Love is an open door

di MissAdler
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***



A Francesca, che mi ha fatto un bellissimo regalo di Natale. Grazie ♡

 

 

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Arendelle era un reame del nord, pacifico e florido, un diamante incastonato tra i fiordi e le montagne innevate, circondato dalle acque gelide e limpide di quel mare sempre calmo.
Le casette dai tetti turchesi se ne stavano arroccate sul fianco di un colle verde e rigoglioso, costeggiavano la strada maestra che conduceva ai cortili del palazzo reale, le cui fondamenta giungevano fin nelle profondità dell’acqua, creando un gioco di riflessi che avrebbe fatto credere ad un forestiero ignaro che esistessero ben due castelli identici, uno dei quali, capovolto e sommerso.
Le mura lisce e robuste si snodavano dal mastio angolare ed erano scandite da alte torri rotonde, sovrastate da tetti conici, azzurri come l’acqua sotto di essi.
Custodita all’interno della cinta muraria, una struttura armonica ed elegante si slanciava verso il cielo, con i suoi tetti spioventi e le torrette appuntite.
Il clima rigido, concedeva agli abitanti di quel piccolo regno delle estati fresche e fiori dai colori accesi, mentre gli inverni erano innevati e splendenti, con cieli notturni trapuntati di stelle, tanto luminose da far desiderare di allungare un dito per toccarle.
Arendelle dava l’impressione di essere un regno fuori dal tempo, sospeso tra fiaba e realtà, quasi come se, in un'epoca lontana, fosse stato abitato da fate e altre creature magiche, finché l’uomo non aveva calpestato quel suolo vergine e immacolato, facendo fuggire gli spiritelli silvani e le ninfe che abitavano le gelide acque sul cui specchio si riflettevano boschi e cime innevate.
Per secoli, il reame aveva vissuto in pace, governato da re e regine saggi e coraggiosi, appartenenti ad una dinastia nobile e antica, caratterizzata da un intelletto fuori dal comune, che il popolo ammirava senza riserve.
 

 
Mycroft Holmes era un ragazzino bruttarello e paffuto, con grandi occhi attenti e profondi, talmente chiari e limpidi da sembrare di ghiaccio.
All’età di dodici anni, il principe ereditario era già il più intelligente e imparziale dei suoi predecessori. Nonostante l’aspetto decisamente poco regale, tutti, inclusi i suoi genitori, erano convinti del suo valore come sovrano e non dubitavano che un giorno avrebbe governato Arendelle con impegno e discernimento.
Sorrideva molto poco, per essere un bambino, e le poche volte in cui lo faceva erano quando trascorreva del tempo con suo fratello minore: un furetto di appena cinque anni, coi riccioli color nocciola e due occhioni curiosi che mostravano sfacciatamente le mille sfumature d’azzurro dell’aurora boreale.
Si divertiva a sgattaiolare in camera di Mycroft in piena notte, indossando solamente una leggera tunica di cotone e portandosi dietro Barbarossa, un cucciolo di setter dal pelo fulvo che il fratello gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno e che non abbandonava nemmeno per un secondo, lasciando che gli trotterellasse dietro ovunque andasse.
Sherlock era l’unica persona con cui Mycroft sembrava divertirsi sul serio, come se, nonostante la differenza d’età, lo ritenesse alla sua altezza, capace di comprendere concetti che la maggior parte delle persone sembrava non cogliere. Da parte sua, Sherlock trattava il principe ereditario come sarebbe stato giusto trattare un qualunque fratello maggiore, ignorando il fatto che spesso apparisse come un adulto altezzoso e disilluso, prigioniero nel corpo di un ragazzino anonimo, goffo e sproporzionato.
Si dilettavano a studiare insieme, a fare esperimenti insoliti e ad indovinare la vita delle persone osservando dettagli apparentemente insignificanti, come la piega dei pantaloni, pelucchi sulla giubba, la cura delle unghie. Lo facevano con i servitori e con i nobili boriosi ed insipidi che frequentavano i balli e le feste a palazzo, per sfuggire la noia della vita di corte.
Ovviamente l’erede al trono era il migliore in quel gioco di deduzioni, ma c’era da tenere in considerazione che il piccolo Sherlock era molto più piccolo e che, una volta cresciuto, la sua spigliatezza gli avrebbe facilmente consentito di superare la mente logica e calcolatrice del fratello.
 

