Un'Amica

di Stellato
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stessa domanda, risposta diversa ***
Capitolo 2: *** La ricetta di Sabine ***
Capitolo 3: *** Le Imperfezioni ***
Capitolo 4: *** Sonno e bordeaux ***
Capitolo 5: *** Si dice ***
Capitolo 6: *** Abbiamo sbagliato tutto ***
Capitolo 7: *** Anobium Punctatum ***
Capitolo 8: *** Storia delle parentesi ***
Capitolo 9: *** Limiti ***
Capitolo 10: *** Ri-conoscersi ***
Capitolo 11: *** Anice stellato ***
Capitolo 12: *** Mamma e figlia ***



Capitolo 1
*** Stessa domanda, risposta diversa ***


Stessa domanda, risposta diversa

 
 
Sulle prime aveva reagito con fredda cortesia.
Era un automatismo: a corte, quando uno sconosciuto le si avvicinava per intavolare conversazioni, era necessario reagire con la massima cordialità, ma dentro di sé partiva un conto alla rovescia, un orologio che ticchettava inesorabile per pochi minuti al massimo, fino ad un suo cortese “Vogliate scusarmi” con cui si congedava dall’interlocutore.
Così quando quella ragazza per tante volte e con tanta insistenza aveva provato ad attaccar bottone, lei si era mostrata diffidente, contrariata, infastidita, persino.
Ma aveva iniziato a tenerla d’occhio e a cercare di saperne di più.
 
Poteva avere all’incirca la sua età, il viso truccato ogni giorno in modo diverso non permetteva di indovinare con precisione. Sotto uno strato abbondante di cipria si celava un incarnato dorato, il colore di una frolla ben cotta, di chi non teme l’esposizione al sole e si bea della vita all’aperto. La chioma ramata spesso esponeva orpelli degni della stessa sovrana: piume colorate, composizioni floreali di ogni foggia e dimensione, diademi a non finire che suggerivano una notevole disponibilità economica. I grandi occhi color di foglia erano vivaci, curiosi, sempre accesi da un’attenzione che ultimamente aveva a fuoco soprattutto Oscar, vattelapesca perché.
 
Al solito, le informazioni nel dettaglio le erano arrivate dal passaparola raccolto da André, maestro indiscusso nell’arte di raccogliere le voci di palazzo e nella scrematura di queste dal pettegolezzo selvaggio, attività preferita dalla corte.
 
“Il suo nome è Sabine de Plantier, ma questo forse lo sai già visto tutte le volte che ti si è presentata. Nata Florentin… una famiglia borghese molto, mooolto ricca che risiede a Grasse” enfatizzò sgranando gli occhi. “I Florentin risultano tuttora tra i fornitori ufficiali di profumi della casa reale e non solo, se ho ben capito esportano in tutto il mondo.
Da quattro anni Sabine è la moglie del barone Raymond de Plantier, anche qui soldi a non finire: produttori di vino, proprietà in tutta la Francia tra cui un meraviglioso castello in Borgogna e altre tenute notevoli in Provenza, dove pare che si siano conosciute le famiglie e abbiano organizzato in fretta e in furia le nozze. Un’unione romantica di patrimoni spaventosi e un fresco titolo nobiliare per la giovane Sabine… a proposito, ha la mia età: ventun anni compiuti il mese scorso.”
Oscar si limitò ad un cenno del capo, lo lasciò continuare mentre passeggiavano nei giardini della Reggia, in un viale azzurrato da una moltitudine di iris appena sbocciati.
“Però si dice che non vada troppo bene il matrimonio: lui è sempre via per affari, ma in tanti parlano di altri interessi che a seconda della versione vanno dalle donne alla passione per l’entomologia, pensa! Nessuno sta loro col fiato sul collo per un erede perché il barone ha un fratello gemello cha ha già provveduto e Sabine de Plantier non sembra particolarmente interessata né alla vita da signora né a quella dorata di Versailles. Dopo una breve parentesi di feste e ricevimenti in cui ha fatto scalpore con le sue toelette eccentriche e costosissime si è dimostrata una partecipante poco entusiasta della vita di corte.”
“Come sarebbe a dire?” l’interruppe lei. “È sempre a Versailles da un mese a questa parte!”
“Qui entri in gioco tu, Oscar. Pare che stia raccogliendo informazioni su di te, non c’è una sola dama a cui non sia stata fatta una domanda sul tuo conto.”
“Ma perché? Cos’ha in mente, secondo te?”
André le rispose con un sorriso in bilico tra la comprensione e la presa in giro, e si allontanò di qualche passo di sicurezza prima di aggiungere: “Questo avremmo potuto già saperlo se fossi stata meno scontrosa e le avessi parlato tu stessa, Oscar.”
Il sasso che lei gli calciò colpì con precisione il dito più piccolo del suo piede, facendogli vedere le stelle.
“Stai diventando troppo suscettibile, sai???”
“Hm. Tienilo a mente, André.”
“Ahia… aspetta, dove vai? Fa malissimo!”
Lei fece dietrofront, un’espressione completamente diversa ad adombrarle il volto.
“Davvero ti ho fatto male?” chiese preoccupata.
Lui le prese la spalla a mo’ di stampella e continuò la commedia fino a strapparle un sorriso.
“Temo che perderò l’uso del piede. O di tutta la gamba. Non c’è da sottovalutare il colonnello de Jarjayes: persino con le pietre può ferire mortalmente il nemico!”
Lo accompagnò saltellante alla panca più vicina, ma era chiaro che non si trattava di nulla di grave. Faceva parte di un immenso assortimento di rituali che coltivavano dall’infanzia, la loro amicizia andava al di là delle differenze di rango e si perpetuava negli anni con la costanza rassicurante del nord delle bussole.
Di tanto in tanto c’erano questi siparietti che prevedevano solo loro due come spettatori, momenti buffi in cui tornavano bambini. Lui che prendeva ogni piccolo infortunio sul serio per buttarla nel ridicolo, Oscar che sminuiva ogni sintomo riguardante la propria salute e dava il La ad André per l’imitazione di sua nonna preoccupata.
Roba che faceva ridere solo loro due, ma comunque.
 
“André, non è che io sia così scontrosa di mio…”
Lui fece uno sforzo tremendo per astenersi dai commenti, ma si tradì con gli occhi. “Dai, smettila. Non lo sono così tanto di solito… è che negli ultimi tempi a corte sento un’ostilità crescente nei miei confronti; dammi pure della paranoica, ma mi sento circondata dai galoppini della Polignac e dalle sue bugie. Non riesco a fare a meno di pensare che sia sospetto l’improvviso interesse di questa donna… Provo solo ad essere prudente, capisci?”
“Lo capisco benissimo. Ma non credo proprio ci sia alcun pericolo in questo caso… in più ormai non hai scampo, sai?”
“In che senso, André?”
“È metodica questa tipa. Questa mattina si è rivolta direttamente a tua madre e si è fatta invitare la settimana prossima a villa Jarjayes per un tè, con la promessa esplicita che tu sarai presente.”
 
***
 
Da quel pomeriggio la sua ammiratrice si era volatilizzata.
Paradossalmente, Oscar era ancora più tesa; si aspettava di vederla sbucare da un momento all’altro e la cercava con lo sguardo, detestando la passività della sua situazione. L’avesse rivista, almeno, avrebbe provato a farsi un’idea chiara delle sue intenzioni prima di ritrovarsela in casa. Ma non poteva dargliela vinta, no davvero. Avrebbe presenziato al tè il minimo indispensabile per poi trovare una scusa… o poteva non presentarsi affatto?
Riemerse da quei pensieri grazie al lavoro, inserire le nuove reclute nei turni di guardia e riorganizzare ogni reggimento si rivelò un’impresa più ardua del previsto, la assorbì completamente per due giorni pieni. Persino la sera nel letto continuavano a venirle in mente le combinazioni di nomi – chi non doveva star con chi, chi e dove invece andavano assieme - e la distribuzione degli incarichi il più giusta possibile, anche se qualche protesta era inevitabile e andava messa in conto. C’era sempre qualcuno che si sentiva bistrattato, mai nessuno che non si sentisse all’altezza.
 
La domenica mattina si svegliò con un umore migliore e la voglia di fare una cavalcata. Dalla finestra della sua stanza filtrava il primo sole caldo, la promessa di una giornata primaverile come si deve nell’azzurro senza nuvole del cielo.
Si preparò con pigrizia, gustando una lentezza che si concedeva poche volte persino nei suoi giorni liberi, ed era più tardi del solito quando arrivò al tavolo della colazione.
A quell’ora della domenica buona parte dei domestici aveva il permesso di andare a messa e la casa rimaneva quasi vuota. In quell’assenza di rumori surreale, ad Oscar pareva di ritrovare l’intimità di cui godeva solo in vacanza, quando si ritirava ad Arras o in Normandia chiedendo la minima presenza di servitù, il necessario per non apparire sconveniente.
Nanny sbucò preoccupata; doveva stare aspettando con le orecchie tese di sentirla scendere perché era già nelle cucine a preparare il pranzo. “Ti senti bene Oscar? Cosa succede?” le chiese ansiosa.
“Va tutto bene, me la sono solo presa con calma, per una volta. Sai dirmi dov’è André?”
“È andato a Parigi con Gustave per delle commissioni, sono partiti un’oretta fa. Preferisci del tè o della cioccolata per colazione?”
“… Ti ha detto quando sarebbe rientrato?”
“Non mi ha detto nulla, ma immagino sarà di ritorno tra qualche ora, di solito avvisa prima se intende trattenersi fuori tutto il giorno.”
“Va benissimo del tè, grazie.”
 
Attese. La prospettiva di un pranzo tardo alla locanda da Sargent sfumò col passare delle ore. Il posto ingolosiva soprattutto lui ed era una delle mete preferite dei loro giorni liberi e assolati, quando i tavolini all’aperto sul retro del locale si affollavano di visitatori, ma nonostante questo Sargent faceva sempre spuntare come per magia un posto per loro, clienti affezionati e a dir poco unici, l’ultima figlia dei Jarjayes che vestiva da uomo e il suo bell’attendente dagli occhi verdi e dolci che parevano usciti da un romanzo.
Provò a sfamarsi con del pane e formaggio per prendere velocemente la via della porta e concedersi la cavalcata rimandata così a lungo, ma Nanny pretese che mangiasse lo stufato di verdure e carne che aveva snobbato a pranzo con la prospettiva di uscire, la qual cosa le prese altro tempo e il sole cominciava già ad abbassarsi quando finalmente lasciava le stalle in sella al suo cavallo bianco.
Macinava pensieri contrastanti, sentendosi sciocca per aver aspettato tanto senza aver un accordo preciso con André, ma continuava a cercare un appiglio, un motivo di biasimo che comprendesse anche lui, che l’aveva lasciata sola nel loro giorno libero.
Non era scritto da nessuna parte che dovessero trascorrerlo assieme.
Per lavoro, lui le stava già alle costole di continuo e senza orari precisi a difenderlo dalla sua invadenza, nella pratica la sua unica parentesi di libertà era proprio la domenica.
All’occorrenza, André era SEMPRE a sua disposizione. Lo sapeva benissimo. L’aveva ribadito lui stesso in più occasioni tra il serio e il faceto, ma soprattutto non aveva mai smesso di dimostrarlo.
Ora, lei si rendeva conto di non essere la persona più semplice del mondo. E che nella loro situazione in molti avrebbero espresso delle perplessità circa la possibilità di definire la loro come un’amicizia sincera. Ma profondamente lei non aveva mai dubitato della solidità del loro legame.
C’era. Reale come la terra su cui stava correndo il suo cavallo, come il paesaggio che aveva attorno, ma che fatto di troppe definizioni, sfuggiva alla presa.
Le ombre degli alberi si allungavano sul sentiero e sembravano ostacoli, pause di luce e oscurità accecanti a farle da contraddittorio.
 
E se le cose fossero cambiate?
A prescindere da quello che era il loro legame, André avrebbe potuto da un momento all’altro lasciare casa Jarjayes per cercare qualcosa di diverso. Una vita nuova, una sua famiglia.
Come aveva fatto a non pensarci mai prima d’ora?
Come aveva fatto a non considerare una possibilità così ovvia e tangibile, che per quanto ne sapeva poteva essere già nei desideri di André?
Perché non ne avevano mai parlato di quegli argomenti?
La risposta probabilmente stava nel fatto che lei era la via di mezzo che era, una donna a cui però prospettive come il matrimonio venivano inevitabilmente precluse e magari una persona sensibile come André riteneva inopportuno aprire quel discorso.
Le piombò addosso un’angoscia mai sentita prima, che nel suo modo contorto di gestire le emozioni divenne una specie di rabbia arresa, muta e fine a se stessa, che la portò solo a galoppare più veloce, a provare a stancarsi.
Tornò alla villa ben dopo il tramonto e la prima cosa che sentì nel parco fu la risata inconfondibile di André. Appena girato l’angolo della casa lo vide all’ingresso della stalla, seduto su una botte in compagnia di Gustave, il maniscalco, e un ragazzo più giovane che non aveva mai visto, o almeno così le sembrò nella penombra della scena.
“Oscar!” Esclamò lui appena la notò. Le corse incontro con l’aria preoccupata e prese subito le briglie del cavallo, a cui carezzò il muso in un’accoglienza calorosa per mezzo equino “Ma dove eri finita?”
“Ho fatto una passeggiata.” Rispose lei atona.
Nessuno dei ragazzi fiatò, l’istinto suggerì a tutti loro che quella era una risposta da temere e si rialzarono dalle loro sedute, pronti a togliere il disturbo.
Ma quella fu l’ennesima incomprensione. Oscar si sentì più che mai la padrona, il dovere che interrompe il divertimento, la fine della domenica.
André non capiva. Cercò la cosa giusta da dire, mentre la osservava scendere di sella e sbattersi la polvere dai calzoni con noncuranza. Forse non c’era affatto una cosa giusta da dire.
“Stai bene? Sembri un po’ giù o sbaglio?” sussurrò per non farsi sentire dagli altri due, ma lei rispose a voce piena, anche se nuovamente distaccata, quasi con sufficienza: “Ma no, sto benissimo. Stai pure coi tuoi amici, è il tuo giorno libero, hai il diritto di rilassarti. Io rientro, vado a riposare. Buona serata a voi” concluse a voce ancora più alta per non lasciare alcun dubbio che il saluto fosse rivolto anche a loro.
Quelli risposero con timidezza, le arrivarono dei saluti impediti che già dava loro la schiena e sollevò un braccio di rimando.
André c’era rimasto così male da rimanere senza parole, la lingua appiccicata al palato da uno strato di amarezza, l’ingiustizia di fondo mille volte più debole della voglia di correrle incontro e provare a risolvere, ma avrebbe dovuto aspettare l’indomani, perché era chiaro che adesso non sarebbe riuscito a parlarle neppure minacciandola con una pistola.
 
***
 
Solo che la mattina seguente André non avrebbe potuto parlare comunque, preda di un mal di gola repentino quanto violento, con l’aspetto malconcio di chi aveva aggiunto l’insonnia alla malattia e un fil di voce appena al momento della colazione, così che venne subito assalito dalla nonna quale potenziale veicolo di contagio per madamigella Oscar e spedito lontano da lei a riposare.
 
Non era certo la prima volta che Oscar si recava a Versailles senza André.
Ma quella mattina, tra i veli di nebbia che si sollevavano dai campi imbiancati di rugiada, la cosa assunse un significato diverso, quasi di una premonizione.
Le cose sarebbero cambiate.
Non c’era da prendere precauzioni, non avrebbe potuto farci nulla quando sarebbe successo perché non era questione di sua volontà, semplicemente. Le vite degli altri andavano avanti, mentre la sua si ripeteva con le stesse dinamiche e negli stessi scenari, in cui si immaginò muoversi come una marionetta, appesa ai fili che l’avrebbero trascinata sempre più in alto, fino al ruolo di generale, con grande gioia di suo padre.
 
Ma lei lo voleva?
 
A lei in realtà stava bene.
Aveva un lavoro a cui dedicarsi e in cui dare il massimo, godendo di libertà ed esperienze impensabili per il suo sesso. Aveva le sue passioni e la possibilità di coltivarle, la musica e la lettura in primis. La sicurezza della sua famiglia, che pure c’era al di là della scarsa frequentazione tra loro.
C’erano i contro, sì, ma c’erano anche degli indiscutibili pro.
Solo che quell’equilibrio fragile prevedeva una necessaria condivisione con qualcuno. Non aveva mai notato prima quanto André fosse un elemento imprescindibile da quel quadro e la sola ipotesi di perderlo la mandava nel panico.
 
Nel circolo vizioso di simili pensieri la giornata trascorse in un lampo, senza che un’anima viva si accorgesse del suo stato d’animo turbato. Era così abituata a dissimulare le emozioni che per quanto potesse sentirsi assalita e prostrata in quel lunedì di disagi e di conseguenze delle riorganizzazioni non ci fu un solo attimo in cui perse il polso della situazione. Lei aveva il controllo. Era questo che trasmetteva ad ogni gesto, ad ogni interlocutore che le si presentava con inutili proteste.
Quello era il primo anno in cui, da colonnello, aveva lasciato la responsabilità di addestrare le reclute completamente nelle mani di Girodel e per molti, quella mattina, schierati in drappelli ordinati nella piazza d’armi alla rassegna delle truppe, era la prima volta che l’osservavano da vicino.
“Ha qualcosa di leggendario” sussurrò al vicino uno di loro “È così bella… ma emana un senso di tragedia, di inafferrabile… e i suoi occhi, vorrei vederli meglio, ma ho come paura che potrebbero trasformarmi in pietra!”
 
***
 
Sedici alte colonne di marmo bianco incorniciavano il corridoio che conduceva ai suoi appartamenti a Versailles, stanze che più che altro usava sua madre, ma era già lì e decise di approfittare della comodità di quel servizio.
Da quando era passata in quel corridoio la prima volta, camminando, contava mentalmente le colonne e le ampie vetrate che si aprivano tra loro, i tendaggi pesanti oggi erano stati tutti ritirati e un mare di luce allagava il pavimento ligneo leggermente crepitante.
 
Una,
Due…
 
Uno scricchiolio imprevisto la fece voltare di scatto, ma non c’era nessuno. Non aveva senso, in effetti, avrebbe dovuto sentire dei passi, il rumore dei tacchi su quella superficie.
 
Tre,
Quattro,
Cinque…
Ma la sensazione di essere seguita continuava e quanto più la presenza alle sue spalle si dimostrava silenziosa, tanto si dimostrava preoccupante. Malintenzionata.
 
Si voltò ancora di scatto alla decima colonna, ma di nuovo, il corridoio era deserto.
Del pulviscolo bianco galleggiava nell’aria satura di luce, solo quello attorno a lei volava in modo stizzito, in risposta allo spostamento d’aria improvviso.
Stava forse diventando paranoica? Se lo chiese con la voce di André, nella sua testa.
Dannazione a lui, alla sua assenza ingombrante che le forniva un controcanto ai pensieri.
 
Tredici,
Quattordici…
 
Non poteva essere impazzita tutto ad un tratto. Il suo sesto senso non l’aveva mai tradita e attese dietro l’ultima colonna con la spada inguainata nella mano il suo inseguitore misterioso.
 
“AAAAAAH!”
 
L’urlo femminile riecheggiò nell’ambiente ampio e vuoto, paralizzandole entrambe.




“Voi???”
“Dio, che spavento…” disse l’altra, facendosi aria un paio di volte col ventaglio per riprendersi mentre si teneva una mano sul petto, a contenere la paura.
Oscar osservò Sabine de Plantier con nuovo sospetto, la figura non filiforme inguainata in un frusciante abito di taffettà verde pistacchio, vistoso, ingombrante e rumoroso. Come diamine aveva fatto a non farsi sentire?
“Cosa stavate facendo? Perché questo agguato… e come diamine avete fatto ad essere così silenziosa?” incalzò Oscar.
L’altra sorrise fiera, un orgoglio infantile a distenderle di nuovo i tratti del viso: “Campionessa di nascondino da ragazza, lo ammetto. Ho lasciato le mie scarpe laggiù e andavo di colonna in colonna… Ma anche voi vi siete nascosta qui dietro.”
“Sì, ma è stato per… Ahhh…” Oscar si sentì esasperata, ci mancava solo questa. “Come fa una signora a girare sempre senza dame di compagnia? Non dovrebbero controllarvi in qualche modo?”
“Le pago più di quanto faccia mio marito, basta questo a garantirmi qualche parentesi di libertà” rispose lei candida.
“E non avete paura delle conseguenze per la vostra reputazione?”
Un lungo sbuffo come risposta sembrò esprimere la seccatura di entrambe, ma fu Sabine a incrociare le braccia per prima e ad esprimere la sua frustrazione.
“Non deludetemi così Oscar François de Jarjayes; ho fatto tanto per riuscire a parlare con voi e poi non fate che ripetere le stesse osservazioni trite e ritrite che fanno tutti.”
Riuscì a spiazzarla. Senza le scarpe, la donna non le arrivava neppure alle spalle e seppure non propriamente minuta, le fece pensare ad un grillo. Un grillo verde, formoso e petulante che si inseriva a gamba tesa in quella giornata tetra e fu la prima cosa che – quasi – la fece sorridere.
“Non capisco il motivo di questa dedizione, francamente. Non siete forse invitata a casa mia tra qualche giorno?”
“Figurarsi, visto il modo in cui vi siete svicolata dai miei approcci sinora, posso solo immaginare le scuse che avreste inventato o i pochi minuti in cui avreste fatto un’apparizione di circostanza prima di lasciarmi con vostra madre. Donna mite e affabile, a proposito, mi sembra chiaro che non abbiate preso da lei queste caratteristiche.”
Touché, pensò Oscar. Tutto fastidiosamente vero, ma continuava a sfuggirle il fine ultimo dell’altra.
“Cosa volete da me, madame de Plantier?”
Un sorriso speranzoso comparve sul volto del grillo a sentire il proprio nome.
“La vostra amicizia.”
La bionda l’osservò interdetta. A disagio, indecisa tra il sentirsi lusingata e la voglia di andar via da quella situazione surreale.
Sabine continuò: “Mi rendo conto di suonarvi naïve, ma vedete… io qui a Versailles non ho fatto che incontrare personaggi meschini, sono stata misurata, valutata e giudicata, non mi rimane che uno stuolo di conoscenti a cui vado bene per i miei soldi e che mi annoia e una quantità ancora maggiore di alta nobiltà perbenista a cui faccio storcere il naso, col mio passato da lavoratrice e il mio titolo di poche generazioni preso col matrimonio. Magari si è trattato solo di sfortuna, ma ancora non sono riuscita ad allacciare un rapporto vero. Così ho pensato di aiutare il destino cercando con razionalità delle persone diverse da frequentare… qualcuno fuori dalla pantomima di corte, che pensasse con la propria testa, ma comunque approcciabile. Ho finito col convincermi che voi ed io potremmo andare davvero d’accordo, madamigella… colonnello? Come preferite che vi chiami?”
 
Oscar non voleva mostrarsi ostile. Percepiva la sincerità di quella donna e lo sforzo che stava facendo per aprirsi in quel modo imbarazzante con lei, ma pur sentendosi in colpa tutto il suo corpo respingeva quella situazione. Dalla testa ai piedi, si sentiva rigida, chiusa in una corazza invisibile di insicurezza e curiosità che in egual misura lottavano tra loro e creavano la stasi che stava vivendo. Avvezza anche lei alle sole chiacchiere superficiali, tutta quella verità da una sconosciuta la disorientava. Proprio quel giorno, poi.
“Siete molto gentile, madame. Però credo mi stiate sopravvalutando. Non sono nulla di speciale e…”
“Certo, siete solo una donna a comando delle guardie reali del cui coraggio si parla in tutta la regione e forse anche oltre. Mi domando come abbia fatto a ritenervi interessante, davvero…” chiosò l’altra con sarcasmo.
La voglia di andare via prese il sopravvento.
“Non posso che ringraziarvi per questa attenzione, ma vedete, i miei incarichi non mi permettono di trattenermi oltre e devo lasciarvi. Mi auguro di rivedervi al più presto, comunque. Non temete; non mancherò al tè. Con permesso, madame.”
“Aspettate!”
E adesso cosa voleva?
“Dove state andando?” insisté quella.
Oscar sospirò, sarebbe mai finita?
“Sto passando un momento qui dietro per gli appartamenti della mia famiglia, volevo… rinfrescarmi.”
Nell’altra sbocciò un nuovo entusiasmo che sulle prime non capì.
“Oh, ma davvero? Posso accompagnarvi?”
“Prego???” rispose una sbigottita Oscar.
L’altra sembrava del tutto a suo agio.
“Ma sì, le donne vanno sempre al bagno assieme; è la normalità! E per me sarebbe un sollievo, vorrei andare, ma le mie stanze sono completamente nell’altra ala della reggia, anche affrettandomi ci metterei un bel po’ e non so se ce la faccio… Posso chiedervi di approfittare delle vostre camere?”
La situazione rasentava il ridicolo, anzi, era di certo il primato assoluto del ridicolo che si fosse mai trovata a vivere Oscar in quel di Versailles. Ma rifiutare in quel frangente sarebbe stata una vera e propria scortesia, e per quanto fosse insolita la circostanza le fece strada senza altre obiezioni.
“Prego, da questa parte.”
 
***
 
Una volta recuperate anche le scarpe della donna, arrivò finalmente il momento di congedarsi.
Tutto sommato, Oscar doveva ammettere che avvertiva un senso ambivalente di vicinanza con quella Sabine, qualcosa che allo stesso tempo aveva il potere di metterla a proprio agio e di tenerla sulle spine. Si sentiva cauta, vigile, ma non era una sensazione spiacevole.
 
“Vi ringrazio ancora… siete stata salvifica!” disse quella ridendo soddisfatta.
“Lieta di esservi stata d’aiuto, madame. Col vostro permesso.” Disse con un inchino, prima di girare i tacchi.
Non aveva fatto che qualche passo che si sentì ancora chiamare.
“Madamigella Oscar, scusate…”
Cos’altro poteva esserci???
Si voltò tradendo un pizzico di esasperazione e stavolta si sorprese di trovare Sabine de Plantier seria, quasi mesta.
“Davvero, non era mia intenzione infastidirvi con la mia insistenza.” Disse quella. “Volevo solo con cui parlare per davvero.” Inghiottì a vuoto prima di continuare, la voce appena più bassa.
“Non vi sentite mai sola?”
 
Quella domanda.
Riemergeva da un passato non troppo lontano, quando Fersen con le stesse e identiche parole gliel’aveva rivolta prima di salutarla e tornare in Svezia.
Quel giorno non aveva avuto nessun dubbio sulla risposta, e aveva garantito che la sua situazione le risultava più che soddisfacente. Si era sempre sentita integra. Funzionante.
Da allora però qualcosa doveva essere cambiato.
Una crepa, dei dubbi.
Da una feritoia dell’anima le sfuggì senza riflettere oltre una risposta diversa.
 
“Non succede a tutti, prima o poi?”
 
Si scambiarono un sorriso, e quello fu l’inizio.
 
 
 
 
 
Note assortite di ringraziamento: grazie ad Alga, che sa da dove nasce tutto questo. Ad A.T. che ha fornito delle informazioni per un punto cardine di questo capitolo, ma che non so come ringraziare, sospettando per una quasi omonimia che sia presente su questa piattaforma, ma non volendo importunarla mettendo qui il suo nome per esteso mi affido alla sua intuizione che mi sembra assai più affidabile della mia capacità di spiegarmi. A Polla, che è il sorriso sincero a cui posso far riferimento.
:*

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Capitolo 2
*** La ricetta di Sabine ***


La ricetta di Sabine
 
Uno dei privilegi concessi ad André crescendo a casa Jarjayes era stato quello di avere una stanza propria, uno spazio tutto per sé, diversamente da altri domestici anche molto più grandi di lui che continuavano a condividere la camera con due o più persone. Persino sua nonna, pur disponendo della stanzetta più comoda e luminosa tra quelle concesse alla servitù, la condivideva con due giovani ragazze.
Certo non si trattava di un ambiente lussuoso, ma in quelle quattro mura con lo scarno mobilio e una serratura con cui volendo poteva chiudere all’esterno il resto del mondo, il ragazzo aveva sempre visto una delle maggiori espressioni della considerazione che aveva per lui la famiglia di Oscar, ed era certo l’aspetto materiale della sua situazione di cui più era grato.
 
Proprio davanti alla porta di questa stanza, un’esile figura bionda se ne stava impalata a fissare un punto indefinito del legno, incerta sul bussare o meno.
Lo sapeva a letto da due giorni e ancora senza voce; la nonna le aveva proibito nel modo più assoluto di avvicinarsi ai malanni del nipote e non aveva potuto intrufolarsi con lei a visitarlo, né d’altra parte ci aveva provato prima di quel momento.
Il risentimento senza nome che aveva provato quella domenica si era dissolto, sostituito dalla preoccupazione per la sua salute e la voglia di raccontargli delle ultime novità, di rivederlo.
 
Al bussare ovattato seguì una risposta ancor più impercettibile: un suono rauco seguito da un sibilo, come il vapore che sfugge dalle pentole in cottura.
André aveva l’aria stropicciata e pallida di chi non riesce a svegliarsi del tutto e senza le energie per tirarsi su a sedere rimase raggomitolato tra le coperte in disordine, ma sorrise ugualmente nel vederla entrare.
Provò ad articolare un saluto con il filo di voce straziata che l’aveva accolta, ma lei bloccò il suo eroico tentativo, accomodandosi senza cerimonie sulla sedia accanto al letto.
“Non avevo idea che stessi ancora così male... mi spiace, André.”
L’altro rispose con un sospirone a occhi chiusi. Poi optò per una smorfia dissimulatrice, qualcosa che doveva significare un non è nulla, ma in quello stato risultò poco convincente.
“Tua nonna sta preparandoti delle mele cotte, credi di riuscire a mangiare qualcosa?”
Lui scosse piano la testa con un’espressione affranta.
La cosa suonò come un campanello d’allarme per Oscar: André che rifiutava le mele cotte non si era mai visto nei secoli dei secoli amen.
“Ma hai la febbre?”
Lui annuì e richiuse gli occhi lucidi, e di lì a poco riscivolò in uno stato di semi incoscienza febbricitante. Aveva il respiro affannato, la camicia allentata a rivelare più pelle del solito, i capelli sciolti e sparsi in onde scure e liquide sul guanciale ricamato.
 



Stava diventando un bell’uomo, realizzò Oscar.
Non aveva nulla che non andasse, oltre al viso regolare e alla figura atletica aveva una gran bella testa. Era un animo gentile, ma sveglio. Dotato di un intuito e un’empatia per il genere umano che cresceva negli anni e che a volte la lasciava senza parole, sapeva mettere a suo agio le persone; non a caso era lui a raccogliere informazioni quando era necessario. Inoltre aveva studiato; per certe materie poteva dirsi più preparato di lei e l’educazione non gli era mai mancata.
 
Quale sarebbe stata la compagna ideale di un uomo simile? Non riusciva ad immaginare qualcuno accanto al suo compagno d’infanzia, né a figurarsi la vita di André dopo di lei, come padre di famiglia circondato da marmocchi, ad esempio.
Riusciva però a immaginarselo innamorato. Per quelle che erano state le sue interazioni col gentil sesso di cui era stata spettatrice, non era mai stato meno che cortese e di lì non ci voleva molta fantasia ad immaginare quelle attenzioni diventare struggimento.
Inoltre l’aveva visto tante volte leggere poesie d’amore negli ultimi anni, ricopiarne stralci nei suoi taccuini, o addirittura ne aveva condiviso entusiasta la bellezza dei versi migliori con lei.
Tra loro il cultore dei titoli romantici era sempre stato lui, mentre lei li aveva snobbati a lungo per partito preso, con il suo stare sulla difensiva verso ciò che era considerato tipicamente femminile.
Crescendo, era riuscita a smantellare molte delle sue idiosincrasie in merito al voler dare una certa immagine di sé, e l’impegno che da piccola aveva messo nel sembrare un vero uomo si era spostato a favore dell’essere irreprensibile a lavoro e a migliorarsi come essere umano.
Ma non era semplice disinnescare tutti quei meccanismi e solo di recente aveva imparato ad apprezzare delle letture più “leggere”: arrivata alla conclusione che comunque avrebbe sempre trovato in ogni libro delle sotto-trame amorose, si era arresa anche a quel filone letterario, riuscendo pure ad apprezzare molti romanzi consigliati da André.
Forse sarebbe finito a fare il precettore con quell’entusiasmo nei confronti della letteratura e il suo slancio nel coinvolgere gli altri nelle sue scoperte.
 
Respirava davvero male, sembrava affaticato e scosso da brividi.
La febbre doveva essere molto alta, considerò lei sentendosi inutile.
Immerse nell’acqua fresca una delle pezze lasciate accanto al catino sul comò dalla nonna e con quella provò a dargli un po’ di sollievo passandogliela sulla fronte imperlata di sudore.
Al contatto con la stoffa fresca lui strinse le spalle in una difesa immaginata, i sensi infreddoliti nel corpo bruciante. Oscar sollevò con l’altra mano le coperte accartocciate per poi rimboccargliele con cura sotto il mento. Il paziente sembrò affondarci volentieri; si immerse in quel rifugio fino al naso e ancora una volta Oscar ne sistemò l’orlo, per esser certa che potesse respirare.
Fu in quel momento che la mano bollente di André strinse la sua, inaspettata.
Gli occhi dischiusi e complici del ragazzo la puntavano colmi di gratitudine, sbucando dal bozzolo che gli aveva costruito.
 
Per alcuni istanti non disse nulla. Lasciò che quel contatto calmasse i suoi timori sul loro futuro, lo prese come una rassicurazione: loro due erano lì, non andavano da nessuna parte per adesso, poteva tirare un sospiro di sollievo.
Poi sistemò meglio la mano di André nella sua, ricambiando la stretta con tenerezza.
“Vedi di stare meglio presto, d’accordo? Ci sono un sacco di cose che…”
“COSA CI FAI QUI DENTRO, OSCAR?”
 
In pochi istanti si ritrovò scaraventata fuori dalla stanza, la nonna non accettava compromessi sul punto. Il dottore aveva detto che con le brutte placche che si ritrovava, André avrebbe dovuto sfebbrare ancora per qualche giorno, ma che sarebbe andato tutto bene vista la costituzione solida del ragazzo.
“Puoi stare tranquilla, Oscar, guarirà presto. Pensa piuttosto a non prenderti i malanni di questo sciagurato, non solo si ammala, poi mette anche a rischio la salute di madamigella!” concluse tra sé e sé la nonna, sfogando qualche passo di frustrazione nel corridoio. “Benedetto ragazzo, ma tu guarda che inutile…”
“Non dirlo, Nanny” la fermò Oscar. “André non è affatto inutile, è fondamentale.”
L’anziana rimase interdetta da quel tono serio. Per di più quando era ovvio che lei stava solo scherzando, mentre Oscar sembrava tormentata, come se dietro quell’obiezione ci fosse molto altro.
“Piccola mia, lo so bene che non è inutile…” portò una mano rugosa alla guancia fresca della ragazza e Oscar piegò impercettibilmente la schiena per seguirne la carezza a occhi chiusi, gustando il momento.
Da quanto tempo era diventata così piccola la sua Nanny?
“Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbe durata così a lungo? Che sareste cresciuti così uniti, voi due, nonostante tutto…”
Oscar sembrò risvegliarsi.
“Perché parli in questo modo? C’è qualcosa che dovrei sapere?” chiese Oscar liberandosi dalla carezza e afferrandole le spalle in una stretta salda.
La nonna la guardava enigmatica, provando a capire il motivo di quella smania.
“André ha intenzione di andar via? Te ne ha mai parlato?” chiese ancora la giovane piantando gli occhi vividi nei suoi pieni di sorpresa: erano anni che Oscar non si esponeva a quel modo con lei.
Disorientata, si chiese se fosse accaduto qualcosa di cui non era a conoscenza, sempre terrorizzata che quel delicatissimo equilibrio che li riguardava potesse infrangersi. Fece mente locale e proprio non riuscì a cogliere cosa potesse esserci nella mente della ragazza.
Eppure quell’apertura le permise di essere sincera, di parlarle di quell’argomento spinoso per la prima volta, visto che gliel’aveva servito su un piatto d’argento. Sospirò, prima di rispondere.
“Ma no, no che non vuole andar via… solo che prima o poi succederà, tu questo lo sai bambina mia, vero?”
Quella reazione così come era arrivata andò via e si spense. Gli occhi di Oscar erano di nuovo lontani, impenetrabili.
“Non sono più una bambina.” Glissò lei con un sorriso a metà.
“No, non lo sei, Oscar, non lo sei. Per molti aspetti sei diventata grande fin troppo presto, l’ho sempre pensato. Ma tu per me sarai sempre la mia bambina, lo sai.”
Si lasciò abbracciare, e stringendo a sua volta la nonna si sentì travolgere dalla nostalgia. Non riusciva a ricordarsi dell’ultima volta che era accaduto, di quando aveva sentito così vicino a sé l’odore rassicurante di caminetto e di cucina della sua Nanny.
 
***
 
Mentre seguiva con lo sguardo la figura di Oscar svanire nel buio del corridoio, le venne in mente un episodio di quando la sua pupilla era ancora uno scricciolo e suo nipote era in casa da poco più di un anno.
Avevano iniziato molto presto ad essere inseparabili in ogni attività, e André pareva essere resuscitato. Da quel bambino mesto e un po’ spaventato che aveva portato con sé dalla Bretagna era riemerso un cucciolo d’uomo gioviale, con un carattere mite ma allegro, spensierato, che le ricordava quello del figlio alla sua età.
Una sera aveva messo a letto Oscar ancora esagitata da una giornata di giochi in cui non era riuscita ad avere la meglio sul suo amico, che nella lotta corpo a corpo si dimostrava un osso duro, mentre con la spada non c’era storia.
Allora quella peste bionda travestita da angelo le aveva chiesto quale fosse il punto debole di André. Insisteva che le rivelasse il suo segreto, così poi lo avrebbe sconfitto, diceva, sentendosi una vera stratega.
Nanny ci aveva riflettuto per qualche secondo, ma poi le aveva riposto che la cosa più cara in assoluto, ciò che senza dubbio era il tesoro più prezioso per André…
- ricordava perfettamente la bambina pendere dalle sue labbra in quell’attesa -
… era proprio lei, Oscar.
Al che seguirono calci nelle coperte e musi e recriminazioni, ché quell’informazione era assai inutile ai suoi fini bellici.
 
