From Eden

di greenroom
(/viewuser.php?uid=1124468)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** compravendita ***
Capitolo 2: *** la strega ***
Capitolo 3: *** calore ***



Capitolo 1
*** compravendita ***


Anno 853*
Distretto di Yalkell


Una pioggia leggera cominciò a battere sul legno del tetto del porticato. Il sole calava dietro le gigantesche mura all’orizzonte e le ombre si allungavano sul pavimento del portico e, poco più in là, lungo il prato. 
“Mhm mhm,” canticchiò Anja, dondolando sulla sedia, cullando affettuosamente il bebè stretto tra le braccia, “Ci sarà un temporale, ma tu sarai lontano e al sicuro,” mormorò.
“Meglio entrare,” proruppe Emilie, spuntando dalla porta d’ingresso, ma solo con il naso, “Fa freddo, Niclas si ammalerà.”
Anja sorrise, mostrando le rughe attorno agli occhi. “Su su, c’è solo un po’ di vento. Non esagerare come sempre o questo bimbo avrà un brutto ricordo di te.”
La ragazza, stringendo il colletto della camicia, uscì sul portico e prese in braccio il figlio, che dormiva profondamente. 
“Non mi piace quest’aria,” disse mestamente, osservando i lineamenti angelici del pupo, “Ebba aveva ragione ad essere preoccupata. Aveva parlato di una bufera, di un’invasione di uccelli tormentati… ed ora Niclas ci viene portato via…” 
Anja si alzò con uno scricchiolio di ossa e sbuffò. Si sporse dal tetto, guardò il cielo ombroso da cui cadeva una pioggia sempre più fitta, poi si diresse dentro casa, tenendo la porta aperta per far passare figlia e nipote. 
“Non stare a sentire quella sciroccata con le sue premonizioni da strega, fortunatamente da domani non sarà più un problema per questo villaggio. Tu pensa a fare la scelta migliore per questo bambino,” asserì, chiudendo l’ingresso con una trave assicurandosi che fosse ben sicura, “Qui non c’è futuro per lui,” decretò ruvidamente.
“Mi fido di te, mamma,” pigolò Emilie, una piccola lacrima le solcava la guancia, “Ma è così difficile, ha solo due anni...” lamentò, guardando Anja sprangare ad una ad una tutte le finestre della casa, mentre il vento e la pioggia diventavano tempesta. 
La vecchia spense le candele e si diresse alla stanza da letto. “Il tempo curerà le tue ferite, figlia mia, ora andate a dormire. Domani arriveranno presto e all’alba saranno già partiti.”

 

*


Un fulmine spaccò l’oscurità. Una crepa luminosa accecò gli occhi dei soldati, ma fu un attimo, poi tornò il buio. 
“Rientramo,” ordinò seccamente Mike, “Le attrezzature sono inutilizzabili, ormai.” 
I sottoposti annuirono, alcuni osarono sospirare apertamente di gioia. L’allenamento era durato sei ore, la sera era calata da un pezzo, ma il Capitano si ostinava a prolungare gli esercizi di scontro diretto. I muscoli dei soldati dolevano, molte gambe faticavano a stare ancora in piedi. Si diressero verso i dormitori come fiammelle di candele al vento, tremolanti e affaticati. 
“Credo ancora che sia una stronzata.” 
Connie emise un lungo sospiro. “Non è il momento, Jean. Sono troppo stanco per parlare di questo.”
“Cosa intendi?” chiese Armin, che strascicava penosamente gli stivali nel fango. 
Connie teneva lo sguardo al suolo e fece solo un’alzata di spalle. 
Jean alzò energicamente la mano indicando il palazzo del Comandante dove la finestra di Erwin Smith era illuminata, segno che ancora non era andato a dormire come avrebbero fatto tutti a quell’ora tarda. 
“Intendo le nuove disposizioni del Governo Reale!” ringhiò, “Arruolare dei bambini! È una gran stronzata!”
Armin scosse il capo. “Ah. Allora mi trovi d’accordo con Connie: voglio andare a letto, non iniziare una discussione morale.”
L’altro lo fulminò con lo sguardo. “Se siamo stati fino ad ora ad esercitarci è perché domani mattina c’è da lavorare sui nuovi alloggi delle reclute…” strinse i pugni, “Reclute… sono poppanti,” si corresse.
Un tuono sovrastò le sue parole, la pioggia cadde imperiosa sulle loro teste bagnandoli velocemente. Si apprestarono a coprirsi sotto il portico del dormitorio centrale insieme agli altri soldati, quasi tutti con le palpebre cadenti, tanto distrutti dall’allenamento prolungato che una folata di vento freddo li fece quasi cadere a terra. 
“Se sei così contrario, vai a dirlo ai superiori,” brontolò Connie, “Io vado al mio letto prima di crollare qui fuori.” 
Armin guardò Jean scusandosi con un gesto della mano. “Preferisco anch’io dormici su, continueremo domani questa discussione dopo una buona dormita e lo stomaco pieno.”
“Non mi sto lamentando,” ringhiò l’altro, “Sto dicendo il vero, lo pensano tutti.”
Quelli abbastanza vicini da sentirlo abbassarono lo sguardo. Se erano d’accordo con lui non lo fecero vedere. 
“Andiamo, compagno, per oggi abbiamo combattuto abbastanza.” 
“Sei con me su questo, non è così, Armin? È una follia…” 
“Ho i miei dubbi, certo, ma non prendo le decisioni e nemmeno tu…” fece spallucce, poi tacque. Entrò nel dormitorio dietro agli altri soldati, pensando solo al suo caldo giaciglio. 
Domani sarebbe stato un altro giorno, un’altra battaglia, e una nuova vita per il Corpo di Ricerca. Meglio affrontarla con la mente lucida e le membra riposate. 

 

*


Il cielo si stava rischiarando pian piano, ma il sole restava ancora nascosto dietro le mura mentre la squadra della Gendarmeria passava di casa in casa scambiando denaro per i bambini. Niclas venne ceduto tra le braccia di una bambinaia del Distretto di Yalkell, una donnina dal sorriso cortese che iniziò subito a cullare il fagotto e a cantare una ninnananna. Emilia piangeva silenziosamente, si stringeva al braccio di Anja, che invece collezionò il denaro ringraziando il gendarme. 
“Non piangere,” diceva alla figlia, “È per il suo bene, non piangere.”
La nutrice scese i gradini e salì sul carro dal quale si potevano scorgere alcune testoline assonnate. Figli e figlie degli abitanti di questo misero villaggio senza futuro. 
“Il nostro Governo vi ringrazia, signore,” disse il gendarme meccanicamente, “Quando tornerà a casa, il vostro bambino sarà un uomo ed un eroe.”
Fece un inchino veloce, lasciando le due donne sole davanti alla porta, poi salì a cavallo e ordinò di partire. 
“Hai sentito, Emilie? Sarà un eroe,” Anja abbracciò la figlia, “È un bel futuro per Niclas.”
Ma la ragazza, anche se non lo avrebbe mai detto ad alta voce, temeva di aver appena venduto suo figlio e di averlo condannato alla morte. 
La squadra del Corpo di Guarnigione seguita dai carri di bambinaie e bambini si fece sempre più lontana, finché uscì dal villaggio e scomparve tra gli alti abeti del bosco. 