 
Era una fredda notte di dicembre, quando un'onda di colori sgargianti squarciò l’oscurità, illuminando il cielo a giorno, destando Sherlock nel suo letto a baldacchino e costringendolo a sedersi sul materasso.
Si stropicciò pigramente un occhio, sbadigliando sonoramente e ritrovandosi Barbarossa sulle gambe, a leccargli il naso scodinzolando allegramente.
Calciò via la pesante trapunta colorata e balzò sul pavimento in fretta e furia, raggiungendo la porta e sollevandosi sulle punte dei piedi per abbassare la maniglia d’ottone, con il cucciolo che gli girava attorno incuriosito ed eccitato.
Attraversarono i corridoi freddi e tetri dell’Ala Est, Sherlock tremava e si stringeva nella camicia da notte troppo leggera, orientandosi senza la minima difficoltà, facendo scricchiolare le dure assi di legno sotto il tocco leggero dei piedini scalzi.
Superò i ritratti di famiglia, posti in sequenza cronologica sulla carta da parati damascata, in forte contrasto con il parallelo muro di pietra, intervallato da ampie finestre in ferro battuto, incorniciate da pesanti tende di broccato lasciate aperte a far filtrare la luce incantata di quell’aurora inopportuna.
Quando giunse dinnanzi alla porta bianca di suo fratello, non perse tempo a bussare. Aprì senza far rumore e saltellò fino al grande letto di fronte alla finestra, arrampicandosi senza sforzo e scuotendo il corpo massiccio e pesante che vi giaceva, aiutato dalle zampette entusiaste di Barbarossa.
“Mycroft… Mycroft!” gli bisbigliò all’orecchio.
“Sherlock, è notte, torna a dormire” mugugnò suo fratello in risposta, con voce impastata di sonno.
“Ma me l’avevi promesso” si lagnò il più piccolo, lasciandosi cadere di peso su di lui, “guarda, si è svegliato il cielo!”
Il principe tentò debolmente di divincolarsi, sbuffando e sbadigliando, capitolando una volta per tutte quando Barbarossa prese a leccargli il naso prominente.
“Va bene, va bene, basta che mi togli di dosso questo sacco di pulci.”
 
Si infilarono due pesanti cappotti di lana e stivali imbottiti, poi sgattaiolarono all’esterno, seguiti a ruota dal cucciolo fulvo, posizionandosi in silenzio sulla sponda del fiordo.
“Pirati?” domandò Mycroft sfoggiando un furbo sorriso fugace.
“Piratiiii!!!”
Sherlock iniziò a saltellare, completamente fuori di sé per la gioia, imitato ovviamente da Barbarossa che aveva iniziato ad abbaiare a più non posso.
“Fa' la magia, fa' la magia!” lo incoraggiò, senza smettere di esultare.
Fu allora, sotto quel cielo incantato, che il principe Mycroft gesticolò con eleganza, facendo apparire dal nulla dei fiocchi di neve scintillanti che rotearono intorno alle sue mani candide.
Sherlock smise di agitarsi e tacque, spalancando gli occhioni acquamarina e tenendoli fissi sul fratello, vedendolo alzare un dito verso l’onda di luci turchesi che illuminavano quella notte di dicembre, finché una nuvola sottile non si formò sulle loro teste, spolverandole di neve.
Le labbra del piccolo principe tremarono impercettibilmente, quando il maggiore stese un braccio in avanti, ad indicare una piccola porzione d’acqua, che immediatamente si agitò, lasciando emergere per incanto un galeone a misura di bambino completamente fatto di ghiaccio, che rimbalzò sullo specchio dell’acqua, producendo un sonoro “splash" e oscillando da una parte all’altra, fino a stabilizzarsi poco a poco.
Era perfetto, Sherlock lo guardava a bocca aperta, osservando estasiato la polena trasparente e levigata che sfoggiava le fattezze di una bellissima sirena, coi capelli d'acqua che galleggiavano nell’aria ignorando bellamente ogni legge fisica. Lasciò vagare lo sguardo meravigliato sull’albero maestro, circondato da un fumo bianco e denso, che il minore degli Holmes identificò come ghiaccio secco, un composto di cui aveva letto in biblioteca, sfogliando uno dei suoi libri di chimica. Infine notò il timone, simile ad un fiocco di neve che una volta aveva guardato al microscopio, in uno dei tanti esperimenti che faceva insieme a Mycroft.
E fu proprio suo fratello a parlare per primo, materializzando con un gesto lento una scaletta di ghiaccio davanti ai piedi di Sherlock, mentre la neve continuava a cadere leggera su di loro.
“Ti piace?”
“È grandioso! Ancora più bello dell’ultima volta! Grazie fratellone!”
Salì in fretta i gradini scivolosi, scavalcando il freddo parapetto e posizionandosi al timone, osservando con fierezza il fiordo dinnanzi a lui, che rifletteva, intensificandoli, i colori del cielo e le luci delle stelle.
Mycroft lo raggiunse senza dire altro, si sorrisero in quel modo furbo che li caratterizzava entrambi e presero il largo sospinti da una brezza tagliente che si era sollevata quasi per magia.
E forse era magia per davvero. Quella di Mycroft Holmes, che fin dalla più tenera età aveva mostrato di possedere, oltre alla sua inconsueta genialità, dei poteri incredibili, che avevano a che fare con il freddo, la neve ed il ghiaccio.
In effetti era come se dentro di lui custodisse l’inverno stesso, come se avesse l’abilità di controllarlo e potesse giocarci a suo piacimento, lasciando che il gelo trasparisse dai suoi occhi profondi e chiarissimi.
Solamente il re e la regina ne erano a conoscenza. E Sherlock, ovviamente, che trovava tutto molto divertente, come ci si sarebbe aspettato da un normale bimbo della sua età. Nonostante la sua intelligenza avrebbe dovuto instillare in quella sua testolina riccioluta, mille dubbi e domande su quella dote insolita e straordinaria, che suo fratello utilizzava di rado, il più delle volte per farlo divertire, Sherlock la considerava una parte imprescindibile di lui e non si era mai fatto troppi problemi.
Anche stavolta Mycroft era riuscito a farlo felice e sbirciava di sottecchi il largo sorriso incredulo del piccolo pirata Sherlock Holmes, che stringeva il timone con una mano e il corpicino esile di Barbarossa nell’altra, accostandoselo al petto per scaldarlo.
 
