appoggiati a terra illuminava un discreto raggio di pochi metri, la cera delle candele usurate aveva formato un lago incandescente ed una calura soffusa.
Così la bionda riuscì a vedere un'altra giovane, quante di queste giovani ragazze erano state reclutate dal Team Plasma in due anni non lo sapeva.

Quella stava a terra, accovacciata sui piedi e le ginocchia aperte, come un essere tratto da una favola nordica, un gargoyle o un goblin. Alzò lo sguardo ed incontrò il volto della donna.
Si spaventò visibilmente e subito provò ad indietreggiare goffamente prima di incontrare la parete ed essere costretta ad alzarsi in piedi.

«Non ho tempo da perdere con te, sappilo.» Camilla la ammonì ancora.

«C-Calma, aspetta, - fece la recluta - parliamone... Tu sei la Campionessa di Sinnoh...
Sei ancora tu contro di me... A-Aspetta, cosa fai con quella mano ne- »

Camilla aveva già allentato la cintura per prendere con più facilità la Poké Ball custodita nel suo seno prominente senza doversi far male con le unghie.
La giovane portò avanti le mani coperte da spessi guanti sditati neri.

«Non è molto leale - riprese - una Campionessa contro una semplice Allenatrice.»

«Una Campionessa - ribatté Camilla - con quattro ragazze ed un'intera regione sotto la sua responsabilità.»

La recluta tutt'un tratto si calmò, fece qualche passo avanti in direzione della nostra eroina e si espose alla luce delle candele: aveva occhi e capelli azzurro ceruleo, tratti che rivelavano la sua provenienza da una regione diversa da Unima.
Per qualche motivo l'organizzazione criminale attirava numerosi membri stranieri, addirittura quattro su cinque fra i membri scelti.

«Quindi tu combatti per le tue compagne?» Osò chiedere.

La bionda annuì sorridendole, sicura della sua scelta. Come poteva negarlo?
Lei stessa si era fatta portatrice di quell'ideale, rinunciare all'io per concentrarsi sul noi.
Non vi erano premi, titoli e ricompense più degni dell'amicizia e della protezione che si era offerta di condividere con le giovani apprendiste, ora aveva l'occasione di darne la prova.

Il Team Plasma giocava ad essere il diavolo che rovina l'uomo puro di cuore.
Ed ora la stava tentando, chiedendole sottilmente di gettarsi dalla rupe e aspettare che gli angeli al suo comando la salvassero dalla caduta.

«Sei una leader fantastica allora. - Ammise la recluta dai capelli cobalto. Poi, enfatizzando molto il gesto, lasciò cadere ai suoi piedi le tre Poké Ball legate alla sua cintura - Non voglio farti niente.»

Camilla la guardò perplessa. Sapeva che qualcosa non quadrava, volle andare in fondo alle ragioni di quel gesto inaspettato.

«Hai paura che io voglia vendicarmi per l'attacco nell'onsen? Sai di avermi quasi rotto una costola?
Ed avete ferito ferito una bambina innocente con le vostre inutili pretese. - la approcciò seria - Ti aspetti davvero che io ti risparmi?!»

«Allora non sei così altruista come ti fai vedere a Sinnoh...»

Si scostò i lunghi capelli dalle spalle e si allontanò leggermente, lasciando le tre sfere ai piedi della bionda. Poi riprese a parlare con calma serafica.

«Si dicono molte cose sulla Campionessa della regione, certi dicono che è una persona meravigliosa, bella e perfetta. Una specie di divinità, senza difetti, perfetta.
Beh, una che vince la Lega Pokémon a quindici anni è un piccolo prodigio.
Dicono che non hai neanche mai perso una lotta, ma cosa significhi, questo non lo so.

Poi c'è chi dice che tu non sia altro che un'esibizionista persa, la classica scema con una fortuna incredibile, ma secondo me questi che parlano sono solo ragazzini invidiosi.

E poi... Ah, sì!
C'è una cosa che non ho ancora capito: si dice che tu sia vergine perché hai rinunciato all'amore per le lotte.
Ma corre anche voce che la Campionessa di Sinnoh sia una lesbica ninfomane pedofila che intrattiene relazioni non consensuali con ragazzine più piccole di lei...

Quale delle due è vera?»

La bionda ragionò un attimo su quelle parole. Certo che conosceva quelle voci.
Aveva anche una mezza idea sul chi avesse potuto metterle in giro e ciò la fece innervosire.
Ma ricordò il discorso fatto nel parcheggio, la macchina colorata, i soldi spesi a comprare la vernice e distaccò immediatamente il suo interesse su quelle dicerie.
Rispose senza mezzi termini.

«Non penso che il Campione della regione dovrebbe venir giudicato in base alle sue abitudini sessuali. - fece uscire Garchomp dalla Poké Ball, senza il bisogno di chiamarlo fuori - Non ho intenzione di rimanere qui a parlare comunque.»

La sua avversaria non accennò a voltarsi: guardava fuori dalle ampie finestre, parlando girata.

«Tranquilla. Se vuoi rivedere le tue compagne aspetta solo una decina di minuti.
Le riavrai vive e vegete. Te lo assicuro io.»

«Non ti conviene scherzare con me o...»
La donna si spazientì e fece per attaccare, ma fu interrotta dall'altra che continuava ad ammirare il panorama fuori dalle vetrate.

«Ti ho detto che puoi stare tranquilla. Aspetta e basta.
Non dureranno molto nel mezzo di una battaglia violenta.»

La ragazza in nero si trovò con violenza scaraventata a terra, ustionandosi la pelle con la cera bollente caduta sul pavimento e spegnendo la fiamma di una candela.
Le giunse alle narici il forte odore di fumo mentre il peso della donna bionda la sopraffaceva.
Teneva fermi i suoi polsi bloccandole la circolazione e la guardava in volto attraverso l'occhio color grigio cenere che non coprivano i capelli dorati.

Avrebbe optato per la terza opzione, la descrizione più adatta a quella pazza in kimono bianco.

«Cosa intendi? - gridò, sconvolta - Rispondi! Cosa volete fare a quelle ragazze?
Rispondimi o dirò al mio Pokémon di tagliarti la gola!»

Le ultime sillabe risuonarono nella biblioteca vuota.
Camilla inspirava dal naso ed espirava dalla bocca, cercando di riprendere aria. Le bruciavano le corde vocali, non le capitava mai di urlare così e la sua tonalità di voce bassa non la aiutava affatto.

Aveva perso il controllo. Sentendosi meno perfetta che mai, come se lo fosse mai stato in primis, alla giovane donna vennero quasi i brividi per la preoccupazione.

Il silenzio non la aiutò a ricomporre i suoi pensieri, confusi e disordinati quali erano.
Era la prima volta che le capitava di perdere così bruscamente la sua razionalità. La sconvolse.

«Non parlavo delle tue compagne, ma delle mie.»

La fanciulla dai capelli blu cobalto, nella sua posizione piuttosto ambigua e con l'affilata zanna del Pokémon Drago puntata alla gola, sorrise con naturalezza.

«Che cosa?»
Camilla le si avvicinò ancora di più, appoggiandosi su di lei come in un rapporto amoroso.

«Ti spiego. - proseguì la recluta, immobilizzata - Il nostro capo ha stretto un accordo con uno scienziato che somministra una droga potentissima a cinque reclute del Neo Team Plasma, me inclusa.
Si chiama Sangue del Drago.
Praticamente rende insensibili al dolore per un'ora circa.
E si aspetta, il nostro capo, che vi uccidiamo.»

«E tu, tu vuoi uccidermi?» Domandò sussurrando la ragazza dallo yukata bianco.

«No, sinceramente, non me avrei motivo.
Sto aspettando anche io qui con te, aspetto che liberino pure me da tutto questo.»

«Ne sono contenta. - Camilla mollò la presa sui polsi della ragazzina - Ma cosa tu intenda non mi è chiaro. Forse sono stupida io.»

«Intendo - la ragazza si sfilò i guanti neri che recavano uno strano simbolo su di essi - che oggi è il mio ultimo giorno da membro scelto del Neo Team Plasma.»

«Credevo vi divertiste voi teppisti a rubare Pokémon e scatenare il panico in giro per Unima.»

«Almeno noi non andiamo a distruggere la macchina agli sconosciuti o a fare risse in giro per i locali.
Perché quella faccia? Sei sorpresa?
Vi osserviamo da due mesi più o meno. Il Neo Team Plasma conosce le vostre mosse, sa tutto di voi cinque. Ha telecamere dappertutto, siamo informate su tutto il gossip che avviene dentro e fuori dalla casa del Campione.»

Camilla si alzò in piedi, lasciando la recluta libera di muoversi.
Non fece nulla. Tornò a sedersi su una pila di grossi tomi polverosi, osservando le striature di luce lunare sulla grossa libreria tarlata.

Trovava quella ragazzina che aveva cercato ed era quasi riuscita ad ucciderla assai interessante.
Riusciva a fiutare da un chilometro che si trattasse di un'altra bimba problematica, quelle che lei si divertiva ad analizzare e riparare come se si trattasse di un giocattolo rotto.
Le ispirava debolezza. Forse era per quello che voleva evadere al Team, forse non riusciva a sopportare tutta la pressione che la criminalità organizzata le metteva.

«Mi chiamo Lucinda comunque. - le disse quella - Fidati, le tue compagne staranno bene.»


Era sicura che avrebbe funzionato alla grande.

D'altronde non lo aveva notato proprio la prima volta alla Lega che Nardo toccava esattamente un particolare sulla coda fiammeggiante di Reshiram per attivare l'interruttore dell'ascensore nascosto?

Iris si sentì esageratamente soddisfatta della sua deduzione poco brillante.
Ma appena la piattaforma si illuminò di colore blu acceso (non capiva quale fosse la strategia di risparmio della Lega, tagliare l'illuminazione notturna per favorire gli effetti speciali?) lei non esitò a salirci sopra e ritornare al panico della situazione precedente.

Scendeva piano, eppure non riusciva a sfruttare quel breve intervallo di tempo per figurarsi cosa fare, cosa sarebbe successo, chi avrebbe incontrato lì sotto.
Chiuse forte i suoi occhi rotondi, stringendosi la Poké Ball al cuore.

Arrivò a destinazione prima di poter versare una sola lacrima. Fece un passo e poi si bloccò.
Iris si trovò di fronte la stessa scalinata che aveva già visto, solo le sembrava di un chilometro più lunga senza le sue compagne a salirla insieme a lei.

Non trovò nulla al momento che le ispirasse pericolo mortale. Era solo confusa.

Le faceva uno strano effetto vedere la Sala d'Onore per prima fra tutte le concorrenti della competizione senza neppure aver vinto, senza neanche vagamente meritarselo.
Si sentiva come una ladra, un'intrusa. Non vi erano luci a brillare per lei né applausi per elogiarla, c'erano solo tre fantasmi invisibili e muti a tenerle un'indesiderata compagnia: nulla, niente e nessuno.

Generazioni di Allenatori provetti per anni ed anni avevano dedicato la loro esistenza alla lotta, faticando giorni e notti pur di poter registrare la loro squadra come vincitrice della Lega Pokémon e potersi proclamare umilmente Campione della regione di Unima.
Lei invece era lì perché aveva premuto un pulsante.

Il cielo nero si estendeva sopra la sua testa mentre avanzava i suoi passi sulla dura pietra, attraversando le file di colonne imponenti, l'architetto che le aveva progettate e il come fosse riuscito a costruirle erano ancora un mistero.
La Lega era stata solo ristrutturata negli anni e non si conosceva l'identità dell'antenato di tutti i Campioni di Unima, buona ragione per attribuire alla sua istituzione origini mitiche.

Iris si meravigliò della semplicità di quell'ambiente, paragonata con lo sfarzo classicheggiante del resto dell'edificio: ogni tanto alzava gli occhi per controllare se Dragonite fosse ancora sopra di lei, poi tornava a guardare dritto avanti a sé per salire le interminabili scale, poi ancora provava a sollevare il capo per vedere se alla fine di quel percorso ci sarebbe stato qualcosa o qualcuno ad attenderla, ma il pensiero di ciò la spingeva ad abbassare lo sguardo per la paura.

Non sperava davvero di trovare qualcuno, probabilmente Ghecis avrebbe fatto come i cattivi dei film, si sarebbe goduto lo spettacolo da una comoda poltrona girevole ridendo a squarciagola come uno psicopatico.

Non ci doveva essere lei nella Sala d'Onore, doveva esserci una delle altre sette milioni di persone che nel mondo erano meglio di lei. Questa convinzione le provocò ulteriore fatica nella scalata.

Con la mente vacua da ulteriori pensieri, Iris si trovò sulla cima, nel cuore pulsante di Unima.

Ma, come aveva previsto, notò di non essere sola. Per una volta non era sola.
Eccolo, o meglio, eccola lì: la recluta più forte del Team Plasma, subito dopo il capo vero e proprio.

Questa si girò, si fece vedere in faccia.
Aveva la bocca coperta da una mascherina. Era nera.

Iris constatò che coprirsi solo la bocca non le impediva di averla già riconosciuta.
Purtroppo.

Iris rimase ferma, tutti i muscoli del volto si erano contratti involontariamente.
Non disse nulla, ma avrebbe avuto molto da chiedere.
Nella sua mente riviveva l'esperienza.

Quella recluta l'aveva già vista. L'aveva conosciuta, ne conosceva il nome, ci era andata all'arcade insieme, aveva confidato i suoi segreti ca lei, era sua complice in un furto.

Ma non le venivano in mente parole abbastanza forti per nascondere la sua delusione.

«Georgia...»

Gli stessi capelli color ametista dal taglio trendy. Lo stesso corpo femmineo e proporzionato.
La stessa persona che ammirava tanto, che per lei era bella, intelligente e simpatica ma allo stesso tempo raggiungibile.

Sbatté le palpebre due o tre volte.

«...Sei un membro del Team Plasma...»

Gli occhi i quell'azzurro particolare, come cristalli di ghiaccio tagliente, le sminuzzavano l'anima sorridendole beffardi, prendendosi gioco del suo stupore.
Poi quella rimosse la mascherina e cambiò espressione, facendosi più cupa in volto.
La giovane Allenatrice non rammentò di averla mai vista così.

«Non dovresti essere qui, Iris.» Le rispose quella, col suo tono di voce tanto eufonico.

Vestiva di nero, un top senza maniche le scopriva la pancia piatta e gli addominali non troppo marcati, in contrasto con il petto comunque polposo, abbastanza da riempire la sua mano.
Poi la gonna corta, scarpe da tennis con calzini alti tutti abbinati, la cintura di pelle sintetica in cui tenere le Poké Ball e... Il cappello.

Il cappello che le piaceva tanto, aveva pure un significato profondo, che riportava lo stesso arabesco misterioso, sulla testa di una criminale adolescente.
Se lo sistemò sulla testa e fece qualche movimento con le spalle, ma senza spostarsi.

«Neanche tu...» Le rispose la nostra eroina con durezza.

«Io sì, - ribadì - tu no. Sono i piani della mia organizzazione, questi.»

«Sfidare Nardo in piena notte per il controllo su Unima?! Che pazzia! - Iris alzò la voce -
Sarebbero questi i piani della tua organizzazione? Che per di più ha già fallito in partenza?!»

Georgia fece qualche passo laterale, sempre mentendo il contatto visivo.
Sospirò leggermente, mettendo la sua avversaria in soggezione.

«Perché non hai risposto al mio messaggio?» Disse pacatamente.

«C-Cosa...?» Iris la guardò stranita. Quale messaggio? Ecco.

L'ordine della sua leader di non intraprendere rapporti interpersonali con estranei l'aveva obbligata a spegnere il telefono per quasi tre giorni, record che non aveva precedenti.
La sua generazione aveva come ossigeno la tecnologia e credeva che disfacendosene avrebbe riottenuto lo stato di naturale felicità da cui la allontanava il progresso, ma evidentemente alzare gli occhi dallo schermo del cellulare le aveva causato solo danni.

«Lascia perdere. Ti avevo chiesto se potevamo uscire sabato...»

«Oggi?»

«Oggi. E tu non saresti stata qui in questo momento, saresti da un'altra parte.»

Senza muoversi di un centimetro, la ragazzina non dimenticò che la confidenza che le due avevano non sarebbe svanita per mezzo di una semplice uniforme attillata.

«Beh, anche tu saresti stata da un'altra parte, se è per quello.»

Le rinfacciò la verità. Come pensava di rimediare ad una bugia con un'altra bugia?
I discorsi che faceva Camelia sulla coerenza stavano permeando anche in lei.

«Comunque, - la ragazza si sistemò i capelli corti - si vede che non capisci niente.
Chi ti ha detto che noi volevamo sfidare Nardo? Il tg, immagino.»

Iris non si fece problemi ad ammettere di essere non poco confusa.
«Spiegati. Non siamo tutti dei cavolo di geni del male qui.»

Mentre lei e le sue compagne si erano lanciate alla rinfusa come barbari all'attacco, il Neo Team Plasma aveva escogitato un piano di conquista infallibile, tanto da farle quasi invidia.

La recluta estrasse una Poké Ball dalla cintura e rimise la maschera a coprirle la bocca, come gesto per disconoscere la sua avversaria in kimono viola ed ogni cosa che le legasse.

«Se avessi letto il mio messaggio e fossi venuta avresti fatto meglio.
Ti credevo una intelligente, che ci arriva. "Quanto odio le mie compagne", "Mi trattano male", "Sono tutte stupide"... - imitò una vocina stridula per prenderla in giro, poi si ricompose nella precedente serietà - E poi ti fai comandare da loro a bacchetta, sei tu qui quella con qualche problema.

Ma fa nulla. Saranno le mie di compagne ad ammazzare quelle quattro stupide.
Mentre tu sei qui a non fare niente.
Come sempre. - Fece spallucce - Vi spiamo da un mese ormai e io lo so come sei.»

La ragazzina provò a voltarsi indietro, ma calcolò che il tempo impiegato a scendere le scale e percorrere tutta la Lega a piedi era abbastanza per permettere alle altre reclute del Team di far tutte e cinque fuori.
Se quel gioco era lei contro una banda estesa a livello regionale di criminali senza scrupoli, non aveva intenzione di cominciare la partita.

«Vuoi dire che ci avete spiate per un mese per escogitare un piano sadico come non so cosa e... E alla fine farci fuori?»

Domandò, senza quasi accorgersene. Non voleva crederci. Non volle crederci.
Ma la ragazza in nero aveva già la risposta pronta per i suoi dilemmi.

«Perché, mi ascolti quando parlo? A noi servivano solo Taylor Camelia, Reyes Anemone, Yamaguchi Catlina e Kuroi Camilla. Non tu.

Tu non sei una minaccia per il Neo Team Plasma. Tu non sai nemmeno lottare decentemente, mi domando ancora perché Nardo ha scelto un'impedita come te per il ruolo di Campionessa.
Sai solo leccare i piedi alle quelle quattro sceme, non hai altre doti o talenti.»

Se già l'autostima di Iris era una cosa labile come un castello di carte, quella ragazza dai capelli fucsia ci aveva letteralmente soffiato sopra facendola cadere dalle fondamenta.
Non riusciva a darle torto o trovare argomentazioni da porre in antitesi.
Iris si sentiva come Georgia l'aveva appena descritta, lo dimostrava la sua semplice presenza lì.

Si era fatta mandare nell'occhio del ciclone solo perché le sue compagne ci erano andate.
Avrebbe potuto evitare quell'errore in mille modi ma aveva voluto seguirle invece di restarsene al sicuro.

Si trattenne dal piangere, ancora travolta dallo sconcerto.

Quegli insulti la ferirono più di tutti quelli che aveva ricevuto in quel momento.
Perché erano la nuda e cruda verità.
Non essere carina esteticamente o essere piatta di seno erano i suoi ultimi problemi in quel momento.

«Peccato, Iris. - concluse Georgia - Mi stavi simpatica. E invece, siccome sei qui e hai visto tutto, mi tocca uccidere pure te.
Ma non prenderla sul personale, sto solo eseguendo gli ordini che mi ha dato il mio capo.»

Senza battere ciglio, lanciò in avanti la Poké Ball che teneva in mano.
La non più misteriosa quindicenne dai capelli fucsia acceso smorzò le labbra in un sorriso insipido, le intenzioni non chiare, riflesso della sua personalità multiforme.

Di fronte a lei si materializzò un Pokémon che non aveva eguali fra gli avversari affrontati precedentemente dalla nostra eroina, neppure fra i componenti delle squadre allenate professionalmente delle sue compagne, perfino il suo Dragonite vacillò.

Iris odiava la sconfitta. La odiava tanto.
Quando perdeva una lotta Pokémon le dicevano sempre di non arrabbiarsi, quella era solo una lotta. Per lei non era mai "solo una lotta", ed in quel caso era ben diverso.

Quella era una battaglia violenta. E forse sarebbe stata anche l'ultima lotta della sua vita.

«Beartic, - disse cinica la leader del Neo Team Plasma - usa Purogelo.»

La nostra eroina non poté reagire. Quell'intera situazione l'aveva sopraffatta, non si sentiva neppure degna di quella fine, annientata dal boss di un'organizzazione criminale.

Che ne sarebbe stato del suo ricordo? Sentiva di aver insozzato l'immacolata lista degli aspiranti Campioni di Unima, spegnendosi così, nella Sala d'Onore della Lega Pokémon in un ammasso informe di sangue versato, organi macellati e sogni distrutti.

Era colpa sua se si era lasciata guidare dalle sue compagne? Si sentì stupida, miserevole.
Non sapeva neppure quale fosse la morale che la sua breve esistenza voleva insegnarle.
Magari aveva sbagliato nel fidarsi di quell'estranea, aveva peccato nell'aver afferrato la Mano di Fatima? O forse era solo colpa sua, o forse il fato era già stato prescritto per lei?

Alla fine, Iris concluse che non per forza tutte le vite umane devono significare qualcosa.

Non tutti gli Allenatori diventano Campioni, non tutti i morti vengono compianti alla televisione e sui giornali, non tutte le ragazzine sono destinate a diventare donne.
Le faceva male quanto ingiusto, caotico e crudele fosse l'ordine del mondo.

La giovane di Boreduopoli indietreggiò piano, sapendo di non avere scampo.

Pensò alle parole di quella bestia psicotica in abiti sexy: non pensò alla parte in cui decantava il suo patetico esistere, non sarebbero scesi gli angeli a salvarla per compassione.

Anche le sue compagne sarebbero morte con lei.
Quel pensiero non la fece star meglio, di solito considerava un mal comune un mezzo gaudio, e invece la rattristò ancora di più.

Ripensò alle sue ultime parole dette a loro in ordine cronologico: io vi detesto.
Io vi detesto.
Le sue ultimissime parole prima dell'estremo saluto erano state quelle.

Nessuna creatura divina l'avrebbe accolta nel suo regno dopo quell'atto di suprema infamia: aspettava disperatamente che l'artiglio di Satana la trascinasse a bruciare in eterno nel fuoco delle più profonde bolge dell'inferno.

Guardò un'ultima volta alla sua avversaria, al limite della sua devastazione psicologica.

«Georgia... - pensò, alla fine di tutto - Io credevo che potessimo essere amiche...»

 

 

 

 
«Non posso crederci Georgia, tu eri la cattiva per tutto questo tempo?!»

«Dai, non chiamarmi "la cattiva", altrimenti mi odieranno tutti i lettori.»

«E dire che potevo accorgermene prima, cavoli, avevi messo il cappello pure quando siamo uscite insieme!»

«Veramente quella mattina mi sono vestita di fretta, non avrei dovuto indossare parte dell'uniforme del Team mentre sono in incognito...»

«Vedi? Così impari a darmi della stupida, almeno io non esco in kimono, anche se sono perennemente in ritardo a cambiarmi per gli allenamenti.»

«A proposito di quando siamo uscite insieme, Iris, hai presente i soldi che ti ho prestato quando siamo andate all'arcade e hai fatto il nuovo record?»

«Eh?! N-Non dirmi che li rivuoi indietro?»

«No...»

«Ah, per fortuna! Mio nonno non mi allunga la paghetta da giugno, sono completamente al verde e se non fosse stato per te forse non avrei neanche potuto fare una partita...»

«Intendo che non devi restituirmi i soldi dell'altra volta.
Tu devi ancora ridarmi quelli di quando siamo uscite con la tua amica.
Sei in ritardo coi pagamenti, ti conviene sbrigarti prima che ci aggiunga anche gli interessi...»

«Sei proprio una mente malvagia e perversa!»

«Sono fiera di esserlo.»

Behind the Summery Scenery #15

1. Dal titolo del capitolo potete dedurre che all'autrice piace Tarantino e soprattutto Kill Bill

2. Questo capitolo è più o meno un esperimento per vedere come me la cavavo con le scene d'azione. Nelle recensioni mi avete detto di vaerlo trovato diverso in qualche modo dai precedenti, più grintoso ed esplosivo. Mi avete fatto anche notare però che in alcuni tratti è irrealistico, in altri ripetitivo. Mi ci è voluto un po' per elaborare bene tutti questi pestaggi, lotte e sparatorie, quindi consigli e critiche sono ben accetti.

3. Scrivere i cattivi a volte è più divertente che scrivere i buoni. Ve la immaginate una versione "rovesciata" di ESG, in cui la vicenda è interamente raccontata dal punto di vista delle antagoniste? Questa cosa fa molto Senran Kagura.

4. Giuro che dal prossimo BTSS la pianto con le domande retoriche, ma in quanto ad impaginazione, meglio l'incolonnato a sinistra o il giustificato? Il giustificato è molto bello da vedere su computer, ma su telefono sembra di leggere un testo bucato. Ho notato di aver giustificato alcuni capitoli random, ma vorrei scegliere al più presto una formattazione unica.
Update: alla fine ho optato per il giustificato, Le scelte della vita, proprio.


5. Avete notato che i primi tre capitoli sono stati ricorretti a n c o r a ? Ringraziamo Blue Eich e la sua pazienza millenaria.
Lo sapevate che si scrive Poké Ball e non Pokéball? Provate a cercare su Pokémon Central Wiki, ha ragione lei! 

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Capitolo 16
*** Vedete? È sangue umano, non divino ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
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Seguiteci su instagram: @esg_offical_ig








Early Summer Girls

Capitolo 16

Vedete? È sangue umano, non divino

 

«...Una droga artificiale che concede l'immunità per un periodo limitato di tempo, hai detto?»
 
La Campionessa di Sinnoh aveva gli occhi puntati verso la grata bronzea del cancello serrato.
 
La Lega di Unima era diversa da quelle delle altre regioni, era nata più tardi siccome la guerra che investì il territorio in tempi antichi aveva frenato ogni tipo di attività ludica visto che i Pokémon venivano reclutati come soldati a fianco degli uomini senza alcuna pietà.
 
La differenza sostanziale era già impostata nelle premesse: gli Allenatori potevano sfidare i Superquattro nell'ordine che più preferivano. Il fautore di questa bizzarra rivoluzione che dunque aboliva ogni tipo di gerarchia fra i membri della Lega non poteva che essere Nardo.
 
La giovane donna riportò l'attenzione sulla recluta con cui aveva fatto un qualcosa, qualcosa di neppure vagamente simile al fare amicizia, ma comunque diverso dal fare a botte.
 
«Sì. - Voltandosi piano, la recluta dai capelli blu le venne vicino - Ghecis vorrebbe iniziare il contrabbando del Sangue del Drago, per questo prima lo ha testato su delle persone invece che sui Pokémon.
 
Vorrei poterti dire altro, ma non so nulla oltre a queste cose che ti ho appena detto.
Forse Georgia potrebbe saperne di più... Lei è la nostra leader del resto, è la persona più vicina a Ghecis Harmonia.»
 
Dopo che Lucinda, le aveva detto di chiamarsi così almeno, ebbe finito di parlare, Camilla ponderò bene che domanda fosse necessario farle pur di far chiarezza su quella faccenda.
 
Da come si era spiegata, ora Ghecis era diventato un venditore all'ingrosso di droga, uno spacciatore insomma. La sua strategia quindi risiedeva nel puntare alla fascia più debole della popolazione di Unima, quella più disillusa e stremata dalla crisi, dalla disoccupazione, quella che non credeva più nell'amicizia fra umani e Pokémon e non vedeva più nella fatica e nel duro lavoro la chiave per il successo: i giovani.
 
Tuttavia per quanto catastrofico ed incerto questo piano suonasse alle sue orecchie lei non poteva fare nulla di concreto per fermarlo in quel momento. Quella sensazione di impotenza la fece imbestialire.
 
«Devo andarmene di qui.» 
Ripeté fermamente, guardandosi intorno in cerca di qualche via d'uscita.
 
Lucinda le sorrise ancora, emulando l'abitudine della sua avversaria in kimono bianco latte.
 
«Sii paziente, Campionessa. È solo questione di tempo che... - subito la ragazza interruppe i suoi giri di parole non appena l'altra la minacciò facendo gesto al suo Garchomp di avvicinarsi a lei - H-Hey, calma!
Lo sai che i cancelli non si aprono prima della fine di una lotta?
 
Ma non di una lotta normale, di una battaglia violenta. Come piace a noi.»
 
«Certo che lo so.» La bionda si toccava nervosamente il ciuffo, ormai unto e sudato.
 
Lucinda l'aveva incastrata sull'orlo del precipizio bloccandole l'unica via di scampo.
 
Sapeva che la bionda non avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare una ragazzina in una battaglia violenta, non lo avrebbe fatto neppure se si fosse trattato della temutissima recluta in persona.
 
Lei non era una persona aggressiva: amava le lotte, amava farle, amava guardarle, ma questo non faceva di lei una sadica che gode nel far soffrire il prossimo.
 
E di conseguenza, dall'alto del suo titolo conferitole dalla regione di Sinnoh, non poteva che disprezzare coloro la cui mania di far del male aveva fatto dimenticare ciò che di bello e sano la contesa ha da offrire.
 
Si alzò in piedi, sovrapponendo l'ombra del suo corpo prosperoso alla flebile luce della luna nel punto più alto del cielo. Doveva essere l'una di notte passata.
 
Si diresse verso uno scaffale, decisa come non mai nelle sue intenzioni.
Anche l'avessero definita una codarda senza il coraggio di affrontare uno scontro corpo a corpo poco gliene importava, per dirla tutta gliene importava tanto quanto le voci che la dipingevano come una maniaca sessuale.
 
«Cosa stai facendo?» 
Le domandò la ragazzina, calciando svogliatamente una delle sue Poké Ball posate a terra in segno di arresa.
 
La giovane donna estrasse un libro dal ripiano intarsiato e verniciato.
Diete un'occhiata al titolo solo per curiosità, sfogliò veloce tutte le pagine e lo tenne chiuso per leggere il retro, ma subito se lo dimenticò. Tipico di Camilla.
 
Successivamente rivolse una scorsa al suo fedele Pokémon Drago per metterlo al corrente delle sue intenzioni. Delle sue pazze, ma al contempo come non mai legittime intenzioni.
Chi aveva deciso che la pazzia era sempre solo un difetto e mai una dote?
 
«Garchomp, usa Lanciafiamme.»
 
Teneva quel libro dall'angolo con la punta delle dita, il più lontano possibile dai capelli e dalle sopracciglia. Il potente dragone non mancò il bersaglio.
La carta prese facilmente fuoco, il getto di fiamme incandescenti era addirittura esagerato per lo scopo che aveva, ma evidentemente il seno di Camilla non era abbastanza ampio per contenere anche un accendino insieme a tre Poké Ball.
 
Le pagine si increspavano come foglie d'autunno prima di annerirsi e dileguarsi in anidride e monossido di carbonio, la donna lo agitò in aria come se si trattasse di un trofeo.
 
Intanto una colonna di fumo si levava alta, come quella che avevano causato quelle del Neo Team Plasma per attirarle lì. Nera, grigia e poi di nuovo nera, l'aria aveva un odore irrespirabile.
 
Chiudendo gli occhi per non vedere completamente la scena, la bionda strappò una pagina immacolata del libro sul punto di incenerirsi; anche in essa vi erano molte parole, ne colse alcune come "amore", "anima", "alquanto", un avverbio che finiva in -mente e una qualche persona del verbo "devastare".
 
Avvicinò la carta bianca alla fiamma bluastra del libro che si spense subito dopo, ma trovò di cui perpetuarsi su quel foglio: Camilla strinse i denti e deglutì forte, prima lentamente, poi accelerando così tanto il gesto da non percepirne la gravità, posò due dita sopra quel fuoco, ritraendole immediatamente.
 
«Sei proprio matta.» Commentò ancora la recluta.
 
Il dito medio e l'indice della sua mano destra ora erano arrossati e gonfi, il sangue premeva di uscire dalla pelle lesa e per quanto piccole alcune bollicine sull'epidermide la facevano agonizzare dal dolore.
 
Questo di sicuro lo aveva fatto per le sue compagne.
 
La sua lotta infine era stata percepita come persa. Ben per quella, a lei bastava solo una cosa.
Vide il cancello aprirsi, solo il suo purtroppo, ma era comunque una notizia sensazionale.
 
Fece rientrare Garchomp nella Poké Ball e si diresse subito fuori, talvolta urtando contro i mobili andando a tentoni nel buio.
Prima che potesse andarsene a controllare come stessero le sue care compagne, la recluta la fermò ancora.
 
«Quando ci rincontreremo, Campionessa di Sinnoh?»
 
Chiese, senza muoversi. Aveva i capelli blu e l'uniforme completamente fradici, stava in mezzo a quell'acquazzone e i suoi occhi azzurri come lapislazzuli si vedevano ancora, la osservavano disperati.
 
La giovane le sorrise, voltandosi indietro per un secondo e sistemandosi si capelli biondi ormai disfatti e bagnati.
Corse indietro verso la ragazzina ed incrociò quegli occhi. Onestamente, non sapeva neppure lei cosa stesse facendo.
 
«Devo andare ora. Devo andare dalle mie compagne ora.»
Disse soltanto.
 
Poi le stampò un bacio leggero sulla guancia. Lo fece di getto, non riusciva a trovare una spiegazione logica a quel saluto così inappropriato, così scandaloso per un personaggio del suo rango.
 
D'improvviso provò a figurarsi quanti anni potesse avere Lucinda. Non ci volle pensare.
 
Intanto le sue gambe continuavano a muoversi fuori dalla sala, alla ricerca di un modo per ritrovare le sue quattro ragazze sane e salve, aveva sacrificato sé stessa ma ancora non aveva ottenuto il risultato che sperava. 
 
Camilla sospirò e non osò fermarsi. Andò avanti, esprimendo il desiderio che Catlina, Camelia, Anemone ed Iris fossero lì davanti ad aspettarla, che a mancare fosse solo lei.
 
Inevitabilmente però ripensò a Lucinda e alle sue parole, immaginò che fosse ancora lì.
 
Non avendo il coraggio di lasciarle un ultimo sguardo si diresse fuori, camminando a testa alta.

 
La luce eccessivamente potente della stanza permetteva di discernere a occhio nudo ognuno dei singoli granelli di polvere che fluttuavano scomposti nell'aria, rendendola asciutta, irrespirabile.
Non era vera e propria polvere. Un miscuglio eterogeneo di ciottoli, cocci e briciole di materiali diversi che si riversavano senza un ordine preciso.
 
L'impatto della mossa Codacciaio di Steelix contro il pavimento aveva a dir poco distrutto il granito nero frantumandolo come una stoviglia rotta, in cui nessun pezzo è in alcun modo riparabile.
 
Anche la confusione dovuta a tale attacco cessò e per rompere quel silenzio non sarebbe bastato il fruscio del pulviscolo caotico che aveva la stessa intensità sonora di un sussurro.
 
Nella sua mente, Jasmine pensò con il sorriso sulle labbra "missione compiuta".
Compiuta con un bel disastro, ma alla fine dalla sua parte non c'erano state ingenti perdite, solo un paio di danni psicologici dovuti alle battute acide della sua avversaria. 
 
Alla giovane recluta del Team Plasma salì l'adrenalina alle stelle. O forse era un'altra sostanza chimica a venir rilasciata nel suo corpo, una scarica di dopamina la faceva sentire euforica.
Il suo gesto avrebbe avuto delle conseguenze.
 
Sottraendo la vita di una persona allo svolgersi del fato aveva a sua volta eliminato conoscenze, incontri, occasioni e ricordi che altrimenti le avrebbero causato un'esistenza pietosa.
 
Ma ora non c'era pericolo: diede un occhio veloce all'ammasso di macerie disposte sul pavimento.
Jasmine tirò un sospiro di sollievo. Niente. Quella stupida modella era morta, finalmente.
 
Se non fosse stato così per il suo Pokémon poco cambiava, lo avrebbe preso con sé e ne avrebbe fatto un'aggiunta per il Team.
 
Erano mesi che le reclute di basso rango, le ragazzine degli ultimi anni delle medie e quelle che avevano appena cominciato le superiori solitamente, non facevano altro che racimolare esemplari scarsi, Patrat, Rattata, Pidgey e Pidove privi del qualsivoglia potenziale per la lotta.
Il Neo Team Plasma non sarebbe andato a fallire per una sciocchezza del genere.
 
Con passo lento, come un automa, la giovane di Johto scese dalla testa del suo Pokémon, posizione sopraelevata da cui aveva osservato incolume tutta la scena, e le si avvicinò piano.
Attraversò l'intero perimetro dell'arena di lotta, notando come poco a poco alcune luci fossero andate in cortocircuito ed emettessero scintille dai cavi spezzati.
 
Serbava una curiosità sadica mista ad un profondo disgusto, la sua voglia di vedere il cadavere della sua coetanea: immaginava di aver fatto il peggio, eppure non vedeva l'ora di scoprire le conseguenze del suo tentato omicidio.
 
Voleva vedere Camelia sfigurata. La pelle priva di colore, gli occhi con le pupille azzurre volte al cielo mentre la sclera bianca abbandonava ogni contatto visivo con il mondo circostante, il corpo squarciato dai tagli e il sangue incrostato, una scena da far accapponare la pelle.
 
In che modo la vita di una top model viziata, meschina e ninfomane aveva contribuito a rendere il mondo un posto migliore? A suo parere, era servita solo a sprecare carta per stampare le sue foto, a sprecare fiato per discutere i suoi scandali.
 
Quella bellissima Capopalestra aveva lasciato solo tracce di odio dietro di sé. I suoi fans avrebbero presto sostituita con un'idol dal seno più grande, la sua tragica esperienza sarebbe diventata un modello da non imitare per tutte le ragazzine che pensano alla vita come una vetrina da esposizione.
 
I suoi ex infine, loro forse erano stati gli unici a trarre qualcosa da quel miraggio di piacere, un qualcosa di transitorio e vuoto come il piacere sessuale, ma pur sempre qualcosa.
Sperò solo che Corrado si dimenticasse presto di lei, come già aveva fatto dopo la loro rottura.
 
La ragazza giaceva in posizione supina, adagiata sul lato sinistro, con la frangia nera leggermente spettinata che le copriva gli occhi. Sembrava una Venere dormiente, non riportava ferite esterne.
Jasmine allora provò a tastarle con il piede la mano coperta di smalto.
 
L'arto svilito di ella si dischiuse, lasciando scivolarle dalle candide dita una sfera Poké coperta di polvere, i segni dei polpastrelli che afferravano il piccolo oggetto rotondo erano ancora visibili.
Doveva averla tenuta sotto il torso per proteggere il Pokémon all'interno dalla frana causata dall'attacco, un atto veramente nobile per un qualsiasi Allenatore di Pokémon.
 
Ma alla brunetta non importò. Quella che aveva appena fatto fuori era una lurida sciupamaschi.
Niente e nessuno le avrebbe mai dato la possibilità di redimersi nemmeno da morta.
Soprattutto non gliel'avrebbe data lei.
 
Senza esitare oltre, quella fece per prenderle la Poké Ball dalla mano con l'intenzione di scappare il più velocemente possibile subito dopo e non rimanere a guardare ulteriormente.
 
Non ebbe il tempo di fare ciò, che il cadavere della famosa modella fremette.
 
Una risata femminile e nasale, prima molto flebile e poi sempre più aperta, distruggeva quella barriera di silenzio imbarazzante, rideva di gusto e non riusciva a fermarsi.
Era un suono delizioso sentire Camelia ridere. Lo era sempre.
 
La recluta indietreggiò spaventata, come se avesse appena toccato un essere viscido, lasciando perdere l'oggetto del suo desidero. Era davvero viva?
 
Sì che lo era. Lo era e ci teneva a farlo sapere.
 
«...Scusa... - fece per riprendere fiato la mora, non si capiva se stesse fingendo o facesse sul serio - scusa, non riuscivo più a trattenermi...»
 
Non si mosse dalla sua posizione, contorse i muscoli della schiena per dar sfogo alla risata.
 
I residui di sporcizia erano evidenti sul nero dei suoi capelli, rendendolo opaco, schiarendolo fino ad una sfumatura più simile al grigio antracite.
Il suo kimono invece non aveva neppure l'aspetto di un capo di abbigliamento: somigliava ad un insieme di stracci cuciti insieme, cuciti male per di più, neppure la fantasia a fiori che colorava il tessuto giallo limone si distingueva.
 
«Ma tu, tu non muori mai?!» Le urlò contro la giovane, correndo verso di lei.
 
Ma Camelia smise di ridere solo quando la ragazza fu per avventarsi su di lei.
Che imbecille. Non poteva richiedere l'aiuto del suo potentissimo Steelix?
Immaginò che si trattasse del classico Pokémon al cento percento obbediente alle mosse dettate dal suo Allenatore, quelli che vivono per assecondarlo e vengono trattati come macchine.
 
Jasmine la colse di sorpresa però: essendo ancora in piedi bloccò sotto la suola dei suoi stivaletti neri in dotazione con l'uniforme le maniche dello yukata della mora.
Non le pestò le braccia, fu fortunata, ma così lei si trovava bloccata a terra, senza via di scampo.
Si sarebbe dovuta preoccupare. Ma ancora, la situazione per lei era troppo stupida.
 
«Lo sai cosa mi fa ridere di tutto questo?» Le disse, sorridendo.
 
Si mosse improvvisamente, con un movimento che non richiedeva l'elasticità di un acrobata, ma il pudore che solo una modella di bikini scosciati poteva avere: in una manciata di secondi ritirò le braccia lungo le maniche larghe, lottando con gli elastici e le cuciture che le graffiavano la pelle, scostando le spalle, riuscì a liberarsi in maniera del tutto poco ortodossa.
 
Durante le sue sfilate le concedevano anche meno tempo per spogliarsi.
 
«Che quella dalla parte del torto sia tu. Non hai idea, ci godo troppo...
Credimi Jasmine, è stato bellissimo morire con la coscienza a posto. Peccato sia durato poco.
 
Meglio questo che vivere col senso di colpa a vita per aver detto cose al limite del ridicolo su una persona innocente, ma molto, molto meglio!»
 
«Non prendo lezioni di vita da una con mezze tette fuori!» 
Le ribatté quella, rabbiosa come non mai.
 
Effettivamente quella lotta così dinamica aveva causato qualche scompiglio interno ed esterno.
Camelia era riuscita a liberare le braccia prima immobilizzate estraendole dalle maniche e facendole riemergere dal largo spacco sul torace che aveva.
Ringraziò di essersi messa lo yukata, con una maglia normale non ci sarebbe riuscita.
 
E comunque, non capiva le paranoie di quella ragazzina (calcolò che portasse più o meno la stessa taglia di Iris, dunque un poco le capiva), il suo seno era in piena regola. Almeno quella volta, era perfettamente coperto e non passabile di censura.
 
«Perché non ti fai gli affari tuoi? Guarda, hai tutta la gonna abbassata... Non adatto a un pubblico di minori, direi.»
 
La giovane Capopalestra non sapeva se stesse facendo ciò per diletto o per pura curiosità.
 
Stava di fatto che quella piccola smorfiosa le aveva mostrato la sua zona più delicata senza pensarci due volte, la vedeva quando era distesa e non se ne sarebbe scordata facilmente.
Non aveva un piano in mente, era tutto congeniale alla pessima battuta che aveva fatto.
 
Con le braccia nude le afferrò l'orlo della gonna in pelle sintetica, tirandola verso il basso più forte che poté, tenendo lo sguardo fisso sul bordo del suo bacino.
È lì che si trovava ciò che le interessava: la cintura con le Poké Ball.
 
«Sei solo irritante, non me ne frega di cosa tu pensi ora!» 
Le gridò contro l'altra, provando a dimenarsi per scacciarla via da quella distanza estremamente ravvicinata con il suo inguine.
Era quella la reazione che desiderava, puro moralismo e puritanesimo.
 
Camelia prese tutte e tre le Poké Ball, staccandole dai loro ganci in fretta e furia, dovendo fare i conti a sua volta con i pugni e i calci che provenivano dalla sua avversaria ancora in piedi.
Lanciò via lontano le altre due Poké Ball, nell'ultima che era rimasta vuota fece rientrare Steelix.
 
Tenne quella sfera sospesa in mano, con l'altra che attendeva che gliela cedesse.
Ci fu un attimo di tregua dopo quel marasma confusionario e artefatte sexy.
 
«Ho vinto io.» Sibilò Camelia fra i denti, evidenziando un sorriso vittorioso.
 
«No... Non ho ancora finito... Tu sei una sporca gattamorta, lo so io quanto lo sa Corrado, tu sei una...» Ma non riuscì a terminare la frase da quanto era esausta.
 
«Ho vinto io, okay? Ora fammi uscire di qui, mi sta venendo il mal di testa.» Insistette.
 
La mora infine, mossa da una quantità industriale di pietismo accumulatasi in quello scontro, passò la Poké Ball alla sua avversaria, mentre la porta del corridoio buio da cui era entrata si illuminava, mentre tutte le lampade e i riflettori si affievolivano per la sua uscita di scena.
 
Mentre la nostra eroina camminava voltata verso l'uscita, alla solita maniera elegante che conosciamo, non riuscì ancora a spiegarsi la marea di bugie che quella ragazza aveva inventato su di lei.
 
Erano tutte bugie, cose non vere. Solo lei poteva confermarle.
Le fece schifo quanto in basso una persona potesse cadere pur di reclamare attenzione sottraendola ad altri, lei che aveva ricevuto le peggiori attenzioni poi.
Lo avrebbe volentieri definito un fenomeno passeggero, una moda di internet, ma non c'era verso.
 
Si sentiva più pulita a camminare a seno nudo davanti a milioni di persone piuttosto che inventare un finto pudore pur di spogliare gli altri della loro dignità.
 
E intanto la recluta dai capelli bruni collassò a terra, come se la spina dorsale non riuscisse più a reggere il peso del suo corpo.
 
Erano ormai le due e mezza di notte.
 
 
Se Alice non avesse attaccato dopo aver pronunciato la classica frase allertante non sarebbe stata una vera antagonista. Non si smentì: fece uscire dalla Poké Ball il suo esemplare di Skarmory, le cui ali platinate puntavano dritte verso l'alto.
 
Si massaggiò un ematoma bluastro al centro del viso e subito impartì un comando.
«Usa Eterelama.» Disse con il naso tappato, più seria che poté.
 
«Che simpatica. - Mossa dalle circostanze, Anemone si permise il suo primo accenno di sarcasmo in un discorso, sentendosi presa in giro come mai era stata - Mi hai rubato l'unico Pokémon che avevo. Cosa pensi di attaccare, ti sei fatta due domande?»
 
La sua perplessità era assai lecita. Quella recluta stringeva fra le mani la Poké Ball di Swanna, tenendola bene in evidenza per rinfacciarle l'averla disarmata già a inizio lotta.
Ma la risposta giunse da sé, non serviva un maestro per dedurla.
 
Subito un impetuoso movimento delle ali del Pokémon avversario squarciò l'aria, producendo un'onda trasversale di notevole intensità, una lama di etere, appunto.
La ragazza esperta nel tipo Volante era cosciente della velocità di quell'attacco e volle evitarlo a tutti i costi, per quanto le dispiacesse esserne il bersaglio.
 
«Non posso crederci, questa mi vuole fare secca! - pensò sconsolata - Ma cosa ho fatto di male nella mia vita per meritarmi tutto questo...»
 
La aggredirono due colpi uno di seguito all'altro, rapidi come saette e taglienti come rasoi.
Certo, le sarebbe bastato indietreggiare di qualche passo, ma l'audace giovane dai capelli cremisi non poté che cogliere l'opportunità di dimostrare quanto fosse migliorata nel periodo che la separava dalla lotta contro Camelia.
 
Inarcò la schiena all'indietro tale e quale a un giunco mosso dal vento e con le mani si sostenne, i muscoli delle cosce le diedero la forza necessaria a spingersi per poi atterrare in piedi, ricomponendosi nella posizione eretta iniziale.
Evitare un attacco Eterelama con una leggiadra rondata, quello era il suo stile.
 
Il suo piano successivo (ormai nella sua fantasia era diventata la protagonista del suo anime, che però non era mainstream) sarebbe consistito nell'attaccare fisicamente la recluta almeno per riprendersi la sua Poké Ball, visto che neppure dopo la sua epica scazzottata quella ragazza andava al tappeto.
 
Schivò veloce un'altra serie di mosse impartite con quel tono sciatto e disinteressato.
Infine le rivolse queste parole, guardandola dritta in faccia.
 
«Possiamo andare avanti anche tutta la sera, se vuoi. Però sappi che io avrei di meglio da fare.
Ho una fidanzata che mi aspetta. Una top model, sottolineo.»
 
Era ovvio che non volesse davvero restare lì tutta la notte a saltare da un capo all'altro dell'arena come una cavalletta, lo aveva detto solo per intimorirla.
 
«Oh Dio, e se anche lei ha il fidanzato? - pensò, allarmata da un'incombente scudisciata - Ho fatto un'altra figura del cavolo.»
 
Alice la fissò falsamente basita. Non credeva che quel caso umano si ascoltasse davvero quando parlava, ma allo stesso tempo era curiosa di vedere quante risorse le fossero rimaste per affrontare la parte più dolorosa della battaglia.
 
«E per ora che tu avrai fatto l'ennesima capriola per evitare gli attacchi del mio Skarmory, io ti avrò già eliminata. Quindi mi dispiace Cenerentola, niente principe azzurro neanche stasera.»
 
«A me non serve un principe, - riprese quella metafora - non sono né una principessa né una damigella in pericolo. Se non ti dispiace, me la cavo benissimo anche da sola.»
 
Alice la guardò stupita, ma quella volta dimostrava genuino stupore, non quell'espressione posticcia da pesce lesso che in realtà conosce tutta la storia.
La rossa si fermò un attimo e aspettò cauta che non si azzardasse a tirarle contro un'altro Eterelama.
 
«Skarmory, facciamola finita. Usa Ferrartigli.»
 
Il Pokémon di Hoenn subito obbedì al comando e si lanciò in planata verso il suo bersaglio, affilando gli artigli delle due zampe grazie all'attrito dell'aria.
 
La recluta scelse un attacco di tipo fisico per entrare in contatto con la sua preda, l'ennesimo attacco speciale sarebbe andato a vuoto di sicuro. Voleva sbrigarsi nel suo compito inoltre.
 
Lei non perse tempo e subito si preparò a crearsi una strategia che non fosse solo difensiva, ma anche offensiva: attese paziente senza muoversi che Skarmory le si avvicinasse.
La sua avversaria era ancora in errore, se pensava che lei si fosse data per vinta.
 
Al momento preciso (aveva notato che ce ne era sempre uno in ogni occasione) saltò in alto, contraendo i forti muscoli delle cosce, aggrappandosi con le mani agli artigli acuminati del Pokémon. La giovane subito contrasse il viso dal dolore.
 
Il piumaggio metallico caratteristico dell'uccello non le aveva aperto solo minuscoli taglietti sulle dita, le sue braccia erano striate di rosso come quelle di un'autolesionista, in alcuni punti la pelle abbronzata le si sbucciava perfino: quando era piccola suo nonno copriva i suoi piccoli malanni con cerotti morbidi di cotone, ripetendole che peste di una bimba fosse.
 
Una volta accortosi di aver mancato il bersaglio, il Pokémon cominciò ad agitarsi, provando a scrollarsi di dosso la zavorra umana appesa alle sue zampe.
Anemone tentò di non perdere la calma, ma quello continuava a salire in alto, sempre più in alto, la stanza aveva un soffitto decisamente alto, fuori dalla norma.
 
Continuare a penzolare non avrebbero aiutato a recuperare i suoi resti spiaccicati neppure con un cucchiaio.
La ragazza dai capelli rossi si fece coraggio, ne teneva sempre un po' di riserva nelle situazioni di pericolo, per tutto simile a un supereroe quando sfoggia la sua arma segreta.
 
Più forte stringeva le dita intorno agli artigli affilati, più le faceva male. Fece un respiro breve.
 
Incanalò tutta la sua energia sulle gambe e, dandosi lo slancio con il bacino a mo' di altalena, riuscì a salire sul dorso di Skarmory con una capriola molto agile, si sentiva una trapezista senza la rete sotto, il fatto che non fosse ancora caduta lo considerava un miracolo.
 
Si trovò seduta in una posizione assai scomoda in cui il suo kimono era completamente sollevato nella parte inferiore, rivelando insieme ai muscoli tonici delle cosce e dei polpacci anche due natiche perfette, sode e carnose, la pelle vibrava leggermente all'impatto con l'acciaio duro.
 
«Che sta facendo ora... - Alice osservava tutto con lo stesso scetticismo di chi ha capito il trucco di un mago o non ha nessuna voglia di lasciarsi impressionare - Questa ha problemi seri...»
 
Non era panico quello che la rossa provava, le veniva imposto dal suo cervello di agire razionalmente seguendo il suo schema, però quel bestione si muoveva a tale velocità da riuscire a farle sentire l'aria fischiare nelle sue orecchie.
 
Dopo essersi domandata da sola "okay, ora che si fa?" almeno dieci volte in un minuto, provò ad andare d'istinto, dopotutto fidarsi del suo senso dell'intuito le aveva sempre portato fortuna.
 
Si avvicinò con non poca difficoltà alla testa affusolata, la fisica le era nemica in quell'impresa dato che la direzione verso cui lei puntava era quasi perpendicolare a quella verso cui si dirigeva a bordo di quel Pokémon Uccello e i due vettori si sommavano un una serie di prove ed errori, tuttavia anche solo uno degli ultimi le sarebbe stato fatale.
 
Senza pensarci due volte, gli coprì gli occhi con le mani.
Una mossa semplice, ma altrettanto efficace.
 
«Ecco, adesso si ammazza.» Commentò senza trepidazione la ragazza a terra.
 
Il volatile lanciò un lungo e disperato stridio, manifestando la paura latente sotto quella dura corazza d'acciaio, nonostante ciò non riuscì a sollevare alcuna preoccupazione nella sua Allenatrice.
 
Non importa quanto esso si dimenasse pur di scrollarsi di dosso la causa del suo accecamento, a provare un minimo dispiacere per quell'atto di maltrattamento era la rossa.
Ma non aveva altra scelta. La guerra di suo porta sempre gli innocenti in mezzo al conflitto.
 
Anemone cercava di non spostare le mani dagli occhi di Skarmory mentre contemporaneamente doveva aggrapparsi alle schegge di metallo acuminate per non precipitare a terra, contando ogni secondo qualche graffio bianco che risaltava sulla pelle abbronzata.
 
Come una domatrice che cerca di non cadere dal dorso di un cavallo imbizzarrito, il suo numero circense non doveva servir solo a portare divertimento per la sua avversaria spettatrice, poteva giurarci che stesse contando i secondi prima che lei venisse sbalzata via.
Ebbe un'altra idea, in una situazione normale non l'avrebbe mai definita frutto della sua mente.
 
Incitò il Pokémon a planare spostandogli il muso verso il basso.
D'istinto Skarmory interpretò quello stimolo come ancora di salvezza e prese a scendere in velocità, sempre più veloce fendeva l'aria col suo corpo aerodinamico, costringendo la sua pilota a chiudere gli occhi e tenersi con tutte le forze.
 
«Va per il suicidio? - Alice si pose un'altra domanda all'apparenza retorica - Va per il suicidio...»
 
Quell'istante di forte tensione fu l'ultimo che le due ragazze poterono ricollegare: pochi istanti dopo, davvero impercettibili, nessuna riusciva ad intravedere neppure il volto dell'altra.
 
Erano entrambe a terra. 
Sia quella che vi si era scagliata contro di sua volontà, sia quella che già vi era.
 
La recluta del Neo Team Plasma non poté considerare sana quella strategia da kamikaze; la rossa aveva per davvero diretto il suo stesso Pokémon contro di lei per colpirla?
Più di questo però, odiava il fatto che il suo tentato suicidio avesse funzionato ed ora il suo Skarmory era bello che andato.
 
«...sei morta?» Sentì domandare.
 
Erano ancora sul ring, i tre corpi stremati giacevano su una conca profonda procurata dall'impatto.
Anemone si sedette distendendo le gambe, sbattendo un paio di volte le palpebre.
 
Si guardò i palmi delle mani, i gomiti, le ginocchia e le caviglie, scorticati secondo un disegno astratto di diverse sfumature di carminio, nei punti in cui non era ferita c'erano macchie di contusioni ben visibili.
Diede un'occhiata in giro e giunse allo stesso risultato analitico della sua avversaria.
 
«No, per tua sfortuna.» Non seppe dirsi né contenta né dispiaciuta nel ricevere tal notizia.
 
Alice ritirò il suo Pokémon nella sua sfera. Non c'erano problemi per lei, il Sangue del Drago non le aveva fatto percepire il minimo dolore, era come se le fosse arrivato un cuscino addosso invece di una bestia da chissà quanti chili.
 
O almeno, in teoria.
 
Rivolse uno sguardo omicida alla rossa: era veramente decisa a farla finita.
Afferrò una scaglia tagliente come una mannaia lasciata cadere dal suo Pokémon.
Avrebbe puntato alla gola. Non voleva dimostrare alla scientifica che aveva perso il suo tempo a sviscerare un individuo tanto patetico.
 
Anemone colse l'intento assassino e si spaventò. Non aveva di che difendersi ora.
La sua avversaria le sembrava invincibile, mentre lei ancora faticava a riprendersi dalla caduta.
 
Si alzò in piedi, come un poveraccio sorpreso a rubare di nascosto, scappò via ed inevitabilmente si trovò bloccata dall'altra parte del ring.
Vedeva la punta acuminata scintillare: respirò affannosamente, stringendo gli occhi per la paura.
 
Ma la recluta non accennava a raggiungerla. Non si muoveva neppure. 
In verità non l'aveva ancora uccisa perché non poteva proprio alzarsi.
 
Così vi fu un breve silenzio, in cui la rossa la fissava confusa, mentre questa non comprendeva come mai si trovasse ad avere tale difficoltà motoria pur non avendo percepito nulla.
 
E, come da copione, Alice scoprì sulle sue macerate ossa quanto quell'elisir dell'invincibilità non fosse stato altro che una gigantesca, enorme, grandissima fregatura.
 
«...Mi ha spaccato le gambe! Brutta idiota, che hai fatto, mi hai spaccato le gambe!»
 
Gridò quasi in lacrime. Provò a rimettersi in posizione eretta, ma sebbene non sentisse alcun dolore, le sue gambe non potevano obbedire, le ossa fratturate non le permettevano di sostenere il suo stesso peso.
 
Intanto la rossa aveva raccolto la Poké Ball del suo Swanna sfuggitale dalle mani. 
 
Sarebbe scoppiata a piangere per l'umiliazione, non si trattava solo del fallimento di una dannata missione, il suo orgoglio ferreo si era andato ad incrinare e poi spezzare come il ramo di un albero fracassato dal temporale.
 
Ora capiva la sete di vendetta dei cattivi dei film e dei fumetti, non era questione di successo, era tutto schiavismo dettato dalla sua superbia, la sua giovane età le aveva davvero dimostrato l'esistenza del karma, della provvidenza divina, della vendetta storica.
 
«Ah... Ops, scusa...»
Dulcis in fundo, Anemone le rispose con una dabbenaggine che solo lei era in grado di dimostrare.
 
Poi la vide voltarsi e uscire di corsa, probabilmente sarebbe andata dalla sua "fidanzata" a raccontarle tutto e a ridere di lei, come chiunque avrebbe fatto.
 
Non conosceva abbastanza a fondo Anemone, per sapere che non lo avrebbe mai fatto.
 
 
Una barriera sferica invisibile ed impenetrabile circondò un'area ristretta intorno alla giovane allenatrice, ella si godeva il prodigio delle sfere scure che si smaterializzavano al contatto con la superficie proprio come le bolle di sapone quando scoppiano.
 
Peccato che la mossa Protezione funzionasse solo per un limitato periodo di tempo.
 
Invece di perdere la calma o di manifestare sconforto, Catlina dispose di racimolare istanti per escogitare una continuazione al suo precedente piano, anche se, per via della fatica e del sonno incombente, non era più in condizione di temporeggiare.
 
Il cielo notturno fedelmente riprodotto sopra la sua testa e quella di Sabrina non aveva mai smesso di vorticare lento, le stelle ben visibili scorrevano come in un fiume d'acqua blu cobalto atto a lavare la distesa buia del soffitto: un'atmosfera onirica avvolgeva quel luogo.
 
Prima che nella sua mente confusa potesse affiorare il nome di una qualche costellazione si trovò a pregare che l'utilizzo prolungato della mossa difensiva per eccellenza non decidesse di fallire proprio in quel momento.
Non avrebbe accettato quella presa in giro da parte del fato.
 
Dette uno sguardo ai fugaci movimenti dell'avversaria, così lontana da lei, agli antipodi della stanza: neppure lei pronunciava ad alta voce i comandi per il suo Pokémon, forse era una cosa che tutti gli allenatori esperti del Tipo Psico facevano e lei non aveva alcun diritto di sentirsi unica per quello.
 
Sapeva che l'Alakazam della recluta puntava a lei, l'organizzazione del Team Plasma si era riappropriata della tecnica della battaglia violenta per sottomettere l'Allenatore al posto del Pokémon, dunque quella strana ragazza non l'avrebbe lasciata in pace finché non l'avrebbe vista al tappeto.
 
Era strano: pochi minuti prima parlava di principi morali, di etica. 
Come questi concetti potessero sposarsi con i piani di dittatoriale abuso del potere le era oscuro, a suo parere non esistevano filosofi che avessero incluso nei loro insegnamenti tale incoerenza di pensiero, né fra i primi pensatori greci, indaffarati alla ricerca dell'archè, né i monaci chiusi nei conventi ad analizzare i cardini della fede, non trovava esponenti di quella teoria neanche fra gli illuministi e gli psicanalisti di fine novecento.
 
Le pesava di non poter afferrare l'apparente profondità di quel messaggio. La biondina di Sinnoh aveva ricevuto un'educazione costosissima ma che le era praticamente scivolata addosso, o lei era una sempliciotta capace solo di ripetere a memoria le declinazioni in latino, o per davvero la filosofia del Team Plasma non aveva senso.
 
Camilla invece... Camilla sapeva un sacco di cose, puntualizzò nella foga.
 
Quando Nardo poneva loro delle domande sull'andamento delle loro tre compagne più giovani era sempre la leader quella che rispondeva per prima, mentre lei stava a fissarla come se un macigno le bloccasse la lingua. 
 
Poi la Campionessa leggeva, leggeva sempre. Ogni tanto le veniva la balzana idea di cominciare una conversazione con lei, ma la trovava sempre con in mano un tablet dallo schermo graffiato o il suo cellulare indistruttibile, allora si allontanava piano, per paura di causarle fastidio.
 
Chissà quante nozioni doveva aver appreso nel corso di dieci anni o più, si domandò.
Sapeva il Pokédex di Sinnoh e quello di Unima a memoria, mediante contorti trucchetti aritmetici ricordava il numero esatto dei danni inflitti da una mossa e in determinate occasioni si trovava perfino a correggerla con il suo tono gentile e disponibile.
 
Per quanto innocuo tutto ciò fosse, Catlina non poteva evitare di sentirsi a disagio nel ricevere quel tipo di attenzioni. 
Era una cosa insensata da dire o pensare per una che si era posta come proposito per quell'estate il voler dimostrarsi più adulta e matura.
 
La ragazza si sentiva esposta in maniera eccessiva, avere la pelle di carta velina amplificava il minimo sfioramento e la sola condivisione di una stanza con Camilla la rendeva nervosa.
D'altra parte vi erano momenti in cui la vicinanza con la suddetta le aveva provocato invece un leggero solletico al cuore, non avrebbe mai immaginato di rimembrare l'episodio dell'onsen con il sorriso sulle labbra.
 
La ragazza infine ammise a sé stessa di non aver mai provato quel sentimento prima d'ora.
 
Era qualcosa di più di un banale complesso di inferiorità, lei e la sua amica d'infanzia avevano condiviso talmente tante esperienza da aver abbattuto del tutto ogni genere di sciocco orgoglio.
Erano anni che le due non avevano nulla da dimostrarsi.
 
E se c'era una cosa, uno scudo che per Catlina era indispensabile per affrontare il mondo esterno era il suo scudo d'orgoglio e il velo di paranoica introversione che la copriva da capo a piedi.
Come Camilla avesse fatto breccia attraverso di esso... Non sapeva spiegarselo.
 
Ancora una volta, la biondina si vergognò di quei pensieri, non si sarebbe azzardata a confessare di essersi concessa un volo pindarico del genere nel bel mezzo di una lotta, e non una lotta qualsiasi.
 
Strinse gli occhi che le lacrimavano nelle palpebre, di fronte a lei vi era un marasma umidiccio che distorceva ciò che vedeva come in un caleidoscopio e contribuiva a farle venire mal di testa.
Ma quel suo delirio non scomparve appena lei dischiuse le palpebre.
 
Non riconosceva più neppure l'ambiente della sua stanza. Le stelle se ne erano andare.
Le colonne ioniche se ne erano andate. Perfino la pietra d'Istria su cui posava i piedi.
Macchie indistinte e sfocate avevano preso il posto dei colori, l'aria si era fatta dolciastra.
La ragazza tentennò nel mezzo di quella confusione.
 
«Che pensieri carini... Adesso siete pure diventata le- intendevo dire, omosessuale?»
 
Dunque era vero che la Capopalestra di Zafferanopoli leggeva nel pensiero.
Intanto la nostra eroina esitò, inferma nei propositi. Non doveva per forza rispondere.
 
«Deve essere lei allora. Starà usando qualche mossa che altera la dimensione dello spazio, come Distortozona...»
Rifletté, prima di venire interrotta.
 
«Che piccola presuntuosa. - Commentò la recluta da lontano - Mi avete già accusata dei vostri malesseri quella sera al casinò, non siete molto sincera con voi stessa.
Guardate, vi tremano le mani... Non avete affatto una buona cera.
 
Deve essere proprio brutto, insieme con tutti i mali che vi affliggono, soffrire anche di crisi epilettiche! Siete proprio una ragazza sfortunata.»
 
Catlina non riuscì a sentire le ultime parole della frase che il suono affannoso del suo respiro si arrampicava disperatamente per uscirle dalla gola e le aveva alzato la pressione.
 
Negli ultimi anni non le era mai capitato di avere due attacchi così vicini nel tempo e, vista la natura della situazione, trovò inutile ribadire a se stessa di doversi imbottire di farmaci.
Ormai la schiena le faceva già male, le pareva che i tessuti muscolari le si stessero strappando.
 
«Non farti prendere dal panico, Catlina Yamaguchi, non farti prendere dal panico che fai solo peggio...» Si ripeteva in testa, incurante del fatto che la sua avversaria la stesse ascoltando.
 
«Reuniclus usa...» Le richiese grande sforzo gridare il comando e questo suo primissimo tentativo fu comunque inutile.
 
Usando un attacco di tipo fisico Alakazam aveva sbattuto il povero Pokémon Cellula contro la parete di marmo, scavando un solco profondo qualche centimetro, mentre il verso straziato di esso riecheggiava nella stanza.
 
Ora la giovane senz'anima era letteralmente spacciata.
 
Poiché perfino l'aria sembrava schiacciarla, lei si accasciò a terra, reggendosi sulla mani e sulle ginocchia, sentendo di essersi procurata un nuovo paia di ematomi su ognuno dei due. Ora il suo intero corpo fremeva visibilmente, come scosso da presenze demoniache.
 
Chiuse gli occhi. Non pensò a nulla, volle concentrarsi solo sull'oscurità che la sottraeva dalla visione della sua dolorosissima fine.
 
Senza dar l'impressione di star traendo alcun piacere sadico dai suoi gesti, Sabrina si avvicinò alla fanciulla morente e la squadrò da capo a piedi.
 
Fece poi un cenno con la mano al suo Alakazam, il quale ne sollevò il corpo di almeno un metro da terra, come il boia che in un esecuzione pubblica mostra alla folla assetata di sangue il corpo dello sventurato nobile di turno che andava a finire sul patibolo su richiesta del popolo.
 
Notò che la signorina Yamaguchi era svenuta per la paura. Sorrise leggermente.
 
Poi attuò il suo vero piano: far soffrire la ragazza, riuscire a cavarle di bocca almeno un grido, non permetterle di mantenere intatto il suo prestigio fittizio fino all'ultimo.
Così fece segno al suo Pokémon di utilizzare Psichico, la mossa manipolatrice per eccellenza, e di romperle il collo.
 
Un crepito improvviso precedette la torsione involontaria, le vertebre dorsali scricchiolarono quali gusci di noce rotti, la vittima di tali abusi emise un gemito impercettibile per il dolore.
Ciò la svegliò e la tramortì, il suo sguardo fu diretto prima verso l'alto e poi verso sinistra in un ampia circonduzione non fluida, del tutto innaturale.
 
Le ossa si erano bloccate in uno strano e complicato incastro che il più piccolo dei movimenti avrebbe potuto trasformare in una frattura disastrosa. La bionda non si mosse.
Però i muscoli del collo e dell'addome le facevano un male tremendo, non poteva più sopportarlo già dopo i primi istanti; se le era lecito, non avrebbe aspettato di farsi uccidere lentamente, soffrendo da sola.
 
O peggio, sopravvivere a quell'incubo.
 
«...S-Spezzami la spina dorsale... - la flebile voce si era già rotta in un mugolio straziato - t-ti prego, fallo...»
 
Inspirò con forza attraverso i denti stretti. Era la fine. Rilassò i muscoli del volto e si pulì la coscienza in extremis, per guadagnarsi almeno il purgatorio.
 
«Neanche per sogno, signorina.» 
 
Sabrina abbassò in modo brusco il braccio verso il basso, la scorse mentre si voltava allontanandosi insieme al suo Pokémon con un aria per nulla turbata dall'omicidio in piena regola che aveva commesso. I suoi tacchi alti si avviavano verso l'uscita, trascinando la sagoma nera che li accompagnava con loro.
 
Catlina dilatò gli occhi verde acqua, nel disperato tentativo di mettere a fuoco il fotogramma che precedeva la sua dipartita dal mondo dei vivi, ma già non riusciva più a distinguere i contorni, poi solo grosse macchie dense le gravitavano di fronte al volto: ne riconobbe una verdastra e amorfa, doveva essere il suo Reuniclus; gli rivolse un sorriso brevissimo, per non farlo piangere.
 
Era distesa di schiena sul marmo freddo, tenendo le braccia attaccate al corpo tremante.
Non sapeva dirsi se il morire da sola fosse un ultimo favore concessole da Dio o la più triste delle miserie che le erano capitate nella sua breve e tormentata vita.
 
E sotto quel cielo stellato, i lunghi capelli biondi della ragazza si tinsero di un rosso cremisi, che presto arrivò a colorire anche la pelle del viso, bianca come il velo di una vergine.
 
 
«Beartic, usa Purogelo.»
 
Una frazione infinitesimale di tempo divise il rimbombo del nome della mossa fatale dalla violenta e brusca dispersione nell'ambiente di una coltre bianca di ghiaccio, essa si propagava attraverso il pavimento e le pareti, ma il freddo era addirittura tangibile nell'aria.
 
Come investita da un'onda tsunami, la ragazzina non poté far nulla per proteggere se stessa.
 
Finì sbattuta per terra, la neve le graffiava la pelle e la sentiva infilarsi negli anfratti del suo vestiario tutt'altro che invernale, rotolò rasentando la terra e a fermarla riuscì solo un impatto sgradevolissimo con il fusto di una colonna.
 
Iris non aveva neppure chiuso gli occhi: la spaventava troppo l'idea di perdere i sensi e di risvegliarsi in qualche pericolosa situazione, oppure di perdere i sensi e non risvegliarsi più; attualmente si trovava lontana una decina di metri dalla sua avversaria e questo le portò un minimo sollievo.
 
Questa aveva appena usato Purogelo, una di quelle mosse che, come Abisso e Ghigliottina, garantiva una vincita sicura qualora andasse a segno, cosa molto difficile. 
A scuola farcivano la testa dei bambini ripetendo loro che per questa infame caratteristica sono proibite nei tornei ufficiali, che tanto ad un bravo Allenatore non sarebbero servite, visto che la probabilità di fallimenti era assai elevata, vista la scarsa precisione.
 
Alla giovane balenò subito in testa il giorno in cui Camilla e lei facevano pratica nel colpire i bersagli e di come perfino la Campionessa non potesse fare a meno di mancarli.
Georgia era una ragazza dotata di mille qualità, ci mancava solo che fosse anche esperta nelle lotte: ma a cosa serviva tutto ciò se alla fine il suo genio era maligno e depravato?
 
Prima cosa, Dragonite era ricoperto da una farinosa brina candida, adagiato sul terreno come un cucciolo assonnato qualche metro lontano dalla sua allenatrice. Era esausto.
Iris prima di notarlo lì dov'era aveva invano sperato che si fosse dato alla fuga nel cielo buio, che si fosse messo in salvo volando via con le sue piccole e tozze ali.
 
Ogni attacco glaciale è micidiale per i Pokémon Drago. Ed anche la ragazzina dai capelli viola ne rimase quasi sopraffatta.
 
Si alzò in piedi dovendosi appoggiare; non sentiva più le dita nelle scarpe zuppe di acqua, le facevano perfino male se si azzardava a muovere un passo. 
La sua cute abbronzata, abituata al caldo sole che irradiava la regione in quei mesi, ora si era rattrappita a contatto con lo yukata dal tessuto irrigidito, aveva la pelle d'oca in ogni centimetro del corpo e le stava causando perfino un forte dolore allo stomaco.
 
Richiamò Dragonite nella Poké Ball e poi si rivolse alla recluta dai capelli magenta.
 
«G-Georgia... Ascoltami, non dobbiamo per forza combattere...»
 
Mentre lo faceva tremava, batteva i denti, era la sua spiccata sensibilità al freddo a congelarla nei movimenti.
Tentò di avvicinarsi a lei nel timore che non riuscisse a sentirla, ma non poté evitare di scivolare sulla pietra levigata coperta da uno spesso strato di ghiaccio, cadendo rovinosamente.
Eluse del tutto lo sguardo della sua coetanea, i cui occhi le ricordavano solo dal colore quanto tutto ciò avesse avuto luogo per una ragione precisa.
 
Georgia sospirò e si portò più vicina senza alcun impaccio, con la scioltezza di un ninja.
«Fai proprio schifo, non è divertente lottare con te.»
 
Iris per tutta risposta le ripeté la stessa frase con una vocina acuta in segno di sprezzo.
Poi le rivolse queste parole, annebbiando l'aria di fronte alla sua bocca con la condensa.
 
«Come fai a divertirti così? L-La regione di Unima, vuoi che cada di nuovo nelle mani del Team Plasma... T-Tu, tu hai qualche problema... Fraxure, vieni fuori!»
 
Si dice che ai matti, agli psicopatici bisogna dare sempre ragione, non svegliare i sonnambuli e a chi delira non va mai spiegato nulla. In quel caso però, Iris non si permise di star ferma.
 
«Vuoi farmi fuori con quello sputo di Pokémon?» Rimarcò Georgia.
 
«Fraxure, Cannonflash.» Ordinò lei a denti stretti, impassibile davanti a quella provocazione.
 
«Intercettalo con Slavina, Beartic. Poi attacca con Frana.» Si sistemò il cappello nero.
 
I due Pokémon si stavano scontrando e le due fanciulle si trovavano nello stesso campo di guerra figurato di Greci e Persiani alle Termopili, dei Romani contro i barbari sul confine, come Giapponesi e Portoghesi al porto di Kanazawa. 
Due eserciti schierati, ognuno con il suo bagaglio di ideali, fortezze e debolezze personali, nessuno dei due disposto a lasciar cedere tali valori per sostituirli con altri, di stirpe empia.
 
«Fraxure, schiva la frana e poniti davanti a Beartic! - Iris riprese il contatto visivo con la leader delle reclute - Anche se ci uccidete tutte, appena sarà giorno potete dire ciao ciao al vostro piano malefico...»
 
«E perché dovremmo? - Georgia non si scomodò nell'emulare lo stesso pathos - La popolazione di Unima è abbastanza stupida da credere che tu ti ci sia buttata da sola contro il Neo Team Plasma.
Qui tutti credono a quello che leggono sui giornali e vedono in tv, possiamo dire quello che vogliamo e fare quello che vogliamo, abbiamo il controllo su ogni aspetto sociale della regione.»
 
«Peccato che questa sia anche la tua regione!» Ribatté.
 
Fraxure colpì con forza il muso del Pokémon orso, costringendolo a torcere la mascella e indietreggiare. La zanna affilata del drago era una specie di prolungamento del braccio di Iris, se solo avesse potuto colpire la leader di quel team di squilibrati.
 
Non le avevano insegnato niente i libri di storia, quanta strada avesse fatto Unima per guadagnarsi la sua indipendenza? Non l'avrebbe lasciata parlare così male della sua regione.
 
«Beartic, usa Scagliagelo e finiamola qua. Mi sono rotta di sentire questa bambina parlare come se avesse vent'anni. - Georgia incrociò le braccia sotto il petto, rivolgendole uno sguardo malevolo da qualsiasi lato lo si guardasse - Ti fanno questo effetto le tue amichette lesbiche?
 
Ti fanno sentire così importante? 
Che carine, una più stupida dell'altra, e tu sei quella più stupida di tutte perché creperai per prima!»
 
«Davvero, davvero vuoi tutto questo? - Fece una pausa. La fissò, dritta negli occhi - ...Andando avanti così rimarrai per sempre sola.»
 
La ragazzina dagli occhi color nocciola cercò di allontanarsi subito, stava scappando da dei proiettili vaganti in mezzo alla neve, un vero scenario dal fronte durante la guerra mondiale, ci mancava solo che oltre a prendersela con lei quella pazza in nero volesse far del male pure al suo neo-evoluto Fraxure, prendendo di mezzo pure la creatura più innocente su quel campo di lotta.
 
Le fece uno strano effetto scoprire che la voce di Georgia, quando quella rivelava i suoi veri colori, riusciva a superare in acutezza anche la sua. Quando erano uscite insieme aveva un tono basso e suadente, anche quando cantava era così.
 
Le fece male ripensarci, mentre apriva le braccia per proteggere il suo Pokémon usando come scudo il suo gracile corpo già indebolito dal gelo.
 
Il ghiaccio tintinnava ogni qualvolta colpiva le pareti lastricate e le incisioni rudimentali sui muri, i luoghi di appostamento per difendersi dalle schegge appuntite erano talmente pochi da potersi contare sulla punta delle dita.
 
Si chinò a terra sperando di uscirne indenne pure quella volta. Aspettò immobile, per paura che perfino il minimo spostamento d'aria, anche se avesse solo respirato, una grossa stalattite le avrebbe trapassato la cassa toracica, bucandole il cuore da dietro.
 
Ma non poteva affatto concepire un cuore più spezzato del suo in quel momento.
 
«Ma che hai stasera?! - Quella voce intensa fece di nuovo breccia nelle sue orecchie, la recluta alfa si stava riferendo al suo Pokémon - Non ne becchi una, e io mi sto cominciando a...»
 
Georgia si interruppe. Iris poté intuire che i suoi occhi freddi avessero ingaggiato una gara di sguardi coi suoi, si rialzò e si rimise in posizione eretta. 
Tuttavia, i suoi occhi erano l'unico punto in cui non riusciva a concentrare lo sguardo.
 
Come a riprendere il tutto con una cinepresa fece una carrellata lenta e meticolosa sul torace, ancora coperto dal top nero aderente: andare al di sotto le fece storcere il naso in maniera abbastanza visibile.
 
«Oh?! Che cosa guardi?!» La riprese la giovane, irritata.
 
Senza neppure starla a sentire, Iris strinse ancora di più il suo Pokémon al suo grembo, finendo per graffiarsi gli avambracci sulle scaglie ruvide.
Fece un piccolo passo indietro.
 
«Beartic, - non potendo comprendere quello strano comportamento, Georgia alzò ancora di più il volume - falla fuori. 
Falla fuori, ora!»
 
Neppure il Pokémon di tipo Ghiaccio si mosse. Sembrava che il tempo si fosse arrestato per permetterle di osservare, di osservarsi per la precisione, e capire cosa le fosse successo.
 
«Georgia...» Disse piano, affannosamente.
 
Iris si mise la mano davanti agli occhi e si voltò schifata, non reggeva più quella vista terrificante: era abituata a guardare film horror insieme a Velia ogni tanto, non si spaventava più ormai, sapeva che era tutto finto. 
In quel momento però si sentiva perfino l'odore, era orrendo.
 
Infine deglutì con forza, sentiva un conato di vomito risalirle l'esofago per il ribrezzo.
 
Le puntò contro l'indice con fare recidivo, in direzione discendente.
A quel punto la ragazza dai capelli fucsia abbassò gli occhi. 
 
Iris la vide portarsi le mani alla bocca, mentre cercava di soffocare un urlo degno di un quadro espressionista, balzò perfino indietro, come a volersi scindere da quel corpo che la spaventava così tanto.
 
La neve bianca sotto le sue scarpe si era colorata di un vermiglio acceso, ancora caldo le scorreva lungo le gambe bianche solcandole con vene diramate in mille piccoli capillari rossi.
La gonna era fradicia e l'intensità di quel color rubino aumentava man mano che il flusso diventava più fitto, come il fiume Flegetonte.
 
Una stalattite grossa quanto una lancia e appuntita quanto un pugnale aveva trafitto in pieno la pancia della giovane leader e si stava sciogliendo piano piano dentro le sue interiora.
 
Il sangue dunque diventava sempre più liquido e viscoso, grondava fitto lungo il tronco della ragazza fino a rapprimersi sulle sue scarpe, incapaci di muoversi ulteriormente.
Sembrava per davvero una punizione divina, mentre Georgia emetteva gemiti raccapriccianti che non riuscivano ad attraversarle le labbra per lo shock.
 
Subito la ragazzina si chiese per quale ragione ella non si fosse neppure accorta di una ferita di tali dimensioni, ma ancora ignota le era la ragione per cui il dolore del tutto non le avesse dato il minimo sospetto. 
 
Il Sangue del Drago era diventato sangue umano quella notte.
 
Quando quella si toccò con le mani e le vide tinte di rosso come quelle di un assassino, Iris provò a parlarle mettendoci tutta la risoluzione e il coraggio rimastole: c'era ancora una possibilità di salvarla. 
 
«C-Calma, okay? P-Posso avvisare la mia leader, n-non ti farà niente, tranquilla, e chiamiamo un'ambulanza, ti giuro, non devi preoccuparti...»
 
«Vattene! - le gridò, esasperata - Vattene, idiota!» 
 
E non riuscì ad portare a termine il discorso.
Il suo Beartic cominciò ad attaccare alla rinfusa, condividendo lo stato di trauma della sua allenatrice: alla giovane non rimase altra scelta che la fuga, ora che ne aveva la possibilità.
 
Ma indugiò un attimo. Lasciare una ragazza mezza morta in preda ad una crisi non rientrava nel suo prezioso codice etico. 
 
Però non ebbe scelta. 
La lasciò, correndo verso l'uscita, sperando di poter tornare a riveder le stelle dopo quell'inferno.
 
Urlava, agonizzante per la disperazione, stava invocando un qualcuno per salvarla, un qualcuno che non sarebbe mai giunto. Georgia ora poteva tastare sui suoi polpastrelli il sangue, si passò le mani sul volto per asciugarsi lacrime miste a sudore acido ed imbrattò anche i capelli, le guance.
 
«Se vai avanti così - riecheggiò questo pensiero nella sua mente - rimarrai per sempre sola.»
 
Alzò gli occhi al cielo, l'ultima persona che le avrebbe dimostrato compassione per il suo intestino squartato e per l'insuccesso della missione sarebbe stato Ghecis Harmonia.

 
Nell'androne principale della Lega cinque sagome si ricongiunsero meste, sembravano gusci vuoti animati solo dalla consolazione di essersi riconosciute nonostante il loro aspetto falsato.
Almeno erano tutte e cinque, all'appello però mancava qualcosa.
 
Nessuno ritorna indenne dalle battaglie: chi senza un occhio, chi con una gamba in meno, chi con una delusione in più, chi senza un pezzo di anima.
 
Iris rabbrividì, nonostante l'ambiente ghiacciato ormai lo avesse lasciato alle sue spalle continuava a sentire freddo, anche in piena estate la sensazione di congelare la perseguitava.
Camminava tenendo le caviglie rigide, per paura di spezzarsi i geloni.
 
Ora lo scuro mantello della notte era squarciato da numerosi bagliori, luci artificiali bianche, rosse e blu, poi un brusio insopportabile si mescolava alle mille impressioni che si stavano imponendo nella sua memoria, lasciando tabula rasa degli attimi precedenti.  
Un sacco di persone la continuavano a toccare, a girarle la testa e la costringevano a guardarli negli occhi e le facevano domande e pretendevano che lei rispondesse.
 
Avrebbe voluto chiedere a Camilla cosa fare, ma era voltata altrove.
Dopo poco la raggiunsero anche le sue compagne Capopalestra, vicine l'una all'altra.
 
Un'ambulanza, la riconobbe in lontananza mentre qualcuno le chiedeva insistentemente dove fossero i suoi Pokémon e in che condizioni si trovavano, la ragazzina glieli cedette alla svelta pur di racimolare un ulteriore squarcio di cosa stesse succedendo in realtà.
 
Si aggrappò al suo yukata sporco e bagnato, tirando sù col naso e dilatando le pupille.
 
«Oddio, Catlina...» Mormorò sconvolta.
 
Lei credeva di aver toccato il fondo affrontando da sola la leader del Neo Team Plasma, la recluta prediletta dal capo, l'amica pericolosa esente però da ogni suo sospetto.
Quella fu la prova schiacciante che a tutto c'è un peggio, una sua compagna, con cui condivideva lo stesso tetto da un mese ormai era finita in ospedale per colpa di chissà chi: le si gelò il sangue.
 
E a proposito di sangue, quella visione spaventosa, di una ragazza ricoperta di esso da testa a piedi, quella la aspettava nei suoi incubi peggiori, ogni notte d'ora in poi.
 
Ancora traumatizzata da quell'esperienza tremenda, non proferì parola lungo il tragitto verso casa di Nardo, non che le sue compagne fecero diversamente. Lo vedeva dai loro volti che di sicuro avevano tutte qualcosa da raccontarsi e nessuna sperava davvero di dover stare a sentire.
 
Quando l'alba sarebbe giunta ed il sole sarebbe sorto, tutta la regione di Unima avrebbe dovuto ascoltare controvoglia una storia di violenza, di inganno e di tradimento.
 
Addirittura i draghi guardiani avrebbero preferito giacere quiescenti nelle profondità della terra piuttosto che udire di una nuova minaccia alla salvezza della loro terra, il ritorno inaspettato del Neo Team Plasma, più forte di due anni prima, più spietato che mai.

 

 

Behind the Summery Scenery #16

1. Grazie innanzitutto per aver votato Catlina per farla inserire nella lista dei personaggi! Siete fantastici, non so come ringraziarvi. Anzi, lo so, perché oggi non vi fate un 2x1 e vi leggete anche il prossimo capitolo?

2. Il titolo è una citazione di Alessandro Magno, che pronunciò poco prima di morire ferito da una freccia in battaglia. Povero Ale.

3. E povere antagoniste! Io di norma non sono un'appassionata della violenza e del gore (tranne quando c'è di mezzo la mia prof di matematica) e infatti mi sento di aver esagerato... Ammiro la freddezza degli scrittori horror.
Ora vi sfido ad aspettarvi che le 5 cattivone siano morte, dopo i sensi di colpa che mi sono venuti.

4. Ma quanto adoro Alice e Jasmine che interagiscono così, lol. Scommetto che se avessi scelto degli OC da mettere nel Neo Team Plasma avrebbe fatto schifo. Invece così è tutto più un mindfuck.
Sì, questa storia è un unico grande mindfuck.

5. Per i miei capitoli 15-16 mi sono l a r g a m e n t e ispirata agli episodi 5-6 dell'anime Senran Kagura Skirting Shadows. Infatti Iris vs Georgia èun po' come Asuka vs Homura: la prima le prende per tutto i match, ma non va a tappeto, l'altra la chiama indegna del titolo che andrebbe a ottenere e la buona le ricorda che il potere dell'ammicizzia e della vagina tm sconfiggerà il male. Un giorno. Si spera.

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Capitolo 17
*** Inseguitrice di sogni senza speranze ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 17

Inseguitrice di sogni senza speranze

 

Se esiste un posto capace di mettere le persone a disagio indipendentemente dalla loro condizione interiore, dalla loro personalità e dal loro rango sociale, sono gli ospedali.
 
Nessuno desidererebbe mai trovarvisi di propria volontà, soprattutto chi non è lì per farsi curare. È un luogo di tristezza perenne che aleggia nell'aria ed invade lo spirito.
 
Almeno questa era l'impressione che l'acre odore di disinfettante e gli sguardi ammattiti degli inservienti avevano lasciato alle quattro ragazze, del tutto spaesate.
 
«Voi, ragazze, - una giovane infermiera accompagnata da un esemplare di Audino le approcciò con gentilezza - potete anche andare a casa.»
 
La stessa poi aspettò che le giovani allenatrici obbedissero, ma non si decidevano a smuovere le loro espressioni di marmo, preoccupate e meste per una ragione assai lecita.
Dunque, l'infermiera sospirò ed aggiunse.
 
«La vostra amica però... Dovrà restare qui. Per un bel pezzo, immagino...»
 
«Possiamo almeno vedere come sta Catlina? Poi ce ne andiamo, promesso.»
La pregò la rossa, facendo trasparire il suo buon cuore.
 
«Sarebbe parte del segreto professionale, - cominciò la donna, ma intanto il suo Audino aveva sollevato le veneziane che garantivano la privacy nella sala operatoria del reparto di terapia intensiva - però basta che fate presto.»
 
Quella che si tenne il più distante possibile dal vetro fu Iris, dissuasa dalle esclamazioni di penoso orrore delle sue compagne più grandi, anche se alla fine non resistette alla curiosità.
 
La stanza era in penombra, nonostante il giorno fosse sul fare. 
L'ambiente era tutt'altro che spoglio, alle pareti, sui tavoli, dappertutto vi erano macchinari di diverse dimensioni e di cui non riusciva ad individuare le funzioni rispettive.
Al centro vi era il lettino elettronico, lo schienale posto ad una specifica angolazione per evitare il soffocamento della giovane distesa su di esso, immobile come una salma adagiata sulla sua bara.
 
Eppure, se uno riusciva ad ignorare la fasciatura di garza bianca che bendava il suo capo, l'ingombrante maschera posta sulle sue labbra, i molteplici aghi che si districavano dalle sue braccia, se uno fosse stato in grado di chiudere un occhio perfino sulle ventose attaccate al suo petto simili a sanguisughe, sembrava che la povera Catlina stesse, come era solita, semplicemente dormendo.
 
I lunghi capelli biondi scendevano morbidi sul cuscino, Iris si domandò se avessero mantenuto il loro peculiare profumo di vaniglia. Subito rimpianse l'aver assistito a quella scena.
 
Tutte le aspiranti Campionesse rimasero senza parole, finché Camilla non si costrinse a chiedere quello che tutte desideravano sapere inconsciamente.
«Cosa le è successo?»
 
«Ha avuto un trauma cranico piuttosto brutto. - L'infermiera cercò di spiegarsi il più chiaramente possibile - L'osso si è fratturato e le ha lesionato la parete celebrale dell'encefalo ed ha causato pure una commozione abbastanza grave.
Ha anche una vertebra rotta e due distorte, potrebbero esserci complicazioni a livello spinale.
Dobbiamo ancora completare le analisi, e purtroppo la aspettano un paio di operazioni piuttosto dolorose...»
 
«Catlina è abituata a questo genere di cose. Non si fa spaventare facilmente, lo so per certo.»
 
La interruppe con fermezza la leader del gruppo. Aveva avuto una premura nel precisarlo quasi anormale, tutte le altre tre si interrogarono sul senso di quell'affermazione.
Camelia accarezzò la spalla della bionda per tranquillizzarla, ripetendole di calmarsi con un forte sconforto nella voce.
 
L'infermiera poi richiuse le tende, lasciando la giovane aristocratica in compagnia solo dell'elettrocardiogramma e del debole bip che esso emetteva a intervallo regolare.
 
«Appunto, Campionessa Kuroi. - Disse quella - Proprio perché ci sono già stati altri episodi simili in passato ora sarà tutto più doloroso per lei.»
 
Dopo averle lasciate sole, Camilla si dimostrò eccessivamente riluttante nel lasciare l'ospedale.
 
Si osservò la fasciatura intorno alla mano sinistra, sotto di essa la pelle era rimasta annerita e macerata, come quella del comandante romano Muzio Scevola, solo al contrario.
Immaginò quell'ustione di primo grado estendersi in tutto il suo corpo, divorandone la bellezza e seccandone ogni traccia di giovinezza: strinse le palpebre in segno di ribrezzo.
 
Come aveva potuto permettere che una delle ragazze che Nardo le aveva affidato in custodia al pari di delle sorelle minori venisse massacrata in maniera così brutale, senza rendersene conto?
E dire che non poteva neppure vedere Catlina come una sorella minore, nel modo in cui vedeva Iris, Anemone e Camelia: lei era la sua sorella gemella.
 
Tutte le bambine ricche o comunque benestanti sono solite desiderare una sorella, una compagna di giochi per rendere più eccitante la quantità industriale di tempo libero a loro disposizione.
Neppure la consapevolezza di essere un semplice trastullo, un oggetto da compagnia, riuscì a distogliere la donna dalla tenera preoccupazione che le rodeva l'animo.
 
Non aveva alcuna prova materiale che potesse confermare ciò che aveva detto poco prima sulla fortezza della sua compagna di Sinnoh. 
Come già sappiamo, le due non si vedevano da ben dodici anni.
 
In quel lunghissimo decennio Camilla non aveva mai sentito la mancanza di quella ragazza come la sentiva ora, quando ella riposava in un sonno a tempo indeterminato.
Nonostante fosse sempre così riservata, silenziosa ed asociale, la sua assenza la faceva rabbrividire.
 
Aspettò di tornare a casa di Nardo, di lavarsi e di distrarsi per dimenticare tutto, ma non fu affatto facile per lei. 
Provò ad addormentarsi, sperando di incontrare la biondina nel suo stesso sogno, magari.
 
Chissà se molte cose fossero cambiate. 
Chissà se Catlina fosse invece rimasta la stessa persona che conosceva lei.
 

 
 
Faceva freddo.
In quel posto faceva e non faceva freddo, perché quel posto era e non era allo stesso tempo.
 
Negli anfratti più viscerali della mente umana di ogni individuo vi dovrebbero essere dei neuroni malfunzionanti; cellule che sfuggono alle regole della ragione e si imbevono di informazioni strane, in apparenza superflue, dimenticabili, come spugne intinte nell'aceto.
Quando esse giungono alla bocca però, al loro padrone spetta di assaggiare la dolcezza, l'amarezza, la velenosità del ricordo intrappolato là dentro.
 
Finché la mente dorme, essa rimane vulnerabile. Il sonno della ragione genera mostri.
In quel pozzo senza fondo, un soggetto percepiva una luce eterea, troppo forte, o forse troppo bianca. Puro bianco latte, il colore più neutro che l'occhio può percepire.
 
Se quindi vi è un io che pensa vi è esistenza, esperienza. Il bianco accompagnò al silenzio di quell'utopia voci senza volto, ma di cui si poteva riconoscere il mittente.
Non vi era nessuno lì però.
 
«Sì, è stato solo un incidente... 
Incidente... Incidente... Incidente... Incidente...» Ripeteva all'infinito.
 
L'anima rinchiusa in quel limbo pretese di possedere una corporalità, di occupare una posizione in quello spazio per darsi almeno due o tre coordinate topologiche: era in piedi, seduta, distesa?
Di fronte a quello che si stagliava avanti a lei, quello che presunse essere il campo visivo, passò una mano che si fermò al centro dello stesso: strinse l'arto, scoprendolo mosso dalla sua volontà.
 
In seguito provò a toccarsi con le mani, tuttavia non ricevette alcun feedback tattile.
Tutto sembrava fatto di aria: la sua pelle, i suoi capelli, il terreno su cui camminava.
A proposito di quest'ultimo, provò a muovere dei passi, trovandoli lenti e faticosi.
 