 

*


Avevano viaggiato tutto il giorno, i cavalli trainavano i carri di donne e bambini guidati dalla squadra di gendarmi, e tutti si chiedevano quando sarebbero finalmente arrivati a destinazione. Per la notte si erano accampati frettolosamente in uno spiazzo e dopo un’ora di gioco, maestre e bambinaie avevano subito  mandato i bimbi a dormire, mentre gli uomini e donne in divisa li sorvegliavano da poco lontano. 
Adelaide scese piano dalla carrozza per non far troppo rumore, non voleva di certo svegliare le due piccole pesti che aveva fatto addormentare dopo una lunga battaglia. Il vento gelido le alzò la gonna, così si strinse nel cappotto e andò a sedersi sotto a un grande tronco di abete, vicino al fuoco imbastito in mezzo all’accampamento. Si rilassò contro il legno, respirando l’odore del muschio. Pensava ai gemelli inviperiti, che ora sonnecchiavano come angioletti: non avevano ancora un nome perché la madre non aveva voluto darglielo, o non ne aveva avuto il tempo, troppo occupata a lavorare alla fattoria per portare a casa qualcosa da mangiare. Adelaide era certa che non avrebbe mai avuto figli in un mondo così crudele, per questo aveva chiesto di poterli nominare lei. Sarebbero stati Denise e Samuel, in onore dei suoi genitori morti per mano dei giganti. 
Si accorse che non era l’unica insonne in quella notte silenziosa. Due figure parlavano tra loro accanto alle fiamme, le quali crepitavano nascondendo parte delle loro parole. 
Un uomo in divisa si portò una mano alla tempia. “Abbiamo recuperato quindici infanti e una ventina ragazzini, non centinaia di bestie fuori controllo. Quattro nutrici e cinque maestre basteranno, Carla. In realtà mi stupisco che in così pochi abbiano voluto dar via bocche da sfamare...”
“Non è quello che intendo,” lo interruppe Carla, l’anziana governante, “Quando dico che siamo in pochi è perchè mi preoccupa la gestione della Scuola. Chi pulirà, chi controllerà la struttura? Servono inservienti, guardie e cuochi.” 
“È tutto nelle mani del Comandante Smith. Se non ci ha già pensato, potrai rivolgerti a lui con queste richieste. Io eseguo solo gli ordini e il mio compito è di scortarvi in sicurezza al Quartier Generale del Corpo di Ricerca.”
Ci furono altre proteste, ma una soffiata di vento le portò via con sé e Adelaide si sporse un poco per sentire meglio. 
“Ti ho chiamata per un altro motivo, quindi torniamo a quello,” disse l’uomo con tono sempre più scocciato, “Posso dare il tuo nome come referente principale della Scuola? Dovrai conferire con il Comandante Smith e riportare i suoi ordini al corpo insegnanti. Fare la direttrice, insomma.”
“No, no, no,” Carla esalò una risata secca, “Sono troppo vecchia, io voglio solo accudire i miei pupi in pace.”
Il fuoco illuminò l’espressione dura del gendarme. “E allora chi?” 
“Una mia nutrice in gamba è Adelaide Soyer. È intelligente e segue le regole. Potrà fare lei la spola tra la Scuola e il tuo adorato Comandante.”
Adelaide spalancò gli occhi, colpita sia di essere ben voluta dall’anziana, che mostrava raramente la sua benevolenza, sia di potersi assumere un incarico così importante. Era sempre stata una ragazza umile, che lavorava a testa bassa, motivata dal bene dei bimbi che aveva in cura. Non avrebbe mai pensato di poter aspirare ad altro… 
“Bene,” disse l’uomo, “Terrò il nome a mente. Ora perdonami, vecchia, ma devo occuparmi del mio cavallo. Tu avrai il tuo lavoro da svolgere immagino, con tutti quei bambini…” 
Carla sorrise, mostrando il suo sarcasmo. “Sei gentile a preoccuparti per me, ma come puoi udire da questo piacevole silenzio le mie diligenti balie hanno già messo tutti i pupi a letto.” 
Il gendarme si allontanò con un grugnito, brontolando: “Smith non è il mio Comandante, è solo un pazzo imbecille....”
Carla indugiò in una leggera risata, poi si diresse verso uno dei carri dove avevano arrangiato alla meglio dei letti per la notte. 
Adelaide strinse le gambe al petto, soffocando un gridolino di gioia. Sarebbe stata direttrice della Scuola, avrebbe partecipato ad assemblee, o semplicemente avrebbe avuto un ruolo di prestigio di fronte al Comandante Smith. Da quello che aveva sentito dalla gente del villaggio e, durante il giorno di viaggio, dal Corpo di Guarnigione, i soldati del Corpo di Ricerca erano un branco di masochisti guidati dal peggiore di tutti, un uomo che buttava via la vita della gente per una causa persa. Adelaide non aveva vissuto al di fuori del suo piccolo paese, al di fuori delle mura protettive della casa di famiglia, ma era curiosa di conoscere il mondo e, doveva ammettere, anche un poco ambiziosa. Diventando responsabile della Scuola poteva allora camminare a testa alta: c’era di più che poteva dare e prendere dal mondo e non sarebbe più stata una piccola formica come tutti gli altri. 

 