Quello che successe dopo, negli anni a venire sarebbe diventato un insieme di immagini confuse e sfocate nella memoria di Sherlock ed un incubo ricorrente nelle gelide notti solitarie di Mycroft, perché in quei poteri c’era bellezza e particolarità, ma anche un terribile pericolo.
Bastò un istante di distrazione, uno sguardo di troppo a quell’aurora boreale tanto attesa, e il cucciolo di setter si divincolò dalle braccia del suo piccolo umano, che, nell’infantile tentativo di riacciuffarlo, spinse il timone con forza, virando senza volerlo, facendo inclinare il piccolo galeone e perdendo l’equilibrio, scivolando sul pavimento di ghiaccio fino a schiantarsi sul parapetto, non riuscendo a tenersi e capovolgendosi fino a cadere in acqua.
Era talmente gelida da trafiggerlo come mille lame, da congelare i suoi pensieri e perfino la sua paura.
E infatti non pensò più a nulla, né a nuotare, né a trattenere il respiro. Andò a fondo, senza sapere che suo fratello si era tuffato subito dopo, perdendo il controllo della sua magia e facendo dissolvere il galeone di ghiaccio senza pensare al povero Barbarossa e facendosi agguantare da un panico e una confusione mentale che non aveva mai conosciuto prima d’allora.
Sherlock non si rese conto delle braccia di Mycroft che lo afferravano, che lo riportavano in superficie e poi a riva.
Non si rese conto di niente, non di essere di nuovo a casa, non del pianto sommesso di suo fratello o delle grida disperate dei suoi genitori, non della neve che aveva iniziato a cadere fitta nel salone dove tutti versavano lacrime sul suo corpicino violaceo e inerme, che presentava tutti i sintomi dell’ipotermia.
Ma Mycroft, nonostante non riuscisse a far cessare quell’insensata nevicata emotiva, era fin troppo lucido per non rendersi conto del suo errore, della leggerezza che poteva costare la vita a suo fratello e che aveva condannato Barbarossa a giacere in eterno sul fondo delle acque fredde e salate di quel fiordo.
“Cosa hai fatto, Mycroft?” aveva urlato la regina, tirandosi i capelli biondi e ansimando fuori controllo, “ti avevamo detto di non usarli, maledizione!”
Il re si rifiutò ostinatamente di guardarlo e non disse una parola, piangendo in silenzio e stringendosi il figlioletto al petto.
 
