Once Upon a December

di Angelica Cicatrice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** C'era una volta... ***
Capitolo 2: *** Il misterioso principe scomparso ***
Capitolo 3: *** Sentieri incrociati ***
Capitolo 4: *** Un viaggio verso la speranza ***
Capitolo 5: *** Prossima fermata verso l'oblio ***
Capitolo 6: *** Un punto in comune ***



Capitolo 1
*** C'era una volta... ***


                                                                           Once Upon a December
                                                                        (fan fiction crossover)
 
                                                                                               1   
                                                                               C'era una volta...

 
La storia che sto per raccontarvi parla di un tempo molto lontano e che forse molti hanno dimenticato. Non c'è da meravigliarsi, dato che stiamo parlando dell'anno 1916, dove si susseguirono eventi che cambiarono per sempre l'esistenza di tante persone. Quindi, tralasciate tutto ciò che vi circonda e che vi è noto dell'epoca odierna, e lasciatevi trasportare verso la lontana Russia, con i suoi palazzi dalle cupole possenti e gli inverni immacolati dalla neve. Ma perché voi possiate capire, dobbiamo fare qualche altro passo indietro, esattamente nel giorno 12 agosto dell'anno 1904. Era una tiepida giornata quando avvenne quello che tutti definirono " un miracolo"; la nascita dell’erede al trono di Russia.

Pv Henri Tristan Louis Belstov

Nel salone c'era un silenzio così devastante che se non fosse stato per il suono dei miei passi sul pavimento lustrato, sarei impazzito dall'ansia. I miei pensieri erano rivolti solo verso la mia amata regina, Selina, che in quel preciso momento stava per dare alla luce il nostro quinto erede. Oh, Signore, speriamo che vada tutto bene! Chissà se questa volta sarà un maschio? Le mie quattro figlie, Olga, Titiana, Maria e Anastasia, erano le mie predilette, e certamente avevano riempito la mia vita di gioia e orgoglio. Ma dovevo ammettere che, a un certo punto sia io che la mia sposa, avevamo tanto desiderato avere nella famiglia anche un maschietto. Dopo la nascita delle nostre amate figlie, molti cortigiani (e probabilmente anche il popolo) avevano messo in giro delle assurde dicerie; che la mia Selina non sarebbe mai stata capace di donarmi un erede maschio che portasse avanti la dinastia dei Belstov. Tutto ciò, ci fece cadere in uno stato sconsolato, specialmente per Selina, che per via del suo animo sensibile, si sentì in colpa per tale situazione.  Ma nonostante il mio forte desiderio, amavo troppo sia lei che le nostre figlie. Non avrei mai ascoltato quelle mali lingue, per quanto potessero irritarmi. In seguito, fui felicissimo quando venni a sapere che avrei avuto un'altra occasione per diventare padre, e non vedevo l'ora che arrivasse quel giorno. E se nel caso fosse nata un'altra femmina, avrei accettato e amato quell'esserino che faceva parte di me e della mia amata regina. L'unica cosa che mi preoccupava erano le avvertenze dei medici di corte; dopo quattro gravidanze, un altro parto sarebbe stato alquanto rischioso e la salute, se non perfino la vita stessa, della madre poteva venire compromessa. Ma Selina non aveva mai avuto ripensamenti, ed era pronta a qualsiasi cosa pur di dare alla luce quella creatura. Quei pensieri furono scossi dal rumore della porta che si apriva. Voltandomi, vidi entrare madamigella Porzia, la dama di compagnia di mia moglie, con il respiro affannato e gli occhi che traboccavano di una strana luce.
- Vostra Maestà! Vostra moglie... - cominciò a parlare la dama e l'ansia crebbe di botto.
- Sta bene? Ti prego, dimmi che ha superato il parto! - chiesi, con il cuore che mi batteva in petto.
Porzia riuscì a calmare l'agitazione e con un mezzo sorriso mi rispose:
- La regina sta benissimo, mio signore. E anche il bambino -.
Quella notizia mi rassicurò, mentre un'altra domanda si faceva largo nella mia mente.
- E' un maschio? -.
Appena la damigella mi diede conferma, una forte euforia offuscò ogni cosa dei miei sensi, e senza badare ad altro, mi fiondai fuori dalla porta. Porzia stava cercando di dirmi altro, ma non potevo esitare ancora, poiché la mia voglia di raggiungere la mia sposa e il mio piccolo era troppa da contenere. Corsi più veloce del vento e arrivai nella stanza reale, dove nel letto giaceva la mia Selina, con i capelli corvini sparsi sul cuscino e la pelle ambrata imperlata di sudore. Il suo viso si illuminò appena mi vide, e solo allora mi accorsi che tra le sue braccia c'era un fagottino avvolto in un telo di lino bianco. Ero così preso da quella situazione che non mi ero ancora accorto della presenza del dottore che aveva assistito mia moglie. Anche lui sembrava contento per il lieto evento, ma proprio come Porzia sembrava che avesse una strana titubanza.
- Vostra Maestà finalmente siete stati benedetti da un maschio - cominciò a dire il medico, ma non gli diedi nemmeno il tempo di aggiungere altro che gli chiesi cortesemente di uscire dalla stanza. Volevo godermi quel momento così speciale solo con le persone a me tanto care. Una volta che il dottore, accompagnato da un certo improvviso timore, si chiuse la porta alle spalle, mi precipitai accanto alla mia sposa che mi aspettava. La bacia teneramente e le mostrai tutta la mia devozione nei suoi riguardi. Aveva superato una grande prova e io non potevo che essere più fiero di lei, nonché sollevato di vederla viva e sana. I suoi occhi scuri si specchiarono nei miei e con voce dolce mi disse:
- Questo è nostro figlio. Il dono più bello che potessimo mai avere -.
Fu in quel momento che Selina mi porse il piccolo tra le braccia e nuovamente il mio cuore cominciò a galoppare per l'emozione. Quel corpicino era così minuto e fragile, che quasi non ne percepivo il peso. Ma mai avrei immaginato che quello splendido dono nascondesse un dettaglio che avrebbe segnato la vita del mio tanto desiderato erede. Scostando i lembi del telo, lo vidi e solo allora compresi il motivo di quella lieve esitazione da parte della dama e del dottore. Il mio unico figlio maschio non era esattamente come lo avevo immaginato. Il suo visino, dalla carnagione rosea, era deturpato da una malformazione, che si concentrava su un lato della testa e del volto. Inoltre, mi accorsi che la sua schiena era ricurva, e non per la naturale posizione che assumono i neonati, ma era per via della stessa spina dorsale che aveva mantenuto quella forma. In quel momento, il mio animo fu scosso da emozioni contrastanti: ero così felice della nascita del mio figlioletto, ma al tempo stesso avvertivo un gran dolore che mi tormentava. Il mio dispiacere non era dettato dall'aspetto deforme del piccolo, assolutamente. Ma temevo per il suo futuro, e se il resto del mondo lo avrebbe accettato e amato come ben meritasse. Il mondo sapeva essere davvero crudele con chi era considerato " diverso". Ma più guardavo quel piccino, carne della mia carne, più mi convincevo che se fossi stato il primo a dimostrare il mio affetto, e a insegnargli ad avere fiducia in se stesso, allora anche gli altri lo avrebbero visto con altri occhi, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze.
- Henri?... - fece la mia regina, mentre osservava preoccupata la mia reazione.
Quando tornai a guardarla, le donai un sorriso e stringendo delicatamente a me il frutto del nostro amore, dissi:
- Mia adorata, mi hai reso l'uomo più fortunato del mondo. Non importa quanto possa sembrare diverso, lo ameremo con tutto il nostro cuore e un giorno sarà un degno sovrano, ammirato e rispettato da tutti-. Detto ciò, mia moglie si lasciò andare e una lacrima le scese dagli occhi, per poi appoggiare il capo sulla mia spalla. Restammo per un po’ in quella posa, mentre ammiravamo il piccolo che già faceva i suoi primi movimenti. Appena nato ed era già così in ansia di affrontare il mondo. Sentivo in me già l'orgoglio paterno crescere per quella forza di volontà.
- Come lo chiameremo? - mi chiese poi lei, e in quel momento non ebbi dubbi a tal proposito.
- Che ne dici di Kvazimodo Aleksandr Sht'yen? - le chiesi. Era un nome un po’ insolito, ma io lo trovavo perfetto. Si distingueva da tutti gli altri e aveva un suono così particolare.
- Così sia - disse la mia sposa, e mentre il piccolo apriva il suo primo sbadiglio, i nostri cuori si colmarono di gioia e d'amore.
 
Russia 1910
 
Era una splendida domenica di primavera, e sulla tovaglia c'erano ancora i pasticcini e le focacce che il cuoco aveva preparato per noi. Era diventata una vera e propria abitudine organizzare un pic nic sull'erba, nei pressi del lago cristallino. I bambini adoravano quel boschetto, con gli alberi carichi di frutti, i cespugli in fiore e l'aria fresca che profumava di muschio. Come al solito, Anastasia, la più piccola delle mie figlie femmine, faceva qualche scherzo alle sue sorelle maggiori.
- Titiana, attenta alla tua focaccia, c'è un'ape che ti ronza intorno! -.
- Dove?! Dove?! -.
Tutti scoppiammo a ridere, mentre la mia povera figliola si guardava intorno, alquanto spaventata. Gli insetti, come api, calabroni e ragni, erano il punto debole della mia secondogenita.
- Sei sempre la solita, Anastasia! - protestò Titiana, un po’ seccata.
- Suvvia, Tiana, lo sai che a lei piace farci i dispetti - intervenne Olga, la mia figlia più grande.
Anastasia era il tornado della famiglia, così vivace e allegra, in pieno contrasto con le sue sorelle così pacate.
- Non sarebbe un più nic così bello se non fosse per la nostra Anastasia, vero Kvazi? - fece mia moglie, coccolando la testolina del nostro piccino.
Erano passati 6 anni, e Kvazimodo era già un ometto pieno di energie e vitalità. I suoi occhioni erano di un bel verde che ricordava il colore dei prati primaverili. Proprio come le sue sorelle, aveva i capelli rossi, ma di un tono più vivo e acceso sotto i raggi del sole. Nonostante la deformità del volto, aveva una dolcezza nei tratti che lo rendevano bellissimo. Le sue sorelle lo adoravano perché era il piccolo della famiglia. A volte, avevo la sensazione che lo viziassero un po’.
- Mi piacciono gli scherzi di Ana - disse all'improvviso il piccolo Kyazi, con la vocina dolce e chiara. A differenza delle sorelle maggiori, il nostro piccolo adorava così tanto i "giochi" di Anastasia, che molte volte la incoraggiava a qualche nuovo trucco da fargli vedere. Loro due, avevano un'intesa davvero particolare, e si trattavano come migliori amici, e non solo come fratelli.
- Allora, vieni, andiamo a cercare girini nel laghetto, Kvazi! - disse Anastasia, invitando il piccolo a seguirla.
- Vengo anche io! - esultò Maria, la mia terza figlia. Tra loro era la più moderata, ma quando si trattava di giocare insieme voleva sempre partecipare. In quel momento, Kvazi alzò la testolina dal grembo di Selina e le chiese il permesso di andare con le sorelle al lago. Era molto legato alla madre, e quando non c'erano giochi da fare era sempre accanto a lei. La mia regina annuì con la testa e lasciò che il piccolo si congiungesse con Anastasia e Maria, che lo presero per mano. Infine, anche Olga e Titiana si alzarono dalla tovaglia, per raggiungere gli altri al lago. Erano molto protettive nei confronti dei più piccoli, specialmente nei confronti di Kvazi. Forse, per via della sua condizione, le mie figlie maggiori avevano sviluppato fin dai primi giorni un senso di protezione verso di lui. Questo atteggiamento mi colmò di orgoglio e di felicità, perché ero certo che le mie figlie avessero accettato completamente Kvazi e proprio come avevo sperato, lo avevano amato fin dal primo momento in cui lo avevano visto.
- Assomiglia tutto a suo padre - disse con un tono ironico, la mia sposa. Quando i nostri sguardi si incrociarono, le donai un caldo bacio sulle labbra. Per due regnanti che erano stati scelti dalle rispettive famiglie per combinare un matrimonio, eravamo stati davvero fortunati. Io e Selina ci eravamo conosciuti al solito ballo mondano, quando eravamo ancora due adolescenti. A quei tempi non sapevo cosa aspettarmi sulla mia promessa sposa, ma quando ci trovammo a danzare per la prima volta, tutto fu chiaro per entrambi. Ci innamorammo in poco tempo e allora quell'unione non ci fu tanto forzata. Poi man mano arrivarono le nostre figlie, e quel legame divenne sempre più forte, e così lo è stato anche con la nascita di Kvazi. Mentre ripercorrevo quei ricordi lontani, osservavo il mio piccolino che giocava con le sorelle, tutto allegro e pimpante.
- Sei preoccupato per lui? - mi chiese poi Selina, notando il mio sguardo rivolto verso il piccino.
- Un po’. Ma come non potrei esserlo, mia cara? - le risposi, con una leggera nota triste nella voce - Guardalo, è così innocente, dall'animo puro, ancora così piccolo e ignaro delle responsabilità che avrà in futuro. Ciò che mi preoccupa davvero, sono le prove che dovrà affrontare e mi chiedo se riuscirò a dargli tutto il coraggio e la forza necessari -. Dopo aver liberato un sospiro amaro, la mia sposa strinse le mie mani con gran calore, per consolarmi e donarmi coraggio.
- Non parlare così. Sono certa che grazie a te, col tuo affetto, riuscirai a guidare Kvazi nel modo giusto. Sei un padre straordinario, e come hai dato il buon esempio alle nostre figlie, farai lo stesso col nostro prediletto -.
Quelle parole, per quanto semplici, mi diedero un po’ di sollievo e mi fecero dimenticare quello stato di ansia. Selina mi donò un sorriso rassicurante e aggiunse:
- Kvazimodo diventerà un buon sovrano, perché proprio grazie ai valori che gli insegneremo, come accettare tutti a prescindere dall'aspetto, regnerà col cuore e porterà il benessere che la nostra Russia ha davvero bisogno -.
Ero sul punto di rispondere quando avvertì le vocine acute e allegre dei miei figli, che si stavano avvicinando.
- Madre! Padre! Kvazi ha trovato un piccolo pulcino! - gridò Maria, tutta eccitata.
- A dire il vero, è un cucciolo di piccione. Deve essere caduto da qualche nido - spiegò Olga, e insieme a Titiana stavano accompagnano i tre fratelli verso di noi. Incuriositi, io e la mia consorte aspettammo con pazienza che il nostro figlioletto si avvicinasse, con le manine chiuse.
- Possiamo portarlo a casa? E' ferito - disse con una vocina dolce il piccolo Kvazi. Quando ci mostrò quel piccolo uccellino, spaventato e indifeso, rimasi sbalordito da quel gesto così genuino. Gli occhi, di quel verde speranza, che supplicavano di dare soccorso a quell'esserino, mi fecero commuovere nell'animo.      La mia regina aveva ragione. Kvazi sarebbe diventato uno zar migliore di chiunque altro. Anche del sottoscritto...Allargando le braccia, accolsi il mio piccolo con un sorriso e gli diedi il tanto sperato consenso. Kvazi esultò dalla gioia e insieme a lui si unirono anche Ana e Maria, mentre Titiana e Olga sorrisero contente e divertite mentre si godevano quella scenetta di pura armonia.
 
Russia 1916
 
Quell'anno non potrò mai dimenticarlo. Non solo perché si sarebbe celebrato il 300tesimo anniversario del regno dei Belstov, ma anche perché Kvazimodo avrebbe partecipato per la prima volta a un evento mondano molto importante. Ci stavamo avvicinando al giorno fatidico, e sia io che la mia Selina eravamo molto emozionati. Ormai il nostro erede non era più un bambino, ma un fanciullo di 12 anni, e sebbene fosse ancora po’ presto per farlo partecipare agli eventi mondani, la sua intelligenza e i suoi modi spontanei ci avevano convinto a prendere quella decisione. Kvazi era riuscito a farsi voler bene da tutti gli altri membri della famiglia, come cugini e zie, e perfino lo staff della servitù era rimasta conquistata dai suo carattere gentile e tenero. Desideravo che anche il resto del mondo, a incominciare dai nobili della mia corte e di paesi vicini, conoscessero di persona il mio piccolo principe. Inoltre una festa era proprio quello che ci voleva, per distrarre le menti e gli animi della mia famiglia, in un periodo così difficile. Nonostante si fosse avviata una rivoluzione industriale, dove l'ingegno dell'uomo stava portando grandi benefici, il popolo rimaneva impoverito e quindi insoddisfatto. Le ferrovie erano a disposizione per tutti, la canna da zucchero e il grano abbondavano permettendo anche a una vera crescita delle esportazioni. Eppure, c'era qualcosa che non andava. Ma quando arrivò finalmente il giorno della grande festa, nel palazzo e nei dintorni si respirava un'aria giocosa e piena di allegria. Per un attimo mi sembrò che tutte le preoccupazioni si fossero dileguate. Faceva molto freddo, e la neve era candida sulle maestose cupole dei palazzi.
- Padre! -.
Udì quella voce frizzante al mio orecchio, e quando mi voltai ricevetti una palla di neve dritta sulla testa. Rimasi scombussolato per un secondo, poi risi divertito. Un bambino di dodici anni, coperto interamente dalla testa ai piedi con vestiti caldi, rideva e stava già preparando una nuova palla nevosa. Quel gesto per me era proprio un invito a nozze, e compiaciuto accettai la sfida. Raccolsi un po’ di neve e la plasmai per farne una sfera compatta.
- Soldati, alle armi! Puntate, fuoco! - urlai, alzando il braccio in aria, per poi lanciare la palla di neve verso il mio avversario. Il bambino, il mio Kazi, cercò di deviarla, ma si mosse troppo tardi e allora il colpo gli arrivò addosso, facendogli volare via il berretto di pelliccia.
- Colpito! - gridai entusiasta, e corsi verso di lui per soccorrerlo. Ma guardatelo, sembrava già pronto per diventare già un soldato valoroso. Quando lo sollevai da terra, lui mi abbraccio calorosamente e mi donò un dolce sguardo.
- La prossima volta vincerò io - disse, con tono fiero. Come risposta gli passai una mano tra i capelli rossi, spettinandoli un po’. Stava crescendo in fretta, e ad ogni anno mi rendevo conto di quanto mi assomigliasse. O meglio, quanto assomigliasse al me stesso da fanciullo.
- Avanti, mio piccolo cadetto, torniamo dentro, dobbiamo prepararci per il grande evento di stasera -.
Quando gli invitati stavano cominciando ad arrivare, ero a poco uscito dalla mia camera, con Selina sottobraccio. Avevamo indossato i nostri abiti regali, e lei era meravigliosa e leggiadra. Le nostre quattro figlie ci raggiunsero nel salone principale, dove tutti i membri della nobiltà si stavano riunendo. Olga e Titiana, come al solito, avevano lo stesso vestito e la stessa acconciatura. Lo stesso valeva per le più piccole, Maria e Anastasia, entrambe con i loro vestiti eleganti e i fiocchi tra i capelli. Era un'abitudine nata dal desiderio di mia moglie. Mancava all'appello solo Kvazi.
- Vostra Maestà, non riusciamo a trovare il principino. Nella sua stanza non c'è - mi informò il valletto di corte, che faceva anche da servo personale di Kvazi.
Una forte preoccupazione mi fece agitare, e dopo aver assicurato mia moglie, mi allontanai dal salone in cerca di mio figlio. Dov'era finito? Cercai di non spaventarmi e dissi a me stesso, che nonostante tutto Kvazimodo era un ragazzino in gamba. Era già in grado i badare a se stesso. Mi stavo dirigendo verso i corridoi che portavano alle cucine. Kvazi aveva l'abitudine di andare qualche volta lì, per farsi dare in anticipo un dolcetto o qualcosa di suo gradimento. Appena girai l'angolo lo trovai finalmente. Era pronto per la festa, con gli abiti nuovi che io stesso avevo scelto per lui. Con un sospiro di sollievo, mi affrettai a raggiungerlo. Ero così concentrato su di lui, che non avevo notato che non era solo. Infatti, in sua compagnia c'era una bambinetta dai capelli neri e dalla pelle ambrata. Probabilmente la figlia di uno dei miei camerieri o del cuoco, ma non ci badai più di tanto.
- Birbante, cosa stai facendo? Ti stanno aspettando tutti - lo ammonì e lui mi fece una smorfia, tra il dispiacere e la burla.
- Scusa, papà. Volevo far vedere il mio nuovo abito a. - cominciò a dire Kvazi, ma non ebbi il tempo delle sue giustificazioni. Dovevamo muoverci.
- Va bene, a più tardi le spiegazioni. Ora andiamo -.
Mentre trascinavo mio figlio a passo svelto, ebbi giusto il tempo di udire la voce di un ragazzo, alle mie spalle:
- Esmeralda! Torna in cucina! -.
Il ballo era da poco incominciato. Il piccolo Kvazi, con un po’ di timidezza, si era presentato a molti nobili, come conti e duchesse. Rimasi accanto a lui per tutto il tempo, per fargli sentire la mia presenza e dargli coraggio.
- Sono Kvazimodo Aleksandr Sht'yen Belstov - diceva ad ogni rispettabile ospite, con la sua vocina chiara e irresistibile. Avevo temuto fin troppo quel momento, ma con mia grande gioia potei constatare che gli ospiti erano rimasti inteneriti e affascinati dal piccolo principe. Chi più e chi meno, aveva dimostrato interesse e cordialità, e questo mi diede un profondo sollievo. Poi, dopo aver ballato come un ometto galante con le sue sorelle Maria e Anastasia, presi la mano di mio figlio e lo feci accomodare vicino a me. Avevo un regalo speciale per lui, per quell'occasione così importante. Forse era un premio per il coraggio che aveva dimostrato in quella serata, ma in realtà era un pegno d'affetto da parte mia. Gli mostrai un carillon fatto d'oro zecchino, impreziosito da diamanti e smeraldi. Kazi rimase a bocca aperta. I suoi occhioni verdi si spalancarono, e i tratti deformi del viso si estesero.
- Ti piace? L'ho fatto costruire apposta per te -.
Mentre lo invitavo a maneggiare con cura quel dono, presi un ciondolo di forma rotonda, e lo usai per caricare il carillon, tramite una piccola fessura. Venne la parte bella del regalo. Il cofanetto si aprì e uscì fuori la scultura di un piccolo volatile, un piccione per l'esattezza. Da quando era bambino, Kvazi aveva scoperto un debole per le creature alate. Forse proprio da quel giorno, durante il pic nic, dopo aver soccorso quel piccolo uccellino. In seguito, aveva preso l'abitudine di avere come animali da compagnia pettirossi, colombi e passeri. Ma i piccioni rimanevano i suoi preferiti.
- Che bello! - esultò tutto contento - E questa musica. E ‘la nostra ninna nanna! -.
La melodia che proveniva dal carillon era una canzone che mi cantava sempre mia madre, e che avevo fatto conoscere ai miei figli.
- Questa dolce melodia è il ricordo di sempre. Tu con me, amor mio, quando viene Dicembre - canticchiammo insieme, come due anime in una sola.
Poi, attirai nuovamente la sua attenzione, mostrandogli il ciondolo. Sopra c'era scritto qualcosa. "Insieme a Parigi". Era un messaggio chiaro e profondo. In passato, avevo spesso raccontato a mio figlio della bella Parigi, e lui si era immaginato tutto, compreso la cattedrale di Notre Dame e la Torre Eiffel. Mi aveva pregato, nell'ultimo periodo, di portarlo con me e fargli conoscere quella splendida nazione, dove vivevano anche dei nostri parenti. Con quel dono gli avevo appena anticipato che avrei mantenuto la promessa.
- Oh, papà caro! Grazie! - disse urlando dalla gioia e gettandomi le braccine al collo. Tutto sembrava così perfetto, quella sera. Ma i nostri momenti spensierati furono spezzati da un'ombra oscura. Un essere ripugnate si era introdotto nel bel mezzo della festa. Si chiamava Klod Frollo. Qualche anno fa era stato il mio consigliere più fidato, un uomo colto e di buon giudizio. Ma solo nell'ultimo periodo avevamo scoperto che non era altro che un impostore, un uomo consumato dalla smania di potere. Per giunta, era anche colpa sua se molte cose nel paese stavano andando di male in peggio. Lo avevo così cacciato dalla corte. Era troppo pericoloso per rimanere a contatto con la mia famiglia.
- Come osi presentarti a palazzo? - lo fronteggiai con tono duro. Klod, fece svolazzare la sua veste nera e scoprendo il capo dal cappuccio, fece un’espressione di finta sottomissione.
- Ma come, Vostra Maestà. Io sono pur sempre il vostro consigliere - disse, con voce ammaliante. Ma io non avevo alcuna intensione di cadere nei suoi tranelli.
- Consigliere?! Tu sei solo un traditore! Fuori dal mio regno! - tuonai con voce rabbiosa, sperando di poterlo allontanare per sempre. Ma l'uomo in nero, invece di intimorirsi, fece un passo in avanti e fece agitare una mano nella mia direzione.
- Tu credi davvero di poter bandire Klod Frollo? Sono io che bandisco te! E ti maledico! -.
La voce di Klod riecheggiò per tutta la sala, e lo sgomento generale si fece sentire tra i miei ospiti.
- Ascoltami bene. Tu e tutta la tua famiglia morirete entro 15 giorni! - affermò Frollo, e i miei occhi si spostarono sui miei cari, spaventati più che mai.
- Io non mi darò pace finché non vedrò la stirpe dei Belstov estinta per sempre -.
Da quella sera, molte cose cambiarono, in negativo. Una furiosa guerra mondiale devastò paesi e nazioni, coinvolgendo così anche la mia amata Russia. Inoltre, anche nel mio regno le cose peggiorarono. La lieve insoddisfazione del nostro popolo crebbe a dismisura, fino a trasformarsi in una devastante rivolta che avrebbe distrutto la nostra dinastia. Fu una notte terribile, quando i rivoluzionari saccheggiarono il palazzo, distruggendo tutto ciò che trovavano lungo il cammino. Selina stava portando via le nostre figlie, in mezzo alla folle confusione, dato che molti nobili e la servitù stava scappano per mettersi in salvo.
- Il mio carillon! - sentì gridare Kvazi, e lo vidi tornare indietro verso le stanze reali.
- Torna qui! - gli gridai mentre lo inseguivo. La paura e l'angoscia mi stavano attanagliano l'animo, e l'unica cosa che volevo era potare via mio figlio da quell'inferno. Appena lo raggiunsi nella sua stanza ebbi il tempo di avvertire un chiasso assordante. Una bomba era scoppiata, forse nel piano inferiore del palazzo. Era il segnale che ormai i rivoltosi ero riusciti a penetrarvi.
- Vi prego, venite! - disse una voce femminile, e delle piccole braccia esili mi tirarono per un braccio. Voltandomi scoprì che si trattava di quella fanciulla, dai capelli corvini e dalla pelle ambrata.
- Da questa parte, negli alloggi della servitù! - ci guidò la ragazzina, e fidandomi spronai Kvazi a seguirmi. Ma nella fretta, doveva essergli caduto il carillon da qualche parte, perché lo sentì temporeggiare vicino alla ragazzina.
- Il mio carillon! -.
Se non fosse stato per la prontezza di quella piccola servetta, che ci nascose dietro alla parete, un passaggio segreto, di lì a poco saremo stati scoperti e catturati. Grazie a ciò, io e mio figlio riuscimmo a uscire dal palazzo senza problemi. Mentre ci lasciavamo alle spalle il palazzo, un pensiero fulmineo mi devastò la coscienza e il cuore. Selina, figlie mie...mi chiedevo se erano riuscite a salvarsi in qualche modo, oppure... Con i cappotti e i berretti che ci nascondevano da occhi indiscreti, arrivammo finalmente alla ferrovia. Il treno stava per partire e dovevamo assolutamente prenderlo e ci avrebbe condotti lontano dalle terre russe. Ma poi, una voce che si alzò nel baccano generale, mi fece gelare il sangue.
- Fermateli! Sono lo zar e il granduca suo figlio! Stanno scappando! -.
Avevo riconosciuto quella voce. Maledetto Klod Frollo! Aveva guidato lui stesso la rivolta, mettendoci contro l'intera popolazione e spingendoli a quella strage. Senza perdere tempo, afferrai Kvazi e corsi il più veloce possibile. In mezzo a tutta quella folla, riuscimmo a seminare Frollo e i soldati, ma una nuova ansia si manifestò. Il fischio del treno si fece sentire, e capì che stava partendo proprio in quel momento.
- Presto, Kvazi. Corri! - dissi incalzando mio figlio. Era sicuramente stanco e avvilito, lo sentivo. Ma mancava ancora poco e potevamo ritenerci salvi.
Con uno sforzo riuscì a salire sul treno in movimento, e quando ero sul punto di far salire anche mio figlio, il treno cominciò a viaggiare più velocemente.
- Padre! - mi richiamò Kvazi, e mi sporsi il più possibile per afferrare la sua mano. Per un attimo ci tenemmo stretti e i nostri sguardi si incatenarono, disperati e spaventati.
- Tieniti forte, puoi farcela Kvazi! - gli gridai, mentre il treno prendeva sempre più velocità.
- Non mi lasciare! -.
Quelle disperate e dolci parole, mi scossero nel cuore. Per un attimo mi sembrò di vedere in quei tratti i volti delle mie adorate figlie, in quella tenerezza e devozione la mia amata sposa. No, non potevo perdere anche lui! Ma il mio timore divenne realtà nel momento in cui le nostre mani si divisero.
- Kvazimodo! - urlai, impotente, mentre vedevo mio figlio perdere l'equilibrio e cascare per terra come un sacco di patate.
- Kvazimodo! -.
 
