La piratessa di lady lina 77 (/viewuser.php?uid=18117)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
La
fede era sparita, così come la speranza che ci fosse sempre
una
soluzione ai grandi drammi della vita. Tutto sparito, tutto
dissolto…
Nella
grande dimora di Dwight e Caroline, Killawarren, seduta su una comoda
poltrona davanti a un camino scoppiettante, Demelza aveva gli occhi
lucidi e l’unica cosa di cui era grata era il fatto che
Prudie
avesse portato fuori i bambini in modo che non la vedessero piangere.
Dwight
era stato gentile, aveva cercato di usare le giuste parole per
indorare la pillola dopo che era tornato da Nampara, ma dietro ai
suoi modi attenti Demelza aveva comunque capito la verità:
non c’era
speranza, era tutto finito e Ross lo aveva confermato a Dwight senza
mezze misure.
“Non
la amo più”…
Così
aveva detto Ross e anche se Dwight l'aveva consolata dicendo che a
volte le parole nascondono altre verità e che non sempre
vogliono
dire qualcosa, lui le aveva dette...
Non
la amava più e d'altronde che si aspettava? L'aveva fermata
quando
aveva preso la porta coi bambini? Le era corso dietro? Aveva fatto
promesse solenni per trattenerla? No, nulla, lui non aveva fatto
nulla, era rimasto semplicemente impassibile a guardarla mentre lei
se ne andava via lontano, portando con se tutto ciò che
rimaneva
della bellissima famiglia che avevano creato insieme.
Se
mai avesse avuto la speranza di aver frainteso, di aver capito male,
di aver visto malati parti della sua fantasia, quelle parole avevano
cancellato ogni dubbio. Ross aveva amato Elizabeth e poi lei. Ed ora
amava Tess, in qualche assurdo modo si era innamorato di una persona
così diversa, così sporca, così poco
limpida… Ross, il suo Ross
di una volta, non avrebbe mai corrotto se stesso e la sua anima con
una donna come Tess, non le avrebbe mai fatto del male, non le
avrebbe mai mentito a quel modo. Era vero, ci erano già
passati ma a
quell'epoca, con Elizabeth, era stato diverso, c'erano sentimenti
profondi ed irrisolti alle spalle e soprattutto, una concausa di
eventi che avevano portato al disastro. Ma si erano rialzati,sia da
quella storia che da quella di Hugh, si erano riscelti se mai ce ne
fosse stato bisogno, avevano capito i propri errori e qual'era il
loro posto, dov'era il loro cuore e dove la loro anima trovava pace e
amore. Mai, MAI avrebbe creduto questo, non dopo quanto vissuto, non
dopo la felicità ritrovata, la tenerezza, la dolcezza e le
cose che
si erano detti...
Tutto
si era frantumato dopo la morte di Ned, come se quell'evento avesse
ucciso anche il vecchio Ross, quello dal cuore limpido e impavido che
si batteva contro le ingiustizie anche a costo di rimetterci, quello
che ci credeva, quello che a volte faceva il gradasso e non pensava
alle conseguenze delle sue azioni ma che agiva sempre col cuore e con
generosità. Il Ross di cui si era innamorata e che amava
ancora
nonostante tutto. Ma ora quel Ross non esisteva più e al suo
posto
c'era un uomo freddo, calcolatore, distaccato e che nello sguardo non
aveva più alcuna traccia delle dolcezza e della tenerezza
che solo a
lei aveva dato l'onore di vedere.
Sperava
che Dwight, tornando, le dicesse che era stato un malinteso, che Ross
la aspettava a braccia aperte, che era disperato. Ma il viso terreo
del medico, al suo rientro, diceva tutt'altro. Era finita e con
dolcezza l'aveva intimata ad accettarlo anche se la voce dell'uomo
tradiva una rabbia e una delusione a stento trattenute. Anche per
Dwight era difficile, quasi quanto per lei, accettare di aver perso
il suo più caro amico.
"Sta
gettando via la sua vita, Demelza... E quando lo capirà
sprofonderà
e forse, forse capirà. Sta a te, a noi tutti, decidere se
varrà la
pena tendergli la mano quando arriverà quel momento".
Demelza
non aveva risposto nulla, non ne aveva avuto la forza e la tempra e
aveva solo chiesto di rimanere un pò da sola a pensare. Che
importava cosa sarebbe stato, cosa riservava il futuro? Che importava
se Ross avesse cambiato idea? La sua fede in lui e nel suo matrimonio
ormai era distrutta per sempre e lei non sarebbe mai più
stata la
stessa.
Gli
avrebbe teso quella mano? Non lo sapeva, non sapeva darsi una
risposta in quel momento perché erano altre le immagini che
le
danzavano nella mente... I silenzi, le bugie, la freddezza di quei
mesi, la miniera, i cunicoli, la voce di Ross e di Tess nascosti
nell'oscurità e in cerca di un attimo di intimità
solo loro, le
dolci frasi che si scambiavano, l'ammissione di desiderarasi...
Le
si strinse lo stomaco a quei ricordi e si massaggiò il
ventre
mentre, da sola, pensava e ripensava a cosa avrebbe fatto e cosa non
sarebbe più riuscita a fare. Aveva la forza di lottare?
Aveva la
forza di cercare di chiarire? Aveva la forza di tornare a Nampara ad
affrontarlo? Aveva la forza di rimanere?
Si
massaggiò ancora il ventre dove stava crescendo suo figlio.
Il
figlio suo e di Ross, concepito in quei mesi di silenzi e bugie,
nell'unica notte dove Ross aveva ceduto al desiderio e l'aveva amata
come aveva sempre fatto, con passione e tenerezza. E lei glielo aveva
permesso dopo una giornata triste e solitaria passata a pensare a
cosa ci fosse che non andava, a cosa stesse succedendo, al
perché
Ross fosse cambiato tanto...
Aveva
pianto, da sola, dopo cena nella sua camera. E anche se poi aveva
cercato di asciugarsi gli occhi, loro erano rimasti rossi e Ross, al
suo ritorno, se n'era accorto. Non aveva detto nulla, non aveva
chiesto, non si era preoccupato di scoprire cosa avesse, come se lo
sapesse già... Si era solo avvicinato, l'aveva abbracciata,
baciata,
e poi con delicatezza portata a letto, fra le sue braccia, come un
principe porta a letto una principessa. Ma Ross non era più
il suo
principe e lei non era mai stata una principessa e la loro non era
una favola.
Era
stato solo un attimo, intenso, dolce, gentile e appassionato. Ed era
un comportamento così strano nel Ross di quegli ultimi mesi,
ripensandoci. Un uomo che non ama più sua moglie non si
comporta
così e se allora lei aveva solo un dubbio, ora aveva la
certezza che
Ross avesse già una storia con Tess. Eppure quella notte
l'aveva
amata, l'aveva tenuta stretta a se quasi capendo quanto lei ne avesse
bisogno e come se lui stesso non desiderasse altro.
Non
si erano parlati, non si erano detti nulla. Solo dopo aver fatto
l'amore, nel silenzio della stanza, lui aveva aperto la bocca,
pronunciando una strana ed incomprensibile frase, sibillina, di cui
non aveva avuto la forza di chiedere spiegazioni.
"Tutto
passa, Demelza... Tutto finisce, le cose belle e i momenti
brutti...".
Cosa
voleva dire? Che era la fine del loro matrimonio? Che quel momento
difficile, come tanti altri vissuti, sarebbe passato? Cosa? COSA???
Frustrata,
Demelza picchiò il pugno della mano contro il muro. Si
sentiva
esausta, infinitamente stanca e senza più desiderio o voglia
di
vivere. Ross era la sua vita e ora... ora...
Ora
sarebbe stata sola e non aveva nemmeno il diritto di lasciarsi
andare. C'erano Jeremy e Clowance che avevano solo dieci e sette anni
e poi lui... o lei, il testimone vivente di un grande amore e delle
sue ceneri.
Prendendo
un profondo respiro capì che non poteva continuare a
rimanere lì,
che non ce l'avrebbe fatta né a far finta di nulla tornando
con
Ross, né a vivere in zona col rischio di incontrarlo felice
ed
innamorato insieme a Tess. Non poteva sopportarlo e non avrebbero
potuto nemmeno i bambini. Ma doveva parlargli, almeno un'ultima
volta... Doveva tentare, almeno per i suoi figli, per quelli che
c'erano e per quello che sarebbe arrivato. Forse, forse... In
realtà
non sapeva nemmeno cosa sperasse e SE sperasse in qualcosa. Ma sapeva
che doveva parlargli, per quanto doloroso potesse essere.
Con
passo stanco si avviò alla camera dei suoi figli per
controllare che
dormissero. Li trovò profondamente addormentati nella
spaziosa
stanza che Caroline e Dwight avevano predisposto per loro, nel
lettone, tranquilli e apparentemente sereni. Li coprì, li
baciò e
si mise la mantella in spalla. Anche se era tardi, doveva andare.
Tanto meglio se era notte, il buio avrebbe coperto i suoi passi, la
delusione cocente e forse le sue lacrime. Niente e nessuno avrebbe
visto, niente e nessuno avrebbe saputo...
Osservò
Prudie che sonnecchiava sul divano, ci avrebbe pensato lei ai
bambini, tanto che era era assente. Tutto era tranquillo e pacifico
in quella stanza e lei non chiedeva che questo, che loro stessero
bene! Lei sarebbe sopravvissuta in qualche modo, come sempre.
Chiuse
la porta dietro di se e Garrick tentò di seguirla ma
gentilmente lo
rimandò indietro, sul letto coi bambini. Poi scese al piano
di
sotto, aprì la porta e scomparve nell'oscurità,
diretta a Nampara.
...
Seduto
davanti al camino scoppiettante, in una casa immersa in un silenzio
tombale a cui non era più abituato, Ross si
massaggiò la gamba. Da
alcuni giorni la vecchia ferita di guerra che pareva guarita tanti
anni prima, aveva ripreso a fargli male con la stessa
intensità di
quando nella sua vita non era ancora comparsa Demelza. Lei in un
certo senso lo aveva guarito, da quella ferita e da tante altre meno
visibili ma ben più profonde, pian piano, lentamente, con
dolcezza e
senza forse che lui se ne rendesse conto all'inizio.
Ma
ora no, ora conosceva il valore di quella donna sposata inizialmente
quasi senza pensarci e spinto dalla voglia di sfidare le convenzioni
sociali e soprattutto sapeva quanto la amasse e quanto la sua vita
senza di lei e i loro figli fosse inutile e vuota.
Erano
stati sei mesi terribili per lui, quelli. Già provato
dall'ingiusta
morte di Ned, scoprire che i francesi stavano preparando proprio in
quelle terre, di nascosto, l'invasione dell'Inghilterra e uscirne
vivo dopo aver ottenuto la loro fiducia, era già di per se
un
miracolo, oltre che un trauma. Se l'invasione fosse andata a buon
fine quelle terre, le sue terre che amava e le persone che vi
vivevano, sarebbero state nel bel mezzo di una guerra che non avrebbe
risparmiato nessuno. Nemmeno la sua famiglia, sua moglie, i suoi
bambini e la sua casa...
E
si era trasformato in quello che Wickham aveva sempre voluto, pur
agendo di testa sua e di nascosto da tutti, anche dal governo
britannico. Si era finto amico dei francesi, aveva lavorato con loro
per nascondere armi fra le scogliere, aveva dato vaghe informazioni
su luoghi e abitudini del posto, aveva fatto in modo che quegli
invasori avessero fiducia in lui, aveva sbandierato ideologie che non
facevano parte del suo essere e aveva imparato ad essere convincente,
agendo apparentemente contro il suo paese per aiutarne un'altro,
invasore. Il tutto per ottenere informazioni da portare a Londra a
tempo debito e battere i francesi prima che potessero anche solo
recidere un fiore.
Era
stato nauseato nel constatare che alcuni dei suoi vicini aiutavano
gli invasori, gente ignorante come Jacka che non capivano il rischio
che correvano in caso di accusa di tradimento alla nazione. E poi
anche Tess...
Tess
non gli era mai piaciuta e anche se si era fidato del sesto senso di
Demelza di darle una possibilità e farla lavorare per loro,
alla
fine aveva dovuto arrendersi anche lei che nelle persone vedeva
sempre il bello, alla natura maligna di quella ragazza.
Che
collaborasse coi francesi, non lo aveva stupito così tanto.
Chissà
cosa le avevano promesso, chissà cosa si aspettava,
chissà con
quanta stupidità aveva accettato... Rischiava il cappio e si
comportava con la leggerezza di una bambina innocente...
Era
odiosa, sporca, maligna e piena di menzogne. Ma era stato costretto a
fingere anche con lei per essere creduto, per non essere sospettato
di essere una spia... Aveva finto interesse per quella ragazza che
invece lo ripugnava, ci aveva flirtato sotto gli occhi divertiti dei
francesi e anche se aveva sempre mantenuto fede alle sue promesse
matrimoniali adducendo scuse su scuse con Tess che non faceva altro
che chiedere intimità con lui, ogni giorno quella sua
menzogna
diventava sempre più difficile da tenere in piedi. Tess era
diventata aggressiva ed esigente e anche se i loro incontri
avvenivano tutti in cunicoli sotto terra e mai da soli, la voce di
una sua storia con lei doveva aver oltrepassato grotte e rocce ed
essere diventata di dominio pubblico.
La
conversazione avuta con Dwight nel pomeriggio lo aveva lasciato con
un terribile amaro in bocca. Aveva dovuto mentire anche con lui, col
suo migliore amico, per proteggerlo da quella situazione pericolosa.
Aveva dovuto fingere di essere un uomo cambiato e diverso, un uomo
senza più scrupoli che senza remore aveva voltato le spalle
a sua
moglie e ai suoi bambini.
E
questa era stata la cosa più difficile di tutti. Mentire a
Demelza,
allontanarsi da lei poco alla volta per fare in modo che se ne
andasse in un posto più sicuro, era stata una tortura per
lui.
Vedere la sofferenza sul volto di quella donna che amava più
della
sua vita senza poterla al momento consolare, era stata una lenta
agonia. Ma era per il suo bene perché se avesse saputo, se
le avesse
raccontato la verità e della missione in cui si era
imbarcato, lei
non avrebbe retto alla tensione e... E lui era sorvegliato, non
sapeva da chi e da quanto, ma aveva avvertito presenze continue
attorno a Nampara, nel cortile e nella stalla. Doveva essere amico
dei francesi, sia nelle grotte che a casa, ad ogni ora del giorno e
senza mai tradirsi.
Era
stato costretto ad allontanare Demelza, a rendersi odioso ai suoi
occhi perché coi bambini se ne andasse al sicuro da Dwight e
poi,
quanto tutto fosse finito, sarebbe andato a riprenderli raccontando
loro tutto quanto. Ma se fosse andato male qualcosa, solo lui avrebbe
dovuto pagare con la vita. Non loro, MAI loro! E se il prezzo da
pagare per la loro sicurezza era perderli, anche solo
momentaneamente, lo avrebbe pagato senza tentennamenti.
Anche
se, sentire da Dwight che Demelza sapeva della sua presunta tresca
con Tess...
Si
mise le mani nei capelli, non voleva quello, NON quello! Santo cielo,
aveva già inflitto – e stavolta per davvero
– un dolore simile a
sua moglie, un dolore che l'aveva quasi annientata e che aveva
portato il loro matrimonio a un passo dalla distruzione. E ora
pensarla mentre lo immaginava con Tess, a tradirla e a sussurrarle
parole d'amore che mai avrebbe rivolto a un'altra donna che non era
lei, lo atterriva. Aveva tentennato quando Dwight gli aveva detto che
Demelza conosceva la verità, aveva provato l'impulso di
correre a
Killawarren e urlarle quanto l'amava e cosa stesse succedendo
davvero. Non voleva infliggerle un dolore del genere, non poteva
permetterselo eppure non poteva permettersi neppure di metterla in
pericolo andando da lei e far scoprire la sua copertura.
Perché se
anche lui fosse sfuggito alle conseguenze delle sue azioni, i
bersagli sarebbero diventati probabilmente Demelza e i loro figli...
E così era rimasto immobile, davanti a Dwight, dicendo la
più
grande delle bugie...
"No,
non la amo più...".
Dwight ci
aveva creduto? Non
sapeva dirlo, il suo amico lo aveva guardato con sguardo
indecifrabile e poi, senza dire nulla, se n'era andato...
Lo aveva
detto a Demelza? Le
aveva inferto anche questo dolore?
Si torse le
mani,
nervosamente. Era in un vicolo cieco e non sapeva come uscirne, era
in trappola e non sapeva quando sarebbe potuto uscire allo scoperto.
I francesi dovevano fare in fretta a concordare la data
dell'invasione e lui a quel punto avrebbe avvertito il Governo di
Londra, si sarebbe messo in moto l'esercito e avrebbe potuto
riprendersi la sua famiglia, sano e salvo.
Non vedeva
l'ora, rivoleva i
suoi bambini e la sua donna, sua moglie. Nulla aveva senso senza di
lei, tutta la casa era diventata cupa e malinconica e il suo cuore
era ridotto anche peggio. Voleva lei, la sua voce, i suoi bellissimi
capelli rossi, il suo sorriso, il suo canto alla spinetta rivolto
solo a lui. La grandezza del suo animo che l'aveva sorretta anche
quando, col sorriso sulle labbra, si era trovata ad accogliere per
una sera Valentine in casa, facendolo giocare coi suoi bambini.
Ross sapeva
che lei sapeva...
O quanto meno che immaginasse. Forse più di lui che non
voleva
ammettere quella realtà perché guardare in faccia
al risultato dei
suoi errori faceva male ed era più comodo fuggire. Ma
Demelza no,
lei non era mai fuggita e aveva accettato senza recriminazioni quanto
successo sapendo di non poterlo cambiare, comprense le inevitabili
conseguenze.
E solo una
grandissima donna
con un cuore altrettanto grande, poteva accogliere con la dolcezza di
una mamma il bambino che il suo uomo, in un momento di follia,
probabilmente aveva concepito con un altra.
"Perdonami
e aspettami, presto sarà tutto finito, amore mio..." -
sussurrò
nell'oscurità, ripensando all'unica notte in
quei mesi in
cui aveva ceduto
al suo amore per lei, vedendola con gli occhi arrossati e
l'espressione triste. Quel suo caldo sorriso mancava da troppo tempo
e lui ne aveva bisogno, non
voleva che lei lo perdesse...
L'aveva
presa fra le braccia per portarla a letto, aveva fatto l'amore con
lei dopo che per molto si era imposto di non toccarla, aveva cercato
di infonderle forza e calore anche attraverso i suoi silenzi. Erano
anime perse in quel momento, bisognose l'una dell'altro, e non era
riuscito a fingere indifferenza. La amava troppo per far finta di
nulla, vedendola tanto prostrata. Lei
era la sua più grande forza e insieme, la sua più
grande debolezza.
Nel
silenzio della sera, improvvisamente
sentì l'uscio tintinnare e si mise in allerta. Non c'era
vento
quella sera e qualcuno doveva averlo mosso. O essercisi appoggiato.
Si
alzò in piedi con aria circospetta e quando vide di non
essere più
solo, spalancò gli occhi. Cosa
diavolo...? Lei
era lì, con
lo sguardo stanco ma di ghiaccio
"Demelza!".
Entrò
subito in allarme, che ci faceva lì a quell'ora tarda? Cosa
era
venuta a fare? Cosa diavolo le aveva detto Dwight? "Che ci fai
quì?" - chiese, freddamente, terrorizzato dall'idea che le
spie
che erano appostate spesso fuori casa potessero averla vista.
"Dovevo
parlare con te" – disse lei, in tono neutro.
Lui
tentò di andare verso di lei e la gamba lanciò
una fitta terribile
che lo costrinse ad appoggiarsi al sofà. "Non avevamo
già
parlato?".
Demelza,
a dispetto di tutto, parve preoccuparsi. "Cos'hai?".
"Solo
una vecchia ferita di guerra alla gamba che ogni tanto mi tormenta".
"Erano
anni che non ti faceva male" – notò lei.
Lui
alzò lo sguardo, guardandola con occhi foschi e torvi. "Sei
venuta fin quì a quest'ora di notte per parlare della mia
gamba?".
"No"
– rispose sua moglie, tornando gelida.
"Vorrei
ben vedere, è da irresponsabili uscire a quest'ora senza un
ottimo
motivo".
"E
non ne ho di ottimi motivi, Ross?".
"E
allora?
Parla!".
"Voglio
sentire dalla tua voce
la
verità! La stessa verità che hai detto a Dwight".
Lui
scosse la testa, non poteva e non voleva e avevano già
affrontato
quell'argomento. "Come ti ho già detto, esistono cose che io
non ti ho mai chiesto e di cui non ti ho mai costretto a rendermi
conto. Non l'ho fatto per te, per noi e perché non voglio
sentire le
risposte che potresti darmi. Ti consiglio lo stesso atteggiamento
saggio, ci faremo meno male entrambi". Sapeva di essere un
codardo, sapeva che nominare, anche se velatamente, Hugh Armitage era
cattiveria pura perché la feriva profondamente ed entrambi
avevano
sbagliato nel loro matrimonio ma era altrettanto vero che poi erano
stati capaci di ricostruire il loro rapporto e di riscegliersi,
ognuno con le proprie imperfezioni ed errori, sapendo che al mondo
non esisteva altro posto per loro che uno accanto all'altra. Ma in
quel momento non poteva fare altro, doveva chiudere la discussione e
agire malignamente l'avrebbe fatta andar via più in fretta,
lontano
e al sicuro, a Killawarren.
Demelza
impallidì. "Eppure, io devo sapere la verità...
Ora
soprattutto".
"Perché?".
Lei
prese un profondo respiro. "Perché aspetto tuo figlio".
Santo
cielo... Ross
sentì le gambe
traballargli in maniera preoccupante e dovette aggrapparsi ancora
più
forte al sofà per non cadere, dopo
aver sentito quella notizia che, fra tutte, era l'ultima che poteva
aspettarsi e che poteva scombinare tutte le carte in quel gioco
pericoloso.
"Cosa?".
Santo cielo, no, NO!!! Non ora, non adesso che non poteva prendersi
cura di lei ed era costretto ad allontanarla! Non era più
successo
dopo Clowance, in sette anni d'amore, pur intervallati da una crisi
profonda, Demelza non era più rimasta incinta ed adesso per
una
volta, una sola volta... Non se lo aspettava e tutti i suoi
proponimenti parvero svanire per un attimo. Voleva abbracciarla,
baciarla, stringerla a se assieme al loro bambino e
dirgli che era felice – perché dannazione, lo era
eccome –
ma non poteva. Non ancora, non ora! SOPRATTUTTO ora! Adesso che lei
era più vulnerabile, adesso che aveva bisogno di cure e
tranquillità, adesso che portava in grembo un nuovo bimbo da
proteggere, non poteva permettersi alcuna debolezza. Era per il suo
bene e sperava che Demelza, una volta scoperta la verità, lo
avrebbe
capito. "E' per questo che sei andata da Dwight? E' una buona
scelta, è un medico e ti seguirà al meglio".
Demelza
chiuse gli occhi lentamente, ricacciando indietro le lacrime. "No"
– disse, delusa. "Non è per questo".
Ross
si risedette sul sofà, fingendo indifferenza. "Beh, ma la
sostanza non cambia. Da Dwight sarai curata e seguita e io
potrò
stare tranquillo".
Lei
si morse il labbro. "Stare tranquillo? E' solo a questo che
aspiri?".
"Sì,
a conti fatti, sì!".
Demelza
fece un sorriso amaro e anche se il suo viso pareva trasfigurato dal
dolore, mantenne uno strano contegno che a Ross fece paura. La rabbia
e le urla le avrebbe potute capire e affrontare ma quella freddezza,
quel suo sguardo vuoto e perso, lo annichilivano.
"Lontana
da quì, lontana dai tuoi occhi, potrai viverti le tue nuove
passioni, giusto?" - gli chiese, sibillina.
Lui
non rispose e si mise a fissare le fiamme nel camino. "E' tardi
e dovresti tornare da dove sei venuta. Vorrei che ti riguardassi e
che ti affidassi a Dwight".
Demelza
si massaggiò il ventre. "Affidarmi a Dwight? Sì
Ross, è
esattamente quello che ho in mente di fare".
E
senza aggiungere altro, gli voltò le spalle e se ne
andò senza che
Ross capisse il senso delle sue ultime parole.
Fu
Dwight a capirle, la mattina successiva, quando la trovò
seduta
all'alba, come se non fosse mai andata a dormire, nel salotto della
sua dimora.
Pallida,
con un'espressione che non pareva nemmeno più la sua,
Demelza lo
guardò in viso. "Dwight, sei un medico, giusto?"
Preoccupato,
lui le si avvicinò e le tastò la fronte per
accertarsi che non
avesse la febbre. "Così dicono... Tanto che mi sono
svegliato
quasi prima di te per andare a Truro a curare l'ascesso della signora
Tirtle".
"Hai
fatto nascere Jeremy" – disse lei, assorta.
"Vero".
"E
ora, ora... aspetto un altro bambino".
Dwight
spalancò gli occhi ed impallidì proprio come Ross
poche ore prima.
Il suo
sguardo si riempì
d'orrore. "Cosa?".
Demelza
lo fermò, prima che potesse commiserarla e considerarla una
povera
vittima della situazione. "Non dire nulla... Non voglio sentire
niente! Ho solo un favore da chiederti".
"Quale?".
"Tu
sai far nascere i bambini ma se ti chiedessi il contrario?".
Dwight
divenne ancora più pallido, capendo a cosa alludesse.
"Demelza...".
Lei
strinse i lembi della sua gonna, parlando con una freddezza che
faceva a pugni con la sua consueta solarità e dolcezza. E
con la figura di madre dolce e meravigliosa che era sempre stata.
"Non dire
niente. Non
voglio prediche, non voglio giudizi, non voglio sermoni. Non posso
avere questo figlio, non posso per rispetto di Jeremy e Clowance che
hanno solo me e non abbiamo più niente. Non posso e non
voglio".
"Demelza,
non essere affrettata!" - cercò di farla ragionare Dwight.
Ma
lei lo fissò, con occhi spenti e opachi. "Se non lo farai
tu,
troverò qualcun altro che potrà aiutarmi".
E
questo mise Dwight con le spalle al muro.
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Demelza
aveva chiesto a Prudie di star fuori tutto il giorno coi bambini e,
nonostante la serva avesse ben chiaro cosa volesse fare e avesse
cercato di dissuaderla, lei non l'aveva lasciata parlare e l'aveva
mandata via. Non voleva sentire nessuno, non voleva i consigli di
nessuno, voleva solo mettere fine quanto prima a quell'incubo,
piangere e poi andare via, lontano, coi due figli che già
c'erano e
che sarebbe stato difficile crescere da sola.
Adducendo
un malessere e senza dare spiegazioni a Caroline per non ferirla, si
era messa a letto e aveva atteso che Dwight tornasse dalle sue
visite.
Mille
pensieri le affollavano la mente: Ross, il suo futuro, Jeremy e
Clowance e sì, anche il bambino che aspettava. Ma
quest'ultimo
pensiero, appena si affacciava, veniva ricacciato indietro da dolore,
rancore e sensi di colpa. Non era colpa del bambino, ma sua e di
Ross. Non avrebbe dovuto permettere che succedesse ma era successo e
ora... ora per la prima volta da quando era venuta al mondo, non si
sentiva desiderosa di dar la vita a un figlio. Non poteva
permetterselo e soprattutto, con una fitta al cuore, dopo quanto
successo non provava nulla. Non lo voleva e cosa ancora più
incisiva, non sentiva di amarlo...
Con
un gesto leggero si sfiorò il ventre, trovando mille buoni
motivi
per portare a termine la scelta che aveva preso: si sarebbe trovata
senza soldi e con un futuro da costruire e sarebbe stata l'unica
responsabile di Jeremy e Clowance e con mezzi scarsi e poco denaro,
non poteva permettersi di mantenere un altro bambino. Non sarebbe
stato giusto per i figli che già c'erano. E certo, Ross
aveva le sue
responsabilità e dei doveri ma non li avrebbe rivendicati
perché
non aveva senso farlo. Non poteva restare o la poca sanità
mentale
che ancora possedeva, sarebbe svanita. E i suoi figli allora
sarebbero stati davvero soli al mondo...
Aveva
lottato tanto nella sua vita ma ora sentiva di non averne
più la
forza. Si era rialzata dalle botte di suo padre, aveva sopportato
sulle sue spalle di ragazzina i lavori più duri, era
sopravvissuta
alla morte di Julia, ad Elizabeth e Ross... Ross era diventato la sua
unica certezza, la persona che amava e sempre avrebbe amato, colui
con cui avrebbe passato la sua vita. Santo cielo, lo amava anche
adesso, nonostante tutto! Era suo, e lei gli apparteneva. Sempre
avrebbe sentito di appartenergli, per quanta strada avesse deciso di
fare, si sarebbe sempre sentita la moglie di Ross Podark.
Stupida,
stupida! Che sciocca patetica sentimentale che era stata e che era
ancora! Davvero ci aveva creduto alla fiaba e al vissero felici e
contenti? Mai dare le cose per scontate, MAI! Ross l'aveva
già
tradita una volta e anche se lo avevano superato, anche se negli
ultimi anni il loro rapporto era diventato forte e simbiotico, chi
poteva garantirle che un uomo che ha tradito, non tradisca ancora?
Cercò
di scacciare quei pensieri, di Ross e del bambino soprattutto. E si
concentrò sul 'dopo'. Aveva idee nebulose al riguardo ma
sapeva che
doveva andarsene via dalla Cornovaglia. In un posto lontano, dove non
avrebbe visto, sentito o saputo più nulla di Ross e lui di
lei. Non
voleva nemmeno pensare all'eventualità di restare per
vederlo a
Nampara o in giro, a braccetto con Tess. No, questo l'avrebbe uccisa
di certo! Tess padrona di Nampara, custode del cuore di Ross, amata
nel letto che era stato suo e dove erano nati i suoi bambini... Santo
cielo, si sentiva di impazzire!
Ripensò
alla sua vita frenetica di quei due ultimi anni, alle tante cose
successe, scacciò dai ricordi i momenti e le parole
più belle
condivise con Ross e si concentrò sulle cose più
terrene: Cecily e
Kitty se n'erano andate lontane per costruirsi un nuovo futuro e
lasciarsi il passato alle spalle e lei avrebbe dovuto fare lo stesso.
E
se...?
Non
riuscì a concludere quel pensiero che la porta si
aprì
sommessamente e lei scattò seduta, sul letto, mentre il
cuore le
accelerava. "Dwight...". Il suo amico dottore era arrivato
e quindi era giunto il momento...
Con
la sua borsa da medico che tante volte gli aveva visto fra le mani,
l'uomo le sorrise tirato, avvicinandosi al letto e sedendosi accanto
a lei. "Caroline mi ha detto che oggi non ti sei sentita bene e
che hai voluto rimanere a letto. Ti ringrazio per non aver parlato a
mia moglie di quello che... che...".
"Del
bambino?" - lo interruppe Demelza. "Non lo farei mai, so
quanto Caroline ancora soffra per Sarah. E se solo potessi darlo a
voi questo bambino, sarei la persona più felice del mondo.
So che lo
amereste e crescereste nel massimo amore. Ma non si può...".
Dwight
sospirò, incapace di continuare quel discorso che tanto gli
ricordava la sua bambina perduta. "Non hai cambiato idea?".
"No,
non posso permettermelo. E tu lo sai".
Pallido,
Dwight scosse la testa. "Demelza, io e Caroline siamo disposti a
darti tutto l'aiuto possibile, economico e morale. Non devi farlo,
non sei costretta a farlo. Se solo aspettassi di essere più
lucida,
capiresti che è una scelta che va contro te stessa e
ciò che sei.
Non te lo perdoneresti mai".
Demelza
si mise le mani sulle orecchie. Era troppo ciò che Dwight
stava
dicendo, troppo da sentire e troppo insopportabile da accettare.
Sapeva che la sua vita sarebbe stata macchiata per sempre da questa
scelta, sapeva che non c'era via di ritorno, sapeva che non avrebbe
mai avuto la forza di guardarsi allo specchio e sapeva che sarebbe
arrivato il giorno in cui avrebbe pianto ogni sua lacrima al
pensiero. Sapeva anche che sarebbe arrivato il momento in cui, ad
ogni bimbo che incrociava, si sarebbe chiesta se suo figlio avrebbe
camminato allo stesso modo, quali giochi avrebbe amato fare e a chi
sarebbe assomigliato. Sapeva tutto e non c'era bisogno che Dwight
glielo dicesse, era consapevole di ogni cosa. "Dwight, non dire
nulla".
Lui
si morse il labbro. "Santo cielo, prenderei Ross a pugni in
questo momento, per averti spinta a questo!".
"Ma
non risolverebbe la situazione" – gli rispose, con
praticità.
"Lui
ha delle responsabilità e tu dovresti pretendere che se le
assuma.
Senza arrivare a far del male a te stessa e al tuo bambino".
La
donna abbassò il viso. "Non voglio... Non voglio un uomo che
fa
il padre perché costretto, voglio un uomo che fa il padre
con amore.
Il resto non ha senso".
Dwight,
con sommo dolore, le strinse le mani. "Demelza, da una scelta
così non si torna indietro".
"Sono
molte le scelte che dovrò fare, da cui non si
potrà tornare
indietro. Questa è solo una di quelle e questo bambino,
Dwight..."
- si sfiorò il ventre ancora piatto – "Questo
bambino ora è
poco più di un'idea, talmente piccolo che nemmeno si nota la
sua
esistenza".
"Ma
esiste!" - obiettò Dwight. "E so che hai mille buone
ragioni per sentire che questo è ciò che devi
fare, ma io ti
conosco e so che passati questi giorni tanto duri, passeresti la tua
vita a maledirti".
Facendo
violenza a se stessa per non piangere, Demelza si impose di essere
forte. "Forse no... Mi sopravvaluti Dwight, non sono una donna
tanto virtuosa. A tutto c'è un limite e io sono stata forte
fin
troppe volte. Ora non ce la faccio, ora non riesco semplicemente ad
amare nonostante tutto. E' come se fossi addormentata, è
come se non
provassi più nulla per niente e nessuno. So solo che amo i
miei due
figli ma tutto il resto, anche me stessa, non ha più
importanza. E
questo altro bambino non lo voglio, non provo nulla per lui e non si
può piangere per sempre qualcuno che non si è
amato. Passerò
qualche giorno a letto e poi mi riprenderò come se lui non
fosse mai
esistito".
Dwight
la guardò per un attimo in silenzio, scettico sul
significato di
quelle parole ma certo di quanto fosse sconvolta in quel momento.
"Dimmi solo una cosa, Demelza".
"Cosa?".
"Non
lo vuoi fare per ripicca verso Ross, vero? Questo devo saperlo...".
Demelza
sorrise amaramente. "La vendetta non fa parte di me e al momento
non ne avrei nemmeno la forza".
Con
un gesto gentile, Dwight le accarezzò la guancia. "E allora
non
c'è altro di cui stare a parlare, stenditi e solleva la
camicia da
notte. Cercherò di fare più in fretta che posso.
Non riesco a
prometterti che non sentirai dolore ma farò in modo che tu
ne senta
il meno possibile. Se questa cosa va fatta e ne sei convinta, prima
procediamo e meglio è".
Il
cuore di Demelza, nonostante la convinzione di ciò che stava
per
fare, a quelle parole accelerò. Tremò mentre
guardava Dwight aprire
la sua borsa ed estrarne ferri chirurgici su cui c'era ben poco da
immaginare l'uso e per un attimo chiuse gli occhi, chiedendo
silenziosamente scusa a lui o a lei, chiunque fosse, chiunque sarebbe
stato... E pregò in silenzio che fosse vero, che davvero
esistesse
per tutti una seconda possibilità e che quel bambino avrebbe
avuto
un'altra occasione per nascere ed essere amato da due genitori che lo
desideravano e che l'avrebbero accolto con amore. "Mi
dispiace..." - sussurrò, mentre una lacrima solitaria le
solcava il volto.
"Demelza,
vuoi del brandy?" - le chiese gentilmente Dwight, sedendosi sul
letto accanto a lei.
Scosse
la testa. "No, non voglio nulla".
"Te
lo consiglio. Ti rilaserà e ti stordirà quel
tanto che basta per
non renderti conto appieno di ciò che farò. Dopo,
quando ti
sveglierai, basteranno alcuni giorni di riposo e poi potrai
riprendere appieno la tua vita".
"No,
non voglio nulla. Fa solo ciò che devi...". Non voleva del
brandy, non voleva non sentire nulla, sapeva di meritare di sentire
TUTTO. E se il dolore serviva ad espiare una colpa, sperava di
sentirne a sufficienza per acquietare i suoi rimorsi per sempre.
Dwight
sospirò, sfiorandole la camicia da notte per sollevarla
abbastanza
per procedere all'intervento. "Cerca di rilassarti e se senti
troppo dolore, dimmelo".
Demelza
non rispose. Chiuse gli occhi, prese un profondo respiro e poi
cercò
di isolare la sua mente e il suo cuore da tutto il resto.
Sentì
Dwight che appoggiava al letto i suoi strumenti chirurgici,
sentì
che le sfiorava le gambe affinché lei le aprisse e si morse
il
labbro quando la visitò, per accertare che la gravidanza ci
fosse e
stesse effettivamente procedendo. Poi lui le accarezzò la
fronte,
con una gentilezza che solo un amico, non un medico, avrebbe potuto
dedicarle. "D'accordo, ora inizio".
Il
cuore di Demelza accelerò. Pensò a Julia, a
Jeremy, a Clowance...
