Di un aeroporto, alcune regole e un canarino

di Roscoe24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Isabelle rimane bloccata in aeroporto ***
Capitolo 2: *** 2. A Chicago, è il re che fa le regole ***
Capitolo 3: *** 3. I Lightwood adottano un canarino ***



Capitolo 1
*** 1. Isabelle rimane bloccata in aeroporto ***


Ciao a tutti! Come già accennato nell’anteprima della raccolta, ognuna di queste storie è stata scritta per il contest “Regalami un sogno” indetto dal gruppo Facebook Fanfiction Shadowhunters Ita.
Per questa prima OS, le parole da usare in questa storia erano: aria, aeroporto, mentre la canzone era Lemon di Kenshi Yonezu, di cui ne trovate un frammento tradotto contrassegnato con (1)
Ringrazio Rurijo sama per avermi chiesto di partecipare a questo contest, il primo per me in assoluto, e ringrazio chiunque abbia deciso di leggere questa storia.  
Lo apprezzo tantissimo! Un abbraccio! <3



                                                                             


                                                  Isabelle rimane bloccata in aeroporto.


La sua vita era una continua corsa frenetica. Erano anni ormai che viveva negli aeroporti, in attesa dei voli che l’avrebbero portata nel posto successivo. Quando aveva scelto quella carriera, Isabelle non avrebbe immaginato che sarebbe stato così stancante.
Isabelle Lightwood era una fotografa di alta moda ed era molto richiesta. Chi lavorava con lei la definiva professionale e puntuale, precisa e piena di talento. Il segreto era che Izzy aveva coltivato la passione per la moda fin dalla tenera età. All’inizio il suo desiderio era quello di diventare una famosa stilista, ma poi il suo sogno di bambina era stato distrutto dalla realtà: era negata per il cucito e non sapeva disegnare. E se questa realizzazione aveva portato con sé un amaro periodo di tristezza e autocommiserazione, ben presto quelle emozioni erano state surclassate dalla sua determinazione intrinseca e dal fatto che aveva capito quale fosse il suo vero talento: la fotografia. Attraverso l’obiettivo riusciva a mostrare le cose sotto un punto di vista totalmente nuovo, diverso. Le sue fotografie erano vive e coglievano sempre l’aspetto migliore del soggetto, una sfumatura che sfuggiva sempre a chiunque, tranne che a lei. O almeno, questo era quello che le ripeteva sempre suo fratello Alec, che l’aveva sempre incoraggiata e sostenuta, anche quando lei stessa non sapeva come fare per sostenersi da sola.
Tu potrai anche dubitare di te stessa, ma io non lo farò mai. Devi solo ricordarti di vederti come ti vedo io, Iz.
E, di norma, Isabelle tendeva a non dubitare di se stessa, ma come qualsiasi essere umano anche lei era sottoposta a periodi di debolezza, dove le insicurezze si insinuavano nella sua mente e nel suo cuore. Ed era in quelle specifiche occasioni che le parole di suo fratello le risuonavano nelle orecchie e l’aiutavano a ritrovare la sua autostima, momentaneamente assopita.
Isabelle voleva davvero tanto bene a suo fratello. E lui ne voleva a lei. Si fidava della sua cara sorellina, tanto che le aveva chiesto di essere la fotografa al suo matrimonio.
Per questo adesso Isabelle si trovava all’aeroporto Charles De Gauelle di Parigi. Il suo volo per New York sarebbe partito a breve e lei avrebbe finalmente fatto ritorno a casa dopo tre settimane passate in Francia a fare servizi fotografici.
Era esausta. Per arrivare in tempo aveva fatto una corsa, era carica di almeno tre valige – una delle quali era enorme perché doveva contenere tutta la sua attrezzatura – e nell’aria c’era un forte odore di chiuso, misto a caffè stantio e cibo fritto, che le faceva girare la testa. Aveva un gran bisogno di dormire e l’unica cosa che non la stava facendo impazzire era la consapevolezza che nel giro di due ore sarebbe stata su un aereo diretta a casa, dalla sua famiglia.
“Posso farcela,” si disse, mentre trascinava i suoi bagagli verso l’area del check-in. Si sistemò in fila – una fila infinita – e rimase pazientemente in attesa, fino a quando lo schermo piazzato sopra alla testa dell’addetto al check-in non si illuminò, mostrando una serie di ritardi e voli cancellati.
“No-no-no-no-no, ti prego!” Mormorò tra sé, ma le sue preghiere furono inutili perché al suo volo furono attribuite quattro ore di ritardo. “Oh, ma andiamo! Che palle!” Sbuffò, sonoramente, facendo ridacchiare un ragazzo alle sue spalle. Lei si voltò immediatamente, poco in vena di essere oggetto di scherno. Era stanca, irritata, e l’ultima cosa che le serviva era un estraneo che si prendeva gioco di lei.
“Cosa ti fa tanto ridere, scusa?” domandò, voltandosi verso l’interessato.
“Nulla,” rispose quello con un’alzata di spalle, “Mi hai solo tolto le parole di bocca e ho trovato divertente la coincidenza.”
Lei lo guardò un attimo. Era carino, pensò. Una bellezza semplice, stampata su un viso che trasmetteva dolcezza. Grandi occhi castani, molto espressivi, e capelli dello stesso colore, un po’ disordinati, ma che comunque aiutavano a dare una piacevole aria sbarazzina al suo interlocutore.
Il ragazzo le sorrise con fare amichevole, mostrando una serie di denti bianchi e perfetti. “Non volevo offenderti.”
“Ci vuole ben altro per offendermi.” Commentò la ragazza, “Ciò non toglie che non si ride delle disgrazie altrui.”
“Però se sono condivise, una risata può aiutare a vedere il lato positivo della cosa.”
Izzy aggrottò le sopracciglia. “Vai anche tu a New York?” E solo in quel momento il suo cervello stanco le fece notare che fino ad adesso non avevano dialogato in francese e quindi era molto probabile che il ragazzo fosse americano.
Il ragazzo annuì.
“E dimmi, cosa ci sarebbe di positivo in quattro ore di ritardo?”
Il suo interlocutore fece spallucce. “Non lo so, forse che ci siamo incontrati? Forse il destino ha avuto pietà di me e mi ha fatto incrociare un’americana con cui poter finalmente parlare la mia lingua!”
Isabelle ridacchiò e il suo malumore dovuto al ritardo si smussò un poco. “È difficile dialogare con i francesi, se non hai una buona pronuncia.”
“Lo so!” Concordò il ragazzo, come se si sentisse capito in pieno. “Sono giorni che mi esprimo a gesti come un uomo preistorico!”
Isabelle si lasciò andare ad una risata, il suo malumore sempre più distante. “Sono Isabelle, comunque.” Gli tese la mano e il ragazzo l’afferrò, ricambiando la stretta.
“Piacere Isabelle, io sono Simon.”
“Piacere mio, uomo preistorico.”
Simon ridacchiò e dopo qualche istante, decisero di mettersi in fila insieme, uno accanto all’altra, chiacchierando per far passare il tempo mentre aspettavano il loro turno. Durante l’attesa scoprirono che il destino ci aveva messo sul serio lo zampino, facendoli persino finire l’uno accanto all’altra sull’aereo. La coincidenza fece sorridere Simon, che si scoprì ben felice di quella piacevole scoperta.
Isabelle era molto carina, ma soprattutto, sembrava una persona gentile. E se doveva passare più di sette ore in un aereo con qualcuno, era felice che quel qualcuno fosse una persona solare come sembrava la ragazza.
“Ok,” Cominciò Isabelle, mettendosi le mani sui fianchi, “Le nostre valige sono sistemate, nella speranza che non le perdano. Vuoi mangiare?”
“Sì, d’accordo.”
“Pizza?”
“Amo la pizza.”
Izzy sorrise. “Allora pizza sia.”



Mangiarono un pezzo di pizza in un bar abbastanza affollato. Seduti una di fronte all’altro e affamati come se non mangiassero da giorni, entrambi si gettarono sul loro cibo, scoprendo a loro spese quanto in realtà non fosse per nulla buono. Dopo il primo boccone, Simon fece una smorfia, come se avesse mangiato una cipolla cruda a morsi.
“Rettifico: amo la pizza, ma non questa!”
“Sì, non è molto buona.” Concordò Isabelle, inghiottendo a forza il suo primo boccone. “Anche se, se dovessi sentire i miei fratelli, ti direbbero che io la faccio anche peggio!”
Simon si lasciò scappare un sorriso, ma non rise – non voleva rischiare di offenderla. “Quanti fratelli hai?” Le chiese, per evitare di pronunciarsi sulle sue mancanti doti culinarie.
“Tre, due maggiori e uno minore. Tu, invece?”
“Io ho una sorella maggiore, Becky. Quando eravamo piccoli mi chiamava sempre bombolotto e mi usava come un Cicciobello umano. Mi prendeva in braccio e mi portava per tutta casa. Una volta mi ha fatto persino cadere, ma ha comprato il mio silenzio con cinque biscotti.” Simon giochicchiò con la sua pizza, prima di prenderne coraggiosamente un altro morso. La fame era più grande del cattivo sapore di quel cibo. “Mia madre è ancora all’oscuro di tutto e sono passati anni, ormai.”  
Isabelle rise piano. “Lo facevo anche io con Max, il più piccolo. Me lo portavo in giro per casa, mentre Alec, il maggiore di tutti, mi seguiva dicendomi di fare attenzione, o l’avrei fatto cadere.”
“E ti è mai caduto?”
“Fortunatamente no.”
“Questo è un bene.”
Izzy annuì e bevve un sorso d’acqua per tentare di scacciare via il saporaccio della pizza. Mancavano ancora tre ore al loro volo ed erano appena le otto e mezza di sera. Avrebbero passato ancora molto tempo insieme e ad Isabelle l’idea piaceva. Non sapeva come mai, dal momento che Simon era poco più che uno sconosciuto, ma si trovava bene con lui. Le trasmetteva un’aura positiva che la faceva sentire a proprio agio, quasi come se, in realtà, si conoscessero da sempre.
Lo osservò mentre, con coraggio, si calava di nuovo sulla sua pizza e ne prendeva un morso. Il suo viso si accartocciò in un’espressione quasi disgustata e allora Isabelle ebbe un’idea.
“Basta mangiare questa orribile pizza! Se con il salato non siamo stati fortunati, tenteremo con il dolce!”
Simon sorrise, trovandosi pienamente d’accordo, e si alzò dal tavolo, seguito da Isabelle. Pagarono entrambi la loro triste consumazione, prima di uscire da quel bar e gettarsi alla ricerca di qualcosa che servisse dolci.
“Di cosa hai voglia?” domandò Simon, mentre camminavano e si guardavano intorno.
Isabelle ci pensò su. Non aveva qualcosa di particolare, in mente. I dolci, in generale, le piacevano tutti, quindi decise di far scegliere al ragazzo.
“Decidi tu, per me va bene tutto.”
“Muffin? Crostata? Ciambelle? C’è così tanto da scegliere. È uno dei miei problemi: non so mai decidere che cosa prendere da mangiare.”
“E poi finisci sempre a mangiare la stessa cosa che prendi da anni perché non hai saputo scegliere?”
Simon la guardò con comprensione. “Esatto! Anche tu?”
Izzy annuì. “Una volta, io e Jace, l’altro mio fratello, siamo andati a fare colazione insieme. Ha ordinato lui e io mi sono così arrabbiata. Gli ho detto che non poteva scegliere per me e lui, con tutta la serietà e tranquillità del mondo, mi ha fissata dritta negli occhi e mi ha detto Izzy, tanto prendi sempre le stesse cose. Non me la sono sentita di negare, o di continuare ad essere arrabbiata, perché era la pura verità!”
Simon ridacchiò. “Allora dimmi, Isabelle, cosa prendi di solito?”
“Muffin al cioccolato e caffè alla nocciola.”
Simon la guardò con gli occhi luminosi, come se le sue iridi fossero state improvvisamente coperte di tante piccole stelline. “Io adoro il caffè alla nocciola. E i muffin,” si affrettò ad aggiungere, quasi non volesse ferire i sentimenti di quei dolcetti, “Ma il caffè alla nocciola… lo prendo sempre e tutte le volte, i miei amici mi dicono è troppo dolce, Simon, come diavolo fai a berlo?”
“Ma in realtà non sanno che si perdono.”
“Parole sante. Il caffè alla nocciola è un dono del Cielo.”
“Pura ambrosia.” Aggiunse Isabelle, con un sorriso, che Simon ricambiò. Le sembrava una cosa così sciocca, perché una situazione simile poteva essere degna solo di un film romantico, o di una di quelle commedie natalizie dove un fortuito imprevisto porta a qualcosa di speciale, ma… Simon le piaceva. Era simpatico, con un umorismo strano tutto suo, e il suo modo di gesticolare quando parlava lo rendeva adorabile.
“Cerchiamo qualcuno che ce lo faccia?” domandò Simon, davanti al silenzio di Isabelle. La ragazza annuì e continuarono la loro ricerca.
Mentre camminavano, Isabelle non poté fare a meno di pensare che era strano che di tutti i posti a NY in cui il destino avrebbe potuto farli incontrare, si erano conosciuti in un aeroporto parigino. Forse Simon non era di NY, forse era solo di passaggio in quella città. Decise di chiederglielo.
“Cosa ci vai a fare a New York?”
“Oh, torno a casa. Sai, dalla mia famiglia, i miei amici, la mia band.”
“Hai una band?”
Simon annuì. “I Rock Solid Panda.” Alzò un indice, come a volerla bloccare sul nascere, “Non ridere del nome.”
Izzy alzò le mani in segno di resa. “Non rido,” anche se una parte di lei avrebbe voluto farlo, non lo fece per rispetto di Simon, “Ammetti però che è un nome molto particolare.”
“Lo è, infatti. L’abbiamo scelto di proposito: più un nome è strano, più rimane in mente.”
“Teoria interessante.” Commentò, “E cosa ci facevi qui a Parigi?”
“Uno scopritore di talenti ha visto uno dei nostri video su YouTube, ha detto che gli siamo piaciuti e possiamo avere del potenziale. Voleva parlare con uno di noi e quindi abbiamo scritto i nostri nomi sui foglietti e ne abbiamo estratto uno a caso. Indovina chi è uscito!” Simon indicò se stesso con entrambi i pollici ed Isabelle ridacchiò.
“E com’è andata?”
Simon fece spallucce. “Abbastanza bene, credo. Ha detto che verrà a New York per sentirci dal vivo, quindi ci dobbiamo preparare.”
“In quanti siete?” Chiese Isabelle, sempre più interessata e curiosa.
“In quattro: io, Jordan, Clary e Maia. Jordan alla batteria, Clary canta, e Maia al basso. Io suono la chitarra e un po’ il piano, ma principalmente chitarra.”
Isabelle, a quelle parole, ebbe un’idea. “Perché non suoni qualcosa? Ho visto un pianoforte, vicino al bar dove eravamo prima.”
Simon arrossì. “Oh, n-non lo so, i-io non sono molto bravo al piano, sto imparando…”
Isabelle si mise davanti a lui, bloccandogli la strada. Gli afferrò d’istinto le mani, stringendole nelle sue. “Dai, per favore!”
Simon sussultò per quel contatto improvviso e una piccola scossa elettrica attraversò il suo corpo. Le mani di Isabelle, piccole rispetto alle sue, erano calde e curate. La pelle era liscia e molto chiara, le unghie erano corte, ma precise, ed erano colorate di nero. Simon notò anche un piccolo anello, un semplice cerchietto d’argento molto fine, al dito medio della mano destra.
Quando rialzò lo sguardo sul viso di Isabelle, trovò i suoi occhi che lo guardavano in modo incoraggiante. Isabelle aveva degli occhi bellissimi e lui lo notava solo adesso. Se ad una prima occhiata le era sembrata carina, guardandola meglio si rese conto di quanto in realtà fosse bella. Isabelle aveva un viso affusolato, i suoi occhi erano neri e profondi, leggermente truccati e dalla forma allungata come una cerbiatta; le ciglia lunghe e scure si incurvavano verso l’alto e Simon non sapeva dire se fosse un effetto del mascara o fossero così di natura. Aveva un bel naso, dritto la cui punta si alzava leggermente, e labbra piene e rosse di rossetto.
“D’accordo, suonerò.”
Isabelle lasciò le sue mani per riuscire ad applaudire con le proprie. “Grazie!”
E detto questo, accantonarono momentaneamente l’idea del caffè per dirigersi verso il pianoforte.


Simon non era mai stato spaventato da uno strumento musicale come in quel momento. Amava la musica – si poteva dire che fosse la sua scelta di vita. Ricorda ancora le discussioni infinite, quando aveva finito il liceo e aveva confessato a sua mamma che voleva studiare al conservatorio e non economia. Era stata una battaglia tosta, far valere le sue ragioni non era stato facile perché ad ogni argomento che lui avanzava, sua madre rispondeva sempre con la musica non ti darà da mangiare, Simon.
La musica non era una certezza, Simon se l’era sentito ripetere un sacco di volte. Gli artisti che sfondano sono pochissimi e questo lui lo sapeva bene.
Era un sognatore, non un illuso.
Ma per quanto potesse essere difficile, per quanto i periodi di magra fossero abbastanza frequenti, la svolta era arrivata. Lui e gli altri avevano perseverato, avevano inseguito il loro sogno – uniti da quel desiderio comune di creare musica, diffonderla – ed erano stati premiati.
La fortuna aiuta gli audaci, e Simon sapeva che lui e i suoi amici lo erano stati abbastanza da ricevere almeno un piccolo bacio sulla guancia dalla dea bendata sotto forma di uno scopritore di talenti francese che era stato colpito dal loro stile.
Era una sensazione piacevole.
Meno piacevole era dover suonare uno strumento con cui Simon aveva poca confidenza davanti ad una ragazza appena conosciuta.
L’ultima cosa che voleva era fare la figura dell’idiota.
“Non ti prometto niente.” Disse sedendosi al pianoforte adesso vuoto. Improvvisamente, sentì centinaia di occhi su di sé, come se ogni singolo individuo in attesa del proprio volo non avesse di meglio da fare che guardare il povero Simon. Deglutì e decise di concentrarsi solo sui tasti.
“Sono sicura che sarai bravo, invece.”
Di certo, Simon apprezzava la fiducia.
Mosse le dita velocemente in aria, quasi come se volesse scaldarle, prima di appoggiarle sopra ai tasti e cominciare a suonare. All’inizio, l’agitazione lo fece sbagliare, ma poi una volta preso il via, le sue dita si mossero sui tasti con un’agilità che stupì persino se stesso. Stava suonando e senza titubanza alcuna. Non sbagliava più. E questa sua sicurezza si portò dietro una buona dose di coraggio, tanto che Simon iniziò persino a cantare.
Nel mio cuore sento un odore amaro di limone che non va via, non potrò tornare a casa finché non smette di piovere. Anche ora, tu sei la mia luce.(1)
Simon arrossì leggermente mentre cantava quell’ultimo pezzo e sentì chiaramente l’emozione stringergli la gola, per cui decise di continuare a suonare senza cantare la strofa successiva. La sicurezza che l’aveva invaso prima si era smussata un tantino, quindi decise che avrebbe solo continuato a suonare.
E quando arrivò alla fine, rimase qualche istante con le mani ferme sui tasti, prima di alzare lo sguardo su Isabelle, che l’aveva ascoltato – rapita e in silenzio – per tutto il tempo.
Aveva un luccichio negli occhi che fece attorcigliare le già agitate budella di Simon, ma decise di non prestarci troppa attenzione.
“Sei stato bravissimo.”
E quelle parole gli fecero così piacere, che Simon non percepì altro, nemmeno lo scroscio di applausi che era partito dagli altri ascoltatori.



