Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice di Mannu (/viewuser.php?uid=32809)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 1
1.
Gambrath era un mercante solitario. Con il suo carro a due
ruote girovagava per tutte le terre vendendo le sue merci,
a volte barattandole con altre, a volte riuscendo a ottenere
in cambio metallo giallo o pietre preziose. Il suo aspetto
umano lo facilitava con la maggioranza delle popolazioni:
suoi clienti fissi erano il popolo Minuto, sempre bisognosi
di nuove sementi, innesti per i loro alberi da frutto e di
metallo nero per gli attrezzi. Commerciava volentieri anche
con i furbi candriani, con i quali era sempre un piacere
concludere affari quasi sempre profittevoli per
entrambi. Mentre i rehn, avari acquirenti di ogni genere
di bene che lui riuscisse a trasportare, erano i più
difficili. Poi, ma meno frequentemente, aveva occasione di
barattare con i nolga: le loro lunatiche cavalcature
rappresentavano un pericolo costante anche per il loro stesso
cavaliere e più di una volta erano riuscite a spaventare
a morte Oslob, il bue grigio dalle lunghe corna ritorte
che trainava il carro di Gambrath, accompagnandolo in
ogni suo viaggio.
A cassetta, riparato dalla pioggia sottile da un telo reso
impermeabile dal sudiciume, Gambrath teneva saldamente le
redini del vecchio Oslob, che un passo dopo l’altro faceva
avanzare il carro semivuoto nel fango molle. Il mercante
era preoccupato: con due giorni di viaggio aveva lasciato
alle spalle una città del popolo Minuto, dove aveva
appreso della sfida che il Guardiano aveva lanciato a
Vorgo, delle migliaia di morti e feriti che c’erano stati
senza che Vorgo subisse una sconfitta. Aveva sentito della
liberazione dei berserker, e già questa come preoccupazione
bastava e avanzava. Si era informato sul luogo della
battaglia e gli era stato detto che doveva essersi svolta
a parecchie giornate di marcia dalla città, poiché nessuno
si era reso conto di niente fino a quando i messaggeri
del popolo Minuto non avevano portato la notizia della
sconfitta del Guardiano dall’una all’altra delle loro
città. La seconda più grossa preoccupazione per Gambrath
era l’inasprimento delle tasse che Vorgo, incollerito
per la rivolta, avrebbe certamente inferto alle popolazioni
ribelli che avevano osato seguire il Guardiano. Più
tasse voleva dire meno soldi in tasca; pochi soldi
in tasca voleva dire meno affari per chi come Gambrath
viveva vendendo tutto quello che gli capitava tra le
mani. L’ultima preoccupazione, ultima solo per ordine
e non per importanza, era il suo carro semivuoto:
aveva trovato poca collaborazione nella città del popolo
Minuto che aveva appena abbandonato. Aveva venduto
poco, comprato quasi niente e barattato ancora meno:
i cittadini gli erano apparsi spaventati anche se
nessuna minaccia incombeva direttamente su di loro. Aveva
chiesto se c’era qualche accampamento o guarnigione
lì nei dintorni, ma gli era stato risposto che erano
mesi che non si vedeva uno sgherro di Vorgo da
quelle parti. Ma quella gente aveva paura lo stesso
e la paura rende parsimoniosi.
Gambrath sporse la testa da sotto il telo e si
guardò intorno: il grigiore della pioggia limitava
la visibilità nella grande pianura che stava
attraversando da due giorni senza aver incontrato
anima viva, come sempre. Ma da quando aveva sentito
pronunciare la parola berserker, Gambrath dormiva
con un occhio solo e scioglieva malvolentieri il
giogo di Oslob. Tornò al coperto senza aver visto
nulla, ma si ripromise di continuare a guardarsi
intorno maledicendo la pioggia e la nebbia che gli
impedivano di vedere. Guardò sotto la cassetta
dove aveva nascosto il risultato di un baratto
che si era affrettato a concludere prima di partire:
un lungo fucile dal calcio di legno lavorato. Era
in grado di lanciare la sua palla a grandissime
distanze, almeno così gli aveva garantito il Minuto
che glielo aveva dato in cambio di un’anfora di
ottimo vino dolce, che Gambrath aveva riservato
per scambi migliori, e di un sacco con fichi
essiccati. Gambrath voleva qualcosa per difendersi
che non fosse il suo corto pugnale che non
abbandonava mai e aveva accettato suo malgrado
lo scambio, chiedendo però anche la polvere e
il metallo per produrre altre palle. Guardò
quell’ingombrante arma e si chiese se fosse in
grado di fermare un berserker.
In quel mentre Oslob volse il muso all’indietro
piegando il suo collo muscoloso e brontolò piano,
in un modo che fece trasalire Gambrath. L’unico modo
per far muggire così Oslob è la vicinanza di qualche
nolga con la sua cavalcatura, pensò Gambrath,
sporgendosi nuovamente. Invece le grida che sentì
provenire dalla pioggia, alla sua sinistra, non
erano certo quelle dei nolga o dei basran, il nome
che loro stessi usavano per le bestiacce puzzolenti
che cavalcavano.
Lo spirito bellicoso di Gambrath si disciolse come
neve al sole alla vista di tre cavalieri semiumani,
armati di lance e spade e mazze ferrate, che puntavano
dritto verso di lui: il fucile rimase nascosto sotto
il sedile e per poco le briglie di Oslob non sfuggirono
dalle tremanti mani del mercante, che non aveva mai
sfoderato il suo coltello se non per tagliarsi il
cibo.
In breve i tre furono davanti al carro: uno di
loro, un mostruoso essere dalle sembianze di una
lucertola color del fango, afferrò con una mano
dotata di quattro dita il morso del bue grigio e
fermò il carro. Gli altri due, un muscolosissimo
umano vestito di nero e un goffo ma pericoloso glohr
addomesticato, circondarono il carro stando alle
spalle del mercante terrorizzato dalle loro armi
lucide per la pioggia e per l’uso frequente.
- Cosa porti, mercante? Bada, non mentire! - abbaiò
l’uomo nero, coperto di pelli, metallo e armi.
Anche il suo cavallo era bardato con piastre di
metallo e con i trofei di guerra del suo
cavaliere.
- Eccellenza, ho molto poco… poco cibo, delle
pelli e sementi per i contadini… - balbettò
Gambrath con voce appena udibile. Si era alzato
in piedi esponendosi alla pioggia sottile e
fredda, non sapendo se tenere d’occhio il rettile
umanoide che guardava con occhio malvagio e
affamato il povero Oslob oppure i due che con
le loro corte lance avevano già sollevato il
telo che proteggeva la sua mercanzia.
- Vedremo, pidocchio! Se ci hai mentito farai
una brutta fine! - disse l’uomo. Un sibilo
dell’orribile glohr accompagnò il saettare
della sua lingua biforcuta.
I due gettarono il telo nel fango esponendo la
merce di Gambrath alla pioggia.
- Vi prego, signori! È tutto quello che ho, se
la pioggia rovina le sementi non avrò di che
vivere!
- Halle! Khuelli kame fe hanno ssemfre la horsa hiena
h’oro! - sibilò il rettile che sceso dal suo ronzino
teneva per il morso Oslob. I suoi freddi occhi a
fessura sporgevano dalla testa triangolare e una opaca
membrana nittitante li ricoprì per un attimo per
ripulirli dalle gocce di pioggia.
- Giusto - disse l’umano coperto di nere pelli ispide
e bagnate di pioggia, abbandonando la perquisizione
del carro - se il carro è vuoto vuol dire che hai
venduto tutto e che la tua borsa è piena di monete.
Vero, pidocchio?
- Ma signore… eccellenza, c’è carestia, la guerra…
le tasse sono sempre alte… - azzardò Gambrath vedendosi
perduto. La sua borsa non stava male, era vero, ma
aveva in progetto di acquistare nuove mercanzie
con quel denaro.
- Sì, sì… dicono tutti così… prima di morire! - ringhiò
impugnando la sua scure bipenne.
- No, vi prego! - disse Gambrath cercando di
fuggire. Riuscì a saltare giù dalla cassetta, ma
l’essere simile a un enorme rettile lo afferrò per
le vesti e lo trattenne, spingendolo con forza nel
fango. L’essere aveva già impugnato la sua arma, una
pesante mazza ferrata dotata di grossi e acuminati
aculei di metallo quando la voce dell’uomo fermò la
sua mano già alzata sopra la testa.
- Aspetta! A volte nascondono l’oro per non farselo
rubare! Se lo uccidi, potremmo non trovarlo mai!
Il lucertolone abbassò la sua arma e sollevò di
peso il mercante dal fango. L’umano, che lo
sovrastava di parecchio in altezza, lo afferrò
e lo scosse come fosse una bambola di pezza.
- Parla, figlio di un cane! Dove hai nascosto l’oro?
La gola di Gambrath era paralizzata dal terrore. L’oro
l’aveva addosso, non si fidava a lasciarlo da nessuna
parte. Ma non riuscì a proferir parola.
- Dov’è? - sbraitò ancora più forte il colosso.
- Lasciatelo!
La voce parve arrivare dal nulla. Una voce forte ma
acuta, femminile, risoluta. Tutti cercarono di
individuare chi potesse essere a sfidare quei tre
assassini di professione. Dal grigio della nebbia
apparve una figura, piccola e scura. Gambrath poteva
vedere bene poiché la figura emerse dalla pioggia
alle spalle del gigante cupo che lo stava scrollando. Era
una donna, la chioma corvina e ribelle appiccicata
dalla pioggia al volto pallido e al collo bianco, i
seni protetti da due coppe di metallo legate con
pelle, la vita cinta da un gonnellino fatto di innumerevoli
strisce di cuoio e di placche di metallo legate tra
loro da ampi anelli. I piedi erano coperti da curiose
calzature sporche di fango dall’aspetto molto robusto,
che arrivavano all’altezza dei polpacci. La pelle del
volto era dipinta di nero intorno agli occhi, spesse
righe scure che partivano dalla fronte, scendevano
sugli zigomi e finivano a punta sul mento. Altri
grossi segni neri ornavano le braccia sottili, il
ventre un po' sporgente e le cosce grosse e
rotonde. Lo sguardo fiero e le due lunghe lame
dritte che impugnava non lasciavano dubbio alcuno
sulle sue intenzioni.
Riavutosi dalla sorpresa, il gigante nero lasciò
andare il mercante che ricadde nel fango. Impugnando
la sua pesante scure bipenne con una sola mano fece
un passo avanti verso la nuova arrivata, che si era
fermata a qualche passo da lui.
- E tu chi saresti?
- Quella che ti farà passare la voglia di
ammazzare gli indifesi, letame!
- Non credi di essere un po' piccola per queste
cose? - disse l’uomo con un ampio sorriso di
ghiaccio sul volto.
La ragazza non rispose e si mise in guardia,
puntando in avanti le sue lame.
- Sei proprio decisa, eh? E va bene. Ho voglia
di divertirmi anch’io: la tua morte sarà una liberazione
per te, te l’assicuro!
Così dicendo fece un passo in avanti e fece volteggiare
improvvisamente la sua scure come se avesse avuto tra le
mani un rametto. La ragazza fece un passo a lato temendo
un attacco, ma dopo che il gigante ebbe riportato la scure
in posizione di guardia si rese conto che non era stata
sua intenzione colpirla. Il gigante nero esplose in una
fragorosa risata, deridendola. Poi passò all’attacco,
sicuro di sé. La scure volteggiò di nuovo e la guerriera
la schivò d’un soffio, avendola vista arrivare solo
all’ultimo momento. La scure affondò con un tonfo nel
fango dove un attimo prima c’erano i piedi di lei: se
non fosse stata più che svelta, quel colpo veloce e
potente le avrebbe spaccato il cuore dopo averle diviso
in due la testa e il petto.
Pensò di avere un attimo di respiro e di poter
contrattaccare, ma il gigante aveva già estratto
dal fango la sua arma e la stava aspettando. Egli
fintò un attacco, lei si ritrasse spaventata dalla
velocità che quel colosso aveva e menò un fendente
per coprirsi la ritirata. Quando tornò in guardia vide
la sua lama sporca e l’espressione sul volto scuro
dell’uomo era cambiata. Dopo qualche interminabile
istante vide il sangue luccicare attraverso il cuoio
lacerato.
L’attacco seguente fu di una furia e di una velocità
sorprendenti. La guerriera saltò indietro quanto più
poté, ma la carica del gigante urlante era tale che
la raggiunse e la travolse gettandola a terra nel
fango. Aveva avuto appena il tempo di schivare un
fendente che le avrebbe staccato la testa, ma non si
perse d’animo: con una faticosa piroetta si rimise
in piedi e si trovò a guardare le spalle del suo
avversario. Approfittando del tempo che il colosso
ci mise ad arrestare la sua carica e a voltarsi,
le lame scomparvero lasciando il posto a un'arma
che Gambrath non aveva mai visto prima. La guerriera
misteriosa, rivelatasi anche una potente strega,
attese che il possente avversario si fosse voltato,
poi gli sorrise e fece tuonare la sua arma. Quattro
volte scaturì il lampo, quattro esplosioni secche,
prima di veder cadere il gigante immobile a
terra. Poi si voltò di scatto, appena in tempo
per freddare con una scarica il glohr che si era
lanciato su di lei. Il rettile umanoide, l’ultimo
dei tre assassini, la guardò con occhi inespressivi,
sibilò brevemente e con un rapido scatto saltò a
cavallo e si diede alla fuga. La strega guerriera
appoggiò l’arma contro la spalla, prese bene la
mira nonostante la pioggia che la infastidiva e
lasciò partire due brevi raffiche. La vampata del
fucile fece risplendere di una balbettante luce
bianca le goccioline di acqua. Gambrath vide la
sagoma dell’uomo rettile cadere dal cavallo con
un urlo disumano, rotolare a terra un paio di
volte e poi non rialzarsi più. Il mercante non
aveva perso tempo: quando la sconosciuta
guerriera aveva ucciso con quella strana e
potentissima arma il glohr a cavallo un attimo
prima che le saltasse addosso, lui era scattato
verso il suo carro e aveva raccolto il telo da
terra per coprire le sue povere mercanzie. Poi
con un breve schioccare delle redini aveva
incitato Oslob a partire a tutta velocità. Quando
aveva visto cadere il terzo bandito si era reso
conto di non essere ancora fuori tiro, ma la
guerriera era già diventata un’ombra nella
pioggia.
- Bella riconoscenza… - disse a mezza voce la
guerriera ansimando per la fatica - ma tu guarda
che gente!
Afferrò il fucile per la maniglia e ritornò sui
suoi passi lasciandolo dondolare. Camminò fino a
quando il carro del mercante scomparve nel grigio
di quella orribile giornata, fino a quando i tre
cadaveri furono lontani e dimenticati, camminò
sotto la pioggia strizzando gli occhi per le gocce
che le davano fastidio. D’un tratto si fermò,
in mezzo al niente, in mezzo alla brulla pianura
battuta dalla pioggia, come se fosse arrivata a
destinazione. Lasciò cadere a terra l’arma e
cercò di raccogliere con le mani i capelli ricci
fradici di pioggia per scostarli dal viso e dal
collo. Fece quasi annoiata e distratta un passo
avanti e sparì, dissolvendosi nell’aria.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 2
2.
Gambrath non diede pace al povero Oslob fino a
quando una sagoma scura si stagliò nella nebbia e
nella pioggia. Dapprima soltanto un’ombra, poi
apparve nella consolante realtà: era una stazione
di posta. Non sapeva ce ne fossero da quelle parti,
dove pure era passato spesso, ma non si pose troppo
a lungo il problema. La stazione di posta voleva dire
un tetto, cibo, un ricovero per Oslob e per il carro,
forse un giaciglio per lui. Puntò senza indugiare
oltre verso la sagoma della stazione di posta, spronando
il suo fedele bue grigio, esortandolo a compiere un
ultimo sforzo.
Quando fu a portata di voce, chiamò quelli della
stazione di posta com'era usanza. Vide un rettangolo
di luce calda e dorata aprirsi nell’ombra grigia e una
figura umana stagliarsi nel mezzo, rispondendo al
richiamo. Gambrath si sentì rincuorato: finalmente
avrebbe potuto mettere se stesso e la sua mercanzia
al riparo dalla pioggia incessante.
Gli venne incontro un uomo, un robusto thale civilizzato
che però portava ancora sulla pelle i segni della sua
tribù. I thale erano una popolazione che aveva lontane
origini nomadi rehn e che aveva poco a poco rinunciato
al vagabondaggio diventando sedentaria, ma mantenendo
una certa selvatichezza tipica delle carovane rehn. Questa
grossa tribù era cresciuta ancor più di numero e man mano
che aumentavano i contatti con le altre popolazioni,
subiva mutamenti inevitabili. Gambrath avrebbe voluto
sapere se l’uomo che gli stava venendo incontro era un
thale-ra, nome che identificava coloro che avevano
voluto conservare il più possibile le pur distorte e
lontane tradizioni selvagge rehn, oppure un thale-ma,
uno di coloro che avevano cercato di condividere la
civiltà e la tecnologia degli altri popoli con spirito
tollerante e con grande curiosità. Infatti i thale-ra
richiedevano alcune precauzioni: mai parlare con loro
con tono che potesse essere frainteso e giudicato
arrogante. Un vero thale-ra non prende ordini da nessuno
e, soprattutto, non permette a nessuno di chiamarlo
thale-ra, ma mok'o, che nella loro lingua significa
“uomo”. D’altro canto usare la parola mok'o a sproposito
poteva essere pericoloso: per un thale-ma infatti la
parola era sinonimo offensivo di “rozzo”,
“bifolco”.
Con questo pesante dubbio nel petto, Gambrath alzò la
mano destra aperta in segno di saluto e vide con
piacere che veniva ricambiato con lo stesso
segno. Aspettò che fosse il thale a parlare.
- Cerchi rifugio, mercante?
- Cerco rifugio, nobile ospite. Ho tre giorni di
pioggia sul mio carro.
- Entra, allora: ho vino caldo e zuppa anche per
te, se hai due monete.
- C’è posto per il mio carro?
- C’è posto al coperto, mercante, e non ti
chiederò monete per questo.
L’uomo era ormai vicino e Gambrath lo vide
sorridere sotto la pioggia. Era robusto e un
discreto stomaco sporgeva tendendo gli abiti.
- Vieni: se vuoi conduco io il tuo bue.
L’uomo afferrò Oslob per il morso e con un verso
pacato e basso lo tranquillizzò. Lo accarezzò sul
collo fradicio e lasciò che Oslob lo annusasse,
poi ripresero a muoversi diretti verso la stazione
di posta.
- Non ricordavo stazioni di posta da queste
parti - commentò Gambrath, ansioso di sapere di più
di quell’uomo. Conoscere qualcuno significava
indovinarne i gusti e ciò aumentava le possibilità
di vendergli qualcosa: questo gli aveva insegnato
suo padre, mercante anch’egli.
- Ricordi bene, mercante: io ho costruito tutto
questo quattro stagioni fa.
- Il mio nome è Gambrath, ospite. Puoi chiamarmi così,
se vuoi.
- Il mio nome è Cambler, nobile Gambrath. Anche
tu puoi chiamarmi così, se vuoi. Guarda, siamo
arrivati. La rimessa per il tuo carro è al coperto
e c’è molto spazio.
- Quanto costa dare da mangiare al bue?
- Il fieno costa una moneta delle tue. Per la
biada ci possiamo mettere d’accordo.
- Va bene il fieno. Se mi fermerò a lungo ti chiederò
la biada.
Cambler aprì una doppia porta nel lato lungo
dell’edificio di legno e pietra che era la stazione
di posta. Oltre c’era la stalla, ampia, asciutta e
ben fornita delle comodità riservate alle cavalcature
e agli animali da soma.
- Nottle! Vieni, c’è del lavoro da fare!
Un giovane thale comparve da una piccola porta aperta
nella parete che divideva la stalla dal resto dell’edificio,
che dimostrava così di avere discrete dimensioni. Cambler
si voltò poi verso il mercante che alla luce delle lanterne
appese qua e là apparve nelle miserevoli condizioni in
cui era.
- Per Elzer, Gambrath! Cosa ti è accaduto? Sei sporco
di fango fino alle orecchie e oltre!
- Ho una storia da raccontare, mio buon Cambler. Ma
prima vorrei mangiare qualcosa, e sistemare il mio
bue all’asciutto.
- Mio figlio scioglierà il giogo del tuo bue, se vuoi.
Gambrath assentì silenzioso e osservò il ragazzo,
giovane ma già robusto e muscoloso, accudire con fare
quasi riverente il povero Oslob, bagnato, stanco e
infreddolito. Gambrath si accorse così anche della presenza
di due cavalli che erano già stati strigliati con cura;
le selle stavano posate su un cavalletto fatto di
tronchi grezzi lì vicino.
- Seguimi: è ora che tu mangi.
Gambrath seguì Cambler attraverso la porta da
cui era apparso il figlio e si trovò in un
ambiente caldo e confortevole, ben illuminato
e dal soffitto di travi di legno ben piallate,
basso ma non opprimente. Alla sua destra c’era
la cucina, a giudicare dall’odore di stufato che
ne usciva, mentre davanti a sé si apriva la sala
più grande, dotata di tavoli e panche di legno
giovane, appena piallato. La luce arrivava da
lampade a olio di fogge diverse appese un po'
dovunque alle pareti, alle travi del soffitto e
ai grossi tronchi squadrati su cui esse si
posavano e da un grande camino di pietre dove
ardevano grossi rami secchi. Seduti a due tavoli
diversi ma vicini i proprietari dei cavalli
che aveva visto stavano finendo il loro
pasto.
Uno era sicuramente un uomo di medicina, riconoscibile
per i numerosi amuleti appesi al collo e agli abiti,
e per le mani lisce, poco avvezze al duro lavoro
manuale; l’altro avrebbe potuto essere
chiunque. Alto e robusto come un mercenario o
un soldato di ventura, vestito come un mercante,
aveva una folta barba scura e gli occhi chiari
si muovevano intorno come se stessero cercando
qualcosa da perforare con lo sguardo. Quando
Gambrath entrò alle spalle di Cambler, si
posarono su di lui.
- Buona serata a voi - salutò Gambrath,
cortesemente.
L’uomo di medicina aveva la bocca piena e rispose
al saluto cordialmente alzando il suo boccale di
terracotta in direzione del nuovo arrivato. L’altro,
che non aveva smesso di squadrarlo, ripeté lo
stesso gesto senza una parola.
- Siedi dove vuoi - disse l’oste, e si diresse in
cucina.
Gambrath si accomodò al tavolo vicino all’uomo di
medicina il quale nel frattempo aveva inghiottito e
risposto al suo saluto. Si guardò un po' in giro:
notò così la scala di legno addossata alla parete
opposta, il bancone che separava i tavoli dalla
cucina, realizzato, curiosamente, sia con pietre
cementate tra loro che con legno. Le uniche finestre
che c’erano, piccole e strette, erano sbarrate dagli
scuri di legno e bloccate da catenacci di metallo
nero.
- Salute, mercante. Anche voi sorpreso dal maltempo,
eh? - esordì l’uomo di medicina.
- Salute a voi, venerabile. A dire il vero, è tre
giorni che viaggio sotto l’acqua.
- A giudicare dal fango dei vostri abiti, si direbbe
che viaggiate a piedi.
- Al contrario, ho un carro per la mia merce. Il fango
che ho addosso è un’altra storia.
- Spero vorrà raccontarla - disse l’uomo di medicina,
sorridendo.
- Non voglio annoiare nessuno.
- Al contrario, al contrario. Dopo la vostra cena,
sarò lieto di ascoltare.
Cambler riapparve dalla cucina con in mano un panno
piegato, fumante.
- Asciugati con questo - gli disse.
Il panno bollente confortò Gambrath, aiutandolo
a sentirsi un po' meglio.
- Ora mangia - aggiunse l’ospite, voltandogli le spalle.
Dalla cucina comparve una splendida donna candriana,
nel fiore della sua gioventù. Aveva la folta e lunga chioma
chiara legata dietro la nuca, un abito sporco della cucina
che le lasciava scoperte le braccia lisce e lungo abbastanza
da coprirle anche i piedi scalzi. Al polso sinistro aveva
l’inconfondibile bracciale di ferro nero degli schiavi. Tra
le mani aveva una grossa pentola di coccio scuro che
spandeva spire di vapore e profumo di zuppa. Indifferente
agli sguardi posò la pentola e un piatto di coccio
sul tavolo che Gambrath aveva scelto per sé, e con un
mestolo di legno riempì il piatto con una densa zuppa
di legumi e patate. A Gambrath quasi dispiacque di veder
arrivare il corpulento Cambler armato della brocca del
vino e di una tazza per lui.
- Hai una bella serva, Cambler - disse Gambrath frugando
nelle proprie tasche alla ricerca del suo cucchiaio
di legno - a quanto la vendi?
- La tua offerta mi onora, ma non posso venderla.
- Neanche per quaranta monete?
- Non posso venderla - disse Cambler mentre gli versava
il vino caldo - perché è lei che sa cucinare la roba che
mangi, mercante. Io non sarei capace di fare altrettanto
bene. Se la vendessi danneggerei me stesso.
- Al mercato di Taliba potrei venderla per centocinquanta
monete. E metà sarebbero tue.
Il corpulento thale, finito di versare il vino guardò
Gambrath con un sorriso e gli rispose ancora
negativamente.
- Taliba dista tre giorni da qui. Avrei le mie
settantacinque monete non prima di sei giorni, e non
potrei comprare un’altra serva prima di altri sei. E
se vendessi Rama a te, tutti i miei ospiti se ne
andrebbero domani, per non tornare più. Non posso.
- Dopo sei giorni, sette al massimo, potresti avere…
trenta monete e una serva giovane dai seni grandi. Direi
a tutti dove la sto portando e tu guadagneresti come
prima - insisté Gambrath, esitando a ingoiare il primo
cucchiaio di zuppa bollente.
- Non posso - disse Cambler senza smettere di
sorridere e si allontanò.
- Come vuoi - disse il mercante, dedicandosi alla
sua zuppa.
- È tutto inutile - gli disse l’uomo di medicina - in
tanti ci hanno provato. Io stesso tre volte. Ma il
nostro Cambler non vende. Quello splendido fiore
resta lì... e nessuno lo porta via.
Gambrath volse uno sguardo all’uomo di medicina da
sopra il piatto di zuppa fumante e non gli rispose. La
zuppa era buona, Rama ci sapeva fare davvero in
cucina. L’uomo di medicina andò avanti a chiacchierare:
disse di chiamarsi Rambel’ Marè e disse molte altre
cose. Ascoltandolo Gambrath terminò in fretta la sua
cena e svuotò la sua coppa di vino caldo. Questo
produsse un benefico effetto riscaldandolo e
donandogli tranquillità e pacatezza, predisponendolo
alla conversazione.
- Se credi di poter raccontare, nobile Gambrath,
sono tutt’orecchi.
- E va bene, ti spiegherò l’origine del fango
che mi imbratta.
“A circa un giorno di viaggio da qui, in direzione
di Bel’ee, la città Minuta da cui provengo, mi è
accaduta una cosa straordinaria e terribile al
tempo stesso. Viaggiavo afflitto dalla pioggia da
ormai due giorni dopo aver raccolto cattive notizie
e concluso affari ancora peggiori a causa della
recente battaglia. Sono diretto a Taliba, dove mi
aspetto miglior fortuna. Ebbene, viaggiavo per i
fatti miei quando all’improvviso vengo aggredito
da tre banditi. Uno era sicuramente un glohr
addomesticato, un altro simile a una lucertola
umana e il terzo era un colosso tutto vestito
di nero che…”
Rambel’ Marè reagì con grande stupore alla
descrizione del mercante. L’altro uomo, seduto
silenziosamente in disparte, per la prima volta
si sporse in avanti e parlò.
- L’uomo vestito di nero che descrivi indossava
forse pelli e metallo e portava un’ascia di
guerra a doppio taglio?
- Sì, perché? - chiese Gambrath, che già
tremava. Il tono della voce dell’uomo barbuto
non era affatto gradevole.
- Qualunque cosa sia accaduta, hai avuto a
che fare con un centurione dell’esercito del
Tiranno e con la sua scorta.
- Per Elzer! - esclamò Rambel’ Marè - cosa potrà
essere accaduto di male? Il nostro mercante è
qui a raccontarlo!
- Aspetta, non ho detto ancora tutto. Il
centurione con gli altri due mi assalgono,
in cerca del mio oro. Prima che lo stesso
centurione mi stacchi la testa dal collo,
ecco che cade morto stecchito colpito da un’arma
mai vista prima. Come un fucile, ma più piccolo,
meno rumoroso e di grande potenza.
Grande stupore si dipinse sul volto dei due. Ma
Gambrath non diede loro il tempo di riprendersi:
visto che era riuscito a calamitare per sé la
loro attenzione, andò subito avanti col suo
racconto.
- Prima che potessi rendermi conto di cosa
stava accadendo, anche le altre due guardie
mostruose erano morte. L’ultima è stata uccisa
da più di cento passi di distanza, mentre
fuggiva.
- Chi ha potuto… - iniziò l’uomo di medicina,
meravigliato dal racconto.
- Una strega guerriera. Mai vista prima,
ve l’assicuro. Capelli neri e pelle bianca,
con segni di guerra simili a niente che io
conosca.
- Non una Guerriera Bianca, quindi!
- Sei nei guai, mercante - disse l’uomo
barbuto con la sua voce tetra e profonda - ho
già sentito racconti simili al tuo. Quella
strega è ricercata.
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzante che
nessuno osò interrompere.
- Ma suvvia, chi potrà mai mettere in relazione
un pacifico mercante con l’uccisione di tre
sgherri del Tiranno? - disse l’uomo di medicina
con falsa allegria.
- È vero: sono fuggito così velocemente
che non so dove ho trovato la forza. Temevo
che quella guerriera se la prendesse anche
con me.
Dalla cucina giunse Cambler, che si unì ai
tre sedendosi su una sedia.
- Ho sentito che hai raccontato una storia,
Gambrath. Ti prego, raccontala anche a me.
Gambrath non se lo fece dire due volte. Ripeté lo
stesso racconto che aveva fatto ai due, descrivendo
nei dettagli cosa era successo e rispondendo alle
domande con dovizia di particolari, senza farsi
alcuno scrupolo di tradire la verità. Cambler
offrì altro vino che con dispiacere del mercante
si preoccupò di portare di persona e i quattro
andarono avanti a discutere tra di loro finché
giunse il momento che il mercante desiderò solo
dormire.
- Cambler! Mio buon ospite! Hai un letto
per me?
Cambler fece capolino da dietro il suo
boccale e rispose:
- Se tu hai una moneta per me…
Gambrath rise. Si alzò dalla sua panca e gli
altri commensali, quel ciarlone di Rambel’ Marè
e lo sconosciuto che aveva detto solo poche parole
in tutta la sera, mostrando educazione e rispetto
si alzarono a loro volta.
- E sia! Avrai la tua moneta. Mostrami il
letto: sono stanco.
Cambler si alzò a sua volta e li guidò fino
alle scale di legno.
- Desideri che Rama venga a scaldare il tuo letto? Solo
una moneta. Ma dovrai aspettare: c’è chi è arrivato
prima di te - chiese al mercante.
- La tua generosità mi commuove. E mi priva delle mie
monete. Non ti offenderai se rifiuto, vero? - disse
Gambrath reso sonnolento dal viaggio, dall’emozione e
dal vino.
- Niente affatto. Se cambi idea, puoi farlo fino
a quando vedi queste luci accese - disse il corpulento
thale indicando le lucerne accese in tutta la sala
grande. Poi li guidò al piano superiore, ciascuno
al proprio letto.
