La piratessa

di lady lina 77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


La fede era sparita, così come la speranza che ci fosse sempre una soluzione ai grandi drammi della vita. Tutto sparito, tutto dissolto…

Nella grande dimora di Dwight e Caroline, Killawarren, seduta su una comoda poltrona davanti a un camino scoppiettante, Demelza aveva gli occhi lucidi e l’unica cosa di cui era grata era il fatto che Prudie avesse portato fuori i bambini in modo che non la vedessero piangere.

Dwight era stato gentile, aveva cercato di usare le giuste parole per indorare la pillola dopo che era tornato da Nampara, ma dietro ai suoi modi attenti Demelza aveva comunque capito la verità: non c’era speranza, era tutto finito e Ross lo aveva confermato a Dwight senza mezze misure.

Non la amo più”…

Così aveva detto Ross e anche se Dwight l'aveva consolata dicendo che a volte le parole nascondono altre verità e che non sempre vogliono dire qualcosa, lui le aveva dette...

Non la amava più e d'altronde che si aspettava? L'aveva fermata quando aveva preso la porta coi bambini? Le era corso dietro? Aveva fatto promesse solenni per trattenerla? No, nulla, lui non aveva fatto nulla, era rimasto semplicemente impassibile a guardarla mentre lei se ne andava via lontano, portando con se tutto ciò che rimaneva della bellissima famiglia che avevano creato insieme.

Se mai avesse avuto la speranza di aver frainteso, di aver capito male, di aver visto malati parti della sua fantasia, quelle parole avevano cancellato ogni dubbio. Ross aveva amato Elizabeth e poi lei. Ed ora amava Tess, in qualche assurdo modo si era innamorato di una persona così diversa, così sporca, così poco limpida… Ross, il suo Ross di una volta, non avrebbe mai corrotto se stesso e la sua anima con una donna come Tess, non le avrebbe mai fatto del male, non le avrebbe mai mentito a quel modo. Era vero, ci erano già passati ma a quell'epoca, con Elizabeth, era stato diverso, c'erano sentimenti profondi ed irrisolti alle spalle e soprattutto, una concausa di eventi che avevano portato al disastro. Ma si erano rialzati,sia da quella storia che da quella di Hugh, si erano riscelti se mai ce ne fosse stato bisogno, avevano capito i propri errori e qual'era il loro posto, dov'era il loro cuore e dove la loro anima trovava pace e amore. Mai, MAI avrebbe creduto questo, non dopo quanto vissuto, non dopo la felicità ritrovata, la tenerezza, la dolcezza e le cose che si erano detti...

Tutto si era frantumato dopo la morte di Ned, come se quell'evento avesse ucciso anche il vecchio Ross, quello dal cuore limpido e impavido che si batteva contro le ingiustizie anche a costo di rimetterci, quello che ci credeva, quello che a volte faceva il gradasso e non pensava alle conseguenze delle sue azioni ma che agiva sempre col cuore e con generosità. Il Ross di cui si era innamorata e che amava ancora nonostante tutto. Ma ora quel Ross non esisteva più e al suo posto c'era un uomo freddo, calcolatore, distaccato e che nello sguardo non aveva più alcuna traccia delle dolcezza e della tenerezza che solo a lei aveva dato l'onore di vedere.

Sperava che Dwight, tornando, le dicesse che era stato un malinteso, che Ross la aspettava a braccia aperte, che era disperato. Ma il viso terreo del medico, al suo rientro, diceva tutt'altro. Era finita e con dolcezza l'aveva intimata ad accettarlo anche se la voce dell'uomo tradiva una rabbia e una delusione a stento trattenute. Anche per Dwight era difficile, quasi quanto per lei, accettare di aver perso il suo più caro amico.

"Sta gettando via la sua vita, Demelza... E quando lo capirà sprofonderà e forse, forse capirà. Sta a te, a noi tutti, decidere se varrà la pena tendergli la mano quando arriverà quel momento".

Demelza non aveva risposto nulla, non ne aveva avuto la forza e la tempra e aveva solo chiesto di rimanere un pò da sola a pensare. Che importava cosa sarebbe stato, cosa riservava il futuro? Che importava se Ross avesse cambiato idea? La sua fede in lui e nel suo matrimonio ormai era distrutta per sempre e lei non sarebbe mai più stata la stessa.

Gli avrebbe teso quella mano? Non lo sapeva, non sapeva darsi una risposta in quel momento perché erano altre le immagini che le danzavano nella mente... I silenzi, le bugie, la freddezza di quei mesi, la miniera, i cunicoli, la voce di Ross e di Tess nascosti nell'oscurità e in cerca di un attimo di intimità solo loro, le dolci frasi che si scambiavano, l'ammissione di desiderarasi...

Le si strinse lo stomaco a quei ricordi e si massaggiò il ventre mentre, da sola, pensava e ripensava a cosa avrebbe fatto e cosa non sarebbe più riuscita a fare. Aveva la forza di lottare? Aveva la forza di cercare di chiarire? Aveva la forza di tornare a Nampara ad affrontarlo? Aveva la forza di rimanere?

Si massaggiò ancora il ventre dove stava crescendo suo figlio. Il figlio suo e di Ross, concepito in quei mesi di silenzi e bugie, nell'unica notte dove Ross aveva ceduto al desiderio e l'aveva amata come aveva sempre fatto, con passione e tenerezza. E lei glielo aveva permesso dopo una giornata triste e solitaria passata a pensare a cosa ci fosse che non andava, a cosa stesse succedendo, al perché Ross fosse cambiato tanto...

Aveva pianto, da sola, dopo cena nella sua camera. E anche se poi aveva cercato di asciugarsi gli occhi, loro erano rimasti rossi e Ross, al suo ritorno, se n'era accorto. Non aveva detto nulla, non aveva chiesto, non si era preoccupato di scoprire cosa avesse, come se lo sapesse già... Si era solo avvicinato, l'aveva abbracciata, baciata, e poi con delicatezza portata a letto, fra le sue braccia, come un principe porta a letto una principessa. Ma Ross non era più il suo principe e lei non era mai stata una principessa e la loro non era una favola.

Era stato solo un attimo, intenso, dolce, gentile e appassionato. Ed era un comportamento così strano nel Ross di quegli ultimi mesi, ripensandoci. Un uomo che non ama più sua moglie non si comporta così e se allora lei aveva solo un dubbio, ora aveva la certezza che Ross avesse già una storia con Tess. Eppure quella notte l'aveva amata, l'aveva tenuta stretta a se quasi capendo quanto lei ne avesse bisogno e come se lui stesso non desiderasse altro.

Non si erano parlati, non si erano detti nulla. Solo dopo aver fatto l'amore, nel silenzio della stanza, lui aveva aperto la bocca, pronunciando una strana ed incomprensibile frase, sibillina, di cui non aveva avuto la forza di chiedere spiegazioni.

"Tutto passa, Demelza... Tutto finisce, le cose belle e i momenti brutti...".

Cosa voleva dire? Che era la fine del loro matrimonio? Che quel momento difficile, come tanti altri vissuti, sarebbe passato? Cosa? COSA???

Frustrata, Demelza picchiò il pugno della mano contro il muro. Si sentiva esausta, infinitamente stanca e senza più desiderio o voglia di vivere. Ross era la sua vita e ora... ora...

Ora sarebbe stata sola e non aveva nemmeno il diritto di lasciarsi andare. C'erano Jeremy e Clowance che avevano solo dieci e sette anni e poi lui... o lei, il testimone vivente di un grande amore e delle sue ceneri.

Prendendo un profondo respiro capì che non poteva continuare a rimanere lì, che non ce l'avrebbe fatta né a far finta di nulla tornando con Ross, né a vivere in zona col rischio di incontrarlo felice ed innamorato insieme a Tess. Non poteva sopportarlo e non avrebbero potuto nemmeno i bambini. Ma doveva parlargli, almeno un'ultima volta... Doveva tentare, almeno per i suoi figli, per quelli che c'erano e per quello che sarebbe arrivato. Forse, forse... In realtà non sapeva nemmeno cosa sperasse e SE sperasse in qualcosa. Ma sapeva che doveva parlargli, per quanto doloroso potesse essere.

Con passo stanco si avviò alla camera dei suoi figli per controllare che dormissero. Li trovò profondamente addormentati nella spaziosa stanza che Caroline e Dwight avevano predisposto per loro, nel lettone, tranquilli e apparentemente sereni. Li coprì, li baciò e si mise la mantella in spalla. Anche se era tardi, doveva andare. Tanto meglio se era notte, il buio avrebbe coperto i suoi passi, la delusione cocente e forse le sue lacrime. Niente e nessuno avrebbe visto, niente e nessuno avrebbe saputo...

Osservò Prudie che sonnecchiava sul divano, ci avrebbe pensato lei ai bambini, tanto che era era assente. Tutto era tranquillo e pacifico in quella stanza e lei non chiedeva che questo, che loro stessero bene! Lei sarebbe sopravvissuta in qualche modo, come sempre.

Chiuse la porta dietro di se e Garrick tentò di seguirla ma gentilmente lo rimandò indietro, sul letto coi bambini. Poi scese al piano di sotto, aprì la porta e scomparve nell'oscurità, diretta a Nampara.


...


Seduto davanti al camino scoppiettante, in una casa immersa in un silenzio tombale a cui non era più abituato, Ross si massaggiò la gamba. Da alcuni giorni la vecchia ferita di guerra che pareva guarita tanti anni prima, aveva ripreso a fargli male con la stessa intensità di quando nella sua vita non era ancora comparsa Demelza. Lei in un certo senso lo aveva guarito, da quella ferita e da tante altre meno visibili ma ben più profonde, pian piano, lentamente, con dolcezza e senza forse che lui se ne rendesse conto all'inizio.

Ma ora no, ora conosceva il valore di quella donna sposata inizialmente quasi senza pensarci e spinto dalla voglia di sfidare le convenzioni sociali e soprattutto sapeva quanto la amasse e quanto la sua vita senza di lei e i loro figli fosse inutile e vuota.

Erano stati sei mesi terribili per lui, quelli. Già provato dall'ingiusta morte di Ned, scoprire che i francesi stavano preparando proprio in quelle terre, di nascosto, l'invasione dell'Inghilterra e uscirne vivo dopo aver ottenuto la loro fiducia, era già di per se un miracolo, oltre che un trauma. Se l'invasione fosse andata a buon fine quelle terre, le sue terre che amava e le persone che vi vivevano, sarebbero state nel bel mezzo di una guerra che non avrebbe risparmiato nessuno. Nemmeno la sua famiglia, sua moglie, i suoi bambini e la sua casa...

E si era trasformato in quello che Wickham aveva sempre voluto, pur agendo di testa sua e di nascosto da tutti, anche dal governo britannico. Si era finto amico dei francesi, aveva lavorato con loro per nascondere armi fra le scogliere, aveva dato vaghe informazioni su luoghi e abitudini del posto, aveva fatto in modo che quegli invasori avessero fiducia in lui, aveva sbandierato ideologie che non facevano parte del suo essere e aveva imparato ad essere convincente, agendo apparentemente contro il suo paese per aiutarne un'altro, invasore. Il tutto per ottenere informazioni da portare a Londra a tempo debito e battere i francesi prima che potessero anche solo recidere un fiore.

Era stato nauseato nel constatare che alcuni dei suoi vicini aiutavano gli invasori, gente ignorante come Jacka che non capivano il rischio che correvano in caso di accusa di tradimento alla nazione. E poi anche Tess...

Tess non gli era mai piaciuta e anche se si era fidato del sesto senso di Demelza di darle una possibilità e farla lavorare per loro, alla fine aveva dovuto arrendersi anche lei che nelle persone vedeva sempre il bello, alla natura maligna di quella ragazza.

Che collaborasse coi francesi, non lo aveva stupito così tanto. Chissà cosa le avevano promesso, chissà cosa si aspettava, chissà con quanta stupidità aveva accettato... Rischiava il cappio e si comportava con la leggerezza di una bambina innocente...

Era odiosa, sporca, maligna e piena di menzogne. Ma era stato costretto a fingere anche con lei per essere creduto, per non essere sospettato di essere una spia... Aveva finto interesse per quella ragazza che invece lo ripugnava, ci aveva flirtato sotto gli occhi divertiti dei francesi e anche se aveva sempre mantenuto fede alle sue promesse matrimoniali adducendo scuse su scuse con Tess che non faceva altro che chiedere intimità con lui, ogni giorno quella sua menzogna diventava sempre più difficile da tenere in piedi. Tess era diventata aggressiva ed esigente e anche se i loro incontri avvenivano tutti in cunicoli sotto terra e mai da soli, la voce di una sua storia con lei doveva aver oltrepassato grotte e rocce ed essere diventata di dominio pubblico.

La conversazione avuta con Dwight nel pomeriggio lo aveva lasciato con un terribile amaro in bocca. Aveva dovuto mentire anche con lui, col suo migliore amico, per proteggerlo da quella situazione pericolosa. Aveva dovuto fingere di essere un uomo cambiato e diverso, un uomo senza più scrupoli che senza remore aveva voltato le spalle a sua moglie e ai suoi bambini.

E questa era stata la cosa più difficile di tutti. Mentire a Demelza, allontanarsi da lei poco alla volta per fare in modo che se ne andasse in un posto più sicuro, era stata una tortura per lui. Vedere la sofferenza sul volto di quella donna che amava più della sua vita senza poterla al momento consolare, era stata una lenta agonia. Ma era per il suo bene perché se avesse saputo, se le avesse raccontato la verità e della missione in cui si era imbarcato, lei non avrebbe retto alla tensione e... E lui era sorvegliato, non sapeva da chi e da quanto, ma aveva avvertito presenze continue attorno a Nampara, nel cortile e nella stalla. Doveva essere amico dei francesi, sia nelle grotte che a casa, ad ogni ora del giorno e senza mai tradirsi.

Era stato costretto ad allontanare Demelza, a rendersi odioso ai suoi occhi perché coi bambini se ne andasse al sicuro da Dwight e poi, quanto tutto fosse finito, sarebbe andato a riprenderli raccontando loro tutto quanto. Ma se fosse andato male qualcosa, solo lui avrebbe dovuto pagare con la vita. Non loro, MAI loro! E se il prezzo da pagare per la loro sicurezza era perderli, anche solo momentaneamente, lo avrebbe pagato senza tentennamenti.

Anche se, sentire da Dwight che Demelza sapeva della sua presunta tresca con Tess...

Si mise le mani nei capelli, non voleva quello, NON quello! Santo cielo, aveva già inflitto – e stavolta per davvero – un dolore simile a sua moglie, un dolore che l'aveva quasi annientata e che aveva portato il loro matrimonio a un passo dalla distruzione. E ora pensarla mentre lo immaginava con Tess, a tradirla e a sussurrarle parole d'amore che mai avrebbe rivolto a un'altra donna che non era lei, lo atterriva. Aveva tentennato quando Dwight gli aveva detto che Demelza conosceva la verità, aveva provato l'impulso di correre a Killawarren e urlarle quanto l'amava e cosa stesse succedendo davvero. Non voleva infliggerle un dolore del genere, non poteva permetterselo eppure non poteva permettersi neppure di metterla in pericolo andando da lei e far scoprire la sua copertura. Perché se anche lui fosse sfuggito alle conseguenze delle sue azioni, i bersagli sarebbero diventati probabilmente Demelza e i loro figli... E così era rimasto immobile, davanti a Dwight, dicendo la più grande delle bugie...

"No, non la amo più...".

Dwight ci aveva creduto? Non sapeva dirlo, il suo amico lo aveva guardato con sguardo indecifrabile e poi, senza dire nulla, se n'era andato...

Lo aveva detto a Demelza? Le aveva inferto anche questo dolore?

Si torse le mani, nervosamente. Era in un vicolo cieco e non sapeva come uscirne, era in trappola e non sapeva quando sarebbe potuto uscire allo scoperto. I francesi dovevano fare in fretta a concordare la data dell'invasione e lui a quel punto avrebbe avvertito il Governo di Londra, si sarebbe messo in moto l'esercito e avrebbe potuto riprendersi la sua famiglia, sano e salvo.

Non vedeva l'ora, rivoleva i suoi bambini e la sua donna, sua moglie. Nulla aveva senso senza di lei, tutta la casa era diventata cupa e malinconica e il suo cuore era ridotto anche peggio. Voleva lei, la sua voce, i suoi bellissimi capelli rossi, il suo sorriso, il suo canto alla spinetta rivolto solo a lui. La grandezza del suo animo che l'aveva sorretta anche quando, col sorriso sulle labbra, si era trovata ad accogliere per una sera Valentine in casa, facendolo giocare coi suoi bambini.

Ross sapeva che lei sapeva... O quanto meno che immaginasse. Forse più di lui che non voleva ammettere quella realtà perché guardare in faccia al risultato dei suoi errori faceva male ed era più comodo fuggire. Ma Demelza no, lei non era mai fuggita e aveva accettato senza recriminazioni quanto successo sapendo di non poterlo cambiare, comprense le inevitabili conseguenze.

E solo una grandissima donna con un cuore altrettanto grande, poteva accogliere con la dolcezza di una mamma il bambino che il suo uomo, in un momento di follia, probabilmente aveva concepito con un altra.

"Perdonami e aspettami, presto sarà tutto finito, amore mio..." - sussurrò nell'oscurità, ripensando all'unica notte in quei mesi in cui aveva ceduto al suo amore per lei, vedendola con gli occhi arrossati e l'espressione triste. Quel suo caldo sorriso mancava da troppo tempo e lui ne aveva bisogno, non voleva che lei lo perdesse...

L'aveva presa fra le braccia per portarla a letto, aveva fatto l'amore con lei dopo che per molto si era imposto di non toccarla, aveva cercato di infonderle forza e calore anche attraverso i suoi silenzi. Erano anime perse in quel momento, bisognose l'una dell'altro, e non era riuscito a fingere indifferenza. La amava troppo per far finta di nulla, vedendola tanto prostrata. Lei era la sua più grande forza e insieme, la sua più grande debolezza.

Nel silenzio della sera, improvvisamente sentì l'uscio tintinnare e si mise in allerta. Non c'era vento quella sera e qualcuno doveva averlo mosso. O essercisi appoggiato.

Si alzò in piedi con aria circospetta e quando vide di non essere più solo, spalancò gli occhi. Cosa diavolo...? Lei era lì, con lo sguardo stanco ma di ghiaccio "Demelza!".

Entrò subito in allarme, che ci faceva lì a quell'ora tarda? Cosa era venuta a fare? Cosa diavolo le aveva detto Dwight? "Che ci fai quì?" - chiese, freddamente, terrorizzato dall'idea che le spie che erano appostate spesso fuori casa potessero averla vista.

"Dovevo parlare con te" – disse lei, in tono neutro.

Lui tentò di andare verso di lei e la gamba lanciò una fitta terribile che lo costrinse ad appoggiarsi al sofà. "Non avevamo già parlato?".

Demelza, a dispetto di tutto, parve preoccuparsi. "Cos'hai?".

"Solo una vecchia ferita di guerra alla gamba che ogni tanto mi tormenta".

"Erano anni che non ti faceva male" – notò lei.

Lui alzò lo sguardo, guardandola con occhi foschi e torvi. "Sei venuta fin quì a quest'ora di notte per parlare della mia gamba?".

"No" – rispose sua moglie, tornando gelida.

"Vorrei ben vedere, è da irresponsabili uscire a quest'ora senza un ottimo motivo".

"E non ne ho di ottimi motivi, Ross?".

"E allora? Parla!".

"Voglio sentire dalla tua voce la verità! La stessa verità che hai detto a Dwight".

Lui scosse la testa, non poteva e non voleva e avevano già affrontato quell'argomento. "Come ti ho già detto, esistono cose che io non ti ho mai chiesto e di cui non ti ho mai costretto a rendermi conto. Non l'ho fatto per te, per noi e perché non voglio sentire le risposte che potresti darmi. Ti consiglio lo stesso atteggiamento saggio, ci faremo meno male entrambi". Sapeva di essere un codardo, sapeva che nominare, anche se velatamente, Hugh Armitage era cattiveria pura perché la feriva profondamente ed entrambi avevano sbagliato nel loro matrimonio ma era altrettanto vero che poi erano stati capaci di ricostruire il loro rapporto e di riscegliersi, ognuno con le proprie imperfezioni ed errori, sapendo che al mondo non esisteva altro posto per loro che uno accanto all'altra. Ma in quel momento non poteva fare altro, doveva chiudere la discussione e agire malignamente l'avrebbe fatta andar via più in fretta, lontano e al sicuro, a Killawarren.

Demelza impallidì. "Eppure, io devo sapere la verità... Ora soprattutto".

"Perché?".

Lei prese un profondo respiro. "Perché aspetto tuo figlio".

Santo cielo... Ross sentì le gambe traballargli in maniera preoccupante e dovette aggrapparsi ancora più forte al sofà per non cadere, dopo aver sentito quella notizia che, fra tutte, era l'ultima che poteva aspettarsi e che poteva scombinare tutte le carte in quel gioco pericoloso. "Cosa?". Santo cielo, no, NO!!! Non ora, non adesso che non poteva prendersi cura di lei ed era costretto ad allontanarla! Non era più successo dopo Clowance, in sette anni d'amore, pur intervallati da una crisi profonda, Demelza non era più rimasta incinta ed adesso per una volta, una sola volta... Non se lo aspettava e tutti i suoi proponimenti parvero svanire per un attimo. Voleva abbracciarla, baciarla, stringerla a se assieme al loro bambino e dirgli che era felice – perché dannazione, lo era eccome – ma non poteva. Non ancora, non ora! SOPRATTUTTO ora! Adesso che lei era più vulnerabile, adesso che aveva bisogno di cure e tranquillità, adesso che portava in grembo un nuovo bimbo da proteggere, non poteva permettersi alcuna debolezza. Era per il suo bene e sperava che Demelza, una volta scoperta la verità, lo avrebbe capito. "E' per questo che sei andata da Dwight? E' una buona scelta, è un medico e ti seguirà al meglio".

Demelza chiuse gli occhi lentamente, ricacciando indietro le lacrime. "No" – disse, delusa. "Non è per questo".

Ross si risedette sul sofà, fingendo indifferenza. "Beh, ma la sostanza non cambia. Da Dwight sarai curata e seguita e io potrò stare tranquillo".

Lei si morse il labbro. "Stare tranquillo? E' solo a questo che aspiri?".

"Sì, a conti fatti, sì!".

Demelza fece un sorriso amaro e anche se il suo viso pareva trasfigurato dal dolore, mantenne uno strano contegno che a Ross fece paura. La rabbia e le urla le avrebbe potute capire e affrontare ma quella freddezza, quel suo sguardo vuoto e perso, lo annichilivano.

"Lontana da quì, lontana dai tuoi occhi, potrai viverti le tue nuove passioni, giusto?" - gli chiese, sibillina.

Lui non rispose e si mise a fissare le fiamme nel camino. "E' tardi e dovresti tornare da dove sei venuta. Vorrei che ti riguardassi e che ti affidassi a Dwight".

Demelza si massaggiò il ventre. "Affidarmi a Dwight? Sì Ross, è esattamente quello che ho in mente di fare".

E senza aggiungere altro, gli voltò le spalle e se ne andò senza che Ross capisse il senso delle sue ultime parole.

Fu Dwight a capirle, la mattina successiva, quando la trovò seduta all'alba, come se non fosse mai andata a dormire, nel salotto della sua dimora.

Pallida, con un'espressione che non pareva nemmeno più la sua, Demelza lo guardò in viso. "Dwight, sei un medico, giusto?"

Preoccupato, lui le si avvicinò e le tastò la fronte per accertarsi che non avesse la febbre. "Così dicono... Tanto che mi sono svegliato quasi prima di te per andare a Truro a curare l'ascesso della signora Tirtle".

"Hai fatto nascere Jeremy" – disse lei, assorta.

"Vero".

"E ora, ora... aspetto un altro bambino".

Dwight spalancò gli occhi ed impallidì proprio come Ross poche ore prima. Il suo sguardo si riempì d'orrore. "Cosa?".

Demelza lo fermò, prima che potesse commiserarla e considerarla una povera vittima della situazione. "Non dire nulla... Non voglio sentire niente! Ho solo un favore da chiederti".

"Quale?".

"Tu sai far nascere i bambini ma se ti chiedessi il contrario?".

Dwight divenne ancora più pallido, capendo a cosa alludesse. "Demelza...".

Lei strinse i lembi della sua gonna, parlando con una freddezza che faceva a pugni con la sua consueta solarità e dolcezza. E con la figura di madre dolce e meravigliosa che era sempre stata. "Non dire niente. Non voglio prediche, non voglio giudizi, non voglio sermoni. Non posso avere questo figlio, non posso per rispetto di Jeremy e Clowance che hanno solo me e non abbiamo più niente. Non posso e non voglio".

"Demelza, non essere affrettata!" - cercò di farla ragionare Dwight.

Ma lei lo fissò, con occhi spenti e opachi. "Se non lo farai tu, troverò qualcun altro che potrà aiutarmi".

E questo mise Dwight con le spalle al muro.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Demelza aveva chiesto a Prudie di star fuori tutto il giorno coi bambini e, nonostante la serva avesse ben chiaro cosa volesse fare e avesse cercato di dissuaderla, lei non l'aveva lasciata parlare e l'aveva mandata via. Non voleva sentire nessuno, non voleva i consigli di nessuno, voleva solo mettere fine quanto prima a quell'incubo, piangere e poi andare via, lontano, coi due figli che già c'erano e che sarebbe stato difficile crescere da sola.

Adducendo un malessere e senza dare spiegazioni a Caroline per non ferirla, si era messa a letto e aveva atteso che Dwight tornasse dalle sue visite.

Mille pensieri le affollavano la mente: Ross, il suo futuro, Jeremy e Clowance e sì, anche il bambino che aspettava. Ma quest'ultimo pensiero, appena si affacciava, veniva ricacciato indietro da dolore, rancore e sensi di colpa. Non era colpa del bambino, ma sua e di Ross. Non avrebbe dovuto permettere che succedesse ma era successo e ora... ora per la prima volta da quando era venuta al mondo, non si sentiva desiderosa di dar la vita a un figlio. Non poteva permetterselo e soprattutto, con una fitta al cuore, dopo quanto successo non provava nulla. Non lo voleva e cosa ancora più incisiva, non sentiva di amarlo...

Con un gesto leggero si sfiorò il ventre, trovando mille buoni motivi per portare a termine la scelta che aveva preso: si sarebbe trovata senza soldi e con un futuro da costruire e sarebbe stata l'unica responsabile di Jeremy e Clowance e con mezzi scarsi e poco denaro, non poteva permettersi di mantenere un altro bambino. Non sarebbe stato giusto per i figli che già c'erano. E certo, Ross aveva le sue responsabilità e dei doveri ma non li avrebbe rivendicati perché non aveva senso farlo. Non poteva restare o la poca sanità mentale che ancora possedeva, sarebbe svanita. E i suoi figli allora sarebbero stati davvero soli al mondo...

Aveva lottato tanto nella sua vita ma ora sentiva di non averne più la forza. Si era rialzata dalle botte di suo padre, aveva sopportato sulle sue spalle di ragazzina i lavori più duri, era sopravvissuta alla morte di Julia, ad Elizabeth e Ross... Ross era diventato la sua unica certezza, la persona che amava e sempre avrebbe amato, colui con cui avrebbe passato la sua vita. Santo cielo, lo amava anche adesso, nonostante tutto! Era suo, e lei gli apparteneva. Sempre avrebbe sentito di appartenergli, per quanta strada avesse deciso di fare, si sarebbe sempre sentita la moglie di Ross Podark.

Stupida, stupida! Che sciocca patetica sentimentale che era stata e che era ancora! Davvero ci aveva creduto alla fiaba e al vissero felici e contenti? Mai dare le cose per scontate, MAI! Ross l'aveva già tradita una volta e anche se lo avevano superato, anche se negli ultimi anni il loro rapporto era diventato forte e simbiotico, chi poteva garantirle che un uomo che ha tradito, non tradisca ancora?

Cercò di scacciare quei pensieri, di Ross e del bambino soprattutto. E si concentrò sul 'dopo'. Aveva idee nebulose al riguardo ma sapeva che doveva andarsene via dalla Cornovaglia. In un posto lontano, dove non avrebbe visto, sentito o saputo più nulla di Ross e lui di lei. Non voleva nemmeno pensare all'eventualità di restare per vederlo a Nampara o in giro, a braccetto con Tess. No, questo l'avrebbe uccisa di certo! Tess padrona di Nampara, custode del cuore di Ross, amata nel letto che era stato suo e dove erano nati i suoi bambini... Santo cielo, si sentiva di impazzire!

Ripensò alla sua vita frenetica di quei due ultimi anni, alle tante cose successe, scacciò dai ricordi i momenti e le parole più belle condivise con Ross e si concentrò sulle cose più terrene: Cecily e Kitty se n'erano andate lontane per costruirsi un nuovo futuro e lasciarsi il passato alle spalle e lei avrebbe dovuto fare lo stesso.

E se...?

Non riuscì a concludere quel pensiero che la porta si aprì sommessamente e lei scattò seduta, sul letto, mentre il cuore le accelerava. "Dwight...". Il suo amico dottore era arrivato e quindi era giunto il momento...

Con la sua borsa da medico che tante volte gli aveva visto fra le mani, l'uomo le sorrise tirato, avvicinandosi al letto e sedendosi accanto a lei. "Caroline mi ha detto che oggi non ti sei sentita bene e che hai voluto rimanere a letto. Ti ringrazio per non aver parlato a mia moglie di quello che... che...".

"Del bambino?" - lo interruppe Demelza. "Non lo farei mai, so quanto Caroline ancora soffra per Sarah. E se solo potessi darlo a voi questo bambino, sarei la persona più felice del mondo. So che lo amereste e crescereste nel massimo amore. Ma non si può...".

Dwight sospirò, incapace di continuare quel discorso che tanto gli ricordava la sua bambina perduta. "Non hai cambiato idea?".

"No, non posso permettermelo. E tu lo sai".

Pallido, Dwight scosse la testa. "Demelza, io e Caroline siamo disposti a darti tutto l'aiuto possibile, economico e morale. Non devi farlo, non sei costretta a farlo. Se solo aspettassi di essere più lucida, capiresti che è una scelta che va contro te stessa e ciò che sei. Non te lo perdoneresti mai".

Demelza si mise le mani sulle orecchie. Era troppo ciò che Dwight stava dicendo, troppo da sentire e troppo insopportabile da accettare. Sapeva che la sua vita sarebbe stata macchiata per sempre da questa scelta, sapeva che non c'era via di ritorno, sapeva che non avrebbe mai avuto la forza di guardarsi allo specchio e sapeva che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe pianto ogni sua lacrima al pensiero. Sapeva anche che sarebbe arrivato il momento in cui, ad ogni bimbo che incrociava, si sarebbe chiesta se suo figlio avrebbe camminato allo stesso modo, quali giochi avrebbe amato fare e a chi sarebbe assomigliato. Sapeva tutto e non c'era bisogno che Dwight glielo dicesse, era consapevole di ogni cosa. "Dwight, non dire nulla".

Lui si morse il labbro. "Santo cielo, prenderei Ross a pugni in questo momento, per averti spinta a questo!".

"Ma non risolverebbe la situazione" – gli rispose, con praticità.

"Lui ha delle responsabilità e tu dovresti pretendere che se le assuma. Senza arrivare a far del male a te stessa e al tuo bambino".

La donna abbassò il viso. "Non voglio... Non voglio un uomo che fa il padre perché costretto, voglio un uomo che fa il padre con amore. Il resto non ha senso".

Dwight, con sommo dolore, le strinse le mani. "Demelza, da una scelta così non si torna indietro".

"Sono molte le scelte che dovrò fare, da cui non si potrà tornare indietro. Questa è solo una di quelle e questo bambino, Dwight..." - si sfiorò il ventre ancora piatto – "Questo bambino ora è poco più di un'idea, talmente piccolo che nemmeno si nota la sua esistenza".

"Ma esiste!" - obiettò Dwight. "E so che hai mille buone ragioni per sentire che questo è ciò che devi fare, ma io ti conosco e so che passati questi giorni tanto duri, passeresti la tua vita a maledirti".

Facendo violenza a se stessa per non piangere, Demelza si impose di essere forte. "Forse no... Mi sopravvaluti Dwight, non sono una donna tanto virtuosa. A tutto c'è un limite e io sono stata forte fin troppe volte. Ora non ce la faccio, ora non riesco semplicemente ad amare nonostante tutto. E' come se fossi addormentata, è come se non provassi più nulla per niente e nessuno. So solo che amo i miei due figli ma tutto il resto, anche me stessa, non ha più importanza. E questo altro bambino non lo voglio, non provo nulla per lui e non si può piangere per sempre qualcuno che non si è amato. Passerò qualche giorno a letto e poi mi riprenderò come se lui non fosse mai esistito".

Dwight la guardò per un attimo in silenzio, scettico sul significato di quelle parole ma certo di quanto fosse sconvolta in quel momento. "Dimmi solo una cosa, Demelza".

"Cosa?".

"Non lo vuoi fare per ripicca verso Ross, vero? Questo devo saperlo...".

Demelza sorrise amaramente. "La vendetta non fa parte di me e al momento non ne avrei nemmeno la forza".

Con un gesto gentile, Dwight le accarezzò la guancia. "E allora non c'è altro di cui stare a parlare, stenditi e solleva la camicia da notte. Cercherò di fare più in fretta che posso. Non riesco a prometterti che non sentirai dolore ma farò in modo che tu ne senta il meno possibile. Se questa cosa va fatta e ne sei convinta, prima procediamo e meglio è".

Il cuore di Demelza, nonostante la convinzione di ciò che stava per fare, a quelle parole accelerò. Tremò mentre guardava Dwight aprire la sua borsa ed estrarne ferri chirurgici su cui c'era ben poco da immaginare l'uso e per un attimo chiuse gli occhi, chiedendo silenziosamente scusa a lui o a lei, chiunque fosse, chiunque sarebbe stato... E pregò in silenzio che fosse vero, che davvero esistesse per tutti una seconda possibilità e che quel bambino avrebbe avuto un'altra occasione per nascere ed essere amato da due genitori che lo desideravano e che l'avrebbero accolto con amore. "Mi dispiace..." - sussurrò, mentre una lacrima solitaria le solcava il volto.

"Demelza, vuoi del brandy?" - le chiese gentilmente Dwight, sedendosi sul letto accanto a lei.

Scosse la testa. "No, non voglio nulla".

"Te lo consiglio. Ti rilaserà e ti stordirà quel tanto che basta per non renderti conto appieno di ciò che farò. Dopo, quando ti sveglierai, basteranno alcuni giorni di riposo e poi potrai riprendere appieno la tua vita".

"No, non voglio nulla. Fa solo ciò che devi...". Non voleva del brandy, non voleva non sentire nulla, sapeva di meritare di sentire TUTTO. E se il dolore serviva ad espiare una colpa, sperava di sentirne a sufficienza per acquietare i suoi rimorsi per sempre.

Dwight sospirò, sfiorandole la camicia da notte per sollevarla abbastanza per procedere all'intervento. "Cerca di rilassarti e se senti troppo dolore, dimmelo".

Demelza non rispose. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e poi cercò di isolare la sua mente e il suo cuore da tutto il resto. Sentì Dwight che appoggiava al letto i suoi strumenti chirurgici, sentì che le sfiorava le gambe affinché lei le aprisse e si morse il labbro quando la visitò, per accertare che la gravidanza ci fosse e stesse effettivamente procedendo. Poi lui le accarezzò la fronte, con una gentilezza che solo un amico, non un medico, avrebbe potuto dedicarle. "D'accordo, ora inizio".

Il cuore di Demelza accelerò. Pensò a Julia, a Jeremy, a Clowance... Ai loro visini perfetti, alle loro prime stentate parole, ai loro primi traballanti passi, ai loro sorrisi buffi e ai sogni che avevano per il loro futuro. Era una madre, dannazione! E stava per uccidere suo figlio!

