Vampire Devil, тнιяd αcт.

di kurojulia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La cima di una collina. ***
Capitolo 2: *** Crescere, rafforzarsi. ***
Capitolo 3: *** Peggio di chiunque altro. ***
Capitolo 4: *** Stiamo riemergendo. ***
Capitolo 5: *** I ricordi felici. ***
Capitolo 6: *** Un'esistenza che fluttua nel buio pesto. ***
Capitolo 7: *** Cercando affannosamente la pace. ***
Capitolo 8: *** Il loro viaggio. ***
Capitolo 9: *** Non c'è abbastanza aria per tutti. ***
Capitolo 10: *** Una terrificante figura professionale. ***
Capitolo 11: *** Come era successo? Perché era successo? ***
Capitolo 12: *** Un timbro sibilante. ***
Capitolo 13: *** Una sciagura il cui nome era andato perduto. ***
Capitolo 14: *** La buia notte delle paure. ***
Capitolo 15: *** Per chi, ormai, aveva perso tutto ciò che gli era più caro. ***
Capitolo 16: *** Attendendo, in silenzio, attraverso la nebbia. ***
Capitolo 17: *** La donna senza falangi. ***
Capitolo 18: *** La foresta, la biblioteca e ciò che lui provava. ***
Capitolo 19: *** Lei, che gli stette accanto, con il viso rigato dalle lacrime. ***
Capitolo 20: *** Vissuto più che abbastanza. ***
Capitolo 21: *** Cosa doveva fare per capire un folle? ***
Capitolo 22: *** Il regno di un solitario essere divino. ***
Capitolo 23: *** Le fragili verità, le inutili convinzioni. ***
Capitolo 24: *** Stavo per trascorrere la mia vita con te. ***
Capitolo 25: *** Il sole e la luna, la fine. ***



Capitolo 1
*** La cima di una collina. ***


01.




Charlotte sollevò lentamente gli occhi dal suo portatile. Le dita si interruppero sulla superficie dei tasti, lo sguardo si allontanò in fretta dal suo studio, precipitandosi in un buio distante anni luce dal luogo in cui si trovava. Le pupille si dilatarono e le iridi grigie vennero inghiottite dal nero.

Quanto tempo passò, prima di fare ritorno in quella stanza? Per lei, una manciata di minuti: all'esterno, un secondo.

Charlotte richiuse la mano sulla tastiera. Socchiuse le palpebre e restò immobile sulla sedia della sua scrivania, in quella posizione. L'orologio sullo schermo segnava le 23.17. La luce bianca del suo computer illuminava ampiamente i lineamenti delicati della ragazza.

 

E così, era successo. Alyon era morto. A vederla così, sembrava che lui avesse predetto ogni cosa: compresa la sua dipartita. «Peccato», bisbigliò, fra sé e sé. «Non era poi tanto male... ». Le parole della ragazza morirono in quella stanza fiocamente illuminata. D'altronde, c'era solo lei lì dentro, come al solito.

 

Alyon Henrik Akawa era morto. Lei l'aveva avvertito come un mal di testa.

E se il vampiro secolare aveva lasciato il mondo, allora...

«Devo prepararmi».

 

L'istante dopo, lo studio era vuoto.

 

 

 

***

 

 

 

Takeshi spalancò gli occhi, annaspando.

Aveva fatto un sogno. Lo stesso di sempre, per inciso.

 

Fermo e rigido nel suo letto, le braccia sopra le coperte blu, Takeshi respirò flebilmente dalla bocca, e richiuse le palpebre.
Avrebbe potuto giurarlo, ma ogni giorno che passava, quel dannato sogno diventava più vivido. Man mano che le notti trascorrevano e le mattine si dissolvevano, nel suo petto una sensazione aggrovigliata cresceva e lievitava. Quel giorno – il terzo 18 aprile da quando aveva lasciato Yoshino – la sensazione era più forte del solito. Ma forse era tutta una brutale allucinazione. 

 

Secondo la psicologa che lui e tantissimi altri studenti avevano dovuto consultare, stava soffrendo di stress post-traumatico. Specialmente lui, poiché quella fatidica mattina, su un palcoscenico di guerra, l'unica persona ad aver perso la vita era stata la sua fidanzata.

Beh, nessuno poteva sapere come erano andate realmente le cose. Nessuno avrebbe potuto diagnosticare qualcosa sulla base di quelle informazioni, vere solo in piccolissima parte. Sia lui che Sayumi non avevano avuto scelta che rivelare la prematura scomparsa di Yuki Akawa, sebbene omettendo svariati particolari, per esempio il modo in cui era morta.

 

Secondo la versione ufficiale, lei era rimasta fatalmente ferita quando si era aperta la voragine sopra al palcoscenico. I detriti, cadendo, l'avevano schiacciata, e non c'era stato niente da fare – e quando la scuola e la polizia li avevano interrogati a proposito della sparizione del corpo, Takeshi era stato sul punto di passare alle mani. Doveva ringraziare Sayumi e gli altri se non era finito in un carcere minorile.
Per fortuna, avevano creduto alla scusa secondo cui la famiglia Akawa aveva preteso il corpo della ragazza, per farlo riposare nella cripta di famiglia, anche se aveva sollevato svariati – immensi – problemi. Ma, a causa della loro reputazione non proprio stupenda, la cosa non era durata troppo allungo.

Queste – e molte altre – erano state le stesse parole che Takeshi aveva ripetuto a quell'inetta della psicologa, nel corso delle sue sedute. Persino Takahiro, per una volta, aveva dato ragione al figlio, e aveva riconosciuto l'idiozia secondo cui lui stesse soffrendo di stress post-traumatico.
Misaki no. Misaki non aveva avuto dubbi, sin da quando era corsa a scuola e aveva trovato il ragazzo nel giardino della scuola, su una panchina, con la testa fra le mani.

 

Con un po' di fatica, il bruno si tirò su a sedere, spostando le coperte. Si passò una mano sulla metà destra del viso, spettinandosi i capelli scuri. Lo sguardo socchiuso fissava il pavimento in parquet di fronte ai suoi piedi.
Rispetto a quando aveva diciassette anni, non aveva più bisogno di una sveglia sul comodino per svegliarsi all'ora giusta; il suo corpo, da quando viveva in quella casa con Sayumi e Tetsuya, si era naturalmente abituato a destarsi alle 9.30, l'orario in cui il ragazzo si preparava per uscire e andare a svolgere la solita mansione: raccogliere erbe, funghi, fiori e qualsiasi altra cosa potesse diventare utile.

Fosse dipeso da lui, non avrebbe preso quell'abitudine. L'aveva fatto unicamente per Sayumi, sotto sua richiesta. Almeno così lei non si sarebbe impensierita per lui.
 

Takeshi si mise in piedi, sbadigliando ampiamente. Si diresse verso la porta della sua camera, la aprì ed uscì nello stretto corridoio. Lo percorse fino in fondo, superando altre due stanze, e giunse alla porta del bagno; il bagno del piano di sopra era dieci volte più piccolo di quello accanto al soggiorno, ma era anche quello che Takeshi preferiva, perché lo aiutava a sentirsi rilassato quando lo assalivano i tipici cattivi pensieri.
Dentro quel bagno, mentre si faceva la doccia e il getto dell'acqua tiepida gli graffiava il viso, non pensava proprio a nulla.

 

Ed era la migliore delle situazioni a cui potesse aspirare.

 

Quando finì la doccia, si avvolse nell'accappatoio ceruleo e tornò nella sua stanza per vestirsi. Dal momento che la sua nuova abitudine prevedeva fango, terra e probabili animali da cui stare alla larga, il ragazzo doveva indossare sempre abiti comodi e veloci; allora indossava un paio di jeans strappati sulle ginocchia, una maglia a maniche lunghe di cotone, degli anfibi neri e una felpa pesante addosso.
Di fronte alla porta della sua camera c'erano le scale interne che portavano al piano inferiore, una decina di gradini prima di entrare nel soggiorno, un ambiente unito alla cucina. Quando Takeshi vi giunse, sulla destra, come tutte le mattine, Tetsuya Tanigawa se ne stava comodamente seduto sul sofà viola, reggendo nella mano destra un libro – ah, quel giorno si trattava di “The new hunger”, di Isaac Marion – e nella sinistra la guancia.

«Ma guarda, ti sei dato al contemporaneo», constatò Takeshi, passando accanto al divano e raggiungendo la cucina in fondo.

Il vampiro sollevò gli occhi dalla pagina, molto lentamente, molto riluttante. La sua passione per la lettura la doveva a qualcuno in particolare, un qualcuno che si era sempre rinchiuso insieme al marito nella biblioteca privata, per ore e ore, immergendosi in un mondo fittizio.

«Sì; mi stavo cominciando a stufare della letteratura ottocentesca». Tetsuya lasciò il polpastrello sulla pagina, come segnalibro, e si voltò in direzione del suo migliore amico, osservandolo bere un bicchiere di spremuta. Takeshi, a sua volta, ricambiava lo sguardo mentre mandava giù la sua fresca spremuta.

 

Dopo la morte di Yuki, la polizia e la scuola avevano dato il via ad una situazione assurda e insensibile.

Da un certo punto di vista, era logico; non solo un tetto era crollato, uccidendo una ragazza, ma centinaia di estranei erano piombati nell'auditorium e avevano cominciato ad assalire gli studenti, senza nessuno scrupolo, senza nessuna distinzione. Alla pupilla del paese – e, ad occhio e croce, dell'intero Giappone – quello era stato parecchio simile ad un atto di terrorismo.
Aveva smosso tutta Yoshino, radicando paura e confusione.
A confortare il paese e gli abitanti era il pensiero che non c'erano stati altri morti e pochissimi feriti.
Tuttavia...

Una conseguenza ben più grave vide la luce.

Le fiamme di Tetsuya non erano passate inosservate. Quel giorno, le sue fiamme avevano probabilmente accentuato la paura di tutti gli esseri umani presenti, ma avevano soprattutto salvato tutte le loro vite – tutti quanti, nessuno escluso. Questa verità, però, non era stata condivisa da tutti; per degli esseri umani che non ne avevano mai saputo niente, per delle persone che si erano sempre affidate al raziocinio, quello che avevano visto era semplicemente impossibile: era motivo di terrore.

Dunque, molto presto, si crearono due gruppi, ed entrambi avevano vissuto sulle spalle di Tetsuya Tanigawa come avvoltoi per un anno.

Da una parte c'erano stati quelli che avevano condannato il vampiro, etichettandolo come un mostro da cacciare dalla città.

Dall'altra parte, invece, si era creato un gruppo che voleva proteggerlo a tutti i costi, perché era stato il loro salvatore.

 

Il vampiro non aveva avuto nessuna scelta. Doveva nascondersi.
Non aveva salvato quelle persone perché poi vivessero con la paura costante di morire il giorno dopo: non era per questo che lui aveva prestato la sua forza, togliendola alla sua migliore amica. La cosa “buffa” era che le sue fiamme avevano attirato così tanto l'attenzione degli umani che il combattimento intrapreso da Yuki Akawa era caduto nel dimenticatoio.

Tetsuya si era rifugiato a casa Akawa e aveva continuato a vivere con Ai – l'unica Akawa rimasta in vita... – fino a quando Takeshi e Sayumi, finalmente, non ebbero conseguito il diploma, e tutti insieme se n'erano andati.
Un anno intero in quella grande casa era stato... difficile. Era stato difficile ma necessario. In questo modo, era stato accanto alla piccola mezzosangue senza nessun ostacolo – e per fortuna, nessuno osava avvicinarsi a quella sorta di castello ingrigito dalla morte.
Nessuno voleva avere un faccia a faccia con i proprietari di quel posto, eccetto per qualche forza dell'ordine che, di tanto in tanto, si aggirava nei boschi e cercava di valutare – stupidamente – ciò che aveva di fronte.

 

 

«Smettila di guardarmi», disse Takeshi, lasciando il bicchiere di vetro nel lavandino.

Il vampiro sorrise, voltandosi dall'altra parte e riprendendo il libro. «Certo, mio signore».

Tetsuya, come ogni vampiro al mondo, non era invecchiato di una virgola, sebbene avesse quasi venticinque anni. Gli occhi viola erano sempre acuti, il loro colore vivido come un'ametista, il taglio affilato. La pelle era diventata quasi più chiara e bianca di prima e la corporatura fisica era leggermente più robusta. In generale, solo i suoi capelli biondi – un quasi accecante color crema – avevano subito un vero cambiamento; forse il vampiro si era stufato di portarli sempre allo stesso modo, ma adesso i lunghi ciuffi che gli cadevano sulle guance erano stati accorciati all'altezza degli zigomi.

 

«Dov'è Yumi?», chiese Takeshi, guardandosi intorno alla ricerca di un foglietto.

«Ha detto che andava dal nostro “vicino” a portare un campione della nuova erba che sta studiando, hai presente?».

«Ah, sì. Ma non è un po' uno stramboide, quel tizio? Avresti fatto meglio ad andare con lei».

Tetsuya accavallò una gamba sull'altra. Improvvisamente nervoso. «Beh, dobbiamo andare in paese a comprare qualcosa per la cena di stasera, quindi magari... potrei raggiungerla».

Il bruno, raccolto il foglietto scivolato sul pavimento e afferrato il solito sacchetto di stoffa, si lasciò andare ad una breve risata. «Beh, qualsiasi cosa decidiate di fare, fate attenzione. Io sto uscendo, ci vediamo dopo», disse, per poi uscire dalla casa, lasciandosi alle spalle un vampiro sempre più preoccupato.

 

 

 

***

 

 

 

Fuori dalla porta, Takeshi si trovò nella piccola veranda. Di fronte ai suoi occhi, come tutte le sue mattine da tre anni, si stendeva una morbida distesa verde, i ciuffi d'erba e i fiori incorniciavano la collina come un dipinto estremamente realistico. Ogni volta, sembrava che il tempo avesse smesso di muoversi. Si sentiva il fischio del vento serpeggiare nel verde, scompigliare le bocche di leone, e dirigersi verso la curvatura della collina, raggiungendo così il paese sottostante.

 

Dopo essersi diplomati, Takeshi, Sayumi e Tetsuya avevano abbandonato il piccolo e minuscolo paese Yoshino e con esso, anche la regione del Kansai. Era stata dura lasciare quel posto. Un luogo dove avevano passato tanti anni e dove erano cresciuti, dove avevano conosciuto tante persone e vissuto altrettante esperienze.
Takeshi non avrebbe voluto allontanarsi così tanto da sua madre e suo fratello, ma era ciò che doveva fare: non poteva più stare lì. Anche solo per aiutare Tetsuya ad uscire da quello stato di prigionia.

Per questo si erano trasferiti nella regione di Chuubu, nella prefettura di Shizuoka.

Tuttavia, i tre avevano arginato la città – decisamente più popolosa del loro vecchio paesello, con ben 700.000 abitanti – e si erano diretti, senza voltarsi indietro, verso le grandi colline più vicine, alle cui spalle sorgevano spicchi di montagna. Sotto le montagne sorgeva una sorta di villaggio composto da poco più di 500 persone, mentre in tutta la zona sulle colline, c'era solo un'altra abitazione, piccola – e lì avevano trovato una casa in cui vivere.
Di modeste dimensioni ma confortevole e rassicurante, era stata l'abitazione di Tetsuya durante il suo periodo da “persona scomparsa”, proprio dopo il doppio suicidio dei suoi genitori; il vampiro aveva fatto tante, tantissime tappe, spostandosi da una città all'altra, da una regione all'altra, incapace di fermarsi in un solo posto – e Shizuoka era stata una delle zone in cui si era fermato per più tempo.

 

 

«Vediamo che cosa devo raccogliere stavolta... », il bruno spiegò il foglietto e lo lesse mentre camminava in mezzo all'erba, affondando gli anfibi nel terreno.

Come sospettava – dal momento che erano in primavera, oramai – nella lista c'erano nomi come fragole, rosmarino e farfara. Tutte piante che si trovavano in primavera e che avrebbero potuto continuare a farne uso fino alla fine dell'estate.
Giunto di fronte all'ingresso dell'immensa foresta, il ragazzo sollevò il volto, osservando il vento soffiare e spostare le punte degli alberi.

«Bene», si disse, inspirando ed espirando. «Cominciamo dalle fragole». A forza di passare tutto quel tempo nella foresta, aveva cominciato a parlare da solo. La cosa era alquanto buffa. Per fortuna, lì non c'era quasi mai nessuno, e quello restava un suo segreto.
Inoltre, imparava un sacco sulle piante tutti i giorni, perché Sayumi aggiungeva una piccola descrizione della pianta accanto al nome; le fragole che lui aveva sempre conosciuto come un frutto dolce e un po' acidognolo, erano molto efficaci contro le infiammazioni della pelle.

 

Il moro abbassò la testa e passò sotto ad un ramo di ciliegio. Da quel punto in poi, cominciava un percorso strettamente costeggiato dalla vegetazione, per una durata di dieci minuti. Takeshi lo attraversò, con la solita attenzione, estraendo dalla tasca della felpa il sacchetto di cotone.
Alla fine del sentiero, la strada finalmente si apriva e si faceva più spaziosa. Takeshi si spostò sulla destra, piegandosi sulle ginocchia di fronte ad un rigoglioso cespuglio. Ecco le fragole.
Secondo una delle tante regole, non bisognava mai svuotare un punto di raccolta, benché meno portarlo quasi al limite; allora il ragazzo aveva imparato a raccoglierne cinque al massimo, infilarle nel sacchetto e poi dirigersi direttamente al suo prossimo obiettivo.

 

A questo punto, toccava al rosmarino.

L'avrebbe trovato in un punto più roccioso. Sayumi aveva specificato di raccogliere sia le foglie che i rametti.

Il moro fece per girarsi di spalle e sollevò il piede per fare un passo, quando in quell'istante uno scoiattolo sfrecciò sul terriccio, di fronte a lui. Takeshi sospirò profondamente – ci era mancato poco, stava per calciarlo via per sbaglio. Cose come quelle, comunque, potevano succedere. D'altronde stava infestando il loro terreno.

Subito dopo, un secondo scoiattolo fece la stessa cosa, come se volesse raggiungere il primo. Adesso Takeshi era quasi divertito. A quel punto, un coniglio di medie dimensioni sbucò dalla stessa direzione, correndo in diagonale velocemente.

Okay, inizia ad essere strano, pensò il bruno, girandosi a guardare il punto da cui i tre animali erano giunti. Quella strada portava ad un ampio spiazzo circolare, tutto abbracciato da alberi e cespugli.

Non molto lontano, si sentivano versi di animali, bassi e alti, cinguettii e squittii, un frusciare accennato di foglie.

 

Takeshi non ricordava di aver mai vissuto una situazione simile. Ma non ci voleva un esperto per capire che qualcosa non andava. No, quelli non erano dei segnali positivi. Il bruno indietreggiò lentamente, tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé. Proseguii a tentoni, rivolgendo le spalle al sentiero che l'avrebbe ricondotto verso casa.

Non ho idea di cosa ci sia lì, pensò, ma non ho voglia di scoprirlo.

Aveva paura che ci fosse qualcuno in pericolo. Magari una persona era rimasta ferita. Forse avrebbe dovuto andare a controllare, alla fine. Si fermò, piantando gli anfibi nel terreno.

«C'è qualcuno?». Nessuna risposta. «Se sei lì, rispondi».

«Sì, ci sono io», rispose una voce di uomo.

Dallo stesso punto in cui erano spuntati gli animali, Takeshi vide apparire un uomo. Era molto alto, slanciato come un palo della luce, e indossava un completo scuro con fedora e lunga giacca. Era vestito parecchio pesante per essere in primavera. Ed era elegante, inadeguatamente elegante.
Di sicuro non si indossano fedora e completo per entrare in una foresta. Takeshi analizzò il viso dell'uomo; aveva occhi piccoli e un po' incavati, un lungo naso adunco e la pelle candida. A dir il vero, il suo viso, nel complesso, era stranamente tirato, come se qualcuno ne stesse strattonando i lembi.

Il ragazzo lo osservò con celata attenzione. «Si è perso?», domandò, lentamente.

«Ah», rispose l'uomo, aggiustandosi il cappello sul capo. «Direi di sì. Stavo puntando alla città ma ho decisamente preso un abbaio, se ora mi trovo qui». L'uomo sorrise, un grande e largo sorriso cordiale.

Takeshi voleva prendere il suo pugnale. Avrebbe voluto con tutto il cuore. Ma era una stupidaggine, perché avrebbe mai dovuto? «Se vuole tornare in città, deve scendere da questa parte», disse, indicando alla loro sinistra con il pollice, dove la collina si inclinava. Infatti, non molto lontano si intravedeva il profilo del villaggio. «L'avviso in anticipo: non posso accompagnarla, ho del lavoro da sbrigare».

«No, per carità. Si vede benissimo il paese. Stavolta non finirò in una foresta». Lo sconosciuto guardò verso il villaggio. I piccoli occhi brillarono. Takeshi li aveva visti chiaramente. «Sembra essere un posto piccolo e accogliente... ».
L'uomo si voltò verso Takeshi e gli sorrise riconoscente. «Grazie per la dritta. Spero proprio di... », lo sconosciuto lasciò in sospeso la sua frase. Attraversò i pochi metri che lo separavano dall'uscita. I mocassini, lucidi e ben tenuti, affondarono nell'erba. L'uomo a quel punto si soffermò accanto a Takeshi e si avvicinò leggermente al suo orecchio. «... incontrarti di nuovo, mio caro amico bruno».

Takeshi socchiuse le palpebre.

«Voglio dire!», esclamò l'altro, tornando dritto. «Mi sei stato molto utile. Chissà dove sarei finito, se non fosse stato per te!».

Il bruno non rispose. Si limitò a tenerlo sotto d'occhio, con freddezza calcolata.

Nemmeno l'uomo in completo disse qualcosa. Gli fece un altro sorriso, stavolta più sincero, e si voltò verso la discesa della collina.


 

 

***

 

 

 

«Sono tornato». Takeshi richiuse la porta, producendo un tintinnio. Il salotto era vuoto, così come la cucina. Non c'erano né Tetsuya né Sayumi. Lui era mancato da casa per due ore, il tempo di finire la raccolta e di tornare a casa, e ci aveva impiegato anche un po' più del solito, a causa di quello strano incontro. Tetsuya e Sayumi avrebbero dovuto fare la spesa – o almeno così aveva detto il biondo – ma di sicuro non ci avrebbero impiegato ben due ore. Forse avevano qualcos'altro da fare.

Takeshi si avvicinò al ripiano in cucina e ci lasciò sopra il sacchetto con tutta la raccolta di quella mattina. Si diresse all'attaccapanni e vi appese la felpa.

Adesso non aveva granché da fare.

Si avvicinò al divano. Sul bracciolo c'era il libro che Tetsuya stava leggendo. Takeshi si lasciò cadere sul posto accanto, tirò fuori il cellulare dalla tasca e compose il numero di Sayumi.
Come volevasi dimostrare, la suoneria del telefono dell'amica si sentiva. Aveva lasciato il telefono a casa, di nuovo.

«Ma che ce l'ha a fare?», borbottò il bruno.

 

Allora provò a chiamare Tetsuya. Lui se lo portava sempre dietro.

Dopo un paio di squilli, si sentì la sua voce. «Pronto?».

«Tetsu? State facendo la spesa?».

«La spesa?», ripeté Tetsuya. «A dir il vero... ».

«L'abbiamo fatta!». Era Sayumi. Avrebbe riconosciuto la sua energica e dolce voce fra mille. «E adesso stavamo facendo i detective!».

Takeshi aggrottò le palpebre. «Come sarebbe i “detective”?».

«Adesso non possiamo parlarne», rispose Tetsuya. «C'è troppa gente, siamo in piazza. Però è una cosa abbastanza importante, quindi ne parleremo appena torniamo a casa». Il biondo sembrò sul punto di salutare Takeshi, ma poi si fermò. «Ah, giusto. Non uscire di casa. Non da solo. E non adesso».

«Okay, non... », il bruno sospirò. «Okay. Allora a dopo».


 

 

 

 

 

NOTA:
Partiamo dal presupposto che non avrei dovuto pubblicare. Ho scritto e completato sette capitoli, più un ottavo in diritura d'arrivo – e sono pochissimi per riprendere a pubblicare. Specialmente se sto pubblicando l'ultima parte di questa storia. Ma ragazzi, non giudicatemi, NON CE LA FACEVO.

In ogni caso. Bentornati!

Sono un po' di fretta al momento quindi perdonataemi se sto scrivendo una nota totalmente scema e senza senso, ma sappiate solo che sono felicissima. E non vedo l'ora di vivere quest'ultima parte insieme a voi.

Per il momento, adios!!

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Capitolo 2
*** Crescere, rafforzarsi. ***


02.





Takeshi tamburellava le dita sul bracciolo del divano da più di mezz'ora. Se avesse continuato, avrebbe finito per rovinarlo.

Vabbene, vabbene così, pensò ad un certo punto, stanno tornando. Non c'è niente di cui preoccuparsi.

 

Takeshi fermò il gesto della mano e la chiuse in un pugno. Era vero. In parte, ciò che la psicologa aveva detto era vero; dagli avvenimenti di quattro anni fa lui era diventato molto più paranoico, molto più ansioso. Si preoccupava quando trovava la casa vuota o quando i ragazzi facevano ritardo. Questi erano solo alcuni degli esempi più banali. Ma aveva cercato di non darlo a vedere, sfruttando tutte le sue risorse, perché non voleva accettare le osservazioni di quella donna.

Erano troppo dolorose.

 

 

 

***

 

 


«Ciao, Takeshi».

 

Takeshi non rispose subito al suo saluto. Scostò la sedia di fronte alla scrivania della donna e vi si sedette, silenzioso come un'ombra. Accavallò la gamba sul ginocchio dell'altra e lentamente guardò verso la donna di fronte a lui.
Dall'altra parte della scrivania, sedeva su una grande poltrona una raffinata signora giapponese; si chiamava Satomi Kimura, aveva i capelli scuri raccolti in una coda di cavallo, e gli occhi grigi erano grandi ed espressivi. Il piccolo viso era puntellato da qualche ruga, specialmente intorno alla bocca rossa.
Takeshi aveva notato che metteva poco trucco, ma il rossetto rosso non mancava mai.

 

«Salve», rispose lui, dopo qualche istante di silenzio.

«Sembra tu sia arrivato un po' in anticipo rispetto all'altra volta».

«Non avevo di meglio da fare. E poi, sapevo che a mia madre avrebbe fatto piacere».

Satomi sorrise. «Come stai?».

«Sto bene», rispose Takeshi, ricambiando il sorriso. «E lei, come sta?».

«Anch'io sto bene, ti ringrazio». Satomi chiuse gli occhi. Sembrò riflettere attentamente su qualcosa per qualche secondo e infine, dopo aver rielaborato, aprì gli occhi sul ragazzo di fronte a lei. «Fai ancora lo stesso sogno?».

«Ogni tanto sì».

«Ed è sempre uguale, immagino».

«Non cambia mai niente».

«Ogni volta, sogni sempre la tua fidanzata».

Le labbra gli tremarono. Takeshi chiuse la bocca, sperando non fosse apparso troppo palese. «Già... ».

«Lo stesso giorno di sempre. La stessa serie di eventi. Gli stessi vampiri e demoni. E lei che muore di fronte ai tuoi occhi».

Lui non rispose, stavolta.

«Perché tu sei debole e impotente».

 

Takeshi deglutì. Si alzò dalla sedia, quasi rovesciandola. Voleva mettersi a gridare, con tutta la voce che aveva in corpo, ma dalla sua gola non usciva una sillaba.
Satomi scostò la poltrona e si mise in piedi anche lei. Le mani si appoggiarono sulla superficie della scrivania e gli occhi si tinsero di nero. Come quelli di quell'uomo. «Non hai fatto niente per salvarla, anzi: hai fermato Tetsuya mentre cercava di aiutarla. Lui ha tentato qualcosa mentre tu non hai fatto altro che guardarla morire. Non hai nemmeno pianto come Sayumi. Sei rimasto lì come un allocco a guardarla, a fissarla, e alla fine, come volevasi dimostrare... come noi tutti sapevamo... e come tu sapevi che, prima o poi, a lungo andare, sarebbe successo... ».

Takeshi sentì la terra mancargli sotto i piedi.

«... alla fine, lei è sparita. Per sempre».

 

 

 

***

 

 

 

«... shi! Takeshi!».

 

Annaspando, il bruno spalancò gli occhi. Si era addormentato – ma quando era successo? – e aveva fatto un brutto sogno, diverso dal solito. Si era agitato parecchio, al punto tale da lasciare segni sul cuscino del divano e sul bracciolo.

Si tirò a sedere, a fatica, staccando le mani dal divano. Si passò le dita fra i capelli e respirò profondamente.

 

«Tutto okay?». Udendo una voce femminile, Takeshi si voltò svelto.

Per un istante, aveva pensato fosse Yuki. Invece, dietro allo schienale, con un espressione dolcemente preoccupata, c'era Sayumi Ichinomiya, la sua amica più cara. La ragazza si era appoggiata con gli avambracci sul bordo, forse per fare uno scherzetto all'amico assopito, forse per controllare che stesse facendo. E invece se lo era ritrovato agitato e ansante – aveva subito cercato di svegliarlo. «Hai avuto un incubo?».

«Sì», rispose Takeshi, riconquistando la calma, poi sorrise. «Ho sognato che ti eri mangiata l'ultimo budino. Il mio, budino».

Sayumi ridacchiò – ovviamente, lei sapeva benissimo che non aveva sognato niente del genere.

 

Con il passare di quegli anni, Sayumi era diventata bella come un fiore, sembrava essere letteralmente sbocciata; i capelli erano ancora rosa, ancora un po' arruffati, ma molto più lunghi, fin sotto il petto; gli occhi, grandi e affettuosi e azzurri, orlati da folte ciglia nere, e la bocca carnosa che cercava sempre di sorridere. Sebbene, all'inizio, fosse stato molto difficile per lei.
Come Takeshi e Tetsuya, anche lei aveva vissuto un'esperienza al di fuori dell'ordinario. Tutti e tre erano stati segnati dal corso degli eventi e, a modo suo, Sayumi aveva cercato di crescere, di crescere il più in fretta possibile.

Durante l'ultimo anno di liceo, aveva cominciato a studiare erboristeria. Soprattutto perché voleva essere in grado di aiutare e proteggere anche lei. Lei era agile, veloce e in grado di adattarsi e sopravvivere dappertutto. Ma non le bastava. Non le era bastato per niente, quella volta, nell'auditorium.

E così, si era obbligata a diventata una donna. «Siamo tornati poco fa. Tetsuya è salito un attimo per darsi una rinfrescata, poi potremo parlare tranquillamente».

«Ah, davvero? Allora aspetteremo il principino, immagino», rispose Takeshi, ridacchiando mentre si alzava. Lanciò un'occhiata alla sua amica, per un attimo, mentre lei giocherellava con la treccia rosa sul petto – ad occhio e croce sembrava star bene.

«Oh, bel lavoro stamani. Hai preso tutto quello che ti ho chiesto!», disse lei, ad un certo punto.

«Stamani... », Takeshi annuì. «Stamani è successa una cosa, a dir il vero».

«Che cosa?», chiese Sayumi. «Non sarai stato attaccato da qualche animale?».

«No, niente dal genere», lui si fermò a pensarci su. «Ma penso che, se quell'uomo li avesse spaventati un po' di più, sarebbe potuto accadere». Takeshi si sedette al tavolo della cucina, alla sinistra del capotavola: il suo solito posto.

«Quale uomo?». Tetsuya apparve dalle scale, con un tono interrogativo quanto preoccupato. Si avvicinò a Sayumi, accarezzandole la schiena, e poi tutti e due emularono il gesto di Takeshi.

 

Quando dovevano parlare di qualcosa, si sedevano sempre lì, tutti e tre. Sapevano che anche lei avrebbe fatto lo stesso e questo li intristiva, in parte. Sotto la calda luce del lampadario – che faceva atmosfera da interrogatorio – il vampiro, seduto a capotavola, si voltò verso Takeshi. «Non sono un principino».

«Ah, mi hai sentito?», fece l'altro, sogghignando. «Non si origliano le conversazioni. Nemmeno dal bagno del piano di sopra, per inciso».

«Touché».

«Allora», Sayumi appoggiò i palmi sul tavolo, intrecciando le dita fra loro. «Per quanto sia bello vedere i vostri teatrini, abbiamo qualcosa di importante di cui discutere. Dico bene?».

Tetsuya annuì. «Sì, dici bene», incrociò le braccia al petto. «Come ben sai, Take, la polizia giù al villaggio mi chiede una mano, di tanto in tanto».

 

Certo, Takeshi lo sapeva bene. Era tutto cominciato poco dopo il loro arrivo nel villaggio. Tutti e tre avevano deciso di fare un giro “turistico” e conoscere bene l'ambiente in cui avrebbero vissuto da quel momento in poi; così, sotto un cielo stellato, avevano visitato buona parte del villaggio, cercando di distrarsi e di godersi quel nuovo ambiente – questo almeno fino a quando non assistettero ad un omicidio.
Anzi, per essere più precisi, Tetsuya si era imbattuto – quando si era allontanato dagli amici, dopo aver sentito voci e discorsi sospetti – nell'assassino, che gli stava correndo incontro in un vicolo buio, con il volto coperto da un passamontagna e un coltello insanguinato alla mano.

Il vampiro non aveva esitato un attimo: l'aveva afferrato per il braccio e l'aveva lanciato a terra come un sacco di patate, facendogli perdere i sensi all'istante.

Poco dopo era arrivata la polizia del villaggio. Tetsuya non aveva nessuna voglia di averci a che fare, francamente. Tuttavia, emerse che l'assassino aveva un complice e che il cadavere della vittima non era ancora stato trovato, e lui forse poteva aiutarli.

Il vampiro era velocemente diventato una risorsa per quel caso. Che poi aveva, in sostanza, risolto lui.
Per questa vicenda, quando non riuscivano a cavare un ragno dal buco, la polizia gli chiedeva un parere – e così era stato quella mattina.

 

«Io e Sayumi avevamo visto un po' di scompiglio al mercato. C'era parecchia gente. Ci siamo incuriositi e abbiamo cercato di vedere cosa stava succedendo. Ebbene, c'è stato il rapimento di due bambine, appena mezz'ora prima. Ed è successo tutto in pieno giorno».

«Sono state rapite due bambine?», ripeté il bruno, sconcertato.

«È stato terribile», mormorò Sayumi. «I genitori erano sconvolti. Siamo subiti corsi alla centrale per sapere se potevamo aiutare. E non è tutto». La ragazza guardò verso Tetsuya. «Probabilmente non si tratta di un umano».

Takeshi restò immobile, la bocca schiusa. Non si trattava di un essere umano?

«Cosa ve lo fa pensare?», disse il bruno. «Avete notato qualcosa di particolare?».

«Non ho prove per poterlo confermare, ma», Tetsuya socchiuse le palpebre, come se stesse cercando di mettere a fuoco qualcosa di fronte a lui. «ci sono alcune cose che mi fanno dubitare si sia trattato di un umano; prima di tutto, a quanto dice la polizia, le bambine erano con i genitori e non si sono allontanate nemmeno per un istante. La madre ha detto che stavano camminando verso la tavola calda e teneva per mano la figlia maggiore che, a sua volta, teneva la mano alla sorellina».

«Poi, ad un certo punto, la madre e il padre hanno sentito una forte folata di vento dietro di loro e un rumore molto molto basso», continuò Sayumi. «E quando si sono girati, le bambine erano già sparite».

«Quindi», disse Takeshi. «tutto è accaduto nel giro di un secondo, alla luce del giorno?».

«Senza che nessuno se ne accorgesse».

Il bruno capiva bene perché i suoi amici pensassero ad una creatura soprannaturale. «A meno che non si tratti di un genio del rapimento... ». Sollevò lo sguardo, ricordando l'episodio che aveva vissuto quella stessa mattina. «Ora che ci penso, credo di averne incontrato uno, oggi», esclamò. «All'entrata della foresta. Non saprei con esattezza, ma mi sembrava un vampiro».

«Che cosa hai detto?!», Tetsuya lo fulminò con il freddo ametista dei suoi occhi. «E ce lo dici solo ora?!».

Takeshi si ritrasse istintivamente, facendo una smorfia con la bocca. «E quando avrei potuto dirvelo? Ci siamo incontrati solo adesso».

Tetsuya sospirò, esasperato, mentre Sayumi sembrava già sul punto di agitarsi. «E stai bene? Ti ha fatto qualcosa?».

«Sto bene, abbiamo solo parlato», la rassicurò l'altro. «Però potrebbe essere lui il rapitore».

 

Il problema era che nessuno dei tre aveva più incontrato un vampiro o un demone, facendo esclusione per Ai e il personale di casa Akawa. Specialmente Tetsuya, che si era tenuto alla larga il più possibile dal mondo esterno.
Takeshi, Sayumi e Tetsuya si scambiarono delle occhiate. Forse era passato molto tempo, ma il loro fiuto per demoni e vampiri non si era indebolito, nossignore. Erano ancora in grado di capire quando di fronte a loro c'era un umano... o una creatura notturna.

 

 

 

***

 

 

 

«Signorina Akawa! Buonasera!».

 

Ai Akawa si fermò in mezzo al corridoio e si voltò. Ci mancò poco che schiaffeggiasse il viso dell'ancella con la lunga chioma rossa.

«Oh! Scusami!», esclamò Ai.

L'ancella di fronte a lei e le altre due che l'avevano seguita a ruota – non appena avevano saputo che Ai era arrivata – si profusero in scuse e in ringraziamenti. Non lo facevano per ottenere qualcosa. Era solo che adoravano la giovane Akawa. Loro tre e praticamente tutta la servitù che si occupava di tenere igienicamente in piedi l'edificio del Consiglio. Ai, dal canto suo, si era comportata in modo “normale”; era stata gentile, ben disposta, e si era sempre prestata alla servitù, qualora servisse qualche aiuto. Era anche successo che una cameriera avesse disperato bisogno di sangue per la figlioletta e la mezzosangue aveva ceduto il suo senza il minimo tentennamento.

E poi, era il ritratto sputato di Kazumi Akawa, altrettanto ben voluta.
Specialmente adesso che era cresciuta ed era diventata adolescente – sulle spalle portava quindici anni e tanti altri pesi – e teneva i capelli lunghi e lisci, lo sguardo si era addolcito e il viso maturato, le assomigliava tantissimo. Assomigliava molto anche a Yuki, a quanto dicevano, per alcuni atteggiamenti; ma al contrario della sorella maggiore, Ai aveva molto più sangue freddo e non soccombeva facilmente al sangue demoniaco.

 

«Questa riunione si tiene parecchio tardi», esordì una delle tre cameriere. «Deve essere stanca. Rammenta di riposare durante la giornata, signorina?».

Ai ridacchiò, annuendo un paio di volte. «Sì, sì. Mi sto riposando a dovere».

«Dice davvero?».

«Due affermazioni equivalgono a negazione!».

«Vi giuro che non è cos... ».

«Lo so!», esclamò la più grande. «Le porteremo del tè caldo e dei pasticcini. Così, almeno, avrà lo stomaco pieno».

Ai avrebbe voluto ribattere, perché stava bene e non aveva bisogno di niente, ma di fronte a tutta quella voglia di aiutare non se la sentì. Sorrise, chiudendo le palpebre con rassegnazione. «E vabbene. Lo aspetterò con molta ansia, allora». Poi la ragazza guardò l'ora all'orologio da polso e si mobilitò. «Cavolo. È già tardi», borbottò, rivolgendosi in seguito alle tre ancelle. «Devo scappare. Fate le brave, okay?».

 

Si divise dalle tre donne e si diresse verso la sala delle riunioni. A quest'ora, in teoria, dovevano essere arrivati tutti i membri, probabilmente mancava solo lei – mancava solo “Akawa”.

Colei che ne faceva le veci, per lo meno.

Ai arrivò di fronte alla porta, già socchiusa. A conti fatti, di chi è che stava facendo le veci? Di sua sorella? – che a sua volta le stava facendo ad Oseroth Akawa? Sembrava una barzelletta. O una spirale di morte...

«Ai?».

 

Ai sollevò gli occhi dorati. Per un attimo si era persa nei pensieri. Tachibana aveva aperto parzialmente la porta, lasciando passare un fascio di luce gialla sul parquet del corridoio.

«Stai bene?», disse l'uomo, corrucciando le sopracciglia.

Ai guardò il viso di Tachibana. Vedere un viso familiare come il suo, di un vampiro che conosceva sin da piccola, era confortante, tanto da generarle calore nel petto.

Lei annuì lentamente, stringendo tra le dita la stoffa della gonna. «Sì, certo. Mi ero solo incantata un secondo, tutto qui».

«Se è così che stanno le cose... », mormorò il vampiro. Sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, il suo sguardo indugiava sulla mezzosangue. Si guardò alle spalle, dando un'occhiata rapida agli altri membri del Consiglio impegnati a parlare tra di loro. Allora il vampiro fece un passo in avanti, appannando la porta alle sue spalle. «Senti... lo so che a te piace fare tutto da sola e che piuttosto che chiedere aiuto ti taglieresti la lingua, ma... è davvero pesante quello che stai facendo, soprattutto per la tua età. Cerca di ricordarlo. Quindi, se avessi bisogno di aiuto, di qualsiasi cosa, non esitare a venire da me».

Ai schiuse le labbra. Osservò il vampiro di fronte a lei, sbatté le ciglia. «Grazie, ma io... », lei non aveva bisogno di niente. «Ti farò sapere, se avrò bisogno di qualcosa. Grazie, in ogni caso». Ai sorrise. Sperava che bastasse a tenerlo buono.

Tachibana le fece un cenno col capo, breve, ma eloquente. «Inoltre, il Presidente vuole parlare con te. Mi ha chiesto di avvisarti non appena fossi arrivata».

«Il Presidente?».

«È nel suo ufficio».

Ai tentennò, non le andava affatto, ma non aveva scelta. Asserì con il capo e mosse i piedi per dirigersi verso l'ufficio del Presidente, quando si sentì afferrare gentilmente il polso. La presa non era salda, ma sembrava voler comunicare... qualcosa. «Ai», bisbigliò il vampiro. «Stai attenta».

Ma la mezzosangue dai capelli rossi non aveva paura. Era solo assonnata. «Non ti preoccupare. Me la caverò».

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:

Olè! Salve! Come avrete potuto notare, ho cambiato metodo di pubblicazione (soprattutto grazie al suggerimento della mia specialissima kohai :> ), dunque adesso pubblicherò un capitolo a settimana. Tra le motivazioni, c'è il fatto che presto o tardi un po' di novità si affacceranno nella mia vita, e non voglio rischiare di fare promesse che non posso mantenere.

Detto questo! Nel secondo capitolo di questo terzo atto approfondiamo un po' il lato psicologico dei nostri ragazzacci. Piccoli bambini speciali. Oltre a questo, il villaggio che è diventato la loro nuova casa non è poi tanto quieto e pacifico come può sembrare. D'altronde... quale nascondiglio migliore di un piccolo e remoto villaggio per un vampiro o un demone?

In ogni caso, spero che lo svolgimento dei fatti vi stia piacendo. Ci rivediamo al prossimo giovedì!!

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Capitolo 3
*** Peggio di chiunque altro. ***


03.



 

Ai entrò nell'ufficio con passo esitante. L'aria che albergava all'interno era pesante, impregnata da un profumo stordente, che la ragazza riconobbe come incenso.
L'ufficio era in penombra e attraverso il piccolo cono di luce che filtrava dalle pesanti tende di velluto, il fitto pulviscolo volteggiava in cerchio. Ai si fece avanti di pochi centimetri, sventolando la mano per scacciare la polvere. In quella che era quasi oscurità, Ai riconobbe una figura di donna, in piedi dall'altro lato della scrivania, e le dava le spalle; era una donna poco più bassa della mezzosangue, con un corpo a clessidra. La vita era talmente stretta da mettere a disagio la ragazza. Sembrava respirare a stento.

Ai si schiarì la voce, leggermente. La donna non si voltò, limitandosi a sorridere. «Piccola Ai», sibilò. «Sei giunta».

«Ahm... già», rispose la rossa. «Mi ha fatto chiamare?».

«Ah-ah. Sì, cara». Ma la donna non sembrò voler continuare il discorso – o per lo meno, vuotare il sacco.

 

Ah... Ai ricordava con nostalgia e malinconia il Presidente Satcher Volk, morto ormai da un anno. Sulle prime non era riuscito a digerirlo, ma con il tempo aveva scoperto che non era tanto male. Di sicuro era molto meglio di sua moglie, che aveva preso le sue veci, subito dopo la dipartita del marito. Beh, la cosa aveva sollevato parecchie domande e parecchi dubbi. Il nuovo Presidente del Consiglio, una donna vampira antica quanto il precedente, era nota per avere un carattere molto difficile.
Era misteriosa, furba, e potenzialmente dispettosa. Per non parlare della sua avidità e il suo attaccamento alla giovinezza e alla bellezza, a cui guardava come principi fondamentali, a cui guardava con invidia palpabile.

Per questo Ai non amava entrare in quell'ufficio, da sola. Sentiva il puzzo di morte fuori dalla sua porta.

I capelli neri erano legati e tirati stretti, in una crocchia in cima alla testa. Gli occhi scuri erano molto truccati, così come le labbra rosse. Non portava bene gli anni, per essere una vampira. Il suo viso, nel complesso, era stracolmo di rughe e pieghe, e le si potevano dare anche settant'anni.

La donna era chiamata "Serpe". Molto più che con il suo nome vero: Marja Volk.

«Vieni, avvicinati», sibilò, voltandosi verso di lei. Un largo sorriso le increspò le labbra mentre si appoggiava con l'ampio fondoschiena sulla scrivania.

Ai attraversò il tappeto, fermandosi a mezzo metro dalla vampira.

«Dunque, dunque... », Marja Volk abbassò le palpebre, guardando verso l'alto, in direzione della giovane mezzosangue. «Ah, ogni giorno che passa assomigli sempre più a tua madre. Non è stupendo?».

«Sì, è meraviglioso», rispose Ai, tentando di non suonare ironica. «Me lo dicono spesso».

«Prendilo come un complimento. Tua madre era una delle donne più belle che abbia mai visto». Si toccò il mento con l'indice. «Per questo faceva una strana coppia con tuo padre».

Ai assottigliò gli occhi oro.

«Oh, no, no, per carità», si apprestò Marja. «Anche Oseroth era un bell'uomo. Altrimenti come avrebbero fatto a dar luce a due bambine come te e tua sorella?».

«Già, immagino... sia così». Per quanto ancora sarebbe andata avanti? Sebbene stesse parlando con lei, il nuovo Presidente non sembrava calcolare granché le sue risposte. «Mi scusi, ma c'è molto lavoro da fare. Se vuole dirmi di cosa ha bisogno, io... ».

«Non ho nessuna necessità, Ai cara. Dovevo solo comunicarti una notizia. Reggiti forte, bambina», gli occhi scuri della donna si accesero di rosso, per un attimo, prima di tornare scuri come il petrolio. Ai desiderava uscire da lì al più presto.

«Tua sorella Yuki... potrebbe essere viva».

 

 

 

 

***

 

 

 

Sayumi si stiracchiò per bene, stendendo le braccia verso il cielo stellato. Fuori era buio e faceva ancora parecchio freddo, – nonostante fossero ormai in primavera inoltrata – ma l'atmosfera era piacevole e rilassante. Beh, forse Sayumi non avrebbe dovuto sentirsi rilassata, dal momento che stavano andando ad investigare su una questione abbastanza spinosa.
Per l'occasione, aveva indossato un vestito blu polvere fino alle ginocchia e un cardigan lungo color pesca – inoltre, una borsa di tela piena zeppa di erbe mediche.

Sayumi stava aspettando fuori dalla veranda da qualche minuto, seduta sulla poltrona. I ragazzi ci avevano messo più tempo di lei a prepararsi. Quando si era ormai arresa ad aspettare, Tetsuya apparì fuori dalla porta, seguito da Takeshi. Mentre il secondo aveva dei pantaloni scuri e una maglietta grigia con uno scollo sbrindellato, Tetsuya sfoggiava una camicia bianca, il cui orlo delle maniche gli superava le nocche, e dei jeans blu aderenti.

«Siamo pronti?», disse il biondo.

Takeshi si teneva la mano sullo stomaco. «Più o meno. Sto ancora digerendo la cena».

Sayumi sollevò la testa. «Eh? Non ti è piaciuta?».

«No, no. Non era la qualità il problema... ».

«... ma la quantità», concluse il vampiro.

«Hai cucinato per un plotone, Yumi», aggiunse il bruno.

La ragazza si alzò in piedi, battendo un piede sulla pavimentazione. «Voi due siete degli stuzzicadenti! Avete bisogno di mangiare di più, è lampante!».

«Okay, ma così rischiamo l'obesità... », mormorò Takeshi.

«Ti ho sentito». Sayumi sbuffò. «Ridurrò le porzioni. Del 3%».

«Sono passi da gigante», Tetsuya fece un sorrisetto. Ruotò i piedi verso gli scalini e cominciò a scenderli, fino a toccare l'erba. «Andiamo».

 

Fortunatamente, il villaggio non distava troppo da casa loro. A piedi ci mettevano un'ora, tra andata e ritorno, e aveva più o meno tutto ciò che gli serviva. Per un motivo o per un altro finivano per andarci quasi tutti i giorni; a Sayumi e Tetsuya piaceva recarcisi, forse per rievocare il senso di città, per vedere qualche faccia nuova, ma Takeshi ne faceva a meno, di solito. Non se la sentiva molto di stare in mezzo alla gente.

Sayumi correva sull'erba, bagnata da una leggera umidità, distanziandosi dai due ragazzi di qualche metro. Tetsuya la teneva d'occhio come un falco e Takeshi aveva inforcato le mani nelle tasche. Man mano che avanzavano e si facevano più vicini, le luci del villaggio diventavano sempre più accecanti e fulgide, come se volessero accompagnarsi alle stelle in cielo.
Il bello di vivere in un luogo come quello era proprio il cielo notturno. Era sempre puntellato da migliaia di stelle, una spruzzata bianca su una tela nera.

 

Quando raggiunsero le porte che introducevano al villaggio, Takeshi dovette socchiudere gli occhi, travolto dalle decorazioni con le piccole lucine appese da un edificio all'altro, a riempire tutta quella zona. Quando si abituò alla luce e riuscì ad aprire completamente gli occhi, Takeshi rimase immobile ad rimirare il clima festoso del villaggio. Anche se quella stessa mattina era stato commesso un orribile crimine, il paese non sembrava volersi abbattere. Pareva, invece, che volessero dimostrare quanta forza avevano, rispondendo a tono al rapimento – con una scoppiettante allegria.

«Ci dirigiamo al mercato?», chiese Takeshi, abbassando lo sguardo su Tetsuya, poco più avanti.

Il vampiro annuì. «Sì. Andiamo lì a dare un'occhiata, magari ci è sfuggito qualcosa».

 

Il trio si mise in marcia. Appena entrati, il paese si apriva in un'ampia e colorata piazza, il cui lato sinistro era adibito a sala da ballo all'aperto. Di fronte spiccavano piccoli negozietti di vario tipo; panifici, abbigliamento, pasticcerie, sarte e calzolai, meccanici. Era infatti una delle zone più fornite del piccolo paese.
Inoltre, era tutto abbracciato da una massiccia murata grigia, come a delimitare l'area; oltre alle decorazioni tra un edificio all'altro, decine e decine di bandierine colorate svolazzavano attaccate sui cavi.
La musica riempiva piacevolmente tutta la piazza, estendendosi anche oltre, mentre le persone ballavano a coppie. La pavimentazione in selciata era pulita e linda e in tanti si erano fermati in quella zona a ballare o semplicemente ad osservare la scena e bere un caffè, tra una battuta e una risata.

Takeshi non era abituato ai climi festosi, ma non gli davano affatto fastidio. C'era un po' di folla ma bene o male la poteva gestire. Di fronte a lui, Tetsuya si chinò verso l'orecchio di Sayumi. «Non ti allontanare», le sussurrò, in modo tale che lei potesse sentirlo chiaramente. La ragazza sollevò gli occhioni blu verso il vampiro ed annuì, sorridente.

 

Imboccarono subito la strada che andava verso i quartieri strettamente residenziali. Man mano che si avvicinavano al mercato, la musica si affievoliva, fino a diventare un sogno opaco.

Takeshi, con le mani ancora nelle tasche, si guardava intorno. Esaminava le facciate delle piccole case, alcune con giardino, altre talmente piccole da sembrare una cuccia per cani. Tutte le case, comunque, erano avvolte dal buio e dal silenzio. Probabilmente perché erano andati tutti in piazza.

Tuttavia... «Non posso fare a meno di sentirmi inquietato», mormorò.

«Cosa?», fece Sayumi, voltandosi alle sue spalle, verso il bruno.

«Il fatto è che qui c'è davvero molto silenzio. Anche troppo», forse era la paranoia a parlare, dopotutto non conosceva quel lato del villaggio, non aveva mai avuto bisogno di andarci. Continuarono a camminare lungo le strade strette, scarsamente illuminate. Gli unici suoni che si sentivano erano i loro passi sul selciato. Qualche volta, una tubatura si lamentava o sgocciolava, qualche gatto scorrazzava su un balcone.
Dopo pochi minuti, avevano raggiunto la seconda piazza del villaggio. Era lì che il mercato nasceva. Tutto intorno, nelle vie e stradine, il mercato si allungava e stiracchiava come un essere vivente. Era parecchio corposo e vivace, l'economica girava quasi unicamente grazie ad esso. Ogni giorno si vedeva un continuo via vai di merci e trasporti e gente che arrivava da fuori per intraprendere commerci.

«Il rapimento si è svolto... », Tetsuya si guardò intorno, alla ricerca del punto giusto. Indicò con un cenno della testa verso la strada a sinistra. «Di là».

Fortunatamente, quella zona era decentemente illuminata, per cui Takeshi poté finalmente tirare un sospiro di sollievo. Si incamminarono in fretta verso quel punto, camminarono per un'altra manciata di metri e finalmente il trio si fermò.
Takeshi esaminò quel punto. Non c'era molto spazio, al massimo due metri; angusto com'era, doveva crearsi facilmente calca, ma gli abitanti sapevano come ovviare il problema. Sulla sinistra c'era una strettoia immersa nelle tenebre che conduceva all'altro quartiere. Di fronte, la strada continuava per una ventina di metri, mentre sulla destra c'erano un paio di case accostate l'una all'altra.

«Vedete qualcosa di particolare?», chiese Takeshi.

«Nah». Sayumi sbuffò. Le mani sui fianchi, arricciò le labbra. «Non vedo proprio un bel niente. Mi sembra tutto tale e quale ad oggi... ».

«Non proprio», obbiettò il biondo. Sollevò un dito e si picchiettò il setto nasale. «Rispetto a stamani, gli odori sono molto più distinti».

Sayumi si illuminò. «Stai dicendo che senti qualcosa?».

«Non ancora. Provo a concentrarmi».

Takeshi e Sayumi annuirono, per poi calarsi in un silenzio rispettoso. Per concentrarsi, loro non dovevano parlare, o avrebbero coinvolto il senso dell'udito del vampiro. Videro Tetsuya lasciar ciondolare le braccia lungo i fianchi e le sue palpebre abbassarsi appena. Il giovane uomo stava, apparentemente, guardando il pavimento ai suoi piedi, respirando così piano da sembrare a malapena vivo.
Sì... qualcosa, di lontano e di familiare. Riusciva a percepirlo. Ma era una traccia distante, troppo distante. Forse non sarebbe servita a niente. E poi c'era dell'altro... sangue. L'indimenticabile profumo di sangue.

Il vampiro spalancò gli occhi. «A sinistra, sangue», esclamò tra i denti, come se facesse fatica. «Molto sangue. Ma dovrebbe essere... una sola persona».

«Allora potrebbero non essere le bambine», osservò Takeshi, avvicinandosi insieme a Sayumi alla strettoia.

«Non importa cosa sia. Sentitemi bene, dovete... ».

«Starti vicino come delle zecche», Sayumi sorrise e Takeshi annuì.

Tetsuya fece un sorriso tirato. «Ecco, bravi».

 

Il trio non aveva scelta. Non potevano ignorare una chiara presenza di sangue come quella, che non lasciava presagire nulla di buono. La via di fronte ai loro occhi era il buio più totale. Persino gli occhi di un vampiro facevano un po' fatica. Lunga, angusta e buia.
Tetsuya in testa e Takeshi in coda, si infilarono lentamente nella strettoia. Le schiene curve e le orecchie spalancate. Tutti e tre dovevano compiere passi attentissimi se non volevano rischiare di inciampare o calpestare qualcosa di strano e, di conseguenza, farsi prendere un infarto al cuore.
Sayumi stringeva al petto la sua borsa di tela con le braccia, in una presa salda. Man mano che si avvicinavano dall'altra parte, la strada cominciava a farsi leggermente più luminosa, un passo per volta, e... l'odore di sangue si manifestava in pompa magna.

I due umani furono costretti a nascondere il naso per sopportare l'orrida puzza di acre e ferro. Era a malapena sopportabile. Si infiltrava nelle narici come un gancio acuminato. A modo suo, anche Tetsuya ne stava soffrendo.

«Attenzione», fu il bisbigliò del vampiro – esso echeggiò, teatralmente.

 

Finalmente uscirono dalla strettoia, trovandosi di fronte una giovane donna. Era accasciata con la schiena al portone di una casa; alla sua destra c'era solo un muretto, alto più di un metro, che chiudeva la strada, e sulla sinistra essa procedeva in una leggera discesa.
Le braccia della giovane donna sembravano aver perso tutta la loro vita, abbandonate sull'asfalto. Sulla zona della pancia e del collo si allargavano enormi macchie di sangue, frastagliate e scure, e sopra la sua testa c'era un'altra lunga chiazza rossa.

«Ma che diavolo... », sibilò Takeshi, facendo un passo in avanti.

«Quella donna... », disse Sayumi, aggrappandosi al braccio del bruno. «È morta?».

Come se volesse rispondere, la donna apparentemente senza vita aprì gli occhi. Rosse iridi. La sua sclera era colorata di un tenue rosa, le ciglia umide da lacrime versate. «Uh... », farfugliante, la donna apriva la bocca, svelando lunghi canini aguzzi. Poi, come se avesse ricordato qualcosa di orripilante e frustrante, il suo viso si piegò in una smorfia di rabbia e paura. Chiuse i pugni e sollevò lo sguardo sul trio di fronte a lei, ad appena sessanta centimetri dai suoi piedi abbandonati sul selciato. «Me l'ha fatta... ».

Tetsuya corrugò la fronte. Fece cenno a Takeshi e Sayumi di attendere lì e proseguì avanti. Si piegò su un ginocchio, avvicinando il viso. L'odore del sangue non gli diceva niente: non aveva nulla di familiare né era lontano. «Non sei tu, allora», bisbigliò il biondo. «Vampira. Cosa è successo qua?».

La vampira non sembrava sorpresa di essere stata riconosciuta. Spostò gli occhi in alto, verso destra, guardando Tetsuya con un espressione inebetita. «Mi ha rubato il mio pasto... ».

«Il suo pasto... », ripeté Sayumi.

«Intende degli umani», Tetsuya, indispettito, le avrebbe volentieri spezzato il collo, se non fosse stato per la presenza dei suoi amici. La esaminò qualche istante, poi continuò: «Quindi c'è un altro di noi, in paese. Dov'è andato? Com'è fatto?».

«Ormai è tardi... non potrai riportarmi il mio pasto... ».

Il vampiro stava per perdere la pazienza. Dietro di lui, Takeshi si mosse, spostandosi insieme a Sayumi sulla sinistra. «Non è detto», ribatté Takeshi. «Se ci dici qualcosa di utile, possiamo ancora ritrovarlo e riportartelo. Avrai fame, una fame da lupi, o sbaglio?».

 

Tetsuya e Sayumi guardarono il ragazzo come se gli fosse spuntata una seconda testa sul collo. Lui non restituì l'occhiata agli amici, persistendo in quella strana conversazione con la vampira sconosciuta. «Beh, se ti vuoi arrendere, a me non interessa. Però è un peccato. Un gran peccato».

La donna sgranò gli occhi. Era sempre più debole e sempre più pervasa dai suoi desideri e dalle sue necessità. Aveva fame. Aveva così fame che avrebbe addentato qualsiasi essere vivente, pur di avere un po' di sangue. E quel ragazzo dai capelli color cioccolato avrebbe potuto aiutarla a sfamarsi, senza che lei dovesse faticare...
«Da questa parte, lungo la discesa... », la sua voce era ridotta ad un sussurro. «Oh, quella non era una di noi... era molto, molto peggio... ».

La vampira ghignò.

«Buona fortuna... eheh... ».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Parla Tetsuya Tanigawa. Mi trovo nella prefettura di Shizuoka, il primo villaggio a ovest, e di fronte a me c'è una vampira, ferita, colpevole di tentato omicidio di un umano. Ha inoltre avuto uno scontro con un'altra di noi. Presumibilmente l'altra si trova ancora in paese insieme al suddetto umano». Tetsuya sospirò. «Bene. Vi aspetterò qui».
Il vampiro chiuse la chiamata al cellulare e lo infilò nella tasca posteriore. La donna aveva perso conoscenza da pochi secondi. Purtroppo, non potevano muoversi di là fin quando gli Addetti non fossero giunti, poiché la donna avrebbe rischiato di essere definitivamente uccisa.

Tetsuya si voltò verso Sayumi. «Stai bene? Il sangue ti dà fastidio?».

Sayumi, che si stava coprendo il naso e la bocca con la manica del cardigan, scosse lentamente la testa. «Non è niente, posso resistere», anche se la sua espressione diceva diversamente. Tentava di non farsi prendere dalla nausea, ma era parecchio difficile. «E comunque, Takeshi è stato bravo a farla parlare, eh?».

«Sulle prime non avevo compreso il suo piano. È stato furbo», Tetsuya sorrise. «È sempre stato portato per queste cose». Il biondo ruotò i piedi, alle sue spalle, dove si trovava Takeshi.

O meglio, dove si aspettava fosse. Invece, il ragazzo stava correndo lungo la discesa.

«Dove diavolo– », Tetsuya si apprestò a rincorrerlo, ma subito si fermò. Non poteva lasciare Sayumi lì da sola, benché meno quella dannata vampira. Puntando i piedi a terra, urlò il nome dell'amico. «Take! Dove stai andando?!».

«Non possiamo aspettare! Sto andando a cercare l'altra!».

«Aspetta!».

 

Ma era troppo tardi. Takeshi si era mosso e non si sarebbe fermato.

Il bruno continuava a correre, più veloce che poteva, mentre il vento gli schiaffeggiava il volto. Sperava che Tetsuya non lo seguisse, non voleva che lui o Sayumi si mettessero in pericolo. Preferiva rischiare la vita in solitario.
Aiutato dall'inclinazione verso il basso della strada, il ragazzo non stava soffrendo nessuna stanchezza. Continuò a scendere e a sfrecciare per il quartiere, scarsamente illuminato e silenzioso come una tomba. Non aveva idea di dove avrebbe trovato l'altra creatura e l'umano rapito. Tutto ciò che poteva fare era continuare a correre e guardarsi attentamente intorno.
Dopo cinque minuti, le case di quel quartiere si facevano sempre meno curate e sempre più diroccate; inoltre, anche il selciato cominciava ad essere più rovinato, sgretolato, e al suo posto venivano alla luce terriccio ed erba incolta.
Ai lati, di fronte ai muri dei piccoli edifici, crescevano ingombranti ciuffi verdi e colorati fiori primaverili. Pochi metri dopo, Takeshi incontrò la fine del quartiere e delle case.

Di fronte a lui c'era un ampio prato, trascurato in svariati punti, e si vedeva il muro che cintava il paese – allora era arrivato alla fine del paese, non pensava di esserci così vicino.

Ansante, Takeshi continuò ad esaminare la zona. Oltre all'erba e a qualche sacco dei rifiuti, c'erano anche degli alberi. A cinque metri dalla sua posizione un tronco era sdraiato sul terreno e al di là di esso un piccolo e ovale laghetto silenzioso. Alle spalle del laghetto, Takeshi riconobbe quello che era un vecchio e stentato capanno, privo della parete di destra. Anche quella frontale non era messa bene.
E proprio lì, Takeshi vide qualcosa. Fu un attimo. Un lembo di un panno, scuro, che era svolazzato fuori dalla protezione del capanno.

Il ragazzo deglutì.

 

Fece un passo avanti, ammorbidito dall'erba. Poi ne fece un altro. Dentro al capanno... ora che ascoltava bene, gli sembrava di sentire qualcuno respirare nervosamente. A dir il vero, gli sembrava di sentire più di qualcuno.

Takeshi arrivò al tronco, a poco più di un metro dal laghetto. Da quel punto non riusciva a vedere niente.

«So che siete lì». Cercare di parlare con una creatura era una cattiva idea, lo sapeva. Per questo, nella sua mano destra stava già impugnando il coltello. «Libera immediatamente l'umano. Non te lo ripeterò un'altra volta». Takeshi trattenne il fiato, la fronte imperlata di sudore freddo. Ce l'avrebbe fatta. Ce la poteva fare.

Al di là del laghetto, vide una piccola figura. Stava uscendo dal capanno. Subito dopo, collegata alla sua mano, ne spuntò un'altra.

«Le bambine», bisbigliò Takeshi.

Le bambine si stringevano la mano con gli occhi pieni di lacrime e il respiro accelerato. Ad occhio e croce, sembravano illese, erano solo spaventate a morte. Takeshi avrebbe voluto spiccare un salto e prenderle subito, ma sarebbe stato troppo avventato.

Aprì la bocca per parlargli, quando la bambina più grande si girò, rivolgendo al ragazzo le sue esili spalle, come se volesse parlare a qualcun altro.

«Ti senti meglio?», chiese, con voce tremante e docile. «Qualcuno è venuto a cercarci... ».

 

Un istante dopo, una terza figura abbandonò il rifugio. Una figura femminile molto più grande di quella delle due ragazzine. Takeshi la guardò con sospetto, chiudendo la mano al manico del pugnale. Una giovane donna, indubbiamente; indossava un mantello blu scuro, con il cappuccio calato sul volto, che le lasciava scoperte solo le labbra. Il mantello era aperto di fronte, lasciando intravedere una camicia bianca e una gonna blu, gambe bianche e snelle e stivali color sabbia. I suoi vestiti, così come le gambe stesse, erano sporchi di sangue.

Takeshi non sapeva cosa pensare. Le due sorelle non avevano paura della loro rapitrice, era lampante. Increspò la fronte e strinse la bocca. «Sei stata tu a portare via le bambine da quella donna?».

La giovane posò le mani sulle spalle delle bambine e ruotò il viso, guardano prima la maggiore e poi la minore. Takeshi vide la ragazza incappucciata tremare, vistosamente, come se stesse per cadere a terra... e poi voltarsi verso di lui. Fece un passo in avanti e poi spiccò un salto, attraversando il laghetto. Takeshi sollevò il pugnale, pronto a difendersi, quando la ragazza scavalcò il tronco e gli gettò le braccia dietro al collo.

«Cosa diav– », spaesato, Takeshi l'afferrò per le spalle, tentando di allontanarla da sé.

Ma lei, invece, lo stringeva a sé ancora di più, ancora più dolcemente, infiltrando le dita nei suoi capelli e accarezzandoli. Takeshi era senza parole e nel panico.

E poi, mentre lei affondava il viso nella spalla del ragazzo, il cappuccio le scivolò sulle spalle.


Rivelando i suoi bianchi capelli.

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Stiamo riemergendo. ***


04.





Accadde moltissimo tempo fa. Charlotte ne conservava ancora il ricordo, tanto perché era stato il suo primo incontro con un vampiro e tutto sommato era stato quasi interessante.

 

Era l'autunno del 1919, la Prima Guerra Mondiale era finita da un anno, e le strade pullulavano di agitazioni e di ansie. In quel periodo in particolare, si sentiva parlare spesso di suicidi.
Per Charlotte era un periodo fruttuoso e molto impegnato; durante quell'anno, aveva visitato tutte le potenze che avevano partecipato alla guerra, facendo un continuo su e giù che le aveva causato parecchio jet-lag – ma non se ne lamentava praticamente mai. D'altro canto, lei sapeva benissimo che avrebbe continuato a fare quel lavoraccio, almeno per un altro paio di anni, e in genere non si tirava mai indietro. La ragazza sapeva che chiunque con un po' di sale in zucca avrebbe subito approfittato dei suoi servigi, di conseguenza avrebbe continuato a lavorare ancora per un po'.

 

Charlotte era più che felice di guadagnare – e di guadagnare così bene, poi! – e andarsene in giro non era male. L'unica inconvenienza erano quei bigotti che le capitavano tra i piedi ogni volta che metteva piede in uno stato. Lei arrivava nel paese e la scorta militare veniva a prenderla. Guardandola con una certa insistenza e una chiarissima espressione diffidente, o persino sprezzante.

Anche quella volta non fu diverso.

 

Charlotte scese i gradini della scaletta e atterrò sulla banchina della stazione, trascinando la sua valigia con uno strattone. La banchina era piena di persone che andavano e venivano, chi si apprestava a salire sul vagone, chi riabbracciava i suoi cari dopo un lungo tempo, svariati uomini in divisa militare. Una fitta nube di fumo si sollevava fino al cielo ingrigito. Charlotte alzò il mento verso lo spicchio di cielo che si intravedeva oltre il muretto dell'edificio, parandosi gli occhi con la mano. Tra le sue dita, lame di luce bianca le ferivano gli occhi.

«Benvenuta a Parigi, miss Duane».

 

Charlotte si voltò verso destra, abbassando il braccio lungo il fianco. Quattro uomini in blu e rosso, sulle spalle ingombranti fucili. Gli sguardi erano di ferro e acciaio, i visi magri e i nasi prominenti.

Non sbattono nemmeno le palpebre, pensò lei, rivolgendo loro un imperscrutabile sorrisetto. «Voi siete la scorta, presumo». Mah. Non avevano davvero niente di rilevante.

«Abbiamo l'ordine di accompagnarla dal Presidente Poincaré. Il Presidente ha molto da fare, quindi... », uno degli uomini aggrottò la fronte. Da sotto le folte sopracciglia bionde, fissava Charlotte con scetticismo malcelato.
Non è che avesse del tutto torto; quanto poteva dimostrare quella ragazza, diciott'anni? Diciannove? Era decisamente troppo giovane, troppo delicatina e troppo esile per poter parlare a quattrocchi con il Presidente della Francia. A primo acchito, Charlotte Duane non aveva niente di incredibile. Eppure... quello non era nemmeno il suo primo incontro con il Presidente.

«Quindi?», incalzò Charlotte.

«... quindi dobbiamo apprestarci».

Charlotte sogghignò. «Mi stavi fissando. Un bel po'». Quella volta, infatti, non era stata diversa dalle altre. Solo che, spesso e volentieri, Charlotte si divertiva a provocarli.

I compagni soldati risero sotto i baffi. Non fecero un granché per trattenersi. Il soldato che aveva parlato per primo serrò la mandibola e schioccò la lingua, ignorando la provocazione. «Allora? Ci segua e basta».

«Se vuoi cammino di fronte a te», sibilò Charlotte. «Così puoi guardarmi quanto vuoi».

 

Forse era lo stress del dopoguerra. Forse era la stanchezza di tante notte passate nelle trincee appena un anno prima, o la stanchezza di restare sveglio per quasi tutta la notte solo per fare la dannata guardia. Forse quel soldato era davvero troppo vicino al baratro.
Qualsiasi fosse la ragione, sta di fatto che alla nuova provocazione della ragazza, l'uomo l'aveva afferrata per il bavero della mantella, i lineamenti contratti dalla rabbia, dimenticandosi che di fronte a lui non c'era una donna qualunque. Il pugno del soldato tremava per la rabbia.
Intorno a loro il fischio del treno annunciava una nuova partenza e uno sbuffo grigio investì i finestrini e buona parte della banchina.

 

Gli occhi metallici di Charlotte sorrisero per le sue labbra.

E l'uomo l'avrebbe giurato, l'avrebbe giurato sulla sua patria... ma qualcosa, intorno a quella ragazzina, stava accadendo...

 

«State occludendo il mio passaggio», tuonò una voce. Quando il fumo si diradò e i soldati riuscirono a vedere chiaramente, di fronte a loro si stava già ergendo la colossale figura di un uomo. Era imponente come una statua, al punto da proiettare un'ombra nera su di loro, e alto quasi un metro e novanta.
Era alle spalle di Charlotte e tra loro c'erano a malapena dieci centimetri. L'uomo non si era preoccupato di mettere distanza fra di loro.

Lei ruotò il viso, socchiudendo le palpebre per guardare il nuovo arrivato in controluce.

«Spostatevi», disse l'uomo.

Aveva un bell'incarnato rosato, guance un po' scavate. Il viso ovale veniva incorniciato da una folta massa di capelli neri e lucidi, lunghi fino alle spalle, ed un paio di occhi neri e felini che la guardavano dall'alto in basso. Erano come pozzi bui.
Dietro di lui, il treno ricominciò a camminare, aumentando gradualmente la sua velocità. Entro pochi secondi i binari erano vuoti.

Lo sguardo dell'uomo si spostò sul soldato e sulla mano che stringeva la mantella e fece un sorrisetto, apparentemente divertito.

«Che-che hai da ridere?». C'era qualcosa in quell'uomo... che metteva in terribile soggezione. Si era limitato ad un sorriso, immobile, a meno di un metro – eppure era stato abbastanza per far balbettare un soldato sopravvissuto alla guerra.

Ma l'uomo non gli rispose. Continuò a guardare quella scena, poi fissò il volto pallido della ragazza. Incrociarono gli sguardi, ed entrambi non fecero un movimento. A quel punto, dopo che lui l'ebbe studiata per una manciata di secondi, si voltò in direzione del soldato e lo afferrò per il polso. La sua mano era coperta da un guanto nero di pelle. «Togliti dai piedi».
Charlotte non riuscì a vedere bene cosa stava accadendo, da quel punto di vista, oltre che al profilo dello sconosciuto e ai suoi lunghi capelli neri. L'unica cosa che le fu chiara fu come i soldati si impietrirono, terrorizzati, e subito dopo si spensero come candele.

Il soldato abbandonò la presa al bavero della mantella. Meccanicamente, voltò a destra, incamminandosi verso l'uscita della stazione accompagnato dai suoi tre compagni d'armi.
Entro pochi secondi il quartetto era sparito dalla circolazione.

 

Questo sì che è rilevante, osservò la ragazza.

L'uomo dai capelli neri si tirò indietro e oltrepassò la figura di Charlotte con un unico ampio passo, rivolgendole le larghe spalle.

 

La giovane cercò di studiarlo. Non aveva la benché minima idea di chi fosse, non aveva mai visto una persona come lui. Solo una cosa, però, le era chiara come il sole.

«Tu non l'hai fatto per aiutarmi», bisbigliò Charlotte, in modo che solo lui potesse ascoltare. «non è così?».

L'uomo ruotò il volto di tre quarti. Le labbra avevano un sorriso strano – come se si sentisse estremamente intrigato. Lei capì che aveva fatto centro.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Le aveva proposto di seguirlo. Non aveva detto dove, non aveva detto perché. Di sicuro quello non era un invito galante.

Charlotte aveva un appuntamento con il Presidente Poincaré quindi, a rigor di logica, lei avrebbe dovuto rifiutare e sgambettare in quella direzione – ovviamente.
Invece, aveva fatto tutto l'opposto; aveva accolto l'offerta del tetro e leggermente inquietante – eppure bellissimo – sconosciuto e l'aveva seguito fuori dalla stazione, infilandosi nella via centrale insieme a lui.
Stavano percorrendo il marciapiedi, costellato di case, la cui maggior parte era ridotta in condizioni pietose. Sulla strada i bambini giocavano ad inseguirsi come piccole volpi mentre le donne stendevano i vestiti bagnati o cucivano, appostate di fronte all'uscio della porta di casa come guardiani.

Charlotte cominciava a innervosirsi. Lui camminava ad ampie falcate e per quanto lei fosse veloce, non riusciva mai a raggiungerlo del tutto o stargli accanto.

Con un po' di fiatone e l'aria irritata, la ragazza sbottò: «Beh? Vuoi raggiungere l'Inghilterra a piedi o cosa?».

Un altro sorriso. Era tutto ciò che riusciva ad ottenere, a quanto sembrava.

«È chiaro. È qualcosa di cui non puoi parlare con gente intorno». Lui le lanciò un'occhiata silente e poi tornarono entrambi a guardare la strada di fronte.

 

Continuarono a percorrerla, – e stavolta Charlotte non ci provò neanche a capire dove stessero andando – per la bellezza di dieci minuti, svoltando a destra, a sinistra, di nuovo a destra. Lei si stava trascinando la valigia dietro sin dall'inizio ed era stanca morta e quell'idiota non si era neanche proposto per portarla al posto suo.
Quando aveva ormai perso ogni speranza e la sua pazienza era sul punto di annullarsi, lo sconosciuto entrò dentro una via, stretta da edifici, e si fermò di fronte al portone di un vecchio locale, apparentemente abbandonato. Sopra la porta di legno, dove avrebbe dovuto esserci il nome del locale, c'era un'insegna con una frase trascritta a caratteri eleganti.

«Libéré comme un fantôme oublié*... ?», Charlotte corrugò le sopracciglia. «Ma che roba è? Ma dove mi hai portato?».

«L'hai detto anche tu. Non possiamo parlare in un posto affollato».

«E quindi hai pensato bene di andare in un locale».

L'uomo la guardò con la coda dell'occhio, perdurando nel sorrisetto. Charlotte si fermò, aprendo la bocca lentamente. «Tu non sei un essere umano, vero?».

Ma l'uomo non rispose a quella sorta di domanda. «Vieni. Entriamo». Aprì entrambe le ante del portone, spalancandole verso l'interno.
Quello che si aprì di fronte agli occhi di entrambi non era un semplice locale. Per vari motivi. A Charlotte bastò annusare l'aria che impregnava l'ambiente per capire che lì dentro non c'era un singolo essere umano. Più flebile e lontano, si sentiva un vago odore di sangue fresco.
Il posto era piccolo e imbottito di tavoli, ma aveva un certo fascino raffinato; i tavoli circolari in legno scuro e le poltrone imbottite – impegnati dai clienti – occupavano la pavimentazione in cotto, illuminata debolmente da un lampadario al soffitto basso. In fondo sorgeva un bancone, occupato da una donna intenta a pulire svogliatamente un calice da birra, mentre alle sue spalle splendeva un arcobaleno di alcolici di ricco tipo.

Ma ciò che realmente colse alla sprovvista la ragazza fu come tutti i presenti stessero guardando verso di lei e l'uomo. A dir il vero, non appena le porte si erano aperte, uomini e donne erano già girati nella loro direzione. La stramaggioranza abbassò lentamente il capo, per poi rialzarlo.

Infine, ognuno riprese a parlare.

 

«Prego, prima le signore», cantilenò l'uomo dai capelli neri. Charlotte lo squadrò di sbieco, ma non si fece problemi, e proseguì, scendendo i tre gradini che precedevano il pavimento. Appena giunta, una porta sulla parete a sinistra attirò la sua attenzione. Essa era socchiusa e si intravedeva la figura di un uomo e la luce calda e gialla di una lampada ad olio.

«Non si sbircia», le bisbigliò all'orecchio. «Non te l'hanno mai detto in secoli di vita?».

Charlotte non si mosse. I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio.

«Non ti interessa se qualcuno sa che sei una strega. Oppure, non vuoi dare a vedere il tuo stupore. Quale delle due?».

«Forse entrambe. Non che ti riguardi, in ogni caso». Charlotte sospirò. Si passò la mano sinistra tra i capelli neri, scompigliando i boccoli scuri sulle spalle, noncurante. «Allora, per quale motivo un vampiro desidera parlare con me a tal punto da portarmi in un locale pieno zeppo di suoi simili?».

L'uomo le fece cenno di seguirla con la mano. Si insinuò tra i tavoli, mani nelle tasche dei pantaloni, con una facilità e una tranquillità che facevano ben intendere quanto spesso si trovasse in quel posto. Seguito dalla ragazza, l'uomo si fermò ad un tavolo accanto al bancone, l'unico vuoto – sempre e comunque vuoto, almeno fino al suo arrivo – e si lasciò cadere sul divanetto. Charlotte si accomodò sulla sedia di fronte a lui.

«Ah, già. Io sono Charlotte Duane». La strega lo osservava, un vano tentativo di studiare quello che, a tutti gli effetti, era un vampiro. Non aveva, non ancora, lunghe zanne al posto dei denti, e portava una collanina con una croce al collo. Lo osservava, pensando che magari avrebbe capito qualcosa. Ma era un tentativo futile.

 

Lui sollevò due dita verso la donna al bancone. I suoi magnetici occhi scuri brillarono. «E io sono Alyon Hendrik Akawa. Tu, cara strega, devi aiutarmi».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Il pugnale gli cadde dalle mani, affondando nel terreno morbido ai suoi piedi. Una caduta anonima e silenziosa.

La ragazza, non più incappucciata, non accennava ad allentare la sua stretta. Anche se lui ci avesse messo tutta la forza del mondo, non sarebbe mai riuscito a liberarsi. Ma, in quel momento, Takeshi non riusciva nemmeno a pensare, a malapena il respiro valicava le sue labbra.

Lui aveva visto dei capelli bianchi. Apparentemente lunghi. *

 

«Ti prego», vacillante, Takeshi sollevò le mani, appoggiandole sulle spalle della ragazza, aggrappandosi con le dita. «Uccidimi».

 

Perché se non era lei ad abbracciarlo così disperatamente, se quei capelli albini non appartenevano alla mezzosangue arrabbiata con il mondo, allora voleva morire, e basta. Aveva sofferto e non aveva mai smesso. Quello forse era il momento giusto per essere di nuovo felice.
Ma la ragazza, che aveva affondato la testa nella spalla di Takeshi, sembrava... star piangendo. Tremava e sussultava. La sua presa si indeboliva velocemente. «Sei... Yuki... ?», lui ancorò le mani sulle sue spalle e gentilmente la scostò da sé.

Takeshi guardò la ragazza in piedi, di fronte a lui – e sentì le forze venirgli meno.
Forse era un allucinazione. Doveva essere un allucinazione. Perché lei era morta tra le sue braccia, sparendo come cenere. Ma... la ragazza con gli occhi pieni di lacrime... era davvero lei.


Yuki Akawa era lì.

 

«Yu... »,.

 

Era lei. Era lei. Riusciva a sentire le carne sulle sue braccia, riusciva a sentire l'odore di sangue su i suoi vestiti. E ne riconosceva il viso ovale e piccolo, la pelle bianca e delicata come il petalo di una peonia. Gli occhi dal taglio a mandorla, coronati da folte ciglia e le iridi che spiccavano nel loro caldo dorato, un raggio di vita – i capelli baciati dal candore della luna e dall'argento.
Il collo sottile, le labbra piccole e rosee... le sopracciglia chiare, i capelli ondulati... riconosceva persino le clavicole spuntare dal pesante mantello, la punta del naso leggermente all'insù.

«Tu sei... Yuki. Sei tu. Sei tu, non è vero... ?», Takeshi sentì gli occhi andargli in fiamme. «YUKI!».

 

La ragazza ebbe un fremito, i suoi occhi titubarono prima di guardarlo. Le spalle vacillavano al di sotto, la mandibola si serrava e gli occhi le si riempivano di copiose lacrime prima che – prima che si gettasse fra le braccia di Takeshi, ancora una volta. Si buttò verso il suo petto, affondandoci il viso, circondando il suo torso con le braccia, aggrappandosi con tutte le sue forze alla felpa. Era lì.
«Yuki... Yuki... ». Takeshi la strinse, affondando le dita tra i capelli bianchi. La strinse a sé fin quando non sentì le sue costole premere contro le proprie, fin quando non ebbe più forza nelle gambe, incapace di sorreggere entrambi. Caddero in ginocchio, senza staccarsi un secondo da quella morsa di puro amore, ricordando in uno sfuggente secondo quell'intero anno passato insieme.

 

Takeshi aveva dimenticato la presenza delle due bambine, poco distanti, che guardavano la scena con la confusione dipinta in volto.

Nella testa gli sembrava di avere un vortice. Gli girava talmente tanto che per un attimo si sentì svenire.

Ma l'abbraccio e l'odore di Yuki lo riportavano a galla, verso l'equilibrio. Lo tenevano ancorato alla vivida realtà.

 

«Sorellona Yuki? Quel fratellone si sta sentendo male, per caso?», disse la sorella più piccola. Mano nella mano con la sorella maggiore, passarono accanto al laghetto e raggiunsero la coppia dall'altra parte, accanto al tronco disteso.

L'albina scosse lentamente la testa. Con estrema fatica, entrambi sciolsero l'abbraccio. Takeshi la guardava con lo sguardo pieno di smarrimento, di emozione e di paura. Ma era così bella. Era così bella, proprio come se la ricordava. La vedeva sorridere, con le guance arrossate per le lacrime, malinconicamente, gli occhi addolciti e lucidi.

«Stiamo bene», fu il bisbigliò dell'albina.

