Speculum

di Loscrittoremediobis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** INVOCHIAMO UN PAIO DI SANTI ***
Capitolo 3: *** PRIMI ARRIVI E SNOBBAMENTI ***
Capitolo 4: *** TAVOLI CREPATI E GIUBBOTTI ASSENTI ***
Capitolo 5: *** COMPATISCO GLI HORROR ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


-È colpa tua!-
Fissò il suo oppositore, che non faceva altro che dondolarsi da una gamba all’altra, senza nascondere un’espressione soddisfatta. Strinse i pugni, saturi di tutta la rabbia e frustrazione che quell’avventura aveva portato.
-Tu…hai tradito la mia fiducia. Tu…-.
-Non ti ho mai giurato fedeltà- rispose con tono freddo, uccidendo nell’aria quei frammenti di parole, cariche di emozioni taciute. Il soffio del vento, leggero come una carezza materna, era l’unica fonte di rumore in quella pianura intrisa di disperazione.
-Nemmeno il sangue potrà unirci-.
Quelle parole tagliarono gli ultimi fili che tenevano salde le poche convinzioni rimaste. Sapeva che una dimostrazione d’affetto era impossibile, ma non pensava non ci potesse essere neanche un minimo di empatia, un piccolo legame o una vacua solidarietà. Sentiva la rabbia sormontare sempre di più, assieme alle fredde lacrime che venivano vaporizzate dal calore delle fiamme circostanti. Si passò una mano sul viso: ogni segno nero, ogni bruciatura, ogni ferita erano state inferte per puro gioco, puro menefreghismo e cattiveria. Continuò a fissare quel nemico così nuovo, un nemico che aveva sempre vissuto e tramato alle sue spalle. Lo stesso nemico che aveva provocato tutto quel cataclisma.
-Tu…- la voce uscì come un sussurro, cercando di trattenere quella furia che, piano piano, stava sopprimendo ogni singolo istinto razionale. –Lui è morto per colpa tua. L’hai ucciso per avere una stupida scatola!- Strinse i pugni, sentendo il calore avvampare. –Hai ucciso un innocente per un tuo fine! Stai per ammazzare milioni di persone e non hai problemi!? Cosa cazzo ti passa in quella testa vuota?! Hai perso il senno!?-
Silenzio.
Il respiro si fece sempre più pesante, reso acre dal fumo delle fiamme che, come golosi ad un banchetto, cercavano di divorare più terra possibile, inghiottendola in quelle fauci roventi che aveva imparato a non temere. Il traditore si avvicinò: passi lenti ed eleganti come la sua persona. Gli occhi, liberati da quella maschera di benevolenza, ardevano di una rabbia soppressa, che piano piano stava risalendo. Si fermò, a pochi centimetri dalla povera vittima, che nel frattempo continuava ad ansimare furiosamente. Gli occhi ridotti a due fessure, la tensione quasi palpabile. Alzò il braccio, facendo collidere violentemente il palmo con la guancia sporca dell’avversario.
-Non. Ti. Permetto. Di. Parlarmi. Così- sibilò, guardando quel povero essere, ormai quasi ridotto a bestia, massaggiarsi la guancia arrossata. –Sono consapevole del danno che provocherò. Ma sai una cosa? Non m’importa-. Piegò la testa di lato, mentre un sorriso si increspò nelle sue labbra, eliminando ogni goccia di sanità mentale rimasta. –Perché dovrebbe importarmi della morte di miserabili scarafaggi? Perché dovrei pensare alla vita di insulsi scalini che servono solo a portarmi alla vetta? Spiegamelo: non è forse l’istinto della nostra razza? Scavalcare tutto e tutti pur di brillare?-
Le unghie affondarono nei palmi, cercando invano di placare quella bestia rabbiosa che, ferocemente, pretendeva di essere liberata. Non poteva concepire tutto questo: sacrificare milioni di vite solo per il proprio tornaconto. Uccidere chiunque solo per ottenere una breve luce che sarà destinata a spegnersi dopo poco, come la fiamma di una candela. Distrusse le ultime barriere, la bestia impregnò ogni singola fibra del suo corpo, mostrando agli occhi non più vari colori, ma solo due: bianco e nero, giusto e sbagliato, vero e falso.
Senza pensarci due volte contrattaccò, colpendo l’avversario con una testata, talmente forte da farlo indietreggiare. –Tu hai perso il senno! Hai capito?! Pensi davvero che non ti impedirò di farlo?!-
Osservò il nemico rialzarsi, massaggiandosi la testa. I suoi vestiti, prima impeccabili, stavano iniziando a rovinarsi. Aveva vissuto troppo sul tappeto rosso, non sapeva cosa significasse faticare, scappare e raggiungere il proprio obbiettivo con le unghie e denti. No, aveva sempre vissuto nella condizione che tutto gli fosse dovuto. Il rivale lo guardò, massaggiandosi ancora la testa. Il sorriso, che prima era svanito, ritornò più insano di prima. Piccoli singhiozzi iniziarono a uscire dalla sua bocca, incontrollati, aumentando sempre di più, fino a esplodere in una risata inumana.
-Davvero pensi di avere ancora potere? Il dado è tratto, la decisione è stata presa, non si può tornare indietro-. Riprese a ridere, echeggiando in ogni angolo di quella campagna. Il cielo nero sembrava accompagnare quel riso, rendendolo ancora più sinistro. –Avete giocato le vostre carte troppo tardi. Hai perso, rassegnati-.
Piccole fiamme danzarono nella sua mano, condensandosi in una lancia: il manico d’ebano risplendeva di una luce inquietante. La lama, curva come un falcetto, rifletteva riflessi caldi che solo quel nobile materiale poteva trasmettere.
-Siete tutti uguali voi- disse, avvicinandosi lentamente al povero martire, che per qualche ragione non riusciva a muoversi. –Pensate di avere tutto sotto controllo, di avere già tutto scritto-. I suoi passi risuonarono lenti, l’andatura traballante, la testa bassa. –La verità? In questo mondo non vince il più puro, il più coraggioso o il più nobile-. Avvicinò la lama arcuata al collo dell’ immobile avversario. –Hai sempre creduto in questo, e hai sempre sbagliato- continuò, spingendo più a fondo la lama, senza levare quel sorriso malato. –Io invece ho seguito la via giusta; ho aspettato, pianificato e attuato. Ho fatto la cosa migliore, non avrei diritto a una ricompensa?- Spinse sempre di più la lama, trasformando le sottili strisce di sangue in minuscole cascate che lentamente scendevano fin dentro ai vestiti. Si fissarono per lungo tempo. Pazzia e raziocinio, giusto e sbagliato. I rumori dell’inferno si attenuarono un attimo, isolando la scena.
-Ultime parole?-
-Fottiti- rispose la vittima, sputando in faccia al nemico che aveva dato inizio a quell’inferno.
-Idiota fino alla fine, eh?- E detto questo, con un movimento secco, tranciò di netto la testa, che cadde a terra, decorando il prato del colore rosso della morte.

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Capitolo 2
*** INVOCHIAMO UN PAIO DI SANTI ***


Una dolce melodia si diffuse fra le mura, facendo vibrare le possenti colonne di marmo coi canti sul loro re e sulle imprese dei suoi cavalieri. La polvere, che s’alzava a ogni passo, danzava dolcemente nell’aria, completando quello spettacolo di rude bellezza. La vetrata, unica fonte d’illuminazione, era un mosaico di colori ed emozioni, cuciti insieme a formare un quadro di spade sacre, piume canute e prodi, portatori di precetti quanto giusti quanto universali. Eroi illuminati, la quale luce rischiarava il centro di quella piccola chiesa, facendone risaltare il pavimento di pietra in un cerchio luminoso, quasi a creare un confine fra bene e male.