Quella notte furono distrutte molte vite. Non mi importava nulla del mio titolo da zar, del potere sottratto, o l'orgoglio ferito. In fondo, non avevo mai desiderato di diventare sovrano, non ne ero capace. Ma perdere le persone che avevano dato un senso alla mia esistenza, anche se difficile, era peggio della stessa morte. La mia Selina, le mie figliole, e soprattutto, Kvazimodo, il mio adorato figlio. E da quel momento non l'ho mai più visto.
 
Angolo dell'autrice:
Bonsoir, miei cari! Eccomi di ritorno con una nuova storia, e come avevo annunciato nel capitolo extra della fanfic - Se ci fosse qualcuno come me -, questa è un crossover, con l'ambientazione e la trama del film Anastasia, con i personaggi del gobbo di Notre Dame. Questa è stata una vera e propria richiesta da parte della mia amica e sostenitrice Dreamereby (che d'altronde sta scrivendo altre due storie molto carine, vi consiglio di darci un'occhiata <3). Qui, come primo capitolo, mi sono soffermata a scrivere alcune scene che nel film Anastasia non si vedono, ma penso che sia azzeccata come scelta, per far vedere almeno qualche ricordo in più sul protagonista. Ah, importante, per ovvie ragioni, i nomi dei personaggi sono stati modificati, dal francese al russo (con l'eccezione di Esmeralda perché lei comunque rimane originaria della Spagna). Invece della nonna, sempre per volere di D., c'è il padre di Quasimodo, che ci ha presentato l'inizio della storia. Inoltre, il cattivone di turno, che sostituisce Rasputin, è ovviamente Frollo, e qui è un consigliere dello zar. Non so, direi che come storia modificata, con questi personaggi, non è malaccio, che ne pensate? Aspettatevi di vedere di più nei prossimi capitoli, che non sarò proprio un copia e incolla del cartone, ve lo assicuro ^^ Allora, alla prossima <3   

 

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Capitolo 2
*** Il misterioso principe scomparso ***


 
                                                                                                               2
 
                                                                           Il misterioso principe perduto

 
Dieci anni dopo. Russia 1926. Molte cose erano cambiate da quella terribile notte. Dalla caduta del potere zarista, ci fu una vera e propria vittoria bolscevica, fino alla nascita della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Nell'aria fredda di Gennaio, i popolani avvertivano ancora l'eccitazione della vittoria della guerra civile, finita giusto qualche anno fa. Gli orgogliosi rivoluzionari, nonostante le incertezze e la situazione poco fiorente, si sentivano come i nuovi padroni di tutto il paese. Forse era dovuto al nuovo governo comunista ideato da Lenin (ripreso poi dal suo successore Stalin), che con le sue idee anarchiche e liberiane, aveva conquistato la fiducia dei poveri contadini, ormai ridotti alla fame. La Russia era proprio in un periodo di trasformazione politica e sociale. Ma come si dice spesso, non tutto è oro ciò che luccica. O forse sì. Quando si tratta di denaro come non si può non apprezzarlo? Lo pensava quel gruppo di persone, giù in piazza, a San Pietroburgo, mentre con un passaparola si diffondeva la notizia più succulenta del secolo.
- Hai sentito l'ultima? - fece un operaio pieno di euforia, avvicinandosi a un gruppetto di colleghi.
- Altre notizie dai piani alti? -.
- Stalin si è deciso a risolvere la nostra situazione? -.
- Di questo passo avremo sempre meno grano, e più morti -.
In pochi istanti, quel gruppetto si accumulò e circondò il nuovo arrivato, dove ognuno disse la sua. Quei bisbiglii avevano attirato anche l'attenzione di un uomo alto, dal viso spigoloso, e dagli occhi color pece che mostravano curiosità. Senza farsi notare, il tizio allungò la testa e il suo orecchio riuscì a captare queste parole sconnesse:
- L'ex zar...il figlio scomparso...una grande ricompensa...-.
Anche se sembravano parole senza senso, gli occhi dell'uomo che stava origliando brillarono dall'emozione, comprendendo all'istante quella misteriosa notizia. In realtà, era una voce che si era fatta strada già da qualche tempo. Il sovrano Henri, ormai in esilio da tanti anni a Parigi, era alla disperata ricerca del suo figlioletto, il principe Kvazimodo. Per alcuni, come i nuovi rivoluzionari, quella era una notizia scomoda, specialmente se si trattava dell'erede legittimo al trono di Russia. Ma per altri significava solo una grande occasione per arricchirsi. Infatti, come aveva decretato lo stesso Henri, chi fosse riuscito a trovare il principe e portato al suo cospetto, avrebbe ricevuto come ricompensa una grande fortuna in denaro. Buono a sapersi! Bisognava solo trovare vivo e vegeto il principe Kvazimodo. Più facile a dirsi che a farsi. Ma che fosse vivo o morto questo non importava. O almeno era ciò che pensava lo stesso Clopin Trouillefou, l'uomo dagli occhi color pece e dalla pelle insolitamente ambrata. Forse un po’ troppo per un abitante della fredda Russia, dove il sole rimaneva tiepido anche nelle giornate in piena estate. Clopin, coperto dal suo cappotto di cotone pesante, cercava di farsi largo tra la folla. Le vie si erano inaspettatamente riempite, con gente che andava e veniva. Sapeva benissimo cosa stava accadendo, e doveva muoversi. Dopo aver superato alcuni vicoli, l'uomo arrivò nei pressi di un piccolo quartiere, dove in uno spazio era stato messo su un mercatino di roba antica.
- Clopin! Eccoti! - disse una voce femminile, con tono basso ma chiaro. L'uomo si voltò e vide una giovane donna che doveva avere più o meno vent’anni. I suoi capelli e la sua pelle avevano lo stesso colore di quelli di Clopin, con l'unica differenza degli occhi. Erano infatti di un meraviglioso verde smeraldo, cosi lucenti che sembravano due gemme incastonate sul viso ovale e levigato come fosse ceramica. Clopin la riconobbe all'istante e volgendole un sorriso si avvicinò.
- Finalmente ti ho trovata! - disse lui, tutto euforico. Ma prima che l'uomo potesse aggiungere altro, la ragazza gli fece segno di tacere, e con gli occhi che le brillavano, come se celassero un grande segreto, disse:
- Andiamo...abbiamo molte cose da fare...-.
Detto ciò, i due si avviarono insieme verso il centro del quartiere, ignorando le bancarelle e tutta la merce esposta. Da quando la rivoluzione di ottobre aveva fatto il suo dovere, molti furboni avevano approfittato della situazione per intrufolarsi nei magazzini dove erano stati ammucchiati tutti gli oggetti personali della famiglia Belstov. C'era un po’ di tutto, dalle vestaglie da notte, ai servizi da tavola. Molti dei venditori erano zingari, alcuni di origine spagnola e francese. Quel commercio clandestino doveva rimanere lontano dagli occhi dei più potenti, e per tale motivo tutto avveniva in gran segreto. Ma dal punto di vista di quelle persone, gli zingari emarginati, era solo un modo comodo per poter andare avanti e non morire di fame, specialmente in quel periodo così difficile. Anche se la tirannia monarchica era stata debellata, nonostante le grandi promesse dai nuovi signori del "governo rosso", sembrava proprio che le cose non stessero cambiando in meglio. Ma tornando ai nostri due protagonisti, eccoli arrivati alla loro destinazione. Entrarono in una tenda color porpora, e al suo interno c'era il minimo indispensabile per poter sopravvivere. Avendo la certezza di poter parlare tranquilli, Clopin si rivolse alla ragazza:
- Dunque sai già tutto? -.
La ragazza si tolse per un attimo il cappello di lana e una cascata di capelli mossi le caddero sulle spalle.
- Ovvio, mio caro! - rispose vivace, per poi cominciare a guardarsi in giro per la stanza, in cerca di qualcosa.
- Ha! Si vede che sei mia sorella! Hai preso tutto da me! - esclamò Clopin, mostrando il suo sorriso dai denti scheggiati.
- Era ciò che stavamo aspettando con ansia! - incominciò sua sorella, mentre tirava fuori da un angolo una valigia vecchia e logora - Ora, per prima cosa, ci serve un buon posto per i nostri piani. Un teatro sarebbe l'ideale -.
- Tranquilla, so già dove trovarlo! - disse subito l'altro, mentre frugava in un mucchio di cianfrusaglie con una certa fretta.
A dire il vero, tutte e due sembravano così agitati, come se stessero preparando i bagagli per scappare chissà dove. La ragazza aveva riempito la valigia di ogni necessità, come documenti, fogli di carta, mappe, e vari libri e dizionari linguistici. Invece, suo fratello, aveva accumulato un po’ di biancheria (come i suoi calzini spagliati e rigorosamente bucati) e aveva messo tutto dentro una borsa di seconda mano. Da ciò che si poteva intuire, questi due fratelli non navigavano certo nell'oro. Per niente. Eppure, sui loro volti c'era un velo di speranza che quella condizione sarebbe cambiata in un battito d'ali.
- Pensaci, Clopin! - fece all'improvviso la ragazza, dopo aver chiuso la valigia ormai pronta - Addio documenti falsi! Addio merce rubata! Addio tenda ammuffita e polverosa! -.
In quel momento, mentre la fanciulla sprizzava gioia da tutti i pori, suo fratello si fece pensieroso.
- Speriamo solo di essere fortunati...la notizia si è già diffusa in tutta la piazza. E ben presto tutta la Russia lo saprà, e allora non saremo gli unici a tentare la fortuna...-.
La ragazza dagli occhi verdi placò il suo buon umore, ma dopo un attimo di silenzio, con determinazione si avvicinò al fratello e abbracciandolo disse:
- Non preoccuparti, cherie. Inoltre, ricorda che noi abbiamo un asso nella manica! -.
E con queste parole, affondò la mano in una tasca all'interno del suo cappotto, e tirò fuori un carillon dall'aria molto costosa. Clopin appena vide quell'oggetto sorrise e allora i dubbi scivolarono via come l'acqua di un torrente.
- Hai ragione, Esmeralda! -.

Pv Esmeralda.

- Grazie a questo carillon la nostra vita cambierà, per sempre e in meglio - dissi a mio fratello, cercando di riportare a galla la sua speranza. Non potevamo gettare la spugna proprio quando la sorte stava girando a nostro favore. Da quando era esplosa quella sanguinosa rivolta, dieci anni fa, troppe cose erano cambiate, sia in bene che in male. Avevamo riacquistato la libertà, smesso di lavorare al palazzo reale e tornati a vivere nei quartieri isolati di San Pietroburgo. Ma nonostante il nostro stile di vita, tipico degli zingari, lontani da ogni catena, avevamo perso molto e guadagnato brutti ricordi di un passato difficile, fatto di soprusi e ingiustizie. Finalmente avevamo l'occasione di riscattarci, trasformare completamente la nostra vita e assicurarci un futuro degno di essere vissuto. Non importava come lo avremo ottenuto, ci saremo riusciti con ogni mezzo a disposizione.
- Ricordi quando lavoravamo a palazzo? - chiesi a un certo punto, appoggiando la testa sulla spalla di mio fratello. Lui annuì, e fece un sospiro.
- I nostri genitori...ancora oggi non riesco a perdonarli per quello che ci hanno fatto - disse lui, con una nota di rimprovero. Solo io potevo comprendere quelle parole, e i sentimenti di Clopin, il fratello maggiore che mi era sempre stato accanto durante la mia crescita. Molto probabilmente se non ci fosse stato lui, non so cosa ne sarebbe stato di me. Eravamo solo due ragazzini zingari, venduti dai propri genitori, e costretti a lavorare per i rampolli reali. A parte la paga, misera a dire il vero, e un tetto sulla testa, ci era mancato proprio ciò di cui avevamo bisogno; il calore di una famiglia.
- Non servare ancora rancore per loro - dissi, mettendo da parte il carillon, nella tasca del cappotto - almeno non abbiamo fatto la loro fine, e possiamo ritenerci già fortunati se siamo ancora qui -.
Il mio caro fratello mi prese una mano e la strinse a se. Attraverso la sottile stoffa dei guanti, riuscivo a percepire il calore della sua pelle.
- Sorellina, sono io ad essere fortunato ad avere ancora te al mio fianco - aggiunse infine Clopin, con un'espressione piena di affetto.
- Beh, allora aiutami a trovare dei biglietti per andarcene. Uno per me, uno per te e uno per Kyazimodo. Vedrai che con la ricompensa dello zar diventeremo così ricchi da permetterci un'intera reggia -.
- Macché! - disse lui, afferrandomi per una mano in una posa di danza - meglio tornarcene in Spagna così ce la compriamo! -.
Clopin mi fece volteggiare intorno alla stanza, canticchiando tra le labbra un motivetto. La sua allegria contagiosa era tornata e mi lasciai trasportare dai sogni a occhi aperti:
- Tanti soldi e una vita da re! - pensai ad alta voce, con tono felice.
- E tanto vino e tante donne! - disse Clopin, in uno stato sognante. Mi resi conto che anche lui aveva pensato ad alta voce. Lo guardai con un'occhiata furbetta, come a volergli dire " sei sempre il solito, malandrino! ".
- Va bene, poche donne...ma più vino. Dai, concedimi almeno questo, cherie! - mi pregò lui, con aria ironica e smielata. Il mio fratellone era un tipo davvero particolare. Per molti versi sembrava allegro e genuino, sempre pronto a farsi in quattro per le persone a cui teneva. Peccato che aveva pure dei difetti, o meglio un vizietto, si chiamava "gomito alto". E dove c'era del buon vino, puntualmente c'era anche una bella donna. All'improvviso udimmo il suono di una campana in lontananza. Erano le 16 del pomeriggio. Già così tardi! Non potevamo temporeggiare ancora, e quindi dopo aver afferrato le valige, recuperato il resto dei nostri risparmi, eravamo pronti per lasciare la nostra "casa".
- Una volta arrivati a teatro metterò in bella mostra l'avviso - mi avvisò Clopin, mentre si sistemava il cappello, che non riusciva mai a tenere al suo posto.
- Benissimo! Sono certa che entro stasera avremo molti candidati, me lo sento - gli spiegai, e dopo aver nascosto i capelli sotto al berretto, mi fiondai fuori dalla tenda. In giro sembrava tutto come al solito. I nostri vicini, tutti di origine gitana, continuavano con la vendita della merce rubata. Ma nonostante quella calma ordinaria, avevo la certezza che i bisbiglii e i sussurri si stavano muovendo da bocca a bocca, da un passante all'altro. Aveva ragione Clopin: la notizia più sensazionale del momento si stava diffondendo peggio della peste medievale. Un piccolo carretto, accanto a un panificio, era stato appena caricato ed era pronto a partire. Io e Clopin ci guardammo e in pochi secondi avevamo avuto la stessa idea.
- Un passaggio al volo? - gli chiesi, facendogli l'occhiolino. Intanto il padrone del carro aveva già incitato i cavalli a partire, e così mio fratello mi afferrò per un braccio e insieme salimmo a bordo, senza farci notare. Mentre ci muovevamo, Clopin prese con noncuranza una pagnotta da un cesto, ne spezzò a metà e me la offrì.
- Questo si chiama rubare, lo sai? - lo canzonai, con tono ironico.
- Tanto è pane secco. Se non noi, andrà a finire in pasto ai maiali - mi fece notare mio fratello, donandomi un sorriso smagliante, con tanto di denti scheggiati.
Quando era ancora un fanciullo, aveva fatto a botte con un ragazzo più grande e grosso di lui. Nonostante fosse riuscito a metterlo al tappeto, se l'era vista brutta: erano bastati due sonori pugni su entrambe le guance, e da allora i premolari presentavano delle vistose fessure. Con tutti i soldi della ricompensa avremo potuto mettergli apposto la dentatura, addirittura impiantargli due denti d'oro.
- Guardali! - esclamò poi mio fratello, indicandomi due tizi che leggevano il giornale e si scambiavano occhiate eccitate - non sarò un veggente, ma sono certo che anche loro stanno pianificando di trovare il principino per accaparrarsi la fortuna reale -.
Clopin sogghignò non smettendo di osservare quei poveri illusi, che andavano in tutta fretta avanti e indietro come piccioni voraci. Che branco di poveracci! Come pensavano di poter trovare così facilmente una persona, svanita nel nulla, di cui mai nessuno ne aveva visto il volto? Tranne i parenti, ormai quasi tutti deceduti, alcuni nobili ma ormai lontani dalle terre russe, e infine la sottoscritta. Ecco perché ero così ottimista. E non era così essenziale trovare il vero principe...ci bastava semplicemente qualcuno che gli assomigliasse abbastanza. Mentre la luce del sole si stava pian piano sfumando verso l'orizzonte, dei leggeri fiocchi di neve cominciarono a cadere dal cielo. Mi abbottonai meglio il cappotto di panno scuro. Era decisamente troppo grande per me, almeno di due taglie, ma era sempre meglio di niente. L'aria si stava facendo sempre più fredda e sentivo i piedi congelarsi dentro le scarpe logore. Chissà se anche in Andalusia, gli inverni fossero così rigidi.
- Stai tremando. Su vieni qui - disse Clopin, facendo segno di avvicinarmi. Mi accoccolai al suo petto e lasciai che il calore del nostro abbraccio mi cullasse.
- Svegliami quando arriveremo - gli dissi, facendo poi uno sbadiglio. Lo sentì ridere leggermente, poi avvertì il suo alito caldo sulla fronte.
- Furbetta! Sei capace di farla franca anche col tuo stesso sangue -.  