Era lei. Era la sua voce. «Yuki... Non... non capisco cosa... ».

La mezzosangue gli prese le mani tra le sue, rimanendo in silenzio, le sopracciglia basse. Un espressione un po' colpevole, un po' spaesata e persino debole. Lei pareva essersi rimpicciolita. Magari era solo una strana impressione, tuttavia Takeshi non poteva fare a meno di vederla più piccola e più esile.

Il bruno scosse la testa. Non aveva nessuna importanza. Raccolse il pugnale dall'erba, si sollevò in piedi e porse la mano all'albina. «Non capisco», esordì, spostando lo sguardo sulle due bambine. «Ma non importa. Se sei qui, allora non mi importa di niente».

 

Yuki prese la mano di Takeshi, afferrandola saldamente. «Sono tornata».

 

 

 

 

 

 

 

 

* Libré comme un fantôme oublié: libero come un fantasma dimenticato.

* Apparentemente lunghi: se vi va di farvi del male, provate ad ascoltare “Cage” di SawanoHiroyuki.

 

 

NOTA:

Okay raga mi sono emozionata scrivendo le ultime scene, ovviamente quelle tra Takeshi e Yuki. È normale questa cosa? Perché io non mi sento molto normale......

Ma parlando di qualcosa che non siano i miei disturbi [?], cosa ne pensate della situazione? O meglio, cosa ne pensate del fatto che Charlotte – una strega – abbia probabilmente collaborato con Alyon, moltissimi anni prima? Tenendo conto che l'attitudine di Charlotte non è ancora chiarissima, in questo capitolo, e che Alyon sa essere parecchio squilibrato.

Onestamente, per ora, questo è uno dei capitoli che più ho amato scrivere. E spero che anche voi sarete contenti di come sta filando!

BYE.

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Capitolo 5
*** I ricordi felici. ***


05.




 

Erano passati tre anni.

Tre lunghi, impalpabili e vani anni. Milleottanta giorni.

Senza di lei.

 

Takeshi non aveva pianto la sua morte. A sentirlo, sembrava un atto infelice. Qualche stupido avrebbe potuto anche pensare che lui non l'avesse mai amata, perfino.
Il problema era che Takeshi, a distanza di giorni dalla sua morte, dopo che l'aveva vista sparire di fronte ai suoi occhi, era certo che non sarebbe finita così. Era certo che da qualche parte, prima o poi, l'avrebbe rivista. Sarebbe riapparsa sull'uscio della porta, con una faccia trionfante. Takeshi ne era sicuro.

 

Tutti si erano preoccupati per lui. Chiunque gli fosse vicino, tra la famiglia, gli amici e i compagni di classe, pensavano che non stesse affatto bene. Specialmente perché era passato dalla disperazione alla tranquillità – e poi di nuovo, era sprofondato nell'angoscia.

Non ne poteva più. Non ce la faceva. Continuava ad aspettarla, giorno dopo giorno... invano.

Lei non arrivava. Non appariva su quel dannato uscio.

 

E poi ecco. Era successo. Quando aveva distolto lo sguardo, quando aveva appena cominciato a pensare che era andata via per sempre. Quando tutto ciò aveva cominciato ad affondare le radici nel suo petto...

 

 

Takeshi girò la testa, guardando in basso, verso le giovanissime sorelle che camminavano accanto a lui.

Si chiamavano Haru e Momo, avevano capelli castani e lunghi e grandi occhi spaventati. Durante il tragitto, le bambine avevano raccontato cos'era successo. Quella mattina avevano accompagnato i genitori per il mercato, specialmente perché volevano farsi comprare qualcosa. Mai si sarebbero aspettate di venir trascinate via dai loro genitori.
Tutto era accaduto ad una velocità incredibile, a tal punto che né Haru né
Momo avevano fatto in tempo ad urlare – a stento avevano compreso cos'era successo. Non erano riuscite a scalciare, a liberarsi dalla stretta di ferro della sconosciuta, che le aveva prese entrambe come se non pesassero nulla. «Quella signora diceva che non potevamo restare nel villaggio», spiegò Haru, la maggiore. «Ed era sempre super arrabbiata».

«Probabilmente non voleva rimanere nel villaggio mentre tutti vi cercavano», osservò Takeshi, sorridendole.

«E poi, e poi... la sorellona Yuki è apparsa all'improvviso e ha fatto “baam”!», esclamò Momo, allargando le braccia per simulare un esplosione. «Ha colpito la signora, che è caduta a terra come un sacco di patate, e la sorellona ci ha portato subito via da lì».

Takeshi lanciò un'occhiata all'albina, tanto per assicurarsi che Yuki fosse ancora lì; la ragazza non si era pronunciata sulla versione dei fatti delle piccole umane. Ascoltava il loro racconto, abbozzando un sorriso di tanto in tanto, camminando alla sinistra di Takeshi. Stringendogli la mano.

«Ma di Yuki non avevate paura, eh?».

«No, perché la sorellona... », Momo si tamburellò la guancia. «La sorellona è proprio bella».

«No!», ribatté Haru, afferrando la minore per il braccio. «Non è per questo!». Spazientita, Haru si rivolse a Takeshi con il broncio. «È perché la sorellona stava male... se uno sta male, sta nel letto a riposare, no? Invece lei non stava riposando, per niente. Quindi è una persona responsabile».

Il ragazzo sbatté le palpebre. Non aveva capito il ragionamento della bambina, ma andava bene comunque. La cosa più importante era che avessero subito percepito la bontà della mezzosangue.

 

Procedendo lentamente, senza fretta, il quartetto stava risalendo la strada che portava al quartiere, dove forse si trovavano ancora Tetsuya e Sayumi. La strada era uguale a prima – ovviamente – ma tutta l'oscurità e tutto il silenzio opprimente che Takeshi aveva percepito... sembrava tutto un vago ricordo. Adesso sentiva solo voci energiche e tanta luce.

«Yuki?». Dal momento che la mezzosangue non diceva una parola, il bruno temette ancora una volta che fosse solo un allucinazione. «Stai... bene? Haru diceva che stavi male... ».

Yuki si voltò, causando un sussulto nel ragazzo. Cavolo. Era passato troppo tempo.

«È una storia... davvero lunga», e tacque. Chiuse gli occhi ed espirò dalle narici. «Sarebbe meglio parlarne dopo», Yuki gli sorrise, dolcemente – gli occhi oro brillavano. Takeshi riuscì solo ad annuire, in silenzio, e a continuare a camminare. Dopo pochi minuti, tuttavia, il ragazzo riconobbe le case e si rese conto che erano ormai molto vicini, per cui si fermò.

«Forse sarebbe meglio se li preparassi».

L'albina inclinò la testa di lato. «Pensi che sverranno?».

«Se Yumi non sviene, allora io sono Batman». Lei ridacchiò – e lui rimase a guardarla, provando nostalgia, malinconia e sollievo. Poi si rivolse alle sorelle, porgendogli ambe le mani. «Voi invece venite con me».

«Stiamo andando a casa?», mormorò Momo, strofinandosi un occhio.

«Esatto. È un po' tardi per voi due. Tempo di andare sotto le coperte». Le bambine presero le mani di Takeshi, lasciandosi condurre verso la fine della strada, in cima. Ma subito dopo entrambe si girarono a guardare Yuki, salutandola con le piccole mani, sorridenti e assonnate.

L'albina, a sua volta, sventolò la mano.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Ascolta, lo so che vuoi venire anche tu, ma è troppo pericoloso». Tetsuya stringeva le spalle di Sayumi, sperando che il gesto inducesse la ragazza a fare un passo indietro. Sembrava già abbastanza indecisa, quindi se avesse insistito ancora un po' forse l'avrebbe ascoltato. Sayumi un tempo avrebbe insistito fino allo sfinimento per andare anche lei. Ma adesso, cosa avrebbe fatto? «Sayumi».

Sayumi sollevò la testa di scatto, la bocca schiusa. Un'ombra fitta calò sul suo viso e qualcosa di tiepido e morbido si posò sulle sue labbra. Solo svariati secondi dopo si rese conto che quelle erano le labbra di Tetsuya e che lui, all'improvviso, la stava baciando.

Lei aveva fatto in tempo solo ad alzare la testa verso di lui, che era così alto e slanciato, ed era stata colta alla sprovvista. Tetsuya si allontanò, lentamente. Quando si staccò, le accarezzò i capelli rosa con il palmo della mano.

«Okay, ho capito», borbottò lei. Infilò le mani nella borsa di tela. «Almeno porta qualche erba medicinale con te. Tanto per precauzione. Magari l'ostaggio è ferito». Un bacio non era abbastanza per farla retrocedere. Ma quel bacio significava che il vampiro era preoccupato. Preoccupato che la circostanza sarebbe stata molto pericolosa.

«Buona idea». Tetsuya, che dava le spalle alla discesa, puntò gli occhi ametista sul muro. Sia la donna che il suo lurido sangue erano spariti, gli Addetti avevano fatto un lavoro con i fiocchi, come al solito. Erano andati via da poco, ma ci avevano messo più tempo del previsto a giungere da loro, e Tetsuya fremeva dall'ansia – sebbene non lo desse a vedere.

Sayumi estrasse la mani dalla borsa, tenendo ben stretti dei sacchetti trasparenti di plastica. «Ecco qua, fai–», ma a quel punto i suoi occhi scorsero una figura maschile e spalancò la bocca. «TAKE!».

Il vampiro sobbalzò per lo spavento. Si girò, di scatto, rabbuiato. Non poteva credere ai suoi occhi.


Takeshi camminava con tutta la calma del mondo, mano nella mano con due bambine umane, parlando con loro come se fosse al parco giochi. Solo quando sentì l'urlo di Sayumi il ragazzo si irrigidì e spostò lo sguardo, guardando i suoi amici con l'espressione di qualcuno che voleva girare i tacchi. Abbozzò un sorriso tirato, borbottando: «Ahh, ehyyy... ».

«Tu sei un IDIOTA!», esclamarono all'unisono i due.

«Come diavolo ti è venuto in mente di andare da solo?!», sbottò la ragazza. «Cosa avresti fatto se fossero stati in due?».

«Se ti prendo ti faccio passare la voglia di correre», sibilò il vampiro. «Oppure te la faccio aumentare, punti di vista».

«Bene, è chiaro che siete furiosi. Mi dispiace. Avrei dovuto pensarci due volte. Ma, in compenso, ho... delle notizie». Takeshi fece un paio di passi avanti, insieme alle ragazzine che ridacchiavano, ascoltando i rimproveri. «Loro due... sono le bambine... ».

«Le bambine rapite al mercato». Tetsuya sgranò gli occhi. «Quindi, il fantomatico “pasto” erano loro due... ».

Takeshi annuì.

«Cavolo... dobbiamo portarle subito dalla polizia», disse Sayumi.

«Sì, ma... c'è dell'altro». Era una bellissima notizia da dare ai suoi amici, che avevano sofferto amaramente in quegli anni. Chissà, magari stavolta avrebbero pianto di gioia. Eppure, da quando aveva capito che si trattava di Yuki, non aveva mai smesso di provare una certa ansia. Non capiva cosa stava succedendo. Non capiva com'era possibile che lei, divenuta polvere e cenere, ora era in carne ed ossa. Respirava. Parlava. Combatteva.

Com'era possibile? «E non ho... idea di come dirvelo... ».

«Mi stai spaventando», sussurrò Sayumi. «Take. Che cosa succede?».

 

Takeshi attese – no, a parole era quanto di più impossibile. Allora ruotò i piedi alle sue spalle e sollevò il braccio, scuotendolo un paio di volte, di fronte agli sguardi confusi e in apprensione dei due. La loro confusione, però, presto sparì: loro videro una figura, avvolta da un mantello blu, mentre risaliva la strada in selciato, con gli occhi puntati, determinati; scorsero i suoi capelli bianchi fluttuare al vento mite e notturno. Riconobbero i suoi colori e le sue sfumature.

«No... », sussurrò Tetsuya, senza fiato. «Sto... stiamo sognando... ? Non può essere... ».

Yuki si bloccò, come se si fosse spenta improvvisamente. Stringeva i pugni, guardando tutti e tre, serrando le labbra e creando un solco fra le sopracciglia. La sua espressione facciale era un po' truce, ma in realtà era solo tesa ed emozionata. 
Ma non importava, anche se la sua fosse solo una faccia truce. L'avevano conosciuta così, l'avevano vissuta in quelle vesti. Quindi un espressione truce era quanto più potevano desiderare.

Sayumi fece un passo in avanti. Alzò il braccio destro, leggermente, e allungò la mano, fino a ché le dita non toccarono la guancia della mezzosangue. Quando sentì il calore della sua pelle sotto i polpastrelli, gli occhi le si riempirono di lacrime roventi.

Era il calore della vita. La vita che le stava scorrendo.

«No», singhiozzò. «Non stiamo sognando. È lei. È la nostra Yuki».



E poi, la solitaria mezzosangue si ritrovò sommersa in un tenero e dolce abbraccio.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Dopo aver accompagnato le bambine alla stazione di polizia, tutti e quattro imboccarono la strada per raggiungere le porte del villaggio. L'intenzione era, dopo una serata così movimentata e piena di sorprese, di dirigersi verso casa e riposarsi. Forse avrebbero parlato, forse avrebbero riservato le domande per l'indomani – mentre salutavano i genitori di Haru e Momo, tutti e quattro si ponevano le stesse domande: avrebbero parlato? La questione sarebbe caduta lì, per quella sera?
Risalendo la collina, il silenzio tra loro era intenso come una fitta coltre di nebbia. Tetsuya guardava di fronte a sé, tenendo gli occhi vigili e ben aperti; Sayumi fissava l'erba che calpestava, con un espressione pensierosa; e Takeshi non riusciva a fare a meno di gettare occhiate a Yuki, il cui mantello scuro svolazzava al vento.

Dopo circa venti minuti, i ragazzi erano giunti di fronte agli scalini di casa. Yuki sollevò e ruotò il viso a sinistra e a destra, studiando l'abitazione nei minimi particolari. Se allungava il collo, intravedeva sulle fiancate della casa piccoli orticelli. «Che bella casa», commentò, parlando più a se stesse che agli amici.

Tetsuya, che stava girando la chiave nella serratura, sorrise.

«Ti piace?», chiese Sayumi, con un sorriso. «Ci ha vissuto Tetsuya per un periodo di tempo».

«Davvero?». L'albina inclinò il capo di lato, sorpresa. «Non lo sapevo».

Ora che il vampiro aveva fatto scattare la serratura e la porta si stava aprendo, Yuki riusciva a percepire gli odori e la presenza degli amici in quella casa.

Salì i gradini, superò la veranda e fece il suo ingresso nel soggiorno. Anche in quel punto, appena entrata, si diede una manciata di secondi per ammirare l'ambiente del primo piano; la cucina sulla destra, dall'aspetto artigianale ma efficiente, e il piccolo salottino colorato sulla sinistra. Non sembrava per niente lo stile dei due ragazzi: ad occhio e croce, era stata Sayumi ad arredare la maggior parte della casa.

Takeshi chiuse la porta alle spalle della mezzosangue.

 

«Sarai stanca morta», disse, avvicinandosi a lei con il viso per parlarle. «Ti faccio vedere dove puoi dormire, okay?».

Yuki – che non si era aspettata quella repentina vicinanza – sussultò leggermente, ma annuì, più volte. «Sì, grazie».

«Hai fame?», chiese Tetsuya, di fronte al frigorifero aperto. «Vuoi mangiare qualcosa?».

«No, sto bene così. Ho mangiato qualcosa qualche ora fa».

«Qualche ora fa... », ripeté Takeshi.

«Mi ricorda l'ora del pranzo, quando andavamo a scuola». Sayumi ridacchiò, ripensando brevemente a quei momenti. «Non mangiavi quasi mai nulla. A meno che non ci fosse qualche dolce, ovviamente».

«Mentre tu sbranavi il tuo bento come se fosse il tuo ultimo pasto», ribatté l'albina.

«Beh, erano buoni!».

Entrambe si misero a ridere e continuarono, per svariati secondi. Forse stavano ridendo più del dovuto – cosa c'era di così divertente? – ma non riuscirono a smettere subito. Come se qualcuno avesse schiacciato un tasto.

«Vieni, ti porto sopra», disse Takeshi, incamminandosi verso le scale. L'albina, salutando Sayumi e Tetsuya, si accinse a seguire il bruno verso il secondo piano.
Una volta salite le scale, Yuki si sorprese di scoprire un corridoio così piccolo; c'erano cinque stanze, tutte ben separate. Cinque stanze sembravano un bel po' per solo tre persone – o almeno, erano troppe per loro tre. Era curiosa, avrebbe voluto sapere cosa contenevano quelle camere.

Takeshi, che si muoveva di fronte a lei, si fermò di fronte alla prima porta sulla parete. Si toccò il mento, pensieroso.

«Cosa c'è? Ti sei dimenticato come si aprono le porte?».

Lui ridacchiò. «Ah-ah. No, avevo... un dubbio», d'altronde, non si vedevano da ben tre anni. Okay, in teoria, loro erano ancora... una coppia. Stavano ancora insieme. No? Giusto? «Oltre questa porta c'è la mia stanza».

«Okay... bene».

«Poi c'è questa in mezzo, la seconda», continuò il bruno. «la camera degli ospiti. Infine, la terza... ».

«... in poche parole», lo interruppe la mezzosangue. «Non sai se farmi dormire con te nella tua stanza o nella camera degli ospiti?». Takeshi si voltò verso di lei, pronto a risponderle con la solita sfacciataggine, ma quando vide il sorrisetto divertito sulle sue labbra si sentì in imbarazzo. Tremendamente. Cavolo, se non fosse stato lui, avrebbe rischiato di arrossire. «Forse», mormorò lui, scostando lo sguardo.

Yuki si strinse nelle spalle. «Voglio stare con te».

Takeshi si sarebbe strozzato con la saliva se non avesse l'autocontrollo di un soldato. Non era tanto l'idea in sé di passare la notte con lei – anche se poi, non avevano mai avuto il tempo di condividere un letto per più di due minuti – quanto più che fosse stata la mezzosangue a pronunciare quelle parole, proprio lei, la stessa ragazza che piuttosto si sarebbe tagliata la lingua.

Ma, ancora una volta, loro non si vedevano da tre anni. Molte cose erano cambiate. Probabilmente.

Takeshi si girò un'altra volta verso di lei. Le sue pallide guance si erano leggermente colorate di rosa e adesso guardava dappertutto eccetto lui. «Bene», sussurrò il bruno. «Sono felice. Grazie per avermi tolto un peso».

«Beh... di niente».

«Okay, allora... ».

«Sì?».

«Vuoi andare a dormire? Oppure, non so, preferisci restare sveglia... ».

Yuki si passò le mani tra i capelli, per poi massaggiarsi dietro il collo. «Penso che adesso mi cambierò i vesti– … cavolo!».

«C-cosa c'è?».

«La mia valigia!», esclamò l'albina, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. «Ho dimenticato la mia valigia nella tavola calda... ».

Takeshi sbatté le palpebre. «Com'è potuto succedere? Sei ancora un vampiro e un demone, vero?».

Yuki sospirò. «La vampira che stava per cibarsi con le bambine... avevo sentito la sua presenza mentre mangiavo alla taverna. In realtà stavo per andarmene, ma appena ho sentito l'odore di quella vampira e la paura che le aleggiava intorno, sono partita in quarta. Lasciando... la mia valigia lì».

«Se siamo fortunati, domani mattina potremo passare a recuperarla», disse Takeshi. Intenerito, le accarezzò la testa. «Maldestra». Ma prima ancora che l'albina potesse protestare, il bruno si era avviato giù per le scale. «Vai nella terza stanza. Prendi qualche vestito da Sayumi, l'avverto io».

La mezzosangue lo vide sparire nel piano inferiore, oltre il suo raggio visivo, veloce come un fantasma dispettoso – lei espirò dal naso, increspando la fronte. Com'era iperattivo! – non che potesse giudicarlo. Lei, al contrario, magari poteva sembrare troppo calma...

Ruotò i piedi e puntò verso la terza stanza, quella citata dal ragazzo. Dal piano di sotto giungevano le loro voci, leggermente concitate, piene di colore e di serenità, come un fuoco scoppiettante. L'albina accennò un sorriso e camminò in direzione della porta; dopo pochi passi, si trovò di fronte al pomello dell'entrata e, senza indugiare ancora, lo ruotò e spinse lentamente la porta verso l'interno, facendo cigolare i cardini.

Era una stanza bella, abbastanza spaziosa, ed emanava calore e tranquillità. Yuki ci avrebbe messo la mano sul fuoco, doveva essere bello rilassarsi lì; c'era un grande letto matrimoniale dalle coperte color sabbia, in mezzo alla stanza, con la testata sulla parete parallela, e ad entrambi i lati vi era un piccolo comodino. Su quello a destra svettava un libro, non particolarmente massiccio. Yuki aguzzò la vista, sull'uscio, e lesse il titolo - “The Man who spoke to the Witch”.
Sul comodino alla sinistra c'era una piccola agendina rossa, in pelle e rilegata, una penna che faceva da segnalibro tra le pagine. Proprio accanto, un portafoto. Yuki vi si avvicinò, passo dopo passo.

Oh... quella foto. Erano loro quattro. Se la ricordava bene, Sayumi aveva insistito per farla – accadde una notte in cui Yuki li aveva invitati per un pigiama party.*

Ridacchiando, esaminò le espressioni di ognuno di loro, da quella scocciata e seria di Tetsuya a quella dolce e solare di Takeshi, fino all'enorme sorriso di Sayumi. Yuki, invece, era un po' imbarazzata, ma tutto sommato... felice.


Si allontanò dalla foto e continuò a guardarsi intorno; sulla parete sinistra c'era un armadio e una grande cassettiera e sulla parete destra un grande specchio, dalla cornice dorata, appoggiato contro il muro. Accanto, un paio di mensole con svariati oggetti, tra cui libri e peluche e infine, sulla parete di fronte al letto, una piantana.

Se devo prendere dei vestiti, allora penso che dovrei andare verso l'armadio o la cassettiera, pensò Yuki.

Non amava l'idea di mettere le mani nei cassetti altrui, ma non sopportava più quei vestiti.


Aprì dunque il primo cassetto che le capitò sott'occhio, scoprendo una vasta gamma di vestiti – ma non abiti adatti per dormire. Lo richiuse, con cautela, e passò al secondo cassetto. Camice. Bianche, nere, blu, qualcuna azzurra, qualche altra grigia. Ma Sayumi aveva mai indossato una camicia? Che lei ricordasse, no – perplessa, le guardò più attentamente. Erano piegate con estrema cura, non avevano un lembo fuori posto... non è che Sayumi fosse disordinata o sciatta, ma non era così meticolosa.

«Aspetta», bisbigliò l'albina. «Non è che... ». Prese una camicia bianca e l'aprì, spiegandola di fronte ai suoi occhi.

Beh, quella decisamente non era una camicia da donna. Era grande quasi il doppio di Sayumi.

La domanda era: perché nella stanza di Sayumi c'erano camice da uomo?

«No, aspetta», ripeté l'albina, aggrottando la fronte. Si voltò, guardando il letto. Un letto matrimoniale, due comodini. Vestiti da uomo. Un arredamento piuttosto tranquillo per essere la stanza della sua migliore amica.


«... Mi stai dicendo che... ?».

 


 

 

 

 

 

* pigiama party: piccola precisazione! Questa scena non appare né nel primo atto né nel secondo, poiché non era particolarmente utile al fine della trama. Tuttavia, loro hanno effettivamente fatto questo pigiama party, anche perché è stato scritto.

 

 

 

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Capitolo 6
*** Un'esistenza che fluttua nel buio pesto. ***


 

06.





Yuki si appoggiò alla porta chiusa. Fissò il pavimento di fronte ai suoi piedi, la fronte aggrottata.

Cavolo, questo corridoio è claustrofobico. Meglio non restarci per troppo tempo. Sì, meglio scend–... voglio dire, ci sono ben tre camere da letto, ma Yumi e Tetsu la condividono e non penso proprio che abbiano voglia di fare i boy-scout. No, direi proprio di no, e se quei due avevano davvero una relazione sentimentale, se erano davvero una coppia, un fidanzata e un fidanzato, beh, lei non aveva nessun problema con questo. Neanche. Un. Problema.

 

Lei non aveva il predominio sulle loro scelte. Per essere chiari, nessuno lo aveva. Per questo non era un problema se Sayumi e Tetsuya avevano scoperto di piacersi.

L'albina strinse i pugni. Solo che... lei se lo era persa.

 

Con indosso una maglietta rosa pastello a maniche lunghe e un pantaloncino del medesimo colore, Yuki si diresse verso il piano inferiore. I ragazzi stavano ancora parlando fra di loro, ma avevano abbassato la voce rispetto a prima. L'albina continuò a scendere le scale, la mano che scorreva lungo la parete liscia, fino a ché il suo piede non incontrò il parquet del pavimento.
I tre erano sul divano, Sayumi in mezzo. Tetsuya si accorse del suo arrivo e fece cenno ai due umani.

«Ehy!», trillò Sayumi, sollevando il mento dalle ginocchia, con un sorriso a illuminarle gli occhi. «Ti sta bene il rosa! Si sposa bene con i... capelli?».

«Ah... grazie», Yuki si prese una ciocca tra le dita, rigirandola, ma quella subito le scappò dai polpastrelli. «Yumi? Ti sei incantata? Anzi. Vi siete incantati?».

Takeshi la fissava. «Hai... tagliato i capelli?».

 

Tutti e tre erano quanto più sorpreso ci potesse essere. La studiavano meravigliati, sbattendo le ciglia, analizzando la chioma argentea. La mezzosangue alzò le spalle. Sì, beh... li aveva dovuti tagliare, se voleva essere precisa, all'altezza delle spalle. Non aveva mai pensato di tagliarli, nemmeno una volta da che avesse memoria, ma per via di quell'incidente non aveva avuto scelta – la lunga chioma che le aveva sempre guardato la schiena era stata brutalmente dimezzata.

«Ma tu amavi i tuoi capelli lunghi», replicò Sayumi, all'alzata di spalle dell'amica. Yuki, dal canto suo, si lasciò cadere sulla poltrona accanto a Takeshi, raccogliendo le ginocchia al petto.

«Fin da piccola li hai sempre avuti così», ricordava il vampiro, perplesso. «Non è che ti stiano male più corti, ma... ».

Takeshi la osservava, con attenzione. «Non l'hai fatto perché volevi. Non è così?».

La mezzosangue non rispose. Non c'era bisogno di farlo. Conoscevano già la risposta, quasi meglio di lei.

«Yuki», riprese Takeshi. «Che cosa è successo in questi tre anni? Se ora sei qui... vuol dire che non sei mai sparita?».

 

L'atmosfera allegra e amorevole che Yuki aveva avvertito quando si trovava in cima alle scale sembrava essere sfumata nel nulla – ne sentì un grammo di colpa. Lo comprendeva, era un argomento troppo teso per far sì che l'allegria perdurasse. L'aria si stava facendo pesante, fino e sconvolgerle i tratti del viso.
«Allora ne parleremo adesso, eh?». Rimandare non avrebbe fatto altro se non agitarli inutilmente. Lei si soffermò ad analizzare i visi dei suoi amici, cogliendo l'apprensione, la confusione, la sete di conoscenza – nelle bocche serrate, le sopracciglia inarcate e le iridi fisse. «Bene, se è così... lasciate che vi racconti tutto, sin dall'inizio. O meglio, vi racconterò tutto quello che è successo... da quando ho riaperto gli occhi».

 

 

 

 

***

 

 

 

«Ricordo bene com'era finita. Prima di... morire, per mano di Alyon. Ricordo di avervi visti in viso, tutti e tre, prima che tutto diventasse buio e il mio corpo si dissolvesse. Tra l'altro, è una sensazione indecifrabile: non senti dolore. Almeno, io non ho sentito dolore. Ricordo solo che, molto presto, non sentivo più sensibilità nelle gambe, poi nelle braccia e poi, come vi ho già detto... buio. Fitto, totale.
Ma la mia coscienza era ancora lì.
Mi sentivo come un paio di occhi che guardano il nulla più assoluto. Sospesa in una bolla. Non faceva freddo, lì, dovunque io fossi, non faceva caldo – non c'era niente. C'eravamo solo io e i miei pensieri leggermente autodistruttivi. Non chiedetemi quanto tempo continuai a rimanere sospesa in quel modo, perché non ne ho la più pallida idea; se ci penso adesso, mi sembra di averci passato due minuti.

Poi, un istante dopo, qualcosa cominciò gradualmente a cambiare. Se prima ero più simile ad un batterio volante nello spazio, adesso mi sentivo almeno umanoide. Non potevo vedere ciò che accadeva attorno a me. Però percepivo le gambe e le braccia, il collo, le mani e i piedi... sentii che ogni pezzo che avevo perduto stava tornando da me, come un magnete.

 

Man mano che il tempo passava, sentivo freddo. Man mano che il tempo passava... », fece una pausa. «... ero sempre più sola. Volevo uscire da lì. Non sopportavo più tutta quell'oscurità, tutto quel freddo e non sopportavo i miei pensieri. C'eravamo sempre solo noi, io e loro. Io e loro.

Pensai che ventiquattro ore erano passate. Non credo esistesse il concetto di tempo, là, ma ad occhio e croce un giorno era trascorso. Non so cosa me lo fece pensare... so solo che, dopo tanto tempo, cominciai a sentire un suono. Mi sembrò un miraggio. Pensai, “ah, ecco, sono del tutto impazzita”. Lì non avrebbe dovuto esserci nessuno, giusto? L'ho creduto per tutto il tempo perché non avevo sentito assolutamente niente fino a quel momento.
Il suono che sentii era un fruscio. Lo sentì altre due volte e poi percepii sulla pelle un tessuto, forse un lenzuolo. Ero così contenta di sentire qualcosa che avrei voluto saltellare. Non riscaldava granché, ma era già qualcosa.

 

Tuttavia, com'era possibile che fosse magicamente comparso un lenzuolo sul mio corpo? Mi dissi... ehy, forse c'è qualcun altro, qui. Forse non sono completamente sola. Questo pensiero continuava ad agitarsi, insieme agli altri tremila. Cominciava ad assumere una forma. Diventavo un po' speranzosa.

 

Il buio diventava un po' meno buio. Diverso tempo dopo, capii che quel buio non erano altro che le mie palpebre. Avevo gli occhi chiusi. Li avevo tenuti chiusi sin dall'inizio. Insomma, mi sono inflitta una pena in più in tutta autonomia.

Attraverso la sottile pelle delle palpebre, vedevo qualcosa di aranciato... poteva essere... una luce? Sembrava la luce di una lampadina, ma anche questo mi sembrò parecchio assurdo», tamburellò le dita sulla gamba, nervosa.

«Di tanto in tanto, c'erano altri suoni. Dei rubinetti, o almeno credo, che sgocciolavano. Delle porte che si aprivano e chiudevano. Dei passi, leggeri e cauti, felpati. Mi convinsi che c'era davvero qualcuno, qualcuno che si trovava lì per qualche ragione, magari... morto quanto me.

Ne ero sempre più certa. Desideravo capire chi fosse, desideravo aprire gli occhi e alzarmi. Allora provai a muovere le dita, provai ad aprire le labbra, ad inarcare le sopracciglia. Niente. Ci avrei provato ancora.

Non facevo più caso alla concezione del tempo. Non aveva senso, ormai. Piuttosto, cercavo di tendere le orecchie e ascoltare tutto quello che mi accadeva attorno; i suoni erano sempre gli stessi e accadevano con una certa frequenza: più tempo passava, più si facevano presenti. Quando sentivo qualcosa, provavo sempre a muovere qualche parte del colpo, per attirare l'attenzione. Non avrei smesso. Non mi sarei fermata.

 

E così, tentanto e ritentando... riuscii ad aprire gli occhi».

 

 

«La fredda stanza che mi aveva dato brividi per tutto quel tempo era una camera mortuaria. Ma certo, mi sembrava anche sensato. Ero morta, ovviamente dovevo essere in un obitorio o una camera mortuaria. Era quasi tutto metallizzato, dal lettino su cui ero sdraiata, al rivestimento del lavandino, agli armadi sparsi per tutti gli angoli. Sul soffitto, pendente sopra la mia testa, c'era una lampadina che emetteva luce accecante.
Incredibilmente, riuscii a mettermi seduta. Finalmente... potevo muovermi. Ero stata sdraiata per chissà quanto tempo... ma non sentivo nessun dolore o fastidio. C'era solo un piccolo problema: ero completamente nuda. Addosso avevo solo quel lenzuolo, che mi era subito scivolato in grembo. Sì, ero morta, a quanto pare, ma il pudore è una cosa parecchio affascinante.

Molto lentamente, scesi dal lettino, restando in piedi. La prima cosa che feci fu esaminare la stanza, vuota. Poi afferrai il lenzuolo e mi avvolsi in esso, abbozzando un nodo per renderlo sicuro. Adesso potevo cercare di scoprire cosa diavolo stesse succedendo.

 

Andai subito alla porta della camera mortuaria. Per un breve secondo, esitai. Chissà cosa mi avrebbe aspettato, dall'altra parte. Pensai, “magari sto per morire di nuovo”. Ne pensai tante, di cose.
Allora, aprii la porta. Dispiegato davanti a me, mi ritrovai uno spazioso e lungo corridoio, costellato di finestre sulla destra. Fuori dalle finestre il cielo era di un blu scuro, senza stelle, senza nuvole. La luna era piena e alta, splendente, l'unica fonte di luce di quel posto. Devo ammetterlo, faceva... paura.
Non avevo idea di dove fossi, perché fossi lì, e cosa stava accadendo. Mi feci coraggio. Dovevo andare avanti. Dovevo capire. Respirai profondamente e misi un piede avanti, appoggiandolo sul marmo liscio del corridoio, poi feci lo stesso con l'altro piede. La porta alle mie spalle, della camera mortuaria, si chiuse quasi all'istante, recludendo la sua luce.
Quando mi voltai, c'era solo una parete di fronte ai miei occhi. Forse stavo cominciando a capire qualcosa.

 

Camminai lungo il corridoio, stringendomi il lenzuolo addosso.

Cominciai a chiedermi: che fine hanno fatto i miei poteri elettrici e la mia forza di vampiro... e la mia follia di demone?», lei e Tetsuya si guardarono un istante. «Voi l'avete visto, io infine l'ho capito. La follia mi aveva pervasa. Mi aveva mangiata. Però, in quel luogo, non sentivo niente se non un po' di paura e nervoso. Beh, sostanzialmente, avevo paura perché non sapevo se sarei stata in grado di proteggermi.
Proseguii lungo il corridoio, scarsamente illuminato. Nonostante stessi macinando metri su metri, il corridoio sembrava non finire mai, sembrava sempre più profondo.

 

Stavolta mi sbagliavo. Raggiunsi il suo fondo. C'era una porta, uguale a quella di poco prima, come una fotocopia. Appoggiai la mano sulla maniglia e la spinsi verso il basso, aprendo pian piano la porta. Schiudendola lentamente. Al suo interno, c'era solo nero.


Spalancai la porta e diedi un'occhiata più approfondita. Lo spettacolo che mi si parava di fronte era come quello che avevo vissuto all'inizio. Il nulla più totale. Quella visione mi aveva sconfortata; avrei potuto provare ad uscire dalla finestra ma avevo la netta sensazione che avrei avuto una brutta sorpresa, in cambio. Se invece avessi oltrepassato quella soglia, forse sarei tornata ad essere un paio di occhi che fluttuano nel nulla cosmico.
Me ne stavo lì, in piedi... e poi mi dissi: ma che stavo facendo? Ero morta. Per me, era tutto finito. Quindi... che stavo facendo? Perché provavo a fare qualcosa? Perché continuavo, testardamente, a cercare una soluzione per... salvarmi?
Mi coprii il viso con le mani. Volevo piangere, ma non una sola lacrima varcava i miei occhi.

 

“Non fermarti”. Così udii alle mie spalle. Una voce, femminile, dolce, vellutata. Il solo sentirla mi portò a piangere, senza nemmeno rendermene conto. Con le lacrime, mi voltai alle mie spalle. A quel punto qualcosa mi spinse e caddi oltre la porta, inciampando in un buio senza fondo.

L'ultima cosa che vidi fu un bagliore dorato.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Un forte profumo si stava insinuando tra i miei sensi. Era da un bel po' che non lo sentivo. Mi faceva venire in mente... nostalgia. Malinconia, un pizzico di frustrazione, e dolcezza. Mi ricordava Makoto, insomma. E il fatto che fosse così insistente, mi stava agitando. Ma se non altro mi aiutò a capire dove mi trovavo.

Non avevo ancora riaperto gli occhi, ma sapevo di trovarmi su una spiaggia. La sabbia mi graffiava gli avambracci, i polpacci e il viso come un caldo schiaffo. Le dita, fino a quasi le nocche, affondavano nella distesa dorata. Provare tutto quel calore fu uno shock.

 

Spalancai gli occhi e scattai per mettermi seduta. O almeno... tentai. Solo gli addominali fecero un micro movimento. Il mio corpo... dannazione, non riuscivo a muovere nemmeno un muscolo. A stento riuscivo a muovere le dita delle mani o gli occhi. Spostando lo sguardo da un punto all'altro, riconoscendo ufficialmente una spiaggia; ero a circa dieci metri dall'acqua schiumosa del mare, distesa sulla pancia, con un muro di scogli alle mie spalle che mi facevano in parte ombra. Per fortuna stavolta non ero nuda, avevo ancora quel lenzuolo addosso, il ché... beh, lì per lì non ci pensai granché, ne fui solo grata. Ma se ci rifletto adesso... », si interruppe, ripensando a quel particolare. Scrollò le spalle, dunque riprese. «In ogni caso, restai lì, a fissare la luce accecante di quella mattina. A giudicare dalla temperatura e dal chiasso che riuscivo ad ascoltare da quel punto nascosto, doveva essere mezzogiorno.

 

Da sola, a quanto pare, non potevo muovermi. Ma ne approfittai per pensare.

Ero tornata in vita? Non saprei come spiegarvelo, ma... c'era qualcosa di profondamente sensato. Ero sicura di essere tornata nel mondo dei vivi. Come? Ah, boh. Perché? Ah boh. Fossi nelle alte sfere, non riporterei in vita proprio me. Ma... era successo.

Passata un'ora, mi ero stancata di restare sdraiata, e cominciavo ad assimilare un po' troppa sabbia. Quando poi notai il granchio che si aggirava ad un metro da me, mi convinsi. Dovevo muovermi.
Allora mossi le braccia, le gambe, tutto: riuscivo a strisciare. Per quanto poco dignitoso fosse, strisciare mi rese felicissima.
La fatica e il dolore che provavo mi facevano sudare e lamentare, ma continuai. Oltrepassai finalmente la schiera di scogli, fino a raggiungere una passerella di legno che saliva fino all'asfalto di un parcheggio. Il legno della passerella bruciava come l'inferno, dannazione.

 

Quando raggiunsi la fine della passerella e mi si presentò l'asfalto – il ruvido, doloroso e tagliente asfalto – pensai fosse il caso di mettersi in piedi, quindi misi tutta la forza che mi rimaneva nelle gambe e nelle braccia. E signori e signori, non ero più un'ameba, ma una persona con quattro arti.
Ero pesante come un macigno e le ginocchia mi tremavano. Mi aggrappai subito al palo lì accanto, avvolgendolo con le braccia. Sollevai lo sguardo ed esaminai il luogo in cui mi trovavo; la spiaggia alle mie spalle e uno schiamazzo notevole, mentre di fronte a me, imponente... un ryokan*.

 

“Signorina?”, disse una voce. “Ma... sta bene?”.

Quando vidi la coppia che camminava nella mia direzione, costume da bagno e grosso cappello di paglia alla testa, mi sentii come un naufrago. Istantaneamente le gambe cedettero e caddi a terra, peggio di un sacco di patate.

“Signorina!!”, urlarono entrambi.

 

Onestamente, di questa parte non ricordo un granché. Ricordo il trillo dell'ambulanza, voci concitate, e un accento che non riconoscevo – l'unica cosa probabile era che mi trovassi in Giappone. Dopo di ché, l'ambulanza partì per l'ospedale e io sprofondai in uno stato di semi incoscienza.
Ho tante ipotesi a proposito di questa debolezza. Le possibilità sono svariate; mancanza di sangue e nutrimento? Effetto collaterale dovuto alla resurrezione? Le mie cellule si stavano ricomponendo?
Quando le infermiere tentarono di togliermi il lenzuolo, riacquistai parte della mia lucidità e protestai con versi e ringhi. Per quanto avessi voluto parlare, non riuscivo a formulare parole.
Alla fine, quelle dannate infermiere riuscirono a togliermi il mio lenzuolo e ad infilarmi un camice.

 

«Ci furono una serie di esami e per cinque giorni rimasi in un letto d'ospedale. Sostanzialmente, a far niente. A quanto pare, secondo il dottore, mi mancava praticamente tutto ciò che teneva in vita un essere umano. Ero disidratata e avevo una grave mancanza di calcio, magnesio e tutta quella robaccia. Il dottore provò a capirci qualcosa.

“Signorina Akawa. Voglio provare a farle qualche domanda. Non si sforzi”, mi disse, con tono gentile, come se stesse parlando ad una bambina traumatizzata. “Cosa ci faceva sulla spiaggia, con solo un lenzuolo addosso?”.

“Non lo so”, risposi. “Non ne ho idea. Mi sono risvegliata così”. Ed era vero.

“Capisco. Invece, per quanto riguarda i suoi valori... “.

“Vorrei aiutarla, dottore, ma... l'unica cosa che so è che non dovrei essere qui”.

 

Le mie risposte erano sincere. Non dovevo essere lì. Stavo fluttuando nel buio e poi... sono felice, non fraintendetemi, ma... », i ragazzi la osservano, preoccupati. «... i giorni passavano ed io riacquistavo sempre più le forze. Scoprii di trovarmi ad Okinawa**, che eravamo a Luglio del 2018. Erano passati tre anni. Quando l'infermiera mi riferì la data e mi passò il giornale che le avevo chiesto, rimasi senza parole. Erano passati tre anni!
Io mi ero fermata al festival culturale della nostra scuola, ai nostri diciassette anni... e adesso ne avevamo venti e pure di più. Ero scioccata, frustrata, ma al contempo sollevata di saperne di più.
 

Arrivammo all'ultimo giorno in ospedale. Me lo ricordo bene. Era notte fonda e il cielo era ricoperto di stelle; sdraiata sul mio letto, guardavo la mia finestra, dove il cielo si apriva ed espandeva, infinito. Mi addormentai, serenamente, sotto la protezione di una notte silenziosa.
Ma il mio sonno non durò allungo.
Presto, cominciai a percepire, alle mie spalle, una presenza. Non era come in corridoio, quando vidi quel bagliore dorato, non era niente del genere. Riconobbi la presenza di un vampiro, il suo odore. Stava camminando, dalla porta fino al fianco del mio letto, lentamente e cauto. La sua ombra si allungava su di me sempre più.

 

Con uno strattone, mi liberai della flebo al braccio e balzai giù dal letto – evitando appena in tempo le lunghe unghie della sua mano. Sollevai il volto e guardai l'uomo dall'altra parte del letto. Ero con le spalle al vetro della finestra mentre lui era chino sul mio letto. Tirò via la mano dal materasso, rivelando profondi solchi.
L'uomo – anzi, il vampiro – indossava un camice bianco, il taschino pieno di penne e qualcosa di affilato che mi sembrò un bisturi. Era il dottore. L'avevo visto proprio quella mattina, eppure... non mi ero resa conto nemmeno per un attimo che fosse un vampiro.

 

“Il tuo cognome”, esordii il dottore – la voce bassa come il sibilo di un serpente. “Mi era troppo familiare. Ero sicuro di averlo già sentito... “.

Deglutii, attendendo in silenzio la fine del suo strano discorso. “E poi, il tuo odore... l'odore di sangue, prelibato e denso, che ti porti dietro... “. Inarcai le sopracciglia e stavolta non attesi oltre; saltai sul materasso e dopo sull'uomo, spingendolo fino al pavimento. Mi risollevai subito in piedi, scavalcai il suo corpo e mi lanciai verso la porta – probabilmente, troppo lenta.
La mano di quell'essere afferrò i miei capelli, con forza, e mi tirò indietro. Persi l'equilibrio e indietreggiai, costretta, e finii in ginocchio. Arrancai per arrivare alla sua mano con le mie, nel vano tentativo di liberarmi, e giunsi al suo polso – ma, più di così, non riuscivo a fare.

 

Ero in trappola. Mi rimanevano i miei poteri elettrici, ma avevo paura che usarli... avrebbe potuto scatenare qualcosa, qualcosa che non volevo assaporare.
Mentre la sua mano mi tirava i capelli, l'altra era premuta attorno al mio collo. Capii che non voleva uccidermi, non così, almeno: voleva il mio sangue. 
Con la coda dell'occhio, vidi il profilo del suo volto farsi vicino. Era come guardare un quadro distorto. Le iridi rosso rubino, i canini lunghi, aguzzi, e la lingua che stava già pregustando il suo pasto. Tagliato dalla luce della luna, ghignò. “Sono proprio fortunato”, bisbigliò, quando fu al mio orecchio.

E quella frase mi ricordò gli anni passati. E come andava a finire tutte le volte – sorrisi. “Se lo dici tu”.

 

Scattai con la testa, colpendolo sulla tempia con tutta la forza che avevo – sentii un dolore atroce rimbombare, scuotermi per qualche istante. Allungai la mano e pescai dalla tasca del camice l'oggetto appuntito che avevo intravisto.
Non ebbi scelta: tranciai di netto i capelli, nel punto in cui li stava serrando, e un mare di bianco fluttuo nell'aria. Libera, corsi verso la porta, la spalancai e mi gettai fuori a tutta velocità, lasciandomi alle spalle un vampiro furibondo e una buona parte... dei miei capelli».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Quanto al resto – a come ho fatto a trovarvi, essenzialmente – fu tutto grazie a Misaki. Dopo aver soggiogato parecchie persone, ottenuto dei vestiti, aggiustato questi capelli... partii alla volta di Yoshino. E lì, disgraziatamente, non trovai nessuno: nessuno di voi quattro».

«Perché eravamo già partiti da due anni per Shizuoka», disse Takeshi. «Quindi hai incontrato mia madre? Le sarà venuto un colpo... a vederti».

Yuki accennò una risata, annuendo. «In effetti, sì! Non poteva credere ai suoi occhi. Naturalmente nemmeno Shin riusciva a crederci. Ma tu e Misaki gli avevate spiegato, a grandi linee, tutto questo orribile e distorto mondo, per cui riuscì a farsene una ragione, per così dire.
Parlammo per un po' di tempo e Misaki mi raccontò per filo e per segno cos'era accaduto durante quei tre anni. Quindi sì, so tutto: so della “caccia al mostro” che ti hanno riservato, Tetsu, so che tu Yumi hai studiato come una pazza per imparare a creare erbe medicinali», si rivolse a Takeshi, malinconica. «So un po' di cose».

 

I ragazzi non ribatterono. Ognuno di loro aveva fatto parecchia strada.

 

«E così... potevo partire per Shizuoka, e raggiungervi.

Prima, però, c'era qualcuno che dovevo vedere: Ai. Tornai dunque a casa mia e lì incontrai Sebastian, Kukuri e tutta la servitù. È stato bello rivederli, dopo così tanto tempo».

«Allora hai incontrato Ai?», chiese Sayumi.

Yuki, dopo un attimo di pausa, scosse la testa. «No. Mi dissero che lavorava al Consiglio e che era lì quasi tutto il giorno durante tutta la settimana. Mi sorpresi di saperlo, perché il Consiglio non era mai stato particolarmente buono, con noi due. Decisi di lasciarle un bigliettino. La incontrerò, ma non ora.
Mi limitai ad andare nella mia stanza e a riempire la valigia di vestiti e oggetti utili, e infine... partì alla volta di Shizuoka». Aprì leggermente le braccia.

«Ed eccomi qui».

Tetsuya si strofinò il mento con il pollice. «C'è solo una cosa che non riesco a capire». E in realtà, aveva un ipotesi. Ma no. Era assurdo. «Quel luogo, dove sei rinvenuta la prima volta... e anche la camera mortuaria, il corridoio... che accidenti sarebbero?».

Yuki ci aveva pensato, a tempo debito, durante i suoi viaggi, durante il suo ricovero. Ed era giunta ad una conclusione. Lei non aveva dubbi.

«Io credo che quello fosse l'interno di Anima».


 

 


 

 

 

 

 

* ryokan: albergo tradizionale giapponese.

 

** Okinawa: è una prefettura del Giappone che si trova nell'isola Kyushu. (tanto per precisare, la città natale di Yuki e compagnia è nell'isola di Honshu)

 

NOTA:
Heyo! Capitolo 6. Stiamo andando... abbastanza veloce. Questa cosa non mi piace. :)))

Dunque... Yuki spiega per filo e per segno cosa le è successo durante questi tre anni, cosa ha vissuto. Per lo meno, racconta tutto quello che lei sa e che ha capito. Come al solito, il destino io non è stato buono con lei.

Questo capitolo penso sia stato un po' più tranquillo... ma vedrete che ben presto succederanno delle cosette.

Bye. ~

ps. also, perdonatemi il ritardo. Sigh.

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Capitolo 7
*** Cercando affannosamente la pace. ***


07.




Era una mattina sfolgorante. La luce della finestra, accanto al letto, si stagliava sul pavimento come una lama, illuminando anche un'ampia porzione del materasso. Takeshi, che dormiva nella parte destra e più interna, si godeva il calore delle coperte, sdraiato sul fianco. Spostò la mano lungo il materasso, per sotterrarla sotto al cuscino, ma a metà strada si scontrò contro una gamba – morbida e tiepida.
Takeshi aprì lentamente gli occhi, sbattendo le ciglia svariate volte, intontito dal sonno. Sollevò lo sguardo, fin quando non incontrò il profilo della sua ragazza, ancora profondamente addormentata.

Stava supina, con le braccia appoggiate sullo stomaco, e respirava flebile. I raggi del sole non riuscivano a toccare la sua pelle – dalla finestra lì vicino – ma rifulgevano sull'ormai corta chioma bianca.

 

Stentava ancora a crederci. Poi tutti gli eventi che lei aveva passato gli tornarono alla mente e serrò le labbra, frustrato. Lo sapeva, era inutile arrabbiarsi o incolparsi di qualcosa: lui, come gli altri, non avevano la più pallida idea di cosa le stesse accadendo. Razionalmente lo capiva. Eppure...

Sospirò, e in cuor suo si disse di lasciar perdere quei pensieri. Adesso voleva solo godersi la sua presenza.

Si alzò, sostenendosi su un gomito, e si protese su di lei per guardarla in viso. Aveva un espressione così tranquilla e distesa, come se tutto il peggio fosse passato – Takeshi sorrise, dolcemente, e si chinò su di lei. Piano, facendo attenzione a non svegliarla, incastrò le labbra tra le sue. Non voleva svegliarla, ma il desiderio di baciarla era così forte.
Quando lui si allontanò, proiettando penombra su di lei, la mezzosangue aveva gli occhi socchiusi. E le guance leggermente arrossate.

Sorpreso, il bruno alzò le sopracciglia e le sorrise. «Ehy», sussurrò.

«Uhm... ehy», rispose Yuki. Lui la vide agguantare il bordo delle coperte e tirarle il più possibile per coprirsi il volto. «Sei un po' troppo vicino per... ».

«Per?».

«... per una ragazza appena sveglia e senza un filo di trucco».

Sentendo quelle parole, il dolce sorriso che gli aleggiava sulle labbra cambiò rapidamente carattere – cedendo il posto alla malizia. «Ti ho visto in condizioni peggiori. E migliori», alzò gli occhi verso il soffitto, meditando. «E ieri notte eri decisamente nella tua condizione migliore».

«Ti prego!». L'albina riuscì finalmente a coprirsi la testa con la coperta, con uno strattone violento. Ormai aveva il viso in fiamme e aveva il forte dubbio che quello stupido mentecatto l'avesse notato, con quell'occhio vigile – che adoperava, sostanzialmente, solo per quelle idiozie. Dannazione, che imbarazzo. «Smettila, se non vuoi che mi sotterri nel vostro orto».

«Vostro orto?», ripeté Takeshi, appoggiando il palmo della mano sulla sommità della testa di lei. Con gentilezza, le tolse dalle mani il lenzuolo, e scosse la testa. «Il “nostro” orto, vorrai dire». Sospirò, un po' esasperato. «Questa è anche casa tua, adesso. Che tu lo voglia o no. Non ti lasciamo andare da nessuna parte».

Yuki era ancora imbarazzata quando l'ultima frase le giunse alle orecchie. Lo guardò, velatamente preoccupata. Gli prese il viso fra le mani e lo osservò, esaminando ogni centimetro dei suoi tratti. Era così bello e al contempo rassicurante. Le infondeva una serenità incredibile.

«Che c'è?», bisbigliò lui, ridacchiando. «Ti sei incantata?». Takeshi sorrise.

Yuki allontanò le mani dal suo volto. «È che sono felice di rivederti».

Il ragazzo si era lasciato cadere con la schiena sul materasso. Si stava stiracchiando quando aveva sentito la frase della mezzosangue. «Non pensavo avrei mai sentito tanta sincerità da te».

«Non farmi cambiare atteggiamento». Ma il sorrisetto che era appena apparso la diceva lunga su quanto fosse offesa.

 

Scostò le coperte e si mise seduta, sbadigliando piano. Ruotò la schiena, le spalle e il collo, rimettendo in moto tutto il corpo, e si guardò un po' intorno.
La camera di Takeshi era più piccola delle altre, ma a quanto pare era stata una scelta sua, poiché era abituato a spazi più ristretti; le pareti erano dipinte di color sabbia mentre il pavimento, come in tutto il resto della casa, era in parquet. Il letto era incastrato sulla destra, in una rientranza immersa nella penombra, illuminata leggermente dalle due finestre; in mezzo a queste svettava un grande armadio con cassetti nella parte inferiore. Infine, accanto al letto, c'era un piccolo comodino spoglio. In generale, la camera da letto non era particolarmente arredata. Eppure Yuki ricordava che quella di Yoshino contenesse più oggetti, effetti personali, piccole cose che la rendevano riconducile a Takeshi Katugawa.

Yuki si alzò, avvicinandosi alla finestra lì accanto. La luce era forte e calda, ma non fastidiosa come immaginava. Fuori si allargava l'enorme campo verdeggiante.

«Che programmi abbiamo per oggi?», chiese.

«Fammi pensare», rispose il bruno, spostandosi sul bordo del letto. «Beh, dipende un po' da te. Dovremmo andare a recuperare la tua valigia alla tavola calda e poi, forse, fare la spesa».

«Giusto». Yuki si staccò dalla finestra, puntando gli occhi sul ragazzo. «Senti... ».

«Mh?».

«Yumi e Tetsu stanno insieme?».

 

Takeshi, che si stava per alzare dal letto, si fermò nell'atto. Dunque, lentamente, raddrizzò la schiena e si mise in piedi. Si passò una mano tra i capelli, come se volesse dargli una regolata. Ovviamente non aveva avuto successo. «Ecco... ». Dal momento che lei lo stava guardando parecchio insistente, Takeshi non se la sentiva di tergiversare o persino di mentire. Non avrebbe avuto senso. Non sapeva se quei due volevano parlarne per primi, ma al momento non aveva alternative. «Sì. Stanno insieme».

«... da quando?».

«Saranno... due anni?».

«Quindi più o meno da quando siete arrivati in questa casa». Takeshi annuì e Yuki si mordicchiò il polpastrello del pollice con il canino sinistro. Poi tornò sul bruno, con una nuova domanda: «Ma come è successo?».

«Detta così sembra un incidente automobilistico».

«No, per carità. Non volevo dire che... insomma, l'idea non mi dispiace. Semplicemente, mi chiedo cosa diavolo sia successo fra di loro al punto da far nascere... ».

«Un sentimento?».

Yuki annuì.

«Vedila sotto questo punto di vista: loro due, rispetto a noi, non sono partiti da un rapporto di semi antipatia. Come partenza, sono andati molto meglio di noi. Sì, rimane il fatto che lui è un vampiro e lei un umana, ma non penso rappresenterà un problema per loro due. E poi, dammi retta, ne hanno passate parecchie insieme».

«Questo... è vero». Yuki storse la bocca. «Però voglio ancora conoscere le vicende».

«Mi dispiace, ma dovrai chiederle a Yumi».

Yuki fece per protestare, ma Takeshi sorrise divertito. Già. Non avrebbe cavato un ragno dal buco. Al contempo, se lui stava insistendo così tanto per farla parlare direttamente con Sayumi, sapeva che era per una buona ragione.

 

 


 

***

 

 

 

«Buongiorno!». Sayumi, che fino ad un istante prima era indaffarata con le padelle sui fornelli, si fermò per girarsi in direzione delle scale. Tutto il suo volto si illuminò in un caldo sorriso, gli occhi si strinsero sotto la piega delle guance. 
«Ben svegli», rispose lei. Allacciato al collo e dietro la schiena portava un grembiule giallo che la riparava da eventuali schizzi di olio. Di fronte aveva due padelle, l'una accanto all'altra, su cui friggeva profumato bacon e sostanziose uova. «La colazione è quasi pronta».

Yuki annuì, avvicinandosi all'amica, mentre Takeshi sbadigliava rumorosamente.

«Ti aiuto?», domandò l'albina, appostandosi accanto a Sayumi come un fedele cane da caccia.

«Nah, ho finito», rispose l'altra. «E Tetsuya sta apparecchiando. Puoi sederti, ecco».

«Impegnativo. Vedrò cosa posso fare». Strappando una risata all'amica, Yuki si diresse verso il tavolo, incrociando il vampiro biondo. Tetsuya stava canticchiando a labbra chiuse. Sembrava di ottimo umore. Stava posizionando graziosi bicchieri di vetro sul tavolo e un'ampia ciotola di insalata al centro del tavolo.

«Mai mi sarei sognata di vedere una scena simile».

«Non dovevi sederti?», nonostante la risposta un po' sarcastica, Tetsuya stava sorridendo parecchio. «Anche tu, Take».

«Agli ordini», rispose il ragazzo, che si era abbandonato sul sofà. Con un colpo di reni si riportò sul bracciolo e successivamente in piedi.


Yuki si sedette al posto accanto a Takeshi. La casa era pervasa dal profumo di colazione abbondante, dal bacon scoppiettante e le voci, allegre ma rilassate, dei tre ragazzi. Sayumi ai fornelli, Tetsuya che le diceva qualcosa e Takeshi che si sedeva accanto prendendo in giro il vampiro, come suo solito.
L'albina si sentiva dentro una bolla, ma stavolta, era una bolla che le scaldava il cuore. Era come un sogno pieno di colori.
Ricordò quando, dopo che erano scappati dalle grinfie di Alyon, lei e Sayumi avevano parlato nel suo letto, stringendosi la mano; aveva detto che non era tanto ottimista da pensare ad un futuro. Ad un futuro sereno e bello come quello che stava osservando. E non aveva avuto poi tanto torto, fino ad un certo punto. Ma adesso lo stava impugnando.

 

«Bene», disse Sayumi, quando furono tutti seduti. «Buon appetito».

La colazione proseguì tra risate e chiacchiere di vario tipo. Yuki aveva scacciato qualsiasi pensiero e ricordo vagamente negativo e si era immersa fino alla cima della testa in quella pace. Almeno, questa atmosfera andò avanti per un po', forse dieci minuti.

«Allora... », esordì Tetsuya. Intrecciò le dita fra loro e ci posò sopra il mento. «... mi dispiace romperci le uova nel paniere, ma... volevo parlare dell'argomento Anima».

La mezzosangue si strofinò il fazzoletto sulle labbra, lasciandolo accanto al piatto. «Hai ragione. Sarebbe il caso di parlarne».

«Per quel che abbiamo capito», continuò allora Tetsuya. «alla morte di una Guerriera Dorata, la sua anima finisce all'interno della katana, in un procedimento che non ci è dato sapere. Tutto ciò avviene a causa di un incantesimo di secoli fa, ai tempi degli Imperatori».

Gli altri annuirono.

«E da quello che dici, secondo te... sei stata all'interno di Anima», disse Sayumi. «Ma... quella era una camera funeraria, quindi... ».

«Come fai ad esserne sicura?», chiese Takeshi.

«Non lo so. Ma quel luogo... », Yuki scosse la testa. «Voglio dire, ero morta. L'avete visto con i vostri stessi occhi. Di sicuro non era un sogno».

«Andando per esclusione, non può essere altro che... Anima». Tetsuya fece un sospiro pesante, appoggiando la schiena alla sedia. Per quanto assurdo sembrasse... indubbiamente, gli mancava qualche tassello. Doveva esserci una spiegazione al perché l'interno di Anima sembrasse una camera funeraria. «E quel bagliore dorato... prova a descrivercelo meglio».

Yuki ci pensò su qualche istante. «L'ho visto solo di sfuggita, perché ero stata spinta giù. Quello che ho visto era una luce e una sagoma umanoide. Mi sembra di aver intravisto delle mani... ».

«Non è molto», constatò il vampiro.

«C'è poco da fare», disse Sayumi. «Non c'è nessun Akawa a cui potremmo chiedere?».

L'albina scosse la testa. «No, purtroppo; che io sappia, i nonni sono morti già da parecchio tempo. Alyon è bello che andato – ma in ogni caso non avrebbe detto una parola. E mia madre... ».

«Sentite», disse Takeshi, le braccia incrociate sul tavolo. «Mi è appena venuta una cosa in mente. Kazumi aveva spiegato che dentro Anima risiedono già le anime delle precedenti Akawa. Giusto? Allora perché Yuki non ha incontrato nessuno?».

«Forse non ha fatto in tempo. D'altronde è uscita relativamente in fretta».

«Fatta eccezione per la figura che ti ha spinta oltre la porta».

 

Yuki, sin da quando era tornata nel mondo terrestre – nel mondo di coloro che respirano ancora – continuava a pensare ininterrottamente alla stessa cosa. Era un chiodo fisso, appuntato alla sua fronte con una puntina. E più ci rifletteva, più le sembrava una sensatissima possibilità, e lei ne aveva bisogno: aveva bisogno di una possibilità che avesse senso.
«Questo vuol dire che mia madre è viva».
Dopo che lei ebbe pronunciato queste parole, un silenzio di piombò calò su quella tavola. Nessuno rispose. Alle loro spalle, dietro la porta che dava sulla veranda, si sentivano gli uccellini cinguettare animatamente.

Non erano sorpresi. Piuttosto, sembravano concentrati.

«Ed è anche il motivo per cui non posso restare», continuò la mezzosangue, con tono di tomba.

Takeshi si voltò di scatto verso di lei. Cavolo. Stava facendo un espressione decisamente atterrita. Non avrebbe voluto apparire così palesemente spaventato.

Ma l'albina non si girò. «Ne sono certa. È una cosa che sentivo già dentro la katana. Kazumi Akawa è ancora viva... da qualche parte, qui, nel mondo. E io andrò a cercarla. Lo devo fare», Yuki chiuse le palpebre. «lo devo fare almeno per Ai. Si merita una madre».

«Ma... », balbettò Sayumi. «Sei appena tornata da noi... ».

«E poi, non dovresti riposarti un po'? Sei ancora debole», disse Tetsuya. «lo percepisco chiaramente».

«Non partirò immediatamente. Se per voi vabbene, rimarrò qualche giorno, e poi comincerò a perlustrare Shizuoka».

Sayumi, che sedeva di fronte a Takeshi e Yuki, rimase a fissare la ciotola dell'insalata ormai vuota – i pezzettini di lattuga attaccati, il filo d'olio sul fondo. La fissò con le sopracciglia basse sugli occhi e le labbra chiuse in una morsa. Poi scattò in piedi, come una molla, e cominciò a prendere i suoi piatti e le sue bacchette. Si girò verso il lavabo, abbandonandoli lì dentro. Lasciò scorrere l'acqua sulla ceramica, le mani strette intorno alla guarnizione del lavandino.
Da quel punto, l'albina vedeva la sua schiena, esile e tremante. «Lo capisco. Lo capisco bene, Yuki-chan. Si tratta di tua madre e anche di tua sorella, quindi è logico che tu abbia preso questa scelta. Chi è che non lo farebbe? Però, sai, Yuki-chan», e si voltò. L'albina si era già aspettata dei grandi lacrimoni negli occhi blu – ma, invece, vi trovò solo uno sguardo vacillante e ferito. «Anche noi siamo la tua famiglia. Anche noi abbiamo sofferto. E tre anni non ci sono bastati per guarire completamente. Ci stavamo ancora riprendendo, quando sei apparsa, e lì ho pensato che non ci fosse più bisogno di essere forte». Sayumi si passò il braccio sugli occhi.

Rimase in silenzio.

«Scusa», bisbigliò.

Tetsuya si alzò in piedi, in silenzio, senza fare un rumore. Si avvicinò al lavandino e avvolse Sayumi tra le braccia, spingendole il volto sul petto, accarezzandole i capelli – lei adorava quando faceva così, ma in quel momento non riuscì a goderselo.

Il vampiro girò leggermente il viso, di tre quarti, in direzione di Takeshi. Chiuse le palpebre una volta, un consiglio muto. Il miglior consiglio che potesse dar loro.

 

«Vieni», sussurrò Takeshi, prendendo la mezzosangue per mano, e conducendola verso la veranda oltre la porta.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Fuori, in veranda, tirava un leggero venticello che smuoveva l'aria calda. Erano in primavera, ma quella giornata sembrava quasi estiva. Sotto al tetto della veranda, accolti dall'ombra, potevano guardare verso la morbida distesa d'erba e la sua vegetazione che cresceva rigogliosa.
In un posto del genere, Yuki si sarebbe svegliata tutte le mattine col sorriso; anche se c'era molto sole ed era un po' debilitante, l'atmosfera in sé era fin troppo paradisiaca.

Le mani appoggiate sul davanzale di legno, il tempo aveva smesso di scorrere. Yuki inspirò l'aria pulita, riempiendosi i polmoni. Aguzzò la vista, notando l'ingresso alla foresta.

«Mi dispiace».

Takeshi era seduto sulla poltrona, a mezzo metro da lei, alle sue spalle. Aveva lo sguardo basso. «Per cosa?».

«Per aver causato questo». Yuki aveva sentito un briciolo di fastidio nella voce del moro. Lasciò perdere il panorama di fronte a lei e si rivolse al ragazzo, girandosi. «E soprattutto, per aver preso questa decisione».

Il ragazzo sospirò flebilmente. Lento, alzò la fronte, guardando Yuki tra le folte ciglia nere. La sua figura era particolarmente luminosa, contornata dalla luce alle spalle.

«Sai, non devi scusarti. Come ha detto Sayumi, è tua madre: chiunque avesse a cuore la propria famiglia lo farebbe. Quindi non hai niente di cui scusarti. Però, capisco perfettamente i sentimenti di Yumi. Non proverò a far finta di essere stato... forte, maturo... è stato distruttivo. È stato un incubo ad occhi aperti. Perché tu eri sparita e non ti avrei più rivista. Perché abbiamo affrontato tutto questo accerchiati dalla polizia, dalle domande e da persone che volevano sapere “come stavamo”. Noi... sì, stavamo lentamente ritrovando la pace. Tutto ciò che avevamo perso per due anni. E poi... ».

«E poi, ci siamo incontrati».

 

Era per questo che non aveva voluto incontrare Ai. Temeva che sarebbe successa la stessa cosa. Forse, però, con Ai sarebbe andata un po' meglio.

«Quando dovresti ripartire?», chiese il ragazzo.

«Probabilmente, tra tre giorni».

«E dove hai intenzione di andare?».

«Scenderò al villaggio e darò un'occhiata veloce. Dopo di ché, mi dirigerò verso la prima città».

«Quanto tempo pensi che ci metterai a trovarla?».

«Non ne ho la più pallida idea. Anche sfruttando la velocità di movimento potrei metterci mesi, se non un intero anno».

 

Takeshi non fece altre domande. Soppesò le risposte che aveva ottenuto, le dita intrecciate e lo sguardo sul pavimento sotto ai suoi piedi. Forse un anno, persino. No. Era fuori discussione. Non poteva aspettarla.«Okay, ho capito».

«Take?».

Il ragazzo sollevò gli occhi su di lei. «Mi dispiace, ma... no. Per me è impossibile».

«Ta... ke? In che senso... ?». Yuki si sentì tremare le gambe. Si appoggiò più saldamente al davanzale dietro di lei. Lo guardò, cercando nella sua espressione impassibile un qualche indizio. Lo vide alzarsi in piedi, dirigersi verso di lei con calma.

Quando furono faccia a faccia, Takeshi sorrise. «Vengo con te».

 

 

 

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Capitolo 8
*** Il loro viaggio. ***


08.




«Cosa... cosa hai detto?».

Takeshi, che le stava davanti, in piedi, era calmo e stranamente rallegrato. Aveva l'espressione serena di chi aveva finalmente preso una decisione, totalmente in contrasto con il panico che aveva sormontato il suo sguardo qualche minuto prima, in cucina.
Il ragazzo aprì le labbra, un movimento lento e calcolato. «Ho detto che vengo con te».

«Ma... ma... la tua vita... la tua... quotidianità... ».

«Non mi importa di cose del genere», sospirò, quasi esasperato da lei. «Yuki. Non importa se la tua meta è l'Inferno. Ti seguirò ovunque andrai». L'albina aprì e chiuse la bocca, meccanicamente. Ma... perché? Insomma, perché rovinare la sua stessa vita per lei? Solo perché l'amava? Lei contava così tanto, per lui?
Sapeva che, tutto sommato, non era niente di così sorprendente – avrebbe anche potuto immaginarselo. D'altronde, lui non si era mai tirato indietro. Non aveva mai esitato.

Yuki si spostò di lato, sfuggendo alla morsa del ragazzo. Chiuse le mani, portandosele al petto, muovendo i polpastrelli nervosa. «Takeshi... ».

Takeshi la guardava, senza scomporsi.

«Sei sicuro?».

«Di volerti seguire?», annuì. «Lo sono. Sono sicuro».

«Ti rendi conto che... ».

«Che non vedrò i ragazzi per molto tempo? Sì, me ne rendo conto. So che capiranno. Vabbene così».

«Okay», sì, okay. Pensava, okay. «Take, sono un po'... mi hai preso alla sprovvista». Yuki si voltò, infilandosi una mano tra i capelli bianchi. La mano corse ai corti ciuffi sulle guance. «Non mi aspettavo che tu dicessi di voler venire e... non lo so, mi sono agitata».

Takeshi alzò le spalle. «Sai», cominciò. Si avvicinò a lei, di nuovo, ma stavolta non l'avrebbe fatta scappare da qualche parte; dolcemente, avvicinò le mani al suo viso, lambendo i suoi zigomi con i pollici. Il suo tocco era delicato e al contempo vivido, come il sole. «sotto sotto, me lo sentivo che non saresti rimasta allungo», la sua voce era ridotta ad un sussurro, leggero, caldo. «eri un po'... evasiva... ». Ogni volta che parlava, riusciva a percepire il timbro delle sue parole attraversare la sua pelle come un velo, raggiungendo lentamente il suo cervello.

Yuki si sentì intontita. «Scusa», mormorò. «Non ci ho fatto... molto caso. Scusa».

«Basta con le scuse». Takeshi premette le labbra su quelle della mezzosangue. Il suo calore era appena percepibile, le labbra di una creatura sovrannaturale non erano molto calde – ma erano morbide, dolci, e anche un po' familiari. Poi Takeshi infilò la mano nella tasca del pantalone, armeggiandoci per qualche secondo, alla ricerca di qualcosa.

Yuki se n'è accorse e si distaccò, aggrottando la fronte.

«Ah, ecco», lui sorrise. «Trovato».

 

L'oggetto che il ragazzo aveva faticato a trovare nella tasca era piccolo, sottile e rotondo, fulgido come una timida stella. Brillava di una luce violacea tra il suo indice e il pollice.
Yuki lo squadrò con gli occhi e la bocca aperti, meravigliata. «Ma... quando... ?». Era il suo anello, quello che Takeshi le aveva fatto in dono al suo compleanno. Purtroppo, quando il suo corpo era sparito in un cumulo di cenere, aveva perso tutto ciò che aveva addosso: l'anello era una di queste perdite. Quando aveva ripreso conoscenza in ospedale, era stata la prima cosa che aveva cercato.

«Quella stessa mattina», rispose Takeshi. «Quando tu sei sparita. L'ho raccolto e l'ho tenuto con me».

«Per... tutto questo tempo?».

Takeshi non rispose. Invece, le prese gentilmente la mano sinistra, infilandole l'anello all'anulare. Yuki osservò la pietra viola in cima, luminosa e estremamente nostalgica e confortante – e sorrise, con tanta malinconia, i condotti lacrimali che pizzicavano.

«Ci sarebbe anche un'altra cosa», mormorò Takeshi. «Ma a quello ci penserà Tetsu, immagino».

«Di cosa si tratta?».

Takeshi si guardò indietro, verso la porta di casa, e poi nuovamente la mezzosangue. «Rientriamo».

 

Di nuovo dentro casa, nel soggiorno, i ragazzi appurarono che la tavola era stata sbrigata e che di Tetsuya e Sayumi non c'era più nemmeno l'ombra. Il moro fece cenno all'albina di seguirlo e così, camminando silenziosamente, si avviarono verso le scale. Saliti i gradini e quindi in cima, Takeshi si voltò verso Yuki. Erano di fronte alla camera del ragazzo e proprio lì accanto, a sinistra, c'era un'altra stanza. «La porta dietro di te», bisbigliò lui. «contiene un oggetto che forse vorresti indietro».

«Dovresti portarlo a prescindere», disse Tetsuya. Apparso appena fuori dalla sua camera, si stava richiudendo la porta alle spalle, sospirando. «Se è Kazumi che vuoi cercare, allora dovresti portarla con te. Io spero che non dovrai mai usarla, ma... ». il vampiro dai capelli biondi si fermò un istante. Poi, con estrema calma, li raggiunse in quel quadrato di corridoio.

«Ma di quale oggetto stiamo parlando?», domandò la mezzosangue.

«Apri la porta e lo scoprirai».

 

Yuki corrugò la fronte, ma fece come le era stato detto. Si voltò verso sinistra e appoggiò il palmo sulla maniglia. Dopo una leggera resistenza, la porta si fece aprire. Yuki la spinse verso l'interno e un cigolio, lungo e rumoroso, accompagnò il suo gesto come un'ombra.

L'interno era quasi totalmente immerso nelle tenebre – la piccola stanza, del resto, era priva di finestre – fatta eccezione per la luce che proveniva dal corridoio a forma di cono. L'albina infilò la testa oltre la soglia, aguzzando la vista per studiare l'ambiente.
Sulla parete sinistra riconobbe una libreria, i cui scaffali erano pieni zeppi di libri. Ne vide di massicci e di sottili, ne lesse qualche titolo. Proprio accanto ad essa, sorgeva un grande armadietto di vetro, il cui interno era stracolmo di vari tipi di erbe, foglie, composti di questi. Sulla destra la situazione era pressoché identica.

Di fronte, in fondo, svettava un lungo rettangolo nero sopra un tavolo di legno scuro.

«Entro?», chiese l'albina, rivolgendosi ai due ragazzi.

«Prego», rispose Tetsuya, facendole un cenno con il braccio.

La mezzosangue, dunque, seguita dai ragazzi, entrò nella stanza. Calpestò un tappeto dai motivi persiani e raggiunse il fondo della stanza. Non lo sapeva con certezza matematica, ma era abbastanza sicura che quel contenitore rettangolare fosse l'oggetto in questione.
Man mano che si avvicinava e il contenitore assumeva forme più consistenti, Yuki lo riconosceva. Sì. Non c'erano dubbi.

Era una custodia e la riconosceva bene.

L'albina vi posò le dita. Non c'era un granello di polvere. L'avevano tenuta benissimo. Accarezzò la superficie, soffermandosi sugli angoli spigolosi, fino a scendere ai ganci che assicuravano la chiusura – con un gesto secco, li tirò su, sbloccando la custodia. Agguantò i due estremi del coperchio e lo sollevò, spegnendosi in un sospirò.

 

La lama di Anima era lucida come se non fosse mai stata usata. La punta era affilata, leggermente incurvata verso l'alto. La katana giapponese sprigionava una tenue luce azzurrognola, una luce che proveniva dal suo interno, e al tocco era fredda come la morte.

«Quasi speravo fosse sparita insieme a me», bisbigliò la mezzosangue. «Così la spirale di sventure forse sarebbe davvero finita».

Takeshi le posò una mano sulla spalla. Entrambi erano accanto a lei. «Mi dispiace. Probabilmente non vorresti nemmeno vederla», constatò Tetsuya. «Tuttavia, dovevi sapere che si trovava a pochi metri da te».

Yuki non rispose. Nel suo sguardo c'era un misto di tensione, preoccupazione e malinconia. D'altro canto, era vero, provava tutte queste emozioni – e ognuna di loro si combatteva per avere il predominio.
In quella katana – nei rubini incastonati alla base della lama – vivevano le anime delle precedenti Akawa. Quindi, anche l'Imperatrice. E nonostante la maledizione e tutto ciò che ne comportava, Yuki non riusciva ad odiare Anima come avrebbe voluto.

«Kazumi potrebbe rispondere alle tue domande», osservò Takeshi, accanto a lei. «A proposito di Anima».

L'albina annuì, piano. «Avete ragione entrambi. Per quanto io non ne voglia sapere di quest'arma», Yuki toccò la sua lama. Chiuse la mano attorno ad essa, avvertendo all'istante un bruciore sul palmo. «dovrà farmi da compagna. Sarai lei a portarmi sana e salva fino alla fine».

 

Takeshi e Tetsuya si guardarono. Sana e salva? – beh, non ci contavano così tanto.

 

 

 

 

***

 

 

 


I seguenti due giorni passarono senza particolari novità. Yuki era andata in villaggio, accompagnata da Takeshi, e avevano recuperato la sua valigia con tutti i suoi averi – o almeno, tutti quelli che si era portata dalla residenza a Yoshino; ne avevano approfittato per guardare insieme il villaggio, scoprendo angolini e vie che il ragazzo non si era mai disturbato a guardare.
Avevano comprato un po' di utensili, qualche vestito in più e la spesa per i prossimi giorni, ed erano tornati a casa.

Con Sayumi la situazione non si era smossa granché.

Quando si incrociavano a casa – e questo capitava abbastanza di frequente – la ragazza non si prolungava quasi mai e cercava di tenersi occupatissima, qualsiasi cosa pur di non affrontare quel discorso. Ad occhio e croce, si sentiva parecchio a disagio. Per questo, spesso e volentieri, nascosta dagli occhi degli amici, si rifugiava tra le braccia di Tetsuya, dove trovava un po' di riparo, al buio della notte e alla luce della luna.

 

Takeshi aveva già annunciato ai due che sarebbe partito con Yuki. Ovviamente, la notizia li aveva lasciati amareggiati e sorpresi, ma non avevano contestato la sua decisione. Sapevano che non avrebbe cambiato idea.

Le giornate erano proseguite più o meno così, almeno fino alla sera prima della partenza.

 

Seduta sul dondolo in veranda, il mento sulle ginocchia raccolte, l'albina guardava di fronte a sé, in direzione della foresta, grande e oscura, che sembrava inghiottire il caos delle città.

«Posso sedermi accanto a te?».

Yuki sollevò gli occhi. Tetsuya era appoggiato al muro accanto alla porta d'ingresso e la luce della luna colorava il suo profilo di un candore spettrale. L'albina annuì lentamente alla domanda del vampiro. Adesso che la partenza era prossima, sentiva una forte malinconia. Non che ne avesse il diritto. 
Il vampiro accennò un sorriso e si sedette accanto alla ragazza. «Che ti prende?».

«Niente di ché».

«Certo», il vampiro roteò lentamente gli occhi viola. «Avanti, non farmi insistere».

La mezzosangue sospirò silenziosamente. Si sentiva un idiota, ancor prima di iniziare a parlare. «Non saprei dove iniziare».

«Abbiamo tutta la notte dinanzi a noi, amica mia. Puoi provare con dei tentativi».

Yuki sorrise. «Hai ancora quel vizio».

«Mh?».

«Il vizio di parlare in questo modo super aristocratico», l'albina ruotò di poco il viso verso il ragazzo – anzi, il giovane uomo. Tetsuya era cresciuto, ed era un paradosso, perché i vampiri non subivano quasi nessun cambiamento sulla pelle. Ma per quanto lo guardasse, era chiaro che non era più un ragazzo. Forse, non lo era mai stato.

Tetsuya le restituì l'occhiata, alzando le sopracciglia chiare. «Lo sai, anche Sayumi mi ha detto una cosa simile. I vostri compagni di scuola avevano ragione: siete gemelle».

I nostri compagni di scuola dicevano cose del genere?, pensò Yuki, tornando a guardare il verde persiano che si estendeva a perdita d'occhio, serpeggiato da brezze di vento.

«La sto facendo soffrire», bisbigliò. «e mi sento uno schifo, per questo».

Tetsuya non ribatté.

«Vorrei solo... », continuò, per poi fermarsi. Serrò le labbra e abbassò lo sguardo sull'anello che lambiva il suo anulare. Lo guardò, e per un lungo secondo, si immerse nella luce viola. «... preservarvi. Mettervi tutti dentro una palla di cristallo e tenervi al sicuro. Da ogni cosa».

«Carino da parte tua».

«Mentecatto».

«Dico davvero. È una cosa bella. Ma lo sai che non è possibile e che non sarà mai possibile», Tetsuya fissò il profilo dell'amica, seriamente. «e tutto sommato, nessuno di noi vuole davvero vivere in questo modo. Se non fossi... scappato dalla pace che stavo vivendo, rintanato in questo luogo, allora probabilmente non avrei mai trovato... ».

«Yumi?».

«Tutti voi. Tu, Takeshi, Sayumi».

Yuki soppesò le parole del vampiro. «Quindi, tu e Yumi... ».

Tetsuya si spostò verso il bracciolo del dondolo. «Così pare». E quando ricevette una gomitata al bicipite, il vampiro si corresse: «Sì, stiamo insieme. Okay? Non spingermi, per l'amor di Dio».

La mezzosangue scoppiò a ridere e si lasciò cadere sulla spalla dell'amico, appoggiandoci la tempia contro. «Sono felice. Non avrei potuto desiderare di meglio per voi due». Avrebbe voluto vederli. Avrebbe voluto cogliere i leggeri e sottili cambiamenti nel loro rapporto. Magari qualche sguardo, significativo, che avrebbero capito solo loro due. Desiderava tutto questo. Ormai era tardi per vedere come erano nati – ma avrebbe potuto ammirarli mentre crescevano.

 

E quel vampiro, che era meglio di un fratello, proveniente da una famiglia di orribili tradizioni, la cui mente aveva dovuto combattere con il sangue per non lasciarsi sopprimere – arrossì.

«Come ti pare».

 



 

 

***

 

 

 

 

Yuki si tirò su una parigina, assicurandosi che fosse ben salda senza bloccarle la circolazione sanguigna. Si toccò la cintura intorno ai fianchi, fino a saggiare l'aggancio alla katana che le pendeva al fianco; la suddetta katana risiedeva nel manico, al sicuro, sigillata per bene. Tuttavia, dato che era molto lunga, a volta capitava che la punta cozzasse contro la terra. Beh, di certo non se la sarebbe portata a mano per tutto il viaggio, quindi Anima doveva arrangiarsi.

Per il viaggio Yuki aveva indossato una gonna pieghettata blu acciaio e una camicia bianca a maniche lunghe, leggera e sottile – gli stessi abiti che aveva quando era arrivata al villaggio, ma che si erano sporcati di sangue. Adesso profumavano di lavanda.
Nello zaino di pelle, in ogni caso, c'erano altri vestiti e qualche provvista per i primi giorni; per lei il cibo non rappresentava un problema, ma indubbiamente per Takeshi non sarebbe stata la stessa cosa. Per cui, la maggior parte del cibo era per lui.

Con sé, fortunatamente, l'albina aveva ancora molti soldi. In teoria non avrebbero avuto grattacapi.

«Pensi di portare i pugnali?», chiese Yuki, mentre allacciava lo stivale. «O il tirapugni?».

Takeshi, che stava frugando nel cassetto, quasi infilandosi all'interno, annuì. «I pugnali, sì. Il tirapugni... non penso, no. Onestamente, non mi è mai stato utile». Affondò il braccio più in fondo. «Eccoli».

«Fammi capire», aggrottò le sopracciglia. «hai una specie di assortimento, nel cassetto?».

«Ti stupirà sapere che noi ragazzi non nascondiamo solo riviste vietate ai minori».

Yuki si sciolse in un sorrisetto e raddrizzò la schiena. Si caricò lo zaino sulle spalle, mentre il bruno ancorava i pugnali un po' dappertutto nel suo vestiario; nella suola nascosta degli anfibi, nelle tasche interne della giacca di pelle nera, nella cintura dei pantaloni. In tutto erano sette.

«Allora, andiamo?», disse Takeshi, tirando la zip del suo zaino. «Penso che ormai sia ora».