Il mattino seguente Gambrath fu svegliato dalla
grigia luce che filtrava da una finestrella
quadrata così piccola che se avesse potuto
raggiungerla, a fatica sarebbe riuscito a farci
passare il braccio. Senza uscire da sotto le
coperte che lo tenevano caldo cercò di guardare
attraverso la piccola apertura: vide solo
grigio uniforme, opaco. Doveva essere giorno
già da qualche ora.
Si rassegnò ad abbandonare il giaciglio e in
fretta e furia si vestì con i suoi abiti
sommariamente ripuliti dal fango, cercando un
po' di calore nella piccola stanza che Cambler
gli aveva assegnato. C’era il posto per il letto
e per stare in piedi, ma non troppo ritto
altrimenti avrebbe rischiato di picchiare la
testa contro una grossa trave obliqua del
tetto. Scese subito al piano di sotto: le
imposte chiuse, molte lucerne accese, il fuoco
scoppiettava nel camino di pietra nera. Tutto
sembrava essersi fermato alla sera precedente,
con la differenza che Rambel’ Marè era
rimasto da solo.
- Ben svegliato, Gambrath! - gli disse vedendolo
scendere.
- Ti credevo partito, come il nostro compagno
senza nome - ribatté il mercante sedendosi allo
stesso tavolo.
- Ah! Lascia perdere! Lui è partito stamattina
presto; è uno di quelli che detesta salutare. Uno
di quelli che detesta dare spiegazioni. Invero,
credo che detesti molte cose.
- Tra cui anche parlare. Non si è neanche
presentato.
- È vero. Non conosciamo il suo nome, e non sta
bene chiederlo al nostro ospite. Dovremo tenerci
la curiosità. Mangia, ora.
L’uomo di medicina accompagnò le ultime parole con
un gesto. Gambrath lo seguì e incontrò con lo sguardo
Rama che gli portava la colazione: pane nero e
fichi secchi, accompagnati da una piccola coppa
di leggerissimo vino bianco. Squadrò la serva fino
a quando questa scomparve di nuovo in cucina. Lei
non lo aveva degnato di uno sguardo più del
necessario, fredda e indifferente.
- Farai un’altra offerta, vero? Non saresti un buon
mercante altrimenti.
- La farò, non appena vedrò Cambler.
Gambrath mangiò tutto senza nemmeno pensare che la
colazione avrebbe potuto costargli un’altra moneta. Quando
ebbe finito poté porre a Rambel’ Marè la domanda che aveva
conservato per lui da quando l’aveva visto quella
mattina.
- Come mai non sei partito anche tu?
- Ho sentito che sei diretto a Taliba. Io vengo
da Anderes, a quasi nove giorni di cavallo da
qui. Anderes non è che un insieme di catapecchie a
confronto con Taliba. Vorrei vedere la città vera,
il mercato, la piazza dei fiori, assistere alla compra
degli schiavi… un po' di vita anche per me,
insomma. E mi sono detto: ma perché non fare
il viaggio in due?
- Nove giorni? Non sei stanco?
- È il terzo giorno che mi sveglio qui. E qui
sono tutti in grande salute, non c’è bisogno di
me. Ma se vuoi restare ancora, mi tratterrò
anch’io. A me la guerra porta profitto.
L’uomo di medicina concluse con un sorriso, il
primo sorriso davvero sincero che il mercante
aveva visto dalla sera precedente. Rambel’ Marè
ci sapeva fare con la gente, non c’era alcun
dubbio. Riposato e sobrio, Gambrath si rese conto
che avrebbe dovuto stare attento con un tipo come
quello: in fin dei conti, facevano quasi lo stesso
mestiere.
- Non ho grande fretta di partire. E poi questa fitta
nebbia scoraggerebbe chiunque. Trovo strano che il
nostro amico silenzioso sia partito lo stesso,
stamani.
- È probabile che quando lui ha messo piede fuori
di qui il cielo fosse ancora nero ma sgombro. La
nebbia è un dono del mattino - commentò Rambel’ Marè
senza dare apparentemente troppo peso alla cosa.
I due continuarono a parlare per qualche minuto
dell’opportunità di rimandare la partenza e di
viaggiare sfruttando al massimo le ore di luce
piuttosto che quelle di sonno, quando furono distratti
dal rumore di zoccoli di cavalli. L’usanza era di
chiamare da una certa distanza, come aveva fatto
Gambrath la sera prima, ma i cavalieri si erano
spinti fin davanti alla soglia senza chiedere
l’autorizzazione a nessuno. E questo voleva dire
solo guai.
Con un tonfo la robusta porta d’ingresso si aprì
mentre quasi contemporaneamente Cambler faceva la
sua apparizione dalla cucina, il volto massiccio
segnato dalla preoccupazione per ciò che stava
accadendo. Dalla porta entrò l’alito freddo della
mattina nebbiosa e poi pesanti stivali calcarono
il caldo pavimento di legno. L’uomo entrò con fare
autoritario, minaccioso, volgendo gli occhi in giro
come se potesse vedere attraverso le pareti. Gambrath
sembrò ripiombare nell’incubo da cui era sfuggito meno
di un giorno prima: quell’uomo, alto e possente nel
fisico, era vestito e armato proprio come il bestione
che lo aveva aggredito: un centurione dell’esercito
di Vorgo.
- La porta - disse Cambler, piano, apparentemente
tranquillo. Cambler era dotato di un fisico robusto, ma
il soldato lo superava ampiamente. Questi puntò i suoi
occhi scuri sul proprietario della stazione di posta come
se potesse fulminarlo, ma poi si volse alle sue spalle e
fece un cenno. Avanzò verso un tavolo e si sedette,
mentre dalla porta entrarono altri due uomini, più piccoli
di statura ma altrettanto robusti e bene armati con spade
e mazze. L’ultimo chiuse la porta con un calcio, facendola
sbattere.
- Sidro! - disse d’un tratto l’uomo, accompagnando la sua
richiesta con un forte pugno sul tavolo. I suoi due scagnozzi
si sedettero al tavolo a fianco.
- Non ne ho - rispose tranquillo ma freddo Cambler. La
temperatura della sala parve più bassa e meno
accogliente, ora.
- Cosa? - latrò il centurione sporgendosi aggressivamente
verso il thale, che però non fece una piega.
- Non è stagione. Sarebbe rancido adesso, e io sarei
disonesto a chiederti una moneta per il sidro rancido.
Un sorriso un po' sdentato si allargò sul volto segnato
da cicatrici dell’uomo di guerra. Poi si lasciò andare a
una risata che avrebbe spaventato un branco di lupi.
- Portami quello che hai, oste!
Cambler sparì e riapparve poco dopo con un’anfora ancora
sigillata e diverse coppe scure. La posò sul tavolo del
centurione e fu allora che con uno scatto animalesco questi
afferrò saldamente il polso del thale e lo trattenne.
- Cerco Made, mio fratello - gli ringhiò a voce bassa.
- Nessun centurione è stato qui da lungo tempo, ormai - fu
la diplomatica risposta di Cambler, che ebbe il polso
libero. Il centurione bevve avidamente molto vino e
poi passò l’anfora ai suoi.
Gambrath e Rambel’ Marè si sentivano come paralizzati:
non osavano muoversi, parlare, a stento erano riusciti
a scambiarsi un’occhiata spaventata da quando i tre soldati
erano entrati dalla porta. Fu sempre Cambler, che
riusciva a mantenere una calma apparente invidiabile,
a venire in loro aiuto. Si avvicinò al loro tavolo
e disse che le bestie erano pronte nella stalla:
che pagassero il dovuto e se ne andassero liberi
da debiti.
I due non se lo fecero dire due volte: pagarono
contrattando il minimo indispensabile per non dare
nell’occhio e poi si diressero verso la porta,
accompagnati dal loro ospite, salutando frettolosamente
e a mezza voce i nuovi arrivati. I soldati non
li degnarono di uno sguardo né di una risposta e
i tre furono felici di riuscire a chiudersi la
porta alle spalle e di poter godere dell’abbraccio
della nebbia fredda e umida.
- Presto - disse Cambler, sempre calmo - andate
e non voltatevi. Il bue grigio è aggiogato e
il cavallo sellato.
I due non se lo fecero ripetere. Il robusto figlio
di Cambler mise nelle loro mani le redini e senza
dire nulla richiuse alle loro spalle la porta
della stalla dove i cavalli dei soldati già
riposavano.
- Salute a te, Cambler - disse Rambel’ Marè
tirando le redini del suo cavallo innervosito
dalla lunga inattività.
- Salute - ripetè Gambrath - tornerò con
un’offerta migliore.
- Salute a voi - rispose il thale alzando
la mano destra aperta e non aggiunse altro.
Gambrath spronò Oslob che sbuffando aria bianca
dalle narici dette uno strattone al carro del
mercante mettendolo in moto.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 3
3.
La nebbia rallentò parecchio la loro marcia
impedendo loro di giungere in vista della città
solo nel cuore della quarta mattina, quando
la leggera e umida foschia dissipandosi
mostrò loro le mura di Taliba.
Taliba era a memoria d’uomo una delle città
più vecchie e grandi che esistesse. Nata intorno
a un fortino realizzato si diceva dal leggendario
Esercito degli Immortali per proteggere uno
dei loro distaccamenti, la fama di inespugnabilità
aveva attirato molti viaggiatori a fare tappa
nelle vicinanze. Nonostante la partenza del
distaccamento, la fama di Taliba era tale che
addirittura vennero edificate mura intorno al
fortino rimasto sguarnito per dare maggiore
rifugio a coloro che avevano deciso di
fermarsi per qualche tempo e si vedevano
costretti a piantare la loro tenda fuori
del forte per mancanza di spazio. Ora
avevano una approssimativa pianta a stella
con dodici punte con solo tre grandi porte
che la mettevano in comunicazione con
l’esterno. Taliba nel tempo aveva ottenuto
la fama di posto sicuro, diverse razze
vivevano a contatto l’una con l’altra e
presto si era trovata al centro di diverse
rotte commerciali. Le tende divennero
catapecchie di legno e le catapecchie si
trasformarono in case di pietra. Infine
dietro le mura a stella, abbattute e
ricostruite più volte sempre più grandi,
si innalzarono i palazzi di mattoni dei
candriani, le torri di legno dei Minuti,
le robuste strutture dei ressak, popolo
di artigiani del metallo e di fabbricanti
di armi. Grazie a Taliba, in mezzo alla
pianura desolata e incolta erano arrivati
fiumi di merci, erano stati scavati pozzi
e irrigati i terreni; Taliba era una città
ricca e nonostante fosse stata predata più
volte, non era mai stata rasa al suolo o
messa in ginocchio da un saccheggio. Perfino
l’esercito di Vorgo, dopo averla assediata
e conquistata, aveva preferito lasciarla
vivere e cercare di trarre profitto dal
commercio che in essa si svolgeva
fiorente. L’unico segno del passaggio
della guerra era la breccia nel muro
difensivo, la cui riparazione era stata
proibita da Vorgo in persona,
trasformandola di fatto nella quarta
sorvegliatissima porta.
Si diressero senza esitare verso la Porta
del Nord, riconoscibile da lontano per gli
stendardi scuri che segnalavano la presenza
di una guarnigione dell’esercito del
Tiranno. Quando, dopo aver percorso strade
ben tracciate che dividevano vasti terreni
coltivati prosperosi intorno alla città,
giunsero ai confini di essa: non le mura alte
e difese dalle armi portate lì dall’esercito,
ma la fitta e caotica tendopoli che era
cresciuta indisturbata come muschio. Rambel’
Marè fu subito riconosciuto e accolto
festosamente da bambini sudici e da mendicanti
che gli chiedevano la grazia di essere
guariti dalle loro piaghe, offrendo in
cambio le loro poche cose e la loro eterna
gratitudine. L’uomo di medicina si difese
facendosi più vicino al carro di Gambrath,
il quale dal canto suo era già al lavoro:
uomini privi di scrupoli tentarono di
fermarlo per proporgli irrinunciabili affari
che l’avrebbero reso ricco. Nel caos della
tendopoli parassita, una seconda città
all’ombra delle mura di Taliba, era impossibile
discernere cosa valesse la pena di una
contrattazione e cosa celasse invece un
grande imbroglio: per questo e altri
motivi Gambrath respinse ogni approccio
da parte degli straccioni e dei loschi
figuri che gli si fecero incontro fin
sotto la grande Porta del Nord.
Qui i due viaggiatori dettero poche parole
di spiegazioni alle guardie armate che
presidiavano la frequentatissima porta e,
pagato un insulso balzello preteso con la
sola autorità delle armi, fu concesso loro
di entrare. Le vie della città brulicavano
di intensa attività: gente di ogni razza
circolava a piedi, a dorso di mulo o a cavallo,
a bordo di carri con due, quattro o più
ruote, trainati dagli animali più
diversi. L’unica bestia da soma che non
appariva da nessuna parte erano i pericolosi
basran, anche se il numero di nolga presenti
non era indifferente. Le diverse architetture
presenti l’una di fianco all’altra definivano
le strade e le piazze in cui si riversavano
i cittadini di Taliba, in grado di convivere
tra di loro senza troppi conflitti o
contrasti e senza raggrupparsi in quartieri
come accadeva nelle altre grandi città. Infatti
ovunque in altre città era possibile trovare
insediamenti di nolga sedentari, candriani,
addirittura rhen e Minuti, organizzati in
gruppi omogenei e occupanti porzioni di
spazio dai confini ben delimitati, i
“quartieri”. A Taliba questo non
accadeva. Non era possibile individuare
una zona con preponderanza di una razza
rispetto a un’altra: c’era chi diceva che
addirittura la popolazione di Taliba si
rinnovasse completamente ogni quattro o
cinque stagioni.
L’uomo di medicina e il mercante, una volta
immersi nel traffico intenso, ebbero il loro
da fare per restare vicini: la folla era
chiassosa e invadente e nonostante ci fossero
numerose piazze dedicate al commercio, molti
venditori ambulanti occupavano parte della
carreggiata con la loro mercanzia esposta su
malfermi trespoli o su teli ruvidi posati su
storte assi di legno, causando veri e propri
ingorghi dove era difficile andare avanti e
impossibile tornare indietro o cambiare
strada.
- Quanto tempo è che manchi da Taliba? -
chiese Rambel’ Marè, mentre aspettavano che
si sgombrasse la strada davanti a loro.
- Cinque stagioni, più o meno. Perché?
- È sempre così? - chiese l’uomo di medicina
indicando con un ampio gesto della mano
la confusione che li circondava.
- No, naturalmente no. Quando piove è
molto peggio.
Rambel’ Marè alzò lo sguardo preoccupato, ma
i suoi occhi incontrarono solo il grigio
della nebbia che non riuscendo a penetrare
nelle strade della città, la stringeva
d’assedio.
Gambrath uscì dalla propria stanza intenzionato
a fare colazione e a partire presto. Controllò
che la schiava candriana fosse ancora nello
stanzino che aveva affittato per lei e poi scese
al piano inferiore per mangiare. Qui si
aspettava di incontrare Rambel’ Marè, ma non fu
così: due commercianti candriani avevano già
cominciato la loro colazione e da essi al suo
apparire ricevette un cortese saluto. Si chiese
dove fosse finito l’uomo di medicina: avevano
preso una stanza nella stessa locanda, anche se
lui aveva manifestato l’intenzione di fermarsi
ancora qualche giorno. Taliba era una grande città,
e l’opera di un uomo come Rambel’ Marè poteva
non finire mai.
Si erano separati il giorno precedente: dopo aver
pranzato insieme, la padrona della locanda lo aveva
pregato di accogliere le richieste di una sua parente
che non godeva di buona salute, offrendogli in
pagamento l’alloggio gratuito. Rambel’ Marè si era
alzato dal tavolo scusandosi col mercante e si era
allontanato; dopo pochi minuti lo aveva visto a
cavallo nella via, e presto si era confuso nella
folla. Non lo aveva più rivisto.
Gambrath era poi stato alla compra degli schiavi
dove aveva contrattato con successo una giovanissima
candriana dai seni grandi: aveva dovuto faticare un
po' per averla, ma il mercante candriano che la
vendeva aveva alla fine ceduto e lui era entrato
in possesso della chiave del bracciale di ferro
che contraddistingueva tutti gli schiavi. Non
serviva a molto, dal momento che nessuno schiavo
si sarebbe mai sognato di fuggire: quel bracciale
con un anello infisso, serrato sul polso sinistro,
lo avrebbe reso riconoscibile tra mille e a nulla
sarebbe servito tentare di forzarlo. Un tale vicino
a lui che non aveva partecipato all’asta si era
meravigliato del fatto che un candriano fosse capace
di ridurre in schiavitù e vendere un suo
simile. Gambrath sorridendo aveva risposto che
i candriani non esitano a vendere le loro femmine
in caso versino in ristrettezze economiche: inoltre
lo rese edotto del fatto che i candriani considerano
il seno grande un segno di grave bruttezza per una
femmina e nessun candriano si sognerebbe mai di
biasimare un altro se questi vendesse una giovane
cresciuta così male, anche se fosse una figlia.
Per scrupolo poi aveva assistito ad altre aste,
preoccupato di aver fatto un acquisto troppo avventato
e frettoloso: ma presto si era reso conto di averci
visto giusto anche questa volta. Le altre candriane in
vendita erano o troppo vecchie o erano state maltrattate
troppo e difficilmente le avrebbe comprate. Quella che
lui aveva scelto invece era giovane e piuttosto carina,
con un bel viso, un po' troppo paffuto forse e con il
ventre sporgente e i fianchi larghi; ma era vergine e
pensò che per quello che aveva in mente lui sarebbe
andata bene. Calcolò che anche se non fosse riuscito
nel suo intento, avrebbe potuto rivenderla facilmente
limitando il danno economico al minimo.
Aveva colto l’occasione per cercare l’uomo di medicina: si
ricordava che gli aveva confessato l’intenzione di
assistere alla compra degli schiavi, ma aveva girato
in lungo e in largo tutta l’affollatissima piazza degli
schiavi dove avvenivano le trattative più allettanti
senza incontrarlo. Era poi riuscito a concludere la
giornata vendendo tutte le sue sementi tranne un sacco
che si era bagnato troppo e che aveva dovuto buttare
via per non correre il rischio di essere scambiato per
un truffatore: non bisognava dimenticarsi mai della
presenza di una guarnigione. Ai soldati era demandato
ogni potere, il loro comandante era giudice e giuria
in caso di dispute ed era obbligatorio rivolgersi a
lui per qualsiasi motivo. Per questo motivo ogni
intervento dei soldati era piuttosto sbrigativo: senza
tenere conto di torti o ragioni, tutti venivano puniti
senza nemmeno essere ascoltati; in caso di reato
flagrante come il furto o la truffa, molto spesso
si veniva giustiziati sul posto senza alcuna possibilità
di difesa. Nessuno vedeva di buon occhio le guardie e
si evitava ogni disputa: quando inevitabile, ognuno
preferiva regolare da sé i propri conti in sospeso.
La padrona, una donna grassa e con grande senso
degli affari, gli portò la colazione: vino e latte,
e frutta fresca proveniente dalle terre intorno alle
mura coltivate in maggioranza dai Minuti, ottimi
agricoltori.
- Mi piace la schiava che hai preso, mercante: a
quanto me la vendi? - gli chiese quando vide che
aveva finito di mangiare.
- Centosessanta monete delle tue - rispose prontamente
Gambrath, raddoppiando il valore della schiava acquistata
il giorno prima.
La donna ebbe un sussulto.
- Per quella candriana deforme? Sei sicuro?
- Non mi sbaglio, signora: ho acquistato una
sola schiava da quando sono qui. È forse un
prezzo troppo alto?
- Certo, per una candriana che ha le tette gonfie
come otri colmi! - esclamò a voce alta la donna,
causando l’ilarità dei due mercanti candriani che
erano lì a mangiare.
- Credevo che ti piacesse… - commentò Gambrath
senza scomporsi.
- Io la metterei in cucina a fare la sguattera,
non certo nei letti dei clienti! Con la cifra che
chiedi, potrei comprare una splendida mulatta e
ricavarne grande guadagno facendole fare il giro
delle camere ogni notte!
- Allora l’affare non si farà? - chiese Gambrath
fingendo delusione.
- Per Elzer! Ti offro settanta monete, non una
di più - disse la donna corpulenta, piantandosi
di fronte al tavolo di Gambrath.
- Ma io sono un mercante, non un benefattore! La
cifra che tu offri non copre nemmeno le mie
spese! - si lamentò lui.
- Allora l’affare non si farà, mercante. Se
davvero l’hai pagata più di settanta monete,
spero per te che quella schiava sia il tuo
tipo. Non la venderai facilmente al prezzo
che chiedi!
La donna scoppiò ancora a ridere trascinando con
sé i due avventori candriani che non si erano
persi una parola. Gambrath era soddisfatto:
aveva notato le occhiate che la donna aveva
rivolto alla sua schiava quando la sera prima
l’aveva portata alla locanda e aveva chiesto
uno stanzino dove farla dormire. Guardò la
luce che cominciava a filtrare dalla finestra
e si disse che era ora di partire. Salì a
prendere la schiava e bussò per l’ultima volta
alla porta della stanza affittata da Rambel’
Marè, ma anche questa volta non ottenne
risposta. Scese di nuovo e saldato il conto
con la padrona, lasciò la locanda a bordo del
suo carro a due ruote trainato dal fedele
Oslob: al suo fianco, a cassetta, la giovane
schiava si stringeva nei suoi sottili abiti
per ripararsi dal freddo del mattino; non
aveva ancora detto una parola da quando
l’aveva tolta dalle mani del suo
venditore.
Era mattino presto, ma il cielo appariva
limpido e il sole presto sarebbe riuscito
a penetrare tra le strade di Taliba per
portare un po' di tepore a coloro che non
avevano una casa, un camino, una
coperta. Le strade brulicavano già di
attività, anche se la folla non era
quella dei giorni precedenti. Inoltre
Gambrath percepì una strana tensione
nell’aria, come se qualcosa stesse per
accadere, come se la gente intorno a lui
nascondesse nei bisbigli, nelle mezze parole
e nei gesti qualcosa che a lui, per oscure
ragioni, non era dato sapere.
Ignorando questa sensazione che contrastava con
la sua buona predisposizione d’animo, incoraggiato
al viaggio dalla bella giornata che si prospettava,
si diresse verso la Porta del Nord, da dove era
entrato qualche giorno prima.
- Guarda dietro, nel carro: troverai una
coperta. Se è asciutta, usala - disse alla schiava
dopo aver visto dal tremore dei suoi piedi
scalzi che stava soffrendo per il freddo.
La schiava si strinse ancor più nei suoi poveri
abiti troppo sottili e trasparenti per resistere
alle basse temperature del mattino in quella
regione e stringendo le braccia sul petto cercò
di contrastare il tremito delle proprie
membra. Gambrath se ne accorse e le disse:
- Ho detto di prendere la coperta che
c’è dietro. Non ti ammalare, o varrai meno
di dieci monete!
Spaventata dal tono di voce del mercante, temendo
le percosse, la schiava si affrettò a coprirsi
con la coperta che giaceva sul fondo del carro,
aiutata da Gambrath stesso.
- Va meglio? È lana lavorata, tiene molto
caldo. Vale almeno sei monete…
La schiava non disse niente: si limitava a
tenere bassa la testa, come se si vergognasse
di mostrare il suo volto alla luce del sole.
- Grazie - disse a voce bassa dopo che il
carro ebbe percorso quasi metà della strada
dalla locanda alla Porta del Nord.
Il mercante si accorse appena del fatto che
la sua schiava aveva parlato: la folla per
strada si era fatta più intensa, vociante e
agitata in maniera preoccupante. Moltissimi
percorrevano la strada in senso inverso,
nonostante diversi avessero i carri carichi
di bagagli, attrezzi e provviste per un
lungo viaggio.
- Torna indietro, mercante! - gli gridò
nella confusione generale un tale impegnato
a tenere a bada tre coppie di buoi che
trainavano il suo grande carro. Gambrath non
fece in tempo a chiedere spiegazioni: il
carro dell’uomo si mise in moto con uno
strattone e in pochi istanti fu fuori
portata di voce.
- Che cosa accade? - chiese Gambrath chinandosi
verso la gente che passava vicino al suo
carro, diretta in senso opposto.
Ma gli interrogati fuggivano lo sguardo
dubbioso e le domande del mercante, non
rispondevano o bestemmiavano i loro dei nella
lingua natia. Infine Gambrath si trovò
impossibilitato ad andare avanti: troppa
folla veniva nel senso opposto e diverse
guardie in groppa a mostruose creature pelose
e mugghianti impedivano di procedere
oltre. Gambrath si alzò in piedi e gridò
alla volta dei soldati.
- Signori, che succede? Perché non si
può procedere oltre?
I soldati, armati con lunghe spade di metallo nero,
attratti dalle grida del mercante in piedi sul suo
carro confabularono tra di loro. Uno dei grossi bestioni,
basran dotati di corna curve e di lungo pelo ritorto e
ingarbugliato, muggì e sbuffò così forte che intorno alle
guardie si fece il vuoto. Poi la guardia che aveva spronato
la sua cavalcatura si avvicinò al mercante che cominciò
a pentirsi di aver richiamato l’attenzione.
- Cosa ti preoccupa, mercante?
- Vorrei uscire dalla Porta del Nord: devo partire,
affari urgenti mi attendono.
Il soldato, bardato con la sua corazza opaca e
acciaccata dai colpi ricevuti, lo guardò di sbieco
con cattiveria e rispose con acredine e
insofferenza.
- Oggi nessuno entra e nessuno esce: tutte le porte
sono chiuse per ordine del Capitano.
- Ma…
- Non discutere, mercante! Vuoi finire appeso
nella gabbia?
- No, no, signore, io no… davvero, non…
- Allora gira il tuo carro e segui tutti gli
altri nella piazza degli schiavi! Lì verrà letto
l’ordine del giorno di oggi!
- Sì, signore, sì, farò così… non dubitate.
Gambrath si rimise a sedere e cercò di far
manovra col carro. Oslob era un po' irritato
dalla folla che gli passava vicino e la presenza
di quell’enorme animale cavalcato dal soldato lo
aveva irritato e spaventato ancora di più. Quando
il mercante tirò le redini per farlo girare a
sinistra, Oslob rispose con un muggito insofferente
e dette uno strattone improvviso. Se il carro di
Gambrath avesse avuto quattro ruote anziché due si
sarebbe sicuramente rovesciato. Tutta la gente
intorno a lui levò un coro di proteste, insulti e
bestemmie alla vista della manovra improvvisa compiuta
dal mercante, che ostacolava la circolazione insieme
al soldato che si stava ricongiungendo agli altri,
ma presto, riguadagnato il completo controllo del
carro, Gambrath si trovò a seguire il flusso di gente
verso la piazza degli schiavi.
Quando arrivò nella piazza degli schiavi, questa era già
quasi completamente gremita di persone, accalcate le une
sulle altre e le guardie, a piedi e a cavallo delle loro
puzzolenti e gigantesche bestie, continuavano a incitarli
con la punta delle armi affinché avanzassero ancora verso
il centro, addossandosi ancora di più l’uno
all’altro. Gambrath non temeva per la sua merce, dal
momento che il carro era quasi vuoto: l’unico oggetto di
valore era la coperta che la schiava si stringeva addosso
e sulla testa per ripararsi dal freddo pungente. La gente
continuava ad affluire e chi era a piedi non doveva cavarsela
molto bene, pigiati com’erano uomini e bestie, incitati dai
soldati a colmare ogni palmo della piazza. Gambrath col suo
carro non poteva andare ormai né avanti né indietro e il
povero Oslob muggiva spaventato. Più in là, dalla sua posizione
più elevata, il mercante poté vedere diversi bastoni emergere
dalla folla: era il sistema che i Minuti utilizzavano per
segnalare la loro presenza e non essere travolti dalla folla,
non visti a causa della loro bassa statura. Sulla cima dei
bastoni c’erano legati o numerosi pezzi di osso che facevano
da sonaglio, o scaglie di metallo appuntite per punzecchiare
chi minacciasse di travolgerli. I più ricchi tra di loro
appendevano puntali di metallo a uncino con campanelli
di ottone lucido che tintinnavano ogni volta che il
bastone toccava terra.
Passò diverso tempo prima che accadde qualcosa. Il sole
si alzò abbastanza da superare definitivamente le nubi basse
e cominciò a scaldare la folla ammucchiata nella
piazza. Perfino la schiava candriana tirò fuori la
testa da sotto la coperta. Gambrath provò a immaginarsi
cosa doveva essere successo per causare una reazione
simile da parte dei soldati della guarnigione. Se era
vero poi che sarebbe intervenuto il Capitano in persona,
il comandante della guarnigione stessa, doveva essere
veramente grave. Ma per quanto grave, pensò che la sua
partenza poteva essere solo rimandata: chiudere le porte
di Taliba significava bloccare il commercio e quindi
anche strozzare l’economia della città, venendo a mancare
la prima e unica fonte di guadagno della maggioranza
della gente che viveva lì. Si trattava di stare attento
a non commettere di nuovo errori grossolani come quello
di rivolgersi alle guardie: per una sciocchezza del
genere era stato minacciato con la tortura della
gabbia, una delle più atroci che si conoscesse. Il
condannato veniva chiuso in una stretta gabbia a
forma di uomo, con scarsissima libertà di movimento,
e veniva appeso a grande altezza fuori sulle mura
della città, genericamente in prossimità delle
porte. Veniva lasciato lì secondo il capriccio
del boia, di solito fino a quando le ossa si
distaccavano le une dalle altre.
Infine, quando il sole era già alto e parecchie
persone avevano trovato più comodo sedersi per terra
durante l’attesa, ammassandosi ancor più gli uni
sugli altri, Gambrath poté vedere dalla sua posizione
sopraelevata che diversi soldati stavano prendendo
posto sul palco grande, di solito usato per la compra
degli schiavi più costosi. Erano troppo lontani per
poter vedere con chiarezza, ma distinse subito le
armi che quelli portavano: si trattava di soldati
della guarnigione. Quelli che si erano seduti in
terra si risollevarono con un grande mormorio e
frusciare di calzature sul selciato, tanto che
la piazza si riempì di quel coro di voci e
rumori.
- Ascoltate! - gridò poi uno dei soldati. La voce
rimbalzava da un edificio all’altro e raggiungeva
abbastanza bene ogni angolo della piazza.
- Fate silenzio, bifolchi! Parla il Capitano!
La piazza si ammutolì di colpo e non si sentì
più alcun rumore. Gambrath non osò dire né fare
niente: aveva sentito un sacco di crudeltà sul
conto degli uomini delle guarnigioni di Vorgo
e non voleva certo verificarne la veridicità
di persona.
- È stato commesso un atroce delitto! - riprese
un’altra voce, probabilmente il Capitano in
persona. Gambrath riusciva a distinguere un
soldato con l’armatura diversa dalle altre,
ma era troppo lontano per essere sicuro.
- Il centurione Made è stato ucciso nelle
campagne di Taliba, a tre soli giorni di carro
da qui! Ucciso da un’arma da fuoco, lui e tutta
la sua scorta. Massacrati in un agguato, vittime
di un ignobile tradimento!
Gambrath trasalì cercando disperatamente di non
tradire la sua emozione. Made era il nome che il
centurione aveva pronunciato alla stazione di
posta. Quanto alle vittime dell’ignobile tranello…
non potevano che essere i suoi assalitori. Gambrath
vide poi con sgomento un altro personaggio
salire sul palco: nonostante la distanza non
c’erano dubbi. Le pelli nere, il fisico massiccio,
l’ascia bipenne che pendeva dalla cintura:
poteva essere il fratello di Made, colui che
aveva fatto irruzione nella stazione di posta
chiedendo il sidro fuori stagione.