Il guaio era che la debolezza di André non era mai cambiata.
Con il passare degli anni, suo nipote aveva solo imparato a rendere meno ovvio ciò che lei vedeva ancora con chiarezza e che ad Oscar invece sfuggiva.
 
***
 
Ricevere qualcuno a casa Jarjayes prevedeva una grande mobilitazione.
Ambienti, argenteria, personale, tutto doveva essere perfettamente in ordine come si addiceva alla casa di un generale (casa che oltretutto aveva come governante la nonna di André, dal piglio militare paragonabile a quello del suo padrone).
“Oscar, ma sei ancora in uniforme, non vai a cambiarti?” cinguettò la madre alla figlia che si guardava attorno nell’ingresso, sorpresa dal fermento, appena rientrata da Versailles.
“Ma che succede?” chiese stupita.
“Sta venendo a trovarci madame de Plantier.”
Oscar cascò dalle nuvole. L’aveva già rimosso.
“Te ne eri dimenticata?” chiese la madre.
Assolutamente sì, avrebbe dovuto rispondere con sincerità. E ancor più sinceramente avrebbe potuto ammettere che non aveva la minima voglia di ricevere qualcuno, men che mai un qualcuno impegnativo come quella baronessa.
“Ma no, madre. Non mi aspettavo questo trambusto, tutto qui. Vado a cambiarmi.”
 
A Marguerite de Jarjayes piaceva avere ospiti. Accadeva sempre più di rado; lei era a Versailles tutto il tempo e le figlie “mondane” tutte accasate, così le visite erano diventate per lo più quelle delle suddette figlie e delle loro famiglie acquisite, ma avveniva più spesso il contrario ed era lei a muoversi, per semplicità.
L’idea del tè con quella giovane ragazza così interessata ad Oscar l’aveva messa d’ottimo umore, il suo educato auto-invito era stato una ventata di freschezza e la incuriosiva capire cosa sarebbe successo con la figlia, quanto quest’ultima sarebbe stata disponibile alla socializzazione. Quali potevano essere i margini di avvicinamento di due personaggi così diversi tra loro?
 
C’era stato un tempo tetro in cui il marito aveva voluto persino che venisse tenuta lontano dalle sorelle pur di non fornirle esempi femminili, pur di non rovinare quella sua opera d’arte. Erano gli anni in cui Oscar credeva ancora di essere un maschio in piena regola e non si stupiva più di tanto di quella severità anche emotiva nei suoi confronti; la bambina aveva sempre avuto una lungimiranza, una fiducia verso tutti loro che la commuoveva, e che a guardare indietro la riempiva di un senso di colpa sconsolato a non aver saputo lottare per lei, o almeno opporsi agli aspetti più severi e inutili di quell’educazione maschile.
Non fosse stato per André, che però lavorava per lei e immaginò non contasse, la sua Oscar era diventata una creatura solitaria.
Circondata da mille persone ogni giorno, ammirata da tutti, eppure infinitamente sola nella sua diversità.
Era fuori tempo massimo sperare per lei che potesse avere un’amica?
 
***
 


L’ospite entusiasta arrivò puntualissima con una dama di compagnia al seguito, una giovane donna dalla bellezza gracile e spaventata che sembrava in soggezione lei stessa per i modi esuberanti di madame de Plantier.
Quest’ultima indossava un fresco abito da giorno a righe bianche e rosse, un po’ troppo tirato sul corpetto e sul seno abbondante così che la geometria regolare della fantasia diventava curva in più punti. Ad Oscar ricordò una caramella veneziana, ma ancora una volta trovò che la scarsa sobrietà della mise di quella donna stesse nel trucco: il bianco posticcio del viso era così definito rispetto al colore naturale degli avambracci da sembrare una maschera, i pomelli delle guance marchiati dal rosa più intenso che avesse mai visto.
Eppure il sorriso scanzonato con cui accompagnava il tutto riusciva ad essere più forte del resto, rendendo al massimo pacchiano ciò che a uno sguardo disattento poteva sembrare volgare.
Portava al polso un piccolo cartoccio legato a un fiocco, che si rivelò essere un piatto di dolcetti ancora caldi. Non si era ancora tolta lo scialle che già stava offrendoli e madame Jarjayes sollecitò la servitù per il tè, giacché già iniziavano a mangiare mandando all’aria ogni cerimoniale.
“Ma perché, non era mica necessario madame de Plantier!”
Sabine gongolava, non faceva il minimo sforzo per contenere la felicità che le dava quella visita.
“Dalle mie parti - ah, non so se ve l’ho detto che vengo da Grasse - dicevo, è buona educazione non presentarsi a mani vuote a casa altrui… E poi ci tenevo a farveli assaggiare, sono bocconi alle viole; li ho fatti io stessa con una ricetta della mia famiglia.”
“Hanno un profumo celestiale” commentò Marguerite.
“Vengono meglio quando le violette sono fresche, ma quest’anno la fioritura è stata così breve, le temperature sono salite subito” disse Sabine. Sporse il piattino verso Oscar che se ne stava ancora un po’ in disparte, al di là della cerchia di poltroncine bianche dove il gruppo di donne si stava accomodando. “Assaggiatene uno, madamigella Oscar!”
Lei non se lo fece dire due volte.
I dolcetti tondi erano morbidi all’interno ed emanavano ancora il tepore del forno, i petali scuri del fiore spiccavano nell’impasto chiaro. Il sapore ricordava quello delle madeleine, anche se di certo vi era meno uovo ed erano ancora più soffici, quasi sembrava pasta di mandorla. Il profumo di violetta era una nota delicata, zuccherina, né troppo forte né così debole da poter essere ignorata.
Ne avrebbe potuto mangiare un quintale senza stancarsene.
“Ma sono meravigliosi!” commentò con la bocca ancora in estasi e gli occhi sgranati, per il compiacimento della sua ospite che ad avere una coda avrebbe scodinzolato.
“Non sapete quanto sia contenta che vi piacciano!” chiocciò soddisfatta.
Vennero serviti il tè e altre prelibatezze di casa Jarjayes, dei più comuni sablée d’accompagnamento e del pane al cioccolato, che Oscar amava.
“Essendo cresciuta tra mastri profumieri dovete avere un occhio davvero speciale per i fiori”
osservò madame Marguerite.
“Più che altro ho il naso!” rispose Sabine. “Ho sempre lavorato nell’attività di famiglia, mio padre diceva che ero un ottimo mastro profumiere io stessa. Magari il suo non era un giudizio troppo obiettivo, però il mio olfatto è sempre stato notevole… ci sono così tante cose che ricordo non per suoni e immagini, ma che tornano alla mia memoria nell’odore, note distinte di luoghi e spazi impresse a quel modo…” Chiuse gli occhi immaginando chissà cosa, lasciando fuori le interlocutrici da quel momento. “Non è strano che lo stesso senso dimori in ognuno di noi in misura così differente?” continuò. “Ecco, credo che alla reggia di Versailles in molti abbiano completamente perso l’uso del proprio naso: non è possibile non accorgersi della sgradevolezza di certi odori!” esclamò con veemenza facendo sorridere di gusto madame Marguerite.
Lei ormai non ci faceva più caso, ma quel dettaglio da giovane era stato uno dei motivi per cui non dimenticava mai di portare con sé un ventaglio alla reggia. Non era stato semplice abituarsi.
“Sapete, questa è la prima cosa che mi ha fatto interessare a voi, Oscar.”
L’altra fermò la tazzina di tè a mezz’aria a sentirsi chiamare in causa, l’aria interrogativa.
“Sì - continuò Sabine – voi e il vostro valletto non puzzavate, è stata una ventata d’aria fresca di Marsiglia in un marasma soffocante di… ma perché mi guardate così, ho fatto una gaffe?”
“Baronessa, non è decoroso dire a qualcuno che non puzza.” Sussurrò la dama di compagnia guardando il pavimento.
“Ma non sarebbe più indecoroso il contrario? Non capisco… comunque scusatemi, sono mortificata, non volevo mettervi in imbarazzo, volevo solo dire che si sente che sapete come lavarvi, Oscar”
La dama di compagnia scosse ancora la testa mentre madame Marguerite si lasciava scappare una risata e anche Oscar dovette appoggiare la tazza di tè per non ustionarsi trattenendo le risa.
“Ma cosa ho detto adesso?” chiese Sabine candida, sembrando di dieci anni più giovane.
 
***
 
Prima che la luce andasse via del tutto, Madame de Jarjayes propose ad Oscar di mostrare il giardino alle ospiti.
Si incamminarono così nei vialetti ghiaiosi del parco, un’ostia a confronto dei giardini della reggia, ma era curato con amore. Sabine non smetteva di riconoscere fiori di cui Oscar non ricordava né il nome né la presenza, ma era certa che a presentarle André sarebbe stata una bella sfida, visto quanto era ferrato sull’argomento.
“Perdonate, ma è normale che la vostra dama di compagnia sia così silenziosa?” chiese infine Oscar, giacché la donna continuava a seguirle tenendo lo sguardo basso e sembrava raccolta in preghiera, senza emettere un suono.
“Sulle prime credevo fosse una spia di mio marito, che fosse una strategia per ascoltare tutto e che fingesse” sussurrò Sabine “Ma no, è proprio così, pare che le manchi un soffio di vita.”
La donna dai capelli ramati sembrò riflettere prima di continuare e domandare ad Oscar: “E il vostro valletto?”
“…Non è un valletto; André è il mio attendente.”
“E che differenza c’è?”
“L’attendente è una figura militare che si occupa di un ufficiale, mentre il valletto è un cameriere.”
“E dove si trova adesso?” chiese ancora Sabine.
Oscar sembrò cercare una finestra precisa della villa con lo sguardo.
“Purtroppo non sta molto bene, una brutta tonsillite lo costringe a letto da qualche giorno.”
“Ed è per lui che avete messo da parte quel boccone alle viole che portate in tasca?”
Oscar inchiodò; ne aveva fatto scivolare uno nel fazzoletto che portava in tasca per darglielo più tardi, ma il tutto era avvenuto nelle cucine. Come poteva saperlo?
“Sì… è molto soffice e di certo riuscirà a inghiottirlo, ma… come avete fatto?”
Sabine si toccò il naso soddisfatta, tornando a camminare.
“Riesco a sentirne il profumo.”
Oscar non sentiva nulla. Poi così, all’aperto.
“Non scherzavate sul vostro naso, madame de Plantier.”
“Vi prego: chiamatemi Sabine. Sono passati quattro anni e ancora non riesco ad abituarmi al cognome di mio marito, ho sempre l’impressione che si parli di qualcun altro, a sentirlo.”
Rimasero qualche momento in silenzio, avvolte dalla tranquillità del parco.
Rondoni sfrecciavano attorno alla casa senza requie, dal nido alla caccia, lanciando il proprio verso acuto nella sera azzurra.
“Mi stupite, Oscar. Non so se interpretare il fatto che non mi chiediate nulla su mio marito come disinteresse o delicatezza nei miei confronti. Spero con tutto il cuore si tratti del secondo caso, ma ad ogni modo è la prima volta che mi succede. Solitamente tutti si affrettano a farmi domande sul perché mio marito passi tanto tempo lontano da me.”
Si voltò verso la dama di compagnia: “Genevieve, ve ne prego, non state qui a prendere inutilmente l’umido della sera, aspettatemi pure all’interno col vostro ricamo, volete?”
Quella stava ancora racimolando la prima sillaba di una lunga risposta di cortesia che già Sabine roteò gli occhi e tagliò corto: “No, davvero, ve ne assicuro: posso fare a meno della vostra compagnia per un po’, suvvia, andate pure.”
La dama trottò verso la villa senza aggiungere altro, solo un piccolo inchino.
Sabine si beccò un’occhiata stupefatta da Oscar, che per la prima volta aveva intravisto i suoi modi più spiccioli alla carica.
“Lo so che l’ho bistrattata, lo so. Ma tutta questa educazione è così lenta, avrebbe rifiutato almeno ancora un paio di volte e io sto già rubando così tanto del vostro tempo!
Tornando a noi, in realtà io non capisco cosa stia succedendo con mio marito, sono spaventata. Abbiamo anche smesso di scriverci spesso, lui viaggia molto per suoi interessi… è un esperto di entomologia” disse scandendo bene la parola, inorgoglita dal conoscere un termine così tecnico.
“Insetti, insomma.” Concluse in modo molto meno aulico. “Scrive articoli, libri, e fa ricerche sul campo perché da quando questo svedese, questo von Linné, ha scritto un trattato lui ed altri si sono precipitati ad iniziare una catalogazione delle specie, ma sembra non finire mai, così… Aaah Oscar, io temo che voglia lasciarmi, non so cosa succederà la prossima volta che lo vedrò, nelle sue lettere è diventato anche più freddo. E non che prima fosse un campione di poesia, ma almeno sembravo ancora tra le sue priorità!” concluse sconsolata accomodandosi su una delle panche di pietra nel parco.
L’impaccio provato da Sabine durante la conversazione prendendo il tè sembrò avesse contagiato Oscar, mentre si accomodava anche lei sulla panca a tentoni.
Cosa era giusto dire in casi simili?
Simili confidenze erano una vera stravaganza per lei, un primato assoluto. L’istinto suggeriva di minimizzare a prescindere, per tranquillizzare Sabine, ma il raziocinio la esortò a saperne di più prima di esprimersi.
“Non capisco…” provò. “Il vostro rapporto quindi prima andava bene - nonostante la distanza - e poi ha iniziato a non andar più bene… perché…?” e sembrò chiedere alla donna di continuare, pur non essendo certa di avere il capo del filo.
Però Sabine fu magnanima, perché si accorse della difficoltà dell’altra e le risparmiò quella conversazione. “Dovete perdonarmi Oscar, sono una confusionaria, credo di non avervi fatto capire nulla. Alle volte mi esprimo senza né capo né coda, ma se vorrete concedermi ancora del tempo per una passeggiata uno di questi giorni potrei provare a raccontarvi meglio, con più calma. E anche voi potreste raccontarmi cosa vi passa per la mente; è così che si diventa amiche.”
 
Ora, Oscar era sorpresa lei stessa di come si fosse incuriosita in quelle scarse ore di conoscenza, di quanto poco si fosse annoiata con madame de Plantier.
Era sicuramente una compagnia interessante, anche se il più delle volte aveva la sensazione di essersi messa in un pasticcio ad averle concesso il beneficio del dubbio su quella faccenda che sembrava starle tanto a cuore.
Conoscersi, lasciarsi conoscere soprattutto. La sola idea la stancava da morire.
Tutta quella storia dell’amicizia che lei intendeva coltivare le sembrava una forzatura, le loro esistenze così dissimili, le premesse così inesistenti… Forse due bambine avrebbero potuto, ma loro erano adulte e solo al sentirla parlare di incontri successivi la mise sulla difensiva, il suo animo si richiuse a riccio e Sabine sembrò sentirlo come aveva fatto con l’odore del dolcetto nella sua tasca.
 
Incrociò le braccia e si schiarì la voce.
“Oscar, lo so che vi faccio venire la pelle d’oca quando parlo di questa storia, ormai penserete che io sia matta. Ma vi faccio una proposta precisa, qualcosa che possa mettervi più a vostro agio delle mie chiacchiere indefinite, visto che siete così razionale.
Vediamoci solo altre due volte; una volta faremo ciò che proporrete voi e un’altra quello che verrà in mente a me, vi chiedo solo di collaborare in queste altre due occasioni.
Se nell’arco di questi due incontri non riusciremo a far nascere quel po’ di confidenza necessaria a farvi sentire a vostro agio in mia compagnia, prometto solennemente di non importunarvi mai più con questa storia e di non serbare il minimo rancore a riguardo. Affare fatto?”
 
Oscar sembrò interdetta, più preoccupata che lusingata da quell’ostinazione. Le rispose con il tono più dolce che le riuscì di trovare, sperando di non ferirla, provando solo ad essere chiara come avrebbe potuto fare con un corteggiatore indesiderato, cosa che l’altra donna in questo momento ricordava da vicino.
“Ma Sabine… non vi sembra ridicolo tutto questo? Prendi due persone anche molto diverse, fai trascorrere loro del tempo assieme, falle parlare dei loro interessi… che cosa sarebbe questa? Una ricetta per creare delle amiche?”
 
L’altra sembrò apprezzare.
“Beh… sì.”
 
 

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Capitolo 3
*** Le Imperfezioni ***


Le imperfezioni
 
 
Fosse stato per lei, Sabine non avrebbe avuto la minima fretta di sposarsi.
Quale unica rampolla della famiglia più abbiente di Grasse, la sua esistenza si spiegava dorata e senza asperità, come il paesaggio collinare che vedeva dalla sua stanza rosa a Maison Florentin.
In questa immensa magione che faceva anche da sede principale all’omonima casa di profumi, i genitori l’avevano allevata ricoprendola di affetto senza ritegno – complice anche la sentenza dei dottori riguardo l’impossibilità di avere fratellini o sorelline per la piccola Sabine -  e le avevano insegnato tutto ciò che c’era da sapere sull’arte delle essenze floreali, il loro mestiere da generazioni.
Suo padre in particolare stravedeva per lei.
La piccola gli si era messa alle costole non appena aveva potuto, preferendo ai giochi con la tata ciò che lui le insegnava nei giorni di raccolta, nei campi, ai tavoli dell’enfleurage e nelle distillerie per gli olii essenziali.
Laurence Florentin non amava le esagerazioni, ma vedeva nel naso di sua figlia del miracoloso. Quando la bimba era ancora un soldo di cacio e sapeva pronunciare solo una manciata di parole, queste erano per lo più nomi di fiori, di cui aveva imparato a distinguere il profumo prima ancora che a camminare, a detta del padre.
Crescendo, i suoi insegnamenti si erano allargati all’amministrazione di quella produzione sempre più grande e lei non l’aveva deluso neppure in quel caso, dimostrandosi svelta di comprendonio e assai furba nella gestione del denaro. Le redini delle attività di Maison Florentin non potevano finire in mani migliori, decretò.
La madre di Sabine però non la vedeva così. Non metteva certo in dubbio le capacità della figlia, ma sognava per lei un futuro diverso, principesco, nello sfarzo che lì a Grasse potevano solo immaginare, per quanto i loro commerci potessero arricchirli.
Voleva per lei l’aristocrazia. Parigi. La vita di corte. Un buon matrimonio, insomma.
La ditta di famiglia l’avrebbero gestita i figli di Sabine, che sarebbero arrivati con meno parsimonia di come era accaduto nel suo caso, ne era certa.
 
Così, il giorno del suo diciottesimo compleanno, Sabine sposò il barone Raymond Théophile de Plantier; uno spilungone occhialuto e timido che aveva incontrato sì e no dieci volte, e solo l’ultima di queste era riuscita a parlargli da sola nel soggiorno di casa.
In quell’occasione non aveva le farfalle nello stomaco come ci si sarebbe aspettati da una futura sposina, ma un discorso in mente che sentiva di dover mettere in chiaro con chi si stava vincolando per la vita.
 
Non c’era bisogno di infiocchettare ciò che stava accadendo tra loro, gli disse sentendosi pratica, con il distacco di chi non aveva nulla da perdere, come suo padre le aveva insegnato a condurre una trattativa.
Quel matrimonio era un affare e come tale andava affrontato: sempre rispettandosi reciprocamente, lui poteva continuare a indulgere nei viaggi di cui sembrava appassionato, continuare a perdersi in quegli studi così eccentrici su un argomento repellente come gli insetti (i nemici assoluti di Sabine poiché predatori dei suoi fiori). A lei bastava conservare abbastanza libertà e gliene avrebbe garantita altrettanta, ma senza prendersi in giro con sciocchezze sentimentali, che dal suo punto di vista avrebbero reso la loro situazione penosa e insincera.
 
Raymond l’aveva ascoltata senza fiatare, stupefatto, e poi aveva abbassato il capo qualche istante, come per riflettere. Come lei aveva del rosso nella capigliatura, e i riflessi del sole pomeridiano nella stanza giocarono col suo biondo fulvo, col carota acceso della sua barba corta e curata.
Sabine ebbe paura di aver passato il limite e di averlo offeso, ma l’espressione che lesse dietro i suoi occhiali quando tornò a guardarla era della più tenera complicità.
 
Acconsentì alla sua proposta, complimentandosi con lei per la sua onestà, anche.
Si ritrovarono a discutere nel modo più semplice possibile di ciò che desideravano da quella unione in cui le loro volontà contavano poco e trovandosi allineati su tutto non ci vollero che pochi increduli minuti. Lui parlava in modo pacato e chiaro, talora soffermandosi su una parola con l’incertezza scientifica di chi sa sempre mettersi in discussione ed è abituato a riflettere ad alta voce.
 
Il loro matrimonio di interessi l’avrebbe quindi vista amministratrice di una cospicua fortuna e di tutte le loro proprietà; era un compito impegnativo che le delegava volentieri, non ci fu bisogno nemmeno di contrattare; era evidente che quell’uomo ricchissimo dei soldi se ne infischiava.
Sabine però doveva risiedere tra Parigi e Versailles come rappresentante de Plantier alla corte di Luigi XVI: entrambe le loro madri si aspettavano questo da lei, era una questione di prestigio.
Mentre lui… lui avrebbe viaggiato, senza farsi troppi scrupoli.
 
“Però sarebbe bello andare d’accordo, Sabine” concluse con un sorriso timido, seduto molto più vicino di quando avevano iniziato quella chiacchierata.
 
Nessuno dei due aveva accennato all’argomento figli o a tutto ciò che li precedeva e Sabine si chiese se quella fosse un’allusione.
 
Una nota leggera di bergamotto le solleticò il cuore. Con essa affiorò in lei per la prima volta il dubbio di aver commesso un errore clamoroso; ricordava l’istante con precisione.
 
“Sono certa che rientri nelle nostre possibilità, Raymond.”
 
***
 
Chi avrebbe mai pensato, allora, che avrebbe atteso a questo modo una sua lettera?
 
Tutto le era sfuggito di mano e a giudicare dai tempi dilazionati che aveva preso la corrispondenza del marito, forse in modo irreparabile.
Era stata cieca e orgogliosa, era ovvio che col tempo la situazione sarebbe andata a rotoli, con quelle premesse gelide e quella distanza tra loro che perdurava. Ma invece di iniziare una sobria ritirata aveva deciso di provarle tutte.
E adesso questa storia con madamigella Oscar…
 
Appoggiò la fronte al vetro appannato di una piccola finestra della cucina, il contatto fresco interruppe i pensieri in ebollizione.
Da quell’angolo poteva vedere la porta di servizio, l’ingresso della servitù del suo palazzo di Parigi, a cui ogni giorno più o meno a quell’ora bussava il postino.
 
Chissà se oggi avrò sue notizie.
 

 
***
 
Toccava ad Oscar scegliere cosa avrebbero fatto nella prima delle due uscite su cui si erano accordate e senza grandi sforzi di immaginazione aveva proposto a Sabine di aggregarsi ad un impegno preso in precedenza: un ritrovo culturale a casa del marchese de Ravelins.
Letture di classici latini, alcune tele in mostra e un concerto di musica da camera seguito da un leggero rinfresco, col sommo fine di promuovere le arti e i giovani spiantati che le praticavano.
 
L’idea era quella di partire insieme dalla reggia non appena Oscar si fosse liberata dal lavoro.
Stava proprio prendendo gli ultimi accordi con Girodel per il giorno seguente quando questo si distrasse e fissando un punto indefinito oltre le sue spalle commentò salace: “Devono aver aperto la voliera reale, comandante. C’è un uccello raro che si è perso.”
Indovinò ancora prima di guardare che si trattava di Sabine.
Le imponenti piume magenta nella sua acconciatura doppiavano l’altezza della testa ondeggiando a ogni passo assieme alle ampie gonne color pesca. Queste ultime, grazie all’uso di un panier particolarmente strutturato, si allargavano sul fianco quasi quanto l’estensione delle braccia cariche di bordure in pizzo, così tanto da poter sembrare ali, effettivamente. E il trucco delle labbra spiccava a lunga distanza come il centro scarlatto di un bersaglio sulla piazza d’armi.
“Certo che non sanno più che stravaganze inventarsi, ormai a corte” rincarò Girodel. “Personalmente non riesco proprio a capire come facciano certe dame a…”
“Oscar!” chiamò l’uccello raro con familiarità, localizzandola a dieci passi da loro.
La bionda sorrise benevola mentre il suo secondo diventava paonazzo.
“Perdonate colonnello, io non… potevo sapere…” balbettò quello mentre la figura colorata si avvicinava.
“Girodel, permettete che vi presenti la baronessa Sabine de Plantier.”
La donna rimbalzò in un piccolo inchino gioviale, ma si rivolse di nuovo ad Oscar, mettendo da parte ulteriori cordialità con l’uomo in imbarazzo.
“Volevo solo dirvi che ci sono, vi aspetto nella carrozza sul viale, prendete pure il tempo che vi occorre a finire.”
Era uno svantaggio che Oscar non aveva neppure preso in considerazione, ma ovviamente avrebbero dovuto viaggiare in carrozza, allungando di molto i tempi di spostamento. Con quell’impalcatura che aveva su Sabine, oltretutto, doveva essere necessariamente una vettura bella grande.
Si sforzò di non lasciar trafelare la seccatura.
 
***
 
La serata culturale era popolata da personaggi stravaganti, ma in modo completamente diverso da quello che si aspettava Sabine. Le sembrò solo un mucchio di gente che parlava ad altra gente che parlava; senza nessuno che ascoltasse davvero. Molto simile a Versailles, ma con argomenti diversi.
Aveva finto di capire qualcosa della lettura in latino annuendo molto e glissando su ogni domanda diretta, ma ad un certo punto doveva essersi tradita perché Oscar l’aveva praticamente trascinata via quando una donna dall’aria molto sofisticata aveva iniziato quasi ad interrogarla.
Probabile che anche il complimento alla sua acconciatura piumata fosse sarcastico, maledizione, non c’era arrivata.
Odiava fare le figura dell’ingenua, ma succedeva spesso, ultimamente.
 
“Oscar, ditemi… definireste questo genere di intrattenimento tra i vostri preferiti?”
L’altra stava studiando il programma così intensamente che ci mise un secondo di troppo a capire la domanda. “Ovidio non direi... ma è così in voga in questi tempi che… domando scusa, forse intendevate questo incontro?”
“Sì - fece Sabine - la lettura e tutto il resto.”
Oscar sembrò soppesare la sala con gli occhi e un lieve disappunto increspò il suo viso dalle proporzioni auree.
“Magari non questa serata in particolare, però come genere… direi di sì. Soprattutto il concerto… ma ci sono altre cose che preferisco ulteriormente.”
“Ad esempio?” incalzò Sabine.
“Ad esempio suonare io stessa.”
“Cosa suonate?” chiese l’altra, ammirata.
“Il violino e il pianoforte.”
“Il pianoforte… l’ho sentito nominare, ma non ricordo che strumento sia.”
“Somiglia ad un clavicembalo, ma è più grande. E anche il suono è più possente e vario; le corde vengono percosse anziché pizzicate, così il suono varia a seconda della pressione che vien data ai tasti.”
Sabine rimase ammutolita dalla spiegazione dettagliata. E senza il coraggio di ammettere che non ricordava neppure quale fosse il clavicembalo.
“… A voi piace la musica?” provò Oscar.
“Sì, la amo!” si riprese l’altra tornando a sorridere.
“Che generi vi piacciono?”
“Tutto ciò che si può danzare; non sono schizzinosa.”
“Quindi… Boccherini, Lulli…?” sondò Oscar speranzosa.
Sabine fece spallucce. “Fin tanto che si balli.” Scosse la testa e le piume risposero in sobbalzi ipnotici. Era consapevole di trovarsi nell’ennesimo punto della conversazione in cui ciò che lei sapeva non rientrava in tutto ciò che Oscar considerava degno di valore, ed era frustrante.
Cosa potevano avere da dirsi tra loro un papavero e una rosa bianca?
Presero posto tra le file di eleganti poltroncine disposte al centro del salone, il quartetto d’archi avrebbe iniziato di lì a poco il concerto.
“Vedete Oscar, io non conoscevo affatto i balli di corte prima di venire a Parigi. Ho preso così tante lezioni per imparare a danzare un minuetto decentemente che il maestro di ballo ha pensato avessi un debole per lui e cercassi scuse. - roteò gli occhi al ricordo non troppo distante - Per me esisteva solo la musica occitana, le danze popolari con cui sono cresciuta a Grasse. È quella la musica che amo.”
“Non conosco la musica occitana… sarei curiosa di ascoltare qualcosa.” Fece Oscar con rinnovato interesse.
“Magari un giorno mi accompagnerete a fare un salto in Provenza e potrò farvela ascoltare. Qui non credo sia conosciuta… e ci si tocca decisamente troppo ballando, a corte verrebbe considerata un’indecenza, ma…”
“SHHHT!” sibilò la signora alle loro spalle, facendole sobbalzare.
Cominciava il concerto.
 
Sabine non aveva mai ascoltato un concerto.
Ed era davvero un animo sensibile, a concentrarsi sulla melodia le sembrò di sentire il primo movimento de La Primavera di Vivaldi con tutto il corpo, non solo con le orecchie.
La gioia della stagione descritta dai violini le entrò dentro e la trasportò altrove, chiuse gli occhi e volò fino a Grasse, si vide sulle colline fiorite della sua città in una giornata di sole, il mistral carico di profumi gonfiarle le gonne e scompigliarle i capelli.
Non appena la musica si interruppe esplose in un applauso entusiasta e quasi commosso, ma sorprendentemente era la sola.
“SHHHHHHHHT!!!” replicò l’anziana signora di prima, indignata.
Oscar si allungò sull’ampio diametro del suo vestito per sussurrarle di non applaudire durante i movimenti, ma solo a fine concerto.
Annuì mortificata, ne aveva combinata un’altra.
Ma non sarebbe stata l’ultima.
 


Arrivati a L’inverno era ancora rapita dalle note, ma nella tensione dell’ascolto, giocherellandoci, fece cadere a terra uno dei suoi orecchini di perla, che rimbalzò in un sonoro ding per poi perdersi tra le poltrone.
La signora di prima, acida e spazientita, stava per produrre l’ennesimo “SHHHT” quando Sabine mosse all’indietro la testa per provare a localizzare l’orecchino caduto, causando l’ingresso delle famose piume nella bocca aperta della donna.
La dama iniziò a tossire con violenza, quasi rantolando. La musica prima tentennò e poi si spense, mentre Sabine scattava a provare a soccorrerla, urtando con l’ampio panier il bicchiere di vino del vicino di posto che in una catena inesauribile di disastri finì sull’abito della donna seduta ancora dopo.
 
Sabine si guardò attorno tra la mortificazione e il terrore, paralizzata.
Non sapeva neppure da chi iniziare a chiedere scusa, sentì lacrime d’imbarazzo salirle agli occhi e quelli dell’intera sala su di lei, ma poi si girò a guardare Oscar.
Che rideva.
A crepapelle.
Lei, così misurata e a modo, era passata dallo sbigottimento al riso incontrollato, una risata piena che non immaginava neppure sapesse fare e con la quale la contagiò in pochi istanti.
Sghignazzarono fin quasi alle lacrime, tra goffi tentativi di ricomporsi e di contenere i danni, ma non riuscivano e forse quella prima serata poteva dirsi fallimentare, ma quello fu un bel momento, avrebbe detto Sabine se avesse avuto qualcuno a cui raccontarlo.
 
***
 
Al rientro a casa, Oscar vide una luce nella cucina e vi trovò André, in piedi, avvolto in una coperta di lana, che armeggiava con il necessario per prepararsi una camomilla badando a non far rumore, nella casa già addormentata.
Lo affiancò silenziosa. Si intesero a gesti: di suo avrebbe puntato al vino, ma si lasciò convincere dal profumo dolce di quei fiori essiccati a prendere una tazza dell’infuso anche per sé (forse Sabine stava suggestionandola più di quanto credesse con questa storia degli odori; iniziava a farci caso) e con le bevande fumanti si accomodarono al tavolo, il più vicini possibile al focolare che crepitava lento.
“Stai meglio?” chiese lei piano.
“Decisamente.” Rispose lui con la sua bella voce ritrovata, ma ancora roca, bassa.
Oscar pensò che era intonata a quell’ora, a quella luce mobile e rossastra.
“Ma raccontami tu - riprese – com’è andato il tuo incontro?”
Lei prese tempo soffiando sulla camomilla.
Com’era andato? Bella domanda, pensò lei.
“Non saprei dirti. La baronessa è così… diversa… da me, ma anche da come ci si aspetterebbe dovrebbe essere una signora che frequenta la corte di Versailles.”
“In che senso diversa?”
“È… un po’ goffa.” Ammise Oscar accondiscendente. “È spesso fuori luogo e ha per molti aspetti, vestiario compreso, un gusto che definirei pacchiano” elencò in tono neutrale, come a ribadire che quelle erano considerazioni oggettive. “È gentile, ma qualche volta lo è in modo quasi invadente e riguardo la sua cultura direi che ci sono parecchie lacune che...”
“Hm, capisco” la interruppe André ridacchiando. “Ma io non ti avevo chiesto questo, sembri il suo precettore, Oscar. - prese un sorso di camomilla mentre l’altra lo osservava perplessa. - Quindi hai scoperto che questa persona è imperfetta, ma anche lei dal suo punto di vista potrebbe dire lo stesso di te. Ad esempio potrebbe pensare che sei altezzosa.”
Gli rivolse una stilettata azzurra con gli occhi, indispettita.
“È tutto relativo - fece lui con tranquillità – mettiti nei suoi panni, tu sei difficile.”
“Difficile?”
“Complessa.” Provò a recuperare lui.
Interdetta, sembrò cercare il suo riflesso nella camomilla. Sistemò delle onde dorate dietro l’orecchio, seria. Incantevole, avrebbe aggiunto André, che in quelle complessità custodiva il senso delle sue giornate.
“E sentiamo, André, tu che fai tanto il Minosse della situazione… di te cosa potrebbe dire un osservatore esterno? Secondo te cosa pensano di te le persone che incontriamo a Versailles?”
“Ma è ovvio, davvero non lo immagini?”
“No, dimmelo.”
“Che non sono nobile.”
Il silenzio li inghiottì per qualche istante, mentre il focolare continuava a crepitare.
Adesso Oscar era davvero sorpresa, mentre il sorriso di André prendeva una piega diversa, amara.
Non riuscirono a guardarsi negli occhi; quella barriera invisibile era tanto ingombrante quanto inutile tra loro che erano cresciuti ignorandola, ma esisteva. Per il resto del mondo esisteva.
Chissà quante volte André si era sentito addosso quel giudizio, quante volte qualcuno gliel’aveva fatto pesare e lui aveva fatto buon viso a cattivo gioco continuando a starle accanto.
La sola idea che ne avesse potuto soffrire la atterriva.
“No… tu sei…” ma non seppe come continuare. Era speciale, sì, ma questo non cambiava le cose.
Lei era nobile e lui no.
“Va tutto bene… lo so che tu non la pensi così.” Disse piano André.
Ritrovò la forza di guardare quegli occhi verdi. Dolci. Rassicuranti.
“Insomma, è tutto relativo… i rapporti tra gli esseri umani non si creano mica perché questi sono perfetti.” sviò lui scuotendo la testa e tornando alla camomilla, con qualche battito del cuore di troppo. “Ma anzi, sono portato a credere che si creino proprio attraverso le loro imperfezioni.”
“Nel senso che gli opposti si attraggono?” fece lei ironica.
“No – continuò ad argomentare lui – nel senso che possiamo legarci davvero a una persona quando ne conosciamo le debolezze più che gli aspetti positivi. Sono quelle il collante della sincerità.”
“E quindi?” chiese Oscar.
“Quindi questa Sabine si è riproposta di farti abbassare le difese in due soli incontri e ha già il mio rispetto perché sta cimentandosi in un’impresa impossibile.” Concluse soddisfatto.
Si alzò per andar via, ma Oscar lo fermò.
“Verrai anche tu la prossima volta, vero?”
“Speravo che me lo chiedessi.”
 
***
 
La baronessa de Plantier era davvero un personaggio sui generis, André non poté che confermarlo quando venne invitato persino ad unirsi a loro a tavola nel bistro affollato in cui Sabine aveva portato Oscar in occasione del secondo incontro.
“André, andiamo!” gli disse con familiarità “Non mi sembra affatto il caso di formalizzarsi, lo sapete che ho questo titolo solo perché ho sposato un barone, no? Pensiamo a far spazio nello stomaco, piuttosto: vi assicuro che è la migliore cucina di Parigi; spero tanto siate delle buone forchette perché qui troverete pane per i vostri denti!”
Il ragazzo incrociò lo sguardo di Oscar e le trasmise la sua approvazione annuendo; gli era proprio simpatica questa tizia.
E anche lei si ritrovò più bendisposta nei suoi confronti; Sabine era più naturale e piacevole lontano dal contesto della corte. Divenne semplice parlare, passare di argomento in argomento. Complice André che sapeva intervistare senza imporsi, e l’alcool che avevano iniziato a bere in quantità perché la cantina del bistro non era da meno dei fornelli.
Sabine a sua volta si sentiva felice. Finalmente le sembrava di intravedere una breccia nel distacco di madamigella Oscar: nel modo più antico del mondo, condividendo un pasto, iniziava a capire qualcosa di quel rompicapo biondo e di quella che doveva essere la sua quotidianità.
La sua severità con se stessa, la sua maschera.
La vedeva riflessa negli occhi profondi di quell’André, che sembrava saperne tradurre ogni silenzio.
Man mano che continuava ad osservarli, man mano che continuava a bere, la visione d’insieme di quei due cominciò a sembrarle sempre più chiara, mentre quella del locale perdeva definizione nei fumi dell’alcool.
Quella vicinanza che non le era mai sfuggita era ancora più profonda di quanto credesse: André era un tassello fondamentale per comprendere il quadro di Oscar!
Come aveva fatto a non capirlo subito?
Il modo in cui lui indovinava il suo pensiero, la nonchalance con cui quella donna così algida aveva preso una forchettata dal piatto di lui…
 
Erano bellissimi.
Sentiva la testa leggera, ma le intuizioni si susseguivano e sembravano avvitarsi in un’unica vertigine, che sapeva di vino, di ricordi, di tempo perduto...
 