La mezzosangue annuì. Era arrivato davvero. Aveva cercato di non sospirare per tutta la mattina, ma non era stato facile. Sì, è vero! – era una sua decisione ed era stata lei ad esprimere quel desiderio. O meglio, quel compito. Ma non poteva fare a meno di sentire già la loro mancanza e di sentirsi in colpa, troppo in colpa, perché li stava abbandonando di nuovo.
Yuki chiuse la mano intorno alla guardia della katana, cercando un po' di coraggio – ironico che la cercasse nella sua tomba. Respirò profondamente. «Andiamo», rispose.

 

La coppia uscì dalla camera. Senza ulteriori indugi, scesero le scale di fronte, raggiungendo il piano terra. Sia nel piccolo soggiorno che in cucina non c'era nessuno. Avevano consumato la colazione tutti e quattro quella stessa mattina, intorno alle 8.00, e poi si erano divisi, andando ognuno per la propria strada. L'albina si chiese che stavano facendo.
«Sai, Yumi sta studiando parecchio», mormorò Takeshi, come se le avesse letto nel pensiero. «perché vuole diventare forte».

«Lei è sempre stata forte». Yuki scosse la testa, brusca. «Vabbene così. Sbrighiamoci ad andare».

Attraversata l'ampia stanza, tuttavia, Takeshi guardò la casa per qualche istante. «Non è un addio», disse. «Torneremo». Torneranno. Non presto, non tra qualche mese. L'avevano detto, quel viaggio avrebbe potuto prendergli molto più tempo: dovevano cercare una persona scomparsa, d'altro canto. Ma Takeshi aveva deciso da lungo tempo che quel posto era il suo posto.

 

Uscirono in veranda. La giornata, per fortuna, non era cattiva; il sole c'era – il ché poteva rappresentare un fastidio per Yuki, ma l'avrebbe gestito in qualche modo – e l'aria era mite e piacevole. Era un'ottima giornata per partire.
«Dunque, come prima metà... dicevi di volerti dirigere a destra?».

La mezzosangue asserì. «Il villaggio l'abbiamo ampiamente visitato. E nessuno ha mai sentito parlare di una donna chiamata Kazumi Akawa né l'hanno mai vista. A questo punto, possiamo dirigerci verso est».
Takeshi non aveva dato adito ai suoi pensieri, ma... quella ricerca era un po' una lotteria; si stavano basando solo su supposizioni, buoni propositi e presentimenti. Difatti, non avevano una prova ad appoggiare le loro teorie, se non l'esperienza paranormale di Yuki. Takeshi si fidava ciecamente di tutto quello che lei gli aveva raccontato, ma ciò che lei aveva vissuto poteva essere stato qualsiasi cosa. Qualcosa, persino, di orribile. «Perfetto. Anche quello è un villaggio, ma è nettamente più grande di questo. Ad ovest, invece, c'è Shibuya».

«Shibuya è enorme... la vedo dura», Yuki arricciò il naso. «Forse conviene partire da posti più piccoli».

«Sì, concordo». Il ragazzo sorrise, guardandola. «Andiamo».

Ma proprio quando il duo stava per procedere verso la prateria, alle loro spalle si sentì un tonfo pesante e assai rumoroso. Entrambi si voltarono, sussultando, con gli occhi spalancati come gatti spaventati. «Ma che... », esordì la mezzosangue.

La porta di casa si aprì lentamente, cigolando come la più antica delle porte. Sayumi si affacciò, timida, le mani attorno al pomello. Aveva i capelli in disordine e un segno rosso sul naso e sulla fronte, gli occhi azzurri lucidi.

«Ehy, ragazzi», borbottò la ragazza.

«Y-Yumi? Tutto... okay?», chiese Yuki, perplessa. «Abbiamo sentito un rumore atroce e... ».

«Perché la vostra amica non riesce a fare due passi in croce», Tetsuya spuntò alle spalle di Sayumi come una grande ombra. Appoggiò le mani sulle spalle di Sayumi, spingendola ad avanzare con una leggera pressione. «per lo meno, non ci riesce senza capitolare».

«In poche parole, sei caduta?», sorrise Takeshi.

«... sì, sono caduta, ma è perché... », Sayumi guardò in basso. «... ero di fretta».

«Stava per rompersi l'osso del collo», disse il vampiro, alzando gli occhi al cielo, esasperato. «giù per le scale. Se non fosse stato per me, avremmo dovuto organizzare un funerale, invece che una partenza».

«Per le scale?».

«Una partenza?».

Sayumi, gradualmente, sollevò lo sguardo, puntandolo in una zona casuale. Anche se non li stava guardando negli occhi, in lei c'era una tale determinazione da far preoccupare Yuki. Quando era così decisa, Yuki resuscitava i ricordi di quella notte, quando l'amica le aveva raccontato in parte la sua avventura da bambina
Yuki aspettò che l'amica iniziasse a parlare. Sayumi aveva i pugni chiusi, un vestito bianco fino alle ginocchia dal bordo volant, degli scarponcini e una giacca lunga. E anche lei aveva uno zaino con sé.

«Quando hai detto che saresti partita... ho pensato, “bene, non riuscirò mai a farle cambiare idea”». Sayumi abbassò le sopracciglia. «Perché, ormai, tu avevi preso la tua decisione e io avrei dovuto rispettarla. Voglio dire, chiunque l'avrebbe rispettata, stavi andando a cercare tua madre. Eppure, non ho pensato altro se non che ti stavo perdendo, per l'ennesima volta, e per chissà quanto tempo». Sayumi guardò Yuki. L'azzurro, fulgido e pieno. «Quindi, non avevo altra scelta. Dovevo venire con te».

«Dovevi venire con me... », ripeté l'altra, con tono meccanico.

«La verità è che né io né Sayumi volevamo unirci a questo... viaggio», disse Tetsuya, increspando la fronte. «Ma qual era l'alternativa? Aspettarvi qui? Per mesi e mesi?». Il vampiro fece un passo in avanti, mettendosi accanto a Sayumi. «Non potevamo fare una cosa del genere. Dunque, ieri notte, ne abbiamo parlato».

«E siete giunti a questa conclusione», osservò Takeshi.

Il vampiro annuì.

«Non... non vuoi?», balbettò Sayumi. Il fatto che l'albina fosse rimasta in silenzio la stava mandando nel pallone. «Mi rendo conto che è una cosa... tua, personale... e forse vorresti fare tutto da sola, ma noi... ».

«Mi stai fraintendendo». Yuki aprì le mani e se le schiacciò contro il viso. Ci respirò contro, più volte. Infine, scoprì il volto, rivelando delle lacrime pronte a scendere lungo le guance. Era semplicemente felice. Era così felice che pensava sarebbe caduta a terra come un sacco di patate. «Io voglio che voi veniate. Io voglio stare con voi. Non voglio lasciarvi».

 

Sayumi sorrise, un grande sorriso solare.

Ormai era arrivato il momento di iniziare qualcosa di nuovo – insieme, come era sempre stato.

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Capitolo 9
*** Non c'è abbastanza aria per tutti. ***


09.





«Sai, è da un po' che ci sto pensando... ».

«Cosa?».

«I tuoi capelli».

«I miei capelli?», ripeté Takeshi, girandosi con la fronte aggrottata verso Yuki. «Cosa... che cos'hanno i miei capelli?».

«Beh, sai, mi fanno chiedere come accidenti fai a vederci».

«Stai dicendo che... sono... lunghi?».

«Bravo!».

«Dai, andiamo; non sono così lunghi. Ci vedo perfettamente».

«Quante dita sono queste?».

«Yuki».

«Okay... quindi quante sono?».

«Tre. Ora mi credi? Sei contenta?». Yuki sorrise, allegra. «Sì, sono contenta», cantilenò. «Ma che ne dici di una spuntatina?».

Takeshi rivolse lo sguardo al cielo, sospirante. «Sarà un viaggio lungo... ».

 

 

Il piccolo paese ad est, poco più grande del villaggio nei pressi di Shizuoka, era un'ora a piedi. Non una grande fatica per il gruppetto, ognuno di loro contraddistinto da resistenza e forza insolita. Ad aggiungerci, il tempo era parecchio favorevole, il ché rendeva Sayumi felice come una pasqua – cosa molto evidente da come saltellava lungo il sentiero di terra, costeggiato da enormi distese di verde.

«Ehy, Yumi!», gridò l'albina, avvicinando le mani a coppa alle labbra, cercando di richiamare l'attenzione dell'amica. «Non ti allontanare! ... ah, niente da fare. Ormai è andata».

«È nel suo mondo», commentò il biondo, con un leggero sorriso.

«Non voglio che ci stia per troppo. La raggiungo». Takeshi e Tetsuya seguirono con lo sguardo la mezzosangue mentre si allontanava, veloce, per approdare al fianco di Sayumi. Le videro avvicinarsi l'una all'altra e scambiarsi una battuta, un sorriso, infine una risata. Yuki infilò il suo braccio sotto quello di Sayumi, cozzando piano la spalla con la sua.
Entrambi i ragazzi le osservavano, improvvisamente rasserenati. «È bello vederle di nuovo unite», bisbigliò il bruno.

«Già», il vampiro tentennò, stringendo le labbra. «Non avrei mai creduto di poterle vedere di nuovo così».

Takeshi fece un leggero cenno col capo. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa simile.

 

Il paesaggio intorno a loro era quanto più pacifico ci potesse essere. Una specie di oasi terrestre. Se si girava a guardare la strada percorsa, vedevano il profilo confuso di Shizuoka, di qualche collina, e infine delle alte montagne; di fronte a loro, invece, il sentiero sterrato e il verde senza confini e la figura del paese, che si faceva sempre più vicino.
Non avevano incontrato molte persone, non ancora; strano, poiché i commercianti e i viaggiatori non erano una rarità, e quell'ora era una delle migliori per muoversi e spostarsi fra i paesi e le città. Avevano visto qualche donna viaggiare insieme ai figli, qualche contadino e qualche cavallo, ma si potevano contare sulle dita di una mano.

 

«Dì un po'», riprese il moro, dopo un attimo di pausa, spiando con la coda dell'occhio i passanti. «Tu credi che Kazumi sia ancora viva?».

«Francamente, sono ancora in dubbio sulla questione. Non credo che le possibilità siano così remote... d'altro canto, la testimonianza di Yuki è di un certo spessore. Ma ancora, non posso fare a meno di pensare che sia un enorme buco nell'acqua. Dettato da una vana speranza».

«È questo a preoccuparmi. Abbiamo assecondato la sua idea di andare a cercarla, ma... insomma, è una cosa campata per aria». Takeshi corrugò la fronte. «Eppure, a vederla adesso, sembra felice da morire».

«Perché sta mettendo le mani su tutto ciò che voleva», sulle labbra del vampiro si affacciò un sorriso. Era un sorriso che l'amico non gli aveva mai visto. Era addolcito, malinconico e nostalgico al tempo stesso – era come dare un'occhiata ad un album di ricordi.

 

 

Continuarono a camminare. Quando furono a poco più di dieci metri dalle porte del paese, Takeshi sentì su di sé l'ombra degli edifici. Sollevò il volto, in tempo per vedere un grande portone spalancato, fiancheggiato da guardie armate, con un enorme arcata che vegliava sull'ingresso. «Ragazze», chiamò Tetsuya. «Venite qua».

Yuki e Sayumi indietreggiarono, fino a raggrupparsi insieme ai ragazzi. «Qualcosa non va?», chiese Sayumi.

«Non lo so ancora», rispose Tetsuya. «ma tutte queste guardie non mi fanno sentire per niente sicuro».

«Ho un brutto presentimento», disse Takeshi.

 

 

Temettero di essere fermati e perquisiti – soprattutto perché una di loro aveva una katana e l'altro era pieno di pugnali – ma le guardie si limitarono ad adocchiarli attentamente. Dedussero che stavano cercando qualcosa in particolare, forse una persona, forse un oggetto molto noto.
Entrarono in paese senza problemi, ogni caso. Superarono il portone, infilandosi in una vivacissima e rumorosa strada commerciale; sulla destra e sulla sinistra si allungavano una sfilza di negozi, dall'abbigliamento agli animali, e poco più avanti si intravedeva un imponente quercia, le cui radici si stiracchiavano per svariati metri, spaccando le piastrelle che adornavano la pavimentazione.
L'asfalto era interamente ricoperto di pietra bianca anticata e non c'era una sola cartaccia. Era così pulito da sembrare una foto.

Yuki si passò la lingua sui canini. «Notevole».

«Preoccupante», la corresse Tetsuya.

«Eh?», fece Takeshi.

«Sì, sai... le vedi le persone che affollano questa strada?», Yuki indicò la folla. C'era chi usciva da un negozio e attraversava la strada per andare in quello di fronte, chi sedeva sulla panchina in dolce compagnia, chi si fermava a giocare con i cagnolini e anche chi... guardava il quartetto. Fermandosi come uno stoccafisso. «Il 20% di loro non è umana».

Takeshi quasi si strozzò con la saliva.

«Ahia. Non va affatto bene». Sayumi si guardò intorno, con discrezione. Notò dei civili, girati verso i quattro, e alzò le sopracciglia. «Aspetta, allora... vuol dire che quelle due donne che ci fissano... ».

Tetsuya strinse la mano della ragazza, una presa salda e protettiva. Lentamente, e con la coda degli occhi viola, fulminò freddamente le due donne demone sedute al bar. «E non solo loro». Si rivolse all'albina, a voce bassa, in modo che potesse sentirlo solo lei. «Tieniti stretta Take. Muoviamoci da qui, cerchiamo un posto appartato. Poi daremo inizio alle ricerche».

Yuki annuì.

 

 

Senza perdersi in altre chiacchiere, i quattro cominciarono a camminare, spediti, verso la quercia. Dovevano quindi attraversare quel viale commerciale, pieno zeppo di persone. Non avevano idea di dove dirigersi, ma senz'altro non potevano trattenersi in quel punto; la prima opzione era di trovare un posto – come un albergo – dove potersi sistemare per un giorno o due, in modo che potessero svolgere con calma le loro ricerche.
Passarono frettolosamente di fronte alla quercia, cercando di non schiacciare le radici, evitandole con passi spediti. Il gruppo di bambini che stava giocando con la palla si fermò, sollevò i visi e seguì con lo sguardo i quattro.

«Non riesco a capire», borbottò Sayumi, stretta sotto al braccio del vampiro biondo. «Perché ci fissano così tanto? Siete vampiri e demoni anche voi, dov'è la novità?».

«Vampiri e demoni forestieri», rispose Yuki. «in compagnia di umani forestieri».

«Troppe novità in una volta sola?», ironizzò l'altra.

 

Dopo pochi minuti di pellegrinaggio, finalmente trovarono un albergo. Era piccolo ma apparentemente accogliente. In ogni caso, non si sarebbero messi a cercare alternative, sembrava pericoloso.
Entrarono nell'edificio, subito accolti da un bancone e una donna, seduta al di dietro, come segretaria. Sulla destra c'era un appendiabiti, sotto una cassapanca. Sulla sinistra, invece, c'era una scala che conduceva ai piani superiori e proprio accanto una porta con su scritto “kitchen”.

Yuki si fece avanti. Si avvicinò al bordo del bancone, appoggiandoci le dita, e alzò gli occhi sulla donna. «Salve. Avete stanze libere?».

«Salve! Sì, signorina, abbiamo ancora alcune stanze a disposizione».

«Bene, grazie al cielo. Allora prendiamo una stanza per quattr–».

«Ehm– cherì!». La mezzosangue, proprio quando stava per completare la sua frase, si sentì prendere dolcemente dalle spalle e tirare indietro, fino a picchiare contro il petto di Takeshi. Ma l'aveva già riconosciuto dalla voce e dal nomignolo – era da parecchio che non la chiamava così.

Doveva ammettere che l'aveva un po' presa in contropiede.

«Cosa c'è?».

Ma Takeshi la ignorò, rivolgendosi invece alla donna al bancone, in diligente attesa. «Prendiamo due stanze. Siamo in quattro. Molto gentile».

«Ehy, Take!», brontolò Yuki, mentre la segretaria registrava i dati sul suo computer. «A parte il fatto che me ne stavo occupando io, stavo per chiedere una stanza per quattro... ».

«Sì, me ne sono accorto». Takeshi inclinò la schiena, quel tanto che gli bastava per accostare il suo viso a quello della fidanzata. Le sue labbra le sfioravano la guancia e lei riusciva quasi a sentirne il calore – e ne scorgeva il colore fiammeggiante. Takeshi sorrise, sollevando l'angolo della bocca. «Ma non pensi che Tetsu e Yumi vorranno stare da soli, almeno di notte?».

«Ah. Da soli». Lei sbatté le palpebre. «Di notte».

«E magari», continuò lui. «anch'io vorrei stare da solo con la mia ragazza».

«Ah. Capisco».

«Stupida».

 

L'ultima cosa che lei vide fu il sorrisetto sulle sue labbra e una sorta di imbarazzo sui suoi bellissimi tratti.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Lasciate valige, borse e katana, i ragazzi si rincontrarono nel corridoio. Il piano era semplice: si dividevano, ognuno armato di fotografia e descrizione, e setacciavano tutto il paese. Era ciò che Yuki aveva pensato durante il tragitto. Tuttavia, dal momento che quel posto pullulava di vampiri e demoni, potevano tranquillamente scartare l'idea di separarsi. A dir il vero, Takeshi avrebbe potuto anche cavarsela da solo, se faceva attenzione, ma non sapevano se sarebbe stato lo stesso per Sayumi. La ragazza sapeva difendersi, ma era solo qualche principio di autodifesa. Troppo poco per creature notturne.

Come alternativa, si divisero in due gruppi. Yuki e Sayumi avrebbero investigato all'entrata del paese, dove erano passati appena mezz'ora prima, mentre i ragazzi avrebbero provato in altre strade secondarie.

«Fate attenzione», disse l'albina, prima di dirigersi verso la quercia insieme a Sayumi. «Ci troviamo qui appena fa buio. Ragazzi, ve lo ripeto: appena fa buio», poi indicò verso Takeshi. «parlo soprattutto con te».

Il bruno sollevò le mani sopra la testa. «Okay, cherì. Ci vediamo qui appena farà buio, ricevuto».

 

E così, a raccomandazioni fatte, Yuki e Sayumi iniziarono a camminare verso la quercia. Per fortuna – o per sfortuna – erano appena le 12.00 e la maggior parte dei cittadini aveva lasciato i negozi e i quartieri per avviarsi verso casa e consumare il loro pranzo. C'è chi avrebbe mangiato un piatto di riso o una bistecca, e chi avrebbe dissanguato qualche povera preda umana.

«Stai bene?», chiese Sayumi, aggrottando la fronte.

«Sì, sto bene». Alla quercia i bambini non c'erano più. Poco distante da quel punto, su una panchina, c'era una coppia di uomini. «È solo che da quando siamo arrivati in questo paese non riesco a non sentirmi nervosa».

«Mmh. In un certo senso, ti capisco», bisbigliò l'altra. «c'è qualcosa di... non so. Non ti sembra che l'aria sia tesa?».

 

Yuki non rispose, osservando di fronte a sé, pensierosa. Sì, era esattamente la sua impressione. Che l'aria fosse tesa, disponibile a malapena per tutti quanti. Ma magari era solo perché brulicava di creature pericolose e fameliche.

Si avvicinarono alla coppia di uomini sulla panchina. La mezzosangue estrasse dalla tasca un piccolo quadrato bianco e lo spiegò, mostrando l'immagine di una bellissima donna dai capelli rossi e gli occhi color del sole. Sorrideva, guardando di lato, come se stesse ammirando qualcosa di confortante, con la guancia appoggiata alla mano e il mento su un tavolino.

«Chiedo scusa?», esordii l'albina. «Vorremmo chiedere un informazione».

I due uomini interruppero i loro discorsi e sollevarono i nasi verso l'alto, in direzione delle due ragazze. Gli occhi di entrambi erano vispi e piccoli e sulle teste portavano dei cappelli che, grazie all'ampia falda, riparavano dalla luce solare. Ci fu un lungo silenzio, seguito da espressioni concentrate. «Sì?», disse uno dei due.

«Per caso avete mai visto questa donna?», Yuki passò la fotografia agli uomini. Loro la osservarono, con sorprendente attenzione, e infine scossero la testa. «Se la nobile Kazumi Akawa fosse passata di qua, ce ne saremmo accorti».

La mezzosangue riprese la fotografia, senza scomporsi. Non era sorprendente se vicino alla prefettura di Shizuoka conoscessero la vampira. «Capisco».

«Ah, no, aspetta», esclamò l'altro. «Ora che ci penso... non sono sicuro fosse lei, però ieri notte è arrivata un'altra forestiera».

«Ah, è vero... ora mi ricordo. Indossava un mantello bello grande. Aveva il cappuccio calato sul viso, quindi non possiamo dire con certezza se fosse lei».

L'uomo sollevò leggermente il cappello dal bordo, rivelando le rughe sulla fronte. «Come avrete notato, signorine, questo paese non è del tutto ordinario», sorrise. «e non amiamo molto chi viene da fuori – per cui, tendiamo a farci molta attenzione».

«E voi, signori, sapete dove si è diretta?», domandò Sayumi.

Il duo sulla panchina spostò l'attenzione sulla ragazza umana. La osservarono, con freddezza calcolata. Se l'aria, poco prima, sembrava tesa... - adesso assomigliava sempre più ad una corda di violino in procinto di spezzarsi.

Ma la ragazza continuò a sostenere le profonde occhiate, senza batter ciglio.

«Beh?», sbottò Yuki. «Il primo che ride perde? Dove possiamo trovare la forestiera?».

L'uomo sulla sinistra si voltò lentamente verso di lei. «Non lo so. Dovete provare all'albergo».

«Grandioso, proprio il punto da cui proveniamo... », Yuki sospirò. Il suo sguardo ricadde sull'amica, ancora presa dalla guerra di sguardi con l'altro. Il secondo uomo, invece, si concentrò su Yuki.

«Hai un viso familiare», disse, in un sibilo. «Quei capelli bianchi... e gli occhi... ».

La mezzosangue afferrò l'amica per il gomito, tirandosela vicina, e girò i tacchi in fretta – meno la riconoscevano, meglio era.

 

 

Le indagini continuarono per tutto il pomeriggio, fino alla sera, senza fruttare molte novità. Quasi tutti conoscevano la donna nella foto ma nessuno l'aveva vista in paese. Tutti l'avrebbero riconosciuta all'istante e in molti furono sorpresi di sentir parlare di ricerche. A quanto pare, la comunità la dava per morta. Era sensato, purtroppo.
Quando una creatura moriva, di solito non si veniva a sapere subito. Ci voleva del tempo, se non erano di alto spicco. Ma se si trattava di un membro del Consiglio, allora era una questione del tutto diverso: l'informazione circolava alla velocità delle luce, in tutta l'Europa e in tutta l'Asia.

 

 

Quando il cielo cominciò a colorarsi di arancio, le ragazze decisero di tornare indietro, verso l'albergo, dove avrebbero provato a domandare della forestiera col mantello. Nel frattempo, parlarono, cercando di mettere insieme tutto ciò che avevano scoperto.

«Non pensavo che tua madre fosse così famosa», disse Sayumi, mentre passavano di fronte ad un locale che, velocemente, si stava riempiendo di clienti.

«Ha preso alla sprovvista anche me. Sapevo che aveva viaggiato e che aveva conosciuto molte persone... », l'albina corrugò la fronte, lanciando un'occhiata al locale. «Ma penso sia stato il cognome, più che i suoi viaggi... certo che è affollato, eh».

 

Sayumi seguì lo sguardo dell'amica, trovandosi ad osservare una mandria di uomini che aspettavano di poter entrare. Qualcuno, qualche sciocco inebriato dall'alcol, si rese conto della loro presenza e gli fece un sorriso, per poi invitarle a fargli compagnia, dal momento che si sentiva solo.
Yuki e Sayumi lo ignorarono, tornando a parlare. «L'unica possibilità è raccogliere informazioni all'albergo. Credi che ci diranno quello che ci serve?», domandò Sayumi.

«Non mi preoccupa. Se non vorranno parlare, li faremo parlare».

 

Sayumi ridacchiò nervosamente. Entrambe svoltarono a destra, notando Takeshi e Tetsuya di fronte alle porte dell'albergo. Di giorno nessuno dei quattro aveva dato molta importanza al locale, perché era silenzioso come una casa abbandonata. Ma con il calare della sera, l'aria notturna aveva preso il sopravvento sui compaesani, che adesso erano attirati dall'alcol e dalla promessa di divertimento.

«Trovato qualcosa?», esordì Sayumi, quando furono tutti insieme.

«Niente di davvero utile», rispose Takeshi. «Ma pare che conoscano Kazumi, quindi– ».

«Uguale. Tutti la conoscono, nessuno l'ha vista».

«Anche se un tizio diceva che ieri notte era arrivata una forestiera... e che si è diretta all'albergo», disse Yuki.

Tetsuya incrociò le braccia al petto. Tamburellò le dita sul bicipite, come se lo aiutasse a pensare. «Allora proviamo a chiedere».

 

Tutti e quattro tornarono dentro l'edificio. La maggior parte degli ospiti era in giro per il paesino quindi c'era parecchia calma. Tetsuya parlò con la segretaria, la stessa di quella mattina, ma la donna disse che non poteva rilasciare nessuna informazione per questioni di privacy.
«Come immaginavo», mormorò il vampiro – lui sollevò lo sguardo e lo puntò in quello della donna. Era da molto tempo che non usava i suoi poteri, era alquanto arrugginito.

Aveva quasi il dubbio di fallire – ma poi percepì le sue pupille stringersi, tagliarsi, e poi espandersi come buchi neri infallibili.

 

La donna rimase in silenzio. Si girò verso il suo computer, schiacciò qualche tasto. Poi tornò verso il vampiro biondo, e con voce atona disse: «La donna che cercate è uscita venti minuti fa. Non ha detto dove andava. Ma era uguale alla foto, quindi è sicuramente lei».
 

Tetsuya si tirò indietro dal bancone con una spintarella, indietreggiando in direzione degli amici. «Torniamo fuori», disse il vampiro.

 

Di nuovo fuori, in strada, ripeté ai tre le poche ma notevoli informazioni che la segretaria gli aveva rivelato. Yuki ascoltò in silenzio fino alla fine, almeno fin quando il vampiro non rivelò che Kazumi era effettivamente in quel paese.

«No, aspetta», esclamò, alzando il palmo della mano. «È possibile? L'abbiamo trovata? Davvero? Di già?».

«Capisco il tuo sentimento. Sembra troppo bello per essere vero, però... ».

«Però Tetsu l'ha soggiogata, quindi non può aver mentito, ed è difficile si sia sbagliata», ribatté Takeshi, mentre Sayumi annuiva vigorosamente.

«M-ma dove potrebbe... ?», Yuki si prese il viso fra le mani, confusa. Dove? Se era andata da qualche parte, e aveva lasciato l'albergo, qualcuno poteva averla vista. Quindi forse avrebbero dovuto continuare a chiedere ai passanti... ma se nel frattempo sua madre avesse deciso di lasciare il paese? O se avesse continuato a spostarsi, per tutta la città?


A quel punto, l'albina guardò verso il locale, ancora affollato. Da qualche parte, pensò, dovevano pur iniziare. «Perché non... proviamo ad andare lì?».


 


 


 

***


 


 

 

L'affollato e festoso locale, situato di fronte all'albergo, a danneggiare il silenzio notturno, era gremito fino a scoppiare di clienti – per lo più uomini di una certa età.
La facciata era semplice ma accogliente, con due grandi finestre ai lati della porta troppo piccola. Lo stile in sé era rustico, antico, ma si sposava bene con ciò che lo circondava. Riuscivano a sentire risate e voci esuberanti anche prima di iniziare ad avvicinarsi.
I ragazzi si trovavano dinanzi alla grossa e imponente insegna del locale. Yuki fece un passo in avanti, per affacciarsi all'interno, ma per poco non venne spintonata da una coppia di uomini che usciva.

«Yuki», disse Takeshi, ad alta voce, per coprire il trambusto – prima di prenderla per il gomito. «Non andare avanti da sola».

«Scusa», borbottò la mezzosangue, guardando dentro il locale.


Dopo qualche tentativo per passare e troppo tempo speso a cercare una via, i quattro riuscirono finalmente ad entrare.

L'interno era spazioso e largamente illuminato dalla luce gialla di svariate lanterne polverose. Il design interno, così come l'esterno, sembrava ispirato all'epoca medievale; i tavoli, in legno intarsiato, erano sparpagliati un po' dappertutto, ma abbastanza distanti dal bancone del bar, dove c'era una fila di sgabelli rossi occupati. Dietro al bancone si scorgeva l'impianto per la birra e alle spalle di un paio di baristi indaffarati un ricco assortimento di alcolici. In generale, c'era un forte odore di alcol, simile a grappa.

Sayumi si tappò il naso con l'indice e il pollice. «Bleah. Quasi quasi preferisco l'odore del sangue», si lamentò, per poi voltarsi verso gli altri. Sia Tetsuya che Yuki avevano un espressione particolarmente nauseata, sebbene stessero cercando di trattenersi per non darlo a vedere.

«Ehy, avete la faccia di chi sta per rigettare il pranzo di Natale», esclamò la ragazza dai capelli rosa.

«L'odore è così intenso da farmi girare la testa», sibilò l'albina. «Lo sopporto a malapena».

In effetti, come creature sovrannaturali, i loro sensi – compreso l'olfatto – erano amplificati il triplo. E per due giovani creature come Yuki e Tetsuya, che non bevevano alcol, quello era un pugno allo stomaco. Invece Takeshi non faceva una piega. Lontano dalla conversazione degli amici, ispezionava la taverna come un cane da caccia, guardando ogni singola persona.

«Dobbiamo farci strada», disse, dopo qualche secondo. «Da questo punto non si riesce a vedere granché».

L'albina lo guardò aggrottando la fronte, il viso bianco. «Okay, allora cerchiamo di avvicinarci».


Takeshi cominciò a camminare in mezzo alla folla, stringendo la mano di Sayumi, che a sua volta teneva quella di Tetsuya e, infine, Yuki che chiudeva quella sorta di catena umana. L'albina era stordita dal puzzo acidognolo e fitto dell'alcol, e a malapena riusciva a concentrarsi sui suoi passi. Non si era mai trovata in una situazione simile. Era come un'ondata, in piena faccia. Ad aggiungerci, ogni due passi rischiava di essere colpita mortalmente dal gomito di qualcuno, o che le venissero pestati i piedi. Anche tenendo la guardia alta, non riusciva a prevedere ogni singolo movimento di quella dannata calca.


 

Un uomo indietreggiò all'improvviso, bruscamente, e Yuki perse la mano di Tetsuya. «Merd– », non era una situazione pericolosa, ma era meglio stare insieme. «Cavolo».

«Yu?!», esclamò Tetsuya. Ben presto, però, lo spazio tra lui e l'amica si riempì di gente. Yuki sentiva la voce dell'amico, chiamarla e cercarla, ma in men che non si dica lo perse di vista.

«Tetsu! Sono qui!», Yuki si mise a saltare sul posto, alzando le braccia. Il vampiro le rispose qualcosa, ma la sua voce venne coperta dalla moltitudine di rumori e suoni e risate.


 

Incastrata fra cinque persone – o duecento, la sensazione era uguale – Yuki era sul punto di provare ad usare i suoi poteri. Era un'ottima occasione per vedere se i suoi fulmini funzionavano come tre anni fa. Cercò di aprire le braccia, chiuse le palpebre. Respirò profondamente. Avrebbe usato solo il 2%. Piccole scosse, piccoli serpenti. Quel tanto che bastava per farsi largo tra la folla.

 

Percepì le mani caricarsi di adrenalina e pizzicare. Dietro le palpebre chiuse riusciva a vedere una fioca luce azzurrognola.

Ma quando fu sul punto di lasciar andare l'elettricità, una mano l'agguantò con forza dal polso, trascinandola con uno scossone fuori dalla gabbia umana.

Yuki spalancò gli occhi e si voltò di scatto. «Chi– ». Una figura incappucciata. Un lungo mantello verde scuro. La figura sollevò il viso.


 

In penombra, i suoi occhi oro brillarono dolcemente.


 

 


 


 


 

NOTA:

Ahhhh, finalmente è finito. Ci ho messo un sacco di tempo a terminare questo capitolo, non finiva più- onestamente non sono molto convinta, penso che alcune parti siano un po' noiose, ma non ne potevo più di scriverci su e pensare a cosa accidenti fare. Quindi niente, spero che comunque ve lo godiate.

Inoltre, uhm.. durante quest'anno frequenterò un corso e lavorerò, per cui potrebbe capitare che non riesca ad aggiornare per tempo... e vi chiedo scusa in anticipo, cercherò di fare tutto il possibile per mantenere anche un minimo di qualità. ;;
Detto questo, corro a scrivere, che il tempo è poco e prezioso. BYE.

p.s: ho ingrandito il font del testo, fatemi sapere se è peggio o meglio rispetto a prima. :>
 

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Capitolo 10
*** Una terrificante figura professionale. ***


10.




Nel fragore di una notte primaverile, il suo cappuccio scivolò morbido sulle spalle di quella figura, rivelando una cascata di vino rosso, liscia e setosa. Rotondi boccoli che sfioravano le guance esangui, un naso sottile, con la punta rivolta leggermente verso l'alto, e labbra incurvate in un sorriso mite. Splendidi occhi, che brillavano come lingotti d'oro, la cui pupilla si agitava appena appena, come lingue di fuoco. Proprio lei, la donna che vantava una delle maggiori bellezze mai viste, la donna che si era lasciata alle spalle solo una misera macchia di sangue, ed era poi sparita nel nulla – Kazumi Akawa.

 

 

La sua mano sinistra stringeva ancora l'avambraccio dell'albina mezzosangue, una presa ferma, imprescindibile.

E Yuki boccheggiava. Forse era così che si erano sentiti Takeshi e gli altri quando l'avevano rivista. Come se davanti a loro si stesse ergendo un miraggio, un invitante miraggio. O forse era un ricordo molto vivido.

«Mamma... ?». Kazumi le lasciò andare il braccio, rinfoderando il suo dentro il mantello. Yuki vide i lineamenti del suo volto illuminarsi, gradualmente, fin quando un grande sorriso non apparì sulle sue labbra. Forse lei era davvero un miraggio. Le sembrava quasi di vedere piccoli fuochi fatui volteggiare intorno alla sua testa.

 

«Yukiiii! Se ci sei, batti un colpo!», l'inconfondibile e acuta voce di Sayumi riportò la mezzosangue a galla. Di colpo, Yuki si sentì tremare la testa e le mani. Tutte le sensazioni che per un attimo – un lungo attimo – aveva soppresso l'assalirono come una violenta onda. Aprì le labbra, solo per poi rimanere in silenzio.

«Sono i tuoi amici, vero?», chiese la vampira.

«Sì... loro... », ma allora, tutti i piani, tutte le ipotesi... era tutto vero. Ciò che aveva pensato era vero. Non erano state solo false speranze. Kazumi non era mai stata nella katana. «Mamma, tu sei... viva».

Kazumi allargò le braccia, gettando un'occhiata al suo corpo, come per assicurarsi che tutto fosse in ordine, sorridendo smagliante. «Beh, direi proprio di sì. Senti, perché non raggiungiamo i tuoi amici? Vedo che ti stanno cercando affannosamente».

Sua madre era così tranquilla da farle paura. Non si vedevano da così tanto tempo – e lei era stata data per scomparsa, per morta – eppure Kazumi sembrava l'incarnazione della quiete. La donna le continuò a sorridere e le passò accanto, introducendosi nella folla che, finalmente, si stava cominciando a sfoltire. Yuki subito seguì la madre, agguantando la stoffa del suo mantello per non perderla di vista. Dopo pochi metri, Yuki e Kazumi raggiunsero gli altri tre, in modo facile e veloce.

 

«Yu, stai be–... eh?».

Tetsuya, che si era voltato, si bloccò come una statua di granito, mentre le parole gli morivano sul nascere. E lo stesso fu per Sayumi e Takeshi. Pietrificati, meravigliati. Tetsuya spostò lo sguardo da Yuki a Kazumi.

Alzò l'angolo delle labbra, abbozzando una risata. «Ah... pare... pare proprio che avessi ragione, Yuki. Mi sa che ti devo delle scuse».

 

 

 

***

 

 

 

Per puro miracolo, poco tempo dopo il loro ricongiungimento, nel locale era scesa un po' più calma. Il baccano infernale di prima era stato sostituito da un brusio rumoroso, abbastanza da rendere i loro discorsi riservati – in particolare, sembrava che un po' di gente avesse fretta di tornare a casa.
Per cui, dopo una brevissima ricerca, avevano trovato un tavolo libero in fondo alla taverna, quasi incassato contro l'angolo formato dalle due pareti. Frattanto che prendevano posto, una cameriera si avvicinò in fretta e chiese loro se volevano qualcosa da bere o da mangiare. I ragazzi e Kazumi dissero che a breve sarebbero andati via, quindi non ce n'era bisogno, ma la cameriera si era intanto incantata a guardare i visi di tutti e cinque. Infine, un po' imbarazzata e delusa, si era dileguata.

 

Seduti insieme, Yuki fissava sua madre come se stesse cercando di vederle attraverso. E in parte era proprio così. Se fosse riuscita a vedere i tavoli dietro Kazumi, allora, magari, lei era un fantasma. Ma no, la vedeva chiaramente. I suoi contorni erano definiti, lo sguardo dolce e amorevole era lo stesso di tre anni prima. Era ancora un sogno ad occhi aperti.

Mentre l'albina persisteva in quella sorta di meditazione, Tetsuya ruppe quel solido ghiaccio con una domanda: «Dove sei stata tutto questo tempo?». Netta, cruda, senza mezzi termini.

 

Sia chiaro, erano tutti felicissimi di vederla viva e vegeta. Per lungo tempo, avevano pensato che Kazumi fosse morta quella notte, appena qualche ora dopo Oseroth – anche se non l'avevano mai detto ad alta voce. Ma al contempo, non potevano fare a meno di provare un senso di inquietudine e di ansia. Era diverso da quando avevano ritrovato Yuki. Con l'albina, i ragazzi avevano visto il suo corpo divenire cenere e polvere, mentre con Kazumi...

Dov'era stata? Perché era sparita? Cos'era successo, esattamente?

«Eravate in pensiero per me?», domandò la vampira, inclinando il capo di lato.

«Beh... certo», rispose Sayumi, aggrottando la fronte. «Noi tutti ti davamo per... ».

«Morta?», Kazumi alzò le sopracciglia. «Sì, Yuki me l'ha fatto intendere. So che avete tante domande e siete assetati di sapere, ma perché invece non ci godiamo questa sera insieme?».

I ragazzi erano perplessi.

«Ma noi veramente... ».

«Perché no?».

 

Con sorpresa, notarono che era stata Yuki a parlare. Così come avevano studiato Kazumi, squadrarono la figlia. Non era un atteggiamento tipico di Yuki. Lei era il tipo che, alla proposta di divertirsi e godersi il momento – piuttosto che far luce su una questione –, si sarebbe infastidita e forse arrabbiata, perché era solo una gran perdita di tempo.

Invece, la mezzosangue, senza l'ombra di un sorriso, sembrava d'accordo.

«Possiamo parlare anche domani. Che progetti hai?», domandò rivolta alla madre.

«Beh, non ho intenzione di rimanere per tanto tempo... ma fino a domattina non mi schioderò da qui», e sorrise.

«Splendido».

«Allora... ordiniamo qualcosa?», propose Takeshi. «Sempre se vogliamo rimanere».

«Certo. Cameriera, potrebbe tornare qui?».

 

Quindi, come proposto da Kazumi Akawa, conosciuta anche per essere una viaggiatrice ed esploratrice, il gruppo si fermò nella taverna per... godersi il momento. Solo Kazumi e Takeshi bevvero qualcosa di alcolico, mentre gli altri tre si accontentarono di una bibita gassata e qualche spuntino. La serata proseguì così, tra una parola e l'altra, cercate accuratamente per sciogliere quella strana tensione.
Takeshi aveva cercato di parlare tanto. Di solito non amava essere loquace, ma era bravo con le parole, e in quel momento ne servivano tante. Evitò domande che provocassero disagio e raccontò invece svariati aneddoti di quegli anni passati. Ad un certo punto, Kazumi chiese al ragazzo se lui e Yuki stavano insieme.

«Ehm, sì... non ricordi?», rispose il moro. «Da quando avevamo diciassette anni».

Kazumi sembrò riflettere, premendo l'indice sinistro sul labbro inferiore. «Mmh... capisco». E poi tornò a sorridere e a parlare con lui. Anche Sayumi cercava di partecipare alle conversazioni, e bene o male ci riusciva – e persino il vampiro biondo buttava qualche frase.

 

L'unica, in religioso silenzio, era l'albina. Più guardava sua madre, più il suo silenzio aumentava, e si faceva intenso.


Ad un certo punto, Kazumi si stiracchiò, stendendo le braccia verso il soffitto. Erano intorno alle 10.000 e a quell'ora, dopo una lunga serata, la taverna si calmava molto. Probabilmente per non disturbare l'albergo di fronte.

La vampira diede un'occhiata all'orologio affisso alla parete, e poi si rivolse al ragazzo bruno. Si piegò nella sua direzione, avvicinando le labbra all'orecchio del moro.

«Senti, dovrei parlarti di una cosa», gli sussurrò, una mano vicino alla bocca.

«Eh? Davvero? Vabbene, ma– ».

«Vieni, parliamo fuori».

 

Sotto lo sguardo vigile della figlia, Kazumi strattonò Takeshi per il braccio, costringendolo così ad alzarsi. «Dove state andando?», domandò Yuki.

«Andiamo un attimo qui fuori», rispose Takeshi. «Non ti preoccupare. Torniamo in un baleno». Kazumi era un po' insistente nel tirarlo, ma il bruno riuscì a resisterle per rassicurare la sua fidanzata con un sorriso. Bello, dolce, il suo solito sorriso. «Fai la brava», le aveva sussurrato, per poi sparire tra i tavoli e, infine, oltre la porta della taverna.

 

Fuori dalla taverna era buio. Sui lati della strada e di fronte all'albergo e al locale c'erano svariate fonti di luce, da lampioni a lanterne. Le temperature erano precipitate a picco, per cui faceva abbastanza freddo. Takeshi incrociò le braccia al petto, strofinandosi le spalle e i bicipiti per riscaldarsi come meglio poteva. Respirò profondamente, generando una nuvoletta di vapore nell'aria, ancora fermo di fronte alla porta del locale, da cui proveniva un rassicurante vocio – quando, poi, vide Kazumi allontanarsi e svoltare l'angolo a sinistra, lungo il lato del piccolo edificio.

«Kazumi?». Non capiva cosa stava succedendo. Kazumi diceva di volergli parlare... e anche lui aveva dei dubbi, come Yuki, sebbene non avesse idea del perché. Da dove avevano origine.

Lentamente, calpestò l'erba che spuntava dall'asfalto, facendola scricchiolare debolmente sotto le suole, e seguì la vampira oltre l'angolo. Svoltandolo, Takeshi vide quella piccola porzione di terreno e Kazumi, entrambi quasi interamente immersi dalle tenebre, ad eccezione di un fascio di luce bianca, proveniente da destra.

Takeshi si addentrò, guardingo e cauto. «Kazumi?», la chiamò, a bassa voce. «Di cosa volevi parlarmi?».

La vampira ruotò i piedi e si voltò verso Takeshi. Sorrideva. «Takeshi. Incontrandoti, penso di aver capito alcune cose. Sai, non si finisce mai di imparare», esordì. «Anche se ancora non capisco i suoi gusti. Ma non importa. Vabbene così. Non faccio domande indesiderate, io». 

Takeshi la guardò. Le sopracciglia basse sugli occhi scuri. «Di cosa stai parlando?».

 

A quel punto, la vampira uscì dalla tenebre, solo per avvicinarsi al bruno. Sollevò il mento, per guardare il ragazzo nelle profonde iridi. Takeshi rispose allo sguardo, senza batter ciglio. La vide innalzare la mano destra e posarla dolcemente sulla guancia del ragazzo. Ma subito, lui si rese conto che qualcosa mancava. Il suo dito mignolo era molto corto, troppo corto... come se mancassero ben due falangi. «Che cos'hai fatto al dito?», bisbigliò, quando ormai il viso di Kazumi era molto vicino al suo.

Lei lo fissò senza espressione. «Non ho fatto niente. È sempre stato così».


E queste furono le ultime parole che sentì da lei. A quel punto, una nube plumbea si innalzò, vorticando – ancora, ancora, e ancora.

 


 

 

***

 

 

 

Ai si issò sulle spalle lo zaino e, una volta fuori dalla sua stanza, si richiuse piano la porta alle spalle, come se non volesse svegliare nessuno. A dir il vero, in casa c'erano soltanto Sebastian, Kukuri e la solita servitù. Ma non rischiava di svegliare proprio nessuno, lo sapeva.

 

Scese i gradini nell'ampio salone, calpestando il tappeto rosso. Aveva già salutato chi di dovere. Adesso le restava solo da varcare una porta. Ah, quella porta sua sorella l'aveva attraversata tantissime volte, anche più dei loro genitori. Ogni giorno, lei usciva e andava in una scuola piena zeppa di umani, passando innumerevoli ore in loro compagnia.
Ai ricordava che, alla morte di Yuki, lei aveva dato tutta la colpa agli umani; se non fosse stato per loro, se non si fossero immischiati, se avessero lasciato sua sorella in pace... e così via. Ma dopo aver ricevuto le cure di Tetsuya e averne parlato con lui – dopo averne parlato tanto –, e averci pensato per i fatti suoi, aveva capito. Era stata solo colpa di Alyon. Di Alyon e di quella dannata comunità malata.

Di cui lei ora faceva parte.

 

Si fermò di fronte alla porta, lasciata socchiusa. Si guardò intorno.

Voleva assimilare tutti i dettagli di quel posto. Ormai era una casa che trasudava dolore e morte. La amava, amava quel posto dove era cresciuta e dove aveva passato tanti momenti felici. Ma lentamente si era ridotto al nulla. Non c'erano bambine né adulti: solo una ragazza.

«Forza», mormorò, per farsi coraggio. Aveva tutto ciò che le sarebbe potuto servire. Non aveva idea di quanto ci avrebbe messo a rintracciare Yuki. Nel bigliettino che le aveva lasciato in camera sua non c'era nessuna indicazione. Solo una promessa.


Marja aveva detto che era stata avvistata in diverse zone del Giappone ma la prefettura di Shizuoka era stata l'ultima e più recente. Sospirò. Pensava e si preoccupava per tante cose. Era sbagliato intraprendere quel viaggio. Doveva pensare al Consiglio, alle cameriere, ad organizzare e a fare scelte, non poteva permettersi di andarsene in quel modo.

E poi, un posto speciale era riservato a Shin.

Shin Katugawa.

Il fratellino. Quella piccola pulce che, al loro primo incontro, non aveva smesso un attimo di parlare con lei. Ma l'aveva sempre trattata bene, come se fosse un tesoro. Adesso era cresciuto, sedici anni. Ed era diventato un ragazzo stupendo, con gli occhi scuri espressivi e il sorriso spigliato, i lineamenti spigolosi al punto giusto, le piccole fossette alle guance e i capelli leggermente scompigliati, il fisico asciutto.
Lui le era stato molto vicino quando Ai stava cercando di elaborare il lutto. Per la seconda volta, le era stato accanto in un momento tragico – un incubo ad occhi aperti.

E anche dopo, durante quei tre anni, Shin aveva sempre trovato tempo per Ai. Solo che lei era testarda – che novità – e aveva un ruolo importante sulle spalle, e forse l'aveva fatto sentire un po' indesiderato. Ma la verità era diversa, per lei.

 

Tuttavia, qualsiasi fossero le parole inespresse, Ai aveva qualcosa da fare. Spalancò la porta ed esalò un ultimo respiro. «Sto andando», sussurrò – e sparì, entrando nella luce.

 

 

 

***

 

 

 

Un forte calore si stava facendo strada sulla sua guancia, macinando centimetri di pelle. La bocca era quasi completamente asciutta ma al contempo bruciava, come se si fosse tagliato le labbra. Le palpebre erano pesanti, la testa faceva un male cane, due spilli piantati nelle tempie. Erano sintomi particolari. Si provavano in una circostanza precisa, che non gli era poi tanto estranea, se doveva essere sincero.
Takeshi mosse leggermente il capo. La guancia sul cuscino assaporò la freschezza del tessuto. Il ragazzo si chiese, all'istante, quanto accidenti avesse bevuto per sentirsi così male. Ma la risposta arrivò subito: quasi per niente.

Era ancora frastornato e la luce che proveniva dalla finestra non lo aiutava. Forse aveva un po' di febbre?

Chiuse la bocca, mugugnando quando avvertì l'irritazione.

 

«Sta parlando nel sonno?», bisbigliò una voce femminile, divertita.

Takeshi non aveva ancora aperto gli occhi, quindi non aveva idea di dove si trovasse. Dietro le palpebre, captava solo una forte luce solare. Sentì dei passi felpati avvicinarsi nella sua direzione. Avrebbe voluto guardare, ma si sentiva così debole – e pigro.

Il materasso su cui era sdraiato si piegò, impercettibilmente. «Takeshi?», disse la voce.

«Yuki... ?».

 

Era lei. Takeshi si fece forza e sollevò le palpebre. Era lei, ed era bella come sempre. Ma quella mattina aveva una luce calda che contornava la sua figura. I capelli bianchi e ondulati, corti sulle spalle, le iridi ambra e il sorriso che illuminava il candore della pelle.
Se avesse avuto le forze, Takeshi l'avrebbe abbracciata e trascinata accanto a sé.

«Ben sveglio, principessa», ridacchiò la mezzosangue, attraversando con le dita tiepide la chioma castana. «Hai dormito bene?».

«Mmh... », il moro ruotò il viso, nascondendolo nel cuscino. «Mi sembra... ».

Onestamente, gli sembrava di essersi accidentalmente addormentato. Un sonno senza sogni.

«Mi sembra di essere svenuto, più che altro».

«Più o meno». Takeshi ruotò, girandosi verso di lei, sdraiato sulla schiena. Yuki fece un sorriso, stranito. «Ti ricordi cosa è successo ieri sera?». Al dissenso del ragazzo, l'albina proseguì: «Sei tornato dentro al locale, insieme a mia madre, con una faccia molto tranquilla. Ti ho chiesto se era tutto okay e tu hai annuito. Siamo rimasti lì per dieci minuti e poi ce ne siamo andati tutti quanti, dirigendoci all'albergo», lei alzò le spalle. «e sei letteralmente crollato nel letto, in tempo record».

«Capisco... », beh, insomma. Non capiva poi così tanto. Takeshi esaminò lo sguardo della sua ragazza, trovandoci un filo di preoccupazione. Si sollevò dal letto, mettendosi seduto e appoggiandosi alla testata. Sentiva il corpo pesante. Non voleva darlo a vedere, per cui sorrise, dolcemente – allungò la mano verso il viso della mezzosangue, accarezzandole la guancia con le nocche. «Sono felice che tu abbia ritrovato tua madre».

E lei – che come lui non voleva rendere palese la sua apprensione – si sciolse un pochino, annuendo. «Sono felice anch'io».

Rimasero così, immobili, la stanza dall'albergo inondata dalla luce. Fuori dalla finestra si sentivano i suoni tipici di un paese sveglio e attivo – le voci delle persone, i cani abbaiare, le risate dei bambini, rumori meccanici e porte di negozi che si chiudevano e aprivano, i campanelli delle biciclette. Fuori dalla loro camera, si sentivano le cameriere fare su e giù, bussare alle porte e parlare gentilmente.
Anche se provavano preoccupazioni, quel momento era impregnato di pace e serenità. Yuki avrebbe voluto conservarlo. Chiuderlo tra le mani come una lucciola.

«Vorrei trovarmi un lavoro, quando torneremo al villaggio», bisbigliò l'albina, guardando fuori dalla finestra.

«Sul serio?».

«Sì. Voglio vivere... standovi accanto. Voglio... », le sue pupille, sottili e strette, quasi nulle, puntarono sulle lenzuola. «creare qualcosa insieme a te».

«Se le cose stanno così», mormorò Takeshi. «torniamo a casa. Perché non vedo l'ora di iniziare».

Entrambi risero, a bassa voce, come se non volessero disturbare il tempo.

 

Mezz'ora dopo, quando Takeshi finalmente sentì le forze tornare indietro, iniziarono a prepararsi per tornare al villaggio. Il viaggio, così come all'andata, non sarebbe stato lungo né difficile, e il tempo era positivo. Dopo essersi vestiti e aver radunato tutte le loro cose, Yuki e Takeshi lasciarono la stanza e si avviarono verso il piano terra, dove incontrarono Sayumi e Tetsuya. Lei stava ridendo, schiaffeggiando il petto del vampiro, mentre lui sorrideva divertito.

Per Yuki era ancora strano immaginarli come una coppia.

Con Sayumi non aveva ancora toccato l'argomento. E poi, c'erano novità evidenti anche nel loro aspetto, come i capelli lunghi dell'amica. Ah, se ci pensava, c'erano un sacco di cose di cui non aveva ancora parlato con Sayumi, e fremeva dalla voglia di farlo.
D'ora in poi staremo sempre insieme, pensò l'albina, osservando l'amica ridere con Tetsuya, quindi di tempo ne avremo in abbondanza.

 

Poi Sayumi si accorse del loro arrivo e li accolse con un sorriso allegro. «Buongiorno!». Si vedeva che era felice. Che si sentiva leggera. Nella mano sinistra, le dita intrecciate, c'era quella del biondo. Il solo stringergli la mano la rasserenava. «Siete pronti per il ritorno?».

Yuki annuì. «Pronti. Salutiamo mia madre e poi possiamo andare, okay?».

«Certo», Sayumi però aveva una curiosità, a cui voleva dar voce, per cui inclinò il capo verso Takeshi – lo guardò in viso e aggrottò la fronte. «Ehy, Take. Non hai una bella cera. Stai bene... ?».

Il moro accennò una stanca risata. «Ehy, grazie. Anch'io ti trovo bene, Yumi».

Ma l'amica, al contrario suo, non rideva. Gradualmente, una bagliore agitato le ombrò lo sguardo. «Dico sul serio. Sei pallido e sembri sfiancato». Sayumi fece un passo in avanti, sciogliendo l'intreccio con la mano del vampiro. Strinse le palpebre, studiando il volto di Takeshi tra le ciglia. «Non sembra febbre... ».

Takeshi indietreggiò, alzando i palmi all'altezza del proprio petto, con un sorriso sorpreso sulle labbra. Yuki gli lanciò un'occhiata aggrottando la fronte. «Ehy, ti dico che sto bene. Sono un po' stanco, ma non sto morendo».

«Se dice che sta bene, allora forse è così», osservò Tetsuya.

«E se ha mentito, lo metteremo a digiuno», aggiunse Yuki. «Per punizione».

«Yuki-chan, sei un po' fissata con le punizioni, eh?».

«Ma finitela», Takeshi si allontanò da loro, avvicinandosi all'ingresso dell'albergo, per poi rivolgergli un'occhiata ammonitrice. «Per quando saremo a casa sarà tutto passato. Vedrete!».

 

 

 

 

***

 

 

 

Yuki avrebbe voluto dire a Kazumi, "vieni con me". Se non avesse voluto dirlo a voce, allora avrebbe potuto prenderla per il braccio e guidarla fino a casa. Non voleva allontanarsi da lei, non voleva lasciarla andare in giro da qualche parte, probabilmente indifesa. Indifesa come era stata quella notte, nella residenza.
Invece, al momento di salutarsi, Yuki le aveva detto di tornare a Yoshino e andare da Ai, perché la stava aspettando, in cuor suo. Anzi, perché Ai aveva bisogno della sua mamma. Un luce aveva animato l'oro fuso nelle sue iridi.

«Ai, dici?», aveva detto Kazumi. Le sue labbra si erano schiuse, come se stesse pensando. «Tornerò da lei – ma non ora. Ancora non posso farlo».

A nulla erano valsi i tentativi di capire perché. Ma Kazumi aveva promesso che sarebbe tornata da Ai, la piccola – e nemmeno così tanto, ormai – mezzosangue dai capelli rossi.

Yuki aveva suggellato la promessa abbracciandola, stringendola forte a sé. Gli occhi le bruciavano, un pizzicore dolce e malinconico. Quando si era staccata dalla madre, aveva visto il suo sguardo farsi affettuoso – e poi ricadere, attratto come un magnete, sulla katana che pendeva al fianco dell'albina. «Stai attenta», aveva detto infine Kazumi. E si erano separate.

 

Attraversarono di nuovo tutto il paese. Ancora una volta, sotto famelici e brulicanti sguardi – solo che, stavolta, nessuno di loro se ne preoccupò. L'aria era calda, smossa da leggeri schiaffi di vento, di tanto in tanto. Il cielo vegliava su di loro, limpido e azzurro, mentre percorrevano la strada costeggiata dalle sconfinate distese di erba luccicante.
Un po' più lontani e ovattati, si sentivano le voci delle persone, le risate e i gridolini dei bambini mentre giocavano con la palla. Un bambino sferrò un calcio al pallone, lanciandolo verso il cielo.

Avevano cominciato ad allontanarsi davvero dal paese da pochi minuti, si riusciva a vedere chiaramente l'entrata al paese, comprese le guardie all'esterno. Se avessero deciso di fare retromarcia, sarebbero tornati molto in fretta. Nonostante mancasse ancora molto, la mezzosangue non sentiva che allegria e voglia di muoversi. Aprì le braccia, stendendole in orizzontale – poi le piegò dietro la schiena, stiracchiandosi, riempiendosi i polmoni di aria fresca. Si sentiva leggera come una piuma.

«Takeshi?», sentì Tetsuya, allora lei ruotò il busto e il viso. 

Il suo fidanzato era più indietro. Lo vide sollevare la fronte, rivelando il suo bel viso, e lei sorrise, scorgendo il colore caldo delle sue iridi. Poi notò la sua mano sinistra e le dita che stringevano e arricciavano la maglietta sul petto, al centro. Takeshi?, stava per dire anche lei, prima che lui e la sua espressione di dolore non stramazzarono al suolo – come un corpo vuoto.

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Capitolo 11
*** Come era successo? Perché era successo? ***


11.



Quello, per Yuki, fu un secondo davvero strano. Non c'erano dubbi.

Era stato strano perché si era sentita all'apice, leggera come una piuma, in uno sfondo cristallino... e poi si era ritrovata a picco, uguale ad un macigno di otto tonnellate, e le era sembrato di veder calare la notte – ma non una notte alleata, non una compagna. Ed era tutto successo in un insignificante secondo. Il brevissimo tempo per girarsi di spalle e vedere il volto di lui piegarsi in una smorfia di dolore – solo per poi sparire dal suo campo visivo.

 

«Ta... », ma la voce le morì in gola e i suoni scomparvero. Tetsuya, che gli stava accanto, era scattato per prendere l'amico al volo, impedendogli di finire a terra. Non l'aveva fatto cadere, non come a lei era sembrato di vedere. Tetsuya lo stringeva, scuotendolo, mentre il capo di Takeshi ciondolava sulla spalla del vampiro. Si rendeva conto che il vampiro stava chiamando l'umano solo perché le sue labbra si muovevano.

«L'avevo detto che non stava bene!», sentì esclamare Sayumi – finalmente i suoni riacquistarono i loro colori.

La vide avvicinarsi immediatamente, con un ampio passo. Gli sollevò i capelli dalla fronte e ci poggiò sopra la mano. «Ma non è febbre... come pensavo... ».

«Takeshi!». Yuki scattò, gli corse contro. Quasi lo strappò dalla presa del vampiro, prendendogli il viso fra le mani, ispezionandolo come se fosse stato trafitto a morte. Era totalmente incosciente. Le palpebre erano calate sugli occhi, il respiro flebile, il corpo abbandonato come un guscio vuoto.

Cos'era successo e com'era successo – le domande che le vorticavano in testa le davano la nausea.

«Che cos'ha? Si è affaticato?», urlò, verso i due amici. «Oppure ha qualche malattia?!».

«Yuki-chan, calmati!».

«Dobbiamo tornare indietro. Portiamolo subito da un dottore».

«Lo porterò io, lascia che– ».

«Yu, non mi sembri nelle condizioni», Tetsuya sopprimette un ringhio a stento. Il suo sguardo era atterrito. «Fa fare a me».

 

Nuovamente, Yuki percepì le sue corde vocali rintanarsi. Poteva solo fissare Tetsuya mentre si piegava sulle gambe e spostava Takeshi sulla propria schiena. Infine, si rimise in piedi, reggendo il moro da sotto le ginocchia. In fretta e furia, tornarono indietro sui loro passi.
Era chiaro che quella situazione era nuova a tutti; di solito era Yuki quella che si feriva o che, nelle peggiori delle ipotesi, moriva.
Takeshi stava bene, era in salute, in forma, come i giovani uomini dovrebbero essere.

Ma quella volta, no. Per loro era tutto nuovo. Si sentivano smarriti come dei bambini e preoccupati come degli adulti.

 


Rientrarono nel paese correndo a perdifiato. Si infilarono in una strada laterale, che portava fino al centro della piccola cittadina. Sayumi si apprestò alla porta di vetro del medico curante – a qualcosa era servito il giro di ricerche del giorno prima –, quasi lanciandocisi addosso, spalancandola senza troppe cerimonie e spaventando i pazienti. Tenne la porta aperta per far passare gli altri e poi travolse lo studio del dottore come un ariete.

Il dottore lasciò cadere un plico di fogli, con gli occhi spalancati. «Signorina, cosa DIAVOLO pensa di– ».

«Aiuti il mio amico! È svenuto all'improvviso e non abbiamo idea di cosa abbia... la prego, lo aiuti, e poi ce ne andremo subito!».

 

 

 

 

***

 

 

 


Il dottore, un uomo sulla cinquantina, indossava spessi occhiali da vista sugli occhi talmente chiari da sembrar trasparenti. I capelli radi si arruffavano e scarmigliavano ogni volta che si chinava, ma lo sguardo era attento e ci metteva molta cura in tutto quello che faceva. Sotto al lungo camice, bianco e lindo, aveva una camicia a righe azzurre e pantaloni marrone scuro.
Dopo che aveva ascoltato le spiegazioni in merito a quell'arrivo assurdo, il dottore aveva detto a Tetsuya di portare il suo amico nella stanza a destra.

Tetsuya aveva eseguito subito. Oltre la porta che gli era stata indicata, c'era una nuova stanza, molto più ampia. Aveva lasciato Takeshi sul lettino e si era assicurato che respirasse.

C'erano otto letti in tutto, tutti vuoti. Non esistevano ospedali, lì, per cui quel dottore era l'unica fonte di salvezza dei cittadini umani. L'ospedale più vicino era quello di Shizuoka.

 

Il dottore si chiuse la porta dell'ufficio alle spalle. «Allora», esordì, con voce limpida. Il suo sguardo ricadde sul trio. Ai suoi occhi erano parecchio strani. Molto belli, ma parecchio strani. Si mise a sedere alla sua scrivania, intrecciando le dita ruvide sulla superficie di vetro. «Prima di tutto, il vostro amico sta abbastanza bene. Gli ho attaccato una flebo di liquidi, quindi a breve si sveglierà. Il suo battito cardiaco è regolare. In ogni caso, anche dopo il suo risveglio, deve riposare e restare a letto per qualche ora».

I ragazzi quasi caddero dalle sedie per il sollievo. Erano seduti di fronte al dottore, nel piccolo studio. Nel lasso di tempo in cui il dottore aveva visitato Takeshi, loro erano rimasti lì ad aspettare, mentre sudavano freddo, e si innervosivano sempre più.

«Da come eravate entrati, pensavo fosse in pericolo di vita».

«Mi dispiace moltissimo», si affrettò Sayumi. «Ecco, penso che ci siamo spaventati... non era mai successa una cosa del genere, per cui noi non... ».

«Non sapevate cosa fare. Lo capisco».

Yuki osservò l'uomo tra le ciglia. «Quindi, per quale motivo è svenuto?».

«Ho detto che sta abbastanza bene, ma dovrebbe stare meglio. Normalmente gli svenimenti vengono causati da forti picchi di stress o perdite improvvise di sangue, ma... non mi sembra che questi siano il vostro caso».

I ragazzi si guardarono. «Ultimamente non ha sofferto nessuna delle due», rispose Tetsuya.

«Infatti, le avevo escluse. Tuttavia, a primo acchito, si nota subito una forte disidratazione. Immagino che si sentessi anche debole. Con ogni probabilità, stava soffrendo di nausea già da un po'».

«Una cosa del genere... », mormorò il vampiro.

«I motivi possono essere moltissimi... sta' a voi darmi informazioni sul suo stile di vita».

 

Anche se sapevano che Takeshi aveva una vita abbastanza tranquilla, con la sua routine e le sue semplici attività – e che quindi difficilmente aveva a che vedere con il suo svenimento – i ragazzi parlarono di come viveva, di cosa faceva. Anche il dottore si vide d'accordo.
C'era ancora qualche opzione da tenere in conto quindi, per arrivare fino in fondo alla faccenda, avrebbero eseguito degli esami del sangue. Il dottore invitò il trio ad entrare nella stanza accanto, dove si trovava quella sorta di pronto soccorso, dove Takeshi stava ancora riposando.

Dato che non c'era nessun altro paziente, la stanza era quasi completamente all'oscuro. C'erano letti sulla parete a sinistra e altri su quella a destra. Accanto ad ognuno vi era un'asta reggiflebo con ruote, un piccolo comodino asettico. Infine, in vari punti, si trovava qualche macchinario, qualche kit del pronto soccorso, un carrello fornito di medicine, guanti di lattice, confezioni di siringhe.

Non dovettero cercare allungo. Takeshi era steso, con i suoi vestiti, sotto le coperte all'ultimo letto sulla sinistra. La sua giacca era appoggiata ai piedi del letto. Quando Yuki lo vide, sentì un vuoto nello stomaco. Sembrava addormentato, serenamente, ma quella flebo che si collegava al suo braccio la diceva diversamente.

I ragazzi si avvicinarono. Non si trovavano sedie, per cui rimasero in piedi.

C'era un silenzio quasi opprimente. L'unico suono che si riusciva ad udire era il ticchettio dell'orologio sopra la porta.

 

«Come vi sembra?», fu Sayumi a rompere quell'omertà. Sussurrando, piano, come se si stesse nascondendo da qualche mostro.

«Pallido», determinò Tetsuya.

Yuki sospirò.

Sayumi guardò di fronte a sé, verso i visi contratti di Yuki e Tetsuya. Strinse le labbra e inarcò le sopracciglia. «Sentite, con quelle facce non faremo stare meglio nessuno. Di sicuro Takeshi non ne sarebbe felice», sentenziò, cercando di tenere ancora la voce bassa. «e non lo farà stare meglio».

«Lo so», ribatté Tetsuya, senza guardarla. «Lo so perfettamente».

«Beh, e allora... ».

«Ma non riusciamo a rasserenarci», fu l'aggiunta della mezzosangue. Si tormentava l'orlo della gonna. Fissava, insistente, il viso assopito del suo fidanzato. Sembrava ridicola quell'eccessiva preoccupazione? Forse.

Sayumi aspettò qualche istante. Per lei era lo stesso. Non riusciva a calmarsi. Ma non poteva farsi prendere dall'ansia, non avrebbe aiutato nessuno.
La sua attenzione venne rapita per un attimo dal fascio di luce dorata che arrivava dallo studio del dottore. «Va tutto bene», mormorò – più che altro a se stessa. «Sta bene».

«Se solo capissimo la ragione dietro... », adesso, Tetsuya era frustrato. La voce era leggermente più fredda, un sibilo. «... allora potremmo aiutarlo».

Yuki lo osservò con la coda dell'occhio, per poi chiudere le palpebre. Si avvicinò al bordo del letto, all'altezza dei fianchi del ragazzo, e vi sedette, molto piano. Tetsuya aveva detto giusto, era pallido. Il suo bell'incarnato rosato era sparito. Tuttavia, i tratti del suo viso – così belli, così dolci – erano distesi e apparentemente rilassati.
Senza che nemmeno se ne rendesse conto, gli stava accarezzando la guancia. Poi le dita spostarono le lunghe e arruffate ciocche castane, sfiorando le ciglia degli occhi chiusi.

E fu lì che un movimento, piccolo, appena impercettibile – smosse le palpebre del bruno.

«Take... ?», era stato così minuscolo che forse se lo era immaginato. Yuki scostò la mano, mentre Tetsuya e Sayumi cercavano di vedere. L'albina sospirò, di nuovo. «Scusate, pensavo fosse– ».

 

A quel punto, Takeshi spalancò gli occhi. La sua bocca si schiuse leggermente.

Yuki sussultò sul letto e si chinò appena su di lui. «Ehy, è tutto okay, va tutto bene... ».

Takeshi sembrava in un mondo a parte, vitreo e lontano. Mentre Yuki gli parlava, lui avvicinava entrambe le sue mani al petto. Le dita gli tremavano e il pallore della sua pelle vorticò ad un violaceo scuro, come un grande livido. Le spalle si irrigidirono e il viso si contrasse in una smorfia sofferente. Poi, un verso di dolore squarciò il silenzio, levandosi fino ad un urlo, soppresso a stento.
Yuki scattò in piedi. Gli prese il viso fra le mani, chiamando il suo nome, chiedendogli cosa gli stava succedendo. Sayumi corse nello studio a chiamare il dottore, mentre Tetsuya cercava di bloccargli il braccio della flebo. Ma si muoveva talmente tanto, in spasmi frenetici, che era quasi impossibile.

«Take, ti prego, stai fermo!», lo pregava il vampiro. «Ma da dove diamine gli arriva questa forza?!».

L'albina cercava di guardarlo in viso, e di rassicurarlo – ma la sofferenza sul suo viso sembrava immensa. Yuki gli passò una mano sulla fronte, asciugandogli via il sudore dalla pelle e dai capelli. Le corde vocali del ragazzo vibravano, le urla e gli spasmi non accennavano a cessare. Lei lo guardava mentre contraeva la mandibola e tentava di chiudere la bocca, per cessare tutto quel fracasso. «Ti prego, svieni, ti prego, svieni, svieni... », lo ripeteva come un mantra, usando tutto il suo potere del soggiogamento. Ma non funzionava. Non funzionava! «Dov'è quel dannato dottore?!».

«Lui non può fare niente!», Tetsuya premette entrambe i palmi, sull'avambraccio e sul bicipite, e finalmente riuscì a metterlo giù. «Il petto! Continua a cercare di toccarselo!».

«Il petto... », Yuki iniziò allora a tastargli lo sterno, ma a pelle non sentiva assolutamente nulla. Allora afferrò il tessuto sullo scollo della maglietta, ci affondò le unghie e con un solo gesto la lacerò in due, scoprendo i pettorali e le clavicole.

«Che diavolo... », esclamò Tetsuya.


Yuki premette le dita, appena sotto le clavicole di Takeshi. C'era... qualcosa. Un cerchio? No... «Una spirale?», sibilò.

Tetsuya era a bocca aperta. «Cos'è quella roba?».

«Cos'hai fatto... », al suono della sua voce, Yuki e Tetsuya sollevarono le teste di scatto, sperando di non trovare altro dolore in Takeshi. Il bruno, che aveva sbarrato lo sguardo, richiuse lentamente le palpebre, cacciando un profondo respiro stremato.

Finalmente, si era fermato.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki toccò la superficie dell'acqua con la punta dell'indice, immergendolo nell'impalpabile schiuma bianca. L'acqua era più che calda, decisamente. Si allontanò dalla vasca di un passetto e si rivolse allo specchio sopra al lavandino. Aveva la sclera un po' arrossata, dato che aveva pianto. Ora che ci pensava, era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva versato delle lacrime. Non pensava che l'avrebbe fatto in una situazione assurda come quella.
I capelli si erano scarmigliati, durante tutto quel trambusto. Adesso che erano così corti, poi, si scompigliavano molto facilmente – si passò le dita fra i capelli, dalla radice, tirandoli indietro il più possibile.

Aveva bisogno di un bel bagno. Takeshi stava dormendo nel letto, e per il momento non accennava a risvegliarsi. Mentre Sayumi e Tetsuya si sistemavano – di nuovo – nella stanza d'albergo accanto alla loro, l'albina ne approfittava per sciacquare via le ansie.

Liberatasi degli indumenti, scavalcò il bordo della vasca, ed immerse prima la gamba sinistra e poi la destra. Lentamente, sprofondò nell'acqua fino alle spalle.

Si lasciò scivolare, appoggiando la schiena alla superficie fredda della vasca, mentre i capelli bianchi galleggiavano nell'acqua.

 

Continuava a pensare a quel segno.

Piccolo, a forma di spirale, di un colore rosato, molto simile a quello della carnagione di Takeshi. Come una cicatrice. Ma se lo toccava, la pelle era liscia e perfetta. E sembrava che al tocco lui non provasse nulla.

Spazzò via un ammasso di schiuma con il ginocchio, e corrugò la fronte. Aveva capito, se non altro, che non era una malattia. Che il dottore non poteva fare proprio niente.

Quando Sayumi era tornata con l'uomo e aveva visitato Takeshi, aveva proclamato di non aver mai visto niente di simile. Forse era un batterio. O qualcosa del genere. Ma ancora, a quel punto sorgeva un altro dubbio: la forza esplosiva e la resistenza al soggiogamento.
Magari, Takeshi aveva trovato tutta quella forza per l'adrenalina, per il dolore; d'altronde, si narra che un uomo, in preda all'adrenalina, sia stato in grado di sollevare un automobile a mani nude. Ma, in ogni caso, Yuki non era certa che quell'ipotesi fosse corretta. Può un essere umano cacciare una tale forza? Al punto da respingere quella di un vampiro? E com'era possibile che il soggiogamento non avesse avuto nessun effetto su di lui?

Non a caso i cacciatori combattevano armati. Non a caso, ancora, i cacciatori dovevano allenarsi giorno e notte. Perché la forza delle creature era ineguagliabile.

Se Tetsuya era riuscito a domarlo a stento, qualcosa poteva significare.

Infine, la frase che gli era uscita dalle labbra. «Cos'hai fatto... », ripeté l'albina, mentre le ciocche bianche si attaccavano alle guance.

Chi aveva fatto cosa? E cosa era stato fatto? Poteva includere una persona, qualcuno che si era avvicinato a Takeshi. Di vampiri e demoni il mondo era pieno. Di esseri pericolosi.

 

Irata, la mezzosangue si morse le labbra. Sperava solo che lui non dovesse soffrire ancora. Non in quel modo, per lo meno.

A quel punto, sentì bussare alla porta. Yuki si voltò verso sinistra. Seguì un silenzio strano, per un paio di istanti.

«Yuki?».

«Take!», esclamò l'albina. Si alzò subito in piedi, creando maree e piccole onde di schiuma. «Non devi stare alzato, aspetta, sto arrivando a... ».

«Posso entrare?».

Yuki si bloccò. «Ora? In bagno?».

«Sì, vorrei vederti», poi Takeshi si rese conto della frase e si corresse. «Intendo dire, ho dormito tutto il giorno, quindi... ».

La mezzosangue ritornò al sicuro dentro l'acqua del suo bagno. «Entra», mormorò, schiacciando le ginocchia contro il seno.

 

La porta si aprì. Se una mano gli serviva per ruotare il pomello, l'altra era indispensabile per sorreggersi. Takeshi era sull'uscio, appoggiato con l'avambraccio. Indossava il pantalone grigio scuro della tuta e una maglietta bianca a mezze maniche. Anche se era pallido, imperlato di sudore e con i capelli completamente nel caos, per lei, che lo guardava dal bordo della vasca da bagno, restava un sogno ad occhi aperti. «Ciao», bisbigliò, con dolcezza.

«Ehy... », era così sollevata. Aveva temuto che, la prossima volta che si sarebbero rivisti, lui fosse stato ancora preda di quelle atroci sofferenze. Una rotonda goccia d'acqua scivolò sulla punta del naso dell'albina, mentre lei cercava le parole giuste. «Non restare lì, vieni».

Anche se si sentiva in imbarazzo, non voleva che lui restasse in piedi lì, in un punto così distante.

«Beh... d'accordo». Takeshi oltrepassò l'uscio e richiuse la porta. Appoggiandosi a qualsiasi mobile e supporto, raggiunse la vasca da bagno, in fondo al piccolo bagno. Si lasciò scivolare sullo scalino, pian piano, posando il braccio e la tempia sul bordo della vasca. «Tutto okay?».

La mezzosangue corrugò la fronte. «Stai scherzando? Questa sarebbe la mia domanda».

Takeshi sollevò la testa leggermente, per guardarla in viso, anche se parecchio storto. «Allora ti rispondo: sto bene».

«Takeshi, ascolta un po'», l'albina si dimenticò che dal collo in giù non indossava nulla. Qualsiasi imbarazzo venne spazzato via da sentimenti ben più importanti. «L'ultima volta che hai detto di stare bene sei svenuto. Dopo di ché, hai avuto degli strani e agghiaccianti spasmi e sei stato malissimo».

«Quello non– ».

«Eri talmente debole che hai dormito tutto il giorno, svegliandoti solo ora», Yuki si guardò intorno, frenetica. «Che ore sono? Le 19?».

«Yuki, dai, senti», non sapeva come dirgli quello che stava provando. Ma lei aveva ragione. Tirò su la schiena e si sporse verso di lei. «mi dispiace. Mi dispiace di averti fatta preoccupare tanto. Davvero».

La mezzosangue fissò la parete di fronte, le piastrelle color sabbia che adornavano quel grazioso bagno. Si morse forte le labbra, avvertendo un pizzicore agli occhi. «Ero così preoccupata», sussurrò, la voce tremula. «pensavo che saresti morto».

Lui sorrise. «Per così poco?».

«Forse non te lo ricordi. Sembravi posseduto».

«Wow, questo sì che è sexy».

«Eri bello anche mentre strepitavi e ti agitavi».

«Ah. Quindi sono bello, per te».

Yuki si girò dall'altra parte. «Stupido mentecatto».

Takeshi, a quel punto, si mise a ridere – baciandola sulla spalla. «Ti amo».

 

 

 

 

***

 

 

 

«Qual è il piano?».



Yuki si passò l'unghia del pollice sulle labbra. Guardò in direzione di Sayumi, osservando la sua espressione seria.

Già, qual era il piano? Di solito aveva sempre qualche piano; ne aveva avuto uno quando casa sua era stata invasa, quella fatidica sera, ne aveva avuto uno per sfuggire dalle grinfie di Alyon quando l'aveva rapita. Quasi sorrise, ripensando a come erano più o meno falliti. D'altro canto, erano sempre stati ideati per uscire da una circostanza al meglio possibile – all'ultimo istante, con il sangue alla testa.
Nella piccola sala da pranzo dell'albergo, Yuki, Tetsuya e Sayumi stavano consumando la colazione, mentre Takeshi era ancora nel mondo dei sogni; avevano cercato il tavolo più in disparte, si erano seduti con croissant e tè caldo e avevano iniziato a mangiare. Il croissant di Yuki era ancora nel piattino di ceramica.

«Voglio dire, non possiamo certo tornarcene a casa come se nulla fosse», riprese Sayumi. «Anche se il viaggio non è lungo, rischiamo che vada a finire come ieri mattina».

Ovviamente aveva ragione. Tetsuya girava il cucchiaino dentro la sua tazza verde. Osservava il colore ambrato della sua bevanda.

«Non ho un piano».

«Beh... è giusto».

«Però so cosa voglio fare».

Tetsuya sollevò le sopracciglia, lentamente. «E cioè?».

«Voglio capire cosa esattamente lo sta indebolendo».

 

Nessuno rispose né obiettò. Si sentivano le voci appannate delle altre persone. In fondo alla sala si ergeva una lunga tavolata bianca colma di cibarie. Yuki appoggiò la guancia sulla mano. Quell'atmosfera le ricordava molto la gita a Kyoto.

«Chiaramente quello che gli è successo non è umano», disse Sayumi – poi schiacciò la bocca, riformulando la frase. «Non è normale. Non è una malattia. Né un semplice malore».

«E allora che cos'è?», domandò il vampiro.

«È ciò che dobbiamo scop... », Yuki si bloccò. «Ora che ci penso, Takeshi ha cominciato ad essere diverso l'altro ieri, la sera al locale. Vi ricordate?».

«Sembrava che qualcuno gli avesse rimescolato il cervello».

Tetsuya annuì, serafico. «Giustappunto», concordò. «Appariva intontito e po' spaesato. Tuttavia, era abbastanza in forma».

Yuki si strofinò il mento con le nocche. Tutti i sintomi si erano presentati la mattina dopo. Assomigliavano ad un post-sbornia. Peccato che un post-sbornia non si sviluppava in spasmi e dolori acuti e benché meno in disegni strani incisi sulla pelle. Tra tutte le stranezze che aveva visto nel bruno, quella era senz'altro la più allarmante.
Intanto, gli altri due continuavano a parlare, esponendo teorie, pensieri, riflessioni. Yuki aveva fatto un passo indietro, sprofondando in una bolla – se quella spirale aveva un significato, quale avrebbe potuto essere? Era spuntata su di lui naturalmente, come una voglia? Oppure – nel peggiore dei casi – ce l'aveva messa qualcuno?

Era pericolosa?

«Yu?».

L'albina spostò lo sguardo. «Cosa?».

Tetsuya respirò dalle narici, incastrano le braccia al petto. «Ci stai ascoltando?».

«No».

«Ci ho fatto caso».

«Tetsuya stava dicendo di andare a cercare tua madre», aggiunse in fretta Sayumi. «perché lei è stata l'ultima persona con cui ha parlato Takeshi prima di stare male».

«Che vuol dire?», sbottò la mezzosangue. «Intendete che mia madre possa aver fatto qualcosa?».

Di fronte alla domanda suscettibile, il vampiro si alzò, scostando rumorosamente la sedia. A giudicare dalla sua espressione, era un fascio di nervi. Doveva essere preoccupato marcio per l'amico. «Potrebbe aver visto qualcosa. Cerchiamola, punto e basta».

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Salve!
Siamo al capitolo 11! WOW! Capitolo 11 vuol dire anche problemi, in realtà.

Infatti, come potete vedere, il caro Takeshi sta un tantino soffrendo per... beh, robe. Robe che scoprirete più in là.

In ogni caso, vi scrivo questa nota per ringraziarvi di continuare a seguire Vampire Devil. Mi rende sempre felice sapere che qualcuno ha interesse in questa storia.

Inoltre, come accade ormai annualmente, mancherò per un po' di tempo, più o meno fino al 5-6 Gennaio! Quindi la pubblicazione dei prossimi capitoli balza direttamente a quel periodo.

Detto questo, spero che la storia fin qui vi sia piaciuta, e ci rivediamo a Gennaio! Buone feste~

P.s.
Salve! È passata una vergognosa quantità di tempo dall'ultima volta che ho aggiornato Vampire Devil e di questo me ne scuso. Purtroppo non so quando sarò in grado di aggiornare con tempi regolari, forse metà o fine Febbraio; il mio computer ha cessato di vivere qualche settimana di tempo e solo adesso sono riuscita ad affacciarmi qui. </3 
In ogni caso, scrivo questo per avvertire chiunque fosse interessato a VD. Spero di tornare al più presto! Bye!

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Capitolo 12
*** Un timbro sibilante. ***


12.




«No, non c'è più. La signora Akawa è sparita ieri mattina, intorno alle 11.00». 


Tetsuya sgranò gli occhi, indietreggiò turbato. Puntava il pavimento sotto ai suoi piedi, come un cecchino, ripetendosi le parole che aveva appena sentito Rifletté qualche secondo. Immobile, la sua mente stava viaggiando velocemente. Stava spremendo tutte le informazioni, le varianti, le possibilità, le teorie, i fatti. 
Kazumi Akawa era sparita, a sentire la recepionist dell'albergo, subito dopo che i quattro si erano incamminati per tornare a casa. Di conseguenza, poco prima che Takeshi avesse quell'assurdo malore. 
Era ovvio che pensare a Kazumi come la colpevole fosse un insulto. Quella donna non aveva nessun motivo per fargli del male. Anzi, era stata lei a pressare Oseroth affinché cambiasse atteggiamento con gli umani e con lui. Per cui, no. Lei non c'entrava nulla. Ma era bizzarra quella coincidenza. 



«Cosa ti ha detto?».

Tetsuya si voltò di spalle. Yuki e Sayumi erano in piedi, braccia incrociate al petto e dietro la schiena, in paziente attesa. Ma bastava un'occhiata più attenta per far caso all'ansia e l'apprensione nella piega delle labbra di tutte e due.

«Ha detto... », il vampiro indugiò. «ha detto che non c'è». 

«Se n'è già andata chissà dove?», esclamò la mezzosangue, alzando le sopracciglia. «Che velocità». 

«Sì, ma... non esattamente. La parola usata dalla recepionist è stata "sparita"».

«Cioè, è semplicemente... scomparsa?», chiese Sayumi. «Sta diventando un po' troppo frequente». 

Yuki sciolse le braccia al petto, la bocca schiusa e la fronte aggrottata. «Quindi non possiamo farle neanche una domanda», chiuse i pugni, premendo le unghie sui palmi. Nel suo sguardo, era palpabile la frustrazione. «Che seccatura». 

