La vita vera di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Stimatissimi
lettori,
questa
è una storia su una grave forma di dipendenza, ovvero di Disturbo
Patologico da Gioco d’Azzardo, DGA in termini tecnici.
Avrei
voluto far partecipare la storia al contest di Soul Dolmayan, ma tra
tempo scarso, necessità di studio (per scrivere questa storia) e
ispirazione sempre ubriaca non ce l’ho fatta. La posto qui,
sperando che possa interessarvi e ringrazio Soul per avermi fornito
questo bellissimo spunto di scrittura.
Un
paio di notizie folkloristiche: per scrivere questa storia ho
interpellato operatori del settore, ho letto tonnellate di dispense e
sono riuscito anche a infilarmi in un corso di aggiornamento per
operatori del Ser.T.
Grazie
a tutti coloro che vorranno passare per di qui e buona lettura!^^
LA
VITA VERA
Capitolo
1
Alessandro
Rizzelli, agente immobiliare della Diamond House, si guardò intorno
per controllare che non ci fosse il titolare in giro, quindi aprì il
browser e digitò la parola ‘Mercedes’ sul motore di ricerca.
Comparvero decine di indirizzi: il sito ufficiale, una sfilza di
concessionari, qualche forum dedicato.
L’uomo
andò alla sezione immagini e selezionò la foto di un roadster color
argento che sfrecciava su uno sfondo di grattacieli illuminati. La
ingrandì fino a che essa non occupò tutto lo schermo.
A
quel punto, lo sguardo sempre incollato alla macchina, si adagiò
sullo schienale della poltrona girevole in pelle, allungò le gambe
davanti a sé e mise le braccia dietro la nuca. “Da seghe,”
mormorò con aria sognante.
Dalla
porta provenne una voce: “Hai detto qualcosa, Ale?”
“Guarda
che bestia,” disse Rizzelli per tutta risposta.
La
voce prese un tono vagamente allarmato. “C’è una bestia?”
“Ma
no, idiota. Mercedes-AMG GT Roadster, cinquecento cavalli,
quattromila di cilindrata, da zero a cento in meno di quattro
secondi: è questa la bestia.”
L’altro
lo raggiunse, si piegò verso il monitor e osservò la potente
vettura. “Vuoi cambiare macchina?” s'informò.
Rizzelli
emise un sospiro. “Eh, magari. Chi me li dà i soldi per questa?”
“Perché,
quanto costa?”
“Come
l’appartamento che hai venduto ai Borghi.”
Il
collega emise un fischio di meraviglia.
“Senza
contare che è un due posti secco. Dove le metto le figlie?”
“Non
hai detto che l’anno prossimo vanno a studiare all’estero?
Aspetti che partano e poi la compri per te e tua moglie.”
“E
bravo,” replicò sarcastico Rizzelli. “E poi come gliela pago
l’Università in America a quelle due?” Scosse la testa con fare
sconsolato. “Lascia perdere, è un gatto che si morde la coda.”
Mimò il gesto di contare i soldi e soggiunse: “Senza questi,
niente macchina. “
“Tua
moglie?” azzardò l’altro.
Il
primo alzò le spalle. “A parte che Laura con quel suo negozietto
tanto prende e tanto spende, le serve giusto per pagarsi gli sfizi, e
poi non le piacciono le sportive, dice che non ci sta niente, quindi
figurati se le interessa comprarla.” Si voltò di nuovo verso il
monitor, che però era entrato in risparmio energetico e mostrava
solo il logo della Diamond House che scorreva. “Dovrei prenderla
come seconda macchina, ma chi ce li ha tutti quei soldi?”
“Non
ne avete già due?”
“Intendevo
seconda macchina mia.”
“Quanto
paga di bollo quell’affare?”
“Eh,
siamo sempre lì,” replicò amareggiato Rizzelli. “Soldi. Servono
più soldi.”
“Mia
nonna diceva che i soldi sono l’acqua del mare: più ne bevi e più
hai sete.”
Per
tutta risposta, Rizzelli canticchiò: “Mare mare mare, voglio
annegare...”
Lo
squillo del telefono interruppe l'esibizione canora. L'uomo volse lo
sguardo all'apparecchio, alzò le sopracciglia e disse: “Cazzo, è
quello della SoverData!” Istintivamente si raddrizzò sulla sedia e
si sistemò il nodo della cravatta, quindi sollevò la cornetta e in
tono professionale disse: “Diamond House, buongiorno. Sono il
dottor Rizzelli.”
Rizzelli
abbassò pensoso la cornetta. Si passò una mano fra i capelli, di
nuovo si sistemò il nodo della cravatta, quindi aprì il browser e
digitò la parola 'casinò'. Gli apparve una sfilza di siti sui
casinò on line, perlopiù infarciti di termini come 'Super Bonus' o
'200 spin gratis', poi qualcosa su Casino Royale e Las Vegas. Gli
unici dati che in ogni sito ricorrevano erano cifre in denaro:
milletrecento euro vinti, mille euro di bonus, duecento euro
gratis...
Alzò
la testa e si voltò verso la porta. “Robbi!” chiamò.
Si
udì un tramestio, poi il collega si affacciò. “Che c'è?”
“Roberto,
sei mai stato in un casinò?”
L'altro
corrugò la fronte. “Eh?”
“Non
un casino,” precisò Rizzelli con un sorrisetto. “Intendo proprio
un casinò. Roulette, black Jack... quella roba lì, insomma.”
L'altro
scosse la testa. “Perché?” chiese poi.
“Il
tizio della SoverData vuole che ci vada con lui. Per discutere
l'affare, ha detto.”
“Al
casinò?”
Rizzelli
alzò le spalle. “Per il rustico di Montorsi, l'affare l'ho
discusso dentro e fuori da un pollaio, mentre il proprietario dava il
becchime alle galline.”
“E
quando sei tornato in sede hai sparso merda di pollo dappertutto.”
“Ho
anche sparso un bel po' di soldi nel conto della Diamond
House, se è per questo,” ribatté Rizzelli piccato. Tacque per
qualche istante, scorrendo di nuovo con lo sguardo l'elenco di casinò
on line che il motore di ricerca proponeva, poi quasi parlando fra sé
e sé disse: “Ma si vince, poi?”
Alle
sue spalle, Roberto disse: “Dubito che i casinò siano associazioni
filantropiche.”
Rizzelli
si voltò a fissarlo. “In che senso?”
“In
che senso?” ripeté l'altro, imitando la celebre battuta di
Verdone. “Nel senso che se esistono è per guadagnarci, non per
regalare soldi in giro, non ti pare?”
“Ma
qualcuno vincerà, no?”
“Fidati,
Ale: quel qualcuno non sei tu.”
L'altro
assunse di nuovo l'espressione piccata. “E perché non dovrei
essere io?”
“Lo
sai quante sono le probabilità di fare una grossa vincita al casinò?
Le stesse che ho io di andare a letto con Miss Mondo.”
“Così
poche?”
“Vaffanculo,
Ale.”
$
Sulla
via di casa, al volante di una berlina che mai come quel giorno gli
pareva un tristo esempio di 'vorrei ma non posso', Alessandro
Rizzelli rifletteva sui casinò. Nonostante le parole del collega,
l'unico mantra che continuava a risuonargli in mente era: soldi,
molti soldi, soldi facili. Bastava mettere un po' di fiche
nella casella giusta, ed ecco che le avrebbe viste crescere
magicamente, come la mitica pianta di fagioli della favola.
Montagne
di fiche, e quindi montagne di soldi.
Fece
scorrere lo sguardo sulla finta radica del cruscotto, sulla plastica
cromata delle finiture, che qua e là stava cominciando a perdere il
lucido, e sulla valigetta 24 ore che si trovava sul sedile del
passeggero, piena essenzialmente di soldi altrui, che lui poteva solo
vedersi passare sotto il naso.
“Mare
mare mare, voglio annegare...” canticchiò di nuovo.
Azionò
il telecomando, sul cancello di una villetta a schiera cominciò a
lampeggiare una luce gialla. Rizzelli fissò l'edificio come il più
critico dei suoi colleghi avrebbe potuto guardare un tugurio
d'anteguerra spacciato per 'suggestivo appartamento in stile con
atmosfera d'antan'.
“Bella
merda,” borbottò. Ripensò alla proprietà per cui era in
trattative con la SoverData: una villa del settecento di più di
mille metri quadri, con tre ettari di parco all'inglese, piscina e
spa. I pavimenti erano tutti di marmo, su molti dei soffitti c'erano
affreschi. Il più merdoso dei mobili di quel posto costava da solo
come tutti quelli che c'erano in casa sua.
Sospirò.
Aveva intrapreso la professione di agente immobiliare con l'idea che
dopo aver smerciato un po' di quelle lussuose dimore sarebbe stato in
grado di comprarne una per sé. Per un po' era andata anche bene: i
soldi arrivavano ed erano molti, tant'è che aveva potuto acquistare
se non proprio una villa, almeno una villetta a schiera di
duecentocinquanta metri quadrati, di testa, con finiture di pregio,
garage, cantina e un bel giardino. Ognuna delle sue figlie aveva una
camera tutta per sé, in taverna c'era l'home theatre, sua moglie
aveva allestito in mansarda un laboratorio di roba da donne, tipo
découpage e pasta di sale, dove si trovava con le sue amiche.
C'erano la lavanderia, la dispensa e anche il barbecue per l'estate.
Mentre
il basculante del garage si alzava, rivelando la monovolume di Laura
già parcheggiata, egli ricominciò a canticchiare la canzone di
Battiato.
In
cucina la tavola era apparecchiata, nell'aria c'era odore di sugo
alla pizzaiola. Rizzelli ripensò al ristorante stellato dove aveva
pranzato con un cliente il giorno prima. Si accertò che sua moglie
fosse girata di spalle, quindi arricciò il naso con espressione
schifata. “Ciao, amore,” salutò poi in tono da marito delle
pubblicità. “Com'è andata in negozio?”
Laura
si girò asciugandosi le mani sul grembiule. Scosse la testa per
gettare i capelli all'indietro e rispose: “Ah, come al solito.
Entrano, guardano e poi dicono che ci penseranno.” Crollò poi il
capo con fare critico e soggiunse: “Ma non si possono certo pagare
il lusso e l’eleganza come la roba dei cinesi, non ti pare? Se
sanno di non avere i soldi, è inutile che entrino.” Raccolse dal
piano del mobile il mucchiettino scintillante dei gioielli, che
regolarmente si toglieva per fare le faccende, e prese a indossarli
con gesti disinvolti. “E a te com'è andata, tesoro?”
“Tutto
bene,” rispose l'uomo, quindi si guardò intorno e chiese: “Chiara
e Serena dove sono?”
“Sono
andate a mangiare la pizza con le altre ragazze della danza.”
Laura
frattanto aveva finito di infilarsi i numerosi anelli e si stava
agganciando al polso un braccialetto fatto con quei brillantini di
cui non gli era mai riuscito di pronunciare il nome, ma che
sembravano far impazzire sia lei che le ragazze.
“Starò
via per qualche giorno,” le annunciò.
La
donna sollevò lo sguardo dal monile e lo fissò nel suo. “Dove
vai?” gli chiese.
“È
per lavoro. Ho un grosso affare in ballo e non posso scontentare il
cliente. Anzi, non è che domani mi porteresti in lavanderia il
completo che avevo al matrimonio di Anna e Fabio?”
L’altra
sollevò le sopracciglia meravigliata. “Dov’è che devi andare,
dal Presidente della Repubblica?”
Rizzelli
fece un sorrisetto. “Molto meglio: andiamo a Portorose.”
“Sarebbe?”
“Al
casinò.”
“Oh,
al casinò,” ripeté estasiata la moglie.
“Niente
male, eh?”
“Vorrei
venirci anch’io, dev’essere stupendo. Ci saranno un sacco di
donne con vestiti da sera bellissimi.”
Di
nuovo Rizzelli sorrise. “Se l’affare va in porto, ti prometto che
ci torniamo insieme.”
Gli
occhi di Laura si illuminarono. “Allora mi devo comprare un abito
lungo! E naturalmente anche le scarpe e la borsa.” Si guardò le
mani. “Mi servirà anche qualcosa di più elegante...”
“Piano,
piano,” la fermò l’uomo, che di richieste del genere se ne
sentiva rivolgere a ogni occasione che si discostasse appena dalla
quotidianità, “prima devo concludere l’affare.”
“Quanto
frutterà?” chiese Laura.
Rizzelli
colse la sua espressione attenta e pensò che le mancavano solo gli
occhi fatti a dollaro. “È una grande proprietà,” disse, stando
ben attento a mantenersi sul generico. “Sicuramente la Diamond
House ne ricaverà un bel gruzzolo.”