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Capitolo 4
*** Sonno e bordeaux ***


Sonno e bordeaux
 
 
L’impresa poteva dirsi compiuta.
Oscar era a suo agio con quella strampalata versione di una signora.
Era un’evidenza che trascendeva la notevole quantità di alcool ingerito da tutti loro, qualcosa che - da maggiore esperto mondiale del carattere del colonnello biondo - ad André non poteva sfuggire.
Era silenziosamente naturale nelle pause della conversazione, sinceramente interessata ad ascoltare, ad esserci, pur nel suo modo riservato. Come avrebbe potuto essere con un membro della sua famiglia se avesse avuto una famiglia normale, come avrebbe potuto comportarsi con una sorellina minore se la sequela di fiocchi rosa avesse continuato a funestare casa Jarjayes.
Però Sabine non era una sorella, era una donna che era entrata a gamba tesa nella vita della giovane e stava riuscendo nel suo intento che era sembrato così bislacco, contro tutti i pronostici.
Non poté fare a meno di chiedersi se Oscar avesse desiderato fino a quel momento qualcuno che non fosse lui con cui confrontarsi, e qualcosa di simile alla gelosia, quella paura di perderla sempre in agguato, lo punzecchiò nell’animo.
Ma erano punture inoffensive, soverchiate dalla felicità di vedere sbucare i sorrisi di Oscar in un discorso in cui la vivacità di Sabine attaccava ogni forma di cupezza: quella donna era solare, inclusiva, spiazzante.
Con lei André aveva avuto un’intesa immediata, qualcosa di così forte e genuino da spazzar via ogni dubbio residuo su ipotesi paranoiche per cui aveva preso in giro Oscar, ma che l’avevano segretamente tenuto sulle spine fino a quella sera. No, Sabine era innocua, per quanto l’aggettivo stonasse con la carica del personaggio.
Ancora più sorprendentemente, gli era sembrato che quella donna facesse il tifo per lui.
La baronessa de Plantier se ne fregava bellamente dei titoli e ogni volta che Oscar si era lasciata andare a qualche comportamento più familiare con André, ne aveva colto lo sguardo sornione di chi la sa lunghissima. Sulle prime doveva essere arrossito; quegli occhi color di foglia sembravano andar diritti al punto, mai nessuno l’aveva fatto sentire così trasparente a riguardo.
Poi, quando Oscar aveva addirittura allungato distrattamente la forchetta nel suo piatto, si era emozionato.
Quel gesto da nulla e impulsivo ripetuto infinite volte tra loro due soli diventava qualcosa di completamente diverso davanti agli occhi di terzi.
Era stato come una cerimonia, una consacrazione pagana della solidità del suo rapporto unico con Oscar che trovò in Sabine la testimone compiacente e la tavola imbandita come altare, le dita di bordeaux nei bicchieri a benedire tutti loro negli attimi lunghissimi che ci vollero ad Oscar per realizzare ciò che aveva fatto e ritrovare compostezza, masticando ciò che aveva rubato in un mutismo imbarazzato e scontroso.
Sabine aveva capito anche quello.
Doveva esserle grato, pensò, ma i suoi buoni sentimenti perdevano di smalto adesso che ne trasportava la carcassa pesante e avvinazzata alla carrozza, nell’umidità della notte che avanzava.
 
“Tienile bene le gambe, guarda! Stai trascinando un piede!”
“È che è complicato con tutte queste gonne… sfuggono, pesano, mi domando come faccia a camminare trascinando questa roba. Non scherzavi riguardo i suoi gusti di vestiario…”
“È molto sobria stasera, rispetto al suo solito.” Puntualizzò Oscar.
“Ah… caspita… permettimi comunque di obiettare che sobria, al momento, non mi sembra la definizione adatta.”
“Smettila di cincischiare, aiutami a sistemarla dentro la carrozza… aspetta, entro prima io.”
 
Si inventarono un modo per farla stare più o meno seduta, la rigidità del corpetto aiutava per quanto scomodo dovesse essere. Era praticamente crollata sul tavolo in un sonno alcolico da cui non sembrava voler riemergere a breve, ma non sembrava nulla di grave. Dopotutto ci avevano dato dentro con le bottiglie, solo che negli anni Oscar e André avevano sviluppato una resistenza notevole all’ebbrezza e avevano finito col trascurare i limiti della dama che li aveva invitati.
“Cosa facciamo, la riaccompagniamo a casa?” chiese lui.
“Non conosco il suo indirizzo – rifletté lei ad alta voce - so solo dei suoi appartamenti a Versailles, ma non posso portarcela in queste condizioni… è una donna sposata, hai idea di quante se ne inventerebbero?”
“No, certo… ma allora che facciamo? Vogliamo portarla a casa da noi?”
Oscar sembrò valutare l’ipotesi mordicchiando le labbra scurite dal vino, poco convinta.
“Aspettiamo. Potrebbe riprendersi da un momento all’altro, ha solo alzato troppo il gomito, non c’è da preoccuparsi. Lasciamola riposare e sediamoci anche noi.” E prese posto sul sedile di fronte alla donna dormiente, lasciando ad André lo spazio per accomodarsi accanto.
 
“Un tipo particolare questa baronessa, non c’è che dire.”
“Già.”
“Ha perso punti con questa ubriacatura?”
“In che senso?” fece Oscar.
“Per entrare nelle tue grazie, no? Che conseguenze avrà il finale di questa uscita? Non era l’ultima?”
Lei mordicchiò ancora le labbra prima di rispondere. Stanca, rallentata dal vino e dal contatto con quegli argomenti, si prese un tempo lunghissimo a racimolare i pensieri fissando il buio e la figura scomposta di Sabine che ne emergeva.
“Mi vedi davvero così gelida, André?”
Il sospiro di lui riempì la carrozza. Ringraziò il cielo di non aver bevuto troppo, della moderazione di cui era ancora capace nonostante i denti di lei, le fantasticherie su quella bocca e sul loro fiato mescolato al sapore di bordeaux.
“Tutt’altro. Credimi. È che mi incuriosisce il tuo avvicinarti a una persona così caotica… non me l’aspettavo.”
“Perché è inaspettato. Anche per me.” Contemplò lei, col tono di chi scopre l’acqua calda, lasciando in sospeso qualsiasi altra considerazione.
 
Una pioggia leggera cominciò a picchiettare il tetto, a malapena udibile.
Le voci della strada e della taverna non troppo distante si erano ormai dissolte nella pace notturna, il respiro regolare di Sabine talvolta diventava un russare lievissimo, infantile. Non avevano ancora provato a svegliarla, ma dovevano essere lì da parecchio, semi-dormienti.
 
“Sai – sussurrò lui indicando Sabine con un gesto del mento – questo suono mi fa pensare che tutto sommato capisco le persone che amano circondarsi di animali domestici. È… tranquillizzante… tenero.”
Oscar provava la stessa cosa, ma sentì il bisogno di spoetizzare, pentendosi immediatamente della scelta delle sue parole.
“Alla tua età sarebbe naturale pensare a una moglie per sentire russare, non a un cane.”
E la sua risposta sembrò svegliare entrambi. André si risistemò, allontanando la spalla da quella di lei che avvertì il vuoto e l’errore, l’ennesimo presagio funesto.
“Sposarmi… - considerò lui curioso - l’idea non mi dispiacerebbe…”
“Hm.” Articolò lei d’istinto, ma senza riuscire ad aggiungere altro, rigida e persa nella realizzazione ghiacciata delle sue paure.
Lui invece sembrava divertito, come se l’argomento inaspettato gli risultasse particolarmente succoso. “Magari non subito, ma…”
“No… non… vi prego, non… andate via” lo interruppe la voce flebile di Sabine.
Le furono immediatamente accanto. Il viso truccato aveva una smorfia di pura sofferenza, mentre si agitava sul sedile e perdeva l’equilibrio.
“Sabine mi sentite?” chiese Oscar.
“Sta sognando” constatò André.
“Vi prego, ho sbagliato…” biascicò Sabine, la voce quasi rotta dal pianto. “La lettera…”
“Sabine aprite gli occhi, è solo un incubo.” Provò Oscar con dolcezza, ma quella non sembrava voler collaborare e la sua espressione tornò a distendersi, ancora cotta di sonno e bordeaux.
 
***
 
Il sogno di Sabine era lucidissimo; vedeva tutti assieme i suoi giorni da sposata, i suoi errori uno dopo l’altro spiegati a se stessa e ripetersi senza che potesse intervenire in un inquietante teatro d’ombre.
Prima di tutto, c’era stato l’orgoglio.
La prima notte e la supposta consumazione delle nozze che aveva visto lei offrirsi – preparata, vestita, profumata - e lui tirarsi indietro nel nome dei loro accordi di sincerità.
Non era anche quella una convenzione dei loro nuovi ruoli? L’ennesima forzatura a cui la società avrebbe voluto obbligarli, ma no: dove possibile loro avrebbero esercitato la propria volontà e basta, spiegò il marito nuovo di zecca.
“Sabine, l’intimità fisica arriverà solo se la desidereremo davvero, non sentitevi in dovere di nulla.” Aveva concluso in tono gentile prima di lasciarla sola nell’alcova.
Ma lei si era sentita rifiutata. Ancora oggi continuava a vedere nei discorsi razionali di lui una sorta di ripicca nei suoi confronti, per quello che era stato il suo mettere le mani avanti iniziale.
Divenne una sorta di confronto di calme apparenti, una gara a chi si dimostrava più distaccato, più moderno.
C’erano stati dei dispetti, ne era più che convinta.
Quello che sembrava un insipido consorte interessato solo ai libri e allo studio degli insetti, si rivelò un esperto conoscitore dell’equilibrio tra il detto e il non detto, l’allusione critica e la micidiale risposta a una domanda con un’altra domanda.
Anche lui, come lei, era abituato ad averla vinta.
In società sembravano più che affiatati, la loro messa in scena della coppia perfetta era un gioco privato e pubblico allo stesso tempo, forse l’unico momento in cui parlando per finta riuscivano davvero a dirsi qualcosa e ad avvicinarsi. Era passato quasi un anno dal giorno del loro matrimonio quando, dopo una di queste serate dove avevano entrambi bevuto molto più del dovuto, avevano consumato davvero quell’unione.
Ed era stato fantastico.
La passione, il modo in cui i battibecchi erano diventati baci, la fretta delle loro mani.
Ricordava i profumi speziati del sesso. Un bouquet esotico di terre sconosciute mescolato alla pelle agrumata di lui, il sapore di sale, l’odore di vino nell’aria inspessita della stanza che l’aveva vista sola per tanti mesi.
Poi avevano biascicato discorsi incoerenti per un tempo indefinito, forse cercando, senza trovarlo, un escamotage che salvasse capra e cavoli nella loro situazione di stallo infelice. Non era bastato l’amplesso, né il racconto di lui, che continuando a baciare la fronte di lei e ancora nelle sue braccia le aveva narrato del loro primo vero incontro, di quando una bambina con la testa rossa aveva trascorso una giornata nella sua proprietà in Provenza e insieme avevano catturato uno scarabeo iridescente nel giardino. Lei non ne aveva memoria, aveva creduto che sua madre farneticasse parlando di quelle visite all’immensa villa dei Plantier, a poca distanza dalla loro, ma quasi sempre disabitata.
Si era risvegliata sola e sfatta, trovando sullo scrittoio un biglietto di scuse da suo marito che partiva. Dopo aver a lungo rimandato l’aggregarsi a una spedizione, si era mosso a dir poco in fretta e in furia e si diceva mortificato della sua irruenza della notte: non aveva scuse se non quella dell’alcool, che pure non rendeva meno disonorevole i suoi gesti.
Sabine bruciò il biglietto nel camino, ma avrebbe potuto incendiarlo con la sua sola indignazione per la fuga di Raymond, che era sempre stato un avversario leale, fino a quel momento.
Cominciarono le lettere.
Lui scriveva abbastanza bene, e soprattutto era un assiduo corrispondente.
Più o meno ogni giorno faceva in modo di inviare sue notizie, che fossero solo dettagli di spostamento da un luogo a un altro o su aggiornamenti sui suoi studi che pure lei ignorava del tutto. Descriveva luoghi, scoperte e ipotesi con l’entusiasmo di un esploratore, ma lasciando trapelare la sua preoccupazione per come si erano separati.
 
E voi Sabine, perché non mi parlate mai di voi? Mi scrivete dei vitigni in Borgogna e ne sono estasiato, ma sarei mille volte più felice di sapere che siete serena e, magari, che attendete il mio ritorno.
 
Solo che in lei la rabbia non era cessata. E scrivere non le era mai piaciuto. Quando provava a stendere nero su bianco le emozioni che la tormentavano, queste le si affollavano nella penna e non ne usciva che un cespuglio arrabbiato di cancellature. Il calamaio era un pozzo nero e misterioso che avrebbe scaraventato volentieri contro il muro, persino l’odore di inchiostro prese a darle fastidio. Rispondeva, sì, ma solo il necessario per assicurare Raymond che le cose in sua assenza procedevano senza problemi.
Lui tornò e lei partì, inventando un’emergenza in quel di Grasse.
Lui si avvicinò alla Provenza per uno studio sulle cicale e lei fece rotta su Parigi, insistendo sull’importanza del trovarsi in città al più presto per un rendiconto falsato da uno dei negozi che riforniva Maison Florentin.
Lui tornò a Parigi ed ebbero la più orribile delle litigate, seguita da una nuova ubriacatura che ebbe lo stesso risultato della precedente e avrebbe potuto continuare a raccontare nel dettaglio della slavina di incomprensioni che sembrava essere diventata sempre più grande e travolgerli perché ricordava – anche nel sogno – quanto fosse riuscita ad essere tagliente, lei che alle parole aveva sempre ricorso con istinto, si era scoperta abile a scegliere e pescare quella che avrebbe fatto più male delle altre nel discorso diretto.
I domestici avevano iniziato a parlarne, le loro madri a indagare sull’assenza di nipoti e pur restando entrambi abbastanza vaghi, un infantile concorso di colpe li aveva visti scaricarsi addosso a vicenda le responsabilità per la loro situazione.
Erano distanti.
Nel mese di settembre le scrisse da Arles, dove conduceva delle ricerche sugli odonati della Camargue. Dalla busta cadde una pioggia di margheritine seccate.
 
Una per ogni volta che vi ho pensata ieri.
Il vostro ricordo mi assale e le ultime discussioni mi tormentano. Se come sperano le nostre madri e nonostante tutto desiderate un figlio, forse possiamo provarci.
Possiamo provare ad essere felici? Ricordo un tempo in cui mi avevate detto che era nelle nostre possibilità.
 
Non aveva risposto. Ma lui era tornato lo stesso e senza dirselo avevano fatto pace, avevano fatto l’amore in un modo sempre più bello, mettendo a tacere ogni litigio in sospeso.
Avevano giocato agli equilibristi dandosi la mano e quando al mese seguente un ritardo di lei fece pensare alla notizia che le loro famiglie attendevano da quasi quattro anni, i loro patti strampalati e tutto ciò che ne era seguito sembravano un lontano ricordo.
Forse, a saperlo ammettere, avevano iniziato ad amarsi.
Erano una coppia per davvero.
Ma lei non aspettava nulla, il flusso arrivò dopo qualche giorno, e lui a gennaio dovette partire per l’ennesima volta per qualcosa di importante per davvero. Più di loro, comunque.
L’ultima illusione si era infranta.
Le lettere dalla Svezia arrivavano alla spicciolata, a gruppi di due, tre, ma comunque era evidente che le scriveva meno. Per cosa, d’altronde? Lei non gli aveva mai risposto che con resoconti.
Fino al giorno in cui, la notte del loro anniversario nonché suo compleanno, aveva vomitato in una sola lettera tutta l’amarezza, la solitudine e le illusioni che l’avevano accompagnata in quel viaggio da ferma mentre lui era altrove. Non ricordava con esattezza il contenuto del suo sfogo, sapeva solo che si trattava di pagine e pagine di ripetizioni e macchie, non si era riletta nel suo delirio.
Ma da qualche parte era certa di aver scritto la parola divorzio.
 
***
 
Lottò contro il peso delle palpebre serrate, ignorando il sentore di mal di testa che inaugurava il risveglio scomodo e ogni altro segnale di protesta del suo corpo strapazzato, perché nulla l’avrebbe distratta dall’ammirare il quadro perfetto di André ed Oscar addormentati sull’altro sedile della carrozza, la luce dell’alba radente che entrava dall’unico finestrino non oscurato ad accarezzarne le figure.
Lei col capo abbandonato sulla sua spalla, lui che forse per sicurezza, forse approfittando della coscienza dei sogni, le aveva rapito una mano per stringerla delicatamente nella sua.
All’improvviso, la vita che li attendeva al di fuori di quella carrozza appariva prepotente e inutile e la bellezza di quelle mani congiunte struggente.
 
Forse ci aiuteremo a vicenda, Oscar.


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Capitolo 5
*** Si dice ***


Si dice
 
Passarono molti altri giorni, molli, spensierati.
Gli alberi da frutto sostituirono i fiori col verde brillante delle gemme, poi timido fogliame, il tutto a una tale velocità da far pensare a una torrida estate in arrivo.
Con le stesse tempistiche accelerate, Oscar e Sabine presero a vedersi per il semplice piacere di trascorrere del tempo assieme, di quando in quando da sole, ma in genere formavano un terzetto con André e solo raramente con dame di compagnia al seguito, dalle quali Sabine aveva l’indubbio talento di sapersi svicolare.
Va detto che era sempre la baronessa a tampinare l’altra per organizzare qualcosa; Oscar si lasciava trascinare spesso, magari aggiungendo un commento sarcastico o due se si trattava di attività molto distanti dalle sue corde (come la volta in cui le chiese di accompagnarla a scegliere un cappellino… esperienza agghiacciante in cui la presenza di André risultò fondamentale e da cui non si tirò indietro solo per la promessa di una cena luculliana a seguire), ma era implicito che a gradire quelle serate, pranzi, uscite fossero entrambe.
Per la rigida educazione ricevuta, Oscar non riusciva a concedersi qualcosa per puro divertimento con facilità. Nel tempo che trascorreva lontana dalla sua routine di lavoro, dagli allenamenti e da altre attività sensate ed edificanti che comunque apprezzava, non mancava mai una nota di fondo di senso di colpa, una voce interiore simile a quella paterna che chiedeva: cosa stai facendo, Oscar?
Ma la compagnia di Sabine era un toccasana.
Pur intuendo in lei delle sfumature di tormento riguardanti il suo matrimonio (argomento di cui continuavano a non parlare), quella donna aveva in sé una leggerezza, una sorta di saggia semplicità che sembrava fatta su misura per ridimensionare le sue inquietudini, la sua tendenza alla malinconia.
Non si trattava di essere complementari, però: era più il fatto di essersi incontrate nel momento giusto per creare quel legame artificioso, in cui certo Sabine aveva fatto il primo passo e poteva averla addirittura inseguita, ma successivamente entrambe avevano scelto di interessarsi a qualcosa di diverso da se stesse, con più o meno difficoltà, e di non annoiarsene.
In tutti i campi della nostra vita, a volte riassumiamo con una sola parola un po’ sciocca questo inafferrabile miscuglio di coincidenze, affinità elettive e desideri latenti. Lo chiamiamo destino, un lemma che sembra invocare sfere celesti e poteri occulti; ma le radici di ogni nostra scelta sono nel caos del nostro intelletto, un luogo non meno misterioso o affascinante dell’universo, comunque.
Entrando in collisione in qualsiasi altro modo, le personalità di Oscar e Sabine, le loro diversità, forse si sarebbero respinte senza pensarci due volte.
Ma sicuramente le due non pensavano a questo mentre passeggiavano sotto uno splendido sole nell’affollato mercato di rue Saint Honoré; il più vicino all’alloggio cittadino di Sabine.
 


“Aaah, non è meraviglioso questo insieme di aromi, Oscar? Sentite, sentite qui!” disse raccogliendo un carciofo da un banco e porgendolo al naso dell’altra come avrebbe potuto fare con una rosa.
Oscar diede una sniffatina di circostanza e provò: “Sa di… carciofo?”
“Sì!” Esplose Sabine. “E di terra, di ferro, di fieno, di pioggia…” concluse sognante.
“Di ferro?”
“Ricordatemi di farvi odorare il ferro.”
Oscar pensò alle pistole, alle lame che aveva maneggiato per tutta la vita senza percepirne alcun profumo e di lì ai suoi occhi il globo corazzato e violaceo del carciofo divenne anch’esso una sorta di arma.
“Cosa manca ancora? Non dovremmo tornare?” chiese quindi a Sabine che continuava il suo zig-zag da un banco variopinto all’altro.
“Ammettete che vi dispiace per André” insinuò quella.
“Ma no, è lui che si è offerto di iniziare a preparare. Questa vostra abitudine di metterci fornelli a cucinare i nostri pasti gli ha fatto scoprire una nuova passione, credo. Sembra proprio che ci abbia preso gusto, di questo passo la vostra cuoca lo vorrà assumere.” Disse lei, continuando a collezionare ipotesi sul come André avrebbe potuto allontanarsi da casa Jarjayes.
“Andiamo Oscar, non includetevi: il massimo a cui vi siete prestata è stato fare da assaggiatrice!” scherzò Sabine riassestando sulla chioma senza particolari acconciature il cappello di recente acquisto. “A me piace cucinare. Preparare del buon cibo e poi gustarlo con i miei familiari è sempre stata una delle libertà che mi prendevo senza chiedere, a casa. Mia madre storceva il naso, credo progettasse fin da allora un avvenire meno borghese possibile per me, ma poi si arrendeva alla tavola imbandita. Certo, magari non mi piacerebbe così tanto cucinare se dovessi anche pulire dopo.” Ammise.
“E poi adoro scegliere io stessa gli ingredienti al mercato… tra le mie stravaganze è quella che più fa inorridire mia suocera!” ridacchiò.
“Abita qui a Parigi?”
“Nooo!” rispose Sabine con immenso sollievo e gli occhi sgranati. “In Borgogna, nella maggiore delle tenute di mio marito. Non riesce a viaggiare molto ultimamente, sta soffrendo terribilmente di gotta, poverina.”
Ma non sembrò quel che si dice affranta, in verità.
Scelse ancora delle mandorle fresche e sistemò il tutto nel cestino che rifiutava di farsi portare.
“Ah, il prezzemolo!” ricordò ancora. E si voltò di scatto verso un venditore, finendo dritta nella traiettoria di un ragazzo che trasportava una cassetta di ortaggi.
Lui - alto e piazzato - rimase saldo come una roccia, ma gli sfuggì la cassetta e le verdure si sparpagliarono ai loro piedi come un orto improvvisato.
Il ragazzo non sembrò prenderla con filosofia; a giudicare dagli abiti malmessi che indossava di certo non era lì ad odorare carciofi. Aiutato da Oscar iniziò a raccogliere la roba in malo modo e imprecando di sottecchi, mentre Sabine lottava con il suo abito per unirsi ai due nel recupero.
“Chiedo scusa, davvero non era mia intenzione…”
“Sì, immagino che non veniate al mercato per lanciare le verdure in aria, signora.” Fece quello con un sorrisetto tanto furbo quanto caustico.
Strappò senza troppi complimenti l’ultimo scalogno recuperato dalle mani di Oscar e ne incrociò lo sguardo, rimanendo momentaneamente fulminato dal viso femminile che sbucava dall’uniforme militare.
Sabine tirò fuori dal cestino alcune pere succose che aveva scelto con devozione certosina e le avvolse con altrettanta cura nel fazzoletto con cui copriva la spesa. Porse il fagotto al tizio con cui si era scontrata.
“Sei giovane per avere la risposta così pronta. Prendi, per scusarmi.”
Il ragazzo rimase interdetto da quella gentilezza, ma sembrò apprezzare. Stupito, appoggiò la cassetta su un banco e svuotò lì dentro il contenuto dell’involto per poi rimirare incantato l’ampio fazzoletto di seta rossa che gli era stato donato.
Per un attimo Sabine pensò volesse renderglielo. Invece se lo legò attorno al collo con aria soddisfatta, facendo guizzare ogni muscolo delle spalle ben tornite che sbucavano dalla casacca.
“Grazie!” disse con un sorriso meno scorbutico del precedente.
Recuperò la cassetta, e pronto a rincamminarsi guardò prima l’una e poi l’altra incuriosito, per poi salutarle con un occhiolino malizioso e sparire nella folla.
 
“Crescono bene questi… teneri virgulti parigini, non c’è che dire!” apprezzò la baronessa.
“Ma è un ragazzino, Sabine!” obiettò Oscar nella più immediata delle sue considerazioni.
“Macché, doveva avere la nostra età. O quasi.” Continuò l’altra.
Oscar le rivolse un’occhiata di scherno, un’espressione che le rivolgeva spesso madame de Plantier e non il contrario.
“Immagino mi abbiano distratta le spalle.” ammise Sabine.
 
***
 
Dovendo riferire personalmente un messaggio al generale Bouillé, Oscar si era recata a Parigi con André, quella mattina. Ma il generale non sarebbe rientrato al comando prima del pomeriggio, le comunicarono. Così i due erano rimasti a spasso non troppo distanti dalla casa dove stavano trascorrendo molte delle loro serate libere negli ultimi tempi, con qualche ora da riempire prima di completare la loro missione e rientrare a Versailles.
Passare a salutare Sabine era stato il minimo e l’invito a pranzo una prevedibile conseguenza.
 
Rientrate dal mercato trovarono André nelle cucine in maniche di camicia, a tagliar patate con precisione chirurgica e velocità da spadaccino, circondato da un capannello di spettatrici.
Non appena videro la baronessa le donne si sparpagliarono come mosche, tra chi tornò alle occupazioni precedenti e chi le andò incontro ad aiutarla col cesto, ma lei congedò tutte loro per prendere il proprio posto ai fornelli in piena libertà.
“Ci abbiamo messo più tempo del previsto… ma voi non dovevate fare tutto questo da solo, André!” si scusò Sabine contemplando gli ingredienti già preparati dall’altro in sua assenza.
“Non preoccupatevi baronessa, prima di tutto mi hanno aiutato, le vostre domestiche sono davvero gentili. E poi mi interessa imparare; a casa, mia nonna non mi ha mai lasciato fare granché, sto scoprendo solo adesso quanto mi piaccia avere a che fare anche con la preparazione del cibo. Immagino sia un aspetto comune tra le persone golose.”
Sabine era ammirata: ogni verdura era stata tagliata in cubetti regolari e scrupolosamente disposta nei piatti sulla tavola e sul fuoco del buon brodo già emanava un profumo celestiale. Con o senza aiuti, André si dimostrava portato.
“Non direi… Prendete Oscar ad esempio. Di certo è una buona forchetta, ma le interessa la cucina più o meno quanto a me interessano gli insetti” disse mettendo un grembiale sul proprio abito elegantissimo che tanto stonava in quell’ambiente della casa.
Oscar continuò ad ignorarli come ogni volta che la punzecchiavano sulla questione; stentava a capire questa storia della cucina e li osservava più o meno con lo stesso disagio che mostravano i servitori, che mai pensavano di vedere la propria eccentrica padrona coinvolgere altri strani individui nelle proprie abitudini.
“Stavo giusto ricordando che l’altra sera avevo scovato un bel volume illustrato a riguardo, nella vostra biblioteca. Potrei tornare a sfogliarlo mentre gli chef concludono l’opera?”
“Andiamo, Oscar!” fece Sabine lamentosa. “Rimanete qui con noi, fateci compagnia per questa mezz’ora.”
Lei non sembrava averne troppa voglia, anche se infine non si mosse da lì e si accomodò su un alto sgabello. Mentre gli altri due si riorganizzavano, Oscar si guardò intorno con il ventre che già brontolava per la fame e puntò a una ciotola che sembrava contenere una specie di crema di formaggio.
Ne rubò una ditata e la buttò giù. Ma scoprì a sue spese che l’impiastro bianco e quasi insapore non era affatto formaggio: aveva una consistenza grumosa, densa, che le felpò il palato di uno strato nauseante e soprattutto grassoso.
André e Sabine capirono dalla sua faccia sofferente e dal suo indice rimasto a mezz’aria paralizzato dal disgusto ciò che era accaduto, e iniziarono a sbellicarsi.
“Come avete fatto a non capire che era strutto?” chiese Sabine esilarata.
“Vi prego, datemi qualcosa da bere” chiese Oscar con gli occhi ancora chiusi da quando aveva inghiottito.
André le porse del vino e un pezzo di pane e le sembrò di avere di nuovo una lingua, finalmente.
“Non sapevo che avesse quell’aspetto lo strutto.” Mormorò imbarazzata alla ciotola mentre un paio di occhi verdi la fissavano come se non esistesse nulla di più bello al mondo della sua faccia orripilata.
“Hai fatto così anche quando hai assaggiato per la prima volta i funghi, Oscar. Dovresti concedergli una seconda possibilità… perché non ne prendi ancora?” fece lui scherzoso avvicinandole il contenitore dello strutto.
Lei allontanò da sé l’offerta e aggiunse una stritolata al braccio di colui che provava a infierire sulle sue sventure; lo liberò soltanto quando André emise i primi Ahiahiahia.
“Direi che questa esperienza sancisce il mio esilio dalle cucine, signori. Devo pur salvaguardarmi; è un luogo assai pericoloso, questo.” Dichiarò Oscar, alzandosi. “Vi aspetterò di là con un libro… non metteteci troppo, però.”
“Ma come, non solo lavoriamo per lei e ci dà anche fretta???” la raggiunse la voce briosa di Sabine mentre andava in sala da pranzo.
 
***
 
In quella casa le regole erano poche, anzi, pochissime.
Rispetto la rigidità di palazzo Jarjayes, la libertà nel regno di Sabine dava quasi le vertigini. A patto di non amare le formalità, ci si sentiva immediatamente a proprio agio in quella ricca magione dalle grandi sale decorate nei toni pastello, coi mobili ricolmi senza tuttavia risultare una bomboniera. Era vissuta, accogliente. Si percepiva una forma particolare di anarchia, perché non si trattava di una casa allo sbando: il personale era ben gestito e la padrona sapeva perfettamente cosa accadesse all’interno delle mura domestiche e nelle proprie tasche, perché essendo particolarmente attenta all’aspetto economico non amava gli sprechi e retribuiva sempre il giusto, venendo per questo molto apprezzata dalla servitù.
Solo non c’erano abitudini precise. Per lavorare a palazzo de Plantier era necessaria una buona dose di elasticità visti i cambi repentini di idee e di umori della signora e - soprattutto - bisognava saper sparire.
 
***
 
“Io mi domando come faccia a non accorgersi di nulla quando la guardate a quel modo, Grandier.” Disse Sabine non appena furono soli.
Lui le dava le spalle, inginocchiato dopo aver incastrato la teglia di patate nel forno. Rimase immobile contro quel calore, le mani avvolte nei canovacci.
“Non so di cosa stiate parlando, baronessa.” Rispose senza voltarsi.
“Non le dirò nulla, tranquillizzatevi.” Riprese lei con cautela. “Non è mia intenzione né mettervi in difficoltà né infierire, stavo solo considerando che è lampante ciò che provate per lei.” Continuò la donna rimestando delle verdure.
André si risollevò piano in tutta la sua altezza. E si girò a guardarla ancora più lentamente, come se non volesse spaventare un animale selvatico prima dell’attacco. Sabine si immobilizzò per rivolgergli tutta la sua attenzione, col fiato sospeso. Lui era accaldato dalla vicinanza col forno, la pelle del viso scolpito brillava di un sottile strato di sudore che evidenziava la mandibola serrata.
“Non so cosa vi abbia indotta a pensare una cosa simile, ma posso assicurarvi che pur essendo molto legati, tra me e Oscar non c’è assolutamente quel tipo di relazione a cui alludete. Devo forse ricordarvi a che classe appartengo?” disse. Ma con gli occhi raccontava qualcosa di completamente diverso. La pregava di conservare il segreto. La supplicava.
Come aveva potuto anche solo pensare di scambiare qualche confidenza alla buona su un argomento così cruciale, per lui? Per quanto potesse intendersi con André, quello era il nucleo incandescente attorno a cui si reggeva il suo mondo, il segreto che ogni giorno gli permetteva di orbitare attorno la donna che amava, di vivere come viveva.
Il silenzio si prolungò per qualche istante.
“Sta bene, André.” Si arrese lei, chinando la testa. “Scusate se sono stata invadente, voglio assicurarvi che non insinuerò più nulla del genere. Men che meno con lei.” Concluse senza rialzare lo sguardo, mortificata.
Fosse entrato un domestico in quell’istante, a quella scena avrebbe pensato che André l’avesse sgridata, lei tutta contrita e piccola e lui coi pugni serrati a sovrastare il tavolo con la sua imponenza.
André sembrava ancora teso, ma annuì con un sorriso tirato e si rimisero a cucinare.
 
***
 
Sulla strada del ritorno verso palazzo Jarjayes erano entrambi persi nei propri pensieri.
Oscar e André cavalcavano piano al momento del tramonto, senza dirsi una parola, mentre raggi obliqui dividevano il cielo a metà: il giorno e la notte, l’arancio e il blu.
Rientrare a Versailles dopo le ore d’aria a casa di Sabine, anche se per poco, era stato ancora più pesante per tutti e due.
 
“Devo dirti una cosa, ma non so come.” Esordì André rompendo quella tranquillità.
Oscar sembrò tornare da un altro luogo, si riscosse: “Parla, ti ascolto.”
“Riguarda te e Sabine. A corte girano voci malevoli sulla natura della vostra relazione. O meglio, su quanto essa sia contro natura…” disse preoccupato.
Lei sospirò.
“Credevi davvero con non lo sospettassi? Ormai sono anni che circolano voci del genere o peggiori, sul mio conto. Ci sono abituata.”
Esserci abituati non significava infischiarsene, purtroppo.
“Hai ragione, non è la prima volta. Ma non avevi mai frequentato così assiduamente qualcuno; devi immaginarti lo smacco per lo stuolo di nobili che in passato aveva sperato di annoverarti nella propria cerchia e a cui hai opposto solo rifiuti e che adesso ti vede in compagnia di questa donna. Oltretutto, una dama rinomata per i per i suoi modi eccentrici, per dirla con un eufemismo. Era prevedibile che si scatenassero, ma il tutto è diventato particolarmente velenoso grazie a chi sai tu.”
“Sì… mi era arrivato qualcosa dalle cameriere di mia madre, oggi. Però la loro versione coinvolgeva anche te André. Non mi hanno dato i dettagli, ma…”
Un lieve disagio calò tra loro.
André continuava a guardare avanti a sé, torvo, non commentò l’informazione che tanto la imbarazzava d’aver condiviso.
“Per me, tutto sommato, la cosa non avrà conseguenze, è solo un fastidio momentaneo.” Riprese seria lei. “Ma potrebbe non essere così semplice per Sabine.” Aggiunse.
Lui scosse la testa irritato, il fiocco con cui legava i capelli era quasi sciolto, notò Oscar.
“Tu pensi che la Polignac si lascerà scappare un simile boccone tanto presto? Non sottovalutarla…” rimbeccò duro.
“Non posso fare nulla - scandì lei - né ho intenzione di ridimensionare la mia vita per colpa di ciò che si dice a Versailles. Però voglio parlarne con Sabine e capire cosa ne pensi lei; credo che in questo caso la sua reputazione venga prima di tutto.”
Lui mugugnò un assenso. Non sembrava particolarmente ottimista sulla faccenda e stringeva forte le redini del cavallo, provando ad arginare l’irritazione. La profonda ingiustizia di quel nemico da cui non poteva difenderla lo imbestialiva. Perché quella pressione? Perché contro di lei? La Polignac aveva i suoi motivi per provare a renderla un paria, erano ignobili, ma erano motivazioni sensate. Invece tutti gli altri?
“Senti, vedi il lato positivo, André” Provò ad alleggerire Oscar: “Per una volta le voci sul tuo conto ti vedono con una donna avvenente come Sabine, non ti è andata malissimo, dai!” concluse con un accenno di sorriso.
Lui ci rimase di sasso.
Quella battutina conteneva due rivelazioni di magnitudine notevole.
La prima: Oscar aveva idea di ciò che si diceva sul colonnello donna e il suo attendente: le era arrivato anche senza il suo tramite, e fin qui, poteva starci. Le voci hanno infiniti mezzi di trasmissione, senza dubbio.
La seconda: lei si vedeva all’interno di quei pettegolezzi - ed eventualmente anche al di fuori, facendo considerazioni più generali su di sé, sul proprio aspetto - come la partecipante poco appetibile delle ipotetiche liason sessuali.
Quest’ultima ipotesi ebbe un effetto repentino sull’umore di André, che quasi scoppiò a ridere immaginando se stesso prestarsi con poca voglia alle avances di una Oscar dissoluta e discinta. In quella fantasia la immaginò strusciarsi contro il suo corpo come una gatta e si vide quasi infastidito risponderle qualcosa come Hmmm beh sì, se proprio devo…
Era un’eresia che andava corretta, per quanto si potesse.
Rallentò ancor di più l’andatura del cavallo, aspettò che Oscar gli fosse perfettamente affiancata e ne cercò lo sguardo.
“Posto che detesto il fatto che la gente per noia, per diletto o ancor peggio con malvagità possa inventarsi storie simili, e posto che la baronessa è di certo una donna affascinante… se proprio devo piegarmi alla logica delle loro sciocchezze, non mi sembra che questa nuova soluzione possa lusingarmi ulteriormente rispetto alle voci precedenti che mi vedevano accoppiato con te.”
Il sole era già oltre le colline, non era rimasta più tanta luce per vedere l’espressione incredula di Oscar, il suo disorientamento a quell’uscita che veniva proprio da André, che per quanto potesse essere gentile non aveva nel suo repertorio certi complimenti. Almeno con lei, era una prima assoluta. Quel tono appena sfumato sul finale, quel sottintendere. L’aveva detto per davvero?
Se lo chiedeva anche lui col cuore in gola, aspettando una sua reazione.
“In che senso?” domandò lei infine.
“Nel senso che sei splendida, Oscar.”
A spararle l’avrebbe sorpresa meno.
Imbarazzo, gratitudine e disagio si affollarono per un solo istante negli occhi sgranati di lei, prima che gli sfuggissero, inquieti.
Dirle una cosa simile, da quanti anni voleva farlo? Quasi si sentiva stordito dall’effetto inebriante della verità senza filtri. Sarebbe stato più difficile trattenersi di lì in poi? Non lo sapeva, ma non era pentito.
Per Oscar non era certo la prima volta che riceveva un complimento, ma qualcosa nel tono di André la destabilizzò profondamente e neanche sapeva perché. Nessuna ironia, nessuna presa in giro. Tornò a guardarlo, ma dell’estraneo di un attimo prima non c’era traccia.
“Se intendi…”
“E poi…”
si sovrapposero.
Anche i cavalli sembrarono percepire la confusione, le redini più lente dei due li spinsero a qualche scarto.
“Di’ pure.” Concesse lui.
“No, volevo…” Si fece seria, quasi grave. “Grazie, André.”
“Prego, Oscar.”
Tornarono a casa con quella sensazione addosso, in un silenzio diverso dai precedenti.