Quel posto era pieno d'acqua. Guardando verso il basso, le arrivava alle ginocchia.
 
«Potrei essere diversa, sarebbe bello se... se...
Le altre ragazze... Le altre ragazze... Così carine... Così carine...»
 
Quelle parole avevano, in mezzo a quel marasma, uno spazio e un luogo: l'onsen.
E tutto allora ne prese la forma, il perché non lo sapeva, ma ora quello spettro vagante si trovava lì, a casa di Nardo, anche se tutto appariva sbiadito, a tratti offuscato.
 
Sembrava quasi che oltre un certo confine quel mondo scomparisse e l'infinita distesa di bianco nulla riprendesse ad espandersi. Abbassò di nuovo lo sguardo, appena un'altra voce si presentò.
 
«Avevamo sei anni... Sei anni e... e... E perché sono qui?» 
«Catlina, dovresti presentarti anche tu...»
 
Appena l'anima rivide il tanto odiato riflesso del suo corpo pallido sulla cresta dell'acqua, si strinse nelle spalle per lo spavento. Cominciò a chiedersi spiegazioni, a farsi domande, senza parlare per davvero, mentre la voce in fondocampo, la sua voce, discorreva per conto suo.
 
«Sono sicura che queste ragazze sarebbero molto contente di conoscerti.» Udì.
 
«Sono io? Sono viva?» Domandò, insistendo.
 
«Sono Catlina Yamaguchi-Hāto...» Si rispose, pensierosa.
 
«Ho freddo... Perché ho freddo? - osservando meglio l'immagine, era così poco sconvolta da sorvolare anche questo piccolo particolare - Ah, giusto, non esisto...»
 
«Siamo amiche d'infanzia... Siamo amiche d'infanzia... Siamo amiche d'infanzia...»
 
Quest'ultima frase la lasciò di stucco: non era la sua voce. 
Almeno, lei non si riconosceva in quel tono così profondo, caldo e confortante. 
Ci doveva essere qualcun altro a farla sentire meno sola.
 
Catlina cercò di avanzare nell'assoluto in cui era bloccata, non percependo movimenti, neppure respirare le sembrava possibile, ma non si arrese e seguì la voce.
Nonostante quell'ambiente le fosse del tutto estraneo, riusciva poco alla volta a riassemblare i pezzi di memoria che vi aveva seminato per dare un senso logico al proprio agire.
 
E dopo un tempo che nessuno orologio, nessuna clessidra o meridiana avrebbe mai potuto contare, le parve di vedere qualcosa. Qualcuno. 
Qualcuna.
 
«Catlina... Catlina... Hey...» La chiamava piano, lieta.
 
Svestita del tutto come lei, un corpo muliebre che stava lì in piedi a pochi passi, con la testa voltata altrove, pur sapendo di aver approcciato con successo la giovane del suo interesse.
Conscia di non essere più sola, la ragazza si coprì il seno rotondo con le mani, in preda all'imbarazzo.
 
Le era bastato scorgere i lunghi capelli biondo grano fluttuare in un vento immaginario per riconoscere chi fosse riuscito ad entrare in quel mondo inaccessibile a tutti se non a loro due.
Catlina tremò e volle allungare un dito per provare a toccarla.
 
«C-Camilla? - sussurrò, picchiettandole sulla spalla, timorosa - Sei tu?»
 
«Sono io, sono io, chi credevi che fossi?» Straordinario che le rispose, porgendole inoltre i suoi due occhi argentei, con le stesse sfumature di quando la vedeva dal vivo.
 
Quella frase, come tutte le altre sentite finora, ci metteva qualche secondo a lasciare le orecchie della ragazza, quella specie di conversazione procedeva lenta.
«Chi credevi che fossi? Camilla... Tu sai dove siamo? Forse, lo sai?»
 
«Dove siamo? - ripetere le domande forniva alle due tempo per pensare ad una risposta adeguata - Non importa dove siamo.»
 
«Ma siamo sole qui? Solo noi due?» Catlina suonava molto più preoccupata ora.
 
«Non farti altre domande: tutto quello che vuoi sapere lo vedi tu stessa. Non puoi far entrare qui dentro qualcosa che non vi appartiene. Quindi non chiedermi nulla.»
La bionda si espresse con tale durezza da far spaventare la compagna, senza che quella ne facesse un dramma però.
 
«S-Scusa. - Poi riprese più calma, dicendo ciò che rifletteva il suo stato d'animo veramente - S-Si sta proprio bene qui.»
 
«Concordo! - Esclamò gaio l'ectoplasma di Camilla - C'è silenzio.»
 
«Sì, è vero...» Affermò l'altra.
 
«E ci siamo solo noi due, nessun altro, niente può succederci finché siamo qui...» Aggiunse.
 
Catlina provò a guardarsi intorno, ma già cominciava a perdere le sue coordinate geografiche, intenta com'era nel focalizzarsi sull'immagine luminosa ed effimera, quali i santi nelle rappresentazioni pittoriche, della sua cara amica d'infanzia.
 
Aveva ragione Camilla. Non era in dovere di conoscere la locazione di quel posto.
A nessuno, del resto, è lecito sapere dove si trovi il Paradiso. Perché lei era lì, lì e basta.
 
Le parve di provare una febbrile eccitazione, al pensiero di essere capitata in un universo il quale corrispondeva alla perfezione, all'ideale di cui in vita non aveva mai avuto neppure un assaggio.
Silenzio. Vastità. Semplicità. Vuoto. E Camilla Kuroi.
 
Neppure il suo respiro faceva rumore lì e la sua esitazione non sembrava neppur vagamente disturbare la donna dalle morbide curve appena tratteggiate.
 
Secondo un certo filosofo, dove vi è vita non vi è morte, ma allo stesso tempo, quando una persona lascia in maniera definitiva le spiagge dei mortali è infine libera dal peso soffocante impostogli dall'esistenza. Per tutta la durata dei suoi quattro lustri, la biondina aveva vissuto nascosta; ora invece la luce del sole la invitava ad uscire allo scoperto e rivelare i suoi veri sentimenti.
 
Ricambiò il dolcissimo sorriso, in quella vallata della felicità niente le avrebbe proibito di vedersi in continuazione bella, giovane, raggiante. In seguito approcciò la figura di fronte a lei, tentò di gettarle le braccia al collo per abbracciarla ed accettare la sua condizione di fortunata sonnolenza.
Lo avrebbe fatto volentieri.
 
Il volto dell'altra si era mosso un poco, intravide i denti bianchi appena ella dischiuse le labbra in segno di gradimento. Aveva perfettamente senso e il suo cuore batteva all'impazzata.
Altro che tre mesi d'estate... Ora a lei e Camilla restava un'eternità intera da vivere insieme.
 
La giovane aristocratica sospirò però, in segno di delusione.
 
Poi subito le venne quasi da piangere.
 
In quel mondo parallelo si sentiva sempre più emozionata, avvolta in un climax talvolta ascendente, subito dopo il contrario, non era mai stata abituata a questi cambiamenti repentini e ciò la scoraggiò.
 
«Camilla... Perché non posso toccarti? Perché le mie mani ti trapassano? Perché...»
 
La suddetta, impassibile, esalò una voce a dir poco flebile, senza muovere un muscolo.
«Perché... Perché, tu vuoi restare con me qui. Anche se non puoi toccarmi, tu vuoi restare qui...»
 
«Sì, sì che lo voglio, - esasperò la bionda - Voglio stare qui, proprio qui con te, ma...»
 
Più cercava anche solo di afferrare un lembo di pelle della mistica entità cosi somigliante alla sua amica, più i suoi gesti sembravano vuoti e privi di senso, tanto che non le sembrò affatto necessario possedere un corpo e delle mani, era solo un maledetto supplizio di Tantalo.
 
«Ma...» La vista le si offuscò.
 
«Carissima... Io non appartengo a questo mondo. 
Al tuo mondo dei sogni. 
Io sono reale. Non ho modo di esistere davvero qui. Mi dispiace.»
 
Andò alla ricerca disperata di conforto negli occhi di Camilla. Non vedendo pure quelli, si impanicò.
Il chiarore del derma si era fatto folgorante, uno ad uno i lineamenti perdevano consistenza ed annegavano in quel mare di luce fastidiosa.
 
«Camilla... Camilla...» La richiamò, più forte.
 
Aggiunse ai precedenti altri gesti scoordinati delle braccia, per riuscire a cogliere almeno l'essenza ed evitare che essa sparisse nel nulla, invano. Era tardi.
Ogni singolo contorno di figura aveva perso la sua nitidezza, trasformando la linea del corpo in una macchia inguardabile, senza forma, uno spettro paurosamente acciecante.
 
Fece per allontanarsi, non avendone però il fegato. Rimase lì, alla ricerca di una traccia di Camilla.
Ma prima di dissolversi del tutto, le giunsero solo queste ultime parole.
 
«Catlina, non vuoi che restiamo insieme per sempre?
Per sempre... Per sempre... Per sempre...
Per sempre...»
 
La giovane di Sinnoh rimase inerme, voleva chiudere gli occhi per difendersi dalla luce infernale che la circondava e non poteva, ormai che quel meraviglioso silenzio si faceva sempre più irrecuperabile, sentiva suoni indistinti, forti e stranianti.
Era troppo spaventoso per lei da reggere.
 
«Per sempre... Per sempre... Per sempre... Per sempre...»
 
«Camilla... Mi avevi promesso che saremmo state insieme per sempre...
Mi avevi promesso... Per sempre... Insieme...
Camilla...»
 
Decisa a non rimanere un secondo ancora in quella stanza delle torture, alla debole e sfinita aristocratica di una regione lontana rimase solo una possibilità di salvezza, prima che anche lei venisse assorbita dal nulla e il suo ricordo si dileguasse in esso.
 
Disse addio, col cuore spezzato, all'utopia in cui credeva di potersi rifugiare, si maledì per averci seriamente creduto, aveva dimostrato per l'ennesima volta di essere solo una bambina viziata, che non vuole crescere, che non vuole andare avanti, come tutti quelli intorno a lei ormai avevano fatto.
 
«Camilla...» 
 
Invocò un'ultima volta, senza esito.
In quel fatidico momento era costretta a fare la cosa che più di tutte la spaventava, la traumatizzava, la distruggeva in tutti i sensi fin da quel giorno.
 
Aprire gli occhi.
 
 
«Camilla!»
 
Iris zampettò all'interno della loro stanza comune, svegliando lei e le altre due ragazze dal loro intorpidimento con il suo strillo potente. Rimase in piedi, sulla soglia, per riferire ciò che aveva appena saputo da Nardo.
 
«Catlina si è appena svegliata dal coma.»
 
Tutte e quattro erano rimaste in stato catatonico dalla nottata precedente. Avevano stabilito di dormire fino a metà pomeriggio per riprendere le forze, tuttavia non era semplice farsi una bella dormita rigenerante con il peso di una sconfitta del Team Plasma sulla coscienza.
In un certo senso, invidiavano un pochino la sorte della loro taciturna compagna.
 
La ragazzina dai capelli violetto continuò ad esporre, avendo l'attenzione collettiva su di sé.
In un persona in particolare poteva notare un interesse quasi fraterno.
 
«Da quel che ho capito hanno provato a svegliarla, ma lei ha avuto una crisi di nervi e l'anno dovuta riaddormentare subito per evitare complicazioni.
Le è venuto un attacco dei suoi, di quella cosa che ha lei, come si chiama...»
 
«Epilessia.» Rispose atona Camilla.
 
«Sì, quello. Devono operarla alla testa il più presto possibile, solo che è un po' un casino.»
 
«Per la storia degli interventi che si era già fatta?» Fece Anemone.
 
«Se sapete già le cose perché ve le devo dire io? - Ribatté Iris, stressata - Sì, comunque.
Sono cose che le faranno malissimo dopo, ma che sono le uniche a farla star bene, povera.»
 
Poi Iris, siccome doveva essere stanca come non mai di star rinchiusa in casa da tutta la giornata, pensò la giovane donna, cominciò a ricercare la compagnia di qualcuna con cui intrattenersi, anche se scegliere Camelia non fu proprio una brillante idea.
 
«Che stai facendo?» Le chiese, piuttosto aliena a tali pratiche da fattucchiera.
 
Infatti era una buona mezz'ora che la modella stava davanti allo specchio con le cuffiette a cospargersi di diverse tonalità di fondotinta, cipria e altri cosmetici in polvere per coprire un ematoma rossastro comparsole sul viso in seguito ad una delle tante botte della sera precedente.
 
«Mi dispiace per lei, - le fece eco la rossa - è piena di problemi, e se lo dico io, che di problemi ne ho fin troppi... Camilla!»
 
«Ehi, mi ascolti? Guarda che parlavo anche con te prima.» Per guadagnarsi l'attenzione della ragazza mora Iris scelse la via peggio adatta, ossia le strappò con forza l'auricolare dall'orecchio, facendola sussultare.
 
«Camilla, - la chiamò sempre Anemone, con più insistenza, distraendola dalla sua meditazione - posso cambiarmi le garze sulle gambe? Mi danno troppo fastidio...»
 
«V-Va bene, - le rispose con gentilezza, mostrando quanto più interesse possibile - però prima disinfettati.»
 
Per contrattaccare all'aggressione ricevuta, Camelia aveva raccolto da terra un cuscino e lo aveva sbattuto con forza sul viso della sua personale scocciatrice, con la quale avrebbe presto iniziato a litigare, tanto ormai anche la leader si era abituata ai loro dibattiti incivili.
 
«Ma quella roba brucia tantissimo! Faccio prima a versarci sopra la candeggina a questo punto!»
Anemone aveva comunque questa mania di atteggiarsi in modo eccessivamente teatrale ogni tanto.
 
«Se aspetti cinque minuti ti aiuto io, okay?» Si propose la bionda, sempre cortese.
Guadagnò un cenno svogliato, poi la rossa riprese a leggere il suo manga, grattandosi la rogna del sangue coagulato sulle gambe sbucciate.
 
«E voi due smettetela subito. Vi conviene.» 
Fu talmente secca e concisa da dissuadere le due dal loro ennesimo stupido litigio.
 
La Campionessa di Sinnoh si lasciò scappare un evidente sospiro.
Le pareti del suo stomaco si torcevano neanche avesse le ulcere, avvertiva languido, pesante e ammattente quel senso di colpa che tentava di estinguere del tutto dal primo istante in cui aveva rivisto la biondina nobile davanti a sé.
 
Provò a convincersi che quel coma profondo non glielo aveva procurato lei.
Non era colpa sua, si disse, poteva testimoniarlo, non le avrebbe torto un capello, mai nella vita.
Eppure alle sue orecchie le proprie difese suonavano come le scuse di una ragazza incapace.
 
Ed ora, a pagarne l'inesorabile prezzo, era un'innocente fanciulla ferita sia nel fisico sia nella psiche.
 
A parole, lei e la sua coetanea si erano salutate con una cordialità bestiale dopo ben dodici anni di separazione; a fatti, Catlina doveva essersene fatta una ragione, si era scelta una nuova strada da percorrere, lontana da quei brutti ricordi. Ci aveva provato almeno.
 
Non poteva credere che le fosse toccato un altro, non trovava altre parole per definirlo, incidente.
"Incidente" nel senso di "evento che incide" sulla vita quotidiana di un'allenatrice normalissima, perché di casuale ed incidentale i due sventurati fatti avevano ben poco.
 
Camilla socchiuse gli occhi, ripensando a cosa avesse fatto lei, in entrambe i casi.
Niente? No. Di meno. Non c'era. Non era lì con lei, al suo fianco.
 
Era assai patetico preoccuparsi dei postumi di quel disastro oltre dieci anni dopo, benché di umanità la giovane donna ne avesse da vendere. Solo che mai, mai come quell'estate aveva sentito così tanto la vicinanza e la lontananza di Catlina nello stesso istante.
 
Per le due, più il tempo passava, più il loro rapporto si faceva ambiguo: erano vicine tanto da potersi toccare? Erano lontane mille chilometri? Che cos'erano, loro due?
Inoltre, non sembravano esserci progressi; non si avvicinavano né si allontanavano l'una dall'altra.
La distanza fra lei e Catlina era una cosa che proprio non sapeva.
 
La Kuroi era nella sua Lega a Sinnoh, a gloriarsi del suo alto titolo, a sfidare altri allenatori, a leggere libri di storia e di mitologia, poteva uscire quando voleva per un gelato od incontrare i numerosi spasimanti che quotidianamente le inviavano lettere e regali.
 
Nel frattempo invece, la bambina con cui aveva trascorso numerosi bei momenti nella sua vita, ella giaceva inerme su un letto d'ospedale, forata dagli aghi e tenuta a balia dai gas, in compagnia solo di dolori lancinanti e sogni infranti.
 
Non avrebbe permesso che quella situazione si protraesse, non ulteriormente.
 
Camilla, nonostante la testardaggine e l'ingenuità residua di quando era piccola, era brava a trovare la determinazione giusta per agire anche dopo un lungo periodo di vile procrastinazione.
 
Tuttavia qualcosa la bloccava. 
Doveva prima superare un gravissimo impasse insinuatosi in lei per via del tempo e della rimembranza.
 

 
 
«La mia famiglia, gli Yamaguchi-Hāto, gestisce da diverse generazioni il Maniero Lotta di Sinnoh, guadagnandosi la sua più che onorabile posizione grazie ai numerosi sfidanti ed ai finanziamenti delle multinazionali.
 
Quindi non c'era verso per cui io dovessi crescere nell'indigenza, mamma e papà mi crebbero e mi mantengono tutt'ora, alimentando con le ricchezze il fuoco del mio piccolo ego bruciante, ero e sono io la loro piccola principessa.
 
Sarebbe stato proprio questo stile di vita aristocratico, con le sue cene di gala, i vestiti di seta e lana pregiata, le tristi sonate al pianoforte, ad isolarmi precocemente dalla vita comune, a mio parere: per fortuna che i miei conoscevano i genitori di Camilla.
 
Mentre loro discutevano di politica e di finanza, io e lei eravamo solite giocare insieme tutti i pomeriggi, esploravamo le minuscole stradine di Memoride e lanciavamo i sassolini dei rigagnoli: io non riuscivo a farli rimbalzare sulla superficie dell'acqua, mi arrabbiavo e mi imbronciavo, poi toccava a lei spiegarmi con pazienza il trucco, mantenendo intatto il suo splendido sorriso.
 
Ci volevamo bene in fondo, volevamo tutte e due diventare allenatrici professioniste e fu lo sbocco d'incontro delle nostre aspirazioni a tenerci maggiormente unite.
 
È probabile che, se solo io avessi avuto più di una amica soltanto, avrei accantonato Camilla come facevo con i miei giocattoli vecchi, e lei avrebbe fatto lo stesso. 
 
Però non potevamo, perché l'una aveva solo l'altra per passare le giornate, all'inizio era solo una questione materialista, per me si trattava solo di non cedere alla noia che colpisce tutte le bambine ricche alienate dalla vita normale.
 
Un giorno, purtroppo, successe. 
L'incidente successe.
 
Avevamo sette anni.
Un giorno di pioggia, io e Camilla ci stavano annoiando a morte. Eravamo a casa mia.
 
«Facciamo una lotta, io contro te? Usiamo i Pokémon dei miei genitori, tanto mi lasciano.»
 
Siccome ero di temperamento assai permaloso, pur di non suscitare il mio dispiacere Camilla obbediva a tutte le mie proposte, dimostrandosi più matura nonostante non ci togliessimo nemmeno un anno a vicenda.
 
Ci facemmo portare un Pokémon a testa da uno dei domestici e cominciammo a lottare in una sala ampia, con un enorme lampadario di cristallo appeso al soffitto.
Come mai io ricordi solo questo specifico particolare acquista un senso proseguendo nella storia.
 
Persi. Non c'era da stupirsi: Camilla era la bambina più brava nelle lotte che conoscessi, a scuola era la migliore, ed io ero troppo egocentrica per gioire dei suoi successi.
 
All'epoca però ne feci un dramma. Invece di ritirare il Pokémon esausto iniziai a sbattere i piedi a terra, ad atteggiarmi come se avessi subito un torto gravissimo, presi prima a bisbigliare confuse contumelie per poi gridare contro Camilla, fuori di me.
 
«Mi hai fatta perdere, ti odio, sei cattiva, non sono più tua amica!»
 
Lei rimase a guardarmi, sbigottita. 
Mi vergogno ancora adesso della figura che avevo fatto, e dire che non era neppure la prima volta.
 
Per colpa del mio carattere estremamente suscettibile litigavamo sempre, finché non era lei a scusarsi in tono sommesso, io rimanevo irremovibile, con la certezza di aver sempre ragione;
la classica bambina viziata che non ha amici perché non li merita.
 
«Vorrei che tu morissi.» Le dissi qualcosa del genere senza nessun tipo di rimpianto.
 
Quella volta, sfortunatamente, mi giocai la mia ultima occasione di sentirmi chiedere "scusa".
Perché io e Camilla non ci saremmo più parlate per dodici anni dopo quel momento.
 
Dopo quella scenata, di norma mi sarei messa a minacciarla di riferire l'episodio a mia madre, e feci per andarmene via, tanto arrabbiata ero con lei.
 
Ma ordinai al mio Pokémon - non ricordo chi fosse - di colpirla. Ne fui capace.
 
La creatura che lottava al il mio fianco, che aveva quasi più umanità di me, deviò il colpo per risparmiare la vita a Camilla, innocente qual era. 
Riuscii perfino a infastidirmi perché la mossa non era andata a segno, l'apoteosi della superficialità incarnata in una bimba di sette anni. Stavo per mettermi a piangere.
 
Ma pochi istanti dopo, non vidi altro che buio.
 
Finii distesa per terra: in un secondo non mi sentivo più le braccia e le gambe, mi sforzai di chiamare aiuto, gridai "mamma" e "papà" finché la mia gola non fu sommersa dal disgustoso sapore del sangue, alla fine chiusi gli occhi perché la testa mi faceva malissimo.
 
E fu così che la mia intera famiglia, erede di uno dei più vasti imperi economici della regione, si trovò sconvolta dalla precoce ospedalizzazione della loro unica figlia.
 
Io, tuttavia, non ebbi modo di conoscere il loro dolore, se non molto tempo dopo.
A trattenere la mia anima infelice dal cadere fra le braccia di Thanatos furono la maschera ad ossigeno e le iniezioni nutritive, la medicina mi tirava da un lato mentre il padre degli inferi aspettava seccato, con la falce in mano, accanto al letto bianco. 
 
I dottori e gli specialisti rimasero straniti dalla mia situazione: non ero in coma vegetale.
Il che rassicurò i miei familiari, il trauma più grave di tutti era a livello dell'organo, una cosa più grave di una commozione, ma non abbastanza grave da interrompere le mie funzioni celebrali.
 
Dunque, vedendolo dal lato romantico, si potrebbe dire che io abbia passato tre anni dormendo beatamente, nel mondo dei sogni, lontana da tutto ciò che accadeva intorno a me.
Quanto vorrei fosse stato così... Non posso saperlo.
 
Ricordo che un giorno... mi svegliarono? O mi risvegliai? Non credo fosse volontario.
Una luce intensa mi abbagliò, vedevo intorno a me persone ansiose, paranoiche che mi toccavano e mi chiamavano; la testa mi faceva, inutile dirlo, un male tremendo.
Dopo cinque minuti ebbi il mio primo attacco di epilessia.
 
Ed il venire a sapere della ragione di quell'incubo ad occhi aperti non mi aiutò molto.
Il mio Pokémon, sotto il mio errato comando, aveva colpito l'enorme lampadario sul soffitto, facendomelo precipitare addosso.
 
Lo interpretai come una specie di punizione divina per il mio egoismo.
Perché a partire da quando ripresi conoscenza tutto cominciò a trasformarsi in un incubo.
 
Ora avevo dieci anni. E piano, incredibilmente lenti, ne passarono altri cinque, pieni di terapie intense e dolorose. I postumi delle operazioni mi costringevano a letto per giorni interi a volte, e non mi restava altra scelta se non provare a chiudere gli occhi e provare ad immaginarmi altrove, libera di muovermi, non così irrimediabilmente sola.
 
Per alleviare il mio corpo debole ed infermo bastavano le anestesie e gli antidolorifici.
Ma per farmi dimenticare quanto avevo perso in quegli anni di inerme sonnolenza intervennero solo il tempo e la rassegnazione.
 
Quando lo chiesi ai miei genitori, disperata come non mai, mi risposero che Camilla era partita.
 
Camilla se n'era andata. Via, lontano, in viaggio per diventare Allenatrice.
L'unica persona a cui ero legata era andata avanti, senza di me, io ero rimasta indietro anni luce bloccata in ospedale senza potere nulla per impedirlo.
 
Mi spezzò il cuore e non sapevo come farmene una ragione. 
Mi estraniai dalla realtà.
Mi vennero le borse sotto gli occhi, perdevo peso per poi riprenderlo in breve tempo, dove le schegge di vetro mi avevano ferita c'erano suture rosse ben evidenti, come su una bambola rattoppata; ecco cosa sono adesso: brutta, stanca e depressa.
 
«Quanti anni hai? Da quanto sei qui?» 
 
Mi domandò una volta un uomo che non era né un dottore, né uno psichiatra. Di solito non accetto la compassione, non ne sento il bisogno, ma costui sembrava volerlo sapere per pura condiscendenza.
 
«Sei abbastanza grande, a mio modesto parere, - mi rispose, quando gli dissi di avere ormai dieci anni - per avere un Pokémon tutto tuo, allora.»
 
All'inizio lo presi come un brutto scherzo: non riuscivo nemmeno a camminare da sola.
Figurarsi allenare dei Pokémon, avevo rinunciato ad avverare i miei sogni molti anni or sono.
 
Ma Nardo non si smentì affatto: suggerì ai miei di affiancare alla loro figlioletta mezza paralizzata un qualche tipo Psico inizialmente per aiutarmi a vestirmi, lavarmi, vivere una vita più o meno normale.
Mai avrei pensato che la passione tanto adorata da piccola mi avrebbe permesso di lasciare le stanze incolori e la sedia a rotelle.
 
«Ho intenzione - parlava così il Campione - di rinnovare i Superquattro della mia Lega prima o poi, nella regione di Unima, adesso sono tutti troppo vecchi!
Quando sarai un po' più grande, ti aspetto.»
 
Così feci qualcosa del materiale che prima era confinato nella mia testa, riuscii ad avverare almeno uno dei tanti sogni che avevo. Così come aveva fatto Camilla.
Seppi più tardi che lei era ora la Campionessa di Sinnoh. Ne fui contenta, se lo meritava.
 
Tuttavia, anche la persona più buona, dolce ed innocente della Terra, quando scende la notte, si vede rapita da un oscuro mondo di ombre, fantasmi e angosce.
 
Mi domando se fosse stato anche il mio caso, se anche io mi fossi svegliata proprio nel bel mezzo di un brutto sogno.»
 
 
 
 
Nonostante le persiane leggermene abbassate, neanche un misero raggio di sole riusciva a penetrare all'interno, la stanza rimaneva immersa nella penombra: fuori piovigginava, il cielo era grigio ed il clima uggioso. Non concentrandosi troppo sulle conversazioni del personale di reparto in lontananza si poteva ottenere il silenzio perfetto.
 
Catlina guardava assorta le gocce stillate dalla flebo che una ad una le venivano iniettate nel polso.
 
Faceva piani fugaci per il suo futuro, talmente vaghi da sembrarla non riguardare affatto.
Si augurò che, a prescindere da chi sarebbe diventata la nuova Campionessa, non le venisse la brillante idea di smembrare i Superquattro per sostituirli. Cosa ne sarebbe stato di lei?
 
Non aveva la faccia tosta di ritornare a Sinnoh, di dimostrare una volta per tutte ai suoi genitori che grande perdente avessero generato. Si strinse nelle coperte bianche, inodori.
Aveva appurato di non poter partecipare alla competizione in quelle condizioni; aspettava solo l'annuncio ufficiale. Ricordò anche di doversi fare la risonanza magnetica, prima o poi.
 
La biondina senz'anima sperava inoltre di aver passato in coma più di una manciata d'ore; quel sogno mostruoso, di difficile interpretazione, non le aveva concesso di estraniarsi abbastanza da tutti gli orrori del suo brusco risveglio.
 
Siccome il buio a pieno pomeriggio la faceva sentire ancora più miserabile di quello che già non era, fece per mettersi seduta (richiese uno sforzo immane alla sua schiena) e guardare fuori dalla finestra.
 
Non aveva niente di meglio da fare. Non aveva neanche sonno in quel momento.
Tutti gli ospedali, sapeva per esperienza, danno quasi sempre su grandi spazi aperti, pur di creare l'impressione ai pazienti di non rimanere esclusi dalla società, dai loro familiari, dai loro amici.
Con lei non funzionava granché, ma apprezzava comunque il tentativo.
 
Sbirciò in mezzo all'immacolato lenzuolo bigio disteso all'orizzonte e al viale d'accesso, affollato da macchine, ambulanze, persone. 
 
Si sentiva patetica nel paragonare sempre se stessa a tutto ciò che non la riguardava, ma le visite ospedaliere costanti per lei si erano fermate a uno o due mesi dal suo ricovero.
Poi i suoi genitori avevano sentito il bisogno di ritornare a lavorare, i compagni di classe, pure la scuola doveva continuare, per quanto lo volesse nessuno poteva fermarsi a condividere quel limbo con lei. Tutti erano uguali ai suoi occhi.
 
Infatti la giovane posò inconsapevole lo sguardo su una figura femminile vestita di nero.
Le condizioni meteorologiche non erano esattamente torride, ma portare una giacca così pesante le sembrava esagerato.
Costei aveva una fluente chioma bionda, la vedeva da lassù, e si dirigeva verso l'ingresso principale. Le pareva familiare.
 
Catlina si sporse un poco in avanti per focalizzarne meglio i tratti somatici prima che sparisse dal suo campo visivo: all'inizio credeva di aver visto male, subito dopo, appena comprese di non essersi sbagliata, l'innegabile verità la fece quasi sobbalzare.
 
«Camilla...?» 
Mosse le sue labbra arrossate mentre si ripeteva in testa quel nome.
 
Il cuore arrugginito della ragazza sussultò ed ora si ritrovava ansiosa, in uno stato di repressa eccitazione, quel sentimento era più ardente che mai, di tutte le volte in cui quell'estate si era trovata nella medesima situazione.
Rimase allertata, come aspettandosi qualcosa da quella stranissima coincidenza.
 
Il fantasma della sua amica d'infanzia mentre scompariva sotto i suoi occhi la tormentava in duplice senso: la memoria del passato, rievocata dal suo subconscio, e la premonizione del futuro, innestata in un sogno a dir quasi profetico.
 
Aveva già perso Camilla una volta, per colpa della sua ingenuità di bambina. 
Non avrebbe permesso che ciò accadesse di nuovo, ora che era diventata un'adulta.
Piuttosto scombussolata, uno spirito di vigore la pervase, si guardò intorno.
Una falsa speranza le balenò in mente, ma subito si disilluse.
 
Non era possibile, proprio no. La volta del primo incidente, un po' per pigrizia ma soprattutto per incapacità, la riabilitazione procedeva così lenta da aver spinto il suo vecchio fisioterapista a considerare addirittura l'ipotesi della paraplegia. 
Nonostante ciò, la biondina fece un respiro profondo, si girò con le braccia verso il bordo del letto elettronico, subito rabbrividì al contatto dei piedi con il pavimento freddo di marmo.
 
Il tentativo successivo fu quello di rimuovere l'ago della flebo, coperto da un cerotto, senza rompersi una vena: una mossa secca e lo abbandonò lì, gocciolante.
Si disfece anche del respiratore, il quale le intasava le narici e di cui si domandava l'utilità, visto che perlomeno i suoi polmoni funzionavano bene.
 
Catlina si impose di non perdere tempo a rimpiangere la follia che stava per compiere.
Ogni singolo secondo era prezioso, doveva raggiungere l'entrata, e non solo, doveva sbrigarsi a raggiungerla, o Camilla se ne sarebbe andata e l'avrebbe persa in maniera definitiva.
 
Aveva paura. Le gambe avrebbero ceduto prima o poi, ne era sicura. Sapeva che la semplice forza di volontà non basta a guarire le persone, anche se purtroppo in quel momento poteva contare solo su di essa. Lasciava il letto a cui si sosteneva per un attimo, poi si aggrappava di nuovo all'oggetto più vicino, vista la sua stabilità di un castello di carte.
 
Non aveva neppure raggiunto la porta della sua stanza che una scivolata improvvisa le fece quasi cambiare idea. Si chiese cosa stesse facendo, perché lo stesse facendo.
La ragazza strinse i denti, spostò il peso sulle braccia e provò a rialzarsi, come aveva fatto durante le molteplici cadute subite nella sua vita: rimaneva per secoli sul pavimento a piangersi addosso, finché non riscopriva il piacere di tornare in piedi.
 
Avrebbe chiesto a Gothitelle o a Reuniclus di accompagnarla ma, non potendo utilizzare Pokémon all'interno di una struttura pubblica, si trovava ad avanzare a testa dritta, incerta ma allo stesso tempo decisa, una funambola per cui ogni passo potrebbe essere fatale.
Debole quant'era, si aspettava un braccio od una gamba rotta dietro l'angolo.
 
Invece di pensare alle fratture, proseguì tenendosi vicina al muro, appoggiando la mano ogni qualvolta il suo equilibrio vacillava, i visitatori la guardavano perplessi - come biasimarli - una paziente scalza, con indosso solo una leggera camicia da notte, pallida e smorta che camminava come un cadavere resuscitato davanti ai loro occhi, però nessuno comunque osava riportare il fatto al personale.
 
Aveva fatto perfino due piani di scale da sola, per la prima volta da quando era quasi morta Catlina aveva le lacrime sull'orlo dei suoi verdi occhi svuotati.
Subito la prese il panico che Camilla potesse ancora serbare rancore nei suoi confronti.
Del resto, lei le aveva augurato di morire, cosa avrebbe fatto se quel lampadario avesse rovinato l'esistenza alla piccola Campionessa invece che a lei?
 
Dal grande androne all'ingresso si sentiva l'olezzo di asfalto bagnato proveniente da fuori.
La biondina aveva i piedi congelati, l'acqua fredda e lo sbalzo di temperatura si aggiungevano ai malesseri conseguenti all'aver lasciato il suo caldo e sicuro giaciglio.
 
Tutto questo solo per incontrare una ragazza, anzi, la ragazza, l'unica per cui si era svegliata dal suo idilliaco mondo dei sogni per gettarsi a capofitto in quell'orrenda realtà.
La riconobbe subito dal ciuffo disordinato che scorgeva di profilo: era ancora lì, ma non per molto.
 
«Camilla!» La chiamò, esaurendo subito la poca voce che aveva in gola.
 
Attese la sua reazione, sospesa nel presagio snervante di non venire riconosciuta o ascoltata.
 
«Camilla...» Riprovò, come aveva fatto in quel sogno.
 
La reazione così repentina della bionda la immobilizzò, il battito cardiaco accelerava secondo per secondo, era in fibrillazione e le mancavano le parole.
«Catlina... Perché sei qui? Cos'è successo... Tu non stai bene... Catlina... »
 
Quella le rispose sorridendole, le sue sottili labbra rosse contrastavano con il viso esangue come porcellana su cui si intravedevano i capillari violacei.
 
Appena si trovò davanti a lei la presero, inevitabilmente, contemporaneamente, i sintomi che precedevano le sue crisi epilettiche. Stava per perdere i sensi, prima che potesse collassare a terra l'altra la circondò con le braccia, per sostenerla.
 
Camilla posticipò i suoi dubbi per far spazio alla nuova priorità momentanea. 
 
Se solo, quel giorno di pioggia, se solo avesse messo da parte il suo inutile orgoglio, i suoi sentimenti sarebbero stati trasmessi chiari, cristallini, ed ora quelle braccia morbide l'avrebbero sostenuta e presa per mano, accompagnandola attraverso l'impervio sentiero della vita, quello che lei aveva percorso tutta da sola, zoppicando.
 
«Vieni, ti riporto nella tua stanza, attaccati a me...» Le disse, spaurendosi.
 
Catlina fece del suo meglio per evitare di appesantire la sua salvatrice. Era sempre stata lei la zavorra fra le due, tutta quella situazione era un suo capriccio, ma se Camilla si fosse limitata a riportarla indietro e chiamare un'infermiera lei non sarebbe stata contenta.
 
«S-Scusa, - le fece, muovendo piano la bocca per evitare di mordersi la lingua o di sputare - n-non ce la faccio a... a... a-a camminare...»
 
Si accasciò a terra, la presenza di Camilla ora le portava solo becera vergogna. 
Le veniva da vomitare, stava pure sudando freddo, si faceva schifo da sola.
 
«Tranquilla, tranquilla... - anche la giovane donna faceva trapelare un accenno di preoccupazione dalla sua voce - ...per fortuna che sei più bassa di me...»
 
«Camilla... C-Camilla... Camilla!» Il tono era andato in crescendo.
 
La bionda si tolse il cappotto nero di lana pulita e lo avvolse intorno al corpo tremante della compagna, la quale ripercorse a mente il momento in cui il ragazzo di cui era innamorata aveva fatto lo stesso, per poi abbandonarla nel mezzo del suo morbo sacro.
 
Quella invece l'aveva sollevata da terra come un marito regge la sua sposa il giorno del matrimonio. Credeva che il suo essere più bassa di Camilla (attualmente la biondina era alta come le sue compagne diciassettenni, quando Camelia non metteva i tacchi) le fruttasse solo le infantili prese in giro ricevute dai cinque anni in giù, in quel momento le stava sul serio aiutando.
 
Fu ammirevole vedere come Camilla tenne duro fino alla fine; adagiò la ragazza malata sul suo letto, la sua camera era singola grazie ad un piccolo accorgimento dei genitori lontani ma comunque attaccati alla loro principessa, subito la coprì con le coperte.
 
«Stai bene? Catlina, se stai bene, rispondimi, per favore.»
 
Voleva tanto dirle che stava benone, benché ciò significasse mentirle.
Le convulsioni venivano improvvise, la scuotevano come se un demone desiderasse emergere dal suo corpo, la lesione spinale adesso si faceva più acuta, un chiodo forzava sulle sue vertebre, il cuscino si cominciò a bagnare di piccole macchioline trasparenti.
 
«Chiamo un dottore, non voglio che ti succeda niente...»
 
«No, no, per favore. - interruppe la frase per una boccata d'aria - M-Mi farebbero di defibrillatore, c-che fa malissimo... Sto bene così, g-giuro... Mi passa...»
 
«Okay, okay... - Camilla si girava intorno, incerta sulle sue azioni - Non chiamo nessuno, tranquilla... È tutto a posto...»
 
Catlina osservava la scena distesa di lato, dopo aver di nuovo indossato il respiratore che le faceva prudere il naso, mentre Camilla stava in piedi chinata su di lei, i suoi capelli le sfioravano il viso.
Anche se era cresciuta al suo fianco non la riconosceva più, falsata l'immagine dai suoi occhi umidi.
 
«Camilla, t-ti prego, rimani qui.» Disse, per poi cominciare a tossire forte.
 
La teneva ferma con le mani, una sulla testa, immersa nel fiume di boccoli dorati, l'altra sul fianco, per evitare i contraccolpi delle convulsioni. Sorrise anche lei, ma non la rassicurò.
 
«C-Certo, rimango qui con te, finché non ti passa... Stai tranquilla... Passa, come hai detto tu... - impiegò la strategia di continuare a parlarle - L'epilessia è dovuta agli stati d'animo? All'ansia? All'agitazione?»
 
Catlina, non potendo parlare, rispose in testa sua: magari. Fosse così, non l'avrebbe colpita nel mezzo di un bel sogno, durante il suo lussuoso primo appuntamento, durante il secondo, così romantico.
 
Era la conseguenza di una lesione celebrale. O forse, la ragione per cui portava una benda sulla testa era il non saper controllare gli impulsi. Camilla, anche in questo caso, aveva ragione.
Psiche e corpo sono collegati l'uno all'altro, le malattie non sono solo intoppi a livello cellulare o fiotti di sangue che fuoriesce: l'uomo può farsi del male anche da solo, senza agenti esterni.
 
«Quando eravamo piccole non ne soffrivi. Piuttosto, stavo per venire da te, prima.
Credici o no, non ce la faccio quasi più a fare la leader! Troppo stress, soprattutto ora...
 
Sai che quando, per esempio, vedo che sono tutte giù di morale, specie le più grandi delle nostre ragazze, mi chiedo "chissà cosa farebbe Catlina" perché io non sono bravissima a consolare la gente, come vedi...»
 
La biondina stette ad ascoltare il continuo monologo della sua amica d'infanzia, silenziosa, cercando di perdersi per strada meno parole possibili: Camilla diceva di non essere brava a consolare, appunto, per consolarla. 
 
Il discorso scorreva come il flusso di un torrente in piena; parlava delle loro attività, della fatica che faceva a tenere buone le tre più giovani di loro, per poi elogiarne la fedeltà e la dedizione, ripercorreva le tappe del loro viaggio, da Memoride, a Unima, a casa di Nardo, dove si sentiva la mancanza del profumo del suo shampoo alla vaniglia.
 
E piano piano, poco a poco, le convulsioni diminuirono di intensità, rimasero dei radi singhiozzi, infine neppure quelli. Catlina si sentiva solo esausta, come un Pokémon dopo una lotta sfiancante aspetta solo di rientrare nella sua sfera.
 
Si meravigliò di come il suo scetticismo riguardo la terapia assistita fosse crollato appena Camilla l'aveva distratta dai suoi dolori nel momento in cui non riusciva a farlo da sola.
 
Tuttavia scorgeva nell'occhio argenteo di lei, quello non nascosto dal ciuffo ribelle, uno sprazzo di insicurezza. Perché era lì? Cosa voleva da lei? 
Era questa la domanda che faceva da denominatore comune alle due. 
Chi siamo? Cosa vogliamo l'una dall'altra?
 
La giovane inferma appariva più quieta, ma coperta da una brutta cera. Le cadevano le palpebre ed i suoi inspiri rumorosi echeggiavano quali il recalcitrare di un vecchio apparecchio a manovella.
Era tardo pomeriggio e i dottori non le avevano neanche mostrato i referti degli esami.
 
«Hai sonno?» Le domandò Camilla, guardando la compagna dall'alto.
 
«N-No... - Catlina si rannicchiò in posizione fetale - Ho paura che...»
 
Si bloccò. Doveva dire a Camilla quello che provava dopo aver tanto rimuginato sul loro rapporto. Solo che non ne aveva la forza, si raccontava da sola l'ennesima frottola. 
Ma non poteva perdere quell'occasione ed allo stesso tempo perdere anche lei.
 
«Ho paura che tu vada via, se mi addormento. 
Mi hanno tenuta in sala operatoria tutta oggi e mi manca ancora un intervento da fare... Capiscimi. Ho ancora paura... M-Mi hanno aperto la testa con il bisturi. 
Ho paura di fare brutti sogni.» 
 
Concluse l'aristocratica. Si mise a ridere attraverso i tubuli.
 
Allora, di punto in bianco, Camilla si mise a sedere sull'orlo del letto bianco, fino a quel momento sacrario intoccabile, lei vi ci si sedette come una madre che assiste la figlia, conscia che un maggiore avvicinamento con la sua cara amica non le avrebbe trasmesso alcuna malattia.
 
«Tu dormi pure. - Le fece, accomodandosi con le gambe accavallate - Io rimango qui, finché non ti svegli.»
 
All'udire codeste parole, a tal punto intrise di significato, Catlina si trovò sul punto di crollare psicologicamente. Camilla ricordava come lei, dunque.
Si sentiva di nuovo una bimba appena nata, che dopo aver compiuto i suoi primi passi cerca rifugio nel suo mondo ideale, un riposo sereno fra volti familiari. Camilla era fra questi.
 
Le sorrise. «Buonanotte, allora.»
 
Con un cenno del capo, si fece congedare. Tranquillizzata dei due occhi luminosi a fare da faro nella notte buia, riuscì a chiudere i suoi con inaspettata facilità, andare a dormire era cento volte più soddisfacente dopo una giornata faticosa.
 
Doveva approfittare di quel tempo indispensabile a riprendere le forze sapendo che non era ancora finita, qualora il dolore l'avesse svegliata e non fosse più riuscita a chiudere occhio per giorni interi.
Anche un brutto sogno fosse giunto a lei, non si sarebbe lasciata traumatizzare.
 
Mentre la medicina, la tecnica e la fisica sono ambiti in cui gli esseri umani sono riusciti a dettare leggi costanti, sicure, i sogni sono ancora oggi materia incontrollabile, dal comportamento imprevedibile e indeterminabile: solo nella vita l'uomo può qualcosa per contrastare la tristezza la disperazione.
 
Catlina si addormentò beata, alla luce di una lampada al neon, con la mascherina dell'ossigeno che russava come un drago dormiente, con questo dolce pensiero coccolato fra le bende bianche di garza disinfettata.
 
 
 
Camilla si mise a fissare il vuoto, dopo due minuti da quando la sua cara coetanea era sprofondata fra le braccia di Morfeo. Sembrava che tutto il mondo si fosse acquietato non appena l'aveva lasciata lì, da sola, davanti al loro rapporto: l'imbarazzo, il dolore, la rabbia.
 
Dopo dieci minuti diede un'occhiata al telefonino, tenendo l'illuminazione dello schermo bassa per non disturbarla. Vista l'ora, il crepuscolo bruno al di fuori delle inferriate, l'orario di visita doveva essere finito da un pezzo e presto o tardi l'avrebbero cacciata via.
 
Mezz'ora e non riusciva a smettere di osservare i piccoli particolari della fanciulla dormiente: la bocca socchiusa iniettata di cruore, l'addome si alzava ed abbassava a ritmo regolare, le maniche del pigiama in cotone soffice congiunte al petto.
La bionda, constatando che fosse ormai sul primo sonno, le accarezzava le guance.
 
Il senso di colpa la divorava da dentro, svuotandole le viscere.
Poteva battersi il petto, strapparsi i capelli e graffiarsi il seno dal dolore, il patetismo di quel gesto eseguito dalla sua compagna l'aveva traslata sotto un punto di vista differente.
 
Camilla scoprì di non poter più far finta che le profonde cicatrici non esistessero, Catlina non meritava quella freddezza in aggiunta al rigore glaciale che l'accompagnava nella vita.
L'immagine palesata sotto i suoi occhi era diversa da quella che si era persa anni prima, ma conservava alcune somiglianze molto evidenti. La resilienza, per esempio.
 
Ridurre una ragazza bella, dolce e sensibile come Catlina ad un capro espiatorio per la sua pietà avanzata le pareva una bestemmia; lei meritava di più di un semplice "scusami".
 
A spingerla lì, pensò Camilla, la pena per una malata c'entrava poco o niente. 
Era l'anima perseverante nelle difficoltà e appassionata nell'inseguire i suoi sogni ad impreziosire il rudere cadente del corpo in cui essa abitava.
Ma, anche senza tutti quei traumi, aveva riconosciuto tale atteggiamento già quando le due erano piccole.
 
Camilla percepiva il cuore scalpitare come un prigioniero incatenato: ora che il peggio era andato via, costringendo peraltro la povera Catlina a fare i primi, faticosi passi per riallacciare i fili rossi del loro legame interrotto, ora che il labbro putrefatto della loro ferita aveva assorbito tutto il sale, disinfettato contro l'astio, ora poteva disseppellire il loro passato.
 
Quanti bei ricordi felici avevano collezionato le due amiche nel corso della loro infanzia! 
Le pepite d'oro non meritano di venire insozzate dal catrame, come mai nessuna fra loro aveva mai pensato di spolverare tali tesori? 
 
I pomeriggi passati a pettinarsi i capelli a vicenda, le notti passate a parlare dei loro sogni mangiando biscotti, le lotte fatte nel cortile della scuola, i bacini casti ed innocenti sulle sue guance...
 
La Campionessa di Sinnoh, quando un'ora passò, si coprì con le maniche della giacca gli occhi, scostando col dito indice una lacrima, come se la sua amica, la sua migliore amica la potesse veder piangere per lei.
 
Non poteva sapere per certo se condividesse i suoi sentimenti al cento per cento. Ma poteva esternarle i suoi, poteva almeno provarci. Era il momento giusto.
 
Dopo un'ora e qualche minuto, Catlina si stropicciava gli occhi e si passava una mano sul viso intorpidito, aveva dormito sul lato destro, schiacciandosi il seno fra gli avambracci.
Con il cuore che batteva all'impazzata, Camilla la benedì con un sorriso gentile.
Non disse nulla, notando lo stupore assonnato della giovane distesa al suo fianco.
 
«Sei ancora qui...» 
Le sussurrò contenta, sistemando un pochino la sua posizione all'interno delle lenzuola.
 
«Non me ne sono mai andata.» 
 
La stupì con questa risposta, non ritenendo utili chissà che sproloqui. Da quell'estate in poi avrebbe avuto una vita intera per parlarle, a prescindere da quali traumi e da quali sconfitte avrebbero subito in futuro entrambe le parti.
 
Dopo un breve silenzio di riflessione, ottenne tali parole, semplici e sapientemente ponderate.
«Lo so.»
 
Dopodiché la compagna dagli occhi vuoti le chiese con cortesia un bicchiere d'acqua e lei subito si fece pronta a servirla. 
 
In realtà, neppure quando era lontana mille miglia, durante il suo viaggio attraverso Sinnoh aveva cancellato il ricordo, per quanto doloroso: nessun minatore getta via il diamante trovato in mezzo alla calcite, per quanti calli sulle mani la sua estrazione gli abbia causato.
 
C'erano state pressioni esterne, per così dire, che avevano costretto la giovane Camilla ad allontanarsi da Memoride. Ma quella era un'altra storia.
Pregò che un giorno il loro rapporto si approfondisse e diventasse di nuovo intimo a tal punto da poter condividere con lei anche quella storia.
 
Passarono un po' di tempo assieme, le due bionde, per discutere dei loro mestieri inerenti al gruppo delle cinque: quegli argomenti triviali e sciocchi, dopotutto, avevano contribuito a ricostruire i ponti tagliati da distruttivi silenzi.
 
Si era fatto buio e l'unica lampada presente nel piccolo cubicolo ospedaliero illuminava il volto e la chioma disordinata della nobile, decisamente più vivacizzata da essa.
La vide arrangiare dietro le orecchie lunghe spole dorate incappando con le dita in qualche nodo, provava a rendersi più presentabile per lei pur conscia di apparire sfigurata in qualche modo.
 
«Se vuoi ti aiuto a farti una doccia, dopo...» 
La voglia di rimangiarsi subito quelle parole impudiche non tardò ad assalirla.
 
«S-Sì, penso che mi servirebbe. - E ad essa si aggiunse la reazione a quella conferma assai improbabile - Perdonami, sono impresentabile.»
 
«Ti sminuisci sempre, quando in realtà stai già bene così.»
 
«È perché con te non posso mai reggere il confronto.»
 
La donna non diede peso a quei dettagli, tuttavia la postura tradiva una certa aria di imposizione.
Concesse dunque l'attenzione che essa meritava, guardandola dritta negli occhi.
 
Catlina fece un respiro profondo. Le prese la mano, con quella in cui si notavano ancora i buchi degli aghi, e la strinse al suo petto, inondandola di calore umano.
 
Le infuse tutto il coraggio che le serviva. 
 
La Campionessa poteva dirsi soddisfatta.
Un minimo si dispiaceva che la loro amicizia fosse rinata solo grazie agli sforzi della compagna, ma lei aveva ben poco su cui lavorare per riparare al suo orgoglio ferito.
 
Finalmente la distanza che la separava da lei era stata annullata, tutto sarebbe tornato esattamente come prima.
 
«Camilla...» 
 
La luce le indorava i capelli e le faceva brillare gli occhi, come una vergine in mandorla di un affresco trecentesco, le sue sofferenze la rendevano pura, una visione estatica, esteticamente sconvolgente.
 
Catlina espirò un'ultima volta, trovando la forza di confessarsi a quel sorriso che mai l'aveva abbandonata un secondo.
 
«Camilla... Ti ho sempre amata.
Fin da quando eravamo piccole, sono sempre stata innamorata di te.
 
Non ho mai conosciuto l'amore, lo sai... 
Ma mi basteresti tu, tu sei più di un'amica per me, sei la persona che più mi è stata vicino e... 
Sì, vorrei che stessi sempre al mio fianco, perché io ti amo.»
 

 
 
Quando una relazione riesce a valicare definitivamente lo status di pidocchioso riguardo per cui alcune parole sono sgarbate, certe azioni impudenti, delle attenzioni asfissianti, secondo un regolamento universale sollecita è dunque la fase successiva, tutti pronti per passare alla dissezione introspettiva del partner, scoprendone i segreti e violando ogni genere di summenzionata riservatezza.
 
Invece di interessarsi a qualsivoglia masturbazione celebrale, Camilla preferiva di gran lunga sapere come si sentisse, cosa provasse chi esce dal coma. 
 
Quella notte doveva aver dormito come uno Snorlax, o il sole aveva deciso di spuntare in anticipo quel giorno, perché lei non si ricordava niente e le spesse coperte felpate l'avevano fatta sudare.
A proposito di esse, la donna sentiva la morbidezza del tessuto avvolgerla e sfiorarla in punti che non credeva così sensibili: sollevò quindi un lembo, senza alzarsi dalla posizione supina che aveva assunto.
 
Avvolta nella penombra, a sua sorpresa intravide la forma cuspidale del suo pube stretto fra le cosce carnose, rabbrividendo al contatto col lenzuolo fresco e leggermente umido.
 
Trovava strano dormire su un letto vero e proprio dopo un mese e mezzo sui futon arrotolabili.
Infatti le piacque così tanto di starvi che decise di non alzarsi, ma appoggiò la testa sul guanciale e lo sguardo pigro su del mobilio circostante; design moderno, si disse, dalle forme minimali e raffinate, come la libreria spoglia ed il comodino che recava i suoi oggetti personali.
 
Come mai si era appena svegliata in una stanza che non era a casa del Campione di Unima?
 
Camilla Kuroi non era il tipo di persona che cede allo stupore, ma era assai curiosa di esaminare quella bizzarra situazione per scoprire come vi si fosse cacciata, fingendo che le dispiacesse.
 
Per far ciò, si adagiò sull'avambraccio sinistro scaricando il peso sulla spalla e i lunghi capelli lisci le scivolarono verso il torso scoperto, lasciandola come una sirena che emerge dall'acqua.
 
Che sorpresa. Non era sola a letto.
 
Quel genere di equivoci che coinvolgono ampie e comode stanze, sgomento misto a sonnolenza, amnesie e belle ragazze sono quasi sempre i figli primogeniti di qualche bottiglia di vino in più, di una scommessa ben valutata o di una farsa epocale.
 
La location: c'era. Alcool, soldi et cetera: ancora da definirsi in teoria, ma la Campionessa svalutò l'ipotesi senza pensarci troppo. Ma ancora stava rivolgendo la sua attenzione al quesito sbagliato.
Si perse un attimo a contemplare la terza componente, ossia chi avesse passato la notte al suo fianco, e piano piano tutto il resto venne da sé.
 
Ormai aveva visto Catlina dormire in tutte le posizioni e aveva memorizzato quale fosse la sua preferita, quella sulla schiena, non certo quella sulla pancia, poteva compatirla, anche a lei faceva male schiacciarsi l'ingente seno sotto il peso del corpo... 
 
Insomma, la biondina giaceva distesa, con la testa adagiata sul cuscino, rivolta nella sua direzione, ma nascondeva ritrosa le iridi sotto le palpebre serrate.
La sua chioma, sparsa a raggiera, volgeva sopra il suo viso dipingendovi ombreggiature che parevano disegnate a carboncino, un pelago fluente e ondulato del color della filigrana.
 
Come la mantenuta dipinta da Goya, anche Catlina sembrava inconsapevole di essere completamente nuda, e ciò contribuiva ad enfatizzare l'aura di fanciullesca innocenza che la caratterizzava.
Era coperta fino alle costole, da esse in su il seno perfetto veniva leggermente compresso dalla forza birichina della gravità e diventava, piuttosto, due ellissi, coronato dalle areole rilassate.
 
Era addirittura visibile lo sterno, che in normali circostanze rimaneva sepolto sotto l'ingente massa del busto della ragazza di Sinnoh, e quella determinata parte del corpo andò in risoluzione ad uno dei misteri che attanagliavano la sua amica d'infanzia: ecco dove andava a finire la cicatrice.
Mica poteva scomparire nel nulla, una volta partita dalla clavicola ed immersasi nel seno.
 
L'osservazione meticolosa di tutte quei particolari irrilevanti aiutava Camilla a distrarsi dall'imbarazzante situazione che la vedeva protagonista.
Era, nel complesso, una cosa del tutto sbagliata quella che aveva combinato.
 
Rilanciò un'occhiata restia alla sua compagna addormentata, passandosi le dita fra i capelli.
 
«Chissà quante probabilità ci sono - pensò, ironica - che io e Catlina abbiamo solo dormito ieri sera.»
 
Risvegliatasi nuda e sudata, la riflessione dolce-amara sulle sue azioni discutibili era l'unica forma di accettazione che la giovane poteva concedersi, siccome di rimpianto vero e proprio non ne provava ed allo stesso tempo non c'era giustificazione che le dicesse di aver fatto la cosa giusta.
 
Il giorno precedente, o meglio, la sera e la nottata, le erano sembrati cortissimi e transienti, le ore si consumavano quali fiammiferi esposti al vento e lei aveva la bramosia di sfruttarle tutte, dalla prima all'ultima: un buon proposito, per una che si era presentata in un ospedale a visitare una malata in gravi condizioni spinta dalla vile pietà.
 
Nardo però aveva chiesto che fosse lei ad assicurare la guarigione della sua Superquattro prediletta, imponendole di sottoporsi all'ennesima operazione al cervello, garantendole più o meno altre tre-quattro settimane di sopravvivenza autonoma, senza contare eventuali effetti collaterali.
 
Evidentemente la Campionessa aveva sottovalutato la sua autorità di leader, perché la stessa paziente che si rifiutava di farsi toccare con un batuffolo di cotone aveva d'improvviso trovato il coraggio e la forza psicologica di farsi incidere per intervenire, fin dov'era possibile, sulla parete celebrale lesionata dall'osso rotto.
 
Perfino i dottori avrebbero posticipato l'intervento al giorno successivo, ma Catlina insistette a lungo, perseverò nel far prevalere i suoi interessi sulla questione etica e sanitaria, come ogni figlia di buona famiglia è abituata a fare, riuscendo nel suo intento.
 
Tale ferma decisione l'aveva lasciata così spiazzata da costringerla ad aspettare seduta lì, di sua volontà, tre lunghe ore di intervento chirurgico, con la paura di aver mandato la sua migliore amica al macello, di sentire l'elettrocardiogramma affievolirsi ed il dottore annunciare con tono mesto "paziente deceduta".
 
Erano le sette di sera. Non cenò, mentre il suo cellulare vibrava con insistenza per ricordale che la batteria si stava esaurendo, mentre la sua tensione aumentava.
Ogni tanto accarezzava i Pokémon della compagna, l'orologio ticchettava piano.
 
Anche quell'attesa finì.  
Quando le ripresentarono la biondina, ancora sotto anestesia e con la testa fasciata da bende ancora più spesse, le parole che la stessa le aveva rivolto poche ore prima risuonarono nelle sue orecchie.
E le toccò ancora attendere che tutti gli infermieri lasciassero stare la povera allenatrice.
 
La sua compagna appariva stanca, ancor più di prima, sul punto di lasciarla una volta per tutte.
Si era sbrigata a riprendersi per via del dolore intrinseco del taglio, i punti tiravano la pelle della sua nuca e non le permettevano di riposare ancora, al limite della sopportazione avrebbe volentieri aspettato di cedere allo sfinimento pur di rivedere l'alba del domani.
 
Questo sarebbe toccato alla ragazza che poco prima aveva confessato il suo amore per lei.
 
Come conseguenza non suonava poi tanto tragica, comparato sia a quanto di peggio ella avesse vissuto in passato, sia con il fatto di potersi rivedere il giorno dopo, assieme, di nuovo.
Ma a Camilla non giunse a tal conclusione: le sembrava che tutto sarebbe potuto finire lì.
 
«Andiamo via da qui.» Disse.
 
Si alzò di scatto dal bordo del letto dov'era seduta, infilandosi la giacca, di fretta.
Catlina la guardò divertita. Pensava stesse scherzando, quella lasciò la sua stanza per un po'; dopo mezz'ora era tornata con in mano le carte per la dimissione in extremis.
 
«Torniamo a casa di Nardo?» 
 
La nobile lo domandò tale e quale la stessa bambina ansiosa di lasciare l'ospedale per tornare a casa di dodici anni prima, ma la leader le diede risposta negativa, ben conscia di non poter presentare una malata terminale al Campione e alle altre più giovani, soprattutto la reazione di esse alla confessione della sua cara amica la preoccupava, ma non rivelò nulla a costei.
 
«Va bene, se vuoi ti accompagno in un posto dove nessuno ci può disturbare.» Propose.
 
Camilla la guardò, curiosa. «Quanto lontano è?»
 
«Spiraria. - Fece la ragazza, ancora distesa comodamente a letto - A un'ora da qui.»
 
Camilla calcolò dunque di essere giunta lì per mezzanotte circa. 
Camelia, Anemone ed Iris dormivano già da due ore ormai.
Dopo aver mentito a Nardo, dicendogli di aver completato con successo il compito che lui le aveva assegnato e che avrebbe passato la notte a fianco della compagna, partì.
 
Beh, in teoria non aveva promesso nulla di falso.
 
Tornando al presente, la Campionessa di Sinnoh scivolò via dalle coperte nel più assoluto silenzio, nuda, alla ricerca perlomeno della propria biancheria intima.
Più si sforzava di trovare una ragione al suo operato, più le faceva male la testa.
 
«Sei sveglia? - cominciò a mettere a punto un discorso da farle, non appena si fosse un minimo coperta - Ti sei fatta una doccia ieri sera tardi ma eri così stanca che ti sei addormentata e non ho voluto disturbarti per farti vestire... - e poi doveva ricordarsi la parte più importante - Tranquilla, non è successo nulla...»
 
L'ultima parte l'aveva rivolta più a se stessa che alla sua amica d'infanzia. 
Aveva avuto prova che la sua abilità persuasiva era abbastanza suadente da abbattere tutte le convinzioni e le congetture che l'altra avesse in mente, avrebbe sfruttato la sua debolezza psicologica per preservarsi da un bel casino.
 
Non poteva metterlo in dubbio: ciò che aveva fatto era una cosa sbagliata, sotto ogni punto di vista.
 
«Buongiorno.» Si sentì dire alle spalle.
 
La donna si girò come se l'avessero beccata con le mani nel sacco, non era riuscita neppure a recuperare la parte inferiore del proprio vestiario, si alzò esibendo un caldo sorriso piuttosto deviante, senza vergogna fece qualche passo verso il letto.
 
«Buongiorno.» Rispose a sua volta, maliziosa.
 
Si rassegnò pacificamente al fallimento del suo piano, non avendo altra scelta.
Intanto Catlina si stiracchiava le braccia, traendo la pelle bianca del torace e delle spalle 
Il suo seno ricadeva morbido alla sua posizione naturale, scendendo un poco più in basso di quando era sorretto dal reggiseno. 
 
Anche se non si sarebbe mai considerata tale in cambio di tutto l'oro del mondo, Catlina era veramente una bella ragazza, a detta della Campionessa.
Grazie al sonno rinvigorente aveva ripreso un colorito roseo sulle guance, aveva gli occhi socchiusi ma le palpebre erano meno cadenti del solito. 
Camilla inoltre intuì si fosse pure svegliata di buonissimo umore.
 
«...Che ore sono?» 
Le domandò poi, alla ricerca di un piccolo porta-pillole azzurro.
 
«Tardi. - Voleva limitarsi a rispondere la bionda, ma specificò subito dopo - Le undici e mezza.»
 
Qualche minuto dopo, come se il tempo importasse granché in questa vicenda anacronistica, Camilla tornò nella camera da letto, illuminata dal sole mattutino attraverso le ampie finestre, con in mano due tazze di tè caldo fumanti.
Lei non era mai solita berlo di mattina, tuttavia sapeva che la sua amica ne era dipendente in qualche modo e la doveva accontentare.
 
«Cos'hai detto a Nardo?»
La più giovane fra le due bionde le pose composta quella domanda, senza neppure degnar l'altra di uno sguardo sorseggiava piano il suo tè, ingoiando con esso di malavoglia un antidolorifico grande quanto un acino d'uva.
 
«Che rimanevi un altro giorno in ospedale per gli ultimi controlli.»
Le rispose, con altrettanta tranquillità.
 
«E a quelli in ospedale hai detto che...» La invitò poi a completare la frase, con lo stesso tono.
 
«...che eri pronta per tornare a casa di Nardo per questioni riservate.»
 
Al sentire quella retorica di scarsa leva basata su un doppio controsenso, Catlina si mise a ridere da sola, scrutata dagli occhi argentei della compagna.
In meno di ventiquattro ore si rese conto di averla vista fare cose di cui perfino lei, la quale diffidava dei pregiudizi quanto conviene ad una persona perbene, non credeva la biondina capace.
 
Anche quando ripensava a Catlina ancora nel periodo in cui non si potevano vedere di persona, la immaginava sempre sul punto di spegnersi, come i Pokémon che vengono avvelenati o scottati durante la lotta tengono il loro allenatore coll'acqua alla gola per paura che i Punti Salute si esauriscano, così lei trasudava precarietà e debolezza perenne, sempre sul punto di svenire, ammalarsi, più di una volta di morire.
 
Per questo continuava a lanciarle occhiate fugaci dallo specchietto retrovisore mentre erano in macchina dirette a Spiraria: aveva la testa ciondolante e le palpebre socchiuse, ma quella volta Catlina non sembrava volersi addormentare, guardava la strada in silenzio, dal finestrino fissava i lampioni in successione sfrecciarle sotto lo sguardo.
 
Allora Camilla tirava un sospiro di sollievo e riportava la sua attenzione alla strada, premendo l'acceleratore come se stesse scappando da qualcuno che la inseguiva, come una criminale.
Ripeté tale gestualità per tutto il tragitto, tanto che all'arrivo il senso di sicurezza la sbloccò del tutto, finalmente.
 
I loro telefonini erano spenti, la loro locazione era agli altri una sciocca illusione, abbastanza vivida da non incoraggiarli a venirle a cercare però, faceva perfino caldo a notte fonda.
La Campionessa accompagnò la sua cara amica in una camera da ella stessa indicatale grazie ai suoi Pokémon e le loro mosse di levitazione, molto adatte al trasporto di chi non è in grado di deambulare da sé.
 
La giovane donna credeva che la sua fuga romantica senza motivazioni logiche sarebbe finita una volta per tutte non appena, ritornati i Pokémon nelle loro sfere, l'altra, ormai pallida e stremata all'inverosimile, si era lasciata distendere sul letto, quello stesso letto ove stavano ora.
 
Aveva predetto che adesso si sarebbe finalmente addormentata, Camilla ne fu quasi certa.
 
Ma, forse presa dalla foga del momento, dal desiderio di compensare la straordinaria apertura della sua migliore amica, o magari dall'adrenalina nel provare l'esperienza tanto attesa nei suoi vent'anni, benedì il buon nume dionisiaco per averle concesso quell'occasione.
 
La giovane non seppe dire se fosse successo di fretta o se si fosse protratto a lungo.
Semplicemente, le due avevano smesso di badare al tempo per concentrarsi su ben altro.
Il lungomare assisteva muto, lo scenario era ristretto nelle pareti di quella stanza.
 
Camilla si avvicinò alla ragazza, portandosi lentamente a sovrastarle senza però abbandonare il proprio peso su di lei. Le accarezzò i capelli, notando quanto perfino tal gesto triviale le avesse dipinto un'espressione di sgomento negli occhi lucidi.
 
Con delicatezza distese la schiena e si avvicinò al suo volto trattenendosi ad una distanza inconcepibile per un rapporto di sola amicizia ma che rappresentava il massimo a cui potesse tendere per potersi eventualmente fermare.
 
«Oh Dio... - Esclamò in un sussurro, vergognatasi dei suoi istinti inselvatichiti - V-Vuoi che io...»
 
«Sì, va bene... - La dolce voce tremante le trasmise una carica erotica ancor più amplificata, il significato del suo consenso era inequivocabile da quell'istante in poi - Camilla, puoi farmi tutto quello che vuoi... Basta che tu non mi faccia del male.»
 
E fu così che il conflitto durato per mezza vita, tutte le tensioni sentimentali ed i patemi d'animo che le due allenatrici si erano inventate nel timore di non potersi più vedere, abbracciare, toccare, l'amicizia di due bambine estranee al loro mondo si risolse nell'azzeramento definitivo della distanza fra le due.
 
Camilla la sentì guaire non appena la mano le scivolò sotto la sua camicia da notte, al contatto con la pelle calda si abbandonò ad un bacio passionale e affrettato, che le labbra inesperte della compagna non riuscirono ad imitare.
 
Tuttavia Catlina ci mise relativamente poco a spogliarsi della sua timidezza e ritenzione, almeno quanto richiese all'altra per spogliarla dei vestiti e della parte superiore della biancheria, mentre il suo respiro si faceva sempre più irregolare ed un sorriso confermava come le sue azioni, frutti di anni ed anni di libidine repressa, talmente scomposte ed incomprensibili la facessero sentire bene, dopotutto.
 
È noto che questa fu la prima volta sia dell'intrepida Campionessa, sia della sua partner meno disinibita.
Nonostante ciò, Camilla aveva una conoscenza teorica largamente più approfondita dell'arte amorosa e se non fosse stato per essa le due vergini sarebbero rimaste ancora a lungo al punto di partenza.
 
Il gelido tocco delle mani di Catlina scorreva sulla sua schiena nuda, senza che potessero incappare nel suo reggiseno durante il tragitto, esse scesero senza problemi verso i fianchi curvilinei, e la più grande delle due volle subito provare su della sua amante tutto quello che aveva letto nei libri e di cui le sue coetanee più esperte parlavano, a patto che non violasse l'unica condizione che l'altra le aveva imposto.
 
Il solo pensiero di aver condiviso le pratiche sessuali riservate al primo vero amore con una, tolti tutti i preconcetti dettati da quell'estate in poi, collega instillò una velenosa perplessità nella Campionessa di Sinnoh, che però non fu abbastanza per metterle in odio i punti segreti che aveva visto, le sensibilità su cui aveva infilato le dita e le parti di Catlina che aveva baciato con tanta adorazione.
 
Perché quella che le aveva posto il seno affinché glielo succhiasse non poteva essere un'estranea?
Con quale coraggio si era gettata nell'abisso di non ritorno il quale separa amicizia ed amore?
Ma Camilla volle perseverare nel suo incedere al buio.
 
Era la sua prima volta. E l'idea di possedere la verginità di una fanciulla mansueta e riservata come una vestale sulla punta dei suoi polpastrelli le riempiva le membra di vigore.
Già voleva un bene dell'anima a Catlina, unirsi al suo corpo era stato solo mera formalità.
 
Il teorema precedente sulla bipartizione dello spirito di Camilla, il più puro fra i più puri dell'universo, trovava la sua dimostrazione in quella mattina, in cui le due biondine di Sinnoh non si erano ancora rivestite, anche dopo aver terminato la colazione.
 
Catlina presentò poi un qualcosa di simbolico: appoggiò la testa libera dalle bende sull'incavo fra il collo e la spalla della leader e chiuse gli occhi per enfatizzare quanto si stesse godendo la loro vicinanza. Non lo avrebbe mai fatto se si fosse trattato di un altro, o di un'altra.
 
«Adesso dovrai prenderti cura di me finché non mi riprendo... Aiutarmi a lavarmi, a vestirmi, a medicarmi... Non sono in grado di fare tutto da sola.»
 
«Sei un pochino viziata, uguale e identica a dieci anni fa.» La riprese scherzando la donna.
 
«Dai, - la biondina si indispettì - non sto scherzando. Sai che sono paralizzata dalla vita in giù fino a quando le terminazioni nervose non si riprendono dal trauma...»
 
Camilla la interruppe subito prima che ella potesse entrare in dettagli medici orrorifici. Era una prassi che non sopportava, provava troppa empatia per restare indifferente.
«Certo, certo... - poi volle provocarla ulteriormente e vederla arrossire - Ti dispiacerebbe farti fare il bagno da una delle nostre ragazze, uhm?»
 
La nobile si strinse nelle gambe bianche in preda all'imbarazzo, come previsto.
«Scherzi? Non voglio che quelle... quelle... Quelle tre mi tocchino!
E non voglio che sappiano che noi... Che sappiano di noi.»
 
Lo aveva previsto. In primis, sapeva bene che Catlina non poteva essere davvero lesbica.
Prima che subentrasse tutta la vicenda del Team Plasma, lei aveva occhi solo per un uomo, attraente d'aspetto e dal carattere carismatico. Era una fanciulla come tante.
 
Purtroppo però, notando come si protraesse in avanti la sutura presente sulla sua nuca in bella vista sotto il suo campo visivo, fu costretta a ricredersi.
 
Chissà se Catlina la amava come proclamava. O era solo curiosa. Frustrata, può darsi.
Quella ragazza era alla costante ricerca di materiale onirico sparpagliato attraverso la loro realtà senza senso, ingiusta e sanguinolenta, non potendo dormire in un sogno per tutta la vita rincorreva le ombre, le proiezioni dei suoi desideri infantili nascosti nel silenzio e nel rumore.
 
Dopodiché ella si scostò improvvisamente dal suo fianco e arrancò verso l'esterno per prendere un piccolo oggetto tintinnante e le mostrò un altro sorriso, questa volta meno consunto.
«Ti piace questa villa?» 
Domandò, nascondendo qualcosa dietro la schiena, la sua carnagione lattea illuminata dal sole.
 
Per risponderle, Camilla la sfiorò con le labbra la guancia e le leccò l'orecchio, guadagnandosi un mugolio di inaspettato piacere.
«Non avrebbe nessun valore se tu non fossi qui.» La sua voce era impregnata di eccitazione.
 
Cercando di emulare il gesto subito la sera prima, Catlina le catturò la testa sulla sua mano e si portò a un dito dal suo volto, ma non la baciò ancora.
«Poco importa. Tanto adesso è tua.»
 
E, prendendole per l'estremità, le mostrò assai compiaciuta un mazzo cospicuo di chiavi, ognuna di esse apriva un anfratto di quell'enorme edificio. La giovane rimase senza parole.
 
«Ho chiesto a mamma e papà se fosse un problema lasciarti la villa, visto che io non la uso.»
Fece la biondina, come se una cessione di proprietà fosse una cosa da nulla.
 
«Ah, sì?» 
Camilla d'altronde, pretendeva spiegazioni. Non era propriamente sul lastrico, ma non riusciva a capire la mancanza di buon senso che caratterizzava le persone così abbienti.
 
«Mi avevano comprato questa casa perché ci abitassi per tutto il tempo in cui sarei rimasta ad Unima, ma sai che voglia... Svegliarsi così presto la mattina per arrivare da qui alla Lega?
Neanche morta.»
 
Catlina esibì una smorfia di insofferenza, mentre accarezzava con affetto disinteressato le gambe della sua più-che-amica, guardandola dritta in viso. Intanto riprese.
 
«Meglio se la tieni tu. Puoi anche arredarla di nuovo, se ti fa piacere.
Così puoi venire ad Unima ogni estate senza doverti cercare un albergo...
E ci possiamo vedere sempre, anche dopo la fine del torneo, no?»
 
Non dandole il tempo di reagire a tutta quella gentilezza entusiasta, la stessa le propose in ultimo luogo di farsi una bella doccia fresca insieme prima di tornare a comportarsi da colleghe di lavoro, lasciando all'altra, ad ogni modo, poca scelta. 
 
Sebbene dovesse contare sul suo corpo ulteriori cicatrici, un trauma cranico, un divampante amore da celare e la possibilità di diventare Campionessa svanita, Catlina sorrideva come un tempo.
 
Con tutta probabilità, amava veramente la sua compagna come aveva detto.
 
Prova di ciò stava scritta sul suo corpo come documento ufficiale. La sua pelle semi-traslucida era ora decorata da ematomi colorati, blu, violacei e rossastri, a far compagnia agli altri segni permanenti, stavano sparsi nelle zone più esposte quali il collo e le spalle, fino a scendere fra le cosce, sul sedere e in mezzo al seno come testimonianze del suo amore.
 
«Devo aver esagerato un po' ieri sera... Ho succhiato troppo forte, è vero...
Ma la sua pelle è così deliziosa... Come mordere un marshmallow.» Pensò.
 
Camilla, d'altronde, non esitò a prenderla in braccio per accompagnarla ed insieme, nonostante tutto ciò che era successo in quelle giornate di agonia fisica e morale, guardavano una bomba da bagno tonda sciogliersi e colorare l'acqua della vasca di rosa intenso.

 

 

«Camilla! È tutta la sera che ti chiamo! Diamine, potresti almeno tenere il cellulare acceso?»
 
«Scusami tanto Nardo, ho avuto da fare per tutto il tempo, sono passata a vedere come sta Catlina nel frattempo...»
 
«E come sta?»
 
«Uhm, sta abbastanza bene, dai, il dottore ha detto che la possono dimettere anche domani mattina, volendo.»
 
«Ma non le era venuto una specie di ictus? Non era in pericolo di vita fino a poche ore fa?»
 
«N-No, sono solo i medici che fanno i paranoici, pensa che mi è perfino venuta incontro quando sono arrivata...»
 
«E l'operazione che ti avevo detto di farle fare? Ti sei ricordata almeno quella?»
 
«Certo che me ne sono ricordata, l'ho pure convinta a farsi incidere sotto la nuca, così non devono tagliarle i capelli! Ho solo avuto un po' di cose da fare, e un imprevisto...»
 
«Va bene, Camilla. Scusa se sono un po' preoccupato, ma sai com'è, quella ragazza mi da problemi con la salute da quando l'ho presa alla Lega. Basta che ora sia tutto a posto e non ci siano altri scombussolamenti nel programma. Stai arrivando a casa?»
 
«Infatti, stavo quasi per dimenticarmi: stanotte mi sa che torno tardi, molto tardi.
Ah, e non aspettatemi per cena e domani mattina niente allenamenti, per una volta.»
 
«Hai finito?»
 
«Credo di sì, se cambio ancora programma ti avviso per messaggio.»
 
«Ma questo è un telefono fisso! C-Camilla?! 
Ha riagganciato... quella ragazzaccia...»

 

 

Behind the Summery Scenery #17

1. Oggi non sono andata a scuola per editare questo capitolo. Credo di aver a dir poco stuprato il tasto del corsivo.
E se ho dimenticato qualcosa... fatemelo notare, per favore. Odio rileggermi, penso si sia capito.

2. Super disclaimer leggendario di livello God: questo capitolo è pieno di ospedali, ferite, operazioni, coma celebrale, bambini malati, terminologia medica e altre cose di delicatezza simile. Ora, io ho cercato di non essere ne' troppo vaga, ne' troppo specifica nella descrizione della ferita celebrale di Catlina, (la quale non ha fatto niente per meritarsi tutto questo, cucciola) e di tutto ciò che ne compete, ma se qualcuno nota incongruenze, imprecisioni oppure se la sente di darmi dell'ableist!1!111!!1! e dell'insensibile, lasciate pure una recensione con allegato il referto medico.

3. Il tema dei sogni è uno dei miei fetish da scrittrice (OMG Momo si e apenna defnita skritrice, k aroganta e persuntuossa!!) e mi piace come tale tema percorra tutto l'arco di Pokémon Nero e Bianco. 
Per chi non ci fosse arrivato, il primo in cui Camilla e Catlina viaggiano nella Critica della Ragion Pura è un sogno.
Il secondo è un flashback, ma se siete arrivati fin qui senza saltare capitoli o fare i furbacchioni dovreste saperlo.

4. Ancora, i più puristi di voi si saranno coperti gli occhi alla lettura di una scena vagamente accennata di sesso fra due ragazze maggiorenni e vaccinate in una storia dal rating arancione, si saranno muniti di acqua santa e crocifisso.
Oppure no! Tranquilli che non ho cercato cose come "hot virgin blondes with big boobs", è tutta farina del mio sacco.

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Capitolo 18
*** Io desidero ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Early Summer Girls

Capitolo 18

Io desidero

 

La casa del Campione di Unima, la sua dimora in cui viveva quando non si occupava delle faccende da Campione ed era semplicemente il solito vecchio, saggio Nardo dall'aria bonaria, si trovava nella cittadina rurale di Venturia, nella parte continentale della regione.

Era un posticino tranquillo, fondato da una comunità di pionieri puritani i quali pregavano tre volte al giorno e digiunavano il venerdì, convinti che il loro rigore e l'assidua pratica dell'agricoltura avrebbero nobilitato il loro animo laborioso una volta giunti al cospetto di Dio.

La calma della vita agreste e la ridotta affluenza di persone la rendevano un idillio per l'allenamento, vi erano boschi di larici in cui si potevano fare straordinari incontri con Pokémon selvatici abbastanza potenti, campi di diversi ettari per lottare in libertà e soprattutto nessuna mollezza che inebetisca gli allenatori, come avviene nelle grandi città.

La casa dell'uomo che veniva additato come il più forte della regione dava di sicuro nell'occhio, la ragione per cui avesse deciso di costruirla in stile orientaleggiante era ignota a molti contadini del luogo.

Le altre abitazioni consistevano quasi tutte in larghi casolari muniti ciascuno del proprio ranch e di un fienile per conservare il grano, di un silo e di uno o più recinti in cui i Miltank e i Mareep pascolavano placidi.

Questo tipo di allevamento era principalmente volto alla sussistenza degli abitanti locali, tuttavia l'innata estroversione della ragazzina dai capelli viola le aveva fruttato una mutuale amicizia con i vicini, fra di loro si era instaurata una simpatia tale per cui avevano deciso di omaggiarla con un paio di bottiglie di latte Mumu fresco, munto quello stesso mattino che lei aveva passato ad allenarsi in una vasta distesa erbosa.

Quel delizioso premio, si disse, sarebbe di sicuro andato a genio ai suoi due draghi perennemente affamati; le era costato di lasciar giocare con i suoi Pokémon i bambini di quella coppia di mezzadri, con la preoccupazione che si potessero ferire anche solo accarezzando la scagliosa pelle di essi.

Tante volte lei si era tagliata facendo le coccole ai Druddigon di suo nonno, sebbene lui la ammonisse di continuo sulla pericolosità della loro Abilità, Cartavetro.

Quel ricordo nostalgico la distraeva da qualcosa di più reale, un timore molto più sensato che una piccola Allenatrice sopravvissuta ad un attacco di un team assetato di vendetta poteva avere nel suo animo: Iris non riusciva neppure a sentire il sapore vellutato del latte sulla lingua se ripensava cosa aveva vissuto solo due giorni prima.

Immaginava terrorizzata la metamorfosi della bianca bevanda in sangue rosso e viscoso, che le entrava in bocca e lei lo ingoiava, riluttante, finché esso non le corrodeva lo stomaco e le interiora si contorcevano per liberarsi da quel flagello tossico.

E allora, mossa dall'angoscia insopportabile si sventrava l'addome come fa un macellaio con l'agnellino immolato e sperava che il veleno che ora traviava la sua mente tanto da spingerla a quelle macabre fantasie non avesse inquinato pure il cuore di Georgia.

Alla giovane vennero i brividi. Si fermò a circa cento metri dal sentiero in terra battuta che conduceva al giardino antecedente la dimora del Campione, osservando davanti a sé.

Che strano. C'erano delle persone lì davanti, parecchie persone stazionavano lì.
La ragazzina si mise a scrutare quel gregge di individui come se il suo sguardo possedesse poteri telecinetici e riuscisse a rimuovere la loro presenza dal paesaggio.

Già destavano leciti sospetti con il loro andirivieni frettoloso, come i Durant nei formicai si acquattavano dietro i loro furgoncini e ne uscivano con in mano attrezzatura audio-visiva parecchio ingombrante e, a quanto pareva, nessuno aveva avuto la brillante idea di coprire i giganteschi loghi delle reti televisive stampati sulle vetture.

Giunta alla realizzazione di non avere assolutamente voglia di un'intervista lampo che mettesse ancor più in ridicolo l'esito sfortunato della loro missione, Iris si decise a fare un giro più lungo per entrare a casa di Nardo passando dal cortile sul retro, dove si trovava l'onsen.

Aveva sentito parlare alla televisione degli eroi che nelle altre regioni avevano salvato la comunità da catastrofi naturali, sventato i piani di organizzazioni temibili e catturato i Pokémon Leggendari come se fosse il loro hobby.

Per lei invece, la nipote acquisita di un Capopalestra, era stato un dono del cielo il solo essere sopravvissuta, in che modo potevano i media nazionali considerare la sua missione un fallimento?

Poi speculare sul dolore altrui le sembrava la peggior forma di mercificazione: se quegli eroi da fumetto senza un minimo di sentimenti avevano come passatempo salvare la Terra, che si divertissero pure nel farlo tutte le volte che volevano.

Lei era una ragazza normale, con limiti e debolezze, e così erano anche le sue compagne.
E non c'era bisogno di ammetterlo in ogni canale perché gli abitanti di Unima se ne rendessero conto.

Fu sicura di aver eluso la barricata di giornalisti solo una volta entrata all'interno, non appena l'Emolga di Camelia le venne incontro come a suggerirle che le due diciassettenni erano sveglie.
Abituata ormai a trattare tutti i Pokémon delle sue amiche come fossero i suoi, le fece una carezza sulla testina, facendole abbassare le orecchie.

Una volta giunta nella loro stanza, Iris cercò di spiegare la situazione meglio che poté, non tralasciando di aggiungere la sua opinione più onesta che mai.

«Avete visto fuori? Ci sono giornalisti per tutta Venturia, e indovinate chi cercano?
Si è sparsa la voce di quello che è successo alla Lega, non ci voleva.
Adesso il Team Plasma ci ha veramente fregate, anche se non ci ha uccise...»

«Grazie Iris che ci sei tu a tirarci su il morale, altrimenti qui ci saremo già suicidate tutte.»

Quell'acida interruzione distolse l'attenzione della giovane dal condividere la sua depressione con le altre, sebbene non si aspettasse davvero tanta indifferenza di fronte a una notizia del genere.
Rotolò la testa in direzione opposta e diede un occhio a cosa stessero facendo le sue compagne durante la sua assenza.

Lei si era svegliata relativamente presto quel giorno, aveva il bisogno impellente di uscire a prendere una boccata di aria fresca dopo quei giorni di lutto e reclusione, per la mancanza delle due compagne più vecchie le tre rimanenti allenatrici si erano lasciate allo sbando.

O almeno, a quanto sbando si potessero lasciar andare sotto la supervisione rigida di Nardo.

Iris non rispose e si accostò alle due, senza contenersi molto nella curiosità: in effetti era una settimana che Camelia ripeteva come un mantra di dover assolutamente fare una manicure alla sua ragazza, volente o nolente ella fosse.

Pur di rendere duttile al suo proposito la sua dolce metà trovava in ogni occasione il modo migliore per sminuirla e farla sentire in colpa con frasi del tipo "Anemone potrebbe pugnalarmi un giorno o l'altro con quegli artigli che si ritrova".

Dall'altro lato però era da altrettanto tempo che doveva sorbirsi lei in maniera un po' meno plateale le lamentele della rossa riguardo la scarsa cultura della sua fidanzata, del fatto che non riuscisse a tenere una conversazione con lei senza che quella non la pregasse di evitare i suoi insulsi riferimenti alla matematica e alla fisica, agli anime e ai manga.

Per questo perfino una di poche parole come Anemone riusciva ormai ad esaurire il suo buon senso, quando le domandava se fosse possibile che l'altra non sapesse cosa volesse dire un qualcosa che neppure lei aveva mai sentito nominare, ma si trovava costretta a darle ragione per evitare di sentirsi dare dell'ignorante dal genio di turno.

Dunque la situazione che le si presentava non poté non strapparle un genuino sorriso.

Sapeva dell'esistenza di un Capopalestra artista dalle strane tendenze pseudo-astrattiste con un tocco di dadaismo, ma nel suo piccolo riteneva un vero capolavoro quello che la sua compagna modella aveva dipinto sulle unghie della sua ragazza con una mano ferma da fare invidia.

Non solo le aveva colorato le unghie con delle adorabili sfumature di smalto rosa, viola ed immancabilmente azzurro, le aveva anche ricostruite e limate.

Senza dubbio la più giovane si stupì di come la sua anima di ragazza cedesse così facilmente al senso del dovere per concentrarsi su tali frivolezze come lo smalto, ma avrebbe barattato la sua integrità morale per avere anche per sé una manicure così carina.
E fu al settimo cielo quando Camelia acconsentì, aspettandosi una risposta negativa.

La restante mezz'ora passò tranquilla.

Niente invasione di domicilio da parte di paparazzi muniti di fotocamere dai flash abbaglianti, niente discussioni amareggiate sullo stato della loro compagna assente, le due Capopalestra riferirono che Nardo aveva accertato il suo ritorno presto o tardi quel giorno, Iris fece assaggiar loro il latte regalatole dai vicini e tutte concordarono sul quanto si mangiasse bene lì.

«Dai, amore, voglio sentirti dirlo un'altra volta, davanti ad Iris, per favore...»

La rossa si era messa in una sottospecie di posizione di preghiera, congiungendo le mani per ottenere compassione, mentre Iris la guardava stranita, in senso comunque buono.

«Ma fammi un piacere, - Camelia era così intenta nel suo lavoro con il pennellino in mano da non degnarla neppure di contatto visivo - se penso che hai un fetish per queste cose mi viene mal di stomaco.»

«Ti prego... - Anemone insistette - È tutta prima che me lo hai detto giusto, se lo rifai anche adesso sarà la cosa più bella che tu abbia mai fatto per me... Insieme alle unghie, ovvio.»

«Okay, ma non mi ricordo bene...» La mora fece una pausa dal suo lavoro per pensare.
Intanto le due ragazze di colore la fissavano con alte aspettative.

«Allora... Il volt è l'unità di misura... - la ragazza si sforzò un poco, poi riprese - ...del potenziale, che è... - rallentava ogni volta che era incerta sul passaggio successivo, abbozzava quello che voleva dire con le labbra ed Anemone le faceva cenni per continuare, tutta esaltata - uh, il prodotto fra...

La costante kappa-zero, che è nove per dieci alla nona newton per metro quadro su coloumb, e il diviso, cioè, scusa, intendevo il rapporto fra la carica e la distanza e tutto questo fa venire fuori joule su coloumb che da... Sì, il volt.»

Ci furono alcuni istanti di silenzio dettati dall'ammirazione, mentre la ragazza che aveva parlato così scioltamente di una materia a lei del tutto sconosciuta come l'elettronica era bloccata in una specie di trance intanto che rifletteva su ciò che aveva detto.

Aveva formulato una frase, ma se le avessero chiesto di spiegare cosa fossero il potenziale, il joule o i newton per metro quadro su coloumb avrebbe fatto scena muta.

Tuttavia non ebbe motivo di disperare, visto che la sua insegnante privata la stava abbracciando con una forza esagerata, neanche avesse pronunciato chissà che confessione d'amore.

«Da quando stiamo insieme sei diventata il triplo più intelligente.» Fece quella, convinta.

«E tu almeno dieci più presentabile.» La risposta di rimando della mora la fece sussultare.  

«E io almeno cento più... Niente, accendo la tv.»
Iris premette il tasto sul telecomando e gettò lo stesso in disparte, pur di troncare sul nascere una scena degna della più smielate commedie romantiche.

Certo, non aveva nulla contro qualche dimostrazione di affetto anche fra ragazze innamorate.
Ma per Giove, che non fosse sotto i suoi occhi di innocente single di quindici anni.

Il Campione aveva concesso alle sue ragazze di tenere la televisione nella loro stanza alla stregua di un padre conservatore del millennio passato, considerandola una macchina che distrugge l'immaginazione, rattrappisce il cervello dei giovani e porta solo brutte novità.

«Ma perché qui la tv è sempre sintonizzata sul canale delle news?»
Iris prese un sorso di latte, a cui aveva aggiunto un cucchiaino di Baccacao in polvere per renderlo ancora più gustoso e dolce.

«Infatti, - Anemone aveva fatto accomodare Camelia fra le sue gambe, divaricandole dietro di lei - guardiamoci un anime, ne dovrebbero essere usciti di belli nella stagione estiva.»

La voce in sottofondo sovrastò ogni rumore presente nella casa, tanto che Iris recuperò pure il telecomando per alzare il volume: dalle immagini che comparivano sullo sfondo intuirono che si parlava, purtroppo, di Unima.

Quello era un telegiornale nazionale che copriva gli eventi di tutte e sei le regioni del mondo Pokémon, abbastanza famoso da attirare gli ascolti indipendentemente dalla qualità dei servizi.
Lo studio con il grosso banco coperto da schermi su schermi venne inquadrato prima nel suo aspetto generale, poi la telecamera puntò dritta al cronista, impeccabile nella sua giacca e cravatta abbinate l'una all'altra.

Non avendo seguito tutta la trasmissione, alle ragazze giunse solo questo spezzone del discorso.
«...che deriva dalle passate attività con il famigerato Team Plasma.»

Ammutolirono tutte, lasciando che il servizio vero e proprio cominciasse: furono mostrati loro immagini riprese da diverse angolazioni delle quattro sale dei Superquattro, ognuna appariva distrutta in parte, con calcinacci sul pavimento, cavi spezzati e altri danni ingigantiti dallo zoom eccessivo.

«Quando sembrava che il panico di due anni fa fosse stato debellato con la cacciata di Natural Gropius Harmonia - partì una voce narratrice, con estremo pathos - il Team Plasma rinasce dalle sue ceneri, come il simbolo che ora lo rappresenta, l'Araba Fenice.»

Passarono poi in rassegna una serie di graffiti su di un muro diroccato, rappresentavano tutti un corpo informe attorno al quale fiamme rosse divampanti si alzavano, abbastanza stilizzate nel disegno, mentre la carcassa che ne era circondata veniva carbonizzata.

«In questi ultimi mesi sono stati segnalati alcuni casi isolati di vandalismo da strada, che non hanno preoccupato le autorità fino al fatale assalto alla Lega Pokémon di mercoledì sera; purtroppo in quell'occasione le forze di difesa della regione non hanno potuto impedire danni irreparabili alla millenaria struttura...»

«Ma dai! - lo riprese Anemone, indicando lo schermo con fare sdegnato - Sono delle cavolo di statue, un po' di colla e si risolve tutto!
Grazie telegiornale, adesso sembra che le "vandale" siamo noi!»

Nonostante la reazione esagerata, la rossa aveva ragione nell'evidenziare la frivolezza di quel commento: la plebe tende sempre a cercare un colpevole ed ora la collera generale si sarebbe riversata sui servizi di protezione, e più specificatamente su di loro e su di Nardo.

«Pensate che adesso la Polizia Internazionale interverrà sul caso?» Domandò Iris.

«Probabilmente sono solo i notiziari a fare scandalo su quattro lampadine rotte... - Camelia le rispose così, essendo la più esperta nel settore - Adesso che si inventeranno?
Chiamano Ghecis e gli fanno chiedere scusa in mondovisione?»

«...ma l'ex Capo del Team Ghecis Harmonia - il telecronista proseguì il suo discorso capitando proprio a fagiolo alla fine della precedente affermazione della modella - nega il proprio coinvolgimento nell'imboscata dell'altra notte e in tutte le attività illecite intraprese a partire dallo scioglimento del clan.»

«Basta, io non voglio più vivere in questa regione.»

La scena rappresentata si spostò in un'ampia aula per conferenze, addobbata con festoni e decorazioni nere e bianche, la bandiera di Unima sventolava alle spalle della tribuna oratoria.
Un vociare confuso diffondeva un brusio eccitato: i tecnici mostrarono il pubblico seduto sulle tribune, uomini e donne vestiti con il bicolore regionale e il fervore patriottico nelle loro espressioni.

Iris, Camelia ed Anemone erano tutte e tre originarie di Unima, forse per la terza potevano esserci varie ipotesi sulla provenienza della sua famiglia natia, però comunque conoscevano la loro terra come un Allenatore conosce la propria squadra.
Dunque non potevano fare a meno di essere in ansia per chi stava per presentarsi sul palco.

L'uomo dalla folta chioma verde nonostante l'età avanzata fu accolto con un fragoroso scroscio di applausi, mentre si sollevavano striscioni e urla in suo onore.

Quel bizzarro individuo vestiva quale un monarca orientale, una tunica riccamente ricamata con i motivi rossi, arancio e d'oro della fenice, dell'arabesco e della Mano di Fatima: l'ultima, segno di fortezza e coraggio, figurava in un ingombrante pendente tempestato di gemme.

Ghecis alzò una mano e la puntò verso il suo pubblico, il quale subito tacque e fu come risucchiato nella spirale ipnotica delle parole di quell'oratore provetto.