Ci vollero ore, prima che la neve smise di ricoprire il pavimento di marmo, ore, prima che si sciogliesse del tutto. E ci vollero due mesi, prima che Sherlock si riprendesse almeno un po’, convalescenza al termine della quale non ricordava nemmeno cosa fosse successo, né i poteri di suo fratello, né il povero Barbarossa.
Il medico di corte disse che un’amnesia tanto grave poteva dipendere dallo shock, un’autodifesa messa in atto dalla mente particolare di quel bambino prodigio, che giaceva ancora debole nel letto a baldacchino, sentendo la mancanza di qualcosa di importante, senza sapere cosa fosse, così come quella tristezza che gli gelava le ossa e non lo abbandonava mai.
Chiedeva di suo fratello continuamente, ma non sapeva che i sovrani erano decisi ad impedire che un episodio simile si ripetesse, tenendo il principe ereditario confinato nelle sue stanze, finché non avesse imparato a domare i suoi poteri e a tenerli celati al mondo.
 

 
Passarono giorni silenziosi e tristi, passarono le settimane, i mesi, e Sherlock si riprese del tutto, tornò ai suoi passatempi, ai libri e agli esperimenti, sentendosi sempre privo di qualcosa, a disagio, solo e smarrito.
Sgattaiolava di notte in camera di suo fratello e la trovava chiusa a chiave, bussava in pieno giorno e gli veniva intimato di togliersi dai piedi, senza troppi complimenti.
Era certo d’aver fatto qualcosa di molto brutto, per cui probabilmente si era meritato quel trattamento da parte di suo fratello, ma non riusciva a ricordare cosa fosse, come se ci fosse una chiazza nera nei suoi ricordi, che non gli lasciava vedere il motivo di quel distacco e di quella freddezza.
Nessuno sembrava volerlo aiutare a chiarirsi le idee, i suoi genitori erano spesso in viaggio e gli unici compagni su cui poteva contare erano i grossi tomi di scienze che sfogliava attentamente nella biblioteca del palazzo, dove trascorreva la maggior parte del suo tempo. Non aveva nessuno con cui parlare e confrontarsi, perciò lo faceva con se stesso, o sussurrando ai dipinti e ai busti di marmo che incrociava nei corridoi.
Di tanto in tanto continuava a bussare a quella porta bianca, trovandola sempre chiusa, ricevendo in risposta solo poche parole di diniego, tornando in camera sua con lo sguardo basso e un senso di vuoto che non riusciva a colmare in alcun modo.

 

 

CONTINUA...

 


 

ANGOLINO DELL'AUTRICE 

Buonasera ed eccomi qui con un piccolo esperimento natalizio. Non so, è la prima AU che scrivo ed ero indecisa se dividerla in capitoli o meno. Alla fine ho deciso di farlo, perché se aspettavo di finirla per pubblicare una OS, probabilmente ci avrei rinunciato e così ecco qui la prima parte.

Saranno al massimo tre o quattro capitoli e cercherò di aggiornare il più velocemente possibile, per finirla entro le feste e tornare a dedicarmi alla long.

Spero che un po' vi abbia incuriosito e non disperate per il povero Barbarossa, non sono un'autrice sadica, sappiatelo! ;)

Se vi va di lasciarmi due righe mi fate felice.

Buone feste!

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Nessun uomo è un’isola, men che meno può esserlo un bambino.
Eppure, il piccolo Sherlock Holmes si sentiva esattamente così, un sassolino insignificante, un ciottolo che galleggiava alla deriva.
Aveva l’impressione di essere pieno di un’energia che non riusciva a trattenere, col cuore colmo di sentimenti senza destinatario e la testa satura di pensieri, idee, domande che restavano inespresse, che tormentavano il suo sonno infantile senza mai darli tregua.
Il principe era ignorato da coloro che avrebbero dovuto amarlo, lasciato a se stesso, libero e prigioniero al contempo, perché, quando si lascia un bambino vagare senza guida, ad esplorare una realtà senza sponde, è un po’ come condannarlo all’abbandono più totale.
 