Non appena varcata la soglia percepirono di essere stati attesi.
Neanche un minuto dopo il generale chiamava sua figlia e le chiedeva di seguirlo nel suo studiolo; quel solenne “Vieni Oscar, ho da parlarti.” Lo conoscevano bene entrambi e non lasciava presagire nulla di buono.
 
***
 
“Dov’eri oggi? Ti ho cercata, a Versailles.”
“A Parigi. Ho riferito personalmente un messaggio al generale Bouillé.”
“E quanto ci hai messo, di grazia?”
La giornata impegnativa non accennava a voler terminare, quindi.
“Ho dovuto attendere per qualche ora che il generale rientrasse, sono tornata a Versailles nel pomeriggio.”
Non ci furono ulteriori commenti, ma riusciva a sentirlo rimuginare, distribuire una certa dose di rabbia in un discorso preparato. Il capofamiglia de Jarjayes si alzò dalla sedia dietro la scrivania e fece qualche passo con le braccia incrociate dietro la schiena. Si versò un bicchiere del brandy che teneva sempre pronto in una bottiglia di cristallo sulla consolle accanto la grande vetrata affacciata ad est. Oscar da piccola si perdeva in quei riflessi, nel modo in cui al mattino il sole giocava col liquido ambrato e la superficie sfaccettata della bottiglia restituiva la luce scomponendosi in tanti piccoli arcobaleni sul mogano della consolle e sulle pareti. Forse agli occhi del padre - tanto simili ai suoi, ma scavati dal tempo – era rimasta la stessa piccola Oscar di allora. Forse per questo non le aveva mai offerto quel liquore forte. Forse per questo non l’avrebbe mai ascoltata.
 “Lo sai cosa si dice di te, a corte?”
Suonò indignato e a disagio.
Ma il solo fatto che quella conversazione stesse avvenendo trasformò Oscar in un piccolo ordigno pronto ad esplodere.
“Sì. Non è la prima volta che sento voci simili sul mio conto. Si stancheranno.”
“Come fai a non renderti conto della gravità della situazione??? È inaccettabile che ci siano simili dicerie sul conto di un membro della famiglia de Jarjayes, Oscar!” tuonò lui.
“Questo colloquio avviene con qualche anno di ritardo padre, perché come vi ho detto, a mia memoria, fin da quando ho messo piede a Versailles come capitano della guardia reale si è parlato di me in questi termini. Sono certa che abbiamo entrambi cose migliori da fare che perder tempo dietro a volgari pettegolezzi.”
“Perché sono solo pettegolezzi, vero?”
“PADRE!”
Smosse a tal punto la scrivania da rovesciare il bicchiere di liquore, che cominciò a gocciolare rumorosamente nella pausa tesa tra loro. Entrambi lo ignorarono.
“Va bene, calmati Oscar, non volevo offenderti. Ma è necessario che tu smetta di frequentare questa baronessa de Plantier, e intendo immediatamente. Per quanto siano infondate, occorre smettere di dar corda a certe voci così… così moleste… per il nostro casato, siamo d’accordo?”
“No.” Rispose glaciale.
E a quel punto seppe che stavano per esplodere tutti e due.
“Sei uscita di senno Oscar??? Come ti permetti di rispondere a questo modo dopo che…”
“No, ascoltatemi voi: smettere di vedere la baronessa significherebbe dargliela vinta, significherebbe rendere in qualche modo efficace il veleno che hanno sparso con le loro parole e questo sì sarebbe umiliante per me, per voi; essere alla mercé delle chiacchiere dei cortigiani come se non ne fossimo al di sopra!”
“Le monarchie cadono per le voci di palazzo. Intere famiglie possono venire ostracizzate con la sola arma di una maldicenza ben studiata, e tu vorresti illuderti che questo non abbia ripercussioni su di noi, sulle tue sorelle in società? Ti ordino di smettere immediatamente di frequentare la baronessa e parimenti di intrattenerti con lei alla reggia.”
“No! Non potete chiedermi questo, non lo farò.”
La raggiunse uno schiaffo. Era da anni più veloce di lui, ma non poteva evitarlo.
E anche se la guancia brulicava dal dolore ed iniziava ad arrossarsi, la sua espressione non vacillò neppure per un attimo.
“Rifletti bene su quello che ti ho detto. E non dimenticare che oltre ad essere tuo padre sono anche un generale, non accetterò un’altra volta una risposta in tono simile da parte tua.” Minacciò.
“Con tutto il dovuto rispetto, padre: potete ordinarmi di non frequentare qualcuno che danneggi la nostra famiglia per qualsiasi altra motivazione ma non questa… perché, padre, se anche non vedessi più madame de Plantier, questa situazione finirebbe solo col ripetersi ogni qual volta io intendessi legarmi… ogni qual volta io cercassi semplicemente… un’amica.”
Mai avrebbe pianto. Mai. L’emozione nella sua voce non ne intaccò il tono chiaro e fermo. Ma avvertiva un peso sul petto, il suono sordo del suo cuore accelerato denunciava una tremenda, lampante ingiustizia che sembrava visibile a lei sola.
“E da quando in qua tu hai…”
Il generale si lasciò morire in bocca il resto della frase.
Era lui ad averla messa in quella situazione, in quell’uniforme. E fino a quel momento tutto aveva funzionato senza intoppi, ma a che prezzo?
L’impronta dello schiaffo ricevuto era ormai ben visibile sul viso di porcellana della figlia, un viso tanto arguto e volitivo quanto angelico.
Sapeva che era irreprensibile, che fino a quel punto la sua condotta era stata a dir poco esemplare e la rispettava profondamente per ciò che era riuscita a raggiungere come individuo e non come sua prole.
Non poteva negarle anche questo. E ad ogni modo sospettò che un suo divieto, per la prima volta, non sarebbe stato ascoltato.
“Sia, Oscar. Fa’ come credi.” sviò, brusco. “Ma stai bene attenta a ciò che fai, perché qualsiasi passo, nella posizione in cui ti stai mettendo, potrebbe essere quello che ti farà sprofondare.”
 
 

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Capitolo 6
*** Abbiamo sbagliato tutto ***


Abbiamo sbagliato tutto

 

 

“Ho come l’impressione che dovrei sentirmi offesa” fece Sabine non appena l’altra smise di spiegarle le sue preoccupazioni sui pettegolezzi che le vedevano protagoniste di appassionate esperienze saffiche a Versailles.
Ancora una volta Oscar l’aveva raggiunta al suo alloggio parigino, stavolta preannunciandosi in mattinata con un biglietto su cui continuava a tormentarsi. Forse non era necessario, forse la giovane guardia reale a cui si era affidata come messaggero non rappresentava il massimo della discrezione in un momento in cui gli occhi della reggia erano puntati con tanta attenzione verso i suoi movimenti, non avrebbe dovuto prendere alla leggera neppure simili sciocchezze.
“Mi dispiace – rispose, seria – io ho già vissuto situazioni simili, ma è la prima volta che queste voci coinvolgono in modo così ostile…”
“Mi riferivo alle vostre parole, siete voi ad offendermi – la interruppe Sabine – perché mi considerate così ingenua da non essere ancora al corrente della situazione. Posso non essere una conversatrice elegante in società, ma sono abbastanza sveglia da accorgermi di ciò che mi accade attorno, andiamo!” obbiettò con una smorfia, dimostrandosi chiaramente poco incline a prendere la faccenda come un dramma.
Dalla sua seduta Oscar intercettò il viso di André, su cui spiccava inconfondibile un muto ma altrettanto fastidioso Te l’avevo detto. Un’irritazione minuscola paragonata al sollievo di sapere la baronessa così tranquilla, già informata sui fatti.
Le scappò un sorriso.
Il tardo pomeriggio rendeva dorato il salone da loro preferito nella casa di Sabine, le cui pareti, del colore di un panetto di burro, sembravano irradiare esse stesse la luce. In quel giallo gli oggetti perdevano i contorni e ad Oscar sembrò di perdere il filo dei suoi pensieri, la voglia di discutere di quella faccenda evaporava in favore di una crescente, dispotica serenità.
Eppure non era cambiato nulla.
Il mondo lì fuori continuava ad intessere bugie, ma quel salone sembrava un nido sicuro. Ognuno aveva il suo posto: lei la poltrona di velluto carta da zucchero accanto la finestra, Sabine – parte della categoria di chi ha bisogno di tenere le mani occupate ad ogni istante – al tavolo rotondo centrale, a rigirare un mazzo di carte che scomponeva e mischiava senza uno schema preciso e André – al contempo osservatore esterno e arguto partecipante dei loro discorsi – alternava lo stare in piedi coi gomiti appoggiati allo schienale in un atteggiamento di ascolto sbarazzino, all’accomodarsi alla poltrona che faceva il paio con quella di Oscar, proprio di fronte a lei.
Fin dalla prima sera che avevano trascorso in quella stanza le postazioni erano state quelle e ormai sembravano assegnate.
Facevano parte di un quadro che via via diventava più solido di dimostrazioni infinitesimali di affetto reciproco, di attenzioni date e ricevute, come il piccolo gesto di far ritrovare ad Oscar i libri che aveva iniziato a sfogliare sul tavolino accanto alla sua poltrona. Le copertine si accumulavano in una piccola pila colorata, come i ricordi delle loro ore insieme.

“Se anche non avessi voluto accorgermene – riprese Sabine – mia suocera non si sarebbe mai lasciata sfuggire un’occasione così ghiotta per rimproverarmi: ha voluto ribadirmi la sua opinione con fiumi d’inchiostro in queste ultime settimane. Poverina; non so se sia più sconvolta dai pettegolezzi di per sé o ad aver dovuto mettere nero su bianco certi termini nelle sue lettere.”
Oscar sembrò interdetta: “Ma Sabine, vostra suocera non si trova in Borgogna? Come può aver saputo di queste storie?”
“Non ne ho idea, ed è l’aspetto che più mi secca. Non so come le siano arrivate le voci, ma qualcuno deve averla informata nel dettaglio.”
“Mi sembra una ragionevole conferma dell’origine dolosa del pettegolezzo.” Annotò André meditabondo. “Mirano a danneggiarvi, è evidente.” Aggiunse.
“Probabilmente solo me, Sabine. Non avrei voluto coinvolgervi – disse Oscar, gravata da un nuovo senso di responsabilità. – Avrà informato anche vostro marito?”
Era forse la prima volta che Sabine riceveva una domanda diretta su Raymond e non riuscì a fare a meno di mostrare un leggero turbamento. Quel capitolo che sembrava sempre troppo grande e che non riusciva ad introdurre era stato man mano messo da parte, e il proiettarsi verso la sua nuova amicizia con Oscar, il legame più esile ma saldo che si andava nebulosamente definendo anche con André, erano stati un anestetico efficacissimo per il senso di abbandono che aveva vissuto negli ultimi mesi.
Si era sentita più forte, a tratti pronta anche ad affrontare la separazione ufficiale che tanto l’aveva spaventata, sebbene ancora preda dell’ansia di non aver ancora ricevuto risposta dal marito, che per la prima volta prolungava il suo mutismo.
Certo che la suocera doveva averlo informato delle novità, sapeva che era in contatto con la madre.
Almeno finalmente si sarebbe deciso a scriverle, si era detta Sabine che ostinatamente non aveva voluto rettificare con un’altra missiva la famosa lettera di cui si era pentita.
Come avrebbe potuto rinnegare il suo sfogo? Forse aveva sbagliato nei toni, ma non poteva credere che la reazione del marito a quel dolore urlato continuasse ad essere il silenzio.
Ogni volta che ci pensava il suo orgoglio la lacerava. Lo stesso orgoglio la portò a minimizzare: “Non credo che la cosa possa avere conseguenze catastrofiche.” Commentò fingendo noncuranza e riprendendo a maneggiare le carte.
“Eppure è lontano; sono certa che non sia facile trattare certi argomenti a distanza. Anche in buona fede, immagino si stia preoccupando per voi…” azzardò Oscar.
“Ooooh, se ne infischia!” sbottò infine la baronessa lasciando cadere le carte francesi sul tavolo in un ammasso rabbioso di semi e figure, con gran sorpresa degli altri due, che presero ad osservarla in silenzio, senza permettersi di ribattere alcunché.
“Fidatevi, lo so per certo!” ribadì agli sguardi increduli, il verde e l’azzurro. “Ma ammetto che sono io per prima a sentirmi indignata per quest’astio che sento di non meritare, tutta questa gente aizzata contro di noi… dalla Polignac? Sbaglio a pensare che che ci sia lei dietro?” continuò Sabine.
“No, non vi sbagliate, molto probabilmente è così.” Rispose l’altra che pareva studiarla.
“Cosa possiamo fare per fermarla?” chiese ancora la baronessa.
“Nulla. Voi, nulla. Non esponetevi, non datele motivo di inasprirsi ulteriormente contro di voi.” Ribadì ferma Oscar, tutt’a un tratto glaciale.
“Eppure ci deve essere un modo… nessuno è intoccabile, non credete?”
“Sabine, il potere spropositato di quella donna è ormai paragonabile a quello della nostra sovrana… gode della sua fiducia illimitata e ne approfitta senza vergogna.”
“L’ultima è di oggi – intervenne André – pare che abbia chiesto un prestito inaudito alla regina, qualcosa come cinquantamila livres per coprire un debito del marito. L’ennesima truffa che andrà ad appesantire le tasche della famiglia Polignac e ad alleggerire quelle dello stato.”
“Ma come fa? Come fa a nascondere la sua situazione economica se è così benestante?”
“Investimenti non a suo nome, amministratori scaltri… sono operazioni semplici, sfiorano l’ovvio, ma sfuggono all’attenzione della sovrana che non chiede di meglio che essere la salvatrice della sua amica sfortunata.”
“È meglio aspettare che si calmino le acque, magari provando a fare ciò che possiamo per evitare di dar corda a queste illazioni.” Propose Oscar amareggiata.
“Quindi? Vederci meno?” Chiese Sabine amara. “Ma non notate che pur avendo provato ad essere meno presente a corte le voci hanno solo continuato ad alimentarsi, non può essere questo il modo, non possiamo essere noi a piegarci!”
Sotto lo strato di trucco che meticolosamente indossava anche in casa, i tratti del viso erano alterati in una smorfia di sdegno che non le avevano mai visto.
E Oscar la pensava come lei, in fondo, ma le era bastato sentire accennare alle difficoltà che aveva già dovuto fronteggiare Sabine senza che lei ne sapesse nulla per mettersi sulla difensiva, cambiare radicalmente l’atteggiamento spavaldo che aveva avuto lei stessa con suo padre.
Sentiva di dover proteggere la baronessa da quel veleno, dalle spire di Versailles che ancora non conosceva a fondo nei suoi sordidi risvolti; quel mondo dorato veniva diviso indiscriminatamente dalle sue stesse storie tra chi poteva fregiarsi della propria depravazione – reale o immaginaria che fosse – e chi ne subiva le conseguenze, anche tragiche.
“È normale che siate indignata Sabine, lo sono anch’io. Ma dobbiamo essere prudenti e voi che potete fareste meglio ad evitare ancora per un po’ la Reggia. Rassicurerete i vostri cari che la situazione è sotto controllo e andrà tutto a posto, fidatevi di me, farò il possibile.”
“E se le rendessimo pan per focaccia? Se inventassimo anche noi qualcosa sul suo conto?”
Ci mise qualche attimo a capire che era seria.
“No.” Rispose.    
“Andiamo, almeno sarà più divertente che ascoltare e basta le frottole che girano…”
“Nella vostra posizione come potete anche solo immaginare un simile scenario?! Oltre ad essere assurdo dovete pensare a tutelarvi, Sabine!”
“Sapete cosa, Oscar? Di solito le persone danno fiato alla bocca senza pensare e questo può essere un problema. Ma pensare troppo prima di dire la nostra in una situazione in cui tutti si aspettano una reazione è sciocco; dobbiamo pur far vedere che siamo indignate, dobbiamo dire, fare qualcosa, qualsiasi cosa per rispondere a tono! Potremmo raccontare che…”
“Non risponderemo alle menzogne con le menzogne!”
Ormai era in piedi, la sua voce di contralto severa come non era mai stata con Sabine.
André assisteva a quella tensione tra le due col fiato sospeso; non si aspettava un simile attrito. E provò anche un certo rispetto per la baronessa, perché non era da tutti non lasciarsi intimidire dal tono duro di Oscar. Lo interpretò come un altro segno di vitalità di quella vicinanza appena nata: il sapersi scontrare, senza complimenti.
“Non ci presteremo al loro gioco. – Continuò Oscar. – Le parole sono importanti e dobbiamo esserne responsabili; non voglio pensare neppure per un attimo che lasciar correre la lingua possa venir confuso con la sincerità. L’unica mossa sensata a questo punto è di trovare qualcosa di tangibile contro la Polignac, qualcosa che possa incrinare la sua maschera d’angelo con la regina. Ma di questo mi occuperò io, voi dovete promettermi che non rischierete di compromettervi ulteriormente.”
Sabine non parve convinta.
Alterata, fissò per qualche secondo l’altra in piedi, che perdeva l’atteggiamento marziale e tornava la creatura comprensiva che stava imparando a conoscere, con quello sguardo di cielo limpido che sembrava fatto per ispirare fiducia.
All’inizio, Sabine si era lasciata incantare dal personaggio eroico, da quella incarnazione della dea Atena che girava tra loro in uniforme e sedotta da quello non aveva pensato che a dare una buona impressione di sé usando un linguaggio più attento, dei modi forzatamente più ricercati. Delle sere aveva persino preparato delle letture erudite da poter sfoggiare all’incontro successivo, ma era stato inutile e stancante, i suoi sforzi avevano solo prodotto silenzi più densi di quella donna enigmatica che così facilmente metteva il mondo in soggezione. Era anche per questo motivo che i pettegolezzi su di lei si sprecavano: in tanti desideravano che quella perfezione venisse intaccata.
Solo che Oscar era umana.
E come ogni altro essere umano aveva il suo carico di incoerenze e fragilità, desideri e difetti, ma racchiusi in uno scrigno adamantino di cui solo il suo amico d’infanzia aveva le chiavi.
In verità cominciava a dubitare anche di questo: sembrava che quella vicinanza si nutrisse più delle intuizioni di André che delle sue confidenze. Non che la cosa scalfisse quel legame fondamentale, ma veniva da chiedersi se Oscar sapesse trovare da sé le domande giuste per capirsi fino in fondo in quella sua esistenza così singolare.
Per Sabine, a questo punto, si trattava di raggiungere la confidenza necessaria a potergliele porgere lei stessa.
“Andiamocene via!” esclamò esasperata come una bimba, teatrale come non mai. “Partiamo; andiamo dai miei in Provenza!” propose, ritrovando l’entusiasmo man mano che definiva l’idea nella sua mente.
Gli altri due risero a quel cambio radicale di tono.
“Dico sul serio, partiamo domani stesso, dopodomani al più. Non esiste nulla di più bello dei profumi di Grasse in primavera inoltrata! È il tempo della rosa centifolia, questo, ci sarà un tale fermento in città per via della raccolta… Cosa ne dite, Oscar?”
“Sabine… non posso partire di punto in bianco, lo sapete.” riassunse l’altra con un sorriso stanco.
“Ma se non prendete la decisione di farlo finirete col rimandare sempre; ci sarà sempre un motivo per non partire.”
“In questo caso mi è davvero impossibile.”
“Non è impossibile, sono altre le cose impossibili e io non vi ho chiesto né di volare, né di resuscitare qualcuno, vorrei solo prendeste una licenza per staccare da tutto questo per un po’.”
“Per arrivare in Provenza non avrebbe senso prendere un congedo di meno di tre settimane; non posso assentarmi così a lungo adesso, oltre a non trovare saggio un simile gesto nella nostra situazione.”
“Ma anche i reali a breve partiranno per un soggiorno a Fontainebleau; potrebbe essere l’occasione giusta per andar via sovrapporre il vostro viaggio al loro!”
“Proprio quello spostamento prevede la mia presenza; è un compito delicato garantire la sicurezza della famiglia reale nel trasferimento, non me la sento di lasciare solo il mio secondo, ha già dovuto affrontare molti cambiamenti quest’anno.”
In tutta risposta Sabine la ignorò, le diede quasi le spalle.
“André, dite la vostra, non credete sarebbe una buona idea allontanarci per un po’?” provò.
“Baronessa… - esitò lui combattuto - se fuggire servisse a qualcosa questa sarebbe una splendida soluzione, ma per quanto sia invitante l’idea di una villeggiatura… in questo momento sarebbe più saggio trovare un modo per arginare le chiacchiere della Polignac o questa storia andrà avanti con o senza di voi.”
“Uff, anche voi fate il guastafeste, insomma.” Replicò corrucciata.
André sospirò comprensivo. Gli piaceva il modo in cui Sabine gli ricordava costantemente che lo considerava un suo pari, anche quando come in quel momento lo faceva con una risposta brusca.
“Magari stiamo fasciandoci la testa prima del tempo – rifletté ad alta voce Oscar – non possiamo prevedere con precisione cosa accadrà nei prossimi giorni, potrebbe anche darsi che le cose si stiano già mettendo a posto…”

 

***

 

Ma il giorno seguente la frenesia sembrava solo essere in aumento, Oscar non ricordava di aver mai ricevuto una simile accoglienza persino tra i soldati della guardia reale.
Brusii, risatine. Nel branco nessuno è colpevole, perché lo sono tutti. Li rimise in ordine con più durezza del solito, rimpiangendo di non avere lo stesso potere nei corridoi della Reggia, dove quella piaga andava dilagando, si accresceva di particolari, chissà che presto non avrebbero iniziato a circolare pamphlet illustrati visto che la storia aveva una simile presa sulla folla.
Fu come se fosse salita la temperatura all’improvviso.
Avvertì il peso dell’uniforme sulla pelle, lo spesso tessuto, i gradi. Le parve d’un tratto di soffocare, come se i pensieri avessero deciso di avvilupparsi attorno alla gola e di gravarle sul respiro, i cancelli dorati oltre il piazzale assolato così simili alle sbarre di una prigione che chiuse gli occhi per scacciarne l’immagine.
Andare via.
Non le sarebbe dispiaciuto andare via per un po’.
Le vennero in mente le distese fiorite descritte da Sabine, le descrizioni minuziose di tradizioni a lei ignote che l’amica accumulava nei discorsi senza un ordine preciso, con quel suo modo enfatico e sinestetico di catturare le sensazioni.
Un viaggio. Non viaggiava per piacere da così tanto.
Cercò André con lo sguardo, ricordando con un istante di ritardo di averlo spedito a cercare sua madre con l’intenzione di organizzare quanto prima un incontro privato con la regina, senza aver ancora un’idea precisa di cosa dirle, ma con la flebile speranza di riuscire ad esercitare quello che un tempo era stato il suo ascendente su Maria Antonietta. Nell’ancor più flebile speranza di incontrarla in assenza della Polignac.
Talvolta rifletteva su quanto facilmente la sovrana avesse messo da parte la simpatia che aveva nei suoi confronti, dai recenti eventi alle chiacchiere mai rettificate sul suo possibile coinvolgimento nella perdita dello stato interessante mesi prima. Cercava un bandolo a cui appigliare un filo di logica in qualcosa che logico non era, in un rapporto che comunque era di subordinazione e non altro, ma che nel bene e nel male sembrava avere dei cardini di solidità nel rispetto reciproco. Da quando era entrata in scena la Polignac quel legame cavalleresco si era sfilacciato, continuava a farlo. Per quanto facesse male ammetterlo, la fiducia iniziale che aveva accordato alla regina andava allentandosi, cedeva il passo a una delusione senza domande, arida, mentre la speranza del cambiamento nasceva altrove, lontano dal covo di vipere che ora puntava a lei e a Sabine…
La prima persona con cui avesse stretto un legame.
Proprio questa veniva attaccata, sbeffeggiata, il suo già fragile matrimonio di cui poco sapeva veniva messo ulteriormente in pericolo.

 

Bisognava pazientare.
Tollerare…
Distaccarsi…

 

Basta.

“Girodel, devo allontanarmi. Sostituitemi qui, tornerò al più presto.”

 

***

 

C’era gente, tanta gente nella sala delle Crociate, e tra tutte quelle persone ne riconobbe una in particolare che le aveva promesso prudenza meno di ventiquattro ore prima.
Isolata nella folla, con la dama di compagnia silenziosa a seguito e l’abito più semplice che le avesse mai visto indossare, Sabine sembrava avere un’aria diversa; ma non per l’abito chiaro e privo di troppi orpelli, si trattava più di un atteggiamento composto e inanimato che tanto contraddiceva il suo carattere: un’aria da vittima sacrificale che mise immediatamente in allarme Oscar.
La vide anche lei, sembrò rabbuiarsi ulteriormente.
Ma poi Sabine mise su un accenno di sorriso e le andò incontro solenne, tra le ali di folla sovraeccitate dal pettegolezzo del giorno che si avverava davanti ai loro occhi.
“Mia cara, che piacere vedervi qui.” Disse con una cordialità eccessiva che stupì anche la sua dama di compagnia.
“Anche per me è un piacere incontrarvi.” Rispose in tono piatto e stonato, mentre con lo sguardo le chiedeva che diamine ci facesse lì, preoccupata, completamente dimentica del fatto che lei stessa si era precipitata in quella sala in preda ad un raptus di sfida e senza un piano preciso.
Venne annunciata la regina col suo seguito e Maria Antonietta si diresse immediatamente verso la coppia chiacchierata, come se le avesse individuate da lontano.
Praticamente stava accadendo tutto ciò che la sera prima si erano raccomandate di non far accadere.

“Madamigella Oscar! È una fortuita coincidenza, questa: stavo proprio parlando di voi, è così raro incontrarvi, ormai… baronessa de Plantier, buongiorno anche a voi.”
Sabine si inchinò aggraziata, Oscar accennò allo stesso gesto in versione maschile, ma tesa, incrociando la contessa di Polignac che la squadrava compiaciuta, trionfante, un generale con l’intera corte come sua armata.
“Vostra maestà, avete ragione. Ultimamente i miei doveri mi hanno tenuta più spesso lontana dalla vita di Versailles.”
“Ma Oscar, pare che proprio negli ultimi tempi voi abbiate trovato modo di frequentare spesso la baronessa, invece – obiettò candida e indispettita, una bambina a cui venga negato un dolce – se penso ad ogni volta che avete declinato un mio invito negli ultimi anni… ma non volevo rimproverarvi, suvvia, non fate quella faccia. Promettetemi che non mancherete ai miei prossimi ricevimenti… anzi, dovreste proprio prendere la buona abitudine di partecipare al mio tè del giovedì pomeriggio. Vero che ci sarete?”
“Certo, vostra Maestà.” ribatté senza un briciolo di entusiasmo, sull’attenti. Il tono monocorde di chi accetta un ordine, non un invito.
Sabine capì in quel momento che uno dei pochi difetti della sua amica – se di difetto si poteva parlare – era quello di essere completamente incapace di mentire. Persino la regina (che non spiccava per intuizioni brillanti in quel campo) diede segno di essersi accorta della sua scarsa partecipazione e una smorfia delusa passò sul bel viso dell’austriaca.
“Vostra maestà, non so nemmeno da dove iniziare per descrivervi quanto sia stata fondamentale la conoscenza di madamigella Oscar, per me.” intervenne Sabine, scatenando una costellazione di risatine dietro ai ventagli.
“Vedete – continuò imperterrita – da quando mio marito è partito per la Svezia per i suoi studi con von Linné sono stata preda di un profondo sconforto a cui non mi sembrava ci fosse rimedio. Nonostante la bellezza sublime di Versailles, io qui resto… come dire… una straniera? Sentirmi così sola in un momento in cui le cose con mio marito non vanno molto bene…”
“Sabine!” provò Oscar, inorridita dal contenuto riservato di quel suo discorso.
“Oh, no, vi prego, lasciate che mi sfoghi, sento che la nostra regina può comprendermi; voi avete un cuore tanto grande, maestà!” disse quella tornando a rivolgersi alla sovrana che l’ascoltava attentissima, chiaramente lusingata da quella confidenza così accorata e fuori luogo in cui riusciva a riconoscersi, per certi versi.
“È vero che temo per la stabilità del mio matrimonio, non ultimo a causa dei pettegolezzi ingiuriosi che circolano a corte. Ma per quanto io possa sentirmi affranta… ecco, io credo che la mia amicizia con Oscar mi abbia salvata. Lei… è stata l’angelo custode dei momenti più bui della mia solitudine.” Dichiarò con gli occhi cangianti improvvisamente velati d’emozione, e lei stessa suonò angelica, di un’innocenza infantile e fragile a cui Maria Antonietta non resistette, si avvicinò alla baronessa con le mani al petto come se volesse chiederle scusa di aver ascoltato tante maldicenze sul suo conto, genuinamente pentita.
“Baronessa…”
“Ma voi conoscete meglio di me l’importanza della vera amicizia – incalzò Sabine – vedo quanto vi sia vicina la contessa di Polignac e non posso che ammirarvi ed aspirare ad un legame similmente profondo e sacro… voi… voi siete un esempio per me!” concluse inchinandosi e un paio di lacrime rotolarono sul viso rinascimentale di Sabine a condimento di quella dichiarazione che fece definitivamente breccia nel cuore morbido di Maria Antonietta.
“Baronessa, vi prego risollevatevi, non c’è bisogno che mi diciate altro… io vi capisco profondamente - replicò ormai commossa. – Avete ragione, anche per me l’amicizia è sacra e proprio come voi ho ricevuto la benedizione di incontrare un angelo custode nella mia vita.”
Rivolse un sorriso dolcissimo alla contessa di Polignac, che pur fumando di rabbia riuscì a ricambiare quel miele, avvicinandosi alle due con grazia celestiale, mentre il cicalare attorno a loro mutava di tono: il vento era cambiato.

Oscar si ritrovò completamente spiazzata; la regina prendeva le mani della baronessa e si faceva giurare di non mancare ai prossimi appuntamenti a corte; Sabine annuiva ancora tra le lacrime e sembravano due sorelline ricongiunte, le parve folle, da che sapeva che i contatti della baronessa con la sovrana non si erano mai spinti oltre i saluti di circostanza nelle occasioni formali. In quel momento notò che persino la pettinatura di Sabine quel giorno somigliava fin quasi a rispecchiare quella di Maria Antonietta… e con un brivido Oscar intuì della premeditazione in ciò che stava osservando.
Un piano rischiosissimo, il suo, che pure stava avendo successo.
Livida, la Polignac nascondeva a stento l’irritazione. Era chiaro che dopo una scena simile in cui la stessa regina si pronunciava pubblicamente contro quei pettegolezzi l’intera popolazione di Versailles si sarebbe allineata in un batter d’occhio con quel perbenismo flaccido che – paradossalmente – aveva la sua amicizia con la sovrana come alibi.
“Siete una donna fortunata, baronessa de Plantier… ad avere accanto una persona eccezionale come Oscar François de Jarjayes.” Commentò zuccherina colei che si era appena vista crollare il castello di carte creato con tanta cura nelle ultime settimane.
“Davvero fortunata…” sussurrò poi in tono completamente diverso nascondendo la minaccia nel ventaglio, una volta vicina.
“Oh contessa, siete così cara!” rispose Sabine senza perdere un attimo. “Voi non sapete quanto vi sia grata per queste parole e per tutto quello che fate per me e per la mia famiglia!”
La donna rimase interdetta, pur continuando a sorridere ferina.
“Vogliate perdonarmi, baronessa, ma non capisco a cosa alludiate… Forse mi state confondendo con qualcuno?”
“Affatto, contessa. Non potrei mai confondere la migliore cliente della Maison Florentin con nessun altro!” scandì bene e il colore sul viso dell’altra scomparve.
“Dovete perdonarmi maestà – continuò Sabine rivolgendosi nuovamente a Maria Antonietta – è vero che la mia famiglia ha l’onore di servire anche la casa reale, ma l’opulenza degli ordini per i Poli…”
“Domando scusa… ma stiamo ignorando da troppo tempo i vostri ospiti spagnoli, vostra Maestà, dovremmo rimediare, non credete?” interruppe improvvisamente la contessa, terrea.
E quella parentesi di cordialità terminò nello stesso modo istantaneo in cui si era venuta a creare, in pochi attimi, ma lasciava i rapporti di forze invertiti.
Tutto grazie a Sabine.
Questa si volse verso Oscar con un sorriso a trentadue denti, ma l’altra la freddò.
“Non una parola, non adesso.”
“Avete ragione. Vi aspetto al solito posto, quando staccherete.”

 

***

 

“Siete un’incosciente!” esplose Oscar non appena André ebbe chiuso lo sportello della carrozza.
Sabine in tutta risposta iniziò a ridere a crepapelle, mostrando di apprezzare molto il titolo appena conferitole.
“Avete visto la faccia della Polignac quando ha capito che informazioni avevo sulle sue spese?”
Oscar si massaggiò la fronte, non poteva crederci.
“Che ne è stato dei ragionamenti di ieri sera? Non dovevate esporvi così, non pensate alle conseguenze?”
“È andato tutto a meraviglia, invece! André, avreste dovuto esserci!” provò a sdrammatizzare.
“Ma fornire quei dettagli sulla vostra vita privata…”
“Che il mio matrimonio sia in crisi non ne dubita nessuno da molto tempo, Oscar. Ho solo ribadito un’informazione che era sulla bocca di tutti da prima di noi, ve lo assicuro.” Ribatté con una voce rassegnata la baronessa; un’ombra di soddisfazione autodistruttiva le velava lo sguardo; doveva essere venuta a patti con quell’idea, ma degli sgoccioli di speranza ancora scavavano dentro di lei. Soffriva. Oscar intravide quella voragine e si odiò per non averle impedito di mostrare pubblicamente quel dolore.
“Sabine…”
“Via, non importa. Dico davvero.”
“Non dovevate, non è giusto… era una mia responsabilità e avrei dovuto fare qualsiasi cosa per fermarvi!”
Sabine scosse la testa, per la prima volta quel giorno commossa per davvero.
“Oscar, voi sareste disposta a farvi calpestare pur di difendere qualcuno a cui tenete. Non potevo accettarlo senza far nulla, soprattutto avendo a disposizione i conti salatissimi della povera Polignac: non potevo resistere.”
L’amica le strinse una mano con le sue, la raccolse con delicatezza in una muta promessa di ricambiare quel coraggio, a tempo debito.

 

La carrozza li portò a Parigi, l’idea era di festeggiare da Sabine, al solito, con una buona cena.
“Immagino che una delle conseguenze dell’incontro di oggi sarà la perdita della vostra affezionata cliente.” Intervenne André un po’ sarcastico, ma sinceramente ammirato dall’accaduto.
La baronessa fece spallucce: “Per la soddisfazione di vederla con la coda tra le gambe, ne è valsa la pena.”

Arrivati a palazzo andò subito loro incontro una delle domestiche.
“Baronessa, è… dalla Svezia, è arrivata oggi!” disse con voce incerta, porgendole una lettera.
Sabine quasi la strappò dalle mani della giovane, l’aprì senza neppure ritirarsi in salone, in piedi, ancora nell’atrio, con Oscar e André ad un passo.

Un solo foglio di poche righe, e subito le si appannò la vista, vicina al crollo.

Abbiamo sbagliato tutto.” Iniziava.

 

 

 

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Capitolo 7
*** Anobium Punctatum ***


 

Anobium Punctatum



Abbiamo sbagliato tutto.
Quanto siamo stati capaci di ferirci negli ultimi anni, Sabine.
Ho sempre riconosciuto che abbiamo reso complicato ciò che per molte coppie era naturale e che non abbiamo seguito un percorso regolare, ma credevo che da qualche parte ci saremmo incontrati a metà strada. Come ci è già accaduto, mi aspettavo che una nuova stagione fosse possibile.
Eppure, anche i gatti arrivano alla loro nona vita.
Devo essere stato pazzo o cieco a non cogliere appieno la sofferenza di cui parlate nella vostra ultima lettera. La mia stessa inconsapevolezza mi ha annichilito e solo ora, dopo tanto tormento e l’insistenza non vostra, bensì di mia madre che mi tiene aggiornato sul vostro conto e sulle dicerie di corte che si stanno accumulando e che vi vedono come l’amante di di Oscar François de Jarjayes, riesco a scrivervi.
Ma Sabine, riguardo questo… so di non dover dare retta alle sciocchezze di Versailles, ma c’entra forse ciò che vi dissi a suo tempo sul colonnello delle guardie reali? È un vostro modo contorto per vendicarvi delle mie parole o è una coincidenza che la persona coinvolta sia proprio lei?
Vorrei trovare le forze per rispondere punto per punto al dolore con cui mi investite, ma non riesco.
Per anni non ho fatto che ripetere quanto nella lontananza il mio pensiero si riordini e che la mia preferenza vada allo stendere le mie riflessioni per iscritto quando discutiamo, ma eccomi arreso a contraddirmi, stavolta il bianco di questo foglio rispecchia quello della mia mente esausta.
Dobbiamo vederci, Sabine. Credo che la mia penna si rifiuti di scrivere perché è necessario ch’io vi dica di persona ciò che immagino sia giusto fare a questo punto.
Sarò a Parigi al più tardi il mese venturo, quando questa missiva vi raggiungerà spero di essere già in viaggio.