«Cittadini, - decise di pausare per un secondo, l'atmosfera si era fatta bollente - è facile lodare la regione di Unima davanti agli abitanti di Unima.
Non lo è, quando bisogna difenderla dallo squallore e dal degrado di cui ci accusano le altre regioni.

Nel secolo in cui viviamo, la nostra terra non è più una penisola di selvaggi vestiti di pelli che allevano Pokémon ed ignorano le vicende del mondo esterno.
I nostri padri, i nostri antenati che combatterono nella guerra fra i due eroi al fianco di Reshiram e Zekrom, essi posero le basi per la vita in comunità, cessarono le ostilità, la guerra civile che aveva devastato la regione e straziato la popolazione per anni ed anni...

Eppure io, ormai anziano, io che credevo di aver visto tutto, oggi vedo con i miei occhi a che aberranti gesti e malevole intenzioni si sono lasciate andare le nostre generazioni!»

Gridò e si prese la fronte in una mano, con la testa bassa in segno di delusione.
Nessuno fiatò.

«Secondo me ci crede tutti scemi...» Commentò Iris, senza ostacolare l'ascolto.

«Questo atto, oserei dire, blasfemo, questa irrispettosa blasfemia di... Dissacrare un edificio come la Lega Unima, simbolo delle lotte Pokémon di generazioni di Allenatori concordi uniti sotto il saggio governare dei sapienti... - si interruppe, ma poi tuonò, battendo il pugno - È imperdonabile!»

«Okay, ci crede definitivamente scemi.»
Si rispose da sola, riprendendo a fare un altro po' di coccole ad Emolga.

Invece di tirarla ulteriormente per le lunghe, Ghecis decise di sfoderare subito il suo asso nella manica, la sua argomentazione vincente.

«Ho sentito dire da fonti, direi, "attendibili", che la mia persona sia responsabile di tale ingiuria.
Secondo questa tesi, l'unico collegamento plausibile risiede nell'associare il nome del Neo Team Plasma, a quello dell'organizzazione che io stesso, ripeto, io stesso ordinai di sciogliere.

E non posso spiegare la rinascita di questo aborto, il quale pretende di essere il figlio degli ideali innocui e puri della vecchia organizzazione, se non domandandovi, come starete facendo anche voi, amici: chi sono i membri di codesta malfamata organizzazione?»

«Le tue scaldaletto, tesoro, molto semplice.»
Gli ribatté la mora, salace come non mai.
Le altre due risero divertite, era in quelle situazioni eccessivamente esagerate che le battute della loro compagna diventavano particolarmente efficaci.

Dopo un leggero sussurrare del pubblico generato dalla domanda spinosa, l'uomo si pronunciò.
«I membri di tale organizzazione sono, in fede vi dico, gli scarti, gli inetti, i rifiuti umani della nostra società!»

Chiunque, sia fra i presenti in quella sala, sia gli spettatori da casa rimasero basiti, alla modella, del tutto risoluta a non ascoltare una parola che uscisse dalla bocca di quel delinquente, cadde il pennellino dello smalto e per sbaglio si rovesciò un bicchiere.

«Le tendenze del nuovo millennio indeboliscono i giovani e li portano sulla cattiva strada.
Si atteggiano con superficialità e dimenticano i veri valori che hanno reso grande questa regione.

E mi sento in dovere, cari signori, di portare esempi concreti in sostegno della mia teoria: gli immigrati, i disabili, i poveri, i figli della strada, i neri, i gay e le minoranze deboli in generale rallentano lo sviluppo della regione e danneggiano il buon sangue dei suoi cittadini.»

In quell'esatto momento la storia dell'umanità si bloccò. Vi furono mille secoli di involuzione del tutto compressi in pochi secondi, quelle parole erano la vera blasfemia che distruggeva il labile orgoglio del genere umano.

Ghecis Harmonia, il quale si faceva portatore delle verità incommensurabili della regione, un aristocratico definito di buona famiglia si era messo a spergiurare contro le fasce più deboli della popolazione, quelle più pregiudicate ed emarginate, ma che in toto non nuocevano affatto alla società nel modo che sosteneva lui e che comunque rappresentavano pur sempre una parte della popolazione.

Le tre ragazze rimasero senza parole, senza commenti.
Era come un'esecuzione pubblica, ognuna si sentiva piena di vergogna per ragioni non meritevoli del loro rimorso, offese davanti a tutti, in diretta nazionale.

Ogni sillaba di quel discorso era sbagliata. Chiunque lo avrebbe potuto notare.
Ma quel bastardo senza gloria volle comunque perseverare nel suo seminar zizzania.

«Con la mia candidatura a Campione, entro il mese prossimo vi garantisco che la nostra amata Unima sarà libera da queste piaghe, la nostra società imparerà ad isolare ed eliminare questa categoria di individui deviati, e la giustizia e la felicità trionferanno.

Ora ci troviamo tutti in un regime di terrore, in cui regna lo ius omnia e la legge non è più pietra miliare. Ma io, Ghecis Harmonia, mi propongo di cambiare la situazione.
Il vostro consenso, concittadini, sarà la chiave per una regione più giusta, più bella, più grande!»

Ed una marea di battiti di mani esaltati, di grida infervorate, di febbrile eccitazione si diffuse fra la folla e il sovrano già pregustava la sensazione della corona d'alloro sulla sua testa, mentre ringraziava con falsa umiltà i suoi nuovi sostenitori.

La ragazzina dalla pelle color caramello, i capelli viola, proveniente da un villaggio sconosciuto e il cui orientamento sessuale era ancora da definirsi pienamente, andò ad abbracciare le sue due compagne, non riusciva neppure a far uscire dalle labbra il disgusto abominevole che quell'individuo le procurava.

Non era preoccupata per sé. Non lo era.

Lo era bensì per le persone diversamente abili, straniere, omosessuali, di colore e in condizioni economiche precarie che lei conosceva, con cui si svegliava, mangiava, si allenava e andava a dormire tutti i giorni.
Le stesse persone che le avevano insegnato ad abbattere le sue barriere mentali per non finire a predicare l'odio come individui così rivoltanti.

Iris aveva paura, quasi quanta gliene aveva data il pensiero che esse stesse potessero morire sotto l'attacco del Neo Team Plasma, per Anemone, Camelia, Catlina e Camilla.

Quel giorno di luglio, Unima aveva subito un duro, durissimo colpo alla sua dignità.

 
Quando, circa mezz'ora dopo, comparvero sulla soglia della loro camera la leader insieme alla giovane che da due giorni infestava le loro più nefande preoccupazioni, tutte e tre fecero del loro meglio per nascondere i volti di pietra, scolpendovi sopra dei sorrisi il più accoglienti possibile.

E, tutto sommato, non si dispiacquero troppo di fingere la loro felicità: rivedere Catlina tutta intera, viva, vegeta, ma soprattutto sveglia dal coma, riscaldò i cuori congelati di tutte.

Ma non solo. La biondina, nonostante fosse reduce da una dolorosa lobectomia, appariva in pace con se stessa e con l'universo intorno a lei: non si dimostrava recidiva agli abbracci e ai baci gioiosi delle due Capopalestra, anzi, si sporgeva sull'orlo della sua sedia a rotelle per contraccambiarli, al settimo cielo all'idea di lasciare quel tetro ospedale una volta per tutte.

Era un ciclone di affetto e calde interazioni che non poté non far intenerire la protagonista, la quale si ripromise di aiutare la loro amica nei momenti di precarietà fisica, il tutto di propria spontanea volontà, imparando come soccorrerla qualora le fossero venuti, per esempio, altri attacchi di epilessia, adesso aveva imparato il nome di quella malattia.

Poi le propose, cercando sempre di non assillarla troppo, di farsi rifare le unghie di nuovo, mostrandole il variopinto design di una galassia blu scuro, piena di brillantini che sembravano stelle, che sfoggiava con fierezza sulle sue.

«Se ve lo chiedono - fece Camelia, andando alla ricerca della base trasparente - io non sono una delle candidate al posto di Campionessa. Io sono la loro estetista.»
Scatenò così un altro momento di spensierata ilarità per il gruppetto di nuovo riunito.

Se c'era una cosa di cui Iris era certa, essa risiedeva negli istanti in cui le cinque sorridevano tutte assieme, nasceva una specie di magia, un arcobaleno illuminava la loro stanza buia ed i brutti pensieri si volatilizzavano come le bollicine frizzanti nella Gassosa e nel Lemonsucco.

Perfino Nardo, il quale non osava mettere piede nei locali adibiti alle ragazze neanche a pagarlo, volle dare il bentornato alla biondina, sinceramente grato di poterla contare fra i suoi Superquattro ancora, sperava per un altro po' di tempo, prima che la malattia peggiorasse.
Per lui, i suoi dipendenti alla Lega erano come dei nipotini, il trattamento che destinava loro era lo stesso.

«Invece, - disse, più serio - desidererei delle spiegazioni per quanto riguarda la signorina dal cellulare inesistente...»

«Ti darò tutte le spiegazioni, - Camilla gli si parò davanti, sicura e grintosa com'era da lei - quando tu ci dirai, una volta per tutte, quando potremmo avere la nostra sauna.»

Tutte le allenatrici in kimono espressero il loro supporto alla protesta della Campionessa.

«Credevi ce ne fossimo dimenticate?» Gli ripeté la donna, mettendolo alle strette.

«Non mi pare il caso, comunque, di parlarne adesso. - L'uomo dalla folta chioma arancione diede loro le spalle - La Professoressa Zania mi ha chiesto un appuntamento in privato con voi, per discutere la situazione del Neo Team Plasma senza che i media creino altro panico.»

Partì una lunga espressione vocale di generale malcontento, le pupille che volavano al cielo, chiedendosi perché dopo tanti tormenti alle giovani non spettasse neppure un giorno di pausa.
Dopodiché una sfilza di occhioni miserevoli pregavano il vecchio Campione di concedere loro un premio, una ricompensa che le spronasse a fare bene il loro lavoro, come quando avevano scacciato i ladri dal centro commerciale.

Infine si stabilì un compromesso: Nardo le avrebbe lasciate libere un altro giorno per svagarsi, a patto che non tornassero a casa ubriache o deturpate in alcun modo.
E, cosa più importante, avrebbe assunto lavoratori professionisti per completare la sauna una volta per tutte, ovviamente.

Tutte applaudirono e i Pokémon fecero festa, con questo allettante proposito riuscirono a distrarsi dalle loro manicure per concentrarsi su ciò che la Professoressa aveva da dire.

In concomitanza con il congedo di Nardo, entrò nella stanza una giovane donna in camice da laboratorio, dai lunghi capelli nero pece e la frangetta corta sorretta da due mollette. Sorrideva timidamente, al suo fianco un piccolo Munna fluttuava come un palloncino, Catlina lo cercò di attirare con dolcezza verso di sé per accarezzarlo, appassionata com'era di Pokémon Psico.

La ricercatrice era leggermente impacciata nei movimenti, ma le ragazze non glielo fecero notare.
«Ciao ragazze, - si presentò - Sono Zania Yumei e sono una collega della Professoressa Aralia, che immagino conosciate bene.»

Tutte annuirono ed essa proseguì.
«Insieme a lei e ad altri studiosi mi sono offerta volontaria per aiutare il Campione sulla questione del Neo Team Plasma, mettendomi a disposizione per evitare la catastrofe degli anni scorsi.
E credo di avere qualcosa che possa interessarvi.»

Zania estrasse un pc portatile e le ragazze fecero spazio sul tavolo, radunandovisi intorno: esso rappresentava una schermata verde, in cui un diagramma rappresentava alcuni valori inseriti in dei grafici.

«Come sapete, fino a poco tempo fa il Team Plasma, quando ancora era guidato da Natural Harmonia, voleva persuadere gli allenatori a liberare i loro Pokémon.»

«È vero, - constatò la rossa - era questo il tema dei loro discorsi in pubblico.»

«Ecco, quando l'anno scorso il Team è stato sciolto sotto ordine di Ghecis, alcuni allenatori che in precedenza avevano liberato i loro Pokémon, li hanno ritrovati... Diversi.

Questi Pokémon abbandonati venivano recuperati in orde radunate tutte nello stesso posto.
Quando rientravano in contatto con i loro vecchi allenatori si dimostravano molto aggressivi, intrattabili e disobbedienti.

In questi mesi ho voluto fare delle analisi su alcuni campioni di questi Pokémon "liberati".
Quelli che vedete sullo schermo sono i valori basilari che regolano la vita di un essere vivente: battito cardiaco, frequenze nervose, pressione sanguina...
Ed i risultati delle analisi su questi Pokémon sono aberranti.»

«Poverini.» Commentò la nobile di Sinnoh, paragonando la propria situazione di malessere a quella di tali creature innocenti.

«È ovvio che ci fosse qualcosa sotto. - Zania cambiò interfaccia ed si fece più cupa - Così ho chiesto ad Aralia di analizzare il sangue, o qualsiasi tessuto connettivo questi esemplari possiedano, ed ho scoperto questo.

Tutti i Pokémon liberati sotto ordine del Team Plasma sono stati drogati con una neuro-tossina artificiale.»

Seguì un breve silenzio di riflessione. Ora era chiaro come mai quei farabutti predicassero la parità fra uomini e Pokémon ed il ritorno allo stato naturale di questi ultimi, e razzolassero male utilizzandone loro stessi per lottare senza il bisogno di allenarli.
C'era sotto un veleno, un veleno letale.

«E che cosa fa questa tossina?» Domandò subito Camilla.

«Non possiamo saperlo esattamente, questa tossina non si trova in natura. - Zania sospirò - Andarlo a scoprire... Significherebbe fare esperimenti ed iniettarla su altri Pokémon sani e allo stesso tempo negare le cure a quelli intossicati...
La legge della nostra regione proibisce la vivisezione.»

L'etica morale poneva un ostacolo ai chiarimenti della scienza, ma nessuna di loro fu così cinica da voler aggirare un tabù tanto indecoroso.
A quel punto una domanda sorse spontanea alla più piccola fra le Allenatrici.

«Che il Neo Team Plasma la utilizzi ancora questa droga?»

«Spiegherebbe perché i Pokémon di quelle pazze in tutina ci abbiano attaccate senza pensarci due volte.» Aggiunse la mora.

Zania mostrò loro una mappa della regione, con le città principali segnalate da puntini gialli connessi da segmenti dello stesso colore, per rappresentare i percorsi e le strade che le univano.
Indicò con l'indice un'area definita, a sud del territorio ed ingrandì su di essa.

«A differenza degli altri clan malavitosi, il Team Plasma non ha mai posseduto un vero e proprio quartier generale. I suoi membri si spostavano di città in città accompagnati da uno dei Sette Saggi.
Quindi, anche sul dove andare a localizzare dove nasca questo fantomatico contrabbando risulta un problema...»

«Aspetta, - le fece la mora, spostandosi col cursore su una parte differente della mappa - ci sono due posti a Unima dove gira un sacco di droga: a Sciroccopoli ed ad Austropoli.
Non guardatemi male... N-Non ne faccio uso o cose del genere, sono solo informata...»

Ci tenne a discolparsi, tanto contraria era agli stupefacenti che facevano impazzire la sua generazione. Quell'informazione inoltre, innescò la risposta repentina della sua fidanzata, la quale se la sentì di esprimere il suo umile parere.

«Già. Se la droga gli arriva da altre regioni non può di certo passare per via aerea.
Il servizio cargo nazionale infatti vieta il trasferimento di questo tipo di merci.
O arriva nei container, e ne dubito, visto che la frontiera è quasi impossibile da passare ora che i Saggi sono in libera circolazione, oppure...»

«Via nave. - Concluse Camilla - È l'unico modo per raggiungere Kanto, Hoenn o Sinnoh.»

«Siete piuttosto unite - commentò la Professoressa - per essere...»

«Avversarie? - la interruppe Catlina, che aveva trovato ottima compagnia in quel docile Munna così aperto alle coccole - Sì, lo sappiamo, ce lo dicono tutti.»

Nessuna di loro aveva davvero capito se ciò fosse un qualcosa di bello o una stranezza riprovevole, tanto da spingere Anemone a chiedere conferma, essendo ormai entrate in confidenza con la donna e non necessitando più di onorifici e formalità.

«Secondo lei è sbagliato il fatto che non ci odiamo ancora a vicenda? Stiamo cominciando a preoccuparci, visto quello che ha detto anche Ghecis in tv...»

Zania ripose il computer e si sentì un po' a disagio in quella piccolissima comunità: non le pareva di aver mai visto delle Allenatrici così legate, da quando tre Allenatori che lei ben conosceva avevano cominciato il loro viaggio dalla cittadina di Soffiolieve...

Non le sembrava affatto corretto utilizzare quelle ragazze così simpatiche, così fragili, per combattere dei criminali al posto della polizia o degli altri codardi, che solo al sentir pronunciare la parola "Team Plasma" se l'erano data a gambe.

Stava per andarsene e riferire a Nardo quanto quella missione fosse pericolosa ed infattibile, quando, di punto in bianco, Iris si alzò in piedi ed attirò l'attenzione di tutte.

«Ma allora è facile! Basta andare ad Austropoli, comprarci un po' di quella droga e lasciarla alla Professoressa, così può analizzarla senza far soffrire gli altri Pokémon.»

La ragazzina dai capelli viola subì su di sé quattro occhiate completamente confuse.
Alla fine però, Camilla smorzò un ennesimo sorriso e si alzò pure lei, parlando dritta alla donna.

«Uhm. Si potrebbe fare.
Anche entro oggi se vogliamo, tanto non avete allenamenti, ragazze, vero? - E fece l'occhiolino al gruppo affinché ricordassero chi aveva disdetto la loro sessione di fatica giornaliera - E poi non dobbiamo neanche spendere i soldi del trasporto, possiamo andare in macchina mia.»

«Se hai la macchina - la riprese Camelia - perché non l'abbiamo usata fin da subito?»

«Ovvio che non potessimo usarla... - La bionda si coprì la bocca con la mano, in segno di imbarazzo - Mi hanno ridato la patente questa settimana.»

«C-Come!? Ti sei fatta ritirare la patente? Hai preso sotto qualcuno?» Sbottò la rossa.

«Cosa importa, erano solo un paio di multe per eccesso di velocità, devo abituarmi che qui si guarda prima a destra e poi a sinistra...» Si difese la Campionessa.

Non le pareva il caso di drammatizzare sulle proprie piccole mancanze quando crimini molto peggiori accadevano in giro per la regione.
E, se proprio non si fidavano di lei, non c'erano stati né morti né feriti, poteva giurarlo sulla triade divina di Dialga, Palkia e Arceus.

«Ve la sentireste? - domandò preoccupata la ricercatrice - È pericoloso e potreste rischiare ancora di più di quanto non avete già fatto con l'attacco alla Lega...
Avete già pensato a come fare? Avete un piano?»

Subito Iris le pose una mano sulla spalla, trasmettendole sicurezza attraverso i suoi occhi nocciola.

«Un piano ci verrà in mente lungo la strada. Le posso assicurare che ce la faremo.
Alla fine, siamo noi le Campionesse della regione, mica quel Ghecis Harmonia.»

 

Il fuoristrada cachi guidato dalla Campionessa sfrecciava imperterrito verso la piazza centrale: nonostante le numerose vetture dai colori accesi che affollavano la strada, il procedere ad una velocità sostenuta amplificava il senso di libertà in ciascuna delle ragazze, potevano sentire il vento fra i capelli e godersi la vista sui cartelloni pubblicitari senza incombere nell'impiccio dei finestrini.

L'aria cittadina non trovava lo spazio fra il pesante odore di fritto emanato dal cibo comprato pochi minuti prima ad uno dei tanti fast-food seminati ad ogni angolo, anch'essi avvolti nello stesso contenitore di carta unta con cui erano brillantemente impacchettati i loro hamburger e le loro bevande frizzanti.

Iris alzò le pupille verso l'alto, mentre succhiava la cannuccia con tanta veemenza da far sembrare che la sua anima fosse stata assorbita sul fondo del bicchiere in plastica; Austropoli non era come tutte le altre città, la capitale della regione disponeva perfino del suo zodiaco personale.

Era uno spettacolo singolare; se ne poteva discutere la valenza estetica, visto che non erano le sfumature del cielo o la forma delle nuvole a renderlo, se non bello, almeno notabile.
Grattacieli sempre più imponenti si sfidavano a quale fra questi colossi di cemento avrebbe per primo bucato la volta celeste, un esercito di torri di Babele spuntava dal suolo e spostava la prospettiva dall'orizzonte verso l'alto.

Li rivestivano cartelloni pubblicitari dai pixel grandi come lo schermo di un televisore, gli ultimi prodotti per la cura dei Pokémon litigavano per il loro spazio vitale con gli ultimi modelli di Interpoké e le collezioni primavera-estate dei più rinomati stilisti.

I cartelli stradali, le persone formicolanti sulle strisce pedonali, gli uffici e i negozi ghermivano di vita a quell'ora: se ciò fosse il degradante ritratto della globalizzazione che annichilisce l'uomo o il benevolo volto del progresso è un'opinione del tutto soggettiva.

Camilla rallentò progressivamente di fronte al semaforo, incolonnandosi in una fila piuttosto lunga di vetture parallela ad altre tre o quattro identiche. Si fece infilare in bocca dalla sua coetanea, la quale le sedeva accanto, una patatina fritta coperta di salsa rossa, leccandole la punta del dito in segno di implicita dimostrazione di affetto.

«Okay. - Iris si protrasse in avanti, verso l'incavo fra i due sedili anteriori - Voi quattro avete già trovato il Team Plasma una volta, potete farlo di nuovo.
Qual è il piano, allora?» Disse con voce intrisa d'impaziente aspettativa.

La sua domanda, per quanto lecita fosse, si disperse nel rumore fastidioso del traffico.
Si guardò intorno, ma le altre non le diedero l'impressione di non averla ascoltata, bensì di non avere la risposta giusta da darle.

«Niente piano, va bene.»

«Una cosa è un centro commerciale, una cosa è una metropoli di sei milioni di persone.»
L'affermazione semplicistica di Anemone si ridusse a ciò, mentre ella mangiava tranquilla un medaglione di pollo dorato, torturandosi i bordi sfilacciati dei jeans strappati con le unghie così ben curate.

«Finché restiamo qui bloccate in coda mi sa che fanno in tempo a cambiare regione.»
La mora allungò il braccio davanti al petto della ragazzina, seduta verso la portiera di destra, e mentre imponeva alla sua ragazza a suon di pizzicotti di smetterla di riempirsi di cibo-spazzatura, l'autista spense il motore.

I tempi di attesa di fronte ad un incrocio di Austropoli si misuravano in lustri, apparentemente.

Camilla e Catlina intanto presero a discutere anche in maniera piuttosto accesa sulla direzione da prendere una volta superato il loro purgatorio stradale, indicando punti nella cartina con un una potenza direttamente proporzionale alla loro convinzione sul dove si dovesse svoltare.

Percependo il classico momento in cui la sua presenza non serviva a granché, Iris prese in mano il telefonino e, intenta a non farci nulla di particolare, toccò l'icona lampeggiante dei messaggi.

Le capitava di rado un buco libero nelle loro intense giornate di allenamenti per appartarsi ed intrattenere una conversazione, ma le faceva piacere ripassare gli ultimi argomenti di pettegolezzo avuti lungo la settimana, una frivolezza che si sarebbe potuta concedere solo a quell'età.

Fece scorrere lo schermo velocemente, ai suoi occhi giungevano solo mozziconi di parole, emoticon colorate, un gruppo di qualche mese prima dal quale non era ancora stata rimossa, cancellare le chat le faceva male ad una parte indistinta del cuore, era come eliminare un ricordo, uno futile, ma pur sempre un ricordo.

Tutt'un tratto però, le capitò di vedere un messaggio in particolare che cominciava con "ciao, sei libera sabato sera". La data non risaliva a meno di tre giorni prima, cosa che la incuriosì.

Subito diede un'occhiata al mittente, o meglio, alla mittente.

Sebbene le sue labbra si fossero curvate in un sorriso compiaciuto, la assalì di nuovo il brutto pensiero fatto prima di raggiungere la chiassosa città, riempiendola di ansia.

Quel numero poteva appartenere ad una persona morta.
Morta dissanguata, o di infezione, più probabilmente.

«So - alzò tantissimo la voce, facendosi sentire anche dagli altri automobilisti forse - come trovare il Neo Team Plasma. Ho un piano, io.»

Dopo che la sua mossa le aveva permesso di non venire trascurata ancora, Iris per la prima volta tergiversò nel regalare per la milionesima volta la sua gentilezza a prezzo stracciato alle sue compagne.

Riguardare quel messaggio aveva risvegliato un'insofferenza ai trattamenti subiti nel corso di quei due mesi, nessuna delle quattro ragazze più grandi era esclusa da questo astio recondito.
Era inutile che la più piccola continuasse a ripetersi in testa "vi odio" e "vi detesto" se non dava mai le prove concrete, non poteva aspettarsi che esse capissero sempre tutto da sole.

«Aspettate… ma perché dovrei?»
Non si risparmiò, viaggiò nel tempo fino alla notte del temporale, alla giornata in cui sarebbero dovute andare in spiaggia, fino allo spiacevole episodio dei Magazzini Nove.

«Non vi ho mai sentite dirmi "grazie" o farmi vedere che ci tenete un minimo.

E poi mi lasciate sempre da sola con le scuse più stupide, pensate che io non ci stia male…
Non dico starvi simpatica, so che non ce la faccio, ma almeno non trattatemi come se non fregasse niente! Scusate… ma non è giusto… io non vi ho mai fatto niente…
Voglio che almeno mi chiediate scusa, me lo dovete tutte!»

Fu quasi contenta di essere riuscita a schioccare per cinque secondi, ma il loro esame di coscienze non durò troppo.

«Ma questo sarebbe un ricatto?»
Le fece Camelia, fissandola in cagnesco attraverso le ciglia allungate dal mascara.

«Un po' è vero… Non hai tutti i torti.
Io ti chiedo scusa da parte di tutte, davvero, non pensavo stessimo ferendo i tuoi sentimenti…»

Credette di averla scampata liscia la rossa, per quanto fosse sincera e ricercasse sempre il perdono altrui Iris la riprese subito, con tono ancora più concitato.

In fondo le dispiacque di non comprendere a fondo le accuse rivolte a lei, ma come mai la ragazzina avesse deciso di parlare dei propri problemi con loro in una situazione così inadatta le sfuggiva.

«No! Non ha senso che me lo diciate così, per farmi stare zitta!»

«Iris, - La cercò di tranquillizzare anche Catlina, per nulla favorevole a cominciare una lite nel bel mezzo di una missione - se vuoi possiamo parlarne dopo, quando torniamo…»

«O "scusa" me lo dite sinceramente e mi promettete che d'ora in poi almeno ci provate a rispettarmi, altrimenti io scendo qui e me ne vado una volta per tutte, ci si vede.
Non mi faccio problemi, eh.»

Ed in gesto di accesa provocazione, si slacciò la cintura ed accavallò le gambe abbronzate quasi del tutto scoperte da pantaloncini corti.

Quella era la sua soluzione finale, dopodiché non avrebbe mai e poi mai rimesso piede a casa di Nardo, si sarebbe ritirata dalla competizione ed avrebbe sperato di non incontrare quelle quattro neppure per caso per la strada: non avrebbe retto l'affronto.

Era incredibile come ogni singolo momento di negligenza fosse riemerso a galla d'improvviso e le facesse provare anche più furore di quando tali episodi si erano realizzati nella realtà.
La ragione di ciò non fu il fatto che Iris non riuscisse più a contenersi. Ne era ben capace.
Si era temprata ed era ormai indifferente alle prese in giro e alle mancanze di tatto.

«Okay, ciao allora.»

La mora le sorrise, ondeggiando la mano ed indicandole il marciapiede con il pollice.
Le altre rimasero zitte a guardarla, con i loro classici sguardi vuoti, senza significato.

Iris non osò piegare il proprio orgoglio, per quanto fosse stato abusato, alle pretese di quelle…
Come poteva definirle? Il termine "compagne" a quel punto le faceva venire le afte sulla lingua.

Aveva trovato l'emblema di tutto quello che odiava incarnato in esse.
Potevano calmare i suoi bollori con abbracci e carezze quando lei le supplicava e cercare di coinvolgerla nelle loro pazzie, ma quando si trattava di dimostrarle di cosa fossero capaci, erano capaci solo di esigere, e mai di desiderare.

Avrebbero fatto bene a sperare che la regione fosse piena di ragazzine sottomesse ed emotive con le quali rimpiazzarla, ma che fossero abbastanza docili da non stufarsi del loro trattamento da zerbino entro una o due settimane.
La giovane si posizionò con le scarpe sopra il sedile, pronta ad uscire con un balzo.

Georgia quindi aveva avuto ragione per tutto il tempo.
Ora doveva sbrigarsi, prima che il prossimo complimento le azzerasse di nuovo il buon senso.

«Buona fortuna e addio, Campionesse.»
Fu teatrale nella sua uscita, ma non per questo sollevata dai suoi tormenti.

A questo punto, la storia delle precoci Campionesse si sarebbe potuta concludere qui, con la sfortunata dipartita della più giovane e la rottura definitiva dell'equilibrio iniziale.
Sarebbe stata, più che una prosa, una vera tragedia, il finale che non lascia spazio all'immaginazione o a un seguito, solo un enorme punto di domanda aperto sotto ai titoli di coda.

Purtroppo però, per garantire una narrazione il più oggettiva ed impersonale possibile, non ci è possibile parlare di "e vissero felici e contente" o di frasi ad effetto strappalacrime.

Non finché l'automobile di Camilla non aveva ancora passato il semaforo nonostante la luce verde.

La donna pestò il freno con tale allerta da riuscire a vedersi i punti della sua povera patente rosa calare di almeno una decina, mentre lo schiamazzo dei clacson impalati dietro di lei la esortava ad investire il bizzarro individuo che si era lanciato come un kamikaze davanti al suo parabrezza.

L'Allenatrice dai capelli violetto scivolò inevitabilmente in avanti, vista la sua posizione instabile, ed insieme al suo cuoricino spezzato avrebbe dovuto ammendare pure il naso dalla sua bella morfologia, così piccolo e delicato, se Anemone non si fosse subito adoperata come airbag umano.

Iris sospirò: non trovava la forza di arrendersi ed accettare il fatto che il destino gliele ponesse ogni giorno sotto i suoi occhi innocenti, settimanalmente le toccava con mano, ed era proprio giunta l'ora di rinnovarle l'abbonamento mensile al finire con il viso contro un paio di morbidi, grandi e prosperosi seni.

«Scusate! Scusate!»
Il tizio che avevano rischiato di investire rimase accanto alla vettura, gesticolando in maniera maniacale.

«Non compriamo niente, grazie ed arrivederci.»
Provò a liquidarlo la Campionessa, ma egli non si decideva a sparire.

«Non sono qui per questo! - L'uomo rise, sistemandosi un ciuffo azzurrognolo in cima al capo platinato, poi consegnò alla leader un biglietto - Voi siete le Allenatrici scelte da Nardo: il mio capo mi ordina di riferirvi questo messaggio, ascoltate bene:

Dirigetevi entro oggi alla sala congressi del Palazzo del Governo, avete l'indirizzo nel biglietto da visita; c'è da discutere su questioni importanti, e come potremmo farlo senza di voi?
Vi consiglio inoltre di non riferire la faccenda ad esterni, sapete… Sono affari di Stato.

Capito, signorine?»

Le cinque annuirono basite. Solo Camilla si sforzò di dare un consenso vocale, esortando inoltre il bizzarro ceffo in camice da laboratorio a sbloccare il traffico prima che toccasse loro una multa.

Dunque l'albino sparì dalla loro vista, lasciandole confuse come un Basculin in mezzo al deserto.

Era tutto intricato, ma l'unica soluzione fattibile per iniziare almeno a sciogliere un capo di quel groviglio fu decidere se andare alla misteriosa conferenza o proseguire nel loro intento precedente, ossia procurarsi la droga ed acciuffare il Team Plasma.

Le due operazioni sarebbero costate alla polizia due o tre giorni di lavoro, alle nostre eroine avrebbe richiesto il doppio, se non il triplo del tempo.
E già l'indomani avrebbero di sicuro dovuto faticare negli allenamenti il quadruplo pur di recuperare anche quella giornata persa, Nardo purtroppo era fatto così.

Una coincidenza giocò tuttavia a loro favore, quando ogni speranza sembrava esser stata abbandonata.

Camelia si permise, sfrontata com'era, di sfilare dalla tasca posteriore il telefonino della ragazzina distesa di traverso, mentre quella dimenava le gambe per impedirle di rapinarla a mani basse.
La mora, d'altro canto, era conscia di quanto i suoi trucchetti viperini aggiungessero carburante alla frustrazione infiammata della sua vittima, ma non aveva altra scelta.

Avevano una missione, dopotutto. L'aveva Iris, come ce l'avevano lei e le altre tre.

«Zero tre zero quattro?» Domandò alla sua fidanzata, sbloccando il touch screen.

«No, il contrario. - La rossa si rivolse poi alla ragazzina distesa su di lei - Dovresti cambiare password, ormai questa la sappiamo tutte.»

«Anche lo facessi - le rispose, sollevandosi dal suo soffice supporto e rimettendosi seduta - non smettereste di spiarmi il telefono.»

Subito però l'atmosfera mutò, portando l'accusatrice dalla parte dell'imputato.
Iris non poteva prevederlo in alcun modo.

«Ma… questo numero chi è?»
Le domandò la modella, non esitando a mettere a disposizione di tutte il contenuto della conversazione, (di una sola battuta, ad essere pignoli).

«E perché ti chiede di uscire sabato?»
Anche Anemone si accigliò, assumendo la stessa perplessità confabulante della sua compagna.

«Ma ti ha messo pure un cuore… un cuore, dico…»
La indicò la biondina, neanche ci fossero fotografie o filmati pornografici all'interno di quella chat.

Le quattro giovani saffiche potevano aver formulato un'unica ipotesi, e Camilla, ancore inebriata dai dolci baci sulle cosce della sua amica di letto, le formulò il quesito finale.

«Iris. Parla chiaro.
Ti senti con un ragazzo per caso?»

Silenzio di tomba. Poi ad Iris sembrò che le fosse venuto un embolo.

«Ma se sono due mesi che sono bloccata qui con voi, cavoli!
Mi avete pure minacciata di morte se anche provavo a pensare ai maschi neanche fossimo in un convento, non sono così scema da farmi altri problemi oltre a quelli che ho già…»

Ad interrompere la più giovane fu sempre il desiderio di chiarimenti della bionda. Non credeva di essersi persa così tanto del carattere di Iris, quando in realtà era convinta fermamente di conoscerla come le sue tasche.
«Allora chi era? È tuo dovere dircelo, che tu ci voglia bene o male.»

Questa sbuffò, riguardando il riquadro contenente il testo, e si spiegò una volta per tutte.

«Questo messaggio me lo ha inviato la leader del Neo Team Plasma. Ecco, l'ho detto!
S-Si chiama Georgia Korishima e ha quindici anni come me, ci siamo incontrate quando voi mi avete piantata in asso quando dovevamo andare in spiaggia.

E sapete una cosa? Non era niente male come persona, se ieri l'altro non avesse cercato di ammazzarmi!»

Aggiunse seriamente dispiaciuta ed in assoluta sincerità: non mirava a far sentire le compagne in colpa, solo non riusciva a dimenticare i bei momenti trascorsi con un'amica che riusciva a capirla al volo e condivideva le sue stesse passioni.

O almeno sperava, visto che la stima che la teppista le aveva giurato di serbare nei suoi confronti si era rivelata una farsa, magari i giochi arcade e le lotte le facevano pure schifo, per quanto ne sapeva.

«Se ti consola, - Anemone disse - noi non proveremo mai ad ucciderti.»

Le altre tre ragazze annuirono, compiaciute da quell'affermazione.
Non credeva che fossero scema, più scema, ancora più scema e relativamente la più scema, erano solo affette da una classica forma di dabbenaggine e compassione tipica dei membri anziani di un gruppo.

«…Confortante.» Rispose loro, atona.

«Però non ha più l'immagine sul profilo - e fece vedere loro il riquadro vuoto, in cui una sagoma bianca senza volto si contrapponeva a uno sfondo bigio, blando e spersonalizzato - e non è online… da quando ci siamo scontrate alla Lega.»

Decise di sua spontanea volontà di sorvolare sul sanguinoso squartamento a cui aveva assistito. Non lo aveva causato lei, non lo avrebbe augurato neppure al peggiore dei suoi nemici, ma sperava nel fatto che vedere una ragazzina uguale a lei soffrire in quel modo atroce l'avrebbe resa insensibile ad altre eventuali carneficine.

Non era stata uccisa, quindi in teoria ne era uscita più forte.

«Aspetta! Quindi tu hai avuto per, tipo, più di un mese il numero di una criminale ricercata in tutta Unima e non ci hai detto niente?! Ma di che droghe ti fai?!?»

La mora prese la notizia piuttosto male, non trovando la minima coerenza fra il discorso precedente pieno di spergiuri e denunce dei loro difetti e quella mancanza inspiegabile di fiducia che la ragazzina si permetteva di custodire anche dopo tutti i monologhi a effetto placebo pronunciati da ella.

Le due litiganti fecero per iniziare una di quelle faide a base di graffi e schiaffi innocui sulle mani, senza la vera intenzione di farsi del male a vicenda, Camilla quindi intervenne.

«Non è importante adesso. Parlando di droga, piuttosto, credo di avere un'idea che potrebbe funzionare: se hai il suo numero di cellulare, Iris, puoi telefonarle e provare a contrattare…»

«Camilla, questa era la mia idea! - Iris si batté la fronte - Secondo me comunque non ci risponderà mai, figuriamoci poi se ha voglia di parlare con noi.»

«Tanto vale la pena di fare un tentativo, a meno che non sia diventata irraggiungibile.»

Catlina era girata di centottanta gradi, per comunicare con le ragazze sedute dietro.
La modella e la pilota diedero il loro consenso mendicante un cenno convinto all'unisono.
Insicura sulle proprie azioni, mentre Camilla accostò nel primo posto di parcheggio libero e gratuito, Iris premette sull'icona della cornetta verde.

Il loro coretto si zittì, con il lento tubare della chiamata al vivavoce affinché potessero tutte sentire.
«Sta suonando.» Fece Iris, sottovoce.

Nessuna di loro credeva che qualcuno avrebbe per davvero risposto: non vi erano dati certi, né tantomeno probabili; che serial killer terrebbe mai il cellulare acceso in modo da diventare rintracciabile dalla polizia in men che non si dica?

Eppure, dopo qualche minuto di insistenza, qualcuno doveva essersi stancato dello squillo assillante della suoneria e aveva avuto l'audacia temeraria di far scorrere il dito sul tasto verde.

Si scambiarono diverse onomatopee per auto-invogliarsi a fare silenzio, stupefatte della fortuna appena avuta: ora il problema rimaneva cosa dire alle loro peggiori avversarie.

Niente "pronto, chi parla?" o convenevoli.
Quelli si adattavano alla borghesia, non al gergo di chi si trova costretto ad unirsi ad un'organizzazione criminale, spinto da chissà che squallido passato.

Sentirono un grugnito secco e insospettito, a tal punto che non sembrava neanche una voce femminile quella che aveva risposto, ma un automa senza sentimenti.

«Uhm?» Se ne uscì, alle sue spalle un certo rumorio di sottofondo.

Le cinque protagoniste caddero ancora più nel panico, biasimarle non è possibile, data la repentinità con la quale il loro tuffo nel vuoto le aveva fatte atterrare su un letto di piombo.
Si scambiarono sguardi terrorizzati, spingendo la mano della Campionessa che reggeva il cellulare  alla bocca delle diverse giovani, alla ricerca della coraggiosa che parlasse prima che la chiamata fosse terminata.

Il fardello toccò a Camelia, essendo lei la più sfacciata doveva provare a dire almeno qualcosa.
Il tempo correva contro di loro, la recluta avrebbe presto perso la pazienza.

«T-Team Plasma…?» Si avvicinò al microfono, con aria incerta, attendendo un riscontro.

Dall'altro capo del filo, partì una richiesta deittica ad una delle seguaci lì presenti.
«Ohi, ci vogliono! Mi senti? Ci sta una tipa, ci sta una cliente.»

Clienti? Il Neo Team Plasma vendeva merce via telefonica adesso? Che razza di scherzo era?
Ma le nostre eroine non si persero d'animo e la modella seppe già come attaccare bottone.

«Si dice… - disse, un po' presuntuosa - Che avete della… roba, piuttosto buona...»

Ci fu un breve silenzio, in cui tutte si stupirono dell'astuzia dimostrata dalla giovane: ora le reclute avrebbero percepito il loro agire da latitanti e si sarebbero sentite meno intimidite dal rivelare loro qualche succoso segreto.
Andò così. La seconda delle due si fece avanti.

«Avete sentito bene. - Ringhiò, già ubriacata del profumo di soldi - Dateci un luogo e un tempo…»
La sua compagna la bloccò subito nella sua precipitosa imprudenza, afferrando l'apparecchio e gridandovi contro qualcosa del genere, più farcito di intercalari e volgarità.

«E chi ci dice che non siete della polizia e volete beccarci in bomba? Non siamo stupide, oh!»

«Hey, - l'altra seguace parlò con la contrabbandiera, in tono abbastanza amichevole - guarda che la leader ha salvato 'sto numero con un cuore. Deve essere una cliente affezionata, 'sta "Iris".
Di solito faceva sempre fuori i numeri di quelli che compravano, così se le scrollavano la rubrica poteva farla franca coi debiti e non entrare nei casini.»

Inutile riferire che la ragazzina dai capelli violetto sorrise soddisfatta della sua operazione di spionaggio involontaria. Dopotutto la sua amicizia con Georgia non si era rivelata poi così tanto vana. Stava per iniziare una trattativa in suo nome.

«Giusto, giusto! - Anemone partì a parlare, più disinvolta ed infervorata nella parlata gangster che lei si era immaginata esistere solo nei thriller - Siamo state mandate per conto suo.
Quindi vi conviene dirci dove ci si becca e darci la maria, non abbiamo tutto il giorno razza di sfigate del…»

Prima che potesse sputare chissà quali altre assurdità, la sua ragazza le mollò un leggero colpo dietro la nuca, incredula di come quella che definiva una persona intelligente in grado di ricordare formule di lunghezza chilometrica si riducesse a quelle cadute di stile.

«Calma, calma… - La recluta levò un respiro affaticato, confusa da quante persone stessero attivamente partecipando ai loro affari in incognito - Più o meno, dove state?»

«Austropoli, zona Nord. - Camelia si sentì in dovere di specificare dove la sua fidanzata aveva creato solo imbarazzo - Questo pomeriggio.»

«Buon per voi, siamo al primo vicolo di Via Stretta passando dalla piazza.
Fatevi trovare là fra un'ora e non provate a farvi seguire. Spegnete i telefoni e copritevi la faccia.»

«Vi faremo un test, state scialle, sarà facile facile, infatti la risposta ve la diciamo noi subito.
"Ghecis Harmonia rex Unovae", ditelo chiaro, una volta sola.
Capito? Non ripetiamo.»

Pur sapendo di non poter essere viste, le giovani annuirono comunque.

«A posto, ci si vede, alle quattro.
Fatevi trovare, o vi denunciamo, abbiamo il vostro numero, ricordatevi, eh.»

La recluta infine buttò giù, non dubitando della fedeltà ai loro giuramenti, le sue minacce erano state più che convincenti.

Finita la chiamata, Camilla restituì il cellulare ad Iris, la quale tirò un sospiro di sollievo nel riceverlo allo scopo di liberarsi di tutta l'adrenalina accumulata.

Georgia, in conclusione, non era più la proprietaria del suo telefonino e ciò la preoccupò.
Era finito in mano a quelle bestie umane, adesso lo usavano per le loro attività illecite e lei vi trasse alcune ipotesi alquanto sgradevoli sul cosa potesse esserle successo.

«Alle quattro, allora.»
Camilla si sistemò il ciuffo scomposto, osservandosi sullo specchietto retrovisore.

Intanto sulle strade si erano radunati sempre più pedoni, l'ora di punta si stava avvicinando mentre il sole scottava il cofano dell'auto rendendolo incandescente, il cemento era così caldo da poterci friggere un uovo sopra.

«E l'appuntamento alla sala congressi? - Domandò Catlina, rigirandosi fra le mani il biglietto da visita finemente decorato di arabeschi e stampato con gran classe - Abbiamo solo un giorno, e già mi sta venendo mal d'auto.»

Gestire in parallelo due operazioni così complicate implicò la più pericolosa delle decisioni, quella che già due volte aveva messo nei guai le Allenatrici, dimezzandone la forza ed esponendole a perdite anche gravi.

Computarono alcuni paradossi, come nell'enigma della capra, del cavolo e del lupo da portare dall'altra parte di un fiume immaginario senza che una mangiasse o sbranasse l'altra.

La macchina di Camilla le avrebbe trasportate sul posto grazie al navigatore satellitare fino ai
bassifondi della città, per poi sfrecciare via nella parte benestante, fra gli uffici amministrativi, per il loro singolare colloquio e, in qualità di guida, stabilì ciò.
 
«Adesso vi dirò una cosa ovvia e degna dei peggiori film del Pokéwood: dobbiamo dividerci.»


Le giovani generazioni, essendo nell'età della scapigliatura e in balia della spirale bohémien, almeno una volta sentono l'impellente desiderio di associare con concretezza il loro caos interiore ad un qualcosa di empirico, che lascia il segno.

Le due Capopalestra e la loro amica della Lega camminarono in gruppo compatto per quella via imbarbarita dalla fervente attività nella quale stavano per infilare anche loro il naso.

Un oggetto, un gesto, un luogo... Specialmente l'ultimo.
Inspirare attraverso i propri polmoni l'aria di degrado rinvenibile soltanto nei bassifondi riempie i ragazzi di una sorta di squallido timore reverenziale: possono ammirare le macchie sul manto candido della civiltà, ma senza per forza doversi sporcare le mani.

«E basta! Questi sono lividi…»
Lì c'era l'eco, data la desolante vuotezza della zona, altrimenti la voce della biondina non si sarebbe affatto sentita.

Infatti non ci volle molto alla sua compagna modella per ribatterle con tutta calma.
«Cat, non dire stupidate, quelli sono succhiotti.»

Intanto che si dirigevano al luogo dello scambio, Catlina aveva avuto modo di pentirsi a dir poco amaramente di aver voluto indossare una maglia così scollata, quel giorno.
Non era nulla di osé, ma il fatto che non riuscisse a nascondere con efficacia i segni cutanei dell'amore di Camilla l'aveva gettata in una pruriginosa situazione con le altre due.

Difettando di realismo, non avrebbe mai rimproverato alla sua amante di averle stampato con le labbra la propria dichiarazione di proprietà sulla sua pelle chiara.

«Ma non devi vergognartene, - Anemone le si stagliò accanto, cercando di sembrare rassicurante - anche io ne sono piena, solo che non si vedono.»

«Vi ho detto che sono i segni delle botte che ho preso dalla recluta del Team Plasma!»
Si continuò a difendere.

Una volta venute a conoscenza dell'odio infondato di coloro che stavano per incontrare e restie al voler correre ulteriori rischi legati alla mobilità, avevano deciso di mettere da parte la sedia a rotelle almeno per quel pomeriggio e di utilizzare i poteri psichici di Gothitelle come esoscheletro al fine di permettere all'Allenatrice di Sinnoh di deambulare da sé.

L'impressione del movimento delle gambe sembrava apparire in completa autonomia, o almeno è quello che speravano i loro nemici avrebbero creduto alla cieca.

«Hai preso proprio delle brutte botte… - Camelia non si perse la sua bella occasione di prendere in giro quella vergine pudica - ...sul collo e sulle tette, poverina.»

E le fece una carezza faceta sulla testa, battendo poi sulla visiera del cappello che le avevano chiesto di mettere per nascondere l'antiestetico bendaggio presente fra i folti capelli.
Nessun tipo di delicatezza e di sensibilità avrebbe impedito, si disse, alla mora di trattenersi una delle sue freddure, le fosse cascato il mondo in testa quella le avrebbe sempre e comunque riso in faccia.

«Bene, ci siamo.»

Tutte e tre cambiarono subito pensiero una volta svoltato l'ultimo angolo, quello che divideva Via Stretta da tutte le altre Avenue di Austropoli.
Si fermarono un attimo e, stringendo i pugni come a voler arraffare al filo invisibile di forza che rappresentava il loro legame, procedettero.

Oltre alle truppe ausiliarie nelle Poké Ball, Anemone, ancor prima di mettere piede in quella discarica a cielo aperto, aveva messo a disposizione i suoi Pokémon volanti in qualità di vedette, i tre uccelli sorvolavano la zona e coprivano le spalle delle ragazze.

Più che per gentile disposizione d'animo, la rossa aveva concesso loro quel piacere un po' per mettersi in mostra; contava infatti sull'allenamento disciplinato della sua squadra per proteggere la sua fidanzata e quasi quasi ci sperava in qualche attacco da poter sbaragliare.

Quell'ambiente di ghetto le metteva una carica incredibile, non sapeva spiegarsi il perché.

Mordendosi le labbra per non pensare al pericolo, trovarono subito strano che in quel tugurio non ci fosse anima viva, proprio l'area che doveva essere piena di gente aveva intenzione di lasciarle così, nelle grinfie di una banda di malfattori.

Beh, se due persone e basta sono sufficienti a creare una "banda".

Sembravano gatti neri. Una sedeva a terra, addossata ad una rete in ferro battuto, rotta in alcuni punti, dava su un campo da basket cementato; l'altra vi si era appoggiata mollemente.

Come chi ha paura di beccarsi il malocchio incrociando le creature di compagnia delle streghe, Anemone, Camelia e Catlina si fermarono ad alcuni metri di distanza.

Non sentendosi certe nel procedere per induzione e quindi azzardare il fatto che ogni individuo vestito di nero con pendagli in oro posticcio facesse parte del Team, provarono a seguire le istruzioni.

«Che scemata unica, chissà che non siano loro e si chiedano "ma cosa vogliono queste sceme che parlano arabo"?»

Camelia aveva intenzione di sottrarsi in ogni modo a questa figura irrimediabile. Non voleva allungare il suo curriculum di esperienze da suicidio un mese prima del TRUF.

«Frega niente, lo dici con noi. Dai Cami, fammi questo piacere…» La supplicò la rossa.

«Comunque questo è latino. - La corresse la più grande, poi ritornò seria al massimo - Ho la frase da dire qua sul telefono, pronte a dirla?»

Attraverso i suoi occhioni verde giada rivolse uno sguardo un poco sfiduciato alle due, che ricambiarono con molta empatia quel sentimento di essere semplicemente spacciate.
Non avevano altra scelta, alla fine, e si rassegnarono alla loro missione.

Gli andarono vicino ed un membro di quella coppia, incappucciata, con lo sguardo basso, le rivolse queste parole.
«Quis reget Unovam regionem et suis civites ac suis honores praestat?»

Dopo un respiro profondo ed aver deglutito a forza, le nostre eroine risposero.
«Ghecis Harmonia rex Unovae.»

«Stupida, dovevi dirlo con noi, io ti ammazzo!»

A dirla tutta, a pronunciare questa solenne formula furono solo le due povere ingenue; Camelia aveva sì partecipato alla loro ansia, ma pur avendo davanti a sé il supporto bibliografico con su scritto ciò che doveva dire non aveva comunque aperto bocca.
Per questo se la stava ridendo sonoramente in disparte, una volta che la sua ragazza, ormai presa da quell'atmosfera l'avrebbe anche picchiata per quel tiro mancino, sempre in senso figurato.

Era troppo facile lasciar fare il lavoro sporco agli altri, non era mica giusto, pensava quella.
Tuttavia le due randagie non sembrarono turbate dalla mancanza di rispetto per il loro motto.

Quella accovacciata si alzò, con movenze lente e scoordinate, sembrava tirata su da fili, come un pupazzo rotto ed abbandonato in un cassonetto.

Si tolse il cappuccio. Da esso sbucava una coda di cavallo alta, che sfociava in una serie di sfumature tendenti al gradiente rosso, partendo dall'arancio e dall'ocra. Il resto del manto era biondo sporco e pieno di forfora, alle radici faceva capolino il colore castano naturale di quella ragazza, se fosse stato possibile definirla tale.

La sua compare non era diversa. Aveva il suo stesso taglio e la sua stessa tinta, forse ancora più rovinata della sua (aveva infatti i capelli nero pece e li aveva sfibrati tutti per decolorarli).

La femminilità sembrava essere colata via da quei due corpi secchi, dai visi smunti, quattro linee di ombretto e di fondotinta in croce; una aveva un piercing arraffato alla sua narice come un'amo da pesca, attraverso i lobi dell'altra ci sarebbe potuta passare una moneta.

Erano agghindate come vittime sacrificali, secondo quello stile tribale per cui il loro sovrano dimostrava tanta passione.
E tutto quel nero non rendeva certo giustizia alla carenza di igiene di quel postaccio in cui erano segregate.

«Cacchio, io ti conosco, a te… Te sei una modella, t'ho visto una volta in un reality…
Voi altre due però, boh, cioè, chi siete?»
La prima parlò, attraverso le palpebre sbarrate esibì un sorrisetto sornione, deformando la bocca.

«Queste sono Capopalestra e una dei Superquattro. - La riprese la seconda, approcciandole anche lei con una camminata scimmiesca - E sono anche tre drogate luride, a quanto pare.»
Ridacchiava alla sua stessa battuta, vicino a lei due esemplari di Grimer.

Nessuna delle giovani osò ribellarsi a quelle accuse infondate. Erano lì per far scena e la loro bella pantomima non doveva venir smascherata per nessuna ragione al mondo.
La cosa che faceva storcere il naso fu il perché, nonostante le avessero riconosciute, ai membri di rango più basso al gruppo eletto non fosse pervenuto l'ordine di eliminarle.

«Bada come parli, - le fece l'aviatrice, stizzita - siamo qui per conto di terzi.»

«'Sta Iris è il vostro capo?» Le reclute non la smisero di far loro domande per un po'.
Magari erano pure più agitate delle false acquirenti.

Camelia stava già per lacerarsi la faringe a suon di risate.

«S-Sì… Oh, sì, è lei il nostro capo, la nostra "boss", la nostra mittente, proprio una tosta come lei!»

E né la nobile né la sua compagna poterono impedirglielo: davvero le credevano subalterne di una bambina proveniente da una landa sperduta con complessi di inferiorità allucinanti?
Si trattennero comunque, piuttosto nolenti, annuirono anche.

«Sbatte se siete Allenatrici o Capopalestra o quel che siete. Siete qua per la roba, no?
Io sono R. Questa è la mia socia, Z.»

«Aspetta… ma quindi i vostri nomi si scrivono, tipo, come le consonanti?
O a lettere, "Erre" e "Zeta"? Come fate per la Scheda Allenatore, per la carta di identità…?
E quando finite le lettere dell'alfabeto? O ci sono solo ventisei reclute, anche se dubito?»

Iniziò a domandar loro Anemone, assai confusa da quegli strani pseudonimi: N, R, Z… cosa gli era saltato in mente a quel pazzo di Ghecis? Questo sistema di nomi era la manifestazione del male puro.

Ovviamente nessuno si degnò di rispondere a quelle sciocche domande.
C'erano questioni molto più importanti di cui discorrere in quel momento.

Z, quella più sciatta, predispose davanti alle allenatrici un bidone della spazzatura vuotato e capovolto, da usare come banco per esporre la sua mercanzia; ci distese sopra una vecchia felpa bucata per non insozzare la stessa e la sua compare vi aprì sopra una ventiquattr'ore.

Fu quasi simile alla dischiusa di uno scrigno del tesoro, perché il valore di ciò che la misera valigetta conteneva poteva eguagliare la bramosia di chi ricercava tali rarità: buste di plastica erano piene di polveri bianche, gialle e grigiastre, siringhe e aghi sterili ancora impacchettate nei contenitori medici, poi carte, filtri, scatolette di metallo per oltrepassare indenni i controlli.

Potevano scommetterci mettendo la mano sul fuoco: il Team Plasma non era più l'organizzazione che il vecchio leader aveva lasciato. Quello era acqua passata.
Ora il Neo Team Plasma, il suo discendente, spacciava droga di ogni genere a delle ragazze, fra cui due minorenni.

«'Sta roba - partì la seguace - è la migliore di tutta Austropoli. Non è solo per le persone, sorelle.
Questa roba la dai ai tuoi Pokémon e quello ti vince la Lega in quattro regioni diverse, oh.»

Le "sorelle" dovettero tacere tutto il loro stupore. Non erano più le giovani pulite di buona famiglia.
Ora dovevano calarsi nella loro parte, meglio di delle attrici, dovevano recitare il ruolo delle tossicodipendenti, solo per comprare per sé un po' di quel ben di Dio.

Faceva fatica Camelia soprattutto, lei era a dir poco schifata. Le era giunta voce di alcune sue colleghe, le cui carriere erano state stroncate da scandali che coinvolgevano proprio quelle sostanze stupefacenti.
Non le avrebbe mai considerate come alternativa per combattere lo stress lavorativo, meglio piangere e soffocare nella tristezza piuttosto che soffocare nel vero senso del verbo.

R in seguito prese in mano una sacca di nylon, sventolandone il contenuto con orgoglio.

«Polvoenergia purissima. È cocaina naturale per i Pokémon, una volta la vendevano in tutti i mercati, ma da quando hanno cominciato a usarla nelle lotte è praticamente scomparsa.
La fai tirare a un tuo Pokémon e quello ti passa da sbornia totale a che ha più energia di non so cosa.»

«Sono sessanta Pokédollari al grammo. Abbiamo pure la coca normale per voi perdenti, eh.»

Non era una strategia di marketing molto astuta quella di rinfacciare ai clienti il loro vizio capitale, ritennero tutte, ma non erano possibili i commenti.
Soprattutto perché quella Polvoenergia non era quello che cercavano.

«Che altro avete?»
La rossa lanciò uno sguardo di intesa alle compagne, facendo notar di essere per nulla interessate a quell'articolo.

Le reclute Plasma dunque si spicciarono a cercare un qualcosa di più leggero, se così si può dire.
Una aprì e rovesciò sulla sua mano il contenuto di una scatoletta di metallo, una poltiglia verdastra dall'odore piuttosto acre.

L'altra invece adibì una serie di rettangoli di carta, piccoli cilindri bianchi e cominciò a sistemare un grumo di quella roba su una di esse, arrotolandogli la carta tutt'attorno, per fare una dimostrazione.

«Noi due - iniziò a presentare Z, ponendo il braccio sulla spalla dell'altra in segno di complicità - abbiamo la Vitalerba migliore della città. Mica come quello schifo che ti vendono a nord!
E non dovete neppure farla fumare per forza, ci stanno Pokémon senza bocca, basta respirare il fumo e, tipo, cioè… ti manda all'altro mondo…»

«Sentite, non è quello che cerchiamo, cioè, che il nostro capo cerca.»

La biondina troncò quella pubblicità spicciola sul nascere, risistemandosi quell'ingombrante cappello che per nulla si addiceva al suo stile, la faceva sembrare una poveraccia a suo parere.

Rammentarono di avere solo un pomeriggio per completare il loro obiettivo, non potevano aspettare che le due spacciatrici ci arrivassero da sole, bisognava trovare la droga. Quella droga.
Era una strana ingiustizia il non poter sbattere loro in faccia le cose come stavano e dover lavorare solamente per allusioni. Una situazione da veri drogati.

«Sentite. - La modella si atteggiò più minacciosa, avvicinandosi e incupendo la voce - Gira voce che voi abbiate una cosa… Una cosa grossa. Che non si trova da nessun'altra parte.»

«Cosa spari, sorella…» Si allarmò R, sempre mantenendo un'aria di indifferenza.

«Non fare la finta tonta, fattona sfigata - Anemone decise di disattivare il freno alla sua lingua - sappiamo che avete una droga che è peggio dell'hashish, ti sballa di brutto.
Ti rende insensibile al dolore e ti fa diventare, tipo, super forte…
Quindi poche storie e usciteci la roba buona!»

La top model ebbe il fortissimo impulso di strapparsi i capelli dalla frangia, tanto imbarazzata si sentiva. In quei pochi istanti nei quali la pazza con cui si era fidanzata aveva sparato tali scemenze tutte d'un fiato riconsiderò da capo la propria relazione.

Altro che fine estate, le sarebbe servita pazienza per superare almeno il mese corrente.
Rettifica: le sarebbe servita se nelle teste bacate delle due reclute non fosse improvvisamente suonato un campanello, dopo tutto quel tempo speso a ciarlare.

Si guardarono un attimo, circospette. Non si aspettavano una richiesta del genere, a quanto pare.
Controllarono la totale assenza di eventuali testimoni. Poi Z ridiventò ancora più seriosa.

«R, queste qua vogliono il Sangue del Drago.»

Silenzio. Neanche il loro respiro emetteva suoni, per quanto la tensione fosse percepibile.

«Che nome stupido per una droga.» La mora alzò le spalle.

«Sapete che se vi beccano con questa nel sangue alle analisi finite in galera per la vita?»
Quando mai le spacciatrici tentano di dissuadere le clienti dall'acquisto, che strano.

«Non solo a voi, ma anche ai Pokémon, - precisò la sua collega - vi squalificano da tutte le gare, questo è peggio del doping.»

Le tre non si lasciarono intimorire. Mica dovevano farne uso, erano innocenti al cento per cento davanti ai controlli.

«E secondo voi perché siamo qua?» La rossa gli lanciò un'altra provocazione.

Intanto Catlina estrasse una mazzetta abbastanza spessa dal suo portafogli, implorando il perdono dei suoi genitori per aver usato i soldi del suo vitto mensile per comprare della droga.
«Siamo disposte a pagare: quanti volete? Duecento, trecento?»

Erano esterrefatte. Quei due topi di fogna stavano vedendo più denaro concentrato fra le mani di quelle tizie dalle tette enormi di quanto ne avessero mai incontrato da quando si erano inserite nel giro.

Però si trattava di allenatrici autorevoli. Magari volevano solo gabbarle. Avevano qualche telecamera nascosta all'interno del seno, o un microchip, o gli volevano affibbiare un cimice.
E poi erano vestite troppo bene, profumavano pure di pulito.

Magari quelle non erano le guardie del corpo della loro boss, quella Iris.
Magari si trattava delle sue amanti, semplici membri del suo harem, delle sue escort personali con cui si intratteneva alle feste, inconsciamente scelsero quell'ipotesi.

Inoltre sapevano che a drogarsi non sono solo i figli della strada e gli straccioni depressi.
Addirittura le superstar facevano largo uso dei loro prodotti, certo, avevano dei negozianti migliori, ma quando bisogna staccare la spina della ragione non c'è norma sociale che tenga.

Z quindi si decise: trafficò per un attimo con la combinazione e rivelò la valigetta avere un doppio fondo, piuttosto spesso. Poi prese a togliere carte, rimuovere sacchetti, fino al cuore di quella matriosca.

C'era un cubo. Il cubo a sua volta era composto da tanti piccoli cubetti, ciascuno diviso in altrettante fratture sempre più minuscole. Era la Spugna di Menger del vecchio principe Harmonia, ne erano sicure.

Il tutto era grande quanto una Pokéball. Infatti una delle due reclute premette sul centro, dove per definizione doveva esserci stato il vuoto lasciato dal quadrato mancante in realtà vi era un pulsante nero, camuffato con l'ambiente,

E dentro là eccola, la preziosa fiala, neanche cento millilitri, il cosiddetto Sangue del Drago.
Nelle loro teste, Catlina, Anemone e Camelia esultarono "missione compiuta".

Stavano per completare la transazione e andarsene a bere un bel cappuccino, quando Z ritrasse la mano, un gesto che causò nelle ragazze grande sconforto, ma ancor più grande sorpresa.

La stessa fece segno alla socia, la quale aprì una delle buste precedentemente mostrate loro e versò un po' di quella farina bianca su del loro tavolo. Con un pezzo di plastica la divise meticolosamente in alcune strisce lunghe e sottili in un batter d'occhio.
Poi fece qualche passo indietro, esponendo contenta la preparazione sopraffina alle tre Allenatrici.

«Prima di darvi il Sangue del Drago però, - R si dipinse un sorrisetto demoniaco in volto - lasciate che noi del Neo Team Plasma vi dimostriamo la nostra gratitudine, non ci capitano tutti i giorni affari come questo…»

«Su! - Le invitò l'altra, ancora più insistente - Cosa aspettate? Offre la casa.»

Le giovani rimasero come paralizzate. Le avevano colte alle spalle, come nell'assalto alla Lega.
Allarme rosso.
Allarme rosso. Erano finite in trappola.

«Allora, non volete favorire? »

«Dai, non abbiate paura… - Infine la recluta cambiò tono, suonando inaspettatamente molto aggressiva - Perché così ci dimostrate di non essere tre deficienti che volevano solo provare a fregare il Neo Team Plasma.»

 

Gettando di tanto in tanto l'occhio attraverso lo specchietto retrovisore, Camilla, oltre al riflesso dei suo ciuffo scompigliato dal vento, riusciva a scorgere ben poco dello sguardo di colei che adesso le sedeva accanto, nel sedile del passeggero.

Iris non aveva più aperto bocca e non sapeva spiegarsi il perché.

Fallendo nel concentrarsi esclusivamente sulla guida, la Campionessa si domandò more geometrico le ragioni che avessero spinto la sua piccola amica a scoppiare in quel modo, a traboccare di astio in un momento che richiedeva la loro unità, ma alla fine era chiaro che la ragazzina aveva deciso di tenersi per sé molti pezzi della storia.

Come per esempio il fatto di essere stata costretta a cercare amicizie esterne al loro circolo pur di trovare un briciolo di accettazione. Come era potuto succedere?

Negligenza, sillabò nella sua testa. Che non fa mai male, sia chiaro, è naturale per gli uomini sovrascrivere i dati nel database perfetto del nostro cervello ed eliminarne; però, indubbiamente, tale colpa non era mai trascurabile per gli esseri più giovani.

Camilla comprese il concetto, ricordandosi di essere stata anche lei un'adolescente.
Una farfalla non può rimproverare ad una larva qualche contumelia quando anch'essa ha dovuto patire la strettezza del bozzolo e l'inadeguatezza agli occhi degli altri.

Perciò la bionda sorrise per tutto il tragitto verso la zona finanziaria, guadagnandosi in risposta diverse occhiate confuse dalla sua compagna, che si domandava il motivo di quella tranquillità.
Ma neppure quando parcheggiò e cominciarono a salire i gradini in marmo ella le rivolse la parola.

Il complesso era un capolavoro di architettura contemporanea, i materiali sembravano leggerissimi ma al contempo resistenti, il clima soleggiato divergeva la luce al di sotto dei portici e creava disegni con le ombre, il tutto alimentato ad energia sostenibile, ovviamente.

Nonostante il Palazzo del Governo fosse un posto abbastanza affollato, un paio di credenziali minime bastarono alle due per oltrepassare l'ala destinata al pubblico ed accedere ai locali amministrativi attraverso corridoi bianchi, quadri astratti e uomini in giacca e cravatta.

Intanto si interrogava sul perché avessero deciso di convocarle inviando come araldo quel buffo individuo suicida; era comunque abituata, dopo cinque anni, a ricevere incarichi burocratici nell'interesse della regione, era parte dei doveri del Campione.

Dunque immaginò si trattasse di qualche formalità legata all'acquisizione dei titoli, un corso accelerato per dirigere le imprese di lotta, una o due conferenze sulla direzione della Lega.
Insomma, un mucchio di cose inutili, ma dalla bella organizzazione strutturale.

Riferì ciò che aveva pensato alla ragazzina, che ancora si limitò ad annuire, muta: suppose che le sarebbe toccato ascoltare anche per lei, non essendo quella molto disponibile a sentire discorsi su argomenti che non conosceva né era in vena di provare a comprendere.
Fece un sospiro sonoro, ma non si scompose.

Una delle tante impiegate dalla stretta gonna a tubino le scortò infine all'interno di un'ampia sala irradiata dalla luce naturale, dalle ampie finestre il cielo azzurro si sposava perfettamente con la colorazione minimalista del luogo, che tuttavia non poteva essere più azzeccata: bianco e nero.

Uno alle pareti, l'altro sul tavolo e sulle sedie, era presente addirittura un quadro piuttosto grande del mito della fondazione, con Reshiram e Zekrom pronti a rilasciare tutta la loro potenza, intenti ad usare le loro mosse peculiari per imporre il loro predominio sulla regione.

Le due Allenatrici si accomodarono vicine l'una all'altra per prendere parte alla seduta, sui loro posti le immancabili bottigliette d'acqua che Iris non osò neppure aprire.

Accavallò le gambe, conscia che i suoi vestiti estivi non fossero all'altezza di un incontro tanto importante, e si mise a guardare altrove, verso l'esterno, dove faceva caldo.
Li dentro si gelava a suo parere, l'aria condizionata le aveva riportato alla mente i Pokémon di tipo Ghiaccio, la bufera di neve e la sensazione di freddo legata alla sua sconfitta contro Georgia.

Chissà se avrebbe mai potuto chiedere sue notizie, si tenne il dubbio per evitare di peggiorare la situazione.
Chissà se questa atroce domanda l'avrebbe potuta porre direttamente a Ghecis Harmonia, già che c'era.

Non le fecero aspettare molto, non lasciarono loro tempo di assorbire il disagio che aleggiava in quell'ampia stanza dal pavimento cerato: le porte si spalancarono ed apparve, in maniera piuttosto plateale, il tizio che le aveva guidate lì in carne ed ossa.

Si misero ad analizzarlo meglio, ora che non trovavano altro con cui distrarsi. Era un uomo di età verde, molto curato nell'aspetto, non capivano però che cosa avesse a che fare con il Governo di Unima uno con tutta l'aria di essere uno scienziato od un ingegnere.

Stringeva con galanteria le mani a tutti i partecipanti alla riunione, seminando il suo buonumore come una malattia contagiosa e la sua affabilità aveva in breve conquistato il locale, era seguito da un esemplare di Klingklang mansueto.

La bionda lo credette solo un intermediario, un segretario del partito: costui tradì le sue aspettative, andando a prendere posto a capotavola, poi iniziò a parlare con lei ed Iris, quindi calò un solenne silenzio.

«Ah, puntualissime, le nostre allenatrici! Ma… sbaglio o ne manca qualcuna? Non importa!
Sarete ben liete di riferire il contenuto della convocazione di oggi alle vostre compagne, dico bene, Campionessa Kuroi?»

Camilla diede educatamente il suo consenso, ma le sfuggì come mai quel tizio si riferisse solo a lei. E poi, chi lo conosceva? Voleva qualcosa da lei o voleva qualcosa da loro?

«Ottimo, ottimo! Lasciate che mi presenti: sono il Professor Acromio e mi occupo prevalentemente di studi nella ricerca del potenziale dei Pokémon, sebbene io abbia anche un posto di tutto rispetto anche qui alla sede governativa della nostra regione.»

L'eclettismo di quell'uomo poteva forse spiegare la sua bizzarria, tuttavia sembrava ancora esserci del marcio in quella faccenda. Non avevano mai sentito parlare di costui, tantomeno Nardo aveva mai menzionato loro un suo collaboratore nei rami alti dell'amministrazione.
Dovettero aspettare di ricevere il succo del discorso, non c'era altra scelta.

«Prima di tutto, - proseguì il Professore, sempre molto vivacemente - vi voglio ringraziare non solo per essere giunte qui con un preavviso dell'ultimo minuto, ma soprattutto per il vostro lavoro svolto finora: io, personalmente, ho ritenuto un atto molto coraggioso da parte vostra il voler intervenire nell'attacco alla Lega, non tutti gli Allenatori si assumerebbero una tale responsabilità…»

Non era possibile che si fossero scomodati solo per far loro questo encomio spicciolo.

Comunque non è che le cinque avessero concordato di lanciarsi fra le braccia del pericolo solo per una decisione condivisa. Non era una decisione, ma un obbligo.
Erano loro a dover difendere la regione, in qualità del titolo per cui concorrevano, non avevano alcuna possibilità di tirarsi indietro, quindi quei ringraziamenti erano piuttosto inutili.

«…ma vi sarà di sicuro giunta voce della terribile situazione in cui si trova la nostra regione: da un anno il tasso di criminalità si è alzato del due virgola nove percento, con ripercussioni sul commercio e sull'industria competitiva, i Pokémon selvatici sono in diminuzione mentre il traffico di droga ha raggiunto anche le zone più sensibili del Paese…»

«…l'Apocalisse è vicina, moriremo tutti e io ho fame, potete dirmi qualcosa che non so? 
Voglio andare a casa, che noia.»

La ragazzina dai capelli violetto fece ruotare le sue iridi verso il soffitto, stremata da quegli artefici retorici privi di un qualsivoglia senso.

Se voleva sorbirsi i moralismi di qualcuno sul quanto Unima fosse ridotta male, suo nonno era un maestro, magari era anche più interessante di quel saltimbanco, il quale continuava ad elencare numeri, percentuali e conseguenze che la crisi aveva fatto abbattere sulla regione come le dieci piaghe dell'Antico Testamento.
Chissà se ci sarebbe stata anche un'invasione di Sewaddle, prima o poi.

Camilla invece ascoltava con attenzione, appuntandosi i punti più importanti nella sua mente, lasciando la pagina della sua testa ancora vuota, però.
Se le avessero dato una penna era sicura l'avrebbe mordicchiata come un Patrat affamato.

«…e come voi potete capire, non solo voi ragazze, ma tutti i gentili ospiti di questo concilio, quattro ragazzine così giovani, totali novizie in questo campo non possono permettersi di essere esposte a una tale minaccia, come quella del Neo Team Plasma! È inaccettabile.
È il frutto di una scelta affrettata, incosciente di quello che ormai possiamo definire l'ex-Campione Nardo.»

«Uh?»
Iris si risvegliò immediatamente dalla sua trance distratta.

Cercò di riprendere subito il filo, apparendo un po' confusa: ma Acromio non poté essere più chiaro.

«Non è possibile che delle ragazzine, ripeto, delle ragazzine si assumano il controllo della regione.
Sono ancora troppo inesperte per prendere in mano le redini in una situazione così delicata…
Non è assolutamente plausibile che Unima subisca ulteriori danni, non credete?»

Gli intendenti borbottavano fra di loro, ma nessuno ebbe il coraggio di fare una qualsiasi affermazione. Allora il Professore continuò, a cuor leggero.

«Quindi, Campionessa Kuroi e… - rimase a fissare per una manciata di secondi la più giovane, che distolse lo sguardo, infastidita - come ti chiami tu, tesoro?»

Oh, sperava costui che lei gli rispondesse, ora che aveva provato a chiamarla "tesoro"!
Iris rimase in silenzio, impallidì, per quanto la sua carnagione scura le premettesse, a quell'appellativo, costringendo la leader a spiegarsi per lei.

«Iris. Calfuray Iris.»

«Iris, sì, certo! - Quindi Camilla era la "Campionessa Kuroi", mentre a lei rimaneva la scelta fra "tesoro" o "Iris" - ho un'importante, importantissima, fondamentale richiesta da fare a voi, in rappresentanza anche delle vostre colleghe assenti.»

A questo punto estrasse un foglio bianco, in carta raffinata, una penna stilografica.
Lo porse loro, facendolo strisciare sul tavolo, e le fissò ognuna negli occhi, con una fiducia che credeva insormontabile.
Poi sorrise, e finalmente avanzò la sua richiesta, la quale credeva irrefutabile.

«Firmate qui, e ritiratevi definitivamente dalla competizione per diventare Campionesse.»

Quelle parole impattarono così forte nell'atmosfera del momento da fermare la respirazione delle due allenatrici, che si fissarono a vicenda, sconvolte.
Non osarono toccare la penna, ma non avanzarono neppure qualche critica: volevano sapere cosa il Governo, ammesso che quel patto fosse legale, avesse pianificato.

«Vi prego di non pensare tutto questo come un affronto alla vostra dignità; ampliate il vostro orizzonte e cercate di guardare al bene comune: nessuna delle quattro aspiranti Campionesse potrebbe reggere il confronto contro tutti i problemi che abbiamo, fra cui soprattutto la minaccia del Neo Team Plasma.

Serve una guida salda, esperta, che ha un progetto concreto.
E, se permettete, il nostro Consiglio ha già nominato un futuro candidato alla carica, assieme al suo partito, del tutto legalizzato.
Ci libereremo della delinquenza e garantiremo alla vostra generazione un futuro più roseo.

Ah, ovviamente mi auguro che voi avevate tenuto un piano di riserva nel caso non foste riuscite a diventare Campionesse! Confido nella vostra previdenza, mie care.
Ora dovete solo firmare e siete libere di andare.»

Ognuno di noi abbraccia con l'animo due Stati: uno è grande e davvero pubblico, in cui sono contenuti sia le divinità sia gli uomini, non prendendo in considerazione questa città o quel villaggio, ma misurando i confini della propria regione con il sole.

E l'ordine appena imposto loro proveniva appunto da questo stato, dai suoi più alti rappresentanti, coloro che in teoria dovrebbero mirare al benessere di tutti il meglio possibile.
Iris pregò fosse così; il suo amore per la patria era l'unica scusa che mai l'avrebbe spinta a gettar via la più grande occasione della sua vita.

«Ma non era quello che volevi dieci minuti fa?» Una vocina la martellò sulla coscienza.
La soppresse. Si sarebbe risposta da sola "certo che no".
Voleva ben altro.

Se fosse diventata lei il capo assoluto (ma contava che anche Catlina, Camelia ed Anemone non avrebbero esitato) pensava di estirpare lei stessa il male e di bonificare le paludi del degrado.

Più lavoro, più istruzione, più servizi, più modernità. Per uomini e Pokémon.
Non era forse questo il sogno condiviso da tutti?
Perché non poteva essere per definizione una di loro ad avverarlo?

Ma c'era un territorio più ristretto, tuttavia non meno influente di quello disegnato sulle cartine e sugli atlanti geografici: quello dell'interiorità. Lo spazio che un individuo occupa si estende non oltre il limite da dove la sua ombra riesce a stagliarsi, però è piccolo perché è estremamente concentrato.

E la somma delle parti costituiva l'intero. Un governante non può vedere il suo regno come una grossa macchia indistinta di plebaglia spersonalizzata.
Ognuno degli Allenatori, degli Allevatori, dei bambini, delle madri e dei padri, dei ricercatori, degli attori, dei dipendenti salariati e degli studenti meritava di esprimere se stesso, di far sentire la propria voce, ma a quanto pareva il Consiglio aveva avuto la brillante idea non di tapparsi le orecchie e basta, ma di staccargli la spina al microfono, direttamente.

Uno spirito di altruismo fece straniare la ragazzina di Boreduopoli da tutti quegli aspetti che riguardavano lei e solo lei: aveva forse perso un mese ad allenarsi per niente? Poco le importava, ne avrebbe buttate via tonnellate di tempo della sua vita. Si sentiva meno importante così? Già lo era poco di suo.

A motivarla e a portare all'esaltazione il suo buon senso era effettivamente la persona che Acromio, il Governo, che i sostenitori di quel partito volevano incoronare di alloro gettando invece il giovanile volto delle sue compagne nel fango solo per il non avere una fondazione alle spalle…

Il discorso alla televisione… non aveva nulla a che fare con il Team Plasma, no… Nero e bianco, ideali e verità… le girava la testa solo a pensarci.
Quelli non erano i pensieri ai quali una quindicenne doveva darsi.

«…Mi permette una domanda?»
Camilla portò il palmo della mano all'altezza della tempia, come una scolara timorosa di interrogare l'istruttore, il quale nascondeva la canna per le botte dietro un sorriso smagliante.

«…Chi sarà il nuovo candidato… - deglutì, era nervosa - alla carica di Campione allora?»

Ma questa era un quesito del tutto retorico: la risposta era già stata scritta negli annali della storia, mentre lo scienziato si toccò puntiglioso il ciuffo, in segno di sormontante autorità.
Senza davvero volerlo, Iris sedeva sull'orlo della sedia, la plastica le irritava le gambe, l'aria fredda aveva intirizzito le sue spalle e quel freddo si era esteso anche al suo cuore.

«Mi pare ovvio, Campionessa Kuroi: al potere salirà, entro la fine di agosto, il partito nazionalista-liberale - e qui si infiammarono gli animi - guidato dal suo nuovo re Ghecis Gropius Harmonia.»

Non potevano mica lamentarsi: quel colpo di scena era prevedibile, almeno quanto il fatto che il partecipare a quella riunione era stata una fregatura vera e propria.

Però ciò non le autorizzava comunque a prenderla alla leggera. C'era un complotto alle loro spalle.
In realtà c'era sempre stato, solo che loro erano state troppo occupate a colorarsi le unghie e a dibattere dei loro drammi adolescenziali per accorgersene.

Mentre le future Campionesse di Unima sperperavano il loro tempo ad inseguire dei teppisti da quattro soldi e ad attaccar battaglia contro le forze dell'ordine, il pretorio di Ghecis, quell'uomo era riuscito a riscattarsi dalla sua infima posizione di ricercato salendo la scala sociale fino ad ottenere un consenso popolare, un vero e proprio partito di orientamento… che orientamento era quello?

Oltre alla sete avida di potere quel depravato non sembrava incarnare alcuna saggezza, pur essendo vecchio, pur essendo un eletto, a quanto si divulgava sui giornali egli vantava di provenire dalla casata reale dal sangue da cui discesero i due eroi gemelli della leggenda.

E fosse stato solo quello, sarebbe stato un reato, ma un reato passabile.
Il fatto era che tutti quei bei manichini in tartan grigio, quegli impresari e quei senatori dalle facce di cera ignoravano che quella non era la prima, ma la seconda volta che quell'uomo viscido e senza principi ascendeva all'Olimpo di prepotenza.

«Quindi, - Acromio si fece sottile, già pregustava l'ottenimento della sua vittoria - una firmetta qui…»

Ma che cosa importava a cinque ragazze? Non avevano niente di meglio da fare?
Uscire col fidanzato? Studiare per gli esami? Andare a fumarsi una canna?

«Io non firmo proprio niente!»

Lo stridio della sedia strascicata indietro con uno scatto repentino gracchiò insopportabile nelle orecchie di tutti i presenti, costringendoli a dedicare la loro scialba attenzione alla persona che ritenevano meno degna di essa.

«Ragazzina… - l'uomo ribadì, innervosito leggermente - non ci pensi al futuro del tuo paese?»

Ormai però la giovane dai capelli viola si ergeva sulla punta dei piedi, batté i palmi chiari delle mani facendo risuonare la superficie del tavolo e quei tonfi amplificavano l'acutezza della sua voce, rendendo ineludibile ciò che onestamente aveva da dire in merito già da un bel po'.

Solo che voleva assicurarsi di essere ascoltata, quella volta.
«Appunto perché ci penso non firmerò questo contratto.»

«Cosa fa? - Si chiedevano gli altri, sbalorditi da tale insolenza - Ma è pazza?»

«Un po' teatrale… non trovi?» La canzonò lo scienziato, senza mostrare traccia di vacillamento.

«Se ci ritiriamo dalla competizione farete salire Ghecis al potere, ma siamo pazzi?!
Io, per quanto mi riguarda, non lascio Unima a marcire nelle mani di quel… quel tizio.

Uno che ha provato l'anno scorso, l'anno scorso dico, a risvegliare i Leggendari per il suo tornaconto personale, che vende la droga per comprarsi le elezioni e che manda ad ammazzare cinque Allenatrici neanche ventenni da altrettante Allenatrici neanche ventenni!

E io dovrei prendere ordini da una persona del genere?! Dovrei chiamarlo "Campione"?
Perché è questo che fa un Campione ora: si comporta come un tiranno e vuole fare pulizia etnica delle persone che a lui non vanno bene solo perché non gli possono offrire supporto!

Ghecis Harmonia pensa solo ai ricchi e ai potenti; ma ai gay, ai diversamente abili, ai bisognosi e alle persone di colore chi ci pensa?

Ma perché invece di predicare l'odio in televisione non provate ad aiutare chi si trova in difficoltà? E perché invece di rubare denaro non condividete quello che avete per migliorare la regione?
Potreste anche parlare con la popolazione dei vostri progetti al posto di discuterne da bravi egoisti solo in segreto!

Questo non lo dico come aspirante Campionessa, ma come persona umana che vive da quindici anni in questa regione…»

Dopodiché le andò via il fiato. Iris dovette per forza fermarsi e respirare per sedare il bruciore che le aveva tappato la gola: tuttavia anche se le sue corde vocali le avessero concesso altro tempo non avrebbe aggiunto molto altro.

Aveva centrato il punto senza troppa falsa retorica. Aveva espresso chiaramente cosa pensava.
Intanto Camilla aveva abbassato l'occhio non nascosto, coprendo l'altro con il ciuffo e la mano simultaneamente, non riuscì ad individuarvi una visibile reazione.

Presa dalla foga momentanea e dallo stress cumulato in quel giorno, non aveva davvero pensato alle conseguenze di quello sbotto repentino. In primis ne era stata orgogliosa.

Farsi mettere i piedi in testa e una mazzetta di banconote in bocca era il modo migliore per farla sentire una debole, una perdente e nessuna di tali apposizioni si adeguava alla sua, per quanto precaria, sempre presente autostima.
Immaginò quindi che magari neppure al resto della gente piacesse poi così tanto.

Lei era umana e non considerava alieno a sé nulla che concernesse gli uomini.
Ghecis Harmonia, il Neo Team Plasma, quell'Acromio, non erano definibili "umani", a parer suo.

Infatti il professore attraversò la sala avvolta nella costernazione, probabilmente qualcuno dei magistrati si sentiva pure un po' toccato da quelle parole gridate in un normale pomeriggio afoso.
Passò oltre l'imponente quadro e si piazzò accanto alla piccola seccatrice, la costrinse a voltarsi sempre con deliberata gentilezza e le parlò con un tono molto più freddo e distaccato di quello usato per convincerla a firmare la resa.

«Signorina Calfuray… lei dispone per caso di conoscenza approfondita della politica e dell'economia del Paese?»

Tale domanda spiazzò non poco Iris, che indietreggiò intimidita.
«N-No…»

«Ha forse frequentato gli alti ambienti della Lega? Ha qualche qualificazione come Allenatrice?
Ha mai sostenuto un Esame di Lotta?»

Si fece più veemente nella sua inquisizione, non guadagnandosi alcuna risposta affermativa che permettesse all'avversaria di riscattarsi dalla propria posizione di inferiorità.

«No, ma questo è perché…»

«Ha presente il codice civile e penale? Sa la differenza fra socialismo e capitalismo? Conosce la storia della regione a partire dalla fondazione? Lei possiede questo tipo di competenze?»

Tuonò, alla fine. Dopo rimase silente, aspettando che la poco temibile pulce ammettesse definitivamente di non essere altro che una sempliciotta, una qualunquista ed un'ignorante sulle questioni di attualità.

Ella sospirò, senza scomporsi.
«…No.» Concluse.

«La sua ostinazione, se permette, è immotivata ed indubbiamente dettata da una recondita forma di frustrazione. Un complesso di inferiorità molto aggravato, oserei dire clinicamente.
È un atteggiamento tipico di chi è impotente, la storia ci insegna così: lotta di classe e rivoluzione.
Lei vuole difendere gli inetti facendosi loro portavoce: l'ho visto anche dal suo profilo educazionale.»

Ora Acromio reggeva il coltello dalla parte del manico ed era pronto a piantarglielo dritto nel petto.
«Signorina, lei no ha terminato la scuola dell'obbligo, dico bene?»

Iris non mosse un muscolo; era sicura che se lo avesse fatto la sua mano avrebbe d'istinto raccolto il bicchiere o la bottiglia dell'acqua, l'avrebbe agguantata e con salda stretta gliela avrebbe frantumata sul cranio.
Perché quell'argomentazione era il ricatto peggiore con cui avrebbero potuto incastrarla e lei non poteva negarne la veridicità.

Se solo avesse avuto un altro nome, un'altra faccia, se solo fosse stata qualcuno di più influente e rispettabile!

Ma il problema risiedeva in chi era, non in cosa pensasse o nel come lo avesse argomentato: finché era Iris nessuno le avrebbe mai potuto prestare fiducia lì.

«È vero.»
Tornò a sedersi, quietando l'ondata di patriottismo che l'aveva investita.

Non parlò più. Credeva di aver perso del tutto la capacità di comunicare, di rimanere civile ed educata, di saper far valere la sua opinione.

Si sentiva già ingabbiata nella dittatura, nel totalitarismo, in cui dopo la libertà di espressione e di associazione se ne va via anche quella di pensiero, facendole il lavaggio del cervello, fino a vedersi costretta a lanciare fiori ed intonare inni al più crudele individuo sulla faccia della Terra.

Camilla non si pronunciò invece.
Lo scienziato le chiese cosa pensasse. Lei stette zitta.
Le ripropose la sua offerta e lei lo ignorò.

Quindi quello le domandò ancora se davvero non avesse nulla da dire e lei, dopo un secco "no comment", si levò in piedi e fece segno anche alla sua compagna di uscire.
I tre quarti d'ora da dedicare alla riunione al Palazzo del Governo erano finiti per loro.

Nessuno si prodigò nel trattenerle, poiché chiaramente nessuno aveva voglia di stare a discutere con delle bambine cocciute, maleducate e vestite con pantaloncini corti e maglietta senza maniche.

Camminarono per un po' mute entrambe, prive di parole per descrivere la situazione, i dialoghi e le circostanze a cui avevano dovuto far fronte giocando ad armi impari.
Ghecis aveva dalla sua il Parlamento, una folla sempre più numerosa di seguaci, i mass-media, un esercito di ragazze assassine ed un brillante segretario di partito come il professor Acromio.

Perfino Camilla sapeva che neanche un suo intervento in qualità di Campionessa poteva in alcun modo interferire con la legislazione proibitiva e arzigogolata di Unima, così soggettiva e ristretta nei suoi parametri d'azione.

Una morsa di angoscia prese d'improvviso la più giovane, mentre si dirigevano all'auto.
Ella si strinse al corpo della leader, sorprendendola, avvolgendovisi con le braccia e nascondendo il volto coperto di vergogna sulla sua spalla, non raggiungendo in altezza la schiena per liberarsi del suo sguardo.

In quel momento le sembrò davvero che non avesse altra scelta, se non firmare il proprio ritiro.

«Ho fatto una figura da stupida, mi sono messa contro il Governo, ci ho messo tutte nei casini, Camilla, io… - Voleva aggiungere che le dispiaceva, ma non riuscì a pronunciare le parole - io…»

Prima di poter anche solo lasciar che la sua mente navigasse fra le fetide acque di quel pensiero nefando, come a volerla strappare a quel gorgo di pessimismo in cui l'associazione criminale voleva trascinarla, a farle da ancora di salvezza fu la fermezza con cui Camilla le prese il viso fra le mani e se lo portò a contatto coi suoi occhi, la decisione che ci mise nella sua successiva affermazione.

E se lo diceva la Campionessa di Sinnoh, un'esperta di mitologia, autodidatta, leader improvvisata piuttosto bene e soprattutto amica di vero cuore, non ci trovò alcunché di marcio.

«Iris, non dire queste cose, per favore.
Sei stata grande.»

 

Si comprarono un gelato alla fine. Non perché ne avessero davvero voglia, ma più che altro per placare quella fame pindarica di soddisfazione materiale che una giornata dovrebbe garantire ai viventi, pure quando tutto va male.

Lei e Camilla rimasero a chiacchierare insieme, sedute sul cofano dell'auto pur di non sporcare gli interni, sebbene ci avessero già mangiato dentro a pranzo.
D'estate, ogni turista medio si accodava davanti alle bancarelle, pronte ad ostentare la loro produzione artigianale di Conostropoli, creando una gran calca di fronte all'uscita delle gallerie d'arte.

Erano circa le cinque; la piazza principale, che un nome ce l'aveva, ma era così altisonante e pretenzioso che oramai nessuno lo utilizzava al posto del più intuitivo "quella della fontana", invece di svuotarsi si riempiva ancora di più.
Allora decisero di andare a recuperare le tre compagne. Senza fretta.

Quella giornata era andata anche peggio dell'altra secondo lei, tutto quanto finiva sempre in balia del caso e delle circostanze più incoerenti ed imbarazzanti quando uscivano in missione.

Da quel pomeriggio in poi aveva stabilito in aggiunta che non si sarebbe mai più incolpata se la situazione si fosse rivelata del tutto a discapito delle sue poche risorse di adattamento.
L'uomo primitivo ci aveva messo millenni ad imparare come camminare eretto sulle gambe o a sopravvivere ai predatori, mentre a loro era stata concessa un'esistenza sola.

Camilla accostò in un'area gratuita, poco lontana da dove aveva congedato le due Capopalestra e la sua amica d'infanzia, cosicché le avrebbero viste più facilmente.
Accesero la radio ed aspettarono quiete, sicure che, dopo un pandemonio come quello odierno, niente di sconquassante fosse in agguato dietro gli angoli putridi di quelle strade.

Dopo un po' la leader cominciò a interrogarsi sul magari fare loro uno squillo, ma Iris la distolse, in riferimento all'episodio del centro commerciale. Solo perché erano leggermente in ritardo non significava si fossero dimenticate del loro dovere, quella era una mancanza di fiducia.

Attesero ancora un po', e proprio quando la bionda fu sul punto di perdere la pazienza, la ragazzina non poté non dirsi soddisfatta delle sue intuizioni: poteva essere che avesse lei imparato a conoscere le abitudini delle sue compagne meglio della Campionessa attraverso i litigi e la frustrazione?

Infatti lungo il marciapiede scorse una testa del colore del metallo arroventato e altre due figure al suo fianco comunque non meno visibili.
Gli fece un gesto di riconoscimento con la mano per invitarle ad avvicinarsi, soprattutto però a velocizzare il passo.

«Ma perché ci mettono così tanto…»
Sì, perché in effetti stavano camminando piuttosto piano.

Anzi. Guardandole bene le sembrava che le gambe non seguissero un andamento lineare nell'incedere, bensì descrivessero una deviazione prima di toccar terra, come se avessero paura che il cemento crollasse sotto i loro piedi, per questo oscillavano un po' ed ogni tanto un robotico zoppicare balenava in quell'andamento incerto.

Appena le tre giovani le arrivarono davanti, Camilla uscì alla svelta sbattendo con vigore la portiera e la più piccola del gruppo si allarmò in anticipo, non capendo bene il motivo di questa foga.
Le sue tre amiche erano arrivate ed ora il gruppo era riunito.

Solo che un'aria strana aleggiava fra loro, in mezzo allo smog dei tubi di scappamento.
Era un qualcosa di naturale, vagamente dolce, con un retrogusto di silicone, artificioso e zuccherino. Sembrava un profumo da donna, tuttavia abbastanza pungente da risultare intollerabile dopo i primi dieci secondi.

Camilla si guardò intorno e controllò che non fosse la sua camicia ad esserne impregnata, come se un campanello di allerta le fosse risuonato nella sua testa già abbastanza confusionaria.

«Hey… tutto a posto?»
Le fece la rossa, sorridendo in una maniera talmente tanto stinta, quasi le dolessero le labbra nel compiere quella semplice azione, curiosa anche lei di cosa stesse sospettando la leader.

«Più o meno. - Camilla esitò nel risponderle - Voi sembrate fin troppo contente…»

Andava alla ricerca di un contatto visivo qualsiasi con ognuna delle tre, ma sembrava che i loro occhi avessero di meglio da guardare, e dato che i panorami tanto spettacolari in quel ghetto non abbondavano di certo, immaginò che effettivamente ci fosse un qualcosa, ma che solo loro tre potevano vedere.

Forse, l'unica a non essere immersa in quella sonnolenza inebetente era la biondina che pareva, al contrario, più sveglia del solito, tenendo la mora per un braccio, intanto che quella abbassava lo sguardo, piuttosto cupa in volto.

Alla ragazzina non passò neppure per l'anticamera del cervello di analizzarle così. Piuttosto, vide che Camelia ed Anemone avevano finalmente deciso di cominciare a tenersi per mano come vere fidanzate anche per la strada. Lo trovò assai carino, e glielo fece notare.

Si aspettò un qualche commento aspro per via del suo comportamento prima di separarsi per i loro compiti, ma Camelia stette zitta quella volta.
Ecco, quello le instillò un minimo dubbio.

«Eh? - le rispose Anemone - È… tipo… come se ci sostenessimo a vicenda, adesso…»

«Già…» la sua ragazza aggiunse, tossendo un paio di volte con forza lacerante, causando un leggero tremore al proprio corpo e costringendo la giovane aviatrice a sostenerla più saldamente.

«Ci siamo sostenute a vicenda, il Team Plasma non ha potuto fare niente contro di noi.»

Catlina si sistemò i capelli, scoprendo che una visita nella zona malfamata di Austropoli li aveva sporcati ed unti tantissimo e pur sapendosi spiegare il perché, era certa che sia lei, sia le due diciassettenni (verso le quali sentiva di aver accresciuto la propria amicizia) avrebbero innanzitutto cenato, poi si sarebbero lavate.