Un’ora dopo lo spettacolo improvvisato di Simon, i due si trovavano in un altro bar, dove erano finalmente riusciti a trovare muffin e caffè alla nocciola.
Seduti una di fronte all’altro, mangiavano i loro muffin in silenzio, fino a quando Isabelle non lo ruppe.
“Perché non canti? Nella tua band, intendo.”
Simon fece spallucce. “A volte lo faccio, ma Clary è molto più brava di me. Io faccio i cori. La mia vera vocazione è la chitarra.”
“Io credo che la tua vocazione sia la musica in generale, Simon. Penso tu abbia una specie di dono musicale.”
Simon arrossì e abbassò lo sguardo sul suo muffin. Se avesse potuto affondarci la faccia, l’avrebbe fatto. Non sapeva reggerli, i complimenti, di nessun genere.
“I-io, b-beh i-io…” Farfugliò, poi si diede mentalmente dell’imbranato e decise di arrendersi. “Grazie.” Finì col dire semplicemente. “La musica mi è piaciuta fin da quando ero bambino, ma mia madre non pensava fosse la strada giusta per me. Diceva che dovevo buttarmi su qualcosa di più concreto. Voleva che prendessi economia, al college, ma io sapevo che non era la mia strada. Sarei stato infelice e… la vita non è fatta per essere infelici.”
Solo allora alzò di nuovo lo sguardo su Isabelle, certo che il suo rossore iniziale fosse svanito. Trovò sul viso della ragazza un sorriso luminoso e… complice, in qualche modo, come se lei sapesse esattamente di cosa stesse parlando.
“È capitato anche a te?” le chiese, curioso.
Isabelle annuì. “Sono una fotografa di moda. All’inizio, da bambina, volevo fare la stilista, ma poi ho scoperto che non so né cucire, né disegnare. Passata la delusione iniziale, ho capito che comunque non avrei mai rinunciato alla moda, era la mia passione e volevo averci a che fare il più possibile. Così ho provato la fotografia e ho scoperto che ero bravina.” Si fermò e sorrise teneramente, prima di continuare. “Beh, Alec direbbe bravissima, ma lui è di parte. Comunque, quando ho detto che avrei voluto studiare per diventare fotografa professionista, dopo il liceo, i miei genitori non l’hanno presa benissimo. Ci sono state un sacco di discussioni, prima che arrivassero a capire il mio punto di vista.”
Simon annuì, comprendendola in pieno. “Ti sei mai pentita?”
“No. Non è stato facile. Ho avuto a che fare con tantissime delusioni, ma ce l’ho fatta. Sono esattamente dove voglio essere. E tu?”
Simon negò con il capo. “Nemmeno io. Nonostante le porte in faccia, quello che faccio mi rende felice. Anche se non fossimo stati notati da nessuno, avremmo comunque continuato a suonare nei pub la sera e di giorno avrei continuato ad insegnare chitarra ai ragazzini. Mi piace il mio lavoro.”
Isabelle sorride. “Scommetto che sei anche bravo nel tuo lavoro.”
Simon fece spallucce e, dopo aver raccolto una buona dose di coraggio, decise di buttarsi: “Potresti… sì, un giorno, se ne hai voglia… potresti venire a sentirm-sentirci suonare.”
Isabelle annuì con vigore, un sorriso le tirava il viso da orecchio ad orecchio. “Mi piacerebbe moltissimo. Potrei farvi anche qualche foto, magari per lasciarle al pezzo grosso della musica.”
“Lo faresti?” le chiese stupito.
“Certo.”
“Ti pagheremo, però. Non devi lavorare gratis.”
“Non se ne parla. Non lo vedo come un lavoro, Simon, è più un favore.”
Simon era davvero felice. “Grazie, allora.” Le disse, grato. “Dopo questo tuo atto di generosità, posso offrirti la nostra cena a base di muffin e caffè?”
Isabelle ridacchiò e non fu capace a dirgli di no – non quando Simon sorrideva in quel modo dolce e un po’ impacciato.
Dopo aver pagato, uscirono da quel bar e si rimisero in cammino, girando per i vari negozi e chiacchierando spensierati.
Il tempo passa davvero più in fretta, se siamo con qualcuno che ci piace.




“Immagina se rimassi bloccata per sempre in un unico posto. Quale sarebbe?” Domandò Simon, mentre sfilava dal pacchetto di caramelle un verme gommoso.
Erano seduti vicini, in due sedie, nelle zone d’attesa vicino ai gate. Mancava solo un’ora e mezza al loro volo, quindi avevano deciso di terminare la loro attesa lì.
Isabelle aveva sbadigliato più di una volta e Simon per aiutarla a scacciare la sonnolenza aveva proposto una buona dose di zuccheri e un gioco per distrarla.
L’accoppiata della distrazione – così l’aveva ribattezzata Simon – consisteva nel gioco delle domande e caramelle.  
Isabelle dal sacchetto ne prese una a forma di fragola. “Un supermercato. È comodo. C’è tutto: cibo, acqua, prodotti per lavarmi.”
“Ma non c’è un letto.”
“Ma vendono coperte. E tende per il campeggio. Potrei benissimo costruire un letto improvvisato con queste cose.”
Simon rise e finì il suo verme gommoso. “D’accordo, Bear Grylls, hai vinto tu.”
Izzy batté le mani vittoriosa, tenendo la caramella ferma tra i denti. “E tu, invece? Che posto sceglieresti?”
Simon parve pensarci su. Si guardò intorno, picchiettandosi teatralmente sul mento. “Un aeroporto. C’è cibo, acqua, un bagno, e potrei risolvere il problema del cambio vestiti trafugando nelle valige altrui!”
Izzy scoppiò in una risata. “Simon! Non ti facevo un ladruncolo!”
“Sono un fuorilegge, bambina.” Commentò lui, cercando di assomigliare il più possibile ad un cowboy del vecchio e selvaggio west e di non sentirsi troppo in imbarazzo per quell’uscita. Voleva davvero mostrarsi sicuro di sé, impavido persino, ma la verità era che davanti ad Isabelle si sentiva come se lei fosse Jessica Rabbit e lui Roger. Una piccola parte del suo cervello gli disse che avevano finito per sposarsi, quei due, e che sebbene fossero all’apparenza incompatibili, lo erano sotto ogni punto di vista che in realtà contasse davvero. Roger e Jessica erano le due facce della stessa medaglia – così diversi, ma che funzionavano alla perfezione, come gli ingranaggi di un orologio, due pezzi di puzzle che vanno a completare la figura sebbene non siano uguali. E forse – anzi, sicuramente continuò a suggerirgli il suo cervello so-tutto-io – stava correndo un po’ troppo, ma… aveva una strana sensazione, dentro. Era quasi come se in cuor suo, in una remota zona del suo essere, stesse nascendo la certezza che si sarebbero rivisti, che avrebbero riparlato, che avrebbe continuato a conoscerla.
Isabelle lo guardò di traverso, cercando di trattenere un sorriso che, nonostante i suoi sforzi le aprì il viso e si sporse per prendere un’altra caramella. Era a forma di mela verde.
“E se ti capitassero vestiti da donna, signor fuorilegge?”
“Li indosserei con quanta più femminilità possibile!” Esclamò Simon, fiero della sua risposta, azzannando una caramella a forma di ciliegia.
Isabelle scoppiò a ridere. “Ti vorrei proprio vedere con un vestito!”
“Rimarresti piacevolmente colpita dalle mie gambe, signorina. Ho tutte le misure da vera modella!”
La risata di Isabelle aumentò, tanto che alcuni passanti la guardarono persino male, ma né a lei né a Simon importò granché.
Lei si stava davvero divertendo, il malumore iniziale provato per la notizia del ritardo era sparito totalmente da ore, e Simon… a Simon, dal canto suo, sembrava piacesse estremamente farla ridere. C’era un che di contagioso e luminoso nella risata di Isabelle, così spontanea e cristallina.
“Ti fotograferei, come una vera modella.”
“Mi pare giusto,” Annuì Simon, prendendo una caramella a forma di ananas. “Se qualcuno deve lanciare la mia carriera nella moda, voglio che sia tu a farlo.”
Isabelle ridacchiò, scuotendo la testa e prendendo una caramella. Le capitò un verme gommoso giallo e lo addentò.
“Però niente photoshop, voglio che il mondo veda anche i miei difetti. È giusto trasmettere un messaggio di accettazione verso noi stessi.”
Ad Isabelle quella filosofia piacque. “D’accordo, anche se, comunque, non avrei usato photoshop in ogni caso. Hai un bel viso.” Lo disse con una semplicità disarmante, non c’era malizia nella sua voce, stava semplicemente esternando un pensiero, ma quelle parole fecero comunque arrossire Simon fino alle orecchie. Abbassò lo sguardo sulle sue mani, dandosi per l’ennesima volta dell’imbranato. Avrebbe voluto risponderle con un diretto anche tu, oppure buttarsi di più e azzardare un sei bellissima, Isabelle, ma non lo fece. Si limitò a pensarlo, mentre si fissava le mani e sentiva il viso caldo.
Isabelle notò quella reazione e si affrettò a scusarsi. “Non volevo metterti in imbarazzo, Simon, scusami se ho detto qualcosa che ti ha disturbato.”
Simon, nonostante tutto, si trovò a sorridere davanti a tanto tatto. “Ma no, non hai detto niente di male, anzi. Io… non sono abituato ai complimenti diretti. O a rispondere ai complimenti. Se lo fossi, avrei trovato il coraggio di dirti che anche tu hai un bel viso.”
Isabelle sorrise e gli appoggiò delicatamente due dita sotto al mento per fargli alzare il viso. “L’hai appena fatto.” gli disse, quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo.
“È vero,” si rese conto Simon, “Spero solo che adesso non penserai che sono un tizio inquietante.”
Isabelle rise. “Assolutamente no, Simon.”
Lui fece finta di asciugarsi la fronte. “Meno male!” Le sorrise e lei ricambiò quel sorriso. Rimasero un attimo a guardarsi, in silenzio, convinti che questa bolla in cui erano finiti sarebbe esplosa una volta tornati alla realtà. Era troppo bello per essere vero. Era una coincidenza troppo fortunata perché loro potessero continuare ad essere anche nella vita di tutti i giorni ciò che erano dentro a quell’aeroporto. Compatibili a prima vista, eppure così diversi.
Isabelle, sebbene quel pensiero risultasse folle, non poté fare a meno di pensare ad Alec e Magnus. Anche loro erano stati compatibili a prima vista, sebbene avessero due caratteri completamente opposti, e adesso lei stava tornando a casa per partecipare al loro matrimonio.
Forse, si disse, le coppie migliori sono quelle che non ti aspetti.
Forse, tutti i suoi rapporti avevano fallito perché aveva cercato persone sbagliate.
O forse, le sue relazioni erano tutte finite perché certe cose non devi cercarle, ma aspettarle. Sono certe emozioni che trovano te, e non il contrario.
Si sentì davvero folle ad associare un pensiero simile ad ragazzo appena conosciuto, ma forse, avrebbe scoperto se poteva avere ragione facendo un passo alla volta. Magari poteva prima chiedergli di uscire e poi capire effettivamente se avessero potuto funzionare, diventare qualcosa di più.
“Simon, una volta che saremmo tornati a New York…” Fece una pausa aspettando che lui la guardasse. “Ti andrebbe di uscire con me?”
Simon, gli occhi incatenati a quelli carbone di Isabelle, non riuscì a trattenere un sorriso euforico. “Un appuntamento vero? Senza la scusa di venirmi a vedere suonare o fare foto per la band?”
Isabelle ridacchiò. “Esatto. Solo io e te.”
“Mi piacerebbe moltissimo!” E non si sa con quale coraggio, ma si sporse leggermente verso di lei per lasciarle un bacio sulla guancia. Un gesto che stupì piacevolmente Isabelle, al punto che le sue guance si colorarono di un intenso rosa.
Si guardarono in silenzio, lasciando che quel gesto aleggiasse tra di loro per qualche istante, quasi volessero evitare di rovinare la sua spontaneità con le parole.
Ma poi una voce metallica interruppe quel momento, annunciando l’apertura dei gate e le chiamate per i singoli voli.
“L’attesa è finita.” Annunciò Simon.
Izzy annuì. “Però è stata piacevole.”
Simon le sorrise e si alzò, offrendole una mano per aiutarla ad alzarsi – una mera scusa per avere un minimo contatto, pienamente consapevole che Isabelle non aveva davvero bisogno di aiuto per un gesto così elementare. Lei comunque afferrò la sua mano e si alzò, sorridendogli. Una volta in piedi, interruppero quel piccolo contatto, ma rimasero l’uno accanto all’altra e si diressero verso il loro gate. Rimasero in fila circa un quarto d’ora, del quale approfittarono per scambiarsi – finalmente – i numeri di telefono e continuare il gioco delle domande.
Una volta saliti sull’aereo si sistemarono ai loro posti: Isabelle vicino al finestrino, Simon accanto a lei.
“Domanda: hai paura dell’altezza?”
“No,” rispose lei, “E tu?”
Simon negò con il capo.
“E di cosa hai paura?”
“Dei laghi. Mi inquietano. Non sai mai cosa c’è davvero nei fondali.”
Izzy annuì, come se prendesse nota di quell’informazione e in un certo senso la condividesse. “Io ho il terrore dei topi. Mi disgustano. E lo so che suona come un clamoroso cliché da ragazza.”
“Siamo tutti fatti di cliché, a modo nostro.”
“Vero,” concordò Isabelle.
La loro conversazione venne interrotta dal segnale luminoso che diceva di allacciare le cinture, poi una hostess cominciò a indicare le uscite di sicurezza e il protocollo da seguire in caso fosse successo qualcosa. Intanto dagli altoparlanti usciva una voce registrata che spiegò le stesse cose in inglese, francese, tedesco e un’altra lingua che né Simon né Isabelle riconobbero. Rimasero in silenzio ad ascoltare e osservare la hostess, poi l’aereo decollò. Dopo qualche minuto di volo, entrambi si addormentarono, troppo stanchi per riuscire a fare altro.


Ore dopo, il primo a svegliarsi fu Simon. Sorrise, quando si rese conto che il peso sulla sua spalla era la testa di Isabelle, che dormiva ancora, tranquilla e rilassata. Decise di rimanere immobile per non rischiare di svegliarla e guardò fuori dal finestrino. Il sole stava sorgendo e l’alba illuminava le nuvole di un tenue color arancio e rosa. New York si vedeva in lontananza e il pilota aveva già iniziato la manovra di atterraggio.
Era stata un’esperienza quasi surreale, degna di qualsiasi film o libro romantico. Simon faceva persino fatica a credere che non fosse tutto un bellissimo sogno, ma Isabelle al suo fianco, il contatto con la sua spalla e il suo profumo che gli invadeva piacevolmente le narici, gli dimostravano il contrario. Lei era reale, e questo pensiero gli fece accelerare il battito cardiaco.
L’avrebbe rivista.
L’avrebbe conosciuta meglio.
E Simon, davvero, non vedeva l’ora.  

 

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Capitolo 2
*** 2. A Chicago, è il re che fa le regole ***


Ecco la seconda storia che partecipa al contest.
In questo caso le parole assegnate erano: fogne e regole, mentre per quanto riguarda la canzone era Je vole di Louane.
Vorrei specificare che questa, a differenza delle altre storie, ha più un rating tendente al giallo/arancione, per le tematiche trattate e per il linguaggio usato in qualche frase. Niente di esagerato, ma è sempre meglio specificare!
Ringrazio Rurijo sama e chiunque voglia leggere questa storia.
Spero vi piaccia perché, onestamente, a me immaginare Magnus nei panni di un gangster è piaciuto parecchio!
Non escluso che in alcuni casi, i personaggi possano essere un tantino OOC rispetto agli originali!




                                                                      ◊                                                                

                                              

                                                    A Chicago, è il re che fa le regole.




