Doppelgänger with a single scar

di Lost In Donbass
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angels from the Underground ***
Capitolo 2: *** The joker, the soldier and the dancer ***
Capitolo 3: *** Bed of Roses ***
Capitolo 4: *** Guns ***
Capitolo 5: *** Don't leave me struggling ***
Capitolo 6: *** See you again ***
Capitolo 7: *** High Expectations ***
Capitolo 8: *** Dance, black swan ***
Capitolo 9: *** The curtain has fallen ***



Capitolo 1
*** Angels from the Underground ***


DOPPELGANGER WITH A SINGLE SCAR


CAPITOLO PRIMO: ANGELS FROM UNDERGROUND
 
This skin I'm in, I've painted scars all over it
To hide what's inside, can't hide, can't hide

[Stitched Up Heart – This Skin]
 
Eleanora Dmijtrevna Kazantseva, apparentemente, aveva tutto. Un bellezza incredibile, un’intelligenza sottile e acuta, una grazia incredibile nel muoversi e un’arte nel farsi desiderare da chiunque. Apparentemente, di nuovo, era la perfezione incarnata. Se invece si fosse andato a scavare un pochino sotto la crosta di perfezione che la ricopriva, si sarebbero scoperte rose marcescenti, olezzi infernali, e lacrime troppo dure per poter essere piante. Non era perfetta, Eleanora, nonostante avesse tentato di esserlo. Non era perfetta, con quelle cicatrici sulle braccia eburnee, con il dolore incastonato negli occhi violetti sempre pesantemente truccati, con quell’aria combattiva che in fondo non le si addiceva nemmeno così tanto. Era un’imperatrice senza più regno, era una strega senza magia, era una rockstar senza pubblico. Era tutto ed era niente, era bellissima e orrenda allo stesso tempo, era potente e debole, era un ossimoro ambulante su tacchi a spillo e gonne vertiginosamente corte. Non cercava amore, cercava solamente sesso, non cercava amicizia ma un potere che nessuno poteva darle. Voleva tutto, eppure non appena qualcosa le capitava tra le mani la spezzava irrimediabilmente. Era fatta per lasciare terra bruciata al suo passaggio, era fatta per seminare morte e distruzione dovunque andasse. Era questo quello che spaventava e attirava tutti, era questo che l’aveva tramutata in una marionetta, in una stupenda Petrouska senza più teatrino dove esibirsi. Come una ballerina scacciata dall’Opera, vagava danzando per le strade, tra le foglie cadute e i sospiri del vento. Danzava verso Pietroburgo, come l’emigrato russo che in fondo era. Danzava verso la morte, come se fosse Onegin. Danzava verso il sottosuolo, perché era da lì che venivano le sue memorie.
E anche in quel momento danzava per le strade, i tacchi che rimbombavano sul selciato e la spessa pelliccia volgare avvolta attorno al corpo snello e flessuoso. Splendida, sotto l’implacabile luna russa, ondeggiava come una silfide, sicura di sé, con lo sguardo fiero e quel sorriso apparentemente incancellabile dipinto sul viso pesantemente truccato. Eleanora sorrideva sempre, qualunque cosa succedesse. Un sorriso all’apparenza sensuale e invidiabile, ma in realtà non era altro che una crepa, una smorfia oscena, una ferita incisa sul viso pallidissimo. Era straziata da quel sorriso falso che vendeva a tutti con estrema facilità, quando sul suo volto non c’era altro che un taglio pieno di nero sangue rappreso. Una marionetta, appunto, una creatura inumana, un mostro avvenente che calcava la periferia di Krasnojarsk come la zarina che in fondo era. La zarina dei dannati, dei disperati, dei non morti e dei tossici. La gente la guardava, ma lei non se ne curava, perché ormai aveva superato il punto di non ritorno. Era come un Hölderlin che aveva completamente aderito alla sua follia, come la mendicante dai capelli rossi, era come l’illuminazione che cercava Rimbaud. Era la vita, era la morte, era stupenda, era proibita, era Odette, era Petrouska, ma era anche il Re dei Topi. Quello però non lo doveva sapere nessuno.
Fece una giravolta nella spessa pelliccia di astrakan e guardò il cielo nero, dove splendevano pallide stelle, spente dalla miriade delle luci cittadine. Ad Eleanora piacevano le luci delle fabbriche all’orizzonte. La facevano sentire al sicuro, lei, la bambola meccanica. Lei, l’automa troppo sensibile per essere un robot ma troppo poco per essere umano.
Si passò una mano tra i lunghi capelli tinti di un bianco accecante e accelerò il passo, ondeggiando pericolosamente sui tacchi vertiginosi. Si stampò sul viso il sorriso più convincente che le riusciva, quello perfetto, quello luccicante anche se sporcato dal rossetto color sangue e si specchiò nello specchietto da borsa. Bellissima. Troppo bella per il suo stesso bene.
Si guardò intorno e modulò un sospiro. Lui non era ancora arrivato. Chissà se l’avrebbe fatto. Guardò la luna di plastica di una Siberia ormai venduta ai potenti e scosse la testa, passando poi a fissarsi i piedi fasciati in stivali di lacca. A volte la marionetta si stancava di essere tirata per i suoi lunghi fili e anelava ad almeno un giorno di riposo. O ad un sano pianto, siccome ormai le lacrime si erano indurite nel suo cuore tanto da creare una rete che non era più in grado di sciogliersi.
Avrebbe tanto voluto piangere, Eleanora Dmijtrevna. Ma aveva dimenticato come si faceva.
-Hey, dolcezza. Scusa il ritardo.
Sentì la sua voce arrochita dalle sigarette, così sensuale, con quell’accento europeo e si voltò, dipingendosi immediatamente sul viso un sorriso ancora più falso di quello di prima. Quello incantevole, quello dolcissimo, quello da Odette. Quello da ballerina. Vieni, o corvo bianco.
-Ciao, tesoro.- lo salutò, e si odiò per avere quello strascicato accento siberiano invece che un’altolocata cadenza pietroburghese. Ma lei, Pietroburgo, non l’aveva mai vista.
Lo abbracciò e lui, come al solito, rimase rigido, accarezzandole appena le spalle. Quanto era passionale, spigliato, quasi bestiale quando la portava a letto, quanto era rigido, gelido, spaventato quando si trattava di doverla toccare. Perché lui poteva essere un animale, ma proprio come un  animale fiutava il pericolo. Ed Eleanora era la cosa più pericolosa che gli fosse mai capitata per le mani.
-Mi sei mancato.- continuò lei, appendendoglisi al braccio.
-Hai visto le luci stasera, dolcezza? Mi ricordano di te.- rispose lui, e non sapeva tenerla a braccetto ma a lei non importava.
-Perché?
-Perché sono false, bellissime e ingannevoli proprio come la tua stupenda persona.
A volte lui non se ne rendeva conto, ma lei lo considerava un poeta. Bestiale, amorale, volgare, ma pur sempre un poeta da strada.
-Mi consideri falsa?
-Ti considero troppo bella per calcare questa terra.
La baciò, con la crudeltà un po’ libidinosa che lo contraddistingueva e lei si perse nelle sue labbra morbide, si perse nel suo bacio passionale, nel suo profumo di colonia, inchiostro e sigarette, si perse dentro di lui. Amava baciarlo, perché la faceva sentire viva, lei, la ragazza che non sapeva cosa voleva dire vivere. Amava sentirlo suo perché le dava un motivo per resistere in quell’inferno che era diventata Krasnojarsk. Amava possedere quel giovane uomo imperfetto.
-Voglio scoparti.- sussurrò lui sulle sue labbra e lei sorrise appena, socchiudendo gli occhi ombreggiati da lunghe ciglia incrostate di mascara.
La loro era una relazione basata sul sesso, non avevano altro che quello. Le andava bene? Non lo sapeva. Forse avrebbe voluto avere qualcosa di più da quell’uomo splendido. O forse era okay tenere tutto su quel piano per non incastrare sentimenti che lei non sapeva di essere in grado di provare.
-Andiamo a casa tua, allora.
Lui aspettò un attimo, e le accarezzò il viso, con quella mano grande e un po’ impacciata. Così abile a letto ma così imbranata quando si trattava di darle una carezza.
-Balliamo via la notte, ti va, dolcezza?
Lei sorrise di nuovo, e quel sorriso era così vuoto da fare male al cuore. Ma il cuore di lui era così distrutto che niente avrebbe più fargli del male.
Perché non puoi spezzare un cuore già spezzato, o no?
 
***
 
Fecero sesso, quella notte.
Quell’atto un po’ animalesco, un po’ untuoso, un po’ faticoso che trascinavano ormai da settimane, nella piccola casa di lui, quella che puzzava di sigarette e di coperte non lavate.
Lei adorava andare a letto con lui. Adorava guardare quel corpo snello ma perfettamente allenato da anni di evidente sforzo fisico, toccare quella pelle tatuata e lievemente abbronzata da soli che lei non avrebbe mai visto, baciare quel viso angoloso. Adorava guardarlo fumare e sentirlo parlare di terre lontane, terre perdute, gente mai più rivista e piatti mai più assaggiati. Lei lo adorava, in generale.
Adorava essere lì, a gambe aperte su quel letto semi rotto, con lui sopra che spingeva dentro di lei e contemporaneamente le sfregava le dita contro i punti più sensibili. Si sentiva viva, con lui. Si sentiva amata anche se lui a stento le aveva mai detto “ti voglio bene”. Si sentiva a casa in quel monolocale umido e vecchio, insieme a un uomo che le teneva troppi segreti. Avrebbe fatto qualunque cosa per lui, e le andava anche bene quella relazione sfilacciata che avevano. Le andava bene rovesciarlo sul letto e cavalcarlo, i capelli sul viso, selvaggia e meravigliosa come la zarina che era, splendida nella sua furia sessuale. Lo guardava in viso, e lo sentiva gemere, mentre lei urlava, urlava mentre lui le faceva cavalcare l’orgasmo, urlava quando lui le veniva dentro con un gemito strozzato. Urlava, lei, che non si scomponeva mai, perché con lui poteva essere libera, perché lui non giudicava, non chiedeva. Non la tormentava mai.
Lui le ricadde al fianco e lei lo guardò, il trucco sfatto sul viso di porcellana, e pensò che fosse bellissimo, con quegli occhi talmente slavati da sembrare bianchi, con quei capelli scuri lunghi sulle spalle, quei tratti slavi così calcati, quel naso largo e schiacciato, quella mascella squadrata, quelle guance appena ispide.
Come al solito, lui si accese una sigaretta e guardò il soffitto con le macchie di umido, passandole un braccio attorno alle spalle. Lei si strinse a lui, i due corpi nudi a contatto, appena coperti dal piumone sporco e gli baciò una spalla, lasciandogli tracce del rossetto sulla pelle.
-Un giorno ballerai per me?- le chiese lui.
-Un giorno lo farò, quando il Re dei Topi mi lascerà andare.
Non glielo disse, che era lei quel famoso Re dei Topi.
-Sei bellissima, ragazza.
-Anche tu sei bellissimo, ragazzo. Raccontami dell’Europa, ti prego.
-No, voglio riposare.
-Per favore, cosacco. Raccontami di Kiev.
Lui sorrise appena e le baciò le labbra, con quella dolcezza un po’ infantile che può avere solo un uomo che ha visto la guerra.
-E’ la città più bella del mondo, dolcezza. Le sue luci, le sue strade, la sua gente, i suoi palazzi, le sue babke calde la mattina.
-Mi ci porterai, un giorno?
Domanda stupida, lo sapeva, ma lei era Odette e doveva sognare, e ballare, sognare e ballare fino a cadere morta per le strade.
-Un giorno la vedrai, ma quel giorno ti sarai dimenticata di me.- si limitò a rispondere lui, bello come un diavolo, dannato come un angelo. – Adesso dormi, dolcezza.
-Non voglio dormire, tesoro. Voglio vivere la notte con te. E non ti dimenticherò mai.
-Lo dici adesso, ma aspetta che arrivi domani. Non ricorderai il ragazzo con la pelle scottata da soli che tu non vedrai mai. Non ricorderai Onegin. Non ricorderai il cosacco, mio giglio.
Lei gli posò la testa sulla spalla e lui rise, con quella sua risata di gola così sensuale.
-La vita è orrenda, ragazza.
-Io danzo per dimenticare. Dovresti farlo anche tu.
-Io ho ucciso, per lo stesso motivo.
Lei si aggiustò un po’ accanto a lui, i piccoli seni arrossati dai suoi baci, il corpo snello sfibrato e sporcato da cicatrici e lo strinse con forza, come se fosse una bambina.
-Dormo con te.
-Non è la prima volta che lo fai.
-Ma questa volta sarà diverso. Stringimi, per favore.
Lui sorrise appena, di nuovo, spense la sigaretta nel posacenere stracolmo e la strinse, con quei modi un po’ impacciati, forse terrorizzato dal farle del male.
-Ti amo.- disse lei, anche se sapeva che non avrebbe ottenuto risposta.
-Sei perfetta.- disse lui, anche se sapeva che lei era un errore vagante.
Lei chiuse gli occhi e lui le baciò i capelli, aggiustandole il piumone sul corpo esile ed effimero come quello di una libellula.
Poi lui guardò fuori dalla finestra, vide le luci della strada che inondavano l’appartamento, ripensò alla sua Ucraina, e lasciò che una singola lacrima gli scorresse sul viso, andando a bagnare i capelli di lei.

