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Era stato l’ultimo ad essere accolto all’agenzia di ricerca di nuovi talenti nel mondo della musica, l’ultimo di conseguenza ad essersi unito al gruppo.
Park Jimin, questo il suo nome: un nome che Jeon Jungkook, neppure con tutta la forza di volontà del mondo avrebbe potuto dimenticare. Un nome che già conosceva, e che aveva imparato a detestare.
La notizia dell’arrivo dell’ultimo membro a completare il gruppo di idol volò da una bocca all’altra rimbalzando dalla segretaria alla portinaia del dormitorio comune, con una velocità tale da spiazzare i ragazzi coinvolti. Lo stavano aspettando tutti e sei con fare impaziente e la concentrazione nella piccola sala era pari a zero. Namjoon, leader e compositore di testi si scompigliò malamente i capelli chiari, tentando di ritrovare una connessione perduta tra la prima e la seconda strofa per la quinta volta consecutiva; Yoongi lo stava squadrando con occhi scuri e glaciali mugugnando qualcosa su come di fatto le canzoni non potessero scriversi da sole, ricevendo un’occhiata truce di rimando. Non era certo momento di battute, pensò con una semplice alzata di spalle, e non si sarebbe fatto intimorire da un’espressione contrariata. A lui comunque non andava certo meglio, il blocco su cui era solito appuntare i risultati dell’ispirazione era completamente candido. Si mangiucchiava nervoso le unghie voltando e rivoltando la penna tra le dita, penna che non aveva versato una sola goccia di inchiostro. Digrignò i denti stizzito prima di dar fiato alla bocca con tono acido.
«Jin, vuoi smetterla? Non ti sopporto più.»
Il diretto interessato bloccò il proprio tamburellare ritmico sul bracciolo del divano a due posti poggiato sulla parete di fianco all’entrata, sbuffando dalle labbra piene e rosate. Si massaggiò la tempia prima di esordire con una frase ad effetto su come tutta quell’attesa nuocesse alla pelle perfetta corrugata tra le sopracciglia ben disegnate, rischiando di fatto di intaccare la diafana bellezza di cui il ragazzo tanto si vantava.
Uno di loro se ne stava a sbirciare con occhietti vispi dall’uscio affiancato al collega poco più alto, aggrappato e pericolosamente sbilanciato sulle sue spalle; li zittì rumorosamente, scuotendo il braccio nel tentativo di placare il battibecco inutile scatenato dall’attesa. «Zitti!» Disse infine Hoseok mimando un secondo gesto d’imposizione della quiete. «Potrebbe entrare da un momento all’altro! E tu, Tae, smettila di sbilanciarmi o cadremo… Tae… Ta-»
Il tonfo prodotto dai due accasciati l’uno sull’altro attirò l’attenzione latente del più giovane, Jungkook, che se ne stava in un angolo accucciato sul pavimento: cappuccio della felpa oversize abbassato sui fini capelli castani, le iridi color cioccolato coperte dalle palpebre e un auricolare stretto tra le dita, la musica in pausa. Tentava di simulare disinteresse in ogni modo, anche se in realtà, era il più teso di tutti. Il più teso perché sapeva esattamente chi avrebbe varcato quella porta, ed era l’unico ad esserne a conoscenza.
Il viaggio di Jimin era stato lungo e inquieto, era tardi ed il traffico della città non perdonava neppure durante le ore piccole: la capitale era viva notte e giorno e questo non aveva certo contribuito a rendere più digeribile l’idea di presentarsi a sei futuri colleghi di cui ancora non sapeva assolutamente nulla. Le prime gocce di pioggia di un autunno inspiegabilmente freddo stavano bagnando il parabrezza del taxi rendendo le innumerevoli luci notturne striate e confuse, portando ulteriore tensione nella mente del ragazzo; si strinse nella giacchetta leggera sentendo un brivido, non certo dato dalla temperatura percepita. I 23 gradi nell’abitacolo non erano sufficienti a scacciare la pelle d’oca.
Era tutta tensione.
Non sapeva in che modo stemperarla e cosa aspettarsi: sapeva d’essere il settimo membro d’un gruppo di cantanti e ballerini, si sentiva indescrivibilmente non all’altezza nonostante il risultato ottenuto ai provini privati che la piccola azienda aveva organizzato per ricercare il mancante e scritturarlo. Ed era lì, era il suo turno di apparire, di mostrare il proprio volto e di sorridere, sorridere e sembrare il più naturale possibile. “Sii te stesso, non importunarli, non essere insistente.”
Andrà bene. Andrà bene.
Stava inghiottendo per l’ennesima volta un boccone inesistente, neppure la saliva scendeva nell’esofago teso. Il pensiero primario era quello di non dare una brutta impressione, e questo lo stava letteralmente perseguitando ad ogni passo. “Comportati bene, chissà cosa si aspetteranno da te. Jimin, non fare cazzate.”
Non fare cazzate.
Raggiunta la stanza indicata da una signora ben pienotta in volto, sulla cinquantina, l’aria bonaria di chi la sapeva lunga senza poter dir nulla, non poté fare a meno di scoppiare a ridere aggrappandosi allo stipite della porta, sconvolto da tanta ilarità scatenata da due ragazzi stesi a terra, uno sull’altro a braccia aperte, pressati ben bene sul pavimento. Il primo tentativo di apparire serio era completamente fallito: quello era stato il modo migliore di presentarsi? No di certo, era paonazzo in volto e non riusciva a smettere di ridere, tanto da cadere a terra sui glutei. Hoseok si issò scavalcando Taehyung che ancora non s’era ripreso, rischiando di inciamparsi nuovamente sull’amico nel raggiungere il nuovo arrivato e scusarsi per lo spettacolo inatteso. Jimin gli strinse la mano stropicciandosi un occhio con l’altra prima di notare la figura che ancora giaceva sulle piastrelle, indecisa se sprofondare oltre o fingere d’essere spirata nel mentre. Le piccole dita calde e confortanti del ragazzino lo ridestarono dall’imbarazzo in cui s’era chiuso nascondendo ancora il volto verso il basso: il settimo membro s’era chinato aiutandolo a rialzarsi. Si fissarono negli occhi quel tanto che bastava a ricordare d’essere dei completi sconosciuti, ed il grazie sussurrato dallo stesso Tae si palesò in un sorriso quadrato, solare, sincero. Una scena di poco più di quattro secondi che pareva essersi dilatata attraverso il tempo e la stanza, dove le dimensioni vennero riportate alla normalità dagli altri che li circondarono un attimo dopo. Jimin scuoteva il capo da una parte all’altra cercando di ricollegare le voci ai volti nuovi, tentando di memorizzare invano nomi e cognomi recepiti a velocità sostenuta.
Dall’angolo opposto uno dei presenti scosse Jungkook dalla distanza mantenuta appositamente. «Ehi, vieni a salutare.»
«Yoongi, lasciami stare. Ora c’è troppo casino, capirebbe meno di un cazzo se mi buttassi lì in mezzo.»
«Kookie, sei il solito. Togli il broncio e fa come me, fingi che ti importi qualcosa. Vedrai che dopo i primi cinque minuti questa pagliacciata sarà già finita.»
Il più giovane sbuffò scollegando gli auricolari dal cellulare senza mostrare il minimo entusiasmo: contrariamente agli altri ed in linea con i pensieri di Yoongi stesso, non sopportava affatto tutta quella dimostrazione di cortesia, le moine, le smancerie palesi come quelle esternate da Hoseok dopo la figuraccia della caduta. Troppe strette di mano, troppe parole, informalità già presente: la sua irritazione era già salita esponenzialmente.
Jimin spostò lo sguardo trovando un’apertura tra un corpo e l’altro, quasi tutti più alti di lui di almeno una decina di centimetri; il suo essere minuto non aiutava certo a costruirsi una visuale completa della stanza. Cercava attorno consapevole della mancanza di qualcuno all’appello e la sua curiosità aveva di poco superato la marcata sensazione di disagio. Doveva sapere, conoscere ancora qualcuno. Si levò il cappellino scompigliando i sottili capelli neri e ravvivandoli con i polpastrelli in un gesto dal sapore abitudinario.
Nervosismo?
Prima di parlare venne interrotto da Namjoon e dal suo tono quieto. «Ti stiamo togliendo l’aria, vero? Vieni, siediti. Immagino tu sia stanco ed il viaggio sia stato lungo. Dai, ti presento al resto del gruppo. Jin, smettila di guardarlo in cagnesco, i posti sul divano non si sposano. E non fare quella moina, non ci casco di nuov… smettila, no, alzati, Jin ades… scusami, lui è fatto così. Levati, levati non farmelo ripetere.» Lo squadrò con occhio severo mimando uno “sciò” sospirando irritato, ricevendo un borbottio per nulla nascosto. Jimin si scusò con un lieve cenno del capo sentendosi di fatto un’intromissione in un luogo comune che non riconosceva affatto come proprio, anche se così sarebbe dovuto essere. Il tempo di un istante e Jin spalancò le proprie labbra in una smorfia soddisfatta accompagnando il ragazzo al centro del divanetto, ancora sconvolto.
