Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice

di Mannu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 1
1.

Gambrath era un mercante solitario. Con il suo carro a due ruote girovagava per tutte le terre vendendo le sue merci, a volte barattandole con altre, a volte riuscendo a ottenere in cambio metallo giallo o pietre preziose. Il suo aspetto umano lo facilitava con la maggioranza delle popolazioni: suoi clienti fissi erano il popolo Minuto, sempre bisognosi di nuove sementi, innesti per i loro alberi da frutto e di metallo nero per gli attrezzi. Commerciava volentieri anche con i furbi candriani, con i quali era sempre un piacere concludere affari quasi sempre profittevoli per entrambi. Mentre i rehn, avari acquirenti di ogni genere di bene che lui riuscisse a trasportare, erano i più difficili. Poi, ma meno frequentemente, aveva occasione di barattare con i nolga: le loro lunatiche cavalcature rappresentavano un pericolo costante anche per il loro stesso cavaliere e più di una volta erano riuscite a spaventare a morte Oslob, il bue grigio dalle lunghe corna ritorte che trainava il carro di Gambrath, accompagnandolo in ogni suo viaggio.
A cassetta, riparato dalla pioggia sottile da un telo reso impermeabile dal sudiciume, Gambrath teneva saldamente le redini del vecchio Oslob, che un passo dopo l’altro faceva avanzare il carro semivuoto nel fango molle. Il mercante era preoccupato: con due giorni di viaggio aveva lasciato alle spalle una città del popolo Minuto, dove aveva appreso della sfida che il Guardiano aveva lanciato a Vorgo, delle migliaia di morti e feriti che c’erano stati senza che Vorgo subisse una sconfitta. Aveva sentito della liberazione dei berserker, e già questa come preoccupazione bastava e avanzava. Si era informato sul luogo della battaglia e gli era stato detto che doveva essersi svolta a parecchie giornate di marcia dalla città, poiché nessuno si era reso conto di niente fino a quando i messaggeri del popolo Minuto non avevano portato la notizia della sconfitta del Guardiano dall’una all’altra delle loro città. La seconda più grossa preoccupazione per Gambrath era l’inasprimento delle tasse che Vorgo, incollerito per la rivolta, avrebbe certamente inferto alle popolazioni ribelli che avevano osato seguire il Guardiano. Più tasse voleva dire meno soldi in tasca; pochi soldi in tasca voleva dire meno affari per chi come Gambrath viveva vendendo tutto quello che gli capitava tra le mani. L’ultima preoccupazione, ultima solo per ordine e non per importanza, era il suo carro semivuoto: aveva trovato poca collaborazione nella città del popolo Minuto che aveva appena abbandonato. Aveva venduto poco, comprato quasi niente e barattato ancora meno: i cittadini gli erano apparsi spaventati anche se nessuna minaccia incombeva direttamente su di loro. Aveva chiesto se c’era qualche accampamento o guarnigione lì nei dintorni, ma gli era stato risposto che erano mesi che non si vedeva uno sgherro di Vorgo da quelle parti. Ma quella gente aveva paura lo stesso e la paura rende parsimoniosi.
Gambrath sporse la testa da sotto il telo e si guardò intorno: il grigiore della pioggia limitava la visibilità nella grande pianura che stava attraversando da due giorni senza aver incontrato anima viva, come sempre. Ma da quando aveva sentito pronunciare la parola berserker, Gambrath dormiva con un occhio solo e scioglieva malvolentieri il giogo di Oslob. Tornò al coperto senza aver visto nulla, ma si ripromise di continuare a guardarsi intorno maledicendo la pioggia e la nebbia che gli impedivano di vedere. Guardò sotto la cassetta dove aveva nascosto il risultato di un baratto che si era affrettato a concludere prima di partire: un lungo fucile dal calcio di legno lavorato. Era in grado di lanciare la sua palla a grandissime distanze, almeno così gli aveva garantito il Minuto che glielo aveva dato in cambio di un’anfora di ottimo vino dolce, che Gambrath aveva riservato per scambi migliori, e di un sacco con fichi essiccati. Gambrath voleva qualcosa per difendersi che non fosse il suo corto pugnale che non abbandonava mai e aveva accettato suo malgrado lo scambio, chiedendo però anche la polvere e il metallo per produrre altre palle. Guardò quell’ingombrante arma e si chiese se fosse in grado di fermare un berserker.
In quel mentre Oslob volse il muso all’indietro piegando il suo collo muscoloso e brontolò piano, in un modo che fece trasalire Gambrath. L’unico modo per far muggire così Oslob è la vicinanza di qualche nolga con la sua cavalcatura, pensò Gambrath, sporgendosi nuovamente. Invece le grida che sentì provenire dalla pioggia, alla sua sinistra, non erano certo quelle dei nolga o dei basran, il nome che loro stessi usavano per le bestiacce puzzolenti che cavalcavano.
Lo spirito bellicoso di Gambrath si disciolse come neve al sole alla vista di tre cavalieri semiumani, armati di lance e spade e mazze ferrate, che puntavano dritto verso di lui: il fucile rimase nascosto sotto il sedile e per poco le briglie di Oslob non sfuggirono dalle tremanti mani del mercante, che non aveva mai sfoderato il suo coltello se non per tagliarsi il cibo.
In breve i tre furono davanti al carro: uno di loro, un mostruoso essere dalle sembianze di una lucertola color del fango, afferrò con una mano dotata di quattro dita il morso del bue grigio e fermò il carro. Gli altri due, un muscolosissimo umano vestito di nero e un goffo ma pericoloso glohr addomesticato, circondarono il carro stando alle spalle del mercante terrorizzato dalle loro armi lucide per la pioggia e per l’uso frequente.
- Cosa porti, mercante? Bada, non mentire! - abbaiò l’uomo nero, coperto di pelli, metallo e armi. Anche il suo cavallo era bardato con piastre di metallo e con i trofei di guerra del suo cavaliere.
- Eccellenza, ho molto poco… poco cibo, delle pelli e sementi per i contadini… - balbettò Gambrath con voce appena udibile. Si era alzato in piedi esponendosi alla pioggia sottile e fredda, non sapendo se tenere d’occhio il rettile umanoide che guardava con occhio malvagio e affamato il povero Oslob oppure i due che con le loro corte lance avevano già sollevato il telo che proteggeva la sua mercanzia.
- Vedremo, pidocchio! Se ci hai mentito farai una brutta fine! - disse l’uomo. Un sibilo dell’orribile glohr accompagnò il saettare della sua lingua biforcuta.
I due gettarono il telo nel fango esponendo la merce di Gambrath alla pioggia.
- Vi prego, signori! È tutto quello che ho, se la pioggia rovina le sementi non avrò di che vivere!
- Halle! Khuelli kame fe hanno ssemfre la horsa hiena h’oro! - sibilò il rettile che sceso dal suo ronzino teneva per il morso Oslob. I suoi freddi occhi a fessura sporgevano dalla testa triangolare e una opaca membrana nittitante li ricoprì per un attimo per ripulirli dalle gocce di pioggia.
- Giusto - disse l’umano coperto di nere pelli ispide e bagnate di pioggia, abbandonando la perquisizione del carro - se il carro è vuoto vuol dire che hai venduto tutto e che la tua borsa è piena di monete. Vero, pidocchio?
- Ma signore… eccellenza, c’è carestia, la guerra… le tasse sono sempre alte… - azzardò Gambrath vedendosi perduto. La sua borsa non stava male, era vero, ma aveva in progetto di acquistare nuove mercanzie con quel denaro.
- Sì, sì… dicono tutti così… prima di morire! - ringhiò impugnando la sua scure bipenne.
- No, vi prego! - disse Gambrath cercando di fuggire. Riuscì a saltare giù dalla cassetta, ma l’essere simile a un enorme rettile lo afferrò per le vesti e lo trattenne, spingendolo con forza nel fango. L’essere aveva già impugnato la sua arma, una pesante mazza ferrata dotata di grossi e acuminati aculei di metallo quando la voce dell’uomo fermò la sua mano già alzata sopra la testa.
- Aspetta! A volte nascondono l’oro per non farselo rubare! Se lo uccidi, potremmo non trovarlo mai!
Il lucertolone abbassò la sua arma e sollevò di peso il mercante dal fango. L’umano, che lo sovrastava di parecchio in altezza, lo afferrò e lo scosse come fosse una bambola di pezza.
- Parla, figlio di un cane! Dove hai nascosto l’oro?
La gola di Gambrath era paralizzata dal terrore. L’oro l’aveva addosso, non si fidava a lasciarlo da nessuna parte. Ma non riuscì a proferir parola.
- Dov’è? - sbraitò ancora più forte il colosso.
- Lasciatelo!
La voce parve arrivare dal nulla. Una voce forte ma acuta, femminile, risoluta. Tutti cercarono di individuare chi potesse essere a sfidare quei tre assassini di professione. Dal grigio della nebbia apparve una figura, piccola e scura. Gambrath poteva vedere bene poiché la figura emerse dalla pioggia alle spalle del gigante cupo che lo stava scrollando. Era una donna, la chioma corvina e ribelle appiccicata dalla pioggia al volto pallido e al collo bianco, i seni protetti da due coppe di metallo legate con pelle, la vita cinta da un gonnellino fatto di innumerevoli strisce di cuoio e di placche di metallo legate tra loro da ampi anelli. I piedi erano coperti da curiose calzature sporche di fango dall’aspetto molto robusto, che arrivavano all’altezza dei polpacci. La pelle del volto era dipinta di nero intorno agli occhi, spesse righe scure che partivano dalla fronte, scendevano sugli zigomi e finivano a punta sul mento. Altri grossi segni neri ornavano le braccia sottili, il ventre un po' sporgente e le cosce grosse e rotonde. Lo sguardo fiero e le due lunghe lame dritte che impugnava non lasciavano dubbio alcuno sulle sue intenzioni.
Riavutosi dalla sorpresa, il gigante nero lasciò andare il mercante che ricadde nel fango. Impugnando la sua pesante scure bipenne con una sola mano fece un passo avanti verso la nuova arrivata, che si era fermata a qualche passo da lui.
- E tu chi saresti?
- Quella che ti farà passare la voglia di ammazzare gli indifesi, letame!
- Non credi di essere un po' piccola per queste cose? - disse l’uomo con un ampio sorriso di ghiaccio sul volto.
La ragazza non rispose e si mise in guardia, puntando in avanti le sue lame.
- Sei proprio decisa, eh? E va bene. Ho voglia di divertirmi anch’io: la tua morte sarà una liberazione per te, te l’assicuro!
Così dicendo fece un passo in avanti e fece volteggiare improvvisamente la sua scure come se avesse avuto tra le mani un rametto. La ragazza fece un passo a lato temendo un attacco, ma dopo che il gigante ebbe riportato la scure in posizione di guardia si rese conto che non era stata sua intenzione colpirla. Il gigante nero esplose in una fragorosa risata, deridendola. Poi passò all’attacco, sicuro di sé. La scure volteggiò di nuovo e la guerriera la schivò d’un soffio, avendola vista arrivare solo all’ultimo momento. La scure affondò con un tonfo nel fango dove un attimo prima c’erano i piedi di lei: se non fosse stata più che svelta, quel colpo veloce e potente le avrebbe spaccato il cuore dopo averle diviso in due la testa e il petto.
Pensò di avere un attimo di respiro e di poter contrattaccare, ma il gigante aveva già estratto dal fango la sua arma e la stava aspettando. Egli fintò un attacco, lei si ritrasse spaventata dalla velocità che quel colosso aveva e menò un fendente per coprirsi la ritirata. Quando tornò in guardia vide la sua lama sporca e l’espressione sul volto scuro dell’uomo era cambiata. Dopo qualche interminabile istante vide il sangue luccicare attraverso il cuoio lacerato.
L’attacco seguente fu di una furia e di una velocità sorprendenti. La guerriera saltò indietro quanto più poté, ma la carica del gigante urlante era tale che la raggiunse e la travolse gettandola a terra nel fango. Aveva avuto appena il tempo di schivare un fendente che le avrebbe staccato la testa, ma non si perse d’animo: con una faticosa piroetta si rimise in piedi e si trovò a guardare le spalle del suo avversario. Approfittando del tempo che il colosso ci mise ad arrestare la sua carica e a voltarsi, le lame scomparvero lasciando il posto a un'arma che Gambrath non aveva mai visto prima. La guerriera misteriosa, rivelatasi anche una potente strega, attese che il possente avversario si fosse voltato, poi gli sorrise e fece tuonare la sua arma. Quattro volte scaturì il lampo, quattro esplosioni secche, prima di veder cadere il gigante immobile a terra. Poi si voltò di scatto, appena in tempo per freddare con una scarica il glohr che si era lanciato su di lei. Il rettile umanoide, l’ultimo dei tre assassini, la guardò con occhi inespressivi, sibilò brevemente e con un rapido scatto saltò a cavallo e si diede alla fuga. La strega guerriera appoggiò l’arma contro la spalla, prese bene la mira nonostante la pioggia che la infastidiva e lasciò partire due brevi raffiche. La vampata del fucile fece risplendere di una balbettante luce bianca le goccioline di acqua. Gambrath vide la sagoma dell’uomo rettile cadere dal cavallo con un urlo disumano, rotolare a terra un paio di volte e poi non rialzarsi più. Il mercante non aveva perso tempo: quando la sconosciuta guerriera aveva ucciso con quella strana e potentissima arma il glohr a cavallo un attimo prima che le saltasse addosso, lui era scattato verso il suo carro e aveva raccolto il telo da terra per coprire le sue povere mercanzie. Poi con un breve schioccare delle redini aveva incitato Oslob a partire a tutta velocità. Quando aveva visto cadere il terzo bandito si era reso conto di non essere ancora fuori tiro, ma la guerriera era già diventata un’ombra nella pioggia.

- Bella riconoscenza… - disse a mezza voce la guerriera ansimando per la fatica - ma tu guarda che gente!
Afferrò il fucile per la maniglia e ritornò sui suoi passi lasciandolo dondolare. Camminò fino a quando il carro del mercante scomparve nel grigio di quella orribile giornata, fino a quando i tre cadaveri furono lontani e dimenticati, camminò sotto la pioggia strizzando gli occhi per le gocce che le davano fastidio. D’un tratto si fermò, in mezzo al niente, in mezzo alla brulla pianura battuta dalla pioggia, come se fosse arrivata a destinazione. Lasciò cadere a terra l’arma e cercò di raccogliere con le mani i capelli ricci fradici di pioggia per scostarli dal viso e dal collo. Fece quasi annoiata e distratta un passo avanti e sparì, dissolvendosi nell’aria.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 2
2.

Gambrath non diede pace al povero Oslob fino a quando una sagoma scura si stagliò nella nebbia e nella pioggia. Dapprima soltanto un’ombra, poi apparve nella consolante realtà: era una stazione di posta. Non sapeva ce ne fossero da quelle parti, dove pure era passato spesso, ma non si pose troppo a lungo il problema. La stazione di posta voleva dire un tetto, cibo, un ricovero per Oslob e per il carro, forse un giaciglio per lui. Puntò senza indugiare oltre verso la sagoma della stazione di posta, spronando il suo fedele bue grigio, esortandolo a compiere un ultimo sforzo.
Quando fu a portata di voce, chiamò quelli della stazione di posta com'era usanza. Vide un rettangolo di luce calda e dorata aprirsi nell’ombra grigia e una figura umana stagliarsi nel mezzo, rispondendo al richiamo. Gambrath si sentì rincuorato: finalmente avrebbe potuto mettere se stesso e la sua mercanzia al riparo dalla pioggia incessante.
Gli venne incontro un uomo, un robusto thale civilizzato che però portava ancora sulla pelle i segni della sua tribù. I thale erano una popolazione che aveva lontane origini nomadi rehn e che aveva poco a poco rinunciato al vagabondaggio diventando sedentaria, ma mantenendo una certa selvatichezza tipica delle carovane rehn. Questa grossa tribù era cresciuta ancor più di numero e man mano che aumentavano i contatti con le altre popolazioni, subiva mutamenti inevitabili. Gambrath avrebbe voluto sapere se l’uomo che gli stava venendo incontro era un thale-ra, nome che identificava coloro che avevano voluto conservare il più possibile le pur distorte e lontane tradizioni selvagge rehn, oppure un thale-ma, uno di coloro che avevano cercato di condividere la civiltà e la tecnologia degli altri popoli con spirito tollerante e con grande curiosità. Infatti i thale-ra richiedevano alcune precauzioni: mai parlare con loro con tono che potesse essere frainteso e giudicato arrogante. Un vero thale-ra non prende ordini da nessuno e, soprattutto, non permette a nessuno di chiamarlo thale-ra, ma mok'o, che nella loro lingua significa “uomo”. D’altro canto usare la parola mok'o a sproposito poteva essere pericoloso: per un thale-ma infatti la parola era sinonimo offensivo di “rozzo”, “bifolco”.
Con questo pesante dubbio nel petto, Gambrath alzò la mano destra aperta in segno di saluto e vide con piacere che veniva ricambiato con lo stesso segno. Aspettò che fosse il thale a parlare.
- Cerchi rifugio, mercante?
- Cerco rifugio, nobile ospite. Ho tre giorni di pioggia sul mio carro.
- Entra, allora: ho vino caldo e zuppa anche per te, se hai due monete.
- C’è posto per il mio carro?
- C’è posto al coperto, mercante, e non ti chiederò monete per questo.
L’uomo era ormai vicino e Gambrath lo vide sorridere sotto la pioggia. Era robusto e un discreto stomaco sporgeva tendendo gli abiti.
- Vieni: se vuoi conduco io il tuo bue.
L’uomo afferrò Oslob per il morso e con un verso pacato e basso lo tranquillizzò. Lo accarezzò sul collo fradicio e lasciò che Oslob lo annusasse, poi ripresero a muoversi diretti verso la stazione di posta.
- Non ricordavo stazioni di posta da queste parti - commentò Gambrath, ansioso di sapere di più di quell’uomo. Conoscere qualcuno significava indovinarne i gusti e ciò aumentava le possibilità di vendergli qualcosa: questo gli aveva insegnato suo padre, mercante anch’egli.
- Ricordi bene, mercante: io ho costruito tutto questo quattro stagioni fa.
- Il mio nome è Gambrath, ospite. Puoi chiamarmi così, se vuoi.
- Il mio nome è Cambler, nobile Gambrath. Anche tu puoi chiamarmi così, se vuoi. Guarda, siamo arrivati. La rimessa per il tuo carro è al coperto e c’è molto spazio.
- Quanto costa dare da mangiare al bue?
- Il fieno costa una moneta delle tue. Per la biada ci possiamo mettere d’accordo.
- Va bene il fieno. Se mi fermerò a lungo ti chiederò la biada.
Cambler aprì una doppia porta nel lato lungo dell’edificio di legno e pietra che era la stazione di posta. Oltre c’era la stalla, ampia, asciutta e ben fornita delle comodità riservate alle cavalcature e agli animali da soma.
- Nottle! Vieni, c’è del lavoro da fare!
Un giovane thale comparve da una piccola porta aperta nella parete che divideva la stalla dal resto dell’edificio, che dimostrava così di avere discrete dimensioni. Cambler si voltò poi verso il mercante che alla luce delle lanterne appese qua e là apparve nelle miserevoli condizioni in cui era.
- Per Elzer, Gambrath! Cosa ti è accaduto? Sei sporco di fango fino alle orecchie e oltre!
- Ho una storia da raccontare, mio buon Cambler. Ma prima vorrei mangiare qualcosa, e sistemare il mio bue all’asciutto.
- Mio figlio scioglierà il giogo del tuo bue, se vuoi.
Gambrath assentì silenzioso e osservò il ragazzo, giovane ma già robusto e muscoloso, accudire con fare quasi riverente il povero Oslob, bagnato, stanco e infreddolito. Gambrath si accorse così anche della presenza di due cavalli che erano già stati strigliati con cura; le selle stavano posate su un cavalletto fatto di tronchi grezzi lì vicino.
- Seguimi: è ora che tu mangi.
Gambrath seguì Cambler attraverso la porta da cui era apparso il figlio e si trovò in un ambiente caldo e confortevole, ben illuminato e dal soffitto di travi di legno ben piallate, basso ma non opprimente. Alla sua destra c’era la cucina, a giudicare dall’odore di stufato che ne usciva, mentre davanti a sé si apriva la sala più grande, dotata di tavoli e panche di legno giovane, appena piallato. La luce arrivava da lampade a olio di fogge diverse appese un po' dovunque alle pareti, alle travi del soffitto e ai grossi tronchi squadrati su cui esse si posavano e da un grande camino di pietre dove ardevano grossi rami secchi. Seduti a due tavoli diversi ma vicini i proprietari dei cavalli che aveva visto stavano finendo il loro pasto.
Uno era sicuramente un uomo di medicina, riconoscibile per i numerosi amuleti appesi al collo e agli abiti, e per le mani lisce, poco avvezze al duro lavoro manuale; l’altro avrebbe potuto essere chiunque. Alto e robusto come un mercenario o un soldato di ventura, vestito come un mercante, aveva una folta barba scura e gli occhi chiari si muovevano intorno come se stessero cercando qualcosa da perforare con lo sguardo. Quando Gambrath entrò alle spalle di Cambler, si posarono su di lui.
- Buona serata a voi - salutò Gambrath, cortesemente.
L’uomo di medicina aveva la bocca piena e rispose al saluto cordialmente alzando il suo boccale di terracotta in direzione del nuovo arrivato. L’altro, che non aveva smesso di squadrarlo, ripeté lo stesso gesto senza una parola.
- Siedi dove vuoi - disse l’oste, e si diresse in cucina.
Gambrath si accomodò al tavolo vicino all’uomo di medicina il quale nel frattempo aveva inghiottito e risposto al suo saluto. Si guardò un po' in giro: notò così la scala di legno addossata alla parete opposta, il bancone che separava i tavoli dalla cucina, realizzato, curiosamente, sia con pietre cementate tra loro che con legno. Le uniche finestre che c’erano, piccole e strette, erano sbarrate dagli scuri di legno e bloccate da catenacci di metallo nero.
- Salute, mercante. Anche voi sorpreso dal maltempo, eh? - esordì l’uomo di medicina.
- Salute a voi, venerabile. A dire il vero, è tre giorni che viaggio sotto l’acqua.
- A giudicare dal fango dei vostri abiti, si direbbe che viaggiate a piedi.
- Al contrario, ho un carro per la mia merce. Il fango che ho addosso è un’altra storia.
- Spero vorrà raccontarla - disse l’uomo di medicina, sorridendo.
- Non voglio annoiare nessuno.
- Al contrario, al contrario. Dopo la vostra cena, sarò lieto di ascoltare.
Cambler riapparve dalla cucina con in mano un panno piegato, fumante.
- Asciugati con questo - gli disse.
Il panno bollente confortò Gambrath, aiutandolo a sentirsi un po' meglio.
- Ora mangia - aggiunse l’ospite, voltandogli le spalle.
Dalla cucina comparve una splendida donna candriana, nel fiore della sua gioventù. Aveva la folta e lunga chioma chiara legata dietro la nuca, un abito sporco della cucina che le lasciava scoperte le braccia lisce e lungo abbastanza da coprirle anche i piedi scalzi. Al polso sinistro aveva l’inconfondibile bracciale di ferro nero degli schiavi. Tra le mani aveva una grossa pentola di coccio scuro che spandeva spire di vapore e profumo di zuppa. Indifferente agli sguardi posò la pentola e un piatto di coccio sul tavolo che Gambrath aveva scelto per sé, e con un mestolo di legno riempì il piatto con una densa zuppa di legumi e patate. A Gambrath quasi dispiacque di veder arrivare il corpulento Cambler armato della brocca del vino e di una tazza per lui.
- Hai una bella serva, Cambler - disse Gambrath frugando nelle proprie tasche alla ricerca del suo cucchiaio di legno - a quanto la vendi?
- La tua offerta mi onora, ma non posso venderla.
- Neanche per quaranta monete?
- Non posso venderla - disse Cambler mentre gli versava il vino caldo - perché è lei che sa cucinare la roba che mangi, mercante. Io non sarei capace di fare altrettanto bene. Se la vendessi danneggerei me stesso.
- Al mercato di Taliba potrei venderla per centocinquanta monete. E metà sarebbero tue.
Il corpulento thale, finito di versare il vino guardò Gambrath con un sorriso e gli rispose ancora negativamente.
- Taliba dista tre giorni da qui. Avrei le mie settantacinque monete non prima di sei giorni, e non potrei comprare un’altra serva prima di altri sei. E se vendessi Rama a te, tutti i miei ospiti se ne andrebbero domani, per non tornare più. Non posso.
- Dopo sei giorni, sette al massimo, potresti avere… trenta monete e una serva giovane dai seni grandi. Direi a tutti dove la sto portando e tu guadagneresti come prima - insisté Gambrath, esitando a ingoiare il primo cucchiaio di zuppa bollente.
- Non posso - disse Cambler senza smettere di sorridere e si allontanò.
- Come vuoi - disse il mercante, dedicandosi alla sua zuppa.
- È tutto inutile - gli disse l’uomo di medicina - in tanti ci hanno provato. Io stesso tre volte. Ma il nostro Cambler non vende. Quello splendido fiore resta lì... e nessuno lo porta via.
Gambrath volse uno sguardo all’uomo di medicina da sopra il piatto di zuppa fumante e non gli rispose. La zuppa era buona, Rama ci sapeva fare davvero in cucina. L’uomo di medicina andò avanti a chiacchierare: disse di chiamarsi Rambel’ Marè e disse molte altre cose. Ascoltandolo Gambrath terminò in fretta la sua cena e svuotò la sua coppa di vino caldo. Questo produsse un benefico effetto riscaldandolo e donandogli tranquillità e pacatezza, predisponendolo alla conversazione.
- Se credi di poter raccontare, nobile Gambrath, sono tutt’orecchi.
- E va bene, ti spiegherò l’origine del fango che mi imbratta.
“A circa un giorno di viaggio da qui, in direzione di Bel’ee, la città Minuta da cui provengo, mi è accaduta una cosa straordinaria e terribile al tempo stesso. Viaggiavo afflitto dalla pioggia da ormai due giorni dopo aver raccolto cattive notizie e concluso affari ancora peggiori a causa della recente battaglia. Sono diretto a Taliba, dove mi aspetto miglior fortuna. Ebbene, viaggiavo per i fatti miei quando all’improvviso vengo aggredito da tre banditi. Uno era sicuramente un glohr addomesticato, un altro simile a una lucertola umana e il terzo era un colosso tutto vestito di nero che…”
Rambel’ Marè reagì con grande stupore alla descrizione del mercante. L’altro uomo, seduto silenziosamente in disparte, per la prima volta si sporse in avanti e parlò.
- L’uomo vestito di nero che descrivi indossava forse pelli e metallo e portava un’ascia di guerra a doppio taglio?
- Sì, perché? - chiese Gambrath, che già tremava. Il tono della voce dell’uomo barbuto non era affatto gradevole.
- Qualunque cosa sia accaduta, hai avuto a che fare con un centurione dell’esercito del Tiranno e con la sua scorta.
- Per Elzer! - esclamò Rambel’ Marè - cosa potrà essere accaduto di male? Il nostro mercante è qui a raccontarlo!
- Aspetta, non ho detto ancora tutto. Il centurione con gli altri due mi assalgono, in cerca del mio oro. Prima che lo stesso centurione mi stacchi la testa dal collo, ecco che cade morto stecchito colpito da un’arma mai vista prima. Come un fucile, ma più piccolo, meno rumoroso e di grande potenza.
Grande stupore si dipinse sul volto dei due. Ma Gambrath non diede loro il tempo di riprendersi: visto che era riuscito a calamitare per sé la loro attenzione, andò subito avanti col suo racconto.
- Prima che potessi rendermi conto di cosa stava accadendo, anche le altre due guardie mostruose erano morte. L’ultima è stata uccisa da più di cento passi di distanza, mentre fuggiva.
- Chi ha potuto… - iniziò l’uomo di medicina, meravigliato dal racconto.
- Una strega guerriera. Mai vista prima, ve l’assicuro. Capelli neri e pelle bianca, con segni di guerra simili a niente che io conosca.
- Non una Guerriera Bianca, quindi!
- Sei nei guai, mercante - disse l’uomo barbuto con la sua voce tetra e profonda - ho già sentito racconti simili al tuo. Quella strega è ricercata.
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzante che nessuno osò interrompere.
- Ma suvvia, chi potrà mai mettere in relazione un pacifico mercante con l’uccisione di tre sgherri del Tiranno? - disse l’uomo di medicina con falsa allegria.
- È vero: sono fuggito così velocemente che non so dove ho trovato la forza. Temevo che quella guerriera se la prendesse anche con me.
Dalla cucina giunse Cambler, che si unì ai tre sedendosi su una sedia.
- Ho sentito che hai raccontato una storia, Gambrath. Ti prego, raccontala anche a me.
Gambrath non se lo fece dire due volte. Ripeté lo stesso racconto che aveva fatto ai due, descrivendo nei dettagli cosa era successo e rispondendo alle domande con dovizia di particolari, senza farsi alcuno scrupolo di tradire la verità. Cambler offrì altro vino che con dispiacere del mercante si preoccupò di portare di persona e i quattro andarono avanti a discutere tra di loro finché giunse il momento che il mercante desiderò solo dormire.
- Cambler! Mio buon ospite! Hai un letto per me?
Cambler fece capolino da dietro il suo boccale e rispose:
- Se tu hai una moneta per me…
Gambrath rise. Si alzò dalla sua panca e gli altri commensali, quel ciarlone di Rambel’ Marè e lo sconosciuto che aveva detto solo poche parole in tutta la sera, mostrando educazione e rispetto si alzarono a loro volta.
- E sia! Avrai la tua moneta. Mostrami il letto: sono stanco.
Cambler si alzò a sua volta e li guidò fino alle scale di legno.
- Desideri che Rama venga a scaldare il tuo letto? Solo una moneta. Ma dovrai aspettare: c’è chi è arrivato prima di te - chiese al mercante.
- La tua generosità mi commuove. E mi priva delle mie monete. Non ti offenderai se rifiuto, vero? - disse Gambrath reso sonnolento dal viaggio, dall’emozione e dal vino.
- Niente affatto. Se cambi idea, puoi farlo fino a quando vedi queste luci accese - disse il corpulento thale indicando le lucerne accese in tutta la sala grande. Poi li guidò al piano superiore, ciascuno al proprio letto.