Ai loro visini perfetti, alle loro prime stentate parole, ai loro
primi traballanti passi, ai loro sorrisi buffi e ai sogni che avevano
per il loro futuro. Era una madre, dannazione! E stava per uccidere
suo figlio!
Sentì
la pressione della mano di Dwight sul suo corpo, non un gesto gentile
come poco prima ma più brusco, non un gesto fatto per
guarire ma
qualcosa fatto per uccidere. E glielo aveva chiesto lei...
D'istinto
si scostò velocemente da lui, un gesto che coscientemente
non si
sarebbe certo sognata di fare fino a due minuti prima. Ma lo fece,
senza nemmeno sapere il perché... "NO!" - urlò,
con tutta
la disperazione che aveva in corpo. "No, no..." -
singhiozzò, prima di scoppiare a piangere come se fosse
stata una
bambina.
Dwight
sorrise, tristemente, ma sorrise. Come se se lo fosse aspettato... E
con un gesto quasi paterno la strinse a se, cullandola dolcemente.
"No, Demelza. No...". Le accarezzò la schiena senza dire
nulla, tenendola stretta a se, percependo il suo dolore e la sua
rabbia, ma soprattutto la sua incapacità a portare a termine
quella
scelta che forse altre donne avrebbero potuto fare con più
leggerezza, ma non Demelza.
"Oh
Dwight..." - pianse lei, fra le sue braccia... "Sono una
stupida che ti sta facendo perdere tempo..." - sussurrò,
quasi
a scusarsi.
"Non
vedo nessuna stupida in questa stanza ma al contrario, una donna
molto forte".
Lei
scosse la testa, furiosamente. "E' quello che volevo fare, è
quello che so di dover fare... Ma non ci riesco e forse dovrei
semplicemente ubriacarmi con quel brandy tanto da stordirmi e
lascarti fare... Ma non ci riesco, non posso".
Dwight,
la adagiò sul materasso, coprendole le gambe con la coperta
e
riponendo i suoi ferri nella borsa. "Niente brandy e niente
scelte di cui pentirsi, Demelza. Sapevo che non mi avresti permesso
di farlo, sapevo che ti saresti tirata indietro all'ultimo, ti
conosco e so che ami i tuoi figli".
Con
un gesto rabbioso, lei strinse la coperta. "Sì, amo Jeremy e
Clowance. E Julia... Ma questo bambino no, so di non volerlo e non so
nemmeno se mai potrei amarlo... Ma quando mi hai toccata, quando ho
capito che nel giro di pochi minuti sarebbe finito tutto, ho capito
che non potevo farlo. Ed è egoista, l'ho fatto per me! Non
per lui,
per me e per non sentirmi un mostro! E questo bambino
nascerà senza
essere voluto, senza un padre e con una madre che per lui non prova
nulla! Lo sto condannando all'infelicità per il mio egoismo".
"Oh,
Demelza...". Dwight le si risedette a fianco, cercando di
calmarla. "Tu ami i tuoi figli. TUTTI i tuoi figli... Ora sei
impermeabile ai sentimenti, sei ferita e soffri e tutto ciò
che vedi
è buio attorno e dentro di te. Ma so che questo bambino,
quando
nascerà, sarà amato a pari degli altri e che
sarà la tua ragione
di vita come Jeremy e Clowance. Hai bisogno di riposo, di pace e
serenità e poi saprai rialzarti. Ne sono sicuro...".
Demelza
fece un sorriso tirato. "Io no, ma ti ringrazio per le tue
parole".
"Andrà
bene" – rispose Dwight, dandole un buffetto sulla guancia.
"Andrà bene perché tu sai benissimo che questo
bambino, almeno
da parte tua, è stato concepito con amore. E questo so che
ti
basterà per sentirti sua madre e amarlo come merita. E io e
Caroline
saremo quì a darti supporto".
Con
la mano, Demelza si asciugò le lacrime che le rigavano le
guance.
Poi fece un sorriso timido ma intenso e pieno già di
nostalgia.
Dwight, Caroline, Drake, Morwenna, Sam, tutti... Santo cielo quanto
gli sarebbero mancati... "No, Dwight, non lo farai...".
"Cosa?".
"Non
potrai prenderti cura di noi, voglio cavarmela da sola. E non posso
restare quì, impazzirei e i bambini soffrirebbero troppo nel
vedere
il loro padre con Tess, in quella che è stata la nostra
casa. Amano
Ross, Jeremy lo venera, per Clowance è un principe azzurro e
so che
per il bene di tutti devo andarmene".
Dwight
entrò in allarme. "Andartene? Dove? Non puoi aspettare
almeno
che il bambino sia nato? Quì avresti tutto e ti proteggerei
da...
ogni cosa... O persona...".
Capendo
il suo stupore e le sue preoccupazioni ma intenzionata a non farsene
schiacciare, Demelza gli prese le mani, stringendole nelle sue con
affetto. "Lo so che lo faresti ma no, non posso restare. Fammi
partire, Dwight... Se voglio dare una possibilità a questo
bambino
che aspetto e che ho deciso di tenere, devo andarmene lontano in un
posto dove nessuno conosce me, Ross o la nostra storia. Ricominciare
da zero, una nuova vita e una nuova identità. In un posto
dove
nessuno potrà mai trovarmi".
Dwight
deglutì, capendo che non poteva farle cambiare idea e che in
effetti, andarsene era la scelta migliore per lei, la sua salute e i
suoi bambini. "Dove vuoi andare? Almeno questo, puoi dirmelo?".
Lei
annuì. "Seguirò le orme di Cecily e Kitty. Le
raggiungerò in
Jamaica, è da ieri che ci penso e le avrei raggiunte
comunque,
incinta o no. Ognuna di loro è fuggita in quelle terre per
lasciarsi
alle spalle un passato doloroso e riniziare da zero, indipendenti e
libere. E io ho bisogno di fare lo stesso, non c'è
più nulla per
me, quì".
Il
pover'uomo impallidì. "Jamaica? Demelza, è un
luogo lontano,
selvaggio e così diverso da queste terre. E' un luogo
pericoloso per
una donna sola con dei bambini, infestato da briganti e pirati".
"So
stare al mondo, Dwight! E non sarò sola, ci saranno Cecily e
Kitty
con me, saremo una bella squadra di sorelle...".
"E'
un viaggio lungo da affrontare, per una donna incinta".
Lei
sospirò. "Posso farcela, so essere forte quando è
necessario
esserlo".
Dwight
la abbracciò, intensamente, accarezzandole i capelli. Capiva
che
aveva ragione lei, capiva che era una scelta ponderata e non
irrazionale, capiva che ne aveva bisogno e che era un bene che lo
facesse. "Ci mancherai ma so ce è quello che devi fare, se
senti che è la strada migliore per te. Ma i bambini? Come la
prenderanno? Lo dirai a Ross?".
Demelza
abbassò il capo. Già, quella sarebbe stata la
parte più difficile
ma sapeva che non c'era altro modo per lei e per loro, di ritrovare
la serenità perduta. Con Ross in fondo aveva già
parlato e non
c'era motivo di farlo ancora, lui aveva ben chiarito quali fossero le
sue priorità al momento e di certo non erano né
lei né i loro
figli. "Cercherò di spiegare loro la situazione nel modo
più
semplice possibile, senza mentire ma cercando di non ferirli troppo.
Amano il loro padre e sarà un dispiacere sapere che lui ha
scelto
una nuova vita di cui noi non facciamo più parte, ma
cercherò di
farglielo accettare. E di mostrar loro questo viaggio come l'inizio
di una grande avventura. E per quanto riguarda Ross...".
"Sì?".
Demelza
gli strinse le mani. "Non deve sapere nulla, non dovrà
ritrovarci MAI. Non dirgli nulla, nemmeno se ti implorasse, su dove
siamo diretti. Puoi prometterlo?".
Dwight
annuì, tristemente. "Non è difficile
promettertelo, visto che
non ho intenzione di rivolgergli mai più la parola. Ma
almeno a
Caroline, posso dirlo?".
"Certo".
"Ci
scriverai ogni tanto, per dirci che stai bene?".
"Ovviamente".
"E
accetterai un pò di denaro, quanto meno per il viaggio e per
cominciare una nuova vita?".
"Dwight...".
"Accetterai,
per il bene dei tuoi bambini?".
Capendo
che non poteva obiettare né tanto meno rifiutare, Demelza
scelse di
mettere sotto terra il suo orgoglio e di farsi aiutare. "Solo il
minimo indispensabile, posso lavorare".
"Potrai
lavorare quando avrai partorito, non prima. E mi farai sapere di
questo bambino o bambina, quando nascerà e sarà
amatissimo?".
Demelza
annuì, sorridendo amaramente. Non credeva che sarebbe
successo, ma
Dwight lo faceva sembrare così possibile che per un attimo
desiderò
credergli... "Certo, te lo prometto". E dicendo quelle
parole, Demelza capì senza ombra di dubbio che quella
sarebbe stata
la sua strada e che da quel momento non sarebbe più potuta
tornare
indietro.
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
"Prudie,
non sei obbligata a venire!" - sussurrò Demelza con aria
stanca, chiudendo la misera sacca da viaggio con le poche cose che
aveva intenzione di portarsi dietro in Jamaica. Dicevano che erano
terre calde, non avrebbero avuto bisogno di molti abiti, dicevano che
erano terre ricche, non avrebbero avuto bisogno di molti oggetti da
portarsi dietro, dicevano che erano terre rigogliose, non sarebbe
stato difficile quindi procurarsi del cibo...
Prudie
scosse la testa. "Rimanere quì? A Nampara?".
"E'
sempre stata la tua casa...".
Prudie
divenne rossa dalla rabbia. "A fare da SERVA a Tess? Nemmeno
morta! Io vengo con te, ragazza! Avrai bisogno di me con tre bambini,
di cui uno ancora nemmeno è nato. C'ero alla nascita di ogni
tuo
marmocchio, quindi non mi perdo l'entrata trionfale in questo mondo
dell'ennesimo moccioso Poldark. E se torno a Nampara rischio la
forca, li uccido quei due, il signor Ross e quella piccola...".
Prudie
fece per pronunciare un titolo poco lusinghiero su Tess ma fu
costretta a fermarsi. Jeremy e Clowance entrarono nella stanza dopo
aver passato il pomeriggio in giardino a giocare con Horace e Garrick
e la serva dovette mordersi la lingua.
Demelza
osservò i suoi bambini, ancora così ignari,
ancora solo convinti
che quella a casa di Dwight non fosse che una gita di qualche
giorno... Era ora di parlare, era ora di cercare di far loro capire
che la loro vita sarebbe cambiata radicalmente. E doveva farlo con
tatto, con dolcezza, cercando di essere sincera ma allo stesso tempo
di non turbarli... Non c'era più tempo per fingere che tutto
andasse
bene e presto avrebbero comunque iniziato a fare domande. "Prudie,
andresti di sotto a prepararci del tè?" - chiese,
gentilmente.
La
donna la fissò un pò corrucciata. "Sei sicura di
volerlo fare
da sola?".
"Sì".
Era sicura... Ormai ne aveva parlato sia con Dwight che con Caroline,
quindi mancava solo l'ultimo passo per chiudere quella vicenda e
quella parte della sua vita in Cornovaglia.
La
serva uscì e Jeremy e Clowance si avvicinarono al letto dove
la
sacca da viaggio era stata chiusa. "Mamma, si torna a casa?"
- chiese il bambino, osservandola.
"Viene
a prenderci papà?" - aggiunse Clowance.
Al
diavolo, no, papà non sarebbe venuto a prenderli! Demelza
prese un
profondo respiro, era tutto così dannatamente difficile...
"No,
in realtà non stiamo tornando a casa ma al contrario, stiamo
per
partire per un lungo ed avventuroso viaggio". Cercò di
apparire
contenta, entusiasta, ottimista ed allegra. Ma viste le espressioni
perplesse dei suoi due figli, probabilmente stava miseramente
fallendo nel suo intento...
"Partire?
Per dove? E papà?" - chiese Jeremy.
Demelza
sospirò, sedendosi sul letto ed attirandoli a se,
prendendoli per
mano. Sentiva di dover dare loro forza e allo stesso tempo aveva il
disperato bisogno che loro ne dessero a lei. "Papà ed io...
Ci
sono un pò di cose che non vanno, lo avete visto anche voi
prima che
venissimo quì da zia Caroline e zio Dwight, giusto?".
"Avete
litigato?" - chiese Clowance.
"Non
proprio... Cioè, sì. Ma non è questo
il punto".
Jeremy
si fece serio, serrò i pugni e tremò leggermente.
Ormai aveva più
di dieci anni ed era troppo grande per bersi una stupida ed
edulcorata storiella e di certo aveva capito che qualcosa non andava.
"Mamma, perché siamo quì senza papà? E
perché partiamo? Cosa
è successo?".
Cercò
le parole giuste dentro di se, ma come poteva spiegare? Come poteva
fare in modo che non odiassero il loro padre? Non voleva che
succedesse, anche se Ross le aveva fatto del male era certa che
avesse amato i suoi bambini. E non voleva che i bambini provassero un
sentimento che alla lunga avrebbe finito per logorarli e renderli
diversi dalle piccole splendide persone che erano e sarebbero
diventate. "A volte capita che i grandi prendano strade diverse,
che si preferisca altro, che non si sia più felici del
proprio modo
di vivere... E allora si cerca di cambiare strada per ritrovare se
stessi ed è quello che sta facendo vostro padre e che voglio
fare
anche io".
"Non
capisco, mamma" – mormorò Clowance, spaventata.
"Cosa
preferisce adesso papà?" - chiese Jeremy.
"Altro..."
- rispose Demelza, vaga. "Altro che non riguarda noi... Ma non
vuol dire che non ti ami più, tesoro mio, vuol dire solo...".
Jeremy
scosse la testa, furiosamente. Adorava suo padre, era il suo pensiero
fisso quando non c'era ed attendeva sempre impazientemente il suo
ritorno da Londra, ogni volta che lui partiva. Era logico che non
capisse e lei non sapeva come spiegarglielo. Era impossibile,
forse... "Jeremy, dovresti fidarti di me e basta!" - cercò
di tagliare corto, sperando che lui non insistesse, anche se in
effetti aveva tutto il diritto di farlo.
Il
ragazzino indietreggiò, furioso e disperato. "Mamma, tu ti
sbagli! Papà vuole stare con noi, non vuole altro! Vuole te!
E me e
Clowance. Basta che glielo chiedi e lui te lo dirà meglio di
me!
Andiamo a casa, andiamo a parlare con papà e lui ti
dirà che hai
capito male".
Jeremy
si aggrappò alla sua gonna disperato, singhiozzando,
piangendo e lei
lo strinse a se, assieme a Clowance che era silenziosa ed atterrita.
"Amori miei, non ho capito male. Quì non c'è
posto per noi e
vostro padre preferirebbe così...".
"Non
ti credo!" - urlò Jeremy. "Mamma, mamma non voglio fare un
viaggio, voglio andare a casa mia. Da papà! Come farebbe
senza di
noi? Perché sei cattiva, perché lo vuoi lasciare
solo? Non gli vuoi
più bene?".
Demelza
sussultò. Santo cielo, era questa la sua colpa adesso!?
Sarebbe
stata lei a pagare per quanto stava succedendo? Lei che per Ross
viveva e che per lui sarebbe morta gettandosi nel fuoco? Cos'era, uno
scotto tardivo per il tradimento con Hugh? Stava pagando con gli
arretrati quell'errore di cui forse mai aveva davvero reso conto?
"Jeremy, io amo tuo padre più di ogni altra cosa".
"Ma
lo vuoi lasciare..." - singhiozzò Clowance.
E
Demelza cedette, non c'era altro modo che essere sinceri, forse...
"No, non io. E' lui che non vuole più me...".
Jeremy
si bloccò, a occhi spalancati. "Mamma...?".
Lei
gli accarezzò dolcemente il viso. "Succede, come ti dicevo
prima. Fa male, tanto male a me come a lui ma si deve essere forti e
capire quando è giunta l'ora di arrendersi e prendere
un'altra
strada. E allora si deve andare avanti altrove... Ho amato vostro
padre e lui ha amato me, siamo stati felici e abbiamo costruito tante
cose insieme. Ed abbiamo fatto voi e di questo saremo sempre grati.
Ma è finita, adesso, anche se..."
"Anche
se?" - chiese Jeremy, con gli occhi lucidi e atterriti.
"Sapete,
c'è anche un'altra cosa che ci succederà, quando
saremo arrivati
dove ho intenzione di andare con voi, nel nostro viaggio
avventuroso".
Con
gli occhi velati di lacrime, Clowance la guardò incuriosita.
"Cosa?".
Demelza
si massaggiò il ventre dove c'era quel bambino non voluto ma
che
aveva follemente deciso di tenere, nonostante tutto. Non sapeva che
ne sarebbe stato di lui o lei e nemmeno se e quanto ci avrebbe messo
a volergli bene. Ma forse per i suoi bambini, quel fratellino poteva
diventare uno spiraglio di luce in quel momento tanto buio. "Avrete
un fratellino o una sorellina, fra qualche mese".
I
bambini rimasero in silenzio, senza dire nulla. Se ne fossero felici,
se la notizia avesse rasserenato i loro animi, era difficile dirlo.
Troppo era il dolore per un padre perso e di certo uno sconosciuto
bambino non avrebbe potuto lenirlo. Ci sarebbe voluto tempo per
curare le ferite, tanto tempo per tutti...
Jeremy
deglutì. "E papà ti fa andare via con noi e con
un altro
fratellino? Non ci crederò mai! Papà non lo
farebbe mai! Mamma,
torniamo a casa, tu ti sbagli e lui non vorrebbe!".
Gli
occhi di Demelza si inondarono di lacrime. Avrebbe tanto voluto
credergli, avrebbe tanto voluto che fosse come diceva lui ma la
realtà era un'altra: Ross non la amava più, la
tradiva con un'altra
donna e non era interessato al piccolo in arrivo. E non era la prima
volta, ci era già passata ma raccontarlo a Jeremy,
raccontargli di
come una volta anche Elizabeth si fosse insinuata fra loro e di come
avesse reso inconsistenti agli occhi di Ross entrambi, non avrebbe
aiutato suo figlio ad accettare la cosa ma al contrario, lo avrebbe
ferito ancora di più. Non poteva dirlo, non poteva
raccontarlo, non
poteva distruggere così tanto il mondo di Jeremy e Clowance.
"Come
ti dicevo prima, amo tanto il tuo papà, Jeremy. E non lo
lascerei se
non fossi certa che non è me che cerca per essere felice".
"Cosa
cerca, lui?" - chiese Jeremy, turbato dal vederla piangere e
forse pentito per averla attaccata tanto duramente poco prima.
"Altro..."
- rispose Demelza, con un filo di voce.
"Cosa?".
"Altro...".
"Altro
meglio di te? E' matto?" - chiese il ragazzino, incredulo.
Demelza
gli sorrise dolcemente, accarezzandogli la guancia. "La bellezza
è soggettiva agli occhi di chi ci guarda. Lo capirai fra
qualche
anno, quando sarai più grande e una ragazza
catturerà il tuo cuore.
Forse non sarà la più bella di tutte ma per te
sarà unica e le
altre non avranno modo di competere con lei, ai tuoi occhi".
"Ma
anche per papà tu sei così" –
insistette il bambino.
No,
anche questo avrebbe voluto che fosse vero ma putroppo le cose
stavano diversamente. Le venne in mente ancora lei, lei che forse era
un dolore che mai Demelza aveva cancellato del tutto dal suo cuore
così come suo marito non aveva mai del tutto cancellato dal
suo la
figura di Hugh. Ross aveva amato Elizabeth e poi lei, anche se forse
era sempre venuta per seconda. E ora c'era Tess... E lei non aveva
più la forza per lottare di nuovo.
Clowance
le toccò la pancia, dopo che per molto era stata silenziosa
e cupa.
Ed era strano perché era più acuta e con la
lingua decisamente più
lunga di quella di suo fratello. "E lui? Lui almeno sarà
nostro?" - chiese.
"Sì,
certo. Vostro, solo vostro..." - rispose Demelza, odiandosi per
ciò che provava per il piccolo in arrivo.
Ma
Jeremy la richiamò ancora al dovere. "E tuo... E forse anche
di
papà... O anche tu cerchi altro?".
Non
disse nulla, non aveva la forza di rispondere anche a quella domanda
che la richiamava all'ordine e che gridava alla sua coscienza di
essere madre di tre figli, non di due. Lo accarezzò e lo
strinse a
se. "Mi aiutate a fare i bagagli?" - disse, cercando di
accantonare il pensiero del nuovo bambino in arrivo.
"Ma
dove andremo?" - chiese Clowance.
"Da
Kitty e Cecily, in Jamaica, dopo un lungo viaggio in mare".
Jeremy
sembrò spaventarsi. "Ma è lontano! Ned ci
raccontava della
Jamaica e dell'Honduras. Sono dopo un grandissimo mare, un posto
troppo lontano e non...".
"E
non?".
Il
ragazzino prese un profondo respiro. "E se andiamo lì, non
lo
vedremo davvero più il papà. E lui non
saprà trovarci".
Demelza
annuì, pensando brutalmente che era questo il suo intento se
voleva
vivere. "A voi piacevano Kitty e Cecily, no? Sarà bello
stare
con loro in un posto magico, pieno di avventure e con il mare che,
dicono, sia il più bello del mondo, simile al mare del
Paradiso".
"Preferisco
il mare di casa nostra" – commentò Clowance,
laconica. "E
ho paura, mamma".
"Non
possiamo restare quì da Dwight?" - insistette Jeremy
– "E
vedere se con papà le cose vanno a posto?".
Demelza
scosse la testa. "No, non me la sento. Puoi capirlo?".
Jeremy
osservò lei e la sua mano, appoggiata contro il suo ventre.
E anche
se era piccolo, forse capì che una donna incinta abbandonata
dal
marito aveva bisogno di serenità e di andarsene lontano per
stare
bene. Soffriva, non poteva farci molto ma sapeva anche che per quanto
amasse suo padre, era sua madre la colonna della famiglia, era lei
che c'era sempre, in ogni occasione, era lei che lui e sua sorella
cercavano ed era lei che ora aveva più bisogno di loro. E
loro
dovevano esserci e starle accanto, come lei aveva sempre fatto con
lui e sua sorella. Silenziosamente la abbracciò, forte,
cercando
coraggio, infondendole coraggio. "Andrà tutto bene, mamma".
Clowance
fece lo stesso, rannicchiandosi contro di lei. "Sì, anche se
questa Jamaica mi fa paura".
Demelza,
mentre una nuova lacrima le sfuggiva dal viso, li strinse a se. "La
paura la sconfiggeremo insieme, tutti e tre".
"Tutti
e quattro" – ribadì Jeremy, ricordandole che a
breve una
nuova aggiunta sarebbe arrivata ad arricchire la loro famiglia.
E,
nuovamente, Demelza si sentì sprofondare nelle tenebre
dell'ignoto e
dell'incerto. Era dura, era dura aspettare un figlio non voluto e
rendersi conto che farlo sentire parte della famiglia sarebbe stato
un peso e non una cosa naturale. Si sentì così
stanca e cattiva a
quei pensieri che credette di odiarsi, ma non ci riusciva davvero a
provare sentimenti diversi. Eppure sapeva che doveva fare del suo
meglio e che i suoi due bambini sarebbero stati la sua forza e il
viatico a un futuro sereno anche per il nuovo arrivato. Doveva essere
forte, davvero. E soprattutto finire di fare i bagagli
perché forse
solo con la lontananza sarebbe riuscita ad amare quel piccolino che
gridava ed esigeva amore, un amore che lei non era ancora pronta a
dargli. "Su, andate a giocare in giardino, ora! Così posso
finire di preparare le nostre cose".
E
i bambini, ubbidienti e mortificati, la lasciarono sola coi suoi
pensieri.
...
Nascosti
dietro una siepe del giardino e facendo finta di giocare, Jeremy e
Clowance non riuscivano a tenere a bada il loro tumultuoso stato
d'animo. Era così incredibilmente assurdo quanto gli aveva
detto la
loro madre. Conoscevano il loro padre ed anche se era spesso assente,
avevano sempre visto il luccichìo nei suoi occhi quando
osservava la
loro mamma, avevano sempre assistito alla dolcezza dei loro abbracci
e anche ai loro baci che entrambi non avevano mai avuto paura a
scambiarsi davanti a loro. Sapevano che a volte i genitori possono
non andare d'accordo, il loro amico Jhon Nanfan quando andavano a
scuola da Morwenna, a volte raccontava di come suo padre spesso
picchiasse sua madre. A Nampara non era mai successo nulla del genere
e anche se Jeremy aveva vaghi ricordi di un periodo in cui era molto
piccolo e i suoi genitori erano sembrati arrabbiati, quel tempo era
passato da molto e qualunque cosa fosse successa, era stata
superata... Il loro papà era sempre stato un eroe ai loro
occhi,
forte e giusto. E ora non riuscivano proprio a credere che volesse
abbandonare loro e la loro mamma, era impensabile anche solo
azzardare un'ipotesi simile. Il loro papà li amava ed
entrambi erano
convinti che quanto credeva la loro madre fosse solo un malinteso,
lui non avrebbe mai voluto perderli e sarebbe morto senza di loro.
Jeremy
tirò un sassolino contro un albero, rabbioso. "Clowance,
andiamo di nascosto a casa!".
La
bimba annuì, decisa, come se non aspettasse altro che suo
fratello
gli facesse quella proposta. "Da papà?".
"Sì,
dobbiamo parlare con lui e spiegargli che mamma ha capito male alcune
cose. Faranno pace, noi torneremo a casa e non partiremo per la
Jamaica".
"Mamma
si arrabbierà, se lo facciamo".
Jeremy
divenne pensieroso. "Mamma non sta tanto bene, è triste e
aspetta anche un altro bambino. Non ce la fa, dobbiamo essere noi a
prenderci cura di lei e riportarle il papà. Anche lui
secondo me non
sta tanto bene senza di lei".
Clowance
sospirò laconica. "Speriamo che sia davvero
così...".
Jeremy
si alzò, porgendole la mano. "Andiamo?".
"Andiamo".
I
due bambini sgattaiolarono come ladri fra i vialetti alberati della
residenza degli Enys. Prudie stava aiutando la loro madre, Caroline
era nel salotto a sistemare alcune porcellane con la servitù
e
Dwight era fuori per delle visite. Se avessero fatto in fretta,
nessuno si sarebbe accorto della loro assenza.
Appena
fuori corsero come folli in quelle terre, in quella brughiera, in
quei viali che conoscevano ormai come le loro tasche. Era la loro
casa quella e non volevano lasciarla, per nulla al mondo.
Giunsero
in prossimità della Wheal Grace e di soppiatto e senza farsi
vedere
la superarono, per poi raggiungere Nampara. La trovarono deserta,
bussarono a lungo ma nessuno rispose, segno che il loro padre doveva
essere fuori.
Jeremy
sbuffò. "Se è alla Wheal Grace, ci vedrebbero in
tanti. E
mamma saprebbe che siamo usciti senza permesso".
Clowance
annuì, d'accordo. "Forse... Ma magari se poi fanno pace, si
dimenticano di questa cosa che abbiamo fatto e stasera ceniamo a casa
tutti insieme".
"Mamma
non dimentica mai niente!" - obiettò Jeremy.
"Forse
in questi giorni potrebbe anche dimenticare" –
ribadì la
bimba. "E' così triste che non può ricordarsi di
tutto e
pensare a tutti".
Già,
Jeremy non riusciva a non darle ragione. Mai aveva visto sua madre
tanto prostrata e triste e voleva trovare suo padre, DOVEVA farlo per
dirgli quanto lei avesse bisogno di lui. "Proviamo a cercarlo
alla nostra spiaggia, lui va spesso lì".
"D'accordo".
I
due bambini si lasciarono Nampara alle spalle e poi corsero verso la
loro spiaggia, luogo di tante risate e tante scampagnate tutti
insieme. Dalla scogliera la percorsero in lungo, osservando
attentamente sotto di loro, in attesa e speranza di vederlo.
Col
fiato corto, Clowance corse fino a dove la spiaggia si allargava e
su di essa si aprivano grandi gallerie che da lì portavano
alle
miniere. Alcuni mesi prima, con Ned, da lì avevano salvato
dei
bambini minatori rimasti coinvolti in un incidente e sapeva che
c'erano anche cunicoli che portavano alla loro di miniera, la Wheal
Grace. Certo, lo aveva fatto perché suo padre era un eroe e
con Ned
lo era stato pure in guerra tanti anni prima, quando era giovane e
ancora non conosceva la sua mamma.
Improvvisamente
Clowance si fermò, affacciandosi al costone che dava sulla
baia. Un
gruppo di uomini, di sotto, uscì da una delle grotte con
delle
grosse casse di legno fra le mani che, dalla fatica con cui venivano
trasportate, sembravano essere molto pesanti. Parlavano una lingua
strana che Jeremy e Clowance non riuscirono a capire, ma
improvvisamente il ragazzino impallidì. "Sembra francese".
"Francese?"
- chiese Clowance. "Che ci fanno quì i francesi?".
Jeremy
alzò le spalle. "Una volta Ned ha detto che i francesi
quì non
potrebbero mai fare nulla di buono e che vorrebbero far guerra
all'Inghilterra".
Clowance
impallidì. "Guerra all'Inghilterra? Sulla nostra spiaggia?".
"E'
un buon approdo" – sussurrò Jeremy.
"Dobbiamo
dirlo a papà" – suggerì Clowance con
urgenza.
Ma
Jeremy non rispose, non subito. La bimba lo osservò e
notò che era
improvvisamente impallidito, tanto che temette che stesse male.
"Jeremy?".
"Non
è necessario dirlo a papà, lo sa già"
– rispose lui,
indicando la spiaggia e due persone che stavano uscendo a coda degli
altri, abbracciate, dalla grotta.
Clowance
guardò giù e impallidì anche lei. Suo
padre, il suo grandissimo e
fiero papà era fra quegli uomini stranieri che volevano
portare la
guerra a casa loro, abbracciato a una donna che non era la loro
mamma. Scosse la testa, spaventata, disperata, mentre tutto il suo
mondo di bambina di sette anni crollava attorno a lei.
"Papà...
e... Tess? Quella è Tess!".
La
piccola guardò Jeremy come se in lui cercasse risposte che
suo
fratello non poteva darle. "Jeremy?".
Lui
non rispose ma improvvisamente capì il significato di ogni
parola
che la loro madre aveva detto loro quel pomeriggio. Aveva omesso le
cose più difficili e dolorose, aveva cercato di essere
'giusta' per
tutti sforzandosi di trovare le parole adatte, ma ora lui aveva
capito cosa lei intendesse dire quando aveva affermato che il loro
padre ora cercava 'altro'. Tess, una delle persone più
antipatiche
che fosse mai entrata in casa sua. Abbracciata al suo
papà... E
Jeremy era abbastanza grande da capire cosa questo significasse, per
loro e per la loro mamma. Sentì forte il desiderio di
proteggerla,
di proteggere tutte le donne della sua famiglia da quella
realtà e
capì perché dovevano partire. Ma sentì
anche altro, dentro di se.
Se fosse stato più grande sarebbe sceso in quella spiaggia,
avrebbe
gridato cose brutte a suo padre e a Tess, avrebbe spinto quella donna
lontano e poi avrebbe dato un pugno a suo padre. Ma non era
più
grande, aveva solo dieci anni e la sua sorellina sette ed era
spaventata. Era troppo piccolo per fare qualsiasi cosa e anche se
voleva prendere a pugni suo padre, non sarebbe riuscito ad arrivare
al suo volto e lui in risposta lo avrebbe potuto colpire a sua volta.
Non lo aveva mai fatto ma se ora aveva scelto di tradire la loro
madre ed abbandonarla, sarebbe stato anche capace di picchiare lui o
Clowance. Doveva portare sua sorella via da lì... "Andiamo a
casa dalla mamma, Clowance. Aiutiamola a fare i bagagli" –
disse, meccanicamente, con una voce che non sembrava nemmeno sua,
sentendosi abbandonato, tradito e solo.
La
bimba non obiettò. "Sì" – disse,
sighiozzando.
Diedero
un'ultima occhiata alla spiaggia e a quel padre che pensavano di
conoscere e che stava tradendo tutti loro e la loro patria. E
mestamente rientrarono a casa, capendo che tutto era cambiato e che
non ci sarebbe più stato un padre ad amarli, proteggerli e a
far
sorridere la loro mamma...
Stancamente
salirono le scale, cercando di ricomporsi in modo che la loro madre
non si accorgesse del loro turbamento e quando entrarono nella sua
stanza la trovarono seduta sul letto, con la sacca da viaggio chiusa
e gli occhi gonfi. Si sforzarono di sorridere e le porsero un
mazzetto di fiori che avevano raccolto per lei in giardino.
Demelza
non disse nulla, li abbracciò forte e insieme rimasero in
silenzio,
a lungo, seduti sul letto.
Fu
Jeremy, che sentiva il peso della responsabilità sulle sue
spalle, a
rompere quel silenzio opprimente. "Mamma, dicono che in Jamaica
ci siano i pirati. Sarà divertente conoscerne qualcuno".
"Cosa?"
- chiese lei, con sguardo assente.
Clowance
cercò di aiutare il fratello a distrarre sua madre dai
pensieri più
foschi. "Sarà avventuroso, come dicevi tu! Quando partiamo?"
- chiese, cercando di apparire forte e contenta.
"Avete
cambiato idea?".
Jeremy
cercò di ridacchiare. "Ci abbiamo pensato su prima, mentre
giocavamo. Se dici che dobbiamo partire, partiremo! Tu sei
più brava
di noi a decidere e quindi dobbiamo fidarci di te. Poi se non
facciamo in fretta, finisce che il fratellino nasce in nave e non
è
il caso, giusto? Meglio in Jamaica, sarà fortissimo avere un
fratello nato dove c'è il mare bello come in Paradiso".
Demelza
si accigliò, c'era qualcosa di stonato in quell'improvviso
entusiasmo dei suoi figli e comprese che, benché fossero
spaventati,
stavano cercando di darle forza. Erano il suo bene più
prezioso, il
suo tesoro grande e niente e nessuno avrebbe mai potuto competere con
l'amore che provava per loro. Nemmeno Ross, non più Ross...
Cercò
di leggere dentro se stessa, cercò di trovare la forza come
stavano
cercando di fare loro e capì che doveva lottare per i suoi
figli ma
anche per il bimbo in arrivo. Non sapeva se e quanto ci avrebbe messo
ad amarlo, non sapeva se ci sarebbe mai riuscita ma non voleva che
lui o lei si sentisse indesiderato. Lei stessa era stata una bambina
non amata e nei suoi fratelli aveva trovato la forza di vivere e
crescere. E Jeremy e Clowance sarebbero stati lo stesso per lui o
lei, chiunque fosse. Al momento non aveva la forza di fare altro, ma
sapeva che doveva lottare anche per quel figlio in arrivo
perché
trovasse qualcuno ad amarlo, quando fosse nato... E sapeva che Jeremy
e Clowance lo avrebbero fatto, lo avrebbero amato e protetto e che in
loro, lui o lei avrebbe trovato la forza di vivere e crescere, anche
e nonostante una madre forse non perfetta ed assente. "Mi fate
una promessa?".
"Certo".
Prese
le loro mani, stringendole forte. "In Jamaica dovrete
promettermi che vi prenderete cura del vostro fratellino e che lo
amerete, sempre. Conto su di voi, per lui o lei...".
Jeremy
annuì. Rivide nella mente suo padre abbracciato a Tess e
comprese
cosa si agitava nel cuore di sua madre e quanto tutto fosse difficile
per lei. "Non preoccuparti mamma, ci penseremo io e Clowance a
lui. Poi quando starai bene e tornerai ad essere contenta, ci
penserai anche tu".
Clowance
non disse nulla ma annuì, d'accordo col fratello. Prese dal
letto la
sua bambola dai capelli rossi, la strinse a se e poi, con sguardo
deciso, capì anche lei che dovevano portare via la loro
madre da lì.
Non avevano bisogno di molto, solo di loro stessi, di fortuna,
ottimismo e della sua bambola da stringere la notte o nei momenti
bui. E tutto questo lo avevano, quindi sarebbe andata bene. "Quando
partiamo?" - chiese, col cipiglio sicuro tipico dei Poldark.
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
In
quelle due sacche da viaggio misere, nemmeno troppo pesanti ma dal
valore immenso, c'era tutta la sua vita. C'era quel poco che a
Demelza sarebbe servito nel nuovo mondo in cui stava per giungere e
quel poco della sua vecchia esistenza da cui non avrebbe mai potuto
separarsi: il suo pettine, i semi di alcune piante del suo giardino
di Nampara, qualche vestito suo e dei bambini, quel poco di denaro
che aveva accettato da Dwight e null'altro. Il resto era rimasto in
quella che era stata la sua casa, la casa che l'aveva vista crescere,
diventare donna e poi moglie e madre. Aveva lasciato lì
tante cose,
nella fretta di andarsene. Ed ora aveva il cuore spezzato per i tanti
affetti, amici e conoscenti che non avrebbe più rivisto e
per un
amore grandissimo e ancora vivo che però non era
più corrisposto...
E avvertiva il peso nel cuore di non aver salvato il suo uomo da se
stesso, facendola sentire una fallita. Ross si stava scavando la
fossa da solo e lei, sua moglie, non poteva farci nulla, non poteva
salvare chi non vuole essere salvato...
Nel
porto, sotto una pioggia battente, si guardò attorno e
ritrovò un
pò di forza in se stessa. C'erano Garrick, Prudie e i suoi
due
bambini accanto a lei, un altro era in arrivo e ci sarebbe stata
tanta vita ancora da vivere, per provare ad essere felici di nuovo.