“E
quanto sarà la nostra… la tua parte?”
“Ancora
non lo so,” tagliò corto Rizzelli, “dipende da quello che
riuscirò a spuntare da quelli della SoverData.”
“Fa’
una giocata alla roulette per noi due,” gli suggerì allora Laura,
abbassando il tono della voce a un mormorio complice.
“Non
so se ne avrò l’occasione,” si difese l’uomo, ma l’altra,
imperterrita, proseguì: “Gioca il giorno del nostro matrimonio,
sul rosso.” La voce si abbassò ulteriormente, gli occhi ebbero un
brillio malizioso. “Il colore della passione.”
“Laura...”
“Le
ragazze torneranno fra qualche ora, abbiamo tutta la casa per noi...”
$
Alessandro
Rizzelli uscì dalla Limousine del titolare della SoverData e si
trovò di fronte al casinò di Portorose. Una volta saputo che ci
sarebbe andato, l’aveva studiato ben bene in internet, ma
ugualmente guardandolo provò una sorta di strana esaltazione. Era
ormai buio, ma l’edificio era illuminato praticamente a giorno. A
lato della porta di entrata si trovava un usciere in livrea, che
apriva l’anta al passaggio degli ospiti. Nella hall, in stile
moderno, coperta di moquette a colori vivaci e con lampadari enormi
che pendevano dal soffitto, vide sfilare due ragazze. Una era bionda,
magra, col seno piccolo e sodo come piaceva a lui. Portava una
minigonna argentata, dalla quale uscivano gambe lunghissime e snelle.
Ancheggiava lieve sui tacchi alti.
L’altra
era mora, più bassa ma più formosa, ed era fasciata in un abito
nero lungo fino ai piedi, che ondeggiava tutto quando lei camminava,
mettendo in risalto le sue curve.
Fece
mente locale e realizzò che donne così belle ne aveva viste sui
giornali e sui cartelloni pubblicitari, ma mai dal vero. Si chiese se
fossero delle top model.
Un
rombo attirò la sua attenzione. Si girò e vide sfrecciare sul viale
un bolide rosso. Ebbe un tuffo al cuore: Mercedes-AMG GT.
Alla
vettura si accodò una Porsche Turbo nera ed entrambe guizzarono via
come squali, mentre le luci si riflettevano sulle carrozzerie a
specchio e il rumore dei potenti motori faceva tremare l’aria.
Immaginò
se stesso a bordo della Mercedes, magari con la bionda accanto.
“Fantastico,”
disse fra sé e sé.
“Le
piace?” chiese una voce al suo fianco.
Rizzelli
quasi trasalì. “Mi scusi, dottor Clerici,” disse in fretta,
obbligandosi a distogliere l’attenzione dalle macchine sportive e a
riportarla sul titolare della SoverData. “Certo che mi piace, è
tutto molto bello.”
“Non
era mai stato in un posto del genere?”
L’agente
immobiliare tentennò. Cosa sarebbe stato opportuno rispondere? La
verità, ovvero che non ci aveva mai messo piede, oppure una menzogna
che in qualche modo lo facesse apparire vagamente simile a un uomo di
mondo?
“Il
lavoro ha sempre assorbito tutte le mie energie,” si decise a dire,
“quando torno a casa sono così stanco che mi rilasso un po’ con
la mia famiglia e vado subito a letto.”
Clerici,
un uomo alto e imponente, con un completo di sartoria e l’aria
genericamente danarosa, sorrise con fare indulgente, gli batté una
mano sulla spalla e disse: “Non sia sempre così ligio, carissimo.
Un uomo si deve anche divertire ogni tanto, non le pare?”
Rizzelli
non fece nemmeno troppa fatica a mostrarsi accondiscendente. “Certo,
dottor Clerici,” confermò.
“Allora
venga, entriamo. La SoverData le offre cinquecento euro di fiche.
Cosa preferisce, roulette, black Jack, chemin de fer, baccarat,
poker?”
“Ecco,
veramente...”
“Ah
già, dimenticavo: non è mai stato al casinò. Ma non si preoccupi:
le spiegherò tutto io. Le farò da cicerone.” Si mosse risoluto
verso l’entrata, Rizzelli notò che l’usciere gli stava già
tenendo aperta la porta.
“Buona
sera, dottor Clerici,” disse l’uomo al loro passaggio, rivolgendo
a entrambi un deferente inchino del busto.
“Caro
Stjepan, come va? Tutto bene a casa?”
“Sì,
grazie, dottore.”
Clerici
trasse dal taschino una banconota che nel guizzare dei neon colorati
parve a Rizzelli da cinquanta euro. La piegò in due e la tese
all’usciere, che nuovamente si inchinò.
“Andiamo,”
disse poi disinvolto, “i tavoli da gioco ci aspettano.”
Entrare
nella sala principale fu per Rizzelli come essere catapultato in un
altro mondo. Un mondo più bello, per la precisione, un mondo pieno
di lusso e ricchezza. Il soffitto era piuttosto basso, nero,
punteggiato qua e là di luci come una specie di cielo stellato. Per
terra c’era una moquette a disegni tipo damasco gialli e rossi,
lungo le pareti baluginavano i monitor delle slot e delle VLT. Nella
parte centrale dell’enorme locale vi erano tavoli verdi intorno ai
quali si assiepavano uomini e donne elegantemente vestiti.
Sul
discreto cicaleccio che aleggiava ovunque riconobbe, più che altro
per averlo sentito in qualche film, il ticchettio della pallina di
una roulette, e si trovò a trattenere il respiro con aspettativa.
Rivide,
o gli parve di rivedere, le due ragazze di prima.
Notò
poi una giovane donna di colore altissima e snella, con un abitino
azzurro pallido e bracciali d’oro che risaltavano sulla pelle
scura. Si muoveva lenta e sinuosa.
“Quella
è la nostra Naomi Campbell,” disse alle sue spalle Clerici. Poi, a
voce più alta: “Ciao, Opeyemi.”
Senza
fermarsi, la ragazza gli rivolse un languido cenno di saluto. “Ciao,
‘Tonio,” rispose, la voce appesantita dall’accento straniero.
Sorrise facendo baluginare i denti bianchissimi.
“Ciao,
cara, ciao,” disse Clerici agitando a sua volta la mano, poi si
voltò verso Rizzelli. “Una puttana,” spiegò disinvolto. “È
piuttosto costosa, ma li vale tutti.”
L’agente
immobiliare tossicchiò imbarazzato. “Immagino,” borbottò, più
che mai certo di star facendo la figura del borghesuccio provinciale.
Apparentemente
insensibile al suo disagio, Clerici lo sospinse in avanti. “Ma
venga, venga, carissimo. La notte è ancora giovane, non è così che
si dice?”
“Immagino
di sì.”
L’uomo
fece una risata. “Lei immagina troppo, mio caro. È ora di dare una
nota di concretezza alla serata: andiamo a prendere le fiche.”
Rizzelli
soppesò le proprie fiche: dieci pile da cinque che sembravano
quelle di zio Paperone. Era buffo pensare che quei cinquanta
dischetti di plastica fossero il corrispettivo di cinquecento euro.
Visti così avevano l’aria inoffensiva, sembravano quasi i giochi
dei bambini.
Eppure,
gli sussurrò una vocina, proprio quegli innocenti balocchi –
posseduti in quantità sufficiente – gli avrebbero dato la
possibilità di comprarsi quello che voleva: la Mercedes, ad esempio,
e magari anche la bionda da mettere sul sedile del passeggero.
Raccolse
una delle dieci pile, se la sparse nel palmo della mano. Il
clicchettio dei dischetti di plastica gli parve un suono inebriante,
magico. Era il suono della libertà, perché chi è ricco fa quel che
vuole e non deve rendere conto a nessuno.
Volse
lo sguardo verso Clerici, che stava prendendo in consegna una
quantità considerevolmente maggiore di fiche. Osservò che le
sue erano più grandi e anche di colore diverso. Notando che le
guardava, l’uomo gli disse: “Queste sono da cento euro. Mi
sarebbe dispiaciuto fargliene avere solo cinque, per cui ho ordinato
per lei quelle da dieci euro.” Gli rivolse un sorriso che aveva una
vaga nota di complicità, quindi gli chiese: “Danno una bella
sensazione, vero?”
“Indubbiamente,”
ammise Rizzelli.
Clerici
a quel punto in tono dotto recitò: “Per quanto sia ridicolo che io
mi aspetti tanto dalla roulette, mi sembra ancora più ridicola
l’opinione corrente, da tutti accettata, che è assurdo e stupido
aspettarsi qualcosa dal gioco. Perché il gioco dovrebbe essere
peggiore di qualsiasi altro mezzo per fare quattrini come, per
esempio, il commercio? Vero è che su cento, uno solo vince, ma a me
che importa?” Fece una pausa. “Sa chi lo disse?”
“Veramente
no.”
“Ma
Dostoevskij, mio caro. Non ha mai sentito parlare di Dostoevskij?
Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, ma soprattutto Il giocatore.
L’ha mai letto, lei, Il giocatore?”
“Veramente
no, dottor Clerici,” rispose Rizzelli, augurandosi che il suo
potenziale acquirente non fosse un fanatico della letteratura che
concludeva gli affari a seconda della cultura della controparte.
“Beh,
non fa niente,” replicò con suo sollievo l’altro, sospingendolo
in avanti con una pacca sulla spalla. “Siamo qui per divertirci,
non per fare un’interrogazione, dico bene? Ce le ha le sue fiche?”
“Sì,
certo.”
“Molto
bene, carissimo, allora andiamo. Roulette, giusto?”
Il
croupier gettò la pallina all’interno della roulette in movimento.
La piccola sfera si incuneò immediatamente nel binario e lì prese a
scorrere velocissima.
Rizzelli
trattenne il fiato. Tentò anche, per quanto poteva, di seguirne i
movimenti, ma essi erano così rapidi che quasi subito ne ricavò una
specie di vaga nausea.
La
roulette cominciò a rallentare, la pallina abbandonò il binario,
scese, rimbalzò su una losanga e cadde nell’anello dei numeri.
L’uomo
puntò le mani sul panno verde come per alzarsi. Tese tutti i muscoli
della schiena.
La
pallina fece qualche altro rimbalzo, saltò da una casella all’altra
e infine esaurì la sua energia in una di esse.
“Sette
rosso!” annunciò il croupier.
Ci
furono mormorii di disappunto, qualche esclamazione, una contenuta
manifestazione di gioia da parte di qualcuno che aveva puntato sulla
prima dozzina.
Rizzelli
si rilassò sulla sedia, rendendosi conto che per tutta la corsa
della pallina aveva trattenuto il fiato.
La
voce di Clerici lo distrasse: “Beh, che ne dice? È bello, vero?”
“Bellissimo,”
esalò l’agente immobiliare, realizzando subito dopo che nemmeno
quando aveva fatto l’amore per la prima volta aveva provato
un’emozione del genere. Gettò un’occhiata al croupier che
raccoglieva le puntate di chi non aveva vinto, quindi anche la sua, e
gli parve che fosse una cosa di poca importanza, un prezzo tutto
sommato equo, per l’esperienza che aveva appena vissuto.
Inspirò
un paio di volte socchiudendo gli occhi, quindi rivolse lo sguardo al
panno verde e cominciò a disporre fiche nelle varie caselle.
Eccitazione e aspettativa crescevano di attimo in attimo,
l’adrenalina gli dava la sensazione che una corrente elettrica gli
percorresse le membra. Si rese conto che le dita gli formicolavano.
Pensò
fugacemente alla richiesta di Laura, ma non gli riuscì di ricordare
la data del loro matrimonio. Puntò sui numeri che gli piacevano di
più.
“Rien
ne va plus!” annunciò il croupier, “Les jeux sont faits.”
Azionò la roulette e vi fece cadere la pallina, che subito si inserì
nel binario e prese a girare così veloce da risultare alla vista
solo come una sbiadita pennellata bianca.
“Una
scelta vintage,” apprezzò Clerici.
Rizzelli
si voltò a fissarlo. “Domando scusa, dottore?”
“Quelle
frasi ormai si sentono solo nei film. È come dire 'passo e chiudo'
nelle comunicazioni radio.”
L'agente
immobiliare non rispose. Comunicare via radio significava avere a che
fare con navi o aerei: di sicuro quel Clerici aveva uno yacht, o
magari anche più d'uno. Fissò di nuovo lo sguardo sulla pallina: se
fosse caduta nella casella giusta, le sue fiche sarebbero
raddoppiate o triplicate – non aveva ancora capito come
funzionassero le vincite – senza alcuna fatica da parte sua, se non
sopportare un po' di adrenalina, che poi alla fine era anche
piacevole.