Sentì la pressione della mano di Dwight sul suo corpo, non un gesto gentile come poco prima ma più brusco, non un gesto fatto per guarire ma qualcosa fatto per uccidere. E glielo aveva chiesto lei...

D'istinto si scostò velocemente da lui, un gesto che coscientemente non si sarebbe certo sognata di fare fino a due minuti prima. Ma lo fece, senza nemmeno sapere il perché... "NO!" - urlò, con tutta la disperazione che aveva in corpo. "No, no..." - singhiozzò, prima di scoppiare a piangere come se fosse stata una bambina.

Dwight sorrise, tristemente, ma sorrise. Come se se lo fosse aspettato... E con un gesto quasi paterno la strinse a se, cullandola dolcemente. "No, Demelza. No...". Le accarezzò la schiena senza dire nulla, tenendola stretta a se, percependo il suo dolore e la sua rabbia, ma soprattutto la sua incapacità a portare a termine quella scelta che forse altre donne avrebbero potuto fare con più leggerezza, ma non Demelza.

"Oh Dwight..." - pianse lei, fra le sue braccia... "Sono una stupida che ti sta facendo perdere tempo..." - sussurrò, quasi a scusarsi.

"Non vedo nessuna stupida in questa stanza ma al contrario, una donna molto forte".

Lei scosse la testa, furiosamente. "E' quello che volevo fare, è quello che so di dover fare... Ma non ci riesco e forse dovrei semplicemente ubriacarmi con quel brandy tanto da stordirmi e lascarti fare... Ma non ci riesco, non posso".

Dwight, la adagiò sul materasso, coprendole le gambe con la coperta e riponendo i suoi ferri nella borsa. "Niente brandy e niente scelte di cui pentirsi, Demelza. Sapevo che non mi avresti permesso di farlo, sapevo che ti saresti tirata indietro all'ultimo, ti conosco e so che ami i tuoi figli".

Con un gesto rabbioso, lei strinse la coperta. "Sì, amo Jeremy e Clowance. E Julia... Ma questo bambino no, so di non volerlo e non so nemmeno se mai potrei amarlo... Ma quando mi hai toccata, quando ho capito che nel giro di pochi minuti sarebbe finito tutto, ho capito che non potevo farlo. Ed è egoista, l'ho fatto per me! Non per lui, per me e per non sentirmi un mostro! E questo bambino nascerà senza essere voluto, senza un padre e con una madre che per lui non prova nulla! Lo sto condannando all'infelicità per il mio egoismo".

"Oh, Demelza...". Dwight le si risedette a fianco, cercando di calmarla. "Tu ami i tuoi figli. TUTTI i tuoi figli... Ora sei impermeabile ai sentimenti, sei ferita e soffri e tutto ciò che vedi è buio attorno e dentro di te. Ma so che questo bambino, quando nascerà, sarà amato a pari degli altri e che sarà la tua ragione di vita come Jeremy e Clowance. Hai bisogno di riposo, di pace e serenità e poi saprai rialzarti. Ne sono sicuro...".

Demelza fece un sorriso tirato. "Io no, ma ti ringrazio per le tue parole".

"Andrà bene" – rispose Dwight, dandole un buffetto sulla guancia. "Andrà bene perché tu sai benissimo che questo bambino, almeno da parte tua, è stato concepito con amore. E questo so che ti basterà per sentirti sua madre e amarlo come merita. E io e Caroline saremo quì a darti supporto".

Con la mano, Demelza si asciugò le lacrime che le rigavano le guance. Poi fece un sorriso timido ma intenso e pieno già di nostalgia. Dwight, Caroline, Drake, Morwenna, Sam, tutti... Santo cielo quanto gli sarebbero mancati... "No, Dwight, non lo farai...".

"Cosa?".

"Non potrai prenderti cura di noi, voglio cavarmela da sola. E non posso restare quì, impazzirei e i bambini soffrirebbero troppo nel vedere il loro padre con Tess, in quella che è stata la nostra casa. Amano Ross, Jeremy lo venera, per Clowance è un principe azzurro e so che per il bene di tutti devo andarmene".

Dwight entrò in allarme. "Andartene? Dove? Non puoi aspettare almeno che il bambino sia nato? Quì avresti tutto e ti proteggerei da... ogni cosa... O persona...".

Capendo il suo stupore e le sue preoccupazioni ma intenzionata a non farsene schiacciare, Demelza gli prese le mani, stringendole nelle sue con affetto. "Lo so che lo faresti ma no, non posso restare. Fammi partire, Dwight... Se voglio dare una possibilità a questo bambino che aspetto e che ho deciso di tenere, devo andarmene lontano in un posto dove nessuno conosce me, Ross o la nostra storia. Ricominciare da zero, una nuova vita e una nuova identità. In un posto dove nessuno potrà mai trovarmi".

Dwight deglutì, capendo che non poteva farle cambiare idea e che in effetti, andarsene era la scelta migliore per lei, la sua salute e i suoi bambini. "Dove vuoi andare? Almeno questo, puoi dirmelo?".

Lei annuì. "Seguirò le orme di Cecily e Kitty. Le raggiungerò in Jamaica, è da ieri che ci penso e le avrei raggiunte comunque, incinta o no. Ognuna di loro è fuggita in quelle terre per lasciarsi alle spalle un passato doloroso e riniziare da zero, indipendenti e libere. E io ho bisogno di fare lo stesso, non c'è più nulla per me, quì".

Il pover'uomo impallidì. "Jamaica? Demelza, è un luogo lontano, selvaggio e così diverso da queste terre. E' un luogo pericoloso per una donna sola con dei bambini, infestato da briganti e pirati".

"So stare al mondo, Dwight! E non sarò sola, ci saranno Cecily e Kitty con me, saremo una bella squadra di sorelle...".

"E' un viaggio lungo da affrontare, per una donna incinta".

Lei sospirò. "Posso farcela, so essere forte quando è necessario esserlo".

Dwight la abbracciò, intensamente, accarezzandole i capelli. Capiva che aveva ragione lei, capiva che era una scelta ponderata e non irrazionale, capiva che ne aveva bisogno e che era un bene che lo facesse. "Ci mancherai ma so ce è quello che devi fare, se senti che è la strada migliore per te. Ma i bambini? Come la prenderanno? Lo dirai a Ross?".

Demelza abbassò il capo. Già, quella sarebbe stata la parte più difficile ma sapeva che non c'era altro modo per lei e per loro, di ritrovare la serenità perduta. Con Ross in fondo aveva già parlato e non c'era motivo di farlo ancora, lui aveva ben chiarito quali fossero le sue priorità al momento e di certo non erano né lei né i loro figli. "Cercherò di spiegare loro la situazione nel modo più semplice possibile, senza mentire ma cercando di non ferirli troppo. Amano il loro padre e sarà un dispiacere sapere che lui ha scelto una nuova vita di cui noi non facciamo più parte, ma cercherò di farglielo accettare. E di mostrar loro questo viaggio come l'inizio di una grande avventura. E per quanto riguarda Ross...".

"Sì?".

Demelza gli strinse le mani. "Non deve sapere nulla, non dovrà ritrovarci MAI. Non dirgli nulla, nemmeno se ti implorasse, su dove siamo diretti. Puoi prometterlo?".

Dwight annuì, tristemente. "Non è difficile promettertelo, visto che non ho intenzione di rivolgergli mai più la parola. Ma almeno a Caroline, posso dirlo?".

"Certo".

"Ci scriverai ogni tanto, per dirci che stai bene?".

"Ovviamente".

"E accetterai un pò di denaro, quanto meno per il viaggio e per cominciare una nuova vita?".

"Dwight...".

"Accetterai, per il bene dei tuoi bambini?".

Capendo che non poteva obiettare né tanto meno rifiutare, Demelza scelse di mettere sotto terra il suo orgoglio e di farsi aiutare. "Solo il minimo indispensabile, posso lavorare".

"Potrai lavorare quando avrai partorito, non prima. E mi farai sapere di questo bambino o bambina, quando nascerà e sarà amatissimo?".

Demelza annuì, sorridendo amaramente. Non credeva che sarebbe successo, ma Dwight lo faceva sembrare così possibile che per un attimo desiderò credergli... "Certo, te lo prometto". E dicendo quelle parole, Demelza capì senza ombra di dubbio che quella sarebbe stata la sua strada e che da quel momento non sarebbe più potuta tornare indietro.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


"Prudie, non sei obbligata a venire!" - sussurrò Demelza con aria stanca, chiudendo la misera sacca da viaggio con le poche cose che aveva intenzione di portarsi dietro in Jamaica. Dicevano che erano terre calde, non avrebbero avuto bisogno di molti abiti, dicevano che erano terre ricche, non avrebbero avuto bisogno di molti oggetti da portarsi dietro, dicevano che erano terre rigogliose, non sarebbe stato difficile quindi procurarsi del cibo...

Prudie scosse la testa. "Rimanere quì? A Nampara?".

"E' sempre stata la tua casa...".

Prudie divenne rossa dalla rabbia. "A fare da SERVA a Tess? Nemmeno morta! Io vengo con te, ragazza! Avrai bisogno di me con tre bambini, di cui uno ancora nemmeno è nato. C'ero alla nascita di ogni tuo marmocchio, quindi non mi perdo l'entrata trionfale in questo mondo dell'ennesimo moccioso Poldark. E se torno a Nampara rischio la forca, li uccido quei due, il signor Ross e quella piccola...".

Prudie fece per pronunciare un titolo poco lusinghiero su Tess ma fu costretta a fermarsi. Jeremy e Clowance entrarono nella stanza dopo aver passato il pomeriggio in giardino a giocare con Horace e Garrick e la serva dovette mordersi la lingua.

Demelza osservò i suoi bambini, ancora così ignari, ancora solo convinti che quella a casa di Dwight non fosse che una gita di qualche giorno... Era ora di parlare, era ora di cercare di far loro capire che la loro vita sarebbe cambiata radicalmente. E doveva farlo con tatto, con dolcezza, cercando di essere sincera ma allo stesso tempo di non turbarli... Non c'era più tempo per fingere che tutto andasse bene e presto avrebbero comunque iniziato a fare domande. "Prudie, andresti di sotto a prepararci del tè?" - chiese, gentilmente.

La donna la fissò un pò corrucciata. "Sei sicura di volerlo fare da sola?".

"Sì". Era sicura... Ormai ne aveva parlato sia con Dwight che con Caroline, quindi mancava solo l'ultimo passo per chiudere quella vicenda e quella parte della sua vita in Cornovaglia.

La serva uscì e Jeremy e Clowance si avvicinarono al letto dove la sacca da viaggio era stata chiusa. "Mamma, si torna a casa?" - chiese il bambino, osservandola.

"Viene a prenderci papà?" - aggiunse Clowance.

Al diavolo, no, papà non sarebbe venuto a prenderli! Demelza prese un profondo respiro, era tutto così dannatamente difficile... "No, in realtà non stiamo tornando a casa ma al contrario, stiamo per partire per un lungo ed avventuroso viaggio". Cercò di apparire contenta, entusiasta, ottimista ed allegra. Ma viste le espressioni perplesse dei suoi due figli, probabilmente stava miseramente fallendo nel suo intento...

"Partire? Per dove? E papà?" - chiese Jeremy.

Demelza sospirò, sedendosi sul letto ed attirandoli a se, prendendoli per mano. Sentiva di dover dare loro forza e allo stesso tempo aveva il disperato bisogno che loro ne dessero a lei. "Papà ed io... Ci sono un pò di cose che non vanno, lo avete visto anche voi prima che venissimo quì da zia Caroline e zio Dwight, giusto?".

"Avete litigato?" - chiese Clowance.

"Non proprio... Cioè, sì. Ma non è questo il punto".

Jeremy si fece serio, serrò i pugni e tremò leggermente. Ormai aveva più di dieci anni ed era troppo grande per bersi una stupida ed edulcorata storiella e di certo aveva capito che qualcosa non andava. "Mamma, perché siamo quì senza papà? E perché partiamo? Cosa è successo?".

Cercò le parole giuste dentro di se, ma come poteva spiegare? Come poteva fare in modo che non odiassero il loro padre? Non voleva che succedesse, anche se Ross le aveva fatto del male era certa che avesse amato i suoi bambini. E non voleva che i bambini provassero un sentimento che alla lunga avrebbe finito per logorarli e renderli diversi dalle piccole splendide persone che erano e sarebbero diventate. "A volte capita che i grandi prendano strade diverse, che si preferisca altro, che non si sia più felici del proprio modo di vivere... E allora si cerca di cambiare strada per ritrovare se stessi ed è quello che sta facendo vostro padre e che voglio fare anche io".

"Non capisco, mamma" – mormorò Clowance, spaventata.

"Cosa preferisce adesso papà?" - chiese Jeremy.

"Altro..." - rispose Demelza, vaga. "Altro che non riguarda noi... Ma non vuol dire che non ti ami più, tesoro mio, vuol dire solo...".

Jeremy scosse la testa, furiosamente. Adorava suo padre, era il suo pensiero fisso quando non c'era ed attendeva sempre impazientemente il suo ritorno da Londra, ogni volta che lui partiva. Era logico che non capisse e lei non sapeva come spiegarglielo. Era impossibile, forse... "Jeremy, dovresti fidarti di me e basta!" - cercò di tagliare corto, sperando che lui non insistesse, anche se in effetti aveva tutto il diritto di farlo.

Il ragazzino indietreggiò, furioso e disperato. "Mamma, tu ti sbagli! Papà vuole stare con noi, non vuole altro! Vuole te! E me e Clowance. Basta che glielo chiedi e lui te lo dirà meglio di me! Andiamo a casa, andiamo a parlare con papà e lui ti dirà che hai capito male".

Jeremy si aggrappò alla sua gonna disperato, singhiozzando, piangendo e lei lo strinse a se, assieme a Clowance che era silenziosa ed atterrita. "Amori miei, non ho capito male. Quì non c'è posto per noi e vostro padre preferirebbe così...".

"Non ti credo!" - urlò Jeremy. "Mamma, mamma non voglio fare un viaggio, voglio andare a casa mia. Da papà! Come farebbe senza di noi? Perché sei cattiva, perché lo vuoi lasciare solo? Non gli vuoi più bene?".

Demelza sussultò. Santo cielo, era questa la sua colpa adesso!? Sarebbe stata lei a pagare per quanto stava succedendo? Lei che per Ross viveva e che per lui sarebbe morta gettandosi nel fuoco? Cos'era, uno scotto tardivo per il tradimento con Hugh? Stava pagando con gli arretrati quell'errore di cui forse mai aveva davvero reso conto? "Jeremy, io amo tuo padre più di ogni altra cosa".

"Ma lo vuoi lasciare..." - singhiozzò Clowance.

E Demelza cedette, non c'era altro modo che essere sinceri, forse... "No, non io. E' lui che non vuole più me...".

Jeremy si bloccò, a occhi spalancati. "Mamma...?".

Lei gli accarezzò dolcemente il viso. "Succede, come ti dicevo prima. Fa male, tanto male a me come a lui ma si deve essere forti e capire quando è giunta l'ora di arrendersi e prendere un'altra strada. E allora si deve andare avanti altrove... Ho amato vostro padre e lui ha amato me, siamo stati felici e abbiamo costruito tante cose insieme. Ed abbiamo fatto voi e di questo saremo sempre grati. Ma è finita, adesso, anche se..."

"Anche se?" - chiese Jeremy, con gli occhi lucidi e atterriti.

"Sapete, c'è anche un'altra cosa che ci succederà, quando saremo arrivati dove ho intenzione di andare con voi, nel nostro viaggio avventuroso".

Con gli occhi velati di lacrime, Clowance la guardò incuriosita. "Cosa?".

Demelza si massaggiò il ventre dove c'era quel bambino non voluto ma che aveva follemente deciso di tenere, nonostante tutto. Non sapeva che ne sarebbe stato di lui o lei e nemmeno se e quanto ci avrebbe messo a volergli bene. Ma forse per i suoi bambini, quel fratellino poteva diventare uno spiraglio di luce in quel momento tanto buio. "Avrete un fratellino o una sorellina, fra qualche mese".

I bambini rimasero in silenzio, senza dire nulla. Se ne fossero felici, se la notizia avesse rasserenato i loro animi, era difficile dirlo. Troppo era il dolore per un padre perso e di certo uno sconosciuto bambino non avrebbe potuto lenirlo. Ci sarebbe voluto tempo per curare le ferite, tanto tempo per tutti...

Jeremy deglutì. "E papà ti fa andare via con noi e con un altro fratellino? Non ci crederò mai! Papà non lo farebbe mai! Mamma, torniamo a casa, tu ti sbagli e lui non vorrebbe!".

Gli occhi di Demelza si inondarono di lacrime. Avrebbe tanto voluto credergli, avrebbe tanto voluto che fosse come diceva lui ma la realtà era un'altra: Ross non la amava più, la tradiva con un'altra donna e non era interessato al piccolo in arrivo. E non era la prima volta, ci era già passata ma raccontarlo a Jeremy, raccontargli di come una volta anche Elizabeth si fosse insinuata fra loro e di come avesse reso inconsistenti agli occhi di Ross entrambi, non avrebbe aiutato suo figlio ad accettare la cosa ma al contrario, lo avrebbe ferito ancora di più. Non poteva dirlo, non poteva raccontarlo, non poteva distruggere così tanto il mondo di Jeremy e Clowance. "Come ti dicevo prima, amo tanto il tuo papà, Jeremy. E non lo lascerei se non fossi certa che non è me che cerca per essere felice".

"Cosa cerca, lui?" - chiese Jeremy, turbato dal vederla piangere e forse pentito per averla attaccata tanto duramente poco prima.

"Altro..." - rispose Demelza, con un filo di voce.

"Cosa?".

"Altro...".

"Altro meglio di te? E' matto?" - chiese il ragazzino, incredulo.

Demelza gli sorrise dolcemente, accarezzandogli la guancia. "La bellezza è soggettiva agli occhi di chi ci guarda. Lo capirai fra qualche anno, quando sarai più grande e una ragazza catturerà il tuo cuore. Forse non sarà la più bella di tutte ma per te sarà unica e le altre non avranno modo di competere con lei, ai tuoi occhi".

"Ma anche per papà tu sei così" – insistette il bambino.

No, anche questo avrebbe voluto che fosse vero ma putroppo le cose stavano diversamente. Le venne in mente ancora lei, lei che forse era un dolore che mai Demelza aveva cancellato del tutto dal suo cuore così come suo marito non aveva mai del tutto cancellato dal suo la figura di Hugh. Ross aveva amato Elizabeth e poi lei, anche se forse era sempre venuta per seconda. E ora c'era Tess... E lei non aveva più la forza per lottare di nuovo.

Clowance le toccò la pancia, dopo che per molto era stata silenziosa e cupa. Ed era strano perché era più acuta e con la lingua decisamente più lunga di quella di suo fratello. "E lui? Lui almeno sarà nostro?" - chiese.

"Sì, certo. Vostro, solo vostro..." - rispose Demelza, odiandosi per ciò che provava per il piccolo in arrivo.

Ma Jeremy la richiamò ancora al dovere. "E tuo... E forse anche di papà... O anche tu cerchi altro?".

Non disse nulla, non aveva la forza di rispondere anche a quella domanda che la richiamava all'ordine e che gridava alla sua coscienza di essere madre di tre figli, non di due. Lo accarezzò e lo strinse a se. "Mi aiutate a fare i bagagli?" - disse, cercando di accantonare il pensiero del nuovo bambino in arrivo.

"Ma dove andremo?" - chiese Clowance.

"Da Kitty e Cecily, in Jamaica, dopo un lungo viaggio in mare".

Jeremy sembrò spaventarsi. "Ma è lontano! Ned ci raccontava della Jamaica e dell'Honduras. Sono dopo un grandissimo mare, un posto troppo lontano e non...".

"E non?".

Il ragazzino prese un profondo respiro. "E se andiamo lì, non lo vedremo davvero più il papà. E lui non saprà trovarci".

Demelza annuì, pensando brutalmente che era questo il suo intento se voleva vivere. "A voi piacevano Kitty e Cecily, no? Sarà bello stare con loro in un posto magico, pieno di avventure e con il mare che, dicono, sia il più bello del mondo, simile al mare del Paradiso".

"Preferisco il mare di casa nostra" – commentò Clowance, laconica. "E ho paura, mamma".

"Non possiamo restare quì da Dwight?" - insistette Jeremy – "E vedere se con papà le cose vanno a posto?".

Demelza scosse la testa. "No, non me la sento. Puoi capirlo?".

Jeremy osservò lei e la sua mano, appoggiata contro il suo ventre. E anche se era piccolo, forse capì che una donna incinta abbandonata dal marito aveva bisogno di serenità e di andarsene lontano per stare bene. Soffriva, non poteva farci molto ma sapeva anche che per quanto amasse suo padre, era sua madre la colonna della famiglia, era lei che c'era sempre, in ogni occasione, era lei che lui e sua sorella cercavano ed era lei che ora aveva più bisogno di loro. E loro dovevano esserci e starle accanto, come lei aveva sempre fatto con lui e sua sorella. Silenziosamente la abbracciò, forte, cercando coraggio, infondendole coraggio. "Andrà tutto bene, mamma".

Clowance fece lo stesso, rannicchiandosi contro di lei. "Sì, anche se questa Jamaica mi fa paura".

Demelza, mentre una nuova lacrima le sfuggiva dal viso, li strinse a se. "La paura la sconfiggeremo insieme, tutti e tre".

"Tutti e quattro" – ribadì Jeremy, ricordandole che a breve una nuova aggiunta sarebbe arrivata ad arricchire la loro famiglia.

E, nuovamente, Demelza si sentì sprofondare nelle tenebre dell'ignoto e dell'incerto. Era dura, era dura aspettare un figlio non voluto e rendersi conto che farlo sentire parte della famiglia sarebbe stato un peso e non una cosa naturale. Si sentì così stanca e cattiva a quei pensieri che credette di odiarsi, ma non ci riusciva davvero a provare sentimenti diversi. Eppure sapeva che doveva fare del suo meglio e che i suoi due bambini sarebbero stati la sua forza e il viatico a un futuro sereno anche per il nuovo arrivato. Doveva essere forte, davvero. E soprattutto finire di fare i bagagli perché forse solo con la lontananza sarebbe riuscita ad amare quel piccolino che gridava ed esigeva amore, un amore che lei non era ancora pronta a dargli. "Su, andate a giocare in giardino, ora! Così posso finire di preparare le nostre cose".

E i bambini, ubbidienti e mortificati, la lasciarono sola coi suoi pensieri.


...


Nascosti dietro una siepe del giardino e facendo finta di giocare, Jeremy e Clowance non riuscivano a tenere a bada il loro tumultuoso stato d'animo. Era così incredibilmente assurdo quanto gli aveva detto la loro madre. Conoscevano il loro padre ed anche se era spesso assente, avevano sempre visto il luccichìo nei suoi occhi quando osservava la loro mamma, avevano sempre assistito alla dolcezza dei loro abbracci e anche ai loro baci che entrambi non avevano mai avuto paura a scambiarsi davanti a loro. Sapevano che a volte i genitori possono non andare d'accordo, il loro amico Jhon Nanfan quando andavano a scuola da Morwenna, a volte raccontava di come suo padre spesso picchiasse sua madre. A Nampara non era mai successo nulla del genere e anche se Jeremy aveva vaghi ricordi di un periodo in cui era molto piccolo e i suoi genitori erano sembrati arrabbiati, quel tempo era passato da molto e qualunque cosa fosse successa, era stata superata... Il loro papà era sempre stato un eroe ai loro occhi, forte e giusto. E ora non riuscivano proprio a credere che volesse abbandonare loro e la loro mamma, era impensabile anche solo azzardare un'ipotesi simile. Il loro papà li amava ed entrambi erano convinti che quanto credeva la loro madre fosse solo un malinteso, lui non avrebbe mai voluto perderli e sarebbe morto senza di loro.

Jeremy tirò un sassolino contro un albero, rabbioso. "Clowance, andiamo di nascosto a casa!".

La bimba annuì, decisa, come se non aspettasse altro che suo fratello gli facesse quella proposta. "Da papà?".

"Sì, dobbiamo parlare con lui e spiegargli che mamma ha capito male alcune cose. Faranno pace, noi torneremo a casa e non partiremo per la Jamaica".

"Mamma si arrabbierà, se lo facciamo".

Jeremy divenne pensieroso. "Mamma non sta tanto bene, è triste e aspetta anche un altro bambino. Non ce la fa, dobbiamo essere noi a prenderci cura di lei e riportarle il papà. Anche lui secondo me non sta tanto bene senza di lei".

Clowance sospirò laconica. "Speriamo che sia davvero così...".

Jeremy si alzò, porgendole la mano. "Andiamo?".

"Andiamo".

I due bambini sgattaiolarono come ladri fra i vialetti alberati della residenza degli Enys. Prudie stava aiutando la loro madre, Caroline era nel salotto a sistemare alcune porcellane con la servitù e Dwight era fuori per delle visite. Se avessero fatto in fretta, nessuno si sarebbe accorto della loro assenza.

Appena fuori corsero come folli in quelle terre, in quella brughiera, in quei viali che conoscevano ormai come le loro tasche. Era la loro casa quella e non volevano lasciarla, per nulla al mondo.

Giunsero in prossimità della Wheal Grace e di soppiatto e senza farsi vedere la superarono, per poi raggiungere Nampara. La trovarono deserta, bussarono a lungo ma nessuno rispose, segno che il loro padre doveva essere fuori.

Jeremy sbuffò. "Se è alla Wheal Grace, ci vedrebbero in tanti. E mamma saprebbe che siamo usciti senza permesso".

Clowance annuì, d'accordo. "Forse... Ma magari se poi fanno pace, si dimenticano di questa cosa che abbiamo fatto e stasera ceniamo a casa tutti insieme".

"Mamma non dimentica mai niente!" - obiettò Jeremy.

"Forse in questi giorni potrebbe anche dimenticare" – ribadì la bimba. "E' così triste che non può ricordarsi di tutto e pensare a tutti".

Già, Jeremy non riusciva a non darle ragione. Mai aveva visto sua madre tanto prostrata e triste e voleva trovare suo padre, DOVEVA farlo per dirgli quanto lei avesse bisogno di lui. "Proviamo a cercarlo alla nostra spiaggia, lui va spesso lì".

"D'accordo".

I due bambini si lasciarono Nampara alle spalle e poi corsero verso la loro spiaggia, luogo di tante risate e tante scampagnate tutti insieme. Dalla scogliera la percorsero in lungo, osservando attentamente sotto di loro, in attesa e speranza di vederlo.

Col fiato corto, Clowance corse fino a dove la spiaggia si allargava e su di essa si aprivano grandi gallerie che da lì portavano alle miniere. Alcuni mesi prima, con Ned, da lì avevano salvato dei bambini minatori rimasti coinvolti in un incidente e sapeva che c'erano anche cunicoli che portavano alla loro di miniera, la Wheal Grace. Certo, lo aveva fatto perché suo padre era un eroe e con Ned lo era stato pure in guerra tanti anni prima, quando era giovane e ancora non conosceva la sua mamma.

Improvvisamente Clowance si fermò, affacciandosi al costone che dava sulla baia. Un gruppo di uomini, di sotto, uscì da una delle grotte con delle grosse casse di legno fra le mani che, dalla fatica con cui venivano trasportate, sembravano essere molto pesanti. Parlavano una lingua strana che Jeremy e Clowance non riuscirono a capire, ma improvvisamente il ragazzino impallidì. "Sembra francese".

"Francese?" - chiese Clowance. "Che ci fanno quì i francesi?".

Jeremy alzò le spalle. "Una volta Ned ha detto che i francesi quì non potrebbero mai fare nulla di buono e che vorrebbero far guerra all'Inghilterra".

Clowance impallidì. "Guerra all'Inghilterra? Sulla nostra spiaggia?".

"E' un buon approdo" – sussurrò Jeremy.

"Dobbiamo dirlo a papà" – suggerì Clowance con urgenza.

Ma Jeremy non rispose, non subito. La bimba lo osservò e notò che era improvvisamente impallidito, tanto che temette che stesse male. "Jeremy?".

"Non è necessario dirlo a papà, lo sa già" – rispose lui, indicando la spiaggia e due persone che stavano uscendo a coda degli altri, abbracciate, dalla grotta.

Clowance guardò giù e impallidì anche lei. Suo padre, il suo grandissimo e fiero papà era fra quegli uomini stranieri che volevano portare la guerra a casa loro, abbracciato a una donna che non era la loro mamma. Scosse la testa, spaventata, disperata, mentre tutto il suo mondo di bambina di sette anni crollava attorno a lei. "Papà... e... Tess? Quella è Tess!".

La piccola guardò Jeremy come se in lui cercasse risposte che suo fratello non poteva darle. "Jeremy?".

Lui non rispose ma improvvisamente capì il significato di ogni parola che la loro madre aveva detto loro quel pomeriggio. Aveva omesso le cose più difficili e dolorose, aveva cercato di essere 'giusta' per tutti sforzandosi di trovare le parole adatte, ma ora lui aveva capito cosa lei intendesse dire quando aveva affermato che il loro padre ora cercava 'altro'. Tess, una delle persone più antipatiche che fosse mai entrata in casa sua. Abbracciata al suo papà... E Jeremy era abbastanza grande da capire cosa questo significasse, per loro e per la loro mamma. Sentì forte il desiderio di proteggerla, di proteggere tutte le donne della sua famiglia da quella realtà e capì perché dovevano partire. Ma sentì anche altro, dentro di se. Se fosse stato più grande sarebbe sceso in quella spiaggia, avrebbe gridato cose brutte a suo padre e a Tess, avrebbe spinto quella donna lontano e poi avrebbe dato un pugno a suo padre. Ma non era più grande, aveva solo dieci anni e la sua sorellina sette ed era spaventata. Era troppo piccolo per fare qualsiasi cosa e anche se voleva prendere a pugni suo padre, non sarebbe riuscito ad arrivare al suo volto e lui in risposta lo avrebbe potuto colpire a sua volta. Non lo aveva mai fatto ma se ora aveva scelto di tradire la loro madre ed abbandonarla, sarebbe stato anche capace di picchiare lui o Clowance. Doveva portare sua sorella via da lì... "Andiamo a casa dalla mamma, Clowance. Aiutiamola a fare i bagagli" – disse, meccanicamente, con una voce che non sembrava nemmeno sua, sentendosi abbandonato, tradito e solo.

La bimba non obiettò. "Sì" – disse, sighiozzando.

Diedero un'ultima occhiata alla spiaggia e a quel padre che pensavano di conoscere e che stava tradendo tutti loro e la loro patria. E mestamente rientrarono a casa, capendo che tutto era cambiato e che non ci sarebbe più stato un padre ad amarli, proteggerli e a far sorridere la loro mamma...

Stancamente salirono le scale, cercando di ricomporsi in modo che la loro madre non si accorgesse del loro turbamento e quando entrarono nella sua stanza la trovarono seduta sul letto, con la sacca da viaggio chiusa e gli occhi gonfi. Si sforzarono di sorridere e le porsero un mazzetto di fiori che avevano raccolto per lei in giardino.

Demelza non disse nulla, li abbracciò forte e insieme rimasero in silenzio, a lungo, seduti sul letto.

Fu Jeremy, che sentiva il peso della responsabilità sulle sue spalle, a rompere quel silenzio opprimente. "Mamma, dicono che in Jamaica ci siano i pirati. Sarà divertente conoscerne qualcuno".

"Cosa?" - chiese lei, con sguardo assente.

Clowance cercò di aiutare il fratello a distrarre sua madre dai pensieri più foschi. "Sarà avventuroso, come dicevi tu! Quando partiamo?" - chiese, cercando di apparire forte e contenta.

"Avete cambiato idea?".

Jeremy cercò di ridacchiare. "Ci abbiamo pensato su prima, mentre giocavamo. Se dici che dobbiamo partire, partiremo! Tu sei più brava di noi a decidere e quindi dobbiamo fidarci di te. Poi se non facciamo in fretta, finisce che il fratellino nasce in nave e non è il caso, giusto? Meglio in Jamaica, sarà fortissimo avere un fratello nato dove c'è il mare bello come in Paradiso".

Demelza si accigliò, c'era qualcosa di stonato in quell'improvviso entusiasmo dei suoi figli e comprese che, benché fossero spaventati, stavano cercando di darle forza. Erano il suo bene più prezioso, il suo tesoro grande e niente e nessuno avrebbe mai potuto competere con l'amore che provava per loro. Nemmeno Ross, non più Ross...

Cercò di leggere dentro se stessa, cercò di trovare la forza come stavano cercando di fare loro e capì che doveva lottare per i suoi figli ma anche per il bimbo in arrivo. Non sapeva se e quanto ci avrebbe messo ad amarlo, non sapeva se ci sarebbe mai riuscita ma non voleva che lui o lei si sentisse indesiderato. Lei stessa era stata una bambina non amata e nei suoi fratelli aveva trovato la forza di vivere e crescere. E Jeremy e Clowance sarebbero stati lo stesso per lui o lei, chiunque fosse. Al momento non aveva la forza di fare altro, ma sapeva che doveva lottare anche per quel figlio in arrivo perché trovasse qualcuno ad amarlo, quando fosse nato... E sapeva che Jeremy e Clowance lo avrebbero fatto, lo avrebbero amato e protetto e che in loro, lui o lei avrebbe trovato la forza di vivere e crescere, anche e nonostante una madre forse non perfetta ed assente. "Mi fate una promessa?".

"Certo".

Prese le loro mani, stringendole forte. "In Jamaica dovrete promettermi che vi prenderete cura del vostro fratellino e che lo amerete, sempre. Conto su di voi, per lui o lei...".

Jeremy annuì. Rivide nella mente suo padre abbracciato a Tess e comprese cosa si agitava nel cuore di sua madre e quanto tutto fosse difficile per lei. "Non preoccuparti mamma, ci penseremo io e Clowance a lui. Poi quando starai bene e tornerai ad essere contenta, ci penserai anche tu".

Clowance non disse nulla ma annuì, d'accordo col fratello. Prese dal letto la sua bambola dai capelli rossi, la strinse a se e poi, con sguardo deciso, capì anche lei che dovevano portare via la loro madre da lì. Non avevano bisogno di molto, solo di loro stessi, di fortuna, ottimismo e della sua bambola da stringere la notte o nei momenti bui. E tutto questo lo avevano, quindi sarebbe andata bene. "Quando partiamo?" - chiese, col cipiglio sicuro tipico dei Poldark.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


In quelle due sacche da viaggio misere, nemmeno troppo pesanti ma dal valore immenso, c'era tutta la sua vita. C'era quel poco che a Demelza sarebbe servito nel nuovo mondo in cui stava per giungere e quel poco della sua vecchia esistenza da cui non avrebbe mai potuto separarsi: il suo pettine, i semi di alcune piante del suo giardino di Nampara, qualche vestito suo e dei bambini, quel poco di denaro che aveva accettato da Dwight e null'altro. Il resto era rimasto in quella che era stata la sua casa, la casa che l'aveva vista crescere, diventare donna e poi moglie e madre. Aveva lasciato lì tante cose, nella fretta di andarsene. Ed ora aveva il cuore spezzato per i tanti affetti, amici e conoscenti che non avrebbe più rivisto e per un amore grandissimo e ancora vivo che però non era più corrisposto... E avvertiva il peso nel cuore di non aver salvato il suo uomo da se stesso, facendola sentire una fallita. Ross si stava scavando la fossa da solo e lei, sua moglie, non poteva farci nulla, non poteva salvare chi non vuole essere salvato...

Nel porto, sotto una pioggia battente, si guardò attorno e ritrovò un pò di forza in se stessa. C'erano Garrick, Prudie e i suoi due bambini accanto a lei, un altro era in arrivo e ci sarebbe stata tanta vita ancora da vivere, per provare ad essere felici di nuovo. Quindi non doveva piangere come aveva fatto ancora la notte appena passata, non doveva guardarsi indietro ma solo avanti, con fiducia. E per il resto...