Chicago era sempre stata corrotta.
Dai tempi dei tempi, era stata invasa da gang e da boss della malavita.
Il culmine era stato raggiunto negli anni ’30, quando Al Capone era a capo della mafia e gestiva, tra le altre cose, un traffico di alcolici illegale che riforniva ogni bar nel South Side di Chicago.
Persino gli irlandesi, originari padroni di quel lato della città, si erano piegati alla sua volontà.
E Alec, che aveva studiato la storia della sua città, era stato fermamente convinto che un’epoca simile non sarebbe più ritornata.
Le sparatorie, le guerre tra gang, i capi gangster erano finiti. Avrebbe davvero voluto che fosse così. Ma la realtà era un’altra: Alec Lightwood, detective nella polizia di Chicago, si sbagliava di grosso.
Perché, appunto, Chicago era corrotta.
E il South Side di Chicago era marcio fino all’osso. Quella parte di città in particolare era in mano alla malavita, ogni cosa era controllata dal boss dei boss, l’uomo che non veniva nemmeno nominato, tanto che era temuto.
Tutti lo chiamavano il Demone, o lo Stregone, perché dicevano che fosse dotato di abilità speciali. Coloro che l’avevano incontrato, credevano che riuscisse a prevedere il futuro, o a compiere incantesimi e maledizioni.
La verità, secondo Alec, era un’altra: Magnus Bane, così si chiamava l’uomo che tirava le fila di Chicago, era solo un ottimo stratega, qualcuno che sapeva come giocare le proprie carte per crearsi una reputazione ad hoc. Tutte quelle voci servivano solamente per scoraggiare e intimidire i suoi nemici, come se la sua brutalità omicida non fosse abbastanza. No, Magnus Bane aveva giocato d’astuzia e aveva aggiunto un elemento mistico, sovrannaturale, alla sua già temuta figura.
Alec gli stava dietro da anni e non era mai riuscito ad incastrarlo. E davvero, a volte gli sembrava di essere salito su una macchina del tempo ed essere tornato agli altri ’30, dove tutti conoscevano i crimini di Capone, ma nessuno poteva dimostrarli.
Alec doveva ritenersi fortunato se anche lui fosse finito come Eliot Ness e avesse potuto aggrapparsi ad un cavillo ridicolo come l’evasione fiscale per incastrare Bane.
Era frustrante.
E ancora più frustrante era essere un poliziotto onesto e pulito in un distretto pieno di sbirri corrotti.
Tutti, persino il capitano del suo distretto, erano sul libro paga di Magnus Bane. Tutti si giravano dall’altra parte, quando lo Stregone commetteva un crimine, o mandava Raphael Santiago, il suo braccio destro, a compierlo per lui.
Lo chiamavano il Vampiro, perché aveva una tendenza particolare, quando torturava le sue vittime: cominciava a dissanguarle fino a che non le spingeva a parlare. Era brutale, spietato. Un cecchino estremamente dotato, un sicario infallibile. Raphael era un segugio. Riusciva a trovare chiunque e con un solo ordine da parte di Magnus, poneva fine alla vita del suo bersaglio.
Incontrare Raphael Santiago era come incontrare il Mietitore – e Alec, se fosse stato uno dei gangster che si divertono a dare nomi agli altri gangster, avrebbe proposto anzi quello, piuttosto che ‘Vampiro’, ma questi non erano affari suoi.
Nei suoi affari rientravano la volontà di ripulire un distretto corrotto da anni, in cui lui poteva contare solo su due persone: Jace Herondale, il suo partner, e sua sorella Isabelle, il medico legale.
Le mattine di Alec iniziavano tutte allo stesso modo: lui entrava in dipartimento, si sedeva alla sua scrivania e  sfogliava i fascicoli di vecchi casi irrisolti per cercare di trovare un qualche indizio che l’avrebbe condotto al vero colpevole: Magnus. Sapeva che tutti i casi che gli capitavano sotto mano erano stati insabbiati dai suoi colleghi corrotti e lui cercava in ogni modo di riuscire, invece, a fare giustizia.  
Era convinto che se avesse anche solo trovato l’accenno di uno schema, un modus operandi, avrebbe potuto almeno connettere i crimini e, in un secondo momento, concentrarsi sul trovare le prove necessarie ad incastrarlo.
Per questo Alec non era molto popolare, tra i suoi colleghi. Tutti sapevano che la sua mentalità da boyscout non avrebbe portato niente di buono, ma sapevano anche che, finché avevano il capitano Victor Aldertree dalla loro parte, Alec rimaneva minaccioso come una mosca in una tana di ragni.
E questa consapevolezza era una delle tante cose che lo mandava in bestia. L’assoluta certezza di non essere altro che un sassolino lanciato nell’oceano. Ma nonostante questo, non aveva mai nemmeno pensato di arrendersi. Farlo significava andare contro ogni suo principio.
Arrendersi avrebbe significato perdere anche la minima speranza che, un giorno, la giustizia avrebbe vinto.
“Hai trovato qualcosa di nuovo, stamani?” Domandò Jace, sedendosi alla sua scrivania, di fronte a quella di Alec.
Il detective alzò lo sguardo sul partner. Lui e Jace erano come fratelli. Si conoscevano fin da bambini. Avevano frequentato le stesse scuole e quando erano stati abbastanza grandi, erano entrati in accademia insieme. I migliori del loro corso. Il loro istruttore li metteva sempre insieme e Jace era fermamente convinto che lo facesse per creare un po’ di ‘sana competizione’ tra di loro, o eventualmente per fare in modo che si addestrassero con qualcuno che fosse veramente alla loro altezza.
Alec aveva sempre creduto che Jace fosse un tantino narcisista, ma a parte quello, aveva un cuore grande e generoso.
Non aveva un solo ricordo dove lui od Isabelle non fossero presenti, per questo lo reputava come un fratello.
Erano sempre stati un trio inseparabile.
Nelle gioie e nei dolori, ma, in quel momento, Alec non voleva pensare ai dolori ricevuti nella sua vita.
O ad uno in particolare.
“No, non ancora. Sempre le stesse cose e sempre la solita assenza di prove. Mi sembra di brancolare nel buio!”
La sua frustrazione non fece in tempo a manifestarsi, perché la loro conversazione venne interrotta dal capitano Aldertree.
“Lightwood, Herondale, c’è un caso per voi.”
Entrambi i detective si alzarono dalle rispettive scrivanie – Alec fece molta attenzione a nascondere il fascicolo che stava esaminando – e rimasero in attesa di qualche delucidazione.
Aldertree, capitano del dipartimento da otto anni, ormai, era un uomo alto, dalla pelle scura e profondi occhi scrutatori. Sembrava sempre che sapesse quello che passava per la testa di ogni singolo poliziotto sotto il suo comando. C’erano delle volte in cui Alec aveva il sospetto che sapesse esattamente cosa faceva alle sue spalle, ma nonostante questo, quel dubbio non gli aveva mai creato nessun tipo di timore.
Non aveva paura del suo capitano.
“Hanno trovato un cadavere nelle fogne, stamattina. Ho già mandato Isabelle. Raggiungetela.” Consegnò un foglietto a Jace e senza aggiungere altro se ne tornò nel suo ufficio.
I due detective si guardarono una frazione di secondo, prima di abbassare lo sguardo sul foglio. Un indirizzo.
“Guido io.” Affermò Jace. Alec annuì e, insieme, uscirono dal distretto.


Raggiunsero l’indirizzo circa una ventina di minuti dopo. Sulla strada, c’era già una serie di agenti in divisa che avevano circoscritto il perimetro della scena del crimine con del nastro giallo dove campeggiava la scritta Polizia di Chicago in nero. Era un monito che doveva significare ‘state alla larga’, ma in realtà sembrava che più che allontanare i curiosi, li avvicinasse.
A volte sembrava che i civili non realizzassero effettivamente che era stato compiuto un crimine, in quelle zone delimitate. La loro curiosità era sempre più forte di quel senso di disagio e rispetto che si dovrebbe provare di fronte alla morte.
E di conseguenza, ogni volta che si avvicinavano alla scena del delitto, Alec e Jace dovevano prima superare un mucchio di curiosi.
Una volta arrivati davanti al nastro, un agente in divisa lo sollevò facendoli passare. Alec riconobbe alcuni membri della scientifica che stavano lavorando in superficie, cercando delle tracce che sarebbero poi diventate prove. Al centro della scena, trovò un tombino aperto, dal quale fuoriusciva un odore terribile.
“Dimmi, partner, non ami particolarmente il tuo lavoro quando dobbiamo letteralmente immergerci nella merda?”
Alec lanciò un’occhiataccia a Jace. “Puoi essere serio per una volta?”
“No. Ci sei già tu che sei serio per entrambi. Ci vuole un po’ di equilibrio.”
Alec scosse la testa, ma in cuor suo sapeva che Jace aveva ragione. Erano sempre stati le due facce della stessa medaglia. Il sole e la luna. Erano diversi sotto tantissimi punti di vista. E forse era per questo motivo che si completavano. Non si poteva avere Alec, senza avere Jace –  e con il tempo, era come se un lato del loro essere si  fosse amalgamato al modo di fare dell’altro, quasi come se esistesse un pezzo di Alec dentro l’anima di Jace e un pezzo di Jace dentro l’anima di Alec.
I loro cervelli ragionavano in modi completamente diversi, ma ciò aveva fatto sì che riuscissero a vagliare ancora più possibilità e a riuscire a risolvere più casi di ogni altro detective.
“Scendi tu per primo, visto che ami particolarmente il tuo lavoro quando devi immergerti nella merda?”
Jace lo fulminò. “Stavo facendo del sarcasmo.”
Alec si lasciò sfuggire un sorriso. “Lo so, io invece no. Scendi prima tu.”
“Ti odio.” Brontolò Jace, senza preoccuparsi di non farsi sentire dal collega. Si diresse verso il tombino aperto e si preparò a scendere giù per la scaletta. Una volta che Alec lo vide scendere l’ultimo piolo, scese a sua volta. La scala su cui stava scendendo era di un metallo freddo e bagnato, che rendeva faticosa l’aderenza. L’odore di fogna aumentava mano a mano che scendeva ogni piolo e quando mise piede sul pavimento, a quell’odore di umidità, urina ed escrementi andò ad aggiungersi anche quello pungente di cadavere.
Si coprì d’istinto il naso, notando che Jace aveva fatto lo stesso, prima di guardarsi intorno. Notò Isabelle a pochi metri da loro, vestita con una tuta protettiva bianca e china sul cadavere. Lo stava esaminando, così, con un’occhiata complice, sia Alec che Jace decisero di avvicinarsi al medico legale.
“Ehi, Iz.” La salutarono all’unisono.
“Ciao, ragazzi.” Isabelle si alzò e si avvicinò ai due, porgendoli una scatolina. Sembrava uno di quei contenitori per creme da viso, ma quando entrambi lo aprirono a turno, capirono che era una di quelle pomate al mentolo da mettere sotto al naso per coprire l’odore di putrefazione dei corpi.
“Cosa abbiamo?” Chiese Jace.
“Chase Montgomery, vent’anni. Gli abbiamo trovato i documenti in tasca. Dallo stato di putrefazione direi che è morto da almeno tre giorni e credo che non sia stato ucciso qui.”
“Pensi ci sia una scena primaria?”
Isabelle guardò il fratello e annuì. “Guarda le sue braccia. Sono piene di tagli. Se fosse stato ucciso qui, il pavimento sarebbe pieno di sangue e invece è tutto pulito.”
Alec si chinò sul cadavere per cercare un qualsiasi indizio. Lo osservò. Era giovane, si vedeva nonostante la morte stesse consumando i suoi tratti. La pelle era pallida, grigia, e si stava irrigidendo, come il resto degli arti. Gli occhi erano vitrei e fissavano, in eterno, un punto sopra al soffitto di quella fognatura. Le labbra violacee, secche e screpolate, erano aperte, quasi come se fossero testimonianza di tutte le grida lanciate da quel poveretto mentre veniva tagliuzzato.
Le braccia erano piene di tagli,  come aveva detto Isabelle, ma i pantaloni lunghi e le scarpe impedivano di riconoscere possibili altre lesioni. Chissà se era stato torturato. Chissà che ragioni credeva di avere l’assassino per giustificare un tale atto. Alec ne aveva incontrati tanti, di assassini, in vita sua. E tutti, nessuno escluso, si erano sentiti legittimati a compiere quel gesto. Per la maggior parte di loro, togliere la vita ad un altro essere umano, altro non era che un pareggiamento di conti. La vittima aveva rivolto loro una parola storta e quelli avevano creduto fosse opportuno vendicarsi con l’omicidio.
Altri ancora, quelli che più spaventavano Alec, erano assassini a sangue freddo. Uccidevano solo per il gusto di farlo. Questi erano i peggiori perché non provavano rimorso alcuno, mai. Erano convinti che generare caos e paura fosse la loro personale vendetta contro una società che li aveva disprezzati, o ignorati troppo a lungo. Erano freddi calcolatori, incapaci anche della minima empatia.
“Probabilmente, l’hanno portato qui per farlo mangiare ai topi.” Ipotizzò Jace, chino a sua volta sul cadavere, dopo aver notato dei piccoli morsi all’altezza dei lobi delle orecchie. “Anche se non ha molto senso. Se vuoi liberarti di un cadavere ci sono altri modi più sicuri per farlo.”
“Forse voleva lo trovassimo.”
“Ma a che scopo?”
“Non lo so.” Alec diede un’occhiata al cadavere. Pensò in automatico a quello che era prima di morire. Una persona, con una vita e dei familiari. Familiari che, magari, adesso, si stavano chiedendo che fine avesse fatto. “Intanto, parliamo con la famiglia, vediamo se riescono a dirci qualcosa di più su di lui.”
Jace annuì. “Izzy, quando l’hai esaminato ci chiami?”
Il medico guardò entrambi. “Certo. Adesso lo portiamo in laboratorio e faccio tutti gli esami, autopsia compresa. Poi vi chiamo.”
“Grazie.” Le dissero, all’unisono, prima di lasciare la scena del crimine e tornare in superficie.



Dopo una prima ricerca, Alec e Jace avevano scoperto che Chase Montgomery, orfano di padre, abitava nel South Side. Era stato schedato nel database della polizia per qualche piccolo furto di cibo. Chase andava nei supermarket, aspettava che il proprietario fosse distratto e rubava da mangiare. Non possedeva un’arma, non aveva mai minacciato nessuno, ma qualche negoziante l’aveva beccato e aveva chiamato la polizia. Il ragazzo si era fatto qualche mese di carcere a periodi alterni e poi, improvvisamente, era rimasto fuori da scenari simili.
O almeno, così diceva sua madre.
“Aveva messo la testa a posto, detective, ve lo assicuro.” La signora Montgomery, seduta su una vecchia poltrona davanti ad Alec e a Jace, tirò su con il naso.
Aveva gli occhi arrossati dal pianto e il viso trasformato dal dolore. Sembrava che la notizia della morte del figlio avesse ucciso anche una parte di lei che adesso stava marcendo dentro al suo cuore, rovinando anche tutte le altre parti del suo essere. Come l’inizio di una metastasi. Si era inevitabilmente rotto qualcosa, dentro quella donna, e non sarebbe più tornata come era prima.
Alec lo sapeva. Lui stesso aveva provato quella sensazione sulla propria pelle. Lui stesso era stato vittima di quel dolore – un dolore che lascia tagli e ferite e non rimargina mai.
“Come fa ad esserne sicura?” Domandò Jace, cercando di fare appello a tutto il suo tatto.
La donna si asciugò il naso con un fazzoletto di cotone ricamato. “Perché aveva trovato un lavoro. Era felice. Rientrava a casa tutte le mattine con il sorriso in faccia, nonostante la stanchezza.” Gli occhi della donna si riempirono di lacrime. “Era così orgoglioso. Mi diceva sempre mamma, ora posso aiutarti senza rischiare di finire nei guai.” La donna nascose il viso nel fazzoletto, versandoci dentro un pianto che ormai non riusciva più a trattenere.
Alec e Jace si guardarono, lasciando alla signora un attimo per sfogarsi. Quando il pianto della donna si calmò, tornò a guardare i detective in viso e allora Alec parlò.
“Dove lavorava suo figlio?”
“Al Pandemonium. Faceva il barista.”
Alec riuscì chiaramente a percepire il proprio sangue che gli si gelava nelle vene. Il Pandemonium apparteneva a Magnus Bane ed era ciò che si poteva definire la copertura legale di tutti i suoi affari. Agli occhi della legalità, Magnus altro non era che il proprietario di un nightclub. Ma Alec sapeva quale fosse la verità: il club serviva da facciata per tutti i suoi loschi affari – armi, principalmente, e servizi di protezione a coloro che stavano sul suo territorio , offerti in cambio di una lauta percentuale in denaro.
“Da quanto?”
“Cinque mesi, ormai.”
“E non ha mai notato niente di strano? Un cambiamento d’umore, una telefonata sospetta…”
La donna ci pensò su. “No, niente del genere. Chase era tranquillo.”
“D’accordo, signora Montgomery, per adesso abbiamo finito. Ci chiami se le viene in mente altro.” Intervenne Jace, alzandosi dal divano dove la signora li aveva fatti accomodare e spronando Alec a fare lo stesso, prendendolo per un gomito. Lasciò il suo biglietto da visita alla signora e, dopo averla salutata, si diresse verso la porta.
Una volta in corridoio, Alec si liberò dalla presa del collega con uno strattone. “Non sono un bambino, Jace!”
“No, ma so riconoscere quello sguardo! Quell’uomo è la tua ossessione e diventerà la tua rovina se non impari a razionalizzare!”
“Io so razionalizzare benissimo. Guardiamo i fatti, ti va?” Sputò con sarcasmo, “Chase è un ladruncolo da quattro soldi che ruba per mangiare. La preda perfetta. Magnus Bane scopre il suo passato, gli offre un lavoro nel suo club e lo usa per i suoi loschi affari. Un ragazzo disperato come Chase accetta qualsiasi compito, dal momento che Bane gli offre un sacco di soldi. Chase è felice, può finalmente aiutare sua madre che nonostante faccia due lavori non riesce a pagare l’affitto. Poi però un giorno ficca il naso dove non deve, o vede qualcosa che non deve vedere e boom, Chase muore.”
Jace si passò una mano sulla faccia. Sapeva perché Alec si trasformava in quel modo. La sua calma e la sua razionalità davanti a Magnus Bane finivano in mille pezzi, come se improvvisamente un sasso fosse stato lanciato contro uno specchio. E poteva capirla, la sua rabbia. Bane teneva in mano la città da anni. Dettava lui le regole, sceglieva lui chi doveva vivere o morire. Sceglieva chi proteggere e chi condannare. E il tutto era condito da una buona dose di protezione fornita da sbirri corrotti.
Ma il fatto era un altro ancora. La rabbia di Alec era alimentata da una perdita che bruciava ancora, nutrita da quel senso di ingiustizia che solo una morte prematura può portare.
“Dammi le prove.” Gli disse, guardandolo negli occhi cervoni. “Dammi le prove, Alec, e sai che ti seguirò fino in capo al mondo.”
“Non ne ho.” Ammise arrendevole, la rabbia che sciamava lasciando il posto all’amara consapevolezza.
“Non ne hai. E mai ne avrai se continui a farti prendere dalla rabbia e dal rancore ogni volta che hai anche solo il sospetto che si tratti di Bane. I sospetti non bastano. Trattalo come un qualsiasi altro criminale e analizza tutto in modo distaccato e razionale. Solo così sarai in grado di ragionare lucidamente e trovare le prove che ci servono.”
“È difficile rimanere distaccati.” Ammise, la gola che si stringeva in un pianto trattenuto, il dolore che tornava ad ondate a torturargli il cuore.
“Lo so. Ma devi provarci.”
Alec annuì e proprio mentre il silenzio stava per avvolgerli, il suo cellulare squillò. Il nome di Isabelle campeggiava sullo schermo e quando rispose, lei lo informò che aveva appena finito l’autopsia e aspettava entrambi nel suo laboratorio.
Jace e Alec uscirono da quell’edificio e salirono in macchina, diretti al dipartimento.