Hoseok, dimentico dell’immane figura di cui era stato vittima inconsapevole grazie alla perdita di equilibrio di Taehyung, gli si sedette accanto entusiasta, richiamando all’attenzione a gran voce gli ultimi due membri: aveva letteralmente gridato i loro nomi nella speranza di smuoverli e portarli a presentarsi con la dovuta cortesia. Il primo si mosse mormorando qualcosa riguardo ad un sonno eccessivo e all’inutilità delle smancerie: «Yoongi, piacere.» Gli strinse la mano ritraendola poco dopo come se il contatto ravvicinato lo avesse infastidito. Jimin fece altrettanto con un sorriso di cortesia, percepiva il gelo farsi pressante attorno, proveniente da una direzione specifica. Scorse ancora qualcuno a non più d’un paio di metri, ma che pareva molto più distante: Jungkook non lo stava guardando neppure, anzi, fingeva d’essere estremamente impegnato nel misurare le fughe delle piastrelle con la punta della scarpa.
Namjoon tentò di riprenderlo scontrandosi con un suo sguardo sottile: l’affermazione nelle iridi di quello che di fatto era designato come leader si rivelò dalle labbra con autorevolezza. «Vieni qui, ora.»
Il giovane scansò Jin nel farsi spazio, sedendosi sul tavolino di fronte al sofà; alzò il volto e le loro pupille finalmente s’incrociarono. Jimin faticava a gestire la strana sensazione data da quel contatto visivo prolungato; stava forse tentando di intimidirlo in qualche modo?
Un piccolo sbuffo e la mano si tese, lui si sporse in avanti flettendo le dita sulle piccole dell’altro. «Sono Jungkook, il più giovane qui. Spero tu possa trovarti bene.» Sospirò di nuovo un attimo prima di riprendere con voce atona. «Bene, abbiamo finito?»
Jimin sorrise fino a socchiudere le palpebre presentandosi un’ultima, difficile volta, fece lieve pressione con i polpastrelli a tastare il palmo caldo prima di sciogliere l’intreccio e rendersi conto che la parte più complessa si stava finalmente concludendo, lasciandogli addosso una lieve punta di curiosa familiarità. Chi gli stava di fronte si alzò dirigendosi verso Taehyung e sostandogli accanto il tempo di poche e semplici parole. «Smettila di fissarlo, o ti beccherà.» L’altro scostò immediatamente il viso colpevole maledicendosi per la solita innocenza superficiale, ma non poteva farci proprio niente Tae, non riusciva mai a nascondere ciò che provava e pensava, nemmeno impegnandosi: era limpido e cristallino in ogni sfumatura del suo essere, nelle situazioni più disparate e le più complesse da gestire.
Una serata decisamente sfiancante a detta del ragazzino che aveva affrontato un viaggio eterno avvolto nella tensione più lacerante e pura, per poi ritrovarsi a scoprire di dover dividere la stanza da letto con tutti quanti: con la promessa di un trasferimento a breve, i sette erano costretti a condividere uno spazio angusto per la notte, tanto angusto da essere rappresentato da un’anticamera e un’unica stanza con relativi posti letto. Non che Jimin si aspettasse una sistemazione di lusso ma l’idea lo stava davvero mettendo in soggezione. Namjoon gli passò la mano sulla schiena massaggiandola lievemente nel breve tentativo di rinfrancarlo, ed a quel tocco sussultò come scottato mantenendosi rigido: era estraneo a quel genere di contatto e sapeva che avrebbe dovuto abituarcisi. L’altro si scusò grattandosi la nuca impotente: non era facile rompere il ghiaccio, soprattutto alla rivelazione della notizia successiva. «Può sembrare strano ma ci si fa presto l’abitudine. È più facile di ciò che sembra, credimi. Vedi, basta solo…» Crack.
«Ma che?» Lo scricchiolio sinistro provocato dal calpestio di Namjoon destò l’attenzione di tutti, dopo aver calciato all’aria un paio di scarpe e scaraventato sotto un letto un paio di magliette abbandonate sul pavimento; voltandosi sbatté il gomito contro lo spigolo di una mensola, e la breve imprecazione smorzata dal morso alla lingua fece scoppiare a ridere di cuore Jimin che fino a poco prima giaceva in un angolo in attesa di qualsiasi cosa. «Beh, sempre salvo imprevisti. Kookie, il posto accanto al tuo è occupato adesso, togli la tua roba.»
Il più giovane sbucò dall’angolo del proprio letto contrariato, le sopracciglia aggrottate in un’espressione che lasciava poco spazio all’immaginazione: non tentava nemmeno di celare la contrarietà alla cosa. Aveva quindici anni e fare finta di nulla o mentire spudoratamente nascondendo ciò che pensava davvero non rientrava certo tra le sue più alte aspettative. Aveva già pensieri a sufficienza per la testa senza dover fingere un’empatia che non era in grado di provare, soprattutto per lui.
Un rumore secco di oggetti sbattuti con malagrazia sul pavimento coinvolse Hoseok nel silenzioso immaturo gioco di potere che si stava svolgendo sotto agli occhi di tutti; non poté fare a meno di spiare dall’alto del letto a castello sporgendosi e scuotendo il capo con dissenso. Senza disturbare il vicino Yoongi che già stava dormendo della grossa, si calò dalla scaletta e si posizionò accanto a Jimin.
“Cos’hanno questi? Possibile sia un’abitudine stare così appiccicati?” Avrebbe voluto dar voce a quel disagio ma quel tepore confortante ed il suo sorriso sincero lo stavano tranquillizzando, anche se ancora diviso dalla diffidenza iniziale. Le iridi scure e vivaci, brillanti e vive sembravano volergli ricordare che il mondo poi non era così difficile come si stava mostrando attraverso i comportamenti incomprensibili di un ragazzino fastidioso. Lo sentì azzerare le distanze e sussurrargli qualcosa divertito: «lascia perdere Jungkook, è in piena fase di ribellione adolescenziale. Non ascoltarlo, io sono dalla tua parte. Noi lo siamo.»
Il disagio stava scemando piano, ma rimaneva un problema da risolvere, ed era quello di doversi sistemare per la notte, accanto alla persona che a quanto pare lo tollerava meno nell’intero gruppo.
Avrebbe dovuto far finta di nulla ed inspirò lentamente cercando di trovare la forza in sé per affrontare quell’assurda sistemazione. Strinse il proprio borsone spostandosi con passo rigido e controllato fino all’ultimo letto in fondo, quello accanto alla finestra, quello attaccato al materasso di Jungkook.
«Avremmo potuto spostarlo se ci fosse stato spazio sufficiente, mi spiace.» Namjoon era accorato, ma non aveva potuto fare nulla più di ciò che era stato fatto. Un piccolo gesto di cortesia col capo sembrava voler dire “sopporta, lo facciamo sempre tutti.”
E la nottata doveva ancora cominciare.
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Nota dell’Autrice (ahhhh la prima NdA dell’anno):
Ciao, sono Stefy, e questo è il primo aggiornamento del 2020. Non è un ulteriore capitolo di una long, non è parte di una raccolta già iniziata, e nemmeno una OS autoconclusiva.
Nooo.
Scherziamo? Perché rendere facile l’anno corrente continuando qualcosa di già avviato? Sarebbe da me? Assolutamente no, ma neanche per scherzo, nemmeno per sbaglio. E infatti, un nuovo progettino – il più corposo in assoluto, fidatevi – che mi girava in testa tipo da qualche mese, ha preso finalmente il via. Le dinamiche si muovono in un ipotetico momento del “predebut” di un gruppo di idol nell’industria musicale sudcoreana, in cui vengono selezionati i componenti, testate le loro capacità, dove vengono sottoposti ad allenamenti di ogni genere per riuscire ad arrivare pronti al momento dell’esordio. Un periodo decisamente delicato, dove lasciano le loro famiglie per andare a convivere con i loro futuri colleghi e cominciare a lavorare sui progetti lavorativi. Si tratta di ragazzini o poco più (il più piccolo ha quindici anni, il più grande ne ha venti), e dovranno condividere tutto.
Questi sette sono i miei testoni, ed i personaggi traggono liberamente ispirazione da un noto gruppo musicale. Potrei definire Canonverse rielaborato ciò che viene mostrato qui, ma le dinamiche, le interazioni, le interpretazioni caratteriali sono frutto della mia fantasia e per questo considerate in ambito originale. Mi auguro possa piacervi, ormai già con Singing avete capito che il mondo della musica rientra nel grande disegno composto dalle mie storie originali.