Il mattino seguente Gambrath fu svegliato dalla grigia luce che filtrava da una finestrella quadrata così piccola che se avesse potuto raggiungerla, a fatica sarebbe riuscito a farci passare il braccio. Senza uscire da sotto le coperte che lo tenevano caldo cercò di guardare attraverso la piccola apertura: vide solo grigio uniforme, opaco. Doveva essere giorno già da qualche ora.
Si rassegnò ad abbandonare il giaciglio e in fretta e furia si vestì con i suoi abiti sommariamente ripuliti dal fango, cercando un po' di calore nella piccola stanza che Cambler gli aveva assegnato. C’era il posto per il letto e per stare in piedi, ma non troppo ritto altrimenti avrebbe rischiato di picchiare la testa contro una grossa trave obliqua del tetto. Scese subito al piano di sotto: le imposte chiuse, molte lucerne accese, il fuoco scoppiettava nel camino di pietra nera. Tutto sembrava essersi fermato alla sera precedente, con la differenza che Rambel’ Marè era rimasto da solo.
- Ben svegliato, Gambrath! - gli disse vedendolo scendere.
- Ti credevo partito, come il nostro compagno senza nome - ribatté il mercante sedendosi allo stesso tavolo.
- Ah! Lascia perdere! Lui è partito stamattina presto; è uno di quelli che detesta salutare. Uno di quelli che detesta dare spiegazioni. Invero, credo che detesti molte cose.
- Tra cui anche parlare. Non si è neanche presentato.
- È vero. Non conosciamo il suo nome, e non sta bene chiederlo al nostro ospite. Dovremo tenerci la curiosità. Mangia, ora.
L’uomo di medicina accompagnò le ultime parole con un gesto. Gambrath lo seguì e incontrò con lo sguardo Rama che gli portava la colazione: pane nero e fichi secchi, accompagnati da una piccola coppa di leggerissimo vino bianco. Squadrò la serva fino a quando questa scomparve di nuovo in cucina. Lei non lo aveva degnato di uno sguardo più del necessario, fredda e indifferente.
- Farai un’altra offerta, vero? Non saresti un buon mercante altrimenti.
- La farò, non appena vedrò Cambler.
Gambrath mangiò tutto senza nemmeno pensare che la colazione avrebbe potuto costargli un’altra moneta. Quando ebbe finito poté porre a Rambel’ Marè la domanda che aveva conservato per lui da quando l’aveva visto quella mattina.
- Come mai non sei partito anche tu?
- Ho sentito che sei diretto a Taliba. Io vengo da Anderes, a quasi nove giorni di cavallo da qui. Anderes non è che un insieme di catapecchie a confronto con Taliba. Vorrei vedere la città vera, il mercato, la piazza dei fiori, assistere alla compra degli schiavi… un po' di vita anche per me, insomma. E mi sono detto: ma perché non fare il viaggio in due?
- Nove giorni? Non sei stanco?
- È il terzo giorno che mi sveglio qui. E qui sono tutti in grande salute, non c’è bisogno di me. Ma se vuoi restare ancora, mi tratterrò anch’io. A me la guerra porta profitto.
L’uomo di medicina concluse con un sorriso, il primo sorriso davvero sincero che il mercante aveva visto dalla sera precedente. Rambel’ Marè ci sapeva fare con la gente, non c’era alcun dubbio. Riposato e sobrio, Gambrath si rese conto che avrebbe dovuto stare attento con un tipo come quello: in fin dei conti, facevano quasi lo stesso mestiere.
- Non ho grande fretta di partire. E poi questa fitta nebbia scoraggerebbe chiunque. Trovo strano che il nostro amico silenzioso sia partito lo stesso, stamani.
- È probabile che quando lui ha messo piede fuori di qui il cielo fosse ancora nero ma sgombro. La nebbia è un dono del mattino - commentò Rambel’ Marè senza dare apparentemente troppo peso alla cosa.
I due continuarono a parlare per qualche minuto dell’opportunità di rimandare la partenza e di viaggiare sfruttando al massimo le ore di luce piuttosto che quelle di sonno, quando furono distratti dal rumore di zoccoli di cavalli. L’usanza era di chiamare da una certa distanza, come aveva fatto Gambrath la sera prima, ma i cavalieri si erano spinti fin davanti alla soglia senza chiedere l’autorizzazione a nessuno. E questo voleva dire solo guai.
Con un tonfo la robusta porta d’ingresso si aprì mentre quasi contemporaneamente Cambler faceva la sua apparizione dalla cucina, il volto massiccio segnato dalla preoccupazione per ciò che stava accadendo. Dalla porta entrò l’alito freddo della mattina nebbiosa e poi pesanti stivali calcarono il caldo pavimento di legno. L’uomo entrò con fare autoritario, minaccioso, volgendo gli occhi in giro come se potesse vedere attraverso le pareti. Gambrath sembrò ripiombare nell’incubo da cui era sfuggito meno di un giorno prima: quell’uomo, alto e possente nel fisico, era vestito e armato proprio come il bestione che lo aveva aggredito: un centurione dell’esercito di Vorgo.
- La porta - disse Cambler, piano, apparentemente tranquillo. Cambler era dotato di un fisico robusto, ma il soldato lo superava ampiamente. Questi puntò i suoi occhi scuri sul proprietario della stazione di posta come se potesse fulminarlo, ma poi si volse alle sue spalle e fece un cenno. Avanzò verso un tavolo e si sedette, mentre dalla porta entrarono altri due uomini, più piccoli di statura ma altrettanto robusti e bene armati con spade e mazze. L’ultimo chiuse la porta con un calcio, facendola sbattere.
- Sidro! - disse d’un tratto l’uomo, accompagnando la sua richiesta con un forte pugno sul tavolo. I suoi due scagnozzi si sedettero al tavolo a fianco.
- Non ne ho - rispose tranquillo ma freddo Cambler. La temperatura della sala parve più bassa e meno accogliente, ora.
- Cosa? - latrò il centurione sporgendosi aggressivamente verso il thale, che però non fece una piega.
- Non è stagione. Sarebbe rancido adesso, e io sarei disonesto a chiederti una moneta per il sidro rancido.
Un sorriso un po' sdentato si allargò sul volto segnato da cicatrici dell’uomo di guerra. Poi si lasciò andare a una risata che avrebbe spaventato un branco di lupi.
- Portami quello che hai, oste!
Cambler sparì e riapparve poco dopo con un’anfora ancora sigillata e diverse coppe scure. La posò sul tavolo del centurione e fu allora che con uno scatto animalesco questi afferrò saldamente il polso del thale e lo trattenne.
- Cerco Made, mio fratello - gli ringhiò a voce bassa.
- Nessun centurione è stato qui da lungo tempo, ormai - fu la diplomatica risposta di Cambler, che ebbe il polso libero. Il centurione bevve avidamente molto vino e poi passò l’anfora ai suoi.
Gambrath e Rambel’ Marè si sentivano come paralizzati: non osavano muoversi, parlare, a stento erano riusciti a scambiarsi un’occhiata spaventata da quando i tre soldati erano entrati dalla porta. Fu sempre Cambler, che riusciva a mantenere una calma apparente invidiabile, a venire in loro aiuto. Si avvicinò al loro tavolo e disse che le bestie erano pronte nella stalla: che pagassero il dovuto e se ne andassero liberi da debiti.
I due non se lo fecero dire due volte: pagarono contrattando il minimo indispensabile per non dare nell’occhio e poi si diressero verso la porta, accompagnati dal loro ospite, salutando frettolosamente e a mezza voce i nuovi arrivati. I soldati non li degnarono di uno sguardo né di una risposta e i tre furono felici di riuscire a chiudersi la porta alle spalle e di poter godere dell’abbraccio della nebbia fredda e umida.
- Presto - disse Cambler, sempre calmo - andate e non voltatevi. Il bue grigio è aggiogato e il cavallo sellato.
I due non se lo fecero ripetere. Il robusto figlio di Cambler mise nelle loro mani le redini e senza dire nulla richiuse alle loro spalle la porta della stalla dove i cavalli dei soldati già riposavano.
- Salute a te, Cambler - disse Rambel’ Marè tirando le redini del suo cavallo innervosito dalla lunga inattività.
- Salute - ripetè Gambrath - tornerò con un’offerta migliore.
- Salute a voi - rispose il thale alzando la mano destra aperta e non aggiunse altro.
Gambrath spronò Oslob che sbuffando aria bianca dalle narici dette uno strattone al carro del mercante mettendolo in moto.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 3
3.

La nebbia rallentò parecchio la loro marcia impedendo loro di giungere in vista della città solo nel cuore della quarta mattina, quando la leggera e umida foschia dissipandosi mostrò loro le mura di Taliba.
Taliba era a memoria d’uomo una delle città più vecchie e grandi che esistesse. Nata intorno a un fortino realizzato si diceva dal leggendario Esercito degli Immortali per proteggere uno dei loro distaccamenti, la fama di inespugnabilità aveva attirato molti viaggiatori a fare tappa nelle vicinanze. Nonostante la partenza del distaccamento, la fama di Taliba era tale che addirittura vennero edificate mura intorno al fortino rimasto sguarnito per dare maggiore rifugio a coloro che avevano deciso di fermarsi per qualche tempo e si vedevano costretti a piantare la loro tenda fuori del forte per mancanza di spazio. Ora avevano una approssimativa pianta a stella con dodici punte con solo tre grandi porte che la mettevano in comunicazione con l’esterno. Taliba nel tempo aveva ottenuto la fama di posto sicuro, diverse razze vivevano a contatto l’una con l’altra e presto si era trovata al centro di diverse rotte commerciali. Le tende divennero catapecchie di legno e le catapecchie si trasformarono in case di pietra. Infine dietro le mura a stella, abbattute e ricostruite più volte sempre più grandi, si innalzarono i palazzi di mattoni dei candriani, le torri di legno dei Minuti, le robuste strutture dei ressak, popolo di artigiani del metallo e di fabbricanti di armi. Grazie a Taliba, in mezzo alla pianura desolata e incolta erano arrivati fiumi di merci, erano stati scavati pozzi e irrigati i terreni; Taliba era una città ricca e nonostante fosse stata predata più volte, non era mai stata rasa al suolo o messa in ginocchio da un saccheggio. Perfino l’esercito di Vorgo, dopo averla assediata e conquistata, aveva preferito lasciarla vivere e cercare di trarre profitto dal commercio che in essa si svolgeva fiorente. L’unico segno del passaggio della guerra era la breccia nel muro difensivo, la cui riparazione era stata proibita da Vorgo in persona, trasformandola di fatto nella quarta sorvegliatissima porta.
Si diressero senza esitare verso la Porta del Nord, riconoscibile da lontano per gli stendardi scuri che segnalavano la presenza di una guarnigione dell’esercito del Tiranno. Quando, dopo aver percorso strade ben tracciate che dividevano vasti terreni coltivati prosperosi intorno alla città, giunsero ai confini di essa: non le mura alte e difese dalle armi portate lì dall’esercito, ma la fitta e caotica tendopoli che era cresciuta indisturbata come muschio. Rambel’ Marè fu subito riconosciuto e accolto festosamente da bambini sudici e da mendicanti che gli chiedevano la grazia di essere guariti dalle loro piaghe, offrendo in cambio le loro poche cose e la loro eterna gratitudine. L’uomo di medicina si difese facendosi più vicino al carro di Gambrath, il quale dal canto suo era già al lavoro: uomini privi di scrupoli tentarono di fermarlo per proporgli irrinunciabili affari che l’avrebbero reso ricco. Nel caos della tendopoli parassita, una seconda città all’ombra delle mura di Taliba, era impossibile discernere cosa valesse la pena di una contrattazione e cosa celasse invece un grande imbroglio: per questo e altri motivi Gambrath respinse ogni approccio da parte degli straccioni e dei loschi figuri che gli si fecero incontro fin sotto la grande Porta del Nord.
Qui i due viaggiatori dettero poche parole di spiegazioni alle guardie armate che presidiavano la frequentatissima porta e, pagato un insulso balzello preteso con la sola autorità delle armi, fu concesso loro di entrare. Le vie della città brulicavano di intensa attività: gente di ogni razza circolava a piedi, a dorso di mulo o a cavallo, a bordo di carri con due, quattro o più ruote, trainati dagli animali più diversi. L’unica bestia da soma che non appariva da nessuna parte erano i pericolosi basran, anche se il numero di nolga presenti non era indifferente. Le diverse architetture presenti l’una di fianco all’altra definivano le strade e le piazze in cui si riversavano i cittadini di Taliba, in grado di convivere tra di loro senza troppi conflitti o contrasti e senza raggrupparsi in quartieri come accadeva nelle altre grandi città. Infatti ovunque in altre città era possibile trovare insediamenti di nolga sedentari, candriani, addirittura rhen e Minuti, organizzati in gruppi omogenei e occupanti porzioni di spazio dai confini ben delimitati, i “quartieri”. A Taliba questo non accadeva. Non era possibile individuare una zona con preponderanza di una razza rispetto a un’altra: c’era chi diceva che addirittura la popolazione di Taliba si rinnovasse completamente ogni quattro o cinque stagioni.
L’uomo di medicina e il mercante, una volta immersi nel traffico intenso, ebbero il loro da fare per restare vicini: la folla era chiassosa e invadente e nonostante ci fossero numerose piazze dedicate al commercio, molti venditori ambulanti occupavano parte della carreggiata con la loro mercanzia esposta su malfermi trespoli o su teli ruvidi posati su storte assi di legno, causando veri e propri ingorghi dove era difficile andare avanti e impossibile tornare indietro o cambiare strada.
- Quanto tempo è che manchi da Taliba? - chiese Rambel’ Marè, mentre aspettavano che si sgombrasse la strada davanti a loro.
- Cinque stagioni, più o meno. Perché?
- È sempre così? - chiese l’uomo di medicina indicando con un ampio gesto della mano la confusione che li circondava.
- No, naturalmente no. Quando piove è molto peggio.
Rambel’ Marè alzò lo sguardo preoccupato, ma i suoi occhi incontrarono solo il grigio della nebbia che non riuscendo a penetrare nelle strade della città, la stringeva d’assedio.

Gambrath uscì dalla propria stanza intenzionato a fare colazione e a partire presto. Controllò che la schiava candriana fosse ancora nello stanzino che aveva affittato per lei e poi scese al piano inferiore per mangiare. Qui si aspettava di incontrare Rambel’ Marè, ma non fu così: due commercianti candriani avevano già cominciato la loro colazione e da essi al suo apparire ricevette un cortese saluto. Si chiese dove fosse finito l’uomo di medicina: avevano preso una stanza nella stessa locanda, anche se lui aveva manifestato l’intenzione di fermarsi ancora qualche giorno. Taliba era una grande città, e l’opera di un uomo come Rambel’ Marè poteva non finire mai.
Si erano separati il giorno precedente: dopo aver pranzato insieme, la padrona della locanda lo aveva pregato di accogliere le richieste di una sua parente che non godeva di buona salute, offrendogli in pagamento l’alloggio gratuito. Rambel’ Marè si era alzato dal tavolo scusandosi col mercante e si era allontanato; dopo pochi minuti lo aveva visto a cavallo nella via, e presto si era confuso nella folla. Non lo aveva più rivisto.
Gambrath era poi stato alla compra degli schiavi dove aveva contrattato con successo una giovanissima candriana dai seni grandi: aveva dovuto faticare un po' per averla, ma il mercante candriano che la vendeva aveva alla fine ceduto e lui era entrato in possesso della chiave del bracciale di ferro che contraddistingueva tutti gli schiavi. Non serviva a molto, dal momento che nessuno schiavo si sarebbe mai sognato di fuggire: quel bracciale con un anello infisso, serrato sul polso sinistro, lo avrebbe reso riconoscibile tra mille e a nulla sarebbe servito tentare di forzarlo. Un tale vicino a lui che non aveva partecipato all’asta si era meravigliato del fatto che un candriano fosse capace di ridurre in schiavitù e vendere un suo simile. Gambrath sorridendo aveva risposto che i candriani non esitano a vendere le loro femmine in caso versino in ristrettezze economiche: inoltre lo rese edotto del fatto che i candriani considerano il seno grande un segno di grave bruttezza per una femmina e nessun candriano si sognerebbe mai di biasimare un altro se questi vendesse una giovane cresciuta così male, anche se fosse una figlia.
Per scrupolo poi aveva assistito ad altre aste, preoccupato di aver fatto un acquisto troppo avventato e frettoloso: ma presto si era reso conto di averci visto giusto anche questa volta. Le altre candriane in vendita erano o troppo vecchie o erano state maltrattate troppo e difficilmente le avrebbe comprate. Quella che lui aveva scelto invece era giovane e piuttosto carina, con un bel viso, un po' troppo paffuto forse e con il ventre sporgente e i fianchi larghi; ma era vergine e pensò che per quello che aveva in mente lui sarebbe andata bene. Calcolò che anche se non fosse riuscito nel suo intento, avrebbe potuto rivenderla facilmente limitando il danno economico al minimo.
Aveva colto l’occasione per cercare l’uomo di medicina: si ricordava che gli aveva confessato l’intenzione di assistere alla compra degli schiavi, ma aveva girato in lungo e in largo tutta l’affollatissima piazza degli schiavi dove avvenivano le trattative più allettanti senza incontrarlo. Era poi riuscito a concludere la giornata vendendo tutte le sue sementi tranne un sacco che si era bagnato troppo e che aveva dovuto buttare via per non correre il rischio di essere scambiato per un truffatore: non bisognava dimenticarsi mai della presenza di una guarnigione. Ai soldati era demandato ogni potere, il loro comandante era giudice e giuria in caso di dispute ed era obbligatorio rivolgersi a lui per qualsiasi motivo. Per questo motivo ogni intervento dei soldati era piuttosto sbrigativo: senza tenere conto di torti o ragioni, tutti venivano puniti senza nemmeno essere ascoltati; in caso di reato flagrante come il furto o la truffa, molto spesso si veniva giustiziati sul posto senza alcuna possibilità di difesa. Nessuno vedeva di buon occhio le guardie e si evitava ogni disputa: quando inevitabile, ognuno preferiva regolare da sé i propri conti in sospeso.
La padrona, una donna grassa e con grande senso degli affari, gli portò la colazione: vino e latte, e frutta fresca proveniente dalle terre intorno alle mura coltivate in maggioranza dai Minuti, ottimi agricoltori.
- Mi piace la schiava che hai preso, mercante: a quanto me la vendi? - gli chiese quando vide che aveva finito di mangiare.
- Centosessanta monete delle tue - rispose prontamente Gambrath, raddoppiando il valore della schiava acquistata il giorno prima.
La donna ebbe un sussulto.
- Per quella candriana deforme? Sei sicuro?
- Non mi sbaglio, signora: ho acquistato una sola schiava da quando sono qui. È forse un prezzo troppo alto?
- Certo, per una candriana che ha le tette gonfie come otri colmi! - esclamò a voce alta la donna, causando l’ilarità dei due mercanti candriani che erano lì a mangiare.
- Credevo che ti piacesse… - commentò Gambrath senza scomporsi.
- Io la metterei in cucina a fare la sguattera, non certo nei letti dei clienti! Con la cifra che chiedi, potrei comprare una splendida mulatta e ricavarne grande guadagno facendole fare il giro delle camere ogni notte!
- Allora l’affare non si farà? - chiese Gambrath fingendo delusione.
- Per Elzer! Ti offro settanta monete, non una di più - disse la donna corpulenta, piantandosi di fronte al tavolo di Gambrath.
- Ma io sono un mercante, non un benefattore! La cifra che tu offri non copre nemmeno le mie spese! - si lamentò lui.
- Allora l’affare non si farà, mercante. Se davvero l’hai pagata più di settanta monete, spero per te che quella schiava sia il tuo tipo. Non la venderai facilmente al prezzo che chiedi!
La donna scoppiò ancora a ridere trascinando con sé i due avventori candriani che non si erano persi una parola. Gambrath era soddisfatto: aveva notato le occhiate che la donna aveva rivolto alla sua schiava quando la sera prima l’aveva portata alla locanda e aveva chiesto uno stanzino dove farla dormire. Guardò la luce che cominciava a filtrare dalla finestra e si disse che era ora di partire. Salì a prendere la schiava e bussò per l’ultima volta alla porta della stanza affittata da Rambel’ Marè, ma anche questa volta non ottenne risposta. Scese di nuovo e saldato il conto con la padrona, lasciò la locanda a bordo del suo carro a due ruote trainato dal fedele Oslob: al suo fianco, a cassetta, la giovane schiava si stringeva nei suoi sottili abiti per ripararsi dal freddo del mattino; non aveva ancora detto una parola da quando l’aveva tolta dalle mani del suo venditore.
Era mattino presto, ma il cielo appariva limpido e il sole presto sarebbe riuscito a penetrare tra le strade di Taliba per portare un po' di tepore a coloro che non avevano una casa, un camino, una coperta. Le strade brulicavano già di attività, anche se la folla non era quella dei giorni precedenti. Inoltre Gambrath percepì una strana tensione nell’aria, come se qualcosa stesse per accadere, come se la gente intorno a lui nascondesse nei bisbigli, nelle mezze parole e nei gesti qualcosa che a lui, per oscure ragioni, non era dato sapere.
Ignorando questa sensazione che contrastava con la sua buona predisposizione d’animo, incoraggiato al viaggio dalla bella giornata che si prospettava, si diresse verso la Porta del Nord, da dove era entrato qualche giorno prima.
- Guarda dietro, nel carro: troverai una coperta. Se è asciutta, usala - disse alla schiava dopo aver visto dal tremore dei suoi piedi scalzi che stava soffrendo per il freddo.
La schiava si strinse ancor più nei suoi poveri abiti troppo sottili e trasparenti per resistere alle basse temperature del mattino in quella regione e stringendo le braccia sul petto cercò di contrastare il tremito delle proprie membra. Gambrath se ne accorse e le disse:
- Ho detto di prendere la coperta che c’è dietro. Non ti ammalare, o varrai meno di dieci monete!
Spaventata dal tono di voce del mercante, temendo le percosse, la schiava si affrettò a coprirsi con la coperta che giaceva sul fondo del carro, aiutata da Gambrath stesso.
- Va meglio? È lana lavorata, tiene molto caldo. Vale almeno sei monete…
La schiava non disse niente: si limitava a tenere bassa la testa, come se si vergognasse di mostrare il suo volto alla luce del sole.
- Grazie - disse a voce bassa dopo che il carro ebbe percorso quasi metà della strada dalla locanda alla Porta del Nord.
Il mercante si accorse appena del fatto che la sua schiava aveva parlato: la folla per strada si era fatta più intensa, vociante e agitata in maniera preoccupante. Moltissimi percorrevano la strada in senso inverso, nonostante diversi avessero i carri carichi di bagagli, attrezzi e provviste per un lungo viaggio.
- Torna indietro, mercante! - gli gridò nella confusione generale un tale impegnato a tenere a bada tre coppie di buoi che trainavano il suo grande carro. Gambrath non fece in tempo a chiedere spiegazioni: il carro dell’uomo si mise in moto con uno strattone e in pochi istanti fu fuori portata di voce.
- Che cosa accade? - chiese Gambrath chinandosi verso la gente che passava vicino al suo carro, diretta in senso opposto.
Ma gli interrogati fuggivano lo sguardo dubbioso e le domande del mercante, non rispondevano o bestemmiavano i loro dei nella lingua natia. Infine Gambrath si trovò impossibilitato ad andare avanti: troppa folla veniva nel senso opposto e diverse guardie in groppa a mostruose creature pelose e mugghianti impedivano di procedere oltre. Gambrath si alzò in piedi e gridò alla volta dei soldati.
- Signori, che succede? Perché non si può procedere oltre?
I soldati, armati con lunghe spade di metallo nero, attratti dalle grida del mercante in piedi sul suo carro confabularono tra di loro. Uno dei grossi bestioni, basran dotati di corna curve e di lungo pelo ritorto e ingarbugliato, muggì e sbuffò così forte che intorno alle guardie si fece il vuoto. Poi la guardia che aveva spronato la sua cavalcatura si avvicinò al mercante che cominciò a pentirsi di aver richiamato l’attenzione.
- Cosa ti preoccupa, mercante?
- Vorrei uscire dalla Porta del Nord: devo partire, affari urgenti mi attendono.
Il soldato, bardato con la sua corazza opaca e acciaccata dai colpi ricevuti, lo guardò di sbieco con cattiveria e rispose con acredine e insofferenza.
- Oggi nessuno entra e nessuno esce: tutte le porte sono chiuse per ordine del Capitano.
- Ma…
- Non discutere, mercante! Vuoi finire appeso nella gabbia?
- No, no, signore, io no… davvero, non…
- Allora gira il tuo carro e segui tutti gli altri nella piazza degli schiavi! Lì verrà letto l’ordine del giorno di oggi!
- Sì, signore, sì, farò così… non dubitate.
Gambrath si rimise a sedere e cercò di far manovra col carro. Oslob era un po' irritato dalla folla che gli passava vicino e la presenza di quell’enorme animale cavalcato dal soldato lo aveva irritato e spaventato ancora di più. Quando il mercante tirò le redini per farlo girare a sinistra, Oslob rispose con un muggito insofferente e dette uno strattone improvviso. Se il carro di Gambrath avesse avuto quattro ruote anziché due si sarebbe sicuramente rovesciato. Tutta la gente intorno a lui levò un coro di proteste, insulti e bestemmie alla vista della manovra improvvisa compiuta dal mercante, che ostacolava la circolazione insieme al soldato che si stava ricongiungendo agli altri, ma presto, riguadagnato il completo controllo del carro, Gambrath si trovò a seguire il flusso di gente verso la piazza degli schiavi.
Quando arrivò nella piazza degli schiavi, questa era già quasi completamente gremita di persone, accalcate le une sulle altre e le guardie, a piedi e a cavallo delle loro puzzolenti e gigantesche bestie, continuavano a incitarli con la punta delle armi affinché avanzassero ancora verso il centro, addossandosi ancora di più l’uno all’altro. Gambrath non temeva per la sua merce, dal momento che il carro era quasi vuoto: l’unico oggetto di valore era la coperta che la schiava si stringeva addosso e sulla testa per ripararsi dal freddo pungente. La gente continuava ad affluire e chi era a piedi non doveva cavarsela molto bene, pigiati com’erano uomini e bestie, incitati dai soldati a colmare ogni palmo della piazza. Gambrath col suo carro non poteva andare ormai né avanti né indietro e il povero Oslob muggiva spaventato. Più in là, dalla sua posizione più elevata, il mercante poté vedere diversi bastoni emergere dalla folla: era il sistema che i Minuti utilizzavano per segnalare la loro presenza e non essere travolti dalla folla, non visti a causa della loro bassa statura. Sulla cima dei bastoni c’erano legati o numerosi pezzi di osso che facevano da sonaglio, o scaglie di metallo appuntite per punzecchiare chi minacciasse di travolgerli. I più ricchi tra di loro appendevano puntali di metallo a uncino con campanelli di ottone lucido che tintinnavano ogni volta che il bastone toccava terra.
Passò diverso tempo prima che accadde qualcosa. Il sole si alzò abbastanza da superare definitivamente le nubi basse e cominciò a scaldare la folla ammucchiata nella piazza. Perfino la schiava candriana tirò fuori la testa da sotto la coperta. Gambrath provò a immaginarsi cosa doveva essere successo per causare una reazione simile da parte dei soldati della guarnigione. Se era vero poi che sarebbe intervenuto il Capitano in persona, il comandante della guarnigione stessa, doveva essere veramente grave. Ma per quanto grave, pensò che la sua partenza poteva essere solo rimandata: chiudere le porte di Taliba significava bloccare il commercio e quindi anche strozzare l’economia della città, venendo a mancare la prima e unica fonte di guadagno della maggioranza della gente che viveva lì. Si trattava di stare attento a non commettere di nuovo errori grossolani come quello di rivolgersi alle guardie: per una sciocchezza del genere era stato minacciato con la tortura della gabbia, una delle più atroci che si conoscesse. Il condannato veniva chiuso in una stretta gabbia a forma di uomo, con scarsissima libertà di movimento, e veniva appeso a grande altezza fuori sulle mura della città, genericamente in prossimità delle porte. Veniva lasciato lì secondo il capriccio del boia, di solito fino a quando le ossa si distaccavano le une dalle altre.
Infine, quando il sole era già alto e parecchie persone avevano trovato più comodo sedersi per terra durante l’attesa, ammassandosi ancor più gli uni sugli altri, Gambrath poté vedere dalla sua posizione sopraelevata che diversi soldati stavano prendendo posto sul palco grande, di solito usato per la compra degli schiavi più costosi. Erano troppo lontani per poter vedere con chiarezza, ma distinse subito le armi che quelli portavano: si trattava di soldati della guarnigione. Quelli che si erano seduti in terra si risollevarono con un grande mormorio e frusciare di calzature sul selciato, tanto che la piazza si riempì di quel coro di voci e rumori.
- Ascoltate! - gridò poi uno dei soldati. La voce rimbalzava da un edificio all’altro e raggiungeva abbastanza bene ogni angolo della piazza.
- Fate silenzio, bifolchi! Parla il Capitano!
La piazza si ammutolì di colpo e non si sentì più alcun rumore. Gambrath non osò dire né fare niente: aveva sentito un sacco di crudeltà sul conto degli uomini delle guarnigioni di Vorgo e non voleva certo verificarne la veridicità di persona.
- È stato commesso un atroce delitto! - riprese un’altra voce, probabilmente il Capitano in persona. Gambrath riusciva a distinguere un soldato con l’armatura diversa dalle altre, ma era troppo lontano per essere sicuro.
- Il centurione Made è stato ucciso nelle campagne di Taliba, a tre soli giorni di carro da qui! Ucciso da un’arma da fuoco, lui e tutta la sua scorta. Massacrati in un agguato, vittime di un ignobile tradimento!
Gambrath trasalì cercando disperatamente di non tradire la sua emozione. Made era il nome che il centurione aveva pronunciato alla stazione di posta. Quanto alle vittime dell’ignobile tranello… non potevano che essere i suoi assalitori. Gambrath vide poi con sgomento un altro personaggio salire sul palco: nonostante la distanza non c’erano dubbi. Le pelli nere, il fisico massiccio, l’ascia bipenne che pendeva dalla cintura: poteva essere il fratello di Made, colui che aveva fatto irruzione nella stazione di posta chiedendo il sidro fuori stagione.
- L’assassino è tra voi, maledetti! - ruggì il centurione, rabbioso - Mio fratello è stato ucciso e uno di voi è il colpevole! Tracce di ruote nel fango fresco mi hanno condotto qui! Lo so che mi sta ascoltando! Venga fuori e mi sfidi da uomo a uomo, e morirà combattendo! Altrimenti continui pure a nascondersi… io frugherò tutta la città se necessario e quando lo troverò lo ucciderò come si uccide un insetto!
Il centurione si precipitò giù dal palco con veemenza, come se intendesse iniziare subito la sua ricerca, cominciando da quella folla lì radunata, sbigottita e spaventata. Il Capitano riprese a parlare con voce forte ma con più autocontrollo di quello dimostrato dal centurione.
- Le porte verranno aperte nuovamente tra poco. Ognuno sarà perquisito all’ingresso e all’uscita. Chi verrà trovato in possesso di armi da fuoco verrà immediatamente fermato e interrogato.
Gambrath sentì il sangue defluire via dal suo corpo d’un tratto, lasciandolo privo di energie. Sperò che nessuno l’avesse visto irrigidirsi e impallidire e non sapeva come fare per soddisfare l’improvviso urgentissimo bisogno di controllare se il suo lungo fucile fosse ancora al suo posto sotto il sedile del carro, e se fosse visibile o no.
Mille volte si maledisse per quel baratto, mille volte rimpianse l’anfora di vino ceduta per l’arma con polvere e munizioni di scorta. Ma ormai non poteva farci nulla: doveva trovare il modo di sbarazzarsi del fucile, senza essere visto. Oppure di uscire da Taliba senza essere perquisito. Mentre aspettava ansioso che la gente defluisse dalla piazza permettendo a Oslob di passare e trainare via il carro, cercò freneticamente una soluzione.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 4
4.