R.

 

***


“Vi prego, spostate quella boccetta… è un odore che ferisce il naso…” disse debolmente Sabine con gli occhi ancora chiusi.
“Come vi sentite?” chiese André allontanando immediatamente i sali d’ammonio.
“Mi sentirò meglio quando mi libererò di questo vestito, immagino.” Risistemò la scollatura che stringeva sul petto abbondante. “Non fate quella faccia André, tra voi ed Oscar alle volte mi sembra di aver a che fare con delle educande.” Si mise a sedere sul letto su cui era stata adagiata. Era imbarazzante aver perso i sensi, così come era imbarazzante sentirsi così vulnerabile alle emozioni, sconvolta solo perché nella lettera…
“La lettera!?” ricordò all’improvviso.
Oscar le porse il foglio ripiegato e la busta da lei stracciata in malo modo nella fretta. Sabine si concesse un’altra occhiata rapida poi la richiuse sofferente.
“L’avete letta?” chiese titubante.
L’altra sembrò sorpresa della domanda, fece cenno di no con la testa. No, naturalmente: un essere umano più rispettoso di Oscar doveva ancora nascere.
“Io vi devo delle spiegazioni, ma prima vorrei proprio allentare questo corsetto. Oscar, non è che potreste aiutarmi a slacciarlo un po’?”
“Non ho la minima idea di come si faccia, Sabine.”
“Nelle storie che giravano eravate molto più in gamba.” commentò lei ironica, strappando una risata ad André.
“Sono contenta di veder riaffiorare il vostro spirito. Vi chiamo qualcuno per aiutarvi con gli indumenti, dovreste riposare. Parleremo in seguito, adesso non…”
“No. Vi prego Oscar, non andate via, attendete un momento che io mi cambi, farò portare qualcosa da mangiare qui, ma… non lasciatemi sola.”


 
***


Quando rientrarono nella stanza non vi erano che poche candele accese, i riquadri delle finestre ritagliati dalla luce smunta della luna sembravano una superficie lontana, il cielo d’acqua di un mondo subacqueo.
Sabine indossava un’ampia vestaglia fiorita; non più strizzata nel corsetto sedeva al tavolino dell’anticamera come una bambola di pezza, morbida e arresa. Aveva avanti a sé quattro plichi di lettere di varia misura legati ognuno da un nastro di colore diverso: i quattro anni di corrispondenza del marito.
Delle domestiche portarono cibo e vino, ma nessuno di loro pensò a mangiare. Attesero.

“È finita. Manca solo l’ufficialità.”
disse infine Sabine.

Ma loro sapevano troppo poco per poter commentare o consolare la baronessa. O per credere che quella fosse una verità assoluta.
“Vi va di parlarne, Sabine?” invitò cauta Oscar, dopo aver pescato un assenso nello sguardo comprensivo di André.

È paradossale come alcune persone riescano a fare a meno di aprirsi su ciò che le tormenta proprio con chi è loro più vicino. Ne fanno un’arte. Riescono a vivere in uno stato di felice dimenticanza, a straniarsi dai propri pensieri latenti. La baronessa era un ottimo esempio di questo comportamento, divenne chiaro ad entrambi quando videro la donna ilare che conoscevano sciogliersi nel pianto, perdere quell’atteggiamento controllato e beffardo che aveva conservato fino a quel momento per parlare di suo marito. Cedeva.

Era così sciocco piangere adesso, pensava Sabine, in nome di cosa? Dopotutto restava davvero poco di quei quattro anni.
Rari momenti di pace, delle notti di passione.
Qualche risata complice, il suo buon odore aspro sulla pelle.
I complimenti ai piatti preparati da lei, le dediche sui libri che non avrebbe mai letto per cui lei lo prendeva in giro e di cui alle volte provava a capire qualcosa, quando non c’era.
La sua memoria sembrava appigliarsi alle banalità come un naufrago allo scoglio.
Senza pensare al trucco che ancora portava o al rumore dei suoi singhiozzi, pianse fino a che le si spezzò il respiro, fino a sentire male al petto.
Per quanto Oscar ammirasse il proprietario della biblioteca che da settimane spulciava (ed essendo testi di entomologia, va specificato che il gioco di parole non era voluto), vedere Sabine in quello stato la caricò di una rabbia inattesa, e avvertì un’irrazionale voglia di sfidare a duello il barone latitante.
“Non ha accennato ad un suo rientro?” Provò André, che forse sentiva lo stesso.
La donna si asciugò le lacrime in un gesto deciso e annuì. Riprese fiato, provò a fare ordine.
E iniziò a raccontare in modo più o meno cronologico della loro storia, dipanando quella matassa anche a se stessa. Senza che gli altri due la interrompessero andò avanti per un tempo indefinito nella narrazione della lunga sequela di incomprensioni, litigi e separazioni che avevano caratterizzato quella unione, del modo in cui l’aveva snobbata e che poi, alla nascita di un sentimento diverso, aveva pensato disperatamente di voler salvare, senza però riuscire a cambiare atteggiamento o a mettere da parte il proprio orgoglio per provarci davvero.
Ma non disse proprio così nel resoconto. Le colpe vennero distribuite in modo iniquo, e il quadro generale da lei descritto la vedeva come vittima di un marito assente, ma è il vantaggio di chi suona la campana.

“…E dalla lettera in cui parlavo di divorzio ancora non avevo avuto sue notizie. Fino a stasera.”
“Lo amate ancora?”
“André, ti sembra il caso?”
“Ma stiamo parlando proprio di questo, Oscar!”
Naturalmente aveva ragione, ma continuava a sembrarle tutto troppo diretto per quello che era il suo approccio titubante all’argomento. L’amore di cui tutti si riempivano la bocca cos’era per lei? Un’idealizzazione vaga, un sentimento privo di contorni che non fossero quelli delle pagine dei romanzi scelti da André. Era da quelle letture che l’altro ricavava la sicurezza che a lei mancava anche solo per pronunciarne il vocabolario di tenerezze?
“No” disse Sabine tra i singhiozzi, per poi rettificare più flebile: “Non lo so…”
Si soffiò il naso e sembrò andar meglio, come se l’ammissione l’avesse aiutata. “Se non volessi lasciarlo? Se non volessi permettergli di lasciarmi? …Come posso fare a rimediare, anche se ho rovinato tutto e per lui è finita?”
Gli altri due tornarono a guardarsi, interpellati a riguardo pur essendo probabilmente i ventenni con meno esperienza in tutta la Francia.
“Esattamente cosa vi ha scritto per farvi pensare che non ci sia più speranza?” provò André.
La baronessa parve interdetta. Soppesò con gli occhi il foglio spiegazzato avanti a sé.
“Vorrei mostrarvela, ma prima devo confessarvi una cosa… ascoltatemi fino alla fine però e… vi prego in anticipo di perdonarmi”
Non ci fu il tempo di rassicurarla che continuò: “Oscar, io avevo più di un motivo per provare ad avvicinarvi. La mia insistenza non è stata casuale.”

La sorpresa passò rapida sul volto dell’altra, un’espressione da animale ferito.
Fu un istante, ma non sfuggì a nessuno.



Su trampoli di fiducia precari, Sabine iniziò a spiegarsi: “È passato almeno un anno da quando è accaduto… Non ricordate probabilmente, ma avete conosciuto Raymond il giorno in cui avete scortato il suo benamato von Linné all’Accademia delle Scienze, durante la sua visita in Francia…”
“Avevo sospettato potesse essere presente in quell’occasione, ma non mi sembrava di averne fatto la conoscenza.” rimuginò tra sé e sé Oscar, turbata.
“Lui è un po’ così - alzò le spalle in fare rassegnato la baronessa - ha questo potere di non farsi notare, immagino che per un osservatore abbia i suoi vantaggi. Però lui ha notato voi.” Non c’era traccia di amarezza nella constatazione, ma si concesse un attimo di pausa più lungo prima di continuare.
“Io mi trovavo a Grasse, in uno dei tanti momenti di tensione del nostro rapporto. In tutte le lettere che vedete raccolte qui, il barone non mi ha mai parlato neppure una volta di qualcuno, mai, per quanto assurdo possa sembrare. Sa dilungarsi in descrizioni di tutto rispetto sui luoghi e sui suoi studi ma sembra certosino nell’escludere ogni allusione ad altri esseri umani di qualsiasi genere, e mi ero ormai abituata all’idea; lui vive in un mondo tutto suo. Quando ecco che arriva questa lunga lettera sul comandante donna delle guardie reali…”
Estrasse con facilità la lettera in questione da uno dei mazzetti avanti a sé e iniziò a leggerne un passaggio ad alta voce.



“All’inizio credevo di aver avuto una svista; non essendo avvezzo ai costumi di Versailles - il cui scintillio può dar le vertigini - credevo di essermi sbagliato. Ma più tardi notai di nuovo l’aspetto singolare del capitano delle guardie reali che guidava la nostra scorta. Voi forse ne siete già a conoscenza, in questi anni avete avuto modo di frequentare più spesso la corte…
Una donna, Sabine! Ma non dovete immaginare una caricatura di soldato, costei non è affatto una civetta in divisa per una stravaganza della regina, come alcuni dei presenti malignavano; tutt’altro! Mi perdonerete se mi dilungo sulla descrizione di un’altra donna, ma ammetterete che è un caso più unico che raro e questa creatura dalle fattezze angeliche ha destato il mio interesse e successivamente, quando ho avuto modo di parlarle, la mia ammirazione.
Che mente lucida e affilata! È un’abile conversatrice: colta, ma non saccente. Portata per la logica e per il ragionamento strutturato, nulla di quello che vi aspettereste di sentire da una…”



“Sabine, vi prego, qual è il punto?” Chiese tesa l’altra, interrompendola. La lettura aveva messo tutti in imbarazzo. “Questo come si collega al vostro cercare di entrare in contatto con me? Cosa volevate?”
“Non è così semplice, Oscar!” scattò nervosa la donna.
La fiducia è un cristallo fragile, e come il cristallo ha bisogno di trasparenza. Lo sguardo duro di Oscar faceva male; il sospetto e l’improvvisa distanza creatasi erano l’ennesimo colpo del giorno, ma Sabine mise da parte la frustrazione: doveva riuscire a spiegarsi a tutti i costi, fermare le lacrime che tornavano a girarle negli occhi.

“Anobium Punctatum.” disse, come fosse una formula magica.
“…Che cosa?”
“Un tarlo. Mio marito li chiama così.”
“In che senso un tarlo, Sabine?” chiese Oscar con gli occhi chiusi, tornando ad un tono più morbido.
“Di quelli che scavano nelle persone invece che nel legno: un pensiero fisso. Non pago della lettera a voi dedicata, al mio rientro Raymond continuò a riferirsi a voi come esempio lusinghiero per il genere femminile. Certo, le sue considerazioni erano tuttalpiù pedagogiche, ad esempio “Bisognerebbe cominciare ad educare diversamente le ragazze, conceder loro prospettive diverse del matrimonio” cose così, ma nella nostra situazione bastò per farmi precipitare in un’insicurezza che non avevo mai avuto. Forse volevo solo capire cosa trovava in voi che non vedeva in me.
Forse volevo diventare l’oggetto assoluto di quella ammirazione, che con me ha sempre centellinato.
Mi ero sempre accontentata del poco affetto che ci concedevamo a vicenda, ma quando quel poco è stato messo in discussione dalla presenza di un ideale… Sapete, ad osservarlo adesso, il nostro matrimonio mi sembra meno di ciò che avete voi e André…” Incrociò lo sguardo di quest’ultimo che non sembrava averla presa bene e la fissava spaventato come non mai. Oscar invece non batteva ciglio. Ascoltava fissandola con un distacco a cui Sabine non era più abituata.
Continuò: “Non so dirvi con chiarezza cosa mi abbia spinta a cercare la vostra amicizia con tanta insistenza; quando mio marito è partito per la Svezia ho capito che stavolta era diverso; mi è sembrato di avvertire l’inizio della fine… magari a quel punto vi ho cercata per capire in cosa dovessi migliorare? O volevo vantarmi con lui di essere nelle vostre grazie? …Non lo so più, ma vi giuro che le mie intenzioni non erano certo malevole!”
Intravide un barlume di comprensione e ne seguì la luce.
“Ho iniziato ad informarmi su di voi, allora. E lì mi sono incuriosita.” Un sorriso pacato le sfiorò le labbra, al ricordo. “Eravate tutto ciò che diceva mio marito e molto altro, ma io ho visto soprattutto una persona un po’ troppo sola, isolata dagli stessi ideali elevati che suscita. A quel punto volevo davvero conoscervi meglio, è diventata una fissa in un momento in cui nelle mie giornate non c’era altro che un senso ingombrante di mancanza. E adesso che posso dire di esservi amica il mio unico rimpianto è di non aver fatto in modo che accadesse prima, Oscar.”
L’altra la osservava con le braccia incrociate, dall’altro lato del tavolino. “Perché non me ne avete parlato subito?” chiese, e la voce che era sempre così decisa parve piegarsi al peso di una sofferenza interiore.
“Perché siamo complicate Oscar. Avevo paura di perdere la vostra fiducia, come adesso.”
Le sfuggì una lacrima dalla maglia delle ciglia. Non la fermò.
Oscar sciolse il nodo delle sue braccia e si sporse sul tavolino, allungò una mano a cercare quella di Sabine che stringeva convulsamente la lettera responsabile - in un certo senso - del loro trovarsi lì.
“Non avete perso la mia fiducia, Sabine.” Disse tenendole la mano paffuta nella sua sottile e callosa. “Vi prego, non piangete per questo; solo proviamo a non creare simili incomprensioni tra noi. Non sentite mai di dovermi nascondere qualcosa perché temete la mia reazione… non sono un’esperta, ma sono sicura che la sincerità sia l’ingrediente principale di qualsiasi amicizia, o le premesse sono infondate.”
L’altra annuiva, sollevata.
“Perdonatemi se non sono stata capace di aiutarvi e se anzi non ho fatto che crearvi altri problemi…” continuò Oscar. “E grazie di essere mia amica. Sono molto felice di avervi nella mia vita… forse è il momento giusto per ribadirlo.”
Sabine tirò su con naso. Sorrisero tutti al rumoraccio e André le andò incontro con il suo fazzoletto e un’occhiata di difficile lettura. Un misto tra un rimprovero e il divertimento, forse. Aggiunse: “Se permettete, baronessa... siete molto più capace di quanto crediate con le parole. Non è da tutti sapersi spiegare con tanta onestà.”
“A quanto pare sotto pressione mi esprimo meglio…” rispose. “Non avete idea della tensione a sentirsi esaminati da Oscar, quasi compiango i suoi soldati!”

Dopo aver letto l’ultima lettera del barone però l’atmosfera tornò a scaldarsi.
“Qui non c’è nulla di così drastico, Sabine. Prendetevi il tempo che vi occorre per riflettere su cosa dirgli al suo ritorno, parlategli.”
“Vi dico che lo conosco abbastanza da capire che questa lettera è diversa. Sta tornando per chiedere la separazione, fidatevi.”
“Ma anche se fosse così, non sarebbe il caso di mantenere la calma e cominciare a fare chiarezza nei vostri desideri? Se non volete questo divorzio dovreste dirglielo.”
“Non ce la faccio… non sono più calma da troppo tempo, a riguardo…” ricominciò a singhiozzare lei, ma con rabbia. “Una parte di me pensa sia giusto, che finalmente ci caveremo questo dente malato che continua a far male. Non siamo stati capaci… non ci vogliamo abbastanza…” diceva convulsa tra le lacrime.
E i due spettatori dopotutto non la pensavano diversamente: quella coppia era davvero assortita in modo bizzarro, difficile credere che improvvisamente avrebbero trovato la quadra per funzionare insieme.
Eppure, rifletteva Oscar osservando ciò che era nato tra lei e Sabine, si può andare d’accordo anche essendo assai diversi: basta volerlo.
Era una verità banale che sentiva di aver riscoperto. Ma Sabine voleva davvero tornare col marito o stava piangendo per scrivere la parola fine? Si sarebbe svegliata a cuor leggero il mattino seguente? Non la conosceva abbastanza per capire cosa dirle per mitigare quella sofferenza all’apparenza straziante.

“Voglio andare via.” disse all’improvviso la baronessa scostando i boccoli ormai disfatti, il viso stravolto mostrava gli occhi arrossati che brillavano nel chiaroscuro della stanza in un luccichio stanco e folle.
“Adesso sarebbe davvero poco saggio. Aspettate che vostro marito rientri, dovete parlargli…” si permise André.
“Non capite: io non posso, non ce la faccio. Non posso incontrarlo qui a Parigi in questo palazzo che è suo… io voglio andare via, voglio tornare a casa. Se vorrà cercarmi sarà lui a farlo, io non lo aspetterò. Farò le valigie stanotte stessa.”
“Sabine, no. Dovete affrontarlo!” insisté Oscar, convinta almeno di questo.
“E chi dice che sia la cosa migliore? Per chi? Se io preferisco tornarmene a Grasse dai miei a questo punto, chi può biasimarmi?”
“Ma potrebbe interpretarlo come un nuovo gesto di stizza…” osservò André.
“Lo è.”
“Andiamo, Sabine…”
“Questa mi sembra un’ottima idea. Andiamo, Oscar. Venite con me!”
“Non intendevo in quel senso, lo sapete.”
“E io invece vi vorrei tanto al mio fianco in questo momento; nulla mi farebbe sentire meglio che tornare a Grasse con voi. Anche solo per qualche giorno, ve ne prego!”
“Vi ho già spiegato che non posso, e vi assicuro che mi spiace, ma…”
“Ma, ma, ma… sono solo scuse, volere è potere!”
“Sono un colonnello delle guardie reali. Ho delle responsabilità.”
Sabine si alzò stizzita e percorse la stanza nervosa, lasciando svolazzare la vestaglia fiorita.
Tornò al tavolino dagli altri due indicando Oscar. “Ecco, questa è un’altra caratteristica che certamente piace a Raymond: siete la creatura più prevedibile che esista! Il vostro comportamento è così ripetitivo e preciso che vi si potrebbe schedare nei suoi studi!”
“Mi state paragonando a un insetto?” chiese stupita l’altra.
“A una specie ottusa di insetto che fa sempre la stessa cosa, sì!”
Oscar raccolse la critica e la mise da parte per pensarci poi. Non riuscì a fare a meno di sorridere a veder Sabine così sfatta prendersela per un motivo così sciocco. Aveva quasi due anni più di lei, era di fatto una donna sposata, ma spesso assumeva atteggiamenti così infantili…
“Io credo sia arrivato il momento di riposare per tutti noi, possiamo discuterne domani sera, con la mente fresca. Non potete prendere una decisione così importante dopo una giornata come quella di oggi, suvvia.”
“Non cambierò idea. Non cambierà nulla domani come non è cambiato nulla negli ultimi anni.” ribadì a un volume poco notturno la baronessa.
Oscar e André si alzarono all’unisono; la luce e la sua ombra.
“Buonanotte, Sabine.”

 
***


“Io posso anche aver dimenticato di aver conosciuto il barone de Plantier, ma mi sembra davvero strano che tu non ricordassi l’incontro. Tu hai una memoria infallibile per certe cose.” disse Oscar prima di entrare a casa, dopo la cavalcata notturna.
Dovevano essere almeno le due del mattino, non avevano molto sonno avanti a loro.
Colto alla sprovvista, simulò una calma che non aveva. “Sarà che quel giorno all’Accademia delle Scienze hai conversato un po’ con tutti, devo aver fatto confusione con i nomi.”
“Buffo, io ricordo solo di aver parlato con il conte di Fersen.” rifletté Oscar senza avere la minima idea dell’effetto delle sue parole.
“Già, c’era anche lui…”
“Sì. È stato un traduttore fondamentale in quell'occasione… Fu una bella giornata, mi domando come mai non mi venga in mente altro.”
Dopo più di un anno che non avevano sue notizie, André sperava che quel capitolo non si sarebbe più riaperto. Aveva volutamente evitato di riprendere l’episodio in questione per evitare di stuzzicare un simile ricordo in Oscar.
La conoscenza di Fersen andava avanti già da diversi mesi, all’epoca, ma prima di quel giorno lui e Oscar non avevano mai avuto modo di trascorrere tanto tempo insieme. Per lui era stata una vera tortura notare in lei tutti i piccoli segni di interesse di cui non la credeva capace: uno spettacolo irresistibile e devastante allo stesso tempo.
Oscar affascinata. Luminosa come non mai. Più incline al sorriso.
Quanto ne aveva sofferto.
Quando circa un mese dopo il conte era tornato in Svezia, André aveva tirato un vero sospiro di sollievo. Sentirlo nominare di nuovo, il saperlo intatto nella mente di Oscar a differenza dal resto della giornata con alcuni dei più brillanti studiosi da tutto il continente, risvegliò in lui il tarlo della gelosia.
Poteva capire la baronessa: non avrebbe augurato quel tormento a nessuno.
“Non abbiamo neppure mangiato; che ne diresti di uno spuntino? Posso prepararti qualcosa senza far troppo rumore.” cambiò discorso lui.
Lei annuì distratta. Non sembrava più stanca, ma rapita da altri pensieri.
In cucina trovarono vari avanzi della cena e non fu necessario mettere alla prova le neonate arti culinarie di André. Si sedettero al tavolo, fianco a fianco, a mangiare assieme dal tegame appena scaldato, senza dir nulla.
“Secondo te sono prevedibile?” ruppe il silenzio Oscar, nascosta da una cortina di capelli biondi che impediva ad André di scutarne il volto.
“Stai pensando a quello che ti ha detto Sabine?”
“Non capita tutti i giorni di essere paragonati a un insetto.” considerò lei.
“Non ti ha paragonata a un insetto, ha solo rimarcato il fatto che sei una persona estremamente disciplinata e come tale…”
“Prevedibile.”
“…”
“Quindi lo pensi anche tu?”
Sostenere il suo sguardo poteva essere difficile, alle volte. Gli sembrava di sentirne il richiamo, il desiderio di stringerla tra le braccia si tramutava in urgenza.
Si girò ad osservarla meglio, la panca su cui erano seduti protestò con un lungo crepitìo dolente. Lei aspettava la risposta un po’ corrucciata, forse seccata dal fatto che ci mettesse tanto.
Lo distrasse un microscopico residuo di cibo rimasto a marcarle il punto tra la piega decisa della bocca e la guancia, come il neo tirabaci di una dama frettolosa, e prima di rendersene conto stava passando il pollice sull’angolo delle sue labbra in una morbida traiettoria fino al mento, mentre lei rimaneva immobile al suo tocco, paralizzata dal contatto inatteso.
Scostò la mano spaventato. L’ho fatto davvero? Si chiese mentre già sentiva la mancanza di quella pelle sotto le dita.
Cosa gli stava succedendo? Dove era finito il suo autocontrollo?
“Avevi un po’ …un pezzetto di qualcosa qui” spiegò col cuore in subbuglio e mimando il gesto.
Lei ripassò il punto con delicatezza per assicurarsi di essere a posto.
“Adesso?”
“Non c’è più nulla, tranquilla.” ribadì lui con un’occhiata sfuggente.
“Non mi hai risposto.” insisté Oscar.
“Scusa, cosa mi avevi chiesto?”
“Ti ho chiesto se mi trovi prevedibile, André.” ripeté paziente.
Lui si concesse ancora un momento di riflessione prima di ribattere.

“Non è mica una cosa brutta, Oscar.”
“Quindi sì?”
“Ti sembra il caso di prendertela?”
“Non me la sto mica prendendo.” ed effettivamente suonava calma.
“Quando ti si fa quella piega tra le sopracciglia significa che qualcosa non ti va a genio.” rispose indicandola.
“E questa cosa sarebbe? Un’argomentazione sulla mia prevedibilità?” punzecchiò.
“È perché ti conosco bene e so interpretarti, Oscar.”
La sua voce suonò come una carezza. E fu quello l’effetto sulle pieghe del viso di lei, che si distese fin quasi a sorridere, per poi stropicciarsi in uno sbadiglio che accompagnò come un gatto, puntando le braccia al tavolo e stiracchiando i muscoli del collo.
“Devo assolutamente andare a dormire.” ne concluse. “Questa giornata è cominciata troppe ore fa, ed è stata davvero intensa.”
Usò la spalla di André per sollevarsi dalla panca e si avviò al corridoio. Le piacevano quei colloqui notturni; in tutte le varianti che avevano sperimentato crescendo le sembravano momenti di pace assoluta, un rifugio senza pareti a cui non avrebbe mai rinunciato.
“Tu non vai?” chiese ancora.
“Tra un momento.” Rispose lui fissando la brace nel camino.
Come un equilibrista, provava a ricordare ai piedi il loro posto, a tenersi saldo sul precipizio, ma la voglia di lasciarsi rapire dalla vertigine diventava sempre più forte.

 
***


Prevedibile.
Era vero, ma non ci aveva mai pensato.
La sua esistenza era di fatto scandita da precise routine e solidi principi che non lasciavano molto spazio all’elasticità e ai cambiamenti.
E non c’era nulla di male, aveva ragione André.
Una certa dose di inflessibilità era necessaria nella sua posizione, con la certezza di doversi impegnare il doppio per garantirsi il rispetto riservato al genere maschile non poteva certo permettersi errori o cedimenti. Essere inattaccabile, aveva puntato a quello.
Ma allora come mai continuava a rigirarsi nervosamente tra le lenzuola e a ripensarci?
Un uovo minuscolo le si schiuse nella mente con una domanda:
Poteva essere diversa, volendo?


***



“Come sarebbe a dire che è partita?”
“Ha lasciato una lettera per voi… ecco” disse la giovane cameriera visibilmente provata, come se non avesse dormito per preparare l’improvviso trasloco di una padrona che non spiccava per semplicità e probabilmente non viaggiava leggera.


Fuggo da queste mura diventate prigione, senza forze per essere ragionevole, senza il cuore di salutarvi, Oscar.
Non so scrivervi del mio stato d’animo, ma sono disperata. Voglio tornare in Provenza, non posso essere altrove in questo momento…
Mi piacerebbe credere che mi raggiungerete, preoccupata per me, ma se ho imparato a conoscere un po’ la mia amica così razionale so di non dovermi aspettar nulla; penserete che sia giusto che io sbollisca un po’ di questo turbamento con i miei genitori e attenderete di vedermi tornare a Parigi per confrontarmi con mio marito.
Non credo accadrà.
L’unico motivo per cui allontanarmi da questa città così ostile mi è sgradito è il dovermi separare da voi, Oscar. La vostra compagnia e quella di André sono state indispensabili, il pensiero di separarmene è un dolore lancinante, eppure vado via: credete che questa è la misura della mia sofferenza e non un segno di noncuranza.

Ci rivedremo e sorrideremo ancora, lo so.

Sabine











 

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Capitolo 8
*** Storia delle parentesi ***


Storia delle parentesi

 
Erasmo da Rotterdam, un uomo noto tra le altre cose per aver elogiato la Follia, definì questi segni tipografici “lunule” per la loro somiglianza con l’astro più volubile del cielo, e forse per primo riconobbe il potere insinuante di racchiudere le parole tra queste due piccole curve, il loro saper suggerire qualcosa in più, un dire e non dire, come le verità celate in uno scherzo.
A scuola ci insegnano che nel pensiero scritto le parentesi dovrebbero contenere delle informazioni superflue, un’aggiunta espletiva al discorso principale che - nettamente divisa dal resto - possa venire eliminata con facilità.
E anche nel calcolo matematico le parentesi tonde sono la prima cosa a sparire, il punto da cui partire per semplificare il resto.
Ma per la retorica e nel linguaggio comune questo innocente segno di punteggiatura assume un significato del tutto diverso.
 
Definiamo una parentesi come una pausa.
Un tempo a sé stante nel quale ci muoviamo liberi dai vincoli della nostra esistenza, un a parte del quotidiano in cui liberare pensieri e desideri anche indefiniti, riscoprendo noi stessi.
 

(Ciò che una parentesi contiene non è mai davvero innocuo, e andrebbe sempre osservato con attenzione.)

 

***

 
Nanny rientrò nelle cucine visibilmente agitata, a grandi passi delle sue piccole gambe. Il vassoio con su i resti della colazione di Oscar suonava come uno strumento musicale tintinnante d’argenteria e porcellana: un chiaro, pessimo segnale di cattivo umore visto quanto teneva a quelle stoviglie che di solito trattava con ogni riguardo.
André fiutò il nervosismo e provò il desiderio istintivo di nascondersi nell’anfratto accanto al camino in cui stava sistemando una catasta di legna in quel momento, ma erano lontani i tempi in cui poteva rifugiarsi in quel piccolo spazio per sfuggirle. E soprattutto la nonna lo aveva già puntato.
“Cosa sta succedendo???” intimò al nipote.
“Che intendi, nonna?” chiese lui candido.
“Intendo cosa passa per la testa ad Oscar in questi giorni, André! Che le è preso?”
Lui provò a non dar peso a quel tono alterato, ma le rispose con prudenza, chinato a sistemare ciocchi.
“Perché me lo chiedi?”
“L’ultima è che vuole assaggiare il caffè.” dichiarò esasperata con le mani sui fianchi, l’indignazione sul viso.
André si lasciò scappare una risata e quasi perse l’equilibrio dalla scomoda posizione precaria, con le ginocchia flesse e la legna pesante tra le mani. Quale affronto doveva costituire quella richiesta, quale sfida delle tradizioni di casa Jarjayes!
“Non è che ti abbia chiesto dell’oppio!” rispose sghignazzando, intrepido nonostante si trovassero nelle cucine; praticamente l’armeria della nonna. “Guarda che non è male, ormai il caffè lo bevono tutti, ci sono persino gli ambulanti in città…” provò a rassicurarla. Ma l’anziana non sembrava affatto convinta.
“Una bevanda che fa correre il cuore non può essere del tutto innocua, per questo non lo voglio in casa. Ad ogni modo, non sono le strane richieste degli ultimi giorni a preoccuparmi, quanto questo vostro viaggio.” replicò allusiva. “Decidere di andar via per così tanto tempo senza nemmeno aspettare che rientri il generale, senza che ne sia informato! Andrà su tutte le furie di sicuro, e non vorrei venissi coinvolto anche tu. Cosa ne ha detto madame?”
“Sua madre era con lei quando ha richiesto il permesso direttamente alla regina, dubito che si sia opposta. Ma non ne so molto su questo punto, sono giorni che è parecchio misteriosa anche con me.
 
La partenza di Sabine la settimana precedente li aveva lasciati disorientati. Nessuno dei due si aspettava una fuga simile, ma era soprattutto Oscar ad aver accusato il colpo.
Per un po’ non aveva aperto bocca: muta e scontrosa come non accadeva da tempo, si era negata ad ogni confronto e lui non aveva insistito per capire cosa le passasse per la testa. Ipotizzò si trattasse di uno stato d’animo simile al suo: dispiacere, frustrazione, cos’altro? La moralità integerrima che contraddistingueva Oscar non concepiva una fuga come quella di Sabine, e forse era davvero delusa dal comportamento della baronessa.
E triste.
L’unica amica che avesse mai avuto era andata via, dopotutto.
Poi qualcosa era cambiato, dalla sera alla mattina.
Iniziò col dimostrarsi più loquace del solito, spendendo persino un paio di parole per rassicurarlo quando si era azzardato a chiederle qualcosa sull’argomento.
“Va tutto bene André, stai tranquillo.” gli aveva risposto placida. “E non ne so nulla di crisi matrimoniali, quindi rinuncio a sbilanciarmi in un giudizio a riguardo.” concluse leggera.
E allegro e leggero era rimasto il suo umore di lì in poi, imperturbabile come se l’intera faccenda fosse di poco conto.
Quello era stato un primo campanello d’allarme.
Di lì in poi i comportamenti anomali si erano accumulati. Minuzie. La richiesta di far venire il sarto, ed esempio, mentre di solito erano la nonna o la madre ad obbligarla a rinfrescare il guardaroba. E un atteggiamento diverso, disteso al punto di scoppiare in una risata alla battuta sciocca sussurrata da André durante un’esercitazione con le guardie reali, per lo stupore assoluto di Girodel e dell’intero reggimento presente.
Però appunto, si era trattato di inezie e non credeva che qualcun altro vi avesse dato peso. Aveva sottovalutato la nonna e quel suo modo speciale di essere protettiva con loro, una ricettività che lui aveva ereditato e fatto propria, diventando negli anni un maestro dell’arte dell’ascolto.
Oscar si recò davvero ad un tè dalla regina e successivamente all’udienza privata organizzata tramite sua madre con la sola sovrana. Da quest’ultima occasione era rientrata con un foglio di permesso prolungato e aveva dichiarato con un sorriso smagliante, come se fosse una cosa del tutto normale: “Prepara i bagagli: andiamo in Provenza.”
 
“André… non me la conti giusta, siete strani, è strana. È successo qualcosa?” continuò a indagare la nonna.
Lui abbandonò l’ultimo ciocco sulla catasta e sospirò, rialzandosi. Una delle ragazze della servitù se ne stava impalata all’acquaio evidentemente ad origliare, ma quando lui si schiarì la gola e la chiamò per nome questa non pensò nemmeno ad inventare una scusa, solo si dileguò a passetti veloci e spaventati.
A questo punto la nonna lo guardava come se temesse ciò che stava per dire e lui la trattenne per le braccia in una stretta rassicurante.
“Non è successo nulla, devi credermi. Una vacanza ogni tanto ci vuole, no? Oscar ha bisogno di una parentesi di svago, fa una vita davvero pesante da troppi anni. E i cambiamenti… quelli anche ogni tanto ci vogliono. Solo le statue restano sempre uguali a se stesse.”
L’anziana lo scrutava cupa, senza dar cenno di ammorbidirsi all’espressione sorniona del nipote.
“A proposito di cose nuove, devo farti qualche domanda di cucina, nonna. Sto imparando a…”
“Vorresti provare a fare un altro lavoro, André?” lo interruppe.
Fu come ricevere uno schiaffo. Completamente inaspettato.
“Ma non è che voglia diventare un cuoco, la mia era solo curiosità…” provò a scherzare, ma aveva capito benissimo a cosa alludesse.
Erano anni che non vedeva la nonna così seria, così timorosa nell’aprir bocca e allo stesso tempo decisa a farlo, le si leggeva sul viso la risolutezza di chi affronta qualcosa che rimanda da tempo.
“Andiamo, André… Non hai mai pensato… Non credi anche tu sarebbe meglio… provare a staccarti da lei?”
Rimase rigido con le mani sulle spalle della nonna, senza riuscire a fare un solo respiro, come se la vita fosse uscita dal suo corpo di colpo, lasciando intatto l’involucro.
“Ormai siete adulti” continuò esitante la donna “Lo hai detto tu che i cambiamenti ogni tanto sono necessari. Per quanto tempo ancora credi che le cose possano andare in questo modo?”
Non credeva che avrebbero mai fatto quel discorso e adesso che stava accadendo ne aveva paura, pur sentendo il brivido di chi lascia cadere una maschera, il piacere di rivelare un segreto.
“Nonna… non prendiamoci in giro…”
“Sei tu che non devi prenderti in giro!” lo afferrò per il mento, costringendolo ad abbassare la testa, ad offrirle alla lettura gli occhi stupiti. Quegli occhi quieti e malinconici che non chiedevano altro che restare accanto ad Oscar, da sempre.
Pregò che non entrasse anima viva, mentre il suo dolore si specchiava in quello che iniziava ad affiorare sul viso del nipote.
“Vuoi passare davvero tutta la vita così, André? Lasciar passare tutti questi anni, uno dopo l’altro… In quali cambiamenti speri? È una nobile, questo non cambierà…” sussurrò dura, scoprendo tutte le carte delle sue illusioni.
“Non dobbiamo parlarne qui…” ricominciò.
“Ma io non posso…” disse infine lui. Piano. Il sorriso di chi ha già scelto. “Proprio non posso…” ripeté e scosse la testa con delicatezza, liberando il mento dalla mano dell’anziana.
Quel filo di voce disperato le si aggrappò al cuore come un naufrago alla zattera e non ebbe il coraggio di ribattere in alcun modo, spaventata da quella risolutezza mentre lo abbracciava intenerita. Suo nipote. Capace di amare a quel modo, senza speranza.
“Lo so che non è semplice, ma vorrei che ci pensassi ancora un po’, non c'è fretta.” gli disse lasciandolo andare. “Usa questo viaggio come momento per riflettere sul tuo futuro, André.”
 

***

 
Dopo quella discussione, André era arrivato al giorno della partenza senza riuscire a realizzare appieno che stava accadendo davvero, vivendo quel tempo che lo separava dalla vacanza in uno stato di elucubrazione costante che non avrebbe saputo definire né positivo né negativo, solo faticoso.
Cambiare lavoro, cambiare vita.
La semplice contemplazione di simili ipotesi, per quanto inconcepibili, rendeva l’esistenza meno statica, donava spessore alle sue scelte come l’aggiunta delle ombre in un quadro.
Non era certo il tipo da non aver mai riflettuto sulle alternative, ma i sentimenti che sua nonna condannava, che l’intero mondo condannava, erano cresciuti negli anni come un braccio, una gamba, e come poteva essere innaturale il pensiero di scegliere di propria volontà di privarsi di un arto, tale era il suo rifiuto all’idea di allontanarsi da lei.
Lei che sedeva nella diligenza al suo fianco, sfiorandolo con la giacca nuova color del vino, i suoi capelli gonfi dalle troppe spazzolate condite da raccomandazioni della nonna, pensosa e labile come la luna di giorno a contemplare il paesaggio cambiare e aprirsi in campi e praterie man mano che procedevano ad allontanarsi da Parigi. L’orizzonte di quel viaggio si srotolava ignoto, in un tremare incerto di luce e domande inattese.
 