Quindi non doveva piangere come aveva fatto ancora la notte appena
passata, non doveva guardarsi indietro ma solo avanti, con fiducia. E
per il resto...
"Scrivimi!"
- la implorò Dwight, stringendola forte a se.
"Lo
farò".
Il
medico, guardandola negli occhi con una serietà eccessiva
anche per
una persona seria come lui, annuì. "Scrivimi quando arrivi,
scrivimi quando avrai trovato un buon medico – e non un
ciarlatano
– che seguirà te e i bambini, scrivimi per farmi
sapere della
gravidanza, scrivimi per farmi sapere del parto, scrivimi sempre,
appena puoi! Ci vorranno mesi perché le tue lettere mi
arrivino, ma
arriveranno e saranno per me e Caroline un grande conforto".
"Fallo
sul serio, ti prego" – aggiunse la bionda ereditiera. "O
Dwight impazzirà di preoccupazione e io dovrò
sopportarlo per tutta
la mia ancora lunga vita".
Dwight
si sforzò di sorridere. "Per amore di Caroline, quindi
fallo! E
mi raccomando, salutaci Kitty e Cecily e appoggiati a loro tanto per
iniziare".
"Lo
farò, state tranquilli".
Demelza
deglutì, i marinai stavano iniziando a issare gli ormeggi
della nave
e doveva imbarcarsi. Attorno a loro altre persone, altri viaggiatori
in cerca di una nuova vita, stavano imbarcandosi e per mesi sarebbero
stati i loro compagni di viaggio e una sorta di famiglia. "Lo
farò!" - ripeté - "E voi farete lo stesso, appena
vi farò
sapere il mio indirizzo. Voglio sapere tutto, delle malattie che
curerai, dei miracoli che farai, dei miei fratelli, dei vostri futuri
bambini...".
A
quelle parole Caroline e Dwight arrossirono, guardandosi negli occhi.
Era ancora così difficile per loro, anche solo sperarci e
pensare di
essere di nuovo genitori... "Lo faremo".
Dwight
si avvicinò a Jeremy e Clowance, accarezzando le loro
guance.
"Bambini, vi affido la mamma. Abbiate cura di lei e del vostro
nuovo fratellino".
"Lo
faremo".
"E
tu Prudie fa lo stesso" – aggiunse Caroline, rivolta alla
serva.
Prudie
annuì, con fare fiero. "Assolutamente sta tutto in una botte
di
ferro".
"Botte
di ruhm" – la corresse Jeremy. "Da quando ha saputo che
in Jamaica producono il ruhm più buono del mondo, Prudie
è la più
contenta di tutti di partire".
Caroline
rise. "Il ruhm? Bevanda amata da malfattori e pirati,
dicono...".
Demelza
cercò di apparire serena e di stare allo scherzo, aveva
bisogno di
alleggerire la tensione nel suo cuore e quel discorso in parte ci
stava riuscendo. "Quando la vedrò al comando di una nave con
una bandana nera in testa e un pappagallo sulla spalla... vi
scriverò
per farvi sapere anche questo".
"Pfuuuf..."
- borbottò Prudie scocciata, prendendo i bambini per mano.
Garrick
abbaiò quando il comandante urlò di salire sulla
nave. Gli occhi di
Demelza tornarono lucidi, aveva atteso con terrore quell'attimo e per
un momento ebbe paura. Lo stava facendo davvero, stava lasciando
tutto e tutti... Stava lasciando Ross, suo marito, il padre dei suoi
figli, l'uomo più indomito, a volte irrefrenabile ma sempre
guidato
dal suo gran cuore e da tanta passione, al suo destino. E sarebbe
stato un destino oscuro senza nessuno che gli ricordasse quanto
nobile fosse il suo animo e quanto si fosse smarrito. Tess non era in
grado di farlo, non lo sarebbe mai stata! Tremò ed ebbe
paura per
lui, se lo avessero scoperto a complottare coi francesi, terribile
sarebbe stata la punizione. E lei non sarebbe stata lì a
supportarlo, come sempre... "Dwight" – sussurrò,
abbraciandolo di nuovo.
"E'
ora, Demelza" – disse l'uomo, fra i suoi capelli rossi,
tremando quanto lei.
La
donna alzò il viso su di lui. "Ross..." -
sussurrò piano,
per non farsi sentire dai bambini – "Dagli un occhio, se
puoi... se vuoi...".
"E'
un adulto" – le ricordò Caroline.
Demelza
fece un sorriso triste. "Un adulto che si è smarrito. E un
buon
amico non dovrebbe farglielo notare, se ne ha l'occasione?".
Dwight
le accarezzò i capelli. "Ma io non credo di essere
più un suo
buon amico. Però ti giuro che vedrò di fare
qualcosa, se me ne
capiterà l'occasione" – concluse, più
per tranquillizzarla
che per sincera convinzione.
Demelza
non disse nulla ma capì quanto fosse grande ciò
che gli aveva
chiesto e che non poteva forzare Dwight ad andare contro la sua
coscienza giusta e ponderata. "E' stato bello conoscervi" –
disse, a chiusura del discorso, sapendo già che gli
sarebbero
mancati tantissimo e che non avrebbe più trovato persone
come loro,
nel suo cammino.
"Anche
per noi" – rispose Dwight, baciandole la mano. "Riguardati
e soprattutto, cerca di essere di nuovo felice coi tuoi bambini. E'
un mondo nuovo la Jamaica, tutto da costruire, e c'è
bisogno,
laggiù, di gente come te".
"Lo
farò".
Prudie
e i bambini si avvicinarono per salutare e poi con Garrick, salirono
sulla nave. Demelza diede un ultimo sguardo ai suoi amici, al porto,
alla sua amata terra che forse non avrebbe rivisto mai più.
"Addio..." - sussurrò, forse rivolta al cielo, forse ai
suoi amici, forse a quelle coste sferzate dal vento o forse a un uomo
ancora amato, ancora così pericolosamente vicino ad essere
la sua
ragione di vita... Era tutto finito, laggiù. Ed era tutto
ancora
così indefinito, nel suo futuro. Senza di lui, senza la sua
voce
calda, senza il suo abbraccio di sera, senza la sua risata allegra e
gentile, senza i suoi baci, senza di lui... Cosa sarebbe stata, lei,
senza Ross Poldark? Il suo Ross...
Ma
non era più suo, le suggerì una vocina nella sua
mente...
"Mamma,
sbrigati!" - urlò Clowance, col suo cappellino bianco in
testa.
"Arrivo".
E dopo un ultimo sguardo, Demelza salì sulla scaletta e
raggiunse il
pontile della nave. Diede un ultimo sguardo ai suoi amici, alla sua
terra, alla vecchia Demelza che non sarebbe più tornata ad
essere. E
poi, incapace di veder sparire pian piano tutto davanti ai suoi
occhi, inghiottito dalla distanza e dal mare, scese nella cabina che
Dwight aveva prenotato per tutti loro. La sua nuova stanza, il suo
nido per i mesi a venire. Pensò alla sua Nampara, alla sua
camera,
al letto dove Ross l'aveva amata e dove erano nati i suoi figli.
Tutto perduto, tutto andato in fumo... Ora forse era già
diventata
la camera di Tess, quella...
E
davanti a quel pensiero orribile, smise di pensare. Si gettò
sul
letto e pianse, di nuovo. Poteva farlo, ci sarebbe voluto un
pò
prima che i bambini scendessero di sotto e ancora non aveva voglia di
sentirsi forte. Non quel giorno, non nel momento in cui stava dicendo
addio a una vita che tanto amava e a tante persone che erano
frammenti luminosi del suo cuore. Ci sarebbe stato tempo per
diventare una nuova Demelza, domani. Ma oggi no, oggi si doveva
piangere la vecchia Demelza che moriva e che ancora non era
resuscitata dalle sue ceneri.
...
Ci
sarebbero volute settimane, forse qualche mese per arrivare in
Jamaica e per Jeremy e Clowance era tutto molto noioso e difficile.
Erano abituati a correre nella loro spiaggia, liberi, agli spazi
aperti, alla vita di campagna ed ora chiusi in una nave, per quanto
grande, si sentivano in prigione. Gli unici momenti 'divertenti',
erano stati quando avevano assistito a qualche 'colorito' litigio fra
i marinai e quando avevano incontrato mare mosso. Quando succedeva,
salivano sul pontile e giocavano a farsi schizzare dagli spruzzi
delle onde, scivolavano sulle assi del pavimento scivolose e finivano
a poppa o a prua, a seconda della posizione in cui si trovavano.
Ma
per il resto, era tutto molto difficile per loro: Prudie soffriva il
mal di mare e stava stesa la maggior parte del tempo e se si alzava,
era per vomitare, la loro mamma pareva spenta e persa in un mondo
lontano e anche se si sforzava di essere presente, capivano quanto
fosse affranta e fragile, il cibo era pessimo e gli altri passeggeri
della nave se ne stavano per lo più rintanati nelle loro
cabine.
Dopo
dieci giorni di navigazione fecero tappa a Belfast per caricare altri
passeggeri e i bambini, dopo aver implorato Demelza, riuscirono a
sgattaiolare a terra con Garrick per girovagare un pò per il
porto.
Notarono un sacco di cose, il diverso odore dell'aria, tanta gente
coi capelli rossi e soprattutto, un accento stranissimo che li faceva
ridere. E ne avevano bisogno, di ridere... Cercavano di mostrarsi
forti per la loro mamma ma avevano paura. E l'immagine del loro padre
abbracciato a Tess, un padre che avevano amato e che non avrebbero
più rivisto, tormentava il loro sonno. Erano troppo piccoli
per
sentirsi autonomi e senza bisogno di lui ma troppo grandi per
ignorare ciò che avevano visto. Ed entrambi sapevano che ora
dovevano imparare a crescere in fretta...
Girovagarono
un pò ma troppo poco per i loro gusti. La nave li
richiamò
all'appello e loro corsero di nuovo a bordo, persuasi che per lunghi
giorni non avrebbero toccato terra e quando fosse successo, sarebbe
stata una terra sconosciuta e straniera di cui ignoravano tutto.
Quando
lasciarono Belfast rimasero sul pontile a lungo, ad osservare il
paesaggio che sfilava davanti ai loro occhi curiosi ed attenti.
Attorno a loro i nuovi passeggeri andavano avanti ed indietro con
pacchi e valigie e c'era un gran via vai di gente dai capelli rossi o
al più, biondi.
"Parleranno
strano anche in Jamaica?" - chiese Clowance, appoggiata al
parapetto.
"Potrei
scommetterci..." - rispose Jeremy.
"Chissà
com'è! A parte il mare bello, che posto sarà?" -
insistette la
bambina.
"E'
un posto selvaggio, pieno di gente selvaggia! Ma con una terra ricca
che mio padre sa sfruttare per rendere quel posto migliore e noi
più
ricchi!".
I
due fratelli si voltarono di scatto, presi alla sprovvista. Una voce
infantile di bambina, sconosciuta, aveva risposto alla domanda posta
da Clowance e tanta fu la loro sorpresa quando si trovarono davanti
una ragazzina che poteva avere circa l'età di Jeremy, dalla
chioma
biondo-ramata, con gli occhi chiari e i capelli pieni di boccoli
perfettamente pettinati. Non l'avevano mai vista prima e
probabilmente si era imbarcata a Belfast. Aveva un elegante vestitino
verde a fantasie scozzesi, un cappello in testa del medesimo colore e
qualche minuscola lentiggine sul viso.
"E
tu chi sei?" - chiese Jeremy, stranito.
La
bambina gli si parò davanti, erano alti uguali. "Lilith
Copper,
futura contessa della Contea del Lincolnshire. Con chi ho il piacere
di parlare?".
"Io
sono Jeremy e lei è mia sorella Clowance Poldark. Non siamo
futuri
conti di niente. E lui è Garrick, il nostro cane".
La
bambina sbuffò. "Lo vedo dai vostri vestiti che non siete
conti! Nemmeno baronetti o duchi! Da dove venite?".
"Dalla
Cornovaglia" – rispose Clowance, fiera della sua terra.
Ma
la sua interlocutrice non parve molto colpita dalla cosa.
"Cornovaglia? Siete contadini allora!".
"No,
mio padre ha una miniera!" - rispose Clowance, a tono.
"Minatori?!"
- esclamò Lilith, con sdegno.
Jeremy
si irrigidì. Era arrabbiato con suo padre ma di certo non
avrebbe
permesso a una sconosciuta di parlare di lui con quel tono di
disprezzo e supponenza. "Mio padre è un membro del
Parlamento!".
"I
minatori non possono stare in Parlamento!" - rispose lei,
indispettita.
Clowance
si imbronciò ma di lasciare la disputa con quella saputella,
non
aveva voglia. "Mio padre, sì!".
Lilith
si diede un tono, guardandola con aria di sufficienza. "Beh, io
sono una contessa, ho visitato tutta Europa con mio nonno, ho visto
le corti di Svezia e dell'Assia. E pure quella degli zar!".
Jeremy
la guardò storto. "Non è vero!".
"Sì
che è vero!".
"Io
non ti credo!".
Lilith
incrociò le braccia, indispettita e arrabbiata. "D'accordo,
era
una bugia sugli zar. Ma il resto era vero! E sono una contessa!".
Clowance
alzò gli occhi al cielo. "E che ci va a fare una contessa,
in
un posto selvaggio abitato da selvaggi? Non credo che i selvaggi
sapranno farti un inchino, CONTESSA!".
"Impareranno,
mio padre lo pretenderà! E sono costretta ad andare a vivere
fra
selvaggi, noi nobili abbiamo dei doveri verso i nostri inferiori, li
dobbiamo educare e guidare". Punta sul vivo dall'impertinenza
dei suoi due interlocutori, Lilith divenne rossa come un pomodoro.
"Mia madre è morta quando ero piccola e ho vissuto a Belfast
e
a Londra con i miei nonni. Ora sono morti e mio padre vuole che lo
raggiunga in Jamaica, dove si trova il centro dei suoi affari. Sono
la sua unica erede, è giusto che conosca il suo lavoro".
Jeremy
alzò le spalle. "Mi spiace per i tuoi nonni! Ma viaggi da
sola?".
Lilith
si voltò, guardando verso le scale che portavano alle
cabine. "No,
ci sono Tim e Tom, le mie due grasse e stupide guardie del corpo.
Staranno male per il mal di mare qualche giorno e poi staranno meglio
e a quel punto inizieranno a bere liquori e ristaranno male. Succede
sempre così, ogni volta che viaggiamo".
"Quindi,
di fatto, sei sola!" - le fece ossevare Clowance.
Lilith
alzò le spalle. "No, non proprio. C'è pure la mia
governate
con me, Miss Thorpe. Lei non si ubriaca e parla poco e ora
starà
sistemando in cabina i miei bagagli".
Jeremy
la guardò con supponenza, non la trovava per niente
simpatica. "Che
allegria...".
Lei
sospirò forse d'accordo, prima di guardare Garrick. "Posso
accarezzarlo?".
Clowance
la guardò con aria di sfida. "No, è il cane di un
minatore!
Non è adatto a una CONTESSA!" - rispose, sibillina.
Lilith,
arrossendo, rispose al suo sguardo fingendo indifferenza per quella
frecciatina non troppo velata. "Beh, tanto non volevo così
tanto accarezzarlo! Avrà le pulci!".
Jeremy
le si avvicinò di qualche passo, sfiorandola sulla spalla.
"Sì,
una ti sta camminando già sopra il vestitino".
Lilith
si guardò con orrore e prima di capire che la stava
prendendo in
giro, lanciò un urlo che fece voltare tutti i passeggeri sul
ponte.
Poi, furiosa, corse verso le scale. "Selvaggi!".
Jeremy
e Clowance si guardarono in faccia, ridendo, poi il ragazzino la
richiamò prima che sparisse. "Hei, contessa!".
Lei
si voltò, stravolta. "Che vuoi, selvaggio?".
"La
Jamaica è grande?".
"Molto
grande!".
Jeremy
rise ancora. "Bene, ottimo! Allora non correrò il rischio di
incontrarti troppo spesso!".
Lilith
strinse i pugni, furiosa. "Cambierò strada, se vi vedo,
SELVAGGI!". E poi corse via, dalle sue guardie del corpo sempre
ubriache e dalla sua governante quasi-muta.
Clowance
si avvicinò a Jeremy, prendendogli la mano. "Speriamo sia
davvero grande, la Jamaica! Non vorrei incontrarla ancora".
Jeremy,
rimasto per un attimo imbambolato a guardare le scale, ci mise un
attimo a capire cosa dicesse la sorella. "Cosa?".
Clowance
sbuffò. "Selvaggio come dice lei! E imbambolato! Torniamo da
mamma?".
Jeremy
si riprese, annuendo. Già, dovevano tornare dalla mamma, a
letto in
cabina in compagnia di Prudie.
Si
voltarono un'altra volta a dare un'ultima occhiata a Belfast e
all'ultimo lembo d'Europa visibile ai loro occhi, poi corsero
giù,
prendendo la stessa direzione seguita poco prima dalla piccola
Lilith.
Quando
rientrarono, trovarono la loro mamma seduta sul letto, intenta a
piegare i loro abiti. "Com'era Belfast?".
Jeremy
si sedette accanto a lei, cercando di apparire contento e ottimista.
"Piena di gente strana! Alcuni sono pure saliti su questa nave!
Anche una bambina grande come me".
Demelza
gli sorrise. "Oh, ottimo! Potrete avere un'amica, durante il
viaggio".
Clowance
la fissò, scettica. "Non credo... E' abbastanza antipatica.
Vero Jeremy?".
Lui
alzò le spalle, senza rispondere. "Molto strana... E' una
contessa, ha detto".
Prudie
borbottò qualcosa sotto voce e Demelza accarezzò
i capelli dei
figli. "Beh, se la incontrerete durante il viaggio, mi auguro
che sarete gentili con lei".
Clowance
si imbronciò prendendo a stringere la sua bambolina dai
capelli
rossi. "Spero di non vederla, allora".
E
a quel punto Jeremy capì che doveva cambiare argomento. Con
la
manina sfiorò la pancia di sua madre, appena percettibile, e
gli
sorrise. "Come lo chiameremo?".
A
quella domanda, Demelza si irrigidì come sempre succedeva
ogni volta
che il suo pensiero si posava sul bambino in arrivo. "Non lo so,
non ci ho pensato". Era vero, non ci aveva mai riflettuto, ogni
pensiero sulla sua gravidanza veniva zittito dalla sua mente appena
si affacciava dentro di lei. Santo cielo, che donna orribile che
era... Amava così tanto Jeremy e Clowance, aveva adorato
Julia e
invece questo bambino... Non provava nulla per lui, assolutamente
nulla se non fastidio e una strana sensazione di essere in trappola.
Era come se perdendo Ross e la fede nel suo matrimonio, avesse perso
anche la capacità di amare. "Come vorreste chiamarlo?" -
chiese senza emozioni nella voce, cercando però di mantenere
un tono
gentile.
Stesa
sul materasso intenta a giocare con la sua bambola, Clowance la
guardò di sbieco. "In tutti i modi eccetto LILITH".
Demelza
rise a quell'affermazione fatta con tanta grinta. "D'accordo...
E che nomi vorreste?".
Jeremy
osservò Garrick che dormicchiava sul pavimento. "Oh, se
è
maschio forse potremmo chiamarlo...". Si bloccò, pensieroso.
"Non so, non mi viene da immaginarlo maschio!".
"Credi
che sarà una femmina?" - domandò Demelza.
Il
bimbo annuì. "Isabella!".
"Rose!"
- aggiunse Clowance.
Demelza
guardò i due bambini, cercando gioia in quel loro piccolo
momento di
condivisione per il bambino... bambina... in arrivo. Poi
trovò il
giusto compromesso. "Isabella-Rose".
I
fratellini si guardarono e si mostrarono entusiasti. "E
Isabella-Rose sia!".
Stesa
sul suo materasso, spiaggiata come una grossa balena, Prudie
sbuffò.
"Isabella-Rose... Quando ci scapperà di mano, con un nome
tanto
lungo con cui chiamarla, la riacciufferemo dall'altro capo del
mondo".
Nessuno
le diede retta, però. E da quel giorno si pensò
alla bambina con
quel nome, Isabella-Rose Poldark.
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
La
sua casa era sempre stata un nido per lui, da quando aveva conosciuto
Demelza. Raramente lo era stata quando era stato un bambino solitario
cresciuto da due servi ubriaconi e di certo non le era quando,
tornato dall'America, l'aveva trovata in stato di abbandono e senza
più nessuno a dargli il bentornato. E di certo non lo era
ora, senza
di lei e senza le vocine allegre dei loro due vivacissimi bambini...
Seduto
davanti al caminetto, imponendosi di non impazzire per quel
prolungato silenzio, Ross cercò di trovare pensieri
positivi.
L'invasione era vicina e conoscendo date, nomi e luoghi, aveva
inviato delle missive a chi contava, a Londra. Una corrispondenza
fitta e segreta aveva accompagnato le serate dell'ultima settimana e
presto sarebbe giunto l'esercito inglese, in una imboscata che si
stava preparando ad arte nella capitale, a porre fine a quel grande
pericolo che, senza che la gente di Cornovaglia lo sapesse, incombeva
su di loro. Wikhman si era mostrato entusiasta del suo lavoro e lo
voleva a Londra ad emergenza finita per qualche strano e misterioso
motivo a lui ancora ignoto e finalmente si sarebbe scrollato di dosso
quella sua odiosa copertura che lo stava portando ad odiare se
stesso. Fingersi un traditore del proprio paese e dei propri affetti,
un uomo senza scrupoli e fingere amore... amore e attrazione per
Tess... Santo cielo, gli veniva la nausea ogni volta che lei apriva
bocca per parlare con quella sua voce sgradevole o che lo sfiorava in
un malriuscito gioco di seduzione...
Voleva
Demelza, la sua Demelza, il suo amore, la sua luce, la sua casa e
soprattutto, la parte migliore di lui. E Jeremy, il bimbo
più dolce
e assennato che esistesse al mondo, che si prendeva cura di sua madre
e di sua sorella durante le sue lunghe assenze. E Clowance, la sua
bambolina biondissima e bella, che col suo fascino lo aveva stregato
fin dalla nascita e presto avrebbe stregato ogni giovanotto di
quell'angolo di Inghilterra. Santo cielo, sperava ardentemente, ogni
volta che pensava a lei, che non smettesse troppo presto di giocare
con quella sua bambolina dai capelli rossi che adorava
perché...
"Papà, ha i capelli belli come mamma".
Voleva
la sua famiglia, Garrick coi suoi disastri, Prudie col suo borbottare
perenne, il casino dei bambini e la sera, tranquilla e calma, davanti
al camino a chiacchierare con sua moglie prima di andare a letto e
far cessare le parole per fare altro, insieme...
In
quei giorni, pensando a loro, la preoccupazione lo aveva consumato. La
gravidanza, il cuore spezzato di Demelza, le mille domande che si
stavano probabilmente facendo i suoi figli, i pensieri di Dwight sul
suo conto... Si era dovuto imporre di star lontano dalla dimora degli
Enys per chiedere di loro o tentare di chiarire, altrimenti la sua
copertura sarebbe crollata e avrebbe messo tutti in pericolo. Aveva
tenuto duro a lungo, doveva farlo solo un altro pò e poi
sarebbe
andato a riprenderli e Demelza avrebbe capito il perché...
Forse si
sarebbe arrabbiata, forse lo avrebbe rimproverato per la sua
avventatezza, forse avrebbe avuto anche ragione. Anzi, sicuramente!
Ma lo avrebbe perdonato e insieme avrebbero aspettato l'arrivo del
loro nuovo bambino. In passato aveva avuto paura, dopo Julia, di
accogliere una nuova vita e anche ora ne aveva, sì, ma
stavolta
questo non gli impediva di provare gioia. Certo, c'erano le
preoccupazioni per la salute di Demelza, le mille incognite del
parto, il terrore delle malattia, ma... Era un bimbo arrivato al
termine di un lungo e duro percorso quello, concepito da un amore
maturo, consapevole e senza ombre a gravare su di loro. Eccetto
questo, questo stupido e pericoloso gioco, l'amore per sua moglie era
e sarebbe sempre stato fuori discussione. Avevano superato Elizabeth,
Hugh e anche la presenza di Valentine in quella casa e Ross sapeva
che, anche se non ne avevano mai parlato apertamente, per Demelza era
un dolore vedere quel bambino ed entrambi erano consapevoli del
perché. Eppure lo aveva accolto con la stessa dolcezza con
cui
accoglieva in un abbraccio i loro figli e lui in quel momento l'aveva
guardata e aveva realizzato che nessun uomo al mondo poteva amare una
donna come lui amava lei... Era immensa, era sua e ne era orgoglioso.
Guardandosi
attorno, si rese conto che voleva fare qualcosa per lei
perché
potesse sorridere appena l'avesse portata a casa. E qualcosa da fare
c'era e lo avrebbe fatto con piacere.
Si
alzò dal divano, abbandonò il tepore del camino e
fece per
incamminarsi verso il magazzino sotto le scale quando udì la
porta
cigolare.
Guardingo
si bloccò, pensando fosse di nuovo il generale Troussaud che
la sera
veniva spesso, per pianificare l'invasione dell'Inghilterra o far
passare il tempo. Un uomo volgare, che a Ross non piaceva ma di cui
aveva dovuto fingersi amico per carpirne la fiducia, un uomo
pericoloso e assolutamente letale, se fosse riuscito nel suo intento.
Lui lo considerava un amico e ogni tanto, soprattutto ultimamente,
quando imbruniva veniva da lui per fare due chiacchiere su donne o
guerra o per tirare di scherma. Era un abile spadaccino e Ross aveva
dovuto rispolverare quell'antica arte spesso praticata da ragazzo ma
in cui era un pò arrugginito.
Ma
quella sera non era Troussaud, era qualcuno di peggio e l'idea che
fosse lì, che fossero soli nella casa sua e di Demelza, gli
fece
accapponare la pelle. "Tess? Che ci fai quì?" - chiese
gelido, appena realizzò che era lei.
La
ragazza, appoggiata con aria spavalda e sicura all'uscio della porta,
vestita con un abito giallo, intrecciò le braccia al petto.
"Visto
che dalle mie parti non ti avventuri mai e visto che conosco la tua
casa, ho pensato di essere io la gatta e tu il topo da inseguire".
Ross
strinse i pugni. "E' tardi, aggirarsi nei campi di notte e al
buio può essere pericoloso e dovresti rientrare subito".
Lei
alzò le spalle. "Sono quì, sana e salva. Che
problema c'è?".
"Che
hai la strada di ritorno, da fare... Ed è notte".
Come
se non lo avesse sentito e non avesse inteso il significato delle sue
parole, Tess gli si avvicinò fino ad arrivargli a un palmo.
Gli
cinse la vita con le mani, gli sfiorò il petto e la gola con
il
mento e poi tentò di morderlo dietro all'orecchio.
"Ritornerò...
quando sarà l'alba, col chiaro. Volevo fermarmi
quì...".
Ross
si allontanò di scatto, come al solito schifato dalla sua
vicinanza.
"Tess, vattene!" - le ordinò con foga, preso alla
sprovvista.
Ma
lei insistette. "I francesini sono a nanna, non ci sono armi da
nascondere o lavori da fare, nessuna scusa che ci possa allontanare.
E lo desideriamo, no?".
Ross
deglutì. L'avrebbe volentieri sbattuta fuori casa a calci
per la sua
sfrontatezza ma non poteva farlo, così come però
non poteva
permetterle di avvicinarsi troppo. Doveva trovare una via di mezzo
che fosse tutelante per lui e non mettesse la pulce nell'orecchio a
lei. Non era particolarmente intelligente, ma Tess poteva comunque
diventare pericolosa. "Certo, lo desideriamo. Ma non oggi, non
quì".
"Perché?
La tua signora è tornata? La si può rimandare
dagli Enys con una
scusa. O con un calcio nel sedere, sei o non sei tu l'uomo di casa?
Sei o non sei tu quello che comanda e le insegna quale sia il suo
posto? Era una sguattera, ora non la ami più, che torni ad
essere
una sguattera e smetta di darsi tutte quelle arie da gran signora".
L'avrebbe
presa a schiaffi e quel calcio lo avrebbe voluto dare a lei,
all'istante. Era un desiderio poco nobile ma al diavolo, se Tess
diceva ancora mezza parola su Demelza, sulla sua splendida Demelza a
cui quella ragazza non aveva nemmeno il diritto di pulire le scarpe,
lo avrebbe fatto. "NON-STASERA!".
"Perché?".
"Perché
sto preparando dei documenti che Troussaud vuole pronti per
domattina. Delle mappe aggiornate delle gallerie" – le
rispose, cupo.
Tess
sbuffò, sedendosi con noncuranza sul divano. "Troussaud e i
francesini sono una noia".
Ross
la guardò storto, gelido e con sguardo tagliente. "Attenta a
quel che dici. Stai tradendo il tuo paese e se tradirai anche i
francesi o loro penseranno ciò, sarà anche dai
FRANCESINI che
dovrai scappare. Il cappio o la ghigliottina sono ugualmente letali,
non dimenticarlo".
Tess
si oscurò. "Mi stai minacciando?".
"Ti
sto mettendo in guardia".
Stizzita,
Tess si alzò dal divano. Gli si avvicinò e
nuovamente, con un gesto
veloce, lo graffiò, stavolta sulla guancia. "Come sei
premuroso, capitano".
"Sempre,
Tess...".
Lei
sostenne il suo sguardo e poi, vagamente arrabbiata e stizzita, si
strinse nel suo scialle. "Visto che mi ami e non vorresti
vedermi con la testolina tagliata, me ne vado. Ma ci vedremo
presto... La tua casa è nostra ed è vuota".
Basta,
era troppo! "Non è la NOSTRA casa! E' mia, non tua!".
Lei
sorrise, freddamente, fingendo finta innocenza. "Ma lo
sarà...
La mia reggia e la camera di sopra, la nostra alcova... Dì a
tua
moglie di portare via le sue cose o presto potrei fargliele trovare
gettate nel giardino di Killawarren".
Ross
non rispose a quell'ennesima provocazione, era troppo stupida e piena
di se per darle retta e attenzione. Che parlasse, che si illudesse!
Ancora pochi giorni e quella farsa sarebbe finita e allora gli
avrebbe fatto pagare ogni cosa. "Buona serata, Tess. Torna a
casa".
"Sì,
capitano" – sussurrò lei, sensuale. "Vuoi
accompagnarmi?".
"No,
mi fa male la caviglia, stasera".
Lei
sorrise, maliziosa. "La tua vecchia ferita di guerra, certo. Che
eroe...".
Uscì,
chiudendosi la porta dietro le spalle. E Ross giurò a se
stesso che
non avrebbe mai più permesso a quella donna che disprezzava
Demelza
e che l'aveva messa in pericolo assieme ai loro figli dando fuoco a
Nampara, di rimettere piede lì. No, mai più!
Nampara era la sua
casa, la casa di Demelza, Jeremy e Clowance. E presto di un nuovo
bimbo o bimba... Solo questo contava!
Rimasto
solo, tentò di trovare qualcosa per calmarsi quando si
ricordò che
stava per fare qualcosa di piacevole per se e per la sua famiglia,
quando era stato interrotto dall'arrivo di Tess. E nonostante tutto
sorrise, quella piccola operazione sarebbe stata piacevole e avrebbe
addolcito la sua serata.
Andò
nello sgabuzzino, spostò alcune casse e scatole e finalmente
trovò
cosa stava cercando, la culla che aveva ospitato i sonni dei loro
bambini appena nati. La prese, la osservò con dolcezza e la
sfiorò
con la mano, accorgendosi che la vernice si era rovinata. Aveva
bisogno di una ritinteggiata e lui aveva della vernice bianca nella
stalla che faceva al caso suo. Sarebbe stata perfetta per la culla di
un bimbo o una bimba, Demelza l'avrebbe adorata.
E
rinfrancato di nuovo spirito, si avviò nella notte a
prendere tutto
l'occorrente per la culla di quel nuovo figlio che non vedeva l'ora
di abbracciare.
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Erano
passati due mesi, due lunghi mesi di navigazione in acque a volte
calme, a volte agitate e a volte tempestose. Il freddo clima del
continente europeo aveva man mano lasciato lo spazio a un tepore
sconosciuto a chi, come lei, non aveva conosciuto altro che la
ventosa e spesso inclemente Cornovaglia. Il caldo si era fatto via
via più intenso, a volte insopportabile di notte nel chiuso
della
sua minuscola cabina e Demelza aveva dovuto lottare strenuamente con
la nausea a causa sia del cambio di clima, sia della gravidanza che
ormai, anche se non era che al quarto mese, era evidente agli occhi
più attenti.
In quei lunghi
sessanta giorni non era quasi mai uscita, se non di sera quando non
c'era in giro nessuno, dalla cabina. Troppo stanca, troppo spossata,
troppo fragile, aveva passato a letto gran parte del tempo in compagnia
di Garrick o di Prudie che non aveva mai smesso di soffrire di mal di
mare e malediva ad ogni ora del giorno quel viaggio. Erano i bambini a
portare loro il cibo, di pessima qualità, cucinato dal cuoco
per i naviganti. Ma erano una benedizione lo stesso, loro che si
prendevano cura di lei e quel cibo spesso pessimo ma mai assente, in
quel mare di incertezza in cui navigava da mesi.
Lei
si sentiva... una crisalide...
Qualsiasi
cosa fosse stata prima, non lo era più. Si era chiusa a
lungo in un bozzolo ed ora sapeva che quel bozzolo che la separava dal
mondo in attesa di rinascere a nuova vita con fattezze nuove, era
destinato a sgretolarsi nel giro di poche ore.
I
bambini, che giocavano per la nave gran parte del giorno, le avevano
comunicato che il capitano della nave aveva annunciato che l'indomani,
al mattino, avrebbero attraccato al porto d'arrivo in Jamaica. Il
viaggio era finito, non sarebbe più stata una crisalide ed
ora la vita e le sue scelte l'avrebbero costretta... a vivere. In
qualche modo, da qualche parte, in un mondo sconosciuto che non
riusciva ancora ad immaginare, in posti e in mezzo a gente sconosciuti.
A
quel pensiero, una grande nausea la invase ancora. Si alzò
dal cuscino e i bambini, che stavano armeggiando con un libro, la
guardarono preoccupati.
“Mamma?”
- chiese Jeremy.
Prudie
si alzò, frizionandole la fronte con un panno bagnato.
“Hai la faccia di una che sta per rimettere anche il pranzo
del suo Battesimo, ragazza”.
Demelza
sospirò, affranta. Santo cielo, aveva bisogno d'aria ma non
aveva voglia di girare per la nave a quell'ora. Anche se era sera, non
era ancora così tardi per trovare il pontile deserto... E
odiava che la gente la vedesse in quello stato. “Parliamo!
Devo tenere occupata la mente”.
“Di
cosa, mamma?”.
Guardò
sua figlia, sempre così entusiasta davanti ad ogni cosa e
con la grinta negli occhi tanto tipica di suo padre. “Della
Jamaica. Di cosa faremo da domani”.
Prudie
annuì. “Sì! Spese! Cibo, da bere, il
rum... Riempie la pancia, dicono... Ed è di ottima
qualità, dicono”.
Jeremy
e Clowance risero davanti alle ottime argomentazioni che avrebbero
fatto bene solo a stessa, di Prudie, ma la piccola aveva idee
più costruttive.
“Esplorare,
mamma! E chiedere di Kitty e Cecily! E cercarle, trovarle e poi magari
iniziare a cercare un posto per noi!”.
Demelza
le sorrise, il senso pratico, sua figlia, l'aveva ereditato da lei.
“Ottima idea, questo mi sembra saggio” - disse,
sentendo la nausea allentare un po' la presa.
Jeremy,
dondolando pensieroso le gambe a penzoloni dalla sedia,
lanciò la sua idea. “Potrò lavorare,
mamma?”.
Demelza
sussultò. Jeremy aveva lanciato quell'iniziativa
giocosamente e con entusiasmo, senza rendersi forse conto di quanto la
ferisse pensare che erano soli e che ognuno di loro, anche i bambini,
doveva darsi da fare. Sentì il cuore spezzarsi di nuovo al
pensiero di Ross con Tess, al suo abbandono e alle tante promesse
d'amore infrante. Ma no, non avrebbe permesso che questo rovinasse
più di quanto non fosse già rovinata, l'infanzia
dei suoi figli. Voleva che fossero giocosi e allegri come sempre, che
vivessero quel trasferimento come una grande avventura e che non
perdessero il sorriso che da sempre illuminava i loro volti.
“No, assolutamente!”.
“Ma
mamma” - protestò il bambino - “Tanti
bambini della mia età lavorano, in Cornovaglia! Anche alla
Wheal Grace, in esterno”.
“Sei
troppo giovane, fine del discorso!” - tagliò corto
lei. “E posso occuparmi di voi da sola, non c'è
bisogno che tu faccia nulla finché non ti riterrò
abbastanza grande”.
“Ma
sono grande!”.
“Non
lo sei”.
Imbronciato,
Jeremy picchiò i pugni sulle gambe. “E allora
perché tanti bambini lavorano?”.
In
quel momento, Demelza impallidì. Nelle rimostranze di Jeremy
c'era tanto del Ross che lottava contro le ingiustizie sociali, tanto
del suo fervore per le cause che riteneva giuste e tanto delle lotte in
cui si era impegnato, una delle quali era stata proprio l'abolizione
del lavoro minorile. Chissà se ora che stava tradendo il suo
paese, oltre che loro, avrebbe ancora lottato con coraggio per i
più deboli... “Il fatto che molti bambini
lavorino, non significa che sia giusto. I bambini devono giocare, stare
al sicuro e crescere sani e forti. Molti bambini che iniziano a
lavorare fin da piccoli, finiscono per ammalarsi alle ossa e crescono
deboli. Non voglio che succeda anche a te. Ce la caveremo, come
sempre... Sta tranquillo, amore mio”.