L’unica cosa che Gambrath era riuscito a fare era stato rinchiudersi nella taverna più economica che fosse riuscito a trovare, dove con una moneta al giorno mangiava e dormiva insieme alla schiava, in uno stanzino piccolo e buio, puzzolente di muffa e col soffitto basso. Si era rassegnato ad aspettare che l’ira del centurione sbollisse e, vista la gente che frequentava quelle parti, dormiva con un occhio solo col terrore di essere derubato e con il coltello sempre a portata di mano. Aveva pensato che di tutte le soluzioni possibili quella rappresentasse il male minore e visto che era già da tre giorni che dormiva lì e ancora non era successo nulla, tutto sommato non doveva essere poi così male. Non perdeva di vista un istante Lerea, la schiava candriana che aveva acquistato, il cui mutismo era impressionante: poteva stare ore e ore in silenzio, senza dire una parola; aveva conosciuto il suo nome soltanto il giorno prima e solo perché le aveva ordinato di rivelarlo. In effetti la schiava era il suo bene più prezioso: era convinto che se fosse riuscito a lasciare Taliba, il padrone della stazione di posta, Cambler, non avrebbe potuto dire di no di fronte allo scambio che gli avrebbe proposto. Per questo ogni mattina usciva a piedi, tenendosi ben stretta al fianco Lerea, e si recava ai vari mercati: cercava di avere notizie senza dover porre domande sospette e senza dover avvicinarsi troppo a una qualsiasi delle porte della città.
Il terzo giorno Gambrath uscì come sempre di buon mattino, accompagnato dalla sua schiava scalza e infagottata nella coperta e iniziò il giro dei mercati e delle piazze di Taliba.
“Hanno preso un candriano col suo carro”, diceva una voce; “Gli hanno tolto tutto”, rispondeva un’altra; “Impiccano chi porta armi”, “Ci sono trenta gabbie appese alla Porta dell’Est”. Gambrath non perdeva una parola, dava retta a tutti, senza farsi notare, e cercava di vagliare le notizie, la loro credibilità, la sincerità di chi parlava. Cercava così di risolvere le frequenti contraddizioni in quello che sentiva. Si era costruito un quadro della situazione che poteva essere abbastanza vicino al vero: le porte erano presidiate da almeno venti o trenta soldati l’una, che formavano così un filtro dalle maglie abbastanza fitte, mentre la breccia pareva fosse addirittura inavvicinabile, presidiata giorno e notte. Presentarsi alle porte con un carro voleva dire essere perquisiti da cima a fondo senza ombra di dubbio; le persone a piedi invece a volte venivano perquisite, altre volte no, senza una logica apparente. Al mercante non piaceva neanche un po' l’idea di vendere il carro e il povero Oslob, a cui era ormai affezionato: si guardava in giro durante le sue lunghe camminate in compagnia della schiava alla ricerca della soluzione ma non trovava niente.
Ma quel giorno successe qualcosa di nuovo. Se ne stava seduto su grosse pietre squadrate in compagnia di Lerea e insieme mangiavano tuberi saporiti, arrostiti sulla fiamma da un contadino Minuto a pochi passi di distanza. Mentre consumavano quel magro pasto, un vecchio di età indefinibile e dagli abiti inconsueti, curvo sul suo bastone nodoso si avvicinò a Gambrath e lo guardò con occhi scintillanti.
- Mercante! A quanto vendi la tua schiava? - disse con voce arrochita dall’età.
- Non meno di centosessanta monete, signore - disse Gambrath deglutendo un boccone per rispondere.
- Cosa? Ha forse i denti d’oro?
- No, ma è molto preziosa per me. È giovane e robusta, sa cucinare bene e…
- Lascia perdere, mercante. Vedo che tu non hai un buon affare per me - lo interruppe il vecchio - Ma io ho un buon affare per te. Seguimi.
Ciò detto il vecchio non aspettò e voltate le spalle al mercante si incamminò tra la folla appoggiandosi al bastone.
Gambrath rimase perplesso, poi afferrò per un braccio la schiava e se la trascinò dietro. Il vecchio si voltò e agitò il bastone verso i due.
- Lei no! Resta qui! Non la voglio!
Gambrath strabuzzò gli occhi.
- Lasciarla qui? - disse incredulo.
- Lei non viene. Solo tu puoi venire con me - insisté il vecchio, deciso.
- Ma sei uscito di senno? Quando torno credi che sarà ancora qui? E dove mi stai portando? Che luogo è uno proibito alle schiave?
- Tempi moderni! Puah! - il vecchio sputò platealmente per terra - oggi tutti vanno dappertutto con la schiava e con lo schiavo. Ai miei tempi c’era più rispetto! Tu vieni a casa mia, e io di schiavi non ce ne voglio a casa mia!
- Il tuo affare mi costa troppo, vecchio: questa schiava l’ho comprata perché mi serve, non per trastullarmi tre giorni e poi buttarla via così perché me lo dici tu!
- Vecchio io? Bada a come parli, sai? Porta rispetto a chi è più saggio di te!
Questa volta il mercante dovette riconoscere di avere torto.
- Ti chiedo scusa, signore. Ma tu mi chiedi troppo: in nome di un affare sconosciuto dovrei rinunciare ai frutti di un affare già concluso bene?
- E va bene: lei non corre alcun rischio, ma se proprio vuoi, portala! Ma lei resta fuori della porta! Sa badare a se stessa.
Gambrath non discusse oltre: si disse sicuro che una volta arrivato sarebbe riuscito a convincere il vecchio a cambiare idea e a far entrare anche Lerea, la schiava.
Il vecchio con andatura lenta ma sorprendentemente regolare li guidò tra le strade più strette che ci fossero a Taliba, addentrandosi nella parte più vecchia della città. Qui le case erano tutte in pietra, costruite l’una così vicina all’altra che parecchie erano collegate da archi di pietre o mattoni su cui erano stati costruiti piccoli ponti, comodi passaggi a volte addirittura anche coperti. Questi vicoli erano così sempre in ombra, freddi e umidi, ma come le altre strade di Taliba, frequentati e ingombri della merce esposta dai numerosi ambulanti che in mancanza di meglio esponevano la loro mercanzia sui gradini di ingresso delle case.
Alla fine il vecchio si fermò davanti alla soglia di una vecchissima casa, bassa e con tutte le finestre chiuse. Doveva essere stata la dimora di gente ricca un tempo ma come tante altre, abbandonata dai primi inquilini, era stata suddivisa internamente in modo da poter essere abitata da gente con meno pretese e poche monete nella borsa. Al vecchio era toccata la parte adiacente al grande ingresso, sbarrato da una pesante porta di legno scuro rinforzato da borchie di metallo nero un po' arrugginito.
- Siamo arrivati - disse - Tu puoi entrare.
- Sii ragionevole, signore! Guarda che bella schiava! Un solo minuto da sola e avrà un nuovo padrone. Non puzza, ha già mangiato e non parla nemmeno, non darà alcun fastidio.
- Bella? Un candriano non la guarderebbe nemmeno! Figurati portarla via!
- Taliba non è città di soli candriani - obiettò Gambrath. Ma il vecchio entrò dalla porticina di legno e sparì nell’oscurità.
- Vieni! Tu solo!
Gambrath cercò di sbirciare dentro, ma l’oscurità era troppo fitta. Poi guardò Lerea e affacciatosi alla porta, guardandosi bene dal calcare la soglia, disse al vecchio:
- Mi dispiace, signore, ma questo affare non si farà!
Il vecchio riapparve nello specchio della porta, improvvisamente. Non aveva più il bastone.
- Peggio per te, mercante. Non lascerai Taliba presto quanto desideri, e quando te ne accorgerai, tornerai da me. Ma forse allora l’affare non si potrà più fare.
Gambrath rimase di stucco. Come poteva quell’uomo sapere del suo desidero di partire il più presto possibile?
- Come sai i fatti miei? - chiese brusco.
- So molte cose. Conosco i problemi, e ho le soluzioni. Tu - puntò un dito ossuto verso il mercante - hai un problema.
Guardò per un attimo Lerea e aggiunse:
- Forse due.

Gambrath era stato vinto dalla curiosità. Forse quell’uomo era un mago, e se davvero era così allora fare un affare con lui avrebbe potuto valere dieci schiave come Lerea. Doveva solo stare attento: i maghi avevano propri fini sempre avvolti nell’ombra e protetti dai misteri più impenetrabili.
Dopo aver minacciato la schiava di frustarla fino a staccarle la pelle se fosse fuggita, il mercante era entrato nella buia casa del vecchio. Una volta che il suo sguardo si fu abituato alla luce delle cento candele che diffondevano una luce fioca e morente, lasciando ampie chiazze di buio impenetrabile, si rese conto che quell’ambiente doveva essere tutt’altro che piccolo. Poteva distinguere sagome di oggetti mai visti, forme bizzarre e spaventose che sembravano muoversi a ogni tremolio delle fiammelle che parevano sempre sul punto di spegnersi. Del vecchio nessuna traccia. Fece ancora qualche passo avanti, incoraggiato dalla sua vista che si stava adeguando sempre più all’oscurità, e sentì il suo cuore cadere nelle budella. Davanti a lui era comparso un paesaggio buio, tetro e desolato: un cielo cupo, completamente oscurato da nuvole nere cariche di pioggia gettava non luce ma ombre su una pianura arida. Qua e là spuntava dal terreno duro qualche tronco contorto di alberi spinosi morti chissà da quanto tempo. Il terreno era ostile, pietroso e pianeggiante, non offriva riparo alcuno. Il mercante sentì sulle ossa il freddo del vento che sferzava quella pianura e aguzzando la vista all’orizzonte scorse una curiosa altura. Guardando meglio si rese conto che si trattava non di una collina, che sarebbe stata l’unica in quel territorio desolato, ma di una lugubre fortezza difesa da alte mura e da un ponte levatoio, sollevato da catene che apparivano evidenti anche a quella distanza e che dovevano quindi essere enormi.
- Bello, eh? Ti piace, mercante? - la voce del vecchio lo riportò alla realtà. Si volse verso destra e lo vide, illuminato dalle candele tremolanti. Riportò poi lo sguardo verso quel terrificante paesaggio e trovò invece un quadro. Un quadro gigantesco che raffigurava ciò che lui avrebbe giurato di aver visto fino a un istante prima. Un quadro molto realistico, realizzato con una perizia tecnica e artistica davvero notevole, ma pur sempre un quadro. Nessuno sarebbe stato ingannato da quella distanza: a pochi palmi dal suo naso c’era solo una splendida tela, anche se le sue membra gli ricordavano ancora l’alito gelido del vento che soffiava sulle terre in essa raffigurate.
- Vieni - lo esortò il vecchio, vedendolo imbambolato davanti alla tela dipinta - vieni, da questa parte, Gambrath.
Come un sonnambulo il mercante seguì il vecchio e si sedette al buio, dove lui gli indicò. La luce era appena sufficiente per vedersi in faccia, ma Gambrath da buon mercante riconobbe sotto le sue natiche preziosi tappeti e cuscini imbottiti, sicuro indice di ricchezza. Ciò lo confortò un poco.
- Dimmi, signore, in cosa consiste l’affare.
- Tu, Gambrath, devi partire.
- Come sai il mio nome? Non ci siamo presentati - si meravigliò il mercante.
- I nostri nomi non hanno importanza, ora! Ascolta, so che devi partire. Devi concludere un certo affare, e vuoi farlo in fretta.
- Ahimè, signore, purtroppo quell’affare non si farà: mente noi siamo qui, qualcuno là fuori ha già rapito la mia schiava e starà vendendola al migliore offerente nella piazza più grande!
- Smettila, ti ho detto di non preoccuparti. Io ti farò uscire da Taliba.
- Come sai che non posso uscire da Taliba? Io posso partire quando voglio - disse Gambrath, sapendo già in partenza che non l’avrebbe data a bere al vecchio: ogni minuto che passava rafforzava la sua ipotesi che si trattasse di un mago o di un veggente come minimo.
- Portami rispetto, mercante! - si indignò il vecchio.
- Perdonami - rispose Gambrath sincero.
- Domattina presto ti presenterai col tuo carro e la tua schiava alla Porta del Nord. Non fare niente! Non dire niente! Passerai questa giornata allo stesso modo, lasciando tutto così come sta adesso.
- Se il tuo guadagno sta nella mia impiccagione, signore, allora questo affare non si farà - rispose Gambrath con un sorriso sulle labbra.
- Il mio guadagno arriverà, mercante, e dipende non dalla tua morte ma dalla tua vita. Adesso vattene, sai tutto quello che ti interessa. L’affare è fatto.
Così dicendo il vecchio tese la mano com’era usanza per suggellare un affare o un patto giunto a compimento e Gambrath la strinse, confermando che l’affare era fatto, anche se non sapeva esattamente quale.
Seguì nuovamente il vecchio che senza appoggiarsi al bastone lo accompagnò fino all’uscio e lo congedò con poche parole. Tornando nella via Gambrath fu abbagliato dalla luce del giorno e per qualche istante non vide nulla intorno a sé.
- Padrone - disse una giovane voce femminile vicinissima a lui - guarda.
Strizzando gli occhi per la luce il mercante si volse verso la voce e riconobbe Lerea, avvolta nei suoi leggeri veli. Tendeva una mano verso di lui. Gli occhi del mercante si abituarono in fretta alla luce e si sgranarono meravigliati quando videro quello che c’era nella mano della schiava.
- Ho venduto la coperta per dodici monete, padrone. Ho fatto un affare, vero?
Gambrath era sconvolto. La coperta valeva sì e no sei o sette monete e lui stesso aveva più volte tentato di venderla per dieci senza mai riuscirci. Come se non bastasse, la sua schiava non solo non era fuggita e non era stata rapita da nessuno, ma aveva osato intraprendere un’iniziativa personale, cosa inaudita. Non sapeva se picchiarla per la sua impudenza e mancanza di rispetto o premiarla per avergli procurato un guadagno netto di sei monete. Decise che non avrebbe fatto niente.
- La tua impudenza è senza precedenti - le disse poco convinto, prendendo le monete e mettendole subito al sicuro. Lei abbassò immediatamente lo sguardo a terra.
- Bel guadagno, però. Brava. Adesso vieni, non puoi restare senza coprirti.
Uscirono dal dedalo di vicoli dove il vecchio li aveva condotti e si ritrovarono nella ragnatela di vie trafficate e affollate dove aveva luogo il commercio di ogni genere di mercanzia. Gambrath fu bravo a contrattare per sole quattro monete un rozzo ma pesante saio per la sua schiava, la quale si coprì immediatamente col cappuccio scuro che pendeva dalle spalle.
- Perché ti copri così tanto? Hai così freddo? Sembrerai un dracmit con quel cappuccio sulla testa.
Lerea non rispose e come era solita fare gettò immediatamente lo sguardo a terra, non osando guardare in faccia il suo padrone. Gambrath la afferrò saldamente per un braccio e la condusse con sé nella folla delle piazze e delle vie, alla ricerca di qualche buon affare da concludere.

Quella sera rientrò alla taverna e non riuscì a resistere. Entrò nella stalla sperando di ritrovare il povero Oslob, se non se l’erano mangiato i tafani nel frattempo. Entrò con Lerea al fianco e nella stalla affollata fece fatica a ritrovare il suo carro e il suo bue grigio, che quando vide il padrone muggì piano. Controllò che gli avessero dato almeno da mangiare e poi poté finalmente soddisfare la sua curiosità. Con cautela, assicurandosi che la schiava non potesse vedere, frugò sotto il sedile del carro per vedere se il suo fucile c’era ancora. Lo trovò ancora lì, esattamente come lo aveva lasciato. Gambrath cadde nello sconforto: era da un lato curioso di vedere se il vecchio, sicuramente mago o veggente o entrambe le cose, se avesse detto il vero. Sicuramente lui avrebbe tratto grande guadagno dalla partenza da Taliba: per prima cosa la vita, dal momento che i soldati della guarnigione erano tutti piuttosto nervosi e impiccavano un povero disgraziato ogni due o tre giorni. Poi senz’altro sarebbe riuscito a convincere Cambler a scambiare la sua Rama con Lerea. Rama era una splendida donna e Gambrath l’aveva vista priva di difetti: l’avrebbe venduta a Taliba o da un’altra parte a un prezzo altissimo, traendone un grande guadagno. Però era terrorizzato al pensiero di presentarsi alle guardie l’indomani, intenzionato a uscire dalla Porta del Nord, confidando nella parola di un uomo di cui non conosceva nemmeno il nome, sapendo di andare incontro a morte certa se il fucile nascosto nel carro fosse stato ritrovato.
Gambrath cenò distrattamente quella sera e la notte non dormì tranquillo sebbene il calore del corpo della schiava lo confortasse.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 5
5.

Gambrath seduto a cassetta non riusciva a tenere ferme le ginocchia che tremavano sempre più all'avvicinarsi della Porta del Nord. Aveva controllato anche quella mattina e il fucile era lì, nascosto sotto il sedile insieme alle povere cose che usava durante il viaggio. Sapeva di stare sbagliando, ma aveva deciso di fidarsi del vecchio: nottetempo ci aveva riflettuto e si era quasi convinto che fosse un mago. Anche perché durante le poche ore di sonno di quella notte era riuscito a sognare. Non era superstizioso, almeno non aveva mai creduto di esserlo, ma tra i suoi sogni quella volta ce n'era stato uno che lo aveva veramente colpito. Aveva sognato la guerriera dai capelli neri come l'inchiostro, l'aveva sognata stranamente a cavallo di Oslob, e ciò gli aveva messo in testa che l'avrebbe protetto. Aveva sognato di viaggiare con lei e il proprio carro verso il sole nascente, aveva sentito un benefico calore scaldargli la pelle e il cuore.
Quando si era svegliato ogni benefica influenza di quel sogno era già scomparsa, ma il mercante non aveva potuto fare a meno di pensarci quando, alzando lo sguardo al cielo ancora buio dopo essersi messo alla guida del suo carro, aveva definitivamente deciso di partire.
C'era già un bel po' di gente in giro nonostante fosse piuttosto presto e facesse freddo, tanto che i tafani intorpiditi dall'aria gelida si staccavano e cadevano dal pelo di Oslob, liberandolo dalla tortura delle loro fastidiose punture. Lerea, seduta a cassetta accanto a lui, era tutta raccolta nel suo pesante saio nuovo; solo uno sbuffo bianco che si formava regolarmente davanti al cappuccio che celava la testa la distingueva da un oggetto inanimato. Il traffico aumentò in prossimità della Porta, molto probabilmente a causa delle temute perquisizioni dei soldati. Gambrath, rassegnato e deciso a tentare la fuga piuttosto che morire impiccato o nella gabbia, puntò dritto attraverso la grande porta, attraverso la quale si potevano vedere i soldati all'opera e le loro mostruose cavalcature appostate a poche decine di passi di distanza.
Superata la porta insieme a molti altri, la sensazione di libertà che gli dava essere all'aperto lo inebriò tanto che dovette trattenersi dall'incitare Oslob con la frusta. I soldati avevano costretto con la forza gli occupanti della tendopoli, perennemente accampati in massa soprattutto fuori delle porte, a cedere spazio per consentire le perquisizioni: era così possibile poter ammirare il gelido paesaggio delle terre coltivate e delle piccole fattorie che fiorivano intorno alla città. Gli parve davvero possibile che la fuga attraverso i campi fosse possibile, se fosse riuscito a spronare a dovere il proprio bue muschiato. Proseguì invece lungo la strada tracciata che si perdeva in mezzo alla pianura, fuori dalle mura di Taliba, fino a quando due soldati gli fecero cenno di abbandonarla per consentire la perquisizione. Stava sorgendo il sole e il cielo si stava rischiarando: i soldati avevano ancora i fuochi accesi, ma il mercante non tremava solo per il freddo.
- Scendete! - ordinò loro uno dei tre soldati armati con lunghi fucili e spade dalla lama nera appese alla cintura.
Gambrath non se lo fece dire due volte e trascinò con sé la schiava. Un soldato gli levò dalle mani il morso di Oslob e lo spinse da parte mentre un altro cominciava la perquisizione.
- Cosa porti, mercante?
- Non molto, signore... ho concluso pochi affari.
- Chi è quella? - chiese ancora il soldato mentre perquisiva il carro, ispezionandolo anche sotto il pianale.
- La schiava che ho comprato, signore. Progetto un affare fuori città.
- Allora pagherai due monete per il pedaggio. E una per il carro e il bue.
Gambrath estrasse dopo aver fatto finta di cercarle con meticolosità tre monete e il soldato che tratteneva Oslob per il morso le incassò senza dire una parola. Il terzo in disparte osservava ogni cosa tenendo una mano sulla sua arma da fuoco. Infine giunse il momento che più temeva: il soldato che eseguiva la perquisizione cominciò a frugare sotto il sedile del carro.
- Cosa nascondi qui, mercante?
Al mercante parve di morire. Da un momento all’altro si aspettava di vedere l’espressione del soldato cambiare mentre la sua mano incontrava e riconosceva il freddo metallo dell’arma nascosta. Invece non accadde niente. Il soldato frugò scrupolosamente sotto il sedile ma non trovò nulla di strano o compromettente, così passò alla perquisizione personale. Il mercante e la sua schiava furono frugati con attenzione per controllare se portassero armi da fuoco nascoste sotto gli abiti ma ancora una volta non ne trovarono, nonostante cercassero con scrupolo e diligenza soprattutto sotto le vesti della schiava.
- Vattene, mercante, vattene via - disse infine il soldato restituendogli il coltello.
Gambrath spinse Lerea sul carro mal celando la propria ansia di obbedire: non si era ancora seduto che già aveva spronato Oslob, indirizzandolo sulla grande strada che usciva dalla Porta del Nord.
Lasciò allontanare dietro di sé le mura di Taliba fino a quando si ridussero a un’ombra all’orizzonte, poi sentendosi al sicuro osò controllare sotto il sedile, col cuore in gola. Con suo grandissimo stupore estrasse non il fucile che aveva barattato, ma un nodoso bastone di legno. Non poteva esserne sicuro, ma sembrava proprio il bastone che aveva visto tra le mani del vecchio il giorno prima.
- È stato quel vecchio - disse Lerea atona senza che lui potesse vederne il volto, nascosto dal cappuccio - l’ho visto in sogno usare la sua magia. È stato lui.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 6
6.

Gambrath si insospettì subito quando nessuno rispose al suo richiamo. Il sole era un freddo disco rosso che sfiorava l’orizzonte piatto accendendolo di colori caldi e disegnava ombre lunghissime che si impossessavano di porzioni sempre maggiori di terreno, mentre all’estremo opposto il cielo era già cupo e buio, trafitto a malapena dall’incerto bagliore delle prime stelle. Erano stati tre giorni di buon viaggio, col tiepido calore che di giorno scacciava il gelo notturno. In quei tre giorni il mercante non aveva aspettato altro che quel momento e ora che era arrivato dove voleva, desiderava essere altrove.
Chiamò ancora, ma dalla stazione di posta non giunse alcun segno di vita. Nonostante non piovesse e il tempo non fosse cattivo, le imposte di legno erano ancora chiuse e da esse non sfuggiva il minimo spiraglio di luce. Stava per avvicinarsi per verificare se la stazione fosse stata abbandonata quando la porta si aprì e nonostante la distanza poté riconoscere la sagoma di Cambler, l’oste.
Quando anche questi ebbe riconosciuto il mercante, lo salutò con un gesto della mano autorizzandolo così ad avvicinarsi ulteriormente.
- Salute, Cambler! - salutò gioviale Gambrath. Ma la sua allegria si spense subito quando si rese conto che il suo saluto era caduto nel vuoto.
- Salute a te, mercante - rispose Cambler funereo quando fu a portata di voce.
- Cerco rifugio, nobile ospite.
- Conduco io il tuo bue, se vuoi.
- Che è accaduto, Cambler?
- L’ospitalità che posso offrirti è limitata, Gambrath. Ma non temere, il prezzo sarà adeguato.
Il mercante era sempre più perplesso, ma qualcosa cominciava a capire. A metterlo sulla strada erano stati i segni sul volto del thale: lividi scuri e un grosso grumo di sangue vecchio sul labbro superiore.
- Sei stato forse derubato?
- Il centurione che venne qui. Ripartì il mattino seguente senza pagare, dopo aver mangiato e bevuto, dopo aver avuto Rama per tutta la notte.
- Vile e prepotente! Si elevano con l’autorità loro conferita dalle armi e dal potere del Malvagio, ma non sono altro che bestie! - inveì il mercante. Di storie come quella ne aveva sentite a decine.
- È ritornato il giorno seguente, adirato come mai vorresti vederlo. Di traverso alla sua sella c’era il cadavere di Made, suo fratello. Ha picchiato me e mio figlio pretendendo che gli dessimo notizie dell’assassino. Ha preso tutto quello che poteva ed è partito per Taliba, seguendo chissà quali tracce, portando con sé Rama dopo avermi tolto la chiave con la forza. Sei il primo che si ferma qui da quel giorno.
Cambler, terminò il suo racconto proprio davanti alla porta della stalla. Sempre tenendo Oslob per il morso, con una mano sola scostò la grande porta e guidò dentro il carro. Gambrath, rimasto sconcertato dalle parole del thale, vide andare in fumo il suo affare a lungo sognato e progettato con tanta cura. Si sforzò di pensare a come recuperare il suo investimento e cercò argomenti validi per convincere con delicatezza il buon Cambler a comprare una nuova schiava.
- Come sta ora tuo figlio? - il mercante si sforzò di ricordare il nome di quel robusto giovanotto che aveva visto solo due volte, ma non ci riuscì.
- La febbre è passata, ora. Con un po' di fortuna tra due o tre giorni potrà alzarsi dal letto.
Gambrath desiderò non aver mai perso di vista Rambel’ Marè: non gliene sarebbe venuto niente in tasca, ma gli sarebbe piaciuto lo stesso poter aiutare il figlio di Cambler.
- Vieni - disse poi l’oste - ti darò da mangiare e poi toglierò il giogo al tuo bue, se vuoi. Ho fatto rape arrosto: non saranno buone come quelle di Rama, ma almeno sono calde.
Gambrath seguì con la sua schiava il corpulento thale attraverso la porta che metteva in comunicazione la stalla col resto dell’edificio. Il grande cambiamento lo colpì profondamente: dalla cucina non usciva alcun profumo e il freddo e l’oscurità lo aggredirono. Solo poche lanterne erano accese, tutte intorno a due o tre tavoli intorno al camino, dove ardeva un grosso ciocco scoppiettante. Il resto della grande sala dal soffitto basso era al buio. Sagome contorte spuntavano da un angolo: tavoli e panche fracassate attendevano una mano paziente che li riparasse; il candore dello spesso legno spezzato che costituiva quei mobili denunciava la forza bruta di colui che li aveva infranti. Mangiarono le rape insipide e bevvero vino freddo; furono subito lasciati soli dall’oste che si scusò con loro mille volte per il pessimo vitto: dovendo accudire il figlio la cucina era stata trascurata.
Gambrath terminò con calma il pasto e indugiò al calore del camino, spostando gli occhi ora sul piatto vuoto, ora sulle fiamme guizzanti, ora su Lerea. Finalmente Cambler ricomparve per ritirare le stoviglie vuote.
- Tratti bene la tua schiava: rape e vino anche per lei - commentò l’oste togliendo il piatto vuoto posato davanti alla donna nel saio scuro.
Gambrath colse la palla al balzo: non si era aspettato un’occasione così presto e decise che non era il caso di lasciare qualcosa di non tentato. Era pur sempre un mercante, no?
- Come puoi dire che è una schiava? - replicò fulmineo, accertandosi che le maniche lunghe del saio della schiava coprissero il bracciale di ferro, la cui chiave riposava al sicuro appesa al proprio collo con una lunga stringa di cuoio giovane.
- Se fosse la tua signora, non le permetteresti di camminare scalza - fu la risposta di Cambler.
- Bravo. Proprio così: è una schiava, appena comprata a Taliba. Una delle migliori che abbia mai comprato - disse Gambrath sorridendo. Aveva iniziato a tessere la tela del ragno.
- E sai perchè la nutro così bene? - continuò poi - Perché ho in riserbo un grande affare. Oh, si intende, - finse di correggersi subito, usando il suo migliore tono affabile - il grande affare lo farà chi la acquisterà. Un grande signore di Anderes, un nobile uomo per cui ho già avuto l’onore di trattare, mi ha mandato un suo messo per comunicarmi l’esigenza di una nuova serva per la sua grande casa. Fidandosi solo di me, mi ha incaricato di fare il miglior acquisto sulla piazza degli schiavi di Taliba e di recapitare personalmente l’acquisto.
- Molto fortunato quel nobile ad avere incontrato un mercante come te - rispose Cambler dalla cucina dove aveva portato le stoviglie vuote.
Gambrath che non voleva sgolarsi per raggiungere con la sua voce l’oste disinteressato, non seppe come interpretare queste parole, ma si rese conto che la predisposizione alla trattativa da parte di Cambler era la stessa della volta precedente, più o meno. Ma non poteva certo fermarsi proprio adesso: quindi si alzò dalla panca e si diresse verso l’entrata della cucina.
- Certo, non mi aspettavo di imbattermi in una situazione così drammatica qui - riprese il mercante - tutta questa desolazione non gioverà ai tuoi affari.
Cambler versò acqua fredda da un secchio sopra le stoviglie e poi si voltò verso il mercante.
- Andiamo vicino al camino, mercante. Qui fa freddo, ormai.
- Ma io ti voglio aiutare, in nome dell’ospitalità e per sdebitarmi dell’aiuto che tu a tua volta mi hai offerto.
Si sedettero di nuovo sulle panche vicino al fuoco. Visto che l’oste non reagiva, il mercante continuò.
- Voglio offrirti la mia schiava, Cambler. Guardala, e guardati intorno. Non puoi negare di averne grande necessità.
- Non me la posso permettere, Gambrath.
- Ma la tua cucina è fredda e, perdonami, le tue pietanze sono scipite! Non preoccuparti del prezzo, pensa al tuo guadagno! - si accalorò il mercante.
- Varrà sicuramente più di tutte le mie monete messe insieme, mercante - disse piano Cambler, guardando inespressivo la schiava infagottata nel saio.
- Ti farò un buon prezzo, vedrai. Guardala: è giovane, ha ossa forti e se ben nutrita lavorerà duramente e a lungo. E tu alzati, fatti vedere! - disse poi rivolto a Lerea, con tono imperativo.
La giovane si alzò e si mise in favore di luce. Gambrath le impose di togliersi il saio scuro e grezzo e lei se lo sfilò dalla testa. Poi il mercante le slacciò febbrilmente le stringhe sottili d ella scollatura e sciolse il nodo della sottile cintura fatta di fili colorati intrecciati tra loro. Il vestito fatto di moltissimi veli trasparenti restava ancora aggrappato alle spalle e Gambrath con un gesto rapido e stizzito lo fece cadere a terra, lasciando la giovane schiava coperta del solo bracciale di ferro al polso sinistro.
Gambrath ebbe un attimo di pausa; non l’aveva ancora vista completamente nuda e per la prima volta ne vedeva il colore dei capelli, raccolti dietro la nuca in una grossa crocchia, di un bel castano chiaro dai riflessi rossi e oro. La pelle era pallida e rifletteva la luce delle fiamme tingendosi del colore di un’alba estiva. La sorpresa del mercante durò molto poco: subito le afferrò il polso destro e lo sollevò verso l’oste.
- Guarda: che ti avevo detto? Ossa robuste! Molto adatta a qualsiasi lavoro. Guarda questo ventre - disse lasciando ricadere il braccio e accarezzando più volte il ventre rotondo - bello, carnoso, pieno ma non gonfio, morbido, sicuro indice di ottima e duratura salute.
Siccome l’oste non dava segno di reagire, Gambrath decise di andare avanti a oltranza. In preda all’esaltazione del commercio, con un balzo fu alle spalle della giovane che se ne stava immobile e passiva e le mise le mani sui larghi fianchi.
- E questi fianchi? Li hai visti, mio buon Cambler? Larghi, accoglienti e ancora puri, per il tuo piacere - le mani saettarono poi dall’inguine peloso ai seni abbondanti, accarezzandoli e stringendoli per mostrare quanto fossero sodi e morbidi - Guarda qui: grande abbondanza, per il tuo divertimento. O per quello di tuo figlio. E se vorrai farla ingravidare, lei stessa potrà allattare tutti i figli che vorrai farle partorire, e saranno tutti tuoi. Li farai lavorare o li venderai, come tu crederai più opportuno.
- Quanto chiedi? - disse finalmente Cambler ma atono, per nulla convinto.
- Se fossimo alla compra degli schiavi a Taliba non esiterei a chiedere centocinquanta monete per questo tesoro. Ma qui non siamo a Taliba e tu non sei un compratore qualunque. Solo cento monete ti chiedo. Cento monete delle tue.
- Troppo per me - disse l’oste alzandosi, ponendo così definitivamente fine alla contrattazione.
- Aspetta, mio buon Cambler! E la tua cucina? Tutto questo intorno a te non merita più attenzione, forse?
- Io stesso baderò alle mie cose. Cucinerò, sforzandomi di migliorare e facendomi pagare di meno.
- Ma ti aiuterebbe moltissimo una serva! - disse Gambrath rincorrendolo, vedendosi sfuggire anche l’affare di riserva concepito all’ultimo momento - Baderebbe a tuo figlio malato!
- Mio figlio è forte. Guarirà presto, se agli dèi piacerà - sentenziò laconico Cambler, infilandosi nella cucina.
- Allora l’affare non si farà? - chiese tristemente il mercante.
- Solo poche monete delle mie sono scampate all’ingordigia e alla furia devastatrice di Skon il centurione, fratello di Made. Non potrei mai pagarti, Gambrath. Porta pure la schiava al tuo signore di Anderes e fai l’affare con lui.