“Dieci
nero,” annunciò il croupier.
Rizzelli
sentì il cuore saltare un battito: aveva giocato il suo giorno di
nascita, con il colore che gli sarebbe piaciuto per la Mercedes, ed
era uscito!
In
un generale mormorio di sorpresa, il croupier spinse verso di lui una
montagna di fiche.
Clerici
annuì compiaciuto e commentò: “Che fortunello!”
“Sono
tutte mie?” chiese Rizzelli stupefatto.
“Ma
certo. Lei ha fatto en plein: vince trentacinque volte la
somma puntata.”
L'altro
rimase per un po' a fissare come ipnotizzato quel mucchio di
dischetti colorati. Ne aveva messi tre sulla casella, il suo numero
fortunato, quindi in pratica ne aveva ricevuti indietro altri
centocinque. Il che significava che in un quarto d'ora di svago aveva
raddoppiato il capitale in suo possesso. Ah,
se avessi puntato di
più, non poté fare a meno di pensare. Ed elencò mentalmente
tutto quello che avrebbe potuto permettersi con quei soldi
inaspettati.
La
voce di Clerici lo distrasse dalle sue meditazioni: “Beh, che fa,
vuole smettere?”
Rizzelli
accarezzò il mucchio di fiche che aveva vinto e d'impulso
rispose: “No di certo.”
“Così
mi piace!” apprezzò il titolare della SoverData. “Lei è uno che
ama il rischio, è uno che ha fegato.” Si interruppe brevemente,
poi in tono critico soggiunse: “Di solito, la gente che porto qui
se ne scappa appena è riuscita a raggranellare un gruzzoletto.”
“Non
capisco perché,” mormorò Rizzelli, mentre in una specie di trance
faceva scorrere lo sguardo sul tavolo. Si chiese se ci fosse qualcosa
come un fluido, o qualche misteriosa capacità divinatoria
alla quale si potesse fare ricorso per indovinare le puntate. Il
dieci nero era stato un caso, oppure nell'operare quella scelta aveva
inconsapevolmente messo in atto capacità che avrebbe potuto
riconoscere e affinare per future vincite?
Si
concentrò, gli parve che qualcosa lo attirasse verso il
sedici rosso. Spostò un bel mucchietto di gettoni colorati su quella
casella.
“Les
jeux sont fait,” annunciò neutro il croupier, facendolo quasi
trasalire.
La
pallina scese nella roulette, fece due rimbalzi, subito si inserì
nel binario. Rizzelli deglutì, strinse i denti mentre il cuore gli
martellava nel petto. Se avesse vinto, si sarebbe beccato settecento
fiche, quindi settemila euro, quindi quella famosa vacanza
alle Seychelles che voleva fare da tanto, oppure quel televisore da
sessantacinque pollici...
“Ventidue
nero,” proclamò il croupier.
Rizzelli
trasalì e quasi ebbe la sensazione di essere stato in qualche modo
fregato, anche se non sapeva bene come e da chi. Cosa era andato
storto? Perché il fluido stavolta non aveva funzionato?
Masticò
un'imprecazione, poi di nuovo abbassò gli occhi sul proprio
capitale: in fin dei conti aveva perso solo venti fiche, aveva
tutte le possibilità di rifarsi.
“Eh,
la roulette è così,” osservò Clerici con fare filosofico, mentre
si dirigevano all'uscita. “Si vince tanto, ma si perde anche tanto.
È riuscito a conservare qualcosa?”
“Due
fiche,” rispose Rizzelli. Dal palmo della mano i dischetti
sembravano fissarlo come occhi. Egli pensò che avevano
un'espressione impertinente, come di un monello che ha appena fatto
uno scherzo ben riuscito, ma anche carica di promesse. “Chi non
risica non rosica,” udì se stesso dire.
“Così
mi piace,” apprezzò Clerici. “Un uomo che sia un uomo deve saper
rischiare. Quanto ha detto che chiede la Diamond House per quella
proprietà?”
Rizzelli
snocciolò l'importo. L'altro annuì con l'aria di chi considera il
prezzo tutto sommato equo.
Sempre
parlando fra loro si diressero al banco delle fiche e l'agente
immobiliare si trovò con una banconota da venti euro in mano. A quel
punto, il fluido ricominciò a farsi sentire.
Indicò
una VLT. “Come funzionano quelle, dottor Clerici?”
L'uomo
glielo spiegò.
Egli
si avvicinò al terminale, fece scivolare nell'apposita fessura i
venti euro, quindi spinse un tasto su cui era scritto 'Play'.
Immagini di ispirazione egizia presero a combinarsi in vario modo
sullo schermo, ma non successe molto altro.
Premette
di nuovo il tasto, le figure scorsero dall'alto verso il basso
imitando i rulli di una slot machine.
Ancora
niente. Qualche musichetta, i soliti disegni di occhi di Ra e
scarabei sacri.
Play.
Niente.
Play.
Niente.
“Ultima
giocata,” lo avvisò Clerici, che in piedi dietro di lui stava
seguendo la partita.
Rizzelli
premette il tasto, le figure scorsero e si combinarono, si creò un
disegno diverso da tutti i precedenti. La macchina si illuminò più
intensamente, cominciò a emettere suoni e jingle, sullo schermo
comparve una cifra che cominciò a crescere.
“Ma
guarda un po'!” esclamò Clerici.
Rizzelli
si girò verso di lui. “Che succede?”
“Ha
vinto, carissimo.” Si sporse verso il monitor. “La Fortuna le ha
ridato quello che le aveva preso con la roulette.”
I
numeri avevano smesso di aumentare e la cifra stava lampeggiando al
centro del display: novecentocinquanta euro.
“Che
fa, prosegue?”
Lo
sguardo fisso sulla somma, l'agente immobiliare scosse la testa.
Clerici
premette un altro pulsante, la macchina emise un talloncino stampato.
“Con questo va alla cassa,” spiegò l'uomo.
$
“Grandi
notizie!” lo accolse Roberto al suo rientro in sede, “La
SoverData compra!”
“Davvero?”
“Ha
telefonato uno poco fa: si pigliano Villa Arzilla e tutto il parco,
al prezzo che chiedevamo. Il titolare non ci voleva credere.
Complimenti, Ale!”
Rizzelli
rimase in silenzio, più che altro perché stava calcolando la
commissione che gli sarebbe spettata alla vendita del prestigioso
immobile: era un bel gruzzolo.
Bello,
sì, ma di certo nulla che fosse in grado di cambiare la sua vita. E
poi ci avrebbe immediatamente messo su le grinfie Laura, e allora
rinnova di qua, sistema di là, compra su e compra giù... come al
solito si sarebbe dovuto accontentare delle briciole.
Sorrise
fra sé e sé: quando era rientrato da Portorose era stato ben
attento a non fare parola dei novecentocinquanta euro. Sulle prime
perché gli era venuta l'idea di far una sorpresa a sua moglie,
qualcosa tipo un week end romantico in qualche località di sogno, e
poi semplicemente perché quei soldi erano suoi. Li aveva
vinti lui, erano un regalo che la Fortuna aveva voluto elargirgli.
A
lui, non a chiunque avesse voglia di attingervi.
Era
stato anche bello ottenerli: ricordava ancora il brivido,
l'aspettativa, il cuore che andava a mille...
Si
era sentito vivo, potente.
Tirò
fuori il telefonino – non era bene che certe cronologie rimanessero
salvate nel server della ditta – e cercò le sale giochi in zona.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Salve
a tutti,
seconda
parte del mappazzone. Come sempre grazie a tutti coloro che mi hanno
seguito fin qui, grazie a chi mi ha messo in qualche lista e un
grazie speciale a chi mi ha lasciato anche un parere^^
Capitolo
2
Rizzelli
fece scivolare una banconota da venti euro – l'ultima – nella
VLT.
All'inizio
era stato più che altro un esperimento: entro in una sala da gioco e
vedo com'è fatta. Ci era sempre passato davanti, dedicando non più
di un'occhiata distratta a quei luoghi dalle vetrine oscurate, in cui
la gente si infilava come se entrasse in un night club dalla fama
equivoca.
La
prima volta ci era rimasto poco più di dieci minuti, aveva
maldestramente perso una ventina di euro e poi era uscito, ma
l'esperienza gli aveva lasciato dentro una strana sensazione di
vuoto, di occasione mancata. L'idea che forse la macchina stava per
pagare e lui aveva mancato per un soffio la possibilità di essere il
beneficiario di una grossa somma.
La
volta dopo era rimasto di più: la perseveranza aveva dato i suoi
frutti e la macchina gli aveva elargito trecento euro.
Poi
aveva continuato a frequentare il posto. Pian piano stava cominciando
a conoscere le macchine. Chiaramente chi le gestiva aveva tutto
l'interesse a dire che il loro funzionamento era completamente
standardizzato, ma chiunque avesse anche una minima esperienza di
gioco sapeva bene che le cose in realtà non stavano così. C'erano
mille piccoli segni che potevano essere interpretati per sapere se la
macchina avrebbe pagato o no: il suono che la moneta faceva cadendo
nel serbatoio, la velocità di risposta ai comandi, il tempo
trascorso dall'ultimo pagamento e così via.
Quelli
erano segreti, che ogni giocatore elaborava con l'esperienza e
perlopiù teneva gelosamente per sé.
Anche
lui stava cominciando a mettere insieme il suo personale bagaglio di
conoscenze in merito.
Giocò
fino a che il credito non fu esaurito, poi meccanicamente aprì il
portafoglio, solo per trovarlo vuoto.
Si
guardò intorno e scrutò quasi con invidia gli altri avventori della
sala, che avevano ancora soldi da giocare.
Perché
lo sapeva, lo sentiva:
ci mancava tanto così e avrebbe vinto. Bastava guardare il display,
del resto: tutte le VLT erano in rete e sullo schermo, in alto, c'era
una cifra che indicava il montepremi raggiunto. Bastava poco,
pochissimo, e avrebbe fatto il colpo grosso. Di nuovo guardò il
portafoglio, ma non c'era dentro altro che qualche vecchio scontrino.
Nelle tasche aveva solo pochi spiccioli.
Estrasse
il bancomat, ma non si mosse: nella sala c'erano solo pochi
avventori, ma se l'avessero visto correre via avrebbero capito che la
macchina stava per pagare, e di certo avrebbero approfittato della
sua assenza per rubargli il posto e la vincita.
Abbandonò
con finta noncuranza lo sgabello, salutò il gestore e uscì. Solo
quando fu certo che nessuno potesse vederlo scattò di corsa, si
infilò nella prima banca che incontrò e si precipitò sul bancomat
come un affamato su una tavola imbandita.
Estrasse
la tessera con mani tremanti, la infilò nell'apposita fessura e
digitò il codice. L'apparecchio gli chiese l'autorizzazione a
inoltrare la richiesta alla sua banca, gli fece presente che ci
sarebbe stata una commissione.
Rizzelli
accettò con una mezza imprecazione, infastidito dai secondi preziosi
che stava perdendo.
Alla
fine comparve la richiesta di inserire la cifra. Cinquecento euro,
digitò lui d'impulso, poi ci ripensò, cancellò e scrisse
settecentocinquanta.
Diede
l'invio, rimase ad attendere spostando il peso da un piede all'altro
mentre l'apparecchio contava i soldi.
Si
ficcò in tasca tessera e banconote, si fiondò fuori dalla banca e
corse alla sala giochi. Da una fessura scrutò all'interno: la sua
VLT era ancora vuota. O era già
vuota? Sentì il cuore saltargli un battito: e se mentre era via
qualcuno ci si era seduto, aveva giocato e la macchina aveva pagato?
Scrutò
di nuovo la sala: non sembrava vi regnasse una particolare
eccitazione. Gli avventori erano anzi meno di prima, data l'ora
tarda, e ormai anche gli ultimi irriducibili stavano andando a casa.
Controllò
l'orario e sollevò le sopracciglia, tuttavia entrò, sedette sullo
sgabello e introdusse i primi cinquanta euro nella macchina.
Mi
rifaccio della perdita, disse fra sé e sé. Due giocate e vado.
“Si
chiude,” disse una voce, facendolo trasalire.
Si
girò di scatto e si trovò faccia a faccia con il gestore della
sala. A parte loro non c'era più nessuno, tutte le altre macchine
erano spente.
“Un'ultima
giocata,” implorò. La VLT stava per pagare, se lo sentiva. Sarebbe
bastato pochissimo e poi...