Per contro, l’eccessivo controllo su un giovane come Mycroft Holmes, contribuiva a farlo sentire ancor più colpevole, pericoloso e senza speranza.
Si era convinto di avere sulle spalle un peso che solo lui poteva portare, una condanna a vita, che probabilmente l’avrebbe costretto ad autodistruggersi, prima di nuocere a qualcun altro.
La regina si era fatta carico della sua educazione, dedicandosi risolutamente, per diverse ore al giorno, ad istruire il futuro re nell’autocontrollo e nella gestione dei suoi poteri.
Non erano metodi che parevano funzionare, soprattutto perché si basavano su una sorta di demonizzazione nei confronti del “dono”, ma nessuno, tantomeno il malinconico re, sembrava riuscire a distoglierla da quella assurda crociata.
A Mycroft sembrava tutto estremamente ridicolo e sapeva che l’unica soluzione sarebbe stata tenere le persone alla larga, compreso suo fratello. Soprattutto suo fratello.
Sherlock era quasi morto per colpa sua e di quei ridicoli giochetti magici, il povero Barbarossa non aveva avuto scampo e lui non se lo sarebbe mai perdonato, avrebbe portato quella croce fino alla morte e avrebbe impedito con tutto se stesso che una simile tragedia venisse sfiorata di nuovo.
 
Nessun uomo è un isola, né vorrebbe vivere su di essa, se fosse silenziosa e disabitata. Tale era divenuto il castello di Arendelle, perché la maledizione di Mycroft Holmes sarebbe dovuta restare segreta. E vennero sbarrate le porte, e fu ridotta la servitù, e i poteri del principe restarono estranei a tutti.
 

 
Passarono gli anni, la solitudine non giovò a nessuno, né al giovane Sherlock, che non aveva mai imparato ad interagire con le persone attorno a sé, né al taciturno erede al trono, che trascorreva le sue giornate da recluso, senza uscire dalle sue stanze se non per consumare i pasti e in altre poche occasioni eccezionali, evitando con cura di dare confidenza a chiunque.
Nemmeno da dodicenne, il principe Sherlock si azzardava ad avvicinarglisi, osservando da lontano i cambiamenti di suo fratello, non senza un pizzico di stupore.
Mycroft Holmes, che aveva ormai compiuto diciotto anni, era quasi irriconoscibile, se non fosse stato per quegli occhi glaciali e il naso da rapace. Non c’era traccia del bamboccio paffuto e insignificante che era stato il suo compagno di giochi. Ora, per i corridoi del castello, camminava a passo elegante un giovane alto e slanciato, abbigliato con camicie di batista e panciotti finemente ricamati. Si muoveva silenzioso e schivo, il collo fasciato da fazzoletti in seta color avorio, la stessa che gli ricopriva le mani costantemente guantate.
Ogni singolo abitante del palazzo lo spiava con timore reverenziale, i suoi genitori lo affiancavano quanto più potevano, istruendolo in faccende che Sherlock credeva avessero a che fare con la politica e il governo e che, invece, riguardavano il controllo delle sue straordinarie facoltà.
“Devi domarle, Myc” lo rimproverava la regina, infilandogli un nuovo paio di guanti, più pesanti dei precedenti, “disciplina la tua mente e tieni a bada le emozioni. I guanti ti aiuteranno.”
‘Mycroft’ è il nome che mi hai dato” le rispose un giorno in cui si sentiva particolarmente gelido, molto più del ghiaccio che ricopriva gli angoli della sua stanza, “gradirei che lo usassi per intero.”
Era diventato freddo, il futuro re, sarcastico, di ghiaccio anch’egli, come i suoi occhi impenetrabili.
E quando Sherlock, in una notte d’inverno, fu svegliato dalle luci colorate dell’aurora boreale e senza pensarci si ritrovò di fronte alla familiare porta bianca, per la prima volta si trattenne dal bussare, appoggiandovi la fronte in silenzio e lasciandosi sfuggire un sospiro di sconfitta.
 

 
Neanche una parola per Sherlock, negli anni a venire, uscì dalle sottili labbra del principe ereditario. Non un cenno, non un’alzata di sopracciglia.
I suoi occhi non si posarono mai su quel giovane uomo che ora sembrava non cercare più nulla negli altri, che si era costruito un mondo tutto suo, un castello immaginario in cui era lui a chiudere le porte, a proteggersi, lasciando fuori un mondo che lo ignorava senza pietà, mettendosi al di sopra di esso e guardandolo con finto distacco dalla torre più alta.
 
