Cronache di metallo bollente, sangue e pessimi rapporti

di dispatia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** stage 1: normalità ***
Capitolo 2: *** stage 2: cambiamento ***
Capitolo 3: *** stage 3: delirio ***
Capitolo 4: *** stage 4: domande ***



Capitolo 1
*** stage 1: normalità ***


 
stage 1: normalità
 

« Ricapitoliamo, cosa devi fare una volta arrivata a scuola? »
Era una bella giornata di fine settembre, e il vento leggero trasportava sulla sua scia le prime foglie aranciate, accarezzandomi il viso e le gambe in un debole abbraccio prima di posarle a terra in una forma di dono; la città brillava delle prime luci del giorno in un estro di colore, e nonostante la naturale ansia della prima volta mi facesse tremare riuscivo a trovare un poco di pace nel paesaggio che mi circondava.
Fu lo schiocco di dita di mio fratello a riportarmi coi piedi per terra. Succedeva fin troppo spesso che richiamasse la mia attenzione, e non importava quanto gli ripetessi che odiavo mi trattasse come un cagnolino ammaestrato, lo faceva comunque. Detestava esageratamente non ricevere attenzione.
In effetti detestava un sacco di cose.
Sospirai, aggiustandomi una ciocca di capelli dietro alle orecchie e continuando mollemente a guardare fisso davanti a me. Volevo comunque infastidirlo, se lo meritava. Quella mattina non mi aveva svegliato e mi aveva fatto preparare con molta meno calma di quanto avrei voluto, senza contare le ore che aveva passato in bagno per rendersi presentabile. Prima o poi avrei perso la pazienza e avrei pubblicato tutte le sue foto imbarazzanti che avevo sul giornalino della scuola, solo per vedere la sua reputazione crollare.
« Sorridere, salutare, non mangiare vivo nessuno, farti fare bella figura » feci una smorfia « Almeno posso presentarmi come Stesky? »
« Assolutamente no. Pensavo avessi accettato il tuo nome a questo punto, perché continuare a usare quello? »
Arricciai il naso e non risposi, cosa che evidentemente dovette fargli pensare di avere il via libera a infastidirmi.
« Pensi che ti accetteranno di più se usi quel nome - orrendo per'altro, senza offesa -, hai paura di restare sola? »
« Vector, sta' zitto. »
Avrei tanto voluto schiaffargli il sorriso fuori dalla faccia. Alzò le mani, e calò nuovamente il silenzio. Poteva essere migliorato dai tempi in cui era un imperatore bariano con manie di onnipotenza ma non voleva dire fosse tornato ad essere Rei. Quasi mi dispiaceva non averlo mai conosciuto in quelle vesti, perché almeno per qualche mese avrei avuto accanto un fratello che non avevo costantemente voglia di uccidere.
Ad ogni modo, di fronte ai cancelli della scuola e la conseguente orda di studenti nell'ingresso mi tremò il cuore, distraendomi da qualsiasi pensiero omicida. Non avevo mai avuto occasione di indossare una divisa ufficiale o sedermi su un banco in mezzo ad altri studenti; tutta la mia vita ero stata relegata in un orfanotrofio, e non era paragonabile a come immaginavo sarebbe stata la mia vita da quel momento in poi.
« Buona fortuna sorellina » mi mormorò, talmente grondante di sarcasmo da farmi venir voglia di perdere totalmente la ragione e prenderlo a pugni seduta stante. Dovette intuire i miei pensieri perché si allontanò un paio di passi prima di voltarsi di nuovo per dirmi:
« Ah e vedi di trovarti un fidanzato. Non posso essere il ragazzo più bello della scuola con una sorella da meno. Mi rovini già la vita così com'è. »
E se ne andò prima che potessi replicare. Nella mia vita passata ne avevo fatte di cattive azioni ma non me ne veniva in mente neanche una abbastanza atroce da farmi meritare Vector come fratello maggiore.
 
Solite presentazioni di convenienza, solito inchino, solito sorriso plastificato. Dio com'era faticosa una vita normale dopo anni del genere! Mi sforzavo di non ascoltare i commenti sul mio conto, ma ogni volta che mi sentivo paragonata a "quel demonio" mi veniva voglia di urlare. Non mi somigliava neanche, la natura gli aveva donato dei misteriosi capelli arancioni, che io non avevo, e chiaramente più fascino data la quantità di commenti sul mio essere "piccolina" e "beh suo fratello deve aver preso tutto"... non che si sbagliassero su nulla, ma questo non lo rendeva meno umiliante, per quanto Vector potesse avermi temprata.
Mi tirai su dall'inchino e il professore mi sorrise, incoraggiante.
« Siamo molto felici di averti fra noi, Amaaris. Siediti pure accanto a Tsukumo. » disse, e m'indicò un posto vuoto affiancato da... un altro posto vuoto.
Chiunque fosse questo "Tsukumo" doveva essere un ritardatario impressionante perché erano le otto e trentacinque, e io avevo già fatto perdere più di dieci minuti di lezione. Cercai di mostrare empatia al suo viso rassegnato e mi sedetti al mio posto, iniziando a mettere le cose al loro posto e ignorando chiunque ancora fosse abbastanza curioso da guardarmi. Speravo la smettessero presto. Al contrario di Vector, odiavo essere al centro dell'attenzione.
Tsukumo non mi era sconosciuto come cognome. Forse me lo aveva accennato qualcuno, e sembrava importante, ma proprio non riuscivo a contestualizzarlo. Stavo per guardarmi intorno nella classe per vedere se riuscivo a capire se mancava qualcuno di mia conoscenza quando la porta della classe si aprì, ed entrò qualcuno che mi fece sprofondare il cuore nello stomaco.
L'avevo mai visto a malapena nella sua forma umana, ma non mi serviva per riconoscerlo. Nash era sempre simile a se stesso, anche in una divisa del terzo anno e con l'espressione stranamente serena. E poi non aveva mai smesso di essere bello - solo per essere oggettiva, sia chiaro -, con quegli occhi color mare che quando si scontrarono con i miei ebbero l'effetto di un pugno allo stomaco.
Mi aveva riconosciuta? Per forza, mi aveva vista umana. E doveva anche ricordarsi di tutto il male che avevo fatto. Certo alla fine ci eravamo tutti uniti come un'allegra famiglia felice eppure non riuscivo a credere che davvero io e Vector fossimo stati redenti da tutti i nostri peccati così, come se nulla fosse.
Mentre io esitavo lui mi trapassò con lo sguardo tornando a guardare il professore.
« Il professor Kanade voleva parlare con lei di... » e non riuscì  finire la frase perché un fulmine indefinibile gli corse accanto e si fiondò nel posto vicino al mio, ansimando.
« Ho capito Reginald, arrivo, grazie. E Tsukumo, è possibile che tu non arrivi mai in orario? »
Se a vedere Nash il cuore mi era caduto nello stomaco, quando riconobbi chi avevo lì vicino crollò sul pavimento, e ancora più giù.
Tsukumo Yuma. Yuma. Tsukumo. Come aveva potuto passarmi di mente?
Beh questo sì che era imbarazzante. Chi era stato il mio più acerrimo nemico adesso era mio compagno di banco, ragazzo normale che si scusava per essersi svegliato tardi. Dovette accorgersi di me, perché finì di tentare di giustificarsi e si voltò, lo sguardo prima stupito e poi un po' più serio.
« Amaaris. »
« Yuma. »
Certo, non eravamo più nemici, eppure sentivo comunque una strana paura viscerale. Come se ancora ci fosse un duello in sospeso fra me e lui che avrebbe deciso la mia sorte.
Pura paranoia, ma dolorosa.
Mi sforzai di sorridergli, maledicendo ancora una volta di non avere le doti attoriali di mio fratello.
« Sai è bello vederti in un posto più piacevole di un campo di battaglia, per una volta. »
Annuì, con un sorriso decisamente più allegro e sincero del mio.
« Sì, lo è davvero. »
Mi ritrovai a giocherellare con la collana che portavo al collo, quella che mi aveva regalato mio fratello quando era venuto a prendermi dall'orfanotrofio. Non avevo idea del perché avesse deciso di farmi un dono, non era mai stato il tipo neanche da festeggiare il mio compleanno, eppure lo tenevo come la cosa più preziosa. Ovvero, il mio unico appiglio quando mi sentivo terribilmente a disagio.
« Yuma, senti ti dispiacerebbe chiamarmi Sky? O Ste, o Stesky, qualsiasi cosa non sia... quel nome, ecco. »
Mi ero voltato dall'altra parte, ma lo avvertii annuire.
« Sì, nessun problema. »
Sorrisi, stavolta per davvero, e lo ringrazia con un cenno.
 
« Sky, aspetta un attimo. »
Mi voltai, e fui accecata per qualche secondo dagli ultimi raggi del pomeriggio. Non mi ero resa conto di quanto fosse lunga una giornata scolastica fin quando non ero uscita e avevo visto le prime avvisaglie di stelle nel cielo. La mia giornata tipo, prima, finiva alle cinque per ricominciare alle sette.
Quando mi tornò la vista - ovvero, quando spostai il capo per non bruciarmi completamente la retina - mi trovai di fronte al viso di Yuma, e non aspettavo nessun'altro che lui e la sua eterna espressione positiva.
Avevo scoperto che vederlo con un'espressione che non fosse il dolore, o la rabbia, o la paura, mi piaceva. Riusciva a scaldare qualcosa dove credevo ci fosse solo una distesa di permafrost, e non mi era complesso capire perché il Destino avesse scelto lui come eroe della storia.
« Sì? »
« Ti andrebbe di andare a casa insieme? »
Dovette notare la mia espressione interrogativa, perché si aggiustò la cartella e aggiunse:
« So che abbiamo avuto un pessimo inizio, ma adesso è tutto finito ed io vorrei... sì, ecco, vorrei... » esitava, ed io non riuscivo a credere a quello che gli sarebbe uscito di bocca « Vorrei che diventassimo amici. »
« Dopo tutto quello che ho fatto? Dopo le prese in giro, il duello, mio fratello... dopo tutto tu vorresti perdonarmi? » sbottai, in un modo molto più aggressivo di quanto avessi voluto. M'interruppi, e poi abbassai lo sguardo.
« Forse tu vedi in me qualcuno di diverso, di migliore, ma io sono come mio fratello e dovresti starmi lontano. In classe volevo solo essere gentile, non sento di meritarmi la tua amicizia, non voglio più ferire nessuno. »
Potevo sentire il mio cuore incrinarsi e spezzarsi definitivamente quando mi voltai dall'altra parte. Non mi fidavo di me stessa ormai. E anche se mi fossi fidata, quando fai qualcosa te ne devi prendere le responsabilità; non potevo nascodermi dietro al fatto che mi fossi redenta all'estrema fine. Mi sembrava una scusa labile e insufficiente. E poi nessuna maledizione poteva giustificare le mie antiche mani sporche di sangue.
Stavo per andarmene quando Yuma mi afferrò il polso, costrigendomi a girarmi per guardarlo. Aveva il solito sguardo serio e determinato, così energico e fiducioso che faceva davvero male, ma sarei stata codarda a distogliere lo sguardo.
« Ti prego, sii più clemente con te stessa. » suonò come uno schiaffo, alle mie orecchie « Lascia che sia io a decidere da solo chi ne vale la pena o no. Sono certo che non mi farai del male, anche solo perché sei consapevole di non volerlo fare. »
Ci fu qualche secondo di stallo, e poi lasciò la presa, senza smettere di guardarmi. E se mi fissava con quell'espressione, con quegli occhi di rubino imploranti, la mia lingua non riusciva ad articolare un 'no'.
« D'accordo. Hai vinto. »
Era fin troppo testardo, ma questo lo sapevo già. Ripensandoci chissà perché mi ero presa la briga di opporre tanta resistenza.
Strinsi le dita sulla cartellina e gli feci cenno di andare. Il clima era mite, una traslucida luna faceva capolino fra nuvole sottili e l'odore dell'autunno mi entrava nelle narici e faceva pensare a tempi più belli persi nel tempo.
In quel momento non avrei mai immaginato la fine potesse avere un inizio così dolce.
 