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Capitolo 2
*** The joker, the soldier and the dancer ***


CAPITOLO SECONDO: THE JOKER, THE SOLDIER AND THE DANCER

I’ve created a monster, inside of my head
And it’s eating me alive.
I’ve created the demons, I once believed in
To get me through the night
[New Years Day – My Monsters]
 
Denis si passò una mano tra i capelli scuri, scostandosi il ciuffone dal viso e sospirò rumorosamente, le cuffie con qualche canzone metalcore sparata a tutto volume nelle orecchie e la sua solita espressione dolorosa. Era bello, Denis, bello come solo certi ucraini del sud possono esserlo, con quel viso angoloso, quegli occhi colore dell’ambra, quel naso largo. Aveva una bellezza cosacca, una bellezza meridionale. Ma aveva qualcosa, incastrato in quelle iridi scure, un male oscuro, profondo, un male che nessuno conosceva e che forse era oscuro anche a lui stesso. Un male che non riusciva a tenere a freno.
Si accese una sigaretta e si sedette sulle scale dell’università, lo zaino abbandonato al fianco e gli occhi persi nel cielo nuvoloso. Ricordò gli infiniti cieli ucraini, così dannatamente azzurri, e gli venne voglia di piangere. A lui mancava casa, altrochè. Gli mancava la gente che parlava la sua lingua, gli mancavano le babke calde la mattina, gli mancava Sudak e il suo mare cristallino, i suoi alberi in fiore, i suoi profumi forti. Niente a che vedere con il gelo della Siberia, il suo vuoto, le sue fabbriche che riempivano il cielo di fumi tossici. Voleva tornare in Crimea. Voleva nuotare nel Mar Nero, voleva ballare sulle note delle canzoni tradizionali. Voleva singhiozzare come un bambino e dormire nel letto con sua mamma, come faceva quando era piccolo e aveva paura del temporale. Ma adesso aveva ventidue anni, era un uomo, era grande, e aveva delle responsabilità. O forse no. O forse avrebbe solamente dovuto guarire dalla sua malattia. Cosa c’era che non andava nella sua vita? Troppe cose. I demoni, per esempio, che lo perseguitavano da quando era venuto al mondo. Il vomito forzato, che gli sconquassava lo stomaco. Gli occhi allucinati che spaventavano chiunque. La chitarra che non riusciva più a suonare da quando si era trasferito in Russia.
Si passò di nuovo una mano tra i capelli e soffiò al cielo una voluta di fumo. Voleva andarsene da Krasnojarsk. Voleva tornare in Crimea. Voleva parlare ucraino. Voleva mangiare le babke della panetteria della zia Olga. Non voleva stare lì.
A volte faceva i capricci, come un bambino. Piangeva e stringeva i pugni, e sua madre sospirava, perché Denis era squilibrato e lo sapevano tutti nel palazzo. Un cosacco squilibrato. Un eroe malato di mente. Ma cosa sei, Denisoch’ka?, si diceva da solo. Sei Bazarov, sei Onegin. Sei Raskol’nikov. Sei umiliato e offeso da una terra abbandonata e da gente che non ti comprende, che non riesce ad andare oltre a un volgare accento ucraino e alle tue fughe in bagno. Stava così tanto male, Denis. Così tanto male da aver tentato di uccidersi, un giorno. Ricordava con fastidio quel pomeriggio di primavera, ricordava con fastidio il dolore del rasoio sui polsi, ricordava con fastidio la morte che non arrivava. E ricordava con ancora più fastidio gli sguardi di sufficienza dei medici che gli avevano ricucito le braccia malamente ferite. Non lo avevano preso sul serio nemmeno dopo un tentato suicidio. Continuava a rimanere lo strano ragazzo ucraino con qualche squilibrio. Povero Denisoch’ka, mai capito, mai compreso, umiliato ed offeso.
Spense la sigaretta sul gradino e fece per alzarsi che una ragazza si sedette accanto a lui. La riconobbe. Eleanora Kazantseva.
Lui non disse nulla, e nemmeno lei, ma lui si perse un attimo a guardare la sua bellezza ultraterrena. Quei lunghissimi capelli bianchi come la neve che lui avrebbe voluto sporcare col sangue, quelle labbra dipinte di rosso fuoco che lui avrebbe voluto bianche. Quel viso da bambola truccato con maestria, quei vestiti neri di pelle che aderivano a un corpo snello e perfetto. Lei era meravigliosa. Lui era meraviglioso. Ma erano entrambi sbagliati, imperfetti, bastardi, sfruttati.
-Ciao.- disse lei, a un certo punto, guardandolo.
Denis si sentì scandagliato da quegli occhi così violetti.
-Ciao.- rispose.
-Sei molto bello.
-Anche tu sei molto bella.- sorrise Denis.
-Sei ucraino, vero?
-Sì. Crimea.
-Vieni da molto lontano. Dimmi, com’è il mare?
-E’ pulsante, è vivo, è di un colore falso e ingannevole, ma è di una bellezza ultraterrena. Non l’hai mai visto?
-No. Ma un giorno lo vedrò, e ballerò sulle acque.
Lui le sorrise ancora e le porse la mano, la sua grande mano da chitarrista, con volgari anelli rock alle dita.
-Piacere, Denis. Den per gli amici.
Lui non aveva amici.
-Eleanora. Ma puoi chiamarmi Elya.
Aveva una mano delicata e fatata, tanto che lui si vergognò di toccarla. Si guardarono a lungo in silenzio, incerti sul da farsi. Per un attimo, Denis si chiese come sarebbe stato baciarla. Sentire quelle labbra sulle sue, toccare quel corpo all’apparenza morbido, sentire quelle mani tra i capelli. A lui non piacevano le donne, lui voleva i visi ruvidi degli uomini, le loro mani violente, i corpi solidi, ma lei era diversa. Lei era meravigliosa e anche lui comprendeva la perfezione incarnata in quel corpo invidiabile e in quegli occhi straordinariamente viola.
-Balli?- chiese Denis, per spezzare quel silenzio quasi imbarazzante.
-Sì, ballo. Ho sempre ballato, da che ho memoria. Lo faccio per dimenticare.
-Dimenticare cosa?
-Di avere paura. Di essere quello che sono. Per dimenticare di nascondere il Re dei Topi sotto vestiti audaci e sorrisi imperfetti. E tu?
-Io suonavo la chitarra.
-Non la suoni più?
-No, da quando sono in Russia.
-La suonerai per me, un giorno?
-Non credo. Non ne sono più capace.
-Menti. Ne sei capace, forse sarai ancora più bravo di prima. Però ne sei terrorizzato a morte.
-Sì, forse hai ragione. Ne ho paura. Ho molta paura.
Denis sospirò e si alzò, spazzolandosi gli skinny jeans. Non voleva imbarcarsi in un discorso simile, non voleva venire a patti col suo terrore e tremore, con le sue ansie nascoste, con i suoi demoni racchiusi in un sorriso troppo bello per essere vero. Non era un poeta, era solo un ragazzo.
-Vai via?- chiese lei, piegando appena il capo e dio, in quel momento lui avrebbe disperatamente voluto averla. Avrebbe tanto voluto poter dire “è mia e la sporcherò col mio sangue e il mio sperma.”
-Devo andare a lezione.- disse invece, grattandosi il retro del collo – Mi ha fatto piacere conoscerti, Elya.
-Come sei falso, Denis.- sospirò lei, alzandosi a sua volta. Lo fronteggiò, ed era molto alta, sui quei tacchi a spillo, ma lui la superava comunque. – Ci vediamo presto. Promesso.
Si voltò e cominciò a salire le scale, lasciando lui a fissare la sua figura slanciata e ancheggiante.
Deglutì e si passò per l’ennesima volta la mano tra i capelli.
 
***
 
Il negozio di tatuaggi era un antro oscuro con una coloratissima insegna, e Denis si strinse nella giacca di pelle prima di entrare. Gli era venuta voglia di farsi un tatuaggio. Un altro, per inchiostrare la pelle pallida, per sentire il dolore dell’ago che incideva, per avere il simbolo della sua band preferita addosso. La musica lo aveva salvato, non c’era altro modo per dirlo. E che fosse nelle casse o nella sua chitarra, aveva sempre una funzione salvifica. Si grattò il collo e si decise ad entrare nel negozio. Dentro, le casse vomitavano una canzone degli Of Mice & Men a tutto volume. C’era un forte odore di sigaretta e incenso. Il ragazzo si schiarì la voce.
-E’ permesso?
-Ciao, bellezza.- lo accolse una voce sensuale e appena roca, appesantita da un inconfondibile accento ucraino.
Un giovane uomo apparve da dietro una tenda e Denis trattenne il fiato quando lo vide. Letale, come una pantera. Diabolico, come un angelo caduto. Bellissimo, come un diavolo. Era un ragazzo dal fisico invidiabile, con quei capelli quasi neri, lunghi poco oltre le spalle, e aveva anche lui dei tratti da cosacco, quell’accenno di barba, quegli occhi così maledettamente chiari. Gli ricordò Eleanora. Un fascino ultraterreno incastrato in corpi erotici e veraci. Una bellezza sbagliata racchiusa in entità quasi mistica. Denis sospirò, abbassando istintivamente gli occhi.
-Ti sei perso?- chiese l’uomo e Denis si riscosse.
-No. No, sono qui per un tatuaggio.- balbettò e dio si sentiva così in minoranza di fronte a quegli occhi bianchi.
-Certo, scusami, che stupido. Accomodati. Dimmi, sai già cosa vuoi e dove o …?
-Due A intrecciate. Sull’inguine.
Come la peggiore delle zoccole.
Il tatuatore sorrise e Denis pensò che nemmeno Eleanora avesse un sorriso così bello, così aperto, così cosacco. E così spezzato.
Si sedette sulla poltrona e si slacciò i jeans. Avrebbe tanto voluto che l’uomo lo guardasse mentre si abbassava gli skinny quel poco che bastava per lasciare scoperto il punto dove voleva il tatuaggio. Avrebbe voluto che lo ammirasse, che guardasse la sua magrezza, la sua insicurezza.
-Sei ucraino?- chiese il tatuatore, girandosi finalmente verso di lui con l’ago in mano e il disinfettante – Fammi indovinare, Crimea?
Denis arrossì e annuì
-Sì. Anche tu sei …
-Donbass.
Per un attimo, a Denis parve che il fantasma di una lacrima brillasse in quegli occhi chiarissimi. Chissà, forse aveva fatto la guerra.
Gli chiese qualcosa sul tatuaggio e lui parlava, ma quasi non si sentiva, mentre gli disinfettava la pelle e lo toccava con quelle mani callose ma delicate. Poi sentì l’ago cominciare a incidergli la pelle, e guardò l’uomo, bellissimo e dannato e si chiese chi fosse. Veniva dal Donbass, avrà avuto suppergiù vent’otto anni e quindi la guerra la conosceva. Aveva degli occhi che grondavano disperazione, e Denis, dall’alto della sua follia, era straordinariamente attratto da dolore. Perché lo conosceva, e lui, il dolore, lo governava.
-Dimmi, è tanto che vivi qui a Krasnojarsk?
-Cinque anni.- Denis si morse il labbro a sangue quando le mani di lui, calde e sensuali, gli toccarono la pelle dell’inguine. Sentiva l’eccitazione strisciare sottopelle e pregò che non si notasse.
-Io tre. Mi sono riciclato come tatuatore quando mi hanno congedato.
Lo sapevo soldato. Te lo leggevo negli occhi.
-Hai fatto il Donbass?
-Sì, ma non è stata l’unica. Ero nei corpi speciali.
-Mi dispiace.
L’uomo sorrise e continuò il suo lavoro delicato sulla pelle chiara del ragazzo.
Denis avrebbe voluto averlo, come aveva voluto la sua compagna di università. Voleva guardarlo negli occhi e accarezzargli quel viso angoloso simile al suo. Voleva sentire sua quell’Ucraina lontana milioni di chilometri che mancava disperatamente.
Rimasero in silenzio qualche momento prima che la tenda si aprisse e arrivasse una ragazza.
-Ciao, tesoro.
Eleanora.
Denis strabuzzò gli occhi quando vide Eleanora entrare, sensuale e verace, i lunghi capelli raccolti in uno chignon scomposto, i tacchi che battevano sul pavimento.
-Hey, dolcezza.- il tatuatore non la guardò nemmeno.
Denis, invece, la fissò trasecolato, le narici invase dal forte profumo di rosa di lei.
-Ciao anche a te, Den.- sorrise, con quel sorriso più dolce del miele, e si sedette su una sedia, accavallando le gambe.
-Ciao, Elya.
-Vi conoscete?
-Andiamo all’università insieme.- offrì lei, togliendosi la giacca di pelle.
Ci fu un attimo di silenzio, prima che lei si alzasse e si avvicinasse a loro. E Denis si sentì morire, perché aveva le mani di lui addosso, e il profumo di lei nel naso.
-Demian, stasera mi porti a ballare?- disse.
Demian. Il tatuatore si chiamava Demian.
-No, dolcezza, stasera no. Ho da fare.- Demian la guardò e le sorrise e Denis si sentì così straordinariamente a disagio. Perché avevano un modo di guardarsi così privato, così intimo, così profondo che il ragazzo non si sentì altro che un intruso tra di loro. Tra il soldato e la ballerina.
Poi Demian si voltò verso di lui e sorrise
-Potresti accompagnarcela tu, non credi, bellezza?
Eleanora sorrise e Denis si sentì quasi male.
-Mi porteresti, Denis?
Il ragazzo annuì freneticamente e sentì un fastidioso calore in mezzo alle gambe. Demian che lo toccava, ed Eleanora che lo guardava. Un triangolo sbagliato, un triangolo ucraino, un triangolo che Denis non capiva ma che lo eccitava così tanto.
Eleanora sorrise ancora, accarezzò i capelli di Demian e fece ciao con la mano, scivolando silenziosamente fuori dalla stanza, lasciandosi dietro il profumo obnubilante di rosa e vaniglia.
Demian lo guardò e sorrise, facendo scivolare appena la mano sul cavallo dei suoi jeans. Denis trattenne un urletto e lo fissò con gli occhi spalancati.
-Ho finito, tesoro. Adesso ti metto la garza e poi ti do il disinfettante.- Demian abbassò appena le lunghe ciglia ricurve e gli mise la garza – Portala a ballare, stasera. È uno spettacolo.
Denis, semplicemente, annuì.
Anche se, per un attimo, l’unica cosa che avrebbe voluto fare sarebbe stato donarsi anima e corpo al soldato del Donbass.