Camminai verso quel secondo mondo, così diverso dal resto ma unitario, come se da sempre avesse vissuto parallelamente con noi comuni mortali, ma che solo a pochi fosse concessa la visione. Gli stivaletti scuri facevano riecheggiare ogni mio passo, mentre la veste nera come la morte quasi toccava il pavimento, imprigionandomi in una gabbia di castità e purezza. Mi scostai leggermente il velo scuro che, inutilmente, cercava di coprire i miei lunghi capelli biondi, creando un contrasto talmente netto da apparire quasi fastidioso. L’umidità permeava in ogni angolo del posto, come se tante lame gelate fossero state scagliate in profondità della mia schiena, arrivando fino all’osso.

Continuai a camminare verso quel cerchio di luce; lo desideravo, lo bramavo per un motivo a me ignoto, come il predatore non si poteva astenere dalla carne fresca, io non potevo fare a meno di quella luce.

-Aurore-.

Mi bloccai. Davanti a me una ragazza mi guardava con un espressione affranta: i capelli ramati, più corti dei miei, scendevano fino a metà schiena in tanti piccoli riccioli. Indossava un vestito identico al mio, talmente chiuso da apparire opprimente, con l’unica differenza che era del colore della neve, come il velo che dolcemente le cingeva il capo. I suoi occhi verdi, così simili ai miei, parevano quasi scrutarmi con una scintilla di emozione, come se da un momento all’altro potesse venirmi incontro. Rimasi immobile, i muscoli paralizzati per la visione che avevo davanti. Non era possibile, non volevo crederci: il mio cervello mi diceva che era solo un’ illusione, un mero gioco della mente, ma il mio cuore urlava che era tutto vero, che era lei in tutto e per tutto: stessi capelli, stessi occhi intrisi di espressioni nascoste, stesso linguaggio del corpo.

Era lei

La lotta fra ragione e sentimento continuò, rimasi paralizzata per quella che sembrò un eternità, fino a che, stentatamente, non feci un altro passo.

-Ferma-.

I canti si spensero, come il lume di una candela, facendo rimbombare il mio movimento. Strinse i pugni, una rabbia cieca infiammava i suoi occhi. –Non avvicinarti-.
La sua voce risuonò, congelandomi di nuovo sul posto. Quella non era lei: non mi avrebbe mai parlato così, non mi avrebbe mai guardato così. Cercai di parlare, di emettere un suono, ma la voce mi usciva flebile ed eterea.

-Tu non fai parte della luce, lo sai- continuò. Toccando la piccola croce nera che pendeva dal suo collo. –Devi restare qui, a vegliare sulle ombre-.
Qualcosa si ruppe. Quelle parole non avevano un minimo di senso, perché non appartenevo alla luce? Che voleva dire che dovevo vegliare sulle ombre? Cercai di trovare una spiegazione, esplorando in ricordi inesistenti, annebbiati da una spessa foschia.
Un suono lacerò l’aria.

Mi voltai verso la vetrata; una tromba stava suonando al di fuori di queste quattro mura. Riposai lo sguardo su di lei, che si era voltata a sua volta verso lo spettacolo di luci.

Che cazzo stava succedendo?

-Eccoli- il suo tono era limpido, come se si beasse di quel suono. La luce risplendeva su di lei, illuminando i suoi boccoli ramati e i suoi occhi color smeraldo, donandole una regalità senza precedenti.

Sembravamo due opposti: lei, così bella, elegante e risplendente di luce. Io invece nascosta nell’ombra, invisibile come un reietto che non aveva il diritto di toccare quel suolo superiore.

-Chi?- Fu l’unica cosa che riuscii a dire, terrorizzata da quella situazione così irreale che appariva ai miei occhi. Si rivoltò, incastonando le sue gemme verdi con i miei occhi. Aspettai una risposta che mai arrivò. La luce iniziò a farsi più flebile, i canti ripartirono, ma diversi: più cupi, come a sottolineare una colpa. Non riuscii a muovermi, non riuscii a urlare il suo nome, come nella speranza che al solo richiamo sarebbe riapparsa, le luci piano piano svanirono, facendo dominare le ombre.



 
Mi svegliai con un sussulto. Gli occhi, investiti dalla luce del sole, sembravano quasi bruciare. Mi rimisi seduta, massaggiandomeli spazientita. Era stato tutto un sogno, solo un fottutissimo sogno.

Riaprii gli occhi. L’auto ritornò vivida alla vista: i sedili color caffè, la radio con la musica che risuonava allegramente. Presi un respiro profondo, certa ormai che ero entrata nel mondo reale: un mondo senza chiese, canti corali, strombettatori abusivi e lei.

Lei.

-Buongiorno-.

Sobbalzai. Ero talmente concentrata sui miei pensieri che avevo dimenticato la presenza della guidatrice. Anche perché sennò l’auto non si sarebbe potuta muovere, a meno che non fosse stregata, ovvio.

-Buongiorno- risposi fiacca, osservando dallo specchietto l’espressione divertita della mia interlocutrice. –Quanto ho dormito?-

-Un bel po’-. La donna svoltò a sinistra. –Mentre dormivi abbiamo fatto tutta l’autostrada-.

Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. Col traffico che c’era facevamo un metro ogni venti minuti. Avrò dormito tantissimo!

-Eri veramente presa-. Svoltò di nuovo, facendo dondolare il piccolo pino di legno che pendeva dallo specchietto. -Vuoi un fazzoletto?-

-Per cosa?- Alzai un sopracciglio dubbiosa. Ero sicurissima di non essere malata. La donna sorrise ancora, gli occhi bruni colorati di così tanta vitalità da fare contrasto con la sua età.

-Per la bava che ti sta colando dalla bocca- rispose, trattenendo una risata.

Presa alla sprovvista mi toccai la parte inferiore delle labbra: un liquido appiccicoso ne rivestiva la superficie, colando fino al mento.

-Maledizione!- Mi sfregai via il liquido maledetto con un braccio, mentre con l’altro cercai inutilmente un fazzoletto. –Perché non mi hai svegliato? Si è levato? Si è levato?- Presi al volo il fazzoletto che l’anziana mi porse, passandomelo agitatamente sulla bocca. –Allora?-

-Tutto apposto- rispose, ampliando ancora di più il suo sorriso. –Vuoi che spenga la radio? Dato che non russi più non ce n'è più bisogno-.

-Aspetta, russavo?- La donna esplose in una risata rauca, senza staccare gli occhi dalla strada. –Ovviamente mia cara. Russavi talmente tanto che ho dovuto alzare il volume della radio a tredici. Eri uno spettacolo, con la bocca aperta e la testa all’indietro. Da farti una foto-.

Mi nascosi il viso fra le mani, cercando di celarne il rossore. Perché dovevo sempre fare queste figure di merda?

-Mi dica che non l’ha fatta veramente- mugugnai, spostando un dito per vederla ancora una volta sorridere.

-No tesoro, anche se avrei voluto. Eri un personaggio.

“Come se non lo fossi sempre stato” pensai. Allontanando le mani e ringraziando mentalmente qualsiasi entità abbia avuto la misericordia di metterla alla guida.
La signora Brunetti era la perfetta raffigurazione dello stereotipo sulla buona donna di chiesa: bassa, grassoccia, la pelle segnata dall’età in netto contrasto coi capelli tinti di rosso, i numerosi gioielli che portava e le scarse capacità di guida che la rendevano un pericolo pubblico in quelle sterrate strade di campagna.

Mi scostai dal finestrino, ringraziando anche per la cintura che mi stava salvando da morte certa, e spostai lo sguardo verso il tetto della macchina, continuando a pensare a quello strano incubo. Non avevo mai sognato niente del genere: di solito i miei sogni, per quel poco che ricordavo, erano totalmente irrazionali, niente a che vedere con quello. Era così logico da essere quasi inquietante, non capii nemmeno come facessi a sapere che fossi in una chiesa, o di cosa parlassero i canti corali. Presupposi che era in classico “sapere senza sapere”, tipico dei sogni. Come conosciamo i nomi delle cose più basilari nella realtà lo stesso criterio si può applicare al mondo onirico, guidato comunque dal nostro inconscio.