“Stiamo
chiudendo,” lo gelò il gestore.
“Cinque
minuti,” pregò Rizzelli, “due minuti!”
“Mi
dispiace, gli orari sono affissi alla porta, e poi non voglio noie
col Comune.”
“Domattina
a che ora aprite?”
“Otto
e mezza.”
“Bene,
senta, io domattina sono qui appena aprite, e voglio quella VLT per
me, d’accordo?”
L'altro
non parve particolarmente colpito. “Va
bene. Ora vada, però.”
Rizzelli
si ritrovò in strada. Guardò l'orologio: erano le ventitré. Tirò
fuori dalla tasca il cellulare e trovò sette chiamate di sua moglie.
“Merda,” imprecò fra sé e sé. Non se n'era nemmeno accorto:
eppure non aveva la suoneria silenziata e teoricamente ogni chiamata
avrebbe dovuto essere accompagnata da una decisa vibrazione.
Chiamò
Laura: “Pronto, amore?”
“Alessandro!
Sono ore che ti cerco, stavo per telefonare ai Carabinieri. Dove
sei?”
“Sto
arrivando a casa.”
“Ma
dove sei?”
“Amore,
ero in ufficio. Ero talmente preso dal lavoro che non ho fatto caso
all'orario.”
“Ti
ho chiamato un sacco di volte!”
“Sì,
scusami, tesoro. Avevo tolto la suoneria per lavorare con maggiore
concentrazione.”
“Ma
ho chiamato anche in ufficio, mi ha riposto la segreteria
telefonica.”
Rizzelli
emise un sospiro. “Lo so, amore, scusami. È che sono dietro a un
grosso affare, non posso trascurare il cliente.”
“Allora
eri fuori con qualcuno?”
“Tesoro,
ti ho detto che sto seguendo dei clienti. Lo sai come sono i clienti,
soprattutto i nostri. Se li scontenti rischi di perdere l'affare, e
scontentare certa gente è un attimo.”
La
donna rimase in silenzio per un po', quindi in tono di rimprovero
disse: “Potevi almeno mandarmi un messaggio.”
“Ti
prometto che la prossima volta lo farò,” le assicurò Rizzelli.
“Vieni
a casa?”
“Dieci
minuti e sono lì, amore.”
L'uomo
riattaccò e saltò in macchina. Fermo a un semaforo, frugò nella
tasca dove aveva ficcato soldi e bancomat: ne trasse la tessera di
plastica e cinquanta euro. “E gli altri?” disse ad alta voce.
Qualcuno
gli si era avvicinato mentre giocava? Magari aveva approfittato della
sua distrazione? Se non aveva sentito il telefono, di certo non
poteva essersi accorto di qualcuno che gli metteva le mani in tasca.
Il
suono iroso di un clacson lo riportò bruscamente alla realtà.
Ingranò la prima e ripartì, sempre pensando a che fine potevano
aver fatto i settecentocinquanta euro che aveva prelevato solo poco
prima.
Proprio
sotto casa giunse all'unica conclusione logica: se li era giocati
senza rendersene conto.
La
cosa in realtà non lo turbò più di tanto. Aveva visto dei video su
Youtube: c'era gente che col gioco guadagnava venti o trentamila euro
al mese. Giocare era un investimento, bastava solo imparare la
tecnica giusta. Prima o poi avrebbe fatto il colpo grosso e si
sarebbe sistemato per la vita. Guardandosi indietro a quel punto cosa
avrebbe detto dei settecento euro scomparsi? Probabilmente ne avrebbe
riso con indulgenza, al volante della sua Mercedes-AMG GT, con la
bionda al fianco.
Cenò
di fretta, sempre pensando alla VLT che stava aspettando gli ultimi
euro per fare jackpot e pagarlo. Andò in taverna con l’intento di
guardare un po’ di TV, ma quando fu lì adocchiò il suo computer.
Accederlo
ed entrare in una lista di casinò online fu tutt’uno.
Ne
scelse uno che gli sembrava più interessante degli altri.
Innanzitutto nella schermata della homepage c’era una bella ragazza
bionda, che gli ricordava quella di Portorose, e poi passava per
essere un sito sicuro.
Inserì
i suoi dati, codice fiscale, nome e cognome, carta di credito e
tutto. Quando ebbe finito, gli si aprì davanti una sfilza di
possibilità di gioco.
Sorrise
fra sé e sé: un luogo comodo, tranquillo, dove avrebbe potuto
giocare in ciabatte, con la birra accanto, senza la preoccupazione di
fare tardi o di insospettire Laura. Certo non c’era l’ebbrezza
della VLT in sala giochi e meno che mai quella del vero casinò con
le ragazze in abito da sera, ma per rilassarsi dopo il lavoro poteva
anche andare bene.
Scelse
un videopoker, ma non doveva essere serata, perché non gli venne
fuori nemmeno una mano decente. Quando smise di giocare si rese conto
che aveva perso altri cinquecento euro.
Spense
il computer con un sospiro di frustrazione. In effetti, non aveva
sentito il fluido.
Ecco perché la VLT non aveva pagato e il videopoker gli aveva
mangiato tutti quei soldi.
Niente
fluido.
Dapprima
si ripromise di giocare solo quando lo sentiva, qualunque cosa fosse,
poi ripensò alla VLT che lo aspettava nella sala giochi ed ebbe un
sussulto di razionalità: lì non era questione di sensazioni ma di
statistica, quella macchina stava per pagare, era chiaro, e lui
l’aveva capito.
Si
chiese se per caso in quel momento i gestori della sala giochi
stessero approfittando del lavoro che lui aveva fatto nel pomeriggio:
li immaginò a infilare banconote nella macchina, ghignando della sua
impotenza.
Visualizzò
una cifra mostruosa – la sua
cifra mostruosa – che compariva sul display in un tripudio di luci
e musichette.
$
Laura
lo fissò perplessa. “Come mai esci così presto?”
Rizzelli,
che aveva bevuto un caffè in piedi e aveva già il soprabito
addosso, le rispose: “Te l'ho detto, tesoro: ho un grosso affare
per le mani.” Il che era anche vero, volendo, solo che il suo
cliente non era una persona fisica: era un neghittoso Video Lottery
Terminal, che andava riempito di attenzioni, oltre che di soldi, per
convincerlo a pagare.
“Farai
tardi anche oggi?”
“Non
lo so, dipende.”
“Dipende,
da cosa?”
“Dal
cliente, amore.” Non specificò, ovviamente, che se il cliente
avesse pagato, Laura avrebbe fatto meglio a non aspettarlo proprio.
Uscì
svelto, quasi ignorando i saluti di moglie e figlie. La sala giochi
avrebbe aperto alle otto e mezza, non poteva rischiare di arrivare
cinque minuti dopo e trovare la sua
macchina già occupata.
Andò
per prima cosa al bancomat, prelevò mille euro per stare sul sicuro,
poi si diresse alla sala giochi.
Arrivò
che il gestore stava tirando su la serranda, tanto che si sentì in
dovere di aiutarlo ad alzarla. Andò diretto alla VLT, attese che
l'uomo la accendesse, quindi si installò subito sullo sgabello.
Sorrise fra sé e sé: era una buona giornata, sentiva il fluido.
Era come una corrente elettrica che gli attraversava le membra, gli
faceva battere più in fretta il cuore e gli rendeva il respiro più
rapido. Adrenalina, si disse, assaporando con voluttà quelle
sensazioni.
Ripensò
alla Mercedes e alla bionda e premette il tasto 'Play'.
Roberto
alzò la testa dalla scrivania. “Alla buon'ora!” esclamò. “Si
può sapere perché arrivi così tardi?”
Rizzelli
ostentò un'aria noncurante. “Un po' di traffico.”
“Un
po' di traffico? Ma sono quasi le undici!”
“Era
tutto bloccato. C'era un incidente, e...”
“Potevi
anche telefonare. È venuto quello dell'appartamento di via Roma, ha
detto che avevate appuntamento per le nove.”
“Merda!”
esclamò Rizzelli. Il tizio dell'appartamento: se n'era completamente
dimenticato. Guardò l'orologio: le dieci e tre quarti. Gioco un
quarto d'ora e me ne vado col jackpot, si era detto, ma la macchina
continuava a non pagare. A non pagare e a mangiarsi banconote, per la
precisione, mentre il jackpot lievitava.
Alla
fine se n'era andato, ma solo perché aveva finito i soldi.
“Ok,
scusa, Robbi,” disse, “ti prometto che non si ripeterà più.”
“Non
fa niente, Ale, tanto quello di via Roma me lo sono smazzato io. Però
adesso mettiti al lavoro, il boss è già incazzato.”
Rizzelli
annuì. Appoggiò soprabito e ventiquattr'ore, poi andò alla
scrivania e accese il computer. Controllò la posta, scorse
svogliatamente fotografie di rustici sgangherati e appartamenti di
periferia, guardò con un po' più di interesse un attico in centro.
Si appoggiò all'indietro contro lo schienale, emettendo un sospiro
di frustrazione. Tutta paccottiglia, tutta robetta che avrebbe fatto
guadagnare alla Diamond House – e quindi anche a lui – quattro
soldi. Era stufo di sopportare acquirenti pretenziosi e proprietari
paraculi, che una volta venduto l'immobile cercavano ogni scappatoia
per non pagare la commissione all'agenzia.
Dardeggiò
un'occhiata intorno: non c'era nessuno. Selezionò la navigazione
anonima e digitò l'indirizzo del sito di gioco on line.
Comparve
la bionda. Bentornato Alessandro, recitò una scritta, non appena
egli ebbe effettuato il login.
Andò
alla ricerca delle slot. Memore della sua prima vincita consistente,
ne selezionò una in stile egizio e cominciò a cliccare, facendo
scorrere sul monitor varie combinazioni di ideogrammi.
D'un
tratto lampeggiò sul monitor una scritta: duecento euro vinti. Partì
un jingle.
Rizzelli
sobbalzò per la sorpresa, poi cominciò a spostare il cursore del
mouse qua e là per cercare di arrestarlo.
“Cos'è?”
chiese Roberto dall'ufficio accanto.
“Il
mio cellulare,” mentì Rizzelli.
“Da
quando in qua hai queste musichette da asilo?”
“Saranno
belle le tue.”
“E
rispondi al telefono, no? Con quel casino sembra di essere al luna
park.”
“Uffa,
quanto rompi.”
Impossibilitato
ad arrestare il jingle, Rizzelli optò per la soluzione drastica di
spegnere le casse.
Sul
monitor frattanto una scritta lampeggiante gli stava chiedendo se
voleva continuare a giocare.
“Ovviamente
sì,” disse fra sé e sé, e cliccò l'icona corrispondente.
La
voce del suo collega, proveniente dall'ufficio accanto, lo fece
sobbalzare: “Ale?”
“Che
c'è?”
“Me
l'hai fatta quella valutazione?”
Assorbito
nel susseguirsi di scarabei e faraoni, Rizzelli borbottò: “Quale
valutazione?”
“Quella
del capannone. Avevi detto che me la facevi oggi, il cliente viene
alle tre.”
“Cazzo,”
imprecò lui fra i denti. Rivolse in direzione del collega
un'occhiata velenosa. A voce più alta chiese: “Non puoi
spostarlo?”
“Perché?”
“È...
complicata. Mi ci vorrà un po'.”
“Ieri
avevi detto che era una stronzata, e che non ti avrebbe preso più di
un quarto d'ora.”
Rizzellì
ringhiò un'imprecazione. In un moto di stizza uscì dal sito di
gioco on line, quindi disse: “E va bene, adesso te la faccio, ok?
Così la smetti di rompere.”
Si
udì il tramestio di una sedia che si spostava, quindi Roberto
comparve sulla porta e disse: “Ale, questo è lavoro, ok? Non è
che ti chiedo la valutazione per romperti i coglioni.”
Stavo
vincendo, avrebbe voluto rispondergli Rizzelli, quindi i coglioni me
li hai rotti eccome. “Va bene,” borbottò invece, con lo sguardo
ostinatamente fisso sulla scrivania. “Ti ho detto che la faccio, va
bene? Dammi solo un po' di tempo.”
Roberto
non si mosse dalla porta. Con aria vagamente esitante gli chiese:
“Qualcosa non va, Ale?”
“È
tutto a posto.”
Imperterrito,
l'altro insisté: “Sei un po' strano ultimamente.”
“Sarà
una tua impressione, io sono come al solito.”
Roberto
fece qualche passo verso di lui. Gettò uno sguardo fugace alla porta
del titolare, come sempre chiusa, quindi abbassò la voce e gli
domandò: “Senti, non è che ti sei messo a prendere qualcosa di
strano?”