*


Anche la mattina successiva pioveva. Gocce sporadiche si abbandonavano sui tetti, nella terra, tra le foglie degli alberi. Una coltre di nebbia indugiava nel campo di addestramento, pareva fermare l’orologio ad un ora imprecisata.
“Lavoreremo alla Scuola anche con questo tempo, immagino,” mugugnò Jean, mettendo in bocca quella che assomigliava a una colazione. Se ne stava rannicchiato al tavolo come un pollo sul trespolo, tutto ingobbito su se stesso a rosicchiare il pezzo di pane.
“Questa è una pazzia, il Comandante doveva opporsi con tutte le forze!” sbattè il pugno sul tavolo, facendo tremare posate e bicchieri.
Al suo fianco, Armin sorseggiò il te bollente. “Pensaci bene, però, è anche una cosa positiva. No, non fraintendere, anch’io sono dell’idea che sia immorale mandare dei neonati nell’Esercito. Ma la Scuola permette allo stesso tempo di dare dei posti di lavoro alle persone dei villaggi vicini, persone che altrimenti sarebbero in mezzo alla strada…”
“Ah, così dobbiamo sfamare anche loro... Siamo già costretti a mangiare segatura, di questo passo mangeremo sterco di cavallo!” Jean sputò il boccone che non riusciva a mandare giù e Mikasa, appena arrivata dietro di lui, silenziosa come un gatto, lo fissò con sguardo gelido.
“Arriverà mai il giorno in cui non sentirò lamentarti? Sì, forse quando smetterai di respirare,” disse lapidaria e Jean, affranto, si sgonfiò come un pallone; picchiò la fronte contro il duro tavolo mentre Armin lo consolava con una pacca sulla spalla.
Mikasa andò alla finestra per tenere sott’occhio i movimenti all’esterno: i carri in arrivo portavano lo stemma della Guarnigione e con questo anche guai. Le chiacchiere e gli ordini urlati dei gendarmi, il rumore dei carri e il vociare dei bambini agitarono anche il resto dei soldati in mensa. Alcuni uscirono, per guardare meglio e deridere quelli che vestivano l’emblema con il muso di cavallo, ma la curiosità era tutta per gli occhietti che spuntavano dalle fessure delle carrozze. 
Bambini, infanti. Alcuni ancora gattonavano, ancora non sapevano parlare, ancora avevano bisogno del caldo abbraccio di un padre o una madre. 
Bambini gettati in un campo di addestramento militare, tra soldati, lame e morte. 

 

*


Adelaide mise un piede giù dalla carrozza e il fango schizzò dappertutto sullo stivale. Lo schiamazzare delle persone le inondò i timpani, c’erano gendarmi che davano ordini a destra e a manca, gesticolando in direzione dell’edificio poco più avanti, accanto ad un bosco fitto. 
“Sarò contenta solo quando questi manichini se ne saranno andati,” proruppe Carla, davanti a lei. 
La giovane non commentò. La verità era che la vicinanza dei soldati la tranquillizzava. Averli attorno la faceva sentire sicura, perchè se da una lato aveva voluto lasciare il suo villaggio, dall’altro barcollava in cerca di qualcuno a cui chiedere rifugio. Oppure si era sempre sentita così ed ora semplicemente se ne rendeva conto?
“Perdonami, Carla, ti ho sporcato la gonna,” disse solo, seguendola dietro alle altre nutrici e alcuni uomini senza divisa - forse degli impiegati della Scuola provenienti da villaggi vicini. 
Carla le fece un gesto della mano, intimandola ad andare insieme alle altre donne, mentre si guardava intorno con il solito cipiglio pratico e burbero.
“Vai con le ragazze a fare l’appello, io mi occupo di portare i pupi al caldo nelle camere,” comandò, dirigendosi verso il gendarme della sera prima, il Capitano della squadra. 
Non si poteva fare un passo senza imbrattarsi scarpe e cappotti, ma fortunatamente sotto il parapetto dell’edificio il gruppetto di bambinaie poté coprirsi dalla pioggia. Adelaide si sentì prendere la mano - era concentrata a fissare dei soldati che erano appena usciti dal bosco: erano giovani e agili, portavano carichi pesanti, probabilmente dei rifornimenti per la Scuola; erano soldati dai volti duri, pragmatici, e il mantello era segnato con lo stemma del Corpo di Ricerca. Per qualche motivo, il cuore le battè forte nel petto.
Qualcuno le strinse ancora la mano e voltandosi vide la faccia sorridente di Maura, rossa e tremolante per il freddo.
“Siamo arrivate,” gioiva, “Guarda, Adelaide, guarda che bell’edificio, che bravi uomini lavoreranno con noi, quanto spazio c’è per far giocare i bambini… e questa sarà la nostra nuova casa! Niente più sguardi di rimprovero degli anziani del villaggio, niente più sgridate dei genitori! Anche se il Capo Carla mi fa paura... ”
Si strinsero l’una con l’altra. “Non temerla,” Adelaide le accarezzò la guancia, “Ho sentito che non sarà lei a dirigere la Scuola, si è rifiutata di assumersi questo ruolo.”
“Oh! E chi diventerà il capo?” fu Julianne ad intromettersi, come al solito incapace di essere discreta, e anche le altre tate la guardarono con desiderio di sapere.
“Forse una delle maestre?” chiese la dolce Annette.
“No!” Julianne battè un piede a terra, col risultato di sporcare le gonne delle compagne, “Noi nutrici non dovremmo stare al di sotto solo perchè ci occupiamo di bambini più piccoli… Adelaide, tu sei benvoluta da Carla, dicci, cosa ti ha confidato?”
“Nulla, ragazze, non mi ha detto nulla, ” Adelaide represse un sorriso sfrontato, “Ma dovrebbero aver già deciso…”
I sussulti di sorpresa delle bambinaie furono troncati dalle grida dei gendarmi che stavano spostando con fatica i carri vuoti. Uno di loro si allontanò dal gruppo e le raggiunse correndo. 
“Chi di voi è Ebba Black?” urlò con quel tono duro e imperioso dei soldati che spaventava i bambini e, a dirla tutta, pure le nutrici. Queste si guardarono tra loro, confuse. Si stavano chiedendo la stessa domanda che pensava anche Adelaide: perchè Ebba? Perchè c’era sempre di mezzo quella strega?


*Note:
Interruzione storia originale all’anno 850, dopo la cattura di Annie.
Tra gli anni 850-853 hanno svolto ricerche sui giganti, senza grandi scoperte (ufficialmente).
E Mike è vivo, perchè sì.

Grazie per la lettura!

PS. ho cambiato i nomi della Polizia Militare in Corpo di Guarnigione e Armata Ricognitiva in Corpo di Ricerca. Purtroppo guardando la serie in inglese ho tradotto erroneamente i termini. Chiedo perdono. 

 