Kazy

Era accaduto di nuovo. Per l'ennesima volta avevo fallito. Beh, ma perché dovevo sorprendermi? Erano anni e anni che andava avanti quella situazione. Le visite erano finite ormai da un'ora, e dovevano essere le 17 del pomeriggio. I miei occhi si posarono verso l'unica finestra della stanza, e potei vedere che il sole era scomparso dietro le alte montagne innevate. Nonostante l'ora, sembrava già sera inoltrata. Stavo passando lo spazzolone sul pavimento in legno, ma la mia mente era rivolta ancora agli eventi di quella giornata. Alcune persone erano arrivate all'orfanotrofio, e tutti si erano agitati, come al solito. Era una scena che avevo visto mille volte. Quando la porta della stanza delle visite si apriva voleva dire una sola cosa: famiglie che cercavano un bambino da adottare. Tutti gli orfani, chi più chi meno, cercava di fare del suo meglio per attirare l'attenzione, poiché quella era la grande occasione che aspettavano. Anche io, specialmente nei primi periodi, ogni volta che il direttore ci riuniva, avevo il cuore che mi batteva forte. Ma a differenza degli altri bambini, la mia speranza e le mie aspettative erano di altra natura. Infatti, non speravo di essere adottato da dei perfetti sconosciuti, ma di essere accolto a braccia aperte da quelli che dovevano essere i miei veri genitori, la mia famiglia. Non so come spiegarlo, ma sentivo che non ero un semplice orfanello come tanti, abbandonato o dimenticato da chi avrebbe dovuto proteggerlo. Una voce nel profondo del mio cuore mi diceva che c'era qualcuno lì fuori, anche una sola persona, che mi aveva amato e per qualche motivo era scomparsa chissà dove.
- Ehi, Kazy! Il direttore vuole vederti - fece la voce di un ragazzino, facendo capolino sulla soglia. Klaus era uno dei pochi dell'orfanotrofio che mi aveva sempre trattato con amicizia. Il resto degli orfani si prendevano gioco di me o mi evitava. Klaus era un ragazzo di 15 anni, magro come un chiodo, (ma in fondo, un po’ tutti erano magri, per via delle porzioni ristrette di minestra) aveva i capelli crespi e biondi, sempre un po’ scompigliati, la pelle chiara come il latte e una marea di lentiggini sul viso. Ciò che spiccavano di più del suo aspetto erano i grandi occhi azzurri. Mi ero sempre chiesto, da quando ero lì, come mai nessun adulto lo avesse adottato all'istante. Era un ragazzo così bello, anche se dal carattere un po’ ribelle e indisciplinato.
- Grazie, Klaus, ci vado subito - dissi al mio compagno. Klaus entrò nella stanza e cominciò a studiarmi per bene.
- Kazy, è successo qualcosa? - mi chiese infine, rompendo il silenzio tra noi. Quel ragazzino era così perspicace che non smetteva mai di sorprendermi. Anche se era più piccolo di me, dimostrava una maturità e sensibilità che andavano oltre la sua età. O forse, semplicemente ci conoscevamo da dieci anni, da quando ero arrivato all'orfanotrofio. A quel tempo lui era solo un pargolo di 5 anni e subito si era affezionato a me, trattandomi come un fratello maggiore.
- Niente, Klaus, non preoccuparti. Solo un po’ di malinconia - gli risposi, cercando di sorridere e feci finta di essere troppo impegnato a finire le faccende.
Il ragazzo dagli occhi color cielo scosse il capo, e incrociando le braccia al petto disse:
- Ti conosco troppo bene, amico mio. Non devi fingere con me. Dimmi la verità, è per via della visita di oggi? -.
Solo in quel momento, sentendomi con le spalle al muro, mi arresi e decisi di confessare tutto al mio migliore amico, anzi, il mio unico amico.
- Non posso negarlo. Lo so, dopo tutto questo tempo non dovrei badarci, ma non posso fare a meno di pensarci - cominciai a sfogarmi, con lo sguardo perso mentre rigiravo tra le mani il palo dello spazzolone.
- Cosa? La tua famiglia? - chiese Klaus, continuando a scavare nel mio animo. Senza aprire bocca, annuì leggermente, per poi tornare a strofinare il pavimento.
Quante volte, in mancanza di letti in quel posto, mi ero ritrovato a dormire su quella superficie fredda e umida. La prima esperienza fu quando arrivarono cinque nuovi orfanelli, e dato che nessuno si era fatto avanti, mi offrì per cedere il mio materasso. Erano così piccoli, e io avevo da poco compiuto 16 anni. Mentre ripensavo al passato, posai una mano sulla testa, e un altro pensiero mi percorse la mente. Se solo riuscissi a ricordare. In quel momento però mi accorsi che stavo temporeggiando, e il direttore mi stava aspettando nel suo studio. Conoscendolo, se avessi tardato ancora, mi avrebbe fatto una bella lavata di testa, e a lui piaceva sgridare gli orfani anche per la più semplice piccolezza. Allora mi girai, chiesi a Klaus di darmi il cambio almeno per qualche minuto, almeno fino a quando non sarei tornato.
- Vai tranquillo, anzi meglio che ti sbrighi, sennò quel corvaccio te la farà pagare - mi incitò lui, facendo una leggera risatina. Senza farmelo ripetere due volte, mi affrettai a uscire dalla stanza, zoppicando un po’. La gobba sulla schiena non mi dava tanto fastidio, ma era comunque un impiccio ogni volta che provavo a correre o andandi a passo svelto. Ma in verità, non era per me il problema più grande. Mentre percorrevo il corridoio, passai vicino a uno specchio ovale posto sul muro, ma evitai di girare il viso per guardare il mio riflesso. Appena arrivai davanti allo studio, feci un profondo respiro e bussai alla porta.
- Avanti - sentì la voce rauca del direttore rispondere e allora girai il pomello. Quando entrai nella stanza: piccola ma arredata per bene, di certo molto meglio delle topaie che usavamo come camere da letto. Mentre mi avvicinavo alla scrivania, il direttore non alzò nemmeno per un istante la faccia dal registro dei conti. Ma sapevo benissimo che non erano le sue scartoffie a tenerlo così occupato da non riuscire nemmeno a guardami in faccia. Lui mi odiava. Nella stanza c'era un silenzio imbarazzante, e dopo essermi schiarito la voce decisi di prendere l'iniziativa.
- Mi avete fatto chiamare, signore? - dissi con tono timoroso. La questione era che quell'uomo, dai lineamenti freddi e spigolosi, aveva sempre avuto un atteggiamento severo nei miei confronti, un trattamento che ripiegava solo su di me.
- Sì, sfortunello - rispose l'uomo, ma senza alzare la testa, e continuando a leggere sui registri. Era un uomo grassoccio, la cui pancia era nascosta da un panciotto, con i bottoni che rischiavano ogni giorno di esplodere e saltare in aria. I capelli erano di un bel castano caldo, ma tutti noi del posto sospettavamo che il direttore era solito ripassarli nella tintura, almeno ogni due mesi. Gli occhi, stretti e allungati come due fessure, si nascondevano dietro a un paio di occhialini dalle lenti rotonde. Infine, il naso era adunco e ricordava il becco di un uccello. Solitamente trovavo le creature alate meravigliose, ma se il bisbetico direttore dell'orfanotrofio fosse stato uno di esse, mi avrebbe suscitato solo ribrezzo e inquietudine. Non si trattava semplicemente del suo aspetto, ma la sua stessa natura era così gelida che traspariva al di fuori rendendolo orrendo anche nell'apparenza.
- Volevate parlarmi? - chiesi ancora, ansioso di sapere cosa volesse da me.
- In effetti sì, sfortunello - rispose, usando ancora quella parola. Mai una volta, da quando ero giunto in quel posto, quell'uomo aveva pronunciato il mio nome.
Per lui ero e sarei sempre stato lo sfortunello dell'orfanotrofio, nulla di più.
- Ho una bella notizia per te - aggiunse poi, mentre chiudeva i vari registri - Prepara i bagagli. Entro stasera lascerai questo posto -.
Appena il direttore pronunciò quelle parole, ebbi l'impressione di essermi sognato tutto. Non riuscivo più a usare la voce e avevo il cuore che mi batteva forte nel petto. Non potevo crederci! Il giorno che avevo tanto atteso era finalmente arrivato, proprio nel momento in cui stavo per rinunciare.
- Davvero?! State dicendo sul serio? - dissi con la voce che mi tremava leggermente. L'uomo, che ancora non si degnava di porgermi lo sguardo, fece di sì col capo, e allora la mia gioia esplose, anche se dovetti trattenere l'entusiasmo.
- Finalmente! Lo sapevo che qualcuno prima o poi sarebbe venuto a cercarmi! - dissi con la felicità che traboccava dalle mie parole. Ma tutta quella euforia fu strappata con violenza appena udì la voce rauca del direttore darmi quella che in realtà, era una brutta notizia.
- Hai frainteso tutto, sfortunello - cominciò, e solo in quel momento alzò la testa per guardarmi - Partirai sì, ma da solo. Ti ho trovato un lavoro in una pescheria -.
Mentre mi parlava, i suoi occhi si fecero sempre più sottili, mentre le labbra si allungarono in un sorriso crudele e agghiacciante. Ora ricordavo perché, nelle notti oscure durante le riunioni clandestine sotto le lenzuola, i bambini più piccoli si raccontavano storie di paura, con il direttore come mostro principale. Quell'uomo che non aveva niente di umano, non sorrideva mai, ma quando capitava era un incubo ad occhi aperti.
- Pensavi davvero che la tua presunta famiglia fosse venuta a cercarti per portarti via? - disse poi lui, ferendomi senza pietà. Ma visto che era ormai un'abitudine, cercai di non badarci e rimasi immobile aspettando che la tortura psicologica terminasse in fretta.
- Beh, dopo quello che è successo oggi avresti dovuto capirlo una volta per tutte. Nessuno verrà mai a cercare uno sfortunello come te, brutto e deforme per giunta. Lo vuoi capire che ti hanno abbandonato proprio per questo motivo? -.
Mentre ascoltavo, o meglio facevo finta di ascoltare quella sentenza, i miei occhi si posarono sul metallo di un vassoio, posto sulla scrivania. Vedevo il mio riflesso, distorto e deformato, ma non era per colpa del metallo difettoso. Quello ero io...Klaus mi diceva sempre che non dovevo dare retta alle parole del direttore, ma dovevo ammettere che su una cosa aveva ragione: ero brutto e deforme.
- Ma non dovrai più pensarci. Sei un ragazzo adulto ormai, hai 22 anni, e sei abbastanza grande per essere indipendente - continuò l'uomo, sempre con tono serio. In quel momento, dopo aver ricevuto una feroce delusione, capì cosa il direttore aveva in serbo per me.
- Mi state cacciando via? - chiesi, ma tanto sapevo già la risposta, e anche se il direttore avrebbe negato, tutto era così evidente.
- Smettila di fare quella faccia da poverello bastonato! - rispose quasi sul punto di arrabbiarsi - Saresti un vero ingrato se oserai affermare che ti sto facendo una cattiveria. In fondo, chi ti ha dato del cibo? Dei vestiti? Un tetto sopra...-.
- La testa...- terminai la frase al posto del direttore. Avevo perso il conto di quante volte me l'aveva ripetuto. L'uomo rimase interdetto per un attimo, non aspettandosi un mio intervento, mettendolo quasi in ridicolo. Non mi importava niente se si fosse alterato, poiché tra qualche ora avrei lasciato per sempre quel dannato posto, lontano da lui.
- Curioso - fece il direttore, stranamente calmo - Come mai non ricordi un fico secco di quello che eri, prima di venire qui, e invece queste cose te le ricordi? -.
Già, me lo domando anche io! In quei maledetti dieci anni, passati tra bullismo e soprusi, non ero mai riuscito a rievocare i ricordi del mio passato. La mia infanzia, i miei genitori, i miei primi dodici anni di vita. Non ricordavo assolutamente nulla di tutto ciò. Perfino il nome, Kazy, avevo spesso i dubbi che non fosse davvero il mio. Ma c'era sempre quel briciolo di certezza, soprattutto quando veniva pronunciato, che qualcuno in passato mi chiamasse in quel modo così unico e insolito. Senza badare alle parole del direttore, i miei profondi pensieri mi portarono a far scivolare le mani all'interno della mia casacca di lana verde muschio, come se stessi cercando qualcosa.
- Ah, capisco - disse poi lui, osservandomi - "Insieme a Parigi"...Oh, cielo! Non dirmi ora che una volta fuori di qui, avrai la folle idea di andare in Francia a cercare la tua "famiglia"? -. 
Non avevo alcuna voglia di rispondere a quell'essere, anche perché ormai non era più affar suo quello che avrei fatto. Lui stesso aveva detto che ero un adulto, potevo essere indipendente, allora così sarebbe stato. Avrei deciso io il mio cammino. Anche se non ero ancora così sicuro.
Dopo aver preparato i bagagli, la notizia della mia partenza si diffuse e tutti seppero che me ne sarei andato prima che si facesse troppo tardi. Ovviamente in pochi vennero a darmi il loro addio. Ripensandoci, avevo sognato da tanto quel momento, in cui avrei lasciato l'orfanotrofio per una nuova vita. Ma mentre abbracciavo i miei cari amici, cominciai a sentire un groppo alla gola. Fu decisamente un colpo al cuore quando Klaus, il mio migliore amico, mi accolse nel suo abbraccio più fraterno possibile. Stava cercando di trattenere le lacrime e anche io, devo ammetterlo, mi stavo sforzando di non crollare.
- Sono così felice per te, Kazy - mi disse, allargando un sorriso - Anche se non è la partenza che ti eri immaginato, è pur sempre un nuovo inizio -.
Klaus aveva ragione. La delusione di poco fa, nello studio del direttore, mi aveva devastato non poco. Ma vedendo la situazione in positivo, almeno ero libero. L'unica cosa che però mi spaventava...era il mio aspetto. Come mi sarei dovuto comportare una volta fuori da lì? La gente come mi avrebbe trattato? Come se quelle domande avessero avuto una voce, Klaus mi aiutò a mettere il mantello col cappuccio, e con un gesto amichevole mi disse:
- Non preoccuparti. Avrai un po’ paura all'inizio, ma vedrai che se troverai le persone giuste, non sarai solo e sarai felice anche tu -.
Abbracciai quel ragazzetto per l'ultima volta, e prima di varcare i cancelli arrugginiti, lo ringraziai calorosamente, e gli augurai buona fortuna. Così, sorreggendo una borsa semivuota (avevo il minimo indispensabile), mi trascinai lungo lo strato di neve, diretto al bivio che mi aveva indicato il direttore. Sfortunatamente mi tornarono in mente le ultime parole di quel corvaccio. " Ringraziami, sfortunello ". Quando arrivai alla mia destinazione, stavo ancora rimuginando su quelle parole. Per sdrammatizzare, o semplicemente cercavo di esorcizzare la mia rabbia, feci una piccola imitazione del direttore, marcando la voce in maniera rauca. Se ci teneva così tanto a cacciarmi via, tanto valeva farlo anche prima. Ringraziarlo? Ma certo! Infatti ringrazio per essermene andato!
Nel bel mezzo del niente, andando avanti e indietro, stavo valutando con calma quale direzione prendere. La pescheria era a ovest quindi dovevo andare a sinistra. Quella doveva essere la mia strada. La via che mi avrebbe reso Kazy, lo sfortunello per tutta la vita.
- E se invece andassi dall'altra parte? Magari potrei trovare...- cominciai a pensare ad alta voce, poi mi soffermai a guardare il piccolo ciondolo che portavo al collo. Lo avevo con me da sempre, Ma non riuscivo a ricordare da dove provenisse e che cosa significasse.
- Chiunque mi abbia dato questo ciondolo doveva volermi bene...- aggiunsi, e rilessi nella mente quella frase, incisa a caratteri d'oro sul piccolo ninnolo. " Insieme a Parigi ". E se fosse un segno? Forse la mia famiglia si trovava proprio lì! Ma era un viaggio così lungo, la Francia era così lontana. Era un'avventura più grande di me! Cosa dovevo fare?
- Pazzesco! Io, andare a Parigi!? - dissi, con una nota sconsolata, indeciso sul da farsi. Poi, guardai verso il cielo scuro pieno di piccole luci brillanti. Se fosse passata una stella cadente avrei espresso un preciso desiderio.
- Oh, signore, ti prego mandami un segno! - cominciai a pregare, come facevo fin da piccolo nei momenti difficili - Qualsiasi cosa, ma ti prego -.
Detto fatto! In quel preciso istante, come se fosse spuntata fuori dalla neve, o creata dalla neve stessa, uscì allo scoperto una piccola capretta bianca. La bestiola mi fissò per qualche secondo, poi saltellò e mi raggiunse. Rimasi quasi incredulo nel constatare che non avesse paura di me. La capretta afferrò tra i denti un lembo della mia sciarpa consunta e cominciò a tirarla. Che bestiola vivace, pensai!
- Ehi, piccola, che c'è! Vuoi giocare? - feci con gentilezza, mentre lei continuava a tirare - Mi dispiace, ma non posso giocare ora. Sto aspettando un segno -.
Ma nonostante le miei suppliche, sembrava proprio che quella nuova amichetta non volesse lasciarmi in pace. Cominciammo così a dare inizio a una specie di tiro alla corda, ma lei ebbe la meglio, facendomi inciampare e cadere. Poi la fissai con attenzione: stava tirando la sciarpa verso est, direzione San Pietroburgo.
- Ah, magnifico! Una capretta vuole che vada a San Pietroburgo! - dissi ad alta voce, mentre mi rimettevo in piedi. La capretta, come se mi avesse capito, belò ripetutamente, e solo allora mi fu chiaro. Quella dolce e vivace bestiola dalle piccole corna ricurve, mi stava suggerendo la strada. Era il segno che stavo aspettando. Con un sorriso mi avvicinai alla capretta e le accarezzai il mento, solleticandole il ciuffetto.
- Affare fatto, piccola amica. Anzi, da oggi in poi ti chiamerò Djali, e mi accompagnerai nel mio grande viaggio...verso la Francia. Verso Parigi -.
E così dicendo, mi avviai lungo il sentiero, con Djali che mi seguiva, trotterellando al mio fianco. Sentivo che quello sarebbe stato un viaggio pieno di scoperte. Era la strada che avevo scelto, per scoprire chi ero, ritrovare il mio passato e magari la mia famiglia.  

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Capitolo 3
*** Sentieri incrociati ***


 
                                                                                                              3
                                                            
                                                                                          Sentieri incrociati
 

Il gelo di quella sera era così pungente che riusciva a penetrare perfino tra le trame intrecciate della lana, fino ad arrivare a irrigidire il corpo e le ossa. Una leggera nebbia stava calando tra le stradine del paese, mentre le prime lanterne venivano accese e i respiri si facevano più intensi. In un quartiere, giusto poco lontano dal centro di San Pietroburgo, un piccolo gruppo di persone si era ammucchiata davanti all'uscio di un vecchio edificio nella penombra di un vicolo. Lì, proprio sulla porta, c'era un cartello che portava la scritta: cercasi "principe Kvazimodo". Oggi provini in sala. Guadagno fruttuoso per il selezionato.
Alcuni curiosi che passavano per caso, si chiedevano cosa significasse, ma i più informati sulla questione, lo sapevano benissimo. I due fratelli zingari, Esmeralda e Clopin, erano ai primi posti della saletta, in quel piccolo edificio, o meglio dire teatro. A dire il vero era solo una catapecchia dai muri con l'intonaco scrostato e le porte cigolanti, ma non c'era tempo per badare a certi dettagli estetici. Un provino e una modesta lista di candidati li attendevano. La prima fase del piano era incominciata: trovare il sosia perfetto del principe Kvazimodo Aleksandr Sht'yen Belstov.

PV Clopin

- Avanti un altro! - si fece sentire la mia voce, mentre mi sfregavo le mani, cercando di scaldarle. Nonostante ci trovassimo nel cuore del teatro, nella sala principale, stavo rabbrividendo comunque. Era come se il freddo invernale riuscisse a infilarsi anche nelle fessure più sottili delle finestre, delle porte e di ogni singola apertura. Senza un camino accesso, o una piccola stufa, stare in quel posto non faceva tanta differenza nel stare fuori in mezzo alla neve. Gettai un'occhiata a mia sorella, seduta accanto a me. Aveva un'aria concentrata, così tanto da non far caso a quella temperatura poco accogliente. Era comprensibile. Eravamo nel pieno del provino per scegliere il candidato giusto per la nostra geniale truffa. Intanto, si fecero avanti altri soggetti, ma erano uno peggio dell'altro. Ovviamente lasciavo tutto il giudizio ad Esme, dato che era l'unica che poteva decidere e scegliere chi fosse idoneo.
- Sì...grazie, monsieur. Vada pure, le faremo sapere - rispose Esmeralda, allargando un sorriso forzato. Con un gesto netto, tracciai una riga con la penna per cancellare l'ennesimo nome sulla lista. Un altro squalificato. Con un sospiro stanco mi portai le dita al volto, strofinando leggermente le palpebre. Da quanto tempo eravamo lì? Mezz'ora? Si era presentato un notevole numero di persone, ragazzi e uomini, magri e grassi, alti e bassi, e dalle fattezze più disparate. Ma nessuno di loro era riuscito a convincere la mia sorellina, e quindi superare il provino. Mi chiedevo se la fortuna ci avesse già abbandonati. La gitana dagli occhi smeraldo si girò verso di me e notò il mio umore esasperato.
- Lo so, Clopin. Hai ragione - mi disse poi, e mi diede un'affettuosa scrollatina sulla spalla.
- Possibile che nessuno di questi poveri cristi sia adatto? - le chiesi, guardandola di sottecchi. In quel momento avvertì un vuoto allo stomaco. Perfetto, ci mancava solo quello!
- Purtroppo no...- mi disse con una nota agrodolce - Ma non perdiamoci d'animo. Siamo ancora a metà strada -.
Quando Esmeralda si metteva in testa una cosa, era capace di combattere e spendere tutte le sue energie per ottenere i suoi scopi.  
- Tranquilla, sorellina, lo sai che non ho mai dubitato del tuo buon senso e giudizio - le confessai mentre avvertivo ormai i morsi della fame. Non vedevo l'ora di mettere qualcosa sotto i denti. Così, ritrovata la forza di andare avanti, mi ricomposi e la mia voce riecheggiò nuovamente per la sala.
- Avanti un altro! -.
Ti prego, fa che questa sia la volta buona, dissi tra me e me. In quel momento si presentò un tizio davvero particolare. Aveva addosso un cappotto di panno scuro, una sciarpa molto lunga, e il capo era coperto dal cappuccio. La cosa più bizzarra era il suo modo di camminare. Anzi, per la precisione zoppicava, passo per passo e la sua schiena era ricurva come un punto interrogativo.
- Clopin...forse ci siamo! - bisbigliò la gitana, con un leggero tono alquanto agitato. Sentendo ciò, anche io mi sentì scosso dall'emozione.
- Davvero?! - feci a bassa voce, e lei mi indicò il tizio, confermandomi che solo il principe Kvazimodo si poteva muovere in quel modo strano. Fidandomi ciecamente, ero sul punto di esultare, ma avvenne una cosa inaspettata. Il candidato si fermò in mezzo al palco, fece scivolare il cappotto e si rivelò completamente a noi. Rimasi perplesso e allibito scoprendo che si trattava di un rozzo scaricatore di porto, con i calzoni che quasi gli cascavano, i capelli unti e le mosche che gli ronzavano attorno. Ubriaco fradicio, alzò in alto una mano che stringeva una bottiglia di birra, ormai vuota.
- Eccomi, babbo, hic!...sono io, Kvazimodo...BUUUUURP! -.
Un rutto pesante uscì fuori da quella bocca che presentava si e no una decina di denti. Quella scena era troppo per me, e la sonora esplosione fu la ciliegina sulla torta. Una fragorosa risata mi scappò e mi spinsi così forte sulla sedia che cascai all'indietro, cadendo rovinosamente a terra.
- Ah ah ah! Aiuto, non ce la faccio! - strillai tra le risate, dimenando le gambe per aria. Con le lacrime agli occhi, alzai di poco la testa e scorsi Esmeralda che mi fissava con aria di rimprovero e allora capì che non era per nulla divertente. Quello sì che era un buco nell'acqua.
- Eh...eh, no. Non c'è proprio niente da ridere - dissi infine, esponendo una delle mie facce da bambinone dispiaciuto. Mia sorella, sospirando per la prima volta, tornò a guardare con aria disgustata quel baraccone da circo: - Già...Qui c'è solo voglia di piangere -.
 
- Beh, cherì, non possiamo certo dire che non ci abbiamo provato - proferì, e uscendo dal teatro strappai via il cartello dalla porta. Forse ero troppo pessimista, ma quel tardo pomeriggio buttato al vento, senza risultati, mi aveva già gettato nello sconforto. Tanta fatica per niente!
- Abbiamo già speso una buona parte dei nostri risparmi per pagare il teatro, e non abbiamo ancora trovato nessuno che possa fingersi Kvazimodo -.
Accartocciai il pezzo di carta, lo ridussi in una palla deforme e la gettai in aria per poi calciarla il più lontano possibile. Ogni volta che ero di mal d'umore avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo, anche se per qualcuno potevo passare per un ragazzino troppo cresciuto.
- Non gettiamo la spugna, Clò! - disse mia sorella, mentre si sistemava i capelli sotto il berretto. Non riuscivo a capire perché la nascondesse sempre, quella morbida chioma fluente, dai riccioli sinuosi. Insieme ai suoi occhi, era ciò che la rendeva così bella e attraente.
- Vedrai, lo troveremo - aggiunse poi, prendendomi sottobraccio - Sento che è qui da qualche parte, proprio sotto il nostro naso -.
Quell'ultima frase, una delle tante metafore che usava spesso Esme, fece attivare il mio lato da burlone. Mi girai verso di lei con occhi indagatori.
- Che c'è? - mi chiese, mentre stavo ispezionando la sua faccia.
- Nah, ti sbagli, non c'è niente qui sotto - risposi e le gettai un'occhiata divertita. Appena realizzò, Esme mi diede una leggera spinta, ridendo.
- Ma che scemo! -.
Passammo qualche minuto a riderci su, per sdrammatizzare la situazione ed evitare di demoralizzarci. Lo so, ero sempre stato un tipo difficile da trattare. Mia sorella, oltre ad essere scaltra, aveva il dono della pazienza e sapeva attendere il momento giusto per poter agire. Non come me, che soffrivo di una perenne carenza di tolleranza, nevrotico e ansioso di ottenere tutto in fretta e furia. Ero abbastanza onesto da ammetterlo. Ma nonostante ciò, nel mio piccolo cercavo di sfruttare il mio lato giocoso per mantenere vivo quel briciolo di spensieratezza. Non poteva fare tutto lei. La nostra vita era già difficile, e ci mancava solo il mio caratteraccio a darle pensieri. A volte mi sembrava che fosse lei la sorella maggiore. Che vergogna, Clopin!
- Oggi non è andata bene - ricominciai, assumendo un tono serio ma calmo - Ma come hai detto tu stessa, non dobbiamo arrenderci. Domani è un altro giorno, e magari saremo più fortunati. E poi, abbiamo pur sempre "l'asso nella manica" -.
Senza che se ne accorgesse, avevo già sfilato il prezioso oggetto dalla tasca del suo cappotto. Fin da piccolo avevo il dono di borseggiare in maniera furtiva, e questo talento mi aveva permesso di sfamare Esme nei tempi di assoluta povertà. Purtroppo, o quasi, era un vizio che non si era mai estinto.
- Bravo, mi hai proprio tolto " le parole dalla tasca " - mi canzonò lei, lanciandomi un'occhiatina furbetta. Fischiettando, le restituì il carillon e solo in quel momento mi balenò un piccolo dettaglio che avevamo trascurato.
- Cherì, lo sai che sono fiducioso, e non smetterò mai di ripetertelo. In fondo sei una delle poche persone rimaste in circolazione che ha avuto la fortuna di avere un contatto diretto con "lui". Ma devi ammettere, mia cara, che è passato tanto tempo da allora. Quindi, anche se dovessimo trovarcelo davanti agli occhi, come farai a capire che sia "il principe" che stiamo cercando? -.
La gitana rimase per qualche secondo in silenzio, mentre cercava di stringersi di più a me per proteggersi dagli spifferi pungenti. Infine sollevò il capo e incontrò il mio sguardo. Con un mezzo sorriso mi rispose:
- Non lo so. Ma sono certa che quando vedrò il suo volto, unico nel suo genere, avvertirò una specie di folgorazione -.
Detto ciò, mi prese il naso tra le dita per scuotermi affettuosamente il viso. Soddisfatto decisi che per quel giorno potevo mettere da parte i dubbi e le mille preoccupazioni che mi avevano tormentato fino a quel momento. Desideravo solo tornare al nostro " rifugio segreto", scaldarmi davanti al camino, e gustarmi una semplice cena in compagnia della mia sorellina. A quel pensiero l'appetito si risvegliò, e anche lo stomaco disse la sua.
- Ho capito. Meglio sbrigarci prima che mi svieni qui per terra costringendomi a trascinarti - disse Esme, sorridendo divertita.
- Sono d’accordo con te. Sai cosa mi piacerebbe più di tutto, ora come ora? - le chiesi facendo gli occhioni da cucciolo bisognoso.
- Una buona torta di mele! - rispose lei, quasi cantando. " Oh, oui! La mia preferita!". Esultai felice mentre Esmeralda alzò gli occhi al cielo.
- Promemoria per quando avremo la ricompensa; comprarti una pasticceria intera con tanto di chef personale. Così ti passerà tutta questa voglia di dolci -.