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Capitolo 3
*** Bed of Roses ***


CAPITOLO TERZO: BED OF ROSES

Screaming from inside
It's haunting me like a poltergeist
Eating me alive
It's got me running for my life
There's something deep beneath
The surface that's possessing me

[New Years Day – Poltergeist]
 
Demian aveva ragione, guardare Eleanora ballare era uno spettacolo. Denis fissava con desiderio e terrore il corpo della ragazza ondeggiare sulle note di quella canzone hip hop sparata in discoteca e gli pareva che qualunque cosa svanisse per lasciare il posto a lei, l’angelo dell’underground siberiano. I capelli bianchi sventolavano come bramosi demoni nell’aria satura, e lei danzava, seguendo un ritmo tutto suo, un ritmo classico, qualcosa che rimandava i balletti dell’Opera. Denis non faticava ad immaginarla dentro a un tutù bianco di pizzo invece che inguaiata in un vestitito da gothic lolita che ben poco lasciava all’immaginazione. Per un attimo, fu geloso di lei. Voleva nasconderla agli occhi degli altri, la voleva tutta per sé. Voleva sporcarla col suo sangue e il suo sperma. Ma poi si rendeva conto che lei era troppo, era una magia continua, era un’esplosione di luce e oscurità che doveva continuare ad ardere sotto i cieli siberiani. Non potevano trattenere Eleanora Kazantseva, perché lei era il fuoco sacro di una dea dimenticata e Denis si sentiva ardere da quel fuoco. Gli prendeva lo stomaco, il basso ventre, il cervello, gli occhi.
In quel momento la guardava danzare, schiacciata in mezzo a corpi estranei, su quei tacchi alti e ne era completamente inebriato. Era una droga, lei, era ecstasy e mefedrone all’ennesima potenza.
Avvampò quando lei lo guardò e sorrise, con quei suoi occhi liquidi e quelle belle labbra atteggiate a un sorriso misterioso e sensuale. Istintivamente, le porse una mano, che lei prese. Era fredda, freddissima, stemperò il calore che gli si annidava sottopelle e lo fece arrossire disperatamente di desiderio. Voleva quella ragazza in modi in cui non aveva mai voluto nessuno. Esattamente come aveva desiderato Demian il momento esatto in cui aveva incontrato quegli occhi trasparenti. Desiderava essere dentro di lei, desiderava lui dentro di sé. Desiderava troppo, e non era un eroe, era solo un ragazzo.
-Den, usciamo.- sussurrò lei, soffiandogli nell’orecchio.
Lui annuì, vittima di un’urgenza mostruosa, e la trascinò in strada, fuori dalla gente, fuori dal caos, fuori da quelle mani luride che toccavano la sua dea. Era inebriato completamente da quella situazione fuori dal mondo, si sentiva vittima di demoni sconosciuti, demoni del sesso, dell’erotismo, della magia, della droga. Non erano i demoni dell’insicurezza, dell’ansia, dell’anoressia.
Capitombolarono per strada, al freddo, e Denis si sentì rinfrancato da quella ventata di gelo. La guardò e lei rise, portandosi una mano guantata davanti alla bocca. Rise anche lui, e poi si guardò impiacciato le punte delle scarpe.
-Mi stavo annoiando, effettivamente.- disse lei, aggiustandosi i lunghi ciuffi bianchi – Cosa ne dici, Denisoch’ka? Facciamo un giro?
-Andiamo sullo Enisej.- disse lui, e poi le porse il braccio – E’ romantico, la sera.
-Stai forse tentando di sedurmi?
-No, Elya, sto tentando di sedurre me stesso.
-Perché dovresti sedurre te stesso?
-Perché voglio cominciare ad amare un corpo che odio. Un carattere che aborrisco. Un ragazzo che detesto.
Lei rise, con quella risata pura e cristallina, e gli posò la testa sulla spalla.
-Sei speciale, ragazzo ucraino.
-Tu sei speciale, ragazza russa.
Poi le passò un braccio attorno alle spalle e lei si ritrovò a pensare a come lui, dall’alto delle sue insicurezze e del suo dolore rinchiuso in quegli occhi ambrati, fosse molto più sicuro di Demian nello stringerla. Le piaceva? Sì, da morire. Le piaceva perché per un attimo finse di essere sua, completamente sua. La sua ragazza. Sua moglie. La sua donna. Con Demian non ce la faceva, perché lui era sempre così lontano, così distante, aveva eretto un muro tra di loro che lei non riusciva a superare. Solo a letto sembrava dimenticare tutto, solo a letto si liberava, dando sfogo all’animale che era in lui. Solo a letto la faceva sentire amata, e per quanto lei avesse disperatamente bisogno di Demian per vivere (aveva bisogno dei suoi racconti, del suo accento europeo, della vita che gli scorreva sottopelle), adesso che aveva trovato Denis aveva deciso che gli si sarebbe aggrappata, che gli avrebbe strappato l’energia vitale di quella dolcezza tenera e impacciata che la faceva commuovere. Forse Denis l’avrebbe aiutata a piangere, un giorno. Le avrebbe massaggiato gli occhi fino a che le lacrime non sarebbero sgorgate da sole.
Gli avvolse un braccio attorno alla vita sottile e lo strinse. Si guardarono e si sorrisero, e per un attimo lei si chiese come sarebbe stato baciare le belle labbra da donna di Denis. Esattamente come lui si stava chiedendo come sarebbe stato baciare lei e gustare il suo rossetto.
Camminarono un pochino in silenzio, fino alle rive dello Enisej e si soffermarono a guardare le stelle di latta del cielo vellutato riflettersi nelle acque nere del fiume che lento scorreva verso sud, o verso nord, chissà. Sciolsero l’abbraccio e strinsero entrambi le mani sul parapetto, vicine, ma non abbastanza da toccarsi.
Lui la guardava di sottecchi, scrutando quei capelli tinti di bianco, quel vestito da lolita, quelle mani guantate strette attorno alla ringhiera, quel viso rivolto verso il cielo, come a voler arginare lacrime inesistenti e si sentì quasi male. Un calore fastidioso gli salì nel basso ventre quando lei si voltò verso di lui e gli si appoggiò, inondandogli le narici di rosa e vaniglia. Una voglia sessuale forte e conturbante lo stava divorando vivo, ma contemporaneamente ne era disperatamente nauseato. Lei era troppo falsa, troppo bella, troppo tutto per uno come lui. Lui, che voleva conoscere Demian, che voleva tastare la pelle del soldato, che voleva sentirsi raccontare del Donbass da uno che la guerra l’aveva vissuta davvero. Lui, che voleva legarla in un letto di rose e leccarla tutta, completamente, leccarla e vedere Demian che la possedeva. Lui, che desiderava un delirio di rose e sangue in cui lei veniva sacrificata al dio della Siberia. Lui, che era folle e quella follia ormai non riusciva più a contenerla dietro al vomito e alle pastiglie.
-Ti voglio … - mormorò, accarezzandole le spalle delicate.
Lei lo guardò e lui ebbe paura che se ne andasse. Non fece nulla di tutto ciò. Gli accarezzò il petto, con le lunghe unghie smaltate di nero, gli accarezzò il viso, la mascella squadrata, il naro schiacciato, gli scostò il ciuffo dagli occhi e a lui sembrava di ardere sotto al tocco mefitico della dea. Gli sfiorò le labbra con le dita e per un attimo lui le volle succhiare. Con l’altra mano, lentamente gli toccava il fianco ossuto, gli accarezzava la pelle lasciata nuda dalla maglietta e lui stava andando a fuoco, lui si stava sentendo male, lui stava morendo.
-Tu sei pazzo, Denis … - sussurrò lei, e la sua voce si perse nell’eco dei venti siberiani – Sei malato di mente … i tuoi demoni ti stanno divorando vivo …
-Ti voglio, Eleanora.- ripeté lui, con più forza, stringendole le spalle con tutta la forza che poteva – Ti voglio così tanto, per favore, per favore …
-Lasciami andare, Denis. Non sei fatto per trattenermi.- rispose lei, divincolandosi e cominciando a camminare rapidamente lontano da lui.
Denis rimase un attimo instupidito, come se l’avesse colpito una secchiata d’acqua gelida. Forse era proprio così, perché il calore di lei l’aveva abbandonato.
Con orrore, la vide allontanarsi e allora si mise a correre
-No, aspetta! Elya! Aspettami, perdonami! Elya!
Lei si immobilizzò e si voltò verso di lui, e fu lì che Denis vide il mostro che tante volte lei tentava di nascondere sotto trucchi e vestiti alla moda. Era bellissima, Eleanora. E lo era anche in quel momento, ma quel sorriso grondava sangue nero, quegli occhi si stavano liquefacendo. Quanto orrore vomitava quel corpo, quanto dolore scivolava via da quei capelli illuminati dalla luna. Dimmi chi sei, o tragica creatura degli inferi siberiani.
-Cosa ti ho detto, cosa ti ho fatto.- Denis la raggiunse e aveva il viso paonazzo di orrore – Scusami, Elya, non intendevo …
-Va bene.- Eleanora gli sorrise appena – Ma allora dimmi, tesoro, cosa ti angustia?
Immagini di te legata a un letto di rose, posseduta da un eroe del Donbass, fotografata da un cosacco anoressico.
-Sono malato, Elya.
-Posso guarirti?
-Nessuno può farlo.
-Allora lasciati andare, Den. Lasciati andare e lasciati cullare dalla tua follia.- Eleanora gli allacciò le braccia attorno al collo e gli nascose il viso nella spalla, posandogli appena le labbra sulla pelle.
-E come faccio a farlo?- Denis la strinse, cercando di trattenere i demoni che gli urlavano di sbatterla contro un muro e di baciarle via il sangue dalle labbra.
-Prova a iniziare così.- lei gli sorrise, misteriosa e stupenda, porgendogli una pillola. – Poi prendimi per mano e danziamo via la notte. Stringiti a me, cosacco. Fatti aiutare.
Denis prese la pastiglia, la guardò. Droga, probabilmente. Avrebbe potuto farlo. Avrebbe potuto prenderla e poi prendersi una notte di libertà con lei, farsi trascinare all’inferno, anche se lui ne era il signore. Avrebbe potuto farlo e forse sarebbe andato tutto bene, forse la sua era tutta suggestione, era tutto un incubo dettato dalla sua mente malata. Forse doveva affidarsi a lei, prendere la pastiglia, sballarsi, ballare, fingere di essere sano di mente.
Per tutta risposta, invece, cominciò a vomitare.

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Capitolo 4
*** Guns ***


CAPITOLO QUARTO: GUNS

We all carry these things inside that no one else can see.
They hold us down like anchors. They drown us out at sea.
I look up to the sky, there may be nothing there to see.
But if I don't believe in him, why would he believe in me?

[Bring Me The Horizon – Chelsea Smile]
 