Mai infatti, neanche dopo gli estenuanti allenamenti di Nardo, si erano sentite così affamate in vita loro.

«Okay, quindi! - la nobile di Sinnoh alzò spropositatamente la voce, fu sul punto di gridare per incitare la sua coetanea a spicciarsi per loro, con il consenso delle altre - Possiamo andare adesso, speriamo che Nardo ci abbia preparato già la cena, perché io sto morendo di fame, voi no?»

«Avete trovato il Sangue del Drago?» Chiese Iris, con molta cautela.

Subito però si ritrovò fra le mani, dopo averlo afferrato con una presa degna di un giocatore di baseball, una scatoletta dalla forma un po' kitsch e per quello abbastanza adatta a contenere il veleno con cui un pazzo manipolatore intendeva conquistare la regione.
Si sarebbe stupita se lo avesse riposto in un normale contenitore, dopotutto.

«Non ringraziare… - Ammise Anemone, in un eccesso di modestia le tre si strinsero con le braccia sulle spalle - È stato facilissimo! Ora però andiamo, dai… è tardi…»

Fece per entrare in macchina, quando, per sua sfortuna, Camilla le si parò davanti, con lo stesso atteggiamento di un agente durante una perquisizione. La donna contava infatti sul suo sesto senso, grazie al quale riusciva a percepire la tensione, quando le persone le nascondevano qualcosa.

Fissò la sua compagna dritta dritta negli occhi, fintanto che ella stava ancora in piedi, mentre i suoi Pokémon e quelli altrui osservavano la scena, avvertendo anch'essi che le loro Allenatrici non sarebbero rimase impuni.

Camelia, Anemone e Catlina avevano perfino la sclera degli occhi color rosa geranio.
Sì, proprio quell'esatta tinta, non si era cimentata in un'iperbole.

«Ragazze, - Camilla le bloccò, per poi esprimersi, laconica - siete fatte per caso?»

Calò un silenzio che riuscì ad incanalare tutto l'imbarazzo e lo shock di quei due mesi in circa una manciata di istanti, Iris rimase così sorpresa da non volersi neppure sforzare di risultare troppo stupita.

Insomma, tutti i bei discorsi sulla coerenza, sul condurre una vita sana e pulita di quella mattina?
Bastavano tre ore per convertire tre fanciulle ben educate e morigerate sulla strada psichedelica della perdizione?

Si accorse solo in quel momento che in realtà Anemone non stava reggendo la sua fidanzata per amore, ma perché Camelia, essendo astemia come la più casta delle vestali, non doveva aver retto neppure una canna mal preparata, ed ora aveva perso tutto il vigore.
Se l'avesse mollata era sicura che sarebbe crollata a terra, priva di sensi.

«Ci stai accusando… - la ragazza fu presa da un attacco di nervosismo e si strinse agli indumenti della leader, esasperata - di esserci drogate?»

«Per favore, calmati. - la Campionessa si tolse le sue mani di dosso, dicendole in tono duro - Catlina, stai urlando.»

«Guarda che - Quella se la prese, stravolgendo del tutto il suo personaggio, era il principio attivo della cocaina che le donava una scarica folgorante di energia che non sapeva come impiegare - io sono calmissima! E ti dico che sto bene, giuro!»

«Hai avuto un trauma cranico quasi mortale tre giorni fa!» Le ripeté la bionda, conscia di non poter ricorrere a mezzi termini con una persona (anzi, tre) sotto effetto di stupefacenti.

«Infatti. - Catlina tornò subito calma, cercando di trattenere la propria tempestività - Adesso non ho più male alla testa, grazie alle… "cose" che abbiamo fumato... E tirato.»

«Vero, la polvere sapeva da zucchero filato alla fragola! - esultò la rossa, per cercare di difendersi in quella causa persa in partenza - Cioè… faceva un male cane quando la respiravi, tipo, che ti esplodono le narici… Ma dopo due tiri ti abitui, eh! Non fa così schifo come dicono.»

Tutto quello che la modella semi-morente, con la faccia bassa e il viso sbiancato ebbe da aggiungere fu un lamento che sembrava provenire da uno spettro.
«Mi viene da vomitare…»

Poi l'altra si mise a ridere, senza motivo, mentre la leader fissava la scena allibita.
Come avrebbe potuto spiegarlo a Nardo? Quell'uomo le aveva beccate già una volta; non contava l'episodio dell'ubriacatura inesistente, ma quello del reggiseno non doveva aver insegnato nulla a quelle ragazzacce.

Al diavolo, le lotte con i Superquattro delle altre regioni, le sfide con i Campioni di Kanto, Johto ed Hoenn, e le catastrofi nazionali: fare la leader di quel gruppo era la sfida più ardua ed estenuante che avesse mai incontrato nei suoi anni di carriera.

E, come se non bastasse, non è che quelle tre avessero retto male una piccola dose, non essendovi abituate.

No: le giovani confessarono, sempre a cuor leggero, di aver voluto strafare, che un tiro segue l'altro, che si erano accese prima dei leggeri spinelli, poi dei veri e propri tronchi d'albero, solo per poter fare il fantomatico viaggio in un mondo allucinogeno, come i Pokémon Psico quando distorcono il campo di lotta con Magicozona.

Dopo l'aver rischiato di perdere la possibilità di partecipare alla competizione, quella notizia rappresentava il colmo.

Lasciò perdere. Salì in macchina, sbattendo la portiera, intimando le altre a fare lo stesso.

 

Partirono, infine. Le giovani alterate sedettero nei sedili posteriori e nel giro di qualche isolato caddero addormentate come corpi morti, tutte stravaccate l'una sull'altra, ogni tanto mugolando per le convulsioni dovute alla cocaina, che stava risalendo il flusso sanguino fino al cervello come un salmone che cavalca la corrente di un fiume torrentizio.

I lampioni cominciavano ad accendersi, insieme ai cartelloni al neon e ai semafori lampeggianti.
Non che di sera la metropoli dormisse; i club aprivano fino a tardi, la musica delle discoteche batteva il ritmo martellante di un cuore ebbro di adrenalina.

Solo la Campionessa di Sinnoh e la ragazzina di Unima poterono godersi il rumore della sera.
La seconda però, intuì che il suo tacere imposto per punizione potesse anche finire lì.
Per colpa di esso aveva passato una giornata piuttosto faticosa, imbrogliata dagli impacci dei potenti e dalle meschinità della sorte.

E non riteneva giusto che anche Camilla, che tanto aveva fatto per tagliare tutti quei cavilli, dovesse patire la stessa costante frustrazione nei confronti delle sue compagne.

«Stai tranquilla. - Le disse, guardando le auto che sfrecciavano sotto il suo naso - Domani ti chiederanno "scusa" una dopo l'altra, ne sono certa.»

Dopo una pausa di conciliazione, Camilla esalò un sospiro per liberarsi da qualunque peso la opprimesse. Il suo profilo disegnato sullo sfondo di luci colorate evidenziava le sue labbra sottili e le ciglia lunghe. Iris si mise ad osservare per proprio piacere le sue braccia lunghe che afferravano il volante con fermezza, davanti alla linea del suo seno cospicuo, che si intravedeva fra una fila di bottoni slacciati per comodità.

Fu contenta che ella le avesse risposto. Quando riusciva ad identificare anche in una donna ventenne tanto virtuosa le sue stesse ansie e le angherie subite indirettamente dalle compagne, si sentiva in qualche modo nobilitata.

Camilla era fin troppo umana per ispirarle la brama di idolatria.

Se il coraggio che tale persona le infondeva fosse arrivato nel momento in cui Acromio le aveva chiesto di levarsi dai piedi per far strada all'ascesa di Ghecis, altro che firma, con la penna gli avrebbe infilzato i bulbi oculari.

Fu contenta almeno di aver rifiutato. Di sicuro, una volta riferita la questione a Nardo, quel moscerino avrebbe fatto meglio a trovarsi un lavoro stabile in una qualche fabbrica di elettrodomestici o a sparire una volta per tutte.

Inoltre, quando mai un membro del governo è autorizzato a chiamare delle minorenni "tesoro" e "cara"? Rabbrividì, ripensandoci.

Ora che avevano nelle loro mani un campione della droga da analizzare, sicuramente Zania avrebbe scoperto qualche ulteriore informazione ai laboratori.
I Pokémon una volta schiavizzati avrebbero smesso di soffrire, con tutta probabilità.
Ed un'altra macchia nera più visibile sarebbe andata a sporcare la fedina penale del capo del Team Plasma, già nera come il catrame.

Dopo un pomeriggio, la giovane dai capelli violetto finalmente riuscì a trovare un po' di fiducia per credere in sé stessa e nelle proprie parole pronunciate in quella sala riunioni.

A detta sua, dopo quelle esperienze, forse il mondo di pace e collaborazione, il futuro perfetto di cui parlava lo scienziato si poteva creare davvero, lo stavano facendo loro.
Sinceramente, era proprio quello anche lei desiderava.

«Sai cosa penso? - La voce profonda di Camilla la scosse dai suoi pensieri - Che l'obiettivo del Neo Team Plasma sia più semplice di quanto crediamo.

Nel senso: che non sia un qualcosa di estremamente complicato.
Ma che voglia agire a partire dalle nostre più piccole azioni, come se potessimo smettere di essergli di ostacolo di nostra volontà.»

L'automobile ruggente corse a tutto gas verso una delle uscite secondarie, per evitare di incappare in un controllo della polizia antidroga ai caselli autostradali.

Era possibile il fatto che cinque giovani ed attraenti ragazze potessero davvero rappresentare un intralcio concreto per una società criminale…
Ma intanto, per quel dì, la vittoria era definitivamente loro.

 

 
«Ah… mi sento malissimo… ho ancora i postumi della tirata…
E in più, sai cosa, Anemone? Mi sento quasi in colpa. Avevo giurato a me stessa che non mi sarei mai drogata e invece, sono proprio una debole.»

«Cami, non è colpa nostra, lo abbiamo fatto per la missione!
Appena abbiamo cominciato a fumare e a sniffare la coca noi, anche le altre due reclute si sono strafatte e, credimi, loro erano messe anche peggio.
Abbiamo avuto la nostra occasione e, prima di collassare, gli abbiamo rubato il Sangue del Drago!
Direi che siamo state brave. Un piano infallibile, il nostro.»

«Ma non potevamo semplicemente fregargli la scatola e scappare via, senza doverci fare un cannone e tre strisce ciascuna?! »

«Dovevamo indebolirle prima, o ci avrebbero attaccate in gruppo!»

«E se avessimo usato i nostri Pokémon? Siamo Allenatrici professioniste, dubito che ci avrebbero stese quelle mezze calzette.
Li avevamo pure schierati per bene prima di arrivare… possibile che non ci abbiamo pensato?!»

«No, è vero! Siamo proprio tre imbecilli! Dove andremo a finire?
In un centro di recupero per tossici, ci scommetto, perderemo tutti i capelli e le tette, poi passeremo al crack, all'eroina, la daremo ai nostri Pokémon, ci squalificheranno dai tornei e non avremmo più una vita decente...

P-Però almeno saremo sempre insieme, no? Camelia, sappi che io ti amerei lo stesso, se io diventassi una cocainomane di strada tu faresti lo stesso?»

«Ma se non hai neanche i soldi per comprarti un grammo di quella roba!
Piuttosto, io mi preoccuperei della tua dipendenza dai manga… ne hai pile e scaffali interi nella tua stanza, quando potresti risparmiare quei soldi per comprarti cose molto più utili…»  

«Hey, io non ti dico come vivere la tua vita!»

 

 

Behind the Summery Scenery #18

1. Vi rivelo un segreto. Ae c'è una cosa che ODIO è il self-insert (lascio qui una spiegazione per i più anglofoni di voi).
E poi l'ipocrisia. Fanculo gli ipocriti, quanto li odio.
Ma in quel caso, ebbene, mi sono macchiata di entrambe le colpe! *cries in matcha latte* Mi spiego.


Avete presente come nel secondo capitolo io avessi evidenziato come se fosse un tratto imprescendibile e non tralasciabile del personaggio che Camilla ed Iris non si truccassero? Look at this:
"Sul viso non sembrava avere make-up, cosa che la compiacque parecchio, dato che neppure lei si truccava." [Cap. 2 "Quando tutto è nuovo anche tu ti rinnoverai, Momo, 2013, Non mi troverete mai kek, Non mi pubblicheranno ma double kek]
Ora, se ragioniamo per deduzione, si può evincere che "se i personaggi non si truccano è perché l'autrice era contraria, opposta e disgustata dal truccarsi". Che cosa frivola, ma è la verità.
Ricordo a tutti che ho scritto questo capitolo nel 2013 e non è che me la passassi chissà quanto bene quell'anno, non avevo la fiducia in me stessa e la voglia di prendere pennello e beauty blender ed imparare l'arte degli MUA mi mancava.

Flashforward nel 2018: le circostanze della vita mi hanno fatto capire che girare con una faccia come la mia è illegale in 200 paesi, quindi mi sono armata di Youtube e di pazienza e... la mia avversione verso il trucco è sparita.
Lo ammetto, volevo fare la speciale che non è come tutte le altre ragazze. Ma ho fallito. La vanità e il so pigmented hanno vinto su di me.

Quindi, se adesso è molto più evidente che mi soffermi a descrivere che marca di ombretto le ragazze stiano indossando e con che pennello lo abbiano sfumato non è ipocrisia, sono solo io che cresco e mi evolvo!

2. Questa è la manicure che ho descritto. Ve l'ho detto, io non sono come le altre ragazze.

3. E continuando il discorso dei dettagli idioti: qui continua il product placement iniziato nel quattordicesimo capitolo!!! Abbiamo McDonalds, telefoni vari (opterò per lo Xiaomi e l'Oppo, così non triggero la faida Samsung vs Android vs Huawei, dato che nessuno li ha in Italia), la Jeep, telefonia varia, Diesel/Urban Outfiters... e Amazon Books!

Già, sembra proprio che Amazon.it muoia dalla voglia di sponsorizzare questa fanfiction, tanto è che trovo la pubblicità di manga che NON voglio leggere e libri di cui ho cercato apposta le recensioni negative sia all'inizio, sia IN MEZZO e pure alla fine dei miei capitoli.
Quando mi sono iscritta ad EFP, nelle Condizioni d'uso ci doveva essere scritto "l'autore si impegna a leggere Tokyo Ghoul, My Hero Accademia e Animali Fantastici per cultura personale". Grazie Erika, tu sì che sai trattare i tuoi utenti con il rispetto che meritano 


4. In questo capitolo è presente una citazione epicissima ad un film che ha fatto la storia della cinematografia.
Ovviamente parlo di Alex l'Ariete, ceh. 26:33, grazie Mighty.
Cioè, due anni fa citavo Catullo, AHAHAHAHAHAH.

5. Prima il sesso, ora la droga. So che avere delle protagoniste pure e perfette, delle idol praticamente, è bello. Non mi parerò il culo parlando di realismo, e non ritengo assolutamente che personaggi trasgressivi o cattivi siano per forza interessanti.
Nessuno si è lamentato della tirata nelle recensioni, alla fine ho espresso nel dialogo come si poteva risolvere la cosa e non penso di dover sempre dare gustificazioni a tutto quello che scrivo.

P-Però non drogatevi a casa, bambini. Bodrst perdr la cors della vitt per colpa di guella robacc.

Menzione speciale anche a questa poop in cui la visual line (Camelia ed Iris) abbatte la transfobia, yasss queens *emoji della corona*
 

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Capitolo 19
*** Non avere paura delle dissonanze ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
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Early Summer Girls

Capitolo 19

Non avere paura delle dissonanze

 

La brezza di mare scuoteva le punte dei cipressi nel paesino di Soffiolieve, a sud della regione.

Poche case a quell'ora tenevano ancora le luci accese: la popolazione giovane di quell'area non eguagliava in numero neppure uno solo dei quartieri delle metropoli più famose.
Questo perché Soffiolieve non era mai stata né una meta, né una grande attrazione.

Tutti gli Allenatori prima o poi sarebbero stati destinati a lasciare quella città, a migrare verso il nord e verso le luci sfavillanti di città come Austropoli e Sciroccopoli.

Si potrebbe definire la quieta cittadina come un luogo di partenze, dove tutto ha inizio.

Succedeva che i ragazzini, una volta diventati autonomi, si alzassero dal letto una mattina, salutassero la mamma ed il papà con un abbraccio affettuoso, poi per uno, due anni, qualche volta anche dieci… non si vedessero più in giro da quelle parti.

Ma, per fortuna, non era raro che qualcuno di essi tornasse a casa, partito da bambino, si ripresentasse da uomo o da donna.
Dunque Soffiolieve era diventata un luogo anche di conclusione del viaggio, in cui il giovane avventuroso rimetteva piede e subito ricordava tutte le esperienze, le memorie e gli incontri raccolti lungo la strada ed in maniera inevitabile paragonava la propria situazione corrente a quella del momento in cui se ne era andato.

A conoscere a menadito tale sentimento era una fanciulla di circa sedici anni, la quale trovava in quel genere di fantasticherie l'unica distrazione piacevole dal suo altrettanto piacevole lavoro.

Infatti la ragazza, dal taglio a caschetto biondo grano e i sottili occhiali rossi per contrastare la leggera miopia, aveva trovato la soluzione migliore sul come passare la sua prima estate dopo aver completato il suo viaggio in qualità di Allenatrice di Pokémon.

Come denota il proverbio, aver trovato un lavoretto di assistente tanto a lei gradito nel laboratorio della Professoressa Aralia, era come se non dovesse più preoccuparsi della noia e del tedio che di solito la vera e propria definizione di "lavoro" porta con sé.

Ogni giorno Belle (così infatti recitava la targhetta appuntata alla sua camicetta bianca) si godeva gli occhi illuminati di gioia dei piccoli Allenatori in erba, mentre sceglievano il loro primo Pokémon e confrontavano i tre starter con quelli dei loro amici e futuri rivali, quando prendevano fra le mani il Pokédex ed infine insegnava loro a catturare i Pokémon selvatici, sebbene molti fossero già capaci di farlo, e lei incolpava sempre internet per questa mancanza di intraprendenza da parte delle nuove generazioni.

Il sole nella calda stagione si atteggiava come i bambini che non vogliono saperne di andare a dormire, rimaneva imperterrito ad arrossare il cielo limpido, e la ragazza ne imitava il comportamento, sebbene la professoressa avesse da un bel pezzo lasciato il laboratorio.

Con un sorriso entusiasta e fanciullesco sulle labbra, aveva nutrito e preparato lo Snivy, l'Oshawott ed il Tepig che il giorno dopo dovevano farsi trovare in forma smagliante, sistemato le ultime ricerche a proposito del cambiamento di forma di alcune specie a seconda dell'ambiente ed ancora non si sentiva stanca o scocciata: era davvero nata per quel lavoro.

«Beh, direi che per oggi ho finito. — Ogni tanto le capitava di parlare ad alta voce per la gioia — Ah, no! Che sciocca! Devo mettere a posto i campioni che Zania ha inviato ieri!»

Belle dunque zampettò verso la scrivania posandovi sopra un pesante e delicato scatolone, lo aprì con il taglierino e procedette a sezionare i vari vetrini in appositi raccoglitori, classificandoli per colore o altre caratteristiche simili: frammenti di denti di drago, squame e foglioline, peli, alette, un sacco di materiale biologico sulla cui indagine sarebbe fiorito il progresso della scienza.

«Ma… questo cos'è? — Si fermò nel mezzo della sua attività — Non ne ho mai visto uno così prima…»

In quel momento nel contenitore di carta l'ex-Allenatrice aveva individuato un campione il quale destò la sua attenzione più di tutti gli altri: una persona senza neanche le basi scientifiche acquisite dopo due mesi di applicazione in uno studio specializzato non si sarebbe accorta della differenza.

Ma lei, tanto adorava quella disciplina, si sbrigò a sistemare le ultime provette già viste e riviste, per concentrarsi su quel bizzarro contenitore.

Accese la lampada da tavolo, si sistemò la montatura sul naso e cominciò a rigirarselo fra le mani. Aveva la forma di un cubo.

Belle non aveva la più pallida idea di cosa fosse ed era sul punto di etichettarlo come un oggetto inutile, quando l'aver posato il dito per sbaglio sulla sezione centrale di una delle sei facce fece scattare un click e mosse verso l'alto un quadratino, che si rivelò essere uno scompartimento interno.

Curiosa come mai in vita sua, fece cadere il contenuto sul palmo della propria mano: una fiala stretta e lunga quanto il suo mignolo recava un'etichetta scritta a mano in maniera frettolosa.

«Sangue del Drago?»
Lesse ad alta voce, confusa. Non le sembrava un nome molto scientificamente corretto.

Inclusa ad essa, una serie di avvertenze figurava sul retro, con i soliti simboli rossi, pieni di teschi e punti esclamativi, ce ne erano parecchie e la ragazza le analizzò tutte.
«Attenzione: non ingerire, non inalare, non esporre alla luce del sole o ad alte temperature, non disperdere nell'ambiente… Non somministrare a uomini né Pokémon.»

L'ultima di esse fu il movente definitivo che la spinse ad aprire la boccetta, versare una o due gocce di quel liquido rosso (come il sangue, almeno lo pseudonimo aveva più o meno senso) su un vetrino sterile e a lasciare il verdetto finale al suo fidato microscopio.

Posò l'occhio sulla lente e mise a fuoco l'immagine, cominciando a discernere alcune particelle macroscopiche, appuntandosi delle formule chimiche a lato, disegnando un modello atomico da cui poi avrebbe decretato di che sostanza si trattasse.

Fu impegnata in quel lavoro per una manciata di minuti, finché all'interno del laboratorio non si precipitò un giovane, talmente d'impeto che l'assistente della professoressa dovette corrergli incontro ed allungargli una sedia.

Non si reggeva in piedi. Portava una camicia bianca ormai sudata e sporca di terriccio, la cravatta rossa snodata per il caldo: doveva aver lottato contro una grande folla, aveva ricevuto spinte e gomitate, per quello aveva perso il senso dell'equilibrio.
Sui capelli corvini corti una patina opaca, stringeva fra le nocche scorticate la Poké Ball mentre le sue dita tremavano, ma il suo sguardo rimaneva rivolto verso il pavimento, i denti stretti e le tempie pulsanti.

«Belle… — iniziò un discorso, ma aveva la bocca seccata dall'arsura — sei ancora qui, allora…»

«K-Komor, non scherzare! — lo riprese lei, preoccupata come non mai — C-Cosa ti è successo? Contro chi hai lottato? Ho il diritto di saperlo!»

La ragazza si era quasi gettata ai suoi piedi, tanto temeva per lo stato del suo migliore amico. Si conoscevano dall'infanzia e Komor era una persona astuta, intelligente ma soprattutto morigerata: sapeva riconoscere il pericolo, non si immischiava mai in una lotta che non era sicuro di poter affrontare.

Eppure in quel caso doveva esserci stato qualcosa ad averlo spinto a rischiare, qualcosa di più grande di lui e di sicuro non di poco conto.
Gli lasciò il tempo di riprendere fiato, non voleva sembrare intransigente, nonostante non potesse nascondere un'incredibile preoccupazione: non era molto brava con le lotte Pokémon, ne aveva fatte ed aveva vinto le sue Medaglie, ma dopo aver sentito le ultime notizie regionali fra le quali l'assalto delle nuove reclute, vedere una delle persone a lei più care ridotta in quello stato la fece rincuorare di aver scelto il campo della ricerca scientifica al posto dell'allenamento.

Se Komor si fosse scontrato contro qualcuno in una Battaglia Violenta, la pace che riteneva assicurata dopo il fallimento del piano di N Harmonia poteva considerarla lei stessa, che aveva pure assistito alla battaglia finale al castello del Team Plasma, come morta e sepolta.

«Sono stato alla Lega. — Cominciò a spiegare il ragazzo, asciugandosi la fronte perlata dal sudore — Quando ieri ho visto il servizio in televisione non ho trovato credibile nessuno dei discorsi di Ghecis… Non è questione di supportare o no un partito politico, ma se quell'uomo vuole diventare Campione della regione, dopo tutto quello che ha fatto, dovrebbe almeno degnarsi di rispettare alcuni diritti umani fondamentali…»

«Ti riferisci al non voler lasciar tenere i Pokémon a tutte le minoranze?»
Gli domandò Belle, che con le orecchie ascoltava il discorso e con le mani proseguiva ad analizzare il bizzarro campione.

«Esattamente. Quindi ho voluto cercare chiarezza da me.» Ammise modestamente soddisfatto.

«Non sei cambiato di una virgola da due anni fa.» Scherzò l'assistente e riprese ad ascoltarlo.

«Sono stato alla Lega Pokémon oggi. Pensavo di riuscire ad entrare, essendo ormai un Allenatore a tutti gli effetti, mi ricordo ancora di quando ho attraversato Via Vittoria da solo, per la prima volta… non ti dico cosa ho visto stamattina.»

«La Polizia Internazionale sta ancora indagando per cercare i responsabili dell'attacco?»
Belle gli chiese, sempre più interessata. Komor invece simulò una risata beffarda, prendendosi gioco della propria illusione.

«Direi proprio di no! Ghecis ormai si è talmente abituato a fallire da sapere, in qualche modo, che il suo piano di conquistare la Lega come se fosse una roccaforte sarebbe stato un buco nell'acqua. — Il giovane si chinò e fece una carezza al suo Stoutland, il quale teneva nella sua squadra dall'inizio della propria avventura — Non appena la notizia dell'attacco si è diffusa in tutta la regione, lui ha piazzato le sue truppe intorno alla struttura principale, negando l'accesso alla Lega a chiunque lui ritenesse, diciamo, "scomodo" per la riuscita della sua farsa.»

Si intuì la parte di mezzo nella vicenda: attacco fallito, reclute decimate. Il sovrano del Team chiede alle autorità locali ed alle sue strette alleanze nelle forze dell'ordine di sorvegliare l'edificio, affinché nessuno venisse a vedere con i propri occhi la verità, né giornalisti, ma soprattutto nemmeno Nardo.

Poi usa la disfatta come occasione per una doccia di petali di fiori, in un’intervista su scala regionale si distacca dalla responsabilità dell'attentato e ne ricava un bel discorso per lavarsi la coscienza e candidarsi legalmente alla carica di Campione.

«Per fortuna che quelle nuove reclute erano tutte abbastanza scarse. — Asserì il ragazzo, portandosi vicino all'amica, ancora intenta nel suo lavoro — Erano tantissime però. Ho dovuto lottare contro un esercito di ragazzine delle medie e delle superiori prima di riuscire ad eludere la sorveglianza ed entrare alla Lega! Ci riesci a credere?!»

«Komor! Non parlare male così male delle ragazze! Le femmine possono essere anche molto brave dei maschi a lottare con i Pokémon, sai?»

«Stavo per essere letteralmente picchiato dai nuovi collaboratori del Team Plasma e tu ti preoccupi del mio commento poco femminista?»

«Basta che mi dici cos'hai visto quando sei entrato. Com'era messa la Lega? Ghecis era lì?»

«Ovvio che no, ma sembrava tutto abbastanza normale. Non ho controllato le stanze dei Superquattro, dove dicono ci siano i danni peggiori, sono subito sceso nella Sala d'Onore con l'ascensore, ed è stata questione di minuti prima che dei poliziotti affiancati da un Machamp mi scortassero fuori di peso.»

Dopodiché fece una pausa. Nel frattempo, la ragazza dagli occhiali spessi aveva alzato gli occhi dalla sua analisi ed era pronta a dare il suo verdetto in proposito del campione trovato all'interno della scatola cubica.

Mentre era sul punto di eseguire tale operazione, il giovane Allenatore estrasse dalla sua tasca un altro oggetto, che mai la bionda avrebbe immaginato fondamentale per la loro ricerca della verità.

Si trattava di un singolo pezzo di stoffa. Un brandello di stoffa nero opaco.

I fili del tessuto emergevano dai bordi dalla sagoma eterogenea, con tutta probabilità era stato strappato via da un indumento in materiale sintetico, come una calza od una t-shirt.

«L'ho trovato — cominciò a spiegarle, lasciandoglielo fra le mani — sul pavimento della Sala d'Onore, prima che la scientifica potesse tirarlo su e rimuoverlo assieme a tutte le prove.»

Belle lo prese in mano, senza riservare a quel pezzo di nylon chissà che riguardo, tanto che lo strinse nel pugno, mostrando all'amico uno sguardo di leggera confusione.

Nonostante la sua spiccata intraprendenza ed un effettivo quoziente intellettivo esistente in mezzo a tutta quella materia grigia utilizzata per memorizzare numeri di telefono ed orari degli spettacoli del Pokémon Musical, l'aspirante scienziata non aveva notato un dettaglio piuttosto importante.

Quella pezza nera era impregnata di qualcosa. Lo dedusse dall'odore acre, molto particolare di essa e dalla viscosa consistenza del tessuto.
Un liquido non ancora asciugatosi nell'arco di quei tre giorni. Piuttosto inusuale.

La giovane mollò la presa e il rosso cremisi andò a macchiare le sue dita bianche, rendendole appiccicose.

«È… — rimase piuttosto basita, rendendosi conto del colpo di scena che poteva rivelarsi cruciale per la comprensione di tutta quell'intricata congiura – L-Lo avrà perso una recluta?»

Il giovane di Soffiolieve si sistemò la cravatta, cercando di restituire al proprio abbigliamento trasandato una certa rispettabilità.

«C'è solo un modo per scoprirlo.» Indicò il microscopio sul tavolo.

Belle eseguì il comando, mentre un silenzio a metà fra la curiosità fervente ed una esitante preoccupazione animava i due ex-compagni di viaggio.

Al contrario della prima analisi che aveva richiesto un po' di tempo, le bastò una singola occhiata unita alla sua modesta dose di esperienze per riconoscere immediatamente la sostanza.
Il risultato fu artefatte inequivocabile.

«È sangue. — Espose laconica, fattasi immediatamente plumbea in volto — Sangue umano.»

I due Allenatori si scambiarono uno sguardo di reciproco stupore, più che altro non avevano idea di come elaborare una risposta a quell’informazione: il mistero dietro quella provetta nascosta nella Spugna di Menger si era infittito nel giro di pochi minuti.

Il liquido ematico rimasto annidato nelle fibre dell’indumento rappresentava la prova inconfutabile di una violenza davvero accaduta, di entità non ben definita, ma se quello era sangue autentico, Belle ne avrebbe di sicuro potuto tracciare l’origine nel giro di una settimana.

«Pensi che...» La interrogò subito il ragazzo, desideroso di conferma per la sua più che plausibile ipotesi.

«Fammelo controllare.» La bionda si precipitò tempestivamente al microscopio, senza neppure cambiare i settaggi utilizzati in precedenza buttò l’occhio alla lente. Anche lei voleva solo controllare a fatti i propri presentimenti.
Fecero silenzio entrambi, poi lei gli rispose.

«Ecco. Lo sapevo. Alla fine, come fa del sangue a non seccarsi dopo tre giorni? Una tossina anticoagulante che gonfia di ossigeno i globuli rossi.»

 «O-Okay, vai piano, Einstein. – Komor la interruppe, vedendo che dallo sgomento la ragazza sarebbe potuta addirittura svenire – Una tossina? Cosa fa esattamente questa tossina?»

«Facilita l’ossigenazione dei tessuti, te l’ho detto, ed è terribile!»
Ci vollero un paio di secondi prima che l’aspirante scienziata realizzasse di non trasmettere in maniera per nulla efficace la propria preoccupazione usando un linguaggio incomprensibile ai comuni plebei non acculturati come lei.

«Cioè… in teoria è una cosa buona: più ossigeno il sangue porta ai tessuti, maggiori sono le prestazioni fisiche del soggetto. È un ottimo anabolizzante, me ne avevano parlato a lezione di chimica.»

Komor ripensò a tutti gli strumenti per la lotta che sortiscono lo stesso effetto rinvigorente per i Pokémon: Muscolbanda, Stolascelta, Assorbisfera… ma non gliene venne in mente alcuno che sfruttasse tale principio.
Quindi non a caso la sostanza che era entrata a contatto con il tessuto connettivo liquido doveva possedere almeno un effetto collaterale. Uno solo, ma molto grave.

«Non è possibile che una medicina finita nel sangue possa resistere all’ambiente per tre giorni e non deteriorarsi. Poi chi mai inietterebbe o farebbe bere una cosa del genere ad un Pokémon?»

«Infatti! Questa robaccia è proibita nelle competizioni ufficiali, si rischia addirittura la squalifica da un torneo, nel peggiore dei casi le terminazioni nervose del Pokémon che la assume perdono contatto con il cervello, si perde la sensibilità ed il controllo degli organi interni e della facoltà di reagire agli stimoli e…»

L’Allenatore dai capelli corvini strinse immediatamente l’amica fra le sue braccia, cercando con il suo abbraccio di strangolare da sé la bestiale paura nella quale ella era rimasta intrappolata. Nel corso dei due anni le spalle che un tempo erano gracili e minute erano aumentate di stazza ed ormai lui poteva dirsi uomo anche fisicamente oltre che psicologicamente.

«Capisco. È come morire di overdose.»
Lanciò uno sguardo verso il tavolo di lavoro e intravide anche lui il bizzarro contenitore del cosiddetto Sangue Del Drago.

«Quindi la recluta… a… a quella recluta… era stata somministrata questa droga?» Chiese, agitata.

«Il tessuto è quello delle loro uniformi. – Constatò, fattuale – Ormai il tabù dietro alla figura del Team Plasma è stato praticamente rimosso. Ogni giorno vedo membri girare senza problemi per strada con addosso i loro vestiti neri e il loro nuovo simbolo su collane, bracciali e cappelli. Nessuno sospetta niente, però.»

«Komor, capisci? – Lo prese per le spalle, incapace di esprimersi con calma —Quel verme schifoso di Ghecis ha costretto una delle sue reclute a fare uso di un veleno mortale solo per seguire i suoi interessi! Questo è un crimine! È orribile! Si tratta pur sempre di persone…»

«Potrebbe averne drogata una… come potrebbe averle drogate tutte. Cosa ne sappiamo noi?»

Quella falla nel perfetto sistema di segreti di stato e silenzi retribuiti all’interno del Neo Team Plasma non era stato previsto, questo era assodato. Non era possibile che la copertura fosse saltata in maniera così lampante, solo per colpa di un piccolo ficcanaso e della sua amica che aveva fatto un corso di chimica base.

Non si riusciva a capire se ciò fosse dovuto all’incompetenza del Campione a venire, il quale aveva sottovalutato la massa che magari credeva di poterla controllare senza problemi, o fossero proprio i componenti di quel duo ad aver sviluppato un’iniziativa propria e fossero riusciti a penetrare le linee dell’omertà.

Belle si staccò dalla sua zona di conforto e andò a prendere la fiala analizzata prima ed il suo taccuino pieno di note. Aveva un’aria molto più seria.

«La tossina nel sangue della recluta e quello che questa provetta contiene hanno la stessa struttura sintetica. La chiamano Sangue del Drago, ma è al cento per cento artificiale. Zania lo ha prelevato da uno dei tanti Pokémon che sono stati liberati l’anno scorso, dopo la scomparsa di N.»

Komor sorrise.

«Quindi funziona sia su umani che sui Pokémon? – Belle annuì – Ghecis ha preso due Pidove con una fava, ma non può averla inventata lui.»

«Chiunque l’abbia inventata, primo: è uno spreco di vita, secondo me. – La ragazza prese fiato —Secondo, poteva venderla al mercato nero e farci su un bel gruzzolo di soldi, invece ci regalarla al capo di un’organizzazione ormai del tutto legalizzata.»

«Strano però… ciò che prima era legale adesso è diventato illegale. Adesso è legale ciò che una volta consideravamo illegale.»
Vi fu un momento di pausa, per riflettere su quella, per quanto romanzesca, assai calzante affermazione.

Da due mesi, ad Unima era ammesso lo spaccio ed il consumo di droghe potenzialmente distruttive. Ma guai a chi osava opporsi alla dottrina del capo del Team, le opinioni differenti erano assolutamente proibite.

La violenza giustificava i fini di una politica lucrosa, ma solo per chi ne reggeva in mano le redini. L’onestà di chi aveva tentato di puntare al bene comune e al senso di giustizia era stata castigata con un forzato regime di terrore basato sulla pubblica umiliazione.
Il cambiamento promesso alla televisione non sembrava portare con sé alcuna nota di miglioramento.

Ed agosto era alle porte: cosa avrebbe deciso la cittadinanza? Avrebbe dato il suo consenso a farsi manipolare da un individuo senza scrupoli, pronto a sfruttare l’ingenuità di delle ragazzine raccoltesi sotto la sua protezione per portare avanti il suo folle piano di predominio?

«Avviso subito Aralia e Zania. Le chiederò gli altri campioni, dobbiamo avere una statistica di quanti Pokémon sono stati avvelenati. Non possiamo aspettare oltre.»
Belle si levò il camice in fretta e furia, accantonandolo su una sedia ed andando in cerca del telefono.

«Dille che si tratta di una situazione di emergenza. – Komor fece per andare anche lui, probabilmente alla ricerca d’ulteriori indizi su quale fosse il progetto del Team Plasma nello specifico – Non so quanto possiamo fare per i Pokémon e le persone già intossicate. Ma è nostro obbligo fare di tutto per fermare questi malati di potere e assicurarci che chi ne è responsabile paghi con la giusta pena.»

L’assistente della Professoressa strinse i pugni, mandando un’ultima preghiera al cielo prima di cominciare a spiegare alla donna competente nel campo la tragica scoperta fatta da lei e Komor.

«Speriamo solo che nel frattempo non succeda nulla di male alle cinque Campionesse. 
Senza di loro a contrastare l’ascesa di Ghecis Harmonia… è finita.»

 

Quando si sente dire, specie ascoltando le chiacchiere degli esterni al settore, che nel mondo dei Pokémon è normalissimo, anzi, indispensabile rinunciare all’istruzione per mettersi in viaggio e vivere mille avventure, da qualche parte nel grande macrocosmo delle sei e più regioni un qualche Allenatore ride.

Ride divertito, sia chiaro: una società ha bisogno di medici, di architetti e di ministri; gli Allenatori che lottano, scambiano ed allevano mostriciattoli per lavoro si contano sulle dita di una mano.

D’estate però le scuole erano chiuse, almeno tale privilegio era concesso ai numerosi studenti sognatori.

Tuttavia, una comunicazione urgente era giunta nella casella di posta elettronica di tutti gli alunni dell’istituto superiore di Alisopoli, richiedendo la loro partecipazione ad una conferenza che si sarebbe tenuta quello stesso pomeriggio.

Chiunque avesse avuto la balzana idea di saltare un evento così, impostogli dall’alto a caso, avrebbe dovuto mostrare la giustifica firmata dai genitori e nessun ragazzo si scomodò per farlo, nonostante tale imposizione violasse in qualche modo i loro diritti.

Quindi, una folla di Allenatori pubescenti sedeva nell’aula magna apparentemente controvoglia, abbandonando le loro membra sulle sedie in legno alla ricerca della posizione più comoda e meno sospetta per schiacciare un pisolino, sussultando ogni volta che alle loro spalle compariva un professore ad intimarli di tirar fuori carta e penna per seguire il dibattito con attenzione.

«La presentazione – dicevano, e non scherzavano neanche – verrà inserita nel programma scolastico e sarà oggetto di verifica in futuro.»
Si discuteva dunque l’oggetto della conferenza: la sua importanza era tale da meritare ore di approfondimento in classe, ma nessuno aveva idea di che cosa trattasse nello specifico.

Dopo una buona mezz’ora di attesa e preparativi, il preside della scuola procedette all’introduzione del relatore.

«Buonasera a tutti, oggi abbiamo l’onore di ospitare nel nostro istituto una figura di enorme influenza nel panorama socio-politico della nostra regione, Violante Gropius Harmonia, membro del consiglio dei Sette Saggi indetto dal candidato alla carica di Campione, Ghecis Gropius Harmonia.»

Un signore di età avanzata, la cui vecchiezza nascondeva un qualcosa di rancido, come se gli anni inclementi ne avessero apposta imbruttito l’aspetto e rattrappito l’animo, salì sul palco, accostandosi al podio come se di orazioni come quella ne avesse tenute centinaia, tale padronanza espresse quando agguantò il microfono.  

Prima di iniziare a parlare, l’uomo digrignò la mascella in un’espressione troppo contorta per sembrare un sorriso, visto che di fronte ad un pubblico così giovane e facilmente abbindolabile non bisognava che si fregiasse di chissà quali doti retoriche.

Tutti gli studenti ammutolirono da soli alla vista di costui, senza il bisogno che i professori li ammonissero.

«Fratelli e sorelle. – La voce era così tonante, così autoritaria e vigorosa da risuonare all’interno della cassa toracica di ognuno dei presenti – Giovani e brillanti menti, futuro della regione benedetta dai totem leggendari della pioggia, del vento e della terra.»

La sala si riempì di una forte aura sacrale, come ad una cerimonia riservata a soli eletti.

«Fratelli, non sapete qual grande onore sia per me essere portavoce del messaggio di cambiamento più aperto, più inclusivo e progressista di cui la vostra generazione sarà mai testimone: perché oramai è inutile cercare di voltare il capo ed ignorare la situazione… la sicurezza di ognuno dei cittadini è messa a repentaglio tutti i giorni da minacce a cui ognuno di noi sembra essere del tutto indifferente.»

Violante pausò, dando mezzo minuto per concedere al suo pubblico poco avvezzo a ricevere notizie di tal calibro per metabolizzare la sorpresa.

«Io stesso, – L’anziano si indicò il petto, quasi volesse trafiggersi con quel gesto – in quanto parte dei sette ultimi discendenti della stirpe nobile degli Harmonia-Gropius mi sento colpito in prima persona da questa catastrofe, come abitante nativo di Unima.»

Improvvisamente tutti provarono un millesimo di compassione per quell’uomo. Se era vero che costui discendesse da una delle due casate che in principio governarono come unicum e poi si divisero in base al loro schieramento fra ideali e libertà, allora doveva aver vissuto il periodo di splendore che interessò il territorio prima della guerra, almeno attraverso i resoconti dei suoi illustri antenati.

Certo, sembrava vecchio d’aspetto, ma di sicuro non nato otto secoli prima di loro.

I ragazzi si interrogavano fra di loro, anche l’attenzione dei meno interessati alla conferenza venne solleticata menzionando il malessere nella loro patria. Molteplici erano le cause secondo i media, dalla distribuzione ineguale delle risorse al tasso di disoccupazione alla mancanza di fondi per finanziare l’istruzione e la sanità.

Dunque tutti i presenti in sala non videro l’ora di sentire per quale di questi ostici problemi l’uomo avrebbe proposto una soluzione fattibile.

«Tutti voi avete presente cosa sia una Poké Ball, suppongo.»

Violante prese la suddetta fra le grinzose mani, squadrandola con lo stesso disgusto e confusione di come un cavernicolo osserverebbe una lampadina od un fiammifero, trasmettendo il messaggio a tutta la platea.

«Da quando gli umani hanno iniziato ad affidare la propria connessione emotiva ai loro fidati Pokémon a queste… volgari sfere di plastica, espressione materiale dello schiavismo moderno e del capitalismo più spietato, la nostra società è implosa, in una detonazione di indifferenza, odio, razzismo, omofobia, transfobia, misoginia, sessismo, misogynoir, binarismo, cissessismo e eternormatività!»

Tutti trattennero il fiato, quelle parole grosse, arcaizzanti e specialistiche avevano gonfiato l’aria e gravavano come macigni sulla coscienza dei poveri studentelli, già affannati dal doversi ricordare ogni sillaba di quel discorso ed appuntarsela sul quaderno.
Cosa ne sapevano dei ragazzini di odio, tutto quell’-ismo e quelle fobie?

«Nel ventunesimo secolo il legame fra Allenatori e Pokémon si è talmente affievolito e meccanizzato che è solo grazie ad un vile congegno che gli umani riescono a guadagnarsi l’obbedienza dei loro Pokémon.

Ma quale obbedienza! Timore, paura di essere lasciati a marcire in un Box Lotta, od in mezzo ad un’autostrada semplicemente perché “non aveva la Natura adatta” o “questo Pokémon lo volevo cromatico” o ancora, mille scuse basate sul più totale egoismo!
I Pokémon non vivono più in simbiosi con il genere umano, ma ne sono schiavi, incapaci di esprimere i loro pensieri e sentimenti, vengono trattati da ognuno di noi come passatempo.

Pensateci, Allenatori in erba: sfruttare il potenziale di queste creature meravigliose, nate libere e dotate dei vostri stessi diritti di esistere e di essere felici, ingaggiare lotte sanguinose solo per ottenere compensi e fama, investendo una quantità abnorme di quel denaro nell’industria competitiva.

Sfogare su di esse la frustrazione ed il sadismo insito nella nostra specie, ferendo e sacrificando delle vite per intrattenere una folla di vigliacchi! Non ricordiamo mai che furono i tre Spadaccini Solenni a salvare i loro compagni, mentre le foreste venivano bruciate, i mari riarsi e le montagne franavano per colpa della più disastrosa delle guerre?

Quando mai l’Eroe della Verità o quello degli Ideali, che tanto vengono idolatrati nei libri di storia, quando mai provarono compassione per i Pokémon che privarono dei loro habitat e delle loro genie?
I due, acciecati dalla loro ambizione, continuavano a combattersi a vicenda, dimostrando come anche gli uomini più virtuosi in realtà sono incapaci di comprendere i sentimenti dei loro Pokémon.

Poco tempo fa, ricordate tutti di un… pazzo visionario, se mi è concesso il termine, che spergiurava e farneticava per le piazze delle città, dicendo di riuscire a parlare con i Pokémon! Tutte idiozie!

Costui non poteva comprendere quanta ipocrisia nascondessero le sue parole: l’uomo, ce lo spiegano filosofi come Locke e Hobbes, è malvagio per natura. L’uomo uccide, distrugge, violenta e fa de male a tutte le creature più deboli, pur di riuscire a sopravvivere.

Quindi, una volta che ha imparato a non sottovalutare la forza e la purezza dei Pokémon, i quali non avevano più la capacità di sottomettere con la costrizione, ha affidato alla tecnologia questo subdolo incarico.

Fratelli e sorelle, — Violante si discostò dal palco per avvicinarsi alla platea, con la mano tremante mentre reggeva il microfono: ormai il fervore era riuscito ad infuocare anche il suo animo — chi di voi ha ora il coraggio di guardare negli occhi il suo Pokémon senza sentirsi lercio nell’anima?!

Allora? Chi è senza peccato, sia lui a lanciare la prima Poké Ball!»

Facce di incredulità, letterale terrore era dipinto nei volti abbagliati dai riflettori e tempestati dall’acne di quei poveri giovanotti: si sentivano colpevoli due volte.

Colpevoli di non aver mai riconosciuto i propri misfatti, colpevoli di non avere la più pallida idea di come farvi ammenda. Una ragazzina si mise a piangere addirittura, strepitando e scusandosi con le povere creature che da sempre aveva inconsapevolmente offeso con il suo solo esistere.

Altri studenti si guardavano sbalorditi invece, sentivano che, riconoscendo una volta per tutte il loro privilegio di essere uomini bianchi eterosessuali avrebbero potuto contribuire a liberare i loro coetanei meno bianchi eterosessuali e meno uomini in questo modo.

Qualcuno addirittura accettò la sfida di Violante e si mise a fissare il proprio Herdier mentre si rincorreva la coda per l’oppressione, o un Lucario tranquillo su una sedia ignaro del razzismo sistematico a cui era esposto, chi invece provò a cercare conforto nelle pupille tonde del suo Minccino, beatamente addormentato in mezzo a quell’orda di umani barbari, incivili e ignoranti!

Il vice-capo dei Sette Saggi si godeva un battere di mani scrosciante, colmo di commozione e riverenza, ed il personale scolastico stava già asserendo di che gran utilità per gli studenti della scuola di Alisopoli fosse stata quell’ora tolta alle loro vacanze estive (se non ci avessero pensato loro, quegli Allenatori si sarebbero potuti mettere ad allenare la loro squadra per i tornei della stagione, contribuendo così al problema!).

Infatti, non era forse il titolo di Allenatore l’emblema dell’autoritarismo del Pokédex? Perché poi, nei documenti ufficiali si usava la medesima versione del nome anche per le Allenatrici femmine? Quello era un atto di sessismo vero e proprio. E chi non identificava se stesso né nel sesso maschile né in quello femminile, come facevano i Ditto?

Dunque, dopo che la platea si fu acquietata ed i cori di supporto nati in mezzo al marasma cessarono di gridare i loro “lunga vita al Team Plasma” e slogan simili, ci sarebbe dovuto essere il momento riservato alle domande.

Il classico quarto d’ora accademico in cui il pubblico può interagire con l’oratore, immancabile.

Violante aveva già posto un microfono all’inserviente affinché si affrettasse a gironzolare per la sala senza una meta, sotto centinaia di occhi dubbiosi e inteneriti dalla penuria della situazione.

Come se qualcuno di loro si sarebbe mai azzardato a porgli una singola domanda.

Se lo spessore delle parole si potesse misurare dalla quantità di sostantivi astratti dalla lunghezza superiore alle tre sillabe all’interno di una frase, allora la presentazione sul pericolo rappresentato dalle Poké Ball aveva più rilevanza del discorso Sulla Corona.

E poi, chi è che non ha a cuore non solo il voler essere buono, ma anche l’apparire tale di fronte ai suoi simili? L’omologazione fa bene allo spirito, perché non c’è nulla di meglio che andare d’accordo.

Non importa la sostanza e la natura dell’opinione comune. Bisogna accettarla in nome della pace.
Della pace e del silenzio. Violante annuì soddisfatto, sotto la lunga barba canuta un sorriso di pietà, per quel suo pubblico indottrinato, così squisitamente manipolabile.

Fece per scendere dal palco, quando le casse acustiche risuonarono con un acuto straziante.

«Una domanda dalle ultime file!» Si sentì echeggiare.

Piombò il silenzio. Qualcuno aveva il fegato di contestare le basi poste per essere un individuo decente? Tutti i presenti morivano dalla voglia di sentire cosa avesse da dire quel, anzi, quei bifolchi.

Avevano la stessa capigliatura, la forma ricordava gli aculei di un frutto tropicale: non riuscivano a stare seduti per qualche ragione, erano entrambe in piedi ed apparivano spavaldi, come se avessero aspettato quell’occasione dall’inizio dell’evento.
Il primo fra i due, quello che indossava un paio di pantaloni da jogging e sfoggiava perentorio una visiera da allenamento, prese la parola, schiarendosi la voce per l’imbarazzo.

Non era suscettibile al panico da palcoscenico, ma era sicuro che la sua reputazione sarebbe stata marcata per tutta la durata dell’anno scolastico a venire, per colpa del suo intervento imminente.

Non ci guadagnava nulla, Nate, dall’essere accettato in una folla dalle menti monocromatiche, né tantomeno il suo compare si sarebbe mescolato a quel coretto perfetto: per quanto ciò potesse urtare i sentimenti dei loro compagni di scuola, doveva esserci almeno una voce a stonare e riportare tutti ai fatti, rompendo quella camera sigillata di pensieri conformati all’autorità.

«Buongiorno. Quindi, uhm… Pensiamo, io e il mio amico, che questa domanda sia molto importante, perché io credo fermamente che i diritti dei Pokémon siano anche diritti nostri.

Quindi vorrei sapere, in quali circostanze è una cosa accettabile dire: “Solo noi potremo servirci dei Pokémon e governeremo sull’umanità inerme”, “Io dominerò il mondo intero” e “Sarò il burattinaio della gente ignorante! Tutti mi daranno ascolto!”?»  

Il suo compagno dai capelli blu metallizzato riprese la sua argomentazione, per evitare che potessero linciarlo in assenza di prove concrete.

«Tanto per dare un po’ il contesto generale, queste cose sono state dette da Ghecis Harmonia prima della cattura non riuscita del Drago Leggendario e sono state riportate da testimoni oculari, fra cui l’ex-Campione Nardo.
Vorremmo sapere la sua opinione in merito al capo del Team che lei supporta, signore.»

Poi i due attesero con educazione la risposta, non badando molto alla reazione decisamente poco oltraggiata dei loro coetanei e a quella a dir poco rincresciuta dei loro professori, che di sicuro avrebbero fatto pagar loro il prezzo dell’insolenza davanti ad una personalità politica così vicina al governo a suon di brutti voti per il resto dell’anno.

Il loro obiettivo non era tanto quello di additare il capo del Neo Team Plasma in quanto ipocrita od opportunista; ciò che volevano mettere in risalto era bensì l’incoerenza dell’ideologia astratta di voler privare gli Allenatori dei loro Pokémon in quanto incapaci di soddisfarne la felicità.

Avevano imparato a dimostrare le loro tesi nella maniera più civile e logicamente corretta proprio a scuola, se neppure lì potevano dare prova delle loro conoscenza, perché sprecare il loro tempo assimilando nozioni inutili, con la passività degli Slowpoke che si lasciano trascinare dalle onde per non dover incorrere nella fatica di imparare a nuotare da sé.

Violante si prese la fronte in mano, facendo intendere quanto quell’intervento suonasse privo di senso alle sue orecchie. Stette un attimo in silenzio, per trasmettere il suo imbarazzo anche al pubblico: ormai si era sviluppata una forma di forte empatia, i sentimenti potevano guidare le intenzioni a discapito dei fatti.

Poi riprese a parlare, avendo trovato l’espediente perfetto per cavarsela anche quella volta.

«Visto che ci tenete tanto a ricercare il contesto, voi due ragazzi… Il contesto qui è quello di celebrare una comunità, di discutere insieme i problemi della nostra regione, soprattutto quelli che hanno un impatto negativo sui cittadini amanti dei Pokémon e dei loro inalienabili diritti.

Qui, fratelli, sono in presenza di due Allenatori maschi bianchi etero, che si sentono esenti dalla partecipazione a ciascuna delle soluzioni che ho proposto e…»

Non si riuscì ad udire il resto. Tutti avevano già ripreso ad applaudire, non ci è però permesso sapere cosa stessero applaudendo.
Violante proseguiva e la sua voce veniva offuscata dallo strepitio, il pubblico aveva voglia di un po’ d’intrattenimento e lo avrebbe tratto da sé gioendo di come il Saggio avesse messo a tacere i due, dimenticandosi totalmente della tolleranza e della compassione menzionate poco prima.

Come gli antichi Romani si divertivano a guardare uomini come loro sbranati dalle belve feroci al circo, pur di potersi permettere di chiudere un occhio sullo sgretolarsi lento e graduale del loro impero, guidato da cortigiani corrotti.

«Le parole che presumete di aver sentito – riprese Violante, deciso a chiudere qui la serata – vengono probabilmente da qualche blog fascista. Sapete, siete ancora giovani, troppo giovani per poter riconoscere cosa sia giusto per il bene della regione.

Ed io, in quanto rappresentante della persona infamata da queste false notizie, mi farò giudicare soltanto dal nostro impeccabile lavoro per risanare l’economia schiavista, dare importanza alle minoranze razziali, alle donne, agli immigrati clandestini e per il rispetto dell’ambiente, non da un discorso pronunciato o non pronunciato dieci o venti anni fa.

Ora, direi che questi giovanotti maleducati ci abbiano fatto perdere abbastanza tempo prezioso e non ritengo sia necessario offrire ulteriore spazio alle loro posizioni estremiste e contrariate.»

Dopo l’ennesimo visibilio della folla, ormai pendente dalle sue labbra, la sicurezza accompagnò Hugh e Nate fuori dalla stanza, pregandoli di non dover usare la forza per costringerli ad andarsene.

I due non protestarono, non sentendosela di rimanere comunque lì, visto che, come sosteneva Violante, nessuno poteva fare niente, il Team Plasma aveva il monopolio su tutto, perfino sull’educazione e le opinioni della gente.

Quand’è che la libertà di esprimere dubbi riguardo al sistema aveva portato le persone ad ostracizzare i dissidenti, in una regione moderna ed evoluta come Unima?

Tanto, finito l’evento, il peggio che poteva capitare è che qualcuno si scordasse di quella tiritera e continuasse a vivere normalmente. Chissà quanti Allenatori Ghecis avrebbe convinto a liberare i loro Pokémon e a rinunciare ai loro sogni, al loro passatempo preferito, le lotte.

«Grazie per la vostra attenzione. Spero che la vostra fiducia nelle ottime intenzioni del Neo Team Plasma sia stata consolidata. 
Fratelli e sorelle, buona serata.»

L’anziano oratore si avviò immerso in una quieta sensazione di vittoria. Forse il doversi confrontare con quei guastafeste armati di schiaccianti accuse sul suo conto aveva accresciuto la sua sicurezza nella presa di potere definitiva di Ghecis.
I molti ci avrebbero rimesso, un po’ gli dispiaceva, dopotutto.

Ma l’idea di condividere con uno degli uomini più ricchi e senza scrupoli parte del ricavato, ville, automobili, donne e cariche, rendeva quella fatica molto più piacevole, agli occhi del vecchio e irrancidito Saggio.

Parlando di diritti dei Pokémon: nella costituzione di Unima, al contrario di quello che sostenevano i seguaci del Team Plasma, nessun Pokémon possedeva il diritto alla vita di principio.

Solo i Pokémon ufficialmente catturati, ironia della sorte, con una Poké Ball e quindi dotati di un numero di identificazione registrato in tutti i database dei Centri, potevano scampare del tutto alla predazione degli esseri umani.

Proprio quel fortuito cavillo nella legge aveva infatti permesso a Nardo in persona di organizzare una modesta grigliata nel suo giardino, visto che i molteplici occhi del cosmo apertisi sopra Venturia sotto forma di stelle non avrebbero condannato la sua comprensibile voglia di festeggiare un momento di gioia all’intendo della sua famiglia.

«Nonno, mi racconti ancora la storia di come la mamma e il papà si sono incontrati?»

Si sentì domandare, mentre sulla brace la cena sfrigolava a ritmo di un allegro scoppiettare. L’uomo si girò con calma, sentendo la vecchiaia legargli i muscoli logorati come facevano i coleotteri con la mossa Millebave.

Ma dato che la sua nipotina era per lui la cosa più importante del mondo subito dopo la propria figlia, avrebbe scalato a mani nude il Monte Luna e attraversato a piedi scalzi il Cammino Ardente per continuare a vederla sorridente, in quel piccolo kimono comprato da qualche rivenditore di terza parte, le cui maniche erano troppo lunghe per lei.

Stava per incominciare la narrazione, quando una voce femminile lo rimproverò; riflettendoci, la loquacità della bimba era decisamente a lui preferibile di quegli aspri rimproveri intrusivi.

«Giulietta, questa storia te l’ha già raccontata mille volte. Lascia stare il nonno, probabilmente non se la ricorda neanche tutta… A proposito, papà, meglio che non ti distrai. Se la carne si brucia, avrò fatto un chilometro a piedi per niente.»

«Sembra quasi che ti dispiaccia sentirla ogni volta, amore mio.»
Si intromise nella conversazione il coniuge, che stava cercando da quasi un’ora di installare delle stelle filanti in mezzo alla verde distesa di erba, non arrendendosi alla lettura delle istruzioni per provare alla famiglia la propria mascolinità.

Nardo allora prese in braccio la bambina, sacrificando le poche forze rimastegli da un intero pomeriggio di preparativi, parlando più ad alta voce affinché i due diretti interessati assaporassero per l’ennesima volta il suo aneddoto preferito, al quale avrebbe sovrascritto pagine e pagine di miti della fondazione e leggende fuorimoda.

Anche se il come sua figlia Marina avesse conosciuto Ottaviano, suo marito, non sarebbe mai entrata a far parte degli annali, non si sarebbe mai stancato di ripetere la loro vicissitudine.

«Vedi, tesoro, quando ancora riuscivo a percorrere le scale dalle stanze dei Superquattro fino alla Sala d’Onore facendo due scalini alla volta, — alludeva ad un tempo abbastanza lontano — quando tua mamma aveva quindici o sedici anni, ed aveva questo suo sogno di diventare lei la Campionessa della Lega Unima quando io mi sarei ritirato.»

«A-Aspetta: quindi in qualità di Campione è effettivamente possibile passare la carica al primogenito in maniera ereditaria?!»

Il più grande dei due nipoti di Nardo aveva ordinato al proprio Dragonite cromatico (che per essere il frutto di continui accoppiamenti e della schiusa di una centinaia di uova di Dratini non pareva chissà quanto minaccioso, specie visto il suo manto color rosa shocking) di planare svelto, interrompendo la sua serale passeggiata a spasso per l’aria tiepida.

Qualche settimana addietro credeva di essersi liberato dall’illusione di non poter essere lui, Fedio, il nuovo giovanissimo Campione, a sbaragliare tutti gli avversari con la potenza dei suoi draghi allenati ad hoc.

Quella notizia invece aveva innescato quella bomba di rabbia che credeva di avere represso con la consolazione che la pratica del nepotismo fra gli Allenatori fosse illecita e degradante.

«Certo che sì, caro mio! – Nardo gli scompigliò la creta vermiglia che gli aveva trasmesso con i suoi geni di irrefrenabile testa calda – Ma pensi davvero che avrei lasciato a tua madre il titolo, solo perché è mia figlia? Giammai! E sono fermo su questa decisione ancora adesso!»

Nardo era una persona decisamente molto generosa e malleabile, andava in giro per la regione a stringere la mano ai bimbi e a regalare Bacche succulente per i loro Pokémon. Aveva istituito una piccola tassa sulla partecipazione ai tornei pur di mantenere gratuite le cure istantanee. Sentirlo negare alla sua unica e amatissima figliola tale opportunità non era un qualcosa di credibile per chi lo conosceva.

«Infatti, — riprese, dopo aver rivoltato le bistecche, ormai striate dal calore della Carbonella – Marina se l’è presa non poco. Quindi, di punto in bianco, chiese a me e alla nonna di poter viaggiare per conto suo attraverso le altre regioni, in modo da poter diventare più forte e venire a sfidarmi in una lotta legittimamente e diventare la prima Campionessa femmina di Unima.»

La donna, mentre apparecchiava un tavolo basso, sistemando dei cuscini sull’erba per sedersi senza sporcare il suo di yukata, cercò di ignorare la conversazione al meglio delle sue capacità.

Pensò a quanto era impulsiva e arrogante da giovane, a tutti i litigi avuti con il padre per via di quella questione poco burocratica, a quanto poco riconoscente si fosse mostrata nei suoi confronti solo per quel privilegio negatole per una giusta causa.

Però, se non fosse mai partita da Venturia, la situazione di quel momento probabilmente sarebbe stata molto diversa da quella corrente. E ciò non l’avrebbe resa altrettanto contenta, dopotutto.

«Poi cosa hanno fatto?» 
La piccolina si era messa in bocca un gambo di sedano per mangiucchiare qualcosa in attesa del pasto vero e proprio.

«La mamma è andata in giro per Hoenn e Johto, cercando di diventare sempre più forte. Poi, quando è arrivata a Kanto…»

L’anziano rivolse uno sguardo compiaciuto al suo genero, il quale stava provando finalmente a seguire passo per passo il manuale delle istruzioni, aiutato dal suo Primeape, ancora più impaziente di far fioccare le scintille da quell’aggeggio piantato al suolo di lui.

«…Ha incontrato papà e ha detto “ciao ciao” al fare la Campionessa, meglio fare la casalinga mentre lui porta a casa i soldoni della Silph.»
Completò il ragazzino, che aveva avuto anche lui la sua dose di curiosità riguardo quella materia, ma a cui l’argomento aveva finito per andare a noia con l’arrivo della pubertà.

Come mai molte ragazze sostenessero di avere un obiettivo da portare a compimento e poi mollassero tutto in media res solo per aver trovato qualcuno con cui fidanzarsi, si chiedeva. Non si trattava di idol, la cui carriera sarebbe terminata all’arrivo del primo amore, che motivo c’era di mandare all’aria i piani di una vita intera? La logica femminile per lui non aveva senso.

«Non è una questione di soldi, Fedio, — lo riprese la madre, che aveva assegnato a ciascuno i posti e disposto un colorato centrotavola di frutta esotica, noci e dolcetti tipici dell’estate – ma del fatto che una Campionessa deve rinunciare a molte cose nella sua vita ed io non fossi veramente pronta.»

«Nonnino, ma quindi non è bello fare il Campione?» Giulietta si rabbuiò un pochino.

Marina cercò di esporle le vere ragioni per cui riteneva che quello stile di vita non fosse adatto a lei, per far sembrare la sua scelta più ragionevole, ma l’esito che ottenne fu quello di preoccupare la sua bambina ancora di più.

«Vedi tesoro mio, il Campione di una regione deve affrontare oltre trenta lotte Pokémon al giorno, e quindi ha poco tempo per occuparsi dei propri hobby, di uscire con gli amici… poi il Campione non è pagato, quindi molti (come per esempio quello di Kanto e quella di Kalos), hanno anche un lavoro per guadagnarsi da vivere. 

Poi ci sono spesso tornei, cerimonie e riunioni in giro per il mondo, quindi viaggiando sempre è molto difficile trovare un compagno o una compagna per crearsi una famiglia, infatti molti Campioni sono single. Inoltre, questi ritmi frenetici comportano molto stress, ore di sonno ridotte, una pazienza ed un autocontrollo inimmaginabili per le persone normali. 
Il rischio di ammalarsi gravemente è molto alto.»

Marina aveva dunque scelto per convenienza di rinunciare al suo sogno d’infanzia non appena una possibilità assai più gradevole le si era presentata davanti: mentre si trovava a Kanto e le sue limitate conoscenze della lingua le impedivano di leggere correttamente gli orari del treno ad alta velocità Zafferanopoli-Fiordoropoli. 

Essendo cresciuta in una placida cittadina di campagna, tutti quei turisti e la confusione della metropoli l’avrebbero rallentata nel suo viaggio.
Ma eccolo, un giovane dalle palpebre lisce come foglie di tè ed i capelli combinati in un antiquato taglio con la frangia le domandò se le servisse aiuto e lei, impacciata nella comunicazione, dimenticò la forma cortese e di rivolgersi a lui con l’onorifico, facendo quindi una pessima figura.

Allora Ottaviano decise di venirle incontro, provando ad abbozzare qualche parola in un inglese a dir poco maccheronico, che per la loro generazione rappresentava il picco della fluidità in un paese non anglofono.

Risero l’uno del tentativo dell’altro. E da quel momento cominciarono a condividere questi momenti di reciproca commiserazione, sviluppando da essi un profondo legame prima di amicizia, poi Marina annunciò, poco più che ventenne, di volersi sposare con questo giovanotto dalla pelle giallognola ed una capigliatura leggermente meno obsoleta della precedente, ma comunque ridicola per gli standard occidentali.

Aveva fatto un sacrificio, lo sapeva. Ma quella della figlia del Campione Nardo era comunque una storia a lieto fine: avevano due bambini meravigliosi (finché Fedio non fosse entrato all’università o si fosse trovato a sua volta una morosa matura e affidabile) ed un futuro altrettanto brillante davanti a loro.

E proprio in quel giorno di luglio i due, ancora per un altro anno, festeggiavano il loro anniversario di matrimonio insieme a tutti i testimoni del loro amore; solo una persona mancava fisicamente al loro appello, ma era come se fosse lo stesso lì con loro, a vegliare su di loro da uno dei tanti astri su nel cielo.

La famiglia stava per mettersi finalmente a tavola, quando Giulietta cominciò a chiamare con insistenza suo nonno, sbracciandosi dalla sua posizione sopraelevata per attirare la sua attenzione dietro di lui.

«Nonno, nonno, nonno… Ci sono dei signori al cancello…»

Non aspettavano di certo ospiti, specie vestiti in giacca e cravatta, con tanto di una scorta armata con un seguito di Pokémon pronti alla bega a coprirgli le spalle.

Il cuore del vecchio Campione fu preso da un terribile sentore, l’atmosfera gioiosa era stata spazzata via da un tifone di inaspettata pericolosità.

Fece cenno al nipote ed alla coppia di non muoversi, che se ne sarebbe occupato da solo.

Sempre tenendo la bambina con sé, avanzò verso questi loschi figuri: notò sulle loro uniformi spille appartenenti a divisioni private dell’intelligence governativa.

Egli non aveva alcuna traccia di misfatti all’interno dell’arco temporale che lo aveva visto in carica, lo sapeva per certo, dato che spesso collaborava insieme ad i più alti piani dell’amministrazione regionale.

Se quella visita era stata organizzata a sua insaputa e si erano così mobilitati i servizi di difesa, di sicuro l’ordine doveva essere partito da qualcuno che non lo vedeva assai di buon occhio, con cui non aveva piacere parlare o negoziare.

Il Campione conosceva bene la persona che per ben due anni non si era mai mostrata al suo cospetto. Ora invece, che non aveva più paura di nascondersi, costui aveva sguinzagliato i tirapiedi che lui prima temeva peggio della morte e li aveva indirizzati contro il suo più acerrimo nemico: non Nardo.

Giulietta si era stretta forte al collo del nonno, scrutando quegli individui piuttosto stranita.
Certo che in quei mesi stava arrivando tanta gente nuova; solo che quei brutti ceffi non le ispiravano alcun comportamento amichevole. Vestiti così di nero, nella notte, le ricordavano quelle streghe cattive del Neo Team Plasma, a dirla tutta.

L’uomo tirò un sospiro: non sapeva cosa aspettarsi. Ma aveva un brutto, bruttissimo presentimento.

«Cosa volete?» lì interrogò, mostrando a sua volta una Poké Ball, per intimarli a non attaccare.

Un qualche tizio mostrò un distintivo della Polizia di Unima il quale, a differenza di quello dei falsari presentatisi a casa sua il mese prima, appariva lecito.
«Ex-Campione, — disse semplicemente – è qui che risiedono al momento Iris Calfuray, Camelia Taylor, Anemone Reyes, Catlina Yamaguchi e Camilla Kuroi?»

Per poco Giulietta non si mise a gridargli contro e l’uomo dovette farle segno di stare zitta.

Tuttavia, sebbene fosse più vecchio e navigato di esperienze allarmanti, non nascose di esserci rimasto di sasso. Cercò comunque di prendere la situazione con la massima professionalità, anche perché, se avesse mentito anche solo per proteggerle, avrebbe pagato conseguenze addirittura peggiori.

«Sì, le ragazze sono di sopra, dovrebbero essere ancora sveglie.»

«Dica loro di scendere immediatamente, è un ordine cautelare.» Gli rispose un altro di loro.

Nardo mise giù sua nipote, la guardò negli occhi come se potesse vedervi riflessi tutti gli sguardi delle sue cinque apprendiste, alcune delle quali conosceva da più o meno quando quelle avevano la stessa età della bimba dalle ciocche arancio.

«Giulietta, vai di sopra e chiedi alle tue amiche di venire giù, per favore.»
Cercò di nascondere tutta la genuina paura che aveva in corpo.

«No! – Urlò. Con la sua vocina stridula, spazientì gli agenti —Nonno, io non…»
Ma spingendola, la persuase a fare quanto gli aveva richiesto.

«Andrà tutto bene, cucciolotta. Le tue amiche sono tutte molto forti e intelligenti. Non gli succederà nulla di male, vedrai.»

Pronunciando quell’ultima asserzione, fissò uno degli uomini in nero con sguardo truce, per confermare a se stesso che per davvero non sarebbe stato torto un capello alle giovani Allenatrici, quindi Giulietta corse ad eseguire l’ordine con diligenza.

Aspettò che ella zampettasse via, prima che il rimorso soffocasse del tutto il suo animo ormai arrugginito e non predisposto più a tali colpi.
Era stato lui a domandare che venissero fatte più indagini con l’aiuto delle professoresse, sempre lui le aveva mandate a cercare le ladre all’interno del centro commerciale e la sua sconsiderata sete di giustizia le aveva spinte alla ricerca della droga ad Austropoli, gettandole tutte nella tana del lupo.

Giurò che non si sarebbe mai perdonato quelle sue azioni, non importa quanti anni sarebbero passati.

«Vedo – fece il capo delle guardie, insultandolo a denti stretti – che finalmente anche tu, caro Nardo, testardo e beota come sei, hai ceduto alla ragionevolezza di chi ti è in tutto e per tutto superiore…»

«Cosa volete fare a queste ragazzine innocenti? Cosa c’entrano loro con i vostri affaracci?»
Tuonò infine, al limite della disperazione.

Era successo. Quella sera, Unima aveva definitivamente ceduto alla minaccia di un regime distopico.

«Alla prima domanda non ti possiamo rispondere, vecchio.
Però possiamo farti presente che queste cinque sono ufficialmente considerate, dalla prima all’ultima, “oppositrici del governo” e “terroriste ideologiche”. Per questo è necessario che, in quanto tali, vengano sottoposte alla giustizia di Unima.

Alla giustizia di Ghecis Gropius Harmonia.»

 

 

«Intanto che aspettiamo che mio suocero torni... Marina, non mi hai mai raccontato di cosa facessi durante il tuo viaggio, nonostante ci siamo conosciuti quasi diciassette anni fa.»

«D-Davvero, Ottaviano, amore mio? C-Credevo che il mio passato n-non ti ineressasse così tanto. Non è più importante il presente, per te?»

«Certo che lo è! Però mi piacerebbe poter dire di conoscere un minimo mia moglie. Molte delle cose che so di te le ho scoperte solo dai racconti di Nardo, quado uscivamo a bere di nascosto alcol e sake insieme, mentre tu mettevi i bimbi a dormire...»

«Tu e mio papà che cosa?!»

«Calma, calma! Piuttosto, dubiti della mia fiducia? Per questo mi tieni nascosto ciò di cui parlavamo prima?»

«Adesso sì!»

«Raccontami che tipo di Allenatrice eri. Ti piacevano che generi di Pokémon? Che team avevi? E quante Medaglie? Prima che decidessi di smettere, ti mancava poco al raggiungimento della categoria dei professionisti, quelli che possono sfidare la Lega...»

«E va bene! Lo ammetto: non ero granché come Allenatrice.
Speravo che nelle altre regioni ci fossero Capipalestra un po' più scarsi, così avrei potuto ottenere le Medaglie più velocemente e finalmente permettermi di sfidare Nardo faccia a faccia... Sono una fallita, lo so. Ma all'epoca non avevo il coraggio di rassegnarmi al fatto che io, la figlia del Campione di Unima, non fossi tagliata per la lotta...
»

«Tesoro, è tutto okay! Per me sarai sempre la numero uno! Senza di te non saprei a chi affidare tutte le mie camicie sudat, i piatti sporchi, la spesa ed il bucato.»

«Ottaviano! Certo che voi di Johto siete proprio dei grandi maschilisti! Solo perché io faccio eccezione, le donne sono comunque ugualmente capaci nella lotta come gli uomini, in fatto di potenziale!»

«...Luce dei miei occhi: hai cercato di ottenere le Medaglie di una regione che non è Unima... per sfidare la Lega. Ad Unima.»

«Domani mi presenterò dgli assistenti sociali e firmerò un divorzio.
Così le camicie dovrai finalmente imparere a lavartele da solo, quando avrai finito di montare la stella filante qui in giardino.
»

 

 

 

Behind the Summery Scenery #19

1. Questo capitolo è un po' una mia personale sperimentazione. Mi chiedevo: è possibile scrivere un capitolo di ESG senza G, quindi senza che le ragazze compaiano? A quanto pare sì! Tanto per campiare un po', proverò ad auto-impormi delle challenge di scrittura, vi terrò aggiornati su come vanno.

2. Chi non muore si rivede, ed in questo capitolo rivediamo i nostri rivali Komor e Belle. Non sto andando avanti con una checklist per inserire ogni singolo personaggio, sia chiaro... ma più si è, meglio è! A-A meno che non si cominci a morire, non mi chiamo Martin (anche se gli faccio concorrenza per quantità di titshots su capitolo).

3. La scena della scuola e specialmente quella delle domande l'ho presa da qui. Traetene l'opi nione che volete, non me ne frega niente.

Edit: l'hanno arrestata nel 2018. Kek.

4. "Momo fa backstory ai personaggi secondari (stavo legit per scrivere "secondaries", skeegee, che m'hai fatto) invece di guardare ai buchi di trama" è un mood.

5. Mi prendo questo punto per porgere un saluto a quei fenomeni degli autori che su instagram mi seguono sul profilo personale perché vogliono che legga la loro roba pubblicata su Wattpad, quelli che leggono solo i dialoghi di ESG per risparmiare fatica(???), quelli che droppano la storia perché io come persona gli sto antipatica, gli autori della sezione che ancora si augurino che io scompaia nonostante ciò non accadrà finché l'amministrazione non mi caccia (che comunque non accadrà, lol).

Hi, how are you?

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Capitolo 20
*** La vetrina delle vergogne viventi ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing: 
🍦
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Early Summer Girls

Capitolo 20

La vetrina delle vergogne viventi

 

Dove sta l’onore maggiore: nel godere di un grande premio o nell’incombere di una grave pena?

Gli applausi durano giusto il tempo di un grido e poco o niente rimane del momento di gloria. Chiunque può sentirsi cantare le lodi e dimenticarne il coro, assordato dal silenzio. Ma solo alle persone veramente ritenute eccezionali è riservata dedizione nella loro caduta, ci si prende cura di vederle spegnersi pian piano, seguendo una rigorosa procedura nel rovinarle interiormente ed esteriormente.

«Signorina, ci deve consegnare immediatamente le sue Poké Ball.»

Un paio di mani guantate porgevano una busta di plastica con un codice a barre ed un’etichetta che recitava “oggetto confiscato”.

«Ma neanche se vuoi!»

Gli fu risposto, mentre la giovane si reggeva nelle maniche, in realtà non del tutto determinata a farsele strappare con la forza come ultima spiaggia.

Le altre la stavano a guardare, come se quella reazione fosse immotivata. In realtà si stavano pentendo della propria docilità, almeno un’opposizione simbolica non sarebbe stata sprecata. Invece così sembrava che quattro su cinque si fossero fatte convincere ad abbandonare i loro fedeli Pokémon in mano all’ennesima recluta con i capelli ossigenati ed il piercing sul naso.

«Senti, rossa. – La apostrofò la sequestratrice, che si girava fra le mani un manganello come fosse una clava da ginnastica – Se mi lasci in mano le sei Poké Ball senza che ti faccio patire un dente, rendi tutto più facile.»

Già per le prime due parole la Capopalestra s’era infuriata come poche volte.

«E poi cosa gli fate? Gli iniettate sangue infetto delle peggio ebole e alla fine li liberate finché non muoiono?!»

«Anemone, calmati. Dagliele e basta. – E poi a voce più sommessa, Camilla aggiunse – Se non collaboriamo, potrebbe anche prendere le tue proposte in considerazione.»

Anemone pensò a quanto odiasse tale condiscendenza, ma per quella volta non poteva biasimarlo all’altra. Prese tre sfere per mano e le consegnò alla recluta sbattendogliele con tale forza contro da costringerla ad indietreggiare.

Non solo mezz’ora di impertinenti controlli, in cui le avevano tastato come minimo ogni centimetro del corpo con meno delicatezza che in qualsiasi aeroporto avesse mai messo piede, stava anche di fatto che tutte loro meritassero anche la foto segnaletica.

Dopo essere state perquisiste dagli Herdier (non che vi fossero molti posti in cui nascondere oggetti contundenti o esplosivi in un kimono in cotone corto fin sopra al ginocchio) le fecero cambiare con le classiche uniformi da carcerati, quelle arancioni.

Un piccolo particolare saltò subito all’occhio. E ne fu fatto un reclamo, perché avevano il diritto di rimanere in silenzio, ma anche il dovere di lamentarsi, se era per quello.

«No, scusate, ma uniformi in poliestere e viscosa? A luglio?» Camelia si fece sentire, leggendo l’etichetta perché lei era abituata a metterseli i vestiti, non a manifatturarli.

Una recluta a cui i pantaloncini stavano stretti ed aveva le smagliature la guardò confusa e le rispose.

«Ghecis ha voluto così.»

«Non si possono avere quelle estive?» Le chiese, in un certo senso anche a nome delle altre.

Sollevare un po’ di futilità in quel momento di incertezza stava facendo l’effetto di rendere quel trambusto meno ufficioso e meno grave di quanto non si palesasse loro: mentre si facevano gli affari loro, persone mandate dal vertice chiesero loro di alzarsi con calma, di seguirli sempre con calma e soprattutto di stare calme, mentre legavano una tozza cavigliera nera con uno schermo lampeggiante a ciascuna.

Se inizialmente ciò aveva suscitato sgradevole stupore, la faccenda si stava evolvendo in una paura del tutto informe, dato che quei riti di passaggio verso la gattabuia si svolgevano sì nell’istituto carcerario in cui erano state scortate dalla polizia in macchina, ma di ufficiali e guardie neanche l’ombra.

La recluta di prima, non quella dei controlli, quella delle uniformi, alla fine rispose alla mora.

«Hanno detto che non si può. Non ci sono le vostre taglie.»

«Se ti lascio fare una foto con me, - Camelia si indicò, provando ad usare la propria fama per associazione d’immagine – e te la autografo, così la vendi su internet?»

«Aspetta che chiedo.» E quella contattò con il walkie talkie chissà chi per l’autorizzazione.

Qualora le fosse stato concesso almeno quel piccolo privilegio, avrebbe avuto conferma di poter usare ancora qualche trucchetto intramontabile per uscire da quella posizione disagiante. 

«Mi riferiscono che tanto appena tutto questo sarà finito il tuo valore come persona cadrà al di sotto del prezzo di una Pozione.»

E se ne andò di sua spontanea volontà, tornò solo quando tutti e cinque gli yukata colorati non finirono sul pavimento: collezionati i nastri e le cinture, la simpaticona almeno mantenne la promessa di rispedirli indietro a Nardo e di non bruciarli assieme al ciarpame accumulatosi negli uffici del vecchio governo.

Però con le suppliche qualcosa Camelia e le altre riuscirono ad ottenerlo.

Di non perdere i capelli, per esempio. Probabilmente, qualcuno contava di raccogliere le folte lunghe chiome dai colori così vivaci e singolari per farci una parrucca o la stoppa per le fessure.

Ma alla fine, dicendo di averli colorati o di portare le extension, tale proposito non fu attuato.

Quando fu il momento della foto, fu chiara una cosa: quel processo così laborioso e snervante sia per chi lo subiva e chi ne reggeva i fili non era nulla di costituzionale o formalizzante. Togliersi lo smalto tanto carino, raccogliersi i capelli di modo che non cadessero oltre le spalle, via bracciali, anelli, collane, neppure le scarpe gli era stato permesso di tenere.

Senza ombra di dubbio, più che renderle ancora più innocue ed indifese di quanto già non fossero, le cinque sventurate erano state spogliate della loro essenza, della loro identità.

Era molto più semplice controllare delle bamboline spaventate dalla loro stessa ombra, aspettando che diventassero abbastanza opportuniste e sfruttarle per qualche bassezza, sarebbero dovute somigliare ai nemici controllati dall’intelligenza artificiale dei giochi di ruolo: senza faccia, senza nome e senza volontà.

Peccato che quella sera avessero proprio una gran voglia di litigare, le aspiranti Campionesse.

La ragazza delle fotografie la odiarono tutte, indistintamente.

Le fece disporre a mezzo metro di distanza l’una dall’altra, facendogli usare le braccia come misuratore. Pretese che Iris, essendo la più bassa, si posizionasse nel centro, che le due diciassettenni fossero ai lati e sugli angoli le due più anziane. Stavano di fronte alla famigerata parete con le tacche, divise dalle operatrici da un vetro spesso, tanto che per parlare la recluta si serviva dell’interfono.

Intanto ella parlava con le altre sue amichette, che non si potevano sentire dall’interno della stanza blindata, gesticolava e indicava divertita le cinque figure, in piedi, immobili, quando alla rossa per sbaglio scivolò di mano il cartello identificativo, la capa si mise a gridarle “tiralo su, mongoloide”.

Gli fu chiesto di non sorridere e non mostrare i denti. Tutte annuirono, guardando dritto avanti a loro, come topi ingabbiati. Apprezzarono che per non sprecare tempo avessero preferito una foto di gruppo, anche se non si trattava dello staff più gentile con cui collaborare.

«Bionda, spostati quel diavolo di ciuffo, ti si devono vedere entrambe gli occhi. Mora, tu alza la testa.» Rimbombò la voce, tutte si girarono verso la diretta interessata.

«Faccio servizi fotografici da cinque anni, non mi faccio dire come posare da una che mette il fondotinta liquido sopra dei pori larghi come crateri.» Le rispose l’altra, sorridendo tra l’altro.

«Dai, Camelia... mi fanno già male le ginocchia.»

La più piccola del gruppo fece per colpirla con il cartello, tanto la fece irritare quel commento, ma l’altra si scostò prima, battendola in agilità.

Odiava sembrare condiscendente verso le azioni delle reclute del Neo Team Plasma, di temporeggiare non le andava proprio. Delle vuote minacce e un brutto vocabolario non sarebbero mai bastati a domare delle scapigliate come loro, si disse Iris. E ciò le sembrò un segno, sotto sotto.

Mentre le altre tre cercarono di calmare sul nascere quella becera lite, si fece risentire la stessa.

«Vedete di muovervi, o l’intera regione di Unima saprà che non siete solo delle criminali insalvabili, ma che avete pure la faccia da cozze.»

Senza troppo spavento, più mosse dall’imbarazzo di essere riprese da una palla al piede di tale calibro, si rimisero in posizione, facendo la stessa faccia che ognuna di loro aveva usato per la carta d’identità, il passaporto e l’ID Allenatore, col viso vuoto e gli occhi dilatati.

Si spensero le luci e partì un flash fortissimo per due o tre volte, illuminando la stanza d’un folgore insopportabile.

Quando l’illuminazione tornò normale e sembrava tutto finito, la recluta sbottò, premendo il pulsante che azionava l’altoparlante con il pugno, rivolgendo lo sguardo a destra.

«Ma la deficiente che ha chiuso gli occhi!? – Respirò rumorosamente sul microfono, straziata - Ma è possibile che celebrolese del genere fossero candidate alla carica di Campione, fra tutto il resto?!»

«Soffro di epilessia. – Confessò la ragazza, piuttosto urtata da quell’appellativo sgradevole – Le luci intermittenti possono causarmi una reazione.»

«Ma ti prego, un conto è essere matte, – si riferiva anche a Camilla, per quello usò il plurale – un conto è essere bionde dentro…»

«Rifai la foto senza flash, per favore. – La interruppe quella, sapendo che dall’esterno si sentisse ciò che dicevano – Non abbiamo intenzione di ostacolarvi. Cercate di capire.»

La ragione per cui la leader volesse ragionare con quelle canaglie fu ignota a tutte. Probabilmente la donna aveva affrontato la situazione con la maggiore maturità, visto che la recluta subito comprese e riprovò, stavolta esaudendo la loro richiesta.

Dopo un attimo di attesa coi nervi a fior di pelle, la sentirono ripetere.

«Nelle foto segnaletiche vi si devono vedere gli occhi, diamine! Potete evitare di tenerli strizzati e spalancarli!? – Poi, in tono più sommesso, aggiunse – S-Sapete che non ci pagano per questo? Noi tutte volevamo uscire questa sera, e invece siamo qui… a fotografare delle imbecilli dalla faccia schiacciata.»

«Ma questa è la mia faccia normale, io non avevo gli occhi chiusi.»

E prima di fare la foto finale, dove ancora certi particolari non si ritenevano adatti ai requisiti ufficiali per una segnalazione adeguata, Anemone, mossa da curiosità si mise a tirare con gli indici le palpebre della giovane di Sinnoh per vedere, senza nessuna cattiva intenzione, quanto effettivamente fossero poco esposti i bulbi oculari degli abitanti delle quattro regioni dall’altro capo del mondo, non che volesse giustificare gli attacchi insensati di quell’antipatica mocciosa dalla pelle butterata.

Da quell’esperienza, le ragazze impararono che, potendo pure recalcitrare ed ostruire l’articolato piano dell’organizzazione degli Harmonia, alla fine, volenti o nolenti si dimostrassero, al punto di arrivo sarebbero comunque giunte, con le mani legate dietro la schiena e gli occhi coperti, per non memorizzare il percorso in cui altre reclute ancora le stavano indirizzando, verso il loro destino incerto e nefasto.

Il loro calvario, in cui il loro spirito sagace sarebbe stato smussato dai flutti insistenti di persone grette e vili, cominciava proprio una volta finiti i preparativi.

 

Strano che nelle prigioni vere non ci fossero le sbarre sulla parete o le grate alle finestre. Una volta rimosse le bende, si sentì il forte tonfo di una porta chiusa ed una sequenza di chiavistelli incastrarsi con un clangore inquietante, come se si stessero mettendo d’accordo in un codice segreto di non lasciare alcuna via di fuga.

Ironicamente, come se davvero questa storia avesse preso in considerazione protagoniste così riflessive e assennate, le nuove arrivate si misero a sedere: avevano a disposizione due letti a castello soltanto, spesso le istituzioni nutrono una certa scaramanzia verso i numeri dispari.

Si trattava di una cella abbastanza angusta da non permettere a più di una persona alla volta di stare in piedi e attraversarla, non che si potessero fare più di tre passi prima di imbattersi in uno dei muri in cemento armato, il cui intonaco si sbriciolava e trasformava in una polvere fitta; ricordava loro il locale dismesso che in teoria sarebbe dovuto diventare la loro sauna personale e invece non avrebbero mai più rivisto, con tutta probabilità.

Di sicuro gli altri carcerati, gli assassini, gli stupratori, gli spacciatori e i truffatori della regione di Unima se la stavano passando meglio di loro al momento. Neppure le resistenze della lampada a tungsteno erano salve da un fastidioso contatto, breve quanto un battito di ciglia, almeno due-tre volte al minuto.

«Iris.» La punse nell’orecchio una voce melliflua, che la fece tornare in sé.

La ragazzina si appoggiò alla testiera del letto, sentendo un deflusso di sangue dalle mani e dai piedi. L’ansia s’era impadronita di lei e ora avrebbe dovuto convivere con quel demone in meno di dieci metri quadrati di spazio.

«Cosa?» Al suo voltarsi si udì la suola delle ciabatte in plastica sulla ghiaia residua del pavimento non piastrellato.

«Anche se cammini avanti e indietro per oltre quindici minuti, non cambia niente. Mi faceva solo piacere ricordartelo, sai, che non ti facciano male le ginocchia.»

Già la battuta di prima le aveva dato su i nervi, se Camelia non avesse avuto ragione in quel momento le avrebbe intimato di levarsi quel sorriso dalla faccia e smetterla di essere sarcastica, anche se dubitava un qualsiasi esito positivo.

Al celebre monito di “conosci te stesso”, Iris era sempre stata preparata sull’argomento. Conosceva le proprie paure e sapeva quali situazioni o persone le innescassero, tantoché a volte le pareva di conoscere solo se stessa, incapace di processare altro che andasse oltre i confini del suo solipsismo.

E di sicuro, ad una giovane abituata agli ampi spazi verdi della sua città, le strade larghe ed il cielo infinito sopra la testa, il semplice concetto di quei muri spessi, che le sembravano avvicinarsi e restringere la stanza ad ogni occhiata gli lanciasse, non la aggradava affatto.

Infatti si stava trattenendo il lamentare la propria claustrofobia in rispetto delle compagne: era ovvio che se quattro pareti la spaventavano così tanto, la sua paura non sarebbe stata altro che una zavorra all’avvento di ciò che stava ad aspettarle.

Invece di mettersi comoda in uno dei letti inferiori, si accovacciò scivolando verso il basso, parallela alla testiera.

«Non capisco, noi non stavamo vincendo? Avevamo anche festeggiato in anticipo…» Disse, sconfortata.

«Io non sono chissà che mente malvagia, – Anemone muoveva il polso da dietro la spalla della sua compagna per provare il proprio punto – ma se dopo aver chiesto alle future Campionesse di ritirarsi dal TRUF quelle mi tirassero bidone, io mi arrabbierei non poco.»

Non voleva dare torto alla rossa, fra tutti quanti, ma l’idea che il cervello del Team se la fosse legata al dito in quella maniera, pianificando una tale vendetta come una fidanzata gelosa, ad Iris suonava assurda.

«Cosa dovevamo fare, arrenderci?! – E sottovoce, visto che non sopportava una tale colpa su di sé – C-Comunque era Camilla che parlava, io sono stata zitta… u-un terzo del tempo, circa.»

La sua tirata patriottica, se ne ricordava alcuni spezzoni, era altro tasto dolente su cui voleva sorvolare.

«Vuoi dirmi che siamo finite in prigione, - la mora alzò un sopracciglio – perché le due reclute hanno fatto la spia? Ma se non sapevano neanche i nostri nomi, a parte il fatto che loro si chiamano come gli Unown…»

Prima che la più piccola del gruppo si permettesse ancora di accusarle ingiustamente, si intromise la sub-leader, che si era già appropriata del letto in basso a destra, giocandosi la sua carta della mobilità ridotta.

«Non potevamo mica massacrarle, ci hanno incastrate. Non volevano i soldi, quindi…»

«Se lo avessimo fatto, dite che ci avrebbero iniettato il cocktail il veleno degli Scolipede o saremmo finite sulla sedia elettrica, con i Tynamo attaccati alle caviglie… Ah, no, hanno capito che costringerci a stare in cinque, insieme ventiquattro ore su ventiquattro in un buco avrebbe funzionato di più.»

Per quanto potesse suonare barbarico, a differenza delle altre regioni, ad Unima si usava ancora la pena di morte. Era usanza di anni e anni orsono, in cui crimini compiuti venivano puniti e quelli potenziali scoraggiati con l’esempio pubblico più efficace.

Tale verdetto risaliva alla stessa era in cui dall’estero erano giunte ad Unima anche le armi da fuoco. Ma mentre quelle si abolirono sotto pressione dei protestatori pacifisti, la pena capitale era entrata nella coscienza collettiva come misura unica contro i peggiori misfatti.

All’alba dell’ultimo secolo tuttavia, almeno per alleggerire il supposito peso morale dai cuori di chi non poteva davvero prescindere dalle conseguenze, non si coinvolgevano più i Pokémon nelle torture e nelle esecuzioni.

Se i film cult non ne avessero ricavato un mito, Camelia non avrebbe nemmeno citato tale riferimento.

«Anche no, gli costa di meno tenerci segregate qui finché non scade il mandato di Nardo. Fine della storia. – La biondina di Sinnoh provò a distendersi sul brullo materasso che era stato lasciato loro e si rialzò subito con un riflesso atipico per lei, prima tastando, poi battendovi il pugno sopra – Che letti scomodi… Ho sonno, voglio andare a casa, uff…»

Per quanto Catlina fosse cresciuta nella bambagia e le sue aspettative in fatto di comfort risultassero eccessivamente alte, nessuna le diede contro: erano state viziate così tanto nell’ultimo mese che per “casa” il loro pensiero non volò mica alle loro, nelle loro città natale.

«Cosa succederebbe – la mora si alzò in piedi, di scatto, con un impeto del tutto estraneo alla sua personalità – se decidessi di ammazzarmi qui ed ora, in un gesto di estremo vittism… intendevo, patriottismo?»

«Dirò a tutti che eri la mia modella preferita.» Anemone si toccò il cuore, sincera nelle sue condoglianze proprio come la sua fidanzata quando, come al solito, non lo era mai.  

«Non ditele neanche per scherzo cose del genere, abbiamo sfiorato l’altro mondo circa… - Catlina fece i suoi calcoli nella lingua della sua regione, perché le risultava più conveniente – quattro o cinque volte in tutto giugno e metà luglio. Forse per me arrivano anche oltre il dieci…»

A quel punto, l’aria già soffocante della cella si era riempita di quelle voci disincantate, di quell’ironia così realistica e tagliente, che la più giovane del gruppo desiderò liquefarsi e scivolare via da sotto gli anfratti sulla porta, visto che i piedi non potevano condurla da nessuna parte.

«Non è giusto, non è assolutamente giusto…» Sussurrò, non volendosi far sentire.

La ruota del karma, il principio del bene ripagato e del male castigato, quell’ideale di giustizia di cui le avevano farcito la mente sin dalla tenera età, era rimasta incastrata ormai da un pezzo: nemmeno la polizia le aveva ringraziate per aver cacciato le reclute dal Centro Pokémon.

Si strinse le ginocchia al petto e vi appoggiò la testa, sentendo il flusso della massa di capelli ricadere in avanti. Le pareva come se la testa le stesse per esplodere.

Le sue compagne avevano ragione, non era la prima volta che finivano con l’acqua alla gola.

Ma cosa potevano fare in quel momento, senza i loro Pokémon, senza potersi consultare con qualcuno di più saggio, senza neppure lo spazio vitale per organizzare il contrattacco?

Calò un po’ di silenzio, quasi quasi ad alcune venne voglia di andare a dormire, era tardissimo e chissà cosa riservava loro il domani (e dire che in precedenza il coprifuoco delle dieci e mezza gli era stato così tanto in odio!).