Pv Kazy

Quanta strada avevamo percorso! Beh, cosa del tutto normale quando ti metti in testa di fare una bella camminata, partendo da un orfanotrofio sperduto nel nulla fino al centro abitato di San Pietroburgo. Appena arrivai nella piazza centrale del paese, mi diedi un'occhiata in giro. Avevo passato così tanti anni, rinchiuso tra le mura di quella prigione, che avevo dimenticato quanto fosse bello il paesaggio e l'atmosfera di una cittadina. Con tutte quelle luci che provenivano dalle botteghe, le stradine con i carretti, e la gente che andava e veniva. Era tutto così vivo. Ero così rapito da quello spettacolo, che non badavo minimamente al gelo che mi attanagliava le membra, anzi mi presi tutto il tempo per ammirare estasiato quella bellezza urbana, immacolata dalla neve candida. Ad un tratto, il belare di Djali, la mia nuova amica, mi fece tornare alla realtà.
- Hai ragione, Djali, dobbiamo muoverci - le dissi, soffermandomi ad accarezzarla sulla testolina. Quella capretta, bianca come il manto nevoso, mi aveva seguito per tutto il tragitto. Era come un angelo custode che si era presentato sotto forma di animale per farmi da guida in quel viaggio pieno di insidie. Ma ciò che mi aveva colpito di più, era che non si fosse spaventata neanche un po’ per via del mio aspetto. Mi rimaneva accanto come un fedele compagno di avventure, disposto a seguirmi anche ai confini del mondo. Era proprio vero, che gli animali si differenziavano dagli esseri umani, per la loro ineguagliabile lealtà e sconfinato amore. Djali non mi avrebbe mai giudicato male, o deriso, o allontanato, semplicemente perché non conosceva lo sgradevole concetto di " diverso". Era tutto decifrabile dalle attenzioni che mi serbava, dai versi acuti e dal modo di strofinare il muso sulle mie ginocchia.
- Allora, per prima cosa, dobbiamo trovare la stazione - dissi a bassa voce, mentre cercavo di mantenere il capo nascosto nel cappuccio. Non volevo mostrare il mio aspetto a nessuno, onde evitare qualsiasi tipo di scalpore da parte dei passanti. Quando ero in orfanotrofio non era una preoccupazione così drastica, dato che ero circondato sempre dalle solite facce, che man mano si erano abituate al mio aspetto deforme. Ma nella situazione in cui mi trovavo in quel momento, stando a contatto con nuovi sconosciuti, mi rendeva troppo nervoso. Cosa avrebbero fatto se mi fossi mostrato? Meglio non correre rischi per scoprirlo, pensai tra me e me. Ma c'era un piccolo problema; mi trovavo in un luogo che non conoscevo bene, e avevo bisogno di informazioni. Non potevo certo andarmene in giro senza avere un'idea precisa, come un volatile che aveva smarrito la strada nell'infinito cielo. Ecco, più o meno era quella la situazione. Dopo un attimo di esitazione, ponderando sul da farsi, decisi di farmi coraggio e scrutai alcuni volti prima di fare qualche passo avanti. Una fanciulla, dalla pelle chiara come il latte, catturò la mia attenzione. Aveva un'aria che mi trasmetteva gentilezza e quindi alzai timoroso un braccio.
- Mi scusi - dissi con voce lieve, forse un po’ troppo, e temetti che la ragazza non mi avesse udito. Ma lei girò il capo nella mia direzione, e allora divenni ancora più nervoso.
- Sì? Ha bisogno di qualcosa, signore? - mi chiese, con una voce dolce e mansueta. Caricandomi di sicurezza, mantenendo il volto all'interno del cappuccio, feci giusto qualche passo nella sua direzione, giusto il minimo per farmi sentire.
- Scusi il disturbo...ma, mi sa dire dove si trova la stazione ferroviaria? Devo prendere un treno -.
Sentivo il viso in fiamme, un po’ per la paura di essere scoperto, e un po’ per la sensazione che mi dava parlare con una ragazza, così bella e gentile. Non ero abituato ad approcciarmi con le ragazze, dato che in orfanotrofio eravamo nella maggioranza maschietti, e le poche femminucce erano poco più che bambine. Meno male che riuscì a farmi capire, nonostante l'incertezza nella voce, perché notai la ragazza che annuiva decisa.
- Certo, non è molto distante da qui - mi spiegò, facendomi segno con la mano verso un punto alle mie spalle - Basta camminare per qualche metro verso quella strada, girare a destra e percorrere sempre dritto. Troverete la stazione nel bel mezzo di una piazzetta. La riconoscerete dal cumulo di fumo che si staglia in aria sopra ad essa -.
Memorizzai tutta la descrizione e poco dopo mi rivolsi nuovamente a lei, per ringraziarla.
- Grazie mille, è stata davvero gentile -.
Mi stupì di me stesso, quando notai che avevo risposto in modo così spontaneo, come se all'improvviso avessi acquistato più sicurezza. Forse era per via di quelle maniere così gentili da parte della sconosciuta, che mi avevano rincuorato.
- Di nulla. Addio e faccia buon viaggio - mi salutò la fanciulla, che con un sorriso fece un cenno con la mano per poi girarsi e allontanarsi.
- Grazie! - alzai la voce per farmi sentire, e una strana euforia mi pervase. Però, non era stato poi così male, pensai. Anche se si era trattato di uno scambio di poche parole, per me era come una vittoria clamorosa. Mentre ripensavo a quel semplice contatto, mi incamminai per la strada che la ragazza mi aveva indicato. Forse mi ero sempre fatto un'idea troppo dura delle persone sconosciute. Sì, dai, non possono mica essere tutti cattivi e sgradevoli. Ma poi, un altro pensiero mi fece riflettere. Quella ragazza era stata così gentile con me. Ma avrebbe dimostrato il medesimo atteggiamento anche se avessi mostrato il mio volto? ...
 
- Un biglietto per Parigi, per favore -.
Trovare la stazione era stato davvero facile, proprio come mi aveva detto la ragazza. Per via del buio della serata non potevo scorgere i minimi dettagli, ma era ben visibile un cumulo di fumo nero che si addossava nel cielo, confondendosi un po’ con le nuvole vaporose. Accanto ai cancelli della stazione vi era una specie di cabina, con la luce di una lanterna che illuminava la scritta " Biglietteria ". Mi trovavo proprio lì, emozionato e ansioso di partire.
- Presenti il visto di uscita - disse l'uomo nella cabina, alto e possente, con una voce cavernosa. Assomigliava in un certo senso all'orco delle favole che leggevo nelle ore solitarie, nella mia stanza all'orfanotrofio. A quelle parole, lo guardai confuso, non capendo cosa volesse. Forse non ero stato chiaro.
- Ehm...ho bisogno di un biglietto per il treno verso Parigi - ripetei la mia richiesta, cercando di essere chiaro e senza intoppi.
- Ha con lei il visto di uscita? - mi domandò l'omone, mentre avvertivo qualche bisbiglio dietro alle mie spalle. Infatti, dietro di me c'era una fila di almeno 5 o 6 persone, tutte che aspettavano il proprio turno. A quel punto, colto dalla confusione totale, non sapevo cosa dire. Cos'era il visto di uscita?
- Ehm...il visto di uscita...? - ripetei, guardandomi attorno, come se cercassi aiuto o una risposta da qualche parte.
- Niente visto di uscita, niente biglietto! - mi urlò in faccia (del tutto coperta dall'ombra del cappuccio) il tizio della cabina, esplodendo con quella voce che mi fece sussultare e spaventare. Sentendo la vergogna e il disagio del momento, mi allontanai da quel posto, con Djali che mi seguiva belando contrariata. Che dire, avevo avuto la prova che non tutte le persone sanno essere gentili, indipendentemente dal tuo aspetto esteriore. Mi fermai su una panchina di pietra per riposare. La stanchezza si stava facendo sentire. Amareggiato sospirai rumorosamente. Adesso cosa faccio? Come avrei potuto prendere il treno per andare a Parigi, se mi ero trovato quell'ostacolo chiamato " visto di uscita"?
- Problemi con i documenti di viaggio? - fece una voce maschile, a me sconosciuta. Mi girai di scatto e vidi che accanto a me si era seduto un uomo. Era molto alto, possente e protetto da una mantella di lana pesante e un cappello con falda larga. Nonostante il collo alto della mantella gli coprisse metà volto, potevo vedere i suoi grandi occhi neri, così marcati ma per nulla duri. Il tono della voce era profondo, ma non mi dava l'impressione che appartenesse a una persona sgradevole. Mantenendomi sempre al riparo dal mio cappuccio, feci un cenno un po’ confuso al nuovo arrivato. Cosa voleva da me?
- Ho sentito che stai cercando un treno per andare a Parigi. Sai, se non hai i documenti, cioè le scartoffie giuste, per poter viaggiare, temo che sia impossibile poter lasciare il paese - continuò a parlare quell'uomo misterioso. Prima che potessi aprire bocca per rispondere, il tizio allungò il collo come se volesse guardarmi meglio. Una nuova ansia mi pervase, e allora per sicurezza mi voltai dall'altra parte.
- Porgimi la mano, amico - mi disse, con tono più gentile. In quel momento ebbi emozioni contrastanti. Non sapevo se fidarmi o meno di quello sconosciuto.
- Non temere, voglio solo darci un'occhiata - mi rassicurò lui, aspettando pazientemente la mia reazione. Tornai a guardarlo con la coda dell'occhio e notai i tratti del suo sguardo, così benevolo che alla fine mi convinse ad allungare il braccio verso di lui. Per qualche minuto studiò la mia mano, facendo scorrere il dito indice su ogni linea della pelle. Che strano, aveva tutta l'aria di essere una sorta di indovino.
- Ti aspetta un lungo viaggio - mi disse - Quando la tua via si intreccerà con la sua gemella, tutto ti sarà chiaro, e allora scoprirai la verità -.
Quelle parole, così insensate, mi fecero cadere in uno stato confusionario. Cosa intendeva dire? Cosa mi aspettava in quel viaggio? Come se mi avesse letto nel pensiero, il tizio mi diede una leggera pacca sulla spalla, come faceva il mio caro amico Klaus. Una piacevole sensazione si fece largo dentro di me. Chissà chi era quell'uomo? Avrei voluto tanto vederlo bene in faccia, ma non era possibile dato che era semicoperto dalla lana.
- Ti do una dritta. Cerca Esmeralda Trouillefou, lei è l'unica che possa aiutarti - mi informò, quasi sussurrando per non farsi sentire da altre orecchie.
- Davvero? - feci sentire finalmente la mia voce, con tono lieve - Dove posso trovarla? -.
Prima di rispondermi, si guardò attorno con fare furtivo, come se quella informazione fosse molto preziosa.
- Vai al vecchio palazzo reale. La troverai di sicuro, insieme a suo fratello Clopin - rispose.
Ero già sul punto di muovermi, ma fui nuovamente attirato dalla voce del tizio.
- Mi raccomando. Non dirle assolutamente che sono stato io a darti questa informazione. Chiaro? - mi ammonì, facendomi segno col dito all'altezza delle labbra, evocando l'assoluto silenzio. Da parte mia, annuì più di una volta, assicurandolo della mia complicità. In fondo non mi costava niente, l'importante è che grazie a questa Esmeralda sarei riuscito a trovare il modo di partire. L'esuberanza di Djali, che era rimasta fino a quel momento calma, attirò la mia attenzione. Sembrava che anche lei fosse ansiosa di andare, così mi ricaricai in spalla la borsa, pronto per incamminarmi. Poi, ricordandomi dell'uomo che mi aveva letto la mano, mi girai per poterlo ringraziare. Ma mi accorsi che lì accanto a me, non c'era più nessuno. Il tizio misterioso si era dissolto nel nulla, come una nuvola di vapore. Feci vagare gli occhi da una parte all'altra, sicuro di scorgerlo in lontananza. Ma niente. Era letteralmente scomparso. " Mi sono immaginato tutto? O forse era un fantasma? " pensai. No, non era possibile. Quella era una persona in carne ed ossa. Un uomo senza nome e senza volto, era accorso in mio aiuto, senza pretendere niente in cambio. Per qualche secondo fissai il palmo della mia mano.
" Chiunque tu sia, amico, ti ringrazio profondamente".
Che freddo! Spero solo che questo sia il posto giusto. Dopo aver ricevuto alcune informazioni, ero riuscito ad arrivare a destinazione. Il palazzo che si ergeva davanti a me era enorme e maestoso. In passato doveva essere davvero uno splendido edificio. Mi era stato detto che ormai quel posto era stato abbandonato a se stesso. Nessuno ci metteva piede, anche perché era proibito andarci. Questo spiegava il motivo per cui tutte le porte d'ingresso fossero sbarrate, per evitarne l'accesso a potenziali vandali. Ma come era possibile, allora, che questa Esmeralda, la persona che stavo cercando, si trovasse proprio lì? Mentre mi ponevo varie domande, sentì uno strano rumore. Ebbi il tempo di vedere Djali che si infilava in un buco tra le travi di una porta. Quella fessura era abbastanza grande da permettere a una capretta ficcanaso di penetrarvi senza alcun problema.
- Djali! - la chiamai, avvicinandomi all'ingresso sbarrato. Ma per quanto insistetti per richiamarla, la mia amica non tornò indietro. Allora feci l'unica cosa che potessi fare. Con forza tirai alcune travi di legno, inchiodate tra loro. Non fu così difficile, e in pochi secondi liberai l'ingresso, facendo volare via quei pezzi ammuffiti. Dieci anni passati a fare il " mulo personale" del direttore, all'orfanotrofio, dove scaricavo ogni giorno pacchi pesanti, mi erano serviti in qualche modo. Senza perdere altro tempo, mi affrettai ad entrare, con la speranza di ritrovare subito la mia capretta. Lì dentro, c'era un'oscurità che avrebbe fatto gelare il sangue a qualsiasi orfanello. Ma io non ebbi alcun timore, e lasciai che i miei occhi si abituassero al buio. Man mano che mi addentravo mi accorsi che il luogo assumeva sempre più forma, contorni e toni di grigi. Grazie alle ombre che levigavano le forme, riuscì a salire una grande scalinata e mi trovai al piano superiore. Lì, trotterellando su un tappeto in mezzo alla stanza, con gli zoccoli che producevano rumori sordi, vi era Djali. Quando mi vide, emise uno dei suoi versi, come se fosse contenta di averla raggiunta.
- Eccoti, piccola birbante! - le dissi, spettinandole con le mani la pelliccia. A quel punto, la mia attenzione si spostò su tutto ciò che mi circondava.
Nella penombra potevo constatare di trovarmi in una saletta da the, con un tavolo rotondo ancora imbandito e pieno di vari servizi di porcellana. Una spessa patina di polvere rivestiva ogni oggetto. Era ovvio che in quel posto nessuno ci era stato più da moltissimo tempo. Mi soffermai su un piatto in particolare, uno di quelli che si usavano per servire dolci e crostate. Soffiandoci sopra si sollevò il velo di polvere, così la lucentezza della superficie mi mostrò il riflesso del mio volto. Potei vedere quegli occhi color verde prato, marcati dalle sopracciglia brune rossicce, e quei lineamenti che descrivevano la mia triste deformità. Un momento! Fu un attimo che durò un solo secondo, eppure ero certo di aver visto il mio viso trasformarsi. Era di sicuro il mio volto, ma più maturo e dai tratti che avrei definito "normali". Forse me lo ero solo immaginato. Sbattei per due volte le palpebre e distolsi lo sguardo da quel servizio da tavola, per poi dirigermi verso un angolo. Ero certo che quella fosse la prima volta che mettevo piede in quel palazzo. D’altronde, a parte l'orfanotrofio, in quale altro posto poteva esser stato uno come me? Eppure, e non so come spiegarlo, ma più mi guardavo attorno, più avevo la sensazione che ci fosse qualcosa di familiare.
- Strano...- pensai ad alta voce, mentre mi avvicinai a un comodino con la specchiera - Ho come l'impressione di aver già visto questo posto. Forse, in uno dei miei sogni...-.
Ma come poteva essere possibile? Non si può sognare un posto, un luogo, qualunque cosa, senza averla mai vista. Tutto ciò non aveva senso. Passai le mani sulla superficie di un vaso, decorato nei minimi dettagli. Alzai lo sguardo e di nuovo mi scontrai con il mio riflesso sulla specchiera. Per un attimo mi aspettai di rivedere il mio volto cambiare di nuovo, ma non accadde. Allora, mi allontanai e uscì da quella sala. La curiosità di perlustrare quel posto, così nuovo, ma non del tutto, mi attirava più del profumo del pane caldo a prima mattina. Non sentivo nemmeno più i suoni prodotti dagli zoccoli di Djali. Il silenzio che sarebbe dovuto regnare il quel posto desolato, riecheggiava nelle mie orecchie fino a tramutarsi in una dolce melodia. Era un suono che andava e veniva. Proprio come quel luogo, era qualcosa che per logica doveva risultarmi sconosciuta, ma nel mio animo era l'esatto contrario. Davanti al mio sguardo si allungava una sala immensa, con quadri posti sulle mura tappezzate, e un fascio di luce lunare filtrava dalle finestre, donando un'atmosfera suggestiva. La mia mente, che era sempre stata influenzata da sogni fantastici, come quelli che facevo ad occhi aperti da piccolo, mi portò lontano dalla realtà. Eccomi, nel bel mezzo di un ballo sfarzoso, con la sala gremita di coppie vistosamente vestiti e che ballavano volteggiando nello spazio. Il suono di un'orchestra rimbombava, con mille violini e violoncelli, che ti sapevano scuotere nella parte più profonda della tua anima. Mi liberai della sciarpa. Mi spogliai del mio soprabito e lo feci volare per aria. Senza alcun indugio, mi fiondai in mezzo alla sala, cercando di mimare una danza trascinandomi con i piedi sul pavimento. Stavo immaginando di essere un principe, con tanto di vesti regali e ornamenti preziosi. Non so, ma più andavo avanti con quel sogno ad occhi aperti, più tutto mi sembrò così vivido, lucido. Sembrava che quelle stesse persone, quella stessa melodia, tutto ciò che stavo immaginando fosse davvero reale. Perfino le quattro fanciulle, una più graziosa dell'altra, che mi presero per mano in un giocoso girotondo, mi sembravano vere. No, era tutto finto. Quelle dolci donzelle, abbinate in due coppie con gli stessi abiti, mi sorridevano teneramente e non provavano alcun ribrezzo nei miei confronti. Non potevano che essere il frutto della mia mente. Poi, a un certo punto, la musica tacque, e qualcun'altro fece la sua comparsa. Era una donna bellissima.
Portava un abito che le conferiva l'aria di una sovrana. Con la pelle ambrata, gli occhi scuri, e un sorriso che mi scaldava il cuore, sembrava un angelo sceso in terra. Anche se si trattava di un gioco della mia fantasia, le sorrisi a mia volta, e come un perfetto cavaliere mi inchinai al suo cospetto, in segno di rispetto e ammirazione.
- Ehi! -.
Una voce si elevò in tutta la sala, facendo sussultare Kazy come non mai. Quando i suoi occhi si alzarono, diretti verso la fonte di quella voce, in un primo momento pensò di trovarsi ancora davanti a quella splendida creatura.
- Che cosa ci fai qui?! - disse ancora quella voce, che usciva dalle labbra di una giovane, con la stessa pelle ambrata e gli stessi capelli corvini.
Il ragazzo non era più certo di trovarsi nel mondo dei sogni o nella cruda realtà. Troppo scosso si alzò e si affrettò zoppicando verso la grande scalinata. La certezza che quella persona fosse reale, arrivò nell’esatto momento che si udirono i passi che si stavano avvicinando. Oh no, dov'è il mio cappotto? Non deve guardarmi in faccia! Pensava allarmato Kazy. Intanto, il belare di Djali riecheggiava per tutto lo spazio, come un allarme impazzito.
- Aspetta! Fermo! - disse la ragazza che lo aveva finalmente raggiunto. Col fiatone, Kazy si fermò proprio davanti a un grosso quadro, sentendosi in trappola.
Molto lentamente si girò, e con il cuore che gli batteva a mille si mostrò alla nuova arrivata.
- Come...come sei entrato...qui? -.
Esmeralda cercò di riprendere fiato, ma i suoi occhi color smeraldo rimasero fissi sul volto di Kazy. Una strana sensazione, diretta, esplosiva, come una folgorazione illuminò la bella gitana. Senza dirsi nulla, i due giovani si limitarono a guardarsi negli occhi. Due anime così differenti, ma dal medesimo destino, si erano appena incontrati sui rispettivi sentieri, ormai incrociati tra loro.
 
Angolo dell'autrice
 
Dedico questo capitolo alla mia amica Dreamereby, che oggi è anche il suo compleanno, e spero vivamente che la storia le stia piacendo sempre di più <3 Tanti tanti auguri, mon cherì <3  

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Capitolo 4
*** Un viaggio verso la speranza ***


                                                                                                                         4
                                                                                       Un viaggio verso la speranza
     

- Come...come sei entrato...qui? -.
Esmeralda strabuzzò gli occhi color smeraldo, e per un attimo pensò che fosse uno scherzo della sua immaginazione. Ma più osservava quella creatura davanti a se, più si rendeva conto che tutto fosse reale. Avvertiva una strana sensazione che cresceva a dismisura in ogni parte del suo animo. Una sorta di folgorazione. Uno spiraglio di luce lunare, chiara e argentea, filtrava da qualche fessura di una finestra, illuminando il volto del ragazzo dai capelli rossi. Quella grossa verruca sull'occhio sinistro. Quella protuberanza su un lato della schiena. Tutta quella materia che assemblava lo strano individuo sembrava gridare una rivelazione che scosse la mente stessa della gitana. Ma ciò che l'aveva colpita di più, era proprio quel volto deforme, con l'unico occhio spalancato che brillava di un verde che ricordava i prati in primavera. Esmeralda, interpretò quell'incontro come un segno della provvidenza. O semplicemente, come il colpo di fortuna che stava aspettando.
 