Nervosamente, l'albina si sedette sulla poltrona dell'entrata. La katana, rinfoderata, cozzò contro il bordo della seduta.

«Faremo in un altro modo», cercò di rassicurarla Tetsuya. «Stai tranqui– ». Ma una musica improvvisa lo interruppe. Yuki, con calma, si tastò la tasca della gonna. Infilò la mano, afferrando il suo telefono cellulare. 

«È Takeshi», mormorò meravigliata – si portò l'apparecchio all'orecchio, incerta. «Pronto?».

Dall'altra parte, seguì un silenzio di pochi secondi. Poi, dopo un sospiro pesante, la sua voce rispose. «Mi sento abbandonato e solo. Dove siete? Vi raggiungo».

«Take», Yuki serrò la mandibola. I canini pressavano sui denti inferiori. «mi spiace, ma devi riposare... ». 

«Se dormo un minuto in più, finisco in coma».

L'albina si strofinò le dita sulla fronte, esasperata. Poi guardò in viso i due amici, parlandoci attraverso lo sguardo irritato. Loro le risposero con un sospiro e un'alzata di spalle. 

«Utile», commentò lei. 

«Utensile?». 

«No, senti– », si morse le labbra, sollevando gli occhi al cielo. «Siamo nella hall. Ma se ti senti anche solo un po' strano, me lo dici immediatamente. Okay?». 

«Come vuoi, cherì». 

«Promesso?».

«Giurin giurello». 


E chiusero la telefonata. Mentre aspettavano il ragazzo, i tre decisero che avrebbero fatto un giro per la città più tardi, magari esaminando la zona intorno al locale. A quel punto, tanto valeva servirsi dei ricordi sbiaditi di Takeshi. Qualcosa poteva pur essergli rimasto, anche se sembrava che gli avessero risucchiato via ogni immagine di quella sera – e la cosa non poteva che essere inquietante.
A tal proposito, le domande fatte al ragazzo non avevano sortito grandi risultati; quando si era finalmente svegliato, la sera precedente, Yuki e gli altri avevano provato ad indagare. Takeshi, nel tentare di rispondere e di essere utile, però, si era solo arrecato stanchezza e fitte alla testa – e ci avevano rinunciato, almeno per il momento. 

Gli avevano indicato il punto in cui si trovava quella strana spirale e il ragazzo ci aveva dato un'occhiata, allargando il bordo della maglietta. Non aveva dato di matto, ma la cosa l'aveva indubbiamente innervosito. 

«Ehy!». 


Yuki, Tetsuya e Sayumi si voltarono. Takeshi era apparso dalle scale, che conducevano alle camere dell'albergo, e stava ora attraversando l'arcata che introduceva alla hall. Indossava dei jeans scuri, sbrindellati sulle ginocchia, una maglietta grigia di cotone a maniche lunghe e una felpa con cappuccio. Il suo viso, nel complesso, appariva sano e vivo. Il colorito non era più pallido e smorto, e aveva recuperato gran parte del suo vigore rosato. Cionondimeno, Yuki non riusciva a vederlo al sicuro. 
Per lei era ancora in pieno pericolo. 

«Ben sveglio», esordì Tetsuya, rompendo lo spesso strato di ghiaccio che si era formato. «Pensavamo fossi andato in letargo». 

«Cosa posso dire», rispose l'altro, abbozzando un sorrisetto. «non adoro svegliarmi presto». 

«Non ti piace svegliarti», osservò Sayumi, ridacchiando. 

Yuki lo squadrò, esaminando gli zigomi alti, i sottili ciuffi castani che gli cadevano sugli occhi. Aveva un po' di occhiaie, anche se aveva dormito per tante ore. «Come ti senti?». 

«Fresco. Accecato». Takeshi socchiuse gli occhi. La luce che proveniva a destra, dalla sala da pranzo, ai suoi occhi era fulgida come un flash. «Il mondo è sempre stato così sfolgorante?».

«Chi sei, Biancaneve?». 

Takeshi inclinò il viso verso l'albina e le sorrise. Lei non riusciva a fidarsi. Quella bella curva poteva nascondere molte cose. 

«Beh», squittì Sayumi, congiungendo le mani davanti al petto. «che ne dite di fare quel giretto per la città?». 

«Prima iniziamo, meglio è», convenne Tetsuya. 

Yuki si rivolse a Takeshi, che interrogativo chiedeva di cosa stessero parlando. «Vogliamo indagare a proposito di», la mezzosangue aggrottò la fronte. «quello che ti è successo e quello che ti sta succedendo».

«Quello che mi sta succedendo?». Il ragazzo si toccò il petto, schiacciando i polpastrelli poco sotto le clavicole, dove la spirale aveva marchiato la sua pelle. Come una cucitura. Takeshi deglutì, mandando giù un attimo di agitazione. «Io... », lui avrebbe voluto dirgli che non c'era nessun bisogno di uscire ad indagare per... per lui. In parte perché si sentiva meglio, in parte perché non poteva fare a meno di pensare che non ne valesse la pena. Non valeva la pena fare tutta quella fatica. 

«Tu?», Yuki e gli altri lo guardarono, incalzanti. 

«No, niente. Andiamo pure»





All'esterno ogni cosa si era tinta di grigio. Le nuvole coprivano la maggior parte dell'azzurro, ricoprendo il cielo come un morbido panno. L'odore che impregnava l'aria era umido, freddo, tipico della pioggia che carica le nuvole. Fuori, in strada, non c'era quasi nessuno; qualcuno stava attraversando un marciapiedi, di fretta e furia, qualcun altro si apprestava ad uscire e coprire con un telo la propria bicicletta.
Yuki sollevò il viso, strizzando gli occhi. A quell'ora la taverna era ancora chiusa. L'unica alternativa era esaminare la zona circostante e dovunque Takeshi avesse messo piede.

«Ti ricordi se ti sei allontanato dal locale, quando sei uscito?». 

«No... sono quasi certo di non aver fatto più di dieci passi». Takeshi fece un paio di passi avanti. «Però... ».


I ragazzi si avvicinarono al piccolo edificio di fronte all'albergo. Dalla finestra sulla porta si poteva scorgere l'interno, tutto al buio e rassettato, con le sedie accatastate sopra i tavoli e le tende tirate. Chiaramente non c'era nessuno. Ma, a ben vedere, ai ragazzi non importava controllare l'interno, perché lì ci erano stati in prima persona – e niente era saltato ai loro occhi.
Si soffermarono all'entrata, studiarono la zona lì davanti, l'erba che circondava il locale, i cespugli nei pressi. Takeshi si girò verso destra, a guardare il vicolo in penombra, più spazioso rispetto a sinistra. Tentennò, ma alla fine si avvicinò.

«Take?», chiamò l'albina. «Dove sei... ma dov'è andato?».

«È entrato nel vicolo sulla destra», disse Sayumi, indicando quel punto. 

Yuki seguì il suo indice puntato, fino a raggiungere con lo sguardo la fiancata dell'edificio. Takeshi era un uomo, non aveva bisogno della scorta. Ma c'erano cose contro cui non poteva fare niente. «Vado a dare un'occhiata», mormorò, più a se stessa che a Sayumi, e mosse le gambe in quella direzione. I suoni dei suoi passi erano ovattati dal prato ben tagliato, ma Yuki si sentiva come un elefante in una cristalleria. 

Quando arrivò all'angolo, appoggiò la mano al muro e si affacciò leggermente con la testa. In tempo per vedere Takeshi in ginocchio. 

«Takeshi?», lo chiamò, nuovamente, entrando nella penombra del vicolo. 

Non stava lamentando dolori, era semplicemente fermo in quella posizione strana. Non vedeva gli avambracci, oltre i gomiti, segno che aveva le braccia raccolte al petto. Yuki lo fissò da quel punto, a mezzo metro di distanza.
Non voleva rischiare. Doveva pensare attentamente a come muoversi.

«Ngh... ». Ma se tendeva le orecchie, li sentiva. Leggeri mugolii, come una voce che si trattiene. Yuki si avvicinò al ragazzo e si lasciò cadere sulle ginocchia, di fronte a lui. Piano, con la paura di romperlo, gli toccò le spalle con i palmi.
Takeshi aveva ambe le mani sul petto, con le dita che forzavano il tessuto della maglietta sotto le clavicole. Il volto era reclinato verso il basso e da quel punto di vista si intravedevano le labbra, contratte in una linea, e gli occhi socchiusi, in una lama appannata. Lo vedeva arricciare appena il naso, il respiro caricarsi di tensione. Yuki inspirò profondamente. 

Doveva rimanere fredda.

«Dove ti fa male?». 

Ma il ragazzo non sembrava in grado di rispondere. Sembrava, piuttosto, che ogni volta che provasse a dare voce alla sua bocca, qualcosa lo bloccasse. Come una cerniera che si richiude. La mezzosangue si era resa conto, però, che non era il dolore a fermarlo: Takeshi era in grado di gestirlo, sarebbe riuscito a rispondere anche provando sofferenza. 
Ma non era quello il caso. Sembrava come se qualcosa gli togliesse la facoltà di parlare e di elaborare frasi. 

E se provassi a farglielo scrivere?, pensò, scacciando subito quell'ipotesi. Sarebbe stata la stessa cosa, con ogni probabilità.

Poi Takeshi sollevò il volto. Il volto, coperto dalle ombre del muretto accanto, era puntellato dal sudore. Affannato, con le sopracciglia inarcate sugli occhi sofferenti, lui staccò la mano sinistra dal petto, e la chiuse intorno a quella di Yuki. Le sue dita, lunghe e tremanti, sigillarono il palmo della ragazza e lo condussero fino al torace.
La mezzosangue sbarrò appena gli occhi. Sentì la pelle andarle a fuoco. Il battito cardiaco del ragazzo era affrettato. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa che sembrava bruciare come un fuoco soppresso a stento – Yuki spostò leggermente la mano verso il bordo della sua maglietta e ne tirò giù il lembo. 

Non poteva arrivare abbastanza in basso – non senza strapparla – ma già da quel punto un bagliore violaceo si apriva come il tramonto.

Yuki guardò Takeshi e lui, subito, le restituì lo sguardo. 


«Cosa... c-cosa mi sta accadendo... ?!».



Yuki percepì il cuore cederle. 
Come poteva sopportare una cosa del genere? Come poteva sopportare quella visione, senza capitolare anche lei? Il dolore, la paura, l'angoscia – tutto quello che spiccava, con la stessa tenacia di un fuoco d'artificio, negli occhi lucidi del ragazzo. La luce viola che avvolgeva il collo e il mento del bruno le faceva paura. Tuttavia. «Non sta succedendo nulla. Non devi avere paura. Ci sono io con te, andrà tutto bene». Per il momento, poteva solo abbracciarlo stretto a sé, come una mamma con un figlio spaventato. «Te lo prometto». 

Lo avrebbe salvato. Qualsiasi cosa richiedesse, qualsiasi pegno avrebbe dovuto pagare. 

Era una promessa, d'altronde. 



«Oh? Guarda, guarda. Un umano e una mezzosangue, che bislacca visione». 


Yuki spalancò gli occhi. Sguainò la katana in un sol colpo, ruotò parte del suo corpo, senza staccarsi dal bruno – ponendosi in parte come scudo umano. «Va al diavolo, vampiro». Yuki sollevò la katana, in orizzontale, mentre l'altro braccio era intorno alle spalle di Takeshi. 

L'uomo di fronte a loro, il vampiro dagli occhi famelici, ghignò. «Suvvia, non vi è alcun bisogno di essere così furenti. Perché non metti via quel pericoloso oggetto, signorina?». Stava ghignando, ma tra le pieghe di quel sorriso si notava qualche incertezza. E un briciolo di paura. 


La mezzosangue non si mosse. La spada, nella stessa posizione di poco prima. Non l'avrebbe abbassata né si sarebbe spostata. Si stava controllando a stento, mentre all'interno percepiva le sue tipiche tempeste. Le sue sottili pupille erano fisse sulla figura slanciata, di fronte a loro. Respirò profondamente, come uno sbuffo, dalle narici. 
Solo l'odore di Takeshi e la sua presenza riuscivano a tenerla ancorata.

Dio. Li odiava a morte.


«Perché tutta questa rimostranza?».

«La domanda è: perché sei ancora qui? Ti ho detto di sparire, oppure non l'ho fatto?».

Il vampiro incrociò le braccia al petto. «Sicura? Vuoi che sparisca?». Inclinò la testa. Il suo sorriso era uguale a quello di tutti quei demoni e vampiri che aveva visto là fuori – la stessa faccia, la stessa espressione di chi aveva visto qualcosa di succulento. 

«Anche se potrei aiutare il tuo amichetto umano?».







***







La morte, in realtà, non era così spaventosa. Era solo un abbraccio, un po' troppo stretto, e freddo e accecante. Per questo lei aveva accettato la sua morte e persino essere solo un paio di occhi che fluttuano nell'oscurità. Andava bene. Se solo avesse perso anche la coscienza, sarebbe stato perfetto.




«Cosa vuol dire?».

«Proprio quello che ti ho detto». Il vampiro indossava un completo, persino troppo elegante; al di sopra, a proteggere il lussuoso tessuto dell'abito, portava un lungo soprabito marrone di lana leggera. In cima al capo, a fare ombra sugli occhi forti di rosso, svettava un cappello a cilindro nero. Il vampiro strinse la falda, fra l'indice e il pollice, sollevandolo appena dal capo. «Forse non mi sono spiegato bene». L'uomo sembrò sul punto di continuare ma a quel punto Tetsuya, seguito da Sayumi, apparvero alle spalle del vampiro. 
Tetsuya agguantò lo sconosciuto per la spalla. Le sue dita stavano già colorandosi di un acceso arancione, strette come una trappola mortale, incandescenti come lava ardente. L'uomo si voltò verso Tetsuya, fissandolo tra le ciglia. Una sottile coltre di fumo grigio tra le dita di Tetsuya. «Potresti smetterla? Mi stai rovinando il soprabito».

«Sarà l'ultima delle tue preoccupazioni, fidati delle mie parole». Tetsuya ringhiò. «La mia amica ti ha detto di levare le tende».

«E dunque, sarà proprio questa la mia prossima mossa». Il vampiro sorrise verso l'albina. «Dal momento che non sono desiderato». 

«Aspetta».

Tutti i presenti, ad eccezione fatta per Takeshi, concessero le loro attenzioni all'albina, voltandosi a guardarla. Lentamente, lei posò la katana a terra, sull'erba, e avvolse il collo del bruno con le braccia, stringendolo protettiva a sé. Il biondo era in preda alla confusione e Sayumi non era da meno. «Chi sei, tu?», bisbigliò Yuki. «Non sei uno qualunque, non è vero?». 

«Per l'amor del cielo», esclamò l'uomo. «No, certo che no. E se fossi nato come uno qualunque, allora penso proprio che avrei terminato la mia vita molto tempo fa». 

«Quindi, chi sei?», ripropose Sayumi. 

Il vampiro guardò la ragazza, improvvisamente impassibile. «Perché mai dovrei dirvi la mia identità?». 

Sayumi ricambiò lo sguardo, decisa. «Perché potrebbe salvarti la vita». 

Lui inclinò, di nuovo, la testa di lato. Beh, era vero ciò che l'umana diceva. La mano di Tetsuya era ancora sulla sua spalla e, anche se il fuoco era stato messo a tacere, lui avrebbe potuto cambiare idea molto velocemente. Se l'occasione si fosse presentata. Non sembrava incline a fastidi, quel vampiro biondo. 
Bene, avrebbe dato credito alla ragazza con i strampalati capelli rosa. Se non altro, gli assicurava la vita, almeno per un altro po'. «Mi piace avere salva la vita», cantilenò l'uomo. 

Aprì le braccia. Tetsuya staccò la sua mano e fece un passo di lato, insieme a Sayumi, avvicinandosi a Yuki e Takeshi. 

L'uomo piegò il braccio sul torace e si inchinò con la schiena. «Sono il Messaggero».


«Il... Il cosa?», perplessa, Yuki sbatté le ciglia. All'altezza del grembo, avvertì il capo di Takeshi strofinarsi contro la sua pancia. Il ragazzo tirò indietro il capo, svelando gli occhi. «Yuki... lo conosco, lui... ». 

«Cosa? Lo conosci?». 



Colui che si faceva chiamare il Messaggero. Lo si vedeva sempre in abiti eleganti e raffinati e aveva un viso allungato e pallido, occhi incavati, forse poco rassicurante. Lui era ovunque, dappertutto, instancabile, e giovane da secoli – insieme ai suoi pochi colleghi di lavoro. «Infatti!», esclamò il Messaggero. Sembrava felice di essere stato ricordato dal bruno. «Infatti, esattamente, proprio così! Il nostro caro ragazzo dai profondi occhi scuri mi conosce. Non così tanto bene, tuttavia». 
L'uomo infilò la mano nella tasca sinistra. Quando la estrasse, aveva un oggetto cilindrico, grande quanto un palmo, di un legno mogano, liscio e ben lavorato. Si capiva subito che fosse di buona fattura. Il Messaggero premette il pollice su un piccolo pulsante e l'oggetto cilindrico si allungò all'istante in un bastone da passeggio. 

«In ogni caso, sono stupito: mi hai riconosciuto solo grazie alla mia voce?». 

Takeshi contrasse la mandibola. La sensazione di bruciore che gli dava la spirale persisteva, ma si stava quasi abituando. Odiava il fatto di non poterne parlare come voleva, ma al momento non poteva farci proprio niente. «Vabbene», bisbigliò. «Ce la faccio». 

Con le mani sui fianchi della mezzosangue, lentamente sciolse l'abbraccio benevolo che l'aveva avvolto sin dall'inizio. Sotto lo sguardo allarmato di Yuki, Takeshi ruotò il torso verso il Messaggero. 

«Eri la prima creatura notturna che incontravo dopo tanto tempo. Mi sei rimasto impresso». E lo aveva omesso, ma il suo timbro di voce era molto sibilante eppure limpido e chiaro. Quando si erano parlati all'ingresso della foresta, quella mattina, Takeshi aveva solo avvertito una sensazione di pericolo. Ma forse era solo l'atteggiamento di quel vampiro a metterlo sulla difensiva.

«Sapete cosa mi rende felice? Essere ricordato».

«Perché un Messaggero ha interagito con noi?», esclamò Sayumi. «E che cos'è un Messaggero?».

«Quante domande! Non credete che sarebbe meglio parlare altrove?».

I ragazzi si scambiarono un'occhiata. Per una volta erano d'accordo con una creatura notturna. 


Yuki si voltò – ostile com'era, con un sorriso spavaldo. «Allora, se permetti, adesso ti cattureremo».







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Capitolo 13
*** Una sciagura il cui nome era andato perduto. ***


13.







«Perché una persona come te si trova qui?».

 

L'uomo che si era presentato come il Messaggero era girato di spalle, con la testa china verso il basso. Si era tolto il soprabito e il cilindro, lasciandosi addosso la camicia bianca e il panciotto, privi della benché minima piega, e i pantaloni neri, che cadevano dritti sulle stringate laccate di nero.
Nella mano sinistra non aveva più il bastone, ma una sacca di sangue. La chiudeva in una morsa d'acciaio, stritolandola quasi, arricciando la plastica con facilità – mentre il sangue fluiva densamente dentro una bottiglia verde petrolio, appoggiata sulla credenza. Alla domanda di Sayumi, tuttavia, non rispondeva ancora, impegnato e assorto com'era in quel compito.

Quando la bottiglia si riempì fino a metà, il Messaggero lanciò la sacca vuota sulla superficie del cassettone. Qualche goccia picchiettò sul legno mogano del mobile, ma lui non sembrò curarsene.
Si piegò sulle ginocchia, aprendo lo sportello in basso. Su delle mensole vi erano allineati svariati bicchieri da vino, con una larga ciotola di vetro. Senza voltarsi, il Messaggero chiese: «Gradite?», ma dato che non ebbe risposta, prese un solo calice.

 

«Non siamo venuti a farci un goccio con te», sibilò Yuki.

«Dovreste», finalmente, si voltò verso di loro. Tre di loro lo fissavano con attenzione morbosa – il quarto faceva ancora fatica a a respirare bene o a tenere la testa alzata. Il Messaggero si portò il bicchiere, rosso scarlatto, alle labbra incurvate, accostato con il bacino alla credenza. «Questo è sangue di ottima qualità. Una preziosa risorsa. E voi due vi nutrire veramente poco».

Sayumi gettò un'occhiata fulminea agli amici. «Come– ».

«Come faccio a saperlo?», la interruppe. «Cara, guarda quanto sono invecchiati. Non è difficile immaginare la loro alimentazione».

Per qualche ragione, Sayumi si aspettava una spiegazione molto più lunga e complicata. Ma se aveva capito bene, tra di loro era molto facile capire certe cose. La ragazza chiuse la bocca, mordendosi l'interno del labbro. «Non stai rispondendo alle nostre domande».

Tetsuya annuì. «Se non hai niente da dirci, allora ce ne andiamo da qui. Non abbiamo tempo da perdere».

 

 

E "qui" era la casa del Messaggero. Lui stesso aveva suggerito di andare in un altro posto, più appartato, per parlare di quella faccenda. Lui diceva di avere una soluzione per il problema di Takeshi – per la sua, come l'aveva chiamata, sciagura.
Allora il vampiro li aveva condotti in strada. Subito dopo il viale all'ingresso, sulla destra si apriva una strada leggermente in discesa, costellata da case di varie dimensioni. Dopo una lunga camminata, infine, si giungeva ad un abitazione di modeste proporzioni, ma che spiccava per la facciata raffinata. Si capiva subito che ci abitava una persona ricca.

Un piccolo, quasi minuscolo giardino, circondava il sentiero in pietra fino agli scalini di granito.

Oltre la porta blindata, all'interno della casa, si veniva accolti da un corto corridoio pieno di porte; sulla destra, immediatamente, appariva una scala a muro, che conduceva ad un secondo piano completamente al buio. Parallela alla porta d'ingresso, invece, si vedeva bene una lastra di vetro trasparente, che dava sul retro del giardino.
Ogni spazio, ogni centimetro di quel luogo, era adornato da qualche oggetto. Le mensole colme di statuette, l'armadietto di vetro colorato da piante e fiori, mobili con all'interno vini e whiskey, libri accatastati in un mucchietto, portafoto vuoti.

Sembrava che, in effetti, l'intenzione fosse di riempire quegli spazi il più possibile. Fino a soffocare. Eppure, nel complesso non appariva disordinata, ma viva.

 

 

Il Messaggero li aveva fatti entrare in un'ampia camera, una sorta di salotto, che si trovava subito a destra, non appena varcata la soglia. Anche quella, come il corridoio che avevano visto all'inizio, era strapiena di ninnoli e cianfrusaglia. La parete sulla sinistra aveva appena qualche spazio libero, colmo fino allo stremo da quadri, ritratti, solitari paesaggi. Al centro della parete, in una riproduzione ingrandita, svettava il Monaco in riva al mare.
Di fronte, le poltrone di velluto, rivolte in direzione dei quadri, come silenziosi osservatori. Tra queste, a incespicare il cammino, un basso tavolino di vetro e legno. Alle spalle, infine, alte librerie, schiacciate dalla presenza di altro arredamento ingombrante, come scale o portavivande.

Yuki aveva fatto sedere Takeshi su una delle poltrone e gli si era accostata, le mani sulle sue spalle.

Tetsuya e Sayumi, invece, erano rimasti in piedi lì vicino, rigidi come stoccafissi.

 

«Abbiate pazienza». Il vampiro sogghignò. Poi squadrò Takeshi – era pallido, spossato, e sembrava tenere le palpebre aperte a fatica. Spostò la sua attenzione sugli altri. «Ci avrete fatto caso, questa città è di certo strana».

«Non so se userei la parola “strana”», ribatté la mezzosangue. «Ma piuttosto, tesa».

Il Messaggero annuì svariate volte, compiaciuto. «Bravo!», disse, in italiano. «Sono tutti quanti tesi. Anzi, lasciate che sia più specifico: tutti i vampiri e i demoni lo sono».

«Perché?», chiese Takeshi, a voce bassa.

«Perché stanno morendo di fame, semplicemente».

 

Il silenzio piombò nella stanza. Nessuno osò dire qualcosa. Il Messaggero bevve un sorso dal calice, il primo da quando se l'era riempito.
Era... strano. Come facevano a morire di fame? Gli umani non mancavano di certo e loro potevano prendersi il sangue a vicenda, se le prede scarseggiavano. Ma non era solo questo. Le creature erano tutelate dal Consiglio, in teoria.

«Non è così semplice come sembra. Non possono semplicemente aggredire il primo umano che vedono. Non quando la città pullula di cacciatori», disse il vampiro, umettandosi le labbra sporche di rosso con la lingua. «E indubbiamente non possono vivere privandosi del proprio sangue. Non è così che si fa».

Sayumi strabuzzò gli occhi. Ma gli aveva letto nel pensiero? «Cacciatori?».

«Già, cara, non li conosci?».

«N-no, li conosco, ma... ».

«Puoi smetterla?». Tetsuya fece un passo avanti. «Lei, per te, non è “cara”. Quindi smettila. Dacci un taglio».

 

Il Messaggero assottigliò le palpebre. L'aveva riconosciuto, anche se non subito: il figlio minore dei Tanigawa, morti suicida anni e anni fa. Non si erano mai conosciuti di persona, ma il loro cognome era abbastanza noto da giungere alle orecchie dei Messaggeri – soprattutto alle loro orecchie. Ciononostante, le sue informazioni a proposito di Tetsuya Tanigawa erano leggermente diverse; egli era descritto come un vampiro dal sangue freddo e l'anima di fiamme, uno dei pochi ad aver sviluppato poteri. Inoltre, non simpatizzava con nessuno, ad eccezione della famiglia Akawa.

Ma sembra proprio che le cose siano cambiate, eh?, pensò il Messaggero, buttando giù un altro lungo sorso dal calice.

 

«Beh?», disse Yuki, catturando la sua attenzione. «In poche parole, i cacciatori gli impediscono di mangiare gli umani della città? Per questa ragione, non possono ingozzarsi?».

«L'avrei detto in un altro modo, ma il concetto è proprio quello».

«E che mi dici del Consiglio? Non lasceranno che i loro cari figlioletti si sciupino, no?».

«E invece, sì; al Consiglio importa ben poco che i vampiri e i demoni di un paesino insignificante come questo non si possano nutrire come e quando vogliono».

Takeshi, all'udir di quelle parole, sentì una piccola scarica di rabbia. Sollevò la fronte, fissando il vampiro sotto le sopracciglia abbassate. «Ed è qui che... entri in scena tu... vero?», bisbigliò il bruno.

Il Messaggero annuì. «Precisamente, proprio così. Il mio ruolo è di tenere tutto in ordine, organizzato a puntino, per un tempo imprecisato. Una sorta di... intermediario». L'uomo fece spallucce. «Anche se non è mai detto quando il mio operato avrà esito positivo o, come sospetto in questo caso, negativo. C'est la vie!».

«Perché dovrebbe andar male?».

«Perché i cacciatori di questa città sono estremamente... irascibili, il ché rende difficoltoso il mio lavoro», sollevò la mano che reggeva il bicchiere, guardando il sangue che oscillava all'interno della ciotola di cristallo. «Da una parte, non mi interessa se finiscono per azzannarsi tutti quanti; dall'altra, non voglio fallimenti nel mio curriculum».

«Interessante. Molto interessante», Yuki strinse le dita attorno alle spalle del ragazzo, serrando la mandibola. «Ma tutto ciò non lo aiuterà a stare meglio. Hai detto di avere una soluzione. Ora voglio sentirla».

 

Il Messaggero strinse la mano attorno al sottile gambo. Inclinò il bicchiere verso di lui, scolandosi in una sola volta l'altra metà della sua “bevanda”. Quando ebbe finito, tirò un sospiro deliziato, e lasciò il calice sul mobile dietro il suo bacino. «C'è un motivo se noi Messaggeri siamo visti anche come degli Shinigami*, tanto per citare la cultura giapponese».

Yuki si sentì togliere il fiato. Quell'affermazione non aveva che significati malvagi e orribili. Guardò verso i suoi amici, che ricambiarono l'occhiata atterrita – e infine controllò Takeshi, vedendone solo il profilo stanco, dall'alto.

«Perché portiamo notizie di morte», continuò il vampiro. «e perché fiutiamo la morte. Non ci piace particolarmente, ma non possiamo fare a meno di avvicinarci, se ne sentiamo il gelido odore... come in questo caso, con il vostro amico laggiù». E indicò Takeshi. Stiracchiò il braccio, allungò l'indice nella sua direzione, come un giudice.

E così diede la sua sentenza. «All'incirca, il vostro caro Takeshi, ha ancora venti giorni... prima di morire».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki sentì solo le orecchie fischiare. Un fischio molto forte, per giunta, abbastanza potente da otturare i suoni circostanti, rinchiudendola in una campana di vetro; quindi, anche se avesse voluto, non riuscì ad ascoltare le voci agitate e concitate dei suoi amici, di Tetsuya e Sayumi, e benché meno le risposte pacate e subdole del Messaggero.
Mentre tutto, ogni cosa, girava come una ruota confusa, lei chiudeva le mani intorno alle spalle di Takeshi, tremando. Purtroppo, tremando.

E non riuscì nemmeno ad ascoltare il respiro affrettato del ragazzo, o il suo mutismo.

Ma davvero, tutto ciò non aveva la minima importanza. Frattanto che i suoi padiglioni auricolari rimanevano fuori uso, usurati dalle cattive notizie, dalle notizie pericolose, dalle cose spaventose che stavano accadendo – lei chinò il viso, fissando i capelli scuri e scarmigliati del suo ragazzo, e cominciò subito a riflettere.
Cosa poteva fare? Cosa avrebbe potuto fare, per salvargli la vita? Il Messaggero l'aveva chiamata “sciagura”, ma cosa significava? Non sembrava qualcosa di normale, di umano. Non come una malattia terminale o degenerativa. Yuki ne era quasi certa, si trattava di qualcosa che andava al di là, qualcosa che solo poche persone potevano conoscere, tanto antico era.

A quel punto, se era così che stavano i fatti, aveva la risposta. Lei non poteva fare niente. «Basta».

Ma i presenti non sembrarono sentirla.

«Ho detto, BASTA».

«Yuki... », bisbigliò Takeshi, voltandosi di lato, e guardandola con la coda dell'occhio. «Non ce n'è bisogno. È okay».

«Take, per favore, stai zitto».

 

Staccò le mani da lui e restò immobile, chiudendo i pugni. Poi camminò verso il centro della stanza, superando i suoi amici, fino ad arrivare di fronte al Messaggero – che aveva un sorriso vacuo sulle labbra, come uno spettro.

«Io non posso salvarlo», esordì Yuki. «Non posso salvare la vita di colui che... di colui che amo. Ci ho riflettuto, e forse ci ho riflettuto poco, ma sono certa di non avere in mano quel tipo di potere: perché la sciagura di cui tu parli va oltre le mie abilità di demone e vampiro. Non è così?».

«Brava. Non potevo aspettarmi di meno. È proprio così».

Yuki lo fissò negli occhi. «Dammi quella soluzione».

Il Messaggero, che fino a quel momento sembrava voler evitare come la peste di rispondere, si lasciò andare un sospiro lungo, esteso. «La soluzione è interpellare una strega».

«Una strega?», ripeté Tetsuya, sbigottito.

Il vampiro annuì. «Una strega ha sortito quella sciagura; una strega può scioglierla e farla marcire».

«Un attimo, è stata una strega a mettere quella maledizione su Anima... », osservò Sayumi. «Non potrebbe sciogliere anche quella?».

Il Messaggero si strinse nelle spalle, nuovamente. «Non so esattamente come svolgono le loro attività ma, se volete la mia opinione, cari giovani ragazzi, quella è una maledizione di gran lunga più potente dell'impiccio in cui è capitato il vostro Takeshi». Alzò l'angolo della bocca sottile, ghignando. «Voi quattro finite sempre in questo genere di guai, non è vero?».

 

Yuki sospirò. Non poteva nemmeno immaginare quanto avesse ragione.

Ruotò i piedi, dandogli le spalle. Con una mano al mento, riprese a pensare. Una strega. Avevano bisogno di una strega – e non solo, dovevano sperare che volesse collaborare con loro e aiutarli. Chissà perché, ma l'albina aveva la certezza che non li avrebbero aiutati senza avere qualcosa in cambio. «Dove possiamo trovarla, una strega?», sibilò.

«Questo... », il Messaggero ridacchiò. «Questo è proprio un bel quesito».

«Vuoi dire che non lo sai?».

«Ho qualche ipotesi».

«Allora diccele». Yuki si voltò di scatto. «Non mi importa se sono campate per aria, voglio sapere qualcosa. Dammi qualcosa!». Purché potesse salvarlo. «ORA!».

 

«Yuki... ». Quando si sentì avvolgere dalle sue braccia, di spalle, e percepì il suo profumo dolce e rasserenante, la mezzosangue ebbe l'impulso di piangere. Gli occhi, tutti da soli, cominciarono a bruciare, le palpebre le tremarono. Stretta in quell'abbraccio, così debole eppure protettivo, Yuki voleva piangere con tutte le sue forze. Perché non era giusto. Non era giusto. «Grazie».
Ma per cosa la ringraziava? Non aveva mai fatto niente per lui, non era mai stata in grado di far qualcosa – era sempre lui, l'umano dalle forze limitate, che era corso a recuperarla, che si era svenato per renderla felice, in quel poco tempo che avevano avuto. Era sempre stato lui.

Perché la ringraziava?

 

«L'Irlanda potrebbe essere un buon inizio».

Tetsuya guardò verso il Messaggero.

«Non so cosa troverete, non so dirvi molto di più», continuò. «perché le streghe sono scomparse da molto, molto tempo. Ma se il vostro amico ha una maledizione addosso, allora vuol dire che non sono del tutto estinte».

«Perché ci hai detto tutte queste cose?», domandò il vampiro biondo. «Nonostante ti abbiamo trattato in questo modo?».

 

Il Messaggero era un uomo dal sorriso vacuo, gli occhi piccoli, le iridi assolutamente indecifrabili. Era una figura sospettosa, che si aggirava per il mondo, portando con sé un cappello a cilindro, un bastone da passeggio e una scia di morte e compiti gravosi.

 

Loro lo videro allontanarsi, uscire da una delle tante stanze arredate da una tempesta, lasciandosi alle spalle solo una risposta mormorata.

«Perché mi piacciono i ragazzi bruni».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Usciti da quella casa, tutti e quattro aspettarono fuori dal cancello almeno un minuto, prima di rimettersi in moto. Più che altro perché non sapevano cosa fare. Non solo avevano una dozzina di pensieri per la testa, erano anche terribilmente indecisi sul da farsi; beh, questo era il problema che si infliggevano Tetsuya e Sayumi, a dir il vero, perché Yuki e Takeshi avevano avuto reazioni diverse rispetto a loro.
Yuki sembrava sul punto di sradicare il lampione lì accanto, per esempio; Takeshi cercava più che altro di restare in piedi con le proprie forze.

In silenzio. Il cielo era limpido, toccato solo da sporadiche nuvole bianchissime. Era una giornata stupenda, eppure loro sembravano usciti da un funerale.

Sayumi si mordicchiò le labbra. Gettò un'occhiata a sinistra, verso Tetsuya, e poi a destra, dove c'erano gli altri due. Poi sbuffò, forte, esasperata. «Okay», sbottò, compiendo qualche passo in avanti. Si voltò, i pugni sui fianchi. «Vogliamo darci un taglio, cavolo?».

«Yumi?», mormorò l'albina.

«Voglio dire, non è la prima volta che ci troviamo in una situazione critica, o mi sbaglio? Quindi perché accidenti avete queste facce demoralizzate e depresse?».

Tetsuya si massaggiò il collo, chiudendo le palpebre. «Non è come le altre volte. Stavolta... ».

«Stavolta non è successo ancora nulla!». Gli altri le risposero con espressioni perplesse. «Intendo dire... okay, seguitemi un attimo: prima, quando ci trovavamo in qualche casino, eravamo già nel pieno svolgimento. Makoto? Era già un demone impazzito. Yuki? Era già rapita. Capite cosa voglio dire?», fece una pausa, serrando la bocca. «Stavolta possiamo prevenire, invece che tentare disperatamente di curare. Abbiamo ancora tempo».

 

Yuki guardò l'amica con maggior stupore.

No, meraviglia. Era cresciuta. Sayumi era cresciuta ancora. «Hai ragione», si scoprì a sussurrare, come colta da una folgorante illuminazione. «Hai proprio ragione. Non è ancora tempo di deprimerci».

Tetsuya si girò a guardare Takeshi – sorrise. «Non lo sarà mai. Non ti permetteremo di soccombere, Take».

Takeshi cercò di ricambiare il sorriso, con un abbozzo. «Ahah... », rispose, con un tono amaro. «Già, vi credo». Ed era questo il problema.

«Take», lo chiamò Yuki. Gli tirò la manica della giacca, uno, due volte. «Non devi fare così. Okay?».

«Così come?».

Lei non rispose. Takeshi la vide abbassare leggermente il viso, restando un istante a guardarsi le punte delle scarpe. Poi risollevò il viso e lui sentì un tuffo al cuore. Le sue sopracciglia bianche erano basse sugli occhi oro, lucidi, in un espressione turbata, addolorata – mentre le labbra provavano a non farsi sconfiggere. Nella piccola piega sotto la sua bocca, lui ci leggeva il tentativo di non crollare in lacrime. Ci leggeva un immenso timore.

Ma... era più forte di lui.

Non poteva fare a meno di pensare che lui non valesse la pena di tutti quegli sforzi.

La sua vita non...

 

«Non fare quella faccia», mormorò, la voce spezzata. «Non sto andando da nessuna parte, Yuki».

«Lo so». La mezzosangue socchiuse le palpebre, abbassando lo sguardo sul suo petto, dove vi trovava la spirale. «Per questo sei qui di fronte a me. E posso ancora godere della tua presenza. Ma, Takeshi, io non... », Yuki tornò a guardarlo. «Io ho bisogno che tu sia deciso quanto noi, nel salvarti la vita».

Lui doveva essere deciso, perché altrimenti quello sarebbe divenuto un fardello troppo pesante, persino per le spalle dei tre amici. Se doveva farlo per Yuki, Sayumi e Tetsuya, allora l'avrebbe fatto. Per loro, qualsiasi cosa.

 

Per loro ne valeva la pena, d'altro canto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* shinigami: è una personificazione della morte, nella mitologia giapponese, un equivalente del "tristo mietitore".

 

 

NOTA:
Incredibilmente, siamo tornati con la pubblicazione di VD. Non potete immaginare quanto sia contenta, sentivo una mancanza viscerale per la scrittura e la pubblicazione! Ancora, mi dispiace molto per questa assenza eterna, ma da qui in poi è tutta in discesa (circa).

Detto questo, le vicende di questo capitolo sono un pochino più tetre. O deprimenti? La situazione è decisamente precipitata, eheh. Spero che vi sia piaciuto rileggere questi quattro stupidi e che il capitolo vi abbia divertito!

 

A giovedì prossimo! ~

 

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Capitolo 14
*** La buia notte delle paure. ***


14.





«Ehy, Yumi... cosa stai preparando?». Con un po' di paura, Takeshi si dondolava da sinistra a destra, cercando di sbirciare oltre la schiena della sua amica. Sayumi era a mezzo metro da lui, tutta occupata ad armeggiare di fronte ad un tavolo. Indossava un vestito fiordaliso e sopra un cardigan pervinca, lungo fino alle ginocchia. Le maniche erano abbastanza lunghe da coprirle le nocche.

 

Il ragazzo stava aspettando seduto sul bordo del letto, gomiti sulle gambe, già da qualche tempo. Purtroppo, dal punto in cui si trovava non riusciva proprio a vedere cosa stava combinando Sayumi, ma gli era sembrato di notare qualche radice, persino familiare, e i soliti flaconi che la ragazza utilizzava quando lavorava alle sue erbe medicinali e ai composti.
Alla domanda del ragazzo, lei aveva ridacchiato, divertita, senza voltarsi. «Quasi fatto», rispose, invece, mentre sigillava quattro altri flaconi. «Ecco qua». Sayumi si voltò, rivelando finalmente cosa aveva fatto fino a quel momento. Il tavolo su cui aveva lavorato fino a quel momento era una devastazione di erbe, radici e foglie, contenitori di vetro e aggeggi per la lavorazione, contagocce, forbici, recipienti di vetro. In mano, la ragazza aveva una boccetta, aperta.

«Cos'è?», chiese di nuovo Takeshi, con tono sospettoso, allungando il collo.

«Si chiama Eleuterococco», rispose finalmente lei, avvicinandosi a lui. Scostò le coperte, facendosi posto accanto. «Bevilo, su».

Takeshi corrugò la fronte. Non era convinto di volerlo bere. Sayumi ci sapeva fare con quelle cose, su questo non ci pioveva. Ma non aveva mai provato quel tipo di medicinali e doveva ammettere di non esserne felicissimo.

«Takeshi», cantilenò Sayumi. «Non sei più un bambino. Su, ti servirà». Lei gli piazzò in mano la boccetta, senza molte cerimonie.

Takeshi deglutì – ma se lo portò alla bocca, mandando giù il liquido all'interno. Strizzò le palpebre, solo per un attimo, e abbassò la boccetta per appoggiarla sul comodino. Serrò la bocca e ne spinse parecchio gli angoli verso il basso.

«Com'è?», domandò lei, inclinando il capo.

«Piccante. E anche un po' dolce».

Sayumi rise. «Lo so che il sapore non è il massimo, ma fidati, ti aiuterà a stare un pochino meglio. Ti rimetterà in forze, così non rischierai di svenire ancora».

«E l'hai preparato apposta per me?», stupito, il ragazzo osservò nuovamente il tavolo. Sorrise, verso Sayumi. «Grazie».

Lei annuì, raggiante. Si alzò dal letto, dirigendosi al tavolo. Si trovavano ancora nell'albergo, quindi non poteva di certo lasciare tutto quel disordine. E poi, non era mai una buona idea lasciare piante e radici così alla rinfusa. Attentamente, Sayumi cominciò a riordinare ogni cosa, riponendo i suoi utensili in una valigetta che si era portata dalla sua camera. «Quasi dimenticavo», esclamò, mentre legava con una cordicella un mucchietto di radici. «Questa è una soluzione molto temporanea. Potrai continuare a prendere l'Eleuterococco fino ad un massimo di 12 settimane, non di più. Per tre volte al giorno. Altrimenti potresti stare peggio di quanto ti senta adesso».

Takeshi richiuse il pugno destro. Le vene sul dorso si distesero mentre quelle del polso si gonfiarono leggermente. Quella situazione lo frustrava. «Per esempio?».

«Insonnia, dipendenza, nervosismo, tachicardia».

«E chi ne ha, più ne metta».

Sayumi scoppiò a ridere, nuovamente. «Esatto!». Il tavolo era sgombro. Come sempre, era efficiente e veloce.

 

Mentre lei si occupava di creare qualche composto per aiutare Takeshi a restare in forze, Yuki e Tetsuya erano usciti in città a fare rifornimento e, dal momento che si trovavano per strada, a chiedere a vampiri e demoni se conoscevano delle streghe o se, quantomeno, sapevano qualcosa dell'argomento. Da quel che aveva detto il Messaggero, non avevano molto tempo. Sayumi richiuse la zip della valigetta e si girò. Appoggiò i palmi e il bacino sul tavolo e incrociò le caviglie.
Con occhi seri, la ragazza disse: «Ascoltami bene. Da questo momento in poi, sarò io ad occuparmi di te», sorrise vittoriosa. Si vedeva palesemente che era felice di aiutarlo e di essere utile ai suoi amici – anche se non avrebbe mai voluto essergli utile in vesti così tragiche. «Ti terrò in piedi fino a quando ce ne sarà bisogno, quindi farai meglio a prepararti ai miei trattamenti!».

Takeshi ridacchiò – amaramente. «Ah, prevedo tante erbe dai sapori discutibili». Poi si soffermò a guardare le sue mani. Per il momento, si sentiva sufficientemente bene. Non aveva problemi a dormire, anzi, al contrario, una volta che chiudeva gli occhi e appoggiava la testa sul cuscino, entrava in stato letargico – letteralmente.

Se non ci pensava Yuki a svegliarlo, rischiava anche di non farlo affatto.

Ovviamente, Takeshi si rendeva conto che non era normale, e anche gli altri.
Dall'esterno, agli occhi della mezzosangue, sembrava che il pesante sonno in cui lui cadeva gli risucchiasse la vita come una sanguisuga. E non ci era andata tanto lontano, forse; ogni volta che si addormentava – sempre per primo – lei lo osservava, e così poteva constatare come il suo colorito verteva pericolosamente verso il pallore, le labbra si scurivano di porpora, e il petto si muoveva così piano da apparire statico.

 

«Takeshi?». Lui sollevò il viso, lentamente. Sayumi lo guardò increspando la fronte, preoccupata. «Stai bene?».

«Certo. Sto bene», rispose, accennando un sorrisetto. «Non preoccuparti. Se mi sento male, ti avviso subito».

Sayumi sospirò. «Ecco, bravo. Sono felice che l'abbia detto tu», sollevò il polso sinistro, dando un'occhiata all'orologio. «Okay, a breve torneranno i ragazzi. Vado in camera a finire di preparare le cose. Farai meglio a vestirti e a prepararti anche tu!».

«Okay, a dopo».

 

In effetti, era ancora in pigiama – con quella sorta di pigiama, una maglietta smanicata e un pantalone da tuta. Se non si dava una mossa, rischiava di far aspettare gli altri.
Si diede una piccola spinta, sorreggendosi con i polpastrelli alla parete dietro il comodino. Ora che era in piedi, dopo aver bevuto l'energizzante di Sayumi, aveva la vaga impressione di sentirsi più vivo e meno in procinto di morire. Tuttavia, era ancora presto per parlare.
Si diresse al bagno comunicante e si fermò di fronte allo specchio attaccato al muro, sopra al lavandino.

Di fronte a quello spettacolo, Takeshi chiuse le labbra in una linea rigida. Perché si sentiva così turbato e al contempo stupefatto? Sapeva, ora lo sapeva per certo, che non stava bene.

Al di là del vetro riflettente, due paia di occhi lo fissavano, infossati sotto le sopracciglia inarcate – occhi che lo mangiavano, occhi che a stento riconosceva come propri.

Tetri e bui, come un cielo notturno, visto dal fondo di un pozzo solitario.

 

 

 

 

 

***

 

 




 

Un'ora dopo, finalmente potevano varcare le porte di quella cittadella. Si stavano lasciando indietro il Messaggero, quella Kazumi incappucciata, i vampiri e i demoni che morivano di fame e la palpabile tensione che sembrava abbracciare ogni centimetro di quel luogo.
Superate le guardie all'entrata, i quattro si incamminarono sulla stessa strada che avevano intrapreso pochi giorni prima. Di fatti, in quella zona non era cambiato niente; il panorama era ancora dominato dalla natura, dalle montagne, dall'aria fresca e limpida. La pace non era stata insudiciata dagli ultimi avvenimenti.
Eppure, per loro era diverso. Persino ad occhio potevano dire che qualcosa era cambiato. Non captavano i profumi e i colori con la stessa spensieratezza. Ora c'era sempre una macchiolina grigia in mezzo a quel dipinto.

Sembrava passata una vita da quando avevano lasciato la piccola casa sulla collina. Il paese ai suoi piedi, che nonostante i problemi, era forte e festoso.


La loro direzione era Shibuya.

Forse a piedi ci avrebbero messo più del previsto. D'altra parte, non ci tenevano a stancare Takeshi e nemmeno ad imbottirlo di rimedi erboristici.

 

«Per fortuna abbiamo pensato di portare i passaporti», osservò Sayumi, issandosi sulle spalle lo zaino.

«Il rischio di dover uscire dal Giappone c'era», ribadì il vampiro.

«Certo, però... Irlanda, eh?».

Yuki, che camminava dietro Sayumi e Tetsuya, si sfregava il mento pensierosamente. «Così ha suggerito quello là. Spero solo che non volesse depistarci».

«Depistarci... perché dovrebbe fare una cosa del genere?», chiese Sayumi.

«Non dovrebbe. Ma quelle creature sono fatte così».

Tetsuya avrebbe voluto smentire. Gli risultava difficile. «Non penso fosse il suo obiettivo, comunque. Ho ragione di credere che volesse darci un suggerimento», si girò di profilo, adocchiando l'amica. «Lui stesso non era per niente sicuro dell'Irlanda».

«Ma noi volevamo un inizio». Gli altri si voltarono a guardare Takeshi, senza smettere di camminare. Poi annuirono.

«Esatto. Facciamo un tentativo e... ehy, guardate là!», Sayumi si interruppe all'improvviso, alzò il braccio sinistro e indicò di fronte, a circa dieci metri dal punto in cui si trovavano. Proprio lì, dalla strada sulla sinistra, era appena sbucato un camion, emettendo una nuvola grigio scuro. Si era fermato, apparentemente senza motivo, all'incrocio.

«Perché non proviamo a vedere dove va?», propose Sayumi. «Se è diretto a Shibuya, possiamo chiedergli un passaggio!».

«... ma sì, alla peggio ci facciamo una bella passeggiata», mormorò Takeshi.



 

Il camion non era diretto a Shibuya, come temevano, ma ad una città che distava mezz'ora. Quindi, andava più che bene. Il signore alla guida era un uomo, piccolo e tozzo, dalla pelle parecchio abbronzata e i capelli radi sulla sommità del capo. A giudicare dall'aspetto trasandato e da ciò che trasportava sul suo camion, doveva essere un contadino, o comunque lavorava in quei campi. Era terribilmente scocciato perché il suo camion – o meglio, il suo vecchio e logoro camion, coperto da una patina senape, con i vetri opachi e le gomme sudice di terra e fango – non stava funzionando a dovere negli ultimi tempi, e quel giorno non era diverso; non faceva che borbottava e si lamentava di continuo, a quanto diceva l'uomo.

Sayumi domandò se potevano salire su e potevano strappargli un passaggio; l'uomo si soffermò, squadrando tutti e quattro intensamente, come la guardia di un aeroporto. Ma infine acconsentì e li fece montare su, dietro, sul cassone già invaso da sacchi di patate e di farina.

«Ma quella è una katana?», aveva detto il conducente, quando Yuki si era voltava per avviarsi al retro della vettura. L'uomo aggrottò la fronte, indicando Anima al fianco di Yuki.

L'albina l'aveva fissato, negli occhi. «Beh, sì».

«Ah. Okay. Bella, eh». Incredibilmente, non aveva detto altro, non aveva espresso stupore e nemmeno preoccupazione. Se fosse per timore di essere affettato o per semplice discrezione, la mezzosangue non seppe dirlo.

Yuki saltò sul cassone – oh, beh, poco importava –, seguita da Takeshi.
 

Mentre Sayumi si accingeva a salire, Tetsuya la sorprese alle spalle; le circondò la vita con un braccio e con un agile balzo montò sul mezzo di trasporto, facendolo traballare per alcuni secondi.

«E-ehy!», esclamò la ragazza, sbracciandosi.

Tetsuya soppresse a stento una risata. Invece, esclamò: «Signore, siamo pronti. Possiamo partire».

 

Sopra le loro teste, un grande telo li riparava dal sole. Legato a dei tubi di ferro ai quattro angoli, riusciva a tenersi rigido, nonostante la vettura in movimento e le continue folate di vento. Seduti a terra, una sottile coltre di polvere combatteva per accecarli. Si erano sistemati alla belle e meglio, accucciandosi fra gli ingombri, l'uno di fronte all'altro. In particolari i ragazzi, con le loro gambe lunghe, non avevano idea di come incastrarsi.

«Questo sì che è comfort», disse Yuki, mentre una fossa sballottava l'intero camion. «Ahia».

«Comincio a rimpiangere la terra ferma», aggiunse Takeshi.

«Oh, dai», Sayumi avrebbe voluto suonare convincente, ma era difficile con le ciocche di capelli che le finivano puntualmente fra le labbra. «Non è male, tutto som – ah, che scocciatura!».

«Stavi dicendo?».

Cominciarono a ridere, per quella fortunata disgrazia, mentre il sole incombeva sulla strada sterrata di fronte a loro. Il verde delle praterie brillava, fasce infinite di fiori che si piegavano sotto la forza delle folate, incurvandosi come falci. Sayumi si appoggiò con i gomiti, sporgendo il viso oltre il tendone, e scorgendo le ruote impregnarsi di polvere e terra e sassolini. Non era strano che non funzionasse più tanto bene.
A dir il vero, stare su quella trappola mortale con le ruote sarebbe stato un ricordo prezioso. Lei lo sapeva. In futuro, quando tutta quell'avventura arriverà alla sua conclusione, avrebbero riportato alla mente tutte quelle sensazioni. Mentre stringeva la mano della sua migliore amica, accanto a lei, e poteva ascoltare le loro voci.

Abbassò le sopracciglia. Doveva cercare rimedi migliori. Qualcosa che lo potesse tenere in salute.

«Yu», esclamò Tetsuya, per farsi sentire sopra al trambusto del motore. «non stai dimenticando qualcosa?».

«Io sto... ah». L'albina arricciò il naso. Sayumi si voltò verso di loro, con un grande punto interrogativo. Poi un pensiero la colpì e si animò, cominciando a sorridere allegra e pimpante.

«È vero!».

«Sono l'unico a non sapere di cosa state parlando?».

Yuki roteò gli occhi. «Beh, ecco... sì».

I tre la videro muoversi con gesti fermi e spazientiti. Sollevare lo zaino e appoggiarlo di fronte alle gambe incrociate, rovistarci dentro come se avesse aperto il vaso di Pandora. Continuò a cercare e a guardare, infilandoci la testa dentro e metà di un braccio – dopo pochi secondi di affannata ricerca, sbucò in superficie, i capelli arruffati.

 

«Tieni».

 

Il campo visivo del bruno fu aggressivamente invaso dalla sua mano bianca, stretta in un pugno. Ma ecco che le dita si allentarono, lasciando emergere il palmo e un oggetto, al centro, che lei gli stava porgendo. Takeshi sbatté le ciglia. Con sua sorpresa, vide una luccicante pietra verde; la forma era longilinea, come una goccia d'acqua, di un intenso giada. A chiuderlo sopra c'era un piccolo anello dorato, simile a quello che lui portava all'elice, con un gancetto sottile.
«È un... orecchino, giusto?», disse, avvicinando il volto per guardarlo meglio.

Yuki gli prese il polso, forzandolo a prendere l'orecchino. «È tuo. Se ti piace. Se non ti piace, puoi buttarlo o... che ne so, quello che credi!».

«Aspetta. È un regalo? Per me?».

 

Sayumi e Tetsuya assistevano alla scena, la prima in preda ad un attacco di ridarella. Il secondo, spazientito, rassegnato a quei siparietti. «Ma perché hai deciso di... », ma si fermò. Sì, Takeshi era curioso di sapere perché lei gli aveva comprato un regalo. 
La prima risposta che gli era balenata, purtroppo, non era delle migliori. Se gli restava poco da vivere, allora era sensato pensare che lei volesse fare qualcosa - prima che quel momento giungesse. Tutto ciò che non aveva potuto fare durante quei tre anni.  Takeshi sigillò l'orecchino, nella stessa stretta d'acciaio di Yuki. Poi sollevò il pugno fino all'orecchio e fece passare il gancio nel minuscolo buco del lobo. Il verde giada, brillante e profondo, rifulgeva incredibilmente. Esso pendeva, oscillando leggermente contro la linea della sua mandibola.

Si rivolse ai tre spettatori, un sorriso baldanzoso. Con la punta dell'indice, diede un colpetto alla pietra di giada. «Mi dona?».

«Come immaginavo», brontolò il vampiro. «Quel colore non ti sta male».

«Quello che Tetsuya vuole dire è che , ti dona», lo corresse Sayumi. «E sono sicura che lo pensa anche Yuki-chan».

 

Takeshi posò lo sguardo sull'albina – interessato. La colse in un sorriso, spontaneo e vivo – e si rasserenò.

 

 

 


 

***

 

 

 

 

«Ecco qua! Lo sapevo che mi avrebbe giocato un tiro mancino, prima o poi!».

 

Dal retro del camion, addormentato sul ciglio della strada, i ragazzi stavano sopportando gli sbraiti del conducente da mezz'ora. Se non altro, bisognava concederglielo, l'uomo tentava di darsi un contegno e di censurare qualche brutta imprecazione. Continuava a fare su e giù, da una parte all'altra, girando tutto intorno al suo veicolo; non era convinto che il problema fosse nel motore, così voleva dare un'occhiata approfondita a tutto il camion. Non che questo l'avrebbe rimesso in moto, comunque.
Sayumi si aggiustò la giacca di Tetsuya sulle spalle e guardò verso l'alto, abbassando le sopracciglia sugli occhi sconfortati. Il cielo era coperto di blu scuro, tappezzato da miriadi di punti luminosi.

Con la testa sulla spalla dell'albina, guardò l'orologio da polso. «È da trenta minuti che siamo fermi qui».

«Hai ancora freddo?», chiese Yuki.

L'altra scosse la testa. «Sto bene, ma stiamo perdendo tempo».

«Che ore sono?», si informò Takeshi, mentre si massaggiava il collo indolenzito. «A giudicare dal cielo, sembrano almeno le 19».

Sayumi annuì, sconsolata. «Bingo!».


«Giovani!», esclamò il signore. I ragazzi lo videro correre nella loro direzione, giungendo alle spalle di Yuki e Sayumi. Essendo molto basso, si vedevano appena gli occhi e il naso del suo viso. «Sentite, questo rottame è... ».

«Morto?», azzardò Tetsuya, alzando un sopracciglio. «Abbiamo notato».

L'altro grugnì. «Eh, già, già. Non si muoverà più – almeno per stanotte, ci mancherebbe. Per fortuna a dieci minuti da qua c'è una città. Non è una metropoli, ma vi ci potete fermare, se volete!».

«E lei invece?», domandò Sayumi.

«Ah! Io non mi allontano da qui. Sarà anche un rottame, ma chiunque proverebbe a soffiarmelo, se lo vedesse. Ha un grande fascino... vissuto».

«Ah», fece Yuki, sorridendo. Sì, non aveva tutti i torti. Poi si rivolse agli altri: «Direi che non possiamo fare diversamente. Per stanotte ci fermiamo».

 

Tutto sommato, erano contenti di avere i piedi sulla terra ferma e non sentire la reazione del cassone ad ogni piccolo ingombro. Yuki inarcò la schiena indietro, come un gatto apatico, e stiracchiò le braccia in alto, tirando per bene ogni muscolo.
La strada era deserta. A camminare sul sentiero sterrato c'erano solo loro quattro, accompagnati da qualche verso ululante, qualche cinguettio stridulo, un abbaiare lontano e disperso. L'aria era leggera, posata, come una tiepida coperta sulla pelle. Non c'era l'ombra di una luce artificiale ad illuminare il cammino. Solo alle loro spalle, alta nel cielo come una guardiana, la luna irradiava di bianco i loro passi.
Sayumi aveva ancora la giacca di camoscio di Tetsuya. La ancorava a sé con le dita, prendendola dalla pelliccia cucita sul cappuccio che sbucava sul davanti. Diversamente da vampiri e demoni, lei soffriva ancora le temperature fredde. Takeshi invece, che le stava a sinistra, sembrava stare bene, nonostante indossasse un semplice giubbino di pelle smanicato sopra ad una felpa dal tessuto sottile.

Guardò l'amico, dal basso, cogliendo il suo profilo. Dato che la luce proveniva dal retro, il suo viso era quasi completamente coperto da un'ombra – eccetto per un luccichio nelle pupille.

«Ehy, Takeshi?».

Takeshi fissava la strada, come se volesse assicurarsi che niente apparisse all'improvviso.

 

Sayumi si morse il labbro e corrugò la fronte. Era il ragazzo che aveva conosciuto al liceo, quattro anni fa, e non c'erano dubbi: avrebbe potuto riconoscerlo anche bendata. Ma più lo osservava, lo studiava, più qualcosa non quadrava.

Aveva paura di carpire qualcosa, alla fine. Qualcosa di spiacevole. «Take... ?», tentò, di nuovo.

Lui si voltò. «Sì? Scusa, mi ero incantato. Questa strada è proprio desolata».

«A-ah, sì, vero? È un po' inquietante... ».

«Non avete da preoccuparvi», disse Tetsuya, spostando le iridi ametista verso un punto lontano.

«Vi proteggiamo noi», continuò Yuki. «Beh, bisognerebbe ammettere che ormai siete in grado di difendervi anche da soli».



Sayumi abbozzò un sorriso, annuendo piano. Non temeva qualche tipo di aggressione, non in quel momento, per lo meno, perché la sua mente cominciava ad essere affollata da un unico stupido chiodo fisso. 
Mentre continuavano ad avanzare lungo quel sentiero, ne approfittarono per studiare la zona circostante; se sulla destra si aprivano gli sconfinati campi – gli stessi che avevano visto per tutta la durata del viaggio –, sulla sinistra una fitta cinta di alberi si alzava in forme aghiforme, buie e tetre. Dal momento che non c'erano suoni o rumori tipici della civiltà, quelli fauni erano nitidi e chiari, come se i quattro fossero circondati da innumerevoli occhi notturni.

Yuki si arrestò. Si voltò di lato, in direzione del bosco. Inspirò profondamente l'aria, riempendosi i polmoni fino allo stremo. «Questo è... », sussurrò.

«Yuki?», chiamò Takeshi.

«C'è odore di sangue», sibilò il vampiro. Compì lo stesso gesto della mezzosangue, annusando l'aria come un segugio. «È davvero molto, molto flebile... ».

L'albina chiuse la mano sull'elsa della katana. Guardò i tre compagni di viaggio, in una lunga occhiata d'intesa. Non era sangue animale. Era sangue umano: qualcuno, là dentro, era ferito.


O peggio, morto.

 

 

 

Se in quel luogo qualcuno stava rischiando la vita – o l'aveva già persa –, allora quella rigogliosa vegetazione era un nascondiglio più che buono. Inutile, se il colpevole era un vampiro o un demone, perché sarebbero stati in grado di percepire la loro presenza dal solo odore.
Accovacciati tra i lunghi ciuffi d'erba, solo una porzione di testa spuntava fuori. Ogni passo era una carezza su braccia e gambe, un fruscio sospetto che poteva solo animare le loro ansie – ma nessuno dei quattro si stava lasciando condizionare.

Coperti dalle chiome degli alberi neri, completamente celati da ombre impenetrabili, i ragazzi avanzavano guardinghi, le schiene basse e gli occhi anche sulla nuca. Yuki e Tetsuya erano in prima fila, mentre Takeshi e Sayumi appena dietro, assicurandosi di non staccarsi da loro.

La katana fendeva il terriccio sotto i loro piedi. «Non mi sembra di percepire nessuna creatura», bisbigliò.

«Nemmeno io». Tetsuya respirò piano. «Avremo reagito esageratamente?». Il ragazzo non aspettò risposta dall'altra, rivolgendo i suoi occhi alla strada che avevano di fronte, costellata da cespugli, corrugando la fronte.

 

Non percepivano nessuno, ma l'odore di sangue, man mano che macinavano metri, era sempre più palpabile. Forse era solo desiderio di nutrirsi, quello dei due ragazzi. E l'avevano scambiato per volontà di aiutare.

«Ormai siamo qui, proviamo a dare un'occhiata», disse Takeshi, smorzando il flusso di pensieri del biondo. «La città è vicina. Se non c'è niente, giriamo i tacchi».

Sayumi annuì. Tetsuya e Yuki si guardarono, titubanti – ma avevano ragione; ormai erano in ballo, dovevano chiudere quella strana danza.


 

Si potevano dire quasi al sicuro, ma era ancora troppo presto per dirlo. Procedendo accovacciati come prima, andarono avanti – ma ecco che, ad un certo punto, Yuki schiacciò il palmo destro su un chiodo. Fu così improvviso che non provò nemmeno dolore. Non subito. Poi però, lo sguardo le ricadde sulla mano, e si rese conto che l'oggetto appuntito aveva perforato il suo palmo. Un'ondata di strazio la travolse tutta insieme. Chiuse la bocca, serrando i denti, respirando forte per soffocare l'urlo che bruciava nella gola.

«Yuki!», esclamò Takeshi, accorrendo da lei. «Stai bene?!».

«State attenti a dove mettete le mani», soffiò Tetsuya, mentre Sayumi si apprestava a prendere delle bende e un disinfettante.

«Sto... bene». Il suo viso era spezzato da una profonda smorfia, per un attimo i suoi occhi erano mutati di rosso. Il chiodo aveva trapassato la carne della sua mano e la sua punta, coperta di ruggine, sbucava dal dorso, squarciando la pelle del palmo. Il sangue colava a picco, picchiettando sull'erba sotto di lei.
Yuki fissò la sua ferita, ansante. Senza esitazione, la avvicinò al viso di Tetsuya. Lui si irrigidì e in un gesto impulsivo si coprì il naso e la bocca con l'avambraccio.

L'albina ringhiò sommessamente. «Bevi».

«Yuki, devi togliere quel chiodo», sbottò Takeshi, afferrandole il polso ferito. «Il sangue ci sarà anche dopo!».

«No, dopo sarà già asciutto. Sarà troppo tardi». Con uno strattone, la porse di nuovo al vampiro biondo. Il suo sguardo, sofferente, parlava chiaro.

 

Se era quello il suo desiderio, lui non si sarebbe tirato indietro. Le strappò il polso dal bruno e, crudele, premette le labbra sulla mano disegnata da bande rosse. Assorbì il suo sangue, fino all'ultima goccia che vi trovò, senza esitare un istante. Il sapore ferroso, caldo e denso fu familiare e al contempo estraneo – e man mano che se ne riempiva la gola, Tetsuya provava il desiderio di affondare i denti.
Spalancò gli occhi ed inchiodò lo sguardo inferocito su Yuki. La pupilla si dilatava e restringeva, alternativamente.

Poi guardò Sayumi – e quando ne colse l'espressione sconvolta, si allontanò di scatto. Aveva perso la sua compostezza. Dannazione.

«Altrimenti saremmo rimasti qui in eterno». Si strofinò il braccio sulla bocca, con forza, e si sollevò in piedi, stagliandosi contro il cielo.

Yuki estrasse il chiodo dalla mano, gettandolo a terra. «Puoi ringraziarmi dopo, se ci tieni».

Lui fece un sorrisetto. «Come no».


 

Takeshi emise un sospiro teso. Si ravvivò i capelli, attraversandoli con le dita. «Questi due idioti... », li vide avanzare nell'erba; Tetsuya era visibilmente molto più rilassato e lucidi, rispetto a prima, e non si poneva nemmeno il dubbio di nascondersi. Il bruno non sapeva cosa pensare; si rendeva conto della loro diversità, ma dovevano essere sempre così drastici? Con dei metodi così sconvolgenti?
E forse non era l'unico a pensarlo. Sayumi, accanto a lui, era paralizzata come una statua di cera. Ma i suoi occhi erano velati di uno strano sentimento. Come se fosse giunta ad una dolorosa conclusione. Gli angoli della sua bocca erano incurvati in basso e gli occhi fissavano il duo più avanti, con le sopracciglia inclinate verso il basso.

«Yumi?». Takeshi le toccò la spalla, con gentilezza. «Cosa c'è?».

«Io... ».

 

Sayumi percepì la volontà nel suo animo tremare, come la fiamma di una piccola candela. Ciò che aveva appena visto non avrebbe dovuto turbarla, perché era quanto di più normale ci potesse essere, fra di loro. Ma non era quello ad averla spaventata. No, non era quello.

Era stato lo sguardo di Tetsuya. La fame che gli aveva annebbiato i sensi, il brulicante sfolgorio scarlatto, il suo viso così bello e immacolato spezzarsi sotto le pressioni della bestia.

«No, scusa, non è niente».

Era stato tutto questo.

E non era stata lei a scatenarlo. Non lei.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 


 

Nel frattempo che Takeshi e Sayumi si erano fermati, Yuki e Tetsuya erano andati avanti, sebbene di un paio di metri. Ma erano bastati per far sì che potessero scoprire qualcosa di molto interessante.

 

«Guardate là, dietro quel muro di alberi».

Takeshi e Sayumi seguirono l'indicazione di Yuki, fino a raggiungere con lo sguardo quella che, ad un'occhiata molto attenta, divenne una casa. Un abitazione che si apriva probabilmente su due piani, a giudicare dalla sua verticalità, ma che rappresentava l'apice della fatiscenza; il tetto spiovente, che un tempo doveva essere un brillante rosso, era ricoperto di foglie, rami e legnetti, e le sue tegole erano spezzate o crepate. Anche il corpo del piccolo edificio era in una situazione infelice; tutta la facciata, di tipo occidentale,era abbracciata dagli ingombranti alberi e le loro chiome, con i vetri delle finestre ridotte ad aguzze forme geometriche.
Il portone d'ingresso a due ante sembrava essersi parzialmente salvato dalla decadenza.

«Qualcuno ha vissuto qui?», disse Sayumi, portandosi una mano al mento. «Anche se molto tempo fa, a quanto pare».

«Già, così pare», Yuki annuì. «E in parte mi sorprende; gli animali selvatici e pericolosi di certo non mancano. Non sembra sicuro».

«Ma allora, l'odore di sangue che avete sentito potrebbe venire dall'interno di quella casa», osservò Takeshi.

«E non solo», sussurrò Tetsuya. «adesso si sente chiaramente la presenza di un vampiro». Lui si voltò verso la casa. Immersa nelle tenebre, dove solo il tetto malconcio poteva godere della luce lunare. «Lì c'è qualcuno».

Sayumi si strinse nelle spalle, improvvisamente nervosa. «Perché ci stiamo infilando in questa situazione? Non sarebbe meglio se andassimo verso la città e basta?».

«Non hai tutti i torti, ma... », il biondo espirò dalle narici, sigillando la bocca. «Vorrei potermi assicurare che questo vampiro non sia pericoloso per gli umani».

La mezzosangue sollevò le iridi in direzione dell'amico. Mai si sarebbe sognata di sentirgli pronunciare una simile frase. Quell'uomo era lo stesso che, appena quattro anni fa, sfoggiava un totale disinteresse per gli esseri umani. Li guardava con altezzosa freddezza, tenendosi alla larga. E ora, invece, si preoccupava che degli sconosciuti fossero al sicuro da una creatura.
 

Sayumi lo fissò intensamente, specchiandosi nel freddo e rassicurante viola dei suoi occhi. «Allora fate strada».

Tetsuya e Yuki annuirono.




 

Pochi passi più in là, disturbati dal crepitio delle foglie e dell'incolto prato, erano di fronte all'entrata di quella sinistra casa. Avvolti nel silenzio più tombale di sempre. Apparentemente, non c'era nessuno. Non si udiva neanche un sospiro. Non era detto fosse un buon segno, ma arrivati a quel punto potevano solo proseguire.
Yuki appoggiò le mani su ambi i pomelli a sfera, sporchi di un velo di polvere. Provò a dare un leggero spintone. «È chiusa», mormorò. Guardò in alto, verso le finestre aperte a qualsiasi visitatore. Era un'alternativa, ma non potevano certo chiedere a Sayumi e Takeshi di arrampicarsi fino al piano superiore. «Dobbiamo buttarla giù?».

«Ho un'idea», Takeshi fermò la mano di Yuki con la propria. «Buttarla giù farebbe troppo rumore, ma... se uno di noi si arrampica fino alle finestre, può trovare l'entrata dall'altra parte e farci entrare. Che ne dite?».

«Beh, complimenti», l'albina sorrise. «sono colpita».

«Allora, vado io», riprese Tetsuya.

«Sarebbe meglio se tu restassi qui con loro. Tu puoi usare il tuo potere, io non... non ne sono sicura. Riusciresti ad aiutarli molto meglio di me».

Il giovane uomo rifletté sulla proposta della ragazza. Infine, le diede il via. «Okay, sia. Ma fai attenzione».

«Ti aspettiamo», bisbigliò Sayumi, stringendo i pugni.

 

Yuki indietreggiò. Un fascio di luce bianca l'accecò per un istante. Inclinò indietro il capo, quel tanto che bastava per avere un'ampia visione di quella casa abbandonata a se stessa. A quel punto, mentre gli altri la osservavano attentamente, la mezzosangue fletté le ginocchia – poi spiccò il suo salto, smuovendo l'aria e l'erba come un colpo di vento.
I ragazzi guardarono subito verso l'alto, in tempo per trovare la figura dell'albina che si aggrappava al cornicione sotto la finestra. Le sue gambe penzolavano verso il basso, a circa quattro metri di altezza.

Spero che non stanno guardando sotto la mia gonna, pensò, mentre, un passo alla volta, raggiungeva il parapetto della finestra.

Le sue mani si chiusero intorno alle colonnine del parapetto. Si diede un'ultima secca spinta per sollevarsi fin su, spezzò gli aculei di vetro e scavalcò dall'altra parte. Finalmente, i suoi piedi atterrarono su un pavimento di marmo, facendo levare fino al soffitto una coltre di ceneri e polveri.
Yuki si coprì la bocca e il naso, reprimendo a stento la tosse.

Questa casa è un disastro da cima a fondo, pensò, osservando la stanza che aveva di fronte.

In un certo senso, assomigliava a quella del Messaggero, poiché era un vero e proprio casino; il fondo della stanza – più lunga che larga, ma in ogni caso di modeste dimensioni – era tappezzato di vecchie sedie, un tavolo, qualche scatola di cartone, una poltrona di velluto, una credenza le cui mensole erano un vago ricordo. Il tutto era condito da un buio incredibile.

 

Yuki tolse la mano dalla bocca e la pose sull'elsa di Anima. Lentamente, estrasse la katana dal suo fodero, producendo un sinistro suono metallico, che accompagnò il suo gesto fino alla punta dell'arma bianca.
Si diresse verso destra, dove si trovava la porta, socchiusa, che conduceva su un piccolo corridoio. Oltre questo, in basso, si affacciavano le scale e, proprio di fronte, la porta d'ingresso. Per fortuna, l'interno non era un intricato labirinto.

Tuttavia, qui non si sente proprio niente... nemmeno l'odore di sangue di prima, man mano che avanzava, i suoi passi otturati dal tappeto sotto i suoi piedi, Yuki si rendeva conto che avevano perso tempo senza una ragione. Forse era solo la forza dell'abitudine, oppure una vagante volontà di avventura e pericolo?

 

Sorpassò la porta che precedeva le scale e, procedendo con cautela, scese i gradini. Come sospettava, ogni gradino era un lamento doloroso per la struttura di quella casa. Continuò a scendere, fino a raggiungere finalmente la porta d'ingresso.

Poi si fermò. Sulla destra, si apriva un'altra stanza: o meglio, un buco. Tutta la parete, per mezzo metro, era ridotta in macerie. Ai suoi piedi si accatastavano sassolini e carta da parati. Yuki ruotò i piedi in quella direzione e attraversò quella fenditura. Così come la prima stanza che aveva visto, questa non era da meno, in quanto a desolazione e tumulto. Si guardò attorno per pochi secondi, notando un camino sul fondo – e proprio lì giaceva qualche ceppo di legno, tagliato e posizionato, in attesa di essere usato.

 

Non era sola.

 

«Ferma dove sei». Qualcosa le pungeva la schiena. No, era qualcosa di solido e metallico... qualcosa come un'arma da fuoco, forse. «Fai come ti dico e vedrai che... ».

«Mi lascerai in vita? Beh, te ne sono proprio grata». Quindi c'era davvero qualcuno in quel luogo. Si diede dell'idiota per aver abbassato la guardia. Ma, d'altro canto, era quasi certa che non volesse ucciderla; indubbiamente non era un umano, per cui sapeva che spararle all'altezza dello stomaco non sarebbe stato fatale, ma l'avrebbe solo messa fuori gioco per un po'. Quel tizio voleva solo sfuggire dalla situazione e salvarsi.

Questa voce però... è familiare, pensò subito dopo. Le dita serrarono la loro presa sull'elsa.

 

«Quella è... », bisbigliò l'uomo.

Yuki si rese conto che stava fissando Anima, ipnotizzato. Sorrise. «Ti piace? Allora, lascia che... », e con uno scatto repentino, ruotò il torso verso destra, fino ad essere faccia a faccia con il suo avversario, puntando la lama bianca alla sua giugulare. «te la... facci... vedere... ».

Le parole morirono.

«Ma tu... tu sei... ». Le tremavano le labbra. «Non posso crederci».

 

 

La porta si spalancò in un boato tremendo. La mezzosangue si risvegliò bruscamente ed indietreggiò in fretta, mettendo distanza fra sé e l'uomo di fronte a lei. I ragazzi apparvero alle sue spalle e, in preda alla furia e all'agitazione, scavalcarono il buco nella parete. «Yuki, stai bene?!», esclamò Takeshi, mentre si fiondava dalla ragazza.

«Ci stavi mettendo una vita e poi abbiamo sentito e... », farfugliava Sayumi.

L'albina, al netto contrario degli amici, rinfonderò placidamente Anima nella custodia nera. Espirò dalle narici e inchiodò Tetsuya – un po' stoica, un po' malinconica.

«Yu? Cosa c'è?», il vampiro indicò lo sconosciuto. «Ti ha fatto qualcosa?».

 

L'uomo si pietrificò, palesemente. Tetsuya alzò un sopracciglio, notandolo chiudere le mani, nella destra una pistola calibro 36, la canna cui brillava leggermente, fredda come il ghiaccio. Continuò ad esaminarlo, poiché rimaneva lì, inamovibile, nonostante fosse circondato – e vide le sue spalle irrigidirsi e tremare.

Poi vide i capelli, di un bel biondo scuro, folti, più lunghi sul davanti. L'uomo si voltò verso Tetsuya, rivelandogli il suo volto.

 

Fu così, in questo patetico modo, che Tetsuya lo rivide. In una casa abbandonata, dal puzzo di muffa.

Lo stesso ragazzo con cui aveva trascorso l'infanzia insieme, lo stesso con cui aveva condiviso quelle domeniche maledette, le torture psicologiche.

Lo stesso fratello di sei anni fa.

 

«Fratello... Keiichiro... ?».

 

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Capitolo 15
*** Per chi, ormai, aveva perso tutto ciò che gli era più caro. ***


15.

 

 

L'ultima volta che Tetsuya aveva visto suo fratello Keiichiro era stato al funerale dei loro genitori, il giorno dopo il loro suicidio. Beh, funerale era una parola un po' grossa, per descrivere quella plumbea mattina; ciò a cui i due fratelli avevano presenziato non era altro che un faccia a faccia con i coniugi Tanigawa, solo loro due, al cospetto delle loro bare, in procinto di essere calate nelle profonde buche. Sopra le loro teste, una pioggia scrosciante, che gli copriva il volto di acqua e capelli bagnati.

Soltanto loro due. D'altro canto, non avevano più nessun parente in vita.

 

Tetsuya e Keiichiro erano in piedi. L'uno accanto all'altro. I capelli, gli abiti, ogni cosa era inzuppata di pioggia. Era stata improvvisa. Proprio come la morte di quei due.

No, a ben vedere, non era stata improvvisa: per quanti anni avevano aspettato quel momento? Per quanto tempo avevano vissuto nel disprezzo per se stessi? Entrambi erano nati e cresciuti attendendo quella fatidica fine come se esso rappresentasse la loro rivalsa. L'epurazione.

 

Ed era ciò che avevano desiderato per i propri figli.

 

Non ci erano riusciti, tuttavia. Nonostante l'impegno profuso, i fratelli non erano ceduti alle oppressioni, al soggiogamento, al dolore. Mentre guardava le due bare, nere e luccicanti dalla pioggia, Keiichiro sapeva che doveva proteggere suo fratello minore. Aveva solo diciott'anni, era ancora una preda, agli occhi del mondo. Non avrebbe esitato a proteggerlo, se lo sentiva – ma nel petto, violento e tombale, Keiichiro provava anche un'angoscia e un affanno che non...

«Fratello».

Keiichiro si voltò verso Tetsuya. Spalancò gli occhi. Fu questo quello che accadde, a quel funerale. Forse la goccia che fece traboccare il vaso. Fu questo a spingerlo a scappare via, lontano, più simile che mai ad uno spettro – il sorriso vuoto di suo fratello minore.

Tetsuya guardò verso Keiichiro, con tranquillità. «Adesso siamo finalmente liberi».

E aveva ragione.

«Non dobbiamo separarci, per nessun motivo».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Tu sei... mio fratello».

 

Keiichiro Tanigawa barcollò all'indietro, come se le gambe non gli funzionassero più. Alla frase di Tetsuya, piena di sbigottimento, palpabile da quanta enfasi aveva messo in quelle sillabe – lui non rispose. Ma Tetsuya capì presto che non ce n'era bisogno. L'espressione spaventata che gli si era dipinta in volta aveva già detto qualsiasi cosa; i suoi occhi nocciola sbarrati, appena tagliati dai ciuffi di capelli color cachi, la bocca sottile socchiusa e il corpo, incapace di mantenere un equilibrio sicuro.

«Tu sei... », Tetsuya avrebbe voluto dirgli un miliardo di cose. Lo fissava, percependo minuscoli spasmi alle spalle. La voce non collaborava. Si rompeva, proprio quando stava per farsi udire.

Era assurdo. Era assolutamente inconcepibile. Non poteva crederci.
Perché... perché, nonostante tutto, l'aveva riconosciuto? Nel momento stesso in cui si era voltato verso di lui. Gli occhi intelligenti, di un caldo e confortante nocciola, sempre aperti e vigili, i capelli biondo scuro portati un po' caotici, il naso dritto, la forma ovale del viso, il colorito roseo.
Perché?
Ma non aveva riconosciuto la sua gestualità. In quella, non ci aveva visto un bel niente di suo fratello. Perché quando erano insieme, Keiichiro non avrebbe mai mostrato un espressione così allarmata ed incredula; nemmeno quando aveva trovato i cadaveri dei propri genitori.

E non tremava. Keiichiro era sicuro di sé, l'anima della festa. Auto-ironico e tenace.

 

«Tu sei vivo?!», finalmente era riuscito a parlare. Le parole gli erano uscite tutte insieme, in un urlo rabbioso, che a stento distinse come suo.

«Tetsuya... », fu il sussurro dell'altro, basso e raggelato. «Perché... perché sei qui? Tu non dovresti... ».

 

Alla domanda del fratello maggiore, il vampiro dagli occhi freddi scattò. Con un'ampia arcata arrivò di fronte a lui e intrappolò il bavero della sua maglietta nel pugno d'acciaio. Furente, lo inchiodò con lo sguardo. Adesso erano della stessa identica altezza. Niente li separava. Non c'era più niente a dividerli, se non l'autocontrollo del minore. «Con quale coraggio... mi fai una domanda del genere?!», il ringhio di Tetsuya echeggiò fra le pareti decadenti della casa, simile a quello di una pantera.

Keiichiro afferrò il polso dell'altro. «Tetsuya... calmati».

Sayumi fece per avvicinarsi ma Yuki, dall'altra parte della stanza, le intimò subito di fermarsi con un gesto del braccio. Scosse la testa, in un gesto laconico, eloquente.

 

Fuori, oltre le finestre coperte parzialmente dalle tende strappate e logore, una macchina passò sulla strada. Sebbene distante, la luce dei suoi fari riuscì ad illuminare a giorno la stanza. Il suo fascio bianco toccò tutte le pareti, accecando per un attimo i presenti. Yuki si parò gli occhi con la mano, spiando fra le dita i fratelli Tanigawa.

Serrò le labbra.

Lei e Tetsuya ne avevano parlato per del tempo, forse un mese, appena dopo la sua sparizione; si era sfogato, avevano vagliato delle ipotesi, avevano creduto fosse morto... fin quando lui non aveva semplicemente abbandonato l'argomento e le sue ricerche – e ogni volta che lei toccava quel tasto, seppure con tatto, Tetsuya si faceva cogliere dal nervoso. Tetsuya voleva preservare il suo cuore.

La mezzosangue era certa che, ormai, lui odiasse Keiichiro. Almeno in parte.

 

«Dovrei calmarmi? Sparisci per sei anni, dal nulla, poco dopo che quei due si sono ammazzati», sbraitò il biondo. «e dovrei mantenere la calma?!». Si fermò. Respirò profondamente, quindi lo lasciò andare, con un brusco strattone, spingendolo indietro. «Devi ringraziare Sayumi se non ti sto uccidendo ora».

Keiichiro spostò gli occhi oltre la spalla del ragazzo. Lì individuò Sayumi. Capelli rosa, lunghi, in splendide onde di ciliegio. Aveva uno sguardo preoccupato e teneva le mani strette al petto, vacillanti. Keiichiro allargò le labbra in un sorriso rincuorato. «È la tua ragazza?».

Tetsuya lo fulminò. E non rispose.

Si limitò a voltarsi, porgendogli le sue ampie spalle. Passò di fronte a Sayumi, scavalcò il buco – e dopo pochi secondi, un forte boato fece tremare le deboli pareti. Sayumi si chiuse nelle spalle, sussultando per lo spavento.

Takeshi si voltò verso le finestre. «Vado a parlargli», e seguì di fretta e furia il vampiro, fuori dalla casa.