Per arrivare al laboratorio di medicina legale bisognava attraversare tutto il dipartimento di polizia, arrivare ad un ascensore e scendere un piano sotto terra. Si doveva percorrere un lungo corridoio pieno di luci al neon e muri di un verde pallido, prima di arrivare alla porta con su scritto Isabelle Lightwood, medico legale.
Jace bussò e Isabelle, da dentro il suo studio, disse che potevano entrare. Dentro allo studio di Isabelle la temperatura era leggermente più bassa rispetto alle altre stanze. Il tavolo per l’esame autoptico occupava il centro della stanza, illuminata con forti luci bianche che servivano ad Isabelle per riuscire a vedere meglio anche i minimi dettagli.
“Ciao ragazzi.”
“Ciao, Iz.” Le risposero. 
La ragazza aveva il volto teso, preoccupato, e Alec se ne accorse subito. “Izzy, che c’è?” Si avvicinò a lei e le mise le mani sulle spalle. Era sempre stato così, tra di loro. Riuscivano a percepire il malumore dell’altro e bastava un semplice contatto per darsi conforto.
“Non ti piacerà quello che ho scoperto. Cavolo, non piace nemmeno a me…” I suoi occhi antracite evitavano quelli del fratello, quasi avesse paura di leggerci le stesse emozioni che sapeva albergavano i suoi.
“Izzy.” La chiamò. “Guardami. Qualsiasi cosa sia, voglio saperla.”
Isabelle fece un grosso sospiro. “Chase è stato dissanguato. E ho trovato questa, cucita sotto alla sua pelle, dietro alla nuca.” Si voltò verso il tavolo dei suoi attrezzi e sollevò una busta di plastica dove dentro c’era una stella d’argento. “È priva di impronte, l’ho già fatta analizzare, ed è stata cucita…”
“Post mortem.” La anticipò Alec, che aveva già capito cosa volesse dirgli la sorella.   
Isabelle annuì. “C’è anche la stessa M incisa.” I suoi occhi si gonfiarono di lacrime, ma le ricacciò indietro. Un’ondata di dolore familiare le invase il corpo, ma si concentrò per domarlo. Non voleva lasciarsi andare davanti ad Alec perché sapeva che lui avrebbe messo da parte il proprio dolore per concentrarsi sul suo. Si sarebbe messo da parte per consolare lei, come tendeva a fare sempre, ma questo Isabelle non poteva accettarlo.
Sarebbe stata forte, per Alec, come lui lo era sempre stato per lei.
“È uno schema, ragazzi.” Sussurrò Jace, rimasto in silenzio fino a quel momento. “Uno schema porta ad indizi, che portano a prove.”
Alec si voltò verso il partner e annuì. “Dobbiamo andare al Pandemonium.”
 

Di giorno il Pandemonium sembrava un normale edificio. Le luci che di notte illuminavano l’insegna di viola, rosa e blu e attiravano la maggior parte della clientela erano spente – e Alec ebbe l’impressione di star guardando la facciata di una bestia assopita.
Improvvisamente, si sentiva come Pinocchio che stava per entrare nella pancia della balena, ma lui a differenza del burattino di legno, era disposto a sventrarla dall’interno, la sua personale bestia.
Se davvero fosse riuscito ad incastrare Magnus Bane, avrebbe tagliato la testa del drago e allora anche il corpo sarebbe caduto.
L’unica cosa che c’era da sperare era che quel drago non fosse un’idra e che, una volta tagliata la testa, non ne sarebbero sbucate altre due.
“Qual è il piano?”
Alec si voltò verso Jace, alla sua sinistra, che a sua volta stava fissando la facciata dell’edificio.
“Chiederemo solo qualche informazione su Chase. Non faremo riferimento né al dissanguamento, né alla stella. Non voglio che si insospettisca.”
“D’accordo. Entriamo.”
Dopo un’ultima occhiata, i due detective si incamminarono verso l’ingresso.


Varcata la soglia del club, la strada dei due poliziotti venne brutalmente bloccata da una donna di colore. Era abbastanza alta, aveva dei capelli lunghi fino alla vita, legati in tante minuscole treccine. I suoi occhi erano scuri a tal punto che per un attimo Alec fece fatica a trovare la pupilla.
La cosa più spiccava, nel suo viso, comunque, era la cicatrice che campeggiava sulla guancia destra: segni di bruciatura, come se le fosse stato versato addosso dell’olio caldo. La pelle era più spessa, raggrinzita.
Alec sapeva chi aveva davanti: Catarina Loss, la cui fedeltà nei confronti di Magnus era cieca. Non l’avrebbe tradito nemmeno sotto tortura. E la cicatrice che aveva sulla guancia ne era la prova. Alec sapeva, dalle voci che circolavano, che un anno prima Catarina era stata rapita dagli irlandesi, i quali volevano scoprire i punti deboli di Bane per riuscire a togliergli il trono. Dopo torture di ogni genere, erano passati all’olio, ma lei non aveva spiccicato parola, nemmeno quando il dolore era così forte da rischiare di fare impazzire chiunque. Inutile dire che, sempre secondo queste voci, quando Magnus aveva scoperto cosa avevano fatto alla sua Catarina, si era vendicato conficcando una pallottola in fronte al capo di quei ribelli.
Niente di dimostrabile, ovviamente. Perché quelle che Alec aveva sentito erano solo voci che circolavano in un bar del South. Conversazioni che lui, in incognito, aveva origliato. Nessuno aveva veramente parlato con lui. Nessuno avrebbe mai osato testimoniare contro il re.
“Dove credete di andare, voi due?”
“Dobbiamo parlare con Magnus Bane.”
La donna emise una risata sprezzante, guardando Alec come se fosse la peggior specie di parassita. Nonostante non fosse bassa, dovette alzare il viso di un po’, per riuscire a guardare il poliziotto negli occhi. E questo sembrava darle parecchio fastidio. “Il locale è chiuso. Tornate stasera.”
“Vogliamo solo fare qualche domanda, non ci vorrà molto.” Alec fece ricorso a tutta la sua pazienza.
“Tornate stasera.”
“Il mio collega sta cercando di essere gentile, Loss. Perché non ricambi il favore?”
Catarina posò i suoi occhi su Jace, riservandogli lo stesso disprezzo che aveva riservato ad Alec. “Altrimenti, sbirro, che fai? Mi spari?”
“Non mi tentare.”
Gli occhi della donna percorsero tutta la figura di Jace. “Come se ne fossi veramente capace.” Con un ultimo sguardo, Catarina si voltò, imboccando il corridoio che l’avrebbe portata all’interno del locale.
“Chase Montgomery.” Disse Alec, parlando ormai alla schiena della donna. “Cosa sai dirmi di lui?”
Catarina si fermò sul posto, poi si voltò di nuovo verso i suoi indesiderati visitatori. “Perché?”
Alec colse una leggera sfumatura d’ansia, nella sua voce. Quasi come se avesse paura per il ragazzo, o forse, avesse paura che loro avessero degli elementi utili a provare qualsiasi cosa avessero fatto al povero Chase.
“È morto.”
Alec la sentì trattenere un singhiozzo, prima di abbandonare la sua espressione di disprezzo. I lineamenti della donna mutarono, così come il suo atteggiamento. Non seppe interpretare quel cambiamento. Una parte di lui, quella razionale e non arrabbiata con qualsiasi gangster di Chicago, gli suggerì che quella reazione spontanea potesse essere un indizio: forse stavano cercando il colpevole nel posto sbagliato, forse Bane e i suoi non avevano torto un capello a quel ragazzo, al quale Catarina, vista la sua iniziale reazione, sembrava affezionata.
“Venite con me.” Ordinò semplicemente la donna, voltandosi e aspettandosi che la seguissero.
E Alec e Jace lo fecero. La seguirono attraverso quel lungo corridoio illuminato da una luce fioca, di un tenue arancione, alla cui fine si apriva il club. Subito sulla destra si trovava il piano bar, con un elegante bancone nero con rifiniture dorate. I tavoli erano tutti distanti uno dall’altro in modo tale da creare intimità, ma posizionati in modo da lasciare lo spazio necessario alla pista da ballo. In fondo al locale ci stava il palco, su cui adesso si trovava una ragazza dalla pelle scura e folti ricci castani, avvolta in un vestito lungo e argentato, che stava cantando una canzone in francese.
Ce soir, je ne m'enfuis pas je vole, comprenez bien, je vole, je vole…”
“Aspettate qui.” Ordinò nuovamente Catarina, prima di incamminarsi verso uno dei tavoli. Alec la seguì con lo sguardo, prima di vederla chinarsi su un uomo che dava loro le spalle ed era concentrato sulla ragazza che cantava.
Elle m'observait hier, soucieuse, troublée, ma mère. Comme si elle le sentait en fait elle se doutait, entendait j'ai dit que j'étais bien…”
L’uomo si voltò verso sinistra non appena Catarina si chinò su di lui e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. “Ce soir, je ne m'enfuis pas je vole…” Continuava la ragazza e solo allora l’uomo sollevò una mano per farla fermare. Lei lo fece immediatamente e rimase a guardarlo, in attesa, come uno di quei gladiatori che aspettavano il verdetto di vita o di morte da parte dell’imperatore romano.
“Maia, mio tesoro, sei stata meravigliosa. Ma devo chiederti gentilmente di andare perché devo parlare con alcuni signori. Ti spiace tornare più tardi, dolcezza?”
“Assolutamente no, signor Bane. Tornerò più tardi.” E con un sorriso reverenziale, la ragazza scese dal palco e si diresse verso l’uscita. Passò vicino ad Alec e a Jace, quest’ultimo le rivolse un sorriso ammiccante – perché Jace non riusciva mai a trattenersi davanti ad una bella ragazza – ma la cantante gli riservò un’occhiata tagliente, evidentemente poco propensa a socializzare con un poliziotto, prima di uscire definitivamente dal locale. Quando la stanza fu immersa dal silenzio, Magnus si alzò dal tavolo dove era seduto e si voltò verso i suoi visitatori. “Prego, detective, avvicinatevi.”
E così i due fecero.


“Polizia di Chicago, io sono il detective Herondale e lui è il detective Lightwood.” Cominciò Jace, prima di sedersi al tavolo insieme a Magnus.
“So chi siete.” Rispose l’uomo, lanciando un’occhiata superficiale a Jace, e riservando, invece, un’attenta analisi ad Alec. Il poliziotto sentì lo sguardo del gangster scivolargli addosso con attenzione e lentezza, quasi stesse memorizzando i dettagli del suo viso.
La cosa mise Alec parecchio a disagio, ma non abbassò lo sguardo. Se era un gioco di supremazia, quello che stava intavolando Bane, Alec avrebbe partecipato senza farsi intimorire. Giocò. Studiò a sua volta Magnus e la prima cosa che notò, paradossalmente, fu il suo odore. Era impossibile non notarlo. Era qualcosa di speziato, legnoso, che aderiva alla sua persona come una seconda pelle. Era eccentrico, Magnus Bane, nei suoi pantaloni di pelle abbinati ad una camicia viola puntellata di piccoli brillantini. Al collo portava una quantità di collane spropositata, che scendevano lungo il tessuto della camicia, scivolando come l’acqua nel letto di un fiume.
I suoi occhi, dal tratto orientale, erano resi ancora più allungati dal trucco e Alec si era chiesto, più di una volta, se quel suo aspetto così appariscente non facesse parte della facciata dell’uomo d’affari proprietario di un semplice nightclub.
Non lo sapeva. E, francamente, non gli interessava. Non era lì per notare i tratti del viso di Magnus, o il suo stile, o la sua letale bellezza.
Era lì per risolvere un crimine e perché l’uomo che aveva davanti abitava i suoi incubi, dai quali si svegliava urlante, da quattro anni.
Chi aveva davanti era un assassino a sangue freddo. E l’unico compito di Alec era smascherarlo.
“Conosceva Chase Montgomery, signor Bane?” cominciò Alec, facendo appello a tutta la sua professionalità e pazienza. Doveva fare come gli aveva suggerito Jace: trattarlo come un qualsiasi altro criminale. Doveva pensare che fosse un sospettato qualsiasi e non l’uomo che aveva rovinato la vita a lui e alla sua famiglia.
“Chiamami Magnus, tesoro.”
Alec lo fulminò con lo sguardo. “Risponda alla domanda, signor Bane.”
Un sorriso divertito tirò le guance dell’uomo. “D’accordo, tesoro, niente confidenze.” Alzò le mani, mimando un segno di resa, e si appoggiò allo schienale della sedia. “Per rispondere alla tua domanda, sì, conoscevo Chase Montgomery, ma questo lo sapevi già, non è vero? Perché non semplifichiamo il tutto e non mi dici il vero motivo per cui sei qui?” A quel punto, lasciò lo schienale della sedia e appoggiò i gomiti sul tavolo. Incrociò le mani e ci appoggiò sopra il mento, prima di piantare i suoi occhi felini in quelli di Alec.
“Le domande le facciamo noi.” Intervenne Jace, che nonostante tutti i suoi buoni consigli, rimaneva comunque un tipo impulsivo e facilmente irritabile, in certi casi.
Magnus portò la sua attenzione su di lui, ma lo guardò come se fosse la cosa più noiosa e indisponente su cui i suoi occhi si fossero mai posati.
“Non mi pare stessi parlando con te, biondo. Stavo parlando con il tuo collega. E, ora che ci penso, ho appena deciso che voglio parlare con lui da solo.”
“Questo non succederà.”
Magnus assottigliò lo sguardo. “Oh, io credo proprio di sì, se volete qualche informazione.”
Jace strinse la mascella, frustrato, e si voltò verso Alec. L’idea di stare solo con Bane nel suo covo non gli piaceva per niente. Poteva essere una trappola, ma se davvero avesse voluto risolvere il caso, quelle erano le condizioni necessarie per ricevere un qualche indizio valido.
Ancora una volta, Magnus Bane dettava le regole della baracca. E in quest’occasione, Alec fu costretto ad accettarle.
“D’accordo. Jace esce, ma esce anche Catarina. E qualsiasi altra persona sia in agguato in questo locale che lavora per te.”
Magnus sorrise, malizioso e soddisfatto. “Siamo passati al tu, caro, vedo che facciamo progressi in fretta.”
“Falli uscire.” Ordinò Alec, ignorando quei tentativi palesi e infantili di provocazione.
Magnus sospirò. “C’è solo Cat con me, oggi.” Poi si voltò verso la donna. “Ti dispiace uscire, cara?”
La donna guardò Alec e poi Magnus. “Sei sicuro?”
“So tenere a bada uno sbirro, cara. Non preoccuparti.” Parlò alla donna, ma il suo sguardo era rimasto fisso sugli occhi di Alec, il quale a sua volta aveva sostenuto quell’occhiata. Magnus stava giocando con lui, Alec se n’era accorto. Quello poteva essere il suo modo di prendersi gioco della polizia, di manifestare, più che una volta, il fatto che avesse in mano le autorità di quella città.
Dopo un’ultima, riluttante, occhiata, sia Jace che Catarina uscirono da quel locale.
Adesso, Alec era davvero solo.
Adesso, iniziava la vera partita.