Gambrath ritornò dalla cucina, mesto. Lerea, che se ne stava ancora in piedi nuda davanti al camino, si voltò verso di lui con sguardo interrogativo.
- Rivestiti - le disse senza nemmeno guardarla - l’affare non si farà. Non con Cambler, almeno.
La giovane cominciò a vestirsi, indossando dai piedi la sua veste di veli trasparenti e colorati. Mentre si riannodava la cintura intorno alla vita si voltò verso Gambrath, che se ne stava pensieroso appoggiato all’architrave del camino, da un lato del focolare.
- Tu volevi Rama, vero? - gli chiese con voce dolce.
Il mercante sovrappensiero rispose dapprima con un monosillabo. Poi, realizzando che non aveva mai comunicato alla schiava i propri progetti, la squadrò da capo a piedi mentre si infilava il saio dalla testa.
- Hai sognato anche questo? - le chiese, quasi indispettito.
- No. L’ho capito da sola.
- Ma che brava - disse Gambrath, poco convinto. Lerea gli si avvicinò, col cappuccio già tirato sulla testa.
- Torniamo a Taliba. Vendimi al mercato e col ricavato riscatta Rama dal centurione Skon.
Il mercante guardò la giovane sgranando gli occhi meravigliato.
- Metterei più volentieri una mano in una tana di scorpioni! Ma lo sai cosa hai detto? Andare a fare un affare con un centurione? Se non mi taglia la testa appena mi vede, mi farà appendere in una gabbia fuori da una porta senza nemmeno farmi parlare. E se mi lascerà parlare, si farà una bella risata, mi deruberà delle mie monete e poi mi taglierà la testa o mi appenderà in una gabbia ugualmente.
Lerea abbassò immediatamente lo sguardo a terra e tacque.
- Cambler! Ti chiedo un letto! - disse il mercante a voce alta. L’oste apparve sporgendo la testa dalla cucina.
- E io ti chiederò una moneta delle tue per questo.
- Buonanotte, Cambler.
- Buonanotte, mercante - rispose quello rientrando nella cucina buia.
- Vieni: la notte porta consiglio. Domani decideremo sul da farsi.
Così dicendo Gambrath afferrò per un braccio la schiava che lo seguì docile su per la scala di legno che portava al piano superiore. Qui scelse una stanza abbastanza grande per entrambi: voleva poter tenere d’occhio Lerea senza dover per forza dormire abbracciato con lei, come aveva fatto finora. Era un sistema senz’altro scomodo, ma largamente usato da tutti: impediva alla schiava di fare il minimo movimento senza svegliare il padrone. Era poi rinomato il sonno leggero dei mercanti, soprattutto se accampati durante un viaggio.
Contento di aver trovato un materasso di crine per sé, il mercante si accomodò contro la porticina della stanza, in modo da essere svegliato da chiunque tentasse di entrare o di uscire. Lasciò alla schiava un buon numero di coperte per coprire il sacco di paglia che era il suo giaciglio e poi soffiò sulla lucerna che si era portato dal piano di sotto.
Nonostante il comodo giaciglio, stentava a prendere sonno. Gli occhi non si chiudevano e la mente tornava continuamente al suo problema maggiore in quel momento. Aveva comprato una schiava per fare uno scambio e adesso l’oggetto dello scambio era irrimediabilmente perduto. Si immaginava infatti la fine che avrebbe fatto la bella Rama tra le mani di quel centurione, un brutale e rozzo assassino. Se non fosse morta presto per le percosse sicuramente il trattamento che quella bestia le avrebbe riservato le sarebbe stato fatale. Anche ammesso di riuscire a venirne in possesso, e non sapeva come, Gambrath si immaginava i danni che pochi giorni nelle mani del centurione le avrebbero causato. Lividi per le botte, denutrizione, denti rotti, sporcizia e chissà cos’altro gli avrebbero impedito di venderla subito se non a prezzo davvero stracciato e molto poco conveniente per lui. Se avesse aspettato troppo la completa guarigione, avrebbe probabilmente avuto tra le mani una schiava gravida; il ventre gonfio avrebbe fatto crollare il prezzo ancor più dei peggiori lividi intorno agli occhi e di un naso rotto e tumefatto. Una schiava partoriente infatti non rendeva nulla e costava troppo, poiché necessitava di numerose cure e non era certo in grado di lavorare.
- Padrone…
La voce di Lerea lo ridestò dai suoi pensieri, lo tolse alle sue numerose previsioni dove appariva sempre come perdente.
- Che c’è? - disse con tono seccato. In realtà non lo era affatto: era invece curioso di sentire cosa stesse per dire la sua schiava. Parlava poco, ma quando lo faceva dimostrava di aver meditato le sue parole. Cosa avrebbe dato per averla potuta vedere vendere la sua coperta!
- Padrone, concedimi in prestito all’oste. Nel mentre che tu ritornerai a Taliba o ti recherai dove vorrai, lui avrà guadagnato i soldi per riscattarmi da te. Allora tu riscuoterai le tue monete e avrai il tuo guadagno. Ma se ti recherai a Taliba e avrai la fortuna di trovare Rama, l’oste ti sarà grato di ciò e tu potrai di nuovo fare di me quello che vorrai e il tuo guadagno sarà doppio.
Gambrath fu colto da una vampa che gli fece infiammare il viso, ma che scemò immediatamente raffreddata dalla logica e dalla ragione del profitto, vere signore del suo cervello di mercante.
- Come osi, insolente! - rimproverò ugualmente la schiava, ma con poca convinzione. Il suo cervello era già al lavoro sulle parole di Lerea.
- La tua impudenza meriterebbe dieci bastonate! Ma ora sono stanco e ho lasciato il bastone sul carro. Domani avrai la punizione che ti meriti.
La paglia del sacco di Lerea frusciò per un attimo, poi più niente. Gambrath si addormentò mentre girava e rigirava le parole della sua schiava, cercando di cogliere al meglio il buon suggerimento avuto.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 7
7.

Dopo tre giorni di viaggio e tre fredde notti accampato da solo, rimpiangendo il calore del seno di Lerea, Gambrath era di nuovo in vista della Porta del Nord. Per tutti e tre i giorni del viaggio aveva cercato di convincersi di non stare sbagliando, che la promessa di non sverginare Lerea fattagli da Cambler e dal figlio era sincera, che non sentiva la mancanza della taciturna schiava al suo fianco sul carro e che aveva fatto bene a non bastonarla. Per tutti e tre i giorni aveva pensato a una valida alternativa a quanto stava per fare, ma non l’aveva trovata. Ma ora era di nuovo davanti alla Porta del Nord e stava per sottoporsi alla perquisizione, tranquillo dopo aver controllato che il suo fucile si era nuovamente tramutato nel bastone nodoso del vecchio. Gli straccioni e i mendicanti della tendopoli circostante le mura di Taliba gli vennero incontro numerosi, ma lui li scacciò e accelerò verso i soldati, sapendo quanto questi erano temuti. Ma gli si fermò il sangue nelle vene quando fu abbastanza vicino da vedere chi c’era al posto di blocco.
Vestito di pelli ispide e nere, la scure bipenne appesa al fianco, la voce imperiosa e gutturale che sbraitava ordini crudelmente, rendendo per timore del comandante ancora più crudeli coloro che li eseguivano. Non c’era alcun dubbio: era il centurione Skon, ancora inferocito per la morte del fratello e tutt’altro che sazio di vendette. Molte infatti le gabbie appese alle mura di Taliba: i disgraziati finiti là dentro erano, tranne pochi che gelavano il sangue con i loro lamenti, tutti immobili e silenziosi e il puzzo della decomposizione dei cadaveri aleggiava secondo i capricci del vento. Come se avesse occhi anche dietro la testa, il centurione si voltò proprio mentre il mercante lo fissava e i due si guardarono negli occhi per qualche istante, a qualche decina di passi di distanza. Poi il centurione, mutata la sua espressione in ira, sollevò verso Gambrath il poderoso braccio destro armato di una pesante spada dalla lama nera e gridò.
- Fermate quell’uomo!
Il sangue di Gambrath sembrò defluire tutto in un sol colpo per raccogliersi nei piedi; il cuore parve smettere di battere per un lunghissimo istante e al mercante parve di dover morire di paura. Si sentì afferrare da molte mani grandi che lo trascinarono giù dal carro come se non avesse avuto peso: le redini di Oslob gli furono strappate e fu portato via di peso dentro le mura della città.
Travolto dalla furia delle guardie, desiderose di obbedire con la maggiore efficacia e velocità al centurione furioso, Gambrath smise di vedere il mondo turbinare intorno a lui quando fra lui e questo si interposero grigie mura umide e grosse sbarre di metallo rugginoso. Colpì col fondo della schiena il pavimento lurido di una cella e si trovò al buio, da solo. Cardini vecchi cigolarono così forte da dargli fastidio ai denti e il clangore delle sbarre chiuse con violenza gli rintronò assordante nelle orecchie.
Spenta l’eco di quel frastuono, Gambrath fu immerso nel silenzio e nella solitudine del sotterraneo.

Chiuso nella cella, al buio, per Gambrath era impossibile misurare il tempo. Ma quando con cigolare acuto di cardini una porta che non poteva vedere si aprì, la lama di luce che entrò gli ferì gli occhi, impedendogli di tenerli aperti. Dai passi, dalle voci e dal rumore di armi dedusse che si trattava ancora di soldati. Nuovamente fu afferrato per le braccia e sollevato a viva forza, strattonato brutalmente di qua e di là finché la luce del sole lo sommerse completamente. Le mani che gli stringevano le braccia fino a fargli male non lo lasciarono e le sue orecchie erano l’unico modo per cercare di capire cosa stesse succedendo intorno a lui; purtroppo queste non gli davano buone notizie. Percepivano infatti solo voci di soldati che impartivano ordini, un lontano clangore di metallo battuto e sinistri rumori, cigolii e tintinnare di catene, troppo vicini per i suoi gusti.
- Dentro! - disse una voce, uno dei soldati che lo teneva stretto per le braccia. Ricevette una robusta spinta e sbatté la faccia contro qualcosa di freddo e duro. Dal sapore che gli rimase sulle labbra capì che si trattava del ferro di una gabbia.
- Nooo! - gridò cercando di aprire gli occhi che gli bruciavano per le lacrime. Ma i soldati gli afferrarono i gomiti e gli costrinsero le braccia dentro la gabbia.
- Non ti muovere o te le spezziamo! - lo minacciò una voce alle sue spalle.
Poi la gabbia si richiuse dietro di lui, vibrando tutta orribilmente per il colpo. Il mercante aprì gli occhi colmi di lacrime che ormai sopportavano la luce del giorno e vide davanti a sé le sbarre piatte che formavano l’atroce gabbia, che gli costringeva le braccia in posizione aperta a formare una vulnerabile croce umana. Di nuovo tintinnò la catena dietro la sua schiena: la gabbia fu inclinata all’indietro, togliendogli il fiato per lo spavento.
Fu trascinato all’indietro per parecchi passi, senza poter vedere altro che il cielo grigio e i merli delle mura lontane da una parte, i tetti della città dall’altra. Poi la gabbia fu lasciata cadere di colpo e Gambrath gridò per lo spavento e per il dolore. Di nuovo tintinnò la catena, sopra la sua testa stavolta.
- Pronto? Issa! - disse una guardia e Gambrath si trovò sollevato con un solo strattone.
- Issa!
La gabbia si staccò dal suolo e cominciò a dondolare e a girare lentamente su se stessa. Il mercante poté così vedere ciò che lo circondava: sotto di lui si apriva uno spiazzo a ridosso delle mura della città, di cui poteva vedere gli edifici più alti. Poteva vedere, imponente davanti a lui, il massiccio edificio di pietra del corpo di guardia dove era stato prigioniero fino a poco tempo prima. Ruotando piano piano si trovò faccia a faccia con le grige pietre gigantesche che formavano la cinta muraria a stella di Taliba. Poi poté vedere, ormai sotto di lui, la Porta del Nord e tutto il traffico in entrata e in uscita di carri, gente a cavallo e a piedi. Ogni tanto qualcuno alzava il volto verso di lui e lo indicava al proprio vicino. Poi, scambiate due parole, riprendevano tutti a camminare indifferenti.
- Issa! Issa!
Sollevato sempre più in alto poté avere un impressionante colpo d’occhio sulla selva di edifici eterogenei che componeva la città di Taliba e, tra le lacrime e la paura, ebbe lo stesso modo di meravigliarsi e compiacersi di quella vista straordinaria.
Con una vertigine improvvisa la gabbia fu tirata da una parte: aveva raggiunto la sommità delle mura dove era stato fissato l’argano che era servito per sollevarlo. Tirato sul camminamento, le due guardie che lì lo avevano aspettato diedero una voce ai due di sotto che lasciarono andare la catena. Con uno schianto la gabbia cadde sulla pietra del camminamento ricavato tra i due ordini di merli e fu tenuta in piedi dalle due guardie. Gambrath vide che uno dei due soldati recuperava una catena infissa in una grossa pietra del pavimento. Un grosso gancio arrugginito comparve all’altra estremità e con terrore lo seguì con lo sguardo finché fu agganciato sopra la sua testa, dov’era la catena con cui era stato sollevato. Le due guardie poi afferrarono la gabbia dai lati e la avvicinarono ai merli esterni.
- No! No! Pietà! - gridò Gambrath, trovando il coraggio e la forza di aprire la bocca.
- Uno… due… tre! - gridarono le due guardie e la gabbia col povero Gambrath urlante per la paura fu lasciata cadere fuori delle mura.

Furono le vibrazioni della gabbia metallica a svegliarlo. Sentì dolore alla fronte, alle gambe e soprattutto alle ginocchia; cercò di muoversi e la gabbia dondolò un poco. Il sole stava tramontando e cominciava a fare freddo. Per il contraccolpo avuto, la sua testa aveva sbattuto con violenza dentro la gabbia e quello che sentiva sul volto doveva essere sangue raggrumato. Un tonfo contro la parete, vicino a lui fece concentrare la sua attenzione su quello che stava accadendo sotto di lui, molto in basso. Un soldato a cavallo parlava con dei ragazzini vestiti di stracci.
- Coraggio! Chi altri riesce a colpirlo ancora? Chi ci riesce lo prendo in sella con me!
I ragazzini cominciarono a strillare tutti insieme: tutti volevano salire in sella al cavallo bianco e nero del soldato. Uno di loro sollevò un sasso da terra e lo scagliò contro il mercante indifeso: ma il tiro era troppo debole e la pietra colpì il muro sotto la gabbia senza nemmeno minacciare Gambrath. Altre pietre furono lanciate, con pessima mira e scarsi risultati, convincendo Gambrath che a scagliare la pietra che lo aveva colpito era stato il soldato. I bambini presero poi di mira anche le altre gabbie e provarono diverse tecniche di lancio, incluso il trucco di lanciare tre o quattro pietre in una volta, sperando che almeno una andasse a segno. Poi una voce forte urlò qualcosa senza che lui potesse vedere a chi appartenesse e il soldato smise di trastullarsi coi bambini per uscire al trotto dal campo visivo. Gambrath vide con sollievo i mocciosi che, sfumata la prospettiva del premio, trovarono rapidamente altrove un altro modo per svagarsi. Così si ritrovò solo col suo dolore: tutto il corpo gli doleva per l’immobilità forzata. Dentro la gabbia non ci si poteva muovere molto e i muscoli e le articolazioni ne risentivano quasi subito. Le gambe poi reclamavano la necessità di riposarsi dopo aver sostenuto così a lungo il peso del corpo, ma la gabbia era troppo piccola per permettere alle ginocchia di piegarsi, acuendo così la tortura già insopportabile.
Col calare dell’oscurità il traffico sulla strada che passava sotto di lui diminuì fino a cessare e con un gran tonfo, quando l’oscurità fu completa, Gambrath sentì la Porta del Nord che veniva chiusa. Il freddo lo stava facendo tremare e soffrire in un modo indicibile e non poteva nemmeno cercare di ripararsi stringendosi le braccia sul petto. Gambrath si mise a piangere, inascoltato: nelle gabbie intorno a lui c’erano infatti soltanto cadaveri decomposti.

Il sole svegliò Gambrath prigioniero solo dopo essere riuscito a superare in altezza le mura della città. Il chiasso del traffico non era riuscito a ridestarlo dal torpore costellato di dolorosi incubi e continuamente interrotto da crampi spaventosi, ma la tiepida luce che non riusciva a scaldargli la pelle gli impedì di chiudere di nuovo gli occhi.
Come ipnotizzato, il mercante cominciò a seguire passivamente il traffico caotico e monotono sotto di lui, come se guardasse un formicaio. D’un tratto la sua attenzione fu attirata da un grande e lussuoso carro trainato da diverse coppie di buoi bianchi dalle corna decorate. Il carro, aperto, appariva confortevole e ben equipaggiato e le poche persone che vi sedevano erano circondate dal lusso. Qualcosa destò Gambrath dal suo torpore, qualcosa che ridestò in lui la coscienza del dolore che aveva per tutta la notte tentato di ignorare: un volto, gli abiti, le fattezze di un uomo a bordo di quel ricco carro.
- Rambel’ Marè… - bisbigliò muovendo appena le labbra sporche del sangue colato dalla ferita sulla fronte.
- Rambel’ Marè! - disse a voce più alta. Ma l’uomo non si girò, continuando l’amabile conversazione con gli altri occupanti del carro.
- Rambel’ Marè! Rambel’ Marè! - gridò infine a squarciagola, vedendo che il carro si allontanava pericolosamente fuori portata di voce.
Miracolosamente uno degli occupanti additò le mura in direzione del mercante che, vedendosi indicare, gridò ancora più forte e si agitò convulsamente facendo dondolare vistosamente la gabbia. Colui che credeva essere l’uomo di medicina incontrato tempo prima si voltò anche lui verso le mura e poté vederlo in viso. Era piuttosto lontano e la sua vista era offuscata, ma gli parve proprio Rambel’ Marè. Questi fece un cenno al conduttore del carro e pochi passi più avanti questo accostò e si fermò. L’uomo, vestito da nobile e con un turbante colorato in testa saltò giù nel fango e si mosse in direzione delle mura. Subito fu attorniato dai mendicanti della tendopoli a cui però lui non badò minimamente: aveva lo sguardo puntato verso l’alto, verso la sua gabbia. In poco tempo fu sotto di lui.
- Rambel’ Marè! - ripetè ancora Gambrath. Altre parole gli affollavano la mente, ma le sue labbra non seppero pronunciare altro che quel nome.
- Chi sei, tu che gridi così il mio nome? Forse ci conosciamo?
Gambrath esitò qualche istante di troppo, ma infine ritrovò la parola.
- Sono Gambrath! Ti ricordi di me?
- Gambrath? Il mercante? Ma certo che mi ricordo di te! Ma di quali orrendi crimini ti sei macchiato per finire condannato in questo modo?
- Lo ignoro, venerabile! Quando il centurione Skon mi ha visto alla Porta del Nord, ha subito ordinato la mia prigionia e la mia esecuzione!
- Credo di aver capito… - disse l’uomo di medicina sfregandosi il mento e guardandosi intorno. Poi tornò a guardare la gabbia, la testa reclinata all’indietro.
- Non ti prometto nulla, ma qualcosa posso tentare. Ora perdonami, ma sto dando eccessivamente nell’occhio. Resisti!
- Non mi lasciare! Non mi lasciare! - implorò Gambrath vedendo l’uomo ben vestito tornare sui suoi passi, verso il lussuoso carro.
Senza voltarsi nemmeno una volta, Rambel’ Marè salì di nuovo tra trapunte decorate e cuscini preziosi e dette numerosi ordini al conduttore del carro. Questi assentì con la testa e incitò i buoi bianchi a ripartire. Gambrath, disperato, pianse.

Una forte febbre gli incendiò il corpo, tanto da farlo delirare e da cancellare il dolore delle ossa e della carne. Nel delirio, persa la coscienza del proprio corpo, non sapeva più cosa gli accadeva intorno e incubi spaventosi gli fecero dimenticare la gabbia, di cui giunse perfino a non percepire più la presenza intorno a sé.
Fu con sommo stupore quando ebbe ripreso conoscenza si accorse che essa era sparita davvero. Non solo: non si trovava più sospeso sulle mura di Taliba, al freddo e al gelo della notte, ma sdraiato in un comodo letto con tante coperte a tenerlo caldo, dentro una stanza arredata con discreto lusso. Riconobbe subito gli amuleti ciondolanti appesi al collo: chino su di lui, il volto di Rambel’ Marè, sorridente.
- Bentornato nel mondo dei vivi - gli disse.
Cercò di parlare, ma la bocca e la lingua erano così asciutte che quando le mosse sentì dolore.
- Ah… acqua… - riuscì a dire dopo qualche sforzo.
L’uomo di medicina lo accontentò bagnandogli la bocca con un fresco panno intriso di acqua.
- Perdonami per averti lasciato lassù, mio buon mercante, ma non potevo fare di più al momento.
- Che… che grande debito ho… contratto oggi… - rispose Gambrath. Il suo corpo si stava risvegliando poco a poco e i postumi di una forte febbre apparvero chiari anche a lui.
- Non ci pensare. Preoccupati solo di guarire: io preparerò le medicine per te.
Gambrath volle rispondere per esprimere la sua preoccupazione: avrebbe voluto dirgli che non aveva più monete, ma non ne ebbe la forza.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 8
8.

Aveva appena finito il bagno balsamico quando l’eunuco di Rambel’ Marè si presentò a lui, comunicandogli che l’uomo di medicina lo aspettava nella sua camera. Gambrath non se lo fece dire due volte e rivestitosi con i suoi abiti, accuratamente lavati e rammendati fino a sembrare nuovi, si affrettò a ritornare nella camera, da dove l’amico Rambel’ Marè gli consentiva di uscire solo per i bagni balsamici.
Camminò sotto il piccolo portico della grande casa, che dava su di un angusto cortile interno sempre in ombra in quei grigi giorni invernali, ripensando all’incredibile storia che l’uomo di medicina gli aveva raccontato durante quei lunghi giorni di degenza. Rambel’ Marè non era certo uno sprovveduto alle prime armi: aveva saputo approfittare delle occasioni insperate che gli si erano presentate. Infatti, quando quel giorno si era allontanato dalla taverna su richiesta della grassa padrona era andato a visitare una sua cugina che giaceva malata da giorni. L’uomo di medicina aveva subito facilmente diagnosticato una banale ma sconosciuta malattia, di cui Gambrath non ricordava nemmeno il nome da tanto che esso era astruso e poco comune, ma se n’era guardato bene dal dirlo a chiunque; in questo modo recitando abilmente era riuscito a fingere di aver salvato da un’orribile fine la cugina della padrona della taverna, mentre invece con poca spesa aveva prodotto un farmaco che aveva avuto effetti miracolosi. La cugina era migliorata in poche ore e quella sera stessa Rambel’ Marè era stato ospite del padre e della madre della malata, occupando al tavolo il posto dell’ospite d’onore. La gratitudine e la devozione che i parenti della malata gli dimostrarono valse a lui un comodo giaciglio per la notte, tutt’altra cosa che quello della locandiera la quale fu costretta dai parenti a non pretendere neanche una moneta per la stanza rimasta vuota.
La fama di Rambel’ Marè era volata alle stelle quando la mattina dopo la malata, che tutti davano per spacciata, si era sollevata dal letto con un bel colorito e aveva chiesto da mangiare poiché aveva appetito. Per lui divenne quasi impossibile circolare liberamente per la folla che gli si accalcava intorno. La sua fama giunse così fino alle orecchie di Rendel Lorente, un signore molto ricco e potente e con amicizie influenti. Costui si era guadagnato tutte le sue monete, dalla prima all’ultima, grazie alla sapiente gestione della sua casa di piacere, la più lussuosa e perfetta di tutta Taliba. Rendel Lorente aveva convocato Rambel’ Marè al proprio cospetto e gli aveva proposto un affare: se avesse smesso di esercitare la sua preziosa professione vagabondando qua e là per lavorare per lui, avrebbe avuto tante di quelle ricchezze da non sapere che farsene. Rambel’ Marè aveva dato uno sguardo alle ricchezze che circondavano quell’uomo, ai vestiti che indossava, agli schiavi sua fonte di guadagno e aveva accettato.
Gambrath si era stupito della scelta dell’amico: poteva riconoscere a vista quelli come lui, incapaci di stare troppo tempo fermi nello stesso posto e Rambel’ Marè era uno di quegli uomini. Anche l’uomo di medicina aveva detto di essere lui stesso sorpreso dalla propria scelta, ma la grande quantità di ricchezze che era subito stata messa a sua disposizione gli aveva fatto dimenticare ogni cosa. Così anche lui adesso era ospite di Rendel Lorente, non il più ricco e potente, ma certamente il più discusso signore di Taliba. Raggiunta la piccola ma confortevole stanza dove aveva atteso che la febbre e il dolore abbandonassero il suo corpo, Gambrath salutò il suo amico Rambel’ Marè.
- Salute, amico mio - gli disse l’uomo di medicina.
- La mia buona salute è merito tuo - rispose Gambrath, sedendosi su uno sgabello.
- No, solo dei miei farmaci. Come ti senti? Hai fatto i balsami?
- Sì, ho finito proprio poco fa. Il tuo servo mi ha incontrato mentre mi rivestivo. Ma dimmi, questi bagni balsamici che tu mi prepari… devono essere per forza così freddi?
L’uomo di medicina rise divertito.
- Il mio signore è molto ricco e influente, è vero, e ha una grande villa con molti bagni, ma l’acqua calda nelle vasche è roba da re!
- Ho sentito diverse storie sul tuo signore mentre riposavo qui. Ho sentito che tantissimo tempo fa giunse a Taliba a piedi, spese tutte le sue monete per acquistare una schiava e cominciò a prostituirla per la strada.
- Bada, amico mio: al mio signore non piace rivangare il passato. È vero, molti dicono così: fossi in te mi accontenterei di sentire voci qua e là. Ti consiglio di non fare domande. La ricchezza e il potere rendono piuttosto permalosi.
- Non ti ho chiesto dove stavi andando quel giorno che ti ho visto su quel carro, mentre stavo appeso nella gabbia.
- Il mio signore progetta di aprire un’altra casa e ha bisogno di nuove schiave e di nuovi schiavi. Mi ha mandato a controllare le condizioni di salute di alcuni che si erano offerti di vendere i propri figli, e dei figli stessi. Come sai, il mio signore si vanta di affermare che nessun suo cliente si è mai ammalato per causa attribuibile a ciò che accade qui.
- E di questo sei tu l’artefice.
- Modestamente… il mio predecessore pare fosse qualcosa di poco più evoluto di uno stregone: è un vero miracolo che questi schiavi non siano tutti malati e che non abbiano mai contaminato nessuno.
Rambel’ Marè si alzò di scatto dalla sedia dove si era accomodato e con aria gioviale cambiò discorso.
- Bene! Se la tua salute è buona stasera sarai ospite alla tavola del mio signore. Egli è molto curioso di sapere chi è quell’uomo la cui salute mi sta così a cuore. Devi soprattutto a lui la tua libertà.
- E a chi ha interceduto per me. Senza di te, amico mio, a quest’ora sarei cibo per vermi, ancora appeso sopra la Porta del Nord!
Rambel’ Marè ridendo si avvicinò all’uscio, alzando una mano in segno di saluto.
- Aspetta! - lo fermò il mercante - Volevo chiederti una cosa molto importante.
- Sentiamo.
- Secondo te la mia salute mi permette di partire?
- Quando vorresti partire? - disse l’uomo di medicina ritornando serio.
- Presto. Domani mattina. Cercherò un passaggio su qualche carro diretto a Bel’ee. Forse ho la possibilità di guadagnare qualche moneta: ho ancora una schiava.
- Non sono sicuro che tu possa affrontare un viaggio. Sarebbe meglio per te riposare ancora.
- Ma sono giorni che la febbre è passata! Le mie forze sono tornate! Il mio debito è così grande che se anche vendessi la mia schiava e tutti i miei abiti restando nudo, non potrei mai pagare te o il tuo signore. Se resto ancora, il mio debito sarà incolmabile! - protestò Gambrath.
Rambel’ Marè lo guardò per qualche istante: negli occhi del mercante riconobbe quella luce che brillava, desiderio di agire e di non subire gli eventi, di essere fabbro del proprio destino. E da buon mercante, di non avere debiti con nessuno.
- Sta bene. Se ti sentirai in grado di farlo, partirai domani mattina.