Il giorno in cui Arendelle entrò in guerra contro le Isole del Sud, Sherlock aveva da poco compiuto diciotto anni e ne dovettero trascorrere quasi altri due, prima che questa cessasse.
Dopo dieci mesi dallo scoppio del conflitto, il re e la regina avevano intrapreso un lungo viaggio per mare, con l’intento di firmare un armistizio che mettesse fine alle ostilità con il nemico, ma la nave su cui si imbarcarono non giunse mai a destinazione, né tornò ad Arendelle.
Ci furono funerali senza defunti, tombe vuote e lacrime di brina. Perché per qualche motivo assurdo, che Sherlock non seppe spiegarsi, la neve era caduta su Arendelle in pieno giugno, posandosi silenziosa sui bianchi gigli ai piedi delle lapidi di pietra e sui riccioli scuri del giovane principe dal volto impassibile.
Fu quel giorno che Sherlock, resosi conto di essere rimasto davvero solo, bussò nuovamente alla porta di suo fratello, senza speranze né aspettative.
“Mycroft” mormorò appoggiando il palmo al legno bianco e accostandovi l’orecchio, “perché oggi non sei venuto al funerale?”
Ma nessuna risposta si udì dall’altra parte.
“Mycroft, apri la porta. Dovrai uscire prima o poi, hai intenzione di regnare standotene chiuso lì dentro?”
“Va’ via, Sherlock.”
Non era la risposta che sperava, ma era pur sempre una reazione, perciò prese un bel respiro e continuò a parlare, stringendosi nella giubba nera e rabbrividendo sempre più forte.
“Siamo rimasti soli… mamma e papà non ci sono più.” si voltò appoggiando le spalle alla porta e lasciandosi scivolare fino a sedersi per terra. “Come ci riesci?” domandò sottovoce, chiudendo gli occhi e piegando la testa all’indietro. “Come fai a restare così freddo, a non provare niente?”
Il silenzio sembrò avvolgere tutto il castello, mentre la neve continuava a cadere fitta fuori dalla finestra. A Sherlock sembrò che qualche fiocco solitario arrivasse ai suoi piedi, come se potesse nevicare fin dentro il palazzo.
Tutte le vite finiscono, fratellino, i cuori vengono spezzati. I sentimenti non sono mai un vantaggio.
Era certamente la frase più lunga che gli avesse rivolto negli ultimi tredici anni e fu anche l’ultima cosa che disse, prima di chiudersi di nuovo in un mutismo che a Sherlock parve impenetrabile.
Quel che il più giovane non sapeva, era che in quel preciso momento, anche Mycroft era seduto a terra, con la schiena premuta contro la porta, perfettamente speculare a lui, la testa sollevata a guardare il soffitto coperto di brina. Osservava distrattamente i cristalli di neve sospesi sulla sua testa, altri che ondeggiavano attorno a lui, la condensa sui vetri delle finestre.
Era inverno tutto attorno a lui, lo era nel suo cuore, ora gelido come un diamante di ghiaccio, e dentro di lui lo sarebbe stato ancora per molti mesi, tempo durante il quale Arendelle rimase sotto la guida del Duca Rudolph Holmes, cugino del re deceduto, giunto dalle terre all’estremo Nord non appena fu convocato, in attesa che il principe ereditario compisse ventisette anni, età in cui, per legge, sarebbe stato incoronato legittimo re di Arendelle.
Nel frattempo, la proposta di armistizio sembrava essere stata accantonata e il Duca si era ritrovato a guidare di persona le armate che combattevano sotto il sole rovente delle Isole del Sud.
Ci vollero otto mesi perché gli avversari riprendessero in considerazione gli accordi di pace, tempo durante il quale entrambi i regni subirono ingenti perdite di vite, inclusa quella del Reggente, due giorni dopo la pace tanto agognata, per una febbre causata dalle ferite infette.
Sherlock non aveva mai amato lo zio Rudy, così lo chiamava, ritenendolo un uomo completamente privo di intelligenza e capacità decisionale, e tuttavia ora si sentiva ingrato, colpevole di averlo sempre schernito, senza contare che la sua perdita era stata l’ennesimo lutto familiare e che ora non gli era rimasto davvero nessun parente, a parte Mycroft.
Ciò che lo rincuorava, oltre alla fine della guerra, era il pensiero della prossima incoronazione di suo fratello, evento durante il quale le porte del castello sarebbero finalmente state aperte, lasciando entrare centinaia di persone, tra le quali Sherlock sperava segretamente di trovare qualcuno che fosse almeno minimamente interessante, di cui dedurre particolari curiosi e una vita lontano da lì che sarebbe stato eccitante immaginare.
 