***

 
Era la prima volta che si spostavano con la diligenza. Ci avrebbero impiegato ben sette giorni ad arrivare in Provenza, ma nonostante la lentezza André doveva ammettere che quel modo di viaggiare più pigro si accordava con il suo rimuginare. Gli piacevano le soste frequenti, la cortesia tra sconosciuti, la condivisione di spuntini per passare il tempo.
Più di tutto, amava occupare il posto accanto a lei.
Parlarle a voce bassa, avvicinarsi al suo orecchio fino a sentire il solletico dei suoi capelli, con la scusa di non infastidire gli altri passeggeri. I servitori di norma sedevano in cassetta, ma quando lui aveva esitato a seguirla all’interno lei si era affacciata e gli aveva chiesto: “Beh? Che fai? Aspetti l’ispirazione?”. Chiaramente l’idea che lui potesse sedersi altrove non l’aveva neppure sfiorata. Seduti a quel modo, somiglianti nei modi e nel vestiario semplice ma curato, potevano essere facilmente scambiati per due raffinati giovani in partenza per il Grand Tour.
Giunti al terzo giorno di viaggio, arrivò un momento in cui si ritrovarono ad essere gli unici occupanti della carrozza, così André provò cauto a intavolare una conversazione, nel tentativo di carpire qualcosa in più di quella versione incostante di Oscar. Se non fosse che la sua compagna di viaggio non sembrava intenzionata a collaborare e continuava a osservare il verde brillante del bosco che stavano attraversando.
“Hai scritto a Sabine per avvisarla?” sondò.
“No, non le ho scritto.” replicò lei, con un sorriso soddisfatto prodigo di mistero, senza spostare l’attenzione dal finestrino.
“E si può sapere di grazia che hai intenzione di fare una volta lì?” insisté.
Si ritrovò addosso due occhi azzurri divertiti, lo sfondo di una presa in giro.
“Naturalmente ho intenzione di godermi una vacanza, proprio come Sabine ha più volte proposto.”
Per un po’ non ci fu che il rumore delle ruote sul terreno, gli scossoni del bagaglio su di loro a riempire il silenzio.
“Andiamo Oscar, cosa stai architettando? Lo so che hai qualcosa in mente.”
“Che senso ha spiegartelo, se lo sai? Non eri tu quello che sa spiegare ogni mia mossa? Che sa interpretarmi, per citarti?” riportò in auge lei, l’ironia delle sue parole pungeva nonostante il sorriso.
“Non starai davvero ancora pensando a quella faccenda di essere prevedibile?” ipotizzò.
Lei si risistemò contro il finestrino a dargli le spalle, senza dar cenno di voler rispondere a nessuna delle ultime domande.
André tornò ad apprezzare la condizione della carrozza che le impediva di andar via, come in qualsiasi altra occasione avrebbe fatto, per porre fine alla conversazione che non le era più gradita.
“Ascolta; se non vuoi parlarne almeno ascoltami. Sì, sono convinto che ti stia preoccupando e non poco per Sabine, perché sappiamo entrambi che nella sua situazione si sta dando la zappa sui piedi, perché se davvero suo marito sta per darle il benservito non ci sarà nulla di meglio che trovare la casa vuota e le ultime chiacchiere di Versailles per inasprirlo, ma per quanto possa dire di conoscerti - e ti conosco, Oscar, non vedo che male ci sia a ribadirlo - non riesco a capire come questo sia collegato al tuo comportamento e cosa tu abbia intenzione di fare a riguardo.”
Oscar si girò ad osservarlo, sembrava colpita. Appoggiò le spalle allo schienale e accavallò le gambe in un sospiro. Si sciolse come un nodo risolto.
“Va bene, lo ammetto. Ho detto che non aveva senso immischiarsi, ma non riesco ad accettare il fatto che per un suo gesto impulsivo come questa fuga il barone si trovi in una tale situazione di forza nei suoi confronti. Può davvero sbizzarrirsi nel dare ogni colpa a lei, adesso: non hanno figli, lei ha abbandonato il tetto coniugale, ci sono quelle storie su di me e lei in giro… con un bravo avvocato e tutti i suoi soldi è in grado di fare qualsiasi cosa. Per quanto Sabine possa stare accettando l’idea di una separazione, non credo sia pronta all’umiliazione di essere ripudiata per uno scandalo o comunque all’annullamento; perdere il titolo sarebbe l’ultimo dei problemi, a questo punto è qualcosa che potrebbe danneggiare anche la sua famiglia, i rapporti commerciali della Maison Florentin… non affrontarlo è da irresponsabili.”
“Vuoi provare a convincerla a tornare a Parigi, quindi?”
Lì stava il problema. Come?
“Sia io che te abbiamo sottovalutato l’arroganza nella natura di Sabine.”
“Arroganza?”
“Magari non è il termine più adatto, diciamo una forma ostinata d’orgoglio. Nell’arco del tempo che abbiamo trascorso assieme non abbiamo fatto altro che gravitarle attorno, senza imporci in alcun modo sulle sue decisioni e sulle sue scelte, lo hai notato? E quando ci siamo trovati a dei bivi lei non ha mai preso davvero in considerazione le nostre opinioni, o almeno, può darlo ad intendere, ma poi fa sempre di testa sua.
È costantemente sulla difensiva quando qualcuno mette in dubbio qualcosa che la riguarda, come se avesse paura di essere sminuita… c’era solo da aspettarselo che non ci avrebbe ascoltato neppure in questa occasione. E dubito che verrà a miti consigli se gliene parleremo ancora in questo modo… ”
André la osservava ammirato, sinceramente colpito da quella lettura del carattere di Sabine.
“Come pensi di farla tornare, allora?” Una smorfia divertita passò sul volto del giovane prima che continuasse: “Non vorrai obbligarla con la forza, vero?”
Anche Oscar ridacchiò all’idea. “Sarebbe la cosa più semplice, in effetti. Sicuramente più semplice che farla ragionare.”
“Visti i risultati…” confermò lui.
“No… Stavo pensando di sorprenderla.”
“In che senso?” chiese perplesso.
Lei esitò. Non sembrava aver voglia di parlare, ma quando iniziò a spiegarsi la sua voce suonò placida, rassicurante: “Sto provando io per prima ad ascoltare i suoi consigli. A mettermi in discussione.” un’ombra di imbarazzo passò sul viso composto di Oscar. “So che può sembrare sciocco, però è un esperimento inoffensivo: ogni giorno provare un piccolo cambiamento, qualcosa che esca dalle mie abitudini, anche di poco. Nulla di estremo, insomma. Ma devo ammettere che ci sto prendendo gusto; è come se fossi più attenta, più presente a me stessa nel notare le conseguenze di una risposta diversa. Di un sorriso, persino.” Che comparve sulle sue labbra, come l’avesse evocato.
“Mi dico che se posso dimostrarle questo - continuò - che la sto ascoltando nel mio provare ad essere meno prevedibile, magari la smetterà di vedermi come una figura inflessibile e distante. Non so se questo possa convincerla a seguirmi a Parigi e ad affrontare questa crisi, ma almeno spero mi concederà il beneficio del dubbio… Stiamo persino raggiungendola in Provenza, non vedo come potrei andarle più incontro di così, non credi?”
André l’osservava stupito, quasi la bocca accennava ad aprirsi.
“Ammetti che questa non te l’aspettavi.” lo punzecchiò convinta.
Era vero, ma soprattutto lo sorprese l’ondata di purissima gelosia che lo invase. Tutto questo per Sabine? L’adorabile baronessa piombata nelle loro vite da così poco tempo aveva davvero il potere di smuovere tanto Oscar con una sola osservazione impertinente?
Perché lei e non io? Si chiese.
Ebbe paura di quel senso di tradimento, mai provato così forte prima di allora, un sentimento oscuro di smarrimento e possesso che lo colpì come un pugno allo stomaco bene assestato, mozzandogli il fiato. Ripensò alle parole della nonna, che in quel momento suonarono alla memoria come un’incombenza da affrontare, una spada di Damocle a sfiorargli la testa.
Conto davvero qualcosa nella tua vita, Oscar?
“… André?”
Quella voce. La voce che lo riportava alla luce, che gli ricordava di voler essere una persona migliore, per poterle stare accanto senza sporcarla coi suoi desideri.
“Sì… scusami. Effettivamente non me l’aspettavo, ma in fondo non è che tu abbia fatto nulla di folle - sminuì. - Pensaci: viaggio a parte, nessuno dei tuoi tentativi ti ha allontanata davvero dai canoni, no?”
Lei di rimando lo osservò insoddisfatta. “E cosa avrei dovuto fare, sentiamo? Non ho molto margine d’azione, sai bene com’è la mia vita.”
“Ma adesso sei in vacanza, Oscar.” rimbeccò lui senza uno scopo preciso, sospinto nel discorso dal solo senso di polemica.
Lei serrò le braccia in un incrocio di sfida, in risposta a quel tono.
“E quindi?”
“Quindi hai modo di fare tutti gli esperimenti che vuoi, hai questa parentesi per provare tutto quello che ti passa per la testa. Versailles è lontana e io sono tuo complice, lo sai.” Si sentì sulla strada giusta mentre la guardava incuriosirsi alle sue parole. “Se davvero pensi che questa strategia possa avvicinarti a Sabine tanto meglio, ma mi sembra di capire che soprattutto… l’idea ti diverta.”



Adesso l’avrebbe messo al suo posto.
L’avrebbe sgridato. E lui le avrebbe risposto che stava scherzando, tutto qua.
“È così terribile?”
Ora la bocca di André era davvero spalancata. Cosa???
“È così terribile che l’idea… mi diverta?”
La carrozza si arrestò improvvisamente, entrambi reagirono come per rispondere a un agguato, scattando sul posto. Ma si trattava soltanto dell’ennesima stazione di posta e pochi attimi dopo lo sportello si aprì. Due nuovi passeggeri salirono a bordo, sbuffanti e carichi di pacchetti. Si trattava di una coppia nella quarantina, la qualità del loro vestiario ne dichiarava una certa opulenza priva di ricercatezza, lontana dalle mode della nobiltà parigina a cui Oscar e André erano ormai abituati.
La donna abbondava nelle forme e nei sorrisi; una parrucca bianca ingombrava ogni sua manovra per sistemarsi, e lei commentava tra sé e sé lamentandosene, eppure sembrava immensamente felice di trovarsi lì, e di trovare loro due seduti sul sedile opposto, come si fosse aspettata di vederli e quella fosse una riunione tra amici. Suo marito invece assicurava le borse nella cappelliera e restava in silenzio, con uno sguardo più distratto che ostile, ma comunque burbero, del tutto privo dell’aura ciarliera di sua moglie che sembrava aspettare un pretesto qualsiasi per iniziare una conversazione.
Una volta ripartita la carrozza, la signora provò col tempo, un grande classico. Non era forse una splendida giornata di sole? E quei bei giovani educati le sorrisero annuendo, era davvero una bella giornata, sì, ma nessuno dei due abboccò. Dopo poco provò allora ad offrire loro delle albicocche, ma anche in quel caso non ci fu verso e nemmeno il marito sembrò gradire, così ripose la frutta delusa.
Osservandoli più attentamente, però… i due ragazzi apparivano soprappensiero, quasi turbati. Rivolti ai finestrini opposti sembravano preda di profonde riflessioni ed ebbe l’impressione di aver interrotto qualcosa e che la tensione fosse rimasta nell’aria tra loro, tardando a dissiparsi come le nuvole di polvere al passaggio della loro carrozza sulla strada inaridita. Nel momento esatto in cui il giovane biondo sollevò il capo le sembrò di aver risolto l’arcano, portò le mani al viso in un moto di sorpresa e non riuscì a trattenere la meraviglia a quella intuizione, carica di un entusiasmo infantile e sincero per la storia romantica che si palesava ai suoi occhi.
Sgomitò il marito, che da quando aveva preso posto provava a riposare, e dal suo verso si capì che non era affatto entusiasta di quel risveglio brusco.
“Lolo, ti ricordi quel mio completo da amazzone rosso, quanto ti piaceva?” disse a beneficio di tutti loro, con una risata chioccia a seguito mentre teneva fissi i suoi occhi brillanti su Oscar. “Non ti sembra che sia tanto simile alla giacca di questa splendida… Oooh, dovete scusarmi, voi probabilmente siete in anonimato e io sto rovinando tutto. È che non riesco a smettere di osservarvi: siete una coppia così bella!”
Disse alle statue di sale al sedile opposto.
“Una vecchia signora sposata come me ha il cuore tenero, che credete? Non c’è nulla di più romantico di una fuga d’amore… è una tale avventura! Ma non guardatemi a quel modo ragazzi miei, che credete, che vi denunci? Non accadrà mica, non temete: se mi chiedessero qualcosa io non vi ho visto, state pure tranquilli!” dichiarò solenne. Era chiaro che prendeva molto sul serio quelle parole e pungolò il marito perché dimostrasse un po’ più di interesse a quel momento che lei stava vivendo con un simile trasporto.
La donna era dotata di una vivida immaginazione, non c’era dubbio.
Ma André doveva esserlo ancor di più, perché la mano di Oscar che gli stringeva delicatamente il ginocchio nel punto in cui la calzamaglia spariva nel pantalone non poteva essere reale.
Né quella voce, la voce che amava anche quando era aspra o quando ne sentiva la mancanza estenuante nei lunghi silenzi che gli rivolgeva, poteva esserlo.
Eppure era proprio quella voce ad aver esclamato: “Caro, temo che la signora ci abbia scoperti.”
 
 
 

 

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Capitolo 9
*** Limiti ***


 
Limiti 
 
 

 
Pollice, indice, medio, anulare, mignolo. Dita affusolate, da musicista, strette attorno al suo ginocchio in una presa dolce ma ferma, ad indicare intimità, possesso. 
Caro, poi. 
Col tono di un’effusione abituale, quotidiana, appena più dolce di come chiamava il suo nome al mattino. Perché dietro quell’ingenuo atto di insubordinazione alla linearità dell’esistenza c’era una persona così incapace di recitare una parte da risultare per paradosso talmente verosimile che avrebbe voluto credere lui stesso alla messa in scena. 
E adesso aveva il coraggio di star lì a guardarlo seria, la scintilla di divertimento ben nascosta nel recesso più profondo dei suoi occhi. 
Stava aspettando un suo contributo a quel gioco? Era impazzita? Regredita all’infanzia, a quel tempo brevissimo in cui avevano potuto davvero scherzare, prendere in giro le sue sorelle, inventare storie? 
Il senso dell’umorismo non le era mai mancato, ma crescendo Oscar aveva imparato a trasformare i suoi slanci in dignitoso sarcasmo, freddure pungenti di cui per altro era probabilmente lui l’unico testimone, che nulla avevano a che fare con questa buffonata. 
Aveva preso sul serio il suo “Fai tutto quello che ti passa per la testa”
Era forse una sfida? 
Lui non si sarebbe certo tirato indietro. 
 
Coprì con la propria la mano che gli aveva preso il ginocchio e la strinse delicatamente. 
Lei non ricambiava più il suo sguardo, ma intravide la risata trattenuta sulle sue labbra e un’ondata di candida felicità lo invase, come irradiata dalle loro mani congiunte. 
Questo gioco cominciava a piacergli molto. 
“Madame, siete dotata di un intuito più unico che raro! Sono sinceramente stupito del vostro spirito d’osservazione, come avete fatto a capirlo?” intervenne André, calatosi in un lampo nel ruolo del fidanzato perfetto. 
La signora era evidentemente deliziata, il marito per nulla. Si capiva che l’uomo dalla fitta zazzera corvina e con baffi ancor meno curati non attendeva altro che il momento per tornare al suo sonnellino in modo educato, guardandosi attorno vago, nonostante la piega succosa che avevano preso gli eventi nella carrozza e l’entusiasmo della sua consorte. 
“Ho un occhio per queste cose, credete! - si compiacque la donna dandosi un’aggiustatina alla parrucca - La lista di parenti e amici che hanno approfittato di questo mio dono per chiedermi consiglio o per trovare la propria metà è infinita… Gli innamorati poi si fa presto a scoprirli: hanno quell’aria che oscilla dal tormento all’estasi, si struggono anche quando non c’è motivo, come i cani che ululano alla luna. Nel vostro caso è stato molto semplice - si sporse verso Oscar come volesse garantirle una confidenza, che però sentirono tutti - questo giovanotto vi guarda come se non esistesse nulla di più bello al mondo; dubito che qualcuno cascherà per vostro il travestimento se continua così.” cinguettò amabile. 
 
Mancavano ancora quattro giorni alla fine del viaggio. Oscar aveva capito presto che non le piaceva affatto quel modo di spostarsi così lento, le soste continue, il disagio di condividere lo spazio della carrozza con degli sconosciuti. Soprattutto quest’ultimo aspetto le risultava estremamente faticoso; avrebbe preferito mille volte la spossatezza delle giornate a cavallo a quel senso di invasione costante. 
Ciò nonostante era lì a contraddirsi, a combattere con un discreto imbarazzo per lasciare di stucco André più che scherzare con quell’estranea svampita. 
Sì che gliel’aveva servita su un piatto d’argento, ma quello era il genere di sciocchezza che avrebbe improvvisato Sabine, non lei. La noia e il continuo rimuginare di quei giorni stavano avendo strani effetti, era evidente. 
Per di più, André non aveva per nulla accusato il colpo, tutt’altro; sembrava completamente a suo agio. 
Non restava che chiudere velocemente quello scambio ridicolo e lasciare la signora alle sue fantasie rosa, prima che iniziasse ad indagare oltre. 
 
“Avete ragione, madame. Dobbiamo proprio essere più prudenti.” dichiarò senza darle corda, e con un tono più perentorio che amichevole sfilò la mano dalla stretta da cui era partito tutto. 
Ma, inaspettatamente, venne riacciuffata subito. 
“Non è colpa mia se qualsiasi cosa indossiate siete sempre incantevole. Anche gli abiti maschili non possono nasconderlo.” Disse l’estraneo col volto di André, dandole del voi. E con un movimento fluido di consumata destrezza marziale a cui era stata applicata la galanteria, portò la mano in ostaggio alle labbra. 
Non la sfiorò neppure; fu solo il gesto, il calore di un respiro sulle dita, un guizzo seducente e ignoto nel verde conosciuto dei suoi occhi prima di lasciarla andare con un sorriso. 
 

 
Confusa, Oscar rimase a fissarsi la mano per un istante. 
Schiarì la gola per camuffare lo stupore e si accorse con qualche attimo di ritardo della signora che aveva continuato a insidiarli: elogiava le parole cortesi di André, il proprio intuito da sensale, la figura elegante di Oscar… parlava, parlava, parlava e André rispondeva, continuando la messinscena dell’innamorato con una naturalezza da attore navigato. Annuiva compiaciuto a quella raffica di complimenti rivolti a lei, come per rimarcarli, senza far caso all’imbarazzo crescente della sua vicina di posto, ormai del tutto pentita di aver dato vita a quello scenario che andava avanti da alcuni minuti. 
“… Ed è dotata di una costituzione talmente minuta che al massimo può sembrare un ragazzino, non vi pare? Una figura così sottile senza bustino è di per sé assai rara.” argomentò quella indicandole la vita. 
Oscar non sembrava in alcun modo intenzionata a commentare; doveva finirla lì, con una scusa qualsiasi, e segnalò la sua ritrovata indisposizione al dialogo con un’impercettibile gomitata al suo complice poco complice. 
“Ma ditemi, perché non vogliono che vi sposiate?” continuò imperterrita l’interlocutrice. 
Non fece in tempo a stroncare la domanda indiscreta che André intervenne: “Vedete madame, la nostra è una situazione difficile… per quanto sia intimamente convinto della vostra riservatezza e del vostro spirito caritatevole… preferirei evitare di entrare nei dettagli, vi chiedo perdono. Posso confidare nella vostra comprensione?” 
“Ma… neppure un accenno?” insisté quella, corrucciata. “Prometto di non chiedervi neppure i vostri nomi, rispetterò qualsiasi vincolo mi chiediate per garantirvi la segretezza, però ci terrei tanto a sapere cosa porta due giovani come voi a dover fuggire per far trionfare l’amore!” concluse con enfasi pestifera. 
Oscar, che aveva raggiunto l’apice dell’insofferenza, incrociò le braccia e chiuse gli occhi, lasciando quella patata bollente ad André, che sembrò disarmato dinnanzi ad un simile esempio di faccia tosta. 
Adesso cavatela da solo, monsieur loquacità. 
Lui si lasciò scappare un sospiro sconfortato. 
“Davvero, non saprei…” 
“Suvvia…” 
“Mi spiace, ma è meglio di no.” 
“Vi prego, potrei essere in grado di aiutarvi, magari se c’è bisogno di intercedere per qualcuno…” e in quella sfacciataggine si poteva scorgere la genuinità della donna. Impicciona, ma tenera a modo suo. 
“No, questo no, nessuno può farlo, madame.” dichiarò André improvvisamente serio. Una tensione diversa nella voce, una nota di amarezza nel fondo che risvegliò di colpo l’attenzione di Oscar. Lui chinò il capo, come gli fosse piombato un macigno invisibile sulle spalle. Continuò: “A meno che non vogliate convincere tutta la Francia che non è la differenza di rango a determinare la possibilità di amarsi tra due persone, non c’è molto da sperare.” Fissò a sua volta Oscar che lo guardava smarrita, disorientata dal cambio di registro; ormai era solo in quel gioco: “Per quanto io sia innamorato di lei da sempre, per quanto desideri votare la mia intera esistenza a starle accanto e a provare a renderla felice, comunque la si veda, agli occhi del mondo io resto solo un servitore e lei la mia padrona.” 
Non fu ciò che disse - tanti romanzetti d’ultimo ordine basavano la propria trama su quella stessa dinamica d’amore proibito - ma il modo. La disperazione all’ingiustizia che ne emergeva. 
Per un momento, persino la signora rimase senza parole. 
“Tognetta, vuoi lasciarli in pace?” sbottò seccato il marito della donna, che era rimasto muto e immobile fino a quel momento. “Hai fatto loro un interrogatorio… vedi di finirla; hanno i loro problemi.” 
La donna sembrava aspettarselo; roteò gli occhi infastidita a sua volta, ma la risposta arrivò dolce. 
“Va bene, va bene vecchio orso, lo so che devo farmi i fatti miei, ma li vedi anche tu questi ragazzi; sembrava avessero bisogno di una mano.” 
“Tognetta…” richiamò lui, cupo. 
“Non c’è niente da fare, sei proprio un vecchio orso.” si arrese lei. 
“Voi due, siete fin troppo educati.” disse ancora bruscamente il marito rivolgendosi ad Oscar e André, che non si aspettavano quella specie di rimprovero. Dopo ancora un istante l’uomo aggiunse: “Fate attenzione.” 
E il viaggio continuò in silenzio, fino alla successiva stazione di posta. 
 
*** 
 
Si era guardata bene dall’aprire di nuovo bocca. Anche al pranzo, Oscar non aveva che sfiorato il cibo per poi lasciare il tavolo con la scusa di sgranchirsi le gambe prima di rimettersi in carrozza. 
Nulla che André non si aspettasse, ma adesso era lui a sentirsi troppo scosso per far finta di nulla e commentare l’accaduto. 
Come lo aveva guardato. 
Oscar poteva essere ottusa a riguardo, ma stavolta aveva scorto nei suoi occhi un barlume di consapevolezza, di dubbio. Di panico. 
Di fatto, lo sfogo finale di André aveva suggerito un’ipotesi troppo reale, troppo vicina a una possibilità per non sentirne gli effetti collaterali di imbarazzo.  
Davvero era stato così patetico? 
Aveva capito qualcosa? 
Cosa diamine gli era preso? 
Erano settimane che il suo autocontrollo perdeva colpi, che cedeva alla voglia di avvicinarsi a lei, ad ogni occasione. 
Forse era iniziato anche prima, all’incirca da quando Sabine era entrata nelle loro vite; come se il caos che aveva portato questo nuovo elemento avesse in qualche modo danneggiato il fermo alla porta dei suoi desideri. 
Per quanto poteva continuare? 
Era in momenti come quello che le parole di sua nonna tornavano a tormentarlo e per lunghi istanti pensava davvero di scappare. 
La sedia che era stata occupata da Oscar venne spostata rumorosamente. André sollevò lo sguardo e si ritrovò dall’altro lato del tavolo l’uomo silenzioso della carrozza, con tanto di tovagliolo sporco di sugo rappreso ancora annodato accanto al collo. 
La moglie l’aveva paragonato a un orso, ma ad André ricordò per lo più un rapace; quegli occhi scavati e scuri sembravano puntare alle cose, anziché limitarsi a osservarle e ritrovarseli addosso senza preavviso non lo lasciò indifferente. 
“Prendi questi.” disse senza altre introduzioni, lanciandogli un sacchetto sonante delle dimensioni di un pugno. Erano soldi, e neppure pochi. 
“Cosa? Ma… perché?” 
Delle spesse sopracciglia dell’uomo se ne sollevò una sola, e un ghigno accennato simulò un sorriso. 
“Per il matrimonio. Auguri, ragazzo.” fece per andarsene, e solo in quel momento André notò la moglie che lo attendeva ad un tavolo dall’altro lato della locanda. 
“Perdonatemi monsieur! - lo fermò lui - Davvero non posso accettarli, ma vi ringrazio!” blaterò velocemente colmo di vergogna. 
Ci mancava solo questa. 
L’uomo non riprendeva il sacchetto né rispondeva; guardò solo la mano tesa che glielo porgeva e poi il volto di André, scrutandolo. Sembrava ponderare ogni sillaba delle poche che si lasciava sfuggire, era chiaro. 
Si decise a riprendere la borsa con il danaro e al suo posto mise un foglio piegato su cui si potevano riconoscere le stesse macchie di sugo che erano sul suo tovagliolo; doveva averlo scritto durante il pranzo. 
“Ascolta: se volete uscire dal paese e state andando in Italia, a Firenze puoi lavorare bene. Se sei uno sveglio, puoi. Qui c’è l’indirizzo di mio cognato, mostragli il biglietto e saprà che ti raccomando io.” 
E non aspettò nessuna risposta o ringraziamento, semplicemente si voltò per tornare al proprio tavolo, lasciando André con il foglio e il disagio misto a senso di colpa per l’accaduto. L’aspetto di quel tipo sembrava losco, ma a modo loro sia lui che la moglie erano stati estremamente generosi e la mortificazione di aver scherzato con due brave persone contribuì al magone che gli serrava la gola. 
Girò nel bicchiere ormai vuoto le ultime gocce del vino e portò ugualmente il calice alla bocca, provando a recuperarne il sapore da quella minima quantità. Con lo stesso meccanismo, sapeva che la sua fervida immaginazione gli avrebbe proposto l’intera sequenza di ciò che avrebbe potuto essere la sua vita con Oscar grazie a quei brevi istanti in cui aveva potuto giocare ad essere suo. Ridicolmente suo. 
Che sogno sarebbe stato. 
In fuga, innamorati, alla faccia del mondo. 
Come avrebbe potuto essere la loro storia senza le regole degli altri, se anche lei l’avesse voluto. 
Lo sguardo gli cadde sul biglietto che gli aveva lasciato il tizio della carrozza; provò a leggerne il contenuto, conciso come la parlantina del mittente, ma si rivelò un’impresa impossibile: non solo la grafia era un oltraggio alla nobile arte della scrittura, ma era proprio in un’altra lingua. Un misto tra il francese e l’italiano avrebbe detto, e collegò a quello lo strano accento e il modo in cui i due coniugi raddoppiavano consonanti a casaccio. 
Ripose il biglietto nella giacca e uscì a cercare Oscar, che con la sua stessa aria meditabonda se ne stava ad osservare un fiumiciattolo lì nei pressi. Dalla penombra delle rive saliva un gracidare di giovani rane, un chiasso estivo e confuso di cui non si vedevano le autrici, nascoste nella fitta vegetazione sottostante. 
 
“Pare che faremo un altro tratto di strada con loro, quei due sono ancora qui nella locanda.” 
Oscar annuì inespressiva, ma chiaramente non ne era affatto contenta. Di tutti i passeggeri con cui avevano condiviso la carrozza, non era ancora capitato di viaggiare con la stessa compagnia per più di una mattina. Doveva accadere proprio con quei due. 
“Ti immagini se scendessero a Grasse anche loro?” continuò André, e finalmente ottenne una reazione. 
“Per carità.” disse lei. 
“Ancora un giorno e la signora si proporrà come testimone alle nostre nozze, io te lo dico.” 
Il tentativo di alleggerire la tensione non funzionò, Oscar non diede cenni di gradimento. Raccolse un sasso tondeggiante e ne saggiò il peso, prima di scagliarlo nel fiume con forza, ammutolendo le rane. Sembrava ancora più nervosa di prima. 
Stava per raccontarle di come il tizio della carrozza avesse anche provato a donargli del danaro, ma lei scelse quel momento per affrontarlo con un umore peggiore del previsto. 
“Non ti sembra di aver esagerato, prima?” 
Senza riuscire a capirne il motivo preciso, si sentì infastidito a sua volta dal tono di Oscar. 
“Io? Stai dimenticando di aver cominciato tu quella storia?” 
“È vero che ho iniziato io a scherzare, ma ci sono dei limiti.” 
“E chi decide quali sono i limiti? Sempre tu, giusto?” 
Lei non mosse un muscolo del viso, con la stessa tensione si girò solo a fronteggiarlo, ad un passo da lui, faccia a faccia, come a sfidarlo a provare a ripetersi. 
“Scusa - continuò André, con ironia tagliente - ho esagerato di nuovo? Dovevo stare al mio posto, Oscar?”  
Doveva essere diventato folle. 
Sapeva perfettamente che l’avrebbe fatta arrabbiare ancora di più e si dirigeva esattamente in quella direzione, come una falena suicida alla fiamma. Perché voleva provocarla, quando lui stesso si pentiva di come erano andate le cose prima? 
“Ma che stai dicendo, André? Ti ho mai trattato come se dovessi stare al tuo posto? Non sai neppure che significa!” 
“E allora spiegami bene di cosa stai parlando, visto che tu vuoi provare ad essere diversa, puoi fare quello che ti pare, ma come risultato vengo assalito io per essere stato al gioco!” 
Gli occhi di Oscar erano fiamme azzurre puntate nei suoi. Lei era in imbarazzo, un imbarazzo furioso che non si aspettava di esser contraddetto, e quello sguardo, che solitamente aveva il potere di paralizzarlo, non fece altro che incendiare ulteriormente la ribellione alla razionalità di André.  
“Cosa ti ha infastidita, Oscar? Sentiamo.” 
“Sei arrivato ad inventarti quella storia…” sibilò lei guardando altrove. 
“Cos’aveva di strano?” 
Lei si portò le mani alla fronte, come se volesse bloccare un mal di testa. Era un dietrofront insperato, debole. 
“Nulla, va bene? Hai ragione tu, non hai esagerato, contento?” 
Ma André non era contento. 
Diede la colpa al viaggio, ai cambiamenti, al caldo, alla signora della carrozza, a sua nonna. 
La prese per le spalle, aspettando che lo guardasse ancora. Per qualche motivo misterioso lei non andò via; rimase immobile e svuotata dello spirito combattivo di poco prima. Così vicina. 
“Oscar?” 
Quel volto elegante restava teso, lo sguardo inafferrabile puntava altrove, denso di pensieri che non riusciva a indovinare, ma su cui continuava ad interrogarsi, portandolo a uno stato di inquietudine mai provato in sua presenza. 
Anche solo respirare gli costava fatica; inghiottì a vuoto senza accorgersi di fissarla da troppo tempo, completamente rapito. 
Le avrebbe detto tutto, lì e in quel momento. Avrebbe giocato a carte scoperte, per poi decidere del futuro a seconda delle sue reazioni. 
Perché i limiti esistevano per essere superati. 
 
“Anche tu, André… vorrei sapere che cavolo ti è preso, oggi.” disse infine lei, con insperata dolcezza. “Non voglio litigare.” concluse sottovoce. 
E l’audacia di André si sciolse come il ghiaccio ad agosto, completamente domato nel vederla così esposta, così… tenera. 
Doveva difenderla anche da se stesso. 
Era stato bellissimo vedere i suoi timidi segnali di apertura verso il mondo delle ultime settimane; lui doveva solo sostenerla. Proteggerla. Non era il momento di dichiarazioni senza speranza. 
“Neppure io voglio litigare, Oscar.” 


 
“Ehilààà!” chiamò la voce che avevano sentito fin troppo, quel giorno. Istintivamente, André lasciò la presa, colto in flagranza di reato. “Si riparteee!” urlò ancora la signora a squarciagola sventolando le braccia. 
Oscar commentò con un verso nauseato e portò ancora le mani alle tempie. 
“Senti, avevo promesso a mia madre di fare questo viaggio in diligenza, ma ne va della mia salute mentale. Ormai siamo a metà strada; se prendessimo dei cavalli accorceremmo i tempi di almeno un giorno, anche di più se facciamo poche soste. Il bagaglio può anche arrivare dopo, ma noi saremmo liberi di muoverci col nostro ritmo… cosa ne pensi?” 
André ridacchiò. “Se ti dicessi che me lo aspettavo?” 
La vacanza era appena iniziata, era il momento di continuare a sorprendersi. 
“…Vedrò di fare di peggio, allora.” 
 
*** 
 

 
Il piccolo centro abitato di Grasse se ne stava arroccato sulla cima di un colle, ma l’insieme di fioriture e campi coltivati, segno dell’intensa attività su quella terra baciata dal sole, si distendeva senza soluzione di continuo in tutta la valle, in un insieme di macchie ordinate di colore luminoso: i pendii pettinati di lavanda alternati al giallo carico del grano maturo. 
Oscar respirò l’estate, l’eco del cavallo di André accanto al suo nella cavalcata a perdifiato, la libertà di trovarsi in un luogo del tutto sconosciuto. Un istante così perfetto non accadeva da tanto, troppo tempo e ne ebbe quasi paura, perché le cose preziose hanno la tendenza a infrangersi. 
Arrivati in zona non gli ci volle molto per orientarsi: le indicazioni ricevute dai viandanti lungo la strada si rivelarono assai precise data la fama della Maison Florentin, e giunsero all’ingresso principale il mattino del sesto giorno, ancora prima del previsto. 
Rimasero entrambi sorpresi dalla costruzione, che non si limitava semplicemente ad una grande villa, come più volte avevano immaginato ascoltando i discorsi di Sabine; Maison Florentin poteva essere un paesino a sé. Attorno alla struttura principale, che era sì di dimensioni paragonabili a palazzo Jarjayes, ma assai meno ricercata, si ergevano una serie di dependance e poi capannoni, a perdita d’occhio giù per i pendii. La produzione della nota casa di profumi si sviluppava tra quelle mura e i campi fioriti e un gran via vai di gente si susseguiva in attività di ogni genere a loro ignote, e per un po’ Oscar e André rimasero lì, ipnotizzati dallo spettacolo, fin quando si sentirono richiamare. 
“Ehi, voi due!” la voce suonò allegra e senza cerimonie. 
Con gli abiti impolverati e scarmigliati dal viaggio di certo non avevano un aspetto molto signorile, ma quell’approccio informale li prese comunque in contropiede. 
“Cosa posso fare per voi?” domandò la donna di mezza età con un carretto colmo di rose, un’apparizione che fuori da quel contesto sarebbe stata quanto meno fatata. 
“Cerchiamo la baronessa de Plantier… è qui?” chiese Oscar improvvisamente in dubbio su un punto cardine. 
La signora annuì, per fortuna. Chiamò qualcuno per i loro cavalli e poi scrutò lo spiazzo del cortile principale, per puntare ad una bimba minuta e bionda che non doveva avere più di sei o sette anni. Con un ingombrante gatto grigio tra le braccia, il duo se ne stava talmente immobile da sembrar finto, una bambola inespressiva e un animale impagliato, su una panca assolata. 
“Magali, vuoi accompagnare questi ragazzi dalla baronessa?” 
La bimba non rispose subito. Non era propriamente ostile, ma di certo disinteressata ai due ospiti appena arrivati. Guardò la signora che l’aveva interpellata senza nessuna fretta. Il suo abitino di mussola sbiadita cozzava con quell’atteggiamento senza rigore che di norma non sarebbe stato concesso neppure ad una padroncina, soprattutto con degli ospiti. Ma pure se nell’aspetto ricordava la figlia di una domestica o un aiuto nelle cucine, era strano che si trovasse lì con le mani in mano, mentre attorno a lei il cortile brulicava di operosità. 
“Da Sabine?” 
“Sì cara.” 
La bimba dallo sguardo spento lasciò il gatto e si mise in piedi, e finalmente sembrò far caso ad Oscar e André. 
“Perché sei vestita da maschio?” chiese candida ad Oscar, dopo una sola occhiata. 
André si mise a sghignazzare, ma la signora che li aveva accolti sembrò mortificata e rimproverò blandamente le maniere di Magali che aveva dato voce ai suoi stessi dubbi in un modo tanto innocente. 
“Insomma, li accompagni tu o devo andare io? Su, su.” La spronò quella. E i due si incamminarono al seguito della strana bimba che continuava a squadrare Oscar con occhiate in tralice prive di entusiasmo. 
“Sei un’amica di Sabine?” chiese ancora Magali senza alcun timore. 
Oscar era a disagio; non era mai stata apostrofata con tanta confidenza da uno 
 scricciolo simile. Nella sua scarsa esperienza non poteva dire di cavarsela male, le riusciva facile piacere ai bambini… almeno fino a quel momento. 
“Sì, non la vedo da qualche tempo e lei non sa che sarei venuta a trovarla, quindi sono un po’ emozionata. - provò a rompere il ghiaccio. - Tu ti chiami… Magali, giusto?” 
“Anche io sono sua amica.” dichiarò la bimba con fare possessivo, ignorando il resto. 
 
Arrivati avanti uno dei capannoni, lo scricciolo scontroso fece loro cenno di aspettar lì all’ingresso e entrò da sola, ancora una volta senza un’ombra di cortesia nei loro confronti. 
“Bel caratterino, eh?” commentò André. 
“Spero che Sabine sia un po’ più contenta di lei di vedermi.” aggiunse Oscar. 
Non ci fu il tempo di aggiungere altro. Un turbine di abiti fioriti corse loro incontro, perdendo il fichu dalle spalle nella furia, i capelli al vento, le braccia tese. Si lanciò su Oscar chiamandola per nome e nella stretta senza se e senza ma in cui l’accolse disse solo più volte: 
“Grazie… Grazie di essere qui.” 
 