E dopo questa luuuuunga lunghissima nota – direi la più lunga mai scritta, chissà se qualcuno ha già lasciato perdere! – vi auguro un florido e positivo 2020, che possa darvi gioia, una vita migliore e tanta ispirazione. Non vi libererete facilmente di me, alla prossima e grazie di essere ancora qui al mio terzo anno su EFP. -Stefy-
Più tentava di prendere sonno, meno ci riusciva: l’unica cosa che Jimin aveva ottenuto nell’eccessivo conteggio mentale del tempo era un gran senso di disagio. Dormire con altre sei persone non era certo impresa semplice, come dover passare sopra a chi russava, chi si agitava e mugugnava, chi si alzava continuamente per andare al bagno: erano una continua fonte di disturbo. Il concetto di silenzio era davvero lontano da tutto ciò che stava vivendo. Sentiva forte la presenza di ogni tipo di rumore, la mancanza del buio assoluto cancellata dalla luce del mondo esterno che filtrava tra le aperture della tapparella; sentiva addirittura il bisogno di percepire ancora il ronzio basso alle orecchie che accompagnava ogni notte a casa sua.
C’era una cosa che lo turbava più di tutte le altre però, la presenza immobile di Jungkook accanto a sé. Se ne avesse avuto il coraggio si sarebbe voltato nella sua direzione solo per sincerarsi se di fatto stesse respirando davvero. Naturalmente non lo avrebbe mai fatto. La calma innaturale che il ragazzo emanava era quasi ansiogena. Si alzò tentando di produrre meno rumore possibile, lasciando la stanza e tutte le emozioni negative legate ad essa che gli stavano procurando l’insonnia; raggiunse la saletta in cui era stato accolto qualche ora prima, approfittando del piccolo divano comodo ma funzionale, perfetto per stendere i nervi tesi e ricercare un po’ di sana e necessaria solitudine. Non accese neppure la luce, il fioco alone di un caldo arancio riprodotto da un paio di lampioni in lontananza era sufficiente a rischiarare il lato opposto al sofà, tanto da mostrare una fotografia chiusa in un semplice plexiglass che ritraeva sei ragazzi.
I suoi nuovi colleghi.
Tra tutti quei sorrisi due volti lo avevano colpito: il primo, Yoongi, non mostrava alcuna emozione, sembrava completamente apatico esattamente come lo aveva conosciuto quello stesso giorno. L’altro, quello che lo aveva colpito maggiormente nell’immagine, era Jungkook; splendeva di una risata radiosa e spontanea, entusiasta, la più esposta e serena. Mai Jimin avrebbe pensato di ritrovare stampata sul suo viso un’espressione simile: era in nettissimo contrasto con l’atteggiamento mostrato nel presentarsi. Naturalmente una domanda nacque bisognosa di una risposta rapida: perché non lo aveva accolto come tutti? Non conoscendolo ancora non poteva certo capirne il motivo ma si era fatto suggestionare dalle iridi scure e distaccate, lontane, intrise di disprezzo.
Disprezzo verso qualcuno che mai aveva incontrato prima.
Che senso aveva?
Non pensava d’aver dato una pessima idea di sé. Cercava una soluzione a quel grattacapo, non aveva fatto nulla di male anche tornando indietro a poco tempo prima e rivivendo il suo ingresso nel gruppo dei Bangtan. Sospirò rassegnato chiudendo gli occhi e ciondolando verso il bracciolo del divano, poggiandovi il capo e raggomitolandosi a ricercare un tepore che nella stanza da letto mancava completamente. Cullato dalla quiete si lasciò trasportare dal sonno.
Taehyung aveva aperto di poco le palpebre scosso improvvisamente da un bisogno impellente: inciampandosi sui suoi stessi piedi raggiunse il bagno in fondo al corridoio, gli occhi a mezz’asta. Tornando indietro porse uno sguardo rapido alla saletta comune notando qualcosa di poco familiare al suo interno, qualcosa colto nel dormiveglia a cui diede poca e nulla importanza. Il fatto assunse un altro tono quando rientrando in camera notò l’assenza di uno dei compagni dai letti: quello accanto a Jungkook era vuoto e quest’ultimo giaceva supino, completamente sveglio, corrucciato. Deciso a non disturbarlo affatto si concentrò sulla mancanza inaspettata di Jimin in un orario alquanto strano, erano da poco passate le quattro del mattino, il mondo intero dormiva, il traffico all’esterno cominciava a dare tregua diminuendo d’intensità. Il cielo era particolarmente cupo ed in lontananza i lampi illuminavano la volta a giorno per alcuni brevi istanti, rincorrendosi tra le nuvole scure. Un brivido scosse la schiena del ragazzo che già stava uscendo dalla camera, quando una voce ferma e chiara lo bloccò sul posto.
«Stai andando a cercarlo?»
Taehyung non si sentì obbligato a rispondere, ciò che voleva fare ad ore assurde, mentre tutti dormivano ed il nuovo arrivato sembrava sparito, era solo un mucchio di fatti suoi. Non era certo un problema di Jungkook.
«Sto andando al bagno.» Una leggera nota di irritazione aveva tinto quelle semplici parole cambiandone di fatto il significato: “fatti i cazzi tuoi”, questo avrebbe voluto aggiungere.
«Ci sei già stato, stai andando da lui?»
Il malumore in Tae stava raggiungendo picchi inaspettati, nato nelle viscere e diffuso rapidamente in tutto il corpo; malumore che si stava palesando con i pugni tremanti stretti con vigore. «Lascialo stare.»
L’altro si alzò di scatto svincolandosi dalla presenza ingombrante del materasso sopra la testa, con movimento abituale. Gli si parò di fronte digrignando i denti e mostrandosi particolarmente contrariato. «Lo stai difendendo senza nemmeno conoscerlo?» Una domanda provocatoria la sua, un pizzico di acido misto a veleno inspiegabili alla mente confusa e ancora annebbiata dal sonno del ragazzo.
«E tu invece? Lo tratti come fosse una merda e non lo conosci neanche. Fanculo, JK. Vai a fare in culo.» Uscì stizzito, non riusciva a tollerare minimamente tutto l’astio dimostrato per qualcuno che sapeva ridere e sorridere così genuinamente. Da qualche parte però doveva essere: escludendo la Direzione e gli uffici, escludendo l’esterno…
Entrò in punta di piedi Tae, muovendosi lento nella saletta comune e sedendosi sul tavolino di fronte al sofà; come aveva avuto modo di sospettare, il ragazzo si trovava lì, rannicchiato in un angolino, avvolto dalla penombra e dal silenzio. Taehyung allungò una mano come ipnotizzato cercando di sfiorare quei leggeri capelli neri scomposti, ma bloccò le dita a mezz’aria nel momento in cui un sussurro proveniente dall’entrata attirò la sua attenzione: Hoseok sostava in intimo, fasciato da una canotta aderente scura, la testa arruffata e gli occhi stanchi. «Non svegliarlo, è stata già abbastanza dura per lui.»
Il giovane si allontanò scaricando il peso sul palmo della mano, il gomito sulla coscia. Non aveva risposto, stava facendo finta di niente in modo così plateale da non sembrare minimamente convincente. L’amico lo raggiunse sedendogli accanto sorridendo. «Mi spiace tu e JK abbiate litigato.»
«Ci hai sentiti?»
«Certo, ti pare? Non sono capace di farmi i fatti miei, non lo sono mai stato. Solo che non capisco una cosa… perché tutto questo odio? Cioè, si è presentato bene, ha retto la tensione, ha accettato quasi di buon grado di stare assieme a noi in camera.» Osservava Jimin con apprensione, senza essere capace di comprendere il comportamento di distacco dimostrato non solo da Jungkook ma anche da Yoongi. «Quasi, visto che si è ritirato qui. Ero sveglio pure io, sai? Non ha chiuso occhio tutta la notte. E non era l’unico.»
«Vorrei solo lo lasciasse stare. Insomma, guardalo, cosa potrebbe fare di male? Cosa potrebbe mai aver fatto per meritare un comportamento simile?»
«Shhh.» L’indice di Hoseok si poggiò sulle labbra in una richiesta muta di silenzio; continuò la conversazione abbassando il tono. Jimin s’era voltato un paio di volte cercando di riacquistare la posizione adatta. «Sai, io ero capitato spesso qui nel primo periodo. Non riuscivo a dormire bene, sì, per il nostro essere tutti stipati lì dentro. Una notte è venuto Yoongi a prendermi in mutande e aveva ancora gli occhi chiusi; non aveva nemmeno aspettato che io mi alzassi, mi aveva preso per mano trascinandomi a letto e non l’aveva mollata nemmeno dopo essersi riaddormentato completamente.» Arrossì al pensiero e sorrise imbarazzato. Tae lo stava guardando stupito, non credeva fosse così difficile per gli altri dover avere a che fare con una situazione simile. Lui l’aveva sempre vista come una cosa facilmente gestibile, tanto s’addormentava comunque dopo non oltre dieci minuti.
«Perché non torni a letto, Hobi? Ti vedo stremato, dai, vai a dormire.»
«Dovresti dormire anche tu. Scommetto però starai qui a fare la guardia, vero? Ti conosco, so come sei fatto, ti chiedo solo di non farti trascinare.»