- L’assassino è tra voi, maledetti! - ruggì il
centurione, rabbioso - Mio fratello è stato ucciso
e uno di voi è il colpevole! Tracce di ruote nel
fango fresco mi hanno condotto qui! Lo so che mi
sta ascoltando! Venga fuori e mi sfidi da uomo a
uomo, e morirà combattendo! Altrimenti continui
pure a nascondersi… io frugherò tutta la città
se necessario e quando lo troverò lo ucciderò
come si uccide un insetto!
Il centurione si precipitò giù dal palco con
veemenza, come se intendesse iniziare subito la
sua ricerca, cominciando da quella folla lì
radunata, sbigottita e spaventata. Il Capitano
riprese a parlare con voce forte ma con più
autocontrollo di quello dimostrato dal
centurione.
- Le porte verranno aperte nuovamente tra
poco. Ognuno sarà perquisito all’ingresso e
all’uscita. Chi verrà trovato in possesso di
armi da fuoco verrà immediatamente fermato e
interrogato.
Gambrath sentì il sangue defluire via dal suo corpo
d’un tratto, lasciandolo privo di energie. Sperò
che nessuno l’avesse visto irrigidirsi e impallidire
e non sapeva come fare per soddisfare l’improvviso
urgentissimo bisogno di controllare se il suo lungo
fucile fosse ancora al suo posto sotto il sedile
del carro, e se fosse visibile o no.
Mille volte si maledisse per quel baratto, mille
volte rimpianse l’anfora di vino ceduta per l’arma
con polvere e munizioni di scorta. Ma ormai non
poteva farci nulla: doveva trovare il modo di
sbarazzarsi del fucile, senza essere visto. Oppure
di uscire da Taliba senza essere perquisito. Mentre
aspettava ansioso che la gente defluisse dalla
piazza permettendo a Oslob di passare e trainare
via il carro, cercò freneticamente una soluzione.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 4
4.
L’unica cosa che Gambrath era riuscito a fare era
stato rinchiudersi nella taverna più economica che
fosse riuscito a trovare, dove con una moneta al giorno
mangiava e dormiva insieme alla schiava, in uno
stanzino piccolo e buio, puzzolente di muffa e col
soffitto basso. Si era rassegnato ad aspettare che
l’ira del centurione sbollisse e, vista la gente
che frequentava quelle parti, dormiva con un occhio
solo col terrore di essere derubato e con il
coltello sempre a portata di mano. Aveva pensato
che di tutte le soluzioni possibili quella
rappresentasse il male minore e visto che era già
da tre giorni che dormiva lì e ancora non era
successo nulla, tutto sommato non doveva essere
poi così male. Non perdeva di vista un istante
Lerea, la schiava candriana che aveva acquistato,
il cui mutismo era impressionante: poteva stare
ore e ore in silenzio, senza dire una parola;
aveva conosciuto il suo nome soltanto il giorno
prima e solo perché le aveva ordinato di
rivelarlo. In effetti la schiava era il suo
bene più prezioso: era convinto che se fosse
riuscito a lasciare Taliba, il padrone della
stazione di posta, Cambler, non avrebbe potuto
dire di no di fronte allo scambio che gli avrebbe
proposto. Per questo ogni mattina usciva a piedi,
tenendosi ben stretta al fianco Lerea, e si
recava ai vari mercati: cercava di avere notizie
senza dover porre domande sospette e senza dover
avvicinarsi troppo a una qualsiasi delle porte
della città.
Il terzo giorno Gambrath uscì come sempre di
buon mattino, accompagnato dalla sua schiava
scalza e infagottata nella coperta e iniziò il
giro dei mercati e delle piazze di Taliba.
“Hanno preso un candriano col suo carro”,
diceva una voce; “Gli hanno tolto tutto”,
rispondeva un’altra; “Impiccano chi porta armi”,
“Ci sono trenta gabbie appese alla Porta
dell’Est”. Gambrath non perdeva una parola,
dava retta a tutti, senza farsi notare, e
cercava di vagliare le notizie, la loro
credibilità, la sincerità di chi parlava. Cercava
così di risolvere le frequenti contraddizioni
in quello che sentiva. Si era costruito un
quadro della situazione che poteva essere
abbastanza vicino al vero: le porte erano
presidiate da almeno venti o trenta soldati
l’una, che formavano così un filtro dalle
maglie abbastanza fitte, mentre la breccia
pareva fosse addirittura inavvicinabile,
presidiata giorno e notte. Presentarsi
alle porte con un carro voleva dire essere
perquisiti da cima a fondo senza ombra di
dubbio; le persone a piedi invece a volte
venivano perquisite, altre volte no, senza
una logica apparente. Al mercante non piaceva
neanche un po' l’idea di vendere il carro e il
povero Oslob, a cui era ormai affezionato: si
guardava in giro durante le sue lunghe camminate
in compagnia della schiava alla ricerca della
soluzione ma non trovava niente.
Ma quel giorno successe qualcosa di nuovo. Se
ne stava seduto su grosse pietre squadrate in
compagnia di Lerea e insieme mangiavano tuberi
saporiti, arrostiti sulla fiamma da un contadino
Minuto a pochi passi di distanza. Mentre
consumavano quel magro pasto, un vecchio di
età indefinibile e dagli abiti inconsueti,
curvo sul suo bastone nodoso si avvicinò a
Gambrath e lo guardò con occhi scintillanti.
- Mercante! A quanto vendi la tua schiava? -
disse con voce arrochita dall’età.
- Non meno di centosessanta monete, signore -
disse Gambrath deglutendo un boccone per rispondere.
- Cosa? Ha forse i denti d’oro?
- No, ma è molto preziosa per me. È giovane
e robusta, sa cucinare bene e…
- Lascia perdere, mercante. Vedo che tu non
hai un buon affare per me - lo interruppe il
vecchio - Ma io ho un buon affare per
te. Seguimi.
Ciò detto il vecchio non aspettò e voltate le
spalle al mercante si incamminò tra la folla
appoggiandosi al bastone.
Gambrath rimase perplesso, poi afferrò per un
braccio la schiava e se la trascinò dietro. Il
vecchio si voltò e agitò il bastone verso i
due.
- Lei no! Resta qui! Non la voglio!
Gambrath strabuzzò gli occhi.
- Lasciarla qui? - disse incredulo.
- Lei non viene. Solo tu puoi venire con
me - insisté il vecchio, deciso.
- Ma sei uscito di senno? Quando torno
credi che sarà ancora qui? E dove mi stai
portando? Che luogo è uno proibito alle
schiave?
- Tempi moderni! Puah! - il vecchio
sputò platealmente per terra - oggi
tutti vanno dappertutto con la schiava
e con lo schiavo. Ai miei tempi c’era più
rispetto! Tu vieni a casa mia, e io di
schiavi non ce ne voglio a casa mia!
- Il tuo affare mi costa troppo, vecchio:
questa schiava l’ho comprata perché mi
serve, non per trastullarmi tre giorni
e poi buttarla via così perché me lo dici
tu!
- Vecchio io? Bada a come parli, sai?
Porta rispetto a chi è più saggio di
te!
Questa volta il mercante dovette riconoscere
di avere torto.
- Ti chiedo scusa, signore. Ma tu mi chiedi
troppo: in nome di un affare sconosciuto
dovrei rinunciare ai frutti di un affare
già concluso bene?
- E va bene: lei non corre alcun rischio, ma
se proprio vuoi, portala! Ma lei resta fuori
della porta! Sa badare a se stessa.
Gambrath non discusse oltre: si disse sicuro
che una volta arrivato sarebbe riuscito a
convincere il vecchio a cambiare idea e a
far entrare anche Lerea, la schiava.
Il vecchio con andatura lenta ma sorprendentemente
regolare li guidò tra le strade più strette che
ci fossero a Taliba, addentrandosi nella parte
più vecchia della città. Qui le case erano tutte
in pietra, costruite l’una così vicina all’altra
che parecchie erano collegate da archi di pietre
o mattoni su cui erano stati costruiti piccoli
ponti, comodi passaggi a volte addirittura anche
coperti. Questi vicoli erano così sempre in ombra,
freddi e umidi, ma come le altre strade di Taliba,
frequentati e ingombri della merce esposta dai
numerosi ambulanti che in mancanza di meglio
esponevano la loro mercanzia sui gradini di
ingresso delle case.
Alla fine il vecchio si fermò davanti alla soglia
di una vecchissima casa, bassa e con tutte le finestre
chiuse. Doveva essere stata la dimora di gente ricca
un tempo ma come tante altre, abbandonata dai primi
inquilini, era stata suddivisa internamente in modo
da poter essere abitata da gente con meno pretese e
poche monete nella borsa. Al vecchio era toccata
la parte adiacente al grande ingresso, sbarrato
da una pesante porta di legno scuro rinforzato
da borchie di metallo nero un po' arrugginito.
- Siamo arrivati - disse - Tu puoi entrare.
- Sii ragionevole, signore! Guarda che bella
schiava! Un solo minuto da sola e avrà un nuovo
padrone. Non puzza, ha già mangiato e non parla
nemmeno, non darà alcun fastidio.
- Bella? Un candriano non la guarderebbe
nemmeno! Figurati portarla via!
- Taliba non è città di soli candriani -
obiettò Gambrath. Ma il vecchio entrò dalla
porticina di legno e sparì nell’oscurità.
- Vieni! Tu solo!
Gambrath cercò di sbirciare dentro,
ma l’oscurità era troppo fitta. Poi
guardò Lerea e affacciatosi alla porta,
guardandosi bene dal calcare la soglia,
disse al vecchio:
- Mi dispiace, signore, ma questo affare
non si farà!
Il vecchio riapparve nello specchio della
porta, improvvisamente. Non aveva più il
bastone.
- Peggio per te, mercante. Non lascerai
Taliba presto quanto desideri, e quando te
ne accorgerai, tornerai da me. Ma forse
allora l’affare non si potrà più fare.
Gambrath rimase di stucco. Come poteva quell’uomo
sapere del suo desidero di partire il più presto
possibile?
- Come sai i fatti miei? - chiese brusco.
- So molte cose. Conosco i problemi, e ho le
soluzioni. Tu - puntò un dito ossuto verso il
mercante - hai un problema.
Guardò per un attimo Lerea e aggiunse:
- Forse due.
Gambrath era stato vinto dalla curiosità. Forse
quell’uomo era un mago, e se davvero era così
allora fare un affare con lui avrebbe potuto
valere dieci schiave come Lerea. Doveva solo
stare attento: i maghi avevano propri fini sempre
avvolti nell’ombra e protetti dai misteri più
impenetrabili.
Dopo aver minacciato la schiava di frustarla
fino a staccarle la pelle se fosse fuggita, il
mercante era entrato nella buia casa del
vecchio. Una volta che il suo sguardo si fu
abituato alla luce delle cento candele che
diffondevano una luce fioca e morente, lasciando
ampie chiazze di buio impenetrabile, si rese
conto che quell’ambiente doveva essere tutt’altro
che piccolo. Poteva distinguere sagome di oggetti
mai visti, forme bizzarre e spaventose che sembravano
muoversi a ogni tremolio delle fiammelle che parevano
sempre sul punto di spegnersi. Del vecchio nessuna
traccia. Fece ancora qualche passo avanti,
incoraggiato dalla sua vista che si stava
adeguando sempre più all’oscurità, e sentì il suo
cuore cadere nelle budella. Davanti a lui era
comparso un paesaggio buio, tetro e desolato: un
cielo cupo, completamente oscurato da nuvole nere
cariche di pioggia gettava non luce ma ombre su
una pianura arida. Qua e là spuntava dal terreno
duro qualche tronco contorto di alberi spinosi morti
chissà da quanto tempo. Il terreno era ostile,
pietroso e pianeggiante, non offriva riparo
alcuno. Il mercante sentì sulle ossa il freddo
del vento che sferzava quella pianura e
aguzzando la vista all’orizzonte scorse una
curiosa altura. Guardando meglio si rese conto
che si trattava non di una collina, che sarebbe
stata l’unica in quel territorio desolato, ma
di una lugubre fortezza difesa da alte mura e
da un ponte levatoio, sollevato da catene che
apparivano evidenti anche a quella distanza e
che dovevano quindi essere enormi.
- Bello, eh? Ti piace, mercante? - la voce del
vecchio lo riportò alla realtà. Si volse verso
destra e lo vide, illuminato dalle candele
tremolanti. Riportò poi lo sguardo verso quel
terrificante paesaggio e trovò invece un quadro. Un
quadro gigantesco che raffigurava ciò che lui avrebbe
giurato di aver visto fino a un istante prima. Un
quadro molto realistico, realizzato con una
perizia tecnica e artistica davvero notevole,
ma pur sempre un quadro. Nessuno sarebbe stato
ingannato da quella distanza: a pochi palmi dal
suo naso c’era solo una splendida tela, anche se
le sue membra gli ricordavano ancora l’alito gelido
del vento che soffiava sulle terre in essa
raffigurate.
- Vieni - lo esortò il vecchio, vedendolo
imbambolato davanti alla tela dipinta - vieni,
da questa parte, Gambrath.
Come un sonnambulo il mercante seguì il vecchio
e si sedette al buio, dove lui gli indicò. La luce
era appena sufficiente per vedersi in faccia, ma
Gambrath da buon mercante riconobbe sotto le sue
natiche preziosi tappeti e cuscini imbottiti, sicuro
indice di ricchezza. Ciò lo confortò un poco.
- Dimmi, signore, in cosa consiste l’affare.
- Tu, Gambrath, devi partire.
- Come sai il mio nome? Non ci siamo presentati -
si meravigliò il mercante.
- I nostri nomi non hanno importanza, ora! Ascolta,
so che devi partire. Devi concludere un certo affare,
e vuoi farlo in fretta.
- Ahimè, signore, purtroppo quell’affare non si
farà: mente noi siamo qui, qualcuno là fuori ha
già rapito la mia schiava e starà vendendola al
migliore offerente nella piazza più grande!
- Smettila, ti ho detto di non preoccuparti. Io
ti farò uscire da Taliba.
- Come sai che non posso uscire da Taliba? Io posso
partire quando voglio - disse Gambrath, sapendo
già in partenza che non l’avrebbe data a bere al
vecchio: ogni minuto che passava rafforzava la sua
ipotesi che si trattasse di un mago o di un veggente
come minimo.
- Portami rispetto, mercante! - si indignò il vecchio.
- Perdonami - rispose Gambrath sincero.
- Domattina presto ti presenterai col tuo carro e
la tua schiava alla Porta del Nord. Non fare niente!
Non dire niente! Passerai questa giornata allo stesso
modo, lasciando tutto così come sta adesso.
- Se il tuo guadagno sta nella mia impiccagione,
signore, allora questo affare non si farà - rispose
Gambrath con un sorriso sulle labbra.
- Il mio guadagno arriverà, mercante, e dipende
non dalla tua morte ma dalla tua vita. Adesso
vattene, sai tutto quello che ti interessa. L’affare
è fatto.
Così dicendo il vecchio tese la mano com’era usanza
per suggellare un affare o un patto giunto a compimento
e Gambrath la strinse, confermando che l’affare era
fatto, anche se non sapeva esattamente quale.
Seguì nuovamente il vecchio che senza appoggiarsi
al bastone lo accompagnò fino all’uscio e lo congedò
con poche parole. Tornando nella via Gambrath fu
abbagliato dalla luce del giorno e per qualche istante
non vide nulla intorno a sé.
- Padrone - disse una giovane voce femminile
vicinissima a lui - guarda.
Strizzando gli occhi per la luce il mercante si
volse verso la voce e riconobbe Lerea, avvolta nei
suoi leggeri veli. Tendeva una mano verso di
lui. Gli occhi del mercante si abituarono in
fretta alla luce e si sgranarono meravigliati
quando videro quello che c’era nella mano della
schiava.
- Ho venduto la coperta per dodici monete,
padrone. Ho fatto un affare, vero?
Gambrath era sconvolto. La coperta valeva sì
e no sei o sette monete e lui stesso aveva più
volte tentato di venderla per dieci senza mai
riuscirci. Come se non bastasse, la sua schiava
non solo non era fuggita e non era stata rapita
da nessuno, ma aveva osato intraprendere un’iniziativa
personale, cosa inaudita. Non sapeva se picchiarla
per la sua impudenza e mancanza di rispetto o
premiarla per avergli procurato un guadagno netto
di sei monete. Decise che non avrebbe fatto
niente.
- La tua impudenza è senza precedenti - le disse
poco convinto, prendendo le monete e mettendole
subito al sicuro. Lei abbassò immediatamente lo
sguardo a terra.
- Bel guadagno, però. Brava. Adesso vieni, non
puoi restare senza coprirti.
Uscirono dal dedalo di vicoli dove il vecchio
li aveva condotti e si ritrovarono nella ragnatela
di vie trafficate e affollate dove aveva luogo
il commercio di ogni genere di mercanzia. Gambrath
fu bravo a contrattare per sole quattro monete un
rozzo ma pesante saio per la sua schiava, la
quale si coprì immediatamente col cappuccio scuro
che pendeva dalle spalle.
- Perché ti copri così tanto? Hai così freddo? Sembrerai
un dracmit con quel cappuccio sulla testa.
Lerea non rispose e come era solita fare gettò
immediatamente lo sguardo a terra, non osando
guardare in faccia il suo padrone. Gambrath la
afferrò saldamente per un braccio e la condusse
con sé nella folla delle piazze e delle vie, alla
ricerca di qualche buon affare da concludere.
Quella sera rientrò alla taverna e non riuscì a
resistere. Entrò nella stalla sperando di ritrovare
il povero Oslob, se non se l’erano mangiato i tafani
nel frattempo. Entrò con Lerea al fianco e nella
stalla affollata fece fatica a ritrovare il suo
carro e il suo bue grigio, che quando vide il
padrone muggì piano. Controllò che gli avessero
dato almeno da mangiare e poi poté finalmente
soddisfare la sua curiosità. Con cautela,
assicurandosi che la schiava non potesse vedere,
frugò sotto il sedile del carro per vedere se il
suo fucile c’era ancora. Lo trovò ancora lì,
esattamente come lo aveva lasciato. Gambrath
cadde nello sconforto: era da un lato curioso
di vedere se il vecchio, sicuramente mago o
veggente o entrambe le cose, se avesse detto
il vero. Sicuramente lui avrebbe tratto grande
guadagno dalla partenza da Taliba: per prima
cosa la vita, dal momento che i soldati della
guarnigione erano tutti piuttosto nervosi e
impiccavano un povero disgraziato ogni due o
tre giorni. Poi senz’altro sarebbe riuscito a
convincere Cambler a scambiare la sua Rama con
Lerea. Rama era una splendida donna e Gambrath
l’aveva vista priva di difetti: l’avrebbe venduta
a Taliba o da un’altra parte a un prezzo
altissimo, traendone un grande guadagno. Però
era terrorizzato al pensiero di presentarsi
alle guardie l’indomani, intenzionato a uscire
dalla Porta del Nord, confidando nella parola
di un uomo di cui non conosceva nemmeno il nome,
sapendo di andare incontro a morte certa se il
fucile nascosto nel carro fosse stato
ritrovato.
Gambrath cenò distrattamente quella sera e
la notte non dormì tranquillo sebbene il calore
del corpo della schiava lo confortasse.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 5
5.
Gambrath seduto a cassetta non riusciva a
tenere ferme le ginocchia che tremavano sempre
più all'avvicinarsi della Porta del Nord. Aveva
controllato anche quella mattina e il fucile era
lì, nascosto sotto il sedile insieme alle povere
cose che usava durante il viaggio. Sapeva di stare
sbagliando, ma aveva deciso di fidarsi del vecchio:
nottetempo ci aveva riflettuto e si era quasi
convinto che fosse un mago. Anche perché durante
le poche ore di sonno di quella notte era riuscito
a sognare. Non era superstizioso, almeno non aveva
mai creduto di esserlo, ma tra i suoi sogni quella
volta ce n'era stato uno che lo aveva veramente
colpito. Aveva sognato la guerriera dai capelli neri
come l'inchiostro, l'aveva sognata stranamente a
cavallo di Oslob, e ciò gli aveva messo in testa
che l'avrebbe protetto. Aveva sognato di viaggiare
con lei e il proprio carro verso il sole nascente,
aveva sentito un benefico calore scaldargli la
pelle e il cuore.
Quando si era svegliato ogni benefica influenza
di quel sogno era già scomparsa, ma il mercante
non aveva potuto fare a meno di pensarci quando,
alzando lo sguardo al cielo ancora buio dopo
essersi messo alla guida del suo carro, aveva
definitivamente deciso di partire.
C'era già un bel po' di gente in giro nonostante
fosse piuttosto presto e facesse freddo, tanto
che i tafani intorpiditi dall'aria gelida si
staccavano e cadevano dal pelo di Oslob, liberandolo
dalla tortura delle loro fastidiose punture. Lerea,
seduta a cassetta accanto a lui, era tutta
raccolta nel suo pesante saio nuovo; solo uno
sbuffo bianco che si formava regolarmente
davanti al cappuccio che celava la testa la
distingueva da un oggetto inanimato. Il traffico
aumentò in prossimità della Porta, molto
probabilmente a causa delle temute perquisizioni
dei soldati. Gambrath, rassegnato e deciso a
tentare la fuga piuttosto che morire impiccato
o nella gabbia, puntò dritto attraverso la grande
porta, attraverso la quale si potevano vedere
i soldati all'opera e le loro mostruose cavalcature
appostate a poche decine di passi di distanza.
Superata la porta insieme a molti altri, la sensazione
di libertà che gli dava essere all'aperto lo inebriò
tanto che dovette trattenersi dall'incitare Oslob con
la frusta. I soldati avevano costretto con la forza
gli occupanti della tendopoli, perennemente accampati
in massa soprattutto fuori delle porte, a cedere spazio
per consentire le perquisizioni: era così possibile
poter ammirare il gelido paesaggio delle terre coltivate
e delle piccole fattorie che fiorivano intorno alla
città. Gli parve davvero possibile che la fuga attraverso
i campi fosse possibile, se fosse riuscito a spronare
a dovere il proprio bue muschiato. Proseguì invece lungo
la strada tracciata che si perdeva in mezzo alla
pianura, fuori dalle mura di Taliba, fino a quando
due soldati gli fecero cenno di abbandonarla per
consentire la perquisizione. Stava sorgendo il sole
e il cielo si stava rischiarando: i soldati avevano
ancora i fuochi accesi, ma il mercante non tremava
solo per il freddo.
- Scendete! - ordinò loro uno dei tre soldati
armati con lunghi fucili e spade dalla lama nera
appese alla cintura.
Gambrath non se lo fece dire due volte e trascinò
con sé la schiava. Un soldato gli levò dalle mani
il morso di Oslob e lo spinse da parte mentre un
altro cominciava la perquisizione.
- Cosa porti, mercante?
- Non molto, signore... ho concluso pochi affari.
- Chi è quella? - chiese ancora il soldato mentre
perquisiva il carro, ispezionandolo anche sotto il
pianale.
- La schiava che ho comprato, signore. Progetto
un affare fuori città.
- Allora pagherai due monete per il pedaggio. E una
per il carro e il bue.
Gambrath estrasse dopo aver fatto finta di cercarle
con meticolosità tre monete e il soldato che tratteneva
Oslob per il morso le incassò senza dire una
parola. Il terzo in disparte osservava ogni cosa
tenendo una mano sulla sua arma da fuoco. Infine
giunse il momento che più temeva: il soldato che
eseguiva la perquisizione cominciò a frugare
sotto il sedile del carro.
- Cosa nascondi qui, mercante?
Al mercante parve di morire. Da un momento all’altro
si aspettava di vedere l’espressione del soldato
cambiare mentre la sua mano incontrava e riconosceva
il freddo metallo dell’arma nascosta. Invece non accadde
niente. Il soldato frugò scrupolosamente sotto il sedile
ma non trovò nulla di strano o compromettente, così
passò alla perquisizione personale. Il mercante e la
sua schiava furono frugati con attenzione per
controllare se portassero armi da fuoco nascoste
sotto gli abiti ma ancora una volta non ne trovarono,
nonostante cercassero con scrupolo e diligenza
soprattutto sotto le vesti della schiava.
- Vattene, mercante, vattene via - disse infine
il soldato restituendogli il coltello.
Gambrath spinse Lerea sul carro mal celando la
propria ansia di obbedire: non si era ancora seduto
che già aveva spronato Oslob, indirizzandolo sulla
grande strada che usciva dalla Porta del Nord.
Lasciò allontanare dietro di sé le mura di Taliba fino
a quando si ridussero a un’ombra all’orizzonte, poi
sentendosi al sicuro osò controllare sotto il sedile,
col cuore in gola. Con suo grandissimo stupore estrasse
non il fucile che aveva barattato, ma un nodoso
bastone di legno. Non poteva esserne sicuro, ma
sembrava proprio il bastone che aveva visto tra
le mani del vecchio il giorno prima.
- È stato quel vecchio - disse Lerea atona senza
che lui potesse vederne il volto, nascosto dal
cappuccio - l’ho visto in sogno usare la sua
magia. È stato lui.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 6
6.
Gambrath si insospettì subito quando nessuno rispose
al suo richiamo. Il sole era un freddo disco rosso che
sfiorava l’orizzonte piatto accendendolo di colori caldi
e disegnava ombre lunghissime che si impossessavano di
porzioni sempre maggiori di terreno, mentre all’estremo
opposto il cielo era già cupo e buio, trafitto a malapena
dall’incerto bagliore delle prime stelle. Erano stati tre
giorni di buon viaggio, col tiepido calore che di giorno
scacciava il gelo notturno. In quei tre giorni il mercante
non aveva aspettato altro che quel momento e ora che era
arrivato dove voleva, desiderava essere altrove.
Chiamò ancora, ma dalla stazione di posta non giunse
alcun segno di vita. Nonostante non piovesse e il tempo
non fosse cattivo, le imposte di legno erano ancora chiuse
e da esse non sfuggiva il minimo spiraglio di luce. Stava
per avvicinarsi per verificare se la stazione fosse
stata abbandonata quando la porta si aprì e nonostante
la distanza poté riconoscere la sagoma di Cambler,
l’oste.
Quando anche questi ebbe riconosciuto il mercante, lo
salutò con un gesto della mano autorizzandolo così ad
avvicinarsi ulteriormente.
- Salute, Cambler! - salutò gioviale Gambrath. Ma la
sua allegria si spense subito quando si rese conto
che il suo saluto era caduto nel vuoto.
- Salute a te, mercante - rispose Cambler funereo
quando fu a portata di voce.
- Cerco rifugio, nobile ospite.
- Conduco io il tuo bue, se vuoi.
- Che è accaduto, Cambler?
- L’ospitalità che posso offrirti è limitata,
Gambrath. Ma non temere, il prezzo sarà
adeguato.
Il mercante era sempre più perplesso, ma qualcosa
cominciava a capire. A metterlo sulla strada erano
stati i segni sul volto del thale: lividi scuri e
un grosso grumo di sangue vecchio sul labbro
superiore.
- Sei stato forse derubato?
- Il centurione che venne qui. Ripartì il mattino
seguente senza pagare, dopo aver mangiato e bevuto,
dopo aver avuto Rama per tutta la notte.
- Vile e prepotente! Si elevano con l’autorità loro
conferita dalle armi e dal potere del Malvagio, ma
non sono altro che bestie! - inveì il mercante. Di
storie come quella ne aveva sentite a decine.
- È ritornato il giorno seguente, adirato come mai
vorresti vederlo. Di traverso alla sua sella c’era
il cadavere di Made, suo fratello. Ha picchiato
me e mio figlio pretendendo che gli dessimo notizie
dell’assassino. Ha preso tutto quello che poteva
ed è partito per Taliba, seguendo chissà quali
tracce, portando con sé Rama dopo avermi tolto la
chiave con la forza. Sei il primo che si ferma qui
da quel giorno.
Cambler, terminò il suo racconto proprio davanti
alla porta della stalla. Sempre tenendo Oslob per
il morso, con una mano sola scostò la grande porta
e guidò dentro il carro. Gambrath, rimasto sconcertato
dalle parole del thale, vide andare in fumo il suo
affare a lungo sognato e progettato con tanta
cura. Si sforzò di pensare a come recuperare il
suo investimento e cercò argomenti validi per
convincere con delicatezza il buon Cambler a
comprare una nuova schiava.
- Come sta ora tuo figlio? - il mercante si sforzò
di ricordare il nome di quel robusto giovanotto che
aveva visto solo due volte, ma non ci riuscì.
- La febbre è passata, ora. Con un po' di fortuna
tra due o tre giorni potrà alzarsi dal letto.
Gambrath desiderò non aver mai perso di vista Rambel’
Marè: non gliene sarebbe venuto niente in tasca,
ma gli sarebbe piaciuto lo stesso poter aiutare
il figlio di Cambler.
- Vieni - disse poi l’oste - ti darò da mangiare e
poi toglierò il giogo al tuo bue, se vuoi. Ho fatto
rape arrosto: non saranno buone come quelle di Rama,
ma almeno sono calde.
Gambrath seguì con la sua schiava il corpulento thale
attraverso la porta che metteva in comunicazione la
stalla col resto dell’edificio. Il grande cambiamento
lo colpì profondamente: dalla cucina non usciva
alcun profumo e il freddo e l’oscurità lo
aggredirono. Solo poche lanterne erano accese,
tutte intorno a due o tre tavoli intorno al camino,
dove ardeva un grosso ciocco scoppiettante. Il
resto della grande sala dal soffitto basso era al
buio. Sagome contorte spuntavano da un angolo:
tavoli e panche fracassate attendevano una mano
paziente che li riparasse; il candore dello spesso
legno spezzato che costituiva quei mobili denunciava
la forza bruta di colui che li aveva infranti. Mangiarono
le rape insipide e bevvero vino freddo; furono
subito lasciati soli dall’oste che si scusò con
loro mille volte per il pessimo vitto: dovendo
accudire il figlio la cucina era stata
trascurata.
Gambrath terminò con calma il pasto e indugiò al
calore del camino, spostando gli occhi ora sul
piatto vuoto, ora sulle fiamme guizzanti, ora su
Lerea. Finalmente Cambler ricomparve per ritirare
le stoviglie vuote.
- Tratti bene la tua schiava: rape e vino anche
per lei - commentò l’oste togliendo il piatto vuoto
posato davanti alla donna nel saio scuro.
Gambrath colse la palla al balzo: non si era
aspettato un’occasione così presto e decise che
non era il caso di lasciare qualcosa di non
tentato. Era pur sempre un mercante, no?
- Come puoi dire che è una schiava? - replicò
fulmineo, accertandosi che le maniche lunghe del
saio della schiava coprissero il bracciale di
ferro, la cui chiave riposava al sicuro appesa
al proprio collo con una lunga stringa di cuoio
giovane.
- Se fosse la tua signora, non le permetteresti
di camminare scalza - fu la risposta di
Cambler.
- Bravo. Proprio così: è una schiava, appena
comprata a Taliba. Una delle migliori che abbia
mai comprato - disse Gambrath sorridendo. Aveva
iniziato a tessere la tela del ragno.
- E sai perchè la nutro così bene? - continuò poi -
Perché ho in riserbo un grande affare. Oh, si
intende, - finse di correggersi subito, usando il
suo migliore tono affabile - il grande affare lo
farà chi la acquisterà. Un grande signore di
Anderes, un nobile uomo per cui ho già avuto
l’onore di trattare, mi ha mandato un suo messo
per comunicarmi l’esigenza di una nuova serva
per la sua grande casa. Fidandosi solo di me,
mi ha incaricato di fare il miglior acquisto
sulla piazza degli schiavi di Taliba e di
recapitare personalmente l’acquisto.
- Molto fortunato quel nobile ad avere incontrato
un mercante come te - rispose Cambler dalla cucina
dove aveva portato le stoviglie vuote.
Gambrath che non voleva sgolarsi per raggiungere
con la sua voce l’oste disinteressato, non seppe
come interpretare queste parole, ma si rese
conto che la predisposizione alla trattativa
da parte di Cambler era la stessa della volta
precedente, più o meno. Ma non poteva certo
fermarsi proprio adesso: quindi si alzò dalla
panca e si diresse verso l’entrata della
cucina.