 
 

 

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Capitolo 10
*** Ri-conoscersi ***



Ri-conoscersi

 
 

 
“Sabine, perché piangi?”
La voce della bimba suonò lamentosa a sua volta, preoccupata.
La donna si sciolse dall’abbraccio per rassicurarla, per dimostrarle che era tutto a posto, ma gli occhioni scavati nel viso pallido della piccola continuarono a studiare con malcelata minaccia Oscar, la quale era stata immediatamente identificata come la responsabile delle lacrime, e Magali non si lasciò convincere. Nanerottola com’era sembrava cercasse nelle lunghe gambe di Oscar un punto in cui attaccarla per fargliela pagare e se non lo fece fu solo perché sapeva che sarebbe stata fermata prima di raggiungerla.
“Non si piange mica solo quando si è tristi, Magali... Queste sono lacrime di felicità.” provò Sabine con un mezzo sorriso che non fece presa.
Sembrava stanca, un po’ smagrita. L’abito tradizionale che indossava rendeva giustizia alle sue forme e alla sua figura, che senza l’ingombro di rigidi panier appariva più slanciata. Il trucco leggero rispetto alle sue mise parigine lasciava intravedere l’ombra scura che cerchiava i suoi occhi, ancora brillanti di commozione, ma nell’insieme quella semplicità le apparteneva; risuonava coi suoi modi e con quei luoghi.
 
A dirla tutta, Magali non aveva torto: il pianto della baronessa non si poteva liquidare come una banale espressione di gioia. Nei giorni precedenti, Sabine aveva potuto cullarsi nell’illusione che nulla fosse successo, dimenticarsi dell’accaduto per un po’.
Dotata di una disposizione d’animo incline alla distrazione e alla procrastinazione dei problemi, aveva potuto mettere da parte la sua situazione grazie alla coincidenza di non trovare i suoi genitori in Provenza, assenti per il matrimonio di una sua cugina lontana (evento che aveva completamente rimosso, ma a cui era stata invitata anche lei, da mesi), e aveva potuto annullarsi nel lavoro per un po’. Riprendere un ritmo che le era mancato.
Adesso, Oscar arrivava come l’araldo di ciò che si era lasciata indietro e che aveva paura di affrontare.
Era felice di vederla; significava molto che fosse venuta fin lì, ma allo stesso tempo voleva dire che era arrivato il momento di fare i conti col presente, nel bene e nel male.
 
 
***
 
Seduti alla tavola imbandita a chiacchierare con naturalezza del più e del meno, sembrava non fosse passato neppure un giorno da quando si erano salutati.
In presenza della bimba che gironzolava attorno a loro, era facile mantenersi spensierati, evitare gli argomenti spinosi. Non fosse stato per la spiccata antipatia verso Oscar che la piccola aveva dimostrato fin dai primi istanti con lei, quel pranzo sarebbe stato un quadretto idilliaco.
“Magali è la figlia della cameriera personale di mia madre...” la presentò Sabine.
“La mia mamma però è in cielo.” rettificò la bambina, cominciando a prendere confidenza.
“E lei è diventata una protetta di mia madre, che la sta crescendo e viziando a dismisura” continuò la baronessa con una carezza travestita da scrollata alla chioma liscia della bimba, che non protestò. “È la prima volta che sono separate e Magali non l’ha presa benissimo, così vi chiedo di portare pazienza se risulta un po’ ostile. Ma questo non significa che tu non debba essere educata, sai?” concluse, rivolgendosi alla piccola che continuava a fissare l’ospite bionda vestita da uomo con sguardo assassino, per nulla intimorita.
Nel bel mezzo di un discorso cordiale tra le due donne, aveva spostato la sua sedia tra le loro, interrompendole. E non appena Oscar si era permessa di avvicinarsi per provare a far la pace l’aveva spinta via, con tutta la misera forza che aveva nelle braccia scheletriche.
“Magali, adesso basta! Vai pure di là dal gatto, ma smettila di comportarti così, per l’amor del cielo!”
“Sì, va bene.” rispose quella remissiva, ma un attimo prima di raggiungere l’uscita della sala da pranzo si voltò per aggiungere una linguaccia ai danni della sua nemica, per poi scappare via ai richiami di Sabine.
“Sono mortificata… non era così possessiva anni fa, l’ho trovata molto peggiorata.” si scusò la baronessa tra le risate mal trattenute di André.
“Vorrei sapere che ci trovi di così divertente.” lo sgridò Oscar un po’ ferita nel suo orgoglio di zia preferita e amata all’unisono da bimbi e bimbe.
“Andiamo… È divertente, comunque la si guardi!”
“Lo dite solo perché con voi si è comportata bene.” incalzò Sabine. “Sa essere una vera peste, credetemi; è meglio non darle troppa corda.”
“A pensarci, è l’ennesimo avvenimento insolito per Oscar in questo periodo…” commentò sibillino André, finendo di ripulire il piatto dalla porzione di ratatouille con un pezzo di focaccia alle olive che aveva del sublime.
“Come dite, André? Che mi sono persa?” incalzò Sabine improvvisamente curiosa.
E quello, satollo di buon cibo, iniziò a raccontare di come, dalla sera alla mattina, aveva saputo dell’imminente partenza per la Provenza e - con qualche coloritura - della deriva che aveva preso il comportamento prevedibile di Oscar, la quale subiva le ennesime attenzioni non volute senza reagire, sorseggiando il vino con indifferenza.
Non era ancora arrivato a raccontare degli aneddoti migliori che Sabine intervenne, a dir poco stupefatta del potere che avevano avuto le sue parole, che di fatto avevano smosso chi credeva essere irremovibile. Posò la forchetta carica sul piatto e chinò il capo, intimidita.
“Non so cosa dire. Sono davvero colpita, Oscar. Siete riuscita a sorprendermi e forse dovrei chiedervi scusa…”
L’altra scosse la testa, sincera: “Sono io a dovervi ringraziare, piuttosto. Il vostro punto di vista è stato prezioso per mettermi in discussione e questa vacanza non poteva capitare in un momento migliore; avevate ragione anche su questo, dovevo solo attivarmi.”
“Ma io vi ho delusa, vero?”
La voce di nuovo spezzata dall’emozione, gli occhi timorosi di una preda, colmi di un imbarazzo infantile. “Non vi aspettavate che fuggissi a quel modo, vero Oscar? Voi non credete che dovrei…”
“Sabine, no, io… non credo nulla.” la fermò lei con nuova risolutezza, lasciando di stucco André.
Perché l’aveva interrotta? Non erano lì per quello?
“…E soprattutto non mi avete delusa, dico davvero. Non dovete dimostrarmi alcunché, né sono qui a mettervi fretta. Quali che siano le vostre decisioni future, io farò solo in modo di starvi accanto per sostenervi ed ascoltarvi se vorrete un confronto, che siate a Parigi, in Provenza o altrove: nel caso, esistono le lettere. Semplicemente, qualsiasi cosa accada… ricordate che non siete sola.”
L’altra annuì coi muscoli tesi in un fascio di nervi, trattenendo tremante un pianto di sollievo e gratitudine che non avrebbe saputo giustificare coi domestici.
Non aveva immaginato che proprio quella mattina, riabbracciandola, Oscar aveva compreso sulla sua pelle una delle molte regole non scritte di qualsiasi amicizia.
Non importava ciò che lei pensava fosse meglio fare; adesso l’importante era esserci. E basta.
Il mondo delle relazioni con gli altri e dei loro sentimenti appariva così complicato per chi, come Oscar, aveva appena mosso i primi passi in una direzione diversa, alla scoperta di modi di fare che spesso e volentieri cozzavano con la bussola della ragione.
 
 
***
 
 

 
Così i nostri scivolarono implicitamente in un accordo di silenzio circa i problemi che avevano portato Sabine lì, almeno fino al ritorno dei suoi, quando un confronto sarebbe stato inevitabile.
Arrivati al dessert, il più serio dei loro discorsi riguardava il fare o meno un bis dell’irresistibile torta alle noci che era stata servita.
“Non è solo perché mi sono buttata a capofitto nella produzione; ormai ogni volta che rientro a Grasse delego volentieri la cucina a Philomène… sentivo tanto la mancanza dei suoi piatti!” spiegò la baronessa ai suoi ospiti, che si aspettavano di essere coinvolti nuovamente nei riti di preparazione che li avevano visti invadere le cucine di Sabine, a Parigi. “Ho un palato assai nostalgico, temo… in questa casa ci sono dei sapori e degli odori, ovviamente, che non ritrovo altrove e che stimolano la mia memoria in profondità. Questa stessa torta con questa identica crosticina croccante è stata la mia merenda così tanti pomeriggi, in così tante stagioni…” e imboccò un morso del dolce, con espressione rapita.
“Il senso del gusto a pensarci è uno dei più sottovalutati.” proferì solenne il più ghiotto tra loro, deliziato.
“Non da te, André.” commentò placida Oscar.
“Allora fatemi capire, se doveste rinunciare ad uno dei vostri sensi, di quale fareste a meno?” chiese intrigata Sabine agli altri due.
Ad Oscar e André non entusiasmava l’idea di immaginarsi privi di uno dei sensi, titubavano nella risposta.
“Non rinuncerei mai alla vista” dichiarò lui e Oscar aggiunse: “Io neppure all’udito, fuori discussione.” e anche André annuì.
“Allora restano gusto, tatto e olfatto. Cosa scegliete?” incalzava la baronessa.
“Dopo un pranzo come questo non saremmo credibili se dicessimo di voler rinunciare al gusto” obiettò Oscar in direzione di André, che aveva già dato quel punto per scontato e agitò le mani come a difendersi dalla sola ipotesi.
“Perdonatemi, ma per rispondere con sincerità vorrei capire bene cosa intendiamo con tatto” rimuginò poi lui “Non mi è molto chiaro.”
“Tutte le sensazioni avvertite sulla pelle, no?” rispose Oscar con distacco scientifico, senza riflettere sulle implicazioni maliziose della domanda, così ovvie agli altri due che la osservarono con curiosità crescente. “Ch’io sappia non è un senso che si possa perdere, comunque.” glissò, intuendo di trovarsi su un terreno precario.
“Ma è in via ipotetica, quindi tutto è possibile” protestò chi aveva posto la domanda.
“Va bene, va bene. Allora io rinuncerei all’olfatto.” decretò Oscar, seguita a ruota da André con la stessa risposta. Si era alzato dalla tavola e adesso teneva le braccia incrociate allo schienale della sedia di lei, che se ne stava rilassata, un gomito sulla tavola e la testa pigramente poggiata nella mano.
“Insomma, state dicendo alla proprietaria della Maison Florentin che dei cinque sensi sacrifichereste proprio quello che serve a riconoscere i profumi? Potrei davvero offendermi, non credete?” e come spesso accadeva, non era chiaro quanto Sabine stesse scherzando e quanto no.
“Si potrebbe dire che manchiamo di tatto?”
“André, quando fai questi giochi di parole, ti giuro…”
In quel momento lui si sporse in avanti per avvicinarsi alla sua spalla, un contatto normale per loro, per spronarla a ridere della sua freddura o almeno strapparle un sorriso, ma Oscar scappò all’indietro col busto, quasi rischiando di perdere l’equilibrio dalla sedia quando André a sua volta lasciò andare lo schienale, preoccupato da quella reazione.
Sabine non sembrò notare l’accaduto. Si alzò anche lei per dare delle istruzioni ai domestici e poi tornò da loro con la stessa serenità da padrona di casa che dimostrava nella residenza parigina, la stessa capacità di metterli a proprio agio. Anche a Maison Florentin si respirava un’atmosfera leggera. Con la sola eccezione del comportamento di Magali nei confronti di Oscar, ciò che si percepiva immediatamente in quell’ambiente era un senso di accoglienza reale, un’ospitalità che trascendeva la cordialità. C’era da dedurne che quel tratto unico di Sabine derivasse dall’educazione impartitale in quella casa dalle grandi stanze dai mobili in legno dipinto di bianco e i pavimenti in cotto, in cui la semplicità dei decori e il lusso privo di stravaganze delle sale principali sembrava fatto per incorniciare gli abitanti, senza opprimerli.
“Credo sia un mio preciso dovere provare a farvi cambiare idea sull’importanza del mondo degli odori.” dichiarò la baronessa con aria di sfida “Cosa ne direste di visitare la filiera di produzione dei profumi, questo pomeriggio? Domani vi prometto un giro più convenzionale della tenuta, ma adesso venite con me a ficcare il naso.”
 
 
***
 
 
E di ficcare il naso si trattava, dato che fin dall’inizio della loro visita si ritrovarono a mettere in uso il senso trascurato per eccellenza; non erano ancora usciti dal secondo dei laboratori che già Oscar e André accusavano un lieve stordimento dopo tutto quell’odorare, distinguere, ricollegare l’idea di un fiore fatto di petali e pistilli alla sua essenza ultima, l’olio che con tanto impegno veniva estratto tramite l’uso di enormi distillatori in rame da cui non uscivano che gocce preziose, ottenute dal sacrificio di montagne di fiori.
Il processo aveva in sé un fascino alchemico, misterioso.
I colori delle corolle e la loro consistenza setosa sparivano; ciò che era materia perduta per l’occhio tornava alla vita, riconquistata dal naso, integra e squisita alla memoria nel profumo concentrato dell’olio essenziale.
Un’astrazione, il ricordo perpetuo di un fiore.
Il passo successivo era la creazione delle fragranze miscelando i diversi elementi con sapienza, per creare prodotti dal carattere definito, i cui ingredienti potevano essere distinti da un naso allenato come i sapori in un piatto o le pennellate di un quadro.
Nello spiegare Sabine si accalorava, passava da un argomento all’altro sovrapponendo i discorsi camminando avanti e indietro, mettendo mano a ciò a cui stavano lavorando i profumieri, che pure non sembravano affatto infastiditi dalla sua presenza, ma che anzi, si interrompevano per ascoltare anche loro le sue spiegazioni. I più giovani si riferivano a lei con il titolo, ma per le teste bianche di quel laboratorio in cui era cresciuta, i veterani di Maison Florentin che le avevano insegnato ciò che stava raccontando, lei era soltanto Sabine, Sabinette. Una confidenza che si prendevano anche molti dei domestici storici della casa.
Passò quindi a far odorare le essenze ai suoi ospiti, nascondendo il nome delle preziose boccette.
“Uhm… Citronella?”
“Ma con quale coraggio, non c’entra nulla! È mughetto! Provate questo.” disse la baronessa, porgendo l’ennesima ampolla colma di liquido dorato.
“… Lillà?”
“Fresia.” sentenziò Sabine come un’insegnante sconfortata. “Almeno André ne ha indovinato qualcuno, voi siete un caso disperato. Vi siete mai soffermata ad odorare un fiore, Oscar?” chiese poi, come si trattasse di un’attività comune ai più.
“Non mi succede di frequente, direi.” ammise. “Ma soprattutto non riesco a collegare il profumo a un ricordo preciso, va al di là delle mie capacità.”
“Non dovete restarci male, baronessa; è che noi altri non siamo abituati a ragionare con il naso per memorizzare. La vista è immediata, comoda, funziona senza la necessità di avvicinarsi se lavora bene. È inevitabile che gli umani finiscano per affidarsi maggiormente ai propri occhi.” giustificò André.
“Ammetto che il mio è un caso particolare, ma sono convinta che vi sorprendereste di quanto in realtà tutti facciano lo stesso senza saperlo; dobbiamo solo provare con qualcosa che ricordate già… Vi fa di fare un altro esperimento?”
E i due si lasciarono nuovamente trascinare, stavolta in uno dei capannoni adiacenti, dove i lavoratori sedevano a lunghi tavolacci sistemando dei gelsomini sui telai imbevuti di grasso animale. Un fiore alla volta, con maestria certosina e pazienza d’artista.
“Questa tecnica si chiama enfleurage, serve ad estrarre a freddo l’essenza dei nostri fiori più delicati, come il gelsomino officinale e la rosa centifolia. Il grasso preparato in questo modo assorbe gli olii floreali con lentezza e dalla sua raffinazione si ottengono i prodotti più pregiati. La pommade ottenuta dai telai si può anche utilizzare direttamente come base per i nostri altri cosmetici, e in parte la rivendiamo a mastri guantai… ma tornando a noi.” Sciolse uno dei grandi fiocchi del grembiule che indossava. “André, venite qui, lasciatevi bendare.”
“Bendare?”
La baronessa annuì e poi si schiarì la voce, per annunciare alla cinquantina di persone presenti, per lo più ragazze sedute alla prima fila di tavoli, delle sue intenzioni: “Vi prego di perdonare il disturbo, ho scommesso con questo gentiluomo che sarà in grado di riconoscere ad occhi chiusi l’odore della persona che nasconderò tra voi” spiegò indicando Oscar “Quindi non fate caso a noi, basterà lasciarvi annusare un momento e far silenzio al nostro passaggio, così da non dargli altri indizi.”
Un’ondata di risatine si sollevò dal gruppo alla vista degli ospiti della baronessa, indubbiamente di bell’aspetto.
“Devo davvero annusare tutte queste persone?” chiese André a disagio, com’era anche Oscar all’idea di dare spettacolo, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di negarsi.
“Magari non tutte, dipenderà da quante tempo ci metterete ad indovinare!” rispose lei divertita iniziando a bendarlo.
Una volta finito sistemò Oscar molto lontano, a più di una ventina di posti da dove si trovavano. Nel chiacchiericcio che scatenò quell’interruzione sarebbe stato davvero impossibile affidarsi all’udito per carpire qualcosa, e ad André non rimase che seguire la guida di Sabine per iniziare quel gioco.
“Dovete avvicinarvi di più, André. C’è troppo profumo nell’aria altrimenti.” insisté la baronessa osservando il suo primo tentativo imbarazzato.
E lui si piegò fino a sentire il solletico di una ciocca di capelli sul naso, ma l’odore muschiato che avvertì era probabilmente maschile, molto più forte di ciò che si aspettava di sentire.
Passò oltre e continuò tentativo dopo tentativo, senza dir nulla, trattenendosi talvolta più a lungo su qualcuno, nel bisbigliare collettivo dei presenti, che ogni tanto Sabine acquietava per assicurarsi che non arrivassero suggerimenti. Si stava impegnando davvero; una volta iniziato a sentire che la differenza di persona in persona era più che percepibile. Gli odori ad occhi chiusi sembravano più netti, presenze solide e sconosciute che sentiva di poter scartare senza incertezze.
Arrivò ad Oscar dopo essersi soffermato solo pochi istanti sulla giovanissima ragazza che la precedeva, e fin da subito sembrò bloccarsi, impietrito.
Inspirò più profondamente e avvicinò il naso a quell’odore familiare; con cautela si sporse senza sfiorarla, avvicinandosi al suo orecchio come avvertendo il suo contorno seppure nel buio della benda ben stretta da Sabine.
Era lei. Lo avvertiva con chiarezza cristallina. Un insieme di note che non avrebbe mai creduto essere così impresso nel proprio animo la caratterizzava, distinguendola da ogni altro avvertito fino a quel momento.
 

 
Da dove arrivava quella certezza assoluta? Da quanto tempo conosceva così bene il suo odore? Forse fin dall’infanzia, fin da quando avevano iniziato ad allenarsi assieme con le spade; forse gli era entrato dentro ad ogni respiro mischiandosi al proprio, in quei pomeriggi infiniti che appartenevano alla memoria di entrambi.
“Non ci credevo.” dichiarò ad alta voce, scatenando risate e reazioni di ogni genere da tutti i presenti, che Sabine, seppure entusiasta come loro, rimise subito a posto.
“Dite che è lei? Ne siete certo? Non avrete una seconda chance!”
Il sorriso che sfoggiò André poteva essere considerato a tutti gli effetti un’arma.
“Ti riconoscerei anche tra mille, Oscar.” concluse. Vicino. Troppo vicino…
Al trambusto collettivo degli applausi e dei commenti si aggiunse il fracasso dello sgabello buttato a terra da Oscar, rialzatasi di scatto. Si diede una calmata mentre Sabine si complimentava e sbendava André vittorioso, che soddisfatto di aver scoperto qualcosa di nuovo si stropicciava gli occhi e provava a spiegare l’accaduto con la baronessa.
“Sono fiera di voi, André. Forse adesso i presenti si chiederanno che odore peculiare abbia Oscar per non farvi avere alcun dubbio…” ridacchiò.
“Davvero, come hai fatto?” chiese l’altra, turbata come se avesse assistito al trucco di un prestigiatore.
“Non ne ho idea. Lo sapevo e basta.” concluse lui facendo spallucce.
“Non è che funzioni sempre” commentò Sabine “Ma avevate dimostrato di avere un olfatto decente, prima. In più vi conoscete da così tanto tempo, c’era ragione di sperare che ne foste capace. A quanto pare non mi sbagliavo! Cosa ne dite Oscar, volete provare anche voi?” propose sventolando il nastro che aveva fatto da benda.
“Non sarà necessario, Sabine: direi che avete già dimostrato il vostro punto.” le rispose l’altra frettolosa, pronta a continuare il giro.
 
 
***
 
 
Tra una sosta e l’altra e le molte domande che soprattutto in André quell’esperienza aveva stimolato, trascorse l’intero pomeriggio. Si avviarono verso la casa all’ora in cui i grilli danno il cambio alle cicale, assieme a piccoli gruppi di altre persone che rientravano dai campi alla spicciolata.
“Per alcuni fiori però la raccolta inizia tra qualche ora; pensate che il gelsomino va colto nottetempo o prima dell’alba, per far sì che il fiore sia più forte e più intenso il suo profumo. È una bella esperienza partecipare alla raccolta, se non siete contrari a una levataccia potrei farvi provare nei prossimi giorni.” spiegò Sabine.
Le domande in sospeso tra loro restavano assopite, e quei “prossimi giorni” a cui si riferì suonarono vaghi, indefiniti.
“Domani mi piacerebbe visitare i terreni della tenuta, se ne avrete il tempo.” propose Oscar alla baronessa tagliando la testa al toro.
“Naturalmente! Lasciatemi solo organizzare un paio di cose al mattino e poi porteremo un pranzo al sacco con noi… E se non vi spiace gradirei includere anche Magali…”
“Ma certo.” fu la risposta immediata di Oscar, nonostante gli attriti di prima e un brutto presentimento.
Dopo la cena leggera e qualche chiacchiera stanca, venne il momento di ritirarsi per la sera. I due ospiti non avevano ancora avuto il modo di recuperare energie dal viaggio e fu Sabine ad insistere per mandarli a dormire al più presto, come una tata apprensiva a cui non seppero opporsi.
Così come non seppero opporsi alla sua ennesima dimostrazione di noncuranza nei confronti delle regole quando scoprirono di essere stati sistemati entrambi in stanze d’onore, l’una vicina all’altra e simili in tutto e per tutto. André poteva aspettarsi dalla baronessa un trattamento migliore a quello riservato al personale dei suoi ospiti, ma mai sarebbe arrivato a immaginarsi quel lusso, i quadri alle pareti, i tendaggi ricamati.
“Oscar, convincetelo voi a non far inutili cerimonie; siete entrambi stanchi e io non ho intenzione di sistemarlo altrove. Arrendetevi e andate a dormire.” chiosò la padrona di casa.
“Mi sa che non hai scelta, André.” sostenne Oscar, soddisfatta a sua volta.
Sabine accettò i ringraziamenti del giovane con poco rigore, sminuendo il gesto. Sembrò ad un tratto ricordare qualcosa e si avvicinò all’amica.
“Oscar, potrei importunarvi un momento da sola o è troppo tardi?”
 
Nella stanza assegnata ad Oscar non mancavano due poltroncine e un tavolinetto, disposti avanti ad un camino spento da tempo in cui era stato sistemato un vecchio annaffiatoio con un fascio di lavanda essiccata il cui violetto era ormai sfumato nel grigio perla.
“Non voglio disturbarvi a lungo, quindi non farò portare nulla da bere” cominciò la baronessa prendendo posto ad una delle due poltrone “Però mi incuriosisce una cosa, Oscar…”
L’altra corrucciò solo le sopracciglia, in attesa della domanda che Sabine pareva stare elaborando con molto impegno, e che infine pose con la voce più incerta che le avesse mai sentito.
“È accaduto qualcosa con André?”
 
 
 

 

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Capitolo 11
*** Anice stellato ***


Anice stellato
 
 
Avrebbe fatto meglio a prenderla più alla larga anziché entrare in un argomento tanto delicato a quel modo, si disse Sabine.
Ma ormai.
“Posso chiedervi perché mi fate questa domanda?” chiese di rimando Oscar, ponderando bene ogni parola, le difese alzate come era stato i primissimi tempi della loro conoscenza.
“La mia è solo un’impressione, non volevo insinuare nulla. È che vi ho sempre visti interagire con una naturalezza invidiabile, tra di voi c’è una confidenza dei modi che spesso diventa anche fisica e… non mi guardate così, benedetto il cielo, non è mica una cosa brutta! Sto solo dicendo che di solito non sembrate cosciente del fatto che siate un uomo e una donna, mentre oggi vi ho vista… diversa e mi chiedevo.”
“Diversa?”
“Ma sì, lo avete tenuto a distanza tutto il giorno. Non poteva neppure avvicinarvi camminando che scappavate, come se scottasse, come se… foste intimidita.”
Perché non reagiva? Perché restava immobile a quel modo? L’aveva rotta?
“Oscar?”
“Non è successo nulla, Sabine.”
“Va bene. Devo essermi sbagliata.”
“Non potrebbe mai succedere nulla.”
“D’accordo, ho capito.”
“Io e André!”
“Cosa ci sarebbe di tanto strano?”
“Siamo cresciuti insieme!”
“Ma non è mica vostro fratello!”
Oscar si prese la testa tra le mani. Affondò le dita nelle onde ribelli della frangia e sembrò più calma.
“Vi prego Sabine, abbassate la voce; è nella stanza accanto. Ci mancherebbe solo questa.”
Non era il momento giusto per far presente che la parete divisoria era molto sottile, ma la baronessa optò per un tono decisamente più pacato.
“Resta il fatto che non siete fratello e sorella e che lui è in gamba; provate a negarlo.”
“Avete questa tendenza a semplificare e a buttar fuori senza esitare qualsiasi idea strampalata vi venga in mente che mi lascia esterrefatta.”
“E voi avete la malsana abitudine di lasciar macerare per troppo tempo le sensazioni prima di parlarne. Cosa sta succedendo? Apritevi con me, Oscar.”
L’altra continuava a non rispondere, silenziosa come un felino in agguato fissava Sabine dubbiosa, esitava.
“Provateci. Uscite anche da questo schema: parlate senza soppesare ogni parola, concedetevi il lusso di rischiare di essere incoerente. Si chiama sfogarsi, e di solito è d’aiuto a schiarirsi le idee con le persone fidate.”
L’altra sospirò. Guardò lei, poi il tavolino, poi la finestra che raggiunse scaricando un po’ della tensione che provava nella falcata marziale. Al di là di un filare di frassini la valle appariva bluastra, sotto la luce di una luna a metà e le stelle accese.
“Va bene. Parliamone.”
“Vi riconosco di saper cambiare idea, Oscar.”
“E io devo darvi atto di essere davvero insistente, Sabine.”
“Non sareste qui, altrimenti, no?”
Riuscì a strapparle un sorriso.
“Posso contare sul vostro assoluto riserbo?”
La baronessa annuì con l’entusiasmo di una bambina e il fiato sospeso, volendo le avrebbe promesso qualsiasi cosa pur di ricevere le sue confidenze, a quel punto.
Ma non era una questione di scarsa fiducia; più che altro si trattava di argomenti che andavano a toccare una serie di dogmi che Oscar non si sentiva pronta ad affrontare.
Senza contare il disagio di doversi esprimere su una propria ipotetica vita sentimentale in quanto donna, idea che faceva a pugni con quello che buona parte della sua vita aveva pensato di dover essere e che solo negli ultimi anni era riuscita a riconsiderare. Adesso esisteva, vaga, una forma di remota coscienza in lei che contemplava la possibilità futura di sperimentare quel genere di affezione chiamata amore sulla propria pelle, seppure vestita di un’uniforme. Non era qualcosa che avrebbe ammesso ad alta voce e neppure con se stessa, ma dopo una bottiglia di vino forte poteva capitare che la sfiorasse la fantasia che chissà come, chissà quando, chissà con quale stravagante esemplare di essere umano che avrebbe potuto accettarla per quello che era, sarebbe potuto capitare anche a lei, di innamorarsi.
Ma tutto ciò non aveva nulla a che vedere con i turbamenti di quegli ultimi giorni della ventesima estate della sua esistenza.
Quello che stava accadendo era illogico. Spaventoso. Fuori dal suo controllo.
 
“Lo so che è assurdo, però credo che André provi… dell’attrazione nei miei confronti. Nel modo in cui la si prova per una donna, intendo.” confessò.
 
Il rumore dell’orologio a pendolo che arrivava dal corridoio scandì i lunghi momenti in cui entrambe rimasero in silenzio.
Se Sabine fosse stata una donna diversa, o anche semplicemente più matura, avrebbe potuto contenere meglio le reazioni del suo viso a quella rivelazione di per sé così scontata da far cadere le braccia, ma sbalorditiva per la sua amica. Considerato lo sforzo che fece per non scoppiare in una risata liberatoria, il sorriso sornione che ne venne fuori fu comunque un ammirevole compromesso.
Così i due avevano approfittato proprio dei giorni dopo la sua partenza per fare simili passi avanti, hm? Certo, il fatto che Oscar, pur frequentando il mondo frivolo di Versailles, in cui le interazioni tra uomini e donne avvenivano regolarmente su un registro di frecciate maliziose, non riuscisse neppure a figurarsi che un ventunenne di sana e robusta costituzione, standole alle costole per la quasi totalità delle sue ore di veglia, potesse quantomeno manifestare dell’interesse… no, erano ancora decisamente in alto mare.
Era un peccato, pensò. Fin dall’inizio, li aveva inquadrati come la coppia più funzionale che avesse mai incontrato. Li aveva invidiati persino, sentendosi un’intrusa mentre ricavava uno spazio nella loro complicità silenziosa, per la libertà di cui potevano godere grazie alla vita indipendente di Oscar e per la prima volta aveva capito cosa intendesse suo marito rimarcando la straordinarietà dell’educazione che aveva ricevuto la sua amica. Ad esempio, non sarebbe stato magnifico potersi conoscere, frequentare, trascorrere tutto quel tempo insieme prima di scegliere di appartenersi?
Anche lei, pur essendo cresciuta in un ambiente per nulla severo e più autonoma della media del suo sesso aveva dovuto sottostare alle infinite limitazioni dell’essere donna; cosa avrebbe fatto al posto dell’altra?
Ma stava divagando.
“Cosa ve lo fa credere?”
“Vi assicuro che non è successo nulla di eclatante - sviò Oscar - si è trattato di sciocchezze.”
 
(L’odore dell’anice stellato. La sua voce bassa nel trambusto della locanda che pareva trovare altri modi di raggiungerla, sembrava di ascoltarla con la pelle, mentre l’aria tra loro si faceva densa.)
 
“… Mi chiedo se non sia sempre stato così e sia io adesso ad avere una percezione diversa… O forse sto immaginando tutto?” finì col chiedersi ad alta voce lasciando che la massa di capelli biondi le coprisse il viso mentre ripercorreva nella mente quelle immagini, i suoi indizi.
“Volete farmi morire di curiosità? Voglio sentire i dettagli!”
Ma l’altra si limitò a fissarla dall’isola delle sue inquietudini, spersa. “Vi prego, non è necessario. Prendetela solo come un’ipotesi, d’accordo?”
Sabine si alzò dalla poltroncina per raggiungerla alla finestra con le mani sui fianchi e l’aria tormentata più di lei.
“Ha provato a baciarvi?”
“NO!”
“È stato in qualche modo irrispettoso nei vostri riguardi?”
“No.”
 
(“Sembra si stiano divertendo parecchio… Ti va di provare?” aveva proposto, brillo e pericoloso, indicando la gente ballare e battere le mani a tempo al suono di una fisarmonica incessante.)
 
“E come fate a definire il suo interesse solo fisico, Oscar? Perché escludete a priori che possa provare dei sentimenti più forti nei vostri confronti?”
“Perché sì.” Sminuì: “Si tratta solo episodi… per il resto è tutto come al solito, non ci sono cambiamenti radicali.”
 
(“Per quanto io sia innamorato di lei da sempre, per quanto desideri votare la mia intera esistenza a starle accanto e a provare a renderla felice…” aveva detto, nello scherzo)
 
La baronessa non pareva affatto convinta.
“Scusate se insisto, ma possibile che l’idea non vi abbia mai sfiorata? A me sembra solo naturale che ci sia un certo… interesse tra due giovani come voi. Perdonate l’ardire, ma André non è solo passabile, è proprio…”
“Sabine. Per favore.”
In alto mare, per ora, ma c’era speranza, ci avrebbe giurato.
Avrebbe voluto ci fosse più luce per cercare del rossore sulle sue guance celate dai capelli, prenderla in giro e fare di peggio, ricordarle che tutti loro erano fatti di carne e non di vetro. Eppure il suo istinto le disse che era prematuro, che ci voleva delicatezza, come con i boccioli.
Ad ogni modo le assestò una pacca sulla spalla molto poco femminile, che svegliò l’altra dalla sua catatonia.
“Va bene, va bene. Insomma, il problema del vostro atteggiamento di oggi era solo questo? Tutto qui, Oscar? - la investì, mentre quella si massaggiava l’omero dolente - Fareste bene a darvi una regolata e a smetterla di dare tanto peso a qualche moina, può capitare di scherzare a quel modo! O se vi infastidisce tanto diteglielo chiaramente, senza perdere le staffe: quel povero André dev’essere ancora lì a chiedersi cos’abbia fatto di male per farvi reagire così!”
“Dite che ha notato…?”
“Andiamo, stiamo parlando di André! Esiste qualcosa che non noti quel ragazzo?”
Di certo, non gli sfugge nulla che vi riguardi.
 
 
***
 
 
Sentiva la stanchezza farsi zavorra in ogni arto. Braccia e gambe affondavano nel materasso morbidissimo su cui si era tuffato senza cambiarsi (di cosa era fatto? Lana di nuvola? Piume di qualche animale fantastico? Aaah, benedetta Sabine: che lusso!) ma nonostante la comodità di un letto così soffice, i pensieri degli ultimi giorni si riproponevano in serie ossessive e sapeva che sarebbe trascorso ancora molto tempo prima di riuscire ad addormentarsi.
Aveva capito qualcosa?
Perché quella distanza, perché quegli scatti?
E perché nonostante questo lui non riusciva a tenersi lontano da lei?
Si mise a sedere con il volto nelle mani, dandosi per l’ennesima volta dell’imbecille. Del matto.
Come si poteva definire altrimenti una persona che ogni giorno ripeteva gli stessi errori sperando in un risultato diverso?
 