-Siamo arrivate-.

La macchina si fermò di colpo, sbalzandomi in avanti. Stavolta neanche la cintura mi salvò, ritrovandomi faccia a faccia col sedile che sapeva di libro vecchio.

A furia di continuare così finirò con un trauma cranico, sicuro.

La signora Brunetti scese goffamente dall’auto, tirando fuori il cofanetto della cipria, sistemandosi alla meglio. Ancora scombussolata provai a scendere a mia volta, inciampando e cadendo malauguratamente al suolo.

-Aurore!- La donna mi aiutò a rialzarmi, spolverandomi la maglietta per levare più terra possibile. –Sei proprio un disastro- aggiunse, ridendo sotto i baffi. Non poté fare a meno di strapparmi un sorriso, quella donna riuscirebbe a far tornare di buon umore pure un vecchio pensionato.

-Dove siamo?- Chiesi, osservando il paesaggio attorno a me. Eravamo su un piccolo marciapiede, dove davanti ad esso varie case, tutte diverse, parevano seguire la sua direzione. Ogni abitazione aveva davanti un giardino, alcuni ben curati, altri assolutamente distrutti. I muretti di pietra che le dividevano completavano il tocco rustico. Mi voltai dall’altra parte, ritrovandomi solo altre case che seguivano la strada come soldatini.

-Siamo a Lime, più precisamente in periferia- rispose la donna, tirando fuori un foglietto. –Su, prendi la valigia e andiamo. Non vorrai tardare, vero?-

Annuii, e dopo che lei me lo aprì, presi dal bagagliaio una grossa valigia bianca. Quando fu tutto in ordine ci avviammo sul piccolo marciapiede, accompagnate dal sole d’inizio aprile. La signora Brunetti camminava china sul foglio, borbottando parole incomprensibili. Man mano che avanzavamo davo un occhiata alle varie casette: erano quasi tutte in legno, ad eccezione di qualcuna costruita in mattoni. Posai lo sguardo su un giardino di una bella casetta bianca: un bambino stava giocando allegramente con una bambina, evidentemente la sorellina, sorvegliati dalla madre che li guardava con occhi pieni di tenerezza. Non vidi il padre, ma dai movimenti delle tende capii che era dentro casa, magari a sbrigare qualche faccenda.

-Sessantaquattro! Eccola!-

La voce gracchiante della donna mi bloccò di colpo, facendomi quasi collidere con quella specie di palla con le gambe. La signora Brunetti suonò il campanello e una voce maschile, alterata dal macchinario, ci aprii il piccolo cancello. Alzai lo sguardo verso l’abitazione: una casa a due piani, evidentemente una casa famiglia, era color panna con le tegole color cemento. Non sembrava differenziarsi molto dalle altre case per le dimensioni, ma il giardino ben curato faceva la sua figura.

-Piccola. Che hai?-

Riabbassai gli occhi verso la donna, che mi guardava con un espressione decisa, le braccia poggiate ai fianchi e gli occhi ridotti a fessure, trattenendo a stento un sorriso.

-Nulla, perché?- Risposi, cercando di liquidare ogni pensiero che mi era passato per la mente, che però non sfuggirono alla rossa; la quale sospirò stizzita. –Ti conosco. Hai la faccia da chi gli è morto il canarino-.

-Non mi ricordi quell’avvenimento, la prego- risposi con un certo disagio. Non avevo mai compreso la sua passione per i canarini, ma li amava talmente tanto che ne aveva ben sette, tutti col nome delle note musicali. Almeno finché non gliene uccisi uno mentre giocavo a palla nel cortile.

La signora Brunetti posò le sue mani grassocce sulle mie braccia, il suo sorriso amorevole sembrava carico di parole che solo una madre, per quanto slegata dal sangue, poteva pronunciare. –Sei tesa per il colloquio vero? Tranquilla, andrà tutto bene, non è neanche la prima volta che lo vedi. All’orfanotrofio sembrava gli avessi fatto una buona impressione, non preoccuparti-.

Quel sembrava risuonò prepotentemente nella mia testa, caricandomi di dubbi. E se fosse finita come al solito? E se fosse solo l’ennesima famiglia che mi avrebbe cacciato dopo qualche mese? Non volevo fare casini. Non volevo richiudere la valigia e andarmene, sotto li ennesimi sguardi di ghiaccio. Immaginai per un istante la scena: la discussione, la sua lenta degenerazione e poi gli scoppi, gli strilli e i pezzi di vetro di quelle che prima erano solo semplici lampade. La chiamata, l’auto e l’ultimo sguardo.

-Aurore!-

Mi risvegliai dai miei pensieri. La donna davanti a me pareva quasi comprendermi, la sua espressione bonaria parlava per lei, il suo amore parlava per lei.
-Hai detto che è solo un uomo, vero?- Chiesi, cambiando totalmente argomento, per sfuggire da quel macigno d’imbarazzo e negatività che si era formato.

-Sì. Ha un altro ragazzo, pure lui adottato-.

Solo a me questa cosa sapeva d’illegale?

Osservai il piccolo giardino, il lastricato di pietra sembrava quasi chiamarci. Posai lo sguardo sul numero scolpito nella roccia e infine sulla signora Brunetti, l’unica donna all’orfanotrofio che non mi aveva considerato un caso perso, che mi aveva sempre fatta ridere e accompagnata in quei viaggi fallimentari.

Annuii.

La donna sorrise, avendo capito il messaggio. Mollò le mie braccia e si diresse verso la porta, facendomi cenno di seguirla.
Guardai la casa in tutta la sua semplicità. Stavo per iniziare una nuova vita, in un nuovo posto completamente sconosciuto.

Beh, le ansie erano poche.

Ispirai una boccata d’aria campagnola; sentendo quasi il profumo della legna e dei fiori invadermi le narici, assieme ai cento chili di profumo che la signora Brunetti si ostinava a mettere.

Mi avviai tossendo, sperando che quella divinità di prima mi graziasse con un terzo miracolo.

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Capitolo 3
*** PRIMI ARRIVI E SNOBBAMENTI ***