“Bevi qualcosa, zuccherino?”
Alec dovette fare appello a tutta la sua pazienza per l’ennesima volta. Mai in vita sua gli era stato così difficile mantenere la calma – e dire che di solito, quello irascibile dei due era Jace, mentre lui riusciva a mantenere il sangue freddo.
Era Magnus Bane la causa di questo suo cambiamento. Lo scombussolava da dentro, gli faceva provare emozioni feroci – rabbia, frustrazione, un profondo senso di ingiustizia e impotenza. Era come se avesse le mani legate e più provava a risolvere quel rompicapo, più sembrava che Magnus stringesse le corde intorno ai polsi del poliziotto impedendogli di fare progressi nelle sue indagini.
“Sono in servizio,” Rispose Alec, guardando l’uomo che si alzava dal tavolo e si dirigeva verso il piano bar. “E chiamami detective, non siamo amici.” Il poliziotto si alzò a sua volta, seguendo l’uomo. Quando Magnus si mise dietro al bancone, Alec si sedette su uno degli sgabelli di fronte ad esso.
“Se lo fossimo, potrei chiamarti come voglio?”
“No.”
“Quanto sei rude, detective.” Calcò quel nome con sarcasmo. “Ammetto che però gli uomini scontrosi mi sono sempre piaciuti. Non chiedermi perché…” Magnus fece volare la sua mano come una piccola farfalla che fluttua nell’aria – un gesto noncurante, quasi confidenziale – prima di voltarsi alle sue spalle, dove una parete completamente a specchio mostrava il riflesso degli alcolici piazzati sulle varie mensole. Magnus afferrò una bottiglia di gin e poi si voltò di nuovo verso Alec. “Allora, le tue domande?”
Alec fece un profondo respiro. Osservò per qualche istante Magnus che afferrava da sotto il bancone un bicchiere pulito, lo riempiva di ghiaccio e cominciava a versarci dentro il gin.
“Parlami di Chase Montgomery.”
Magnus appoggiò la bottiglia di gin sul bancone, lasciandola aperta, e cominciò a versare dell’acqua tonica nel suo bicchiere. In un primo momento, ignorò la richiesta di Alec e si concentrò solo sul suo bicchiere.
“Cosa manca?” Si picchiettò il mento con l’indice, in un modo così teatrale che ad Alec fu palese il suo tentativo di provocazione. A che gioco stava giocando? Perché non poteva semplicemente rispondergli? Cosa voleva davvero da Alec?
“Ah, giusto! Il limone!” Magnus si voltò nuovamente verso la parete a specchio e si chinò per aprire lo sportello di un mobiletto di legno nero ed estrarre dal suo interno un limone. Tornò al bancone con l’agrume e un coltello per tagliarlo e, improvvisamente, tutti i sensi di Alec si misero allerta. Evitò di scattare come un coniglio davanti ad una volpe. Lui non era una preda. E di certo, Magnus per lui non era un predatore.
Se quel coltello era una minaccia, Alec avrebbe risposto con la pistola. La lasciò nella fondina, ma con un movimento discreto slacciò la chiusura, in modo da essere pronto a reagire nel caso in cui Magnus facesse delle mosse sospette.
“Si può sapere cosa stai facendo?  Un ragazzo è morto e tu stai qui a preparare cocktail. Inizio a pensare che tu non sappia assolutamente niente e voglia solo farmi perdere tempo!”
Magnus si bloccò. Una mano ferma a tenere il limone, l’altra teneva il coltello appoggiato al frutto. I suoi occhi schizzarono su Alec.
“Non ti sto facendo perdere tempo, detective, sto solo aspettando che tu cominci a pormi le domande giuste.”
“Pensi sia un gioco?”
“No. Penso solo che tu sia qui per altri motivi.”
“E quali?”
Magnus tagliò una fetta di limone e la spremette dentro al drink. Ne bevve un sorso, prima di appoggiare i gomiti sul bancone e sporgersi verso Alec. Il poliziotto non si mosse, così i loro visi adesso erano così vicini che potevano sentire i propri respiri l’uno sulla pelle dell’altro.
“Tuo fratello.” Soffiò Magnus, gli occhi incastrati a quelli di Alec. Il gangster riuscì a leggere chiaramente la mutazione che avvenne al loro interno. Dentro a quelle iridi bellissime si scatenò una tempesta.
La rabbia prese il sopravvento su qualsiasi altra cosa e Alec, per un attimo, non ragionò più. Rivide solo quel giorno. Rivide solamente il suo fratellino privo di vita. Max Lightwood, a diciannove anni, era stato ritrovato morto dopo tre giorni dalla denuncia di scomparsa fatta dalla famiglia.
L’avevano ritrovato lui e Jace, in un cantiere abbandonato, dissanguato e con una stella d’argento cucita dietro la nuca post-mortem. Il dolore, davanti a quella scena del crimine, era stato tale che altro non era riuscito a fare che gridare. Aveva gridato così tanto che aveva rischiato di spezzarsi le corde vocali e, se non ci fosse stato Jace a sorreggerlo, sarebbe crollato a terra. Alec ricorda come Jace l’avesse trattenuto, mentre lui stava per buttarsi sul cadavere di suo fratello. Nonostante tutto, il suo primo istinto sarebbe stato quello di abbracciarlo, di provare a rianimarlo.
“Non puoi toccarlo, Alec, contaminerai la scena. Non possiamo fare niente.”  Sussurrava Jace al suo orecchio, mentre lo sosteneva. E Alec ricorda bene la voce rotta dell’amico. Jace era presente quando Max era nato, quando aveva compiuto i suoi primi passi e quando aveva pronunciato la prima parola. In un certo senso, era come se fosse anche il suo fratellino. E doveva essere devastante anche per lui vederlo così.
Era stato devastante per tutti.
Un dolore gratuito, ingiusto.
Un dolore che era stato provocato dall’uomo che adesso aveva davanti e al quale Alec, senza pensarci troppo, aveva appena puntato la propria pistola sotto al mento.
“Lo ammetti, quindi? Ammetti di averlo ucciso?” La sua voce tremava, come il resto del suo corpo.
“Adesso calmati. Metti via quella e ascoltami.”
“NO.” Con la mano libera, Alec afferrò il colletto della camicia di Magnus e lo spinse ancora di più verso se stesso e, di conseguenza, verso la pistola. “Non voglio sentire le tue scuse. Sei un manipolatore, hai piegato tutti alla tua volontà. Tutti pensano ciò che tu dici loro di pensare e io sono stanco di tutto questo.”
“Allora premi quel cazzo di grilletto! Premilo! Spargi il mio cervello su quella parete e guarda il mostro cattivo morire. Ma pensaci bene perché con me, muore anche la verità sull’omicidio di tuo fratello.”
Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una secchiata d’acqua gelata. Lo risvegliarono dalla sua ipnosi, lo riportarono alla realtà. La sua parte razionale riprese il sopravvento su tutte quelle emozioni che erano state vomitate dal suo cuore e l’avevano spinto a reagire in quel modo. Ogni buon poliziotto sa che ogni pista va battuta, che ogni indizio è utile e bisogna guardare ad ogni caso con la mente lucida e aperta. Lui non poteva semplicemente chiudere ogni strada che non avesse a che fare con Magnus solo perché ormai era convinto che fosse lui il colpevole. Doveva vagliare ogni ipotesi. E anche se questo, poi, non si fosse dimostrato altro che un bislacco tentativo del gangster per salvarsi la pellaccia, Alec era sicuro che prima o poi, indagando per bene, avrebbe scoperto o meno se fosse davvero coinvolto nell’omicidio di Max.
Per questo abbassò la pistola e la risistemò nella fondina. Lasciò andare Magnus e si risedette di nuovo sul suo sgabello, mentre l’altro si risistemava la camicia.
“Non sono stato io a uccidere tuo fratello.”
“Era dissanguato. Sanno tutti che Raphael Santiago ha un debole per questa tecnica di tortura.”
“Allora perché hai pensato a me e non a lui, mh? Cos’è che non mi dici, Alexander?”
Alec si sentì un po’ esposto, sentendo il suo nome di battesimo. Nessuno lo chiamava più così da anni. Ormai lui era solo Alec, ma pensandoci, probabilmente, Magnus aveva studiato il suo fascicolo, e forse anche quello di Jace, per tenere d’occhio gli unici poliziotti che sfuggivano al suo controllo.
“Dimmi quello che sai.” Disse Alec, ignorando la domanda. Non gli avrebbe detto della stella con la M incisa sopra. Era un elemento troppo importante e, nel caso lui fosse stato colpevole, voleva evitare di dargli conferma dei pochi indizi che avevano. Nessuno sapeva di quel dettaglio. Solo lui, Jace ed Isabelle ne erano al corrente.
Magnus assottigliò lo sguardo. “Io devo farlo, mentre tu no?”
“Io sono lo sbirro, tu il criminale. Sei tu il sospettato, non io.”
“Mi stai dicendo che mi serve un avvocato?”
“No, a meno che questa chiacchierata informale non debba trasformarsi in un vero e proprio interrogatorio al distretto. E questo sta a te deciderlo. Parla adesso o seguimi in centrale.”
Magnus bevve un copioso sorso del suo drink, precedentemente abbandonato. “D’accordo. Ma sei in debito con me. Mi devi un favore.”
“Che genere di favore?”
Magnus sollevò l’indice e lo agitò da destra verso sinistra, mimando un no. “Un favore generico. Lo riscuoterò, un giorno, e tu, stellina mia, non potrai sottrarti. Queste sono le mie condizioni.” Allungò la mano verso Alec e con l’indice lasciò una leggera carezza sotto al suo mento.
Alec allontanò la mano dell’altro con un gesto brusco della propria.
Eccolo lì. In trappola. La balena l’aveva divorato e adesso come unica via d’uscita gli stava offrendo un patto con il diavolo.
Lo stesso diavolo che, secondo un detto popolare, quando ti tocca, vuole l’anima.
Magnus sapeva cosa desiderasse davvero Alec nel profondo del suo cuore. Aveva visto la sua debolezza e la stava usando contro di lui. Probabilmente, uno dei suoi sbirri corrotti l’aveva informato del fatto che Chase era stato trovato dissanguato così come Max e lo stava aspettando. A differenza della stella, quel particolare era stato rivelato, quindi era abbastanza plausibile che fosse così.
Forse Magnus sapeva che Alec sarebbe andato da lui, quel giorno, e si era già preparato il suo piano d’attacco. Aveva già tirato le fila dello spettacolo e Alec, senza accorgersene, era diventato il suo burattino.
Poteva scegliere di rifiutare quell’assurda richiesta. Poteva fare a modo suo, come aveva sempre fatto, solo con l’aiuto di Jace.
Ma Alec sapeva che se davvero voleva arrivare alla fine di questa storia, scoprire chi fosse l’assassino di Max e di Chase, doveva rivolgersi a Magnus.
Detestava quest’idea, ma forte più di qualsiasi altra cosa era il desiderio di dare almeno un senso di giustizia all’ingiusta morte di suo fratello.
E probabilmente, Magnus sapeva anche questo. D’altronde, lui sapeva tutto.
Aveva giocato bene la sua partita. Aveva offerto qualcosa ad Alec che lui desiderava davvero e adesso… adesso si stava prendendo la sua anima in cambio.
“D’accordo.” Esalò Alec, “Abbiamo un patto. Adesso parla. E che sia la verità, o il nostro accordo è nullo.”
Sul viso di Magnus comparve un sorriso ferino. “Devi fidarti di me, zucchero.”
E Alec, ignorando a fatica quella parte di sé che gli stava gridando che una scelta simile gli si sarebbe ritorta contro nel peggiore dei modi, voleva davvero credere che da questa situazione sarebbe uscito qualcosa di buono.


“Perché ci hai messo così tanto?” brontolò Jace, quando Alec salì di nuovo in macchina. Si rese conto, solo dopo le parole del collega, che era stato con Magnus per un’ora intera.
“Lascia stare. Ho degli indizi.”
“Bane ha parlato?”
Alec annuì.
“Wow, deve avere un debole per la tua bella faccia, o qualcosa di simile.”
Quel commento lo fece sentire a disagio, tanto che si mosse sul sedile, prima di darsi un tono e dire: “O forse sono solo bravo a fare il mio lavoro.”
“In altre circostanze? Sicuramente. Ma Magnus Bane… cacchio, lui li odia i poliziotti, soprattutto quelli fuori dal suo libro paga. Non ne aiuterebbe uno nemmeno sotto tortura, a meno che…” Jace si bloccò di colpo e cercò gli occhi dell’amico. Alec aveva tantissime qualità e una di queste era che non riusciva a mentire. Mai. Anche se provava a farlo, il linguaggio del suo corpo lo tradiva e Jace lo conosceva da così tanto tempo che aveva imparato a leggerlo come un libro aperto. Lo vide nei suoi occhi, il disagio. La preoccupazione di aver fatto una mossa sbagliata.
“Gli hai promesso qualcosa in cambio.”
Non era una domanda. Jace non stava chiedendo niente, era sicuro di quello che diceva – perché conosceva Alec e conosceva l’andamento di quella fottuta città.
Il silenzio che Alec gli riservò fu più eloquente di qualsiasi altra risposta.
“Cazzo, Alec. Cosa gli hai promesso?”
“Un favore.” Rispose l’altro, quasi con vergogna. “Non avevo altra scelta. Non avrebbe parlato, se non gli avessi dato in cambio qualcosa. E voglio davvero trovare il colpevole di tutta questa storia. Chi ha ucciso Chase è lo stesso che ha ucciso Max e se lo trovassimo non solo risolveremo questi due casi, ma probabilmente sventeremo anche un possibile serial-killer.”
 Jace sospirò, preoccupato, e si passò una mano tra i capelli biondi, tirandoli all’indietro. “Un favore. Hai promesso a Magnus Bane un favore.”
“Non serve che tu mi dica quanto sono stato idiota, va bene? Lo so anche da solo!”
“Bene, perché sei stato un grandissimo idiota!” Jace alzò la voce, ma Alec non riuscì ad arrabbiarsi con lui. Era preoccupato per lui, lo sapeva. Si proteggevano le spalle da sempre e spesso questa loro filosofia di proteggersi l’un l’altro aveva fatto si che diventassero anche i rispettivi punti deboli. Per ferire Alec bisogna ferire Jace e per ferire Jace bisogna ferire Alec. Il loro fare squadra li rendeva forti, ma anche estremamente vulnerabili.
“Vuoi almeno dirmi cosa ti ha detto?”
“Chase ultimamente frequentava un ragazzo. Si erano incontrati al locale, tre settimane fa. Era un tipo alto, biondo, più grande di lui di qualche anno. Si chiamava Sebastian e ogni sera andava a trovare Chase al lavoro e stava con lui. Parlavano, ridevano, Sebastian lo guardava lavorare e poi a fine turno uscivano dal locale insieme.” “È un inizio. Non abbiamo un cognome?”
“Secondo il documento che ha presentato all’ingresso ogni sera, era Verlac, ma potrebbe essere  falso.”
“Oppure no. Vale la pena tentare.” Jace mise in moto la macchina e ingranò la marcia.
“Jace…” Lo chiamò Alec, e l’altro si voltò verso di lui.
“Lo so.” Lo interruppe. “Sei nella merda e ti meriteresti un pugno per la tua stupidità. Sono io quello che fa cose stupide, non tu. Però avrei fatto lo stesso. Per Max avrei fatto un patto con il diavolo anche io.”
E, tornando a guardare la strada di fronte a sé, partì.
Alec, sebbene fosse tormentato, trovò una sorta di conforto in quelle parole. Era un compromesso che odiava, ma se fosse davvero servito a dare giustizia al suo fratellino, Alec era disposto a sopportare quel peso.



La ricerca non portò nulla di concreto.
Come avevano sospettato all’inizio, Sebastian Verlac risultò essere un nome falso. Non avevano niente.
Erano di nuovo al punto di partenza e Alec non solo era arrabbiato con Magnus per averlo preso in giro, ma anche con se stesso per essere caduto in una trappola così banale.
Furioso, Alec fece una cosa che non avrebbe mai pensato di fare. La seconda della giornata, ora che ci pensava.
Usò il numero di cellulare che Magnus gli aveva dato prima che lui se ne andasse.
L’uomo rispose al secondo squillo. “Zucchero, che piacere.”
“Piantala. Le informazioni che mi hai dato erano sbagliate. Sebastian Verlac non esiste.”
“Ed è un mio problema, perché…?”
“Perché un ragazzo che lavorava per te è morto, come puoi essere così menefreghista?”
Quell’accusa innervosì Magnus. “Cosa ti fa credere che io non me ne stia occupando? Pensi che sia un mostro? Ho i miei principi, Alexander, e non tollero che vengano uccisi dei ragazzini. Non nella mia città.”
“Non è la tua città.” Ma nemmeno Alec ci credeva fino in fondo alle proprie parole. Magnus teneva Chicago nel palmo della sua mano. “Vieni in centrale tra mezz’ora. O il nostro accordo salta.”
“Sei così autoritario, tesoro. Mi piace. Attento, o potrei persino innamorarmi di te.”
Alec ignorò quell’ennesima provocazione e concluse la chiamata.


Magnus si presentò in centrale puntualissimo. Quando comparve all’ingresso del distretto, ai suoi lati ci stavano Raphael e Catarina. I poliziotti che lo notarono smisero immediatamente di fare quello che stavano facendo e rimasero a guardarlo.
C’era un timore reverenziale nei loro sguardi e una sorta di rispetto che fece innervosire Alec, il quale dalla sua scrivania riusciva a vedere tutta la scena. Si alzò e gli andò in contro, raggiungendolo.
“Loro stanno qui. Tu vieni con me.”
“Ciao anche a te, detective. E loro non vanno da nessuna parte.”
Alec lanciò un’occhiata alle due guardie del corpo. Raphael, sudamericano, lo fissò quasi come se volesse piantargli i canini nel collo. Alec capiva perché fosse così temuto. Era così giovane, eppure così crudele. Sadico, persino. E altri gangster l’avevano definito un artista, se si trattava di torture.
Ma Alec non era il tipo che si faceva intimorire.
“Loro stanno qui.” Ribadì il detective, impuntandosi. “E puoi venire con le buone o con le cattive, a te la scelta.”
Magnus si passò la lingua sulle labbra, quasi stesse pregustando qualcosa, e si avvicinò ad Alec. Era un poco più basso di lui, perciò dovette alzare leggermente il viso per guardarlo negli occhi.
Avevano un che di magnetico. E riuscivano a trasmettere una certa fierezza.  
“Sarei curioso di vedere le cattive.” Gli occhi di Magnus scivolarono, lascivi e maliziosi, sul viso del poliziotto. Si fermarono sulle labbra e scesero sulle curve del collo. Passarono in rassegna le spalle ampie, evidenziate dalla giacca, e sulle braccia, prima di dare un’occhiata anche al modo in cui la camicia aderiva al corpo di Alec. “Da te mi farei persino ammanettare.”
Dios, cállate. Eres vergonzoso.” 
“Taci tu, Santiago.” Magnus parlò, ma i suoi occhi non avevano lasciato la figura di Alec. “Aspettatemi fuori, ragazzi, io e il detective Lightwood dobbiamo parlare.”
I due provarono a protestare, ma bastò un gesto della mano da parte di Magnus per farli zittire e obbedire alla sua richiesta.
Rimasti soli, Alec guidò Magnus verso il laboratorio di Isabelle.



“Siamo qui per evitare che orecchie indiscrete ascoltino la nostra conversazione.” Cominciò Alec, aprendo la porta dello studio della sorella. Isabelle e Jace li stavano già aspettando. Entrambi guardarono Magnus con disprezzo, ma l’uomo non si lasciò intimorire da quelle occhiate.
“Cosa volete da me, esattamente?”
“Un identikit.” Rispose Isabelle, indicandogli una sedia davanti alla sua scrivania. “Siediti. Jace disegnerà l’uomo che hai visto e noi inseriremo il volto nel database.”
Magnus si sedette dove gli era stato indicato, mentre Jace andava ad occupare il posto alla scrivania che di solito occupava Isabelle.
“Sono un testimone, quindi. Voglio una scorta. Se c’è un pazzo criminale in giro, non voglio rischiare di fare una brutta fine. Richiedo formalmente il detective Lightwood come mia personale guardia del corpo.” Magnus accavallò le gambe e fece l’occhiolino ad Alec, il quale si passò una mano sulla faccia, esasperato. Non sapeva davvero come reagire a tutte queste maliziose provocazioni da parte di Magnus.  
“Non riceverai nessuna scorta, Bane. Sappiamo che hai un esercito che esegue anche il tuo più piccolo ordine.” Jace quasi ringhiò a denti stretti, infastidito dal modo che aveva Magnus di fare. Sembrava che tutto gli fosse dovuto, che ogni persona che avrebbe incontrato nel suo cammino fosse stata a sua completa e assoluta disposizione. “Adesso, parla.”
Magnus alzò le mani in segno di resa, nel suo solito modo teatrale. “Sei maleducato, biondino, lasciatelo dire.” E poi cominciò a descrivere il volto di Sebastian Verlac.