 
Dopo essersi “immedesimato troppo nella parte” durante lo scherzo nella diligenza, aveva - se possibile - fatto di peggio nel viaggio a cavallo che avevano intrapreso da soli, dopo. Il giorno prima di arrivare a Grasse…
Accaldati dalla cavalcata interminabile per fare più strada possibile prima che calasse la sera ed esaltati da quanto veloci e affidabili si erano dimostrati gli animali presi alle stazioni di posta, avevano preso tanto sole da sentire la pelle scottare e la gola riarsa nonostante i litri d’acqua scolati ad ogni - breve - sosta.
Avevano trovato un posto per dormire in una locanda molto frequentata, lì avevano consumato un buon pasto mentre dei suonatori intrattenevano i molti avventori: coppie di tutte le età che ballavano circondavano le due fisarmoniche, i tavoli attorno battevano le mani; c’era un bel chiasso gioviale, di cui non spiaceva essere parte come spettatori. Quando stava per ordinare il solito vino rosso lei lo aveva fermato, e incuriosita dalle bottiglie che vedeva sui tavoli attorno aveva chiesto all’oste cosa stessero bevendo tutti gli altri.
“È un liquore all’anice; qui in estate lo serviamo allungato con dell’acqua fredda e rinfresca l’ugola, ve l’assicuro. Ve lo faccio assaggiare!”
E la bevanda si era rivelata davvero deliziosa; traditrice per quanto facilmente si lasciasse bere, perché nonostante molto alcolica dava l’idea di essere innocua, stemperata nell’acqua fredda di pozzo e con quel profumo di anice stellato e erbe, forse finocchio? Menta? Non erano riusciti ad indovinare i profumi neppure in quell’occasione, e man mano che svuotavano i bicchieri allo stesso modo si svuotavano le loro menti, le parole inciampavano e loro volti si avvicinavano per capirsi nel chiasso.
Gli attriti provati dopo lo scherzo nella carrozza sembravano definitivamente lasciati alle spalle, finalmente quella sera stavano comportandosi con naturalezza.
“Mi piace” aveva articolato ad un certo punto lui, osservando i piccoli bicchieri decorati in cui stavano bevendo il liquore opaco.
“Anche a me.”
“No, cioè, mi piace anche questo intruglio verde, ma mi riferivo al tuo impulso a provare cose nuove.”
E lei, con l’ombra impercettibile di un sorriso compiaciuto e con gli occhi appesantiti dall’alcool aveva ripetuto farfugliando: “Anche a me.”
“Ti senti bene?”
“Hm.”
Ma pochi istanti dopo aveva appoggiato il capo sulle braccia conserte sul tavolo, chiaramente più brilla di quanto avrebbe voluto ammettere.
“Ti accompagno alla stanza, Oscar?”
“No… ce la faccio da sola” tradusse lui dal groviglio di consonanti da lei proferito.
Da ubriaca, Oscar provava comunque a parlare con un lessico elegante, controllato, ma la sola idea che in quello stato si illudesse di avere il polso della situazione era di per sé esilarante.
Lasciò passare qualche minuto in cui lei non mosse un muscolo, poi provò a farla alzare.
“Solo… qualche minuto.” insisté lei.
“È peggio. Non addormentarti qui, bevi… dell’acqua, dai.” ma era complicato scandire i buoni consigli essendo lui stesso vittima dell’intruglio all’anice stellato, della sua presenza, dei suoi capelli troppo biondi sparsi sul tavolo accanto la sua mano.
Si trattava solo di una sbronza. Nulla che non fosse mai successo… allora perché il cuore aveva preso a battergli nel petto a quel modo?
Anche attraverso l’oblio alcolico sopraggiunto l’effetto che aveva su di lui continuava ad essere sconvolgente, ben diverso da ciò che in teoria avrebbe dovuto esserci tra un ufficiale e il suo attendente, come pure dai sentimenti tra due amici fraterni - termine che si guardava bene dall’usare per descrivere il loro rapporto.
Come avrebbe potuto spiegare a qualcuno la forza magnetica di quell’attrazione che non scoloriva negli anni, ma che anzi negli ultimi tempi non faceva che sfuggire al suo controllo razionale?
Un giardino segreto al di là di un cancello chiuso. Il primo raggio di sole in una plumbea mattina invernale. L’eco del canto delle sirene. Nulla rendeva l’idea della fascinazione costante che rappresentava starle accanto, così vicina da poter fondere i loro ricordi, eppure inafferrabile, proibita.
Proibita, ma si ritrovava ad accarezzarle la testa bionda addormentata, cedendo lui stesso alla superficie invitante del tavolo, appoggiati l’uno accanto all’altra: lei nel sonno leggero, lui ancora in uno stato di torpore sereno, mentre nel resto del locale continuavano i brindisi, la musica, i balli… tutto fuori dalla loro bolla.
Chissà quanto tempo era passato. Aveva riaperto gli occhi per ritrovare quelli di lei a malapena schiusi ad osservarlo lucidi di sonno insoddisfacente.
“Quel liquore era forte.” commentò lei con voce roca di chi non era sveglia da molto.
“Già.”
“Domani ne pagheremo le conseguenze nelle ossa se non ci muoviamo di qui.”
“Come ti senti? Ce la fai ad alzarti?” chiese lui, iniziando a sollevarsi.
Lei raddrizzò la schiena e nel rimettersi seduta non sembrò particolarmente stabile.
“Credo di sì.”
Ma l’attimo dopo incespicava nella stretta del suo attendente: lei la testa poggiata al suo petto a combattere vertigini, lui a combattere i suoi demoni.
“Tutto bene, Oscar?”
Annuì nella sua camicia, e la voglia di stringerla e non lasciarla andare si fece di un’intensità preoccupante.
“Dai, mettimi un braccio attorno alle spalle, andiamo.”
Lei ostinata provò a far diversamente e la riafferrò l’istante prima che precipitasse sul tavolo ingombro.
“Ce la faccio.”
“Certo. Ho visto.”
Lei richiuse gli occhi, lasciandosi di nuovo andare contro la figura salda di André, senza altre obiezioni.
Lui si mosse cauto, ma ormai era completamente lucido. Il sonnellino sul tavolo lo aveva ritemprato, e dove non era riuscito il riposo aveva avuto effetto la vicinanza inebriante di lei. Ma non voleva strapazzarla, né aveva fretta di privarsi di quella stretta fortuita. Provò piano a passarle la spalla sotto un braccio, senza dare troppo nell’occhio come stavano già facendo ed era quasi riuscito nel suo intento di farle mettere un piede avanti all’altro fino all'uscita che lei inciampò al centro della sala, parve svegliarsi, lo fissò stranita, come chiedendosi che ci facesse lì. Proprio in quel momento la musica si fece più forte; probabilmente si trattava di un pezzo popolare perché quasi tutti gli avventori presero ad accompagnare il motivo delle fisarmoniche cantando.
“Ti sei svegliata al momento giusto, Oscar!”
“Eh?”
“Sembra si stiano divertendo parecchio… ti va di provare a ballare?”
Lei scartò come un cavallo selvatico, ma la trattenne per il braccio attorno la sua spalla e continuando a scherzare accennò ad un mezzo giro, due passi di un ballo inventato, allacciando la mano libera alla sua mentre lei lo osservava stranita.
“André… fermo!” recuperò, e lui rispose immediatamente all’ordine, trovandosela ancora addosso, spinta dall’inerzia della piroetta in un frontale spigoloso di anche appuntite di lei e fibbie metalliche di lui.
Un lieve rossore imbarazzato sulle sue guance gli suggerì che Oscar non doveva essere felice di dare spettacolo e André riprese ad accompagnarla alla stanza senza altri colpi di testa, tra le sue proteste incoerenti: “Ti dico che ce la faccio” e le occhiate incuriosite del gestore nel dargli le chiavi delle camere.
Sopravvissuti alle scale e alla serratura inceppata, l’aveva depositata sulle coperte così com’era, pronto a scappare dai suoi incantesimi, ma sentì ancora una volta la sua voce richiamarlo.
“André?”
“Dimmi.”
“No, nulla.”
“Cosa? Dai.”
“Ma no, faccio io.”
“Cosa, Oscar?”
“…Mi aiuteresti con gli stivali?”
Come aveva potuto non pensarci? Doveva avere davvero il timore di essere lì in quella stanza, in quelle condizioni, per non aver pensato ad aiutarla a togliere gli stivali.
Lei rimase completamente passiva mentre glieli sfilava, arresa, forse già nel dormiveglia. Le aveva liberato i polpacci sottili e come posseduto si era sentito chiederle “Ti tolgo anche la giacca?” pentendosene il momento stesso in cui le parole avevano lasciato la sua bocca.
Non lo aveva mai fatto.
Pensato sì, inutile negarlo, ma come aveva potuto chiederle…
“Sì.” aveva risposto lei ad occhi chiusi.
Senza nessuna esitazione, languida di sonno.
L’avrebbe solo liberata dalla giacca nuova (che le donava tanto perché più avvitata delle solite, ma che non doveva essere comoda per dormire), non c’era nulla di male… no?
Eppure si sentì profondamente nel torto non appena ebbe sfiorato il primo bottone con le dita. Spogliare anche solo parzialmente quell’angelo fiducioso sembrava un sacrilegio: lui seduto e lei sdraiata sul letto ad occhi chiusi, lei inerme e lui sveglio e affamato come il lupo di una favola, quando avrebbe voluto essere un cavalier cortese.
Titubò ancora un istante, lottando con se stesso, poi la razionalità ebbe la meglio quando lei con un mugugno sembrò infastidita dall’indumento.
“Vediamo di togliere questa giacca.” disse ad alta voce André nel tono più neutro che gli riuscì di trovare.
Armeggiò ai piccoli bottoni rossi, ma il rivestimento di stoffa non aiutava e le asole erano troppo dure per poter fare in fretta. Dalla camicia la curva del collo di lei disegnava un lungo arco da cigno, elegante e latteo, così chiaro che pareva risplendere nella penombra della stanza. Aveva appena iniziato col terzo bottone che Oscar aprì gli occhi. Grandi. “Per vederti meglio” avrebbe detto il lupo che era lui e inghiottì a vuoto un’aria troppo densa e le dita divennero inutili e inette rispetto alla delicatezza di quella mansione; incespicò nei tentativi chiedendosi perché lei sembrasse improvvisamente così lucida e quando sentì le mani di Oscar afferrare le sue capì di star tremando.
“André?” aveva chiesto sorpresa, con una nota di dolcezza sonnolenta nella voce che fu l’ultima goccia che ci volle a farlo andar via con furia, solo augurandole la buonanotte, senza più guardarla.
 
Per quanto avessero fatto finta di nulla, da allora si era creata una sorta di tensione tra loro, qualcosa che portava Oscar a reagire ad ogni contatto anche minimo, precipitandolo nello sconforto ogni volta che si riscopriva di nuovo tentato ad avvicinarsi, cosa che suo malgrado avveniva di continuo.
Sarebbe bastato così poco per tornare alla normalità, si diceva. Doveva rassicurarla che era tutto come prima mantenendosi per qualche tempo più distaccato, ma i suoi buoni propositi evaporavano col passare delle ore, come i profumi che avevano provato sui polsi nel laboratorio.
Che problema aveva? Si stava boicottando da solo per far sì che fosse lei a dirgli di andar via?
Voleva una risposta o una sentenza?
 
Devo riuscire a starle alla larga, si diceva cercando la pace, sdraiandosi tra le coperte nel letto comodissimo.
 
A un muro di distanza lei si riproponeva il contrario.
 
 
***
 
 


Il mistral sferzava in folate irruente e scostanti, sembrava aspettare ci si dimenticasse di lui per tornare a sollevare le gonne, scuotere il fogliame della vegetazione bassa del maquis, i campi fioriti dell’estate provenzale all’improvviso.
Sospinti dal suo soffiare ribelle, Oscar, Sabine, André e la piccola Magali percorrevano un sentiero scosceso sul crinale fiorito di uno dei tanti colli della proprietà dei Florentin, in cerca del punto perfetto - riparato, ma panoramico - per consumare una merenda al sacco, dato che Sabine non era riuscita ad allontanarsi dal lavoro per l’ora del pranzo. Ma nessuno di loro sembrava aver alcuna fretta, come se il tempo avesse preso a scorrere in un modo diverso.
Sospeso, come i fiori nel vento.

 

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Capitolo 12
*** Mamma e figlia ***


 
 
Mamma e figlia
 
 
La passeggiata continuava da più di un’ora e si erano a malapena lasciati alle spalle i campi coltivati, ma con Magali al seguito era necessario tenere un ritmo abbastanza lento per non stancarla, oltre che per non perderla nei momenti in cui improvvisamente lasciava la presa della mano di Sabine o di André per schizzare all’inseguimento di una farfalla, come pure alla conquista di un sasso bianco luccicante nella ghiaia. Di Oscar non aveva voluto saperne, la sua ormai era una guerra dichiarata e unidirezionale che il trio di giovani adulti trattava con la considerazione dei cavalli per i moscerini, confidando in una sua rinuncia per spossamento che tardava ad arrivare.
Nei prati attorno al loro cammino, strie violazzurre di borragine e malva si alternavano ad altri fiori di campo in un verde rigoglioso nonostante la siccità che invece rivelava il sentiero riarso, talmente arido che in alcuni punti più ripidi della discesa diventava difficile non scivolare sul brecciolino secco di vento e di sole. Le chiacchiere tra loro allora si diradarono, passarono dagli inesauribili racconti provenzali di Sabine al silenzio di chi presta attenzione a dove mette i piedi, rallentando ulteriormente la loro escursione.
 
Giunti ad uno smottamento particolarmente ostico, André sollevò Magali e subito porse l’altro braccio alla baronessa; un gesto che Oscar non avrebbe neppure dovuto notare poiché era di certo la più agile tra loro, il salto in questione avrebbe potuto farlo a occhi chiusi. Tuttavia, la mancata offerta d’aiuto fece il paio con la sensazione stonata che aveva provato fin dall’inizio del giorno, quando nell’incontrarsi per caso all’uscita delle loro stanze il saluto di André era stato inspiegabilmente freddo. A cui era seguita la mattinata in cui si era dileguato, trovando il modo di rendersi utile in chissà quali faccende della casa in cui teoricamente avrebbero dovuto essere solo ospiti e restare in panciolle... ma lui era fatto così. Lei aveva provato ad ammazzare il tempo in una lettura senza voglia, spulciando tra i libri della deludente biblioteca di Laurence Florentin, ma un’insofferenza senza nome la distraeva dalle righe.
Ci avrebbe giurato: qualcosa non andava.
Anche se si era ripromessa di far tornare le cose al proprio posto dimostrandosi più tranquilla, era bastato quell’atteggiamento imprevisto di André a rimetterla sulla difensiva.
Adesso ce l’aveva con lei? E perché mai doveva essere lui ad avercela con lei? Non poteva fare a meno di domandarsi se stesse esagerando ora o l’avesse fatto in precedenza, infastidita per quel ripresentarsi non richiesto di ipotesi in conflitto tra loro nella sua mente.
Da quando in qua si accorgeva di simili sfumature del proprio umore, o di quello di André, persino?



Perché solo adesso iniziava a farsi domande simili?
Quanto di lei si andava sgretolando come quel sentiero e rotolava a valle, allontanandosi dal suo controllo?
Non era certo abituata ad aver tutto quel tempo libero, ecco cosa. Le fantasie da ozio potevano essere insidiose, esasperanti, ma col passare delle ore si dissipavano… c’era da stare tranquilli, aveva ragione Sabine.
Eppure, volente o nolente si trovava ad osservare più del dovuto il volto maschile che avrebbe dovuto conoscere a memoria e che invece sembrava contenere storie a lei ignote, suggerimenti della pelle mai notati prima, come l’ombra della barba nascosta nella fossetta sotto le labbra carnose o l’esile cicatrice di una caduta antica, proprio accanto al sopracciglio disteso, parte di quel suo sguardo gentile, gentile sempre.
Quanto accadeva e quanto era accaduto senza di lei, nonostante tutto il loro tempo condiviso?
Quali segreti aveva André?
Lui tardò ad accorgersi di quell’ispezione, ma infine si volse a incrociare il suo sguardo, reagendo istintivamente con un sorriso rassicurante. Che divenne assoluto stupore quando la vide inciampare, spiazzata a sua volta di quel ritrovarsi improvvisamente a terra, nobili terga al suolo e palmi nella polvere.
“Tutto bene?” “Vi siete fatta male?” chiesero subito in coro André e Sabine, mentre un sorrisetto sadico si faceva largo sul volto di Magali.
“Nulla, nulla… ho solo ammaccato l’orgoglio.” ammise, rialzandosi da sé.
“Già fuori allenamento, colonnello de Jarjayes?”
“Il paesaggio è così bello che è facile distrarsi, Sabine.” rigirò. “Vogliamo trovare un posto dove fermarci?”
“Ecco, quella radura laggiù!” puntò entusiasta l’altra, indicando uno spiazzo al riparo tra gli alberi un centinaio di metri più in basso, mentre lottava con le folate che provavano a rubarle il cappello.
“Io ho fame”
“Sii paziente, Magali, ormai ci siamo.”
“Ma io ho fame adesso!” piagnucolò.
“Quindi adesso è il momento di mettere le gambe in spalla: prima si arriva, prima si mangia” spronò la baronessa.
E non appena sistemati sullo spesso telo a quadri colorati disteso sull’erba, anche gli adulti si affrettarono a metter mano ai biscotti e al pane all’uvetta, perché se c’era una cosa che accumunava tutti gli elementi di quell’improbabile trio era un entusiasmo sincero per il cibo.
Alla bambina invece bastò un solo biscotto a farle decretare con la bocca ancora piena di volere esattamente quello che aveva afferrato Oscar dal piatto. Proprio quello. Non ne fecero una questione di principio e Oscar glielo porse immediatamente, ma una volta ottenuto il biscotto specifico, la piccola dichiarò di non averne più voglia.
Sabine soffocò un’imprecazione roteando gli occhi al cielo.
“Sai che non appena rientrerà mia madre le dirò che ti stai comportando mooolto male, Magali?”
Questo parve colpirla.
“No, no, no… per favore!”
“Allora vedi di comportarti meglio. Comincia col dare del voi ai miei ospiti, tanto per cominciare. E chiedi scusa ad Oscar.”
“Ma non le ho fatto nulla!”
“Magali!”
“Scusate…” disse incrociando le braccia quella, ma la totale assenza di convinzione non convinse nessuna delle parti.
“Oscar, davvero scusatela, e scusate me per non riuscire a contenerla.”
“Non preoccupatevi per nulla, Sabine.” fece l’oggetto delle vessazioni.
“A me puoi dare del tu, piccola.” provò André mellifluo “Ma è un peccato rovinare questa bella giornata con i bronci, perché non provi a far contenta la baronessa e ad essere più gentile?”
Magali sgranò gli occhi, già rinvigorita.
André le piaceva.
Gliel’aveva anche detto quella mattina, esclamando “Bello…” quando lui le aveva augurato il buongiorno come fosse una vera dama, con un piccolo inchino che l’aveva estasiata. Chissà se aveva capito che si riferiva a lui e non al gesto.
Calmo e accondiscendente rispetto a Sabine che comunque provava a contenere le sue spine, il giovane dagli occhi verdi era diventato il suo preferito del momento, nonché la persona di cui provare a monopolizzare l’attenzione dato che la sua amica non faceva che rivolgersi alla tizia vestita da uomo.
“Va bene. Allora aiutami a prendere le pratoline e ti faccio una coroncina! Io so intrecciare bene i fiori, ti insegno se vuoi!” e già si allungava a cogliere le piccole margherite più vicine a loro.
“Possiamo, baronessa?” sondò lui, rassegnato.
“André: Sabine.”
“Come?”
“Chiamatemi Sabine, se me lo fate ripetere ancora una volta giuro che vi affido Magali per tutti i giorni a venire.”
Un lampo di preoccupazione contraddisse la dichiarazione successiva dell’uomo: “Ma non sarebbe certo un problema…”
Le occhiate beffarde delle altre due lo indussero a continuare “…Sabine!”
“Ah, volevo ben dire.” fece quella, soddisfatta. “Ma prendo comunque sulla parola la vostra offerta, André. Almeno per una breve passeggiata con Oscar, possiamo lasciarvi a intrecciare fiori con quel folletto?”
“Naturalmente baron… Sabine.”
 
 
***
 
 
“Non è una bambina cattiva.” dichiarò la donna, sistemandosi lo scialle non appena si furono allontanate di qualche passo.
Oscar di rimando la guardò sorpresa. “Perché, ne esistono?”
Sabine sorrise.
“È molto sola. Certo, mia madre l’ha salvata dall’orfanotrofio, ma la sua condizione a casa la rende un’estranea per i suoi coetanei. Persino le domestiche non sanno più bene come approcciarla. Vedete, Magali è una via di mezzo… la protetta della signora, ma non la figlia della signora. E ovviamente le preferenze che le indirizza mia madre la espongono ad ogni tipo di invidia…”
Un collegamento all’infanzia di André attraversò la mente di Oscar, incupendo il suo sguardo. Per fortuna. Per fortuna il loro essere due vie di mezzo insieme li aveva salvati dalla solitudine, realizzò.
“Ma ovviamente questo non l’autorizza ad essere così capricciosa.” continuò la baronessa, sospirando. “Dovrò parlarne con mia madre… credo sia l’ennesimo discorso che non vorrei fare e che invece mi toccherà affrontare, finendo col parlare del perché non ho ancora figli e quindi non possa far valere le mie opinioni come educatrice…”
Con cautela, molta cautela, Oscar sentì di poterle chiedere: “E li vorreste, dei figli?”
“Eccome.” fu la risposta immediata che rivelava molto altro. Ma non articolò, e ad Oscar non rimase che cambiare argomento.
“Magali.” rimuginò quasi tra sé e sé. “È un nome raro, non l’avevo mai sentito prima.”
“Qui è molto diffuso; credo sia proprio provenzale… molti nomi provenzali hanno un corrispettivo francese, sapete? Ad esempio voi ed io abbiamo lo stesso secondo nome: Franchouèze!”
“Come?”
“In effetti al maschile sarebbe Franchouè.” si corresse Sabine.
“Sembra… Italiano?”
“Ci sono parecchie somiglianze, sì, le Alpi sono dietro l’angolo. Senza contare che ci sono tantissimi italiani che si sono spostati qui con l’arricchirsi della zona per il commercio dei profumi; la tradizione a cui si affida Grasse è soprattutto toscana. Anche la mia famiglia ha radici nel bel paese, e ho tuttora dei parenti di mia madre a Firenze.”
“Siete mai stata a trovarli?” chiese Oscar con gli occhi accesi dall’interesse. Nella sua stanza di Parigi, da prima che lei nascesse, c’era appesa un’acquaforte del campanile di Giotto e della cupola di Santa Maria Maggiore e sognava di vedere dal vivo quella piazza, prima o poi.
“No, macché. Non ho visto che Parigi e Grasse. Lo sapete, a viaggiare è sempre stato mio marito.” rispose la baronessa con amarezza.
Passarono altre folate di mistral e altre incertezze.
“Volete parlarne, Sabine?”
“Io… Non credo di riuscire a farlo.”
Continuando a camminare fianco a fianco, senza osservarla, Oscar le restituì le parole del giorno precedente.
“Non voglio forzarvi, ma di recente una persona saggia mi ha detto che sfogarsi con le persone fidate è utile a schiarirsi le idee.”
La baronessa annuì con un ghigno di sarcasmo, non senza una punta di divertimento.
“Saggia… temo sia un giudizio da rivedere il vostro.”
“E la stessa persona saggia non fa altro che provare ad ascoltarmi senza curarsi di giudizi di sorta.” ribadì Oscar, fermandosi. “Perdereste l’occasione di fidarvi dei vostri stessi preziosi consigli?”
A quel punto, Sabine esplose.
“MA QUANDO MAI HO ASCOLTATO I MIEI… ma.. che cavolo… è il caso di ridere, Oscar?” chiese all’amica che provava a soffocare un raro attacco di ilarità.
“Sì. Mi fa ridere che stia iniziando a conoscervi. E mi fa ridere che vi scappino risposte brusche come questa, le trovo un modo molto salutare di esprimersi.”
“Scommetto che tra voi e André non avete mai cacciato neppure un Dannazione! nei momenti di rabbia.”
“Il più paziente dei due è sicuramente lui” assestò Oscar. “Ma ammetto che entrambi non siamo portati a verbalizzare l’insofferenza.”
“Ah, ma sapeste la soddisfazione che dà un bel MERDA! al momento giusto!” rincarò con eleganza ancor meno che borghese la baronessa.
L’altra scosse la testa, esaurite le risate riprese a camminarle accanto, le mani incrociate dietro la schiena e lo sguardo comprensivo.
“Allora, Sabine. Sono tutta orecchie.”
 

 
***


A raccontarla, una situazione in stallo come quella di Sabine non sembrava insormontabile, ma non per questo era meno angosciante per lei che viveva sulla propria pelle quello stato di impotenza. Il non sapere cosa dover fare, prima ancora di non avere il coraggio di farlo, la teneva lì in attesa delle mosse altrui, e la spiegazione che fornì ad Oscar non fu che un ammasso confuso di queste sofferenze. Andare, tornare, scrivere… restar fermi in compagnia dell’aleggiante senso di colpa per la sua fuga dal confronto con il marito, ormai probabilmente giunto a Parigi.
 
“Gli avete lasciato una lettera, un messaggio per dirgli che eravate qui?”
“No, ma può facilmente venirne a conoscenza tramite i domestici, non ho mica fatto mistero della destinazione il giorno in cui sono partita.”
“…Lo state aspettando?”
La baronessa sbuffò.
“È finita, davvero. Sto aspettando sue notizie però, questo sì. Chissà, magari arriverà direttamente una lettera dei suoi legali con le spiegazioni sul come procedere con la separazione, l’annullamento… quello che è per rendere la libertà al ricco rampollo de Plantier. Non credo che la madre baderà a spese per riuscirci, non le sono mai andata a genio.”
Si accomodarono su una roccia scolpita dalle intemperie, e dopo un po’ Oscar tornò a parlare: “Mi sfuggono parecchie cose.”
“Siamo in due.” le fece eco l’altra, nebulosa.
“La vostra certezza assoluta quando dite che non ci sia speranza, ad esempio”
“Perché non c’è.”
A questo punto Oscar la osservava incuriosita come se avesse parlato in un’altra lingua. “Non prendetela male, ma questa vostra sicurezza lapidaria non è basata sui fatti, quindi dovreste considerare l’eventualità che…”
“Ma dovete fidarvi di me!” La interruppe alzando la voce. “È mio marito, saprò bene cosa vuole!”
“…”
“…”
“E voi cosa volete?”
“Io?”
“Ricordo di avervelo già chiesto, Sabine. Voi cosa vorreste che facesse lui? Potendo scegliere cosa far accadere, vorreste provarci ancora?”
La donna si strinse nello scialle violetto. Parve rimpicciolirsi, mordendosi le labbra in un’incertezza schiacciante, che spaventava. “Me lo chiedo ogni giorno, Oscar.” rispose pianissimo. “No. Sì. Potrei rispondervi l’una e l’altra cosa a seconda del momento, ed essere sincera perché continuamente mi faccio queste domande e continuamente cambio idea, però il risultato finale è sempre lo stesso: mi arrendo.”
“Perché.”
“Perché si arriva ad un punto di non ritorno in cui l’incertezza del futuro è comunque meglio dell’esasperazione che ci si lascia alle spalle.” recitò imbronciata. I capelli incendiati dal sole e spettinati dal vento, fili di rubino arrabbiati come lei.
“È stato davvero così… difficile? Io vi ho conosciuta da pochi mesi, ma non sembrava che le cose fossero così…” azzardò Oscar.
“Non ha fatto che lasciarmi sola.”
“Era nei vostri patti, però. Voi a Parigi, lui a seguire le sue ricerche; avete detto che era una vostra proposta.”
“Le cose cambiano!”
“Ma gliel’avete detto?”
La baronessa la osservava sorpresa. Di fatto non si aspettava un simile mordente dalla stessa persona che il giorno prima aveva a stento proferito due parole. Certo, non era lei ad essere sotto torchio, adesso.
“Mio marito non è così ingenuo da non aver capito che volevo che restasse con me! Che lo volevo vicino, diamine… non è mica così difficile! Non c’era spazio per me in quella testa piena dei misteri di madre natura, ecco cosa.”
“Che l’avesse capito o meno, resta il fatto che non glielo avete mai chiesto. O sbaglio, Sabine?”
“… Touché, Oscar. Touché.”



Rimasero così, sedute l’una accanto all’altra per un po’, senza parlare più. Una gran quantità di api laboriose sciamava nelle vicinanze, attirate dai cespugli carichi di caprifoglio estivo.
“Tornerò.” disse Sabine con poca voce, quasi inaudibile, come i ronzii delicati attorno a loro.
“Come avete detto?”
“Tornerò a Parigi. Devo parlargli ancora… di persona, non saprei scrivergli altrimenti.”
“Ne siete sicura?” chiese Oscar con tatto e buon senso.
L’altra annuì. “È la cosa più vicina alla sicurezza che senta da un bel po’, almeno.”
La bionda si alzò e le diede la mano per aiutarla a risollevarsi. Era tempo di tornare anche da André.
“Posso esservi di aiuto in qualche modo, Sabine?”
“Beh, sì.” Le sorrise con un velo di dispetto, o forse furbizia; qualcosa che ricordò all’altra l’espressione di Magali e non le piacque. “Vedete, resta il fatto che non posso partire subito” puntualizzò “Devo aspettare rientrino i miei genitori e mi piacerebbe essere ancora qui per Sant’Élie. È la grande festa patronale di Grasse, un evento bellissimo a cui manco da così tanti anni… è tra qualche giorno…”
La versione affranta di Sabine di qualche istante prima non era che un ricordo.
“E…?”
“E mi piacerebbe restaste con me fino ad allora, per poi rientrare insieme.”
Più di una settimana, ancora.
“Sarebbero tanti giorni, Sabine… Dovete pensare anche al tempo del viaggio… Mio padre non sa neppure che sono qui…” rifletté l’altra ad alta voce.
“Ma non vi accorgete di quanto vi stia facendo bene questa vacanza?”
“Mi trovate diversa?”
“Sì!” rispose Sabine di slancio. “Non si tratta di cambiamenti radicali, ma di spiragli. Concessioni alle alternative che non mi sarei mai aspettata da voi. Questa vostra disposizione d’animo verso le novità non vi fa sentire viva… non vi fa sentire libera?” chiese esaltata lasciando svolazzare lo scialle nel vento.
E in effetti Oscar doveva ammettere che quel ribollire di pensieri che l’accompagnava ultimamente poteva essere stancante, ma non era affatto malvagio.
Quello era il tempo in cui poteva prendere decisioni inaspettate.
Stupirsi di se stessa.
Le piaceva.
“Concedetevi qualche giorno in più lontana da tutto. Per favore. Ancora qualche giorno.” insisté Sabine.
“Va bene, va bene, siamo d’accordo. Ma non oltre la festa di Sant’Élie.”
“Affare fatto! Non un giorno di più, Oscar, promesso!” concluse l’altra entusiasta serrandole la mano in una stretta che poteva far invidia ai suoi soldati.
A poca distanza dal sentiero dove stavano camminando c’erano delle strutture pressoché piramidali in legno chiaro, su un rialzo del terreno, protette da una macchia alberata. Oscar non l’aveva notato prima, ma anche il ronzio degli insetti in quel punto era più forte, a momenti rivaleggiava col rumore delle foglie smosse dalle folate.
“Non avviciniamoci, lì ci sono le arnie” spiegò cauta Sabine.
“Quindi la Maison Florentin produce anche miele?” domandò l’altra affrettando un po’ il passo. Non aveva ne aveva mai avuto paura, ma il rumore della moltitudine di ali in lontananza stimolava in lei un timore arcano e istintivo, come quello dei tuoni.
“Non proprio… Abbiamo iniziato ad usare la cera in molti dei nostri unguenti, però le api sono state il dono nuziale che mi ha fatto Raymond.”
“Un regalo?”
“Già.”
“Per il vostro matrimonio, delle api?” insisté l’altra, credendo fosse uno scherzo.
“Pare che servano a far riprodurre i fiori, è una scoperta recente.”
“In che modo?”
“Non ne ho la minima idea, Oscar. Il barone provò a spiegarmi al tempo, ma ero troppo seccata all’idea di aver ricevuto delle api per dargli retta.”
“E… ci sono stati risultati?”
“I campi più vicini alle arnie hanno aumentato la produzione a dismisura negli ultimi anni. È impressionante. Mio padre sta provvedendo ad installarne altre.”
“Ma è incredibile! E tutto per delle api… Cosa ne ha pensato vostro marito?”
Sabine la fissò indignata a quella ipotesi, come se la sola idea le facesse orrore.
“E dargli una simile soddisfazione? Non gliel’ho mica detto.”
 
 
***
 
 
“Giochiamo a mamma e figlia; io sono la mamma, Sabine!”
Era difficile star dietro a Magali quando aveva tante energie. Il pisolino che si era concessa dopo aver fatto le coroncine di fiori con André era durato poco, si era svegliato non appena erano tornati ad essere in quattro. E adesso dava loro i tormenti, bloccando ogni pigra conversazione che provassero a intavolare mentre il sole si abbassava e si avvicinava il momento di andar via.
Con una pazienza e una concentrazione distribuita in modo ammirevole, Sabine si prestava al gioco della bimba continuando a chiacchierare e mettendo via nella cesta ciò che restava della loro merenda nell’erba.
Osò però protestare nel momento in cui Magali, nella parte di una mammina apprensiva, provò a tutti i costi imboccarla con un legnetto, ovvero il cucchiaio immaginario con cui girava petali e altra vegetazione nella conca di una foglia d’edera.
“È la zuppa che ti ha fatto la mamma; mangia, su.”
“Magali… non potresti passarmi dei biscotti, invece di questa sbobba?”
“I biscotti solo se finisci la verdura!” disse la piccola despota esercitando un chiaro contrappasso agitando il bastoncino.
“Ti stai forse vendicando del pranzo di ieri, bestiolina?”
“Fai aaah” continuò quella divertita, spalancando la bocca per dare l’esempio.
“Aspetta solo che rientri madame Toto” minacciò Sabine, ma il sorriso con cui lo fece dissolse l’effetto di quelle parole, facendo scoppiare in una risata argentina la piccola.
Madame Toto?” chiese André.
“Toto sta per Tognetta in realtà. È il nome di mia madre.”
Gli altri due si osservarono in tralice. Dov’è che avevano già sentito quel nome così insolito?
“Che poi sarebbe Antonietta in provenzale, eh.” continuò la baronessa.
“André, André! Allora facciamo che tu hai la corona e quindi sei il re.” propose Magali riferendosi ai fiori intrecciati ancora poggiati sulle onde brune del ragazzo. Poteva essere una bimba seccante, ma aveva fatto un ottimo lavoro.
“Il re, hm? Mica male.” commentò soddisfatto. “Accetto le responsabilità del mio ruolo di sovrano e prometto di non scambiare il mio regno con l’ultimo dei panini all’uvetta.” dichiarò solenne facendo ridere la piccola e passando il panino citato a Sabine.
Sfiorò la mano di Oscar nel raccogliere il suo stesso piattino.
Stavolta lei non si tirò indietro, ma anzi incontrò il suo sguardo con un sorriso dolcissimo, un premio per il suo savoir-faire con la bimba dispettosa e allo stesso tempo una dichiarazione di pace, un punto e accapo tutto loro da cui André si lasciò mitigare.
Era tutto a posto.
Nulla di nuovo sotto il sole provenzale.
Oscar non aveva paura di lui.
Bastava quello.
Tirò un sospiro di sollievo, mentre Magali aveva deciso di arrampicarsi sulla sua schiena per sistemargli la coroncina e gli assestava gentili ginocchiate sulle vertebre.
Oscar intervenne nel tentativo di salvarlo.
“E io cosa sono, Magali?” domandò con tono di sfida, sapendo che l’avrebbe aizzata.
“Tu sei la strega.” sibilò la bimba ad Oscar, andandole incontro col dito puntato.
“Magali.” avvertì Sabine.
“…La regina.” corresse il tiro quella, fingendosi un agnellino.
“Meglio.”
La regina cattiva” venne aggiunto di soppiatto non appena Sabine si distrasse e davvero ad Oscar scappò da ridere. Non era forse da ammirare una simile testardaggine? Suo padre diceva sempre che la differenza con la caparbietà era irrisoria. Era una dote.
 “Mi raccomando non lasciare la mia mano” insisté Magali quando si furono rimessi in marcia verso la villa, continuando a fare il verso a ciò che le era stato detto in precedenza, ancora molto presa dal suo ruolo.
“Va bene, Magali”
“No, no Sabine, devi dire va bene Mamma, altrimenti non vale”
“Va bene, mamma…”
“E voi due, mica potete camminare così, facciamo il corteo!” ordinò la despota rivolgendosi agli altri due, e subito procedette ad intrecciare il braccio di Oscar a quello di André.
Intercorse tra loro una placida accettazione del comando della bimba, un assenso che nascondeva imbarazzo, piacere, affetto, il tutto in un ordine crescente che non provava solo il monarca, ma certo anche la sovrana in pantaloni, la quale sistemò meglio la presa e si strinse all’avambraccio tonico, dal profilo venoso e fermo.
“Ecco il re e la regina” proclamò Magali creando un precedente per l’investitura più veloce della storia, mentre Sabine osservava la scena con gusto.
 
Non sciolsero le braccia. Continuarono a camminare a quel modo, per tutto il percorso.
Era un’assoluta prima volta per loro, lo pensarono entrambi ma nessuno dei due provò a farlo notare, per paura di interrompere quel contatto che mai avrebbe avuto motivo di ripetersi… quindi perché non godersi quella sensazione per quanto possibile?
Perché non far finta di ignorare le occhiate soddisfatte della loro amica, per concentrarsi sul sole che si abbassava sulla valle in una carezza di colori caldi quanto il punto in cui i loro corpi si sfioravano, passo dopo passo?
Ora toccava ad Oscar ammettere che era normale.
L’umanità stessa si basava su quegli istinti tra gli uomini e le donne, quindi sì, era inevitabile apprezzare la vicinanza di André; aveva ragione Sabine.
Era normale che l’attrazione fosse tangibile, ma la verità era che andava in entrambi i sensi e ciò che aveva pensato di riconoscere in André le si rifletteva addosso, forse amplificato dalla sua inettitudine diventava difficile, come afferrare una goccia d’olio nell’acqua.
Lui sembrava così calmo, così sereno.
Così contenuto.
 
“Sabiiiiiiiiiine!”
Una figura femminile veniva loro incontro a braccia aperte dalla villa, urlando a squarciagola.
“Madame Toto!!!” urlò quindi Magali a sua volta, precipitandosi dalla signora con la parrucca.
“Mamma!” esclamò Sabine avvolgendo la madre in un abbraccio.
 
E mentre sbiancava dall’orrore, Oscar non mancò di valutare le esclamazioni ineleganti suggerite dall’amica quel pomeriggio per convogliare il suo estremo disappunto nel riconoscere la signora della carrozza in quella donna.
 
 

 
Un’Amica *Bonus Track*
 

(In questi giorni di sconforto collettivo e con la necessità di farci forza e coraggio a vicenda, mi pare un buon momento per aggiungere delle postille spensierate a questa storia, nella speranza di condividere un sorriso con chi passasse di qui. A tutti voi: siate prudenti e state bene!)


 

 
Schizzi che non hanno passato il rodaggio



 
Scatto delle nostre con abiti provenzali

 
Angolo mea culpa:
 
Questo racconto NON è storicamente corretto in più punti e non è nei miei piani il passaggio a una stesura più rigorosa perché -diciamocelo - non è quello che mi va di raccontare. Però nel tentativo di bazzicare nel verosimile qualche informazione l’ho trovata e magari le condivido qui (qualsiasi informazione ulteriore o eventuali correzioni sono sempre graditissime!)
 
- Di divorzio in Francia si è iniziato a parlare solo nel 1792, almeno per quello che concerne l’aspetto civile del matrimonio. In questa storia si ammicca alla possibilità di far sciogliere anche l’aspetto indissolubile del sacramento grazie all’uso di grandi quantità di denaro per corrompere chi di dovere. Sì, i personaggi che ne hanno parlato hanno un approccio molto laico (e cinico) a riguardo, me ne scuso.
 
- Per coprire la distanza Parigi - Grasse in diligenza nel 1775 ci sarebbe voluto più del doppio del tempo che ho usato io nel racconto. Poco meno a cavallo. Ma l’idea di ulteriori tappe metteva a dura prova il mio già scarso dono della sintesi… il rischio era di cominciare una storia completamente diversa in un altro posto ancora.
 
- Le nozioni di profumeria accennate sono/dovrebbero essere coerenti con l’epoca, mentre le note olfattive di cui spesso si parla per descrivere un profumo (testa, cuore e fondo) sono una definizione ottocentesca interessante che ero tentata di infilare, però ho fatto dietrofront. Avevo una mezza idea di come avrei composto delle eventuali fragranze per i nostri… ma anche in questo caso ho provato a tenere a bada la tentazione di dare troppo spazio a quello che fondamentalmente resta il set-up della storia, per quanto mi diverta poi a cercare dettagli della ambientazione.
 
 
 

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