Una delle cose che avevo imparato all’orfanotrofio era che dietro a ogni famiglia c’era una casa che li rispecchiava totalmente. In tutte le famiglie a cui sono stata affidata vedevo come la loro abitazione riproduceva esattamente il loro pensiero, educazione e cultura. Una persona semplice avrà una casa semplice, una persona eccentrica ne avrà una eccentrica e così via, pensavo, in un eterno copia incolla. Almeno fino ad ora. Perché, guardando gli interni datati della casa in cui eravamo state accolte, mi resi conto di come cozzasse con l’immagine del proprietario, che mi sarei immaginata stare in un appartamento e non in una rustica casa famiglia. Ogni dettaglio sembrava fuori posto: le mura color crema, il pavimento di legno e il tappeto che, coi suoi motivi astratti e floreali, decorava quel impiantito troppo lucido per essere stato lavato solo ieri. A sinistra della sala piccole teche di vetro ospitavano i tipi più vasti di libri: tomi voluminosi rilegati in cuoio, piccoli volumetti incastrati fra gli spazi mancanti che si notavano per miracolo. Sembravano quasi mostrare un interesse smodato per la cultura, ritrovandomi a essere curiosa sui contenuti di quei libri dall’aspetto così inusuale e vecchio che persone come me ne avrebbero capito solo un terzo. All’estrema destra ,invece, un caminetto stava penando la solitudine di un mese in cui il freddo non era sovrano. Un tavolino di legno rotondo e due poltrone erano posizionate davanti a quest’ultimo, creando un perfetto angolo di lettura. La televisione al muro sembrava l’unico elemento idoneo al proprietario, risaltando per le sue forme minime e regolari. In fondo alla stanza delle piante erano ordinatamente disposte; sembrava quasi che il sole avesse deciso di illuminare solo loro, passando dalle ampie finestre e rischiarando, quindi, la stanza con la luce fugace d’Aprile. Un piano nero, situato in fondo a destra, sembrava quasi essere stato il re di quelle piccole serate intime fra amici, accompagnati da musica, voci e tanto alcool. Posai lo sguardo sulla tazzina da the che tenevo tra le mani: il bianco e il rosso sembravano giocare, in un mosaico reso coeso solo da piccole linee dorate. Osservai il liquido scuro, così simile al colore dei due divani in cui eravamo seduti, dondolare pigramente. E senza ulteriori ripensamenti, presi un biscotto dal piattino sopra il tavolo di legno bislungo, e me lo mangiai, gustandone il sapore. Inutile dire che mi stavo ingozzando peggio di un porco. Bevvi un sorso della bevanda, sopprimendo l’istinto di arretrare per il calore. La conversazione, che a detta della signora Brunetti sarebbe durata solo qualche minuto, si stava allungando a una buona mezzora, ovviamente non integrandomi per nulla. “Tipico degli adulti. Quando parlano non si fermano più” pensai rassegnata, bevendo più cautamente un altro sorso. -Allora Aurore. Questo non è il tuo primo colloquio, vero?- Sobbalzai per la domanda, tossendo il the così forte da sembrare che stessi per morire di soffocamento. Alzai gli occhi lacrimanti, incrociando quelli bruni del proprietario che mi guardava con un misto di riguardo e preoccupazione. Eccolo, lui. Lo stesso uomo che ha avuto la malaugurata idea di scegliere proprio me fra i tanti, nonostante fosse stato informato dei miei “incidenti”. Lo stesso uomo che si era presentato al colloquio con un sorriso solare, nonostante la sua stazza che avrebbe intimorito chiunque. Con la bocca piena di cibo lo osservai: gli occhi nocciola erano pieni di apparente curiosità. I capelli neri tirati all’indietro e la camicia di un rosa pallido creavano un immagine contrastante e completamente diversa dal minaccioso bodyguard che la prima volta, anche se per un momento, mi era balenata in testa. L’espressione tirata in un sincero sorriso, il tipico riso della prima volta. Rimasi per vari secondi zitta; ancora presa dal metabolizzare la domanda e dallo sgranocchiare rumorosamente i chili di dolci che la mia bocca stava contenendo, facendomi assomigliare a uno scoiattolo. L’espressione dell’uomo cambiò, passando dalla contentezza al puro dubbio, come incredulo del mio comportamento. Anche la signora Brunetti notò il mio inusuale silenzio, voltandosi e puntandomi il suo sguardo da pesce. Il panico prese il sopravvento: cosa avrei dovuto rispondere? Non avevo sentito la domanda. E se avessi detto la cosa sbagliata? Non potevo già trovarmi sulla via di ritorno. Forse era troppo tardi? Forse mi stava prendendo per pazza? Rimasi a fissare gli sguardi dei due, finché non trovai la forza di inghiottire quell’enorme ammasso di resti che avevo ancora la forza di chiamare cibo. -Tutto a posto?- Chiesi con un fil di voce, maledicendomi per la domanda cretina che la mia mente aveva partorito. L’uomo continuò a fissarmi, l’espressione mutata in celato divertimento. -Sì, è solo che ti sono rimaste delle briciole sulla faccia- rispose, porgendomi un fazzoletto. La signora Brunetti non resistette più e scoppiò in una fragorosa risata. Presi imbarazzata il fazzoletto e me lo strofinai energicamente su tutto il viso, per sicurezza. Ormai avevo capito: quando facevo una figura di merda mi davano un fazzoletto, sempre. -Sì! Come dice? Se è la mia prima volta? No, in realtà è la terz…no! Quarta! È la quarta volta, sì- urlai imbarazzata, aumentando solo l’ilarità generale. Abbassai il viso rossa in volto, certa che quella figura sarebbe stata l’ultima figura che avrei fatto lì. L’uomo rise, grattandosi il mento sbarbato. –Molto bene Aurore. Senti, io e la signora Brunetti dobbiamo parlare degli ultimi dettagli. Se vuoi, intanto, puoi fare un giro della casa-. Annuii e, dopo essermi alzata, mi diressi velocemente verso il corridoio, emozionata dallo scoprire ogni angolo di quella dimora così inusuale. -Grazie mille, signor…- rimasi in sospeso per qualche secondo, producendo solo un fastidioso rumore. Mi ero completamente scordata il suo nome. -Lucas. Lucas Harris- rispose l’uomo, con un sorriso a trentadue denti. Le mie sopracciglia si alzarono all’udire quel nome così insolito per questo paese. Magari era straniero, proprio come me. -Mi scusi?- Strinsi il pugno, nella paura di fare una domanda inopportuna. –Ma lei è inglese?- La signora Brunetti sgranò gli occhi, presa alla sprovvista per la domanda inadeguata. Lucas, invece, non sembrava preoccuparsene, allargando il suo sorriso e negando con la testa. –No, no. Sono americano. Comunque ho capito la tua domanda: non sono nato qui, mi ci sono trasferito da un po’ di anni-. Incrociò le braccia sotto all’ampio petto. –Non preoccuparti per le domande. Non mi sono mai piaciuti i tipi troppo remissivi-. Arrossii ancora, sciogliendo le dita dalla morsa che mi ero creata. Con un grazie mi congedai, imboccando il corridoio. C’erano due porte, una davanti e una a destra, che sembravano chiamarmi. Ma il mio sguardo si posò sulle scale di un legno talmente scuro da sembrare nero. Cercando di fare meno rumore possibile salii, ritrovandomi in un corridoio simile a quello di un albergo: lungo, moquette di un rosso scuro e pareti beje rendevano l’atmosfera tranquilla. Varie porte di legno erano chiuse e continuavano fino alla svolta del corridoio. Le guardai curiosa: sapevo abitassero l’uomo e un altro ragazzo, non capivo la necessità di tutte quelle porte. Che fossi capitata nella casa di un filantropo adottatore compulsivo? Continuai a osservare quei piccoli ingressi di legno. Se tutto fosse andato bene una di queste stanze sarebbe stata mia, avrei potuto dormire in un letto tutto mio, da sola. Sentii la bocca seccarsi; se da una parte l’idea di vivere con una famiglia mi eccitava mi spaventava anche: ogni volta mi chiedevo come avrei potuto fare a meno degli schiamazzi in camera, dei sorveglianti che ci ordinavano di tacere e delle chiacchierate notturne. Nonostante avessi cambiato famiglia tre volte, quel senso di disagio restava. Forse era quello che sotto sotto mi dava un lato positivo nel ritorno. “E se questa fosse la volta definitiva? Se veramente rimanessi qui?” Presi un respiro profondo, placando quel mare di pensieri che si agitava pericolosamente in me. Dovevo lasciarmi alle spalle tutto questo, non potevo vivere per sempre all’orfanotrofio. Un giorno sarei cresciuta, diventata grande e mi sarei dovuta adeguare al mondo esterno. Non potevo andare avanti senza qualche sacrificio; gli amici dell’orfanotrofio non li avrei persi per sempre, potevo farcela. Strinsi la maniglia della porta. Magari dare un’occhiata alla stanza mi avrebbe aiutato a calmarmi. Presi un altro respiro, spingendo lentamente la maniglia verso il basso. Il piccolo spiraglio creatosi mostrò un pavimento in legno e delle mura bianche: la luce e l’aria che faceva dondolare delicatamente un pezzo di stoffa bianca mi fecero capire che la finestra era aperta, facendo entrare la brezza di campagna. Continuai a osservare quel piccolo scorcio, come incantata. La mano continuava il suo semplice movimento, vogliosa di scoprire di più. Il rumore di una porta sbattuta mi fece trasalire, facendomi chiudere la mia con forza e voltandomi. Un ragazzo stringeva la maniglia della porta opposta, chiudendola definitivamente. Sembrava che si fosse appena alzato dal letto: capelli bruni scompigliati, occhi nocciola leggermente assonati. Con tranquillità tiro fuori dalla tasca dei jeans degli auricolari bianchi, completamente attorcigliati. Il suo fisico secco lo faceva assomigliare a una sorta di zombie. Presa alla sprovvista per poco non feci cadere un vaso appoggiato a un tavolino, dopo averlo ripreso maldestramente lo rimisi imbarazzata al suo posto, osservando il ragazzo, impegnato nel sbrogliare quell’intricatissimo nodo canuto. “Forse è lui l’altro ragazzo adottato” pensai, notando come non ci fosse nessuna somiglianza fra lui e Lucas, persino il colore degli occhi sembrava non corrispondere. Con un enorme sforzo cercai di mettere da parte l’imbarazzo, alzando la mano per salutarlo. Il ragazzo però non mi diede il tempo di spiccare una parola che si mise le cuffie, le collegò al telefono e con nochalance scese le scale fissando quest’ultimo. Rimasi per qualche secondo immobile, incapace di analizzare completamente la situazione. Quando la gabbia del criceto iniziò a girare, realizzai. Mi aveva ignorata! A meno che i maschi non abbiamo un linguaggio segreto con cui comunicare quello mi aveva snobbata completamente! Scesi le scale stizzita, mentre parole poco gradevoli uscirono dalla mia bocca. Se la signora Brunetti le avesse sentite mi avrebbe lavato la bocca con il detersivo a vita. Arrivai al piano terra. Del ragazzo cafone nessuna traccia. Spostai lo sguardo ovunque, nella speranza di trovarlo, ma quello che vidi furono solo muri, pavimenti e porte. Una voce gracchiante mi distolse dalla ricerca: sembrava chiamarmi. Decisi di rimandare la caccia all’uomo e andai verso la direzione del richiamo. La signora Brunetti e Lucas mi aspettavano in salotto, entrambi con un sorriso in volto. -Allora?- Chiesi senza troppi giri di parole. Il riso sui loro volti accese in me una piccola speranza: che mi avesse presa? Se avesse deciso di accogliermi definitivamente sotto al suo tetto? Avrei lasciato l’orfanotrofio per sempre? Oppure era solo l’ennesimo periodo? Mi torturai nervosamente le mani, che nel frattempo stavano sudando a dirotto. -Allora- la voce di Lucas suonò pacata e cristallina, per quanto bassa fosse. –Benvenuta nella tua nuova casa, Aurore-.