Pv Esmeralda
 
- Ehi tu! Chi diamine sei?! - fece la voce di mio fratello, con tono rude. Qualche minuto prima, io e Clopin ci stavamo rilassando nel salotto privato reale, mentre consumavamo una bella zuppa calda davanti al caminetto accesso. Ma la nostra tranquilla cena "clandestina" era stata interrotta da un forte rumore, proveniente proprio al piano terra del palazzo. Avevamo pensato che fosse un guardiano che si aggirasse attorno all'edificio per una perlustrazione di controllo. Ma non era possibile, data l'ora tarda. Con il dubbio perenne che la nostra serenità fosse in pericolo, e per non trascurare un possibile atto di furto, ci eravamo mossi con cautela discendendo le lunghe scalinate. Entrambi eravamo rimasti di stucco scoprendo che si trattava di un intruso, un probabile vagabondo di strada. Anche se non sembrava una reale minaccia, non potevamo lasciarlo libero a gironzolare in giro. Avrebbe potuto fare la spia alle guardie e avremo rischiato di finire in gattabuia. E se c'era una cosa che urtava mio fratello, più di essere disturbato durante la cena, era proprio quello di marcire in prigione. Dopo una corsa sfrenata, armato di pugnale, Clopin mi aveva appena raggiunta. Avvertendo la sua ira, non persi tempo nel fermarlo. Con un sorriso e un po’ di fermezza, mi misi davanti a lui per calmarlo e spiegargli la situazione.
- Clò! - dissi, bisbigliando al suo orecchio per non farmi sentire dal nostro ospite - Calma i tuoi istinti minacciosi. Credo proprio che ci siamo -.
Mio fratello rimase per un secondo confuso, come se non avesse capito bene le mie parole. Alzò un sopracciglio e sbirciò dietro le mie spalle.
- Eh? Di cosa stai parlando? - chiese il gitano, aggrottando la fronte. Allora tornai vicino al suo orecchio e precisai:
- E' lui..."quello" che stavamo cercando -.
Solo in quel momento l'espressione di Clopin mutò: i suoi occhi si spalancarono vispi e le sue labbra si curvarono in un largo sorriso.
- Ehm...scusami. Sei tu Esmeralda? -.
La voce di quel ragazzo mi arrivò alle orecchie chiara e pacata. Un tono piuttosto delicato per un tipo come lui, dovevo ammetterlo. Solitamente non davo nulla per scontato, ma mi aspettavo un timbro di voce più rauco e grottesco. Intanto, la capretta che lo accompagnava si era avvicinata a me e a Clopin. Una bestiolina insolita come animale domestico, ma alquanto graziosa. Chissà, forse quel ragazzo era un pastore o un contadino.
- Dipende. Tu chi sei? - fu la mia risposta mentre facevo qualche passo verso di lui. Solo in quel momento, dopo aver sfumato l'entusiasmo iniziale, mi concentrai su quel soggetto. Per via della gobba che gli curvava la schiena, risultava basso, mentre braccia e gambe erano scolpite dai muscoli che gli donavano un'aria da lottatore. Nonostante quei dettagli, che potevano intimorire, vedevo in lui uno spirito mansueto e genuino. 
- Mi chiamo Kazy - si presentò con aria timida. Mentre mi parlava, ebbi l'impressione che non riuscisse a guardarmi direttamente negli occhi. Una ciocca folta dei suoi cappelli, di colore rosso vivo, gli nascondeva metà volto, e lui sembrava non curarsene.
- Ho un problema con i documenti di viaggio. Qualcuno mi ha consigliato di rivolgermi a te, ma non posso dirti altro - continuava a parlare con calma. Mentre quel ragazzo uscito fuori dal nulla parlava, io ero troppo occupata a studiare il suo corpo e la sua fisionomia. Ma ciò che mi interessava di più era scrutare meglio il suo volto. Lui se ne accorse e arrossì vistosamente. Con le sue grosse mani si coprì il viso in maniera nervosa.
- M-ma, ma perché mi fissi in quel modo? - disse lui, come se volesse supplicarmi. Mi resi conto che in effetti stavo esagerando.
- Scusami, Kavi - dissi, cercando di fare la disinvolta per spezzare la tensione.
- Mi chiamo Kazy! - mi corresse lui, e finalmente si scoprì il viso. Nonostante la timidezza di poco prima, notai una lieve nota di determinazione in lui. Lo avevo capito dalla luce che splendeva in quell'occhio marcato dal sopracciglio bruno.
- Certo, Kazy. Comunque, tornando alla tua situazione, stavi parlando di documenti di viaggio, o sbaglio? - gli chiesi, curiosa di saperne di più.
- Ehm, sì. Vorrei andare a Parigi - mi rispose quel ragazzo di nome Kazy. La sua risposta mi lasciò incredula, ma anche estasiata. Questa sì che è fortuna, pensai. Era incredibile come certi eventi potessero ribaltarsi in un solo giorno. Avevamo iniziato l'impresa in quel pomeriggio nevoso, convinti che la svolta decisiva ci avrebbe fatto attendere chissà per quanto. E invece, la Dea Fortuna si era strappata il velo che la rendeva cieca, e si stava gettando completamente tra le nostre esili braccia. Mentre sentivo già i primi frutti della vittoria, un suono sordo di zoccoli e di passi frenetici mi fecero voltare indietro.
- Guarda, Esme! - mi richiamò ad alta voce Clopin. Lo zingaro aveva riposto il pugnale nell'incavo dello stivale e il suo istinto selvaggio si era placato.
La capretta dal mantello argenteo stava saltellando e roteando su se stessa, come se si stesse esibendo in una danza. Il mio fratellone la stava accompagnando con passi e battiti di mano.
- Guarda, che brava! Le piace il flamenco! - aggiunse poi, sorridendo divertito senza smettere di ballare. Fantastico! Clopin aveva appena trovato una nuova compagna di merende, o meglio dire, di danze. Ma dovevo ammettere che per essere una capretta, era davvero in gamba. Distogliendo lo sguardo, tornai a rivolgermi a Kazy.
- Dimmi un po’, Kazy, qual è il tuo cognome? - gli chiesi, e in quell'istante vidi il suo volto deforme cambiare. Un velo di tristezza e confusione aveva offuscato quella luce piena di vita che avevo visto qualche minuto prima.
- Beh...se devo essere sincero - cominciò mentre si rigirava le grossi mani, una sull'altra - io non conosco il mio cognome...-.
Quella rivelazione mi lasciò spiazzata. Aggrottai la fronte e rimasi in attesa. Lui mi diede una rapida occhiata, e notando la mia perplessità aggiunse:
- Tanto tempo fa, quando ero ancora un ragazzino, vagavo per strada da solo. Finché non mi sono ritrovato all'orfanotrofio -.
Ascoltai in silenzio quella breve spiegazione, ma non mi bastò. Dovevo sapere di più di quel misterioso ragazzo.
- Capisco. E non sai dirmi altro, tipo prima di quell'evento? - gli chiesi senza mezzi termini. Lui si passò una mano tra i capelli e mi sembrò turbato.
- Io...davvero, non riesco a ricordare... - disse infine, e allora decisi di non insistere. Dovevo cercare di portarlo dalla nostra parte, e non di innervosirlo e rischiare così di perdere quella grande occasione. Dopo averlo scrutato attentamente, avevo realizzato che quel ragazzo era davvero colui che cercavo. La nostra gallina dalle uova d'oro. Il sosia perfetto del principe Kvazimodo. Sarebbe stato un disastro se non fossimo riusciti nel nostro intento e portare a termine la truffa del secolo.
- Una sola cosa mi è certa: andare a Parigi - disse poi il ragazzo dai capelli rossi - Quindi, voi potete davvero aiutarmi? -.
Era il momento che stavo aspettando per agire. Mi voltai subito verso Clopin, che intanto aveva finalmente smesso di giocare con quella capretta prodigio. Gli feci l'occhiolino e lui fece altrettanto, come segno d'intesa.
- Certo, saremo ben felici di aiutarti. Inoltre devi sapere che anche noi andiamo a Parigi - informai Kazy, mentre con una mano dietro la schiena afferravo alcuni pezzi di carta. Uff, Clopin era riuscito a borseggiare quei biglietti per il circo che tanto avevo atteso, e dovevamo rinunciarci. Beh, pazienza.
- Ecco, questi sono i biglietti per il treno, e ne sono giusto tre - gli spiegai, facendo sventolare i falsi biglietti davanti al suo naso. Kazy spalancò l'unico occhio sano, e seguì quei foglietti come una falena ammaliata dalla luce di una lanterna.
- Peccato che il terzo è riservato al principe Kvazimodo - aggiunsi allontanando sempre di più i biglietti dalla visuale del gobbo.

Pv Kazy

Il principe Kvazimodo? Chi era costui?
- Hola, mi amigo! - fece una voce allegra alla mia sinistra. Il ragazzo che poco prima stava ballando con Djali, mi prese per un braccio, e lo stesso fece Esmeralda dall'altro lato. Senza rendermene conto mi stavano trascinando su per le scalinate coperte dai tappeti.
- Io sono Clopin Trouillefou, fratello maggiore di Esmeralda - riprese quel bizzarro tizio - Noi stiamo cercando il principe Kvazimodo per farlo riunire con suo padre, l'ex zar Henri Belstov -.
Osservandolo da vicino, in effetti notai che Clopin ed Esmeralda avevano in comune la stessa pelle ambrata e lo stesso colore nero corvino dei capelli. Non ero un esperto in materia, ma sospettavo che quei due non fossero abitanti russi. Probabilmente erano stranieri, immigrati che si erano trasferiti in Russia.
- Sai, tu assomigli molto al principe - mi informò a un certo punto la fanciulla, e da quella frase ne susseguirono altre, un botta e risposta tra i due fratelli.
- Un esempio, sono i tuoi capelli -.
- Già, i capelli rossi dei Belstov! -.
- Il verde degli occhi delle sorelle -.
- Il mento della zarina -.
- Oh, ma guarda, ha perfino gli stessi incisivi del padre! - disse infine Clopin, tirandomi le guance per allargarmi la bocca. Quella esasperata altalena di commenti mi diede tanto fastidio. Cosa avevano quei due? Mi svincolai e riuscì a liberarmi per riprendere un po’ di calma.
- Aspettate un attimo! - dissi a un certo punto - state forse dicendo che pensiate che io sia questo Kvazimodo? -.
Ero frastornato. Avevo iniziato quel viaggio per trovare delle certezze alla mia esistenza, sperando magari nell'aiuto di qualcuno. E invece, incredibile ma vero, avevo trovato solo altra confusione che mi stava mandando fuori di testa. E poi, chi era questo Kvazimodo? Mentre cercavo di fare luce in quella stramba situazione in cui mi ero cacciato, la ragazza dagli occhi smeraldo si avvicinò con aria decisa.
- Stiamo cercando di dirti che abbiamo visto una marea di persone in tutto il paese. Neanche uno di loro assomiglia al principe quanto te -.
Rimasi un attimo sorpreso dalla fermezza di Esmeralda. Sembrava proprio una persona determinata e sicura di sé. Ma tutto mi sembrava ancora assurdo.
- Non è possibile...- dissi, girando la faccia altrove - non posso essere il principe. Sono solo un orfanello -.
Come potevano quei due pensare che io potessi essere una persona di sangue reale? Proprio io, un ragazzo deforme e brutto cresciuto a pane e minestra; che aveva dormito sui pavimenti duri e freddi; che a malapena sapeva reggersi dritto, anzi, non poteva minimamente farlo. Cercai allora di allontanarmi da quella coppia di squinternati, ma la cosa fu alquanto difficile.
- Ne sei davvero sicuro? Pensaci! - insistette la ragazza dai capelli mossi, seguendomi a ruota - Tu non ricordi cosa ti è successo, giusto? -.
- Mi permetto di aggiungere che, guarda caso, nessuno sa cosa sia successo al principe scomparso - si intromise l'altro, alzando le spalle platealmente.
- Tu cerchi dei parenti, a Parigi - mi fece poi notare Esmeralda.
- E, mi ripermetto, gli unici parenti rimasti del principe sono proprio a Parigi - disse infine Clopin.
No, vi prego, non di nuovo! Ma per quella volta, i loro commenti su quella faccenda mi fecero riflettere. Quindi, se avevo capito bene, questo Kvazimodo era il principe scomparso, unico superstite della grande rivoluzione. E a quanto pare anche lui era un ragazzo con la mia stessa condizione. Oh, se solo fosse vero, pensai tra me. Per un attimo cercai di immaginare un possibile incontro con quel principe; sarebbe stato come trovarsi di fronte a un proprio simile, che potesse capire le tue stesse sofferenze patite per l'aspetto ignobile. Sarei stato più felice in tale situazione, in un certo senso.
- Allora, che ne pensi? - mi chiese poi la bella ragazza, scrutandomi con i suoi occhioni brillanti. Cercai di non arrossire, e mi concentrai sul mio pensiero.
- Essere un membro della famiglia reale? - pensai ad alta voce, mentre gli altri due annuirono. Feci vagare il mio sguardo sul soffitto, così alto e maestoso, e cercai di tornare a quei sogni ad occhi aperti che spesso facevo in passato. Nella fantasia quel ruolo mi sembrava accettabile, proprio perché ero l'unico partecipante della stessa situazione. Ma nella realtà, dove tutti gli altri potevano osservare e giudicare, mi sembrava qualcosa di impossibile. O semplicemente, qualcosa che nessuno avrebbe voluto vedere. Già era un miracolo che uno come me vivesse nella società come un reietto. Alla fine, risposi.
- Beh, non saprei. Ma forse...beh sì, certamente è un sogno che ogni persona fa una volta nella vita; essere un principe -.
- Ben detto, ragazzo! - esclamò Clopin, mentre sua sorella tornò a darmi la sua attenzione.
- Ascolta, ci piacerebbe davvero aiutarti. Sarebbe tutto più facile se avessimo un biglietto in più - cominciò a giustificarsi Esmeralda, come se stesse per darmi una brutta notizia - ma ti ripeto, il terzo biglietto è per il principe Kvazimodo. E dato che sei così incerto sulla questione, non possiamo certo costringerti a seguirci. Quindi ti auguriamo buona fortuna, noi dobbiamo affrettarci -.
Detto ciò, la bella ragazza dalla pelle ambrata prese sottobraccio suo fratello, e si allontanarono insieme per la lunga scalinata, diretti verso l'uscita del palazzo. In quel momento il silenzio era tornato sovrano, sia nello spazio che nel mio animo. Come facevo spesso quando ero nervoso o immerso nei pensieri, mi sfregai le mani, una sull'altra, nel frattempo il mio sguardo si posò su un quadro enorme, proprio lì sulla parete. Strano, che non lo avessi notato prima. Il soggetto era un uomo alto, dalla corporatura robusta, distinto nel suo uniforme blu con la fascia rossa. Aveva capelli rossi legati in una coda corta e rivolgeva allo spettatore gli occhi di un verde profondo. Doveva avere più o meno la mia età, con l'unica differenza che il suo viso era bellissimo, dai lineamenti fieri e perfetti. Oh, se fossi nato con un aspetto normale, magari potevo essere io quello splendido ragazzo in posa. Ma quel viso, non saprei come spiegarlo, ma mi era familiare. Avevo già visto quella faccia, nei miei sogni di fanciullo, o forse nella mia fantasia più sfrenata. Quello, come avrei appreso in futuro, altro non era che lo zar Henri Belstov da giovane. Intanto mi ritornarono in mente le parole di Esmeralda. E se avesse ragione? pensai per un secondo. Mentre ci riflettevo, Djali strofinò la testa sulle mie ginocchia, come se stesse cercando di aiutarmi a sciogliere i miei dubbi. Osservandola, ricordai come avessi preso la decisione di tuffarmi in quel viaggio. Era stato un segno, quello di Djali, a mostrarmi la via. E così come avevo avuto la dritta da parte di quell'indovino nel momento del bisogno, avevo trovato Esmeralda che mi aveva a sua volta proposto un'altra strada da proseguire. Insomma, potevo considerare quell'occasione come un altro segno per poter continuare il mio viaggio per scoprire chi fossi. Era una possibilità che non potevo perdere. Sì, ora sapevo cosa fare.
- Esmeralda! - gridai, voltandomi indietro e zoppicando verso la scalinata. Meno male che i due fratelli erano ancora nel palazzo, proprio al centro della sala, che mi davano le spalle. Udendo la mia voce e il belare di Djali, la coppia si girò verso di me.
- Sì, dimmi - rispose lei, mentre si sistemava una ciocca di capelli fuori posto. Scesi i scalini con cautela per avvicinarmi.
- Ascolta, ho riflettuto sulle tue parole - cominciai - E ho realizzato: se non ricordo chi sono, perché allora non posso essere un principe o comunque un membro della famiglia reale? -.
- Giusto. Ebbene? - fece lei, osservandomi con aria curiosa. Mi accorsi che avevo smesso di avvertire quella spiacevole soggezione quando lei mi guardava.
- Insomma, se nel caso non fossi Kvazimodo, l'unico che può dircelo è proprio lo zar in persona. Almeno ne varrà la pena il tentativo e l'errore, e io potrò ritornare sui miei passi senza rimpianti -.
Dopo aver spiegato il mio punto di vista, Esme sembrava essere d’accordo con me, intanto Clopin fece una ruota acrobatica, e con entusiasmo si avvicinò a me. Che agilità! Era proprio un personaggio insolito quel tipo.
- Ma se tu fossi il principe - mi spiegò lui, allargando un sorriso smagliante - allora finalmente scopriresti chi sei e ritroveresti la tua famiglia -.
La mia famiglia? pensai. Sarebbe meraviglioso...Non mi importava se avessi scoperto di essere un membro reale, non era quello il punto. Volevo solo trovare la persona che mi aveva donato quel ciondolo così unico " Insieme a Parigi". Famiglia reale o no, era tutto ciò che desideravo.
- Clopin ha ragione - aggiunse poi Esme, sorridendo compiaciuta - inoltre, ciò che conta è che tu arrivi a Parigi -.
Quelle parole mi accesero di una nuova luce, una speranza che mi stava incoraggiando ad accettare quella proposta e appena Clopin mi offrì la mano con un "affare fatto?", io non persi un secondo di più.
- Ci sto! - risposi, e afferrai la sua mano con sicurezza. Ma avevo dimenticato la mia forza e come conseguenza udii scroccare le dita sottili del mio nuovo compare, seguito da un gemito di dolore.
- Ops! Scusami - dissi dispiaciuto, mentre Clopin ritirava la mano e lanciandomi un'occhiataccia. Invece Esmeralda ci guardò ridacchiando. Infine, la vidi volteggiare in mezzo alla sala; la gonna viola, costellata dalle toppe di vari colori, si allargò come una ruota, mostrando le sue gambe snelle.
- Madame e Messier, ecco a voi il principe scomparso, sua altezza reale Kvazimodo Belstov! -

Pv Febo

Accucciato dietro la balconata, al piano più superiore del palazzo, osservavo esterrefatto la scena. Le mie orecchie avevano sentito bene? Il principe Kvazimodo? Allora era ancora vivo? Come un avvoltoio appollaiato su un ramo morto, stavo scrutando attraverso un binocolo quei tre individui. La mia attenzione si era fermata su quella creatura deforme e orrenda. Da quando si era sparsa la voce, in quella stessa mattinata, mi ero mobilitato all'istante e avevo cominciato a fare ricerche. Se era vero che ci fosse una possibilità che il principe Kvazimodo fosse sopravvissuto, dovevo assolutamente esserne certo.
- Questa storia non piacerà al padrone - dissi a bassa voce, evitando di farmi udire. Già, il padrone...   Mentre riflettevo notai che i tre si stavano accordando per lasciare la Russia e giungere così a Parigi, e quella notizia mi fece scattare. Non potevo essere sicuro al 100%, ma dovevo informare il mio padrone. Così, facendo attenzione a non essere udito o visto, striscia via lungo la ringhiera, e dopo aver superato un cunicolo che portava a un passaggio segreto, mi ritrovai all'aperto, al gelo e al buio. Il mio cavallo, Achille, mi aspettava al di là di un cancello secondario. Appena mi vide nitrii contento. Anche lui non vedeva l'ora di andare via da quel posto e tornare al suo giaciglio nella stalla. Saltai in sella e spronai il destriero al galoppo, mentre la nebbia della notte ricopriva le strade e le vie di San Pietroburgo. Senza perdere un secondo di più, mi diressi verso il quartier generale dell'Unione Rossa, l'organizzazione alleata con Lenin, nonché la vera potenza che manteneva le redini della situazione in Russia. Appena arrivai a destinazione, scesi dalla sella e mi avvicinai all'uscio di una porta in legno massiccio. Il posto in cui mi trovavo era isolato e circondato da semplici mura, dove l'oscurità regnava sovrana insieme alla neve. Neanche la luce della luna osava penetrare in quella coltre oscura. Battei con decisione sulla porta, e una fessura si spalancò rivelando due occhi dall'espressione fredda, mentre una voce profonda mi chiedeva chi fossi. Allora scoprì un braccio e mostrai il tatuaggio al mio interlocutore; una croce rossa in stile gotico. A quel punto, la porta si aprì e io potei entrare senza problemi. Anche se ero la spia personale del capo di quella organizzazione, le regole per il riconoscimento erano uguali per tutti. Mi liberai del mantello e del cappello, e a passo svelto mi avviai verso la scala a chiocciola che portava a un piano sotterraneo. Appena mi trovai lì sotto, le mie narici avvertirono un odore acre e pungente. Non saprei come descriverlo, ma era così forte che dovetti usare un lembo della sciarpa per coprirmi il naso. In quel luogo, che poteva sembrare una cantina troppo grande, vi era un'atmosfera lugubre e surreale. Nonostante non fosse la prima volta che ci mettessi piede, quel seminterrato mi procurava una sensazione sgradevole. Per palesare la mia presenza, emisi un colpo di tosse, e allora, dalla penombra di un angolo, si alzò una voce che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque.
- Quante volte vi ho detto che non voglio essere disturbato! -.
Un'ombra nera, più oscura della notte stessa, si mosse, e una candela fu accesa. La luce tenue fu sufficiente per illuminare quella figura che finalmente prese forma. Era il mio padrone, l'illustre e capo Klod Frollo. Appena vidi il suo volto quasi mi scappò un sussulto di spavento.
- Ah, Febo, mia fedele spia, sei tu - disse quella figura, rivestita di una tunica nera - Ne è passato di tempo -.
In effetti erano trascorsi tanti anni dall'ultima volta che lo avevo visto. Esattamente da quando quel giorno, dopo la morte di mio padre, mi aveva nominato vicecapo dei rivoluzionari e suo fidato informatore. Anche se, per essere precisi, il mio era solo un ruolo secondario ridotto a semplice lacchè.
- Padrone...che piacere. Vi trovo in ottima forma - dissi, con un po’ di titubanza. La reale ragione del mio turbamento, e dello spavento di poco prima, era dovuto proprio allo stato di salute ed estetico di quell'uomo. Come era possibile che fosse ancora lo stesso? Eppure ero certo che lo avrei ritrovato in circostanze ben diverse. Insomma, doveva avere più o meno 80 anni, e lui sembrava attivo ed energico come quando lo conobbi. Il suo viso si deformò in una smorfia compiaciuta, e le ombre che plasmavano i suoi lineamenti gli conferivano un'aria inquietante.
- Non ti aspettavo. Come mai sei venuto qui? - chiese il mio padrone, mentre si accingeva ad espandere la luce accendendo altre candele. Finalmente, direi. In quell'istante mi tornò alla mente il motivo per cui mi fossi precipitato fino a lì. Feci un respiro e cercai le parole adatte.
- Padrone, per senso del dovere, dato che mi avete fatto l'onore tempo fa di diventare vostro seguace, sono venuto qui per darvi alcune notizie -.
L'uomo girò intorno, troppo occupato nel mantenere accese le fiammelle, e non sembrava affatto sorpreso o turbato. Solo in quel momento la luce che si stava diffondendo mi diede modo di vedere meglio quel posto; una stanza piena zeppa di libri, manoscritti, pergamene, ampolle e tante altre cianfrusaglie.
- Oh, sono a conoscenza delle voci che girano di recente - mi disse lui - ma saranno le solite chiacchiere di corridoio. Inoltre, se anche fosse vero che Henri Belstov stia cercando quel mostro di suo figlio, dubito che lo troverà. Tutta la sua stirpe è stata decimata -.
Il mio padrone allungò un sorriso malvagio, e quella sua sicurezza mi diede maggiore difficoltà per rivelargli la vera notizia.
- Non c'è alcun bisogno di allarmarsi. Tutta la Russia è ormai sotto il nostro controllo - terminò Klod Frollo, con una punta di orgoglio nella voce.

Pv Frollo

- Veramente...c'è altro che dobbiate sapere, signore -.
La voce della mia spia si fece titubante, quasi tremante. Cosa stava succedendo? Ero sul punto di chiedere spiegazioni, ma il ragazzo mi bruciò sul tempo.
- Temo che il principe Kvazimodo sia davvero vivo... - disse tutto d'un fiato, e quelle parole mi pietrificarono all'istante.
- Cosa hai detto? - mi rivolsi a lui - Mi stai prendendo in giro, Febo? -.
Ero incredulo e pieno di sgomento. Non potevo credere che quella notizia fosse vera. No, non doveva esserlo, altrimenti tutto ciò che avevo fatto negli ultimi anni sarebbe risultato vano. Scrutai il viso del ragazzo dai capelli dorati e notai che c'era una serietà che mi fece sprofondare nell'agitazione. Senza accorgermene mi fiondai su di lui, schiacciandolo su una parete della stanza, ansioso di saperne di più.
- Mi stai dicendo che quel moccioso, quel ripugnante essere immondo, è sopravvissuto?! Non ci credo! Te lo sei inventato! ... -.
Ero così fuori di me che sarei stato capace di sfoderare il pugnale e tagliare la gola alla mia spia personale, pur di sfogare la rabbia che stava ribollendo dentro le mie viscere. In quel preciso istante pregai addirittura il demonio che quella notizia fosse falsa o semplicemente un pessimo scherzo.
- Io l'ho visto, signore! - proferì il ragazzo, cercando di mantenere le distanze - E si sta mettendo in viaggio diretto proprio a Parigi -.
Cosa!?...
La mia mente si annebbiò e per un attimo ebbi l'impressione che la mia anima stesse lasciando il corpo. Forse la Morte era giunta finalmente a pareggiare i conti con me. Ma non era così.
- Maledizione! - urlai a squarciagola, tanto da far tremare il soffitto e le pareti. Mi voltai e con violenza scaraventai via tutto ciò che c'era sul mio tavolo da lavoro, comprese alcune candele che si spensero in un soffio.
- Tutto quello che ho fatto. Il grande piano di una vita. Non posso permettere che tutto vada in fumo per colpa di un mostriciattolo... - pensai ad alta voce non curandomi di Febo, che aveva visto e udito. Non mi importava di nulla. L'unica cosa che volevo era assicurarmi che quel mostro deforme, che fosse davvero o no Kvazimodo, sparisse dalla faccia della terra. Sì, lo avrei eliminato prima che potesse raggiungere l'ex zar, a Parigi. Ormai, Henri Belstov si trovava esiliato in Francia da diversi anni, e nonostante fosse appoggiato e protetto dai suoi parenti, non avrebbe mai avuto la forza necessaria per tornare nella sua patria per rivendicare il trono. Sarebbe stato come suicidarsi. Ma se con lui ci sarebbe stato anche l'erede legittimo, il suo unico figlio maschio, allora mi sarei dovuto preoccupare sul serio. La maledizione dei Belstov non era ancora giunta al suo termine, a quanto pare.
- Signore, mi dica cosa devo fare, e la farò - disse poi la voce di Febo, e sul mio volto si aprì un sorriso diabolico.