«D’accordo, buonanotte.»
Un rapido scambio di sguardi d’intesa ed il silenzio tornò a riprendersi il dovuto spazio. Taehyung s’era ripromesso soltanto di controllare fosse tutto a posto.
Lo era.
L’altro dormiva serenamente, sembrava tranquillo.
L’unico a non esserlo era proprio lui, che non era in grado di alzarsi ed andarsene.
«Vedrai, non ti accadrà nulla.» Quelle dita che prima aveva ritirato s’erano posate sulla fronte fresca, sfiorandone la pelle pallida. «Scoprirò cosa è successo, te lo prometto.»
Al diavolo le parole di raccomandazione di Hoseok, lo avrebbe difeso sempre, lo avrebbe aiutato stando al suo fianco, anche a costo di litigare con Jungkook. Forse era un semplice irresponsabile, un immaturo incapace di tenere a freno il proprio istinto e di dare ascolto al cuore prima che al cervello, ma dopo quel sorriso e quella piccola mano calda che aveva stretto la sua aveva capito una cosa: Jimin andava protetto, protetto dal mondo, protetto dalle cattiverie e dall’astio, protetto persino dagli stessi membri dei Bangtan.
Intorpidimento.
Mal di schiena.
Prima imprecazione.
Crampo al polpaccio, ginocchio contro lo spigolo del tavolino, sbilanciato dal divano.
Seconda imprecazione.
Un piede in fallo chissà come, chissà dove: rovesciato di lato sul tappeto.
Terza e non ultima.
Il primo risveglio di Jimin nella nuova abitazione non era certo stato dei migliori, come l’idea di adagiarsi su un divanetto in piena notte. Gli occhi ancora chiusi, tentava di capacitarsi del motivo della caduta: quello stesso motivo stava mugugnando sul pavimento, grattandosi la pancia scoperta con una mano.
Taehyung, steso accanto al sofà, dormiva ancora della grossa e Jimin ci era inciampato sopra.
“Ottimo. Buongiorno un cazzo.”
Il buonumore era un miraggio lontano, surclassato completamente dal desiderio di caffeina misto alla curiosità di uno dei nuovi colleghi che aveva confuso il salotto per il mondo dei sogni. Decise di controllare la situazione inginocchiandoglisi accanto e punzecchiandogli la guancia con un polpastrello. Una volta. Due volte. Tre volte. Niente, non dava segno di tornare tra i vivi. Poco male, affrontare di prima mattina una persona che conosceva da meno di dodici ore non rientrava nella lista di cose da fare. Ci avrebbe pensato dopo.
“Dov’è?” Gironzolava in cerchio cercando di orientarsi ma niente: di un fornello, una moka o semplicemente una macchinetta del caffè nemmeno l’ombra. Si sedette sconsolato su una delle poltroncine adiacenti il piccolo tavolo; poteva uscire e andarsene al bar, optando per un espresso rinvigorente, ma sarebbe dovuto entrare in camera a cercare un cambio pulito.
Non voleva assolutamente andarci, non dopo l’astio da smaltire di due dei coinquilini. Ne avrebbe fatto dolorosamente a meno.
Namjoon stava godendosi il silenzio della domenica mattina, un sacro momento di rara bellezza nel piccolo stabilimento di proprietà dell’azienda che li aveva ingaggiati. Nessuno avrebbe lavorato quel giorno, dunque le sveglie silenziate non avrebbero destato i compagni chiassosi e difficilmente gestibili al post risveglio. Il cucinino a fianco della sala comune profumava di miscele calde e rinfrancanti, e l’aroma della necessaria bevanda bollente s’estendeva al corridoio, sollevandosi fino alle narici di un Jimin nuovamente addormentato. Al richiamo del profumo il ragazzo spalancò le palpebre gettando una rapida occhiata a Taehyung: giaceva ancora lì dove lo aveva lasciato, non s’era spostato neppure d’un millimetro. Alzò le spalle sorridendo e seguendo la scia; ne avrebbe scoperto l’origine a tutti i costi, e così fu. La testolina spettinata spuntò all’uscio osservando con fare circospetto lo spazio per nulla familiare.
«Oh? Buongiorno, hai dormito bene?» Namjoon accolse il ragazzo con un sorriso cordiale, sorseggiando quieto da una tazzina fumante; «non deve essere stato tanto facile ieri, mi scuso per il comportamento di quei due. Vedi, sono così di carattere, dagli il tempo di abituarsi a te.» Suonava come una rassicurazione ponderata, ogni parola studiata e adagiata di modo da risultare confortante ed efficace. «Ti va un caffè? Oggi siamo i primi, goditi questo momento di pace prima che arrivino tutti.»
Jimin non se lo fece ripetere due volte: si sedette ad uno degli sgabelli poggiando stancamente i gomiti sulla corta penisola, masticando a vuoto un paio di volte non reprimendo uno sbadiglio vigoroso. Attendeva il proprio turno come ne andasse della stessa sopravvivenza.
E fu così, con il calore bruciante del caffè giù per l’esofago e le fossette cordiali nel volto del leader del gruppo, che iniziò nuovamente la giornata. Credeva sarebbe stato più difficile, dopo una partenza simile.
«Mi spiace per ieri sera.»
Il ragazzo tentava di focalizzare il significato di quella affermazione, non trovando traccia di malizia: Namjoon sembrava sinceramente affranto per l’andamento del suo esordio nei Bangtan.
«Non lo fanno apposta, Yoongi è sempre stato così in fondo.» Nessuna parola però per il comportamento stizzito di Jungkook su cui aveva glissato elegantemente. «Mi sembra però di notare che stai simpatico a qualcuno, o sbaglio? Ho visto Taehyung stamattina, era così preoccupato per te che si è addormentato in sala nella speranza di vederti riposare bene. E poi Hoseok non è da meno, è sempre disponibile con tutti.» Allungò la mano poggiandola sulla sua spalla, sorridendo amabile; «vedrai, non sarà così tanto male stare qui con noi. Cercherò di rendere il tuo soggiorno qui il meno fastidioso possibile.»
Parole quiete, dalle tinte pastello; parole confortanti, come quella mattina che sembrava procedere finalmente per il verso giusto. Il silenzio calato nella saletta non era affatto imbarazzante, anzi: Jimin approfittò di guardarsi attorno curioso mentre Nam trafficava con le tazzine della colazione nel lavello. Una scena familiare, forse una futura buona abitudine, si disse speranzoso il ragazzo. Tutta quella positiva sensazione di calore svanì nel momento in cui si rese conto di dover tornare in camera, dove aveva abbandonato con noncuranza il borsone con gli effetti personali. Si alzò ringraziando l’altro con un cenno del capo.
“Spero dormano tutti.”
“Devono dormire tutti.”
“Dormiranno ancora?” Il nodo allo stomaco non voleva sciogliersi in alcun modo, e non aveva il coraggio di abbassare la maniglia: se avesse contato i secondi passati davanti all’ostacolo, si sarebbe perso un paio di volte. “Entra. Dai, entra.”
La porta si spalancò mostrando l’aria mezza addormentata di Jungkook che mugugnò un buongiorno a fior di labbra stropicciandosi gli occhi. Non lo aveva insultato, non lo aveva guardato con aria cinica, non lo aveva evitato di proposito.
Che diavolo stava succedendo?
La testa del ragazzino ancora ciondolava per il sonno, le palpebre abbassate.
Era di una tenerezza disarmante, il petto coperto da un pigiama leggero mentre le cosce nude toniche lasciavano intuire anni e anni di duro allenamento. Pareva ancora un bambino nel completo dormiveglia e Jimin si stupì non poco nel sentirsi rivolgere la parola in modo così disinteressato, garbato. Rispose prontamente, e nel sentirne la voce, il più giovane si bloccò spalancando le iridi come ridestato da un sonno pesante.
Lo fulminò letteralmente scansandolo in malo modo ed urtandone la spalla nell’uscire dalla stanza.
S’era sbagliato, come poteva pensare che si fosse trattata di una semplice giornata storta? No, il suo atteggiamento certo non sarebbe cambiato da un momento all’altro. E questo stava cominciando ad infastidirlo in un angolino profondo della coscienza; una motivazione, pretendeva almeno una piccola motivazione per un trattamento simile, e prima o poi l’avrebbe trovata, a costo di strappargliela da dentro.
«Tiratelo su, per favore.»
Yoongi osservava Taehyung sul pavimento: il sopracciglio alzato indicava la crescente irritazione che l’idiozia di quel gesto palesato al mattino aveva scatenato in lui. Era tentato di tirargli un calcio sullo stinco, solo per infastidirlo. Stava davvero superando il limite nei confronti del nuovo arrivato: non era mai riuscito a spiegarsi come fosse possibile perdere tanto facilmente il senno per qualcuno che di fatto ancora non conosceva. Quanto poteva essere labile un carattere simile? Hoseok si abbassò su di lui stuzzicandogli il naso e tappandone le narici un paio di volte.