Demian stringeva la pistola gelida in mano e la guardava affascinato, un sorriso stanco dipinto sul viso angoloso. Non avrebbe dovuto essere armato, lui, il soldato traumatizzato da una guerra che lo aveva lasciato distrutto dentro. Non avrebbe dovuto, ma quella pistola gli faceva compagnia da ormai tre anni. La sua migliore amica, quella che in un battito di ciglia avrebbe potuto farlo finire in un mondo migliore. Quella che lo avrebbe salvato dal dolore che covava dietro a occhi più chiari del cielo del meriggio.
Si passò una mano tra i capelli scuri, e si poggiò la pistola sulla tempia. Lo faceva ogni mese da quel giorno. Tentava la sorte, la sorte che aveva ammazzato loro ma che aveva lasciato in vita l’assassino, il bastardo, il mostro. Lui, Demian Nikolaevich Shaforostov. Deglutì rumorosamente – di nuovo, avrebbe visto la morte in faccia. Non la temeva più, però, era già morto infinite volte. Sorrise appena, al nulla e fece scattare la sicura della pistola, girando il caricatore. Era familiare ormai quel sordo rumore, esattamente come era familiare il click quando premette il grilletto. Per un secondo, rimase tutto sospeso nel tempo, in un limbo. Come tutti i mesi. Da tre anni a quella parte. Il click, il ricordo lancinante di quel giorno, la speranza folle di morire e poter finire in cielo ad abbracciare le sue vittime.
E poi, come tutti i mesi da tre anni a quella parte, spalancava gli occhi e si ritrovava sempre nel suo appartamento cadente.
Soffocò una bestemmia, e si alzò barcollando, la pistola ancora saldamente stretta in mano e un forte senso di nausea e vertigine. Di nuovo, loro non c’erano e lui c’era. Lui, che non meritava niente, lui, che era un demonio, lui, che stava impazzendo per il senso di colpa che lo schiacciava a terra e lo voleva morto.
Si mise su il caffè e gettò la pistola sul letto, guardandola con desiderio. Non ci voleva niente, per farsi fuori. Avrebbe benissimo potuto farlo in qualunque momento ma c’era ancora qualcosa che lo teneva ancorato alla vita, il Raskol’nikov che era in lui e che anelava alla sofferenza, la disperazione che aveva superato il punto di non ritorno. Doveva vivere e soffrire per quello che aveva fatto.
-Scusate.- sussurrò, mentre il caffè veniva su e lui se ne versava una tazza – Ma non l’ho fatto apposta. Erano gli ordini, capitemi.
Lo diceva ogni volta, nel blando tentativo di convincersi che in fondo non avrebbe potuto fare altro, era destinato a quell’omicidio ma più cercava di convincersi più sprofondava nell’orrore e nella depressione che lo divoravano da anni.
Perché tu hai ammazzato dei bambini, soldato Shaforostov, e per questo tuo crimine non c’è redenzione.
Sentì un forte conato di vomito scuoterlo e si lasciò cadere sul pavimento ansimando. Non voleva ricordare quel giorno. Non voleva pensare al momento in cui aveva ricevuto l’ordine schiacciante “spara”. Lui non avrebbe voluto farlo. Li aveva visti, quei bambini. Gli ricordavano lui da piccolo, quando scorrazzava per le strade della sua Donetsk, quando non avrebbe mai pensato di diventare un reietto, di trasferirsi in Siberia per fuggire dai demoni. Eppure, li aveva uccisi. Aveva sparato ed erano morti dei bambini innocenti. Non si sarebbe mai perdonato per una cosa del genere. Si svegliava ancora la notte urlando, perseguitato da quell’immagine, dai fantasmi di quei piccoletti morti invano in una guerra inutile. Stava impazzendo, Demian, e lo sapeva, ma non era in grado di fermare la discesa della sua follia. Aveva fatto troppo per poter essere perdonato. Aveva compiuto il più disgustoso dei crimini. Aveva ucciso dei bambini.
Si alzò dal pavimento tremando, aveva freddo, un freddo terribile. Si drappeggiò una coperta sulle spalle e bevve il caffè, fissando con astio fuori dalla finestra la neve che cominciava a cadere lentamente, bellissima. Chissà che rapporto avevano avuto quei bambini con la neve. A lui piaceva moltissimo, perché gli ricordava di quando era bambino, un allegro e spensierato bambino del Donbass. Quello stesso Donbass per il quale si era ritrovato a combattere. E poi la Cecenia, e l’Afghanistan. Le sue guerre, le sue battaglie prima di venire congedato per inabilità al servizio. Prima di impazzire del tutto e di ritrovarsi a combattere contro fantasmi che non l’avrebbero mai perdonato.
Appoggiò la fronte al vetro della finestra e mormorò una preghiera rivolta a un dio che troppo spesso lo aveva abbandonato. Voleva scappare via di nuovo. Lasciare anche Krasnojarsk. Magari andare in America, anche se il suo inglese non era dei migliori. O forse tornare in Europa. Magari a Berlino. Magari a Dublino. Bastava lasciarsi alle spalle i mostri notturni.
Sentì la porta aprirsi lentamente e si voltò solo per vedere Eleanora entrare, avvolta in una pesante pelliccia di astrakan, infreddolita e meravigliosa.
-Ciao, tesoro.- disse lei, sorridendogli e cominciando a togliersi scarpe e cappotto.
-Hey dolcezza.
Posò la tazza di caffè sul tavolo e la raggiunse, tirandole affettuosamente una ciocca di capelli sfuggita all’acconciatura.
-Non dovevi essere fuori col ragazzo ucraino?
-E’ matto, Dyoma. Ma lo adoro.- rispose pacificamente lei, alzandosi sulle punte dei piedi e baciandolo. Aveva le labbra freddissime. – Tu che fai?
-Pensavo alla guerra.
Lei annuì, chinando appena il capo e indicò col dito la pistola abbandonata sul letto.
-Perché hai una pistola?
-E’ la mia migliore amica.
-Presentamela allora.
Lei si mosse ancheggiando verso l’arma e la prese in mano, soppesandola. Gli occhi violetti brillavano di una luce sbagliata, desiderosa di conoscenza mentre toccava il metallo gelido. Lui gliela strappò di mano, con un’urgenza che gli era nuova. Non poteva nemmeno processare il fatto che lei toccasse la pistola che tutti i mesi rischiava di prendersi la sua vita.
-Non toccarla.
-Perché no, Dyoma?
-Ti sparo, Eleanora.
Le puntò la pistola alla fronte e per un attimo il sangue gli rombò nelle vene, per un attimo non sentì altro che sapore della polvere in bocca e il rumore delle bombe in sottofondo. Era come tornare di nuovo in guerra. Era come essere di nuovo nel Donbass, in Cecenia, in Afghanistan. Stava puntando un’arma alla fronte della sua donna, ma in quel momento non stava ragionando lucidamente. C’erano solamente lui e i mostri che lei riportava alla luce con la sua bellezza sbagliata.
-Spara, tesoro.- lei sorrise e si lasciò cadere sul letto, con quel suo sorriso morto sulla bocca sporca di rossetto color sangue. – Spara, Demian.
Lui le fu sopra, la schiacciava sul materasso col suo peso e le teneva sempre la pistola puntata contro la fronte. Poteva sparare. Poteva farlo. Aveva già ucciso troppe persone per sconvolgersi di fronte all’ennesima morte. Aveva già visto troppi orrori per pensare di poter continuare a vivere normalmente e quindi stava lì e sudava freddo e gli tremavano le mani e vedeva solamente un mostro e non la bella Elya e …
-Non ce la faccio.
Si tolse da lei come se ne fosse stato scottato, fece scattare la sicura alla pistola e la chiuse in un cassetto, gli occhi allucinati, la schiena madida di sudore.
Lei lo guardava dal letto, languida, mentre cominciava a togliersi il vestito da lolita.
-Non fartene una colpa, tesoro.
Non c’era disprezzo né compassione nella sua voce. C’era solo un infinito stupore verso cose che lei, la ballerina, non avrebbe mai potuto comprendere.
-Vuoi che ti uccida, Elya?
-Voglio che combatti i tuoi demoni, Dyoma.
-Non ce la faccio.
-Ce la farai. Te lo prometto.
Lei si alzò e gli posò le mani sulle spalle, posandogli un bacio delicato sulle labbra.
-Amami, adesso.
E lasciò il suo corpo bianco alla mercé del soldato che voleva solamente scappare da sé stesso.

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Capitolo 5
*** Don't leave me struggling ***


CAPITOLO CINQUE: DON’T LEAVE ME STRUGGLING

I've been stranded in an ocean
Treading water but it's hopeless, hopeless
It's a long way, it's a long way down
Why am I always on the brink of
Losing it all, am I just wasting my time?

[Sleeping With Sirens – How It Feels To Be Lost]
 
Yurij si passò una mano tra i capelli scuri, portati appena sopra le spalle e si aggiustò la fascia per tenerli lontani dal viso. Aveva appena finito di sistemare gli ultimi scaffali nella casa nuova e in quel momento non vedeva l’ora di mettersi a letto. A dormire. Ad aspettare che il Valium facesse effetto.
Però c’era qualcosa che lo disturbava, e quel qualcosa era la musica metalcore sparata a tutto volume nella casa affianco. In quei grossi palazzi popolari di periferia i muri erano sottili e sentivi, sfortunatamente, tutto quello che succedeva negli altri appartamenti. E quella musica rumorosa e urlata gli stava facendo venire un forte mal di testa. Doveva dormire e imbottirsi di Valium. Oppure poteva andare a chiedere gentilmente ai vicini di abbassare il volume di quella stramaledetta musica.
Si passò una mano sul viso magro e uscì di casa, andando dalla porta dirimpetto, dove la musica si faceva sempre più forte. Suonò, anche se dubitò che qualcuno lo potesse sentire.
Era stanco, Yurij. Molto stanco di tutto quello che andava avanti nella sua testa. Stanco del libro che non riusciva a scrivere e che era in scadenza, stanco di imbottirsi di psicofarmaci per tenere a bada gli incubi, stanco di combattere da solo una guerra che, lo sapeva, era persa in partenza. Se fosse stato per lui, avrebbe dormito tutta la sua vita, scappando nei sogni dai mostri che gli perseguitavano le notti. Ma non poteva. Aveva trentatre anni e una vita da condurre, dei demoni da combattere, un libro da scrivere e … e niente. Non aveva più ideali per i quali combattere, non aveva più nulla che non fossero ricette per il Valium, una depressione inguaribile e un passato dal quale stava continuando a fuggire da tutta una vita. Da giovane le aveva provate tutte: il buttarsi a militare in gruppi anarchici, la droga per dimenticare, la musica per affermarsi, ma niente era riuscito a cavarlo fuori dall’incubo che viveva giornalmente. Così si era ritrovato a scrivere gialli oscuri che non piacevano al grande pubblico, cercando di convivere con i suoi mostri e le sue paure ataviche. Non viveva bene, Yurij Ivanovich Seriabkij. No, viveva un teatro dell’orrore ma non era ancora morto, ed era quello che importava. Era ancora vivo. Ancora in piedi. Alla faccia di tutto e tutti.
Suonò ancora, e finalmente la porta si aprì, di scatto. C’era un ragazzo, di fronte a lui. Yurij si rese conto immediatamente che non stava bene. Non ci voleva molto a vedere quei grandi occhi scuri completamente allucinati.
-Sì?- balbettò il ragazzo. – Hai bisogno di qualcosa?
-No, grazie, volevo solamente chiederti se potevi abbassare la musica.- Yurij tentò di sorridere. – Io … ho un po’ di difficoltà a dormire.
In quel momento, con davanti quel ventenne ossuto e spettinato, non gli diceva il cuore di dirgli di fargli togliere la sua musica metalcore.
-Oh. Oh sì, scusami.- il ragazzo si passò una mano tra i capelli arruffati. – La abbasso.
Rimasero qualche secondo in silenzio a guardarsi negli occhi. Yurij si chiese se avesse assunto droghe, con quegli occhi così persi, o se fosse semplicemente fuori di testa. Puzzava, però, puzzava di vomito e sudore da fare schifo.
-Ragazzino, ti senti bene?- gli chiese, afferrandolo istintivamente per il braccio quando lo vide barcollare.
Il ragazzo spalancò ancora di più gli occhi, scuotendo nervosamente la testa.
-Io … io … la mamma non c’è … e io … ho vomitato … di nuovo …
-Senti, posso entrare? Vuoi che chiamo tua madre? Ti senti male?
Yurij entrò nell’appartamento, sorreggendo il giovane quando lo vide perdere l’equilibrio. Stargli vicino era terribile, puzzava in modo osceno, come se si fosse vomitato addosso. Grondava sudore, probabilmente aveva la febbre e l’uomo non sapeva bene cosa fare. Avrebbe potuto fregarsene, certo, aspettare che abbassasse la musica e tornarsene a dormire, ma qualcosa dentro di lui gli stava imponendo di soccorrere il suo vicino di casa. Forse erano quegli occhi così ambrati e così straordinariamente matti. Forse era quell’accento, ucraino, probabilmente. Forse era tutto l’insieme.
-Io … non lo so … lei … se n’è andata … io …
Yurij fece sedere il ragazzo sul divano e gli si inginocchiò davanti. Era bello, nonostante il viso febbricitante. Bello di una bellezza rovinata, sbagliata, ferita da anni di combattimenti. Per un attimo, l’uomo si chiese quali mostri lottassero per divorare quel giovane ucraino bello come un angelo.
-Stai tranquillo. Va tutto bene.- gli prese una mano tra la sua e gli sorrise, più rassicurante che poteva – Dov’è tua mamma?
-E’ via … io sono solo …
-No, non sei solo. Ci sono io.- gli mise una mano sulla fronte e constatò che scottava – Hai la febbre, ragazzo. Adesso andiamo in cucina, beviamo un bicchiere d’acqua e prendiamo qualcosa per abbassare la temperatura. Poi ci mettiamo a letto, okay?
Il ragazzo annuì, e Yurij si rese conto che stava piangendo. Si chiese cosa gli fosse successo per averlo ridotto così, sudato, febbricitante, puzzolente e piangente.
-Come ti chiami?
-Yurij, ma chiamami Yura. Tu?
-Denis. Ma tutti mi chiamano Den.
-E’ un piacere, Den. Vieni, andiamo di là.
Lo fece alzare lentamente e si fece guidare nella piccola cucina, dove riempì un bicchiere d’acqua. Denis era caduto seduto su una sedia, scosso dai singhiozzi.
-Dove tenete le medicine?
-In … bagno … terzo … scaffale.
Yurij individuò il bagno, andò dal terzo scaffale e cercò del paracetamolo. Fu fortunato, perché lo trovo e lo fece assumere al ragazzo. Sospirò, guardandolo bere la sua acqua tremando. Forse, così in boxer e maglietta aveva freddo.
-Hai freddo?- chiese infatti.
-Sì.
-Magari adesso ti porto in camera tua, a dormire un po’.
Denis annuì timidamente e si alzò, appoggiandosi immediatamente a Yurij. L’uomo gli sorrise, con tutta la dolcezza possibile, e lo portò in camera. Una stanza da ragazzo, con i poster di band metal alle pareti e una grossa quantit di dischi e libri sparpagliati in giro.
-Scusa se te lo chiedo ma … hai assunto droghe?
-No.
-Hai vomitato?
-Vomito sempre.
Yurij alzò un sopracciglio. Una bellezza anoressica, forse.  Lo fece stendere a letto e gli rimboccò le coperte, pensando se forse non sarebbe stato meglio farlo lavare. La puzza era insostenibile. Ma ci avrebbe pensato la mattina dopo. In quel momento lo mise a posto e gli scostò i capelli dalla fronte grigiastra.
-Prova a riposare un po’, Denis. Io sono nella casa affianco, se avessi bisogno …
-Resta a dormire con me.
-Come, scusa?
Denis aveva aperto gli occhioni scuri e gli aveva preso una mano, stringendola tra la sua. Aveva l’aria più miserevole del mondo, tutto pallido e dolente e Yurij si ritrovò a pensare che sembrasse un bambino piccolo. Qualcosa di tenero, di dolce, qualcosa che andava protetto dalle brutture del mondo. Non che Yurij si reputasse così eroico da assumersi il ruolo di strenuo difensore del ragazzo, ma in quel momento sapeva che avrebbe fatto qualunque cosa per lui.
-Sì. Sul divano. Ti prego, ho paura a rimanere da solo. Ho tanta paura.
Denis sembrava sinceramente terrorizzato mentre gli teneva la mano e Yurij si ritrovò a riconoscere quella paura, quel volere avere qualcuno affianco, quel desiderare di poter stare insieme a una persona che infonda sicurezza. Tentennò un attimo, trovandosi ad accarezzargli i capelli castani, ma poi annuì
-Va bene. Vado sul divano. Se hai bisogno tira un urlo.- si alzò e gli sistemò ancora nervosamente le coperte. – E’ successo qualcosa di grave?
-Sì … - pigolò Denis, ma nel mentre che parlava si era già addormentato.
Yurij sorrise appena e spense la luce, ritirandosi sul divano. Si chiese cosa stesse succedendo. Doveva solamente chiedere di abbassare la musica e si era ritrovato a fare da infermiere a un ragazzino ucraino che puzzava di vomito e sudore. Si aggiustò la fascia che ancora portava in fronte e si sistemò alla bell’e meglio sul divano, ricordandosi quando era bambino e i suoi genitori litigavano come cani in cucina, e lui se ne stava davanti alla tv in salotto, cercando di concentrarsi sui cartoni animati. Strinse le ginocchia al petto, e sentì il lieve russare sordo di Denis nella camera affianco. Anche se non lo conosceva, sperò che stesse bene. Sperò che quella bellezza anoressica tornasse a splendere. Magari a quel punto avrebbe anche potuto uscire e tornarsene a casa propria, ma sapeva che la mattina Denis avrebbe voluto vederlo lì e non aveva cuore di tradire la fiducia di quel giovane con gli occhi allucinati. Sarebbe rimasto lì al suo fianco finché non si fosse ripreso.
Perché lo stai facendo, Yura?, si disse. Hai già troppi problemi per conto tuo.
Già, perché lo stava facendo? Forse perché Denis gli ricordava lui da ragazzo. Forse perché sapeva cosa voleva dire la sofferenza, il vomito, l’essere lasciati soli a combattere in solitudine le proprie battaglie. Forse perché era una bellezza anoressica.
Chiuse gli occhi e sorrise appena. Poi, forse complice la stanchezza, forse l’effetto del Valium, si addormentò.