 
Era una tiepida mattina d’aprile, grosse navi dalle bianche vele spiegate entravano lentamente nel fiordo, coccarde e fiori di mille colori adornavano le vie del paese e la piazza antistante il castello.
La fontana al centro aveva ripreso a zampillare allegramente e i bambini correvano eccitati da una parte all’altra, abbigliati col vestito della festa.
Si respirava aria di pace e di speranza, nessuna circostanza sarebbe stata più adatta per un'incoronazione: tutto, ad Arendelle, sembrava sul punto di mutare, rinascere a vita nuova, così come i boccioli primaverili che coloravano i giardini della reggia, che a minuti sarebbe stata finalmente aperta al pubblico.
 
Sherlock dormiva ancora quando un sottile raggio di sole si intrufolò dalle tende socchiuse, posandosi sul suo zigomo. Si voltò pigramente, scoprendosi fino alla vita e mugugnando con la bocca impastata.
Avevano bussato delicatamente alla porta ma lui non aprì gli occhi, né rispose a quel richiamo.
Aveva preso l’abitudine di dormire senza camicia da notte, perciò ora la luce del sole scivolava languidamente sul suo corpo nudo, candido e perfetto come una distesa di neve, coi suoi riccioli sparsi e abbandonati sul cuscino, scuri e lucenti, come degli stormi di corvi in volo al chiaro del mattino.
Altri colpi alla porta, in rapida successione, ebbero il potere di fargli strizzare le palpebre.
“Altezza? State ancora dormendo?”
“Mmm… ovviamente” brontolò schiacciandosi il cuscino sulla faccia.
“Altezza, dovete prepararvi, è il giorno dell’incoronazione, abbiamo appena aperto le porte.”
Bastarono queste parole per far drizzare Sherlock a sedere, convincendolo a svegliarsi del tutto.
Finalmente le porte di Arendelle erano state aperte, finalmente avrebbe avuto l’occasione di parlare con qualcuno che avrebbe potuto capirlo, anche se solo in parte. Perché dopotutto che senso ha essere intelligenti se non c’è un pubblico?
E lui era così stanco di interagire solo con i libri e con se stesso, con quei personaggi immaginari che abitavano il suo castello mentale, e che in fondo erano pur sempre pezzetti della sua anima.
Perciò si alzò di gran fretta, lasciò che lo agghindassero con l’uniforme di gala, che gli sistemassero i ricci con cura e che gli servissero la colazione nelle sue stanze. Poi percorse a passo svelto i corridoi, trovando individui sconosciuti che passeggiavano con sguardo curioso, osservando i ritratti alle pareti e gli arazzi raffinati che coloravano gli ambienti.
Non aveva aspettato altro per anni, eppure adesso non sapeva cosa fare, né cosa dire, a quelle persone che si inchinavano a lui con profonda reverenza ed un sorriso ammirato.
Gli sembrò quasi che appartenessero ad una razza diversa dalla sua, come se, anche provando a dirgli qualcosa, non sarebbe riuscito a farsi comprendere.
Perciò decise di prendere tempo, di rimandare i rapporti sociali finché non fosse iniziata la festa, ignorando timidamente quella gente e raggiungendo la libreria in fretta e furia. Recuperò in automatico un volume di biologia, deciso ad impiegare le poche ore che mancavano alla cerimonia dedicandosi ad una lettura leggera, ma pochi istanti più tardi qualcuno entrò nella sala, passeggiando tra gli scaffali e fermandosi di tanto in tanto a dare un’occhiata ad alcuni titoli.
Il principe sentì quei passi farsi sempre più vicini, cercando nella sua mente qualcosa di intelligente da dire, se quel visitatore avesse deciso di rivolgergli la parola.
Se ne stette col cuore in gola e le guance bollenti per un tempo che parve lunghissimo, poi non sentì più alcun rumore e pensò che chiunque ci fosse nella libreria oltre a lui, di certo doveva essersene andato, perciò aprì il grosso tomo e si incamminò per raggiungere il lungo tavolo di legno oltre la terza fila di scaffali.
Fu allora che accadde.
Con gli occhi fissi sulle pagine, leggendo parole che non era riuscito a cogliere, non si accorse del giovane uomo immobile dietro il primo scaffale, scontrandosi con lui e pestandogli i piedi goffamente.
“Mi- mi dispiace, io… domando scusa” balbettò con un filo di voce.
“Altezza…” sgranò gli occhi l’altro, raccogliendo il pesante volume di biologia che Sherlock aveva fatto cadere a terra, indietreggiando di un passo e inchinandosi con eleganza, “vi prego, perdonatemi, è stata colpa mia. Non sapevo che foste qui.”
Il principe lo guardò con attenzione, soffermandosi sugli occhi scuri e ipnotici, sulla fronte spaziosa e intelligente, indugiando sulle labbra sottili che trattenevano a malapena un sorriso sghembo.
“Oh… no, no, non sono quel tipo di principe. Se aveste urtato mio fratello Mycroft probabilmente vi avrebbe fatto decapitare, ma per vostra fortuna sono soltanto io.”
Perfino lui si stupì di aver pronunciato così tante parole senza impuntarsi nemmeno su una sillaba, perciò sorrise timidamente e continuò ad osservare il giovane dinnanzi a lui.
Avrà avuto tra i ventitré e i venticinque anni, celibe, di alta estrazione, probabilmente un principe del sud, vista la carnagione leggermente arrossata dal sole.
“Soltanto Voi?” chiese stupito, guardandolo di rimando, con la stessa intensità. “Permettete che mi presenti, sono il Principe James, delle Isole del Sud” disse con solennità, inchinandosi nuovamente.
“Principe Sherlock, di Arendelle” rispose inchinandosi a sua volta, soddisfatto della sua deduzione, per poi stringere la mano guantata che l’altro gli aveva teso.
Si sentì improvvisamente avvampare, il cuore impazzito e la mente in subbuglio. Fu come essersi svegliato da un sonno profondo, come sentirsi di nuovo vivo, umano, parte del mondo.
La strinse delicatamente e indugiò così, guardando James con gli zigomi in fiamme e memorizzando immediatamente ogni particolare del suo volto.
 