- Certo, non mi aspettavo di imbattermi in una
situazione così drammatica qui - riprese il
mercante - tutta questa desolazione non gioverà
ai tuoi affari.
Cambler versò acqua fredda da un secchio sopra
le stoviglie e poi si voltò verso il mercante.
- Andiamo vicino al camino, mercante. Qui fa
freddo, ormai.
- Ma io ti voglio aiutare, in nome dell’ospitalità
e per sdebitarmi dell’aiuto che tu a tua volta
mi hai offerto.
Si sedettero di nuovo sulle panche vicino al
fuoco. Visto che l’oste non reagiva, il mercante
continuò.
- Voglio offrirti la mia schiava, Cambler. Guardala,
e guardati intorno. Non puoi negare di averne
grande necessità.
- Non me la posso permettere, Gambrath.
- Ma la tua cucina è fredda e, perdonami, le tue
pietanze sono scipite! Non preoccuparti del prezzo,
pensa al tuo guadagno! - si accalorò il
mercante.
- Varrà sicuramente più di tutte le mie monete
messe insieme, mercante - disse piano Cambler,
guardando inespressivo la schiava infagottata
nel saio.
- Ti farò un buon prezzo, vedrai. Guardala: è
giovane, ha ossa forti e se ben nutrita lavorerà
duramente e a lungo. E tu alzati, fatti vedere! -
disse poi rivolto a Lerea, con tono imperativo.
La giovane si alzò e si mise in favore di luce. Gambrath
le impose di togliersi il saio scuro e grezzo e
lei se lo sfilò dalla testa. Poi il mercante
le slacciò febbrilmente le stringhe sottili d
ella scollatura e sciolse il nodo della sottile
cintura fatta di fili colorati intrecciati
tra loro. Il vestito fatto di moltissimi veli
trasparenti restava ancora aggrappato alle
spalle e Gambrath con un gesto rapido e
stizzito lo fece cadere a terra, lasciando
la giovane schiava coperta del solo bracciale
di ferro al polso sinistro.
Gambrath ebbe un attimo di pausa; non l’aveva ancora
vista completamente nuda e per la prima volta ne
vedeva il colore dei capelli, raccolti dietro la
nuca in una grossa crocchia, di un bel castano
chiaro dai riflessi rossi e oro. La pelle era
pallida e rifletteva la luce delle fiamme
tingendosi del colore di un’alba estiva. La
sorpresa del mercante durò molto poco: subito
le afferrò il polso destro e lo sollevò verso
l’oste.
- Guarda: che ti avevo detto? Ossa robuste! Molto
adatta a qualsiasi lavoro. Guarda questo ventre -
disse lasciando ricadere il braccio e
accarezzando più volte il ventre rotondo - bello,
carnoso, pieno ma non gonfio, morbido, sicuro
indice di ottima e duratura salute.
Siccome l’oste non dava segno di reagire,
Gambrath decise di andare avanti a oltranza. In
preda all’esaltazione del commercio, con un balzo
fu alle spalle della giovane che se ne stava immobile
e passiva e le mise le mani sui larghi fianchi.
- E questi fianchi? Li hai visti, mio buon Cambler?
Larghi, accoglienti e ancora puri, per il tuo
piacere - le mani saettarono poi dall’inguine peloso
ai seni abbondanti, accarezzandoli e stringendoli
per mostrare quanto fossero sodi e morbidi - Guarda
qui: grande abbondanza, per il tuo divertimento. O
per quello di tuo figlio. E se vorrai farla
ingravidare, lei stessa potrà allattare tutti i
figli che vorrai farle partorire, e saranno tutti
tuoi. Li farai lavorare o li venderai, come tu
crederai più opportuno.
- Quanto chiedi? - disse finalmente Cambler ma
atono, per nulla convinto.
- Se fossimo alla compra degli schiavi a Taliba
non esiterei a chiedere centocinquanta monete per
questo tesoro. Ma qui non siamo a Taliba e tu non
sei un compratore qualunque. Solo cento monete ti
chiedo. Cento monete delle tue.
- Troppo per me - disse l’oste alzandosi, ponendo
così definitivamente fine alla contrattazione.
- Aspetta, mio buon Cambler! E la tua cucina? Tutto
questo intorno a te non merita più attenzione,
forse?
- Io stesso baderò alle mie cose. Cucinerò,
sforzandomi di migliorare e facendomi pagare
di meno.
- Ma ti aiuterebbe moltissimo una serva! -
disse Gambrath rincorrendolo, vedendosi sfuggire
anche l’affare di riserva concepito all’ultimo
momento - Baderebbe a tuo figlio malato!
- Mio figlio è forte. Guarirà presto, se agli
dèi piacerà - sentenziò laconico Cambler,
infilandosi nella cucina.
- Allora l’affare non si farà? - chiese
tristemente il mercante.
- Solo poche monete delle mie sono scampate
all’ingordigia e alla furia devastatrice di Skon
il centurione, fratello di Made. Non potrei mai
pagarti, Gambrath. Porta pure la schiava al tuo
signore di Anderes e fai l’affare con lui.
Gambrath ritornò dalla cucina, mesto. Lerea, che
se ne stava ancora in piedi nuda davanti al
camino, si voltò verso di lui con sguardo
interrogativo.
- Rivestiti - le disse senza nemmeno guardarla -
l’affare non si farà. Non con Cambler, almeno.
La giovane cominciò a vestirsi, indossando dai
piedi la sua veste di veli trasparenti e
colorati. Mentre si riannodava la cintura intorno
alla vita si voltò verso Gambrath, che se ne stava
pensieroso appoggiato all’architrave del camino,
da un lato del focolare.
- Tu volevi Rama, vero? - gli chiese con voce dolce.
Il mercante sovrappensiero rispose dapprima con
un monosillabo. Poi, realizzando che non aveva
mai comunicato alla schiava i propri progetti,
la squadrò da capo a piedi mentre si infilava il
saio dalla testa.
- Hai sognato anche questo? - le chiese, quasi
indispettito.
- No. L’ho capito da sola.
- Ma che brava - disse Gambrath, poco
convinto. Lerea gli si avvicinò, col cappuccio
già tirato sulla testa.
- Torniamo a Taliba. Vendimi al mercato e
col ricavato riscatta Rama dal centurione
Skon.
Il mercante guardò la giovane sgranando gli
occhi meravigliato.
- Metterei più volentieri una mano in una tana
di scorpioni! Ma lo sai cosa hai detto? Andare
a fare un affare con un centurione? Se non mi
taglia la testa appena mi vede, mi farà appendere
in una gabbia fuori da una porta senza nemmeno
farmi parlare. E se mi lascerà parlare, si farà
una bella risata, mi deruberà delle mie monete
e poi mi taglierà la testa o mi appenderà in
una gabbia ugualmente.
Lerea abbassò immediatamente lo sguardo
a terra e tacque.
- Cambler! Ti chiedo un letto! - disse il
mercante a voce alta. L’oste apparve sporgendo
la testa dalla cucina.
- E io ti chiederò una moneta delle tue per
questo.
- Buonanotte, Cambler.
- Buonanotte, mercante - rispose quello
rientrando nella cucina buia.
- Vieni: la notte porta consiglio. Domani
decideremo sul da farsi.
Così dicendo Gambrath afferrò per un braccio
la schiava che lo seguì docile su per la scala
di legno che portava al piano superiore. Qui
scelse una stanza abbastanza grande per
entrambi: voleva poter tenere d’occhio
Lerea senza dover per forza dormire abbracciato
con lei, come aveva fatto finora. Era un sistema
senz’altro scomodo, ma largamente usato da tutti:
impediva alla schiava di fare il minimo movimento
senza svegliare il padrone. Era poi rinomato il
sonno leggero dei mercanti, soprattutto se
accampati durante un viaggio.
Contento di aver trovato un materasso di crine
per sé, il mercante si accomodò contro la porticina
della stanza, in modo da essere svegliato da chiunque
tentasse di entrare o di uscire. Lasciò alla schiava
un buon numero di coperte per coprire il sacco di paglia
che era il suo giaciglio e poi soffiò sulla lucerna
che si era portato dal piano di sotto.
Nonostante il comodo giaciglio, stentava a prendere
sonno. Gli occhi non si chiudevano e la mente tornava
continuamente al suo problema maggiore in quel
momento. Aveva comprato una schiava per fare uno scambio
e adesso l’oggetto dello scambio era irrimediabilmente
perduto. Si immaginava infatti la fine che avrebbe fatto
la bella Rama tra le mani di quel centurione, un
brutale e rozzo assassino. Se non fosse morta presto
per le percosse sicuramente il trattamento che quella
bestia le avrebbe riservato le sarebbe stato
fatale. Anche ammesso di riuscire a venirne in
possesso, e non sapeva come, Gambrath si immaginava
i danni che pochi giorni nelle mani del centurione
le avrebbero causato. Lividi per le botte, denutrizione,
denti rotti, sporcizia e chissà cos’altro gli avrebbero
impedito di venderla subito se non a prezzo davvero
stracciato e molto poco conveniente per lui. Se
avesse aspettato troppo la completa guarigione,
avrebbe probabilmente avuto tra le mani una
schiava gravida; il ventre gonfio avrebbe fatto
crollare il prezzo ancor più dei peggiori lividi
intorno agli occhi e di un naso rotto e
tumefatto. Una schiava partoriente infatti non
rendeva nulla e costava troppo, poiché necessitava
di numerose cure e non era certo in grado di
lavorare.
- Padrone…
La voce di Lerea lo ridestò dai suoi pensieri, lo
tolse alle sue numerose previsioni dove appariva
sempre come perdente.
- Che c’è? - disse con tono seccato. In realtà non
lo era affatto: era invece curioso di sentire cosa
stesse per dire la sua schiava. Parlava poco, ma quando
lo faceva dimostrava di aver meditato le sue
parole. Cosa avrebbe dato per averla potuta vedere
vendere la sua coperta!
- Padrone, concedimi in prestito all’oste. Nel
mentre che tu ritornerai a Taliba o ti recherai
dove vorrai, lui avrà guadagnato i soldi per
riscattarmi da te. Allora tu riscuoterai le tue
monete e avrai il tuo guadagno. Ma se ti recherai
a Taliba e avrai la fortuna di trovare Rama,
l’oste ti sarà grato di ciò e tu potrai di nuovo
fare di me quello che vorrai e il tuo guadagno
sarà doppio.
Gambrath fu colto da una vampa che gli fece
infiammare il viso, ma che scemò immediatamente
raffreddata dalla logica e dalla ragione del
profitto, vere signore del suo cervello di
mercante.
- Come osi, insolente! - rimproverò ugualmente
la schiava, ma con poca convinzione. Il suo
cervello era già al lavoro sulle parole di
Lerea.
- La tua impudenza meriterebbe dieci bastonate! Ma
ora sono stanco e ho lasciato il bastone sul
carro. Domani avrai la punizione che ti
meriti.
La paglia del sacco di Lerea frusciò per un
attimo, poi più niente. Gambrath si addormentò
mentre girava e rigirava le parole della sua
schiava, cercando di cogliere al meglio il
buon suggerimento avuto.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 7
7.
Dopo tre giorni di viaggio e tre fredde notti accampato
da solo, rimpiangendo il calore del seno di Lerea, Gambrath
era di nuovo in vista della Porta del Nord. Per tutti e tre
i giorni del viaggio aveva cercato di convincersi di non
stare sbagliando, che la promessa di non sverginare Lerea
fattagli da Cambler e dal figlio era sincera, che non
sentiva la mancanza della taciturna schiava al suo fianco
sul carro e che aveva fatto bene a non bastonarla. Per
tutti e tre i giorni aveva pensato a una valida
alternativa a quanto stava per fare, ma non l’aveva
trovata. Ma ora era di nuovo davanti alla Porta del
Nord e stava per sottoporsi alla perquisizione, tranquillo
dopo aver controllato che il suo fucile si era nuovamente
tramutato nel bastone nodoso del vecchio. Gli straccioni
e i mendicanti della tendopoli circostante le mura di
Taliba gli vennero incontro numerosi, ma lui li scacciò
e accelerò verso i soldati, sapendo quanto questi erano
temuti. Ma gli si fermò il sangue nelle vene quando fu
abbastanza vicino da vedere chi c’era al posto di
blocco.
Vestito di pelli ispide e nere, la scure bipenne appesa
al fianco, la voce imperiosa e gutturale che sbraitava
ordini crudelmente, rendendo per timore del comandante
ancora più crudeli coloro che li eseguivano. Non c’era
alcun dubbio: era il centurione Skon, ancora inferocito
per la morte del fratello e tutt’altro che sazio di
vendette. Molte infatti le gabbie appese alle mura di
Taliba: i disgraziati finiti là dentro erano, tranne
pochi che gelavano il sangue con i loro lamenti, tutti
immobili e silenziosi e il puzzo della decomposizione
dei cadaveri aleggiava secondo i capricci del vento.
Come se avesse occhi anche dietro la testa, il centurione
si voltò proprio mentre il mercante lo fissava e i due
si guardarono negli occhi per qualche istante, a qualche
decina di passi di distanza. Poi il centurione, mutata
la sua espressione in ira, sollevò verso Gambrath il
poderoso braccio destro armato di una pesante spada
dalla lama nera e gridò.
- Fermate quell’uomo!
Il sangue di Gambrath sembrò defluire tutto in un sol
colpo per raccogliersi nei piedi; il cuore parve smettere
di battere per un lunghissimo istante e al mercante
parve di dover morire di paura. Si sentì afferrare da
molte mani grandi che lo trascinarono giù dal carro
come se non avesse avuto peso: le redini di Oslob gli
furono strappate e fu portato via di peso dentro le
mura della città.
Travolto dalla furia delle guardie, desiderose di
obbedire con la maggiore efficacia e velocità al
centurione furioso, Gambrath smise di vedere il mondo
turbinare intorno a lui quando fra lui e questo si
interposero grigie mura umide e grosse sbarre di
metallo rugginoso. Colpì col fondo della schiena il
pavimento lurido di una cella e si trovò al buio, da
solo. Cardini vecchi cigolarono così forte da dargli
fastidio ai denti e il clangore delle sbarre chiuse
con violenza gli rintronò assordante nelle
orecchie.
Spenta l’eco di quel frastuono, Gambrath fu immerso
nel silenzio e nella solitudine del sotterraneo.
Chiuso nella cella, al buio, per Gambrath era impossibile
misurare il tempo. Ma quando con cigolare acuto di
cardini una porta che non poteva vedere si aprì, la lama
di luce che entrò gli ferì gli occhi, impedendogli di
tenerli aperti. Dai passi, dalle voci e dal rumore di
armi dedusse che si trattava ancora di soldati. Nuovamente
fu afferrato per le braccia e sollevato a viva forza,
strattonato brutalmente di qua e di là finché la luce
del sole lo sommerse completamente. Le mani che gli
stringevano le braccia fino a fargli male non lo lasciarono
e le sue orecchie erano l’unico modo per cercare di capire
cosa stesse succedendo intorno a lui; purtroppo queste
non gli davano buone notizie. Percepivano infatti solo
voci di soldati che impartivano ordini, un lontano
clangore di metallo battuto e sinistri rumori, cigolii
e tintinnare di catene, troppo vicini per i suoi
gusti.
- Dentro! - disse una voce, uno dei soldati che lo teneva
stretto per le braccia. Ricevette una robusta spinta e
sbatté la faccia contro qualcosa di freddo e duro. Dal
sapore che gli rimase sulle labbra capì che si trattava
del ferro di una gabbia.
- Nooo! - gridò cercando di aprire gli occhi che gli
bruciavano per le lacrime. Ma i soldati gli afferrarono
i gomiti e gli costrinsero le braccia dentro la gabbia.
- Non ti muovere o te le spezziamo! - lo minacciò
una voce alle sue spalle.
Poi la gabbia si richiuse dietro di lui, vibrando tutta
orribilmente per il colpo. Il mercante aprì gli occhi
colmi di lacrime che ormai sopportavano la luce del
giorno e vide davanti a sé le sbarre piatte che formavano
l’atroce gabbia, che gli costringeva le braccia in
posizione aperta a formare una vulnerabile croce
umana. Di nuovo tintinnò la catena dietro la sua
schiena: la gabbia fu inclinata all’indietro,
togliendogli il fiato per lo spavento.
Fu trascinato all’indietro per parecchi passi, senza
poter vedere altro che il cielo grigio e i merli delle
mura lontane da una parte, i tetti della città
dall’altra. Poi la gabbia fu lasciata cadere di colpo
e Gambrath gridò per lo spavento e per il dolore. Di
nuovo tintinnò la catena, sopra la sua testa stavolta.
- Pronto? Issa! - disse una guardia e Gambrath si
trovò sollevato con un solo strattone.
- Issa!
La gabbia si staccò dal suolo e cominciò a dondolare
e a girare lentamente su se stessa. Il mercante poté
così vedere ciò che lo circondava: sotto di lui si
apriva uno spiazzo a ridosso delle mura della città,
di cui poteva vedere gli edifici più alti. Poteva vedere,
imponente davanti a lui, il massiccio edificio di pietra
del corpo di guardia dove era stato prigioniero fino a
poco tempo prima. Ruotando piano piano si trovò faccia
a faccia con le grige pietre gigantesche che formavano
la cinta muraria a stella di Taliba. Poi poté vedere,
ormai sotto di lui, la Porta del Nord e tutto il traffico
in entrata e in uscita di carri, gente a cavallo e a
piedi. Ogni tanto qualcuno alzava il volto verso di lui
e lo indicava al proprio vicino. Poi, scambiate due
parole, riprendevano tutti a camminare indifferenti.
- Issa! Issa!
Sollevato sempre più in alto poté avere un impressionante
colpo d’occhio sulla selva di edifici eterogenei che
componeva la città di Taliba e, tra le lacrime e la paura,
ebbe lo stesso modo di meravigliarsi e compiacersi di
quella vista straordinaria.
Con una vertigine improvvisa la gabbia fu tirata
da una parte: aveva raggiunto la sommità delle mura
dove era stato fissato l’argano che era servito per
sollevarlo. Tirato sul camminamento, le due guardie
che lì lo avevano aspettato diedero una voce ai due di
sotto che lasciarono andare la catena. Con uno schianto
la gabbia cadde sulla pietra del camminamento ricavato
tra i due ordini di merli e fu tenuta in piedi dalle due
guardie. Gambrath vide che uno dei due soldati recuperava
una catena infissa in una grossa pietra del pavimento. Un
grosso gancio arrugginito comparve all’altra estremità e
con terrore lo seguì con lo sguardo finché fu agganciato
sopra la sua testa, dov’era la catena con cui era stato
sollevato. Le due guardie poi afferrarono la gabbia dai
lati e la avvicinarono ai merli esterni.
- No! No! Pietà! - gridò Gambrath, trovando il coraggio
e la forza di aprire la bocca.
- Uno… due… tre! - gridarono le due guardie e la
gabbia col povero Gambrath urlante per la paura fu
lasciata cadere fuori delle mura.
Furono le vibrazioni della gabbia metallica a
svegliarlo. Sentì dolore alla fronte, alle gambe e
soprattutto alle ginocchia; cercò di muoversi e la
gabbia dondolò un poco. Il sole stava tramontando e
cominciava a fare freddo. Per il contraccolpo avuto,
la sua testa aveva sbattuto con violenza dentro la gabbia
e quello che sentiva sul volto doveva essere sangue
raggrumato. Un tonfo contro la parete, vicino a lui fece
concentrare la sua attenzione su quello che stava
accadendo sotto di lui, molto in basso. Un soldato a
cavallo parlava con dei ragazzini vestiti di stracci.
- Coraggio! Chi altri riesce a colpirlo ancora? Chi
ci riesce lo prendo in sella con me!
I ragazzini cominciarono a strillare tutti insieme:
tutti volevano salire in sella al cavallo bianco e
nero del soldato. Uno di loro sollevò un sasso da
terra e lo scagliò contro il mercante indifeso: ma
il tiro era troppo debole e la pietra colpì il muro
sotto la gabbia senza nemmeno minacciare Gambrath. Altre
pietre furono lanciate, con pessima mira e scarsi
risultati, convincendo Gambrath che a scagliare la
pietra che lo aveva colpito era stato il soldato. I
bambini presero poi di mira anche le altre gabbie e
provarono diverse tecniche di lancio, incluso il trucco
di lanciare tre o quattro pietre in una volta, sperando
che almeno una andasse a segno. Poi una voce forte urlò
qualcosa senza che lui potesse vedere a chi appartenesse
e il soldato smise di trastullarsi coi bambini per uscire
al trotto dal campo visivo. Gambrath vide con sollievo i
mocciosi che, sfumata la prospettiva del premio,
trovarono rapidamente altrove un altro modo per
svagarsi. Così si ritrovò solo col suo dolore: tutto
il corpo gli doleva per l’immobilità forzata. Dentro
la gabbia non ci si poteva muovere molto e i muscoli e
le articolazioni ne risentivano quasi subito. Le gambe
poi reclamavano la necessità di riposarsi dopo aver
sostenuto così a lungo il peso del corpo, ma la gabbia
era troppo piccola per permettere alle ginocchia di
piegarsi, acuendo così la tortura già insopportabile.
Col calare dell’oscurità il traffico sulla strada
che passava sotto di lui diminuì fino a cessare e
con un gran tonfo, quando l’oscurità fu completa,
Gambrath sentì la Porta del Nord che veniva chiusa. Il
freddo lo stava facendo tremare e soffrire in un modo
indicibile e non poteva nemmeno cercare di ripararsi
stringendosi le braccia sul petto. Gambrath si mise a
piangere, inascoltato: nelle gabbie intorno a lui c’erano
infatti soltanto cadaveri decomposti.
Il sole svegliò Gambrath prigioniero solo dopo essere
riuscito a superare in altezza le mura della città. Il
chiasso del traffico non era riuscito a ridestarlo dal
torpore costellato di dolorosi incubi e continuamente
interrotto da crampi spaventosi, ma la tiepida luce che
non riusciva a scaldargli la pelle gli impedì di chiudere
di nuovo gli occhi.
Come ipnotizzato, il mercante cominciò a seguire
passivamente il traffico caotico e monotono sotto di
lui, come se guardasse un formicaio. D’un tratto la sua
attenzione fu attirata da un grande e lussuoso carro
trainato da diverse coppie di buoi bianchi dalle corna
decorate. Il carro, aperto, appariva confortevole e ben
equipaggiato e le poche persone che vi sedevano erano
circondate dal lusso. Qualcosa destò Gambrath dal suo
torpore, qualcosa che ridestò in lui la coscienza del
dolore che aveva per tutta la notte tentato di ignorare:
un volto, gli abiti, le fattezze di un uomo a bordo di
quel ricco carro.
- Rambel’ Marè… - bisbigliò muovendo appena le labbra
sporche del sangue colato dalla ferita sulla fronte.
- Rambel’ Marè! - disse a voce più alta. Ma l’uomo non
si girò, continuando l’amabile conversazione con gli
altri occupanti del carro.
- Rambel’ Marè! Rambel’ Marè! - gridò infine a squarciagola,
vedendo che il carro si allontanava pericolosamente
fuori portata di voce.
Miracolosamente uno degli occupanti additò le mura in
direzione del mercante che, vedendosi indicare, gridò
ancora più forte e si agitò convulsamente facendo dondolare
vistosamente la gabbia. Colui che credeva essere l’uomo
di medicina incontrato tempo prima si voltò anche lui
verso le mura e poté vederlo in viso. Era piuttosto
lontano e la sua vista era offuscata, ma gli parve
proprio Rambel’ Marè. Questi fece un cenno al
conduttore del carro e pochi passi più avanti questo
accostò e si fermò. L’uomo, vestito da nobile e con
un turbante colorato in testa saltò giù nel fango e
si mosse in direzione delle mura. Subito fu attorniato
dai mendicanti della tendopoli a cui però lui non badò
minimamente: aveva lo sguardo puntato verso l’alto,
verso la sua gabbia. In poco tempo fu sotto di
lui.
- Rambel’ Marè! - ripetè ancora Gambrath. Altre parole
gli affollavano la mente, ma le sue labbra non seppero
pronunciare altro che quel nome.
- Chi sei, tu che gridi così il mio nome? Forse ci
conosciamo?
Gambrath esitò qualche istante di troppo, ma infine
ritrovò la parola.
- Sono Gambrath! Ti ricordi di me?
- Gambrath? Il mercante? Ma certo che mi ricordo di
te! Ma di quali orrendi crimini ti sei macchiato per
finire condannato in questo modo?
- Lo ignoro, venerabile! Quando il centurione Skon
mi ha visto alla Porta del Nord, ha subito ordinato
la mia prigionia e la mia esecuzione!
- Credo di aver capito… - disse l’uomo di medicina
sfregandosi il mento e guardandosi intorno. Poi tornò
a guardare la gabbia, la testa reclinata all’indietro.
- Non ti prometto nulla, ma qualcosa posso tentare. Ora
perdonami, ma sto dando eccessivamente
nell’occhio. Resisti!
- Non mi lasciare! Non mi lasciare! - implorò Gambrath
vedendo l’uomo ben vestito tornare sui suoi passi,
verso il lussuoso carro.
Senza voltarsi nemmeno una volta, Rambel’ Marè salì di
nuovo tra trapunte decorate e cuscini preziosi e dette
numerosi ordini al conduttore del carro. Questi assentì
con la testa e incitò i buoi bianchi a
ripartire. Gambrath, disperato, pianse.
Una forte febbre gli incendiò il corpo, tanto da farlo
delirare e da cancellare il dolore delle ossa e della
carne. Nel delirio, persa la coscienza del proprio
corpo, non sapeva più cosa gli accadeva intorno e
incubi spaventosi gli fecero dimenticare la gabbia,
di cui giunse perfino a non percepire più la presenza
intorno a sé.
Fu con sommo stupore quando ebbe ripreso conoscenza
si accorse che essa era sparita davvero. Non solo: non
si trovava più sospeso sulle mura di Taliba, al freddo
e al gelo della notte, ma sdraiato in un comodo letto
con tante coperte a tenerlo caldo, dentro una stanza
arredata con discreto lusso. Riconobbe subito gli amuleti
ciondolanti appesi al collo: chino su di lui, il volto
di Rambel’ Marè, sorridente.
- Bentornato nel mondo dei vivi - gli disse.
Cercò di parlare, ma la bocca e la lingua erano così
asciutte che quando le mosse sentì dolore.
- Ah… acqua… - riuscì a dire dopo qualche sforzo.
L’uomo di medicina lo accontentò bagnandogli la bocca
con un fresco panno intriso di acqua.
- Perdonami per averti lasciato lassù, mio buon mercante,
ma non potevo fare di più al momento.
- Che… che grande debito ho… contratto oggi… - rispose
Gambrath. Il suo corpo si stava risvegliando poco a
poco e i postumi di una forte febbre apparvero chiari
anche a lui.
- Non ci pensare. Preoccupati solo di guarire:
io preparerò le medicine per te.
Gambrath volle rispondere per esprimere la sua
preoccupazione: avrebbe voluto dirgli che non aveva
più monete, ma non ne ebbe la forza.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 8
8.
Aveva appena finito il bagno balsamico quando
l’eunuco di Rambel’ Marè si presentò a lui,
comunicandogli che l’uomo di medicina lo aspettava
nella sua camera. Gambrath non se lo fece dire due
volte e rivestitosi con i suoi abiti, accuratamente
lavati e rammendati fino a sembrare nuovi, si affrettò
a ritornare nella camera, da dove l’amico Rambel’ Marè
gli consentiva di uscire solo per i bagni balsamici.
Camminò sotto il piccolo portico della grande casa,
che dava su di un angusto cortile interno sempre in
ombra in quei grigi giorni invernali, ripensando
all’incredibile storia che l’uomo di medicina gli
aveva raccontato durante quei lunghi giorni di
degenza. Rambel’ Marè non era certo uno sprovveduto
alle prime armi: aveva saputo approfittare delle
occasioni insperate che gli si erano presentate. Infatti,
quando quel giorno si era allontanato dalla taverna
su richiesta della grassa padrona era andato a visitare
una sua cugina che giaceva malata da giorni. L’uomo
di medicina aveva subito facilmente diagnosticato
una banale ma sconosciuta malattia, di cui Gambrath
non ricordava nemmeno il nome da tanto che esso era
astruso e poco comune, ma se n’era guardato bene dal
dirlo a chiunque; in questo modo recitando abilmente
era riuscito a fingere di aver salvato da un’orribile
fine la cugina della padrona della taverna, mentre
invece con poca spesa aveva prodotto un farmaco che
aveva avuto effetti miracolosi. La cugina era
migliorata in poche ore e quella sera stessa Rambel’
Marè era stato ospite del padre e della madre
della malata, occupando al tavolo il posto
dell’ospite d’onore. La gratitudine e la devozione
che i parenti della malata gli dimostrarono valse
a lui un comodo giaciglio per la notte, tutt’altra
cosa che quello della locandiera la quale fu costretta
dai parenti a non pretendere neanche una moneta per
la stanza rimasta vuota.
La fama di Rambel’ Marè era volata alle stelle quando
la mattina dopo la malata, che tutti davano per
spacciata, si era sollevata dal letto con un bel
colorito e aveva chiesto da mangiare poiché aveva
appetito. Per lui divenne quasi impossibile circolare
liberamente per la folla che gli si accalcava
intorno. La sua fama giunse così fino alle orecchie
di Rendel Lorente, un signore molto ricco e potente
e con amicizie influenti. Costui si era guadagnato
tutte le sue monete, dalla prima all’ultima, grazie
alla sapiente gestione della sua casa di piacere,
la più lussuosa e perfetta di tutta Taliba. Rendel
Lorente aveva convocato Rambel’ Marè al proprio
cospetto e gli aveva proposto un affare: se avesse
smesso di esercitare la sua preziosa professione
vagabondando qua e là per lavorare per lui, avrebbe
avuto tante di quelle ricchezze da non sapere che
farsene. Rambel’ Marè aveva dato uno sguardo alle
ricchezze che circondavano quell’uomo, ai vestiti
che indossava, agli schiavi sua fonte di guadagno
e aveva accettato.
Gambrath si era stupito della scelta dell’amico:
poteva riconoscere a vista quelli come lui, incapaci
di stare troppo tempo fermi nello stesso posto e Rambel’
Marè era uno di quegli uomini. Anche l’uomo di medicina
aveva detto di essere lui stesso sorpreso dalla propria
scelta, ma la grande quantità di ricchezze che era
subito stata messa a sua disposizione gli aveva fatto
dimenticare ogni cosa. Così anche lui adesso era
ospite di Rendel Lorente, non il più ricco e potente,
ma certamente il più discusso signore di
Taliba. Raggiunta la piccola ma confortevole stanza
dove aveva atteso che la febbre e il dolore
abbandonassero il suo corpo, Gambrath salutò il
suo amico Rambel’ Marè.
- Salute, amico mio - gli disse l’uomo di medicina.
- La mia buona salute è merito tuo - rispose Gambrath,
sedendosi su uno sgabello.
- No, solo dei miei farmaci. Come ti senti? Hai
fatto i balsami?
- Sì, ho finito proprio poco fa. Il tuo servo mi
ha incontrato mentre mi rivestivo. Ma dimmi, questi
bagni balsamici che tu mi prepari… devono essere
per forza così freddi?
L’uomo di medicina rise divertito.
- Il mio signore è molto ricco e influente, è vero,
e ha una grande villa con molti bagni, ma l’acqua
calda nelle vasche è roba da re!
- Ho sentito diverse storie sul tuo signore mentre
riposavo qui. Ho sentito che tantissimo tempo fa
giunse a Taliba a piedi, spese tutte le sue monete
per acquistare una schiava e cominciò a prostituirla
per la strada.