Clowance
la guardò con quei suoi occhi indagatori.
“Davvero?”.
“Davvero”
- disse, cercando di apparire sicura.
Jeremy
le si avvicinò, sedendosi accanto a lei. “Ma io
voglio aiutarti. E anche Clowance. Non lo dici tu che ognuno deve fare
la sua parte? Non c'è più il papà con
noi, non abbiamo i soldi della miniera e in Jamaica come
faremo?”.
Si
sentì commossa dalla maturità di Jeremy e in
fondo suo figlio aveva ragione, erano senza nulla e con un futuro nuovo
da costruire da zero. Poteva fingere di non pensarci ma in cuor suo era
stato il suo pensiero tormentato per quei due mesi di viaggio. Ma non
voleva che fosse un pensiero dei suoi bambini, era lei l'adulta, era
lei che aveva scelto di partire ed era lei che avrebbe dovuto pensare a
tutto. Accarezzò i capelli dei suoi figli, quelli dorati di
Clowance e quelli castani di Jeremy e li strinse a se.
“Dicono che in Jamaica si peschino pesci enormi e che per un
provetto pescatore, sia divertente andare a pesca. Questo farai, con
tua sorella, Jeremy! Pescherai e cercherai ogni tipo di crostaceo
commestibile e assicurerai le nostre cene e i nostri pranzi. E'
importante ed è una cosa che ami fare! E poi, ti ricordi
cosa mi hai promesso?”.
Entusiasta
per la proposta della madre e rinfrancato dal fatto di poter essere
utile, Jeremy la abbracciò. “Quale
promessa?”.
Demelza
si accarezzò quel ventre che cresceva e che ancora non aveva
imparato né ad accettare, né ad amare.
“Che vi prenderete cura di Isabella-Rose. Conto su di voi per
lei”.
Clowance
annuì, rannicchiandosi fra le braccia di Prudie.
“Sì, ci pensiamo noi alla sorellina!”.
“Lo
giuro” - aggiunse Jeremy, con aria da ometto.
“Bravo,
amore mio” - sussurrò, abbracciandolo di nuovo.
Poi, con rinnovato entusiasmo, iniziò a programmare la sua
vita per evitare di pensare al passato e trovare la forza di guardare
al futuro: trovare Kitty e Cecily, imparare a conoscere quel luogo
misterioso che era la Jamaica, procurare una canna da pesca a Jeremy e
iniziare da lì, passetto dopo passetto, a vivere ancora.
I
bimbi si misero a letto più contenti e all'apparenza
tranquilli e lei, dopo aver letto loro una storia, li
osservò addormentati in quel piccolo lettuccio nell'angolo
della cabina più lontano dall'ingresso, che avevano
condiviso in quei due mesi. Un luogo piccolo, angusto, ma che era
diventato il loro rifugio in quella lunga traversata, che avevano
imparato in un certo senso a considerare la loro casa. Dal giorno dopo
lo avrebbero abbandonato e sarebbe diventata la casa di qualcun altro,
custodendo nuovi sogni e nuove paure.
Quando
anche Prudie si addormentò, decise che era ora della sua
passeggiata serale. Era ormai quasi mezzanotte, la nave era avvolta dal
silenzio e solo il rumore delle onde che si infrangevano sullo scafo
spezzava la quiete della tarda sera.
Di
soppiatto si alzò dal letto, uscì dalla cabina
lasciando Garrick a poltrire sul letto dei bimbi e poi, a piccoli
passi, si diresse sul pontile.
L'aria
era umida e calda, così diversa dal clima ventoso della
Cornovaglia dove anche in estate, di sera, dovevi portarti uno scialle
per coprirti. La Jamaica era diversa, le avevano raccontato che
lì faceva quasi sempre caldo e che solo brevi periodi delle
piogge, violentissime, interrompevano quella perenne estate.
Sul
pontile c'erano alcuni marinai intenti a sistemare e issare delle cime,
che non fecero caso a lei. Gli altri passeggeri, che forse nemmeno
conoscevano il suo volto viste le poche volte in cui si era aggirata di
giorno per la nave, dovevano essere già a dormire.
Si
appoggiò alla balaustra, pensierosa, immaginando l'aspetto
di quell'isola, le persone che vi vivevano e l'esistenza che avrebbe
condotto. Ma anche col pensiero, strisciante, rivolto al passato, alla
sua Nampara, al suo giardino e al suo uomo, l'unico che avrebbe amato
davvero e per sempre, ormai lontani e persi dietro altri amori, altre
sfide e altri orizzonti.
A
quei pensieri, al suo Ross e a Tess nella camera da letto che l'aveva
vista diventare donna e madre, la nausea aumentò e una
lacrima le scivolò sul viso, come spesso accadeva e
permetteva che succedesse quando era sola. Santo cielo, sarebbe mai
passata? Avrebbe mai dimenticato Ross e le tante cose che le aveva
detto e promesso, le tante parole d'amore, le tante battaglie
combattute insieme, fianco a fianco? Avevano condiviso così
tanto nel bene e nel male, avevano rischiato di perdersi tante volte e
avevano superato tutto. Quasi tutto... Ed ora era finita, in un modo
che mai avrebbe potuto accettare, in un modo crudele, con un Ross che
all'improvviso era diventato estraneo e freddo, distante e a tratti
cattivo. Che ne era stato del suo uomo fiero e forte, dal cuore d'oro,
capace di sbagliare ma anche capace di rialzare la testa e rimediare
con amore e passione ai suoi errori? Che ne era stato di quell'uomo che
anche nel giorno in cui era stata un'altra donna e si era concessa a un
altro uomo – e Ross lo sapeva, era certa che lo sapesse
perché lui sapeva leggere dentro di lei meglio di chiunque
– era stato capace di accoglierla in un caldo abbraccio e
dirle, pur senza parlare, che mai l'avrebbe lasciata andare?
Quelle
domande non avrebbero mai avuto risposta e lei non avrebbe mai saputo
nulla di Ross, mai più nulla...
Improvvisamente
una figura veloce schizzò fuori dalle scale, correndo verso
di lei e spezzando quel flusso di pensieri.
Demelza
si asciugò il viso e una bambina dell'età
all'incirca di Jeremy, corse verso di lei tutta trafelata. Capelli
castano chiaro, boccoli tenuti a bada da due trecce, vestita con un
abitino di ottima fattura di colore giallo e verde, era probabilmente
la prima volta che la incrociava in due mesi di navigazione. Certo, lei
non usciva spesso dalla sua cabina, ma probabilmente nemmeno la bambina
era troppo di compagnia. Ricordò che Jeremy e Clowance le
avevano parlato di una strana ragazzina salpata da Belfast, che fosse
lei? E che ci faceva sul pontile in un'ora in cui i bambini di solito
dormivano?
Incurante
del suo sguardo dubbioso e del fatto che fossero due sconosciute, la
ragazzina le si avvicinò. “Mi nasconda e non dica
a nessuno che sono qui!” - chiese, col tono con cui si da un
ordine. E poi, notata una grande cesta di vimini poggiata vicino al
parapetto, ci saltò dentro, rannicchiandosi al suo interno e
celandosi al mondo con uno straccio che trovò all'interno.
Vagamente
interdetta, Demelza non fece in tempo a reagire che altre tre strane
figure comparvero dal fondo del pontile, trafelate e decisamente
preoccupate.
A
guardarli bene erano tre soggetti decisamente strani, esattamente come
la ragazzina nascosta nella cesta e tutta quella situazione: una di
loro era una domestica dal viso smunto, non più giovane,
dalla pelle pallida e dall'espressione talmente inespressiva da
sembrare un fantasma. Gli altri due erano ancora più
strambi. Sembravano fratelli, si somigliavano come due gocce d'acqua,
bassi, tozzi, talmente grassi da sembrare due sfere in movimento,
completamente calvi e con degli occhietti minuscoli molto ravvicinati
fra loro.
I
tre la sorpassarono senza degnarla di uno sguardo, continuando la loro
strana corsa senza fermarsi a guardare attorno. E Demelza
cominciò seriamente a pensare di trovarsi nel bel mezzo di
uno strano sogno...
Fu
solo quando i tre ebbero svoltato l'angolo e furono spariti alla sua
vista, che la voce della ragazzina la riportò alla
realtà.
La
piccola sbucò fuori dalla cesta sedendosi sul bordo,
scocciata e vagamente irritata. "Tre idioti... Come diavolo si fa a
cercare uno che vuole nascondersi, senza fermarsi a chiedere o a
guardare nei posti bui o nei nascondigli?".
Demelza
osservò nella direzione in cui erano spariti i tre e poi la
ragazzina. "Ti stanno seguendo? Ti vogliono fare del male?" - chiese,
preoccupata. Non che la bambina sembrasse indifesa o abbandonata a se
stessa, ma forse spesso le apparenze ingannavano e lei era un'adulta
responsabile, dopo tutto.
La
bambina la guardò esasperata. "Miss Thorpe? Tim e Tom? Farmi
del male? Sono talmente stupidi e noiosi che al massimo avrebbero la
capacità di farmi morire di noia! Cosa che stanno facendo,
fra l'altro!".
Demelza
tirò un sospiro di sollievo. "Li conosci, allora?".
"Sì,
sono la mia domestica e le mie due guardie del corpo! Hanno tre
cervelli che, sommati, non fanno un cervello normale. Tim e Tom quando
parlano sembrano due bambinetti di due anni, Miss Thorpe... lei al
massimo dice 'Signorina, vuole qualcosa?', 'Signorina, vuole
coricarsi?', 'Signorina, vuole pranzare?'. Ecco, il massimo delle mie
conversazioni, da quando sono partita, è di questo livello.
Sto impazzendo! E ora tocca a me far impazzire loro, è
l'ultima sera che posso farlo prima di arrivare da mio padre".
Demelza
si accigliò. Quella ragazzina aveva circa l'età
di Jeremy ma una capacità di dialettica notevolmente
superiore a quella di suo figlio. Sembrava viziata e piuttosto portata
al drammatizzare le situazioni, impertinente e risoluta. Ma
decisamente, per fortuna, non in pericolo... Di fatto, se non aveva
interpretato male la situazione, non aveva davanti che una bambinetta
viziata che cercava di attirare l'attenzione in qualsiasi modo. "Beh,
sono dei domestici. Si prendono cura di te e cercano di farlo con
rispetto".
"Sono
tre idioti! Voi, se cercaste qualcuno, vi limitereste a correre come
loro, come tre scemi, in tondo su una nave? Se uno vuole nascondersi,
di solito sceglie gli angoli bui! I nascondigli... Oppure, visto che vi
siete incrociati, potevano chiedere se mi avevate notata da qualche
parte... Stupidi, decisamente tre stupidi!!!".
Demelza
si grattò la guancia, in effetti non poteva darle torto. "E
perché ti nascondi da loro?" - chiese infine, per porre fine
a quella strana situazione.
Lei
fece un sorrisetto irriverente. "Voglio che provino un pò di
paura! Di mio padre, intendo...".
"Che
vuoi dire?".
"Non
mi trovano, potrei benissimo essermi gettata dalla nave, in pasto agli
squali o nelle grinfie dei pirati. E sarebbe colpa loro che non hanno
vigilato su di me... E voglio che ci pensino e che pensino che se fosse
così, quando mio padre lo saprà li
frusterà a morte".
Deglutì.
Santo cielo, era piuttosto diabolica e dotata di una mente contorta.
"Ma per fortuna, tu sei quì. E non nella pancia di uno
squalo...".
"Ma
loro non lo sanno" – le rispose la piccola, sicura. "Lo
sapete, ho passato DUE mesi su questa nave, con quei tre. Ho letto
tutti i libri che mi sono portata per il viaggio nell'assoluto
silenzio, chiusa in cabina, mentre loro al mio fianco si crogiolavano
nel nulla della loro esistenza vuota. Ma coi libri da leggere, li
notavo poco! Non ho più nulla da leggere adesso, ho letto
tutto e senza distrazioni, che faccio? Girare sulla nave, no grazie,
piena di poveracci selvaggi. Con tutto il rispetto per voi, signora...
E in cabina ci vivo con tre MUMMIE! Sto diventando pazza, sto per avere
un esaurimento nervoso, sto per urlare e svegliare tutta la nave che
non ce la faccio più e che la mia vita, fino all'approdo in
Jamaica, è simile all'inferno in terra".
Ammutolita,
Demelza ci mise un attimo a trovare le parole per risponderle. Santo
cielo, quella bambina e le sue parole erano come un fiume in piena!
Dubitava fortemente che quella ragazzina sapesse cosa significasse
vivere una vita d'inferno e forse il massimo che le era capitato era
davvero un pò di noia, ma aveva un modo di esprimere i
concetti davvero singolare e a tratti geniale e divertente da
osservare, per chi non ci era coinvolto direttamente. "Ecco...
Domattina attraccheremo. Cerca di sopportarli ancora qualche ora e
poi... raggiungerai tuo padre e tua madre? Giusto, ho capito bene?".
La
bimba alzò le spalle. "Solo mio padre, Viktor Copper. E'
l'uomo più ricco e potente della Jamaica, lo temono tutti".
"E
tua madre? E' rimasta in Inghilterra?".
La
bimba ci pensò un pò prima di rispondere, ma poi
alzò le spalle con noncuranza. "E' morta che avevo due anni.
Stava scendendo le scale di casa con mio padre ed è caduta.
Ha picchiato la testa ed è morta da stupida, come dice mio
padre spesso. Era molto impacciata, come Tim e Tom, dice lui. Poi ho
vissuto coi nonni a Belfast mentre mio padre faceva fortuna
quì e ora che sono morti anche loro, lo sto raggiungendo".
Demelza
si accigliò, sembrava spigliata anche nel racconto di fatti
così dolorosi... Non conosceva quella bambina né
suo padre, ma quella strana storia su sua madre le risultava un
pò stonata e davvero strana. Di solito una donna non muore
cadendo dalle scale... Ma non erano affari suoi e di problemi ne aveva
già troppi di suo per preoccuparsi della vita di una bambina
sfacciata e viziata.
La
piccola la fissò incuriosita. "Aspettate un bambino?
Raggiungete vostro marito?".
"No,
l'ho lasciato in Inghilterra. Sono partita coi miei figli e il mio cane
per vivere nuove avventure in Jamaica, soli con la nostra unica
domestica" – rispose, con la stessa sincerità che
aveva usato lei poco prima, cercando di apparire altrettanto sicura di
se stessa.
Questo
lasciò la sua piccola interlocutrice a bocca aperta e senza
parole. Ma durò un attimo...La piccola fece per dire
qualcosa ma fu bloccata di nuovo.
I
suoi tre 'inseguitori' aveva fatto il giro della nave e, girando in
tondo, erano tornati davanti a loro. E stavolta la piccola fuggitiva
non ebbe il tempo di nascondersi di nuovo.
"Signorina
Lilith" – ansimò la domestica.
"So
come mi chiamo, smettila di ripetere il mio nome come una scimmia!" -
rispose la piccola, a tono.
"Sei
scappata, non si fa! Tim si è preoccupato!" -
mormorò in tono stentato uno dei due uomini tondi, dall'aria
forse davvero poco intelligente.
"Anche
Tom si è preoccupato" – aggiunse l'altro.
E
Demelza si rese conto che non sembrava brillare di intelligenza nemmeno
lui.
"Perché
sei scappata?" - chiese la domestica, mentre Demelza si sentiva di
troppo in quella assurda situazione.
La
bambina, Lilith, divenne rossa dall'ira. Picchiò il piede
per terra, incrociò le braccia e guardò i tre con
aria furente. "Perché mi ANNOIO! E voi siete le tre persone
più noiose del mondo! E son due mesi che non ho una
conversazione decente con qualcuno, a parte stasera in cui ho parlato
con una sconosciuta più di quanto abbia fatto con voi da
quando abbiamo lasciato Belfast! Ora urlerò,
sveglierò tutta la nave coi miei strilli e quando tutti
saranno svegli, darò la colpa a voi!".
La
domestica pallida, divenne ancora più pallida. "No, vi prego
Miss Lilith. Che possiamo fare per farvi divertire?".
Lilith
la guardò con aria di sfida, avvicinandosi di alcuni passi.
"Sali sul parapetto e buttati di sotto. E fatti mangiare dagli squali!
QUESTO SAREBBE UN GROSSO CAMBIAMENTO, IN QUESTO MARE DI NOIA! Questo mi
divertirebbe...".
E
Demelza a quel punto intervenne. Quella bambina era terribile,
insopportabile e di certo quei tre, anche se non particolarmente
svegli, non facevano un lavoro invidiabile. Era indubbiamente una
bambina intelligente, aveva una padronanza di linguaggio notevole per
la sua età ma nessuno pareva averle insegnato il minimo
senso del rispetto per gli altri. Certo, quel viaggio doveva essere
stato pesante per lei ma quel modo di fare che teneva, iniziava ad
irritarla. Di certo non l'avrebbe mai accettato da parte dei suoi figli
e sperava che suo padre, questo potente signor Viktor Copper, la
rimettesse un pò in riga. "Forse ho un'idea migliore, visto
che mi pare di capire che ami leggere".
Lilith
e i tre domestici si girarono. "Cosa?".
Si
mise una mano in tasca dove si trovava un piccolo libro di poesie sul
mare che aveva trovato sul molo, a uno scellino, prima di imbarcarsi
dal porto di Falmouth. "Questo libro forse ti è ancora
sconosciuto. E' piccolo, ci vuole poco a leggerlo tutto ma ti
terrà compagnia fino a che non attraccheremo domani. Ed
eviteremo ai tuoi domestici di farsi mangiare dagli squali per
divertirti...".
Osservò
i tre e loro ricambiarono il suo sguardo con gratitudine. E Demelza si
chiese se per caso non avessero davvero preso sul serio la stramba
pretesa della piccola. No, non erano davvero intelligenti, forse aveva
ragione lei sul serio.
Lilith
prese il libro, osservandolo con bramosìa. "Amo i libri.
Davvero posso tenerlo? E quando potrò ridarvelo?".
"Te
lo regalo! Ma tu promettimi di non maltrattare troppo chi si prende
cura di te".
Lilith
osservò Tim, Tom e Miss Thorpe. Poi sbuffò. "Va
bene... E per il libro, chiedete di mio padre, vi indicheranno dove
viviamo. Ve lo farò avere, se mi darete il vostro indirizzo
o se verrete a cercarmi".
Demelza
le strizzò l'occhio, si era calmata a quanto sembrava. "E'
un regalo, puoi tenerlo".
"Grazie,
allora!". Poi, impettita, guardò i suoi tre poveri
domestici. "Voi, sbrigatevi! Io devo andare a letto e voi dovreste
vegliare su di me e sul fatto che lo faccia! Lo dirò a mio
padre che mi avete permesso di girare sul pontile a mezzanotte. Vi
farà frustare un pò...". E così
dicendo, sparì nelle scale.
La
domestica la ringraziò a sua volta e poi le corse dietro,
seguita da Tim e Tom che, da quel che notava, si muovevano e pensavano
sempre all'unisono.
E
rimasta sola, stranita, si rese conto che per una manciata di minuti
non aveva pensato ai suoi problemi. E che, ironia della sorte, doveva
ringraziare per questo una viziata ed isterica bimbetta...
Si
massaggiò il ventre tornando a voltarsi verso il mare,
immaginando
che da lì in avanti la sua vita sarebbe stata sempre
più stramba e
strana e che la piccola Miss Lilith non era altro che l'antipasto di
ciò che avrebbe visto, incontrato e vissuto. Tutto stava
cambiando,
il mondo, il clima, i paesaggi e le persone attorno a lei. E questo
forse era un bene...
La piccola
Isabella-Rose le diede un piccolo calcetto, quasi impercettibile, che
la fece sussultare. I primi calci erano sempre stati motivo di gioia
per lei quando aveva aspettato i suoi figli, ma ora era diverso. Ora
non era pronta e forse non lo sarebbe stata mai. "Sta ferma, aspetta
ancora un pò a farti sentire. Ho bisogno di altro tempo, ho
bisogno di far finta che almeno tu non esista ancora per un
pò... E' troppo, se ti ci metti anche tu. Sta ferma e
nascosta finché non avrò capito cosa saremo in
questo nuovo mondo chiamato Jamaica".
E
in quel momento si rese conto che, come Lilith, avrebbe voluto gridare
a squarciagola pure lei...
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Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Eroe...
Così lo aveva definito Wichman quando tutto era finito.
Eroe, che è
una parola che per tutti risveglia fierezza, orgoglio e
soddisfazione. Eppure a lui importava poco di tutto ciò, non
era per
questo che si era lanciato, mesi prima, in quell'assurda e segreta
avventura contro i francesi. Si era inimicato tutti, famiglia ed
amici, per avvicinarsi al nemico e soprattutto per difendere la sua
terra, quella terra che lo aveva visto nascere, che era stata
testimone dell'amore fra i suoi genitori prima e poi fra lui e
Demelza e della nascita dei suoi bambini. La Cornovaglia era il suo
mondo, la terra dove era nato e dove avrebbe voluto morire ed essere
sepolto, la sua piccola patria e per la Cornovaglia e per coloro che
vi vivevano, avrebbe dato la vita. Terra difficile e dominata da
povertà e duro lavoro, spesso sferzata da un vento crudele
ed
implacabile, ma affascinante, magica, unica, anche se regalava ai
più vite per lo più fatte di stenti e fatica. Ma
era la sua terra,
la sua casa, il suo mondo. E salvare ciò che si ama era
qualcosa di
talmente banale che Ross faticava a credere che qualcuno, per averlo
fatto, lo considerasse un eroe.
Era
stato tutto strano, caotico e assolutamente discreto, tanto che gli
abitanti della zona non si erano accorti di nulla. Erano arrivati da
Londra dei soldati speciali che erano riusciti a scambiare con lui
una corrispondenza privata senza essere scoperti, d'accordo con loro
aveva condotto in una trappola i generali francesi a capo dell'azione
e anche se alla fine c'era stato un intoppo, un intervento nemico di
Hanson che per poco non gli era costato la vita, alla fine era stato
salvato da... George Warleggan.
Che
strana la vita, che strano pensare che il suo antico nemico avesse
percepito le sue mosse, le avesse preventivate ai suoi due compagni
d'affari che evidentemente, a dispetto delle apparenze, non
apprezzava fino in fondo e avesse scelto, visto il tradimento che
Hanson e Merceron pensavano di compiere ai danni alla nazione, di
stare dalla sua parte, di scegliere la sua terra e di rimanere fede
alla sua lealtà verso quelle istituzioni e quei vertici che
da
sempre inseguiva. George era tante cose, non era una persona quasi
mai limpida, spesso era stato vendicativo ma in fondo si era sempre
dimostrato coerente e mai aveva tradito tutto ciò in cui
credeva e
quel potere e quella nazione di cui sperava di arrivare al vertice.
Era e sapeva essere anche un tipo losco e poco corretto ma di certo
molto lo differenziava dai due brutti ceffi che si erano avvicinati a
lui e che in fondo mai, fin dall'inizio, aveva seguito del tutto. Una
morale, anche se a volte contorta e perversa, George ce l'aveva.
Hanson e Merceron no.
Anche
se, doveva ammettere a se stesso, era stato davvero strano, singolare
e incredibile trovarsi poi, pochi minuti dopo quell'azione
inaspettata, a brindare con lui nella cucina di Nampara. Oh, niente
dichiarazioni di pace e amicizia, ognuno aveva mantenuto e giocato
nel proprio ruolo ma il rispettivo cinismo stavolta non nascondeva
nessun tentativo di nuocersi l'uno con l'altro. Mai sarebbero stati
amici ma Ross aveva avuto l'impressione che da quel momento in poi,
l'essere nemici sarebbe stato più simile a un gioco di ruolo
bonario
piuttosto che a una vera e propria guerra. E Ross aveva elogiato
George davanti a Wichman, sottolineandone i meriti e premurandosi che
questi venissero resi noti a Westminster. George aveva sempre cercato
fama e rispetto in maniera errata e scorretta ma stavolta meritava il
suo momento di gloria perché stavolta aveva agito per il
bene del
paese più che per il suo. Era una consacrazione per George e
Ross
voleva dargli ogni merito, per se stesso non chiedeva nulla e nulla
voleva gli fosse riconosciuto, desiderava solo pace per la sua terra
e che Hanson e Merceron finissero i loro giorni in prigione, dove non
potevano più nuocere a nessuno e dove avrebbero pagato per
l'affronto fatto a Ned. Solo questo chiedeva, per se stesso... Aveva
agito solo per il bene di chi amava e questo non era forse un atto
egoistico rispetto a George che per una volta si era mosso per il
bene del paese?
In
fondo Ross pensava di non aver fatto chissà che per essere
premiato
o considerato un eroe. Aveva raccontato molte menzogne a tutti, era
stato un abile doppiogiochista e durante la battaglia era stato
George a tirarlo fuori dai guai prima dell'arrivo dei soldati da
Londra, quindi perché essere elogiato? In fondo non aveva
nemmeno
imbracciato armi durante gli scontri...
Tutto
si era risolto nel giro di poche ore, c'era stata una battaglia
notturna in spiaggia e nelle grotte circostanti, i francesi erano
stati arrestati e portati via nell'oscurità e la mattina
successiva
la Cornovaglia si era risvegliata ignara e sonnolenta come sempre,
senza percepire il pericolo che aveva corso.
Andava
bene così... Ora Ross solo una cosa voleva: andare a casa di
Dwight,
spiegare al suo amico cosa fosse successo e poi prendere Demelza e i
loro bambini e riportarli a casa. Ritrovarla, ritrovarsi... Santo
cielo, lei gli era mancata come l'aria... Così come Jeremy
che
ultimamente lo seguiva sempre e se si allontanava, pareva sentire la
sua mancanza più di quando era piccolo e Clowance e la sua
bambola,
sempre inseparabili. E poi voleva accarezzare il ventre di sua
moglie, dove stava crescendo il loro nuovo bambino. Era incredibile
ma era ubriaco di gioia all'idea di diventare di nuovo padre dopo che
per molto tempo ne aveva avuto paura. Ora nulla importava, nessuna
avversità avrebbe potuto fermarlo o frenarlo dall'amare suo
figlio o
figlia. Se era con Demelza, se erano insieme, non c'era modo che
qualcosa andasse male.
Quel
mattino si svegliò presto, si fece un bagno, si
vestì e senza fare
nemmeno colazione, fece per avviarsi alla stalla quando la voce di
Wichman, completamente inaspettata, lo raggiunse nell'aia. "Poldark,
state uscendo? Siete mattiniero".
Ross
si voltò, osservando l'uomo che oltrepassava il cancello
della sua
casa. Assieme ai soldati era arrivato anche lui e aveva osservato la
scena e i combattimenti da una locanda, tenendo in mano le redini
dell'operazione in accordo e collaborazione con lui, chiedendogli
consigli ed informazioni costanti sui francesi che aveva imparato a
conoscere in quei mesi. "Credo di aver fin troppo da fare per
poltrire a letto. Ho una famiglia e dopo tutto questo, desidero solo
andare a riprendermela".
Wichman
si avvicinò. "Beh, se mi date cinque minuti del vostro
tempo,
la vostra famiglia potrebbe essere ancora più orgogliosa di
voi
visto la proposta che intendo farvi".
"Di
che parlate?".
Wichman
indicò la porta d'ingresso di Nampara. "Entriamo un attimo?
Vi
ruberò poco tempo".
Con
un sospiro, Ross dovette cedere a quella richiesta. Quello che aveva
davanti era comunque un potente uomo di governo che aveva la fiducia
del re e lui era un parlamentare di Westminster. Non poteva
rifiutare... "Vi faccio strada".
Lo
condusse all'interno, dove regnava il silenzio. Il camino era spento
e Ross si rese conto che la casa così, senza la presenza di
Demelza,
Prudie e l'allegria dei bambini e di Garrick, appariva davvero
inospitale e fredda. "Scusate se la casa non è accogliente
come
dovrebbe, la mia domestica è assieme a mia moglie a casa di
amici in
questo periodo. Per il loro bene durante la missione coi francesi, ho
preferito allontanarle".
Wichman
annuì. "Ottima scelta, saggia. Donne e bambini devono stare
lontani da certi tipi di situazioni".
Ross
distolse lo sguardo. In realtà non la vedeva proprio come il
suo
interlocutore e anzi, si sentiva in colpa e a disagio per il dolore
provocato a Demelza che di certo, se avesse saputo, avrebbe potuto
essere un'ottima alleata e consigliera. "Che dovevate dirmi?"
- tagliò corto, desideroso solo di raggiungerla.
Wichman
si mise a sedere su una sedia del tavolo. "Il Governo e il re in
persona sono rimasti molto colpiti dal vostro gesto e dal vostro
ingegno. Avete agito nell'ombra senza un tentennamento e senza che
nessuno si accorgesse delle vostre mosse, nemmeno i vostri vicini di
casa. E nemmeno i francesi, di cui avete guadagnato la fiducia.
L'Inghilterra e questa vostra terra vi devono molto signor Poldark,
siete un uomo dalle capacità rare e io e gli alti vertici
del
governo pensiamo che la sola Westminster sia cosa troppo piccola per
una persona con le vostre capacità".
Ross
rise. "Io e Westminster non abbiamo mai raggiunto alcuno scopo
di quelli che mi ero prefissato all'inizio della mia carriera di
parlamentare".
"Appunto!
Ma ora, da solo, in mezzo all'azione, vi siete distinto!" - lo
interruppe Wichman.
"E
quindi? Tutto è andato bene, che senso ha rivangare?".
Wichman
sorrise, un sorriso sornione e furbo. "Ciò che vogliamo
offrirvi Poldark, non sono solo elogi! Di quelli, uno come voi, ne fa
a meno! Ma posso darvi altro, avventura, fama, gloria e onore agli
occhi del re e della nazione. Siete l'uomo giusto che stavamo
cercando da molto e l'ho capito fin dal nostro primo incontro, quando
tirammo fuori dai guai e dalla galera Despard. Mi avete dato la
conferma, coi francesi, di ciò che sapevo già
allora".
Ross,
incuriosito, lo osservò attentamente. "Che volete dire?".
Il
suo interlocutore lo guardò dritto negli occhi. "Il re in
persona vuole offrirvi un posto come spia del governo. All'estero
sareste i nostri occhi e le nostre orecchie, un uomo d'azione quando
servirà ma soprattutto, un osservatore insospettabile. Non
temete il
pericolo e siete temerario e intelligente, siete perfetto e lo avete
ampiamente dimostrato. Un lavoro che vi impegnerà per dei
brevi
periodi all'estero, ogni tanto, intervallato dalle tranquille
discussioni in Parlamento e dalla vostra vita famigliare. Denaro,
fama, gloria, avrete tutto!".
Ross
sorrise, lusingato ma deciso a rifiutare. Forse era e sarebbe stato
il lavoro della sua vita, quello più adatto al suo carattere
irrequieto e ribelle, quello che più avrebbe accarezzato la
sua
indole mai doma, ma... Ma era cresciuto, una volta avrebbe accettato
senza battere ciglio mentre ora l'idea di stare a lungo lontano da
Demelza, di rischiare la vita, di non veder crescere i suoi figli era
più forte di qualsiasi altra cosa. La morte di Ned e tutto
ciò che
si sarebbe perso di sua moglie e del figlio in arrivo gli avevano
insegnato molto su quali fossero le priorità vere della
vita. Forse
lo avrebbe rimpianto un giorno, forse sarebbe stata una strada
più
adatta a lui rispetto a Westminster, forse stava sbagliando a dire no
e avrebbe dovuto prima parlarne con Demelza, forse, forse... C'erano
troppi forse e quando le cose stanno così, è
meglio rifiutare e
seguire il proprio cuore ed istinto. "Mi sento onorato di tale
proposta ma non ho fatto ciò che ho fatto per riceverne in
cambio
guadagno e fama. Amo la mia terra, come tutti, e ho solo cercato di
difenderla. Ho una miniera da gestire che è
l'eredità di mio padre,
una moglie che amo e che ho lasciato fin troppo da sola, dei figli
che adoro e che spesso non vedo per lunghi periodi e non posso e non
voglio sottrarre loro altro tempo con me. Non voglio che per i miei
bambini io diventi un estraneo. E di certo non lo voglio per me e mia
moglie. Vi ringrazio ma sono sicuro che esistono tante altre persone
più adatte di me per questo incarico. Persone giovani, senza
responsabilità e legami, disposte a viaggiare in lungo e
largo senza
rimpianti. Non io, quel tempo per me è passato".
Wichman
deglutì, forse colpito da quel rifiuto così
repentino. "Non
rinuncio così facilmente. Cosa posso offrirvi per farvi
cambiare
idea? State gettando una proposta che in pochi ricevono!".
"Lo
so. Ma non posso fare altrimenti...".
Wichman
scosse la testa. "Pensate bene a ciò che fate e dite.
Prendetevi tempo...".
Ross
sorrise, dolcemente. "Amo mia moglie, ho difeso questa terra per
lei. E per i nostri figli... Presto diventerò di nuovo padre
e per
me conta solo questo, che i miei bambini possano giocare in spiaggia
senza il pericolo che invasori stranieri facciano loro del male".
Wichman
sospirò. "Moglie e figli sono importanti certi, ma non
demordo
tanto facilmente" – borbottò, alzandosi dalla
sedia.
Ross
gli porse il cappello. "Lo immagino...".
L'uomo
si diresse verso la porta con in mente già i passi
successivi per
farlo cedere. "Per oggi non voglio rubarvi altro tempo, Poldark.
Ma sappiate che tornerò".
"Lo
immagino...".
Wichman
fece per uscire, quando all'improvviso si bloccò. "E la
ragazza?".
"Quale
ragazza?" - chiese Ross.
"La
giovane Tess, la piccola traditrice della patria che ora è
nella
prigione di Truro... Il cappio si avvicina pericolosamente per lei".
Ross
impallidì. Tess era una persona infida e cattiva, ma
soprattutto
ignorante e non così intelligente da poter capire a cosa
portassero
le sue azioni. E l'ignoranza era una brutta bestia da sconfiggere. E
chi ne era affetto doveva essere compatito e guidato, più
che
punito. "Vi chiedo indulgenza. E' giovane e sicuramente avrà
imparato la lezione, se non a livello nozionistico, comunque grazie
alla paura che starà vivendo in questi giorni".
Wichman
lo guardò intensamente. "Ciò di cui si
è macchiata, è un
reato capitale".
"Lo
so... Ma una ragazza analfabeta ed ignorante, che ne sa di queste
cose?".
"Cosa
proponete, Poldark?".
Ross
ci pensò su. Voleva liberarsi di lei al più
presto ma non gli
andava di immaginarla appesa a una picca. Era un qualcosa di
mostruoso contro cui si era sempre battuto e non avrebbe fatto
eccezioni anche ora che si trattava di Tess. "Lavori socialmente
utili. Per la comunità... Guardata a vista ma in una
situazione
dignitosa. Lontana da quì e da coloro che potrebbero
fomentarla di
nuovo contro il re".
Wichman
annuì. "Ci penserò, se... E voi? Ci penserete?".
"A
cosa?".
"Alla
mia proposta!"
Ross
sospirò, se non gli dava un contentino, avrebbero fatto sera
e
l'allusione di Wichman a Tess di fatto era una velata minaccia o
comunque un tentativo di ricatto non certo celato. "Certo,
ovviamente ci penserò. Ma non fatevi illusioni".
E
così dicendo, strinse la mano a Wichman e lo
congedò.
L'uomo
se ne andò mestamente ma a passo spedito, il passo di un
uomo
potente che non era abituato ai no. Ma ora non aveva importanza, ora
Ross non voleva pensare a nulla se non alla sua famiglia.
Ora
doveva correre da Dwight!
Prese
il suo cavallo e come un folle galoppò fino alla grande ed
elegante
residenza degli Enys.
Vi
arrivò che il sole era già sorto del tutto, in
una mattina priva di
vento e piuttosto nebbiosa. Faceva freddo, un freddo pungente ma Ross
non pareva sentirlo. Il cuore gli batteva forte all'idea di rivedere
sua moglie e raccontargli la verità e anche se immaginava
che ne
sarebbe seguita una lite e che avrebbe dovuto dar fondo a tutte le
sue risorse per farle capire quanto l'amasse, era certo che tutto
sarebbe andato bene e che quella sera si sarebbe addormentato con lei
fra le braccia, al caldo del camino nella loro stanza. E avrebbero
riso ancora insieme, si sarebbero amati e avrebbero chiacchierato per
ore di quanto successo in quegli strani, intensi e anche oscuri mesi.
Si
avviò alla porta quando, nel giardino, vide Dwight che
camminava con
Horace che probabilmente aveva accompagnato fuori per i suoi bisogni.
Il
medico spalancò gli occhi quando lo vide ma poi non ne
seguì uno
dei suoi caldi e accomodanti sorrisi. Rimase freddo, con gli occhi di
ghiaccio, a guardarlo con incredulità. Poi si
avvicinò di alcuni
passi col cagnolino che lo seguiva impettito e piuttosto contrariato
da quella interruzione della sua passeggiata. "Che ci fai
quì?"
- gli chiese, senza giri di parole.
Ross
deglutì. Che non sarebbe stato accolto dal suo migliore
amico a
braccia aperte se l'aspettava, ma tutta quella freddezza e quel
rancore, no. Doveva fare ammenda anche con lui dopo quando si erano
detti nell'ultimo incontro, confessare il perché delle sue
menzogne,
raccontargli le sue gesta e sentire la sua ramanzina su quanto fosse
stato sciocco ed avventato ma Ross sapeva che alla fine, come sempre,
Dwight avrebbe capito e sarebbe stato dalla sua parte. "Sono
venuto per Demelza e per i bambini, per portarli a casa".