 

Rimasero in tre. Dal fondo della stanza, la mano appoggiata sul fodero della katana, la mezzosangue sospirò piano. Anche lei, come il suo amico, ora più turbato che mai, aveva un mucchio di domande da fare a quella vecchia conoscenza – no, a quel vecchio amico; si conoscevano sin da bambini, avevano trascorso tutta l'infanzia insieme, le travagliate esperienze vissute, i pochi e brevi ricordi felici. Keiichiro era sempre stato così protettivo nei loro confronti. Per questo, quando venne a sapere della sua scomparsa improvvisa, Yuki pensò subito che qualcosa di brutto doveva essergli capitato: perché non avrebbe mai abbandonato suo fratello, che amava più di qualsiasi altra persona.

La mezzosangue iniziò a camminare. A questo punto, gli avrebbe detto semplicemente ciò che pensava in quell'istante. Gli giunse di fronte, senza abbandonare la presa sulla katana, come una sorta di talismano. Sayumi, vicina alla finestra, li osservava.

«Stai bene?».

Keiichiro aprì gli occhi. «Perché?», instabile, il vampiro si morse il labbro inferiore. «Perché mi chiedi se sto bene, nonostante... ».

L'albina aspettò che continuasse. Ma Keiichiro non sentiva più le forze.

«Perché... perché ci tengono a te». Lui si voltò verso Sayumi. Ancora una volta, notò l'espressione malinconica, il bagliore tremulo delle iridi azzurre. Forse era sul punto di piangere. Ma non lo faceva. «Ti vogliono bene».

Yuki sorrise. «Giusto», gli appoggiò la mano sulla spalla, lasciando il fodero. Un gesto gentile. «Sono felice di rivederti. Sono sollevata e felice».

Il vampiro abbassò la testa, puntando lo sguardo in basso. I capelli biondo scuro gli ricaddero oltre le sopracciglia. «Pensavate fossi morto da qualche parte».

«Per forza, sei sparito nel nulla, proprio dopo che... ».

«Già».

 

Silenzio. Sayumi si avvicinò, in piccoli passetti cauti. Spuntò accanto all'altra, il viso teso. Poi, all'improvviso, afferrò con delicatezza la mano sinistra di Keiichiro, stringendole fra le proprie. Le sue mani erano così piccole in confronto a quella del biondo, che riusciva a malapena a coprirgli il palmo. «Per favore, non arrenderti».

Keiichiro sollevò lo sguardo dal lurido pavimento. Non doveva... arrendersi? Che stranezza da dire – a qualcuno che aveva perso ogni cosa già da molto tempo.

Sayumi strizzò le palpebre, inarcò le sopracciglia, quasi disperatamente. «Non lasciarlo andare via. Non abbandonare Tetsuya. Ha reagito male, poco fa, ma non hai idea di quanto tu gli sia mancato... di quanto desiderasse rivederti, in tutti questi anni».

 

Keiichiro non poteva saperlo. Nemmeno se ci avesse provato con tutte le sue forze.

«Lui non vuole più vedermi», sorrise. «e io non posso biasimarlo».

«Allora vuoi lasciare che vada via, senza di te?».

 

Lui chiuse le palpebre.

Infine, era di nuovo solo.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

L'indomani, un tiepido sole accoglieva Keiichiro. Era gentile, delicato come una carezza. Keiichiro trascinò il braccio sul viso, coprendoselo con il bicipite. Non riusciva a sopportare nemmeno la più piccola fonte di luce, al momento; forse, e chi lo sa qual era il vero, il suo instabile stato d'animo lo stava rendendo più sensibile alla luce e al sole.
D'altro canto, fino a due anni addietro era sempre uscito durante il giorno, girovagando per le città e i paesini, senza soffrire il minimo disagio. Già, sì... oppure, era una punizione divina.

Aprì un occhio, strizzandolo in direzione della finestra, sulla parete a sinistra. Sdraiato su un divano – un divano che aveva visto decisamente tempi migliori – il vampiro si issò, mettendosi seduto. Gli servì qualche momento prima di riuscire a focalizzare il parquet rovinato sotto i suoi piedi.

Ah, giusto, sono ancora in questa casa, pensò ad un certo punto, quando finalmente le sue sinapsi sembrarono collaborare.

 

Era arrivato in quella casa una settimana prima. Non aveva fissa dimora da... beh, un'eternità, oramai. Era divenuto un vampiro nomade, che sopravviveva proprio grazie ai doni che gli erano stati concessi da chissà chi o chissà cosa; abilità fisiche fuori dal normale e soggiogamento. E inoltre, una gran bella parlantina e un fascino notevole.
Di solito non doveva preoccuparsi troppo di cercare un posto in cui dormire. Entrava in una taverna, in un hotel o, molto più semplicemente, sorrideva ad una donna che gli passava accanto. Ed ecco fatto, aveva un posto in cui ripararsi. Era quasi divertente.
Tuttavia, per quella volta, aveva pensato bene di insidiarsi nel bosco e, per fortuna, aveva scovato quella casa. E così, senza scomodarsi a fare gli occhi dolci a qualche donna – o a soggiogare qualcun altro – si era trovato un posto. Anche questa era un'attività divertente, tutto sommato...

 

Ma perché lo sto facendo, in effetti?, aggrottò la fronte.

Era ancora stordito. Guardò dritto di fronte a sé, la finestra parallela che dava sul bosco e sugli alberi smossi da un leggero vento.

 

«Tetsuya è qui». Suo fratello minore. Il suo adorato fratello minore. Aveva sempre amato prenderlo in giro. Fargli qualche scherzetto. Era cresciuto così tanto... ma si erano riconosciuti all'istante, come per magia.

Non sapeva che progetti avessero, se sarebbero rimasti lì, se vivevano lì. Non sapeva niente e la cosa lo rendeva nervoso. Poi ripensò alle parole di Yuki. Oh, Yuki. Sorrise, ricordandola nel vestito oro, fulgida. Si era preoccupato quando lui l'aveva approcciata, con una maschera, e lei si era messa subito sulla difensiva... Keiichiro ricordava che da qualche tempo la ragazza era sotto l'occhio vigile del Consiglio.

Quel pensiero lo impensierì ancora di più. Stava bene? Stavano bene?

 

Keiichiro si alzò dal divano. Trasse un respiro profondo. Poi spalancò la finestra dall'altro capo della stanza e, dandosi la spinta con una mano, si calò giù.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Sayumi incrociò le caviglie tra di loro e sprofondò le nocche contro le guance. Lo scalino sotto il suo sedere era duro, scomodo, e sentiva minuscoli sassolini sotto le cosce. I capelli rosa erano liberi sulla schiena e le ricadevano oltre le spalle.
Stava guardando il suo ragazzo, appena pochi metri più in là, concentrato nel controllare la qualità della frutta di un mercante. Stava chino, le dita affusolate al mento. Socchiuda le palpebre, come se stesse cercando ogni minima imperfezione.

«Cosa ne pensi?», chiese Sayumi, alzando leggermente la voce.

«Non è male», Tetsuya guardò le mele. «Ti va qualche mela? Oppure preferisci le fragole?».

«È ancora presto per le fragole, potrebbero essere poco mature», la ragazza sospirò. Sprofondò ancora, sul punto di sgonfiarsi. Stava diventando un palloncino. «Senti, Tetsuya... ».

«Mh?». Il vampiro si rimise dritto. Indicò al mercante di fronte – indispettito dal commento di Sayumi – le mele. Gliene chiese otto. «Dimmi».

Non sapeva nemmeno come chiederglielo. «Non... come stai?».

«Ahh, beh... mi dà fastidio la luce, oggi». Tetsuya lasciò qualche moneta al venditore, prese la busta di carta tra le braccia e ruotò verso destra.

«No, okay, non intendevo... », farfugliò lei. Si picchiettò la tempia con l'indice. «Ieri hai rivisto tuo fratello dopo tanto ed eri... parecchio... arrabbiato». Sayumi si fermò. Abbassò le braccia, adagiandole sulle ginocchia. «Quindi ho pensato che forse volessi–».

«Sei gentile a preoccuparti», la interruppe lui. Ma sul suo viso non c'era proprio gratitudine, bensì una maschera di ceramica. Il vampiro fece due passi, fino a raggiungere Sayumi sugli scalini di quella piccola residenza, dove lei si era fermata ad aspettare.
Ora che erano l'uno di fronte all'altra, e Sayumi era in piedi, lei poté scorgere immediatamente l'espressione rigida e tesa di Tetsuya. «Non era niente di rivelante», continuò, abbozzando un sorriso. «Mi ha solo stupito la sua domanda. Mi aveva chiesto cosa ci facessi lì e mi era parsa una cosa davvero beota da chiedere».

Sayumi abbassò le sopracciglia sugli occhi apprensivi. Era la verità? Quella?

Non poté evitarsi di pensare che, magari, con Yuki ne avrebbe parlato naturalmente. Erano amici da tanto tempo. Si erano sempre confidati tutto, per cui era un risultato logico.

Ah, proprio adesso che stava cominciando a sentirsi... utile, per loro...

 

«Ammetto che è stato scioccante».

Sayumi sollevò la testa.

«Avevo creduto di trovare un vampiro qualsiasi, in quel posto così cadente. A tal pensiero, ero pronto a combattere e ad ucciderlo, se fosse stato necessario. In un certo senso, mi sentivo tranquillo, perché sapevo cosa aspettarmi, anche se non precisamente». Tetsuya guardò dentro la busta di carta, le otto mele che aveva comprato per lui e i suoi amici. Avevano un bel colore, un vivo e saturo verde. Il ricco profumo saliva fin su, infiltrandosi nelle sue narici. Fresco, sapeva d'estate. «E poi, ecco mio fratello. Dopo sei anni. Sei dannati anni. Non so se ero deluso del fatto che vivesse in quella casa o del fatto che il nostro incontro fosse stato totalmente casuale». Abbozzò un sorriso tirato.

Sayumi seguiva il suo discorso in silenzio, profondamente dispiaciuta. Quando il vampiro si zittì, lei gli prese la mano sinistra, l'unica libera. La sua piccola mano strinse quella fredda dell'uomo, dolce, incoraggiante.

«Non vuoi vederlo ancora una volta?».

«Io non... ». Tetsuya chiuse le palpebre. «Sarebbe meglio di no».

 

Perché altrimenti, ne sono certo, ne soffrirei, fu il pensiero solitario del vampiro, e non voglio più soffrire.

 

Ma alla fine, un sorriso apparve sulle labbra del giovane uomo. Ricambiò la stretta della ragazza, stringendola a sua volta. Intrecciò le dita lunghe con quelle di Sayumi, assicurandosi che lei non la lasciasse nemmeno per sbaglio. «Adesso andiamo. Dobbiamo incamminarci per Shibuya».

Esatto. Keiichiro Tanigawa gli aveva messo l'animo in subbuglio, anche per troppo. Doveva pensare a salvare Takeshi.

Doveva salvare la vita che si erano costruiti.

 

 

 

Mentre Sayumi e Tetsuya compravano qualche provvista, Yuki e Takeshi erano andati ad assicurarsi che il conducente del camion fosse ancora vivo e vegeto, portandosi dietro katana, pugnali e zaini. L'avevano lasciato sul ciglio della strada, di sera tarda, proprio al limitare di una foresta in cui, guarda caso, stava vivendo un vampiro.

Camminare da quelle parti nelle ore diurne era una storia completamente diversa. «Da qui a Shibuya sono circa trenta minuti, giusto?», chiese Yuki, durante il cammino verso il camion.

Takeshi, accanto a lei, annuì. «Sì, con un mezzo, però. A piedi temo che impiegheremo almeno un'ora».

«È un problema». Per un attimo, l'idea di soggiogare il conducente del camion per farsi portare fino a Shibuya le attraversò il cervello. Tuttavia, era sicura che a quel gesto Takeshi avrebbe manifestato un totale disappunto. «Immagino che dovremo perdere tempo per arrivare a Shibuya», sospirò l'albina.

 

Takeshi sorrise. «Immagino proprio di sì», e allungò la mano verso il suo viso, solo per puntellarle la tempia con l'indice sinistro.

«Ehy– ».

«Se fai di nuovo quel muso lungo, sai cosa ti aspetta».

 

La mezzosangue brontolò. Poi con la coda dell'occhio notò il camion accostato sulla strada, in silenzio mortorio. «Eccolo», i due si avvicinarono, muovendosi rapidi. Quando arrivano alla vettura, l'albina sbirciò al finestrino socchiuso, dalla parte del guidatore. Proprio sotto i suoi occhi, come sperava, c'era il faccione abbronzato dell'uomo. Stava decisamente bene. Molto impegnato a leggere una rivista di automobili.

Alla vista della ragazza, tuttavia, saltò a sedere sul sedile. Subito accorse allo sportello, spalancandolo di fretta e di furia, dando a Yuki appena il tempo di spostarsi di lato. «Faccia piano, diamine!», ringhiò lei.

«Giovani, state bene!», quasi urlò l'altro.

Takeshi, che aveva fatto il giro per raggiungere la ragazza dal lato del guidatore, avvolse le spalle dell'albina con il braccio – con fare protettivo. «Perché, dovremmo stare male?».

«No, certo, ci mancherebbe». L'uomo si schiarì la voce con un brutto colpo di tosse. Saltò sopra il camion, tornando sul suo sedile. «Ma ero un po' in ansia, dato che vi avevo lasciato distanti dalla città. E qua intorno c'è la foresta».

«Già, ce ne siamo accorti. Stiamo bene. Grazie». Serafica, Yuki sorrise sarcasticamente.

«Ma voi non siete diretti a Shibuya, ora che ci penso?».

Takeshi annuì. «Ci dirigiamo lì oggi, appena arrivano i nostri amici».

«Allora vi do un passaggio fin là, eh? Che dite?».

Yuki si voltò. «Ma non aveva detto che si sarebbe fermato ad una città a mezz'ora da Shibuya?».

«Sì, verissimo. Per la giornata di ieri. Oggi mi dirigo proprio a Shibuya. Che fortuna, potremo viaggiare ancora insieme! AH!».

 

Yuki non era del tutto sicura di provare gioia.

 

Un quarto d'ora dopo, i quattro si erano riuniti. Sayumi ringraziò svariate volte l'uomo del camion, per la sua gentilezza nel dargli uno strappo, mentre Tetsuya caricava le provviste e lo zaino della ragazza. Finalmente erano pronti per la partenza. Finalmente si avvicinavano al loro obiettivo.

Yuki non voleva perdere altro tempo prezioso.

Salirono sul cassone del camion e quando furono sul punto di mettere in moto, l'albina udì dello scompiglio provenire dalla foresta, proprio di fronte ai suoi occhi.

 

«Aspettate!». Al grido familiare, tutti e quattro sobbalzarono e puntarono lo sguardo tra gli alberi. Poco dopo, una figura slanciata e trafelata apparve dalla natura incontrollata, portando con sé ogni sorta di rametto e fogliolina, polvere di terreno, con tanto di scoiattoli e uccellini che schizzavano terrorizzati. La figura arrestò la sua corsa solo quando ebbe raggiunto il cassone su cui si trovavano i ragazzi. Vi si avvicinò e, come se nulla fosse, gli fece un cenno di saluto all'altezza della fronte. «Ehilà!».

Yuki lo fissò, a metà fra l'esasperazione folgorante e il divertimento. Ehilà? Sul serio? Dopo quella comparsa?

«Ehilà, Keii-nii*».

Il vampiro parve estremamente a disagio. Si era precipitato lì, come se avesse preso la decisione all'ultimo secondo. E poi, per magia, si stava atteggiando da amico simpatico e intoccabile. Solo che, trafitto da parte a parte dallo sguardo di suo fratello, non era facile mantenere quella facciata con un minimo di dignità.

Si schiarì la gola. «State... state già andando via? Dove siete diretti?».

Probabilmente, Tetsuya non avrebbe voluto condividere quelle informazioni. Ma Tetsuya era Tetsuya. Lei era un'altra persona. Si sporse oltre il cassone, appoggiandoci il gomito. «Stiamo andando verso Shibuya e poi da lì prenderemo un aereo per l'Irlanda».

«In Irlanda?», stupito, Keiichiro continuò con le sue domande. «Perché proprio in Irlanda?».

L'albina gettò un'occhiata a Tetsuya. «Beh... perché stiamo cercando di rintracciare una strega e ci è stato detto che lì potremmo trovarne una o due».

 

Una strega?, pensò Keiichiro. Fece una pausa, rifletté. «Allora, permettetemi di venire con voi».

«Cosa?», fu il sibilo del Tanigawa minore, felino e rancoroso. Così come il taglio del suo sguardo.

«Aspetta, fammi finire... potrei aiutarvi, per questo vorrei venire con voi».

«Sei in ritardo di sei anni per renderti utile».

Dall'altra parte, si sentì la voce del conducente: «Siamo pronti a partire?».

«Sì, siamo pronti», rispose Tetsuya.

«Un attimo! Io... », Keiichiro tentennò. «Conosco una strega!».

 

 

 

 

 

 

 

* Keii-nii: ovvero, "fratellone Keii"; dal momento che Keiichiro è più grande di sei anni (di Yuki) ed ha effettivamente rappresentato un fratello maggiore, per lei, l'albina non ha mai smesso di chiamarlo in questo modo.

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Capitolo 16
*** Attendendo, in silenzio, attraverso la nebbia. ***


 

16.



 

«E dunque al vostro primo incontro lui ti ha soggiogata?». Ad ascoltare i racconti di Sayumi, Keiichiro faceva una gran fatica a trattenere l'ilarità esplosiva. Risatine gli scivolavano dalle labbra, animate da volontà propria, un fiume in piena. Era più forte di lui. Pensare che Tetsuya si era fatto prendere in giro da una bambina di undici anni, per quanto prodigiosa fosse... era esilarante. «Ma era a sua volta vittima dei poteri di Ai-chan, è così?».

Sayumi piegò la testa di lato, distendendo le labbra in un sorriso imbarazzato, chiudendo le palpebre per un istante. «Era stato tutto un piano architettato dalla piccola Ai... non puoi immaginare quanto fossimo sorpresi di scoprirlo». La ragazza si attorcigliò una ciocca rosa intorno all'indice, ridacchiando. «Ma è stato dopo quella volta che ho davvero conosciuto Tetsuya, quindi, beh, quel che bene finisce bene!».

«Mmh~», canticchiò l'altro. «E sembra che ti sia piaciuto, quello che hai visto. No, anzi, conosciuto».

Lei si voltò a sinistra, annuendo briosamente, senza ombra di imbarazzo. A separare il suo sedile da quello di Keiichiro c'era solo uno stretto corridoio sgombro, da cui, ogni tanto, passavano silenziose hostess, alla mano dei tablet, oppure dei carrelli con snack e bevande. In quel momento, nell'area passeggeri, c'era un certo chiacchiericcio; il viaggio era iniziato da venti minuti, o poco più, e dopo l'iniziale turbamento al decollo, si era instaurata un'atmosfera di allegria e relax tra i passeggeri a bordo.
Far passare i bagagli, d'altro canto, non era stato particolarmente difficile. Avevano nascosto Anima, avvolgendola in un panno per preservare la lama, all'interno della custodia di un violoncello, mentre i pugnali di Takeshi e la pistola di Keiichiro erano rimasti al sicuro negli zaini. Naturalmente, limitarsi a nascondere le armi non sarebbe mai stato abbastanza di fronte ai metal detector e ai rigidi controlli, per cui, a malincuore, i ragazzi avevano sfruttato i propri poteri.

 

«Io sono qui», sbuffò Tetsuya, accanto a Sayumi. Il gomito appoggiato al bordo dell'oblò, il vampiro stava cercando di concentrarsi sul finestrino che dava sulle bianche nuvole, su cui l'aereo stava placidamente sorvolando. Peccato che non fosse tanto semplice. «Potreste anche parlare d'altro, sapete».

Sayumi si chiuse nelle spalle. «Beh, in effetti, mi piacerebbe sapere qualcosa in più su di te», nel mormorare questo, la ragazza si coprì la bocca con la mano, sperando di schermare la sua voce.

«Su di me?».

Sayumi fece un piccolo cenno con la fronte. Keiichiro allungò il collo, porgendole l'orecchio. «Per esempio, perché ti porti dietro una pistola, se sei un vampiro?».

Keiichiro incurvò la bocca in un sorrisetto e si tirò indietro, tornando dritto al suo posto. «Ti sorprenderà saperlo ma a differenza degli altri vampiri e demoni, io non amo combattere: o meglio, non amo sporcarmi le mani. Sono una creatura pulita. Pacifista, potresti dire».

«Quindi... è solo per autodifesa?».

Lui si passò una mano tra i capelli biondi, cacciando indietro ciuffi indomabili. «Sei una ragazza molto perspicace, te l'hanno mai detto?».

Tetsuya lo adocchiò. Serrò le labbra.

«Sono solo una curiosa», ribatté lei.

«Sarà. La curiosità non è un male», Keiichiro guardò in alto, verso il cielo nascosto dal corpo dell'aereo. «se sai come proteggerti».

«Che intendi?». Yuki, che sedeva alla sinistra di Keiichiro, e subito vicino Takeshi, aveva vagamente ascoltato la conversazione che stava andando avanti. Fino a quel momento, il suo braccio era mollemente appoggiato sul bracciolo del sedile. Ma per qualche ragione, la frase del vampiro le aveva regalato un guizzo ai muscoli dell'avambraccio, e il pugno si era istintivamente chiuso, sigillandosi come una trappola. «Ha a che fare con la tua conoscenza?».


Keiichiro aveva personalmente incontrato una strega. E l'aveva fatto... in circostanze particolari, si potrebbe dire.
Mentre attendevano la partenza del loro volo, il gruppo si era trovato un posticino isolato e, guardando la pista d'atterraggio e la landa d'asfalto infinita, lambita dal forte sole di quella mattina, lui aveva raccontato com'erano andate le cose.

Un anno fa, lui si trovava in Irlanda, Waterford. Il vampiro non aveva una meta, né un obiettivo; stava solo seguendo i suoi desideri, i suoi impulsi del momento, e furono proprio questi a portarlo in quella terra sconosciuta. All'arrivo, non aveva perso tempo, e si era dato all'esplorazione e al turismo, tenendosi impegnato per la maggior parte delle ore.
«Stavo girovagando per The Apple Market», raccontava. «ed era notte, intorno alle 23.25. Era arrivato il momento di trovare un posto per dormire. Sfortuna voleva che la nebbia si stesse alzando e che, di conseguenza, le strade fossero deserte. L'unica scelta che avevo era quella di continuare a camminare, nella speranza di imbattermi in qualche bell– ahm, in qualche albergo». Un sorriso nervoso gli distese le labbra. Dalla piccola apertura si intravedevano i bianchi canini, rifugiati all'interno della bocca. «Non ricordavo se in quel quartiere esistessero alberghi. Ad un certo punto, beh, mi ero messo l'anima in pace. Era chiaro che non ci fosse nessuno in giro. Per quella notte, avrei dovuto invadere la casa di qualche povero inconsapevole... così mi ero detto e, allora, decisi che potevo anche smettere di camminare – se non ché, una mano mi arpionò la spalla, obbligandomi a fermarmi».

«E quel qualcuno era... », con attenzione, Yuki ascoltava ogni singola sillaba, sospiro e preposizione .

Keiichiro aveva annuito. «Già. Come potete immaginare, non avevo idea si trattasse di una strega, altrimenti mi sarei ben visto dal... dall'attaccarci bottone. Proprio così». L'uomo slanciò la gamba destra, accomodando la caviglia sul ginocchio sinistro. Anche se conduceva una vita dissennata e instabile, il suo corpo e il suo portamento non ne avevano risentito in nessun modo. «Dunque, vi dicevo... ah già. La strega, quindi, mi bloccò sul punto... », mentre parlava, si tastava le tasche dei pantaloni, dietro e davanti, poi passò alla tasca interna della sua giacca di cotone. «... chiedendomi cosa accidenti ci facevo per strada con un tempo così infimo. Mi voltai, lentamente, trovandomi di fronte una giovane donna. Doveva avere intorno ai vent'anni, poco più, poco meno. Parlammo per pochi minuti – di varie cose – e alla fine lei si offrì di ospitarmi a casa sua».

I ragazzi pendevano dalle sue labbra. Peccato che Keiichiro avesse la costanza di un bambino di quattro anni. Dalla tasca estrasse un pacchetto di sigarette. Tetsuya inarcò le sopracciglia.

«Fu quando entrai a casa sua che capii che quella non era una donna qualsiasi. Fisicamente, si può dire si tratti di un essere umano, ma non per tutto ciò che le aleggia intorno... ». Keiichiro si portò la sigaretta alla bocca. Per un attimo, le iridi sfarfallarono di rosso. «Quando saremo lì, capirete subito cosa intendo».

«Un attimo, vuoi portarci a casa sua?», domandò Takeshi. Si era offerta di dare alloggio ad un tipo che non aveva mai visto quindi, forse, non era una cattiva persona. «... perché ho il presentimento che ci sia qualcosa che non stai dicendo?».

Keiichiro sollevò gli occhi al cielo. «Aah, come per esempio... che ha provato ad uccidermi?».

«E-eh?», Sayumi sbatté le ciglia. «Ma... per... per quale... ».

«Noi... avevamo intenzione di godere della presenza l'uno dell'altra. Capite?», il vampiro si guardò attorno. Trovò un cartello che vietava il fumo, dunque roteò lo sguardo, e ripose la sigaretta nel taschino insieme alle altre, mulinandola fra le dita. «Ma quando mi fui reso conto che era una strega... sapete, non ero poi tanto in vena. Allora ho provato ad intavolare il discorso con lei. L'ha presa male. Decisamente».

Yuki aggrottò la fronte. «Bene», ghignò. «la nostra sola possibilità di riuscita è una streghetta che si infuria se viene mandata in bianco da un uomo».

«A dir la verità, non avevo ancora deciso se rifiutarla. Volevo solo che fosse onesta e mi dicesse chi e cosa era, così io avrei fatto lo stesso. E l'ha fatto – peccato l'abbia fatto a suon di magia». Sorrise. «Poteva nascere anche una bella amicizia».

Tetsuya, per tutta risposta, l'aveva fulminato con un'occhiata affilata. «Come no».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 


«Ed eccoci qua. Nella terra dei folletti».

Producendo un sonoro tonfo, Takeshi abbandonò sul pavimento dell'aeroporto irlandese il suo zaino. Il gesto venne accompagnato da tintinnii, barattoli che si sbatacchiavano fra loro. Sapeva già che aveva combinato un disastro, però era stato talmente liberatorio, che non se ne sarebbe pentito. Si stiracchiò per bene, stirando le braccia dietro la schiena e sopra la testa, stendendo le vertebre della schiena, i dorsali intorpiditi, fino a quando un piacevole solletico non lo colse sulla schiena. Accanto a lui, sopraggiunta da poco Yuki, c'era una relativa calma. E forse sonnolenza. D'altro canto, avevano trascorso la bellezza di venti ore tappati in un aereo.

«Sono le tre del mattino», brontolò Sayumi. «Che cosa facciamo, adesso?».

 

I cinque si erano fossilizzati all'uscita dell'aeroporto. Erano pieni di acciacchi e avrebbero gradito un letto. Ma Yuki non era del tutto d'accordo con l'idea. Guardò in alto, il cielo nero come una boccetta d'inchiostro, colmo di astri celesti. Oltre il parcheggio dell'aeroporto, si estendevano una fila di piccole colline verdi. 

«Adesso tocca a Keii-nii», tornò in basso, posando lo sguardo sull'uomo, distante un metro. «Sta a te indicarci la strada per trovare quella sciroccata».

Keiichiro annuì, fermo, deciso. Non stava fremendo dall'entusiasmo di incontrarla di nuovo. L'ultima volta era stato più che abbastanza. Tuttavia, da quel momento, il vampiro aveva scoperto molto a proposito di streghe – il ché gli dava un certo senso di sicurezza. «Prendiamo un taxi».

 

Il taxi, che giunse da loro venti minuti più tardi, non avrebbe potuto contenere tutti e cinque. Sul momento, distratti dalla fretta di avanzare e dal sonno, non ci avevano pensato, ma erano in tanti. Quando Tetsuya prese coscienza che solo quattro di loro avrebbero potuto salire in auto, stando peraltro stretti, si immobilizzò interdetto. «Ragazzi, c'è un problema. Non ci stiamo tutt– ». Ma suo fratello maggiore gli sfilò di fianco, mano nella tasca. Gli fece un cenno col palmo, in silenzio, indicandogli di aspettare.
Stupito quanto seccato, Tetsuya osservò il vampiro e le sue gesta; lui aprì lo sportello dal lato del guidatore e si chinò in basso, piegandosi per raggiungere la guancia del taxista, appoggiando il braccio al bordo dello sportello. Tetsuya notò il movimento veloce e ipnotico delle labbra, il sorrisetto a mezzaluna che le decorava. Poi Keiichiro batté le palpebre, serenamente. «Grazie mille, molto gentile», gli sentì sussurrare, prima di rimettersi dritto.

 

Il taxista, meccanicamente, uscì dalla macchina, lasciando le chiavi attaccate e lo sportello spalancato. Cominciò a camminare lentamente in direzione dell'aeroporto, senza voltarsi nemmeno una volta. Superò le porte mobili e si introdusse all'interno. Gli altri lo seguirono con lo sguardomentre si sedeva su una seggiola e restava immobile, come un sonnambulo.

«Se non vi dispiace, guido io», annunciò Keiichiro, poco prima di entrare nella macchina color metallo, contrassegnata dalla scritta “taxi” sulla fiancata. La mezzosangue si girò di scatto,  ma fece appena in tempo a notare la sua spalla sparire all'interno dell'automobile e lo sportello chiudersi, con un certo impatto. Arcuò le sopracciglia, emettendo un basso verso lamentoso. 

«... davvero stiamo lasciando quell'uomo in quelle condizioni?», mormorò Takeshi, all'orecchio della fidanzata.

«Così... sembra». Yuki aggrottò la fronte, perplessa. Molto probabilmente si riprenderà da quello stato tra pochi minuti, il tempo necessario perché loro raggiungano la città o, per lo meno, si allontanino abbastanza da non essere rintracciati. Lei si morsicò il labbro inferiore, scrollò le spalle. Si sentiva una criminale - poco importava. «Non condivido la scelta, sia chiaro, ma non abbiamo tempo di essere corretti». E nemmeno compassionevoli.

Takeshi inarcò un sopracciglio. Il finestrino rifletteva una sua opaca immagine e l'espressione contrariata che gli si era dipinta in volto. Takeshi fu tentato di passarci la mano sopra, per cancellarla via. Non era nella posizione di fare i capricci, anche se quei metodi non gli piacevano. Sospirò, pesante e al contempo deciso, e si infilò anche lui nella macchina.

 

Il viaggio in macchina iniziò e finì in silenzio tombale; forse era a causa della stanchezza, forse era la tensione, poiché si stavano avvicinando sempre più ad una donna potenzialmente pericolosa – ma che era il salvagente di cui necessitavano. Keiichiro era concentrato sulla guida, con la mano destra ancorata al volante, e le labbra che tenevano ferma una sigaretta accesa; Tetsuya, che gli sedeva purtroppo accanto, sventolava il palmo, stizzito, scacciando la nuvola grigiastra che riempiva l'angusto abitacolo, attento a non degnare il fratello di parola; dietro, nei sedili posteriori, Sayumi se ne stava accucciata all'albina, con la testa sulla sua spalla e le braccia intorno a quello prossimo dell'amica, palpebre chiuse, in dormiveglia. Yuki, dal canto suo, vigilava attentamente, analizzando la città che si stagliava sfocata e frastagliata intorno a loro.
Takeshi sprofondò il mento sul palmo. Nelle iridi scure dei suoi occhi si stavano proiettando i colori sgargianti degli edifici – rosso, azzurro, limone, lilla, arancio – e le luci artificiali che facevano compagnia agli sporadici passanti europei. Il cielo, dentro la città, era diventato un'unica distesa di nero, privato delle sue stelle, ma ampio abbastanza da inghiottire ogni cosa sul suo cammino.

Le strade erano strette, ma con qualche difficile manovra l'automobile riusciva ad attraversarle fluidamente. Superarono un ponte, e Takeshi schiacciò la fronte al vetro del finestrino, per scorgere il fiume. Piccoli tocchi di pennello sulla superficie lo facevano brillare. Sembrava che il fiume fosse stato adornato di diamanti.
 

A quel punto, la macchina frenò bruscamente. Takeshi sobbalzò sul sedile, e Sayumi alzò di scatto la testa, farfugliando, «Chi è? Cosa? Non stavo dormendo, giuro», per poi rendersi conto che erano arrivati al capolinea. «Siamo arrivati?».

«Da qui in poi si va a piedi», rispose Keiichiro, guardando la strada in selciato che si profilava di fronte a loro, separandosi in due vie, verso sinistra e destra. Quella sulla destra era stretta nell'abbraccio di una fila di case e negozi. Il vampiro si girò, appoggiando il gomito accanto al poggiatesta, servendo loro un sorrisetto sfrontato e divertito. Il viso coperto dalla penombra, Keiichiro sembrava stranamente euforico. «Ci siamo quasi. Statemi incollati come se ne dipendeste la vostra vita e vedrete che ne usciremo tutti interi».

I ragazzi si scambiarono un'occhiata incerta.

 

 

Scesero dalla macchina, tutti e cinque. Yuki schiacciò la suola sul selciato, salendo il marciapiedi, intervallato da alberi contornati da minuscole aiuole. Recuperata la katana dal porta bagagli, la assicurò al fianco destro, saggiandone l'usuale pesantezza. Premette le dita sull'elsa, respirando piano.
Investita dalla luce diurna e dalle vivaci voci dei cittadini, Waterford doveva essere una rustica e deliziosa cittadina dell'Irlanda – non vi erano dubbi; ma al calar della notte qualsiasi luogo, per quanto innocuo e paradisiaco sia, diventa pericoloso come le fauci di una bestia. Per questo toccare quella katana le trasmetteva un vago senso di protezione; ironico, dal momento che quando l'aveva conosciuta, aveva provato solo un odio sconfinato.

Yuki roteò lo sguardo verso gli altri. «Per di qua», fu l'invito del vampiro più grande, accompagnato da un movimento del braccio.

 

I ragazzi gli corsero dietro, eccetto per Tetsuya, che si preoccupò di chiudere la fila.

Cercando di ignorare i cattivi presentimenti, proseguirono fino a girare l'angolo, abbandonandosi alle spalle il ponte. Passarono di fronte ad una sfilza di case, vistose come farfalle, fievolmente illuminate dai lampioni sul marciapiedi. I balconi erano arricchite da vasi di fiori e stendibiancheria, con tessuti bianchi e dai toni chiari che pendevano verso il basso; negozi di scarpe e boutique si susseguivano uno dopo l'altro, con deliziosi abiti in bella vista nelle vetrine lucide. Panetterie al buio, pasticcerie invitanti, piccoli ristoranti infilati tra gli edifici. Superato quel punto, dovettero passare al di sotto di un arco, il cui soffitto era al coperto, infilandosi così in ombre scure come il carbone.

Sayumi non poté evitarsi di stringere la mano a Yuki. L'altra ricambiò la stretta, con un piccolo colpetto del palmo, intrecciando le dita alle sue.

Fortunatamente, il passaggio era breve. In un minuto o due, furono dall'altra parte. Ma se l'oscurità era in parte passata, adesso dovevano fronteggiare un muro di nebbia. Fitto, denso, abbastanza da penetrargli nelle ossa. Takeshi serrò la mandibola. Improvvisamente, la temperatura era precipitata. Si strofinò le spalle, tentando di riscaldarsi, nella giacca di pelle nera. «Ma che succede?», bisbigliò, alitando una nuvola di aria fredda.

Tetsuya, alle sue spalle, rispose con lo stesso basso tono di voce. «Qualcosa non va». Il vampiro sollevò lo sguardo verso l'angolo a sinistra, dove una lanterna a muro espandeva il suo bagliore dorato sulle pareti in roccia. La lanterna era coperta da uno strato di polvere. «Da dove è spuntata questa nebbia?». Alzò la voce, stavolta, chiamando anche gli altri: «Ehy, state bene?».

Ma non udì risposta. «Sayumi?», ripeté.

Si raggelò e guardò in basso, riflettendo. Un pessimo, stupido, presentimento gli aveva artigliato il petto, togliendogli il respiro per un secondo. Un presentimento che suonava molto reale. Allora sollevò la testa, di scatto, e agguantò Takeshi per il suo polso, stringendolo tanto forte da lasciare l'impronta delle dita. «Ehy, ehy– », il bruno gemette a labbra strette, cercando di scollarsi il vampiro. «Tetsuya, mi stai facendo male».

«Desolato, ma non posso rischiare». Con uno strattone, costrinse Takeshi ad indietreggiare, fino a ché la sua schiena non cozzò con il petto del biondo. Takeshi abbassò le sopracciglia sugli occhi. «Ti prego, dimmi perché stiamo così vicini. Riesco a sentire i tuoi pettorali».

«Cerca di sopportarlo», sibilò Tetsuya, di rimando, indebolendo la presa sul suo polso. «perché non ti lascerò andare, per ora».

Takeshi non rispose.


Gli occhi fissi di fronte a sé, immersi nella coltre lattiginosa che offuscava e riempiva ogni angolo, ogni metro, ogni spazietto – il bruno corrugò le sopracciglia affondo. «Li abbiamo persi», fu la sua constatazione.

«Già».

«Cosa facciamo?».

«Cosa facciamo... », Tetsuya considerò la domanda del suo amico. Cosa fare? Così, su due piedi, non ne aveva idea.

«Come abbiamo fatto a perderli di vista?», Takeshi, ancora bloccato dal vampiro, si lasciò sfuggire un sospiro frustrato. Giusto. Ottima domanda. Come era successo e, soprattutto, quanta distanza si era creata tra loro? Se non erano troppo lontani, allora sarebbe bastato chiamarli a gran voce e percorrere un po' di quella strada e, prima o poi, si sarebbero ritrovati. Non dovevano essersi separati da molto. Poco dopo esser sbucati fuori dall'arco, Tetsuya aveva provato a farsi sentire dal resto del gruppo e a quel punto si era reso conto di essere da solo. O meglio, insieme a Takeshi.

«Qualcosa mi dice che c'è di mezzo quella donna».

Tetsuya fece un passo avanti, posizionandosi accanto all'amico. «Intendi la strega di cui parlava quell'idiota?».

Takeshi sollevò un angolo della bocca, nel sentire il dolce e gentile commento su Keiichiro. Annuì. «Esatto», continuò. «Questa... nebbia, non c'era prima. È sbucata all'improvviso, dal nulla». Poi venne colto da un pensiero, fulminante, e si voltò verso il biondo. «Abbiamo i cellulari. Proviamo a chiamare le ragazze».

Tetsuya fece un cenno col capo. Con l'altra mano, l'unica libera, si tastò le tasche dei pantaloni neri, cercando e ricercando il suo telefono cellulare. Strattonò quelle posteriori, al fine di farci passare le dita, e finalmente sfilò il liscio rettangolo elettronico. Entrambi digitarono i numeri delle ragazze disperse – ma, ovviamente, la tentata chiamata cadde in pochi istanti, come se non fosse nemmeno partita, lasciando entrambi vagamente irritati.

Riposero i telefoni cellulari nelle tasche e cominciarono a riflettere ad alta voce.

 

«Se c'è Keiichiro-san con loro, può darsi che abbiano raggiunta la destinazione». Takeshi si sfregava il mento col pollice, mentre l'unghia dell'indice grattava la linea marcata della mandibola. «Quindi, non c'è davvero motivo di preoccuparsi per loro».

«Stai dicendo che dovremmo pensare alla nostra, di pelle?». Tetsuya ghignò. «Azzeccato».

Takeshi increspò le sopracciglia. «Quindi... hai intenzione di rompermi il polso oppure... ».

«Se preferisci, ti tengo la mano».

«Distruggilo».

Tornarono in silenzio.

 

Intanto, i banchi di nebbia che li circondavano, eseguivano dei piccoli e quasi impercettibili movimenti. Così leggeri da sembrare nuvole sospese a livello della terra. Il silenzio era fitto, la notte più immobile a cui avessero mai assistito.

Takeshi ruotò il viso, guardando fra le ciglia scure le viuzze celate dalla coltre sulla sinistra e la strada principale che si apriva di fronte a loro. Distingueva a malapena le forme. Takeshi si fermò. Aprì la bocca, spalancando gli occhi. Si voltò verso Tetsuya e un sorriso esaltato gli disegnò le labbra carnose.

 

«Ho un'idea».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Tetsuya! Takeshi!». Sayumi salì le mani alla bocca, imboccò quanta più aria possibile, tirò indietro il petto e il collo e infine gridò, a gran voce: «RAGAZZI!!!», per poi ricevere un buffetto sulla sommità del capo, che le scompigliò una ciocca rosa che curvò verso l'alto. Sayumi si lamentò, come un cucciolo ferito, coprendosi la testa con le dita. «Eddai... », biascicò.

«Smettila di gridare», la rimproverò Yuki, arpionandole le spalle per farla avvicinare il più possibile. «E non ti allontanare. Se ti ritrovassi tutta sola in mezzo ad una nebbia del genere, allora sì che avresti un motivo per urlare».

Sayumi sporse il labbro inferiore, in un broncio preoccupato. «Me ne rendo conto, ma... Keiichiro, non hai qualche piano da suggerirci?».

 

Keiichiro, con la schiena incollata al muro e le braccia conserte al petto, aveva le palpebre serrate e il respiro calmo e regolare di chi aveva già affrontato tutto ciò – niente di nuovo, se non qualche compagno. Alla domanda di Sayumi, timorosa e allarmata, lui rispose aprendo appena gli occhi. Attraverso il minuscolo spazio fra le sue palpebre, gli occhi nocciola vibrarono. «Non molto. Continuiamo per la nostra strada e raggiungiamo la dimora di quella pazza isterica».

«E lasciamo indietro Tetsu e Take?», esclamò Yuki, alzando le sopracciglia.

Keiichiro si picchiettò la tempia, tastando anche una ciocca di capelli bionda. «Oh, sì. Ma non preoccupatevi, mie care; Tetsuya saprà sicuramente uscire da quella scomoda situazione in men che non si dica. E nemmeno il moretto sembrava uno sprovveduto».

«No, aspetta, non voglio basar– ehy!». Il protestare di Yuki venne interrotto dalle repentine azioni di Keiichiro. Senza perdersi in chiacchiere o tentennamenti, il vampiro prese per mano entrambe, riprendendo quindi la loro avanzata, in ampie falcate. «Non voglio basarmi sulle tue supposizioni!», ritentò la ragazza, piantando i tacchi degli stivali sull'asfalto, nel tentativo di costringere Keiichiro a fermarsi.

«Ha ragione!», disse Sayumi, spingendo i polpastrelli sull'avambraccio del vampiro. «Come puoi credere che li lasceremo da soli? C'è anche tuo fratello, te lo sei dimenticato?». Sayumi tentò di girarsi, e dargli quindi le spalle, ma la forza di quella creatura era fin troppo superiore alla sua. Lei strizzò gli occhi, in un impeto di rabbia. «Pensavo fossi venuto per riallacciare i rapporti con lui... e invece hai intenzione di abbandonarlo a se stesso!».

 

All'improvviso, la mano di Sayumi stava toccando la densa e umida aria nebbiosa. Presa alla sprovvista, mise un piede in fallo, inciampò – e stava già assaporando la durezza del cemento quando il braccio di Keiichiro non le circondò il fianco destro e tutto l'addome, come un'ala protettiva. «Attenta». Poi roteò lo sguardo. «Colpa mia».

Sayumi ricacciò indietro un respiro affrettato. Spostò piano il viso, di profilo, intravedendo quello del vampiro. Allora accennò un sorriso, debole. «È okay», lui l'aiuto a tirarsi su, rimettendosi dritta, e infine si trovarono l'una di fronte all'altro. Yuki, pugni sui fianchi, sospirò sollevata.

«Hai cambiato idea?», chiese Sayumi, inarcando un sopracciglio su un occhio, grande e azzurro.

«No, niente affatto», alla perplessità della ragazza, Keiichiro rispose ridacchiando. «Ma non è giusto costringervi a fare come dico io senza spiegazioni». L'uomo sollevò l'indice, affusolato, unghie curate e immacolate. Lo mulinò, creando un piccolo vortice di pochi centimetri. «Questa nebbia è opera sua. Non ho dubbi a proposito».

«Allora è pericolos– ».

«Non davvero. Serve solo a farla nascondere», l'uomo scosse la testa, scrollando anche le spalle. «no, a far perdere le sue tracce, per essere più precisi».

Yuki, braccia annodate e peso spostato su un piede, si tamburellava il braccio, ansiosa. Spostò lo sguardo dal grigio metallico del marciapiedi per alzarlo e inchiodarlo su Keiichiro. «Dunque, avevi tutta quella fretta per paura che scappi da qualche parte?».

Sayumi aprì la bocca, coprendosela con le mani. «Oh-oh... Mi dispiace, io ho... ».

«Non ci pensare. Mi importa che abbiate capito il mio fine. Ora, mie care ragazze, suggerirei una corsa spedita in direzione della nostra meta».

 

A questo punto, le ragazze erano d'accordo. Temevano che qualcosa di brutto potesse capitare ai ragazzi ma, se perdevano anche quell'unica pista, allora erano perduti - per davvero. Senza perdersi in altre chiacchiere, i tre si rimisero in moto, molto più velocemente rispetto a poc'anzi, ignorando ipotetiche trappole e ulteriori tranelli. Se la strega aveva innalzato la nebbia di sua spontanea volontà, allora sapeva che qualcuno era sulle sue tracce.
Riflettendo su questo, Yuki si morse il labbro, tesa.

Non andava. Non andava bene per niente. Non voleva essere trovata, quindi? Era questo il suo obiettivo? Ora più che mai, Yuki era certa che la fantomatica donna non avrebbe prestato loro aiuto. Si fosse trattato di un demone o di un vampiro – o un umano – l'albina non si sarebbe posta chissà quale problema perché, di fronte a resistenze, avrebbe usato la forza, molto lieta di ciò. Ma una strega... in grado di sollevare banchi di nebbia dal nulla... cos'era davvero in grado di fare?

 

Keiichiro svoltò l'angolo a sinistra, immergendosi nella densa aria bianca, umida come il mare e fredda come il ghiaccio. Sayumi, che stringeva la mano di Yuki, oscillò l'altro braccio nel tentativo di diradarla. Il vampiro si teneva a distanza ravvicinata ma a tratti diventava difficile trovarlo.

«Siamo quasi arrivati!», esclamò Keiichiro.

Superarono un lampione, la cui lampadina lampeggiava ad intermittenza, fino a spegnersi appena dopo il passaggio delle ragazze. Yuki gli lanciò un'occhiata, veloce e attenta. Poi tornò a guardare di fronte a sé, fissando la schiena del vampiro a due metri da loro. «Yumi», bisbigliò la mezzosangue.

Sayumi, che cercava con tutte le sue forze di non rallentare, rispose ansante: «D-dimmi!».

«Se succede qualcosa, prendi Anima e usala per difenderti».

«Anima?». Sayumi intravedeva solo l'elsa con la coda dell'occhio, però sentiva la punta del fodero colpire ripetutamente l'asfalto. «Perché proprio Anima?».

«Perché sei disarmata e... », la mezzosangue serrò la bocca. La nebbia, man mano che continuavano ad avanzare, si sfoltiva. «Ho l'impressione che ci saranno problemi. Stai in guardia, okay?».

«Okay. Te lo prometto».

«Eccoci!», annunciò Keiichiro.

Si fermò, arrestando il passo all'improvviso, strisciando le suole sulla strada. Si piegò sulle ginocchia, tirò un forte respiro. Non era realmente stanco, ma la tensione che gli si era annidata nello stomaco cominciava a farsi sentire. Alle sue spalle, Yuki e Sayumi giunsero correndo, producendo una musica scomposta con i tacchi delle loro scarpe, fermandosi accanto a lui. Sayumi si lasciò andare ad uno sbuffo stremato, ma resistette alla tentazione di cadere a terra come un sacco di patate. Yuki, invece, fissava l'edificio che imponente si stagliava di fronte ai suoi occhi densi di turbamento. Le labbra si schiusero da sole, mostrando solo lo scintillio bianco dei canini. «È... questo?».

Era un edificio alto circa tre piani. Coperto di mattoni rossi, con tre finestre per piano, delimitate solo da un cornicione scuro. Sul lato destro, sorgevano le scale d'emergenza e in cima, sul terrazzo, si intravedeva la stanza che fungeva da entrata.
Invece, al piano terra, c'era un negozio. Le due vetrine, a sinistra e a destra della porta nera, mostravano un interno completamente al buio. Dal punto in cui si trovavano, era difficile distinguere davvero qualcosa, ma si vedevano pareti colme di scaffali e un bancone, proprio in fondo.

«Entriamo», sussurrò l'albina. Keiichiro e Sayumi annuirono.

 

Si avvicinarono alla porta, fino a giungergli di fronte. Yuki ruotò il pomello argento. Chiuso. In alto a destra, un campanellino oscillava piano piano, producendo un tintinnio. Yuki schiacciò gli occhi tra le palpebre. «È chiusa», disse poi, rivolgendosi ai due.

«Non per noi».

Keiichiro fece cenno ad entrambe di spostarsi e lasciargli campo libero. A quel punto, l'uomo fletté la gamba sinistra di poco e sollevò la destra, tirandola indietro per caricare il suo colpo. Rapido, stendette la gamba contro la superficie della porta e quella, con un boato frastornante, si spalancò violentemente. Il cardine più in alto non aveva retto l'impatto, staccandosi all'istante, lasciando ciondolare il maltratto pezzo di legno, tutto storto.

Avevano fatto un rumore tremendo. Keiichiro le incitò a seguirlo, mentre superava la soglia d'entrata. «Forza».

 

La stanza, occultata in parte dall'oscurità, non era particolarmente ampia; le pareti sulla sinistra e sulla destra, come avevano già visto da fuori, erano gremite di mensole su cui facevano bella mostra oggetti di vario tipo. Di fronte alle vetrine, invece, erano sistemati su dei piedistalli grossi libri usurati dal tempo. Anche al centro c'era un espositore su cui erano sistemati svariati pupazzi di pezza e bambole di porcellana.
Sayumi si avvicinò alla mensola sulla destra. C'erano palle di vetro, gioielli adagiati su cuscinetti di velluto, mazzi di carte, acchiappasogni, campanelli come quello all'esterno. A ben vedere, quella massa di articoli non aveva proprio niente a che fare con l'insegna del negozio.«E questo dovrebbe essere un emporio dell'occulto e di magia?», Sayumi aggrottò la fronte, ticchettando l'unghia sulla sfera di vetro.

«Yumi, non toccare quella roba», le bisbigliò Yuki, passando il braccio intorno al suo gomito per tirarla via. «È pericoloso».

«Sì, beh, con tutta quella polvere... lo credo bene».

Keiichiro si guardò intorno. «Al piano di sopra c'è il suo appartamento».

Yuki passò accanto al bancone. Sopra c'era uno registratore di cassa, un paio di opuscoli e portachiavi di pessima qualità. Dietro, uno sgabello rosso, forato su alcuni punti. «Pare che qualcuno abbia compiuto una scalata, in questo edificio, eh?».

«Per caso parli di me?», Keiichiro ghignò. «Se lo avessi saputo, me la sarei data a gambe immediatamente».

«Suppongo».
 

Camminando piano, calpestando il parquet impolverato del negozio, la mezzosangue scorse un' apertura in ombra dietro al bancone. Una sorta di tenda, rossa e con ghirigori disegnati sopra, era appesa a dei ganci affissi al soffitto, nascondendo quel varco. Yuki fiancheggiò il bancone, giungendo dall'altra parte, proprio di fronte al registratore di cassa. Serrando indice e medie, scostò attentamente la stoffa appesa, come se fosse radioattiva. «Controllo qui dietro», disse, poco prima di sparire all'interno di quel largo buco nero, lasciandosi alle spalle sia Keiichiro che Sayumi.

E lì, un grande specchio riflettente le tenebre più fitte, se ne stava appoggiato al muro. Attendendo la sua vittima.

 

 

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Capitolo 17
*** La donna senza falangi. ***


17.

 




«Questo dev'essere il retrobottega». Sotto i passi della mezzosangue, le assi cigolavano e si lamentavano, suonando come un pianoforte scordato. Con attenzione, si avvicinò al centro della piccola stanzetta. Le sue dimensioni erano, così come il negozio, molto modeste. Quattro pareti, di un beige scuro e rovinato, ed un pavimento in legno vagamente spolverato. Sulla destra c'era una piccola libreria, contenente svariati libri, mentre sulla parete subito, subito accanto all'ingresso, una scrivania con qualche oggetto e quelli che sembravano documenti. Niente che scaturisse il suo interese. 

L'unico elemento, lì dentro, che riuscì a sorprendere la mezzosangue fu il grosso specchio di fronte a lei, al muro opposto. Probabilmente, aveva catturato il suo interesse perché stava riflettendo solo un profondo nero.

Yuki scrollò la testa. Se quella stanza era al buio, era naturale che non avrebbe mostrato null'altro.

Sospirò, staccando la mano dalla katana, e vi si avvicinò lentamente. Si posizionò davanti al vetro, osservando il suo riflesso, i capelli argentei che scivolavano sulle spalle, in morbide onde e l'espressione dubbiosa e irritata.

 

«È piuttosto grande, eh... ».

Lo analizzava e scrutava come se fosse il primo della sua vita. Yuki assottigliò le palpebre, focalizzando lo sguardo sul vetro. Il fatto che si fosse soffermata a fissare uno specchio qualsiasi, mentre una strega stava probabilmente cercando di scappare da loro... in un angolino della sua testa, la mezzosangue si sentiva una perfetta idiota. Doveva muovere le gambe, girare i tacchi e continuare a setacciare ogni screzio di quell'edificio.

Invece, contrariamente da ciò che si stava ripetendo come un mantra, Yuki sollevò la mano destra. La punta delle dita sfiorò la cornice d'ebano, gli intarsi dettagliati che abbracciavano il vetro lucido e pulito. Il fitto nero, riversato sullo specchio, le ricordava lo stesso che aveva vissuto dentro la katana, quando era morta. Senza speranza, senza sbocco.

Yuki corrugò la fronte. Le dita si spostarono verso il centro. Non lo stava toccando, eppure percepiva sulla pelle dei polpastrelli un freddo glaciale.

Perché mi sento così tesa... è solo un dannato specchio, fu questo il suo pensiero, poco prima di unire l'indice alla superficie vetrosa.

 

A quel contatto, qualcosa afferrò la punta del suo dito, trascinandola verso l'interno. In men che non si dica, l'albina vide la sua mano penetrare il vetro dello specchio, passarci attraverso come se avesse perso tutta la sua consistenza, e l'area tutta intorno trasformarsi in onde nere. Le onde ben presto crebbero in lingue fosche, oblunghe e veloci, che si attorcigliarono al suo avambraccio, salendo e strisciando al bicipite, aggrappandosi alla sua spalla con forza ossessiva.
Esterrefatta, Yuki corse con l'altra mano al suo braccio, affondando le unghie in quella creatura, mentre puntava il piede destro sulla cornice per non farsi trascinare ancora di più - con la schiena imperlata di sudore freddo, l'albina si rese conto che quella strana creatura voleva portarla dentro lo specchio.
Allora lei affondava, graffiava, respirando ansante e digrignando i denti, nel disastroso tentativo di liberarsi. «Dannazione!», esclamò. Poi, con la mano sinistra sguainò la katana che le pendeva al fianco destro, roteò la lama e la lasciò cadere sul suo braccio.


Respirava affatica, fissando il riverbero della spada giapponese. 
 

Se non sto attenta rischio di tagliarmi un braccio, pensò, la mano sudata che reggeva l'arma bianca. La lama di Anima era pronta, scalpitante sulla creatura attaccata a lei. Yuki spostò lo sguardo dalla katana allo specchio. Aspetta, questa roba schifosa esce proprio da lì... allora forse... !

Fendendo l'aria, Yuki fu strattonata verso il vetro. Le lingue diedero un'altra brusca spinta, impazienti, spingendo l'albina con la guancia a pochi centimetri dalla superficie vibrante dello specchio. Facendo leva su mani e piedi, era riuscita a ridurre la spinta e a non farsi risucchiare all'interno - non ancora, almeno.

Adesso era arrabbiata. Sbuffò dalle narici e le iridi si tinsero di rosso scarlatto. «Lasciami... andare... », il suo corpo, dalla suola delle scarpe al braccio sepolto dalle lingue nere, si ricoprì di scattante elettricità. Sembrava sul punto di esplodere, da un momento all'altro. «ORA!».



Ma quando fu sul punto di rilasciare il suo potere, Yuki si ritrovò libera. A terra, sul pavimento in parquet del retrobottega... sola. «Ehy, ma che diavolo... », il palmo destro, che fino a quel momento era in balia di quella mostruosità intangibile, ora stava strofinando il legno sotto di lei, saggiando la polvere depositata. «Non posso essermelo sognato... ».

Yuki sollevò lo sguardo: lo specchio era tornato ad essere un normale specchio.

 

«Impara ad essere prudente, ragazzina spudorata». Yuki si voltò di scatto.

La porta sul retro era spalancata e da lì, ora, stava provenendo una brezza fredda e umida. Yuki si sollevò da terra, katana alla mano. La porta, sospinta dal vento, tornò a chiudersi, sbattendo un paio di volte contro la guarnizione. «Chi c'è là?», esclamò, facendo un passo in avanti.

Quando la porta si spinse verso l'esterno, per la terza volta, una sagoma viola e nera, dai bordi frastagliati apparve appena fuori. Era poco nitida, come un televisore dall'antenna guasta, segnata da intermittenze. A giudicare dalla forma della sagoma, doveva avere le braccia conserte al petto e le gambe accavallate. La mezzosangue trattenne il respiro. «Sei tu la strega?».

«Yuki? Che succede di là?». Alla voce di Keiichiro, l'ammasso di ombre fuori dalla porta, scoprì una fila di denti bianchi. Una risata echeggiò per pochi secondi. Yuki spiccò un balzo in avanti, oltrepassò la soglia.

Per un attimo, si guardarono negli occhi. Yuki scoprì il grigio vuoto dei suoi. E le ombre colsero l'oro della ragazza.

 

Yuki infilò il braccio nell'oscurità ma quella si dissolse nello stesso istante, sollevandosi al cielo come una nuvola di fumo. Yuki sollevò lo sguardo verso l'alto, seguendo quei movimenti circolari e rapidi, mentre scalava la scala d'emergenza. Ci ruotava tutto intorno, infilandosi sulle scale arrugginite, passando attraverso le rampe come fossero aria. «È così?». Sollevata la testa in alto e continuando a tenere d'occhio i suoi movimenti rapidi, Yuki si lanciò al suo inseguimento; le gambe si caricarono di energia e adrenalina, dandole uno sprint che non aveva utilizzato da ormai un bel po'. Raggiunse in un batter d'occhio le scale e cominciò a scalarle. Tuttavia, il suo nemico era già parecchio distante da lei. La mezzosangue continuava a salire ad una velocità che avrebbe smorzato il fiatto, sfruttando al massimo le sue fortunate abilità, ma non riusciva comunque a ridurre quel divario.

Ad un certo punto, vide l'ammasso di ombre scattare oltre il cornicione del tetto e sparire nel terrazzo.

Ringhiò. Continuò a salire, finché anche lei non giunse in cima. Scavalcò il cornicione e, rimanendoci su, si guardò intorno. Era terribilmente in alto. La luna sembrava abbastanza vicina da poterla toccare. «Dove sei... », bisbigliò, alitando aria fredda. Si voltò a sinistra, a destra, ispezionò di fronte a sé, strizzando gli occhi. Strinse i pugni. Dannazione. «L'ho persa».



«Yuki-chan! Sei impazzita?! Scendi da lì, è pericoloso!». La voce di Sayumi la fece sussultare. Alle sue spalle, in basso, a livello della strada, Sayumi e Keiichiro erano usciti dalla porta di servizio, di fretta e furia. Lei sventolava le braccia, ansiosa, mentre Keiichiro si guardava intorno, forse alla ricerca della strega.

«Sto scendendo», rispose l'albina. Ruotò i piedi, cauta, rivolgendosi nella direzione dei due. «Avete notizie dei ragazzi? Dobbiamo trov–... ».


«Lascia che ti dia una mano».

 

Qualcosa, forse mani, la spinsero giù. In quel secondo, mentre il suo petto si inclinava in avanti e il piede sinistro perdeva presa dal cornicione, rievocò un ricordo: quando si era trovata su quella porta che dava sul nulla e alle sue spalle un caldo bagliore dorato l'aveva sospinta. E lei era tornata alla vita.
Adesso invece, mentre il vento sferzava il suo volto, graffiandole gli zigomi e il collo, e lei precipitava verso il duro asfalto della strada, come un proiettile vagante, stava per abbracciare qualcosa di tanto doloroso quanto orribile. Udì le urla di Sayumi e Keiichiro, l'aria diventare soffocante e la vista sfocarsi, e si preparò su come ammorbidire l'impatto.

Ma invece di atterrare sul cemento, il suo corpo cadde a picco su un paio di braccia.

 


Yuki spalancò gli occhi. Una coltre di polvere si era sollevata da terra, celando per un attimo l'area intorno.

«Ti ho presa». Takeshi si chinò sul viso della mezzosangue. I suoi capelli scuri, scarmigliati e lunghi sulla fronte, si arruffarono ancor più quando lui abbassò la testa verso di lei, nascondendo i suoi occhi. Anche senza vederlo chiaramente in faccia, il timbro basso e limpido della sua gola era inconfondibile.
Yuki aveva ancora le palpebre sbarrate quando si rese conto che, dunque, l'umano l'aveva veramente presa al volo, da una caduta di tre piani. Un braccio dietro la schiena, sulle scapole, con le dita strette alla sua spalla; l'altro, invece, al retro delle ginocchia, con i suoi piedi che ciondolavano morbidamente. Dopo aver corso a tutta velocità, Takeshi si era piegato sulle gambe, aveva fatto un balzo e l'aveva afferrata, per poi atterrare sui piedi.

 

«Co-cosa... », l'albina sbatté le ciglia. Ci mise qualche altro secondo ad elaborare - e infine saltò in piedi, scendendo dall'abbraccio del ragazzo. «Stai bene?! Sei... sei impazzito?! Potevi romperti tutte le ossa a fare una cosa del genere... », ma la voce le si spense quando vide Takeshi, in ginocchio, con un'aria interrogativa sul bel viso. Inclinava la testa di lato, inarcando un sopracciglio. Era totalmente illeso. Com'era... com'era possibile?

 «Stai bene?», ripeté Yuki.

«Certo che sto bene. Tu, semmai, è stato un bel volo!».

Già. «Hai ragione... », la mezzosangue scattò, voltandosi verso la cima dell'edificio da cui era appena stata spinta giù. «Un'esperienza indimenticabile», poi alzò la voce, abbastanza da farsi sentire. «Devo ringraziare te, strega!».

 

 

Una risata echeggiò, breve, divertita. E come se quel riso fosse un innesco, il composto informe di ombre assunse finalmente una vera silhouette. La strega sollevò il piede destro, nudo e sottile, e quello si fermò sul bordo del cornicione. A quel contatto, il nero che la riempiva svanì. Dalla punta delle dita cominciò a ramificarsi un colorito bianco, leggermente roseo, che continuò a percorrere la sua gamba – per poi continuare il suo cammino, lungo le cosce, rivelando una vestaglia blu scuro. E infine, dopo un lungo tragitto, il suo volto si svelò alla luce della luna.

 

«Ragazzi... ». Keiichiro fece un passo avanti e guardò diritto verso la giovane donna. «Vi presento... la strega Charlotte Duane».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Vedendola, chiunque direbbe di lei che è solo una giovane ragazza, dall'aspetto grazioso e dai modi magari un po' troppo diretti. Talmente diretti che, se le suscitavi antipatia, non esiterebbe a spingerti giù da un palazzo di tre piani.
Ecco tutto.
Ma questa cosa cozzava incredibilmente con i lineamenti delicati e femminili del suo viso; la forma ovale e piccola, il mento appena sporgente sotto le rosse labbra, su cui dipinto un sorriso a trentadue denti. Il naso alla francese, con le narici strette e la punta verso l'alto. I grandi occhi, dalle iridi grigie, sfumate di ghiaccio, e i capelli neri, con riflessi viola, corti fino a metà collo, acconciati in boccoli stretti che le cadevano sulle guance.

Era sottile, dalla corporatura esile, ma ogni minimo movimento suggeriva quanto agile fosse.

 

Nel silenzio tombale che si era instaurato, Charlotte guardava i suoi cinque nuovi conoscenti. Da quella distanza spropositata, la strega li fissava tra le palpebre socchiuse, come un gatto randagio.

Fu Yuki a spezzare quel tormento. «Ehy, tu! Perché diavolo hai fatto una cosa del genere?!».

«Perché?», Charlotte sembrò estasiata da quella domanda. «Ma perché sei molto più carina, laggiù. Dove dovresti essere».

«Questa piccola... », la mezzosangue soffiò tra i denti, i canini che stridevano sull'arcata inferiore. L'istinto di risalire il palazzo e assalire a morte quella donna era forte e insistente. E stavolta non c'entrava nessuna ipotetica follia.


 

Una ventata fredda sferzò l'asfalto sotto i loro piedi, strapazzando le gonne e i capelli. Charlotte, il piede ancora ancorato al cornicione, non si mosse di un centimetro, nemmeno quando le ciocche scurissime svolazzarono indomabili verso l'alto.
Yuki la guardò, ed increspò la fronte. Non ci aveva dato attenzione, prima, ma sul collo c'era qualcosa. Una linea nera, doppia, simile ad un cinturino, ma che al centro si spezzava e vi era solo un cerchio, come un occhio unico. Cos'è quella roba? Un tatuaggio?

 

«Ah, vedo un faccino familiare, lì in mezzo». Charlotte alzò anche l'altro piede, innalzando la pianta, per poi lasciarlo cadere accanto all'altro. Si mise le mani sui fianchi, fasciati solo dal leggero indumento per la notte. Sembrava terribilmente a suo agio. «Ti mancavo, mio piccolo stupido vampirello?».

«Charlotte, cara», Keiichiro inarcò le sopracciglia. Una gocciolina di sudore gli imperlò la tempia. «Ti vedo in forma. Mi dispiace per come sono andate le cose, sai... quella volta».

«Non mi interessa, no», ribatté la strega. «Dovrei ucciderti, invece?». Lei piegò la schiena, appena, come se volesse osservarli più da vicino. Il cielo buio, offuscato da qualche nuvola grigia e bianca, le faceva da sfondo. «A te e tutti quanti. Diventerebbe un'opera d'arte senza precedenti... ».

«Fallo. Ti sfido a farlo».

 

La strega spostò le iridi grigi, lentamente, riportandole su Yuki Akawa. La mezzosangue che portava il cognome dell'Imperatrice. Certo, Charlotte aveva presente quel nome. La sua discendenza. La sua katana, Anima, sguainata e pronta ad essere sfoggiata.

«Yuki», bisbigliò Tetsuya. «La maledizione».

L'albina annuì. «Ma potremmo fare diversamente. Invece di combattere e ammazzarci a vicenda, potresti prestarci il tuo potere».

«Ah?», Charlotte sollevò le sopracciglia. «Perché?».

«Perché... », iniziò Yuki. Serrò le labbra, morsicandole. «Perché uno dei nostri è in pericolo di vita. E noi non possiamo fare nulla».

«Ah, intendi l'umano dai capelli scuri?».

 

La sentirono ridere, di nuovo. Poi, mentre aveva la bocca aperta e si reggeva lo stomaco, piegandosi su se stessa, i suoi piedi si staccarono dal cornicione. La videro sollevarsi a pochi centimetri, in aria, fluttuando dolcemente nella gelida aria notturna. Il suo contorno, bianco e netto. Esterrefatti, i ragazzi non poterono fare nient'altro, se non tenerla sotto d'occhio. Takeshi si portò le dita al petto, sotto la clavicola. Il suo viso si accartocciò in una smorfia di dolore. «Perché stai ridendo?», fu la sua domanda.

Charlotte, girata ora di spalle, inclinò il suo corpo, fino a ché non si trovò con la testa all'ingiù. Sottosopra, i capelli vertevano verso il basso, spinti dalla gravità. «Ma perché io l'ho fatto». Un'altra risata, che andò a dissolversi lentamente. «Ho maledetto io il vostro grazioso amichetto».

 

Yuki fece un passo in avanti. Alle sue spalle, Takeshi e Sayumi si erano protesi, aggrappandosi ad ambe le sue braccia pur di fermarla. Tetsuya si pose di fronte ai tre, la mano sinistra si accese in fiamme cremisi. «Allora preparati a sciogliere la tua stupida maledizione».

Con uno scatto fulmineo, Charlotte tornò dritta, equilibrando il suo baricentro. Le palpebre si calarono sugli occhi, lasciando solo un piccolo spiraglio, mentre un tono artico animò le sue parole. Marcò ogni sillaba, come un serpente pronto ad iniettare il suo veleno. «Mi stai dando ordini, per caso?».

 

Keiichiro piegò le ginocchia, preparandosi ad un impatto. Pochi secondi prima li aveva seguiti spostarsi e assemblarsi, tutto nel giro di uno schiocco di dita. Come se fosse un copione molto familiare. Non si erano nemmeno guardati in faccia. Una prontezza di quel tipo se la sarebbe aspettata da suo fratello, che aveva visto combattere i soggiogamenti per tutta la sua infanzia, e magari anche da Yuki. Ma non... da due umani.
Keiichiro ruotò il viso, inchiodando la figura, lontana e piccola, della strega chiamata Charlotte Duane. La sua figura, alta nel cielo, spalleggiata da una luna funesta, era quanto più simile ad una sciagura.

«Non cambieresti idea per niente al mondo?», esclamò Keiichiro.

«Cosa?», sbottò la strega, arcuando le sopracciglia. Rimase in silenzio. Stava valutando la frase del giovane uomo. Finalmente scese, lenta, fino ad appoggiare i piedi nudi sul bordo dell'edificio. Qualche millimetro più vicina a loro. «Hai una proposta per me, vampirello?».

«Fratello?», ringhiò tra i denti Tetsuya.

Keiichiro si voltò verso il quartetto. «Voi avete due scelte: potete inseguirla e darle il tormento e provare a catturarla... », e non era nemmeno detto che Charlotte avrebbe fatto come dicevano. Avrebbe potuto preferire la morte. «... oppure potete scendere a patti con lei. Un patto è un patto».

L'uomo tornò verso Charlotte. Un sorriso spavaldo gli illuminava il viso. I suoi studi sarebbero serviti a qualcosa. «Ho ragione, dillo anche tu».

 

Charlotte serrò la mandibola. I suoi capelli fluttuavano nell'aria come serpenti viola. Il suo sguardo, che fino a quel momento era divertito ma controllato, adesso aveva una piccola crepa. Con le braccia incrociate, tamburellava le dita sull'avambraccio, nervosa. Si morse le labbra, imprecando sottovoce, e guardò verso l'asfalto – molto lontano.

«Allora?».

«Stai zitto», bisbigliò la strega. Poi sollevò la testa, annuendo. «Sì. È vero. Un patto è un patto».

Yuki schiuse la bocca. Forse aveva capito. Probabilmente non poteva sottrarsi ai patti. «Bene. Allora avanti, sputa il rospo: cosa vuoi in cambio della vita di Takeshi?».

 

Charlotte sorrise, una nota di dolcezza nella curva. I suoi occhi brillavano come mezzelune. «Sapete, stiamo parlando di patti, ma è la prima volta che ne ho qualcuno tra le mani. È la mia prima volta e francamente... lo odio. Poi, però, ho pensato... e sapete, siete arrivati al momento giusto. Perché ho sempre desiderato una certa cosa. Con tutto il mio cuore». Anche se non era certa di averne uno. Si toccò il petto con il palmo della mano, sulle clavicole scoperte. Un ghigno si disegnò sulle sue labbra. Sì, per decenni l'aveva desiderato e adesso, se ci tenevano davvero alla vita di quell'umano, sarebbe stato suo.

 

La sua attesa era stata ripagata.

 

E lei sarebbe divenuta la strega più potente al mondo. «Portatemi gli occhi di Baphomet».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Yuki oltrepassò la soglia della camera d'albergo, camminò fino al centro, accanto al letto matrimoniale, e lì si bloccò. Inspirò profondamente, chiuse le mani in pugni d'acciaio, penetrando le carni con le sue stesse unghie, percependone il bruciore. «Dannazione. Dannazione», le parole fluivano basse e incontrollate. Diede un calcio alla gamba del letto, rabbiosa. «Dannazione!».

Ansante, l'albina si lasciò cadere sul materasso, e affondò le dita fra i capelli argentei.

Per così poco. Per così dannatamente poco!

Potevano catturarla e costringerla ad invertire quella maledizione e così le sorti di Takeshi. Potevano salvarlo e tutto sarebbe finito e loro, finalmente, non avrebbero più dovuto inseguire nessuno né combattere quelle battaglie assurde. Yuki si strofinò la fronte, le tempie, senza darsi pace mentre, sfortunatamente, la sua mente veniva assalita dai ricordi di un'ora fa.

 



 

«... chi?». Dopo attimi interminabili, l'albina aveva dato sfogo ai suoi dubbi. «Baphe-chi?».

Charlotte si sedette, incrociando le gambe e appoggiandosi con i gomiti su quest'ultime, sghignazzando. «Baphemot. Non lo conosci?», si finse stupita, arricciando la fronte. «Strano. Non conosci il tuo creatore, Yuki Akawa?».

 

Nessuno rispose. Né Yuki, né Takeshi, né tutti gli altri. Era come se le Charlotte, con quelle poche parole, avesse tagliato la lingua e le corde vocali di ognuno di loro. La corrente era saltata. Perché, tra tutte le cose che potevano sognarsi di sentirle dire, quella non era stata minimamente contemplata.

Un creatore.

Giusto, loro – le creature notturne che popolavano il mondo intero – non erano nati dal nulla; non erano nati come gli esseri umani, gli animali o la natura stessa. Persino la mezzosangue ne era conscia. E il loro creatore... era Baphomet. 

 

Charlotte sbuffò dalle narici e fece qualche smorfia, sporgendo il labbro inferiore - annoiata. Takeshi innalzò gli occhi su di lei e sebbene fosse una sagoma piccola, di cui distingueva solo le forme principali, lui era certo di averla già vista da qualche parte.
E non dovette rifletterci allungo. «Tu... Tu eri Kazumi», esclamò. «La Kazumi senza le falangi del dito. Non è vero? Ed è stata... è stata quella volta che l'hai fatto: che mi hai messo addosso questa condanna». Stava fronteggiando la sua persecutrice, eppure Takeshi appariva calmo e distaccato. Le iridi scure, screziate di giallo, profondi come pozzi, non avevano cedimenti. I capelli, che gli cadevano disordinati sulla fronte, gettavano ombre nette sullo sguardo.

La strega, lentamente, sollevò accanto alla sua guancia la mano destra. Aprì le dita, sventolandole una ad una, compreso il mignolo – che, come aveva detto Takeshi, era sprovvisto di ben due falangi. Con lo stesso sorriso affilato di prima, Charlotte rispose: «Oh, che acume!», per poi mettersi a ridacchiare, acciambellata sul cornicione del palazzo. «Ora, se avete capito le mie condizioni, toglietevi dai piedi e fatemi tornare a dormire».

«Aspetta», la interruppe Tetsuya. «Come facciamo a trovare questo Baphomet?».

 

Charlotte reclinò la testa all'indietro. I suoi occhi scintillarono. «E io che ne so?».

 

 

 

 

 

Tornata più o meno al presente, l'albina sospirò rumorosamente. Chi l'avrebbe detto che le streghe erano così... «Yuki? Ci sei?».

«Eh?».

Accanto alla guarnizione della porta, con l'avambraccio appoggiato, Takeshi se n'è stava lì aspettando un cenno di vita dalla sua ragazza. Si era affacciato alla loro camera d'albergo, l'aveva chiamata per nome una o due volte, e poi si era deciso ad alzare la voce – di solito non ce n'era bisogno, con lei. «Stai bene?».

Yuki spostò lo sguardo sulle ginocchia. «Sì, sto bene».

«Ah, davvero», Takeshi incurvò le labbra. Entrò, richiudendosi la porta alle spalle. «Perché cerchi ancora di ingannarmi, dopo tutto questo tempo?». Il ragazzo si sedette accanto a lei, abbassando il materasso di pochi centimetri, piegando le molle. «Sei preoccupata?».

La mezzosangue teneva serrate le labbra. Non voleva farsi scappare niente. Ma l'espressione del suo viso ne stava cantando di tutti i colori. Gli occhi pregni di frustrazione, le guance cariche di rossore – inusuale, per una creatura come lei.

«Qui», poi lui le avvolse le spalle e il fianco, strofinando dolcemente la punta del naso contro i capelli albini, cullandola piano. «Riusciremo a risolvere questa situazione, Yuki. Lo so».

Yuki, che si era abbandonata da subito al suo caldo abbraccio, sorrise amaramente, con il viso sepolto sul suo petto. «Sei tu quello che rischia la vita, eppure eccoti qua a rassicurarmi. È patetico».

«No, non lo è. Anche tu hai dei sentimenti». Takeshi ridacchiò. «No, tu ne hai una montagna».

 

Yuki rise, perché sapeva a cosa si riferiva. Poi premette le mani sul suo petto, allontanandosi da lui quel tanto che serviva per poterlo guardare. I suoi tratti erano distesi, sereni. Le labbra ciliegia in un dolce, leggero sorriso e gli occhi che la osservavano con attenzione, per non farsi sfuggire nulla.

Gli strinse le spalle. Non gli avrebbe lasciato quel peso. Sarebbe stata lei a salvarlo, stavolta.

 

«Andiamo a prendere gli occhi del nostro creatore».

 

 

 

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Capitolo 18
*** La foresta, la biblioteca e ciò che lui provava. ***


18.






«Esiste una foresta».

 

Keiichiro bevve un sorso di tè, portandosi il bordo della tazzina alle labbra. La bevanda era quasi bollente, leggermente dolce, e al gusto di pesca. La tazza di ceramica era tutta decorata da ghirigori blu e azzurre, sotto uno sfondo bianco, e faceva coppia con un piattino del medesimo colore.
Dopo aver sorseggiato un altro po', l'uomo si abbandonò allo schienale della poltrona, reclinando la testa. Il suo collo, morbidamente sorretto.

Alle sue spalle, la giornata li aveva sorpresi con un tiepido sole, ma di una luce accesa e calda. Essa penetrava dalle finestre e dalle sottili tende di lino, stiracchiandosi sul pavimento in legno chiaro, giungendo fino ai piedi di Sayumi. Quest'ultima giocava a schiacciare il fascio di luce, schiacciandolo con la punta degli stivaletti. Quando sentì Keiichiro, però, perse tutto l'interesse.

«Beh, buon per l'Irlanda... », commentò, perplessa.

Keiichiro, le dita intrecciate sopra la tavolata rotonda, ridacchiò. «Intendevo dire, una foresta che può tornarci utile per la questione... », arricciò il naso ed abbassò la voce. «... Baphomet».

 

 

Baphomet. Un Dio. Un Dio pagano, a quanto diceva internet. Dalle sembianze mostruose, una sorta di chimera superiore a qualunque altra, con lunghe corna sulla sommità del capo, ali imponenti, zampe di capra al posto delle gambe. Nonostante le ricerche che avevano fatto, ogni informazione, ogni notizia, andava presa per le pinze , poiché era impossibile stabilirne la veridicità. Yuki e Sayumi, mentre attendevano i ragazzi con la colazione, avevano impiegato quei pochi minuti per dare un'occhiata su vari siti. Alla fine erano giunte alla conclusione che fossero una marea di se e di forse.

«Ti ascoltiamo», disse Tetsuya, braccia annodate al petto. «A questo punto, qualsiasi cosa sarà utile».

«Beh, è stata una scoperta del tutto casuale», cominciò Keiichiro. «e non sono quanto sia attendibile; tuttavia, a casa di Charlotte, avevo visto una cartina geografica di una contea dell'Irlanda. Lì, in quell'area, si trova una foresta chiamata Killarney». Keiichiro sollevò le dita intrecciate all'altezza degli occhi. «Non so a cosa le serva. Ma c'era una grossa x, su Killarney».

«Quindi... », Takeshi spezzò in due il cornetto che aveva di fronte. L'interno al cioccolato colò fuori, spalmandosi sul piatto. «È possibile che la strega sia stata lì... per qualche ragione».

Keiichiro annuì. «Oppure, potrebbe esserci diretta».

«Potremmo catturarla», propose Sayumi.

«La vedo difficile». Yuki, che era rimasta in silenzio, ascoltando gli altri, si era fatta qualche calcolo. Non era difficile per lei immaginare come le cose si sarebbero svolte, se avessero provato a catturarla. «Credo che quella donna sia molto più forte di quanto crediamo». La mezzosangue sollevò gli occhi oro. Una leggera, piccola crepa, spezzava la serenità dei suoi lineamenti. «Quella là... ». Era scomparsa, poi ricomparsa... e senza che Yuki capisse come aveva fatto. «È troppo potente, per noi».

Keiichiro abbassò una mano, sventolando l'altra. «Suvvia, non c'è bisogno di essere così tesi. È vero, Charlotte è forte, l'ha dimostrato. Però, vorrei farti notare che nemmeno voi siete da meno».

 

Lo sguardo della ragazza sembrò calmarsi. Gradualmente, le sopracciglia tornarono a distendersi, e le pieghe causate dalla frustrazione sparirono. Tuttavia, Yuki era consapevole che loro erano da meno. Per lo meno, se l'avessero affrontata adesso, non ne sarebbero usciti vivi.
Si strofinò il mento, tra l'indice e il pollice, accavallò la gamba sopra all'altra e cominciò a pensare; Charlotte Duane era una strega, e lei si era finta Kazumi – con l'ausilio di qualche incantesimo, su questo non c'erano dubbi – per avvicinare il gruppo e così anche Takeshi. E quando erano usciti insieme, aveva marchiato il petto del ragazzo con la sua maledizione.

«Ma perché Takeshi?», bisbigliò, tra sé e sé. «Perché un umano, con cui non ha niente a che... no, un attimo». Forse, avevano un qualche legame, loro due? Ma quale?
Takeshi, fino a tre anni prima, non aveva mai avuto nessuna interazione con vampiri, demoni o chicchessia. Nemmeno sapeva che esistevano, quindi non era possibile. «È successo... dopo, allora».


«Yuki-chan? Ma che stai dicendo?». Sayumi sorrideva, divertita, agitando le dita davanti alla faccia dell'albina. Yuki sbatté le ciglia. «Ah, no... stavo pensando», per poi ricambiare la dolce curva delle labbra.

«Stavi pensando a Kazumi?».

«Anche a lei, già. Pensavo di averla ritrovata, ma... non era così». Yuki si morse il labbro. «Mi sono fatta prendere in giro».

Tetsuya si girò verso di loro. «Non è detto che sia morta». L'albina inarcò un sopracciglio. Delicatissimo.

«È vero. Non possiamo trarre conclusioni», Takeshi, seduto accanto al vampiro, si piegò in avanti per guardare la ragazza – e annuire. La mezzosangue soppesò le parole dei suoi amici. Beh... avevano ragione, era indubbio. «Ci penserò dopo che avremo trovato gli occhi di Baphemot», disse infine, abbassando lo sguardo sul tavolo, concentrata. «Ora, suggerirei di organizzarci e iniziare le ricerche».

 

Accogliendo il suggerimento di Yuki, il gruppo cominciò a discutere, a bassa voce, su come agire; sapevano ben poco sul creatore dei demoni e dei vampiri, ed era difficile stabilire se quelle informazioni fossero affidabili, per cui andavano fatte altre ricerche. Decisero di dividersi in due gruppi, con due mete diverse – e parecchio distanti l'una dall'altra: mentre Yuki, Takeshi e Sayumi andavano a controllare quella fantomatica foresta, a due ore da Waterford, Tetsuya e Keiichiro avrebbero setacciato tutte le biblioteche e librerie della città. Inoltre, se lo reputavano possibile, potevano riprovare al negozio della strega. «Ma solo se siete certi che lei non sia in giro», raccomandò Yuki. «Dovete essere sicuri».
Tetsuya non era molto contento. L'idea di passare un'intera giornata da solo con suo fratello gli aveva smorzato l'entusiasmo e i lineamenti, fini ed eleganti del suo viso, si erano accartocciati in un espressione di pura irritazione. Yuki l'aveva fissato, con una faccia che chiedeva di resistere, e naturalmente l'amico non poteva fare in altri modi.

«Teniamoci in contatto», disse Sayumi. «I cellulari accesi, suoneria alta. Oh... magari, se andate da quella pazza, il silenzioso è meglio».

 

Si diressero all'uscita dell'albergo, zaini in spalla, katana alla mano, coltelli da lancio nella giacca, pistola nei pantaloni, erbe curative nella borsa di tela.

«Ci rivediamo qui, stasera, alle 20.00». Yuki guardò ognuno di loro. «State attenti. Non rischiamo le vite. Dobbiamo uscirne, tutti, ed illesi».

E si separarono, imboccando strade opposte.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Quindi, come avete fatto a trovare la strada per la bottega della strega?».