Rincasai tardi quella sera. Yuma era riuscito a convincermi a restare a mangiare a casa sua. Avevo la sensazione che da quando suo padre e sua madre erano tornati l'idea di tornare da una famiglia al completo fosse per lui ancora qualcosa da elaborare, e sopratutto da condividere come gioia più grande.
Ero felice, se lo meritava, ma non riuscivo a non provare una punta di amarezza ogni volta che lo vedevo ridere e scherzare con i due. Era un pensiero sciocco e irrazionale, ma non potevo negare l'invidia che provavo a vedere lui con qualcosa di tanto caro che a me era stato negato, nella mia vecchia vita per assassinio e in questa per Destino.
Però avevo Vector.
Per quel che contava.
Mi sfilai le scarpe, mentre richiudevo la porta dietro di me. La casa era buia, eccezion fatta per la luce bluastra della televisione, accesa su una serie poliziesca di quelle scadenti, che potevano piacere solo ad una mente malata come quella di mio fratello. Non mi presi la briga di salutare, come del resto fece lui, limitandosi a scoccarmi un'occhiata indecifrabile quando passai davanti a lui per andare a prendere da bere in cucina.
Era evidente che era di cattivo umore. Era facile capirlo. Si sdraiava da qualche parte e mi guardava strano finché non mi sedevo accanto a lui e aspettavo mi dicesse cosa non andava. Funzionava davvero come un bambino, specialmente adesso che aveva molte meno responsabilità di conquista mondiale sulle spalle e cose simili. Presi il mio bicchiere, lo riempii degli ultimi sgoccioli di Coca-Cola che ci erano rimasti nel frigo, e mi sedetti in terra, la testa contro il bracciolo del divano.
Non ci mise molto a decidersi a parlare; bastò che arrivasse la pausa pubblicitaria nel mezzo di una sorta di tristissimo cliffhanger sulla vera identità dell'assasino. Bevvi un paio di sorsi e lo guardai inarcando un sopracciglio, a dirgli "Beh?", senza lasciargli più molte altre scuse.
« Oggi hai visto Nash, vero? »
Gli allungai il bicchiere, praticamente vuoto, annuendo per quanto in quella penombra difficilmente poteva notarlo.
« Doveva chiamare fuori il prof. Perchè? »
« Abbiamo parlato di te. »
Oh, questo era interessante. Drizzai le antenne, torcendomi per guardarlo in volto anche da giù.
« Perché? »
« Vorrebbe parlarti di qualcosa che non ti riguarda, e siamo finiti a litigare. »
« Se non mi riguardasse non me ne vorrebbe parlare. »
Mi scoccò un'occhiata che mi intimava vivamente di restare al mio posto e smettere di rispondergli. Mi stava trattando come una bambina per l'ennesima volta, ed ero stanca di lasciarglielo fare.
« Cos'è che dovrei sapere che tu non vuoi io sappia Vector? »
Mi ripassò il bicchiere, ma questo non mi distrasse dal mantenere gli occhi inchiodati sui suoi.
« Avevamo promesso di non mentirci mai più. »
« Infatti non sto mentendo. »
« Non mi stai neanche dicendo la verità, però. »
Mi ero alzata, lasciando il vetro sporco a terra. Perché doveva sempre dirmi le cose a metà? Perché non si fidava mai di me?
Non mi rispose.
Tornò a guardare quello stupido programma, ed io, cercando di sbollire la rabbia, salii in camera mia, fingendo con me stessa che questa situazione non fosse un cannovaccio che recitavamo da anni. Mio fratello mi parlava se qualcosa non andava ma si aspettava che mi accontentassi del minimo indispensabile.
Avrei tanto voluto odiarlo come gli altri, alle volte. Che quella rabbia momentanea non svanisse in un'ora, che fossi capace di tenergli rancore.
Mi gettai sul letto, spegnendo la luce. Avrei tanto voluto non sapere di lui tutto quello che sapevo.
Come tutte le notti, mi svegliai urlando per gli incubi e tremando per la paura, la pelle bagnata di sudore e il buio intorno a me come una cappa soffocante.
Sempre la solita storia. Sempre la solita paura.
La guerra passava, ma lasciava i suoi segni.
Presi a tentoni la borraccia dal comodino, benedicendo l'acqua fredda che mi scendeva nella gola e allontanava gli ultimi brandelli di sonno. Il mio coniglio di peluche, Kira, mi fissava inquisitorio dal pavimento, e quando mi chinai per prenderlo mi accorsi che nel buio riuscivo ancora a ipotizzare senza smentita che non fosse stato un sogno, e che se avessi avvicinato le mani al viso avrei sentito quel familiare odore metallico. Chiusi gli occhi per bloccare via quei pensieri, riposi quel mio ultimo ricordo d'infanzia di fianco a me sul letto, e alla fine mi rannicchiai davanti alla finestra, posando il viso sul vetro gelido e concentrandomi unicamente sulla condensa semi-trasparente che si allargava e rimpiccioliva al ritmo dei miei respiri, finché non mi calmai. Socchiusi gli occhi, finché tutto non perse i propri contorni tranne la forma scura e vaga delle mie ciglia.
Non avrei più colpito nessuno. Sarei stata normale, avrei vissuto la vita che avevo sempre sognato.
Non era più il tempo di esitare.



 
« A te, Amaaris, che hai spiato qualcosa di più grande e incomprensibile di te, regalo la stessa sorte di tuo fratello. Che nella vita, nella morte, nella tragedia, nel lento digradare della mente nell'oblìo, non vi separiate mai. »
La ragazzina tremava, ancora aggrappata a quella porta come se davvero bastasse a proteggerla da due corpi morti e suo fratello con una spada in mano. Tremava, e sperava che chiudendo gli occhi li avrebbe riaperti su quel prato dove l'aveva portata una volta, dove le aveva mormorato:
"Creerò un mondo di pace dove tu non debba lottare, sorellina".
Ma invece li tenne spalancati, si impresse il marcio nel cervello, e quando sui suoi ricordi cadde un panno lo avvertì come una benedizione, poiché la difendeva dal dover razionalizzare.
Sorrise, sorrise all'idea di un mare di sangue, sorrise ai suoi sciocchi sogni di pace, sorrise alle carezze della madre e agli schiaffi del padre.
Sorrise, mentre cadeva in ginocchio per terra, mentre Vector la guardava negli occhi con lo stesso fuoco che consumava l'anima e il corpo, e ancora mentre senza dire una parola sancivano un patto d'acciaio.
Poi per anni non sorrise più.
Finché per la prima volta la lama del coltello non si rivoltò contro di lei.


 
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note dell'autrice
E
hilà, era un pezzo che non pubblicavo eh?
Non così tanto in realtà, sopratutto rispetto a tempi passati, ma ormai per me aggiornare ogni morte di papa è abitudine.
In ogni caso, sono tornata con una riscrittura! Yay! (Anche no).
Quello che leggete qui sopra è frutto di intenso lavoro di rielaborazione della prima storia che io abbia mai pubblicato su efp, nell'ormai lontano 2015. Il testo originale è di una bruttezza aberrante, ma ho riscoperto un certo amore per questa storia, e avverto una sorta di obbligo morale nei suoi confronti. Non credo sarà lunghissima, ma neanchetroppo breve, e conto di pubblicarla interamente questa volta. Una questione d'orgoglio.
Infine, non siate troppo duri con me. Non ho mai scritto in prima persona, e si adatta al mio stile come la carta vetrata ad una pubblicità della Durex. Giuro che per me è una fatica bestiale; se leggete qualcos'altro di mio noterete indubbiamente una differenza abissale :,
Nota finale: Il nome "Amaaris" è una storpiatura di "Imaris" il nome che gli arabi davano alla Stella Polare, ovvero la stella principale della costellazione dell'orsa minore (Sempre stando ai miei appunti dell'anno scorso, pregando siano corretti). Se non lo sapevate, i sette nomi degli imperatori bariani sono i nomi delle sette stelle della costellazione dell'orsa maggiore, e mi sembrava carino mantenere la tradizione. Il motivo per il quale ho mantenuto un nome ridicolo come "Stesky" come nome umano è per puro spirito di nostalgia. Mi sarebbe dispiaciuto troppo cancellarlo.

(PS: Se qualcuno che ha letto la storia originale ha sensazioni di de-ja vu, non siete pazzi; ho ripreso alcuni pezzi quasi pari-pari, perché li ritenevo sufficientemente iconici. Incluso, ad esempio, l'inizio stesso della storia.)