Dwight
continuò a guardarlo imperturbabile. "Pare che Tess sia
sparita
misteriosamente dalla circolazione. Per questo sei quì? Il
tuo letto
è tornato freddo?".
Tess?
Santo cielo, doveva chiarire assolutamente quella situazione e
l'incredibile malinteso che ne era seguito. Ma Dwight come poteva
pensare...? "Tess? Posso giurarti che nulla di quella ragazza
è
mai stato di mio interesse. E che tutto ciò che ho fatto di
strano
in questi mesi ha una spiegazione".
"Che
io non voglio sentire!" - lo bloccò Dwight.
"Per
favore...".
Il
medico assunse uno sguardo duro. "A tutto c'è un limite,
Ross!
Qualsiasi cosa tu abbia fatto e il perché, QUALSIASI, non ti
da né
il diritto di essere quì né quello di chiedere di
Demelza! Un uomo
che non sa proteggere la sua famiglia, non merita una famiglia!".
Ross
si morse il labbro, la rabbia di Dwight e la sua delusione erano
talmente evidenti da fargli male e non voleva che chiarire. Anche se
guardandolo, cominciò a chiedersi se non avesse sbagliato,
se avesse
scelto la strada giusta e se davvero non fosse andato troppo oltre in
quel gioco pericoloso. "Dwight, posso spiegarti! Tu hai ragione,
ma ti assicuro che proteggere la mia famiglia è sempre stata
la mia
priorità!".
"Parole,
Ross! Smentite dai fatti!".
"Dwight!".
Il
medico gli indicò il cancello. "Hai fatto delle scelte,
Ross.
Ora segui la strada a cui ti hanno portato e lascia stare tutti noi
che da quelle scelte siam stati feriti. Cerca la tua Tess, per la
quale hai gettato via tua moglie e i tuoi bambini! Te la meriti una
così, Demelza era troppo per te anche se lei ha sempre
pensato il
contrario".
Disperato,
Ross lo prese per le braccia. "Dwight, ho bisogno di vedere
Demelza e di spiegarvi tutto! Se solo mi lasciassi parlare...".
Dwight
lo allontanò. "Sei arrivato troppo tardi, Demelza non
è più
quì e per fortuna ha messo le distanze fra voi prima che tu
la
uccidessi di dolore".
Ross
spalancò gli occhi. Che voleva dire, Dwight? CHE VOLEVA
DIRE???
Sentì la terra che gli sprofondava sotto i piedi e ogni
certezza
venir meno. Era davvero andato troppo oltre stavolta, pur con le
migliori intenzioni? Demelza aveva issato in qualche modo bandiera
bianca troppo schiacciata dal dolore? "Dwight, se questo è
uno
scherzo, sappi che non è divertente".
"Ti
pare che stia scherzando?" - chiese il medico.
"Dwight,
Demelza aspetta un bambino, non può essere andata via! Dimmi
dov'è
e chiariamoci prima che io impazzisca".
Dwight
annuì, giocando con la punta del piede con un sassolino. "Un
bambino, sì! Ed era talmente sconvolta e provata dalle tue
azioni
che non trovava la forza di andare avanti con la gravidanza e mi ha
chiesto aiuto per interromperla".
Il
cuore e la mente di Ross si riempirono di orrore. Pensò a
lei, alla
donna che amava e al dolore che doveva aver provato pensando che lui
e Tess... che lui... Santo cielo, dopo Elizabeth forse Demelza, pur
con tutta la forza di cui era dotata, non poteva farcela a reggere...
Ancora una volta aveva compito lo stesso errore e aveva date per
scontate cose che scontate non erano. Pensò a come una madre
meravigliosa come Demelza potesse essere arrivata a una decisione
tanto terribile e contraria a tutto ciò che lei era e a quel
bimbo
in arrivo, alla culla che aveva ridipinto a casa, alla gioia di
diventare padre e all'orrore di essere stato, forse, la causa della
fine di quella piccola e preziosa vita di cui non poteva che
incolpare se stesso. "Dwight, dimmi che non lo ha fatto!" -
urlò disperato, facendo sussultare il povero Horace mentre
stringeva
le spalle del medico.
Dwight
scosse la testa. "No, lei è Demelza e non avrebbe mai potuto
farlo e andare fino in fondo. Pur col cuore spezzato ha deciso di
tenere il piccolo. Ma se n'è andata per non impazzire e io
approvo
la sua scelta".
Quella
risposta servì ad acquietare per un attimo il suo animo in
tumulto.
"Dio, grazie, il bimbo è vivo... E lei dov'è? Se
non è quì,
dov'è?".
Dwight
lo fissò nuovamente, gelido. "Non lo so. Lontano, suppongo,
dove non rieschierà di incrociare di nuovo la tua strada o
quella di
Tess".
Non
credeva a una parola. "DWIGHT, LEI DOV'E'???".
Ma
Dwight rimase di ghiaccio. "Non lo so e anche se lo sapessi, non
te lo direi. Demelza merita pace, i tuoi figli meritano pace! E di
non incrociarti in giro con quella donnetta con cui li hai traditi!
Ci hai traditi tutti e ora accettane le conseguenze! Avevi una
famiglia meravigliosa e una donna unica che, da quel che so, ha
saputo perdonarti cose che difficilmente una donna qualunque avrebbe
perdonato!".
Ross
impallidì. Cosa sapeva Dwight? Che cosa aveva raccontato
Demelza?
Elizabeth? Il suo amico conosceva qualcosa del suo errore con
Elizabeth e di quello che poteva esserne scaturito? Santo cielo,
odiava se stesso per aver fatto quella pazzia il maggio di alcuni
anni prima e l'idea che Dwight sapesse e lo giudicasse lo atterriva.
Era stato un uomo orribile e mai si sarebbe perdonato fino in fondo
per quell'errore e il biasimo di Dwight sarebbe stato ancora
più
insopportabile. "A cosa... ti riferisci?".
"Lo
sai meglio di me, senza che io te lo spieghi!".
Ross
lo riprese per le spalle. "Dwight, dov'è Demelza?".
Il
medico se lo scrollò di dosso, prendendo in braccio Horace e
dirigendosi verso la porta. "Lontano! Ragion per cui non hai
motivo di stare quì e sei invitato ad andartene e a non
tornare".
"Dwight!"
- gli corse dietro Ross.
Ma
il suo vecchio amico non si voltò, raggiunse la porta e
prima di
sparire dietro ad essa, lo ammonì di nuovo. "Te lo ripeto,
non
sei più il benvenuto in questa casa! Cerca di non metterti
nei guai,
stammi alla larga e vivi la tua vita secondo le leggi e le regole che
governano le nostre terre. Demelza mi ha chiesto di vegliare su di te
prima di partire e io posso solo ammonirti sulle conseguenze di certe
decisioni pericolose. Per il resto sei un uomo, hai fatto delle
scelte e altre ne farai in futuro. Sta attento".
E
poi Dwight sparì dietro alla porta e un domestico fu mandato
fuori
per accompagnarlo verso l'uscita del giardino.
Ross
rimase lunghi minuti fuori dalla tenuta, ad urlare il nome del suo
amico, con cuore e animo schiacciati dalla disperazione. Ma Dwight
non uscì. E nemmeno Caroline o Demelza o i bambini. Non
uscì
nessuno...
E
Ross si rese conto che aveva perso tutto e che l'amore della sua
vita, i suoi figli e tutto il suo mondo erano scivolati lontano, non
sapeva dove, in fuga da un uomo che tanto aveva sbagliato ma che per
loro avrebbe dato la vita. Pensò a quei capelli rossi che
tanto lo
affascinavano di sua moglie, alla dolcezza della sua voce mentre
cantava, al sorriso biricchino di Clowance e a quello più
dolce di
Jeremy. E a un bambino che forse mai avrebbe dormito nella culla che
aveva ridipinto per lui.
E
anche se non si sarebbe arreso alla loro perdita tanto facilmente e
li avrebbe cercati fino in capo al mondo, in quel momento non
poté
fare a meno di piangere e di chiedersi cosa avrebbe fatto e di come,
in un mondo tanto grande, avrebbe potuto trovarli.
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Il
sole era accecante quando scesero dalla nave e il caldo, già
soffocante di suo, era accentuato da quella massa indistinta di
persone che, dopo mesi di navigazione, non vedeva l'ora di mettere
piede a terra e spingeva per scendere dalla nave coi pochi bagagli
che aveva con se.
Demelza,
strattonata e coi bambini stretti a lei e a Prudie, lottò
con tutte
le sue forze per non farsi spingere a terra mentre la nausea a causa
del caldo e della gravidanza, non le dava tregua.
Nella
calca si guardò attorno, osservò quelle povere
persone che, come
lei, erano state costrette ad abbandonare il loro vecchio mondo alla
disperata ricerca di una vita nuova e meno misera e si chiese se
anche lei avesse il loro sguardo sperso e spaventato in quel momento.
C'era di tutto, in quella nave, da povere famiglie vestite di stracci
a giovani marinai che cercavano fortune in quei mari ancora
inesplorati e in quelle terre da popolare.
Con
i loro piccoli fagotti, finalmente furono a terra. Si era imbarcata
coi bambini e con Prudie usando nomi falsi per non essere
rintracciata eventualmente da Ross ma ora poteva tornare ad essere
Demelza di Illugan, moglie abbandonata di Ross Poldark ma pur sempre
moglie... E madre dei suoi bambini.
Appena
fu a terra, osservò quel mondo nuovo che spesso aveva
cercato di
immaginare in quei mesi di viaggio ma mai era riuscita davvero ad
inquadrare nella sua mente.
Era
tutto così diverso dalla Cornovaglia...
Il
cielo era di un azzurro intenso mai visto e il mare, dai colori
talmente belli da sembrare quelli del Paradiso, sembrava fondersi con
esso. Mai aveva visto un mare tanto magnifico e trasparente, dai
colori che andavano dall'azzurro turchese al verde smeraldo e con
delle acque talmente limpide da poter vedere il fondo anche lontano
da riva.
Ma
per il resto, tutto era ancora selvaggio e la natura rigogliosa
formata da piante che non conosceva, sembrava voler lottare e
inglobare quel piccolo borgo portuale costruito sulle spiagge e che
diradava verso la foresta e le colline interne.
Il
porto era composto da un ammasso di casette di legno costruite senza
un effettivo criterio dove marinai e forse contrabbandieri andavano e
venivano senza sosta. Baracche, più che case, povere, che
scorrevano
su strade sterrate dove persone ed animali vivevano in
promisquità.
In
lontananza, alla fine di un sentiero che costeggiava la foresta e che
si staccava dal porto, scorse il piccolo campanile di una Chiesetta
improvvisata e intorno ad essa delle costruzioni meno fatiscenti,
forse le case delle poche persone abbienti dell'isola e dei
governatori locali, circondate da una moltitudine di casette di legno
colorate e da altre baracche che dovevano essere probabilmente il
borgo abitato principale dell'isola.
Ormeggiate
al porto c'erano altre barche, alcune grandi come la loro che
dovevano aver portato migranti, altre più piccole e
probabilmente
appartenenti a pescatori e altre, ormeggiate più al largo,
dall'aspetto sinistro e piene di uomini chiassosi che, a prima vista,
dovevano forse essere pirati e gente poco raccomandabile.
Con
i bambini, Prudie e Garrick, mosse i primi passi a terra, spersa e
spaventata. Santo cielo, partire era stato facile a caldo ma ora
aveva paura! Cosa avrebbe pensato Ross di un posto del genere? Di
quella gente dai vestiti variopinti, povera ma col sorriso sulle
labbra, di quei bambini magri e scalzi che sbucavano da ogni dove e
correvano chiassosamente dappertutto senza nessuno che li guardasse e
forse senza aspettative nella vita? Aveva portato lì i suoi
figli,
in quella terra lontana e sconosciuta e ora aveva paura... Aveva
sbagliato? O fatto bene?
Pensò
a Ross abbracciato a Tess e il cuore le fece male. E capì
che non
poteva permettere che il cuore facesse male anche ai suoi bambini e
che aveva fatto bene a scappare da quel terremoto che si era
abbattuto su di lei e sulla sua famiglia. Non sarebbero più
stati
felici in Cornovaglia, non lei, non i bambini. E sarebbero stati soli
come lo erano stati gli ultimi mesi, con un marito e un padre assente
e ormai disinteressato a loro. Una famiglia senza amore che famiglia
sarebbe stata?
Scossa
da quei pensieri, mentre muoveva incerta i primi passi in quella
terra sconosciuta che presto sarebbe diventata la sua casa, la
piccola Isabella-Rose le diede un calcione ben assestato che la fece
fermare per riprendere fiato. "Giuda".
"Signora!"
- la soccorse Prudie.
Jeremy
rise. "Bella sta dando un saluto alla sua nuova casa".
Demelza
sospirò. Isabella-Rose, per Jeremy e Clowance era diventata
'Bella'.
Era con questo nomignolo affettivo che parlavano di lei e anche
Demelza avrebbe voluto tenere con la figlia in arrivo quel tono
confidenziale. Ma non ci riusciva, non riusciva davvero a ridurre le
distanze con quella piccola bimba e per lei era rimasta Isabella-Rose
Poldark. Niente confidenze, per ora...
Prudie,
più spersa di lei e sudata come un cavallo, si
asciugò la fronte.
"La piccola Bella è al fresco nel pancione, ma noi si va
arrosto. Che posto è questo, con un caldo così
infernale?".
Demelza
si trovò d'accordo. Era una terra strana la Jamaica, con un
mare dai
colori del Paradiso e un caldo che ricordava le fiamme dell'inferno.
Si sarebbero abituati a quel clima assurdo? Osservò le donne
del
posto, indossavano abiti che sembravano per lo più
sottovesti
leggere, con le gonne sopra la caviglia, le braccia scoperte,
informali e piuttosto sfrontate nel mostrare le loro curve. "Ci
abitueremo, Prudie" – tentò di consolarla, anche
se con poca
convizione.
"E
mentre ci abituiamo? Arrostiamo?" - insistette la domestica.
Già,
dovevano fare qualcosa e in fretta. Indugiare in quel porto sarebbe
servito a poco visto che non avevano né una casa
né punti di
riferimento. E quindi dovevano sbrigarsi, cercare informazioni su
Kitty e Cecily e poi mettersi alla loro ricerca. "Andiamo verso
il paese, dove c'è la Chiesa! Qualcuno forse
saprà darci
informazioni".
Clowance,
saltellando, le indicò la spiaggia bianca che si stagliava
dopo il
porto. "Nel caso non troviamo Kitty e Cecily, mamma, potremo
dormire lì!Davanti a quel mare, sai che bella avventura
sarebbe?".
Demelza
le sorrise, appoggiandole la mano sulla spalla. Era così
indomita,
le ricordava un sacco suo padre... "Oh lo faremo, te lo
prometto. Ma solo quando avremo comunque una casetta nostra dove
tornare, nel caso ci stancassimo di tutta quella sabbia".
"Dove
le cerchiamo Cecily e Kitty?" - chiese Jeremy.
Demelza
osservò il piccolo campanile della Chiesa e lo
indicò al figlio.
"Credo che nessuno possa conoscere meglio la gente dell'isola di
un prete. Che ne dite di iniziare da lì?".
Jeremy
annuì. "Sì, ottima idea mamma" – le
rispose,
prendendola dolcemente per mano.
Fecero
per avviarsi verso il villaggio con Prudie che borbottava, Garrick
che correva entusiasta in quella nuova terra e i bambini che
chiacchieravano, quando un gruppetto di monelli sporchi, scalzi e
malnutriti corse verso i nuovi arrivati della nave, urlando come
forsennati. "Correte, correte nella piazza signori! Un grande
spettacolo per voi! E ve lo abbiamo detto noi, ricordatevi di darci
una monetina per avervelo detto!".
Demelza
sospirò. I monelli erano uguali in tutto il mondo, furbi,
intelligenti, scaltri e capaci di chiedere una moneta per qualsiasi
cosa, anche la più futile. Erano così magri quei
bambini, ma pieni
di vita. Come era stata lei fin da piccola, sempre con la pancia
vuota e una energia comunque indistruttibile.
Clowance
si avvicinò ad uno dei bambini. "Che succede?".
Il
mocciosetto che doveva essere il capo della combriccola, un bambino
biondo forse di cinque anni, tirò su col naso pulendosi poi
la
faccia con la mano. "Impiccano un pirata! Uno spettacolo vero,
signorino! Una moneta per l'informazione, grazie" – concluse,
allungando la mano verso di lui.
"Che
faccia tosta!" - sbottò Prudie.
Demelza
si avvicinò per riprendere Clowance. "Vi ringrazio per la
gentile informazione ma non abbiamo soldi da darvi e non intendiamo
andare a vedere un uomo che muore".
"Ma
signora! Il pirata Flint Dancan! Terrore dei mari del sud, catturato
dalla guardia inglese dopo mesi di inseguimento! Non potete
perderlo".
"Credo
che potrò farne a meno" – disse Demelza, donando
comunque ai
piccoli il poco pane che aveva portato per lei dalla nave.
Il
monello, forse deluso dal dono che però prese e
divorò in un
secondo, sospirò. "Come volete signora!". E poi corse via.
Jeremy
le strattonò il braccio. "Mamma, mamma! Dai, andiamo a
vedere
com'è questo pirata! Un pirata vero, con un occhio bendato,
la
bandana nera e un pappagallo sulla spalla".
"Appeso
per il collo!" - aggiunse Clowance.
Demelza
prese per mano entrambi, decisamente meno entusiasta. "E' uno
spettacolo orribile e non lo guarderei per nulla al mondo. E non
abbiamo tempo da perdere, abbiamo cose più importanti da
fare".
"Grazie
al cielo" – borbottò di nuovo Prudie.
I
bimbi parvero delusi ma alla fine ubbidirono, come sempre. "Come
vuoi, mamma... Tanto di pirati impiccati mi sa che è piena
quest'isola. Pirati ovunque, morti ma anche vivi!".
Demelza,
facendo finta di non sentirli, si incamminò stancamente,
dando
un'ultima occhiata alle persone che avevano diviso quella nave con
lei in quei mesi. Tutti loro sarebbero ripartiti da zero, con paura
ma anche voglia di fare. E silenziosamente, ad ognuno di loro,
augurò
buona fortuna anche se non li conosceva...
Camminando
nel sentiero che conduceva al villaggio, osservò le
rigogliose
piante che sembravano voler fagocitare in loro quel pezzo di
civiltà
che si era impossessato dell'isola e si chiese chi l'avrebbe avuta
vinta in quella battaglia: uomo o natura? C'era nell'aria un profumo
intenso di frutti sconosciuti e di piante, unito alla salsedine del
mare, un clima asciutto che dopo tutto, appena fattaci l'abitudine,
faceva apprezzare anche quel caldo fortissimo e in fondo decise che
quel posto era affascinante e che i colori del Paradiso aveva vinto
sul calore soffocante dell'inferno. Avrebbe amato quel posto, ci
sarebbe riuscita. E ne avrebbe conosciuto segreti, abitudini e tutto
ciò che serviva per viverci.
Poi
però sorpassarono un gruppo di una ventina di giovani uomini
di
colore che, in catene, camminavano in senso opposto al loro, spinti
in malomodo da uomini bianchi muniti di fruste. E di colpo l'inferno
sembrò bussare in quelle candide terre, ricordando a Demelza
quanto
le aveva raccontato Kitty Despard. Allora questi erano...?
"Mamma,
sono schiavi quelli?" - chiese Clowance pronunciando quella
parola che, dai racconti di Kitty sua madre aveva imparato ad odiare,
un pò intimorita dal vedere uomini martoriati, smunti e in
catene e
con sguardo cupo e assente come se fossero già morti.
"Sì"
– rispose un vecchio uomo dalla lunga barba che camminava di
fianco
a loro, diretto verso il paese.
Lo
guardarono, dagli abiti sembrava un marinaio e comunque un uomo
esperto della zona. "Dove li portano?" - domandò Demelza.
Il
vecchio alzò la spalla, portandosi alla bocca la pipa che
teneva fra
le mani. "Nelle piantagioni dei signori dell'isola,
nell'entroterra. Probabilmente sono uomini di Sir Copper. O di Gillet
o Cameron... Sono loro i signori della Jamaica, comprano al mercato
gli schiavi migliori per lavorare le loro terre. Credo siano di
Copper, sì. Casa sua si trova nella direzione che stanno
seguendo,
nell'entroterra.
Copper?
Demelza si accigliò, aveva già sentito quel
nome...
Copper,
Copper...
Improvvisamente
le venne in mente la piccola e strana ragazzina incontrata sul
pontile poche ore prima, di notte assieme alle sue due strane guardie
del corpo e alla sua silenziosa domestica. Si chiamava Lilith Copper
e aveva detto che suo padre era il più potente uomo
dell'isola...
Non l'aveva vista mentre sbarcavano dalla nave ma probabilmente i
viaggiatori di prima classe scendevano da pontili separati e qualcuno
era venuto a prenderla prima che la ressa dello sbarco la
coinvolgesse. Vedendo quegli schiavi e ricordando le parole della
bambina su suo padre, ora capiva da cosa derivasse la sua potenza e
la sua ricchezza. Si ricordò di Hanson, il padre di Cecily e
capì
che questo Copper non doveva essere molto diverso. E la figlia pareva
la sua degna erede... "E' il governatore dell'isola?" -
chiese, al vecchio con la pipa.
Lui
rise. "Copper? No, che gli importa di Governare? E' amico dei
governatori, questo sì! E loro sono amici suoi, un mutuo
scambio di
favori che gli permette di lavorare nell'ombra senza compromettersi e
condurre tranquillamente i suoi loschi affari con la protezione dei
poteri forti".
"E'
una persona potente, quindi, in queste terre?".
L'uomo
la adocchiò pensieroso. "Sì, ma... Diciamo che se
dovessi
scegliere se essere amico di Copper o di uno squattrinato pirata...
sceglierei il pirata".
Demelza
spalancò gli occhi e anche Prudie e i bambini fecero lo
stesso.
"Addirittura? Ne stanno per impiccare uno in piazza,
però...".
Il
vecchio sorrise, prima di sorpassarla e andarsene per la sua strada.
"Siete appena arrivata, vero signora?".
"Sì".
"Imparerete
molte cose su queste terre, su chi le abita e di chi essere amica.
Benvenuta in Jamaica, mia lady". E così dicendo, a passo
veloce
quasi fosse un giovane, scomparve nella via sterrata davanti a loro.
Lasciando nella mente di Demelza ancora più dubbi di quanti
ne
avesse avuti poco prima durante lo sbarco. In che diavolo di posto
era finita?
...
Le
avevano mandato incontro a prenderla due schiavi, una donna di circa
trent'anni e un uomo molto più anziano, con un cavallo nero
su cui
Tim e Tom l'avevano posta come se fosse stata un pacco.
Lilith
stavolta li aveva lasciati fare senza rimostranze, spaurita, stanca e
accaldata. Che posto strano questa Jamaica, così diverso da
Belfast
e da tutti i luoghi visitati con i suoi nonni. Non c'erano palazzi ma
solo casette di legno fatiscenti, bambini dai più disparati
colori
di pelle che correvano scalzi e vestiti di stracci fra viottoli
sterrati e alberi, un panorama selvaggio oltre al piccolo paesino
portuale che li aveva accolti e tutt'attorno un mare dai colori che
andavano dal verde smeraldo all'azzurro intenso.
Era
una bella visione ma si sentiva spaventata e i 2 schiavi di colore di
suo padre e i suoi tre accompagnatori, col loro silenzio non
aiutavano a renderla più serena. “Quanto manca
alla casa di mio
padre?” - sbottò infine, sul cavallo, mentre la
conducevano fuori
dal porto e dal piccolo borgo marinaro, diretti verso la foresta e
poi chissà dove.
I
due schiavi si guardarono spaventati per il fatto che lei gli avesse
rivolto la parola ed ora esigesse una risposta.
“E
allora?” - insistette Lilith, stizzita.
Fu
l'uomo a parlare, in una lingua stentata, con un tono sommesso e
quasi spaventato. “Dopo qualche miglio nella foresta, saremo
alla
tenuta del padrone. La grande casa è in mezzo alla
vegetazione,
lontana dalla folla del porto”.
Lilith
si asciugò la fronte madida di sudore.
“Sbrigatevi!”.
Non
aveva così voglia di vedere suo padre, a dire il vero. Era
più che
altro incuriosita dalle tante voci che aveva sentito su di lui,
alcune grandiose, altre meno lusinghiere... Non lo incontrava da
quasi quattro anni ma ricordava che i suoi nonni non parlavano spesso
di lui e quando lo facevano, non ne sembravano entusiasti. Dicevano
brutte cose di nascosto, su di lui, che lei aveva ascoltato
rannicchiata dietro le porte. Amava i suoi nonni ma non aveva mai
voluto credere a cosa dicessero di suo padre. Che era feroce, crudele
ed avaro, dovevano essere solo frottole! Che ne sapevano loro, a
Belfast? Dicevano anche che la loro amata figlia, sua madre, era
morta a causa sua. Che colpa ne aveva suo padre se lei era caduta
dalle scale?
Certo,
non poteva nascondere a se stessa una certa inquietudine comunque.
Suo padre le era sconosciuto, aveva sei anni l'ultima volta che lo
aveva visto e ne ricordava poco persino i tratti del viso. Aveva i
capelli neri, nerissimi, questo lo sapeva. E dei baffetti molto
curati che stavano bene sul suo viso scavato e magro. Non era molto
alto ma aveva una figura elegante, anche questo ricordava... E poi
basta, sapeva solo che era l'uomo più potente e ricco della
Jamaica.
Persa
in quei pensieri, mentre oltrepassavano strane piante che mai aveva
visto, Lilith quasi non si accorse del grande cancello e del grande
muro giallo che avevano oltrepassato. Un viale acciottolato
più
elegante che attraversava un rigoglioso giardino molto curato fu
l'ultimo tratto del suo viaggio prima di giungere al grande ingresso
di una elegante villa bianca a due piani, con tante vetrate, una
grande veranda e un enorme terrazzo al primo piano che dominava il
giardino. La casa, di forma curva, pareva cingere il giardino
più
interno come a volerlo proteggere dall'esterno selvaggio ed
inospitale. Una gabbia dorata, questo le venne in mente... Un posto
bello ma che sulle prime le fece paura.
Tanti
uomini di colore malvestiti e malnutriti sbucarono dal giardino e dai
campi circostanti, avvicinandosi con circospezione e timore. I due
schiavi venuti a prenderla al porto la aiutarono a scendere da
cavallo e a quel punto la grande porta d'ingresso si
spalancò e un
uomo dai capelli neri ne uscì, scendendo i tre scalini che
separavano l'atrio dal giardino. “Lilith, finalmente sei
arrivata”.
La
ragazzina deglutì. “Padre” -
mormorò, esibendosi in un perfetto
inchino. Poi si avvicinò a lui che la aspettava con passo
elegante,
a testa alta. Quando gli fu davanti si esibì in un perfetto
inchino
e con fare formale ed educato, allungò la mano a stringere
quella
dell'uomo. Le persone per bene, le avevano insegnato, non si
abbracciano. Si salutano così, educatamente, senza esibirsi
in
plateali manifestazioni d'affetto. Solo i poveracci e gli analfabeti
si abbracciano e baciano e lei non era né l'una
né l'altra.
Suo
padre la guardò intensamente, come a volerla studiare. Si
lisciò i
baffetti con le mani e poi annuì soddisfatto.
“Vedo che sei stata
educata bene alle buone maniere”.
“Sì
signore” - rispose la bambina.
L'uomo
fece cenno a una domestica di portargli qualcosa e la donna,
anch'essa di colore, corse in casa uscendone poco dopo con una grande
ed elegante bambola fra le mani, dai capelli biondi e con indosso un
bellissimo vestitino rosso di velluto. “Questa è
per te, Lilith.
E' un gioco adatto a una futura lady e padrona di casa, ti
preparerà
per il tuo ruolo di madre e moglie”.
Lilith
osservò la bambola. Mai si doveva dimostrare scontento
davanti a un
regalo, era cattiva educazione e lei non voleva sfigurare davanti a
suo padre, ma le bambole non le aveva mai amate troppo ed erano
almeno due anni che non ci giocava. Osservò silenziosamente
Tim, Tom
e Miss Thorpe, la sua domestica, e loro le fecero cenno di
ringraziare e non dire altro. “Grazie” - disse
infine, senza però
particolare entusiasmo.
Suo
padre se ne accorse. “Non è di tuo
gradimento?”.
“Oh,
è bellissima! Ma adoro leggere i libri più che il
gioco con le
bambole”.
L'uomo
si accigliò, prima di mettersi a ridere. “Libri? A
che ti serve
essere istruita quando sei figlia di Vincent Copper e potrai avere
TUTTO senza fatica?”.
“Ma
a me piacciono comunque” - rispose la piccola.
Copper
sbuffò. “Beh, se ci tieni tanto, avrai qualche
libro”.
“Davvero?”.
L'uomo
annuì. “Ovviamente veglierò sulle tue
letture e non spenderò
capitali per comprarti dell'inutile carta rilegata. Li ritengo una
perdita di tempo ma al villaggio c'è un gruppo di
missionarie che
gestisce un orfanotrofio e vende vecchi libri usati portati dai
viaggiatori europei che si trasferiscono qui”.
Libri
usati? Non che la cosa la entusiasmasse, ma sempre meglio di nulla.
Ed era troppo in soggezione per muovere delle rimostranze davanti a
un padre che ancora non conosceva e che gli appariva fin troppo
distante dalle sue abitudini e dai suoi gusti. “Grazie,
padre” -
rispose, inchinandosi di nuovo.
L'uomo
sospirò, osservando i tre accompagnatori della figlia.
“Il
viaggio? Andato bene?”.
“Lungo
e noioso” - gli rispose, a tono.
Copper
rise. “Bene, sei senza peli sulla lingua, mi piace! I miei
due
schiavi che son venuti a prenderti ti hanno trattata con
rispetto?”
- chiese, squadrando i due che, in un angolo, attendevano nuovi
ordini senza fiatare. Come tutti gli altri, del resto... C'erano
tante persone in quel giardino ma solo in quel momento Lilith si
accorse del grande silenzio che li attorniava.
Lilith
annuì, colpita da quell'aspetto. “Sì.
Ero stanca e loro mi hanno
detto che saremmo giunti qui in poco e hanno rispettato i tempi che
mi hanno preventivato”.
“Cosa?”.
L'espressione di Copper cambiò di colpo, si
incrinò, i suoi occhi
divennero cupi e con furore mischiato ad odio, osservò i
due. “Chi?
Chi ti ha parlato?” - chiese alla figlia, gelido, mentre i
due
schiavi iniziavano a tremare.
Senza
capire, Lilith rispose. “Lui, quel signore”.
Copper
si avvicinò all'uomo, prendendolo per il bavero e
sbattendolo con
violenza contro il tronco di una pianta. Era minuto ma in quel
momento Lilith si accorse di quanto forte e rabbioso potesse essere.
“Hai osato rivolgere la parola a mia figlia? Piccolo verme,
lo hai
fatto?” - urlò, piantandogli un pugno nello
stomaco.
L'uomo
boccheggiò, annaspando e lottando contro l'aria per non
cadere. “La
signorina mi ha fatto una domanda e io...”.
“TU
dovevi stare zitto! I vermi non rivolgono la parola alle principesse,
eseguono solo i loro ordini. Lo sai, lo sai vero qual'è il
tuo
posto? Beh, forse lo hai dimenticato ma te lo ricorderò io".
Si voltò
verso un altro schiavo, fermo ed immobile. Nessuno sembrava capace di
muovere un dito per aiutare l'amico in difficoltà.
“Entra in casa
e prendimi la frusta, ho bisogno di allenare il mio braccio e questo
verme me ne darà l'occasione”.
Gli
occhi di Lilith si riempirono d'orrore. Che stava succedendo? Che
aveva fatto di male quell'uomo? Era colpa sua? Spesso diceva a Tim e
Tom che li avrebbe fatti frustare ma mai aveva visto davvero un uomo
che frusta qualcun altro. “Padre?! Gli ho fatto una domanda,
lui è
stato gentile a rispondermi”.
Copper
si voltò verso di lei, cercando di tenere a bada una rabbia
furente.
“Lilith, impara la lezione più importante! Tu sei
una persona,
loro sono animali. Tu comandi, loro eseguono senza parlare! Loro non
hanno il diritto di dirti nulla, sono bestie, vanno guidate e
strigliate quando non ubbidiscono e d'ora in poi non voglio che tu ti
sbagli ancora quando hai a che fare con loro! NON devi parlare con
gli uomini dalla pelle scura! Né uomini, né
donne, né bambini.
Sono bestie e noi non parliamo con le bestie!”.
La
bambina guardò guardò Miss Thorpe e Tim e Tom in
cerca di aiuto. Ma
loro le fecero capire di non dire nulla. Purtroppo però lei
non
riusciva, non era mai stata capace di star zitta. “Io non lo
sapevo, non è colpa di quell'uomo. Non gli
parlerò più ma voi...
voi per questa volta...”.
Copper,
a dispetto di tutto, sorrise. Un sorriso gelido di chi già
pregusta
il piacere di sottomettere qualcuno completamente in sua
balìa.
“Cuore debole di donna il tuo, figlia. Ma io frusto questa
specie
di uomo per il suo bene, per insegnargli”. Poi si rivolse ai
suoi
tre accompagnatori. “Tim, Tom, voi sarete le guardie del
corpo di
Lilith, la seguirete ovunque quando uscirà dalla tenuta. La
accompagnerete al villaggio per le sue passeggiate e per prendere i
suoi libri senza perderla di vista e riferendo a me ogni cosa che le
succede. Miss Thorpe, voi curerete la sua persona, le sue stanze e
veglierete sul suo cibo e il suo sonno. E ora portate mia figlia in
camera sua, la domestica vi farà strada”.
La
donna che aveva portato la bambola fece cenno di seguirla e mentre
lei fu costretta ad ubbidire e si allontanava con Tim, Tom e Miss
Thorpe, vide suo padre trascinare via lo schiavo e gli altri schiavi
rimanere fermi, immobili e in silenzio. Si sentì di voler
piangere
ma sapeva anche che non era signorile farlo. Non conosceva quel mondo
e quello che le appariva cattivo, forse non lo era. Suo padre diceva
che lo schiavo meritava delle frustate per il suo bene e lei doveva
credergli. Questo era il compito di una brava ed educata figlia.
La
domestica li condusse in casa, elegante, raffinata e dalle pareti
bianche e candide. Mobili di pregio ovunque, quadri di valore alle
pareti, una grande scala in legno e al primo piano, con un balcone
che dava sul giardino e sul mare che si intravedeva in lontananza,
una magnifica stanza per lei, piena di giochi e di ogni agio, con un
grande letto a baldacchino. Ma non riusciva ad esserne contenta e si
sentiva fuori posto e spaventata.
Mentre
Miss Thorpe si affaccendava a disfare i bagagli che uno schiavo aveva
portato nella stanza, Lilith si avvicinò alla finestra e lo
vide...
Di sotto, in giardino, c'erano suo padre e lo schiavo, legato a un
albero, percosso da decine di violente frustate inferte senza
pietà
sulla sua schiena sanguinante e martoriata. Da suo padre...
I
suoi occhi si riempirono d'orrore. Possibile che quello fosse fatto
per far del bene? Sangue e urla erano fare del bene? La sua mano
tremò, si sentì sola e spersa in un mondo non suo
dove non
conosceva nulla, suo padre gli apparve più simile ai
racconti dei
suoi nonni che a quelli lusinghieri dei suoi soci in affari e
desiderò tornare a casa sua, a Belfast.
Improvvisamente
la mano di Miss Thorpe le strinse il braccio. La donna tirò
le tende
e con uno strattone la allontanò dalla finestra e da quella
visione
orribile. “Non guardare!” - le intimò -
“Quello non è uno
spettacolo per te”.
“Ma...”.
Ma
la donna, di solito taciturna, parlò di nuovo.
“Zitta e ascolta!
Non guardare, qui è così che funziona”.
“Voglio
tornare a casa” - mormorò la piccola, ancora
più confusa.
“Questa
ora è la tua casa”.
“Non
mi piace”.
La
donna la prese per le spalle, scuotendola. “Zitta! Se tuo
padre ti
sentisse...”.
Ma
lei non stette zitta. “I miei nonni dicevano che ha ucciso
mia
madre”.
“ZITTA!”.
“Lo
sai? Tu sai se è così?”.
“ZITTA!!!”.
Lilith,
con uno strattone, si liberò dalla stretta.
“Andiamo via! Con la
prima nave, subito!”.
Miss
Thorpe, pallida, la strinse a se. “Non è
possibile”.
“Cerca
un modo! Con Tim e Tom. Cercalo o io urlerò come volevo
urlare sulla
nave. E dammi del LEI quando mi parli, non osare mai più
prenderti
tutta questa confidenza” - le comandò la ragazzina.
Ma
Miss Thorpe non si fece schiacciare, anche se si accorse dell'errore
commesso a causa dell'agitazione, nel rapportarsi con la sua
padroncina. “Perdonatemi, la preoccupazione per
voi...”.
“Non
importa. Cerca un modo o urlerò”.
Miss
Thorpe scosse la testa. “Non lo farete”.
“Come
lo sai?”.
“Lo
so perché anche voi sapete bene che non potete
farlo”.
“Perché?”.
“Sapete
anche questo”.
Arrabbiata,
frustrata e spaventata, Lilith prese la bambola donatale dal padre
che era stata appoggiata sul letto e la scaraventò contro la
parete.
“Questo posto non mi piace”.