In quella stessa notte molte cose avvennero. Era l'inizio di una grande avventura, fatta di pericoli, intrighi, ma anche di speranza. Kazy, insieme alla sua inseparabile capretta Djali, era già nei pressi del binario dove lo attendeva il treno tanto bramato, che lo avrebbe condotto nella bella Parigi. I suoi compagni di viaggio, Esmeralda e Clopin, lo aiutarono a salire sul treno, a sua insaputa, in maniera furtiva. Un fischio assordante si fece sentire, mentre le prime nuvole nere si dilatarono come mantelli fumosi nel cielo. I primi colori dell'alba stavano nascendo, nel preciso istante in cui il treno si mosse. Kazy guardò dal finestrino vicino dove era seduto, e premendo il naso contro il vetro salutò malinconico il magnifico paesaggio di San Pietroburgo. Forse, un giorno non lontano, lo avrebbe rivisto. Sempre se fosse stato un ritorno felice, e senza alcun rimpianto. " Addio. Parigi mi aspetta!".
                 

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Capitolo 5
*** Prossima fermata verso l'oblio ***


                                                                                                              5
                                                                        Prossima fermata verso l'oblio

 
Il treno procedeva a velocità moderata. Il tempo si era mantenuto abbastanza mite e non c'erano nuvole che presagivano l'arrivo di un temporale. Il paesaggio che si estendeva era di una bellezza sfolgorante, con le colline e le montagne innevate. Quel manto candido sembrava brillare sotto i fasci solari, come se una patina tempestata di minuscoli diamanti si fosse posata su di esso. Insomma, era una giornata ideale per mettersi in viaggio. Da quando la rivoluzione industriale aveva sostituito le raffinate carrozze con le enormi macchine a vapore, l'uomo aveva fatto passi da gigante e si credeva capace di tutto. Ma anche il progresso per quanto splendido, richiede in cambio qualcosa. E quanto più si ottiene, più si desidera. Ma non era il caso di un orfano come Kazy. Era la prima volta che viaggiava su un treno, e quell'esperienza lo colmò di euforia. Non faceva altro che guardare fuori dal finestrino e lasciarsi incantare su quel paesaggio in perenne movimento. Invece, Esmeralda non era per niente stupita. Aveva già viaggiato in quel modo, e allora rimase a studiare le reazioni del suo compagno di viaggio, che sedeva davanti a lei.

Pv Esmeralda

"Ma guardalo! Sembra un bambino alla sua prima gita " pensai tra me, mentre osservavo Kazy. Ci eravamo messi in viaggio alle prime luci dell'alba, e come avevo pianificato, era filato tutto liscio. Il "principe" si era completamente affidato a me e a mio fratello, e ormai lo avevamo in pugno. Non per cattiveria, ma quel ragazzo dal volto " particolare" era la nostra unica speranza per realizzare il nostro sogno di ricchezza. Mentre lo osservavo, così ignaro, pensavo a quanto fossi stata fortunata a trovarlo. Mi chiedevo però da dove venisse, dato che, come mi aveva accennato al nostro primo incontro, soffriva di qualche sorta di amnesia. Chissà cosa gli era successo? Beh, poco importa. Non avevo tempo per soffermarmi a certi dettagli. 
- Ti piace viaggiare in treno, vero? - gli chiesi all'improvviso. Nel vagone eravamo rimasti solo io e Kazy. Clopin era andato a fare un giro per i corridoi, seguito a ruota dalla capretta che si comportava come un cagnolino. Mio fratello si annoiava facilmente durante i viaggi troppo lunghi e non riusciva a stare fermo neanche se lo avessi legato al suo posto. 
- Beh...a dire il vero, non mi capita tutti i giorni... - mi rispose il ragazzo dai capelli rossi. Solo in quel momento, grazie alla luce del sole che filtrava dal finestrino, mi resi conto che quel colore aveva delle sfumature sul rosso ramato.
- Ti capisco - cominciai - Deve essere il tuo primo vero viaggio -.
  Kazy annuì deciso, e sembrò che la nostra breve conversazione fosse terminata. Ma il giovane gobbo mi sorprese quando mi fece una domanda insolita.
- Quindi...tu e Clopin siete una specie di investigatori? - fece la sua voce un po' titubante. Mai mi sarei aspettata una domanda simile. Dato che Kazy non sapeva tutta la verità su quella truffa, o meglio, non sapeva proprio nulla, le cose si stavano facendo a dir poco complicate. 
- Beh, non esattamente - risposi, cercando di non far trapelare l'incertezza - Diciamo che la faccenda dei Belstov ci sta così a cuore che quando abbiamo saputo della notizia della probabile sopravvivenza del Principe, subito ci siamo mobilitati nelle ricerche -.
A quel punto sperai di aver soddisfatto la curiosità del ragazzo; odiavo essere presa alla sprovvista e di dovermi inventare nuovi stratagemmi. Non che per me fosse così difficile, ma era comunque fastidioso.
- E tu invece? Anche se non ricordi nulla del tuo passato, perché all'improvviso hai deciso di cercare la tua famiglia, nonostante sia passato tanto tempo? - gli chiesi tutto d'un fiato, spostando l'attenzione su di lui, per evitare di scontrarmi con altre scomode domande. Kazy si distaccò dal finestrino e cominciò a rigirarsi le mani tra loro. Avevo notato che lo faceva spesso, come per scaricare la tensione. Dopo qualche secondo di silenzio, lui si fece coraggio. 
                                                                    - Ho vissuto tanto tempo in un orfanotrofio. Ero lì da quando ero un ragazzino, e non ho mai saputo se i miei genitori fossero morti... o mi avessero abbandonato. In quel posto mi hanno sempre fatto pesare la mia diversità. Il mio unico amico era un bambino di nome Klaus, la sola persona che vedeva in me i pregi e le qualità di un essere umano. Nonostante tutto, però, ogni giorno speravo di ricevere la visita di qualcuno che volesse reclamarmi. Un uomo o una donna che mi portasse via da quel posto pieno di bambini smarriti. Ma quel giorno non è mai arrivato. E dopo che il direttore mi ebbe specificato che non mi voleva più tra i piedi, ho pensato di fare un tentativo. L'unico indizio che ho è questo ciondolo e questa promessa; insieme a Parigi -. 
            Quando la sua voce si placò, così colma di tristezza, dovetti fare del mio meglio per rimanere concentrata per non rilevare le mie emozioni. Ero abituata a sentire certe cose, in fondo anche io e Clopin avevamo una storia passata non tanto fiorente. Ma non era semplicemente il dramma della vicenda, ma fu il suo coraggio e la sua determinazione a colpirmi. Per una persona "normale" già doveva essere difficile, figuriamoci per uno come lui. Un povero ragazzo gobbo e deforme, che era stato ripudiato da molte persone, anche da quelle che dovevano proteggerlo e tutelarlo, e aveva ricevuto solo indifferenza e riluttanza. Forse, aveva sofferto più lui, che io stessa nella mia vita di emarginata.
- Mi dispiace. Posso allora comprendere la tua decisione - dissi a mia volta, ma senza aggiungere altro, perché la mia voce mi avrebbe tradito per il leggero tremolio e il tono rotto dalla commozione. Kazy mi guardò con attenzione, come se si aspettasse chissà quale reazione, ma fu comunque molto dolce nel sorridermi, come se mi volesse ringraziare per averlo semplicemente ascoltato. Era un essere così genuino che quasi mi spiazzò del tutto. Inoltre, i suoi occhi verde speranza, nonostante la deformità, traboccavano di una bontà d'animo fuori dal comune. Strano, mi sembrava quasi familiare quella sensazione. Qualcosa che non provavo da moltissimo tempo. Kazy tornò per un attimo a guardare verso il finestrino ed emise un leggero sospiro malinconico. 
- Sai, anche se sono così felice, credo che sentirò la mancanza della Russia - disse lui, mentre ammirava il candore della neve sugli abeti.
- A me no...- mi intromisi, leggermente distaccata. Non volevo sembrare antipatica, ma mi ero abituata a non affezionarmi a cose come luoghi e paesi, che per me risultava difficile provare attaccamento sentimentale. Mi sembrava tutto così inutile e sciocco.
- Ma perché? - dibatté Kazy, visibilmente sorpreso - Era pur sempre casa tua! -.
La sua reazione mi fece quasi tenerezza, ma non tardai comunque a rispondergli.
- Era solo un posto come tanti. Niente di così importante - tagliai corto, con gran fermezza. Non pretendevo che Kazy, o qualcun'altro, capisse il mio punto di vista, ma niente mi avrebbe fatto cambiare idea. La casa è dove regna il cuore, almeno così ho sentito dire. Beh, il mio cuore è sempre stato libero e non ha mai avuto bisogno di un posto fisso dove poter vivere. Credo...
- Come tanti? - aggiunse poi il gobbo - Quindi sei stata in altri posti, al di fuori della Russia? -.
Colta di sorpresa, alzai lo sguardo e vidi gli occhi del mio compagno di viaggio brillare per l'emozione. Ormai mi sentivo con le spalle al muro.
- Beh, in verità, io e Clopin abbiamo origini franco-spagnole - risposi semplicemente, con una nota di disagio. Non mi piaceva parlare delle mie origini, o di raccontare del mio passato. Mi faceva tornare in mente i pochi giorni spensierati, da piccola, quando vivevo ancora in Andalusia.
- Davvero?! - esclamò Kazy, quasi incredulo. Perché si stava entusiasmando così tanto? Io non ci trovavo niente di così speciale.
- E' meraviglioso! - disse ancora estasiato - quindi, in un certo senso, è come se stessi tornando alla tua vecchia casa...-.
- Uff, ma che cos'è, questa mania delle case?! - sbottai ad alta voce, ormai esasperata da quell'argomento. Forse ero stata troppo dura, dato che il ragazzo si ritirò un po', giustamente intimorito. Mi sistemai nervosamente il berretto sulla testa, ed evitai di guardare Kazy negli occhi.
- Scusami...- disse poi, rompendo il silenzio - Ma credo che sia una cosa molto importante, invece -.
Certo che, dovevo ammetterlo, nonostante la timidezza, quel ragazzo aveva le idee chiare. Quando voleva, sapeva far valere i suoi ideali.
- Magari per te...ma io non ci trovo nulla di così essenziale. Ciò che conta è avere il pane in tavola - dissi convinta. A un certo punto, avvertì la presenza vicina del ragazzo deforme. Riuscivo a sentire il suo respiro profondo, mentre prendeva tempo.
- Io ti invidio tantissimo, Esmeralda...- lo sentì dire. Quella confessione mi diede una strana sensazione. Di cosa stava parlando?
- Perché dici questo? - gli chiesi, voltandomi verso di lui. Aveva uno sguardo così triste e amareggiato.
- Non ti conosco bene, così come non conosco il tuo passato - cominciò a spiegarmi - ma almeno tu hai dei ricordi su cui aggrapparti. Mentre io...-.
All'improvviso si fermò, ammutolendo di colpo. I nostri occhi si incrociarono e allora mi accorsi che anche i nostri volti si erano avvicinati, mentre una certa atmosfera si stava creando in mezzo a noi. Le parole di Kazy mi avevano turbata, ma al tempo stesso compresi cosa stesse provando...
- Ehi, ehi, che succede qui? - fece la voce di mio fratello, che era entrato proprio in quel momento, facendomi quasi sobbalzare dal sedile. Accanto a lui c'era Djali che belò piano, come se anche lei ci stesse sbeffeggiando. Non so il perché, ma quella situazione si stava facendo imbarazzante, e rimasi allibita senza riuscire a spiccicare una parola. Allora tornai a guardare Kazy. La sua faccia si stava colorando di rosso, e questo non mi aiutò affatto.
- Aaawww, che carini, sembrate due innamorati al loro primo litigio - sentenziò Clopin, con una nota sdolcinata nella voce. Spalancai gli occhi con aria esterrefatta e stavo per obiettare, ma la reazione di Kazy fu così fulminea da farmi tacere. Coprendosi il volto con una mano, si alzò di scatto e usci dalla cabina, zoppicando goffamente.
- Sei andato fuori di melone?! - chiesi aspramente a quel cretino di mio fratello.
- Eh? Ops, allora ho davvero interrotto qualcosa? Scusami, Esme, io stavo scherzando, non pensavo che voi due...- cominciò a giustificarsi, alludendo a qualcosa che non mi era proprio passata per la mente, e che mi diede ancor più disagio. A volte Clopin sapeva essere davvero ingenuo, o semplicemente stupido.
- Ma che hai capito?! - sbottai, e gli lanciai il berretto in faccia - non è successo niente! Stavamo solo parlando -.
- Ah, parlando...ora si chiama così quello che accade in un'attrazione? - ridacchiò lui, guardandomi con aria furbetta.
- Piantala! Non essere ridicolo! - sbuffai seccata, per poi mettermi in posa di rimprovero. Clopin capì che non avevo voglia di scherzare, e allora si ricompose tornando a un atteggiamento serio. Poi, aprendo la porta fece un cenno col capo a Djali e disse:
- Vai a cercare il tuo padroncino, cherì -.
La capretta ubbidì, saltellò fuori e finalmente io e Clopin rimanemmo soli. Con un gesto stanco accavallai le gambe e incrociai le braccia, mentre mio fratello prese posto davanti a me, dove poco fa vi era Kazy.
- Esme, cherì, a parte gli scherzi - cominciò a parlare il gitano - mi spieghi una cosa? Perché non hai rivelato al nostro complice il nostro grande e geniale piano? -.
Clopin aveva perfettamente ragione. Rendere partecipe il sosia del principe Kvazimodo faceva parte dei piani. Così ci saremo potuti preparare meglio per insegnargli tutto su come essere un vero membro della corona reale. 
- Sinceramente non lo so - gli risposi, girando la testa verso il finestrino - Però tranquillo. In fin dei conti, tutto quello che vuole è andare a Parigi. Quindi pensaci, in questo modo non dovremo rinunciare a un terzo della ricompensa. Tutto quel denaro sarà nostro -.
Ogni volta che ripensavo a quei dieci milioni di rubli, che ci avrebbero salvato definitivamente dalla miseria, le mie più intime speranze si riaccendevano, e allora tutto mi sembrava levito. Anche mentire in maniera spudorata.
- Ne sei sicura? Non è che c'è qualcosa di più che devi dirmi? - mi chiese con tono indagatore mio fratello.
- Di cosa stai parlando? Sii più chiaro - gli domandai a mia volta, puntandogli gli occhi pungenti addosso.
Clopin si appoggiò sullo schienale e allungò le gambe sul sedile. Alzò leggermente il cappello dalla falda larga, e mi mostrò uno sguardo profondo.
- Come vuoi: non è che gli hai taciuto la verità perché in fondo nel tuo cuore speri che sia davvero lui...? -.
Quelle parole mi lasciarono ammutolita. Sembrava un discorso senza senso. D’altronde cosa mi potevo aspettare da mio fratello.
- Non dire idiozie - dissi semplicemente, alquanto seccata. Se c'era una cosa di Clopin che mi faceva saltare i nervi era il suo modo insistente di "spiarmi".
- Quindi mi stai dicendo che l'hai scelto solo e soltanto perché il suo aspetto ti ha convinta? - chiese ancora il gitano, non volendo lasciare la presa.
- Ovviamente - risposi convinta - Lo sai benissimo che il vero principe è morto...l'ho sempre pensato -.
Detto ciò, onde evitare che quella insensata discussione continuasse, mi girai nuovamente e ignorai la pressione degli occhi di Clopin. Come gli era venuto in mente una cosa del genere? Ridicolo! Poi mi tornò in mente quella notte di tanti anni fa...No, nonostante il mio intervento, non poteva essere sopravvissuto... Una morsa dolorosa al cuore tornò dopo tanto tempo a straziarmi, allora insabbiai per l'ennesima volta quell'inutile ricordo.

PV Kazy

Era una splendida mattina di primavera. La cosa mi risultava davvero strana, dato che poco prima avevo visto la neve, così bianca, ammassata sull'intero panorama. Eppure, in quel momento, non c'era neanche il più piccolo fiocco di neve. L'aria sembrava dolce e mite, con i raggi caldi del sole che mi accarezzavano il viso, e il vento leggero mi scompigliava i capelli. Poi i miei occhi catturarono l'immagine di una figura snella e armoniosa. La vedevo stagliarsi da lontano, su una collinetta colma di fiori selvatici. Mentre mi portavo una mano sopra gli occhi per difendermi dalla luce solare, quella figura si stava avvicinando, con passi larghi ma leggiadri. Sembrava quasi che stesse danzando. Rimasi esterrefatto quando capì che era quella splendida e giovane donna che avevo incontrato nei miei sogni. Con la pelle ambrata, gli occhi scuri, e i capelli lunghi corvini. Il suo sorriso dolce mi fece arrossire, e infine mi porse la mano, come se mi invitasse a seguirla. Perché questa donna così bella non ha paura di me? Mi chiesi, mentre ero ancora indeciso sul da farsi. Poi vidi le sue labbra rosse muoversi e pronunciare il mio nome.
- Kazy...Kazy -.
Anche se era davanti a me, il suono sembrava arrivare da lontano, tanto che era debole e poco chiaro. Ma ero sicuro che fosse il mio nome. Allora mi decisi e posai delicatamente la mano su quella della misteriosa persona. E fu in quell'istante che la voce divenne più chiara al mio orecchio. Anzi, era vicinissima.
 