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Capitolo 4
*** TAVOLI CREPATI E GIUBBOTTI ASSENTI ***


-Allora, ti piace?- Annuii vigorosamente, continuando a osservare la stanza che Lucas mi aveva dato. Mi voltai verso l’uomo, sorridendo. -È fantastica, grazie-. -Sono felice che ti piaccia-. L’uomo emise una grassa risata che si espanse per tutta la sala. -È ancora molto spoglia, lo so, ma vedrai che col tempo ti ci abituerai-. Mi sedetti sul materasso del letto, affondando leggermente per la sua morbidezza. Mi ritrovai a sorridere ancora di più, cosa che non passò inosservata all’uomo. -Sì, suppongo di sì- dissi, giocherellando col lembo delle coperte canute. Lucas si voltò soddisfatto, aprendo la porta per uscire. –Se hai bisogno di qualunque cosa non esitare a chiamarmi, va bene?- Annuii ancora una volta, e dopo che Lucas mi disse l’orario della cena, uscì, lasciandomi da sola. Mi sdraiai sul letto, buttando fuori l’aria che inconsciamente avevo trattenuto. I miei occhi si posarono sul soffitto bianco che, come una tela nuova, segnava l’inizio di qualcosa, un qualcosa che avrei dovuto dipingere io. Mi rialzai, osservando la mia nuova stanza: il pavimento di legno si intonava a tutta la semplice mobilia, che copriva a malapena il vuoto della stanza. Un letto alla parete destra, un comodino di legno con un piccolo abajour bianco. Una scrivania lignea di fronte, un armadio legnaceo un po’ più a sinistra e una finestra bianca chiusa. Basta, solo questo. Mi alzai dal letto, aprendo la finestra per far passare un po’ d’aria. Nonostante la camera avesse arieggiato fino ad ora avevo bisogno di un contatto con l’esterno, un elemento che rompesse quel silenzio tombale. Il soffio del vento sembrò calmarmi, anche se di poco. Mi voltai verso la porta, come se aspettassi un ospite che non sarebbe arrivato. Tornai a guardare il paesaggio, cercando di placare quelle emozioni contrastanti: era una camera splendida, nella sua semplicità, ma era la prima camera in cui ero da sola. Ho sempre vissuto in stanze piene di persone, ragazze come me che non avevano una famiglia. Un luogo in cui potevo entrarci a qualsiasi ora ma ci avrei trovato qualcuno, amato o odiato. Un posto che man mano si svuotava, dando spazio a nuove persone che sostituivano parzialmente la perdita. Qui ero sola. Chiusi la finestra, iniziando a venirmi a noi l’aria campagnola. Nelle altre famiglie avevo sempre avuto un compagno di stanza, qui invece gli unici compagni erano il letto, la scrivania e possibili insetti che sarebbero potuti entrare. Quest’ultimo pensiero mi diede un brivido. Chiusi la finestra: l’ultima cosa che volevo era una di quelle bestiacce in giro per casa, non avrei retto. A passi lenti mi avvicinai alla valigia che avevo lasciato vicino alla porta. Senza troppe cerimonie la buttai sul letto, aprendola e iniziando a smistare la roba. Mettere le cose al loro posto aveva un che di rilassante, ero talmente abituata a quella procedura da farla quasi meccanicamente, diventando un’esperta nel fare e disfare le valige. Aprì l’armadio, trovando anche tanti piccoli scomparti. Sistemai ogni cosa al suo posto: biancheria intima, magliette, pantaloni e qualsiasi altra cosa fosse dentro la valigia. Come tanti pezzi di un puzzle che avevano un posto specifico, ogni cosa veniva sistemata attentamente. Quando ritrovai la valigia vuota osservai il mio operato: l’armadio, parzialmente pieno, sembrava dare già un tocco di personalità alla stanza. Posai la valigia sotto al letto, buttandomi sopra esso, sospirando. Mi lasciai avvolgere dal calore del letto, potendo finalmente scaricare tutto lo stress accumulato in questa giornata. Ripensai a tutto: alla partenza, al viaggio, alla signora Brunetti. Chissà quando potrò rivederla, se fra un paio di mesi o mai più. Sentii una fitta allo stomaco, il pensiero di rinunciare a lei era ancora difficilmente concepibile. Era sempre stata come una seconda madre per me. Ripensai a Lucas: non sembrava male, anzi, mi stava già simpatico. Nonostante il suo aspetto minaccioso sembrava un uomo di gran cuore. Stessa cosa non potevo dire del ragazzo, che mi aveva beatamente ignorata. Sospirai rassegnata, dovevo mettermi l’anima in pace: avrei dovuto conviverci, quindi che mi piacesse o no dovevo stabilire qualche legame. Mi voltai, ritrovandomi a fissare il soffitto: niente era perfetto dopo tutto, c’era sempre quell’elemento fastidioso. Mi alzai, ignara di che ore fossero. Guardai il cielo: il suo colore rosato fece intendere che era tardi. Aprii la porta, ritrovandomi il corridoio deserto. Sentendo borbottare al piano di sotto scesi le scale, sentendo un delizioso profumo invadermi le narici. Lo seguii, con la saliva in bocca: non avevo toccato cibo per tutto il viaggio, avrei ucciso per un pezzo di cibo. O forse era meglio di no: non volevo aggiungere al mio già pesante curriculum “killer della famiglia adottiva che ha conosciuto da qualche ora”. Entrai in cucina, aspirando a pieni polmoni quell’aroma delizioso che, fortunatamente, non cessava. Le piastrelle bianche, insieme alle pareti di un giallo chiaro, spezzavano l’atmosfera antica e leggermente lugubre della casa, dandole un tocco di vita. Lucas stava finendo gli ultimi preparativi ai fornelli: indossava un grembiule nero sopra la camicia, evidentemente per non sporcarsi. Kyle era seduto al tavolo di legno a sinistra della stanza, giocherellando annoiato con una forchetta. Mi rivolse uno sguardo veloce, prima di ritornare a giocare con la sua nuova amica. Strinsi i pugni, osservando la porta finestra alle sue spalle e considerando l’idea di scappare non così scema. Il pasto era sempre un momento imbarazzante: tutti seduti, in silenzio, a mangiare e chiederti, ogni morte di papa, come fosse andata la giornata. Ma il primo pasto era ancora peggio: nessuno ti conosce, tu non conosci niente e nessuno, e soprattutto, cosa più importante, non hai la più pallida idea di come sarà la qualità culinaria, ritrovandoti con la possibilità di mangiare un piatto potenzialmente tossico, com’era accaduto nella seconda famiglia. Soppressi un brivido, cercando di ignorare quell’insalata russa che era tutto fuorché insalata. Osservai il tavolo: la