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Capitolo 2
*** stage 2: cambiamento ***


 
stage 2: cambiamento

 
Se mio fratello era stato un pessimo bariano che si era inimicato tutti gli altri imperatori io ero riuscita a rimanere perlomeno neutrale, fuori dai suoi geniali giochi di potere. Ad essere totalmente sinceri non era andata così, ma il concetto di base rimaneva quello. Gli altri sei imperatori non mi vedevano con gli stessi occhi con cui scrutavano Vector, ancora sospettosi e guardigni - anche se avevo l'impressione che Merag e Dumon avessero opinioni conflittuali, data la nostra storica rivalità di regni e un piccolo incidente di percorso di cui non credo sia adeguato parlare adesso -, ma come una sorta di sorella minore.
Non mi sarei spinta a dire che eravamo davvero una famiglia, ma poco ci mancava. Quando si combatte una guerra fianco a fianco, per quanto l'impresa suoni disperata e per quanti compagni si vedano cadere, è inevitabile si finisca a legare a un livello che qualcuno che non ha passato le stesse esperienze non può comprendere. Non sentivo di meritarmi il perdono degli esseri umani, ma il loro... forse sì.
Tutto questo discorso, essenzialmente, è per giustificare il fatto che quella mattina fossi ferma davanti casa di Alito, senza ledere troppo il mio orgoglio ammettendo che dopo la discussione - e l'incubo - del giorno prima avevo bisogno di quella specie di fratello maggiore che mi era stato ingiustamente negato.
Avevamo un bel rapporto, noi due. Non avrei saputo davvero spiegare perché, o quando l'avessimo instaurato, dato il burrascoso trascorso di entrambi, ma era sempre la prima persona con cui sentivo il bisogno di parlare quando qualcosa andava male.
O quando non ne potevo più di sopportare mio fratello.
Suonai il campanello per la terza volta, cercando di non innervosirmi per la sua incapacità di essere puntuale. Era per quello che andava così tanto d'accordo con Yuma? Perché avevano in comune ogni singolo difetto?
Finalmente la porta si aprì, e non sembrò minimamente sorpreso del fatto che fossi io. Aveva già la divisa addosso, la cartella in mano, e le chiavi sulla toppa per richiudere, facendomi intuire che Girag era già uscito.
Strano. Di solito erano inseparabili. Ma decisi di evitare domande.
« Andiamo? », chiesi, cercando di reprimere l'impulso di lamentarmi per il suo ritardo nonostante non lo avessi avvisato che sarei passata. Ero cresciuta come una principessa, in fondo; certe abitudini viziate erano dure a morire, come quell'ossessione di mio fratello per il darmi ordini, o il mio problema con l'accettare di dovermi rimettere a posto la camera da sola. Già imparare a cucinare pranzo e cena era stato complicato per entrambi.
Annuì, cominciando a camminare per la solita strada.
In tutta sincerità eravamo comunque in anticipo. La strada era sgombra, il cielo ancora pallidissimo d'alba, e l'aria talmente fredda e pulita da ferirmi la gola. Insomma, la mia atmosfera preferita, tanto che il cattivo umore scemò in fretta.
Non avevamo bisogno di parlare per capirci, ma sapevo che si aspettava comunque che gli dicessi qualcosa. Non ero così opportunista da cercarlo solo quando avevo bisogno di parlare, ma neanche così amichevole e gentile da svegliarmi presto solo per vederlo.
Sospirai, gettando le braccia dietro la testa per stirarmi e cercando di capire da dove partire, senza venirne a capo. Non volevo accusarlo di nulla, ma un dubbio iniziava a crescermi dentro, ingiustificato, ma che necessitava risposte. Decisi di non partire in quinta, e di tastare il terreno prima.
« Come vanno le cose con Kotori? »
Eccolo che partiva. Gli si illuminarono gli occhi, si aprì in un sorriso, forse iniziò pure a brillare di luce propria, non ne ero sicura. Dirgli "Kotori" era come benedirlo.
« Ieri sono riuscito a vincere un appuntamento. »
« Eh?! »
Ok, questo non me lo aspettavo. Lo guardai con un'espressione idiota, le labbra socchiuse e gli occhi sgranati, per poi scuotere la testa con una risata.
« Mi stai prendendo in giro. Andiamo Alito non è carino- »
« Sono serissimo. »
Lo era. Era serissimo.
Rimasi inebetita per un altro paio di secondi, per poi sorridere, di cuore. Ero felice per lui. Pensavo lei avesse ancora quall'antica cotta per Yuma, ma forse le cose erano cambiate. Forse aveva capito che non sarebbe mai stata ricambiata o qualcosa del genere.
Perlomeno speravo non fosse così meschina da usare Alito come strumento per tentare di ingelosire Yuma, perché altrimenti se la sarebbe vista con me. Anche se l'idea non suonava particolarmente spaventosa, detta da una che non toccava il metro e sessanta neanche sulle punte, in effetti.
« Cavolo amico. Grande. Vedi di vincere, uhm, il suo cuore. Hai già comprato i mazzi di fiori? Scritto la poesia? »
Speravo capisse che stavo scherzando ma mi prese estremamente sul serio. Quando ci si metteva mi faceva paura, con quell'emotività così esplosiva e quell'amore così passionale.
« Farò di tutto vedrai. Ti andrebbe di darmi una mano? Come mi dovrei vestire? »
« Credo tu stia benissimo così. »
« Con la divisa? »
« Saresti figo anche con un sacco di patate addosso Alito. », sorrisi, dandogli un pugnetto sulla spalla « Andrai alla grande. »
Poi esitai, ricordandomi la domanda che gli volevo fare all'inizio del nostro discorso.
« Senti posso farti una domanda? »
« Certo, dimmi pure. »
Cercai i suoi occhi, cercando di suonare smaliziata e cristallina. Sapevo che non mi avrebbe mai mentito, non era il tipo, eppure temevo comunque la risposta.
« Sta succedendo qualcosa in cui gli altri imperatori sono coinvolti ed io no? »
Si fece serio, e il mio stomaco fece una capriola. Aprì bocca per rispondermi, ma eravamo di fronte a scuola, e questo lo salvò da una risposta estremamente scomoda.
« Scusa ma devo andare in classe, ho un compito. Ne parliamo più tardi ok? »
Suonava genuino, mentre scappava via, ma io sentivo comunque un brutto presentimento scivolarmi sopra il collo come un'ascia pronta all'esecuzione.

 
« Io sono Luna, molto piacere. »
La nuova arrivata aveva i capelli scuri, legati in due spesse treccie a spina di pesce, e lo sguardo serio, accentuato dall'iride di un azzurro innaturale dell'unico occhio visibile. Aveva qualcosa che mi metteva i brividi, e non si trattava unicamente del fatto che avesse quella voce così monodica e metallica o l'occhio destro coperto da una benda. Non avrei saputo collocare cosa in lei mi disturbasse, ma mi si erano drizzati i peli sulle braccia, e ogni singolo muscolo del mio corpo si era irrigidito in maniera irragionevole.
La professoressa sembrò un po' titubante a quella presentazione così breve, e si affrettò ad aggiungere un paio di dettagli - che era cagionevole di salute e per questo non si era presentata prima, era un'ottima studentessa, sperava avremmo legato adeguatamente, bla bla bla -, ma io ero troppo presa a capire se quelle sensazioni fossero ricollegate al presentimento che mi aveva sfiorato quando Alito se n'era andato senza rispondermi.
« Ha qualcosa di strano. », sentii Yuma mormorare accanto a me, « Come se... non so. Forse se duellassi con lei capirei il problema. »
Mi voltai, inarcando un sopracciglio.
« Credi basti un duello a capire qualcuno? »
Si strinse nelle spalle.
« Con Shark e Kaito ha funzionato »
Touché.
Tornai a voltarmi verso di lei, ormai seduta al proprio posto al fianco di Kotori, e appoggiai il viso sulla mano, nervosa. Non mi piaceva per nulla la situazione che si stava tessendo intorno a me, ma non sapevo cosa fare per evitarla.

 
Alla pausa pranzo finii per vagare alla cieca per i corridoi, non sentendomi particolarmente interessata all'idea di assistere al duello fra Yuma e Luna, se ci fosse stato. Avevo paura di vedere realmente la sua forza, ma questo non potevo ammetterlo a me stessa; guardando la cosa con la consapevolezza della rapida serie di eventi in discesa che partì da quella scelta non so ancora se sia stata una buona o una cattiva idea. Solo una scelta necessaria all'andamento di una trama che non mi era dato conoscere, e che di conseguenza non trattavo con il dovuto timore.
Avrei avuto tutto il tempo di pentirmene.
Le mie gambe mi avevano portata di fronte alla classe di Vector, e stavo soppesando l'idea di entrare e dargli fastidio per il puro gusto di farlo - cose da fratelli, tutto nella norma - quando sentii distintamente la voce di Nash, seria come se stesse leggendo una condanna a morte. Bastò a suscitare il mio interesse: mi appoggai al muro, di fianco alla porta, e trattenni il respiro per riuscire a sentire di cosa stessero parlando.
Lo so, lo so. Origliare è sbagliato. Ma quando due accerrimi nemici si parlano senza sbranarsi vuol dire che c'è qualcosa di grosso in corso, e non volevo perdermelo.
« Ti stai comportando come uno stupido. Vuoi davvero che venga presa di sorpresa? Credi seriamente che riusciremo a contenere tutto questo? Stando a quello che dice Christopher- »
« Non verrà presa di sorpresa da nulla. Nash, tu non la conosci come la conosco io. Non ha la forza di sopportare neanche un maledetto horror splatter senza avere un attacco di panico e tu credi potrebbe farcela in una situazione simile? Morirebbe. »
« Preferisci davvero venga aggredita e lo scopra in quel modo? »
Silenzio, teso, e il mio cervello che ronzava. Mi sembrava tutto attutito, confuso. Di che diavolo stavano parlando?
« Non verrà aggredita finché ci sarò io. » sputò fuori alla fine la voce di mio fratello, colma di stizza. « Ascolta, se fosse stata una brava duellante avrei considerato lasciare che entrasse a far parte della squadra. Ma non lo è. E non metterò a rischio la sua vita per nulla. »
« Quando smetterai di trattarla come un'incapace Vector? »
« Quando smetterà di esserlo. »
E poi non sentii più nulla perché capii che stavano per uscire e fui costretta a scappare via, accellerando quando sentii qualcuno chiamare il mio nome, certa che se fosse stato mio fratello che mi aveva vista origliare non sarei tornata a casa viva.