- Kazy! Svegliati! -.
Per un brevissimo secondo gli occhi sbatterono. Un attimo di buio totale, e poi le palpebre si riaprirono. Le forme e i contorni erano ancora sfuocati. Davanti a me c'era ancora la giovane donna dalla pelle ambrata e dai capelli corvini. Ne ero assolutamente certo, dato che stringevo la sua mano.
- Bella...- sussurrai dolcemente, rivolgendomi alla creatura armoniosa che mi teneva compagnia.
- Kazy! Stai sognando? - fece quella voce. Quando i miei occhi si abituarono allo spazio circostante, guardandomi attorno, capì dove mi trovavo. Era la cabina di un treno. Ed Esmeralda, la mia compagna di viaggio era di fronte a me, che mi guardava con i suoi occhi color smeraldo. Era stato tutto un sogno...ma poi mi accorsi che la mia mano stringeva quella della gitana.
- Ah, bene, il bello addormentato si è svegliato! - fece una voce vivace alle spalle della ragazza. La riconobbi; era suo fratello, Clopin.
- Esmeralda...ah io...- farfugliai qualcosa, poi allontanai di scatto la mano, profondamente imbarazzato. Sentivo la mia faccia andare a fuoco.
L'avevo chiamata "bella" ad alta voce...cosa avrà pensato?!
- Ehi, va tutto bene? - mi chiese Esmeralda, con disinvoltura e semplicità. Mi rilassai un po' e mi calmai. Infine annuì, stiracchiandomi a dovere.
- Devo essermi addormentato senza accorgermene - spiegai, mentre mi ricomponevo. Avevo i capelli spettinati e dovevo avere un'aria disordinata.
- L'avevo capito - fece lei, con tono ironico - ma adesso sbrigati, dobbiamo andare -.
- Eh? Andare dove? - chiesi, ancora un po' intontito dal sonno. Leggermente confuso, presi il mio mantello, la sciarpa, e con il bagaglio a mano seguì i miei amici verso un corridoio. Djali saltellò dietro di noi, anche lei ignara quanto me della situazione.
- Grrr! Ecco cosa detesto di questo governo. Anche il visto deve essere rosso! -.
Dietro a tutti, sentì Clopin protestare di qualcosa che non mi era chiaro, mentre sua sorella lo ammoniva a tacere.
- Il mese scorso era ancora viola. Cosa hanno contro il viola!? E' un colore bellissimo, regale per essere precisi! Maledetti! - lo sentì addirittura imprecare.
- Clopin, stai zitto e cammina! - lo sgridò Esmeralda.
Quella faccenda era davvero strana. Perché all'improvviso ci eravamo allontanati dai nostri posti? Con preoccupazione mi rivolsi alla mia amica.
- Esmeralda, cosa succede? -.
La giovane girò le testa giusto per guardarmi e mentre continuava a camminare rispose:
- Nulla di grave, Kazy. Stai tranquillo -.
Potevo anche sembrare un tipo molto ingenuo, sempliciotto per molti versi, ma la mia condizione all'orfanotrofio mi aveva insegnato a riconoscere i falsi " va tutto bene" o " niente". E io sentivo che anche in quel momento c'era qualcosa sotto che non volevano svelarmi. Alla fine ci trovammo in un vagone del tutto diverso dagli altri. Ero buio e freddo, senza cabine e stracolmo di pacchi, scatole, e merci di vario tipo.
- Bene, ci arrangeremo per un po' stando qui- disse la gitana, mentre era intenta a sistemare i bagagli con aria soddisfatta.
- Per tutte le matrioske di San Pietroburgo! Qui si congela da morire! - fece Clopin, stringendosi tra le braccia, battendo i denti. Il suo pizzetto tremolò e mi fece sorridere per un attimo. Assomigliava in qualche modo a Djali, perché avevano lo stesso ciuffetto di peli sotto al mento.
- Vorrà dire che ti scongelerai a Parigi - lo canzonò sua sorella. Notai che era molto più spontanea in quei momenti. Ma, beh, era normale, pensai. In fondo erano fratelli. Ma provai comunque un po' di amaro dispiacere ripensando a quanto fosse stata poco socievole con me in precedenza. Tralasciai quei pensieri e mi avvicinai a loro.
- Mi dite cosa sta accadendo? Ci sono problemi con i documenti di viaggio, Clopin? - chiesi rivolgendomi in particolare allo zingaro, dato che si era lamentato per tutto il tempo a tal proposito. Con un certo disagio, lui si grattò la fronte e biascicò con le parole.
- Beh, non proprio...il fatto è..-.
- Il fatto è che si tratta di Djali - intervenne Esmeralda, togliendo dall'imbarazzo suo fratello.
- Djali? Perché? - chiesi, e in quell'istante, come se avesse capito tutto, la capretta ci raggiunse e si accoccolò vicino alle mie gambe.
- Vedi, gli animali non sono ammessi sui treni, soprattutto le caprette. Ecco perché ci siamo dovuti nascondere. E di certo, non possiamo permettere che questa piccolina venga cacciata fuori -.
Quella spiegazione mi tolse ogni dubbio dalla mente e il mio cuore si ammorbidì come il burro nella pentola. Il solo pensiero che i due gitani si fossero preoccupati sia per me che per Djali mi colmò l'animo di commozione e felicità. Erano proprio due brave persone.
- Oh, non immaginavo... - dissi, leggermente intimidito - Però, se è così, vi sono davvero...-.
Non ebbi il tempo di finire la frase per ringraziarli che un esplosione mi fece saltare. Eh, no, intendo in senso letterale del termine. Quell'esplosione, avvenuta chissà perché e come, ci fece saltare dal posto, come tre molle di un divano ormai da buttare. Un forte ronzio mi stava torturando le orecchie, mentre mi trattenevo la testa con entrambe le mani.
- Cosa è successo! - sentì poi gridare Esme, che era finita proprio sotto di me. Scossi il capo ed ebbi modo di vedere Clopin correre verso quella che, pochi secondi prima, era stata la porta del vagone bagagli. C'era solo una grossa apertura, dove l'aria fredda penetrava all'interno.
- Che tragedia! - urlò il gitano, deformando la sua faccia in una smorfia di terrore - Il vagone ristorante si sta allontanando!...e non mi ero ancora concesso un bicchierino! -.
Il tono melodrammatico di Clopin, se così possiamo definirlo, fece spaventare ed esasperare la gitana dagli occhi verdi. Se la situazione era già stata abbastanza difficile, figuratevi in quel preciso istante, trovandoci in un vagone che sfrecciava a tutta velocità. Sballottolati da una parte all'altra, io e la ragazza riuscimmo a rimetterci in piedi, mentre Djali cercava di mantenersi in equilibrio sulle zampe traballanti. Intanto il gitano col pizzetto aveva appena scoperto che la carrozza del carbone stava praticamente andando in escandescenza.
- Cosa possiamo fare? - chiesi ai miei amici, agitato e nervoso. Mai avrei pensato di trovarmi in una situazione di grave pericolo come in quel momento. A un tratto Clopin si tolse il mantello e il cappello. Li affidò a sua sorella e aprì l'altra porta del vagone, quella che conduceva alla carrozza del carbone.
- Qualcuno deve andare a perlustrare - disse lui con decisione. Le sue gambe snelle saltarono come quelle di una rana, e si aggrappò a una scalinata di ferro dall'altra parte.
- Clopin che vuoi fare? E' pericoloso! - gli gridai dietro, col timore che potesse farsi male. Lo vidi girarsi verso di noi, e con i capelli svolazzanti, scuri come lo stesso carbone, ci fece un segno di vittoria.
- Andrò a dare un'occhiata. Farò in un lampo! - e così dicendo, si arrampicò agilmente fin sopra la carrozza e sparì dalla nostra vista. Ero così scosso e sorpreso al tempo stesso, che non potei fare a meno di rivolgermi ad Esmeralda con preoccupazione.
- Sei certa che tuo fratello sappia cosa fare? - le chiesi, mentre mi mantenevo saldo alla porta del vagone. La zingara allargò un sorriso.
- Sai, Clopin può anche sembrare un tipo strambo. Ma credimi, è un tipo in gamba e quando ti trovi in pericolo è sempre il primo a farsi avanti -.
- Ah...ma è sempre così, come dire, spericolato? - le chiesi ancora, mentre ammiravo il suo viso illuminarsi da quella emozione. Intanto, solo in quel momento mi accorsi che il cielo si era cominciato a oscurarsi.
- E' sempre stato così. Ma è mio fratello, e gli voglio bene - mi confessò infine. Per la prima volta mi sembrò di avere accanto una nuova Esmeralda. Sentì il suo animo addolcirsi da un forte sentimento fraterno. Non mi ricordava più la ragazza restia e distaccata che faceva di tutto per non aprirsi e confidarsi serenamente. Quel viso incorniciato dalle ciocche che spuntavano da sotto il berretto, nere come la notte, gli occhi che brillavano come le stelle, e quel sorriso curvo come la mezzaluna, era ancora più bella. Non riuscivo a non staccarle lo sguardo di dosso. Lei se ne accorse e girandosi mi guardò perplessa.
- Che c'è? - mi chiese, e io fui colto nuovamente dall'imbarazzo. Scossi il capo e risposi:
- Niente. Stavo solo pensando che deve essere bello avere dei fratelli -.
La gitana fece un mezzo sorriso, non paragonabile a quello di prima, ma ne fui contento. All'improvviso ci raggiunse Clopin, e fui sollevato di vederlo senza neanche un graffio.
- Cattive notizie, ragazzi! Non c'è nessuno alla guida del treno - ci informò lui, mentre si asciugava il sudore dalla faccia. Sia io che Esmeralda rimanemmo increduli alla notizia. Era tutto completamente assurdo e inspiegabile. Ma c'era una sola cosa che dovevamo fare: uscire da quella trappola mortale il prima possibile. Avevamo bisogno di una soluzione efficace e poco rischiosa.
- Io ho un'idea! - disse Clopin, quasi saltando sul posto - Salteremo giù dal treno. Non credo che sia difficile -.
Per un attimo credetti di aver capito male, ma quando vidi il mio amico aprire la porta scorrevole del vagone, ebbi la conferma che non mi ero sbagliato.
- Saltare? E' questa la tua migliore soluzione, fratellone? - gli chiese sua sorella, con un pizzico di rimprovero. Per un secondo rimanemmo tutte e tre a fissare il paesaggio che si muovevamo così veloce da non riuscire a distinguerne i dettagli. No, era impensabile una cosa del genere. Ci saremo rotti l'osso del collo.
- Ehm...forse è meglio passare. Altri suggerimenti? - fece Clopin, rendendosi conto della faccenda. Allora ebbi un'idea, che magari ci avrebbe aiutati in qualche modo.
- Proviamo a staccare la carrozza. Ci penserò io - dissi con fermezza. I miei compagni mi guardarono mentre cercavo in giro qualche arnese che mi potesse far comodo, mentre Djali mi seguiva passo per passo.
- Kazy, ma sei davvero sicuro di farcela? - mi chiese la gitana, mentre io mi accovacciavo sulla ferraglia che univa i due vagoni.
- Tranquilla, all'orfanotrofio mi davano i lavori più pesanti. Ho svitato perfino grossi bulloni a mani nude - le spiegai e non persi altro tempo. Martellai con forza fino a quando non distrussi lo strumento, e lì i miei amici si scoraggiarono.
- Ah, se solo avessi un esplosivo! - lo sentì dire Clopin. Ma io non avevo ancora finito. Gettai per aria quel che rimaneva del martello, e con le mani lavorai sui ferri, lasciando senza parole i due fratelli. Con un po' di forza in più riuscì a spezzare i due capi della ferraglia, e a dividere le carrozze.
- Presto, Kazy, salta! - mi urlò la giovane, allungandomi una mano. Senza temporeggiare ancora, la raggiunsi così velocemente, che ci trovammo entrambi addosso al povero Clopin.
- ...che razza di allenamento ti facevano fare in quell'orfanotrofio? - fu la reazione dello zingaro.
Eravamo riusciti nell'intento, ma diversamente da come mi aspettavo, la situazione non era tanto cambiata. Inoltre il freno manuale era bloccato. Mi sembrava davvero assurdo che qualsiasi mezzo a disposizione non funzionasse. Come se qualcosa di invisibile lo avesse manomesso.
- Non fate quelle facce, mes ami - cercò di rincuorarci il gitano - e poi non abbiamo ostacoli davanti. Sono certo che prima o poi ci fermeremo -.
Giuro, appena Clopin finì di dire quella frase, ci girammo e scoprimmo che proprio di fronte a noi, a pochi chilometri, ci aspettava un crollo del ponte. Tutte e tre, vicini l'uno all'altro, pietrificati come statue, fissavamo quella fatidica fermata.
- Dicevi? - gli disse Esmeralda, alzando un sopracciglio scuro. Ma la fanciulla non rimase troppo a lungo in quello stato d'animo. Si mosse velocemente e la vidi recuperare una grossa catena di ferro.
- Ho un'idea! Clopin dammi una mano con questa - disse lei, mentre si affrettava verso una parte del vagone. Un movimento brusco della carrozza fece sbalzare in aria Clopin, atterrando in un grosso baule colmo di cianfrusaglie. Ero sul punto di aiutarlo, ma la voce della gitana mi frenò.
- Presto, Clopin, passami la catena! -.
Allora, data l'emergenza vitale, non ebbi esitazioni e afferrai la catena per portargliela. La gitana aveva avuto il fegato di calarsi su un lato scoperto del vagone, rischiando di cadere e farsi davvero male. Mi chiedevo da dove venisse tutto questo gran coraggio da parte di una giovane donna. Ma qualunque fosse la sua idea, volevo aiutarla. Lei, insieme a Clopin, aveva già fatto molto, e io non potevo rimanere a guardare. In fondo, era stata l'unica ad aver posato gli occhi sul mio viso deforme senza provare ripugnanza.
- Tieni, Esme! - le dissi, alzando la voce per farmi sentire. Non so perché, ma mi venne spontaneo usare quel nomignolo così confidenziale.
- Purtroppo Clopin è occupato - precisai poi, donandole un mezzo sorriso. La fanciulla, dopo un attimo di esitazione, accettò la catena dalle mie mani e la vidi armeggiare con i ferri del vagone. Aspettai col timore, e mi sporsi per vedere come se la stava cavando. Ebbi il tempo di vedere che aveva agganciato un capo della catena a quei ferri, e proprio in quel momento stava rischiando di cadere giù. Esme emise un grido di terrore, ma io fui velocissimo, e afferrai la sua mano. Ero così spaventato per lei, che non mi resi conto della forza che avevo impiegato per tirarla su. Tenendole la mano stratta, la feci alzare in alto. Era leggera come una piuma. Il berretto che portava sempre le sfuggi dal capo, e una cascata di capelli sinuosi, come onde di un fiume, si liberò nell'aria. Poi, la afferrai al volo prendendola in braccio. Avvenne tutto così velocemente, che perfino lei non capì cosa era appena accaduto. E anche io ebbi un attimo di confusione. I nostri occhi si incontrarono di nuovo, e un calore insolito mi scorse nelle viscere. Dopo aver visto in quella fanciulla la freddezza, il calore dell'emozione, stavo scoprendo un genuino stupore e meraviglia. Esme non faceva che fissarmi, e sulle sue gote si espanse un lieve rossore. Accidenti, era ancora più bella di prima. Quel suo lato così nuovo, fragile e umano, mi colpì come un fulmine a ciel sereno. Il stridente suono delle rotaie mi fece risvegliare da quel torpore dolcissimo e sbattendo le palpebre riposi piano la fanciulla con i piedi per terra.
- Meno male che ti ho presa in tempo - dissi semplicemente, non sapendo cos'altro dire. Esme dal canto suo, sembrava stranita, e dopo aver recuperato il berretto per indossarlo, dibatté.
- Se ce la caveremo, ricordami di ringraziarti -.
Tutto andò secondo i piani. Lavorando in tre, gettammo il resto della catena giù dalla carrozza. L'uncino si inchiodò sulle rotaie e la forza nella velocità del vagone era così tanta che si trascinò con se buona parte delle tegole in legno e della ferraglia. In quel modo la velocità era nettamente diminuita. Ci bastava solo fare un un'ultima cosa.
- Visto? Ve lo avevo detto che la mia soluzione era la migliore - disse con convinzione Clopin. I nostri sguardi contrariati lo fecero tossicchiare.
- Beh, allora al tre! Un, deux, trois! -.
E tutti giù, atterrando sul manto soffice della neve, mentre i due vagoni infernali procedettero nella folle corsa che terminò nell'abisso della distruzione, in quel burrone profondo. Fuoco e fiamme scoppiarono in un'esplosione rossa.
 
- Ho sempre odiato i treni! Che macchine infernali! -.
- Parli proprio tu che vuoi sempre viaggiare in comodità! -.
In groppa al suo fedele destriero, il capitano Febo osservava col binocolo il trio di viaggiatori con la bestiola, che si erano da poco salvati da quella ingegnosa trappola mortale. Una trappola che lui stesso aveva progettato sotto ordine del suo padrone Klod Frollo. L'uomo sbuffò facendo evaporare la nebbiolina del suo alito, preparandosi a dare la cattiva notizia al suo capo. Non l'avrebbe certo presa bene. Assolutamente no. A quanto pare, il viaggio dei nostri eroi non era terminato. Infatti, dopo aver recuperato coraggio e bagagli, Kazy, Esme, Clopin e la piccola Djali, si rimisero nuovamente in cammino, diretti verso la loro lontana destinazione, ignari dei futuri pericoli che li attendevano.   
 

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Capitolo 6
*** Un punto in comune ***


~         6
                                               
                                                                        Un punto in comune

Il paesaggio era ricoperto da un fitto manto di neve, la temperatura si era abbassata di molti gradi sotto lo zero, e il buio regnava sovrano. Tutto sembrava normale, in una tipica notte invernale, al confine tra San Pietroburgo e la Bielorussia. Ma c’era qualcosa che rovinava l’atmosfera. Dalla bocca di un dirupo, dove una volta si ergeva un ponte, una densa nuvola nerastra si allargava a vista d’occhio. Quella notte era stata partecipe di un terribile incidente ferroviario. Il treno, partito da San Pietroburgo, era stato colpito da chissà quale sfortunato evento, e aveva messo in pericolo i suoi ignari viaggiatori. Meno male che nessuno si era fatto male. Ma al capitano Febo quella notizia gli sarebbe costata cara. Con la frustrazione e il timore nell’animo, l’uomo scrisse una lettera, la sigillò e la affidò al suo falco personale. Era un messaggio per il suo padrone Klod Frollo.
“Eh no, quel’epilogo non gli sarebbe piaciuto affatto”.

P.v. Febo

Il mio fedele compagno, messaggero alato infallibile, era da poco partito con la lettera. Dovevo assolutamente avvisare Frollo sulla questione: il piano, che avevo personalmente architettato, era andato in fumo. Proprio come la locomotiva schiantata in quel burrone. Peccato che quei tre vagabondi si erano salvati per un pelo. Tutto fumo e niente arrosto. E chi ne avrebbe pagato le conseguenze? Una volta saputa la notizia, perché già lo sapevo in largo anticipo, sarebbe andato su tutte le furie. Klod Frollo poteva trasformarsi in una tempesta inarrestabile, tanto grande era il suo odio e la sua ossessione per i Beltov. Lui affermava che quel piano era strettamente necessario per il bene del nostro paese, ma era evidente che dietro ci fosse anche un motivo del tutto personale. Credo che fosse legato a quel periodo, quando fu esonerato dal suo ruolo di consigliere dello zar, per poi essere cacciato dalla corte. Non aveva mai digerito quell’umiliazione. Sospirai e piccole nebbioline di vapore si addensarono nell’aria. Speriamo solo che il gioco valga la candela, pensai. Ma sinceramente, per me tutta quella faccenda era così assurda. Avevamo ben altri problemi in Russia, invece di pensare a un probabile erede di sangue reale scampato alla rivoluzione. Inoltre, non eravamo neanche certi che fosse il vero principe scomparso. A un certo punto, il flusso dei miei ragionamenti fu rotto dal verso del falco che stava tornando. Appena si appollaiò sul mio braccio, trovai un piccolo rotolo di pergamena che era stato fissato a una delle zampe. Deglutendo, sfogliai la pergamena e trovai scritte a mano queste parole:

“Non potevi darmi notizia peggiore di questa! Non possiamo permettere che quel moccioso deforme arrivi fino a Parigi per incontrare lo zar. E tu lo sai, Febo, se ciò accadesse a quali conseguenze comporterebbe. Se non hai abbastanza determinazione per te stesso, pensa allora a tuo padre. Tutto quello che lui ha sacrificato per la giusta causa, per il bene comune, per la nostra amata Russia, diventerà vano se tu dovessi fallire questa impresa. Ne va del nostro futuro. Perciò non temporeggiare, insegui il principe Kyazimodo, tienilo d’occhio e informami sulla sua prossima tappa. Ti manderò nuovi ordini il prima possibile.
Non deludermi ancora”.

L’ultima frase mi lasciò un po’ interdetto e seccato. Strinsi nel pugno il messaggio fino a ridurlo in cartaccia.
Non potevo negare che la mia situazione era intollerabile. Essere il lacchè di quell’uomo era l’ultima cosa che desideravo. Non riuscivo a sopportarlo. Da quando era diventato alleato fedele di Lenin e preso posto come capo della squadra Unione Rossa, Frollo esercitava il potere anche sulla maggior parte delle forze armare del Paese. Sarei dovuto diventare un soldato a tutti gli effetti. E invece, ero un semplice sottoposto di un vecchiaccio che si dava arie da dittatore. E la povera gente, i cittadini comuni, stava continuando a soffrire nonostante le molte promesse.
Non era quello che aveva sognato mio padre…
Avvertivo tanta amarezza e malinconia. Ripensai al passato che non riuscivo a scrollarmi di dosso. Nonostante la ripugnanza che avvertivo, Klod Frollo aveva ragione su una cosa che mi stava a cuore. Mio padre aveva dato tutto se stesso per la giustizia e la libertà del nostro popolo. Era stato un generale coraggioso, e per tutta la sua vita aveva fatto il suo dovere, fino a quando scoppiò la rivolta. Onorare la sua memoria, eguagliarlo per le sue grandi gesta e diventare un uomo d’onore, era il mio sogno più grande. Mi strinsi nelle spalle, incrocia le braccia per darmi maggiore calore, mentre riflettevo sul da farsi. Ma alla fine, la ragione e il senso del dovere diedero la risposta ai miei dubbi. Se le deduzioni del mio padrone erano giuste, allora dovevo continuare la missione, e fermare il viaggio del presunto principe. A qualsiasi costo.
Coprendomi il volto con la sciarpa di lana, spronai il mio cavallo Achille, senza indugi attraversammo la collina e ci lasciammo indietro il burrone oscuro dove erano sepolti gli ultimi resti di quella carcassa di ferro.

P.v. Kazy

-Andremo a piedi fino a Parigi?!- si lagnò Clopin, mentre camminava strascicando i piedi nella neve.
-In Germania prenderemo una barca- gli rispose un po’ esasperata sua sorella.
-Ah, allora arriveremo a piedi fino in Germania- si sfogò nuovamente lo zingaro.
-No, mio Signore, prenderemo un autobus – alzò gli occhi al cielo la gitana.
Erano ormai due ore che stavamo camminando nel bel mezzo di una campagna innevata. Il posto era isolato e immerso nell’oscurità. Se non fosse stato per il lume accesso che portava Clopin, tirato fuori dalla sua logora valigia, avremo camminato nel buio totale. Davanti a me, i due fratelli gitani non facevano altro che punzecchiarsi a vicenda. Mi chiedevo come facessero ad avere ancora tutta quella energia e voglia di parlare, soprattutto Clopin. Ma ero così esausto che ormai avevo smesso di ascoltare i loro battibecchi. Accanto a me, c’era la piccola Djali, che avanzava lentamente senza emettere alcun belato. Anche lei era sfinita dal lungo viaggio. Alla fine, però, una domanda giunse spontanea anche al sottoscritto:
-Dove stiamo andando?-.
Esmeralda, l’unica ragazza del gruppo, si voltò nella mia direzione. Sotto la tenue luce della luna il suo orecchino brillò come una moneta d’oro.
-Da queste parti si trova una locanda – mi avvisò lei, e dalle sue labbra uscirono nebbioline di vapore – ci fermeremo lì per questa notte e poi proseguiremo domani mattina -.
Quella notizia mi fece curvare un sorriso di sollievo. Finalmente un posto caldo! Non mi importava se si trattava di una locanda o di una stalla, mi bastava un luogo dove poter riposare.
-Quanto manca?- chiesi nuovamente, e intanto tutte le mie energie perdute si stavano risvegliando.
-Lo vedi quel bagliore laggiù? Ecco, dobbiamo arrivare lì- affermò Esme, puntando un dito a pochi metri di distanza da noi. Una luce dorata si stagliava lontana, ma non troppo da essere irraggiungibile. Con la grinta e la volontà rigenerate, i miei passi si fecero più veloci. Ma Djali, avvertendo in anticipo l’aria accogliente e calda della nostra destinazione, arrivò per prima dopo una corsa a perdifiato. Quando varcammo la porta erano le 23.30. Dopo tutto quello che ci era capitato avevamo perso la cognizione del tempo. Ci accolse il proprietario del posto, un po’ intontito dal sonno e con tanto di vestaglia e babbucce. I miei compagni di viaggio gli spiegarono la nostra esigenza, mentre io mi mantenevo in disparte. A parte i due fratelli, a cui ormai mi stavo abituando, non  riuscivo ancora a mostrami ad altre persone. L’uomo ci concesse di alloggiare in due stanze, una l’avrei divisa con Clopin, mentre l’altra, più piccola, era riservata ad Esme. Fu una vera fortuna trovarsi su un morbido materasso, con tanto di cuscino e coperta. Niente pavimenti duri e umidi. Peccato solo, che la cucina non era disponibile. Il mio stomaco brontolava senza darmi tregua, ma pazienza, era già abbastanza avere un tetto sopra la testa. La mezzanotte si stava avvicinando e dopo averci augurato un buon riposo, ci barricammo nelle nostre stanze. In pochi minuti io e Clopin familiarizzammo con il posto. Era una stanzetta grande abbastanza per ospitare due persone, molto ordinaria e semplice. C’era giusto il minimo indispensabile, ma per me era perfetto, di certo mille volte migliore di quello che potevo avere all’orfanotrofio. In quel momento, tornando con la mente a ritroso, ripensai a Klaus, il mio migliore amico. Chissà come se la stava passando? Nonostante fossi felice di quel nuovo inizio, e di essermi lasciato alle spalle brutti episodi di quel luogo, sentivo comunque la sua mancanza. Quella malinconia mi tormentava, aggiungendo anche la fame, e il russare del mio compagno di stanza, non riuscivo a chiudere occhio.
-Rox…Roxanne…-.
I miei occhi si aprirono e un po’ scocciato mi alzai dal letto. Sul piccolo comodino, proprio vicino a me, c’era la candela. Dopo averla accesa, facendo un po’ di luce nella stanza, mi guardai attorno. Ero certo di aver sentito qualcosa, dissi tra me e me. O forse me lo ero solo immaginato. La luce della fiammella arrivò a illuminare lievemente la figura di Clopin, che era disteso sul letto, profondamente addormentato. Sul suo petto nudo era accoccolata Djali, anche lei che sonnecchiava. Guardandoli insieme, sembravano un fratellone con la sorellina timorosa di dormire da sola. Mi venne spontaneo sorridere, colto dalla tenerezza del momento. Quei due erano diventati molto amici, a quanto pare.
-Roxanne…man cher…- disse all’improvviso il gitano. Stava parlando nel sonno!
Clopin, ancora nel mondo dei sogni, strinse la piccola Djali e le diede un bacio sul musino. Dal canto suo, la mia amichetta sbadigliò e diede una leccata, o un “bacio” di rimando al suo amico, che intanto era tornato a russare.
Che scenetta buffa!
 Mi portai una mano alla bocca per frenare il suono della mia risata. Meglio non svegliarli. Così alla fine, dato che il sonno mi era passato del tutto, decisi di uscire da lì e perdere un po’ di tempo. Sgattaiolando via in assoluto silenzio, mi avviai al piano inferiore, esattamente nella saletta dove venivano accolti i clienti. Il mio stomaco stava ancora reclamando cibo. Avrei dato qualunque cosa anche per poche briciole di pane. Mentre rimuginavo su quel dettaglio, appena entrai nella sala mi accorsi che c’era qualcuno. Ebbi quasi un sussulto quando un’ ombra scura si mosse.
-Ah,Kazi! A quanto pare non sono l’unica a soffrire di insonnia- disse con voce bassa la zingara.         
La trovai seduta sul davanzale di una finestra, leggermente aperta con le tendine che svolazzavano nella brezza della notte. Sorridendomi mi fece cenno di avvicinarmi e mi porse qualcosa. Era una mela. L’istinto mi guidò subito verso di lei e accettai il cibo che mi stava offrendo. Divorai il frutto in pochi morsi.
-Grazie, ne avevo proprio bisogno- le dissi, mentre finivo ogni singolo residuo di polpa.
-Figurati. Anche io avevo fame, e quindi sono andata a dare un’occhiata nelle cucine. Ho trovato della frutta nel cesto degli avanzi e ne ho approfittato- mi spiegò, mentre si girava tra le mani il torsolo della sua mela.
-Ma…- dissi, un po’ titubante – questo non è rubare?-.
La mia amica sollevò le spalle, con un’espressione vaga e disinvolta sul viso.
-Io e Clopin preferiamo chiamarlo “ aiutare a evitare gli sprechi”. Insomma, converrai con me sul fatto che sia un vero peccato buttare nella spazzatura questo dono prezioso-.
Rimasi a riflettere su quelle parole. In effetti, vedendola da un certo punto di vista, Esmeralda non aveva tutti i torti. C’erano molte persone che morivano di fame, alcuni arrivavano perfino a nutrirsi di piccoli animali pur di sopravvivere. La gente che si poteva permettere il cibo ogni giorno a volte non sapeva quanto fosse fortunata. 
-Forse, hai ragione- annuì, e senza pensarci oltre, sgranocchiai il torsolo della mela che avevo lasciato. La ragazza dalla pelle ambrata mi guardò spalancando gli occhi, colpita da quel gesto. Non disse nulla, abbozzò un mezzo sorriso e decise di seguire il mio esempio. Aveva compreso la mia condotta e ne rimasi commosso. Dopo aver finito, mi appoggiai su uno sgabello vicino alla finestra, dove lei si era accomodata.
-Però, mi dispiace per tuo fratello – ricominciai, mantenendo il tono della voce più basso possibile. Non era il caso di dare disturbo ai proprietari o agli altri presunti ospiti della locanda.
-Perché?- mi chiese Esme, curiosa. In quel momento notai che portava ancora il berretto che le nascondeva la chioma ondeggiante. Era un vero peccato. I suoi capelli erano così belli e fluenti, di un corposo nero ebano.
-Abbiamo mangiato mentre lui è rimasto con lo stomaco vuoto. Mi sento un po’ in colpa adesso -.
Ero davvero dispiaciuto, ma ripensando a come lo avevo lasciato poco prima, mi veniva da ridere.
-Non preoccuparti per lui- disse lei, con un risolino che rendeva la sua voce alterata – Clopin può rimanere senza cibo per tanto tempo. Il problema è quando va in astinenza di vino. Allora diventa intrattabile-.
Soffocammo entrambi le risate, cercando con ogni sforzo di controllarci. Avvertivo una piacevole sensazione. Vederla in quello stato, piena di entusiasmo e di ironia, la trovavo ancora più affascinante. L’avevo notato anche durante la nostra disavventura sul treno, quando il suo viso si era illuminato da una forte emozione. Esme era una ragazza forte e piena di volontà. Ma stavo scoprendo anche un altro lato del suo carattere, ed era meraviglioso quando si lasciava andare e diventava più spontanea.
-Beh, credo che possiamo stare tranquilli, almeno per stanotte, dato che sta dormendo come un sasso -.
La mia amica sorrise divertita, annuì e si sistemò meglio sul davanzale.
-E tu, come mai non riesci a dormire? – mi chiese all’improvviso. Strofinai le mani tra loro, come al mio solito, ma risposi senza tentennare.
-Un po’ di malinconia, niente di grave- spiegai, posando lo sguardo fuori la finestra. Il cielo notturno era costellato da una miriade di stelle. Era una notte splendida. Senza rendermene conto, tra una parola e l’altra, raccontai alla mia amica un po’ del mio passato trascorso in orfanotrofio. Lo feci, forse, perché avevo semplicemente bisogno di parlarne, per sfogare quel momento malinconico e triste. Esme ascoltò con attenzione, senza interrompermi neanche per un secondo. Dopo un po’ mi sentì più leggero.
-Hai avuto giorni molto duri,questo è certo –cominciò lei –ma per fortuna non eri del tutto solo. Il tuo amico ti è stato vicino e ti ha aiutato a superare ogni difficoltà. Quindi, comprendo la tua nostalgia. Questo Klaus deve essere una persona molto preziosa-.
In quel momento sentivo gli occhi che pizzicavano per la commozione. Le parole della zingara mi avevano colpito nel profondo e mi rincuoravano. Era davvero bello parlare con lei, perché  mi ascoltava e non muoveva alcun giudizio. Inoltre, ogni volta che mi guardava negli occhi, non temevo più nulla, neanche il mio aspetto deforme che potesse turbarla. Provavo una meravigliosa sensazione di libertà e gioia, che assomigliava a quello che aveva scaturito l’amicizia con Klaus. Ma con Esmeralda c’era qualcosa di speciale, me lo sentivo alla base dello stomaco. Strofinandomi un occhio, cercando di ricacciare indietro le lacrime, infine annuì, sereno. Rimanemmo per qualche minuto in silenzio, osservando rapiti la luna piena che splendeva, alta e imponente sul mantello nero del cielo.
- Durante questi anni, hai mai ricordato qualcosa?- mi chiese ad un tratto la fanciulla. Quella domanda mi giunse così improvvisa che mi lasciò del tutto impreparato.
-A dire il vero no, almeno niente di tanto importante- le risposi,con un po’di amarezza – ancora oggi faccio qualche sogno strano, ma è così vago e sfumato-.
Avrei voluto raccontarle di tutte le mie incertezze sulla questione. Di tutti quei volti che vedevo, o credevo di vedere. Della splendida donna dalla pelle ambrata, i cui lineamenti mi ricordavano proprio l’ amica che avevo di fronte. Ma erano tutti dettagli a cui non sapevo dare una spiegazione logica. Era così snervante non riuscire a ricordare. Ti sembra che tutto di te stesso si muova solo grazie al flusso degli eventi, che tutto dipenda da forze maggiori e non per tua volontà. Perdere la tua identità ti rende schiavo di mille domande a cui non potrai mai dare risposte. Esmeralda si accorse del mio stato d’animo e sospirando mi disse:
-Non scoraggiarti, Kazi. In fondo non è così terribile, perdere la memoria-.
Un senso di fastidio, nato da un’inaspettata delusione, mi fece irritare.
-Invece ti sbagli- dissi con fermezza – Io darei qualsiasi cosa pur di riuscire a ricordare-.
Esmeralda, che stava scrutando il paesaggio, girò il capo per guardarmi. Nei suoi bellissimi occhi c’era un velo di apatia che mi fece spaventare. Quelle gemme sembravano così spente e colme di tristezza.
-Avere memoria di coloro che ti amavano e poi abbandonato…è più doloroso di non avere alcuna memoria-.
Rimasi spiazzato da ciò che le mie orecchie udirono. La fanciulla distolse lo sguardo dal mio e tornò subito ad ammirare il cielo notturno. Sembrava così a disagio, come se mi avesse appena svelato qualche segreto che non doveva neanche accennare. Con coraggio mi avvicinai di più, e con molta delicatezza le sfiorai un braccio per attirare nuovamente la sua attenzione.
-Esme, cosa intendi dire?- le chiesi mentre i nostri occhi si incontrarono. La gitana esitò per un momento, ma poi, il suo viso si incupì di più e rispose:
-Niente-.
Eccola di nuovo. Era tornata ad essere la zingara cinica e distaccata. Quel suo lato così freddo mi metteva sempre in difficoltà e non sapevo come comportarmi. Anche la nostra prima chiacchierata non era stata una delle migliori. C’era qualcosa di ostile in lei, una nota stonata che veniva fuori ogni volta che i nostri argomenti si facevano complessi e profondi. Specialmente se si trattava di casa e famiglia. Ero ormai certo che volesse evitare in ogni modo di parlare di se,della sua vita o del suo passato.
-Io invece credo di no – aggiunsi, cercando di muovermi cautamente. Purtroppo non ebbi il tempo per aggiungere qualcos’altro, che la fanciulla si scostò dal davanzale, mantenendo lo sguardo basso.
I cammei cuciti sullo scialle che le fasciava i fianchi tintinnarono tra loro.
-E’ tardissimo – disse con tono serio – Meglio andare a dormire. Domani dobbiamo svegliarci molto presto -.
Esme lasciò frettolosamente la sala, senza neanche darmi la buonanotte. Rimasi in quell’angolo, accanto alla finestra, imbambolato come una statua. Mi sentivo così male. Nonostante le mie buone intenzioni, sapevo che ero stato invadente. Il senso di colpa mi stava divorando il cuore, mentre ripensavo a quella frase, così semplice ma fredda come il ghiaccio.