Il mercante si alzò prestissimo: mangiò fichi secchi e bevve vino dolce. Nella villa regnava il silenzio più assoluto: l’industriosa attività di schiavi e schiave iniziava poco prima di mezzogiorno e andava avanti fino a notte fonda, quando la villa chiudeva i battenti. Un servo gli porse gli abiti, l’unica cosa che fosse di sua proprietà oltre alla chiave che portava sempre appesa al collo, attestato di proprietà di uno schiavo. Poi si recò alla porta principale e il servo la aprì.
- Porta i miei saluti al tuo padrone e al venerabile Rambel’ Marè, porgendo loro i miei migliori auguri. E auguri anche a te - disse Gambrath, posando una mano sulla spalla del servo che l’aveva accudito.
Stava già per incamminarsi lungo la via, già frequentata da qualche pedone e da rari carri quando il servo lo fermò.
- Attendi, signore! Ti prego!
Il mercante si voltò e vide il servo indicare il lato della casa, dalla parte delle stalle. Stava per parlare quando da dietro l’angolo comparve l’altro eunuco che teneva per il morso un bel bue bianco. Aggiogato al bue un carro a due ruote, solido e di buona fattura.
- Il mio padrone ti offre questo dono affinché tu possa ricominciare a mercanteggiare. Ti prega di accettarlo e di considerarti libero da debiti.
- Ma… io non posso accettarlo! È troppo per me, non potrei mai ricambiare il tuo nobile padrone! - disse Gambrath balbettando meravigliato.
- Ti conviene accettare: nessuno ha mai detto di no a Rendel Lorente.
Gambrath si voltò al suono della voce alle sue spalle. Era Rambel’ Marè, che era apparso dall’ombra della soglia.
- Ma come posso…?
- Sali su quel carro e parti, e pensa a qualche buon affare da concludere - lo esortò l’uomo di medicina sorridendo.
Lentamente il mercante salì sul bel carro a due ruote e prese le briglie che l’eunuco gli porgeva. Rimase lì, senza decidersi a spronare l’animale.
- Che aspetti? Va'!
Gambrath spronò il suo nuovo bue bianco che docilmente si mise in movimento e si lasciò condurre sulla strada.
- Grazie! - disse voltandosi verso l’amico e i due servi, alzando il braccio in segno di saluto.
I tre risposero al saluto e stettero in strada a guardare il carro finché si confuse con gli altri.

Stava per passare con non poca angoscia la Porta del Nord quando gli capitò di assistere ad una scena che gli fece tuffare il cuore nello stomaco. Aveva lo sguardo rivolto verso l’incombente edificio del corpo di guardia, dove era stato rinchiuso e nel cui piazzale, tenuto sgombro dai soldati, venivano fabbricate le gabbie. Davanti alla spessa porta rinforzata con metallo sostava un gruppetto di mentecatti luridi e vestiti di stracci; la porta si aprì e una guardia gettò loro un grosso fagotto. Ci volle meno di un battito di ciglia perché Gambrath riconoscesse una donna: esili braccia inerti, pallide, una lunga chioma scura, un piede scalzo che apparve tra i cenci dei disgraziati che accerchiarono immediatamente la loro ricca preda. Orripilato da quella vista, seguì con lo sguardo i mendicanti che si diressero immediatamente in una strada stretta dietro il grande edificio. Gambrath, senza sapere esattamente cosa stava per fare, tirò le redini del suo bue bianco e gli fece invertire la marcia. Non c’era molto traffico e la brusca manovra non dette fastidio a nessuno; spronò la sua bestia finché questa si mise a trottare, trainando il carro a due ruote a discreta velocità. Si indirizzò verso l’ingresso del vicolo e visto che l’animale esitava di fronte alla strada stretta e buia, lo incitò ancora. Il carro entrò rombando nel vicolo e il bue bianco emise un forte muggito che riecheggiò tra le pareti. I mendicanti, credendosi al sicuro, avevano posato la loro preda a terra e quando sentirono tutto quel fracasso si spaventarono e fuggirono, credendo forse di essere sulla traiettoria di una carica di bestie impazzite. Il mercante, visto il fagotto di stracci e membra umane inerte in mezzo alla strada, cercò di frenare disperatamente la corsa del suo carro; muggendo e sbuffando alito bianco dalle larghe narici per la corsa, il bue si fermò a meno di un passo dalla donna che giaceva ancora a terra.
Gambrath si accorse di aver trattenuto il fiato: con le gambe che tremavano un po' saltò giù dal carro e accorse. I lunghi capelli sporchi, annodati e inestricabilmente aggrovigliati tra loro celavano il viso della donna; gli abiti erano consumati e lerci di ogni genere di immondizia; la pelle avrebbe cambiato colore se lavata con acqua e sapone, se i segni scuri che poteva vedere non erano tutti orribili lividi. Al polso sinistro appariva evidente il bracciale di ferro nero degli schiavi.
Non era un uomo di medicina e l’unico modo per vedere se aveva a che fare con un cadavere era controllare il respiro e il cuore; il primo era debolissimo, appena percepibile, mentre per sentire il battito dovette appoggiare l’orecchio sul petto della sventurata che, tra l’altro, puzzava in maniera micidiale. Nel risollevare la testa la guardò bene in volto. Era stata picchiata più volte, le labbra rotte e gonfie, la pelle lacerata e sporca di sangue e gli occhi infossati e cerchiati di scuri lividi ne erano testimoni, sfigurando i lineamenti e rendendola repellente alla vista. Non si lavava da chissà quanto e la pelle era incrostata e appiccicosa di ogni genere di immondizia. Gambrath infilò le braccia sotto il corpo immobile e lo sollevò di peso, constatando la grave denutrizione della donna: era così leggera che non fece alcun fatica a sostenerla, la pelle era tesa sul torace e con le mani poteva contare le ossa una a una.
La caricò in fretta sul carro, prima che i mentecatti tornassero con i rinforzi, essendosi accorti di essere stati assaliti da un solo uomo. La coprì con una coperta che trovò sotto il sedile insieme a succulente provviste, ennesima premura del suo amico Rambel’ Marè e del suo signore. Risalito a cassetta spronò il bue e uscì dal vicolo, diretto verso la Porta del Nord.
Pagato il pedaggio con le monete che aveva trovato tra le provviste (non ci aveva pensato, e si trovò a dover ancora ringraziare il suo amico) e subita una poco scrupolosa perquisizione, si fermò dopo poco presso una fattoria dove chiese il permesso di usare un po' d’acqua per lavare le ferite di quella che aveva detto essere la sua serva. Con sua grande gioia quando spruzzò con le mani l’acqua gelida sul viso della donna questa reagì emettendo un debole lamento. Senza spostarla dal carro, bagnò ancora le mani e le sfregò piano il volto, cercando di capire dove avesse le ferite sotto la sporcizia. Fu allora che gli parve di vedere, nonostante lividi e ferite gonfie, un volto noto.
- Rama…?
Bagnò ancora le mani che ora tremavano leggermente e cercò di pulire meglio il viso. Poteva essere lei, ma come essere sicuri? Gli occhi lividi, le labbra nere e gonfie di botte, graffi e abrasioni ovunque?
- Rama? - disse ancora. La schiava si lamentò ancora impercettibilmente.
- Rama!
Stavolta la schiava riuscì a sollevare una palpebra; l’altra rimase chiusa, incollata da un grumo di sangue. Era lei.
- Per Elzer, come ti hanno ridotta! - esclamò Gambler, eccitato. Era convinto di aver fatto una grande sciocchezza correndo in aiuto di una schiava mezza morta, forse invece sarebbe stata la sua fortuna.
Cercò disperatamente di rianimarla, ma l’occhio si richiuse e le membra rimasero inerti. Le fece gocciolare acqua nella bocca alternandole con gocce di vino, e questo sortì l’effetto di farle contrarre i muscoli del viso in una debole smorfia. Poi, rimpiangendo di non poter tornare indietro da Rambel’ Marè perché non avrebbe avuto abbastanza monete per il pedaggio e per non indebitarsi con lui ancora più gravemente, decise di provare a cavarsela con le sue sole forze. Sistemò Rama dentro la coperta meglio che poté, chiedendo ai contadini un po' di paglia per impedire che la testa della giovane donna, irriconoscibile, posasse sul duro legno del pianale del carro, soggetta a tutti gli scossoni del viaggio. Poi si mise in cammino, facendo attenzione a evitare ogni sobbalzo inutile, ma determinato ad arrivare alla stazione di posta nel minor tempo possibile.
Non si fermò per mangiare ma solo per controllare che la schiava fosse viva e per darle acqua mista a vino, in modo che riprendesse forza. La notte dormì abbracciato a lei sotto la coperta non per il timore che fuggisse ma per impedire che il gelo della notte finisse il lavoro del carnefice che l’aveva ridotta in quello stato. In quei tre giorni mille volte temette di svegliarsi abbracciato al corpo privo di vita della giovane, mille volte si premurò di farle inghiottire pezzettini di cibo, mille volte maledisse il nome del centurione Skon. Solo la mattina del terzo giorno lei premiò i suoi premurosi sforzi aprendo entrambi gli occhi e sorridendogli, mostrandogli i denti intatti, intenzionalmente risparmiati dalle percosse del boia.
- Rama! Resisti, siamo quasi arrivati!
La ragazza bisbigliò qualcosa. Aveva ancor le labbra tumefatte, gonfie e piene di ferite in via di guarigione e Gambrath non riuscì a capire se si fosse trattato di un sussurro o se la schiava avesse tentato di parlare.
- No, no… non ti sforzare. Non parlare, non fare niente. Pensa a guarire, eh? - la esortò il mercante, parlando senza secondi fini, per una volta.
La ragazza lasciò trascorrere qualche istante e poi prese di nuovo fiato per parlare, ma anche questa volta non riuscì a emettere che un incomprensibile sussurro. Gambrath sbocconcellò una delle ultime spianate, un tipo particolare di pane non lievitato che si conserva a lungo dopo la cottura e cercò di farla inghiottire alla ragazza. Con sua grande sorpresa questa mostrò di essere in grado di masticare. Contento per questa buona nuova, le diede anche un po' di frutta secca, ma quando deglutì questa la ragazza schiava ebbe una smorfia di dolore, segno che le ferite interne erano ancora aperte. Dissetò la poveretta e dopo aver trangugiato rapidamente una parca colazione Gambrath aggiogò il bue bianco e si rimise velocemente in marcia.

Mancava poco al tramonto quando giunse in vista della stazione di posta. Fumo bianco usciva dal tetto, segno che l’attività ferveva all’interno. Pensò a Lerea, e si chiese cosa avrebbe dovuto fare se, come si aspettava, era stata sverginata da qualcuno, per esempio da qualche cliente di passaggio non più reperibile per potergli chiedere un risarcimento.
Quando fu a portata chiamò a gran voce, com’era usanza e buona educazione fare. Anche stavolta sull’uscio comparve la nota sagoma di Cambler, l’oste, che gli fece un cenno di saluto, invitandolo ad avvicinarsi.
- Cerco rifugio, nobile Cambler - disse il mercante sorridendo al buon thale quando fu vicino.
- L’hai trovato, mio buon Gambrath. Condurrò io il tuo nuovo bue, se vuoi.
- Aspetta. Guarda sul carro, prima. È nel tuo interesse.
Probabilmente Cambler intuì qualcosa dall’espressione sorridente sul volto del mercante e si avvicinò al carro con sguardo interrogativo e speranzoso assieme. Gambrath saltò giù dal carro e gli fu a fianco, notando che anche lui ebbe bisogno di qualche istante per riconoscere la poveretta adagiata sulla paglia e imbacuccata nella coperta, sul pianale del carro.
- Rama! - disse l’oste saltando sul carro e chinandosi vicino alla sua schiava.
- Proprio lei. L’ho …salvata per un soffio - disse Gambrath, cambiando all’ultimo momento la frase che gli si era formata nella mente.
L’oste si alzò in piedi facendo oscillare il carro per l’impeto e per la sua mole.
- Lerea! Lerea! - gridò rivolto verso la stazione di posta. L’uscio si aprì di nuovo.
Gambrath si voltò a guardare la sagoma che comparve sulla soglia, indubbiamente quella di una donna. A giudicare dagli abiti doveva essere proprio la sua schiava. Questa restò lì un attimo, il tempo di identificare chi fosse in compagnia dell’oste Cambler. Poi scattò di corsa verso i due, correndo come lo consentivano le vesti fatte di molti veli lunghi fino a terra. Corse soffiando sbuffi di alito bianco coprendo la breve distanza in pochi attimi, corse fino a raggiungere il mercante. Poi si lasciò cadere ai suoi piedi e si aggrappò a lui, abbracciandogli strettamente le ginocchia, tanto repentinamente da lasciar pensare di aver inciampato.
- Padrone! - disse premendo una guancia rosa per il freddo contro le ginocchia dell’uomo. Gambrath era meravigliato da tutta quella devozione. Osservò la sua schiava: sembrava in perfetta salute, esattamente come l’aveva lasciata. Anzi, si era guadagnata una giacca di pelle dalle maniche lunghe, per difendersi dal freddo evidentemente, visto che l’abito dai molti veli non doveva essere ideale per l’inverno. La afferrò per le ascelle e le impose di alzarsi in piedi.
- Perdonami, nobile Gambrath. Ordina alla tua schiava di occuparsi della mia, se vuoi.
Il mercante si voltò: l’oste aveva tra le braccia robuste il corpo di Rama avvolto nella coperta. Compiaciuto per le parole dell’uomo, fu felice di accontentarlo.
- Conosci qualche rimedio? Rama, la schiava di Cambler, è stata percossa da mille soldati, è molto debole.
- Conosco qualche rimedio - disse Lerea volgendo lo sguardo alla giovane malridotta tra le braccia dell’oste, e quando questi si incamminò verso la stazione di posta, lo seguì.
- Nottle! Accudisci il carro del nobile Gambrath!

La sera era trascorsa piacevolmente davanti a piatti caldi: Gambrath ebbe modo di raccontare la sua storia a Cambler e ad altri quattro viandanti ospitati per quella notte. Raccontò, con ogni dettaglio, quanto fosse stato tragico il suo ritorno a Taliba, la drammatica prigionia e la tortura della gabbia. Narrò poi, con grande meraviglia e stupore dei suoi cinque ascoltatori, dell’incredibile fortuna che gli era toccata, della sorte benigna che aveva fatto passare il carro di Rambel’ Marè proprio sotto la sua gabbia. La stessa buona sorte che aveva voluto far diventare l’uomo di medicina ricco e potente, abbastanza da riuscire a far annullare la sua condanna. Raccontò infine di come era stato curato e guarito da Rambel’ Marè in persona, contribuendo a portare un po' in giro la sua fama di ottimo uomo di medicina e si perse in mille lodi per glorificarne la generosità: il carro e il bue infatti erano un dono suo, non significava affatto che fosse diventato ricco. Anzi, Gambrath confessò di avere una sola moneta e di non potersi permettere neanche il letto per la notte.
Cambler lo confortò dicendogli che il debito che lui aveva nei confronti del mercante superava di gran lunga il valore di una moneta. Anzi, lo esortò a dirgli il prezzo che doveva pagare per poter riavere Rama.
Gambrath rimase perplesso. Anche questa volta corresse abilmente il suo primo pensiero e disse all’oste che non poteva comprare una cosa già sua e che poi non aveva la chiave. Quindi l’affare non avrebbe potuto essere concluso in nessun modo.
Pensò alla chiave: molto probabilmente era rimasta nelle mani di Skon, il quale le aveva fatto fare chissà quale fine. I centurioni e tutti i soldati in genere non avevano un senso della proprietà molto sviluppato, non tanto quanto un mercante, senza dubbio. La chiave, vero e proprio attestato di proprietà di uno schiavo, era importantissima per il mercato. Nessuno poteva comprare o vendere uno schiavo senza la chiave giusta, nessuno poteva dire di avere uno schiavo se non era in possesso dell’unica copia della chiave che apriva il bracciale di ferro nero che lo schiavo portava al polso sinistro. La serratura del bracciale non si poteva scassinare, non si rompeva e non si apriva con nessun’altra chiave. Nessuno avrebbe avuto anche il minimo guadagno mozzando la mano sinistra a uno schiavo pur di entrarne in possesso. Uno schiavo che non fosse accompagnato dalla sua chiave era uno schiavo destinato ad avere tanti padroni, mentre un padrone privo della chiave non era più padrone di nessuno schiavo. Ma per uno come Skon la chiave non contava nulla, era un oggetto privo di significato. Un centurione come Skon era abituato a prendere con la forza o con l’inganno tutto quello che desiderava e cessato il desiderio buttava via tutto quanto non gli aggradava più di avere intorno, schiavi compresi. Chissà dove si trovava quella chiave, ora: senza di quella lo schiavo, secondo la legge, non era tenuto a chiamare nessuno “padrone”, non era tenuto a obbedire a nessuno. Chiunque avesse bastonato uno schiavo senza possederne la chiave, sarebbe stato bastonato a sua volta. Questa era la legge, a meno che a bastonare fosse un centurione, naturalmente.
Anche Cambler sapeva queste cose e si rattristò alla notizia. Il primo prepotente che fosse passato di lì, accortosi della mancanza della chiave avrebbe potuto portare via Rama senza che lui potesse opporsi minimamente. Vedendo l’oste rabbuiarsi, cercò di consolarlo dicendosi certo che quella chiave era sicuramente andata irrimediabilmente perduta e nessuno ne sarebbe mai più entrato in possesso. Quanto a Rama, sarebbe stato sufficiente non dire in giro che la sua chiave era andata perduta e non ci sarebbero stati problemi. Poi lo esortò cordialmente a raccontare come gli fossero andate le cose nel frattempo: notò che i danni erano stati tutti riparati con successo, che il figlio era guarito e sembrava più forte e muscoloso di prima e che i clienti non mancavano.
Cambler, rassegnato, raccontò quindi di come la schiava Lerea lo aveva aiutato a curare Nottle, a rimettere in funzione a dovere la cucina e a riparare i danni subiti, lavorando instancabilmente come Gambrath gli aveva promesso. Raccontò della fatica fatta a racimolare le monete per le provviste, poiché non aveva potuto far fare alla schiava il giro delle stanze di notte per onorare la promessa fatta al mercante, e di non essere mai riuscito ad accumulare le cento monete per riscattarla.
Gambrath riempì di lodi il buon oste per la sua sincerità e per la sua impareggiabile onestà: questi commosso offrì un bicchiere di vino a tutti i presenti, senza maggiorazioni di prezzo. Poi il mercante chiese di nuovo se era sicuro di volergli offrire anche la camera. Cambler, con gli occhi lucidi un po' per il vino, un po' per gli elogi che gli erano stati rivolti e per le emozioni che quella serata gli aveva riservato, quasi trasalì alla domanda e invitò Gambrath a scegliere una qualsiasi delle camere libere, senza preoccuparsi dei debiti.
Vista l’ora tarda e la stanchezza, il mercante ne approfittò subito prima che Cambler pensasse di cambiare idea e salutata cordialmente tutta la compagnia, se ne andò di sopra a dormire. Si scelse una stanza, si accomodò su di un materasso sistemandosi come suo solito a ridosso della porta di ingresso, si coprì con le calde coperte e in poco tempo si addormentò.
Il suo sonno leggero da mercante durò poco: la porta della sua stanzetta si aprì andando a sbattere contro la sua schiena, svegliandolo. Allarmato, Gambrath rotolò giù dal materasso e si preparò come poté ad affrontare l’intruso, già ben sveglio. Purtroppo dalla sua disavventura con la gabbia non aveva più il suo coltello: oltre a dover mangiare con le mani, non poteva neanche difendersi con efficacia, non essendo un lottatore.
L’intruso, spaventato quanto lui, si era rapidamente ritirato nello stretto corridoio che separava le camere. Aveva in mano una lucerna, poteva vederne la luce proiettata sul pavimento di assi di legno; si chiese quale fosse quel gaglioffo tanto inesperto e imbranato da tentare di derubare qualcuno di notte, durante il sonno, facendosi luce con una lucerna.
- Padrone…?
La debole voce esitante che sussurrò nel corridoio era quella di Lerea.
- È il modo di fare, questo? - disse lui adirato ma sottovoce, per non disturbare il sonno altrui.
- Perdonami padrone…
- Che ci fai in giro a quest’ora?
- Ho lavorato molto, padrone. Ho anche accudito la schiava dell’oste tuo amico. Ho finito solo ora e ho pensato che mi avresti voluta con te per la notte. Fa molto freddo ed è scesa la nebbia.
- Ah, va bene. Entra, dunque, non startene lì tutta la notte.
La giovane schiava entrò scavalcando il materasso e rimase in piedi nel centro della stanza, con la lucerna in mano.
- Cambler mi ha parlato molto bene di te. Sono contento che tu ti sia comportata bene. Ti ha sverginata? - le chiese bruscamente, sottovoce.
La schiava scosse la testa.
- E suo figlio?
Ancora un cenno negativo.
- Spogliati, fammi controllare. Dai a me la lucerna.
La lucerna passò di mano e Lerea si spogliò in silenzio. Alla tremolante luce dello stoppino Gambrath poté vedere che in sua assenza era successo qualcosa: la sua schiava aveva cominciato a cambiare nel fisico. I fianchi si erano snelliti, il ventre sporgeva di meno e braccia e gambe parevano meno giovani ma nel contempo più sode e robuste.
- Sapevo che lavorare ti avrebbe fatto bene: stai migliorando - le disse mentre con mano esperta verificava la sua purezza.
- Sono più tranquillo, ora. Giovane e vergine vali di più che giovane e basta, anche se ottima lavoratrice, ricordalo. Dev’essere stato difficile per te rimanere pura.
- L’oste lavora duramente e è sempre molto stanco la sera. E non soffre mai il freddo.
- E il figlio? Non ti ha mai neanche toccata?
- Ha i gusti di un candriano - disse lei, in piedi nel centro della stanza, le braccia abbandonate inerti lungo i fianchi nudi.
Gambrath sorrise. Rimise la lucerna in mano alla schiava e si rinfilò di nuovo a letto. Lerea non si mosse di un dito.
- Beh? Che fai lì, ferma? Credi di essere una lampada? Vestiti e coricati: domani ci alzeremo molto presto e decideremo il da farsi.
Lerea soffiò fortemente sulla lucerna spegnendola. Gli abiti frusciarono nel buio e le assi di legno del pavimento scricchiolarono mentre il suo peso si spostava da una all’altra. Infine il mercante la sentì inginocchiarsi vicinissima a lui.
- Padrone… mi vuoi nel tuo letto?
Il mercante sbuffò seccato ma poi rispose di sì, a condizione però che non lo abbracciasse e se ne stesse ferma e buona. Senza dire una parola, piena di timore reverenziale la schiava si mise a letto con lui e insieme passarono la notte scaldandosi l’uno con l’altra.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 9
9.