 
Uscii dall'edificio con la testa piena di pensieri, e un gran caos di ipotesi e orgoglio ferito nel cervello. Un'incapace. Mi credeva un'incapace e una pessima duellante. Se avessi potuto l'avrei sfidato a duello per dimostrargli chi era il fratello migliore - io - ma non avevo il deck dietro.
E l'ultima volta che l'avevo sfidato mi aveva usato come straccio per i pavimenti, ma questo era un altro discorso.
Mi misi a vagare distrattamente per il cortile, mettendomi il duel gazer per godermi la marea di mostri che infestava la zona all'ora di pranzo. Era bello vedere quanto ardore genuino ci mettessero gli studenti in quel gioco, forse influenzati anche dal fatto che non l'avevano mai visto come altro - quando ci si ritrova a duellare per la propria vita si fa un po' di fatica a divertirsi tanto, ecco -, e riuscì a dissipare un poco i miei desideri omicida verso Vector.
Notai Kotori da una parte, appoggiata al muro. Sembrava persa nei suoi pensieri e, cosa allarmante, non c'era traccia di Yuma intorno, facendomi venire in mente il discorso che avevo avuto con Alito quella mattina. Era davvero riuscito a conquistarla? Facevo ancora fatica a crederci.
Mi avvicinai, aggiustandomi un poco l'acconciatura che quella mattina per la fretta di uscire non avevo fissato a sufficienza, cercando di tirare su un sorriso dalla mia solita faccia distante. Era un'altra di quelle cose che avevo di differente da mio fratello: lui sembrava sempre tranquillo, io sempre arrabbiata o triste, eppure le nostre personalità erano esattamente contrarie ai volti.
Ironico.
Rispose al mio sorriso, con tutta la gentilezza che riuscì a tirare fuori, nonostante, lo sapevo, provasse una certa ritrosìa nei miei confronti. Se non le interessava più Yuma non era gelosa del rapporto che iniziava ad instaurarsi fra noi, ma questo non cancellava tutte le volte che l'aveva visto sull'orlo della morte a causa dei bariani.
Era una faccenda delicata, e io cercavo di rispettare i suoi spazi senza sembrare antipatica. O almeno speravo di dare quest'impressione.
« Ehi », la salutai, appoggiandomi accanto a lei, « va tutto bene? »
Si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo, e iniziò a lisciarsi la gonna. Non era molto incoraggiante come inizio, pensai, ma aspettai che parlasse senza metterle fretta.
« Sì... diciamo di sì. Ecco, non so se sto facendo la scelta giusta. »
Soffocai una smorfia. Bene, era arrivato il mio momento di fare la brava amica con Alito e dare una spintarella anche a lei nella sua direzione.
« Se vuoi parlarmene sono felice di ascoltarti. So che non siamo ancora molto vicine, o amiche, ma credo di essere brava a dare consigli. »
Si scostò una ciocca dietro l'orecchio, annuendo. Era facile guadagnarsi la sua fiducia, proprio come con Yuma, ed io lo trovavo affascinante. Mi sarebbe piaciuto essere così tranquilla con gli altri, mettergli il cuore in mano senza pensarci due volte.
Ma una vita con Vector mi aveva insegnato a fare altrimenti.
« Vedi, io e Alito... », oh, ecco che arrivava. Era arrossita, a dire il suo nome, e lo presi come un buon segno. « Domani dovremmo uscire. A me è piaciuto Yuma per tantissimo tempo, anni ormai, e ancora non riesco ad andare avanti anche se vorrei. A questo punto la parte razionale di me si è arresa, però... Amaaris, hai mai avuto una cotta del genere? Dove sai che devi andare avanti, e hai la perfetta possibilità di farlo, ma ti senti bloccata sul posto? »
Esitai. Un paio di occhi mi passarono per il cervello, e poi scomparvero, facendomi aggrottare le sopracciglia. Tecnicamente la memoria mi sarebbe dovuta essere tornata integralmente, eppure sentivo che mancava qualcosa, qualcosa che includeva la risposta a quella domanda. Alla fine mi strinsi nelle spalle e mi girai a guardarla.
« No », decisi di essere sincera « ma capisco cosa provi. E se vuoi un consiglio, non ne vale la pena. Conosco Alito da un sacco - insomma, un po' di tempo -, ed è un ragazzo d'oro. Non che Yuma non lo sia, solo... se vuoi un'opinione esterna ti vedrei meglio col primo che col secondo. Ti meriti qualcuno che ti metta sopra ogni altra cosa e... me lo permetti? Che abbia la maturità di capirti. »
Oddio, suonavo come un giornaletto rosa scadente, ma mi guardava con una certa luce negli occhi che speravo fosse adorazione e non desiderio di uccidermi per aver velatamente insultato il suo migliore amico.
Alla fine accennò ad una risatina, distogliendo lo sguardo per guardare il cielo, e sentii di aver schivato un proiettile.
« Forse hai ragione. Quindi... posso farti una domanda, a questo punto? »
Annuii.
« A te piace Yuma? »
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.
« Scusami? », riuscii a boccheggiare, guardandola come se mi avesse tirato uno schiaffo. Si tirò indietro, mettendo le mani avanti, con l'espressione un po' più imbarazzata.
« È che mi sembrate così vicini... certo vi conoscete da pochissimo tempo però io credevo che, ecco, insomma... »
Scossi il capo con più veemenza del voluto.
« Nonono. Sei fuori strada. Non mi piace Yuma. Mai piaciuto Yuma. Neanche quando si è messo a piangere quando sono morta. No. »
« Ma non si è messo a piangere... »
Suonò la campanella della fine del pranzo. Grandioso. Non avevo mangiato, non avevo dato risposta a nessuno dei miei dubbi, e ne avevo anche aggiunti altri. Però, per qualche motivo, parlare un po' con lei mi aveva rilassato i nervi, abbastanza da farmi sfuggire una risata che doveva scappare da fin troppo tempo.

 
« Bentornato! » Strillai dalla cucina, cercando di sovrastare lo sfrigolìo della padella e la televisione accesa « Togliti la giacca, ho acceso il riscaldamento. »
« Lo sai quanto costa? Lo spengo. »
« Azzardati e... »
Sembrava una normale scena quotidiana, come tutte le altre. La luce soffusa della cucina mi era stata di grande compagnia mentre rimuginavo su cosa dovevo dire a mio fratello, come, e sul se avvelenargli la cena. Alla fine avevo optato per far finta di niente, se avesse fatto lo stesso, e sul lasciarlo in pace a costo del mio orgoglio - non per gentilezza ma perché avevo l'assoluta certezza che se avessi tirato troppo la corda alla fine si sarebbe spezzata nel peggiore dei modi.
Vector apparve sulla porta - senza la giacca, a segnalare che avevo vinto -, appoggiato allo stipite, e iniziò a fissarmi in un modo che mi diceva avesse voglia di parlare; per qualche motivo m'irritò, e decisi di non dargliela vinta, non come voleva lui.
Mi aveva rifiutato risposte fino a quel momento, e adesso pretendeva qualcosa da me? La sua sorellina inetta? Non se ne parlava proprio.
« Ti dispiace apparecchiare? »
« Ris oggi- »
« Prendi i piatti bassi, ho fatto le salsiccie, non perdere tempo a ringraziarmi, so di essere la sorella migliore del mondo. »
Fece una smorfia e obbedì alla mia richiesta senza aggiungere altro. Dentro faceva caldo, eppure sentivo freddo.
Io e lui ci eravamo promessi di non mentirci più quando per l'ultima volta eravamo stati reincarnati come esseri umani da Astral, grazie al codice numeron. Avevamo avuto un bel po' di tempo per parlarci, per capirci, per colmare il vuoto che si era creato, decisi a fare le cose per bene, questa volta.
Ma adesso tutto sembrava essersi annullato. Non mi sarei stupita a vederlo tornare alla sua forma bariana, a ridere come uno psicopatico o a trascinarmi in missioni disperate alla ricerca della distruzione del mondo astrale. La situazione non era così estrema, ma poco ci mancava.
Non ero mai stata brava a smettere di fidarmi di lui, anche se ogni volta tornava indietro come un boomerang in pieno volto.
« Amaaris? »
Aveva addolcito la voce, ma non mi sentivo per nulla propensa a cedere. Tirai via la padella dal fuoco, dopo averci messo sale e pepe, e gli feci cenno di portarmi i piatti, senza aprir bocca.
« Guardami. »
Stessi occhi, menti simili, sangue dello stesso sangue crudele, mani di assassini e peccati capitali impressi a stormi sottopelle in mille ghirigori. Forse non riuscivamo ad incastrarci come volevamo perché eravamo pezzi troppo simili del puzzle, anche se l'idea mi rivoltava lo stomaco.
Amavo mio fratello, e per questo volevo fosse la cosa più differente da me sulla faccia della terra.
Eppure, eravamo lì. Tornavamo sempre lì.
« Oggi hai sentito la mia conversazione con Nash, vero? » Parlava piano, senza abbassare lo sguardo dal mio. Era faticoso sostenerlo, ma non sarei stata la prima a perdere anche quella volta. « Quanto hai sentito? »
« Oh, le solite cose. Che mi ritieni un'incapace e che vuoi tenermi fuori da questa storia. Non preoccuparti, non so nulla che tu non vuoi io sappia. »
Sputavo veleno, e non riuscivo a smettere. Non mutò espressione, ma riuscivo a leggere un'emozione infelice dietro l'indifferenza.
« Io voglio solo proteggerti. »
« Come quando volevi proteggermi da Don Thousand? No aspetta, come quando mi hai inglobata per le tue manie di onnipotenza di diventare un Dio? Quando hai fallito per l'ennesima volta, ma non ti sei risparmiato dal trascinarmi nel tuo stesso baratro? »
Distolse lo sguardo. Bene.
« Vuoi proteggermi come quando mi hai uccisa, Vector? »
« È proprio per questo che voglio tenertene fuori Amaaris! »
Esitai. Non mi guardava, ma mi resi conto che era perché stava cercando di controllare la rabbia.
Ed io volevo sentirlo urlarmi addosso, per sentirmi giustificata di quello che provavo, perché essere infantile era l'unica strada che riuscivo a prendere, come sempre.
« Tutte le volte in cui ho sbagliato mettendoti in mezzo mi hanno fatto capire che non sopporto questo circolo vizioso di perderti ancora e ancora e ancora. Non ne posso più di trascinarti con le mie stesse mani nella tomba. »
Ecco, quello fece male, come un diretto pugno allo stomaco. Mi stava manipolando per l'ennesima volta, e comunque sentirlo dire quelle parole mi aveva fatto salire le lacrime agli occhi.
Lo odiavo, lo amavo, lo odiavo.
Abbassai lo sguardo per non fargli vedere gli occhi lucidi mentre tentavo di contrattaccare, e lui prese quel lasso di tempo per insistere.
« In passato ho commesso così tanti errori che non mi basterebbe un'altra vita intera per redimermi. Ma lascia che almeno questa volta faccia le cose per bene. Quello in cui ti vuole trascinare Nash è un lavoro pericoloso, dal quale non torneresti intera, o nel corpo o nell'anima. Perché è così difficile per te accettare di essere debole? »
Stavo per arrendermi, per dargli ragione, ma quelle ultime parole tornarono a farmi bruciare di rabbia. Ecco dove voleva arrivare, come tutte le volte, al solito discorso per sminuirmi e ridurre la stima di me stessa in cenere pur di usarmi al meglio.
Ero stanca di fidarmi.
« Non accetto di essere debole perché non lo sono. » sibilai « E te lo dimostrerò. »
Non gli diedi il tempo di rispondere; scappai via dalla cucina, presi la sua giacca dall'appendiabiti e sparii in strada.