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Capitolo 6
*** See you again ***


CAPITOLO SESTO: SEE YOU AGAIN

The promises we made were not enough
The prayers that we had prayed were like a drug
The secrets that we sold were never known
The love we had, the love we had, we had to let it go.

[30 Seconds To Mars – Hurricane]
 
I due uomini erano palesemente in imbarazzo in quel momento, seduti nella piccola cucina, con davanti due tazze di the e un pacco di biscotti intoccati davanti.
-Senti … - iniziò Denis, grattandosi la testa. – Ti ringrazio per quello che hai fatto per me ieri notte … non … ti sarò sembrato un caso umano.
-Non ti preoccupare.- Yurij sorrise appena – Non potevo lasciarti in quelle condizioni. Adesso come ti senti?
-Molto meglio.- anche Denis sorrise. Si era fatto una lunga doccia quella mattina e adesso a Yurij sembrò ancora più bello di quanto non gli fosse già sembrato durante quella notte da incubo – Vuoi … vuoi qualcos’altro per colazione?
-No, caro, grazie. Va bene il the.
Era strana tutta quella situazione ai limiti del paradosso, ma Yurij, assurdamente, si sentiva al suo posto. Forse perché era una situazione completamente fuori dalle righe, come lo era lui, d’altronde. Si passò una mano tra i capelli, e si tolse la fascia, dandosi una rapida pettinata con le dita.
-Adesso magari tolgo il disturbo. Se avessi ancora bisogno di me, chiamami.
-Non so davvero come ringraziarti.- Denis arrossì e Yurij lo trovò carino da matti. – Io … non sono sempre così. È solo che ieri sera … non so cosa mi sia preso … io …
-Tranquillo, Denis. Non ti devi giustificare. Succede a tutti.
Yurij si alzò e fece per avviarsi verso la porta che notò un tatuaggio spuntare dall’orlo dei pantaloni del ragazzo. Aguzzò lo sguardo, e gli parve di riconoscere quel modo di scrivere le A, un po’ storto, un po’ ondeggiante. Rimase un secondo di stucco e si affrettò a chiedere.
-Scusa la domanda, ma … chi ti ha fatto quel tatuaggio?
-Quale? Questo con le due A?- Denis si tirò su la maglietta e giù l’orlo dei pantaloni, guardandolo con un sorriso – The Dark. È un bottega di tatuaggi non lontano da qui.
-E sai il nome del tatuatore?
-Demian. È ucraino, del Donbass.
Yurij spalancò gli occhi e sentì il respiro soffocarlo. Demian. Non ci poteva credere. Non poteva semplicemente realizzare il fatto di poter essere a un passo dal rivederlo. Poteva essere una coincidenza, certo. Ma poteva anche non esserlo. Poteva essere che lo avrebbe rivisto e quello, quello era troppo.
-Mi … mi porteresti da lui? Penso di conoscerlo.- sussurrò.
-Certo.- Denis sembrava un poco attonito, ma non si scompose più di tanto. – Vado a mettermi le scarpe.
 
Yurij lo guardava. Demian lo guardava. Denis li osservava dall’angolo. E fu un attimo prima che Yurij sentisse tutte le vecchie sensazioni travolgerlo come un fiume in piena, lasciandolo sconvolto e soffocato. Prima che tutti i ricordi, le liti, le incomprensioni, l’amore, le avventure, le memorie lo afferrassero per la gola alla vista di un uomo che un tempo aveva amato di un amore folle.
-Yura?
Ed eccola la voce di Demian, bassa, sensuale, appesantita dall’accento ucraino. Eccola la voce che gli aveva detto “ti amo”, che lo aveva chiamato per ore, che gli aveva accarezzato l’udito.
-Dyoma.
Poi Demian lo abbracciò e Yurij rimase immobile, non sapendo bene cosa fare, soffocato dalla stretta spezzaossa dell’altro uomo, sentendo il suo odore, che non era cambiato, sentendo il suo cuore battere impazzito. Gli toccò la schiena, come se non ci credesse veramente che fosse lì con lui, e sentì il suo respiro pesante nel collo.
-Dyoma, quanto tempo.- mormorò, sfiorandogli i capelli. Li aveva più lunghi di prima, adesso quasi gli superavano le spalle.
Demian si staccò da lui quanto bastava per guardarlo negli occhi, e Yurij sospirò, rivedendo quelle iridi così dannatamente chiare. Aveva gli occhi feriti da demoni senza nome, forse i demoni della guerra, forse l’inferno che aveva sempre covato sottopelle. Ma erano così belli, e Yurij si sentì così a casa a guardarli, a perdervicisi dentro, a sognare di quando quegli occhi bruciavano d’amore per lui, di quando luccicavano sotto i cieli ucraini e riflettevano il Mar Nero.
-Dove sei stato tutto questo tempo?- sussurrò Demian, e gli accarezzò il viso magro con le mani callose.
-A cercare me stesso.- Yurij abbassò lo sguardo, e accarezzò di nuovo i capelli del suo vecchio amante. – E tu?
-A scappare da me stesso.- Demian sorrise, e in quel sorriso c’era tanto dolore. – Quante cose mi devi raccontare, Yuroch’ka.
-La mia vita è noiosa come quando ci siamo lasciati.- Yurij sospirò, e gli guardò le dita. Soffocò quasi quando vide che portava ancora l’anello che gli aveva regalato – Lo porti ancora.
-Non avrei mai voluto lasciarti andare.- anche Demian gli toccò i capelli – Ti ricordi quando ti intrecciavo i capelli di fiori?
Yurij sorrise dolcemente e annuì, le narici di nuovo piene del profumo dei fiori che aveva in testa, prima che Demian partisse per la guerra e lui tornasse in Russia a perdersi. Quando era andato in Ucraina a studiare non avrebbe mai pensato di poter incontrare una persona come Demian, che, almeno per quell’anno, gli aveva ridato voglia di vivere. Gli aveva riempito le giornate con la sua irruenza e i suoi occhi pallidi. Quanti anni erano però passati da quei felici giorni ucraini, quanto dolore era seguito a quell’effimera felicità, quanto male aveva ferito le loro pelli stanche.
-E ti ricordi quei dolci al miele?
-Ne avevamo fatto indigestione.
-E quelle giornate al mare?
-A raccogliere conchiglie con le quali farci collane.
-Eri un’artista.
-Tu eri la mia musa.
Si sorrisero teneramente i due uomini, ormai dimentichi di Denis che li fissava con desiderio, perché anche lui avrebbe tanto voluto avere qualcuno che lo guardasse con quell’amore mai sopito. Nell’antro buio del negozio si tenevano le mani, abbeverandosi dei rispettivi volti, forse sperando di poter evocare giorni passati.
-Dimmi, Dyoma, hai una famiglia adesso?
Si erano seduti sul bancone, ma non si erano lasciati andare le mani.
-No. Ho una ragazza, ma non stiamo effettivamente insieme. Lei è troppo persa, io sono troppo andato. Tu?
-Neanche io.
A volte Yurij si chiedeva perché avessero dovuto rompere quando lui era tornato in Russia. Perché non fossero scappati insieme a Berlino. Perché non si fossero sposati e non fossero fuggiti per sempre dalle terre dell’est per rifarsi una vita insieme. Avevano lasciato che la distanza spezzasse quel legame che si era instaurato tra loro, quando l’unica cosa che avrebbero dovuto fare sarebbe stata rimanere abbracciati nella tempesta.
-Perché c’eravamo lasciati?
-Non lo so, Yura. So solo che è stato un errore madornale ma non si deve piangere sul latte versato. Sei cambiato, in questi anni?
-Vorrei poterti dire di sì, ma non credo. Dyoma, ma la guerra?
-Non voglio parlarne.
-Dyoma …
-E’ finita, Yuroch’ka.
Demian gli poggiò la testa sulla spalla aguzza e Yurij trattenne il fiato. Lo faceva sempre, quando sedevano sulle rocce della Crimea, o quando si imboscavano in qualche cinema di Kiev senza pagare il biglietto e ogni volta Demian si addormentava, così Yurij gli passava un braccio attorno alle spalle e gli baciava i capelli, guardandolo dormire profondamente. Si svegliava sempre con i titoli di coda.
-Mi sei mancato, Yura.
-Anche a me sei mancato.
A Yurij, Demian era mancato disperatamente, così come gli era mancata l’Ucraina. Aveva nostalgia dei dolcetti al miele di cui si ingozzavano al pomeriggio, imboccandosi a vicenda, delle corse in moto sotto le stelle, con le braccia strette attorno alla sua vita e il vento che scompigliava loro i capelli. Aveva nostalgia della musica rock via radio e di loro che cantavano a squarciagola le canzoni dei Goo Goo Dolls sulla spiaggia, del sesso passionale nelle loro camerette in quelle case per studenti, dei baci appiccicosi di miele, dei cinema nei quali si infiltravano clandestinamente, della vacanza in Crimea, nelle corone di fiori e di conchiglie, dei libri da leggere insieme alle tre del mattino, con Demian che si addormentava sempre quando si leggeva Guerra e Pace, delle lacrime consolate e delle risate urlate al cielo. Aveva nostalgia di tutto quello che erano stati lui e Demian durante quell’anno passato a Kiev insieme.
-Non posso crederci di averti rivisto.- commentò Yurij, portandosi la sua mano alle labbra e baciandola appena.
Demian si limitò a sorridere e a passargli un braccio attorno alla vita, chiudendo gli occhi, come se fossero di nuovo in Ucraina, nel grosso parco dove andavano a passeggiare la mattina.
-Non voglio perderti di nuovo, Yura.
-Nemmeno io.
-Allora stringimi ancora, per favore.
Yurij lo abbracciò e lo strinse con forza, soffiandogli un bacio tra i capelli, come se per un attimo si fossero teletrasportati su quelle spiagge della Crimea e guardassero gli assolati tramonti europei. Adesso che lo aveva ritrovato non l’avrebbe lasciato andare. Gli si sarebbe di nuovo attaccato e non avrebbe permesso che nulla si frapponesse tra lui e l’uomo che un tempo aveva amato di un amore puro e cristallino. Non adesso, che aveva disperatamente bisogno di una certezza per tornare a vivere.
 
 

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Capitolo 7
*** High Expectations ***


CAPITOLO SETTIMO: HIGH EXPECTATIONS

Don't you try to hide with those angel eyes
(If you let me inside, I wont hold back this time)
Such a deep disguise, the devil's right inside
(More than paralyzed, oh its the chase you like)

[New Years Day ft. Chris Motionless – Angel Eyes

 

-Avrò un solo di ballo all'Opera di Krasnojarsk.

Eleanora guardò Denis e lui la fissò con occhi stralunati.

-Mi sembra stupendo.- le rispose, accendendosi una sigaretta.

-Lo è.- lei accavallò le lunghe gambe e gli prese delicatamente una mano.

Erano a casa di lui, in salotto, con la finestra aperta nonostante il freddo, una canzone ucraina nelle casse, e due tazze di the davanti, insieme a un pacco di biscotti. Fuori nevicava e qualche fiocco cadeva anche dentro la stanza, ma ai due non sembrava importare. Se ne stavano lì, le ginocchia che si sfioravano, a fumare e a guardare il nulla. Lo stesso nulla che animava i loro occhi malati.