Rizzelli
aggrottò le sopracciglia. “Del tipo?”
L'altro
tentennò imbarazzato, ma non demorse. “Ultimamente sei cambiato,”
si risolse a dire.
“È
un modo paraculo per sapere se pippo della cocaina, per caso?”
“È
un modo per sapere se hai qualche problema, Ale.”
“Anche
se ne avessi, a te che te ne frega?”
Roberto
lo fissò stupefatto. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi
evidentemente ci ripensò. Si girò e tornò nel suo ufficio.
Rizzelli
cincischiò per un po' con i mappali e le foto del magazzino su cui
doveva stilare la valutazione, ma il fastidio per l'intromissione del
collega e la consapevolezza che mentre lui era impegnato in quelle
cazzate qualcuno forse stava portando la sua VLT a fare jackpot gli
toglievano ogni concentrazione.
Alla
fine spense il computer, allontanò con un gesto stizzoso carta e
penna, quindi si alzò e staccò il soprabito dall'attaccapanni.
“Vado
in pausa pranzo,” annunciò.
Dallo
studio di Roberto non giunse risposta. Rizzelli alzò le spalle con
noncuranza: forse il suo collega era già andato a mangiare per i
fatti suoi, o magari si era risentito perché lui non l'aveva messo a
parte dei suoi supposti problemi.
Il
suo sguardo assunse una nota sprezzante: lui non aveva nessun
problema, se non quello di essere costretto a fare una vita del cazzo
perché non aveva abbastanza soldi, ma presto le cose sarebbero
cambiate.
Si
allontanò canticchiando: “Mare mare mare, voglio annegare...”
Fermo
a un semaforo, in attesa di attraversare la strada, Rizzelli lasciava
vagare lo sguardo intorno a sé. Il mondo gli pareva grigio, scialbo,
pieno di gente dimessa e triste. Fissò brevemente una donna di
mezz'età con la tinta fatta in casa e i vestiti dei cinesi: come si
poteva pensare di vivere in quel modo? Quella non era vita, quello
era esistere, tirare avanti. Cosa poteva esserci di bello in una
quotidianità del genere? Per cosa avrebbe dovuto svegliarsi la
mattina quella tizia? Per andare a fare un lavoro sottopagato e
tornare a casa la sera con una borsa del discount per mano?
Economie
e roba di sottomarca?
No,
grazie, si disse. Non fa per me.
Il
suo sguardo si fissò su un assortimento di biglietti gratta e vinci
appesi a festone nella vetrina di una tabaccheria. I nomi che vi
erano stampati sopra gli parvero decisamente suggestivi: Il
Miliardario, Il Vincitore, Super Portafortuna...
Entrò
nel negozio.
“Desidera?”
gli chiese la commessa.
Rizzelli
stabilì quali fossero i biglietti verso cui l'ormai ben noto fluido
lo guidava. “Quei gratta e vinci,” chiese.
“Certo,
quanti ne vuole?”
“Tutti.”
Uscì
con un pacco da trecento gratta e vinci sottobraccio. Per un attimo
era stato tentato di comprare tutti quelli che c'erano nella
tabaccheria, ma poi aveva rinunciato, temendo che non gli sarebbero
bastati i soldi. Già così aveva speso seicento euro, ma di sicuro
ne era valsa la pena: il montepremi massimo per quel tipo di
biglietto era centomila euro, ma naturalmente ce n'erano tanti altri
di valore minore. Come minimo sarebbe perlomeno rientrato della
spesa.
$
Laura
e le ragazze erano già a dormire.
Nel
silenzio della taverna, un pacco – l'ennesimo – di gratta e vinci
usati che finiva di bruciare nel caminetto, Rizzelli cliccava
distrattamente i pulsanti di un videopoker online. Emise un sospiro:
il colpo grosso tardava ad arrivare. Qualche vincita qua e là, cento
euro, duecento, una volta addirittura millecinquecento, ma erano
tutte briciole. Cosa se ne faceva di qualche spicciolo in più? In
che modo quelle scarse elargizioni avrebbero potuto cambiare la sua
vita? Per come stavano in quel momento le cose, gli sarebbe bastato
fare qualche straordinario e a fine mese il guadagno sarebbe stato
più o meno uguale.
Cliccò
ancora qualche volta, le carte passarono di mano, le casse
praticamente silenziate emisero un flebile pigolio alla modesta
vincita di cinquanta euro.
Rizzelli
alzò le spalle sprezzante. Fece per caricare altri soldi, ma a quel
punto gli giunse il suono di un sms in arrivo. Meccanicamente tirò
fuori il cellulare e guardò il display: la sua banca.
Masticò
un'imprecazione. Chiuse il sito di gioco on line e aprì quello di
home banking: era arrivato il prelievo della carta di credito e il
suo conto era finito in rosso per svariate migliaia di euro.
“Merda,”
imprecò fra sé e sé.
Rimase
per un po' a fissare pensoso la cifra. Che fare? Non sarebbe riuscito
a coprirla con il successivo stipendio, ma non poteva nemmeno stare
col conto in rosso.
Riaprì
il sito di gioco, ma senza soldi non avrebbe potuto farci proprio
nulla.
Gli
venne un'idea: i soldi c'erano, bastava unicamente spostarli con
discrezione. Del resto, sarebbe stato solo per un breve periodo, e
poi avrebbe rifuso tutto quanto. Laura non se ne sarebbe mai accorta
e le ragazze sarebbero andate in America felici e contente, con la
loro bella Università pagata.
Ringraziò
che Laura avesse sempre lasciato a lui la gestione di tutte le
faccende bancarie.
Entrò
nel conto in cui avevano sempre depositato i risparmi per Chiara e
Serena: più di centomila euro, decisamente un bel gruzzolo. Anche se
ne avesse stornati putacaso dieci o ventimila, ce ne sarebbero stati
abbastanza perlomeno per i primi tempi, e poi sarebbero arrivate
finalmente le vincite grosse a sistemare tutto.
Effettuò
l'operazione, quindi emise un sospiro di sollievo e riprese a
giocare.
Lo
sorpresero le prime luci dell'alba che entravano dai finestrini della
taverna. Un raggio di sole attraversò l'aria resa opaca dal fumo di
due pacchetti di sigarette e si riflesse sul monitor strappandogli
un'imprecazione.
Si
stirò facendo scrocchiare la schiena, poi si passò una mano sul
mento ispido. Gli occhi gli bruciavano, aveva le gambe intorpidite.
Controllò il credito residuo: solo pochi euro.
Aveva
vinto forte durante la notte, tanto che l'eccitazione gli aveva
impedito di abbandonare la partita per andare a dormire, poi però
aveva perso tutto. Era a malapena in pari.
Spense
il computer, si strofinò gli occhi con i pugni. Masticò a vuoto un
paio di volte, sentendo in bocca il sapore nauseante di caffè
stantio e tabacco.
Si
alzò, di nuovo le giunture gli scricchiolarono. Si diresse verso la
camera da letto.
Laura
ovviamente dormiva. Lui si stese al suo fianco, si tirò addosso la
coperta e cercò di addormentarsi a sua volta, ma appena chiudeva gli
occhi, ecco che file di ideogrammi in stile egizio cominciavano a
susseguirsi nella sua testa, creando ogni genere di combinazione
tranne quella che gli avrebbe fatto fare jackpot.
Ripensò
al conto delle ragazze e l'unica cosa che gli venne in mente fu che
c'erano dentro ancora un sacco di soldi.
Si
addormentò.
$
Laura
controllò l'orologio e sollevò stupita le sopracciglia: erano ormai
le dieci passate e Alessandro ancora non tornava.
Che
cosa doveva pensare?
Molto
semplice: suo marito aveva un'amante, e siccome era stupido come
tutti gli uomini, era convinto che lei si bevesse le sue patetiche
balle sui clienti da non scontentare.
Erano
un po' di notti, ad esempio, che se ne stava giù al computer fino
all'alba. Lei faceva sempre finta di dormire quando lui tornava a
letto, ma lo sentiva muoversi e rigirarsi per un bel po', prima di
calmarsi e prendere sonno.
Chiaramente
c'era qualche pensiero che lo eccitava e gli impediva di dormire.
Fino
a quel momento non era mai andata a controllare il computer di
Alessandro, ma ormai era stufa di essere presa in giro.
Andò
in taverna e subito arricciò il naso per l'odore di stantio che vi
aleggiava. Mentre tastava in giro alla ricerca dell'interruttore, il
suo piede si posò su qualcosa che minacciò di farla scivolare.
Abbassò
lo sguardo e vide che si trattava di un gratta e vinci.
Lo
raccolse perplessa e nel movimento si accorse che il caminetto
conteneva un mucchio di cenere. Andò a controllare: tutti gratta e
vinci, si riconoscevano da qualche brandello di cartoncino che le
fiamme avevano risparmiato. A giudicare dalla dimensione del cumulo,
dovevano essere stati bruciati centinaia di biglietti.
“Mio
Dio,” mormorò. Andò al computer, lo accese, controllò la
cronologia di internet e vi trovò un solo sito: Super Bet, scommesse
on line.
Arretrò
sgomenta, si guardò intorno come se non riconoscesse più l'ambiente
in cui si trovava. Montagne di gratta e vinci, ore trascorse su un
sito di gioco d'azzardo on line. In preda a un orrendo presentimento
corse al piano superiore, rovistò in un cassetto fino a che non
trovò il quaderno nel quale appuntava tutte le password, entrò nel
sito della banca e a quel punto scoppiò in lacrime: sul conto delle
ragazze c'erano poche centinaia di euro; quello di casa, sul quale
lei e Alessandro versavano una cifra mensile, non era messo meglio.
Non poteva controllare quello privato di suo marito, ovviamente, ma
suppose che anche lì fosse rimasto ben poco.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Gente mia,
l’ennesimo
mappazzone giunge a compimento, con un capitolo che già di per sé è
a rischio di essere un po’ mappazzone…
Grazie
a tutti coloro che mi hanno seguito, mi hanno messo in qualche lista
o addirittura mi hanno lasciato un commento, e grazie a Soul per
l’ispirazione!
Capitolo
3
Rizzelli
bussò alla porta dell’ingegner Losi.
“Avanti!”
provenne dall’interno.
Egli
aprì ed entrò nello studio del titolare della Diamond House. “Buona
sena, ingegnere,” esordì, “avrei bisogno di un paio d’ore di
permesso stasera.”
L’altro,
un uomo basso, brizzolato, con gli occhiali cerchiati d’oro, lo
fissò critico da dietro l’ampia scrivania e rispose: “Ultimamente
ne ha presi parecchi di permessi, dottor Rizzelli.”
“Lo
so,” rispose il primo, “mi rendo conto. Ma vede, mia moglie non
sta tanto bene ultimamente, ci tengo ad accompagnarla alle visite.”
Losi
sollevò colpito le sopracciglia. “Non sta bene? Che cos’ha, se
posso chiedere?”
Rizzelli
si strinse nelle spalle e abbassando appena la voce rispose: “Laura
non lo sa ancora, ingegnere, ma i medici temono una brutta malattia
del sangue.”
L’altro
lo fissò serio. “Mi dispiace molto,” gli rispose. “In tal caso
vada, vada pure. E mi tenga informato.”
“Certo,
ingegnere, non mancherò. Grazie per la sua comprensione.”
Rizzelli
uscì dall’ufficio del titolare, ben attento a mantenere
l’espressione di circostanza. Indossò il soprabito e raggiunse
velocemente la macchina.
Mentre
guidava rapido nel traffico si congratulò con se stesso per la
naturalezza con cui aveva raccontato al suo capo la balla della
malattia di Laura, ma soprattutto per l’idea che aveva escogitato:
non c’era bisogno di aspettare le vincite al gioco per ricostruire
il capitale delle ragazze, sarebbe stato sufficiente chiedere un
prestito dando la casa come garanzia.
Di
finanziarie del resto ne conosceva parecchie, visto il mestiere che
faceva. Scelse la Easy Fin, che come da nome era di solito rapida
nell’elargire i soldi e faceva poche domande.
La
faccenda fu più rapida del previsto ed egli uscì dai locali della
Easy Fin mezz’ora dopo esserci entrato, più ricco di
centocinquantamila euro. Giusto il tempo di fare le pratiche bancarie
– un paio di giorni al massimo – poi il conto per Chiara e Serena
si sarebbe presentato intonso, come se nessuno l’avesse mai
toccato.
Era
ancora in quello spensierato stato d’animo quando giunse a casa.