- Bada, amico mio: al mio signore non piace rivangare
il passato. È vero, molti dicono così: fossi in te
mi accontenterei di sentire voci qua e là. Ti
consiglio di non fare domande. La ricchezza e
il potere rendono piuttosto permalosi.
- Non ti ho chiesto dove stavi andando quel
giorno che ti ho visto su quel carro, mentre
stavo appeso nella gabbia.
- Il mio signore progetta di aprire un’altra
casa e ha bisogno di nuove schiave e di nuovi
schiavi. Mi ha mandato a controllare le condizioni
di salute di alcuni che si erano offerti di vendere
i propri figli, e dei figli stessi. Come sai, il
mio signore si vanta di affermare che nessun suo
cliente si è mai ammalato per causa attribuibile
a ciò che accade qui.
- E di questo sei tu l’artefice.
- Modestamente… il mio predecessore pare fosse qualcosa
di poco più evoluto di uno stregone: è un vero
miracolo che questi schiavi non siano tutti malati
e che non abbiano mai contaminato nessuno.
Rambel’ Marè si alzò di scatto dalla sedia dove si
era accomodato e con aria gioviale cambiò discorso.
- Bene! Se la tua salute è buona stasera sarai ospite
alla tavola del mio signore. Egli è molto curioso di
sapere chi è quell’uomo la cui salute mi sta così a
cuore. Devi soprattutto a lui la tua libertà.
- E a chi ha interceduto per me. Senza di te, amico
mio, a quest’ora sarei cibo per vermi, ancora appeso
sopra la Porta del Nord!
Rambel’ Marè ridendo si avvicinò all’uscio, alzando una
mano in segno di saluto.
- Aspetta! - lo fermò il mercante - Volevo chiederti
una cosa molto importante.
- Sentiamo.
- Secondo te la mia salute mi permette di partire?
- Quando vorresti partire? - disse l’uomo di medicina
ritornando serio.
- Presto. Domani mattina. Cercherò un passaggio su
qualche carro diretto a Bel’ee. Forse ho la possibilità
di guadagnare qualche moneta: ho ancora una schiava.
- Non sono sicuro che tu possa affrontare un viaggio. Sarebbe
meglio per te riposare ancora.
- Ma sono giorni che la febbre è passata! Le mie forze sono
tornate! Il mio debito è così grande che se anche vendessi
la mia schiava e tutti i miei abiti restando nudo, non potrei
mai pagare te o il tuo signore. Se resto ancora, il mio debito
sarà incolmabile! - protestò Gambrath.
Rambel’ Marè lo guardò per qualche istante: negli occhi del
mercante riconobbe quella luce che brillava, desiderio di
agire e di non subire gli eventi, di essere fabbro del
proprio destino. E da buon mercante, di non avere debiti
con nessuno.
- Sta bene. Se ti sentirai in grado di farlo, partirai
domani mattina.
Il mercante si alzò prestissimo: mangiò fichi secchi e
bevve vino dolce. Nella villa regnava il silenzio più
assoluto: l’industriosa attività di schiavi e schiave
iniziava poco prima di mezzogiorno e andava avanti fino a
notte fonda, quando la villa chiudeva i battenti. Un servo
gli porse gli abiti, l’unica cosa che fosse di sua proprietà
oltre alla chiave che portava sempre appesa al collo, attestato
di proprietà di uno schiavo. Poi si recò alla porta principale
e il servo la aprì.
- Porta i miei saluti al tuo padrone e al venerabile Rambel’
Marè, porgendo loro i miei migliori auguri. E auguri anche
a te - disse Gambrath, posando una mano sulla spalla del
servo che l’aveva accudito.
Stava già per incamminarsi lungo la via, già frequentata
da qualche pedone e da rari carri quando il servo lo
fermò.
- Attendi, signore! Ti prego!
Il mercante si voltò e vide il servo indicare il lato
della casa, dalla parte delle stalle. Stava per parlare
quando da dietro l’angolo comparve l’altro eunuco che
teneva per il morso un bel bue bianco. Aggiogato al bue
un carro a due ruote, solido e di buona fattura.
- Il mio padrone ti offre questo dono affinché tu possa
ricominciare a mercanteggiare. Ti prega di accettarlo e
di considerarti libero da debiti.
- Ma… io non posso accettarlo! È troppo per me, non
potrei mai ricambiare il tuo nobile padrone! - disse
Gambrath balbettando meravigliato.
- Ti conviene accettare: nessuno ha mai detto di no
a Rendel Lorente.
Gambrath si voltò al suono della voce alle sue
spalle. Era Rambel’ Marè, che era apparso dall’ombra
della soglia.
- Ma come posso…?
- Sali su quel carro e parti, e pensa a qualche
buon affare da concludere - lo esortò l’uomo di
medicina sorridendo.
Lentamente il mercante salì sul bel carro a due ruote
e prese le briglie che l’eunuco gli porgeva. Rimase
lì, senza decidersi a spronare l’animale.
- Che aspetti? Va'!
Gambrath spronò il suo nuovo bue bianco che docilmente
si mise in movimento e si lasciò condurre sulla strada.
- Grazie! - disse voltandosi verso l’amico e i due servi,
alzando il braccio in segno di saluto.
I tre risposero al saluto e stettero in strada a guardare
il carro finché si confuse con gli altri.
Stava per passare con non poca angoscia la Porta del Nord
quando gli capitò di assistere ad una scena che gli
fece tuffare il cuore nello stomaco. Aveva lo sguardo
rivolto verso l’incombente edificio del corpo di guardia,
dove era stato rinchiuso e nel cui piazzale, tenuto
sgombro dai soldati, venivano fabbricate le gabbie. Davanti
alla spessa porta rinforzata con metallo sostava un
gruppetto di mentecatti luridi e vestiti di stracci;
la porta si aprì e una guardia gettò loro un grosso
fagotto. Ci volle meno di un battito di ciglia perché
Gambrath riconoscesse una donna: esili braccia inerti,
pallide, una lunga chioma scura, un piede scalzo che
apparve tra i cenci dei disgraziati che accerchiarono
immediatamente la loro ricca preda. Orripilato da
quella vista, seguì con lo sguardo i mendicanti che
si diressero immediatamente in una strada stretta
dietro il grande edificio. Gambrath, senza sapere
esattamente cosa stava per fare, tirò le redini
del suo bue bianco e gli fece invertire la marcia. Non
c’era molto traffico e la brusca manovra non dette
fastidio a nessuno; spronò la sua bestia finché
questa si mise a trottare, trainando il carro a
due ruote a discreta velocità. Si indirizzò verso
l’ingresso del vicolo e visto che l’animale esitava
di fronte alla strada stretta e buia, lo incitò
ancora. Il carro entrò rombando nel vicolo e il bue
bianco emise un forte muggito che riecheggiò tra le
pareti. I mendicanti, credendosi al sicuro, avevano
posato la loro preda a terra e quando sentirono
tutto quel fracasso si spaventarono e fuggirono,
credendo forse di essere sulla traiettoria di una
carica di bestie impazzite. Il mercante, visto
il fagotto di stracci e membra umane inerte in
mezzo alla strada, cercò di frenare disperatamente
la corsa del suo carro; muggendo e sbuffando alito
bianco dalle larghe narici per la corsa, il bue
si fermò a meno di un passo dalla donna che
giaceva ancora a terra.
Gambrath si accorse di aver trattenuto il fiato:
con le gambe che tremavano un po' saltò giù dal carro
e accorse. I lunghi capelli sporchi, annodati e
inestricabilmente aggrovigliati tra loro celavano
il viso della donna; gli abiti erano consumati e
lerci di ogni genere di immondizia; la pelle avrebbe
cambiato colore se lavata con acqua e sapone, se i
segni scuri che poteva vedere non erano tutti orribili
lividi. Al polso sinistro appariva evidente il
bracciale di ferro nero degli schiavi.
Non era un uomo di medicina e l’unico modo per
vedere se aveva a che fare con un cadavere era
controllare il respiro e il cuore; il primo era
debolissimo, appena percepibile, mentre per sentire
il battito dovette appoggiare l’orecchio sul petto
della sventurata che, tra l’altro, puzzava in maniera
micidiale. Nel risollevare la testa la guardò bene
in volto. Era stata picchiata più volte, le labbra
rotte e gonfie, la pelle lacerata e sporca di sangue
e gli occhi infossati e cerchiati di scuri lividi ne
erano testimoni, sfigurando i lineamenti e rendendola
repellente alla vista. Non si lavava da chissà quanto
e la pelle era incrostata e appiccicosa di ogni genere
di immondizia. Gambrath infilò le braccia sotto il
corpo immobile e lo sollevò di peso, constatando la
grave denutrizione della donna: era così leggera che
non fece alcun fatica a sostenerla, la pelle era
tesa sul torace e con le mani poteva contare le
ossa una a una.
La caricò in fretta sul carro, prima che i mentecatti
tornassero con i rinforzi, essendosi accorti di essere
stati assaliti da un solo uomo. La coprì con una coperta
che trovò sotto il sedile insieme a succulente provviste,
ennesima premura del suo amico Rambel’ Marè e del suo
signore. Risalito a cassetta spronò il bue e uscì dal
vicolo, diretto verso la Porta del Nord.
Pagato il pedaggio con le monete che aveva trovato
tra le provviste (non ci aveva pensato, e si trovò a
dover ancora ringraziare il suo amico) e subita una poco
scrupolosa perquisizione, si fermò dopo poco presso una
fattoria dove chiese il permesso di usare un po' d’acqua
per lavare le ferite di quella che aveva detto essere la
sua serva. Con sua grande gioia quando spruzzò con le
mani l’acqua gelida sul viso della donna questa reagì
emettendo un debole lamento. Senza spostarla dal carro,
bagnò ancora le mani e le sfregò piano il volto,
cercando di capire dove avesse le ferite sotto la
sporcizia. Fu allora che gli parve di vedere, nonostante
lividi e ferite gonfie, un volto noto.
- Rama…?
Bagnò ancora le mani che ora tremavano leggermente
e cercò di pulire meglio il viso. Poteva essere lei,
ma come essere sicuri? Gli occhi lividi, le labbra
nere e gonfie di botte, graffi e abrasioni ovunque?
- Rama? - disse ancora. La schiava si lamentò
ancora impercettibilmente.
- Rama!
Stavolta la schiava riuscì a sollevare una palpebra;
l’altra rimase chiusa, incollata da un grumo di
sangue. Era lei.
- Per Elzer, come ti hanno ridotta! - esclamò Gambler,
eccitato. Era convinto di aver fatto una grande
sciocchezza correndo in aiuto di una schiava mezza
morta, forse invece sarebbe stata la sua fortuna.
Cercò disperatamente di rianimarla, ma l’occhio si
richiuse e le membra rimasero inerti. Le fece gocciolare
acqua nella bocca alternandole con gocce di vino, e questo
sortì l’effetto di farle contrarre i muscoli del viso in
una debole smorfia. Poi, rimpiangendo di non poter tornare
indietro da Rambel’ Marè perché non avrebbe avuto abbastanza
monete per il pedaggio e per non indebitarsi con lui ancora
più gravemente, decise di provare a cavarsela con le sue
sole forze. Sistemò Rama dentro la coperta meglio che poté,
chiedendo ai contadini un po' di paglia per impedire che
la testa della giovane donna, irriconoscibile, posasse sul
duro legno del pianale del carro, soggetta a tutti gli
scossoni del viaggio. Poi si mise in cammino, facendo
attenzione a evitare ogni sobbalzo inutile, ma determinato
ad arrivare alla stazione di posta nel minor tempo
possibile.
Non si fermò per mangiare ma solo per controllare che
la schiava fosse viva e per darle acqua mista a vino,
in modo che riprendesse forza. La notte dormì abbracciato
a lei sotto la coperta non per il timore che fuggisse ma
per impedire che il gelo della notte finisse il lavoro
del carnefice che l’aveva ridotta in quello stato. In
quei tre giorni mille volte temette di svegliarsi
abbracciato al corpo privo di vita della giovane,
mille volte si premurò di farle inghiottire pezzettini
di cibo, mille volte maledisse il nome del centurione
Skon. Solo la mattina del terzo giorno lei premiò i suoi
premurosi sforzi aprendo entrambi gli occhi e sorridendogli,
mostrandogli i denti intatti, intenzionalmente risparmiati
dalle percosse del boia.
- Rama! Resisti, siamo quasi arrivati!
La ragazza bisbigliò qualcosa. Aveva ancor le labbra
tumefatte, gonfie e piene di ferite in via di guarigione
e Gambrath non riuscì a capire se si fosse trattato di un
sussurro o se la schiava avesse tentato di parlare.
- No, no… non ti sforzare. Non parlare, non fare
niente. Pensa a guarire, eh? - la esortò il mercante,
parlando senza secondi fini, per una volta.
La ragazza lasciò trascorrere qualche istante e
poi prese di nuovo fiato per parlare, ma anche
questa volta non riuscì a emettere che un incomprensibile
sussurro. Gambrath sbocconcellò una delle ultime spianate,
un tipo particolare di pane non lievitato che si conserva
a lungo dopo la cottura e cercò di farla inghiottire
alla ragazza. Con sua grande sorpresa questa mostrò di
essere in grado di masticare. Contento per questa buona
nuova, le diede anche un po' di frutta secca, ma quando
deglutì questa la ragazza schiava ebbe una smorfia di
dolore, segno che le ferite interne erano ancora
aperte. Dissetò la poveretta e dopo aver trangugiato
rapidamente una parca colazione Gambrath aggiogò il
bue bianco e si rimise velocemente in marcia.
Mancava poco al tramonto quando giunse in vista
della stazione di posta. Fumo bianco usciva dal tetto,
segno che l’attività ferveva all’interno. Pensò a
Lerea, e si chiese cosa avrebbe dovuto fare se, come
si aspettava, era stata sverginata da qualcuno, per
esempio da qualche cliente di passaggio non più reperibile
per potergli chiedere un risarcimento.
Quando fu a portata chiamò a gran voce, com’era usanza
e buona educazione fare. Anche stavolta sull’uscio
comparve la nota sagoma di Cambler, l’oste, che gli
fece un cenno di saluto, invitandolo ad avvicinarsi.
- Cerco rifugio, nobile Cambler - disse il mercante
sorridendo al buon thale quando fu vicino.
- L’hai trovato, mio buon Gambrath. Condurrò io
il tuo nuovo bue, se vuoi.
- Aspetta. Guarda sul carro, prima. È nel tuo
interesse.
Probabilmente Cambler intuì qualcosa dall’espressione
sorridente sul volto del mercante e si avvicinò al
carro con sguardo interrogativo e speranzoso
assieme. Gambrath saltò giù dal carro e gli fu a
fianco, notando che anche lui ebbe bisogno di
qualche istante per riconoscere la poveretta
adagiata sulla paglia e imbacuccata nella coperta,
sul pianale del carro.
- Rama! - disse l’oste saltando sul carro e chinandosi
vicino alla sua schiava.
- Proprio lei. L’ho …salvata per un soffio - disse
Gambrath, cambiando all’ultimo momento la frase che
gli si era formata nella mente.
L’oste si alzò in piedi facendo oscillare il carro
per l’impeto e per la sua mole.
- Lerea! Lerea! - gridò rivolto verso la stazione
di posta. L’uscio si aprì di nuovo.
Gambrath si voltò a guardare la sagoma che comparve
sulla soglia, indubbiamente quella di una donna. A
giudicare dagli abiti doveva essere proprio la sua
schiava. Questa restò lì un attimo, il tempo di
identificare chi fosse in compagnia dell’oste
Cambler. Poi scattò di corsa verso i due, correndo
come lo consentivano le vesti fatte di molti veli
lunghi fino a terra. Corse soffiando sbuffi di
alito bianco coprendo la breve distanza in pochi
attimi, corse fino a raggiungere il mercante. Poi
si lasciò cadere ai suoi piedi e si aggrappò a
lui, abbracciandogli strettamente le ginocchia,
tanto repentinamente da lasciar pensare di aver
inciampato.
- Padrone! - disse premendo una guancia rosa per
il freddo contro le ginocchia dell’uomo. Gambrath
era meravigliato da tutta quella devozione. Osservò
la sua schiava: sembrava in perfetta salute,
esattamente come l’aveva lasciata. Anzi, si era
guadagnata una giacca di pelle dalle maniche
lunghe, per difendersi dal freddo evidentemente,
visto che l’abito dai molti veli non doveva essere
ideale per l’inverno. La afferrò per le ascelle e
le impose di alzarsi in piedi.
- Perdonami, nobile Gambrath. Ordina alla tua
schiava di occuparsi della mia, se vuoi.
Il mercante si voltò: l’oste aveva tra le braccia
robuste il corpo di Rama avvolto nella
coperta. Compiaciuto per le parole dell’uomo,
fu felice di accontentarlo.
- Conosci qualche rimedio? Rama, la schiava di
Cambler, è stata percossa da mille soldati, è molto
debole.
- Conosco qualche rimedio - disse Lerea volgendo
lo sguardo alla giovane malridotta tra le braccia
dell’oste, e quando questi si incamminò verso la
stazione di posta, lo seguì.
- Nottle! Accudisci il carro del nobile Gambrath!
La sera era trascorsa piacevolmente davanti a piatti
caldi: Gambrath ebbe modo di raccontare la sua storia
a Cambler e ad altri quattro viandanti ospitati per
quella notte. Raccontò, con ogni dettaglio, quanto
fosse stato tragico il suo ritorno a Taliba, la
drammatica prigionia e la tortura della gabbia. Narrò
poi, con grande meraviglia e stupore dei suoi cinque
ascoltatori, dell’incredibile fortuna che gli era
toccata, della sorte benigna che aveva fatto passare
il carro di Rambel’ Marè proprio sotto la sua
gabbia. La stessa buona sorte che aveva voluto far
diventare l’uomo di medicina ricco e potente,
abbastanza da riuscire a far annullare la sua
condanna. Raccontò infine di come era stato curato
e guarito da Rambel’ Marè in persona, contribuendo
a portare un po' in giro la sua fama di ottimo uomo
di medicina e si perse in mille lodi per glorificarne
la generosità: il carro e il bue infatti erano un dono
suo, non significava affatto che fosse diventato
ricco. Anzi, Gambrath confessò di avere una sola moneta
e di non potersi permettere neanche il letto per la
notte.
Cambler lo confortò dicendogli che il debito che lui
aveva nei confronti del mercante superava di gran lunga
il valore di una moneta. Anzi, lo esortò a dirgli il
prezzo che doveva pagare per poter riavere Rama.
Gambrath rimase perplesso. Anche questa volta corresse
abilmente il suo primo pensiero e disse all’oste che non
poteva comprare una cosa già sua e che poi non aveva la
chiave. Quindi l’affare non avrebbe potuto essere concluso
in nessun modo.
Pensò alla chiave: molto probabilmente era rimasta nelle
mani di Skon, il quale le aveva fatto fare chissà quale
fine. I centurioni e tutti i soldati in genere non avevano
un senso della proprietà molto sviluppato, non tanto quanto
un mercante, senza dubbio. La chiave, vero e proprio attestato
di proprietà di uno schiavo, era importantissima per il
mercato. Nessuno poteva comprare o vendere uno schiavo
senza la chiave giusta, nessuno poteva dire di avere uno
schiavo se non era in possesso dell’unica copia della
chiave che apriva il bracciale di ferro nero che lo schiavo
portava al polso sinistro. La serratura del bracciale
non si poteva scassinare, non si rompeva e non si apriva
con nessun’altra chiave. Nessuno avrebbe avuto anche il
minimo guadagno mozzando la mano sinistra a uno schiavo
pur di entrarne in possesso. Uno schiavo che non fosse
accompagnato dalla sua chiave era uno schiavo destinato
ad avere tanti padroni, mentre un padrone privo della
chiave non era più padrone di nessuno schiavo. Ma per
uno come Skon la chiave non contava nulla, era un oggetto
privo di significato. Un centurione come Skon era abituato
a prendere con la forza o con l’inganno tutto quello che
desiderava e cessato il desiderio buttava via tutto quanto
non gli aggradava più di avere intorno, schiavi
compresi. Chissà dove si trovava quella chiave, ora:
senza di quella lo schiavo, secondo la legge, non era
tenuto a chiamare nessuno “padrone”, non era tenuto a
obbedire a nessuno. Chiunque avesse bastonato uno
schiavo senza possederne la chiave, sarebbe stato
bastonato a sua volta. Questa era la legge, a meno
che a bastonare fosse un centurione, naturalmente.
Anche Cambler sapeva queste cose e si rattristò alla
notizia. Il primo prepotente che fosse passato di lì,
accortosi della mancanza della chiave avrebbe potuto
portare via Rama senza che lui potesse opporsi
minimamente. Vedendo l’oste rabbuiarsi, cercò di
consolarlo dicendosi certo che quella chiave era
sicuramente andata irrimediabilmente perduta e
nessuno ne sarebbe mai più entrato in possesso. Quanto
a Rama, sarebbe stato sufficiente non dire in giro che
la sua chiave era andata perduta e non ci sarebbero
stati problemi. Poi lo esortò cordialmente a raccontare
come gli fossero andate le cose nel frattempo: notò che
i danni erano stati tutti riparati con successo, che
il figlio era guarito e sembrava più forte e
muscoloso di prima e che i clienti non mancavano.
Cambler, rassegnato, raccontò quindi di come la
schiava Lerea lo aveva aiutato a curare Nottle, a
rimettere in funzione a dovere la cucina e a riparare
i danni subiti, lavorando instancabilmente come Gambrath
gli aveva promesso. Raccontò della fatica fatta a
racimolare le monete per le provviste, poiché non aveva
potuto far fare alla schiava il giro delle stanze di
notte per onorare la promessa fatta al mercante, e di
non essere mai riuscito ad accumulare le cento monete
per riscattarla.
Gambrath riempì di lodi il buon oste per la sua sincerità
e per la sua impareggiabile onestà: questi commosso offrì
un bicchiere di vino a tutti i presenti, senza maggiorazioni
di prezzo. Poi il mercante chiese di nuovo se era sicuro
di volergli offrire anche la camera. Cambler, con gli
occhi lucidi un po' per il vino, un po' per gli elogi
che gli erano stati rivolti e per le emozioni che
quella serata gli aveva riservato, quasi trasalì
alla domanda e invitò Gambrath a scegliere una
qualsiasi delle camere libere, senza preoccuparsi
dei debiti.
Vista l’ora tarda e la stanchezza, il mercante ne
approfittò subito prima che Cambler pensasse di
cambiare idea e salutata cordialmente tutta la compagnia,
se ne andò di sopra a dormire. Si scelse una stanza,
si accomodò su di un materasso sistemandosi come suo
solito a ridosso della porta di ingresso, si coprì
con le calde coperte e in poco tempo si addormentò.
Il suo sonno leggero da mercante durò poco: la
porta della sua stanzetta si aprì andando a sbattere
contro la sua schiena, svegliandolo. Allarmato,
Gambrath rotolò giù dal materasso e si preparò
come poté ad affrontare l’intruso, già ben
sveglio. Purtroppo dalla sua disavventura con la
gabbia non aveva più il suo coltello: oltre a dover
mangiare con le mani, non poteva neanche difendersi
con efficacia, non essendo un lottatore.
L’intruso, spaventato quanto lui, si era rapidamente
ritirato nello stretto corridoio che separava le
camere. Aveva in mano una lucerna, poteva vederne
la luce proiettata sul pavimento di assi di
legno; si chiese quale fosse quel gaglioffo tanto
inesperto e imbranato da tentare di derubare
qualcuno di notte, durante il sonno, facendosi
luce con una lucerna.
- Padrone…?
La debole voce esitante che sussurrò nel corridoio
era quella di Lerea.
- È il modo di fare, questo? - disse lui adirato
ma sottovoce, per non disturbare il sonno altrui.
- Perdonami padrone…
- Che ci fai in giro a quest’ora?
- Ho lavorato molto, padrone. Ho anche accudito
la schiava dell’oste tuo amico. Ho finito solo ora
e ho pensato che mi avresti voluta con te per la
notte. Fa molto freddo ed è scesa la nebbia.
- Ah, va bene. Entra, dunque, non startene lì
tutta la notte.
La giovane schiava entrò scavalcando il materasso e
rimase in piedi nel centro della stanza, con la lucerna
in mano.
- Cambler mi ha parlato molto bene di te. Sono contento
che tu ti sia comportata bene. Ti ha sverginata? - le
chiese bruscamente, sottovoce.
La schiava scosse la testa.
- E suo figlio?
Ancora un cenno negativo.
- Spogliati, fammi controllare. Dai a me
la lucerna.
La lucerna passò di mano e Lerea si spogliò
in silenzio. Alla tremolante luce dello stoppino
Gambrath poté vedere che in sua assenza era
successo qualcosa: la sua schiava aveva cominciato
a cambiare nel fisico. I fianchi si erano snelliti,
il ventre sporgeva di meno e braccia e gambe
parevano meno giovani ma nel contempo più sode
e robuste.
- Sapevo che lavorare ti avrebbe fatto bene: stai
migliorando - le disse mentre con mano esperta
verificava la sua purezza.
- Sono più tranquillo, ora. Giovane e vergine vali
di più che giovane e basta, anche se ottima lavoratrice,
ricordalo. Dev’essere stato difficile per te rimanere pura.
- L’oste lavora duramente e è sempre molto stanco la
sera. E non soffre mai il freddo.
- E il figlio? Non ti ha mai neanche toccata?
- Ha i gusti di un candriano - disse lei, in piedi
nel centro della stanza, le braccia abbandonate
inerti lungo i fianchi nudi.
Gambrath sorrise. Rimise la lucerna in mano alla schiava
e si rinfilò di nuovo a letto. Lerea non si mosse di un
dito.
- Beh? Che fai lì, ferma? Credi di essere una
lampada? Vestiti e coricati: domani ci alzeremo
molto presto e decideremo il da farsi.
Lerea soffiò fortemente sulla lucerna spegnendola. Gli
abiti frusciarono nel buio e le assi di legno del
pavimento scricchiolarono mentre il suo peso si
spostava da una all’altra. Infine il mercante la sentì
inginocchiarsi vicinissima a lui.
- Padrone… mi vuoi nel tuo letto?
Il mercante sbuffò seccato ma poi rispose di sì, a
condizione però che non lo abbracciasse e se ne
stesse ferma e buona. Senza dire una parola, piena
di timore reverenziale la schiava si mise a letto
con lui e insieme passarono la notte scaldandosi
l’uno con l’altra.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 9
9.
Stanca di camminare, non appena vide un tronco abbattuto
lo usò come sedile. I due spadoni che si era scelta
si impuntarono al suolo quando si sedette e se ne
sbarazzò con un gesto di stizza, gettandoli uno
sull’altro contro il tronco stesso. Si concentrò
di nuovo, ma niente: non riusciva a materializzare
neanche un triciclo per bambini. Cominciò a pensare
di essersi sbagliata: sarebbe stata la prima volta,
finora le sensazioni che il varco le trasmetteva si
erano rivelate infallibili. Una volta uscita dal vuoto
interdimensionale stavolta non aveva trovato niente
intorno a sé, solo una pianura desolata, un po' di
fredda foschia e niente altro. Nessuno che avesse
bisogno del suo aiuto, non solo: neanche un’anima
viva nel raggio di chilometri, evidentemente,
altrimenti se ne sarebbe accorta sicuramente. Sentiva
ancora il varco lontano alle sue spalle, ma non
voleva rassegnarsi all’idea di tornare
indietro. Appena passato il varco aveva applicato
su di sé tutte tutte le trasformazioni che la sua
fantasia aveva a lungo preparato, diventando ancora
una volta l’invincibile guerriera che aveva imparato
a essere lì, in quel luogo impossibile. Ma stavolta
qualcosa doveva essere andato storto: forse l’eccessivo
entusiasmo l’aveva tradita, forse stava tutto per
finire (e quel solo pensiero la riempiva di grande
angoscia), ma non riusciva più a materializzare
tutto quello che voleva. Aveva provato con le armi,
le più diverse, e ci era riuscita come sempre, ma
non riusciva a materializzare un veicolo nemmeno
se si sforzava al massimo, chiudendo gli occhi e
pensando intensamente a ogni minimo dettaglio le
venisse in mente. Cosa che invece era riuscita
addirittura due volte a Marcus: a breve distanza
l’uno dall’altro aveva materializzato addirittura
un blindato prima e poi una Pegasus sportiva con
tutti gli accessori immaginabili. Tutto
inconsciamente, senza volerlo davvero. Si chiese
se fosse quello il trucco e provò a pensare
inconsciamente a qualcosa che avesse almeno tre
ruote, ma non ebbe successo. Dov’è Marcus adesso
che mi serve, pensò amaramente cominciando a
pentirsi di aver voluto fare di testa sua. A
interrompere il corso dei suoi burrascosi
pensieri, il ritmato tonfo degli zoccoli di
un cavallo al passo.
Emerse dalla nebbia a poche decine di metri
alle sue spalle: bardato e sellato, ma senza
cavaliere. Dora si stupì di non essersene accorta:
si sollevò in piedi e andò piano incontro
all’animale che pareva tranquillo e sbuffava alito
che si condensava in nuvolette bianche. Non sapeva
affatto cavalcare: anzi aveva una certa paura
dell’animale, molto più grosso di lei, ma la
prospettiva di andare ancora in giro a piedi la
convinse che era ora di imparare.
- Vieni, bel cavallino… vieni… - disse con voce
dolce ma un po' tremante. L’animale era veramente
molto grande e Dora si chiese se si sarebbe lasciato
montare senza discutere.
Cercò di afferrare le briglie ma il cavallo si
sottrasse sollevando il muso ed emettendo un suono
dalle nari che la spaventò.
- Oh! Non fare scherzi, sai? Non ti faccio
niente! Sei già sellato, che male c’è se ti
cavalco?
Dora si fece ancora sotto tendendo la mano per
afferrare le briglie che pendevano dal muso, ma
il cavallo se la prese a male e scartò ancora per
sottrarsi.
- Ma chi credi di essere? Vieni qui e lasciati
montare!
Il cavallo le mostrò i denti e brontolò ancora, piano.
- Mi prendi per il culo? Chi ti ha insegnato queste
cose?
- Io.
La voce alle sue spalle la fece voltare di
scatto. Una figura scura stava in piedi vicino al
tronco dov’era seduta un minuto prima e le puntava
contro un fucile.
- Non ti muovere! - le intimò bruscamente l’uomo -
metti le mani in alto, non fiatare, non fare magie:
se vedo qualcosa che non capisco, tu muori.
Dora si morse il labbro inferiore dandosi della stupida
e fece come le era stato detto. Si sentiva una perfetta
cretina.
- Chi sei? - chiese all’uomo.
- È giusto che tu sappia che il mio nome è Kail di
Trondaim e Nejira. Sono meglio noto come Kail dei
Basran. E tu chi saresti?
- Io sono Dora.
- E poi?
- E basta! Cosa te ne frega?
- Che nome strano.
- Senti chi parla - replicò Dora pronta. Se non fosse
stato per quell’arma spianata, lo avrebbe già picchiato,
quello spaccone. Anche se era molto più alto di lei.
- Sai di essere ricercata? - disse lui avvicinandosi
di qualche passo e frapponendosi fra Dora e gli spadoni,
ancora appoggiati al tronco abbattuto.
- Eh?
- Proprio così. Cinquecento monete per la tua cattura.
- Oh, cazzo! Ci mancava il cacciatore di taglie!
- Tieni le mani in alto! - gridò lui imbracciando
meglio il fucile. Dora che aveva osato muoversi, si
congelò. A guardarla così da vicino, quell’arma da fuoco
pareva tutt’altro che primitiva: non molto bella a vedersi
ma dotata di un caricatore estraibile per le munizioni e
probabilmente era anche in grado di far fuoco a
raffica. Il calibro del foro della canna poi non
la faceva stare affatto tranquilla.