«Ohi, spegnete la luce. – esortò la Capopalestra, indicando pigramente l’interruttore sulla sinistra in basso esattamente alla portata di quella che fra loro era rimasta più silenziosa finora – Camilla, dai, per favore, spegni ‘sta luce.»

Nonostante l’udibile nota di irritazione, la leader rimase un secondo titubante, concentrata su qualcosa.

Eseguì comunque la richiesta, perché le era venuta un’idea e non l’aveva condivisa pur di non sforzare psicologicamente le sue care apprendiste ancora in stato di shock.

Nel buio, alzando gli occhi che la recluta delle foto tanto le aveva criticato, aveva notato un particolare che purtroppo sembrava esser sfuggito alle restanti.

«Ragazze, – aveva un tono calmo, sapeva il significato di quello che stava per chiedere – al mio tre mettetevi tutte a gridare più forte che potete, okay?»

«Eh… no?»

Iris si sarebbe pentita di essersi rivolta ad una più grande di lei in maniera tanto irrispettosa un giorno, ne era sicura, ma quel giorno non era altrettanto sicuramente quel dì o quella notte stessa.

Sebbene non fosse molto sensato mandarle troppe occhiatacce al momento e vista la voglia di scherzare che là dentro veniva e se ne andava nel giro di pochi minuti, le quattro non si sprecarono troppo nel controbattere.

“Per favore, non c’è tempo…”, “Tu sei pazza” detto con tono derogatorio, “Ma anche no” e altro ancora inondavano di uno sgradevole brusio l’aria, con aggiunta di qualche sbadiglio e imprecazione mormorata fra i denti.

Come se a Camilla importasse, partendo dall’indice iniziò a contare e le altre prestarono ascolto, un riflesso automatico ricavato dai loro allenamenti.

«Uno…»

«Spero che adesso ci trasferiscano in un ospedale psichiatrico, perché io ne avrei bisogno.»

«Non c’è proprio nulla da fare, huh?»

«E anche oggi si dorme domani…»

Alzò anche l’anulare, sempre con lo sguardo fisso in alto.

«Due… - e la Campionessa di Sinnoh non esitò oltre, visto che necessitava della conferma per le sue supposizioni al più presto possibile – tre!»

All’unisono, suoni acuti come il graffio con le unghie sulla superficie di una lavagna si levarono e ogni atomo presente nello spazio gassoso fu riempito di quell’energia fonica, vibrando con le voci femminili, simili al pianto di spiriti irrequieti, perfino i legittimi fantasmi dei morti che infestavano quella prigione si sarebbero spaventati, qualora non si trattasse solo di leggende metropolitane.

Dopo aver trattenuto la lettera “a” sull’orlo della gola per circa mezzo minuto, una dopo l’altra smisero e subito si pentirono di aver sperperato fiato per una cosa così futile.

Immaginarono che la più anziana si fosse inventata quella specie di terapia per tranquillizzarle, pensando al loro bene psico-fisiologico. Non solo tristezza, soprattutto rabbia si era annidata nei cuori delle Allenatrici e senza intervenire subito le avrebbe rose dall’interno, come roccia pregna d’acqua.

In effetti, almeno Iris, ammise che per lei aveva funzionato. Certo, le facevano un po’ male i polmoni, ma nulla che le peggiori litigate con le sue amiche o il tifo durante una lotta molto accesa non avessero già messo alla prova. Si considerò fortunata che esistessero persone come Camilla durante tempi del genere.

Tuttavia, il genio della giovane donna non si era limitato solo ad un’utilità di tipo astratto.

Quella sorrise soddisfatta delle sue deduzioni. Anzi, ne trasse un vero e proprio sollievo.

«Per fortuna. Le telecamere non sono solo senza l’audio, ma non hanno neanche implementata la visione notturna.»

Dopo quella rivelazione, le quattro si pentirono della loro impulsività ed imprudenza: perlomeno adesso avevano la sicurezza di potersi parlare e confidarsi senza che quelle vipere andassero a ficcanasare come avevano fatto fino ad ora.

La loro teoria era comprensibile: avevano accumulato una quantità sufficiente di informazioni su di loro da considerarle dei libri aperti e dopo averle imprigionate non avevano più il bisogno di snocciolare ulteriormente ognuna delle loro singole conversazioni per completare tabelle di dati personali da consegnare al loro capo. O forse…

«Dobbiamo avergli fatto venire un esaurimento nervoso a quelle povere anime, immaginate ascoltare noi che parliamo dei nostri patemi d’animo, di battutacce, tette e sesso per un mese e mezzo.»

Dopo questa constatazione indubbiamente della mora ed un’ansia in meno, le cinque pensarono fosse alla fine giunta l’ora di mettersi a letto, se proprio non riuscivano ad addormentarsi dovevano accontentarsi di parlare sottovoce.

Ma fu con la luce spenta e l’oscurità che si manifestò il vero e proprio inizio del test alla loro capacità di sopravvivenza.

La famigerata telecamera si spostò verso il centro del soffitto, azionata da qualche meccanismo automatico collegato al circuito della corrente: infatti solo con lo scuro si poteva vedere il fascio di luce quadrato puntato contro il muro brullo al termine della cella; faceva anche da proiettore, in sostanza.

Aprirono d’improvviso gli occhi, sorprese. Scendendo dal letto, si piantarono tutte quante davanti allo schermo, impaurite più che curiose di sapere cosa sarebbe successo.

Non vi erano pulsanti d’accensione o spegnimento. Qualsiasi immagine o video sarebbe apparso se li sarebbero dovuti sopire tutti, sacrificando ulteriori ore di sonno preziose. Sedute tutte a gambe incrociate sul pavimento lercio, come da bambine a scuola, con i nervi a fior di pelle. E dalle casse, all’improvviso partì.

«Buonasera, care ragazze. Ci avete fatto aspettare un po’, ma alla fine siete arrivate.»

In qualità decisamente sgranata, il volto purtroppo familiare di una delle loro più recenti conoscenze all’interno del Team Plasma parlava perso nello sguardo ad una webcam interna, la fronte appariva più alta e l’ombra degli occhiali si rifletteva sul volto pallido, su quel sorriso maligno.

«Non ci credo, è il tizio che abbiamo quasi preso sotto, voleva costringere me e Camilla a ritirarci e continuava a chiamarmi “tesoro” … - Iris si protese in avanti a carponi, riconoscendolo, mentre le altre avevano sussultato nello stesso istante, per poco Catlina non era svenuta – come si chiamava? Acromio?»

«M dispiace di non essere potuti giungere ad un accordo che accomodasse entrambe le parti. Ci sono state delle interferenze, qualche fraintendimento che non poteva essere affatto ignorato…»

Continuò, scandendo quelle parole in modo tanto accondiscendente, sembrava sottovalutare di molto l’intelligenza delle sue interlocutrici. Non che avessero comunque la possibilità di ribattere qualcosa, da parte loro.

«Siamo. In. Prigione. Per. Nulla. – Iris batté le mani ad ogni parola, come se desse una maggiore validità al suo discorso – Sicuri che non siate voi a star violando qualche diritto umano?»

«Tanto non ci sente… non ha neanche senso provare.» La riprese la compagna più grande, tornata più o meno in sé.

«Ma non preoccupatevi! – Esclamò, facendo un giro completo dalla sua poltrona girevole, quella su cui per qualche ragione possiedono tutti i cattivi dei fumetti – La procedura penale di Unima prevede che prima di imputare a qualcuno una condanna è necessario un processo giusto ed equo.

E per non incappare ancora in quella prassi macchinosa delle volte precedenti, già da domani mattina cominceremo le sedute giudiziarie, una ad una, una dopo l’altra. Il tempo è denaro, ed il denaro in questo caso è la vostra assoluzione.»

Il programma del giorno dopo non suonava per nulla allettante. A quel punto marcire nella cella afosa per altre tre o quattro settimane, per tornare poi alle loro vite normali andava anche bene.

«Non me ne frega niente se non ci può vedere o sentire, quando gli metto le mani addosso e glielo stacco dalla testa, quel ciuffo, allora sì che possono processarmi!» Anemone glielo gridò e si sentì il rimbombo.

Senza preavviso, la rossa ebbe uno scatto d’ira (per quanto ormai le altre quattro si fossero abituate a tali comportamenti, rappresentavano comunque un pericolo in uno spazio così stretto), si alzò in piedi, si tolse una delle scarpe dalla suola scollata e la lanciò contro il muro con la potenza e la precisione di una catapulta medievale; Acromio se la beccò proprio sul naso, mentre andava avanti a parlare indisturbato.

«Scusatemi, suppongo.»

«…No, tranquilla, no scuse.» La rassicurò la leader.

Ma da quel raptus violento nacque altro. Altre calzature seguirono, vari oggetti per l’igiene volavano sulla fronte, contro il mento e la bocca del rappresentante del partito, il peggio comunque furono alcuni bicchieri che si frantumarono in cocci destinati a rimanere a terra come una trappola di Fielepunte, sul muro i calchi dei proiettili occasionali.

Tante cose avrebbero voluto dire, i suoni rimasero appesi alle labbra: quella detenzione già le stava imbarbarendo; il Professore non aveva ancora finito. 

«Vi consiglio vivamente di pensare già adesso al vostro alibi. – L’uomo emise una risatina effemminata, a dir poco irritante – Non fate le facce da cuccioli indifesi, suvvia! Se siete abbastanza grandi per concorrere al titolo di Campione, potete benissimo affrontare la vostra causa senza che vi venga fornito alcun avvocato.

Sono tutti soldi risparmiati per la campagna autunnale del Team Plasma, dopotutto.»

Fu un duro smacco da recepire. Era dai tempi dei Greci che l’organizzazione della difesa non veniva affidata al cittadino stesso, ed in molti casi perfino gli stessi accusati all’agorà finivano per sobbarcare il lavoro dell’orazione ad un logografo. Invece né Lisia, né Cicerone né Demostene potevano venire a salvarle con le loro formulette retoriche e i loro “oh, giudici!”.

«Detto questo, ci vediamo domani in tribunale. – Congiunse le mani, ancora non capivano se si trattasse di un messaggio dal vivo o pre-registrato - Dormite bene, domani sarà una giornata leggermente impegnativa.»

Prima di scollegarsi dalla linea tuttavia, il professor Acromio ricomparve sulla parete a lasciar loro un ultimo messaggio.

«A proposito, una comunicazione di servizio: questi giorni si prospettano come i più caldi di tutta la stagione estiva di quest’anno. Queste carceri tuttavia sono piuttosto antiquate e mi duole avvisarvi del fatto che l’aria condizionata non funzioni. Bevete molta acqua e fate delle belle docce fredde ogni quando ne avrete l’occasione.»

In seguito a tale consiglio paternalistico, Acromio si dileguò e la schermata tornò blu, apparve la scritta “no segnale”.

L’ora dello spettacolo era terminata. Da quel momento in poi erano al centro per cento sole, ma non avevano neanche le forze di sollevare dal pavimento le proprie ossa.

Dopo un silenzio che parve interminabile, la sub-leader si morse il labbro, ponendo a tutte la fatidica domanda.

«Allora, domani chi va?»

Tutte contorsero la faccia in un’espressione addolorata, la più giovane emise un debole mugolio di insofferenza.

«Io non ce la faccio, mi dispiace. – la pilota, al massimo sincera, scusandosi con tutto il cuore – Ho bisogno di prepararmi a memoria quello che devo dire, non so improvvisare un discorso e ho paura di parlare in pubblico. Se cominciamo male, possono farci di tutto…»

«E come facciamo a sapere che non sia tutto già deciso e il risultato non sarà truccato? Io non so neanche perché ci abbiamo arrestato al principio.»

Iris non riusciva a guardare in faccia nessuna. Dopo quel sensato ragionamento e rivelate le sue fallimentari abilità persuasive alla riunione di Austropoli, non era di certo lei la migliore candidata per dimostrare che le cinque sospettate di non si sa che reati in realtà erano obbedienti, rispettose ragazzine educate.

Forse Camilla era la scelta giusta, ma proporre sempre lei come cavia da laboratorio e giocarsi subito il loro jolly non sembrava comunque una buona strategia.

«Beh… - commentò quella – credo ci toccherà andare a sorteggio. Mi sembra l’unica soluzione…»

Ci fu un altro colpo di scena che nessuna si aspettò, ad eccezione di colei che si era fatta stuzzicare sin da subito dall’idea, ma aveva aspettato di sorprendere tutte spingendole agli sgoccioli. La ragazza appariva abbastanza rilassata, mossa a far cessare quelle paranoie idiote sul loro destino, abbastanza determinata da volersi impegnare a far chiudere il caso e mostrare alle compagne spaesate l’arte di vincere un dibattito con la propria intelligenza.

Quasi la stessa ragione che aveva spinto Camelia a prendere parte alla competizione a inizio estate.

«Ah, bisogna spiegarvi sempre tutto, arrivarci da sole? Mai, eh… com’è che si diceva? “Mi offro volontaria come tributo”? O qualcosa del genere.»

La modella provò a ricordarsi la posizione delle mani associata a quella frase, ma le venne in mente solo qualcosa relativo all’alzare il dito medio, quindi s’arrese. Ci stava godendo nell’appropriarsi delle bocche spalancate delle compagne, ovviamente.

«Dai, cosa volete che sia? Ci sono molestatori, evasori fiscali e produttori che fanno stipulare ad alcune mie colleghe contratti da schiavisti e tutta questa gente è in circolazione senza problemi. Che volete ci facciano?»

«Camelia, sei sicura? – Camilla le venne incontro poggiandole le mani sulle spalle, mossa da genuina preoccupazione – Sappi che nessuna di noi potrà sostituirti all’ultimo. E che qualsiasi cosa tu dica o faccia potrebbe esserti ritorta contro.»

La diciassettenne le afferrò i polsi e scostò da sé quella presa troppo intima. Le sorrise come faceva sempre, provando perlomeno a rasserenarla almeno sul fatto di meritarsi per una volta la fiducia delle sue compagne.

«Lasciate fare a me stavolta. Dobbiamo soltanto negare tutto ciò di cui ci accuseranno, è fin troppo facile. Mi stanno letteralmente chiedendo di venire umiliati davanti a mezza regione!»

Con quell’affermazione, riuscì ad attenuare un po’ dell’avvilimento di prima, mentre le quattro si guardavano reciprocamente, dicendosi “beh, in effetti…”. Esattamente quello che voleva.

La modella si alzò in piedi, rivolgendosi al suo uditorio, che ancora la ammirava dal pavimento.

«Visto? Io so come funzionano queste cose. - Indicando Iris, Anemone e Catlina, gli sorrise impietosita, ricambiando con una freddura il loro supporto – Con questo vostro atteggiamento da perdenti non andrete da nessuna parte nella vita, mi dispiace.»

Senza replicare nulla visto il grande favore che il cuore frigido della Capopalestra stava facendo per salvarle dalle fauci del leone, una nuova atmosfera speranzosa si sostituì all’ansia e riempì il loro angusto spazio vitale per tutta la durata del loro riposo, con una certa anticipazione per il mattino seguente.

In particolare, la mora si addormentò accanto alla sua fidanzata, eccitata come se si trattasse del giorno prima di un grande evento, in cui tutti i riflettori erano puntati su di lei.

«Cioè, dovrei essere io la leader di questo gruppo. Sono troppo brava in queste cose… Camilla, ti voglio bene, ma io sono meglio di te, scusa cara Campionessa.»

 

Per distrarsi dal torpore ai deltoidi che le infliggeva il camminare con le braccia ritte ammanettata dietro la schiena, non potendo guardarsi intorno, Iris si mise ancora a ragionare sulla scelta del proprio partito, come se una lotta importante fosse imminente ed ancora non sapesse chi mandare in campo per primo.

Camelia era davvero la persona giusta a cui far aprire quelle danze infernali?

Quella stessa esitazione le fece venire in mente una cosa non trascurabile: per quanto la modella di tre anni più vecchia di lei la maltrattasse, prendesse in giro, trattandola come uno zerbino e a questo punto nessuno potrebbe negarlo, era la piccola aspirante Allenatrice ad avere sempre pregiudizi e basse aspettative nei suoi confronti.

Ripensò al loro incontro alla Lega, a come le avesse dato della poco di buono soltanto perché si stava risistemando il mascara (o altro, la sua memoria ormai si stava offuscando) ed aveva un top che le scopriva la pancia.

E dopo quella le aveva strillato contro, l’aveva sminuita davanti a tutte, ma l’orgoglio urtato di Iris non faceva fronte alla perversa confermazione delle sue infantili congetture.

Ora che si avvicinavano passo per passo al tribunale invece, avrebbe preferito non partire così prevenuta nei suoi confronti. Era come se il suo inconscio ispirasse energia negativa che poi si tramutava in brutte reazioni.

Era come se il bullismo di cui Iris si dichiarava vittima dal secondo in cui aveva incontrato quegli occhi azzurri e appassionati in realtà fosse partito da lei stessa, non da Camelia. Non essendo troppo cieca sui propri vizi da ignorarlo, alla ragazzina dispiacque tantissimo.

«Fate entrare le imputate.»

Udì da fuori, già impietrita dal fatto che non si stessero scomodando neppure di imparare i loro nomi od il codice a sei numeri cucito sulle loro uniformi sgualcite.

Sentì che la calura umana emessa dalle reclute tanto vicine a lei si era dispersa, un profumo di legno vecchio la indusse a sollevare le palpebre ancor prima che la benda nera le venisse tolta. Si scoprì aggruppata con le quattro sue compagne, mentre la Capopalestra di Sciroccopoli era a qualche metro più in là, era da quando avevano messo piede fuori dalla cella che non gli era più stata data la possibilità di scambiarsi una parola.

D’improvviso, una spinta di forza non modulata in maniera proporzionale ad una corporatura così esile la fece sobbalzare, fu di nuovo intrappolata nella stretta delle sorveglianti, le quali con foga condussero a sedere lei, Anemone, Camilla e Catlina, pestandogli i piedi ogni qualvolta rallentavano verso i loro posti in prima fila, sull’ala destra della sala.

«Sono giovanissime. Andranno per i sedici, i diciotto? O forse…» Uscì una voce dalla folla, loro non lo sentirono.

Tutto quel venire sballottata a zonzo sortì l’effetto di ammansire ogni impulso di rifuggire quel contatto forzato, nessuna delle quattro rifiutò di mettersi comoda pur di venire lasciata in pace.

Quando per sbaglio alla biondina aristocratica fu letteralmente staccato un capello impigliato su un anello troppo fastoso con un lamento a fatica contenuto, le venne l’orripilazione.

«Chissà perché, ho la sensazione di averle già viste… ah, giusto. Mio figlio ha un poster della ragazza coi capelli neri in camera! Mi dovrei preoccupare?» Fece un signore dalla giacca con i gemelli.

Sembrava di stare in chiesa. Tutti i presenti lì vestivano eleganti, mentre a loro era stato dato a malapena un quarto d’ora per rassettarsi le loro zazzere nodose e lavarsi i denti.

Inoltre avevano bevuto solo un po’ d’acqua, ma aveva un retrogusto strano; si potrebbe litigare fino alla fine dei tempi se l’acqua abbia un sapore o no, ma non sapeva di quella bottiglia e nemmeno come quella del lavandino, era poco dissetante…

«Ho sentito dire che sono delle tipe che... Ci vuole un bravo psichiatra per raddrizzarle, magari.» Una signorina si sistemò sulla sedia in legno, dondolando.

«Sì, la rossa mi dà abbastanza l’idea di una che da piccola picchiava i più piccoli per divertimento. – Concordò il coniuge, lieto di essere stato invitato a far presenza all’evento cult dell’anno in fatto di politica interna – Ma la più alta, con il ciuffo lungo, a me fa più paura lei fra tutte.»

Tutti i magistrati le guardavano. Ma soltanto nel momento in cui erano sicuri di poter immediatamente rifuggire gli sguardi delle ragazze. Al circo, nessuno guarda negli occhi il fachiro sul punto di ingoiare la spada affilata o il contorsionista a testa in giù.

Qualcuno doveva aspettarsi che le ragazze facessero qualcosa di clamoroso, dato che i più temuti fuorilegge alla fine si erano sempre dimostrati grandi intrattenitori una volta giunti in aula, aumentando la soddisfazione per averli catturati ed averli portati sotto l’imponente bilancia dorata.

Tuttavia, l’attenzione che la probabile condannata attirava su di sé era ineguagliabile: come poteva la pelle rimanere pulita e uniforme anche dopo aver dormito su cuscini luridi ed avere le labbra ancora rosse, gli occhi spalancati pieni della luce naturale che ricadeva su di lei dalle finestre, riuscendo a sembrare un poco preoccupata e contenta insieme.

Era come la volta degli assistenti sociali che volevano portarsi via Anemone, pensò la ragazzina. Non riusciva nemmeno se ci provava a fare il tifo per la sua compagna, non aveva l’aria della paladina della giustizia o della salvatrice di loro che erano innocenti.

«Ti prego Camelia, non rovinare tutto.»

Incrociò le dita, prima che le afferrassero il polso e finalmente qualcuna delle sfortunate Allenatrici tornò a far parlare l’intero gruppo.

«Davvero è necessità vitale ammanettarci alle sedie?»

Camilla era quasi impietosita dalla briga che le reclute si prendevano dal giorno prima per far sì di privarle ogni singola volta di ogni singola libertà, per esempio il grande privilegio di potersi grattare un attimo il naso.

«Certo. – Le rispose l’altra, con sicurezza – Potreste scappare o fare qualsiasi altra idiozia se non vi teniamo legate.»

«Tenerci legate non ci dovrebbe far venire ancora più voglia di fuggire, in teoria?»

Nonostante la leader fosse stata piuttosto gentile nel suo tono, la recluta si riempì d’antipatia e tagliò corto.

«Risparmiati la filosofia spiccia per il tuo processo, neh.» E si allontanò.

Tamburellando sulla gamba del seggio laccato, la mora manifestava la paradossale voglia di salire su quel carosello diabolico, aspettare ancora di iniziare il processo stava mettendo tutti di cattivo umore.

E quel dì servivano giurati benevoli, dei veri e propri maestri d’empatia, perché perfino il cigolio di una porta o un banco strascinato sul parquet causavano numerosi e sonori mugugni spazientiti, le formalità ammattivano lo spirito già poco combattivo delle parti in difesa.

Le cinque reagirono in modo curioso quando una serie di colpetti ovattati fece soffiare gli altoparlanti, si guardarono attorno stordite, come se perturbazioni invisibili le stessero schiaffeggiando.

Il pubblico si rilassò. Il microfono da cravatta intavolò una vibrante entrata in scena. 

«Signore e signori della corte, grazie per aver aspettato fino a questo momento! Dichiaro la seduta aperta!»

Il Professor Acromio si introdusse reggendo il proprio tablet con la copertura a tendina, incurante del dress-code nel suo camice immacolato, incantando tutti quale il presentatore di uno show televisivo. Assolutamente conscio di non pertenere affatto alla cerchia di nemici canonici contro cui il vecchio establishment si era accanito, non ci provava neanche a ghignare in modo losco o a far la voce grossa.

In quel momento indossava gli abiti del segretario di partito, dell’uomo eclettico e raffinato, dal background misterioso che affascina sempre gli studiosi di storia politica. I lineamenti efebei ed il fisico gracile si guadagnarono subito la simpatia di quasi tutti.

«Mi chiamo Acromio, sono un professore Pokémon. – Fece la sua solita tiritera, aveva caro di imprimere il proprio nome nella memoria di chiunque incontrasse - Per oggi ed i giorni a venire sarò io il giudice di questa singolare causa. Confido nella vostra collaborazione.»

Si piazzò davanti alla platea, squadrando la sala dall’alto al basso, confidenza nell’avere in mano sua l’intera situazione. Non poteva negarlo, tutto quel potere lo aveva insuperbito un pochettino.

E per quanto ciò gonfiasse quell’intellettuale schizzato come un palloncino pieno di elio e la testa gli fluttuasse nell’iperuranio dei fanfaroni, le sue poche disistimatrici si dovettero cucire di malavoglia le labbra. 

Soprattutto quella fra loro la cui lingua poteva decidere la differenza fra salvazione e condanna.

A sorpresa di chi ben la conosceva (o anche di chi a malapena sapeva di lei, visto che ormai non si stupiva più che tale ignoranza sopravvivesse alla sua fama), quando costui stette di fronte al primo banco per vederla per la prima volta, l’imputata fece un profondo inchino con il capo.

«Eccola qui, dunque, l’imputata di oggi. – Acromio aprì sullo schermo quella pagina di dati sensibili su di lei, ricavati dalle sue scrutinanti – Lei è Camelia Taylor? Piacere di conoscerla, anche se in circostanze un po’…»

La ragazza ricambiò lo sguardo, dimostrandosi pacata e disposta. Aveva ammorbidito i muscoli facciali per riuscire a trasudare un’innocenza forzata che spesso fantasticava di sfoggiare anche davanti agli estranei e di cui finora l’unica testimone era stata la sua fidanzata.

«Piacere è mio. Può anche darmi del “tu”, se vuole, io ho diciassette anni, tanto.»

«L’importante è cominciare con il piede giusto, vero, Camelia? – Acromio le saltellò accanto, energico come un venditore di dolciumi – Che peccato non averti incontrato prima, mi sembri molto più cortese delle tue due amiche della volta scorsa.»

«Oh, davvero? Grazie.» Civettò, sbattendo un paio di volte le lunghe ciglia dorate.

«No, davvero? Scherziamo?»

Era già stato stabilito che fermare i monologhi interiori della Capopalestra era impossibile: persistevano alle discussioni, alle sgridate, ai pianti e perfino ai momenti di estrema tensione.

Quasi la divertiva, la frecciatina del professore lanciata alla leader e all’Allenatrice non qualificata.

Ci credeva che le due disadattate non fossero riuscite a contrattare con gli alti capi della società come lei, ma solo perché quelli avevano preso sotto tiro una bambinona ed una selvaggia, non ci voleva un genio.

A darle veramente di che sospettare fu che lui l’avesse seriamente scambiata per una persona che non era lei ed in teoria, se il fato si fosse rivolto a suo favore, l’uomo avrebbe continuato ad interrogare una Camelia feticcia; era come se avesse usato la mossa Sostituto, nessun colpo le avrebbe lasciato un graffio finché si atteggiava così.

In teoria. Il costo della sua finzione era comunque una bella fetta della sua dignità.

Si sentì in imbarazzo immaginando cosa stessero pensando di lei le sue compagne vedendola da lì.

Per ogni favore che faceva loro, in qualche modo incappava presto o tardi nella loro antipatia.

Ma non le importava più di tanto.

«Prima di cominciare, dobbiamo fare il giuramento dei testimoni. – Cambiando interfaccia sul tablet, il giudice lesse – “consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti ad Arceus, se credente, e agli uomini, giurate di dire…”»

«…dire la verità e null'altro che la verità? – Lo completò, con la mano destra appoggiata sul petto e la sinistra alta, rivolta verso l’esterno – Sì, sì, lo giuro.»

La formalità appena recitata, oltre ad impilarsi alle altre scartoffie tratte dal repertorio di un’artificiosa banalità, s’accattivò un briciolo dell’ottimismo dell’insolitamente disincantata Anemone. Fece cenni d’approvazione con la testa che sembravano fuori luogo. Ma lei si sentiva rassicurata da quelle parole.

Come la mora aveva predicato loro il giorno prima, “glielo stavano chiedendo”. Che cosa? Ma di fare ciò che quella linguacciuta ape regina in grado di causare controversie solo respirando sapeva fare meglio: dire la verità.

Pareva una sciocchezza, ma se fosse capitato a lei di venire interrogata su due piedi, la tentazione di fare falsa testimonianza ed avvalersi del suo bel faccino come alibi l’avrebbe sopraffatta di certo. Bisognava possedere un fegato di ferro per non avvalersi della scelta più facile pur di farla franca.

Sperava davvero che tale sfrontatezza non stesse a compensare una vacuità di buon senso.

Anemone si sfregò un sopracciglio, provando a comprendere dove Acromio volesse trascinare la coscienza della sua ragazza: voleva manipolarla, quella era la sua ipotesi. Ma non capiva neppure lei se ci sarebbe riuscito. Le intenzioni di Camelia erano così indefinibili, solo seguendo il dibattito uno ci sarebbe potuto arrivare.

«Ci piace una ragazza che va dritta al punto! – Esultò il giudice, poi si ricompose – Va bene, signorina, una domandina veloce, tanto per scaldarci e darci due o tre coordinate ideologiche…

Mi diresti che cosa ne pensi della filosofia del vecchio Team Plasma? Quella di liberare i Pokémon dal giogo umano.»

La modella si appoggiò sui gomiti, apparendo pensierosa per una quantità strategica di secondi, per poi sciacquarsi dal volto con una velocità innaturale l’espressione basita, curvando l’asta del microfono verso la sua bocca.

«Uhm…» Abbozzò un sorrisetto modesto.

Prima che potesse spalancare i padiglioni auricolari e prevedere le sorti da quell’esordio a dir poco spinoso, Anemone si sentì tirare la manica dell’uniforme ed abbassò il profilo, come quando in classe le toccava suggerire alle sue compagne durante i test.

«Ti prego, dimmi che tua morosa ha un diploma come minimo per rispondere a questa domanda.»

Bisbigliò la più piccola, l’ultima a poter parlare di quell’argomento in realtà.

«Non credo proprio, non ha detto che ha iniziato con il modeling a dodici anni?»

Le rispose, non trovando ragione per cui valesse la pena mentirle.

«Se per colpa sua finiamo in prigione, io…»  

Per quanto il volume basso le permettesse di suonare minacciosa, la rossa si lasciò trasportare dall’istinto protettivo e la bloccò prima che potesse esprimere intenti lesivi, finì per esagerare e la sentirono tutti.

Era la tossina dell’amore che faceva effetto sulla mente già poco stabile della povera ragazza cotta di una calamita per antipatie.

«Stai zitta un attimo! – Non appena una centinaia di occhiate confuse la mitragliarono all’unisono, Anemone, imbarazzata come non mai, si scusò – Tutto okay, continuate pure.»

Non poteva negare che Camelia avesse anche dei difetti. Ma nel caso si fosse fermata a vedere l’apparenza, le patetiche scenate che metteva su solo per guadagnarsi l’apprezzamento altrui e avesse preso alla lettera tutto quello che la udiva dire, non avrebbe mai potuto provare la gioia estatica di venire salvata dal tentato rapimento organizzato dal Team Plasma o di venire baciata per la prima volta.

Si sentiva un po’ sciocca a ripetere come una macchinetta che la sua ragazza era diversa da come gli altri la vedevano ma nessuno sembrava capirlo mai al primo colpo.

Mentre anche le due biondine la sgridavano in labiale ed Iris probabilmente non le avrebbe rivolto il saluto per almeno un decennio dopo quell’uscita, la giovane di Ponentopoli alzò lo sguardo, dritto alle prime file.

«Andrà tutto bene. So io più di ogni altro che Cami è una tosta, sveglia ed intelligente.

E anche che non è una da tradire una promessa, è troppo onesta per permetterselo.»

Fece un bel respiro profondo, anche se l’odore di chiuso le impolverava la trachea, si preparò a venir impressionata. Non poteva vederla in faccia, ma una piccola risata di gusto proveniva dal suo microfono prima che la mora iniziasse la sua difesa: soppresse il desiderio di correre ad abbracciarla, percependo il freddo ferro sul polso.

«Una figura influente come te avrà di sicuro sentito parlare del Team Plasma, vero? – la riprese il professor-giudice, indisturbato - Dicono che bisognerebbe riconoscere le potenzialità dei Pokemon e liberarli dal giogo degli umani. Io, comunque…»

«…non sono d’accordo.»

Frusciò un coro di sgomento. Magari qualcuno si aspettava che piegasse di nuovo la testa e dicesse di sì?

Chiunque poteva capire che si trattava di una prospettiva illogica.

«Eh?»

Era il momento di argomentare. Siccome il bagaglio etico-culturale di un’adolescente che pone come priorità nella sua crescita trovare un lavoro senza alta qualificazione che le permetta di comprarsi un numero non esiguo di scarpe firmate non somigliava affatto all’arma giusta con cui combattere le antitesi, decise di fare uso di qualcosa di meno accademico, ma oggettivamente più vero di tutti gli artifici sofistici da manuale: la sua personale esperienza come Allenatrice.

Avrebbe potuto scegliere di esporsi in maniera neutrale, esponendo i fatti con disinteresse e metodicità.

Ma si trattava pur sempre di Camelia, la stessa persona che si era messa a piangere fiotti di lacrime perché una bambinetta aveva preso per mano la sua fidanzata attuale e aveva alzato un po’ il tono con lei.

Ovviamente scelse di essere il più drammatica possibile.

«Praticamente, - quell’avverbio fuori posto la avvicinava proprio al popolo comune, chiunque diciassettenne con il seno grande almeno due o tre taglie più del normale poteva immedesimarsi – per diventare famosa, ricca e tutto quello che volete, sono dovuta partire da zero.

Ha presente la periferia a sud di Sciroccopoli?»

«Certo. – Asserì Acromio, catturato da quella storia a lui sconosciuta – Una zona depressa con un tasso elevato di criminalità e disoccupazione.»

La ragazza sfruttò quella rivelazione in maniera trasversale: non serviva che quello annunciasse quanto vivere lì facesse schifo a lei, ma alle persone del pubblico che non conoscevano nel dettaglio gli affari privati delle cinque come quello spione maniaco.

«Sì, non è che sia stata molto fortunata in questo senso…»

Lo disse con una falsa spensieratezza, per poi colpire con il finale a sorpresa; un mese fa la sola vaga menzione dell’argomento le avrebbe irrigidito la spina dorsale e legato la bocca, da quanto la feriva nell’orgoglio ricordare ancora quel triste passato che non l’avrebbe mai abbandonata.

«Forse, con una situazione familiare meno… ehm… complicata? Boh, non saprei come dirlo, avrei… solo…

Preferito non avere un padre violento, che mi insultava, mi picchiava, m’ha trascurato per la gran parte e non mi ha mai voluto bene, uhm.»

Ma, se proprio il fantasma della bambina con la frangetta sporca e le bruciature di sigaretta sulle natiche doveva rimanere legata alla sua ombra, meglio che sfruttasse quella rompiscatole per qualche scopo vantaggioso, a parer suo.

Fece una pausa, lasciando gli ascoltatori sbigottiti da tale sincerità.

«Capisco. – Annuì interessato Acromio, addolcendo la sua voce già poco mascolina. Si rivolse poi verso le quattro giovani sedute ai loro posti – Voi eravate a conoscenza di questo fatto sulla vostra amica?»

Anemone, Camilla, Catlina ed Iris si guardarono fra di loro.

«Fin troppo.»

Ammisero tutte assieme, totale apatia nelle loro espressioni di marmo.

Giacché la solfa del “il mio papà andava a letto con le prostitute e per qualche ragione questo mi autorizza a farmi spezzare il cuore da qualsiasi essere maschile subentri nella mia esistenza, meglio proteggere il mio fragile ego con battute di pessimo gusto” non era chissà che miglioria rispetto al “sono stata adottata a tarda età da un anziano sotto la soglia di povertà, però innamorarmi di ogni essere femminile che subentri nella mia vita è una scelta personale, come l’incolparmi da sola” e l’unica che davvero poteva giustificarsi era “a cinque anni ero un poco viziata, mi è caduto un lampadario sulla testa ed adesso ho l’assicurazione sulla vita e a malapena riesco a stare in piedi da sola”, non si può mica biasimare il decrescere dell’empatia all’interno del gruppo.

Una sola entità sa infatti cosa Camilla ed Iris tenevano nascosto per non sfigurare davanti a tanta eleganza nel far pesare le loro sventure sugli altri. Essa comunque disapprova questo vittimismo, sia chiaro.

Camelia si portò le mani davanti al viso, coprendo la pesante inspirazione che avrebbe preceduto il suo enunciato. Doveva rimanere sullo stomaco a tutti, i presenti doveva tornarsene a casa con il peso dei suoi problemi sulla coscienza: non li avrebbe neppure lasciati cenare in santa pace, la pena che cinquanta sconosciuti sarebbero stati obbligati a provare per lei come minimo gli avrebbe tolto il sonno.

«Senza i miei Pokémon… - fantasticava, con un amaro sorriso a dividerla fra sollievo e frigido realismo - …se non avessi potuto allenare la mia squadra per le lotte non sarei mai diventata Capopalestra… O modella, o una star…

Probabilmente non avrei fatto niente di costruttivo della mia vita, sarei nella stessa situazione di dieci anni fa.»

Cadde il silenzio. Come se fosse esplosa una bomba e avesse raso al suolo ogni preconcetto.

Perfino le quattro, così scettiche sul successo della sua strategia di difesa, le riconobbero di aver indubbiamente ribaltato le carte, passando da fortunata imprenditrice della propria figura a vittima del darwinismo sociale.

Contava che la compassione suscitata andasse a confluire negli incassi del suo prossimo servizio fotografico.

Infatti Acromio si sedette su un banco, accavallando le gambe e schioccando la lingua sui denti, perplesso: avrebbe avuto senso attaccare una persona tanto amata dal pubblico? Non per forza i fan, ma anche i comuni spettatori ignari si erano fatti rubare il cuore. Dargliela vinta, comunque, non era in ogni caso considerabile un’opzione.

«Bene, bene, Camelia.» Senza mai uscire dal personaggio, il professore-giudice non indugiò per molto ancora.

Sapeva benissimo infatti che catturare i cuori delle persone facendo leva sulla loro morale, sull’etica, sulla coscienza umana e sui sentimenti era stato ed ancora rimaneva il principale meccanismo di garanzia nell’irrefrenabile scalata di popolarità del Neo Team Plasma.

Andare nelle piazze dei paesi a predicare, prima. Organizzare un’inquisizione ai capisaldi del futuro della regione, trasmettere l’evento in televisione, commentandolo coi più autorevoli critici, riempire i social media di commenti, post, like, click, era l’ora di mettere la quinta e dimostrare il valore in battaglia del Team Plasma del presente.

Le sinuose dita rosee di lui si inerpicarono inspiegabilmente su per lo zigomo ben disegnato della diciassettenne, che si sentì subito di essere scesa di un piano sociale: con un vecchio gesto di condizionamento psicologico, la costrinse a fissargli le scarpe e ad abbassare la testa, incastrando le pupille indagatrici negli specchi azzurri, connessi al subconscio dell’accusata.

La stavano tirando troppo per le lunghe. Era passata quasi mezz’ora e neppure l’ombra di qualcosa che suonasse come un termine tecnico o una sentenza giuridica era stato pronunciato.

«Mi rende molto lieto il fatto che tu abbia voluto esporci il tuo lato più sensibile, così, su due piedi, con serenità. Ci vuole un bel coraggio a parlare di certi tabù senza paura di venire giudicati.»

«Lo so.» Fu secca.

Il professore doveva aver finalmente trovato il cavillo con cui incastrare la mora, perché si stava calcolando con tutta calma il tempismo con cui consegnarlo all’opinione pubblica.

«Però – arricciò le labbra, tutto deluso – è davvero sconfortante come una persona di umanità grande come la tua non si trovi d’accordo con il programma del Neo Team Plasma…

Non è bello andare tutti d’accordo? Non vuoi che nella nostra regione regnino la pace e la fratellanza?»

Ad Acromio si accesero negli occhi bagliori d’ambizione così autentici da mandare su di giri i presenti. Chissà se ciò gli succedesse sempre, quando parlava dei suoi propositi, chissà se davvero essi coincidessero al cento per cento con quelli del partito di cui era stato fatto segretario.

Tuttavia, la maschera del fanciullo sognatore non doveva increspargli troppo la mandibola, o la sostanza delle sue aspettative per quel processo sarebbe stata rivelata: il linguaggio del corpo si basa molto sulla contenutezza del motore nell’abitacolo.

«Per favore, lo dica… Dica quello che tutti vogliono sentire…» Pregò in silenzio, così il caso si sarebbe chiuso.

«…oh?» Esclamò la giovane modella, come se non sapesse la risposta.

«Dunque?» La incalzò l’uomo.

«No.»

E Camelia si mise di sano gusto, di una naturalezza affascinante, che riusciva solo a lei fra tutte le apprendiste Campionesse, come se si trattasse di uno scherzo detto da una di loro nelle loro conversazioni quotidiane, a ridere.

Da quei concetti tanto distorti, si era sovvenuta di un qualcosa successole appena l’anno addietro.

Nessuno la interruppe, quando si mise a raccontarlo, rigirandosi i ciuffi corvini sulla punta dell’indice.

 

«Nei momenti in cui non ho in agenda una decina di interviste, altrettante registrazioni, servizi fotografici o eventi dei fanclub, mi piacerebbe trovarmi un qualcosa di divertente da fare.

Qualcosa da fare, non qualcosa di cui preoccuparmi.

Quindi, rieccomi ancora un’altra estate a girovagare per i marciapiedi affollati del centro di Sciroccopoli in una delle pause che mi prendo spesso; metto le cuffie, gli occhiali da sole e di solito riesco ad ascoltare almeno un intero album prima che il mio manager o il mio fidanzato di turno non mi messaggiasse per sapere dove diamine fossi.

Stavo passando davanti al Teatro Musical, in pieno giorno, e dall’altro lato della strada, una frase si infila nella confusione regnante nella mia testa per via della musica alta.

«Papà! Cosa ci fai qui?»

Afferrando i cavi, mi strappo gli auricolari di dosso. Li ascolto ancora un po’.

«Sono venuto per riportarti a casa, non è ovvio? Non sei andata anche troppo lontano? Lascia che gli altri facciano le cose a modo loro, noi le facciamo a modo nostro!»

«Okay, allora perché tu non fai le cose a modo tuo e non lasci me fare le cose a modo mio?»

Il mio primissimo impulso fu di accelerare il passo, di scappare via in pratica.

Questa giovane Allenatrice non la conoscevo. Ma mi azzardai lo stesso ad intromettermi nella discussione.

«Tesoro, - le appoggiai la mano sulla spalla, come si fa con una vecchia amica – tu continua pure il tuo viaggio.»

Suo padre mi fulminò con lo sguardo, sgridandomi ed intimandomi di andarmene. Non mi fece nessun effetto, stranamente. Gli adulti non mi hanno mai messo paura, come la fobia del buio, pensavo che se l’avessi superata al più presto sarebbe stato solo un vantaggio per me.

E neanche mai temuto il disaccordo, i litigi e le opinioni contrastanti.

Non volevo che il genitore di qualcun altro cambiasse idea. Volevo spiegargli come mi sentissi.

So che spesso la reazione a un confronto di idee non à sempre positiva o pacifica, ma la ragazza che voleva viaggiare mi aveva fatta immedesimare, le avevo involontariamente rubato la scena ma per il suo bene.

Alla fine di tutta questa lunga parentesi, io e l’Allenatrice ci siamo sfidate ed io ho perso di brutto, quindi direi che la morale è abbastanza intuibile in questo caso.»

 

«Okay, ho qualcosa di serio da dire. Sembra strano, ma se lei, Acromio, ha un attimo di pazienza…»

Richiese la giovane, congiungendo le mani, causando un battito che riecheggiò nella stanza dall’acustica impeccabile.

Non doveva improvvisare granché, un messaggio limpido e ormai noto a lei voleva trasmettere, prima di ascoltare il verdetto.

«Certo, ti è lecito.» Il giudice incrociò le braccia e si leccò le labbra.

Camelia fu sollevata ed imboccò il percorso mentale che si era schematizzata in maniera del tutto naturale.

«Allora, intanto: il mondo è pieno di persone come me. Persone orribili, che non si trattengono le critiche e sono così oneste nel dire la loro, che finiscono sempre e comunque per venire feriti o per ferire i sentimenti degli altri.

Ma va bene così.» 

Nessuno osò controbatterla. Allora la mora proseguì, avendo stabilito che non c’era nulla di strano nella reazione del padre dell’esempio o del segretario del Team Plasma, quando gli era stato rifilato un secco “no” alle loro verità personali.

«Se non ci si scontra, se non si imparano a conoscere le differenze… non si può vedere il mondo sempre da un solo punto di vista. Per questo è importante provare a capire chi è diverso.»

A quel punto, la voce ormai ridotta a un soffio si fece ancora più dolce, tingendosi di una compassione unica, che solo la più vanesia, acida e meno affabile di loro poteva far risaltare a tal punto.

«Per capire che non c’è niente di male nell’essere diversi. No?»

Prima di quell’estate, Camelia si sarebbe definita senza problemi come una ragazza come tutte le altre. Non pretendeva di distaccarsi dalla massa per poi ricadere nei peggiori stereotipi a capofitto: adorava i vestiti firmati, truccarsi con cosmetici dai profumi dal nome esotico, i pettegolezzi perfidi sulle sue rivali.

Tuttavia, aveva scoperto talmente tante cose che non avrebbe attribuito alla sua persona nemmeno in un universo alternativo; ed ora adorava quei lati di se stessa.

Quando la sua fidanzata l’aveva rimproverata, la sera del loro primo bacio, perché era da ipocrita odiare i difetti degli altri ma assimilare gli stessi ai propri pregi. Per fortuna che era cambiata.

O meglio, si era lasciata cambiare da quel vento fresco e nuovo con il quale la sua vecchia pelle, troppo stretta oramai, era stata spazzata via.

La modella che insultava Nardo per averla iscritta a sua insaputa alla competizione, che si gongolava del calore di una relazione vana e transitoria come fosse l’amore della vita, che avrebbe volentieri mandato tutto all’aria per una singola sconfitta era relegata in un fotogramma della sua memoria, un’ispirazione continua a migliorarsi, confrontandosi con tutto quello che odiava, snobbava o ignorava.

Paragonò la sua precedente chiusura mentale dell’abbandono di cui aveva paura da sempre: prima le sarebbe passata, prima avrebbe potuto riderci sopra ed etichettarla come la fase oscura della sua vita.

«E poi, ci sono i Pokémon! – Suonò molto ingenua, ma tutti concordarono con lei - I Pokémon sono fantastici, no? Sono carini e tutto, ma si può veramente dipendere da loro, in un certo senso…»

Scostò il microfono da sé e si sedette in posizione meno tesa, una volta finito di parlare.

Subito però le toccò alzare gli occhi, perché dopo due battiti solitari ed intensi, un applauso, degno delle più buffe imprese strappalacrime di silenziosi eroi senza volto si levò per Camelia, che sorrise timida.

Per quanto urtasse la sua dignità, anche Iris si unì, colpendo con i polpastrelli, leggera, sul palmo.

«Almeno ha ammesso di essere una persona orribile…» Si consolò; con fatica aveva accettato il fatto che quella Capopalestra fosse agli occhi degli altri molto più bella e sviluppata di lei, ma che perfino in intelligenza dimostrasse di essere più donna, le si seccò la bocca per l’invidia.

Preferiva l’approccio di Anemone, che appariva persa in quel discorso toccante, le pupille turchesi si erano dilatate abbastanza che se non l’avesse vista già varie volte in stati emotivi alterati anche all’estremo, avrebbe giurato si sarebbe messa a versare lacrime di commozione.

«Beh… abbiamo finito qui, giusto?»

Camilla, per via del suo stato di anzianità, si sentiva di conversare molto liberamente con le reclute che le sorvegliavano.

Peccato che questo sermone, tanto carico di pathos ed umiltà, lo avessero sentito solo la quarantina di persone lì presenti in sala: una volta spiaccicato su tutti i media, come l’apologia del secolo, nessuno si sarebbe potuto scagliare contro di loro in qualità di terroriste ideologiche.

Terminato all’incirca il clamore susseguitosi ad esso, Acromio si sistemò il ciuffo e pulì gli occhiali sul camice.

Una recluta con uno sbiadito tatuaggio tribale sulla tempia fece cenno alla Campionessa di guardare avanti.

«Tutto molto interessante. - Si riposizionò opposto all’imputata, si era acceso un fuoco nell’animo del professore. - Ma prima di confrontarsi con noi…»

L’uomo andò ad arraffare un plico di fogli strabordanti dai lati, uno si sarebbe potuto tagliare un dito non maneggiandoli con attenzione. Lo fece scivolare sul tavolo, come un disco da hockey. Il timbro rosso, sbavato sugli angoli, aveva i sigilli dell’intelligence della regione, cosa che la giovane non si sarebbe mai immaginata di osservare neanche nei sogni.

Aprì la copertina: in testa, lesse di quella volta che rise in pubblico di un suo fan sovrappeso.

«…non ti dispiacerebbe confrontarti un po’ con noi? Con le evidenze?»

Come assorta in una morbosa trance, voleva divorare quel fascicolo in minor tempo possibile, il contenuto era troppo riservato, troppo reale per portarla a distogliervi lo sguardo: la vipera che era, il mostro senza ritegno, che non si ferma davanti a nulla per mostrare il vero, non importa quanto doloroso sia, era comunque una parte di lei.

Due pagine avanti: per far decollare più velocemente la sua carriera, si dice fosse stata a letto con un suo amico fotografo senza avvisare la sua manager di allora, la quale si trovava ad essere la moglie di egli.

Peccato non si fossero documentati sul dettaglio più importante: al momento dell’accaduto lei era già una celebrità, si era semplicemente tolta uno sfizio, niente di così profondo.

“…ed è per questo che io penso che ad Unima le Allenatrici donne non sono oppresse.” Si ricordava bene quell’intervista: per un mese intero sul web non si fece che discutere sull’impedire alle modelle ignoranti e qualunquiste di esprimere la loro opinione su fatti di cronaca.

Nessuno prese mai in considerazione tale proposta, ma essere sempre nei pensieri dei progressisti le scaldava il cuore.

Richiuse il dossier, battendone il bordo sul tavolo per far rientrare nella copertina le carte uscite dal bordo rilegato.

«Ebbene?» La incalzò Acromio, diventato più severo, esigeva maggiore serietà.

«Niente. Queste cose si sapevano da un po’, non sono chissà che notizie.» Fece, indifferente.

Nonostante tali rivelazioni non le facessero né caldo né freddo, era palese che avesse aspettato che lei stessa di esporre i propri punti deboli, senza che dovesse lui sporcarsi le mani a dissotterrare i suoi scandali sordidi e gli insradicabili dilemmi fissi, impiantati delle sabbie mobili del subconscio di un individuo così travagliato.

Poteva darsi che ad Acromio, alle reclute, al Neo Team Plasma in generale non piacessero granché le cosiddette “bambine problematiche”. Ed avere a che fare con un numero tanto alto di esse richiedeva mezzi specifici.

Serviva un lettino da psichiatra, ma anche le lame, il bisturi e l’uncino acuminato di un cercatore di ossa, per dissezionare i rancidi scheletri che ognuna di loro nascondeva dietro all’aspetto di una normale cittadina di Unima.

E talvolta non solo ossa, Camelia aveva alle spalle cadaveri freschi, ripuliti dei segni di colluttazione, esposti in una collezione alla maniera dei killer seriali dei romanzi gialli di metà novecento.

Giaceva la sua brutta fama nello stesso scrigno della coscienza in cui le sue buone azioni, come quando aveva perdonato la più piccola del gruppo nonostante l’avesse presa in giro e quando aveva accettato di venire a cena dal suo futuro suocero: anche quella era parte di lei, non poteva cancellare nulla delle sue serate più selvagge o delle sue affermazioni più controverse e ciò non la infastidiva mai.

«Camelia, ti chiedo io adesso una cosa, una volta per tutte.

Ti sei mai chiesta come si sentissero tutte le persone che hai in qualche modo offeso?»

Dalle labbra della ragazza scivolò solo aria intorpidita dall’ansia. Si sentì come quando a scuola la riprendevano perché indossava gli auricolari dentro il cappuccio della felpa e punizioni quali i compiti extra la attendevano ogni doposcuola.

Quella piccolezza, la odiava. Odiava anche Acromio, ma almeno se si trattava di una sensazione non poteva avventarsi in avanti e strangolarla, essendo qualcosa di astratto.

«Hai mai pensato un attimo a tutto il dolore e la sofferenza agli altri che hai causato con la tua “onestà”?»

«No. Perché, dovrei?»

«Questa tua idea di dire quello che ti pare e piace, di giocare con i sentimenti degli altri solo per proclamarti “migliore”, sai quanto è nociva alla felicità, al benessere di tutti?

Mentre tu ti vanti e fai di questo orrendo tratto della tua personalità un vanto, c’è chi invece, come il Nostro partito, punta a creare uno stato coeso, armonioso, in cui persone diverse possano essere accomunate dall’unico desiderio: dare a tutti le stesse possibilità di successo, eliminando le disuguaglianze sociali e economiche…

Ma tu non hai il cuore per tutto questo; - poi si rivolse al pubblico – queste insolenze, questi affronti alla nostra bellissima diversità, non saranno più tollerati, a partire da ora in poi!»

Acromio scattò verso lo scranno, saltando quasi i due gradini su cui era elevato.

«Ha ragione, il professore. - Una donna nelle ultime file confessò a marito, intendendo però di ottenere il consenso di tutti i suoi vicini – Non si può lasciare che i giovani si facciano influenzare da queste derive autoritarie. Bisogna riportare l’ordine.»

«Bisognerebbe, - commentò un tirocinante della facoltà di legge, a cui stava stretta la camicia in seta – fare un purga di tutti quegli Allenatori buoni solo a seminare discordia, togliergli dalle posizioni di rilievo: via tutti i Capipalestra e i Superquattro che speculano contro la democrazia!»

«Giusto, giusto, - gli fece eco una studentessa di una qualche facoltà umanistica, dagli occhiali spessi come vetri antiproiettile ed il golf di cachemire in pieno luglio – non pensiate tutti che noi giovani siamo tutti così, per favore! Queste sono solo delle oche ignoranti, che parlano per sentito dire, che non hanno studiato né storia né filosofia.

Bisogna sempre rispettare i diritti umani e non discriminare chi è diverso è un diritto!»

«I diritti umani sono fon-da-men-ta-li! Siamo nell’anno corrente, non è possibile che gente come questa Allenatrice abbia la libertà di esprimere pensieri così estremi e privi di tatto.»

Si unì alla lirica un altro signore, fra i tanti fortunati scelti per assistere al processo, che si trovò contento che la propria ideologia venisse confermata dalla nuova corrente di governo.

La mano ossuta dell’uomo afferrò il martello in legno: un secondo era proprio un secondo.

«Con la presente…» Il tono andò in scala, come se stesse cantando un ritornello.

Se fosse andato tutto come sperato, lo avrebbero tutti ascoltato per altre quattro volte, prima che la canzone del nuovo ordine terminasse, fra gli squilli delle trombe e i rulli di tamburi e le risa dei bambini che lanciano petali.

«No, aspettate, non potete incarcerarmi per delle sciocchezze dette chissà quanti anni fa…»

La mora era ancora lì ma nessuno sembrava volerla più neanche guardare. Era davvero finita? Lei aveva ancora altro da dire, da offrire a quella turba affamata di brama di disputa. Non importava più a nessuno se fosse innocente o no?

Non lo sopportava.

Una bugia era diventata più interessante, più rilevante di lei nel giro di pochi istanti.

Si arrabbiò. Provò ad alzarsi in piedi e torcendo il braccio verso l’esterno si girò verso la platea, verso le sue compagne. Non aveva altre persone su cui contare oltre a loro.

«Voi altre, ditegli qualcosa! – Gli gridò, perdendo tutto la compostezza, al prospetto di non avere più nulla con cui difendersi – Io non sono una criminale, potete provarglielo, dovete provarglielo!»

Camelia fece un respiro che però finì per gonfiarle il volto di disperazione, mentre gli iridi delle sue compagne si ingrossavano di paura, di legittima preoccupazione di venire chiamate a loro volta a testimoniare e di sapere benissimo di non avere alcun coraggio per farlo e salvare la loro amica.

«Smettila, per favore, di implorare attenzioni. - Il professore la riprese, sterno, come una madre che secca il proprio lato femmineo apposta, parendo talora più terrificante degli uomini – Le prove parlano chiaro, e vista la coerenza che ci hai dimostrato finora, farebbe solo ancora più male alla tua reputazione, di negare il tutto.»

«Non mi merito niente di tutto questo…» Soffocò un singhiozzo, per nulla sceneggiato.

«Le conseguenze si pagano, prima o poi. Legge del contrappasso.»

«Mi volete mandare in carcere minorile per aver detto delle cose che…?»

«Ma quale carcere minorile! – Agitò il braccio, con severità allarmante – Esattamente il 31 luglio, a diciotto anni, sarai al cento per cento responsabile per legge. Non manca mica tanto: sei già un’adulta da un bel po’.»

Schiarendosi la voce dalla platea, le reclute appostate agli angoli della sala e incaricate da far da scorta si riavvicinarono a lei come i demoni muniti di forca atti a spingerla dentro la pece bollente. Era finito.

Con brutalità, le pressarono sulle spalle fino a costringerla a rimettersi seduta, per ascoltare la sua sentenza di condanna ed imprimersela in mente.

Nessuno osò abbandonare il proprio posto finché il giudice-professore non terminò.  Tanto si sarebbero tutti rivisti il giorno dopo, stesso luogo, stessa ora, alla vetrina delle vergogne viventi.

«In base a quanto stabilito dall’Altissimo consiglio del Grande Partito, erede del regno dei Gropius-Harmonia e in base alla deliberazione della Suprema Corte della Regione di Unima, la qui presente imputata Camelia Taylor è accusata con tutta validità di terrorismo ideologico, incitamento all’odio e alla violenza psicologica e, da quel che leggo qui… - Acromio strizzò le pupille, aveva dimenticato un dettaglio non poco importante – di consumo di sostanze stupefacenti illegalmente ottenute?!»

«N-non sono una tossica, lo giuro.»

La modella non ebbe nulla da ridire, aveva ricevuto esattamente l’effetto boomerang che si aspettava. Solo che accorgersene tanto tardi era leggermente… Non era stato il Team stesso a produrre la sostanza proibita? Era il dilemma di chi fosse nato prima fra l’uovo e la gallina.

«Comunque, la giuria condanna l’imputata a scontare due anni di carcere con eventuale riduzione della pena in caso di buona condotta.

Si conclude la seduta di oggi. Ringrazio tutti i presenti della Vostra partecipazione…»

Come poteva farsi un’idea, un programma per rassicurarsi sul suo futuro con una predizione ufficializzata e infausta? Per quanto ne sapeva, in quel lasso di tempo avrebbe potuto fare in tempo a morire. Non si sarebbe vista mai ventenne.

Il suo stesso profilo riflesso sul marmo lucido le ricordava quello delle specie canine che una volta bastonati diventano incapaci di abbaiare, ogni quando l’aguzzino torna per battergli la canna sul muso quelli senza stancarsi continuano invece a muovere la coda domandando del cibo.

Era quello il senso di essere una ragazza addomesticata? Non era nata da uno swing di un alcolizzato e di una prostituta per lamentarsi delle sue scelte di vita in gattabuia.

Si trattava solo di un brutto scherzo. Uno scherzo che si era fatta da sola, però.

E visto il suo carattere, non poteva assolutamente dare ragione a chi, come Acromio avrebbe sostenuto che il suo agire era dato da odio, perché lei in quel momento non si odiava.

Neanche se qualcuno avesse consegnato in mano a quell’uomo abietto la pergamena lunga chissà quanti chilometri che al momento del giudizio universale si sarebbe srotolata come un tappeto infinto indicando ogni sua singola cattiveria, meschinità, errore e peccato, lei non avrebbe mai potuto odiare quella persona.

Una parte, pure questa, di lei.

 

A mezzogiorno, dopo il processo, non gli venne neppure dato da mangiare. Per altre due ore circa, l’amministrazione carceraria aveva preferito lasciare che alle cinque sventurate si corrodesse l’apparato digerente con l’acidità della pesantissima sconfitta appena subita.

Rimesso piede in cella, la ragazza dai capelli sudati e unti di sebo, che poco prima avrebbe grattato la faccia sul pavimento pur di non dover alzare gli occhi ed incrociare tutte quelle domande, tutti quei dubbi e il biasimo che la attendeva, si distaccò dal suo gruppo appoggiandosi sullo spigolo del muro con la fronte.

Stavano tutte a guardarla, ognuna aveva qualcosa di diverso per la testa. Nulla di troppo prevedibile o di troppo insospettabile.

Camelia si tappò naso e bocca come se una bombola di ossigeno fosse collegata alle articolazioni delle braccia, tirò un respiro rumoroso: non ce la faceva nemmeno a piangere a comando per sembrare più dispiaciuta.

Si girò per formulare qualcosa e la rapidità le fece quasi perdere l’orientamento, non riusciva quasi più a distinguere chi avesse davanti a calpestare la sua ombra.

«Scusatemi… Io…»

«No, non ti scusiamo proprio, stupida figlia di…!»

Un colpo secco la fece indietreggiare, spalle al muro, portò subito gli avambracci alti per proteggersi ancora da quel pugno contro l’osso parietale, il cervello le riverberava come il gong dei match di arti marziali.

Qualsiasi insulto fosse stato inserito, la mora non vi fece attenzione.

Le arrivò un altro pugno in faccia, stavolta sulla tempia, che non la prese di sorpresa quanto il precedente, solo che la vicinanza con l’occhio la fece preoccupare, il bulbo aveva fatto uno strano schiocco, causato dal muscolo, il nervo o chissà cosa.

«Perché devi essere così? Potevi mentire, potevi negare tutto, perché non ci hai pensato?!» Le strillò alle orecchie.

Da destra, poi da sinistra, altri due manrovesci dall’ampia circonferenza, lei non riusciva a stopparli con le mani accattate alle spalle.

Avrebbe voluto moltissimo difendersi, quando fu presa per il collo dell’uniforme, sentendo la cucitura strillare mentre le segava la pelle; avrebbe potuto afferrare i polsi di colei che l’aveva agguantata, ma perse l’occasione: il primo tentativo di presa andò a vuoto, ma con il secondo le unghie dell’altra erano affondate nella carne e con una stretta eccessiva, assolutamente non ragionata, Camelia ruppe il suo tacito subire con ripetuti “basta!” e “smettila!”.

«Se ci succede qualcosa… è tutta colpa tua, è sempre e solo colpa tua, sei un’idiota!»

Aggiunse anche “ti prego”. Dalla foga con cui tirava e visto l’odio accumulatosi, avrebbe potuto giurare che Iris le avrebbe strappato il seno a suon di strattoni e graffi.

Più provava a spingerla via, più anticipava la mossa successiva: con uno schiaffo abbastanza potente, una ragazzina così magra… Non ce la faceva. Picchiare una più piccola di lei era un’impasse che purtroppo non avrebbe superato in quel momento.

«Si vede quanto te ne frega degli altri, di noi, di tua morosa, per colpa del tuo stupido, stupido orgoglio, e se proprio vuoi saperlo non frega a nessuno che tu vada in carcere o no a questo punto!»

Iris la prese per la frangia, tirando verso il basso per esporla ancora più alla sua voglia di batterla freneticamente, senza trattenersi: gridare così forte l’aveva esaurita abbastanza, ma non demorse nel voler come minimo scaricare la propria delusione sulla disgraziata, sfruttando quella calzante occasione.

«Ohi, ohi, ohi, calme, calme, abbassate quelle mani!»

«Non l’ho neanche toccata!»

La mora adesso aveva il fiato mozzo, le veniva da tossire un grumo di frustrazione bloccato nella gola.

Non si sarebbe mai aspettata una reazione tanto lenta dalla leader, la antagonizzò per non aver fermato quell’aggressione sin da subito, che perfino Camilla avesse voluto vederla soffrire, in fondo?

In realtà, si trattava solo dell’agilità di Iris, era sfuggita ai tentativi di immobilizzarla delle altre. Se solo ci avessero la grinta e l’assertività giuste per confrontarsi con la sete di vendetta di quel piccolo mostriciattolo dai capelli viola, era sicura che metà dei pugni presi non l’avrebbero neanche scalfita.

«Quanto ti odio, - quella usò un turpiloquio, mentre Camilla riprovava ad allontanarla di almeno cinque passi tenendola per le spalle – quanto sono contenta di non doverti rivedere mai più!»

«Okay, direI che basta, ora.» La voce della bionda si era alzata ed era discesa, non voleva altre discussioni.

Sorprendentemente, invece di andarsi a nascondere dietro la folta chioma di capelli e la sagoma protettrice della leader, Iris si scrollò le dita di dosso, fece spallucce con il mento all’insù.

Camelia si domandò da quando la bambina tanto terrorizzata dai rimproveri dei superiori avesse smesso di essere intimidita da lei; non se la ingraziava nemmeno con l’adulazione, invece quel giorno alla Lega, in cui aveva detto “tu sei… una persona famosa! Scusa, ma devi essere bravissima”.

«Ah, io non ho niente da aggiungere. – Iris incrociò anche le braccia, con un sorrisetto appena abbozzato, che cercava di ricreare basandosi su quelli che la modella le aveva troppo di sovente rifilato – Se vuoi tirarmi un calcio o cosa, fai pure, cambia nulla.»

La provocò, come se un’aura repulsiva la isolasse da tutti gli sguardi torvi guadagnati col suo comportamento irrazionale.

Terminata l’ingiuria, udirono tutte per la seconda volta il cigolare della porta che s’apriva.

«Ma vi stavate menando? Che in basso che sono cadute…»

«Ricordiamo che siamo ancora al primo giorno, entro sabato qualcuna secondo me ce la troviamo appesa al soffitto.»

Due reclute si misero a ridere nonostante nessuna di elle trovasse quegli scadenti sforzi di umorismo davvero divertenti. Quella più bassa aveva in mano un secchio coperto di vernice stinta, in quanto ad apparenza, non la distinsero dalle altre, se fosse stata in sala d’udienze assieme a loro o no. L’altra se la ricordarono dai controlli.

«Che volete?» Camelia non gli riservò troppa gentilezza. Aveva un brutto presagio.

«Ci dispiace un po’ per come te la sei presa sui denti, hehe.» Fece recluta uno.

«No, non è vero. Non ci dispiace neanche un po’.» La riprese subito recluta due.

Dimenticandosi di lasciare un intervallo comico per far sortire l’effetto velenoso, le cinque si riempirono di disagio, fissandole sulla soglia.

«Siete irritanti, andatevene.» Le intimarono.

«No, non possiamo. Vi abbiamo visto che ve le stavate dando di brutto, – indicò la telecamera, quale fosse un oggetto senziente che di propria volontà aveva spifferato tutto – che bestie senza autocontrollo siete, voi altre.»

«Ghecis – Aveva davvero tutto questo tempo libero, il capo del Team? Era solo una minaccia probabilmente, ma si allarmarono comunque – ha detto che dobbiamo punirvi per questo.»

«No, no, non dobbiamo punirvi tutte, basta una, secondo me.»

Quella parlava in contemporanea alla collega e a loro, mescolando i punti di vista, faticavano a capire se fosse certa delle loro intenzioni o stesse interpellando l’altra per conferma di continuo.

«Hey, ho un’idea! – le venne vicina tutta entusiasta e si accostò al suo bicipite, l’altra inclinò la testa per porgerle l’orecchio – Se facessimo fare la doccia alla nanetta, non ci sarebbe gusto. Ma, se prendiamo una delle altre quattro…»

«No, che genio che sei! - Saltò, battendo le mani. Sembrava parecchio elettrizzata all’idea – Aspetta, ma se non puniamo lei, poi dopo queste altre potrebbero pestarla per vendetta, e quindi dovremmo punirle ancora… un circolo vizioso, insomma.»

Colei che aveva escogitato quella trovata si indicò la fronte con l’indice, come se ci avesse pensato per prima alla concatenazione di causa-effetto che si sarebbe scatenata. In realtà non era andata oltre lo step iniziale, solo che la competitività stimolava il rendimento delle reclute, secondo i capi al livello di Acromio.

«Allora, fra voi quattro: vi diamo… dieci secondi!» Esultò.

Poi cominciò a contare alla rovescia in maniera piuttosto inconsistente, decideva lei quanto un secondo dovesse durare e ogni volta che abbassava un dito, i rimanenti apparivano stortignaccoli quali artigli di un rapace.

Già all’otto, Iris con due falcate era giunta fin dalle due carceriere per implorare perdono; aveva appena rimproverato la sua compagna per aver anteposto il proprio orgoglio personale alla salvezza della squadra, non voleva fare il suo stesso errore. Poi voleva interrompere sul nascere il piano diabolico secondo cui lei faceva da capro espiatorio.

«Tre, due, uno, uno e mezzo, uno e tre quarti, uno e sei dodicesimi…»

Camelia invece aveva trovato troppo conveniente che la sua assalitrice fosse tornata alla sua posizione di sottomissione proprio ora. Lasciandola andare però, quella avrebbe potuto considerare la situazione un mal comune-mezzo gaudio ed azzerare il conteggio delle offese fatte.

Come minimo, per far sì che la mora le concedesse un uno-ad-uno, le due simpaticone dovevano stritolarle il seno con a stessa potenza, e dubitava che una come la sua adorabile piccola compagna avrebbe sentito metà del dolore patito da lei.

«Non pensateci neanche. Vado io.»

«Woah, la poveraccia ci fa da cavia! – La recluta dalle mani libere scosse i palmi aperti, per poi lasciarle cadere, delusa - Che peccato, io volevo la sociopatica, però.»

«Anemone, non…» La modella provò a fermarla, in tono un po’ rude, con cui inconsciamente rafforzò la supposizione di Iris, ossia che non le fosse rimasto neanche un briciolo di tatto per la sua fidanzata.

«”Non” cosa? - La rossa si fece largo con movimenti fiacchi, aveva gli occhi lucidi svuotati di ogni colore, pareva stessero per sgusciarle fuori e lei li trattenesse con le palpebre – Gestitevele voi queste cose. A me non piace litigare.»

Ebbe una convinzione tale da prevenire l’intervento delle due Allenatrici più anziane.

La luce al neon le batteva sulla fronte, trasformando il grasso cutaneo in un illuminante naturale e Camelia non riusciva a guardarla. Era ancora vulnerabile allo stoicismo di quella ragazza come lo era al momento in cui le aveva inondato le maniche dello yukata di lacrime frivole.

Anemone le ispirava qualcosa in mezzo al timore e al profondo rispetto quando la sua personale presunta dominanza non riusciva ad immergersi nelle crepe di quello spirito integerrimo e compatto come cemento armato. E perciò a crollare era sempre lei per prima.

Lo trovava umiliante, ma giusto.

Si morse la lingua e non sviolinò tardi ringraziamenti al suo sacrificio, usò quell’energia mentale per pregare che nulla di peggio di quanto era successo a lei succedesse alla sua cara fidanzata.

«Okay, ve la riportiamo fra… due-tre orette? C-Cosa credevate, che ce la saremmo tenuta?!»

La Capopalestra di Ponentopoli le squadrava senza metterci troppo risentimento.

«Questa è per voi! – La recluta posò il secchio a terra con così poca cura da far strabordare il liquido contenuto in esso, ingrigendo ancora di più il pavimento con la macchia umida – Sapete che se non si bevono almeno quatto litri al giorno in estate la pelle si secca e vi viene fuori l’acne cistica?»

«Ma è acqua? Cosa ci avete messo dentro?»

Sparirono con la stessa grazia con cui si erano presentate, Anemone aveva ancora la benda e quindi supposero fosse quella la prassi per tenerle all’oscuro di dove si trovassero e dove le stessero portando.

La richiusura della cella sembrò durare troppo, la porta scorse l’angolo retto con una lentezza amplificata dall’assenza di ogni qualsivoglia commento riguardo la situazione corrente: le quattro giovani ex-aspiranti Campionesse non condividevano nulla se non l’aria pregna di terrore della clausura.

A quel punto, con i palmi ancora brulicanti dalla voglia di colpire qualcuno di vivente, ragion di quella scelta il bisogno di ferire intenzionale e di un feedback in ritorno ad esso, Iris pensò che ritrovarsi con degli estranei ad esaurire gli ultimi istanti di libertà formale che le rimanevano, se non preferibile, le sarebbe stato indifferente.

Mentre la furia del temporale ruggiva fuori nei campi di colza, tutte la ignoravano e lei aveva osato crucciarsi; ora sentiva la mancanza di quell’invisibilità, rivoleva le lacrime spese per persone ormai troppo lontane dal suo cuore perché la speranza di sistemare le cose e di lasciarsi curare dal tempo potesse ricondurle nel suo stesso spazio.

Rimasero tutte immobili, come modellini di cera, non sapevano se fosse dì o notte.

L’unica cosa che impressionò la piccola di Boreduopoli fino al momento in cui si addormentò, fu Camilla, andata ad analizzare il contenuto trasparente del secchio, si augurò almeno che non si tagliasse con la ruggine.

Guardava dentro quello specchio deformato, i ciuffi biondi le scivolavano da dietro le orecchie e si tuffavano le punte: dall’odore e dalla consistenza, pareva acqua. Veleno, forse? Non lasciava alcun pigmento violaceo o giallastro.

Dopo mezza giornata, potersi reidratare un po’ non sarebbe stata una cattiva cosa, pensò.

Ma senza preavviso, il tossire prolungato e strenuo della Campionessa, chinata a terra con la mano sotto il mento a raccogliere la saliva che faceva capolino, dall’esofago la materia ingurgitata era stata violentemente rigettata, intanto respirava a fondo per asciugarsi la bocca dal tremendo sapore e parlare con Catlina e Camelia, già pronte a soccorrerla. 

«È acqua e sale.» Disse, tossendo ancora più forte.

Finì che la convinsero a sputare per terra, fino a che del retrogusto tossico non ne fosse rimasta traccia.

 

Niente luna, niente cielo. Il soffitto sembrava pesare con lo spessore dell’intera atmosfera terrestre.

Da fuori tuttavia i rombi dei tuoni s’infiltravano nelle pareti e le reti dei materassi vibravano come telefonini in modalità silenziosa. 

I sogni di mezza estate non dovrebbero conoscere così presto l’alba
Dappertutto, gli uccelli avrebbero comunque cantato. Anche non le avessero rinchiuse, se c’era perfino la pioggia e il vento a sibilare nel buio, quanta possibilità avrebbero avuto di poter vedere le stelle? Un desiderio del genere era strano. I fiori caduti dagli alberi, chissà quanti.

Acromio aveva ragione: il caldo umido impestava l’aria. Le città più inquinate, in particolare Austropoli e Sciroccopoli, in cui le nuvole grigio antracite ammassate attorno alle punte dei grattacieli coprivano le teste di circa sei milioni di abitanti di Unima non erano tanto soffocanti.

«Direi che basta per oggi. Ho finito il materiale, non posso farci molto.»

Iris si passò una mano sull’osso cervicale, sentendolo più pronunciato del solito vista la sua posizione ricurva da seduta, mantenuta per un tempo prolungato. Alzò la testa e uno scricchiolio sospetto la indolenzì.

Voleva proprio fare un bel respiro aperto, ma le compagne dormivano tutte e ormai le rimanevano poche coordinate sul come intrattenere una conversazione con loro. Aveva segnalato chiaramente un addio poco rincresciuto mediante le sue azioni.

«Se mi chiedi “scusa” adesso e non dopo che ti sei fatta sgridare da Camilla, potrei anche accettarlo.»

Lo aveva detto la mora, prima di dormire. Lei non le aveva risposto.

«Avrei dovuto metterle le dita negli occhi. O darle un morso. Non mi sono impegnata davvero.»

Pensò in quel momento. Perfino il silenzio della sua testa le pareva un luogo insicuro e vulnerabile, sentiva allo scoperto tutti i suoi ragionamenti non esternabili. Era tremendo per la ragazzina ancora scossa emotivamente rimanere abbandonata al proprio rancore.

«Anemone non me la perdonerà mai… - fissò la compagna addormentata, racchiusa fra le braccia della sua fidanzata, invidiò tutta la sua bontà – Ma come si fa a chiudere un occhio su una cosa del genere… Giuro, non mi innamorerò mai.»

La rossa era effettivamente tornata da loro, un po’ più tardi di quanto la recluta bassa aveva annunciato: se ne erano accorte solo lei, che fingeva di essere assopita, distesa con mezzo occhio aperto, e Camelia, la quale le aveva posto tantissime domande. Ma siccome non aveva programmato il dopo, specie se avesse intenzione di vendicarsi prima o poi, ora i loro rapporti si erano malamente troncati e Iris si stufò di ascoltarla.

Riguardo a cosa le avessero fatto, Anemone aveva ridacchiato e aveva rassicurato la compagna che non era nulla di cui preoccuparsi. Non poteva riferire in cosa consistesse la tortura, spiegò solo che era intuibile (lei provò a riflettere ma non ci arrivava da sola comunque) e la definì “sopportabile”.

«Certo, avrebbero potuto anche frustarla, strapparle le unghie una ad una e sfregiarla con l’acido. Tanto Anemone non direbbe niente comunque, chi glielo fa fare… boh. Perché le dà sempre corda? Lei e Camelia sono una peggio dell’altra.

Come fanno a non odiarsi una cifra? Se non stessero insieme magari capirebbero di essere sulla strada del suicidio…

Forse è vero. Sono io che sono gelosa perché non ho nessuno a darmi ragione a prescindere. O forse voglio qualcuno che mi abbracci mentre dormo? No, fa troppo caldo, che schifo.»

«Iris, soffri di insonnia per caso? Sei sempre sveglia nel bel mezzo della notte.»

La voce profonda di colei che stava sul letto al di sotto del suo si intromise nel suo flusso di coscienza, un braccio bianco spuntò dal bordo delle sue lenzuola, le dita danzavano come ad invogliarla ad afferrare la mano.

«Sì. Sì, in un certo senso. Adesso dormo, però.»

«Non è che rinunciando al sonno tu stia espiando le tue colpe nei confronti di Anemone e Camelia, sai?»

Ogni presunzione della giovane Allenatrice di Pokémon Drago si sgretolò, un vero e proprio malore fisico la costrinse a non ribattere. Non si sentiva più se stessa, era convinta che un’altra persona avesse agito al posto suo: la tipica scusa a cui non avrebbe mai creduto neanche lei.

Camilla, poi. Sempre a sviscerare i suoi intenti più veri anche quando era sincera. Doveva solo arrendersi e lasciarsi sondare la coscienza e non sarebbe stata una cosa breve come quando aveva osato mancare di rispetto a Catlina.

Si avvinghiò al braccio della Campionessa, a testa in giù si mostrò in viso mentre la matassa di capelli scompigliati le scivolò sul naso e la compagna si sorprese piacevolmente. Stava seduta sull’angolo come una principessa in attesa del suo salvatore, nella poca luce la sua attenzione ricadde sulle sue ginocchia piegate, il muscolo del polpaccio riempiva tutta la carne e la pelle diafana era piena, di un gonfiore sano e rassicurante.

Se Camilla avesse avuto il fantomatico fidanzato di cui lei e le altre insinuavano l’esistenza più che plausibile dal giorno del loro incontro, ora lui sarebbe venuto a salvarla, magari su un Rapidash cromatico bianco o su un Drago che usava Lanciafiamme con poca mira.

Però non c’era. E dopo tutte le batoste subite, Iris non si sarebbe mai permessa di proporsi come tale, la sua alterigia si era spenta e guai se la cenere di essa le avesse offuscato l’animo.

«Ti faccio vedere una cosa, vieni su.»

Come se dovesse lasciar spazio al passaggio di un regale, si dispose subito sul lato del letto, affinché la leader potesse salire senza intralci: aveva scelto lei quello in alto, per risparmiare alle altre la fatica di arrampicarsi, azione che invece alla ragazzina cresciuta in mezzo ad alberi dai rami robusti e dai frutti deliziosi in apparenza irraggiungibili, causava poco disturbo, magari un po’ di nostalgia dell’infanzia.

Sperò che Camilla non si aspettasse nulla di spettacolare quali passaggi segreti, tunnel sotterranei o un fortuito condotto di aerazione (quell’ipotesi, quanto fu doloroso scartarla sentendo il monito del professore via video!) per far condicio dei suoi misfatti precedenti, altrimenti lei avrebbe già porto scuse ufficiali e se ne sarebbe lavata le mani.

Non appena ella si accomodò nella posizione appoggiata sui talloni inconcepibile per il mondo occidentale, le diede le spalle per estrarre qualcosa dal fianco del materasso adagiato al muro, una specie di tasca artificiale, da cui venne fuori un rigurgito di ovatta che si sforzò di contenere.

«Questo. Mi dispiace, non ho saputo fare di meglio.»

«Dove hai trovato questa corda?»

La reazione istintiva che Camilla ebbe una volta l’utensile finì fra le sue mani fu quella di tirarne varie sezioni per testarne la resistenza: provò più volte e non si ruppe. In seguitò tentò di analizzare la composizione delle singole fibre, arrangiate in una treccia abbastanza stretta, poco flessibile.

«L’ho fatta.»

«Con cosa?»

Lo sguardo della ragazzina cadde verso il basso, a destra e a sinistra, senza puntare a qualcosa di specifico però. Per quanto le dispiacesse vedere la sua metodica ed arguta leader in difficoltà per via del proprio essere restia ad aprirsi, non le offrì alcun indizio. Voleva che Camilla capisse nella sua maniera solita, come per magia, come se non fosse cambiata di una virgola la Iris che tanto la adorava e l’ammirava e non poteva fare niente se non era per il suo intervento miracoloso.

«Oh. Ho capito. – lanciò uno sguardo verso il suo di letto – Puoi avere le mie per stanotte.»

«No, sto bene così. Tanto fa troppo caldo per dormire con le coperte.»

In effetti, la superficie del materasso spoglio e del cuscino senza federa le ricordarono un deserto ghiacciato, in mezzo al quale stava la sua compagna, chissà quante volte si era persa fra tutta quella solitudine, oppure un mare bianco, piatto e senza onde, senza appigli o punti di riparo.

Si ricordò di una confessione, Iris odiava il freddo. L’aveva messa giù sul ridere, aveva fatto passi da gigante con l’autoironia dall’inizio di giugno, ma dopo aver scoperto che la sua nemica era specializzata nel Tipo in grado di spazzare via i suoi amati Draghi, il tutto aveva preso una nota cupa.

Aveva scelto lei di fare tutto ciò, ma le faceva comunque pena, anche effetti collaterali tanto minuscoli la impressionavano. Sì rimproverò di essere troppo empatica.

Rimase a corto di commenti per un bel pezzo. Anche si fosse complimentata per le sue doti manuali, era certa che la compagna avrebbe voltato il capo e le sarebbe scivolato tutto addosso, senza farle alcuna differenza.

Onestamente, lei non ci sarebbe mai riuscita a fabbricare una corda lunga quanto il doppio dell’arcata delle proprie membra in circa due-tre ore, al buio, in un silenzio autoimposto, come l’eroina della fiaba che tessé la veste di ortiche. Rimpianse di non aver domandato nel dettaglio a Nardo in riguardo ai fatti accaduti previ alla competizione che riguardassero Iris; questo perché lei aveva sviato ogni suo interesse nell’onsen, non sapeva se per vergogna o per schiettezza.

Ecco come s’era ingegnata, tornando un po’ indietro con i fatti: legato l’angolo della coperta maleodorante alla testiera in acciaio, aveva affettato in lunghe striscioline, simili alle shide per purificarsi nei santuari, usando uno dei cocci taglienti rinvenuti dopo il loro sfogo piuttosto immaturo.

Piccoli segmenti rossi infatti affioravano fra quelle dita sottilissime, ma di infilarle nell’acqua salata per farli cicatrizzare non ci pensava nemmeno.

Aveva seguito una serpentina, in modo da non sprecare un solo centimetro della stoffa: un taglio orizzontale da destra e uno da sinistra, senza mai strapparla in due. Non aveva disponibile neanche un gesso o una matita per segnarsi dove era arrivata, aveva riservato fin troppa concentrazione ad un lavoro tanto manuale ed in apparenza da sempliciotta.

Solo alla fine la ragazzina realizzò che perfino il suo leggiadro peso non avrebbe retto con uno strato soltanto, allora ne aveva aggiunti tirando le tre estremità per serrare i nodi, ottenendo la larghezza del suo braccio.

Improvvisamente ricordò la battuta della recluta sul fatto che con quella corda robusta una si sarebbe potuta impiccare senza problemi; le vennero i brividi, si pentì di aver sprecato ore di sonno in cambio di sguardi confusi e in parvenza rammaricati da parte della Campionessa di Sinnoh, la quale finalmente smise di giocherellare con il suo manufatto.

«Queste fibre rosa, a fiori verdi e gialli, dove le hai trovate?» Chiese, sollevando gli angoli della bocca in un sorriso.

«Eh… - mormorò, grattandosi l’attaccatura dei capelli, la donna colpiva sempre la testa del chiodo con le sue domande impertinenti – dovevo aggiungere altro spessore e avendo finito i teli…»

Un bollore le intiepidì le guance, si strinse forte ai propri palmi. Gli occhi nocciola della ragazzina fissavano la mano della Campionessa con lo stesso shock di un ragno che si arrampicava sul suo collo, eppure quel tocco delicato lungo le spalle accaldate le diede l’impressione che la propria pelle si stesse sciogliendo, risucchiando i polpastrelli della Campionessa all’interno di essa.

Non aveva mai detto a Camilla di smetterla con tutte quelle dimostrazioni corporali di affetto, perché cominciare ora, si chiese.

Quando la sentì scendere un po’ verso il basso, prendendosi più libertà di tastare la zona sotto alla clavicola ed adiacente allo sterno, il corpo che tanto biasimava poiché fermo ancora ad una fase bambina, puerile ed incompleto, si stupì di quanto risultasse sensibile: con movimenti più veloci aveva già esplorato metà superiore del seno sinistro, Camilla ritrasse la mano e finalmente i loro occhi si rincontrarono.

Alla leader, come aveva previsto, veniva da ridere. La assecondò, quindi.

«Solo il reggiseno, o anche… sotto?»

«Uh… Tutti e due.»

«Se ti dessi una mano anch’io?»

«C-Camilla, no, tranquilla, non devi! - Il senso di disagio riecheggiava intensamente, finì per rompere il sussurro – N-Nel senso… io posso, tu… no?»

«Perché “no”?»

«Te lo devo spiegare io?! Peggio della volta dell’onsen… Allora, in teoria se tu hai…»

«Io ho…? Vai avanti.»

«…No, vabbè, niente. Girati, te lo sgancio io.»

Mentre scostava la chioma bionda dalla cerniera dell’uniforme arancione, Iris capì finalmente che forse passare un decennio e un lustro a confrontare le proprie misure con quelle delle altre ragazze l’aveva leggermente distaccata dalla realtà: magari le sue coetanee le avevano mentito, non avevano voglia di correre e saltare e distendersi a pancia in giù ed usavano la mole del seno come giustificazione. Così doveva essere.

Però prima di allora non aveva incontrato una femmina con un rapporto busto-vita grande come quello di Camilla, non poteva parlare di qualcosa che non poteva immaginare neppure lontanamente. Ancora una volta la Campionessa aveva l’ultima parola su faccende anche fin troppo mondane.

Trovò inoltre un miracolo della tecnica il fatto che gli indumenti per adulti aggirassero i problemi dovuti alla crescita del corpo che la propria, a detto suo, inconcepibile coppa B non si poneva nemmeno: le spalline si potevano staccare.

Si convinse che le donne adulte fossero in realtà soltanto pigre e non fisicamente impedite.

«Adesso sono stanca però… Se te lo tieni un altro giorno e me lo dai domani, che mi rimetto a lavorare?»

Non agguantò i ganci se non appena Camilla le diede riscontro. Allora non esitò a staccarli dall’ultima asola.

«Se domani non ci vediamo…» La voce di lei appariva disconnessa.

Iris moriva dal bisogno di accarezzare la nuca bianca, di sfiorarle le vertebre come i tasti di un pianoforte in avorio. Ma aveva paura di avere le mani gelate e che a causa del caldo detestasse le sue manie sciocche, non le avrebbe trasmesso nulla, non avrebbe saputo motivarla o confortarla.

Come fosse un’estensione del suo corpo, si mise a fissare il reggiseno nero (possibile avessero una selezione tanto misera nei colori, le sue compagne più grandi? Poteva giurare a se stessa che a parte quello bianco di Anemone e i pezzi da duecento Pokédollari di Catlina non aveva visto altri colori indosso a loro).

Attenta a non venire guardata, si passò la coppa fra il pollice e l’indice: gli diede addirittura un colpo con le nocche, neanche fosse una corazza d’acciaio; Camilla aveva sottovalutato il supporto che offriva. Si appuntò in mente di rimuovere l’imbottitura prima di procedere con il taglio, per poi infilarla nelle intercapedini della corda.

Fu però un altro dato sensoriale a rapire la sua immaginazione dalla cella buia e dalla disperazione dei momenti precedenti.

«Oh, ma… profuma stranissimo. Sa da un misto di deodorante, pelle e… boh, ha un odore forte. Non fa schifo, ma non è né dolce, né chimico… Come dire, “essenza di donna”? Essenza di Camilla?»

«Ti può essere utile, allora?»

Iris alzò di scatto il capo, per non farsi catturare con il naso infilato nell’intimo della compagna, nonostante avesse solo il mento basso, Camilla continuò a scendere verso il proprio letto con molta attenzione ad appoggiare i piedi solo sul ferro e non sul materasso scricchiolante.

«Sì… è meglio di come pensavo.»

Farfugliò, cercando di osservare l’oggetto al di fuori del contesto, pesando a tutti i modi per sfruttarlo al meglio, neanche fosse uno Strumento per la lotta.

«Per fortuna. Adesso ti lascio dormire, okay? Buonanotte, Iris.»

«Buonanotte, Camilla.»

Il sonno non le avrebbe portato via le sue compagne e, se non dopo ore dal risveglio, l’odio, le cattiverie e le frustrazioni di quel dì non sarebbero stati loro abbastanza chiari. Prima la separazione, dopo la riunione, aveva deciso il Team Plasma per arrecargli danno: e mentre lei vagava nel caos, il suo legame con Camilla si era rafforzato.

Come poteva avere senso, tutto ciò? Volle darsi da fare con la corda ancora un po’.

Ma quel reggiseno non era affatto flessibile come i suoi, non si riusciva a tagliare subito: brandendo il suo machete improvvisato, scorticò l’orlo inferiore per tutta la lunghezza, come se stesse aprendo il ventre di un grosso pesce per rimuoverne le interiora.

Dentro il pesce, ci trovò metaforicamente un anello d’oro.

«Woah, che grossi… con questi ferretti ci puoi strozzare una persona.»

 

 «Quindi domani vuoi andare tu al processo?»

«Non c’è altra scelta. Dopotutto, la leader dovrebbe sempre essere la prima a sacrificarsi per il bene delle sue apprendiste.»

«Com’è che farti un massaggio dovrebbe contribuire al mio bene?»

«Hai quasi staccato un seno a Camelia. Direi che te lo sei guadagnato, questo privilegio.»

«Ah, giusto! Domani, prima che si svegli le rovescio l’acqua salata sugli occhi, poi le taglio le tette con il mio nuovo bellissimo taglierino!»

«Iris!»

«Va bene, non lo faccio... Che schiena rigida che hai, hai tutti i muscoli delle spalle duri…»

«Vero? Credo sia una condizione genetica ereditaria, o la postura quando leggo, ce l’ho fin dalle elementari: dici siano delle cervicali? Me lo chiedo da un po’…»

«…no?»

«No? Pensi sia il clima? O una questione d’umore? Sai, magari è una di quelle cose che si risolve con gli impacchi caldi e la meditazione zen…»

«Camilla, posso riavere il mio bel taglierino affilato?
Sento il fortissi-missi-missimo bisogno di tagliarmici la pancia e pugnalarmi nello stomaco.»

«…tutto okay?»

«Tranquilla, è normale, faccio questi pensieri da un mese e mezzo!
Comunque non sono una psicopatica.»

 

Behind the Summery Scenery #20

1. Sono poco fiera di questo mio traguardo... l'intervallo di tempo fra il capitolo prima e la pubblicazione di questo capitolo è il più lungo di tutta la storia: sono passati ben un anno e circa 6 mesi, il TRIPLO di quanto normalmente mi ci vuole per scrivere + editare + pubblicarne uno. Chiedo scusa in stile booty guru apology, anche se la mia 
cancellazione è imminente e perderò lettori  comunque.

2. Il titolo di questo capitolo: una ripresa di una delle mie serie preferite "Una serie di sfortunati eventi". Ho usato nel titolo la tecnica dell'alliterazione, anche il tono generale del captolo è paradossale, cinico e no-sense, mi sono proprio calata nei panni di Lemony Snicket, LEMOMO SNICKET.

3. Domanda che sono sicura esiste: ma le reclute di basso rango del Neo Team Plasma sono tutte uguali? Certo! Massima fedeltà ai giochi. Se ricordate inoltre, nello scorso capitolo, le reclute si chiamano R e Z: questo perché, come la N del principe Harmonia rappresenterebbe l'insieme dei numeri naturali, Z è quello degli interi relativi ed R quello dei numeri reali. Le altre reclute come si chiamano? Esattamente coe le 26 lettere dell'alfabeto o come i simboli unicode. Sì questo vuol dire che esiste una recluta L, che però noi non vedremo mai .

4. Ebbene, cosa mi qualifica per scrivere di processi, accuse, codice penale e cose varie? Ho un papà avvocato (con cui denuncerò per diffamazione tutti i miei haters) a cui non farei leggere starobba neanche per sbaglio. Inoltre ho già procurato un bella delusione alla famiglia non andando a studiare giurisprudenza, eheh. Quindi mi sono informta usando un misto della legislazione americana e italiana perché tanto Unima non esiste. Al solito, segnalate errori kudasai.

5. Acromio ha finalmente detto la battuta memosa! In realtà non l'ha detta come la volevamo tutti, ma sono già in ritardo di sei anni con questa meme, che altro potrebbe umiliarmi di più?

6.  Esiste un punto del testo in cui mi sono letteralmente quasi arresa, ho avuto un crollo ed un burnout temporaneo ma doloroso, in cui ho letteralmente dumpato nel testo seria frustrazione e che non ho cancellato tuttavia. Nella stub originale il punto era marcato da un "I HAVE GIVEN UP, Alexa play God knows I tried by Lana del Rey", quindi ero proprio sul fondo del barile di liquami in cui mi immergo a capofitto ogni volta che scrivo. Trovatelo e ridete di me, come fate sempre. 

7. Questo non è un vero punto da BTSS, ma un esperimento che volevo fare per pura curiosità: siamo nel mese del pride month, in cui voi altri, disgustosi froci che non siete altro, andate in piazza a gridare quanto vi piaccia scopare (non siete mica come gli altri/e ragazzi/e, eh!) e che volete i diritty tm. Quindi, mi sono detta di fare qualcosa a tema identity politics. 

Giochiamo alle oppression olympics! Whooo! Magari nessuna delle nostre ragazze diventerà Campionessa, ma si consolerà con il premio "sfiga 2019"! Ovviamente terrò conto del canon di ESG e di quello che io come autrice so (e voi no, eheh). Ecco qui il nostro test.

Iris: 59/100

Camelia: 56/100

Anemone: 58/100 

Catlina: 63/100 (???)

Camilla: 57

Acciderboli! Ma come è possibile che una ragazza bianca eterosessuale fino a i/3 della storia e pure troia sia la meno privilegiata del gruppo??? N-Non ditemi che questa fantastica fanfiction non è poi così intersezionale, queer e femminista! Ora mi metto a piangere.

8. La fantastica Kuro-san ha fatto questo artwork per celebrare il 4° anniversario di ESG, di cui nemmeno io mi sarei ricordata! Lei è proprio brava, simpatica e paziente. Thanks Kuro, really cool!

A tutti gli amici artisti: se mi mandate le vostre creazoni su @esg_offical_ig per messaggio privato, le metto anche qua, vvb 1000

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Capitolo 21
*** Le figlie degli altri ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
Beta reading and de-stubbing:
🍦
Seguiteci su instagram: @esg_offical_ig








Early Summer Girls

Capitolo 21

Le figlie degli altri

Aprire la scatola della notte, infilarci dentro il buio e poi richiuderla. Metafore di “nulla”.

Catlina dischiuse le palpebre secche, come se gliele avessero scolpite nella creta e si stessero sgretolando. A vedere tutto quel cemento e quella polvere intorno a lei e alle altre, il verde acquamarina dei suoi occhi avrebbe finito per sbiadire; le sembrò subito che qualche particella vi fosse entrata ma resistette allo strofinarseli con le mani.

Una lunga notte senza sogni era appena passata ed adesso le pareva di stare in una cella mortuaria, le sue compagne addormentate non si accorsero neppure di lei. Stessa sensazione di quando l’avevano svegliata dal coma.

Si mise seduta, le punte dei piedi intorpiditi incurvate sull’orlo del materasso da dei tanto odiato. Le erano rimasti i calchi delle pieghe della tenuta carceraria sulle braccia e sul collo, quando provò a sfregarli via dall’epidermide si sollevò uno strato grigio di sporcizia mista a cellule morte.

Ora aveva capito perché le reclute volevano tagliare a tutte loro i capelli: le avevano infilate in un forno, senza ricambio d’aria, perfino il semplice respirare faceva aumentare la temperatura interna di qualche grado.