-Vorrei che tu venissi a vedermi.- continuò Eleanora, passandosi una mano tra i capelli bianchi. Lo guardò, con quelle gemme viola che aveva al posto degli occhi. - Tu e Demian.

Denis deglutì rumorosamente ma annuì, bevendo un sorso di the per nascondere il rossore. Immagini straordinariamente erotiche di quel triangolo malato che si era andato a formare gli danzarono davanti agli occhi. Immaginava a stento la bellezza che avrebbe emanato Eleanora danzando all'Opera. E lui e Demian, sporchi ucraini di periferia, cosa avrebbero fatto? Si sarebbero abbeverati del suo sapore perverso? Avrebbero danzato anche loro con lei?

-Vengo volentieri.- esalò, quando lei gli poggiò la testa sulla spalla e le sue narici si riempirono del suo profumo conturbante. - Cosa ballerai?

-Petrouska.

Eleanora sorrise appena e gli posò la mano curata sul ginocchio ossuto. Una strana pienezza la stava rinvigorendo da quando l'avevano scritturata per quel solo di ballo. Lei e i suoi demoni avrebbero riportato in vita la marionetta che tanto la dannava, lei, il Re dei Topi, avrebbe sparso il suo mortifero incantesimo sulla sala e se ne sarebbe andata in mezzo a rose e a sangue fresco. Avrebbe ballato fino a cadere morta per terra e avrebbe lasciato che Denis e Demian raccogliessero il suo cadavere e lo bruciassero come incenso mentre erano impegnati in un amplesso perverso. Le sarebbe piaciuto vedere Denis vestito da donna.

-Mi piacerebbe che ti vestissi da donna per me.- gli disse infatti.

-Perché?

-Perché sei stupendo.- gli accarezzò il viso angoloso con un'unghia lunga e perfettamente smaltata di nero.

Denis non rispose, ma dentro di sé sapeva che se lei, o Demian, o addirittura Yurij glielo avessero chiesto, non avrebbe aspettato un secondo a fasciarsi in abiti femminili.

-A me piacerebbe fotografarti nuda.- disse invece Denis, voltandosi verso di lei e fissandola nel profondo degli occhi.

Eleanora ridacchiò e strinse le ginocchia al petto, guardandolo con aria maliziosa.

-Perché no. Fallo. Vuoi che mi spoglio?

-C'è la mamma di là.

-E' più divertente.

-No, mi vergogno.

Eleanora sorrise ancora e fece per togliersi la maglietta ma Denis la fermò.

-No, ti ho detto. Non con la mamma di là. Andiamo a casa di Demian e facciamolo lì.

-Facciamo così. Io ti lascio fotografare quello che vuoi, ma poi tu assisterai a un amplesso mio e di Demian. Ci guarderai e ci fotograferai.

Lei aveva un sorriso malandrino e malizioso e Denis sentì il sangue andargli al cervello. Avrebbe potuto farlo davvero? Avrebbe davvero potuto fotografare i suoi due diavoli impegnati in una relazione malata e sporca? E di quelle foto cosa avrebbe fatto? Le avrebbe messe in un album insieme a fiori secchi.

-Okay. Okay, facciamolo.- balbettò e lei lo abbracciò di slancio.

-Così mi piaci, Denisoch’ka.

Lui sospirava pesantemente, e annusava il profumo di lei, cercando di figurarsela a ballare all'Opera. Sarebbe stato un giorno traumatizzante per la sua povera mente stuprata dai demoni e dalle sue ossessioni. Ma sapeva che avrebbe potuto fotografarla nuda. E avrebbe avuto lo spettacolo di Demian. E poi c'era Yurij, con i suoi occhi grigi e la sua gentilezza un po' melancolica.

-Ora io devo andare a fare le prove. Tu vai da Demian e diglielo.- concluse lei, alzandosi.

Lui annuì freneticamente e si baciarono tre volte sulle guance, prima che lei uscisse, in una sventagliata di pelliccia di astrakan e di profumo alla vaniglia. Denis rimase a lungo a fissare la porta dalla quale lei era uscita.

Ma ora, lo aspettava Demian.

 

Demian, che in quel momento gemeva ad alta voce ed accarezzava la schiena tatuata di Yurij, le gambe avvolte attorno al suo bacino e la testa rovesciata sul cuscino. Stava risentendo addosso tutte quelle sensazioni che pensava fossero state cancellate dalla guerra, ma no, no, erano ancora lì, era tornato tutto il piacere di avere Yurij tutto per sé. Qualcosa che nemmeno Eleanora poteva dargli, una felicità più appagante, più piena, che lo riempiva nelle profondità recondite dell'animo. Era di Yurij e Yurij era suo, come ai tempi dell'Ucraina, quando erano ragazzi giovani e spensierati. L'uomo era sprofondato dentro di lui e spingeva delicatamente, come se volesse di nuovo scoprire quel corpo amico, come se fosse terrorizzato dal fargli male e dal farlo scomparire. Gli baciava il collo, e si ricordava perfettamente dove leccare e mordere, lo stringeva in quel modo, lo faceva stare bene.

-Yura … Yura … - ansò appena Demian, perchè lui voleva di più, aveva sempre voluto di più.

Yurij ansimò, gli baciò le labbra piene, aumentò le spinte e pensò che sentire Demian gemere di piacere fosse il suono più bello di tutti. Lo aveva desiderato per anni, cercandolo in tutti i suoi amanti, senza mai trovare qualcosa di meraviglioso come il soldato del Donbass.

-Io … Dyoma … Dyoma, ti amo … - gemette, e Demian sorrise, baciandolo e graffiandogli la schiena. Sorrise, con quel suo meraviglioso sorriso ucraino, luminoso e spezzato dagli incubi della guerra.

Vennero, prima Demian e poi Yurij, stretti uno all'altro come se non si dovessero più lasciare andare. Avvinghiati, di nuovo aggrappati a quell'amore che li aveva tenuti in vita anni e anni addietro, si rotolarono su quel letto sfatto e sporco, baciandosi ancora.

-Yuroch'ka, perché te ne sei andato?- mormorò Demian, accarezzandogli il petto nudo.

-Adesso sono tornato, Dyoma. Pensiamo al presente.- ribatté Yurij, baciandogli la fronte e stringendogli un braccio attorno alle spalle. - Ma non mi hai detto di avere una ragazza?

-Ho te, Yura. Mi basta questo.- Demian si alzò, nudo, tatuato, sottile e bellissimo. Si muoveva con la grazia di una pantera, silenzioso e letale, e Yurij avrebbe voluto bere per anni di quel corpo perfetto. - Vado a fare il the. Te ne porto una tazza.

-Arrivo anch'io, amore.

-Adoro quando mi chiami “amore”.

-Io adoro quando mi chiami “signore”.

-Ai suoi ordini, signore.

Risero entrambi come non avevano riso da anni e si abbracciarono, caracollando in cucina ancora stretti l'uno all'altro, sbaciucchiandosi e mettendosi le mani tra i capelli. E Demian era felice, di una felicità nuova che non provava da tempo, felice di aver ritrovato l'uomo che lo aveva salvato, per quell'anno passato a Kiev. E Yurij era felice, perché il suo cuore di pietra aveva ripreso a battere, e sentiva che era tempo per lui di rivoluzionare la sua esistenza con l'uomo che amava. Ed erano felici, anche se di una felicità forse effimera, forse spenta, forse semplicemente vuota ma abbastanza forte per tenerli in vita e per avere dipinto sorrisi sinceri sui loro visi scavati dalle sofferenze psicologiche.

-Ti amo, Dyoma.

-Anche io Yura, non ho mai smesso.

Un bacio. Una carezza. Una risata spezzata. E il campanello che rovinò quel dolce momento di affetto.

Demian sbuffò, si drappeggiò addosso una vestaglia e andò ad aprire. Si trovò davanti Denis.

-Oh, Denis. Ciao. C'è qualche problema?

-Io … aehm … mi manda Elya. Ti … ti disturbo?

-Affatto. Accomodati.

Demian si fece da parte e Denis entrò. Guardò l'ex militare, con quella vestaglia malamente sistemata addosso e si sentì andare in fiamme. Perché a lui, dannazione, a lui piaceva Demian, sin dal primo momento in cui lo aveva visto nel negozio. Gli piacevano i suoi occhi così maledettamente chiari, i suoi capelli lunghi, la sua espresione arrogante ma contemporaneamente spezzata. E quel sorriso che in quel momento aveva dipinto sul viso.

-Cosa vuole Elya?- Demian lo fece sedere sul divano e si sedette accanto a lui.

Le narici di Denis vennero invase dal suo odore, di fumo, colonia, fumo e … sesso.

-Vuole invitarci all'Opera. Farà un solo di ballo.

-Carino. Sarà molto interessante.

Una strana luce luccicò negli occhi dell' uomo.

-Chi è Elya? La tua ragazza, Dyoma?

Denis rischiò di soffocare quando vide entrare Yurij, completamente nudo, anche lui tatuato, bello, dannato. Era così diverso da quando lo aveva visto quella notte, con una fascia arancione in fronte, l'aria stanca e la voce triste. In quel momento invece sembrava una pantera, sensuale, sfacciato, affascinante.

-Elya è una ragazza meravigliosa, tesoro.- Demian sorrise e si allungò a baciare Yurij. Denis arrossì selvaggiamente. - E' una rusalka. Ti piacerebbe. Vero, Denisoch’ka?
Denis annuì, e si passò una mano tra i capelli, scostandosi il ciuffo dalla fronte.

-Ne sono sicuro.- Yurij sorrise e poi si rivolse a Denis – E noi? Noi ti piacciamo, Denis?

Denis li guardò con quei suoi grandi, folli, occhi ambrati e sentì un forte senso di nausea attanagliarlo. Si alzò, barcollando, e si chiese perché dovesse essere così. Perché non potesse essere normale, perché dovesse essere folle, perché dovesse essere anoressico.

-Non mangio.- rispose.

-Perché?- Demian si tolse la vestaglia e rimase nudo. - Perché non mangi?

-Non lo so. È un modo per espiare.

-Cosa devi espiare?- Yurij si alzò e gli si avvicinò, accarezzandogli la guancia liscia col dorso della mano ossuta. - Sei un peccatore, ragazzo?

-Volevo sporcare lei col mio sangue e il mio sperma.- ansimò Denis, sentendo l'odore di Yurij addosso e chiudendo per un attimo gli occhi quando sentì le mani dell'uomo toccarlo. - Quindi sì, sono un peccatore.

-Oh, interessante.- anche Demian si era alzato e gli era andato vicino, mordendogli il lobo dell'orecchio e sollevandogli la maglietta per toccargli i fianchi ossuti. - Magari in un letto di rose, magari sentendola ridere.

-Volevo fotografare te che la possedevi.

-Che cosa eccitante.- grugnì Yurij – E io? Io che ruolo potrei avere?

-Tu?- Denis spalancò gli occhioni e sentì un fastidioso pulsare in mezzo alle gambe. Era tutto troppo travolgente per i suoi sensi. Guardò con orrore e fascinazione Demian toccarsi con una mano mentre si inginocchiava per terra e gli baciava la pancia, lasciata nuda dalla maglia che a un certo punto gli avevano tolto. - Tu potresti sporcarli di sangue. Il mio sangue. E … e … uhm …

Demian gli aveva slacciato gli skinny jeans e gli baciava il rigonfiamento nei boxer. Per un attimo, Denis desiderò che qualcuno lo baciasse sulle labbra.

-Terribilmente perverso e adorabile, Denisoch’ka.- mormorò Yurij, leccandogli il collo. - Vuoi dirmi di più?

-Io … uhm … non ce la faccio … - ansimò Denis, sentendo le gambe tremare quando Demian gli prese il membro duro in bocca e cominciò a succhiare, con quei modi adulti, convinti.

-Sforzati di pensare, pasticcino.- Yurij gli baciava il collo e gli abbassò del tutto giù i boxer, infilandogli delicatamente un dito dentro. Denis sentì una singola lacrima di eccitazione bagnarli la guancia mentre Yurij lo apriva con un gioco di dita che lo mandava fuori fase.

E così Denis rimase lì, sorretto dai due uomini, le dita di uno dentro e l'altro inginocchiato ai suoi piedi e si chiese perché tutto quello, di nuovo. Cosa stava succedendo nella sua vita per averlo trascinato in quel gioco al massacro di perdizione, di amore, di morte, di sangue, di rose scarlatte, di balletti maledetti. Era tutto così terribilmente difficile per lui. Lo stavano facendo impazzire, completamente. Il baratro della follia si era aperto sotto i suoi piedi, e sapeva che forse, quella volta, non ne sarebbe uscito vivo.

 

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Capitolo 8
*** Dance, black swan ***


CAPITOLO OTTAVO: DANCE, BLACK SWAN

So hurt me again, it's not worth saving
The heart that I've spent my whole life breaking
The windshield cracks through the cloak of the fog
Concealing in silence, I've been stung by the wasp

[Motionless In White – Wasp]

 

 

Il Re dei Topi. Il Moro. Rothbart. Le Villi. Eleanora sentiva tutti quei personaggi fluire dentro di sé in quel momento, seduta sul letto di Demian, ancora vestita come una principessa gotica, come uno dei demoni dei suoi balletti. Investita della carica di essere la regina di quella notte ai limiti dell'umana perversione, osservava i tre uomini che aveva davanti e li divorava con gli occhi. Lei si sentiva il diavolo inguaiato in volgari vestiti di pelle e lacca, il diavolo che voleva trascinare all'inferno i tre uomini belli come angeli caduti, angeli ai quali erano state strappate le ali e poi incendiate, angeli senza casa e senza destinazione. Lei li avrebbe accolti in lei, ognuno di loro, per bagnare le loro ali e farle diventare nere e sanguinanti, avrebbe succhiato loro la linfa vitale per farli discendere all'inferno con lei, li avrebbe fatti danzare fino a vederli stramazzare morti per terra. Si, avrebbero ballato quella notte, li avrebbe stancati così tanto da spingerli al suicidio. Un suicidio di massa, sì, tra sangue, rose, vomito e sperma. Un tripudio di amore, sesso, distruzione e Chajikovskij.