Miss
Thorpe le si avvicinò, poggiandole dolcemente una mano sulla
spalla.
“Avrete dei libri però, almeno di questo dovete
esserne contenta”.
“Libri
usati!”.
“Sempre
libri, però. E non era scontato che vostro padre vi
accordasse il
permesso”.
Lilith
sospirò, mettendosi sul letto con la testa sotto il cuscino.
Fuori
non si sentiva più nulla, né il rumore delle
frustate, né i
lamenti dello schiavo. Forse suo padre aveva smesso di agire per il
bene di quell'uomo... “Voglio stare sola” - disse
infine,
stancamente.
Miss
Thorpe comprese. Le accarezzò i capelli, la
salutò, uscì dalla
porta e la lasciò coi suoi pensieri.
E
Lilith, con gli occhi arrossati, si mise a pancia insù,
guardando il
soffitto di legno della stanza. Faceva così caldo... E aveva
bisogno
di una consolazione e una bambola non poteva dargliela. Poi si
ricordò di qualcosa che forse avrebbe potuto sollevarle il
morale,
un qualcosa donatole da una donna sconosciuta dai capelli rossi, su
una nave. Frugò nella tasca del suo vestitino di pizzo rosa,
tirandone fuori il libricino ricevuto in dono poche ore prima di
notte, sul pontile della nave, da una donna sola, incinta e gentile.
Poesie sul mare... Lo sfogliò, lesse di mari meravigliosi
che
portavano le persone in posti fantastici. E fece finta di essere una
di quelle persone...
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Quando
giunsero al villaggio, al posto delle baracche di legno del porto
trovarono un dedalo di viuzze sterrate su cui sorgevano casupole
diroccate per lo più, anche se decisamente più
decorose di quelle
viste durante lo sbarco. La natura rigogliosa dell'isola circondava
il borgo anche lì, cercando spazi di fuga e di conquista fra
le
viuzze ma fino a quel momento pareva averla avuta vinta l'uomo.
Nonostante
il borgo fosse piccolo, c'era un via vai incessante di gente
rumorosa, piccole botteghe improvvisate, qualche negozio e, anche se
non ci avrebbe giurato, aveva notato anche un bordello, probabile
meta di ristoro per i pirati che approdavano sull'isola. Era tutto
molto povero, all'apparenza improvvisato, in divenire forse, ma una
cosa la colpì più di tutte: il rumore, la strana
allegria di
persone che parevano non avere nulla di valore ma che avevano tutte
il sorriso sulle labbra come se fossero state in pace col mondo e non
avessero altro da chiedere. E anche se Prudie aveva azzardato che
tutta quella allegria doveva essere dovuta al rum che probabilmente
scorreva a fiumi su tavole e locande, Demelza ipotizzava che forse
era la mentalità del posto a spingere la gente a vivere con
più
leggerezza, senza troppe regole rigide da seguire e senza stare a
badare eccessivamente all'etichetta e al moralismo. Era un mondo
nuovo e forse il segreto era tutto lì, quella gente lo
voleva
costruire come pareva a loro!
Donne
vestite di succinti abiti variopinti ma anche altre vestite da uomo,
con pantaloni, stivali e comodi camicioni, rendevano chiassosa la via
assieme a tanti piccoli monelli di strada che correvano ovunque e a
viandanti, commercianti e pescatori che urlando, cercavano di vendere
la propria merce.
"Mamma,
allora non ci andiamo a vedere il pirata impiccato?" -
insistette Jeremy mentre si avviavano all'ingresso della Chiesa.
Demelza
sospirò, accarezzandogli i capelli. "No tesoro, sono sicura
che
possiamo fare a meno di questo triste spettacolo".
"Ma
posso sbirciare in giro mentre tu chiedi informazioni al prete?".
"No.
Oppure potrai farlo, guardato a vista da Prudie!".
Jeremy
sbuffò, deluso. Sfuggire alla vista di sua madre e cercare
di
fregarla non era mai stato molto semplice...
Entrarono
in Chiesa di soppiatto, era deserta a quell'ora del mattino. Era una
Chiesetta spoglia, con semplici e grezze panche di legno, leggermente
più grande di quella di Sawle ma senza vetrate di pregio o
dipinti
alle pareti. Tutto molto rustico, semplice, come la vita in quei
posti, una Chiesa che sembrava gridare il messaggio originale di
povertà su cui la religione che professava basava i suoi
fondamenti.
Clowance
si guardò in giro e improvvisamente il suo visino si
illuminò.
"Mamma, guarda! Una spinetta!".
Demelza
si voltò e in un angolo nascosto, vicino all'altare,
notò quello
strumento musicale in tutto simile a quello che aveva abbandonato a
malincuore a Nampara. Santo cielo, che ci faceva lì, in
quella
Chiesa tanto povera? Le venne una stretta al cuore, ricordò
i tanti
momenti passati con Ross mentre suonava e anche l'ultima volta che lo
aveva fatto, dopo aver salvato i giovani minatori della Wheal Plenty,
con Ned e tutti gli altri a casa sua. Aveva suonato e cantato per
Ross quella sera e gli occhi di suo marito, pieni d'amore per lei,
non l'avevano abbandonata un attimo. E si era sentita amata e felice
in quel momento, l'amore di Ross era tutto ciò che aveva
desiderato
fin dal loro primo incontro e finalmente non c'erano ombre fra
loro... Stava cantando per suo marito e facedolo si rese conto di
quale abisso esistesse fra i sentimenti provati in quel momento e
quelli più pacati e ingannevoli che aveva provato quando
aveva
cantato per Hugh spinta dal desiderio di essere amata come in una
fiaba e di vivere un amore idealizzato. Ma da allora aveva capito e
imparato tante cose. L'amore era quello provato quella sera mentre
cantava con Ross e per Ross, l'amore vero è quello non
perfetto ma
che sa attraversare le tempeste, rischia di perdersi e spezzarsi e
poi ne esce più forte di prima, l'amore vero è
quell'amore che
vivono due persone che si sono scelte una volta e soprattutto, si
sono scelte di nuovo nonostante i rispettivi errori...
Eppure,
da allora, tutto era cambiato e lei non se ne capacitava... Il
perché, il quando, i sentimenti di Ross cambiati
così
repentinamente come se la morte di Ned si fosse portata nella tomba
l'anima altruista e buona del suo uomo, lasciando al suo posto una
persona fredda, impersonale, distante e senza scopo o morale, che
lascia e tradisce la sua famiglia per...
Scosse
la testa, non voleva pensare a Tess e a Ross! Non voleva o sarebbe
impazzita e non poteva permetterselo!
"Mamma,
suoni?" - chiese Clowance.
Le
sorrise. "No amore mio, direi che non è il caso.
Perché con
Prudie, Garrick e tuo fratello non uscite fuori a fare due passi? Fa
caldissimo qua dentro".
Prudie
sospirò, prendendo i bimbi per mano. "Anche fuori, si
frigge! E
c'è pieno di zanzare, mi stanno prosciugando di tutto il mio
prezioso sangue e anche io avrò a breve bisogno di rum per
tornare a
sorridere".
Jeremy
e Clowance risero ma poi, forse annoiati, la seguirono senza fare
storie.
E
rimasta sola, come in tranche o spinta da antichi ricordi, Demelza
sfiorò d'istinto un tasto della spinetta, facendone uscire
un suono
armonioso che riempì le mura della Chiesa.
Forse
richiamato da quel suono, dalla canonica, un prete fece capolino. Era
un uomo di mezza età coi capelli biondi, fisico magro e
asciutto e
dall'aspetto piacevole. Era un uomo gradevole e a Demelza venne da
pensare che in gioventù doveva essere stato anche molto
affascinante
con quei suoi occhi magnetici, color del ghiaccio.
"Scusate,
non volevo toccare" – si scusò.
Il
prete le sorrise dolcemente, avvicinandosi. "Oh, non importa. La
massima aspirazione di uno strumento musicale è quella di
essere
usato. E quella povera spinetta è quì a prendere
polvere, senza che
nessuno la sappia usare, da almeno due anni".
Demelza
rispose al sorriso. "Se nessuno la sa usare, che ci fa quì?".
L'uomo
accarezzò lo strumento musicale. "Me la regalò
una famiglia di
migranti, due anni fa. Erano diretti nelle Americhe e l'avevano
portata con se dall'Inghilterra ma il viaggio si stava dimostrando
troppo gravoso per loro, già pieni di figli e bagagli,
quindi la
donarono alla mia piccola Chiesa prima di ripartire. E da allora
è
quì, ad aspettare che qualcuno la riporti in vita".
"Capisco".
L'uomo
la osservò, curioso. "Non vi ho mai vista, siete appena
arrivata?".
"Sì,
sono sbarcata con la mia domestica, i miei due figli e il mio cane
poco fa".
"Oh,
capisco... Di solito vado sempre a dare il benvenuto ai nuovi
arrivati al porto, quando attracca una nave. Ma stamattina dovevo
benedire un condannato a morte e quindi non ho potuto esserci...".
Demelza
sospirò, pensando alla voglia di Jeremy di assistere
all'impiccagione. "Il pirata? Al porto pubblicizzavano la sua
esecuzione come se si trattasse di uno spettacolo".
Il
prete rise. "Quì può sembrare tutto un
pò assurdo sulle
prime, ai nuovi arrivati. Dovrete abituarvi, non siamo in Inghilterra
e da queste parti la gente non ha nulla e ogni cosa fuori
dall'ordinario che succede, per queste persone è un evento".
Demelza
spalancò gli occhi. "Lo condividete?".
"No,
certo che no. Ma conosco questa gente, come vive e le
difficoltà che
incontrano sulla loro pelle... E nella mia posizione privilegiata,
non sono in diritto di giudicare ma spero di saperli in parte
guidare, quando vengono alle mie Messe".
Demelza
sorrise, annuendo e trovandosi d'accordo con lui. Sembrava un
brav'uomo, una persona saggia e aperta di idee e soprattutto, un
esperto degli usi e consumi della Jamaica. "Potreste aiutarmi a
trovare delle persone? Sono gli unici contatti che ho in questa terra
e sicuramente voi siete quello che conosce gli abitanti di questo
posto meglio di tutti".
"Chi
state cercando?".
"Una
giovane ragazza inglese bionda, Cecily Hanson. Dovrebbe essere
arrivata quì lo scorso anno assieme a una donna di colore,
Kitty
Despard".
Il
prete si accigliò, pensieroso. "La donna di colore non
è una
schiava, vero? Non mi sbaglio, giusto?".
Demelza
sorrise tristemente ricordando il gruppo di schiavi visti in catene
poco prima, chiedendosi se mai si sarebbe abituata a visioni del
genere, tanto cruente e crudeli nella loro crudezza e spietatezza. Ma
quanto meno, il prete forse sembrava conoscere chi stava cercando...
"No. Fu liberata e poi divenne la moglie di un governatore
inglese dell'Honduras".
"Sì,
ho capito di chi parlate, le conosco". Gli occhi azzurri
dell'uomo si fissarono su di lei, indagatori. "Posso chiedervi
cosa vi porta quì, signora? Vostro marito è morto
e siete in cerca
di una nuova vita? Cosa vi lega a quelle due donne che cercate?".
Demelza
capì che quelle domande, poste da un uomo guardingo che in
quelle
terre doveva aver visto di tutto, fossero più che legittime.
Certo,
non era semplice raccontare di se, ma aveva davanti un sacerdote che
sembrava molto aperto di idee e sicuramente l'avrebbe ascoltata senza
giudicare, se era vero quanto detto poco prima. "Mio marito
è
vivo, in Cornovaglia e probabilmente in questo momento è fra
le
braccia della sua giovane e intraprendente amante". Lo disse
cercando di mantenere tutta la sua dignità, guardandolo
negli occhi
senza vergogna perché lei non sentiva di doverne provare, ma
la voce
le tremò. "Me ne sono andata per i miei figli,
perché possano
vivere sereni e senza provare il dolore che provo io in questo
momento, perché abbiano una nuova possibilità in
queste terre
lontane. Kitty e Cecily sono amiche di famiglia e sono giunte
quì
con le mie stesse aspettative di una vita nuova dopo averne lasciata
una difficile in Inghilterra. Non mi stanno aspettando ma so che
sarò
la benvenuta".
Rimasto
in silenzio, il prete annuì. "Mi spiace per la faccenda di
vostro marito, ovviamente. E ammiro il vostro coraggio, ce ne vuole
molto per venire in queste terre tanto difficili... Quì non
vige una
vera e propria legge, è tutto in divenire, in costruzione,
tutto in
balìa di uomini, umori ed eventi mai uguali al giorno prima.
Vige la
legge del più forte e del più furbo, vige la
consapevolezza che il
fine ultimo della giornata è avere la pancia piena e un
cuore che
batte la sera, cosa non così scontata in queste terre
popolate da
briganti, pirati e soprattutto uomini potenti e senza scrupoli. E'
una terra difficile dove crescere dei figli e ammiro il vostro
coraggio nel tentare di farlo quì".
Demelza
tremò. Che non sarebbe stato facile, lo aveva già
capito. Ma le
parole del prete le resero ancora più chiaro quanto fosse
incerta la
loro situazione. "Non ho avuto scelta".
"Cosa
ve ne pare della Jamaica, signora?".
Demelza
chiuse gli occhi, ripensando allo splendido mare che li aveva
accolti. "I colori di queste terre, del mare, del cielo...
Sembrano i colori del Paradiso" – rispose, cercando di non
pensare alle brutture viste dopo lo sbarco.
L'uomo
alzò un sopracciglio, sornione. "Oppure sono i colori
sgargianti ed ingannevoli dell'inferno, non ci avete pensato?".
Fu
costretta ad annuire, aveva colto nel segno. "Sì, ma di
natura
cerco di essere ottimista e di vedere il bello nelle cose".
"E
l'ottimismo vi servirà. Ci sono persone gentili e solari, in
queste
terre. Sono quelle che hanno meno ma che sono pronte a tendere una
mano a chi ha poco come loro. Poi ci sono i grandi signori delle
piantagioni, persone che non hanno né morale né
cuore. Dovrete
imparare a rispettarli, dovrete imparare a non farveli nemici e a
guardare altrove quando noterete che fanno cose che non vi piacciono.
E DOVETE non farveli nemici, se volete vivere in pace".
"Uomini
come Copper?" - chiese, di getto, ripensando alla bambina sulla
nave e al marinaio al porto.
"Lo
conoscete?".
"Ne
ho sentito parlare".
Il
prete divenne serio. "SOPRATTUTTO uomini come Copper. State
attenta...".
Demelza
strinse i pugni, mentre sentiva stranamente l'ombra di quell'uomo
sconosciuto allungarsi su di lei per qualche ignoto motivo. "E
gli schiavi?". Lo chiese in modo diretto, spinta dalla
curiosità
di sapere cosa avesse da dire quello strano e saggio prete.
Il
sacerdote sospirò, allargando le braccia in segno di resa.
"In
questo mondo nuovo e senza regole, fanno parte dell'economia. Una
piaga, certo... Ma al momento necessaria".
Demelza
spalancò gli occhi. "Cosa? Approvate?".
"No,
ovviamente. Ma non posso fare nulla, nessuno può fare nulla
perché
opporsi e farsi nemici i loro padroni, mi precluderebbe la
possibilità di poterli aiutare quando ne ho l'occasione.
Vivono vite
dure, muoiono come mosche e per me è una pietà
vederli... Ma fanno
parte di questo mondo nuovo, come i pirati".
Demelza
era sempre più sconcertata e ogni sua certezza pareva cadere
davanti
alle parole di quel prete. "E i pirati? Li approvate?".
L'uomo
le pose gentilmente, in modo paterno, la mano sulla spalla. "Anche
loro fanno parte di questo strano mondo che avete scelto per vivere.
Li conosco, sapete? Canaglie, ma in fondo gente allegra che sa
strapparti anche un sorriso e che soprattutto non ha l'ambizione di
voler insegnare agli altri come vivere e di certo non ambisce a
limitare la libertà altrui. A loro basta del buon rum,
qualche
battaglia in mare per stabilire chi sia il più forte e
trovare oro
da chi ne ha e da chi possono rubarne. Di certo noi poveri mortali
non siamo nella loro lista, non dovete temerli... In fondo, fra un
pirata e uno dei proprietari terrieri di questa isola, io scelgo i
pirati. E tifo per i pirati, quando per qualche motivo si mettono a
combattere con i mercanti di schiavi...".
Demelza
ripensò alle parole del vecchio marinaio visto al porto,
così
simili a quelle di quel prete, rimanendone sconcertata. I pirati le
erano sempre stati descritti come la feccia del mondo, criminali e
ladri senza pietà, persone pericolose e in effetti dovevano
esserlo,
il prete non lo aveva smentito. Ma di certo in quell'angolo di mondo
non erano i peggiori. Sospirò. "Ogni mia certezza negli
ultimi
mesi è caduta. In fondo credo che da quì in poi
non dovrò stupirmi
più di nulla ma anche se potrei abituarmi ai pirati, dubito
che
riuscirò mai a essere indifferente quando
incontrerò uno schiavo.
E' una cosa orribile quella che viene fatta a quelle persone. Privare
qualcuno della sua libertà e trattarlo come...".
"Come
una bestia?" - la interruppe il prete.
"Sì,
come una bestia...". Demelza ripensò in quel momento a Ross,
alle sue tante battaglie combattute per cause simili prima di Ned,
prima di Tess, prima di abbracciare le tenebre... E si chiese cosa
avrebbe pensato il vecchio Ross di quelle terre e di quelle persone.
Di certo il suo Ross non sarebbe stato zitto, non sarebbe rimasto
indifferente ma si sarebbe inimicato tutti i vari proprietari
terrieri dell'isola per difendere le sue idee e i più
deboli.
Il
prete la prese alla sprovvista ancora una volta. "Non guardate
alla schiavitù solo in negativo. Certe volte è
una via di
salvezza...".
"Cosa?"
- chiese, inorridita.
Il
prete le sorrise. "Lasciate che vi spieghi: il destino di questi
schiavi non è la libertà, nessuno
potrà darla loro, almeno in
questo secolo e secondo me, anche oltre. Ma se il loro destino
è
essere schiavi e una persona sensibile come voi può
sottrarne uno a
gente come i signorotti dell'isola, allora dovreste prenderlo sotto
alla vostra ala. Non avrà la libertà ma
avrà una vita dal sapore
più gentile e degna di essere vissuta. Capite cosa intendo?".
Demelza
deglutì. Capiva il fine ma non giustificava il mezzo. "Non
potrei mai farlo, anche se comprendo cosa volete dirmi, la mia
coscienza me lo vieterebbe".
L'uomo
divenne serio ed alzò il tono di voce. "La vostra coscienza,
se
vorrete vivere in Jamaica, andrà azzittita per forza e molto
spesso.
Pensate a cosa dico e meditateci su".
Esasperata
e sentendosi come in trappola, Demelza trovò una scappatoia
a quella
discussione che stava diventando difficile. "Anche volendo darvi
retta, ho a malapena i soldi per il cibo per i miei figli. E ne
aspetto un terzo...".
L'uomo
le guardò il ventre. "Lo vedo... Sapete come mantenervi
quì?".
"No,
non ancora. Qualcosa mi inventerò".
L'uomo
le sorrise, più affabilmente. "Non servono molti soldi
quì, la
natura è ricca e rigogliosa e da frutti e pesce in
abbondanza. Non
si diventa grassi ma non si muore di fame. Per il resto, se saprete
sfruttare i doni di alberi, piante e mare, potrete preparare vivande
per le navi in partenza, marinai e pirati pagano bene il cibo che le
donne del porto preparano per i loro viaggi. Per questo vi ho detto
che i naviganti, QUALSIASI tipo di naviganti, sono importanti per
l'economia di questo posto. E per il resto...".
L'uomo
si bloccò pensieroso e Demelza si sentì sotto
osservazione. "Per
il resto?".
Il
prete si avvicinò alla spinetta. "Non posso pagarvi che
qualche
moneta, ho la Chiesa e l'orfanotrofio da gestire e di bambini da
sfamare ne abbiamo molti, ma se voi poteste venire a suonare per i
fedeli la spinetta durante le funzioni, sareste ricompensata oltre
che con la mia gratitudine, anche con qualche piccolo incentivo. Non
vi farà ricca ma assieme al resto, renderà meno
grama la vostra
vita e vi permetterà di provvedere meglio alle piccole
necessità
dei vostri figli. E inoltre, in questa isola dove si ama cantare e
ballare, forse il suono della spinetta farà accorrere
più fedeli e
le offerte per la Chiesa aumenterebbero. Ci state, signora...? Non mi
avete ancora detto il vostro nome!" - notò improvvisamente,
arrossendo.
"E
voi non mi avete detto il vostro" – rispose lei, a tono.
"Sono
Padre Colin, ero un piccolo prete nel nord dell'Inghilterra ma ho
capito che una vita spesa in queste terre ancora tanto inospitali
poteva avvicinarmi di più a Dio che quella più
comoda vicino a casa
mia".
Demelza
gli strinse la mano. "E io sono Demelza Poldark, originaria
della Cornovaglia, mamma di Jeremy, Clowance e...". Si
bloccò,
sfiorandosi il ventre. Avrebbe potuto e voluto dire che era anche la
madre di Bella ma ancora una volta non riuscì ad usare quel
nomignolo affettuoso per sua figlia. "Lei sarà
Isabella-Rose. E
accetto volentieri la vostra offerta di suonare la spinetta. Sono
disperata, senza soldi e senza aspettative. Ogni aiuto offerto per me
è ben accetto".
Il
prete sorrise, soddisfatto quanto lei. "E allora vi aspetto
domenica. Ma ora su, andate dalle vostre amiche Kitty e Cecily".
"Non
mi avete ancora detto dove trovarle" – fece notare lei.
L'uomo
si sedette su una panca. "Non vivono al villaggio ma fuori, in
una zona qua vicino ma isolata. Le conosco, la ragazza è una
persona
combattiva e di carattere, buona e gentile quanto voi d'animo. E la
donna di colore è una persona combattiva, libera e sempre
indaffarata. Ma la sua condizione di donna libera, tanto inusuale per
chi ha il colore di pelle tanto scuro, non si adattava alla vita al
villaggio dove sarebbe stata mal vista da tutti e dove sarebbe stata
vittima di angherie dai potenti che non potevano assoggettarla...
Tornate a ritroso verso il porto dove avete attraccato,
oltrepassatelo ed arrivate alla spiaggia. Camminate per un centinaio
di metri e dove la sabbia bianca lascia il posto alla foresta
tropicale, troverete delle piccole casupole in legno. Sono rifugi
abbandonati da pirati, disabitate. Tranne una ben visibile dalla
spiaggia, che Kitty e Cecily hanno sistemato e che ora è
diventata
la loro piccola casa. Vivono lì, assieme al bimbo avuto
dalla
signora Despard alcuni mesi fa. Le vedo la domenica per le funzioni e
a volte la giovane Cecily viene quì al villaggio durante la
settimana per comprare cibo".
Il
viso di Demelza si illuminò. Ma allora Kitty ci era
riuscita!!! Era
diventata madre e la gioia per lei che tanto aveva sofferto, era
mitigata solo dal dolore per Ned che non avrebbe potuto conoscere suo
figlio. "Grazie, grazie di tutto padre Colin" – disse al
prete, con voce spezzata dall'emozione.
"Grazie
a voi" – rispose l'uomo. "E ora andate e recuperate i
vostri cari, ripensate alle tante parole che ci siamo detti e siate
puntuale questa domenica. Vi aspetto".
"Lo
farò" – rispose Demelza, col cuore ancora pieno di
dubbi ma
decisamente più leggero. Forse il primo passettino della sua
nuova
vita in Jamaica era stato compiuto e anche se non capiva o concepiva
tante delle cose che padre Colin le aveva detto, si sentiva
decisamente più ottimista per quella nuova vita, rispetto a
poche
ore prima.
E
felice di essere arrivata fino a quella Chiesa, corse fuori a
recuperare i suoi figli, Prudie e il suo cane, con la consapevolezza
che la sua nuova vita stava per iniziare e che doveva essere fiera di
se stessa e del coraggio dimostrato arrivando fin lì. Gliene
sarebbe
servito molto altro di coraggio ma in quel momento capì che
doveva
fare un piccolo passettino alla volta.
Quando
uscì fuori udì un gran trambusto per le vie e
notò Prudie e i
bambini seduti sul gradino della Chiesa, con Garrick, che si
guardavano attorno per cercare di capire cosa stesse succedendo.
Padre
Colin uscì, attirato da quel baccano. E rise...
"Che
succede?" - chiese Demelza.
L'uomo
indicò la piazza che doveva trovarsi oltre quel dedalo di
casupole e
vicoli. "Sono arrivati i pirati, li aspettavo! E hanno fatto
scappare l'uomo che era stato condannato! In barba alle guardie e
alle nostre vecchie leggi della cara, antica Inghilterra".
E
ridacchiando come se fosse soddisfatto della cosa, per nulla stupito
per l'accaduto, entrò di nuovo in Chiesa lasciando Demelza e
gli
altri stupiti, interdetti e ancora più consapevoli che quel
mondo
era totalmente diverso da quello da cui provenivano.
Ma
a Demelza venne da sorridere, anche se si trattava di un pirata...
Che posto bizzarro quella Jamaica!
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Capitolo 10 *** Capitolo dieci ***
"Mamma,
mamma sembra farina!!!".
Demelza,
arrancando assieme a Prudie dietro ai suoi figli che, con Garrick,
correvano in quella spiaggia dalla sabbia bianca come neve e morbida
come un tappeto di velluto, sorrise. I bambini sembravano
apparentemente felici ed eccitati e questo la faceva sentire bene
anche se non si illudeva che non combattessero con il demone
dell'abbandono del loro padre. Sicuramente ci pensavano, ci
rimuginavano e presto sarebbero dovuti scendere a patti con quella
loro nuova vita senza di lui, sarebbe arrivata la crisi e forse di
Ross ne parlavano anche di nascosto da lei per non preoccuparla, ma
in quel momento erano eccitati da quel mondo nuovo che li circondava,
non avvertivano come lei la paura dell'ignoto e la grande bellezza
che sembrava emanare da ogni palmo di quell'isola era sufficiente a
renderli entusiasti e contenti.
Si
guardò attorno, sembrava davvero di essere nell'Eden.
Lasciati alle
spalle il villaggio e il porto, erano giunti in un luogo disabitato
in cui la facevano da padroni una immensa spiaggia bianca delimitata
da una infinita foresta tropicale che probabilmente ricopriva tutta
la parte interna dell'isola. Piante di cui non conosceva né
i nomi
né i frutti, un cielo azzurro cobalto sopra di loro, nelle
narici i
profumi della natura e del mare che si fondevano e mischiavano. E
quell'acqua trasparente, quel mare dai colori che andavano
dall'azzurro al verde smeraldo e quella miriade di pesci che si
vedevano nuotare in essa come se fossero i padroni di quell'oceano,
le davano l'esatta idea della distanza da casa. Anche il mare della
Cornovaglia era bello ma non aveva quei colori e nelle sue acque non
pullulava tutta quella vita... Si chiese se fosse sempre
così in
Jamaica, terra di sole perenne e di mare azzurro e cristallino. O se
il tempo a volte diventasse implacabile e furioso come quelle terre
ancora selvagge... E se il mare a volte fosse in tempesta e cambiasse
i suoi colori diventando nero e plumbeo. Santo cielo, non conosceva
nulla di quei luoghi e doveva imparare in fretta per il suo bene e
per quello dei suoi figli.
"Ci
saremmo dovute fermare a bere del rum prima di questa camminata,
avremmo affrontato meglio questo caldo orribile" –
borbottò
Prudie sprofondando nella sabbia.
Demelza
lo adocchiò di traverso. "Prudie, in fondo quì in
spiaggia c'è
una bella arietta, non fa caldo come al villaggio. E non abbiamo
denaro da buttare in rum".
"Ma
il prete mica ti ha dato un lavoro, ragazza?".
"Suonerò
alla Messa la spinetta, non guadagnerò che qualche monetina.
E non
voglio pretendere nulla di più, quell'uomo si fa in quattro
per la
sua piccola Chiesa, per chi ha bisogno e per i bambini del suo
orfanotrofio".
Prudie
si imbronciò. "Sì certo, ma in questa terra di
rum, sarebbe un
delitto non provarne un goccettino...".
Demelza
rise, a dispetto di tutto. "Succederà, te lo prometto.
Vivremo
quì dopo tutto e dobbiamo adeguarci alle abitudini del
posto. In
Cornovaglia avevamo il Porto, quì capiterà di
bere rum". In
realtà non ne era molto convinta, non riusciva ad
immaginarsi
ubriaca a bere alcolici con qualche strambo pirata in riva al mare,
ma non se la sentiva di spezzare le speranze della povera Prudie che
l'aveva fedelmente seguita fin lì.
La
povera donna si guardò attorno, stanca. Non era abituata
né a
camminare né a faticare e quella passeggiata sotto il sole
cocente
la stava uccidendo. "Dove abiteranno le signore? Quì non
c'è
nulla a parte uccelli colorati che ci svolazzano in testa, sabbia,
mare e strane piante".
"Padre
Colin ha detto che non è lontano e che dalla spiaggia
vedremo le
piccole costruzioni che danno sul mare. Sono una manciata di
baracche, le dovremmo trovare subito e non dovrebbe mancare molto".
"Mamma!".
Clowance tornò indietro di corsa interrompendole, per nulla
stanca
rispetto a Prudie. La sua carnagione chiara stava già
abbronzandosi
e i suoi capelli biondi invece sotto quel sole stavano schiarendosi.
Sembrava una piccola e bellissima principessa, pensò
orgogliosa
Demelza...
"Dimmi!".
La
bimba, giunta davanti a lei, le indicò un punto imprecisato
della
spiaggia. "Ci sono, la davanti! Le casette di legno!".
"Dio
sia lodato!" - esclamò Prudie guardando al cielo.
Clowance
rise, poi si voltò e con Garrick corse di nuovo avanti per
raggiungere suo fratello. Sembravano così eccitati,
pensò Demelza
con sollievo... Poi però si chiese come Kitty e Cecily
avrebbero
preso il loro arrivo, la difficoltà che avrebbe dovuto
vivere nel
raccontare loro cosa li avesse portati in Jamaica e soprattutto, il
mettersi a nudo davanti a donne che come lei una volta, consideravano
Ross un eroe. L'avrebbero giudicata? O avrebbero provato pena per
lei?
Ma
poi pensò a Kitty e a quanto aveva vissuto, ai patti con la
vita a
cui era dovuta arrivare Cecily e capì che non l'avrebbero
giudicata
ma al contrario, le avrebbero teso una mano aiutandola a ricominciare
da zero, come loro.
Persa
in quei pensieri, sollevò lo sguardo nella direzione in cui
erano
corsi i suoi figli. Il sole era caldo e alto nel cielo, una leggera
brezza le muoveva i capelli e il mare, sotto la luce del mezzogiorno,
sembrava ancora più azzurro e trasparente. Era circondata
dalla
bellezza e dalla grandiosità della natura, non poteva essere
depressa, non doveva! Si era sempre soffermata sulle cose belle nei
suoi momenti bui e anche se la Jamaica era sicuramente una terra
piena di ombre, aveva in se anche tante cose meravigliose che
potevano farla sorridere. E si sforzò di farlo, pensando a
quel mare
e a padre Colin e alle tante scoperte che lì avrebbe fatto.
Osservando
il paesaggio, vide i suoi figli tornare verso di loro. E non erano
soli, stavolta.
Prudie
la osservò. "Sono...?".
Demelza
sorrise, il suo viso si illuminò e fu come se un grosso peso
si
fosse tolto dalle sue spalle. "Sono Kitty e Cecily!" -
esclamò, osservando le due donne che, con indosso dei
semplici abiti
smanicati, assieme ai suoi bambini venivano verso di loro.
Jeremy
le corse vicino. "Mamma, mamma le abbiamo trovate!" -
esclamò eccitato mentre le donne, con Clowance, le si
avvicinavano
con espressione sorpresa.
Cecily,
coi capelli legati in una semplice coda di cavallo, con abiti
sbarazzini e la pelle abbronzata, abbozzò un sorpreso
sorriso mentre
Kitty, con in braccio un piccolo fagottino, la abbracciò e
basta,
senza chiedere nulla. "Non so cosa ti porti quì Demelza
Poldark
e di certo mi è venuto un colpo e ho pensato di essere
ammattita
quando ho visto i tuoi figli comparire davanti alla mia capanna! Ma
benvenuta!".
"Benvenuta"
– aggiunse Cecily, decisamente a corto di parole ma pronta a
supportare Kitty in quel semplice e caldo benvenuto.
Demelza
si rannicchiò fra le braccia della signora Despard e per un
attimo
tremò forte, non sapeva se per la stanchezza o se per il
sollievo di
aver raggiunto la sua meta e di non essere quindi più sola e
dispersa in quell'angolo sconosciuto di mondo. Kitty rispose
all'abbraccio e capì che qualcosa di grave doveva essere
successo se
loro si trovavano lì. Le accarezzò dolcemente il
braccio, le diede
un buffetto sulla guancia e le sorrise. "Su, quì
c'è troppo
sole per una pelle chiara come la vostra. Venite, andiamo nella
nostra casa per salutarci come si deve e raccontarci cosa vi porta
quì".
Prudie
non se lo fece ripetere e a grandi passi, veloce come non aveva mai
camminato, avanzò nella sabbia. I bimbi con Garrick le
corsero
dietro e Demelza, attorniata da Cecily e Kitty, andò loro
dietro.
"Grazie..." - disse solo.
...
Demelza
non si era mai resa conto, da quando era partita e aveva lasciato
Dwight e Caroline, di quanto avesse bisogno di parlare, raccontare,
sfogarsi... Aveva viaggiato per due lunghi mesi in nave cercando di
mostrarsi forte e fiduciosa per non turbare i suoi figli, aveva
nascosto i suoi sentimenti più intimi perché non
voleva vedessero
la luce e la spezzassero, era dovuta venire a patti con
realtà che
non riusciva ad accettare e si era illusa di aver superato la parte
peggiore della tempesta.
Già,
illusa, appunto... Perché era bastato uno sguardo
preoccupato di
Kitty, un suo abbraccio, la vista del suo bambino e la fatidica
domanda 'Cos'è successo?' perché scoppiasse a
piangere.
Kitty
e Cecily li avevano accompagnati fino alla loro casetta a ridosso
della spiaggia, una piccola e graziosa costruzione in legno con alle
spalle la foresta e davanti la sabbia bianca che diradava verso il
mare. Un posto lontano dal chiasso del villaggio e dal porto,
circondato da pace e natura e allo stesso tempo vicino ai servizi e
alla civiltà offerti dall'isola. Era una casupola piccola,
modesta,
di sole due stanze, un piccolo braciere all'esterno testimoniava che
le donne cucinavano fuori mentre dentro una camera fungeva da spazio
per la notte e l'altra era una specie di improvvisato salottino con
un vecchio divano, un armadio, un baule e un tavolaccio. Eppure
seppur rustico, quel posto tanto spartano infuse a Demelza uno strano
senso di pace come se un ambiente del genere, nella sua
semplicità,
fosse tutto ciò di cui lei aveva bisogno per tirare avanti.
Cecily
aveva capito che qualcosa di grave era successo e di certo poi
avrebbe chiesto spiegazioni a Kitty, ma sul momento decise di dar
pace a Demelza allontanando i figli perché lei potesse
raccontare
tutto senza remore, di trasformarsi in compagna di giochi dei bambini
e, dopo aver promesso loro una grande avventura e un giretto di
esplorazione della foresta e della baia, si era allontanata con i
piccoli e con Garrick.
Prudie
si era sdraiata su una stuoia e dopo infiniti
borbottìì era caduta
in un sonno profondo e così Demelza era rimasta sola con
Kitty e col
piccolo James che, con sguardo pacioso e biricchino, osservava dalle
braccia della madre la nuova arrivata muovendo gambette e braccia per
attirare l'attenzione. Era un bimbo delizioso e fisicamente tanto
diverso da quelli che Demelza aveva conosciuto fino a quel momento...
Aveva la carnagione di un colorito non scuro come quello della madre
ma nemmeno chiaro come quello di Ned, era piuttosto una via di mezzo.
Ma gli occhi, gli occhi erano azzurri e trasparenti come quelli di
suo padre e assieme al colorito ambrato della sua pelle, ne facevano
un bambino meraviglioso, un bellissimo riassunto di ciò che
erano i
suoi genitori, pensò Demelza, chiedendosi come sarebbe stata
la sua
di bambina e se l'eventuale somiglianza con Ross non avrebbe finito
col rendere tutto ancora più difficile.
Aveva
parlato a lungo con Kitty mentre i bambini e Cecily erano in giro,
raccontandole cosa fosse successo, cosa ci facesse lì e il
grande
dolore che l'aveva spinta a partire e a cercare una nuova vita. Kitty
era rimasta in silenzio, non aveva fatto domande, non aveva cercato
spiegazioni inutili a quanto successo con Ross, non aveva cercato
giustificazioni ma si era limitata a guardarla con comprensione e
stima. "E' quasi impossibile da credere, Ned aveva una così
alta opinione di lui. E anche io..." - si limitò a dire, in
un
soffio, al termine di quella lunga chiacchierata durata ore,
ininterrottamente.
Demelza
osservò il cielo. Si era fatto pomeriggio inoltrato senza
che se ne
accorgesse e il mare e il cielo parevano fondersi in colori caldi che
andavano dal rosso fuoco all'arancione. Era uno spettacolo da lasciar
senza fiato per la sua bellezza. "Eppure è così.
Anche se pure
io fatico a crederci che sia successo davvero. Ma dalla morte di Ned,
è come se Ross avesse perso se stesso e la sua anima. E mi
ha fatto
chiaramente capire che non sarebbe tornato sui suoi passi".