Stanca di camminare, non appena vide un tronco abbattuto lo usò come sedile. I due spadoni che si era scelta si impuntarono al suolo quando si sedette e se ne sbarazzò con un gesto di stizza, gettandoli uno sull’altro contro il tronco stesso. Si concentrò di nuovo, ma niente: non riusciva a materializzare neanche un triciclo per bambini. Cominciò a pensare di essersi sbagliata: sarebbe stata la prima volta, finora le sensazioni che il varco le trasmetteva si erano rivelate infallibili. Una volta uscita dal vuoto interdimensionale stavolta non aveva trovato niente intorno a sé, solo una pianura desolata, un po' di fredda foschia e niente altro. Nessuno che avesse bisogno del suo aiuto, non solo: neanche un’anima viva nel raggio di chilometri, evidentemente, altrimenti se ne sarebbe accorta sicuramente. Sentiva ancora il varco lontano alle sue spalle, ma non voleva rassegnarsi all’idea di tornare indietro. Appena passato il varco aveva applicato su di sé tutte tutte le trasformazioni che la sua fantasia aveva a lungo preparato, diventando ancora una volta l’invincibile guerriera che aveva imparato a essere lì, in quel luogo impossibile. Ma stavolta qualcosa doveva essere andato storto: forse l’eccessivo entusiasmo l’aveva tradita, forse stava tutto per finire (e quel solo pensiero la riempiva di grande angoscia), ma non riusciva più a materializzare tutto quello che voleva. Aveva provato con le armi, le più diverse, e ci era riuscita come sempre, ma non riusciva a materializzare un veicolo nemmeno se si sforzava al massimo, chiudendo gli occhi e pensando intensamente a ogni minimo dettaglio le venisse in mente. Cosa che invece era riuscita addirittura due volte a Marcus: a breve distanza l’uno dall’altro aveva materializzato addirittura un blindato prima e poi una Pegasus sportiva con tutti gli accessori immaginabili. Tutto inconsciamente, senza volerlo davvero. Si chiese se fosse quello il trucco e provò a pensare inconsciamente a qualcosa che avesse almeno tre ruote, ma non ebbe successo. Dov’è Marcus adesso che mi serve, pensò amaramente cominciando a pentirsi di aver voluto fare di testa sua. A interrompere il corso dei suoi burrascosi pensieri, il ritmato tonfo degli zoccoli di un cavallo al passo.
Emerse dalla nebbia a poche decine di metri alle sue spalle: bardato e sellato, ma senza cavaliere. Dora si stupì di non essersene accorta: si sollevò in piedi e andò piano incontro all’animale che pareva tranquillo e sbuffava alito che si condensava in nuvolette bianche. Non sapeva affatto cavalcare: anzi aveva una certa paura dell’animale, molto più grosso di lei, ma la prospettiva di andare ancora in giro a piedi la convinse che era ora di imparare.
- Vieni, bel cavallino… vieni… - disse con voce dolce ma un po' tremante. L’animale era veramente molto grande e Dora si chiese se si sarebbe lasciato montare senza discutere.
Cercò di afferrare le briglie ma il cavallo si sottrasse sollevando il muso ed emettendo un suono dalle nari che la spaventò.
- Oh! Non fare scherzi, sai? Non ti faccio niente! Sei già sellato, che male c’è se ti cavalco?
Dora si fece ancora sotto tendendo la mano per afferrare le briglie che pendevano dal muso, ma il cavallo se la prese a male e scartò ancora per sottrarsi.
- Ma chi credi di essere? Vieni qui e lasciati montare!
Il cavallo le mostrò i denti e brontolò ancora, piano.
- Mi prendi per il culo? Chi ti ha insegnato queste cose?
- Io.
La voce alle sue spalle la fece voltare di scatto. Una figura scura stava in piedi vicino al tronco dov’era seduta un minuto prima e le puntava contro un fucile.
- Non ti muovere! - le intimò bruscamente l’uomo - metti le mani in alto, non fiatare, non fare magie: se vedo qualcosa che non capisco, tu muori.
Dora si morse il labbro inferiore dandosi della stupida e fece come le era stato detto. Si sentiva una perfetta cretina.
- Chi sei? - chiese all’uomo.
- È giusto che tu sappia che il mio nome è Kail di Trondaim e Nejira. Sono meglio noto come Kail dei Basran. E tu chi saresti?
- Io sono Dora.
- E poi?
- E basta! Cosa te ne frega?
- Che nome strano.
- Senti chi parla - replicò Dora pronta. Se non fosse stato per quell’arma spianata, lo avrebbe già picchiato, quello spaccone. Anche se era molto più alto di lei.
- Sai di essere ricercata? - disse lui avvicinandosi di qualche passo e frapponendosi fra Dora e gli spadoni, ancora appoggiati al tronco abbattuto.
- Eh?
- Proprio così. Cinquecento monete per la tua cattura.
- Oh, cazzo! Ci mancava il cacciatore di taglie!
- Tieni le mani in alto! - gridò lui imbracciando meglio il fucile. Dora che aveva osato muoversi, si congelò. A guardarla così da vicino, quell’arma da fuoco pareva tutt’altro che primitiva: non molto bella a vedersi ma dotata di un caricatore estraibile per le munizioni e probabilmente era anche in grado di far fuoco a raffica. Il calibro del foro della canna poi non la faceva stare affatto tranquilla.
- Non volevo rubarti il cavallo. Non sapevo fosse tuo.
- Sì, lo so. Sono stato io a mandarlo da te.
- Ma smettila!
L’uomo barbuto fischiò sonoramente e il cavallo trotterellò al suo fianco. Dora era stupita: come se sapesse cosa stava accadendo, il cavallo non si era mai frapposto lungo la linea di mira dell’arma del cacciatore di taglie. Poi questi prese un pesante oggetto di metallo scuro da una delle borse appese alla sella del suo cavallo: erano due cilindri accoppiati tra di loro parallelamente e lo spessore del metallo faceva impressione.
- Adesso girati e avvicinati a me camminando all’indietro, lentamente e senza voltare la testa.
Dora non poté fare altro che obbedire. L’uomo poi le ordinò di fermarsi e di mettere le mani dietro la schiena. Anche stavolta obbedì malvolentieri, pensando a come uscire da quella scomoda situazione. Poi all’improvviso sentì intorno alla mano destra il freddo del metallo salire fino a metà avambraccio. Qualcosa si chiuse con uno scatto intorno al suo polso e si trovò a dover sostenere un gran peso. In fretta la mano guantata dell’uomo le afferrò anche l’altro braccio e lo costrinse anch’esso in una morsa identica e Dora si trovò immobilizzata, le braccia costrette dietro la schiena, impotente e indifesa.
- Non ti agitare troppo, se vuoi un consiglio - le disse il cacciatore di taglie.
Dora non gli diede retta e si voltò verso di lui, che si era portato a distanza di sicurezza. Dora, conscia di avere in quel mondo una forza tale da sradicare alberi, cercò di impiegarla tutta per infrangere i ceppi, ma senza successo. Si sforzò fino a quando i muscoli le sembrarono sul punto di scoppiare, ma non ottenne il minimo risultato. O quei ceppi non erano di un metallo qualsiasi, o non aveva più la potenza che credeva, così come prima non era stata in grado di materializzare un veicolo.
- Senti: se stai buona ti metto in sella, altrimenti seguirai a piedi, chiaro?
Dora lo guardò malissimo, furiosa: gli avrebbe picchiato in testa quei pesantissimi ceppi per fargli uscire il cervello dalle orecchie con un sol colpo, ma si limitò a digrignare i denti. Kail la sollevò con facilità e la issò in sella, e poi salì a sua volta. Con la lingua emise un verso e il cavallo si mise in movimento.
Dora, furiosa per essersi fatta fregare, stava in silenzio cercando il modo per rimediare la situazione. Le venne in mente un film visto pochi giorni prima: la protagonista riusciva spogliandosi a distrarre il cattivo di turno che la minacciava; non credeva che avrebbe funzionato con lei, un po' perché era già mezza nuda, un po' perché quello non era un film scemo come quello dell’altro giorno. Poi con le mani dietro la schiena sarebbe stato meglio non indurre in tentazione il suo carceriere: sarebbe riuscita solo a essere vittima dei suoi appetiti dopo averli stuzzicati lei stessa, senza guadagnarci nulla se non uno stupro.
Rimase quindi in silenzio. Come Kail, che non aveva più aperto bocca da quando era montato a cavallo con lei. Il viaggio durò un bel po' e lei cominciava a sentire freddo. A giudicare da com’era imbacuccato l’uomo doveva essere pieno inverno da quelle parti: la foschia era diventata nebbia fitta ma lei non stava tanto male, non aveva più freddo di quando uscita dalla calca del Tubo si infilava in qualche locale con l’aria condizionata accesa. Si chiese come potesse orientarsi il cacciatore di taglie in mezzo a quella nebbia fittissima, di cui lei aveva appreso solo dai noiosi olodischi dell’archivio storico che a scuola le avevano imposto di guardare almeno una volta. Starci dentro era tutto diverso da guardarla da fuori: non poteva vedere che pochi metri di terreno intorno al cavallo, che procedeva al passo: oltre, lo sguardo non riusciva a penetrare nel modo più assoluto.
D’un tratto il cacciatore di taglie arrestò il cavallo senza motivo apparente. Poi urlò una specie di richiamo.
Con grande sorpresa di Dora, nella nebbia si aprì un rettangolino giallo, offuscato, ma in esso fu possibile distinguere una scura sagoma umana. Questa a sua volta gridò qualcosa, un grido che arrivò troppo debole e ovattato per essere intelligibile. Però Kail rispose con un altro grido simile al primo. Al che la sagoma lontana alzò il braccio facendo cenno di avvicinarsi. Il cavallo, spronato dal padrone con lo schioccare della lingua, ricominciò ad avanzare piano in direzione della sagoma, ancora ferma dentro il rettangolo di luce gialla. Avvicinandosi, intorno a quella sagoma umana ne emerse un’altra molto più grande e scura: un edificio basso e lungo, completamente buio.
- Cerco rifugio, nobile Cambler - disse Kail.
- Chi sei? Come sai il mio nome?
- Sono già stato tuo cliente. Ho ancora monete per te - rispose Kail avvicinandosi ulteriormente per essere riconosciuto.
- Sei tu, straniero? Entra pure, ti offro il rifugio che cerchi. Mio figlio condurrà il tuo cavallo alla stalla, se vuoi.
Ma dove mi ha portata questo, si chiese Dora.
- Grazie, ma preferisco fare da me. Hai una catena robusta, Cambler?
L’uomo chiamato Cambler era ora molto vicino: un tipo molto robusto, con la pancia che sporgeva a indicare quanto se la passasse bene.
- Hai trovato compagnia - commentò l’oste vedendo Dora dietro la schiena del cacciatore di taglie. Ma questi scese dalla sella e ripeté la domanda.
- Hai una catena che sia molto forte?
Dora vide Cambler trasalire e cambiare radicalmente espressione. Teneva gli occhi fissi su di lei come se avesse visto un fantasma. Kail aveva iniziato a tirare il cavallo per il morso e l’oste, riprendendosi dallo sconforto in cui era precipitato lo rincorse.
- Straniero, tu mi porti sciagure! Quella è… - cominciò spaventato.
- Ecco perché ti chiedevo la catena - troncò subito Kail.
- Ma è… - riprese l’oste, inutilmente.
- Robusta, mi raccomando.
L’oste, sconfitto, allungò il passo per precedere il cavallo e cominciò a gridare:
- Nottle! Nottle! Cerca una catena, prendi la più forte che trovi!
Dora, sempre in sella al cavallo, fu condotta in una stalla, parte dell’edificio che era possibile scorgere come una sagoma scura nella nebbia. Dentro c’erano altri due cavalli e un bel giovane, muscoloso come un lottatore. Tra le mani aveva qualche metro di una pesante catena che porse all’oste, il quale a sua volta la mostrò a Kail, che disse che andava quasi bene. Poi il cacciatore di taglie afferrò Dora per un braccio e per il cinturone e la tirò giù da cavallo. Trattandola un po' rudemente la mise con le spalle contro un grosso sostegno verticale, un tronco d’albero levigato che aveva infissi a diverse altezze occhielli con anelli di metallo. Dora lo guardò bene prima che Kail le facesse appoggiare la schiena contro di esso: con la sua forza aveva sradicato per prova alberi più grandi ma su quel tronco posava il tetto dell’edificio. Se lo avesse abbattuto, le sarebbe crollato tutto sulla testa e non era certa che fosse proprio quello che desiderava: la prova dell’immortalità aveva deciso di rimandarla molto avanti nel futuro.
Come era immaginabile, il cacciatore di taglie usò la grossa catena per legarla al tronco che sosteneva il tetto, usando due strani congegni di metallo massiccio per bloccare la catena. Questi aggeggi si chiusero scattando su due coppie di anelli della catena e a guardarli non pareva che si potessero aprire facilmente.
- Attento, Cambler: dillo anche a tuo figlio. Questa donna è molto pericolosa, non avvicinarti mai. Può fare cose che nemmeno ti immagini, può sembrare quello che non è. Non la guardare, non la ascoltare!
- Non c’è bisogno che tu lo dica: se può fare la metà delle cose che dicono abbia fatto…
- Andiamo a mangiare, ora: ho fame.
I tre se ne andarono lasciando Dora sola con i tre cavalli e una sola lampada accesa. Non appena la porta di legno si fu chiusa, provò di nuovo a rompere i pesanti ceppi fissati intorno ai suoi polsi, così grandi che le arrivavano a metà avambraccio e chiudevano completamente le mani al loro interno. Mise nelle proprie braccia tutta la forza di cui era capace, tese i muscoli fino a provare dolore, ma non successe niente: neanche uno scricchiolio, un minimo segno di cedimento. Niente. Torse la testa all’indietro fino a scorgere la catena: non doveva essere difficile per lei riuscire a spezzarla, ma per farlo avrebbe dovuto tirare e rischiava che gli anelli fossero più forti del sostegno a cui era stata legata. Rischiava di tirarsi addosso tutto il tetto. Non le restava che attendere un’occasione più propizia, e si lasciò scivolare a terra fino a potersi sedere.

Si accorse di essersi appisolata solo quando il rumore della porta grande della stalla la ridestò dal sonno leggero e tormentato. Dalla porta entrò il giovane dai muscoli sviluppati: portava un bue bianco per il morso e aggiogato al bue c’era un carro a due ruote. Dora piantò i propri occhi in quelli del ragazzo che però li distolse subito. Lo guardò mentre scioglieva dai finimenti il grosso bue dalle corna ritorte e lo accudiva, accarezzandone il manto e dandogli da mangiare. Inutilmente Dora tentò di accattivarsi le simpatie del ragazzo rivolgendosi a lui con tono dolce e allegro, come se non avesse numerosi chili di metallo che la tenevano saldamente loro prigioniera. Il giovane robusto e attraente però non la degnò di uno sguardo più del necessario e, come se fosse sordo, ignorò completamente tutti gli sforzi che la ragazza fece per socializzare; quando ebbe finito se ne andò dalla porta piccola, senza fiatare.
Dopo pochi minuti sentì ancora tramestio dietro quella porta, che dava probabilmente sul resto dell’edificio; comparve di nuovo l’oste, accompagnato da un tale con abiti di foggia diversa da quelli del cacciatore di taglie e dello stesso oste. Abiti che le parve di aver già visto, da qualche parte.
- Eccola, come tu l’hai descritta, Gambrath - disse l’oste indicandola, mantenendo una rispettosa distanza.
- Per Elzer! È lei!
Dora guardò meglio il nuovo venuto che affermava di conoscerla. Non si ricordava proprio né dove né come, ma pareva che si fossero già incontrati.
- L’ho riconosciuta subito quando l’ho vista. L’hai descritta davvero efficacemente - disse Cambler, non osando seguire Gambrath che si stava avvicinando.
Questi diede uno sguardo alle catene e ai ceppi che bloccavano le braccia di Dora e si voltò verso l’oste.
- E tu dici che è stata catturata dallo straniero laggiù? Invero questa è la guerriera più temibile che mi sia capitato di incontrare. Dove sono le sue armi?
- Non aveva armi quando è arrivata.
- Peccato - si rammaricò Gambrath, che già cercava di dare un prezzo al potente fucile che con un solo colpo aveva ucciso a più di cento passi di distanza l’uomo lucertola che fuggiva a cavallo.
Dora si ricordò all’improvviso dove aveva già visto quegli abiti.
- Tu sei… sei quello che ho salvato da quei tre… in quel giorno di pioggia…
- Sono io - disse il mercante quasi contento che la guerriera si ricordasse di lui.
- Quello che è scappato via senza nemmeno dire grazie per aver avuto salva la vita! - gli rinfacciò Dora.
- Come sarebbe? Come potevo sapere quali fossero le tue intenzioni? Chi mi garantiva che non stavo per cadere vittima di un predatore più grosso di quello che già mi stringeva tra le fauci? - si difese Gambrath.
- Non te lo sei nemmeno chiesto, vigliacco! Sei scappato così in fretta che non ho potuto nemmeno rincorrerti!
- Mi sembra inutile insistere su questo argomento - troncò Gambrath imbarazzato - e poi ora se giaci in catene, vuol dire che non sei certo un esempio di correttezza e rettitudine.
- Sì, sì… parlane con quel coglione che ha messo una taglia sulla mia testa.
- Quale taglia? - si stupì Cambler.
- Una taglia! - gli fece eco Gambrath.
- La mia taglia.
La voce dura e decisa li fece voltare entrambi. Kail era comparso sulla soglia e li guardava entrambi, le braccia incrociate sul petto.
- Oh, straniero! Non crederai che… - cominciò Cambler.
- Non mettete alla prova la mia pazienza, potreste scoprire che non ne ho. Soprattutto tu, mercante: hai già incontrato quella guerriera una volta e sai di cosa è capace, quindi stanne lontano. È mia prigioniera ora, e se pensate di poter fare quello che io credo, potreste non vedere mai quelle monete, né altre.
Ciò detto, si voltò e se ne andò. Cambler, bianco in volto per la minaccia solo parzialmente espressa, pensava che forse, qualsiasi fosse la ricompensa, non valeva veramente la pena di rischiare. Eppure le parole della guerriera dalla pelle disegnata erano parse sincere.
- Vieni, Gambrath; andiamo via anche noi, prima che accada qualcosa di spiacevole.
I due se ne andarono da dove erano venuti e Dora rimase di nuovo sola.

Gambrath andò dritto al tavolo dove l’uomo barbuto che aveva incontrato per la prima volta insieme a Rambel’ Marè stava bevendo con l’intenzione di chiedergli i motivi della taglia: aveva sempre più forte il sospetto che la guerriera non fosse cattiva come si diceva in giro. Si era sempre chiesto infatti come mai, se era vero che compariva fulminea per sterminare tutti quelli che incontrava sulla sua strada, non lo avesse colto a distanza con un proiettile come aveva fatto col rettile che lo aveva aggredito. Ma Kail non lo lasciò neanche cominciare.
- Basta! - disse sbattendo la coppa di legno scuro sul tavolo, versando un po' di vino - Ho parlato abbastanza per oggi, non mi seccare ancora!
Ciò detto si alzò e chiesto il permesso a Cambler, andò a occupare una stanza al piano di sopra.

Il mattino dopo il mercante stava facendo colazione assieme agli altri ospiti di Cambler, incluso il taciturno cacciatore di taglie, cogliendo l’occasione per raccontare come con l’arte del commercio nei due giorni e mezzo trascorsi a Bel’ee avesse moltiplicato l’ultima moneta rimastagli, quando qualcuno fuori gridò a gran voce il suo nome, facendolo trasalire.
Cambler scostò un poco le imposte di una delle finestre e gli comunicò la triste novità.
- Non posso essere sicuro, ma sembra il centurione Skon con molti dei suoi.
Di nuovo la voce che chiamava Gambrath, forte e potente.
- E questa è la sua voce - commentò tetro il mercante.
- Non uscire! - gridò uno dei clienti, ma troppo tardi. Cambler aveva già aperto la porta.
- Chi sei? - gridò con voce un po' tremante rivolto ai soldati. Rabbrividì: erano radunati intorno a un albero a poca distanza da lì ed avevano già preparato una forca, il cui orrendo cappio penzolava da uno dei grossi rami.
- Sono il centurione Skon! Sono venuto a terminare un lavoro che ho iniziato qualche tempo fa! Dì a Gambrath il mercante che non si sfugge alle condanne del centurione Skon. È scampato una volta a Taliba, ma non ci riuscirà ancora!
- Qui la legge di Taliba non conta, centurione! - si difese l’oste.
- Dì a Gambrath che se non viene fuori da solo, verremo noi a prenderlo! Con la forza! Taglierò di persona la gola a tutti coloro che troverò sulla mia strada, oste; poi potrai protestare con chi vorrai, come dice la legge!
La conversazione si concluse con una risata sguaiata del centurione, che sfoderò un fucile. Cambler si ritirò dentro la stazione di posta e riferì ogni parola. Gambrath, pallido, guardò uno a uno i volti dei presenti, traendo da molti sinistri presagi per sé.
- Non… lascerete che mi impicchi, vero?
Gambrath non ottenne risposta.
- Sentite, la salvezza è a portata di mano! - disse poi illuminandosi - La vera colpevole della morte del centurione Made è di là, legata nella stalla! Spieghiamo tutto al centurione Skon, che se la prenda e risparmi la nostra vita!
- La tua vita terminerà subito se oserai mettere in pratica quanto dici - gli rispose tetro Kail, per nulla intenzionato a vedersi portar via le numerose monete della taglia.
- Non possiamo stare senza fare nulla! Verranno qui e ci uccideranno tutti! - si lamentò uno degli avventori!
- Non sarò la vittima di nessuno.
Con queste parole Gambrath si avvicinò a Kail e lo guardò negli occhi, con un coraggio di cui ignorava la provenienza.
- Ti faccio un’ultima proposta: combattiamo i soldati, difendiamoci con le armi.
- Il problema è tuo, non mio - fu la dura risposta del cacciatore di taglie.
In quel momento una secca esplosione spaventò tutti. Schegge di legno volarono via dall’imposta di una delle finestre, perforata da un proiettile.
- Per Elzer! Sparano!
Si chinarono tutti per evitare di essere colpiti. Kail si avvicinò a testa bassa alla finestra e scostò un poco le imposte per vedere fuori.
- Quanti soldati hai visto quando sei uscito, oste?
- Non lo so…
- Quanti? Dieci? Venti? Cento? - la voce forte e dura echeggiò nel silenzio.
- U… una trentina, credo.
- Bene. Non ne vedo neanche uno. Quanti di voi hanno armi?
Nessuno rispose.
- Trenta contro uno. Non è così che desideravo morire - disse Kail imbracciando la sua arma. Improvvisamente una tempesta di proiettili si abbatté sulla parete esterna, che Cambler aveva edificato con solide pietre. Diversi proiettili trapassarono la porta di legno e le imposte penetrando all’interno con le traiettorie più bizzarre.
- A terra! - gridò Kail, tenendosi lontano dalla finestra, con le spalle alla parete. Il fuoco cessò quasi subito, ma era stato tremendo.
- Ci massacreranno!
- Silenzio! - disse Kail.
Con gran fracasso la porta d’ingresso si aprì e sulla soglia comparve un soldato armato di fucile. Fulmineo, il cacciatore di taglie lo freddò con un solo colpo della sua arma. Poi con un balzo felino fu presso la porta e la richiuse, assicurandosi che l’arma del soldato fosse caduta all’interno.
- Chi di voi sa sparare?
Nessuna risposta anche stavolta.
- Mercante, difenditi - disse raccogliendo il fucile e lanciandolo verso Gambrath che se ne stava sdraiato sul pavimento sotto un tavolo. L’arma atterrò con fracasso e Gambrath la raccolse, inebetito.
- Avanti! Mettti a quella finestra e spara un colpo ogni tanto, cercando di mirare se ti riesce! E voi, frugate il soldato e prendetegli le altre munizioni!
Poi si diresse verso la porta che dava sulla stalla.
- Dove vai? - gli chiese Gambrath preoccupato, ma Kail non rispose.

Dora, già sveglia da tempo, fu messa in allarme dal primo colpo d’arma da fuoco. Non c’era dubbio, era stato sparato da fuori, da lontano. Sentendosi in trappola si agitò cercando nuovamente di liberarsi dei grossi e pesantissimi ceppi che le imprigionavano le braccia, lasciando come soluzione estrema quella di tentare di strappare tutto tirando la catena, a costo di tirarsi addosso il tetto.
La breve scarica di fucileria la mise addirittura in fibrillazione, facendo diventare frenetici quanto vani tutti i suoi sforzi per liberarsi. Dopo meno di un minuto la piccola porta si aprì e comparve il suo aguzzino.
- Che cazzo sta succedendo? - gli chiese bruscamente.
- Trenta soldati qui intorno e ce l’hanno con noi.
- E cosa conti di fare?
- Difendermi.
- E io?
Kail parve esitare. Poi, inspirato a fondo come se avesse preso una decisione tormentata assumendosi una gravissima responsabilità, girò alle sue spalle.
- Anche tu.
Dora sentì con grande piacere le serrature che scattavano e la catena cadere tintinnando pesantemente per terra. E fu ancora più contenta quando finalmente anche la pressione ai polsi sparì con uno scatto meccanico e le sue braccia parvero rivivere liberate dal peso che le opprimeva. Uno sparo secco, vicinissimo, molto forte la fece sobbalzare.
- Non farmi scherzi strani, guerriera a strisce: prima ci liberiamo dei soldati, d’accordo?
- E quando abbiamo finito vediamo chi finisce legato - disse Dora, ancora sotto la minaccia del fucile di Kail.
- D’accordo? - ripeté Kail, esitante. Sul suo viso era leggibile la preoccupazione per quello che aveva appena fatto.
- D’accordo - disse Dora a denti stretti - ti ammazzerò dopo.
- Adesso armati: occupiamoci dei soldati, insieme sarà più facile.
Dora non se lo fece dire due volte: pensò a qualcosa di risolutivo e le comparve tra le mani un lanciagranate a tamburo.
- Aprimi la porta grande - disse a Kail.
- Non si vede nessuno! - obiettò il cacciatore di taglie.
- Non discutere, fallo!
Mentre Kail apriva la porta della stalla, Dora tenendosi all’ombra cominciò a sparare una granata dietro l’altra. La carica di lancio emetteva un sommesso tonfo metallico quando lei premeva il grilletto, tenendo la canna corta puntata in alto. Quando la prima granata esplose a contatto col suolo, a quasi duecento metri di distanza, la violenta esplosione, immediatamente seguita dalle altre tutto intorno, gettò nel panico sia i soldati di Skon che Kail e gli altri asserragliati. Sparando alla cieca non fece vittime, ma Kail, ripresosi dalla sorpresa, poté esplodere contro i soldati che fuggivano terrorizzati diversi colpi che andarono invece a segno.
- Via! - gridò Dora lanciando lontano l’arma ormai scarica che scomparve nel nulla ancora prima di toccare il pavimento della stalla. I due si misero al riparo: Dora con una nuova arma tra le mani, Kail ricaricando la sua. Quando ebbe finito, salì su una scala che lo portò sul soppalco dove il figlio dell’oste immagazzinava le balle di fieno e la paglia per gli animali. Dora, capita e approvata l’idea, lo imitò subito. Cercarono di raggiungere il soffitto per smuovere alcune tegole e salire sul tetto, ma questo era troppo alto. Aiutandosi con delle balle di paglia, che avevano forma più o meno regolare, riuscirono nell’impresa e furono sul tetto.
I soldati di Skon, quelli che non erano stati spaventati dalle esplosioni delle granate, erano evidenti come mosche su un telo bianco mentre tentavano una manovra di accerchiamento. Per i due fu facile, l’una sparando a raffica e l’altro mirando con cura per non sbagliare, falciare i soldati che nella pianura non trovavano efficace riparo se non dietro qualche raro albero. Dell’imponente Skon nessuna traccia.
Dora sparò fino a vuotare il caricatore del suo fucile senza rinculo e quando smise non vedeva più nulla muoversi. La risposta al suo fuoco era stata nulla: forse che i soldati avevano già esaurito le munizioni? Kail scese di nuovo nella stalla e lei decise di imitarlo. Muovendosi con cautela l’una dietro l’altro, si diressero attraverso la porta piccola della stalla. Qui una triste sorpresa li attendeva: da sotto i tavoli, con occhi pieni di terrore ed incapaci di parlare per la paura, gli avventori di Cambler quando riconobbero Kail indicarono la porta di ingresso, che ancora si muoveva per la spinta che aveva ricevuto.
Kail fu il più svelto a balzare fuori: poche decine di passi davanti a lui c’era il centurione Skon che con un braccio teneva stretto al suo corpo il povero Gambrath che aveva perfino rinunciato a divincolarsi, nonostante il gigante lo stesse trascinando verso la forca. Il centurione si accorse di essere seguito e si voltò, esplodendo l’ultimo colpo della sua arma contro Kail, che cadde colpito in pieno.
- No! - gridò Dora che afferrò l’accaduto solo dopo che vide cadere Kail davanti a sé.
Gambrath alla vista di Dora riprese a divincolarsi e a gridare.
- Eccola! È lei! È stata lei a uccidere tuo fratello! Lei l’ha ucciso!
L’espressione feroce di Skon mutò in perplessità per un solo secondo. Dora capì in ritardo ancora una volta e fermò il centurione un attimo prima che torcesse il collo al mercante.
- Tu sei il fratello di quel bestione che ho ammazzato come un cane l’altra volta?
Il centurione ruggì di rabbia: si sbarazzò del suo ostaggio spintonandolo via senza fargli niente e menò un fendente con la scure bipenne così velocemente che Dora si spaventò, non riuscendo a capire da dove arrivasse quell’arma. Parò il colpo come meglio poté usando il fucile, che andò in pezzi.
Dora fece una piroetta all’indietro e si armò dei suoi due spadoni preferiti, tanto pesanti che normalmente nel suo mondo non sarebbe riuscita a sollevarne uno solo nemmeno usando due mani. Il centurione che prometteva di essere veloce quanto il fratello e furioso almeno il doppio fintò un attacco con la scure per saggiare nuovamente la reazione di Dora; questa non si fece cogliere di sorpresa, sapendo per esperienza acquisita che la grande mole di quell’uomo non voleva affatto dire che fosse lento nei movimenti. I due si studiarono ancora per qualche secondo, poi Dora scattò fulminea e sferrò un tremendo calcio al volo al viso del centurione, saltando da ferma. Il centurione non doveva aver affatto contemplato quella tra le mosse possibili e si prese il calcio in pieno viso; a parte il sangue che cominciò a colare a rivoli dal naso e dalle labbra rotte, non parve subire altro tipo di danno.
Sicura che quel colpo l’avrebbe steso, lei non si era preoccupata di pensare a un altro attacco e quando vide il centurione ancora in piedi davanti a lei, pericolosamente vicino, il cuore le saltò in gola. Non fece in tempo a correggere l’errore: scansò un fendente poco convinto ma dovette incassare in pieno stomaco una potente ginocchiata che le fece vedere le stelle. Non era la prima volta che veniva colpita durante un combattimento, ma sicuramente era la prima volta che provava dolore davvero. I polmoni faticavano a riempirsi nuovamente di aria e la vista restò appannata un momento di troppo. Caduta a terra, rotolò per istinto e così la lama della scure bipenne non le tranciò di netto un braccio ma le tagliò profondamente il deltoide della spalla facendola gridare dal dolore. Rotolò ancora una volta e poi si tirò in piedi, cercando di ignorare il sangue che poteva sentire distintamente mentre colava caldo e abbondante da far paura dalla spalla sinistra fino alla mano, ancora stretta sulla grande spada. E proprio dal lato sinistro arrivò l’attacco seguente: un fendente orizzontale che non poteva essere fermato o deviato. Lei lo scansò per un pelo: con la pelle del ventre percepì lo spostamento d’aria che la lama aveva causato sibilando vicino a lei. La scure volteggiò da una mano all’altra e di nuovo il centurione, sicuro di sé e della sua forza, portò un altro attacco, simile al primo e ancora più violento. Di nuovo lei si difese retrocedendo di fronte alla velocità e alla potenza impresse alla scure. Con un tuffo al cuore la schiena di Dora incontrò la parete della stazione di posta: non poteva più difendersi ritirandosi.
Il centurione allargò un sorriso sporco di sangue e si apprestò a menare un altro fendente, quello definitivo. Quello fu il segnale per Dora: impugnate le spade in modo che colpissero di taglio, piroettò su se stessa verso l’avversario, divorando in un batter d’occhio la distanza che li separava e mise tutta la sua forza nella lama che impugnava con la destra. Eseguì l’attacco così rapidamente che il centurione Skon non gridò fino a quando, abbassando lo sguardo, vide la lama larga quasi un palmo che era affondata per tutta la lunghezza del taglio nel suo muscoloso ventre, tranciando tutto quello che aveva incontrato sulla sua strada: metallo, cuoio, carne. Il suo grido cominciò forte come un tuono ma si strozzò subito: cadde all’indietro, le mani sulla lama nemica, le ginocchia piegate e i gomiti puntati come se volesse rialzarsi. Ma i muscoli del ventre, recisi di netto, non obbedivano più e sotto la schiena del centurione la terra gelida e dura divenne scura del suo sangue. Skon però non voleva morire: vomitava sangue e non riusciva a sostenersi, ma le sue mani continuavano a raspare il terreno alla ricerca di chissà che cosa, il torso continuava ad alzarsi e abbassarsi nel tremendo sforzo di respirare per tenere ancora vivo quel corpo ferito a morte.
Allora Dora tolse la mano destra dalla propria ferita e la strinse, sporca del proprio sangue, sull’impugnatura della grande scure a doppio taglio del centurione e la sollevò da terra. Camminò fino al centurione morente e si mise in piedi tra le sue gambe divaricate, immobili: lo guardò per un attimo e poi fece roteare la pesante arma del nemico e gliela affondò con grande forza nel centro del torace, che si spezzò con uno schiocco. La lama trapassò la corazza di cuoio e metallo ed entrò nel petto del gigante, raggiunse il cuore e lo spaccò in due; un fiotto di sangue rosso zampillò per un attimo lungo il metallo della lama, poi più niente.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 10
10.