 

Takeshi afferrò saldamente lo zaino dagli spallacci e lo innalzò sopra la sua testa, con un minimo sforzo dei bicipiti. Indossava una maglietta blu, leggera e a maniche corte, e una felpa con cerniera, lasciata aperta. Dei jeans scuri, graffiati, con uno o due strappi nei pressi delle tasche.
Appoggiò lo zaino di Sayumi sul portabagagli, si assicurò che fosse abbastanza in fondo e infine si sedette di fronte all'albina. Alla domanda di quest'ultima rispose sorridendo, per poi dire: «Dall'alto».

Sayumi, sul sedile accanto a quello di Yuki, batté le ciglia stupita. «Come, dall'alto?».

«Letteralmente?».

Takeshi annuì. «Abbiamo ricordato il racconto di Keiichiro-san e la sua descrizione della strada. In questo modo, abbiamo trovato la via giusta».

«Dall'alto», ripeté Sayumi. «Intendi... »

«Se la nebbia ci offuscava la visuale a terra, l'unica alternativa era salire sugli edifici». Dal momento che le ragazze continuavano a manifestare perplessità, il ragazzo continuò. «Stavamo cercando di capire come fare a trovarvi. Eravamo sicuri che, a quel punto, vi sareste diretti dalla strega; a quel punto pensai che, forse, se fossimo saliti sui tetti, avremmo avuto visibilità». Takeshi sollevò un angolo della bocca, un sorrisetto ironico. «Non era così. Anche dall'alto, la nebbia rimaneva fitta. Tuttavia, riuscivamo a intravedere i quartieri e le strade, i punti salienti».

«Ed è così che siete giunti fino a noi», disse Yuki.

«Esatto». Takeshi, metà viso investito dal sole, filtrato dal finestrino del treno, annuì. «E poi, mentre avanzavamo, abbiamo sentito Yumi gridare e poco dopo anche Keiichiro-san».

«Oh, giusto», Sayumi batté il pugno sul palmo. «quando Yuki è precipitata, ci siamo spaventati da morire!».

 

Inaspettatamente, il vagone del treno in cui si trovavano era vuoto. I sedili, color verde pino, erano immacolati e sgombri e i portabagagli erano nella stessa condizione. Sarebbe stato completamente silenzioso se non fosse per il rumore continuo delle rotaie sui binari.
Sayumi aveva indosso una gonna cargo, i capelli intrecciati sulla schiena, e una maglietta a maniche lunghe bianca. Yuki, invece, che prevedeva scontri all'orizzonte, aveva scelto dei pantaloni neri e una camicia bianca, i suoi soliti stivali beige. Aveva provato a tenere la katana stretta fra le ginocchia ma quella, essendo molto lunga, era un impiccio ingombrante. Quindi l'aveva appoggiata contro il sedile accanto a Takeshi. Il sole lambiva il fodero nero opaco.

«Baphomet... », mormorò l'albina, il mento sul dorso della mano. Sayumi, che stava sbucciando un mandarino, un fazzolettino aperto sulle gambe, annuì. «Quel tizio che viene sempre accomunato ai templari».

«Non è strano. Ce n'erano di vampiri e demoni tra i templari», Yuki, chinata sulle ginocchia, osservava il vagone vuoto del treno. «Qualcuno, prima o poi, sarebbe stato scoperto».

«Quindi, secondo te, per loro non era possibile vivere sotto mentite spoglie?», domandò Takeshi. «Vampiri e demoni sono destinati ad essere scoperti?».

La mezzosangue imbronciò la bocca. «Soggetti del genere non riescono a passare inosservati. Basti solo pensare alla scia di sangue che si portano dietro», rispose. «La fame, prima o poi, li prende per la gola e loro... ».

«Non possono che seguirla». Takeshi sospirò. «Ed esserne schiavi».

Calò il silenzio. Non era teso né imbarazzato. Forse era solo commiserazione.

 

 

Due ore dopo, il treno annunciò il suo arrivo alla stazione di Killarney. Essa era nota in Irlanda per essere un importante centro turistico, un luogo in cui si concentravano svariate attrazioni naturali. Era, se possibile, ancora più vibrante e colorata di Waterford; i piccoli edifici, dalle architetture quadrate, le bandiere e gli stendardi che attraversano i tetti, sventolando al tiepido venticello, le insegne delle birrerie e dei pub, i concittadini con i capelli fulvi, le panetterie stracolme di gente e il profumo di cibo – dolce, salato, acidognolo – che inondava le strade, gli alberi che costeggiavano e lanciavano ombre nelle piazze.
Ma niente di tutto ciò aveva a che fare con i ragazzi. La loro direzione era diversa. Con un bus preso all'ultimo secondo, Yuki, Takeshi e Sayumi videro la piccola città proiettarsi nei loro occhi, sotto un caldo sole primaverile. Infine, il bus sostò all'ultima fermata, appena una decina di metri distante da una grossa arcata di rami d'albero.

Yuki scese, subito dopo i due umani. Dietro di lei, il pullman richiuse le porte, sbatacchiando e producendo rumori a non finire. Una coltre di fumi e polvere si sollevarono e il mezzo pubblico riprese a muoversi, allontanandosi lungo la strada sterrata di fronte a lui.

 

«Beh, eccolo qua», Takeshi aprì le braccia. Quelle ricaddero lungo i fianchi. «Ecco il posto che stavamo cercando».

 

Il verde regnava sovrano dovunque posassero gli occhi. Che fosse sul terreno sotto ai loro piedi, dove solo piccoli punti di terriccio si salvavano dall'invasione dell'erba e dei fiori, con i lunghi steli e i petali fieramente sbocciati; che fosse in alto, verso il cielo terso, coperto solo dalle chiome smeraldine degli enormi e slanciati alberi. Di fronte a loro, l'arcata di rami faceva da ingresso alla foresta di Killarney. Immobili come statue, man mano che fissavano quell'intreccio scuro di rami e di foglie, più davano l'impressione di allungarsi e stiracchiarsi, vivi e attivi.

Yuki stritolò la katana appena sotto la guardia. «Perché Charlotte Duane aveva segnato questo posto?».

«Ci dev'essere qualcosa», bisbigliò Sayumi – rettificò la frase: «No, sperava di trovare qualcosa».

«Potrebbe essere proprio così».

«Ma Keiichiro ha visto la mappa un anno fa», osservò Takeshi. «Quindi potrebbe aver perso interesse per questo posto»
Quella x segnata sulla cartina poteva significare tante cose: che Charlotte si fosse già recata alla foresta, ma non avesse trovato ciò che cercava, e quindi l'aveva cancellata; oppure, non ci era ancora andata, ma che fosse comunque la sua prossima meta, in un futuro non chiaro; o ancora, per lei rappresentava un luogo inaccessibile.

Yuki sentiva ogni singolo suono. Dal fruscio delle chiome, al basso cigolio dei rami, al cinguettare distante degli uccellini, alle corse scattanti sull'erba dei piccoli animali. «Entriamo nella foresta», sibilò.

 


I tre cominciarono a muoversi. Avrebbero messo da parte i dubbi e le numerose domande. D'altro canto, quella era la loro unica pista.
Proseguirono lungo la strada che si profilava davanti a loro, oltrepassando l'arco di rami. Appena vi misero piede, una grossa ombra li ricoprì. Gli alberi erano così imponenti e rigogliosi da ricoprire ogni cosa. Yuki abbassò lo sguardo, al livello del terreno. Adesso udiva anche i loro passi. Gli anfibi di Takeshi e il leggero tonfo sul terriccio, gli stivaletti di Sayumi sulle foglie depositate.
Continuarono a camminare, parlando solo di tanto in tanto. Si infilavano in mezzo ai cespugli, sbucando in sentieri stretti, riprendevano il viale principale, fino a giungere in ampi spiazzi, cintatati da pini e querce e salici, mura di fiori e di verde. Il sole riusciva ad attraversare e a filtrare, colorando i tronchi e le radici di un caldo dorato.
Mentre avanzavano, Takeshi sfregiava il centro dei fusti con uno dei suoi pugnali. Un segno orizzontale, abbastanza lungo e marcato da saltare all'occhio; non avevano mai messo piede in quella foresta, per cui era molto facile perdere la via del ritorno – o dell'andata – e smarrirsi era l'ultima cosa di cui avevano bisogno. Specialmente dopo l'esperienza con la nebbia.

Tuttavia...

 

«Sentite... », cominciò Sayumi. Si accigliò, guardando in alto, verso il limpido cielo che vegliava su di loro. «Da quant'è che stiamo camminando... ?».

Yuki diede un occhio all'orologio da polso. «Da... », aggrottò la fronte. «Due ore».

«Come, due ore?», Takeshi, che stava al centro, in mezzo alle due ragazze, si voltò verso sinistra – allungando il collo per sbirciare l'orologio dell'albina. «Credevo fosse passata solo mezz'ora». Si rimise dritto. Perplesso, il bruno si massaggiò il collo. «Forse il tuo orologio va avanti».

«Non so che dirvi. L'ho sistemato prima di uscire, stamattina, per essere sicuri di non mancare all'incontro con Tetsu e Keii-nii».

Sayumi, che aveva controllato il display del suo cellulare, annuì. «No, è corretto. Sono le 13.15». Lo ripose nella tasca dello zaino. «Sono sicura che non ci siamo persi. Stiamo solo procedendo».

«Allora dev'essere parecchio profonda questa foresta».


Yuki increspò la fronte. Sì, di certo... era così. D'altro canto, non avevano una meta precisa; l'unica cosa che sapevano era che stavano cercando qualcosa, qualcosa per cui Charlotte Duane si sarebbe scomodata. «Ce la fate a continuare? Volete fare una pausa?».

«Sto bene», esclamò Sayumi, chiudendo le mani in pugni e alzandoli al petto. «Posso continuare».

Takeshi annuì a sua volta, prima di fermarsi improvvisamente e cominciare a guardare intorno a loro. Dopo aver dato un'occhiata, indicò con un cenno del mento il grosso albero sulla sinistra. «Che ne dite se diamo un'occhiata dalla cima di quell'albero?».

«L'altitudine è il tuo asso nella manica, eh?», commentò la mezzosangue, incurvando le labbra. «Okay, proviamoci. Mi arrampico e ispeziono la zona».

«Allora io controllo qui intorno», esclamò Sayumi, mentre Yuki e Takeshi si avviavano. A voce più bassa – perché tanto, ormai, i due erano già spariti oltre il cespuglio – aggiunse: «magari ci è sfuggito qualcosa».

 

Yuki appiattì il palmo della mano sul tronco dell'albero. Liscio, tiepido, rassicurante al tocco. Seguì le fessure con i polpastrelli, i rigonfiamenti, le piccole venature e crepe sul legno. Flettendo un poco le ginocchia, Takeshi si posizionò davanti all'albina, intrecciando le dita delle mani all'altezza del bacino. Yuki prese la rincorsa, indietreggiando di due passi, e infine scattò in avanti. La suola della sua scarpa affondò sui palmi uniti del ragazzo e lui rispose dandole un ulteriore spinta con lo sforzo dei bicipiti. In men che non si dica, l'albina volò fino alle prossimità del ramo più vicino, a cui si appese all'istante. Si sollevò, piegando le braccia, e non appena appoggiò il primo piede fece un secondo salto. Raggiunse un altro ramo. Le foglie e i rami più sottili tentavano di oscurarle la visuale e frustarle il viso di continuo – la mezzosangue riusciva a scansarli solo perché si stava muovendo veloce.
Agguantò l'ennesimo tralcio, su cui un uccellino stava riposando le ali. Con un altro sforzo di addominali e braccia, si tirò su. Era abbastanza massiccio e doppio da sopportare il peso della ragazza, quindi si fermò. Piegata sulle ginocchia, e seduta sui talloni, Yuki alzò il viso guardando di fronte a sé. Era abbastanza in alto. Non era arrivata in cima, ma da quel punto, in mezzo alla verdeggiante chioma, si apriva uno spazio dove sbucava un panorama immenso; un cielo luccicante in alto e un mare smeraldo in basso, con tocchi di giallo. Entrambi si estendevano a perdita d'occhio, unendosi all'orizzonte, fino a che agli della mezzosangue diventarono inseparabili.

Non è il momento di incantarsi, si rimproverò. Schiacciò gli occhi dorati tra le palpebre, analizzando l'area che li circondava. Come avevano supposto, quella foresta era enorme. Sembrava senza una fine.

Con il fianco della mano sulla fronte, a coprirsi dai raggi del sole, Yuki continuò ad osservare gli alberi. Un continuo verde, piccoli screzi di marrone e giallo.

«E... rosso», Yuki tolse la mano. Cercò di avvicinarsi all'estremità del ramo di pochi centimetri. Tornò a guardare nella direzione, verso nord, dove aveva intravisto qualcosa di rosso. «Sembra... un tetto... ». Il tetto di una casa? In un posto come quello?

 

A quel punto però, l'urlo di Sayumi squarciò il silenzio della natura.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

In un silenzio che avrebbe fatto raggelare i defunti, i fratelli Tanigawa varcarono l'ingresso della Public Library della città di Waterford.

 

Attraversate le porte automatiche di vetro, il maggiore si soffermò sul piccolo tappeto nero all'entrata, mentre il minore continuò a camminare spedito, dirigendosi come un fulmine verso il banco del bibliotecario.
Keiichiro seguì con lo sguardo il fratello – sospirò. Quella sarebbe stata una giornata molto, molto lunga. Se lo sentiva. Keiichiro, in ogni caso, non lo biasimava. Non lo avrebbe biasimato, nonostante l'astio che Tetsuya trasudava da ogni poro. Oppure era sospetto? Dubbio? Tetsuya, accanto a Keiichiro, assomigliava ad un animale ferito, incapace di fidarsi ancora dell'uomo.

 

Il vampiro fece un passo avanti. Aveva visitato quella biblioteca un anno fa e non era cambiata di una virgola. Non appena si entrava nella sala principale, dopo aver salito gli scalini in granito prima delle porte automatiche, si veniva accolti da una lunga fila di librerie, gremite di ogni sorta di libro in ordine di genere. La parete destra e quella sinistra erano entrambe delle enormi vetrate ed entrambe erano costeggiate da tavoli e divanetti, su cui la gente si accomodava, immergendosi nelle letture. Oltre le prime due file di librerie, svettava una scala che conduceva al primo piano.

Calpestando la moquette grigia, Keiichiro raggiunse l'altro vampiro. Lo vide mentre annuiva, parlando al bibliotecario, senza espressione. In mano aveva due tessere. «Hai già fatto?», chiese Keiichiro, quando gli fu finalmente accanto – ma ecco che Tetsuya ruotò i piedi, facendo rotta a passo spedito verso le scale che portavano al primo piano.

Keiichiro era sul punto di chiedergli perché non controllare anche il piano terra – salvo ricordarsi che al primo piano c'era la sezione infantile, romantica e d'avventura.


Ciò che loro stavano cercando erano tomi religiosi, di mitologia, storici.


«Hai già chiesto tutto al bibliotecario?», disse, salendo i gradini delle scale, rincorrendo l'altro.

«Certo. E senza soggiogare nessuno», fu la risposta fredda di Tetsuya. «Incredibile, non è vero?».

«Tetsuya, non avevo scelta. Non c'era abbastanza spazio per tuttei e cinque in quel taxi».

«Avremmo potuto chiamarne un altro».

«E perdere altro tempo?».


Si lanciarono un'occhiata. Entrambi seri, mortalmente seri. In mezzo alla rampa di scale, Tetsuya aveva il piede destro sull'altro gradino e guardava in giù, il viso di suo fratello. Keiichiro, sebbene fosse più in basso, emanava comunque un'aria intimidatoria. «Non voglio litigare con te».

«Allora non parliamo e basta», Tetsuya si voltò dall'altra parte, riprendendo la sua marcia.


 

Il primo piano non si differenziava da quello terra; un'ampia sala, con tavoli di legno nero, e librerie e scaffali che si trasformavano in un labirinto in minatura. La luce del giorno filtrava ampiamente dalle vetrate, ricoprendo la superficie dei tavoli e la moquette sul pavimento. C'erano svariate persone ad occupare i posti, una donna con due bambini, un uomo in giacca e cravatta, un ragazzo con delle auricolari alle orecchie. Ognuno di loro era un umano.
Per un secondo, Tetsuya si chiese cosa avrebbero fatto sapendo di essere in presenza di due vampiri; creature dai denti macchiati di sangue, la pelle marmorea, e un'anima affilata come un frammeto di vetro scheggiato. Probabilmente, si disse, reagirebbero come a Yoshino.

Scrollò il capo, tornò al presente, e si incamminò verso il fondo della sala. Superando alcune sezioni, raggiunse l'ultima, che raccoglieva svariati libri e racconti sulla religione, e tutto tondo.

E così, la coppia di fratelli cominciò a leggere. Non si disturbarono a sedersi, poiché avrebbero dovuto consultare una grande mole di informazioni. Era molto più comodo restare in piedi, con i libri aperti davanti agli occhi, appoggiati sulle braccia, retti tra le dita di una mano.

Durante le letture, Tetsuya non esalava un respiro.


«Hai trovato qualcosa?», gli domandò Keiichiro. Era passata un'ora da quando avevano cominciato. Il tempo era inaspettatamente volato. Tetsuya tirò indietro la testa, sgranchiendo il collo, le palpebre chiuse. «No, purtroppo no. Mi chiedo se esistano dei libri più specifici a proposito di dei pagani».

«Sono convinto di sì. Il problema è se questa biblioteca ne è provvista».

«Quando finiamo qui, proviamo in un'altra».

«Ricevuto». Poi Keiichiro si fermò. Un sorriso gli incurvò naturalmente le labbra. Avevano parlato. «Ehy, stavo pensando... ».

Tetsuya, che era tornato alle pagine scritte fittemente, rispose: «Mh?».

«Non potremmo... smetterla e basta?», Keiichiro richiuse il libro. «Sai... di comportarci come estranei tra noi».

A quel punto, l'altro smise di leggere. Sollevò gli occhi viola oltre il bordo della rilegatura, inchiodandoli in quelli nocciola del fratello maggiore. Vide la sua espressione, imbarazzata, a disagio, nervosa, e Tetsuya percepì dentro di sé una grande rabbia. Ma la contenne. La tenne tutta per sé.
Invece, con un tono freddo come il sonno eterno, abbassò le iridi per tornare alle informazioni. «Fai quello che vuoi. Non è affar mio», le sopracciglia, tuttavia, si piegarono verso l'interno, formando solchi. «in compenso, continuerò a trattarti come ciò che sei».

Keiichiro inclinò la testa. «E sarebbe?».

«Colui che se n'è andato». Tetsuya aveva le spalle contro la libreria. Avrebbe voluto fondersi con essa. «Colui che mi ha abbandonato».

«Tetsuya, io non volevo», ribatté l'altro. «Non era quella la mia intenzione».

E allora qual era? «Non funziona così. Non puoi pretendere che le persone capiscano cosa ti frulli per la testa». Qual era stata la sua intenzione? Dopo che quei vampiri – i loro genitori – avevano lasciato il mondo, la terra dei vivi, dopo che il loro letto si era trasformato in una rosa di sangue... le intenzioni di Keiichiro quali erano state? Perché Tetsuya, per quanto ci avesse pensato, non era giunto ad una conclusione che poteva perdonare. Non poteva perdonare nessuna di quelle conclusioni.

Le mani di Tetsuya tremarono. Perché mi hai abbandonato?, pensò. Voleva urlarlo. Voleva fargli conoscere tutta la disperazione, tutta l'angoscia che l'aveva divorato in quei tempi. Voleva fargli sapere quanto l'avesse ferito. Keiichiro l'aveva lasciato in quella casa. Da solo.

Il tomo cadde a terra. Un tonfo funereo.

«Pensavi di potermi abbandonare e poi tornare come se nulla fosse?». Keiichiro osservò il fratello, il suo viso rivolto al pavimento. I capelli biondi gli coprivano gli occhi come un elmo proteggeva un cavaliere. Poi, Tetsuya sollevò lo sguardo. Keiichiro sigillò la bocca, alla vista dei freddi e ghiacciati occhi viola. Alle pieghe che si erano formate al setto nasala e tra le sopracciglia, mentre la rabbia gli percorreva centimetro dopo centimetro – sul viso bianco e ormai cresciuto di Tetsuya.

«No», un sussurro. «Non l'ho pensato». Keiichiro, lui aveva perso. «Avevo decido di non tornare più da te. Perché non meritavo di starti accanto, nonostante tu se sia mio fratello e... la mia famiglia». Chiusa la mano destra in un pugno, serrandolo talmente tanto che le vene sul dorso della mano si gonfiarono, le nocche sbiancarono, i muscoli del braccio si tesero come corde di violino. Con uno scatto, la sua mano corse alla fronte, le dita si infiltrarono tra i capelli biondo scuro – tutto per non mostrargli l'angoscia dipinta nel suo sguardo.

Che idiota. Si preoccupava ancora di sciocchezze simili. Tetsuya non provava più nessun rispetto per lui, d'altronde. «Mi dispiace».

Tetsuya aprì la bocca. «Cosa?».

«Mi dispiace».

Silenzio. Tetsuya guardò a terra, un angolo lontano. «Perché l'hai fatto?».


 

Keiichiro ricordava il giorno in cui decise di andare via. Fu subito dopo il funerale dei loro genitori, dopo che avevano varcato la soglia della loro casa, insieme, nei completi neri. La sensazione che aveva provato in quel momento... una pressione alle tempie, una mano che gli schiacciava i lobi del cervello, sempre più forte, sempre più crudele. Solo quando si era allontanato di qualche km, valigia alla mano, quella pressione si era allentata. E man mano che andava avanti, e avanzava da solo, era svanita. Così come era apparsa.

«Perché non potevo gestirlo». Non poteva. «Non potevo sopportare... ». Sorrise. «Tutta la vita che avevo costruito, sin da bambino. Tutta quella vita, la odiavo così tanto da sentirmi male. Le donne che conoscevo e frequentavo ogni giorno, i club in cui mi rintanavo per non rivedere i nostri genitori o... quel dannato posto. La solitudine. Le domeniche che abbiamo... », mandò giù un amaro boccone di ricordi, con gli occhi colmi di angoscia. «... che ci hanno distrutto».


Alzò la testa, guardò suo fratello. Come aveva immaginato, Tetsuya era molto sorpreso. Quasi incredulo. Keiichiro tirò su uno stanco e forzato sorriso, sebbene le iridi trasmettessero solo una grande malinconia – un dolore troppo importante per essere scacciato. «I miei unici momenti di gioia eravate tu e Yuki. Eravate voi... la mia felicità».

Strisciando quelle ampie spalle, Keiichiro si abbandonò a terra. Ancora una volta, pensava che coprendosi il volto si sarebbe salvato, in qualche modo. Le gambe erano troppo lunghe per essere distese. Era un bambino in un corpo che non gli calzava.

«Melodrammatico». Percepì suo fratello muoversi di fronte a lui, piccoli movimenti precisi, forse per chinarsi alla sua altezza – e dopo di ché, le dita fredde agguantarono il colletto della sua giacca di cotone. Tetsuya lo attirò, costringendolo a staccarsi dalla libreria. «Non hai più bisogno di sentirti così», i loro nasi si sfioravano. Keiichiro, gli occhi spalancati, fissava quelli di Tetsuya. «Non sei solo. Non ti lascerò solo. Se me ne dai l'opportunità e non scappi come un ladro, chiaramente».


 

Erano passati sei anni. Sei anni da l'ultimo sorriso genuino che lui gli aveva riservato. Keiichiro, finalmente, aveva ritrovato il suo posto nel mondo – stretto nell'abbraccio della sua famiglia.


 


 


 

 

 

NOTA:
Salve! Era da un po' che non scrivevo una nota a fine capitolo, quindi mi sembrava il caso di rimediare. Siamo giunti in Irlanda, già dallo scorso capitolo, e sin da subito i nostri caVi ragazzi si sono trovati in un paio di situazioni poco funny.
Avete fatto la conoscenza di Charlotte e approfondito quella con Keiichiro. Che pensate di questi due?

Volevo specificare una cosa. Tutti i luoghi citati, qui in Irlanda – a dir la verità, anche quelli in Giappone – sono tutti realmente esistenti. Le descrizioni sono un po' diverse dalle loro vere sembianze, per amor di trama, ma alla base è la stessa. Giusto nel caso qualche nome vi risultasse familiare!

Detto questo- spero che il 18° capitolo vi sia piaciuto... e che continuerete a seguire la storia!

 

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Capitolo 19
*** Lei, che gli stette accanto, con il viso rigato dalle lacrime. ***


19.




A quell'urlo di donna, tanto improvviso quanto stridulo, uno stormo di colombi e pavoncelli schizzò fuori dai nidi costruiti nelle chiome degli alberi. I frenetici battiti di ali intonarono un ritmo, veloce e spaventato, mentre si allontanavano in tutta fretta, separandosi chi ad ovest e chi ad est. I rami tremarono, in tutta risposta, ed una pioggia di foglie e pezzetti di legno ricoprì il terreno alle radici.

 

Yuki, che era appollaiata su uno di quelli, si aggrappò con gambe e mani al suo, in difficoltà, strizzando un occhio. Era Sayumi? Sembrava lei, ma perché aveva urlato? Takeshi era giù, dovevano essere insieme... non che fosse una garanzia sulla vita. Nonostante sapesse che erano l'uno accanto all'altra, Yuki non si sentì affatto tranquilla; a cavalcioni, ruotò il corpo verso il basso, trovandosi a testa in giù. A quel punto, allentò la presa delle sue gambe attorno al ramo e contemporaneamente agguantò il tralcio con la mano sinistra. Poi, quando vi si trovò appesa, si lasciò cadere nel vuoto, volando giù nel nucleo dell'arbusto.
Atterrò sui piedi, piegando le ginocchia e toccando l'erba del terreno con un palmo. Alzò la testa, sul punto di chiamare i loro nomi a gran voce.

Ma di fronte ad una tale scena, solo un suono smorto fuoruscì dalle sue labbra.

Ancora curva, con un ginocchio alzato, spostò lentamente lo sguardo su Sayumi, riversa sulla schiena, e Takeshi davanti a lei, armato dei suoi pugnali, pronto a combattere.

«Ma che accidenti... », Yuki non riusciva a capire cosa stesse combattendo.

Non era... una persona. Né un vampiro, né un demone. E per fortuna, neanche una strega. Ciò che si stava stagliando dinnanzi ai loro occhi era una grossa macchia nera e grigia, una sorta di ombra galleggiante nell'aria, il cui "centro" era tanto corposo da sembrare un ammasso di muscoli e carne. Ma lo stesso non si poteva dire per l'evanescenti estremità.

Come se fosse sul punto di scomparire – di qualsiasi cosa si trattasse.

 

«Ragazzi», chiamò la mezzosangue, tra i denti. «Siete feriti?».

Takeshi, senza voltarsi, rispose: «Yumi sì, ha un taglio al braccio».

«È-È solo un graffio... », Sayumi, che era immobile in quella posizione, fissava quella sorta di spettro, incombente sopra di loro come una piccola nuvola malefica.

Yuki mise la mano sulla katana, gli occhi si tinsero di fuoco e sangue. «Quella dannata cosa... ».

«Un attimo, Yuki-chan, non è– ».

«Yumi, riesci ad alzarti? E a venire qui da me, dove mi trovo ora?», chiese l'altra. Con lo sguardo attento di una cacciatrice, Yuki non smetteva un istante di guardare quella strana presenza. «Non preoccuparti. Se riesci a correre fin qui, mi basterà», sorrise. «e avanzerà».

«Io... », Sayumi inghiottì la saliva. Improvvisamente, sentì le labbra asciutte e le mani bruciare. Poteva farlo. Era spaventata, certo. Ma le gambe avrebbero funzionato, nel momento del bisogno, non aveva dubbi. «Sì, ce la faccio. Arrivo da te». Tirò su le ginocchia, strisciò i palmi sull'erba, afferrando ciuffi. A quel punto, impiegando una minima spinta, Sayumi si rimise in piedi. Le ginocchia tremavano leggermente ma poteva muoversi – allora si girò di spalle, trovando la figura della sua migliore amica, la spada sguainata, il rosso bollente delle iridi brillare come una fiamma.

 

Sayumi si mise a correre. Totalmente scoordinata, respirando confusamente, ma si mise a correre.

Lo spettro alle sue spalle si mosse di conseguenza. Attraversò la testa di Takeshi, sfiancandolo con la sua vacua consistenza, e volò fulmineo verso la ragazza – Yuki non perse tempo: gli andò incontro, correndo rapida per accorciare quella distanza e poi, con un urlo, agguerrito e rabbioso, tirò un fendente di katana da sinistra a destra, sferzando l'aria e la polvere. La lama mulinò, un raggio di sole la colpì, ed attraverso il corpo di quell'essere.

 

Tagliandolo a metà.


Ci impiegò qualche secondo per separarsi del tutto.

Diviso in due parti uguali, quella superiore rimase a galleggiare stordita. Il punto dove, magari, avrebbe potuto trovarsi una faccia, era indirizzata verso Yuki. Come se la stesse osservando. Come se stesse domandandosi cos'era accaduto.
Emise un verso, forse un lamento, fece vibrare quella creatura. I suoi bordi vacillarono, il nero al centro si colorò di un tenue e spento grigio, uniformandosi con l'estremità. E infine, la creatura senza viso si dissolse con un debole fruscio.

 

Yuki abbassò Anima. Respirò, sbuffando dalla bocca per svariati secondi, con una goccia di sudore che le imperlava la tempia – aveva trattenuto tutto nei polmoni, tanto si era stata tesa. Erano al sicuro. Probabilmente. Non si sentiva pronta a rinfoderare la katana, per cui la tenne in mano, con la lama luccicante che graffiava il suolo ai suoi piedi.
Che cos'era quella cosa? Non aveva mai visto niente di simile, ma... sì, le ricordava Charlotte e la forma che aveva acquisito al loro primo incontro: un ammasso caotico di ombre e tenebre. Che fosse... che fosse proprio Charlotte?

 

«Stai bene?», Takeshi le era giunto accanto, nello sguardo una punta di apprensione. Tuttavia, il suo viso era disteso e sembrava calmo, nonostante... quello strano incontro. «Non ti ha fatto niente, vero?».

«Sto bene», Yuki gli fece un sorriso, nel tentativo di far scomparire anche quelle tracce di ansia. «E tu? Ti ha... ti è passato attraverso o sbaglio? Non ti avrà fatto qualcosa... vero?».

Per tutta risposta, lui si portò le dita di una mano al viso. Si tastò le guance, la fronte e il naso. «Sembra di no. Qua ho ancora tutto in ordine, mi sembra un inizio. Piuttosto, Yumi ha bisogno di cure mediche».

 

Poi si voltò, ed insieme raggiunsero Sayumi, che era crollata a terra e si reggeva su mani e ginocchia; la fecero adagiare al tronco dietro di lei e, seguendo le sue indicazioni, Yuki e Takeshi frugarono nella sua valigetta di cuoio per arrivare a garze e disinfettante.
Mentre Takeshi fasciava il taglio sul bicipite della ragazza, lei riordinava i pensieri. La mezzosangue non le staccava gli occhi di dosso.
Dopo aver ripreso fiato – e calma – Sayumi esordì con queste parole: «Non è stata... quella creatura... a farmi male. Anzi, penso stesse cercando di proteggermi, ehm, da un pericolo».

«Come dici?», esclamò Yuki. Si fermò un istante. «Oh. Per questo avevi detto di aspettare».

Sayumi annuì. «Ecco... voi due vi siete diretti all'albero e io non... non mi andava di restare con le mani in mano». Gettò un'occhiata alla fasciatura, ringraziò Takeshi. «Quindi mi sono messa a guardare in giro».

«E poi... ».

«E poi?».

«Mi sono ritrovata faccia a faccia con una martora». Sembrò imbarazzata. «Su un albero. Sì, mi ero arrampicata anch'io». Di fronte alle espressioni perplesse dei suoi amici, la ragazza incassò la testa nelle spalle. «Volevo dare una controllatina. Non mi arrampicavo da una vita, avrò in parte dimenticato ciò che ho imparato da bambina. Stavo salendo, e stava andando tutto liscio, quando ho accidentalmente tirato la coda di quella povera martora. Lei si è infuriata e credo stesse per saltarmi sulla faccia».

«Fammi indovinare: a quel punto è apparsa quella roba?».

Sayumi annuì. «Il tempo di sbattere le ciglia. Me lo sono ritrovato davanti. Mi ha fatto una paura che ho perso l'equilibrio e sono caduta all'indietro dal ramo e sono atterrata su un cespuglio».

Takeshi si lasciò andare sull'erba, sdraiandosi sulla distesa verde, infiltrando le dita fra i capelli. Tirò un sospiro esasperato, non troppo alto, giusto per compassione. «E ti sei ferita cadendo. Ora è chiaro», disse. «Ma questo non spiega che cosa fosse e perché fosse qui».

Vero. Purtroppo. Yuki si grattò il mento con il pollice, sostenendolo con il fianco dell'indice. «Mi ha ricordato Charlotte. Quando ci siamo parlate al retrobottega, lei era più o meno così».

«Un fantasma, intendi?», domandò Takeshi, con una punta di sarcasmo.

«Più o meno... sì», con la fronte aggrottata, l'albina continuò. «Era una silhouette scura, talmente tanto da fondersi con la notte. Quando voi siete arrivati, lei aveva già preso sembianze umane». Yuki si guardò le mani. Poi un pensiero la colpì. «Un attimo, ho ucciso una creatura innocua, per caso?».

I ragazzi si lanciarono un'occhiata vacillante, incerti su come risponderle. Sayumi piegò la testa di lato, mentre pensava, e Takeshi si strinse nelle spalle. «... forse?», dissero, all'unisono.

 

Dopo essersi assicurati che Sayumi stesse bene e che non ci fossero altre brutte sorprese, i tre decisero di tornare in marcia, e dirigersi verso il misterioso tetto che la mezzosangue aveva notato – dalla cima dell'albero. Mentre camminavano, Yuki raccontò esattamente cosa aveva visto – sebbene non fosse molto – e poi continuarono a discutere sulle streghe e sull'ipotesi che quella presenza ne fosse legato, in qualche modo.
Era più forte di lei. Ogni volta che ci ripensava, la faccia ghignante di Charlotte faceva capolino nella sua mente, come una bambina che gioca a nascondino. Ma, se quella cosa fosse di buon animo, allora era molto difficile credere che avesse un qualche tipo di legame con una come Charlotte. D'altronde, lei era lei. Non era detto che tutte le streghe fossero così.

Tra una riflessione e l'altra, i ragazzi avevano messo una bella distanza fra loro e l'ingresso alla finestra. Un'altra ora era trascorsa, in men che non si dica, e man mano che procedevano la foresta si faceva più fitta, selvaggia, incontrollata. La sua distesa di colori, di profumi e di suoni aumentava sempre più, ma in modo soffice e piacevole.

Takeshi si piegò verso Sayumi, abbastanza da poterle parlare vicino all'orecchio. «Ascolta», le disse, preoccupato e deciso al contempo, come un padre che vuole ragguagliare la figlia. «Mi rendo conto che vuoi aiutare, ma la tua vita è molto più importante di queste ricerche. Se decidi di allontanarti... ».

Sayumi, per tutta risposta, gli premette entrambe le mani sulla spalla più vicina – ridacchiando. «Ho capito, dai. Starò attenta. Vabbene, paparino?». Il suo sorriso si infittì, illuminandole gli occhi azzurri di un tenue bagliore. «Dico anche a te, mammina».

«Non so di cosa parli», Yuki si voltò dall'altra parte.

Takeshi tornò dritto, guardandola dall'alto del suo metro e ottanta. «Sarà meglio», così diceva, ma la sua voce non poteva che essere divertita.

 

La mezzosangue sorrise a sua volta mentre si voltava e, inaspettatamente, vedeva la casa diventare sempre più presente nel loro campo visivo.

«Ah, eccola... », e più si avvicinavano, più la sua voce si abbassava, fino a diventare solo un basso sussurro stranito. «... là». La mezzosangue avevo steso il braccio in avanti, l'indice puntato contro quella che sembrava la casa di marzapane. Ma una versione molto più decadente, abbandonata, dell'orrore. Un disastro. Ironicamente, lei e i suoi amici si scontravano sempre con abitazioni mezze distrutte o ignorate dal mondo, lasciate a marcire da sole.
Perché non si imbattevano mai in una bella ville accoglienti e lussuose?

Prima di provare ad entrare, i ragazzi si fermarono ad esaminarono l'esterno; a prima vista, le pareti che circondavano la piccola residenza erano in paglia, sebbene un'ampia porzione sulla sinistra fosse abbracciata dall'edera rampicante. Situata su un unico piano terra, aveva due piccole finestre quadrate in legno, con tendine di juta, situate particolarmente vicine al terreno. Il tetto, invece, aveva una particolare forma allungata, che percorreva e ricopriva la casa, per poi fare una curva verso l'alto e, infine, congiungersi con l'enorme tronco accanto – o meglio, quell'albero era parte integrante dell'abitazione, quasi fossero nati nello stesso momento. La porta, al contrario, era in semplice legno grezzo.

«Questo posto è... », cominciò Sayumi.

«Incredibile», terminò Yuki. Sollevò leggermente il viso, osservando le fronde abbassarsi e oscillare sopra al tetto. «Non sento nessuna presenza. Di certo, non ci sono vampiri o demoni».

«È già qualcosa», commentò Takeshi. «Proviamo ad entrare. È meglio non restare troppo qua fuori».

Camminarono insieme fino alla porta. Yuki fece cenno ai due di starle dietro, mentre lei appoggiava l'orecchio sulla superficie di legno. Non sentiva nulla nemmeno adesso. Nessun odore familiare, nessun suono preoccupante. Si staccò. Dunque guardò in basso, alla ricerca di una maniglia – che non trovò. «Ehy, ma... ».

«Cosa?».

«Non vi sembra un po'... antico, questo posto?».

«Antico? A me sembra paleolitico».

Takeshi inarcò un sopracciglio e spiò oltre la spalla della ragazza. «Chi accidenti ci avrà vissuto? Un qualche tipo di eremita? O un tizio fissato con la natura?».

«E Charlotte ci avrebbe a che fare, in qualche modo?», Yuki scosse la testa. «Ci dev'essere qualcosa». A quel punto, senza indugiare ancora, l'albina strisciò il palmo della mano sul legno, debole al suo tocco. Con la sola pressione dei polpastrelli, spinse quella porta – e cigolando, essa si aprì, lentamente.

 

Subito furono investiti da un forte sentore di vecchio. L'odore di cassetti che non venivano aperti da un'eternità, di muffa che rosicchiava gli angoli delle pareti, di strati e strati di polvere accumulati su ogni superficie. Yuki si tappò il naso con il palmo, simulando un espressione disgustata.

«Complimenti al padrone di casa», commentò Takeshi.

Un passo alla volta, i tre fecero il loro ingresso, richiudendosi la porta alle spalle.

 

Si trovarono in quello che sembrava un salotto, forse... la stanza principale? Era difficile dirlo. Al centro, attaccato al muro che vedevano di fronte, c'era un divano. Logoro, ovviamente, ed anche quello era ricoperto del tessuto di juta, strappato in vari punti. Ai suoi piedi, giaceva un ampio tappeto rotondo, di colore bruno, dall'alto pelo ispido, illuminato dal cono di luce che filtrava dalla finestra – quella roba avrebbe pizzicato da morire sotto ai piedi nudi. Si sarebbero aspettati di vedere anche una televisione o qualche apparecchio del genere, invece vi trovarono solo una credenza bassa di mogano, scheggiata e sgranocchiata dai topi, e ricoperta in cima da ogni sorta di oggetto. C'erano fogli, piccoli contenitori di vetro, ciuffi d'erba annodati, un martelletto, delle forbici, libri, quaderni, agende, calamai e inchiostro – e tanto altro.
Sulla sinistra, invece, stretto tra una dispensa, una piccola libreria e il tronco dell'albero che avevano visto all'esterno, videro un grosso calderone nero. Vi si avvicinarono per guardare all'interno: sul fondo una macchia grigiastra. Si sentiva un fortissimo odore di erbe. «Okay, qui ci viveva una strega», decise Sayumi.

Takeshi fece un passo, poi un secondo, e continuò fino a ché non raggiunse quel tappeto. Aveva il presentimento che se avesse fatto troppo rumore, un orda di scarafaggi li avrebbe assaliti, per cui si fermò.
Si guardò intorno. Accanto al divano, c'erano quelli che sembravano giocattoli. Erano sparpagliati sul pavimento, in un angolo – che era diventata la cuccia di un ragno, a giudicare dalla ragnatela – e sembravano vecchi di una vita. C'erano cubi di legno colorati, disegni stilizzati sul pavimento, animali modellati nella terracotta, un paio di trottole consumate.

Indicando quel punto, chiese: «Una strega bambina?».

Yuki e Sayumi si fecero avanti. Sayumi si piegò leggermente sulle ginocchia, appoggiandoci le mani. «Devo ammettere che sono carini».

«Carini, ma soprattutto non del ventunesimo secolo... », osservò la mezzosangue, strizzando le palpebre.

 

Mancava ancora una zona da ispezionare. I ragazzi, consapevoli che non avevano ancora finito, puntarono i loro sguardi sulla parete a destra. C'era una porta, uguale a quella dell'entrata, ma più scura. Nuovamente, Yuki proseguì per prima – aprì la porta, svelando quella che doveva essere una camera da letto.
Una stanza di piccole dimensioni, come per il resto, con un grosso letto matrimoniale piazzato in fondo. Il materasso era una tomba di lenzuola sgualcite e sporche, non c'erano cuscini. Accanto, però, c'era un piccolo comodino, con al di sopra una lanterna spenta. Parallela al letto, c'era una cassettiera, con sopra moltissime candele, la cui maggior parte era coperta di cera sciolta che colava. In mezzo a queste, un quadernetto rivestito in cuoio, chiuso con un laccetto rosso.

Nonostante ci fosse anche un armadio da guardare, sull'altra parete, l'attenzione dell'albina fu completamente rivolta a quel quadernetto. Meccanica, si fece avanti, portandosi di fronte alla cassettiera. Udì Takeshi e Sayumi aggirarsi per la camera, ispezionare in giro.

Nella penombra – c'era solo una finestrella rettangolare in un angolo in alto –. Yuki restava ferma, immobile. Come quando si era sul punto di cadere in un profondo sonno. Le palpebre divengono pesanti. Si perde, pian piano, il controllo del proprio corpo... e si percepisce, fino alle ossa, un'omertà immensa.

Dietro le palpebre chiuse, attraverso gli occhi – sfolgoranti, vivi – di una Guerriera Dorata, Yuki rivide la cassettiera. La medesima penombra, uno strato in meno di polvere. Stavolta, però, le candele che l'adornavano erano avvolte dal bagliore di fiammelle. Il quadernetto era aperto, spalancato, e si mostrava nefasto dinanzi a lei, e dalle sue pagine ingiallite penetrava un intenso odore di resina. 

Yuki, facendo piano, spostò la sua mano verso la carta e le dita entrarono nel suo campo visivo.


E non erano le dita di una ragazza ventenne. Nodose. Magre. Una pelle sottile, un po' imbrunita, arricciata e debole. Non erano le sue dita – quelle che si posavano sulla pagina pulita, sul punto di imprimere i suoi pensieri.

 

«Yuki-chan?». Sbatté le palpebre e sussultò. Il piede scattò indietro, per un attimo pensò di aver perso l'equilibrio. Si appoggiò alla cassettiera, fissando le candele come se fossero le sue nemiche giurate. Sayumi, apparsa alle sue spalle, corrucciò le sopracciglia, confusa. «Stai... bene? Ti eri incantata a guardare il vuoto... sembravi un cavallo addormentato».

Yuki raddrizzò la schiena, schiarendosi la gola. «Sto... ». Deglutì. «È tutto okay. Avete trovato qualcosa?».

«No, niente affatto. Solo qualche vestito, altra robaccia. Come avevi detto tu, roba che non fa pensare all'epoca moderna».

«Allora, facciamo bene a pensare che questa persona non fosse del nostro secolo?».

Takeshi, che si era inginocchiato per dare un'occhiata sotto all'armadio, si rimise in piedi e si diresse verso le ragazze. «Credo che possiamo darlo per assodato, a questo punto», adocchiò il quaderno chiuso. «Quello l'hai letto?».

«Quello?», ripeté Yuki. «Ah, intendi questo quaderno? No, io... lo leggiamo insieme?».

 

Takeshi e Sayumi la affiancarono. L'albina, che stava al centro, non capiva ancora se provava agitazione o curiosità. Al contempo, la sua espressione era un velo di calma imperturbabile. Temeva, tuttavia, che al solo tocco si sarebbe sbriciolato. Con estrema delicatezza, Yuki ne toccò il bordo, sollevandolo. Finalmente, le prime parole di quello che sembrava un diario, videro la luce.

«È in inglese», osservò Takeshi.

Yuki annuì. Dunque, cominciò a leggere.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

“Ho aperto gli occhi e ho osservato le mura di pietra per molto tempo. Questa, d'altro canto, che io lo desideri o meno, è la mia nuova casa. È fredda, sterile, sconosciuta, spaventosa. Ma non posso uscire da questo luogo. Non conosco il modo, nemmeno se ne avessi l'opportunità.
È trascorso un anno. Adesso sono una donna di vent'anni.
Mi sembrava decoroso appuntare ogni cosa in un nuovo diario. Spero tanto che, in futuro, quando lo rileggerò, riuscirò a sorriderne di tutto cuore. Per il momento, però, posso solo tracciare queste lettere.

 

Ho indossato i miei vestiti, quest'oggi, e ho prestato la massima attenzione affinché il risultato finale sia decoroso. La tunica bianca, lunga fino a coprirmi i piedi nudi, con le spalle strette e la maniche larghe, è pesante come un macigno. La fascia che mi cinta la vita, di colore oro, talvolta mi impedisce di respirare come si deve, e il cappuccio calato in testa getta il mio viso nell'oscurità pece. Indosso, al di sopra della tunica, la fascia di tessuto rigida bordata di rosso – dovrebbe essere il simbolo della mia posizione, lui dice. Il collo deve vedersi, perché il simbolo che ha impresso sulla mia pelle sia visibile. A questo punto, ho finito.
Prima di lasciare il mio alloggio, prego per le mie sorelle.
Prego perché non gli capiti ciò che è capitato a me.

 

 

Dal momento che è trascorso un anno da quando sono giunta qui, credevo che avrei notato maggiori cambiamenti... nella sua attitudine. Mi sono illusa, a dir poco. Non credevo, certamente, che avrebbe persino sorriso. Non dubito che sia incapace di farlo. Mh, forse questo non dovrei scriverlo... ma tanto vale. Se decidesse di uccidermi, avrei finalmente una ragione per essergli grata, e ringraziarlo, così come lui continua a dire. Dovrei esserne felice, sostiene. Sei fortunata, ripete.
Vorrei solo che mi uccidesse.

 


La maggior parte del tempo non faccio nulla. In sostanza, ciò che mi impegna, sono lunghe passeggiate per il regno. Molto, molto lunghe. Esco dal suo palazzo, percorro la strada in discesa, mi fermo al lago di acquamarina, dunque torno indietro. Nemmeno lui fa poi molto. Deve essere noioso stare sempre seduto lì – oppure, dormire come un infante nel suo nido.

 

Sembra che non abbia fatto in tempo a dirlo, ma si è trovato qualcosa che lo impegni. Certo è stato sorprendente, adesso lo invidio persino. Non so esattamente cosa stia facendo, perché non voglio avvicinarmi più del necessario – e dubito lui voglia condividere la sua passione con me. Anche se me lo deve.
In ogni caso, se ho ben capito, sta osservando il mondo degli esseri umani. È ancora sdraiato nel suo nido, totalmente indifferente a ciò che capita all'infuori di questo luogo, ma io l'ho notato: nei suoi occhi si susseguono miriadi di immagini, tutte a gran velocità, una dopo l'altra. Continua per un po'... fino a quando le immagini non rallentano, e si fermano e poi.... Ecco. Ha trovato ciò che stava cercando. Ciò che voleva vedere sin dall'inizio”.

 

Alcune pagine strappate.

 

“Tu mi hai portata qui. Mi hai portata qui. Sono trascorsi centotrent'anni. Centotrenta. Non te ne rendi conto. Non lo capisci. Per te il tempo è diverso, la tua percezione è differente. Sono piccoli attimi, per te. Ma per una come me è davvero molto. Troppo.
... io sono sola. Le pareti di pietra, il lago di acquamarina, la strada desolata in discesa, quelle piccole dimore che lo costeggiano... è tutto vuoto.
Siamo sempre io e te. No, non è così. Mi sbaglio.
Ci sono solo io. Da sola. Tu, esisti solo per le immagini che guardi.

 

Riproviamoci. Ieri, quando ho scritto, mi sentivo leggermente instabile... mi dispiace, chiedo scusa, non era mia intenzione. Lo sto giurando, non volevo essere ingrata o rude o mancare di rispetto. Adesso, ho un compito. Devo occuparmene, devo essere concentrata e precisa. Il tuo regno, finalmente, si sta riempiendo... finalmente. Ho pensato che non sarei stata più da sola. Avevo creduto che, adesso, avrei potuto osservare le dimore animarsi, le strade diventare vive... ma tu mi hai detto di osservare quelle immagini al posto tuo. Hai bisogno che qualcuno vegli su quella persona.

 

Anche se mi sento sola, e spezzata, e non capisco più – mi hai dato un ordine. Ed io, la tua prima strega, guarderò le immagini al posto tuo. Veglierò su di lei al posto tuo. Non potrò guardare il lago insieme a loro. Avrei voluto. Avrei voluto.

 

Oh... da quanto tempo, eh? Dunque, quanti anni saranno passati... cinquanta? Sì... altr i cinquant'anni. Se sto riscrivendo, è perché oggi c'è una notizia importante.
È nata una principessa. A giudicare da come piange e ride e dal colore delle sue guance, sembra in ottima salute. Una piccola mezzosangue. Chissà per quanto ancora riderà.
In ogni caso, la notizia non era proprio questa. Ieri, lui è venuto da me. Non lo incontravo da due anni, presa com'ero dalle immagini – non ricordo l'ultima volta che ho mangiato o dormito.
Mi ha detto che ho un lavoro da fare. Mi fermerò dalle immagini, sebbene momentaneamente, e affiderà il compito ad una strega di grado inferiore a me. Io devo fare qualcosa di molto importante.

 

Lunga abbastanza da sorreggere le tue braccia. Bianca tanto da metterti in ginocchio. Tagliante quanto serve per far soccombere le creature del creato, nessuno escluso. Brillante come mille fiamme, fredda come i ghiacci che penetrarono nella carne bruciante. La tomba di coloro che combattono come il sole.

 

Non sbagliare. Non sbagliare. Non sbagliare.

 

È pronta. Ho portato a termine il compito. È pesante, ma lui non avrà problemi a brandirla.
Come? Ah, giusto, è vero. C'è ancora una cosa che dovrei fare. Qualora ne avessi bisogno, sarà il piccolo segreto che io--

 

 

Sono tornata alle immagini. E sono morti. Tutti e due. Omicidio e suicidio. L'ho appena visto con i miei occhi. Pensavo che la principessa sarebbe morta per prima. Ma... perché l'avevo pensato? Che strano, che strano mondo. Le persone, chiunque siano, si amano. E poi non possono più farlo. Ma è stato per colpa sua se sono morti. Se lei è morta. L'abbiamo osservata per così tanto e alla fine... che spreco del nostro tempo.
Non è vero, mio Baphomet?”.

 

In basso, in un angolo, scritto in inglese antico:

 

“Se è l'unico genitore a cui ambisci, se è il suo sguardo d'ombra che vuoi incrociare, il rosso dovrai donare e la lama dovrà versarlo e mani dorate dovranno brandirla”.

 

E ancora, tremolante: “Per Charlotte. Se vorrai cercarmi”.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Quando lesse, ad alta voce, le ultime sillabe che decoravano il giallo secco della pagina – le mani cominciarono a tremare. No, non è corretto. Avevano iniziato a tremarle già molto prima. Posate sul mobile, i polpastrelli vacillavano sul legno impolverato. Allora ritirò le dita, chiudendole nel pugno.

 



Quello che avevano appena letto era uno dei diari della prima strega al mondo. Antico. Macchiato di lacrime. Segnato dalla solitudine che quella donna aveva sofferto. Era agghiacciante.

«È stata obbligata... », furono le prime parole che ruppero il silenzio. Yuki fissava, stordita e con occhi sbarrati, le pagine vuote che susseguivano. Non c'era scritto altro. Aveva smesso lei, perché ormai incapace di capire cosa volesse ricordare, oppure era semplicemente... morta?
Quella nuova domanda, aggiuntasi alla pila che si erano costruiti in quei giorni, non avrebbe avuto risposta. Non molto presto. «Lei non voleva. Non voleva essere una strega».

Avevano letto molto, in quella sorta di diario. C'erano tante informazioni, alcune poco comprensibili, altre un po' di più. Eppure, quel dettaglio... era spaventoso. Era solo una ragazza – si direbbe umana – quando era stata strappata via dalla sua terra. Tutto per volere di... un Dio?

 

Takeshi e Sayumi rimasero in silenzio.

Takeshi, accanto alla mezzosangue, le mise un braccio attorno alla vita. Piano, premette per avvicinarla a sé. Yuki si lasciò semplicemente trasportare. «Ci hai rivisto te stessa», le bisbigliò, con le labbra sui suoi capelli. «Quella volta».
Quella volta che due vampiri erano morti, pur di farla scappare. L'albina annuì lentamente, strofinando la guancia contro il tessuto della sua t-shirt. Ricordò Ryuu e Juri. Li ricordò cadere con un tonfo e non rialzarsi più. «A lei non è andata bene». Inarcò le sopracciglia. «Non le è andata bene per niente». Poi sentì la sua mano stretta, dolcemente, da quella di Sayumi, e provò protezione. Bizzarro. Doveva essere lei, la protettiva – e non la protetta.

 

Si riscosse, scuotendo le spalle e la testa, frustando l'aria con le ciocche bianche. Allontanatasi dall'abbraccio confortante del bruno, tornò dritta, e tirò un profondo respiro. Infilarono il diario della strega nello zaino di Yuki e lasciarono quella polverosa e vecchia camera da letto, giungendo alla stanza principale, dove si trovava il calderone, l'angolo con i giocattoli.

Non avevano altro da vedere, in quel luogo. E tutti e tre, speravano solo di non doverci più tornare.

Takeshi aprì la porta e un'ondata di luce diurna li travolse, accecandoli per pochi secondi; l'albina si coprì il viso con il braccio, chiudendo gli occhi mentre una sensazione di bruciore le percorreva la pelle.

«Ma tu... », Yuki sentì la voce di Sayumi, lo stupore e il pizzico di ansia. «Che ci fai qui? Vuoi di nuovo far cadere la mia amica da qualche palazzo?».

Allora la mezzosangue spostò l'avambraccio e finalmente tornò a vedere.

 

Di fronte a loro c'era Kazumi.

 

Kazumi Akawa.

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Capitolo 20
*** Vissuto più che abbastanza. ***


20.


Come un cervo quando percepisce un pericolo, e drizza le orecchie, spalanca i grandi occhi e salta sulle sottili gambe – Yuki sguainò la spada giapponese e la indirizzò dritta davanti a sé. La sua mano la brandiva dall'elsa come se ne dipendesse la sua vita.

In quella morsa d'acciaio, la mezzosangue albina fissava la donna dai capelli rosso amaranto, le squadrava il viso, cercava un indizio che la ricollegasse a Charlotte. Il suo intero corpo, tuttavia, era celato da una lunga mantella verde scuro, sotto il cui orlo spuntavano solo le punte degli stivali color castagno.

Sayumi fece un passo, mise i pguni sui fianchi. Piccata, la ragazza non mostrava cenno di paura. «Che ci fai tu qui? Ci stai spiando, per caso? Hai detto che volevi i suoi occhi, noi li stiamo cercando», esclamò tutto d'un fiato. «Ma soprattutto... », le sue guance si colorarono e inarcò le sopracciglia, rabbiosa. «Come osi presentarti qui con l'aspetto della signora Kazumi?!».

 

A quella domanda – se domanda si può chiamare – la donna aprì la bocca, ma le parole non uscirono. Seguì silenzio, in cui i tre ragazzi attesero una risposta.

«Non... non so che cosa dire... », cominciò la finta Kazumi. «... di sicuro non mi aspettavo un tale comitato di benvenuto... e nemmeno di incontrarvi qui». C'era qualcosa di strano. Il suo tono era meravigliato, incredulo, forse sul punto di rompersi in lacrime. Le labbra e la voce stessa vibravano come le corde di un violino.

 

Takeshi socchiuse le palpebre. Probabilmente si sbagliava. Era un presentimento campato per aria – rischiava di ferire Yuki, anche solo pensandoci. Eppure non poteva farne a meno, più osservava i movimenti del suo corpo, più lui ci credeva. «Tu sei... Kazumi? Sei la Kazumi», deglutì. «che abbiamo perso tre anni fa?».


Yuki e Sayumi si voltarono, senza parole, verso il bruno. Lo fissarono sbalordite. Ma non poteva essere. Non poteva essere lei. Non la stavano cercando, eppure l'avevano ritrovata... lì? In Irlanda? Il destino non poteva essere così beffardo con loro. E se fosse, invece, tutta una tattica di Charlotte? Anche se il motivo non le appariva chiaro, Yuki non poteva fidarsi.

La donna che si era palesata, tale e quale a Kazumi, dalle ciglia scure degli occhi fino alle sfumature fulve dei capelli... sì, dall'aspetto nessuno avrebbe potuto notare la differenza. Poi Yuki ricordò un particolare; la prima volta che si erano incontrati, il suo mignolo destro era sprovvisto di ben due falangi. Perché Charlotte non aveva trasformato anche il suo dito?

Era un piccolo dettaglio, eppure Takeshi se l'era ricordato, quando l'aveva vista sul cornicione dell'edificio, in città.

Possibile fosse solo una svista?

Oppure, può cambiare il suo aspetto fino ad un certo punto?, pensò, forse, e dico forse, non può aggiungere qualcosa che le... manca. Non puoi cambiare qualcosa che non hai.

 

Yuki tornò a fissare la donna. «Fammi vedere la tua mano destra».

«La mia... », l'altra increspò la fronte. «Vuoi vedere la mia mano destra. Lo farò, se è quello che vuoi». Scostò il mantello, facendo spuntare il braccio all'esterno. Lo sollevò, portando la mano, aperta e girata di palmo, all'altezza del suo capo.


I ragazzi trattennero il respiro.

C'erano tutte. Tutte le falangi. Ogni dito era della lunghezza giusta. La pelle bianca, il palmo liscio. La mano di chi aveva letto centinaia di libri e accarezzato, che aveva protetto, amato. Era la sua mano.


«Yuki», sussurrò Takeshi.

«Lo giuro. Lo giuro su qualsiasi entità ci sia in questo mondo». Yuki chiuse i pugni. Le unghie penetrarono la pelle, marchiandosi del suo stesso sangue. Nella forza che ci metteva, c'era un enorme debolezza. «Se sei Charlotte e mi hai fatto di nuovo questo scherzetto, ti ammazzo. Stavolta ti ammazzo davvero». Tuttavia qualcosa le diceva che quella era sua madre. Qualcosa le suggeriva che l'aveva ritrovata.

Ti prego. Ti prego. Fa che sia lei.

La mezzosangue guardò sua madre. Gli angoli dei suoi occhi erano bagnati di lacrime. «Sei mia madre?».
Kazumi schiuse la bocca, con il labbro inferiore esitante. Lentamente, il braccio tornò in basso, e lo sguardo oro seguì il movimento, inchiodandosi all'erba sotto ai suoi piedi. Le spalle coperte dal mantello erano scosse da sussulti.

Kazumi sollevò la testa. Un sorriso le illuminò il viso e una calda luce le incendiò lo sguardo. «Sì, tesoro. Sono la tua mamma. Io... mi sei mancata tanto, lo sai?».

Yuki si buttò fra le sue braccia. Stavolta, l'aveva ritrovata davvero. E non l'avrebbe persa. Non l'avrebbe persa mai più.

 

 

 

 

***

 



 

 

Yuki lasciò cadere la katana sul letto, con un rumoroso sospiro. Poi, a sua volta, si abbandonò sul bordo del materasso, rischiando di cozzare la gamba contro il comodino. Non era mai stata tanto contenta di avere una stanza d'albergo.

Onestamente, era tanto stanca quanto felice e... confusa. Si piegò in avanti, abbassando la zip di uno stivale; si rendeva conto che, man mano che proseguivano, alcune cose diventavano chiare e, allo stesso tempo, nascevano nuove e sinistre circostanze. Yuki pensava alla casa che avevano visitato, al diario, alla prima strega costretta a vivere nella solitudine. Insieme ad un dio, per la precisione. Era come se Baphomet volesse condividere la sua solitaria esistenza con qualcuno... una povera creatura, pescata in un mare di altri deboli esseri umani.

Yuki pensò a sua madre, che era ricomparsa. Avevano dovuto smettere di cercarla quando Takeshi aveva cominciato a stare male. Che fine aveva fatto Kazumi in tutti quegli anni?

 

Tolti gli stivali, si fermò a fissare il pavimento davanti ai suoi piedi. Se ragionava da sola su quelle questioni, sarebbe impazzita, presto o tardi. Doveva parlare con Takeshi e gli altri. Doveva sentire se i fratelli Tanigawa avevano trovato qualcosa.

Si premette le tempie con i polpastrelli.

 

«Yuki, tesoro? Ti posso disturbare un attimo?», disse Kazumi, in un tono delicato e leggero.

Le dita dell'albina, puntate alla testa, ebbero un guizzo nervoso. Lei si voltò verso la porta, sorridendo stanca. «Direi che dopo tutto questo tempo separate puoi anche mettere da parte le buone maniere e la privacy».

Kazumi, ormai priva del suo mantello verde, rispose alla battuta con un sorriso – ed entrò nella stanza. Si avvicinò alla finestra, soffermandosi ad osservare il cielo che cominciava a scurirsi, tingendosi di colori aranciati e di fuoco.
Yuki guardava sua madre, il viso di una bellezza immutabile. Il sole le sfiorava il profilo, colorando le labbra, il naso, le sue ciglia. Adesso che erano da sole – anche se per poco, probabilmente – lei era certa si trattasse di sua madre e non di un scopiazzatura.

Anche se i suoi vestiti erano molto diversi. Kazumi non aveva indosso un vestito di seta o di raso, lo scialle intorno alla schiena, i tacchi che rimbombavano nella loro vecchia casa.
Aveva sostituito tutto ciò con pantaloni aderenti verde mimetico, stivali castagno lunghi fino al ginocchio, un busto grigio scuro che le fasciava il torso, decorato con cinture. Alle braccia aveva manicotti neri, alle mani guanti senza dita.

 

«È passato molto tempo», bisbigliò la vampira. «Davvero molto tempo».

Yuki sussultò. «Tu... di che parli?».

«Dell'ultima volta che ho provato una sensazione come questa. Di sollievo. Non guardavo un tramonto con questo stato d'animo da così tanto... avevo dimenticato di quanto ne avessi bisogno. Questi tre anni, d'altro canto, non sono stati altro se non un continuo sperare. Cercare, resistere. Ad un certo punto, tutto questo diventa troppo». Kazumi si voltò verso Yuki. Aveva un espressione triste. «Mi dispiace, non vorrei apparire così pietosa ai tuoi occhi, tesoro».

«Non dirlo nemmeno», l'altra si alzò in piedi. Il parquet sotto la pianta era tiepido. «Davanti ai nostri nemici, devi essere forte. Ma davanti a me... sei mia madre», Yuki l'avrebbe trattata come tale. «e sei una donna piena di risorse, coraggiosa e determinata».

Kazumi accennò un sorriso malinconico. «Penso tu voglia sapere cos'è successo in tutto questo tempo». Fece una pausa. Ricordarlo era doloroso. Come se fosse accaduto qualche minuto prima. «Da quella notte. Quando tuo padre fu assassinato».

 

Prima di rispondere, la mezzosangue rifletté attentamente. Non voleva pressarla. Se da una parte appariva più intrepida che mai, dall'altra era chiaro come fosse provata dagli eventi passati. «È così. Io... ero partita per cercarti, ero certa fossi viva, da qualche parte là fuori. Lo sapevo perché... ».

Stupita, l'albina sbatté le ciglia un paio di volte. «Come fai a... ?». In quel momento, però, la porta lasciata socchiusa cigolò pian piano. Sulla soglia c'erano Takeshi e gli altri, che adesso si scambiavano gesti, intimandosi fra loro di far silenzio.
Le due donne Akawa si lanciarono un'occhiata. Kazumi era pronta a vuotare il sacco. «Ti spiegherò tutto da principio. Dalla notte in cui abbiamo perso la nostra casa e... l'uomo che ci ha sempre amate. È una storia lunga, ma ti chiarirà le idee».

 

 

Pochi minuti dopo, raccolti nella camera d'albergo di Yuki e Takeshi, Kazumi Akawa cominciò il suo racconto.

«Voi tutti, quella volta, avete combattuto con le unghie e con i denti, proteggendo la nostra casa e ciò che rimaneva del nostro nome. Della nostra famiglia. Ve ne sono grata. Non ve l'avevo ancora detto, no? Quindi grazie, per aver protetto Ai, per aver lottato affianco di Yuki – e per non essere morti... anche voi.
Frattanto che voi stavate rischiando la vita, io ero da sola nella camera da letto. Fissavo l'arredamento di quella camera. L'avevo scelto io, perché ad Oseroth non importava un accidenti di quella roba. Ed ormai non importava nemmeno a me. L'avevo perso. Che senso aveva?

Era un dolore talmente forte da aprirmi il petto in due. Ah, tanto valeva... », Kazumi fece una smorfia. Era meglio interrompere quel flusso di parole. Riprese, con uno nuovo. «Fu in quel momento che venni attaccata da uno di quei cani. Le bestie affamate di sangue e carne di Alyon. Mentre sprofondavo nella sofferenza, un uomo aveva distrutto la finestra, era entrato e si era lanciato su di me.
Non sono una cima, nella difesa. So sfruttare parte dei miei poteri, ma non mi è mai interessato svilupparli. Per questo motivo, non riuscivo ad avere la meglio contro di lui. Mi spostavo velocemente da un punto all'altro della stanza, sollevando tende, lenzuola, cercando di schivare le sue aggressioni. Mi fiondai sulla porta e lì fui afferrata da un braccio e lanciata in direzione della finestra, aguzze zanne di vetro.

 

Atterrai con la schiena al davanzale, lacerandomi schiena e braccia. Lui – il mio sicario – si voltò verso di me. Guardandolo, capii che quel cane stava giocando con me. Con la mia vita. Così come avevano fatto con Oseroth. Quelle consapevolezze accesero in me una rabbia abbastanza forte da farmi combattere.
Lui scattò verso di me, io aspettai. Mi afferrò dal collo con la sua mano, mi sollevò di alcuni centimetri e con un gesto violento mi lanciò oltre la finestra – se non fosse che l'avevo preso a mia volta, dai suoi vestiti, portandolo giù con me. Durante la caduta riuscii a ribaltare le posizioni, così atterrai su di lui, in mezzo all'erba, ai fiori, alla terra. Lui fece uno scatto con i suoi artigli, mirando alla mia giugulare. Io, invece, gli affondai la mano nel petto.

Nella mano stringevo il suo cuore. Pulsava così forte da farmi tremare il braccio. Ero invasa dal suo sangue. Strinsi la presa, lo vidi contorcersi dal dolore, sbarrare gli occhi agonizzante. Chiusi il pugno, schiacciando il suo cuore nella mia stretta. 

Rotolai a terra, mentre il suo corpo si dissolveva in polvere sporca. L'erba bagnata e la neve che si era depositata mi lambivano le guance, le braccia e la schiena ferite. Avevo il fiato corto. Ce l'avevo fatta, però. Ero viva, anche se avevo dovuto uccidere qualcuno», scosse il capo. «A quel punto, con metà braccio ricoperto di sangue, sapevo che dovevo raggiungervi il più in fretta possibile. Avevo già alzato una gamba, quando udii due voci. Una di loro la riconobbi all'istante. Era la voce di mio fratello Alyon. L'altra, invece, era quella di una donna.

A giudicare dal volume, dovevano essere ad una decina di metri da me. Restai a terra, impietrita. Se mi muovevo e uscivo allo scoperto, avrebbero cercato di uccidermi? In quel momento non pensai ad altri scenari, quindi restai immobile. Lontano, sentivo le urla, degli spari, rumori di ogni sorta. Da quest'altra parte, solo due voci che parlottavano fra loro, con calma.
Discutevano di un patto, di un incantesimo che andava portato a termine, se le cose fossero andate male per Alyon; la voce di donna gli diceva che, se lui avesse perso quella scommessa, lei avrebbe completato l'incantesimo, come pattuito... e che tu, Yuki, saresti stata sua. In un modo o in un altro.


So che potrà sembrarvi davvero stupido, eppure... ora sapevo che mia figlia era ancora in pericolo. Mio fratello non si era arreso e, a quanto pareva, si era persino messo in combutta con una strega. Se parlavano di incantesimi, allora non poteva essere diversamente.

Decisi, con la neve sciolta sul viso, che li avrei seguiti – dovevo proteggerti, tesoro.

 

A quel punto, dovevo solo aspettare che si allontanassero, e poi avrei potuto pedinarli. La donna disse che il suo lavoro, per il momento, era giunto al termine, e che sarebbe tornata in Irlanda. Mio fratello le augurò buon viaggio. Scese il silenzio. Non avevo sentito rumori di passi.
L'istante dopo, qualcuno parve muoversi, brancolando nella fitta vegetazione, adesso colorata di bianco. Con orrore, pensai che forse avevano annusato l'odore di sangue, o che persino Alyon avesse riconosciuto il mio. Non successe nulla. Ancora oggi, mi chiedo se lui sapesse che ero lì.

Quando finalmente fui sola, mi rimisi in piedi. Non avevo idea di dove potesse essere Alyon, ma sapevo che la strega era tornata in Irlanda. Sarei andata lì, a cercarla, a fermare qualsiasi incantesimo stessero elaborando.
Sebbene si trattasse di mio fratello, non credo che ormai fosse possibile parlare con lui, farlo ragionare, o semplicemente uscirne viva: potevo solo sperare che la strega fosse un minimo più assennata.

Partita per l'Irlanda, ci misi poco più di due mesi a scovare quella donna. Era furba. Si spostava di continuo, conscia di essere cercata, erigeva barriere, nebbie, camuffava il suo aspetto. Credeva volessi darle la caccia, dato che ero un Akawa? Dunque, la mia unica alternativa era dimostrarle che non avevo cattive intenzioni. Trovai il suo emporio in Irlanda, a Waterford, e di fronte all'edificio le parlai.
Le dissi che avevo bisogno di parlare. Che volevo salvare le mie figlie. Che forse anche lei era stata una figlia, e poteva comprendere il mio desiderio. Dopo un po', la porta dell'emporio si aprì, e Charlotte Duane fece la sua comparsa. Era lei. La strega di Alyon.


Fu quella sera che scoprì della tua morte – e di quella di Alyon. Che siete morti combattendo fra voi. Charlotte, che aveva occhi ed orecchie dappertutto – letteralmente – lo sapeva. Erano passati pochi giorni, era stata una sorpresa anche per la strega», ricordando il dolore provato, Kazumi si posò una mano sul cuore. «Stentavo a crederci. Pregai fosse una bugia. Invece... era così. Vi avevo persi, non avevo fatto in tempo. Ora cosa avrei fatto?

Charlotte – magari spinta da una goccia di pietà – mi disse di che incantesimo si trattava. Perché Alyon lo desiderava. Alle sue parole, mi sentii persa, distrutta».

Takeshi inspirò profondamente. La sciagura che gravava sul suo petto.

«Uno scambio». La vampira premette le labbra. «Uno scambio di vite. Tu e la tua anima, Takeshi, scomparirete nell'oblio. Il tuo corpo diverrà un involucro vuoto per pochi attimi. Poi, l'anima di Alyon e la sua essenza lo occuperanno. E così, lui tornerà nel mondo dei vivi».








***







 

La piccola stanza si riempì di tensione. Paura. Ghiaccio. Le ultime rivelazioni della donna avevano sconvolto ognuno di loro. Quasi avrebbero preferito non ascoltarle affatto.
Takeshi era seduto sulla sedia, ai piedi del letto, e Yuki gli stava accanto. Sayumi era al centro del letto, i Tanigawa in piedi vicino alla finestra. Kazumi, che aveva raccontato fino a quel momento, era seduta davanti a tutti loro.

La mezzosangue attese. Attese che quella grossa e pericolante crepa spaccasse il vaso.

Pensava di aver liberato il mondo da Alyon, le sue vittime, le loro vite. Pensava fosse finita. Morire sul palcoscenico non era servito a niente, a quanto pareva.

 

«Perché io?», fu la domanda di Takeshi – in un sussurro, basso, appena udibile.

Kazumi sospirò. «Perché sei stato a contatto con lui. Alyon... quella volta, quando Yuki venne rapita da Ryuu e Juri, lui ti aveva immobilizzato. Ricordi?», spiegò. «”Il primo umano da lui toccato diverrà il vettore”».

Tetsuya sgranò gli occhi. «Quella volta... ».

 

Quindi funzionava così. Takeshi era stata una vittima sfortunata? – no, lui l'aveva programmato. Lui voleva Takeshi come corpo in cui rinascere. Desiderava lui. L'aveva detto anche quando era in vita, su quel palco di morte, impregnato di sangue scuro – quando ti trasformerò in vampiro, mi amerai.

Gli sarebbe andata anche peggio: la sua anima sarebbe stata sottomessa da quella dell'empio vampiro. Le dita, appoggiate sulle ginocchia, gli tremarono leggermente. «Okay. Ho capito». Doveva calmarsi. Doveva calmarsi. «Voleva un assicurazione sulla vita. Non voleva morire. Sembra sensato, da parte sua». Takeshi si sentì stupido – se solo avesse dato retta alle sue ultime parole; tutto ciò che aveva detto la mattina dello spettacolo corrispondeva al vero. Lui sarebbe divenuto il suo fedele prigioniero, loro non erano in grado di ucciderlo.

 

«Ma... dalla morte di Alyon sono passati tre anni», osservò Sayumi, balbettando. «È trascorso parecchio tempo... Charlotte ha deciso di agire adesso. Perché?».

«Questo non me l'ha detto», rispose Kazumi. «Credo... sia legato alla sua magia. Alle sue capacità».

«Da quello che ho studiato», intervenne Keiichiro. «malefici, maledizioni, sciagure sono incantesimi che richiedono una grande quantità di energia. E potere», il vampiro scrollò le spalle. «Rischiava la vita. Doveva prepararsi molto bene».

 

Tornarono in silenzio. Yuki stringeva la mano di Takeshi. Tante informazioni. Ora più che mai, i ragazzi dovevano fare in fretta e trovare quei dannati occhi.

«Dopo che Charlotte mi parlò di tutto questo... », Kazumi teneva gli occhi a terra. Nel suo sguardo c'era una specie di nebbia, mentre rievocava i ricordi. «... pensai che c'era solo una cosa che potevo fare per te, Yuki».

La mezzosangue la ascoltava attentamente.

«Potevo solo liberarti dalla spada. Da Anima».

«Dalla sua prigionia».

Kazumi annuì. «Volevo sciogliere la maledizione che ci legava ad Anima. Un piano ambizioso, vero? Non a caso nessun Akawa è riuscita a scamparsela, fino ad ora». Abbozzò una risata, debole, che andò scemando lentamente, fino a ridursi ad un piccolo sorriso. Poi, un velo di serietà calò sui suoi lineamenti. «Stavo per iniziare a parlarvi della prima strega. Ma, a quanto pare, mi avete preceduta. Voi tre siete stati nella sua dimora, deduco abbiate carpito qualcosa».

«Meglio», o peggio? «abbiamo trovato il suo diario», rispose Sayumi. «C'erano scritte un po' di cose. Molte di quelle non erano chiarissime, però».

Takeshi, che fino a quel momento aveva vagato altrove con la mente, chiuse le mani in pugni rigidi. Le dita dell'albina, sopra al suo pugno destro, gli accarezzarono le nocche. «Quel Baphomet. L'ha costretta ad una tale agonia... ».

«... e le ha ordinato di incidere una maledizione nella lama di una katana. Per intrappolare tutte noi», guardò sua figlia. «Tutte noi Guerriere Dorate».

Yuki sbarrò gli occhi. Era questo il compito che le aveva affidato? «E infine, tenerci tutte nel suo regno... ».

Kazumi non rispose.

 

Questi erano i piani. «Tutto questo è folle... ». A Yuki venne da ridere. Come mai complottavano tutti contro di loro? Come mai non venivano lasciati in pace?

Perché le creature soprannaturali non erano capaci di vivere in pace – senza portare scompiglio e distruzione.

Suo zio che cercava di tornare in vita, servendosi di un umano, un Dio pagano che comandava, streghe che compivano maledizioni.

 

Perché quel mondo era così malfatto? Cosa c'era di sbagliato in loro?








***






 

«Starà percorrendo il sentiero giusto?».

«Me lo domando anch'io. Di strade alternative ce ne sono a bizzeffe».

«Tu credi che... dovremmo provare a dissuaderla?».

Fecero una pausa, entrambi. «No. Non ci ascolterebbe, in ogni caso».

«Non ascolta mai nessuno».

«È questo che mi preoccupa. Quando la guardo, ho sempre paura... ».

«Hai paura per lei, è lecito da parte tua. Sei sempre stata apprensiva».

«Per lei lo sono ancora di più». Una risatina. «In ogni caso... ».

 

Yuki li seguiva in silenzio, limitandosi a guardare le loro schiene da dietro – una bambina obbediente, troppo spaventata per rispondere. Erano immersi in un sentiero buio, costellato da quelli che sembravano arbusti. Vedeva le figure di quei due, contornate dalla luce della lanterna che lui reggeva nella mano destra.

Una delle due schiene era esile. Una cascata di capelli biondi oscillava, sinistra, destra, coprendo la sua silhouette fino alle ginocchia.

L'altra aveva spalle larghe, fianchi e vita stretti, fasciato da una giacca nera. I suoi capelli erano riccioli di petrolio.

Al loro passaggio, l'erba verde si risvegliava, innalzandosi verso il cielo. Non si giravano verso di lei.

 

«Ah, si è svegliata», disse la donna. «Dorme parecchio, quando vuole».

«È una caratteristica che non mi è nuova».

«Certo. Perché è la tua».

Lui rise. «Troverò un difetto in te, prima o poi», il suo tono si indebolì di allegria, trasformandosi in profondo, serio. Come se stesse per darle una brutta notizia. «Ascolta, noi... ».

Lei scostò leggermente il viso, fino a ché la punta del suo naso non fu appena visibile per Yuki.

«Noi vorremmo che tu ci pensassi un secondo», continuò lui. «Hai mai pensato che potresti, semplicemente... andartene? Lasciar perdere?».

«Pensaci un attimo»

«Non sei stanca di combattere? Di cercare di», corrugò la fronte. «fare più del tuo meglio, fino a perdere il senno, fino a non sentire più i legamenti del tuo corpo?».

«È troppo anche per te. Lo diciamo per il tuo bene».

«Quindi, considera questa possibilità. Tu puoi sempre andar via. Ricominciare altrove. Riposarti, finalmente».

«Chiudere gli occhi... e dormire».

Si zittirono. Quindi, lei continuò al posto di lui.

«Tu stai cercando di salvare qualcuno che forse non può essere salvato. Per amore. Noi ci abbiamo provato a salvarci».

«Non ha funzionato».

«No. No, infatti».

«Eppure, per noi va bene così. Abbiamo accettato il destino così come ci è stato servito. Anche se non è andato come l'avevamo pensato».

«Esatto. È così».

Insieme, dissero: «L'abbiamo accettato perché lo meritavamo».
 

Poi, seguì silenzio. La luce della lanterna si spense, il duo di fronte a lei si voltò, finalmente. Nel buio, Yuki aprì le labbra – urlò, a pieni polmoni.

«Bugiardi».










***









 

«Ehy, bellezza».

Sdraiata supina, le braccia abbandonate sullo stomaco, Yuki percepì qualcosa graffiarle le orecchie. Erano graffi veloci e irregolari che partivano dal lobo, per poi continuare fino al padiglione auricolare. «Dobbiamo parlare, noi due», eccolo di nuovo. Stava sognando? Si era svegliata? – che sogno strano. Sentiva brividi su tutto il corpo.

Le palpebre si muovevano impercettibilmente.

Piccole scosse, tremolii, reazioni a quelle fastidiose punture alle orecchie. Poi, un soffio freddo le scompigliò i bianchi capelli sulla fronte, le scostò dalle gambe il lenzuolo fiordaliso. A quel punto, Yuki spalancò gli occhi.

Ruotò la testa in direzione della finestra, quindi alla sua destra – era aperta. Con la bocca serrata, Yuki fissò la figura di Charlotte, che se n'è stava bellamente seduta sul davanzale, avvolta dal vento notturno. La luna illuminava un lato del suo viso e del corpo; la sua gelida luce gettava morbide ombre sulle gambe, che sporgevano fuori dalla finestra, e sul braccio sinistro appoggiato alla coscia. Marcava la guancia e lo zigomo, la palpebra e un occhio, il grigio diveniva quasi bianco, mentre l'altro, in ombra, si trasformava in metallo.

Un ghigno le disegnava le labbra. Piccole fossette ai lati della bocca, lo sguardo si stringeva e affilava.

 

Yuki, immobile – ed ora sprovvista delle sue coperte –, guardava la figura della giovane strega – giovane? Non ne era mica tanto sicura. Allora, spostando lo sguardo sulle proprie ginocchia, la mezzosangue tirò su la schiena dal materasso. Lentamente, come se stesse spostando una tonnellata. Come se, attaccate alla sua schiena, ci fossero un paio di tossiche ali di platino.

Con voce di tomba, Yuki bisbigliò. «Che vuoi?».

«Parlare. Voglio parlare», rispose, senza scomodarsi ad abbassare il tono. «Mi concederai l'onore, non è così?».

Lo stava chiedendo, ma ovviamente Yuki non aveva una scelta. Sospirò, un profondo sbuffo, seccato e stanco. Spostò le gambe e mise un piede a terra, poi anche il sinistro. Alzò gli occhi su Charlotte, con una fitta ombra sul viso. «Okay. Usciamo. Non voglio svegliare nessuno».

Charlotte sollevò la mano sulla coscia e, immersa dalla luna, la sventolo avanti ed indietro. «Non ce n'è bisogno. Ho innalzato una chiusura, così nessuno può sentirci».

«Una... chiusura?».

«Ah-ah. Prendila come una... cerniera trasparente. Puoi alzare la voce quanto ti pare – te lo dico, nel caso tu abbia voglia di strillare».

L'albina inarcò un sopracciglio, si voltò verso Takeshi, profondamente addormentato accanto a lei. Girato nella sua direzione, i capelli scuri cadevano scarmigliati sulle palpebre chiuse. Le labbra carnose erano appena aperte e un sottilissimo respiro le valicava. Ancora una volta, Yuki sentì il bisogno di controllare che fosse vivo. Rimase sospesa a guardare il ragazzo.

Girò il torso, e tornò a Charlotte Duane.


«Okay. Che c'è?».

«Giusto. Tu non perdi tempo con i convenevoli, eh?», Charlotte chinò la testa leggermente in avanti. Una ciocca della frangia le cadde oltre il ponte del naso. Rimase in silenzio. Per alcuni attimi, si udirono solo gli scricchiolii del pavimento. Infine, Charlotte alzò la testa. «Avete trovato il suo diario. Uno dei tanti, ma per lo meno, quello utile. Avete trovato la sua vecchia dimora». Sorrise. «Un bel lavoro, devo ammetterlo».

«Già, quel posto. Tu avevi già intenzione di andarci. Ma non l'hai fatto. Perché no?», la mezzosangue increspò la fronte. «E soprattutto, nell'ultima pagina c'era una frase; “se è l'unico genitore a cui ambisci, se è il suo sguardo d'ombra che vuoi incrociare, il rosso dovrai donare e la lama dovrà versarlo e mani dorate dovranno brandirla”», Yuki fece una pausa. «“Per Charlotte, se vorrai cercarmi”. Hai qualcosa da riferire?».

Alle domande della ragazza, la strega stette zitta. Inaspettatamente. Sembrò turbata, anche se poco, e frustrata. Ma quella strana ed inconsueta espressione mutò presto, tornando al sorrisetto furbo. «Sì, hai di certo molte domande».

«Risponderai oppure no? Altrimenti torno a dormire. A tua differenza, sto cercando di fare qualcosa di importante».

«Ma anch'io! Sfruttare gli altri per ottenere qualcosa è importante». La mezzosangue ringhiò sommessamente. Charlotte si lasciò andare ad una risatina divertita. «Okay, ascoltami; in primo luogo, non è una frase. A giudicare dalla struttura, si tratterà di un incantesimo», continuò. «Non ci sono andata perché in quella casa ci avevo vissuto già abbastanza. Pardon, ci aveva vissuto, in particolare, la donna che mi ha strappata dalla mortalità».