 
Le vie di Heartland erano buie, nonostante la luce dei lampioni tentasse di bucare l'oscurità con qualche esitante lampo giallastro, ma per me sarebbe stato lo stesso se ci fosse stato il sole. Mi stringevo nella giacca di mio fratello, combattendo in qualche modo il freddo che faceva a quell'ora, e ignoravo ogni macchina e persona che incrociava la mia strada.
Mi sentivo a pezzi, come mai prima. Continuavo a mettere il mio cuore in mano a Vector solo per vederlo ridotto a brandelli alla prima occasione buona. Ero patetica a lamentarmene, mi ci cacciavo da sola in queste situazioni, ma non riuscivo a pentirmene fino in fondo: era un circolo vizioso che si ripeteva uguale in ogni vita, e ogni volta mi portava alla morte.
Le gambe mi portarono dove volevano, assecondando la mente che vagava tra il tentare di credere alla compassione di mio fratello e il rigettarla, e mi resi conto troppo tardi di essermi persa nei vicoli di uno dei quartieri malfamati.
Vorrei tanto dire che a quel punto la paura mi fece fare la giusta decisione di prendere il telefono, chiamare qualcuno e farmi venire a prendere, o che perlomeno mi convinse ad uscire di lì, ma avevo il cervello talmente annebbiato da sentimenti contrastanti che registrai l'informazione con l'indifferenza con la quale constatavo se c'era il sole o pioveva. E fu per questa combinazione di cose che assistetti ad una scena che al contempo riaprì un baratro antico e ne spalancò uno nuovo ancora peggiore.
Stavo camminando ormai da mezz'ora, sempre più stanca e demoralizzata, quando un suono attirò la mia attenzione. Un suono orribile, metallo stridulo contro metallo, accompagnato da gorgoglii doloranti.
Feci la scelta sbagliata, e mi affacciai all'angolo del vicolo dal quale provenivano i rumori.
In un secondo vidi mille cose, e una sola. Vidi Luna, qualcosa che sembrava sangue, e sopratutto la lama di un coltello che entrava inequivocabilmente nella gola di un corpo tenuto fermo al muro dalle sue mani. Non seppi distinguere altro, perché in un attimo ogni ricordo, ogni secondo del mio peccato, mi sgorgò dalla mente riempiendomi gli occhi.
Ecco, le mie mani grondanti di sangue innocente. Ecco, i condannati che m'imploravano, chiedendo una giustizia che non esisteva. Ecco, la guerra. Ecco... ecco... c'era la voce di mio fratello che rimbombava da qualche parte di una scena talmente vista e rivista da essersi consumata in colori sbiaditi e suoni soffocati, coperti da un rombo che doveva essere la mia sanità mentale che collassava su se stessa ogni volta.
« Amaaris, tieni tu il regno finché io sono via. »
Forse gridai, forse no. Qualcosa uscì dalla mia gola, ma suonò come un singhiozzo, una supplica, ti prego fallo smettere, non sono io quella, non volevo, abbi pietà...
L'unica cosa che seppi era che stavo correndo, che quei ricordi non mi uscivano da dentro per quanto lo desiderassi, e che dovevo vomitare.
La notte era calma, il cielo sereno. Io avevo gli occhi appannati di lacrime ed ero certa stesse per piovere, doveva piovere, per forza, sennò perché avevo le guancie bagnate? Non sentivo nulla, non provavo nulla che non fosse orrore e paura, non di Luna, ma di me stessa.
« Segui la mia filosofia. Nessuna pietà. Nessun processo. Nessuna salvezza. »
« Posso uccidere io personalmente? »
« Non è molto da principessa ma... »
Qualcuno mi afferrò il braccio, facendomi gridare.
« Lasciami! »
« Calmati! »
Una voce maschile, familiare. Qualcosa dentro di me reagì, fermandomi nel mezzo dei tentativi di colpirlo per liberarmi, e quello bastò perché lentamente, in quella paralisi, il mondo tornasse ad avere dei contorni non macchiati di sangue.
La prima cosa che realizzai furono due occhi blu come il mare. La seconda, che pensavo di aver corso per ore, ma ero a malapena all'ingresso del quartiere. La terza, che dovevo ancora vomitare.
Mi voltai, scansandolo con una spinta, sentendomi ancora più debole di prima dopo essermi liberata del nulla che avevo mangiato quel giorno. Ancora un po' e sarei svenuta davanti a lui; non esattamente il mio sogno proibito.
Odiavo dare ragione a mio fratello. Odiavo essere debole.
Mi girai di nuovo, ancora confusa e bruciante d'imbarazzo, e indietreggiai fino ad arrivare al muro, scivolando a terra. Mi girava la testa così tanto, in fondo, che stare in piedi era solo un prolungare l'agonia.
Nash s'inginocchiò davanti a me, con uno sguardo che avevo imparato a riconoscere moltissimo tempo prima. Quello sguardo che era stato il primo e l'ultimo, alfa e omega della mia umanità.
Odiavo anche lui, in quel momento.
« Lasciami stare. » riuscii a mormorare, tirando fuori la voce da neanche io so dove. Mi resi conto che stavo stringendo la giacca di mio fratello come un'ancora di salvezza e allentai la presa, vagamente disgustata dall'idea. Vector era stato tutto nella mia vita meno che una salvezza.
Si limitò a fissarmi, per una manciata di secondi, e mi sentii in dovere di continuare a parlare anche se sembrava una tortura.
« Sto bene. »
Mi sembrava la frase giusta da dirgli per farlo andare via e lasciarmi nel mio angolo a piangere, ma non funzionò. Scosse il capo, guardando per un attimo dietro di sé come se stesse controllando qualcosa di invisibile, e poi mi prese il braccio - con più delicatezza -, tirandomi in piedi anche se barcollavo tanto che se non ci fosse stato lui sarei caduta di faccia in terra.
« Questo non è un posto dove una come te può girare a quest'ora. E non mi sembri neanche nelle condizioni di tornare a casa. »
Ecco, ancora il solito discorso, "sei debole, stai al tuo posto". Avrei voluto protestare, ma aveva perfettamente ragione, e rimasi in silenzio a fissare a terra, sentendomi una bambina capricciosa che veniva salvata per l'ennesima volta dagli adulti.
« Chiuditi la giacca. Ti porto io. »
Obbedii, realizzando mentre cercavo di chiudere la zip che stavo ancora tremando.
« Che pena. », mormorai fra me, senza farmi sentire da lui. Se fossi stata più calma gli avrei chiesto un paio di cose, tipo perché lui era lì a quell'ora, se aveva visto Luna, se non sentisse anche lui il peso della morte sulle spalle. Ma non ero calma, e misi il pilota automatico per tutto il tragitto in moto da lì a casa mia - e dire che avevo sempre desiderato salirci -, senza neanche domandarmi come sapesse l'indirizzo dopo che mio fratello aveva sottolineato che non l'avrebbe dato a nessuno perché non voleva scocciature esterne.
« Vector è a casa. »
Non era una domanda, ma mi strinsi comunque nelle spalle. Probabilmente dormiva. Non gli era mai interessato di me così tanto da preoccuparsi.
Ci guardammo ancora per una manciata di secondi, e ancora una volta quel familiare miscuglio di dolore e pace mi afferrò la gola. Era strano, come se ci fosse qualcos'altro tra me e lui, come un fondamentale pezzo mancante del puzzle.
Come se avessimo mancato una battuta, molto, molto tempo fa.
« Vedi di non infilarti più in situazioni del genere. Questa volta dovevo ripagarti un favore, non ti affidare all'idea che ce ne sarà una prossima. », disse alla fine, prima di tirarsi giù il casco e partire.
Un favore.
Quello era la parte mancante.
Guardai la porta di casa mia, nel momento esatto in cui si spalancò sul viso pallidissimo di mio fratello, e poi tutto divenne nero.

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note dell'autrice

B
uonasera! Ho una passione per aggiornare a pessimi orari sì.
Ma non m'importa, non ho la forza mentale di aspettare fino a domani. Se rileggesi tutto questo capitolo solo un'altra volta impazzirei.
Quindi, ecco quello che sono sicura sarà in assoluto il capitolo più lungo - o forse no, dipende quanto impazzisco.
Spero di non aver messo troppa carne al fuoco in un capitolo solo, ma avevo necessità di buttare giù tutte le premesse che per pigrizia ho evitato nel primo capitolo. Tranquilli che Yuma torna presto, volevo solo sviluppare anche le sue relazioni con altri personaggi per dopo.
E nulla! Unica cosa, probabilmente nel prossimo capitolo ci sarà un duello tra Amaaris e qualcun'altro, quindi metto le mani avanti; in questa fanfiction gli imperatori hanno ancora i loro numeri, per una serie di motivi chiamati "non ho voglia di creare numero 108 per poi non usarlo mai"- no, ok, per motivi che spiegherò meglio nei capitoli a venire. Anche la carta "Alzarango magico il settimo", divenuta per forza di cose "Alzarango magico l'ottavo", sarà presente.
Quanti duelli ho intenzione di scrivere? Spero pochi perché sono noiosi e prendono un sacco di spazio, per quanto siano belli da immaginare.
Infine, spero che questo capitolo sia chiaro dove doveva essere chiaro. Mi sembra di star camminando su un pavimento di cristallo tra la trama che voglio creare e il commettere errori logici con la storia originaria.
Quindi, sperando davvero di non star aggiornando troppo ultimamente - mi è tornata la vena creativa per Yu gi oh ZeXal, non è colpa mia -, sparisco di nuovo.
Bye <3


 

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Capitolo 3
*** stage 3: delirio ***


stage 3: delirio
 
 