"Scrivimi!" - la implorò Dwight, stringendola forte a se.

"Lo farò".

Il medico, guardandola negli occhi con una serietà eccessiva anche per una persona seria come lui, annuì. "Scrivimi quando arrivi, scrivimi quando avrai trovato un buon medico – e non un ciarlatano – che seguirà te e i bambini, scrivimi per farmi sapere della gravidanza, scrivimi per farmi sapere del parto, scrivimi sempre, appena puoi! Ci vorranno mesi perché le tue lettere mi arrivino, ma arriveranno e saranno per me e Caroline un grande conforto".

"Fallo sul serio, ti prego" – aggiunse la bionda ereditiera. "O Dwight impazzirà di preoccupazione e io dovrò sopportarlo per tutta la mia ancora lunga vita".

Dwight si sforzò di sorridere. "Per amore di Caroline, quindi fallo! E mi raccomando, salutaci Kitty e Cecily e appoggiati a loro tanto per iniziare".

"Lo farò, state tranquilli".

Demelza deglutì, i marinai stavano iniziando a issare gli ormeggi della nave e doveva imbarcarsi. Attorno a loro altre persone, altri viaggiatori in cerca di una nuova vita, stavano imbarcandosi e per mesi sarebbero stati i loro compagni di viaggio e una sorta di famiglia. "Lo farò!" - ripeté - "E voi farete lo stesso, appena vi farò sapere il mio indirizzo. Voglio sapere tutto, delle malattie che curerai, dei miracoli che farai, dei miei fratelli, dei vostri futuri bambini...".

A quelle parole Caroline e Dwight arrossirono, guardandosi negli occhi. Era ancora così difficile per loro, anche solo sperarci e pensare di essere di nuovo genitori... "Lo faremo".

Dwight si avvicinò a Jeremy e Clowance, accarezzando le loro guance. "Bambini, vi affido la mamma. Abbiate cura di lei e del vostro nuovo fratellino".

"Lo faremo".

"E tu Prudie fa lo stesso" – aggiunse Caroline, rivolta alla serva.

Prudie annuì, con fare fiero. "Assolutamente sta tutto in una botte di ferro".

"Botte di ruhm" – la corresse Jeremy. "Da quando ha saputo che in Jamaica producono il ruhm più buono del mondo, Prudie è la più contenta di tutti di partire".

Caroline rise. "Il ruhm? Bevanda amata da malfattori e pirati, dicono...".

Demelza cercò di apparire serena e di stare allo scherzo, aveva bisogno di alleggerire la tensione nel suo cuore e quel discorso in parte ci stava riuscendo. "Quando la vedrò al comando di una nave con una bandana nera in testa e un pappagallo sulla spalla... vi scriverò per farvi sapere anche questo".

"Pfuuuf..." - borbottò Prudie scocciata, prendendo i bambini per mano.

Garrick abbaiò quando il comandante urlò di salire sulla nave. Gli occhi di Demelza tornarono lucidi, aveva atteso con terrore quell'attimo e per un momento ebbe paura. Lo stava facendo davvero, stava lasciando tutto e tutti... Stava lasciando Ross, suo marito, il padre dei suoi figli, l'uomo più indomito, a volte irrefrenabile ma sempre guidato dal suo gran cuore e da tanta passione, al suo destino. E sarebbe stato un destino oscuro senza nessuno che gli ricordasse quanto nobile fosse il suo animo e quanto si fosse smarrito. Tess non era in grado di farlo, non lo sarebbe mai stata! Tremò ed ebbe paura per lui, se lo avessero scoperto a complottare coi francesi, terribile sarebbe stata la punizione. E lei non sarebbe stata lì a supportarlo, come sempre... "Dwight" – sussurrò, abbraciandolo di nuovo.

"E' ora, Demelza" – disse l'uomo, fra i suoi capelli rossi, tremando quanto lei.

La donna alzò il viso su di lui. "Ross..." - sussurrò piano, per non farsi sentire dai bambini – "Dagli un occhio, se puoi... se vuoi...".

"E' un adulto" – le ricordò Caroline.

Demelza fece un sorriso triste. "Un adulto che si è smarrito. E un buon amico non dovrebbe farglielo notare, se ne ha l'occasione?".

Dwight le accarezzò i capelli. "Ma io non credo di essere più un suo buon amico. Però ti giuro che vedrò di fare qualcosa, se me ne capiterà l'occasione" – concluse, più per tranquillizzarla che per sincera convinzione.

Demelza non disse nulla ma capì quanto fosse grande ciò che gli aveva chiesto e che non poteva forzare Dwight ad andare contro la sua coscienza giusta e ponderata. "E' stato bello conoscervi" – disse, a chiusura del discorso, sapendo già che gli sarebbero mancati tantissimo e che non avrebbe più trovato persone come loro, nel suo cammino.

"Anche per noi" – rispose Dwight, baciandole la mano. "Riguardati e soprattutto, cerca di essere di nuovo felice coi tuoi bambini. E' un mondo nuovo la Jamaica, tutto da costruire, e c'è bisogno, laggiù, di gente come te".

"Lo farò".

Prudie e i bambini si avvicinarono per salutare e poi con Garrick, salirono sulla nave. Demelza diede un ultimo sguardo ai suoi amici, al porto, alla sua amata terra che forse non avrebbe rivisto mai più. "Addio..." - sussurrò, forse rivolta al cielo, forse ai suoi amici, forse a quelle coste sferzate dal vento o forse a un uomo ancora amato, ancora così pericolosamente vicino ad essere la sua ragione di vita... Era tutto finito, laggiù. Ed era tutto ancora così indefinito, nel suo futuro. Senza di lui, senza la sua voce calda, senza il suo abbraccio di sera, senza la sua risata allegra e gentile, senza i suoi baci, senza di lui... Cosa sarebbe stata, lei, senza Ross Poldark? Il suo Ross...

Ma non era più suo, le suggerì una vocina nella sua mente...

"Mamma, sbrigati!" - urlò Clowance, col suo cappellino bianco in testa.

"Arrivo". E dopo un ultimo sguardo, Demelza salì sulla scaletta e raggiunse il pontile della nave. Diede un ultimo sguardo ai suoi amici, alla sua terra, alla vecchia Demelza che non sarebbe più tornata ad essere. E poi, incapace di veder sparire pian piano tutto davanti ai suoi occhi, inghiottito dalla distanza e dal mare, scese nella cabina che Dwight aveva prenotato per tutti loro. La sua nuova stanza, il suo nido per i mesi a venire. Pensò alla sua Nampara, alla sua camera, al letto dove Ross l'aveva amata e dove erano nati i suoi figli. Tutto perduto, tutto andato in fumo... Ora forse era già diventata la camera di Tess, quella...

E davanti a quel pensiero orribile, smise di pensare. Si gettò sul letto e pianse, di nuovo. Poteva farlo, ci sarebbe voluto un pò prima che i bambini scendessero di sotto e ancora non aveva voglia di sentirsi forte. Non quel giorno, non nel momento in cui stava dicendo addio a una vita che tanto amava e a tante persone che erano frammenti luminosi del suo cuore. Ci sarebbe stato tempo per diventare una nuova Demelza, domani. Ma oggi no, oggi si doveva piangere la vecchia Demelza che moriva e che ancora non era resuscitata dalle sue ceneri.


...


Ci sarebbero volute settimane, forse qualche mese per arrivare in Jamaica e per Jeremy e Clowance era tutto molto noioso e difficile. Erano abituati a correre nella loro spiaggia, liberi, agli spazi aperti, alla vita di campagna ed ora chiusi in una nave, per quanto grande, si sentivano in prigione. Gli unici momenti 'divertenti', erano stati quando avevano assistito a qualche 'colorito' litigio fra i marinai e quando avevano incontrato mare mosso. Quando succedeva, salivano sul pontile e giocavano a farsi schizzare dagli spruzzi delle onde, scivolavano sulle assi del pavimento scivolose e finivano a poppa o a prua, a seconda della posizione in cui si trovavano.

Ma per il resto, era tutto molto difficile per loro: Prudie soffriva il mal di mare e stava stesa la maggior parte del tempo e se si alzava, era per vomitare, la loro mamma pareva spenta e persa in un mondo lontano e anche se si sforzava di essere presente, capivano quanto fosse affranta e fragile, il cibo era pessimo e gli altri passeggeri della nave se ne stavano per lo più rintanati nelle loro cabine.

Dopo dieci giorni di navigazione fecero tappa a Belfast per caricare altri passeggeri e i bambini, dopo aver implorato Demelza, riuscirono a sgattaiolare a terra con Garrick per girovagare un pò per il porto. Notarono un sacco di cose, il diverso odore dell'aria, tanta gente coi capelli rossi e soprattutto, un accento stranissimo che li faceva ridere. E ne avevano bisogno, di ridere... Cercavano di mostrarsi forti per la loro mamma ma avevano paura. E l'immagine del loro padre abbracciato a Tess, un padre che avevano amato e che non avrebbero più rivisto, tormentava il loro sonno. Erano troppo piccoli per sentirsi autonomi e senza bisogno di lui ma troppo grandi per ignorare ciò che avevano visto. Ed entrambi sapevano che ora dovevano imparare a crescere in fretta...

Girovagarono un pò ma troppo poco per i loro gusti. La nave li richiamò all'appello e loro corsero di nuovo a bordo, persuasi che per lunghi giorni non avrebbero toccato terra e quando fosse successo, sarebbe stata una terra sconosciuta e straniera di cui ignoravano tutto.

Quando lasciarono Belfast rimasero sul pontile a lungo, ad osservare il paesaggio che sfilava davanti ai loro occhi curiosi ed attenti. Attorno a loro i nuovi passeggeri andavano avanti ed indietro con pacchi e valigie e c'era un gran via vai di gente dai capelli rossi o al più, biondi.

"Parleranno strano anche in Jamaica?" - chiese Clowance, appoggiata al parapetto.

"Potrei scommetterci..." - rispose Jeremy.

"Chissà com'è! A parte il mare bello, che posto sarà?" - insistette la bambina.

"E' un posto selvaggio, pieno di gente selvaggia! Ma con una terra ricca che mio padre sa sfruttare per rendere quel posto migliore e noi più ricchi!".

I due fratelli si voltarono di scatto, presi alla sprovvista. Una voce infantile di bambina, sconosciuta, aveva risposto alla domanda posta da Clowance e tanta fu la loro sorpresa quando si trovarono davanti una ragazzina che poteva avere circa l'età di Jeremy, dalla chioma biondo-ramata, con gli occhi chiari e i capelli pieni di boccoli perfettamente pettinati. Non l'avevano mai vista prima e probabilmente si era imbarcata a Belfast. Aveva un elegante vestitino verde a fantasie scozzesi, un cappello in testa del medesimo colore e qualche minuscola lentiggine sul viso.

"E tu chi sei?" - chiese Jeremy, stranito.

La bambina gli si parò davanti, erano alti uguali. "Lilith Copper, futura contessa della Contea del Lincolnshire. Con chi ho il piacere di parlare?".

"Io sono Jeremy e lei è mia sorella Clowance Poldark. Non siamo futuri conti di niente. E lui è Garrick, il nostro cane".

La bambina sbuffò. "Lo vedo dai vostri vestiti che non siete conti! Nemmeno baronetti o duchi! Da dove venite?".

"Dalla Cornovaglia" – rispose Clowance, fiera della sua terra.

Ma la sua interlocutrice non parve molto colpita dalla cosa. "Cornovaglia? Siete contadini allora!".

"No, mio padre ha una miniera!" - rispose Clowance, a tono.

"Minatori?!" - esclamò Lilith, con sdegno.

Jeremy si irrigidì. Era arrabbiato con suo padre ma di certo non avrebbe permesso a una sconosciuta di parlare di lui con quel tono di disprezzo e supponenza. "Mio padre è un membro del Parlamento!".

"I minatori non possono stare in Parlamento!" - rispose lei, indispettita.

Clowance si imbronciò ma di lasciare la disputa con quella saputella, non aveva voglia. "Mio padre, sì!".

Lilith si diede un tono, guardandola con aria di sufficienza. "Beh, io sono una contessa, ho visitato tutta Europa con mio nonno, ho visto le corti di Svezia e dell'Assia. E pure quella degli zar!".

Jeremy la guardò storto. "Non è vero!".

"Sì che è vero!".

"Io non ti credo!".

Lilith incrociò le braccia, indispettita e arrabbiata. "D'accordo, era una bugia sugli zar. Ma il resto era vero! E sono una contessa!".

Clowance alzò gli occhi al cielo. "E che ci va a fare una contessa, in un posto selvaggio abitato da selvaggi? Non credo che i selvaggi sapranno farti un inchino, CONTESSA!".

"Impareranno, mio padre lo pretenderà! E sono costretta ad andare a vivere fra selvaggi, noi nobili abbiamo dei doveri verso i nostri inferiori, li dobbiamo educare e guidare". Punta sul vivo dall'impertinenza dei suoi due interlocutori, Lilith divenne rossa come un pomodoro. "Mia madre è morta quando ero piccola e ho vissuto a Belfast e a Londra con i miei nonni. Ora sono morti e mio padre vuole che lo raggiunga in Jamaica, dove si trova il centro dei suoi affari. Sono la sua unica erede, è giusto che conosca il suo lavoro".

Jeremy alzò le spalle. "Mi spiace per i tuoi nonni! Ma viaggi da sola?".

Lilith si voltò, guardando verso le scale che portavano alle cabine. "No, ci sono Tim e Tom, le mie due grasse e stupide guardie del corpo. Staranno male per il mal di mare qualche giorno e poi staranno meglio e a quel punto inizieranno a bere liquori e ristaranno male. Succede sempre così, ogni volta che viaggiamo".

"Quindi, di fatto, sei sola!" - le fece ossevare Clowance.

Lilith alzò le spalle. "No, non proprio. C'è pure la mia governate con me, Miss Thorpe. Lei non si ubriaca e parla poco e ora starà sistemando in cabina i miei bagagli".

Jeremy la guardò con supponenza, non la trovava per niente simpatica. "Che allegria...".

Lei sospirò forse d'accordo, prima di guardare Garrick. "Posso accarezzarlo?".

Clowance la guardò con aria di sfida. "No, è il cane di un minatore! Non è adatto a una CONTESSA!" - rispose, sibillina.

Lilith, arrossendo, rispose al suo sguardo fingendo indifferenza per quella frecciatina non troppo velata. "Beh, tanto non volevo così tanto accarezzarlo! Avrà le pulci!".

Jeremy le si avvicinò di qualche passo, sfiorandola sulla spalla. "Sì, una ti sta camminando già sopra il vestitino".

Lilith si guardò con orrore e prima di capire che la stava prendendo in giro, lanciò un urlo che fece voltare tutti i passeggeri sul ponte. Poi, furiosa, corse verso le scale. "Selvaggi!".

Jeremy e Clowance si guardarono in faccia, ridendo, poi il ragazzino la richiamò prima che sparisse. "Hei, contessa!".

Lei si voltò, stravolta. "Che vuoi, selvaggio?".

"La Jamaica è grande?".

"Molto grande!".

Jeremy rise ancora. "Bene, ottimo! Allora non correrò il rischio di incontrarti troppo spesso!".

Lilith strinse i pugni, furiosa. "Cambierò strada, se vi vedo, SELVAGGI!". E poi corse via, dalle sue guardie del corpo sempre ubriache e dalla sua governante quasi-muta.

Clowance si avvicinò a Jeremy, prendendogli la mano. "Speriamo sia davvero grande, la Jamaica! Non vorrei incontrarla ancora".

Jeremy, rimasto per un attimo imbambolato a guardare le scale, ci mise un attimo a capire cosa dicesse la sorella. "Cosa?".

Clowance sbuffò. "Selvaggio come dice lei! E imbambolato! Torniamo da mamma?".

Jeremy si riprese, annuendo. Già, dovevano tornare dalla mamma, a letto in cabina in compagnia di Prudie.

Si voltarono un'altra volta a dare un'ultima occhiata a Belfast e all'ultimo lembo d'Europa visibile ai loro occhi, poi corsero giù, prendendo la stessa direzione seguita poco prima dalla piccola Lilith.

Quando rientrarono, trovarono la loro mamma seduta sul letto, intenta a piegare i loro abiti. "Com'era Belfast?".

Jeremy si sedette accanto a lei, cercando di apparire contento e ottimista. "Piena di gente strana! Alcuni sono pure saliti su questa nave! Anche una bambina grande come me".

Demelza gli sorrise. "Oh, ottimo! Potrete avere un'amica, durante il viaggio".

Clowance la fissò, scettica. "Non credo... E' abbastanza antipatica. Vero Jeremy?".

Lui alzò le spalle, senza rispondere. "Molto strana... E' una contessa, ha detto".

Prudie borbottò qualcosa sotto voce e Demelza accarezzò i capelli dei figli. "Beh, se la incontrerete durante il viaggio, mi auguro che sarete gentili con lei".

Clowance si imbronciò prendendo a stringere la sua bambolina dai capelli rossi. "Spero di non vederla, allora".

E a quel punto Jeremy capì che doveva cambiare argomento. Con la manina sfiorò la pancia di sua madre, appena percettibile, e gli sorrise. "Come lo chiameremo?".

A quella domanda, Demelza si irrigidì come sempre succedeva ogni volta che il suo pensiero si posava sul bambino in arrivo. "Non lo so, non ci ho pensato". Era vero, non ci aveva mai riflettuto, ogni pensiero sulla sua gravidanza veniva zittito dalla sua mente appena si affacciava dentro di lei. Santo cielo, che donna orribile che era... Amava così tanto Jeremy e Clowance, aveva adorato Julia e invece questo bambino... Non provava nulla per lui, assolutamente nulla se non fastidio e una strana sensazione di essere in trappola. Era come se perdendo Ross e la fede nel suo matrimonio, avesse perso anche la capacità di amare. "Come vorreste chiamarlo?" - chiese senza emozioni nella voce, cercando però di mantenere un tono gentile.

Stesa sul materasso intenta a giocare con la sua bambola, Clowance la guardò di sbieco. "In tutti i modi eccetto LILITH".

Demelza rise a quell'affermazione fatta con tanta grinta. "D'accordo... E che nomi vorreste?".

Jeremy osservò Garrick che dormicchiava sul pavimento. "Oh, se è maschio forse potremmo chiamarlo...". Si bloccò, pensieroso. "Non so, non mi viene da immaginarlo maschio!".

"Credi che sarà una femmina?" - domandò Demelza.

Il bimbo annuì. "Isabella!".

"Rose!" - aggiunse Clowance.

Demelza guardò i due bambini, cercando gioia in quel loro piccolo momento di condivisione per il bambino... bambina... in arrivo. Poi trovò il giusto compromesso. "Isabella-Rose".

I fratellini si guardarono e si mostrarono entusiasti. "E Isabella-Rose sia!".

Stesa sul suo materasso, spiaggiata come una grossa balena, Prudie sbuffò. "Isabella-Rose... Quando ci scapperà di mano, con un nome tanto lungo con cui chiamarla, la riacciufferemo dall'altro capo del mondo".

Nessuno le diede retta, però. E da quel giorno si pensò alla bambina con quel nome, Isabella-Rose Poldark.


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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


La sua casa era sempre stata un nido per lui, da quando aveva conosciuto Demelza. Raramente lo era stata quando era stato un bambino solitario cresciuto da due servi ubriaconi e di certo non le era quando, tornato dall'America, l'aveva trovata in stato di abbandono e senza più nessuno a dargli il bentornato. E di certo non lo era ora, senza di lei e senza le vocine allegre dei loro due vivacissimi bambini...

Seduto davanti al caminetto, imponendosi di non impazzire per quel prolungato silenzio, Ross cercò di trovare pensieri positivi. L'invasione era vicina e conoscendo date, nomi e luoghi, aveva inviato delle missive a chi contava, a Londra. Una corrispondenza fitta e segreta aveva accompagnato le serate dell'ultima settimana e presto sarebbe giunto l'esercito inglese, in una imboscata che si stava preparando ad arte nella capitale, a porre fine a quel grande pericolo che, senza che la gente di Cornovaglia lo sapesse, incombeva su di loro. Wikhman si era mostrato entusiasta del suo lavoro e lo voleva a Londra ad emergenza finita per qualche strano e misterioso motivo a lui ancora ignoto e finalmente si sarebbe scrollato di dosso quella sua odiosa copertura che lo stava portando ad odiare se stesso. Fingersi un traditore del proprio paese e dei propri affetti, un uomo senza scrupoli e fingere amore... amore e attrazione per Tess... Santo cielo, gli veniva la nausea ogni volta che lei apriva bocca per parlare con quella sua voce sgradevole o che lo sfiorava in un malriuscito gioco di seduzione...

Voleva Demelza, la sua Demelza, il suo amore, la sua luce, la sua casa e soprattutto, la parte migliore di lui. E Jeremy, il bimbo più dolce e assennato che esistesse al mondo, che si prendeva cura di sua madre e di sua sorella durante le sue lunghe assenze. E Clowance, la sua bambolina biondissima e bella, che col suo fascino lo aveva stregato fin dalla nascita e presto avrebbe stregato ogni giovanotto di quell'angolo di Inghilterra. Santo cielo, sperava ardentemente, ogni volta che pensava a lei, che non smettesse troppo presto di giocare con quella sua bambolina dai capelli rossi che adorava perché... "Papà, ha i capelli belli come mamma".

Voleva la sua famiglia, Garrick coi suoi disastri, Prudie col suo borbottare perenne, il casino dei bambini e la sera, tranquilla e calma, davanti al camino a chiacchierare con sua moglie prima di andare a letto e far cessare le parole per fare altro, insieme...

In quei giorni, pensando a loro, la preoccupazione lo aveva consumato. La gravidanza, il cuore spezzato di Demelza, le mille domande che si stavano probabilmente facendo i suoi figli, i pensieri di Dwight sul suo conto... Si era dovuto imporre di star lontano dalla dimora degli Enys per chiedere di loro o tentare di chiarire, altrimenti la sua copertura sarebbe crollata e avrebbe messo tutti in pericolo. Aveva tenuto duro a lungo, doveva farlo solo un altro pò e poi sarebbe andato a riprenderli e Demelza avrebbe capito il perché... Forse si sarebbe arrabbiata, forse lo avrebbe rimproverato per la sua avventatezza, forse avrebbe avuto anche ragione. Anzi, sicuramente! Ma lo avrebbe perdonato e insieme avrebbero aspettato l'arrivo del loro nuovo bambino. In passato aveva avuto paura, dopo Julia, di accogliere una nuova vita e anche ora ne aveva, sì, ma stavolta questo non gli impediva di provare gioia. Certo, c'erano le preoccupazioni per la salute di Demelza, le mille incognite del parto, il terrore delle malattia, ma... Era un bimbo arrivato al termine di un lungo e duro percorso quello, concepito da un amore maturo, consapevole e senza ombre a gravare su di loro. Eccetto questo, questo stupido e pericoloso gioco, l'amore per sua moglie era e sarebbe sempre stato fuori discussione. Avevano superato Elizabeth, Hugh e anche la presenza di Valentine in quella casa e Ross sapeva che, anche se non ne avevano mai parlato apertamente, per Demelza era un dolore vedere quel bambino ed entrambi erano consapevoli del perché. Eppure lo aveva accolto con la stessa dolcezza con cui accoglieva in un abbraccio i loro figli e lui in quel momento l'aveva guardata e aveva realizzato che nessun uomo al mondo poteva amare una donna come lui amava lei... Era immensa, era sua e ne era orgoglioso.

Guardandosi attorno, si rese conto che voleva fare qualcosa per lei perché potesse sorridere appena l'avesse portata a casa. E qualcosa da fare c'era e lo avrebbe fatto con piacere.

Si alzò dal divano, abbandonò il tepore del camino e fece per incamminarsi verso il magazzino sotto le scale quando udì la porta cigolare.

Guardingo si bloccò, pensando fosse di nuovo il generale Troussaud che la sera veniva spesso, per pianificare l'invasione dell'Inghilterra o far passare il tempo. Un uomo volgare, che a Ross non piaceva ma di cui aveva dovuto fingersi amico per carpirne la fiducia, un uomo pericoloso e assolutamente letale, se fosse riuscito nel suo intento. Lui lo considerava un amico e ogni tanto, soprattutto ultimamente, quando imbruniva veniva da lui per fare due chiacchiere su donne o guerra o per tirare di scherma. Era un abile spadaccino e Ross aveva dovuto rispolverare quell'antica arte spesso praticata da ragazzo ma in cui era un pò arrugginito.

Ma quella sera non era Troussaud, era qualcuno di peggio e l'idea che fosse lì, che fossero soli nella casa sua e di Demelza, gli fece accapponare la pelle. "Tess? Che ci fai quì?" - chiese gelido, appena realizzò che era lei.

La ragazza, appoggiata con aria spavalda e sicura all'uscio della porta, vestita con un abito giallo, intrecciò le braccia al petto. "Visto che dalle mie parti non ti avventuri mai e visto che conosco la tua casa, ho pensato di essere io la gatta e tu il topo da inseguire".

Ross strinse i pugni. "E' tardi, aggirarsi nei campi di notte e al buio può essere pericoloso e dovresti rientrare subito".

Lei alzò le spalle. "Sono quì, sana e salva. Che problema c'è?".

"Che hai la strada di ritorno, da fare... Ed è notte".

Come se non lo avesse sentito e non avesse inteso il significato delle sue parole, Tess gli si avvicinò fino ad arrivargli a un palmo. Gli cinse la vita con le mani, gli sfiorò il petto e la gola con il mento e poi tentò di morderlo dietro all'orecchio. "Ritornerò... quando sarà l'alba, col chiaro. Volevo fermarmi quì...".

Ross si allontanò di scatto, come al solito schifato dalla sua vicinanza. "Tess, vattene!" - le ordinò con foga, preso alla sprovvista.

Ma lei insistette. "I francesini sono a nanna, non ci sono armi da nascondere o lavori da fare, nessuna scusa che ci possa allontanare. E lo desideriamo, no?".

Ross deglutì. L'avrebbe volentieri sbattuta fuori casa a calci per la sua sfrontatezza ma non poteva farlo, così come però non poteva permetterle di avvicinarsi troppo. Doveva trovare una via di mezzo che fosse tutelante per lui e non mettesse la pulce nell'orecchio a lei. Non era particolarmente intelligente, ma Tess poteva comunque diventare pericolosa. "Certo, lo desideriamo. Ma non oggi, non quì".

"Perché? La tua signora è tornata? La si può rimandare dagli Enys con una scusa. O con un calcio nel sedere, sei o non sei tu l'uomo di casa? Sei o non sei tu quello che comanda e le insegna quale sia il suo posto? Era una sguattera, ora non la ami più, che torni ad essere una sguattera e smetta di darsi tutte quelle arie da gran signora".

L'avrebbe presa a schiaffi e quel calcio lo avrebbe voluto dare a lei, all'istante. Era un desiderio poco nobile ma al diavolo, se Tess diceva ancora mezza parola su Demelza, sulla sua splendida Demelza a cui quella ragazza non aveva nemmeno il diritto di pulire le scarpe, lo avrebbe fatto. "NON-STASERA!".

"Perché?".

"Perché sto preparando dei documenti che Troussaud vuole pronti per domattina. Delle mappe aggiornate delle gallerie" – le rispose, cupo.

Tess sbuffò, sedendosi con noncuranza sul divano. "Troussaud e i francesini sono una noia".

Ross la guardò storto, gelido e con sguardo tagliente. "Attenta a quel che dici. Stai tradendo il tuo paese e se tradirai anche i francesi o loro penseranno ciò, sarà anche dai FRANCESINI che dovrai scappare. Il cappio o la ghigliottina sono ugualmente letali, non dimenticarlo".

Tess si oscurò. "Mi stai minacciando?".

"Ti sto mettendo in guardia".

Stizzita, Tess si alzò dal divano. Gli si avvicinò e nuovamente, con un gesto veloce, lo graffiò, stavolta sulla guancia. "Come sei premuroso, capitano".

"Sempre, Tess...".

Lei sostenne il suo sguardo e poi, vagamente arrabbiata e stizzita, si strinse nel suo scialle. "Visto che mi ami e non vorresti vedermi con la testolina tagliata, me ne vado. Ma ci vedremo presto... La tua casa è nostra ed è vuota".

Basta, era troppo! "Non è la NOSTRA casa! E' mia, non tua!".

Lei sorrise, freddamente, fingendo finta innocenza. "Ma lo sarà... La mia reggia e la camera di sopra, la nostra alcova... Dì a tua moglie di portare via le sue cose o presto potrei fargliele trovare gettate nel giardino di Killawarren".

Ross non rispose a quell'ennesima provocazione, era troppo stupida e piena di se per darle retta e attenzione. Che parlasse, che si illudesse! Ancora pochi giorni e quella farsa sarebbe finita e allora gli avrebbe fatto pagare ogni cosa. "Buona serata, Tess. Torna a casa".

"Sì, capitano" – sussurrò lei, sensuale. "Vuoi accompagnarmi?".

"No, mi fa male la caviglia, stasera".

Lei sorrise, maliziosa. "La tua vecchia ferita di guerra, certo. Che eroe...".

Uscì, chiudendosi la porta dietro le spalle. E Ross giurò a se stesso che non avrebbe mai più permesso a quella donna che disprezzava Demelza e che l'aveva messa in pericolo assieme ai loro figli dando fuoco a Nampara, di rimettere piede lì. No, mai più! Nampara era la sua casa, la casa di Demelza, Jeremy e Clowance. E presto di un nuovo bimbo o bimba... Solo questo contava!

Rimasto solo, tentò di trovare qualcosa per calmarsi quando si ricordò che stava per fare qualcosa di piacevole per se e per la sua famiglia, quando era stato interrotto dall'arrivo di Tess. E nonostante tutto sorrise, quella piccola operazione sarebbe stata piacevole e avrebbe addolcito la sua serata.

Andò nello sgabuzzino, spostò alcune casse e scatole e finalmente trovò cosa stava cercando, la culla che aveva ospitato i sonni dei loro bambini appena nati. La prese, la osservò con dolcezza e la sfiorò con la mano, accorgendosi che la vernice si era rovinata. Aveva bisogno di una ritinteggiata e lui aveva della vernice bianca nella stalla che faceva al caso suo. Sarebbe stata perfetta per la culla di un bimbo o una bimba, Demelza l'avrebbe adorata.