Una volta che Magnus ebbe lasciato l’edificio, Alec e Jace si misero al lavoro. Jace inserì l’identikit nel database e rimasero in attesa almeno un’ora, prima che il computer riuscisse a trovare un match.
“Trovato!” Esclamò, quasi saltando sulla sua scrivania, quando lo schermo del suo pc cominciò a mostrare immagini. Alec, di fronte a lui, saltò su come una molla e circumnavigò la propria scrivania per raggiungere quella di Jace.
Sullo schermo c’era la foto di un ragazzo identico all’identikit che aveva fornito Magnus: viso ovale, zigomi alti e guance leggermente scavate. La bocca era fine e gli occhi, di un verde glaciale, avevano una forma allungata, tagliente. Da quella foto, risultava che il ragazzo, in realtà, avesse i capelli rossi.
“Si chiama Jonathan Morgenstern, 26 anni. È nato a Chicago, ma sembra che si sia mosso per l’America. È stato accusato di aggressione a mano armata a Milwaukee, di furto a New York, e di furto d’identità a San Francisco. È sempre riuscito a sfuggire alle forze dell’ordine. Dal suo fascicolo risulta che da piccolo manifestasse comportamenti violenti sugli animali e successivamente anche su altri bambini, così la madre ha deciso di farlo ricoverare in una struttura specializzata per evitare che rischiasse di ferire anche sua sorella. Il padre, però, ha firmato per farlo uscire e, dopo il divorzio con la moglie, ha chiesto la custodia piena del bambino, mentre la donna ha ottenuto quella della figlia. Dopo questo, più niente.”
“Dice qualcosa sulla madre? O sulla sorella? Come si chiamano, dove vivono?”
Jace fece una veloce ricerca. “Ho trovato sua sorella. Clarissa Adele Fairchild. C’è un indirizzo: vive qui, a Chicago.”
“Andiamo, guido io.”



Clarissa viveva in uno dei quartieri del South Side in cui le case si assomigliano tutte e in cui i vicini conoscono tutto l’albero genealogico della tua famiglia. Non era un quartiere particolarmente povero, ma di certo non era ricco.
Alec parcheggiò nel primo posto che trovò disponibile e poi i due detective raggiunsero l’abitazione a piedi.
Jace suonò il campanello e rimasero in attesa.
Una ragazza aprì la porta dopo solo qualche istante e, quando si trovò davanti Jace, la sua espressione si accigliò.
“Come posso esserle utile?”
“Lei è Clarissa Fairchild?”
Jace si sentì quasi stupido a domandarlo. La somiglianza con Jonathan era quasi palese: gli occhi verdi, i capelli rossi, la pelle chiara.
Clarissa era bella, molto bella, e in altre circostanze si sarebbe pure fatto spudoratamente avanti.
“Sì.”
“Sono il detective Herondale, lui è il detective Lightwood. Vorremmo farle qualche domanda riguardo suo fratello.”
La ragazza emise un sospiro affranto, prima di farsi da parte e fare entrare i due detective.


Clarissa viveva da sola da quando sua madre era venuta a mancare l’anno prima.
Un infarto, aveva detto, e il suo cuore non aveva retto.
La sua casa era ancora piena delle cose della madre, delle quali, aveva detto, non riusciva ancora disfarsi.
Fece accomodare i due poliziotti in cucina, dove sedettero al tavolo, mentre lei preparava del caffè.
“Non vedo Jonathan da quando avevo dieci anni.” Cominciò, versando il caffè in due tazze, quando fu pronto.
Con un sospiro, si sedette al tavolo con i due poliziotti. Jace cercò di non prestare attenzione ai suoi dettagli, per concentrarsi meglio sull’indagine, ma la vicinanza con la ragazza non gli rendeva facile il compito. Clarissa aveva degli occhi bellissimi, così diversi da quelli del fratello, nonostante fossero dello stesso colore, che spingevano Jace a non guardare altro, se non il viso della ragazza. Trasmettevano dolcezza, ma anche tenacia. Erano intriganti, luminosi, e vispi. Pieni di una luce che scalpitava per venire fuori.
I suoi capelli le riscendevano in morbidi ricci ramati sulle spalle e profumavano di cocco.
Gli sembrava di star guardando una piccola fata.
Si ammonì immediatamente per quel pensiero, imponendosi di concentrarsi.
“Anche la più piccola cosa è importante, Clarissa. Può dirci tutto.”
La ragazza abbracciò la tazza con le mani. “Clary, per favore.” Chiese, rivolgendosi direttamente a Jace. “Mio padre mi chiamava Clarissa e non ho un bel ricordo, di lui. Era un uomo freddo, distaccato. A tratti cattivo con me e con mia madre. L’unica persona per cui sembrava provasse qualcosa era mio fratello. Ma non voleva accettare che Jonathan avesse dei disturbi. Lui diceva sempre che era solo un ragazzino creativo. Mia madre ha insistito per anni affinché lo portassero in terapia, per aiutarlo con i suoi problemi, ma mio padre si rifiutava categoricamente.” Clary bevve un sorso di caffè e Jace ebbe la sensazione che lo fece più che altro per occupare momentaneamente la mente con altro, prima di ripercorrere il viale di dolorosi ricordi. “Jonathan costruiva le trappole per gli scoiattoli, per i topi, per i conigli. Li catturava e poi li uccideva con un coltellino.” Non riusciva a guardare altro, se non la tazza. Jace ebbe di nuovo l’impressione che le avessero chiesto di percorrere a ritroso la sua vita e tornare ad un periodo estremamente doloroso. “Io volevo davvero bene a mio fratello. Volevo sul serio che dei dottori trovassero una terapia per farlo stare meglio. Ma non è andata così. Se mia madre voleva aiutarlo, mio padre era convinto che non ci fosse niente che non andava, in lui, e ha continuato ad alimentare la sua violenza. Anche quando mia mamma era finalmente riuscita a trovare una struttura adatta, mio padre l’ha fatto uscire. Jonathan aveva dodici anni, io dieci. I nostri genitori si sono separati, papà ha tenuto lui, mamma ha tenuto me. Ho preso anche il suo cognome, perché ormai eravamo rimaste solo noi due. Mio padre non voleva dirci dove abitassero. Non voleva che Jonathan vedesse me, o la mamma.” Clary non riuscì a trattenere una lacrima e Jace, dal canto suo, non riuscì a trattenersi dal coprirle una mano con la propria.
“Mi dispiace,” Le disse, perché era vero. “Capisco che gli volevi bene, ma… Jonathan potrebbe aver ucciso un ragazzo, tre giorni fa. Hai idea di dove potrebbe nascondersi?”
La ragazza ci pensò su. “L’unico posto che mi viene in mente è Millennium Park. Vicino c’è una casa, era di mia nonna. Ci andavamo spesso, d’estate, e giocavamo dentro al parco. Eravamo felici, in quel periodo. Forse come non lo siamo mai stati. Magari potrebbe essere lì.”
“In un luogo dove si è sentito al sicuro.” Intervenne Alec, prendendo parola per la prima volta, da quando avevano messo piede in quella casa. “Ricordi l’indirizzo, per caso?”
Clary annuì e, liberando la presa sulla tazza – e sgusciando via da quella di Jace, che ancora non l’aveva lasciata – si diresse verso un cassetto della cucina, dove teneva carta e penna. Scrisse su un foglietto l’indirizzo preciso e lo consegnò a Jace.
“Ecco.”
Jace afferrò il bigliettino che gli veniva porto. “Grazie.”
Lei annuì con un cenno della testa. Il silenzio aleggiò nell’aria per qualche istante, attimi in cui Jace provò lo strano istinto di stringere quella ragazza a sé e dirle che tutto sarebbe andato bene, che il passato non le poteva più fare male. Ma non poteva: primo perché era una sconosciuta, secondo perché sarebbe stata una bugia. Il passato faceva male eccome. Lui lo sapeva. Lo vedeva negli occhi di Alec ogni volta che pensava a Max.
Sulla porta, i due detective si voltarono ancora una volta per ringraziare la ragazza. Clary si strinse nella sua enorme felpa.
“Mi piace pensare che ci sia del buono, in lui. Basterebbe una minuscola parte di bontà e, forse, potrebbe cambiare.”
“Forse.” Le rispose Jace, ma non era totalmente sicuro di quello che diceva. Difficilmente criminali con profili simili nascondevano un lato buono, dentro di loro. Ma non se la sentì di dirlo alla ragazza.
La guardò ancora una volta, convinto che non l’avrebbe incontrata più, e con un ultimo cenno del capo, uscì da quella casa seguito da Alec.
Una volta in macchina, si diressero in silenzio verso Millennium Park.



 
Era stata una corsa continua. La cosa più simile ad una caccia all’uomo in pieno giorno.
Arrivati all’indirizzo indicato da Clary, Alec e Jace avevano trovato Jonathan, che sorpreso dal loro arrivo, era fuggito dal retro e aveva cominciato a correre per le strade, entrando dentro al parco.
A quel punto, Jace e Alec avevano chiamato rinforzi, per essere sicuri di riuscire a coprire tutto il perimetro di quel parco gigantesco e, dopo una corsa che ad Alec sembrò durare un’eternità, erano finalmente riusciti a prenderlo.
Adesso, Jonathan Morgenstern si trovava in sala interrogatori. Alec lo osservava dal vetro a specchio, prendendo coraggio.
Era stato lui ad ammanettarlo. Lui doveva interrogarlo.
“Non sono sicuro di riuscirci.” Sussurrò a Jace, al suo fianco.
“Ce la farai. Qualsiasi cosa, basta che guardi il vetro e io ti raggiungo.”
Alec annuì, fece un profondo respiro ed uscì da quell’anticamera solo per entrare nella sala interrogatori.
Avrebbe fronteggiato i suoi demoni e l’uomo che glieli aveva provocati.


Non appena si sedette davanti ad un ammanettato Jonathan, sentì le viscere accartocciarsi su loro stesse. L’odio profondo che provava per quel ragazzo non aveva confini.
Era colpa sua se Max non c’era più.
Era lui la causa della sofferenza che aveva colpito la sua famiglia. Ed era sempre sua la colpa, se adesso anche la signora Montgomery provava la stessa sofferenza che provava lui.
“Abbiamo trovato le tue impronte sul cadavere.” Mentì Alec, per metterlo alle strette.“Sappiamo che conoscevi Chase, un testimone ti ha riconosciuto. Non hai scampo, Jonathan, dimmi perché l’hai fatto e semplifichiamo il tutto.”
Jonathan incurvò la testa di lato. I suoi occhi taglienti e freddi scrutarono Alec per un attimo, prima che un sorriso appuntito tagliasse il suo volto pallido.
“Tu sei suo fratello. Mi ricordo di te, Max parlava in continuazione del suo fratello sbirro. Voleva diventare come te.”
Alec serrò la mascella. Sentì improvvisamente prudere le mani e ringraziò chiunque avesse imposto il divieto di portare armi in sala interrogatori perché altrimenti avrebbe già puntato la sua alla tempia di Jonathan.
“Gli ho uccisi entrambi. È vero.” Disse il rosso, con un’incurante scrollata di spalle. “Se lo meritavano. Erano così amati dalla loro famiglia. Io non sono mai stato amato dalla mia, sai? Mia madre mi ha rinchiuso in una gabbia per matti e mio padre mi ha portato via dalla mia adorata sorellina. Non mi amavano.”
Alec sentì qualcosa sprofondare nel suo cuore.
La causa della morte di suo fratello era stato il troppo amore della sua famiglia. Un pazzo aveva pensato che fosse giusto togliergli la vita solo perché era amato.
Tutto il suo corpo ebbe un tremito, ma si impose di mantenere la calma e rimandare qualsiasi reazione alla fine dell’interrogatorio.
“Chase si era affezionato a te, perché fargli questo?”
“Chase si era illuso che io potessi amarlo. Era un tale smidollato.” Jonathan si appoggiò allo schienale della sedia, un’espressione disgustata attraversò il suo viso. “Max, invece, oh lui era tutta un’altra storia.” Il viso del ragazzo si accese, pieno di luce. “Aveva una tale forza d’animo, una tale energia. Avrebbe fatto grandi cose.”
Quell’avrebbe spezzò il cuore di Alec. C’erano solo ipotesi, solo se.
Se non fosse morto, avrebbe potuto fare grandi cose. Avrebbe potuto vivere una bella vita, piena di ogni emozione che essa può riservare.
Ipotesi. Supposizioni. Ad Alec non rimanevano altro che quelle, insieme ai ricordi.
“Allora perché l’hai fatto?”
“Perché non mi amava come avrei voluto. Non ero abbastanza per lui, forse? Non gli bastava che lui avesse una famiglia che lo adorasse, mentre io non avevo nessuno, doveva anche respingermi??” Jonathan urlò e se non fosse stato per le manette che gli impedivano di muoversi si sarebbe persino alzato, in preda alla rabbia.
Alec si sentì svuotato di qualsiasi cosa non fosse il desiderio di piangere. Jonathan, un ragazzo disturbato e con il complesso di abbandono, si era innamorato di suo fratello, al quale però piacevano le ragazze.
Era morto perché aveva rifiutato la persona sbagliata.
Era morto perché, semplicemente, non ricambiava l’amore di qualcun altro.
“Perché la stella?” Domandò perché all’improvviso fu quella l’unica cosa che gli balenò alla mente.
“Morgenstern significa stella del mattino.”
E sicché la M non stava per Magnus, ma per Morgenstern.
Alec trovò estremamente crudele che avesse persino fornito un indizio per i suoi crimini. Quasi come se volesse prendersene il merito, quasi come se fossero motivo di vanto.
“Marcirai in galera. Passerai il resto dei tuoi giorni solo, in una cella minuscola, con la consapevolezza che nessuno ti amerà mai. Sei un mostro, Jonathan.”
E detto questo, Alec si alzò e uscì dalla sala interrogatori, lasciando che due agenti portassero via Jonathan.
Era finita.
Era finita davvero.
Non riusciva a crederci.
Aveva trovato un briciolo di giustizia nell’ingiusta morte di suo fratello, eppure… eppure non si sentiva meglio. Conoscere i motivi per cui la vita di Max era finita lo facevano stare ancora peggio. La conoscenza rendeva l’ingiustizia ancora più profonda e in quel preciso istante, Alec ebbe la consapevolezza che le sue ferite non si sarebbero mai cicatrizzate, ma, anzi, si sarebbero solo aperte sempre di più, arrivando a toccare sempre più in profondità il suo cuore sanguinante.




Erano passati giorni dalla cattura di Jonathan.
L’assassino di suo fratello era in carcere, in attesa di un processo che l’avrebbe dichiarato colpevole di duplice omicidio, e la routine di Alec era tornata più o meno la stessa.
Ogni mattina si alzava, andava in centrale e lavorava di nascosto ai casi irrisolti.
E ogni sera tornava nel suo appartamento, si versava da bere, si faceva una doccia e andava a dormire.
Fino a quando, una sera, tornando a casa, non notò qualcosa di strano alla sua porta. La serratura del suo appartamento era stata manomessa, e Alec, istintivamente, estrasse la pistola dalla fondina ed entrò in casa facendo meno rumore possibile.
Il salotto era immerso nell’oscurità e quando Alec accese la luce, l’unica cosa che non lo fece saltare sul posto furono gli anni di esperienza alle spalle come poliziotto che l’avevano preparato a svariati imprevisti.
Magnus Bane era sul suo divano, seduto comodamente con le gambe accavallate e lo guardava divertito.
“Abbassala, zucchero, quella non ti serve.”
“Scusami se non ti credo.” Commentò Alec, carico di sarcasmo, continuando a puntare l’arma su Magnus. “Alzati e vieni qui.”
Magnus alzò le mani in segno di resa e, con un sorriso stampato sulle labbra, fece come gli era stato detto. Si posizionò davanti ad Alec, avvicinandosi, in realtà, più di quanto fosse necessario, fino a che la canna della pistola non fu appoggiata all’altezza del suo cuore. L’uomo abbassò lo sguardo sull’arma e poi lo rialzò di nuovo su Alec, con aria di sfida. “Hai intenzione di premerlo?”
Lo mandava sui nervi, questo Alec ormai l’aveva appurato. Il modo di fare che Magnus aveva. Il suo essere sempre e costantemente così malizioso, strafottente. Era un uomo abituato ad avere tutto e ad ottenerlo secondo le sue regole. Nessuno gli aveva mai detto di no e si vedeva. Non temeva nessuno, nemmeno la morte a quanto pareva.
Alec non rispose alla domanda e abbassò l’arma, risistemandola nella fondina. Con uno scatto fulmineo, afferrò Magnus per la sua probabilmente costosissima maglietta piena di paillettes nera e cominciò a perquisirlo. Passò le mani sopra al suo addome, dietro la sua schiena e, infine, si chinò per tastargli le gambe e le caviglie.
“Questa prospettiva potrebbe piacermi più del dovuto, tesoro.” Disse Magnus, guardandolo dall’alto verso il basso e ammiccando quando Alec, ancora chinato, alzò lo sguardo su di lui. Si rialzò in fretta e fece particolare attenzione a mettere le dovute distanze tra di loro.
“Perché sei qui? Cosa vuoi?”
Magnus azzerò nuovamente la distanza che c’era tra di loro con una falcata. I suoi occhi percorsero il viso di Alec con ingordigia, prima di fermarsi sulle sue labbra quasi con avidità. Quell’occhiata provocò un brivido lungo tutta la spina dorsale di Alec, ma il poliziotto decise di ignorarlo.
“Non così in fretta, zucchero. Tu hai perquisito me, io voglio perquisire te. Per amore del par condicio.”
“Sai che ho un’arma addosso.” Cominciò Alec, cercando di allontanarsi. Ma Magnus glielo impedì, piazzandogli una mano dietro la schiena e tirandolo a sé. Alec cercò di ignorare il calore che essa emanava e il modo saldo in cui Magnus lo stringeva a sé.
Era sbagliato. Gridò il suo cervello. Magnus era un criminale, un assassino.
“So che ce l’hai.” La mano di Magnus scivolò sulla sua schiena, percorrendola lentamente in tutta la sua lunghezza, fino a che non raggiunse il bordo dei pantaloni, sul quale era appesa la fondina. Alec pensò che gliel’avrebbe strappata di dosso, ma la mano di Magnus scese ancora, fino a che non gli agguantò una natica.
Alec sussultò. “Sei qui per questo? È questo il favore che mi vuoi chiedere? Perché la risposta è no. Non sono una prostituta.”
Magnus emise una risata sprezzante. “Ti prego, zucchero, certe insinuazioni mi offendono. Non ho bisogno di chiedere favori per fare sesso con qualcuno.”
“Allora, toglimi le mani di dosso e trovati qualcun altro.”
Magnus tolse la mano, ma non si allontanò. “Non mi vuoi? Nemmeno un po’?” Soffiò a due centimetri dalla sua bocca.
“Sei un criminale, Magnus.” E Alec si maledisse per il tremolio con il quale la sua voce uscì. La verità era che, seppur non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, Magnus aveva un effetto su di lui e in particolare sul suo corpo. E solo adesso se ne rendeva conto. Solo ora, perché aveva dimostrato che non c’entrava nulla con l’omicidio di suo fratello e riusciva ad essere in grado di vedere anche l’uomo, oltre al gangster.
E Magnus Bane era dannatamente bello, da far impazzire.
Gli scatenava reazioni a livello primordiale. Il suo odore gli penetrava nelle narici e lo faceva tremare dentro.
Il suo modo di guardarlo, di provocarlo, gli scatenava delle emozioni contrastanti. Attrazione fatale ed eccitazione, persino pericolo.
Guardare Magnus Bane era come guardare un mare in preda alla tempesta più violenta e provare comunque il desiderio di gettarsi nell’acqua.
“E con questo? Non devo piacerti sotto quel punto di vista.” Magnus alzò una mano per toccare il viso dell’altro. Alec sussultò, ma, inspiegabilmente, lo lasciò fare. “È solo puro istinto, tra di noi. Scaricare la tensione, soddisfare una curiosità. Chiamalo come vuoi. Ma ti voglio, Alexander, e se c’è una parte di te, anche una minuscola, che vuole me, allora stanotte sarà la nostra notte e domani mattina tornerà tutto come prima.”
Alec non ragionò. Non più almeno. Spense il cervello perché ogni suo singolo neurone gli stava gridando che era una brutta idea. E diamine se lo era. Era una pessima idea, ma Alec, per una volta in vita sua, non voleva tenere a bada i suoi istinti. Erano stati giorni infernali, pieni di tensione e ansie e tristezza. Il passato l’aveva colpito con forza, come una mazza in pieno cranio e lui, adesso, voleva solo un modo per non pensare.
Spegnere il cervello.
Scaricare la tensione.
Per questo piazzò una mano dietro al collo di Magnus e lo tirò a sé in un bacio confusionario e quasi arrabbiato. Non c’era dolcezza, in quel bacio. Quando Magnus lo ricambiò, era come se le loro bocche e le loro lingue avessero cominciato una lotta all’ultimo sangue. Le dita di Alec corsero tra i capelli di Magnus, tirandoli leggermente. Un mugolio uscì dalla gola dell’altro, che rispose a quel gesto mordendo il labbro inferiore di Alec, prima di lasciare la sua bocca e scendere, con la propria, lungo tutte le curve del suo collo. Alec inclinò la testa ed emise un sospiro strozzato per ogni morso o succhiotto che Magnus lasciò sulla sua pelle candida.
“Non lasciare i segni, non voglio dover dare spiegazioni, domani.”  
Magnus, in tutta risposta, fece correre le sue mani lungo la camicia di Alec, accarezzando l’addome definito da sopra la stoffa, prima di strappare i primi due bottoni e dedicarsi alle clavicole. Lasciò un morso su quella destra, prima di succhiare avidamente la pelle.
“Dubito qualcuno farà caso a questi, di segni.” Disse, baciando il punto che si stava già arrossendo. “E, comunque,  non dirmi cosa fare, tesoro.”
Alec lo afferrò per i capelli e lo tirò leggermente all’indietro, per fare in modo di guardarlo in viso. “Non fare il despota.” Non gli lasciò il tempo di ribattere perché si fiondò di nuovo sulle sue labbra, quasi volesse mangiarlo. Magnus aveva una bocca bellissima, piena e carnosa. E dopo che Alec le ebbe dedicato una discreta quantità di tempo, decise di passare alla pelle bronzea del suo collo – dove lasciò un segno, dal momento che Magnus non oppose resistenza alcuna a quel trattamento.
“Sai, Alexander, i succhiotti hanno un loro fascino, ma sto diventando impaziente.”
Alec morse con decisione un lembo di pelle, prima di alzare il viso e guardare Magnus negli occhi. “Divano.”
Ordinò. “Aspettami lì, torno subito.”
Magnus si sistemò dove gli era stato detto, mentre Alec spariva nel corridoio.
Chicago era una città corrotta.
Ed era piena di follia abbastanza da far sì che un gangster e un detective passassero la notte insieme.