La
prima cosa che lo colpì fu che non si sentiva alcun odore di
mangiare, nemmeno quella pizzaiola disgustosa che sembrava piacere
tanto a sua moglie. Ovunque c’era un silenzio cupo, reso più greve
dal fatto che l’unica luce accesa era quella sul tavolo della
cucina.
Fu
assalito dalla paura che fosse successo qualcosa di brutto, magari a
Chiara o Serena.
“Amore?”
disse in tono esitante. “Amore, sono a casa.”
Non
gli giunse risposta.
“Amore,
dove sei? Va tutto bene?”
Arrivò
alla cucina, guardò dentro. Sua moglie era seduta al tavolo e teneva
lo sguardo fisso davanti a sé. La luce che proveniva dall’alto
induriva i suoi lineamenti dolci rendendoli simili a una maschera
tragica.
Rizzelli
si immobilizzò sulla porta. “Gesù, Laura, ma cos’è successo?”
le chiese, aspettandosi di sentirsi dire che una delle loro figlie
era morta o gravissima in ospedale.
La
donna si voltò lentamente verso di lui, ed egli vide che aveva gli
occhi rossi di pianto. “Dimmelo tu, cosa sta succedendo,” gli
disse in un sibilo roco.
Egli
fece addirittura un passo indietro, turbato da quella strana
messinscena. “Che intendi dire?” le chiese.
Per
tutta risposta, Laura buttò sul tavolo una manciata di cenere, che
si sparse sul piano lucido del mobile. “Cos’è questa roba?”
chiese la donna.
Rizzelli
si avvicinò. Aveva riconosciuto da lontano i gratta e vinci
bruciati, tuttavia fissò i frustuli anneriti, poi fissò lei con
l’aria di non capire e propose: “Della carta bruciata?”
“Da
dove viene?”
“In
che senso, scusa?”
“Cos'hai
bruciato?”
Rizzelli
alzò le spalle con aria noncurante. “Mi
sono liberato di alcune vecchie fatture.”
“E
di qualche gratta e vinci, dico bene?”
Egli
sorrise. “Sì, un paio.” Poi, dopo una pausa, in tono vagamente
complice: “Uno ci prova sempre, no?”
A
quel punto, Laura si alzò in piedi. Con una manata sparse ovunque la
cenere “Non dire stronzate!” lo gelò.
“Cosa?”
“Non
dire stronzate,” ripeté la donna in tono minacciosamente basso.
“Ho visto quello che hai fatto, nel conto delle ragazze non c’è
più niente!”
Rizzelli
dovette farsi forza per non sobbalzare. Una sferzata di adrenalina
gli attraversò tutto il corpo, sentì le guance andargli a fuoco.
“Ma cosa stai dicendo?” sbottò.
“Il
conto di Chiara e Serena, mi capisci quando parlo? È vuoto, ci
saranno al massimo duecento euro, e ce n’erano centoventimila!”
“Com’è
possibile?” tentò l'uomo, indietreggiando come per sfuggire allo
sguardo di fuoco della moglie.
“Dimmelo
tu, com’è possibile. I prelievi li hai fatti tu!”
L’altro
si erse piccato. “Pensi sul serio che potrei fare una cosa del
genere?”
Laura
strinse le labbra, poi in tono duro replicò: “Non
lo penso, lo so!
Sei tu che hai spostato tutti quei soldi sul tuo conto, sei tu che
giochi on line tutta la notte e che ti compri dei quintali di gratta
e vinci!”
“Non
è vero!”
“Oh,
sì che è vero!” A ogni replica Laura si avvicinava di un passo,
tanto che a un certo punto Rizzelli si chiese cos’avrebbe dovuto
fare se lei avesse cercato di colpirlo. Immaginò Carabinieri,
avvocati, soldi da pagare, e a lui i soldi servivano.
Si
fece indietro per mantenere la distanza di sicurezza e disse: “Chi
ti ha raccontato queste cazzate? Quelli della banca?”
In
un moto di stizza, Laura afferrò una ciotola di vetro con dentro un
pot pourri e la lanciò contro la parete, dove esplose in una miriade
di frammenti. “Pensi che sia scema?” urlò. “In quel conto ci
possiamo entrare solo io e te, e io non sono stata!”
“Beh,
nemmeno io!”
“E
allora chi è stato, il gatto?”
“Saranno
stati dei pirati informatici, se ne sentono un sacco al giorno
d'oggi,” disse Rizzelli, congratulandosi con se stesso per la
trovata.
L'espressione
di Laura rimase impenetrabile. “Con il tuo account?”
“Certo!
Come pensi che facciano a vuotare i conti? Mi avranno rubato in
qualche modo le credenziali informatiche.”
A
quelle parole seguì un lungo silenzio. Il cane dei vicini abbaiava
fioco in lontananza, lungo la strada passò una macchina. Nella luce
cruda dell'unica lampada accesa, Laura era immobile come una statua.
“Tu
devi farti curare,” disse infine. “Tu sei malato.”
“Io
sto benissimo,” protestò Rizzelli.
“Sei
un ludopatico! Domani andiamo al Ser.T., devi andare da qualche
parte, in una comunità o dove ti pare, ma devi guarire da questa
cosa.”
“Sto
benissimo,” ripeté Rizzelli, “non sono mai stato meglio in vita
mia. A differenza tua, io voglio la vita vera, voglio i soldi, voglio
le macchine! Perché devo accontentarmi di questo?” Fece un gesto
circolare con la mano, indicando sprezzante ciò che lo circondava.
“Accontentarti?
Hai una moglie che ti vuole bene, due figlie bellissime, un lavoro,
una casa… ripigliati, Alessandro: è questa la vita vera!”
“Questo
lo chiamo esistere.
È quello che fanno gli animali: figliare, procacciarsi il cibo e un
rifugio, crepare, fine. Non fa per me.”
“E
cosa sarebbe quello che fa per te, sentiamo? Le Ferrari? Gli yacht?”
“Certo,
se posso averli! E comunque, ti stai facendo mille paranoie per un
problema che non esiste, perché al massimo dopodomani il tuo
conticino avrà di nuovo tutti i suoi soldini, va bene?”
“Allora
ammetti di averli presi tu?”
Rizzelli
aprì la bocca per ribattere, ma l'unica cosa che riuscì a dire fu:
“Ora esco, mi hai rotto i coglioni.”
Le
girò bruscamente le spalle, raccolse le chiavi della macchina e
uscì.
Sapeva
di una sala che stava aperta fino a tardi. Fino a quel momento
l’aveva evitata perché si diceva che non fosse proprio del tutto
legale, ma a quel punto della legalità gliene fregava meno di zero.
Quella
specie di stronza moralista, pensava irritato. Si fosse fatta i cazzi
suoi.
E
invece no! Invadente, impicciona come tutte le donne. Affetta dalla
perversa mania di voler controllare qualsiasi cosa.
Se
a lei andava bene vivacchiare in quel modo, con una casettina, una
macchinina e un lavorino per tirare avanti, lui di sicuro aveva altre
aspirazioni, e non si sarebbe fatto mettere i bastoni fra le ruote da
una che passava le giornate a leggere riviste di moda in un negozio
che in pratica costava più di quello che rendeva.
Parcheggiò
con gran stridore di freni davanti al primo bancomat che incontrò,
scese, infilò la tessera nell’apparecchio e prelevò un migliaio
di euro, quindi raggiunse la sala giochi.
Individuò
subito una VLT, il fluido
gli percorse le membra come una sferzata calda.
Si
sedette, alla terza giocata aveva già vinto trecento euro.
“Alla
faccia tua, stronza,” ringhiò.
Continuò
a giocare. Le banconote entravano nella macchina una dopo l’altra,
ma di pari passo il montepremi lievitava. Toccò la cifra di
diecimila euro.
Squillò
il telefono, Rizzelli diede uno sguardo al display, riconobbe il
numero della moglie e lo ignorò.
Continuò
a giocare, il montepremi lievitò fino a dodicimila euro. Intanto si
era radunata intorno a lui una piccola folla, che lo incitava con
grida e acclamazioni ogni volta che lui premeva il pulsante ‘Play’.
Perse
mille euro, tra i mormorii sconcertati degli astanti, ne riguadagnò
altri duecento, ne perse settecento.
Tutte
le volte che toccava il pulsante, era come se una scossa elettrica
gli percorresse tutto il corpo. Si sentiva potente, si sentiva vivo.
A ogni vincita era come se qualcosa lo sparasse in cielo, a ogni
perdita precipitava verso il basso, poi si riprendeva, tornava su,
poi ancora giù, poi su…
Era
ebbrezza, era adrenalina pura. Era meglio di qualsiasi altra cosa.
A
un certo punto realizzò che tutt’intorno a lui c’era silenzio.
Sbatté gli occhi, scosse la testa come per schiarirsela. Il
montepremi era duecento e qualcosa euro.
Si
portò una mano al nodo della cravatta, solo per trovarlo allentato e
floscio. Aveva la camicia mezza aperta e sgualcita, non aveva più la
giacca. Nel portafoglio non c’era più un soldo.
Raccolse
il cellulare e vide innanzitutto che erano le otto di mattina, e poi
che c’erano almeno dieci telefonate di sua moglie, più altre
cinque di suo fratello Fabio e qualcuna di qualche numero che non
riconosceva.
“Un
altro po’ e chiamava anche l’Esercito, ‘sta stronza,”
borbottò.
$
Quando
rientrò a casa, verso le dieci di sera, si accorse che Laura lo
stava di nuovo aspettando seduta al tavolo della cucina.
Soffocò
un'imprecazione: dopo la sala giochi era andato direttamente a
lavorare per non trovarsela addosso, poi era uscito ed era andato di
nuovo nella sala giochi della sera prima, che gli pareva fortunata,
ma a un certo punto aveva dovuto far ritorno a casa, anche solo per
farsi una doccia.
E
lei era lì, immobile come una cazzo di sfinge, pronta a fargli la
sua morale da zia acida.
“Hai
giocato anche oggi?” gli chiese non appena mise piede in cucina.
Rizzelli
aggrottò le sopracciglia. “Non sono affari tuoi.”
Laura
scosse la testa e replicò: “Lo sono eccome. Hai usato tutti i
soldi di Chiara e Serena, non te ne frega proprio niente di loro?”
“Ma
che discorsi,” sbottò lui, “certo che me ne frega.”
“Non
si direbbe.”
“Non
cominciare con le tue frasi rivendicative del cazzo, Laura!”
A
quell'esplosione, la donna rimase impassibile. “Dammi il bancomat,”
disse.
“Cosa?”
“Il
bancomat e le carte di credito, hai già fatto abbastanza danni. E
domani andiamo al Ser.T. a parlare.”
“Ma
figurarsi se vado in quel posto pieno di drogati e ubriaconi. Io sto
benissimo, non ho nessun problema, e se tu ieri mi avessi lasciato
parlare, invece di fare le tue scenate isteriche, ti avrei spiegato
che è tutto sotto controllo, che ti sei fatta prendere dalla
paranoia per niente.”
Di
nuovo, Laura rimase gelida. “Che intendi dire?”
“Che
entro breve sul conto ci saranno di nuovo tutti i tuoi cari soldini,
tesoro. Che non dovrai più preoccuparti che questo cattivone brutto
rubi i risparmi per Chiara e Serena.”
La
donna emise un sospiro infastidito e replicò: “Smetti di fare il
bambino, sono cose serie. Tu devi darmi il bancomat e le carte.”
Rizzelli
fece addirittura una breve risata. “Ma non esiste proprio. Non hai
nessun diritto di portarmeli via, se ci provi vado dai Carabinieri.”
“E
io ci vado e dico che hai vuotato il conto delle ragazze.”
“Cioè,
fammi capire,” replicò lui in tono sarcastico. “Mi denunci
perché ho speso i miei
soldi, che si trovavano su un conto intestato a me?”
“Ma
io non lo sapevo!”
“Dimostralo.”
I
soldi della Easy Fin arrivarono due giorni dopo. Rizzelli prese le
carte che li accompagnavano e con noncuranza le firmò, quindi le
portò a casa e le ficcò in un cassetto.
Laura
non c’era. O, se c’era, non si faceva vedere.
“Sarai
contenta, adesso,” ringhiò. Guardò in su, dal momento che
verosimilmente sua moglie era in mansarda a fare qualche cazzata da
donne, e alzò in quella direzione il dito medio.
Andò
in taverna, estrasse un pacchetto di sigarette dalla sua riserva
segreta, si stravaccò sul divano e per un po’ rimase a fumare in
silenzio.
Quando
la sigaretta finì, schiacciò il mozzicone in un portacenere già
straripante e se ne accese un’altra.
Alla
terza sigaretta, si voltò verso il computer.