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** la strega ***


Al confine con il campo di addestramento in cui molti ancora si allenavano, Armin si sedette nel prato per riprendere fiato e alzò gli occhi al cielo, dove le nuvole scorrevano veloci nell’azzurro.
“Sta arrivando la primavera,” disse piano.
Jean si accasciò al suo fianco, la testa che dondolava all’indietro mollemente. 
“Sono distrutto,” boccheggiò, “Se solo potessi mangiare qualcosa, ma le cucine sono chiuse a pranzo per la mancanza di cibo. Maledizione che fame!”
Connie si sedette accanto ad Armin, porgendogli una piccola bisaccia d’acqua. 
“Lo dici ogni santo giorno. Quand’è che sarai davvero così distrutto da non parlare più?”
Jean strappò un pezzo di erba e terra e glielo lanciò in faccia. 
“Oi, mi è andato in bocca! Razza di scemo!”
Armin abbassò lo sguardo - stava osservando le nuvole, assorto - e sorrise. 
“Abbiamo ancora le forze per divertirci,” mormorò. 
Connie gli diede una spallata fraterna. “Quelle non finiranno mai, soprattutto se ci sarà sempre Jean a fare da clown!” 
Una voce arrivò da dietro le spalle, monotona eppure tagliente come una delle loro spade: “Vi fate un pisolino?” i tre ragazzi raggelarono, “Cosa vi fa pensare che possiate starvene con il culo per terra mentre i vostri compagni si fanno in quattro?”
Jean scattò come una molla. “Capitano Levi…”
“In piedi, rammolliti. E pensare che fate parte della Squadra Speciale…”
Dietro di lui, Eren e Mikasa ridacchiavano sotto i baffi. 
“State a sentire: Armin, tu verrai con me al Palazzo di Lord Valdemar, mi serve che tu stia zitto e osservi la situazione durante la riunione.”
“Sì, Capitano!”
“Eren e Mikasa, Hanji vi aspetta al Laboratorio per continuare gli esperimenti su Eren. Mikasa, fai in modo che il moccioso si impegni.”
“Ricevuto, Capitano!”
“Connie, prendi Sasha e un paio di scope, dovete pulire le stanze della Squadra Speciale, inclusi i bagni che fanno veramente schifo. La mia camera è ovviamente già in ordine quindi potete evitarla.”
“S-sì, Capitano…”
“E tu, Jean. Mike dice che gli serve un istruttore in più per i nuovi arrivati,” lo disse quasi con un ghigno divertito.
Jean avrebbe voluto che un fulmine lo colpisse dritto in testa. Significava passare ore a farsi picchiare da un branco di quattordicenni. Perfino Connie, che avrebbe dovuto pulire i cessi per l’intero pomeriggio, lo guardava con commiserazione. 
Poi un pensiero gli comparve mentre guardava la Squadra allontanarsi verso i rispettivi compiti, o meglio, mentre guardava Eren e Mikasa dirigersi verso il Laboratorio, a qualche centinaio di metri dal campo. Un pensiero che lo ossessionava da anni: perchè Eren?
Jean restò impalato a fissarli andare via. Perchè era quel dannato di Eren ad avere tutte le attenzioni di Mikasa, perchè era accanto a quel bamboccio che lei voleva stare? Jean l’avrebbe… sì, Jean l’avrebbe trattata come meritava, l’avrebbe stretta a sè e non l’avrebbe lasciata mai sola. 
“Ehi, muso di cavallo!” il Capitano Levi gli lanciò un’occhiata mortale, “Hai capito cosa ti ho detto?”
“Sì, Capitano!”
Arrivò da Mike e si lasciò prendere a botte dai novellini, ma il pensiero di lei non lo abbandonò neanche un attimo.
Mikasa.
Riesci a vedermi?
 
*
 
Connie e Sasha si fissarono per un lungo momento, lui con la scopa piena di ragnatele in mano e lei con uno straccio lercio nella sua.
“Stai pensando quello che penso io?”
“Cibo?”
“Ma no, scema, una pausa. Pensavo di fermarci un momento.”
I due si buttarono sul letto, esalando un lungo respiro.
“In effetti era tutto sporco,” osò dire Connie e Sasha lo schiaffeggiò con il panno impolverato. 
“Mancano pochi giorni all’esplorazione e quel nanetto ci fa pulire? Sai, ho sentito che vuole sostituire uno di noi con un nuovo arrivato, forse toglie proprio te dalla squadra.”
“Ma che dici!” Connie la schiaffeggiò con lo straccio di rimando.
Lei si fece seria. “Beh, in effetti ora che c’è più scelta Levi vuole vedere che opzioni ci sono.”
“Non può essere,” lui fissava un punto lontano dalla finestra, “Non voglio smettere di servire il Capitano Levi.”
Sasha scoppiò a ridere. “Ma se ti interessa solo perchè così puoi vantarti con le ragazze!”
“E allora?” Connie incrociò le braccia al petto, “Sono un uomo e ho i miei bisogni. E avere una stanza privata ha i suoi vantaggi. Avanti, non dirmi che anche tu non ci pensi…”
Lei arrossì come un peperone, improvvisamente conscia di essere vicinissima al compagno. Saltò per aria. “Maiale!”
“Ma non parlavo mica di me e te, ragazza patata!”
Sasha agguantò straccio, secchio e sapone e filò fuori dalla camera. Connie alzò gli occhi al cielo.
“Pausa finita,” brontolò, rialzandosi.
Pulirono, sistemarono e tirarono a lucido fino a sera inoltrata, ma il Capitano Levi non si complimentò con loro neanche per sbaglio.
 
*
 
Quella stessa sera, dall’altra parte del Quartier Generale, tra i corridoi del dormitorio della Scuola, una ragazza si muoveva silenziosamente tra le stanze.
Uno, due e tre. 
Facendo il più piano possibile, lei chiuse la porta e andò ad aprire quella successiva. Le assi di legno del corridoio scricchiolavano sotto i suoi passi.
Uno, due e tre.
Bene.
Piegò la maniglia e chiuse l’uscio, promettendosi di oliare le giunture della porta per togliere quel fastidioso stridio che poteva svegliare i bambini. Fortunatamente i tre corpicini non si mossero, solo le spalle si alzavano e abbassavano a ritmo dei respiri. Immersi nel mondo dei sogni, i piccoli erano in pace. 
Con la candela in mano, camminò mestamente verso l’ultima stanza. 
Uno, due e…
Un lettino era vuoto. 
“Merda…” le sfuggì in un sussurro.
Posò la fiaccola su un comodino e controllò tra i mobili, ma c’era solo legno e qualche rivolo di polvere, nessun bambino. Senza tante remore entrò nelle stanze delle altre due maestre, che dormivano russando piano, senza risultato, e fu solo dietro la sua porta che eventualmente trovò il pupillo mancante. 
“Eccoti qui, bestiolina,” si inginocchiò per guardarlo alla sua stessa altezza, “Non è tempo di giocare, bisogna dormire.”
Il bimbo la fissava con due grandi occhi blu, colpevoli, e lei allora sorrise assottigliando lo sguardo. 
“Tu sei Thomas o Tobias? Non riesco mai a distinguervi...”
“Tobias,” pigolò lui.
“Ecco, grazie, Tobias. Sai… mi sa che dovrò mettervi un bel cartello sulla fronte e scriverci il vostro nome, così mi ricordo,” gli disse, toccandogli la fronte con l’indice. 
“O lo appendiamo qui?” domandò, picchiettandogli il petto, “Oppure qui dietro?” e gli solleticò la schiena, strappandogli un sorriso.
“E io invece? Secondo te dove dovrei mettere il cartello con il mio nome?”
Tobias ridacchiò, “Qui!” gridò, schiaffeggiandole la fronte con la manina sudaticcia. 
“Shhh! Così sveglierai tutta la scuola! Forza, andiamo a letto, Thomas. Cioè Tobias. Cioè Thomas. Ah, domani ti metto un bel foglio sulla faccia così non mi sbaglio più.”
Il bimbo si lasciò portare in camera per mano e si infilò sotto le coperte. 
“Sono Tobias,” le ripetè ancora con un cipiglio da maestrino. 
“Hai ragione, hai ragione, ma io sono proprio una sbadata!” si scusò sussurrando, “Ora chiudi gli occhi, bestiolina, domani inizia la scuola.”
“Tu come ti chiami?” bisbigliò lui, ormai in confidenza.
Lei gli baciò la fronte, “Ebba. Ma se ti dimentichi non mi offendo,” gli fece l’occhiolino e uscì in punta di piedi, guardandosi un attimo indietro.
Uno, due e tre.
Un triste sorriso le dipinse il volto. 
Bastava così poco.
Bastava così poco per renderli felici.
Ma venivano maltrattati, segnandoli per sempre.
 