tovaglia, di un verde mela, e le varie stoviglie avrebbero rilassato chiunque, tranne me. Continuavo a pensare che l’idea di scappare dalla finestra non fosse così brutta. Vedendo che era l’unico posto libero, mi sedetti accanto al ragazzo, che continuò a ignorarmi. Lo guardai, cercando di cogliere qualcosa che mi aiutasse a capire che tipo fosse, ma ricevetti solo il nulla. Un cafone quindi. Sospirai, trattenendo il proposito di lanciargli il piatto in faccia. -Ah Aurore, sei arrivata-. Lucas si sedette al tavolo con in mano una pentola fumante di pasta. –Spero che la cena sia di tuo gradimento. Non conoscendo i tuoi gusti ho provato a fare un classico-. Sorrisi, trattenendo l’istinto di saltare addosso alla pentola e divorarne il contenuto. Lucas servì la pasta a tutti. Il ragazzo iniziò a mangiare senza troppe cerimonie. Assaggiai un boccone di quel piatto verde, trattenendo la sorpresa: era buonissima! Molto meglio di quella dell’orfanotrofio. Anche se non ci voleva molto, in effetti. Divorai la pasta, riempiendomi le papille di quel succulento sapore. Continuai a guardare il ragazzo: mangiava come se nulla fosse, evidentemente abituato al sapore. -Vedo che ti è piaciuta-. Lucas si pulì la bocca col tovagliolo. –Ora dimmi. Il tuo nome non è italiano: sei nata qui?- -Sì e no- risposi, arrotolando gli ultimi resti di pasta. –La mia famiglia era francese, ma sono cresciuta in Italia-. L’uomo annuì interessato, per poi spostare lo sguardo verso il ragazzo che ancora era a metà del piatto. Lucas sospirò e con una mano indicò il bruno. –Se non vi siete ancora presentati, lui è Kyle, mio figlio-. Il ragazzo non parve accorgersi di nulla e servì il tossire di Lucas per risvegliarlo. Si voltò verso di me con sguardo vuoto, per poi tendermi svogliatamente la mano. -Kyle, piacere-. -Piacere, Aurore- risposi, stringendogli la mano di rimando. Almeno ora conoscevo il suo nome. –Quindi sei figlio di Lucas? Da dove vieni?- Cercai di non distogliere lo sguardo, quella conversazione stava diventando troppo imbarazzante. -Benton, Kentucky- rispose secco. –E comunque non sono suo figlio, mi ha adottato-. Oh Un silenzio tombale rimbombò nella cucina. Mi torsi le mani imbarazzata, ricordandomi solo in quel momento di quell’informazione datami dalla signora Brunetti. –Ah, scusami- sussurrai. Kyle alzò le spalle, tornando a concentrarsi sul piatto. Sembrava quasi non importagli, come se tutto gli passasse attraverso. Mi ricordò una ragazza dell’orfanotrofio: diceva sempre che non le importava se l’adottassero o no, non avrebbe cambiato nulla. Fu una delle poche con cui non riuscii a rapportarmi. -E lei invece?- Chiesi a Lucas, cercando di sviare la conversazione. L’uomo si grattò la testa leggermente imbarazzato. –Io? Da Garland, in Texas- rispose con un largo sorriso, che aveva un che di strano. –Ah, non darmi del lei ti prego, mi fai sentire vecchio-. -Ok- annuii piano, tornando a concentrarmi sugli ultimi spaghetti nel piatto. Il silenzio sembrò regnare incontrastato per quelli che sembravano secoli, accompagnato solo dal tintinnare delle forchette. Kyle posò la sua e iniziò a fissarmi impassibile. -Quante volte sei stata adottata?- Chiese con una voce innaturalmente ferma. Per poco non mi cadde la forchetta dalle mani, mi voltai lentamente verso di lui. Come faceva a sapere che non era la mia prima volta se non era stato presente al colloquio? Rimasi qualche secondo in silenzio, la mano stretta attorno all’arnese metallico e la mente che non riusciva a schiodarsi quel dubbio. Aveva origliato sicuramente, ma come? Non l’avevo incontrato per le scale e soprattutto non avevo sentito il benché minimo rumore. Sentii la gola secca, come se fosse piena di bile, e, con voce vacua, risposi quattro. -E come mai?- Chiese con una leggera sfumatura di divertimento. -Piccoli problemi…particolari- risposi in un istante. Dovevo calmarmi, ma l’immagine di lui che spiava il colloquio continuava a rimanermi in testa. Continuavo a chiedermi come avesse fatto, e perché mi faceva queste domande. Il sorrisetto del bastardo si fece più evidente, come se provasse una sorta di piacere per quella situazione. -Allora non durerai tanto-. -Kyle, basta-. La voce di Lucas era velata d’irritazione. –Non dire scemenze-. -Non sono scemenze- rispose il ragazzo, sempre più divertito. –Non passerà nemmeno un mese che sarà già sulla strada del ritorno-. Fu come un pugno sullo stomaco. -Ora basta, Kyle!- Lucas colpì il tavolo talmente forte da far tremare tutto, spaventando il bruno. Mi alzai, non riuscendo più a stare in quella gabbia di sguardi infuocati. Corsi via, ignorando le grida di Lucas, ignorando il rumore dei miei passi e la porta sbattere. Volevo solo poter respirare, stare da sola e ascoltare il silenzio. Kyle -Aurore, aspetta!- Inutile, era già scappata via. -Kyle…- Lucas si voltò verso di me, funereo in volto e con le sopracciglia talmente vicine da riuscire quasi a toccarsi. Trattenni un brivido: non l’avevo mai fatto arrabbiare così tanto, sembrava sul punto di esplodere. -Si può sapere perché diamine l’hai fatto?!- Strinse il tavolo talmente forte che lo sentì scricchiolare. Forse avevo esagerato. -Beh, cosa ti aspettavi? Non ho mica promesso di fare il santarellino con lei. Neanche la volevo!- Strinsi i pugni, non aveva tenuto nemmeno conto della mia opinione: ero entrato e avevo ricevuto la notizia della nuova arrivata, tutto all’improvviso, tutto senza che mi fosse stato detto, solo per quella stupida forza maggiore. Aprii di nuovo la bocca, cercando di trattenermi dall’urlare, ma il fiato mi si mozzò quando vidi la sua espressione, l’errore che avevo combinato. -Non me ne frega se tu la volevi o no! È pur sempre una persona!- Lo scricchiolio del tavolo aumentò d’intensità. –Lo sai benissimo il perché è qui! E anche se è toccato a noi dobbiamo trattarla con rispetto!- -Sei stato costretto! Mi spieghi che senso ha!?- Urlai, al limite della rabbia. –Non era previsto per nessuno!- -Chiudi. Quella. Bocca!