Non andai a scuola il giorno dopo. Non fu una scelta mia, ma la cosa non faceva differenza, perché anche se Vector non mi avesse obbligata chiudendomi a chiave in casa non avrei comunque avuto la forza di alzarmi dal letto prima di mezzogiorno. Mi sentivo stanca, febbricitante, quasi, a tratti, nel mezzo di un delirio; avevo aperto un vaso di Pandora, qualcosa che avevo tentato di chiudere alla bell'e meglio sperando non si dovesse mai ripresentare l'occasione per vederlo spalancarsi.
Ero stata stupida.
Non so quante volte tentati di vomitare - senza successo per via del nulla assoluto che avevo nello stomaco - o di quante volte mi ritrovai a gemere, con la gola che bruciava, contro un nemico invisibile.
Cosa vidi nella mia poca lucidità? Mille cose, eppure ne ricordo a malapena, tanto ero fuori di me. Alcuni erano ricordi, dai contorni chiari ma dai toni confusi e distanti, a malapena pezzi tagliati male della mia vita - c'era Vector, poi Merag, poi Nash, poi ancora Vector, Nash, il mondo bariano che risplendeva intorno a me, la spiaggia, il mare che mi dava tanta nostalgia, i duelli sul filo del rasoio -, altri incubi bene assembleati che riuscivano a squartarmi in ogni lato scoperto, pugnalandomi con precisione chirurgica dove ero più debole.
In quello stato passai la mattinata, inconsapevole del resto del mondo. La realtà ad un certo punto pareva falsa quanto il sogno, e il sogno più sincero della mia stanza.
Poi finalmente riuscii ad aprire gli occhi, e mantenerli aperti.
Combattei contro la testa che girava finché non fui certa che non sarei svenuta mettendomi a sedere e mi tirai su, iniziando lentamente a riprendere conoscenza di me stessa. Avevo lo stomaco che faceva male per la fame, la faccia sporca di lacrime, e ovviamente vedevo tutto intorno a me oscillare pericolosamente, "come l'ultimo pezzo di jenga" - metafora che trovai estremamente divertente in quel momento, ma che poi sparì dalla mia mente in quanto totalmente illogica.
Con cautela, riuscii ad alzarmi, mettermi una felpa per non morire di freddo, scendere in cucina appoggiandomi pesantemente al muro e finalmente fare colazione, anche se avevo lo stomaco chiuso e sottosopra. Almeno mi era passata la nausea. Per il momento.
Ci volle ancora del tempo prima che riuscissi a rimettermi del tutto in ordine, sopratutto a livello mentale. I ricordi della sera prima erano ovattati, e sapevo benissimo che era un debole tentativo della mia psiche di non farmi impazzire; ci volle fin troppo tempo, e alla fine mi aspettavo di ricominciare a sentirmi male, ma avevo fatto abbastanza la vittima per i miei gusti.
Fuori era nuvoloso, in pieno contrasto con le belle giornate che si erano susseguite fino a quel momento. Guardavo dalla finestra girando pigramente la tazza di cereali, con la testa piena di domande e un dolore sordo all'altezza del petto che batteva lo stesso ritmo del mio cuore.

Chissà cosa mi spinse a risalire le scale e fermarmi davanti a camera di Vector. La teneva sempre chiusa a chiave, e comunque non credevo ci fosse nulla d'interessante là dentro tranne qualche libro di scuola, forse delle fotografie, forse un trono. Sembrava un accumulatore seriale ma detestava il disordine. Un tipo metodico. Sociopatico, ma metodico.
Abbassai la maniglia, senza mettere in dubbio il mio istinto che mi diceva di farmi un po' di fatti suoi come mai avevo avuto il privilegio di fare. La porta si aprì, docile, e la luce del corridoio illuminò la stanza altrimenti scurissima per via delle imposte chiuse.
Accesi la luce, richiudendo la porta dietro di me. Sapevo non sarebbe tornato prima di cena, ma mi sentivo comunque a disagio, come se fossi entrata in un tempio proibito, nel cuore di un segreto inviolabile.
La scrivania era sgombra, il letto a posto, l'aria viziata, un peluche in terra... un peluche in terra.
Inarcai un sopracciglio, chinandomi per vedere cosa fosse, senza azzardarmi a spostarlo neanche di un millimetro conscia fosse abbastanza ossessivo da accorgersene. Assomigliava tremendamente al mio, solo meno vecchio e consunto. Da quando aveva bisogno di un orsacchiotto per dormire? Se avessi potuto farlo senza morire l'avrei preso in giro a vita.
Un riflesso sopra il letto attirò la mia attenzione, distogliendola dalle congetture su come sfotterlo per il peluche senza ammettere di essermi intrufolata lì dentro. Erano foto, tre o quattro, che non riuscii a vedere chiaramente finché non mi avvicinai; mi venne da sorridere.
Credo che questa faccenda dei "sentimenti" per lui fosse qualcosa di estremamente delicato. Vivere come avevamo fatto noi per così tanto tempo rende il vedere negli altri qualcosa di buono estremamente difficile, e a lui, per'altro, piaceva mantenere la facciata. Forse lo spaventava, ritrovarsi così umano, senza aver avuto il tempo di esserlo mai.
Eppure, teneva le foto che aveva fatto con Yuma alle macchinette quando era Rei. Le sfiorai con le dita, notando come le altre fossero una foto del torneo di pallavolo - faceva parte di quel club, e apparentemente era anche bravo - e poi...
Mi immobilizzai.
Quando mi era venuto a prendere dall'orfanotrofio non mi aveva immediatamente riportata nel mondo bariano. Per quanto avessi recuperato la memoria erano davvero troppe le cose da digerire, e aveva avuto la gentilezza di stare con me una giornata nel mondo esterno, quello che nella mia vita da umana normale e inconsapevole avevo visto così poco.
Era uno dei miei ricordi più belli.
Avevamo fatto una foto, giusto per provare; mi aveva detto che l'aveva cancellata, "o buttata via, o persa, o chissà cosa, che te ne importa?", eppure era lì. Io con la sua giacca, perché faceva davvero freddo anche se era primavera, e lui con una maglietta troppo larga. Sembravamo due trovatelli, con occhi distanti come se avessero visto l'Inferno, eppure sorridevo. Mi si strinse il cuore, e qualsiasi rimasuglio di rabbia nei suoi confronti mi fosse rimasto dal giorno prima si frantumò sotto le mie mani.
Non avevamo mai avuto il privilegio di essere fratelli normali, e sotto sotto ero davvero convinta mi odiasse, o perlomeno non gli andassi a genio, che mi trovasse insofferente. Distolsi lo sguardo, sentendomi triste solo di non poterla tenere con me, e tornai a guardare la stanza.
Notai il suo deck sul comodino. Non avevo intenzione di fare nulla di eclatante; volevo solo, non so, sfiorarlo, magari dare un bacino a Masquerade, che doveva sentirsi solo a forza di stare lì senza mai essere usato. Ma quando appoggiai una mano sulle carte, una luce intensissima mi accecò, costringendomi a coprirmi gli occhi.
Fu un attimo, e fui da un'altra parte.

 
Passavano le ore, e quello che avevo visto non mi usciva dal cervello. Frullava come un uccellino, così assurdo, ma così reale...
Mi rigirai la collana fra le dita, la testa che girava come una trottola impazzita. Il malessere era quasi sparito, in compenso, cancellato da quella singola visione.
« Sono a casa. »
La voce di mio fratello mi convinse ad alzare la testa, pigramente. Notai che non sembrava preoccupato come quella mattina, e gliene fui grata. Non l'avrei sopportato ancora con una faccia apprensiva.
Si voltò a guardarmi, e dovette far caso a quanto fossi ancora trasognata perché si sfilò le scarpe e mi si avvicinò, unicamente per darmi una schicchera sulla fronte.
« Vedo che hai finito di fare sceneggiate. Non hai neanche preparato la cena? Sei inutile. »
Borbottai qualche insulto, alzandomi per andare ad aiutarlo in cucina. Mi sentivo ingentilita nei suoi confronti dopo quella foto, abbastanza perché l'intera atmosfera risultasse più rilassata. Apparecchiai, accesi la TV, e mi sedetti sul bancone guardandolo armeggiare con le uova in quella maniera totalmente inesperta che avevamo entrambi.
« Vector? », lo chiamai, senza aspettarmi che si voltasse « posso chiederti una cosa? »
« A patto che non sia una stupidaggine. O qualcosa alla quale ti ho già risposto. »
Sbuffai pesantemente, puntando i gomiti sulle cosce per appoggiare il viso sulle mani.
« Non voglio chiederti dei tuoi stupidi segretucci. Ecco... ti ricordi nostra madre? Quella storia che ci raccontava da piccoli? »
Girò appena la testa verso di me. Sembrava esserglisi addolcito lo sguardo a parlare di nostra madre. Succedeva sempre.
« Quale? Quella della principessa ribellina che finiva sola e senza amici? »
« No, scemo. Quella del sacerdote e della luna... »
« Ah, già. Piaceva solo a te, io l'ho sempre trovata stucchevole. »
« Beh è stata quella storia a convincermi a diventare una sacerdotessa, no? Non era così stupida. »
« Sei diventata una sacerdotessa perché mamma ha cercato di venderti ma non ci è riuscita. »
Gli feci il verso, e schivai la spatolata in faccia, con una risata di cuore. Era così puro, così umano... Eppure non era quello il punto a cui volevo arrivare.
« Ecco, ti ricordi come in quella storia il sacerdote diventi un vessallo della divinità in terra pur senza saperlo? »
S'irrigidì, e sapevo che un'unico pensiero gli stava passando per la mente.
« Hai visto...? »
« No. Non lui. Non potrei, è morto. », mormorai, innervosita per empatia « Però, ti ricordi il nome della nostra divinità? »
Si rilassò, spegnendo la fiamma del fornello.
« Non era importante. Cerca di non riempirti il cervello di idiozie, ok? E passami i piatti se non vuoi morire di fame. »
Sospirai, lasciando cadere il discorso, e facendo quanto mi aveva chiesto, accendendo la TV nel mentre. Eravamo in perfetto orario per il telegiornale, anche se a nessuno di noi due sembrava importare più di tanto.
« Amaaris, seriamente, ora che stai meglio... cos'è successo ieri sera? »
Lo guardai per una manciata di secondi, prima di abbassare lo sguardo sulle uova, aggiustandomi a disagio sulla sedia.
« Se tu puoi avere i tuoi segreti non posso avere i miei? »
« Sei tornata a casa a pezzi, accompagnata da Nash - che si è rifiutato di dirmi nulla - e sei svenuta sulla porta, senza contare che stamattina deliravi. Questi non sono segreti che puoi tenere per te. »
Era serio come poche volte l'avevo visto, e sentii un fiore di senso di colpa sbocciarmi nel petto, doloroso. Purtroppo l'orgoglio maledetto era una cosa di famiglia.
« Non ho intenzione di dirti nulla. Non ti mentirò perché al contrario tuo so mantenere le mie promesse, ma se puoi tenermi all'oscuro di così tante cose perché non posso fare lo stesso? »
Aprì bocca per replicare, ma un'immagine alla televisione richiamò l'attenzione di entrambi. A me si ghiacciò il sangue nelle vene, e anche Vector sembrò impallidire.
Era la zona dove mi ero avventurata la sera prima. C'era della polizia, un corpo che veniva portato via... alzai il volume, per sentire le ultime parole della giornalista.
« ... questa non è che l'ultima delle aggressioni che si sono conseguite a catena negli ultimi tempi nella nostra città. La polizia sta seguendo la stessa traccia dei casi precedenti, ma non ci sono traccie che indichino chi possa essere l'aggressore; l'uomo, incensurato, non aveva nessun precedente che possa giustificare un omicidio così efferato. Si raccomanda la massima cautela nel girare soli, specialmente di notte, in quella che ormai sembra una leggenda metropolitana di un assassino fantasma... »
« Devo andare. »
Mio fratello scattò come una molla, il piatto ancora a metà. Non feci in tempo a dirgli nulla che era già uscito, lasciandomi sola con la conclusione dell'articolo.
« ... sulla zona era anche presente una giovane, Kotori Mizuki, insieme ad un amico, Alito. Anche la ragazza ha subito un aggressione ma grazie all'intervento tempestivo del compagno è riuscita a scampare una morte certa, ed è attualmente in ospedale per accertamenti. Linea allo studio. »