Yuki era sorpresa, non si aspettava una simile risposta. Non disse niente, attese che la strega continuò. Charlotte non aveva nessuna voglia di andare avanti, sebbene avesse sospettato che quell'argomentato sarebbe saltato fuori, se lei si fosse recata dall'Akawa.

Alzò le spalle, dunque riprese. «Vediamo... ah, sì, avevo sette anni. L'ultima volta che vidi i miei genitori e i miei fratelli, intendo. Poi, un bel giorno, arrivò una donna a casa nostra», Charlotte sorrise verso la luna. «e mi rapì».

È stata rapita da bambina?, pensò Yuki, questo spiegherebbe molte cose.

«Non lo considerai un rapimento, all'epoca. D'altro canto, si trattava di mia nonna. Sì, mia nonna mi prese con sé, quand'ero solo una graziosissima ragazzina e... non mi fece più tornare indietro, dalla mia famiglia», alzò le spalle, ci si chiuse dentro, come se si trattasse della cosa più normale del mondo. «Pensai, “forse vuole tenermi al sicuro, dato che le persone sembrano impazzite, là fuori”. Sai, no, con la Guerra delle due rose, sembrava di rischiare la pelle solo a mettere il naso oltre la porta. Ma il 1472 era così. La cosa più divertente è che a noi irlandesi importava ben poco: avremmo continuato ad essere considerati feccia. Non importava chi ci fosse lassù».

La mezzosangue distese i lineamenti. Non era sconvolgente. I suoi stessi genitori erano nati durante il 1800. Tuttavia, Yuki non si era mai soffermata a riflettere sugli eventi di quelle epoche. Lei e sua sorella erano nate nella modernità. Nel comfort. Nella sicurezza – beh, relativa sicurezza.

«Era una catapecchia, eravamo poveri da fare schifo, ma... non era poi tanto male... ci stavi bene».

«Perché tua nonna ti portò via?», domandò l'albina.

«Me lo sono chiesta anch'io. Per molte notti. Fissavo il soffitto, l'enorme specchio appoggiato al muro – lo stesso che hai conosciuto personalmente –, e mi domandavo: eh? Che ci faccio ancora qui?». Se ci ripensava, a volte se lo chiedeva ancora. Perché proprio lei? «Pochi giorni dopo, capii perché aveva preso me: per trasformarmi in una strega».

Yuki ripensò al diario. «È... stata lei a farti diventare così?».

«Così? Non è che sono un mostro a tre teste, eh. Ho solo immensi poteri che sfrutto a mio piacimento e che potrei impiegare in distruzione e caos».

«Sì, già».

«Cosa stavo dicendo? Ah, già. La trasformazione. Il divenire qualcosa di superiore», mormorò. «Raggiungere Baphomet e vegliare su demoni e vampiri, dal basso del suo regno».

«Insieme alle altre streghe... ». Yuki sbatté le palpebre. A quel punto, aveva bisogno di mettersi in piedi. Si alzò dal bordo del letto e, a piedi nudi, camminò fino alla finestra su cui era seduta la strega. Di fronte a lei, ripeté: «Nel diario di tua nonna, ad un certo punto lei ha parlato del regno che si stava “riempiendo”. Le streghe. Stavano andando tutte da lui... da Baphomet».

«Nel suo magico, freddo regno, sedendogli accanto», Charlotte guardò Yuki negli occhi. Era seria. «E mia nonna, come ben sai, fu la prima di loro. Mia nonna fu una risorsa fondamentale per ciò che desiderava Baphomet». Poi scosse la testa. «Ma non è corretto dire che stavano andando da lui. Venivano portate via dalle loro case, rese streghe con i loro dannati rituali. Fu così che il regno di Baphomet si riempì di vita – per quanto spenta fosse».

Yuki si prese il mento fra pollice ed indice. Ma qualcosa non quadrava. «Le streghe sono tutte insieme a lui, dovunque lui si trovi. Perché tua nonna era sulla terra?», sollevò lo sguardo. «Se ti ha strappata via dai tuoi genitori e dai tuoi fratelli, vuol dire che è stata per forza in mezzo agli umani».

«Non so per filo e per segno come funzionino le cose, per lei», rispose Charlotte. «Ma deduco che avesse la possibilità di muoversi tra il regno di Baphomet e la terra. Tramite quell'incantesimo che hai trovato nel suo diario – per trovare altre povere donne da trascinare laggiù... e per accudire me».

La mezzosangue appoggiò la spalla alla parete, un piccolo sorriso divertito sulle labbra sottili.

«Beh, questo Bapho-coso sembra solo come un cane».

«Oh, lo spero vivamente», la strega dai capelli corvini inclinò il capo di lato. «Sono più di cinquecento anni che sono in vita. Vorrei morire anch'io, prima o poi».

«Sei deprimente».


Rimasero in silenzio. La strega aveva parlato molto, a quel punto voleva solo osservare la notte. E Yuki, dal canto suo, aveva molte informazioni da elaborare; tutto quello che le aveva detto le spiegava, infine, che Charlotte era la diretta nipote della prima strega.
Certo, tutto quadrava. Eppure, l'albina era certa che mancasse qualcos'altro – ma non capiva cos'è che voleva sapere; si chiedeva ancora perché Baphomet abbia voluto creare le streghe, i demoni e i vampiri, o dell'ultima frase trascritta nel diario della nonna di Charlotte. Si chiedeva ancora così tanto.

Adesso, forse, avrebbe potuto dissipare uno di quegli innumerevoli dubbi.

 

«Perché desideri così tanto i suoi occhi? Perché vuoi essere così potente?», domandò Yuki. Darle quegli occhi l'avrebbe resa un nuovo temibile nemico? – un imbattibile nemico.

Charlotte sollevò il profilo al cielo. Sul suo viso, immacolato, non vi era espressione. Solo un velo di calma, un vitreo sguardo che aspettava – e aspettava, e aspettava. Il suo desiderio.

«Perché quella donna ha vissuto più che abbastanza».

 

 

 

 

 

 

NOTA:

… Hello! Here we go again.

Circa. Anf, è passato parecchio tempo, eh? Per chi non ha letto la piccola nota nella bio, lo scrivo anche qui; attualmente sono super presa dai progetti e lavori scolastici, il ché mi toglie molto tempo alla scrittura. E siccome non mi va di scrivere tanto per poter pubblicare in tempo, ho preferito prendermi una pausa per poter continuare la storia con i miei tempi. In questo modo, forse, riuscirò a terminare Vampire Devil con un livello di soddisfazione decente.

Passando al capitolo... c'è un bel po' di roba da elaborare. Ho scocciato persino la mia carissima L o t t i e (che trovate su EFP con questo nome, accorrete a leggere i suoi lavori, suvvia) per darci una lettura in anteprima (?), ma fatemi sapere anche voi se c'è qualcosa di poco chiaro. Sarò felice di spiegarmi!

Se volete, fatemi sapere se vi piace Charlotte. Io la amo e la odio.

 

Ci rivediamo al prossimo capitolo, tra più o meno 5000 anni! 

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Capitolo 21
*** Cosa doveva fare per capire un folle? ***


21.




All'orizzonte, sebbene nascosto in parte dalle colore abitazioni irlandesi, Takeshi riusciva a sbirciare il disco aranciato del sole. Come un bambino, cercava di celarsi dagli occhi e dagli squardi della gente, ma i suoi caldi raggi solari lo tradivano, spuntando nelle vie e nei quartieri, disegnando le sagome degli edifici, colorando le chiome degli alberi e i fiori delle aiuole.
Takeshi, con le braccia appoggiate al davanzale del terrazzo dell'hotel, si stava lasciando coccolare dal tepore del tramonto. Con le dita, tamburellava il liscio legno della balaustra, mentre un fiacco e delicato venticello si insinuava tra le siepi e le piante del terrazzo, smuovendole dolcemente.

 

Aveva voluto starsene da solo.

Aveva cercato di farsi forza. Pensava che, ragionando a mente lucida, sarebbe riuscito a non spaventarsi all'orribile prospettiva. Ma trovava quasi buffo che il suo destino, a quanto pareva, fosse molto peggiore di quanto credesse.
Morire? Poteva accettarlo. Era accettabile. Continuare ad esistere, pallidamente, soppresso dall'anima di una creatura come Alyon... no. Quel futuro era spaventoso. Faceva paura chiedersi cosa avrebbe provato, in una tale circostanza. Una piccola parte di lui era quasi curiosa – avrebbe provato dolore? Sarebbe stato incosciente? Sarebbe stato solo uno spettatore, costretto a guardare le atrocità di Alyon?

La sua vincita. E la disfatta di Yuki e degli altri.

 

Alyon aveva fatto tutto ciò – trovare una strega, convincerla ad aiutarlo, rapire Yuki, maledire lui – pur di rimanere in vita e di trasformare il casato Akawa in vampiri completi. Alyon si stava guadagnando il suo posto nel mondo dei vivi con tutto ciò che aveva nell'arsenale.

Ma gli interessa ancora, creare degli Akawa vampiri?, Takeshi ne dubitava.

Dubitava che un essere empio come Alyon provasse qualche sentimento per la sua famiglia, per le sue origini, per la sua appartenenza – magari, un tempo molto, molto lontano, quell'uomo aveva provato davvero dell'affetto per qualcuno.

Ciò che era incomprensibile per Takeshi era che Alyon avrebbe potuto andare dove voleva, vivere qualsiasi vita lui volesse, essere chiunque, lontano dagli Akawa – lontano da Yuki. Eppure, aveva scelto di restare a Yoshino e gettare il seme del caos nelle loro vite.

Takeshi, per quanto si sforzasse di guardare all'interno di quel vaso di pandora, non riusciva a capire. Non ne vedeva il fondo.

 

Chiuse i pugni. Forse, una volta che quella sciagura l'avesse consumato, avrebbe finalmente capito Alyon Akawa.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Kazumi si chiuse il mantello, allacciandolo sopra le clavicole, e si abbassò il cappuccio sul viso. I suoi capelli rossi sembravano petali di un papavero, sbocciati su uno stelo verde scuro.

Yuki la osservò dall'ingresso dell'albergo mentre l'altra scendeva le scale, uno scalino dopo l'altro, prestando attenzione a dove metteva i piedi. L'albina sorrise, sollevata, socchiudendo le palpebre – persino guardandola fra le ciglia, Kazumi era stupenda.

«Sei pronta?», Yuki allungò il braccio verso sua madre, porgendole la sua mano aperta.

Kazumi annuì. «Lo sono. Sono pronta a tornare a casa». Toccò la mano di sua figlia ed entrambe suggellarono quell'amorevole presa. Kazumi era di fronte alla ragazza.
A vederle l'una accanto all'altra, era estremamente chiara la loro somiglianza. Anche se Yuki aveva molto del carattere di Oseroth, l'aspetto fisico era decisamente quello della madre.

 

La donna abbassò le sopracciglia sugli occhi, preoccupata. «Siete proprio sicuri di non aver bisogno dell'aiuto mio e di Keiichiro?», domandò, rivolgendosi anche a Takeshi, Tetsuya e Sayumi.

I ragazzi, alle spalle della mezzosangue albina, le risposero con sicurezza. «Beh, se siamo sicuri... », cominciò Sayumi, grattandosi la nuca. «Non lo siamo proprio al 100%, ecco, però... ».

«È una faccenda che spetta a noi risolvere», continuò Tetsuya.

«L'ultima cosa che vogliamo è mettervi in pericolo», concluse Takeshi.

«Non ora che vi abbiamo ritrovati». Yuki sorrise, nuovamente.

 

Keiichiro guardò in viso tutti quanti, e si fermò su suo fratello. Tetsuya alzò un sopracciglio, spinse le labbra in un broncio, fissandolo con malcelato imbarazzo. Keiichiro ridacchiò. Era proprio il suo fratellino. «Abbiamo recepito il messaggio. Tuttavia», dunque il vampiro sollevò l'indice, indicando tutti e quattro, muovendolo da sinistra verso destra. «avete i nostri numeri di cellulare, adesso. Se aveste bisogno di una mano in più, non fate gli eroi. Fate un po' di affidamento sugli adulti».

«Sarei un adulto anch'io, per tua informazione».

«Vero. E forse sei meglio di me, come adulto. Il punto è che siamo la vostra famiglia, e la famiglia esiste per sostenersi a vicenda».

D'altronde, chi l'ha detto che vampiri e demoni non possono essere parenti amorevoli?

 

Quando il cielo si fu tinto di blu scuro, punteggiato da astri celesti, i ragazzi salutarono Kazumi e Keiichiro, osservando le loro figure mentre superavano il banco del check-in. Kazumi si voltò un'ultima volta, sventolando la mano, un bel sorriso sulle labbra. Keiichiro le fece cenno di abbassare il braccio, esasperato e in imbarazzo da quell'esplosione di energia.

Yuki e gli altri scoppiarono a ridere.

Prenditi cura di Ai. Lei ha bisogno di te.

 

Mentre lei – lei doveva mettere un punto a quella lunga storia.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Di nuovo soli, eh?», osservò Sayumi, accomodandosi sulla poltrona di vimini, schiacciando le pieghe della gonna sotto le gambe.

 

Erano tornati dall'aeroporto, da poco meno di dieci minuti, ed erano saliti in terrazzo. L'indomani, avevano deciso, era il giorno in cui avrebbero provato a raggiungere il regno di Baphomet.

Erano giunti a questa conclusione; avevano trovato l'incantesimo per oltrepassare il regno del dio, trascritto dalla prima strega per sua nipote, Charlotte. Era l'unica informazione degna di nota che avessero davvero fra le mani, forse l'unico modo per incontrare Baphomet, faccia a faccia. I ragazzi dubitavano ci fosse qualche altro metodo. E d'altro canto, se avevano un opzione, tanto valeva sfruttarla subito. Il tempo era prezioso come l'ossigeno.

Avrebbero provato, e se non fosse andata a buon fine... avrebbero continuo a cercare.


Sayumi si spostò una ciocca rosa dietro l'orecchio. «Certo che è incredibile. Charlotte è la nipote di quella poveretta... ed è molto più vecchia di quanto credessimo. Credete che accetterà di effettuare l'incantesimo?».

«Non ha alternative», rispose Tetsuya, seduto accanto a lei, rivolgendo le spalle alla balaustra. «Penso che nemmeno lei sappia esattamente come incontrare Baphomet. Questa è l'unica strada».

Yuki annuì.

«Quindi... domani incontreremo un dio», mormorò Takeshi. «Un dio... vero. In carne ed ossa».

«Se è di carne ed ossa che è fatto».

«Speriamo solo che quell'incantesimo funzioni davvero», sospirò Sayumi. «Yuki-chan, hai detto che Charlotte te l'ha confermato, ieri notte?».

L'albina annuì. «Ha detto che – dal momento che lei è super brava, super fantastica – sa riconoscere un incantesimo e capire subito quale sia la sua funzione. Bah», agitò la mano accanto alla guancia. «partendo da questi presupposti, non mi sento per nulla sicura».
Il cielo, a vegliare sulle loro teste, era buio come petrolio. Se Yuki provava a cercare la luna, trovava solo una sbiadita macchia bianca. Con il collo reclinato indietro, increspò la fronte. La visione di quella debole luna, le dava solo cattivi presagi. Sentiva come la mancanza della sua protezione. «C'è qualcosa che vorrei dirvi». Malgrado il suo sguardo fosse ancora rivolto alla volta notturna, la sua voce era ferma, indirizzata ai ragazzi. E loro, di risposta, piombarono in silenzio, in attesa.
«Volevo dire che... mi dispiace. Mi dispiace che siate stati trascinati in questo assurdo, malato mondo. Mi dispiace che, nonostante voi aveste già i vostri problemi, quelli siano raddoppiati». Le pepite d'oro brillarono, si illuminarono come piccoli soli. «E grazie per essere ancora qua. Per sopportare tutto questo. Siete... ».

Tornò a guardarli. Un sorriso triste le storse la bocca. «Siete unici».

 

Gli altri rimasero in silenzio. Sayumi si guardò le mani sulle ginocchia. Tetsuya socchiuse le palpebre, stringendo un pugno. Takeshi la osservava con le labbra aperte, mentre l'orecchino al lobo ondeggiava lievemente.

«Perché ci stai dicendo queste cose?», sussurrò Tetsuya, senza guardarla.

«Perché volevo farlo».

«Perché hai paura».

Yuki tacque. Paura. C'erano tante cose per cui essere spaventati. Così tante che non sapeva da dove iniziare. Ma ce n'era una, in particolare, che premeva sul suo petto, pesante, arpionando il suo cuore – lei era già morta una volta, ed era stata l'esperienza più spaventosa che avesse mai provato. «Già. Hai ragione, è così. Ho paura», non voleva morire un'altra volta. Non voleva essere... «perché non voglio tornare ad essere sola».

Takeshi le prese la mano. «Yuki... ».

Cocenti lacrimoni le bagnavano gli zigomi, rigandole le guance, bruciandole gli occhi.

Per favore. Permettetemi di stare ancora con loro. Ancora un altro po'.

Tutto ciò che poteva fare – era un ultimo appello.
 

«Ma tu non morirai», esclamò Sayumi. Sollevò la testa, di scatto. I suoi capelli rosa sembravano un fiore in fioritura. «Né tu, né Tetsuya, né Takeshi. Nemmeno io. Noi quattro andremo avanti. Ce la faremo». Sorrise – forte. «Abbi fiducia in noi, in tutti noi. Abbiamo combattuto fino ad ora, abbiamo superato una marea di ostacoli... solo per farci mettere al tappeto ad un passo dal nostro obiettivo?», scosse la testa.

«No», Tetsuya si scambiò un'occhiata con Sayumi, entrambi sorridenti. «Non ho combattuto contro la manipolazione mentale dei miei genitori per poi perdervi a causa di uno stupido complotto. Non importa cosa dovremo fare. Vi verrò a cercare fino in capo al mondo, se necessario». Il vampiro si specchiò nei laghi azzurri della ragazza. «Non credete di potervi liberare di me molto presto».

Takeshi chiuse le dita intorno a quelle della mezzosangue, bagnate dalle sue stesse lacrime. Lei era in silenzio, mentre le voci dei suoi amici le turbinavano in testa. Chiuse la bocca, premette le labbra tra loro, si morse quello inferiore. Era... davvero così fortunata?

«Non sei da sola», e non lo sarebbe mai stata. «Non lo sei più da molto tempo».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

La porta, chiudendosi, non emise un suono, come se fosse diventata astratta. O come se nessuno l'avesse persino toccata. La stanza, in egual modo, sembrava sospesa nel tempo. La luce cerea della notte filtrava dalle tende lillà, illuminando una porzione rettangolare di pavimento. Il letto, invece, era immerso nelle ombre e nelle tenebre, con le sue coperte beige e i cuscini bianchi. L'ambiente intero era tinto di blu, come se fossero sott'acqua.

Yuki rimase qualche istante immobile, osservando la camera dell'albergo. Era strano. L'aveva già vista, più di un paio di volte, da quando erano arrivati in Irlanda. Ora, però, le appariva leggermente diversa.

Pensandoci su, si disse che era per il modo in cui la guardava. La stava ammirando con la prospettiva di una persona lucida. Una persona che si era risvegliata da un lungo grigio sogno.

Poi Takeshi le passò accanto, risvegliandola – quasi sussultò. Il bruno si era già cambiato, e adesso indossava una maglietta nera a maniche corte e dei comodi pantaloni blu, di una tuta qualsiasi. Camminò fino al letto, senza produrre un singolo rumore, e vi si sedette.

«Che dici, ci mettiamo a dormire?», le propose. «Domani sarà una giornata faticosa, sembra».

Yuki annuì lentamente. Lo raggiunse sul letto, mettendosi sul bordo. Si slacciò gli stivali, uno per volta. Arrotolò le parigine, lasciandole scivolare a terra, e si sbottonò la gonna, infine la maglietta a maniche lunghe. Ormai non aveva più problemi a svestirsi di fronte a lui. Immaginò che era così che si sentivano i suoi genitori. Come se vivessero l'uno nella pelle dell'altro, e non ci fosse nessuna differenza.

Indossata la camicia da notte bianca, scivolò nel letto accanto al bruno. Lui le diede il braccio, su cui l'albina adagiò la testa.

Per qualche minuto, restarono a guardare il soffitto, senza parlare.

«Sei stanca?».

«Mmh... chissà. Non lo so nemmeno io. No, non penso di essere stanca».

«Non importa», sussurrò lui. «Non devi saperlo per forza».

«Grazie».

Takeshi fece un sorrisetto. «Dopo l'Irlanda, dove ti piacerebbe andare?».

«Oh, wow. Dove mi piacerebbe, eh? Così, a bruciapelo, non... forse la Transilvania. Dato che per gli umani i vampiri vivono tutti lì, magari hanno ragione».

«Vuoi vedere la Transilvania per incontrare dei vampiri?».

«Scommettiamo che non ce n'è nemmeno uno?».

«Cosa scommettiamo? I possedimenti degli Akawa? Se vinco la scommessa, mi lascerai il letto di camera tua. Mi è sempre piaciuto, è morbido da morire».

«Se ci tieni. E se vinco io... », arricciò il naso. «Cavolo, devo pensarci. Diciamo che mi cedi tutte le tue magliette, okay?».

Si misero a ridere - wow, lui sì che aveva molto da perdere. Tornarono in silenzio per un po', fin quando Takeshi non continuò. «Riesci a credere a quante ne abbiamo passate, insieme?».

«Ah. È arrivato il momento di rivangare i vecchi ricordi... », bisbigliò Yuki, ridacchiando. Takeshi sorrise, inclinando la fronte verso di lei. Il suo sguardo, come al solito, fu attirato dal delicato profilo del suo viso. Le ciglia chiare gettavano una piccola ombra sui suoi zigomi e l'oro delle iridi si perdeva a guardare chissà cosa.

«Prima di una grande battaglia, è tradizione ricordare i momenti passati», disse lui. «Così, per passare un ultimo momento di pace. Nel caso qualcosa vada storto».

«Dimenticavo che sei un finto ottimista».

«Quindi te ne sei accorta».

Yuki sorrise. «Avrei voluto viverti molto di più. Avrei voluto conoscere tutte le tue sfumature, Take. Cavolo. Tutto questo tempo perso», si cacciò indietro un ciuffo bianco. «è ridicolo. E adesso siamo troppo impegnati con un dio per poter... ».

«Per poter stare insieme e basta», sarebbe stata una pessima bugia, se avesse affermato di non aver mai fatto pensieri come quelli. Il tempo gli era stato rubato. E per lui, che era un umano, con una batteria limitata e non ricaricabile, il tempo era così fondamentale. E non gli importava di morire, a dir il vero – gli importava di non poterle stare accanto. «Yuki».

«Sì, dimmi».

«Quando questa storia sarà finita... e se finirà bene, soprattutto, io vorrei– ».

«Finirà bene. Senza se, senza ma. Non esiste un altro epilogo».

Takeshi sollevò gli occhi al cielo. «Allora, quando finirà, e Alyon non avrà più nessun potere sulle nostre vite, io vorrei... ».

«Sì?».

Takeshi si voltò verso di lei. Yuki si girò a sua volta. «Che c'è?», ogni volta che sorrideva, in quel modo rilassato, solo perché per quei brevi minuti si dimenticava delle sue battaglie, lui si sentiva l'uomo più fortunato del mondo. Ringraziava la sua natura di pedinatore per averla seguita, quel tardo pomeriggio. Per averla vista affondare i suoi denti e bere sangue.

Grazie a quella scena, lui aveva trovato la sua strada. «Mi metti in imbarazzo, cosa– », borbottò lei.

«Zitta un po'».

«Ma non ti dai una mossa. Beh?».

«Io voglio sposarti».

Silenzio.

«Come? Cosa?».

«Voglio sposarti, Yuki». Così, distesi su un letto di un albergo, in Irlanda. Con la sua testa sulla spalla, i nasi che si sfioravano. Doveva essere un momento serio ed importante, ma Takeshi non poteva fare a meno di ridere. «Perché sei così sorpresa? Cos'è, non te lo aspettavi?».

«Io... io non... ». Yuki avrebbe davvero potuto dirne tante, in quel momento. Invece abbassò lo sguardo, mentre sentiva tutto il corpo diventare di gelatina. «Anch'io voglio sposarti». Lo guardò. Con le lacrime agli occhi, anche le pupille di un demone diventavano dolci. «Perché ti amo».

 

Un attimo dopo, le braccia di Takeshi le circondavano la vita. Attraversavano la schiena nuda, solcando le colonna vertebrale, indugiando sulle scapole, intrappolando i capelli fra le dita, per poi tornare giù fino ai morbidi fianchi. Yuki gli teneva il viso fra i palmi, con i polpastrelli sulle tempie, e lo sguardo immerso nel suo, seduta a cavalcioni sulle sue gambe, con le cosce ancorate a lui, tenendosi stretta.

Lui le premette leggermente il collo per farla abbassare, fino ad incastrare le labbra nelle sue. E così poteva baciarla, ancora e ancora, imprimendosi a fuoco ogni cosa di lei. Con le mani dell'albina che gli scivolavano sulla mandibola, strofinargli la nuca, aggrapparsi con le unghie alle sue ampie spalle, man mano che il fuoco nel suo ventre si espandeva sempre più. 

Takeshi aprì lentamente le palpebre, guardando gli occhi di lei tingersi di rosso scarlatto, il suo bellissimo ed etereo volto imporporato. Non disse niente, limitandosi a reclinare il capo di lato, ad aspettare – non dovette attendere per molto, prima che le labbra della mezzosangue scendessero sul suo collo. Takeshi sentì la lingua di Yuki sulla pelle, le punte dei canini graffiarlo. Poi, i denti penetrarono nella sua carne, e un rivolo di sangue le imbrattò la bocca.

Takeshi la strinse a sé. Accarezzandola, amandola più di ogni altra cosa, mentre lei beveva il suo sangue, ed una canzone si infiltrava nella sua testa.

Ed era una bellissima melodia.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Fase uno. Precauzione.

 

«Okay, la faccenda è nuova, persino per noi. Quindi... non abbiamo scelta se non andare in qualche posto isolato, il più possibile. Non abbiamo idea di cosa accadrà con quell'incantesimo, se si apriranno le acque del Mar Morto, o che ne so. Opterei per la foresta che abbiamo visitato l'altro giorno, magari possiamo addentrarci fino alla casa della prima strega. Direi che lì non rischiamo di ammazzare dei poveri innocenti».

Scesi dal pullman, stavolta non si preoccuparono di intagliare le cortecce degli alberi per non perdere l'orientamente. Forse era la consapevolezza che con loro ci sarebbe stata una strega, forse fu perché, in quel momento, poco importava perdersi nella foresta.

Era una giornata splendida. Il sole era caldo, luminoso in un cielo azzurrissimo. Tutto sembrava risplendere, miriadi di piccole pietre preziose. Il mondo sembrava in preda ad una festa – mentre Yuki e gli altri marciavano con la stessa energia di un corteo funebre.

Erano tesi, concentrati – perché qualcosa gli suggeriva che quello era il loro unico colpo in canna.

Takeshi aveva levigato le lame dei suoi pugnali. Sayumi aveva preparato erbe medicinali, unguenti, bende. Tetsuya aveva sfamato la sua sete, quel tanto per essere lucido. Yuki si era confrontata con Anima, in una silenziosa chiacchierata.


Fase due. Nervi saldi.

 


«Se uno di noi restasse gravemente ferito... spetterebbe a te, Yumi, occupartene. Ovviamente non esiste che qualcuno venga lasciato indietro, però non sappiamo neanche come sia, laggiù. Quali regole vigono. Potremmo avere più difficoltà del previsto, per cui... te la senti di sovraccaricarti di questa responsabilità? Sinceramente».

Sayumi voleva quella responsabilità. Annuì. «Lasciatemelo fare. Vi terrò in piedi io». Cosicché potesse dimostrare a se stessa – e ad Alyon, se li stava guardando – che non era solo la ragazzina dai capelli rosa che gironzolava sempre intorno alla “regina di ghiaccio”.

Sayumi Ichinomiya era ben altro – una dannata forza della natura.


Fase tre. Cercare di non saltare al collo di Charlotte.

 

 

Quando furono ad una decina di metri dall'abitazione nella foresta, una voce femminile, graffiante, esclamò: «Mi stavo addormentando!», per poi mettersi a ridere. I ragazzi si fermarono, tutti e quattro. Era Charlotte, questo era certo, ma non si vedeva in giro.

«Quassù, moschettieri». Tetsuya spostò lo sguardo più in alto, verso il tetto – ed eccola lì, seduta sul cornicione, con le gambe a penzoloni, i boccoli neri gonfi sulle spalle.

«Cosa vi ha trattenuti? Spero qualcosa di peggio di un dio», si lamentò Charlotte. «altrimenti stiamo messi maluccio».

«Smettila con queste storie!», esclamò Sayumi. «Il tempo scorre, scendi giù».

Charlotte fece spallucce. Slanciò la gamba sopra l'altra e, con un semplice movimento del bacino, si tirò in piedi. L'avevano già notato, ma Charlotte era parecchio agile e fluida, quando si muoveva. La videro fare un passo in avanti, affondare il piede nel vuoto oltre il cornicione del tetto. Atterrò a terra, a poco più di due metri, piegando impercettibilmente le ginocchia. «Mi piace essere desiderata».

«Sarà davvero possibile collaborare con lei?», bisbigliò Takeshi, con un flebile sospiro.

«Ma certo che sì», lo rassicurò la strega, mentre avanzava sull'erba. «Sto solo cercando di sciogliere il ghiaccio fra di noi, ragazzi. Non c'è bisogno di essere così rigidi, non vi mangio mica. Credo che quello», un ghignò le ombrò il viso bianco. «sia più nelle corde dei vostri due amici».

Takeshi serrò la bocca, calcando le sopracciglia sugli occhi.


«Charlotte», disse Yuki – ignorando bellamente le sue frecciate. Nella mano teneva il quadernetto della prima strega. «questo è il diario di cui ti ho parlato. Vai all'ultima pagina». 

L'altra schioccò la lingua, sbuffò dalle narici. Senza troppi complimenti, strappò dalla mano di Yuki il libretto. Era ridotto male, per cui Yuki e gli altri l'avevano sempre trattato con tutte le cure. A sapere che, poi, una caotica strega l'avrebbe agitato come un ventaglio, si sarebbero fatti molti meno problemi. «Dunque, dunque... », Charlotte sfogliò le pagine di fretta, con la punta della dita, fino a raggiungere la fine. Scese in basso, leggendo a mente la frase lasciata dalla prima strega. Da sua nonna.

Annuì. «Questo è senz'altro un incantesimo», disse, per poi rivolgersi agli altri. «È con questo che faceva su e giù dal regno alla Terra. Ci vorrebbe l'aiutino di una Guerriera Dorata, pare».

«Come fai ad esserne così sicura?», domandò Tetsuya, circospetto.

«Perché sono una strega. Fidati», si picchiettò la fronte, un ghigno sulle labbra. «Mi basta un'occhiata per riuscire a vedere fino alle fondamenta di un incantesimo».

«Il ché significa che sai come... praticarlo?», disse Takeshi, aggrottando la fronte.

Charlotte sorrise nuovamente, senza rispondere. Di fronte agli occhi diffidenti dei presenti, scagliò alle sue spalle il diario della nonna. Quello affondò nell'erba, producendo solo un bassissimo tonfo.
La strega cominciò a muoversi. Ciò che stava accadendo di fronte ai loro occhi era molto più stupefacente di quanto avessero immaginato. Avevano visto fulmini, fuoco, corpi trasformarsi in polvere... adesso vedevano una giovane donna, minuta e scaltra, chinarsi per sfiorare con le dita le lingue d'erba e, al suo tocco, l'erba bruciava rapidamente, e al suo posto appariva un solco di terra bruciata. La natura si stava piegando al suo volere? – Charlotte continuò a camminare, lasciando quel marchio al suo passaggio, fino a compiere un cerchio completo. A quel punto vi entrò, e continuò ad eseguire quel gesto, disegnando figure, creando un altro cerchio più piccolo.

A quel punto, si rimise in piedi, pugni sui fianchi. «Ecco qua». Il grosso del lavoro, tuttavia, non era ancora fatto. «Ehy, tu, Guerriera Dorata».

Le spalle di Yuki sussultarono. «Cosa? Che c'è? Hai finito con i tuoi riti satanici?».

«Occorre il tuo contributo, per concludere. Vieni qui nel cerchio».

Riluttante – chissà, magari l'accoltellava – la mezzosangue fece un passo dentro il perimetro.

«Davanti a me», disse Charlotte, e l'altra si spostò di qualche centimetro sulla sinistra.

 

Ora, erano faccia a faccia. Charlotte guardò sul fianco di Yuki, dove pendeva la katana, creata dalla prima strega – per Baphomet, a causa di Baphomet. Ci voleva una Guerriera Dorata, così suggeriva l'incantesimo, ma nel regno del dio non ce n'erano. D'altra parte, sua nonna era il suo braccio destro, quindi presumibilmente le bastava attingere al potere del dio – d'altronde, lui era il padre di tutti loro.

«Ora, fai esattamente come ti dico», sussurrò Charlotte, guardandola dritta negli occhi. «E voialtri, preparatevi a saltare dentro non appena ve lo dico io. Chiaro?».

Yuki si intimò di non staccare i suoi occhi dal viso di Charlotte. Perché dentro di lei, Yuki era conscia che quella ragazza – quella donna – era una potenza, vera e propria, che incarnava la forza e il caos. Ed erano due cose che non dovevano coesistere, non nello stesso corpo.
Forse, però, fu quello il momento in cui la mezzosangue lo comprese appieno. Quella volta, mentre Charlotte apriva le braccia e sussurrava le parole incise sulla carta ingiallita e una nube viola, corposa e densa come i fumi degli Inferi, si sollevava dal cerchio ai loro piedi, circondandole in un abbraccio fosco.
Yuki sentiva la magia di Charlotte impregnare ogni centimetro di quella foresta. Udì il silenzio piombare fra le chiome degli alberi. Il respiro degli animali farsi quieto nei loro petti. Un vento audace alzarsi, simile ad una tempesta.

Yuki estrasse la spada dal fodero, la sua lama brillò quando virò verso il cielo.

 

«Il sangue di una Guerriera Dorata», bisbigliò, poi allungò il palmo bianco della sua mano e abbassò la katana.

Un taglio veloce, netto, repentino – sulla superficie della pelle. Il bruciore non tardò ad arrivare, il sangue sgorgò al di fuori della ferita.

Charlotte appoggiò la sua mano su quella ferita di Yuki, chiudendo le dita intorno al suo dorso. Anima si piegò all'ingiù, verso il prato.

«”Se è l'unico genitore a cui ambisci», pronunciarono, entrambe stavolta. «se è il suo sguardo d'ombra che vuoi incrociare, allora il rosso dovrai donare e la lama dovrà versarlo e mani dorate dovranno brandirla”». Charlotte, senza muoversi o voltarsi, gridò ai tre. «Entrate, adesso!».

Ma a quel punto, quando Takeshi, Tetsuya e Sayumi oltrepassarono quelle nubi e il cerchio disegnato nell'erba, una voce li chiamò indietro, urlando. Una voce che tutti avevano conosciuto. Una piccola voce che aveva smosso la determinazione di Yuki. Con il gelo nelle vene, riconobbe la figura minuta, appena pochi metri distante da loro, di sua sorella Ai.

Bianca in volto, Ai strillava. «Cosa diamine sta succedendo?! Cos'è questo?! … Sorellona!».

«Allontanati Ai, è pericoloso!», Tetsuya fece un passo indietro, mettendosi accanto agli altri quattro. «Non devi preoccuparti, torneremo e ti spiegheremo tutto!».

 

Yuki, la bocca dischiusa, riusciva a vedere il viso di sua sorella segnato dal timore. La sua sorellina. Era diventata una donna. I suoi grandi occhi erano smarriti, confusi, i capelli rossi volteggiavano scossi dalle folate di vento. Le due si osservarono. Poi, Ai abbassò la testa verso terra, le spalle tremanti.

Yuki chiuse le palpebre, stoicamente.


«... col cavolo che andate senza di me!».

«Ai, no!».

E prima ancora di capire cosa stesse accadendo, anche la più piccola delle Akawa era saltata dentro al cerchio, lasciandosi trascinare sotto gli strati della terra, uno dopo l'altro, nella nube viola di una strega.

Alla ricerca di un dio.

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Capitolo 22
*** Il regno di un solitario essere divino. ***


22.



«Ehy!... Ehy, dico a voi! In piedi!». Charlotte urlava, abbastanza forte da farle male alle orecchie. «Ce l'abbiamo fatta! Siamo nel regno!».

 

Alle ennesime urla, fastidiose ed insistenti, Yuki si sforzò ad aprire le palpebre. Piano, a piccoli tentativi. Sentiva fitte lancinanti dietro gli occhi, come se stesse imparando daccapo ad usare la vista, a riconoscere i colori. Dovette passare qualche secondo prima di rendersi conto che era sdraiata supina su... un terreno roccioso, a quanto pareva. Allora corse subito a cercare – tastando di qua e di là – qualcuno del gruppo.

La sua mano cozzò contro quella di Ai. A quel contatto, Yuki scattò con la schiena, mettendosi immediatamente seduta.

Ai si stava rialzando a sua volta, più lentamente, tenendosi la testa, dolorante – i capelli rossi e lisci scendevano sulle spalle, arruffati.

«Ai», con tono tombale, l'albina pronunciò il nome della sorella. Ai si irrigidì dalla testa ai piedi – ciononostante, girò il viso verso sua sorella maggiore, con le labbra strette ed un espressione tesa. Poi però, si rese conto che era arrabbiata, più che inquieta. A rivedere Yuki, a vederla viva ed intera, il sangue le ribollì fino al cervello ed una scarica di rabbia la rianimò.

Con uno scatto, si protese ed afferrò la maggiore per le spalle. «Perché?!», urlò, stando sulle ginocchia. «Perché te ne sei andata senza nemmeno incontrarmi?! Ti importa così poco della tua unica sorella?! Sono tutto ciò che rimane della tua famiglia e tu hai comunque deciso di sparire, lasciandomi solo uno stupido biglietto... !». Stava per piangere. Voleva piangere. Ma non di fronte a tutte quelle persone – non di fronte a Yuki. Sua sorella, per cui aveva nutrito un profondo rispetto sin da quando era una piccola creatura. Adesso si guardavano, ma la maggiore era impenetrabile, non mostrava alcun espressione.
Ai si morse il labbro, ed una rete di rughe le increspò la fronte. «Mi spiace aver guastato i tuoi piani», disse infine, lasciandola andare e mettendosi in piedi. Si spolverò le ginocchia, lisciò i pantaloncini e tirò le maniche della camicia. E per ultimo, si guardò attorno. «Ma... dove... », balbettò, spaesata, mentre Takeshi si alzava e Tetsuya porgeva la mano a Sayumi.

Finalmente, ispezionarono il luogo in cui erano giunti.

 

Sembrava una grotta sottomarina. Una grande, maestosa grotta. Dovunque guardavano, incontravano pareti rocciose su cui si rifletteva la cristallina acqua color verde muschio, che avevano proprio alle loro spalle. Yuki dedusse fosse il lago menzionato dalla strega nel suo diario, quello in cui le altre streghe si fermavano per ammirarlo, insieme. Ruotò i piedi e si avvicinò alla riva. L'acqua era immobile. D'altro canto, non poteva essere altrimenti: non c'era un filo di vento; il lago si estendeva per quelli che sembravano chilometri, fiancheggiando la terraferma, e continuando verso nord-est in un tunnel estremamente buio. L'unica fonte di luce era proprio l'acqua del lago e, sparpagliate di qua e di là, fiammeggianti fiaccole e lanterne dal fioco bagliore. Yuki provò a guardare in alto, cercando un soffitto, un termine per quelle pareti – ma più guardava e cercava, più ombre trovava, finché persino la sensibile vista di una creatura diventava inutile.
Di nuovo, l'albina si voltò, dando le spalle al lago; di fronte a loro, si estendeva per una decina di metri una sorta di bagnasciuga, fino a raggiungere una breve scalinata che andava verso l'alto. Da quel punto in poi, era tutta una lunga strada verso quello che sembrava un villaggio – città era una parole decisamente troppo tecnologica.

 

Ai continuava a vorticare su se stessa, osservando quella enorme grotta. «È... una città... sott'acqua?».

«Ma chi è questa bambina?», rise Charlotte, indicandola con il mento. «Avevo capito fosse importante per voi, questa spedizione verso la morte».

«Chiedo venia per non essermi presentata», ribatté Ai. Per quanto le desse fastidio essere chiamata “bambina”, ero molto meglio optare per un tono serio – il più delle volte. Era un'adulta, gli adulti facevano così. Si voltò verso la strega, braccia lungo i fianchi, piedi incollati. «Sono Ai Akawa, secondogenita del casato Akawa, vampiro e demone. Attualmente ricopro il ruolo di membro del Consiglio della società dei vampiri e demoni. E non sono una bambina. Ho quindici anni».

«Ah! Quindici. Allora scusa tanto». Charlotte era sul punto di darsi una manata sulla faccia. «Perché abbiamo la tua sorellina alle calcagna, dolcezza albina?».

Yuki ringhiò sommessamente. «Puoi evitare di... », poi inspirò, ed espirò. Non era il momento. «Non dovrebbe essere qui. Non è parte del piano». Guardò Ai, quasi con disappunto. «E sarei molto curiosa di sapere perché ci ha seguiti».

«Perché?», e se inizialmente Ai si era intimorita, ora era perplessa e seccata. «Come sarebbe a dire perché? Ritrovo mia sorella dopo tre anni – in cui la credevo morta – e quando finalmente la incontro, lei è in mezzo a strane nubi viola, con... !». Lanciò un'occhiata a Charlotte. Di seguito, anche a Takeshi, Sayumi e Tetsuya. Non capiva perché fossero tutti lì. E nemmeno che posto fosse quello dove si trovavano.

Se Ai era riuscita a capire dove dirigersi per ritrovare sua sorella, doveva tutto ai vari membri del Consiglio sparpagliati per il mondo. Solo grazie a loro – agli Addetti, ai Messaggeri, ai Cacciatori – aveva così scoperto che, dirigendosi in Irlanda, l'avrebbe rivista.

Yuki sospirò.


«Ai-chan», Takeshi fece un passo avanti. Con gentilezza, le mise un braccio dietro la schiena, sospingendola più in là. Lontana da Yuki e, se possibile, dalla strega.

Ai si fece scostare senza obiettare, ma con un broncio che la diceva lunga, e le braccia conserte al petto. Quando furono abbastanza distanti, quindi da soli, Takeshi si chinò all'orecchio della rossa. «Ascolta, è una storia molto, molto lunga... e tua sorella non è in vena di raccontartela. Ma stai sicura che quando saremo usciti da questo posto, saprai tutto». Si allontanò. Ai sporse il labbro – il suo sorriso riusciva a scaldarla. «Come ti sembra?».

Ai alzò le spalle. «Okay. Bene. Non è che abbia scelta, no?».

Takeshi ridacchiò. No, in effetti, no.

 

 

Tornarono dal resto del gruppo. Ai stava dietro al bruno, tormentandosi il gomito col il pollice e l'indice. «Possiamo proseguire», annunciò Takeshi. «O almeno, è quello che mi piacerebbe dire. Ma esattamente, da che parte dobbiamo andare?».

Tetsuya spostò lo sguardo lungo la riva. Intercettò la scalinata che si elevava verso l'alto. «Da questa parte c'è solo acqua. L'unica strada, a quanto pare, ce l'abbiamo davanti».

«È più grande del previsto», mormorò Sayumi. Si spostò i capelli dietro le orecchie, drizzando quest'ultime. «E inoltre... sbaglio o non si sente una mosca volare?».

 

Calò il silenzio. Anche gli altri provarono a cogliere qualche rumore, qualche fruscio, passi lontani. Niente. Per quanto si sforzassero, l'unico suono che di tanto in tanto rompeva la quiete erano le gocce d'acqua che cascavano dalle pareti scoscese. Era difficile stabilire se fosse un buon presagio – o uno cattivo.

Yuki agguantò l'elsa, chiudendola nella mano, fino a sbiancare le nocche. «Restiamo insieme», sussurrò. «e prestiamo attenzione, qualora quella mosca si facesse viva».

 

 

I sei, dunque, si avviarono verso la scalinata, attraversando la riva, posizionandosi in modo da tappare eventuali punti indifesi, come le spalle e i fianchi; Yuki e Charlotte camminavano in testa, l'una affianco all'altra, per sfortuna, mentre in fondo – a chiudere – c'era Tetsuya. Di fronte a lui camminava Ai e, ad un passo da lei, Takeshi e Sayumi, spalla contro spalla.

Superati i gradini e lasciata la zona del lago, entrarono quasi subito nel villaggio. Sembrava una cosiddetta zona residenziale. Se così la potevano chiamare. Era estremamente piccolo e stretto, allungandosi come un serpente, con il lato sinistro a ridosso del lago e quello destro che dava sulla parete. Ad occhio, erano abitazioni che potevano contenere al massimo due camere, le più fortunate tre – dai tetti a padiglione o spioventi, di colori improbabili come l'oro o il più tradizionale rosso.
Le porte, grandi cerchi di legno, e l'esterno bianco oppure di legno chiaro; qualcuna, invece, presentava grossi rami, che percorrevano le facciate fino a raggiungere il tetto, con foglie e fiori che spuntavano qua e là. Le case erano circondate da recinzioni di ferro e, poco distanti dalla porta, c'erano lanterne agganciate a delle colonnine.
In mezzo alle file di abitazioni c'era solo un lungo sentiero sterrato, con la ghiaia che scricchiolava sotto le scarpe.

Charlotte osservava le case, studiandole silenziosamente.

«Laggiù... », disse Yuki, stiracchiando il braccio verso nord. Charlotte strizzò le palpebre e spostò la sua attenzione sull'indicazione dell'albina. «Laggiù c'è un edificio parecchio ingombrante».

«Baphemot ama l'indiscrezione, mi sembra chiaro».

«Comunque questo silenzio non mi piace. Non doveva essere pieno di streghe, questo luogo?». Per non parlare del fatto che sembrava tutto fuorché un regno. Non aveva niente che ricordasse la regalità. Solo... desolazione. «Stiamo camminando da un po' e non abbiamo ancora visto nessuno».

Charlotte non ribatté. Spostò gli occhi neri sulle lanterne. La fiamma che si agitava all'interno, per quanto debole, emanava comunque un attraente blu. Le lanterne erano chiuse, sigillate dal vetro e dalla guarnizione di ferro, eppure le fiammelle all'interno si scuotevano come disturbate da un venticello.

Mi piacerebbe usare la magia per testare la mia teoria, pensò Charlotte, ma...

«Ehy», si voltò verso Yuki. Indicò col pollice le lanterne che stavano passando. «Perché non provi a toccarle?».

«Cosa? Perché?».

«Come perché? Siamo in una dimensione sconosciuta a tutti, circondati dalla magia, sulle tracce di una divinità. E poi, quel fuoco è blu, non è fighissimo?».

Yuki aggrottò le sopracciglia. «Charlotte, resta concentrata e fai silenzio».

Dannazione.

 

Yuki sospirò leggermente. Non doveva farsi distrarre. Per Charlotte, chissà, il suo obiettivo poteva non essere poi così tanto importante – ed era un suo problema. Tuttavia, quella ragazza ne sapeva molto più di quanto dava a vedere, e magari aveva già capito qualcosa che invece a lei era sfuggito. Di nuovo, la mezzosangue tornò sulla strega. «Cosa potrebbe succedere, secondo il tuo geniale intuito?».

Charlotte sorrise. Un lungo e largo sorriso. «Potrebbe ridare vita al regno di Baphomet».

Ridare vita? – era vero, trasudava morte da ogni poro. D'altro canto, a lei non importava vederlo rifiorire. «Allora non è niente che mi riguardi», sentenziò.

«Sei proprio una pal– ». Improvvisamente, un violento e travolgente tuono stroncò i discorsi delle due. Subito dopo, di fronte alle ragazze, si levarono veementi folate di vento che sollevarono muraglia di polvere e terra così fitte da rendere impossibile vedere qualsiasi cosa. Yuki sguainò Anima, Charlotte fece uno scatto all'indietro, parandosi gli occhi con le braccia.

«ATTENTI!», urlò la mezzosangue. Puntò la lama verso il tornado di fronte a loro, in fremente attesa di un attacco.

 

Ma non arrivò. Invece, il tornado si placò, e le polveri si divisero per poi schiantarsi sul terreno.

E così apparvero delle figure. Yuki sbatté le ciglia, ostacolate dalla polvere che le era finita negli occhi. Erano in cinque, ed erano tutte donne.

«Chi accidenti... », bisbigliò Sayumi.

«Attenti», ripeté Yuki.

Allungò il braccio verso Sayumi, come scudo. Lentamente, poi, spostò il piede destro in avanti, di appena un centimetro, strisciando la suola sulla ghiaia.


Ed ecco che le punte di un tridente miravano alla sua giugulare. «Non fare una mossa», l'ammonì una delle cinque donne.

La mano chiusa su Anima tentennò. La pesante lama era sospesa a mezz'aria. Quando Yuki aveva fatto quel minuscolo movimento e la donna aveva estratto la sua arma, la prima aveva già mosso il braccio con la spada. Era accaduto tutto nel giro di un secondo. Troppo poco perché gli altri potessero reagire.

Le punte del tridente toccavano la pelle del suo collo, costringendola ad alzare leggermente il mento. Yuki tirò su un angolo della bocca, scoprendo i canini. «Ah, che simpatico comitato di benvenuto». Poi un'ombra calò sul suo viso ed uno sguardo minaccioso sostituì quello sorpreso. «Togli questa cosa dalla mia gola, strega».


La strega – una delle cinque – abbassò il suo tridente. «Bambina che discende da Lei. Non sei la benvenuta. Né tu, né i tuoi umani», i suoi occhi erano in parte nascosti dall'elmo. «e nemmeno quell'ignobile».
Sembravano delle guardie – reali? – poste a pattugliare per il regno. Indossavano elmi di acciaio, la cui calotta era composta da un paranaso a forma di v, con squadrate paragnatide che gli coprivano la maggior parte del viso, mentre sulla cima avevano una cresta di piume blu e viola. Il torso era fasciato da un busto squamato e nero, sugli spallacci era agganciato il mantello rosso, le braccia, dal gomito in giù, protette da avambracci d'acciaio. Alle gambe, le schiniere avevano decorazione di piume ai lati delle cosce.

La donna con il tridente sbatté il dorso della sua arma sul terreno. «Andate via».

«Mi rifiuto».

 

La strega sollevò il suo tridente. Le altre quattro estrassero le lance e le falci. «Allora, vi faremo sparire noi».

 

Un attimo prima, stavano analizzando la situazione. Quello subito dopo, stavano schivando colpi e affondi di lance.

 

Yuki rotolò di lato, schivando gli aguzzi denti dell'arma bianca. Si rimise in piedi, in fretta, e scattò indietro. Ruotò i piedi, virò a destra, così cozzando la schiena contro quella di Charlotte. Entrambe allora deviarono alla loro destra, scambiandosi di posto e ripartendo all'attacco – o meglio, alla difensiva.
Tetsuya piazzò i palmi a terra e rapidamente quelle divennero di fuoco e calore. Le fiamme serpeggiarono lungo le sue dita, diramandosi dappertutto. Le streghe, tuttavia, riuscirono ad evitare il fuoco trasformandosi in ombre.

Takeshi afferrò Sayumi ed Ai, per i polsi, trascinandole oltre un muretto pietroso. Le costrinse ad accovacciarsi, mentre lui spiava oltre il muro. «State qua e non muovete un muscolo», e prima ancora di sentire le proteste delle ragazze, Takeshi aveva scavalcato con un balzo il muro, raggiungendo gli altri tre.
Correndo nella loro direzione, infilò ambe le mani nelle tasche interne della giacca, ed ecco che quattro paia di coltelli apparvero. Li scagliò alle loro avversarie, mirando a braccia e gambe. Le streghe deviarono i coltelli con le loro armi, per poi raggrupparsi di fronte al sentiero.

Affannata, Charlotte stava velocemente pensando a quale incantesimo utilizzare. «Che ostinazione, eh», disse, tra i denti. «Perché non ci date un taglio e non ci fate passare? Da strega a strega?».

La donna con il tridente schioccò la lingua. Nei suoi occhi cristallini c'era solo sufficienza. «Una come te non può neanche lontanamente definirsi strega».

«Abbiamo qualcosa in comune», commentò Yuki. A quanto pare, nemmeno Charlotte Duane era benvoluta tra le sue simili, anche se i motivi non erano chiari.

Charlotte gli lanciò un'occhiata irritata. «Sono mille volte più strega di voi cinque messe insieme. Chi ti credi di essere? Solo perché ve ne andate in giro vestite come dei fenomeni, pensate di essere migliori di me?».

«Tu sfrutti i tuoi poteri – donati dal nostro unico genitore – per i tuoi soli scopi. Non c'è niente di lodevole in quel che fai. Tu non sei lodevole».

«Beh, cavolo», Yuki sorrise. «Ha detto che non sei lodevole. Ci va pesante».

La strega, ignorando le parole della mezzosangue, si rivolse a lei calmamente. «Guerriera Dorata. Torna indietro. Torna nelle tue terre. Non è permesso a nessuno passare da questa parte, benché meno a voi».

L'albina abbassò le palpebre, tagliando le iridi oro. «Perché?».

«Perché lui non– », un'altra strega, apparentemente più giovane, era sul punto di rispondere – quando la donna col tridente la zittì con una stretta al polso. Dunque ripeté, a voce alta: «Andate. Via».


Yuki, difatti, non era interessata al motivo. La sua destinazione era quel maestoso edificio che si intravedeva da quel punto, posto su un'altura. Non importava come, sarebbe arrivata lì, e avrebbe trovato Baphemot. Guardò verso l'edificio. «È lì che si trova, non è vero?». Le cinque non parlarono. Bastava e avanzava, come risposta.
Yuki roteò la katana, infilzando la punta davanti ai suoi piedi. «Vi ucciderò, una per una, se necessario. Ho tutte le intenzioni di passare». Anche se avesse dovuto testare al massimo i suoi poteri – dalle sue spalle scariche elettriche cominciarono a brillare. Percorsero i bicipiti e gli avambracci, fino a strisciare alle sue mani. I fulmini, a quel punto, avevano ricoperto Anima.

Balzò in avanti. Sollevò la katana verso l'alto, gridò – e lanciò un fendente verso il basso.


La donna in armatura stava già per scomparire in un groviglio di tenebre, quando si rese conto che nubi viola non le permettevano di muovere le gambe.

Il fendente la colpì in pieno torace, una lunga diagonale da spalla a fianco, squarciando il busto di squame nere. Il sangue schizzò, imbrattando la mezzosangue, ed infine cadde a terra con un tonfo. Le altre quattro ripartirono all'attacco, ma Tetsuya saltò di fronte all'albina e spalancò le braccia, generando un anello di fuoco – le streghe si fermarono appena in tempo, prima di gettarsi nelle fiamme. Takeshi allora scagliò altri pugnali, colpendo due di loro alla spalla e alla coscia.
Charlotte materializzò nubi color pece, che agguantarono le ultime due dal collo – le sollevò ad un metro da terra, stringendo la morsa, chiudendo le dita attorno alle loro gole. Infine aprì la mano, lasciandole precipitare a terra.


Yuki scattò la lama, facendo schizzare il sangue sulla ghiaia, e la rinfoderò. Era finita. Per il momento, almeno.

Si voltò verso Tetsuya, dandogli un piccolo pugno sulla spalla, e un sorriso provato. Dopo di ché corse da Takeshi. «Sei un pazzo furioso», gli disse, mentre lo controllava da testa e piedi. «Stai bene?».

«Sto bene», lui rise. «Certo è stato intenso. E tu sei tutta intera? Hai un po' di sangue sul naso».

Lei non rispose, decidendo di sorridergli. Gli accarezzò i capelli, sospirò. «Grazie per aver portato via le ragazze. Mi è stato utile per concentrarmi».

«L'esperienza mi ha insegnato una o due cose. Del tipo che non riesci a combattere bene se devi preoccuparti per gli altri».

«Così mi fai sembrare una brava persona», con la coda dell'occhio, l'albina notò Sayumi ed Ai che uscivano dal muretto di una casa, per poi correre verso il resto del gruppo. Tornò su Takeshi, alzando lo sguardo su di lui. «Credo siano tutte fuori gioco, quindi possiamo– ».

«YU, DIETRO!».

 

Fu troppo improvviso, anche per lei. Accadde nel giro di un secondo. Takeshi la afferrò, prendendola fra le sue braccia, e facendole da scudo con la propria schiena – mentre Tetsuya si gettava di fronte ai due e le tre punte del tridente perforavano il suo addome. Yuki lo guardò, oltre il braccio di Takeshi, mentre incassava il colpo e una larga macchia scarlatta gli inzuppava il fianco.

E poi, con un amaro tonfo, rovinare a terra, nella polvere e nella ghiaia.


«... TETSU!!».

 

 

 

 

***

 

 

 

Yuki sferrò un calcio al costato della donna, scaraventandola qualche metro in là, per poi gettarsi a terra accanto al vampiro. «YUMI!», gridò, senza staccare gli occhi dal ragazzo – ma Sayumi era già lì, con le ginocchia che strisciavano e si graffiavano sul suolo, mentre rovistava nella borsa.

Tetsuya era pallido, sul suo fianco. Il suo colorito chiaro, ma salutare, si era trasformato in un pericoloso tono grigiastro. Era ancora cosciente, anche se con gli occhi chiusi. Respirava forte, inspirando l'aria con la bocca. Inspirava ed espirava, forse cercando di restare lucido. «Non si rimargina», disse Yuki con voce tombale. «Non si sta rimarginando».

«Ci vuole del sangue?», esclamò Takeshi. «Delle medicine? Della magia?».

Charlotte scosse la testa. «Non so quanto vi convenga, la magia».

«Zitti, zitti tutti!». Sayumi si spostò al fianco destro del vampiro. Prese il bordo della maglietta, spostandola attentamente. «Yuki-chan, fagli appoggiare la testa in grembo. Takeshi, Ai, aiutatemi a girarlo sulla schiena». Con l'aiuto dei due, riuscirono a farlo sdraiare con la pancia in vista. Sayumi si chinò sulla ferita, esaminandola. Era particolare, perché c'erano ben tre fori. Fortunatamente, non erano profondi, la strega non era riuscita a metterci molta forza. Inizialmente, c'era state una grande fuoruscita di sangue, che aveva messo k.o il vampiro, ma adesso stava gradualmente diminuendo.

 

Sayumi tornò con le mani in borsa. Quando ne uscì, aveva indosso dei guanti blu e reggeva una garza. «Va tutto bene», bisbigliò. «Va tutto bene. Starai bene».

Tenendo la garza ferma, la premette sulle ferite. «Takeshi, prendi le bende nella borsa», disse, fissando la garza colorarsi di rosso. «Yuki, controlla il suo battito cardiaco e il respiro».

I ragazzi eseguirono.

 

«Dobbiamo pulire le ferite», constatò Sayumi. «Serve... », si morse le labbra. «La soluzione salina. Sì, la soluzione. Cavolo, questo sarà... ».

Takeshi tornò alla borsa. Agguantò la soluzione.

«Cosa c'è? Cosa?», domandò Ai. «Perché fai quella faccia?».

Sayumi guardò i ragazzi. «Sarà... doloroso. Riuscite a distrarlo? A parlargli? Qualsiasi cosa, pur di alleviargli il dolore».


Charlotte, in piedi, con le braccia incrociate, fece un passo avanti. Si inginocchiò accanto alla mezzosangue e posizionò le sue mani sulle tempie, imperlate di sudore, del vampiro. «Ehy, cosa stai– », ringhiò l'albina.

«Immagino che almeno questo posso farlo». Charlotte roteò gli occhi. «Lo terrò distratto mostrandogli qualcosa di piacevole. Okay?».

Sayumi annuì. Takeshi svitò la soluzione salina, passandola all'amica, che la teneva in una mano. A quel punto, cominciò a lavare accuratamente le ferite, facendo attenzione a pulirle il più possibile. Per fortuna, il vampiro sembrava non accusare il trattamento. La magia di Charlotte stava funzionando. Per una volta, avrebbero dovuto ringraziarla.

 

 

Era difficile dire quanto tempo passò. Sayumi non ne era sicura. Accucciata accanto al vampiro – si erano rifugiati sulla fiancata di una delle tante case –, con le ginocchia strette al petto, la ragazza stava aspettando che Tetsuya si risvegliasse. Il suo colorito, comunque, era tornato decente. Anche il suo respiro si era regolarizzato e il battito cardiaco si era calmato. Sayumi era riuscita a pulire la ferita e a bendarla abbastanza bene – probabilmente, una volta usciti dal regno, gli sarebbero guarite nel giro di una mezz'ora.

Sayumi sospirò. Sperava solo di aver fatto tutto bene. Sperava di non aver peggiorato la situazione. Non aveva mai praticato una medicazione di quel tipo, il suo campo era per lo più erboristeria.

Forse, se gli avesse semplicemente dato del sangue, sarebbe guarito. Non ne era certa.


Sollevò lo sguardo. Yuki, Takeshi e Charlotte si stavano occupando delle streghe in armatura. Ai, che era rimasta con Sayumi e Tetsuya, se ne stava rannicchiata accanto alla ragazza, in totale silenzio. «Sei stata brava», disse, dopo un po'.

Sayumi si voltò.

«Prima, intendo. Chissà perché non si rimargina da solo. Probabilmente... sai, gli hai salvato la vita».

«Oppure l'ho condannato», accennò un sorriso triste.

Ai aggrottò la fronte. Era una conversazione che non pensava avrebbe mai avuto con lei. «Dovresti essere più fiduciosa delle tue capacità. Sei stata determinata. Hai preso in mano la situazione. Noialtri... », Ai scosse il capo. «Beh, persino quella strega da due soldi è stata utile».

«Già... », mormorò Sayumi. «Non me l'aspettavo. Alla fine ci ha aiutati».

«Ma non ha voluto curarlo con la sua magia. Mi chiedo cosa ci sia sotto».

Sayumi non rispose. Appoggiò la schiena al muro dell'abitazione. Tetsuya, sdraiato sulla schiena, era stato coperto dal cardigan della ragazza, e aveva la testa sorretta dalla sua borsa. Vedeva le lunghe ciglia muoversi appena appena, il candore della sua pelle, le labbra lievemente schiuse. Gentilmente, Sayumi gli scostò qualche ciuffo biondo dalla fronte.

Ai sorrise – dunque, si tirò in piedi. «Andrò a dare... un'occhiata... più in là, ecco. Ci stanno mettendo un po', la sorellona e gli altri, quindi... », Ai alzò le spalle. «A dopo». E sparì oltre l'angolo, dirigendosi verso il luogo dello scontro di poco prima.

Sayumi dubitava ci fosse bisogno di una quarta persona. Forse voleva lasciarla sola con Tetsuya – la piccola mezzosangue, d'altronde, era a conoscenza della sua relazione con il vampiro. Di come si fosse sviluppata.

Posso chiamarlo... amore?, si chiese la ragazza, guardando il volto addormentato del biondo, e lui come lo chiamerebbe? Probabilmente, anche se gli avesse dato un qualche etichetta, non me lo direbbe.

Tutto sommato, le stava bene così. Era felice al suo fianco. E dannazione, voleva proteggerlo a tutti i costi. Anche se con le sue fragili braccia avrebbe potuto abbracciarlo, tutt'al più.


«Sayu... mi... ?». La ragazza sobbalzò. Scrollò i pensieri dalla testa e si piegò in direzione di Tetsuya. Era sveglio. Intontito, con gli occhi viola socchiusi, ma era sveglio. Il vampiro restò immobile, sbattendo le ciglia un paio di volte. «Stai bene?».

Sayumi sorrise – un po' dolce, un po' malinconica. «Come fai a chiedermi se sto bene?», sussurrò. «Se sei tu quello che è stato ferito... ».

«E tu sei quella che si è preoccupata», Tetsuya tirò su gli angoli della bocca. «e che mi ha curato prima che fosse troppo tardi».

«Io... », cominciò lei, ma si bloccò. Non riusciva a trovare le parole. Si sentiva confusa.

Tetsuya scostò il cardigan e, premendo un palmo a terra, si issò per mettersi seduto.

«A-attento», balbettò Sayumi, protendendosi verso di lui con le mani. «Se la ferita si riapre... ».

«Sarebbero guai. Tranquilla, volevo solo... ». Ora che era seduto, ed era all'altezza della ragazza, Tetsuya si voltò verso di lei. Era ancora un po' dolorante, eppure appariva perfettamente sereno. Come se l'ombra fosse sparita dal suo sole. «Guardarti negli occhi e ringraziarti».

«Lo sai che non devi ringraziarmi... ».

«Ti ringrazio per il buon lavoro svolto. E per la freddezza. Ti sentivo, mentre davi indicazione a Yuki, Takeshi e Ai», ribatté. «Almeno fino ad un certo punto».

Sayumi annuì. «Charlotte ha usato la sua magia per distrarti dal dolore». E fargli vedere qualcosa, a quanto pare. Inclinò la testa di lato, spiandolo di sottecchi. «Cosa hai visto, quando... ?».

Tetsuya sembrò leggermente sorpreso. L'usuale compostezza perse il trono, anche se solo per pochi istanti. Mentre pensava, si toccò la bendatura al fianco, sfiorando il punto in cui la t-shirt si era sporcata di sangue. Quella visione servì solo a ricordargli ancora di più cosa aveva occupato la sua mente, in quel frangente. «Ho visto... », le ametiste incastonate fissarono un punto sul suolo, intense. Poi si sollevarono, lentamente, inchiodando la ragazza. Un colore, uno sguardo – così penetrante. «... te. Noi due, insieme, nella nostra camera. E ho percepito il sapore... del tuo sangue».

Sayumi arrossì. Chissà perché stava arrossendo. Per il suo tono di voce, basso e confidenziale? O per lui stesso? «Immagino... abbia senso. Stavi perdendo sangue a tua volta, quindi... ». Silenzio. «Vuoi bere il mio sangue?».

Tetsuya spalancò gli occhi. «Cosa?».

Sayumi fece una pausa. «Sei... assetato? Avevi bevuto prima della partenza, ma... adesso sei indebolito, quindi potresti sentirne ancora il bisogno. E qui non hai il tuo sangue. Quindi io... », a quel punto, non aspettò nemmeno la sua risposta. Si strappò via i bottoni della blusa, scoprendo le clavicole rosee. Sarebbe morta di imbarazzo, come minimo. Tuttavia, per lui avrebbe fatto questo ed altro. «Ecco, non mi interessa quanto te ne serve, non– ».

«Sayumi, frena, frena». Con un grande sospiro, il vampiro afferrò il colletto della sua blusa, richiudendo quella visione – onestamente, era quasi celestiale. Sotto lo sguardo confuso della ragazza, lui fece invece passare i bottoni nelle asole, sigillando tutto. Poi spostò le mani dal suo petto e le mise un braccio intorno al fianco. Con una piccola pressione, la avvicinò a sé, fino a che la sua testa non gli toccò la spalla.

«C-cosa?», balbettò lei. «Perché?».

«Perché non è il caso di ferire anche te», ribatté lui. Alzò gli occhi al cielo – cavolo, non ci sapeva fare con quelle cose. Si ripromise di farsi insegnare qualche trucchetto da Takeshi, al ritorno. «Mi basta questo per stare meglio».

 

Lei non capì subito a cosa si riferiva. Poi sentì la sua mano sul fianco, la dolcezza del suo tocco e, di conseguenza, lei appoggiata al petto di lui, con la testa sotto al suo collo. E se possibile, diventò ancora più rossa. Non poteva bastargli solo questo. Lo capiva bene.

Ma la felicità che provò – le fece dimenticare di dare adito a quelle parole, e qualsiasi logicità.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki si chinò, un ginocchio a terra, ed esaminò la strega col tridente. Non le avevano uccise. Le ferite che gli avevano inferto non erano state mortali. Non era loro intenzione commettere carneficine non appena messo piede in quell'ambiente, tutt'al più volevano andare e tornare senza lasciare tracce. Fosse dipeso da loro, avrebbero evitato ogni tipo di scontro...

In ogni caso, pareva che tutte e cinque fossero k.o. Il ché voleva dire, niente informazioni extra.

Sbuffando, la mezzosangue si sollevò in piedi, stiracchiando le gambe. Nel gesto, notò degli strappi nelle parigine.

 

«E queste cinque erano le guardie del regno?», esclamò Charlotte, mani sui fianchi, al punto opposto di Yuki. «Che pena».

«Se lo dici tu», disse Yuki, cercando Takeshi con lo sguardo.

Il ragazzo stava controllando i suoi pugnali, riponendoli nelle tasche della giacca. Sulla sua stessa traiettoria apparve Ai che, abbozzando una corsetta, raggiunse il ragazzo. Yuki li osservò mentre scambiavano due parole fra loro. Ai annuì, sorrise leggermente. Takeshi le mise una mano sul capo, accarezzandole i capelli.

E proprio quando decise di andare dal duo, la voce di Charlotte la fermò.


«Cos'è quello? Infedeltà? Gelosia?», sibilò. «Il bellimbusto è attratto dalle ragazzine?».

«Vuoi smetterla con queste stupidaggini?». Yuki espirò dalle narici, stizzita. «In primo luogo, perché devi commentare cose che non ti riguardano?».

«Perché non c'è molto altro da commentare».

«Fai sul serio?», esclamò la mezzosangue. Indicò intorno a sé con il dito indice.

«E allora? Un mucchio di casette, tanta acqua, cinque incapaci svenute», nell'elencare quegli elementi, Charlotte contò con la mano sinistra, sventolando l'indice, il medio e l'anulare. «Wow».

Yuki puntò gli occhi al cielo. Era inutile. Quella là non avrebbe smesso di darle fastidio. Tanto valeva resistere ed ignorarla fino a quando non fosse tutto finito. «Direi che è il momento di andare», disse, alzando la voce per farsi sentire anche da Takeshi ed Ai. «Controlliamo che Tetsuya stia bene, okay?».

Yuki camminò verso la fiancata della casa. Si unì ad Ai, mentre Takeshi le informava che le avrebbe raggiunte presto.

Invece di andare dal vampiro, Takeshi si diresse dalla strega. «Charlotte, volevo ringraziarti».

La strega alzò le sopracciglia.

«Beh, hai fatto la tua parte, prima», spiegò il bruno. «anche se, a dirla tutta, non lo era. In ogni caso, hai aiutato il mio amico, quindi te ne sono grato».

 

La corvina lo guardò con la coda dell'occhio, incrociando le braccia al petto. Takeshi Katugawa era il ragazzo che lei aveva maledetto. Stava letteralmente morendo, a causa sua. Tuttavia, trovava delle ragioni per ringraziarla? – ma non era colpita. Le aveva solo detto “grazie”. E cose del genere non le garantivano il potere che lei desiderava, per cui... valevano quanto un soldo bucato.

Charlotte alzò le spalle.

«Però mi chiedevo», Takeshi, che era una spanna più alto di lei, proiettava una leggera ombra sul viso della strega. «perché non potevi usare la magia per curarlo? Non volevi farlo?».

«La magia bianca non è il mio forte», borbottò Charlotte. «Avrei rischiato di farlo stare peggio. O di farlo stare meglio per pochi minuti, illudendoci che fosse apposto».

«È stato molto... considerevole», constatò lui. Sorrise. «Allora sei in grado di essere gentile con la gente».

«Nah. Sarebbe stata una perdita di tempo se il vostro amico fosse peggiorato. Anche perché non sembra male. È discretamente forte».

«Lo è. Lo è davvero».

Charlotte aggrottò la fronte. «È inquietante che tu mi stia parlando così tranquillamente».

«Dovrei farmi prendere dal panico?».

«No, ma... », lei inclinò la testa di lato. Un piccolo sogghigno apparì sulle sue labbra. «Tu mi odi, no?».


Takeshi, a sua volta, cominciò lentamente a sorridere. Un sorriso quieto, sereno. Eppure, possedeva una luce distorta. «Lo faccio. Ti odio». Una luce che non gli apparteneva. «Ma non per la maledizione. Ti odio perché adesso loro sono preoccupati per me». Takeshi si allontanò, dandole le sue ampie spalle.

Charlotte lo osservò allontanarsi, strofinandosi il marchio sul collo.

«Inquietante».

 

 

 

 

***

 

 

 


L'imponente architettura – quasi schiacciante – che si stagliava verso le tenebre della grotta, possedeva forti caratteri romani e greci, anche se, per quanto ne sapevano loro, quell'edificio poteva esistere dall'alba dei tempi. Non era sfarzosa, tuttavia la facciata era molto matronale, slanciata com'era; ai lati estremi, facevano bella mostra di sé ceree colonne ioniche, sostenenti l'architrave e subito sopra un timpano ornato da incisioni color oro.
Ancora più sopra, sul tetto in terracotta, si intravedevano – anche se difficili da vedere – quelle che sembravano delle statue, poste ai quattro angoli. L'edificio, che si estendeva su un asse verticale, possedeva un mastodontico portone, grande almeno la metà della facciata.

Yuki e gli altri stavano immobili, nei pressi dei gradini che precedevano l'entrata. Erano moltissimi gradini, forse una sessantina. Portavano verso l'alto. Verso Baphomet, forse.

Si incamminarono lungo quella salita, in silenzio. Perché, poi?

Ovviamente, non speravano che lui non avesse notato l'arrivo di nuovi sei abitanti. Non si illudevano. Non erano nemmeno così stupidi. Allora perché non si confidavano una parola? – per paura, poteva essere, sembrava un ipotesi logica.

D'altro canto, se avevano paura, era perché dovevano fronteggiare chi li aveva creati. Le streghe lo chiamavano “genitore”, unico genitore, perché molte di loro erano state strappate dalle famiglie così giovani – da non sapere cosa fosse davvero un genitore. E Baphomet, difficilmente potevano pensare lo fosse. Cosa aveva portato un dio a trasformare giovani donne in strega?

Se fosse solitudine... quello sarebbe stato, certamente, un metodo estremo per non soffrirne più.

 

A quel punto, non importavano più le sue motivazioni. L'avrebbero incontrato. L'avrebbero guardato – lui.

Chi aveva iniziato questa storia.

 

«Ci siamo», disse Tetsuya. I ragazzi si fermarono. L'enorme porta era chiusa, apparentemente serrata. I sei stavano in piedi di fronte ad essa, osservandola con occhi meditabondi. Sayumi cominciò a pensare. «Ma come facciamo a– ».

La terra cominciò a tremare, sotto i loro piedi. «Attenti, sta succedendo qualcosa!», esclamò Takeshi.

I ragazzi si abbassarono, mettendosi quasi sdraiati, tenendosi in equilibrio su gambe e braccia per non rotolare giù dalle scale. La terra continuava a tremare, mentre... il grande portone vibrava vistosamente. A quel punto, capirono. La porta si stava aprendo, per chissà quale assurdo sistema. Si apriva lenta, facendo tremare il suolo. Dalla cima dell'edificio iniziarono a cadere giù piccoli sassolini e pezzi di terracotta, conficcandosi sul terreno.

«Quanto mi manca la civiltà», sbottò Charlotte, coprendosi la testa con il braccio. «E il mio letto!».

Yuki era a tanto così da affogarla nel lago, soprattutto perché, se non fosse stato per la sua sciagura, ora non sarebbero lì. Invece, decise di distogliere la sua attenzione dalla corvina e guardare di fronte a sé. Ora, attraverso la confusione che si era creata, l'albina riusciva a vedere l'interno di quel luogo – un tempio, ecco cosa le ricordava. Vide una tenue luce aranciata, riflessa su un lucido pavimento, e in generale un gran buio.

«Speriamo che non decida di chiudersi in quattro e quattr'otto», osservò Ai, frattanto che cercava di tornare in piedi.

Ha ragione, potrebbe diventare un problema, pensò l'albina. Si voltò verso Takeshi, accanto a lei, toccandogli il braccio veloce. «Riesci a metterti in piedi? Dobbiamo entrare subito».

Takeshi annuì. Si sollevò, dandosi la spinta con i palmi a terra, ed ecco che era di nuovo sulle sue gambe. Fece un cenno col braccio al resto del gruppo e tutti e sei cominciarono a correre verso la porta. Come aveva pensato Ai, l'entrata stava già richiudendosi, a causa di qualche strano marchingegno. «Dentro, dentro! In fretta!», gridò Yuki.

Charlotte scivolò per prima, scomparendo come aria, e ricomparendo all'interno. Sayumi fece uno scatto rapido, una capriola, e superò la soglia. Tetsuya balzò in avanti, seguito da Takeshi, che passò sfrecciando di lato.

Yuki fece passare prima una gamba – per poi rendersi conto che Ai era dietro di lei. Le gettò il braccio incontro, «Ai! La mano!», e le due sorelle si fissarono per un istante. Ai afferrò l'avambraccio di Yuki, Yuki la tirò a sé.

Entrambe caddero dentro, l'una sopra l'altra.

 

L'albina, schiena a terra, tirò un respiro strozzato. Non se n'era nemmeno accorta, ma quando aveva cozzato la schiena a terra, per riflesso, aveva chiuso gli occhi. «Perché aprire una porta se poi non lasci il tempo di entrare?», si lamentò, borbottando. Con calma, riuscì a regolarizzare il suo respiro, e il battito cardiaco, e si rivolse a sua sorella minore. «Stai bene, Ai?».
Ai era atterrata sopra la sorella. Anche adesso, stretta nel suo abbraccio protettivo, con il mento sul suo petto e i pugni appoggiati sulle spalle. Era da tempo che non si sentiva così protetta. Le sue guance si colorarono di rosa e, anche se malamente, si tirò su, lasciando libera la sorella. «S-sì. Niente di rotto. Sto bene». Guardò di lato. «Grazie».

«Per averti aiutata o per aver attutito la tua caduta?», rise l'altra.

«Entrambe!».

Le due sorelle risero per alcuni istanti, solo per far scemare l'allegria in un sereno sorriso. Si guardarono, annuirono. E di nuovo in piedi.

«Che arredamento delizioso», cantilenò Charlotte, picchiettando il piede. «Si vede che è passata mia nonna».



Erano dentro. Quello, in teoria, doveva essere il palazzo del dio.

Yuki studiò quella che sembrava una sala. Era di forma circolare, con un tetto alto anni luce, e spesse pareti nere e lucide. Tutte intorno, sparse qua e là, c'erano fiaccole dalle deboli fiamme, che servivano a gettare un po' di luce nell'ampia stanza. Il pavimento, così come aveva intravisto prima, era patinato e nero, come le stesse pareti. Sulla sinistra e a nord, sorgevano degli archi che sfociavano in corridoi.
A parte quei pochi elementi, non c'era davvero nient'altro. Se l'esterno poteva ricondurre all'antica architettura romana, l'interno poteva sembrare una sala delle torture nuova di zecca – solo, senza orribili macchine insanguinate.

Lentamente – e facendo attenzione a dove mettevano i piedi – cominciarono ad ispezionare la zona, qualora ci fosse qualcos'altro da tenere d'occhio.

«A proposito di tua nonna», esordì Takeshi. «Toglimi una curiosità, com'era?».

«Rapiva le sue nipoti. Scriveva tutto il tempo su dei diari. Sembrava costantemente colpevole di qualche atroce peccato». Charlotte aggrottò la fronte. «Il ché pare essere vero».

«Tutto qua? Avete vissuto insieme per molti anni, no?», osservò lui.

«Mah... sì, beh... tutto quello che facevamo, alla fine, era praticare magia. Lei mi insegnava. Io imparavo. Fin quando, ad un certo punto, non ho capito cosa mi fosse davvero accaduto».

Calò il silenzio. Lontano, molto basso e quasi impercettibile, si poteva udire il crepitare del fuoco.

«Lei mi aveva... strappata dalla morte. Me l'aveva portata via... la morte e la mia famiglia, perché aveva visto in me un grande potere. Poteva farmi trasformare in una strega da Baphomet e, immagino, sperasse io restassi con lei», scosse la testa. Un sorriso ironico disturbava la delicatezza dei suoi lineamenti. «Peccato per lei».

«Già, non sei finita nel regno, in effetti».

Sayumi incrociò le braccia dietro il bacino. «Quindi, quando hai scoperto che lei ti aveva tolto tutto questo, tu... ».

«L'ho uccisa. No, pardon, ho provato ad ucciderla. Nella mia testa ci sono già riuscita», roteò gli occhi. «ma sapete com'è, se sei la prima strega, sei un tantinello super potente».


Yuki, a quelle parole, ricordò la conversazione che avevano avuto quella notte. “Lei aveva vissuto più che abbastanza”. Dunque, voleva quel potere per diventare in grado di uccidere la prima strega – per vendetta e rancore. Yuki chiuse i pugni. Stava aiutando quella ragazza a raggiungere il suo scopo e non era uno scopo ammirevole. Il pensiero, onestamente, la disgustava.

Spostò lo sguardo su Takeshi.

«Cosa accadrà, se riuscirai ad ucciderla?», domandò Tetsuya. «Sei certa che non ci saranno conseguenze?».

La strega fece spallucce. «Niente affatto. E non mi tange», ruotò i piedi e li mosse in direzione dell'arco sulla sinistra. La sua figura fu illuminata, anche se per poco, dalla calda luce delle fiamme. «Per me, può anche crollare il mondo così come lo conosciamo».


Ai la fissò arcuando le sopracciglia. Si avvicinò a Tetsuya e Sayumi, parlando sottovoce: «È completamente pazza», e i due le diedero corda, anche se molto più tesi della quindicenne. Per spezzare la tensione, Sayumi provò a ridere, ma ne uscì solo un suono strano e finto.

Yuki scosse la testa. «Andiamo».

 

Attraversarono il corridoio. Anche lì, come nel resto del regno, non vi era anima viva. Era come se tutto il mondo fosse andato altrove, o fosse semplicemente sparito.
Per quanto inquietante fosse quella possibilità, era meglio che essere circondati da streghe pronte a sacrificare le proprie vite pur di proteggere un dio.
Il corridoio era mastodontico. A malapena si riusciva a vedere la fine. Al contrario della prima sala, quello era nel buio più pesto. Camminavano lentamente, per evitare di andare a sbattare da qualche parte, e proseguirono in questo modo per qualche minuto.

Superato il corridoio, entrarono in una sorta di vestibolo. Aveva una navata centrale, fiancheggiata da una fila di massicce colonne verde smeraldo. Il pavimento era di un marmo nero come il piombo, e l'ambiente, come il corridoio, era investita nella notte. Penetrava solo una sottile fascia di luce gialla, dallo spiffero di una porta, proprio in fondo. Yuki guardò su, dove trovò la cima del telaio. Quella porta era alta almeno tre metri. Era interna, serviva come tramite dal vestibolo ad un'altra stanza – le streghe, loro non sembravano affatto alte tre metri.

Che fosse...

 

Trattenne il respiro nei polmoni e si fece avanti. Attraversò la navata, passando oltre le colonne, seguita da Takeshi e gli altri. Erano in silenzio. I loro passi rimbombavano funebri.

Yuki appoggiò le mani sulla superficie del battente. Era freddo, ghiacciato come la neve. Pressando con molta forza, cominciò a spingerla in avanti. Spinse, spinse, e spinse ancora.

La porta si aprì. Un'altra vasta camera di forma rotonda, ottagonale. Lumi che brillavano come lucciole, pareti nere intramezzate orizzontalmente da un caldo color oro e un soffitto a cupola. Yuki vagò con i suoi occhi dappertutto, in lungo e largo... fino a scendere giù, posandosi come calamitate sulla figura che vigeva in fondo, da sola – nera come l'ebano.

 

Baphomet.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Buongiornissimo! Scrivo questa nota dal mio posto sul treno, il ché mi fa sentire molto adulta, in un certo senso. Siamo al 22° capitolo, molto vicini alla conclusione. Devo dire che questi ultimi capitoli sono stati abbastanza difficili da scrivere, perché alcune cose erano delle novità – per me, da scrivere – e inoltre perché, essendo la fine, sto cercando in tutti i modi di dargli la dignità che merita. Quindi, è un po' una fatica, ma ne vale decisamente la pena.

Quanto al capitolo... stavolta, è Tetsuya a farsi male. Di solito è Yuki quella che le prende di santa ragione, e forse, il fatto che non si tratti di se stessa, ha destabilizzato la nostra ragazza. Sayumi però è stata pronta e scattante, quindi è tutto finito per il meglio.

Il prossimo capitolo aspetta la sua revisione, quindi chiudo qua. Ci si rivede la settimana prossima – idealmente, domenica –, e grazie per esservi fermati a leggere!

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Capitolo 23
*** Le fragili verità, le inutili convinzioni. ***


23.


 

In fondo all'ampia sala sorgeva il suo nido; esso era una festa di tessuti e teli, che sporgevano un po' dappertutto intorno a lui, insieme a numerosi guanciali sparpagliati di qua e di là. Il tutto era circondato da spine e spuntoni di metallo color miele, che avvolgevano il suo capezzale come un guscio. Alle sue spalle c'era una superficie riflettente, forse uno specchio, in parte nascosta da un altro drappo scarlatto.