“Avere memoria di coloro che ti hanno amato e poi abbandonato…è più doloroso di non avere alcuna memoria”.

 Poi mi tornò in mente un dettaglio che avevo trascurato. In sostanza non sapevo quasi nulla di Esmeralda. Le uniche informazioni che avevo erano che lei, insieme a suo fratello Clopin, aveva origini franco-spagnole. Era una zingara che viveva a San Pietroburgo, nel quartiere dei gitani, tutti che provenivano dalla lontana Andalusia. Ma chissà da quanto tempo? Inoltre, dov’erano i suoi genitori, la sua famiglia? A quel punto un pensiero mi scosse come una scarica elettrica.
Come avevo fatto ad essere così ingenuo…!?
Esmeralda e Clopin erano sicuramente orfani, proprio come me. Questo spiegava tante cose, come ad esempio quell’espressione vuota che la mia amica assumeva davanti alle domande scomode che le riguardavano sul personale. Ma il dettaglio più triste era che entrambi erano stati abbandonati, magari quando erano ancora due bambini. Certo, anche io forse ero stato abbandonato, ma la mia condizione era leggermente diversa. Esme, avendo i ricordi intatti, portava dentro di se tutto il dolore patito. Una verità amara che l’avrebbe accompagnata per il resto della vita. Solo in quell’istante compresi appieno le sue parole, i suoi sentimenti nascosti. Avevo già immaginato che portava sulle sue spalle un passato difficile. Ma dopo quella notte realizzai di aver scavato solo una minima parte nel cuore tormentato della bellissima e misteriosa gitana dagli occhi smeraldo.

PV. Esme

Senza pensarci troppo mi avviai verso la mia stanza, con passo felpato e silenzioso. Mentre attraversavo lo stretto corridoio, dall’altra parte del muro avvertivo il pesante e inconfondibile russare di mio fratello. Proseguì in punta di piedi per evitare di svegliarlo. L’ultima cosa che desideravo in quel momento era attirare l’attenzione su di me. Chiusi la porta alle mie spalle e mi ritrovai nella piena oscurità della stanza. Senza accendere la candela, mi tuffai sul materasso, feci volare via il berretto che portavo assiduamente e tuffai la testa sul cuscino sgualcito. I capelli, finalmente liberi, ricaddero sinuosi come piccole onde. Volevo solo addormentarmi, sprofondare in un sonno profondo, svuotare la mente.
“No, non voglio pensarci! A che serve, in fondo?”.
Questa  e altre mille frasi mi vennero incontro, per placare l’ondata di ricordi che si stava schiantando nella mia testa. Non era la prima volta che mi succedeva di affrontare un crollo temporaneo. Solitamente riuscivo sempre a tornare padrona delle mie emozioni, esorcizzare il dolore, la delusione, qualsiasi sentimento negativo che mi tormentava mente e anima.
“Esme, non è proprio da te cedere in questo modo. Vedi di riprenderti alla svelta…” pensai ancora tra me e me, mentre mi rigiravo nel letto. Ma più cercavo di scappare da ciò che stavo provando, più mi sentivo in balia delle mie emozioni. Non riuscivo proprio a togliermi dalla testa la conversazione tra me e Kazi, avvenuta poco prima.
Mi rigirai di nuovo, con le gambe ormai raggrovigliate tra le lenzuola. Che fastidio!
Non so esattamente quanto tempo passò, ma il mio corpo continuava a rifiutarsi di abbandonare lo stadio di veglia. Alla fine, stufa di quella ridicola situazione, mi girai nuovamente e in posa supina, aprì gli occhi, fissando il vuoto del soffitto.
“Sei davvero patetica!” mi rimproverai come se la mia anima si fosse spaccata in due. Forse per via della mancanza di un’altra figura femminile, più matura, autoritaria, mi ero inventata quel metodo per darmi forza e coraggio, per superare momenti problematici. Questo perché non avevo mai conosciuto davvero mia madre.
“No, Esme, ora stai superando il limite! Smettila subito!”.
Esasperata dai miei stessi rimproveri, mi coprì il viso con le mani, come se bastasse a calmare il flusso dei miei pensieri. Ma inevitabilmente nella mia testa tornarono a galla i pochi ricordi sui miei genitori, quando ero ancora una bambina di pochi anni. A quei tempi ero così spensierata. Nonostante la povertà e i disagi di una vita da gitani, ero felice. Poi tutto scomparve in quel giorno, quando io e Clopin fummo portati via, lontano dalla nostra famiglia. Sebbene non ricordavo molto della bella Andalusia, ero certa che fosse molto diversa dalla fredda e rigida San Pietroburgo. Non avrei più assaporato il clima tipico della Spagna e anche in quel momento mi chiedevo se mai lo avessi davvero vissuto. Ero stata strappata dal mio mondo d’origine e costretta a vivere in un  altro che non mi apparteneva, come una rondine costretta a lasciare il suo nido.
Padre, madre, perché ci avete fatto questo?...Per il nostro bene, per il vostro? Non lo so, ma fa così male.
Inavvertitamente una lacrima mi scese giù per una guancia. Ammetto che ne rimasi sorpresa, ma al tempo stesso avvertivo una stretta al cuore. Con quella goccia silenziosa ero giunta a una consapevolezza che mi fece tremare il cuore.
“Lo hai capito, eh? Per tanto tempo ti sei atteggiata da guerriera forte e invincibile. Credevi di tenere tutto sotto controllo, che niente di tutto ciò avrebbe scalfito la tua armatura di ferro. E ora guardati. Sei ancora quella bambina smarrita, spaventata, che si chiede perché è stata abbandonata dalle stesse persone che dovevano proteggerla. Fa ancora male, vero Esmeralda?”
Un nodo alla gola, così soffocante da farmi mancare il respiro, mi strinse con forza e allora accadde ciò che non avrei mai sospettato. Un pianto doloroso, che era rimasto sopito da troppo tempo, stava reclamando la sua esistenza e così insieme alla rabbia e alla delusione represse dentro di me. Avevo quasi dimenticato cosa si provasse durante uno sfogo così straziante. E tutto questo perché, per un botta e risposta con quel ragazzo?
Quel ragazzo deforme aveva toccato un tasto molto dolente. Certo, ero consapevole di non aver motivo di angosciarmi in quel modo, e in fin dei conti, quante volte mi era capitato? Molte volte mi veniva anche da sorridere, scherzandoci su, e allora tutto finiva nel dimenticatoio. Ma con Kazi, e non so come spiegarmelo, era così diverso. Anche in quella occasione, sul treno, avevamo avuto una discussione simile e la cosa mi aveva scossa non poco. Per la prima volta nella mia vita mi ero sentita… presa alla sprovvista, insomma, messa in difficoltà. E la cosa peggiore era che stavo rischiando di cedere del tutto.
A quel punto non sapevo più come mi sentivo nei riguardi di Kazi. Avrei voluto odiarlo per avermi messa così a disagio, per avermi “spogliata” delle mie difese con i suoi modi insistenti, ma pur sempre gentili. Ma proprio per via del suo spirito così ingenuo, non riuscivo a provare antipatia per lui. Inoltre, quella sua tenacia nello scoprire se stesso e le sue origini, mi sorprendeva sempre di più. A lui interessava l’idea di poter essere un rampollo reale. I titoli e le ricchezze non lo sfioravano minimamente . Lui desiderava solo riavere indietro la sua famiglia o almeno ciò che ne era rimasto.
Kazi era l’esatto opposto di me. La sua purezza d’animo avrebbe potuto oscurare perfino un uomo di chiesa.
Non avevo mai conosciuto un tipo come lui. O forse sì…

La mattina seguente, ai primi raggi del sole, fui svegliata da alcuni colpi alla porta. Mio fratello fu sorpreso nel vedermi ancora assonnata e priva di forze.
-Sorellina, di solito sei sempre così mattiniera. Che ti è successo? -.
Con gli occhi impastati dal sonno, gli feci una smorfia, e lui mi rispose con una risata fastidiosa.
-Colpa del letto. Preferisco dormire sui cuscini nella tenda- cercai di mentire. Appena fui pronta scesi al piano inferiore, cercando di darmi un’aria decorosa nonostante i continui sbadigli. Nella sala c’erano Clopin e Kazi ad aspettarmi, ovviamente insieme alla capretta. Il ragazzo gobbo mi accolse con un lieve saluto, alquanto timoroso. Mi chiedevo se fosse rimasto male dal mio comportamento nelle ultime ore. Ma non c’era tempo da perdere per le incomprensioni, quindi ci congedammo dal proprietario della locanda, recuperammo le nostre cose e uscimmo. Fummo fortunati nel trovare un passaggio su un carretto che ci avrebbe condotto alla città più vicina. Proprio come avevo promesso al lagnoso Clopin avremo preso un autobus per arrivare in Germania. Ci aspettava un lungo e faticoso viaggio. Erano trascorsi pochi minuti dalla partenza, ma quasi nessuno aveva voglia di intavolare un discorso. Tranne quel chiacchierone di mio fratello. Con il dondolio del carretto che ci cullava ritmicamente avevo solo voglia di appisolarmi.
-Non  so voi, mes ami,ma stanotte ho dormito benissimo- disse mio fratello, pimpante e pieno di vita.
Quella notizia mi fece rodere il fegato siccome la sottoscritta aveva un disperato bisogno di recuperare almeno qualche oretta di sonno. Dall’altro canto, mi sembrava strano vedere Clopin così attivo e di buon umore.
Ogni mattina faticava anche solo ad aprire gli occhi, figuriamoci essere carico di energie. Non era da lui.
-Buon per te- risposi, generando poi l’ennesimo sbadiglio – hai fatto bei sogni?-.
- Oh, sì. Ho fatto un sogno meraviglioso. Da favola –.
Sia io che Kazi notammo l’espressione dello zingaro trasformarsi. Non potevo leggere nella mente del mio fratellone, ma avevo qualche sospetto sui motivi di quell’atteggiamento strano. Appoggiandosi sui sacchi di patate nel carretto, i suoi occhi si fecero sognanti mentre ammirava un punto indefinito, in alto nel cielo mattutino.
-Cosa hai sognato?- intervenne il ragazzo dai capelli ramati. Quella era la sua prima frase della giornata.
-Che eravamo finalmente a Parigi- rispose, liberando un sospiro troppo lungo e mantenendo quell’aria ammaliata e stupida. Djali, la capretta, lo raggiunse e gli diede una leccata sulla faccia che lo fece tornare alla realtà. Lo stupore improvviso che si materializzò sulla faccia di Clopin ci fece sghignazzare. Fingendosi offeso, abbracciò il collo della capra e ignorandoci si mise a parlare con lei.
-Che antipatici! Su, man cher, lasciamoli perdere e pensiamo a Parigi. Anche tu non vedi l’ora di vederla, vero?-.
Djali gli rispose con un belato allegro e lui sorrise soddisfatto.
-Tu sì che mi capisci!Allora dobbiamo festeggiare!- annunciò poi, e tirò fuori dall’interno del suo cappotto una bottiglia di vino. Non mi ci volle molto per capire dove l’avesse trovata. Nella cucina della locanda c’era una piccola cantina. Alzai gli occhi al cielo e una mano sulla fronte.
- Non credi che sia troppo presto per bere?- gli feci notare, mentre lui aveva già stappato la bottiglia.
-Suvvia, sorellina, un goccetto non mi farà certo male-  disse, e in meno di pochi secondi si era già scolato un quarto del nettare rosso. Non ero contraria nel “prendere in prestito”,almeno il minimo necessario, come cibo e acqua. Ma se si trattava di vino per me potevamo anche farne a meno. Peccato che non era lo stesso per mio fratello. Passarono le ore e quel tragitto si faceva sempre più noioso e monotono. Clopin, che aveva tenuto viva l’atmosfera con il suo spirito solare, senza accorgersene aveva quasi finito la bottiglia. Alcune volte aveva cercato di incoraggiare Kazi ad unirsi a lui, senza riuscirci. Il nostro compagno di viaggio era astemio e aveva rifiutato con fermezza. Tra un singhiozzo e l’altro, lo zingaro ci aveva tenuto compagnia con i tipici canti gitani. Infine, le mie aspettative si fecero reali quando lo vidi cascare dal sonno, con la bottiglia quasi vuota stretta in una mano. Sospirando scossi la testa in maniera contrariata.
-Ma guardalo! Riesce a dormire in qualsiasi situazione. Che invidia!- pensai ad alta voce, senza curarmi che Kazi mi stesse ascoltando. Per tutto quel tempo era rimasto chiuso nel suo mutismo e a parte Clopin non si era rivolto a me neanche per un momento. Ce l’aveva con me?
Quella situazione stava diventando sempre più pesante. Non andava affatto bene. Decisi di fare un piccolo passo avanti, così mi girai verso di lui e scoprì che mi stava osservando. Aggrottai la fronte e mi venne spontaneo chiedere:
-Che c’è?-.
-Oh, nulla- mi rispose con un filo di voce. Dopo aver dato un’ultima occhiata a mio fratello, che dormiva come un bimbo, mi diede nuovamente la sua completa attenzione e si schiarì la voce.
- Ascolta, Esme – cominciò con molta calma, come se stesse preparando le parole giuste – a proposito di ieri notte…volevo chiederti scusa-.
Avevo immaginato che la cosa sarebbe spuntata fuori da un momento all’altro, ma non mi aspettavo delle scuse. Il gobbo mi fissava con i suoi occhi,di quel bel verde speranza, colmi di dispiacere.
-Ehm, mi stai chiedendo scusa? – iniziai, dopo essermi presa qualche secondo – e per cosa?-.
Kazi cominciò a giocare nervosamente col suo inseparabile ciondolo.
-Per essere stato invadente- mi spiegò, evitando per un attimo il peso del mio sguardo – avrei dovuto capire che non volevi continuare quell’argomento. E invece ho insistito. Mi dispiace davvero-.
Nonostante tutto, quella confessione mi colpì più di quanto avessi creduto. Sarà stato il tono dolce della sua voce, o quello sguardo mortificato, oppure un po’ tutto nell’insieme. La verità era che tutto di Kazi riusciva a sorprendermi.
-Non preoccuparti, non è successo nulla – cercai di rassicurarlo. Ma lui scosse la testa, convinto.
-Invece dovevo assolutamente scusarmi – disse con fervore, ma cercando di non alzare troppo la voce.
-Sai, è da stamattina che…- cominciò a raccontare, per poi lanciare un’altra occhiata a Clopin - …che cercavo il momento giusto per parlarti-.
-Davvero? Hai avuto tutta questa pazienza?!- gli chiesi, cercando di soffocare un risolino.
-Non volevo metterti di nuovo a disagio – si giustificò tormentando il ciondolo tra le dita. Anche quella rivelazione mi lasciò senza parole. Nessuno in vita mia, almeno da come ricordavo, era stato tanto attento e delicato nei miei riguardi. Per una gitana come me, era già abbastanza se riusciva a stare al mondo. Ero così abituata ai giudizi negativi, ai soprusi, che non mi aspettavo più nulla di buono, né una parola gentile,né tanto meno rispetto. Il ragazzo timido e impacciato che mi avrebbe portata al successo era riuscito perfino a incrinare la maschera che mi nascondeva al resto del mondo.  Mi aveva resa più spontanea e nonostante il dolore per i ricordi, che lui stesso aveva rievocato, mi sentivo meglio. Le sue parole avevano ricucito le ferite al mio posto.
Alla fine curvai un sorriso davanti a tanta preoccupazione e mi lasciai andare.
-Sei una persona sorprendente, Kazi- affermai e vidi il suo viso deforme illuminarsi di un’ espressione serena e rassicurata. Sembrava che la tensione tra noi stesse sfumando.
-E tu sei una persona davvero in gamba- disse a sua volta – non ho mai incontrato una ragazza come te. Ti ammiro molto. Inoltre è solo grazie a te, e a Clopin ovviamente, se sto riuscendo ad andare a Parigi-.
 A quel punto, il mio umore mutò ancora. La verità, quella nuda e cruda, la conoscevamo solo io e Clopin. L’ignaro sosia del principe Kyazimodo non sapeva ancora nulla del nostro piano, dei veri motivi per cui avevamo iniziato quell’avventura, e che tutto stava ruotando intorno a un fine specifico. Fino a quel momento non mi ero mai posta il problema, l’idea di usare le menzogne o metodi poco ortodossi non mi avevano scalfito la coscienza neanche per un istante. Ma qualcosa stava cambiando. Quel merito che Kazi mi associava e che non mi apparteneva, mi scosse profondamente e provai un sentimento agrodolce.  Mi sentivo quasi in colpa per quello che stavo facendo. Forse dovevo solo smetterla di pensarci. In fondo anche se si trattava di una truffa, era vero che lo stavo aiutando a realizzare il suo sogno. Se la vedevo in quel modo non era così riprovevole. All’improvviso il carretto balzò, forse per via di un sasso lungo la strada, e ci fece sussultare.
Nel frattempo  ero tornata coi piedi per terra.
Istintivamente mi voltai verso mio fratello. Lo ritrovai in tutt’altra posizione: a gambe all’aria e la testa ficcata in mezzo a due sacchi. Anche Kazi mi imitò e a quello spettacolo non potè che ridere divertito.
-Incredibile, non si è neanche svegliato! – disse, allargando un gran sorriso. La scena era davvero buffa,in effetti.
-Così si impara. Questo è quello che succede quando non mi da retta, lo zuccone – intervenni, marcando la frase con tono severo. Tanto già sapevo cosa sarebbe successo al suo risveglio: tante lagne per il mal di testa da sbronza. Avvertì ancora qualche risata da parte del mio compagno di viaggio e allora mi girai verso di lui.
Ripensai a tutte le belle parole, colme di gentilezza nei miei confronti, e allora mi tornò in mente un dettaglio.
-Kazi, c’è una cosa che avevo dimenticato di dirti- cominciai con un po’ di titubanza – Non ti ho ancora ringraziato per avermi aiutata quella volta. Sul treno-.
Per via del mio spirito autonomo e indipendente non mi era mai capitato di essere la fanciulla in pericolo bisognosa dell’aiuto di un cavaliere. Lo trovavo sciocco solo a pensarci. Kazi rimase per un attimo atterrito, ma subito dopo un lieve rossore si dipinse sulle gote,bianche come il latte. Dovevo ammettere che era adorabile. Passandosi una mano dietro al collo, fece una smorfia che era un misto tra imbarazzo e felicità.
-Oh, non c’è di chè- fu la sua semplice risposta. Sembrava proprio che le cose fossero tornate tranquille.
-Comunque, Esme, giuro che non tornerò sull’argomento – aggiunse lui, facendo un lieve respiro – ma sappi che se avrai mai bisogno di confidarti, su qualsiasi cosa, io ci sarò per te. Perché siamo amici-.
“Amici”. Per qualcuno poteva sembrare incredibile, ma era la prima volta che udivo quella parola, carica di calore e umanità. E Kazi l’aveva enfatizzata così tanto, usando solo il timbro armonioso della sua voce. Ed ecco di nuovo quella sensazione alla base dello stomaco. Poi, quella nota agrodolce. Infine la voce nella mia testa.
“Esme, ti stai facendo coinvolgere…pensa solo al piano, o ti perderai”.

Mentre Kazi, Esmeralda, Clopin e la piccola Djali erano quasi arrivati alla loro metà, a San Pietroburgo qualcuno stava architettando un nuovo malefico piano. Klod Frollo, che aveva sfogato la sua rabbia sfogliando libri e manuali antichi, era in procinto di creare un’arma infallibile. Qualcosa di più subdolo di una corsa impazzita verso il burrone. Più invitante di un comodo viaggio in treno. L’uomo vestito in nero, chiuso nel suo studio poco illuminato, rovistava col mestolo una specie di pozione dal colore violaceo.
-Questa volta non mi scapperai, principe Kyazimodo. Aspetto con ansia il tuo prossimo sonno e allora non ti sveglierai mai più- proferì Frollo, mentre versava un po’ di quella miscela in una boccetta di vetro. Il falco di Febo era da poco tornato con nuovi aggiornamenti, e il tiranno gli affidò la sua preziosa creazione che sarebbe arrivata a destinazione. Tutto era ormai pronto e Frollo già pregustava il sapore della completa vendetta. 

 

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