E rinfrancato di nuovo spirito, si avviò nella notte a prendere tutto l'occorrente per la culla di quel nuovo figlio che non vedeva l'ora di abbracciare.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Erano passati due mesi, due lunghi mesi di navigazione in acque a volte calme, a volte agitate e a volte tempestose. Il freddo clima del continente europeo aveva man mano lasciato lo spazio a un tepore sconosciuto a chi, come lei, non aveva conosciuto altro che la ventosa e spesso inclemente Cornovaglia. Il caldo si era fatto via via più intenso, a volte insopportabile di notte nel chiuso della sua minuscola cabina e Demelza aveva dovuto lottare strenuamente con la nausea a causa sia del cambio di clima, sia della gravidanza che ormai, anche se non era che al quarto mese, era evidente agli occhi più attenti.
In quei lunghi sessanta giorni non era quasi mai uscita, se non di sera quando non c'era in giro nessuno, dalla cabina. Troppo stanca, troppo spossata, troppo fragile, aveva passato a letto gran parte del tempo in compagnia di Garrick o di Prudie che non aveva mai smesso di soffrire di mal di mare e malediva ad ogni ora del giorno quel viaggio. Erano i bambini a portare loro il cibo, di pessima qualità, cucinato dal cuoco per i naviganti. Ma erano una benedizione lo stesso, loro che si prendevano cura di lei e quel cibo spesso pessimo ma mai assente, in quel mare di incertezza in cui navigava da mesi.
Lei si sentiva... una crisalide...
Qualsiasi cosa fosse stata prima, non lo era più. Si era chiusa a lungo in un bozzolo ed ora sapeva che quel bozzolo che la separava dal mondo in attesa di rinascere a nuova vita con fattezze nuove, era destinato a sgretolarsi nel giro di poche ore.
I bambini, che giocavano per la nave gran parte del giorno, le avevano comunicato che il capitano della nave aveva annunciato che l'indomani, al mattino, avrebbero attraccato al porto d'arrivo in Jamaica. Il viaggio era finito, non sarebbe più stata una crisalide ed ora la vita e le sue scelte l'avrebbero costretta... a vivere. In qualche modo, da qualche parte, in un mondo sconosciuto che non riusciva ancora ad immaginare, in posti e in mezzo a gente sconosciuti.
A quel pensiero, una grande nausea la invase ancora. Si alzò dal cuscino e i bambini, che stavano armeggiando con un libro, la guardarono preoccupati.
Mamma?” - chiese Jeremy.
Prudie si alzò, frizionandole la fronte con un panno bagnato. “Hai la faccia di una che sta per rimettere anche il pranzo del suo Battesimo, ragazza”.
Demelza sospirò, affranta. Santo cielo, aveva bisogno d'aria ma non aveva voglia di girare per la nave a quell'ora. Anche se era sera, non era ancora così tardi per trovare il pontile deserto... E odiava che la gente la vedesse in quello stato. “Parliamo! Devo tenere occupata la mente”.
Di cosa, mamma?”.
Guardò sua figlia, sempre così entusiasta davanti ad ogni cosa e con la grinta negli occhi tanto tipica di suo padre. “Della Jamaica. Di cosa faremo da domani”.
Prudie annuì. “Sì! Spese! Cibo, da bere, il rum... Riempie la pancia, dicono... Ed è di ottima qualità, dicono”.
Jeremy e Clowance risero davanti alle ottime argomentazioni che avrebbero fatto bene solo a stessa, di Prudie, ma la piccola aveva idee più costruttive.
Esplorare, mamma! E chiedere di Kitty e Cecily! E cercarle, trovarle e poi magari iniziare a cercare un posto per noi!”.
Demelza le sorrise, il senso pratico, sua figlia, l'aveva ereditato da lei. “Ottima idea, questo mi sembra saggio” - disse, sentendo la nausea allentare un po' la presa.
Jeremy, dondolando pensieroso le gambe a penzoloni dalla sedia, lanciò la sua idea. “Potrò lavorare, mamma?”.
Demelza sussultò. Jeremy aveva lanciato quell'iniziativa giocosamente e con entusiasmo, senza rendersi forse conto di quanto la ferisse pensare che erano soli e che ognuno di loro, anche i bambini, doveva darsi da fare. Sentì il cuore spezzarsi di nuovo al pensiero di Ross con Tess, al suo abbandono e alle tante promesse d'amore infrante. Ma no, non avrebbe permesso che questo rovinasse più di quanto non fosse già rovinata, l'infanzia dei suoi figli. Voleva che fossero giocosi e allegri come sempre, che vivessero quel trasferimento come una grande avventura e che non perdessero il sorriso che da sempre illuminava i loro volti. “No, assolutamente!”.
Ma mamma” - protestò il bambino - “Tanti bambini della mia età lavorano, in Cornovaglia! Anche alla Wheal Grace, in esterno”.
Sei troppo giovane, fine del discorso!” - tagliò corto lei. “E posso occuparmi di voi da sola, non c'è bisogno che tu faccia nulla finché non ti riterrò abbastanza grande”.
Ma sono grande!”.
Non lo sei”.
Imbronciato, Jeremy picchiò i pugni sulle gambe. “E allora perché tanti bambini lavorano?”.
In quel momento, Demelza impallidì. Nelle rimostranze di Jeremy c'era tanto del Ross che lottava contro le ingiustizie sociali, tanto del suo fervore per le cause che riteneva giuste e tanto delle lotte in cui si era impegnato, una delle quali era stata proprio l'abolizione del lavoro minorile. Chissà se ora che stava tradendo il suo paese, oltre che loro, avrebbe ancora lottato con coraggio per i più deboli... “Il fatto che molti bambini lavorino, non significa che sia giusto. I bambini devono giocare, stare al sicuro e crescere sani e forti. Molti bambini che iniziano a lavorare fin da piccoli, finiscono per ammalarsi alle ossa e crescono deboli. Non voglio che succeda anche a te. Ce la caveremo, come sempre... Sta tranquillo, amore mio”.
Clowance la guardò con quei suoi occhi indagatori. “Davvero?”.
Davvero” - disse, cercando di apparire sicura.
Jeremy le si avvicinò, sedendosi accanto a lei. “Ma io voglio aiutarti. E anche Clowance. Non lo dici tu che ognuno deve fare la sua parte? Non c'è più il papà con noi, non abbiamo i soldi della miniera e in Jamaica come faremo?”.
Si sentì commossa dalla maturità di Jeremy e in fondo suo figlio aveva ragione, erano senza nulla e con un futuro nuovo da costruire da zero. Poteva fingere di non pensarci ma in cuor suo era stato il suo pensiero tormentato per quei due mesi di viaggio. Ma non voleva che fosse un pensiero dei suoi bambini, era lei l'adulta, era lei che aveva scelto di partire ed era lei che avrebbe dovuto pensare a tutto. Accarezzò i capelli dei suoi figli, quelli dorati di Clowance e quelli castani di Jeremy e li strinse a se. “Dicono che in Jamaica si peschino pesci enormi e che per un provetto pescatore, sia divertente andare a pesca. Questo farai, con tua sorella, Jeremy! Pescherai e cercherai ogni tipo di crostaceo commestibile e assicurerai le nostre cene e i nostri pranzi. E' importante ed è una cosa che ami fare! E poi, ti ricordi cosa mi hai promesso?”.
Entusiasta per la proposta della madre e rinfrancato dal fatto di poter essere utile, Jeremy la abbracciò. “Quale promessa?”.
Demelza si accarezzò quel ventre che cresceva e che ancora non aveva imparato né ad accettare, né ad amare. “Che vi prenderete cura di Isabella-Rose. Conto su di voi per lei”.
Clowance annuì, rannicchiandosi fra le braccia di Prudie. “Sì, ci pensiamo noi alla sorellina!”.
Lo giuro” - aggiunse Jeremy, con aria da ometto.
Bravo, amore mio” - sussurrò, abbracciandolo di nuovo. Poi, con rinnovato entusiasmo, iniziò a programmare la sua vita per evitare di pensare al passato e trovare la forza di guardare al futuro: trovare Kitty e Cecily, imparare a conoscere quel luogo misterioso che era la Jamaica, procurare una canna da pesca a Jeremy e iniziare da lì, passetto dopo passetto, a vivere ancora.
I bimbi si misero a letto più contenti e all'apparenza tranquilli e lei, dopo aver letto loro una storia, li osservò addormentati in quel piccolo lettuccio nell'angolo della cabina più lontano dall'ingresso, che avevano condiviso in quei due mesi. Un luogo piccolo, angusto, ma che era diventato il loro rifugio in quella lunga traversata, che avevano imparato in un certo senso a considerare la loro casa. Dal giorno dopo lo avrebbero abbandonato e sarebbe diventata la casa di qualcun altro, custodendo nuovi sogni e nuove paure.
Quando anche Prudie si addormentò, decise che era ora della sua passeggiata serale. Era ormai quasi mezzanotte, la nave era avvolta dal silenzio e solo il rumore delle onde che si infrangevano sullo scafo spezzava la quiete della tarda sera.
Di soppiatto si alzò dal letto, uscì dalla cabina lasciando Garrick a poltrire sul letto dei bimbi e poi, a piccoli passi, si diresse sul pontile.
L'aria era umida e calda, così diversa dal clima ventoso della Cornovaglia dove anche in estate, di sera, dovevi portarti uno scialle per coprirti. La Jamaica era diversa, le avevano raccontato che lì faceva quasi sempre caldo e che solo brevi periodi delle piogge, violentissime, interrompevano quella perenne estate.
Sul pontile c'erano alcuni marinai intenti a sistemare e issare delle cime, che non fecero caso a lei. Gli altri passeggeri, che forse nemmeno conoscevano il suo volto viste le poche volte in cui si era aggirata di giorno per la nave, dovevano essere già a dormire.
Si appoggiò alla balaustra, pensierosa, immaginando l'aspetto di quell'isola, le persone che vi vivevano e l'esistenza che avrebbe condotto. Ma anche col pensiero, strisciante, rivolto al passato, alla sua Nampara, al suo giardino e al suo uomo, l'unico che avrebbe amato davvero e per sempre, ormai lontani e persi dietro altri amori, altre sfide e altri orizzonti.
A quei pensieri, al suo Ross e a Tess nella camera da letto che l'aveva vista diventare donna e madre, la nausea aumentò e una lacrima le scivolò sul viso, come spesso accadeva e permetteva che succedesse quando era sola. Santo cielo, sarebbe mai passata? Avrebbe mai dimenticato Ross e le tante cose che le aveva detto e promesso, le tante parole d'amore, le tante battaglie combattute insieme, fianco a fianco? Avevano condiviso così tanto nel bene e nel male, avevano rischiato di perdersi tante volte e avevano superato tutto. Quasi tutto... Ed ora era finita, in un modo che mai avrebbe potuto accettare, in un modo crudele, con un Ross che all'improvviso era diventato estraneo e freddo, distante e a tratti cattivo. Che ne era stato del suo uomo fiero e forte, dal cuore d'oro, capace di sbagliare ma anche capace di rialzare la testa e rimediare con amore e passione ai suoi errori? Che ne era stato di quell'uomo che anche nel giorno in cui era stata un'altra donna e si era concessa a un altro uomo – e Ross lo sapeva, era certa che lo sapesse perché lui sapeva leggere dentro di lei meglio di chiunque – era stato capace di accoglierla in un caldo abbraccio e dirle, pur senza parlare, che mai l'avrebbe lasciata andare?
Quelle domande non avrebbero mai avuto risposta e lei non avrebbe mai saputo nulla di Ross, mai più nulla...
Improvvisamente una figura veloce schizzò fuori dalle scale, correndo verso di lei e spezzando quel flusso di pensieri.
Demelza si asciugò il viso e una bambina dell'età all'incirca di Jeremy, corse verso di lei tutta trafelata. Capelli castano chiaro, boccoli tenuti a bada da due trecce, vestita con un abitino di ottima fattura di colore giallo e verde, era probabilmente la prima volta che la incrociava in due mesi di navigazione. Certo, lei non usciva spesso dalla sua cabina, ma probabilmente nemmeno la bambina era troppo di compagnia. Ricordò che Jeremy e Clowance le avevano parlato di una strana ragazzina salpata da Belfast, che fosse lei? E che ci faceva sul pontile in un'ora in cui i bambini di solito dormivano?
Incurante del suo sguardo dubbioso e del fatto che fossero due sconosciute, la ragazzina le si avvicinò. “Mi nasconda e non dica a nessuno che sono qui!” - chiese, col tono con cui si da un ordine. E poi, notata una grande cesta di vimini poggiata vicino al parapetto, ci saltò dentro, rannicchiandosi al suo interno e celandosi al mondo con uno straccio che trovò all'interno.
Vagamente interdetta, Demelza non fece in tempo a reagire che altre tre strane figure comparvero dal fondo del pontile, trafelate e decisamente preoccupate.
A guardarli bene erano tre soggetti decisamente strani, esattamente come la ragazzina nascosta nella cesta e tutta quella situazione: una di loro era una domestica dal viso smunto, non più giovane, dalla pelle pallida e dall'espressione talmente inespressiva da sembrare un fantasma. Gli altri due erano ancora più strambi. Sembravano fratelli, si somigliavano come due gocce d'acqua, bassi, tozzi, talmente grassi da sembrare due sfere in movimento, completamente calvi e con degli occhietti minuscoli molto ravvicinati fra loro.
I tre la sorpassarono senza degnarla di uno sguardo, continuando la loro strana corsa senza fermarsi a guardare attorno. E Demelza cominciò seriamente a pensare di trovarsi nel bel mezzo di uno strano sogno...
Fu solo quando i tre ebbero svoltato l'angolo e furono spariti alla sua vista, che la voce della ragazzina la riportò alla realtà.
La piccola sbucò fuori dalla cesta sedendosi sul bordo, scocciata e vagamente irritata. "Tre idioti... Come diavolo si fa a cercare uno che vuole nascondersi, senza fermarsi a chiedere o a guardare nei posti bui o nei nascondigli?".
Demelza osservò nella direzione in cui erano spariti i tre e poi la ragazzina. "Ti stanno seguendo? Ti vogliono fare del male?" - chiese, preoccupata. Non che la bambina sembrasse indifesa o abbandonata a se stessa, ma forse spesso le apparenze ingannavano e lei era un'adulta responsabile, dopo tutto.
La bambina la guardò esasperata. "Miss Thorpe? Tim e Tom? Farmi del male? Sono talmente stupidi e noiosi che al massimo avrebbero la capacità di farmi morire di noia! Cosa che stanno facendo, fra l'altro!".
Demelza tirò un sospiro di sollievo. "Li conosci, allora?".
"Sì, sono la mia domestica e le mie due guardie del corpo! Hanno tre cervelli che, sommati, non fanno un cervello normale. Tim e Tom quando parlano sembrano due bambinetti di due anni, Miss Thorpe... lei al massimo dice 'Signorina, vuole qualcosa?', 'Signorina, vuole coricarsi?', 'Signorina, vuole pranzare?'. Ecco, il massimo delle mie conversazioni, da quando sono partita, è di questo livello. Sto impazzendo! E ora tocca a me far impazzire loro, è l'ultima sera che posso farlo prima di arrivare da mio padre".
Demelza si accigliò. Quella ragazzina aveva circa l'età di Jeremy ma una capacità di dialettica notevolmente superiore a quella di suo figlio. Sembrava viziata e piuttosto portata al drammatizzare le situazioni, impertinente e risoluta. Ma decisamente, per fortuna, non in pericolo... Di fatto, se non aveva interpretato male la situazione, non aveva davanti che una bambinetta viziata che cercava di attirare l'attenzione in qualsiasi modo. "Beh, sono dei domestici. Si prendono cura di te e cercano di farlo con rispetto".
"Sono tre idioti! Voi, se cercaste qualcuno, vi limitereste a correre come loro, come tre scemi, in tondo su una nave? Se uno vuole nascondersi, di solito sceglie gli angoli bui! I nascondigli... Oppure, visto che vi siete incrociati, potevano chiedere se mi avevate notata da qualche parte... Stupidi, decisamente tre stupidi!!!".
Demelza si grattò la guancia, in effetti non poteva darle torto. "E perché ti nascondi da loro?" - chiese infine, per porre fine a quella strana situazione.
Lei fece un sorrisetto irriverente. "Voglio che provino un pò di paura! Di mio padre, intendo...".
"Che vuoi dire?".
"Non mi trovano, potrei benissimo essermi gettata dalla nave, in pasto agli squali o nelle grinfie dei pirati. E sarebbe colpa loro che non hanno vigilato su di me... E voglio che ci pensino e che pensino che se fosse così, quando mio padre lo saprà li frusterà a morte".
Deglutì. Santo cielo, era piuttosto diabolica e dotata di una mente contorta. "Ma per fortuna, tu sei quì. E non nella pancia di uno squalo...".
"Ma loro non lo sanno" – le rispose la piccola, sicura. "Lo sapete, ho passato DUE mesi su questa nave, con quei tre. Ho letto tutti i libri che mi sono portata per il viaggio nell'assoluto silenzio, chiusa in cabina, mentre loro al mio fianco si crogiolavano nel nulla della loro esistenza vuota. Ma coi libri da leggere, li notavo poco! Non ho più nulla da leggere adesso, ho letto tutto e senza distrazioni, che faccio? Girare sulla nave, no grazie, piena di poveracci selvaggi. Con tutto il rispetto per voi, signora... E in cabina ci vivo con tre MUMMIE! Sto diventando pazza, sto per avere un esaurimento nervoso, sto per urlare e svegliare tutta la nave che non ce la faccio più e che la mia vita, fino all'approdo in Jamaica, è simile all'inferno in terra".
Ammutolita, Demelza ci mise un attimo a trovare le parole per risponderle. Santo cielo, quella bambina e le sue parole erano come un fiume in piena! Dubitava fortemente che quella ragazzina sapesse cosa significasse vivere una vita d'inferno e forse il massimo che le era capitato era davvero un pò di noia, ma aveva un modo di esprimere i concetti davvero singolare e a tratti geniale e divertente da osservare, per chi non ci era coinvolto direttamente. "Ecco... Domattina attraccheremo. Cerca di sopportarli ancora qualche ora e poi... raggiungerai tuo padre e tua madre? Giusto, ho capito bene?".
La bimba alzò le spalle. "Solo mio padre, Viktor Copper. E' l'uomo più ricco e potente della Jamaica, lo temono tutti".
"E tua madre? E' rimasta in Inghilterra?".
La bimba ci pensò un pò prima di rispondere, ma poi alzò le spalle con noncuranza. "E' morta che avevo due anni. Stava scendendo le scale di casa con mio padre ed è caduta. Ha picchiato la testa ed è morta da stupida, come dice mio padre spesso. Era molto impacciata, come Tim e Tom, dice lui. Poi ho vissuto coi nonni a Belfast mentre mio padre faceva fortuna quì e ora che sono morti anche loro, lo sto raggiungendo".
Demelza si accigliò, sembrava spigliata anche nel racconto di fatti così dolorosi... Non conosceva quella bambina né suo padre, ma quella strana storia su sua madre le risultava un pò stonata e davvero strana. Di solito una donna non muore cadendo dalle scale... Ma non erano affari suoi e di problemi ne aveva già troppi di suo per preoccuparsi della vita di una bambina sfacciata e viziata.
La piccola la fissò incuriosita. "Aspettate un bambino? Raggiungete vostro marito?".
"No, l'ho lasciato in Inghilterra. Sono partita coi miei figli e il mio cane per vivere nuove avventure in Jamaica, soli con la nostra unica domestica" – rispose, con la stessa sincerità che aveva usato lei poco prima, cercando di apparire altrettanto sicura di se stessa.
Questo lasciò la sua piccola interlocutrice a bocca aperta e senza parole. Ma durò un attimo...La piccola fece per dire qualcosa ma fu bloccata di nuovo.
I suoi tre 'inseguitori' aveva fatto il giro della nave e, girando in tondo, erano tornati davanti a loro. E stavolta la piccola fuggitiva non ebbe il tempo di nascondersi di nuovo.
"Signorina Lilith" – ansimò la domestica.
"So come mi chiamo, smettila di ripetere il mio nome come una scimmia!" - rispose la piccola, a tono.
"Sei scappata, non si fa! Tim si è preoccupato!" - mormorò in tono stentato uno dei due uomini tondi, dall'aria forse davvero poco intelligente.
"Anche Tom si è preoccupato" – aggiunse l'altro.
E Demelza si rese conto che non sembrava brillare di intelligenza nemmeno lui.
"Perché sei scappata?" - chiese la domestica, mentre Demelza si sentiva di troppo in quella assurda situazione.
La bambina, Lilith, divenne rossa dall'ira. Picchiò il piede per terra, incrociò le braccia e guardò i tre con aria furente. "Perché mi ANNOIO! E voi siete le tre persone più noiose del mondo! E son due mesi che non ho una conversazione decente con qualcuno, a parte stasera in cui ho parlato con una sconosciuta più di quanto abbia fatto con voi da quando abbiamo lasciato Belfast! Ora urlerò, sveglierò tutta la nave coi miei strilli e quando tutti saranno svegli, darò la colpa a voi!".
La domestica pallida, divenne ancora più pallida. "No, vi prego Miss Lilith. Che possiamo fare per farvi divertire?".
Lilith la guardò con aria di sfida, avvicinandosi di alcuni passi. "Sali sul parapetto e buttati di sotto. E fatti mangiare dagli squali! QUESTO SAREBBE UN GROSSO CAMBIAMENTO, IN QUESTO MARE DI NOIA! Questo mi divertirebbe...".
E Demelza a quel punto intervenne. Quella bambina era terribile, insopportabile e di certo quei tre, anche se non particolarmente svegli, non facevano un lavoro invidiabile. Era indubbiamente una bambina intelligente, aveva una padronanza di linguaggio notevole per la sua età ma nessuno pareva averle insegnato il minimo senso del rispetto per gli altri. Certo, quel viaggio doveva essere stato pesante per lei ma quel modo di fare che teneva, iniziava ad irritarla. Di certo non l'avrebbe mai accettato da parte dei suoi figli e sperava che suo padre, questo potente signor Viktor Copper, la rimettesse un pò in riga. "Forse ho un'idea migliore, visto che mi pare di capire che ami leggere".
Lilith e i tre domestici si girarono. "Cosa?".
Si mise una mano in tasca dove si trovava un piccolo libro di poesie sul mare che aveva trovato sul molo, a uno scellino, prima di imbarcarsi dal porto di Falmouth. "Questo libro forse ti è ancora sconosciuto. E' piccolo, ci vuole poco a leggerlo tutto ma ti terrà compagnia fino a che non attraccheremo domani. Ed eviteremo ai tuoi domestici di farsi mangiare dagli squali per divertirti...".
Osservò i tre e loro ricambiarono il suo sguardo con gratitudine. E Demelza si chiese se per caso non avessero davvero preso sul serio la stramba pretesa della piccola. No, non erano davvero intelligenti, forse aveva ragione lei sul serio.
Lilith prese il libro, osservandolo con bramosìa. "Amo i libri. Davvero posso tenerlo? E quando potrò ridarvelo?".
"Te lo regalo! Ma tu promettimi di non maltrattare troppo chi si prende cura di te".
Lilith osservò Tim, Tom e Miss Thorpe. Poi sbuffò. "Va bene... E per il libro, chiedete di mio padre, vi indicheranno dove viviamo. Ve lo farò avere, se mi darete il vostro indirizzo o se verrete a cercarmi".
Demelza le strizzò l'occhio, si era calmata a quanto sembrava. "E' un regalo, puoi tenerlo".
"Grazie, allora!". Poi, impettita, guardò i suoi tre poveri domestici. "Voi, sbrigatevi! Io devo andare a letto e voi dovreste vegliare su di me e sul fatto che lo faccia! Lo dirò a mio padre che mi avete permesso di girare sul pontile a mezzanotte. Vi farà frustare un pò...". E così dicendo, sparì nelle scale.
La domestica la ringraziò a sua volta e poi le corse dietro, seguita da Tim e Tom che, da quel che notava, si muovevano e pensavano sempre all'unisono.
E rimasta sola, stranita, si rese conto che per una manciata di minuti non aveva pensato ai suoi problemi. E che, ironia della sorte, doveva ringraziare per questo una viziata ed isterica bimbetta...
Si massaggiò il ventre tornando a voltarsi verso il mare, immaginando che da lì in avanti la sua vita sarebbe stata sempre più stramba e strana e che la piccola Miss Lilith non era altro che l'antipasto di ciò che avrebbe visto, incontrato e vissuto. Tutto stava cambiando, il mondo, il clima, i paesaggi e le persone attorno a lei. E questo forse era un bene...
La piccola Isabella-Rose le diede un piccolo calcetto, quasi impercettibile, che la fece sussultare. I primi calci erano sempre stati motivo di gioia per lei quando aveva aspettato i suoi figli, ma ora era diverso. Ora non era pronta e forse non lo sarebbe stata mai. "Sta ferma, aspetta ancora un pò a farti sentire. Ho bisogno di altro tempo, ho bisogno di far finta che almeno tu non esista ancora per un pò... E' troppo, se ti ci metti anche tu. Sta ferma e nascosta finché non avrò capito cosa saremo in questo nuovo mondo chiamato Jamaica".
E in quel momento si rese conto che, come Lilith, avrebbe voluto gridare a squarciagola pure lei...


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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Eroe... Così lo aveva definito Wichman quando tutto era finito. Eroe, che è una parola che per tutti risveglia fierezza, orgoglio e soddisfazione. Eppure a lui importava poco di tutto ciò, non era per questo che si era lanciato, mesi prima, in quell'assurda e segreta avventura contro i francesi. Si era inimicato tutti, famiglia ed amici, per avvicinarsi al nemico e soprattutto per difendere la sua terra, quella terra che lo aveva visto nascere, che era stata testimone dell'amore fra i suoi genitori prima e poi fra lui e Demelza e della nascita dei suoi bambini. La Cornovaglia era il suo mondo, la terra dove era nato e dove avrebbe voluto morire ed essere sepolto, la sua piccola patria e per la Cornovaglia e per coloro che vi vivevano, avrebbe dato la vita. Terra difficile e dominata da povertà e duro lavoro, spesso sferzata da un vento crudele ed implacabile, ma affascinante, magica, unica, anche se regalava ai più vite per lo più fatte di stenti e fatica. Ma era la sua terra, la sua casa, il suo mondo. E salvare ciò che si ama era qualcosa di talmente banale che Ross faticava a credere che qualcuno, per averlo fatto, lo considerasse un eroe.

Era stato tutto strano, caotico e assolutamente discreto, tanto che gli abitanti della zona non si erano accorti di nulla. Erano arrivati da Londra dei soldati speciali che erano riusciti a scambiare con lui una corrispondenza privata senza essere scoperti, d'accordo con loro aveva condotto in una trappola i generali francesi a capo dell'azione e anche se alla fine c'era stato un intoppo, un intervento nemico di Hanson che per poco non gli era costato la vita, alla fine era stato salvato da... George Warleggan.

Che strana la vita, che strano pensare che il suo antico nemico avesse percepito le sue mosse, le avesse preventivate ai suoi due compagni d'affari che evidentemente, a dispetto delle apparenze, non apprezzava fino in fondo e avesse scelto, visto il tradimento che Hanson e Merceron pensavano di compiere ai danni alla nazione, di stare dalla sua parte, di scegliere la sua terra e di rimanere fede alla sua lealtà verso quelle istituzioni e quei vertici che da sempre inseguiva. George era tante cose, non era una persona quasi mai limpida, spesso era stato vendicativo ma in fondo si era sempre dimostrato coerente e mai aveva tradito tutto ciò in cui credeva e quel potere e quella nazione di cui sperava di arrivare al vertice. Era e sapeva essere anche un tipo losco e poco corretto ma di certo molto lo differenziava dai due brutti ceffi che si erano avvicinati a lui e che in fondo mai, fin dall'inizio, aveva seguito del tutto. Una morale, anche se a volte contorta e perversa, George ce l'aveva. Hanson e Merceron no.

Anche se, doveva ammettere a se stesso, era stato davvero strano, singolare e incredibile trovarsi poi, pochi minuti dopo quell'azione inaspettata, a brindare con lui nella cucina di Nampara. Oh, niente dichiarazioni di pace e amicizia, ognuno aveva mantenuto e giocato nel proprio ruolo ma il rispettivo cinismo stavolta non nascondeva nessun tentativo di nuocersi l'uno con l'altro. Mai sarebbero stati amici ma Ross aveva avuto l'impressione che da quel momento in poi, l'essere nemici sarebbe stato più simile a un gioco di ruolo bonario piuttosto che a una vera e propria guerra. E Ross aveva elogiato George davanti a Wichman, sottolineandone i meriti e premurandosi che questi venissero resi noti a Westminster. George aveva sempre cercato fama e rispetto in maniera errata e scorretta ma stavolta meritava il suo momento di gloria perché stavolta aveva agito per il bene del paese più che per il suo. Era una consacrazione per George e Ross voleva dargli ogni merito, per se stesso non chiedeva nulla e nulla voleva gli fosse riconosciuto, desiderava solo pace per la sua terra e che Hanson e Merceron finissero i loro giorni in prigione, dove non potevano più nuocere a nessuno e dove avrebbero pagato per l'affronto fatto a Ned. Solo questo chiedeva, per se stesso... Aveva agito solo per il bene di chi amava e questo non era forse un atto egoistico rispetto a George che per una volta si era mosso per il bene del paese?

In fondo Ross pensava di non aver fatto chissà che per essere premiato o considerato un eroe. Aveva raccontato molte menzogne a tutti, era stato un abile doppiogiochista e durante la battaglia era stato George a tirarlo fuori dai guai prima dell'arrivo dei soldati da Londra, quindi perché essere elogiato? In fondo non aveva nemmeno imbracciato armi durante gli scontri...

Tutto si era risolto nel giro di poche ore, c'era stata una battaglia notturna in spiaggia e nelle grotte circostanti, i francesi erano stati arrestati e portati via nell'oscurità e la mattina successiva la Cornovaglia si era risvegliata ignara e sonnolenta come sempre, senza percepire il pericolo che aveva corso.

Andava bene così... Ora Ross solo una cosa voleva: andare a casa di Dwight, spiegare al suo amico cosa fosse successo e poi prendere Demelza e i loro bambini e riportarli a casa. Ritrovarla, ritrovarsi... Santo cielo, lei gli era mancata come l'aria... Così come Jeremy che ultimamente lo seguiva sempre e se si allontanava, pareva sentire la sua mancanza più di quando era piccolo e Clowance e la sua bambola, sempre inseparabili. E poi voleva accarezzare il ventre di sua moglie, dove stava crescendo il loro nuovo bambino. Era incredibile ma era ubriaco di gioia all'idea di diventare di nuovo padre dopo che per molto tempo ne aveva avuto paura. Ora nulla importava, nessuna avversità avrebbe potuto fermarlo o frenarlo dall'amare suo figlio o figlia. Se era con Demelza, se erano insieme, non c'era modo che qualcosa andasse male.

Quel mattino si svegliò presto, si fece un bagno, si vestì e senza fare nemmeno colazione, fece per avviarsi alla stalla quando la voce di Wichman, completamente inaspettata, lo raggiunse nell'aia. "Poldark, state uscendo? Siete mattiniero".

Ross si voltò, osservando l'uomo che oltrepassava il cancello della sua casa. Assieme ai soldati era arrivato anche lui e aveva osservato la scena e i combattimenti da una locanda, tenendo in mano le redini dell'operazione in accordo e collaborazione con lui, chiedendogli consigli ed informazioni costanti sui francesi che aveva imparato a conoscere in quei mesi. "Credo di aver fin troppo da fare per poltrire a letto. Ho una famiglia e dopo tutto questo, desidero solo andare a riprendermela".

Wichman si avvicinò. "Beh, se mi date cinque minuti del vostro tempo, la vostra famiglia potrebbe essere ancora più orgogliosa di voi visto la proposta che intendo farvi".

"Di che parlate?".

Wichman indicò la porta d'ingresso di Nampara. "Entriamo un attimo? Vi ruberò poco tempo".

Con un sospiro, Ross dovette cedere a quella richiesta. Quello che aveva davanti era comunque un potente uomo di governo che aveva la fiducia del re e lui era un parlamentare di Westminster. Non poteva rifiutare... "Vi faccio strada".

Lo condusse all'interno, dove regnava il silenzio. Il camino era spento e Ross si rese conto che la casa così, senza la presenza di Demelza, Prudie e l'allegria dei bambini e di Garrick, appariva davvero inospitale e fredda. "Scusate se la casa non è accogliente come dovrebbe, la mia domestica è assieme a mia moglie a casa di amici in questo periodo. Per il loro bene durante la missione coi francesi, ho preferito allontanarle".

Wichman annuì. "Ottima scelta, saggia. Donne e bambini devono stare lontani da certi tipi di situazioni".

Ross distolse lo sguardo. In realtà non la vedeva proprio come il suo interlocutore e anzi, si sentiva in colpa e a disagio per il dolore provocato a Demelza che di certo, se avesse saputo, avrebbe potuto essere un'ottima alleata e consigliera. "Che dovevate dirmi?" - tagliò corto, desideroso solo di raggiungerla.

Wichman si mise a sedere su una sedia del tavolo. "Il Governo e il re in persona sono rimasti molto colpiti dal vostro gesto e dal vostro ingegno. Avete agito nell'ombra senza un tentennamento e senza che nessuno si accorgesse delle vostre mosse, nemmeno i vostri vicini di casa. E nemmeno i francesi, di cui avete guadagnato la fiducia. L'Inghilterra e questa vostra terra vi devono molto signor Poldark, siete un uomo dalle capacità rare e io e gli alti vertici del governo pensiamo che la sola Westminster sia cosa troppo piccola per una persona con le vostre capacità".

Ross rise. "Io e Westminster non abbiamo mai raggiunto alcuno scopo di quelli che mi ero prefissato all'inizio della mia carriera di parlamentare".

"Appunto! Ma ora, da solo, in mezzo all'azione, vi siete distinto!" - lo interruppe Wichman.

"E quindi? Tutto è andato bene, che senso ha rivangare?".

Wichman sorrise, un sorriso sornione e furbo. "Ciò che vogliamo offrirvi Poldark, non sono solo elogi! Di quelli, uno come voi, ne fa a meno! Ma posso darvi altro, avventura, fama, gloria e onore agli occhi del re e della nazione. Siete l'uomo giusto che stavamo cercando da molto e l'ho capito fin dal nostro primo incontro, quando tirammo fuori dai guai e dalla galera Despard. Mi avete dato la conferma, coi francesi, di ciò che sapevo già allora".

Ross, incuriosito, lo osservò attentamente. "Che volete dire?".

Il suo interlocutore lo guardò dritto negli occhi. "Il re in persona vuole offrirvi un posto come spia del governo. All'estero sareste i nostri occhi e le nostre orecchie, un uomo d'azione quando servirà ma soprattutto, un osservatore insospettabile. Non temete il pericolo e siete temerario e intelligente, siete perfetto e lo avete ampiamente dimostrato. Un lavoro che vi impegnerà per dei brevi periodi all'estero, ogni tanto, intervallato dalle tranquille discussioni in Parlamento e dalla vostra vita famigliare. Denaro, fama, gloria, avrete tutto!".

Ross sorrise, lusingato ma deciso a rifiutare. Forse era e sarebbe stato il lavoro della sua vita, quello più adatto al suo carattere irrequieto e ribelle, quello che più avrebbe accarezzato la sua indole mai doma, ma... Ma era cresciuto, una volta avrebbe accettato senza battere ciglio mentre ora l'idea di stare a lungo lontano da Demelza, di rischiare la vita, di non veder crescere i suoi figli era più forte di qualsiasi altra cosa. La morte di Ned e tutto ciò che si sarebbe perso di sua moglie e del figlio in arrivo gli avevano insegnato molto su quali fossero le priorità vere della vita. Forse lo avrebbe rimpianto un giorno, forse sarebbe stata una strada più adatta a lui rispetto a Westminster, forse stava sbagliando a dire no e avrebbe dovuto prima parlarne con Demelza, forse, forse... C'erano troppi forse e quando le cose stanno così, è meglio rifiutare e seguire il proprio cuore ed istinto. "Mi sento onorato di tale proposta ma non ho fatto ciò che ho fatto per riceverne in cambio guadagno e fama. Amo la mia terra, come tutti, e ho solo cercato di difenderla. Ho una miniera da gestire che è l'eredità di mio padre, una moglie che amo e che ho lasciato fin troppo da sola, dei figli che adoro e che spesso non vedo per lunghi periodi e non posso e non voglio sottrarre loro altro tempo con me. Non voglio che per i miei bambini io diventi un estraneo. E di certo non lo voglio per me e mia moglie. Vi ringrazio ma sono sicuro che esistono tante altre persone più adatte di me per questo incarico. Persone giovani, senza responsabilità e legami, disposte a viaggiare in lungo e largo senza rimpianti. Non io, quel tempo per me è passato".

Wichman deglutì, forse colpito da quel rifiuto così repentino. "Non rinuncio così facilmente. Cosa posso offrirvi per farvi cambiare idea? State gettando una proposta che in pochi ricevono!".

"Lo so. Ma non posso fare altrimenti...".

Wichman scosse la testa. "Pensate bene a ciò che fate e dite. Prendetevi tempo...".

Ross sorrise, dolcemente. "Amo mia moglie, ho difeso questa terra per lei. E per i nostri figli... Presto diventerò di nuovo padre e per me conta solo questo, che i miei bambini possano giocare in spiaggia senza il pericolo che invasori stranieri facciano loro del male".

Wichman sospirò. "Moglie e figli sono importanti certi, ma non demordo tanto facilmente" – borbottò, alzandosi dalla sedia.

Ross gli porse il cappello. "Lo immagino...".

L'uomo si diresse verso la porta con in mente già i passi successivi per farlo cedere. "Per oggi non voglio rubarvi altro tempo, Poldark. Ma sappiate che tornerò".

"Lo immagino...".

Wichman fece per uscire, quando all'improvviso si bloccò. "E la ragazza?".

"Quale ragazza?" - chiese Ross.

"La giovane Tess, la piccola traditrice della patria che ora è nella prigione di Truro... Il cappio si avvicina pericolosamente per lei".

Ross impallidì. Tess era una persona infida e cattiva, ma soprattutto ignorante e non così intelligente da poter capire a cosa portassero le sue azioni. E l'ignoranza era una brutta bestia da sconfiggere. E chi ne era affetto doveva essere compatito e guidato, più che punito. "Vi chiedo indulgenza. E' giovane e sicuramente avrà imparato la lezione, se non a livello nozionistico, comunque grazie alla paura che starà vivendo in questi giorni".

Wichman lo guardò intensamente. "Ciò di cui si è macchiata, è un reato capitale".

"Lo so... Ma una ragazza analfabeta ed ignorante, che ne sa di queste cose?".

"Cosa proponete, Poldark?".

Ross ci pensò su. Voleva liberarsi di lei al più presto ma non gli andava di immaginarla appesa a una picca. Era un qualcosa di mostruoso contro cui si era sempre battuto e non avrebbe fatto eccezioni anche ora che si trattava di Tess. "Lavori socialmente utili. Per la comunità... Guardata a vista ma in una situazione dignitosa. Lontana da quì e da coloro che potrebbero fomentarla di nuovo contro il re".

Wichman annuì. "Ci penserò, se... E voi? Ci penserete?".

"A cosa?".

"Alla mia proposta!"

Ross sospirò, se non gli dava un contentino, avrebbero fatto sera e l'allusione di Wichman a Tess di fatto era una velata minaccia o comunque un tentativo di ricatto non certo celato. "Certo, ovviamente ci penserò. Ma non fatevi illusioni".

E così dicendo, strinse la mano a Wichman e lo congedò.

L'uomo se ne andò mestamente ma a passo spedito, il passo di un uomo potente che non era abituato ai no. Ma ora non aveva importanza, ora Ross non voleva pensare a nulla se non alla sua famiglia.

Ora doveva correre da Dwight!

Prese il suo cavallo e come un folle galoppò fino alla grande ed elegante residenza degli Enys.

Vi arrivò che il sole era già sorto del tutto, in una mattina priva di vento e piuttosto nebbiosa. Faceva freddo, un freddo pungente ma Ross non pareva sentirlo. Il cuore gli batteva forte all'idea di rivedere sua moglie e raccontargli la verità e anche se immaginava che ne sarebbe seguita una lite e che avrebbe dovuto dar fondo a tutte le sue risorse per farle capire quanto l'amasse, era certo che tutto sarebbe andato bene e che quella sera si sarebbe addormentato con lei fra le braccia, al caldo del camino nella loro stanza. E avrebbero riso ancora insieme, si sarebbero amati e avrebbero chiacchierato per ore di quanto successo in quegli strani, intensi e anche oscuri mesi.

Si avviò alla porta quando, nel giardino, vide Dwight che camminava con Horace che probabilmente aveva accompagnato fuori per i suoi bisogni.

Il medico spalancò gli occhi quando lo vide ma poi non ne seguì uno dei suoi caldi e accomodanti sorrisi. Rimase freddo, con gli occhi di ghiaccio, a guardarlo con incredulità. Poi si avvicinò di alcuni passi col cagnolino che lo seguiva impettito e piuttosto contrariato da quella interruzione della sua passeggiata. "Che ci fai quì?" - gli chiese, senza giri di parole.

Ross deglutì. Che non sarebbe stato accolto dal suo migliore amico a braccia aperte se l'aspettava, ma tutta quella freddezza e quel rancore, no. Doveva fare ammenda anche con lui dopo quando si erano detti nell'ultimo incontro, confessare il perché delle sue menzogne, raccontargli le sue gesta e sentire la sua ramanzina su quanto fosse stato sciocco ed avventato ma Ross sapeva che alla fine, come sempre, Dwight avrebbe capito e sarebbe stato dalla sua parte. "Sono venuto per Demelza e per i bambini, per portarli a casa".