 
Mycroft si infilò i guanti con dita tremanti, sforzandosi di respirare a fondo, ripetendo a se stesso che le emozioni erano il nemico e che avrebbe solo dovuto controllarle, come faceva sempre, come gli aveva insegnato sua madre.
E fu esattamente quel che fece durante la celebrazione, recitando la sua parte in maniera impeccabile, tentennando solamente quando gli venne chiesto di sfilarsi i guanti per impugnare lo scettro e il globo d’oro, su cui comparve una sottile brina che si sforzò con tutte le forze di far scomparire.
Era talmente concentrato da non accorgersi di suo fratello, in piedi a pochi metri da lui, che faceva vagare lo sguardo sul pubblico presente nella cattedrale alla ricerca degli occhi neri di James.
Trattenne il respiro mentre il celebrante posava la corona sulla sua testa, pronunciando la formula in latino che segnava l’inizio del suo peggiore incubo. Perché Mycroft avrebbe preferito mille volte finire in esilio sulla Montagna Del Nord, piuttosto che governare un regno che avrebbe potuto distruggere solo alitandoci sopra.
E riprese a respirare solamente quando gli fu consentito di appoggiare nuovamente sul cuscino di velluto gli oggetti che teneva tra le mani, infilandosi i guanti di seta con gesti rapidi e lievemente ansiogeni.
Applausi scroscianti e grida festose inneggiavano al nuovo sovrano, arrivando alle sue orecchie minacciosi come sentenze di morte.

 


CONTINUA...

 


 

ANGOLINO DELL'AUTRICE 

Buonsalve e buon anno nuovo!

Qualche precisazione tecnica. 

Le parti in corsivo sono citazioni della serie, eccetto quella sui capelli di Sherlock, che è tratta da una canzone di Guccini, "Certo non sai".

Rudolph Holmes è davvero lo zio di Sherlock e Mycroft nel canone, pare sia il fratello di Mister Holmes e nella serie viene chiamato zio Rudy.

Ho inventato di sana pianta la legge sull'età del sovrano  perché volevo che Sherlock avesse almeno vent'anni e non volevo alterare la differenza di anni originale.

Ho anche messo su una guerra, per ragioni di trama e poi, vabbè, avrete intuito no? 

Spero vi sia piaciuto anche questo secondo capitolo e sarei felicissima di sapere che ne pensate.

Grazie a tutt* per essere qui e per supportarmi anche in questo piccolo esperimento.

Un ringraziamento speciale ad Emerenziano, lei sa perché. 

A presto

MissAdler

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