- Urlò l’uomo, al limite della furia. Un rumore secco rimbombò nell’aria, facendomi sobbalzare. Lucas osservò confuso il pezzo di legno che aveva staccato di netto, per poi respirare profondamente. Posò il pezzo dove poté e alzò lo sguardo: non c’era più furia, ma rassegnazione, quasi delusione. Avevo veramente esagerato. -Andiamo- disse, mettendosi una mano fra i capelli corvini. –Potrebbe essere ovunque, dobbiamo trovarla subito-. Aprii la bocca, tentando di ribattere, ma Lucas mi bloccò con un gesto secco. –Niente ma! Prendi il cappotto, dobbiamo trovarla prima che le succeda qualcosa- disse, avviandosi verso la porta; io ancora immobile, destabilizzato da quello che stavo vedendo. Avrei voluto scusarmi, dirgli che mi dispiaceva, ma le parole mi morirono in gola. -Zitto-. Il suo tono era calmo, quasi affranto. –Ora il nostro obbiettivo è trovarla, nient’altro. Zitto e cammina-. Fece male, più male di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi grido o parola. Avrei preferito sentirlo urlare per un’altra ora piuttosto che sostenere quello sguardo, carico di delusione. Mi alzai a forza dalla sedia: non volevo farlo, in fondo era quello che volevo, no? Che quell’ospite improvviso si levasse dai piedi. E allora perché non festeggiavo? Perché non saltavo dalla gioia e non leggevo un libro tranquillamente, come facevo ogni volta che tutto andava bene? Seguii Lucas verso l’ingresso: prese di fretta il cappotto nero e mi lanciò il mio, che presi per poco. Quello sguardo, era per quello che non festeggiavo. Non feci in tempo a mettere il capo che Lucas aprì la finestra. Il freddo serale invase il corridoio, facendomi rabbrividire più di quanto non stessi facendo ora. E poi lo sentimmo: come il tuono che aveva squarciato quel silenzio un attimo fa, istantaneo e acuto. Un urlo. Aurore Un altro soffio di vento mi fece rabbrividire, sottolineando la mia stupidità nell’ aver dimenticato il cappotto. Mi strinsi nelle spalle, sperando che almeno il mio corpo fosse riuscito a riscaldarmi. Ma i brividi freddi non cessavano, sia esteriori che interiori. Sospirai, stropicciandomi gli occhi e sedendomi sull’ erba fredda e umida. Ero scappata più lontano che potevo, senza pensare a dove andare, avevo continuato a correre fino a che le gambe non avevano gridato pietà. Sospirai ancora, osservando il piccolo parco in cui ero approdata, la signora Brunetti aveva ragione quando diceva che Lime di notte era tranquilla: le piccole distese d’erba nera erano completamente spoglie e vuote, ad eccezione di qualche albero che spuntava qua e là, per dare un’aria più realistica a quel parco completamente deserto. Appoggiai la testa alle ginocchia e chiusi gli occhi, infastiditi dalla luce fioca del lampione. Presi un respiro profondo, sentendo quel misto di ansia e tensione scivolare lentamente dal mio corpo, accompagnato dal suono del battiti cardiaci. Premetti la fronte contro le ginocchia, sospirando l’ennesima volta. Ero al sicuro ora. Rialzai lo sguardo, osservando le grigie strade vuote, se fossi stata nella mia vecchia città avrei avuto più paura che altro, non si sapeva mai chi poteva esserci in un parco di notte: stupratori, drogati o clown assassini. “Idiota” pensai, alzandomi lentamente. Mi appoggiai all’albero più vicino, respirando un paio di volte. Non volevo tornare lì, non dopo quello che avevo sentito, non sarei riuscita a sopportare le provocazioni di Kyle tutti i giorni; quello che mi aveva detto…mi misi la mano sulla fronte, come se da un momento all’altro mi fossi potuta ammalare, non riuscivo a capire il perché mi avesse attaccato così: come se fossi un chissà quale grande ostacolo. “Ho lottato così tanto per questo, però. Non posso andare, non per la quarta volta”. Respirai profondamente, conscia di quel piccolo pensiero che si era annidato nella mia mente. Non potevo scappare, sarei dovuta tornare e la signora Brunetti come la prenderebbe? Dovevo ragionare con razionalità: ero scappata da una casa nella quale abitava un cafone il primo giorno in cui ci avevo messo piede, ero sola, di notte, in un parco. Al diavolo, era meglio tornare. Mi strinsi nuovamente nelle spalle, immaginando le conseguenze del mio ritorno: sarei stata sgridata da Lucas? Oppure mi avrebbe tranquillizzato? Dopotutto neanche lui era d’accordo con l’atteggiamento di Kyle, ma non toglie che sono uscita di notte da sola, in un posto sconosciuto. Mi tremarono le gambe: l’idea di entrare nella tana del lupo non mi elettrizzava. Mi sarei dovuta svegliare ogni giorno con la consapevolezza di essere la causa dell’odio di un ragazzo, che probabilmente mi avrebbe trasformato in un parafulmine col quale scatenare la propria rabbia. Mi sarei probabilmente beccata anche la rabbia di Lucas: volevo davvero essere attaccata ancora? Non era meglio mettere fine a un possibile circolo? Tagliarlo? Piccole goccioline mi risvegliarono dai miei pensieri. Iniziai a correre, sperando di evitare quella pioggia che purtroppo non tardò ad arrivare, colpendo qualsiasi cosa con i suoi piccoli proiettili. Mi nascosi in un gazebo lì vicino, aspettando che la pioggia diminuisse; passarono svariati minuti, isolata dal battere continuo dell’acqua sul legno e all’odore di umido che, insieme alla natura circostante, creavano un aroma pesante e vischioso. Grugnii, la pioggia sembrava non volersi fermare. Un tuono squarciò l’aria, facendomi sussultare. Dovevo andare via, ora. Senza pensarci due volte iniziai a correre, più veloce di prima. Le piccole gocce colpivano violentemente ogni parte del mio corpo. Il vento si alzò, abbassando ancora di più la temperatura. Continuai a correre, cercando di trovare l’uscita di quel benedetto parco che pareva un labirinto. Un fruscio. Mi bloccai, spaesata da quel suono improvviso: non ci sarebbero dovuti essere animali in quella zona, che fosse una persona? Il fruscio si fece più intenso, le gocce d’acqua scendevano lentamente lungo il mio corpo, inzuppandomi i vestiti. Cercai di calmarmi: magari era semplicemente Lucas che mi stava cercando. Sì come no. Quale persona sana di mente che cerca qualcuno lo seguirebbe nascosto fra i cespugli come un maniaco sessuale? Di certo non lui. Il fruscio aumentò sempre di più e i cespugli iniziarono a muoversi. L’adrenalina pompava nelle vene, il cuore batteva a mille, i muscoli tesi. Cosa stava succedendo? Accadde tutto in un secondo: spuntò fuori, e io non potei fare che solo una cosa. Urlare.