Dwight continuò a guardarlo imperturbabile. "Pare che Tess sia sparita misteriosamente dalla circolazione. Per questo sei quì? Il tuo letto è tornato freddo?".

Tess? Santo cielo, doveva chiarire assolutamente quella situazione e l'incredibile malinteso che ne era seguito. Ma Dwight come poteva pensare...? "Tess? Posso giurarti che nulla di quella ragazza è mai stato di mio interesse. E che tutto ciò che ho fatto di strano in questi mesi ha una spiegazione".

"Che io non voglio sentire!" - lo bloccò Dwight.

"Per favore...".

Il medico assunse uno sguardo duro. "A tutto c'è un limite, Ross! Qualsiasi cosa tu abbia fatto e il perché, QUALSIASI, non ti da né il diritto di essere quì né quello di chiedere di Demelza! Un uomo che non sa proteggere la sua famiglia, non merita una famiglia!".

Ross si morse il labbro, la rabbia di Dwight e la sua delusione erano talmente evidenti da fargli male e non voleva che chiarire. Anche se guardandolo, cominciò a chiedersi se non avesse sbagliato, se avesse scelto la strada giusta e se davvero non fosse andato troppo oltre in quel gioco pericoloso. "Dwight, posso spiegarti! Tu hai ragione, ma ti assicuro che proteggere la mia famiglia è sempre stata la mia priorità!".

"Parole, Ross! Smentite dai fatti!".

"Dwight!".

Il medico gli indicò il cancello. "Hai fatto delle scelte, Ross. Ora segui la strada a cui ti hanno portato e lascia stare tutti noi che da quelle scelte siam stati feriti. Cerca la tua Tess, per la quale hai gettato via tua moglie e i tuoi bambini! Te la meriti una così, Demelza era troppo per te anche se lei ha sempre pensato il contrario".

Disperato, Ross lo prese per le braccia. "Dwight, ho bisogno di vedere Demelza e di spiegarvi tutto! Se solo mi lasciassi parlare...".

Dwight lo allontanò. "Sei arrivato troppo tardi, Demelza non è più quì e per fortuna ha messo le distanze fra voi prima che tu la uccidessi di dolore".

Ross spalancò gli occhi. Che voleva dire, Dwight? CHE VOLEVA DIRE??? Sentì la terra che gli sprofondava sotto i piedi e ogni certezza venir meno. Era davvero andato troppo oltre stavolta, pur con le migliori intenzioni? Demelza aveva issato in qualche modo bandiera bianca troppo schiacciata dal dolore? "Dwight, se questo è uno scherzo, sappi che non è divertente".

"Ti pare che stia scherzando?" - chiese il medico.

"Dwight, Demelza aspetta un bambino, non può essere andata via! Dimmi dov'è e chiariamoci prima che io impazzisca".

Dwight annuì, giocando con la punta del piede con un sassolino. "Un bambino, sì! Ed era talmente sconvolta e provata dalle tue azioni che non trovava la forza di andare avanti con la gravidanza e mi ha chiesto aiuto per interromperla".

Il cuore e la mente di Ross si riempirono di orrore. Pensò a lei, alla donna che amava e al dolore che doveva aver provato pensando che lui e Tess... che lui... Santo cielo, dopo Elizabeth forse Demelza, pur con tutta la forza di cui era dotata, non poteva farcela a reggere... Ancora una volta aveva compito lo stesso errore e aveva date per scontate cose che scontate non erano. Pensò a come una madre meravigliosa come Demelza potesse essere arrivata a una decisione tanto terribile e contraria a tutto ciò che lei era e a quel bimbo in arrivo, alla culla che aveva ridipinto a casa, alla gioia di diventare padre e all'orrore di essere stato, forse, la causa della fine di quella piccola e preziosa vita di cui non poteva che incolpare se stesso. "Dwight, dimmi che non lo ha fatto!" - urlò disperato, facendo sussultare il povero Horace mentre stringeva le spalle del medico.

Dwight scosse la testa. "No, lei è Demelza e non avrebbe mai potuto farlo e andare fino in fondo. Pur col cuore spezzato ha deciso di tenere il piccolo. Ma se n'è andata per non impazzire e io approvo la sua scelta".

Quella risposta servì ad acquietare per un attimo il suo animo in tumulto. "Dio, grazie, il bimbo è vivo... E lei dov'è? Se non è quì, dov'è?".

Dwight lo fissò nuovamente, gelido. "Non lo so. Lontano, suppongo, dove non rieschierà di incrociare di nuovo la tua strada o quella di Tess".

Non credeva a una parola. "DWIGHT, LEI DOV'E'???".

Ma Dwight rimase di ghiaccio. "Non lo so e anche se lo sapessi, non te lo direi. Demelza merita pace, i tuoi figli meritano pace! E di non incrociarti in giro con quella donnetta con cui li hai traditi! Ci hai traditi tutti e ora accettane le conseguenze! Avevi una famiglia meravigliosa e una donna unica che, da quel che so, ha saputo perdonarti cose che difficilmente una donna qualunque avrebbe perdonato!".

Ross impallidì. Cosa sapeva Dwight? Che cosa aveva raccontato Demelza? Elizabeth? Il suo amico conosceva qualcosa del suo errore con Elizabeth e di quello che poteva esserne scaturito? Santo cielo, odiava se stesso per aver fatto quella pazzia il maggio di alcuni anni prima e l'idea che Dwight sapesse e lo giudicasse lo atterriva. Era stato un uomo orribile e mai si sarebbe perdonato fino in fondo per quell'errore e il biasimo di Dwight sarebbe stato ancora più insopportabile. "A cosa... ti riferisci?".

"Lo sai meglio di me, senza che io te lo spieghi!".

Ross lo riprese per le spalle. "Dwight, dov'è Demelza?".

Il medico se lo scrollò di dosso, prendendo in braccio Horace e dirigendosi verso la porta. "Lontano! Ragion per cui non hai motivo di stare quì e sei invitato ad andartene e a non tornare".

"Dwight!" - gli corse dietro Ross.

Ma il suo vecchio amico non si voltò, raggiunse la porta e prima di sparire dietro ad essa, lo ammonì di nuovo. "Te lo ripeto, non sei più il benvenuto in questa casa! Cerca di non metterti nei guai, stammi alla larga e vivi la tua vita secondo le leggi e le regole che governano le nostre terre. Demelza mi ha chiesto di vegliare su di te prima di partire e io posso solo ammonirti sulle conseguenze di certe decisioni pericolose. Per il resto sei un uomo, hai fatto delle scelte e altre ne farai in futuro. Sta attento".

E poi Dwight sparì dietro alla porta e un domestico fu mandato fuori per accompagnarlo verso l'uscita del giardino.

Ross rimase lunghi minuti fuori dalla tenuta, ad urlare il nome del suo amico, con cuore e animo schiacciati dalla disperazione. Ma Dwight non uscì. E nemmeno Caroline o Demelza o i bambini. Non uscì nessuno...

E Ross si rese conto che aveva perso tutto e che l'amore della sua vita, i suoi figli e tutto il suo mondo erano scivolati lontano, non sapeva dove, in fuga da un uomo che tanto aveva sbagliato ma che per loro avrebbe dato la vita. Pensò a quei capelli rossi che tanto lo affascinavano di sua moglie, alla dolcezza della sua voce mentre cantava, al sorriso biricchino di Clowance e a quello più dolce di Jeremy. E a un bambino che forse mai avrebbe dormito nella culla che aveva ridipinto per lui.

E anche se non si sarebbe arreso alla loro perdita tanto facilmente e li avrebbe cercati fino in capo al mondo, in quel momento non poté fare a meno di piangere e di chiedersi cosa avrebbe fatto e di come, in un mondo tanto grande, avrebbe potuto trovarli.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Il sole era accecante quando scesero dalla nave e il caldo, già soffocante di suo, era accentuato da quella massa indistinta di persone che, dopo mesi di navigazione, non vedeva l'ora di mettere piede a terra e spingeva per scendere dalla nave coi pochi bagagli che aveva con se.

Demelza, strattonata e coi bambini stretti a lei e a Prudie, lottò con tutte le sue forze per non farsi spingere a terra mentre la nausea a causa del caldo e della gravidanza, non le dava tregua.

Nella calca si guardò attorno, osservò quelle povere persone che, come lei, erano state costrette ad abbandonare il loro vecchio mondo alla disperata ricerca di una vita nuova e meno misera e si chiese se anche lei avesse il loro sguardo sperso e spaventato in quel momento. C'era di tutto, in quella nave, da povere famiglie vestite di stracci a giovani marinai che cercavano fortune in quei mari ancora inesplorati e in quelle terre da popolare.

Con i loro piccoli fagotti, finalmente furono a terra. Si era imbarcata coi bambini e con Prudie usando nomi falsi per non essere rintracciata eventualmente da Ross ma ora poteva tornare ad essere Demelza di Illugan, moglie abbandonata di Ross Poldark ma pur sempre moglie... E madre dei suoi bambini.

Appena fu a terra, osservò quel mondo nuovo che spesso aveva cercato di immaginare in quei mesi di viaggio ma mai era riuscita davvero ad inquadrare nella sua mente.

Era tutto così diverso dalla Cornovaglia...

Il cielo era di un azzurro intenso mai visto e il mare, dai colori talmente belli da sembrare quelli del Paradiso, sembrava fondersi con esso. Mai aveva visto un mare tanto magnifico e trasparente, dai colori che andavano dall'azzurro turchese al verde smeraldo e con delle acque talmente limpide da poter vedere il fondo anche lontano da riva.

Ma per il resto, tutto era ancora selvaggio e la natura rigogliosa formata da piante che non conosceva, sembrava voler lottare e inglobare quel piccolo borgo portuale costruito sulle spiagge e che diradava verso la foresta e le colline interne.

Il porto era composto da un ammasso di casette di legno costruite senza un effettivo criterio dove marinai e forse contrabbandieri andavano e venivano senza sosta. Baracche, più che case, povere, che scorrevano su strade sterrate dove persone ed animali vivevano in promisquità.

In lontananza, alla fine di un sentiero che costeggiava la foresta e che si staccava dal porto, scorse il piccolo campanile di una Chiesetta improvvisata e intorno ad essa delle costruzioni meno fatiscenti, forse le case delle poche persone abbienti dell'isola e dei governatori locali, circondate da una moltitudine di casette di legno colorate e da altre baracche che dovevano essere probabilmente il borgo abitato principale dell'isola.

Ormeggiate al porto c'erano altre barche, alcune grandi come la loro che dovevano aver portato migranti, altre più piccole e probabilmente appartenenti a pescatori e altre, ormeggiate più al largo, dall'aspetto sinistro e piene di uomini chiassosi che, a prima vista, dovevano forse essere pirati e gente poco raccomandabile.

Con i bambini, Prudie e Garrick, mosse i primi passi a terra, spersa e spaventata. Santo cielo, partire era stato facile a caldo ma ora aveva paura! Cosa avrebbe pensato Ross di un posto del genere? Di quella gente dai vestiti variopinti, povera ma col sorriso sulle labbra, di quei bambini magri e scalzi che sbucavano da ogni dove e correvano chiassosamente dappertutto senza nessuno che li guardasse e forse senza aspettative nella vita? Aveva portato lì i suoi figli, in quella terra lontana e sconosciuta e ora aveva paura... Aveva sbagliato? O fatto bene?

Pensò a Ross abbracciato a Tess e il cuore le fece male. E capì che non poteva permettere che il cuore facesse male anche ai suoi bambini e che aveva fatto bene a scappare da quel terremoto che si era abbattuto su di lei e sulla sua famiglia. Non sarebbero più stati felici in Cornovaglia, non lei, non i bambini. E sarebbero stati soli come lo erano stati gli ultimi mesi, con un marito e un padre assente e ormai disinteressato a loro. Una famiglia senza amore che famiglia sarebbe stata?

Scossa da quei pensieri, mentre muoveva incerta i primi passi in quella terra sconosciuta che presto sarebbe diventata la sua casa, la piccola Isabella-Rose le diede un calcione ben assestato che la fece fermare per riprendere fiato. "Giuda".

"Signora!" - la soccorse Prudie.

Jeremy rise. "Bella sta dando un saluto alla sua nuova casa".

Demelza sospirò. Isabella-Rose, per Jeremy e Clowance era diventata 'Bella'. Era con questo nomignolo affettivo che parlavano di lei e anche Demelza avrebbe voluto tenere con la figlia in arrivo quel tono confidenziale. Ma non ci riusciva, non riusciva davvero a ridurre le distanze con quella piccola bimba e per lei era rimasta Isabella-Rose Poldark. Niente confidenze, per ora...

Prudie, più spersa di lei e sudata come un cavallo, si asciugò la fronte. "La piccola Bella è al fresco nel pancione, ma noi si va arrosto. Che posto è questo, con un caldo così infernale?".

Demelza si trovò d'accordo. Era una terra strana la Jamaica, con un mare dai colori del Paradiso e un caldo che ricordava le fiamme dell'inferno. Si sarebbero abituati a quel clima assurdo? Osservò le donne del posto, indossavano abiti che sembravano per lo più sottovesti leggere, con le gonne sopra la caviglia, le braccia scoperte, informali e piuttosto sfrontate nel mostrare le loro curve. "Ci abitueremo, Prudie" – tentò di consolarla, anche se con poca convizione.

"E mentre ci abituiamo? Arrostiamo?" - insistette la domestica.

Già, dovevano fare qualcosa e in fretta. Indugiare in quel porto sarebbe servito a poco visto che non avevano né una casa né punti di riferimento. E quindi dovevano sbrigarsi, cercare informazioni su Kitty e Cecily e poi mettersi alla loro ricerca. "Andiamo verso il paese, dove c'è la Chiesa! Qualcuno forse saprà darci informazioni".

Clowance, saltellando, le indicò la spiaggia bianca che si stagliava dopo il porto. "Nel caso non troviamo Kitty e Cecily, mamma, potremo dormire lì!Davanti a quel mare, sai che bella avventura sarebbe?".

Demelza le sorrise, appoggiandole la mano sulla spalla. Era così indomita, le ricordava un sacco suo padre... "Oh lo faremo, te lo prometto. Ma solo quando avremo comunque una casetta nostra dove tornare, nel caso ci stancassimo di tutta quella sabbia".

"Dove le cerchiamo Cecily e Kitty?" - chiese Jeremy.

Demelza osservò il piccolo campanile della Chiesa e lo indicò al figlio. "Credo che nessuno possa conoscere meglio la gente dell'isola di un prete. Che ne dite di iniziare da lì?".

Jeremy annuì. "Sì, ottima idea mamma" – le rispose, prendendola dolcemente per mano.

Fecero per avviarsi verso il villaggio con Prudie che borbottava, Garrick che correva entusiasta in quella nuova terra e i bambini che chiacchieravano, quando un gruppetto di monelli sporchi, scalzi e malnutriti corse verso i nuovi arrivati della nave, urlando come forsennati. "Correte, correte nella piazza signori! Un grande spettacolo per voi! E ve lo abbiamo detto noi, ricordatevi di darci una monetina per avervelo detto!".

Demelza sospirò. I monelli erano uguali in tutto il mondo, furbi, intelligenti, scaltri e capaci di chiedere una moneta per qualsiasi cosa, anche la più futile. Erano così magri quei bambini, ma pieni di vita. Come era stata lei fin da piccola, sempre con la pancia vuota e una energia comunque indistruttibile.

Clowance si avvicinò ad uno dei bambini. "Che succede?".

Il mocciosetto che doveva essere il capo della combriccola, un bambino biondo forse di cinque anni, tirò su col naso pulendosi poi la faccia con la mano. "Impiccano un pirata! Uno spettacolo vero, signorino! Una moneta per l'informazione, grazie" – concluse, allungando la mano verso di lui.

"Che faccia tosta!" - sbottò Prudie.

Demelza si avvicinò per riprendere Clowance. "Vi ringrazio per la gentile informazione ma non abbiamo soldi da darvi e non intendiamo andare a vedere un uomo che muore".

"Ma signora! Il pirata Flint Dancan! Terrore dei mari del sud, catturato dalla guardia inglese dopo mesi di inseguimento! Non potete perderlo".

"Credo che potrò farne a meno" – disse Demelza, donando comunque ai piccoli il poco pane che aveva portato per lei dalla nave.

Il monello, forse deluso dal dono che però prese e divorò in un secondo, sospirò. "Come volete signora!". E poi corse via.

Jeremy le strattonò il braccio. "Mamma, mamma! Dai, andiamo a vedere com'è questo pirata! Un pirata vero, con un occhio bendato, la bandana nera e un pappagallo sulla spalla".

"Appeso per il collo!" - aggiunse Clowance.

Demelza prese per mano entrambi, decisamente meno entusiasta. "E' uno spettacolo orribile e non lo guarderei per nulla al mondo. E non abbiamo tempo da perdere, abbiamo cose più importanti da fare".

"Grazie al cielo" – borbottò di nuovo Prudie.

I bimbi parvero delusi ma alla fine ubbidirono, come sempre. "Come vuoi, mamma... Tanto di pirati impiccati mi sa che è piena quest'isola. Pirati ovunque, morti ma anche vivi!".

Demelza, facendo finta di non sentirli, si incamminò stancamente, dando un'ultima occhiata alle persone che avevano diviso quella nave con lei in quei mesi. Tutti loro sarebbero ripartiti da zero, con paura ma anche voglia di fare. E silenziosamente, ad ognuno di loro, augurò buona fortuna anche se non li conosceva...

Camminando nel sentiero che conduceva al villaggio, osservò le rigogliose piante che sembravano voler fagocitare in loro quel pezzo di civiltà che si era impossessato dell'isola e si chiese chi l'avrebbe avuta vinta in quella battaglia: uomo o natura? C'era nell'aria un profumo intenso di frutti sconosciuti e di piante, unito alla salsedine del mare, un clima asciutto che dopo tutto, appena fattaci l'abitudine, faceva apprezzare anche quel caldo fortissimo e in fondo decise che quel posto era affascinante e che i colori del Paradiso aveva vinto sul calore soffocante dell'inferno. Avrebbe amato quel posto, ci sarebbe riuscita. E ne avrebbe conosciuto segreti, abitudini e tutto ciò che serviva per viverci.

Poi però sorpassarono un gruppo di una ventina di giovani uomini di colore che, in catene, camminavano in senso opposto al loro, spinti in malomodo da uomini bianchi muniti di fruste. E di colpo l'inferno sembrò bussare in quelle candide terre, ricordando a Demelza quanto le aveva raccontato Kitty Despard. Allora questi erano...?

"Mamma, sono schiavi quelli?" - chiese Clowance pronunciando quella parola che, dai racconti di Kitty sua madre aveva imparato ad odiare, un pò intimorita dal vedere uomini martoriati, smunti e in catene e con sguardo cupo e assente come se fossero già morti.

"Sì" – rispose un vecchio uomo dalla lunga barba che camminava di fianco a loro, diretto verso il paese.

Lo guardarono, dagli abiti sembrava un marinaio e comunque un uomo esperto della zona. "Dove li portano?" - domandò Demelza.

Il vecchio alzò la spalla, portandosi alla bocca la pipa che teneva fra le mani. "Nelle piantagioni dei signori dell'isola, nell'entroterra. Probabilmente sono uomini di Sir Copper. O di Gillet o Cameron... Sono loro i signori della Jamaica, comprano al mercato gli schiavi migliori per lavorare le loro terre. Credo siano di Copper, sì. Casa sua si trova nella direzione che stanno seguendo, nell'entroterra.

Copper? Demelza si accigliò, aveva già sentito quel nome...

Copper, Copper...

Improvvisamente le venne in mente la piccola e strana ragazzina incontrata sul pontile poche ore prima, di notte assieme alle sue due strane guardie del corpo e alla sua silenziosa domestica. Si chiamava Lilith Copper e aveva detto che suo padre era il più potente uomo dell'isola... Non l'aveva vista mentre sbarcavano dalla nave ma probabilmente i viaggiatori di prima classe scendevano da pontili separati e qualcuno era venuto a prenderla prima che la ressa dello sbarco la coinvolgesse. Vedendo quegli schiavi e ricordando le parole della bambina su suo padre, ora capiva da cosa derivasse la sua potenza e la sua ricchezza. Si ricordò di Hanson, il padre di Cecily e capì che questo Copper non doveva essere molto diverso. E la figlia pareva la sua degna erede... "E' il governatore dell'isola?" - chiese, al vecchio con la pipa.

Lui rise. "Copper? No, che gli importa di Governare? E' amico dei governatori, questo sì! E loro sono amici suoi, un mutuo scambio di favori che gli permette di lavorare nell'ombra senza compromettersi e condurre tranquillamente i suoi loschi affari con la protezione dei poteri forti".

"E' una persona potente, quindi, in queste terre?".

L'uomo la adocchiò pensieroso. "Sì, ma... Diciamo che se dovessi scegliere se essere amico di Copper o di uno squattrinato pirata... sceglierei il pirata".

Demelza spalancò gli occhi e anche Prudie e i bambini fecero lo stesso. "Addirittura? Ne stanno per impiccare uno in piazza, però...".

Il vecchio sorrise, prima di sorpassarla e andarsene per la sua strada. "Siete appena arrivata, vero signora?".

"Sì".

"Imparerete molte cose su queste terre, su chi le abita e di chi essere amica. Benvenuta in Jamaica, mia lady". E così dicendo, a passo veloce quasi fosse un giovane, scomparve nella via sterrata davanti a loro. Lasciando nella mente di Demelza ancora più dubbi di quanti ne avesse avuti poco prima durante lo sbarco. In che diavolo di posto era finita?


...


Le avevano mandato incontro a prenderla due schiavi, una donna di circa trent'anni e un uomo molto più anziano, con un cavallo nero su cui Tim e Tom l'avevano posta come se fosse stata un pacco.

Lilith stavolta li aveva lasciati fare senza rimostranze, spaurita, stanca e accaldata. Che posto strano questa Jamaica, così diverso da Belfast e da tutti i luoghi visitati con i suoi nonni. Non c'erano palazzi ma solo casette di legno fatiscenti, bambini dai più disparati colori di pelle che correvano scalzi e vestiti di stracci fra viottoli sterrati e alberi, un panorama selvaggio oltre al piccolo paesino portuale che li aveva accolti e tutt'attorno un mare dai colori che andavano dal verde smeraldo all'azzurro intenso.

Era una bella visione ma si sentiva spaventata e i 2 schiavi di colore di suo padre e i suoi tre accompagnatori, col loro silenzio non aiutavano a renderla più serena. “Quanto manca alla casa di mio padre?” - sbottò infine, sul cavallo, mentre la conducevano fuori dal porto e dal piccolo borgo marinaro, diretti verso la foresta e poi chissà dove.

I due schiavi si guardarono spaventati per il fatto che lei gli avesse rivolto la parola ed ora esigesse una risposta.

E allora?” - insistette Lilith, stizzita.

Fu l'uomo a parlare, in una lingua stentata, con un tono sommesso e quasi spaventato. “Dopo qualche miglio nella foresta, saremo alla tenuta del padrone. La grande casa è in mezzo alla vegetazione, lontana dalla folla del porto”.

Lilith si asciugò la fronte madida di sudore. “Sbrigatevi!”.

Non aveva così voglia di vedere suo padre, a dire il vero. Era più che altro incuriosita dalle tante voci che aveva sentito su di lui, alcune grandiose, altre meno lusinghiere... Non lo incontrava da quasi quattro anni ma ricordava che i suoi nonni non parlavano spesso di lui e quando lo facevano, non ne sembravano entusiasti. Dicevano brutte cose di nascosto, su di lui, che lei aveva ascoltato rannicchiata dietro le porte. Amava i suoi nonni ma non aveva mai voluto credere a cosa dicessero di suo padre. Che era feroce, crudele ed avaro, dovevano essere solo frottole! Che ne sapevano loro, a Belfast? Dicevano anche che la loro amata figlia, sua madre, era morta a causa sua. Che colpa ne aveva suo padre se lei era caduta dalle scale?

Certo, non poteva nascondere a se stessa una certa inquietudine comunque. Suo padre le era sconosciuto, aveva sei anni l'ultima volta che lo aveva visto e ne ricordava poco persino i tratti del viso. Aveva i capelli neri, nerissimi, questo lo sapeva. E dei baffetti molto curati che stavano bene sul suo viso scavato e magro. Non era molto alto ma aveva una figura elegante, anche questo ricordava... E poi basta, sapeva solo che era l'uomo più potente e ricco della Jamaica.

Persa in quei pensieri, mentre oltrepassavano strane piante che mai aveva visto, Lilith quasi non si accorse del grande cancello e del grande muro giallo che avevano oltrepassato. Un viale acciottolato più elegante che attraversava un rigoglioso giardino molto curato fu l'ultimo tratto del suo viaggio prima di giungere al grande ingresso di una elegante villa bianca a due piani, con tante vetrate, una grande veranda e un enorme terrazzo al primo piano che dominava il giardino. La casa, di forma curva, pareva cingere il giardino più interno come a volerlo proteggere dall'esterno selvaggio ed inospitale. Una gabbia dorata, questo le venne in mente... Un posto bello ma che sulle prime le fece paura.

Tanti uomini di colore malvestiti e malnutriti sbucarono dal giardino e dai campi circostanti, avvicinandosi con circospezione e timore. I due schiavi venuti a prenderla al porto la aiutarono a scendere da cavallo e a quel punto la grande porta d'ingresso si spalancò e un uomo dai capelli neri ne uscì, scendendo i tre scalini che separavano l'atrio dal giardino. “Lilith, finalmente sei arrivata”.

La ragazzina deglutì. “Padre” - mormorò, esibendosi in un perfetto inchino. Poi si avvicinò a lui che la aspettava con passo elegante, a testa alta. Quando gli fu davanti si esibì in un perfetto inchino e con fare formale ed educato, allungò la mano a stringere quella dell'uomo. Le persone per bene, le avevano insegnato, non si abbracciano. Si salutano così, educatamente, senza esibirsi in plateali manifestazioni d'affetto. Solo i poveracci e gli analfabeti si abbracciano e baciano e lei non era né l'una né l'altra.

Suo padre la guardò intensamente, come a volerla studiare. Si lisciò i baffetti con le mani e poi annuì soddisfatto. “Vedo che sei stata educata bene alle buone maniere”.

Sì signore” - rispose la bambina.

L'uomo fece cenno a una domestica di portargli qualcosa e la donna, anch'essa di colore, corse in casa uscendone poco dopo con una grande ed elegante bambola fra le mani, dai capelli biondi e con indosso un bellissimo vestitino rosso di velluto. “Questa è per te, Lilith. E' un gioco adatto a una futura lady e padrona di casa, ti preparerà per il tuo ruolo di madre e moglie”.

Lilith osservò la bambola. Mai si doveva dimostrare scontento davanti a un regalo, era cattiva educazione e lei non voleva sfigurare davanti a suo padre, ma le bambole non le aveva mai amate troppo ed erano almeno due anni che non ci giocava. Osservò silenziosamente Tim, Tom e Miss Thorpe, la sua domestica, e loro le fecero cenno di ringraziare e non dire altro. “Grazie” - disse infine, senza però particolare entusiasmo.

Suo padre se ne accorse. “Non è di tuo gradimento?”.

Oh, è bellissima! Ma adoro leggere i libri più che il gioco con le bambole”.

L'uomo si accigliò, prima di mettersi a ridere. “Libri? A che ti serve essere istruita quando sei figlia di Vincent Copper e potrai avere TUTTO senza fatica?”.

Ma a me piacciono comunque” - rispose la piccola.

Copper sbuffò. “Beh, se ci tieni tanto, avrai qualche libro”.

Davvero?”.

L'uomo annuì. “Ovviamente veglierò sulle tue letture e non spenderò capitali per comprarti dell'inutile carta rilegata. Li ritengo una perdita di tempo ma al villaggio c'è un gruppo di missionarie che gestisce un orfanotrofio e vende vecchi libri usati portati dai viaggiatori europei che si trasferiscono qui”.

Libri usati? Non che la cosa la entusiasmasse, ma sempre meglio di nulla. Ed era troppo in soggezione per muovere delle rimostranze davanti a un padre che ancora non conosceva e che gli appariva fin troppo distante dalle sue abitudini e dai suoi gusti. “Grazie, padre” - rispose, inchinandosi di nuovo.

L'uomo sospirò, osservando i tre accompagnatori della figlia. “Il viaggio? Andato bene?”.

Lungo e noioso” - gli rispose, a tono.

Copper rise. “Bene, sei senza peli sulla lingua, mi piace! I miei due schiavi che son venuti a prenderti ti hanno trattata con rispetto?” - chiese, squadrando i due che, in un angolo, attendevano nuovi ordini senza fiatare. Come tutti gli altri, del resto... C'erano tante persone in quel giardino ma solo in quel momento Lilith si accorse del grande silenzio che li attorniava.

Lilith annuì, colpita da quell'aspetto. “Sì. Ero stanca e loro mi hanno detto che saremmo giunti qui in poco e hanno rispettato i tempi che mi hanno preventivato”.

Cosa?”. L'espressione di Copper cambiò di colpo, si incrinò, i suoi occhi divennero cupi e con furore mischiato ad odio, osservò i due. “Chi? Chi ti ha parlato?” - chiese alla figlia, gelido, mentre i due schiavi iniziavano a tremare.

Senza capire, Lilith rispose. “Lui, quel signore”.

Copper si avvicinò all'uomo, prendendolo per il bavero e sbattendolo con violenza contro il tronco di una pianta. Era minuto ma in quel momento Lilith si accorse di quanto forte e rabbioso potesse essere. “Hai osato rivolgere la parola a mia figlia? Piccolo verme, lo hai fatto?” - urlò, piantandogli un pugno nello stomaco.

L'uomo boccheggiò, annaspando e lottando contro l'aria per non cadere. “La signorina mi ha fatto una domanda e io...”.

TU dovevi stare zitto! I vermi non rivolgono la parola alle principesse, eseguono solo i loro ordini. Lo sai, lo sai vero qual'è il tuo posto? Beh, forse lo hai dimenticato ma te lo ricorderò io". Si voltò verso un altro schiavo, fermo ed immobile. Nessuno sembrava capace di muovere un dito per aiutare l'amico in difficoltà. “Entra in casa e prendimi la frusta, ho bisogno di allenare il mio braccio e questo verme me ne darà l'occasione”.

Gli occhi di Lilith si riempirono d'orrore. Che stava succedendo? Che aveva fatto di male quell'uomo? Era colpa sua? Spesso diceva a Tim e Tom che li avrebbe fatti frustare ma mai aveva visto davvero un uomo che frusta qualcun altro. “Padre?! Gli ho fatto una domanda, lui è stato gentile a rispondermi”.

Copper si voltò verso di lei, cercando di tenere a bada una rabbia furente. “Lilith, impara la lezione più importante! Tu sei una persona, loro sono animali. Tu comandi, loro eseguono senza parlare! Loro non hanno il diritto di dirti nulla, sono bestie, vanno guidate e strigliate quando non ubbidiscono e d'ora in poi non voglio che tu ti sbagli ancora quando hai a che fare con loro! NON devi parlare con gli uomini dalla pelle scura! Né uomini, né donne, né bambini. Sono bestie e noi non parliamo con le bestie!”.

La bambina guardò guardò Miss Thorpe e Tim e Tom in cerca di aiuto. Ma loro le fecero capire di non dire nulla. Purtroppo però lei non riusciva, non era mai stata capace di star zitta. “Io non lo sapevo, non è colpa di quell'uomo. Non gli parlerò più ma voi... voi per questa volta...”.

Copper, a dispetto di tutto, sorrise. Un sorriso gelido di chi già pregusta il piacere di sottomettere qualcuno completamente in sua balìa. “Cuore debole di donna il tuo, figlia. Ma io frusto questa specie di uomo per il suo bene, per insegnargli”. Poi si rivolse ai suoi tre accompagnatori. “Tim, Tom, voi sarete le guardie del corpo di Lilith, la seguirete ovunque quando uscirà dalla tenuta. La accompagnerete al villaggio per le sue passeggiate e per prendere i suoi libri senza perderla di vista e riferendo a me ogni cosa che le succede. Miss Thorpe, voi curerete la sua persona, le sue stanze e veglierete sul suo cibo e il suo sonno. E ora portate mia figlia in camera sua, la domestica vi farà strada”.

La donna che aveva portato la bambola fece cenno di seguirla e mentre lei fu costretta ad ubbidire e si allontanava con Tim, Tom e Miss Thorpe, vide suo padre trascinare via lo schiavo e gli altri schiavi rimanere fermi, immobili e in silenzio. Si sentì di voler piangere ma sapeva anche che non era signorile farlo. Non conosceva quel mondo e quello che le appariva cattivo, forse non lo era. Suo padre diceva che lo schiavo meritava delle frustate per il suo bene e lei doveva credergli. Questo era il compito di una brava ed educata figlia.

La domestica li condusse in casa, elegante, raffinata e dalle pareti bianche e candide. Mobili di pregio ovunque, quadri di valore alle pareti, una grande scala in legno e al primo piano, con un balcone che dava sul giardino e sul mare che si intravedeva in lontananza, una magnifica stanza per lei, piena di giochi e di ogni agio, con un grande letto a baldacchino. Ma non riusciva ad esserne contenta e si sentiva fuori posto e spaventata.

Mentre Miss Thorpe si affaccendava a disfare i bagagli che uno schiavo aveva portato nella stanza, Lilith si avvicinò alla finestra e lo vide... Di sotto, in giardino, c'erano suo padre e lo schiavo, legato a un albero, percosso da decine di violente frustate inferte senza pietà sulla sua schiena sanguinante e martoriata. Da suo padre...

I suoi occhi si riempirono d'orrore. Possibile che quello fosse fatto per far del bene? Sangue e urla erano fare del bene? La sua mano tremò, si sentì sola e spersa in un mondo non suo dove non conosceva nulla, suo padre gli apparve più simile ai racconti dei suoi nonni che a quelli lusinghieri dei suoi soci in affari e desiderò tornare a casa sua, a Belfast.

Improvvisamente la mano di Miss Thorpe le strinse il braccio. La donna tirò le tende e con uno strattone la allontanò dalla finestra e da quella visione orribile. “Non guardare!” - le intimò - “Quello non è uno spettacolo per te”.

Ma...”.

Ma la donna, di solito taciturna, parlò di nuovo. “Zitta e ascolta! Non guardare, qui è così che funziona”.

Voglio tornare a casa” - mormorò la piccola, ancora più confusa.

Questa ora è la tua casa”.

Non mi piace”.

La donna la prese per le spalle, scuotendola. “Zitta! Se tuo padre ti sentisse...”.

Ma lei non stette zitta. “I miei nonni dicevano che ha ucciso mia madre”.

ZITTA!”.

Lo sai? Tu sai se è così?”.

ZITTA!!!”.

Lilith, con uno strattone, si liberò dalla stretta. “Andiamo via! Con la prima nave, subito!”.

Miss Thorpe, pallida, la strinse a se. “Non è possibile”.

Cerca un modo! Con Tim e Tom. Cercalo o io urlerò come volevo urlare sulla nave. E dammi del LEI quando mi parli, non osare mai più prenderti tutta questa confidenza” - le comandò la ragazzina.

Ma Miss Thorpe non si fece schiacciare, anche se si accorse dell'errore commesso a causa dell'agitazione, nel rapportarsi con la sua padroncina. “Perdonatemi, la preoccupazione per voi...”.

Non importa. Cerca un modo o urlerò”.

Miss Thorpe scosse la testa. “Non lo farete”.

Come lo sai?”.

Lo so perché anche voi sapete bene che non potete farlo”.

Perché?”.

Sapete anche questo”.

Arrabbiata, frustrata e spaventata, Lilith prese la bambola donatale dal padre che era stata appoggiata sul letto e la scaraventò contro la parete. “Questo posto non mi piace”.