Non aveva idea di come lei, che aveva il sonno più pesante, non riuscisse già più a sopportarla e le altre quattro invece sì, quando ogni giorno alle sette si mettevano a scuoterle le spalle, soffiarle sulla faccia e urlandole di smetterla di essere pigra, ridendo a squarciagola.

Tuttavia, le mancava l’ondata di energia che, per quanto lei si dimostrasse riluttante, la colpiva sempre.

Afferrando le caviglie del pantalone per sistemarsi con le gambe immobilizzate parallela al letto, gettò lo sguardo verso la ragazza che dormiva di fronte a lei, dandole le spalle; subito presa dall’angoscia, Catlina s’addossò in anticipo tutte le preoccupazioni che le quattro avevano riposto da parte almeno per concedersi un po’ di riposo tranquillo.

«Oggi a chi tocca? Non a Iris o Anemone di certo… Quindi siamo o io, o… No…»

Non poteva essere altrimenti. Poteva quasi vedere Camilla alzarsi tutta scomposta, sistemarsi magari il suo ciuffo senza neanche l’ausilio di una spazzola, nelle condizioni in cui erano. Poi quella le rivolgeva un sorriso gentile, le chiedeva come stesse e se avesse dormito (perché il suo benessere, anche da prima del tempo della frattura cranica procuratale dal Team Plasma, aveva la priorità su tutto).

E alla fine, con il fatidico “non preoccuparti, andrà tutto bene”, Camilla si sarebbe lasciata interrogare al suo posto, sebbene condividessero lo stesso status e quindi le stesse responsabilità.

“Vorrei che stessi sempre al mio fianco, perché io ti amo”, ecco cosa aveva detto, convinta fino in fondo. Di conseguenza, le venne naturale domandarsi “Io amo ancora Camilla?”, e la guardò ancora.

Invece di rimanere a distanza come durante il primissimo attacco all’onsen, volle farsi coraggio e gettarsi nella mischia, per quanto stressante e doloroso potesse essere esporsi allo scherno dell’intera regione di Unima.

In un certo senso, era curiosa di scoprire cosa si sarebbe inventato quello scienziato pazzo per infangare la reputazione della sua cara migliore amica; gli sarebbe servita molta fantasia, questo era sicuro.

Il punto è che Catlina desiderava aiutare la loro leader in qualche modo, fosse ciò il suo ultimo atto da persona libera. A proposito di ciò, prese a riflettere, mentre un leggero cigolio proveniva da sopra di lei, dove avevano deciso di stare le due diciassettenni, abbracciate assieme.

«Io e Camilla non siamo neanche cittadine di Unima però, non possiamo chiedere… come si diceva, adesso? Il principio di espatrio? Di esproprio?»

Il termine che cercava era “extraterritorialità”, ma le era comunque chiaro il concetto; avevano entrambe il passaporto di Sinnoh e mentre il suo visto le garantiva di esercitare una professione sul suolo di Unima (sebbene lei non si avvalesse di tale privilegio) purché lo rinnovasse ogni sei mesi, la Campionessa aveva un semplice visto turistico che scadeva a settembre, fatto apposta per il torneo.

Lasciò perdere comunque, visto che anche Camelia, Anemone e quell’indemoniata di Iris (l’aveva spaventata, cosa le era preso? Le era parsa sempre così gentile, per quanto esuberante) erano innocenti, ma non potevano appoggiarsi a cavilli burocratici.

«A proposito, - i due pensieri non avevano alcuna connessione logica, era solo la noia a portarla su quel sentiero – i nostri Pokémon? Non possono arrestare i nostri Pokémon…

Si può arrestare un Pokémon? Come si fa, boh. Non è che puoi dire “okay, mettiamolo nella Poké Ball per dieci anni finché il suo Allenatore non sconta la sua pena, poi lo tiriamo fuori…?” Nah, impossibile.»

Dunque, potendo giurare sulla propria pelle rovinata dalla deidratazione che le analisi critiche non fossero affatto la sua specialità, si passò le dita fra l’attaccatura della fronte, lanciando un quarto dei capelli dietro la nuca, ormai le radici si erano fortificate sotto il volume della massa bionda e spezzarle era ardua impresa.

Catlina lasciò cadere il torso sul lato, come un corpo morto, avendo esaurito le ragioni per stare a crucciarsi: era stato voluto così dai piani alti e basta, domandare di più era fuori discussione.

Se c’era qualcosa che la sua povera materia grigia lesionata poteva fare era sfruttare le ultime ore di sonno, prima che arrivassero reclute in uniformi dall’odore nauseabondo, magari deliziandole ancora con altre battute in svendita ai discount di comicità riciclata.

E si rimise a dormire, accovacciandosi in posizione fetale, provando a liberare la mente.

«No, aspetta un attimo- Ahia, le gambe, le gambe, ah! Mai più alzarsi di scatto…»

La supposizione che siccome fosse in grado di fare due passi senza appoggiarsi alle compagne adesso scoppiasse di salute era stata presa tanto seriamente che non le era stato concesso di usare la sedia a rotelle (comprata nuova di zecca, tra l’altro, sebbene ne avesse tre o quattro modernissime a casa) o che Gothitelle le reggesse la spina dorsale, come lo stelo floscio di un arbusto legato ad uno stecco.

Liberatasi da quella sferzata ai nervi, riportò l’attenzione su ciò che le era spuntato nella testa, un’idea fastidiosa quasi paragonabile a un tumore per lei, non poteva ignorarla.

«I nostri Pokémon sono in questo edificio, qui da qualche parte, di sicuro non dentro le loro Poké Ball. – La ragione con cui giustificava quest’ultimo particolare – Se non c’è neanche l’aria condizionata, come fanno a trovare una macchina che tenga in vita quindici Pokémon automaticamente? Semplice: non lo fanno.»

Tale fu la sua teoria, tralasciando la manciata di pause per passare da una conseguenza all’altra.

Catlina comunque non poteva fregiarsi d’essere la migliore prima di aver trovato un’applicazione pratica; se non poteva essere la più entusiasta, la più carismatica, la più decisa o la più poliedrica, si sarebbe prodigata in nome del titolo di genio della banda.

Chiuse gli occhi, concentrandosi con tutte le sue forze sul “legame che unisce Allenatore e Pokémon”, in base a come l’avevano istruita dopo che aveva insistito con i suoi genitori di voler ritornare a muoversi con l’aiuto dei suoi partner psichici (lei si immaginava una specie di filo fluorescente di energia che ondeggiava in uno spazio dello stesso colore, era un trucco assai poco poetico da spiegare).

Da lì aveva imparato a comunicare mediante il pensiero: non era un superpotere. Moltissimi maestri specializzati usavano quella tattica, non era raro che alla televisione si parlasse di veri e propri incontri manipolati da questo utile e scorrettissimo incentivo.

A volte, se il destinatario dei messaggi telepatici era abbastanza vicino ed in sintonia con il mittente, si poteva perfino conversare con gli umani: un salvavita, quando non si vuole far trapelare informazioni riservate (per esempio, la strategia usata per sconfiggere le ladre ed ammonire una delle due diciassettenni di risparmiarsi occhiate indiscrete al suo corpo, rivisse l’imbarazzo per un attimo).

«Ti prego, fa’ che non ce li abbiano portati via… ti prego…

Uhm?»

La sensazione che le parole sussurrate nella sua testa stessero vagando a vuoto svanì subito, il riflesso spontaneo di avvicinare il padiglione auricolare fino a toccare il muro, per origliare un sussurro inesistente.

«M-Musharna? Oh, piccolina, fatti sentire…» La ragazza ammorbidì il tono, speranzosa in una risposta.

Nonostante fosse passato abbastanza tempo per crescere un bambino di quinta elementare da quando la biondina aveva acquisito Munna, direttamente da Unima, al venire appellato con quel vezzeggiativo il Pokémon Dormiveglia non riuscì a trattenere un versetto sorpreso.

Catlina non si poteva sbagliare, essa ripeté la sua invocazione, fra la gioia di risentire la sua Allenatrice e la preoccupazione di non poterla vedere, riempiendosi di nostalgia.

«Amore, sono io, sono io… Dimmi che non ti hanno fatto male… - due chiamate piuttosto entusiaste ruppero subito la sua apprensione, strappandole un sorrisetto – Ah, bene, per fortuna.

E gli altri? Sei con tutti gli altri?»

Ancora un riscontro sonoro positivo, per quanto una creatura appartenente ad un diverso regno di autocoscienza potesse intendere il linguaggio umano. Probabilmente, era bastata la semplice voce mentale della sua Allenatrice a mandare il tapiro rosa in euforia.

Intanto che quello continuava a verseggiare, rassicurato e fin troppo impaziente di ricongiungersi, Catlina fece un po’ di spazio ad una linea cognitiva diversa: come farsi dettare le coordinate sulla loro locazione? A quanto ne sapeva, oltre ai Chatot, solo nel Mito dell’Origine e nei cartoni animati esistevano Pokémon parlanti.

Per il momento, doveva accontentarsi di un’approssimazione. Quindi, la sua seconda trovata.

«Musharna, sto per darti un comando. Attenta bene.»

Due anni prima, metà luglio, uguale: dei teppisti non ben identificati avevano scavalcato le recinzioni e, penetrati nel Cantiere dei Sogni, scheletro di un centro politecnico mai completato nel sud, avevano preso a disturbare e perfino attaccare dei poveri esemplari di Munna indifesi.

Tutto questo per ottenere una sostanza gassosa, i giornali non avevano rivelato lo scopo di tale rastrellata, forse per un accordo segreto con i media.

Leggendo quell’orribile notizia, ne era rimasta turbata profondamente e pur avendo espresso vocalmente il suo disconforto ai suoi colleghi Superquattro, gli altri non ci avevano badato troppo, liquidandola con un’accusa di ipocrisia: “ti importa dei Pokémon maltrattati solo quando sono della stessa specie che alleni tu, Cat.”

«Butta fuori tutto il Fumonirico che hai fatto su. Sì, tutto, tutto, riempi pure la stanza e non smettere… per favore, fallo per noi.»

Quei finti paladini della giustizia erano di sicuro stati protetti dalla diffamazione; le reclute che prendevano a calci i Munna sofferenti sul corpo tondo a fiorellini per ottenerne la sostanza prodotta si trovavano là con loro; del resto, Satana non rimpiazzerebbe mai i suoi demonietti più spietati.

Catlina aspettò paziente, finché una zaffata di profumo dolciastro la investì.

Dall’angolo vicino al letto delle due Capopalestra uno spiffero color pesca fuoriusciva dall’attaccatura usurata dei mattoni, lento quale un serpente fuoriuscito dal vaso dell’incantatore.

Altri soffi timidi si disperdevano vicino al soffitto, popolando un po’ la grigia solitudine prima di dileguarsi per la loro fievolezza. Appena uno di essi le passò sotto il naso, l’Allenatrice dai capelli oro s’accorse della pressione con cui erano emessi, Musharna aveva fatto proprio del suo meglio per aiutare lei e le sue compagne.

«Grazie un milione, tesorino. – Gli schioccò un bacio, contenta del risultato – Scommetto che tu e gli altri Pokémon andate molto più d’accordo fra voi di noi altre, ahahah.»

S’auspicò di poter porre fine ad ogni loro bega interpersonale con una scoperta del genere.

Ma ancora, sarebbe stato davvero così immediato? Catlina lanciò le pupille all’angolo dell’occhio, verso la telecamera da meccanismo misterioso.

Secondo Camilla, l’audio era disattivato, non correva rischi a rivelare il tutto prima del processo… e lei, si fidava ciecamente della deduzione della Campionessa?

«Allora ieri come facevano ad avere quel malloppo di informazioni compromettenti su Camelia? Uno non tira fuori a prove così schiaccianti in quindici minuti…»

Il successivo respiro dalla bocca le uscì muto, fu un riflesso incondizionato.

«C-Camilla, io ti voglio ben… Cioè, ti amo, ci hai salvate tante di quelle volte…

Però, mi dispiace. Stavolta ti sbagli di brutto: ci sentono. Ci hanno sempre ascoltato... scusa.»

La stima che serbava non era diminuita affatto, anzi, già anticipava il futuro salvataggio attuato dall’altra ragazza bionda, che fra meno di un’ora avrebbe avuto un palcoscenico intero per esercitare il suo talento graziante, di prelevare le sue quattro predilette da ogni situazione minimamente sgradevole.

Innegabile però, tale imprudenza era costata loro dura, un errore umano che sarebbe stato non diabolico, ma stupido ripetere, perseverando con lo stesso piano d’azione.

Le aspiranti Campionesse erano diventate troppo prevedibili, i loro avversari stavano un passo avanti e peggiore delle ipotesi avrebbero sbattuto i loro Pokémon in un altro carcere lontano dal loro, magari con supplizi e torture inflittegli per punire l’ingenuità delle loro protettrici stesse.

Il Team Plasma e il loro squadrone di avvocati ingiuriosi avevano orecchie pure sui muri.

Purtroppo per loro, pensò lei, non avevano dei muri bilingui.

Catlina scrutò il pavimento ai piedi del letto, reggendosi con i gomiti a pancia in giù: agguantato un pezzo di calcinaccio, sformato come quelli che aveva raccolto per mezza giornata il mese prima, si rimise eretta e voltata verso il muro.

Prendendolo con la mano dominante, ne rilevò il lato maggiormente appuntito e lo strofinò sulla superficie fino a far scorrere la rudimentale grattata con la scioltezza di un gesso da disegno, creando sulla nicchia una piccola nuvola bianca abbastanza compatta.

L’aristocratica aspettò, posando la punta verso il centro del muro adiacente a dove dormiva; ad Unima si usavano due alfabeti sillabici, dov’era cresciuta lei uno solo, formato da ideogrammi.

Per quanto l’incontro faccia a faccia con le due reclute drogate avesse abbassato l’aspettativa sull’acume di esse, la sfera di influenza del Team era abbastanza larga che, metti caso proprio lì, si trovavano ragazze miste, o immigrate da Sinnoh, di seconda o terza generazione, che con un dizionario alla mano avrebbero decifrato tutto, riportandole alla funesta conclusione verificabile anche parlando ad alta voce.

Peccato che questa oblunga prefazione non tratti affatto di una giovane qualunque della regione a nord del mondo dei Pokémon. La signora Haato, in preda all’eccitazione e alla pressione sociale della maternità, prematuramente indaffarata, vagliava una lista delle attività indispensabili alla sana crescita intellettuale della sua bellissima bambina dai riccioli biondi ed una soglia di attenzione piuttosto bassa.

Chiedeva dunque conferma al signor Yamaguchi, se la piccola ce l’avrebbe fatta a seguire i corsi di pianoforte, di lingua straniera e di letteratura classica senza perdere il suo sorriso vivace e luminoso; allora l’uomo rideva, non aveva scelto un nome scritto con i caratteri di “bellezza” e “sogno” perché sua moglie si inventasse certe sciocchezze.

«Se ce la fa la sua compagna di scuola, quella con gli occhietti vispi, la figlia dei Kuroi, ce la fa benissimo anche lei! Anzi, potrebbe benissimo superarla, ne ha tutte le capacità.»

Al tempo di quei discorsi, Catlina aveva quattro anni e troppe bambole nuove a cui trovare un nome per preoccuparsi.

I primi due tratti le vennero un po’ sbilenchi, la calligrafia non era il suo forte e da quando si era trasferita la tastiera completava in maniera automatica i messaggini per i suoi parenti a Memoride; sperava solo fossero un benché minimo leggibili.

Voleva quasi arrendersi, non aveva idea di come scrivere la sillaba “-di” di “audio” senza fare una gaffe smascherabile da un lettore attento. Non si perse d’animo: scrisse “audio” con “a” di “angolo”, “u” di “esistere, stare”, per “di” scelse il carattere di “pulizia” ed “o” era solo una particella interiettiva obsoleta.

Da lì, la mano cominciò a muoversi da sola, tanta foga aveva di trasmettere il messaggio che solo Camilla avrebbe potuto leggere, in effetti. Anche sotto sorveglianza, volle illudersi che solo la leader avrebbe capito il criterio per decifrare le lettere, come avveniva nei romanzi di fantascienza.

La possibilità di rintracciare i loro Pokémon era un grande sollievo, se non un possibile punto debole da sfruttare appieno. Ovviamente, ciò non implicava andare fino in fondo con le sue conseguenze…

Bastava così. Tre frasi per notificare i cambiamenti più importanti, quattro righe in totale, scritte calcando e smorzando il tratto per rendere ogni segno identificabile, non poteva causare confusione alla sua traduttrice, visto che le altre tre giovani avrebbero ricevuto il messaggio dalla sua bocca.

Battendo i rimasugli di polvere via dalle mani, a Catlina tornò una voglia incredibile di quelle labbra. Anche distesa su quei giacigli di spine, riusciva a volare indietro alla nottata di coccole e di baci trascorsa a Spiraria, non aveva mai smesso di pregare per avere altre cento di esse, per lei e Camilla.

Se non erano i traumi fisici, il crepacuore l’avrebbe uccisa, una volta separata dalla sua anima gemella.

«Catlina, che problemi hai?!»

Magari fosse stato il suo subconscio a tuonare così, nessuno dei suoi più alti picchi di realismo avrebbe eguagliato il disagio di vedere Camelia darle il buongiorno con quel suo tono irritante.

«Tanti, grazie per avermelo ricordato.»

Voleva quasi spingerle la faccia lontano dalla sua vista, ma non dimostrarsi immatura e quella comunque si era già ritirata sul suo posto, di sopra.

«Non sei simpatica, sei solo malata di mente.»

Il lamento sgraziato della sua compagna di giaciglio s’intromise in quel battibecco lasciandolo incompiuto.

La coscienza che si trattasse di una nuova sessione di pure e gratuite delusioni le aveva stampato una maschera tribale funebre sul volto, fra i ciuffi spettinati impiastricciati di sudore notturno.

«Si parla di malati di mente, ci sono, presente!»

«Ho bisogno di lavarmi assolutamente, questa divisa mi sta piantando radici in corpo, che schifo.»

Camelia si era sbottonata l’uniforme fino all’ombelico, soffiandosi sullo sterno e sciugandolo con i lembi delle coperte pur di evitare la comparsa di macchie rosse.

Apprese che dormendo accanto ad Anemone si erano trasmesse a vicenda calore, una quantità elevata rispetto a quando avvicinavano i loro futon a casa di Nardo, mentre il climatizzatore soffiava una vera e propria bora nella loro camera.

«Fossi in te, - la trattenne per il braccio, seria – non mi butterei addosso acqua piena di piombo. – Indicò il lavabo – Se tu vuoi il tetano, vai pure… o un’infezione batterica, scegli tu.»

«Grazie di non lasciarmi morire, amore.»

«Prego, tanto, anche ti prendessero da parte, come hanno fatto a me ieri, al massimo ti beccheresti un…»

Non completò la frase, dalla porta partì uno strillo inconcepibile ad ogni ora del giorno, in particolare in quella dimensione spazio-temporale senza nemmeno un orologio ad avere pietà della loro vita che si consumava.

«Hey, hey, hey, siete pronte? Vi vedo bene, Campionesse! Dormito comode, in questa suite 5 stelle?»

All’unisono, sguardi, come quelli di un Allenatore che si vede piazzata una trappola di Fielepunte non appena il suo Pokémon mette l’alluce sul campo di lotta.

«Vi abbiamo portato il rinfresco migliore che vi si poteva offrire e non ci salutate neanche? Villane che non siete altro…»

Chissà se al di fuori dell’ambiente lavorativo (ammesso che ricevessero un compenso monetario o materiale, pur non addette al business come R e Z) erano migliori amiche oppure dovevano solo tenere in piedi una pagliacciata per apparire quantomeno minacciose.

«Comunicazione di servizio: vi spiamo da due mesi ormai…»

«Oddio, e l’acqua è bagnata! O a volte… salata.» Non erano neanche le otto e Camelia aveva già pronta la battuta, un record.

«Poche storie, finta bisex. – E l’altra, che l’assecondava! – Sappiamo che a voialtre piace denudarvi a caso, neanche foste in calore. E nel caso vi venisse voglia di uscirle anche qua dentro perché “che caldo blah blah”, ricordatevi delle nostre amichette telecamerine.»

«Beh, e che ve ne fate dei nostri video, vi ci masturbate sopra?»

La rossa aveva assolutamente messo in rilievo un punto ragionevole: dove finivano tutte quelle ore, intere giornate di video di loro cinque che mangiavano, si vestivano, chiacchieravano e sempre più spesso indulgevano in qualche atto un po’ perverso.

«Bleah, non siamo mica al vostro livello! Dovete sapere, branco di Ditto abbandonati in una pensione, che fra i nostri sponsor ci sono anche clienti che… fanno business con questi video, e noi siamo un’associazione ecologica! Sarebbe un peccato buttare tutte queste cassette, cioè…»

«Quindi ci minacciate di vendere le nostre riprese a proprietari di siti porno. – Catlina si grattò la nuca, senza troppa emozione per un argomento del genere – Wow, che onore vi fa questa causa.»

«Spero che sulle mie clip ci siano almeno due o tre pubblicità, io non lavoro mica gratis.» La modella aveva incrociato le braccia e inarcato le sopracciglia sotto la frangia.

«Cosa possiamo dirvi? Siete praticamente un arsenale di fetish ambulanti!»

«Eh?!» Fecero in coro.

La recluta alta con il dito prese a spiegare alla compagna, la quale annuiva ad ogni parola.

«Guarda: piatta atletica di etnia esotica, rossa con fisico a clessidra e abbronzatura, esibizionista snella ma con le curve, principessina bionda e modesta (conosco gente a cui piacciono le cicatrici), e per finire in bellezza: ex-gotica con istinti da mammina e due tette massive.»

Calò un silenzio imbarazzante. Quelle reclute erano due palle al piede, ma non si può dire non sapessero il fatto loro. Dallo stupore, nessuna domandò nulla. Forse perché ciò di cui parlavano era in parte veritiero.

«Vi diamo dieci minuti.» Squittì la più alta, eseguendo una sgraziata piroetta di inspiegabile gioia.

«Okay, ma noi ci defiliamo, qui puzza di chiuso che si muore.» La riprese l’altra.

«A dopo allora, chi non muore si rivede!» Uscirono.

Se quelle arpie non tiravano in ballo il suicidio in ogni singola loro visita non erano soddisfatte. Appena le ebbero lasciate sole per prepararsi, Iris cacciò un gemito insofferente, soffocare nel cuscino scuoiato pareva più veloce e indolore dell’impiccagione suggeritagli implicitamente.

Per incoraggiarla, Camilla la accarezzò sfregandole il polpaccio, ancora insisteva a seguire le procedure delle aguzzine, sebbene avessero ottenuto ben scarsi risultati in fatto di ricompense.

Percependo le punte sfrangiate del suo ciuffo lacerarle la retina sinistra, provò a sistemarlo prima che uno shampoo (buon partito per il premio summenzionato) potesse salvarla dalla triste ultima spiaggia di doverselo scostare dietro le orecchie, rinunciando al suo stile iconico.

La relativa distensione le permise di organizzare le fasi della propria difesa: non aveva mentito ad Iris, quello stesso giorno lei si sarebbe costituita, qualsiasi reato l’avesse commesso.

«Non mi hai ancora detto cosa ti hanno fatto ieri sera quelle sadiche.»

Origliò da Camelia, di cui cominciava a scorgere la ricrescita bionda sotto il nero lucido come petrolio. La sua ragazza tirò un sospiro addolorato, solo lei poteva tenersi per sé una condizione così aspra e al contempo disprezzare un minimo di sana compassione.

«Mi hanno minacciata di farvi di molto peggio se parlo. Mi disp…»

«Prova a chiedere “scusa” e, ugh, non sai cosa ti faccio. Anemone, ascoltami…»

La modella provò a proseguire la conversazione, ma l’altra era ormai a testa china, alla ricerca delle proprie scarpe lacerate, spazzando via con le mani il nero e le schegge incagliatesi sotto i piedi.

«Oggi mi conviene fare del mio meglio, ah. La situazione sta degenerando sotto ogni punto di vista…»

Dopo un respiro profondo e una revisione della sua coscienza, Camilla incanalò in sé il triplo della pazienza, dell’acume e dell’auto-consapevolezza di cui si armava ogni giorno, non sorrise come ci si aspetterebbe, ma la serietà la rendeva più affidabile, più motivata al provare a tutti di non aver cresciuto sia nella tecnica sia nella morale quattro disadattate.

Prima di uscire però la sua mente si prese un break dal processo et cetera, perché qualcuno aveva scritto il suo nome sul muro come “poesia”, “percorso” e aveva ingenuamente confuso la lettura di “graziosa, delicata” con quella di “Pokémon da traino”.

«Camilla? Scusa se ti chiamo ogni cinque minuti, ma le due zecche Plasma vogliono tu entri in sala per prima. Dicono ci aspetti una “sorpresa”, e già mi sento male… tutto okay, tu?»

Iris si trovava ad alzare gli occhi nocciola per ovviare alla differenza d’altezza, ma a metà strada nella diagonale si era formato un aggregato astratto di quella dipendenza fraterna, la stessa che il corpo fervente della giovane di Boreduopoli le aveva trasmesso adagiandosi sopra il suo quella sera, nell’onsen.

Possibile che essere la leader fosse allo stesso tempo così bello e allo stesso tempo così devastante?

«Tutto a posto, carissima. Ho solo un po’ di mal di schiena…»

A quel punto, una risatina le scappò.

«Un po’?! Solo un po’?!» Iris aveva le mani davanti alla bocca, come se non le fosse nemmeno lecito ridere.

La Campionessa di Sinnoh, oltre alla corazza impenetrabile dalle linee nemiche che sempre aveva addosso, ora sentì che due ulteriori scudi la proteggevano sia la destra che la sinistra. Tuttavia, prima che una sola frecciatina potesse scalfire i due suoi tesori, una spada acuminata avrebbe trafitto il suo prosperoso petto almeno cento volte.

Dalle finestre ad arco proveniva una minima coordinata su cosa succedesse nel mondo esterno nel frattempo ch’erano rinchiuse: il cielo era annuvolato, la pioggia della sera prima aveva macchiato i vetri, lasciando i calchi delle singole gocce.

Da ciò, la sala appariva più scura del giorno precedente, se non per un paio di luci accese: stando alle parole delle due reclute, il Team si stava davvero impegnando nel crearsi un’immagine di amico dell’ambiente.

L’ingresso delle imputate non sortì alcun effetto sorpresa, molti degli spettatori si erano abbonati ad ognuno dei cinque processi e le stesse facce pasciute e indagatrici si riconoscevano, anche quelle di chi non era ancora intervenuto nelle discussioni con la propria ovvietà perbenista.

Camilla non lasciava neanche che la toccassero, camminava da sola ed era quasi come se le reclute stessero seguendo lei, non il contrario: per quanto irrispettose e rudi fossero, la donna le faceva rigare dritto senza nemmeno rispondere alle loro provocazioni.

Quando si mise a sedere davanti al microfono, le bastò uno sguardo torvo per impedirgli di ammanettarla alla sedia.

Prima che qualsiasi fantasma di incertezza si impadronisse di lei, dalla prima fila braccia abbronzate incurvate rappresentavano un cuore, un applauso momentaneo e un “dagliele di brutto, leader!”, poi corretto su istigazione Catlina con un “okay, magari no. Però fagliela pagare per come mi hanno trattato ieri” di rettifica.

L’ingresso si fece d’un tratto affollato, una scorta si fece largo attraverso il corridoio e la folla si fece quieta.

Procedendo svelto, il camice bianco svolazzava a causa del movimento creatosi attorno alla figura alta e gracile. Un sorrisetto la colpì come un proiettile.

«Buongiorno, Cam…» Lo interruppe dal principio: non avrebbe accettato una conversazione in termini non egualitari.

«Campionessa Kuroi. – Ricambiò la formalità, con nonchalance - Buongiorno a lei.»

Tenne il mento alto, osservandolo dissipare il brusio della folla come un prestigiatore fa sparire uno stormo di colombe sotto il mantello. Acromio non le avrebbe mai rivolto la spalla fredda all’inizio, ma la donna era poco intenzionata a lasciarli in mano le redini dell’udienza come aveva fatto Camelia, a un ingresso caloroso preferiva di gran lunga arrivare alla sostanza il prima possibile.

«Mi scusi professore, ma se per favore potesse far iniziare subito il processo…»

«Aspetti un attimo, prima devo spiegarvi per benino una cosuccia. Ve l’hanno accennata, le nostre ragazze?»

Le sue iridi perlacee volarono più in alto del soffitto, si sarebbero potute capovolgere e sbirciare dentro il suo cervello. L’uomo si era avvicinato alla platea con una lentezza a dir poco snervante.

«Buongiorno. Forse, sarà capitato a tutti i presenti di accorgersi di una piccola mancanza di correttezza da parte degli organizzatori della scorsa seduta… - c’era davvero bisogno di tutti quei pleonasmi, vista la trepidanza degli spettatori? – Le più sentite scuse da tutto il comitato della giustizia di Unima.»

Se il rimorso di aver letteralmente manipolato l’esito del primo processo li aveva colpiti solo una volta conclusosi, le aspettative in riguardo alla compensazione per tale errore si fecero ancora basse per le ragazze. Nonostante ciò, gli era stata preannunciata una sconosciuta novità e una moderata curiosità nel sapere come essa avrebbe influito da quel momento in poi assalì tutte quante.

«Ovviamente, - nessuno aveva la più pallida idea di cosa si sarebbe inventato, quell’avverbio serviva solo a occupare spazio nella spiegazione – stiamo parlando della minoranza numerica dalla parte dell’accusa.»

«Ehm?»

Le quattro sedute vicine si rivolsero occhiate come sperassero che loro vicina di posto avesse capito qualcosa di diverso, qualcosa che magari avesse un minimo senso.

«Per questo, ottenuta l’approvazione del capo del Neo Team Plasma, abbiamo pensato di introdurre un nuovo organo di legislatura nella procedura penale regionale: signore e signori, date il benvenuto al primissimo pubblico ministero della storia della regione!»

Le porte in quercia pesante le aprirono sempre una coppia di incappucciate, tenendole spalancate per far entrare una pletora di individui, ma nessuno di essi somigliava neanche vagamente a un giurista o a un avvocato.

«Oddio, quella tizia!»

Camelia puntò un’unghia scorticata con qualche rimasuglio di smalto contro una signora di colore robusta, dai capelli spessi e ricci, della sfumatura verde della malachite; le altre le si accostarono per sentire quali succosi pettegolezzi avesse da svelare.

«Quando abbiamo fatto la riunione per la Lega dell’anno scorso, mi ricorderò sempre, mi guarda dall’alto al basso e mi dice che come sono vestita e il mio modo di rispondere non si addice ad una Capopalestra… - Poi, come se si stesse rivolgendo ad ella direttamente – Scusa, ma… gli affari tuoi? Chi sei tu per giudicare, boh, io… Secondo me è la menopausa, ammazzatemi appena faccio quarant’anni.»

Pur senza volersela inimicare ulteriormente, Iris espresse estremo disappunto, sbuffando perfino. Camelia credeva fosse colpa degli altri se il suo atteggiamento non veniva considerato il massimo della simpatia.

«Guarda che Aloé è buonissima, parli solo per sentito dire… Quando ero alle elementari ci hanno pure portati a vedere il museo a Zefiropoli… quello dove c’è lo scheletro di Zekrom, dai.»

«Pensa se mi dovevo sforzare di ricordami pure il nome.» La mora si disinteressò.

«Ah, so solo quello. Non conosco tutti, l’ultima lotta in Palestra l’avrò fatta un anno fa…»

«Ma voi Capipalestra non vi parlate neanche per sbaglio? – Catlina si intromise, non nascondendo la sua delusione: a Sinnoh questi si trovavano al bar per bere assieme, da quanto si trovavano in buoni termini – Se lo avessi saputo anch’io mi sarei risparmiata di provare a socializzare con gli altri Superquattro, tutto di guadagnato.»

Fosse stata scorretta tale teoria, Camelia ed Anemone avrebbero quantomeno accelerato il loro travaglio per conoscersi e approfondire il loro legame. A proposito della rossa, ebbe solo un commento da fare.

«Visto quanto è utile essere una reclusa asociale? Vivi benissimo lo stesso. – S’accorse anche di altri volti incontrati alle cerimonie di premiazione, quelle poche volte in cui le toccava partecipare, quando suo nonno smascherava i suoi finti infortuni sul lavoro - Sono proprio tutti qua, oh.»

I Capipalestra si accomodarono in una tribuna su gradoni, munita di sedie di feltro rosso e calici accompagnati da bottigliette di Acqua Fresca della marca meno costosa.

Come la minaccia della tirannia di Ghecis li aveva uniti per combattere ai piedi delle rovine della Lega Pokémon e nel castello eretto per il suo figlioccio, il burattino delle sue aspirazioni da megalomane, allo stesso modo lo stesso uomo li aveva radunati assieme nello stesso posto, un edificio egualmente simbolo del teatro di marionette di cui aveva retto i fili da dietro le quinte sin da subito dopo la sconfitta.

«Che figura da sceme che ci facciamo, se ne usciamo vive io mollo la carica, il lavoro e me vado a piantare Bacche a Johto per il resto dei miei giorni, eh.»

«”Che ci fate”, non parlate al plurale per favore: Superquattro maggiore Capopalestra.»

«Questo vuol dire che il mio processo è stato giocato in modalità facile?! Giuro che se Camilla riesce a pararsi pure davanti a questi trogloditi e mi fa fare la figura dell’idiota glielo brucio, questo “ministero”».

«Ma voi tre non vi domandate perché nessuno è mai gentile con voi?»

La fierezza di Iris nello stare per battere il suo record di considerazione da parte delle compagne durante una rottura della loro armonia, contato in secondi, l’unità di tempo più lunga che si sarebbe mai riuscita a permettere, non superò nemmeno quella del suo mezzo-addio sul sedile della jeep ad Austropoli.

Anemone aveva puntato dietro le sue spalle e come se il riflesso automatico di voltarsi le fosse venuto meno, Camelia le ruotò le spalle, cogliendole il mento fra il pollice e l’indice in modo che si affacciasse sulla torma di esperti di lotta.

«Nonno?»

Senza suono, le consonanti batterono sul suo palato.

Come non si poteva compatire la giovane nipotina del Capopalestra più anziano, il Domadraghi più esperto e di cui perfino i suoi coetanei temevano il nome, perfino se inserito in contesti casuali come “devo tornare a casa, o mio nonno mi uccide”?

Aristide infatti non aveva mai avuto occhi per altri nella sala orpellata, per i suoi colleghi, per tutti quegli spettatori che lo elogiavano come uomo imparziale e baldo foriero di giustizia sin dal principio del suo incarico.

Come non si poteva compatire il vecchio Capopalestra, mentre la giovane che aveva cresciuto come parte del suo sangue veniva marchiata criminale dall’uniforme arancione, incatenata come una bestia pericolosa, quando aveva lasciato la loro casa nel nord con lo stesso identico viso caramellato colmo di dolcezza?

Si ripeteva che quella era un’altra, non la conosceva, non aveva nulla a che fare con una scapestrata privata di sonno ed igiene.

La disperazione di lui la raggiunse: anche lei voleva dimostrargli che si trattava di un malinteso, che una nottata burrascosa ed un coro di malelingue in completo formale non gli avrebbero strappato dalle ginocchia la bambina persa ad ascoltare le storie antiche sui miti della Fondazione e della Guerra fra le casate.

Ma quella non era la sua battaglia. Camilla e l’esordio della sua arringa s’intromisero nel dolore dell’uomo.

«Prima di iniziare…»

Acromio accennò un goffo inchino verso i Capipalestra, non che avesse ragioni per manifestargli il suo rispetto; ma di nuovo la Campionessa gli tagliò la lingua: avendo la voce più profonda fra i due, poteva andare avanti indisturbata, come sottofondo allo stridio bambinesco dell’accusatore.

«Spero che per qualsiasi cosa mi giudichiate, prenderete come punto di partenza le mie azioni, - appariva severa, tuttavia non riversava alcuna avversione in questa sincerità – e non le mie opinioni personali sul Neo Team Plasma o su Ghecis Harmonia.»

Dal professore uscì un sospiro condiscendente, inclinò il capo per non infuriarsi a tale sconsideratezza.

«Campionessa, cosa le fa pensare di essere superiore a tutti gli altri cittadini e a poter evitare un interrogatorio ufficiale?»

«La… - lo disse rallentando, per poi sparare a velocità supersonica la banalità che a malapena le usciva senza l’impulso di battersi forte la fronte - prima parola della frase.»

Acromio si immobilizzò, come se il cervello dovesse risparmiare l’energia per muovere gli arti e dedicarla a pensarci su per qualche imbarazzante secondo.

«…cosa?» Non era sicuro della risposta, ma almeno serio nel tentativo.

«Ho detto la prima!»

Nessuno si preoccupò troppo dell’insolenza, piuttosto di quanto potesse essere controproducente sbattere un tablet di ultima generazione sul ripiano di legno rovinando lo schermo retina, tutto solo per un leggero scatto di rabbia.

«Molto… - alla ricerca dell’aggettivo, la voce dell’uomo si stringeva nelle mandibole: avesse perso il soave tono, il contenuto sarebbe passato automaticamente in primo piano e nessuno desiderava ciò, tanto meno Acromio stesso – audace, direi. Soprattutto vista la sua posizione…»

«Senta, se il vostro unico capo d’accusa è andare a ripescare fuori contesto post controversi in qualche mio blog abbandonato anni fa, - Camilla si girò lontana dal microfono, in preda all’imbarazzo – anche se, per favore, non fatelo, non credo di aver scritto cose molto lucide, a quindici anni…»

Non per nulla, quando vedeva Iris o Anemone o Camelia cliccare il tasto di condivisione per una qualche loro foto scattata per scherzo, un brutto sentore si risvegliava nel suo stomaco.

E si riprometteva di cancellare le foto fatte con il suo primo telefonino nel bagno di casa dei suoi a Memoride, in pessima qualità sgranata, con il rossetto e lo smalto nero, le code dell’eyeliner lunghe fino alle tempie per assomigliare più che potesse ad un’occidentale e gli immancabili piercing finti: il desiderio sfrenato di ricevere complimenti da degli estranei era bilanciato dalla paura dell’essere scoperta da mamma, mediante una qualche spifferata di sua sorella minore.

«Tsk, sarebbe bello potersela cavare così. Anche se, a pensarci bene, sequestrare i registri delle sue attività online… Ha presente, la cronologia delle ricerche? Ci potrebbe fornire ulteriori prove! Ultimamente ha per caso interagito con altre ragazze minorenni in maniera predatoria?»

«Cos…!?» Sentire la voce della Campionessa salire di qualche ottava lasciò tutti un po’ sconvolti.

«Se non lo ha ancora capito, ha sulle sue spalle un bel macigno da cui discolparsi, qui leggo… leggo… e che leggo? Manipolazione, abuso sessuale e inclinazione alla pedofilia.»

«Pff! – Quella risata esplose e nessuno la trovò appropriata, ma per Camelia quello era il colmo – S-Scusa leader, io l’avevo detto solo per scherzare, non volermi male per questo, ahah…»

Invece di rammaricarsi dell’essere stata appellata “vergine ventenne” ingiustamente a inizio luglio (nonostante grazie alla coincidenza del reggiseno nell’onsen fosse nata la storia d’amore più interessante dell’intera stagione) parole ben diverse le risuonarono, stavolta come un monito per il futuro che le era appena scorso davanti senza che si fosse potuta arrangiare in anticipo.

«Ma corre anche voce che la Campionessa di Sinnoh sia una lesbica ninfomane pedofila che intrattiene relazioni non consensuali con ragazzine più piccole di lei...»

Si ritenne una sciocca. Il timore che le reclute d’élite del Neo Team Plasma fossero davvero venute a uccidere le sue compagne l’aveva acciecata e lei non aveva letto fra le righe, nemmeno intuito che ci fosse stato un piano b nel caso non ci fossero riuscite.

«Questa è pura diffamazione. - Appoggiò la testa sui polpastrelli, deformando il sopracciglio per l’indignazione – Non ho mai toccato una ragazza con queste intenzioni in vita mia, in una regione con un briciolo di dignità sarei io a doverla denunciare, lei e tutti quelli che…»

«Quindi ha presente di cosa stiamo parlando, in minima parte. Accuse relativamente recenti.»

Camilla era stata l’unica a non condannare Iris per la sua reazione alla primissima volta in cui l’insopportabile capo del partito aveva messo in bocca loro sentenze non veritiere, tanto che si resse in piedi pur di non rimanere passiva davanti ad un tale affronto.

«Non ci provi neppure, a insinuare che io abbia violentato qualcuno! Soprattutto, visto che è stato Nardo a darmi questo incarico. – Da lì s’impadronirono di lei sentimenti più grandi, considerazioni che si portava dentro come un testamento della sua esperienza da mentore – Quanto privo di… amore, fiducia ed empatia deve essere il vostro mondo per non riuscire nemmeno a metabolizzare la stima e l’ammirazione che un leader possa dimostrare nei confronti delle proprie… compagne di viaggio?»

L’ultima definizione la lasciò leggermente titubante, ma subito fece l’accorgimento di annuire e riconferirle convinzione. Perché in realtà la Campionessa avrebbe voluto usare altre denominazioni per le carissime, irriverenti e a suo parere inimitabili Allenatrici la cui silhouette non vedeva l’ora di vedere inondata dalla luce dei riflettori, stagliata contro i banner pubblicitari e l’oceano di bacchette fluorescenti colorate.

Sul momento avrebbe confutato questa tesi. A due settimane da quando erano state invitate alla convivenza, lei si sentiva ancora “leader”. Già meno però, quando le toccava raccogliere dal campo di lotta le Pozioni vuote e gli asciugamani bagnati dimenticati puntualmente, quando il suo subconscio la tentava di andare a farsi per prima la doccia, finché c’era ancora acqua calda.

La sua ipotetica etichetta era ormai sbiadita poco a poco, per ogni alba passata a leggere e rileggere gli appunti e le strategie ideate dalle quattro, ancora accoccolate nei loro futon; stritolava la penna rossa e mangiandosi a malapena un “questi errori non li facevo neanche a otto anni” e per resistere, li confrontava con i fogli di due, tre giorni, della settimana prima, per ricordare a se stessa quanto fosse bella la definizione di “fare del proprio meglio”. E anche tre o quattro tazze di milk tea, in aggiunta.

Odiava pure sgridarle, dimostrarsi pedante sui punti critici e richiamarle quando tentavano di ribellarsi.

Ma si rivedeva nei loro sbagli e nelle loro lacrime, avrebbe rimediato ad ogni costo per qualsiasi cosa impedisse loro di essere ragazze felici, oneste e lottatrici provette.

Non ci credeva neppure lei a quanta strada le mancasse prima di diventare “perfetta”, come molti s’azzardavano ad appellarla. Il cammino era comunque una cosa incredibile, le sue amiche si appoggiavano a lei per sostenersi nei declivi e allo stesso tempo la sorreggevano quando si sentiva affaticata dal peso della responsabilità da leader.

«Quello che nel nostro mondo importa è la salvaguardia di minori da offese da parte di persone moralmente degenerate.»

«Vostro onore, se mi permettete…»

Acromio roteò il polso, offrendo il palco ad uno dei Capipalestra. L’uomo parlò, appoggiando il cappello bianco e sbattendo il tacco sulla gamba del tavolo, in segno di irritazione.

«Non vorrei rovinarti il monologo, prof. Ma ti serve almeno uno straccio di prova che questa bella bionda si sia… – incastrò e agitò per un paio di volte indice e medio di ogni mano aperti: si trattava sempre e comunque di un luogo rispettabile – una di quelle sue amichette vispe. Altrimenti lei è pulita e sei tu l’unico a farci brutta figura.»

«Le rispondo subito: uno degli espedienti più usati dai molestatori seriali è quello della manipolazione. Far fare alle vittime cose che normalmente non farebbero mai: le considererebbero sbagliate, folli o non-da-loro. Capisce? Comincia tutto da dettagli minimi…»

«Poche chiacchiere, saltimbanco.»

Il professore tornò a parlare con l’imputata, assicurandosi di catturare del tutto il suo sguardo.

«Campionessa Kuroi. Cosa stava pensando esattamente, quando ha trascinato quattro ragazze sotto la sua guida a farsi massacrare, rischiando quasi la vita, combattendo contro i dissidenti del vecchio Team Plasma, alla Lega Pokémon? Quale giustificazione ha? Sentiamo.»

«Quale giustificazione ho? Quale giustificazione ho?!

Ghecis vuole umiliare il Campione e devastare il simbolo della collaborazione millenaria fra umani e Pokémon, mettendo a ferro e fuoco la regione di Unima e a noi non sta bene.

Le va bene questo, come giustificazione?»

«Tsk. Quel messaggio trasmesso in televisione era chiaramente finto! Queste maledette teorie della cospirazione! Lo ha smentito il giorno seguente, Ghecis Harmonia in persona.»

L’uomo si sistemò gli occhiali sporchi ed impolverati, per focalizzarsi sulle iridi cineree della giovane donna.

«E la prego… “a noi non sta bene”? A lei non sta bene! Ecco qui l’esempio perfetto: queste ragazze obbediscono ai suoi ordini, ai suoi desideri efferati come burattini. Come se delle adolescenti sane di mente se la sentissero davvero di combattere fino alla morte di loro spontanea volontà. No, anzi: ciò che ha fatto lei è stato approfittare della loro debolezza psicologica per propugnare le sue deviazioni! Ribadisco: abbiamo una manipolatrice e bugiarda compulsiva qui.»

Non detestava Acromio e le sue tattiche sofiste, ma la contraddizione insita in esso: aveva permesso lei che i Pokémon drogati delle reclute infilassero gli artigli nella loro carne e le ferissero con zanne, proiettili, addirittura con la forza telecinetica? Camilla rappresentava la probabile chiave di quell’effetto Nora.

«Sto prendendola troppo sul serio. Non può essere colpa mia… No? Ovvio che no! Se solo non mi sentissi così male, perché? Non è colpa mia, però… Se siamo così patetiche, deboli, incapaci, inaffidabili…

No, non sono loro. Sono io.»

«Mi scusi. Vorrei fare un’obiezione, - una ragazza si alzò in piedi, non appena la sua richiesta fu accolta; non avrebbe lasciato la sua migliore amica e amante sola a combattere come durante il primo attacco all’onsen – In qualità di sub-leader.»

«Bene, adesso come minimo il prof mi insulta perché sono bionda, stupida e disabile.» Si disse Catlina, attendendo di parlare.

«Signorina! Con che genere di saggezza ci vuole deliziare oggi? Sempre che si senta abbastanza lucida, che non le vengano capogiri… ma vada pure! E alzi la testa quando parla con un superiore, qui non siamo dipendenti suoi o degli Yamaguchi.»

La giovane respirò forte per la seccatura. Ma non si sarebbe concessa di incassare un altro colpo basso per via della propria personalità docile.

«Volevo dire che noi siamo venute alla Lega, a combattere il Team Plasma, di nostra spontanea volontà, non perché Camilla ce lo ha imposto. Non ci ha manipolate nessuno.

E, mi scusi, ovviamente su di noi c’è riflesso qualche cambiamento del tempo che abbiamo trascorso qui… S-Sono la prima a dirlo: prima avevo paura perfino di parlare con altre persone, di esprimere i miei sentimenti perché… boh, nessuna ragione in particolare; ero viziata, paranoica e direi anche un po’ stupida.

Camilla non ci controlla, fossimo così influenzabili… fosse così non ci avrebbero neppure scelte per partecipare al torneo regionale. Aiutarci e darci indicazioni su come sfruttare al meglio il nostro potenziale è il suo compito, e noi ci fidiamo di lei. A-Almeno, io sì.»

«Questo non è proprio quello che uno si aspetterebbe di sentire dopo un lavaggio del cervello eseguito da una maestra dell’arte?»

Inutile che Acromio cercasse di vittimizzarla quando neppure lei aveva interesse in ciò; si era nascosta dietro ad una marea di scuse, dietro al proprio corpo infermo e alla visione distorta dei propri sogni troppe volte e lo scudo di menzogne che pensava potesse tenerla al sicuro per sempre accumulava falle, finché non s’era sbriciolato nell’incubo che la vedeva sola, in un mondo bianco senza speranza e senza futuro.

Avrebbe preso in pieno il proiettile, catturandolo come una mosca mediante il solo palmo della mano, lo avrebbe guardato puntare al suo viso, per poi scagliarlo contro il suo nemico, specchiandosi nei suoi occhi.

«Sono sopravvissuta ad un elettroshock, ad un colpo di pistola, al mio primo cuore spezzato, ad una contorsione fatale, a un coma di tre giorni…»

«Signorina, il pubblico ha capito…» Gli parlò sopra, mai lo aveva fatto fino a quel momento.

«…ad un intervento a cervello aperto e ad un’overdose di stupefacenti, grazie a Camilla.

Credo che adesso… – lo enfatizzò di prepotenza, arruffando ancora le piume al pollo – adesso…»

La Campionessa si spostò le chiome dietro le orecchie con le mani libere, come se le stesse fibre potessero distoglierla dall’avvertire un rumore sospetto: non che non ne fosse a conoscenza; aveva sistemato il suo futon (lo usava raramente per dormirci, purtroppo per lei) a fianco di Catlina per almeno due settimane, per controllare non stesse male durante il sonno.

«S-Scusate… - le uscì dal fondo dell’esofago, nessuno a parte lei lo sentì - N-Non… Io… Non mi sento bene…»

Il respiro affannoso, le pupille dilatate, la mascella rigida, le mani tremanti. Sul lato delle labbra su cui aveva riversato calore, passione e incontenibile vitalità, un rivolo schiumoso sembrava una secrezione mortifera, un rimasuglio di un’anima infettata.

Camilla girò la testa; rimpianse i pochi secondi sprecati in quell’azione e si mosse immediatamente, abbandonando la sedia e precipitandosi verso la fila di banchi.

«Spegnete quella luce dietro, subito! Quella che continua a spegnersi e riaccendersi…»

Cinque reclute scelte per la corporatura tozza, barricarono la giovane donna, neanche volesse compiere qualche efferatezza, neanche volesse altro se non aiutare la sua compagna sofferente sul pavimento laccato, nel mezzo di una delle sue crisi.

«Era dietro di me, era dietro di me quella trappola mortale, accesa… in tutto questo tempo, Io…»

Che il tutto fosse stato architettato per mettere fuori gioco la sua migliore difesa, avrebbe potuto considerarlo un proprio errore di calcolo. Un errore maledetto, che la sua amica d’infanzia stava pagando contorcendosi e annaspando disperatamente. Alla fine, sempre un errore suo.

«Come non detto… - la punta luccicante del mocassino sfiorò da così vicino alla guancia della giovane Superquattro da quasi calciarla – Chi ha permesso che una degente in condizioni di fotosensibilità così elevate sia stata dimessa in meno di un mese? Chiamate un’ambulanza, fatemi un piacere.»

Ma il fatto che Acromio stesse attivamente prendendo in giro la fiducia che aveva rimesso in piedi Catlina dopo tutte quelle sventure, per lei era come costui bestemmiasse il nome della divinità che faceva sorgere il sole per lei ogni mattina.

Camilla provò a dimenarsi ancora, cercando di ignorare il dolore provocatole dalla stretta delle reclute; l’ultima cosa che vide prima che una di esse s’arraffasse ai suoi capelli per riportarla al suo posto fu il tentativo delle altre tre Allenatrici di sciogliere le manette, a causa delle quali la biondina rischiava di rompersi un braccio a causa di qualche malaugurata manovra impulsiva.

«Non vogliamo ulteriori distrazioni per tutta la durata del processo, nessun intrigo da commedia. Voglio che questo concetto sia cristallino.»

Camilla udì Catlina tossire, l’unica cosa che era in suo potere era pregare che i soccorsi arrivassero alla svelta, prima che ella si strozzasse con la saliva o qualche microfrattura si riaprisse, dopo che aveva faticato tanto per rigenerarsi fuori e dentro di sé.

«Prossima domanda.»

Il segretario del partito sventolava la penna elettronica come una turbina, il suo ghigno beota ancora intoccato si frammentava in un caleidoscopio sullo schermo crepato.

«La ringrazio. Buongiorno, Campionessa. - Esordì un giovane uomo dai capelli castani mossi, la deliziosa sciarpa in cotone rosso si azzuffava con la camicia verde veronese, ma dai suoi occhi non traspariva alcuna malizia – Innanzitutto, sono dalla sua parte, per ora, a meno che non venga fuori altrimenti.»

Normalmente, Camilla avrebbe ringraziato anche il minimo complimento o un vago supporto; tuttavia, il posto vuoto nella prima riga le pareva enorme, quasi quanto una voragine dopo un cataclisma.

«La parte sull’alterazione mentale, quella lì, penso abbia un peso importante, almeno quanto le accuse di molestia sessuale. Quello che voglio chiederle è: vi sono dei precedenti? Non è possibile che una figura così eminente abbia macchie tanto grandi da passare inosservate…»

«Davvero vi è così difficile credermi? Sono nata a Sinnoh in un piccolo paese sul Monte Corona, da una famiglia normalissima di quattro persone. Sono andata a scuola, ho ricevuto un Pokédex e ho partecipato al torneo della Lega come tantissimi altri Allenatori. Ho fatto queste… “cose da Campione” per cinque anni oramai, starei cercando di vivere la mia vita e fare quello che mi piace: volevo viaggiare all’estero e venire a studiare la mitologia di Unima da un sacco e ce l’ho fatta.

Non capisco cosa ci sia da demonizzare se una persona ha una vita tranquilla e felice, per una volta.»

La giovane si accorse di aver inconsciamente capovolto la strategia usata da Camelia per sollevarsi dai guai per la gola: forse era giunta al limite delle forze e voleva solo terminare la seduta, nonostante avesse premuto lei stessa per velocizzarne l’andatura.

Oppure, riuscire a spegnere ogni focolaio di sospetto e curiosità nei confronti del suo passato, avrebbe distolto l’attenzione dall’etichettare lei e le sue associate come vittime e carnefice, essendo del tutto esente dal classico background travagliato e disturbante dei personaggi moralmente grigi.

Si dispiacque di poter dare l’idea sbagliata, quella della dea delle lotte bella e perfetta che non conosce l’amarezza o la sconfitta, quell’ologramma in cui troppe persone erano rimase intrappolate fino a provare autentica delusione scoprendolo consistente come l’aria rarefatta di un picco desolato.

Contò ancora sulla bontà delle sue ragazze: lei non aveva creduto un secondo che Camelia fosse solo un’antipatica sputasentenze, che Anemone agisse solo per amor altrui, che Catlina fosse distante e dimentica di tutta la loro gloria passata. Finora avevano sempre ricambiato le speranze che lei serbava per loro, le dimostravano in tal modo di vederla come una persona umana e ciò non poteva che scioglierla nell’animo.

«Per quanto riguarda le relazioni interpersonali? Compagno, fidanzato, marito?»

«Non ne sento il bisogno, grazie. Il prossimo.»

Davvero non riusciva a digerire certe domande, se non dopo essersi scolata otto coppe di sake alla prugna.

Se si diceva che la Campionessa Camilla fosse abbastanza resiliente da affrontare Allenatori su Allenatori in match giornalieri senza pause per ricaricarsi e curare la sua squadra, un cuore spezzato non poteva aver mai avuto un impatto tale da invogliarla a predare ignare ragazze, le quali avrebbero comunque dato poco da farsi a prescindere: non ci erano voluti mesi, addirittura anni prima che la modella uscisse da circolo vizioso delle relazioni casuali con uomini più voltagabbana di lei?

Come è perfettamente impossibile amare senza conoscere l’amore di persona, pensava la bionda, il non essersi mai impegnata in una relazione nemmeno una volta la rendeva inesperta, certo, molto cauta e a volte anche impaurita; ma arrivare a considerare tale mancanza d’esperienza terreno adatto ai germogli di semi d’odio…

L’idea che la teoria degli opposti sempre in movimento, che definire “la sua”, come se ne fosse appropriata, sarebbe un po’ da ipocrita, s’accoccolò al suo stomaco. A meno che non la rinnegasse, in mezzo al mare di amore in cui s’immergeva e si purificava per e con le sue adorate, carissime compagne, una goccia d’odio si nascondeva fra i flutti e con crudeltà inaudita inquinava il suo cuore.

«Il bisogno, dice?»

Ma Acromio s’era impuntato su una storia inventata. Dopotutto, neppure il cuore della donna era stato davvero pronto a quella confessione affettuosa che la più piccola del gruppo aveva mormorato fra le sue braccia, al tramonto, non trovando momento più adatto.

«Più che una leader…»

«Quanto la rende virtuosa, questa storia del celibato volontario, signorina Campionessa! Ah, ah, ah! – Il professore mimò una risata sgangherata, ipotizzando l’essere impazzito a causa della contraddittorietà delle azioni della donna, come se fosse lui stesso a star recitando un’esagerazione – In che modo strano gira il mondo, in questi tempi!»

Lasciò calare un proiettore, di qualità decisamente superiore di quello disponibile per loro sintonizzato sul canale dei messaggi snervanti ma importanti, nella loro cella.

Se le sue orecchie fossero state marchingegni collegati ad una qualche scheda madre che controllava le sue razioni, voleva ogni singolo cavo reciso, un ictus alla propria coscienza messa in una posizione così scomoda; si stavano surriscaldando e lei perdeva la voglia di stare a sentire il professore ancora.

Ed ancora era grata che qualcuna non smettesse mai di darle una distrazione.

«…per noi sei...»

«”Adamante” nelle sue posizioni è dire poco. Magari è vero: davvero non ne è cosciente. Davvero pensa che tutto questo sia assolutamente normale. Una cosa tipica da ragazza normale, da una famiglia normale, che fa un lavoro normale, passatempi normali – non sapeva se interromperlo e ricordargli di aver insultato la sua compagna per aver usato un’anafora come effetto retorico poco meno di un’ora prima - con una vita sessuale… normale!»

Aveva pigiato una combinazione dal tablet senza nemmeno distogliere lo sguardo da lei: era prevedibile che Acromio non si fosse gettato nella disputa a mani vuote. Camilla credeva di aver sprecato i suoi fendenti migliori per un omuncolo disarmato, all’inizio.

«Campionessa, le chiedo solo una cosa: non pensa mai a come si sentirebbero i suoi genitori, sapessero di queste cose?»

«”Queste cose”, cosa?!»

Come nel mito di Orfeo e Euridice, una voce dentro di lei la scongiurava di non cedere alla tentazione di girarsi a vedere la propria nobiltà d’animo sfigurata sul grande schermo, la sua dedizione resa spregevole ossessione; ma lei cedette, perché in fondo avevano ragione.

Lei una debolezza ce l’aveva.

«…Come una sorella maggiore.»

Nessuno ci fa mai caso al fatto che dopo grandi ribaltamenti, dopo ogni catastrofe, ciò che rimane sulla terra è lo stesso per tutti, ma ciò che si sedimenta in ognuno dei superstiti varia sotto quasi ogni aspetto.

D’altronde, non si può costringere uno ad identificare il tipo di fiori sbocciati sul colle fertile dopo un’eruzione vulcanica, dopo che il fuoco e la cenere hanno inghiottito tutta la vegetazione passata. Quanti saranno i granelli di sabbia che la risacca appoggia sulle spiagge delle regioni? I frammenti taglienti delle conchiglie rotte lasciano un’impressione, almeno.

Il bagliore dei fuochi d’artificio che si pone innanzi alla luna, intimidita dalla prepotenza umana di segnare pure il regno celeste con i suoi fumi e i suoi colori, nonostante non gli pertenga. La voglia di zucchero e dolci, di eccitare il palato per poi finire inevitabilmente a morire di sete. Il telefonino che pregava di aver pietà del poco spazio rimasto nella memoria d’archiviazione, con un insistente notifica per ogni fotografia scattata ad un artista di strada, ad un Pokémon raro proveniente dall’estero, al volto sorridente della giovane donna che stava al suo fianco, perfetta anche senza l’ausilio delle applicazioni di bellezza.

Iris si rese conto di starsi stringendo la mano da sola, pur di replicare il calore di quella della sua compagna più grande, di come l’aveva catturata la prima volta che erano uscite assieme, di quanti sentimenti l’avesse fatta provare quel gesto e fra tutti quelli che il buonsenso le avrebbe voluto rinfacciare come monito alla sua scarsa consapevolezza… felicità, ricordava solo inspiegabile felicità associata al vibrante pattern dei loro yukata, all’odore di olio e alla bellezza di essere all’aperto, sotto gli occhi di tutti, mano nella mano.

«Nonno, ti prego, non arrabbiarti… Non è successo niente, ti giuro su…»

Tuttavia le sue dita erano gelide, come toccare le falangi scabre di uno scheletro.

Oltre il vetro, spesso abbastanza da farle percepire la distanza per cui nemmeno allungando il braccio avrebbe potuto sfiorare, la barba bianca e gli occhi vigilanti sui suoi progressi e i suoi difetti da sempre, le apparivano così truci, così terrificanti, fauci incupite e digrignanti pronte a morderla.

Aristide non era arrabbiato con sua nipote. L’uomo era estremamente deluso, mortificato era dir poco.

Questo perché della stupenda serata che aveva condiviso con la Campionessa di Sinnoh non era rimasto nulla, il rogo di Alessandria aveva colpito i ricordi di tutti. Eccetto, nonostante non fosse neppure presente quel dì, quelli del Team Plasma.

Ad essi spettava la versione più equamente oggettiva e dolorosamente neutra che potessero usare per rappresentare cosa succedesse nella casa del Campione, dove si consumavano i segreti delle ragazze; non c’erano suoni, una visuale dall’alto, la nitidezza delle immagini riprese rispecchiava quanto in superficie si fossero fermati per interpretare i fatti di quel giorno.

Le era stato detto chiaro e tondo che lo spionaggio procedeva “da giorni”, ma né lei né Camilla si erano preoccupate di incolparsi, di pentirsi o di nascondere il loro, di segreto.

«Eddai, per quanto ciò che è stato catturato dalle nostre telecamere sia indubbiamente degenerato e di cattivissimo gusto, non c’è bisogno di coprirsi gli occhi! – Acromio invitò i presenti – Il Partito si è preso la briga di censurare quelle parti non proprio adatte alla trasmissione in prima serata!»

Se lo shock non l’avesse immobilizzata, avrebbe dovuto fare come minimo i complimenti al Team: erano riusciti ad estrapolare dal contesto originario uno dei momenti più significativi per la sua crescita, farglielo rivivere mostrandoglielo integralmente e a farla quasi vomitare dal disgusto.

Il suo sogno di una notte di mezza estate di una quindicenne era diventato un incubo, un trauma, un qualcosa di cui si sarebbe dovuta vergognare per tutta la vita.

«…Cosa mi devi giurare, Iris?»

Tutte le volte che si trovava da sola con il suo vecchio non aveva mai lasciato intercorrere alcun silenzio imbarazzante, ed il venir chiamata improvvisamente per nome dopo il verificarsi di uno stesso la fece rabbrividire.

«Ti giuro, ti giuro… - Le mancò il respiro - Camilla non mi ha fatto niente, nell’onsen...»

L’anziano abbassò la testa prendendosela con la mano, esalando addolorato; la ragazzina lo udì con i nervi.

«Quando mai, quando mi ti è stato insegnato di farti violare da un’estranea! – la riprese e la voce si fece come un tamburo rituale, scuotendo ogni mollezza nel suo corpo, con una pausa – Come aggravante…»

«No, non mi ha neanche toccata, noi stavamo solo parlando!» Ribatté e il suo tono da bambina eruppe, nonostante lei volesse nasconderlo almeno per quella diatriba.

«Che ti sei messa in testa di fare? A farti vedere nuda da una donna adulta...»

«Camilla mi ha spiegato che è una cosa normale a Sinnoh, serve a conoscersi meglio e, ti ripeto, non mi ha toccata né niente! Sei solo paranoico…»

«Ti sembra una cosa che io e tua nonna… – non riuscì neppure a completare la frase, si macchiò di anacoluto da quanto era sconvolto – ecco, pensa! Pensa alle conseguenze, una volta tanto: a quanto ci aspettavamo da te.»

Iris avrebbe voluto fingere di non sentire tutto il discorso, ma in particolare l’ultima frase. Perché così sembrava che lei la galera se la meritasse, che fosse conseguenza naturale per le sue malefatte.

E che aveva fatto di male? Certo che lo sapeva. Aveva vissuto isolata dal proprio passato e dal proprio futuro troppo a lungo, si credeva un libro aperto e si portava alle spalle strappi alla coscienza grandi quanto un canyon.

Aveva obbligato a suon di suppliche suo nonno a farle mollare la scuola, dimostrando subito di non essere sociale, di non avere attitudini, di non saper seguire una procedura sicura e basilare, di aver bisogno di sforare dalle regole per sentirsi orgogliosa.

Alla Sala del Governo, Aristide avrebbe risposto alle sue proteste contro il governo degli Harmonia come aveva fatto il professore, chiedendole dove fosse il suo diploma, se fosse sotto quella lingua lunga che si ritrovava.

E da lì, rifiutando la strada battuta dell’istruzione superiore, la sua bambina si era incamminata in mezzo ai rovi, sui sentieri tortuosi, tutta sola, nella convinzione di trovare se stessa fra gli spettri dei sognatori disillusi nel tentativo prima di lei.

Infatti, eccola lì, dove l’aveva trovata? Senza vestiti, a farsi sbranare viva da belve feroci, senza nemmeno battere ciglio.

«Beh, cosa ti aspettavi? Che mi facessi odiare, non posso nemmeno avere delle amiche? Dovevo fagli vedere io che sono la più forte solo perché sono la nipote di un Capopalestra?»

Non lo chiese ironicamente. Desiderava sapere davvero cosa nascondesse suo nonno dietro alla sua bontà condiscendente, che figlia s’immaginava che la sua “Iris” fosse. Lei non la vedeva da nessuna parte.

Il vecchio Domadraghi le manifestò il suo compunto, rifiutando tali scuse degne di una reietta con disturbi mentali, incapace di capire la realtà. Sperava di far risuonare della ragionevolezza in lei, per riportarla al suo stesso livello. Eppure la giovane Allenatrice sembrava averlo abbandonato, come una scapigliata che fugge con il suo amante, la testa persa in chissà quali fantasie idiote.

Il fatto era che lì non c’era nessun primo amore a sviarla… No, non c’entrava nessun ragazzo in quella faccenda.

«Questa in cui ti sei tirata in ballo non è “amicizia”. – La guardò dritta negli occhi marroni – Non me ne frega niente delle altre quattro e dei loro problemi. Possono fare tutte le schifezze che vogliono, fra di loro.

Ma che tu, tu ti vada a far stuprare da donne adulte… Dov’è la tua dignità? Oh? Chi te le ha insegnate queste cose? Ce l’hai un po’ di rispetto per chi ti ha tirato su?»

«Ancora! Basta! Sono io che ho detto a Camilla di sì nell’onsen! Non mi ha stuprato nessuna, io ho fatto la mia scelta e le ho detto di sì, non c’è niente di sbagliato qua! Acromio l’ha incastrata perché vuole toglierci dalla competizione… - un singulto rallentò il suo fervore e ritornò languida, come all’inizio – Nonno, ti prego, ti prego… Cerca di capirmi.»

Quando la cintura del kimono era caduta, aveva indugiato, lo ricordava. Ma appena Camilla si era esposta a lei, alla sua apprendista Campionessa che aveva salvato dall’attacco di un Pokémon selvatico e da uno del Team Plasma. A lei, prima che ad ogni altro amore della sua vita.

Anche se la sua carne non era sviluppata, le sue curve non erano ancora abbastanza mature per reggere un confronto equo, senza riservare nemmeno la minima dose di amore che il suo minuto petto conservava per un momento del genere, come avrebbe potuto innescare il meccanismo su larga scala?

Se non sapeva amare una persona tanto dolce, gentile, coraggiosa e sensibile nei suoi confronti, come avrebbe potuto una Campionessa diffondere l’amore nella regione di Unima, nel mondo intero?

Qualora avesse voluto semplicemente baciarla in bocca, strizzarle il seno o toccarle le gambe e il sedere, avrebbe potuto farlo: le circostanze erano a suo favore. In teoria l’avrebbero ugualmente criticata, cambiava solo che così c’erano prove concrete per la sua colpevolezza.

Ma c’era stato un qualcosa in aggiunta. E le due, pur non sapendolo ancora definire a parole loro, avevano capito che proprio grazie a questo qualcosa il loro bagno insieme aveva avuto un senso.

Una volta uscite dall’acqua e asciugatesi la pelle bagnata al sole, sia Iris che Camilla, entrambe erano cresciute un po’.

«E tu, cerca di raddrizzarti e torna a farti piacere i maschi, ti conviene.»

La ragazzina allontanò lentamente la cornetta da davanti alla bocca, sebbene non si sentisse nemmeno la vibrazione del fiato; se fosse stato un vero telefono a filo, avrebbe lasciato cadere la linea con un tubare perturbante.

Ormai le sue orecchie si erano riempite di insulti e a suo malgrado, la loro cattiveria andava in crescendo dall’inizio della stagione. La fiducia che aveva in sé, la sua identità ci aveva fatto un callo a tal punto da trovargli un senso: credeva che ci fosse dietro una progressione, che appena lei veniva ingiuriata con qualcosa di nuovo o originale aveva il bisogno di pensare “forse non avrei dovuto prendermela per la volta scorsa, non era poi così male”.

Anche a furia di sforzarsi di nuotare in quel fiume di chiodi, perché la punta più affilata e con la ruggine più tossica doveva avergliela spuntata colui che doveva invece farle da zattera di salvezza?

«Se anche io avessi voti alti in matematica, storia, scienze, se fossi la rappresentante di classe, se facessi i corsi aggiuntivi per entrare alla lega d’oro delle università mentre lavoro al Pokémart nel finesettimana e ha comunque tempo di leggere i libri di economia e di politica prima di andare a letto senza affaticarsi troppo a suonare uno strumento o a far pratica di lingue straniere o a scrivere poesie per i concorsi…»

Neanche Camilla avrebbe retto il confronto. Nemmeno lei, nonostante possedesse tutta la sua ammirazione.

Non credeva che gli anni e l’anzianità fossero tanto inclementi sul giudizio del Capopalestra. Lei stessa era grata per i traguardi raggiunti dai suoi predecessori, le capitava perfino di puntare il dito contro la sua generazione all’insegna della passività e della frivolezza.

Gli aveva dimostrato già dalla tenera età di non aver paura di ferirsi per offrire dal suo palmo una Bacca ad uno Zweilous affamato, di essere disposta a rovistare aiuole piene di erbacce alla ricerca di una campanula che dicesse “ti voglio bene” con la sua tenera bellezza al suo vecchio. Non aveva guadagnato rispetto neppure in tal modo.

«…Lo dici solo perché Camilla e le altre sono femmine?»

Un silenzio ed Iris si morsicò le labbra, senza perdere la risolutezza.

«Allora sei un infame.»

Non ci fossero stati venti centimetri di vetro a schermarla, avrebbe finalmente sentito cosa doveva aver provato all’epoca Camelia, che non giustificava comunque in base a ciò, ma dopo un ceffone in pieno viso anche a lei sarebbe venuto istintivo lasciare Boreduopoli e cancellare le proprie ignobili origini.

«Da chi hai preso queste parole?! Parli così a tuo nonno, da quando? Lo hai preso dalla spazzatura umana che frequenti? Oh!?»

«Non le conosci neanche…»

«Deficiente. Per fortuna, per fortuna, guarda, che ti hanno ripreso! Così impari a crescere: sei quasi un’adulta e ancora ti serve vedere le conseguenze delle tue stupidaggini in prima persona!»

La giovane dai capelli violetto stava per mollare la presa. Del resto, c’era il suo bene, in ballo. Se Aristide s’era infiammato fino ad insultare la sua intelligenza, un motivo valido doveva esserci. Non poteva essere in una posizione più opposta: i loro punti di vista si stavano scontrando e fra le scintille e i clangori si consumavano sia la pietà filiale, sia l’affetto paterno.

Tuttavia, l’uomo si toccò la barba ed aggiunse, in tono sarcasticamente critico.

«Non voglio neanche che le tiri fuori in un discorso, idee del genere…»

«…Perché? - Gli chiese, esasperata - …Perché, se fosse stato un ragazzo ti sarebbe andato bene?! Ragioni come il Team Plasma, io… non ci voglio ragionare con te.»

«Che maleducata, strafottente, ingrata sei diventata in mezzo mese!»

«Sono tutte queste cose solo per aver fatto un bagno insieme con una mia amica?»

«Iris, non sei nella condizione di dire niente. Dopo questa, tu sei come morta per me. Allora…»

L’anziano stava proseguendo a parlare, ma qualsiasi altro rimprovero avesse in serbo, non lo poté udire: la cornetta si trovava ora distante dal padiglione auricolare, sospesa a mezz’aria come gli ostaggi sul ponte delle navi pirata.

Alzando le sopracciglia sottili, l’Allenatrice e accusata si trovò entrambe le mani vuote, un tonfo fece intuire che il microfono avesse catturato l’urto della plastica contro il pavimento e pure il successivo dondolarsi al cavo che lo collegava alla centralina.

Aristide osservò sua nipote girarsi di novanta gradi, verso destra, mettendo le mani a mo’ di altoparlante: immediatamente due reclute si portarono ai lati del suo seggio. Invece di strattonarla, lei gli pose gli avanbracci e dopo averla ammanettata e bendata agli occhi, la condussero via, in silenzio.

Non poteva neppure udire i suoi passi. Le conseguenze, su cui la stava istruendo poco prima, stavano affliggendo lui, che non aveva colpa, che aveva provato ad instaurare un codice di condotta nell’essere che più aveva a cuore, ed ora vedeva la sua missione di genitore fallita e ciò lo avrebbe in eterno perseguitato.

Era sicurissimo che Nardo non approvava nulla di quanto era successo. L’ormai destituito ex-Campione le aveva per primo consegnate alle autorità, secondo la sua teoria.

All’anziano e distrutto Capopalestra del Nord non rimaneva che aspettare la sentenza per sua nipote; forse due, forse tre, forse dieci anni di carcere minorile ed un bel programma severo di riorientamento sessuale, che le avrebbe giovato di sicuro.

Non avrebbe permesso che una forza al di fuori delle leggi della natura e della sua etica ferrea gli strappasse via la sua piccola, innocente e perfetta nipotina.

«Allora, se dopo “questa” io sono “morta” per te...»

E tale forza non aveva uno, bensì quattro nomi diversi.

Mentre dietro quei nomi c’erano visi angelici, corpi divini, maniere accattivanti, potenza e carisma allo stato puro. Con quali mezzi avrebbe costui potuto arrestare le inarrestabili pulsioni dell’adolescenza?

«…allora forse non dovevi nemmeno adottarmi, infame.»

Nella totale afonia della prigione sgusciarono fuori i rumori che nella loro quotidianità scomparivano in mezzo a risate, musica e chiacchiere varie. Ancora con lo stomaco mezzo vuoto ed un caldo pazzesco, le quattro Allenatrici provavano a risparmiare il poco carburante che avevano in riserva cercando di muoversi il meno possibile e ad auto-ibernarsi in un bagno di sudore disgustoso.

Camelia aveva addirittura proposto di tagliare la testa al toro e levarsi di dosso le uniformi, giusto per evitare di andare in iperventilazione. Quando con civiltà tentarono di distoglierla dall’idea, ribatté che presto o tardi nei suoi anni di carriera qualcuno tanto le avrebbe hackerato il suo cellulare e pubblicato tutti i selfie che si faceva davanti allo specchio, le versioni originali che non sarebbero finite in nessuna delle sue pagine ufficiali.

Non capirono se stesse vaneggiando o fosse seria, ad ogni modo non glielo permisero; gli costò solo un paio di unghie finte spezzate abbandonate lì sul pavimento e un grumo di capelli biondi lavato via con l’acqua salata, a quell’ora calda quanto zuppa.

Le ragazze quindi non avevano ragione per non godersi quei minuti di degradante siesta dal valore immisurabile, sebbene i passatempi disponibili fossero limitati dal non arrecare disturbi alle sventurate complici.

La mora era distesa su un letto in basso, accarezzando continuamente i graffi di Iris sul petto e trovando il rialzamento sulla pelle stranamente piacevole al tatto, non che glielo avrebbe mai perdonato, pensava. Con il labiale percorreva una delle sue playlist senza le cuffie e senza far passare nemmeno un filo di voce, spaventata da quella mancanza di spazio personale nonostante non si facesse mai problemi di introversione.

In contemporanea, le dita di Camilla, assorta sull’ingiustizia della sua condanna e angustiata da che genere di terapia avrebbero scelto per curarla dalla sua ossessione inesistente, correvano fra i capelli della nobile dormiente sulle sue ginocchia; Catlina non aveva proferito parola dalla potenza degli antidolorifici somministrategli dopo l’attacco. La Campionessa lo reputò un bene per lei, l’avrebbero interrogata il mattino seguente e la donna giurò di fornirle mutua assistenza per qualsiasi causa le rivoltassero contro.

«Ohi, bentornata. Che t’ha detto tuo nonno? Per la storia del bagno, intendo…»

La bionda accolse Iris ancor prima che la porta si chiudesse. I ciuffi lilla bagnati ma non puliti fuggivano in tutti i modi dalla presa dell’elastico, il quale avrebbe richiesto un paio di forbici per venir scardinato dai nodi accumulati in mezza settimana. Oppure una mano forte, ma l’unica che sarebbe riuscita a spezzare la stoffa con l’uso della bruta forza appariva impegnata a fare altro, nel mezzo della propria concentrazione autistica.

«Guarda che faccia, come minimo avrà chiamato uno a farle un esorcismo! - la modella si rivolse alla donna – Leader, sai che ti capisco? Quell’onsen, mamma mia, è il sesso assoluto! Se esistesse un afrodisiaco fatto piscina…»

«Camelia, ti ringrazio dell’interesse, ma lo scopo per cui tu lo hai usato è totalmente diverso dal nostro.»

«Pfff, sai quanto me ne frega di che cosa ci devi fare nell’onsen… Te la sei presa? È perché ho preso io il meglio e tu ti sei dovuta accontentare? O aspetta, non sei davvero pedofila, hai solo gusti da plebea.»

«…mi stai seriamente dando della squattrinata?»

La Superquattro dischiuse mezza palpebra, non sia mai che qualcuno presumesse che il conglomerato di lotta dei suoi potesse competere con le tre-quattro borse di marca o gli orologi di zirconi che lo stipendio di un vip regionale. Voleva proprio farle vedere, si sarebbe comprata l’intera manifattura solo per farla tacere.

«Vogliono fare un’altra udienza fra poco.»

Questo è essere ostaggi: non avere la libertà di poter procrastinare le proprie inquietudini.

«Hanno detto che entro domani sera devono finire tutti i processi per avere il verdetto finale.»

La più piccola non si sentiva all’altezza di quell’annuncio. Non poteva rispondere a nessun loro dubbio, né chiarire la ragione per cui il Team avesse deciso di cambiare i loro piani senza preavviso, lasciandole alle mercé del loro pugno di ferro. Dai loro volti trasudava già tutta la frustrazione, tutto lo sconforto della sconfitta imminente.

A quel punto, stavano guardando le carte sul tavolo da gioco ribaltarsi e finire automaticamente nel mazzo degli Harmonia, non aveva neppure senso aspettare il loro turno e cercare di rispondere al poker di assi che Ghecis gli avrebbe piazzato, non che se ne sorprendessero più di tanto adesso.

«Ragazze, che facciamo…»

Catlina si sforzò di sollevare la testa ma ripiombò sul materasso dalle vertigini causatele ancora dalle medicine.

«Vado io, tanto non ci perdo niente.»

L’aspirante Allenatrice di Tipo Drago si rigirò le maniche, l’intestino si smosse nonostante fosse vuoto, spiazzato quanto la sua mente dallo stress e dalla stanchezza. Non aveva altra scelta.

Acromio l’avrebbe ridicolizzata come solo lui sapeva fare, la folla avrebbe provato imbarazzo trasversale finché suo nonno, il cui giudizio contava quanto tutti i Capipalestra della regione messi insieme, le avrebbe dato il colpo di grazia.

«No, scordatelo.» Solo con la punta delle dita la sfiorò Camilla ed il muscolo del collo le fece un male assurdo.

«Sì, ma, scusa…»

Malissimo. Pareva insicura, pure. Del suo alibi, il giudice avrebbe ridotto uno straccio e ci si sarebbe pulito le suole.

«Iris, stai battendo i denti. Hai freddo?»

Credeva di star guardando la compagna, eppure non stava focalizzando nulla, pur vedendoci perfettamente non discerneva alcuna forma, ogni oggetto sembrava piatto e privo di senso come in un quadro astratto. I pochi lampi di visioni oniriche, talmente transienti da non avere neppure la lunghezza per chiamarsi “sogni” delle tre ore circa in cui alla stessa maniera non poteva dire di aver “dormito”, irrompevano nel suo campo visivo.

Iris aveva rimandato tale considerazione, troppo presa a badare ai propri tormenti emotivi che spuntavano come bambini malformi, urlanti, usciti da chissà quale bolgia e che si moltiplicavano per mitosi.

Con il suo spirito sfiduciato e il suo aspetto miserevole stava obbligando Camilla a fare esattamente quello che le aveva proibito, l’unica cosa che voleva da lei; aveva violato il loro accordo privato. Ieri si era offerta per provare la propria superiorità, oggi per assoluta mancanza di amor proprio.

C’erano quaranta gradi lì dentro. C’era una ragazza con un cuore pieno di bontà ed una reputazione immacolata, rovinata dall’affezione per la sua zazzera viola e le sue promesse fatte in un tempo troppo felice per essere lucide.

Dopo il video di Acromio, la sgridata di Aristide e la tortura del Team Plasma, lei aveva ancora freddo?

Iris si odiò come mai in vita sua. Aveva ufficialmente abbassato la testa e detto “sì”, buttando via il suo orgoglio personale. Abbassò la voce, non perché non ci credesse abbastanza, ma affinché le spie con le cuffiette non sentissero una bella scossa sui timpani e poca soddisfazione nelle loro tattiche autoritarie.

Del resto, la sua non era più tortura per estrapolarle informazioni: era una vera e propria punizione. La sua riconversione sponsorizzata dallo Stato era cominciata in quella mezz’ora.

«Nessuno ti obbliga, se non te la senti. - Camilla si era già girata – Anemone, so che è brutto da chiederti, ma…»

Si trattenne dal piantare un pugnale nella bara, non rimproverare la rossa per quello che avrebbe definito un comportamento infantile in qualsiasi occasione le dimostrò che la sua soglia di tolleranza si era notevolmente abbassata.

Dopo aver attirato l’attenzione di tutte gettandosi sul lato con un guaito gutturale, la giovane aviatrice stette immobile per qualche secondo, abbandonando i graffiti incomprensibili aggiunti da lei sul muro: erano leggermente più comprensibili di quelli della bionda, ma il fatto che alle lettere latine si aggiungessero pure i numeri aggiungeva un nuovo strato di complessità all’enigma per decriptarli.

«No, Camilla, vai avanti. – La sua voce rimbombò all’interno dei palmi con cui si copriva la faccia e la bocca – Sai che io vivo per essere uno scudo umano, non aspettavo altro…»

«Per favore, comportati da adulta. Nessuno ci guadagna niente qui. Non essere egoista e…»

«Camilla, non la provocare, fai un piacere. – La riprese la sub-leader – Quella ti stacca un braccio se le gira male.»

«Per favore. – La Campionessa si passò le unghie fra i capelli, uno strato di forfora finì per annidarsi sotto di esse. L’ultimo bicchiere davvero digeribile che la sua gola ricordasse risaliva a due giorni prima, quindi apparve più stanca di quanto qualsiasi sessione di allenamento prolungato l’avesse mai resa – Arrivare a minacciarmi con la violenza…»

Con un salto dal dislivello di circa un metro e mezzo dal letto superiore, la ragazza affrontò direttamente la leader, non la sfiorò neppure ma la mise al corrente di possedere almeno il doppio della sua massa muscolare, in caso il suo piedistallo dorato l’avesse abbagliata a tal punto da usare lei come diversivo temporaneo.

Innanzitutto, lei non era una Poke-bambola da tirare al nemico per fuggire.

«Però ti farebbe bene, vista la situazione, leader.»

«Puoi anche non rubare le frasi fatte alla tua ragazza, che ha già dato per te, in caso non te ne fossi accorta.»

In aggiunta, Camilla poteva anche smetterla di fingere di avere la situazione sotto controllo, quando non aveva neppure i sotto controllo suoi panni sporchi esposti a quattro, non centomila, non duecento, quattro persone.

«…almeno io rubo da una persona sola, tu quado hai intenzione di dire alla tua amante narcolettica che la tradisci con la tua piccola cotta al limite della legalità, ah?»

A parte Camelia, che stava gridando le proprie risate fino a sentir male alle narici (un po’ si dispiaceva di non averci pensato per prima a questa imperdonabile gaffe, però era così dannatamente azzeccata! Per essere i due giorni peggiori della sua vita stava ridendo fin troppo, non era una cosa da persone sane), le altre assunsero facce di piombo ed aspettarono mute il prossimo processo.

Tanto cinque minuti dopo essersi sganasciata, l’isteria aveva esaurito le ultime risorse di energia rimastele in corpo; e la mora svenne per un calo di zuccheri. Quando provarono a rianimarla le insultò pure.

Sperando il tempo dell’attesa fosse abbastanza lungo da permetterle di schiacciare un pisolino prima di dover stare a sentire la rossa blaterare per un’ora e mezza qualcosa riguardo alle ingiustizie economiche della regione o qualche altro tema di cui a lei non poteva importar di meno, strinse il naso cercando sussidio nella poca lucidità mentale rimastale.

«Eeeeh…? No, aspetta… no, cosa, cosa… Cos…

Boh, capito niente.»

Reclinando il capo all’indietro e abbandonando la testa alla gravità, Iris emanò un sospiro smorzato, il coccige non lo sentiva più passando dallo star distesa sul letto coriaceo allo star seduta sul legno duro.

Neppure lei aveva mai così tanta ansia da palcoscenico: com’è che Anemone prendeva sempre il massimo dei voti alle interrogazioni? A cena, suo nonno aveva raccontato loro questo e ci aveva messo in gioco il suo orgoglio.

«Dovrebbe essere grata al nostro lavoro, signorina.»

La rossa strinse le labbra, da dietro i ciuffi appiccicati in punte carminio contorse tutti gli oltre cento muscoli facciali per riprodurre l’espressione più rilassata ed insospettabile che le riuscisse; per fortuna al team non era venuto in mente di adoperarla, perché la macchina della verità l’avrebbe smascherata immediatamente.

«Lo stiamo facendo per il tuo bene, sappilo.»

Se davvero gliene importava tanto da crearci un portfolio strabordante di carta lucida con firme di esperti del settore, fra cui logopedisti, fisiologi e, non osò crederci, assistenti sociali, come mai glielo mostravano solo adesso? Quanti soldi risparmiati, al posto di farsi in giro per le sale di psicoterapeuti in tutto l’ovest della regione! La giovane pensò ciò mentre si grattava il padiglione auricolare.

«…è stata dura, eh? Venir tirata su prima in orfanotrofio, poi in condizioni di difficoltà economica.»

Subito riconobbe la tattica di adescamento, ossia il fingere di compatirla. Non glielo disse nemmeno con sincera pietà.

«Sì… - La rossa aveva girato la testa e la sua voce non raggiungeva nemmeno il microfono - …dura.»

«Tutto questo bagaglio che ti trascini dietro… - Acromio puntò al fascicolo – Disturbi dell’umore, difficoltà a relazionarsi con gli altri, il continuo desiderio di distaccarsi dal mondo: hai mai pensato di chiedere aiuto? Ovviamente, non parlo solo di te. L’uomo che ti ha cresciuto, non si è mai chiesto cosa ci fosse che non andava?»

Assecondando l’ingenuità di quell’affermazione, ne estrapolò che il suo vecchio si fosse semplicemente arreso all’idea di sostituire tutte le componenti malfunzionanti di lei, che forse sarebbe stato meglio buttare via direttamente l’intero prodotto. Peccato che la sua adozione non fosse venuta con una garanzia di qualità.

Si sgranchì le spalle, guardandosi circospetta intorno: le occhiate dei presenti la intimorivano senza motivo, conosceva bene quel sentore di disagio, come se ogni persona del mondo non vedesse l’ora di raccontare al proprio vicino “ehi, l’hai vista quella?”. Era la ragione per cui non comprava mai manga in edizione cartacea se non su internet e pure quando li leggeva in pubblico li nascondeva dietro i manuali dei corsi d’aggiornamento.

«…non lo so.»

Nessuno la mandò giù, una risposta deprimente come un rigore mancato per la squadra in svantaggio.

Nel mentre, al professore scappò di nuovo quella risatina effemminata, quella che alle donne viene nei momenti in cui la situazione prende la piega desiderata e tale risultato sembra loro un colpo di fortuna, quando si tratta invece di una forzatura prevedibilissima, frutto di macchinazioni puntigliose con un risultato biunivoco.

«Bene, dai. Direi che è il momento di leggere un attimino le prove forniteci dal contributo prezioso dal nostro gruppo di Sondaggio Periscopico di Interni Anti-Rivolta di Emergenza.»

«…S.P.I.A.R.E?»

La giovane voltò la prima pagina, non riconoscendo nemmeno la stessa carta usata nelle udienze delle compagne. Le appariva più che altro come un report sulle loro attività quotidiane: c’erano orari, indirizzi con tanto di coordinate geografiche e perfino aggiornamenti sui loro movimenti virtuali quali telefonate, messaggi ed operazioni bancarie.

«Il dato su cui vorrei lei concentrasse la sua attenzione si trova nella dodicesima colonna della prima sezione, sotto i registri con la voce “R.A.”. Segua attentamente, per favore. Le nostre telecamere a calore hanno rilevato attività anomale nell’arco temporale che va dalle ore undici quarantotto della sera del trentuno giugno alle ore tre e diciassette dell’uno luglio. Quello che è stato riportato è un’alterazione al solito programma di spostamenti, visto che è abbastanza improbabile che mentre tutte le compagne stessero dormendo lei si stesse…»

«Oddio, basta! Perché devo sempre essere io quella a cui va peggio? Mettetemi in galera e fatela finita… Tanto non ho niente da perderci, okay? – Anemone affondò il naso sul tessuto dell’uniforme e respirò l’odore di tre giorni senza lavarsi - No, niente è okay.»

«…e ciò potrebbe essere relativo a molte delle implicazioni emerse anche nelle sedute precedenti! Il consumo di droga, per esempio. Oppure, si potrebbe intuire che ci fosse dietro un’attività di prestito di denaro e i debiti registrati siano inerenti a degli interessi molto alti…»

Le avevano sempre insegnato che non si interrompono gli adulti, che i dati numerici fossero la cosa più vicina ad un’approssimazione della realtà dei fatti e di tenere sempre conto della posizione sociale dell’interlocutore. Ma chi le aveva imposto quelle regole non stava a fare altro, se non portare acqua al proprio mulino. Era dunque suo dovere riconfermare le istituzioni ed i luoghi comuni?

Oppure c’era l’altra faccia della medaglia: quando perdeva il controllo, la rabbia si impossessava di lei e pur spostandosi dall’altro estremo dello spettro i dibattiti non riusciva a vincerli.

Non aveva mai provato a rimanere al centro, magari l’equilibrio e la via mediana erano lì ad aspettarla e a domandarsi come mai non avesse mai cercato nella moderatezza tutte le soluzioni ai suoi problemi, perché al posto di cercare le chiavi per aprirsi più porte si fosse affidata tanto spesso ai pugni e ai calci per abbatterle.

«…signorina, il suo alibi?»

Il professore si appoggiò al banco dove Anemone sedeva con il mento sul dorso delle mani, come se non si aspettasse un riscontro verbale ma un dolcetto o, cosa che la gentilezza della giovane gli avrebbe offerto volentieri, una spinta per portarsi quel visetto pallido e glabro il più lontano possibile dal suo sguardo.

Acromio era l’uomo meno mascolino che avesse mai visto, eppure trovava comunque repulsivo quel calo di testosterone. Non capiva come potesse varcare, in fatto di aspetto e atteggiamenti, la soglia del genere ed infastidirla in entrambe i suoi attributi. Perfino lei non sopportava quel livello di ambiguità eccessiva.

«…il mio alibi?»

S’accorse che la leader schioccava le dita davanti a lei, per risveglierà dalla sua trance.

Il lampo di genio che l’aveva illuminata nella battaglia contro gli stessi emissari del Team Plasma non poteva giungere in un momento migliore. O forse era, appunto, soltanto graziata dal fato e voleva in qualche modo un riconoscimento alla persona, un premio di consolazione per il suo ritardo intuitivo.

Non le venne così di getto, in modo simile alla formula imparata durante la lezione di fisica, giusto perché a quell’ora era l’unica studentessa attenta in classe e sperava che qualche sua compagna carina le domandasse gli appunti e lei avesse almeno una chance per fare amicizia con qualcuno che vivesse meno di cento chilometri da Ponentopoli.

La morale della storia fu che in vista dei test di fine semestre la più carina della classe (gli standard di Anemone ai tempi delle superiori non puntavano a nulla di più arrivabile di qualcuna che sapesse dell’esistenza di almeno cinque serie che piacevano anche a lei) le chiese indubbiamente di copiare da lei per arrivare alla sufficienza e passare l’anno, all’inizio delle vacanze invernali voleva pure invitarla al cinema con il suo gruppetto di amiche popolari.

E la rossa aveva ormai consegnato i moduli per ritirarsi dall’istituto tecnico statale.

«Alla fine avrà invitato un'altra ragazza con le calze fino a metà ginocchio, le lentiggini e gli occhiali rotondi. Lo sapevo, ci sarei dovuta andare comunque… se fossi venuta, non sarei qui a farmi arrestare per spaccio di stupefacenti.»

Non l’aveva più rivista, ma se lo sentiva dentro.

«Aspetta, cosa stanno dicendo?! Io non spaccio droga! - si sovvenne di quel piccolo particolare, aggrottando la fronte travolta dal dubbio – Ma se lo facessi, sai quanti soldi potrei far su… il mio fondo “concerti e goods annessi” ne gioverebbe immensamente, potrei perfino pagarmi l’iscrizione al fanclub!

Oppure cambiare finalmente le pale delle turbine laterali… Che staranno senza olio per un bel po’…»

«Signorina Reyez!»

«Giusto, giusto! Alibi, alibi…»

Tornò sui suoi passi: si concesse di dargli un altro po’ l’impressione di essere un’idiota, giusto per guadagnare tempo.

«Sa che cosa significa la parola “alibi”, almeno?»

La ragazza si portò i fogli davanti agli occhi, ma rialzò li subito non appena individuarono l’informazione che le serviva.

Si sentì leggermente in colpa. Tale dato non era una cosa che doveva ricordarle il segretario di un’organizzazione criminale, era qualcosa che si sarebbe dovuta tatuare sul braccio, far incidere su un anello o quantomeno segnarsi sull’agenda del cellulare, se proprio la memoria non voleva adiuvarla.

«Anche che io spacciassi… di sicuro non lo farei la sera fra l’ultimo di giugno e il primo di luglio.»

Nei numeri c’era per davvero la chiave per risolvere quell’intrigo, dopotutto.

«Mi scusi, ma è impossibile che io mi fossi immessa in questi affari loschi, nel tempo da lei citato.»

«Ah, dice?» Acromio la incalzò.

L’aviatrice diede segno d’esser pronta deglutendo, osservando nessuno in particolare nella platea: vendere stupefacenti, guardare una nuova serie appena sottotitolata, volare intorno al mondo su un tappeto magico, per queste e molte altre attività strabilianti non avrebbe mai rinunciato al luogo e l’atmosfera di quella notte.

«…io ero a limonare con Camelia quella sera.»

Si dispiacque di aver formulato il proprio pensiero in maniera così poco elaborata. Sembrava che le fosse importato di quella serata solo dal momento in cui fra di loro ci fosse stato un contatto fisico. Invece, anche le avessero dato il potere di viaggiare nel tempo, non avrebbe alterato un singolo dettaglio di come lei (o la sua ragazza?) aveva confessato il suo amore.

La top model più famosa di Unima aveva scavato a mani nude sotto la crosta di scuse e di bugie sotto cui Anemone si nascondeva, aveva dissotterrato il suo vero io e, mostrandoglielo dai suoi palmi bianchi ed eterei, che non c’era nulla di cui avere paura; era tutto a posto, era solo il suo primo amore.

Le aveva gridato contro, l’aveva odiata sentendosi rinfacciare la propria ipocrisia e le aveva somministrato la pillola decisiva. Quando le due si erano rivestite, tornando nei loro letti, la Capopalestra si era stretta nelle coperte, come se quel magnifico momento potesse sfuggirle dalle mani. Era valso la pena ferirsi, avevano vinto entrambi quella battaglia; la tensione sessuale aveva messo k.o. tutte e due, la bellezza insormontabile l’una dell’altra.