Kitty
osservò il suo ventre gonfio. "E il bambino? Nemmeno per lui
ha
voluto tentare?".
Demelza
sentì gli occhi pungerle. "Non credo che sia un suo
interesse,
questo bambino. E onestamente forse non è un interesse
nemmeno mio,
la differenza è che Ross può scappare dalle sue
responsabilità, io
no".
Kitty
la abbracciò, accarezzandole la schiana. "Non dire
così mia
cara, sei una madre meravigliosa e lo sarai anche per questo piccolo.
Sei solo ferita, stanca e spezzata ma sono certa che sarà
una grande
storia d'amore la vostra, come lo è per me e James. E'
ironico che
l'unica gravidanza che sono riuscita a portare a termine sia arrivata
in contemporanea alla morte di Ned che tanto avrebbe desiderato
questo bambino, ma anche se mio marito non c'è
più, io vivo mio
figlio come un grande dono e me ne prendo cura anche per lui. Come
farai tu, in ricordo di un amore che è stato grandissimo e
che anche
se ora non è quì, ti ha lasciato una grande
testimonianza di ciò
che è stato".
Demelza
ispirò profondamente per non piangere. Sperava che sarebbe
stato
come diceva Kitty, lo sperava di cuore. Ma per ora si sentiva solo
circondata da una grande voragine nera che la rendeva impermeabile a
ogni sentimento materno. Osservò il piccolo James, forse
sarebbe
stato un amichetto di Isabella-Rose e avrebbero giocato insieme...
Avrebbe avuto tanti amichetti e tanto affetto da tutti sua figlia,
forse anche il suo un giorno, il giorno in cui sarebbe tornata a
sentirsi forte. "Ti ringrazio per averci accolte quì. Ma non
vogliamo disturbarti troppo, io, Prudie e i bambini ci metteremo da
domani a cercare una casetta come questa per noi".
Kitty
le prese le mani. "Non avere fretta, quì viviamo in maniera
spartana ma semplice e felice. Sei incinta e se ci faremo un
pò
stretti, ci staremo bene in questa casetta. Tu devi riposare".
No,
non era d'accordo. "Voglio essere indipendente. Ho un pò di
denaro portato da casa e padre Colin mi ha offerto un piccolo lavoro,
come ti ho detto. Voglio farcela da sola".
Kitty
le sorrise dolcemente. "Tu e Ross avete aperto le porte della
vostra casa per me e Ned, avete corso tanti pericoli e mi sento anche
responsabile per quanto ti è successo e ti ha portata
quì. Non devi
sentirti un peso, per me sei una preziosa amica e ospite. Io e Cecily
viviamo libere, ridiamo, scherziamo, non ci poniamo limiti, orari o
regole, viviamo in pace con la natura e con l'isola, godendoci il
mare, preparando marmellate con la frutta del posto che vendiamo poi
alle navi merci che le smistano o in Europa o nel nuovo mondo e in
tutto questo puoi inserirti anche tu, darci una mano e soprattutto,
vivere insieme come una strana ma grande famiglia".
Demelza
rispose al sorriso. "Lo farò, vi aiuterò,
farò parte della
vostra famiglia e della vostra squadra. Ma ho visto un'altra baracca,
a pochi metri da questa" – disse, indicando una casetta di
legno malmessa ma in tutto simile a quella di Kitty, che si
intravedeva fra gli alberi a una ventina di metri da lì
– "E
credo che essere vicine di casa sarebbe meglio che tutti quì
insieme, affollati. Tu hai un bambino piccolo, io ne ho due vivaci e
una domestica. Saremmo a pochi passi, casa mia sarà la
vostra e
viceversa e se quella baracca è abbandonata, posso renderla
la mia
casa come voi avete fatto con questa".
Kitty
le accarezzò le mani. "Se è questo che vuoi, ti
aiuteremo. Ma
non oggi, non stanotte. Stanotte sarete nostri ospiti e se quando
Jeremy torna e ne ha voglia, può cercare di pescare qualcosa
con
Cecily per la cena di stasera. Quì pesce e frutta non
mancano mai,
questa è un'isola generosa con chi la abita, almeno per
quanto
riguarda il cibo".
"Credo
che Jeremy ne sarà felicissimo, si è
già proposto come pescatore
ufficiale della famiglia fin dal viaggio in nave".
Kitty
rise, battendo le mani e sollevando allegramente James. "Visto,
saremo una grande famiglia e ognuno contrinuirà a rendere
più
facile e semplice la vita degli altri. E il vostro arrivo è
un
gradito dono per noi, anche se ovviamente capisco quanto tu avresti
voluto essere a casa tua, adesso. Ma dalla vita dobbiamo imparare ad
apprezzare il meglio che ci da in ogni occasione e quindi, partiamo
da questo concetto e andiamo avanti insieme!".
Demelza
annuì, voltandosi verso Prudie che continuava a dormire
dalla
grossa. Poi si stiracchiò, desiderosa di sgranchirsi le
gambe. "Ti
andrebbe di fare due passi sul bagnasciuga? E' da quando sono
arrivata che sogno di bagnarmi i piedi in questa splendida acqua?".
"Con
piacere" – rispose Kitty, prendendola sottobraccio con la
mano
libera da James.
"E
i bambini e Cecily?" - chiese Demelza, osservando che non erano
ancora tornati.
"Tranquilla,
Cecily conosce bene la foresta e le baie, si staranno divertendo un
sacco e torneranno entusiasti e felici dopo ore passate ad esplorare
e giocare. E' una ragazza d'oro e coi bambini è
meravigliosa. Vero
James?" - chiese al piccolo.
Il
bimbo rise fra le sue braccia e Demelza si unì a lui. "Vero,
meravigliosa. E' incredibile come la figlia di un uomo tanto
orribile, sia uscita tanto splendida. Geoffrey Charles la adorava,
credo non la dimenticherà mai".
Kitty
annuì. "Ha tutta la vita davanti. La hanno entrambi e
troveranno e vivranno amori più adulti, ne sono certa. E di
loro, in
entrambi, resterà un dolce ricordo".
Demelza
si trovò d'accordo con lei mentre si avviava a piedi nudi
verso il
mare. Se persino Ross era riuscito a lasciare indietro il ricordo di
Elizabeth, di certo ce l'avrebbero fatta Geoffrey Charles e Cecily. I
primi amori ti sconvolgono ma poi si va oltre, si cresce, si guarda
lontano e si vivono amori più adulti e completi. Di questo
era certa
e questo augurava a quei due giovani.
La
sabbia era sofficissima sotto i suoi piedi, farina appunto, come
avevano detto i suoi bambini poco prima. Accanto a lei, fra le
braccia di sua madre, il vivacissimo James gorgogliava contento
tentanto di afferrare con le manine i suoi lunghi capelli rossi che
forse dovevano apparirgli strani. Aveva espressioni del viso buffe,
le guance tonde e sane e un modo di fare irresistibilmente simpatico.
Ned lo avrebbe adorato e forse per amor suo avrebbe sotterrato almeno
un pò il suo animo bellicoso per dedicarsi solo al benessere
della
sua famiglia... Forse... Ma coi forse non si fa la storia e questo
valeva per Ned ma anche per lei. Forse avrebbe avuto ancora Ross se
non avesse portato Tess a casa loro, ma forse se non era con Tess,
l'avrebbe perso a causa di un'altra donna. Ci era già
passata, no?
Elizabeth quasi glielo aveva portato via e Ross l'aveva lasciata
fare, allora. Se un uomo ti tradisce una volta, non è detto
che non
lo faccia ancora. O forse lei stessa avrebbe vacillato ancora, se un
altro Hugh fosse arrivato all'orizzonte. Dubitava fortemente di
cedere di nuovo a un altro uomo, non era nata per questo e tutto
ciò
che aveva sempre sognato era essere la moglie di Ross e avere il suo
amore, ma Hugh prima e quanto successo in quei mesi poi, avevano
minato ogni sua certezza negli altri, ma soprattutto in se stessa.
I
piedi sfiorarono l'acqua, era squisitamente tiepida. Il cielo stava
scurendosi, i gabbiani sembravano spariti in qualche rifugio per la
notte e il calmo via vai delle onde che si infrangevano sulla
battiglia sembrava una dolce ninna-nanna in quella immensa spiaggia
deserta e tutta loro.
"Ti
piace la Jamaica?" - chiese improvvisamente Kitty, al suo
fianco.
Demelza
sospirò, accarezzandosi il ventre. "Sono arrivata solo
stamattina, non so ancora dirlo. Per certi versi mi sembra un posto
simile al Paradiso. Ma per altri...".
"Per
altri?".
Si
adombrò, pensando alle tante stonature che aveva, se non
visto,
captato. "Ci sono molte ombre, oscure. Ho visto degli schiavi
appena scesa dalla nave. Ed è una visione a cui non
riuscirò mai ad
abituarmi e so che questa isola ne è piena. Così
come di pirati,
che però mi sembrano ben accetti dalla popolazione ma di cui
non
posso avere una buona visione, visto quanto si dice sul loro conto.
Ed esecuzioni in piazza, monelli che cercano monete con ogni mezzo,
smaliziati come piccoli adulti...".
Kitty
le strinse il braccio. "Hai ragione, ci sono molte ombre
nascoste fra queste rigogliose piante e questo splendido mare. La
foresta, meravigliosa e rigogliosa e anche impenetrabile in alcune
sue parti, è piena di uomini messi in catene da altri
uomini.
Persone senza libertà nemmeno di respirare, se i loro
padroni non lo
ritengono più necessario... Persone che lavorano come
bestie, senza
requie o diritto alcuno, oggetti, nulla più che oggetti per
i loro
padroni. Io ero una di loro una volta e solo grazie a Ned sono una
donna libera, adesso, con i mezzi anche per comprare della terra. Ma
una donna col colore scuro della pelle, libera, è qualcosa a
cui
questa gente non è pronta. E per questo, per vivere in pace,
ho
scelto di vivere lontana dal villaggio. Io non disturbo gli altri,
gli altri non disturbano me e così sto lontana da guai e
problemi.
Vado al villaggio solo se necessario e per il resto rimango
quì, a
crescere mio figlio senza attirare attenzioni sgradite su di noi. I
pirati invece... beh, fanno parte dell'economia dell'isola. Le
guardie dan loro la caccia ma gli abitanti del posto li proteggono. I
pirati portano denaro, ricchezza e danno commercio... E non si danno
troppe preoccupazioni sul colore della pelle del loro interlocutore,
a loro basta solo fare buoni affari. Tutto il resto invece, monelli
per strada, case del piacere, caos e strani modi di vivere, fanno
tutti parte di questo mondo nuovo che sta nascendo solo ora e che
ancora deve trovare le sue regole. Ti ci abituerai, ne sono certa".
Demelza
fece per risponderle quando si bloccò. Una strana nenia, una
sommessa melodia cantata in una lingua che le era sconosciuta e che
sembrava provenire dalla foresta, raggiunse le sue orecchie, dandole
un brivido alla schiena. Era una musica a suo modo ritmica ma
così
incredibilmente triste... "Che cos'è?" - chiese a Kitty.
La
donna si voltò verso la foresta con un sorriso triste sul
viso.
"Sono gli schiavi che lavorano nelle piantagioni per i grandi
signori dell'isola. Quando il sole tramonta e la loro dura giornata
arriva al termine, cantano nella loro lingua natia e la loro voce
giunge sin quì portata dal vento".
"Cosa
cantano?".
"Della
loro terra, del desiderio di tornarci, di libertà, di
abitudini e
famiglie lasciate indietro... Non conosco la loro lingua, ma immagino
che i loro inni riguardino tutto questo".
Gli
occhi di Demelza divennero lucidi mentre immaginava quegli schiavi
arrivati lì in quell'angolo sconosciuto di mondo portati per
forza,
contro la loro volontà, condotti a un destino duro e senza
speranza.
Uomini, donne e bambini ridotti in schiavitù da altre
persone che si
credevano superiori a loro e ne diventavano i carnefici. E si
trovò
a pensare che le sarebbe piaciuto tanto sapere le parole di quella
loro canzone per conoscerli meglio, capirli e comprendere una parte
di mondo a lei sconosciuta. "Un giorno finirà tutto questo,
Kitty?" - chiese, ripensando alle parole di Padre Colin di
quella mattina.
La
donna, il cui sguardo si perse nel mare mentre stringeva a se suo
figlio, sospirò. "Sì. Ma quel giorno temo sia
ancora molto
lontano".
...
Il
mondo era diventato un posto buio, oscuro e senza nessuna attrattiva
per Ross Poldark. Così come la sua casa, Nampara, tornata
improvvisamente ad essere solitaria e fredda come lo era stata al suo
ritorno dall'America, tanti anni prima, quando si era ritrovato senza
nessuno ad aspettarlo, con una fidanzata che gli aveva voltato le
spalle per suo cugino e nessuna prospettiva per il futuro. Si sentiva
come allora, sperso e senza speranza, arrabbiato con il mondo e
incapace di racciuffare fra le mani quanto aveva di più caro
nella
vita.
Per
Londra e per le poche persone che conoscevano le sue gesta coi
francesi era un eroe ma per i suoi amici e per la sua famiglia una
delusione, uno scarto da tenere alla larga.
Dwight
era diventato introvabile e nemmeno Caroline si era più
fatta vedere
in giro, alla miniera lo trattavano con rispetto ma comprendevano che
qualcosa di grave era successo e che la sua famiglia non era
più al
suo fianco e la partenza di George, improvvisato amico dell'ultimo
minuto e unico testimone di quanto successo, lo avevano fatto sentire
ancora più solo.
Santo
cielo, se sentiva la mancanza di George, aveva proprio toccato il
fondo!
L'unico
suo interesse era la miniera, la ragione di vita dei suoi uomini e
l'eredità per i suoi bambini, se mai fossero tornati... Ma
lo
avrebbero fatto? E Demelza, la sua Demelza scappata lontano pensando
che la stesse tradendo di nuovo, lei sarebbe tornata per delle
spiegazioni? O aveva rinunciato a lottare? In fondo perché
combattere per un uomo che già l'aveva tradita e che quindi,
ai suoi
occhi ora, non ci avrebbe messo nulla a tradirla ancora? Come poteva
dirle che mai, MAI avrebbe fatto qualcosa del genere? Come poteva
dirle che aveva sbagliato una volta e che si sarebbe fatto uccidere
pur di non commettere nuovamente quell'errore? Come poteva chiedere
al destino una nuova occasione con lei per urlarle che la amava, che
era stata la salvezza della sua vita e che nulla per lui aveva senso
senza di lei al suo fianco?
Rimuginava
su questo e tante cose, Ross, nelle serate fredde e solitarie di
Nampara, davanti a quel camino testimone di tanti momenti dolci,
risate e di tante chiacchierate con sua moglie e i suoi figli. Ora
loro non c'erano più e l'unico suo compagno era un bicchiere
pieno
di vino quando andava bene o di liquori se aveva voglia di stordirsi
per non pensare... Era una vita miserabile all'interno di un mondo
grande dove trovare i suoi cari poteva essere pressocché
impossibile
senza l'aiuto di Dwight. Era sicuro che lui sapesse dove si
trovassero Demelza e i bambini ma era altrettanto certo che non
avrebbe aperto bocca se pensava di dover proteggere sua moglie.
Proteggerla... Santo cielo, lui amava Demelza ed era suo compito
proteggerla, non di Dwight! Ed era quello che, forse sbagliando,
aveva sempre cercato di fare dall'inizio. E nessuno gli avrebbe
creduto!
Eppure
non poteva stare con le mani in mano a piangersi addosso, lo sapeva
bene anche lui e non era tipo da farlo troppo a lungo... Si era
annullato e crogiolato troppo a lungo nel dolore e nell'alcol, in
quelle settimane disperate si era distrutto a furia di ingurgitare
alcolici, in un impeto d'ira aveva fatto a pezzi la culla che aveva
riverniciato e l'aveva gettata nel camino per poi pentirsene subito
dopo, ma ora basta. Non poteva comportarsi così, non poteva
farlo,
non doveva lasciarsi morire finché non avesse ritrovato sani
e salvi
i suoi cari.
E
con questo pensiero era tornato a Londra, dopo lunghe settimane di
silenzio e solitudine, deciso ad abbracciare forse l'unica strada che
potesse aiutarlo a rimettere ordine nella sua vita o quanto meno a
dargli uno scopo.
Quando
irruppe nello studio, Wichman stava sistemando alcuni incartamenti e
il suo sguardo parve sorpreso ma non turbato, quando lo vide, come se
si aspettasse questa visita prima o poi. "Poldark?
Con
sguardo torvo, scuro, senza il minimo accenno a qualche emozione,
Ross si avvicinò alla scrivania e vi poggiò i
pugni con forza.
"Quel lavoro di spia per il Governo inglese è ancora
disponibile?".
Wichman
lo guardò coi suoi occhietti furbi. "Potrebbe..." -
rispose, sibillino.
Ross
annuì, senza il minimo tentennamento. "Accetto l'incarico".
|
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Capitolo 11 *** Capitolo undici ***
Le
prime settimane, che poi si erano tramutate in mesi, erano scorse
veloci per Demelza. Quel mondo nuovo da scoprire, quelle abitudini
sconosciute che doveva fare sue, una nuova casetta da costruire e un
pancione sempre più evidente, non le avevano fatto percepire
quanto
tutto stesse accadendo velocemente.
La
domenica e anche durante la settimana, se necessario, suonava la
spinetta che accompagnava le funzioni di Padre Colin che pian piano
le aveva presentato i fedeli del posto, aveva imparato a conoscere
gli abitanti del borgo portuale che li aveva accolti al loro arrivo,
aveva appreso i nomi di piante, animali e frutti fino ad allora a lei
sconosciuti e appreso dal vento o dalle maree il cambio del tempo.
Aveva conosciuto i bambini dell'orfanotrofio gestito da Padre Colin,
una allegra massa di monelli senza radici e felicemente selvaggi,
aveva incrociato a volte anche dei pirati, gente strana vestita in
modo strano e a prima vista poco raccomandabile, aveva dovuto
abbassare lo sguardo e mordersi le labbra per non urlare quando aveva
dovuto assistere, tornando a casa dalla Messa, a un mercato degli
schiavi e soprattutto, aveva dovuto in parte abbandonare i suoi abiti
inglesi per sostituirli con qualcosa di più comodo e
leggero. Gli
abiti a maniche lunghe erano stati sostituiti da vestiti sbracciati,
leggeri, freschi e dai colori accesi, i suoi lunghi capelli erano
spesso racchiusi in una treccia o una coda di cavallo a causa del
caldo e spesso al pomeriggio tardi aveva anche fatto un bagno con
indosso solo una sottoveste, circondata da una spiaggia deserta, in
quel mare meraviglioso dalle acque verde-smeraldo, in compagnia di
migliaia di pesci variopinti.
Anche
Jeremy e Clowance si erano abituati presto a quella nuova vita. Suo
figlio stava tutto il giorno in spiaggia e girava perennemente a
petto nudo, con indosso solo dei corti pantaloncini, intento a
pescare e a procurare pranzi e cene per tutti. Lui e Cecily spesso si
allontanavano dalla riva con una barchetta, muniti di canne da pesca,
tornando solo molte ore dopo con un lauto bottino. Anche Clowance era
diventata più spartana e, abbandonati i suoi vestiti
inglesi, aveva
scelto di vestire solo con sottovesti o abitini smanicati che le
arrivavano alle ginocchia, con cui poteva correre, saltare nel mare e
rotolarsi liberamente. Giocava spesso sulla sabbia costruendo
castelli ed atteggiandosi a sorella maggiore del piccolo James che la
seguiva dappertutto gattonandole dietro. Il piccolo adorava Clowance
e lei sembrava essersi appassionata al suo ruolo di guida esperta e
di baby sitter improvvisata. Doveva fare pratica per la sorellina,
diceva, e Demelza si sentiva così orgogliosa di lei e
dell'entusiasmo con cui aspettava l'arrivo di Isabella-Rose.
Entusiasmo decisamente più marcato del suo...
Per
quanto riguardava la casa, la piccola capanna scelta da Demelza al
suo arrivo era fiorita giorno dopo giorno con l'incessante lavoro di
tutta quella piccola famiglia allargata. Cecily e Kitty l'avevano
aiutata a pulirla e a trovare dei piccoli arredi ma l'aiuto
più
grande, Demelza lo aveva ricevuto dai fedeli di padre Colin, gente
poverissima ma amica e sempre pronta a darsi una mano l'un l'altro,
come le avevano raccontato al suo arrivo.
Uomini
e donne avevano aiutato a portare legname per rinforzare le pareti e
allargare la capanna, avevano dato una mano a costruire dei giacigli,
avevano trovato dei piccoli armadietti e qualche oggetto d'arredo che
potesse tornarle utile e lei aveva ricambiato col pesce pescato da
Jeremy e spesso di sera, quando finivano di lavorare, avevano cenato
tutti insieme in una allegra combriccola raccolta attorno al fuoco in
quella grande spiaggia che con gioia li aveva accolti facendoli
sentire poco alla volta a casa.
Demelza
si era affezionata a quelle persone e oltre a padre Colin aveva
imparato a conoscere la chiacchierona signora Paula che gestiva un
piccolo negozio di panettiere, il timido e giovane dottor Phillips
che cercava di curare la gente del posto con quel poco che aveva e
che si era preso una cotta ancora non corrisposta per Cecily, le
simpatiche suore che curavano i bimbi dell'orfanotrofio, i pescatori
anziani del porto con le loro famiglie e tante altre persone che come
lei avevano poco o nulla ma che trovavano sollievo proprio nel
dividersi quel poco fra loro, dandosi una mano quando serviva.
Alla
fine venne fuori una bella casetta composta da due stanze da letto e
un ambiente comune all'ingresso, che fungeva da salottino e cucina.
C'erano pochi mobili, raccattati qua e la o costuiti con la legna
della foresta: una piccola credenza, un tavolaccio in legno mal
levigato, due panche, dei giacigli nelle stanze, una per lei e Prudie
e l'altra per i bambini, una cassettiera malmessa ma ancora utile per
contenere i loro pochi abiti e un baule dove mettere ciò che
non
trovava altra collocazione. C'erano ancora piccole rifiniture che
Demelza voleva apportare alla casa, piccoli lavoretti che poteva fare
anche da sola prima di partorire, ma nel giro di poco aveva trovato
un suo nido, un suo posto in quel nuovo mondo dove sentirsi a casa e
non più ospite. Una casetta a una decina di metri da quella
di Kitty
e Cecily, uno spiazzo comune fra le due abitazioni dove trovarsi per
mangiare insieme, cucinare marmellate da vendere alle navi in
partenza dal porto, chiacchierare ed aiutarsi in quella vita
spartana. Era un angolo di pace in un mondo paradisiaco e Demelza
cercava, nell'azzurro del cielo, nella meraviglia del mare e nella
bellezza degli animali del posto che aveva imparato a conoscere e che
di fatto erano i suoi vicini di casa, di sopravvivere alla tempesta
che aveva fatto naufragare il suo matrimonio. Ross le mancava, con
tutte le sue forze. E la sera, quando Prudie e i bambini dormivano e
Isabella-Rose si scatenava dandole un sacco di calci, si allontanava
sulla spiaggia con Garrick e piangeva tutte le sue lacrime pensando a
quell'uomo lontano, fra le braccia di un'altra, che l'aveva tradita e
fatta soffrire ma che ancora amava con tutta se stessa. Si chiedeva
se si fosse cacciato nei guai, se avesse capito l'errore di tradire
la propria patria coi francesi, se ancora Tess gli fosse accanto, se
ogni tanto pensasse a loro e a quanto avevano perso... Ne poteva
parlare solo con Kitty o Cecily ma spesso era stata Prudie a
sorreggerla durante i momenti di maggiore crisi, quando poteva
permettersi di urlare il suo dolore perché i bimbi erano
lontani,
fuori a giocare. Jeremy e Clowance non chiedevano mai di Ross e
questo la stupiva. Non sapeva cosa pensassero, temeva di
chiederglielo ma era anche consapevole che prima o poi avrebbero
dovuto affrontare l'argomento. Sarebbero cresciuti, avrebbero voluto
spiegazioni approfondite, avrebbero sofferto e fatto mille domande e
lei non sapeva come avrebbe potuto rispondere loro.
E
in tutto questo c'era Isabella-Rose che sarebbe nata a breve,
sconvolgendo la sua vita. E anche lei sarebbe stata una sfida, al
pari dei fratelli, anche se per motivi diversi... C'era ancora molto
che la separava da questa bambina non ancora nata e di certo non
desiderata ma nelle notti solitarie dove si immergeva in mare e
nuotava come a voler purificare il suo corpo e la sua mente dai
pensieri e dai sentimenti negativi, erano solo loro due. La sentiva
muoversi, scalciare, la sentiva prepotentemente voler affermare la
sua esistenza per costringerla a prenderne atto. Calciava forte, era
una bambina energica e Demelza nonostante tutto aveva imparato a
conoscerla, a percepire quando dormiva o quando era sveglia e anche
un certo gusto che la piccola sembrava avere per la musica. Quando si
muoveva troppo e le faceva male, le bastava cantare per farla
tranquillizzare e stare ferma. Isabella-Rose si fermava, pareva
trovare pace e dopo un pò i calci cessavano e lei sembrava
dormire
tranquilla... A volte si chiedeva come fosse, che viso avrebbe avuto,
a chi sarebbe assomigliata e se ne stupiva. Come faceva ad essere
tanto curiosa di qualcuno che non aveva desiderato nella sua vita?
Era amore? O solo, appunto, curiosità? Isabella-Rose era
stata
concepita per sbaglio quando il matrimonio con Ross era già
vicino
al naufragio e questo l'aveva spezzata. Eppure anche Jeremy era
arrivato in un momento simile ma mai, nemmeno per un attimo, aveva
vacillato nell'amore per lui. Con questa nuova bambina invece, non ci
riusciva. Era arrivata dopo un periodo dove pensava di aver lasciato
alle spalle ogni problema e ogni dolore pregresso con Ross, ogni
crisi, i tradimenti, Hugh ed Elizabeth, le recriminazioni e i silenzi
pieni di risentimento. Era arrivata quando pensava che il loro amore
fosse ormai adulto, consolidato e cementato in loro... E invece la
vita le aveva dimostrato che nulla andava mai per scontato, che ogni
amore può finire e che forse... e che forse l'amore vero che
dura
tutta la vita non esiste. E allora che senso aveva quella bambina?
Che cattivo scherzo del destino era stato quello di farla arrivare
nella sua vita proprio quando tutto era finito, dopo otto anni da
Clowance, quando pensava che non avrebbe avuto più figli?
Non poteva
succedere prima, quando lei e Ross erano nella loro luna di miele a
Londra? O dopo la morte di Elizabeth, quando il loro amore era
diventato pieno, maturo e consapevole e nessuno dei due poteva fare a
meno dell'altro? O prima della morte di Ned, prima che Ross perdesse
se stesso...
Ma
perché, perché era rimasta incinta quando Ross
aveva smesso di
amarla e il suo sguardo era rivolto altrove?
Se
lo chiedeva spesso e nessuno le avrebbe mai saputo dare risposte. E
allora si imponeva di smettere di pensare e si concentrava sulla sua
vita, prendendola come veniva giorno per giorno, cercando un appiglio
in quel nuovo mondo e quella nuova esistenza tutta da costruire con
Jeremy, Clowance e sì, anche Isabella-Rose. I suoi bambini
sarebbero
cresciuti ai Caraibi, senza padre, lontani da miniere e minatori,
sviluppando un'esistenza totalmente diversa da quella che aveva
immaginato per loro. E doveva rendere tutto questo il più
facile
possibile, creare una casa accogliente, essere forte, sorridente e
imparare a conoscere quell'isola e le sue abitudini per poterle
insegnare a loro. E doveva riuscirci!
...
Le
serviva della legna per accendere il fuoco per scaldare della zuppa a
mezzogiorno e per la grigliata di pesce di quella sera e non aveva
animo di chiedere aiuto a Kitty o Cecily. James aveva pianto tutta la
notte per i denti e sua madre quel giorno, quando il piccolo si era
calmato, ne aveva approfittato per dormire un pò anche lei,
mentre
Cecily era andata al villaggio per comprare del cibo e vendere le
loro marmellate.
Ttuti
loro erano stati gentilissimi con lei in quei mesi, l'avevano aiutata
in ogni modo e non voleva più approfittarne. Le donne,
soprattutto
quelle conosciute ad Illugan da piccola, lavoravano fino al momento
del parto e il giorno dopo aver messo al mondo il loro bambino erano
già nei campi a raccogliere grano e mais e quindi anche se
lei aveva
un pancione ormai ingombrante, di certo non era malata e poteva
raccogliere e trasportare, facendosi aiutare dai suoi figli, qualche
ciocco di legno senza problemi e soprattutto, senza dipendere da
altri.
Si
erano addentrati nella foresta tropicale dietro alla loro casa e alla
spiaggia di primo mattino, prima che il sole diventasse troppo caldo,
camminando fra arbusti e grandi piante piene di frutta mentre gli
uccelli, dai mille colori variopinti, volavano sulle loro teste.
Avevano visto anche delle scimmie, sui rami più alti, che le
osservavano incuriosite e Demelza ogni volta rimaneva a bocca aperta
davanti a quella fauna tanto variegata. In quell'isola vivevano
animali che fino a pochi mesi prima le erano sconosciuti e la loro
forza, la loro capacità di adattamento e la loro bellezza
erano per
lei fonte di ispirazione e nuova vita.
"Dovremmo
prendere un pappagallo!" - disse Jeremy, indicandone uno
variopinto appollaiato su un ramo. "L'altro giorno al porto un
pirata girava con un pappagallo sulla spalla e la spada alla cintola
e sembrava così fantastico e degno di rispetto!".
"Tu
non sei un pirata, però!" - lo rimbeccò Clowance
mentre
addentava una fetta di cocco che sua madre aveva tagliato per loro
prima di mettersi in cammino.
Demelza
rise, prendendola per mano. Erano vestite uguali lei e sua figlia,
con un abito smanicato bianco legato in vita da un nastro azzurro. La
gonna arrivava ad entrambe sotto le ginocchia ed entrambe avevano
optato per uscire scalze e gustarsi la morbidezza della sabbia sotto
i piedi. "Tua sorella ha ragione, non sei un pirata! Alla tua
età potresti al massimo essere un mozzo!".
"Tu
mamma, ce l'hai l'età però! Dicevo per te!" -
rispose il
bambino, divertito e alla ricerca di una motivazione valida.
"Ah,
una donna non può fare la piratessa e nemmeno ambisco ad
esserlo. Ed
inoltre abbiamo Garrick, non ti basta?" - gli chiese Demelza.
Jeremy
sbuffò. "Sì, ma non ha nemmeno voluto seguirci!
Se n'è stato
a poltrire con Prudie. E noi lavoriamo quando dovrebbero essere loro
a farlo".
Demelza
sospirò, ripensando al rum bevuto dalla sua serva la sera
prima
durante la cena, rum di contrabbando che Cecily aveva trovato
chissà
dove al porto. "Prudie stamattina... non era in grado di
seguirci".
"Era
ubriaca!" - esclamò Clowance, decisamente meno diplomatica
di
sua madre. "Ci serve una domestica più affidabile".
"Ahhh,
fossimo ricche, perché no?" - chiese Demelza, ridendo.
Jeremy
la osservò pensieroso. "Ma ci servirà davvero una
nuova
domestica! Fra un pò fra Prudie ubriaca e Bella che
nascerà e
strillerà ogni notte, sarà un macello casa
nostra".
"Ce
la faremo..." - rispose Demelza, assorta dai mille pensieri che
quelle parole avevano risvegliato in lei.
"Davvero?"
- chiese il bambino, serio. "Anche senza...". Fece per
concludere la frase ma poi parve mordersi la lingua e imporsi di
fermarsi.
Demelza
lo guardò e capì che era preoccupato e che
c'erano tante domande
che gli frullavano in testa e non osava fare per non turbarla. Jeremy
aveva undici anni e anche se non ne parlava, di certo pensava a Ross
e a cosa avrebbe comportato la sua assenza. Si avvicinò a
lui e lo
abbracciò, forte, incapace di dire troppo ma decisa a
rassicurarlo.
"Anche senza tuo padre, sì! Senza di lui abbiamo costruito
una
casetta tutta nostra e abbiamo attraversato mezzo mondo. Non
c'è
motivo di preoccuparsi, sta tranquillo".
Lo
disse cercando di apparire serena ma Jeremy e Clowance non le
credettero, non fino in fondo. Ma decisero di non insistere e di
farle pensare ad altro per rasserenarla. Demelza li conosceva e ne
comprendeva appieno atti e pensieri, pensieri anche nascosti ma che
lei sapeva leggere dietro ad ogni loro azione.
Jeremy
la prese per mano, cambiando argomento e stato d'animo. "Mamma,
ti facciamo vedere un posto magico! Ci siamo vicini!".
"Sìììì,
lo abbiamo scoperto qualche giorno fa cercando noci di cocco!" -
aggiunse Clowance mettendosi a correre agilmente fra gli arbusti
seguita dal fratello.
Meno
agile dei suoi figli, tenendosi il pancione, Demelza li
seguì fuori
dal sentiero sterrato. "Bambini, ma dove stiamo andando?" -
chiese trafelata.
Jeremy
tornò indietro, prendendole nuovamente la mano. "Vieni
mamma,
vedrai che bello!".
Demelza,
impossibilitata a fare altro, si affidò a lui e camminando a
fatica
fra arbusti, piante e massi, giunsero davanti a un piccolo e
incantevole specchio d'acqua nascosto fra la vegetazione, alimentato
da una cascata che vi si gettava da una roccia che dominava la
radura. Si sentiva il rumore dei ruscelli che alimentavano quel
laghetto, lo scroscio della cascata e il canto degli uccelli che
lì
probabilmente si ristoravano. Acqua purissima, trasparente, che
prendeva i colori delle piante che la circondavano e vi si
riflettevano. Jeremy e Clowance entrarono nel laghetto, l'acqua era
bassa, arrivava fino alle ginocchia o alla vita e i bambini la
invitarono a fare altrettanto.
"Jeremy,
Clowance, è un posto bellissimo ma non è il caso
di fare un bagno
quì! C'è il mare davanti a casa".
Jeremy
le strinse ancora più forte la mano. "Non è per
fare il bagno,
è quello che c'è dopo la cascata. Passiamoci
sotto e vedrai!".
Clowance
li precedette, correndo agilmente nell'acqua e saltellando
superò lo
scroscio della cascata e vi sparì dietro.
"Giuda!"
- esclamò Demelza, terrorizzata.
Ma
Jeremy non le diede tempo di avere paura. "Vieni!" - le
sussurrò, incitandola a seguire le orme di Clowance.
Tentennando,
superarono lo scroscio della cascata, si bagnarono come pulcini, ma
dopo...
"Santo
cielo!". Demelza si guardò attorno, all'asciutto di una
grotta
nascosta dietro la cascata, invisibile da fuori, che li tagliava dal
mondo esterno e ne creava uno tutto nuovo e nascosto. Non c'era
nulla, solo rocce e il rumore dell'acqua alle sue spalle... Ma il
fascino di quel posto era innegabile, era come aver oltrepassato una
barriera magica ed essere approdati in un mondo nuovo,ovattato e
misterioso. Le rocce incombevano su di loro e l'acqua della cascata,
che faceva passare attraverso di essa i riflessi del sole e i colori
della foresta, proiettava su quel mondo sconosciuto e nascosto, un
arcobaleno di colori.
"Ti
piace, mamma? E' un nascondiglio perfetto, lo conosciamo solo io e
Jeremy!" - esclamò Clowance, esibendosi in una giravolta.
"Se
diventiamo ricchi come i pirati e abbiamo tesori da nascondere,
questo posto sarà perfetto!".
Santo
cielo, ancora con questa storia dei pirati!? I suoi figli erano
davvero fissati con quelle poco raccomandabili persone! Ma avevano
ragione, se dovevano nascondere delle provviste o rifugiarsi davanti
a un pericolo, quel posto sarebbe stato perfetto!
"Ti
piace, mamma?" - chiese Jeremy abbracciando lei e il pancione.
Demelza
gli accarezzò i capelli pensando che sì, quel
posto gli piaceva e
valeva la pena essere arrivata fin lì nonostante pancione e
fatica.
"Tanto e vorrei restare quì. Ma abbiamo molto da fare, non
ricordi? Come cuoceremo il tuo pesce di stasera se non troviamo della
legna da ardere?".
Jeremy
le fece la linguaccia, ridendo. "Vero! Abbiamo da lavorare. Ma
prima volevamo davvero fartela vedere, la grotta delle fate".
Demelza
osservò i riflessi dell'acqua sulla roccia. "Grotta delle
fate... Che nome perfetto per questo posto...".
Clowance
sorrise. "Già!".
I
bambini la aiutarono ad uscire, oltrepassando nuovamente la cascata
ed uscendone bagnati come pulcini, dalla testa ai piedi. Ma non
importava, in quel mondo nuovo non c'era spazio per l'apparenza ed
essere bagnati ma circondati da tanta bellezza era solo un piacere da
assaporare insieme e di cui non vergognarsi. Il sole avrebbe
asciugato i loro capelli e i loro vestiti e in cambio di un
pò
d'acqua, avevano scoperto la grotta delle fate.