Li guardò uno per uno, un sorriso bellissimo dipinto sulle labbra spennellate di rosso carminio – li voleva, disperatamente, per nutrirsi di loro come i personaggi dei suoi balletti si nutrivano dell'anima degli spettatori incauti. Danziamo, danziamo, e poi moriamo nella cornucopia della perversione.

-Sei stupenda, Eleanora.- disse Yurij, avvicinandosi a lei e accarezzandole i lunghi capelli bianchi.

-Ti ringrazio, Yurij.- lei gli prese una mano e se la premette sulla guancia pallida – Cosa desideri da me?

-Il tuo sangue.

Yurij si chinò su di lei e le soffiò un bacio nel collo. Lei sorrise, deliziata dalle attenzioni dello scrittore. Yurij era un personaggio potente, l'aveva capito dal momento in cui Demian glielo aveva presentato. Nascondeva un mondo enorme dentro di sé, un mondo fatto di devastazione, di dolore, di lacrime e lei non vedeva l'ora di tingere di rosso quelle lacrime di cristallo.

-Bevi, allora.- mugolò, e lui le posò le labbra sul collo, cominciando a succhiare delicatamente, con una dolcezza nuova per una come lei, abituata alla violenza di Demian. Si chiese se le sarebbe piaciuto che lui bevesse il suo sangue e decise che sì, assolutamente, avrebbe tanto voluto nutrire l'uomo con i suoi liquidi interni.

Eleanora sospirò rumorosamente quando le mani di lui le sfiorarono la vita sottile e tremò, perchè aveva le dita fredde e leggere.

Poi alzò lo sguardo su Demian, con i suoi capelli lunghi e quegli occhi chiari, quei tratti slavi simili a quelli di Denis, entrambi cosacchi, entrambi ucraini, entrambi eroi a modo loro di un mondo prossimo al macero. Era a torso nudo e li guardava con fame, le pupille dilatate e un sorriso appena accennato dipinto sul viso. Si avvicinò e le si inginocchiò ai piedi, accarezzandole le ginocchia e sollevandole la gonna.

-Toccala, Dyoma.- sussurrò Yurij e Demian non se lo fece ripetere due volte, toccandole i fianchi con le sue mani volgari, facendole scivolare giù le mutandine di pizzo. Lei sorrise e si sdraiò sul letto, poggiando la testa sulle gambe di Yurij. L'uomo le mise un dito in bocca, toccandole le labbra e Demian le sfilò anche la gonna, baciandola in mezzo alle gambe e strappandole un gemito. Demian adorava sentirla gemere. C'erano delle rose, su quel letto, un mare di rose rosse che cominciavano a sfiorire, e poi c'era Denis. Sì, c'era anche Denis, con una telecamera in mano, che tremava e filmava. Si sentiva la febbre, una febbre tremenda che lo aveva catturato e lo stava facendo sudare. Li filmava, esattamente come nei suoi sogni, e osservava i due uomini possedere la ragazza. Il sudore gli colava dalla fronte mentre stringeva la telecamera e guardava le rose che cadevano dal letto mentre i tre danzavano su quel letto sfondato. Avrebbe voluto partecipare anche lui a quel gioco malato, ma sapeva che non gli era ancora permesso entrare in quel triangolo. Ne restava fuori, e filmava, con la testa che girava come una trottola.

Ed Eleanora, Eleanora rideva. Rideva mentre i due uomini la toccavano, si toccavano, erano travolti dalla passione insalubre di quella notte ai limiti della follia. Li avrebbe distrutti, Yurij e Demian, e quella distruzione iniziava proprio da quella notte di sesso. I piccoli seni arrossati, le gambe avvolte attorno al bacino di Demian, le bocca di Yurij attorno al membro del soldato. Era tutta una danza, quella, una perfetta danza che li avrebbe trascinati all'inferno e lei avrebbe architettato ogni singola giravolta, plié o salto per tentare il Demonio e farlo innamorare di loro. Di tutti e tre. E poi, quando sarebbe stato pronto, avrebbe afferrato Denis e l'avrebbe soffocato con i suoi capelli tinti di bianco e di baci al rossetto.

Ballarono ancora, tra le rose, e i gemiti, le strilla, il piacere cresceva esponenzialmente. Eleanora lasciò il suo spirito animalesco uscire, mentre divorava i due uomini di baci e di pura furia sessuale. Li voleva disperatamente, li desiderava, non avrebbe mai voluto che quell'amplesso folle finisse perché ormai era più di sesso, era diventato un passepartout per l'inferno, era una via per la perdizione più assoluta.

E Denis continuava a filmare, il sudore ormai copioso, l'eccitazione alle stelle, gli occhi gonfi di pianto. Li voleva così tanto, voleva ballare anche lui, non voleva dirigere la musica senza poter toccare lei e loro. Aveva la gola riarsa, il membro duro negli skinny jeans, i capelli appiccicati alla fronte. Gli veniva da vomitare, da svenire, da piangere. Era disperato.

Continuò a filmare anche quando i tre stramazzarono distrutti sul letto, ormai vuoti, sporchi di seme e di rose. Avrebbe tanto voluto tagliarsi i polsi e vedere il suo sangue colare sui loro corpi eburnei. Sì, voleva tagliarsi i polsi. Voleva morire. Dopo aver visto l'inferno non avrebbe più potuto vivere in quel mondo infame.

Spense la registrazione e posò tremebondo la telecamera. Era l'unico ancora vestito, ancora eccitato, ancora aggrappato a quel mondo dei vivi che non dava soddisfazione a nessuno di loro. Ci sarebbe voluto un niente per lasciarsi andare e donarsi a quella rusalka folle che come le Villi lo avrebbe fatto danzare fino alla morte. Ma Denis voleva morire, disperatamente.

Demian si alzò dal letto e lo raggiunse, pieno di graffi, morsi, succhiotti, sudato e meraviglioso come un angelo caduto. Aveva gli occhi stanchi e i capelli spettinati. Eleanora si era addormentata, ebbra dell'anima dei due uomini, ormai sazia del loro dolore e delle loro paure. Yurij era seduto sul bordo del letto, con gli occhi chiusi e le mani tra i capelli, come se fosse pentito. Pentiti, pover'uomo. Pentiti, bastardo. Pentiti, angelo.

-Den, come stai?- disse Demian, con la voce roca. Sembrava spento.

Denis non rispose, ma lo abbracciò, premendogli il viso contro il petto. Demian rimase un secondo perplesso ma poi lo strinse forte e sé e gli accarezzò i capelli.

-Sei stanco?

Denis annuì.

-Non avresti dovuto farlo.

Denis sentì le lacrime premere per uscire. Poi alzò lo sguardo sul soldato e gli posò un delicato bacio sulle labbra gonfie

-E tu non ti saresti dovuto unire con Elya. È … è un diavolo.

-Ormai la mia anima non è più candida come la tua, Denisoch’ka. Posso farmi uccidere milioni di volte da lei perché sono già morto.

-Mi racconti la tua storia?

-E' brutta, Denis.

-Non mi importa.

Denis lo prese per mano e guardò ancora Eleanora che dormiva beata tra le coperte e i petali di rosa. Pareva ancora più bella del solito, ancora più piena, come fosse un vampiro gonfio di sangue, ancora più diabolica con quel sorriso che le distendeva il viso nel sonno profondo che l'aveva colta. Danza, Odile, danza, cigno nero maledetto.

Poi guardò Yurij che era caduto in ginocchio per terra e pregava un dio verso il quale aveva smesso di credere a sedici anni. Pregava per cercare un riscatto che pensava di non poter più ricevere, ma in quel momento così dannato, in quella Siberia così marcia non gli rimaneva altro che confidarsi a qualcuno che non fosse umano e che forse esisteva solo nella sua testa.

Denis e Demian scivolarono in bagno e si misero nella vasca da bagno, troppo piccola per entrambi, stretti come bambini, i due ucraini, i due cosacchi, i due eroi. Faceva molto freddo ma non lo sentivano, uno nudo e uno vestito, uno distrutto dal demonio e uno salvo per miracolo.

-Ho ucciso, Denis.- disse Demian, e parlò ucraino.

Denis lasciò qualche lacrima scorrere a sentire la sua lingua madre, che non era il russo, maledizione, ma era quella lingua così simile eppure dannatamente diversa.

-Chi, Demian?

-Dei bambini. Laggiù, in guerra. Ho ucciso dei bambini, Denisoch’ka, e per il mio crimine non c'è redenzione.

L'uomo nascose il viso nei capelli del ragazzo, stringendolo a sé come se fosse uno di quei bambini che lui aveva ammazzato. Lo strinse e Denis si appoggiò a lui, sentendo la nausea placarsi e le lacrime scorrere cristalline sulle sue guance pallide.

-Perché non mangi, tesoro?

-Non lo so, Dyoma. Ho semplicemente smesso. Mi odio, Dyoma, mi odio.

-Sei bellissimo.

-Non ho ancora trovato il mio cosacco, per ora resto giglio. Voglio qualcosa che non potrò mai avere.

-E cosa vuoi, benedetto ragazzo?

-Voglio essere salvato.

I due ucraini si guardono a lungo negli occhi, intrecciati uno all'altro, in quella notte di orrore e di perversione. Sentirono Yurij singhiozzare, qualche camera più in là. Eleanora, presumibilmente, continuava a dormire.

-Scappa da qui, Denis.- disse infine Demian – Scappa, torna in Crimea, torna a casa. Qui non c'è spazio per te. Sei troppo puro per questo inferno, vola via finché sei in tempo, non lasciare che ti torcano le ali. Le mie sono bruciate laggiù, nella polvere, ma le tue sono ancora bianche. Preservale, angelo mio.

-Ma io voglio sprofondare all'inferno, Demian! Voglio morire, voglio suicidarmi, voglio defungere in un tripudio di rose e sangue scarlatto lavato via dalla pioggia acida di una Siberia non mia.

-Non morire lontano dal mare, cosacco. Torna a casa, te ne prego. Bagnati ancora una volta nelle acque sacre del Mar Nero che ci ha cresciuti, bacia il suolo ucraino che ci ha dati alla luce, prega il nostro dio, Denis! Non farti uccidere da Krasnojarsk!

Denis si alzò di scatto e barcollò fuori dalla vasca, il viso stravolto dal pianto e il sudore che continuava a colare copiosamente lungo la spina dorsale, impregnadogli i vestiti.

-No, Demian, è troppo tardi! È troppo tardi!

Corse fuori, seguito dall'uomo, e Yurij continuava a pregare in mezzo alle rose che gli ferivano le gambe, e Demian lo inseguiva urlandogli di tornare a casa, e lui correva per casa, cercando di uscire, di scappare da quel girone infernale ed Eleanora … Eleanora dormiva serena.

 

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Capitolo 9
*** The curtain has fallen ***


CAPITOLO NOVE: THE CURTAIN HAS FALLEN

So let the first snow fall and bury me under 6 feet of regret
You've got your trophy now leave me to my hate with no regrets
I am the deepest shade of Jaded
This is a love song, a threnody for these years of worthless waste
And now my hatred's all I fucking have left
[Motionless In White – Puppets (The First Snow)]

 

Erano passati tre mesi da quella notte, e Demian aveva capito che non avrebbe potuto continuare a vivere così. Sarebbe scappato di nuovo in Europa, lontano dalla Siberia. Forse sarebbe tornato in Ucraina, forse sarebbe andato a Berlino, a Londra, magari a Parigi. Ma non poteva rimanere in Russia. Non dopo quello che era successo, non dopo essere finiti macellati dalle grinfie smaltate di Eleanora, non dopo tutto quello. Era stato tutto uno sbaglio enorme, e se ne rendeva conto solo in quel momento a conti fatti. Si passò una mano tra i capelli corvini e istintivamente prese tra la sua la mano di Yurij. Erano seduti sul divano, in silenzio, perché in quel maledetto dopo i silenzi erano aumentati esponenzialmente. Non erano più riusciti a fare l'amore. Non erano più riusciti nemmeno a guardarsi propriamente negli occhi. Era caduto tutto a pezzi e loro erano le vittime sacrificali di una dea bastarda che se li era divorati vivi.

-Dyoma, come stai?- sussurrò Yurij, la voce sfibrata dai sonniferi di cui si imbottiva per combattere gli incubi e la depressione che ormai lo consumavano.

-Voglio andarmene, Yura.- Demian lo guardò di sottecchi, portandosi la sua mano tatuata alle labbra e baciando ogni singolo dito per ricordarsi di essere vivo – Il senso di colpa, amore, il senso di colpa mi distrugge.

-Non è stata colpa tua.

-Avremmo potuto salvarlo.

Yurij lo abbracciò, posandogli la testa nell'incavo della spalla e Demian gli accarezzò la schiena ossuta, pensando a lui e ai suoi occhi ambrati. Lo sapevano entrambi, che forse quel ragazzo era segnato da un dolore più assurdo, ma non potevano fare a meno di pensare che se fossero riusciti a opporsi, forse Denis non sarebbe morto. Demian si svegliava di notte urlando, i bambini del Donbass sovrapposti al viso angoloso di Denis, lo schiocco del mitragliatore contro le strilla in ucraino. Non dormiva più bene, tormentato dagli incubi delle vite spezzate per colpa sua. Aveva seriamente meditato di andarsene anche lui da quel mondo, ma era stato l'amore per Yurij a tenerlo ancorato alla terra. Quel mostro di Eleanora avrebbe vinto su tutta la linea se anche lui e Yurij fossero spariti. Tanto valeva vivere col senso di colpa, ma vivere, vivere e scappare lontano a cercare di ricostruirsi una vita sulle macerie della prima.