Un colpo di tosse, e di nuovo il russare sonoro.
«Niente, morto. Lascialo lì.» Yoongi afferrò l’amico per il braccio trascinandolo via.
«Certo che è da ieri che sei così, si può sapere cosa è successo? È da quando è arrivato Jimin che non fai altro che lamentarti e trattare male tutti. È per Jungkook, vero?»
Le labbra ridotte a sottile pelle stesa in segno di diniego.
Hoseok ci aveva preso in pieno.
«Non sono cose che ti riguardano, e di sicuro non perderò il mio tempo a spiegarti ciò che non capiresti nemmeno.»
«Più acidello del solito, eh.»
«Senti, vai a farti fottere Hobi. Ho da fare.»
«Di domenica?»
«Esatto. Evitarvi, ecco cosa.»
Lingua tagliente, atteggiamento cinico: il ragazzo stava mostrando parte del proprio carattere difficile, arrivando a litigare persino con uno degli amici più cari per una motivazione non palesata. Che avesse avuto ragione o meno non importava, non voleva lasciare Jungkook in quello stato; detestava vedere tutti attorniare Jimin e sorridergli, accantonando le sensazioni del più giovane. Anche se il motivo ancora non si sapeva, chi erano loro per poter tralasciare lui e dedicare mille attenzioni a uno qualunque? No, non avrebbe reagito come loro. L’altro aveva bisogno di compagnia più che mai, equilibrio e tranquillità, e se loro non se n’erano accorti, allora non sarebbero stati all’altezza di aiutarlo. I suoi pensieri vennero interrotti dall’arrivo di Jin, perfetto ed impeccabile: nulla in lui era fuori posto, neppure se sveglio da poco. Esordì con una battuta di pessimo gusto rivolta al collega addormentato per poi alzarlo di peso e caricarselo sulle spalle, accompagnandolo nella camera ormai vuota in cui aveva appena trovato rifugio lo stesso Jimin. Il ragazzo entrò con il pesante fagotto a peso morto scaraventandolo sul materasso del coinquilino. «Eccotelo, ora è un problema tuo.» Gli sorrise per poi sparire chiudendosi la porta alle spalle.
Bel modo di parlare per il più anziano del gruppo, pensò. Si avvicinò curioso all’altro che stava impropriamente occupando il suo letto. Capelli castani sottili, pelle leggermente ambrata, l’espressione serena di chi avrebbe dormito volentieri per il resto della vita. Gli si avvicinò sbuffando divertito.
«Sei assurdo.» Sussurrò accarezzandogli il dorso della mano ed uscì stringendo il proprio bagaglio.
Per quanto stranamente inquieta, la domenica era trascorsa rapida: Yoongi e Jungkook non s’erano fatti vedere tutto il pomeriggio, presentandosi solamente per un rapido saluto e un caffè condiviso in sala comune. Nulla di più.
Namjoon sperava in un lavoro collaborativo, una distanza portata da ispirazione, complicità e creatività, ci sperava sul serio ma era il primo a sapere che non sarebbe stato proprio così: quei due si mostravano lo stretto necessario per mantenere le distanze da Jimin. Non era certo l’unico a chiedersi costantemente il motivo di questa scelta, ma era il primo a preoccuparsene ed aveva il gran bisogno di doverne parlare con qualcuno. Ci provò a bruciapelo proprio quel pomeriggio, conversando con Jin, il più anziano del gruppo.
«Senti, so che non è un mistero l’attrito tra loro, ma vorrei evitare che questa storia vada avanti per troppo tempo. Siamo tutti nella stessa barca, dovremmo imparare a darci una mano e collaborare civilmente. Prima di parlarne con i ragazzi preferirei avere un tuo parere. E per una volta tanto cerca di essere serio.»
L’altezzosa tipica espressione di Jin lasciò il posto ad un volto accigliato; abbandonate le battute di basso livello e le risate forzate, caddero anche i tentativi di distrarre gli altri attirando costantemente l’attenzione. Si distanziò dal resto dei presenti di modo da concentrarsi solo e soltanto su Namjoon.
«Io la penso così: ho rinunciato alla mia strada, ho cambiato le mie aspirazioni e puntato ancora più in alto per essere qui. Se dovessi andarci di mezzo perché due coglioni non vanno d’accordo…» si bloccò senza aver bisogno di finire la frase, non avrebbe permesso a nessuno di veder sfumare ciò che voleva ottenere nella vita: diventare famoso, finire tra i volti più conosciuti dell’intero panorama internazionale e godere di tutti i frutti del duro lavoro, in ogni modo possibile.
«Capisco. Io vorrei andassero d’accordo.»
«Ed io che non mi rovinino la carriera ancora prima di cominciarla.»
«Beh, direi che il fine è lo stesso, no?»
Taehyung si avvicinò curioso, stringendo tra le mani un pacco di biscotti con cui si stava ingozzando senza alcun pensiero; indicò l’orologio da parete con le dita imbrattate di cioccolato.
Allenamento.
Voleva dire soltanto una cosa: la prima sessione di esercizio in sette, il gruppo al completo. Jimin deglutì rumorosamente sentendo la mano amichevole di Hoseok frizionargli la spalla con energia.
«Andiamo?»
La fronte imperlata di sudore, i capelli disordinati sparsi su di essa fino a sfiorare le palpebre ed in certi punti il naso.
Fatica.
Muscoli doloranti.
Fiatone.
Non scherzavano affatto quei sei, pensava il nuovo arrivato passandosi il polsino sulla pelle umida: certo, la metà non aveva un ottimo livello di preparazione alla danza, anzi. Sembrava di aver a che fare con tre estranei alla pratica, però ce la stavano mettendo tutta tentando di recuperare le varie lacune. I passi non erano tra i più complessi, ma ripeterli per così tante volte di seguito sfiancava a sufficienza. Jimin si stese sul parquet della sala prove socchiudendo gli occhi e distogliendo lo sguardo dai neon appesi al soffitto ingrigito dal tempo. La stanza non era molto grande ma era sufficiente a contenerli e ad imbastire i movimenti più semplici.
Abbastanza, anche se non molto. Scacciò quei pensieri infelici rilassando le spalle e la fascia lombare sul pavimento duro, inspirando lentamente dalla bocca per rallentare il ritmo accelerato dato dalla fatica, ed un’ombra si intromise tra il corpo sfinito e lo spazio vitale improvvisamente violato. Spalancò le iridi issandosi a sedere immediatamente e coprendosi in fretta il ventre lasciato all’aria dalla maglietta oversize.
«Complimenti, sei davvero bravo.» Namjoon gli si era seduto accanto smuovendo i polpacci tesi ed affaticati. «Non potevo aspettarmi di meglio per il gruppo. Hai superato le mie aspettative, sappilo.»
Un sorriso cordiale e luminoso, le gote leggermente arrossate dal complimento ricevuto. Ne era certo, quel ragazzo stava facendo di tutto per riuscire a metterlo a proprio agio.
«Senti, non è che…» si avvicinò con fare complice al ballerino, coprendosi le labbra con il palmo della mano, «non è che potresti darmi qualche lezione?»
Risero entrambi. Si premurò di rassicurarlo e promise di dargli una mano nelle parti più difficili. Non gli avrebbe fatto certo male un po’ di allenamento in più, anzi; avrebbe familiarizzato con Namjoon concentrandosi su qualcosa che gli piaceva fare. Chiacchieravano seduti mentre la musica era ripartita scatenando l’ilarità di Hoseok e Taehyung che ballavano a ritmo incalzante, saltellando e cantando come bambini arrivati ad un parco giochi. Attorno gli altri battevano le mani a tempo, intervenivano, si lanciavano uno sull’altro per poi riprendere a giocare.
Un’atmosfera leggera, condivisa da tutti.
Jimin osservava la scena, stavano divertendosi tutti, nessuno escluso. Si rabbuiò, quando c’era lui l’atmosfera non era così festosa, e si sentì nuovamente fuori posto e fuori tempo. Nam lo notò osservandone le reazioni stampate in viso e si mise a ridere. «Non devi preoccuparti, non è facile inserirsi ma nemmeno impossibile. Ci è voluto un po’ anche per loro, cosa credi? Dai tempo al tempo, e a loro di crescere. Andiamo? C’è un distributore automatico qui vicino, non hai sete?»
Si alzarono entrambi, e prima di uscire dalla sala il ragazzo diede un’ultima occhiata ai compagni incrociando lo sguardo complice di Jin.
Raggiunta l’area ristoro si fermarono. Un leggero sentore di tensione stringeva lo stomaco di Jimin, ora che erano rimasti soli. Il clang della lattina della bibita rimbombò a vuoto. S’azzardò a parlare dopo aver sorseggiato rumorosamente, perfettamente a disagio. «Ma qui la domenica non c’è mai nessuno?»
«Esatto. Sono tutti a casa, e spesso pure altri pomeriggi della settimana.»
Lo guardava confuso, cercando di comprendere come fidarsi di un’azienda che ragionava in quei termini lavorativi così malleabili e vari.