*
 
Il mattino seguente, il primo giorno di scuola, Ebba capì in fretta, senza molte difficoltà o grandi dimostrazioni, che la sua vita era precipitata nel caos.
Mentre nel cortile i bambini correvano, urlavano e si tiravano le magliette, nell’atrio due inservienti litigavano per il possesso di stracci puliti e, allo stesso tempo, si sentivano i pianti di alcuni infanti provenienti dai piani superiori, dove le nutrici sgobbavano tra le culle e i pannolini sporchi, trottando da una camera all’altra infaticabilmente. 
“Merda…” brontolò, massaggiandosi una tempia. 
Rimase a vigilare il campo da gioco per tutto il pomeriggio, poi un omino si avvicinò porgendole una lettera arrotolata. 
“Da parte del Comandante Smith,” balbettò, visibilmente turbato.
“Grazie,” lei prese il foglio, “Sa per caso cosa c’è scritto…” 
Prima ancora di finire la domanda l’uomo scappò verso il bosco, attraverso il quale si arrivava al centro dell’Armata Ricognitiva. Sentì che la insultava tra i denti: “Strega, quella è una strega…” 
Lei si limitò a guardarlo filare via come un topolino. 
“Ma come si permette?” asserì invece Poppy, anche lei maestra di guardia agli studenti,“Dire certe cose davanti ai bambini… e anche tu, Ebba, non puoi imprecare come un minatore qualunque. Ti ho sentito, poco fa. Sei una bella ragazza con una bocca sporca. In più sei maestra e anche Direttrice, comportati come tale!”   
Una bella ragazza con una bocca sporca.
“Sai, Poppy, forse preferisco essere chiamata strega,” ribattè, facendole quasi venire un infarto.
Ignorandola, lesse le parole del Comandante e dovette sforzarsi per non dire un’altra parolaccia.
“Per favore,” disse, “Mi guardi le classi mentre vado da Smith?” 
“Il Comandante?” Poppy - dimenticandosi velocemente di essere mortalmente offesa - sgranò gli occhi e strinse le mani al petto, venendole vicino con fare di segretezza, “Ho sentito che è tutto matto,” sibilò, “Ma che è anche molto bello. E che è sempre attaccato alla sua spada. E che non sorride mai. E si dice che abbia cento figli illegittimi…”
“Addirittura cento!” Ebba scoppiò a ridere infilandosi la lettera nella tasca posteriore dei pantaloni.
“Beh, è ovvio che non sono cento, ma qualcuno forse sì… Fai attenzione.”
“A non farmi mettere incinta?”
Poppy spalancò le palpebre così tanto che Ebba immaginò le palle degli occhi che cadevano e rotolavano per terra. Causare scandalo era così semplice che si chiedeva come non l’avessero ancora messa al rogo.
Continuò a ridacchiare tra se e se fino all’uscita del bosco, ma lì dovette fermarsi bruscamente. 
Merda.
“Merda!”
Si mise al riparo contro il muro di una costruzione mentre il cuore le schizzava in gola. Le mancava il fiato, si sentiva un piccolo gatto messo all’angolo. Mentre lei cercava di calmarsi, tutt’intorno delle figure si muovevano confusamente: era circondata da soldati, combattenti che fendevano l’aria con le spade e si prendevano brutalmente a pugni. C’erano grida e sudore e sangue. Le girava la testa.
Se credeva che la Scuola fosse il caos, questo era l’inferno.
Slittando lungo le pareti, si infilò nell’ingresso dell’edificio adibito agli uffici. Lì doveva esserci anche quello del Comandante, pensava lei salendo le scale e facendosi piccola mentre soldati in uniforme andavano avanti e indietro discutendo di strategie e battaglie. Arrivò nell’atrio del terzo piano, dove un ragazzo era seduto ad aspettare davanti alla porta che riportava il nome “Smith”. 
Ebba si appollaiò in una seggiola, prendendo fiato. Il rumore degli allenamenti, le grida e i comandi le arrivavano smorzati e meno minacciosi. Lo aveva previsto, di dover abituarsi alla violenza, ma non aveva idea di cosa fosse davvero. 
“Mer…”
La parola si perse a metà. Ebba fissò la fronte del ragazzo - soldato - imperlata di sudore e restò ad osservarlo, un nuovo sentimento che si formava dentro di lei. Era evidente che lui stava male, che soffriva, piegato sulle ginocchia a fissare per terra, come se si vergognasse di qualcosa. E in quel momento lei fu pervasa di quella sensazione prepotente a cui non riusciva ad opporsi, quel bisogno di curare il cucciolo ferito che le stava di fronte - così come aveva curato Romolo, il gendarme a capo della squadra che li aveva portati fino a lì, che poi l’aveva fatta diventare Direttrice per sdebitarsi. 
Si alzò e si sedette accanto a lui. Gli posò una mano sulla spalla, perchè doveva toccarlo, doveva fargli sentire la sua presenza. Lui si voltò a guardarla quasi spaventato dal contatto, gli occhi blu spalancati, umidi.
“Andrà tutto bene,” gli disse, il tono di voce era sicuro e soffice. I muscoli della spalla di lui si contrassero sotto il suo palmo. 
“Se hai paura lo capisco. Se ti senti in colpa lo capisco. Se non sai come uscire dal buio lo capisco. Ma andrà tutto bene, perchè non sei da solo, perchè puoi chiedere aiuto. Il peso del mondo non è tutto sulle tue spalle. Andrà tutto bene.”
Una lacrima gli bagnò la guancia, poi la giacca della divisa. 
Ebba gli accarezzò il braccio. 
Spero di poterti aiutare. 
Spero che starai meglio.
La porta dell’ufficio si spalancò, un uomo bassino li guardò male. 
“Jaeger! Vieni dentro, è il tuo turno.” 
Ebba rimase col sedere sulla sedia per una mezz’ora buona, poi lo stesso omino la chiamò e lei entrò nell’ufficio del Comandante Smith.
 