Sul
suo conto adesso c’erano un sacco di soldi, molti più di quelli
che aveva prelevato dal conto per gli studi delle figlie. Che male ci
sarebbe stato a giocarsene un po’? Si sarebbe solo rifatto delle
recenti perdite, tutto lì.
Fece
le cose per bene: rimise sul conto delle figlie tutto quello che
aveva prelevato, e stabilì che quella cifra era sacra e inviolabile.
Le ragazze dovevano andare in America, quelli erano soldi loro, non
si potevano toccare.
Il
resto, però, era suo, quindi poteva farne quello che voleva.
$
Rizzelli
realizzò che doveva tornare alla Easy Fin, o rivolgersi a un’altra
finanziaria. Era successo quello che si era ripromesso di evitare in
ogni modo: mille euro qua per una giocatina, mille euro là per
coprire un debituccio… Fatto sta che le tasse universitarie delle
ragazze stavano per arrivare e sul conto c’era la metà di quello
che avrebbe dovuto esserci.
Il
che per le tasse sarebbe bastato, ovviamente, ma poi, una volta negli
Stati Uniti, Chiara e Serena avrebbero dovuto mantenersi facendo le
cameriere nei fast food.
Ma
non era un gran problema, in fin dei conti: avrebbe discusso un altro
prestito, magari anche a un tasso maggiore di interesse, tanto la
casa bastava ampiamente come garanzia per coprire entrambi.
Raccolse
il soprabito. Laura ormai lo evitava, discuteva di separazione,
minacciava di andare a vivere da sua madre – come se poi quella
potesse essere una minaccia – ma ovviamente si guardava bene dal
farlo.
Era
sempre lì, l’arpia, figurarsi. Aveva mandato via solo le ragazze.
Per il loro bene, diceva.
E
intanto continuava a volersi appropriare del suo bancomat, continuava
a cianciare di cure e di dottori, quando l’unica ammalata lì
dentro era lei, che voleva vivere e crepare in una vita miserabile,
uguale ogni giorno, scialba e triste.
Uscì,
andò alla macchina.
Una
giocata e poi alla Easy Fin, si disse.
Salì
a bordo e partì.
Al
ritorno riconobbe parcheggiata lungo la strada di casa sua la
macchina di suo fratello Fabio. Alzò gli occhi al cielo: già aveva
perso, quindi era scazzato, in più ci si metteva anche suo fratello.
“Che
palle,” sospirò.
Per
un attimo fu tentato di ingranare nuovamente la marcia e tornare alla
sala giochi. Lo trattenne unicamente il fatto che aveva finito il
soldi e per quel giorno aveva raggiunto il tetto massimo del
bancomat.
Lasciò
l’auto nel garage, entrò in casa e subito arricciò il naso: non
era l’odore di cucina a infastidirlo – di cucina ormai non se ne
faceva più in casa sua – ma il dopobarba di suo fratello, che mai
come in quell’occasione lo disgustava.
Gli
bastò seguire la scia e trovò lui e sua moglie seduti in cucina,
con l’aria da tragedia greca. Al suo arrivo, Fabio alzò la testa a
fissarlo e disse: “Laura mi ha detto tutto. Tu devi farti curare,
Sandro.”
“Non
ti ci mettere anche tu,” replicò brusco Rizzelli.
“Quanti
soldi ti sei giocato?” chiese l’altro. “Scommetto che non lo
sai neanche tu.”
“Lo
so benissimo, invece. Io ci passo la vita a gestire soldi, quindi so
contarli molto bene.”
Fabio
scosse la testa. “A me pare di no, Sandro.”
“Ma
piantala col melodramma,”
brontolò Rizzelli. “So badare a me stesso. Ho deciso di fare un
investimento, e come in tutti gli investimenti, bisogna avere
pazienza prima di raccogliere gli utili.”
“Quanti
utili pensi di poterne ricavare?”
L’altro
alzò le spalle. “Quanti ne voglio, basta solo imparare la tecnica
di gioco. C’è gente che guadagna venti o trentamila euro al mese.”
Fabio
scosse la testa. “Tu non ragioni più, Sandro. Non sai quello che
dici.” Fece una pausa, forse in attesa di una risposta che non
giunse, poi proseguì: “Domani andiamo tutti insieme al Ser.T., ti
accompagno anch’io, e parliamo con un dottore.”
“Ci
andate voi dal dottore,” replicò per l'ennesima volta Rizzelli.
“Io sto benissimo. E poi lo so cosa fanno quelli là: ti ficcano
negli ospedali e ti fanno uscire solo quando sei uno zombi. È questo
che volete ottenere?”
Intervenne
a quel punto Laura: “Non dire idiozie. Noi vogliamo che tu stia
bene.”
“E
non sto bene, adesso? Sentiamo: cos’avrei che non va?”
“Dai,
Sandro,” s’intromise Fabio. “Non fare il bastian contrario per
partito preso. Tu non stai bene, soffri di disturbo da gioco
d’azzardo patologico. Devi farti curare, prima di finire rovinato.”
“Sai
che ti dico? Fatti curare tu. Vacci tu dai medici nazisti, a farti
iniettare dei farmaci sperimentali.”
A
quel punto Laura disse: “Farmaci sperimentali? Ma ti senti quando
parli, Alessandro?”
“Ho
visto i filmati in internet.”
“Che
filmati?”
“Un
mio amico me li ha fatti vedere, mi ha detto tutto. Un mio amico
medico.”
“Gesù
Bambino,” sbottò Fabio. “Ma di chi parli? Tu non hai amici
medici.”
“E
invece sì, su Facebook.”
Laura
e Fabio si scambiarono uno sguardo a metà fra l’impotenza e la
rabbia. Rizzelli fissò entrambi e in tono provocatorio disse: “Non
potete obbligarmi a fare niente, conosco la legge.”
“Hai
anche un amico avvocato, adesso?” lo provocò il fratello.
“Ne
ho molti,” replicò Rizzelli in tono di sfida, “quindi se fossi
in te starei bene attento a quello che faccio.”
Detto
questo, prese la porta e uscì.
$
Un’infermiera
si affacciò in sala d’aspetto. “La signora Vignali?” chiese.
Laura
si alzò in piedi.
“Venga,
signora,” la invitò la donna. “Il dottor Poli la vede subito.”
La
condusse in uno studio dall’arredamento spartano, dove qua e là
era stato appeso qualche poster di mostre d’arte per dare una nota
di colore.
Il
dottor Poli, che si alzò per andarle incontro, non portava il
camice, ma solo un tesserino identificativo appuntato al taschino.
Era un uomo sulla cinquantina, di altezza media, robusto, dai capelli
ancora castano scuro.
Le
strinse la mano e la invitò a sedersi.
Per
la mezz’ora successiva Laura, a tratti piangendo, a tratti
spargendo sulla scrivania fatture ed estratti conto, descrisse la
situazione.
Il
medico la ascoltò attento, prendendo appunti di quando in quando,
spedendo l’infermiera a fare le fotocopie dei documenti più
importanti. Infine chiese: “Lei è regolarmente sposata, signora?”
Laura
annuì.
“Allora
deve divorziare.”
La
donna, che aveva chinato la testa, la rialzò e fissò stupefatta il
suo interlocutore. “Cosa?”
“Deve
divorziare. E subito, anche. Deve tutelare la sua famiglia, prima che
suo marito la distrugga.”
“Che
intende dire?”
“Mi
ha detto che suo marito ha acceso due prestiti, giusto? Cos’ha
usato come garanzia, secondo lei?”
Laura
tacque.
“È
verosimile che abbia usato la vostra casa, signora?”
“Sì,
penso di sì,” sospirò lei. “È intestata a lui.”
“E
le sta pagando le rate? O si gioca anche quelle?”
Di
nuovo silenzio.
“Lei
finisce in mezzo a una strada, signora,” disse in tono duro il
dottor Poli. “Lei e le sue figlie.”
“Le
ragazze stanno da mia madre,” obiettò la donna.
Il
medico si limitò a un sospiro di esasperazione. “Il divorzio le
garantisce la separazione dei beni, l’assegnazione della casa –
non impugnabile dai creditori – e l’assegno di mantenimento.”
Laura
scosse la testa e rispose: “Lo so, ma Alessandro è mio marito, non
posso abbandonarlo.” Fece una pausa e in tono quasi speranzoso
soggiunse: “E poi, sono sicura che con un po’ di forza di volontà
e con il suo aiuto, dottore, smetterà di giocare.”
Poli
crollà il capo con l’aria di aver già sentito lo stesso discorso
decine di volte, poi spiegò: “Il denaro crea meccanismi di
dipendenza simili a quelli delle droghe, signora. Attiva i centri del
piacere, induce la produzione di dopamina. Suo marito non riuscirà
mai a rinunciarvi da solo.”
“Ma
qui non vuole venire.”
“È
proprio per questo che le suggerisco di agire per tutelare se stessa
e le sue figlie, signora Vignali. Se divorzia, passate da coniugi a
conviventi, cambiano tutti gli obblighi legali.”
“Lo
so, ma non me la sento, dottore.”
Come
se non l'avesse nemmeno sentita, imperterrito il medico proseguì:
“Contatti un avvocato, faccia partire anche la pratica per
l'inabilitazione temporanea.”
Laura
lo fissò annichilita. “Inabilitazione? Ma io non posso fargli una
cosa del genere.”
“Preferisce
vederlo diventare un barbone? Preferisce trovarsi lei stessa a vivere
con i pacchi della Caritas?”
“Io
ho un negozio,” protestò Laura, “posso mantenermi.” Non che
avesse mai usato la sua boutique in quel senso, ma nella necessità
era certa che avrebbe saputo farla fruttare.
Il
medico interruppe il filo di quei pensieri rassicuranti “È sicura
che suo marito non l'abbia già usato come garanzia per qualche
prestito?”
La
donna emise un sospiro: no, non ne era affatto sicura. Non era più
sicura di niente, per la verità.
Solo
pochi mesi prima Alessandro era il marito perfetto, affettuoso e dedito
alla famiglia... e ora?
La
voce del dottor Poli la richiamò alla realtà: “Mi
prometta che ci penserà, signora. È l’unico modo che ha per
salvare la sua famiglia. E poi tenga conto che tutelare il nucleo
significa anche tutelare la persona ammalata.”
Laura
arrivò a casa ancora immersa nei suoi pensieri. Durante il viaggio
di rientro aveva rimuginato sulle parole del dottor Poli ed era
giunta alla conclusione che separarsi o inabilitare Alessandro erano
misure troppo drastiche. In pratica l'avrebbe ucciso, l'avrebbe
spinto al suicidio. Non poteva fargli una cosa del genere.
Forse
quel medico era abituato a gente meno sensibile, oppure a persone con
lavori modesti, abituate ad avere pochi soldi.
Cos'avrebbe
fatto invece suo marito solo e inabilitato, con un curatore che
magari gli dava a malapena di che vivere?
Entrò
nell'ingresso, lasciò cadere il soprabito su una sedia e si guardò
intorno: ovviamente, l'unica luce accesa – di un colore azzurrato
da monitor – proveniva dalle scale della tavernetta.
Andò
giù.
Suo
marito, impegnato in una partita di videopoker, non alzò nemmeno la
testa.
Lei
si avvicinò. “Alessandro.”
L'uomo
fece come se non avesse neppure sentito.
“Alessandro,
per favore, dobbiamo parlare.”
“Lasciami
in pace. Sto guadagnando soldi anche per te.”
Laura
strinse i pugni, ma per il resto si obbligò a rimanere immobile.
“Dobbiamo parlare,” ripeté.
“Oh,
che palle!” sbottò a quel punto Rizzelli. “Ecco, sei contenta?
Stavo vincendo, ma per colpa tua ho perso la mano.” Spense con fare
teatrale il computer, quindi disse: “Avanti, sentiamo: cos'hai da
dirmi di così importante?”
“Dammi
il bancomat e le carte.”
L'uomo
scosse la testa. “Te l'ho già detto: scordatelo.”
“Alessandro,
se non me li dai, io chiedo il divorzio e mi rivolgo a un avvocato
per farti inabilitare.” Era decisa a non farlo, naturalmente, ma
forse la minaccia l'avrebbe convinto.
L'altro
però fece una risata. “Nientemeno! Mi fai inabilitare! E mi vuoi
anche chiudere in manicomio, già che ci sei?”
“Per
favore, dammi il bancomat. È meglio che lo tenga io, per il tuo
bene.”
“Per
il mio bene,” pigolò Rizzelli facendole il verso. “No, cara. Il
bancomat è mio e tu non ci metti le grinfie.”