 

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Capitolo 3
*** 3. I Lightwood adottano un canarino ***


Ciao a tutti!
Questa è la terza storia che partecipa al contest.
In realtà è stata la prima che ho scritto, sebbene in ordine sia l’ultima. Le parole in questo caso erano: canarino e studio, mentre la canzone era Country Road di John Denver.
Mi piaceva l’idea di immaginarmi i Lightwood da piccoli ed è nato tutto ciò. Spero vi piaccia!
Ancora una volta, ringrazio Rurijo Sama e chiunque abbia deciso di proseguire a leggere questa raccolta fino a questa ultima storia.
Mi sono divertita molto a scrivere queste storia, soprattutto perché l’idea dei prompt era nuova per me!
Vi saluto, a presto! <3



                                                                           ◊



                                                  I Lightwood adottano un canarino.



Alec ha nove anni e, come a tutti i bambini, gli piacciono tante cose.
La pizza, i muffin al cioccolato, le patatine fritte, i videogames e i libri; la sua cameretta con tutte le sue cose, la coperta degli Avengers – lui e suo fratello Jace litigano sempre su chi sia il più forte, sua sorella Isabelle, invece, è convintissima che sia la Vedova Nera.
Gli piace guardare i cartoni animati e i film fantasy – fare la maratona di Harry Potter durante il periodo natalizio è ormai una tradizione, in casa Lightwood. Gli piace giocare con i suoi fratelli e dormire tutti nello stesso letto, quando, dopo aver passato tutta la sera a inventarsi giochi sono troppo stanchi per tornare nelle rispettive camere. Di solito succede che Jace ed Isabelle –  il primo più piccolo di un anno, la seconda di due – si addormentano nel suo letto e lui deve farsi piccolo piccolo per lasciare a loro più spazio.
Ad Alec piacciono tantissimo quelle serate. E la mamma li lascia sempre fare. Il bambino sospetta che le piaccia trovarli uno vicino all’altro la mattina, quando li va a svegliare per andare a scuola.
La scuola… Un’altra delle cose che gli piace. Non troppo, ma diciamo che in una scala da uno a dieci, dove uno sono i broccoli lessi e dieci è la cioccolata calda con i marshamallow, si  trova ad un onesto sei – lo stesso livello dei dolci alla carota (buoni, ma non buonissimi).
Va abbastanza bene, a scuola, se deve essere onesto. La sua materia preferita è geografia perché ad Alec i vari posti del mondo piacciono tantissimo, mentre la matematica… bleah, la matematica  è addirittura sotto ai broccoli lessi, è lo zero per eccellenza – come il divieto che ha imposto papà di non tenere animali in casa. Ecco, quel divieto rientra, invece, nelle cose che ad Alec non piacciono per niente. Papà dice che non si possono tenere animali in casa perché la mamma sta per partorire e un cucciolo e un bebè sono troppo impegnativi da gestire. Per questo Alec è un po’ arrabbiato con suo padre.
Niente cani in questa casa, bambini!  - aveva detto, quando lui e i suoi fratelli gli avevano chiesto se potevano prendere un cucciolo di labrador.
Ma loro un cane lo volevano. Eccome se lo volevano!
Alec ne aveva persino parlato con il suo amico e compagno di banco Magnus, che però aveva un gatto con un nome buffissimo tipo Presidente Miao, e lui gli aveva detto che forse doveva anzi chiederlo alla sua mamma.
Alec lo reputava un consiglio saggio. D’altronde, Magnus aveva chiesto un gattino alla sua mamma e l’aveva ottenuto, quindi, forse, se anche lui avesse chiesto un cane alla sua forse gliel’avrebbe regalato.
Così, una mattina di ottobre, mentre è seduto a tavola per fare colazione, Alec attira l’attenzione di Maryse, che è ancora ai fornelli, intenta a cuocere i pancakes. L’odore riempie l’aria e fa brontolare lo stomaco affamato di Alec.
“Mamma, stavo pensando…” Comincia il piccolo, guardando i suoi fratelli, che annuiscono vigorosamente, dandogli man forte. La sera prima, mentre erano in camera di Jace, avevano fatto una riunione speciale e avevano discusso sulla possibilità di parlare anzi con la mamma della questione labrador. Sembrava un buon piano. Cercare di convincere lei, che a sua volta avrebbe convinto papà, e così avrebbero ottenuto il cane che tanto desideravano.
«Lo chiameremo Thor,»  aveva sentenziato Alec, «Come l’Avenger più forte.»
«Non pensarci nemmeno!
» Si era indignato Jace, «Lo chiameremo Tony!»
«Tony non è un nome da cane!»
«Sì, invece, che lo è!»
«No, invece!»
Alec aveva persino rivolto una risoluta linguaccia al fratello.
A quel punto, Isabelle, che a sette anni era già testarda e restia a sentirsi dire di no, aveva alzato il visetto paffuto e aveva affermato, convinta ed irremovibile, che erano entrambi in torto.
«Siete degli stupidi se pensate che prenderemo un cane maschio. Prenderemo una femmina e la chiameremo Natasha.»
«Perché una cane femmina?»
Avevano ribattuto entrambi i bambini.
«Perché in questa casa ci sono tanti maschi e poche femmine! Ci siete voi due, papà, e quando uscirà dalla pancia della mamma, ci sarà anche Max. Tanti maschi, poche femmine. Il nostro cane, quindi, sarà una femmina!» 
«NO!»
Si erano opposti in coro Alec e Jace.
«SI!» Si era altrettanto imposta Isabelle.
Quel battibecco era andato avanti fino a quando la discussione non aveva portato degli strilli che avevano attirato l’attenzione di mamma e allora, il trio – che a volte sapeva essere davvero pestifero – si era ammutolito. Avevano assicurato alla mamma che tutto andava bene e che stavano solo facendo finta di litigare. Maryse alla fine aveva ceduto e se n’era andata, lasciando però la porta della cameretta aperta, in modo che riuscisse a sentire meglio i discorsi dei suoi figli.
Adesso, la parte importante era parlare alla mamma. Per questo Alec fa un sospiro grosso e continua.
“Stavo pensando che sì, insomma, noi potremmo… prendere un cane.”
Maryse si volta, il suo pancione che si muove con lei, e guarda il maggiore dei suoi figli con stupore. “Pensavo che la questione cane fosse archiviata.” E poi fece passare lo sguardo anche su Jace ed Isabelle perché era sicura come lo era del sorgere del sole, che quei due fossero coinvolti. Lo erano sempre, del resto. Se si trattava di uno solo dei suoi figli, era certa che anche gli altri due fossero parte integrante di qualsiasi piano le loro testoline avessero elaborato.
Come la volta che Jace era caduto dall’albero in giardino, spaccandosi un braccio, perché Isabelle aveva avuto la brillante idea di costruire una casetta sull’albero, da soli, e per sondare il territorio aveva mandato Jace sull’albero perché era il più bravo ad arrampicarsi.
(Due settimane di punizione.)
O come la volta che Alec si era rotto il naso perché Jace l’aveva sfidato a correre per strada il più velocemente possibile con gli occhi chiusi. Lui era inciampato ed era caduto di faccia.  
(Altre due settimane di punizione.)
O, ancora, come la volta che Isabelle si era sbucciata le ginocchia perché Alec l’aveva spinta giù dalla bicicletta in corsa, convinto che in realtà le stesse insegnando a mantenere l’equilibrio.
(Di nuovo, punizione.)
I suoi figli sono delle pesti, talvolta, e Maryse ne è pienamente consapevole.
“Non possiamo prendere un cane, bambini.”
I tre si allungano sul tavolo della cucina, quasi spalmandosi sulla superficie in legno. “Perché?” Lagnano, in coro.
“Perché i cani vanno portati a spasso, fatti giocare, richiedono molto tempo e non è il momento adatto per prenderne uno.”
“Perché Max sta per uscire dalla tua pancia?” Domanda Isabelle, i lunghi capelli neri che le incorniciano il visetto paffuto. I suoi occhi sono neri come quelli di Maryse. È l’unica, in effetti, ad averli come la madre.
“Papà ha detto così.” Aggiunge Jace, quasi come se volesse giustificare la domanda della sorella.
Maryse sospira e spegne il fuoco sotto alla padella. Sistema i pancakes in tre piatti e ne appoggia uno di fronte ad ognuno dei suoi figli.
“Lo so quanto vi piacerebbe avere un cane. Sono degli animali bellissimi e piacciono molto anche a me, ma… in un certo senso vostro padre ha ragione. È difficile gestire un bambino appena nato e un cucciolo. Hanno entrambi delle esigenze e non è giusto non poter riempire entrambi delle attenzioni che meritano, vi pare?”
I bambini annuiscono. La mamma ha ragione, ma è comunque triste non poter avere un Thor/Tony/Natasha che gira per casa e scodinzola e riporta la palla.
Si mettono a mangiare la loro colazione in silenzio, scoraggiati dal fallimento del loro piano, quando ad Alec viene un’idea.
“Però potremmo prendere un gatto! Magnus ha un gatto e dice sempre che l’unica cosa che fa è dormire e mangiare.”
“Sì, sì! Un gatto va bene lo stesso!” Afferma Isabelle, mentre Jace si limita ad annuire con vigore, dal momento che ha la bocca troppo piena di cibo per riuscire a parlare.
Maryse, nonostante tutto, si trova a sorridere, perché trova tenera quella fiammella di perseveranza che caratterizza i suoi figli.
“Papà è allergico ai gatti.” Li informa, e la delusione che per la seconda volta attraversa i volti del trio, le fa venire in mente una cosa. Un compromesso. “Facciamo così, oggi dopo scuola, andiamo al negozio di animali e vediamo di prenderne uno piccolo, va bene?”
I visi dei bambini si illuminano all’istante. “Sì!” Esclamano in coro.
“Io voglio un coniglio!” Sentenzia Isabelle.
“No, i conigli puzzano, prenderemo una tartaruga!”
“Guarda che quelle vere non sono mica ninja!”
“Lo so, scema!” Afferma Jace, facendole la linguaccia.
“Non sono scema, tu sei scemo!” Ribatte Izzy con una sonora pernacchia.
“Nessuno qui è scemo! E non voglio che vi diciate certe cose!” Interviene Maryse, ponendo fine al battibecco. “Al negozio di animali ci andremo solo se vi comporterete bene, intesi?”
“Sì, mamma.” Rispondono i due bambini all’unisono.  
La donna si siede al tavolo con loro. “Bene, adesso finite di mangiare, altrimenti facciamo tardi.”
Il trio annuisce e finisce la colazione. Alec non aveva espresso preferenze, perché in realtà, escluso il cane, non ne aveva. Tra le tante cose che gli piacciono ci sono anche gli animali, quindi gli va bene quasi tutto – quasi perché si sente di escludere con assoluta certezza i ragni, dal momento che gli fanno davvero schifo.
Hanno troppe zampe e sono disgustosamente pelosi.
Rabbrividisce al solo pensiero, quindi decide di smettere di concentrarsi sugli aracnidi e di continuare la sua colazione.
Il solo pensiero di un giretto al negozio di animali lo rende felice, tanto che persino la scuola, quel giorno, passa dal livello sei al sette, come la macedonia di frutta con lo zucchero.


Alec non riesce a contenere il suo entusiasmo. Fissa l’orologio sulla parete della sua classe da almeno venti minuti, seguendone ogni minimo movimento e ogni avanzata verso la fine dell’ultima ora di scuola.
Sa che appena la campanella suonerà, dovrà andare alla fontanella in corridoio – perché è lì che lui e i suoi fratelli si vedono sempre quando le lezioni finiscono in modo che escano tutti e tre insieme da scuola.
“Alec? Mi hai sentito?” Domanda una voce al suo fianco, distraendolo dalla sua attenta analisi dell’orologio.
Il bambino si volta alla sua sinistra e trova Magnus, i suoi occhi a mandorla lo fissano, perplessi.
Magnus è il suo migliore amico, il primo che ha avuto al di fuori di Jace ed Izzy. Il primo giorno di scuola in assoluto, Alec aveva tanta paura che sarebbe rimasto solo perché era consapevole di avere un carattere chiuso e riservato. Era timido a livelli patologici, aveva detto suo padre una volta, anche se lui non sapeva bene cosa significasse quella parola tanto strana. Però sapeva cosa significasse timido e poteva dire che fosse vero. Per questo aveva avuto paura, perché sapeva di essere timido e di avere difficoltà ad avvicinarsi agli altri bambini.
Con Magnus era stato sorprendentemente facile diventare amici. Erano capitati per caso vicini di banco e da subito, il viso solare di Magnus gli aveva suscitato simpatia. A volte, tendeva a parlare troppo, ma ad Alec andava bene così, perché c’erano dei giorni dove lui non riusciva a parlare per niente e avere qualcuno vicino che lo faceva al posto suo lo aiutava a sentirsi meno strano. Ed erano proprio quelle infinite conversazioni che lo spingevano a chiacchierare anche quando a lui sembrava impossibile riuscire a spiccicare parola.
Magnus gli faceva bene, o almeno così diceva la mamma. Era convinta che l’avrebbe aiutato ad aprirsi un po’, a vincere la sua timidezza, o quanto meno a smussarla – e ancora, Alec non aveva idea di che cosa significasse quella parola, ma da come la pronunciava mamma, doveva essere sicuramente qualcosa di positivo.
“No, scusa,” risponde Alec, “Ero concentrato sull’orologio.”
“E perché?”
Alec sorride e si avvicina all’amico con aria cospiratoria, quasi gli stesse per confessare un segreto di stato. “Andiamo al negozio di animali, dopo scuola.”
Magnus ricambia il sorriso di Alec, sinceramente felice per lui. “L’hai convinta? Prenderete un cane?”
“No,” risponde, in un sussurro per non farsi sentire dalla maestra, “Però possiamo scegliere un animale piccolo.”
“È sempre una buona cosa,” Afferma Magnus, convinto delle sue parole. “Cosa prenderete?”
“Izzy vuole un coniglio, Jace una tartaruga.”
“E tu?”
Alec fa spallucce. “Io non lo so, qualsiasi animale mi piace.” 
“Potresti prendere un canarino.”
“Un canarino?” domanda perplesso Alec.
“Sì, sono carini.”
“E se poi, quando vieni a giocare da noi con Presidente, lui se lo mangia?”
“Presidente è vegetariano.” Dichiara Magnus, con una certa risolutezza.
Alec per poco non scoppia a ridere rumorosamente. Riesce a trattenersi solo perché se la maestra lo sentisse, lo manderebbe in punizione e lui si giocherebbe l’opportunità di andare al negozio di animali. Ci andremo solo se farete i bravi, aveva detto la mamma a colazione – e finire in punizione non significa fare i bravi.
“Questa è una bugia, e lo sai. Il tuo gatto ha mangiato un sacco di lucertole, nel nostro giardino.”
Magnus assume un aria di superiorità – lo fa spesso, quando non vuole ammettere di essere in torto e Alec lo trova un po’ buffo quando fa così. “Allora diciamo che è vegetariano, tranne se si tratta di lucertole, contento?”
Alec ridacchia. “Va bene, va bene. Ci penserò per il canarino. In realtà mi piace come idea.”
Magnus annuisce soddisfatto e felice di aver dato un buon consiglio al suo migliore amico. Alec sta per chiedergli se verrà a vedere il loro animale, qualsiasi sarà quello che sceglieranno, ma la campanella suona, segnando l’ora x e lui deve scappare. Saluta Magnus in fretta e gli promette che il giorno successivo gli racconterà tutto. Magnus annuisce e lo saluta, prima di guardarlo sparire dalla porta in tutta fretta.