Il mercante guardò ancora la ferita della guerriera dal corpo coperto di segni neri e scosse la testa. Non appena lei sollevava la mano, la ferita ricominciava a sanguinare abbondantemente. Dora, seduta su di un tavolo all’interno della stazione di posta, stringeva i denti per non mostrarsi spaventata, ma in realtà avrebbe urlato per dolore e per la paura: temeva di morire dissanguata. Il suo corpo infatti era sporco sia del sangue del centurione che le era schizzato addosso, ma soprattutto del suo che colava dappertutto e si raggrumava diventando scuro e appiccicoso.
- Ma dov’è andata Lerea? - bisbigliò a denti stretti. La schiava era uscita dicendo che poteva curare la ferita della guerriera con un rimedio, ma non era ancora rientrata.
- Ha detto che aveva bisogno di raccogliere qualcosa fuori - commentò Cambler - lasciamola fare. Hai visto com’è migliorata Rama in soli tre giorni delle sue cure?
- Davvero? Come sta? - si meravigliò il mercante.
- Sta molto meglio: mangia, parla, cammina. Si stanca presto, ma le ferite stanno guarendo in fretta. Merito di Lerea, ti dico.
- Speriamo bene… - bisbigliò Dora. Il dolore le stava causando una forte nausea e deboli capogiri.
Lerea non tardò molto. Quando entrò chiese con autorità il mortaio e il pestello di bronzo che Cambler custodiva gelosamente: lo usava per preparare le erbe della ricetta segreta con cui aromatizzava i vini che comprava a Bel’ee. Avutolo, non senza qualche ritrosia da parte dell’oste, si mise a tritare e a pestare alcuni ingredienti tolti dalla dispensa insieme a quelli che aveva raccolto fuori, producendo un ritmato rumore metallico. Dora la seguì sospettosa: non riconobbe nulla di quello che finì dentro il mortaio, sperava solo che quella ragazza sapesse quello che stava facendo e che finisse alla svelta.
Infine, dopo che ebbe pestato a lungo correggendo con attenzione i dosaggi e assaggiando di tanto in tanto il risultato, la ragazza sollevò un lembo del proprio vestito di veli e ci versò sopra il contenuto del mortaio di bronzo. Poi vi chiuse la pappa scura che aveva ottenuto e la strizzò con forza sopra un bicchiere di coccio, ottenendo un liquido scuro. Rimise la pappa dentro il mortaio, allungò quel poco liquido che era riuscita a filtrare con dell’acqua e andò da Dora. Questa guardò con sospetto il bicchiere che la prosperosa ragazza le porgeva, poi la grande macchia scura che le era rimasta sul vestito, poi di nuovo il bicchiere.
- Che cosa sarebbe? - chiese stando sul chi va là.
- Il rimedio, signora. Lo beva tutto: quando sente la bocca diventare amara, sputi tre volte sulla mia mano.
Dora cercò di convincersi di non avere scelta e, staccata con cautela la destra dalla ferita che si era appiccicata per via del sangue coagulato, afferrò il bicchiere e bevve rapidamente: la ferita inferta dal centurione aveva ricominciato a sanguinare più rapidamente.
La bevanda diluita aveva un vago sapore di carota, pungeva il palato e la lingua, ma non era amaro e neanche tanto sgradevole. Non appena ebbe deglutito anche l’ultimo sorso, il sapore rimasto in bocca cominciò a cambiare, dandole una sgradevole sensazione ai denti. Il sapore stava diventando decisamente amaro e la salivazione aumentò.
- È amaro, signora? - chiese Lerea interpretando l’espressione di disgusto che si dipinse sulla faccia della guerriera, nonostante i segni neri che la incupivano.
- Bleah… - fu la risposta. Dora avrebbe voluto deglutire, ma non ne ebbe il coraggio.
- Sputi sulla mia mano. Tre volte - le disse la ragazza che le aveva preparato quella porcheria, stendendo una mano col palmo verso l’alto. Dora ubbidì e si stupì di quanto rapidamente riusciva a produrre quella schifosa saliva verde.
Poi con l’altra mano la ragazza tolse la destra di Dora dalla ferita e ci appoggiò con decisione il palmo su cui Dora aveva sputato. Colta di sorpresa, non riuscì a trattenere un grido di dolore quando la ragazza compresse fortemente la ferita mischiando sangue e saliva. Inarcò la schiena e con la destra cercò di staccare la mano della ragazza dalla sua spalla. Questa reagì abbracciandola fortemente e impedendole i movimenti.
- Mollami, cazzo! Mi fai male!
- No, signora! Bisogna attendere che il rimedio faccia effetto! - si giustificò Lerea.
La ragazza le rimase attaccata addosso per qualche minuto: il dolore al braccio era tornato a un livello sopportabile e Dora aveva perfino ricacciato indietro le lacrime che avevano dolorosamente tentato di sgorgare dagli occhi.
- Va bene - disse infine Lerea allontanandosi da Dora, dopo aver sollevato con cautela la propria mano, rossa di sangue fresco, dalla ferita - Non lavi la ferita per sette giorni, poi la lavi spesso per nove giorni con acqua limpida. Più di così non so fare.
Lerea si allontanò senza aggiungere altro. Tutti guardavano stupiti la ferita slabbrata che non sanguinava più.
- Porca puttana… - commentò Dora dando un’occhiata. Saltò giù dal tavolo facendo attenzione a non muovere il braccio ferito e si dette un’occhiata intorno: aveva gli occhi di tutti su di sé. Cominciava a sentirsi davvero debole.
- Di chi è il carro che c’è nella stalla? - chiese.
Gambrath esitò un attimo, poi rispose balbettando.
- Dammi uno strappo fino al Varco... ho voglia di tornarmene a casa a farmi vedere da un dottore vero.
- Non vorrai andartene adesso, vero? - osò Cambler. Dora gli rivolse uno sguardo truce.
- Perché?
- Altri soldati verranno non vedendo tornare il centurione che tu hai ucciso. Uccideranno e devasteranno quando vedranno il suo cadavere!
- Seppellitelo, no? - suggerì Dora con un po' di stizza nella voce.
- Nobile guerriera - continuò Cambler - i soldati non si fermeranno davanti a delle tombe. E se nasconderemo i corpi, la terra gelata conserverà le tracce della battaglia molto a lungo. Sarà impossibile sostenere che qui non è accaduto nulla!
- Ma perché dovrebbero prendersela con voi? Dite che è stato Kail, tanto è morto pure lui.
- Tu non conosci i soldati della guarnigione di Taliba, nobile guerriera. Essi depredano, violentano, uccidono e distruggono anche senza motivo. La vista di questa carneficina li farà andare su tutte le furie! - rincarò la dose Gambrath.
- E che cazzo dovrei fare? Ammazzarli tutti io per prima? - disse Dora arrabbiandosi. Ora la parte della guerriera invincibile le stava un po' stretta.
- Non sta a noi dirlo - disse Cambler. Altro era sottinteso nelle sue parole.
- Ma andate a cagare! Tu, col carro: accompagnami fino al Varco. Andiamo!
Dora si diresse con passo spedito verso la porticina, rimasta aperta, che metteva in comunicazione con la stalla. Era seguita dal timoroso Gambrath, che non aveva osato contraddirla.
Non appena dentro la stalla, Dora si accorse che c’era qualcosa che non andava. Uno dei cavalli mancava e, se la memoria non l’ingannava, proprio quello di Kail. Inoltre i ceppi che l’avevano tenuta prigioniera erano scomparsi. Sopra la sua testa sentiva frusciare il fieno legato in balle, segno che il bel figliolo dell’oste era già tornato al lavoro: si rivolse a lui.
- Chi ha preso il cavallo che manca? - disse al ragazzo che aveva già chiuso il buco nel tetto. Questi interruppe il suo lavoro, la guardò per qualche secondo e poi allargò le forti braccia.
- Tu ne sai qualcosa? - disse rivolta a Gambrath. Questi negò energicamente.
Dora allora uscì dalla porta grande della stalla per vedere se forse il cavallo, legato male, fosse scappato spaventato dai rumori del combattimento. Ma fuori non c’era nessun cavallo: non si vedevano nemmeno quelli dei soldati, che non erano certo arrivati a piedi. Pensò che uno di loro fosse sopravvissuto e che avesse rubato il cavallo di Kail per fuggire. In tal caso la possibilità che arrivassero davvero i rinforzi si facevano più elevate. Volse lo sguardo tutto i ntorno per cercare di distinguere qualcosa: la giornata era soleggiata e lo sguardo riusciva ad arrivare lontano. Poi gli occhi incontrarono il cadavere del centurione e… con un tuffo al cuore, Dora si accorse che il corpo di Kail non c’era più. Corse lì dove l’aveva visto cadere, a pochi metri dalla porta di ingresso dell’edificio, ma sulla terra gelata non c’era neanche la più piccola traccia di sangue.

Seduta di fianco al mercante, a cassetta sul carro, Dora ebbe la netta sensazione che l’incertezza e la paura che le covavano nel petto non erano dovute non solo alla ferita, e nemmeno al fatto che Kail fosse in giro, magari proprio da quelle parti. Man mano che si avvicinava al Varco, che poteva sentire distintamente come sempre, si era resa conto che c’era qualcosa di insolito nelle sensazioni che si irradiavano da esso e che le fluivano dentro, come se lei fosse l’antenna di un’apparecchiatura sensibile a un genere di trasmissione sconosciuto. Quando vi fu davanti, si rese conto che effettivamente qualcosa non andava: c’era un componente ignoto nelle sensazioni che fluivano ora molto forti in lei, in piedi a pochi passi dal Varco invisibile. Sentì alle sue spalle il carro del mercante che si rimetteva in movimento.
- Aspetta! - gli gridò, temendo qualcosa a cui non riusciva a dare nome.
Il mercante si fermò subito, temendo per la sua vita se avesse fatto un passo di troppo dopo l’ordine di arrestarsi. Tremava ancora al pensiero di quei terribili tuoni che si erano abbattuti sui soldati che li assediavano, opera della guerriera ferita a cui per prudenza non aveva nemmeno rivolto la parola durante il viaggio.
Dora tese la destra in avanti fino a dove giudicò l’avrebbe vista dissolversi nel nulla, nel Varco. Ma non appena le prime falangi sparirono davanti ai suoi occhi, un terribile dolore le esplose nel cervello, tale da farla gridare e ritrarre per riflesso il braccio teso. Il dolore cessò subito: Dora spaventata controllò la sua mano destra, temendo il peggio. Era tutta d’un pezzo e illesa. Mosse le dita per sicurezza, ma non c’era traccia di ferite o lesioni di alcun genere. Del dolore che aveva provato le rimaneva solo il ricordo.
- Merda... - disse a voce bassa. Si concentrò sul Varco, ma non riuscì a liberarsi di quella sensazione anomala che ne traspirava. Non osando riprovare a tendere di nuovo la mano, Dora cadde in un profondo sconforto. Avrebbe voluto tornare a casa: indebolita dalla ferita, davanti al Varco che la respingeva, non si sentiva più così a suo agio in quel mondo, non si sentiva più invulnerabile e pronta a tutto. E il dubbio la rodeva sempre più.
- Tu! Dove sei diretto?
Gambrath, colto di sorpresa, non seppe cosa rispondere e cominciò a balbettare qualcosa senza significato.
- Va bene, allora vengo con te.
- M-ma nobile guerriera… se incontrassimo i soldati io… - cominciò il mercante.
- Non ti preoccupare dei soldati, ho ancora un braccio sano. Devo trovare un posto per ripulirmi un po' che non sia quella taverna - disse Dora cercando di recuperare un po' di saldezza mostrando arroganza e sicurezza di sé all’uomo del carro.
- Ma a tre giorni di viaggio da qui c’è Taliba!
- Per me va bene. Basta che mi porti dove ci sia un po' di civiltà.
Gambrath, con la morte nel cuore, non poté far altro che spronare il bue bianco e dirigersi verso Taliba. Temeva che le guardie lo riconoscessero e lo accusassero anche della morte del centurione Skon e degli altri soldati, temeva che avere la guerriera al suo fianco gli avrebbe garantito sciagure anziché protezione. Ma come avrebbe potuto contraddirla? Era così forte che l’avrebbe ucciso con un mano sola: aveva visto con quale facilità aveva ucciso il centurione Skon quasi tagliandolo in due nonostante la corazza che quello indossava. Come convincerla che sarebbero andati incontro a morte certa?
- Onorevole guerriera - cominciò Gambrath dopo aver riflettuto a lungo, parlando scegliendo le parole e con voce tremante per la paura di offendere la donna guerriera - non credo, se mi permettete, che evitare la stazione di posta sia una scelta… come dire…
- Saggia? - lo aiutò Dora, che riemergeva dalle più lugubri congetture sulla sua situazione.
- Ecco, intendevo… Taliba è una grande città, con mura e porte sorvegliate. Se ci presentassimo così come siamo ora, ecco… sarebbe come una condanna a morte…
Dora ci rifletté un po'. Effettivamente l’uomo non aveva tutti i torti: se si fosse lavata alla stazione di posta sarebbe stato meglio. Ma se dopo quasi un giorno di viaggio per andare e tornare dal Varco intransitabile, vi avesse trovato miriadi di soldati che indagavano sulla strage dei loro compagni? Ci sarebbe voluto un carro armato per difendersi, e lei non era in grado di materializzarlo. Ancora una volta cadde nello sconforto: se ci fosse stato Marcus, il tank non sarebbe stato un problema: lui ci sarebbe sicuramente riuscito.
- Va bene - disse infine, a bassa voce - ma se tenti di tagliare la corda, ti ammazzo strappandoti il cuore con le mani, hai capito?
Gambrath impallidì al suono di quelle parole. Pensava proprio di fuggire dopo aver istruito Lerea a prendersi cura con la maggior attenzione e lentezza possibile della guerriera lorda di sangue. Temeva che non avrebbe funzionato e ora, sentita la punizione che avrebbe subito, non aveva più alcuna intenzione di tentare la fuga.
Arrivarono alla stazione di posta poco prima di sera. Non c’era nessun soldato: regnava una quiete assoluta. L’oste e suo figlio avevano scavato diverse fosse per seppellire i cadaveri, ma la terra gelata aveva rallentato il loro lavoro e la maggior parte dei cadaveri era stata ammucchiata nella stalla. Nessun altro li aveva aiutati: tutti i viandanti ospitati se n’erano precipitosamente andati poco dopo la partenza di Gambrath e Dora, che avevano così a propria disposizione tutto lo spazio che desideravano. Così Dora poté lavarsi con cura, aiutata da Lerea e fu a stento convinta da Gambrath e da Cambler che non si poteva viaggiare di notte, essendo i pericoli già fin troppo numerosi di giorno.
Trascorsa una notte alla stazione di posta, partirono molto presto la mattina seguente, Gambrath immerso profondamente in lugubri pensieri cercava di immaginarsi cosa gli sarebbe capitato se fosse giunto vivo a Taliba; Dora stretta nel saio scuro della ragazza che le aveva arrestato l’emorragia, sperava ardentemente di incontrare un altro Varco attraverso il quale cercare di tornare a casa. Diversamente, una volta a Taliba, questa grande città di cui il mercante parlava malvolentieri, avrebbe cercato qualcuno che potesse darle indicazioni a riguardo.
Il viaggio fu abbastanza tranquillo: solo il terzo giorno i due furono tormentati da una sottile pioggia fredda che però cessò quando furono in vista delle mura della città. Dora, che non era mai stata in un centro abitato così grande, osservò con curiosità e interesse le mura lontane. Man mano che il carro si avvicinava riusciva a distinguere un numero sempre maggiore di dettagli: i merli delle mura, la forma della grande Porta del Nord, come l’aveva chiamata Gambrath, le orribili decorazioni che vi pendevano intorno. Quando Dora seppe cosa fossero quegli strani oggetti che pendevano dalle mura qua e là intorno alla porta, non poté fare a meno di provare paura: c’era qualcuno così crudele da compiere atti simili senza che neanche una di tutte quelle persone dicesse qualcosa, protestasse o provasse a fermarlo. Le sue velleità di giustiziere ricevettero un duro colpo.
Osservò Gambrath pagare uno stupido pedaggio, soffrendo per non poter intervenire; rabbrividì all’odore dei cadaveri in putrefazione nelle gabbie sospese pochi metri sopra la sua testa. Tutto, il traffico di gente, le enormi cavalcature dei soldati, la città con le sue alte mura e i suoi palazzi addossati l’uno all’altro, tutto passava in secondo piano. La morte, una morte stupida e atroce, la miseria degli accattoni della tendopoli che circondava la città, bambini nudi coperti di piaghe, denutriti, che tendevano un mano biascicando cantilene incomprensibili ma angoscianti, la violenza del povero sul povero per assicurarsi il possesso di un lurido avanzo. Con questo strazio nell’animo, impotente, Dora entrò in Taliba, caotica città fatta di molta miseria, redditizio commercio e assurda violenza.
- Dove mi stai portando? - chiese al mercante che aveva cambiato espressione una volta varcata la grande porta.
- Al mercato a cercare qualcosa da mangiare: ho fame.
- Buona idea.
A rilento, fermandosi più volte per via del traffico caotico di persone e carri, Gambrath riuscì a raggiungere una grande piazza dove sotto tendoni colorati umidi di pioggia erano esposte diverse mercanzie, cibi di ogni tipo, modesti o ricchi e prelibati. Alcuni cucinavano lì, in mezzo alla gente, vendendo il cibo cotto servendolo su strani piatti morbidi che, terminato il cibo, potevano essere mangiati a loro volta. Verso uno di questi si diresse Gambrath con tutto il carro e senza neanche scendere contrattò il prezzo per due porzioni. Dopo aver pagato, mise tra le mani di Dora una specie di pizza calda senza pomodoro e mozzarella su cui erano stati posati quelli che sembravano tre pezzi di spezzatino. Dora ne assaggiò uno: sapeva di manzo, più o meno, ed era caldo da scottare la lingua. Osservò il mercante ripiegare la il disco di pane in modo da avvolgere la carne e cominciare a mangiare con gusto e decise di imitarlo. Non si accorse così del vecchio che si accostò e rivolse la parola a Gambrath.
- Mercante! Bene, sei tornato finalmente! Avrò il mio guadagno.
- Signore! - disse Gambrath deglutendo - Quale onore! Come posso serv…
- Seguimi! - disse il vecchio veggente, appoggiandosi sul suo bastone nodoso e incamminandosi.
Nuovamente condusse Gambrath in un dedalo di strette vie dove il carro passava a malapena. Gambrath inutilmente chiese al vecchio quale fosse il suo guadagno. Dora martellò per tutto il viaggio il mercante con domande riguardanti il vecchio, che non le piaceva molto, ottenendo in risposta però solo un confuso racconto e l’assicurazione che concluso l’affare se ne sarebbero andati per la loro strada e il vecchio per la sua.
Gambrath confessò di riconoscere la casa del vecchio solo quando vi si trovò davanti: era una giornata grigia e l’oscurità di quei vicoli lo aveva confuso, facendogli sospettare che il vecchio avesse seguito una strada diversa per giungere al basso edificio che era la sua residenza. In passato si era trattato di una villa abitata da gente nobile e importante e l’ingresso principale, adiacente alla porticina che dava sulla casa del vecchio veggente, era circondato da uno spiazzo che la caduta dei nobili aveva trasformato in strada. Così Gambrath non ebbe molte difficoltà a trovare un posto dove fermare il carro in modo che non ostruisse completamente la via; ma le parole del vecchio lo bloccarono ancora prima che i suoi piedi toccassero terra.
- Solo lei, mercante! Tu hai già avuto il tuo guadagno.
- Solo io cosa? - chiese Dora, sospettosa.
Gambrath la scongiurò, per il suo buon nome di mercante, di seguire il nobile signore con cui aveva concluso un affare e che ora reclamava la sua parte di guadagno. Dora ascoltò parola per parola e poi ribatté decisa.
- Primo: non me ne frega niente della tua reputazione. È affar tuo. Due: perché dovrei seguire quel tizio? Non so nemmeno chi è! Terzo: non lo seguo nemmeno per curiosità se non mi dice dove mi porta e cosa vuole da me.
- Giovane guerriera, cosa fai qui? Hai perduto la via di casa? Cosa ti trattiene sul carro di quel mercante? Sei forse debole e indifesa? No, … non lo credo… - disse il vecchio, sibillino, appoggiato al suo bastone nodoso.
Dora rimase dapprima stupita dalle parole del vegliardo: lo aveva ascoltato col cuore che sembrava balzare a ogni parola. Poi aveva reagito, pensando che non era il caso di lasciarsi sfuggire la situazione di mano.
- Tu sai un po' troppe cose - disse saltando giù dal carro - mi sa che mi devi qualche spiegazione.
Il vecchio le si avvicinò e col bastone, senza che lei se lo aspettasse o potesse impedirlo, le diede un colpo sul petto, facendo suonare ovattato attraverso il saio il metallo di una delle due spesse coppe che le proteggevano il seno.
- Seguimi, guerriera - disse lui dandole le spalle e incamminandosi. Dora lo seguì, pensando che non avrebbe forse dovuto temere nulla dal vecchio, anche se un campanello d’allarme le suonava nel cervello, suggerendole di stare all’erta e di non fidarsi.
Lo seguì per pochi metri, fino a quando lui aprì una piccola porta e sparì dentro il buio. Quando fu a sua volta sulla soglia, Dora ebbe un attimo di esitazione: l’interno era completamente scuro eccezion fatta per le fiammelle di molte candele che brillavano lontane.
- Entra! - sentì la voce del vecchio invitarla - e chiudi la porta!
Fece come le fu detto e si trovò al buio. Per sicurezza si armò di un pugnale e lo tenne stretto nella destra, nascosto nella manica del saio. Fece qualche passo avanti, temendo di andare a sbattere contro qualcosa. Usava le fiammelle delle candele come riferimento, ma temeva qualche insidia sul pavimento.
- Non ti servirà! Non adesso!
Ancora la voce del vecchio, ancora un tuffo al cuore. Come poteva sapere del pugnale? Un mago? Cercò di capire da che parte provenisse, ma sembrava che il buio se lo fosse inghiottito e che la sua voce arrivasse da lì, da ogni chiazza di buio lì intorno a lei. Cominciava ad abituarsi alla poca luce e ormai distingueva le sagome dell’arredamento e delle suppellettili che ornavano quel posto che non era affatto piccolo come sembrava.
- Basta scherzare! Dove sei? - disse vincendo il nodo alla gola che le si era formato per la tensione che stava cercando di dominare.
- Sono qui.
Dora si voltò e se lo trovò al fianco. Ebbe voglia di afferrarlo per i suoi vestiti strani ma non riuscì a mettere in pratica la sua intenzione per via del braccio appeso al collo.
- Cosa vuoi da me…? - disse cercando di mettere decisione e convinzione nella voce, ma senza riuscirci.
- Oh, una ferita… ben curata, sei stata fortunata a trovare una Candriana. I loro rimedi sono buoni.
- Falla finita e dimmi chi sei!
- Sediamoci.
Il vecchio la prese per il polso e la trascinò con forza inaspettata verso un mucchio di cuscini buttati in terra, sopra diversi tappeti. Di nuovo la invitò a sedersi e Dora non poté fare a meno di accettare. In un attimo, senza che lei potesse fare niente, lui le fu alle spalle e posò una mano sulla ferita. Questa cominciò a bruciare, molto più di quando la ragazza nella stazione di posta ci aveva premuto la propria mano sopra con il suo sputo, fermando l’emorragia. L’aria sembrò non voler più uscire dai polmoni di Dora, che avrebbe gridato con quanto fiato aveva. Il bruciore tremendo durò un paio di secondi, poi cessò rapidamente, finché attraverso il tessuto del saio poté percepire unicamente il calore e la pressione della mano del vecchio.
- Cazzo… ti spezzo la schiena, bastardo! - reagì con ritardo Dora alzandosi in piedi. Non provava più alcun dolore.
- Ti ho guarito la ferita, guerriera. È questa la tua riconoscenza?
Dora palpò e perlustrò la spalla alla ricerca di un segno della ferita, ma non trovò altro che la sua pelle liscia e asciutta.
- Mago fottuto…
- Vieni con me - le disse il vecchio mago. Notò che camminava curvo, ma senza bastone.
- Guarda, e dimmi cosa vedi - le disse indicando una parete.
Dora non trovò obiezioni e guardò. Ci mise qualche secondo per distinguerlo dal buio circostante, ma riuscì infine a intuire un grande quadro che occupava gran parte della parete. Era un quadro buio come tutto quell’antro da stregone dei fumetti: un cielo livido che si distingueva a malapena dal terreno nero, una terra buia e desolata che faceva sentire un vento freddo dentro il cuore. Notò poi anche un lontano castello, tanto grande da sembrare una collina a cui un mostro gigantesco avesse mangiato via la cima con un solo morso.
- Un castello in mezzo a un deserto buio… - disse infine Dora.
- Guarda bene. Cos’altro?
- Boh… forme contorte… non si capisce niente, è tutto nero!
Dora si concentrò sul quadro e fece un passo avanti per vedere meglio, come se avvicinandosi avesse ridotto le distanze tra sé e gli oggetti che vi erano raffigurati. Non si accorse che il mago aveva fatto un passo di lato e si era messo dietro di lei.
- Guarda… cerca bene!! - e diede una vigorosa spinta a Dora che perse l’equilibrio e cadde nel quadro.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 11
11.

Si rialzò da terra più rapidamente che poté e si voltò intenzionata a riempire di botte il mago, anche se era un vecchio. Ma intorno a sé era tutto cambiato. Le fiammelle tremolanti delle candele non c’erano più, non c’erano più i tappeti, i mobili e le strane suppellettili che decoravano quella specie di tana. Non c’era più neanche la casa con le sue pareti: si trovava all’aperto, in un luogo molto buio, spazzato da un vento gelido che le frustava la pelle come se il saio che indossava non ci fosse. Alzò gli occhi al cielo e distinse a fatica il veloce rincorrersi di turbolente nuvole livide, così scure che a stento si poteva vederle arrotolarsi le une sulle altre. Si guardò intorno, girandosi in tutte le direzioni: pietre, alberi morti, sterpaglie secche, un terreno duro e freddo e non un’anima viva. Non riusciva nemmeno a distinguere la linea dell’orizzonte.
Era in preda al panico: un Varco, non poteva essere stato nient’altro. Ma come aveva potuto non accorgersi della sua presenza? Alla distanza a cui si era trovata, avrebbe dovuto percepirlo con molta chiarezza, come se avesse potuto vederlo. Anche in quel momento, non aveva fatto che due o tre passi dal punto dov’era caduta: come poteva non percepire nulla? Provò a orientarsi nuovamente, tentò di ritrovare il Varco procedendo a casaccio, per tentativi. Niente di niente, era così buio che non riusciva nemmeno a capire quando girando su se stessa tornava a guardare nella stessa direzione.
Le vennero le lacrime agli occhi: non sapeva che fare. E per di più, se non avesse trovato il modo di uscire da lì, sarebbe morta congelata: non sapeva che posto fosse, ma faceva davvero freddo.
Non sapendo che fare, cominciò a camminare in una direzione a caso. Piano piano i suoi occhi si abituarono al buio e scoprì così che quel maledetto posto non era così buio. Dal cielo pioveva una scarsa luce che non riusciva nemmeno a tracciare ombre per terra, ma le dava qualche decina di metri di visibilità. La debole luminosità del cielo le permise di stabilire che quel posto, come molti altri, aveva anche lui un orizzonte: maledettamente piatto e indistinto, ma c’era.
Camminò cercando di difendersi dal freddo come poteva fino a quando sentì gli zoccoli di un cavallo al galoppo avvicinarsi alle sue spalle.
Si voltò e ben presto il cavallo le fu vicino. Il galoppo si ridusse al passo, e poi cavallo e cavaliere emersero dal buio. Dora sentì il cuore caderle tra i piedi. A cavallo c’era una donna: nelle staffe aveva infilato i piedi nudi, si teneva in sella stringendo i fianchi del cavallo con gambe dai muscoli gonfi e poderosi, il ventre scoperto era piatto e muscoloso anch’esso. Un mantello nero le impediva di vedere le spalle e il petto, un elmo scuro celava il volto e lunghi capelli neri lucidi e ribelli sfuggivano da sotto il metallo lavorato.
Vide la donna a cavallo infilare la destra sotto il mantello e un noto suono metallico accompagnò lo sguainare di uno spadone simile in tutto e per tutto a quelli che usava lei di solito. Il cavallo fu spronato e Dora si trovò all’improvviso a dover fronteggiare una carica.
Il fendente fischiò sopra la sua testa mancandola d’un soffio: Dora rotolò e quando fu di nuovo in piedi anche lei era armata con i suoi due spadoni, meglio preparata ad affrontare una nuova carica. L’avversaria era a diversi metri da lei e sembrava trattenere il cavallo scalpitante, per studiare una nuova tattica. Dora ne approfittò con un’idea che le venne in quello stesso momento: trasformò la spada nella mano destra in un pugnale da lancio e lo scagliò con uno scatto fulmineo contro la sua ignota avversaria. Questa incredibilmente intercettò il pugnale con la lama dello spadone e lo deviò alle sue spalle, illesa. Poi caricò.
Dora fece finta fino all’ultimo istante di voler parare la carica e poi si gettò di lato, facendo roteare la sua lama sinistra, ma questa attraversò l’aria sibilando senza incontrare la carne dell’avversaria a cavallo. Sorpresa dalla velocità e dalla forza della sua nemica, Dora decise di cambiare tattica e di tentare di disarcionarla. Lasciò perdere gli spadoni e si armò di una lunga e robusta picca, armata anche all’estremità opposta con una palla di metallo. Era un’arma un po' sbilanciata, ma forse le sarebbe tornata utile per quello che aveva in mente. Come previsto, la sua avversaria non aveva intenzione di rinunciare al vantaggio del cavallo e la caricò ancora, sempre armata di spada. Dora sospettò qualcosa e infatti, a pochi metri dal punto dove sarebbe avvenuto lo scontro, la sua nemica cambiò la spada in una robusta lancia. Ebbe meno di un secondo per procurarsi un grosso e pesante scudo, ma il colpo le fece lo stesso molto male al braccio: per di più la cavallerizza aveva avuto modo di scansare agilmente la sua picca e adesso si stava preparando a caricare di nuovo.
Strinse i denti e cercando di ignorare il dolore al braccio, puntò la picca in modo da costringere la nemica a non avvicinarsi troppo, o a farlo dalla direzione che le sarebbe risultata più svantaggiosa. Fu caricata un’altra volta ancora e stavolta riuscì a mettere in pratica la sua idea. Un attimo prima di essere a tiro della lancia, Dora scartò verso il cavallo schivando la punta dell’arma nemica e invece di trafiggere con la picca, la fece roteare e colpì l’avversaria in pieno con la palla di ferro. Questa perse la lancia, sembrò adagiarsi all’indietro subendo il galoppo del cavallo, ma poi riuscì a tenersi alle briglie e a chinarsi sul collo dell’animale con le braccia piegate sul corpo, mostrando di aver decisamente accusato il colpo.
Ci mise più tempo a preparare la carica stavolta e Dora si rammaricò di essere a piedi: lo scontro si sarebbe potuto concludere di lì a poco se avesse potuto incalzare l’aggressore subito dopo aver messo a segno quel colpo. Invece si trovò costretta a subire un’altra carica: questa volta non poté evitare la nuova lancia che perse la punta contro lo scudo, ma con la palla di ferro cercò e trovò la schiena dell’attaccante che non riuscì a stare in sella. Dora le fu subito addosso, ma quella si rialzò rapidamente da terra e si armò di due spade del tutto simili a quelle che lei impugnava. A far esitare Dora un istante di troppo fu quello che l’avversaria indossava visibile ora per la distanza ravvicinata, attraverso il mantello aperto: come lei aveva un corto gonnellino fatto di numerose strisce di cuoio e di metallo tenute insieme tra di loro da anelli metallici, mentre il seno era protetto da due coppe di metallo borchiato trattenute al petto da lacci di cuoio. Non aveva strisce sulla pelle bianca, ma neanche Dora ne aveva in quel momento: ci aveva rinunciato per non dare nell’occhio in città.
La sua nemica approfittò di quel momento di incertezza per attaccarla, brandendo le due spade e mulinandole vorticosamente, costringendo Dora sulla difensiva. Fortunatamente Dora indovinò subito il ritmo dell’attaccante e riuscì a parare ogni colpo, ma non riusciva a smettere di indietreggiare e nemmeno a trovare un piccolo spazio per contrattaccare. I colpi erano portati con grande forza e decisione, le lame risuonavano fragorosamente e sprizzavano scintille ogni volta che si incontravano a mezz’aria, illuminando le smorfie di Dora e riflettendosi sull’elmo lucido della sua avversaria.
Poi Dora arretrando inciampò e perse l’equilibrio: non riuscì a parare un fendente e cercò di evitarlo con un disperato e potente colpo di reni. La punta nemica le accarezzò il ventre aprendo una lunga ferita. Non percepì subito il dolore, impegnata com’era a mantenere l’equilibrio e a parare altri colpi: aveva sentito la lama tagliarle la pelle ma non si rese conto davvero della ferita fino a quando non sentì il sangue caldo colare rapidamente dal ventre fino all’inguine. Infuriata per essere stata ferita una seconda volta, nella carne e nello spirito, Dora cercò di aumentare la velocità del duello: aveva il fiato grosso, ma poteva vedere che anche il petto dell’avversaria si alzava ed abbassava vistosamente. Presto una delle due avrebbe ceduto al ritmo forsennato e forse Dora avrebbe avuto la sua occasione.
Dora ebbe per due volte consecutive la possibilità di disarmare la sua attaccante, ma non riuscì a far altro che graffiarle per due volte il braccio con la punta della spada. Era però un segno di cedimento: Dora capì che era il momento di contrattaccare e ignorando il dolore che dalla ferita minacciava di salire al cervello, si sforzò di capovolgere l’andamento del duello. Riuscì a smettere di arretrare e con un po' di fatica iniziò ad avanzare a sua volta. Ricevette anche lei un graffio sul braccio quando per una disattenzione aveva concesso all’avversaria la possibilità di disarmarla, ma riuscì a trattenere la spada nella mano e anzi a costringere la sconosciuta ancor più sulla difensiva. Questa si ritirava rapidamente, a balzi, lasciando a Dora il sospetto che stesse tentando qualcosa in particolare. Infatti, dopo l’ennesimo balzo, attese che Dora si avvicinasse per tenerla sotto pressione ed eseguì una fulminea piroetta su se stessa, trasformando la spada destra in una inarrestabile falce. Dora riconobbe la mossa con cui aveva ucciso il centurione Skon e si vide perduta: troppo tardi per cercare di sottrarsi, reagì come le dettò l’istinto. Incrociò le spade un istante prima che il tremendo colpo dell’avversaria vi si abbattesse sopra. Sentì tutta la forza del fendente scaricarsi dalle sue spade su mani e braccia che cedettero quasi completamente; la lama nemica si fermò sbattendo sull’elsa delle sue spade arrivando pericolosamente vicina alla sua pelle. Dora l’allontanò con una lama mentre con l’altra cercava il ventre indifeso della cavallerizza disarcionata, ma questa era saltata all’indietro così rapidamente che Dora affettò solo aria col suo fendente. Contenta di aver parato quel colpo, furente per aver avuto il corpo della sua avversaria così vicino e non essere riuscita ad approfittarne, caricò a testa bassa, entrambe le sue lame puntate in avanti, intenzionata a non dare all’altra un solo attimo di tregua.
Vide la lama balenare troppo vicino a lei e scartò a sinistra con troppo ritardo: un lampo di dolore le trafisse il cervello mentre la punta della lama avversaria le trapassava un fianco. Ebbe poco tempo per il dolore: dovette immediatamente parare un altro attacco e poi un altro che la costrinse con la schiena a terra. Vide l’ombra dell’attaccante sovrastarla e con un ultimo sforzo si sollevò di scatto tendendo la spada destra in avanti, alla cieca, mettendoci più forza che poté, la forza della disperazione.
Sentì una spada cadere al suolo e non era la sua, diventata d’un tratto così pesante che dovette lasciarla andare. Con una mano sul fianco da cui zampillava sangue scuro si sollevò in piedi a fatica e si avvicinò alla sua avversaria abbattuta, con la sua spada infilata nel ventre, aggomitolata in posizione fetale. Con una pedata che rischiò di farle perdere il precario equilibrio, Dora la mise supina e con la sinistra, abbandonata la sua spada, afferrò l’elsa di quella che sporgeva dal corpo dell’altra donna, ancora viva, e la torse strappando un gemito alla moribonda, causandole una gravissima emorragia. Poi sfilò la lama e la trafisse di nuovo, con rabbia e decisione, proprio sotto lo sterno, cercando il cuore. Vide il corpo supino dell’avversaria irrigidirsi e poi abbandonarsi alla morte. La vista le si stava annebbiando sempre più, ma doveva assolutamente levare l’elmo al cadavere, doveva guardarla in faccia. Si inginocchiò vicino al cadavere sempre stringendo una mano sul fianco trafitto: il sangue sfuggiva dalle dita premute sulla ferita condannandola alla morte per dissanguamento se non avesse trovato soccorsi. Con la sinistra afferrò l’elmo per la stretta fessura degli occhi e con un po' di fatica riuscì a sfilarlo. Forse un’allucinazione dovuta alla debolezza, al sangue perduto, alla vita che la stava abbandonando pian piano, ma sotto l’elmo c’era lei. Il suo viso, lo riconobbe anche se pallido di morte e con gli occhi vitrei e immobili: era il suo stesso viso. Vestita come lei, combatteva come lei, stesso fisico, stessa corporatura, stesso volto. Scostò quanto poté le coppe di metallo insanguinate che coprivano il petto e mise a nudo un neo che sapeva di avere sul seno sinistro, scoprendolo identico al suo per forma e posizione.
Dora, sempre più debole e affannata, era sommersa da mille pensieri senza né capo né coda ma il più pressante, quello che la stava angosciando, era che stava morendo anche lei. La ferita era troppo grave per potersi rialzare e andare a cercare aiuto in quel posto buio e freddo. La vista le veniva meno, si trovò a terra senza nemmeno capire come ci era arrivata. Cercò di alzarsi, di rimettersi almeno seduta, ma il buio e il freddo le avvolsero le membra con una pesante coperta gelida.