«Quella sera ero impegnata con…»

Non avrebbe mai sovrascritto al loro approccio nell’onsen altri spaccati dalla loro relazione neonata. Finiti gli allenamenti, quando lei e la mora si appartavano e quella le proponeva di riprovare a baciarsi, Camelia le perdonava a malapena errori come il morderle un labbro per sbaglio o il liquefarle il rossetto con la saliva.

Come pensava, il periodo di prova era finito. La versione completa di una storia d’amore richiede impegno. In quel processo, aveva carta bianca per dimostrare di aver padroneggiato ciò che serve per una relazione matura.

Ma una saetta, proveniente da sotto gli occhiali del giudice e massima autorità civile e morale della regione, la abbagliò; strinse gli occhi azzurri e la sua ambizione le si rovesciò dolorosamente nel fegato.

«…quella sera ero con…

Un… uhm… eeeh….

…partner.»

Ad un Capopalestra andò l’acqua di traverso e la tosse rumorosa rese il tutto il triplo dell’imbarazzo generale.

Ma del resto, che cos’altro poteva fare, la giovane sfortunata? Se fosse stata in grado di reggerne il peso, avrebbe come sempre tenuto a cuore l’amicizia, e anche quel qualcosa in più, che la legava non solo al suo “partner”, ma alle sue compagne. In quella seduta tuttavia, non riusciva a trasmetterla, per via della cieca follia egoista procuratale da troppi fattori.

Anemone avrebbe voluto rimangiarsi tutto, fare un reset completo.

Quindi era questo il suo disturbo della personalità, in tutto il suo intricato e disastroso fascino? Voleva farsi vedere da Acromio, dalla Lega e dal mondo come una brava ragazza, finché lei aveva la certezza di esserlo, perché? Perché di sì, lei era la nipote prediletta, la studentessa modello, l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.

Ma l’idea di subire del male a costo di difendere quel titolo non la allettava da un bel pezzo. Il Team Plasma l’aveva praticamente già molestata una volta, non le serviva il bis della stessa orribile sensazione.

Aveva imparato il concetto di rispetto da piccola. Si era ormai abbandonata, lasciata andare al proprio perfezionismo.

«Ah, capito, capito, capito! – il professore disse – E da quanto state insieme?»

«Due mesi.»

«Voglio andare via da qui...»

Non erano esattamente sessantuno giorni su sessantuno, ma non si sentì tanto male per quell’approssimazione: almeno non avrebbe dovuto passare il suo mesiversario in un centro di riabilitazione e riorientamento, come invece sentiva sarebbe successo ad Iris, purtroppo per lei.

«E come mai nessuna delle altre Allenatrici sapeva di questo affare?»

«Abbiamo una regola nostra, che non si parla delle nostre relazioni, per non distrarci dagli allenamenti del torneo.»

«Uh, lasciami in pace… lo so che lo sai, prof.»

Aveva previsto un esito terribile per il proprio processo, ma di venire incastrata dalle sue stesse parole le sembrava un trucchetto troppo scontato: non solo ci faceva la figura della bugiarda, ma pure dell’idiota.

Dieci anni da quel processo, il suo caso sarebbe andato a finire in un manuale di pedagogia infantile nella sezione sullo sviluppo ormonale corretto. O peggio, nei volantini di propaganda ultra-conservatrice, un esempio di redenzione all’ultimo minuto di un’anima perduta nel peccato di lussuria e sodomia.

«Beh, allora ci siamo preoccupati per niente! Che gran sollievo, dico bene?»

Segno di gratitudine a chissà quale idolo falso il professore venerasse, un battito di mani riecheggiò nella sala e la colla che sigillava la bocca dei presenti si sciolse, facendoli ingaggiare nelle loro solite ciance, fuoriuscenti imperterrite come un rigurgito. Solo nella primissima fila ci fu un silenzio mortificante.

«…sì.» Gli rispose l’accusata.

«L’ho giudicata male, devo ammetterlo. – L’uomo si grattò il mento glabro – L’apparenza, sa? Tutta colpa di quei capelli rossi… un nero, una tinta chiara chiara, pensaci su un attimo se hai tempo, magari. Sottotono è sempre il meglio, secondo me.»

«Ha ragione.»

Per quanto il suo cervello fosse in fase di rifiuto più totale, qualche cellula malfunzionante le fece immaginare una scena momentanea in cui le sue ciocche scarlatte si spegnevano sotto uno strato corvino, finché l’ultimo pelo naturale che le rimaneva veniva alterato e allo specchio si rifletteva un’altra ragazza, non lei.

Forse costei sarebbe stata la nipote prediletta, la studentessa modello, l’instancabile lavoratrice, l’amica incorruttibile.

«Ricominciamo da capo, allora? Hai delle cose interessanti da dire, ne sono sicuro.»

«O-Okay.»

«Sai, visto che ti dimostri collaborativa, a differenza di altre, potrai avere vantaggi anche a partire da oggi! Suppongo che anche alle tue amiche piacerebbe farsi una doccia calda, un pasto più sostanzioso o un cuscino più morbido… ma si sono giocate la loro chance, peggio per loro.

E poi, c’è sempre la possibilità di una riduzione della pena…

Ah, e lo sapeva che il Team Plasma implementerà un sistema di aiuti economici per le famiglie in difficoltà? Bonus per la cultura, opportunità di reintegrazione nella società, eccetera eccetera…»

«La ringrazio.»

Anemone si sentì quasi di gridare, tant’era sotto pressione. Preferiva quando le imponevano dall’alto di fare le cose, era meno faticoso che scegliere da sola e doversi addossare i contraccolpi.

Voleva scegliere la via più semplice, per quello doveva farsi forte. Voleva soltanto sapere quanto ancora doveva farsi forte pur di essere felice.

Fu sorpresa nello scoprire di aver migliorato la sua posticcia faccia contenta. Pareva davvero che le parole del giudice, invece di instillarle puro panico avessero avuto un effetto placebo su di lei, ora che gli aveva detto cosa volevano sentirsi dire.

Ma che per favore, non le chiedessero di ripetere quanto aveva detto.

Poteva invece raccontargli delle altre buone azioni che aveva svolto in quegli ultimi due mesi; e fra le novantanove che in media si sarebbe inventata, alla centesima si sarebbe potuta sentire una totale traditrice.

«Appena finito gli chiedo di mandarmi in una prigione solo femminile e se è vero quello che si dice delle prigioni, io ho ufficialmente vinto il jackpot. Camilla? Ritirati, per favor… ah, no, non ce n’è bisogno. – Le venne un déjà-vu, non che se ne accorse o ne esplorasse il contenuto - Visto cosa succede a specializzarsi nelle materie umanistiche, tipo archeologia, mitologia… quello che è, e non in quelle scientifiche: niente soldi, niente lavoro e niente fidanz…

Partner, giusto.»

«Obiezione, vostro onore!»

Il suo monologo interiore, che avrebbe visto benissimo in bocca al cattivo di una campagna scadente di un gioco di ruolo che prova troppo a farsi notare dagli altri paladini, non riuscì a toccare nessuna delle fantasie a cui si sarebbe voluta abbandonare prima che il tremendo sentore tornasse a infastidirla.

Acromio fulminò il primo banco come se dalle pupille gli fosse uscito non un Braciere, un Incendio.

«Signorina Calfuray!»

Intanto anche lei percepì come d’aver già vissuto quella situazione, in qualche modo.

«Anemone sta mentendo! - La ragazzina era balzata in piedi subito come suo solito, ma già si era chinata per chiedere un consiglio tattico alla leader – Eh?! ”Vostro onore” è sbagliato? – E mentre quella annuiva in apprensione – Okay, ma allora perché non correggono i film? Mica è colpa mia se imparo sbagliato.»

«Fosse quello! Andare ad obiettare la tua stessa parte… - L’uomo si girò dalla parte dei Capipalestra – Aristide. Lei è un uomo santo, santo, dico. Uh… non è servita la lezione dell’ultima volta? Incorreggibile…»

La più giovane fu per una seconda volta parzialmente d’accordo con il prof. Non ne sapeva nulla di politica, di finanza e di legge.

Ma una frase del genere “a me non interessano i ragazzi” poteva venir pronunciata solo da un tipo di persona: una che di sicuro non ha trovato un fidanzato a distanza di tre settimane dall’averla pronunciata. Tale menzogna la riempì di rabbia.

«Anemone è lesbica fino al midollo. Non si metterebbe con un maschio neanche pagata, glielo posso assicurare.»

«Signorina… questo non è il momenti per scherzare su queste cose.»

Non che al Team importasse granché delle preferenze amorose dei suoi nemici: almeno su quello non stavano zuccherando la loro policy. Uno può desiderare quello che vuole nel suo cuore, a patto che lasciasse un cantuccio speciale per Ghecis Harmonia e i suoi adorabili progetti riguardanti il togliere potere alle persone comuni. Poi costui si spostava dal suo spazietto ridotto direttamente nell’epicentro.

In realtà, occultare le prove concrete non stava aiutando la giovane pilota. Nonostante avesse svariate volte dubitato della stabilità del legame fra le due Capopalestra, Iris non voleva vedere la sua migliore amica distruggere le sottili radici sorte sul terreno del suo primo vero innamoramento. Fare ciò equivaleva ad autodistruggersi.

«Non scherzo, lei vi sta dando corda solo perché le mettete pressione. – Incrociò le braccia e guardò la rossa negli occhi – Pure suo nonno lo sa! – E si girò verso l’anziano Domadraghi – Quando glielo abbiamo detto le ha fatto i complimenti e ci ha offerto il gelato. E un coupon per spedizioni al di sopra dei 5 chili.»

«Puoi provarlo in qualche modo?»

«N-No, come si fa a provare che una persona è gay…»

«Allora ti conviene tacere. – Il professore credeva di aver mandato in porto un’altra argomentazione, ma la ragazzina rimaneva più allibita dalla mancanza di tatto nei confronti dell’argomento per prenderla sul personale. Quello poi si rivolse alla sua imputata preferita – Anemone, cara mia, questo blaterare non ti concerne affatto, vero?»

«Ecco, l’ha detto! Hai sentito? L’ha chiamata “cara”. – Catlina stava sussurrando all’orecchio della leader - Adesso lei si alza e lo pesta di botte. Gli spacca gli occhiali sul naso e poi glieli fa ingoiare.»

«Ti piacerebbe succedesse, vero?»

La Superquattro annuì compiaciuta. La violenza fisica la odiava, ma perfino i pochi neuroni rimasti accesi le suggerivano che Anemone, onesta e buona qual era, avrebbe posto fine alla sua sceneggiata in quel momento.

La rossa si sgranchì le spalle, con uno scrocchio rumoroso si rimise seduta in posizione eretta.

«Non ho idea di che cosa stia dicendo, professore.»

Quando si reclinò indietro, presa dal rimorso, la platea si mise a parlottare, ma da davanti a lei venivano le voci più dilanianti.

«Iris, scusami.»

Camilla guardò le altre, confusa ma allo stesso tempo disgustata. Più di quando avevano tentato di trascinarla via a forza, si sentiva estranea al gruppo.

Non ci credeva che in tre mesi si sarebbe potuta costruire una solida amicizia fra di loro, ma dopo già un mese ecco solide fondamenta, da lì avrebbero soltanto potuto puntare al cielo e raggiungere le nuvole tutte assieme.

Ma la sua falsità, avevano inghiottito il loro mondo come sabbie mobili. Ora lei era fuori dal gruppo, il cinque era quattro, forse tre, andando avanti così.

«Dopo tutto quello che abbiamo passato… Ho fatto anche il tifo per te quando stavi per andartene! Perché? Perché? Tu eri la prescelta! Dovevamo combattere il Neo Team Plasma, non allearci con loro…»

«Ragazze… scusatemi. Sono una codarda. Ancora.

Forse lo sarò per sempre.»

«Silenzio! Silenzio! Ah, che dura gestire questo circo… Direi che qui abbiamo quasi finito! Siamo stati velocissimi oggi. I signori Capipalestra hanno qualcosa da ridire?»

In realtà molti di essi non avevano mai visto la rossa prima d’ora o qualora l’avessero mai scorta, non dava loro altro che soddisfazione di non conoscerla affatto: almeno una su due interrogate quel giorno pareva una ragazza a posto.

«In tal caso, Anemone. – Acromio estrasse uno stilo elettronico dalla tasca del camice e lo porse alla giovane insieme al suo tablet malandato – Prima di lasciarti andare, perché sì – apostrofò implicitamente le Allenatrici – è più che possibile evitare una sgradevole figura e l’umiliazione di fronte a tutta la regione, con un po’ di educazione.»

«Vi sta mentendo! Quella ragazza è gay, le piacciono le femmine, è palese…»

«Non starò ad ascoltare oltre. Tornando a noi: questo modulo richiede una firma elettronica. Tutto qui! Poi ti lasciamo andare. Si tratta di burocrazia, è per riabilitarla ad allenare Pokémon, ovviamente in armonia con le nuove regolamentazioni stabilite dal nostro ufficio.»

Scorrendo il contratto, lungo diverse pagine per non invogliare a farsi leggere, la ragazza notò varie cose.

«”Divito dell’utilizzo di Strumenti artificiali durante la lotta”, “divieto di conferire le Medaglie a chi ha un credito sociale basso”, “divieto di tenere i Pokémon dentro le Poké Ball al di fuori della lotta”?»

Ma più di quelle clausole ridicole, pensate ad hoc per rendere la professione di Allenatore un risibile passatempo, la coscienza che prima di lei tutti e otto gli altri Capipalestra avessero ciecamente dato la loro approvazione… e lei si stava unendo a loro, come uno zombie si stava facendo aggiungere alle file dell’armata di burattini Harmonia.

Eppure, per quanto illogico tutto ciò fosse aveva già ingrandito la sezione della firma, per evitare pure una brutta calligrafia. Tutto questo, solo poiché non aveva avuto il coraggio di ammettere l’ovvio, quello che Iris e le sue compagne sapevano ma che lei ancora era indugiante a rivelare al pubblico.

Sebbene la sua farsa le avrebbe permesso di essere l’unica a rivedere la luce del sole estivo, si sentiva già in gabbia, in una cella buia in cui nemmeno la sua ombra poteva darle idea di cosa avesse lasciato morire con le sue stesse parole.

Intanto che inseriva i suoi dati personali, Acromio s’appropinquò all’orecchio di lei e tentò di bisbigliare qualcosa, se non fosse stato che il microfono era ancora acceso e la sua voce acuta non era facile da ignorare.

«Ma senta… questo “partner”… - e si eccitò fin troppo perché fosse decoroso per un uomo adulto – è un po’ vaga come definizione… Non vorrei mai mettere il carro davanti ai buoi, ma Arceus solo sa quella sua fastidiosissima amichetta dalla testolina bucata mi ha messo una pulce nell’orecchio.»

«Professore, le chiedo per favore – La Campionessa di Sinnoh seguì lo stesso rituale di chi voleva esprimersi, come quando la chiamavano a leggere un brano di antologia in classe – mi dia una possibilità per capire un po’ cosa c’è sotto questo “partner”. Ho un’idea che vorrei provare.»

«Ah… E chi le ferma più adesso… A questo punto, non che tu possa farci molto, signorina Camilla…»

«Campionessa Kuroi!»

«…la scena è tutta sua.»

E si fece da parte. La donna sorrise per la sua piccola conquista ed iniziò.

«Buongiorno, di nuovo. – Fece un inchino, ricordando di essere ormai condannata ed odiata pressocché da tutti là dentro – Volevo capire meglio, questa cosa del partner, no? Riprendo quello che ha detto Iris, e allora, ciò che volevo chiederti è:

se dovessi scegliere una ragazza fra di noi quattro, chi sceglieresti?»

Acromio si prese la tempia e scosse la testa, ma con una placida costernazione, quale si manifesta sentendo una battuta pessima o assistendo alla figuraccia di un compare. La rossa aveva manifestato un certo disagio, non da lei visto quanto fremeva indicando tutte le idol o le perfino le passanti per la strada.

«Camilla, cosa stai dicendo? – Fece la finta tonta, atteggiamento che non le si addiceva per nulla, visto come mostrava i denti in quel sorriso terrorizzato – Io sono, ehm, eterosessuale, come sai benissimo.»

«Infatti, - la prese in contropiede, psicologia inversa – ho detto “se dovessi”… Pensa ipoteticamente, se proprio ti costringessero. Fai finta di essere quello che non sei, ossia gay, in questa situazione.»

Dalla platea si manifestò un ululo di interesse; una dimostrazione per assurdo nell’aula di tribunale li avrebbe tenuti sulle spine, dovevano scervellarsi pure loro. Il gioco stava diventando interattivo.

«Okay, se proprio mi tocca… - rifletté giusto il tempo di preparare la battuta - Di sicuro, non te, Camilla.»

Qualcuno si era già messo a ridacchiare, ma l’inquisitrice non demorse e la prese con sportività.

«Perché? Su, vogliamo sapere.»

«Perché? Sei perfetta, di viso, di corpo e di aspetto in generale, ma non sai impegnarti seriamente… - le venne in mente l’accusa di infedeltà lanciatale un’ora prima – E sei troppo accondiscendente. Ah, e hai dei gusti musicali schifosi: ti credi alternativa, ad ascoltare heavy e black metal a vent’anni?»

«Capito, okay. – L’indifferenza della bionda le permise di proseguire con la sua tattica – E Catlina?»

La potenziale candidata si guardò intorno spaventata, come se si fosse svegliata e ritrovata in sala come in un brutto sogno, quelli dove ci si trova in mutande in uno spazio pubblico della propria quotidianità.

«Eh, più o meno la stessa storia… Ha stile e poi, diciamocelo, è piena di soldi. Ma cosa faremmo insieme? Non abbiamo interessi in comune. Non posso neppure portarla in aereo con me, rischia di svenirmi addosso o di crepare, come minimo e io i danni non glieli risarcisco.»

«Anche io ti voglio bene.» Le sussurrò la giovane aristocratica, facendo il segno tondo di concordo con pollice e indice.

Ormai, avendo capito le regole, Anemone si portò al punto successivo, precedendo la leader nell’esposizione.

«No, neanche morta! N-Nel senso, è la persona più dolce, simpatica e la migliore compagna di dance cover che esista sul suolo di Unima… Ma a quindici anni sei ancora una bambina! Dai, è troppo presto, ma magari se passassero un po’ di anni, e-e se fosse un maschio…»

«Va bene, okay, chiaro.»

La rossa, che aveva finora avanzato in maniera così brillantemente neutrale fra l’appagare la sete di approvazione del prof e il mantenere uno stato di fredda distanza dalle sue ex-compagne, si resse al bracciolo della sedia, le mancò il pavimento sotto ai piedi.

No.

Camilla non poteva odiarla fino a quel punto.

Certo, le aveva promesso botte assicurate in un futuro non troppo imminente, ma se stava davvero per toccare quel tasto, almeno poteva smetterla di sorriderle in maniera così innocentemente sadica.

«Ma… - stette un paio di secondi a trascinarsi la vocale e la addolcì di veleno caramellato – Camelia? Eh? Neppure lei ti piacerebbe, giusto?»

«Niente panico, sono arrivata fin qui con le mie cavolate, possiamo anche toccare il fondo, scavare fino ad arrivare al centro della Terra e farci un bagno di magma.»

«Esattamente.»

«Woah. – Quando l’aviatrice non le rispose la incalzò con ancora più veemenza – E cosa non ti piace di lei? Tutto, immagino.»

«Ovviamente! – Catlina comprese al volo, e non chiese nemmeno il permesso di intervenire da quanto moriva dalla voglia di vedere dove le avrebbe trascinate quella catastrofe di un processo – Sono opposti totali, loro due. Quando si sono incontrate per la primissima volta si stavano già per linciare vive a vicenda.»

«Dai, buttaci un po’ le “dieci ragioni per cui non mi metterei con Camelia Taylor nemmeno se mi puntassero un Iper Raggio alla testa”! Non so voi, ma io sono super-curiosa.»

Iris si mise a sedere a gambe incrociate sul banco, come se le stessero per versare nella tazza il gossip più succoso della stagione, un tè bollente e ricco di sapore nella già torrida estate di quell’anno.

«Se mi date l’onore di iniziare, suggerirei di partire con le sue brutte intenzioni, la maleducazione e la brutta figura di ieri sera…»

Acromio si sfregò le mani per l’entusiasmo. Se si trattava di seminare zizzania, non poteva mancare alla festa, doveva addirittura aprire le danze.

Un terremoto, un tuono, un incendio, una lavata di testa alle sei del mattino da parte del suo capo, quali di questi faceva più terrore alla rossa? In realtà la più tremenda era lei. Poteva ancora tirare il freno a mano ed evitare il crescendo di assurdità che stava accumulando fino a crearci una scala dritta dritta verso l’Olimpo delle stupidità.

Comunque lei sapeva di non star dicendo il vero e lo sapevano le sue compagne e soprattutto lo sapeva la sua ragazza, che come suo solito non si stava facendo per nulla trasportare, salda nel suo stoicismo, dalle pagliacciate delle altre. Stava semplicemente lì a guardarla e negli occhi poteva leggerle così tanti segnali da non riuscire nemmeno ad interpretarli, come quando l’avevano intrappolata nel loro vortice di emozioni nel garage e aveva dovuto aspettare di giungere sull’orlo del precipizio per scioglierne l’enigma.

«Camelia, amore mio, scusami… Scusami, scusami, scusami, scusami, scusami, scusami, ah, no, dire “scusa” la fa imbestialire, non so essere una brava fidanzata nemmeno nei miei filmini mentali, uh…»

Alla fine, senza alcun preavviso, qualcosa la colpì.

La lasciò stordita, visto che la fece riemergere con la testa dalla foce di insanità nella quale stava raschiando il fondale, aspettando di venire spiaccicata da metri cubi di idiozie, prese una boccata di buon senso ma col risultato di uscirne ancora più fradicia di quando s’era tuffata.

Questo per dire che se a venirle contro fosse stata un’altra ideona o un nobile sentimento, non si sarebbe immediatamente chinata in preda al dolore. Bastoni e pietre potevano spezzarle le ossa, ma le parole, le opinioni e le voci di corridoio non le avrebbero mai fatto nulla.

E non le avrebbero nemmeno fatto sanguinare una narice, costringendola a pulirsi con la mano il sangue colante fino al labbro superiore, perché quello che le era stato lanciato contro, con ovvio intento di colpirla fra l’altro, era una scarpa mezza rattoppata dalla suola dura e pure incrostata di minuscoli sassolini, andatisi a stampare sul volto della giovane aviatrice.

Tirò su con il naso, il liquido ematico misto al muco le bloccò il flusso d’aria e tutto le si riversò nella bocca, facendole assaggiare quanto schifo facessero le sue affermazioni, e dopo aver coinvolto gusto, odorato e la vista udì il cielo sbragarsi, lo stesso fulmine che l’aveva incenerita ricordandole di essere un’ipocrita, perlopiù con addosso vestiti di seconda mano.

«Che bastarda che sei.»

Perfino indossando la stessa uniforme di Camelia, la sua pareva un pezzo di alta moda, quei capi che vedeva nelle sfilate o nelle riviste dei duty free e si arrendeva a capirne il fascino; le stava stretta sui fianchi e scendeva in stile baggy, senza nessun ritocco di sartoria.

La mora si alzò con la sua calma, mentre tutti si erano già prevenuti con le mani sopra la testa, il giudice era balzato all’indietro gridando come una cortigiana dell’Ottocento che vede un ratto, dal grido strizzato dal bustino.

Come se l’intero auditorio fosse scomparso e nell’intero universo fossero rimaste solo loro due: l’esercito di mostri che la più giovane delle due Capopalestra non solo appariva di troppo, intorpidendo il loro spazio sacro, l’essere in sovrannumero con così tanti peccati le ricordò come l’altra si fosse fatta arrestare ufficialmente, ma appariva pulita ed innocente. Lei, a differenza sua, aveva l’anima nera, o verde, dopo i versamenti promessi dal partito per comprarsi le sue menzogne.

«Una bastarda bugiarda. – Si passò la mano sulla frangia, sospirò delusa e la sentirono tutti – Ti ricordi cosa mi avevi promesso, il primo di luglio?»

Dietro quei profondi occhi blu c’era la verità più dolce. Come un incantesimo purificatore, avrebbe potuto cancellare tutto l’odio e il risentimento semplicemente recitandolo.

Anemone si morse il labbro ancora arrossato dall’epistassi, le stava per scivolare dalla lingua.

«A prossimo intervento senza pertinenza mi vedrò costretto a…»

Acromio cominciò a battere furiosamente il martelletto, non suscitando molta autorità.

La modella gli lanciò un sorriso di quando aveva qualcosa in mente e avrebbe usato ogni mezzo a lei disponibile per togliersi quello sfizio.

«Hey, prof. Quest processo andrà in diretta live, vero?»

«Certo che sì. – Mostrò con il palmo un’ingombrante cinepresa proprio sul retro della stanza, nessuno vi aveva prestato attenzione, quindi il cameraman, un individuo alto, dal delizioso ciuffo mielato e due occhi esperti su cosa piace agli spettatori più insoddisfabili, le fece “ciao” con la mano – Con gli ascolti di ieri, sarebbe uno spreco…»

«Beh, allora slegami un attimo. – L’assistente alla regia sganciò le manette – Ho un enorme annuncio da fare.»

La ragazza salì in piedi sul banco, già slanciata di statura com’era il resto della gente da quell’altezza poteva calpestarlo con il piede nudo, dalle unghie ancora miracolosamente intatte.

«Ciao, Unima. Vi sono mancata?»

Regalò il suo profilo migliore alla videocamera, che i suoi occhi seguivano come solo un’esperta del settore del commercio della propria immagine sa fare, e riprese.

«Questa ragazza è lesbica marcia.» Abbassò il microfono a cono.

«Oh!» La folla echeggiò.

«E anche una bugiarda, meschina senza un minimo di ritegno. – Scagliò una folgore con lo sguardo alla sua “partner”, dall’alto verso il basso la squadrò come quando ancora la sola idea di essere in sua presenza la disgustava – Basta, fra noi è finita.

Trovati un’altra che stia dietro al tuo fondoschiena represso, io ho chiuso con te.»

Le tre compagne sedute dietro le caviglie della giovane erano a metà fra lo scoppiare a ridere per lo spasso di quel colpo di scena o se piangere di aver visto non la più appassionante, ma l’unica love story dell’estate morire in prima persona. E Nardo, che diceva loro di non fare i tira-e-molla come nei reality show!

Intanto, altri ottanta milioni di cittadini quella sera avrebbero acceso la tv, aspettandosi il telegiornale delle sei, i resoconti dei fatti di cronaca seria e invece si ritrovavano due adolescenti ed il segretario del Partito in teoria più autorevole a stabilire se una delle due fosse eterosessuale o no.

«Camelia, cosa vuoi “rompere”? Noi due non siamo mai state insieme come una coppia seria.»

Incrociando le mani sotto il petto, Anemone volle prendersi gioco di se stessa.

Se lo meritava: adesso aveva perso tutto. La faccia, la sua integrità, le natiche bianche della ragazza più sexy del mondo su cui non aveva ancora avuto occasione di sprofondare con il viso, come aveva visto fare nei fumetti di dubbio gusto che leggeva quando si sentiva ribelle, a mezzanotte.

Non si sentiva un clown, lei era l’incarnazione di un intero circo.

«Questo perché tu non ti sforzi nemmeno di prenderla seriamente: ti ricordi tutti quei codici e quelle formule inutili a memoria ma… il nostro anniversario? Di portarmi a cena fuori? Di andare a vedere una sfilata assieme?»

«Che cose noiose, se tu ti diverti così… ma aspetta! - La ragazza fece riverberare le mani, voleva difendersi almeno da quello che sapeva benissimo essere irreale – ma quando mi hai mai chiesto cose del genere? – e fece una risatina nasale - Sono delle conversazioni speciali? A che livello le sblocco?»

«Vedi? Non mi ascolti mai, - enfatizzò, lettera per lettera – mai. Per te è tutto un “io, io, io!” Sei regredita all’infanzia, cosa vuoi saperne di organizzare un appuntamento…»

Avrebbero potuto chiuderla lì, mettendoci una pietra sopra che doveva pesare quanto pesava alla loro coscienza di essere in procinto di venir sbattute in prigione, entrambe.

Ma anche Anemone si alzò in piedi sul tavolo, con una sferzata azione riuscì a rompere la catenella delle manette; portatasi all’altezza della sua avversaria l’avrebbe affrontata a parole.

Non le era mai capitato prima d’ora, non che lo trovasse alcunché divertente.

«Credo che per te non conti nulla come “appuntamento”, se per lo meno non finisci a limonare con cinque uomini diversi nel bagno di una discoteca per ricconi mentre un sesto tizio, che tra l’altro era il tuo vecchio stilista e “migliore amico”, ti fa il video!»

«Tu come sai queste cose!? Di solito sei più disconnessa di un Interpoké in Modalità Aereo.»

Anche se si era liberata e con un bel balzo con propulsione delle sue gambe lunghe avrebbe potuto giungere davanti a lei e attaccarla con un pugno o un calcio, la mora non si scompose. Quel dibattito stava eviscerando le sue freddure migliori e la faccia scombussolata della sua ex la spingeva ad andare avanti con sempre meno peli sulla lingua.

«Io mi informo sulle cose di cui mi importa! Invece tu non sai nemmeno che gusto di Conostropoli mi piaccia o qual è la mia serie preferita …»

Provò a giocare sulle piccole gocce che avevano fatto traboccare la loro urna d’amore, Iris le aveva fatto da maestra in questo.

«Certo che la so! Si chiama “preferisco dei personaggi immaginari alla mia relazione attuale perché sono una seccatura vivente che non si accontenta di nulla”.»

«Sai cosa?» Anemone le urlò fortissimo, stanca di usare esempi concreti.

«Eh?» Disprezzava seriamente quell’atteggiamento di menefreghismo della modella, l’occhio che aveva chiuso su di esso si era aperto come quello di un deva illuminato.

«Mi dai così sui nervi quando fai così!»

«Specchio riflesso… te ne servirà uno nuovo, penso che tutti gli specchi che hai a casa si creperanno se non ti ricordo che colore di fondotinta devi usare o di metterti la crema idratante ogni sera. Veramente, chi me lo ha fatto fare…»

«R-Ragazze, p-per favore… - Acromio provò a dividere le due, ponendosi fra i due banchi, ma notando quanto la sua interruzione stesse arruffando le penne alle innervosite litiganti, si coprì la testa con il tablet, non che ora gli importasse molto se avessero fracassato l’aggeggio. Solo, non mirassero alla sua biondissima, affusolata, brillante e soprattutto preziosa capoccia! - I vostri problemi personali non sono affare che…»

«Professore, stia zitto.»

«Campionessa Kuroi!»

«Queste ragazze stanno avendo il loro primo litigio! Le lasci fare. Stanno imparando a conoscersi a vicenda.»

«Camilla, ora che ci penso, neanche tu mi hai mai portata fuori a bere un tè o a fare shopping…»

«Catlina, non è il momento ora, non si sta parlando di te.»

La biondina fece il muso, intanto che la tempesta infuriava.

«Per fortuna doveva essere destino! Mi hai risparmiato la fatica, ci vediamo all’inferno!»

«Ah, e smettila di parlare come se fossi in uno dei tuoi anime da disadattati sociali, sei imbarazzante…»

«Lo farò quando mi tornerà voglia di venire insultata, umiliata in diretta regionale e comandata a bacchetta dalla mia ragazza!»

«Oh?!»

La sala intera risuonò di stupore, la sottile linea che separava la giovane aviatrice dalla pazzia era stata valicata con un carpiato. Subito quella provò a ricomporsi. Ma ormai la bomba era già esplosa.

«S-Scusate, intendevo… la mia migliore amica!»

«Sei patetica, dai.» Le arrivò dalla piccola del loro gruppo, ormai cosciente che le acque si fossero calmate.

Anemone si rese conto di non aver scampo, le relazioni interpersonali non erano il suo forte: come un filo capriccioso si intorcolavano intorno ai suoi piedi, la facevano camminare in punta e piroettare intorno ad un asse che non comprendeva nessuna delle cose in cui credeva.

Suo nonno sarebbe stato amareggiato. Non avrebbe voluto la carità dai tecnocrati dei sentimenti.

Avrebbe voluto invece vedere sua nipote levarsi le sue magliette oversize sgualcite, in favore di un bel vestito a balze ed una collana di perle, mentre accompagnava la sua amata per le stradine silenziose di Ponentopoli, dopo una bella cenetta a lume di candela.

Gli avrebbe offerto il suo divano, potevano stare accoccolate sotto le coperte nelle serate invernali a guardare film paurosi, per avere una scusa dopo per dormire nello stesso letto e consolare la prima fra le due a fare un brutto sogno.

«S-Sono etero…»

«Ieri non lo eri.»

Nessun genitore vorrebbe vedere la propria figlia soffrire, ogni genitore vorrebbe estirpare la radice del male dal cuore di lei e farla vivere felice, anche a costo di farle versare qualche fredda lacrima in aggiunta.

La rossa ripensò a ciò che oltre ogni materialità, lei riteneva davvero importante.

«…di amarci sempre, di non tradirci l’un l’altra, non mentire e non abbandonare l’altra, di volerci bene anche quando nessuno te ne vorrà e non dubitare mai della fedeltà dell’altra…» Sussurrò.

Senza nemmeno sbattere le ciglia, gli angoli delle palpebre si fecero pesanti e due ruscelli cristallini, per nulla dolorosi, discesero sulle sue guance ambrate; non si passò nemmeno una mano per asciugarli, la stavano purificando.

Se quella realizzazione, prima avvenuta nel privato della conversazione con Fedio ed ora alla luce del sole, le avesse causato soltanto male, era sicura che il sorriso dolce di Camelia e le sue braccia aperte, pronte per reggerla in un abbraccio, non sarebbero state lì come ultimo raggio di speranza negli istanti precedenti al venire incarcerata insieme a lei.

Sarebbero state separate da sbarre, muri e telecamere di sicurezza, ma l’aver amato veramente almeno una volta nella loro breve adolescenza avrebbe attenuato ogni futuro patimento.

«Okay, va bene, sono lesbica.»

«Yay!»

E si gettò a capofitto in braccio alla sua fidanzata, mentre le loro tre compagne le fecero un applauso sentito.

Quella sfuriata era stata un capro espiatorio geniale. La rossa si continuava a sfocare sulla spalla dell’altra, che le batteva la testa affettuosamente. Aveva bisogno che quei demoni uscissero, anche se le avrebbero inumidito l’uniforme già sozza non le importava. Se ne sarebbe fatta peso per lei.

Camelia aveva vissuto senza badare alle malelingue altrui, era il momento che anche la sua ragazza imparasse a non sopravvalutare il potere di individui troppo sbilanciati dall’odio per decidere il meglio per lei.

C’era di peggio del venire discriminata per il proprio orientamento sessuale, pensava la modella, La sua compagna però non ci era ancora arrivata, perché portava quel peso da sola e una volta che glielo aveva urlato contro, ancora, era il suo turno di portare in mano il suo fragile cuore, finché il Team Plasma non glielo avrebbe fatto deporre fra le sue memorie più belle, anche se non le sarebbe tornato indietro mai più.

«Siete dei codardi e degli omofobi.»

Camelia parlò con tutto il disgusto che il suo tono serpentino potesse incanalare, incurante della reazione del prof, ormai volenteroso di non indire ulteriori sedute, non prima di essersi fatto una tisana ed una manicure.»

«Avete fatto piangere una povera ragazza sensibile…»

«Grazie… ti amo.» Sentì un dolce sussurro.

È un anno a caso della prima metà del ventunesimo secolo, verso fine luglio.

Non sai esattamente che giorno o che ora sia, questo perché le autorità possedenti una visione completa della storia tacciono questi dettagli volutamente: Non ci sono finestre né orologi, qui dentro. Potrebbero essere passate tre ore come venti minuti, ma anche si trovasse un rudimentale metodo di calcolo in frazione della stanchezza su impazienza, non è stato comunque dettato alcun time up all’attesa nel limbo.

Il pasto arriverà quando arriverà… fra tre ore o venti ore, giù di lì.

In secondo luogo, qua dentro fa caldo. Il caldo delle ramen’ya senza il riciclo dell’aria, del vapore fitto e odoroso che riempie i polmoni senza però mai lasciarli abituarsi; il caldo delle fonderie in una fabbrica di forni; Il caldo del bagno bollente che lascia le grinze sulle dita, e anche dentro la trachea e ai bronchi, tutto si fa stantio, respirare diventa difficile.

Peggio di respirare è solo trasportare il poco ossigeno al cervello per formulare pensieri coerenti. Agire senza dover sentire odore di sudore, di chiuso, di uova marce era di gran lunga meno impegnativo.

Ci si annoia un sacco, senza ragionare. Non si riesce a conversare o ad intrattenersi. Ovviamente, una buona distrazione è rimembrare il passato, episodi imbarazzanti, delusioni amorose, scene della vita da cancellare e che invece si ammucchiano lì, impuzzando ancor più l’aria.

Come mantieni la lucidità mentale? Ogni suono dà fastidio. Il contatto è sgradito a tutti.

Sopravvivi. Piano piano. Con il decoro che bere da un secchio senza bicchiere uno può ambire a mantenere.

«Ferma lì, cosa stai facendo?!»

Anemone saltò dalla sua metà di letto, le altre tre ragazze la udirono con prevenuto timore.

«Sto morendo di sete. – Non seppero come leggere il rifiuto di contatto visivo della biondina, poteva starla provocando o voleva forse solo fare l’insofferente – Mi fa male la gola, ho parlato troppo.»

«Cat, hai detto tre frasi in croce.»

La rossa provò ad alzarla dal braccio e solamente l’arto si sollevava. Non capiva se quella non volesse allontanarsi da terra o le gambe le fossero venute meno e avrebbe dovuto lasciarla sul pavimento tutta la notte, quindi insistette.

«Starò benone. Non mi fa differenza il sale. Sopporto tranquillamente.»

«Sei finita in ambulanza per una lampadina bruciata, non contarci troppo.»

Colei che era seduta a terra mise le mani a coppa e non fece in tempo a portarsi alla bocca mezzo sorso che la rossa aveva calciato con forza il secchio, facendolo volare contro il muro, sortendo l’effetto di non dare momento alla compagna di recuperare il contenitore prima che tutto il liquido non fosse finito in una pozzanghera nera come il catrame sull’asfalto diroccato.

«E tu sei finita in carcere per evasione fiscale.»

Il reato di negligenza è sempre un reato. Certo, se non si fosse ritirata dal liceo prima di cominciare il corso di economia, Anemone avrebbe avuto da discuterne con il giudice con più veemenza; non essere una cima in contabilità era meno logorante per la sua reputazione.

Alla fine, aveva combinato soltanto di rinforzare lo stereotipo che le lesbiche non sanno fare la matematica.

«Ah!»

«Cami, tutto okay?»

«Non so, un’unghia strappata conta come “okay”? – La mora non aveva preservato affatto la morbidezza concessale al processo – Mi esce anche sangue… io non ci arrivo viva alla fine di questa cosa.»

Si lamentò e lasciò trapelare lo stesso tono arrendevole e isterico uscitole solo la volta della crisi in garage. Ma almeno in quel caso su dieci dita ogni french era al suo posto, la frangia non le graffiava le ciglia e le radici bionde erano state coperte per bene da uno dei parrucchieri migliori della sua città.

Ma piuttosto che il suo aspetto increscioso, il fallimento dell’impresa in cui si stava impegnando da non si sa quanto esattamente l’aveva lasciata con la bocca amara (non salata, almeno): la serratura non si poteva forzare. Aveva provato con cocci di vetro, bastoncini di metallo a mo’ di piede di porco, finché per disperazione aveva sacrificato l’unghia infilandola fra le intercapedini per far slittare il cardine. E ora aveva il pollice rosso e bruciante.

«Pensate che forse – Catlina fece, dal pavimento – quando sconteremo la nostra pena, un giorno ci ri-incontreremo?»

Anticipare quella domanda, destinata agli ultimi tramonti d’agosto le fece male al cuore.

«Perché no? – La rossa riprese ingenuamente, dimostrando quanto i suoi cambi d’umore adesso fossero assimilabili a vera e propria bipolarità – Io e la mia ragazza vi accoglieremmo a braccia aperte!»

«…sotto il ponte in cui ci ritroveremo a vivere, sempre se non ci ammazzano prima.» La completò la modella, o meglio, futura disoccupata senza molte skill con cui rimettersi sul mercato.

«Dimmi di no! Ho letto su internet che nelle prigioni statali una ragazza su due viene stuprata!»

Senza neanche storcere il naso a quel dato poco empirico, continuarono a discutere.

«Dite che ci manderanno tutte in una prigione diversa? A parte per Iris, visto che suo nonno vuole riconvertirla…»

«Sinceramente, io non farei scambio con nessuna e di dover darla vinta a quel rachitico di Acro-coso non mi va, ma… “terapia di riconversione”? – fece una pausa – Poverina, mi ha fatto troppa pena. Non è una cosa umana, questa.»

«Nel senso: noi quattro siamo ormai perdute, delle catastrofi ambulanti, delle perdenti patentate, delle zavorre umane… - e sorrisero in coro, dando tale affermazione per vera senza nessuna lamentela – ma lei aveva ancora tutta la vita davanti…»

«Forse avrei dovuto essere più gentile con lei in questi mesi…»

«Camelia, hai detto qualcosa?»

«C-Chi? Io? N-No…» Alzò le sopracciglia e le guance si imporporarono leggermente.

Ella si sedette dando la schiena alla porta, la sua fidanzata al suo fianco abbandonò la testa sulla sua spalla, per quanto i capelli unti era sicura non erano la cosa più romantica del mondo.

Stettero in silenzio, stavolta riempiendolo di un niente terapeutico. Erano già entrate nel Samsara, la vita terrena, i loro patimenti individuali rimanevano come giocattoli rotti, involuti.

Si avvicinava la fine. Mancava un giorno, dopotutto.

Chissà quante nuove canzoni sarebbero state rilasciate, quante news arretrate, quante partite, quanti volti non avrebbero nemmeno potuto immaginare di incontrare. E mentre il mondo girava, loro avrebbero perso la loro giovinezza: ogni anno, anche dopo la loro scarcerazione avrebbe intravisto una su quattro delle stagioni, un lungo, freddo, sterile inverno.

Inverno eterno nel cuore delle Allenatrici, come nel cuore di tutta la regione di Unima.

«Non è meglio così?»

Camilla sentiva la mancanza della brezza che aveva trasportato i suoi pensieri espressi con voce, sulla terrazza della Lega, il primo giorno d’estate. Ora la claustrofobia della sua testa, piena di pessimismo da un lato e dalla paura della paura stessa, dal trattenersi dalla psicosi dall’altra, la stava facendo parlare ancora con sé, di malavoglia.

Le tre la stettero ad ascoltare, come se quello fosse un lamento funebre: per essere flebile come un sussurro, risuonò nella tomba dei loro corpi, come una campana asettica.

«Un’intera regione che si inchina di fronte a un despota… dove non esiste diversità di pensiero, di opinione, dove non esiste proprio libertà… non voglio vedere nemmeno l’ombra di una società del genere. O un domani del genere.

Che bene può fare, Ghecis Harmonia? Unire il popolo sotto il suo vessillo di ipocrisia e menzogne… Non voglio neanche sapere cosa succederà, mi viene la nausea solo a pensarlo! Le persone non in grazia del Partito perderanno i loro Pokémon, non ci sarà più equa competizione, la gestione delle Palestre e dei tornei sarà un’oligarchia di fedeli al Team Plasma, le altre regioni ci vedranno come una dittatura arretrata e miserabile!

Come pensavo, passare il resto della vita in carcere a questo punto… è molto meglio, no?»

Finito il suo monologo, con le sue apprendiste immobilizzate dal cinismo insopportabile di quelle parole, la Campionessa si accovacciò ai piedi del suo letto, raggiungendo le altre derelitte sul fondo dell’oceano di disillusione in cui lasciavano arrugginire le loro anime.

Calò il silenzio per, serve o non serve dirlo, un ammontare indefinito di tempo.

La sconfitta vera e propria stava quindi nella serenità con cui stavano accettando, inesorabilmente, che il loro prezioso tempo si consumasse con inclemenza.

Missione compiuta per il Neo Team Plasma, guidato e rifondato dagli Harmonia, tenuto in piedi dal loro esercito di reclute giovanissime.

Niente più “presto”.

Niente più “ragazze”.

Niente più “estate”.

«R-Ragazze… R-Ragazze… ragazze?»

«Uh? Va de retro, recluta ics, ipsilon, zeta-al-quadrato-tutto-sotto-radice-che-si-semplifica!»

«M-Ma quale recluta al quadrato, sono io, Iris! Perché state già dormendo?»

«Non l’ho deciso io… Comunque, perché parli così strana?»

«S-Strana come? Io sto bene.»

«S-S-Sembri un balbuziente! Come ha detto prima la leader, hai freddo? Cosa ti hanno fatto quelle reclute? Hanno già iniziato a farti la riconversione sessuale?»

«N-Non mi dici di stare zitta? M-Mi manca un sacco, c-come ai vecchi tempi…»

«Iris, non scherzare su queste cose, per favore!»

«N-Non sto scherzandoci… Possiamo parlarne quando usciamo di qui?»

«Senti, nano da giardino con doppia funzione da teglia per grigliare: se io ti dico di stare zitta ti stai zitta, e questo è già un progresso, ma se ti dico di dirmi se quelle bestie ti hanno fatto del male tu me lo sei obbligata a dire! Guarda se ti devo spiegare io, come funziona il bullismo qui…

Aspetta, cosa vuol dire “quando usciamo da qui”?!»

«Te lo spiego subito. Ma prima mi prometti una cosa?»

«Spara.»

«Q-Questa volta mi ascolterete tutte. E p-poi farete esattamente tutto quello c-che vi dico io. Tutto. Senza eccezioni, p-per quanto vi faccia t-terrore o vi faccia schifo. D-Dovete fidarvi di me, stavolta. Posso tirarci fuori tutte. M-Ma ci serve un piano.»

«Okay. Hai il mio appoggio, cento per cento. Sveglio le altre.»

«G-Grazie per il supporto, Camelia. Lo apprezzo un sacco.
N-Non voglio davvero che non ci vediamo mai più, o che tu finisca in carcere. Scusa.»

«…okay. Allora, che vuoi fare, come prima cosa?»

«M-Mi servono tutte le vostre coperte, i cuscini e i copri materassi, più un’oretta di tempo.
Ah, e i vostri reggiseni e le vostre mutande! Tutta la vostra biancheria intima, datela a me.»

«…uh, hey, voi altre. Svegliatevi, ora! Ho scelto di dare ascolto a questa idiota con il cervello congelato, sbrigatevi a fare lo stesso, così non mi sento un’idiota da sola!»

Behind the Summery Scenery #21

1. Ragazzi, sapete che ora è? Ora che mamma Momo riversi un po' della sua immensa canoscienza da skrittrice su di voi, poveri sempliciotti. Del resto, sappiamo tutti che avete aperto una storia che parla di Pokémon e tette apposta per espandere la vostra sete di virtute e canoscienza, per citare Dante sudante su Dante sudante.

Il codice che usa Catlina per comunicare con Camilla si dice man'yogana (sì, quell'apostrofo non vi cambia niente, sono solo perfettina io), più precisamente, l'utilizzo che lei ne fa è quello della lettura degli ongana. Questo sistema di scrittura del quinto secolo implica caratteri usati per il loro suono e non il loro significato. Cat ha scritto il nome giapponese di Camilla, "Shirona" (che ricordiamo trascrivibile 白 奈、ossia "bianco" come il suo yukata puzzolente e "rigoglioso", come le sue tette doloranti) come 詩路騈

In riguardo all'uso degli alfabeti nel mondo Pokémon, vi indico questo delizioso studio fatto dal club di Pokémon di un'uiversità giapponese.

Edit: so benissimo che i nomi giapponesi in Pokémon sono scritti tutti in katakana, perché i bambini non sanno leggere. Preps (e giappiminkia) stop flaming.

2. Munna, Musharna e il Fumonirico. Che ricordi! Spero di ispirare qualcuno a rivisitare Pokémon Nero e Bianco. Quest'anno è il loro decimo anniversario.

3. L'esordio delle reclute con "Hey, hey, hey!" è riconducibile a due citazioni: Don't stop me now dei Queen e Icy delle ITZY.

4. Headcanon quali il passato di Camilla da emo-goth su MySpace e il gruppo di dance cover di Iris e Anemone sono forniti al pubblico da me e la mia lettrice preferita, che lascerò anonima così non potrete cercarla e bullizzarla perché Momo fa le preferenze, come la vostra prof più odiata del liceo. 

5. Non potete convincermi che l'infamata di Morgan non sia stato il più alto momento della televisione italiana degli ultimi 21 anni. La cit. se l'è meritata eccome.

6. Ebbene sì. Lo hanno fatto Mystic Messenger, Yuri on Ice ed un sacco di altre serie: questa è la versione a'la Momo di Gay or European, direttamente dal musical Legally Blonde. Abbiamo Iris nel ruolo di Ellie, Acromio fa l'avvocato, Anmone Architacos(?) fa Mikos e Camelia Carlos. Mi sono divertita un sacco a scrivere quesa scenetta comica, all'inizio non volevo neppure inserirla, ma Daisuke-kun mi ha fatta cambiare idea.

7. Sempre parlando di musical: questi capitoli sono difficili da scrivere, specie senza il mood adatto. Come avevo già specificato: ambienti chiusi da claustrofobia, rivalità amplificate, la pazzia che incombe lentamente. Delle ragazze chiuse in una stanza da una forza misteriosa più grande di loro, pronte a sacrificare la loro amicizia pur di rimanere in piedi, le ultime sopravvissute.

Non solo l'opera in sé, l'atmosfera perfetta per questa prigionia sinistra e macabra è offerta anche dalla colonna sonora di WEEK END SURVIVOR, musical del 2015, con protagoniste i membri (ed ex-membri) delle Kobushi Factory e Sudo Maasa. Cosa? Volevate forse un link aggratis? No, ragazzi miei. Imparate a supportare i release fisici e compratevi il cd e il dvd. (Tuttavia dovrei avvisarvi che viene un pochini di soldini ed è solo in giapponese...) I'm sure y'all can handle this.

 

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Capitolo 22
*** Girls' Style ***


ESGOTH 3



A story by: Momo Entertainment
Main concept and characters: The Pokémon Company
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Pokémon Black and White

Early Summer Girls

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Girls' Style

Dita agili danzavano sui tasti, battendo un monotono tip tap; al posto dei brush e degli stop, sul monitor apparivano parentesi, punti interrogativi, altre parentesi, sigle alfanumeriche che si consumavano appena il tasto “invio” istituiva una nuova sessione.

«Hey, ho appena pensato una cosa.»

Dato che il loro turno andava a coprire le ore più calde, il destinatario di tale input reagì solo dopo aver aumentato al massimo la velocità del ventilatore a muro, l’aria fredda le frustava le spalle e scuoteva i capelli ricolorati il giorno della sua ammissione nel Team.

La sua collega aveva la stessa capigliatura: la coda alta bianco avorio con le punte colorate di giallo, arancio e rosso a rappresentare la Piroturbina del Drago della Verità. Gli avevano offerto pure una bandana nera, per evitare che i ciuffi ribelli le intralciassero durante  operazioni delicate.

Le uniformi del Team Plasma rivoluzionato univano all’efficacia delle tecnologie sviluppate dai loro ingenti finanziamenti la sete di freschezza e gioventù che aveva prosciugato la vecchia retroguardia, quella delle pesanti cappe medievali e del figlio del capo seduto su un trono di promesse non mantenute.

Le uniformi in fibra di cobalto, che riluceva di blu, consentivano una copertura infrarossi impeccabile: due reclute, una sulla cima del Monte Vite ed una in mezzo alle paludi di Mistralopoli, potevano udirsi a vicenda come sedute una accanto all'altra sul divano di casa.

Era stato Acromio a proporre e sviluppare l’effetto rifrangenza: si era vocalmente lamentato con Ghecis, perché accostare il blu al rosso, sebbene simboleggiasse i Draghi della leggenda, risultava un pugno in un occhio per uno attento all’apparato estetico e alla presentazione come lui.

Sempre un suo suggerimento era lo stemma della casata sulle magliette scollate e sui pantaloncini corti, rinvenuto su un reperto archeologico nelle Rovine Abissali, sepolto nell’oceano. Una lastra recitava in una lingua geroglifica lodi nei confronti del re, rappresentato da quella figura ad anelli, probabilmente la semplificazione di un disegno del vincitore della guerra.

“Il re è saggio”. “Il re non perde mai la speranza.” “Il re accetta tutti.” “Il re è la luce del suo popolo.”

Il resto di queste iscrizioni era ancora ad agghindarsi di alghe e crostacei, nelle profondità dove i due fratelli, i principi Harmonia, avevano lasciato cadere il loro impero, presi dalla foga della battaglia sanguinosa in cui si erano invischiati per la successione.

«Wow, hai pensato.»

L’altra recluta, un’altra scartata dalle azioni sul campo e spostata come altra addetta alla sorveglianza, aveva pigramente appoggiato i piedi sull’ampia scrivania, dondolando la sedia sulle gambe posteriori.

Durante l’inverno e la primavera, il loro lavoro non occupava più di qualche weekend al mese. Del resto, il piano di conquista scivolava ancora alla stampa, muovendosi negli anfratti del web e dei circoli di malavitosi.

Tuttavia, arrivata l’estate, ogni mattina si svegliavano con gli occhi doloranti per le nottate passate a controllare registrazioni, segnalare le zone bianche e quelle dove poteva esserci il rischio che le loro cimici facessero destare sospetti.

«Domani fanno gli ultimi due processi… e poi? Noi cosa facciamo?»

Nessuna organizzazione criminale era arrivata così vicina al suo obiettivo, non c’erano quindi precedenti di leader pronti a dare la disoccupazione a centinaia, se non in casi migliaia, di fedelissime reclute.

«Non avevi detto che adesso puoi entrare a quell’università da fighetti… quella che dicevi ti aveva bocciata al test di ammissione.»

«Bello, vero? Mamma e papà ne saranno contenti! – esultò, tradendo un’ingenuità non idonea a quel posto – Ma tu, C, Q e tutte le altre? Va bene, abbiamo i numeri di telefono, ci possiamo scrivere in chat, ma…

Tu cosa hai chiesto, come premio per esserti unita e tutto?»

«Io? Volevo trasferirmi a Johto e fare un corso di disegno lì, ma siccome sono qua solo da aprile e faccio schifo a lottare, mi hanno mandata al diavolo. – Si accese una sigaretta – Allora gli ho detto “almeno il biglietto per l’aereo”, e Acromio mi fa “va bene, zuccherino, amorino, tesorino mio” e tutte le sbrodolate che quel finocchio dice…»

Risero assieme, e se proprio qualche loro collega voleva mancare alla loro tacita omertà avrebbero hackerato le telecamere di sicurezza e quella conversazione era come mai avvenuta.

Dopotutto, il loro interesse primario era la liberazione dei Pokémon e la pace sul territorio di Unima. Leccare i piedi ai loro superiori era una regola, non un principio.

«Non vedo l’ora che tutti i pezzi di fango che abusano i loro Pokémon vengano processati e mandati in gattabuia. Finalmente il mondo avrà un po’ di giustizia.»

«Già, e tutto il circuito delle lotte, marcio fino alle fondamenta.»

«Una settimana, anzi, meno tempo: poi se proprio sei un sadico che non può fare a meno di far lottare i tuoi poveri Pokémon, dai a noi i soldi e noi gli diamo quella… quella sostanza… dai, non mi viene il nome… 

La droga del drago strafatto! E così niente più sofferenza per loro.»

«Sempre se li lasciamo lottare… ieri stavo scorrendo la lista nera che stanno compilando le altre, con i nomi di chi sta antipatico al Team. Sono qualcosa come novecento mega di documento!»

E si compiacquero di nuovo, stavolta nel constatare quanto fosse semplice andare d’accordo fra reclute. Condividevano tutte la stessa linea di pensiero, per questo si trovavano lì, a difenderla in prima linea.

Le uniche che paradossalmente battibeccavano per ogni singola decisione erano proprio quelle che dovevano guidarle, non si davano tregua da quando i primi dati erano stati inviati alla loro base succursale nella periferia di Sciroccopoli, ora del tutto smantellata per non lasciare industrie.

Il loro sogno era quello che era stato predicato da due lunghi anni ed ora si stava per avverare. Nessuno gliene voglia se con le loro lattine di bevande energizzanti le due fecero un brindisi al successo della loro nuova casata.

Bevuto un sorso dolce come lo champagne proveniente dalle botti più pregiate delle cantine più rinomate, la meno disincantata delle due sognatrici lanciò un’occhiata al monitor principale, riattivando l’audio mutato per godersi almeno quella conversazione.

«Hey, guarda qua. – Alzò di due, quattro, otto tacche il volume, desiderosa di capire cosa stesse succedendo – Ma sono serie?!»

«No dai, abbassa! – fece l’altra, insofferente – Hanno delle voci troppo irritanti… sembra di sentire dei Purrloin strangolati, mi fan venire il mal di testa.»

«Vecchia, - si rivolse alla compare, un ghigno le torceva la bocca; subito strinse le labbra per lo stupore, stava per sputare una risata – le ex-Campionesse se le stanno dando! Di brutto anche!»

«No… - si precipitò al suo fianco, aggrappandosi allo schermo con le mani, come a volersi portare quei quaranta pollici in alta definizione a contatto con la cornea – ma fanno sul serio?»

«Guarda un po’ tu…»

Non avevano prestato alcun interesse allo sviluppo e al movente dello scoppio di tale rissa, in fondo, come potevano prevederlo? Le prigioniere non erano libere di muoversi come a casa di Nardo. Credevano di aver sedato ogni possibile mutamento ai loro rapporti.

Invece, quello che l’occhio della verità trasmetteva in diretta per loro era la più piccola del gruppo (figurarsi se avessero fatto il minimo sforzo per impararsi i loro nomi, talvolta finivano per scambiarle una per l’altra addirittura) trascinata dal letto sul pavimento per il collo dell’uniforme.

Si erano perse una qualche discussione, mentre le due reclute fantasticavano sulla loro carriera futura, quando la loro coscienza si sarebbe liberata del peso di cui si era volontariamente sobbarcata, quello di associarsi anche una volta sola nella vita alle nefande gesta del Team Plasma.

«L’hanno buttata per terra…» Osservò l’una.

Sempre sollevando il suo corpicino esile dall’indumento, la mora le allungò due ceffoni in pieno viso, talmente potenti da farle sfuggire di mano la presa, lasciando cadere di faccia la ragazzina, la quale guaì.

«Oddio!»

Avevano azzerato tutti i suoi riflessi, cosa che spinse una delle bionde a sferrarle un bel calcio sul fianco, mentre l’altra la scavalcò camminandole con le scarpe sudice sulla spina dorsale, lasciandole un’impronta bianca sul tessuto: giunta in direzione dei piedi, afferrò i capelli violetto, estirpandoli dalla coda, in modo da esporre ancora una volta il viso scuro, su cui erano evidenti i graffi del cemento.

«Adesso guarda come le parte un dente…»

«Puahahahah!»

Un altro calcio, stavolta in pieno stomaco la fece emettere un grugnito straziato, togliendole il respiro. A quel punto la rossa, che avevano individuato come la più potenzialmente letale, le diede il colpo di grazia con un gancio in pieno naso.

«Che disagio, ragazzi…»

Insieme a rivoli di lacrime ed un viso sfigurato da un’espressione di dolore sconosciuto ad una fanciulla così delicata, il sangue inzaccherò il colletto, goccioline umide anche sulle labbra e le guance.

Le due erano come entrate in trance. Era uno spettacolo orribile. Ma un istinto primordiale, incantato dalla grottesca impulsività delle aguzzine, non riusciva a farle smettere di guardare.

Appena si rialzò, la più piccola del gruppo caricò contro la leader, ma ancora una delle due Capopalestra cadute in rovina le bloccò le braccia e la ricacciò giù, a suon di ginocchiate. In quattro contro una, perfino le più inoffensive fra quelle psicopatiche si erano lasciate trascinare in quella sedizione.

«Hey, guarda che se le rompono un osso…»

«Passami il telefono, - la interruppe – voglio fare un video e metterlo sulle storie. Ci scrivo sotto “l’unica cellula del mio cervello che ancora crede che Unima sia la regione peggiore”.»

«Intanto, che battuta orribile. – Un altro grido di aiuto la riportò alla serietà della situazione – Poi, sai quanto Ghecis ci ha urlato contro per la storia dell’ambulanza? Ha detto che non vuole che gli facciamo spendere soldi per la campagna elettorale per mandare ‘sti casi umani in ospedale.»

«Che noiosa che sei… quindi dobbiamo fermarle?»

«Beh, dai, non “dobbiamo”, in teoria… ci conviene, se non vuoi tornare a lavorare alla discarica di Zondopoli!»

«Stai calma, mamma mia, sei pesante come loro…» Roteò gli occhi, poi si spostò dalla sua poltroncina comoda per afferrare un walkie-talkie da passare all’altra recluta.

«Che vita di… - prima che potesse completare la sua constatazione, il ronzio del ricevitore le ricordò di dover mantenere una certa professionalità – Qui ala otto tre sette, settore video-sorveglianza. Le tipe qua, si pestano neanche fossero in un picchiaduro.»

«Ah! Guarda come le ha ribaltato il braccio! Se la bionda glielo spacca, ti offro un bubble-tea.»

«Hey, C! Ti passo il link adesso. – Rispose al quesito della sua amica e collega, alquanto spazientita - Ma che ne so! Sai che a loro se gli parte l’embolo inverso sono capaci di questo e altro. Dopo due mesi che stiamo a spiarle, alla fine dovevamo aspettarcelo da queste mongoloidi.»

«Pff, dai, muoviti, o dobbiamo andare a tirare su avanzi di bambina spiaccicata dalle pareti.»

«Mandate tre o quattro persone a dirgli di piantarla, per amor del Cielo. – un “mettimi giù!” si infilò nella loro comunicazione ed infine aggiunse pure – No, scherzavo, fai sette o otto, e di quelle forti, mi raccomando.»

Le due si lanciarono occhiate perplesse. Sapevano, nel fondo dei loro cuori sciupati dal materialismo, che loro non sarebbero state le protagoniste di quella faccenda losca, ma mere spettatrici. Del resto, erano entrate nel grande schema delle cose da dietro una telecamera e solo da lì sarebbero uscite di scena.

«Passo e chiudo.»

Si spostarono a schiera, a passo svelto lungo gli intricati corridoi foderati di cemento armato. Le reclute del Team, radunatesi per sedare il tumulto ma senza la più pallida idea di che procedura seguire, si dirigevano alla cella situata del sotterraneo, nel settore più interno ed inaccessibile: ricordarsi dove svoltare risultava difficile pure a loro.

Anche una fosse riuscita a scappare dall’interno, non avrebbe trovato l’uscita prima che l’allarme rosso facesse lampeggiare l’intera area, rallentando la fuga e riportandola sotto la mano del potere.

E poi, per ogni trasferta le avevano tenute bendate: non potevano quindi aver memorizzato il percorso.

«Se una di quelle bestie di Giratina mi tocca soltanto, giuro che gli distribuisco io il resto.»

«State fuori in due, ci serve un palo.»

Se da dentro non si vedeva neanche un’insenatura a fare da maniglia, dopo aver ruotato il quadrante in una specifica combinazione, scostato un paio di spranghe e maledetto il sistema carcerario della regione per aver concesso loro in uso quella catapecchia con una tecnologia risalente a non dopo il millennio, quando il budget gli avrebbe potuto concedere almeno un riconoscimento ad impronte digitali, quello che era incorporato gratuitamente nei loro smartphone, gratis per di più.  

«Che vergogna, guarda se dobbiamo fargli noi da babysitter…»

«Aiutatemi, vi prego!»

Sentirono quell’urlo disperato ancora, non sembrava provenire dalla bocca o dalla gola, ma dal corpo tumefatto nella sua interezza. Accasciata sul pavimento, incurante della ghiaia e della terra che si era appiccicata al suo viso bagnato, stava Iris Calfuray, nata il quattro marzo a Boreduopoli, ed il testo della tiritera che non gli era servita granché a scopo pratico.

Come se non fosse stato abbastanza, la rossa palestrata aveva fra le mani un grosso mattone scalcinato, con gli occhi iniettati di furia, pronta a spaccarglielo sul cranio.

«Prendetele e tenetele ferme, subito!»

«Mollami, ti ho detto, mollami!»

In punta dei piedi per non pestare la vittima inerme, con goffaggine una atterrò l’aristocratica, Camilla finì in un angolo dopo aver indietreggiato eccessivamente; la modella richiese un paio di misure drastiche. Prima le immobilizzarono le braccia dietro la schiena e poi gliele torsero, visto che aveva preso a dimenarsi e lanciare ingiurie.

Anemone alla fine: una di loro non riusciva a trattenerla e ogni volta che si aggrappava alle sue spalle robuste, uno strattone la faceva barcollare in maniera imbarazzante: per fortuna che si erano portate dei rinforzi, in due per braccio le fecero pure cadere di mano la sua arma improvvisata.

«Prima che tiro fuori il mio Sawk e vi rigiro le poppe sulla schiena, che cosa vi è preso?!»

Ringhiò sull’orecchio della mora, che scalciò infastidita.

«Non ascoltatele, stanno mentendo… - il torso della ragazzina era voltato verso di loro, guardandole come se non le rimanessero che il buon Dio e le loro nemiche giurate da supplicare – Sono cattive…»

«Questa selvaggia lurida ci ha attaccato qualcosa!»

Senza un soffio di femminilità, la voce dell’ex-aviatrice rimbombò e l’impeto rabbioso con cui si scosse mise alla prova la sicurezza della presa.

«Ci siamo prese la peste per colpa sua! – Camilla tossì due volte, se non si fosse subito arresa la recluta addetta non avrebbe mollato solo per pulirsi sui pantaloni – arrestatela e portatela lontana da me, entro oggi.»

«Ma cosa… Vi ha infettato? Cos’è, una malattia?» Chiese una di loro, serissima.

«Ci avete tenute chiuse dentro qua con lei per una settimana! E ci ha attaccato un qualcosa, direttamente dal suo schifo di villaggio imbucato sul confine di Unima… dove la gente non si lava, a quanto pare!»

«Che sfiga…» Ribatté un’altra seguace del Team.

D’un tratto, Iris si appese alla gamba bianca di costei, guadagnandosi una spinta disgustata: l’ideale di unità presumeva che si rifiutasse il razzismo, ma venire contagiata anche lei da quella specie di sub-umane era comunque sgradevole.

«Vi giuro, vi giuro, - riconobbero quell’espressione dalla scenata fatta davanti a suo nonno, un altro pezzo storico di comicità avanguardista – non c’entro… Io non c’entro! N-Non ho fatto niente, non sono infettata, vi giuro…»

Si soffocò nei singhiozzi. Non l’avevano ancora vista piangere così sonoramente. Come già ribadito, uno spettacolo agghiacciante, si fosse trattato di un alleato. Ma quelle erano le nemiche, quindi si atteggiavano come a vedere il ketchup nei film splatter: deluse, ma non sorprese.

«Sta zitta! Io ti ammazzo di botte, fosse l’ultima cosa che faccio!»

«Ih!» La fece squittire, quel tono intimidatorio.

«Fermi un attimo, - s’intromise quella che doveva essere la più anziana o la più sveglia delle reclute lì presenti – Come sappiamo che non state fingendo? Che virus, che malattia è?»

«Avete prove, eh? No che non le avete, pezzi di spazzatura.» Le fece eco un’altra.

D’un tratto, Catlina si fece avanti, senza riserbo, si sbottonò l’uniforme fino al terzo bottone, mostrando l’area compresa fra lo sterno e la clavicola in un triangolo con angoli sulle spalle: ma non solo lì, pure sotto il collo e sui bicipiti, macchie violacee, su cui i capillari rotti facevano capolino come nervature di una foglia secca, si estendevano e la sembravano voler tappezzare tutta.

«Ahahahahahah, buona morte a tutte!»

«Chissà se si trasmette anche ai Pokémon… la febbre e il raffreddore si passano, questa è tipo la stessa cosa, secondo me.»

Non controllarono le altre: molte di quelle ragazzette impressionabili aveva già in mente di procurarsi disinfettante per le mani ed un paio di prescrizioni antibiotiche subito finito il loro turno.

«Che schifo, mamma mia… Cosa facciamo?»

«Le lasciamo qua e vediamo chi esce viva da questo casino. E noi intanto andiamo lontane da qua, a distanza di sicurezza, per favore.»

Le quattro stavano ancora scalpitando; al contrario, nessuna aveva neppure alzato un dito per allungare una mano e tirare su la derelitta.

«Si ma i processi, domani? Glielo dici tu ad Acromio, eh, che non siamo riuscite a tenerle buone, eh?!»

«Eh, peggio per loro, domani si presentano senza denti!»

«Ma sei cretina, oh?! Vuoi dare l’impressione che il Team Plasma usa la tortura in diretta regionale?»

Oramai, insieme alla presupposta “malattia”, aveva iniziato a dilagare pure confusione che aleggiava in tutte le loro operazioni; per via della bussola morale impostagli, sempre indecisa, vista l’ambiguità di ogni loro precetto: niente violenza, a meno che non si tratti di avversari del Team. Nessuna pietà, se non per i deboli e gli sfruttati.

Ancora, contro chi stavano combattendo loro, semplici adolescenti più o meno scolarizzate, senza alcuna esperienza pratica in ambito militare? Ora il gioco di guardie e ladri in cui si erano buttate a capofitto non era più divertente come all’inizio.

Per fortuna che il Neo Team Plasma ormai aveva già vinto, nessun motivo di preoccuparsi.

Una recluta ancora più perspicace fece capolino dalla porta, roteando l’adorato walkie talkie dal laccetto come fosse un attrezzo circense.

«Ho chiamato una delle Reclute Scelte. Ha detto che adesso arriva.»

«Bene, così appena arriva le mazzate le condividiamo pure con lei!» Anemone non poté esultare sul serio, livida com’era.

«Le Reclute Scelte? – Camilla alzò un sopracciglio, fortuitamente nascosto dal suo ciuffo – Intendono le cinque che abbiamo praticamente e letteralmente ucciso alla Lega? Come fanno ad essere ancora qui? Magari le hanno rimpiazzate? No, in così breve tempo? Camelia ha detto che una si è spaccata la spina dorsale e l’amica di Iris… era stata impalata da una stalattite! Non è possibile…»

Intanto sulle piastrelle in terracotta, tacchi diversi dalle banali scarpe da ginnastica di tutti quei membri semplici si appropinquavano. Solo due gambe, il resto era un’altra schiera di nullità con le solite sneakers. Pretese da loro il rapporto.

«Praticamente, ‘ste qua stavano a picchiarsi fino a cinque minuti fa perché la piccoletta gli ha passato la rogna e ora sono, tipo, tutte a macchie. Hai presente un Whirlipede? Ecco, uguali.»

«Che bello, - estrasse dalla cintola un paio di Poké Ball, giusto per essere sicura – e io me lo devo gestire da sola, questo casino?»

«Uhm.» Le fece la recluta che la accompagnava.

«”Uhm”, cosa?»

«Uhm… signora!»

«Cosa dirai alla leader e alle altre tre, se ti chiedono qualcosa?» La interrogò in retorica.

«Che non ne sappiamo niente!» Rispose quella, assai entusiasta.

«Bravissima. – Una volta giunte alla porta, si sgranchì le dita, per nulla pronta ad affrontare una tale emergenza, senza la pressione datale almeno dalle sue compagne più minacciose – Se quelle non si risvegliano, ti faccio mia vice.»

«Evvai.»

Fece un saluto militare, che nessuna delle sue sottoposte ricambiò: gli servivano entrambe le mani per tenere le prigioniere dure, così come servivano alla nipote del Capopalestra di Boreduopoli il giorno seguente. Non poteva presentarsi in aula con una o due braccia in meno.

Senza la capacità di elaborare parole di senso compiuto, Lucinda scosse il capo, sicura che nella superficialità dei loro obiettivi i membri del Team non avrebbero dato a lei di che ragionare.

Si era rifiutata, ora che poteva esprimersi a voce, di prestare i suoi occhi per offenderle ulteriormente, quando le sue reclute stavano già raccogliendo la semina. Le avrebbe volute lasciar soffrire in pace, dignitosamente.

Infatti, se il megalomane depravato dietro la loro organizzazione si fosse seduto sul suo trono senza rispolverare le gogne, lei avrebbe più che volentieri abbandonato il Team la notte dopo lo scontro alla Lega.

Sapeva di aver violato il suo giuramento; la Campionessa di Sinnoh, che ora non la guardava nemmeno in volto da quanto l’aveva gettata in basso l’umiliazione, era la sua testimone.

«Una malattia infettiva, avete detto?» Non ci mise emozione.

Se a prima vista quelle ragazze le sembravano troppo belle, troppo carismatiche e troppo potenti per venire assoggettate ad un potere tirannico i cui lacci erano troppo larghi per fermare la loro avanzata verso la Sala d’Onore, le loro pance vuote, le costole in vista, le nocche scorticate e gli animi consumati dalla rassegnazione visualizzavano l’assenza di una vera, leale battaglia fra buoni e cattivi.

«N-No, non è vero, io non ho infettato nessun…» Un singhiozzo fu abbastanza estenuante da zittire la ragazzina, nel suo ennesimo tentativo di non venir additata come la colpevole.

La Recluta Scelta non la compatì e si rivolse alla squadra operativa.

«Le avete controllate?»

«Yes, m’am.»

«Vabbè, le avete controllate bene? Tutte?»

Terrorizzate all’idea di dover compiere l’esame di mano propria, si imbronciarono tutte e strinsero le mascelle in preda al disgusto. Queste procedure non stavano nei patti, qualsiasi fossero i patti, visto che leggere i termini e le condizioni di servizio non è un qualcosa di umanamente fattibile.

Lucinda aspettò una manciata di secondi, un dubbio si era fatto strada in lei: le quattro aggreditrici non osavano farsi avanti. La loro accusa non era un qualcosa che si poteva nascondere con la scopa sotto il tappeto, perché dopo tutto quel rumore ora stavano zitte?

Conosceva bene quella sensazione. Gli lesse panico nelle pupille, alla bionda.

In quei mesi di nefandezze, scorrerie e complotti le avevano insegnato fin troppo dettagliatamente cosa fosse un umano.

Fece due passi avanti, raggiunse la vittima e le sollevò il braccio.

Per qualche ragione, l’affetto che intercorreva fra di lei e la Campionessa, per quanto ce ne fossero state innumerevoli prove, non riusciva affatto a capirlo: le relazioni umane erano un’estensione della difficoltà dell’individuo “uomo” preso come singolo.

«Arceus, che schifo! Ma cos’è, muco?» Una delle ragazze in blu gridò, sul punto di abbandonare l’impresa.

«Sembra un fungo bianco, tipo la muffa delle Baccarancia.» Le disse una più ragionevole e meno sensibile.

Per riflesso incondizionato, Camelia, Anemone, Catlina e Camilla analizzarono i propri di arti: sulla loro carnagione più chiara si notava di meno l’infezione albina, sotto la scarsa illuminazione il rosso acceso delle bolle in rilievo le intimava di non grattarsele, pena una fontana di cruore impestato a cui non potevano far fronte: non gli era rimasto nemmeno un lenzuolo per bendarsi o dell’ovatta per fermare il flusso.

«Tiratemi fuori di qui! Hey, voi! Sono una top model, la mia faccia è tutto quello che ho! Hey, ah!»

La ragazza echeggiò fra le reclute, la giovane a terra si trascinò lungo il pavimento come volendo strisciare verso la colpevole, la quale era scoppiata a piangere di nuovo, anche se ormai non le rimanevano più lacrime.

«Eh? Ghecis? Ci vedi, mostro?! Ti stai divertendo? Stai ridendo di noi?»

La trattennero per i vestiti; l’ultima, per puro sadismo, si controllò anche il petto e le gambe da dentro l’uniforme, perfino le sue parti più delicate erano state compromesse dalla dermatite e le instillarono la paura di una patologia più grave, che l’avrebbe sfigurata andando avanti con gli anni.

«Non ce la faccio più… Non ce la faccio! Voglio andare via, voglio morire!»

Solo dopo aver gettato l’intera stanza di sei metri per sei nel totale caos, Lucinda si espresse.

«Beh, scabbia. Questa è scabbia.

Quindi, sì, la piccoletta vi ha attaccato una bella schifezza.»

«Ahahah… no… n-no… no! No!»

Il caldo. La fame. L’ansia. Chi stava muovendo quel corpo, quelle labbra, quello spirito morto?

Camelia approfittò della distrazione delle reclute per svincolarsi e si portò verso il muro diroccato, fissandolo per un secondo. Nessuna delle costrittrici intese il suo scopo, sino all’instante in cui, appoggiati i palmi davanti a sé, molleggiandosi all’indietro con parecchio slancio, colpì con la testa il cemento.

«Tenetela ferma, tenetela ferma!»

Ancora ebbra dalla contusione, ripeté il gesto con la stessa veemenza che, duplicata, la lasciò lesa, a strisciare la fronte contro l’intonaco, la frangetta lunga fino alle ciglia tinta di carminio come la tenda di un cabaret da incubo.

Chissà se le stesse criminali dalla tinta slavata avrebbero gioito di non doversi nemmeno scomodare, perché i loro target si sarebbero suicidati, una dopo l’altra.

Non avrebbero neppure applaudito? Eppure, lo spettacolo che il capo aveva allestito per loro si prospettava molto accattivante. Non se ne erano accorte, ma in quel teatrino di marionette miserabili, dove tutto aveva un senso e nulla doveva venire abbandonato al caso, c’era infilato pure un elemento di improvvisazione.

Non c’erano coltelli, pistole o veleni, là dentro. Solo cinque squilibrate e la loro fantasia.

La necessità di immobilizzare la mora decisa a spappolarsi le cervella contro il muro aveva distolto l’attenzione dalla lotta infuriante in cui le altre si erano lanciate.

Non era cibo, una medicina o dell’acqua che si contendevano, ma un affilato coccio caduto dal soffitto, che otto mani tutte assieme cercavano di raccogliere o sgraffignare alla fortunata, alla rinfusa.

«Portatemi via, - le intimò la bionda, dal volto lucido di sudore – o mi apro le vene, q-qui ed ora...»

Prima che qualsiasi contromisura venisse presa, Anemone era riuscita a staccare dal letto una gamba, lunga quanto la sua intera altezza. Brandendola come un machete, la agitò lungo tutto il raggio, le reclute che correvano in direzione della porta per non venire colpite.

«Sta zitta, ipocrita! Se proprio vuoi, ti ci mando io all’altro mondo! Tanto mi sei sempre stata antipatica!»

Le urlò e la beccò sulla spalla ripetutamente, facendola accasciare per via della clavicola divelta. La sua compagna senz’anima provò a soccorrerla, incurante della possibilità di aggravare il contagio.

«Se sei davvero mia amica, Catlina… - Le chiese, ogni sillaba, una fitta al petto – metti le mani sul collo e, per favore, strangolami.»

«No… Non posso… Ti voglio troppo bene… - si coprì la bocca con la mano ruvida - …possiamo morire insieme! Di sete… Di crepacuore… Di… D-Di… D-D-D…»

Le orbite si svuotarono, le pupille verde-azzurro della giovane aristocratica si erano dissolte sotto le palpebre e precipitò sul fianco della leader, quale un pesce fuor d’acqua che schizza via dalla rete, bruciato dalla mera immersione del proprio corpo nel mare di ossigeno.

Le due bionde formavano un’esilarante replica degli amanti infelici le cui giovani vite vengono terminate dal conflitto dovere contro sentimento, due destini incrociati nella bellezza della loro cella polverosa, il passaggio tremendo del loro amore marchiato di morte.

Almeno, finché entrambe boccheggiavano alla ricerca di un respiro non intossicante e non potevano bagnarsi le labbra con un veleno conveniente per la scena tragica; parlando di escamotage, se alla rossa non avessero strappato di mano il suo bel gingillo appuntito, magari non sarebbero neppure riuscite a seguire pedissequamente la trama della vicenda, facendone soltanto un tentativo poco riuscito di parodia.

«Basta, basta! Io non ce la faccio più!»

Una delle cadette di recente arruolamento cedette, lasciando la sua collega da sola, in balia di una Camelia afflosciata sul suo omero, una ragazza liquida sul punto di rovesciarsi a terra e spandersi, senza coscienza o integrità.

«C’è un limite alla disperazione… - si intromise un’ultima – nessuno ci costringe a stare in questo manicomio. Io me ne torno a casa, Ghecis e la sua “ricompensa” possono andare a farsi…»

«Uff, ferme un attimo. Basta porre resistenza. In quanto membro scelto e autorità su questo manipolo… almeno credo, che questo sia un manipolo? Voglio negoziare.»

Lucinda si sistemò i ciuffi color lapislazzuli dietro le orecchie, in modo che le ciocche sul parietale non andassero ad ingarbugliarsi sui lacci della mascherina nera.

Evitò di posare lo sguardo per troppo tempo, come si era ripromessa. Iris stava annuendo sotto il suo mento, ansiosa di sapere cosa avrebbero ottenuto. La nemica riprese, non rivolgendosi a nessuna in particolare.

«Da quanto è che non vi lavate?»

«Una settimana, circa.» Le rispose prontamente quella dai capelli viola, risucchiando un singulto.

La recluta alfa le mostrò un sorrisetto commiserevole e parlò alle sue sottoposte, ancora imbambolate dall’ipotetico favore che la loro direttrice provvisoria voleva concedergli.

«Allora è normale! Tutto spiegato: sono le condizioni igieniche scarse! – Fu strano sentire una combinazione aggettivo-nome-aggettivo in una frase del parlato, ma era effettivamente quello il problema; non detraeva tuttavia all’argomentazione che fosse proprio la ragazzina la colpevole – Fare la leader è la cosa più facile del mondo! Forse è per questo che tutti vogliono sempre comandare?»

Camilla si rialzò, fissando le ginocchia bianche della ragazza con cui aveva già combattuto due volte.

Le sembrava sempre così ingenua, non si spiegava come fosse stata reclutata. Le aveva confessato di venire dalla sua stessa regione, quindi escluse una raccomandazione. Dov’erano le sue motivazioni? Di solito, le persone malvagie le hanno scritte nei loro lineamenti. Quel viso roseo invece, quegli occhi rotondi azzurri, le labbra sottili… una combinazione di innocenza che si prendeva gioco dei Saggi ammuffiti nei loro mantelli termitai.

«E quindi?» Domandò, un altro nugolo di reclute si infiltrarono nella stanza.

In seguito, la tenebra scese sugli occhi di tutte quante, per quella che doveva essere l’ultimissima volta.

Come nel giorno in cui l’avevano portata davanti al giudice a farsi scuoiare da false accuse, i mugolii affaticati delle sue compagne raggiungevano le orecchie della Campionessa e vi riverberavano, assordando i suoi.

Pokémon pesanti le stavano scortando, le zampe le trascinavano lente lungo quei vicoli infiniti, neanche la luce riusciva a perforare la stoffa opaca, anche avesse voluto sforzarsi di aprire gli occhi. Muovere il collo poteva essere fatale, con le mani legate dietro la schiena impossibilitate dall'offrirle equilibrio: una caduta in avanti e la percossa subita antecedentemente si sarebbe trasformata in una vera e propria frattura aperta, a livello del torace.

Non le importava più nulla, a quel punto: avrebbe usato i suoi calzini per asciugare la fronte grondante di sangue di Camelia, avrebbe usato le buone anche per calmare Anemone e rimetterla isolata nelle sue fantasie placebo. Le sue cosce morbide c’erano e ci sarebbero sempre state per la sua migliore amica.

Camilla soffiò via la sua paura piano, non dischiuse nemmeno i denti per paura di bucarsi i polmoni.

«Tranquilla, Campionessa: non sei davvero ferita.»

Tale manovra non fu sufficiente, infatti dopo quella dichiarazione le scivolò fuori una sonora inspirazione. Aveva riconosciuto la voce di Lucinda.

«Non fingere di non averci pensato: non si prende la scabbia in una settimana di tempo.»

«Ma allora… - le mancarono le parole, mentre il ticchettio delle loro Poké Ball fra le mani della recluta si faceva più insistente, vista la loro andatura irregolare – cos’era?»

«Diciamo che quello che avete visto voi… - fece una pausa, per poi dare al tutto un tono dolce, quasi compatente – non è importante che lo abbiate visto voi, ma che lo abbiano visto le mie compari.»

«Un’illusione? Com’è possibile?»

Come se le sonde potessero entrarle in testa e registrare il contenuto dei suoi pensieri, la giovane donna quietò immediatamente i propri dubbi. Non aveva sentito dolore. Aveva blaterato idiozie, pure implorato Catlina di strangolarla, come se quella ci sarebbe mai riuscita, con le sue manine gracili dalle nocche lisce come cotone.

Le rincrebbe di non poter ringraziare a modo. Per questa ottima occasione, ma anche per l’avvertimento sui piani di Acromio lanciatole nella stanza dei Superquattro.

Non aveva idea di cosa avesse lei che le altre non avevano, per aver risvegliato la parte empatica e umana di uno scagnozzo della figura più malvagia di tutta Unima.

Si era bruciata una mano per lei, eppure se ne era dimenticata il giorno successivo. Lamentarsi di un osso rotto, quando tutto ciò che amava stava per cadere in mano alla tirannia del Team Plasma, non le pareva una priorità di cui un vero eroe dovrebbe porsi.

La recluta gli fece presente di arrestarsi e le rimosse la benda, facendo attenzione a non strapparle i capelli.

Una porta grigia, con un cartello giallo e nero che ammoniva di pavimento sdrucciolevole, si aprì dopo che un Rhyperior la trascinò lungo una pista arrugginita. Una zaffata di umido e chiuso la costrinse a trattenersi il respiro.

«Ah, comunque: vai sempre dritta e poi gira alla terza a destra e segui le scritte rosse. – Lucinda si voltò verso di lei – Hai imparato ad usare Focalcolpo, senza ammazzare qualcuno?»

La bionda si ricordò subito di quella specifica sessione di allenamento, almeno quanto il Team si ricordava di cosa lei e Iris avessero voluto intrattenere dopo. Pensò ai bersagli in pietra e annuì, timida.

«Bene, allora.»

Ricevute le loro Poké Ball, si lasciò condurre dentro, mentre anche le altre quattro avanzavano, le lasciò con un augurio, strano come tutti i precedenti, mediante lo stesso sorriso magnanimo.

«Buona doccia, ragazze.»

Chiuse la porta. Nessun membro del Team era entrato insieme a loro.

Per quanto l’area ricoperta di piastrelle verde palude fosse dell’area almeno tripla rispetto alla loro amata camera di stagionatura, le dieci gambe si raccolsero di fronte alla soglia, la gomma delle scarpe fallì nel trattenere la permeazione del velo d’acqua adagiato a terra.

Lo spirito dell’elemento abitava quel luogo, lo possedeva; i pannelli di cartongesso penzolavano dal soffitto e rivelavano le interiora di quel carcere abbandonato, una cancrena nera con cui l’edificio intero combatteva per non crollargli addosso.

Sul lato ovest, una fila di lavandini condivideva la stessa vasca in porcellana bianca incrostata dal calcare, le lunghe bocche affusolate attecchite dalla ruggine, proboscidi di Donphan imbalsamati. Camilla si gettò in quella direzione.

Lo spesso strato di ossidazione la trattenne dall’agguantare la manopola e far sgorgare un affluente da cui dissetarsi.

Il suo riflesso sullo specchio alla parete spezzato, la pelle screpolata come il guscio di un uovo sodo e nervature di mercurio vi scorrevano sotto la superficie. La sfocatura ed i graffi sul materiale, comunque, non le impedirono di constatare di non avere né botte, né fuoriuscite di sangue.

Parlò contro lo stesso specchio deformante, da cui le sue ragazze apparivano pochi passi dietro di lei, con gli occhi puntati tutt’intorno alla stanza: per quanto l’immagine fosse ectoplasmatica, erano deperite, parecchio sciupate, ma pur sempre resilienti anche a quello spavento collettivo.

«Ce l’abbiamo fatta?» Si voltò ed il gruppo finalmente riprese attività.

I neon non sembravano volergli rivelare troppo. Il flusso di corrente appariva continuo, indebolito solo dall’umidità, piuttosto pericolosa per i circuiti antiquati.

«Che brutto che è stato! Ho preso troppa paura.»

Catlina si guardò negli occhi ad intermittenza, sbattendo le palpebre per simulare un cambiamento repentino di luce. Smise e fece quel commento, mugugnando per l’imbarazzo d’essere l’unica ad aver veramente temuto di aver rovinato il tutto per via dei suoi attacchi imprevedibili. Ma accortasi di essere perfettamente lucida, la fitta di fifa le passò.

Le aspiranti Campionesse non si concessero di esultare, per il momento. Erano consce di dover ancora attraversare l’inferno, invece di brindare sul primo scalino in discesa dal limbo.

«Qui non ci sono le telecamere?» Riprese la biondina, con tono più esigente, per dimostrarsi utile.

Aveva insistito su quel punto dall’inizio. Non era un caso, che avessero pronti fascicoli di documenti per incastrarle dall’oggi al domani. Ancora di meno che una lampadina iniziasse a lampeggiare, guarda caso, proprio davanti ai suoi occhi, proprio quando stava per smontare le tesi del professore in favore della sua cara leader.

«Non è contro la legge, mettere le telecamere in un bagno?» Le rispose con una domanda la rossa.

«A proposito, avete visto? – Camelia appoggiò il piede su un orinatoio, sprezzante come une esploratore che scopre delle nuove rovine – Ci hanno dato il bagno dei maschi, ahah.»

Trovava ridicola la mancanza di tatto del Team. Credevano di aver a che fare con un branco di puriste, terrorizzate dalla mera esistenza del genere maschile sulla faccia della Terra? Quella definizione somigliava più ad una caricatura, un qualcosa che un osservatore poco informato avrebbe potuto blaterare nei loro confronti, uno che di loro aveva ascoltato soltanto i loro dialoghi senza conoscerne il contesto.

Camelia stava ispezionando degli urinali staccati dal muro con le tubature esposte, con inspiegabile curiosità.

«Vabbè, dai, - riprese, saltando sopra una panca in legno marcito, come fosse uscita da un musical – l’importante è che, non si sa come, stiamo tutte bene!

Cioè… noi quattro stiamo bene.»

Forse erano i postumi della disperazione, interrotti dalla serietà richiestogli per completare il trasferimento in quell’esatto luogo. L’ineluttabilità della loro incarcerazione doveva averle inseguire. Avevano fatto tanta strada solo per farsi intrappolare in un vicolo cieco, la ragazza dai capelli corvini si prendeva gioco di quelle sciocche ambizioni targhettando colei che se le era messa in testa per prima.

L’esclusa dal loro circolo di Allenatrici qualificate ed affidabili, con i piedi saldi a terra, aveva ovviamente recepito il messaggio.

Prima che potesse anche provare a difendersi da quella freddura, l’aviatrice si intromise, con il suo enorme cuore impacciato nel dare spiegazioni ai suoi impulsi incontrollabili.

«Iris, scusami! Ho fatto fortissimo, non volevo…»

Strinse i pollici nei pugni, anche se infliggersi da sola una punizione non avrebbe mai alleviato le botte che si mimetizzavano nella carnagione color cacao della sua compagna più piccola.

«Non importa.» Disse Iris, solo quello.

«…eh?!»

Anemone lanciò un’occhiata confusa a Camelia, la quale ricambiò con un sorriso inquieto. Confidarono nella reciproca abilità di comprensione del carattere della loro amica, ma nel loro repertorio di reazioni non risultavano esserci esempi simili.

Tutte le volte che la modella l’aveva presa in giro amichevolmente per il colore inusuale dei suoi capelli o per la sua inesperienza in lotta, le era sembrato che importasse, ad Iris. Perfino l’intera epopea del suo piccolo seno insignificante: poteva starci una certa stizza all’inizio, ma non le faceva passare indenne nemmeno quella burla in buona fede da quanto, appunto, le importava.

E poi vi erano gli incidenti più grandi, in cui Iris non poteva permettere a se stessa di tacere sulla loro negligenza a prescindere dallo scenario. Fossero i Magazzini Nove, il solaio dove dormivano quella sera di pioggia o il sedile posteriore del fuoristrada di Camilla.

Piccoli fruscii di misfatti destinati ad invecchiare come storia antica nel giro di poche ore rimbombavano nel cuore della ragazzina di Boreduopoli, la valanga scuoteva ogni arteria e le dava prova concreta, a livello di nervi, di quanto il male psicologico esistesse e facesse rumore, molto rumore.

Se quella era Iris, sepolta in tutte le istanze di rancore preservato nei confronti di ognuna delle compagne, chi era riemersa, in piedi dopo un pestaggio brutale, dopo pugni e calci in pieno viso, le orecchie esposte ad offese sulle sue origini e sulla sua individualità? Si era passata la manica sotto la narice, osservando la macchia sull’orlo seccarsi man mano che l’epistassi diminuiva.

Chi aveva detto loro “non importa”, dopo tale degradazione fisica e morale? Chi era quella ragazza?

«Venite di qua.»

«Sei partita di testa? – la mossa che la modella aveva appreso per stallare la sua interlocutrice sul posto, congelandola sui suoi piedi, non funzionò – Ti piace, ah? Non c’è altra spiegazione, come fa una a goderci così tanto quando la insulti, la ridicolizzi davanti al mondo e la prendi pure a pugni in faccia?

Iris, sei una grossa masochista o cosa?!»

La ragazzina le scivolò sotto lo sguardo, evitando l’attacco con leggiadra indifferenza.

Attraversò l’intero atrio, divisore dello spazio dei gabinetti e quello degli spogliatoi. Non erano rimasti segni tangibili dell’utilizzo di quel servizio ma nessuno si era mai curato di restaurarlo.

Allineate, separate solo da pannelli removibili in lotta contro la gravità e i cardini sul muro, una dozzina di cabine doccia. Le tende dovevano essersi deperite per prime, ragione per cui ne sopravvivevano solo gli anelli per appenderle, la carcassa spolpata.

«A voi non bruciano gli occhi?»

Le due giovani di Sinnoh si coprirono la bocca e il naso con la manica, simulando una maschera. L’assenza di riciclo dell’aria aveva trattenuto là dentro il tanfo di anni ed anni di sudore, sospiri, indigestioni, abbandono.

«Sull’ultima. Ma non so quanta differenza faccia.»

Le quattro fecero una smorfia schifata, non avrebbero avuto il coraggio di avvicinarsi nemmeno al piatto delle docce, lercio di chissà quali e soprattutto quanti miscugli ributtanti. L’area era umida, macchioline di acqua e calcare si aggregavano sui bordi. Iris si era addirittura inginocchiata e le ginocchia dell’uniforme si erano bagnate, le scarpe avevano fatto la stessa fine.

«L’acqua va!?» La leader indicò il bocchettone incrostato.

«Le manopole sono ancora là… fanno schifo anche solo vedendole da qua, ma magari…»

Né Catlina né l’altra ottennero nulla da quel quesito.

Del resto, sapevano in cuor loro di non trovarsi nelle docce per farsi la doccia, avrebbe avuto troppo poco senso. Mentre malmenare la loro amica, fingere di aver preso una malattia da lei, per farsi condurre in quel luogo prestabilito… aveva un suo fascino, se proprio non c’era verso di dargli un senso.

«Sssh, - L’Allenatrice dai capelli viola, carponi, rivolse la sua attenzione al piatto, fece chinare le altre al suo livello – sentite.»

Nel silenzio, il pugno scorticato contro l’asfalto, ancora imbiancato di polvere, batté un colpo vuoto, quale la membrana di un tamburo. Sicura che l’intuizione non le avrebbe colte subito, un altro colpo seguì, identico al primo. A quel punto, Iris si voltò, un debole sorriso le incurvava le labbra arrossate.

Tale gesto di assenso lasciò le ragazze perplesse. Le aveva perdonate solo per le botte, o anche dai loro peccati precedenti, quali l’ignorarla e il farla sentire inferiore, erano state assolte?

«Uhm?» La Capopalestra mora non ebbe la pazienza di aspettare indizi.

La più piccola usò un tono gentile, lo stesso con cui lei si era timidamente presentata alla Lega, con i suoi codini un po’ spettinati e la maglia oversized, la sua trasparenza di animo.

«È vuoto. Non c’è niente sotto.»

«Cos… Scusa?! No, non può andarci così bene, non ci credo.»

Sopportò ancora la drammaticità della compagna, che in fondo comprendeva.

La seconda invece, scostandosi i capelli nervosamente, provò ad elaborare meglio.

«Anche se sotto è vuoto, questo non significa che… - perse il filo, e riiniziò - Se c’è un’altra stanza sotto…»

«Ogni volta che ci portavano fuori, – Anemone la interruppe, con la sicurezza che la sua esperienza e la sua istruzione le garantivano in questo campo – ho contato quanti passi ci mettevamo ad arrivare alla sala: circa centotrentasei.