Affascinata
e decisa a far suo per sempre quel modo gioioso di pensare tipico
dell'isola, Demelza cercò di ricordare la strada verso quel
luogo
mentre si allontanavano. Jeremy e Clowance ci sarebbero tornati di
certo a giocare, ma lei... Lei non sapeva ancora perché ma
qualcosa
nella sua mente le suggeriva che quella grotta nascosta sarebbe
diventata importante nel suo futuro... In che modo non lo sapeva, ma
sentiva che sarebbe stato così! Poi, tornati sul sentiero,
osservò
con orgoglio i suoi figli ancora piccoli che avevano imparato a
prendersi cura di lei in silenzio, che si erano abituati a quella
nuova vita senza piangere l'assenza di un padre, ad essere forti e
soprattutto, che avevano fatto già loro quel nuovo mondo e
modo di
vivere. Era fiera dei suoi bambini, i suoi due gioielli preziosi. E
silenziosamente, mentre raccoglievano ramoscelli e ciocchi di alberi
spezzati, ringraziò Dio per averglieli dati. Jeremy e
Clowance erano
la sua ragione di vita, la sua spinta per andare avanti e tentare di
vivere ancora... E avrebbe fatto ogni cosa per loro e il loro bene,
sempre!
Con
loro raccolse parecchia legna, la raccolse fino al limite massimo che
con il suo pancione poteva trasportare. E lo stesso fecero Jeremy e
Clowance che le trotterellavano vicino chiacchierando ed osservando
gli animali che, in aria o striscianti in terra, incrociavano il loro
cammino.
Sarebbe
stata una passeggiata perfetta se non fosse stato per un urlo e un
pianto che, improvvisamente, spezzarono la quiete della foresta nel
primo mattino.
Demelza
si bloccò cercando di capire da dove arrivassero quei
rumori, ma
Jeremy fu più veloce di lei e come un segugio corse verso il
sentiero principale dove di solito passavano carri da e per il porto
carichi di merci o mogano che i grandi signori dell'isola spedivano
nel vecchio continente dopo aver spremuto spesso fino alla morte i
propri schiavi.
Demelza
difficilmente si addentrava nella foresta da quel sentiero che,
benché più comodo e ampio da percorrere,
l'avrebbe spesso messa in
contatto con quei mercanti di vita e morte. Cercò di fermare
Jeremy
ma quando anche Clowance si lanciò dietro al fratello, non
poté
fare altro che seguirli.
Quando
li raggiunse, i bambini erano a ridosso della strada principale che,
benché sterrata e dall'aspetto selvaggio, era la via di
comunicazione più sviluppata dell'isola.
Un
grosso carro pieno di tronchi si era impantanato nel terreno con una
delle ruote posteriori e tre poveri schiavi di colore, due uomini e
una donna, si dannavano per liberarlo da quella stretta mentre un
altro uomo, dai capelli neri come la pece, sguardo distinto ma feroce
e abiti eleganti, con una frusta in mano li incitava a suon di
cinghiate a lavorare più celermente.
Demelza
sentì i suoi bambini sussultare e il suo sangue congelarsi
nelle
vene. Aveva già visto schiavi in quell'isola, in catene e
con lo
sguardo basso, ma anche se era riuscita ad immaginare la misera delle
loro vite, mai aveva assistito a qualcosa del genere. O forse
sì,
tanti anni prima, quando era suo padre ad usare la cinghia con lei...
E la cinghia faceva male, lo ricordava bene, e questo la rendeva la
più vicina di tutti gli altri ai patimenti di quella
ragazza.
Osservò i due uomini, alti e muscolosi, che resistevano
senza
lamenti a quei trattamenti disumani e poi lei, una ragazza dai
capelli neri e corti, ricci come trucioli di legno, esile,
giovanissima e coperta di sangue che le colava dalle braccia a causa
delle percosse ricevute. Era sfinita, sembrava sul punto di svenire e
il suo padrone non faceva che percuoterla con la cinghia...
A
un certo punto Clowance urlò forte e l'uomo dai capelli neri
si
fermò di colpo, rendendosi conto di essere osservato.
Guardò i tre
nuovi arrivati, piegò la cinghia fra le mani e poi, con fare
elegante, come se nulla fosse si avvicinò loro. "Buongiorno.
Spero che questa visione di tre sfaticati che non sanno lavorare, non
abbia turbato la vostra passeggiata" – mormorò,
esibendosi in
un inchino.
Aveva
un fisico minuto ma ogni suo muscolo pareva esprimere ferocia e
cattiveria, dietro ai suoi modi eleganti. A pelle, Demelza
sentì che
lo detestava, anche se non ne conosceva nemmeno il nome. "Non
è
stato questo a far urlare mia figlia. E' stata la vostra cinghia e le
ferite a quella ragazza".
"Ohhh".
L'uomo si voltò verso la schiava e poi di nuovo verso
Clowance,
esibendosi in un ghigno forzato. "Ma piccolina, non
preoccuparti. Lo faccio per farla lavorare, si fa così".
"No,
non si dovrebbe fare così!" - lo interruppe Demelza,
fregandosene del fatto che doveva usare le buone maniere. "Frustare
una donna è un atto vile, soprattutto quando è
indifesa". Al
diavolo, poteva anche offendersi quel tizio, ma non aveva decisamente
voglia di stare zitta.
L'uomo
parve ignorare quanto dettogli. Si lisciò i baffetti,
sorrise
nuovamente e poi lanciò uno sguardo ai suoi schiavi. "Non
fraintendetemi signora, io sono un gentiluomo e faccio ciò
che
faccio perché devo. Ma sono una persona generosa e
quest'isola e chi
ci vive, deve ringraziarmi per quel che ha. Ho dato commercio e un
futuro a questo posto dimenticato da Dio e per fare grandi cose,
c'è
sempre un piccolo prezzo da pagare".
Demelza
sostenne lo sguardo dell'uomo, per nulla colpita da quelle parole
melliflue. "Un gentiluomo non frusta una ragazza indifesa"
– ribadì.
Era
una strana guerra di nervi la loro e a quell'uomo sembrava piacere.
"Voi sapete cavalcare, mia signora?".
"Certo".
"E
non usate, talvolta, il frustino col vostro cavallo? Per farlo andare
veloce, ovviamente, non per diletto...".
Demelza
deglutì. "Capita, sì. Ma lo faccio con
l'intenzione di non
ferire l'animale e di non fargli del male".
"Quindi,
lo fate per ottenere migliori risultati".
"Sì"
– rispose lei, incerta, rendendosi conto che si trovava
davanti una
persona feroce ma non stupida. La stava mettendo in un vicolo cieco e
se tanto le dava tanto, presto non avrebbe più saputo come
rispondergli.
"Io
faccio altrettanto".
Jeremy
osservò la povera ragazza frustata che gli altri due schiavi
avevano
aiutato a rialzarsi. "Ma lei mica è un cavallo, è
una donna!".
L'uomo
scosse la testa. "Lei è una schiava, un animale. E la tratto
da
tale, ci vuole forza e vigore per far ubbidire gli animali,
esattamente come fa tua madre coi cavalli. Come vedi, io sono un
gentiluomo e tua madre una gentildonna e agiamo allo stesso modo. Con
gentilezza coi nostri simili, con vigore con chi dobbiamo dominare".
Demelza
strinse i pugni mentre Jeremy la guardava, confuso. Non si sarebbe
fatta ingannare dai giochetti di parole di quello schiavista, lei NON
era come lui. Strinse a se Clowance e prese per mano Jeremy, non
togliendo gli occhi di dosso dal viso di quell'uomo odioso. "Io
non sono come voi".
"Vi
ritenete migliore? Chi siete? Non vi ho mai visto in giro prima...".
"Il
nome di mia madre non è affar vostro!" - ribatté
Jeremy, prima
che lei potesse parlare, mettendosi in modo protettivo fra loro.
Demelza
lo scostò, non voleva che si inimicasse quell'uomo che di
certo era
potente e soprattutto non voleva che Jeremy si sentisse responsabile
della sua protezione al posto di Ross. "Non mi ritengo migliore
di nessuno ma faccio del mio meglio per vivere onestamente, senza
nuocere agli altri. Vivo quì da pochi mesi e in un posto
isolato,
per questo non mi conoscete. E mi piace, mi evita spiacevoli
incontri".
L'uomo
la guardò, sornione. "Avete la lingua lunga ed affilata, mia
affascinante lady. Peccato che abbiate scelto una vita appartata,
sareste un bel peperino al villaggio" – disse, leccandosi le
labbra con la lingua in un gesto vagamente volgare. "Vostro
marito? Non vi aiuta con la legna? In quello stato non dovreste fare
sforzi".
"Non
ho marito, sono sola!" - rispose, tagliando corto.
L'uomo
sospirò. "Sola, con la lingua lunga e tagliente, incinta e
con
un pesante carico da portare. E con la supponenza di volermi
insegnare a vivere. Ma io, come vi dicevo prima, sono un gentiluomo e
non posso permettere che una donna fatichi senza aiutarla".
"Non
ho bisogno del vostro aiuto".
"Ma
io non posso esimermi dal darvelo".
"Lasciate
stare!".
L'uomo
scosse la testa. "Perché portate quella legna? E' pesante,
non
avete schiavi che possano aiutarvi? Quì tutti ne hanno,
almeno uno".
Demelza
si rabbuiò. Quell'uomo voleva provocarla e lei non aveva
voglia di
proseguire quell'assurda discussione con lui. L'unica cosa positiva
era che, parlando con lei, aveva dato modo ai suoi schiavi di
riprendere fiato ed essere lasciati in pace. "Ovviamente non ho
schiavi e nemmeno ne voglio".
"Quì
funziona così" – insistette l'uomo.
"Ho
dei princìpi e una coscienza!" - ribatté lei. "E
sono
perfettamente in grado di rimboccarmi le maniche".
Gli
occhi dell'uomo si assottigliarono e come se lei gli avesse appena
lanciato una sfida, fu subito pronto a ribattere. La
osservò,
soffermandosi come affamato sulle sue curve ancora più
evidenti a
causa del vestito bagnato, poi tornò a fissarla in viso.
"No,
non è coscienza, vi sentite migliore di me. Ma non lo siete
e ora vi
dimostrerò che siamo uguali".
Demelza
rise, sarcastica. "E come?".
"Dimostrandovi
che sono un gentiluomo e che voi usate male la vostra coscienza".
Indicò la giovane schiava che aveva appena frustato,
brandendo la
cinghia. "Lei non ha saputo lavorare, oggi. E' una mia schiava,
ho tutto il diritto di punirla se mi va, per questo. Ho diritto di
vita e di morte su di lei e per quanto non è riuscita a fare
oggi,
io posso andare a casa, portarla in giardino, legarla a un albero e
frustarla fino alla morte. E nessuno mi direbbe nulla, si fa
così
con gli schiavi inutili".
Il
sangue le si gelò nelle vene, era un uomo che lo avrebbe
potuto fare
senza problemi. Sentì i bambini tremare accanto a lei e
guardando
quella schiava provò un'infinita pena per lei
perché di fatto, non
poteva aiutarla. "E' solo una ragazza, forse non ha nemmeno
vent'anni".
L'uomo
annuì e nel suo modo di fare era impossibile leggerne i
pensieri e
il fine per cui stava portando avanti quella discussione con lei.
"Vero. Solo una ragazza... Inutile per me! Ve la regalo" –
disse infine, con un ghigno, prendendola di sorpresa.
Demelza
spalancò gli occhi. "Cosa?".
"Ve
la regalo" – ripeté l'uomo.
Demelza
strinse i pugni. "E' una persona, non un oggetto".
"E'
una schiava e questo fa di lei una mia proprietà e un
oggetto. E
voglio regalarla a voi che di schiavi non ne avete e ne necessitate".
"Io
non voglio una schiava!" - gridò quasi, sentendosi
però in
trappola e capendo troppo tardi il gioco di quell'uomo.
L'uomo
allargò le braccia. "Il mio dovere di gentiluomo verso di
voi e
quella povera schiava l'ho fatto ma la vostra coscienza vi impedisce
di accettare il mio gentile dono. Come volete, tornerò a
casa coi
miei schiavi e il mio carro e poi la cara dolce negretta
andrà
incontro al suo destino. Poteva essere vostra e lavorare per voi ma
il vostro animo che volete mantenere candido, vi impone di lasciarla
alla mia frusta. Chi è meglio, io che eseguo i miei doveri o
voi che
per principio non salvate una povera schiavetta".
Jeremy
e Clowance la guardarono con occhi sbarrati, come in attesa di una
soluzione a quella situazione assurda. E lei si sentì
sprofondare...
Santo cielo, e ora? Che doveva fare? Accettare, macchiare la sua
coscienza per sempre e prendere una schiava che l'avrebbe resa in
tutto e per tutto simile a quell'uomo, o no? Lottare perché
venissero rispettati dei diritti? Non aveva senso, avrebbe perso
quella lotta e nessuno avrebbe né protetto né
pianto la morte di
quella schiava... Era tutto in mano sua, ora. E quell'uomo, di
proposito, per diletto e divertimento, l'aveva portata a quel punto
per distruggere ogni sua certezza o credo. A lui di quella schiava
non importava nulla, così come non gli importava di lei che,
incinta, portava legna fra le braccia. Voleva solo corrompere, per il
semplice gusto di farlo, la sua anima. E purtroppo ci stava
riuscendo...
Le
venne in mente Padre Colin e quanto le aveva detto quando era
arrivata su quell'isola. Princìpi, coscienza, certezze...
Tutto
doveva essere messo da parte, zittito per un bene superiore. Quel
giorno non aveva capito cosa volesse dire, ma ora lo comprendeva
appieno. La sua anima sarebbe stata corrotta ma lo sarebbe stata
anche nel caso avesse detto no e avesse proseguito il suo cammino
verso casa coi suoi figli, da soli. L'avrebbe avuta sulla coscienza
quella ragazza che poteva salvare e quell'uomo sapeva che l'avrebbe
fatta sentire così, senza possibilità di scelta.
Era una persona
subdola ma intelligente, che sapeva manovrare le persone e aggirare
ogni resistenza nel suo interlocutore. L'aveva messa in un vicolo
cieco e qualsiasi strada ora lei avesse preso, sarebbe stata senza
ritorno. "Chi siete?" - chiese infine, con un filo di voce,
prima di decidere.
L'uomo
si esibì in un inchino. "Vincent Copper, uno dei grandi
signori
dell'isola".
Demelza
spalancò gli occhi, mentre nella sua mente appariva
l'immagine di
una strana ragazzina incontrata sul pontile di una nave quasi tre
mesi prima. Eccolo, era lui l'uomo più potente della
Jamaica. E
l'aveva appena messa in trappola come fa un gatto col topo.
Guardò
la ragazza di colore che, con occhi sgranati, la guardava come se lei
fosse stata la sua ultima speranza.
E
decise...
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Capitolo 12 *** Capitolo dodici ***
Nessuno,
NESSUNO era mai riuscito a costringerla a fare qualcosa contro il suo
volere. Non ci era riuscito suo padre quando, da bambina, cercava di
sottometterla al suo volere a suon di cinghiate, non ci era riuscito
George Warleggan quando aveva tentato di allungare i suoi tentacoli
su Nampara e la sua famiglia ed era stata capace anche di dire addio
al suo amore, a Ross, pur di rimanere fedele a se stessa.
Ma
in quel momento, guardando Copper, quella sua sicurezza
vacillò.
Avrebbe potuto voltare le spalle a quell'essere, andarsene per la sua
strada e rimanere fedele a ciò in cui credeva. Nessuno le
avrebbe
rimproverato nulla, il destino di quella ragazza di colore dopo tutto
non era affar suo e poteva anche raccontarsi che non era nata per
salvare il mondo e nemmeno ne aveva i mezzi e le capacità.
Tutte
ottime scuse ma, appunto, scuse. La sua coscienza l'avrebbe
tormentata per sempre se se ne fosse andata così, senza
cedere e
senza lasciar scampo a quella povera sventurata. Avrebbe anche potuto
vivere raccontandosi che Copper stava bleffando, che di certo non
avrebbe ucciso una ragazza indifesa e che le sue erano solo vaghe
minacce per intimorirla, ma anche queste sarebbero state bugie. Lo
guardò negli occhi e vi vide furore e cattivera, quella
cattiveria
che arma senza problemi la mano di un uomo contro chi non
può
difendersi.
Improvvisamente
si sentì stanca e anche il pancione parve diventare
terribilmente
pesante e foriero di fitte dolorose.
Jeremy
la tirò per il vestito. "Mamma?!".
Demelza
guardò la ragazza che non le aveva tolto gli occhi di dosso
e decise
che, qualunque fosse il motivo per cui la 'prendeva', non sarebbe mai
stato per farne una schiava. Copper poteva credere ciò che
voleva ma
se davvero voleva farle quel dono, ciò che ne sarebbe stato
di
quella ragazza non sarebbe più stato affar suo. "Accetto"
– disse quindi, gelida, rendendosi conto che sarebbe stata la
prima
di una lunga serie di prove che avrebbero messo a disagio la sua
anima e il suo credo. Mai avrebbe creduto di accettare in dono una
schiava, Ross ne sarebbe stato inorridito, ma che poteva fare? La
legge di quell'isola era crudele e selvaggia e lei doveva imparare ad
interpretarla al meglio. In fondo anche la Cornovaglia era una terra
selvaggia e di difficile esistenza, con leggi dure che piegavano gli
uomini che vi vivevano e spesso anche lì si doveva arrivare
a dei
compromessi. Osservò la giovane schiava e si accorse che,
prendendola, stava di fatto facendo la stessa cosa che aveva fatto
con lei Ross tanti anni prima. L'aveva presa con se come domestica
quando di fatto non ne aveva poi così bisogno e di certo non
aveva
quasi mezzi di sussistenza nemmeno per se stesso. L'aveva presa
contro il volere di suo padre, della famiglia Poldark e di tutta la
gente benpensante del luogo. Ma lo aveva fatto per salvarla e lei
stava facendo altrettanto per quella ragazza spaventata e coperta di
piaghe sulla schiena, come era stata lei tanti anni prima.
Copper
poteva anche gongolare pensando di averla messa con le spalle al muro
ma quel pensiero di ciò che era stato la fece sentire di
nuovo forte
e sicura di aver fatto la scelta giusta.
L'uomo
sorrise, gelido. E soddisfatto. "Quindi, miss altezzosità si
abbassa ai bisogni dei comuni mortali di avere degli schiavi come
aiuto? Vi facevo più combattiva nei vostri
princìpi ma ovviamente
come tutti, quando si riceve in regalo qualcosa, lo si prende senza
filosofeggiarci troppo su".
Stava
cercando di farla sentire in colpa ma non ci sarebbe riuscito. "Un
dono è un dono e sarebbe scortese rifiutarlo. E inoltre
l'idea di
salvare qualcuno mi farà dormire sonni più
sereni. Come a voi del
resto, che non vi addormenterete con una povera ragazza sulla
coscienza".
"I
miei sonni sono dorati come quelli di un pupo" –
ribatté lui,
sprezzante.
"Ne
sono certa".
I
loro sguardi si incontrarono e fecero scintille. Poi Copper prese la
ragazza per il braccio e con forza la spinse verso di lei. "E'
vostra. La VOSTRA schiava. Fatela lavorare e usate la verga, se
necessario. E' uno strumento utile con quelle come lei".
La
ragazza cadde e Jeremy e Clowance corsero ad aiutarla a rialzarsi.
Copper li osservò con disgusto, scuotendo la testa. "Se mia
figlia facesse una cosa simile, la verga la userei su di lei".
Demelza
osservò i suoi figli con orgoglio. "Per fortuna non siamo
parenti" – rispose, sprezzante.
Copper
si leccò le labbra, quasi come fosse attratto da tanta
sfacciataggine. "Mi piacciono le donne con la lingua lunga. Mi
auguro che sappiate usarla tanto bene anche in altre faccende, la
vostra lingua... Sarebbe davvero interessante".
Jeremy
sussultò a quella mancanza di rispetto verso sua madre ma
Demelza lo
bloccò prima che potesse fare alcunché. "Un
gentiluomo, avete
detto? Non mi pare un commento che vi qualifichi come tale".
Copper
non si fece provocare. "Come vi chiamate? Vi ho regalato una
schiava, merito almeno di conoscere il vostro nome e mi pare vi siate
dimenticata di dirmelo".
"Il
mio nome non è affar vostro".
Copper
si picchiettò il frustino sui pantaloni, spazientito. Poi si
avvicinò all'altro schiavo, urlandogli di riprendere il
cammino.
Poi, dopo aver fatto ciò, si voltò nuovamente
verso Demelza. "E'
un'isola piccola, in fondo. Non sono tipo da insistere ma tanto ci
ricontreremo, mia lady. E prima o poi scoprirò anche il
vostro
misterioso nome". E detto questo, dopo che lo schiavo ebbe
liberato la ruota del carro, si avviò con lui verso il cuore
della
foresta tropicale che in un attimo li inghiottì al suo
interno.
Guardandolo
andar via, Demelza si morse il labbro riflettendo su quanto
quell'uomo le risultasse indigesto. Sembrava crudele e assolutamente
orgoglioso di esserlo e non pareva avere alcun interesse a mostrarsi
meglio di ciò che era. In un certo senso, persino George
Warleggan
pareva una brava persona a confronto di Vincent Copper. Le venne in
mente la piccola Lilith, conosciuta sulla nave, il suo strano
racconto sulla morte della madre e si chiese che tipo di vita
potesse fare una bambina con un padre del genere. Non che Lilith
brillasse per simpatia e anzi, sembrava piuttosto viziata ed
arrogante, ma ciò non toglieva il fatto che era una bambina
bisognosa di una guida e al momento non aveva nessuno in grado di
ricoprire quel ruolo.
Scosse
la testa, non erano affari suoi e aveva di contro fin troppi problemi
da affrontare senza pensare anche a quelli degli altri.
Si
avvicinò a Jeremy e Clowance che avevano aiutato la ragazza
a
rialzarsi e poi le sorrise. "Vieni con noi, ti porteremo a casa
e potrò medicare le ferite che hai sulla schiena. So quanto
possano
far male le frustate e le piaghe...". Lo disse con una punta di
amarezza, ricordando quel dolore lancinante che lei stessa aveva
provato da bambina più e più volte, un dolore che
la sua mente non
aveva mai cancellato.
La
ragazza la guardò con timore, come in attesa di capire in
che mani
fosse capitata. Era normale, era una schiava e di fatto nella sua
mente stava semplicemente passando da un padrone ad un'altro e non
era detto che questo si sarebbe tradotto in un miglioramento. "Non
serve medicare" – disse, sotto voce, quasi avesse timore di
dar fastidio.
"Io
direi di sì" – rispose Demelza.
"Anche
io" - ribadì Clowance, osservando la sua schiena martoriata.
"N...
No, no grazie" – rispose ancora la giovane.
Jeremy
osservò sua madre un pò perplesso e Demelza
capì che doveva
cercare di tranquillizzare quella ragazza sulle sue paure che
comprendeva benissimo. "Tu non sei la mia schiava, sei una
ragazza che ha bisogno di qualche cura e di aiuto. Ti
medicherò e
poi sarai libera di andare dove vorrai, non mi appartieni".
"Io
non posso comprare la mia libertà, mia signora".
Era
difficile risponderle perché Demelza in quel momento,
attraverso gli
occhi spaventati di quella giovane, si rese conto che non conosceva
bene le regole della Jamaica circa quell'aspetto della
società. Ma
di certo era ben consapevole di cosa volesse o non volesse. "La
tua libertà, è appunto tua. Di diritto. Non devi
comprartela".
La
ragazza però, più che confortata, parve
spaventata da quelle
parole. "No, quì non è così. No
signora, voi sembrate
gentile, tenetevi con voi e lavorerò. Tanto! Io sono una
schiava,
non posso essere libera e se mi mandate via, Copper mi
riprenderà.
Sono vostra, tenetevi vostra".
Le
si aggrappò al vestito, disperata, facendola sussultare
insieme a
Jeremy e Clowance. Santo cielo, era tutto così difficile!
Quella
ragazza non voleva una libertà che le spettava di diritto,
non
voleva essere libera e non ne era in grado in quella terra. E ne era
drammaticamente consapevole. E in quel momento lo divenne anche
Demelza. Si sentì stupida per la sua ingenuità,
per il modo
semplicistico in cui credeva di risolvere la cosa e per come Copper
forse stesse ridendo di lei in quel momento, per questo. Era entrata
sua malgrado in una vita e un gioco perverso e pericoloso e se aveva
scelto di ricevere in dono quella ragazza, ora doveva accettarne le
conseguenze. Decise, di nuovo, andando contro se stessa
perché si
rese conto che non c'era altro da fare. "Il termine schiava non
mi piace. Averti con noi, avere il tuo aiuto nella vita di tutti i
giorni mi farebbe piacere e anche se non abbiamo molto, saremmo
felici di dividerlo con te. Ma non voglio che ti consideri mia
schiava e non voglio che consideri me la tua padrona. Saremo donne
che si aiutano nella vita di tutti i giorni e se su questo sei
d'accordo, sarai la benvenuta. Ma se resti con noi, non credi che
dovresti dirmi il tuo nome?".
La
ragazza spalancò gli occhi. "Davvero mi terreste con voi? Ad
aiutarvi?".
Demelza
annuì. "Davvero. Come ti chiami?".
Lei
abbassò il capo. "Maria. Perché volete saperlo?".
Sorrise.
"Beh, per sapere come chiamarti".
Clowance
e Jeremy ridacchiarono e la ragazza si affrettò a spiegare.
"Mister
Copper non ci ha mai chiesto il nostro nome. Urlava se aveva bisogno
di noi, tutto quì".
Demelza
le strizzò l'occhio. "Beh, io non sono mister Copper e ne
sono
orgogliosa. E mi piace chiamare le persone per nome".
"Persone?
Io sono una persona?".
Demelza
le prese la mano. "Direi di sì. E ora sù,
andiamo. La nostra
casa è sulla spiaggia e lì potremo curare le tue
ferite".
E
mentre Jeremy e Clowance prendevano la porzione di legna che avevano
da portare a casa, Demelza condusse per mano la ragazza verso la
spiaggia e, sperava, verso una vita un pò migliore. Non
poteva
regalarle la liberà ma quanto meno una esistenza dignitosa.
"Davvero
potrò lavorare per voi?" - chiese ancora Maria, quasi con
timore.
"Davvero,
se lo desideri. Ho una domestica, potrai aiutarmi a tenere pulita la
nostra casa, a cucinare, a preparare le conserve da vendere al porto
e ho bisogno di un aiuto nella gestione dei bambini. Presto ne
avrò
un altro" – disse, toccandosi il ventre. "Te la senti?".
La
ragazza annuì, quasi incredula. "Tutto quì?".
"Tutto
quì".
Lei
sorrise, come se non sentisse il bruciore delle ferite sulla schiena.
"Quanti
anni hai, Maria?".
"Diciannove".
Diciannove,
era solo una giovane ragazza con tutta la vita davanti. E Demelza si
sentì di dovergliela garantire.
"E
voi? Voi come... vi chiamate?" - chiese Maria, quasi con timore
e paura di aver chiesto qualcosa di non lecito.
"Io
sono Demelza e loro sono Jeremy e Clowance. E siamo felici di averti
con noi" – rispose con un sorriso.
...
Prudie
aveva accolto la giovane Maria nello stesso identico modo in cui
aveva accolto lei, a Nampara, tanti anni prima: zero entusiasmo,
borbottìì continui e malnascosti sul fatto che
no, non si poteva
raccogliere ogni orfanello o negretto bisognoso dell'isola, che non
era corretto, appropriato e giusto e che sarebbero morti di fame e
sete con un'altra bocca da sfamare.
Maria
si era dimostrata intimorita da lei ma Demelza, ridacchiando, con lo
sguardo l'aveva rassicurata e poi aveva rassicurato Prudie sul fatto
che ora avrebbe avuto un aiuto nelle sue mansioni e alla fine la
donna si era calmata e aveva valutato il nuovo arrivo sotto un'altra
luce. Kitty e Cecily invece avevano accolto la ragazza con dolcezza e
soprattutto Kitty, dopo aver medicato la schiena di Maria con delle
erbe curative e una lozione che aveva in casa, aveva guardato Demelza
con ammirazione per quanto aveva fatto. Demelza aveva temuto che la
biasimasse per aver preso una schiava con se ma la moglie di Ned,
senza che lei spiegasse nulla, aveva ben compreso cosa l'aveva mossa
a compiere quel gesto e ne sembrò fiera.
Dopo
averla medicata e averle dato degli abiti meno miseri di quelli
stracciati e logori che indossava con Copper, Demelza la
obbligò a
riposare in casa, sul ciaciglio accanto a Prudie o nel suo, ma Maria
fu irremovibile e supplicò di poter dormire fuori, sul
portico. Era
convita fosse questo il suo posto, non in casa, non voleva
assolutamente dividere lo spazio con coloro che, nonostante le sue
rassicurazioni, lei considerava i suoi padroni e persone superiori a
lei. Demelza provò ad argomentare ma la ragazza su quel
punto rimase
irremovibile e alla fine quindi dovette cedere. Le mise una coperta
sulle spalle, le diede un cuscino e alla fine la lasciò
riposare,
imponendo ai bambini di andare con Cecily al villaggio per delle
spese e mandando Prudie nella capanna di Kitty per aiutarla col
piccolo James.
Lei
si mise accanto a Maria, seduta sul portico, ad osservare i colori
del mare del pomeriggio, cullata da una strana pace che strideva con
quanto vissuto quella mattina con Copper. Osservò quella
ragazza
alta ma minuta, dalla pelle scura e dai capelli corti e neri, ricci e
probabilmente ribelli. Era graziosa e sembrava indifesa... Demelza si
chiese quale fosse la sua storia, da dove venisse, com'era il mondo
in cui era nata e cosa o chi l'avesse portata nelle grinfie di Copper
in Jamaica. Forse, si chiese, anche lei sentiva nostalgia di casa,
forse anche lei desiderava rivedere la sua famiglia e forse anche lei
aveva conosciuto mondi totalmente diversi da quello in cui si erano
incontrate.
Rimase
in silenzio accanto a lei a lungo, in un pomeriggio che si tingeva di
rosa. Dalla baracca di Kitty non giungevano suoni e forse il piccolo
James finalmente si era addormentato dando sollievo a sua madre, i
bambini sarebbero tornati più tardi, giusto in tempo per
prendere
parte al barbecue di pesce e Maria sembrava più serena, nel
suo
sonno.
Improvvisamente
sentì di nuovo, nel silenzio della spiaggia, il canto degli
schiavi
che proveniva dalla foresta. Aveva imparato a riconoscerlo, a
canticchiarlo e anche se non ne capiva le parole, in un certo senso a
sentirlo famigliare.
Cercò
di unirsi al canto, sotto voce, cercando di riprodurre quella lingua
sconosciuta e a quel punto la voce sottile di Maria la raggiunse,
timidamente. "Non conoscete bene la nostra lingua, signora".
Demelza
sussultò presa alla sprovvista e poi arrossì.
"Non la conosco
per niente. E scusa, non volevo svegliarti".
"Ho
dormito anche troppo e dovrei aiutarvi nelle vostre faccende".
Demelza
le sorrise. "Non c'è nulla da fare al momento ma
più tardi, se
vuoi, puoi aiutarci ad accendere la brace per cuocere la cena di
stasera. Al momento però, ti andrebbe di fare una
passeggiata con me
sulla spiaggia?" - propose, desiderosa di sgranchire le gambe.
"Certo".
La ragazza si alzò, un pò dolorante ma
decisamente più in forze di
quanto fosse stata quella mattina.
Demelza
la prese sotto braccio, lei alle prese con un pancione ingombrante e
Maria con una schiena che ancora doveva guarire. "Senti, è
da
quando sono arrivata quì che me lo chiedo. Cosa cantano gli
schiavi?
Li sento ogni pomeriggio e la loro voce è così
bella, anche se il
senso del loro canto non lo capisco".
Maria
si voltò verso la foresta, pensierosa. "Cantano la nostra
terra
nativa e la bellezza della savana".
"Savana?".
Maria
annuì. "La nostra bellissima Africa... Coi suoi animali,
magnifici e feroci come la terra che li ha visti nascere. La savana
è
una distesa di terra rossa infinita, con pochi alberi che offrono
riparo ed ombra dal sole e se la guardi noti l'infinito, la dura
lotta della natura, giraffe, zebre, leoni, leopardi che si sfidano,
combattono, soccombono o vincono. E tutti, vincitori e vinti, sono
ugualmente belli e fieri. E poi ancora più in fondo, il
Kilimangiaro, la nostra montagna sacra, altissima, con le nubi che ne
coprono la cima e sopra esse, la neve a volte. Il Kilimiangiaro che
domina su tutti noi, ci guarda, ci protegge e ci scruta come un padre
di famiglia".
Demelza
rimase a bocca aperta nel sentirla parlare. C'era tanta nostalgia
nella voce di Maria e soprattutto un amore infinito per la sua terra
e le meraviglie che in essa vivevano, prosperavano o morivano. In
realtà non conosceva nulla del mondo, molto poco eccetto la
Cornovaglia, Londra o la Jamaica e non sapeva che animali fossero
quelli citati da Maria e nemmeno aveva mai sentito parlare di questa
montagna dal nome tanto strano. Eppure quel racconto le fece venire
un brivido piacevole, una strana voglia di viaggiare, vedere,
scoprire il mondo... Lei probabilmente non lo avrebbe fatto ma
pregò
che i suoi figli ne avessero l'opportunità un giorno. "Spero
che potrai tornarci, prima o poi...".
Maria
si rabbuiò. "Non credo. Ormai appartengo a questa terra, mi
hanno comprata e la mia vita non è più mia".
"Sì
che lo è!" - insistette Demelza. "E se sarà in
mio potere
aiutarti, vorrei poterlo fare. La nostalgia per la propria terra io
la conosco bene" -ammise, amaramente.
Maria
la guardò incuriosita ma non osò chiedere. E
allora si soffermò
sul pancione della sua padrona, guardandolo con dolcezza. "La
vostra pancia è bassa, le donne del mio villaggio dicono che
quando
una pancia è così bassa, manca poco al parto".
Sospirò.
"Già, molto poco. Fra poche settimane dovrei partorire".
"I
nostri dei dicono che i bambini sono un dono del cielo".
Demelza
sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Avrebbe voluto avere la
stessa
visione romantica di Maria, circa quella bambina... "Più che
un
dono dal cielo, è un gentile dono di mio marito prima che mi
lasciasse per un'altra" – disse, ironicamente e freddamente.
Maria
non replicò, non era abituata a dare giudizi e di certo non
lo
avrebbe fatto con lei che considerava la sua padrona. "Un
bambino è un bambino. Un dono. Se la pensate
così, forse sarà meno
dura, signora".
Fosse
facile... Demelza calciò un sassolino col piede e poi
osservò la
ragazza. "Ecco, mi piacerebbe che mi aiutassi con questa bambina
che nascerà. Vorrei che fossi la sua bambinaia! Prudie ha
già
Clowance e Jeremy a cui badare e una neonata sarebbe troppo per lei".
Maria
annuì senza discutere. "Lo farò, signora".
"Anche
eventualmente al mio posto?".
Maria
la guardò un pò titubante, forse incerta sul
significato di quelle
parole. "Se lo volete, sì".
"Grazie!"
- le rispose solo, grata per averla trovata e con lei, aver trovato
una buona soluzione per Isabella-Rose.
Camminarono
sul bagnasciuga, con l'acqua calda che accarezzava le loro caviglie.
E improvvisamente, fra la sabbia sulla riva, scorsero qualcosa che
luccicava, coperto da dei pezzi di legno e delle alghe.
"Cos'è?"
- chiese Maria.
Demelza,
incuriosita, lasciò il suo braccio e si avvicinò.
A fatica si
inginocchiò e dopo aver spostato della sabbia, la sua mano
sfiorò
una elaborata e dorata elsa. "Una spada?" - mormorò,
dissotterrandola.
Maria
si inginocchiò accanto a lei, curiosa. "E' un'arma.
Sarà
arrivata fin quì da chissà dove, magari
è caduta da qualche nave
pirata dopo una battaglia".
Demelza
prese la spada in mano, tremante. Non aveva mai amato le armi e anche
se Ross aveva un'arma simile su una parete del suo studio, non si era
mai soffermata troppo a guardarla per timore e diffidenza. Nemmeno
Ross ne sembrava attratto e a Nampara non era mai stata altro che un
ornamento e un ricordo che suo marito aveva tenuto in memoria di suo
padre Joshua, ma ora...
Ora
tenendola in mano, mentre si specchiava nella lucentezza della lama e
nella maestosità dell'elsa, si sentì forte. Le
armi forse davano
quel potere e lei ne aveva bisogno, anche se si trattava davvero, con
tutta probabilità, di un'arma appartenuta ai pirati... Era
un'arma
raffinata, doveva valere molto denaro e di certo non era un normale
pugnale da quattro soldi e chi l'aveva smarrita, doveva essersi
disperato parecchio. Ed ora, avendola trovata, era sua...
Avrebbe
potuto sotterrarla, rigettarla in mare... Lo avrebbe fatto fino al
giorno prima ma l'incontro con Vincent Copper e Maria le aveva fatto
capire che doveva cambiare atteggiamento e princìpi morali
per
vivere su quell'isola. Era una donna sola, con tre bambini da
proteggere, circondata da un mondo ostile, pieno di pirati e di
persone malvage come Copper. E tenere in mano quella spada,
scoprì
quasi con timore, le procurava uno strano e perverso piacere a cui
non voleva rinunciare. Era bello sentirsi in qualche modo forte e in
quel momento, dopo tanto, si sentiva così.
"Che
ne facciamo?" - chiese Maria.
Demelza
strinse l'elsa. "La portiamo a casa" – rispose, con una
strana determinazione nel tono di voce. "La nasconderò sotto
un'asse di legno del pavimento della mia camera da letto. Non lo deve
sapere nessuno, sarà il nostro segreto".
"Sì
signora" – rispose ancora Maria, senza obiezioni.
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