Gambrath tenuto fuori della casa del mago, salì sul suo carro e fu tentato di andarsene, stizzito per non poter soddisfare la sua curiosità riguardo l’affare che il misterioso personaggio avrebbe concluso col suo ritorno lì, accompagnato dalla guerriera. Scartò immediatamente l’idea: se la guerriera non avesse gradito l’essere lasciata a piedi, avrebbe potuto dargli la caccia per tutta Taliba e oltre. L’essere permalosi era una caratteristica comune a tutti gli appartenenti alla casta dei guerrieri e Gambrath non aveva bisogno di nemici di nessun genere.
Trascorse quindi con pazienza il breve lasso di tempo che lo separò dall’apparizione dell’uomo.
Lo vide uscire dalla porta della casa del mago: era alto, con una folta barba e due occhi che facevano paura: il mercante non poté fare a meno di fissarlo. Coperto da un bel mantello, si guardò intorno rapidamente, come se cercasse qualcosa in particolare. Incrociò per un attimo gli occhi con quelli di Gambrath e il cuore del mercante perse un colpo: ebbe la sensazione che quello sguardo malvagio fosse proprio diretto a lui e gli parve perfino che l’uomo dalla barba nera piegasse gli angoli della bocca in un sorriso crudele prima di scomparire tra la folla della strada con passo agile e veloce.
Gambrath rimase parecchio a pensare cosa avrebbe potuto essere successo. Sicuramente quell’uomo doveva essere ospitato dal vecchio mago: gli era apparso per pochi istanti, ma era sicuro che non poteva essere uscito da nessun posto se non dalla porticina della casa del mago. Probabilmente entrava anche lui nell’affare, ma non avendo nessun legame con lui, si chiese che ruolo potesse avere in tutta la faccenda.
Solo quando le sue natiche cominciarono a risentire della posizione seduta il mercante cominciò a chiedersi che fine avesse fatto la guerriera. Non era certo un tipo coraggioso lui, ma la sua curiosità talvolta gli aveva procurato dei guai. Fu per curiosità infatti che si decise a scendere dal carro e ad avvicinarsi alla porta della casa del vecchio mago. Era chiusa e nessun suono era percepibile attraverso di essa. Si chiese come i due avrebbero preso una eventuale interruzione, qualsiasi cosa stessero facendo lì dentro: in fin dei conti lui desiderava sapere solo se poteva andarsene oppure no. Tutto quel tempo passato ad attendere per un mercante come lui era tempo davvero sprecato. Pensò che probabilmente la guerriera avrebbe mal tollerato l’intrusione e lo avrebbe picchiato, quindi tornò timoroso sui suoi passi fino al carro. Ma poco dopo, vedendo che non era successo ancora nulla, si diresse un po' più risoluto verso la porta, deciso almeno a bussare alla porta per vedere se otteneva una risposta senza dover entrare.
Bussò, ma nessuno rispose. Aspettò educatamente prima di bussare ancora, ma non accadde nulla. Dopo aver bussato inutilmente per la terza volta, si decise a chiamare il mago ad alta voce, scoprendo di non conoscerne il nome, così come non conosceva quello della guerriera. Timoroso di essere scambiato per matto o per malintenzionato dalla gente che transitava per la strada, non disse nulla. Ma come fare per sapere qualcosa? Non poteva certo stare lì ad attendere in eterno. Preso il coraggio a due mani, Gambrath decise di entrare, pensando che con tutta probabilità la porta era stata chiusa dall’interno.
Invece no. La porta era aperta e Gambrath entrò. Non ebbe fatto che pochi passi dentro il buio covo del vecchio mago che un fortissimo vento freddo lo investì, spingendolo all’indietro. Il mercante riuscì a puntellarsi sulle sue gambe e a resistere, ma non poté impedire che il vento chiudesse la porta d’ingresso, privandolo della luce del giorno che proveniva attraverso di essa. Non appena la porta si fu chiusa sbattendo, il vento cessò e Gambrath fu al buio. Rimase fermo in piedi aspettandosi di vedere le fiammelle delle candele che anche la volta precedente non avevano tardato ad apparire, e così fu. Passò di nuovo di fronte al quadro che lo aveva turbato la prima volta, notando che non aveva perso nulla del suo aspetto sinistro e della sua verosimiglianza. Poi il suo piede destro incontrò un ostacolo inaspettato e Gambrath perse l’equilibrio e cadde a terra.

- Maledetto! È l’ultima volta che faccio qualcosa senza esserne convinta! - disse Dora stizzita. Non appena il mercante era riuscita a portarla alla luce del sole, si era subito ripresa. Nessuna ferita al fianco o al ventre, nemmeno quella alla spalla. La sua pelle era ovunque intatta.
- Un potente mago! - ripeté Gambrath.
- Macché! Dev’essere stato quello stronzo barbuto che hai visto uscire. Mi ha colpito alla testa e ho avuto un incubo, tutto qui.
- E adesso, che facciamo?
- Non so tu, mercante, ma io ne ho le palle piene di questo posto, di te, del tuo mago e del tuo affare del cazzo. Portami da qualcuno che sa qualcosa dei varchi, che ho voglia di tornare a casa, e ringrazia il cielo che non ti cavo le budella per quello che mi è capitato.
Lo sapevo, pensò Gambrath: è sempre colpa di qualcun altro.
Per non rischiare niente, il mercante decise di ricorrere al suo amico Rambel’ Marè ed al suo nuovo datore di lavoro, Rendel Lorente.

L’uomo di medicina aspirò una boccata di fumo dal narghilè e stette in silenzio, pensando alla storia che aveva appena sentito dalla bocca del suo amico Gambrath e da quella della sua arrogante e occasionale compagna di viaggio, autoproclamatasi guerriera.
- Saresti tu quindi che vai seminando lutti e dolori tra le genti di queste terre? - chiese infine, dopo aver soffiato una nuvola di fumo acre e odoroso. Gambrath non aveva potuto fare a meno di vedere che il suo amico Rambel’ Marè se la passava sempre meglio: ricche vesti, oro appeso al collo e alle orecchie, sete, cuscini, ottimo tabacco e aromi costosi non gli mancavano.
- Cosa intendi dire? - rispose Dora che mal sopportava il fumo e ancora meno quell’individuo che a suo dire si stava solo dando un sacco di arie.
- C’è un sacco di gente qui intorno che ti appenderebbe volentieri in una gabbia. E non sono solo gli uomini di Vorgo a volerlo.
- Bella gratitudine! Io intervengo per salvarvi il culo, sai? Sai quanta gente ho levato dalle grinfie di bastardi di vario calibro?
- Già, e dopo ogni tua bravata i soldati arrivano in forze e rastrellano villaggi interi, condannando ciascuno ai lavori forzati per punire anche la morte di un solo soldato - rispose Rambel’ Marè, calmo.
Dora, sorpresa, non ebbe di che controbattere: non aveva mai pensato a quella possibilità.
- Per la morte di Made, per opera tua, decine e decine di gabbie e di impiccati hanno ornato le mura di Taliba per lungo tempo. Se hai massacrato anche Skon e i suoi uomini, prova solo a immaginare cosa accadrà quando la notizia arriverà alle orecchie del prossimo centurione. C’è già una guarnigione fissa a Taliba, ed è fin troppo. Manderanno qui tutto l’esercito.
- Senti, coso: se mi aiuti a trovare un Varco aperto, sparisco per un po', che ne dici? Così vi arrangiate da soli - disse Dora riprendendosi un po' dallo sconforto che le aveva procurato vedersi sbattere in faccia la propria presunzione ed egoismo. Le sue convinzioni, sempre più incrinate, anziché confortarla la fecero sentire come se stesse recitando una parte.
- Non posso aiutarti: sono un uomo di medicina, non un mago.
- Allora stiamo solo perdendo tempo - disse Dora alzandosi bruscamente in piedi - vieni, mercante, ce ne andiamo.
Gambrath impallidì: alzarsi in piedi prima dell’ospite nella sua stessa dimora era una gravissima scortesia e segno di grande insolenza e maleducazione. A denti stretti la supplicò di rimettersi a sedere: il suo comportamento lo stava mettendo in grave imbarazzo, in quanto era stato lui a condurla da Rambel’ Marè. Dora non aveva mai visto quell’espressione sulla faccia del mercante e si rimise a sedere. L’altro individuo, Rambel’ Marè, la guardava con freddo distacco.
- Ho detto che io non posso aiutarti, ma conosco qualcuno che può farlo.
- Era ora! - commentò inopportunamente Dora.

L’urlo del mago si sentì distintamente anche fuori dalla sala dov’era entrato da solo con Dora. Rambel’ Marè e Gambrath, rimasti fuori ad aspettare col divieto di entrare se non fossero stati chiamati, si guardarono l’un l’altro chiedendosi se fosse il caso di intervenire. Esitarono fino a quando attraverso la porta chiusa un altro grido giunse alle loro orecchie. Era senza dubbio il mago e sembrava che lo stessero torturando. Gambrath impallidì quando vide il suo amico mettere mano alla maniglia della porta per sbloccarla. Ma questa gli scappò via di mano: la porta fu aperta da Dora in persona.
- Ma che gli ha preso? - chiese lei uscendo. Con la porta aperta, il terzo grido del mago giunse ai due con una nitidezza spaventosa.
Rambel’ Marè e Gambrath entrarono esitando. Il mago era riverso sul tappeto e si teneva la testa tra le mani. L’uomo di medicina lo raggiunse per prestargli soccorso, e nel voltarlo supino entrambi videro che aveva gli occhi rovesciati all’indietro sotto le palpebre tremanti e il corpo sussultava in preda a strane convulsioni.
- Nobile Mago! Che ti succede?
Un gorgoglio dal profondo della gola fu l’unica risposta dell’uomo. Le convulsioni diminuirono un po'.
- Forse ha avuto una visione… - suggerì Gambrath, un po' spaventato.
- Ha detto qualcosa prima di cadere in questo stato? - chiese l’uomo di medicina a Dora, che osservava perplessa la scena.
- Bah… ha cominciato a blaterare cose senza senso, parole strane… poi ha cominciato a gridare e ad agitarsi, è caduto per terra e…
- …’iel… - rantolò il mago.
- Che ha detto? - disse Rambel’ Marè.
- È una delle parole che blaterava prima di cascare come uno straccio - confermò Dora.
- … Dokh’iel… - disse ancora il mago, con un filo di voce. Poi i suoi occhi si chiusero.
- Mago… Mago! - disse Rambel’ Marè scuotendo l’anziano uomo per le spalle.
- È… - iniziò Gambrath, ma non terminò la frase.
- No, respira. Ha solo perso conoscenza.
- Ho sentito bene? Ha detto… - disse il mercante, con tono tetro.
- Hai sentito bene, amico mio. L’ha detto - rispose altrettanto tetro Rambel’ Marè.
- Ma insomma, che ha detto? - si spazientì Dora.
I due la guardarono come si guarderebbe un condannato a morte.
- Lo chiamano in molti modi, ma è sempre la stessa persona. Qui è noto come Dokh’iel - cominciò Rambel’ Marè - Per darti un’idea di cosa è capace, Vorgo non ha dormito tranquillo fino a quando non lo ha imprigionato.
- Per Elzer… - sospirò Gambrath pallidissimo, poi si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto.
Rambel’ Marè ci mise un secondo a reagire, poi soccorse l’amico che aveva avuto un mancamento. Gli fece dei massaggi alle spalle e lo schiaffeggiò fino a quando questi si riprese.
- Che ti succede, amico?
Gambrath cercò di articolare qualche parola, ma dovette sforzarsi prima di emettere suoni comprensibili.
- …L’uomo … - ripeté più volte.
- Che uomo? - chiese Rambel’ Marè.
- L’uomo… quello che è uscito dalla casa del mago… aveva uno sguardo cattivo, malvagio… era lui!
- Guardate! - esclamò Dora, puntando un dito contro il corpo del mago ancora disteso a terra. Dalla sua bocca e dalle narici stava uscendo un denso e cupo fumo nero.
Ma non si trattava di fumo comune, e fu chiaro subito ai tre: lo video scivolare sul corpo del mago fino a ricoprirlo con spire dense e gonfie, senza dissolversi e sollevarsi in alto come avrebbe dovuto, ma rimanendo basso come se avesse un peso vero e proprio. In breve il fumo nero, come un sinistro essere vivente aveva ricoperto completamente il mago trasformandolo in un pupazzo scuro e ribollente, senza una forma precisa, soltanto vagamente rassomigliante a un essere umano.
Con gran sgomento di tutti il pupazzo di fumo si sollevò dritto sui suoi piedi, sciogliendo i legami che lo trattenevano al corpo del mago, che rimase supino sul pavimento. Stette immobile mentre ciascuno dei presenti arretrava inorridito. Poi si voltò di scatto verso Dora e due bagliori rosso cupo brillarono dentro la testa del pupazzo.
- Grazie… - una voce profonda e gutturale, cavernosa, come nessun essere umano sarebbe mai stato in grado di produrre, echeggiò nella stanza come se provenisse da ogni dove - grazie, Guerriera dell’altro mondo… ma non aspettarti trattamenti di favore…
Un braccio di fumo ribollente si tese verso Dora, che sentiva le proprie ginocchia diventare molli. Poi un suono orribile esplose nelle orecchie di tutti, come se la sofferenza di un pianeta intero fosse stata gridata al cielo tutta in una volta. Le misteriose forze di coesione che avevano plasmato il fumo vennero improvvisamente meno e questo si dissipò in pochi istanti, lasciando nella stanza come segno del suo passaggio un odore orribile.
Rambel’ Marè, pallido come un morto, puntò su Dora uno sguardo per metà accusatore e per metà terrorizzato. Questa, non meno pallida non riusciva a capire cosa stesse accadendo. Gambrath era nuovamente a terra, privo di sensi.
- Che… che cosa avrà voluto dire? - riuscì a dire lei dopo aver deglutito diverse volte.
- Me lo chiedo anch’io.
Rambel’ Marè fu il primo a mostrare di riprendersi dallo spavento: esaminò nuovamente sia l’amico mercante che il mago. Questo fu l’ultimo a riprendersi e quando fu interrogato a riguardo, faticò a parlare di quello che gli era accaduto fino a quando non fu rinfrancato dalle cure dell’uomo di medicina e da un bicchiere di vino dolce. Ma anche allora fu avaro di informazioni: nei suoi occhi si leggeva un profondo terrore per quanto gli era accaduto.
- Dokh’iel è di nuovo tra noi - disse infine - perché qualcuno ha sciolto i legami impostigli da Vorgo, uno della sua stessa razza. Non deve essere al meglio della sua forma: raramente uno come me se la sarebbe cavata dopo quello che mi ha fatto.
- Chi ha sciolto i legami? - chiese Gambrath.
- Ha poca importanza: ormai è libero - lo rimbeccò Rambel’ Marè, ma guardando Dora.
- È stata lei - disse il mago puntando il dito contro la guerriera che spalancò gli occhi - ma non sapeva cosa stava facendo. C’era bisogno di qualcuno forte abbastanza da farcela, ma che ignorasse tutta la storia.
- Abbiamo perso di vista il motivo di tutto questo: dove trovo un Varco aperto che mi faccia tornare indietro?
- Tornare indietro? Dopo aver combinato un tale danno te ne vorresti andare, Guerriera? - la accusò Rambel’ Marè.
- Io non ho fatto proprio nulla! Non ne sapevo niente di questo Dochié!
- Recriminare non serve a niente - disse il mago interrompendo Rambel’ Marè che stava per rispondere a Dora.
- Cosa suggerisci?
- I Varchi sono aperti, guerriera. Dirigiti verso Bel’ee, ne troverai uno. Torna al tuo mondo.
- Approvo - aggiunse Rambel’ Marè.
- Ti devo staccare la testa dal collo? - chiese Dora all’uomo di medicina.
- Vattene, Guerriera! Hai fatto abbastanza danni da questa parte del Varco. Uccidimi pure se credi di punire la mia arroganza: meglio morire che essere posseduto un’altra volta dal Malvagio.
Dora aveva ripreso colore in volto, il colore dell’ira. Avrebbe infilzato volentieri quei due, ma aveva di meglio da fare: se poteva tornarsene a casa, l’avrebbe fatto. Ne aveva abbastanza di quel posto. Afferrò per un braccio il mercante e lo trascinò fuori della casa del mago, imponendogli di portarlo al Varco di Bel’ee.
Al povero Gambrath non rimase che mettere a disposizione il proprio carro e puntare un’altra volta verso la Pianura, per accontentare la Guerriera furiosa prima che decidesse di tagliarlo in due con un solo colpo di spada. Con malinconia e rabbia repressa pensò che se avesse avuto una moneta per ogni volta che aveva ripetuto quel tragitto, adesso sarebbe un po' più ricco e magari anche meno triste.

Nel piovoso primo pomeriggio del terzo giorno di viaggio la guerriera, seduta al suo fianco coperta solo dalle sue armi, incurante del freddo e della pioggia, gli intimò di fermarsi con voce piena di soddisfazione. Lo aveva percepito già da tempo, facendo deviare leggermente il percorso del carro trainato dal suo nuovo bue bianco, ma adesso era arrivata a destinazione, finalmente.
La guardò saltare giù dal carro e sprofondare nel fango con le sue calzature alte e strane. Si allontanò di una ventina di passi e poi si fermò: Gambrath non vedeva niente ma dedusse che si era fermata davanti al Varco. La vide allungare un braccio e poi vide questo sparire nel nulla fin quasi al gomito, letteralmente ingoiato dall’aria. Lei ritrasse il braccio e si voltò verso di lui con un sorriso sul volto coperto da lugubri segni neri.
- Ciao, mercante! Ci vediamo! - lo salutò con voce squillante, sollevando la mano in segno di saluto.
Gambrath non seppe come ricambiare il saluto: incerto alzò anche lui una mano, proprio un attimo prima che la Guerriera si tuffasse letteralmente nel Varco, scomparendo alla vista.
Con una gradevole sensazione di sollievo che gli scaldava il cuore, Gambrath incitò il bue bianco e invertì la direzione di marcia, diretto alla stazione di posta.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Libro Terzo - Il mercante e la vendicatrice - 12
12.

Nuvole nere di tempesta oscuravano il cielo: dopo un viaggio reso difficile dal terreno intriso d’acqua, finalmente Gambrath era giunto in vista della stazione di posta, la cui familiare sagoma scura si stagliava ormai vicina, in contrasto col grigio uniforme della terra e del cielo.
Era contento che fosse ancora in piedi e sperava ardentemente che gli scagnozzi di Skon non si fossero fatti vedere. A prima vista la costruzione bassa e lunga sembrava intatta, ma la visibilità era scarsa e la distanza eccessiva per esserne certi. Come sempre, non il più piccolo barlume era visibile dall’esterno. Con questo dubbio che gli pesava nel petto, Gambrath si avvicinò, all’erta e guardingo, anche se sapeva che se avesse incontrato gli uomini di Skon, sarebbe stata morte certa.
Invece il mercante giunse a portata di voce senza alcun incidente: vedeva un po' meglio la costruzione che sembrava davvero intatta. Nessuna bruciatura, nessun segno di danni, ma neanche un segno di vita. Gambrath si fece coraggio e raccolto un po' di fiato emise il richiamo.
Dopo pochi istanti la porta grande si aprì e il cuore del mercante si alleggerì da ogni dubbio quando vide comparire sulla soglia la nota sagoma di Cambler, l’oste. Spronò il bue bianco per accelerare un po', tale era la gioia di rivedere quell’uomo.
- Cerco rifugio, oste!
- Sei il benvenuto, mercante! - fu la cordiale risposta di Cambler. Poi questi oltrepassò la soglia per andare incontro al viaggiatore.
Si incontrarono a metà strada e Gambrath saltò giù dal carro in segno di rispetto. I due si salutarono stringendosi le mani e dandosi pacche sulle spalle.
- Vieni, Gambrath: portiamo il tuo carro nella stalla prima che cominci a piovere.
- Dovrai raccontarmi un bel po' di cose, amico mio: come ve la siete cavata? I soldati sono stati qui?
- Non avere fretta: ti racconterò tutto mentre mangerai un piatto della zuppa di Rama. A proposito: promettimi che quando partirai porterai con te la tua schiava. Una va bene, ma due sono troppe!
- Padrone! Padrone!
Gambrath si voltò e vide Lerea che correva a perdifiato verso di lui, uscita dalla porta lasciata aperta da Cambler. La vide corrergli incontro chiamandolo padrone, ansante, rischiando a ogni passo di inciampare nei veli della veste che si sporcava sempre più di fango fresco. Quando fu vicina si gettò in ginocchio nel fango ai suoi piedi, gli abbracciò le ginocchia e vi nascose il volto, singhiozzando.
- Hai speso bene le tue monete, Gambrath - commentò Cambler - nonostante la sua bruttezza, questa schiava le vale tutte.
- Non sapevo che avessi i gusti di un Candriano, Cambler.
Così dicendo afferrò Lerea per le braccia e la costrinse a sollevarsi in piedi. Osservò il giovane viso pallido e rotondo rigato di lacrime e arrossato dal pianto. Il labbro inferiore tremava leggermente.
- Tutto bene? - le chiese - Ti hanno fatto del male?
Lerea cercava di reprimere i singhiozzi e non osando parlare fece cenno di no con la testa.
- Bene. Dopo controlliamo. Adesso calmati, eh?
- Padrone… sono così felice… - disse lei riprendendo un po' di autocontrollo.
- Anch’io, Lerea… anch’io.
- Andiamo alla stalla, padrone - disse poi, osando afferrare Gambrath per un polso e tirandolo in direzione della porta della stalla, chiusa.
- Vieni, non te ne pentirai! - aggiunse.
Gambrath non ebbe altra scelta che farsi portare da Lerea fino alla stalla. Sempre incitato da lei, ebbra di gioia, aprì la porta che non era sprangata.
La stalla era piuttosto affollata: riconobbe subito il carro di Rambel’ Marè e diversi buoi e cavalli che dovevano essere sempre di sua proprietà o di Rendel Lorente, il suo ultimo datore di lavoro. Comparve il muscoloso e taciturno figlio di Cambler, con in mano una cavezza. Alla cavezza era legato un bue grigio che il mercante riconobbe in un attimo: era il vecchio Oslob, strigliato e ben pasciuto come raramente lo era stato.
Il cuore del mercante si riempì di calore e felicità: non solo i suoi amici erano salvi, ma avevano anche recuperato ciò che gli era stato tolto dai soldati della guarnigione di Taliba. Questo era importante perché Gambrath era affezionato al vecchio Oslob e perché così finalmente poteva liberarsi dei pesanti debiti nei confronti dell’amico Rambel’ Marè, in osservanza di una delle più importanti regole del mercante: mai avere debiti di nessun genere con nessuno.

Dora si guardò nel suo piccolo specchio e si accarezzò i fianchi, tornati abbondanti e morbidi; guardò il proprio ventre, molle e un po' sporgente e i seni, piccoli e flaccidi a confronto di quelli di Dora Guerriera, forte, bella e coraggiosa.
Guardò la spalla che era stata ferita durante il combattimento con quel gigante: solo osservando con attenzione era possibile vedere una cicatrice sottilissima ma lunga da far spavento.
Si sentiva stanca e demoralizzata, quasi sconfitta. Coloro i quali aveva creduto di aiutare l’avevano scacciata e trattata male. Non se lo sarebbe mai aspettato, ragion per cui ora a bruciare erano altre ferite. Ferite dentro.
- Ingrati - pensò ad alta voce, sapendo però che avevano ragione. Non riusciva a rassegnarsi a questo, ma aveva sbagliato qualcosa. Cercava di tranquillizzare la propria coscienza, ma non ci riusciva.
Guardò la parete del bagno dove si apriva il Varco: non si poteva vedere nulla di anormale ma lei sapeva che era ancora lì. Lo sentiva dentro di sé, dentro il cervello, dentro il cuore, dentro le viscere.
Uscì dal bagno chiudendosi la porta alle spalle con particolare cura: il suo monolocale non gli era mai sembrato così piccolo e angusto. Mettendosi a letto per dormire quelle poche ore che la separavano dal mattino di Apollo, una semplice formalità come altre in una vita scandita dall’illuminazione artificiale e dall’orologio di sistema che sincronizzava l’intera Stazione, pensò al Varco.
Un giorno o l’altro lo avrebbe attraversato ancora.

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