 
Il giorno dopo mi sentii abbastanza in forze da tornare a scuola. O meglio, ero ancora a pezzi, ma un pochino meno di prima, quel poco che bastò a mio fratello per decidere di spedirmi senza tante cerimonie con una pastiglia e una pacca sulla spalla.
Aspettai Yuma fuori da casa sua, come ci eravamo detti la sera prima per telefono, e poi ci avviammo entrambi per la strada, stringendoci nei cappotti per il freddo, nel più completo e pesante silenzio.
C'era un certo vento quella mattina che sapeva di pioggia, e gli stessi nuvoloni del giorno precedente. Yuma sembrava teso, nervoso, e sapevo perfettamente perché. Anche io ero sinceramente preoccupata per Kotori, ma non era la mia preoccupazione più grande. Il modo in cui combaciavano il posto e quello che avevo visto mi portavano ad un'unica risposta; Luna era un'assassina pericolosa, e andava fermata.
Non riuscivo a pensare a nessun alibi che tenesse.
Persa nei miei pensieri, tenevo lo sguardo fisso su un punto indefinito a terra, e mi fermai unicamente perché sentii Yuma farlo. Alzai la testa per chiedergli quale fosse il problema, e mi impalai sul posto.
Luna.
« Amaaris » disse soltanto, con quella voce che mi gelava il sangue nelle vene « Ti sfido a duello. »


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note dell'autrice
C
on (credo) un mese di pausa, ecco il terzo capitolo!
Che ho odiato tantissimo.
Seriamente, l'ho riscritto tre volte. Un parto sarebbe stato più piacevole.
In ogni caso! Mi scuso se la qualità di questo capitolo è sotto zero ma non ce la faccio ad aggiustarlo più di così, pace.
Al prossimo capitolo <3

 

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Capitolo 4
*** stage 4: domande ***


STAGE 4
DOMANDE
 
 



 
« Padre? »
Ciò che ricordava meglio del suo ritorno era indubbiamente l'odore.
Metallico, pungente, salino per i mesi di mare; le entrava dentro ogni crepa dell'anima, cancellando la stupida fantasia infantile di un padre che non aveva mai visto né avuto - uno tranquillo, uno vero, uno presente, uno che le avesse dato una carezza, oltre che cento schiaffi.
Si mischiava bene con il buio che gli si attaccava addosso, e non andava più via. Forse era una maledizione, come diceva Lei, lanciata da tutte le persone che aveva strappato alla vita troppo presto. Vector aveva detto che era un'idiozia, ma lei ne era sempre più sicura ogni volta che incontrava quegli occhi crudeli.
"La pace è un mezzo imperfetto per perfetti codardi", non diceva così?
« Amaaris. » Solo la sua voce bastava a farla irrigidire. « Cosa c'è? »
La bambina deglutì, un paio di volte, spostandosi di malavoglia dalla porta.
Ogni volta che tornava la guardava in modo più strano - non avrebbe saputo dire se disgusto, o disprezzo, o un tentativo fallimentare di comprendere quanto avrebbe guadagnato ad avere un unico figlio maschio invece di qualcosa di perfettamente inutile. Forse un giorno l'avrebbe data in sposa a qualche regno troppo potente per essere soggiogato con la forza. Forse l'avrebbe mandata all'altare con un boccetta di veleno ed un copione da recitare...
« Sono felice siate tornato - si schiarì la gola, giusto un istante, prima di abbassare gli occhi - ecco, io avrei una richiesta da farvi... »

 
« Vector me lo devi promettere! »
Lui fece una risatina, incapace di soffocare le tenerezza che gli faceva vederla così determinata. Nonostante non avessero un granché di differenza d'età lei rimaneva ai suoi occhi una perenne bambina, non solo perché non aveva ancora raggiunto la paburtà e a fatica gli arrivava al viso, ma perché sempre rinchiusa fra il tempio e le stanze della madre, senza nessuna reale consapevolezza del mondo esterno, non aveva nessun appiglio su quanto fosse tragico il mondo esterno. Era un fiore appena sbocciato, una vergine sacrificale; sarebbe durata pochissimo, e sperava che la lasciassero stare.
« Ci tieni così tanto? »
« Ti prego. »
C'era vento di mare, e la luce soffusa del tramonto. Amaaris intrecciò il mignolo con quello del fratello, e l'espressione corrucciata finalmente si distese.
« Per sempre, ricordatelo. »
Che nella vita, nella morte, nella tragedia, nel lento digradare della mente nell'oblìo, non vi separiate mai.