« Non capire male, qui si lavora bene, solo che… beh, vedi, dobbiamo ancora ingranare. Non è un mondo facile quello che ci siamo scelti ma immagino tu lo sappia già.»
Certo che sapeva. Fin da bambino aveva dato tutto se stesso per la danza, rinunciando al resto: amici, tempo libero, passioni, giardini, doposcuola. Tutto. Sacrificio, dedizione totale.
Aveva vissuto coi paraocchi, fino al momento in cui aveva deciso di partecipare al provino che avrebbe dato una spinta alla sua carriera. O almeno, questo era ciò in cui aveva creduto presentandosi una mattina in una sala concerti affollatissima, pronto a dimostrare all’intero mondo ciò che sapeva fare.
«Sei bravo, veramente bravo. So di avertelo già detto, ma si vede che ti piace ciò che fai. Non stavo scherzando quando ti ho chiesto di darmi una mano. Io sono un disastro, anche se mi ci impegno non riesco a memorizzare completamente ciò che dovrei fare.»
Sembrava sincero ed empatico. Questo era ciò che aveva colto di lui Jimin in quella breve conversazione. La genuinità di cuore di Namjoon stava stabilizzando il suo respiro ed i suoi nervi.
Una bella sensazione.
«Vedrò cosa posso fare. Dici tipo sessioni di allenamento aggiuntive? Che ne so, prima o dopo l’orario solito?»
«Sarebbe perfetto. Senti, per quanto riguarda Jungk-»
Il nome non uscì intero dalle labbra del maggiore.
Taehyung sbucò all’improvviso dall’angolo: stava correndo verso il bagno situato di fronte alla macchinetta del caffè, tappandosi la bocca con le mani.
«Ehi, Tae, tutto bene?»
L’unica risposta muta fu un semplice cenno del capo. La porta della toilette sbattuta malamente confermò: non andava affatto bene.
Jimin si scusò con il ragazzo correndo dietro all’altro con un’espressione preoccupata in volto. Bussò più volte ma il risultato fu un conato di vomito accompagnato da un mugolio di dolore e disagio.
«Taehyung?»
Silenzio.
«Tutto ok?»
Un mugugno impastato confermava che sarebbe potuta andare meglio, molto meglio di così. Il giovane fece ciò che l’istinto dettava: spinse leggermente la porta del bagno ed entrò, incontrando la figura accasciata dell’altro intento ad annaspare nel tentativo di non rigettare di nuovo. Gli si inginocchiò accanto accarezzandogli la testa con un tocco delicato.
Lui inclinò la testa di lato e sorrise, prima di rovesciarsi nuovamente sulla tazza del gabinetto e imprecare rabbrividendo. Jimin gli massaggiava la schiena con movimenti circolari balbettando nell’imbarazzo quanto fosse stato bello il tempo quella mattina, e di come la pioggia non sarebbe tornata tanto presto.
Cazzate, giusto per non sapere che argomento affrontare in una situazione simile.
«…-nte»
Allungò i timpani a pochi centimetri dalla sua nuca.
«… la fronte…»
Lo conosceva da meno di due giorni e già si stava occupando di lui come di un bambino bisognoso.
Taehyung stava gongolando poggiandosi totalmente di peso sulla spalla di Jimin, mentre quest’ultimo lo stava portando sulla schiena con non poca fatica. Erano più o meno della stessa altezza e dalla stazza simile, ma lui era stremato dall’allenamento; faticava ad avanzare, complice una fitta alla schiena che puntellava sulle costole ad ogni falcata. Sbuffava.
«Mi dispiace.» Non era propriamente vero, Tae stava godendo del contatto caldo con quel corpo sconosciuto ma confortevole. «Se vuoi posso scendere. Ce la faccio, davvero, posso arrivare alle docce in un attimo.»
Naturalmente sentendosi male prima, invece di raggiungere gli spogliatoi, aveva corso in direzione opposta. Il passaggio al post allenamento quindi doveva svolgersi per forza in un altro servizio.
«Fa nulla, scherzi? Hai detto che facevi fatica a rialzarti. Avrei dovuto lasciarti lì?» Jimin indicò il bagno dietro di sé con un cenno del capo ed incontrò di sfuggita lo sguardo di Namjoon che attendeva – incuriosito, più che preoccupato – di sapere cosa fosse accaduto, stringendo tra le mani una seconda tazza di plastica con all’interno un caffè solubile rovente. Sorseggiò sollevando un sopracciglio e tossì convulsamente, la lingua ustionata. Gli altri due lo guardarono divertiti per poi ripercorrere lo stretto corridoio che portava alla sala prove, senza far caso alla figura di Jin che si stava avvicinando al collega con un’espressione seria in volto.
Per qualche recondito motivo Jimin sentiva contrarsi lo stomaco all’idea di passare davanti alla stanza con un’enorme zavorra caricata su di lui; non era propriamente vergogna, forse la parola “imbarazzo” avrebbe descritto meglio quella morsa all’esofago. Sentiva il respiro accelerato del giovane solleticargli l’orecchio ed i capelli arruffati dall’allenamento interrotto da poco, e la cosa creava non poco disagio. “Vicino, troppo vicino…” si ripeteva in testa ricordando quanto fosse difficile per lui gestire un contatto fisico tanto impattante come in quel caso. “Troppo.” Percepì un brivido di disagio scuotergli le braccia, un gesto che Taehyung non aveva mancato di notare; quest’ultimo si sporse in avanti sfiorandogli il collo con il viso.
«Tutto a posto?»
Certo che no, come poteva esserlo? Mantenne l’equilibrio per miracolo dimenandosi sotto al tocco casuale di quel ragazzo che non poteva reputare in altra maniera se non un mezzo sconosciuto ingombrante. Si stabilizzò sospirando per la mancata caduta quando si scontrò con la persona che meno desiderava vedere in quel preciso istante.
Jungkook.
Quest’ultimo non lo stava guardando, si era semplicemente sporto dall’uscio della sala per controllare cosa stesse accadendo ed in qualche modo non si stupì di vedere l’amico avvinghiato al torso dell’altro.
«Sei davvero pessimo.»
Sparì all’interno senza dire altro.
Il gelo diffuso dal petto alle punte delle dita si ritirò così com’era apparso.
Taehyung sussurrò con fare conciliante: «Ehi, Jimin, andiamo dai.»
La sensazione di freddo distacco si sciolse leggermente quando lo vide fare la linguaccia in direzione del gruppo. Quando il più giovane scorse il gesto di stizza dirigendosi nuovamente verso l’esterno della sala prove, lui spronò Jimin a correre veloce, più veloce che poteva, ridendo col braccio rivolto verso il cielo.
«Buonanotte allora.»
Tutti i presenti risposero in coro al saluto di Taehyung, stipati in camera, la solita luce fioca del lampione esterno a tenere compagnia alla mancanza di sonno di Yoongi. Era stata una giornata snervante la sua. Era stato sfiancante dividersi tra gli allenamenti, la stesura dei testi delle canzoni e il malumore di Jungkook. Finalmente poteva dedicarsi ad una delle sue attività preferite, riposare.
Se solo ci fosse riuscito, naturalmente.
Non comprendeva perché Namjoon e Jin mancassero all’appello; detestava avere a che fare con persone incostanti e senza alcuna abitudine continuativa. Per lui la routine era fondamentale, e se a quell’ora precisa non tutti fossero stati presenti in camera completamente immersi nel mondo dei sogni, allora l’equilibrio si sarebbe spezzato.
Detestava il disequilibrio.
Tanto quanto allenarsi assiduamente a livello fisico.
Conscio di non riuscire a prendere sonno in alcun modo decise di scoprire il motivo di quell’anomalia; ci provò, cercò i ragazzi tra le stanze adiacenti ma senza successo. Si incamminò in direzione della sala relax sperando di schiarirsi le idee con un caffè amaro ma si fermò accanto alla porta quando udì due voci familiari sussurrare nel buio della stanzetta.
Non avevano neppure acceso la luce, si affidavano al neon d’emergenza posto in corridoio a qualche metro da loro. Avrebbe origliato, non era certo la prima volta in cui l’aveva fatto. Anzi, proprio grazie alla sua bramosa fame inopportuna di informazioni, era venuto a conoscenza qualche tempo prima di un particolare legato all’eccessiva ed inconsueta sensibilità di Jungkook mostrata nell’ultimo periodo.
Strano come potesse esserci qualcuno ancora in giro a quell’ora. Era tardi eppure così presto, giusto poco prima dell’alba. Yoongi era stato svegliato dal caldo eccessivo in camera e dal russare indisturbato di Hoseok; dopo avergli scaraventato addosso uno dei cuscini con cui era solito addormentarsi, senza ottener alcun risultato si alzò sbuffando muovendosi per il dormitorio alla ricerca di un po’ di refrigerio, scalzo ed indossando un semplice paio di boxer: non s’era vestito, non avrebbe incontrato nessuno a quell’ora. Proseguiva per i corridoi, il nervosismo sempre maggiore, le dita a sfregarsi tra loro tentando inutilmente di smaltire le sensazioni negative e le imprecazioni che stava mormorando.