Miss Thorpe le si avvicinò, poggiandole dolcemente una mano sulla spalla. “Avrete dei libri però, almeno di questo dovete esserne contenta”.

Libri usati!”.

Sempre libri, però. E non era scontato che vostro padre vi accordasse il permesso”.

Lilith sospirò, mettendosi sul letto con la testa sotto il cuscino. Fuori non si sentiva più nulla, né il rumore delle frustate, né i lamenti dello schiavo. Forse suo padre aveva smesso di agire per il bene di quell'uomo... “Voglio stare sola” - disse infine, stancamente.

Miss Thorpe comprese. Le accarezzò i capelli, la salutò, uscì dalla porta e la lasciò coi suoi pensieri.

E Lilith, con gli occhi arrossati, si mise a pancia insù, guardando il soffitto di legno della stanza. Faceva così caldo... E aveva bisogno di una consolazione e una bambola non poteva dargliela. Poi si ricordò di qualcosa che forse avrebbe potuto sollevarle il morale, un qualcosa donatole da una donna sconosciuta dai capelli rossi, su una nave. Frugò nella tasca del suo vestitino di pizzo rosa, tirandone fuori il libricino ricevuto in dono poche ore prima di notte, sul pontile della nave, da una donna sola, incinta e gentile. Poesie sul mare... Lo sfogliò, lesse di mari meravigliosi che portavano le persone in posti fantastici. E fece finta di essere una di quelle persone...


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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Quando giunsero al villaggio, al posto delle baracche di legno del porto trovarono un dedalo di viuzze sterrate su cui sorgevano casupole diroccate per lo più, anche se decisamente più decorose di quelle viste durante lo sbarco. La natura rigogliosa dell'isola circondava il borgo anche lì, cercando spazi di fuga e di conquista fra le viuzze ma fino a quel momento pareva averla avuta vinta l'uomo.

Nonostante il borgo fosse piccolo, c'era un via vai incessante di gente rumorosa, piccole botteghe improvvisate, qualche negozio e, anche se non ci avrebbe giurato, aveva notato anche un bordello, probabile meta di ristoro per i pirati che approdavano sull'isola. Era tutto molto povero, all'apparenza improvvisato, in divenire forse, ma una cosa la colpì più di tutte: il rumore, la strana allegria di persone che parevano non avere nulla di valore ma che avevano tutte il sorriso sulle labbra come se fossero state in pace col mondo e non avessero altro da chiedere. E anche se Prudie aveva azzardato che tutta quella allegria doveva essere dovuta al rum che probabilmente scorreva a fiumi su tavole e locande, Demelza ipotizzava che forse era la mentalità del posto a spingere la gente a vivere con più leggerezza, senza troppe regole rigide da seguire e senza stare a badare eccessivamente all'etichetta e al moralismo. Era un mondo nuovo e forse il segreto era tutto lì, quella gente lo voleva costruire come pareva a loro!

Donne vestite di succinti abiti variopinti ma anche altre vestite da uomo, con pantaloni, stivali e comodi camicioni, rendevano chiassosa la via assieme a tanti piccoli monelli di strada che correvano ovunque e a viandanti, commercianti e pescatori che urlando, cercavano di vendere la propria merce.

"Mamma, allora non ci andiamo a vedere il pirata impiccato?" - insistette Jeremy mentre si avviavano all'ingresso della Chiesa.

Demelza sospirò, accarezzandogli i capelli. "No tesoro, sono sicura che possiamo fare a meno di questo triste spettacolo".

"Ma posso sbirciare in giro mentre tu chiedi informazioni al prete?".

"No. Oppure potrai farlo, guardato a vista da Prudie!".

Jeremy sbuffò, deluso. Sfuggire alla vista di sua madre e cercare di fregarla non era mai stato molto semplice...

Entrarono in Chiesa di soppiatto, era deserta a quell'ora del mattino. Era una Chiesetta spoglia, con semplici e grezze panche di legno, leggermente più grande di quella di Sawle ma senza vetrate di pregio o dipinti alle pareti. Tutto molto rustico, semplice, come la vita in quei posti, una Chiesa che sembrava gridare il messaggio originale di povertà su cui la religione che professava basava i suoi fondamenti.

Clowance si guardò in giro e improvvisamente il suo visino si illuminò. "Mamma, guarda! Una spinetta!".

Demelza si voltò e in un angolo nascosto, vicino all'altare, notò quello strumento musicale in tutto simile a quello che aveva abbandonato a malincuore a Nampara. Santo cielo, che ci faceva lì, in quella Chiesa tanto povera? Le venne una stretta al cuore, ricordò i tanti momenti passati con Ross mentre suonava e anche l'ultima volta che lo aveva fatto, dopo aver salvato i giovani minatori della Wheal Plenty, con Ned e tutti gli altri a casa sua. Aveva suonato e cantato per Ross quella sera e gli occhi di suo marito, pieni d'amore per lei, non l'avevano abbandonata un attimo. E si era sentita amata e felice in quel momento, l'amore di Ross era tutto ciò che aveva desiderato fin dal loro primo incontro e finalmente non c'erano ombre fra loro... Stava cantando per suo marito e facedolo si rese conto di quale abisso esistesse fra i sentimenti provati in quel momento e quelli più pacati e ingannevoli che aveva provato quando aveva cantato per Hugh spinta dal desiderio di essere amata come in una fiaba e di vivere un amore idealizzato. Ma da allora aveva capito e imparato tante cose. L'amore era quello provato quella sera mentre cantava con Ross e per Ross, l'amore vero è quello non perfetto ma che sa attraversare le tempeste, rischia di perdersi e spezzarsi e poi ne esce più forte di prima, l'amore vero è quell'amore che vivono due persone che si sono scelte una volta e soprattutto, si sono scelte di nuovo nonostante i rispettivi errori...

Eppure, da allora, tutto era cambiato e lei non se ne capacitava... Il perché, il quando, i sentimenti di Ross cambiati così repentinamente come se la morte di Ned si fosse portata nella tomba l'anima altruista e buona del suo uomo, lasciando al suo posto una persona fredda, impersonale, distante e senza scopo o morale, che lascia e tradisce la sua famiglia per...

Scosse la testa, non voleva pensare a Tess e a Ross! Non voleva o sarebbe impazzita e non poteva permetterselo!

"Mamma, suoni?" - chiese Clowance.

Le sorrise. "No amore mio, direi che non è il caso. Perché con Prudie, Garrick e tuo fratello non uscite fuori a fare due passi? Fa caldissimo qua dentro".

Prudie sospirò, prendendo i bimbi per mano. "Anche fuori, si frigge! E c'è pieno di zanzare, mi stanno prosciugando di tutto il mio prezioso sangue e anche io avrò a breve bisogno di rum per tornare a sorridere".

Jeremy e Clowance risero ma poi, forse annoiati, la seguirono senza fare storie.

E rimasta sola, come in tranche o spinta da antichi ricordi, Demelza sfiorò d'istinto un tasto della spinetta, facendone uscire un suono armonioso che riempì le mura della Chiesa.

Forse richiamato da quel suono, dalla canonica, un prete fece capolino. Era un uomo di mezza età coi capelli biondi, fisico magro e asciutto e dall'aspetto piacevole. Era un uomo gradevole e a Demelza venne da pensare che in gioventù doveva essere stato anche molto affascinante con quei suoi occhi magnetici, color del ghiaccio.

"Scusate, non volevo toccare" – si scusò.

Il prete le sorrise dolcemente, avvicinandosi. "Oh, non importa. La massima aspirazione di uno strumento musicale è quella di essere usato. E quella povera spinetta è quì a prendere polvere, senza che nessuno la sappia usare, da almeno due anni".

Demelza rispose al sorriso. "Se nessuno la sa usare, che ci fa quì?".

L'uomo accarezzò lo strumento musicale. "Me la regalò una famiglia di migranti, due anni fa. Erano diretti nelle Americhe e l'avevano portata con se dall'Inghilterra ma il viaggio si stava dimostrando troppo gravoso per loro, già pieni di figli e bagagli, quindi la donarono alla mia piccola Chiesa prima di ripartire. E da allora è quì, ad aspettare che qualcuno la riporti in vita".

"Capisco".

L'uomo la osservò, curioso. "Non vi ho mai vista, siete appena arrivata?".

"Sì, sono sbarcata con la mia domestica, i miei due figli e il mio cane poco fa".

"Oh, capisco... Di solito vado sempre a dare il benvenuto ai nuovi arrivati al porto, quando attracca una nave. Ma stamattina dovevo benedire un condannato a morte e quindi non ho potuto esserci...".

Demelza sospirò, pensando alla voglia di Jeremy di assistere all'impiccagione. "Il pirata? Al porto pubblicizzavano la sua esecuzione come se si trattasse di uno spettacolo".

Il prete rise. "Quì può sembrare tutto un pò assurdo sulle prime, ai nuovi arrivati. Dovrete abituarvi, non siamo in Inghilterra e da queste parti la gente non ha nulla e ogni cosa fuori dall'ordinario che succede, per queste persone è un evento".

Demelza spalancò gli occhi. "Lo condividete?".

"No, certo che no. Ma conosco questa gente, come vive e le difficoltà che incontrano sulla loro pelle... E nella mia posizione privilegiata, non sono in diritto di giudicare ma spero di saperli in parte guidare, quando vengono alle mie Messe".

Demelza sorrise, annuendo e trovandosi d'accordo con lui. Sembrava un brav'uomo, una persona saggia e aperta di idee e soprattutto, un esperto degli usi e consumi della Jamaica. "Potreste aiutarmi a trovare delle persone? Sono gli unici contatti che ho in questa terra e sicuramente voi siete quello che conosce gli abitanti di questo posto meglio di tutti".

"Chi state cercando?".

"Una giovane ragazza inglese bionda, Cecily Hanson. Dovrebbe essere arrivata quì lo scorso anno assieme a una donna di colore, Kitty Despard".

Il prete si accigliò, pensieroso. "La donna di colore non è una schiava, vero? Non mi sbaglio, giusto?".

Demelza sorrise tristemente ricordando il gruppo di schiavi visti in catene poco prima, chiedendosi se mai si sarebbe abituata a visioni del genere, tanto cruente e crudeli nella loro crudezza e spietatezza. Ma quanto meno, il prete forse sembrava conoscere chi stava cercando... "No. Fu liberata e poi divenne la moglie di un governatore inglese dell'Honduras".

"Sì, ho capito di chi parlate, le conosco". Gli occhi azzurri dell'uomo si fissarono su di lei, indagatori. "Posso chiedervi cosa vi porta quì, signora? Vostro marito è morto e siete in cerca di una nuova vita? Cosa vi lega a quelle due donne che cercate?".

Demelza capì che quelle domande, poste da un uomo guardingo che in quelle terre doveva aver visto di tutto, fossero più che legittime. Certo, non era semplice raccontare di se, ma aveva davanti un sacerdote che sembrava molto aperto di idee e sicuramente l'avrebbe ascoltata senza giudicare, se era vero quanto detto poco prima. "Mio marito è vivo, in Cornovaglia e probabilmente in questo momento è fra le braccia della sua giovane e intraprendente amante". Lo disse cercando di mantenere tutta la sua dignità, guardandolo negli occhi senza vergogna perché lei non sentiva di doverne provare, ma la voce le tremò. "Me ne sono andata per i miei figli, perché possano vivere sereni e senza provare il dolore che provo io in questo momento, perché abbiano una nuova possibilità in queste terre lontane. Kitty e Cecily sono amiche di famiglia e sono giunte quì con le mie stesse aspettative di una vita nuova dopo averne lasciata una difficile in Inghilterra. Non mi stanno aspettando ma so che sarò la benvenuta".

Rimasto in silenzio, il prete annuì. "Mi spiace per la faccenda di vostro marito, ovviamente. E ammiro il vostro coraggio, ce ne vuole molto per venire in queste terre tanto difficili... Quì non vige una vera e propria legge, è tutto in divenire, in costruzione, tutto in balìa di uomini, umori ed eventi mai uguali al giorno prima. Vige la legge del più forte e del più furbo, vige la consapevolezza che il fine ultimo della giornata è avere la pancia piena e un cuore che batte la sera, cosa non così scontata in queste terre popolate da briganti, pirati e soprattutto uomini potenti e senza scrupoli. E' una terra difficile dove crescere dei figli e ammiro il vostro coraggio nel tentare di farlo quì".

Demelza tremò. Che non sarebbe stato facile, lo aveva già capito. Ma le parole del prete le resero ancora più chiaro quanto fosse incerta la loro situazione. "Non ho avuto scelta".

"Cosa ve ne pare della Jamaica, signora?".

Demelza chiuse gli occhi, ripensando allo splendido mare che li aveva accolti. "I colori di queste terre, del mare, del cielo... Sembrano i colori del Paradiso" – rispose, cercando di non pensare alle brutture viste dopo lo sbarco.

L'uomo alzò un sopracciglio, sornione. "Oppure sono i colori sgargianti ed ingannevoli dell'inferno, non ci avete pensato?".

Fu costretta ad annuire, aveva colto nel segno. "Sì, ma di natura cerco di essere ottimista e di vedere il bello nelle cose".

"E l'ottimismo vi servirà. Ci sono persone gentili e solari, in queste terre. Sono quelle che hanno meno ma che sono pronte a tendere una mano a chi ha poco come loro. Poi ci sono i grandi signori delle piantagioni, persone che non hanno né morale né cuore. Dovrete imparare a rispettarli, dovrete imparare a non farveli nemici e a guardare altrove quando noterete che fanno cose che non vi piacciono. E DOVETE non farveli nemici, se volete vivere in pace".

"Uomini come Copper?" - chiese, di getto, ripensando alla bambina sulla nave e al marinaio al porto.

"Lo conoscete?".

"Ne ho sentito parlare".

Il prete divenne serio. "SOPRATTUTTO uomini come Copper. State attenta...".

Demelza strinse i pugni, mentre sentiva stranamente l'ombra di quell'uomo sconosciuto allungarsi su di lei per qualche ignoto motivo. "E gli schiavi?". Lo chiese in modo diretto, spinta dalla curiosità di sapere cosa avesse da dire quello strano e saggio prete.

Il sacerdote sospirò, allargando le braccia in segno di resa. "In questo mondo nuovo e senza regole, fanno parte dell'economia. Una piaga, certo... Ma al momento necessaria".

Demelza spalancò gli occhi. "Cosa? Approvate?".

"No, ovviamente. Ma non posso fare nulla, nessuno può fare nulla perché opporsi e farsi nemici i loro padroni, mi precluderebbe la possibilità di poterli aiutare quando ne ho l'occasione. Vivono vite dure, muoiono come mosche e per me è una pietà vederli... Ma fanno parte di questo mondo nuovo, come i pirati".

Demelza era sempre più sconcertata e ogni sua certezza pareva cadere davanti alle parole di quel prete. "E i pirati? Li approvate?".

L'uomo le pose gentilmente, in modo paterno, la mano sulla spalla. "Anche loro fanno parte di questo strano mondo che avete scelto per vivere. Li conosco, sapete? Canaglie, ma in fondo gente allegra che sa strapparti anche un sorriso e che soprattutto non ha l'ambizione di voler insegnare agli altri come vivere e di certo non ambisce a limitare la libertà altrui. A loro basta del buon rum, qualche battaglia in mare per stabilire chi sia il più forte e trovare oro da chi ne ha e da chi possono rubarne. Di certo noi poveri mortali non siamo nella loro lista, non dovete temerli... In fondo, fra un pirata e uno dei proprietari terrieri di questa isola, io scelgo i pirati. E tifo per i pirati, quando per qualche motivo si mettono a combattere con i mercanti di schiavi...".

Demelza ripensò alle parole del vecchio marinaio visto al porto, così simili a quelle di quel prete, rimanendone sconcertata. I pirati le erano sempre stati descritti come la feccia del mondo, criminali e ladri senza pietà, persone pericolose e in effetti dovevano esserlo, il prete non lo aveva smentito. Ma di certo in quell'angolo di mondo non erano i peggiori. Sospirò. "Ogni mia certezza negli ultimi mesi è caduta. In fondo credo che da quì in poi non dovrò stupirmi più di nulla ma anche se potrei abituarmi ai pirati, dubito che riuscirò mai a essere indifferente quando incontrerò uno schiavo. E' una cosa orribile quella che viene fatta a quelle persone. Privare qualcuno della sua libertà e trattarlo come...".

"Come una bestia?" - la interruppe il prete.

"Sì, come una bestia...". Demelza ripensò in quel momento a Ross, alle sue tante battaglie combattute per cause simili prima di Ned, prima di Tess, prima di abbracciare le tenebre... E si chiese cosa avrebbe pensato il vecchio Ross di quelle terre e di quelle persone. Di certo il suo Ross non sarebbe stato zitto, non sarebbe rimasto indifferente ma si sarebbe inimicato tutti i vari proprietari terrieri dell'isola per difendere le sue idee e i più deboli.

Il prete la prese alla sprovvista ancora una volta. "Non guardate alla schiavitù solo in negativo. Certe volte è una via di salvezza...".

"Cosa?" - chiese, inorridita.

Il prete le sorrise. "Lasciate che vi spieghi: il destino di questi schiavi non è la libertà, nessuno potrà darla loro, almeno in questo secolo e secondo me, anche oltre. Ma se il loro destino è essere schiavi e una persona sensibile come voi può sottrarne uno a gente come i signorotti dell'isola, allora dovreste prenderlo sotto alla vostra ala. Non avrà la libertà ma avrà una vita dal sapore più gentile e degna di essere vissuta. Capite cosa intendo?".

Demelza deglutì. Capiva il fine ma non giustificava il mezzo. "Non potrei mai farlo, anche se comprendo cosa volete dirmi, la mia coscienza me lo vieterebbe".

L'uomo divenne serio ed alzò il tono di voce. "La vostra coscienza, se vorrete vivere in Jamaica, andrà azzittita per forza e molto spesso. Pensate a cosa dico e meditateci su".

Esasperata e sentendosi come in trappola, Demelza trovò una scappatoia a quella discussione che stava diventando difficile. "Anche volendo darvi retta, ho a malapena i soldi per il cibo per i miei figli. E ne aspetto un terzo...".

L'uomo le guardò il ventre. "Lo vedo... Sapete come mantenervi quì?".

"No, non ancora. Qualcosa mi inventerò".

L'uomo le sorrise, più affabilmente. "Non servono molti soldi quì, la natura è ricca e rigogliosa e da frutti e pesce in abbondanza. Non si diventa grassi ma non si muore di fame. Per il resto, se saprete sfruttare i doni di alberi, piante e mare, potrete preparare vivande per le navi in partenza, marinai e pirati pagano bene il cibo che le donne del porto preparano per i loro viaggi. Per questo vi ho detto che i naviganti, QUALSIASI tipo di naviganti, sono importanti per l'economia di questo posto. E per il resto...".

L'uomo si bloccò pensieroso e Demelza si sentì sotto osservazione. "Per il resto?".

Il prete si avvicinò alla spinetta. "Non posso pagarvi che qualche moneta, ho la Chiesa e l'orfanotrofio da gestire e di bambini da sfamare ne abbiamo molti, ma se voi poteste venire a suonare per i fedeli la spinetta durante le funzioni, sareste ricompensata oltre che con la mia gratitudine, anche con qualche piccolo incentivo. Non vi farà ricca ma assieme al resto, renderà meno grama la vostra vita e vi permetterà di provvedere meglio alle piccole necessità dei vostri figli. E inoltre, in questa isola dove si ama cantare e ballare, forse il suono della spinetta farà accorrere più fedeli e le offerte per la Chiesa aumenterebbero. Ci state, signora...? Non mi avete ancora detto il vostro nome!" - notò improvvisamente, arrossendo.

"E voi non mi avete detto il vostro" – rispose lei, a tono.

"Sono Padre Colin, ero un piccolo prete nel nord dell'Inghilterra ma ho capito che una vita spesa in queste terre ancora tanto inospitali poteva avvicinarmi di più a Dio che quella più comoda vicino a casa mia".

Demelza gli strinse la mano. "E io sono Demelza Poldark, originaria della Cornovaglia, mamma di Jeremy, Clowance e...". Si bloccò, sfiorandosi il ventre. Avrebbe potuto e voluto dire che era anche la madre di Bella ma ancora una volta non riuscì ad usare quel nomignolo affettuoso per sua figlia. "Lei sarà Isabella-Rose. E accetto volentieri la vostra offerta di suonare la spinetta. Sono disperata, senza soldi e senza aspettative. Ogni aiuto offerto per me è ben accetto".

Il prete sorrise, soddisfatto quanto lei. "E allora vi aspetto domenica. Ma ora su, andate dalle vostre amiche Kitty e Cecily".

"Non mi avete ancora detto dove trovarle" – fece notare lei.

L'uomo si sedette su una panca. "Non vivono al villaggio ma fuori, in una zona qua vicino ma isolata. Le conosco, la ragazza è una persona combattiva e di carattere, buona e gentile quanto voi d'animo. E la donna di colore è una persona combattiva, libera e sempre indaffarata. Ma la sua condizione di donna libera, tanto inusuale per chi ha il colore di pelle tanto scuro, non si adattava alla vita al villaggio dove sarebbe stata mal vista da tutti e dove sarebbe stata vittima di angherie dai potenti che non potevano assoggettarla... Tornate a ritroso verso il porto dove avete attraccato, oltrepassatelo ed arrivate alla spiaggia. Camminate per un centinaio di metri e dove la sabbia bianca lascia il posto alla foresta tropicale, troverete delle piccole casupole in legno. Sono rifugi abbandonati da pirati, disabitate. Tranne una ben visibile dalla spiaggia, che Kitty e Cecily hanno sistemato e che ora è diventata la loro piccola casa. Vivono lì, assieme al bimbo avuto dalla signora Despard alcuni mesi fa. Le vedo la domenica per le funzioni e a volte la giovane Cecily viene quì al villaggio durante la settimana per comprare cibo".

Il viso di Demelza si illuminò. Ma allora Kitty ci era riuscita!!! Era diventata madre e la gioia per lei che tanto aveva sofferto, era mitigata solo dal dolore per Ned che non avrebbe potuto conoscere suo figlio. "Grazie, grazie di tutto padre Colin" – disse al prete, con voce spezzata dall'emozione.

"Grazie a voi" – rispose l'uomo. "E ora andate e recuperate i vostri cari, ripensate alle tante parole che ci siamo detti e siate puntuale questa domenica. Vi aspetto".

"Lo farò" – rispose Demelza, col cuore ancora pieno di dubbi ma decisamente più leggero. Forse il primo passettino della sua nuova vita in Jamaica era stato compiuto e anche se non capiva o concepiva tante delle cose che padre Colin le aveva detto, si sentiva decisamente più ottimista per quella nuova vita, rispetto a poche ore prima.

E felice di essere arrivata fino a quella Chiesa, corse fuori a recuperare i suoi figli, Prudie e il suo cane, con la consapevolezza che la sua nuova vita stava per iniziare e che doveva essere fiera di se stessa e del coraggio dimostrato arrivando fin lì. Gliene sarebbe servito molto altro di coraggio ma in quel momento capì che doveva fare un piccolo passettino alla volta.

Quando uscì fuori udì un gran trambusto per le vie e notò Prudie e i bambini seduti sul gradino della Chiesa, con Garrick, che si guardavano attorno per cercare di capire cosa stesse succedendo.

Padre Colin uscì, attirato da quel baccano. E rise...

"Che succede?" - chiese Demelza.

L'uomo indicò la piazza che doveva trovarsi oltre quel dedalo di casupole e vicoli. "Sono arrivati i pirati, li aspettavo! E hanno fatto scappare l'uomo che era stato condannato! In barba alle guardie e alle nostre vecchie leggi della cara, antica Inghilterra".

E ridacchiando come se fosse soddisfatto della cosa, per nulla stupito per l'accaduto, entrò di nuovo in Chiesa lasciando Demelza e gli altri stupiti, interdetti e ancora più consapevoli che quel mondo era totalmente diverso da quello da cui provenivano.

Ma a Demelza venne da sorridere, anche se si trattava di un pirata... Che posto bizzarro quella Jamaica!

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci ***


"Mamma, mamma sembra farina!!!".

Demelza, arrancando assieme a Prudie dietro ai suoi figli che, con Garrick, correvano in quella spiaggia dalla sabbia bianca come neve e morbida come un tappeto di velluto, sorrise. I bambini sembravano apparentemente felici ed eccitati e questo la faceva sentire bene anche se non si illudeva che non combattessero con il demone dell'abbandono del loro padre. Sicuramente ci pensavano, ci rimuginavano e presto sarebbero dovuti scendere a patti con quella loro nuova vita senza di lui, sarebbe arrivata la crisi e forse di Ross ne parlavano anche di nascosto da lei per non preoccuparla, ma in quel momento erano eccitati da quel mondo nuovo che li circondava, non avvertivano come lei la paura dell'ignoto e la grande bellezza che sembrava emanare da ogni palmo di quell'isola era sufficiente a renderli entusiasti e contenti.

Si guardò attorno, sembrava davvero di essere nell'Eden. Lasciati alle spalle il villaggio e il porto, erano giunti in un luogo disabitato in cui la facevano da padroni una immensa spiaggia bianca delimitata da una infinita foresta tropicale che probabilmente ricopriva tutta la parte interna dell'isola. Piante di cui non conosceva né i nomi né i frutti, un cielo azzurro cobalto sopra di loro, nelle narici i profumi della natura e del mare che si fondevano e mischiavano. E quell'acqua trasparente, quel mare dai colori che andavano dall'azzurro al verde smeraldo e quella miriade di pesci che si vedevano nuotare in essa come se fossero i padroni di quell'oceano, le davano l'esatta idea della distanza da casa. Anche il mare della Cornovaglia era bello ma non aveva quei colori e nelle sue acque non pullulava tutta quella vita... Si chiese se fosse sempre così in Jamaica, terra di sole perenne e di mare azzurro e cristallino. O se il tempo a volte diventasse implacabile e furioso come quelle terre ancora selvagge... E se il mare a volte fosse in tempesta e cambiasse i suoi colori diventando nero e plumbeo. Santo cielo, non conosceva nulla di quei luoghi e doveva imparare in fretta per il suo bene e per quello dei suoi figli.

"Ci saremmo dovute fermare a bere del rum prima di questa camminata, avremmo affrontato meglio questo caldo orribile" – borbottò Prudie sprofondando nella sabbia.

Demelza lo adocchiò di traverso. "Prudie, in fondo quì in spiaggia c'è una bella arietta, non fa caldo come al villaggio. E non abbiamo denaro da buttare in rum".

"Ma il prete mica ti ha dato un lavoro, ragazza?".

"Suonerò alla Messa la spinetta, non guadagnerò che qualche monetina. E non voglio pretendere nulla di più, quell'uomo si fa in quattro per la sua piccola Chiesa, per chi ha bisogno e per i bambini del suo orfanotrofio".

Prudie si imbronciò. "Sì certo, ma in questa terra di rum, sarebbe un delitto non provarne un goccettino...".

Demelza rise, a dispetto di tutto. "Succederà, te lo prometto. Vivremo quì dopo tutto e dobbiamo adeguarci alle abitudini del posto. In Cornovaglia avevamo il Porto, quì capiterà di bere rum". In realtà non ne era molto convinta, non riusciva ad immaginarsi ubriaca a bere alcolici con qualche strambo pirata in riva al mare, ma non se la sentiva di spezzare le speranze della povera Prudie che l'aveva fedelmente seguita fin lì.

La povera donna si guardò attorno, stanca. Non era abituata né a camminare né a faticare e quella passeggiata sotto il sole cocente la stava uccidendo. "Dove abiteranno le signore? Quì non c'è nulla a parte uccelli colorati che ci svolazzano in testa, sabbia, mare e strane piante".

"Padre Colin ha detto che non è lontano e che dalla spiaggia vedremo le piccole costruzioni che danno sul mare. Sono una manciata di baracche, le dovremmo trovare subito e non dovrebbe mancare molto".

"Mamma!". Clowance tornò indietro di corsa interrompendole, per nulla stanca rispetto a Prudie. La sua carnagione chiara stava già abbronzandosi e i suoi capelli biondi invece sotto quel sole stavano schiarendosi. Sembrava una piccola e bellissima principessa, pensò orgogliosa Demelza...

"Dimmi!".

La bimba, giunta davanti a lei, le indicò un punto imprecisato della spiaggia. "Ci sono, la davanti! Le casette di legno!".

"Dio sia lodato!" - esclamò Prudie guardando al cielo.

Clowance rise, poi si voltò e con Garrick corse di nuovo avanti per raggiungere suo fratello. Sembravano così eccitati, pensò Demelza con sollievo... Poi però si chiese come Kitty e Cecily avrebbero preso il loro arrivo, la difficoltà che avrebbe dovuto vivere nel raccontare loro cosa li avesse portati in Jamaica e soprattutto, il mettersi a nudo davanti a donne che come lei una volta, consideravano Ross un eroe. L'avrebbero giudicata? O avrebbero provato pena per lei?

Ma poi pensò a Kitty e a quanto aveva vissuto, ai patti con la vita a cui era dovuta arrivare Cecily e capì che non l'avrebbero giudicata ma al contrario, le avrebbero teso una mano aiutandola a ricominciare da zero, come loro.

Persa in quei pensieri, sollevò lo sguardo nella direzione in cui erano corsi i suoi figli. Il sole era caldo e alto nel cielo, una leggera brezza le muoveva i capelli e il mare, sotto la luce del mezzogiorno, sembrava ancora più azzurro e trasparente. Era circondata dalla bellezza e dalla grandiosità della natura, non poteva essere depressa, non doveva! Si era sempre soffermata sulle cose belle nei suoi momenti bui e anche se la Jamaica era sicuramente una terra piena di ombre, aveva in se anche tante cose meravigliose che potevano farla sorridere. E si sforzò di farlo, pensando a quel mare e a padre Colin e alle tante scoperte che lì avrebbe fatto.

Osservando il paesaggio, vide i suoi figli tornare verso di loro. E non erano soli, stavolta.

Prudie la osservò. "Sono...?".

Demelza sorrise, il suo viso si illuminò e fu come se un grosso peso si fosse tolto dalle sue spalle. "Sono Kitty e Cecily!" - esclamò, osservando le due donne che, con indosso dei semplici abiti smanicati, assieme ai suoi bambini venivano verso di loro.

Jeremy le corse vicino. "Mamma, mamma le abbiamo trovate!" - esclamò eccitato mentre le donne, con Clowance, le si avvicinavano con espressione sorpresa.

Cecily, coi capelli legati in una semplice coda di cavallo, con abiti sbarazzini e la pelle abbronzata, abbozzò un sorpreso sorriso mentre Kitty, con in braccio un piccolo fagottino, la abbracciò e basta, senza chiedere nulla. "Non so cosa ti porti quì Demelza Poldark e di certo mi è venuto un colpo e ho pensato di essere ammattita quando ho visto i tuoi figli comparire davanti alla mia capanna! Ma benvenuta!".

"Benvenuta" – aggiunse Cecily, decisamente a corto di parole ma pronta a supportare Kitty in quel semplice e caldo benvenuto.

Demelza si rannicchiò fra le braccia della signora Despard e per un attimo tremò forte, non sapeva se per la stanchezza o se per il sollievo di aver raggiunto la sua meta e di non essere quindi più sola e dispersa in quell'angolo sconosciuto di mondo. Kitty rispose all'abbraccio e capì che qualcosa di grave doveva essere successo se loro si trovavano lì. Le accarezzò dolcemente il braccio, le diede un buffetto sulla guancia e le sorrise. "Su, quì c'è troppo sole per una pelle chiara come la vostra. Venite, andiamo nella nostra casa per salutarci come si deve e raccontarci cosa vi porta quì".

Prudie non se lo fece ripetere e a grandi passi, veloce come non aveva mai camminato, avanzò nella sabbia. I bimbi con Garrick le corsero dietro e Demelza, attorniata da Cecily e Kitty, andò loro dietro. "Grazie..." - disse solo.


...


Demelza non si era mai resa conto, da quando era partita e aveva lasciato Dwight e Caroline, di quanto avesse bisogno di parlare, raccontare, sfogarsi... Aveva viaggiato per due lunghi mesi in nave cercando di mostrarsi forte e fiduciosa per non turbare i suoi figli, aveva nascosto i suoi sentimenti più intimi perché non voleva vedessero la luce e la spezzassero, era dovuta venire a patti con realtà che non riusciva ad accettare e si era illusa di aver superato la parte peggiore della tempesta.

Già, illusa, appunto... Perché era bastato uno sguardo preoccupato di Kitty, un suo abbraccio, la vista del suo bambino e la fatidica domanda 'Cos'è successo?' perché scoppiasse a piangere.

Kitty e Cecily li avevano accompagnati fino alla loro casetta a ridosso della spiaggia, una piccola e graziosa costruzione in legno con alle spalle la foresta e davanti la sabbia bianca che diradava verso il mare. Un posto lontano dal chiasso del villaggio e dal porto, circondato da pace e natura e allo stesso tempo vicino ai servizi e alla civiltà offerti dall'isola. Era una casupola piccola, modesta, di sole due stanze, un piccolo braciere all'esterno testimoniava che le donne cucinavano fuori mentre dentro una camera fungeva da spazio per la notte e l'altra era una specie di improvvisato salottino con un vecchio divano, un armadio, un baule e un tavolaccio. Eppure seppur rustico, quel posto tanto spartano infuse a Demelza uno strano senso di pace come se un ambiente del genere, nella sua semplicità, fosse tutto ciò di cui lei aveva bisogno per tirare avanti.

Cecily aveva capito che qualcosa di grave era successo e di certo poi avrebbe chiesto spiegazioni a Kitty, ma sul momento decise di dar pace a Demelza allontanando i figli perché lei potesse raccontare tutto senza remore, di trasformarsi in compagna di giochi dei bambini e, dopo aver promesso loro una grande avventura e un giretto di esplorazione della foresta e della baia, si era allontanata con i piccoli e con Garrick.

Prudie si era sdraiata su una stuoia e dopo infiniti borbottìì era caduta in un sonno profondo e così Demelza era rimasta sola con Kitty e col piccolo James che, con sguardo pacioso e biricchino, osservava dalle braccia della madre la nuova arrivata muovendo gambette e braccia per attirare l'attenzione. Era un bimbo delizioso e fisicamente tanto diverso da quelli che Demelza aveva conosciuto fino a quel momento... Aveva la carnagione di un colorito non scuro come quello della madre ma nemmeno chiaro come quello di Ned, era piuttosto una via di mezzo. Ma gli occhi, gli occhi erano azzurri e trasparenti come quelli di suo padre e assieme al colorito ambrato della sua pelle, ne facevano un bambino meraviglioso, un bellissimo riassunto di ciò che erano i suoi genitori, pensò Demelza, chiedendosi come sarebbe stata la sua di bambina e se l'eventuale somiglianza con Ross non avrebbe finito col rendere tutto ancora più difficile.

Aveva parlato a lungo con Kitty mentre i bambini e Cecily erano in giro, raccontandole cosa fosse successo, cosa ci facesse lì e il grande dolore che l'aveva spinta a partire e a cercare una nuova vita. Kitty era rimasta in silenzio, non aveva fatto domande, non aveva cercato spiegazioni inutili a quanto successo con Ross, non aveva cercato giustificazioni ma si era limitata a guardarla con comprensione e stima. "E' quasi impossibile da credere, Ned aveva una così alta opinione di lui. E anche io..." - si limitò a dire, in un soffio, al termine di quella lunga chiacchierata durata ore, ininterrottamente.

Demelza osservò il cielo. Si era fatto pomeriggio inoltrato senza che se ne accorgesse e il mare e il cielo parevano fondersi in colori caldi che andavano dal rosso fuoco all'arancione. Era uno spettacolo da lasciar senza fiato per la sua bellezza. "Eppure è così. Anche se pure io fatico a crederci che sia successo davvero. Ma dalla morte di Ned, è come se Ross avesse perso se stesso e la sua anima. E mi ha fatto chiaramente capire che non sarebbe tornato sui suoi passi".