*
 
Comandante Smith. Capitano Hanji. Capitano Levi. Soldato Armin. Soldato Eren.
Eren.
Ebba deglutì. Le avevano fatto una domanda, ma non si ricordava più quale, troppo concentrata a mantenere una parvenza di tranquillità. Le armi la innervosivano più di ogni altra cosa, la vista delle lame ai fianchi di ciascuno la mandava fuori di testa. Prima non ne n’era accorta, ma anche Eren le portava. Erano disinvolti, abituati ad andare in giro con quei coltelli letali… 
“Stiamo perdendo tempo, Erwin. Dobbiamo pensare al Muro, non a questa mocciosa.”
“Calma, Levi, sarà una cosa breve,” il Comandante la studiava dalla scrivania, “Si sente bene, Direttrice Black?”
Si sentiva bene?
All’inferno? 
Incrociò le braccia al petto, per distanziarsi da loro.
“Comandante, mi chiami pure Ebba,” asserì. Non viveva come loro, non pensava come loro, non era come loro. 
L’uomo annuì. “Ebba. Come dicevo, ti accolgo ufficialmente nel Corpo di Ricerca e così anche tutto il personale e gli studenti della Scuola Infantile Militare. Questi sono alcuni dei Capitani a cui puoi rivolgerti in caso di necessità e di mia assenza. Ti presento anche i soldati Armin Arlert e Eren Jeager, della Squadra Speciale, che sono qui per altri motivi. Purtroppo non ho molto tempo per queste formalità, perciò ti ho convocata in mezzo ad un’altra riunione. Permetti di darti del tu?”
“Certo,” Ebba sorrise, ma a denti stretti, “La ringrazio dell’accoglienza anche a nome del personale.”
“Bene,” Erwin Smith le porse un foglio con una lista di nomi, luoghi e disposizioni, “Qui ci sono indicati i responsabili per la pulizia, la guardia e il magazzino, oltre che i lavori necessari e gli orari della Scuola. Ti prego di riferire agli insegnanti e alle nutrici tutto quanto. Ci sono domande in merito alla Scuola Infantile Militare?”
Lui avrebbe potuto farla a fettine, e così tutti gli altri nella stanza, ma Ebba non resistette. 
Scuola Infantile Militare.
“Che nome deprimente,” sbuffò. Almeno non aveva imprecato.
“Il nome è stato scelto da Lord Valdemar, che crede nella causa del Corpo di Ricerca ed è così gentile da sostenere l’Istituto economicamente,” recitò Smith. Aveva un tono di voce così militaresco che avrebbe potuto buttare giù un palazzo.
Ebba si tappò la bocca e annuì. 
“Vedo che non sei d’accordo.”
“Non ho detto nulla.”
A fianco del Comandante, il Capitano Levi la fissava con occhi di marmo. 
“Tieni i pugni stretti e hai le spalle contratte, sei chiaramente contraria, o vuoi negarlo? Credi di essere in mezzo a degli idioti?” si rivolse poi al Comandante, “Cambierei Direttrice, sceglierei qualcuno di più arrendevole. Abbiamo già abbastanza teste calde a cui pensare,” tagliò l’aria con lo sguardo, guardando Eren malamente. 
Ebba capì di aver messo i bambini nella merda. Mise le mani avanti, cercando di sembrare il più arrendevole possibile. 
“Comandante, mi perdoni, non volevo di certo minimizzare gli sforzi di chi ci da un tetto sulla testa e cibo nel piatto. Sono grata della generosità di Lord Valdemar e della vostra. Voglio servire il Corpo di Ricerca con massima lealtà.”
Smith non aveva cambiato espressione neanche un secondo, era sempre rigido, concentrato e irremovibile. Il Capitano Levi - un ometto deprecabile - la scherniva con un sorriso storto. 
“Brava, bella esibizione,” disse gelido, “Ma come ti ho detto, non siamo degli idioti.”
Smith prese un foglio dalla scrivania e lesse. “Qui dice che sei stata obbligata a venire. Il tuo stesso villaggio ti ha cacciata. Ti definiscono una strega. Vuoi negare anche questo?”
I bambini. Doveva proteggere i bambini.
Fece un respiro profondo. Un movimento fuori dalla finestra colse la sua attenzione per un attimo, era un soldato che volava a spade sguainate. Sembrava un grillo. 
“Comandante, io diffido delle armi,” disse lentamente - e senza essere completamente onesta: le armi la disgustavano - “Sono rimasta senza genitori, mio nonno ha vissuto senza vedere neanche un gigante ed è morto senza combattere quei mostri. Questo non significa che la sua vita sia stata inutile, o da vigliacchi. Ha fatto quello che doveva fare per far stare bene le persone del villaggio, ha aiutato i poveri, ha dato una casa a chi non l’aveva. Ha combattuto l’avarizia del Regime con le pochi armi che aveva, ma non erano coltelli o pistole, erano la gentilezza e la compassione. 
C’è chi lotta contro i giganti e chi contro l’abuso di potere. In entrambi i casi è una guerra per proteggere i più deboli. E questo è quello che cerco di fare con gli strumenti a mia disposizione. Mi hanno scaricata qui con il compito di badare ai bambini, bambini condannati a impugnare le armi, e questo farò. Perciò, Comandante Smith, una cosa che chiedo è che non siano iniziati subito alle armi, ma che fino ai dodici anni vivano una vita il più serena possibile. Io vi prego, io vi… vi scongiuro.”
Erwin Smith non rispose. 

 

Note: grazie per la lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** calore ***


 

Quando vide che i passi che sentiva provenire dal corridoio erano quelli di Ebba Black, Adelaide strinse il pupo contro il suo petto, schermandogli il volto con la mano. 

La strega era apparsa nella camera del neonato bussando piano e, riconoscendola, Adelaide aveva reagito proteggendo Niclas dai suoi occhi - era risaputo che le iridi fossero la porta da cui fluiva il male. Sapeva che erano delle voci di paese, che quella maledetta fosse una strega, ma non si poteva mai essere troppo cauti. E doveva considerare che le aveva rubato il posto di Direttrice, proprio solo come una strega avrebbe potuto fare: ammaliando il gendarme in carico e guadagnando il controllo della Scuola. Adelaide si domandava quali piani celasse dentro quella testa dai capelli rossi - il colore del degenero, del sangue versato.

“Gentilmente, sai dirmi dov’è Carla?”

Adelaide posò il bimbo nella culla e lo fissò dormire pacifico, piccolo e inerme. Strinse le dita attorno al legno della culla.

Come avevano potuto?

Come avevano potuto gettare i bambini tra le grinfie di quella maledetta?

“Carla è in magazzino. Sta organizzando la colazione di domani,” rispose seccamente.