Non fu una luce accesa ad attirare la sua attenzione all’interno di un ufficio, precisamente quello dei piani alti, se così poteva definirsi una stanza come le altre, stessa porta in legno, stesso tipo di targhetta ad identificarla. Anonima, esattamente come tutto il resto.
Era aperta.
Quello sì che era decisamente strano: ogni dipendente a fine turno avrebbe dovuto chiudere e consegnare le chiavi in portineria.
Yoongi inghiottì trattenendo il respiro più del dovuto; sentì lo stomaco contorcersi su se stesso, rimescolando i succhi gastrici e riversandoglieli in bocca bruciando l’esofago. “Cazzo.”
Si avvicinò in punta di piedi, sembrava ogni passo si facesse più pesante.
Più rumoroso.
Dannatamente udibile da chiunque.
Respirava a bocca aperta, il battito cardiaco pulsava nei timpani. Accelerato. Se avesse continuato così, gli sarebbe venuto un infarto.
C’era qualcuno, ne era certo ormai.
C’era perché ne distingueva l’ombra attraverso la luce della città che passava dalla finestra della stanza.
“Cazzo… Brutto stronzo.”
Era Jungkook.
Si stava facendo divorare dall’ansia per il più giovane, e quando se ne rese davvero conto imprecò sorridendo sarcastico per poi scostare la porta socchiusa. Lo avrebbe insultato sicuramente, gliene avrebbe dette di tutti i colori, l’avrebbe pagata quel piccoletto.
Questo pensò, finché non lo vide girarsi di scatto, le lacrime agli occhi.
Lacrime di rabbia, le sopracciglia aggrottare, una cartelletta con dei fogli appuntati tra le dita. Tremavano, ne era sicuro. La stanza era sufficientemente illuminata per mostrare nella penombra l’amico che stava collassando su se stesso per la prima volta. Quest’ultimo lo fissò per un attimo; un solo attimo che bastò a mostrarne tutte le debolezze attraverso quelle iridi lucide rivelate nella tarda notte.
Scappò Jungkook, scappò dalla stanza dopo aver scaraventato sulla scrivania i documenti. Il colpo secco rimbombò fino alle orecchie di Yoongi, disabituato al rumore nell’edificio vuoto. Scappò urtando la spalla del ragazzo e correndo in corridoio in direzione della camera.
Lui non poté fare a meno di controllare cosa ci fosse scritto. Non lo aveva mai visto in quelle condizioni, doveva essere qualcosa di orribile, sconvolgente, tanto da portare un ragazzino a frugare di nascosto in uno degli uffici amministrativi dopo aver rubato le chiavi per accedervi; tanto da farlo correre via senza dire una parola ad uno degli amici più fidati che aveva.
Tanto da farlo incazzare enormemente fino alle lacrime.
Park Jimin, 1995/10/13, Busan – Selected
Non si erano ancora esposti quelli dell’azienda: non avrebbero rivelato il nome avevano detto. Non era necessario conoscerlo anticipatamente.
I ragazzi avrebbero incontrato l’ultimo candidato a tempo debito, così era stato riferito.
Strano come la coincidenza saltò all’occhio di Yoongi solo dopo.
Busan non solo era la tra le più grandi città portuali dello stato:
Jeon Jungkook, 1997/09/01, Busan – Selected
Era anche il luogo dove aveva vissuto l’amico prima di trasferirsi nella capitale per intraprendere la carriera da idol come apprendista appena quindicenne.
La voce di Jin riportò Yoongi al presente, scuotendolo dai propri ricordi; si poggiò alla superficie ruvida del muro accostandosi all’uscio, tanto da poter ascoltare senza farsi vedere. Non avrebbe ripetuto lo stesso errore, non si sarebbe fatto beccare di nuovo.
«Sei riuscito a capirci qualcosa parlando con quel Park?»
Stavano parlando del nuovo arrivato.
«No, purtroppo la corsa di Taehyung mi ha interrotto mentre stavo chiedendo di Jungkook.» Namjoon stava dunque tentando di spronare Jimin ad aprirsi e rivelare il motivo dell’astio mostrato in sua presenza.
«Cazzo, possibile sia sempre in mezzo? Non è mai capace di stare al suo posto.»
«Jin, sai che è fatto così, non puoi certo giudicarlo per questo.»
L’altro sbatté il pugno contro qualcosa di duro, tanto da far sobbalzare chi li stava spiando. «Non ha tredici anni, non può vivere sempre in piena crisi ormonale. Gli sta appiccicato, non gli leva gli occhi di dosso neanche a pagarlo oro.»
Namjoon ravvivò i capelli biondi scuotendoli con lunghe dita impazienti.
«Ti infastidisce perché non sei al centro dell’attenzione?» Lo aveva zittito con una semplicità tale… «Dobbiamo trovare una soluzione al più presto. Metti da parte il tuo orgoglio, lascia che Taehyung continui a stargli dietro, non puoi farci niente. Benedetta sindrome da cucciolo abbandonato.»
«Te la sei appena inventata per giustificarlo?»
«Potrebbe essere.» Rise Nam di rimando.
Yoongi tentava di comprendere dove volessero andare a parare esattamente, ma il loro discorso non diceva nulla di nuovo. Non aveva né capo né coda.
«Quei due dovranno appianare i loro problemi a costo di chiuderli in una stanza e buttare la chiave.»
«Sai, non sarebbe una brutta idea.»
Dall’esterno lui sperava d’aver capito male. Non potevano essere davvero così stupidi da pensare di inscenare un qualche piano per portar pace tra i due litiganti. Era assurdo, immaturo e assurdo.
Il moro si mise a ridere. Non prometteva nulla di buono.
Yoongi si staccò piano dalla parete divisoria allontanandosi in punta di piedi; l’addome teso, i denti stretti, il malumore a scuoterlo fastidiosamente. Dentro di sé avvertiva una strana sensazione, sarebbe successo qualcosa di lì a breve ne era sicuro. Che i due stessero complottando per riuscire a sistemare la cosa a modo loro? Di Namjoon poteva fidarsi ciecamente, era una persona troppo genuina per poter tramare qualcosa. Jin? Di Jin sapeva tante cose, ed una in particolare gli ronzava per la testa: lui aveva abbandonato una carriera diversa e una volta gli aveva confidato che avrebbe fatto di tutto per ottenere il successo cui anelava. Quel “di tutto” non smetteva di torturarlo. Avrebbe dovuto parlare con Jungkook e sistemare tutto prima che la situazione potesse sfuggire di mano.
Devo studiare. Un’unica, fastidiosa risposta era scappata dalle labbra di Jungkook: Yoongi aveva deciso di
scavare tra i ricordi e le barriere innalzate dalla mente dell’amico, ma non credeva
avrebbe trovato tanta e tale resistenza. La scusa
utilizzata dal più giovane reggeva più che bene, considerando che tra tutti e
sette era l’unico che doveva ancora concludere la scuola. Non era affatto
difficile comprendere il motivo di tanto astio e di un carattere ancora non del
tutto plasmato che cambiava direzione continuamente. Si ripeteva d’avere a che
fare con un adolescente che si era divorato l’infanzia per puntare in alto ed
arrivare sempre più in là, ma a volte era davvero tedioso sopportarlo.
Incassava e sospirava, per poi dimenticare regolarmente il paio di insulti
sibilati tra i denti e ricevuti ogni volta che tentava di sfondare le barricate
e leggervi oltre la soluzione all’enigma. S’era preso particolarmente a cuore
la faccenda dal momento in cui lo aveva trovato quella notte a spiare tra i
documenti riservati all’azienda, leggendo quel nome preciso; era convinto ormai
che l’instabilità emotiva di Jungkook si fosse
intensificata da quel momento andando via via a peggiorare fino ad episodi di
aggressività verbale e apatia occasionale.
Quanto ancora sarebbe passato, prima di vederlo crollare in allenamento o
durante la notte, convinto che il mondo stesse dormendo senza doverci dare più
la dovuta attenzione? Credeva sarebbe successo entro breve, anzi, ne era più che
sicuro ormai. Per quanto Park Jimin di fatto non gli
stesse antipatico, Jungkook andava difeso;
non certo dal nuovo arrivato, bensì da se stesso. E Yoongi
era convinto ormai di essere l’unico ad aver capito la problematica alla base.
Avevano a che fare con un ragazzino completamente sconvolto a livello emotivo,
lasciato in balia delle stesse emozioni che non era neppure in grado di
controllare.
Che non se ne fosse accorto nessun altro, non era un buon segno.
Era una cosa disastrosa.
Dove stava la coesione?