Kitty osservò il suo ventre gonfio. "E il bambino? Nemmeno per lui ha voluto tentare?".

Demelza sentì gli occhi pungerle. "Non credo che sia un suo interesse, questo bambino. E onestamente forse non è un interesse nemmeno mio, la differenza è che Ross può scappare dalle sue responsabilità, io no".

Kitty la abbracciò, accarezzandole la schiana. "Non dire così mia cara, sei una madre meravigliosa e lo sarai anche per questo piccolo. Sei solo ferita, stanca e spezzata ma sono certa che sarà una grande storia d'amore la vostra, come lo è per me e James. E' ironico che l'unica gravidanza che sono riuscita a portare a termine sia arrivata in contemporanea alla morte di Ned che tanto avrebbe desiderato questo bambino, ma anche se mio marito non c'è più, io vivo mio figlio come un grande dono e me ne prendo cura anche per lui. Come farai tu, in ricordo di un amore che è stato grandissimo e che anche se ora non è quì, ti ha lasciato una grande testimonianza di ciò che è stato".

Demelza ispirò profondamente per non piangere. Sperava che sarebbe stato come diceva Kitty, lo sperava di cuore. Ma per ora si sentiva solo circondata da una grande voragine nera che la rendeva impermeabile a ogni sentimento materno. Osservò il piccolo James, forse sarebbe stato un amichetto di Isabella-Rose e avrebbero giocato insieme... Avrebbe avuto tanti amichetti e tanto affetto da tutti sua figlia, forse anche il suo un giorno, il giorno in cui sarebbe tornata a sentirsi forte. "Ti ringrazio per averci accolte quì. Ma non vogliamo disturbarti troppo, io, Prudie e i bambini ci metteremo da domani a cercare una casetta come questa per noi".

Kitty le prese le mani. "Non avere fretta, quì viviamo in maniera spartana ma semplice e felice. Sei incinta e se ci faremo un pò stretti, ci staremo bene in questa casetta. Tu devi riposare".

No, non era d'accordo. "Voglio essere indipendente. Ho un pò di denaro portato da casa e padre Colin mi ha offerto un piccolo lavoro, come ti ho detto. Voglio farcela da sola".

Kitty le sorrise dolcemente. "Tu e Ross avete aperto le porte della vostra casa per me e Ned, avete corso tanti pericoli e mi sento anche responsabile per quanto ti è successo e ti ha portata quì. Non devi sentirti un peso, per me sei una preziosa amica e ospite. Io e Cecily viviamo libere, ridiamo, scherziamo, non ci poniamo limiti, orari o regole, viviamo in pace con la natura e con l'isola, godendoci il mare, preparando marmellate con la frutta del posto che vendiamo poi alle navi merci che le smistano o in Europa o nel nuovo mondo e in tutto questo puoi inserirti anche tu, darci una mano e soprattutto, vivere insieme come una strana ma grande famiglia".

Demelza rispose al sorriso. "Lo farò, vi aiuterò, farò parte della vostra famiglia e della vostra squadra. Ma ho visto un'altra baracca, a pochi metri da questa" – disse, indicando una casetta di legno malmessa ma in tutto simile a quella di Kitty, che si intravedeva fra gli alberi a una ventina di metri da lì – "E credo che essere vicine di casa sarebbe meglio che tutti quì insieme, affollati. Tu hai un bambino piccolo, io ne ho due vivaci e una domestica. Saremmo a pochi passi, casa mia sarà la vostra e viceversa e se quella baracca è abbandonata, posso renderla la mia casa come voi avete fatto con questa".

Kitty le accarezzò le mani. "Se è questo che vuoi, ti aiuteremo. Ma non oggi, non stanotte. Stanotte sarete nostri ospiti e se quando Jeremy torna e ne ha voglia, può cercare di pescare qualcosa con Cecily per la cena di stasera. Quì pesce e frutta non mancano mai, questa è un'isola generosa con chi la abita, almeno per quanto riguarda il cibo".

"Credo che Jeremy ne sarà felicissimo, si è già proposto come pescatore ufficiale della famiglia fin dal viaggio in nave".

Kitty rise, battendo le mani e sollevando allegramente James. "Visto, saremo una grande famiglia e ognuno contrinuirà a rendere più facile e semplice la vita degli altri. E il vostro arrivo è un gradito dono per noi, anche se ovviamente capisco quanto tu avresti voluto essere a casa tua, adesso. Ma dalla vita dobbiamo imparare ad apprezzare il meglio che ci da in ogni occasione e quindi, partiamo da questo concetto e andiamo avanti insieme!".

Demelza annuì, voltandosi verso Prudie che continuava a dormire dalla grossa. Poi si stiracchiò, desiderosa di sgranchirsi le gambe. "Ti andrebbe di fare due passi sul bagnasciuga? E' da quando sono arrivata che sogno di bagnarmi i piedi in questa splendida acqua?".

"Con piacere" – rispose Kitty, prendendola sottobraccio con la mano libera da James.

"E i bambini e Cecily?" - chiese Demelza, osservando che non erano ancora tornati.

"Tranquilla, Cecily conosce bene la foresta e le baie, si staranno divertendo un sacco e torneranno entusiasti e felici dopo ore passate ad esplorare e giocare. E' una ragazza d'oro e coi bambini è meravigliosa. Vero James?" - chiese al piccolo.

Il bimbo rise fra le sue braccia e Demelza si unì a lui. "Vero, meravigliosa. E' incredibile come la figlia di un uomo tanto orribile, sia uscita tanto splendida. Geoffrey Charles la adorava, credo non la dimenticherà mai".

Kitty annuì. "Ha tutta la vita davanti. La hanno entrambi e troveranno e vivranno amori più adulti, ne sono certa. E di loro, in entrambi, resterà un dolce ricordo".

Demelza si trovò d'accordo con lei mentre si avviava a piedi nudi verso il mare. Se persino Ross era riuscito a lasciare indietro il ricordo di Elizabeth, di certo ce l'avrebbero fatta Geoffrey Charles e Cecily. I primi amori ti sconvolgono ma poi si va oltre, si cresce, si guarda lontano e si vivono amori più adulti e completi. Di questo era certa e questo augurava a quei due giovani.

La sabbia era sofficissima sotto i suoi piedi, farina appunto, come avevano detto i suoi bambini poco prima. Accanto a lei, fra le braccia di sua madre, il vivacissimo James gorgogliava contento tentanto di afferrare con le manine i suoi lunghi capelli rossi che forse dovevano apparirgli strani. Aveva espressioni del viso buffe, le guance tonde e sane e un modo di fare irresistibilmente simpatico. Ned lo avrebbe adorato e forse per amor suo avrebbe sotterrato almeno un pò il suo animo bellicoso per dedicarsi solo al benessere della sua famiglia... Forse... Ma coi forse non si fa la storia e questo valeva per Ned ma anche per lei. Forse avrebbe avuto ancora Ross se non avesse portato Tess a casa loro, ma forse se non era con Tess, l'avrebbe perso a causa di un'altra donna. Ci era già passata, no? Elizabeth quasi glielo aveva portato via e Ross l'aveva lasciata fare, allora. Se un uomo ti tradisce una volta, non è detto che non lo faccia ancora. O forse lei stessa avrebbe vacillato ancora, se un altro Hugh fosse arrivato all'orizzonte. Dubitava fortemente di cedere di nuovo a un altro uomo, non era nata per questo e tutto ciò che aveva sempre sognato era essere la moglie di Ross e avere il suo amore, ma Hugh prima e quanto successo in quei mesi poi, avevano minato ogni sua certezza negli altri, ma soprattutto in se stessa.

I piedi sfiorarono l'acqua, era squisitamente tiepida. Il cielo stava scurendosi, i gabbiani sembravano spariti in qualche rifugio per la notte e il calmo via vai delle onde che si infrangevano sulla battiglia sembrava una dolce ninna-nanna in quella immensa spiaggia deserta e tutta loro.

"Ti piace la Jamaica?" - chiese improvvisamente Kitty, al suo fianco.

Demelza sospirò, accarezzandosi il ventre. "Sono arrivata solo stamattina, non so ancora dirlo. Per certi versi mi sembra un posto simile al Paradiso. Ma per altri...".

"Per altri?".

Si adombrò, pensando alle tante stonature che aveva, se non visto, captato. "Ci sono molte ombre, oscure. Ho visto degli schiavi appena scesa dalla nave. Ed è una visione a cui non riuscirò mai ad abituarmi e so che questa isola ne è piena. Così come di pirati, che però mi sembrano ben accetti dalla popolazione ma di cui non posso avere una buona visione, visto quanto si dice sul loro conto. Ed esecuzioni in piazza, monelli che cercano monete con ogni mezzo, smaliziati come piccoli adulti...".

Kitty le strinse il braccio. "Hai ragione, ci sono molte ombre nascoste fra queste rigogliose piante e questo splendido mare. La foresta, meravigliosa e rigogliosa e anche impenetrabile in alcune sue parti, è piena di uomini messi in catene da altri uomini. Persone senza libertà nemmeno di respirare, se i loro padroni non lo ritengono più necessario... Persone che lavorano come bestie, senza requie o diritto alcuno, oggetti, nulla più che oggetti per i loro padroni. Io ero una di loro una volta e solo grazie a Ned sono una donna libera, adesso, con i mezzi anche per comprare della terra. Ma una donna col colore scuro della pelle, libera, è qualcosa a cui questa gente non è pronta. E per questo, per vivere in pace, ho scelto di vivere lontana dal villaggio. Io non disturbo gli altri, gli altri non disturbano me e così sto lontana da guai e problemi. Vado al villaggio solo se necessario e per il resto rimango quì, a crescere mio figlio senza attirare attenzioni sgradite su di noi. I pirati invece... beh, fanno parte dell'economia dell'isola. Le guardie dan loro la caccia ma gli abitanti del posto li proteggono. I pirati portano denaro, ricchezza e danno commercio... E non si danno troppe preoccupazioni sul colore della pelle del loro interlocutore, a loro basta solo fare buoni affari. Tutto il resto invece, monelli per strada, case del piacere, caos e strani modi di vivere, fanno tutti parte di questo mondo nuovo che sta nascendo solo ora e che ancora deve trovare le sue regole. Ti ci abituerai, ne sono certa".

Demelza fece per risponderle quando si bloccò. Una strana nenia, una sommessa melodia cantata in una lingua che le era sconosciuta e che sembrava provenire dalla foresta, raggiunse le sue orecchie, dandole un brivido alla schiena. Era una musica a suo modo ritmica ma così incredibilmente triste... "Che cos'è?" - chiese a Kitty.

La donna si voltò verso la foresta con un sorriso triste sul viso. "Sono gli schiavi che lavorano nelle piantagioni per i grandi signori dell'isola. Quando il sole tramonta e la loro dura giornata arriva al termine, cantano nella loro lingua natia e la loro voce giunge sin quì portata dal vento".

"Cosa cantano?".

"Della loro terra, del desiderio di tornarci, di libertà, di abitudini e famiglie lasciate indietro... Non conosco la loro lingua, ma immagino che i loro inni riguardino tutto questo".

Gli occhi di Demelza divennero lucidi mentre immaginava quegli schiavi arrivati lì in quell'angolo sconosciuto di mondo portati per forza, contro la loro volontà, condotti a un destino duro e senza speranza. Uomini, donne e bambini ridotti in schiavitù da altre persone che si credevano superiori a loro e ne diventavano i carnefici. E si trovò a pensare che le sarebbe piaciuto tanto sapere le parole di quella loro canzone per conoscerli meglio, capirli e comprendere una parte di mondo a lei sconosciuta. "Un giorno finirà tutto questo, Kitty?" - chiese, ripensando alle parole di Padre Colin di quella mattina.

La donna, il cui sguardo si perse nel mare mentre stringeva a se suo figlio, sospirò. "Sì. Ma quel giorno temo sia ancora molto lontano".


...


Il mondo era diventato un posto buio, oscuro e senza nessuna attrattiva per Ross Poldark. Così come la sua casa, Nampara, tornata improvvisamente ad essere solitaria e fredda come lo era stata al suo ritorno dall'America, tanti anni prima, quando si era ritrovato senza nessuno ad aspettarlo, con una fidanzata che gli aveva voltato le spalle per suo cugino e nessuna prospettiva per il futuro. Si sentiva come allora, sperso e senza speranza, arrabbiato con il mondo e incapace di racciuffare fra le mani quanto aveva di più caro nella vita.

Per Londra e per le poche persone che conoscevano le sue gesta coi francesi era un eroe ma per i suoi amici e per la sua famiglia una delusione, uno scarto da tenere alla larga.

Dwight era diventato introvabile e nemmeno Caroline si era più fatta vedere in giro, alla miniera lo trattavano con rispetto ma comprendevano che qualcosa di grave era successo e che la sua famiglia non era più al suo fianco e la partenza di George, improvvisato amico dell'ultimo minuto e unico testimone di quanto successo, lo avevano fatto sentire ancora più solo.

Santo cielo, se sentiva la mancanza di George, aveva proprio toccato il fondo!

L'unico suo interesse era la miniera, la ragione di vita dei suoi uomini e l'eredità per i suoi bambini, se mai fossero tornati... Ma lo avrebbero fatto? E Demelza, la sua Demelza scappata lontano pensando che la stesse tradendo di nuovo, lei sarebbe tornata per delle spiegazioni? O aveva rinunciato a lottare? In fondo perché combattere per un uomo che già l'aveva tradita e che quindi, ai suoi occhi ora, non ci avrebbe messo nulla a tradirla ancora? Come poteva dirle che mai, MAI avrebbe fatto qualcosa del genere? Come poteva dirle che aveva sbagliato una volta e che si sarebbe fatto uccidere pur di non commettere nuovamente quell'errore? Come poteva chiedere al destino una nuova occasione con lei per urlarle che la amava, che era stata la salvezza della sua vita e che nulla per lui aveva senso senza di lei al suo fianco?

Rimuginava su questo e tante cose, Ross, nelle serate fredde e solitarie di Nampara, davanti a quel camino testimone di tanti momenti dolci, risate e di tante chiacchierate con sua moglie e i suoi figli. Ora loro non c'erano più e l'unico suo compagno era un bicchiere pieno di vino quando andava bene o di liquori se aveva voglia di stordirsi per non pensare... Era una vita miserabile all'interno di un mondo grande dove trovare i suoi cari poteva essere pressocché impossibile senza l'aiuto di Dwight. Era sicuro che lui sapesse dove si trovassero Demelza e i bambini ma era altrettanto certo che non avrebbe aperto bocca se pensava di dover proteggere sua moglie. Proteggerla... Santo cielo, lui amava Demelza ed era suo compito proteggerla, non di Dwight! Ed era quello che, forse sbagliando, aveva sempre cercato di fare dall'inizio. E nessuno gli avrebbe creduto!

Eppure non poteva stare con le mani in mano a piangersi addosso, lo sapeva bene anche lui e non era tipo da farlo troppo a lungo... Si era annullato e crogiolato troppo a lungo nel dolore e nell'alcol, in quelle settimane disperate si era distrutto a furia di ingurgitare alcolici, in un impeto d'ira aveva fatto a pezzi la culla che aveva riverniciato e l'aveva gettata nel camino per poi pentirsene subito dopo, ma ora basta. Non poteva comportarsi così, non poteva farlo, non doveva lasciarsi morire finché non avesse ritrovato sani e salvi i suoi cari.

E con questo pensiero era tornato a Londra, dopo lunghe settimane di silenzio e solitudine, deciso ad abbracciare forse l'unica strada che potesse aiutarlo a rimettere ordine nella sua vita o quanto meno a dargli uno scopo.

Quando irruppe nello studio, Wichman stava sistemando alcuni incartamenti e il suo sguardo parve sorpreso ma non turbato, quando lo vide, come se si aspettasse questa visita prima o poi. "Poldark?

Con sguardo torvo, scuro, senza il minimo accenno a qualche emozione, Ross si avvicinò alla scrivania e vi poggiò i pugni con forza. "Quel lavoro di spia per il Governo inglese è ancora disponibile?".

Wichman lo guardò coi suoi occhietti furbi. "Potrebbe..." - rispose, sibillino.

Ross annuì, senza il minimo tentennamento. "Accetto l'incarico".


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Capitolo 11
*** Capitolo undici ***


Le prime settimane, che poi si erano tramutate in mesi, erano scorse veloci per Demelza. Quel mondo nuovo da scoprire, quelle abitudini sconosciute che doveva fare sue, una nuova casetta da costruire e un pancione sempre più evidente, non le avevano fatto percepire quanto tutto stesse accadendo velocemente.

La domenica e anche durante la settimana, se necessario, suonava la spinetta che accompagnava le funzioni di Padre Colin che pian piano le aveva presentato i fedeli del posto, aveva imparato a conoscere gli abitanti del borgo portuale che li aveva accolti al loro arrivo, aveva appreso i nomi di piante, animali e frutti fino ad allora a lei sconosciuti e appreso dal vento o dalle maree il cambio del tempo. Aveva conosciuto i bambini dell'orfanotrofio gestito da Padre Colin, una allegra massa di monelli senza radici e felicemente selvaggi, aveva incrociato a volte anche dei pirati, gente strana vestita in modo strano e a prima vista poco raccomandabile, aveva dovuto abbassare lo sguardo e mordersi le labbra per non urlare quando aveva dovuto assistere, tornando a casa dalla Messa, a un mercato degli schiavi e soprattutto, aveva dovuto in parte abbandonare i suoi abiti inglesi per sostituirli con qualcosa di più comodo e leggero. Gli abiti a maniche lunghe erano stati sostituiti da vestiti sbracciati, leggeri, freschi e dai colori accesi, i suoi lunghi capelli erano spesso racchiusi in una treccia o una coda di cavallo a causa del caldo e spesso al pomeriggio tardi aveva anche fatto un bagno con indosso solo una sottoveste, circondata da una spiaggia deserta, in quel mare meraviglioso dalle acque verde-smeraldo, in compagnia di migliaia di pesci variopinti.

Anche Jeremy e Clowance si erano abituati presto a quella nuova vita. Suo figlio stava tutto il giorno in spiaggia e girava perennemente a petto nudo, con indosso solo dei corti pantaloncini, intento a pescare e a procurare pranzi e cene per tutti. Lui e Cecily spesso si allontanavano dalla riva con una barchetta, muniti di canne da pesca, tornando solo molte ore dopo con un lauto bottino. Anche Clowance era diventata più spartana e, abbandonati i suoi vestiti inglesi, aveva scelto di vestire solo con sottovesti o abitini smanicati che le arrivavano alle ginocchia, con cui poteva correre, saltare nel mare e rotolarsi liberamente. Giocava spesso sulla sabbia costruendo castelli ed atteggiandosi a sorella maggiore del piccolo James che la seguiva dappertutto gattonandole dietro. Il piccolo adorava Clowance e lei sembrava essersi appassionata al suo ruolo di guida esperta e di baby sitter improvvisata. Doveva fare pratica per la sorellina, diceva, e Demelza si sentiva così orgogliosa di lei e dell'entusiasmo con cui aspettava l'arrivo di Isabella-Rose. Entusiasmo decisamente più marcato del suo...

Per quanto riguardava la casa, la piccola capanna scelta da Demelza al suo arrivo era fiorita giorno dopo giorno con l'incessante lavoro di tutta quella piccola famiglia allargata. Cecily e Kitty l'avevano aiutata a pulirla e a trovare dei piccoli arredi ma l'aiuto più grande, Demelza lo aveva ricevuto dai fedeli di padre Colin, gente poverissima ma amica e sempre pronta a darsi una mano l'un l'altro, come le avevano raccontato al suo arrivo.

Uomini e donne avevano aiutato a portare legname per rinforzare le pareti e allargare la capanna, avevano dato una mano a costruire dei giacigli, avevano trovato dei piccoli armadietti e qualche oggetto d'arredo che potesse tornarle utile e lei aveva ricambiato col pesce pescato da Jeremy e spesso di sera, quando finivano di lavorare, avevano cenato tutti insieme in una allegra combriccola raccolta attorno al fuoco in quella grande spiaggia che con gioia li aveva accolti facendoli sentire poco alla volta a casa.

Demelza si era affezionata a quelle persone e oltre a padre Colin aveva imparato a conoscere la chiacchierona signora Paula che gestiva un piccolo negozio di panettiere, il timido e giovane dottor Phillips che cercava di curare la gente del posto con quel poco che aveva e che si era preso una cotta ancora non corrisposta per Cecily, le simpatiche suore che curavano i bimbi dell'orfanotrofio, i pescatori anziani del porto con le loro famiglie e tante altre persone che come lei avevano poco o nulla ma che trovavano sollievo proprio nel dividersi quel poco fra loro, dandosi una mano quando serviva.

Alla fine venne fuori una bella casetta composta da due stanze da letto e un ambiente comune all'ingresso, che fungeva da salottino e cucina. C'erano pochi mobili, raccattati qua e la o costuiti con la legna della foresta: una piccola credenza, un tavolaccio in legno mal levigato, due panche, dei giacigli nelle stanze, una per lei e Prudie e l'altra per i bambini, una cassettiera malmessa ma ancora utile per contenere i loro pochi abiti e un baule dove mettere ciò che non trovava altra collocazione. C'erano ancora piccole rifiniture che Demelza voleva apportare alla casa, piccoli lavoretti che poteva fare anche da sola prima di partorire, ma nel giro di poco aveva trovato un suo nido, un suo posto in quel nuovo mondo dove sentirsi a casa e non più ospite. Una casetta a una decina di metri da quella di Kitty e Cecily, uno spiazzo comune fra le due abitazioni dove trovarsi per mangiare insieme, cucinare marmellate da vendere alle navi in partenza dal porto, chiacchierare ed aiutarsi in quella vita spartana. Era un angolo di pace in un mondo paradisiaco e Demelza cercava, nell'azzurro del cielo, nella meraviglia del mare e nella bellezza degli animali del posto che aveva imparato a conoscere e che di fatto erano i suoi vicini di casa, di sopravvivere alla tempesta che aveva fatto naufragare il suo matrimonio. Ross le mancava, con tutte le sue forze. E la sera, quando Prudie e i bambini dormivano e Isabella-Rose si scatenava dandole un sacco di calci, si allontanava sulla spiaggia con Garrick e piangeva tutte le sue lacrime pensando a quell'uomo lontano, fra le braccia di un'altra, che l'aveva tradita e fatta soffrire ma che ancora amava con tutta se stessa. Si chiedeva se si fosse cacciato nei guai, se avesse capito l'errore di tradire la propria patria coi francesi, se ancora Tess gli fosse accanto, se ogni tanto pensasse a loro e a quanto avevano perso... Ne poteva parlare solo con Kitty o Cecily ma spesso era stata Prudie a sorreggerla durante i momenti di maggiore crisi, quando poteva permettersi di urlare il suo dolore perché i bimbi erano lontani, fuori a giocare. Jeremy e Clowance non chiedevano mai di Ross e questo la stupiva. Non sapeva cosa pensassero, temeva di chiederglielo ma era anche consapevole che prima o poi avrebbero dovuto affrontare l'argomento. Sarebbero cresciuti, avrebbero voluto spiegazioni approfondite, avrebbero sofferto e fatto mille domande e lei non sapeva come avrebbe potuto rispondere loro.

E in tutto questo c'era Isabella-Rose che sarebbe nata a breve, sconvolgendo la sua vita. E anche lei sarebbe stata una sfida, al pari dei fratelli, anche se per motivi diversi... C'era ancora molto che la separava da questa bambina non ancora nata e di certo non desiderata ma nelle notti solitarie dove si immergeva in mare e nuotava come a voler purificare il suo corpo e la sua mente dai pensieri e dai sentimenti negativi, erano solo loro due. La sentiva muoversi, scalciare, la sentiva prepotentemente voler affermare la sua esistenza per costringerla a prenderne atto. Calciava forte, era una bambina energica e Demelza nonostante tutto aveva imparato a conoscerla, a percepire quando dormiva o quando era sveglia e anche un certo gusto che la piccola sembrava avere per la musica. Quando si muoveva troppo e le faceva male, le bastava cantare per farla tranquillizzare e stare ferma. Isabella-Rose si fermava, pareva trovare pace e dopo un pò i calci cessavano e lei sembrava dormire tranquilla... A volte si chiedeva come fosse, che viso avrebbe avuto, a chi sarebbe assomigliata e se ne stupiva. Come faceva ad essere tanto curiosa di qualcuno che non aveva desiderato nella sua vita? Era amore? O solo, appunto, curiosità? Isabella-Rose era stata concepita per sbaglio quando il matrimonio con Ross era già vicino al naufragio e questo l'aveva spezzata. Eppure anche Jeremy era arrivato in un momento simile ma mai, nemmeno per un attimo, aveva vacillato nell'amore per lui. Con questa nuova bambina invece, non ci riusciva. Era arrivata dopo un periodo dove pensava di aver lasciato alle spalle ogni problema e ogni dolore pregresso con Ross, ogni crisi, i tradimenti, Hugh ed Elizabeth, le recriminazioni e i silenzi pieni di risentimento. Era arrivata quando pensava che il loro amore fosse ormai adulto, consolidato e cementato in loro... E invece la vita le aveva dimostrato che nulla andava mai per scontato, che ogni amore può finire e che forse... e che forse l'amore vero che dura tutta la vita non esiste. E allora che senso aveva quella bambina? Che cattivo scherzo del destino era stato quello di farla arrivare nella sua vita proprio quando tutto era finito, dopo otto anni da Clowance, quando pensava che non avrebbe avuto più figli? Non poteva succedere prima, quando lei e Ross erano nella loro luna di miele a Londra? O dopo la morte di Elizabeth, quando il loro amore era diventato pieno, maturo e consapevole e nessuno dei due poteva fare a meno dell'altro? O prima della morte di Ned, prima che Ross perdesse se stesso...

Ma perché, perché era rimasta incinta quando Ross aveva smesso di amarla e il suo sguardo era rivolto altrove?

Se lo chiedeva spesso e nessuno le avrebbe mai saputo dare risposte. E allora si imponeva di smettere di pensare e si concentrava sulla sua vita, prendendola come veniva giorno per giorno, cercando un appiglio in quel nuovo mondo e quella nuova esistenza tutta da costruire con Jeremy, Clowance e sì, anche Isabella-Rose. I suoi bambini sarebbero cresciuti ai Caraibi, senza padre, lontani da miniere e minatori, sviluppando un'esistenza totalmente diversa da quella che aveva immaginato per loro. E doveva rendere tutto questo il più facile possibile, creare una casa accogliente, essere forte, sorridente e imparare a conoscere quell'isola e le sue abitudini per poterle insegnare a loro. E doveva riuscirci!


...


Le serviva della legna per accendere il fuoco per scaldare della zuppa a mezzogiorno e per la grigliata di pesce di quella sera e non aveva animo di chiedere aiuto a Kitty o Cecily. James aveva pianto tutta la notte per i denti e sua madre quel giorno, quando il piccolo si era calmato, ne aveva approfittato per dormire un pò anche lei, mentre Cecily era andata al villaggio per comprare del cibo e vendere le loro marmellate.

Ttuti loro erano stati gentilissimi con lei in quei mesi, l'avevano aiutata in ogni modo e non voleva più approfittarne. Le donne, soprattutto quelle conosciute ad Illugan da piccola, lavoravano fino al momento del parto e il giorno dopo aver messo al mondo il loro bambino erano già nei campi a raccogliere grano e mais e quindi anche se lei aveva un pancione ormai ingombrante, di certo non era malata e poteva raccogliere e trasportare, facendosi aiutare dai suoi figli, qualche ciocco di legno senza problemi e soprattutto, senza dipendere da altri.

Si erano addentrati nella foresta tropicale dietro alla loro casa e alla spiaggia di primo mattino, prima che il sole diventasse troppo caldo, camminando fra arbusti e grandi piante piene di frutta mentre gli uccelli, dai mille colori variopinti, volavano sulle loro teste. Avevano visto anche delle scimmie, sui rami più alti, che le osservavano incuriosite e Demelza ogni volta rimaneva a bocca aperta davanti a quella fauna tanto variegata. In quell'isola vivevano animali che fino a pochi mesi prima le erano sconosciuti e la loro forza, la loro capacità di adattamento e la loro bellezza erano per lei fonte di ispirazione e nuova vita.

"Dovremmo prendere un pappagallo!" - disse Jeremy, indicandone uno variopinto appollaiato su un ramo. "L'altro giorno al porto un pirata girava con un pappagallo sulla spalla e la spada alla cintola e sembrava così fantastico e degno di rispetto!".

"Tu non sei un pirata, però!" - lo rimbeccò Clowance mentre addentava una fetta di cocco che sua madre aveva tagliato per loro prima di mettersi in cammino.

Demelza rise, prendendola per mano. Erano vestite uguali lei e sua figlia, con un abito smanicato bianco legato in vita da un nastro azzurro. La gonna arrivava ad entrambe sotto le ginocchia ed entrambe avevano optato per uscire scalze e gustarsi la morbidezza della sabbia sotto i piedi. "Tua sorella ha ragione, non sei un pirata! Alla tua età potresti al massimo essere un mozzo!".

"Tu mamma, ce l'hai l'età però! Dicevo per te!" - rispose il bambino, divertito e alla ricerca di una motivazione valida.

"Ah, una donna non può fare la piratessa e nemmeno ambisco ad esserlo. Ed inoltre abbiamo Garrick, non ti basta?" - gli chiese Demelza.

Jeremy sbuffò. "Sì, ma non ha nemmeno voluto seguirci! Se n'è stato a poltrire con Prudie. E noi lavoriamo quando dovrebbero essere loro a farlo".

Demelza sospirò, ripensando al rum bevuto dalla sua serva la sera prima durante la cena, rum di contrabbando che Cecily aveva trovato chissà dove al porto. "Prudie stamattina... non era in grado di seguirci".

"Era ubriaca!" - esclamò Clowance, decisamente meno diplomatica di sua madre. "Ci serve una domestica più affidabile".

"Ahhh, fossimo ricche, perché no?" - chiese Demelza, ridendo.

Jeremy la osservò pensieroso. "Ma ci servirà davvero una nuova domestica! Fra un pò fra Prudie ubriaca e Bella che nascerà e strillerà ogni notte, sarà un macello casa nostra".

"Ce la faremo..." - rispose Demelza, assorta dai mille pensieri che quelle parole avevano risvegliato in lei.

"Davvero?" - chiese il bambino, serio. "Anche senza...". Fece per concludere la frase ma poi parve mordersi la lingua e imporsi di fermarsi.

Demelza lo guardò e capì che era preoccupato e che c'erano tante domande che gli frullavano in testa e non osava fare per non turbarla. Jeremy aveva undici anni e anche se non ne parlava, di certo pensava a Ross e a cosa avrebbe comportato la sua assenza. Si avvicinò a lui e lo abbracciò, forte, incapace di dire troppo ma decisa a rassicurarlo. "Anche senza tuo padre, sì! Senza di lui abbiamo costruito una casetta tutta nostra e abbiamo attraversato mezzo mondo. Non c'è motivo di preoccuparsi, sta tranquillo".

Lo disse cercando di apparire serena ma Jeremy e Clowance non le credettero, non fino in fondo. Ma decisero di non insistere e di farle pensare ad altro per rasserenarla. Demelza li conosceva e ne comprendeva appieno atti e pensieri, pensieri anche nascosti ma che lei sapeva leggere dietro ad ogni loro azione.

Jeremy la prese per mano, cambiando argomento e stato d'animo. "Mamma, ti facciamo vedere un posto magico! Ci siamo vicini!".

"Sìììì, lo abbiamo scoperto qualche giorno fa cercando noci di cocco!" - aggiunse Clowance mettendosi a correre agilmente fra gli arbusti seguita dal fratello.

Meno agile dei suoi figli, tenendosi il pancione, Demelza li seguì fuori dal sentiero sterrato. "Bambini, ma dove stiamo andando?" - chiese trafelata.

Jeremy tornò indietro, prendendole nuovamente la mano. "Vieni mamma, vedrai che bello!".

Demelza, impossibilitata a fare altro, si affidò a lui e camminando a fatica fra arbusti, piante e massi, giunsero davanti a un piccolo e incantevole specchio d'acqua nascosto fra la vegetazione, alimentato da una cascata che vi si gettava da una roccia che dominava la radura. Si sentiva il rumore dei ruscelli che alimentavano quel laghetto, lo scroscio della cascata e il canto degli uccelli che lì probabilmente si ristoravano. Acqua purissima, trasparente, che prendeva i colori delle piante che la circondavano e vi si riflettevano. Jeremy e Clowance entrarono nel laghetto, l'acqua era bassa, arrivava fino alle ginocchia o alla vita e i bambini la invitarono a fare altrettanto.

"Jeremy, Clowance, è un posto bellissimo ma non è il caso di fare un bagno quì! C'è il mare davanti a casa".

Jeremy le strinse ancora più forte la mano. "Non è per fare il bagno, è quello che c'è dopo la cascata. Passiamoci sotto e vedrai!".

Clowance li precedette, correndo agilmente nell'acqua e saltellando superò lo scroscio della cascata e vi sparì dietro.

"Giuda!" - esclamò Demelza, terrorizzata.

Ma Jeremy non le diede tempo di avere paura. "Vieni!" - le sussurrò, incitandola a seguire le orme di Clowance.

Tentennando, superarono lo scroscio della cascata, si bagnarono come pulcini, ma dopo...

"Santo cielo!". Demelza si guardò attorno, all'asciutto di una grotta nascosta dietro la cascata, invisibile da fuori, che li tagliava dal mondo esterno e ne creava uno tutto nuovo e nascosto. Non c'era nulla, solo rocce e il rumore dell'acqua alle sue spalle... Ma il fascino di quel posto era innegabile, era come aver oltrepassato una barriera magica ed essere approdati in un mondo nuovo,ovattato e misterioso. Le rocce incombevano su di loro e l'acqua della cascata, che faceva passare attraverso di essa i riflessi del sole e i colori della foresta, proiettava su quel mondo sconosciuto e nascosto, un arcobaleno di colori.

"Ti piace, mamma? E' un nascondiglio perfetto, lo conosciamo solo io e Jeremy!" - esclamò Clowance, esibendosi in una giravolta. "Se diventiamo ricchi come i pirati e abbiamo tesori da nascondere, questo posto sarà perfetto!".

Santo cielo, ancora con questa storia dei pirati!? I suoi figli erano davvero fissati con quelle poco raccomandabili persone! Ma avevano ragione, se dovevano nascondere delle provviste o rifugiarsi davanti a un pericolo, quel posto sarebbe stato perfetto!

"Ti piace, mamma?" - chiese Jeremy abbracciando lei e il pancione.

Demelza gli accarezzò i capelli pensando che sì, quel posto gli piaceva e valeva la pena essere arrivata fin lì nonostante pancione e fatica. "Tanto e vorrei restare quì. Ma abbiamo molto da fare, non ricordi? Come cuoceremo il tuo pesce di stasera se non troviamo della legna da ardere?".

Jeremy le fece la linguaccia, ridendo. "Vero! Abbiamo da lavorare. Ma prima volevamo davvero fartela vedere, la grotta delle fate".

Demelza osservò i riflessi dell'acqua sulla roccia. "Grotta delle fate... Che nome perfetto per questo posto...".

Clowance sorrise. "Già!".

I bambini la aiutarono ad uscire, oltrepassando nuovamente la cascata ed uscendone bagnati come pulcini, dalla testa ai piedi. Ma non importava, in quel mondo nuovo non c'era spazio per l'apparenza ed essere bagnati ma circondati da tanta bellezza era solo un piacere da assaporare insieme e di cui non vergognarsi. Il sole avrebbe asciugato i loro capelli e i loro vestiti e in cambio di un pò d'acqua, avevano scoperto la grotta delle fate.