Mi svegliai di soprassalto con la certezza di star morendo.
Perché, non lo so dire. Un momento prima stavo sognando la stessa cosa per l'ennesima volta, il secondo dopo stavo cadendo nel buio, nelle fauci umide di un mostro.
Cercai di recuperare un respiro più regolare, mentre lentamente la realtà intorno a me iniziava a riprendere forma
Che diavolo è successo?
La stanza era di un bianco asettico, ordinato, quasi doloroso per gli occhi se non fosse stato per le decorazioni dorate qua e là; fuori dalla finestra brillava la luna. Alle pareti, dei quadri poco familiari...
La luna.
Mi tirai a sedere di scatto, un dolore lancinante al retro del cranio mi risvegliò completamente come una doccia ghiacciata. L'ultimo ricordo che avevo era Luna che mi chiedeva di duellare.
E poi?
Le orecchie fischiavano. A tastoni, toccai il punto della testa che mi faceva male, e lo trovai fasciato. Scesi un poco con le dita, sul collo, e mi rilassai un poco avvertendo la corda della collana.
Non avevo intenzione di rimanere in un letto sconosciuto, neanche con la testa che stava per esplodere. Non ci avrei perso molto, era sempre stata vuota.
Mi trascinai giù dal letto, notando distrattamente che chiunque mi avesse rapita - mi sembrava l'ipotesi più plausibile al momento - si era premurato di togliermi la divisa e mi aveva messo una veste.
Grandioso. Se è un pedofilo, ha gusto.
Dio, quanto era difficile pensare. Specialmente cose intelligenti. Cercai il mio telefono con gli occhi, ma non era da nessuna parte. Come, del resto, la mia cartella e tutto il resto.
Doppiamente grandioso.
Cercando di fare meno rumore possibile aprii la porta e sgattaiolai in un corridoio, ugualmente candido e asettico. La luce al neon bianca rendeva la notte irrealistica, illuminando una sequela di porte chiuse oltre alla mia e un incrocio di corridoi poco più avanti in ombre troppo nitide e dettagli accurati.
Forse è un ospedale psichiatrico.
Almeno in quel caso ero sicura di trovare mio fratello da qualche parte.
Stavo iniziando a incamminarmi verso gli altri corridoi nella speranza di trovare una via di fuga verso l'esterno, o almeno una spiegazione, quando dei passi e due voci concitate mi presero in contropiede.
« C'erano un miliardo di soluzioni migliori. Sei stata stupida e immatura. »
« Non ho avuto altra scelta. Lo ha afferrato prima che potessi reagire, e quell'idiota ha iniziato ad agitarsi- »
« La violenza non risolve tutto Luna. »
Non feci in tempo a scappare di nuovo in camera che due figure familiari mi si pararono davanti. Una era Luna, e l'altra...
« Christopher? »
Five distolse lo sguardo da Luna per concedermi la sua piena attenzione, e la quantità di domande che sentivo di dover fare aumentò notevolmente. Aprii e chiusi la bocca, un paio di volte, sempre più confusa.
Christopher, Thomas e Michael Arclight non si facevano vedere da un po' ad Heartland. Non avevo avuto modo di legarmi particolarmente a nessuno dei tre - se non si contava l'astio che avevo avuto verso Thomas da piccola, che ancora faticavo a mandare giù -, ma era impossibile non farci caso. Durante le vacanze precedenti al ritorno a scuola mi era capitato occasionalmente di vedere Michael e Yuma insieme a duellare o parlare da amici, come nelle mie uscite con Vector, Merag e Nash - lunga storia imbarazzante che non ho il cuore di spiegare al momento - di fermarmi a parlare con Thomas. Insomma, non erano perfetti sconosciuti; la loro assenza era visibile di riflesso nei miei amici, e mi aveva dato da preoccuparmi, almeno un poco.
Per questo rimasi a fissarlo come un fantasma, prima di riprendermi, un poco sollevata ci fosse lui e non solo l'assassina.
« Siete tornati? » Spiccicai alla fine, tirandomi comunque un poco indietro rispetto a loro, una nuova ombra di dubbio nella mente.
Erano in combutta?
Sarei morta per l'ennesima volta?
Dovette leggere qualcosa nel mio volto, perché sospirò, facendo un cenno a Luna che lessi come uno sparisci per ora, ordine eseguito ben volentieri da quest'ultima dopo una tremenda occhiataccia finale.
Non sembrava mai contenta di vedermi.
« Non dovresti alzarti da letto, sei ancora debole. »
« Sto benissimo. » Mi resi conto di essermi messa in difensiva, e indietreggiai un altro po'. Avrei dovuto fidarmi di lui, eppure ultimamente sembrava non mi potessi fidare di nessuno.
« Lo so che hai paura. Luna mi ha raccontato tutto. »
« Non ho paura! »
Mi pentii immediatamente di averlo detto in quel tono stridulo.
Mi strofinai il retro del collo, cercando risposte a domande evanescenti e dolorose, la più pressante delle quali mi danzava sulla lingua, implorando una risposta. Era calato un silenzio imbarazzato, e mi sentivo sempre più stanca di tutto quel teatrino incomprensibile.
« Christopher, ascolta », mormorai alla fine, obbligandomi a guardarlo negli occhi, « Per favore. Voglio la verità. Se sai quello che ha fatto Luna allora perché... »
« Hai frainteso la situazione Amaaris. Se ci lasci il tempo di spiegare capirai tutto. »
Altro silenzio. Poi riprese la parola.
« Tuo fratello non voleva... »
« Che venissi coinvolta sì, lo so. » borbottai, abbassando lo sguardo. Annuì.
« Però a questo punto tenerti all'oscuro va contro i tuoi interessi e i nostri. -- non mi sfuggì lo scintillìo seccato nel suo sguardo -- Ma anche quando saprai come stanno le cose, non potrai agire. Se non credi di poter resistere, allora non sprecherò tempo a darti una spiegazione. »
Esitai. Non avevo idea di cosa stesse parlando, e le sue parole non avevano un gran senso nella mia testa; mi appoggiai al muro e chiusi gli occhi, massaggiandomi le tempie mentre il fischio dentro ai timpani tornava a farsi acuto e presente.
« Cosa è successo prima? Quando ho duellato con Luna. »
Fece una smorfia, gettando un'occhiata al corridoio lungo il quale si era allontanata.
« Non posso darti una risposta completa adesso, ma c'è stata una... complicazione, ed è stata costretta ad interrompere il duello. »
I ricordi mi riafforarono, piano piano, come tante bollicine che dal fondo del bicchiere risalivano alla memoria, solo per poi scoppiare in dolorosissimi pop.
« E mi ha tirato una botta alla testa. Mi sembra una soluzione geniale. »
« Potevi peggiorare una situazione già delicata. »
Mi stava risalendo la rabbia lungo la gola, corrosiva. Odiavo la tranquillità con cui aveva detto che mi aveva atterrata di principio.
Ed odiavo essermi fatta dare un maledetto colpo alla testa. Mi ero rammollita.
« Yuma invece? »
« Lui... » mi guardò di sbieco, e poi scosse la testa. « Ne riparleremo domani. Adesso cerca di riposare, Amaaris. »
Non riuscii a protestare che era già sparito lungo la stessa strada che aveva percorso la mia incomprensibile nemica.
Passai le ore seguenti scorrendo il mio deck, senza riuscire ad addormentarmi. Non era solo per aver praticamente dormito per metà della giornata - anche se di certo non aiutava -, ma anche per la semplice paura di sognare ancora una volta quella... cosa.
Se c'era qualcosa che accomunava me e Merag era una certa propensione per le visioni e le predizioni. Quando succedeva qualcosa di grosso potevi star sicuro che mi sarei risvegliata di soprassalto da un brutto sogno, nello stesso momento in cui lei sveniva dopo un paio di parole criptiche; i motivi di questa similitudine, per'altro, non erano così diversi l'uno dall'altro.
Solo che a me succedeva solo nel sonno.
E quella sera non avevo la forza di reggere uno scenario post apocalittico.
Sospirai, posando il deck sul comodino ed alzandomi. Potevo perlomeno farmi un giro ovunque fossi, e magari scoprire qualcosa di più per i fatti miei prima di parlare con Christopher alla mattina.
Il corridoio era freddo e, adesso, cupo, dato che avevano spento la luce. Senza neanche il conforto delle lampade bianche, camminavo nel silenzio fra i miei pensieri tra speculazioni e predeterminate congetture che svanivano quando tentavo di costruirvi una logica attorno. Le stanze si susseguivano sempre uguali, corridoio scelto a caso per corridoio scelto a caso, finché non s'interruppero in un ascensore metallico.
Ci pensai un po' su, valutando sia il fatto che quel posto sembrava un labirinto sia la possibilità che potesse fare rumore e svegliare qualcuno. Non sapevo che razza di coinquilini avessi, o come avrebbero preso l'essere richiamati alla terra nel cuore della notte da una ragazzina insonne.
Ci stavo ancora pensando, mentre lo chiamavo ed entravo dentro.
Il touch screen, tirato a lucido, segnava altri due piani superiori e due inferiori. Il solito sesto senso mi diceva di andare su, in cima, e così feci, senza prendermi la briga di metterlo in discussione.
Nel riflesso dello specchio sembravo assurdamente pallida e stanca; quella situazione non doveva avermi fatto bene alla salute, evidentemente; con quei capelli spettinati, le occhiaie marchiate di viola e una benda intorno alla testa avrei potuto fare da controfigura a qualche zombie in un film di serie z.
Il terzo piano era decisamente diverso dal primo. Dopo una stanza piena zeppa di documenti strani, mappe e computer, una rampa di scale apriva finalmente sul cielo aperto, in un pavimento di freddo cemento che sarebbe benissimo potuto essere una pista d'atterraggio.
Mi avvicinai al bordo e mi sporsi, lentamente, cercando visivamente qualche indizio su dove mi avesse trascinato quella psicopatica di Luna. Riuscivo a vedere la torre di Heartland, in lontananza, ma per il resto solo i boschi che circondavano la città stesi per chilometri come un mare verde contro il piatto cielo cobalto.
Ancora altre domande che si affacciavano alla mie mente. Perché quel posto? Perché così lontano dalla città? Perché...
« Non affacciarti così tanto, potresti cadere. »
Sobbalzai, e per poco non caddi davvero, voltandomi di scatto verso una voce più che familiare.
« Oh... Arito! »
Gli corsi incontro, saltandogli addosso per abbracciarlo. Non mi ero mai sentita più sollevata di vederlo in tutta la mia vita, nonostante fosse decisamente ammaccato. Lui mugolò qualcosa, e mi allontanai, realizzando che avrei dovuto andarci più piano con qualcuno che era stato in ospedale fino a forse qualche ora prima.
Per quanto io fossi così felice di vederlo, lui aveva la faccia di uno che aveva appena visto un fantasma, per quanto un sorriso stentato tentasse di nasconderlo. Era la faccia del "perché sei qui?" con una punta di preoccupazione vivida che non poteva sfuggirmi.
Beh, più di una punta.
Come se mi avesse vista in una vasca piena di pirhanna.
« Anch'io sono contento di vederti », chissà perché sembrava una bugia, « ma cosa ci fai qui? Che ti è successo? »
« Non... non ne sono sicura. Ma non è importante adesso. Piuttosto come stai? Perché non sei in ospedale? Chi ti ha attaccato? Guarda che sono pronta a- »
« Calma, calma. »
La sua risata sembrò più genuina, e bastò a rincuorarmi un poco.
« Sono uscito oggi pomeriggio, i medici hanno deciso che le mie condizioni erano abbastanza buone. Riguardo a chi mi abbia attaccato... » distolse lo sguardo, socchiudendo gli occhi « non ti preoccupare, non lo farà più. »
Non mi sembrava una risposta da lui. Era come se volesse girarci intorno, e alimentò quel senso di ansia che si era appena affievolito, tornando a farlo pesare come un macigno.
« Arito... perché non vuoi dirmelo? »
Sembrava vecchio di mille anni. Il che forse, in un certo senso... esausto, ecco. Davvero esausto.
« Vector me lo ha fatto promettere. E anche se non andiamo esattamente d'accordo ha i suoi motivi. Per favore, non farmi altre domande. »
Calò un silenzio strano, teso e confuso. Voltai lo sguardo, andandomi a sedere al bordo, le gambe a penzoloni, improvvisamente senza voglia di parlargli.
Non riuscivo neanche più ad arrabbiarmi. Mi dicevano tutti la stessa identica cosa. Nessuno voleva dirmi niente, era paradossale.
Un paio di secondi e lo sentii sedersi di fianco a me. Non alzai lo sguardo da terra, rimanendo concentratata sul nulla.
« Amaaris so che non ti piace essere trattata da bambina. Però vorrei che tu capissi che lo stiamo facendo per te. E forse un giorno saprai tutto... no. Prima o poi lo saprai in ogni caso. Vogliamo solo che tu ti goda un po' di normalità prima. »
« Quindi tutti gli altri imperatori sono qui? »
« Sì. Probabilmente li vedrai domani. »
« Oh. Figo. Per questo non vengono a scuola? »
Suonavo più cinica del solito.
Sospirò, e con la coda dell'occhio lo vidi guardarmi fra il preoccupato e il troppo esausto per rispondermi a tono.
« Più o meno. Sono importanti qui. »
« Bene. Mi sono mancati. »
Non sapevo neanche io se era sarcasmo o meno.
« Anche tu ci sei mancata Amaaris. Siamo una squadra. »
« Beh, non mi sembriamo molto uniti. »
Accennò ad un sorriso, alzandosi in piedi, e allungandomi una mano come gesto di fare lo stesso.
« Lo siamo più di quanto tu creda. »

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NOTE DELL'AUTRICE


Oddio, sono viva!
Sì, ho pubblicato, sì, sono passati credo tre mesi dall'ultimo aggiornamento. Ma con la pandemia sono giustificata, no? :D
Ok, seriamente. Quando era appena iniziata la quarantena credevo avrei avuto più tempo per scrivere e pubblicare, ma alla fine sono stata semplicemente sommersa di compiti tanto quanto prima... chiedo scusa!
In ogni caso, appena trovo la voglia e il tempo di aggiustarlo, potrei pubblicare una one-shot sulla negativeshipping fra poco! (Yay!).
Infine, mi scuso se non c'è il duello affettivo fra Amaaris e Luna ma avevo paura fosse troppo noioso da leggere, e dopo averlo riscritto un miliardo di volte ho finito per cambiare totalmente idea su dove volevo andasse a parare questa storia. Prima o poi ci sarà un duello scritto, promesso, anche solo perché vorrei dare ad Amaaris un deck decente.
Sperando che riesca ad aggiornare più in fretta la prossima volta, vi saluto!
E sperando anche che io non sia inciampata in uno dei buchi di trama che continuo ad evitare per un soffio dato che mi ostino a non seguire lo schema che mi ero prefissa e a cambiare cose ad minchiam a mezza strada. So che mi dimenticherò qualcosa che ho detto prima e mi contraddirrò. Lo so. Lo so e basta.

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