Lui era sdraiato, sopra quella moltitudine di stoffe. Le sue lunghe, estremamente lunghe gambe antropomorfe scivolavano oltre il bordo, pigre, sfiorando con le punte degli artigli il pavimento. Un braccio era impegnato a sorreggergli il capo, l'altro era abbandonato sul fianco, inanimato. Tutti e quattro gli arti erano neri come la pece, sfumati in una carnagione caramello, e coperti di un rado pelo scurissimo.

 

Il nostro creatore, fu tutto ciò che pensò Yuki – eccolo là. Dopo ricerche, scontri e paure, l'avevano infine incontrato.

E lui a malapena si era accorto del loro arrivo, a giudicare dall'impassibilità.

«Baphomet?». Nel pronunciare il suo nome, esso era rotolato sulla sua lingua estremamente fermo. Incredibilmente, la voce non le si era incrinata. «Il dio Baphomet?».

 

Baphomet, lentamente, sollevò la testa, e i suoi lunghi capelli scuri scivolarono oltre le spalle. Yuki strinse i pugni. Un paio di grosse corna spuntavano dalla sua testa, poco più sopra della fronte, curvandosi e mirando verso di lei come se stessero per trafiggerla.

Immobili come stoccafissi all'entrata, tra i sei ragazzi e il dio c'erano una ventina di metri, circa; abbastanza perché lei potesse scorgere i suoi occhi interamente foschi e la pupilla bianca di forma rettangolare, che tagliava la sua sclera come uno squarcio. Intorno a quelli, la pelle degli zigomi, delle tempie che emergevano dai capelli – appariva come se fosse stata segnata da tanti piccoli tagli.
Baphomet spostò il braccio sul fianco, scoprendo i due serpenti sul suo addome, l'uno di fronte all'altro, fauci ben aperte. L'artiglio del suo indico percorse la sua stessa clavicola, giungendo alla base del collo.

Lo stesso simbolo di Charlotte: una sorta di fascia, con un'unica sfera al centro.

L'unghia picchiettò quel punto. Era la sua risposta? Era forse un modo per dirle ?

 

«Quello è... un dio?», fu il bisbigliò di Tetsuya, paralizzato sul posto.


Ad eccezione di qualche particolare, era molto più umano di quanto credessero.

«Sei disposto a parlare con noi?», domandò Yuki.

 

Baphomet aveva la bocca sigillata. Le pupille rettangolari si abbassarono, le folte sopracciglia, tuttavia, restarono immobili. Osservava il drappo su cui era sdraiato, i suoi lunghi capelli sparpagliati ovunque – senza espressione. «Infine, sei arrivata fin qui».

I piedi di Yuki ebbero un guizzo. Per un secondo – nonostante non fosse ancora accaduto nulla – fu tentata di indietreggiare. «Siamo arrivati fin qui». La voce del dio – l'avrebbe riconosciuta ovunque – era come quella di un demone ormai perduto. Come se, a parlare, fossero due entità. Era fin troppo familiare e doloroso. «Abbiamo camminato nel tuo regno tutti insieme. Tutti e sei».

Baphomet si girò verso di loro. Li vedeva, ma non li stava guardando. Era come se, per lui, i corpi di cinque di loro fossero fatti di acqua. Scrutava Yuki, per lunghi attimi – poi il suo sguardo ricadde, anche se per poco, su Takeshi accanto a lei, che le stringeva l'avambraccio nell'atto di fermarla.

Il dio schiuse la bocca.

«Baphomet», esclamò la mezzosangue. Fece un passo in avanti insieme a Takeshi. «Abbiamo bisogno del tuo aiuto».

«Aiuto», ripeté, a se stesso. Baphomet allontanò il pugno dalla sua ossuta guancia e lo premette sui tessuti. Si issò, raddrizzando la schiena. Anche da seduto, appariva estremamente imponente, una statua che aveva vita propria. «Tu hai bisogno del mio aiuto?».

Yuki aveva la sensazione che lui non vedesse altri, in quel luogo, all'infuori di lei. E non era piacevole. Per il momento, gli avrebbe dato corda. «Sì, è... è così. Ci è... mi è indispensabile, sei la mia unica possibilità». Libera dalla stretta protettiva di Takeshi, l'albina fece qualche altro passo, accorciando guardinga la distanza fra lei e il dio.
Più lo guardava, più sembrava un bambino smarrito. Il suo viso restava immutato, però alle volte un briciolo di confusione affiorava, e le pupille cercavano un punto da scrutare. A tratti, ancora, appariva rincuorato, persino speranzoso. Oppure, lei stava fraintendendo i piccoli segnali che scovava, e quel dio non stava facendo altro se non giocare con la sua psiche. «Ho... », mentre parlava, Yuki continuava ad avanzare. Ogni passo era calcolato. «... cercato allungo un modo per arrivare fin qui, nel tuo regno... ». L'albina non gli staccava gli occhi di dosso. Adesso, anche Baphomet non distoglieva più lo sguardo. «Per parlare con te. Per incontrarti».

Baphomet aprì le labbra e i suoi canini fecero capolino. Il dio appoggiò la mano a terra, l'altra strinse uno spuntone. La sua mano lo piegò verso il basso, come fosse carta. Con lo stesso gesto, ripetuto un altro paio di volte sugli altri acunei, si aprì la strada.

«Tu sei», riprese lei. «colui che ha creato demoni, vampiri e streghe. Non è così?».

«Molte sono le cose. Non molte sono il mio orgoglio». In quella frase, anche se l'aveva proferita con un tono insapore, c'era molta amarezza. Baphomet, finalmente, era in piedi.

Yuki si fermò di scatto, arretrò frettolosamente, rischiando di inciampare.

Non doveva aver paura. Non doveva aver paura.

«Il mio aiuto», sibilò Baphomet. «Lo servirò su un piatto d'argento. Ti presto attenzione. Quindi, parlami... ».

 

Tre metri di imponenza. Un lungo manto di capelli pece che scivolavano sul pavimento come serpenti, strascicando alle sue spalle.

«... Lilith, fulgida come il sole... ».

 

Lilith?

Aveva detto... Lilith?

 

«No», sussurrò il dio, abbassando la testa. La sua figura gettava una fitta ombra, allungata, sulla ragazza albina, che lo fissava sconcertata. «Lilith ti intristisce. Nelle immagini, l'ho sempre visto, con questi miei occhi».

Il dio si piegò. Il suo ginocchio toccò terra, eppure era ancora abbastanza monumentale da farla esitare. Faccia a faccia, ora più vicini che mai, Baphomet allungò la sua mano verso Yuki. Il suo palmo, così prossimo, era molto più grande di quanto le fosse sembrato prima. «Lullaby».

«Yuki», mormorò Takeshi, a denti stretti.

La mezzosangue ingollò la saliva e appoggiò la sua mano, piccola e bianca, su quella del dio. Emanava un sottile odore di cenere. «Baphomet», disse Yuki. Non doveva aver paura. Poteva farcela. «Il mio nome non è quello. Io non sono... l'Imperatrice. Io sono Yuki».

«Lo vedo. Ti vedo. Sei così nitida da sembrare tangibile e reale», Baphomet allungò il collo, avvicinando il suo viso a quello della mezzosangue. Inspirò l'aria, profondamente, riempiendosi le narici. «Sento il profumo del tuo sangue misto».

Yuki non si mosse.

«È stato molto tempo fa. Posso ancora rimembrare quei colori. Anche lei, la piccola principessa, aveva questo profumo... ».

«La principessa Rujiya», sussurrò Yuki. «Lei non... ».

«Sono svanite».

«Non esattamente. Loro sono ancora qui». Le dita dell'altra mano toccarono la guardia, sfiorarono il manico. «In questa katana, che tu conosci bene».

Baphomet seguì il movimento della ragazza, dunque trovò la katana che pendeva al suo fianco. «Un giorno, ognuna di voi potrà ricongiungersi», le pupille bianche ruotarono verso Yuki. «E così, questo regno sarà... ».

La mezzosangue fece per tirare via la sua mano, ma Baphomet chiuse le dita intorno al suo polso, bloccandola all'istante. Yuki capì che non ci aveva impiegato nessuno sforzo, ad immobilizzarla. Cominciò ad innervosirsi, il suo respiro si fece affrettato. «Non vogliamo questo. Nessuna di noi lo vuole, Baphomet. Abbiamo bisogno di sparire e di trovare la nostra pace. Lasciaci andare, e basta. Metti fine a questa storia».

«E per allora, il tuo cuore e la tua mente apparteranno a questo luogo», Baphomet aggrottò le sopracciglia. «Non lottare con me».

Yuki sbarrò gli occhi, digrignò i denti. Se era vero che aveva paura, era anche vero che quel dio non l'avrebbe passata liscia. «Io non– ».

«Rimembri ancora il vuoto, oltre la porta?».

«C-cosa... ?».

«Quando il tuo battito è cessato», sussurrò Baphomet. «e il tuo corpo è divenuto patetica polvere. Rimembri ogni cosa, vero?».

Yuki non rispose. L'ostilità nel suo sguardo era più che abbastanza.

«Ti ho liberato dal vuoto perché dovevi ricongiungerti con le tue Guerriere», continuò. «non perché tu iniziassi una ribellione».

«Tu mi hai... ». Lui l'aveva liberata. Era grazie a lui se era tornata in vita, se era uscita dal mondo della katana? «Perché hai– ».

«Dovevi ricongiungerti. Devi giungere qui, infine». Baphomet aprì le dita, quando si rese conto che lei non stava più combattendo per liberarsi. Troppo scioccata per pensarci. Baphomet osservò in basso, il palmo aperto di Yuki, la pelle bianca come neve. «Sono felice».

«Io non lo sono», sbottò la mezzosangue. «Lasciami andare».

Per risposta, il dio si avvicinò ancora di più, fino a ché il suo naso non toccò quello dell'albina. Le sue proporzioni erano più grandi del normale. La pelle di Baphomet scottava come lava, anche se le sue mani erano fredde, puro ghiaccio. «Perché? L'ho fatto per te. Stavi soffrendo. Stavi piangendo. Eri nella più abietta solitudine, ed ora sei qui, dove la luce risplende, e la luna ti assiste ogni notte». Il dio inclinò la testa di lato, le sue labbra si incurvarono leggermente verso il basso, incupito. «Perché sei ancora infelice? Cosa posso fare, ancora, per te?».


Voleva scappare. Voleva correre via, il più lontano possibile, sottrarsi dal freddo e dal caldo della sua pelle. Quella sorta di amore sconfinato la terrorizzava, come una mano che strangola un collo, fingendosi carezza. Aveva paura. Aveva paura di quell'amore. «Rispondi alle mie domande», riuscì infine ad articolare, con un filo di voce. «Perché noi demoni e vampiri siamo nati? Cosa se ne fa un dio di due razze così inutili? E soprattutto», deglutì, cercando di allontanare il suo viso. «perché i demoni soccombono alla follia?».

Baphomet raddrizzò la schiena, allontanò la testa. Finalmente, il dio si mise ad una distanza che permettesse all'albina di respirare. Yuki alzò la fronte, per poter studiare quei micro cambiamenti dei suoi connotati.

«Lo hanno chiesto. L'hanno incontrata, il mio braccio più utile, e le hanno chiesto di diventare molto più forte. Molto più intelligenti. Non comprendevo le loro ragioni, ma ero disposto a creare qualcosa di nuovo. Volevo farlo, e l'ho fatto. Sono nati così. I piccoli umani indifesi sono diventati una nuova forma di forza. I miei vampiri, sanguinari figli miei. I miei demoni, affamate figlie mie». Il dio gargantuesco incrociò lo sguardo di Tetsuya. «Io ci ero riuscito».


Loro provenivano dagli umani? – umani stanchi di morire, era da loro che era iniziata quella lunga storia di sangue e scontri?

Sentì gli occhi di Takeshi addosso, sulla schiena. Chissà cosa pensava. Adesso sapeva che non erano tanto diversi, l'uno dall'altra. «E la follia?», sibilò lei.

«Per quello che mi ha fatto, è stato un prezzo molto giusto, forse troppo basso per i suoi atti».

«Di cosa stai parlando? Chi ha fatto cosa?».

«Quello che mi ha fatto. Ciò che mi ha rubato. Le fragili mani di Bael mi portarono via Lullaby... ».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Gradualmente, in modo da non innervosire il dio, i cinque si stavano avvicinando. Per raggiungere Yuki e non lasciarla completamente alla mercé di quella creatura dalle dimensioni colossali – per lo meno, dimensioni che non si vedono tutti i giorni.

Un passo alla volta, felpati e impercettibili.

Lui parlava, con quella voce che non aveva niente di normale. Le due entità parlavano all'unisono, un timbro profondo e marcato, l'altro più acuto e mellifluo. La sua attenzione era tutta per la mezzosangue che teneva stretta con la morsa della sua mano.

 

Poi, le rivelazioni del dio – discendevano da umani, ognuno di loro. Umani molto avidi, umani determinati a diventare qualcos'altro. Qualcosa che li rendesse abbastanza potenti da poter conquistare tutto. Una piccola fetta di umani, certo – ma quella piccola fetta era ben presto diventata incredibilmente importante. Ampia.
Tetsuya si bloccò, le sue gambe smisero di funzionare.

Per molto tempo, aveva provato diffidenza, riluttanza, distacco per gli umani... per poi scoprire che lui stesso era parte di quella gente.

Tetsuya spostò lo guardo verso Ai. Anche lei si era voltata. Ed entrambi avevano dipinto in faccia lo stordimento, la confusione – era così ironico.

«Tetsu», mormorò Sayumi. Lei gli prese la mano. Era sudata e calda, ma forte. Tetsuya annuì. Avrebbe lasciato a dopo le crisi esistenziali.

 

Charlotte spiava intorno, alla ricerca dell'unica strega con cui valesse la pena scontrarsi. Mi chiedo dove si stia nascondendo, quella megera, pensò, studiando ogni spazietto e angolo. Quella sala, però, non aveva stanze né corridoi, quindi sua nonna non poteva essere lì.

 

«Avevo deciso di donargliela. La katana che porti al tuo fianco. Come dono, come promessa che avrebbe sempre avuto la mia protezione». Baphomet abbassò le palpebre. Era avvilito da quei ricordi? «Avevo vegliato su di lei fin dalla sua nascita. Mentre la sua vita giungeva al mondo e la luce scolpiva le sue guance purpuree. Non potevo essere lì, non potevo muovermi dal mio regno, ma potevo vigilare su di lei, assicurarmi la sua gioia. Così tanto bastava per colmare il mio petto».
Come prova, Baphomet sollevò i suoi artigli, premendoli sotto le clavicole. Quelli incisero la sua carne, tracciandola appena, e gocce di petrolio sbocciarono. «Non fu abbastanza. Per lei. Per il mio sole. Lei preferì quel piccolo e», i suoi lineamenti si stropicciarono, lunghi canini affilati fremettero. «insulso, insignificante... vile... ».

 

Il sangue le si congelò nelle vene. Yuki aveva seguito il fiume di parole, tutte improvvise, tutte con lo stesso timbro inespressivo, e aveva infine capito. Non c'era un'altra versione. Lei aveva capito a cosa era dovuta la follia, perché i demoni ne soffrissero, perché fossero costretti a soccombere, dopo aver perso se stessi, uccisi dai cacciatori – uccisi dalla loro stessa mente. Aveva infine capito perché lei stessa aveva visto così tanto sangue.

 

«Tu... tu hai... ». Aveva capito perché Makoto era dovuta morire. «Hai costretto milioni di persone a morire solo per la tua stupida gelosia?!». Adesso aveva la sua risposta. Il loro mondo era così sbagliato e in fin di vita perché il dio che gli aveva dato la vita era altrettanto marcio. «Hai UCCISO quella gente!».


Con l'affanno, piegata su se stessa, Yuki chiuse le palpebre.

Per quanto gridasse e strepitasse e sbattesse i piedi in terra, nessuno di loro sarebbe tornato in vita. Aveva gli occhi – vuoti – di Baphomet addosso. E lui non stava provando nessun sentimento. Né rabbia, né felicità. Per quanto lui potesse dire di sentirsi felice, il suo petto restava fermo, inanimato. «Senti solo sofferenza? Il tuo cuore sta tremando?».


Yuki strinse Anima. La sua pelle andava a fuoco. «No», rispose. Sguainò la katana, fendette l'aria. «Il mio cuore è risoluto», e sollevò il capo verso quel dio che incombeva su di loro. «Baphomet, ti chiedo di darmi i tuoi occhi. Questa è la mia richiesta per te».

Baphomet la guardò. Per un attimo, la meraviglia dipinse i suoi connotati facciali. «Sei consapevole di cosa sono capaci?».

Non lo era. Ma, arrivata a quel punto, non importava più niente. «Ne ho bisogno. A prescindere dalle conseguenze».

 

Ci fu silenzio. Il dio sembrò riflettere. Le pupille rettangolari macinarono qualche metro, si posarono sui cinque. Si attardarono su Charlotte. La strega sostenne quel confronto, irremovibile, seria in volto come non era mai stata. Chiuse i pugni.

«Saranno tuoi, se è quello che vuoi», proclamò, alla fine.

Yuki trattenne a stento un sospiro di sollievo. Takeshi strinse le labbra.

Baphomet si voltò, lentamente, come se il movimento gli richiedesse molta energia. La lunga chioma corvina seguì il suo ruotarsi, strisciando sul pavimento come un mantello. Il dio stava puntando al suo nido, allungando un braccio in quella direzione, con l'intenzione di tornare al suo giaciglio – e poi, i suoi artigli così vicini agli occhi, si fermò meccanicamente. A così poco dalla riuscita di quell'impresa.

Funebre, domandò: «Perché ne hai bisogno?».

Era una semplice domanda. Doveva rispondergli. «Devo salvare qualcuno e», deglutì. «i tuoi occhi sono il prezzo da pagare per riuscirci».

Baphomet si piegò leggermente in avanti, posando i suoi grandi palmi sugli spuntoni del suo nido. «Chi desideri salvare?».

«È un problema per te?».

«Ho domandato», tuonarono le sue voci. «chi desideri salvare?».

Yuki sussultò, increspando le sopracciglia. Serrò la mandibola, assottigliò le palpebre. «Colui a cui tengo di più», fu la risposta dell'albina. «e per cui darei tutte le mie vite».

Baphomet rimase in silenzio.

«È abbastanza? Sei soddisfat– ».

«Anche tu». Il dio levò la fronte allo sconfinato soffitto a cupola. I suoi capelli scivolarono oltre le spalle, in una cascata di nero. «Anche tu vuoi abbandonarmi. Per un singolo... sostituibile uomo... ».

«Baphomet. Non– ».

«Vattene. Lasciami solo. Non voglio vedere né te», le sue voci vibravano come corde di violino, forti più di lampi. «né quegli intrusi».

«Ma– ». Yuki provò a fare un passo – ma, il dio, sferzò l'aria con il braccio sinistro, scatenando una violenta onda d'urto, che spinse la mezzosangue indietro di svariati metri. Yuki si coprì il volto di riflesso, piantando i piedi a terra per combattere l'improvviso colpo.
«Yuki!», gridarono gli altri. Quando l'ondata si placò, dopo qualche istante, la mezzosangue agitò subito una mano verso di loro, intimandogli di fermarsi. Se si fossero avvicinati più di così, la situazione sarebbe potuto peggiorare molto più velocemente.

Spostò gli avambracci dal viso e puntò al dio, ora distante da lei, proprio come all'inizio. «Allora, non hai intenzione di aiutarmi?», chiese, quasi urlando. «È così, Baphomet?».

Il dio chiuse i grandi pugni. Yuki aveva la sua risposta – dunque, a quel punto, lei non poté far altro che sguainare nuovamente la katana. «Se è così, mi vedo costretta a prendermi i tuoi occhi da sola», mentre i suoi si infiammavano di sangue. «con la forza».

Lentamente, scandendo i secondi con il solo suono dei suoi passi, Baphomet si rivolse al gruppo di sei intrusi. Li squadrava come se di fronte a lui si stessero agitando minuscoli insetti. Aveva ascoltato le parole della mezzosangue, con le sue stesse orecchie, e l'avevano colpito come una frustrata. Lei lo avrebbe combattuto, alla mano la katana Anima? – la katana che, prima ancora, apparteneva a lui? L'angolo della bocca si sollevò appena, più simile ad un tic che ad un sorriso. Forse, dopo secoli e secoli, avrebbe finalmente riso – oppure pianto, oppure si sarebbe infuriato, oppure avrebbe provato gioia. «Combattimi, dunque, discendente dell'oro più luminoso», sibilarono le voci di Baphomet. «Combattimi con tutto il coraggio che ti scorre nelle vene e prova a farmi scomparire dal creato, se ne sei in grado».


Yuki alzò la katana sopra la sua testa e fletté le ginocchia. «Tu non hai idea di cosa sia in grado», e sorrise, temerariamente.

Baphomet la fissò con quelle due pupille, inespressivo. Poi appoggiò il suo piede in avanti, abbassò la testa. «Così sarà», fu l'ultimo sussurro che udirono da lui – prima che qualcosa di spaventoso e incredibile cominciò a palesarsi.

 

Fu a quel punto, di fronte agli sguardi sconcertati di tutti loro, che il dio cominciò a mutare. Usciva dalle sue vesti più umani, come una farfalla dal suo bozzolo; videro il suo corpo crescere d'altezza, i suoi arti allungarsi, pezzo per pezzo, il suo torso restringersi. L'intero corpo si stava ricoprendo di cenere, i suoi capelli regredirono, accorciandosi fino alla vita, i suoi artigli crebbero ulteriormente. Le corna, già possenti, si stiracchiavano verso l'esterno, diramandosi in varie direzioni come radici. La pupilla rettangolare, unica fonte di luce in un agglomerato di buio, sparirono, risucchiate dalla sclera che si colorava di nero – e poi, come se finalmente si stessero liberando da una lunga prigionia, quattro paia di ali piumate si spiegarono. Grandi, tanto da celare il suo corpo, dal folto e pungente piumaggio petrolio, si incurvarono in avanti al movimento del suo braccio, mentre puntava il lungo indice verso Yuki. «Dimostrami, allora, di cosa è in grado una Guerriera Dorata».


Yuki, con la bocca aperta, sentii lo stomaco contorcersi. «Bene», bisbigliò. «La situazione è decisamente degenerata».

«Yuki», esclamò Takeshi, raggiungendo il suo fianco. «Torniamo indietro. Non ne vale la pena, okay? Ci faremo solo ammazzare, se davvero–».

«Takeshi». Lei sorrise, guardando le ali nere di Baphomet aprirsi, ampie, voluminose. Un cielo senza stelle. «Sai una cosa? Mi dispiace averti trascinato giù con me».

Takeshi, in quel momento, aveva la testa piena zeppa di pensieri. E preoccupazioni. Scosse la testa, sorridendo amaramente. «Non mi hai trascinato. Sono io ad averti seguito. Ricordi? Ti avevo detto che ti avrei perseguitata».

Si presero la mano. Le loro dita, intrecciate, erano l'unica parte dei loro corpi ad essere calma. «Sei un uomo di parola, Takeshi».

 

Purtroppo, lo era stato.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Sotto ai loro piedi, il pavimento prese a vacillare vistosamente. Baphomet spiegò le ali verso l'esterno, gettando una grossa, incombente ombra sul gruppo. Dopo di ché, con un singolo battito, scatenò violenti tornado nella loro direzione. Tetsuya si gettò su Sayumi, facendole scudo con il proprio corpo, nonostante la sua ferita all'addome fosse ancora in via di guarigione – ma non avevano il tempo di far spostare tutti e sei – e Yuki fece lo stesso con Takeshi e Ai.
Charlotte balzò in avanti, sollevò i palmi di fronte a sé e una grande barriera si innalzò all'improvviso. I tornado si schiantarono contro le difese della strega, rompendole immediatamente e scagliando lei qualche metro indietro.

«Charlotte!», gridò Yuki.

Charlotte, che si era piegata sulle ginocchia, era tuttavia ancora in piedi e pronta a lottare.

«Che c'è? Ti preoccupi per me adesso?», la strega si strofinò l'avambraccio sulle labbra. «Non è finita. Non ancora». Si voltò, di scatto, verso la mezzosangue e poi subito al vampiro biondo. «In piedi!», urlò, a pieni polmoni. «Se non volete crepare qui, allora combattete!».

 

Yuki e Tetsuya si lanciarono uno sguardo. Scattarono in piedi, raggiunsero i fianchi della strega. La mezzosangue pestò il pavimento e scariche elettriche si diramarono lungo le sue gambe, fino alle mani strette all'elsa della katana. Tetsuya spalancò le mani e quelle avvamparono di fiamme rosse e blu, scoppiettando e sfrigolando, mentre i suoi occhi viola mutavano in cremisi.

Baphomet li osservava tra le folte ciglia, nello stesso modo in cui si guarda un insetto raccapricciante. Disgustato, ma nel suo caso, soprattutto deluso. «Sei disposta a scomparire», disse, in un sibilo che echeggiò fra le pareti di quell'enorme sala. «come se non fossi mai esistito, in questo mondo – non è vero?».

«Sì, è così», rispose Yuki. Le parole del dio suonavano come un'ultima richiesta di andarsene. In quel modo, lui avrebbe potuto evitare di ucciderla – ma lei gli stava legando i polsi.

«In questo caso... Soccomberete».

Nuovamente, il suolo tremò sotto di loro. I tre persero l'equilibrio, per l'improvvisa attività sismica, e traballarono sulle loro stesse gambe. Tetsuya si voltò di tre quarti. Takeshi stava portando via Sayumi e Ai, raggiungendo il fondo della sala, più vicini possibili alla porta da cui erano entrati. Nel frastuono del terreno che si smuoveva, sentiva le proteste delle ragazze – si voltò dall'altra parte, ragionando su cosa fare.

 

 

«... aspetta, Takeshi!», per quanto Sayumi si dimenasse, non riusciva a sfuggire alla presa del ragazzo, che l'aveva caricata sottobraccio come un sacco di patate, mentre trascinava Ai stringendole la mano. «Mi spieghi come faccio a tenerli sani e soprattutto vivi, se mi porti via?!».

«Se stiamo là causeremo solo problemi!», ribatté Ai, alzando la voce per farsi ascoltare. «Non siamo in grado di combattere come loro, mettiti l'anima in pace!».

«Ma io voglio!».

«Ma non puoi!».

 

Takeshi, finalmente, si fermò. Non si guardava indietro. Se l'avesse fatto, non sarebbe stato in grado di continuare a correre verso la porta. Ora che vi erano abbastanza vicini, però, poté arrestare il suo passo. Fece scendere Sayumi e prese per le spalle tutte e due, costringendole ad accucciarsi a terra. «Yuki non è capace di combattere», disse. «se deve preoccuparsi per voi. Yumi, so che sarai in grado di aiutarci, nel momento del bisogno. Non abbiate paura, tutte e due. Dobbiamo avere coraggio, tutti quanti. Okay?».

Sayumi guardò a terra. Annuì. Il ragazzo ripiegò, con un leggero sorriso sulle labbra – poi Ai ricacciò indietro le parole appena pronunciate dal bruno. Aveva detto... «Aspetta, come sarebbe aiutarci?!», ma non aveva fatto in tempo a terminare la sua frase che Takeshi si era voltato e aveva iniziato a correre.

Le proteste le morirono in gola, a quella incredibile vista. Ai e Sayumi si scambiarono un'occhiata allucinata. Avevano le visioni?

Non credevano ai loro occhi. Perché Takeshi... com'era possibile che Takeshi potesse correre così velocemente?

 

Takeshi ci aveva riflettuto. Il potere – le capacità – spesso comportavano sacrifici. Lottare e proteggere significava questo, d'altronde. E anche se non si trattasse di una verità assoluta, lo era per lui. Per questo, Takeshi Katugawa aveva deciso di fare un sacrificio. Piccolo, in confronto a ciò che poteva davvero ottenere.

Alyon, pensava, mentre le sue gambe si muovevano da sole, in completa autonomia, scindendo l'aria, se sei qui e stai cercando di prendere il mio posto, allora devi guadagnartelo. Non ti lascerò fare lo spettatore. Se è la vita ciò che vuoi, allora devi combattere. Alyon, devi darmi la tua forza. Altrimenti, non meriti di vivere in questo dannato mondo. È chiaro?, si fermò, ripetendo a voce alta. «È chiaro?!».

Una risata risuonò dal fondo della sua coscienza.

Che sfrontato. È chiaro.

 

Takeshi inspirò. Alla fine di quel lungo percorso, aveva fatto pace con ciò che restava della sua anima. Adesso sapeva perfettamente cosa doveva fare.

Il vento gli graffiava le guance, una sensazione flebile in confronto a ciò che stava accadendo al suo corpo – il controllo che ormai aveva perso.
Le iridi che ricordavano il cioccolato adesso avevano il gusto del sangue. Alyon gli stava sussurrando all'orecchio cosa fare. Come essere una creatura molto più potente – molto più invincibile. Con uno scatto veloce, Takeshi tirò indietro le braccia, e dalla punta delle dita si plasmarono affilate daghe. Una per mano, il ragazzo fece un ultimo scatto, superando persino il trio.

Con terrore, quando lo notò, Yuki gridò il suo nome, protendendosi nel tentativo di fermarlo.

Takeshi tuttavia continuò. Fece un balzò in avanti, e si scagliò su Baphomet. Roteando, scagliò coppie di fendenti nella sua direzione, puntando alla gola del dio. Egli si scansò di lato e lanciò un'altra folata con le sue ali contro il bruno. Takeshi, per evitare il contrattacco, atterrò prontamente a terra, rotolò a sinistra e riprese a correre per schivare gli attacchi.

Yuki e gli altri assistevano a quella scena, increduli.

«Cosa diavolo sta succedendo?!», esclamò Tetsuya.

«Non... », Yuki scosse la testa, impietrita. Cosa stava succedendo? E perché gli occhi di Takeshi erano rossi, come quelli di una creatura? «Non lo so. Non capisco. Dobbiamo aiutarlo».

Allora i tre si mossero, il più veloci possibile, lanciandosi in quello scontro mortale.

 

 

Ai tirò Sayumi per il braccio, cercando di farla indietreggiare. «La vuoi piantare una buona volta?!», sbraitava la mezzosangue più giovane. «Non capisco perché Takeshi sia... », Ai seguì per un istante il combattimento, in fondo al salone, un groppo alla gola. Era semplicemente spaventoso. «Ma in ogni caso, muoviti a venire qui!».

Con un altro strattone, Ai riuscì a tirare via la ragazza, portandola in una zona più sicura, con le spalle alla porta. Sayumi serrò i denti, respirando ansiosa. «Non è normale. Non è normale», ripeté. «Sta... sta agendo più veloce del previsto. Dobbiamo recuperare quegli occhi, e alla svelta».

«Di cosa stai parlando?», domandò Ai, spazientita. «Tu sai tutto, non è vero? Mi spieghi cosa... mi spieghi perché volevate venire qua?».

Sayumi alzò lo sguardo, sbarrato e terrorizzato, sulla rossa. «Noi... », balbettò. «Volevamo solo salvare Takeshi».

Ai aprì la bocca. Sayumi sembrava in preda alla paura, il buon senso sembrava averla abbandonata. Era terribilmente spaventata, ma per quale motivo? Per il dio Baphomet? Oppure, per Takeshi? – qualsiasi fosse il motivo, la ragazza doveva darsi una calmata, perché il suo aiuto poteva diventare vitale, da un momento all'altro. «Non so perché sei così spaventata, ma devi calmarti. Non sarai utile se– … ». Ai si bloccò. Si girò di scatto, verso la sala. «Chi c'è?!».

«Impressionante, davvero notevole».


Ai guardò da una parte all'altra, incontrando solo particelle di polvere nell'aria. Non c'era nessuno... eppure una voce le aveva effettivamente risposto. Ai ruotò il torso, aggrottò la fronte.

«Ah, giusto», disse la voce, come se si fosse resa conto di un errore. «Ora va meglio, no?».


Ai e Sayumi spalancarono gli occhi. Una donna era appena apparsa davanti a loro, palesandosi dopo un solo battito di ciglia. «Non volevo origliare le vostre conversazioni», le sue parole erano gentili, il tono era... finto. «Però sembrava interessante, l'argomento in questione».

La mezzosangue si mise in piedi, frapponendosi fra la donna e Sayumi. Minacciosa, la ragazza allargò le braccia. «Tu chi sei?».

Sayumi, in ginocchio a terra, osservò i suoi vestiti. Dal bordo che strascicava fino alla fascia nera intorno al collo – la sua mente ricordò quelle pagine ingiallite, quelle frasi scritte, e sbiancò vistosamente. «La strega... ».

 

La donna fece uno strano, storto sorriso, mentre faceva un cenno d'assenso col capo.

«Il mio nome è Ismet».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Yuki scattò in avanti, roteando la lama della katana in direzione delle gambe del dio. Quest'ultimo, tanto veloce quanto tempestivo, parò il colpo con il suo avambraccio, semplicemente ponendolo fra la spada e la sua tibia. Dopo di ché, con un solo movimento, cacciò indietro la mezzosangue, facendola ruzzolare lontano – l'idea era di azzopparlo, e forse non sarebbe stato utile, ma di sicuro gli avrebbe dato un piccolo vantaggio, mentre gli altri si concentravano a colpirlo dagli altri lati. Peccato che fosse incredibilmente veloce e di eccezionali riflessi.

L'albina, dopo aver ruzzolato per un po', atterrò infine sulla schiena, incassando il colpo. Il fiato le mancò per qualche istante, strappato via. Riuscì a sollevarsi con la schiena, anche se faticosamente, in tempo per vedere Tetsuya sparare fiammate dalle dita come proiettili. Baphomet picchiò l'aria con il palmo destro e il fuoco del vampiro si scontrò contro una parete invisibile.

Yuki sbatté le ciglia. Quella era la stessa tecnica usata da Charlotte all'inizio. Non stava allucinando, ne era sicura.

La strega, allo stesso modo, sembrava aver notato la somiglianza. Fissò la scena con disappunto ed incredulità, e decise che non si sarebbe fermata. Ben presto, dal suolo intorno ai suoi piedi si elevò nebbia viola – i suoi lineamenti si piegarono sotto lo sforzo e la concentrazione.

Yuki aveva un brutto presentimento. «Aspe–». Ma era troppo tardi. Charlotte sollevò le sue alte mura nebulose, contraendo le dita, fino a raggiungere il soffitto. Poi, come un'onda anomala, quella si abbatté sul dio, avvolgendolo in un abbraccio offuscato.

L'albina rimase immobile, ancora a terra, con il fiato sospeso.

Charlotte, affannata, rise di gusto. «Io. Sono. Grande!».


Takeshi, che era a mezzo metro dalla strega, spostò lo sguardo da lei alla nebbia, che ancora galleggiava su Baphomet. La ispezionava con quel paio di iridi scarlatte, intensamente, sempre più. «Vedi qualcosa?», domandò, in un bisbiglio che solo lui poteva sentire.

Sì. Una creatura molto arrabbiata.

Come immaginava.

Takeshi si girò di scatto, si buttò su Charlotte, afferrandola per la vita, e portandola via da quel punto. «Correte!», urlò.

 

I banchi di nebbia esplosero. I fumi viola si espansero per gran parte della sala, togliendo il respiro ai quattro. Takeshi si fermò, coprendo la strega con il suo corpo, nella vana speranza di non farle aspirare il suo stesso attacco.

Charlotte cercava di scansarlo, invece. «Cosa diavolo stai facendo?! Idiota, io non ho bisogno di– ».

«Tu non puoi morire qua». Charlotte si interruppe, sollevò lo sguardo. Si specchiò in quei rubini, brillanti e ardenti, il suo viso imperlato di sudore. «Non ora, e non qua».

La strega chiuse i pugni contro le sue spalle, la mandibola rigida, i denti stretti. «Ma cos'hai che non va... », la sua domanda restò a fluttuare, a fior di labbra. Takeshi tossì un paio di volte, mentre la nebbia finalmente si calmava, diradandosi e scomparendo nelle mura.


«State bene?!», fu l'urlo di Tetsuya, che si trovava più o meno al centro della sala. Tra ognuno di loro – ad eccezione per Takeshi e Charlotte – c'era una preoccupante distanza, ma almeno erano ancora vivi. Il vampiro si coprì la bocca con il braccio, tossicchiando, e fissando davanti a sé. «È un osso duro... ».

Baphomet sbatté le ali. Era sospeso a pochi centimetri da terra, impassibile, guardando dall'alto in basso Tetsuya, che era il più vicino. «Perché non vuoi abbandonare i tuoi futili propositi? Perché vuoi soffrire, così all'infinito?».

«Non hai occhi che per le Guerriere Dorate», ringhiò Tetsuya. «e non hai fatto altro che portare dolore ai tuoi cosiddetti figli. Non provi nessuna vergogna?».


Il dio non si espresse. Continuava a guardare il vampiro, con quello sguardo vuoto, la sua figura contornata appena dalla luce delle fiaccole. Baphomet, per lui, non aveva niente da dire.
Tetsuya chiuse i pugni, impregnandosi i pugni di sangue. «Yuki», sibilò. «Uccidiamo questo bastardo – una volta per tutte». Poi il vampiro percepì l'aria spostarsi e una macchia bianca, frastagliata e poco visibile, gli schizzò accanto in un secondo.

Yuki, avvolta da cariche elettriche, balzò su Baphomet – sollevò la lama sopra la sua testa e calò il fendente sul dio.

 

E fu come il tempo si congelasse. Quegli attimi necessari perché lei potesse guardarlo, perché lei potesse sentire l'odore di cenere, la calma inattaccabile delle sue labbra.

Baphomet slanciò il suo braccio, così velocemente, da non generare alcun suono – e la agguantò dalla testa, come un misero uccellino.


Baphomet la teneva nella sua stretta. Caricò indietro il braccio, e di fronte al terrore di ognuno di loro – e così scagliò la mezzosangue nella parete, che si frantumò come vetro.

 

«YUKI!».

 

Fu questo l'ultimo grido che lei sentì – prima di perdere la sua presa nella realtà.

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Capitolo 24
*** Stavo per trascorrere la mia vita con te. ***


24.




Il dolore era svanito. Come se non fosse mai esistito, da nessuna parte, in nessun luogo.
Come se il mondo fosse tornato alle sue origini, solo un'immensa landa di terra e di acqua. Di vento e di odori. Di colori e stupefacenti sensazioni. Era tornato tutto come un tempo e tutto ciò di cui avevano realmente bisogno, era lì, per loro. Ed erano in pace.
Lei stava fluttuando al centro di quella landa. Il suo corpo, sospeso tra dolci venti, era avvolto da qualcosa di morbido. Sprofondata nel tepore, con gli occhi chiusi, Yuki era al sicuro.

Nessuna battaglia la stava aspettando al varco, nessuna sofferenza, nessuna sopravvivenza arrancata. I suoi denti e le sue unghie potevano smettere di combattere. La sua avventura, per cui, era finalmente finita.

La storia di Yuki Akawa, d'altro canto, doveva concludersi prima o poi, e lei lo sapeva.

Forse, con ogni probabilità – ma aveva senso parlare di probabilità? –, sarebbe finita proprio in quel modo; mentre il suo corpo si rigenerava, in un luogo completamente vuoto e pacifico, nella brezza leggera che le accarezzava le braccia, e gambe e le guance, scostandole via i ciuffi bianchi sulla fronte.

Finché non comprese che quella non era una brezza.

 

Yuki sollevò lentamente le palpebre, senza nemmeno pensarci. Subito, una forte luce la accecò, inducendola a richiudere subito gli occhi. Ma in quel frangente le aveva notate. Bianche dita che le spostavano i capelli, le nocche che scendevano sui suoi zigomi, il dorso della mano che combaciava con la curva del viso dell'albina. Qualcuno era lì, vicino a lei. Qualcuno si stava prendendo cura del suo animo provato. Era quella persona a farla sentire come se fosse finalmente trovato pace?

 

Poi, udì una risatina. Era dolce, spensierata, simile ad una bambina divertita. «Per quanto ancora vorrai dormire?», una voce di donna. «È tardi, dormiglione».

La mezzosangue decise di fare un altro tentativo. Lentamente, aprì la prima palpebra, e di nuovo venne inondata da una forte fonte di luce – tentennò, ma non si arrese, e aprì anche l'altra.
E non vide nessuno. Accanto a lei non c'era nessuna donna. Era sola. Credeva... credeva ci fosse qualcuno con lei, eppure...

Ben più importante era il posto in cui si trovava. Yuki sbatté le ciglia, spostando lo sguardo da una parte all'altro, per quanto il suo campo visivo – da stesa sulla schiena – le permetteva. Quel luogo non era la sala con il “trono” di Baphomet. Era un posto che non aveva mai visto prima. Tuttavia... aveva un odore nostalgico.

Di famiglia?, pensò, ma come ci sono arrivata... e perché?

Tirò su la schiena e si mise a sedere, rendendosi conto di trovarsi su un letto a baldacchino. Si osservò allora le mani, le gambe, si toccò il viso. Era sempre lei. Non era misteriosamente cambiata. Ma allora... perché quella voce aveva detto "dormiglione"? Non era tanto facile sbagliarsi. Forse, quella persona non parlava bene la lingua giapponese. In ogni caso, doveva capire dove si trovava, era quello l'importante.

Si voltò a sinistra, scovando un'ampia veranda che si affacciava su un esterno sconosciuto. Ed era da lì che proveniva quella luce così accecante, dorata e calda. Da quel punto, parallelamente alla balconata della veranda, la mezzosangue riusciva a vedere un lungo corridoio che si perdeva a vista d'occhio, costeggiato da colonne. In mezzo, tra il lungo corridoio e la balconata, spuntavano gocce d'acqua zampillanti, che bagnavano debolmente le foglie degli alberi. A separare i due corridoi doveva esserci un atrio, da cui riusciva a sentire alcune voci parlottare fra loro. In una lingua... che non capiva.

Yuki non smetteva di osservare l'ambiente intorno a lei. Dallo spazioso letto a baldacchino, alle candide lenzuola, ai veli che scendevano dal tettuccio, smossi dal leggero vento, fino alla cassettiera in vimini o alla specchiera accanto alla porta spalancata.

Poi, proprio da quella porta, una figura longilinea cominciò a farsi sempre più vicina. «Ti sei svegliato, finalmente!». La donna sorpassò la soglia, raggiungendo il capezzale, raggiante.

 

Le labbra di Yuki tremarono. La stava osservando, dalla ballerine a punta e l'orlo del suo lungo vestito arancio, fino al viso, ai capelli color del sole che lo incorniciavano.

Lei... non era possibile, non poteva credere ai suoi occhi. Li spalancò talmente tanto da sentire dolore.

La donna, apparsa come per magia, inclinò il capo di lato. «Cosa c'è che non va?». La vide avvicinarsi, in mano teneva un vassoio d'argento, gremito di cibo. C'era una scodella, con decorazioni floreali, al centro del vassoio e una rosa persica adagiata vicino al bordo.
Lei distolse lo sguardo dall'albina, posando delicatamente il vassoio sul piccolo comodino accanto al letto. A quel punto, le rivolse un allegro e contento sorriso.

Forse il colpo inflitto da Baphomet era stato davvero troppo forte. Stava avendo le allucinazioni. Non poteva essere diversamente.

«Bael?», chiamò la donna.

«B-Bael... ?».

 

La donna corrucciò la fronte. Si sedette sul bordo del letto, schiacciando le punte bionde della lunga chioma. Con le mani in grembo, la sua espressione si fece sempre più confusa, quasi infastidita. «È il tuo nome. Non te lo ricordi più?».

«M-ma... quello è... ». Yuki deglutì. La luce proveniente dall'esterno colorava il contorno della donna dai capelli biondi. «Il nome dell'Imperatore... ».

«Appunto, il tuo nome!».

Solo una persona aveva l'ardire e la leggiadria di parlare così – affettuosamente – all'Imperatore di tutti i demoni e di tutti i vampiri.
E quella persona, le stava davanti, con un cipiglio perplesso. «Lilith... », il suo nome le rotolò sulla lingua come miele, inevitabilmente. Era così strano pronunciare il suo nome a voce alta...

 

Gli occhi oro dell'Imperatrice, invece, sorrisero. Anche se solo per un attimo. «Siamo da soli», bisbigliò, come se stesse per raccontargli un segreto.

Yuki chiuse le mani sulle gambe. Erano da soli, una volta tanto, per cui non dovevano tenere in piedi quella sceneggiata. «Quindi... posso chiamarti... Lullaby», Yuki la fissò di sottecchi. «Giusto?».

E l'Imperatrice annuì, energica. Poi saltò in piedi e prese le mani di Yuki, costringendola ad alzarsi insieme a lei. «Dai, vieni!», esclamò. L'albina incespicò sui suoi stessi piedi cercando di starle dietro. La testa girava e rigirava. «Ma d-dove stiamo andando?».

«Non abbiamo avuto un attimo per stare insieme. Oggi possiamo rimediare e ho tutte le intenzioni di farlo!».

L'altra sembrò stupita dalla sua intraprendenza – ne sorrise, soddisfatta. «Allora... andiamo nel nostro posto?».

L'Imperatrice si mise a ridere, senza risponderle.

 

Cominciarono a correre, insieme.
Yuki vedeva la sua schiena e la cascata oro che la percorreva, come un mantello, ondeggiando e fluttuando al ritmo dei suoi passi scattanti, e la propria mano stretta saldamente da Lilith – no, Lullaby.

Percorrevano l'infinito corridoio, stagliato da bande di luce, e ogni volta il riverbero le abbagliava. Superavano rigidi uomini in divisa, sbigottiti da tanta irruenza, giovani ragazze con le braccia piene di lenzuoli, signori in eleganti vestiti etnici, signore dall'aria annoiata e seria.
Passavano sotto archi arabeschi, cogliendo lo zampillo dell'acqua delle fontane, il cinguettio degli uccellini che vi sostavano, la rumorosa marcia che si lasciavano indietro, echeggianti tra quella alte mura. Poi, infine, giungevano a ripide e strette scalinate maioliche, e le salivano in fretta e furia, calpestando ogni gradino. Il fiato corto nel petto, ammiravano il cielo blu che le stava aspettava, in cima a quelle scale.

 

Ed eccole lì.

 

La mano di Lullaby scivolò da quella di Yuki. La donna avanzò, lasciandola indietro, con saltelli e giravolte, libera come un cervo, in quella che era un'immensa balconata – si perdeva a vista d'occhio.

Ma più importante, era vuota. Non c'era niente. Non c'era nessuno.

Solo un grande, enorme spazio, con una balaustra in fondo, e un sole abbacinante a far veglia su di loro.

 

Il loro posto.

 

«Finalmente!», esclamava Lullaby, piena di gioia, sporgendosi dal parapetto. «Finalmente. Di nuovo qui. Insieme».

Mentre Yuki era lì, di fronte alle scale, ferma come una statua, Lullaby rideva.
Roteava, piroettava, come una margherita scossa dalla brezza. La luce l'avvolgeva, tenendola nei suoi palmi. Ora sollevava le braccia al cielo, lasciandosi accarezzare dal tepore dei raggi; ora si voltava, e sorrideva felice, con le guance colorate di rosa. Il bagliore che la animava, pezzo per pezzo. Yuki non poté fare a meno di pensarlo – lei non avrebbe dovuto nascere vampiro.

 

«Bael! Voglio conservare questo momento», cantava, rivolgendosi a Yuki. «e preservarlo fino alla fine dei nostri giorni. Sono così felice che io... ».

La mezzosangue la guardò, labbra schiuse. Era in silenzio.

«Bael?». Lullaby rallentò le sue giravolte. Pian piano, si fermò. La sua mano sul parapetto di pietra. «Qualcosa ti impensierisce, per caso? È dal tuo risveglio che sei... ».

Yuki serrò la bocca, scosse la testa.

Allora Lullaby capì. «Oh», guardò a terra, le punte delle sue scarpe.

«Lullaby, io... ».

«Alla fine, hai preso la tua decisione».

Yuki chiuse le palpebre. L'aveva fatto... l'aveva presa molto tempo fa. «Sì», riaprì gli occhi. «L'ho presa».

Lilith abbassò lo sguardo. L'oro delle iridi tremolava come il miraggio di una luce – in un tunnel estremamente buio. «Capisco... ».

«Ehy. Lullaby... sei triste?».

«No. Non sono triste. È giusto così, tu sei fatto in questo modo, e non vorrei mai cambiarti. È... è solo che... ». Le labbra le vacillavano. Cadde in ginocchio, si coprì il volto con le mani. La sua voce, spezzata dalle cocenti lacrime, era piena di dolore – e di paura, e di sconforto, e di debolezza. «È solo che non voglio... tornare a essere sola– !». I suoi capelli dorati si alzarono, sparpagliati dal vento caldo. «Non di nuovo... non dopo averti finalmente ritrovato... ».

Quale creatura sarebbe così malvagia da far assaporare un briciolo di gioia, di quella gioia così importante, dopo tanto tempo – per poi strappargliela via, e lasciargli solo un buco nel petto?

 

Yuki osservò la scena, mentre il nodo alla gola le impediva di parlare. Poté vedere Lullaby cedere su se stessa. Il suo animo, tanto forte, tanto benevolo, incrinarsi al dolore della solitudine – piegarsi di fronte ad una maledizione, alla follia, alla separazione. Stavolta, tuttavia, era stata la mezzosangue ad infliggerle quel male. Stavolta, le lacrime che bagnavano le guance di Lilith... le aveva causate lei.

E ora le avrebbe fermate.

Yuki afferrò il nodo. Lo incise con le unghie. Impiegò tutte le sue forze nelle dita, nelle mani, nei polpastrelli – e finalmente lo strappò dalla sua gola. Libera, corse verso Lilith, si inginocchiò su di lei, e la strinse a sé più forte che poté.
«Non posso guarirti, non posso salvarti. Non adesso, non mentre sono qui, in questo posto, insieme a te. Non posso fare niente, per te. Se non vederti piangere e spegnerti. Ma fuori di qui, in un mondo dove luce e buio coesistono tutti i giorni, posso combattere. Per tutti gli altri». Yuki sorrise. Ed era un onore. «Per te».

Lilith stette in silenzio.

«Non piangere più. Sorridi. Sono qui».

Lilith annuì. Quando si staccarono, l'Imperatrice era solo un immagine senza contorni.

Ma in quell'immagine così persa, la mezzosangue lesse un sorriso – e le sue parole.

 

Fai del tuo meglio. Ti amerò per sempre, Yuki”.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Yuki si ridestò di scatto, scossa e spaventata da grida. Con il fiato corto in gola, strizzò le palpebre e sollevò le braccia, afferrando i bordi distrutti del muro contro cui si era abbattuta. La sua schiena soffriva sotto i detriti della parete e la testa ciondolava nel buco che si era creato. Con fatica, la mezzosangue la tirò su, ricordando come Baphomet l'avesse scagliata – come un sasso qualunque.

Tornò con la testa dritta, sopra al collo, e una goccia rossa picchiò sul colletto della camicia. Sentiva bagnato alla tempia. Ben presto, cominciò a sentirlo lungo tutto il lato del viso, sulla guancia, sulla linea della mandibola – e un forte, atroce rimbombo. Dolorante, sfiorò la ferita alla testa con le dita.

Dannazione. Quella ferita non sarebbe guarita in fretta. E lei non aveva tempo da perdere.

Sollevò lo sguardo, e tra le ciglia vide Charlotte volare metri e metri più in là, atterrando infine ai piedi di Sayumi ed Ai. La mezzosangue fece per alzarsi ma una fitta la colse per tutto il corpo, specialmente intorno alle costole. Ansante, aspettò di vedere la strega rialzarsi con le sue sole forze.

Ma non accadde.

 

«Charlotte», la chiamò, anche se forse a voce troppo bassa.

 

Si voltò dall'altra parte. Tetsuya schivò un attacco del dio, il suo pugno che distrusse il pavimento, mentre Takeshi spiccava un salto sul suo braccio e affondava la daga nella spalla di Baphomet. Come se una zanzara lo avesse punto, lui ruotò il viso verso il ragazzo, fissandolo con le sue pupille rettangolari. E poi, senza un briciolo di indecisione, afferrò Takeshi e se lo scostò – Takeshi rimase a mezz'aria, nella morsa del dio, per pochi istanti, prima di venir lanciato anche lui, lontano, fino a capitolare nei pressi di Charlotte.

Yuki, che stava fissando la scena con il sangue alla testa, non riusciva a respirare. Si sentiva la gola chiusa.

Tetsuya continuava a combattere. Con il fuoco, a denti serrati, e urla agguerrite. Schivava i colpi del dio, rotolava a terra, si rimetteva in piedi, con una forza che lei non gli aveva mai visto. Tetsuya stava dando tutto se stesso, fino all'ultimo grammo, pur di riuscirci. Era quasi disperato, mentre scoccava dardi di fuoco contro Baphomet.

Yuki rafforzò la presa sui bordi ammaccati del muro, soffiando dalle narici, sbarrando i canini. Con un colpo di reni, riuscì ad uscire dal buco in cui era incastrata, e cascò a terra, su mani e ginocchia, tossendo.

Così la vide. Anima. Era accanto alle sue mani. Il suo sguardo vi ricadde, i suoi occhi furono sfiorati da un lampo di luce. La katana era immobile, appena impolverata. Yuki sentì le mani tremarle, le dita fremere di rabbia. E di qualcos'altro. Qualcosa che lei aveva saggiato quando la follia l'aveva pervasa.

Allungò i polpastrelli, strisciandoli sul pavimento.

 

«Tutto ciò sta diventando una seccatura», tuonarono le voci di Baphomet. Spalancò le sue ali, incrociò le braccia al petto gonfio. «Che senso ha? Dovrò continuare, andare avanti fino a che non avrò strappato le vostre vite?». Baphomet guardava Tetsuya, forse aspettando una sua risposta. Il vampiro si reggeva a malapena sulle ginocchia, mentre il sangue gli colorava di rosso la tempia.

«Non possiamo fermarci», esclamò il vampiro, con tanta furia, energia – e angoscia. «Non ancora».

Il dio abbassò le palpebre, con le sue lunghe ciglia nere a nascondere i rettangoli bianchi. «Questo è... ».


«Esatto». Baphomet si voltò di scatto. Yuki era in piedi. Il pugno chiuso sull'elsa di Anima. Non doveva essere in piedi, non ancora – era troppo presto. E non solo, non era solo quello. «Non possiamo fermarci e non lo faremo. Non fin quando lui sarà in pericolo». Era un pensiero così egoista. Lui doveva salvarsi, perché non potevano vivere un'esistenza dove non c'era. Dove Takeshi li aveva lasciati, consumato da una maledizione avvenuta quasi per caso. Loro tre stavano decidendo per lui, ed era davvero egoista. «Se non riesci a capirlo, non importa. Non ne comprendi il senso? Perché sei vuoto, Baphomet», la voce di Yuki era alta, ferma, determinata. Sollevò il volto, con l'oro brillante delle iridi. Non c'era una piega. «e resterai sempre vuoto».


Fulmini oro divamparono intorno a lei. Braccia, gambe, torso. Ogni pezzo del suo corpo era un conduttore di elettricità. Di elettricità lucente, che scoppiettava come tenaci fuochi, incapaci di restare fermi.

Yuki roteò la lama della katana, strisciò il piede sinistro dietro di sé – e partì, con ciò che rimaneva delle sue forze, a tutta velocità.

Baphomet si innalzò in volo, spalancando ancora le sue enormi ali, e Yuki lo seguì con un balzo. Il sangue schizzava dalla sua fronte, macchiando la purezza dei suoi capelli bianchi. Con quel salto, riuscì a raggiungere le gambe di Baphomet, quindi la sua mano, che agguantò la sua mano con forza. Stringendola, si diede una spinta, e salì ancora un po'. Poi calciò il suo addome e arrivò ancora più in alto.


Adesso, era sospesa sopra le sue corna.

 

Il dio sgranò i suoi occhi, seguendo quei movimenti. La vide giungere di fronte a lui, con la lama alta sopra la testa. I fulmini accompagnavano i suoi gesti. Poi, la katana virò rapida e inesorabile verso il basso, squarciando il petto del dio in un lungo taglio di fulmini.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Denso liquido nero usciva dal suo petto. Una sorta di petrolio, che scendeva a cascata, imbrattando il pavimento sotto di lui. Le ali gli tremavano sulle scapole, nel vano tentativo di sollevare il peso del suo corpo. Baphomet si piegò in avanti, appoggiando i palmi a terra, incapace di sostenersi da solo. Poi, mentre veniva accecato da quell'improvviso dolore, il suo sguardo intercettò un baluginio.

La punta della katana a pochi centimetri dal suo naso.

Il dio, allora, decise di guardare lei. E la visione fu una meraviglia. Lo sbigottimento gli mescolò i tratti di quello strano viso.

La mezzosangue ricambiava lo sguardo con fermezza. «Ora abbiamo finito».

 

Yuki serrò le dita sull'elsa, trattenendo un sospiro di sollievo. Lo stupore, su Baphomet, era una specie di regalo inaspettato, e lei ne era particolarmente grata. Potergli rivolgere la punta della spada su quegli occhi, che non avevano mai assaggiato la luce, era stato il suo obiettivo sin dall'inizio. Il suo obiettivo? – forse era più il suo destino.
Qualunque fosse stata la sua strada, lei l'aveva percorsa, fino alla fine. Prendendo altre via, arrancando qualche volta, fermandosi persino. Non era stato affatto lineare, né tanto meno perfetta... e adesso, aveva raggiunto il capolinea – sia lei che Baphomet, che la guardava, con stupore.

Quando si rese conto di cosa stava accadendo, il dio si rilassò. «Sei realmente una forza della natura», bisbigliò. «Tu non hai temuto la morte».

Yuki sorrise. «Non hai proprio idea di quanto ti sbagli». Alzò la spada in aria. Baphomet chiuse la bocca, attendendo lo squarcio. Dalle labbra nere, come ultimo sussurro, uscì solo un nome – Yuki ripensò alla follia, alla morte, a tutto ciò che aveva fatto, e calò Anima sul dio, pronta a giustiziarlo.

 

«FERMATI!». La mezzosangue fermò il braccio appena in tempo. Ringhiò, serrando la mandibola. Ora Anima non stava più mirando agli occhi di un dio, ma al capo di una donna, dai lunghi capelli corvini, lo sguardo terrorizzato e allarmato di chi stava per perdere ogni cosa. Yuki non spostò la spada né si mosse. La donna, il cui viso era marcato dalla paura, e da qualche sporadica ruga, stava facendogli scudo con il suo corpo. Stava proteggendo Baphomet. Guardava Yuki di sottecchi, come un cucciolo. «Non lo fare. Ti prego. Non abbassare la tua lama su di lui».

«Tu sei la prima strega», quei vestiti erano gli stessi descritti del diario. Non poteva dimenticarli. «Spostati. Se vuoi essere libera da quest'essere, lasciami fare».

«Lo ucciderai. Se lo colpisci con Anima, lo ucciderai». La donna – Ismet, la donna dal potere infinito – aveva le guance bagnate di lacrime. «Non farlo. Non... », un groppo alla gola le impediva di parlare. «Non portarmelo via».

Yuki abbassò Anima. «Ma di cosa stai parlando?! È a causa sua se per tutti questi secoli sei stata sola! Se sei stata obbligata a stare qui!», gridò. «Come fai a... volerlo vivo?! Lui ha rubato la tua vita, lo capisci? Tu... lo odi, vero?!».

 

Ismet si abbracciò il torso, serrando le dita intorno alle braccia. Tremava, finalmente lucida dopo quel lungo eterno sogno. Le sue palpebre l'avevano relegata all'oscurità. Adesso, voleva vedere chiaramente ciò che aveva davanti. Sollevò lo sguardo, fissò la mezzosangue. «L'ha fatto. Ma mi ha anche salvata. Mi ha tratto in salvo da un matrimonio che mi avrebbe soppressa. Da un periodo storico che mi avrebbe distrutta – estirpando tutta la mia forza». Ismet scosse la testa. Baphomet aveva fatto tanto per lei. Aveva fatto molte cose brutte – altre belle. «Lo odio, sì. Lo odio ancora. Eppure, non voglio lasciare il suo fianco», si girò lentamente, e tra le lacrime, riuscì a sorridere a quel grande dio sconfitto. «perché è l'unico luogo dove voglio restare».

«È questo ciò che hai sempre pensato?», le voci di Baphomet si appianarono. Come se le lance che gli stavano procurando tanto dolore fossero sparite. Baphomet abbassò il capo e i capelli gli scivolarono oltre le spalle. «Quindi... è così... per tutto questo tempo... ».

Lentamente, l'aspetto di Baphomet cambiò, tornando a quello originale. Le corna si rimpicciolirono, la pelle tornò caramellata, le sue dimensioni si ridussero, anche se appena, e le ali si ritrassero. Le pupille bianche e rettangolari tornarono in quel vasto buio. «Ora, così credo, ho compreso ogni cosa».

Baphomet tornò su Yuki. L'albina si mise sulla difensiva. «E desidero donarti l'ingrediente per salvare il piccolo umano». Faticosamente, Baphomet si tirò su, in piedi, con la ferita aperta nel torso. A quel punto, attraversò il suo viso con gli artigli della mano destra. Era come se il suo corpo fosse diventata aria. Le dita cercarono per alcuni istanti, e quando uscirono all'esterno, furono seguiti da uno scoppio di fumo nero.

Ora, sul suo palmo, reggeva due sfere di colore grigio, le cui lingue di miasma si stiracchiavano verso il cielo.

«Ho fatto qualcosa di imperdonabile», sussurrò, con lo sguardo di chi stava rievocando tanti vecchi ricordi. «ai miei figli demoni. Lascia che io... », allungò la sua mano e lasciò cadere i suoi occhi su quelle di Yuki, accostate l'una all'altra. «... li liberi dal mio ingiusto castigo».

«Lo farai? Farai sparire la follia dai demoni?».

«È un giuramento».

 

Yuki si strinse la camicia sul petto. Stentava... stentava a crederci. Dopo tanti secoli e tanto lavoro – e tante preghiere – la follia sarebbe diventata solo una brutta leggenda da narrare. Sarebbero... sarebbero diventati demoni liberi.

Ma lei era egoista. «Baphomet». Lo fissò attentamente. «Ho un'ultima richiesta da farti». In questo modo, avrebbero stravolto il seguito?

«Rendimi mortale. Rendimi capace di invecchiare».

«Non hai... intenzione di vedere com'è l'eternità?».

«No. L'eternità, senza gli umani», Yuki accennò un sorriso triste. «non è qualcosa che voglio sperimentare».

«Lo stesso vale per me». Tetsuya si sollevò da terra. Era coperto di polvere, di tagli, aveva macchie di sangue un po' dappertutto. Si appoggiò alla spalla della mezzosangue, fissando prima lei, poi il dio. «Vogliamo essere mortali. Vogliamo invecchiare. E lo vogliamo già da tanto tempo. Questo è l'unico modo che conosciamo per poter stare con loro... e non doverci separare così presto. Quindi, puoi farlo? Puoi farlo, per noi?».

«Non posso comprendere le vostre motivazioni», il dio socchiuse le palpebre, alzando le sue grandi mani sulle teste di entrambi, appoggiandole su esse. «ma posso garantire il vostro desiderio, così come feci alle origini».

 

Ai sarà arrabbiata per questo?, i suoi pensieri, ben presto, divennero vacui.

Era questo che si provava, quando si veniva privati di una parte di sé? La vita che ti fluisce via dal corpo, una strana pesantezza negli arti – la consapevolezza della fragilità. Qualsiasi cosa fosse, Yuki e Tetsuya si sentivano bene.

Un grande peso aveva li aveva appena abbandonati.

«Grazie», disse Tetsuya, quando Baphomet spostò le sue mani. «Per aver fatto questo. Grazie».

Baphomet chiuse le palpebre, senza rispondere. Ismet gli rivolse uno sguardo, innocente come quello di una bambina, in attesa. Baphomet si chinò, porgendole il suo braccio – Ismet fece un saltello e si sedette sull'avambraccio del dio. La strega osservò l'esanime nipote. Non si sarebbero riviste. Ed era giusto così – e persino Charlotte, un giorno, l'avrebbe capito. E magari, l'avrebbe persino perdonata. «Solo voi, da soli, scoprirete cosa vi è rimasto», disse Baphomet. «Io... ».

Il dio inspirò profondamente. «Sono molto stanco... ».

Yuki fece un passo in avanti, allungò il braccio. «Aspetta, strega– !».

 

Sbatté le ciglia, e la sala era sparita. L'albina si fermò di scatto. Il braccio le cadde al fianco, a peso morto, mentre osservava incredula intorno a sé. Della sala non c'era traccia. Ora, attorno a lei, c'era solo una strana dimensione senza pavimento o soffitto, senza mura o finestre. Niente di concreto, niente che lei potesse toccare. Solo una miriade di colori, un lucente e caldo dorato, un indaco che ricordava il mare al tramonto, l'azzurro dell'interminabile cielo.
Cosa stava succedendo? Era un'altra visione, come quella che aveva avuto con Lilith?
Yuki si voltò dall'altra parte, alla ricerca dei suoi amici. Non c'era nessuno di loro. Allora si girò dall'altra parte. E poi ancora, dall'altra. E di nuovo, ancora, e ancora, girando su stessa in infinite piroette – fino a cadere in ginocchio, stordita.

 

Era sola?

Quel posto... era dentro Anima, di nuovo? Ma era così diverso dall'ultima volta.


«Guerriera Dorata. Non aver paura». Era Ismet. Yuki guardò in su, e la vide, china di fronte a lei. Le porgeva la mano. «Baphomet doveva addormentarsi, perché io potessi attingere al suo potere. Sono accanto a te. Non ti abbandonerò certo qui». E ridacchiò, all'espressione sconvolta della mezzosangue.

«Cosa... cos'è questo... », prese la sua mano, mettendosi in piedi grazie al suo aiuto. «Che cos'è qui?».

«L'avevi già capito da sola. Questa», Ismet indicò lo spazio che le circondava con l'indice. «è Anima. Non l'Anima che hai visto tu, la tua camera mortuaria», la strega si allontanò di qualche passo da Yuki, dandole le spalle. «ma l'Anima originale. Così come l'avevo pensata per voi».

Perché lei aveva creato quella maledizione. Yuki era tesa, le sopracciglia aggrottate. «Cosa stiamo facendo qui? Se non vuoi rinchiudermi dentro Anima... ».

Ismet non rispose. Annodò le braccia dietro il bacino, guardando la dimensione che lei stessa aveva creato. Per le Guerriere. Per la loro fine. Un piccolo sepolcro.
Ismet compì un ultimo passo, prima di girarsi, e tornare a rivolgere alla ragazza il suo viso. Sorrideva, ma il suo viso appariva così stanco e provato.

«C'è qualcosa che devo mostrarti. Qualcosa che dovevo farti vedere, prima che le nostre strade si dividano. E solo in questo modo, esse non si incontreranno mai più. Guerriera», Ismet premetté i palmi sul suo petto. «loro sono la tua famiglia».

 

Ci fu uno scoppio di luce bianca. Ce ne fu subito un altro, un altro ancora, e poi altri due.

La luce si dissolse, e Yuki poté vedere cos'era apparso al suo posto. Si coprì la bocca con le mani e le lacrime sgorgarono da sole, all'improvviso.

Erano tutte quante, tutte e cinque. Accompagnate dalla luce, erano apparse, addormentate, eppure lucide e vive, sospese nell'aria. I loro visi erano sereni, le labbra chiuse e i capelli fluttuanti, lo sguardo che condividevano fra loro – nascosto.
Erano cinque ed erano meravigliose. Angeli che, un tempo, quando il respiro riempiva i loro polmoni, desideravano il sangue – e desideravano la pace, la vita, l'amore.

Ognuna di loro era stata qualcosa. Una madre, una figlia. Una sorella, una nonna. Un'Imperatrice.

Loro tutte – le Guerriere Dorate, le cui anime avevano vagato invano in una spada.

 

«Hai avuto pietà di lui», Ismet le parlava accanto, ma la sua voce era distante. «per cui, io avrò pietà di voi. Anima resterà una prigione, senza prigionieri».

 

Lilith aprì gli occhi. «Grazie», fu il suo sussurro. «per non esserti fermata».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Un bagliore era divampato, accecandola per svariati lunghi attimi, impedendole di vedere. Aveva tirato su le braccia, incrociandole sulla fronte, e aveva percepito un grande calore lambirle la pelle. Un calore gentile, che l'aveva investita interamente. E poi, non aveva più udito la voce di Ismet. E nemmeno quella di Lilith.

Aprì un occhio e, quando riconobbe la sala di Baphomet, fece lo stesso anche con l'altro. Yuki vide che né Baphomet né Ismet erano più lì. Non erano più di fronte a lei, com'era prima che incontrasse le altre Guerriere Dorate.

Se n'erano andati. E Yuki credeva fosse per sempre.

 

Lei stava ancora piangendo. Nemmeno ci stava facendo caso. La sua espressione era calma, pacata. Osservava il nido vuoto del dio, le pareti oro intorno, il soffitto immenso, con le lacrime che solcavano le sue guance, bagnandole. Piangeva anche perché aveva capito qualcosa di molto importante; sin dall'inizio di quell'avventura – da quando era dentro la spada – Lilith le era stata vicina. Aveva compreso che quel bagliore e quelle mani che l'avevano spinta oltre la porta, in quel buio baratro – era sempre lei, era sempre stata lei. Yuki richiuse le palpebre.

Nella mano percepì qualcosa dalla consistenza solida e solo a quel punto si ricordò degli occhi del dio. Sollevò il palmo, aprendolo, ed ecco le due sfere grigio scuro rotolare, con quelle deboli lingue di fumo che fuoriscivano. Ce l'aveva fatta. Ce l'aveva fatta davvero.

Quella consapevolezza la fece scoppiare in un pianto ancora più forte, anche se silenzioso. Perché... ci erano riusciti. Era così felice, così sollevata... da sentire il petto esplodere.

 

«Yuki!». L'albina si asciugò le lacrime in fretta e si voltò, dando le spalle al nido ormai spoglio. Trovò Tetsuya, pallido in volto, sporco di sangue e polvere, che correva verso di lei. Era agitato. «È... », aprì la bocca per dire qualcosa, ma alla vista dell'amica, piombò nell'apprensione. «S-stai bene? Perché stai piangendo? Ti fa male qualcosa?».

«No, è tutto– », tirò su col naso, sorridendo. «è tutto okay».

Tetsuya sembrò sollevato – quel sollievo, tuttavia, durò un battito di ciglia. «Vieni. Takeshi non si è ancora ripreso».

All'improvviso, le lacrime si fermarono. Yuki si irrigidì ed annuì. Insieme, facendo attenzione a non danneggiare gli occhi del dio, attraversarono la sala per raggiungere il resto del gruppo. Takeshi era steso a terra, sulla schiena, ed era davvero privo di sensi – ancora privo di sensi. Le palpebre erano sigillate e la bocca leggermente schiusa. Accanto a lui, Sayumi gli teneva il polso premendoci su il pollice e controllando l'orologio, nervosa.

«Sta bene?», Yuki si piegò sulle ginocchia, al suo fianco, di fronte a Sayumi. «N-non è ferito gravemente, vero?».

«Non ci sono ferite gravi», rispose l'altra, adagiando il braccio del bruno a terra. «e non sembra avere emoraggie interne né niente del genere. Io penso... ». Non terminò la sua ipotesi. Era chiaro. «Gli occhi? Li avete?».

Yuki le fece un cenno col capo e le mostrò le sfere. Poi si voltò, cercando Charlotte con lo sguardo. Anche lei aveva subito un duro colpo e aveva perso i sensi per qualche tempo, ma ora si stava riprendendo, usando la magia per riprendersi più velocemente.

«Charlotte!», esclamò la mezzosangue – la strega, scocciata, le rivolse la coda dell'occhio. Ma poi, quando notò ciò che l'altra aveva nel suo palmo, il suo viso si illuminò incredibilmente. Il suo bottino. Il suo desiderio da anni. Subito si alzò, sebbene zoppicando, per azzerare la distanza fra loro. «Li hai», sibilò, osservandoli da vicino, con la punta del naso che li sfiorava.

Yuki ritirò la mano da lei, allontanandola. «La maledizione. La sua vita ha la precedenza».

Charlotte si irrigidì, come se qualcuno le avesse puntato una pistola alla schiena. Tuttavia, non poteva fare diversamente, e ne era ben conscia. In piedi, arretrò di un piccolo passo, quel tanto che serviva perché potesse posizionarsi dietro al bruno. Divaricò le gambe, strisciando le suole delle scarpe sul pavimento, a disegnare una linea retta sotto di lei – quindi aprì le braccia sopra Takeshi, le dita spalancate. Charlotte strabuzzò lo sguardo felino. «Era il mio capolavoro. Che peccato doverlo debellare». Adocchiò il viso esanime di Takeshi e ghignò. «Che bel – e sciocco – ragazzo».

 

Luce blu cominciò a sprigionarsi dalle dita della strega. Lei piombò nel silenzio, i suoi lineamenti si distesero repentini, e la concentrazione sembrò avvolgerla completamente. Lentamente, le sue labbra cominciarono a muoversi, in movimenti leggeri, troppo poco accennati per essere visibili. Reattiva alla voce della strega, la luce blu si espanse, allungandosi per ricoprire l'intera figura di Takeshi.

Yuki fissava la scena con un groppo in gola. A quel punto, poteva solo fidarsi di lei.

«Mi servono adesso», arrancò la strega, con fatica. «se vuoi che sciolga l'incantesimo, ho bisogno di più potere».

Yuki sussultò. «Non puoi farlo altrimenti?».

Charlotte socchiuse le palpebre. «Rischio la mia vita».

La mezzosangue digrignò i denti, serrando le mandibole. «Charlotte», sibilò tra i denti. «non ho bisogno di ricordartelo. Non è così?».

Non rispose. Se avesse fatto un passo falso, l'avrebbe ammazzata con le sue stesse mani. E chissà perché, adesso non faticava a crederle. «Non ho ragione di fregarvi. Non lo farò. È un patto», ansimò, piegando la schiena. «Sbrigati!».

 

Quella era una vera e propria roulette russa. Yuki chiuse le dita sugli occhi del dio. Doveva farlo. Doveva farlo. «Fallo». La mezzosangue si allungò verso la strega, palmo aperto. Charlotte protraete il braccio sinistro e i suoi polpastrelli toccarono quelli di Yuki.

 

Poi, improvvisamente, il polso della mezzosangue venne intrappolato da una morsa d'acciaio. Yuki si voltò di scatto, cerea in volto, e vide Takeshi seduto. La sua testa era reclinata in avanti, senza fili a sorreggerla, e la sua mano era serrata attorno al polso dell'albina, le dita che marcavano la sua carne. Le nocche di Takeshi erano così tese da essere di un purissimo bianco.

Superato lo shock iniziale, Yuki cercò in fretta di staccarlo da sé. «Takeshi, lascia– », ma per quanto cercasse di scollarsi, il ragazzo non accennava ad allentare la sua presa – invece quella divenne ancora più ferrea e il suo polso fece un suono agghiacciante. Yuki urlò di dolore.


Takeshi inclinò la testa indietro, svelando finalmente il suo viso, e un lungo sorriso. «Cosa state facendo?», cantilenò, marcando ogni singola sillaba.

Yuki, agghiacciata, strofinava i piedi a terra nel tentativo di liberarsi.

Quello non era Takeshi. Quello non era lui. La sua pelle non era bianca come ossa, le labbra, incurvate in un diabolico ghigno, spente come fiori appassiti. E i suoi colori, caldi e confortevoli, il cioccolato che conoscevano così bene – erano spariti, e iridi color del sangue e capelli petrolio erano comparsi al loro posto.
Solo un nome fece capolino nella mente della ragazza che, in preda all'angoscia, non riusciva a smettere di fissarlo. «Alyon... », Yuki sollevò l'altra mano libera e agguantò quella di Takeshi, restituendogli la sua stessa medicina. Le sue unghie penetrarono la carne del suo polso. La mezzosangue emise bassi ringhi, mostrando le sue affilate zanne. «Tu. Lascia il suo corpo. Ora».

Ma il ghigno di Takeshi non subì cambiamenti. Forse fu persino sul punto di scoppiare in una grande risata – quando Tetsuya, senza un minimo di esitazione, si gettò su di lui. Finalmente libera, Yuki indietreggiò, strofinando il bacino sul pavimento. Le tremavano le gambe, ma in qualche modo riuscì a balzare in piedi. «Charlotte!», esclamò. «Prendi!».

La mezzosangue caricò il braccio indietro e lanciò il paio di occhi alla strega.

La strega saltò in avanti e li afferrò al volo. Ruotò i piedi dall'altra parte e ripiegò di qualche metro, quel tanto che le serviva. Innalzò le sfere sopra il suo capo e nella penombra quelli esaltavano come stelle. Infine, stretti tra le dita, li abbassò velocemente – e li premette verso le sue cavità oculari.

 

«NO!», urlò Takeshi, prima di cacciare Tetsuya, sferrandogli un calcio all'addome. Si tirò in piedi, e riuscì solo a girarsi verso Charlotte urlando a pieni polmoni. Tutto l'odio, tutta l'ostilità. Se avesse potuto, avrebbe distrutto ogni cosa – a cosa sarebbe servito, poi?

Per cosa stava facendo tutto ciò, in effetti?

«Tu, TRADITRICE!». La sua faccia si distorceva, piegava, consumata sotto tutto quell'odio – la voce si disturbava come un canale. Cominciò a correre verso di lei. Distese un braccio nella sua direzione, spalancò le dita, credendo che avrebbero potuto allungarsi.

Poteva prenderla. Doveva prenderla. Doveva vivere.

«Non farlo! NON puoi farlo! Io devo vivere!», le sue grida echeggiavano, rabbiose e lamentose, tra le pareti della sala.


Altrimenti, sarebbe rimasto solo. «... NON VOGLIO SPARIRE! Io sono... io... !».

Charlotte ghignò. Con pupille rettangolari viola. Aprì la bocca e pronunciò poche, brevi, decise parole.

«Se non è il mio desiderio, allora non è vivo!».

 

Takeshi si bloccò.

Il suo corpo, finalmente, si fermò. Si spense, perse ogni forza, e cadde a terra.

Guardava in alto. Forse, era sul punto di addormentarsi anche lui. «Io sono destinato... », la sua voce si ridusse al nulla.

 

Silenzio. Le palpebre si erano calate. Nessun si mosse. Lo guardavano, aspettando. Aspettando qualcosa, un cenno, un segno qualsiasi, che non arrivò. Dovevano aspettare? Dovevano solo scuoterlo?

Dovevano chiamare il suo nome, forte, per risvegliarlo?

Yuki si posizionò sulle ginocchia e andò carponi fin da lui. Il suo Takeshi. Il suo stalker, se ricordava sin dal principio. Il suo cavaliere, con mille macchie. Mille sfumature, nuove pagine da sfogliare, nuove immagini da guardare. Yuki gli toccò il petto. Era quasi immobile. Era così delicato, quel battito, che il solo sfiorarlo poteva fermarlo – Yuki sentì gli occhi bruciare di lacrime. L'aveva salvato? Oppure l'aveva ucciso? – quella volta che si erano incontrati.

Tetsuya e Sayumi si avvicinarono. Si inginocchiarono vicini a lui e lei gli prese la mano, per stringerla fra le sue, dolcemente; lui sigillò i suoi pugni, in una tacita e sofferente attesa, morsicandosi la bocca.

Yuki si chinò su di lui.

«Takeshi?». Piangeva. Forse, avrebbe solo dovuto piangere.

«Takeshi», e chiamare ancora il suo nome. Lasciarlo risuonare.

 

Calò la fronte sul suo sterno. Poi, si sollevò, e appoggiò le labbra sulle sue, in un bacio che sapeva di amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Signori. Gente. Popolo. Ce l'abbiamo fatta. Ed è surreale. Triste, quasi angoscioso, perché non so come farò a vivere senza questa storia – sì, sono melodrammatica, ma capitemi; sono tredici anni, su per giù, che continuo a lavorarci sopra, a scriverla, riscriverla, cambiarla, aggiustarla, allungarla, accorciarla. Di tutto e di più, ecco. Non avete nemmeno idea di come erano diversi Yuki e Takeshi, o Sayumi e Tetsuya.

Questa storia è cresciuta. Ha fatto passi da gigante, se posso dirlo, e non potrei essere più felice di così; ovviamente, è quasi inutile dirlo, potrà sempre essere migliorata, potrà sempre essere cambiata, ma non è una cosa che accadrà. Sono arrivata – siamo arrivati – alla fine di questo lunghissimo viaggio e credo che l'importante sia proprio questo.

E devo ringraziare tantissimo le persone che mi sono state accanto. La mia super specialissima G, (L o t t i e qui su EFP) che senza di lei non sarei arrivata proprio da nessuna parte, nemmeno alla metà del primo atto, e le devo così tanto che faccio prima a venderle l'anima. A Nazy, che è il critico rompicazzo, ma che vuole solo il meglio per una storia, e gli voglio bene per questo, such a good boy. E al mio fidanzato, che ogni tanto si deve sorbire le mie isterie e i miei dubbi costanti.

E ovviamente, a tutti coloro che l'hanno seguita, a tutti voi che siete rimasti fino alla fine.

Manca l'epilogo, e ci siamo.

E poi, al prossimo viaggio.

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Capitolo 25
*** Il sole e la luna, la fine. ***


FIN.



 

Il ticchettio dell'orologio, dietro di me, serviva per ricordarmi che il tempo stava passando. E che stava passando molto piano. A pensarci bene, non credo di aver mai sentito il peso del tempo, non proprio, ma dovevo immaginare che questa sarebba stata la mia prima volta. Non ci avevo mai pensato, perché non ero stata abbastanza ottimista da pensare che sarei arrivata ad oggi. Eppure, mi avevano smentito così tante volte... che era diventata una vera stupidaggine, cavolo. Persino il mio riflesso nello specchio se la stava ridendo alla grande, mentre ripensavo al mio cosiddetto pessimismo cronico, che per anni mi aveva accompagnato.

 

«Sei nervosa?», mi chiese. Feci una smorfia con le labbra, spostando gli occhi verso di lui. Beh. Se ero nervosa.

«Sì, un po' sì», risposi. Dovevo ammetterlo. «Forse perché dovrò... mettermi a nudo di fronte a molte persone e... ».

Sorrise. «Non è nel tuo carattere. Su questo ci assomigliamo, eh?».

Annuii. «Siamo due gocce d'acqua, su queste cose, purtroppo». Ce l'avevano detto in moltissimi. Vidi il suo sguardo diventare benevolo, e fu abbastanza per farmi diventare felice – come una bambina.

«Non ti lascerò da sola. Non devi preoccuparti di niente».

 

Oltre quelle porte, c'era un lungo tappeto rosso.

Eccoci qua. Wow. Ci siamo.

Inspirai profondamente, mi ricaricai i polmoni, e mormorai un dannazione. Adesso ero pronta.

 

Così, camminai. Attraversai quella navata, tinta di un colore che forse non meritavo. Reggevo altre sfumature tra le mie mani, lasciandomi alle spalle sangue, lotte e spade che sapevano di tombe.
Andavo, guardando la strada che mi si presentava – con la decisione di percorrerla a testa alta. Osservando tutto ciò che mi appariva dinanzi, confrontando ogni singola cosa. Vedevo i vostri visi, vi vedevo ora, e i vostri sguardi mi accompagnavano, sospingevano lungo questo sentiero – dopo tutti questi anni, dopo che avevamo attraversato le montagne, adesso avremmo visto solo pianure.

E alla fine di questa lunga strada, c'eri tu. Ah, ora potevo sospirare di sollievo.

 

Sai... quando ero bambina, vivevo come se fossi in una gabbia. Non fu una mia scelta, è stata più una conseguenza. Niente del mio sangue era normale, no? – nemmeno vicino alla normalità. Non lo era per umani, per vampiri, per demoni, e nemmeno per dei.
Quelle sono strane creature. Siamo strani esseri viventi, eppure desideriamo cose tanto normali – come l'amore? Come, la lealtà? Calore. E io non ero niente di diverso.

Accettai in silenzio la solitudine.
Perché mi andava bene, era cucita dentro di me e l'accettai, perché pensai di meritarla. In questo modo, non fu mai difficile guardarmi allo specchio – guardandomi, potevo ricordarmi qualcosa di importante. Guardavo la mia immagine e dicevo: "Sì, sei ancora qui. Sei ancora qui". Era abbastanza.

 

Fino a quando non mi hai raggiunto. Le tue mani mi toccarono la schiena. Il tuo sorriso illuminò la mia anima perduta. I tuoi occhi mi sussurrarono.

Non potevi lasciarmi andare, a quanto pare. E io riuscii ad accettarlo.

Erano le mie cose normali. Il mio amore. La mia lealtà. Il mio calore.

 

La mia luna e il mio sole.

 

«Yuki», sussurrasti. «Sei così bella che non so dove guardare».

«I miei occhi sono un buon inizio. Siamo in una chiesa, comportati bene!».

«Okay», e ridesti. «okay, hai ragione. Te lo prometto. E io sono un uomo di parola».

 

Takeshi. Grazie.

Perché, alla fine di questa strada, tu c'eri ancora.

 

 

 

 

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