Laura
fece un passo avanti. Si protese a prendergli le mani e disse: “Per
favore, fallo per Chiara e Serena.”
“Le
ragazze hanno già i loro soldi.”
“Ma
stai continuando a giocare, ti mangerai tutto un'altra volta.”
“Stavo
vincendo, prima che arrivassi tu a rompermi le palle.”
Senza
abbandonare le mani del marito, la donna replicò: “E quante volte
hai perso, invece? Alessandro, stai distruggendo tutto, le ragazze
non avranno più una casa, non potranno andare a studiare in America.
È questo che vuoi?”
Rizzelli
emise un sospiro. Distolse lo sguardo da quello della moglie, lo
fissò sullo schermo nero del computer e rispose: “Io voglio la
vita vera.”
“Amore,
la vita vera è qui, con me e le nostre figlie, nella nostra casa.”
L’uomo
sciolse le mani da quelle della moglie, si frugò in tasca, prese il
portafoglio e ne trasse il bancomat. Lo buttò sul tavolo. “Tieni.
Sarai contenta, adesso.”
“Le
carte di credito.”
Altre
due tessere seguirono la prima.
“Grazie,
amore. Grazie,” mormorò Laura fra le lacrime, ma Rizzelli non
l’ascoltava neanche più, assorto nel calcolare quanto potesse
valere la sua macchina al mercato dell’usato.
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L’ingegner
Losi fissò l’uomo seduto di fronte alla sua scrivania. Barba di
due giorni, camicia spiegazzata. Addirittura una macchia, forse di
caffè, sulla cravatta.
Nessuno
avrebbe affidato la vendita della propria casa a un tipo del genere.
Eppure
ricordava Rizzelli come un uomo elegante, curato, che teneva
maniacalmente al proprio aspetto.
Lo
ricordava puntuale, soprattutto. Preciso. Uno che a fare bene il suo
lavoro ci teneva.
“Ultimamente
arriva spesso in ritardo, dottor Rizzelli,” gli disse.
L’uomo
annuì consapevole e rispose: “Lo so, ingegnere. Ma vede, non ho
più la macchina.”
L’altro
alzò stupito le sopracciglia. “Come mai?”
“Me
l’hanno rubata.”
“La
sua berlina? Quella a cui teneva tanto?”
Rizzelli
annuì di nuovo.
“Quando
gliel’hanno rubata?”
“Due
settimane fa, direi.”
“E
i Carabinieri non le hanno ancora fatto sapere niente?”
Con
una curiosa apatia, Rizzelli alzò le spalle e rispose: “Dicono che
potrebbero averla mandata in qualche paese dell’est.” Tacque e
rimase con lo sguardo fisso sul piano della scrivania.
Losi
lo fissò perplesso. “Come sta sua moglie?” gli chiese.
Per
un attimo l’uomo parve tentennare. “Mia moglie…? Ah, certo,
ingegnere. Mi scusi. Sono molto stanco ultimamente.”
“Come
sta? I medici sono riusciti ad arrivare a una diagnosi?”
Rizzelli
si strinse nelle spalle e non rispose.
L’ingegnere
ritenne opportuno non insistere. “Prenda un po’ di ferie,” gli
suggerì.
“Non
ce n’è bisogno, ingegnere.”
“Rizzelli,
non amo i giri di parole,” rispose allora Losi, indurendo appena la
voce. “Arriva in ritardo, è trasandato, si dimentica gli
appuntamenti. Io sono un uomo comprensivo, capisco quando un mio
collaboratore è in difficoltà, ma non tiri troppo la corda. Prenda
le ferie e si rimetta a posto, oppure cerchi un altro lavoro.”
Rizzelli
si ritrovò nel suo studio. Si passò una mano sul mento ispido, si
ravviò i capelli spettinati, poi infilò una mano in taca e ne
trasse un mucchietto scintillante. Lo fissò critico, chiedendosi
quanto ne avrebbe potuto ricavare in uno di quei posti dove si andava
a vendere l’oro per ricavare contanti.
Aveva
ripulito la cassaforte. Non c’era molto, Laura aveva la mania di
girare agghindata come un albero di Natale anche di prima mattina, ma
qualcosa aveva recuperato. Sorrise fra sé e sé al pensiero della
faccia che avrebbe fatto sua moglie alla vista del portagioie vuoto.
Goditi
il tuo bancomat, stronza, si disse, e poi uscì.
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Scese
dall’autobus e per prima cosa buttò in un cestino la multa che gli
avevano fatto perché viaggiava senza biglietto.
Lo
fece con noncuranza, come si sarebbe disfatto della carta di una
caramella, quindi proseguì verso casa con passo svelto.
Ogni
tanto si batteva sulla tasca, dove si trovavano numerose banconote
arrotolate, come per essere sicuro che ci fossero davvero.
Il
colpo grosso.
Era
arrivato, finalmente.
Solo
poche migliaia di euro, non certo quello che aspettava lui, ma
perlomeno era un inizio. Significava che le cose stavano cominciando
a girare nel modo giusto. Che aveva capito il sistema.
Palpò
di nuovo la tasca, trovandola piena del suo adorabile contenuto.
Sorrise fra sé e sé.
Percorse
il vialetto, entrò in casa e sentì il rumore di qualcuno che stava
piangendo.
Corse
in cucina, ma non c’era nessuno. “Laura?” chiamò.
Non
ci fu risposta.
Seguendo
il suono arrivò in salotto. Lì c’era sua moglie che piangeva
contro il petto di suo fratello Fabio. Sul tavolino c’era una
lettera aperta, riconobbe il logo della Easy Fin.
“Laura,
che succede?” chiese, ma aveva già visto parecchie missive di quel
genere nella sua carriera e sapeva bene cosa gli avrebbe risposto sua
moglie.
Fu
Fabio a parlare: “Vi portano via la casa.”
Egli
fece per replicare, ma l’altro in tono duro sibilò: “Pezzo di
stronzo. Io te l’avevo detto: andiamo dal dottore, devi curarti,
devi farti passare il vizio del gioco. Ma tu niente: sto benissimo,
siete voi quelli ammalati, guadagnerò un sacco di soldi. Hai visto
cos’è successo?”
Rizzelli
si batté sulla tasca con rabbia. “Eccoli qui, i vostri soldi!”
ribatté. “Ho vinto cinquemila euro, va bene? E questo è solo
l’inizio.”
“L’inizio,
Sandro? Questa è la fine. È la fine, capisci?”
“Macché
fine, fate il solito melodramma! Riscatterò questa casa del cazzo,
se ci tenete tanto, e poi me ne andrò dove si vive veramente!”
Fabio
scosse la testa. “Tu non vai da nessuna parte, abbiamo già
telefonato all’avvocato per le pratiche dell’inabilitazione. Se
non sei capace di fermarti da solo, dovrà provvedere qualcun altro.”
A
quelle parole, Rizzelli arretrò di un passo e rimase a fissare
alternativamente l’uno e l’altra. “Ah, molto bene,” disse poi
in tono sarcastico, “ma pensa un po’ cosa decidono di fare mio
fratello e mia moglie, cioè le persone che teoricamente mi
dovrebbero amare di più al mondo.”
“È
per il tuo bene, Alessandro,” balbettò Laura. “Non sei in te,
devi fermarti.”
“Ma
certo, non sono in me. Muori dalla voglia di ficcarmi in qualche
ospedale psichiatrico, vero? E intanto ti prendi anche i miei soldi.
En plein,
come si dice alla roulette.”
“Di
quali soldi stai parlando?” replicò la donna. Afferrò la lettera,
gliela sventolò davanti. “Di quali stramaledetti soldi stai
parlando? Non vedi che questi avvoltoi si prendono la nostra casa?”
“Sto
vincendo forte, la riscatto quando voglio.”
A
quel punto intervenne Fabio: “Ma di cosa stiamo parlando?
L’avvocato ha preso informazioni: hai acceso due prestiti, il
secondo dei quali con un tasso di interesse da usura, e non hai
pagato una rata! Ti sei giocato tutto! È ora che qualcuno ti fermi,
Sandro, per il tuo bene.”
Rizzelli
arretrò ancora. Di nuovo fissò alternativamente l’uno e l’altra.
Facce afflitte, di circostanza. Lacrime e buoni propositi.
Corse
in corridoio, staccò le chiavi della macchina di Laura dal gancio a
cui stavano attaccate e corse in garage.
Fabio
tentò di inseguirlo, ma l’unica cosa che poté fare fu saltare
bruscamente di lato per non farsi investire.
Rizzelli
guidava a tutta velocità, la destinazione era Portorose.
La
Fortuna era dalla sua, lo sentiva. Il fluido
non era mai stato così intenso. Si vide al tavolo da gioco, la
bionda da una parte e la mora dall’altra, a far saltare il banco.
Pensò
ai suoi familiari e subito fu assalito dalla rabbia. Stabilì che da
quel momento Fabio non sarebbe più stato suo fratello. Di Laura si
sarebbero occupati i suoi avvocati, dal momento che presto sarebbe
stato in grado di pagarsi i migliori sulla piazza.
E
poi finalmente avrebbe vissuto alla grande, come si meritava.
Una
selva di luci rosse, qualche lampeggiante blu: cento metri più
avanti il traffico era fermo, i veicoli tutti incolonnati. Piantò il
piede sul freno.
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Seduta
nello studio del medico del reparto di traumatologia, Laura non
riusciva a smettere di piangere. Teneva un fazzoletto ormai fradicio
stretto fra le dita e continuava incessantemente a tormentarlo.
“Mi
dispiace, signora,” disse l’uomo. Si tolse gli occhiali dalla
sottile montatura d’oro, li appoggiò da una parte.
“Non
ci sono speranze?” chiese lei.
Il
medico sospirò. “Forse col tempo recupererà qualcosa, ma è
presto per dirlo. La lesione del midollo è troppo estesa.” Fece
una pausa, poi soggiunse: “Farò attivare l’assistenza
domiciliare, verrà tutti i giorni un’infermiera.”
La
donna alzò su di lui uno sguardo che sembrava chiedere aiuto. “Per…
fare cosa?”
L’altro
sfogliò la cartella, scorse la lettera di dimissione che a breve le
avrebbe consegnato. Tossicchiò. Infine si risolse a dire: “Per
l’igiene, il catetere… insomma, tutto ciò di cui un tetraplegico
può avere bisogno. L’indirizzo è quello che c’è sui
documenti?”
Laura
scosse la testa, un altro accesso di pianto la assalì. Singhiozzò
per un po’, e alla fine con voce flebile rispose: “No, adesso
stiamo in un appartamento che ci ha trovato l’ex collega di mio
marito.”
“Il
paziente dovrà avere una stanza dedicata. Sarà necessario
collocarvi il letto ospedaliero, il sollevatore e tutto il
necessario.”
“Le
mie figlie andranno a dormire nella stessa camera.”
“Può
permettersi una badante, signora?”
Laura
si tamponò gli occhi. “Sarà necessaria?”
“Temo
di sì.”
“Faremo
il possibile,” rispose la donna. “Io ho un negozio di
abbigliamento, mia figlia maggiore lavora con me, la minore sta
cercando qualcosa. Un po' ci aiuta anche il fratello di mio marito.”
Di nuovo strinse fra le mani il fazzoletto sgualcito, quindi
soggiunse: “Magari per un po' può stare Chiara a casa con
Alessandro, visto che non ha lavoro.”
Il
medico emise un sospiro, quindi suggerì: “Chieda anche
l'invalidità e l'accompagnamento, signora.” Spinse verso di lei un
foglio su cui erano stampati dei nomi e dei numeri di telefono.
“Questo è un patronato gratuito, le faranno tutte le pratiche. Le
produrremo un certificato da allegare, intanto le consiglio di
chiedere copia della cartella clinica.”
Si
interruppe. A ogni parola la signora Vignali sembrava diventare più
piccola, più fragile. Il suo sguardo sembrava quello di certi
bambini che aveva visto nei documentari sulla guerra in Siria.
“Mi
dispiace, signora,” ripeté.
Laura
si alzò in piedi. Il medico si sentì in dovere di alzarsi a sua
volta. Aggirò la scrivania e le prese la mano fra le proprie. “Mi
dispiace davvero tanto,” disse per la terza volta. Avrebbe voluto
dire altro, ma la situazione di quella donna era un tale dramma che
non riusciva a farsi venire in mente niente di meglio.
Laura
emise un sospiro e rispose: “Lo so, dottore. Voi avete fatto il
possibile, ringrazio tutti.”
Uscì
adagio dallo studio. Il medico si affacciò a seguirla con lo sguardo
e la vide allontanarsi a testa bassa, con le spalle curve, nel
corridoio ormai in penombra.
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