“Ah, perfetto. Grazie mille.”

Che sorriso falso. Era con quello che illudeva gli uomini, con quella bocca lussuriosa che soddisfava i suoi capricci. 

“Vi ho lasciato le disposizioni del Comandante Smith in Aula Magna, insieme alle regole di condotta e cose varie,” stava dicendo la degenerata, “E c’è un foglio per scrivere tutte le necessità di cui avete bisogno così posso aiutarvi al meglio. Una di voi nutrici sa scrivere?”

Adelaide annuì. “Carla.”

“Bene, allora questa sera potete organizzarvi e domani passo a prendere i documenti. Vado al magazzino, posso portarti qualcosa? Panni puliti, cera per candele…?” 

Adelaide fece di no con la testa.  

“Come preferisci, allora buon proseguimento,” la donna uscì silenziosamente com’era entrata, come un felino a caccia, e Adelaide si accorse di avere il respiro corto. 

Si sentiva persa: voleva servire il suo Re, aiutare i bambini a maturare, contribuire alla costruzione dell’Esercito. Non avrebbe mai pensato di ritrovarsi spaventata in quelle stesse mura che chiamava “la loro nuova casa”. 

Doveva proteggere i bambini da Ebba Black.

Doveva fare qualcosa, qualunque cosa.

 

*

 

Ebba finì con lo stivale in una buca, per giunta bagnata, per la quinta volta prima di cacciare un ringhio gutturale in frustrazione. La strada sterrata che conduceva al magazzino era piena di curve e buche, motivo per cui i carri non passavano e i rifornimenti per la scuola, soprattutto per la parte del dormitorio dei bambini fino ai sei anni, dovevano essere portati a mano dal personale quando erano necessari. 

Nel cortile c’era da lottare con i rovi ed ora era costretta a saltellare in un pessimo gioco campana tra le buche per procurare delle coperte più calde ai pupi: nel dormitorio, palesemente strutturato come una camerata militare, si rischiava di perdere le dita dei piedi nel sonno per il freddo. Il fatto che tutti si fossero svegliati vivi dopo la prima notte in quelle stanze vuote e fredde era un miracolo.

Ma non era quello a darle fastidio. Non era l’idea di trascorrere le nottate a congelare, non erano i materiali scolastici che scarseggiavano tanto che i bambini avevano dovuto disegnare sui sassi, e non era nemmeno la situazione igienica, che prevedeva un bagno per tutti i diciotto ragazzini senza distinzione di sesso e un bagno per le tre maestre con una doccia già rotta - e ancora non aveva parlato con le nutrici, che avrebbero avuto tutta la loro serie di problemi da mettere sul piatto. No, non era quello.

Erano quei soldati. Quegli stro-

“Cerchi qualcosa?”

Ebba si arrestò davanti al magazzino, dove un paio di operai stavano scaricando un carro. Il cavallo trainante battè gli zoccoli anteriori a terra, nervoso forse tanto quanto lei.

“Non c’è molto per riscaldarsi,” le rispose uno dei due quando chiese delle coperte. Le indicò un carro all’esterno ancora carico di merci, “Prova su quel carretto, è di settimana scorsa, quando faceva più freddo. Oppure prendi della legna, no? Non potete fare un fuoco?”

“È vietato accendere il camino di notte,” disse lei, “Ordini del Comandante.”

L’uomo scrollò le spalle. “Ha senso. Con tutti quei bambini è meglio non correre troppi rischi.”

“Già, è meglio farli gelare come ghiaccioli.”

Invece di rispondere alla sua espressione furiosa, l’uomo scoppiò a ridere mentre saliva sul cavallo per tornare al suo villaggio.

“E che importa?” disse trottando via, “Quei bambini devono farsi la pelle!”

Ebba chiuse gli occhi, strinse forte le palpebre fino a farsi venire una fitta acuta alle tempie. Rilasciò quando si sentì più o meno sicura che non avrebbe urlato.

Attraversò l’aiuola e ispezionò il carretto, mentre il vento si alzava e piegava gli alberi del bosco lì accanto. Il sole calava in fretta, tingendo di arancio il mondo. Lei pensò che il Corpo di Ricerca doveva essersi sistemato in una conca del terreno, perchè da lì poteva vedere la linea di case e alberi all’orizzonte, ma non le mura. Le venne un tuffo al cuore.

Le onnipresenti mura, ora scomparse.

“Ebba Black?”

“Merda!”

Ebba era saltata per aria. Da dietro il carro, probabilmente provenendo dal bosco, era apparso un soldato in divisa, armato e… quello era un sorriso?

“Eren?”

“Ti ho spaventato?”

“Sì, no…” inspirò profondamente, “Stavo pensando ad altro. Posso aiutarti?”

Lui si avvicinò, torreggiandola. Era molto più alto di lei e aveva chiaramente qualcosa da dire. Qualcosa di difficile, da come si torturava le mani.

“Mi chiedevo…” si interruppe, ridendo di se stesso, “è stupido, ma mi chiedevo perché… prima di vedere il Comandante… perchè hai detto quelle cose…”

Ebba emise un piccolo “oh” con le labbra, ripensando al loro incontro. 

Accidenti

Poteva accadere, come capitava al villaggio, che tornassero da lei, che avessero bisogno di vederla ancora. Eren non era diverso dal gendarme che l’aveva nominata Direttrice, o dalla mamma che aveva venduto il suo bambino all’Esercito: avevano tutti lo stesso opprimente peso sulle spalle e, che lo sapessero o meno, erano tutti alla ricerca di un sollievo. Ed Ebba non riusciva ad ignorare la loro sofferenza. Diventava una strega per loro.

Ma tornavano anche per mandarla al diavolo, per insultarla, perchè chi era lei per esprimere opinioni sulla loro vita? 

“Perdonami se mi sono intromessa,” gli disse, “Non ci conosciamo e io sono saltata alla conclusione che avessi bisogno di un conforto. Non avrei dovuto.”

Non voleva che la aggredisse, di sicuro poteva farlo e passarla liscia. Si mise dietro il carro e fece finta di guardare all’interno. In realtà con la coda dell’occhio lo controllava: Eren sembrava nervoso, nonstante il sorriso debole sulle labbra.

“Sì, mi hai colto di sorpresa,” Eren fissava l’orizzonte dove calava il sole. Le ombre degli alberi si allungavano sempre di più. 

“Ti prego di perdonarmi.”

“Non devi scusarti, hai ragione a pensare che sono un debole.”

Si girò a guardarla, dritto come uno stoccafisso, le mani strette a pugno accanto alle lame affilate.

“Non lo penso affatto…” 

“Perchè mi hai consolato, allora? Stavo piangendo… piangevo come un bambino!”

Ebba fece un passo indietro. Il piede le finì in una buca e si bagnò tutto. 