Ma non vi pare strano?»

«Centoventisei?»

«Sono pochissimi! Vuol dire che non ci hanno fatto salire a piedi, fino al posto dei processi. Siamo salite in ascensore! Non lo abbiamo sentito perché eravamo bendate.»

«Non è possibile. – ribatté la biondina - Ce ne saremmo accorte.»

«Nessuno – lo fece di nuovo, sicura che una riccona a cui non era mai stato chiesto di alzare un dito in vita sua non avesse alcunché da ribattere – si accorge, quando un aereo aumenta o cala di altitudine, lo sbalzo di pressione è minimo. Potrebbero averci portate su di dieci piani e non ce ne saremmo accorte.»

«Non ci sono neanche finestre, né qui né nella nostra cella. – Si aggiunse Camilla – Quindi, può darsi che… Siamo al piano terra… - lesse dallo sguardo della pilota di essere vicina alla soluzione e passò da fuochino a fuoco – no, siamo sottoterra!»

Usando le proprie mani, immaginò un modello della struttura: avevano visto tre luoghi in croce, eppure con un po’ di immaginazione potevano ricreare una veduta aerea dell’edificio, sebbene non ne conoscessero neppure l’aspetto della facciata.

«Hanno costruito la struttura nuova al livello base, con il tribunale e tutto. Quella vecchia è stata coperta e lasciata sotto. Se Ghecis è davvero al verde e si mette a vendere la droga in giro per i vicoli, restaurare un vecchio carcere maschile probabilmente non era nei suoi interessi.»

Non erano giunte ad un accordo comune, quella questione non faceva altro che espandersi e diramarsi in ulteriori investigazioni sul funzionamento del complesso. Ma il tempo stringeva, quegli istanti usati per spremere le loro meningi doloranti erano abbastanza per farsi già uno shampoo e un balsamo.

«Frega niente, muoviamoci a togliere ‘sto coso. – Camelia passò il sacchetto tappezzato di etichette alle compagne, alla ricerca delle sue Poké Ball - Al massimo ci estendono la pena per danneggiamento di proprietà pubblica.»

«No, che sfiga!»

«Leader, che hai?»

Davanti ai suoi occhi, il Garchomp di Camilla non le era mai apparso più strano. Aveva la bocca asciutta, i denti affilati digrignati e gli occhi stanchi, svuotati. Agitava quei prolungamenti ossei sulla punta delle zampe in maniera disordinata, affettando il nulla con le falci.

«Ci scommettevo. Hanno fatto qualcosa ai nostri Pokémon, ne sono sicura.»

«Camilla, - le fece strano chiamarla per nome, una certa naturalezza le fece notare quanto maggiore fosse lo sforzo consapevole di non portarle mai rispetto – mi dispiace un sacco, ma puoi cortesemente ordinargli di usare Dragobolide, Giga-mega-ultra-impatto della morte o un’altra di quelle mosse spacca-deretani di voi Campioni fighetti?»

«Appunto, - La donna osservò la sfera del suo drago, abbattuta - Non riesco.»

«Gli hanno inibito tutte le mosse. – Catlina eseguì lo stesso gesto, per tutti i suoi Pokémon insieme – Con Inibitore, la mossa. Serve un Centro Pokémon qua.»

Le reclute si aspettavano il peggio da loro. Le prigioniere avrebbero potuto ordinare al potentissimo team della Campionessa di sbriciolare un muro e sgattaiolare fuori, giocando a bowling con le reclute come birilli.

Del resto, si trovavano lì per lavare i loro poveri compagni. Niente doppio gioco, avevano messo in ballo la loro dignità per quel minuscolo privilegio. Forse gli sarebbe convenuto cominciare a strigliargli il pelo e controllargli le unghie, non sapevano in quali gabbie striminzite o in che tugurio avevano lasciato i loro amati mostriciattoli fino a quel momento.

Ancora inginocchiata nello stesso punto, Iris chiamò una volta sola, con determinazione.

«Anemone, - era adagiata contro la parete, abbassò lo sguardo senza esitazione – questa specie di coperchio si può staccare?»

Si grattò il sopracciglio, esortando il suo cervello ad analizzare concretamente il problema.

«Hmm, - la rossa si accovacciò, sperando di non sporcarsi ancora l’uniforme – sono circa mezzo metro per mezzo metro, conta che questa è resina sifone, non porcellana. Poi… Poi il silicone che tiene attaccato al pavimento è abbastanza rovinato, ha preso acqua, sì, sì.»

«Allora?» Le rivolse quegli irresistibili occhi nocciola, che la rossa aveva di malavoglia rifiutato durante il suo processo e se ne era già pentita.

«Sì che lo puoi staccare… se hai voglia di grattare via una ventina di strati di colla e muffa. - Lo ammise con sufficienza, ottenendo una leggera delusione nella sua amica – Io lo facevo almeno una volta al mese quando facevo la gavetta, mi ci volevano tre ore e un barattolo intero di solvente. Zero su dieci, non lo raccomando.»

Iris nel frattempo afferrò un lembo dei vestiti della rossa, desiderando la sua completa immersione: stava per proporle qualcosa, qualcosa che non avrebbe nemmeno tentato di cominciare senza il consiglio della sua amica esperta in meccanica.

Aveva paura di irritarla, aveva bucato la sua difesa con lo spillo della contestazione sulla sua presunta eterosessualità e fatto affogare tutta la sua barca di credibilità da quel singolo foro. Certo, credeva di averlo fatto per il suo bene emotivo, adesso insieme alle insicurezze che Anemone aveva riguardo il suo status sociale e le proprie relazioni interpersonali, l’ombra della sua fidanzata che la esortava a smetterla di leggere i suoi preziosi fumetti, pena la separazione, avrebbe infestato i suoi incubi.

«Possiamo staccarlo con questa, che dici?»

La rossa incrociò le braccia, piuttosto confusa.

Lo strato di unto infilatosi sotto le unghie delle punte smussate si trasferì sui bottoni bianchi, mentre la ragazzina li maneggiava attraverso la fessura: la taglia extra small la costrinse a scendere fino al terzo della fila, un'ondata di imbarazzo la infiammò all'idea che delle ragazze più mature di lei intravedessero lo sterno da quella fessura.

Riacchiappò i suoi sentimenti e li mise a bada, per quel che doveva fare non poteva lasciare il suo ego ammaccato libero di intralciarla.

La estrasse piano, per la paura che l'attrito delle fibre strette intorno alla pelle della pancia e dei fianchi la ustionasse.

Inizialmente era bianca. Non che fosse il colore a dispiacerle, ma dopo anche sei strati di coperte e fodere non le pareva di fare progressi in quelle notti insonni e tormentate dall'idea che le lenti della telecamera avessero un visore notturno.

Non era andata così, Camilla l'aveva aiutata ancora. E pur non volendolo, Iris in cambio aveva alterato la sua sorte al processo e la sua limpida reputazione.

Sperò di riscattarsi agli occhi della Campionessa. Purtroppo il suo reggiseno nero, profumato di quell'aroma corporeo ed etereo allo stesso tempo, stava vicino alle fondamenta dell'utensile, nascosto.

Lo rinforzavano un altro capo del medesimo colore, ma dal tessuto più morbido, visto che sorreggeva un peso sì ingente, ma pur sempre minore, ed uno bianco a strisce giallo limone, una combinazione infantile anche per una bambina come lei in attesa del miracolo della pubertà.

Lo strato esterno era il più fragile, un pizzo rosa pastello che aveva sudato per non sfaldare con il suo amato taglierino.

La cosa buona fu che la parte scuoiata dalle decorazioni era malleabile, quindi ne derivò una doppia fodera arrotolata fra i nodi degli altri materiali.

Iris persistette nella sua reticenza.

Non le sarebbero arrivati applausi, non ne voleva. L'unica cosa che le premeva era di rimuovere il maledetto coperchio e di scostarlo sul lato della doccia.

«Una corda? - Anemone corse quasi a strappargliela di mano. Si vantava di essere la più abile in manodopera del gruppo, ma le sue enormi dita non avevano speranza di infilarsi nelle intercapedini stretti - Ma non possiamo staccare il silicone a forza, bisogna pur attaccarla da qualche parte...»

Quello era un lavoro per una ragazza piccola. Il loro essere ragazze grandi non aveva contribuito, se non nel provvedere rifornimenti al loro comandante.

Non che la dimensione delle proprie mani fosse attuale oggetto di complessi per Iris.

«Più o meno. - Camilla le si accostò con un sorriso inspiegabile, insieme al suo Togekiss e a Milotic – Su, falle vedere la specialità, tesoro.»

Afferrando il collo della lunga serpentina realizzata in biancheria da donna, l'Allenatrice dai capelli viola fece volteggiare l'estremità: un artiglio grigio, dalle membra nodose in ferro intrecciato, si dondolava come l'arto rinsecchito di un mendicante affamato.

Poi Iris lo raccolse al volo e dimostrò la flessibilità, piegando i bracci spessi quanto il manico di un coltello fine, i quali mantennero la posizione.

«Possiamo attaccarlo e tirarlo su.»

«Hey, quelli sono i ferretti del mio reggiseno!»

«Intendi “dei nostri” reggiseni, Anemone.»

Non aveva usato i tanto odiati vezzeggiativi, ma la Campionessa era riuscita a trattarla con accondiscendenza anche così.

«Dai, quello era uno dei miei preferiti! Iris, tu non hai contribuito?»

«Non mi serve una spranga in titanio del genere, - la giovane non la degnò nemmeno di uno sguardo, allargò i bracci dell’attrezzo, precisione e fretta si azzuffavano fra i suoi polpastrelli - la mia schiena si regge benissimo da sola.»

Mentre lei lavorava, le quattro si scambiarono una perplessità aberrante: era un’offesa a loro? Ai loro seni? Alla loro ossessione per gli stessi? Alla critica per chi la compativa per la mancanza degli stessi?

«…Non si parla così a delle persone più grandi...? – Catlina si rese conto di non saper sgridare e cambiò discorso – Camilla, per favore, di’ qualcosa.»

«Hmmm…»

L’idea di infilare le dita dentro lo scarico fece rabbrividire la ragazzina. Arricciò il naso e ogni volta che il ferro non ne voleva sapere di incastrarsi nelle fessure della bocchetta, violava il suo voto al pudore ed afferrava l’intero componente metallico sul centro del piatto doccia ed il ribrezzo diminuiva pian piano.

A casa di Nardo richiamava tutte quando lasciavano i capelli nella doccia, li tirava su e riconoscerne il colore andando a richiamare la colpevole le gonfiava il petto, invece.

«Ci riflettevo prima: stiamo letteralmente aiutando il Team Plasma facendo così. - La Campionessa volle condividere la sua saggezza – La prima volta mi hanno presa d’assalto quando ero da sola, poi alla Lega ci hanno tutte divise e ci hanno quasi messo in ginocchio.

Ragazze, stiamo perdendo di vista la cosa importante: dobbiamo restare unite, almeno per questa volta.»

«No, no, - Camelia la incalzò – Iris ha ragione: quel reggiseno è davvero orrendo, punto e basta. – si rivolse ad Anemone, appoggiandole le mani sulle spalle da dietro – davvero tu vai in giro con roba del genere addosso?»

«Uh…»

«Ce l’ho fatta. – Tacquero tutte, Iris si alzò in piedi, le mani aperte alla ricerca di un piano su cui asciugarsi – Potete per favore prestarmi i vostri Pokémon per tirare su la corda? Da sole non ce la faremo mai.»

Quello stoicismo l’aveva resa irriconoscibile, certamente. Ma non per nulla, anche molto più affabile.

La più piccola del gruppo era andata incontro al problema senza la sua spessa corazza di vittimismo e di auto-commiserazione. Aveva affrontato la belva a mani nude e ne era uscita con la pelliccia in pugno.

«Mettete i più pesanti in basso, i più leggeri verso l’alto, quelli che possono volare o fluttuare tirano tutti nella stessa direzione. Attenzione a non farvi male, piccoletti.»

Pur non avendo a loro disposizione raggi laser, getti ad alta pressione o palle di energia, dai volatili ai draghi, agli psichici e ai terrestri, con versi colmi di entusiasmo esercitano la forza di cento Terremoti. La corda non gli scivolò dalle zanne o dal becco, nonostante il chiaro dolore ai denti e alle mandibole.

Era il momento della loro vita in cui gli era richiesto l’impegno mai sprigionato prima, di fare insieme del proprio meglio, di darne tale prova alle loro Allenatrici ancora ignoranti di quel concetto.

«Però volevo dire che… Una ciocca violetta le cadde sul naso, con un soffio la bandì lontano dal suo sguardo. Si sarebbe risistemata dopo i capelli, aveva la netta sensazione che nessuna delle sue compagne l’avrebbe giudicata – Ma quanto è figo l’avere un piano, per una volta tanto?»

Voleva anche complimentarsi con loro, che lo avevano seguito step per step: l’assalto per via della fantomatica infezione doveva essere realistico; niente battutine sulle tette o sulla loro vita sessuale, in quei tre mesi ci erano sempre andate troppo piano. Iris gli aveva fatto intendere che dovessero picchiarla a sangue, di non fermarsi se gridava e le implorava di darle tregua. Nessuna safeword.

Vedere il successo della sua impresa come un martirio in favore della libertà era riduttivo; i segni delle ferite, le cicatrici le sarebbero state care, a lungo andare.

Il suo profilo abbronzato, nel cuore di Camelia, Anemone, Catlina e Camilla, aveva ottenuto una posizione riverenziale, un’aura di ammirazione per il suo coraggio la circondava e faceva presa in loro. Non avrebbero mai definito Iris una tipa “tosta” od “eccezionale”, eppure aveva ottenuto il rispetto che era suo dovere guadagnarsi, non esigere od elemosinare strisciando ai loro piedi.

Il tutto ricordava loro la pesca a gettoni delle sale giochi, una versione con più di qualche centesimo e dieci secondi del loro tempo in palio.

«Vero! Dovremmo farla più spesso, ‘sta cosa del “piano”…» Catlina ruppe la sua faccia di bronzo e dimostrò il suo consenso a tale disposizione a lei aliena.

«Sei troppo avanti per noi. – La pilota le batté la spalla con delicatezza, rivolgendole un tono fraterno – Non ci dici le cose per vedere se anche noi minorate mentali ci arriviamo?»

Si distaccò dal voler salire su un piedistallo e voler attivamente dargli delle idiote. O meglio, era sicura sarebbe giunta l’occasione per ricordarglielo, ma non erano il tipo di idiota che eleva il sé all’auto-celebrazione. Avrebbero potuto scappare via insieme, aver avuto una perfetta sincronia e rimanete tutte, appassionatamente, delle ragazzine senza cervello. E non avrebbe voluto che questo cambiasse.

«Adoro – la mora dette il suo parere, sempre con il suo atteggiarsi serpentino, tuttavia si tradì con delle buone parole – come Iris ci stia tirando fuori da qui. Ha ragione il Team Plasma.

Siamo un branco di lesbiche inutili. Nel vero senso della parola.»

Ad Iris stava quasi per scivolare una risatina: non sapeva se si trovava d’accordo con Camelia o no, per quanto non le sarebbe dispiaciuto istituire un anniversario per tale raro evento.

“Quattro deficienti con le mestruazioni isteriche” … chi aveva detto questa cosa? Era stato sorpassato presto.

«Oddio… - La voce bassa di Camilla fu inghiottita da un boato gutturale, i calcinacci appesi alla base si dondolavano ai resti del silicone rimosso – Wow, ragazze… Solo… Wow.»

Come il piatto della bilancia su cui erano messe in palio le loro possibilità di riscatto da una vita da prigioniere del dittatore Harmonia, la plastica sporca in bilico sotto la salda supervisione dei loro Pokémon in combutta liberò un miasma ancora più potente, più organico e vivo dell’odore di chiuso di quei giorni.

Finì adagiato sul pavimento, l’accesso alla voragine apertasi sotto era completamente libero. Potevano passarci il Garchomp di Camilla ed il Dragonite di Iris senza problemi, cinque fanciulle dalla corporatura ammorbidita nei punti giusti avrebbero avuto poco da temere.

«No, ci sta andando tutto troppo bene: secondo me adesso moriamo.» L’aristocratica tremò.

«O magari muori tu e dirai “ragazze, andate avanti senza di me!”, visto che sei un peso morto.» La canzonò la mora.

La pozza nera, per quanto poco romantico suoni, aveva eccome un fondo: un cotto tappezzato dalle alghe, viveva e respirava anch’esso come un vivente, frusciava e deglutiva quale una belva sveglia dal letargo.

«Andiamo, dai. – Camilla si toccò il ciuffo, incerta anche lei su cosa le avrebbe attese laggiù – Le reclute daranno l’allarme a momenti e non abbiamo molta scelta nel coprire le tracce.»

Iris imbastì la corda, tramutandola in un rampino: sarebbe stato come alle elementari, quando la maestra la sgridava e le toccava scendere dall’albero più alto del cortile, facendo attenzione a non impigliarsi con la gonna sui rami del pesco.

Ma ora era diverso. Lei era diversa. Non era più lei, da sola.

«Uhm.» Annuì, con convinzione.

Fece strada, aggrappandosi alla corda e tenendosi in equilibrio con i piedi, lungo la parete viscida. La sua squadra la seguì a ruota, osservando che non cadesse per quei cinque, sei metri. Gli esemplari che potessero offrire supporto alare aiutarono le ragazze meno agili, con la mossa Psichico scesero anche i più pesanti.

Non c’era altra via di uscita.

Erano le Allenatrici venute dal basso, cadute nell’abisso per mano di Ghecis, di Acromio, della spazzatura che era la politica e la legislazione di Unima.

Non avevano scelta.

Se volevano almeno provare risollevarsi dalla loro caduta, dovevano scendere ancora più in basso, attraversare la bolgia e sperare di approdare sul versante nudo del monte Purgatorio.

E quindi una ad una, una dopo l’altra, scesero. Furono accolte dal buio che ci si aspetta in una serata lontano dai lampioni, ma in cui la luna è fulgida in cielo; potevano discernere dove fosse attraversabile solo dal riflesso dell’acqua sulla sponda impiantita.

Erano giunte allo Stige. Al posto delle anime dei dannati a galleggiare nello scorrere di liquami verdi una lattina di Lemonsucco, l’involucro sfaldato di un Dolce Gateau ed un bicchiere in plastica con la cannuccia ancora infilzata che proveniva dalla stessa catena di fast food dove avevano ritirato il pranzo la volta della caccia al Sangue del Drago: possibile che gli stesse scorrendo davanti agli occhi proprio lo stesso bicchiere che avevano gettato via? A volergli dire che il flusso dell’esistenza altro non era che un circolo, chiuso in se stesso, senza punti di conclusione o di partenza?

Ma le cinque eroine avrebbero corso più veloce della trasmigrazione, della luce e della morte. Finché avevano ancora gambe su cui sostenersi ed uno spirito ancora fremente nella gola secca, sarebbero andate avanti.

Senza fermarsi, continuavano a muoversi attraverso i condotti delle fogne di Austropoli.

«Ci stanno già seguendo, dobbiamo aumentare il passo.»

Nessuna di quelle parole attraversò la bocca di Camilla, troppo occupata ad ossigenare il cervello per ricordare le indicazioni di Lucinda, le braccia con cui reggeva la sua migliore amica e non lasciarla indietro ed il cuore, per non farla soccombere alla paura, allo sfinimento o alla rassegnazione.

Per quanto lei non disponesse di un fisico atletico e nemmeno di un abbigliamento che perlomeno le consentisse di ovviare all’aerodinamicità ridotta, doveva stare in testa e fare da guida. Si crucciava di non riuscire a scacciare gli stormi di Zubat che volavano contro di loro e le unghie incolte penetravano nella carne di Catlina e si aggiungevano alla sofferenza di costringere una ragazza quasi immobilizzata ad un moto brusco.

«Per favore, tienimi. - Camelia avrebbe desiderato mille volte un’uscita di scena in slow motion, con il ticchettio dei tacchi alti in sottofondo – Mi fa già male la milza…»

«Ti tengo, ti tengo. - Anemone optò per la manica dell’uniforme come punto di traino: il professore di educazione fisica valutava i suoi tempi al test di Cooper con gli standard maschili non senza una ragione - E poi dice che mille calorie al giorno ti bastano…»

Non lo disse per cattiveria, in quanto la denutrizione faceva preoccupare anche lei di dover bruciare i suoi muscoli sodi; adorava il fisico snello e sottile della compagna, ma non era certa del contrario, da quanti complimenti aveva riservato ai suoi glutei e ai suoi bicipiti.

Lungo il cavalcavia usato dagli addetti alla depurazione si muovevano compatte, quale una falange sulla via della ritirata, attente a non scivolare nell’acqua putrida o a slogarsi una caviglia fra le piastrelle sconnesse.

«Dobbiamo andare verso una scala che ci porti su?»

«Camilla, avranno già piazzato la polizia ad aspettarci sopra ogni tombino…»

«Risparmiati il fiato, so dove stiamo andando… Ah…» La Campionessa reputò la propria confidenza con Catlina approfondita al punto tale da potersi perdonar quella leggera rudezza.

«E da chi lo sai?» La incalzò.

«…Lo so e basta.»

«Come sapevi della corda, prima di tutte noi. E sapevi anche del video nell’onsen… ma non ce lo hai detto.»

Con le meningi ormai otturate dall’adrenalina, la donna non comprese appieno le ultime supposizioni.

«…basta che mi dici perché. – Affievolì la voce, cosa che la biondina sapeva fare ad arte, ringiovanendo di dieci anni sonori – Se è una cosa fra te e…»

«Ferme!»

Un ritardo nei riflessi gli impedì d’arrestarsi in prossimità del resto del gruppo. Tirare il freno durante una corsa spericolata, con gli sgherri di Ghecis alle calcagna non era concepibile.

«Iris, ci ammazzano! – le gridò la rossa, a circa dieci metri da lei, i muscoli ancora caldi per riprendere lo sprint verso la destinazione – Muoviti e…»

«Non abbiamo tempo, veloce, veloce!» Camilla gesticolò con la mano libera, come se potesse lanciarle un sortilegio e convincerla a rimettersi in marcia.

D’un tratto, una sirena intensificò l’ululato, piangendo come un cucciolo ferito dalle trappole dei cacciatori.

«Andate avanti, arrivo subito.» Gli rispose, voltando l’angolo con calma serafica.

«Non possiamo fermarci, non possiamo…»

«Andrà tutto bene, ho visto solo…» Fu interrotta.

«Iris, ascoltami: - la Campionessa ispirò, la voce roca per l’agitazione - non possiamo lasciarti qui, da sola.»

«…guarda: ci sono dei Pokémon qui.»

«Ah?»

Da dietro il muro non uno, due musetti curiosi si porsero sul palmo della ragazzina, lasciandolo maleodorante e umidiccio.

«Un Aaron e… come si chiama, lo stadio base di quell’uccello antico, di cui rimangono le piume calcificate?»

«Archen. – l’esserino gracchiò confuso, non doveva vedere una persona in carne ed ossa da tempo – Questi Pokémon sono rarissimi. Chi li ha buttati nelle fogne… oddio.»

Constatò dagli enormi buchi ancora visibili sulle parti molli del collo e del ventre che non si trattava di un Allenatore crudele o di una Poké Ball scivolata nel drenaggio per sbaglio. Avevano entrambe un’etichetta sbiadita legata alla zampa, quella di Aaron stretta gonfiandogli il piedino.

Non si aspettava tutto questo, nemmeno dall’organizzazione criminale che prelevava i Pokémon dalle loro case, dalle loro tane, per farci esperimenti di mala etica. I poveri reietti di cui aveva parlato Zania, ritrovati martoriati dopo la traumatica esperienza, erano una minoranza: sotto la superficie, lontano dagli occhi indignati dei politici e delle associazioni multimilionarie, alcuni Pokémon aspettavano il ritorno dei loro padroni, pieni di speranza, nutrendosi di ciarpame, lottando contro i postumi degli abusi del Team, sia fisici, sia psicologici.

«Non sono i miei Pokémon. Io non sono la loro Allenatrice. Non sono neanche di tipo Drago. Però…»

«Camilla! Camilla! – Iris la chiamò, sovrastando gli allarmi con il suo acuto – Posso tenermeli?»

L’alzata di spalle e l’ennesimo invito a darsela le disegnò un sorriso a denti aperti, contenta sì che tutte le sue file bianche avorio fossero al loro posto e non dimeno dell’avere due nuovi compagni di squadra (che a casa sua non avrebbe mai potuto tenere, né a Boreduopoli né al villaggio).

«Allora, volete venire con noi? Siamo buone! E carine. E anche voi siete carini! Okay?»

Con falcate fulminee, non rallentata da zavorre umane, saltò davanti a tutte: dopo una settimana di inattività, una pioggia grigia e deprimente, sgranchire le gambe non le era certamente in odio: fuori dalla gabbia atemporale in cui il re Harmonia voleva rinchiuderle e trasformarle nelle sue bambole, correre verso il futuro, per quanto incerto, era sempre una bella sensazione.

Ghecis non sarebbe sceso a prenderle per i capelli; gli rimaneva soltanto da lamentare la sua vecchia età, la forza di inerzia che lo relegava ai piani alti. Fra i cunicoli, la traccia di feromoni si sarebbe persa, le sue spie ad inseguire una chimera, là sotto.

Ogni centro metri c’era una biforcazione: non la prima, né la seconda.

«Qua, a destra.» La donna fu svelta ad avvisare l’amica, che diresse il gruppo come l’asso di un battaglione aereo.

«Cami… cioè, leader. Cosa… - la mora si portò una mano alle carotidi, stavano per esplodere – Quello… Quello non è un vicolo cieco? Ancora? Un altro cliché da film d’azione del…»

«Ma le scritte rosse…» Provò a protestare.

«Oh no, - la mora intervenne, sconfortata – basta, ragazze: R.I.P. Camilla…»

«No, eccole là. – Anemone se la sentì di condividere quest’informazione - Servono a indicare dove espandere il tunnel, se a qualcuno interessa.»

«Belle, non lo dico con cattiveria – Camelia reiterò, portando avanti le mani – Questo. Rimane. Comunque. Un vicolo cieco. Giriamoci e andiamo avanti? O volete annegare nell’acqua dei cessi sporchi?»

«Oddio, che mood.» Le fece eco la sua ragazza.

«Spostatevi.»

Iris fece scrocchiare indici e medi, il rumore le infuse energia, come quando spezzava la sua bacchetta colorata ad un concerto ed il fluido fluorescente illuminava l’oscurità prima dell’ouverture.

C’era un ultimo muro a separarle dal mondo esterno. Ma non gli sarebbero bastati trucchetti, infiltrazioni o le suppliche per superarlo. Serviva coraggio. Forza. Un pizzico di determinazione.

«Iris…» Senza ribattere, la leader decise di affidarsi a lei senza dubbi o indugi.

Aveva il sentore che non avrebbe fallito neppure quella volta, se l’avesse lasciata mantenere la concentrazione.

Notò un pattern nel suo modo di pensare: partiva sempre da dati sensibili. Anche una cosa piccolissima.

«Qui l’acciaio è smussato… Uhm… Se non possiamo usare i nostri, di Pokémon, non ci resta altra scelta.» Gli tastò la fronte ed Aaron si fece ritroso subito.

«Archen è un fossile, giusto?» Le chiese la ragazzina, ormai sicura su cosa dovesse fare.

«Ci hai azzeccato. – Schioccando le dita per invitare le altre tre a farsi da parte, le rivolse un sorriso di incoraggiamento – Iris, fai del tuo meglio.»

«Sì! – batté le mani una volta, presa dall’entusiasmo, contando sulla propria capacità di improvvisazione in lotta, contro l’ostacolo metaforico – Archen, usa Forzantica! Aaron, tu Zuccata!»

Sebbene non avessero stretto un legame profondo in quei dieci minuti di strada da invidiare agli Allenatori in viaggio da decenni assieme ai loro Pokémon iniziali, gli attacchi si combinarono perfettamente, fisico e speciale, mirando l’uno alle fondamenta, l’altro alla giusta altezza per far attraversare Camelia e Camilla, dato che superavano tutte e due il metro e settantacinque.

Dalla polvere di cemento, con la tosse intermittente di Catlina a rassicurarle di non aver perso l’udito dopo tale boato, emersero le figure tozze e smagrite dei due piccoli, uno trotterellava verso la sua nuova madre, l’altro si prese il suo tempo per ammirare l’opera dell’uomo ridotta in briciole, un’esperienza che non doveva aver visto nella sua era mesozoica.

«Woah, che figata. - Anemone non si risparmiava i complimenti, quando sapeva di doverli ad altri – Ma… dove andiamo, ora? Dento là? Sappiamo almeno se si esce fuori?»

Iris raccolse il quadrupede in braccio, stupita dal peso dello stesso, intanto che il volatile si era appollaiato con le zampe sul suo nido spettinato.

«Ti stai lamentando? Faccio strada io, allora! – Camelia si distaccò dalla presa dell’altra, voltandosi indietro: si mise in posa e fece in successione sia il segno della pace, che il dito medio – Bye bye, hasta luego, sayonara, zàijiàn Team Plasma.»

«S-Si dice “saraba”. Vuol dire “addio” ma è ancora più forte – Catlina precisò – Con “sayonara” ci può essere la minima possibilità che ci rivedremo. E farei volentieri a meno, sinceramente.»

Il muro divelto le costrinse a saltare fra i mattoni travolti, talvolta abbassando la testa. Anemone offrì il suo Swoobat affinché illuminasse la viscera con Flash: appariva come una normalissima grotta naturale, nei Percorsi ce n’erano alcune per incoraggiare gli Allenatori alle prime armi ad appassionarsi all’arte dell’esplorazione.

«Andiamo! Andiamo!» Esultò la bionda. Il suo Garchomp ed altri Pokémon massicci si diedero da fare per coprire il buco alla bell’e meglio. Le reclute se ne sarebbero accorte comunque, ma almeno avrebbero guadagnato tempo prezioso.

Si proposero di seguirla fino in fondo, una volta uscite avrebbero abbandonato le cavigliere localizzatrici dentro ad una pozza di acqua o sotto un cumulo di detriti.

Proseguirono ancora tenendosi strette l’un l’altra: davvero sarebbe stato tutto in discesa, da quel momento in poi? Davvero il peggio era passato?

Il Team Plasma non era il loro unico nemico. Aveva solo il vantaggio di essere l’unico da cui una farsa carnevalesca, una corda di stracci e un’esplosione potevano cavarle fuori indenni.

La sabbia del Deserto della Quiete, distesa immensa nella penisola settentrionale della regione, non aveva sentito sulla sua cute dorata nient’altro che le carezze delle rose di Gerico e le lacrime del cielo, una volta ogni decennio.

Invece, i passi che sprofondavano in essa, lasciando una trama romboidale sul fondo di piccole buche allungate, dovevano farle male, come uno sciame di pesti che alterava la candidezza della distesa farinosa, una scabbia umana.

L’eremo tuttavia rifiutava i pellegrini invadenti, si impossessava a sua volta dei loro corpi e dei loro pensieri.

Innanzitutto, imbrogliava le Allenatrici: quando credevano di aver superato una duna alta quanto un’automobile, una di taglia doppia si presentava sull’altro versante, rimpicciolendole, lasciandole in balia di discese e salite infinite. Poi gli domandava attenzione, come una vecchia scorbutica.

Era una lotta di sopravvivenza, uomo contro natura.

«Oh! Ferme! Ferme un attimo! – la voce di Camelia, in coda al gruppo, diventava liquido che permea, appunto, nella sabbia asciutta – Aspettate…»

Si chinò e la sabbia aderì alle guance lucide, per sostenersi immerse la mano sulla coltre di essa e la vide inghiottita, come l’arto del re che tutto poteva trasformare in oro.

Sulla terra, il profilo della sua adorata Zebstrika, dal manto ruvido e spettinato, gli occhi chiusi per l’accecamento dovuto alle particelle minuscole, disegnava una sagoma delicata, dal contorno perfettamente uniforme. Dopo quella di Swanna, di Dragonite e l’intera squadra di tipi Psico, di Emolga che aveva avuto la fortuna di soccorrere prima che piombasse giù, un’altra modesta tomba era stata scavata sotto la pallida luce del sole calante.

La giovane non volle nemmeno pensare a tale associazione. Prese la Poké Ball e richiamò il Pokémon Zebra immediatamente, pregando la propria immaginazione impazzita di non lasciare la polpa in pasto ai Mandibuzz selvatici, di non mostrarle le costole color alabastro seppellite dalle tempeste.

Nel silenzio della piana arida, Archen prese a strepitare, sebbene avesse seguito il corteo tranquillo durante tutto il tragitto, trascinandosi le ali ancora inadatte al volo.

Aaron si fece strada scostando la sabbia con il musetto, sollevandone un turbine ad ogni passo indietro. L’intero convoglio fu costretto a fermarsi, lusso che nessuno, né persona né Pokémon si sentì meritevole di concedersi.

Aveva concesso a Catlina di utilizzare la groppa di Garchomp come mezzo di trasporto, affidandosi all’immunità dei Tipi Terra, Acciaio e Roccia al clima desertico; l’istinto le aveva guidate dalla prigione fino a sotto le sfumature rosa del crepuscolo, una nozione di buon senso gli aveva mostrato solo dune, tane di Darumaka e altre dune.

Potevano essere passate ore ed ore senza bere, mangiare o riposarsi e non poterne ricavare alcuna ricompensa, né per gli occhi né per la loro sanità mentale.

Colei che si era tenuta in prima linea, mantenendo un’andatura cadenzata nonostante gli acciacchi continui, si lasciò cadere sulle ginocchia, sperando che il terreno fosse benevolo ed attutisse, ma come l’acqua e il grano, le proprietà fisiche si presero gioco delle sue gambe deboli.

«Basta, non ce la faccio più, non riesco a camminare… Ho le vesciche.»

Iris non credeva fosse possibile sentire il bisogno di andare in ospedale. Più tempo passava più si scopriva dolorante, la testa gonfia e allampanata, il respiro tremante, non aveva dimestichezza con sintomi tanto potenti da farle mettere in dubbio i suoi quindici anni di perfetta salute. Le botte intanto si facevano di un indaco intenso, ma le scorticature rimanevano sempre della stessa tonalità di rosso, coperte della stessa sabbia annidatasi fra i capelli, fra le dita, nelle pieghe dei vestiti di tutte loro.

Non slacciò neppure le scarpe e le svuotò del contenuto infiltratosi fra le intercapedini. I calzini ancora umidi le fasciavano il piede pulsante come bende di lino unte di unguento, ad imbalsamarla lì dov’era, insieme agli altri cadaveri spogli.

Loro cinque erano criminali appena evase, sulle cui letterali tracce c’era già un’operazione in moto per acciuffarle. Dovevano essere state rimesse in catene, avrebbero fatto posar loro la prima pietra per costruire il mausoleo del dio del sole, per la luna del deserto, per il tempio della gloria.

Sulle loro ossa sarebbe giaciuta la vita eterna del re Harmonia, una mummia coperta dello stesso oro che in quel momento bruciava le loro bocche e gli macerava le palpebre.

«Rimettitele su, o rischi che un Sandile ti mangi un piede. – Due battiti delle mani di Camilla vicino all’orecchio la stordirono, mentre cercava di rimuovere delle pellicine biancastre dall’alluce colme di siero appiccicoso – Dobbiamo andare. Dovrebbe mancare poco.»

«Manca poco a cosa? – Camelia alzò la voce per attirare l’attenzione di tutte, ponendo davanti agli occhi della leader la Sfera in cui riposava il suo terzo Pokémon di fila esaurito dalla fatica – Che moriamo di fame e di sete? Che un Darmanitan o un Krokodile selvatico venga a sbranarci? O, il top del top: Ghecis si è preso un elicottero e abbiamo fatto tanta fatica solo per la soddisfazione di picchiare Iris a sangue.»

«Non ti lamentavi mentre mi prendevi a pugni in faccia e mi gridavi offese razziste, ah?!»

La mora gettò un’occhiata di disprezzo alla ragazzina, ancora per terra, scalza. Era sua l’idea dell’evasione, ma poteva imputare solo al suo istante di sciocca benevolenza l’averla voluta assecondare per prima fra tutte.

«…N-Non provare ad andare a dire in giro che sono razzista, sai?»

Iris si portò l’indice alle labbra, per complicità.

«Mai pensato! Sei antipatica, crudele e io ti odio… ma non sei razzista. Scusa.»

«Dopo il dossier credo che la community della moda mi abbia cancellata e adesso sono irrilevante e nessuno vorrà più sponsorizzarmi e dovrò trovarmi un lavoro serio dove si suda e bisogna avere un diploma e… Aspetta, noi stiamo per morire, possiamo pensare a questo?!»

«Beh, non è mica detto che moriamo… – Catlina aveva la testa a penzoloni sulla spalla del drago della compagna, gli occhi serrati per i capogiri – …di stenti o ammazzate.

Potresti prenderti un colpo di calore. O una commozione celebrale. O un infarto…»

Mossa dall’avversione nei confronti di tale pessimismo, ma memore della potentissima lavata di capo inflittale da Camilla il giorno che erano arrivate a casa di Nardo, raccolse l’unica delle compagne con un senso dell’umorismo abbastanza versatile e le sussurrò.

«Per fortuna che non ci sono lampadari o lampadine nel deserto…»

«Iris, pff…»

Adorò la vista di Camelia che si copriva la bocca e tratteneva una sonora risata, meravigliata dalla sua inventiva comica. Un piccolo traguardo raggiunto prima di passare all’aldilà, stupire di gusto la modella più viperina sulla faccia della Terra; per la prima volta la mora stava ridendo con lei e non di lei, ma della sub-leader. Sperò solo che quella non avesse sentito niente.

«Boh, io ho sonno. – La biondina sistemò il braccio come cuscino, affondando la guancia nella parte liscia della manica, assorbendo la sua voce delicata nel tessuto – Detto questo, crepate in silenzio, per favore. Già non sopporto il rumore che fate vivendo, figuratevi i discorsoni drammatici che vi farete quando vi mancano 5 secondi di vita. ‘Notte.»

Per assicurarsi che l’aristocratica inferma non dissimulasse la morte con il sonno, prese a punzecchiarle il viso senza difetti, come si fa con i molluschi arenati sulla spiaggia. Aveva le guance morbidissime, Iris si accorse, non aveva mai avuto vero e proprio contatto fisico con Catlina e si dispiacque di ciò.

«Anemone, - Camilla aveva diligentemente controllato le pulsazioni dei membri del Team rimasti in piedi, non trascurando neppure quello della sua amica di infanzia, scacciando Iris dal suo breve passatempo, nonostante il suo infantile, evidente disappunto – stai pensando a qualcosa?

«Uhm! – La rossa annuì una volta, strabuzzando le iridi azzurre, irrorate per i granelli di sabbia – Mi è appena venuto in mente che, woah, tutte le altre volte sì e questa no? Ce l’hai con me per quella cosa che ho detto in cella? Che ti avevo minacciato?»

«Niente nomignoli, non devi dirmelo due volte.» La donna sospirò, dandole una pacca sulla spalla.

«Ma, boh… - sgonfiate le guance dall’aria raccolta per simulare un broncio indispettito – non è che a me dispiace se mi chiami “tesoro, cara, amore”. Okay, magari non tutti quanti insieme. A me partono i neuroni quando lo fai apposta per… avere la mia simpatia? Cioè, sembra che te ne freghi di me solo quando ne hai bisogno.»

«Ah. Io… mi dispiace. Pensavo che ti facesse piacere, visto che siamo tutte femmine, avere un po’ più di intimità fra di noi. Visto che sei stata tu a fare il primo passo e presentarti, quel giorno…»

Anemone arrossì sotto la coltre di sudore dispersa sui suoi zigomi: credeva davvero che Camilla la considerasse un semplice digestivo per quando le circostanze non andavano giù lisce come lei si aspettava. Voleva spesso arrendersi ed accettare quelle gentilezze a braccia aperte: non ne poteva più di sentire il suo nome dai compagni delle superiori, il cognome dai colleghi e suo nonno che recitava tutto per intero quando lei difettava di obbedienza.

«A proposito di giorno! – Batté le mani così forte da risvegliare Catlina e le altre dalla trance e si precipitò sulla cresta della duna, modellata dal vento con una salita in apparenza dolce ma che ricadeva in uno strapiombo nel lato opposto – Il sole sta tramontando.»

Iris non ascoltò l’istinto di auto-preservazione ed alzò la testa: un doloroso velo nero le balenò davanti alle pupille. La sua compagna lo aveva menzionato e lei aveva provato a guardare la palla di fuoco direttamente, che ingenuità per una che aveva insistito nel non affidarsi più all’istinto.

L’aviatrice stese un braccio verso la porzione di cielo screziato e l’altro in direzione perpendicolare.

«Quindi, quello è occidente – Camilla intuì – dove il sole cade.»

«Se quello è l’ovest, questo è il nord. Quindi… - si chinò, disegnò con il dito una croce e ci mise le iniziali dei punti cardinali alle estremità – Per di qua andiamo a Sciroccopoli, di là torniamo ad Austropoli... ma non ci conviene, visto che avranno piazzato la polizia ad ogni angolo.  

Ancora lo scorso inverno ho fatto ricognizione intorno ai gasdotti che attraversano il deserto e se non mi sbaglio, c’è un’autostrada. Basta seguirla e…»

La rossa gesticolò qualcosa in codice al suo Unfeazant, prima che spiegasse le ali bigie verso l’alto. Dopo neanche una ventina di metri l’uccello puntò a nord-ovest. La ragazza sorrise, interpretandolo come un ottimo segno. Se la forza della natura le trascurava così crudelmente, la trigonometria le assisteva con una distanza inferiore ai due chilometri dall’intersecare il lembo scuro d’asfalto che connetteva a capitale ed il centro divertimenti di Unima.

«Okay. Quindi: - Camelia calpestò la rosa dei venti e si posizionò di fronte alla sua ragazza, avvolgendola con la sua ombra – la tua idea è di andare a piedi attraverso il Deserto della Quiete fino a Sciroccopoli?

Tesoro, ti devo ricordare che fino a ieri non ti ricordavi nemmeno il tuo orientamento sessuale o…?»

«Uh… Sì? Fra poco fa buio. - Tre secondi di silenzio. Anemone rovesciò lo sguardo a terra, dove i piedi si erano insabbiati – Di notte la temperatura scende anche fino a venti gradi sotto zero. Ritenzione termica, se ti interessa.»

«Aggiungo anche – Catlina si svegliò, tramortendo anche il Pokémon su cui era sdraiata con quella strana eccitazione – “ipotermia” alle possibili cause di morte. Ricapitoliamo: ustione, fame, sete, omicidio, ipotermia, stenti… o l’ho già detto? Vabbè, attacco di Pokémon selvatici…»

Con uno starnazzare sgraziato, più riconducibile ad uno Spearow a cui si tira il collo per farcirlo ed infornarlo a pranzo che ad un esemplare del tutto evoluto, l’Unfeazant mandato a misurare la distanza dall’autostrada cadde a terra, esausto. Non riportava ferite.

La sua Allenatrice sospirò, munendosi della Sfera per richiamarlo dopo l’aiuto offerto loro.

«…tempesta di sabbia.»

«Tempesta di sabbia! – Il colore svanì dalle gote della Superquattro, la polvere biancastra un perfetto fondotinta e illuminante – No, aspetta, a parte Garchomp e i trovatelli di Iris non ci rimangono altri Pokémon…»

«E allora, andiamo. – Camilla cacciò il ciuffo dietro l’orecchio e quello scivolò immediatamente nella sua posizione iniziale, disobbedendo alla fisica e alla sua padrona – Supereremo anche questa prova, ne sono certa! Del resto, pensare sempre che “potrebbe andare peggio” non è una buona cosa.

Se una forza soprannaturale potesse soffiarci da sotto il naso tutto il nostro progresso, avrebbe senso continuare a sperare? Ci pensate mai, a cos’è la speranza?»

«Uhm…?» La incalzò Iris. Dopo tutto quello che avevano subito e scavalcato, le mancavano i monologhi filosofici della sua leader.

Scesero dalla collina in fila indiana, sfruttando la pendenza per slittare in basso senza dover inciampare sui lacci o sulla roccia friabile. Il vento della sera aveva già livellato molti dei dossi e se non fosse stato per le tane dei Drilbur birichini ad intralciarle, potevano dire che la parte più aspra del sentiero era ormai alle loro spalle.

Quella che Anemone aveva chiamato autostrada non aveva nemmeno parapetti degni di non venire scavalcati da una bella rincorsa spericolata. Non c’erano strisce pedonali, ma che pro scomodare la verniciatura stradale fino a quel punto morto sulla mappa della regione? Guardarono comunque a destra, sinistra e ancora destra, su entrambe le corsie, solo poche scie degli anabbaglianti rossi dei van container.

Ancora, non c’erano fondi per ricostruire edifici antichi, per tenere un processo, per assumere personale con esperienza a tenere d’occhio i furfanti: che speranza potevano avere le infrastrutture e i trasporti?

Mancava qualche giorno al solstizio d’estate, ma nemmeno il faraone poteva comandare al dio del sole di non ritirarsi sotto i monti; nessuno però impediva agli altri mortali di sfidare l’egemonia della sua luminosità: le quattro lettere di un’insegna al neon rosa baluginavano una dopo l’altra. Nope… Enop… Open.

Catlina protestò subito, ribadendo quanto il solo venire spottate da un cliente del road bar o da un’automobilista curioso avrebbe messo fine alla loro corsa, costruendosi pure una contro-argomentazione in riguardo a chi diamine interessasse riportare alla polizia delle luride saltimbanchi colte in flagrante nell’imperdonabile atto di andare a sistemarsi la zazzera. Disse che il malloppo che Acromio aveva promesso anche ad Anemone per corromperla rimaneva nelle tasche del Team, almeno temporaneamente.

Fu inutile, Garchomp aveva ormai attraversato le due aree di servizio, dove ancora nessun’auto si era fermata. Il tintinnio del campanello allertò una giovane cameriera, che si strinse nel canovaccio e nel bicchiere che stava lucidando e gli sorrise educatamente.

«Mi scusi, possiamo usare il bagno?»

«Uhm? – batté le ciglia pesanti per il mascara messo a dura prova dal clima desertico - Sulla destra.»

Dopo averla disturbata, Camilla eseguì un inchino per insolito riflesso culturalmente inappropriato, guidando le compagne come fossero in gira scolastica attraverso il pavimento in piastrelle a scacchiera, sull’intonaco acquamarina targhe di vetture d’epoca, segnaletica stradale corrosa artificialmente e cimeli più o meno autentici da un decennio specifico fra metà e fine secolo, nessuna però riuscì ad identificare quale per l’esattezza.

Il fruscio del ventilatore a muro e la radio a medio volume con un dj invasato rinfrescavano il locale. Nessuno occupava gli sgabelli o i tavoli attorno al bancone.

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Lo scarico ruggiva, il loro consumo d’acqua potabile in grado di far rabbrividire gli ecologisti e gli enti benefici delle pubblicità progresso emotivamente manipolanti di prima serata.

Le cinque ragazze si crogiolarono in quel sollievo momentaneo. Certo, se avessero avuto un Pokédollaro per ogni volta che si ritrovavano in una toilette a rimuginare sulla loro incredibile abilità di sopravvivenza… avrebbero avuto due Pokédollari.

Non era molto, ma gli parve strano che fosse capitato ben due volte nel corso della stessa avventura. Quando si parla di diversificazione delle strategie, i manuali di narrativa non sono mai incorporati nella nostra realtà crudele.

Erano contente di quel bagno pulito, uno sprazzo di normalità al profumo di candeggina.

Iris non aveva mai passato così tanto tempo davanti allo specchio in vita sua. Le sembrò proprio che il tempo fosse rallentato e non provava pena per quelle sue coetanee dall’agenda piena di appuntamenti romantici per cui quella sensazione esoterica si ripeteva ogni singola sera.

Si lavò le mani fino ai gomiti e sfruttò le articolazioni già snodate dalla corsa per sporgere le ginocchia fino alla vasca del lavabo, conscia delle sue maniere poco signorili. Più che delle ferite vere e proprie ferite, dallo strato di sabbia appiccicosa emersero solo dei tagli irritati. Doveva aver solo fiducia che sua epidermide guarisse senza disinfettante o garze.

Si lavò il viso, le sembrò quasi di riuscire a vedere tutto più chiaramente, come se avesse pulito le lenti sporche di un paio di occhiali invisibili. La coda di cavallo ora era a posto.

Si era lasciata il piacere maggiore per ultimo, apposta: le labbra color pesco toccarono il flusso pulito e limpido, ignorando il retrogusto calcareo ed il leggero refrigerio alle gengive, rese ancora più sensibili dalla disidratazione. Non credeva di dover cedere, un giorno, ai proverbi semi-ovvi di sua nonna adottiva, ma non c’era davvero nulla di meglio dell’acqua fresca sulla faccia della Terra. 

«Okay. A posto. – Si sentì strattonare i capelli non con eccessiva violenza, se non che si lasciò allontanare dalla sua deliziosa fonte artificiale di gioia – Dai, Iris, basta.»

«Ma io avevo ancora sete…»

«News flash: bere troppa acqua fa gonfiare lo stomaco e la pancia. – Avrebbe fatto opposizione a qualsiasi consiglio estetico non convenuto Camelia le avesse appioppato in qualsiasi altra occasione, ma non le restò che un mugolio indispettito – So che tu non lo sai, quindi te lo dico con gentilezza, ma se rovini la mia idea ti stacco io le poche tette che hai e, boh, cosa dovrei farmene? Sono talmente insignificanti, non me ne farei niente…

Forza, ritenzione idrica! Aiuta queste povere anime come hai aiutato me a uscire dal ghetto e fare i milioni.»  

«Però tesoro, – seduta sulla tazza chiusa con la testa adagiata al ginocchio, Anemone, già terminata la sua toelettatura, osservò la sua ragazza con scetticismo – non ci hai ancora spiegato bene cosa dobbiamo fare esattamente il “piano” che avevi pensato. Si sta facendo buio, fuori.»

La ragazzina si stupì ancora di come i cambi d’umore della compagna non la infastidissero per niente.

La modella aveva insistito di voler essere gentile e di volerle proteggere. Alle altre tre fuoriuscirono gli occhi dalle orbite: la concorrente più bisbetica e viperina che finalmente puntava il dito contro se stessa. Quello sì che si poteva definire uno sviluppo del personaggio! O meglio, si sarebbe potuto definire tale se non avesse aggiunto il personale desiderio di rivalsa dal non aver contribuito alla creazione di un signor piano, senza le virgolette ai lati.

«Vi faccio uno spoiler: - chiuse pollice e indice e li agitò sfacciatamente – non include entrare nelle fogne, pestare la gente di botte o sporcarci le mani in alcun modo. Facile come catturare un Magikarp con una Master Ball.»

Non colse la parola precisa, ma una di esse fece scattare Anemone in piedi e quella scoppiò in un applauso compiacente, accolta da un mezzo abbraccio dall’altra.

«Camelia Taylor è la mia – enfatizzò il possessivo, sorridendo beata - Campionessa di Unima!»

«Yay, sì, amore mio! – attirò nella stretta anche la biondina, confusa da tutto quell’affetto ma comunque non restia. La mora attirò infine l’attenzione della leader, sicura di una qualche obiezione alla sua idea brillante da spianare con un bel dibattito – Camilla?»

«…eh?»

La donna si era lasciata ciondolare contro la porta del bagno, senza dire una parola fino a quel momento, in cui aveva poco velatamente dichiarato di non averci capito nulla. Camelia lo avrebbe preso come un “chi tace acconsente”.

Tuttavia, il dolce profumino del cioccolato al latte e il rumore delle granelle croccanti, musica sotto i denti…

«Camilla, dove hai preso quel gelato? – Iris inclinò il capo – N-Non abbiamo soldi per pagare…»

«Senti chi parla.» La sua coscienza la pizzicò nel fegato. Le sue compagne non sapevano nulla della sua piccola scorribanda, ed invece era proprio quella la ferita che dentro lei era invecchiata peggio.

«…volete?»

La donna alzò le spalle, con calma serafica. Spezzò la rigidità del polso ed offrì lo stecco di cui ormai rimaneva soltanto la crema alla base. Sotto il ciuffo, i suoi occhi la pregavano di rifiutare ed avere pietà del suo essere stata privata del suo snack preferito, avendo pure bevuto il cocktail di vendetta al gusto Plasma e sale.

«No, grazie…» La più giovane ottenne un sorrisino ingenuo e lasciò in pace la sua leader a godersi quel piccolo premio per non aver perso le staffe neanche una volta dall’uscita dal carcere.

«Ah, Iris, - Camelia si intromise nello spazio personale di lei, alla ricerca della tasca posteriore dei pantaloni della tuta – mi serve un attimo, per completare le preparazioni…»

«No, aspetta, - provò a recuperare l’oggetto che la ragazza più grande le aveva strappato di dosso, ma come un micio che si lancia sul puntatore laser, la statura di una top model poteva benissimo eludere i suoi salti a due piedi, ridicoli – non puoi usare i miei Pokémon… Tanto non ti ascolta…»

Sbalordito dal repentino cambio di situazione, ma pur sempre sollevato dal non trovarsi esposto alla tempesta di sabbia, condizione metereologica non favorevole, il draghetto dalla corazza verde scarabeo si sgranchì le zampe.

«Fraxure, - la Capopalestra, che non aveva mai allenato un tipo diverso dall’Elettro in diciassette, quasi diciotto anni di vita e sei nel circuito competitivo, addolcì il tono, fissando le pupille nere del Pokémon sulle sue. Poi gli fece tre strani segni – usa Forbice X sulle nostre uniformi.»

«No, no, no, no, no, no, no, no, no…»

Iris aveva afferrato al volo. Non era fiera del proprio intuito, visto che ormai la supposizione più sconveniente e infima si rivelava sempre, purtroppo, la risposta corretta, quando si trattava delle idee delle sue amiche.

Una linea sotto il petto per domarli. Una sopra il bacino per trovarli. Infine, una a livello dell’inguine per condurli da loro e portarle almeno fino a Sciroccopoli.

Stettero tutte immobili, lasciando lavorare gli artigli affilati del loro sarto personale.

La stoffa di qualità scadente si lasciò smembrare, lasciando un labbro sfibrato come le reti di un pescatore vuote dopo una battuta poco fruttuosa. In quanto a loro però, era appena caduto il muro che le separava dal mare delle opportunità, insieme ad una buona porzione del pantalone e tutto il tessuto fra i due bordi: finito il lavoro impeccabile durato solo alcuni istanti, Camelia invitò le altre a disfarsi di quei cilindri di stoffa inutile ed utilizzò una striscia del suo per legarsi i capelli a mo’ di bandana dietro la frangetta.

La più giovane Allenatrice si portò i palmi davanti alla bocca e sulle guance: i pezzi tagliati intanto erano scivolati da soli, lei non aveva mosso un muscolo per spogliarsi di essi.

«Perché. Cioè… perché.»

Trattenendo il respiro, sfilò verso il basso la parte centrale. Volle battersi la fronte: Camelia aveva ragione al cento per cento: la sua pancia color caramello, dall’ombelico aperto marcato da un solco sottile, alla linea alba sembrava piatta più del solito, le costole si notavano leggermente perché la pelle aderiva alle ossa, non avendo sviluppato addominali prorompenti o tessuto adiposo.

Proprio per quello scelse di non arrotolare la maglia sotto il seno. Calciò via i due tubi delle gambe, notando come la cucitura asinina del cavallo delle braghe fosse larga solo in apparenza. Senza la gamba completa, l’elastico si attorcigliava lungo i suoi glutei e fra le sue cosce, le quali di solito non si toccavano, causavano un leggero attrito a cui si abituò di malavoglia.

L’unica modifica che richiese fu che la forte Anemone le strappasse con le sue mani le maniche lunghe. Erano nel deserto, faceva caldo. Invece di rompere il poliestere, ormai assodato come più duttile della seta di un atelier di alta moda, la rossa riuscì a sbregare le cuciture sulle spalle e a rendere quella che era la tuta unica della sua amica una canottiera a spalline larghe abbinata ai pantaloncini corti che ella metteva spesso anche nella sua quotidianità.

«Direi che siamo pronte?»

«Aspetta… ultimi dettagli…» la mora stava raccogliendo con un elastico fatto del medesimo materiale la fiamma brulicante della compagna in uno chignon un po’ arruffato, lasciando scendere due ciuffi più lunghi ai lati, davanti alle orecchie.

«E tutto quello che dobbiamo fare è… - Catlina aveva annodato la sua chioma bionda, sicura di non avere chance nel districare i numerosi nodi formatisi in quel nido di Swellow e fatto un fiocco all’estremità – sorridere, testa alta, petto in fuori, pancia in dentro?»

Non si fece cruccio. Sotto le luci i segni delle cicatrici si vedevano, ma magari era solo un’illusione ottica. Ai pantaloni tuttavia, avrebbe preferito una bella gonna ampia, ma le circostanze non le avrebbero permesso di metterne una, neanche fosse stata disponibile nel loro guardaroba.

«Così, sì. Atteniamoci al piano.»

Camilla esalò un sospiro divertito, tenendo ancora a penzoloni fra i canini lo stecco del suo gelato. Avendo notato subito quanto quell’abbigliamento fosse indecente, specie per una della sua età, si mise d’impegno per rigirare i bordi strappati, per nulla consoni ad una giovane perbene. Fallì nell’accorgersi che adesso oltre mezza natica era rimasta scoperta e che il peso che si ritrovava a portare davanti non bilanciava quello dietro: nella sua regione i magazine avevano passato settimane indulgendo in gossip sui vestiti della Campionessa.

Almeno, con le sue care ragazze, poteva per una volta andare in giro per con più pelle esposta che coperta senza sentirsi giudicata.

Camelia si mise al suo fianco in testa al gruppo, con la sua fidanzata attaccata a lei, lo sguardo perso sull’alquanto originale trovata di sbottonare la maglia e legarla sotto il petto, trasformandolo in un delizioso tank-top vintage con vista premium.

Finché i loro outfit coordinati non erano tutti all’ultimo grado non sarebbero uscite dal bagno. Regola non scritta delle adolescenti.

Quando lo fecero, la cameriera di prima lasciò precipitare un piatto dietro il bancone; mortificata, raccolse i cocci, dietro le gote paonazze.

La musica si fece più intensa, la chitarra elettrica esultò dagli amplificatori. Era ora.

«Ricordate: non fate saltare la copertura. State rilassate e concentratevi. – Camilla sussurrò ed un “uhm!” raggiunse i suoi padiglioni, ma lo sguardo era dritto verso l’uscio del locale – Da qui in poi, solo iniziali.

Andiamo, ragazze.»

Appuntandosi di non chiamare mai Camilla, Catlina e Camelia (da come aveva storto il naso anche Anemone ci aveva fatto caso) Iris si accarezzò i capelli, lasciando respirare la nuca fino a che potevano approfittare del condizionatore.

«…andiamo, dove? Questo “piano” non funzionerà mai.

Speriamo almeno che ci si diverta.»

 

̴

Trascorsero un quarto d’ora appollaiate sugli avambracci, il marciapiedi si era ormai raffreddato e le tre giovani, la modella, la leader e l’aspirante Allenatrice, si godevano le venature sulle rocce rugose all’orizzonte, i lampioni ai lati della strada si erano già accesi: il cronometro ticchettava e ancora nessuno aveva accostato.

Camilla si alzò e si stirò le spalle. Non era un miraggio. Qualcuno aveva messo la freccia a destra.

Destò le altre due dal loro ozio catatonico, gli bastò solo il rombo di un motore aggressivo, ancora bollente per la corsa a oltre centoventi chilometri orari sul rettilineo che connetteva le metropoli.

«Ma buonasera, dolcezze!»

L’ereditiera e l’aviatrice udirono quel saluto invece, ricambiando con una calorosa accoglienza che poteva essere motivata solo un buon salario o una grande disperazione. Nessuna persona sana di mente risponde “oh, buonasera a voi!” di sua spontanea volontà dopo essere stata chiamata con un vezzeggiativo da un estraneo.

«Oggi deve essere il nostro giorno fortunato, eh? Siamo quasi a secco nel mezzo del dannato deserto e non solo il gasolio ci viene meno del solito… Ma abbiamo beccato pure un servizio che… eh.»

O da un intero branco di estranei. Catlina si arricciò con l’indice una ciocca caduta dalla coda socchiudendo gli occhi verdi, mentre lo stesso interlocutore lasciò libera una chioma bruna e incurvata dal casco impiastricciato di adesivi di loghi tribali. Si acconciò invece baffi e barba con il dito, attorno a quel ghigno vittorioso per un semplice saluto.

«Eh, ultimamente – Anemone gli indicò la tabella dei prezzi a ridosso della prima postazione: personalmente, trovava gli aerei un argomento di conversazione molto più interessante delle moto, ma non era a caccia di un uomo con cui condividere i suoi interessi – il gasolio e il GPL sono saliti. E per trovare posti con prezzi onesti bisogna farne, di strada…»

L’omaccione le diede ragione insieme a tutto il branco, scambiandosi qualche parolaccia giusto per dimostrare apprezzamento per una donna un filo competente in materia. Una decina di membri orbitavano attorno alla Harley Davidson rosso vinaccia del capo banda, senza nemmeno un’ammaccatura, a differenza delle braccia villose su cui i segni di qualche rissa si mimetizzavano con tatuaggi di Pokémon intimidatori. Charizard, Rayquaza, Tyranitar… chissà se li avesse almeno mai visti di persona, quell’individuo losco.

«Prego, da questa parte.»

Catlina imitò le movenze dei valletti che servivano il tè con i biscotti a casa dei suoi genitori, mescolandoli all’ingenuità posticcia delle maid che servivano il tè nel distretto degli otaku di Cuoripoli. Pensò ingenuamente che il carburante fosse proprio come una bibita per veicoli, visto che solo dei fanatici potevano dedicare così tanto tempo e denaro a delle creature non viventi ed aspettarsi tali ossequi nel mentre.

«Fai strada, biondina.»

Le due giovani si presero sottobraccio e tornarono verso la stazione centrale ridacchiando soddisfatte.

Con una nota telepatica, Catlina aveva tristemente notato che le loro belle facce e qualche strappo strategico alle loro uniformi per rivelare un po’ di pelle non sarebbero bastati per attirare potenziali clienti: non ne sapeva molto di marketing, visto che gli Allenatori non avevano mai smesso di affollare il Parco Lotta da quando i suoi genitori avevano ereditato l’attività.

Ma guidando altri tre chilometri e fermandosi ad uno strip club i centauri avrebbero trovato, oltre a del make-up e dei costumi di scena più raffinati, anche attrici migliori. Serviva un ritocco al modus operandi.

Anemone l’aveva coperta subito: usando solo una mano sfilò dal pannello con i prezzi il cartello bianco della seconda cifra dopo la virgola e lo reinserì capovolto nei suoi listelli. Faceva talmente tanti calcoli per le merci all’ingrosso da trasportare che a volte perfino un cervello allenato come il suo si illudeva che uno punto sei fosse meno di uno punto nove, se non arrotondato.

«Okay, principessa marchesa contessa duchessa margravina Yamaguchi-Haato, - Anemone le avrebbe rivolto un bel tono sprezzante per innalzarsi con quell’iperbole al livello della compagna più anziana e darle indicazioni su un concetto al limite del banale, ma che alle sue orecchie sarebbe inevitabilmente risultato alieno, in quanto lontano dalla sua limitante esperienza di vita; si accontentò di ammiccare e ricreare la sua battuta in testa, sapendo di essere ascoltata da un cenno minuscolo – hai mai fatto benzina?»

Catlina aveva il mento incollato alla clavicola destra, pensierosa mentre cercava di tenere il passo atletico della compagna. Quella rallentò, adattandosi ai secondi sprecati dalla bionda per confermarle una cosa ovvia per pura educazione, ossia il non avere neppure la patente.

«Uh… no, non credo.»

«Bella… allora, ti spiego: aspetta che i soldi se li sia mangiati la macchinetta, appena vedi le cifre che cambiano sul monitor, schiacci “gasolio” e, ti prego, tieni la pompa blu con la bocca girata verso l’alto, che se ti rovesci la benzina sui piedi ci sgamano malissimo…

Sì, ma vabbè.»

Si fermò d’improvviso, facendole quasi perdere l’equilibrio e rovinare sull’asfalto striato dai graffi neri di copertoni inclementi. A Catlina non piacque per nulla lo sguardo inquisitorio lanciatole dalla ragazza che pur tenendola ancora a braccetto, riuscì a farla sentire in colpa.

«Eh… cosa?»

«Cat, non ho parole… Mi stavi guardando le tette.»

«No, non è vero.» Tirò su col naso l’aria torrida e la tossì fuori, insultata da quella presunzione, la stessa che aveva avuto lei sulla rossa durante la lotta al café del centro commerciale.

«Capisco – e le appoggiò la mano abbronzata sulla spalla, addolcendo il ghigno che esalavano anche i suoi occhi – che se la tua ragazza ti tradisce ti senti, in un certo sento, in dovere di vendicarti ma, sai com’è… io sono ufficialmente fidanzata e se lo viene a scoprire Camelia tu… tu a dicembre non ci arrivi, per fare i vent’anni.»

Che ipocrita. Avrebbe voluto aggiungere quanto fosse tipico della classe medio-bassa riciclare le critiche mosse in passato ed usarle contro gli altri. Ma ultimamente, specie osservando la sua duplicità quando il suo animo era stretto nella morsa velenosa di Acromio, Anemone si era inconsapevolmente avvicinata a lei e vuotato il sacco di dubbi che entrambe si caricavano sulle spalle dall’inizio delle loro relazioni clandestine.

«D-Davvero credi che Camilla non provi niente per me? Sempre se ne possiamo parlare…»

«Niente? Non direi, nah. Ma certo! Vieni dietro con me e se non ci fai conversazione con questi delinquenti, riprendiamo il discorso.»

Era sicura che l’altruismo di Anemone l’avrebbe portata a strappare i petali delle loro margherite, sperando di arrivare, imperturbate, all’ultimo “Camelia e Camilla ci amano, certo, è sicuro”.

«Sono un bel po’. Sembrano abbastanza agitati, ma non espressamente malintenzionati. - Giunte a una spanna di distanza dal resto del gruppo, con un cenno serioso la leader diede inizio all’operazione. – Il capo, quello con la moto rossa là, seguono tutti lui. E, non so, anche a costo di suonare misantropa, state attente.»

«Poco socievoli qua, le addette alla pompa. – Il capo ringhiò e subito scoppiò a ridere insieme alla banda, dando una botta al manubrio per crogiolarsi nella sua simpatia – Se va avanti così, zero stelle al personale.»

Si munirono di tergicristalli, liquido anti-gelo e la facciata da dipendenti statali non troppo estatiche all’idea di dover servire gli ultimi clienti della giornata, ma senza far sospettare alla gang di motociclisti di non conoscere il protocollo delle stazioni di servizio con un servizio in più.

I più disinibiti fra quei brutti ceffi già inspiravano rivoli di voglia, afferrando la pelle dei sedili e scambiandosi commenti in codice tutt’altro che ermetico. Partirono schiamazzi e qualcuno suonò il clacson, fischiando: quella reazione in vista di una semplice interazione con delle ragazze giovani, si presupponeva lì per fargli solo benzina.

«Allora, dove lo mettiamo, quell’olio, eh? Lascio fare alle tue belle manine, tesoro!»

La ragazzina più giovane ringraziò di aver trascorso gran parte della sua vita nel quartiere benestante di una delle città più sicure della regione. Neppure ai tornei dai quali era uscita vincitrice tanti occhi si erano incollati a lei, alla sua pelle, su cui strisciavano quali echinodermi viscidi: anche lei aveva guardato Camilla così, quando l’aveva vista brillare dietro al braciere alla Lega?

«Camilla, - le afferrò il polso e la donna appoggiò lo straccio per pulire la cromatura sulla spalla – non me la sento di andare.»

«Uff…» Sentì lo sbuffare della mora, ormai voltata e diretta dal capobanda con il suo incedere artificiale, ora l’attenzione era sulle sue anche sporgenti da sopra gli shorts.

«No, h-hai ragione. Avremmo dovuto prendere questa cosa in considerazione. Sei ancora piccolina per certe cose, Iris. E per fortuna, aggiungerei. Lascia fare a noi quattro. Tu ci hai aiutate fin troppo oggi.»

Inizialmente temette il peggio, di ricevere accuse di arrendevolezza, ma la risposta comprensiva della donna le diede sollievo nell’aver dato voce ai propri sentimenti.

«G-Grazie, Camilla. – A parere suo, poco contava la sua età. Sapeva che Camilla era inesperta quanto lei e quel genere di situazione la esponeva ad attenzioni indesiderate - N-Non farti toccare da questi tizi, per favore…»

«Nessuna di noi vuole tutto questo, ma non c’è altro modo. Fidati di me.»

Come un ago attratto da un magnete ineludibile, la Campionessa di Sinnoh, ancora imbattuta e rispettata a tanto che i suoi detrattori avevano dovuto inventarsi calunnie morali per screditarla pubblicamente, si presentò al cospetto di un motociclista calvo che, dopo averle fatto i complimenti e domandato se si fosse messa a dieta come se si conoscessero da una vita, inseguì con lo sguardo il seno della sua compagna, senza che lei dicesse nulla.

La ragazzina si stese contro la parete e le scapole sporgenti le punsero la schiena, rigida come un tronco. Anche in quel momento di estrema difficoltà, di vita o di morte, aveva scelto di onorare non solo la regola d’oro imposta dal loro distruttivo delirio nel parcheggio, solo che pur di non macchiarsi di ipocrisia aveva lasciato alle compagne il lavoro sporco.

Quelle quattro avrebbero dovuto avere paura, averne molta più di lei e delle sue paranoie inspiegabili.

Non le veniva in mente nessuna che si sarebbe lasciata canzonare e abbindolare da quei nomignoli mentre passava il lubrificante sui raggi delle ruote (quei mascalzoni non si stavano nemmeno accorgendo che le loro preziose figlie meccaniche stavano subendo vilipendio, da quanto erano assorti), ma lo sapeva come uno sa debolezze e resistenze del proprio Tipo, che le sue compagne avevano un rapporto discutibile con gli uomini.

Non con i bambini, non con gli adolescenti o gli anziani. I compagni impertinenti, gli ex-fidanzati manipolatori e borderline abusivi, i loro fantasmi permeati nella membrana del loro inconscio e le distraevano dagli allenamenti, dai successi, dalle gioie dei loro giorni tranquilli, tutte assieme.

«Ma per fortuna che io non sono così.»

Iris rovesciò la lingua e la lasciò schioccare sul palato, come se alla sua onorevole causa mancasse un nonsoché di concreto. Aveva attutito calci e botte come una sacca da boxe in nome dell’atarassia e dei loro principi rivoluzionari assicurando alle sue amiche che le chiedevano “E se ti facciamo male?”, “E se il Team Plasma ci scopre?” martellandole il sistema limbico con la telepatia.

“Ce la posso fare. Andrà tutto bene. – Camilla aveva detto che era migliorata nell’auto-ironia, quindi ruppe quella sacralità - Non deve dispiacervi per me proprio adesso, dai!”

Invece, a sentirsi male perché Camilla, Catlina, Camelia ed Anemone stavano fingendo fin troppo bene di cadere nelle trappole di adescamento di una banda di centauri il doppio della loro età… era lei.

«Eh? Cosa? – La modella era quella che, qualora non le andasse proprio giù che il capo flirtasse apertamente con lei sotto l’indifferenza della sua fidanzata, stava dissimulando meglio il suo disgusto – Ah, capito, capito. Provvediamo subito!»

Mentre si alternavano nell’appropinquarsi al marciapiedi i due steli flessuosi bianchi, la ragazzina pregò che Camelia non venisse ad avvisarla del fatto che il boss l’avesse riconosciuta da una pubblicità in cui aveva fatto cameo o da qualsiasi video o immagine strana lei desse il permesso ai suoi agenti di caricare su internet.

Quando le due furono a distanza sufficiente per travestire le loro confabulazioni con un manto di professionalità, Iris la invitò a sciogliere le mascelle da quel sorrisino maligno.

«Ugh… che c’è ora?»

«Il capo vuole che lo servi tu, non noi.»

«Eh?»

«Ha detto che le tettone gli fanno schifo e preferisce le ragazze più… “piccoline”.»

«Eh?!» Si trattava forse di una specie di scherzo perverso? Camelia era seria solo quando le comodava, ma in quel momento, anche se dare il cambio alla compagna impaurita e fermamente contraria era un colpo troppo basso anche per lei, doveva stare scherzando.

Non era possibile, Chaos si era intrufolato nella sua testa e aveva ribaltato il ripiano delle verità assolute di Iris, sistemate in boccette sigillate e collezionate negli anni trascorsi in affitto come vivente nel suo corpo “piccolino”.

Non riusciva proprio a concepirlo: a chi è che non piacciono le tette grandi?

Tutti i suoi amici maschi le adorano, le femmine le desiderano per sé o a volte per la loro dolce metà. Era indubbio che perfino sua madre, suo padre, le sue sorelle, potendo mettere la mano sul fuoco anche il Campione di Unima le adorava.

Forse, se solo non le fosse rimasto un grumo di orgoglio ad intasarle il flusso di coscienza, Iris avrebbe potuto ammettere che anche a lei piacevano, le tette grandi.

Come per le caramelle, i cuccioli, le feste, il gusto piccante, viene automatico domandare “perché” se uno si trova a non amarle, è naturale, se le ragioni per cui dovrebbero essere apprezzate sono tante e valide a livello a dir poco universale: sono morbide, sono invitanti, puoi usarle come cuscino e poi assicurano nutrimento per i bambini ed un futuro familiare roseo.

Anche uno volesse rispondere alla domanda di prima dando la colpa alla società che detta i gusti delle persone e le mode del momento, la verità è che una “società” non ti rincorre in mezzo al deserto. Non sarà comune come preferenza ma visto che una taglia più moderata, più petite è numericamente più frequente, ha molto più senso ricercarla.

L’oro è difficile da estrarre e non si può produrre nella fucina. Questo non significa che un bracciale o un anello in argento faccia sfigurare chi lo indossa! Le miniere d’argento sono sempre attive e si può ottenere anche dalla raffinazione elettrolitica del rame.

«Ah, già meglio! – Il capobanda strappò la chiave dalla toppa e le fece fare una piroetta intorno all’indice – Siamo passati da un sei, appena la sufficienza ad una promozione piena, eh!»

«…Buonasera.»

Iris abbassò lo sguardo. Cosa doveva dire? Avendo a che fare una persona che non la attraeva affatto le serviva una tecnica troppo avanzata per una senza neppure le basi di come si flirta.

Gli porse il palmo come fanno gli strozzini, pronta a chiudere il pollice sulla banconota. Anche i suoi occhi si tinsero di impazienza da posto di lavoro, sebbene non avesse ancora l’età legale per lavorare.

«Certo, ecco. Gasolio.»

Chiuse il pugno d’impeto e l’unica cosa che toccò furono le sue stesse unghie incolte. La ragazzina lanciò un’occhiata allarmata al cliente, che le fece cenno con il mento di voltarsi di centottanta gradi. Le unghie le perforarono ancora di più la pelle.

«Ti è caduto. Prendili.»

«S-Scusi…»

La banconota era stata ovviamente accartocciata per aumentarne il peso e la gittata durante il lancio. Una giovane con i suoi riflessi l’avrebbe afferrata al volo, nel caso fosse caduta per caso, o non proprio per caso, e il capobanda lo aveva previsto. Le aveva teso una trappola, un tappeto di Levitoroccia su cui avrebbe per forza dovuto appoggiare i piedi.

Perché quell’individuo non sarebbe certo sceso dalla moto per farle il favore.

Iris controllò come se la stessero cavando le altre e vederle servire i centauri con risatine convincenti al punto giusto ed una scioltezza inequiparabile alla sua le fece mordere il labbro e proseguire nella farsa.

«Come al solito, non importa quanto duro o umiliante la situazione sia. Sono tutte che fanno del loro meglio. Non posso essere l’unica che si lamenta. Però, certo che con questa filosofia uno può fare qualsiasi cosa, eh?»

Si piegò con le gambe leggermente divaricate. Se la contendevano lei ed Anemone in fatto di elasticità nei movimenti, abbassarsi con le gambe le sembrava una perdita di tempo quando il bacino era ancora oliato dalla sua propensione all’esercizio fisico… Alla fine, le sue armi non erano totalmente scariche.

Ora si trovava a pochi passi dalla riuscita del piano di Camelia, ma nulla di tutto ciò sarebbe mai cominciato senza una goccia di combustibile. Una scintilla era bastata. Dopo aver sfidato il destino così tante volte, chi l’avrebbe spenta più? Bruciava di fiducia in se stessa. Fuoco caldo, e personificandolo… sexy.

Avrebbe dovuto mandare una cartolina alla Iris seduta scomposta sul suo letto sul punto di fare canestro nel cestino con la lettera di Nardo.

«Oddio, io sono senza mutande.»

Le ciocche viola ricadute dopo aver assunto di nuovo la posizione eretta la lasciarono leggermente disorientata. Assorbì il ronzio del distributore dopo aver inserito la banconota, senza dire nulla.

Si era accorta però che quel potenziale infiammabile in lei poteva essere attivato, come un’Abilità o un superpotere. Poteva farne uso a suo vantaggio, lo schioccare debole delle labbra del capobanda contava come un genuino gesto di apprezzamento. Si fece un memo in testa.

Il miele non attira solo le farfalle e i colibrì. Anche le mosche vogliono impiastricciarsi le ali.

«Non ti ho mai vista qua. Non che sia una cosa negativa… Come ti chiami?»

«…Siri.» Ci mise ben cinque secondi, giusto per visualizzarlo in testa e leggerlo al contrario.

L’uomo sbuffò, con un grugnire fuori luogo, visto che lo aveva chiesto lui.

«Quanti anni hai?»

Stavolta voleva prenderlo in giro e fargli fare la figura del maniaco attratto da una minorenne. Presa dall’ansia di farsi scoprire, mancò l’occasione.

«Diciotto.»

«Allora? Si è persa la buona educazione di lasciare il cellulare, quando ti arriva una mancia bella grossa? Se sei libera sabato sera… Tu, eh. Non una delle tue amiche…»

«Non pensarci neanche. Non toccarla, non guardarla, non provare neanche a respirarle vicino!»

Qualsiasi commento costui avesse da fare a proposito di un banalissimo numero a costo di non terminare la conversazione e fargli perdere il poco progresso fatto con la falsa benzinaia, lei glielo lasciò in bocca: ogni dito perfettamente incastonato nella dentatura, una leggera pressione sulla leva fece sgorgare qualche goccia iridescente sull’asfalto, facendo balzare la ragazzina all’indietro.

Come durante la cattura di Dragonite, non l’aveva sentita arrivare e se le avesse chiesto cosa l’avesse spinta ad intervenire in quel momento sgradevole le avrebbe parlato di “istinto” o altre cose incomprensibili. Ma andava bene.

Perché come quando era andata a comprare martelli e bombolette per vandalizzare la macchina, Camilla aveva una ferocia nel manipolare la pompa come fosse un fucile puntato alla tempia del capo che tutti i membri del branco andarono nel pallone e alcuni tentarono di fuggire a piedi.

Il che era un male: nessuna di loro sapeva guidare una moto.

«Quindi… adesso il piano è questo?»

Catlina si era attempata nella procedura, persa nel suo gossip con la compagna, e la sua bocchetta non aveva ancora raggiunto il serbatoio del motociclista che doveva servire.

«A quanto pare… - Anemone invece rimosse la sua con una violenza tale da non permettere all’antiquato distributore di reagire con l’allarme – A me sta più che bene.»

Il capobanda rimase impassibile. Doveva aver vissuto disavventure peggiori o era semplicemente incuriosito da quella reazione. Intanto che Camilla gli si avvicinava, con la pompa carica, deglutì pesantemente.

«Hey, calma, calma, bellezza. Stavo chiedendole solo se… No, mettilo giù!»

«Zitto, qua comandiamo noi.»

Pur oltraggiata per il mancato rispetto del suo piano, Camelia raccolse l’accendino dal taschino in denim, sentendone il peso; non era un’intenditrice ma tutti gli intarsi pizzicavano il suo spiccato senso del valore. In qualche modo adesso era suo, glielo lasciò capire accendendo la fiamma giusto l’istante di fargli l’occhiolino.

Uno, due, tre cerchi di gasolio per terra…

«Ti ho detto di stare calma, ragazza. Se ci bruciate vivi qui ed ora, non vedrete un centesimo.»

Il capo era l’unico a non dare segni di nervosismo. Le Allenatrici fecero attenzione a non rovesciare il liquido senza perdere la punta contro il branco. Cambiavano mira ogni tanto, tenendoli tutti sotto tiro, le braccia tese e le vene pulsanti.

La più piccola del gruppo esalò, ammorbidendo la presa. Quelle minacce le ricordavano quelle delle reclute e tre ore di vagabondaggio non erano bastate per farle scordare quanto in basso certi individui possano scendere, individui a cui non voleva in nessun modo associarsi.

«Ascoltatemi, noi…»

«Se volete lottare, basta dirlo subito…»

«Vuoi stare zitto? – Camilla gli rivolse lo sguardo più torvo che le riusciva con un occhio coperto – Lasciala parlare.»

«Noi non siamo ladre. Ma…»

«S-Siete delle ricercate?» Si intromise un altro centauro.

«Sì! – La rossa alzò la voce. Si corresse subito, maledicendo la propria impulsività – Cioè, in realtà, no. Ci hanno arrestate ingiustamente, Ghecis Harmonia e i suoi.»

«Accusate… di cosa? Cosa possono fare di così grave, cinque ragazzine così carine?» Gli fece la paternale.

«Ah, piacerebbe saperlo anche a me…» Catlina sbuffò.

«Voleva solo toglierci di mezzo per prendersi il posto di Campione. – Camelia puntualizzò - Siamo scappate. Non che potessimo fare altro…»

«Mmmh…»

Calò il silenzio. Ma la ragazzina dai capelli viola li incalzò, le battute finali erano vicine.

«Noi dobbiamo assolutamente andarcene da qui. E al più presto. E, uh… non abbiamo soldi. - Guardò in basso, impaurita dalle semplici parole, non azzardando nemmeno il pensiero. Era tutto per loro cinque, dopotutto. Si rivolse al capo – S-Se è me che vuoi… a me va bene.»

«Iris, ti prego, tappati quella bocca prima che incendio anche te… - La voce di Camelia la intimorì. Quella rabbia nascondeva una grande amarezza di fondo – Lasciate fare a me. S-Sono esperta del settore.»

«…Mi chiamo Charles.»

Le cinque tornarono con i piedi per terra mentre l’odore benzina stava cominciando a fargli girare la testa. Il capobanda si sistemò la barba, non cambiando mai il tono burbero, nemmeno per incutergli meno terrore.

«…e sono un rubacuori. Vengo da Libecciopoli, giro in moto da queste parti da oltre vent’anni.

E onestamente, quel bugiardo lardoso di Ghecis sta pure a me sui… ci siamo intesi.»

Gli fecero un applauso, uomini e ragazze, insieme. Certo che alla fine non erano così diversi. O magari lo erano, ma come faccenda la si poteva superare senza spargimenti di sangue. Chissà quante persone come loro esistevano, sotto lo stesso cielo che ora abbracciava Unima in una coperta indaco, non nera.

«Allora, dove volete andare? Ovviamente, avete a disposizione solo il serbatoio che tenete in mano adesso.»

Quella era una domanda che non doveva finire in fondo alla lista delle priorità. Sia a nord che a sud non erano benvenute, ormai il presidio doveva essere stato esteso anche a Sciroccopoli e nei comuni vicini. Tornare a Venturia poi, come regalare la vittoria al Team Plasma.

«A Spiraria, grazie.»

Catlina, per la prima volta da quando l’aveva conosciuta, parve convinta di una propria affermazione.

«Passeremo per le vie secondarie, in modo da evitare i controlli sul Ponte Meraviglia. Sarete lì entro mezzanotte  – Spiegò loro, distribuendo caschi grandi come alveari, mentre le giovani esperivano al loro ruolo di benzinaie facendosi aiutare dalle mani esperte dei motociclisti. – Però, tu, ragazzina con quelle belle gambe al cioccolato.»

Iris si indicò il petto, temendo il peggio.

«Tu, sì. – Batté la pelle squarciata della sella del suo nobile destriero – Tu sali dietro con me. E ti conviene dirmi come ti chiami veramente, invece di giocare con i sentimenti dei tuoi ammiratori.»

Quel commento le rimase impresso per tutta la durata del viaggio, passata stretta alla giacca di pelle dell’autista, la pelle d’oca per il vento notturno sul corpo così esposto. Ogni talvolta che passavano sotto ad un lampione si voltava a guardare le sue compagne, anche loro in groppa alle vetture roboanti e dai loro sorrisi le sembrò che loro corressero sempre più veloci, che nessuno potesse fermarle.

̴


«I gusti dei ragazzi… sono un argomento difficile. Mi fa venire mal di testa solo pensarci.»

«Boh, io mi sono arresa subito. Nonostante sul mio posto di lavoro tre quarti dei miei colleghi sono maschi, come quasi tutti i miei compagni di classe delle superiori, alla fine, mi cresce un altro cervello che poi imploderà in se stesso.»

«Però tu… come dire… Ti piacciono gli aerei, la meccanica, gli anime e prima che Camelia te lo imponesse dall’alto del suo egoismo non ti sei mai truccata o fatta le unghie. Anemone, secondo me tu hai un sacco di punti di contatto con i maschi e ci andresti d’accordo un sacco… Anche se tu sostieni il contrario.

«Anche no! Da compagna di ansia sociale, dovresti saperlo che saper fare due chiacchiere con un essere umano non è sinonimo di popolarità.»

«Ma mi hai vista! Non riesco a rompere il ghiaccio, mi muoiono le parole in gola. Al mio primo appuntamento sono stata zitta tutto il tempo: “parliamo di lotte? No, sembra che non pensi altro che al lavoro… Drama? Vestiti? Cosa dico? Cosa dico?”; Io, così, in testa mia.»

«Catlina, tu non hai neanche bisogno di aprire la bocca! Giuro che se i colori fossero persone, tu saresti il rosa fatto persona. Bevi il tè come una signorina, ci metti tre ore a lavarti i capelli e non penso che ti vedrò neanche al tuo funerale con addosso un paio di pantaloni. Questi livelli di femminilità dovrebbero essere illegali…»

«Non è una questione di magnetismo… Va a finire che pensino che io viva in un universo diverso da loro. E poi, cosa che non nego, che non valga la pena corteggiare una ragazza ad alto costo di mantenimento. Non è detto che gli opposti si attraggono sempre. Essere etero non può essere così facile…»

«Ma non puoi negare che noi tomboy (tranquilla, non mi farei mai i capelli corti) veniamo sempre considerate “solo amiche”. E poi, perché un ragazzo dovrebbe volere una ragazza con cui parlare di cose “da maschi”, quando può farlo con i suoi amici maschi?»

«Forse… la fidanzata migliore per un ragazzo è…?»

«Qualcuno con cui condividere aspetti personali della tua vita, come i tuoi hobby e le tue passioni, pur mantenendo una dinamica di scambio pari ed equo in cui non ci sono ruoli definiti in base al genere?»

«No. la fidanzata migliore per un ragazzo è un altro ragazzo.»

«Ah… se valesse anche il contrario sarei d’accordissimo con te… In caso, Camelia ne sa di sicuro qualcosa in più di noi. Ma ti darà ragione pure lei, contaci.»





Buonasera, è la vostra ragazza etero che larpa fingendo di essere lesbica sull'internet. Come state? Avete fatto i compiti? Avete cenato con almeno una porzione di verdura? Vi siete lavati i capelli?

Guardate che se vi sgamo che non vi lavate i capelli almeno una volta ogni due/tre giorni io... ad ogni modo. Mi siete mancati *emoji da bottom*, bentornati a tutti, piccini

Tonikaku. Immaginate avere una storia che si chiama Early Summer Girls e non la aggiornate d'estate, ma a ottobre. Momo, you had one fucking  job. Ma eccolo qui, il capitolo.

Ho avuto un po' di problemi, il mio solito developement hell, ma almeno non ci ho messo un anno, è pur sempre qualcosa. Come al solito, recensite, aggiungete ai preferiti, fate quelle cose belle che i lettori non pagati/supplicati tramite scambi di favori su Facebook fanno. Per favore. Non ci perdete nulla, e potrei perfino inviarvi per sbaglio le tette in chat.

Ah, comunicazione di servizio: fra poco ripasserò a controllare/fixare/riordinare i vecchi capitoli, per aggiornare la storia alla versione... qualcosa punto qualcosa, ho perso il conto, lel. Ma ho intenzione di rivedere i primi capitoli, correggere non solo imperfezioni grammaticali, ma sistemare un po' la lore/la coerenza della long in generale. Insomma, andrò a mettere mano al contenuto, per la prima volta. Questo significa che domani mattina vi sveglierete con una storia che invece di parlare di Allenatrici lesbiche parla di alieni non-binary? Certo che no. Tuttavia, non so di preciso l'estensione delle modifiche che voglio apportare. Esempio concreti protebbero essere cose come la rimozione dell'uso delle armi da fuoco nel capitolo 10 per esigenze di trama, o cazzatine come l'height gap di Camelia ed Anemone, per rimanere più in canon.  Significa che dovrete rileggere 22 capitoli di nuovo? No... (s-se non volete, ovviamente...). Aggiungerò una lista nel primo capitolo, così i veterani (raga, c'è gente che è qui dal 2016-2017... io non so come ringraziarvi) possono semplicmente proseguire la lettura senza perdere tempo.

Sore ni! La storia si fa sempre più lunga e come ho fatto anche in passato, mi adeguo sempre alle esigenze dei miei lettori in maniera il più possibile ragionevole, rimanendo nel copromesso. Dunque, ve la butto lì: read guides.  Se ve ne serve una prima di iniziarle la lettura, se ne volete una per un amico, se ne volete una per ricordo, contattatemi via MP sia qui su EFP o nella pagina Instagram. Ovviamente è gratis. Ed è l'unico servizio che posso offrire.  Ogni read guide sarà customizzata (come le copie di Mario 64), basterà mi indichiate un personaggio, una ship o anche qualsiasi cosa che vi piacerebbe leggere e io farò di tutto per evitarvi quelle parti che, come vi è lecito, potrebbero annoiarvi o non piacervi. Yoroshiku.


Behind the Summery Scenery #22

1. Se la volta scorsa il capitolo era finito in developement hell perché non riuscivo a completare la stesura, stavolta posso non ironicamente confessare che il fantasma di Steve Jobs ha scatenato la sua ira sulla The Momo Entertainment e più precisamente su questo capitolo: quando dovevo controllare e discutere con Daisuke alcune cose che aveva corretto, mi è partita la scheda video a causa di un aggiornamento che ha fatto surriscaldare e scaricare la batteria. Risolto questo problema, accendo il computer per editare l'html e guess fucking what? Il mio computer prende un malware che si è scaricato in background mentre aggiornavo iTunes!

Tutto questo solo perché non compro Apple...

2. Da sempre sono appassionata di misteri dell'internet e di lost media. Circa un anno fa ho scoperto quel rabbithole tremendo che è la presunta esistenza di questo anime in cui delle ragazze liceali sono rinchiuse in un bagno senza uscite per tempo interminabile e per la disperazione cominciano ad impazzire, ad ammazzarsi a vicenda e a suicidarsi una dopo l'altra. Si chiama (in teoria...) Saki Sanobashi (o Saki-san no bashitsu, più probabilmente questo) ma... questo anime/ova non esiste! O meglio, nonostante i continui avvistamenti nessuno ha mai recuperato la source, nessuno sa se si tratti di uno scherzo di /b/ o no. 

Quindi ho pensato ("wow, ho pensato"): perché non renderlo realtà? Momo-san no bashitsu! La stanza delle torture di Momo.

Un qualcosina per gli amanti dello splatter e del gore. 

3.  Le fogne, yahoo! Come i maniaci della lore avranno intuito immediatamente, dalle fogne di Austropoli è accessibile l'Antico Sentiero, che collega Austropoli e Libecciopoli dal Pokémon World Tournament. Da una delle uscite si accede al Castello Sepolto, quindi al Deserto della Quiete. 

4.  Non so perché sento il bisogno di difendermi per questo genere di cose, ma se qualcuno avesse intenzione di venire a indicarmi le inconsisenze o la mancanza di realismo in-lore del piano di fuga, del tipo "well. ACTUALLY asdfghcmvmafvmn", sono prontissima a dibattervi nelle recensioni. Posso accettare una sola critica, e la mia risposta è comunque di aspettare il prossimo capitolo. Credetemi, io sono la prima che critica questo genere di dettagli tecnici, ma credo di aver fatto abbastanza ricerca per questa volta.

5.  "Io sono Charles. E sono un rubacuori." Non posso credere che un personaggio così i c o n i c o se lo sia dimenticato tutto il fandom. Io ho usato il design da himbo dei giochi, nelll'anime sembra troppo un hipster.

6.  "Si trattava forse di una specie di scherzo perverso?" Ultimamente (= negli ultimi sei mesi, sono molto ossessiva con i miei interessi) mi sono appassionata alla saga di Fire Emblem! In particolare, Fire Emblem Three War Criminals and a little shortie angy lesbean that did nothing wrong uwu. Droppatemi la vostra route/casata/otp/waifu e io deciderò se avete diritti.   

Edit: nel frangente, ho avuto occasione di giocare anche a Fire Emblem Una rincoglionita perde un braccialetto mentre il personaggio migliore della serie spiega che i pegasi non volano sbattendo le ali ma scalciando con i piedi e Fire Emblem Furry, razzismo e l'unica coppia yaoi che è valida.

Ma giuro, giuro, GIURO che quel "sub-umane" era del tutto casuale.

7. Scrivere questo capitolo mi è piaciuto un sacco, boh, mi faceva piacere dirvelo!! Personaggi che di solito non hanno chissà che interazioni si avvicinano, Iris diventa badass, la scena della fuga mi ha risvegliato dal torpore di due capitoli di solo dialogo e la scena della benzina mi ha fatto ricordare che questa storia è la più trasgry del fandom.

O non esattamente. 

Non è che qualcuno m lo abbia mai chiesto, ma siccome vivo la mia vita di tutti i giorni con persone che vorrebbero farmi domande ma che hanno paura della risposta (non perché io li intimidisca, ma perché hanno paura di spezzarmi il cuoricino freddo come il ghiaccio e nero come il catrame che mi ritrovo) mi va comunque di esplicitare questa cosa.

«Ma Momo von Entertainment, perché nessuno dice mai le parolacce? E quando qualcuno è in procinto di dirne una ti auto-censuri?»

Allora, prima vorrei esporre le ragioni pr cui NON lo faccio: non me ne frega nulla di tutelare i miei lettori. Ho detto un miliardo di volte che se cercate un lesbian role model siete finiti nel posto sbagliato, non sono vostra madre, loooooooooool (sono più la zia simpatica e single che vi passa la droga nelle buste della paghetta, casomai). Inoltre, del canon me ne frega fino ad un certo punto: se altri autori vogliono far parlare i personaggi come scaricatori di porto, douzo. Anche io parlo un po' come uno scaricatore di porto, non ci vedo nulla di inerentemente sbagliato.

La vera ragione risiede nel concept e nella aesthetic della storia. Le ragazze che dicono le parolacce non sono attraenti come prodotto. ESG è il mio prodotto e non posso regalare (non dico "vendere" perché y'all broke ¯\_(ツ)_/¯) un prodotto che non gradirebbero i miei lettori/lettrici. So che una delle attrattive di questa storia è il suo essere un po' edgy/non-convenzionale/autoironica ma voglio che questi aggettivi se li meritino la trama, i dialoghi nado nado che ho cercato di creare in 5 anni, non la parola "fottuto" usata ad impromptu in ogni frase.

Seconda vera ragione: dato che gli insulti, gli improperi nado nado in Italia variano tantissimo da regione a regione, con la possibilità che un'imprecazione che a me sembra diffusa tradisca una specifica provenienza/dialetto, oltre a sembrare estremamente coatta, potrebbe contribuire ad auto-doxxarmi. E io invece voglio che i doxxer si mettano d'impegno, che vadano a scavare nei meandri dell'internet per scoprire dove vivo e cosa faccio nella vita! 

8. Titolo del capitolo in inglese. Siate onesti, è tanto cringe? Hoes mad semper et comunque, ma non mi venivano idee per questo titolo! Ormai dopo oltre 20 capitoli avevo sviluppato la mia formula, ma stavolta... le ragazze usano il potere della loro intraprendenza il loro intuito e l'astuzia per fuggire, ma con un pizzico di arte seduttrice, di manipolazione proveniente dalla femminilità. Questo è lo stile ESG.

ESGism.

(Dai, se proprio vi fa schifo, il prossimo capitolo si intitolerà "16. 3,1415926535897932384626433832795028841971…")

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