Affascinata e decisa a far suo per sempre quel modo gioioso di pensare tipico dell'isola, Demelza cercò di ricordare la strada verso quel luogo mentre si allontanavano. Jeremy e Clowance ci sarebbero tornati di certo a giocare, ma lei... Lei non sapeva ancora perché ma qualcosa nella sua mente le suggeriva che quella grotta nascosta sarebbe diventata importante nel suo futuro... In che modo non lo sapeva, ma sentiva che sarebbe stato così! Poi, tornati sul sentiero, osservò con orgoglio i suoi figli ancora piccoli che avevano imparato a prendersi cura di lei in silenzio, che si erano abituati a quella nuova vita senza piangere l'assenza di un padre, ad essere forti e soprattutto, che avevano fatto già loro quel nuovo mondo e modo di vivere. Era fiera dei suoi bambini, i suoi due gioielli preziosi. E silenziosamente, mentre raccoglievano ramoscelli e ciocchi di alberi spezzati, ringraziò Dio per averglieli dati. Jeremy e Clowance erano la sua ragione di vita, la sua spinta per andare avanti e tentare di vivere ancora... E avrebbe fatto ogni cosa per loro e il loro bene, sempre!

Con loro raccolse parecchia legna, la raccolse fino al limite massimo che con il suo pancione poteva trasportare. E lo stesso fecero Jeremy e Clowance che le trotterellavano vicino chiacchierando ed osservando gli animali che, in aria o striscianti in terra, incrociavano il loro cammino.

Sarebbe stata una passeggiata perfetta se non fosse stato per un urlo e un pianto che, improvvisamente, spezzarono la quiete della foresta nel primo mattino.

Demelza si bloccò cercando di capire da dove arrivassero quei rumori, ma Jeremy fu più veloce di lei e come un segugio corse verso il sentiero principale dove di solito passavano carri da e per il porto carichi di merci o mogano che i grandi signori dell'isola spedivano nel vecchio continente dopo aver spremuto spesso fino alla morte i propri schiavi.

Demelza difficilmente si addentrava nella foresta da quel sentiero che, benché più comodo e ampio da percorrere, l'avrebbe spesso messa in contatto con quei mercanti di vita e morte. Cercò di fermare Jeremy ma quando anche Clowance si lanciò dietro al fratello, non poté fare altro che seguirli.

Quando li raggiunse, i bambini erano a ridosso della strada principale che, benché sterrata e dall'aspetto selvaggio, era la via di comunicazione più sviluppata dell'isola.

Un grosso carro pieno di tronchi si era impantanato nel terreno con una delle ruote posteriori e tre poveri schiavi di colore, due uomini e una donna, si dannavano per liberarlo da quella stretta mentre un altro uomo, dai capelli neri come la pece, sguardo distinto ma feroce e abiti eleganti, con una frusta in mano li incitava a suon di cinghiate a lavorare più celermente.

Demelza sentì i suoi bambini sussultare e il suo sangue congelarsi nelle vene. Aveva già visto schiavi in quell'isola, in catene e con lo sguardo basso, ma anche se era riuscita ad immaginare la misera delle loro vite, mai aveva assistito a qualcosa del genere. O forse sì, tanti anni prima, quando era suo padre ad usare la cinghia con lei... E la cinghia faceva male, lo ricordava bene, e questo la rendeva la più vicina di tutti gli altri ai patimenti di quella ragazza. Osservò i due uomini, alti e muscolosi, che resistevano senza lamenti a quei trattamenti disumani e poi lei, una ragazza dai capelli neri e corti, ricci come trucioli di legno, esile, giovanissima e coperta di sangue che le colava dalle braccia a causa delle percosse ricevute. Era sfinita, sembrava sul punto di svenire e il suo padrone non faceva che percuoterla con la cinghia...

A un certo punto Clowance urlò forte e l'uomo dai capelli neri si fermò di colpo, rendendosi conto di essere osservato. Guardò i tre nuovi arrivati, piegò la cinghia fra le mani e poi, con fare elegante, come se nulla fosse si avvicinò loro. "Buongiorno. Spero che questa visione di tre sfaticati che non sanno lavorare, non abbia turbato la vostra passeggiata" – mormorò, esibendosi in un inchino.

Aveva un fisico minuto ma ogni suo muscolo pareva esprimere ferocia e cattiveria, dietro ai suoi modi eleganti. A pelle, Demelza sentì che lo detestava, anche se non ne conosceva nemmeno il nome. "Non è stato questo a far urlare mia figlia. E' stata la vostra cinghia e le ferite a quella ragazza".

"Ohhh". L'uomo si voltò verso la schiava e poi di nuovo verso Clowance, esibendosi in un ghigno forzato. "Ma piccolina, non preoccuparti. Lo faccio per farla lavorare, si fa così".

"No, non si dovrebbe fare così!" - lo interruppe Demelza, fregandosene del fatto che doveva usare le buone maniere. "Frustare una donna è un atto vile, soprattutto quando è indifesa". Al diavolo, poteva anche offendersi quel tizio, ma non aveva decisamente voglia di stare zitta.

L'uomo parve ignorare quanto dettogli. Si lisciò i baffetti, sorrise nuovamente e poi lanciò uno sguardo ai suoi schiavi. "Non fraintendetemi signora, io sono un gentiluomo e faccio ciò che faccio perché devo. Ma sono una persona generosa e quest'isola e chi ci vive, deve ringraziarmi per quel che ha. Ho dato commercio e un futuro a questo posto dimenticato da Dio e per fare grandi cose, c'è sempre un piccolo prezzo da pagare".

Demelza sostenne lo sguardo dell'uomo, per nulla colpita da quelle parole melliflue. "Un gentiluomo non frusta una ragazza indifesa" – ribadì.

Era una strana guerra di nervi la loro e a quell'uomo sembrava piacere. "Voi sapete cavalcare, mia signora?".

"Certo".

"E non usate, talvolta, il frustino col vostro cavallo? Per farlo andare veloce, ovviamente, non per diletto...".

Demelza deglutì. "Capita, sì. Ma lo faccio con l'intenzione di non ferire l'animale e di non fargli del male".

"Quindi, lo fate per ottenere migliori risultati".

"Sì" – rispose lei, incerta, rendendosi conto che si trovava davanti una persona feroce ma non stupida. La stava mettendo in un vicolo cieco e se tanto le dava tanto, presto non avrebbe più saputo come rispondergli.

"Io faccio altrettanto".

Jeremy osservò la povera ragazza frustata che gli altri due schiavi avevano aiutato a rialzarsi. "Ma lei mica è un cavallo, è una donna!".

L'uomo scosse la testa. "Lei è una schiava, un animale. E la tratto da tale, ci vuole forza e vigore per far ubbidire gli animali, esattamente come fa tua madre coi cavalli. Come vedi, io sono un gentiluomo e tua madre una gentildonna e agiamo allo stesso modo. Con gentilezza coi nostri simili, con vigore con chi dobbiamo dominare".

Demelza strinse i pugni mentre Jeremy la guardava, confuso. Non si sarebbe fatta ingannare dai giochetti di parole di quello schiavista, lei NON era come lui. Strinse a se Clowance e prese per mano Jeremy, non togliendo gli occhi di dosso dal viso di quell'uomo odioso. "Io non sono come voi".

"Vi ritenete migliore? Chi siete? Non vi ho mai visto in giro prima...".

"Il nome di mia madre non è affar vostro!" - ribatté Jeremy, prima che lei potesse parlare, mettendosi in modo protettivo fra loro.

Demelza lo scostò, non voleva che si inimicasse quell'uomo che di certo era potente e soprattutto non voleva che Jeremy si sentisse responsabile della sua protezione al posto di Ross. "Non mi ritengo migliore di nessuno ma faccio del mio meglio per vivere onestamente, senza nuocere agli altri. Vivo quì da pochi mesi e in un posto isolato, per questo non mi conoscete. E mi piace, mi evita spiacevoli incontri".

L'uomo la guardò, sornione. "Avete la lingua lunga ed affilata, mia affascinante lady. Peccato che abbiate scelto una vita appartata, sareste un bel peperino al villaggio" – disse, leccandosi le labbra con la lingua in un gesto vagamente volgare. "Vostro marito? Non vi aiuta con la legna? In quello stato non dovreste fare sforzi".

"Non ho marito, sono sola!" - rispose, tagliando corto.

L'uomo sospirò. "Sola, con la lingua lunga e tagliente, incinta e con un pesante carico da portare. E con la supponenza di volermi insegnare a vivere. Ma io, come vi dicevo prima, sono un gentiluomo e non posso permettere che una donna fatichi senza aiutarla".

"Non ho bisogno del vostro aiuto".

"Ma io non posso esimermi dal darvelo".

"Lasciate stare!".

L'uomo scosse la testa. "Perché portate quella legna? E' pesante, non avete schiavi che possano aiutarvi? Quì tutti ne hanno, almeno uno".

Demelza si rabbuiò. Quell'uomo voleva provocarla e lei non aveva voglia di proseguire quell'assurda discussione con lui. L'unica cosa positiva era che, parlando con lei, aveva dato modo ai suoi schiavi di riprendere fiato ed essere lasciati in pace. "Ovviamente non ho schiavi e nemmeno ne voglio".

"Quì funziona così" – insistette l'uomo.

"Ho dei princìpi e una coscienza!" - ribatté lei. "E sono perfettamente in grado di rimboccarmi le maniche".

Gli occhi dell'uomo si assottigliarono e come se lei gli avesse appena lanciato una sfida, fu subito pronto a ribattere. La osservò, soffermandosi come affamato sulle sue curve ancora più evidenti a causa del vestito bagnato, poi tornò a fissarla in viso. "No, non è coscienza, vi sentite migliore di me. Ma non lo siete e ora vi dimostrerò che siamo uguali".

Demelza rise, sarcastica. "E come?".

"Dimostrandovi che sono un gentiluomo e che voi usate male la vostra coscienza". Indicò la giovane schiava che aveva appena frustato, brandendo la cinghia. "Lei non ha saputo lavorare, oggi. E' una mia schiava, ho tutto il diritto di punirla se mi va, per questo. Ho diritto di vita e di morte su di lei e per quanto non è riuscita a fare oggi, io posso andare a casa, portarla in giardino, legarla a un albero e frustarla fino alla morte. E nessuno mi direbbe nulla, si fa così con gli schiavi inutili".

Il sangue le si gelò nelle vene, era un uomo che lo avrebbe potuto fare senza problemi. Sentì i bambini tremare accanto a lei e guardando quella schiava provò un'infinita pena per lei perché di fatto, non poteva aiutarla. "E' solo una ragazza, forse non ha nemmeno vent'anni".

L'uomo annuì e nel suo modo di fare era impossibile leggerne i pensieri e il fine per cui stava portando avanti quella discussione con lei. "Vero. Solo una ragazza... Inutile per me! Ve la regalo" – disse infine, con un ghigno, prendendola di sorpresa.

Demelza spalancò gli occhi. "Cosa?".

"Ve la regalo" – ripeté l'uomo.

Demelza strinse i pugni. "E' una persona, non un oggetto".

"E' una schiava e questo fa di lei una mia proprietà e un oggetto. E voglio regalarla a voi che di schiavi non ne avete e ne necessitate".

"Io non voglio una schiava!" - gridò quasi, sentendosi però in trappola e capendo troppo tardi il gioco di quell'uomo.

L'uomo allargò le braccia. "Il mio dovere di gentiluomo verso di voi e quella povera schiava l'ho fatto ma la vostra coscienza vi impedisce di accettare il mio gentile dono. Come volete, tornerò a casa coi miei schiavi e il mio carro e poi la cara dolce negretta andrà incontro al suo destino. Poteva essere vostra e lavorare per voi ma il vostro animo che volete mantenere candido, vi impone di lasciarla alla mia frusta. Chi è meglio, io che eseguo i miei doveri o voi che per principio non salvate una povera schiavetta".

Jeremy e Clowance la guardarono con occhi sbarrati, come in attesa di una soluzione a quella situazione assurda. E lei si sentì sprofondare... Santo cielo, e ora? Che doveva fare? Accettare, macchiare la sua coscienza per sempre e prendere una schiava che l'avrebbe resa in tutto e per tutto simile a quell'uomo, o no? Lottare perché venissero rispettati dei diritti? Non aveva senso, avrebbe perso quella lotta e nessuno avrebbe né protetto né pianto la morte di quella schiava... Era tutto in mano sua, ora. E quell'uomo, di proposito, per diletto e divertimento, l'aveva portata a quel punto per distruggere ogni sua certezza o credo. A lui di quella schiava non importava nulla, così come non gli importava di lei che, incinta, portava legna fra le braccia. Voleva solo corrompere, per il semplice gusto di farlo, la sua anima. E purtroppo ci stava riuscendo...

Le venne in mente Padre Colin e quanto le aveva detto quando era arrivata su quell'isola. Princìpi, coscienza, certezze... Tutto doveva essere messo da parte, zittito per un bene superiore. Quel giorno non aveva capito cosa volesse dire, ma ora lo comprendeva appieno. La sua anima sarebbe stata corrotta ma lo sarebbe stata anche nel caso avesse detto no e avesse proseguito il suo cammino verso casa coi suoi figli, da soli. L'avrebbe avuta sulla coscienza quella ragazza che poteva salvare e quell'uomo sapeva che l'avrebbe fatta sentire così, senza possibilità di scelta. Era una persona subdola ma intelligente, che sapeva manovrare le persone e aggirare ogni resistenza nel suo interlocutore. L'aveva messa in un vicolo cieco e qualsiasi strada ora lei avesse preso, sarebbe stata senza ritorno. "Chi siete?" - chiese infine, con un filo di voce, prima di decidere.

L'uomo si esibì in un inchino. "Vincent Copper, uno dei grandi signori dell'isola".

Demelza spalancò gli occhi, mentre nella sua mente appariva l'immagine di una strana ragazzina incontrata sul pontile di una nave quasi tre mesi prima. Eccolo, era lui l'uomo più potente della Jamaica. E l'aveva appena messa in trappola come fa un gatto col topo.

Guardò la ragazza di colore che, con occhi sgranati, la guardava come se lei fosse stata la sua ultima speranza.

E decise...

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici ***


Nessuno, NESSUNO era mai riuscito a costringerla a fare qualcosa contro il suo volere. Non ci era riuscito suo padre quando, da bambina, cercava di sottometterla al suo volere a suon di cinghiate, non ci era riuscito George Warleggan quando aveva tentato di allungare i suoi tentacoli su Nampara e la sua famiglia ed era stata capace anche di dire addio al suo amore, a Ross, pur di rimanere fedele a se stessa.

Ma in quel momento, guardando Copper, quella sua sicurezza vacillò. Avrebbe potuto voltare le spalle a quell'essere, andarsene per la sua strada e rimanere fedele a ciò in cui credeva. Nessuno le avrebbe rimproverato nulla, il destino di quella ragazza di colore dopo tutto non era affar suo e poteva anche raccontarsi che non era nata per salvare il mondo e nemmeno ne aveva i mezzi e le capacità. Tutte ottime scuse ma, appunto, scuse. La sua coscienza l'avrebbe tormentata per sempre se se ne fosse andata così, senza cedere e senza lasciar scampo a quella povera sventurata. Avrebbe anche potuto vivere raccontandosi che Copper stava bleffando, che di certo non avrebbe ucciso una ragazza indifesa e che le sue erano solo vaghe minacce per intimorirla, ma anche queste sarebbero state bugie. Lo guardò negli occhi e vi vide furore e cattivera, quella cattiveria che arma senza problemi la mano di un uomo contro chi non può difendersi.

Improvvisamente si sentì stanca e anche il pancione parve diventare terribilmente pesante e foriero di fitte dolorose.

Jeremy la tirò per il vestito. "Mamma?!".

Demelza guardò la ragazza che non le aveva tolto gli occhi di dosso e decise che, qualunque fosse il motivo per cui la 'prendeva', non sarebbe mai stato per farne una schiava. Copper poteva credere ciò che voleva ma se davvero voleva farle quel dono, ciò che ne sarebbe stato di quella ragazza non sarebbe più stato affar suo. "Accetto" – disse quindi, gelida, rendendosi conto che sarebbe stata la prima di una lunga serie di prove che avrebbero messo a disagio la sua anima e il suo credo. Mai avrebbe creduto di accettare in dono una schiava, Ross ne sarebbe stato inorridito, ma che poteva fare? La legge di quell'isola era crudele e selvaggia e lei doveva imparare ad interpretarla al meglio. In fondo anche la Cornovaglia era una terra selvaggia e di difficile esistenza, con leggi dure che piegavano gli uomini che vi vivevano e spesso anche lì si doveva arrivare a dei compromessi. Osservò la giovane schiava e si accorse che, prendendola, stava di fatto facendo la stessa cosa che aveva fatto con lei Ross tanti anni prima. L'aveva presa con se come domestica quando di fatto non ne aveva poi così bisogno e di certo non aveva quasi mezzi di sussistenza nemmeno per se stesso. L'aveva presa contro il volere di suo padre, della famiglia Poldark e di tutta la gente benpensante del luogo. Ma lo aveva fatto per salvarla e lei stava facendo altrettanto per quella ragazza spaventata e coperta di piaghe sulla schiena, come era stata lei tanti anni prima.

Copper poteva anche gongolare pensando di averla messa con le spalle al muro ma quel pensiero di ciò che era stato la fece sentire di nuovo forte e sicura di aver fatto la scelta giusta.

L'uomo sorrise, gelido. E soddisfatto. "Quindi, miss altezzosità si abbassa ai bisogni dei comuni mortali di avere degli schiavi come aiuto? Vi facevo più combattiva nei vostri princìpi ma ovviamente come tutti, quando si riceve in regalo qualcosa, lo si prende senza filosofeggiarci troppo su".

Stava cercando di farla sentire in colpa ma non ci sarebbe riuscito. "Un dono è un dono e sarebbe scortese rifiutarlo. E inoltre l'idea di salvare qualcuno mi farà dormire sonni più sereni. Come a voi del resto, che non vi addormenterete con una povera ragazza sulla coscienza".

"I miei sonni sono dorati come quelli di un pupo" – ribatté lui, sprezzante.

"Ne sono certa".

I loro sguardi si incontrarono e fecero scintille. Poi Copper prese la ragazza per il braccio e con forza la spinse verso di lei. "E' vostra. La VOSTRA schiava. Fatela lavorare e usate la verga, se necessario. E' uno strumento utile con quelle come lei".

La ragazza cadde e Jeremy e Clowance corsero ad aiutarla a rialzarsi. Copper li osservò con disgusto, scuotendo la testa. "Se mia figlia facesse una cosa simile, la verga la userei su di lei".

Demelza osservò i suoi figli con orgoglio. "Per fortuna non siamo parenti" – rispose, sprezzante.

Copper si leccò le labbra, quasi come fosse attratto da tanta sfacciataggine. "Mi piacciono le donne con la lingua lunga. Mi auguro che sappiate usarla tanto bene anche in altre faccende, la vostra lingua... Sarebbe davvero interessante".

Jeremy sussultò a quella mancanza di rispetto verso sua madre ma Demelza lo bloccò prima che potesse fare alcunché. "Un gentiluomo, avete detto? Non mi pare un commento che vi qualifichi come tale".

Copper non si fece provocare. "Come vi chiamate? Vi ho regalato una schiava, merito almeno di conoscere il vostro nome e mi pare vi siate dimenticata di dirmelo".

"Il mio nome non è affar vostro".

Copper si picchiettò il frustino sui pantaloni, spazientito. Poi si avvicinò all'altro schiavo, urlandogli di riprendere il cammino. Poi, dopo aver fatto ciò, si voltò nuovamente verso Demelza. "E' un'isola piccola, in fondo. Non sono tipo da insistere ma tanto ci ricontreremo, mia lady. E prima o poi scoprirò anche il vostro misterioso nome". E detto questo, dopo che lo schiavo ebbe liberato la ruota del carro, si avviò con lui verso il cuore della foresta tropicale che in un attimo li inghiottì al suo interno.

Guardandolo andar via, Demelza si morse il labbro riflettendo su quanto quell'uomo le risultasse indigesto. Sembrava crudele e assolutamente orgoglioso di esserlo e non pareva avere alcun interesse a mostrarsi meglio di ciò che era. In un certo senso, persino George Warleggan pareva una brava persona a confronto di Vincent Copper. Le venne in mente la piccola Lilith, conosciuta sulla nave, il suo strano racconto sulla morte della madre e si chiese che tipo di vita potesse fare una bambina con un padre del genere. Non che Lilith brillasse per simpatia e anzi, sembrava piuttosto viziata ed arrogante, ma ciò non toglieva il fatto che era una bambina bisognosa di una guida e al momento non aveva nessuno in grado di ricoprire quel ruolo.

Scosse la testa, non erano affari suoi e aveva di contro fin troppi problemi da affrontare senza pensare anche a quelli degli altri.

Si avvicinò a Jeremy e Clowance che avevano aiutato la ragazza a rialzarsi e poi le sorrise. "Vieni con noi, ti porteremo a casa e potrò medicare le ferite che hai sulla schiena. So quanto possano far male le frustate e le piaghe...". Lo disse con una punta di amarezza, ricordando quel dolore lancinante che lei stessa aveva provato da bambina più e più volte, un dolore che la sua mente non aveva mai cancellato.

La ragazza la guardò con timore, come in attesa di capire in che mani fosse capitata. Era normale, era una schiava e di fatto nella sua mente stava semplicemente passando da un padrone ad un'altro e non era detto che questo si sarebbe tradotto in un miglioramento. "Non serve medicare" – disse, sotto voce, quasi avesse timore di dar fastidio.

"Io direi di sì" – rispose Demelza.

"Anche io" - ribadì Clowance, osservando la sua schiena martoriata.

"N... No, no grazie" – rispose ancora la giovane.

Jeremy osservò sua madre un pò perplesso e Demelza capì che doveva cercare di tranquillizzare quella ragazza sulle sue paure che comprendeva benissimo. "Tu non sei la mia schiava, sei una ragazza che ha bisogno di qualche cura e di aiuto. Ti medicherò e poi sarai libera di andare dove vorrai, non mi appartieni".

"Io non posso comprare la mia libertà, mia signora".

Era difficile risponderle perché Demelza in quel momento, attraverso gli occhi spaventati di quella giovane, si rese conto che non conosceva bene le regole della Jamaica circa quell'aspetto della società. Ma di certo era ben consapevole di cosa volesse o non volesse. "La tua libertà, è appunto tua. Di diritto. Non devi comprartela".

La ragazza però, più che confortata, parve spaventata da quelle parole. "No, quì non è così. No signora, voi sembrate gentile, tenetevi con voi e lavorerò. Tanto! Io sono una schiava, non posso essere libera e se mi mandate via, Copper mi riprenderà. Sono vostra, tenetevi vostra".

Le si aggrappò al vestito, disperata, facendola sussultare insieme a Jeremy e Clowance. Santo cielo, era tutto così difficile! Quella ragazza non voleva una libertà che le spettava di diritto, non voleva essere libera e non ne era in grado in quella terra. E ne era drammaticamente consapevole. E in quel momento lo divenne anche Demelza. Si sentì stupida per la sua ingenuità, per il modo semplicistico in cui credeva di risolvere la cosa e per come Copper forse stesse ridendo di lei in quel momento, per questo. Era entrata sua malgrado in una vita e un gioco perverso e pericoloso e se aveva scelto di ricevere in dono quella ragazza, ora doveva accettarne le conseguenze. Decise, di nuovo, andando contro se stessa perché si rese conto che non c'era altro da fare. "Il termine schiava non mi piace. Averti con noi, avere il tuo aiuto nella vita di tutti i giorni mi farebbe piacere e anche se non abbiamo molto, saremmo felici di dividerlo con te. Ma non voglio che ti consideri mia schiava e non voglio che consideri me la tua padrona. Saremo donne che si aiutano nella vita di tutti i giorni e se su questo sei d'accordo, sarai la benvenuta. Ma se resti con noi, non credi che dovresti dirmi il tuo nome?".

La ragazza spalancò gli occhi. "Davvero mi terreste con voi? Ad aiutarvi?".

Demelza annuì. "Davvero. Come ti chiami?".

Lei abbassò il capo. "Maria. Perché volete saperlo?".

Sorrise. "Beh, per sapere come chiamarti".

Clowance e Jeremy ridacchiarono e la ragazza si affrettò a spiegare. "Mister Copper non ci ha mai chiesto il nostro nome. Urlava se aveva bisogno di noi, tutto quì".

Demelza le strizzò l'occhio. "Beh, io non sono mister Copper e ne sono orgogliosa. E mi piace chiamare le persone per nome".

"Persone? Io sono una persona?".

Demelza le prese la mano. "Direi di sì. E ora sù, andiamo. La nostra casa è sulla spiaggia e lì potremo curare le tue ferite".

E mentre Jeremy e Clowance prendevano la porzione di legna che avevano da portare a casa, Demelza condusse per mano la ragazza verso la spiaggia e, sperava, verso una vita un pò migliore. Non poteva regalarle la liberà ma quanto meno una esistenza dignitosa.

"Davvero potrò lavorare per voi?" - chiese ancora Maria, quasi con timore.

"Davvero, se lo desideri. Ho una domestica, potrai aiutarmi a tenere pulita la nostra casa, a cucinare, a preparare le conserve da vendere al porto e ho bisogno di un aiuto nella gestione dei bambini. Presto ne avrò un altro" – disse, toccandosi il ventre. "Te la senti?".

La ragazza annuì, quasi incredula. "Tutto quì?".

"Tutto quì".

Lei sorrise, come se non sentisse il bruciore delle ferite sulla schiena.

"Quanti anni hai, Maria?".

"Diciannove".

Diciannove, era solo una giovane ragazza con tutta la vita davanti. E Demelza si sentì di dovergliela garantire.

"E voi? Voi come... vi chiamate?" - chiese Maria, quasi con timore e paura di aver chiesto qualcosa di non lecito.

"Io sono Demelza e loro sono Jeremy e Clowance. E siamo felici di averti con noi" – rispose con un sorriso.


...


Prudie aveva accolto la giovane Maria nello stesso identico modo in cui aveva accolto lei, a Nampara, tanti anni prima: zero entusiasmo, borbottìì continui e malnascosti sul fatto che no, non si poteva raccogliere ogni orfanello o negretto bisognoso dell'isola, che non era corretto, appropriato e giusto e che sarebbero morti di fame e sete con un'altra bocca da sfamare.

Maria si era dimostrata intimorita da lei ma Demelza, ridacchiando, con lo sguardo l'aveva rassicurata e poi aveva rassicurato Prudie sul fatto che ora avrebbe avuto un aiuto nelle sue mansioni e alla fine la donna si era calmata e aveva valutato il nuovo arrivo sotto un'altra luce. Kitty e Cecily invece avevano accolto la ragazza con dolcezza e soprattutto Kitty, dopo aver medicato la schiena di Maria con delle erbe curative e una lozione che aveva in casa, aveva guardato Demelza con ammirazione per quanto aveva fatto. Demelza aveva temuto che la biasimasse per aver preso una schiava con se ma la moglie di Ned, senza che lei spiegasse nulla, aveva ben compreso cosa l'aveva mossa a compiere quel gesto e ne sembrò fiera.

Dopo averla medicata e averle dato degli abiti meno miseri di quelli stracciati e logori che indossava con Copper, Demelza la obbligò a riposare in casa, sul ciaciglio accanto a Prudie o nel suo, ma Maria fu irremovibile e supplicò di poter dormire fuori, sul portico. Era convita fosse questo il suo posto, non in casa, non voleva assolutamente dividere lo spazio con coloro che, nonostante le sue rassicurazioni, lei considerava i suoi padroni e persone superiori a lei. Demelza provò ad argomentare ma la ragazza su quel punto rimase irremovibile e alla fine quindi dovette cedere. Le mise una coperta sulle spalle, le diede un cuscino e alla fine la lasciò riposare, imponendo ai bambini di andare con Cecily al villaggio per delle spese e mandando Prudie nella capanna di Kitty per aiutarla col piccolo James.

Lei si mise accanto a Maria, seduta sul portico, ad osservare i colori del mare del pomeriggio, cullata da una strana pace che strideva con quanto vissuto quella mattina con Copper. Osservò quella ragazza alta ma minuta, dalla pelle scura e dai capelli corti e neri, ricci e probabilmente ribelli. Era graziosa e sembrava indifesa... Demelza si chiese quale fosse la sua storia, da dove venisse, com'era il mondo in cui era nata e cosa o chi l'avesse portata nelle grinfie di Copper in Jamaica. Forse, si chiese, anche lei sentiva nostalgia di casa, forse anche lei desiderava rivedere la sua famiglia e forse anche lei aveva conosciuto mondi totalmente diversi da quello in cui si erano incontrate.

Rimase in silenzio accanto a lei a lungo, in un pomeriggio che si tingeva di rosa. Dalla baracca di Kitty non giungevano suoni e forse il piccolo James finalmente si era addormentato dando sollievo a sua madre, i bambini sarebbero tornati più tardi, giusto in tempo per prendere parte al barbecue di pesce e Maria sembrava più serena, nel suo sonno.

Improvvisamente sentì di nuovo, nel silenzio della spiaggia, il canto degli schiavi che proveniva dalla foresta. Aveva imparato a riconoscerlo, a canticchiarlo e anche se non ne capiva le parole, in un certo senso a sentirlo famigliare.

Cercò di unirsi al canto, sotto voce, cercando di riprodurre quella lingua sconosciuta e a quel punto la voce sottile di Maria la raggiunse, timidamente. "Non conoscete bene la nostra lingua, signora".

Demelza sussultò presa alla sprovvista e poi arrossì. "Non la conosco per niente. E scusa, non volevo svegliarti".

"Ho dormito anche troppo e dovrei aiutarvi nelle vostre faccende".

Demelza le sorrise. "Non c'è nulla da fare al momento ma più tardi, se vuoi, puoi aiutarci ad accendere la brace per cuocere la cena di stasera. Al momento però, ti andrebbe di fare una passeggiata con me sulla spiaggia?" - propose, desiderosa di sgranchire le gambe.

"Certo". La ragazza si alzò, un pò dolorante ma decisamente più in forze di quanto fosse stata quella mattina.

Demelza la prese sotto braccio, lei alle prese con un pancione ingombrante e Maria con una schiena che ancora doveva guarire. "Senti, è da quando sono arrivata quì che me lo chiedo. Cosa cantano gli schiavi? Li sento ogni pomeriggio e la loro voce è così bella, anche se il senso del loro canto non lo capisco".

Maria si voltò verso la foresta, pensierosa. "Cantano la nostra terra nativa e la bellezza della savana".

"Savana?".

Maria annuì. "La nostra bellissima Africa... Coi suoi animali, magnifici e feroci come la terra che li ha visti nascere. La savana è una distesa di terra rossa infinita, con pochi alberi che offrono riparo ed ombra dal sole e se la guardi noti l'infinito, la dura lotta della natura, giraffe, zebre, leoni, leopardi che si sfidano, combattono, soccombono o vincono. E tutti, vincitori e vinti, sono ugualmente belli e fieri. E poi ancora più in fondo, il Kilimangiaro, la nostra montagna sacra, altissima, con le nubi che ne coprono la cima e sopra esse, la neve a volte. Il Kilimiangiaro che domina su tutti noi, ci guarda, ci protegge e ci scruta come un padre di famiglia".

Demelza rimase a bocca aperta nel sentirla parlare. C'era tanta nostalgia nella voce di Maria e soprattutto un amore infinito per la sua terra e le meraviglie che in essa vivevano, prosperavano o morivano. In realtà non conosceva nulla del mondo, molto poco eccetto la Cornovaglia, Londra o la Jamaica e non sapeva che animali fossero quelli citati da Maria e nemmeno aveva mai sentito parlare di questa montagna dal nome tanto strano. Eppure quel racconto le fece venire un brivido piacevole, una strana voglia di viaggiare, vedere, scoprire il mondo... Lei probabilmente non lo avrebbe fatto ma pregò che i suoi figli ne avessero l'opportunità un giorno. "Spero che potrai tornarci, prima o poi...".

Maria si rabbuiò. "Non credo. Ormai appartengo a questa terra, mi hanno comprata e la mia vita non è più mia".

"Sì che lo è!" - insistette Demelza. "E se sarà in mio potere aiutarti, vorrei poterlo fare. La nostalgia per la propria terra io la conosco bene" -ammise, amaramente.

Maria la guardò incuriosita ma non osò chiedere. E allora si soffermò sul pancione della sua padrona, guardandolo con dolcezza. "La vostra pancia è bassa, le donne del mio villaggio dicono che quando una pancia è così bassa, manca poco al parto".

Sospirò. "Già, molto poco. Fra poche settimane dovrei partorire".

"I nostri dei dicono che i bambini sono un dono del cielo".

Demelza sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Avrebbe voluto avere la stessa visione romantica di Maria, circa quella bambina... "Più che un dono dal cielo, è un gentile dono di mio marito prima che mi lasciasse per un'altra" – disse, ironicamente e freddamente.

Maria non replicò, non era abituata a dare giudizi e di certo non lo avrebbe fatto con lei che considerava la sua padrona. "Un bambino è un bambino. Un dono. Se la pensate così, forse sarà meno dura, signora".

Fosse facile... Demelza calciò un sassolino col piede e poi osservò la ragazza. "Ecco, mi piacerebbe che mi aiutassi con questa bambina che nascerà. Vorrei che fossi la sua bambinaia! Prudie ha già Clowance e Jeremy a cui badare e una neonata sarebbe troppo per lei".

Maria annuì senza discutere. "Lo farò, signora".

"Anche eventualmente al mio posto?".

Maria la guardò un pò titubante, forse incerta sul significato di quelle parole. "Se lo volete, sì".

"Grazie!" - le rispose solo, grata per averla trovata e con lei, aver trovato una buona soluzione per Isabella-Rose.

Camminarono sul bagnasciuga, con l'acqua calda che accarezzava le loro caviglie. E improvvisamente, fra la sabbia sulla riva, scorsero qualcosa che luccicava, coperto da dei pezzi di legno e delle alghe.

"Cos'è?" - chiese Maria.

Demelza, incuriosita, lasciò il suo braccio e si avvicinò. A fatica si inginocchiò e dopo aver spostato della sabbia, la sua mano sfiorò una elaborata e dorata elsa. "Una spada?" - mormorò, dissotterrandola.

Maria si inginocchiò accanto a lei, curiosa. "E' un'arma. Sarà arrivata fin quì da chissà dove, magari è caduta da qualche nave pirata dopo una battaglia".

Demelza prese la spada in mano, tremante. Non aveva mai amato le armi e anche se Ross aveva un'arma simile su una parete del suo studio, non si era mai soffermata troppo a guardarla per timore e diffidenza. Nemmeno Ross ne sembrava attratto e a Nampara non era mai stata altro che un ornamento e un ricordo che suo marito aveva tenuto in memoria di suo padre Joshua, ma ora...

Ora tenendola in mano, mentre si specchiava nella lucentezza della lama e nella maestosità dell'elsa, si sentì forte. Le armi forse davano quel potere e lei ne aveva bisogno, anche se si trattava davvero, con tutta probabilità, di un'arma appartenuta ai pirati... Era un'arma raffinata, doveva valere molto denaro e di certo non era un normale pugnale da quattro soldi e chi l'aveva smarrita, doveva essersi disperato parecchio. Ed ora, avendola trovata, era sua...

Avrebbe potuto sotterrarla, rigettarla in mare... Lo avrebbe fatto fino al giorno prima ma l'incontro con Vincent Copper e Maria le aveva fatto capire che doveva cambiare atteggiamento e princìpi morali per vivere su quell'isola. Era una donna sola, con tre bambini da proteggere, circondata da un mondo ostile, pieno di pirati e di persone malvage come Copper. E tenere in mano quella spada, scoprì quasi con timore, le procurava uno strano e perverso piacere a cui non voleva rinunciare. Era bello sentirsi in qualche modo forte e in quel momento, dopo tanto, si sentiva così.

"Che ne facciamo?" - chiese Maria.

Demelza strinse l'elsa. "La portiamo a casa" – rispose, con una strana determinazione nel tono di voce. "La nasconderò sotto un'asse di legno del pavimento della mia camera da letto. Non lo deve sapere nessuno, sarà il nostro segreto".

"Sì signora" – rispose ancora Maria, senza obiezioni.



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