- Non volevo rubarti il cavallo. Non sapevo fosse
tuo.
- Sì, lo so. Sono stato io a mandarlo da te.
- Ma smettila!
L’uomo barbuto fischiò sonoramente e il cavallo
trotterellò al suo fianco. Dora era stupita: come se
sapesse cosa stava accadendo, il cavallo non si era mai
frapposto lungo la linea di mira dell’arma del cacciatore
di taglie. Poi questi prese un pesante oggetto di metallo
scuro da una delle borse appese alla sella del suo cavallo:
erano due cilindri accoppiati tra di loro parallelamente
e lo spessore del metallo faceva impressione.
- Adesso girati e avvicinati a me camminando all’indietro,
lentamente e senza voltare la testa.
Dora non poté fare altro che obbedire. L’uomo poi le ordinò
di fermarsi e di mettere le mani dietro la schiena. Anche
stavolta obbedì malvolentieri, pensando a come uscire da
quella scomoda situazione. Poi all’improvviso sentì intorno
alla mano destra il freddo del metallo salire fino a metà
avambraccio. Qualcosa si chiuse con uno scatto intorno al suo
polso e si trovò a dover sostenere un gran peso. In fretta la
mano guantata dell’uomo le afferrò anche l’altro braccio e lo
costrinse anch’esso in una morsa identica e Dora si trovò
immobilizzata, le braccia costrette dietro la schiena,
impotente e indifesa.
- Non ti agitare troppo, se vuoi un consiglio - le disse
il cacciatore di taglie.
Dora non gli diede retta e si voltò verso di lui, che si
era portato a distanza di sicurezza. Dora, conscia di avere
in quel mondo una forza tale da sradicare alberi, cercò di
impiegarla tutta per infrangere i ceppi, ma senza successo. Si
sforzò fino a quando i muscoli le sembrarono sul punto di
scoppiare, ma non ottenne il minimo risultato. O quei ceppi
non erano di un metallo qualsiasi, o non aveva più la potenza
che credeva, così come prima non era stata in grado di materializzare
un veicolo.
- Senti: se stai buona ti metto in sella, altrimenti seguirai
a piedi, chiaro?
Dora lo guardò malissimo, furiosa: gli avrebbe picchiato in
testa quei pesantissimi ceppi per fargli uscire il cervello
dalle orecchie con un sol colpo, ma si limitò a digrignare
i denti. Kail la sollevò con facilità e la issò in sella, e
poi salì a sua volta. Con la lingua emise un verso e il
cavallo si mise in movimento.
Dora, furiosa per essersi fatta fregare, stava in silenzio
cercando il modo per rimediare la situazione. Le venne in mente
un film visto pochi giorni prima: la protagonista riusciva
spogliandosi a distrarre il cattivo di turno che la minacciava;
non credeva che avrebbe funzionato con lei, un po' perché era
già mezza nuda, un po' perché quello non era un film scemo come
quello dell’altro giorno. Poi con le mani dietro la schiena
sarebbe stato meglio non indurre in tentazione il suo carceriere:
sarebbe riuscita solo a essere vittima dei suoi appetiti dopo
averli stuzzicati lei stessa, senza guadagnarci nulla se
non uno stupro.
Rimase quindi in silenzio. Come Kail, che non aveva più aperto
bocca da quando era montato a cavallo con lei. Il viaggio durò
un bel po' e lei cominciava a sentire freddo. A giudicare da
com’era imbacuccato l’uomo doveva essere pieno inverno da quelle
parti: la foschia era diventata nebbia fitta ma lei non stava
tanto male, non aveva più freddo di quando uscita dalla calca
del Tubo si infilava in qualche locale con l’aria condizionata
accesa. Si chiese come potesse orientarsi il cacciatore di taglie
in mezzo a quella nebbia fittissima, di cui lei aveva appreso
solo dai noiosi olodischi dell’archivio storico che a scuola le
avevano imposto di guardare almeno una volta. Starci dentro
era tutto diverso da guardarla da fuori: non poteva vedere che
pochi metri di terreno intorno al cavallo, che procedeva al
passo: oltre, lo sguardo non riusciva a penetrare nel modo
più assoluto.
D’un tratto il cacciatore di taglie arrestò il cavallo senza
motivo apparente. Poi urlò una specie di richiamo.
Con grande sorpresa di Dora, nella nebbia si aprì un
rettangolino giallo, offuscato, ma in esso fu possibile
distinguere una scura sagoma umana. Questa a sua volta gridò
qualcosa, un grido che arrivò troppo debole e ovattato per
essere intelligibile. Però Kail rispose con un altro grido
simile al primo. Al che la sagoma lontana alzò il braccio facendo
cenno di avvicinarsi. Il cavallo, spronato dal padrone con lo
schioccare della lingua, ricominciò ad avanzare piano in direzione
della sagoma, ancora ferma dentro il rettangolo di luce
gialla. Avvicinandosi, intorno a quella sagoma umana ne emerse
un’altra molto più grande e scura: un edificio basso e lungo,
completamente buio.
- Cerco rifugio, nobile Cambler - disse Kail.
- Chi sei? Come sai il mio nome?
- Sono già stato tuo cliente. Ho ancora monete per te -
rispose Kail avvicinandosi ulteriormente per essere
riconosciuto.
- Sei tu, straniero? Entra pure, ti offro il rifugio
che cerchi. Mio figlio condurrà il tuo cavallo alla
stalla, se vuoi.
Ma dove mi ha portata questo, si chiese Dora.
- Grazie, ma preferisco fare da me. Hai una catena
robusta, Cambler?
L’uomo chiamato Cambler era ora molto vicino: un tipo
molto robusto, con la pancia che sporgeva a indicare
quanto se la passasse bene.
- Hai trovato compagnia - commentò l’oste vedendo Dora
dietro la schiena del cacciatore di taglie. Ma questi
scese dalla sella e ripeté la domanda.
- Hai una catena che sia molto forte?
Dora vide Cambler trasalire e cambiare radicalmente
espressione. Teneva gli occhi fissi su di lei come se
avesse visto un fantasma. Kail aveva iniziato a tirare
il cavallo per il morso e l’oste, riprendendosi dallo
sconforto in cui era precipitato lo rincorse.
- Straniero, tu mi porti sciagure! Quella è… -
cominciò spaventato.
- Ecco perché ti chiedevo la catena - troncò
subito Kail.
- Ma è… - riprese l’oste, inutilmente.
- Robusta, mi raccomando.
L’oste, sconfitto, allungò il passo per
precedere il cavallo e cominciò a gridare:
- Nottle! Nottle! Cerca una catena, prendi la
più forte che trovi!
Dora, sempre in sella al cavallo, fu condotta in
una stalla, parte dell’edificio che era possibile
scorgere come una sagoma scura nella nebbia. Dentro
c’erano altri due cavalli e un bel giovane, muscoloso
come un lottatore. Tra le mani aveva qualche metro di
una pesante catena che porse all’oste, il quale a sua
volta la mostrò a Kail, che disse che andava quasi
bene. Poi il cacciatore di taglie afferrò Dora per
un braccio e per il cinturone e la tirò giù da
cavallo. Trattandola un po' rudemente la mise con
le spalle contro un grosso sostegno verticale, un
tronco d’albero levigato che aveva infissi a diverse
altezze occhielli con anelli di metallo. Dora lo
guardò bene prima che Kail le facesse appoggiare
la schiena contro di esso: con la sua forza aveva
sradicato per prova alberi più grandi ma su quel
tronco posava il tetto dell’edificio. Se lo avesse
abbattuto, le sarebbe crollato tutto sulla testa e
non era certa che fosse proprio quello che
desiderava: la prova dell’immortalità aveva deciso
di rimandarla molto avanti nel futuro.
Come era immaginabile, il cacciatore di taglie
usò la grossa catena per legarla al tronco che
sosteneva il tetto, usando due strani congegni di
metallo massiccio per bloccare la catena. Questi
aggeggi si chiusero scattando su due coppie di anelli
della catena e a guardarli non pareva che si potessero
aprire facilmente.
- Attento, Cambler: dillo anche a tuo figlio. Questa
donna è molto pericolosa, non avvicinarti mai. Può
fare cose che nemmeno ti immagini, può sembrare quello
che non è. Non la guardare, non la ascoltare!
- Non c’è bisogno che tu lo dica: se può fare la
metà delle cose che dicono abbia fatto…
- Andiamo a mangiare, ora: ho fame.
I tre se ne andarono lasciando Dora sola con i tre
cavalli e una sola lampada accesa. Non appena la
porta di legno si fu chiusa, provò di nuovo a rompere
i pesanti ceppi fissati intorno ai suoi polsi, così
grandi che le arrivavano a metà avambraccio e
chiudevano completamente le mani al loro interno. Mise
nelle proprie braccia tutta la forza di cui era capace,
tese i muscoli fino a provare dolore, ma non successe
niente: neanche uno scricchiolio, un minimo segno di
cedimento. Niente. Torse la testa all’indietro fino
a scorgere la catena: non doveva essere difficile
per lei riuscire a spezzarla, ma per farlo avrebbe
dovuto tirare e rischiava che gli anelli fossero
più forti del sostegno a cui era stata legata. Rischiava
di tirarsi addosso tutto il tetto. Non le restava che
attendere un’occasione più propizia, e si lasciò
scivolare a terra fino a potersi sedere.
Si accorse di essersi appisolata solo quando il
rumore della porta grande della stalla la ridestò
dal sonno leggero e tormentato. Dalla porta entrò
il giovane dai muscoli sviluppati: portava un bue
bianco per il morso e aggiogato al bue c’era un carro
a due ruote. Dora piantò i propri occhi in quelli del
ragazzo che però li distolse subito. Lo guardò mentre
scioglieva dai finimenti il grosso bue dalle corna
ritorte e lo accudiva, accarezzandone il manto e dandogli
da mangiare. Inutilmente Dora tentò di accattivarsi
le simpatie del ragazzo rivolgendosi a lui con tono
dolce e allegro, come se non avesse numerosi chili di
metallo che la tenevano saldamente loro
prigioniera. Il giovane robusto e attraente però non
la degnò di uno sguardo più del necessario e, come
se fosse sordo, ignorò completamente tutti gli sforzi
che la ragazza fece per socializzare; quando ebbe
finito se ne andò dalla porta piccola, senza
fiatare.
Dopo pochi minuti sentì ancora tramestio dietro
quella porta, che dava probabilmente sul resto
dell’edificio; comparve di nuovo l’oste, accompagnato
da un tale con abiti di foggia diversa da quelli del
cacciatore di taglie e dello stesso oste. Abiti che
le parve di aver già visto, da qualche parte.
- Eccola, come tu l’hai descritta, Gambrath -
disse l’oste indicandola, mantenendo una rispettosa
distanza.
- Per Elzer! È lei!
Dora guardò meglio il nuovo venuto che affermava di
conoscerla. Non si ricordava proprio né dove né come,
ma pareva che si fossero già incontrati.
- L’ho riconosciuta subito quando l’ho vista. L’hai
descritta davvero efficacemente - disse Cambler,
non osando seguire Gambrath che si stava avvicinando.
Questi diede uno sguardo alle catene e ai ceppi che
bloccavano le braccia di Dora e si voltò verso
l’oste.
- E tu dici che è stata catturata dallo straniero
laggiù? Invero questa è la guerriera più temibile
che mi sia capitato di incontrare. Dove sono le sue
armi?
- Non aveva armi quando è arrivata.
- Peccato - si rammaricò Gambrath, che già cercava di
dare un prezzo al potente fucile che con un solo colpo
aveva ucciso a più di cento passi di distanza l’uomo
lucertola che fuggiva a cavallo.
Dora si ricordò all’improvviso dove aveva già visto
quegli abiti.
- Tu sei… sei quello che ho salvato da quei
tre… in quel giorno di pioggia…
- Sono io - disse il mercante quasi contento che
la guerriera si ricordasse di lui.
- Quello che è scappato via senza nemmeno dire
grazie per aver avuto salva la vita! - gli rinfacciò
Dora.
- Come sarebbe? Come potevo sapere quali fossero
le tue intenzioni? Chi mi garantiva che non stavo
per cadere vittima di un predatore più grosso di
quello che già mi stringeva tra le fauci? - si
difese Gambrath.
- Non te lo sei nemmeno chiesto, vigliacco! Sei
scappato così in fretta che non ho potuto nemmeno
rincorrerti!
- Mi sembra inutile insistere su questo argomento -
troncò Gambrath imbarazzato - e poi ora se giaci
in catene, vuol dire che non sei certo un esempio
di correttezza e rettitudine.
- Sì, sì… parlane con quel coglione che ha messo
una taglia sulla mia testa.
- Quale taglia? - si stupì Cambler.
- Una taglia! - gli fece eco Gambrath.
- La mia taglia.
La voce dura e decisa li fece voltare
entrambi. Kail era comparso sulla soglia
e li guardava entrambi, le braccia
incrociate sul petto.
- Oh, straniero! Non crederai che… - cominciò
Cambler.
- Non mettete alla prova la mia pazienza,
potreste scoprire che non ne ho. Soprattutto
tu, mercante: hai già incontrato quella
guerriera una volta e sai di cosa è capace,
quindi stanne lontano. È mia prigioniera ora,
e se pensate di poter fare quello che io credo,
potreste non vedere mai quelle monete, né
altre.
Ciò detto, si voltò e se ne andò. Cambler,
bianco in volto per la minaccia solo parzialmente
espressa, pensava che forse, qualsiasi fosse
la ricompensa, non valeva veramente la pena di
rischiare. Eppure le parole della guerriera
dalla pelle disegnata erano parse sincere.
- Vieni, Gambrath; andiamo via anche noi,
prima che accada qualcosa di spiacevole.
I due se ne andarono da dove erano venuti e
Dora rimase di nuovo sola.
Gambrath andò dritto al tavolo dove l’uomo
barbuto che aveva incontrato per la prima volta
insieme a Rambel’ Marè stava bevendo con l’intenzione
di chiedergli i motivi della taglia: aveva sempre
più forte il sospetto che la guerriera non fosse
cattiva come si diceva in giro. Si era sempre
chiesto infatti come mai, se era vero che compariva
fulminea per sterminare tutti quelli che incontrava
sulla sua strada, non lo avesse colto a distanza
con un proiettile come aveva fatto col rettile che
lo aveva aggredito. Ma Kail non lo lasciò neanche
cominciare.
- Basta! - disse sbattendo la coppa di legno scuro
sul tavolo, versando un po' di vino - Ho parlato
abbastanza per oggi, non mi seccare ancora!
Ciò detto si alzò e chiesto il permesso a Cambler,
andò a occupare una stanza al piano di sopra.
Il mattino dopo il mercante stava facendo colazione
assieme agli altri ospiti di Cambler, incluso il
taciturno cacciatore di taglie, cogliendo l’occasione
per raccontare come con l’arte del commercio nei due
giorni e mezzo trascorsi a Bel’ee avesse moltiplicato
l’ultima moneta rimastagli, quando qualcuno fuori
gridò a gran voce il suo nome, facendolo trasalire.
Cambler scostò un poco le imposte di una delle finestre
e gli comunicò la triste novità.
- Non posso essere sicuro, ma sembra il centurione Skon
con molti dei suoi.
Di nuovo la voce che chiamava Gambrath, forte e potente.
- E questa è la sua voce - commentò tetro il mercante.
- Non uscire! - gridò uno dei clienti, ma troppo
tardi. Cambler aveva già aperto la porta.
- Chi sei? - gridò con voce un po' tremante rivolto ai
soldati. Rabbrividì: erano radunati intorno a un albero
a poca distanza da lì ed avevano già preparato una forca,
il cui orrendo cappio penzolava da uno dei grossi rami.
- Sono il centurione Skon! Sono venuto a terminare un
lavoro che ho iniziato qualche tempo fa! Dì a Gambrath
il mercante che non si sfugge alle condanne del
centurione Skon. È scampato una volta a Taliba, ma
non ci riuscirà ancora!
- Qui la legge di Taliba non conta, centurione! - si
difese l’oste.
- Dì a Gambrath che se non viene fuori da solo,
verremo noi a prenderlo! Con la forza! Taglierò di
persona la gola a tutti coloro che troverò sulla
mia strada, oste; poi potrai protestare con chi vorrai,
come dice la legge!
La conversazione si concluse con una risata sguaiata
del centurione, che sfoderò un fucile. Cambler si
ritirò dentro la stazione di posta e riferì ogni
parola. Gambrath, pallido, guardò uno a uno i
volti dei presenti, traendo da molti sinistri
presagi per sé.
- Non… lascerete che mi impicchi, vero?
Gambrath non ottenne risposta.
- Sentite, la salvezza è a portata di mano! -
disse poi illuminandosi - La vera colpevole della
morte del centurione Made è di là, legata nella
stalla! Spieghiamo tutto al centurione Skon, che
se la prenda e risparmi la nostra vita!
- La tua vita terminerà subito se oserai mettere
in pratica quanto dici - gli rispose tetro Kail,
per nulla intenzionato a vedersi portar via le
numerose monete della taglia.
- Non possiamo stare senza fare nulla! Verranno
qui e ci uccideranno tutti! - si lamentò uno degli
avventori!
- Non sarò la vittima di nessuno.
Con queste parole Gambrath si avvicinò a Kail e
lo guardò negli occhi, con un coraggio di cui
ignorava la provenienza.
- Ti faccio un’ultima proposta: combattiamo i
soldati, difendiamoci con le armi.
- Il problema è tuo, non mio - fu la dura risposta
del cacciatore di taglie.
In quel momento una secca esplosione spaventò
tutti. Schegge di legno volarono via dall’imposta di
una delle finestre, perforata da un proiettile.
- Per Elzer! Sparano!
Si chinarono tutti per evitare di essere colpiti. Kail
si avvicinò a testa bassa alla finestra e scostò un
poco le imposte per vedere fuori.
- Quanti soldati hai visto quando sei uscito, oste?
- Non lo so…
- Quanti? Dieci? Venti? Cento? - la voce forte e dura
echeggiò nel silenzio.
- U… una trentina, credo.
- Bene. Non ne vedo neanche uno. Quanti di voi
hanno armi?
Nessuno rispose.
- Trenta contro uno. Non è così che desideravo
morire - disse Kail imbracciando la sua
arma. Improvvisamente una tempesta di proiettili
si abbatté sulla parete esterna, che Cambler aveva
edificato con solide pietre. Diversi proiettili
trapassarono la porta di legno e le imposte penetrando
all’interno con le traiettorie più bizzarre.
- A terra! - gridò Kail, tenendosi lontano dalla
finestra, con le spalle alla parete. Il fuoco cessò
quasi subito, ma era stato tremendo.
- Ci massacreranno!
- Silenzio! - disse Kail.
Con gran fracasso la porta d’ingresso si aprì e
sulla soglia comparve un soldato armato di fucile. Fulmineo,
il cacciatore di taglie lo freddò con un solo colpo della sua
arma. Poi con un balzo felino fu presso la porta e la richiuse,
assicurandosi che l’arma del soldato fosse caduta all’interno.
- Chi di voi sa sparare?
Nessuna risposta anche stavolta.
- Mercante, difenditi - disse raccogliendo il fucile e
lanciandolo verso Gambrath che se ne stava sdraiato sul
pavimento sotto un tavolo. L’arma atterrò con fracasso e
Gambrath la raccolse, inebetito.
- Avanti! Mettti a quella finestra e spara un colpo ogni
tanto, cercando di mirare se ti riesce! E voi, frugate il
soldato e prendetegli le altre munizioni!
Poi si diresse verso la porta che dava sulla stalla.
- Dove vai? - gli chiese Gambrath preoccupato, ma Kail non
rispose.
Dora, già sveglia da tempo, fu messa in allarme dal primo
colpo d’arma da fuoco. Non c’era dubbio, era stato sparato
da fuori, da lontano. Sentendosi in trappola si agitò
cercando nuovamente di liberarsi dei grossi e pesantissimi
ceppi che le imprigionavano le braccia, lasciando come
soluzione estrema quella di tentare di strappare tutto
tirando la catena, a costo di tirarsi addosso il tetto.
La breve scarica di fucileria la mise addirittura in
fibrillazione, facendo diventare frenetici quanto vani
tutti i suoi sforzi per liberarsi. Dopo meno di un minuto
la piccola porta si aprì e comparve il suo aguzzino.
- Che cazzo sta succedendo? - gli chiese bruscamente.
- Trenta soldati qui intorno e ce l’hanno con noi.
- E cosa conti di fare?
- Difendermi.
- E io?
Kail parve esitare. Poi, inspirato a fondo come se
avesse preso una decisione tormentata assumendosi una
gravissima responsabilità, girò alle sue spalle.
- Anche tu.
Dora sentì con grande piacere le serrature che
scattavano e la catena cadere tintinnando pesantemente
per terra. E fu ancora più contenta quando finalmente
anche la pressione ai polsi sparì con uno scatto meccanico
e le sue braccia parvero rivivere liberate dal peso che
le opprimeva. Uno sparo secco, vicinissimo, molto forte
la fece sobbalzare.
- Non farmi scherzi strani, guerriera a strisce: prima
ci liberiamo dei soldati, d’accordo?
- E quando abbiamo finito vediamo chi finisce legato -
disse Dora, ancora sotto la minaccia del fucile di
Kail.
- D’accordo? - ripeté Kail, esitante. Sul suo viso
era leggibile la preoccupazione per quello che aveva
appena fatto.
- D’accordo - disse Dora a denti stretti - ti ammazzerò
dopo.
- Adesso armati: occupiamoci dei soldati, insieme sarà
più facile.
Dora non se lo fece dire due volte: pensò a qualcosa
di risolutivo e le comparve tra le mani un lanciagranate
a tamburo.
- Aprimi la porta grande - disse a Kail.
- Non si vede nessuno! - obiettò il cacciatore di taglie.
- Non discutere, fallo!
Mentre Kail apriva la porta della stalla, Dora tenendosi
all’ombra cominciò a sparare una granata dietro l’altra. La
carica di lancio emetteva un sommesso tonfo metallico quando
lei premeva il grilletto, tenendo la canna corta puntata
in alto. Quando la prima granata esplose a contatto col
suolo, a quasi duecento metri di distanza, la violenta
esplosione, immediatamente seguita dalle altre tutto
intorno, gettò nel panico sia i soldati di Skon che
Kail e gli altri asserragliati. Sparando alla cieca
non fece vittime, ma Kail, ripresosi dalla sorpresa,
poté esplodere contro i soldati che fuggivano terrorizzati
diversi colpi che andarono invece a segno.
- Via! - gridò Dora lanciando lontano l’arma ormai scarica
che scomparve nel nulla ancora prima di toccare il pavimento
della stalla. I due si misero al riparo: Dora con una nuova
arma tra le mani, Kail ricaricando la sua. Quando ebbe finito,
salì su una scala che lo portò sul soppalco dove il figlio
dell’oste immagazzinava le balle di fieno e la paglia per gli
animali. Dora, capita e approvata l’idea, lo imitò
subito. Cercarono di raggiungere il soffitto per smuovere
alcune tegole e salire sul tetto, ma questo era troppo
alto. Aiutandosi con delle balle di paglia, che avevano
forma più o meno regolare, riuscirono nell’impresa e
furono sul tetto.
I soldati di Skon, quelli che non erano stati spaventati
dalle esplosioni delle granate, erano evidenti come mosche
su un telo bianco mentre tentavano una manovra di
accerchiamento. Per i due fu facile, l’una sparando a raffica e
l’altro mirando con cura per non sbagliare, falciare i soldati
che nella pianura non trovavano efficace riparo se non dietro
qualche raro albero. Dell’imponente Skon nessuna traccia.
Dora sparò fino a vuotare il caricatore del suo fucile senza
rinculo e quando smise non vedeva più nulla muoversi. La risposta
al suo fuoco era stata nulla: forse che i soldati avevano già
esaurito le munizioni? Kail scese di nuovo nella stalla e lei
decise di imitarlo. Muovendosi con cautela l’una dietro l’altro,
si diressero attraverso la porta piccola della stalla. Qui una
triste sorpresa li attendeva: da sotto i tavoli, con occhi pieni
di terrore ed incapaci di parlare per la paura, gli avventori di
Cambler quando riconobbero Kail indicarono la porta di ingresso,
che ancora si muoveva per la spinta che aveva ricevuto.
Kail fu il più svelto a balzare fuori: poche decine di passi
davanti a lui c’era il centurione Skon che con un braccio
teneva stretto al suo corpo il povero Gambrath che aveva
perfino rinunciato a divincolarsi, nonostante il gigante
lo stesse trascinando verso la forca. Il centurione si
accorse di essere seguito e si voltò, esplodendo l’ultimo
colpo della sua arma contro Kail, che cadde colpito in
pieno.
- No! - gridò Dora che afferrò l’accaduto solo dopo che
vide cadere Kail davanti a sé.
Gambrath alla vista di Dora riprese a divincolarsi e a gridare.
- Eccola! È lei! È stata lei a uccidere tuo fratello! Lei l’ha
ucciso!
L’espressione feroce di Skon mutò in perplessità per un
solo secondo. Dora capì in ritardo ancora una volta e
fermò il centurione un attimo prima che torcesse il
collo al mercante.
- Tu sei il fratello di quel bestione che ho ammazzato
come un cane l’altra volta?
Il centurione ruggì di rabbia: si sbarazzò del suo
ostaggio spintonandolo via senza fargli niente e
menò un fendente con la scure bipenne così velocemente
che Dora si spaventò, non riuscendo a capire da dove
arrivasse quell’arma. Parò il colpo come meglio poté
usando il fucile, che andò in pezzi.
Dora fece una piroetta all’indietro e si armò dei suoi
due spadoni preferiti, tanto pesanti che normalmente
nel suo mondo non sarebbe riuscita a sollevarne uno
solo nemmeno usando due mani. Il centurione che
prometteva di essere veloce quanto il fratello e
furioso almeno il doppio fintò un attacco con la
scure per saggiare nuovamente la reazione di Dora;
questa non si fece cogliere di sorpresa, sapendo
per esperienza acquisita che la grande mole di quell’uomo
non voleva affatto dire che fosse lento nei movimenti. I
due si studiarono ancora per qualche secondo, poi Dora
scattò fulminea e sferrò un tremendo calcio al volo al
viso del centurione, saltando da ferma. Il centurione
non doveva aver affatto contemplato quella tra le
mosse possibili e si prese il calcio in pieno viso;
a parte il sangue che cominciò a colare a rivoli dal
naso e dalle labbra rotte, non parve subire altro
tipo di danno.
Sicura che quel colpo l’avrebbe steso, lei non si era
preoccupata di pensare a un altro attacco e quando
vide il centurione ancora in piedi davanti a lei,
pericolosamente vicino, il cuore le saltò in gola. Non
fece in tempo a correggere l’errore: scansò un fendente
poco convinto ma dovette incassare in pieno stomaco una
potente ginocchiata che le fece vedere le stelle. Non
era la prima volta che veniva colpita durante un
combattimento, ma sicuramente era la prima volta che
provava dolore davvero. I polmoni faticavano a
riempirsi nuovamente di aria e la vista restò appannata
un momento di troppo. Caduta a terra, rotolò per
istinto e così la lama della scure bipenne non le
tranciò di netto un braccio ma le tagliò profondamente
il deltoide della spalla facendola gridare dal
dolore. Rotolò ancora una volta e poi si tirò in
piedi, cercando di ignorare il sangue che poteva
sentire distintamente mentre colava caldo e
abbondante da far paura dalla spalla sinistra
fino alla mano, ancora stretta sulla grande spada. E
proprio dal lato sinistro arrivò l’attacco seguente:
un fendente orizzontale che non poteva essere
fermato o deviato. Lei lo scansò per un pelo:
con la pelle del ventre percepì lo spostamento
d’aria che la lama aveva causato sibilando vicino
a lei. La scure volteggiò da una mano all’altra e
di nuovo il centurione, sicuro di sé e della sua
forza, portò un altro attacco, simile al primo e
ancora più violento. Di nuovo lei si difese
retrocedendo di fronte alla velocità e alla potenza
impresse alla scure. Con un tuffo al cuore la
schiena di Dora incontrò la parete della stazione
di posta: non poteva più difendersi ritirandosi.
Il centurione allargò un sorriso sporco di sangue
e si apprestò a menare un altro fendente, quello
definitivo. Quello fu il segnale per Dora: impugnate
le spade in modo che colpissero di taglio, piroettò
su se stessa verso l’avversario, divorando in un
batter d’occhio la distanza che li separava e mise
tutta la sua forza nella lama che impugnava con la
destra. Eseguì l’attacco così rapidamente che il
centurione Skon non gridò fino a quando, abbassando
lo sguardo, vide la lama larga quasi un palmo che
era affondata per tutta la lunghezza del taglio
nel suo muscoloso ventre, tranciando tutto quello
che aveva incontrato sulla sua strada: metallo,
cuoio, carne. Il suo grido cominciò forte come un
tuono ma si strozzò subito: cadde all’indietro, le
mani sulla lama nemica, le ginocchia piegate e i
gomiti puntati come se volesse rialzarsi. Ma i
muscoli del ventre, recisi di netto, non obbedivano
più e sotto la schiena del centurione la terra
gelida e dura divenne scura del suo sangue. Skon
però non voleva morire: vomitava sangue e non
riusciva a sostenersi, ma le sue mani continuavano
a raspare il terreno alla ricerca di chissà che
cosa, il torso continuava ad alzarsi e abbassarsi
nel tremendo sforzo di respirare per tenere ancora
vivo quel corpo ferito a morte.
Allora Dora tolse la mano destra dalla propria
ferita e la strinse, sporca del proprio sangue,
sull’impugnatura della grande scure a doppio taglio
del centurione e la sollevò da terra. Camminò fino
al centurione morente e si mise in piedi tra le sue
gambe divaricate, immobili: lo guardò per un attimo
e poi fece roteare la pesante arma del nemico e gliela
affondò con grande forza nel centro del torace, che si
spezzò con uno schiocco. La lama trapassò la corazza di
cuoio e metallo ed entrò nel petto del gigante, raggiunse
il cuore e lo spaccò in due; un fiotto di sangue rosso
zampillò per un attimo lungo il metallo della lama, poi
più niente.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 10
10.
Il mercante guardò ancora la ferita della guerriera
dal corpo coperto di segni neri e scosse la
testa. Non appena lei sollevava la mano, la ferita
ricominciava a sanguinare abbondantemente. Dora,
seduta su di un tavolo all’interno della stazione
di posta, stringeva i denti per non mostrarsi
spaventata, ma in realtà avrebbe urlato per dolore
e per la paura: temeva di morire dissanguata. Il
suo corpo infatti era sporco sia del sangue del
centurione che le era schizzato addosso, ma soprattutto
del suo che colava dappertutto e si raggrumava
diventando scuro e appiccicoso.
- Ma dov’è andata Lerea? - bisbigliò a denti
stretti. La schiava era uscita dicendo che poteva
curare la ferita della guerriera con un rimedio,
ma non era ancora rientrata.
- Ha detto che aveva bisogno di raccogliere
qualcosa fuori - commentò Cambler - lasciamola
fare. Hai visto com’è migliorata Rama in soli
tre giorni delle sue cure?
- Davvero? Come sta? - si meravigliò il mercante.
- Sta molto meglio: mangia, parla, cammina. Si
stanca presto, ma le ferite stanno guarendo
in fretta. Merito di Lerea, ti dico.
- Speriamo bene… - bisbigliò Dora. Il dolore
le stava causando una forte nausea e deboli
capogiri.