“Mer… ascolta, Eren, non arrabbiarti, non avrei dovuto…”

“Come hai fatto? Come hai fatto a sapere cosa dire? Ti chiamano Strega, è per questo?”

“Sì, ma non sono una strega, ok? Non faccio magie, non-”

La interruppe, avvicinandosi velocemente, prendendole il braccio con forza. “Fallo ancora,” le ordinò, “Quello che hai fatto oggi, fallo ancora.”

I suoi occhi azzurri sembravano in fiamme. 

 

Secondo il dire comune, le streghe sono donne ritenute pericolose, complici di stranezze varie. Si distinguono per l’assenza di famiglia, soprattutto di un uomo, non vivono come gli altri e stanno ai margini della società; non hanno un lavoro. Accolgono pazienti e li soggiogano con il potere della mente, perchè in possesso di un forte intuito. Si pensa siano soprattutto le guaritrici, alle quali la gente più debole si rivolge in maggior modo, a praticare la stregoneria: compiono fatture, preparano incantesimi e conquistano un potere emotivo su chi si affida a loro. 

 

“Fallo ancora.”

Al villaggio, Ebba viveva nella casa di suo nonno. Era una cascina sulla collina e c’erano tre stanze, una per il bagno, una per la cucina e il salotto, e una per la camera da letto. Era in quella che faceva sedere quelli che chiedevano la sua compagnia, non perchè dovessero fare chissà cosa, ma perchè da lì si vedeva il tramonto. Dalla finestra sembrava che il cielo entrasse nella stanza, che colmasse il vuoto del cuore. Quando il sole tramontava era sempre una sorpresa: i colori del cielo potevano cambiare ogni giorno, farsi rossi o a sfumature viola, arancio e rosa, e la brillantezza dolce del sole che scendeva dietro le mura scaldava l’anima. Se si credeva a certe cose, ovviamente. Non tutti guardavano alla natura come ad un conforto, Ebba invece si sedeva alla finestra con il suo ospite e aspettava. Aspettava di essere inondata di calore.

“Fallo ancora.”

“Mi fai male.”

Eren le lasciò il braccio e deglutì. “Scusami. Non so cosa mi prende.”

“Sei confuso, tutto qui.”

Dietro a lui, Ebba vide il sole scomparire. Il cielo diventò blu scuro, intenso e vibrante.

Eren annuì. “Confuso, sì. Sì, dev’essere così. Ci sono troppe cose che non capisco, che non riesco a controllare.”

“Cosa ti preoccupa? Puoi dirmelo?”

“No, Smith mi ucciderebbe. Speravo tu potessi indovinare, come hai fatto oggi. Ma non sei quello che credevo, sei una ragazza normale.”

“Sì, spesso tiro a indovinare.”

Eren rise piano. “Una strega che non sa fare magie.”

“Mi hanno chiamata in modi peggiori,” Ebba sorrise, “Scommetto che Smith e quell’altro Capitano non stiano parlando bene di me dopo il modo in cui mi sono comportata.”

“Levi? Non preoccuparti, non parla bene di nessuno.”

“Oh, ma io non sono preoccupata.”

Eren si aprì in un sorriso che arrivò fino ad illuminargli gli occhi ed Ebba dovette guardare altrove, verso gli alberi, il cielo, qualsiasi cosa che non fosse il volto davanti a lei. 

Merda

“Sei coraggiosa.”

Sono un’idiota.

“Non tutti hanno le palle per rispondere a Levi, nemmeno io ci riesco a volte… dopotutto ha quasi sempre ragione, purtroppo. Tra poche settimane ci sarà una spedizione fuori dalle mura molto importante e ci sta torchiando di brutto, ma che alternative ci sono? Senza il giusto allenamento rischiamo il peggio. Raggiungere dei buoni risultati qui significa avere l’opportunità di combattere fuori, con i giganti, dove raggiungere dei risultati è quasi impossibile. Dobbiamo fare il nostro meglio qui dentro. Devo fare il mio meglio, devo raggiungere dei risultati, devo… devo smettere di dirti i piani del Comandante, ecco cosa devo fare.”  

Sorrise ma c’era un’ombra cupa sul suo viso. Il peso che portava sulle spalle si stava mostrando ed Ebba gli prese una mano nelle sue, strappandolo dal vortice negativo in cui rischiava di cadere. 

“Vieni con me.”

Lo condusse al confine con il bosco, su una piccola altura coperta d’erba. 

“Da qui si vede bene il tramonto. Ormai è tardi, ma domani ci possiamo vedere qui a guardare l’orizzonte. Non devi dirmi nulla, stiamo qui a fissare il cielo. Il tramonto è la cura migliore. Parola di strega.”

Mentre parlava Ebba sentiva la mano di Eren che stringeva la sua, intrecciando le dita. Sentiva il suo corpo avvicinarsi, l’altra mano che cercava il suo viso. Azzardò di spostare lo sguardo dal cielo ai suoi occhi e - merda.

Eren la baciò con la mano sulla sua nuca e lei dovette alzarsi sulle punte dei piedi per rispondere con la stessa forza, lo stesso bisogno. La bocca di Eren le infuse un calore simile a quello del tramonto arancio e viola. Chiudendo gli occhi si abbandonò a lui. 

 

*

 

La cena era orrenda, come al solito, l’aria fredda entrava dalle porte e finestre, come al solito, e Sasha era pronta a rubargli il pane dal piatto, come al solito. 

“Quello lo mangi?”

“Mh.”

“Sì o no?”

Jean le tirò il pane addosso, “Contenta?”

Connie lo guardò male. “Oh! Che ti prende?”

“Mh.”

“È uno di quei giorni,” disse Sasha masticando felicemente, “Risponde solo a grugniti.”

Connie rise. “Beh, meglio che sentirti dire stronzate!”

Jean fissava rabbiosamente il lumino del tavolo. La candela si stava consumando velocemente, proiettando poca luce, e la cera gocciolava sul legno che avrebbero dovuto pulire loro il giorno dopo. Si sentiva come quella piccola fiaccola. Infuocato e inadeguato

Dov’era Mikasa? Non si era presentata a cena. Era con Eren? Nemmeno lui era presente. Cosa stavano facendo? Lo stava probabilmente coccolando, come al solito

Se si permetteva di immaginarli insieme, Jean impazziva. La mente andava direttamente in un posto oscuro, dove lei e quel cretino si… si… 

No, non poteva pensarlo, non poteva sentirsi sempre più inadeguato, piccolo, in procinto di spegnersi. Buffo, si sentiva sempre più lontano da Mikasa, incapace di dirle la verità, eppure bruciava per lei ogni giorno di più.

Infuocato e inadeguato

Si alzò e marciò verso i dormitori, perso in quella dolce follia. Doveva trovarla.




Note: grazie mille per la lettura (e perdonate l'attesa pls)!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3869883