-Andiamo via, Dyoma.- mormorò Yurij – Andiamo via da Krasnojarsk. Non c'è più niente qui per noi. Torniamo a Kiev.

-Dobbiamo farlo.- asserì Demian, alzando lo sguardo e guardando Yurij negli occhi per la prima volta dopo mesi. I suoi occhi grigi erano offuscati da lacrime mai piante, il dolore sordo si era ancorato come un cancro dal quale liberarsi era diventato impossibile. Se non lo avesse portato via in fretta dalla Siberia, probabilmente avrebbe perso anche lui e quello, quello non lo poteva accettare – Ti salverò, almeno te, amore mio.

Yurij sospirò e gli accarezzò il viso con mani tremanti.

-Non so come siamo finiti all'inferno, amore.

-Non lo so nemmeno io, ma ormai è arrivato il momento di tentare la fuga. Londra, Berlino, Parigi, Stoccolma: va bene tutto, ma scappiamo da qui.

I due uomini si accoccolarono uno contro l'altro, come due gatti senza casa, come due bambini spaventati e fissarono la neve che turbinava fuori dalla finestra. Anche la notte in cui era morto Denis c'era una tempesta di neve che infuriava sulla città. Yurij non avrebbe mai dimenticato l'urlo della madre del ragazzo, il suo precipitarsi fuori di casa e sorreggere la donna semisvenuta. Il vedere Denis riverso sul letto, in un lago di sangue e vomito. Era nudo, e c'erano delle rose sparpagliate sul pavimento. Yurij aveva guardato con orrore il computer acceso, dove girava il video di quella notte. Non poteva credere che l'ultima cosa che Denis avesse deciso di guardare fosse stato quello sporco menage à trois. Era già morto quando avevano chiamato l'ambulanza, ma Yurij era stato rapido a far sparire il video prima dell'arrivo di qualcuno. Le rose e il corpo ossuto del ragazzo erano ricoperti di vomito quasi secco e di sangue, tanto sangue che sgorgava dai polsi tagliati. Era stato uno spettacolo raccapricciante e Yurij ne era ancora tormentato, perché quel ragazzino non doveva morire così. Non doveva finire vittima di loro, dei diavoli della Siberia. Aveva solo vent'anni, dannazione. Era solo un bambino finito in un gioco più grande di lui.

-Dyoma … perché abbiamo lasciato morire Denis?

-Non lo so, Yura. Siamo stati troppo deboli. Noi. Lui, che non era scappato. È stato tutto un maledetto sbaglio.

Rimasero in silenzio a lungo, ascoltando i rispettivi respiri pesanti, persi nei loro cupi pensieri. C'era Yurij, che desiderava solamente lasciarsi alle spalle tutti i loro errori, l'immagine di Denis riverso nel sangue, le sue paure ancestrali, l'odore di Eleanora dal corpo. C'era Demian, che voleva smetterla di vivere nei sensi di colpa di morti in guerre nelle quali si trovava continuamente coinvolto, che voleva una vendetta per Denis, che voleva morta la ragazza che li aveva trascinati nell'oscurità. C'erano due uomini, due amanti, due diavoli, due angeli caduti che speravano di salvarsi dalla perdizione delle anime dove erano sprofondati. Quel balletto maledetto doveva avere fine. Un ultimo salto, un ultimo inchino, un'ultima rosa e poi addio, per sempre, il sipario sarebbe dovuto calare nel bagno di applausi per una nuova Petrouska.

 

Yurij era chino sulla tomba di Denis, con in mano un mazzo di rose rosse e la fascia arancione che aveva indosso la prima volta che si erano conosciuti. Accarezzò delicatamente la fotografia di quel ragazzo bellissimo e anoressico che sorrideva dolcemente e trattenne un singhiozzo.

-Ciao, Denisoch’ka.- sussurrò, sostituendo i fiori marciti con quelli nuovi e sistemando la lucina – Volevo dirti che questa sarà l'ultima volta che vengo a trovarti. Io e Demian ce ne andiamo via. Non sappiamo ancora dove ma … abbiamo bisogno di cambiare aria. E tu … oh, tesoro, mi dispiace così tanto.

Era sera, e faceva un freddo infernale, ma Yurij non lo sentiva mentre accarezzava metodicamente la tomba gelida.

-Io … non avrei mai voluto che finisse così. Quando ti ho visto per la prima volta, con la tua bellezza anoressica, con il tuo accento ucraino, con i tuoi occhi splendidi, pensavo che avresti dovuto meritare il mondo. Eri così dolce, Denisoch’ka, tesoro. Non ti chiedo perché l'hai fatto, lo so il motivo, e mi odio per non esserti stato accanto, per non averti aiutato a scappare dalla Siberia prima che tu decidessi di morire. Hey, cucciolo, mi ascolti? Sei stato forte, quando eri qui, ma non è stata colpa tua. Sei finito in un gioco al massacro dove nessuno ne è uscito davvero vincitore. Sì, forse lei. Forse Elya ha vinto, ma io, te, Dyoma, noi tre abbiamo perso qualunque cosa. Tu più di tutti. Ascoltami, tesoro, serberò per sempre nel mio cuore il tuo ricordo. I tuoi occhi splendidi, il tuo sorriso spezzato, la tua voce dolce, il tuo corpo da efebo, i tuoi drammi, la tua storia, le tue paure. Non mi dimenticherò mai di te, Denisoch’ka delle steppe. Eri un cosacco, bambino mio, eri un eroe ma a volte anche gli eroi crollano a pezzi e mi sento così tanto in colpa di non essere stato con te in quel momento. Dovevi sentirti così solo, piccolo mio, cucciolo spaventato da tutto. Io e Demian ti amiamo ancora. Dovunque andremo, dovunque tenteremo di fuggire, porteremo con te il tuo ricordo, il tuo odore, la tua voce. Sei tornato dagli angeli, bellissimo ragazzo. Sei un angelo, dopotutto. Spero che adesso tu sia di nuovo in Ucraina, nella terra dei tuoi padri. Ti voglio bene, Denis, splendore. Perdonami per tutto quello che ti ho fatto.

Baciò la lapide fredda e lasciò una singola lacrima cadere e bagnare le rose scarlatte che cominciavano a sporcarsi di neve. Si rialzò, tremando, lanciò un ultimo sguardo alla foto di quel ragazzo meraviglioso e si voltò, senza voltarsi indietro. Quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe visto la tomba di Denis, quello era il suo ultimo addio. Per un attimo, gli venne voglia di tornare indietro, ma si trattenne e uscì dal cimitero.

-Addio, bambino mio.- sussurrò al cielo, e alcune lacrime gli ferirono le guance mentre si avviava verso casa, lasciandosi alle spalle la tomba di un innocente che non sapeva ballare e che era stato scaraventato giù dal palcoscenico.

 

-Sei venuta.

Demian guardò Eleanora, sempre più bella, sempre più mefistolefica, togliersi la pelliccia e sorridergli con quei suoi sorrisi liquidi.

-E' tanto che non ci vediamo, Dyoma. Dal funerale di Denis, mi sembra.

-Non dire il suo nome.

Eleanora rise e gli si avvicinò, ancheggiando sui tacchi vertiginosi. Lui non faticò a ricordare come aveva fatto a cadere nelle sue trame. Lei era il diavolo incarnato, la bellezza fatta persona, la perdizione fatta donna. Era una rusalka, ed era stata la loro fine. Si chiese se fosse la regina delle Villi, che li aveva costretti a una danza che cominciava a mietere vittime innocenti.

-Ti ricordo che sono stata io a portarlo a te, Demian. Il fatto che lui abbia preferito morire non fa di me un'assassina. Ha scelto la sua strada.- Eleanora sorrise, posandogli le mani eburnee sulle spalle. Demian tremò sotto il suo tocco leggero, sotto quegli artigli che gli sfioravano la pelle. C'era stato un tempo nel quale non aveva potuto fare a meno di lei, un tempo nel quale pensava che sarebbe morto per quella ragazza stupenda. Ma adesso no. Adesso la odiava. Dopo quella notte infernale, che ancora sognava, dannazione, che ancora risentiva sulla pelle, dopo tutto quello non poteva fare a meno di provare disgusto nei suoi confronti.

-Cosa vuoi ancora da noi, Eleanora?

-Volere? Io? Nulla, tesoro. Siete sempre stati voi che volevate qualcosa da me, che desideravate disperatamente possedermi, amarmi, toccarmi. Io mi sono concessa a voi in un gioco che non sapevate controllare. È finito in tragedia, ma non per colpa mia. Dovevate rendervi conto prima di non essere in grado di giocare.

Demian la sentì ridere, con la sua risata splendida e trascendentale, quella di un angelo caduto, quella di una marionetta superstite all'incendio. Si chiese se forse non fosse che loro erano stupide marionette e lei un burattinaio malvagio che aveva tagliato i fili del povero Denisoch’ka. La odiava, e si odiava per non essere ancora in grado di dominare l'attrazione naturale che aveva per lei. Contro la sua volontà, le strinse un fianco e si inebriò del suo profumo.

-Hai ballato?

-Ho fatto il solo di ballo più squisito che puoi immaginare. Il pubblico era in deliquio. Un gioco di sangue, rose, e musica classica. Mi guidavano gli spiriti, ero diventata Petrouska, ho consumato le anime ignare degli spettatori e me ne sono ubriacata con una danza dannata e sensuale. Grondavano fame, gli occhi di quegli innocenti.

-Tu uccidi, Eleanora.

-Io non uccido, Dyoma. Io invito a ballare con me, e nessuno, nessuno, sa reggere il mio ritmo indiavolato. Nessuno è abbastanza scaltro, coraggioso, geniale per potermi tenere testa e far stramazzare morta al suolo me. Invito molti a danzare. Nessuno è all'altezza.

Si guardarono nel profondo degli occhi, viola e ghiaccio, e si girarono in tondo, sempre tenendosi le mani, rotearono in un inizio di ballo per quella casa maledetta dove si era consumato l'orrore. Lui la fissava, e si imprimeva nella mente ogni singola sfumatura della sua bellezza demoniaca. Lei lo guardava, e si beava della distruzione in cui lo aveva lasciato. La neve turbinava, fuori dalla finestra.

-Mi vuoi ancora una volta, Demian?- mormorò lei, accarezzandogli il petto – Desideri un'ultima danza prima che cali il sipario?

E lui rimase di stucco, perché voleva ballare ancora, voleva averla un'ultima volta, ma contemporaneamente la voleva nel sangue, la voleva morta e sepolta, voleva la vendetta per quell'angelo disperato di Denis. Cosa farai, Demian, soldato, eroe del Donbass? Darai un'ultima volta te stesso alla rusalka dai capelli candidi o scapperai lontano mille miglia dalle sue grinfie?

Le accarezzò il viso, sfiorandogli le labbra col pollice, le stesse labbra che conosceva alla perfezione. Scese a toccarle il collo, le spalle, il fianco, i capelli, il seno. La toccò tutta un'ultima volta, guardando i suoi occhi colmi di desiderio, sentendo la sua voce mormorare qualcosa che non riusciva a intendere. Poi, poi la spinse lontano da sé.

Lei inciampò all'indietro e rise, recuperando l'equilibrio.

-Cosa c'è, cosacco? Non ce la fai? Non mi vuoi più?

-Scompari dalle nostre vite, Elya.

-Ma se mi volete, se mi anelate, se …

-Ti ho detto, scompari.

Lui si voltò, e aveva la pistola in mano. La sua pistola, quella che per anni aveva rischiato di prendersi la sua vita, ora lui la puntava nuovamente verso di lei, come era successo mesi prima. Questa volta, però, non tremava. Era concentrato, era in guerra. Era pronto alla vendetta.

-Dyoma, Dyoma, mio adorato Dyoma. Vuoi veramente farlo?- Eleanora rise e sbatté le lunghe ciglia – Sei davvero convinto di voler chiudere qui il balletto?

-Deve calare il sipario una volta per tutte. Hai già ricevuto abbastanza fiori, abbastanza applausi.

Lei dondolò, muovendo la lunga coda di capelli bianchi. Era meravigliosa.

-E questa volta ti senti pronto? Allora va bene, cosacco, fallo. Sparami. Uccidimi. Vendicati. Ma ricordati che il balletto non finisce qui. Il sipario non si chiude mai del tutto, il pubblico vuole di più, vuole sempre di più. E ti renderai conto che tu non riuscirai mai a soddisfarlo.

-Eleanora …

-Spara, Demian. Ti sfido. Un'ultima giravolta, un ultimo salto. Sei in grado di farlo, cosacco?

Lei sorrideva, aveva gli occhi liquidi, completamente liquidi e lui si sentiva annichilito da quella bellezza, da quel diavolo, da tutto. Tremava, disperatamente. Ma il sipario doveva calare. Doveva chiudersi. Il pubblico doveva tornare a casa. Sarebbe stato lui l'ultimo ballerino che avrebbero visto. Strinse i denti.

-Addio, Eleanora.

-Addio, Dyoma, mio Dyoma. Avanti, che aspetti?

Demian chiuse gli occhi. Li riaprì.

Sparò.

 

Конец - THE END

Grazie mille a tutti quelli che hanno letto, seguito e recensito, spero che la storia vi sia piaciuta come è piaciuto a me scriverla. Scusate se è stata così corta ma non sono un'amante delle storie lunghe.
Un bacio e grazie ancora, Eleanora mi mancherà!
Charlie xx

 

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