Lerea non tardò molto. Quando entrò chiese con
autorità il mortaio e il pestello di bronzo
che Cambler custodiva gelosamente: lo usava
per preparare le erbe della ricetta segreta
con cui aromatizzava i vini che comprava a
Bel’ee. Avutolo, non senza qualche ritrosia
da parte dell’oste, si mise a tritare e a
pestare alcuni ingredienti tolti dalla
dispensa insieme a quelli che aveva raccolto
fuori, producendo un ritmato rumore
metallico. Dora la seguì sospettosa: non
riconobbe nulla di quello che finì dentro
il mortaio, sperava solo che quella ragazza
sapesse quello che stava facendo e che
finisse alla svelta.
Infine, dopo che ebbe pestato a lungo correggendo
con attenzione i dosaggi e assaggiando di tanto
in tanto il risultato, la ragazza sollevò un
lembo del proprio vestito di veli e ci versò
sopra il contenuto del mortaio di bronzo. Poi
vi chiuse la pappa scura che aveva ottenuto e
la strizzò con forza sopra un bicchiere di
coccio, ottenendo un liquido scuro. Rimise
la pappa dentro il mortaio, allungò quel
poco liquido che era riuscita a filtrare con
dell’acqua e andò da Dora. Questa guardò
con sospetto il bicchiere che la prosperosa
ragazza le porgeva, poi la grande macchia
scura che le era rimasta sul vestito, poi
di nuovo il bicchiere.
- Che cosa sarebbe? - chiese stando
sul chi va là.
- Il rimedio, signora. Lo beva tutto: quando
sente la bocca diventare amara, sputi tre
volte sulla mia mano.
Dora cercò di convincersi di non avere scelta
e, staccata con cautela la destra dalla ferita
che si era appiccicata per via del sangue
coagulato, afferrò il bicchiere e bevve
rapidamente: la ferita inferta dal centurione
aveva ricominciato a sanguinare più
rapidamente.
La bevanda diluita aveva un vago sapore di carota,
pungeva il palato e la lingua, ma non era amaro
e neanche tanto sgradevole. Non appena ebbe
deglutito anche l’ultimo sorso, il sapore rimasto
in bocca cominciò a cambiare, dandole una sgradevole
sensazione ai denti. Il sapore stava diventando
decisamente amaro e la salivazione aumentò.
- È amaro, signora? - chiese Lerea interpretando
l’espressione di disgusto che si dipinse sulla
faccia della guerriera, nonostante i segni
neri che la incupivano.
- Bleah… - fu la risposta. Dora avrebbe voluto
deglutire, ma non ne ebbe il coraggio.
- Sputi sulla mia mano. Tre volte - le disse
la ragazza che le aveva preparato quella porcheria,
stendendo una mano col palmo verso l’alto. Dora
ubbidì e si stupì di quanto rapidamente riusciva
a produrre quella schifosa saliva verde.
Poi con l’altra mano la ragazza tolse la destra
di Dora dalla ferita e ci appoggiò con decisione
il palmo su cui Dora aveva sputato. Colta di
sorpresa, non riuscì a trattenere un grido di
dolore quando la ragazza compresse fortemente
la ferita mischiando sangue e saliva. Inarcò
la schiena e con la destra cercò di staccare
la mano della ragazza dalla sua spalla. Questa
reagì abbracciandola fortemente e impedendole
i movimenti.
- Mollami, cazzo! Mi fai male!
- No, signora! Bisogna attendere che il
rimedio faccia effetto! - si giustificò
Lerea.
La ragazza le rimase attaccata addosso per
qualche minuto: il dolore al braccio era tornato
a un livello sopportabile e Dora aveva perfino
ricacciato indietro le lacrime che avevano
dolorosamente tentato di sgorgare dagli occhi.
- Va bene - disse infine Lerea allontanandosi da
Dora, dopo aver sollevato con cautela la propria
mano, rossa di sangue fresco, dalla ferita - Non
lavi la ferita per sette giorni, poi la lavi spesso
per nove giorni con acqua limpida. Più di così non
so fare.
Lerea si allontanò senza aggiungere altro. Tutti
guardavano stupiti la ferita slabbrata che non
sanguinava più.
- Porca puttana… - commentò Dora dando un’occhiata. Saltò
giù dal tavolo facendo attenzione a non muovere
il braccio ferito e si dette un’occhiata intorno:
aveva gli occhi di tutti su di sé. Cominciava
a sentirsi davvero debole.
- Di chi è il carro che c’è nella stalla? - chiese.
Gambrath esitò un attimo, poi rispose balbettando.
- Dammi uno strappo fino al Varco... ho
voglia di tornarmene a casa a farmi vedere da
un dottore vero.
- Non vorrai andartene adesso, vero? - osò
Cambler. Dora gli rivolse uno sguardo truce.
- Perché?
- Altri soldati verranno non vedendo tornare
il centurione che tu hai ucciso. Uccideranno
e devasteranno quando vedranno il suo cadavere!
- Seppellitelo, no? - suggerì Dora con un po'
di stizza nella voce.
- Nobile guerriera - continuò Cambler - i
soldati non si fermeranno davanti a delle tombe. E
se nasconderemo i corpi, la terra gelata conserverà
le tracce della battaglia molto a lungo. Sarà
impossibile sostenere che qui non è accaduto
nulla!
- Ma perché dovrebbero prendersela con voi? Dite
che è stato Kail, tanto è morto pure lui.
- Tu non conosci i soldati della guarnigione di
Taliba, nobile guerriera. Essi depredano, violentano,
uccidono e distruggono anche senza motivo. La
vista di questa carneficina li farà andare su
tutte le furie! - rincarò la dose Gambrath.
- E che cazzo dovrei fare? Ammazzarli tutti io
per prima? - disse Dora arrabbiandosi. Ora la
parte della guerriera invincibile le stava un po'
stretta.
- Non sta a noi dirlo - disse Cambler. Altro
era sottinteso nelle sue parole.
- Ma andate a cagare! Tu, col carro: accompagnami
fino al Varco. Andiamo!
Dora si diresse con passo spedito verso la
porticina, rimasta aperta, che metteva in
comunicazione con la stalla. Era seguita dal
timoroso Gambrath, che non aveva osato
contraddirla.
Non appena dentro la stalla, Dora si accorse
che c’era qualcosa che non andava. Uno dei
cavalli mancava e, se la memoria non l’ingannava,
proprio quello di Kail. Inoltre i ceppi che
l’avevano tenuta prigioniera erano scomparsi. Sopra
la sua testa sentiva frusciare il fieno legato
in balle, segno che il bel figliolo dell’oste
era già tornato al lavoro: si rivolse a lui.
- Chi ha preso il cavallo che manca? - disse al
ragazzo che aveva già chiuso il buco nel
tetto. Questi interruppe il suo lavoro, la
guardò per qualche secondo e poi allargò le
forti braccia.
- Tu ne sai qualcosa? - disse rivolta a
Gambrath. Questi negò energicamente.
Dora allora uscì dalla porta grande della stalla
per vedere se forse il cavallo, legato male,
fosse scappato spaventato dai rumori del
combattimento. Ma fuori non c’era nessun cavallo:
non si vedevano nemmeno quelli dei soldati, che
non erano certo arrivati a piedi. Pensò che uno
di loro fosse sopravvissuto e che avesse rubato
il cavallo di Kail per fuggire. In tal caso la
possibilità che arrivassero davvero i rinforzi
si facevano più elevate. Volse lo sguardo tutto i
ntorno per cercare di distinguere qualcosa: la
giornata era soleggiata e lo sguardo riusciva ad
arrivare lontano. Poi gli occhi incontrarono
il cadavere del centurione e… con un tuffo al
cuore, Dora si accorse che il corpo di Kail
non c’era più. Corse lì dove l’aveva visto
cadere, a pochi metri dalla porta di ingresso
dell’edificio, ma sulla terra gelata non c’era
neanche la più piccola traccia di sangue.
Seduta di fianco al mercante, a cassetta sul
carro, Dora ebbe la netta sensazione che
l’incertezza e la paura che le covavano nel
petto non erano dovute non solo alla ferita,
e nemmeno al fatto che Kail fosse in giro,
magari proprio da quelle parti. Man mano che
si avvicinava al Varco, che poteva sentire
distintamente come sempre, si era resa conto
che c’era qualcosa di insolito nelle sensazioni
che si irradiavano da esso e che le fluivano
dentro, come se lei fosse l’antenna di
un’apparecchiatura sensibile a un genere di
trasmissione sconosciuto. Quando vi fu davanti,
si rese conto che effettivamente qualcosa non
andava: c’era un componente ignoto nelle
sensazioni che fluivano ora molto forti in
lei, in piedi a pochi passi dal Varco
invisibile. Sentì alle sue spalle il carro
del mercante che si rimetteva in movimento.
- Aspetta! - gli gridò, temendo qualcosa
a cui non riusciva a dare nome.
Il mercante si fermò subito, temendo per la
sua vita se avesse fatto un passo di troppo
dopo l’ordine di arrestarsi. Tremava ancora al
pensiero di quei terribili tuoni che si erano
abbattuti sui soldati che li assediavano, opera
della guerriera ferita a cui per prudenza non
aveva nemmeno rivolto la parola durante il
viaggio.
Dora tese la destra in avanti fino a dove giudicò
l’avrebbe vista dissolversi nel nulla, nel
Varco. Ma non appena le prime falangi sparirono
davanti ai suoi occhi, un terribile dolore
le esplose nel cervello, tale da farla gridare
e ritrarre per riflesso il braccio teso. Il
dolore cessò subito: Dora spaventata
controllò la sua mano destra, temendo
il peggio. Era tutta d’un pezzo e
illesa. Mosse le dita per sicurezza, ma
non c’era traccia di ferite o lesioni di
alcun genere. Del dolore che aveva provato
le rimaneva solo il ricordo.
- Merda... - disse a voce bassa. Si concentrò
sul Varco, ma non riuscì a liberarsi di
quella sensazione anomala che ne traspirava. Non
osando riprovare a tendere di nuovo la mano,
Dora cadde in un profondo sconforto. Avrebbe
voluto tornare a casa: indebolita dalla ferita,
davanti al Varco che la respingeva, non si
sentiva più così a suo agio in quel mondo,
non si sentiva più invulnerabile e pronta a
tutto. E il dubbio la rodeva sempre più.
- Tu! Dove sei diretto?
Gambrath, colto di sorpresa, non seppe cosa
rispondere e cominciò a balbettare qualcosa
senza significato.
- Va bene, allora vengo con te.
- M-ma nobile guerriera… se incontrassimo
i soldati io… - cominciò il mercante.
- Non ti preoccupare dei soldati, ho
ancora un braccio sano. Devo trovare un
posto per ripulirmi un po' che non sia
quella taverna - disse Dora cercando di
recuperare un po' di saldezza mostrando
arroganza e sicurezza di sé all’uomo del
carro.
- Ma a tre giorni di viaggio da qui
c’è Taliba!
- Per me va bene. Basta che mi porti
dove ci sia un po' di civiltà.
Gambrath, con la morte nel cuore, non
poté far altro che spronare il bue bianco
e dirigersi verso Taliba. Temeva che le
guardie lo riconoscessero e lo accusassero
anche della morte del centurione Skon e
degli altri soldati, temeva che avere la
guerriera al suo fianco gli avrebbe
garantito sciagure anziché protezione. Ma
come avrebbe potuto contraddirla? Era
così forte che l’avrebbe ucciso con un
mano sola: aveva visto con quale facilità
aveva ucciso il centurione Skon quasi
tagliandolo in due nonostante la corazza
che quello indossava. Come convincerla
che sarebbero andati incontro a morte
certa?
- Onorevole guerriera - cominciò Gambrath
dopo aver riflettuto a lungo, parlando
scegliendo le parole e con voce tremante
per la paura di offendere la donna guerriera -
non credo, se mi permettete, che evitare
la stazione di posta sia una scelta…
come dire…
- Saggia? - lo aiutò Dora, che riemergeva
dalle più lugubri congetture sulla sua
situazione.
- Ecco, intendevo… Taliba è una grande
città, con mura e porte sorvegliate. Se
ci presentassimo così come siamo ora, ecco…
sarebbe come una condanna a morte…
Dora ci rifletté un po'. Effettivamente
l’uomo non aveva tutti i torti: se si fosse
lavata alla stazione di posta sarebbe stato
meglio. Ma se dopo quasi un giorno di viaggio
per andare e tornare dal Varco intransitabile,
vi avesse trovato miriadi di soldati che
indagavano sulla strage dei loro compagni? Ci
sarebbe voluto un carro armato per
difendersi, e lei non era in grado di
materializzarlo. Ancora una volta cadde
nello sconforto: se ci fosse stato Marcus,
il tank non sarebbe stato un problema: lui
ci sarebbe sicuramente riuscito.
- Va bene - disse infine, a bassa voce - ma
se tenti di tagliare la corda, ti ammazzo
strappandoti il cuore con le mani, hai
capito?
Gambrath impallidì al suono di quelle
parole. Pensava proprio di fuggire dopo
aver istruito Lerea a prendersi cura con
la maggior attenzione e lentezza possibile
della guerriera lorda di sangue. Temeva che
non avrebbe funzionato e ora, sentita la
punizione che avrebbe subito, non aveva più
alcuna intenzione di tentare la fuga.
Arrivarono alla stazione di posta poco prima
di sera. Non c’era nessun soldato: regnava una
quiete assoluta. L’oste e suo figlio avevano
scavato diverse fosse per seppellire i cadaveri,
ma la terra gelata aveva rallentato il loro lavoro
e la maggior parte dei cadaveri era stata
ammucchiata nella stalla. Nessun altro li aveva
aiutati: tutti i viandanti ospitati se n’erano
precipitosamente andati poco dopo la partenza di
Gambrath e Dora, che avevano così a propria
disposizione tutto lo spazio che desideravano. Così
Dora poté lavarsi con cura, aiutata da Lerea e fu
a stento convinta da Gambrath e da Cambler che
non si poteva viaggiare di notte, essendo i
pericoli già fin troppo numerosi di giorno.
Trascorsa una notte alla stazione di posta,
partirono molto presto la mattina seguente, Gambrath
immerso profondamente in lugubri pensieri cercava
di immaginarsi cosa gli sarebbe capitato se fosse
giunto vivo a Taliba; Dora stretta nel saio scuro
della ragazza che le aveva arrestato l’emorragia,
sperava ardentemente di incontrare un altro Varco
attraverso il quale cercare di tornare a
casa. Diversamente, una volta a Taliba, questa
grande città di cui il mercante parlava
malvolentieri, avrebbe cercato qualcuno che
potesse darle indicazioni a riguardo.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo: solo il
terzo giorno i due furono tormentati da una
sottile pioggia fredda che però cessò quando
furono in vista delle mura della città. Dora,
che non era mai stata in un centro abitato così
grande, osservò con curiosità e interesse le mura
lontane. Man mano che il carro si avvicinava
riusciva a distinguere un numero sempre maggiore
di dettagli: i merli delle mura, la forma della
grande Porta del Nord, come l’aveva chiamata
Gambrath, le orribili decorazioni che vi pendevano
intorno. Quando Dora seppe cosa fossero quegli
strani oggetti che pendevano dalle mura qua e
là intorno alla porta, non poté fare a meno di
provare paura: c’era qualcuno così crudele da
compiere atti simili senza che neanche una di
tutte quelle persone dicesse qualcosa,
protestasse o provasse a fermarlo. Le sue
velleità di giustiziere ricevettero un duro
colpo.
Osservò Gambrath pagare uno stupido pedaggio,
soffrendo per non poter intervenire; rabbrividì
all’odore dei cadaveri in putrefazione nelle
gabbie sospese pochi metri sopra la sua
testa. Tutto, il traffico di gente, le enormi
cavalcature dei soldati, la città con le sue
alte mura e i suoi palazzi addossati l’uno
all’altro, tutto passava in secondo piano. La
morte, una morte stupida e atroce, la miseria
degli accattoni della tendopoli che circondava
la città, bambini nudi coperti di piaghe,
denutriti, che tendevano un mano biascicando
cantilene incomprensibili ma angoscianti, la
violenza del povero sul povero per assicurarsi
il possesso di un lurido avanzo. Con questo
strazio nell’animo, impotente, Dora entrò in
Taliba, caotica città fatta di molta miseria,
redditizio commercio e assurda violenza.
- Dove mi stai portando? - chiese al mercante
che aveva cambiato espressione una volta varcata
la grande porta.
- Al mercato a cercare qualcosa da mangiare:
ho fame.
- Buona idea.
A rilento, fermandosi più volte per via del
traffico caotico di persone e carri, Gambrath
riuscì a raggiungere una grande piazza dove sotto
tendoni colorati umidi di pioggia erano esposte
diverse mercanzie, cibi di ogni tipo, modesti o
ricchi e prelibati. Alcuni cucinavano lì, in mezzo
alla gente, vendendo il cibo cotto servendolo su
strani piatti morbidi che, terminato il cibo,
potevano essere mangiati a loro volta. Verso uno
di questi si diresse Gambrath con tutto il carro
e senza neanche scendere contrattò il prezzo per
due porzioni. Dopo aver pagato, mise tra le mani
di Dora una specie di pizza calda senza pomodoro e
mozzarella su cui erano stati posati quelli che
sembravano tre pezzi di spezzatino. Dora ne
assaggiò uno: sapeva di manzo, più o meno, ed
era caldo da scottare la lingua. Osservò il
mercante ripiegare la il disco di pane in modo
da avvolgere la carne e cominciare a mangiare
con gusto e decise di imitarlo. Non si accorse
così del vecchio che si accostò e rivolse la
parola a Gambrath.
- Mercante! Bene, sei tornato finalmente! Avrò
il mio guadagno.
- Signore! - disse Gambrath deglutendo - Quale
onore! Come posso serv…
- Seguimi! - disse il vecchio veggente,
appoggiandosi sul suo bastone nodoso e
incamminandosi.
Nuovamente condusse Gambrath in un dedalo di strette
vie dove il carro passava a malapena. Gambrath
inutilmente chiese al vecchio quale fosse il suo
guadagno. Dora martellò per tutto il viaggio il
mercante con domande riguardanti il vecchio, che
non le piaceva molto, ottenendo in risposta però
solo un confuso racconto e l’assicurazione che
concluso l’affare se ne sarebbero andati per la
loro strada e il vecchio per la sua.
Gambrath confessò di riconoscere la casa del vecchio
solo quando vi si trovò davanti: era una giornata
grigia e l’oscurità di quei vicoli lo aveva confuso,
facendogli sospettare che il vecchio avesse seguito
una strada diversa per giungere al basso edificio
che era la sua residenza. In passato si era trattato
di una villa abitata da gente nobile e importante
e l’ingresso principale, adiacente alla porticina
che dava sulla casa del vecchio veggente, era circondato
da uno spiazzo che la caduta dei nobili aveva trasformato
in strada. Così Gambrath non ebbe molte difficoltà a
trovare un posto dove fermare il carro in modo che
non ostruisse completamente la via; ma le parole del
vecchio lo bloccarono ancora prima che i suoi piedi
toccassero terra.
- Solo lei, mercante! Tu hai già avuto il tuo
guadagno.
- Solo io cosa? - chiese Dora, sospettosa.
Gambrath la scongiurò, per il suo buon nome di mercante,
di seguire il nobile signore con cui aveva concluso
un affare e che ora reclamava la sua parte di
guadagno. Dora ascoltò parola per parola e poi
ribatté decisa.
- Primo: non me ne frega niente della tua
reputazione. È affar tuo. Due: perché dovrei
seguire quel tizio? Non so nemmeno chi è! Terzo:
non lo seguo nemmeno per curiosità se non mi dice
dove mi porta e cosa vuole da me.
- Giovane guerriera, cosa fai qui? Hai perduto
la via di casa? Cosa ti trattiene sul carro di
quel mercante? Sei forse debole e indifesa? No, …
non lo credo… - disse il vecchio, sibillino,
appoggiato al suo bastone nodoso.
Dora rimase dapprima stupita dalle parole del
vegliardo: lo aveva ascoltato col cuore che sembrava
balzare a ogni parola. Poi aveva reagito, pensando
che non era il caso di lasciarsi sfuggire la
situazione di mano.
- Tu sai un po' troppe cose - disse saltando
giù dal carro - mi sa che mi devi qualche
spiegazione.
Il vecchio le si avvicinò e col bastone,
senza che lei se lo aspettasse o potesse
impedirlo, le diede un colpo sul petto, facendo
suonare ovattato attraverso il saio il metallo
di una delle due spesse coppe che le proteggevano
il seno.
- Seguimi, guerriera - disse lui dandole le
spalle e incamminandosi. Dora lo seguì, pensando
che non avrebbe forse dovuto temere nulla dal
vecchio, anche se un campanello d’allarme le suonava
nel cervello, suggerendole di stare all’erta e di
non fidarsi.
Lo seguì per pochi metri, fino a quando lui
aprì una piccola porta e sparì dentro il
buio. Quando fu a sua volta sulla soglia, Dora
ebbe un attimo di esitazione: l’interno era
completamente scuro eccezion fatta per le
fiammelle di molte candele che brillavano lontane.
- Entra! - sentì la voce del vecchio invitarla -
e chiudi la porta!
Fece come le fu detto e si trovò al buio. Per
sicurezza si armò di un pugnale e lo tenne
stretto nella destra, nascosto nella manica
del saio. Fece qualche passo avanti, temendo
di andare a sbattere contro qualcosa. Usava
le fiammelle delle candele come riferimento,
ma temeva qualche insidia sul pavimento.
- Non ti servirà! Non adesso!
Ancora la voce del vecchio, ancora un tuffo al
cuore. Come poteva sapere del pugnale? Un
mago? Cercò di capire da che parte provenisse,
ma sembrava che il buio se lo fosse inghiottito
e che la sua voce arrivasse da lì, da ogni
chiazza di buio lì intorno a lei. Cominciava
ad abituarsi alla poca luce e ormai distingueva
le sagome dell’arredamento e delle suppellettili
che ornavano quel posto che non era affatto
piccolo come sembrava.
- Basta scherzare! Dove sei? - disse vincendo
il nodo alla gola che le si era formato per
la tensione che stava cercando di dominare.
- Sono qui.
Dora si voltò e se lo trovò al fianco. Ebbe
voglia di afferrarlo per i suoi vestiti strani
ma non riuscì a mettere in pratica la sua
intenzione per via del braccio appeso al
collo.
- Cosa vuoi da me…? - disse cercando di
mettere decisione e convinzione nella voce,
ma senza riuscirci.
- Oh, una ferita… ben curata, sei stata
fortunata a trovare una Candriana. I loro
rimedi sono buoni.
- Falla finita e dimmi chi sei!
- Sediamoci.
Il vecchio la prese per il polso e la
trascinò con forza inaspettata verso un
mucchio di cuscini buttati in terra, sopra
diversi tappeti. Di nuovo la invitò a sedersi
e Dora non poté fare a meno di accettare. In
un attimo, senza che lei potesse fare niente,
lui le fu alle spalle e posò una mano sulla
ferita. Questa cominciò a bruciare, molto più
di quando la ragazza nella stazione di posta
ci aveva premuto la propria mano sopra con il
suo sputo, fermando l’emorragia. L’aria sembrò
non voler più uscire dai polmoni di Dora, che
avrebbe gridato con quanto fiato aveva. Il
bruciore tremendo durò un paio di secondi,
poi cessò rapidamente, finché attraverso il
tessuto del saio poté percepire unicamente
il calore e la pressione della mano del
vecchio.
- Cazzo… ti spezzo la schiena, bastardo! -
reagì con ritardo Dora alzandosi in piedi. Non
provava più alcun dolore.
- Ti ho guarito la ferita, guerriera. È questa
la tua riconoscenza?
Dora palpò e perlustrò la spalla alla ricerca di
un segno della ferita, ma non trovò altro che
la sua pelle liscia e asciutta.
- Mago fottuto…
- Vieni con me - le disse il vecchio mago. Notò
che camminava curvo, ma senza bastone.
- Guarda, e dimmi cosa vedi - le disse
indicando una parete.
Dora non trovò obiezioni e guardò. Ci mise
qualche secondo per distinguerlo dal buio
circostante, ma riuscì infine a intuire un
grande quadro che occupava gran parte della
parete. Era un quadro buio come tutto quell’antro
da stregone dei fumetti: un cielo livido che
si distingueva a malapena dal terreno nero,
una terra buia e desolata che faceva sentire
un vento freddo dentro il cuore. Notò poi
anche un lontano castello, tanto grande da
sembrare una collina a cui un mostro
gigantesco avesse mangiato via la cima
con un solo morso.
- Un castello in mezzo a un deserto buio… -
disse infine Dora.
- Guarda bene. Cos’altro?
- Boh… forme contorte… non si capisce
niente, è tutto nero!
Dora si concentrò sul quadro e fece un passo
avanti per vedere meglio, come se avvicinandosi
avesse ridotto le distanze tra sé e gli oggetti
che vi erano raffigurati. Non si accorse che
il mago aveva fatto un passo di lato e si
era messo dietro di lei.
- Guarda… cerca bene!! - e diede una vigorosa
spinta a Dora che perse l’equilibrio e cadde
nel quadro.
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 11
11.
Si rialzò da terra più rapidamente che poté
e si voltò intenzionata a riempire di botte
il mago, anche se era un vecchio. Ma intorno
a sé era tutto cambiato. Le fiammelle tremolanti
delle candele non c’erano più, non c’erano più i
tappeti, i mobili e le strane suppellettili che
decoravano quella specie di tana. Non c’era più
neanche la casa con le sue pareti: si trovava
all’aperto, in un luogo molto buio, spazzato da
un vento gelido che le frustava la pelle come
se il saio che indossava non ci fosse. Alzò gli
occhi al cielo e distinse a fatica il veloce
rincorrersi di turbolente nuvole livide, così
scure che a stento si poteva vederle arrotolarsi
le une sulle altre. Si guardò intorno, girandosi
in tutte le direzioni: pietre, alberi morti,
sterpaglie secche, un terreno duro e freddo e non
un’anima viva. Non riusciva nemmeno a distinguere
la linea dell’orizzonte.
Era in preda al panico: un Varco, non poteva essere stato
nient’altro. Ma come aveva potuto non accorgersi della
sua presenza? Alla distanza a cui si era trovata, avrebbe
dovuto percepirlo con molta chiarezza, come se avesse
potuto vederlo. Anche in quel momento, non aveva fatto
che due o tre passi dal punto dov’era caduta: come poteva
non percepire nulla? Provò a orientarsi nuovamente, tentò
di ritrovare il Varco procedendo a casaccio, per
tentativi. Niente di niente, era così buio che non riusciva
nemmeno a capire quando girando su se stessa tornava a
guardare nella stessa direzione.
Le vennero le lacrime agli occhi: non sapeva che fare. E
per di più, se non avesse trovato il modo di uscire da lì,
sarebbe morta congelata: non sapeva che posto fosse, ma
faceva davvero freddo.
Non sapendo che fare, cominciò a camminare in una direzione
a caso. Piano piano i suoi occhi si abituarono al buio e
scoprì così che quel maledetto posto non era così buio. Dal
cielo pioveva una scarsa luce che non riusciva nemmeno a
tracciare ombre per terra, ma le dava qualche decina di
metri di visibilità. La debole luminosità del cielo le
permise di stabilire che quel posto, come molti altri,
aveva anche lui un orizzonte: maledettamente piatto e
indistinto, ma c’era.
Camminò cercando di difendersi dal freddo come poteva fino
a quando sentì gli zoccoli di un cavallo al galoppo
avvicinarsi alle sue spalle.
Si voltò e ben presto il cavallo le fu vicino. Il galoppo
si ridusse al passo, e poi cavallo e cavaliere emersero dal
buio. Dora sentì il cuore caderle tra i piedi. A cavallo
c’era una donna: nelle staffe aveva infilato i piedi nudi,
si teneva in sella stringendo i fianchi del cavallo con
gambe dai muscoli gonfi e poderosi, il ventre scoperto
era piatto e muscoloso anch’esso. Un mantello nero le
impediva di vedere le spalle e il petto, un elmo scuro
celava il volto e lunghi capelli neri lucidi e ribelli
sfuggivano da sotto il metallo lavorato.
Vide la donna a cavallo infilare la destra sotto il mantello
e un noto suono metallico accompagnò lo sguainare di uno
spadone simile in tutto e per tutto a quelli che usava lei
di solito. Il cavallo fu spronato e Dora si trovò
all’improvviso a dover fronteggiare una carica.
Il fendente fischiò sopra la sua testa mancandola d’un
soffio: Dora rotolò e quando fu di nuovo in piedi anche
lei era armata con i suoi due spadoni, meglio preparata
ad affrontare una nuova carica. L’avversaria era a diversi
metri da lei e sembrava trattenere il cavallo scalpitante,
per studiare una nuova tattica. Dora ne approfittò con
un’idea che le venne in quello stesso momento: trasformò
la spada nella mano destra in un pugnale da lancio e lo
scagliò con uno scatto fulmineo contro la sua ignota
avversaria. Questa incredibilmente intercettò il pugnale
con la lama dello spadone e lo deviò alle sue spalle,
illesa. Poi caricò.
Dora fece finta fino all’ultimo istante di voler parare
la carica e poi si gettò di lato, facendo roteare la sua
lama sinistra, ma questa attraversò l’aria sibilando senza
incontrare la carne dell’avversaria a cavallo. Sorpresa
dalla velocità e dalla forza della sua nemica, Dora decise
di cambiare tattica e di tentare di disarcionarla. Lasciò
perdere gli spadoni e si armò di una lunga e robusta
picca, armata anche all’estremità opposta con una palla
di metallo. Era un’arma un po' sbilanciata, ma forse le
sarebbe tornata utile per quello che aveva in mente. Come
previsto, la sua avversaria non aveva intenzione di
rinunciare al vantaggio del cavallo e la caricò ancora,
sempre armata di spada. Dora sospettò qualcosa e infatti,
a pochi metri dal punto dove sarebbe avvenuto lo scontro,
la sua nemica cambiò la spada in una robusta lancia. Ebbe
meno di un secondo per procurarsi un grosso e pesante
scudo, ma il colpo le fece lo stesso molto male al
braccio: per di più la cavallerizza aveva avuto modo
di scansare agilmente la sua picca e adesso si stava
preparando a caricare di nuovo.
Strinse i denti e cercando di ignorare il dolore al braccio,
puntò la picca in modo da costringere la nemica a non
avvicinarsi troppo, o a farlo dalla direzione che le
sarebbe risultata più svantaggiosa. Fu caricata
un’altra volta ancora e stavolta riuscì a mettere
in pratica la sua idea. Un attimo prima di essere
a tiro della lancia, Dora scartò verso il cavallo
schivando la punta dell’arma nemica e invece di
trafiggere con la picca, la fece roteare e colpì
l’avversaria in pieno con la palla di ferro. Questa
perse la lancia, sembrò adagiarsi all’indietro
subendo il galoppo del cavallo, ma poi riuscì a
tenersi alle briglie e a chinarsi sul collo
dell’animale con le braccia piegate sul corpo,
mostrando di aver decisamente accusato il
colpo.
Ci mise più tempo a preparare la carica stavolta e
Dora si rammaricò di essere a piedi: lo scontro si
sarebbe potuto concludere di lì a poco se avesse potuto
incalzare l’aggressore subito dopo aver messo a segno
quel colpo. Invece si trovò costretta a subire
un’altra carica: questa volta non poté evitare la
nuova lancia che perse la punta contro lo scudo, ma
con la palla di ferro cercò e trovò la schiena
dell’attaccante che non riuscì a stare in sella. Dora
le fu subito addosso, ma quella si rialzò rapidamente
da terra e si armò di due spade del tutto simili a
quelle che lei impugnava. A far esitare Dora un istante
di troppo fu quello che l’avversaria indossava visibile
ora per la distanza ravvicinata, attraverso il mantello
aperto: come lei aveva un corto gonnellino fatto di
numerose strisce di cuoio e di metallo tenute insieme
tra di loro da anelli metallici, mentre il seno era
protetto da due coppe di metallo borchiato trattenute
al petto da lacci di cuoio. Non aveva strisce sulla
pelle bianca, ma neanche Dora ne aveva in quel
momento: ci aveva rinunciato per non dare
nell’occhio in città.