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Capitolo 5
*** COMPATISCO GLI HORROR ***


Caddi a terra rotolando, sentendo il sapore di terra in bocca e qualcosa di caldo scivolare sulla mia gamba: sangue. Mi alzai, sentendo un'enorme fitta di dolore. Avevo un lungo taglio sulla coscia sinistra. Merda! Alzai lo sguardo. A qualche metro da me si erigeva un lupo: già questo sarebbe stato strano dato che non c'erano lupi in quella zona; era grande il doppio, con pelliccia blu che si agitava come fuoco e due gigantesche zampe di ragno che gli spuntavano dalla schiena. Mi ghiacciai, sentendo il veloce rimbombo del cuore. Il lupo ringhiò verso di me. Cos'avrei dovuto fare? Era enorme e io ero disarmata e ferita. Ero decisamente nella merda. La bestia affondò le zampe nella terra, creando grandi solchi. I suoi occhi, completamente blu, mi squadravano con aria assassina. Attaccò. Riuscì a schivarlo, senza sapere come. Rotolai a terra, mi rialzai e, senza pensare, iniziai a correre. Sentii il cuore battere a mille, l'adrenalina pompare talmente forte da farmi dimenticare il dolore alla gamba, sentii dei rumori dietro di alberi sradicati e massi infranti, accompagnati da ululati spaventosi che parevano ovattati. La pioggia scendeva incessante. Ero concentrata su una sola cosa: sopravvivere. La mente era partita, veloce come un computer: dove sarei dovuta andare? Non potevo tornare alla casa, avrei messo in pericolo tutti e poi come l'avrebbero affrontato? Per quanto Lucas fosse ben piazzato, non penso che sarebbe riuscito a battere un lupo gigante e di certo un paio di sedativi non sarebbero bastati. Continuai a correre più veloce che potevo, ma un rumore agghiacciante mi fece voltare. Tutti i miei pensieri si bloccarono in quel momento: il lupo mi stava alle calcagna, il terrore si avvinghiò a me come un serpente. Sentii mancare il terreno sotto di me e tutto d'un tratto finii col volto sul terreno umido. Il lupo si erse sopra di me, sentii il suo fiato putrido sul collo e un rivolo di bava mi cadde sulla spalla. Il panico mi serrò la gola; per un istante i polmoni si bloccarono, coscienti che non adempieranno più al loro compito. Sentii il sudore, freddo come ghiaccio, scivolare lungo la pelle. La distanza fra me e il lupo si azzerò completamente. Chiusi gli occhi, lasciando che i pensieri partissero senza controllo: L'orfanotrofio, la signora Brunetti, l'insalata russa velenosa, la casa di Lucas, la voglia di picchiare Kyle con una sedia. Tutte queste immagini mi scorsero davanti, come segno dell'immediata fine. Un tonfo mi riportò alla realtà. Riaprii gli occhi, non sentendo più il fiato del lupo. Mi alzai, ritrovandolo steso a qualche metro da me, guaendo di dolore. Piccoli rivoli di fumo coprivano le bruciature sul muso della bestia, che si agitava in maniera irregolare. Mi allontanai, completamente stordita: cosa stava succedendo? Cos'era quella cosa? -Aurore!-. Mi voltai verso la voce vedendo con stupore che era...Kyle! Era a qualche metro più in là, completamente solo. Il lupo iniziò a gemere, evidentemente stava riprendendo conoscenza. Mi voltai verso Kyle, urlando più forte che potei -Kyle! Scappa! Quel coso è...-. -Corri Aurore!- Riaprii la bocca per ribattere, ma un ringhio mi ghiacciò, congelandomi le ossa. Il lupo si era rialzato: gli occhi celesti erano ridotti a due fessure, carichi di furia omicida. Le zampe di ragno si mossero convulsamente, forando i tronchi degli alberi. Cercai di correre, di urlare: ma la paura aveva preso di nuovo possesso di me. I muscoli del lupo guizzarono e si lanciò verso di me. Una luce viola mi passò davanti, colpendo un'altra volta la bestia nel muso, tramortendola. -Porca puttana Aurore, corri!- urlò il bruno. Mi lanciai verso di lui, sparendo dalla vista del lupo. Superammo vari alberi, prima di fermarci per riprendere fiato. -Kyle- ansimai, il calore della paura che infiammò il mio corpo. -Cosa sta succedendo? Cos'è quel...coso?- Il mio sguardo si spostò da una parte all'altra del bosco. -E dov'è Lucas?!- -Ha avuto un contrattempo- rispose, appoggiandosi a un albero, stremato. -E quello è...- Scosse la testa contrariato. -Non posso spiegarti ora, dobbiamo scappare!- Lo guardai negli occhi, spostando una ciocca di capelli umidi dalla faccia. Avrei voluto urlare, prenderlo e scuoterlo. Sembrava fosse una cosa normale per lui: c'era un dannatissimo lupo-ragno a piede libero! Non potevamo nemmeno chiamare la polizia! Cosa avrei potuto fare?! Cercai di calmarmi: presi un respiro profondo, cercando di fare mente locale. Un ululato esplose. Fanculo alla mente locale. -Di qua!- Presi Kyle per un braccio e lo trascinai nel primo nascondiglio che vidi: un buco sotto un albero, probabilmente una tana di conigli, o serpenti. Fortunatamente non c'erano serpenti. Un profondo silenzio calò nel piccolo buco, il cui odore di humus bruciava le nostre narici. Ripresi fiato, sentendo l'aria nutrire i miei polmoni, e mi voltai verso Kyle, che nel frattempo stava boccheggiando come non mai. -Per l'ultima volta, spiegami cosa cazzo sta succedendo. Che cos'è quel coso?!- Non riuscii a trattenere il tono, alzandolo lievemente. -Un mostro che ti ucciderà se non starai zitta!- Sibilò Kyle, squadrandomi. -Ti spiegherò tutto se sopravviveremo, ok?- -Come "se sopravviveremo"?!- Sibilai, trattenendomi dallo strozzarlo. -Non puoi dirmi che sei venuto qui senza neanche un piano! Potremmo morire!- -Intanto ti ho salvato la vita, prima- continuò, con tono seccato. -Non tutte hanno la fortuna di essere salvate da una sfera d'energia. Di solito le vittime muoiono sbranate-. Oh, questo mi consolava molto. -Aspetta, quindi sei stato tu? Come...- -Te l'ho detto, ti spiegherò tutto se sopravviveremo. Ora zitta e aspetta- rispose il bruno, con sempre meno pazienza. Chiusi gli occhi ed ispirai: un lupo ragno mi stava inseguendo, Kyle sparava mini onde energetiche dalle mani, Lucas era scomparso ed eravamo intrappolati nella tana di un albero. Un momento. -Kyle?- Il ragazzo si voltò, funereo in volto. -Che vuoi ora?!- -Siamo in una tana- sibilai, trattenendo l'istinto di urlare dal panico. -E allora?- Fece per alzare un sopracciglio interrogativo, prima di capire il perché della mia affermazione. C'eravamo dati la zappa sui piedi, chiudendoci in uno spazio piccolo con un lupo in giro. Iniziai a respirare furiosamente, sentendo il panico crescere: ero morta, finita, sarei stata sbranata da un lupo e le mie viscere sarebbero rimaste a terra. -Va tutto bene, Aurore-. Kyle cercò di tranquillizzarmi, anche se era più finto di una celebrità. -Ora con calma...- -Io non mi calmo!- Lo fissai incredula: come faceva a restare così calmo? Stavamo per morire! -Fuori c'è un lupo gigante che ci sta per ammazzare e tu mi dici di calmarmi!?- Non finì la frase che un boato proruppe nella tana, Kyle fu sbalzato indietro, battendo la testa contro il muro, mentre io mi ritrovai a pochi centimetri dal muso del lupo. Indietreggiai, urlando. Il lupo continuava a sbattere convulsamente la testa, cercando di sfondare la corteccia. Mi avvicinai al corpo inerme di Kyle, cercando di risvegliarlo; inutile, l'urto l'aveva steso. Osservai il lupo inerme, che nel frattempo aveva guadagnato altro terreno. Scossi sempre più forte Kyle, urlando il suo nome, ma tutto ciò che ottenni fu il silenzio. Il lupo continuò a ringhiare, rompendo sempre più corteccia. Indietreggiai ancora di più, sentendo l'umida corteccia sulla schiena. Ero in trappola. Il lupo guadagnò ulteriore terreno, ritrovandomi il suo muso a pochi metri. La bestia aprì le fauci, mostrando una doppia fila di denti bianchi e affilatissimi. Il panico crebbe, i polmoni sembravano sul punto di esplodere. La paura e il terrore sembravano quasi bruciarmi all'interno, in un calore che cresceva sempre di più, fino a sentirmi avvampare. I colori si schiarirono: il freddo marrone della terra divenne grigio, mentre la folta pelliccia del lupo di un color perla. Tutto iniziò a illuminarsi, il calore aumentò e io, non potendo fare altro, urlai

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