I negozi di animali hanno un odore strano, se lo si chiede ad Alec. Un misto di mangime, fieno, e semi mischiato a qualcos’altro che il bambino non riesce a identificare.
Si guarda intorno, curioso. Ci sono animali di ogni genere: criceti, orsetti russi, conigli, pappagalli, tartarughe, pesci – di quelli ce ne sono tantissimi e tutti super colorati – e canarini.
Alec si dirige verso quest’ultimi, mentre nota che i suoi fratelli si dirigono verso gli animali per cui avevano dimostrato il loro interesse quella mattina.
Dovranno arrivare ad un compromesso per scegliere quello che piacerà a tutti e tre, ma Alec sa che la presenza della mamma li aiuterà ad arrivare ad un accordo.
Il suo sguardo, intanto, passa su tutti i canarini che cinguettano nelle gabbie. Ce ne sono alcuni gialli, alcuni bianchi, ed altri rossi. Per ogni gruppo di volatili, ci sono tre grosse gabbie in cui vengono raggruppati. Ad Alec piacciono quelli gialli, il classico colore dei canarini, come si vede nei cartoni di Titti e gatto Silvestro.
Al bambino scappa un sorrisetto al pensiero che se davvero dovesse prendere un canarino, la sua vita si trasformerebbe in quel cartone ogni volta che Magnus verrà a fargli visita con Presidente. Dovrà posizionare la gabbietta molto in alto – chiederà a mamma di farlo – per evitare che il gatto meno vegetariano del mondo finisca per nutrirsi del suo animaletto.
Con un’attenta analisi, Alec continua la sua ispezione. I canarini gialli si assomigliano tutti, tanto che il bambino inizia a pensare che uno o l’altro sia lo stesso, quando i suoi occhietti curiosi si posano su uno in particolare. È giallo, come tutti i suoi simili, ma una delle sue ali è grigia. Gli ricorda tanto Jace, che ha una parte dell’occhio sinistro marrone, mentre invece il destro è tutto azzurro, e prova subito simpatia per quel piccolo pennuto.
“Jace!” Lo chiama, “Vieni a vedere.”
La testina bionda, seguita ovviamente da una curiosa Izzy, fa prestissimo a raggiungere il fratello.
“Guarda,” Dice Alec, “Quel canarino è duo-colorato come te!”
“Si dice bicromatico, Alec.” Lo corregge Maryse, che era stata attirata dalla voce del figlio esattamente come gli altri due.
“Prendiamolo!” Dice subito Isabelle. “A me piace più dei conigli.”
“Anche a me piace…” Azzarda Alec, con un filo di voce.
Jace rimane a fissare l’animale. Chissà se si è mai sentito diverso. Chissà se nel mondo animale esistono le prese in giro e i commenti cattivi, chissà se ha avuto una mamma che gli ha insegnato a non ascoltare quelle voci e a prestare attenzione solo alle voci di chi gli vuole bene.
Jace non aveva mai prestato attenzione alla diversità dei suoi occhi, perché in famiglia nessuno l’aveva mai preso in giro per questo. Il timore che potessero essere brutti era arrivato quando, a sei anni, il primo giorno di scuola un gruppetto di bambini l’aveva preso in giro perché un occhio era diverso dall’altro. Jace non aveva pianto, perché era estremamente orgoglioso e davanti agli altri non piangeva mai, ma c’era rimasto davvero molto male. Soltanto un bambino aveva preso le sue parti, mentre gli altri o erano stati in silenzio o si erano aggiunti alla presa in giro – Simon.
Io penso che i tuoi occhi siano ok, invece. Come quelli di uno stregone super potente, hai presente?
Jace non aveva molto presente, perché non conosceva nessuna storia dove gli stregoni hanno occhi di colori diversi, ma aveva annuito lo stesso perché la faccia gentile di Simon e il tuo tentativo di stare dalla sua parte l’avevano rallegrato.
Era così che si era fatto il suo primo amico al di fuori di Alec ed Izzy. E gli piaceva quando Simon veniva a casa sua e c’erano anche Magnus, l’amico di Alec, e Clary, l’amica di Isabelle. Giocavano sempre tutti insieme. Andavano in giardino e si ricorrevano, o giocavano a nascondino, o accudivano tutti insieme il gatto grasso di Magnus, fino a che la mamma non li chiamava in casa per la merenda. E mai nessuno di loro l’aveva preso in giro per i suoi occhi.
Non lo fanno perché non c’è niente per cui prenderti in giro, tesoro – gli aveva risposto la mamma, quando lui le aveva chiesto come mai loro non facessero come gli altri bambini. Non dare ascolto alle prese in giro, dai piuttosto importanza al comportamento dei tuoi amici. Il fatto che loro non abbiano mai detto niente al riguardo, dimostra quanto gli altri bambini si sbaglino a prenderti in giro.  
Jace aveva imparato quella lezione e adesso qualsiasi commento non lo feriva più, anzi aveva anche imparato a rispondere a tono e a vedere nei suoi occhi un segno di particolarità, anzi che di stranezza.
E quel canarino era particolare, non strano, proprio come lui – era speciale, come i suoi fratelli che gli volevano bene e mai una volta l’avevano fatto sentire strano, o diverso.
“Anche a me piace,” Afferma quindi, sorridendo prima ad Isabelle e poi ad Alec, con una certa complicità. “Possiamo prenderlo, mamma?” Domanda, poi, alzando il visetto verso Maryse.
“Certo, se siete tutti d’accordo.”
“Lo siamo!” Esclama in coro il trio.
Maryse sorride e accarezza le testoline una ad una, prima di dire loro di aspettare esattamente dove sono, mentre lei va a chiamare il titolare del negozio. Con passo ondeggiante a causa del suo grosso pancione, si avvicina al bancone, dove poco prima un ometto giovane ed allampanato li aveva informati che, se avessero avuto bisogno di qualsiasi cosa, lui era lì.
Ma quando Maryse raggiunge il bancone, l’uomo non c’è più. Al suo posto, c’è una radiolina che trasmette una canzone che le sembra di conoscere vagamente, ma di cui le sfugge il titolo.
Sta per suonare il piccolo campanello che si trova proprio sul bancone, quando una voce blocca il suo intento sul nascere. Da sotto il bancone infatti, la donna sente cantare.
Country rooooad, take me hooome, to the place I belooong, West Virginia mountain mamaaa, take me hooome country rooooad!”
Sporgendosi trova l’ometto, intento a sistemare qualcosa dentro a delle scatoline, e le viene quasi da sorridere per l’entusiasmo messo nel cantare con tanto sentimento quella canzone.
“Ehm, mi scusi?” domanda piano, attirando l’attenzione del cantante improvvisato. L’uomo alza la testa con tale stupore che la picchia contro al bancone, prima di sollevarsi del tutto.
“Va tutto bene?” domanda Maryse, preoccupata, mentre lo osserva massaggiarsi la parte lesa con una mano e con l’altra spegnere la radiolina.
“Sì, signora, non si preoccupi. Sono solo… sbadato. Mi piace ascoltare la musica, quando sistemo i semi di girasole nelle scatole, e a volte mi faccio prendere la mano.”
Maryse sorride. “Ho notato. È intonato, comunque, complimenti.”
L’ometto arrossisce e dopo aver borbottato a mezza voce dei ringraziamenti imbarazzati, si ricompone. “Ha bisogno di qualcosa, signora?”
“Volevo chiederle se gentilmente potrebbe darci un canarino. I miei figli ne hanno visto uno con un’ala grigia che li ha colpiti particolarmente e vorremmo prenderlo.”
“Ma certo, signora, arrivo subito!” E detto ciò, circumnaviga il bancone, afferra una gabbietta da una delle pareti e si dirige con Maryse verso i canarini. L’uomo apre la grande gabbia con delicatezza e facendo molta attenzione a non far uscire gli altri, prima di afferrare il canarino con l’ala grigia e sistemarlo gentilmente dentro l’altra gabbietta. Quello prende a cinguettare e a sbattere le ali non appena si trova nel posto nuovo, quasi come se avesse capito che sta per traslocare. E i bambini guardano l’animaletto affascinati ed eccitati all’idea di tornare a casa con un nuovo amico piumato.
“Oh, è così bello!” Afferma Isabelle. “Come lo chiamiamo?”
“Tony!” Risponde subito Jace.
“No, Thor!” Ribatte Alec.
“Ehm, bambini…” comincia cautamente il negoziante, “Questo canarino è una femmina.”
Gli occhietti neri di Isabelle si illuminano, come se avesse appena conquistato una vittoria. “AH!” Esclama, entusiasta, “Allora la chiameremo Nat!”
E così, mentre Maryse va a pagare, i bambini continuano a parlottare tra loro del  nuovo animaletto e di come, alla fine, Izzy l’avesse avuta vinta.
“Le femmine e la loro solita fortuna!” Conclude Jace, come se fosse una verità ineluttabile, prima di salire in macchina e lasciarsi mettere la cintura dalla mamma. Alec ridacchia, Izzy, invece, gli fa una linguaccia e si tiene stretta al petto la gabbietta con Nat dentro perché il primo viaggio lo deve fare con me, da femmina a femmina.



Nel viaggio di ritorno verso casa, Isabelle ha un’idea e si sente di proporla alla mamma.
“Mamma? Cosa ne dici se passiamo a trovare papà e gli facciano vedere Nat?”
Maryse ci pensa su. Robert, suo marito, lavora in uno studio legale molto importante a New York. È un avvocato molto impegnato e costantemente al lavoro sui nuovi casi che gli vengono proposti.
Non è sicura che avrà il tempo per riceverli e teme che un possibile rifiuto possa far rimanere male i bambini, ma… non riesce dire di no al tono entusiasta di Isabelle.
“Va bene, però se papà è impegnato andiamo via e gli facciamo conoscere Nat a casa, quando torna questa sera.”
“Ok,” e poi si rivolge all’uccellino, “Vedrai, anche papà ti vorrà bene come te ne vogliamo noi!”



Lo studio di cui Robert Lightwood era socio, si trovava nella Fifth Avenue, in uno di quei palazzi altissimi e pieni di luci. Alec aveva sempre pensato che fossero così alti da arrivare al cielo e quando una volta l’aveva chiesto alla mamma, lei aveva sorriso e gli aveva risposto che se i palazzi alti venivano chiamati grattacieli un motivo ci doveva necessariamente essere.
Quei  grossi palazzi grattavano il cielo e Alec, con la sua mente di bambino, associava l’immagine ad una grattugia che riduce in tanti piccoli filamenti un pezzo di formaggio.
Chissà se la neve che cadeva d’inverno non era frutto di quel meccanismo. Magari, a forza di grattare e grattare, si accumulava per tutta l’estate e poi quando arrivava l’inverno cadeva tutto dal cielo, sotto forma di neve.
Ad Alec piace molto, la neve. Nella sua scala delle preferenze si è guadagnata un bell’otto pieno pieno.
Maryse parcheggia davanti al palazzo dove lavora Robert e dopo essersi assicurata che i tre bambini siano ben coperti, li fa scendere dall’auto, prima di chiuderla a chiave.
Il trio si riversa come una piccola fiumana verso l’ingresso e Maryse, con il suo passo ondulante, fa quasi fatica a starli dietro.
“Aspettatemi!” Esclama ad alta voce e i tre si fermano immediatamente. “Dovete sempre stare vicini alla mamma quando siamo in strade così affollate.” Continua, quando li raggiunge. I tre bambini annuiscono e con un movimento della testa, Maryse fa cenno loro di entrare.
Jace entra per primo, attraversando la porta girevole. Isabelle, invece, che ha un po’ paura di quelle porte, guarda Alec, come se volesse chiedergli silenziosamente di entrare con lei.
“Prendi la gabbietta con una mano sola e dammi l’altra.” Le dice, perché Izzy stava ancora abbracciando Nat. La bambina fa come le viene detto, sorreggendo la gabbia per il gancio che si trova sulla cima con una mano e offrendo l’altra al fratello.
“Sei pronta?”
Izzy annuisce e Alec la stringe senza pensarci due volte. Insieme attraversano le porte girevoli e adesso che sono dall’altra parte, Isabelle ha meno paura.
“Sei una fifona molliccia, Izzy.”  
“Non è vero!” Si difende la bambina, usando la mano che prima stringeva quella di Alec, per lasciare un pizzicotto sul braccio di Jace.
“Isabelle, non alzare le mani su tuo fratello.” Interviene Maryse, dopo essere entrata. “E Jace, non prendere in giro tua sorella!”
I bambini si guardano e si scambiano una linguaccia, ma nessuno dei due dice altro. Maryse sta per dirli di chiedersi scusa a vicenda, quando un ragazzo attira la sua attenzione.
“Signora Lightwood, che piacere! Non pensavo arrivasse, il signor Lightwood non mi ha detto niente.”
Asher, lo stagista/segretario di Robert non che addetto alla gestione degli appuntamenti. È un ragazzo alto, un po’ cicciotto, con un viso dai tratti dolci e l’espressione costantemente curiosa.
“Ciao Asher, infatti non dovevo venire. Volevamo solo fare una sorpresa a Robert. Puoi dirgli che siamo qui? Se non è troppo impegnato?”
“Ma certo, signora, vado subito!”
Il ragazzo si inoltra in un corridoio pieno di porte. La struttura dello studio legale è piuttosto strana, ma solo perché prima era un hotel. L’ingresso, dove ora si trova la scrivania di Asher, era la reception e il corridoio pieno di porte – che adesso sono tutti gli uffici dei vari avvocati – era riservato alle camere del primo piano.
Alec si guarda intorno curioso. Gli piace il posto dove lavora papà. Il pavimento è di marmo nero e rosa, così come le colonne che si trovano a sostegno dell’edificio. Il soffitto è pieno di dipinti - nuvole sopra alle quali stanno piccoli angioletti che guardano verso il basso, come se stessero osservando gli uomini a cavallo che marciano verso chissà che cosa. Ad Alec piace il cavallo nero in modo particolare.
Il cinguettio improvviso di Nat attira la sua attenzione, quasi come se la piccola pennuta lo rimproverasse per aver guardato un altro animale. Alec sa che non è possibile, ma si china comunque verso la gabbietta e infila un dito al suo interno per accarezzare il suo canarino – dal quale Isabelle non si è ancora separata.
“Bambini.” li chiama Maryse, mentre rimangono in attesa di Asher. I tre si voltano verso la madre, ma la sua attenzione è rivolta principalmente ad Jace ed Izzy. “Voglio che vi chiediate scusa reciprocamente, per prima.”
Isabelle mette il broncio. “No, mi ha chiamato fifona molliccia.
“E lei mi ha dato un pizzicotto, sa che non mi piace quando mi pizzica e l’ha fatto lo stesso!” Ribatte Jace, incrociando le braccia al petto.
Maryse fa un profondo respiro, facendo scorta della sua pazienza. “Avete sbagliato entrambi. Per questo è giusto chiedere scusa.”
Jace ed Isabelle si fissano per un attimo, infastiditi, ma poi si avvicinano uno all’altra e si stringono in un abbraccio rappacificatore.
“Scusa se ti ho chiamata fifona.” Comincia Jace, stringendo la sorella.
“Scusa se ti ho pizzicato.” Conclude Isabelle, ricambiando la stretta.
“Bravi i miei teso-AHI!” Maryse non riesce a finire quella frase perché un dolore improvviso alla pancia le spezza il fiato. Si mette d’istinto le mani alla pancia, in un primo momento troppo spaventata per realizzare che le si sono appena rotte le acque. “Oh, cavoli!” Esclama, non appena nota i suoi pantaloni bagnati.
“Che succede, mamma?” Chiedono i tre bambini all’unisono, preoccupati.
“La mamma sta bene, tesori miei. È solo…” Una contrazione, una smorfia di dolore. “Vostro fratello Max ha deciso di venire al mondo una settimana prima del previsto.”
I bambini si guardano, non sapendo cosa fare. Ma, in quel momento, proprio come nei film dei supereroi, Asher  torna da loro, seguito da Robert Lightwood, che nota subito le smorfie della moglie.
“Ci siamo?” le domanda, cingendola con un braccio.
Maryse annuisce. “Sì.”
“Allora andiamo in ospedale. Asher, ti spiace occuparti dei miei ultimi impegni?”
“Non si preoccupi, signore, mi occupo di tutto io!”
“Grazie.” E detto questo, si rivolge di nuovo alla moglie. “Hai la macchina qui davanti?”
Maryse annuisce e gli porge le chiavi. Fa grossi respiri profondi, come le avevano insegnato al corso pre-parto e cerca di mantenere le calma. Andrà tutto bene, si ripete, posso farcela.
“Forza, bambini, salite in macchina.” Dice Robert, una volta fuori dallo studio, dopo aver aperto la portiera del sedile posteriore. Dopo aver aiutato Maryse a salire sul sedile del passeggero, torna ad occuparsi dei figli. Si sporge su ognuno di loro per assicurarsi che le cinture siano ben assicurate.
“Sai papà, abbiamo un canarino, però è una femmina!” Gli dice Isabelle, quando sistema la sua cintura, facendo mostra della gabbietta. E Robert non riesce a trattenere un sorriso.
“Mi fa molto piacere, tesoro. Dopo me la farai conoscere.” Le lascia un bacio sulla testa e poi si mette alla guida.
La corsa all’ospedale Alec la ricorda piena di luci che gli sfrecciano davanti agli occhi, con papà che controlla l’orologio per vedere quanti minuti passano tra una contrazione e l’altra, mentre mamma fa grossi respiri profondi e rumorosi, ma, nonostante tutto, può dire con assoluta certezza che avere un altro fratellino, nella sua lista delle preferenze, si becca un imbattibile dieci.



 

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