La sua nemica approfittò di quel momento di incertezza
per attaccarla, brandendo le due spade e mulinandole
vorticosamente, costringendo Dora sulla
difensiva. Fortunatamente Dora indovinò subito
il ritmo dell’attaccante e riuscì a parare ogni
colpo, ma non riusciva a smettere di indietreggiare
e nemmeno a trovare un piccolo spazio per
contrattaccare. I colpi erano portati con grande
forza e decisione, le lame risuonavano fragorosamente
e sprizzavano scintille ogni volta che si
incontravano a mezz’aria, illuminando le smorfie
di Dora e riflettendosi sull’elmo lucido della sua
avversaria.
Poi Dora arretrando inciampò e perse l’equilibrio:
non riuscì a parare un fendente e cercò di evitarlo
con un disperato e potente colpo di reni. La punta
nemica le accarezzò il ventre aprendo una lunga
ferita. Non percepì subito il dolore, impegnata
com’era a mantenere l’equilibrio e a parare altri
colpi: aveva sentito la lama tagliarle la pelle
ma non si rese conto davvero della ferita fino
a quando non sentì il sangue caldo colare
rapidamente dal ventre fino all’inguine. Infuriata
per essere stata ferita una seconda volta,
nella carne e nello spirito, Dora cercò di
aumentare la velocità del duello: aveva il
fiato grosso, ma poteva vedere che anche il
petto dell’avversaria si alzava ed abbassava
vistosamente. Presto una delle due avrebbe
ceduto al ritmo forsennato e forse Dora
avrebbe avuto la sua occasione.
Dora ebbe per due volte consecutive la
possibilità di disarmare la sua attaccante,
ma non riuscì a far altro che graffiarle per
due volte il braccio con la punta della
spada. Era però un segno di cedimento: Dora
capì che era il momento di contrattaccare e
ignorando il dolore che dalla ferita minacciava
di salire al cervello, si sforzò di capovolgere
l’andamento del duello. Riuscì a smettere di
arretrare e con un po' di fatica iniziò ad
avanzare a sua volta. Ricevette anche lei un
graffio sul braccio quando per una disattenzione
aveva concesso all’avversaria la possibilità di
disarmarla, ma riuscì a trattenere la spada
nella mano e anzi a costringere la sconosciuta
ancor più sulla difensiva. Questa si ritirava
rapidamente, a balzi, lasciando a Dora il
sospetto che stesse tentando qualcosa in
particolare. Infatti, dopo l’ennesimo balzo,
attese che Dora si avvicinasse per tenerla
sotto pressione ed eseguì una fulminea piroetta
su se stessa, trasformando la spada destra in
una inarrestabile falce. Dora riconobbe la
mossa con cui aveva ucciso il centurione Skon
e si vide perduta: troppo tardi per cercare
di sottrarsi, reagì come le dettò
l’istinto. Incrociò le spade un istante
prima che il tremendo colpo dell’avversaria
vi si abbattesse sopra. Sentì tutta la forza
del fendente scaricarsi dalle sue spade su
mani e braccia che cedettero quasi
completamente; la lama nemica si fermò sbattendo
sull’elsa delle sue spade arrivando
pericolosamente vicina alla sua pelle. Dora
l’allontanò con una lama mentre con l’altra
cercava il ventre indifeso della cavallerizza
disarcionata, ma questa era saltata all’indietro
così rapidamente che Dora affettò solo aria
col suo fendente. Contenta di aver parato
quel colpo, furente per aver avuto il corpo
della sua avversaria così vicino e non
essere riuscita ad approfittarne, caricò a
testa bassa, entrambe le sue lame puntate
in avanti, intenzionata a non dare all’altra
un solo attimo di tregua.
Vide la lama balenare troppo vicino a lei e
scartò a sinistra con troppo ritardo: un lampo
di dolore le trafisse il cervello mentre la
punta della lama avversaria le trapassava un
fianco. Ebbe poco tempo per il dolore: dovette
immediatamente parare un altro attacco e poi
un altro che la costrinse con la schiena a
terra. Vide l’ombra dell’attaccante sovrastarla
e con un ultimo sforzo si sollevò di scatto
tendendo la spada destra in avanti, alla cieca,
mettendoci più forza che poté, la forza della
disperazione.
Sentì una spada cadere al suolo e non era
la sua, diventata d’un tratto così pesante
che dovette lasciarla andare. Con una mano sul
fianco da cui zampillava sangue scuro si sollevò
in piedi a fatica e si avvicinò alla sua avversaria
abbattuta, con la sua spada infilata nel ventre,
aggomitolata in posizione fetale. Con una pedata
che rischiò di farle perdere il precario equilibrio,
Dora la mise supina e con la sinistra, abbandonata
la sua spada, afferrò l’elsa di quella che sporgeva
dal corpo dell’altra donna, ancora viva, e la torse
strappando un gemito alla moribonda, causandole una
gravissima emorragia. Poi sfilò la lama e la trafisse
di nuovo, con rabbia e decisione, proprio sotto lo
sterno, cercando il cuore. Vide il corpo supino
dell’avversaria irrigidirsi e poi abbandonarsi
alla morte. La vista le si stava annebbiando sempre
più, ma doveva assolutamente levare l’elmo al cadavere,
doveva guardarla in faccia. Si inginocchiò vicino al
cadavere sempre stringendo una mano sul fianco trafitto:
il sangue sfuggiva dalle dita premute sulla ferita
condannandola alla morte per dissanguamento se non
avesse trovato soccorsi. Con la sinistra afferrò
l’elmo per la stretta fessura degli occhi e con un
po' di fatica riuscì a sfilarlo. Forse un’allucinazione
dovuta alla debolezza, al sangue perduto, alla vita
che la stava abbandonando pian piano, ma sotto l’elmo
c’era lei. Il suo viso, lo riconobbe anche se pallido
di morte e con gli occhi vitrei e immobili: era il
suo stesso viso. Vestita come lei, combatteva come
lei, stesso fisico, stessa corporatura, stesso
volto. Scostò quanto poté le coppe di metallo
insanguinate che coprivano il petto e mise a nudo
un neo che sapeva di avere sul seno sinistro,
scoprendolo identico al suo per forma e posizione.
Dora, sempre più debole e affannata, era sommersa
da mille pensieri senza né capo né coda ma il più
pressante, quello che la stava angosciando, era che
stava morendo anche lei. La ferita era troppo grave
per potersi rialzare e andare a cercare aiuto in quel
posto buio e freddo. La vista le veniva meno, si trovò
a terra senza nemmeno capire come ci era arrivata. Cercò
di alzarsi, di rimettersi almeno seduta, ma il buio e
il freddo le avvolsero le membra con una pesante coperta
gelida.
Gambrath tenuto fuori della casa del mago, salì
sul suo carro e fu tentato di andarsene, stizzito
per non poter soddisfare la sua curiosità riguardo
l’affare che il misterioso personaggio avrebbe concluso
col suo ritorno lì, accompagnato dalla guerriera. Scartò
immediatamente l’idea: se la guerriera non avesse gradito
l’essere lasciata a piedi, avrebbe potuto dargli la caccia
per tutta Taliba e oltre. L’essere permalosi era una
caratteristica comune a tutti gli appartenenti alla
casta dei guerrieri e Gambrath non aveva bisogno di nemici
di nessun genere.
Trascorse quindi con pazienza il breve lasso di tempo
che lo separò dall’apparizione dell’uomo.
Lo vide uscire dalla porta della casa del mago: era alto,
con una folta barba e due occhi che facevano paura: il
mercante non poté fare a meno di fissarlo. Coperto da un
bel mantello, si guardò intorno rapidamente, come se cercasse
qualcosa in particolare. Incrociò per un attimo gli occhi con
quelli di Gambrath e il cuore del mercante perse un colpo:
ebbe la sensazione che quello sguardo malvagio fosse proprio
diretto a lui e gli parve perfino che l’uomo dalla barba nera
piegasse gli angoli della bocca in un sorriso crudele prima
di scomparire tra la folla della strada con passo agile e
veloce.
Gambrath rimase parecchio a pensare cosa avrebbe potuto
essere successo. Sicuramente quell’uomo doveva essere
ospitato dal vecchio mago: gli era apparso per pochi istanti,
ma era sicuro che non poteva essere uscito da nessun posto se
non dalla porticina della casa del mago. Probabilmente entrava
anche lui nell’affare, ma non avendo nessun legame con lui, si
chiese che ruolo potesse avere in tutta la faccenda.
Solo quando le sue natiche cominciarono a risentire
della posizione seduta il mercante cominciò a chiedersi
che fine avesse fatto la guerriera. Non era certo un tipo
coraggioso lui, ma la sua curiosità talvolta gli aveva
procurato dei guai. Fu per curiosità infatti che si decise
a scendere dal carro e ad avvicinarsi alla porta della
casa del vecchio mago. Era chiusa e nessun suono era
percepibile attraverso di essa. Si chiese come i due
avrebbero preso una eventuale interruzione, qualsiasi
cosa stessero facendo lì dentro: in fin dei conti lui
desiderava sapere solo se poteva andarsene oppure no. Tutto
quel tempo passato ad attendere per un mercante come lui
era tempo davvero sprecato. Pensò che probabilmente la
guerriera avrebbe mal tollerato l’intrusione e lo avrebbe
picchiato, quindi tornò timoroso sui suoi passi fino al
carro. Ma poco dopo, vedendo che non era successo ancora
nulla, si diresse un po' più risoluto verso la porta,
deciso almeno a bussare alla porta per vedere se otteneva
una risposta senza dover entrare.
Bussò, ma nessuno rispose. Aspettò educatamente prima di
bussare ancora, ma non accadde nulla. Dopo aver bussato
inutilmente per la terza volta, si decise a chiamare il mago
ad alta voce, scoprendo di non conoscerne il nome, così come
non conosceva quello della guerriera. Timoroso di essere
scambiato per matto o per malintenzionato dalla gente che
transitava per la strada, non disse nulla. Ma come fare per
sapere qualcosa? Non poteva certo stare lì ad attendere
in eterno. Preso il coraggio a due mani, Gambrath decise
di entrare, pensando che con tutta probabilità la porta era
stata chiusa dall’interno.
Invece no. La porta era aperta e Gambrath entrò. Non ebbe
fatto che pochi passi dentro il buio covo del vecchio mago
che un fortissimo vento freddo lo investì, spingendolo
all’indietro. Il mercante riuscì a puntellarsi sulle sue
gambe e a resistere, ma non poté impedire che il vento
chiudesse la porta d’ingresso, privandolo della luce del
giorno che proveniva attraverso di essa. Non appena la
porta si fu chiusa sbattendo, il vento cessò e Gambrath
fu al buio. Rimase fermo in piedi aspettandosi di vedere
le fiammelle delle candele che anche la volta precedente
non avevano tardato ad apparire, e così fu. Passò di nuovo
di fronte al quadro che lo aveva turbato la prima volta,
notando che non aveva perso nulla del suo aspetto sinistro
e della sua verosimiglianza. Poi il suo piede destro
incontrò un ostacolo inaspettato e Gambrath perse
l’equilibrio e cadde a terra.
- Maledetto! È l’ultima volta che faccio qualcosa
senza esserne convinta! - disse Dora stizzita. Non
appena il mercante era riuscita a portarla alla luce del
sole, si era subito ripresa. Nessuna ferita al fianco o al
ventre, nemmeno quella alla spalla. La sua pelle era ovunque
intatta.
- Un potente mago! - ripeté Gambrath.
- Macché! Dev’essere stato quello stronzo barbuto
che hai visto uscire. Mi ha colpito alla testa e
ho avuto un incubo, tutto qui.
- E adesso, che facciamo?
- Non so tu, mercante, ma io ne ho le palle piene
di questo posto, di te, del tuo mago e del tuo
affare del cazzo. Portami da qualcuno che sa qualcosa
dei varchi, che ho voglia di tornare a casa, e
ringrazia il cielo che non ti cavo le budella per
quello che mi è capitato.
Lo sapevo, pensò Gambrath: è sempre colpa di
qualcun altro.
Per non rischiare niente, il mercante decise di
ricorrere al suo amico Rambel’ Marè ed al suo nuovo
datore di lavoro, Rendel Lorente.
L’uomo di medicina aspirò una boccata di fumo
dal narghilè e stette in silenzio, pensando
alla storia che aveva appena sentito dalla
bocca del suo amico Gambrath e da quella della
sua arrogante e occasionale compagna di viaggio,
autoproclamatasi guerriera.
- Saresti tu quindi che vai seminando lutti e
dolori tra le genti di queste terre? - chiese
infine, dopo aver soffiato una nuvola di fumo
acre e odoroso. Gambrath non aveva potuto fare
a meno di vedere che il suo amico Rambel’ Marè
se la passava sempre meglio: ricche vesti, oro
appeso al collo e alle orecchie, sete, cuscini,
ottimo tabacco e aromi costosi non gli mancavano.
- Cosa intendi dire? - rispose Dora che mal sopportava
il fumo e ancora meno quell’individuo che a suo dire
si stava solo dando un sacco di arie.
- C’è un sacco di gente qui intorno che ti appenderebbe
volentieri in una gabbia. E non sono solo gli
uomini di Vorgo a volerlo.
- Bella gratitudine! Io intervengo per salvarvi il
culo, sai? Sai quanta gente ho levato dalle grinfie
di bastardi di vario calibro?
- Già, e dopo ogni tua bravata i soldati arrivano
in forze e rastrellano villaggi interi, condannando
ciascuno ai lavori forzati per punire anche la morte
di un solo soldato - rispose Rambel’ Marè, calmo.
Dora, sorpresa, non ebbe di che controbattere: non
aveva mai pensato a quella possibilità.
- Per la morte di Made, per opera tua, decine
e decine di gabbie e di impiccati hanno ornato
le mura di Taliba per lungo tempo. Se hai massacrato
anche Skon e i suoi uomini, prova solo a immaginare
cosa accadrà quando la notizia arriverà alle orecchie
del prossimo centurione. C’è già una guarnigione fissa
a Taliba, ed è fin troppo. Manderanno qui tutto
l’esercito.
- Senti, coso: se mi aiuti a trovare un Varco aperto,
sparisco per un po', che ne dici? Così vi arrangiate
da soli - disse Dora riprendendosi un po' dallo
sconforto che le aveva procurato vedersi sbattere
in faccia la propria presunzione ed egoismo. Le sue
convinzioni, sempre più incrinate, anziché
confortarla la fecero sentire come se stesse
recitando una parte.
- Non posso aiutarti: sono un uomo di medicina,
non un mago.
- Allora stiamo solo perdendo tempo - disse Dora
alzandosi bruscamente in piedi - vieni, mercante,
ce ne andiamo.
Gambrath impallidì: alzarsi in piedi prima
dell’ospite nella sua stessa dimora era una
gravissima scortesia e segno di grande insolenza
e maleducazione. A denti stretti la supplicò di
rimettersi a sedere: il suo comportamento lo stava
mettendo in grave imbarazzo, in quanto era stato lui
a condurla da Rambel’ Marè. Dora non aveva mai visto
quell’espressione sulla faccia del mercante
e si rimise a sedere. L’altro individuo,
Rambel’ Marè, la guardava con freddo distacco.
- Ho detto che io non posso aiutarti, ma
conosco qualcuno che può farlo.
- Era ora! - commentò inopportunamente Dora.
L’urlo del mago si sentì distintamente anche
fuori dalla sala dov’era entrato da solo con
Dora. Rambel’ Marè e Gambrath, rimasti fuori
ad aspettare col divieto di entrare se non
fossero stati chiamati, si guardarono l’un
l’altro chiedendosi se fosse il caso di
intervenire. Esitarono fino a quando attraverso
la porta chiusa un altro grido giunse alle
loro orecchie. Era senza dubbio il mago e
sembrava che lo stessero torturando. Gambrath
impallidì quando vide il suo amico mettere
mano alla maniglia della porta per
sbloccarla. Ma questa gli scappò via di
mano: la porta fu aperta da Dora in persona.
- Ma che gli ha preso? - chiese lei uscendo. Con
la porta aperta, il terzo grido del mago giunse
ai due con una nitidezza spaventosa.
Rambel’ Marè e Gambrath entrarono esitando. Il
mago era riverso sul tappeto e si teneva la testa
tra le mani. L’uomo di medicina lo raggiunse per
prestargli soccorso, e nel voltarlo supino entrambi
videro che aveva gli occhi rovesciati all’indietro
sotto le palpebre tremanti e il corpo sussultava
in preda a strane convulsioni.
- Nobile Mago! Che ti succede?
Un gorgoglio dal profondo della gola fu l’unica
risposta dell’uomo. Le convulsioni diminuirono
un po'.
- Forse ha avuto una visione… - suggerì
Gambrath, un po' spaventato.
- Ha detto qualcosa prima di cadere in questo
stato? - chiese l’uomo di medicina a Dora, che
osservava perplessa la scena.
- Bah… ha cominciato a blaterare cose senza senso,
parole strane… poi ha cominciato a gridare e ad agitarsi,
è caduto per terra e…
- …’iel… - rantolò il mago.
- Che ha detto? - disse Rambel’ Marè.
- È una delle parole che blaterava prima di cascare
come uno straccio - confermò Dora.
- … Dokh’iel… - disse ancora il mago, con un filo
di voce. Poi i suoi occhi si chiusero.
- Mago… Mago! - disse Rambel’ Marè scuotendo
l’anziano uomo per le spalle.
- È… - iniziò Gambrath, ma non terminò la frase.
- No, respira. Ha solo perso conoscenza.
- Ho sentito bene? Ha detto… - disse il mercante,
con tono tetro.
- Hai sentito bene, amico mio. L’ha detto -
rispose altrettanto tetro Rambel’ Marè.
- Ma insomma, che ha detto? - si spazientì Dora.
I due la guardarono come si guarderebbe un
condannato a morte.
- Lo chiamano in molti modi, ma è sempre la stessa
persona. Qui è noto come Dokh’iel - cominciò Rambel’
Marè - Per darti un’idea di cosa è capace, Vorgo
non ha dormito tranquillo fino a quando non lo ha
imprigionato.
- Per Elzer… - sospirò Gambrath pallidissimo, poi
si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto.
Rambel’ Marè ci mise un secondo a reagire, poi
soccorse l’amico che aveva avuto un mancamento. Gli
fece dei massaggi alle spalle e lo schiaffeggiò
fino a quando questi si riprese.
- Che ti succede, amico?
Gambrath cercò di articolare qualche parola, ma dovette
sforzarsi prima di emettere suoni comprensibili.
- …L’uomo … - ripeté più volte.
- Che uomo? - chiese Rambel’ Marè.
- L’uomo… quello che è uscito dalla casa
del mago… aveva uno sguardo cattivo, malvagio…
era lui!
- Guardate! - esclamò Dora, puntando un dito
contro il corpo del mago ancora disteso a terra. Dalla
sua bocca e dalle narici stava uscendo un denso
e cupo fumo nero.
Ma non si trattava di fumo comune, e fu chiaro subito
ai tre: lo video scivolare sul corpo del mago fino a
ricoprirlo con spire dense e gonfie, senza dissolversi
e sollevarsi in alto come avrebbe dovuto, ma rimanendo
basso come se avesse un peso vero e proprio. In breve il
fumo nero, come un sinistro essere vivente aveva
ricoperto completamente il mago trasformandolo in
un pupazzo scuro e ribollente, senza una forma
precisa, soltanto vagamente rassomigliante a un
essere umano.
Con gran sgomento di tutti il pupazzo di fumo si
sollevò dritto sui suoi piedi, sciogliendo i legami
che lo trattenevano al corpo del mago, che rimase
supino sul pavimento. Stette immobile mentre ciascuno
dei presenti arretrava inorridito. Poi si voltò di
scatto verso Dora e due bagliori rosso cupo brillarono
dentro la testa del pupazzo.
- Grazie… - una voce profonda e gutturale, cavernosa,
come nessun essere umano sarebbe mai stato in grado di
produrre, echeggiò nella stanza come se provenisse da ogni
dove - grazie, Guerriera dell’altro mondo… ma non aspettarti
trattamenti di favore…
Un braccio di fumo ribollente si tese verso Dora, che
sentiva le proprie ginocchia diventare molli. Poi un suono
orribile esplose nelle orecchie di tutti, come se la
sofferenza di un pianeta intero fosse stata gridata al
cielo tutta in una volta. Le misteriose forze di coesione
che avevano plasmato il fumo vennero improvvisamente meno
e questo si dissipò in pochi istanti, lasciando nella
stanza come segno del suo passaggio un odore orribile.
Rambel’ Marè, pallido come un morto, puntò su Dora uno
sguardo per metà accusatore e per metà terrorizzato. Questa,
non meno pallida non riusciva a capire cosa stesse
accadendo. Gambrath era nuovamente a terra, privo di
sensi.
- Che… che cosa avrà voluto dire? - riuscì a dire lei
dopo aver deglutito diverse volte.
- Me lo chiedo anch’io.
Rambel’ Marè fu il primo a mostrare di riprendersi
dallo spavento: esaminò nuovamente sia l’amico
mercante che il mago. Questo fu l’ultimo a riprendersi
e quando fu interrogato a riguardo, faticò a parlare di
quello che gli era accaduto fino a quando non fu
rinfrancato dalle cure dell’uomo di medicina e da un
bicchiere di vino dolce. Ma anche allora fu avaro di
informazioni: nei suoi occhi si leggeva un profondo
terrore per quanto gli era accaduto.
- Dokh’iel è di nuovo tra noi - disse infine - perché
qualcuno ha sciolto i legami impostigli da Vorgo, uno
della sua stessa razza. Non deve essere al meglio della
sua forma: raramente uno come me se la sarebbe cavata
dopo quello che mi ha fatto.
- Chi ha sciolto i legami? - chiese Gambrath.
- Ha poca importanza: ormai è libero - lo rimbeccò
Rambel’ Marè, ma guardando Dora.
- È stata lei - disse il mago puntando il dito
contro la guerriera che spalancò gli occhi - ma
non sapeva cosa stava facendo. C’era bisogno di
qualcuno forte abbastanza da farcela, ma che ignorasse
tutta la storia.
- Abbiamo perso di vista il motivo di tutto questo:
dove trovo un Varco aperto che mi faccia tornare
indietro?
- Tornare indietro? Dopo aver combinato un tale
danno te ne vorresti andare, Guerriera? - la accusò
Rambel’ Marè.
- Io non ho fatto proprio nulla! Non ne sapevo
niente di questo Dochié!
- Recriminare non serve a niente - disse il mago
interrompendo Rambel’ Marè che stava per rispondere
a Dora.
- Cosa suggerisci?
- I Varchi sono aperti, guerriera. Dirigiti
verso Bel’ee, ne troverai uno. Torna al tuo mondo.
- Approvo - aggiunse Rambel’ Marè.
- Ti devo staccare la testa dal collo? -
chiese Dora all’uomo di medicina.
- Vattene, Guerriera! Hai fatto abbastanza
danni da questa parte del Varco. Uccidimi pure
se credi di punire la mia arroganza: meglio morire
che essere posseduto un’altra volta dal Malvagio.
Dora aveva ripreso colore in volto, il colore
dell’ira. Avrebbe infilzato volentieri quei due,
ma aveva di meglio da fare: se poteva tornarsene
a casa, l’avrebbe fatto. Ne aveva abbastanza di
quel posto. Afferrò per un braccio il mercante e
lo trascinò fuori della casa del mago, imponendogli
di portarlo al Varco di Bel’ee.
Al povero Gambrath non rimase che mettere a
disposizione il proprio carro e puntare un’altra
volta verso la Pianura, per accontentare la Guerriera
furiosa prima che decidesse di tagliarlo in due con
un solo colpo di spada. Con malinconia e rabbia
repressa pensò che se avesse avuto una moneta per
ogni volta che aveva ripetuto quel tragitto, adesso
sarebbe un po' più ricco e magari anche meno triste.
Nel piovoso primo pomeriggio del terzo giorno di
viaggio la guerriera, seduta al suo fianco coperta
solo dalle sue armi, incurante del freddo e della
pioggia, gli intimò di fermarsi con voce piena di
soddisfazione. Lo aveva percepito già da tempo,
facendo deviare leggermente il percorso del carro
trainato dal suo nuovo bue bianco, ma adesso era
arrivata a destinazione, finalmente.
La guardò saltare giù dal carro e sprofondare
nel fango con le sue calzature alte e strane. Si
allontanò di una ventina di passi e poi si fermò:
Gambrath non vedeva niente ma dedusse che si era
fermata davanti al Varco. La vide allungare un
braccio e poi vide questo sparire nel nulla fin
quasi al gomito, letteralmente ingoiato
dall’aria. Lei ritrasse il braccio e si voltò
verso di lui con un sorriso sul volto coperto
da lugubri segni neri.
- Ciao, mercante! Ci vediamo! - lo salutò
con voce squillante, sollevando la mano in
segno di saluto.
Gambrath non seppe come ricambiare il saluto:
incerto alzò anche lui una mano, proprio un attimo
prima che la Guerriera si tuffasse letteralmente
nel Varco, scomparendo alla vista.
Con una gradevole sensazione di sollievo che gli scaldava
il cuore, Gambrath incitò il bue bianco e invertì la
direzione di marcia, diretto alla stazione di posta.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 12
12.
Nuvole nere di tempesta oscuravano il cielo:
dopo un viaggio reso difficile dal terreno intriso
d’acqua, finalmente Gambrath era giunto in vista
della stazione di posta, la cui familiare sagoma
scura si stagliava ormai vicina, in contrasto col
grigio uniforme della terra e del cielo.
Era contento che fosse ancora in piedi e
sperava ardentemente che gli scagnozzi di
Skon non si fossero fatti vedere. A prima
vista la costruzione bassa e lunga sembrava
intatta, ma la visibilità era scarsa e la distanza
eccessiva per esserne certi. Come sempre, non
il più piccolo barlume era visibile dall’esterno. Con
questo dubbio che gli pesava nel petto,
Gambrath si avvicinò, all’erta e guardingo,
anche se sapeva che se avesse incontrato gli
uomini di Skon, sarebbe stata morte certa.
Invece il mercante giunse a portata di voce senza
alcun incidente: vedeva un po' meglio la
costruzione che sembrava davvero intatta. Nessuna
bruciatura, nessun segno di danni, ma neanche un
segno di vita. Gambrath si fece coraggio e
raccolto un po' di fiato emise il richiamo.
Dopo pochi istanti la porta grande si aprì e il
cuore del mercante si alleggerì da ogni dubbio
quando vide comparire sulla soglia la nota
sagoma di Cambler, l’oste. Spronò il bue bianco
per accelerare un po', tale era la gioia di
rivedere quell’uomo.
- Cerco rifugio, oste!
- Sei il benvenuto, mercante! - fu la cordiale
risposta di Cambler. Poi questi oltrepassò la
soglia per andare incontro al viaggiatore.
Si incontrarono a metà strada e Gambrath saltò
giù dal carro in segno di rispetto. I due si
salutarono stringendosi le mani e dandosi
pacche sulle spalle.
- Vieni, Gambrath: portiamo il tuo carro nella
stalla prima che cominci a piovere.
- Dovrai raccontarmi un bel po' di cose, amico mio:
come ve la siete cavata? I soldati sono stati qui?
- Non avere fretta: ti racconterò tutto mentre mangerai
un piatto della zuppa di Rama. A proposito:
promettimi che quando partirai porterai con te
la tua schiava. Una va bene, ma due sono troppe!
- Padrone! Padrone!
Gambrath si voltò e vide Lerea che correva a
perdifiato verso di lui, uscita dalla porta
lasciata aperta da Cambler. La vide corrergli
incontro chiamandolo padrone, ansante, rischiando
a ogni passo di inciampare nei veli della veste
che si sporcava sempre più di fango fresco. Quando
fu vicina si gettò in ginocchio nel fango ai suoi
piedi, gli abbracciò le ginocchia e vi nascose
il volto, singhiozzando.
- Hai speso bene le tue monete, Gambrath - commentò
Cambler - nonostante la sua bruttezza, questa
schiava le vale tutte.
- Non sapevo che avessi i gusti di un Candriano,
Cambler.
Così dicendo afferrò Lerea per le braccia e la
costrinse a sollevarsi in piedi. Osservò il
giovane viso pallido e rotondo rigato di lacrime
e arrossato dal pianto. Il labbro inferiore
tremava leggermente.
- Tutto bene? - le chiese - Ti hanno fatto del male?
Lerea cercava di reprimere i singhiozzi e non osando
parlare fece cenno di no con la testa.
- Bene. Dopo controlliamo. Adesso calmati, eh?
- Padrone… sono così felice… - disse lei
riprendendo un po' di autocontrollo.
- Anch’io, Lerea… anch’io.
- Andiamo alla stalla, padrone - disse poi,
osando afferrare Gambrath per un polso e
tirandolo in direzione della porta della stalla,
chiusa.
- Vieni, non te ne pentirai! - aggiunse.
Gambrath non ebbe altra scelta che farsi portare
da Lerea fino alla stalla. Sempre incitato da lei,
ebbra di gioia, aprì la porta che non era sprangata.
La stalla era piuttosto affollata: riconobbe subito
il carro di Rambel’ Marè e diversi buoi e cavalli che
dovevano essere sempre di sua proprietà o di Rendel
Lorente, il suo ultimo datore di lavoro. Comparve il
muscoloso e taciturno figlio di Cambler, con in mano
una cavezza. Alla cavezza era legato un bue grigio che
il mercante riconobbe in un attimo: era il vecchio
Oslob, strigliato e ben pasciuto come raramente lo
era stato.
Il cuore del mercante si riempì di calore e felicità:
non solo i suoi amici erano salvi, ma avevano anche
recuperato ciò che gli era stato tolto dai soldati della
guarnigione di Taliba. Questo era importante perché
Gambrath era affezionato al vecchio Oslob e perché
così finalmente poteva liberarsi dei pesanti debiti
nei confronti dell’amico Rambel’ Marè, in osservanza
di una delle più importanti regole del mercante: mai
avere debiti di nessun genere con nessuno.
Dora si guardò nel suo piccolo specchio e si
accarezzò i fianchi, tornati abbondanti e morbidi;
guardò il proprio ventre, molle e un po' sporgente
e i seni, piccoli e flaccidi a confronto di quelli
di Dora Guerriera, forte, bella e coraggiosa.
Guardò la spalla che era stata ferita durante
il combattimento con quel gigante: solo osservando
con attenzione era possibile vedere una cicatrice
sottilissima ma lunga da far spavento.
Si sentiva stanca e demoralizzata, quasi sconfitta. Coloro
i quali aveva creduto di aiutare l’avevano scacciata
e trattata male. Non se lo sarebbe mai aspettato,
ragion per cui ora a bruciare erano altre
ferite. Ferite dentro.
- Ingrati - pensò ad alta voce, sapendo però che
avevano ragione. Non riusciva a rassegnarsi a
questo, ma aveva sbagliato qualcosa. Cercava di
tranquillizzare la propria coscienza, ma non ci
riusciva.
Guardò la parete del bagno dove si apriva il
Varco: non si poteva vedere nulla di anormale ma
lei sapeva che era ancora lì. Lo sentiva dentro di
sé, dentro il cervello, dentro il cuore, dentro le
viscere.
Uscì dal bagno chiudendosi la porta alle spalle con
particolare cura: il suo monolocale non gli era mai
sembrato così piccolo e angusto. Mettendosi a letto
per dormire quelle poche ore che la separavano dal
mattino di Apollo, una semplice formalità come altre
in una vita scandita dall’illuminazione artificiale
e dall’orologio di sistema che sincronizzava l’intera
Stazione, pensò al Varco.
Un giorno o l’altro lo avrebbe attraversato ancora.
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