Avrebbe dovuto affrontare il problema con gli altri, ma prima avrebbe dovuto
capire cosa stava accadendo nella testa dell’altro, colui che si stava
spezzando davanti ai suoi occhi. Inspirò infondendosi il dovuto coraggio prima di
bussare alla porta della sala studio – incredibilmente, ne esisteva una
all’interno dell’edificio. Jungkook se ne stava alla
scrivania immerso completamente nei libri, appuntando a parte ciò che era
necessario per la lezione. Aveva ottenuto il permesso di assentarsi da scuola
durante le schede lavoro più impegnative, con la promessa di recuperare il
materiale mancante con lo stesso impegno con cui avrebbe portato avanti il
proprio training, per diventare un artista a tutto tondo nel mondo della
musica. Una sfida importante, ne andava non solo del suo futuro lavoro ma anche
dell’acquisizione del diploma. Non era affatto facile, tutto ciò che poteva
fare era ottenere settimanalmente degli appunti via e-mail, studiando in
parallelo sui libri forniti dal sistema d’istruzione nazionale.
Mancavano però le spiegazioni orali degli insegnanti, e nessuno avrebbe potuto
sostituire un simile sostegno.
Ci stava provando ma nell’ultimo periodo la media dei voti s’era abbassata,
creando non poco disappunto da parte degli stessi membri dell’azienda che
s’occupavano della preparazione dei futuri esordienti; lo avevano ripreso più
di una volta, ma mai s’erano proposti di comprenderne il calo repentino. Bravi
a giudicare, ma non a trovare la radice del problema. Il ragazzo era ben
consapevole di tutto ciò ma non c’era stato verso di riuscire a concentrarsi su
quei benedetti appunti. Yoongi questo lo sapeva bene, ma non poteva certo
intromettersi: quattro anni li separavano, e lui non ricordava neanche
cos’avesse studiato all’epoca – o tentato di memorizzare. Si avvicinò piano
poggiandosi sul bordo della scrivania chinandosi sul quaderno degli appunti:
scritto fitto fitto giaceva un programma di algebra di due intere settimane,
riportato in maniera disordinata, casuale, con alcun senso logico. Jungkook sembrava non averlo notato.
«Io ci metterei un filino più di attenzione qui.» Indicò con il dito un
passaggio palesemente errato. «E pure qui.»
Il più giovane non aveva alzato lo sguardo, continuava a riportare nozioni
copiandole distrattamente dal libro.
«Namjoon dovrebbe cavarsela meglio di me, perché non
gli chiedi una mano?»
Scena muta.
«D’accordo allora, lo farò io. A proposito, stasera vorrei poter parlare con
te. Da soli.»
Quando si rialzò non attese alcuna risposta, sapeva non sarebbe arrivata.
«Vieni anche tu, dai.» Namjoon era riuscito a trovare Jimin
cercandolo per tutto il palazzo: non era stato facile, quest’ultimo si era
rintanato nella terrazzina adiacente alla sala studi senza sapere della
presenza di Jungkook a pochi metri di distanza. Se ne
stava piacevolmente seduto sulle piastrelle sbiadite dal tempo e dalle
intemperie, il maglioncino giallo a coprirgli la pelle chiara dalla leggera
brezza autunnale. Gli occhi socchiusi ad osservare un punto lontano tra le nuvole
grigie, attraverso le folte ciglia scure. Scosso dal torpore di uno stato di
quiete indotta, sussultò alla voce del ragazzo che lo stava richiamando con
entusiasmo. Avrebbe voluto dirgli di no, ma sapeva che sarebbe stato inutile
contrariare uno dei membri a pochi giorni dal suo arrivo; già due di loro ce
l’avevano con lui e ancora non aveva compreso il motivo, ed inimicarsi anche Namjoon, che tanto stava facendo per aiutarlo ad inserirsi,
sarebbe stata una mossa da stupidi.
«Che devo fare allora?»
«Nulla, io e Yoongi pensavamo sarebbe stata una buona
idea organizzare un incontro di studio.» Jimin lo osservava perplesso: esattamente per cosa,
avrebbe voluto chiedergli ma decise di seguirlo senza fiatare. Non poteva certo
andare peggio di così, no?
Erano rientrati dalla porta finestra a vetri per poi percorrere qualche passo,
il necessario a raggiungere una di quelle porte anonime tutte uguali; nessuna
targhetta a delinearne una funzione precisa, soltanto una lastra di vetro opaco
incastonata a un asse di legno chiaro. Entrarono senza bussare. Yoongi stringeva ancora tra le dita il cellulare con
cui aveva contattato Namjoon spiegandogli d’aver
bisogno del suo aiuto; Jungkook aveva finalmente
sollevato lo sguardo per poi spalancarlo sull’ospite decisamente inatteso. Fece
per alzarsi, ma si fermò nel sentire l’amico che era intervenuto prima di lui.
«Si può sapere cosa ci fa qui? Ho chiamato te, non lui.» Il cinismo aveva tinto
ogni singola sillaba uscita dalle labbra affilate in una smorfia di
contrarietà. «Ti ho contattato per venire a dare una mano e ti presenti con
Park?» Non lo aveva chiamato per nome, non lo avrebbe fatto ancora. Non prima
di averlo accettato con loro.
Sorrideva sornione Namjoon, l’espressione di chi la
sapeva lunga.
O semplicemente, di chi ci stava provando solo nella speranza di poterci
riuscire una buona volta.
Non lo sapeva. Stava improvvisando nella speranza di avvicinarsi alla soluzione
del caso.
«Infatti, sono qui per aiutare. Più si è, meglio è. Allora Jungkook,
dimmi, qual è il problema?»
Di nuovo il più giovane non aveva aperto bocca.
«Io mi rifiuto, me ne vado.» Yoongi si mosse in
direzione dell’uscita. Le dita strette a pugno, le nocche sbiancate dallo
sforzo e dall’irritazione parlavano da sole. Venne intercettato dalla morsa
delle falangi di Namjoon che continuava a sorridere
tranquillo.
«Penso tu possa restare ancora qui per un paio di minuti, vero?» Il suo tono
cambiò improvviso, un temporale estivo che dalla quiete s’era mosso verso la
tempesta mostrandosi irragionevole imponendosi sull’altro. «Solo un paio prima
di cominciare, promesso. Sta’ ad ascoltarmi, e anche tu, Jungkook.» Jimin non aveva ancora trovato il coraggio o il
motivo per intromettersi nella conversazione, sentiva ogni suo intervento
sarebbe stato completamente inutile. Se ne stava ritto in piedi ad osservare lo
scontro non verbale tra i due, ed il suo sguardo si spostò inevitabilmente su
quello del più giovane. Occhi scuri con occhi scuri, senza fiatare. Mai le loro
iridi s’erano soffermate le une sulle altre per più di un paio di secondi,
eppure Jimin non riusciva a distoglierle da lui.
Voleva capire. Doveva. Per il suo bene e per quello di tutti quanti. Se persino Namjoon aveva perso la pazienza costringendo Yoongi a sostare lì contro la sua volontà, significava che
l’equilibrio del gruppo era completamente sconvolto.
E tutto per colpa sua.
Se solo avesse saputo il motivo.
Se soltanto avesse potuto conoscerne la fonte.
Stufo della pressione di quei giorni, sfiancato dai continui sguardi carichi di
apprensione da una parte e di odio dall’altra, sconfortato dall’astio mostrato
in ogni gesto, decise di fare qualcosa. Sapeva non sarebbe stato facile, ma Jungkook avrebbe parlato: lo avrebbe convinto in qualunque
modo, non poteva procedere ora dopo ora con l’ansia a stringergli la gola e
costringere il petto a muoversi a ritmo accelerato.
«Namjoon, Yoongi, potreste
lasciarci soli, per favore?» Il tono non ammetteva repliche.
«Sicuro?» Yoongi si voltò verso l’altro in attesa di
un gesto d’assenso. Jungkook sospirò chiudendo con calma estrema il
quaderno ed il libro, carezzandone la superficie cercando le giuste parole.
«Sì. Andate.» Namjoon mollò la presa qualche secondo dopo non senza
sorridere amaramente verso Jimin: avrebbe voluto
stargli accanto in un momento simile, ma la svolta sarebbe stata fondamentale
per la risoluzione di una problematica che stava coinvolgendo tutti quanti.
«Andiamo, lasciamoli soli.» Yoongi strattonò un’ultima volta il braccio
proseguendo diretto verso la porta a testa china, guardando le piastrelle
fondersi sull’uscio con il linoleum del pavimento del corridoio. Avrebbe preso
volentieri a schiaffi la faccia dell’altro, un bel colpo di nocche assestato
sul naso gli avrebbe donato una grande soddisfazione. Parlò deciso a dar voce
al proprio disappunto.
«Non era questo che intendevo quando ti ho scritto, lo sai, vero?»
Il leader gli poggiò amorevolmente il palmo sulla spalla, da cui l’altro si
scansò in malo modo.
«Lo so bene, ma nessuno qui vuole che tutto vada alle ortiche per colpa loro.»
«A puttane, vorrai dire.»
«Sempre il solito volgare. Sarebbe dovuto succedere presto o tardi. Quante
altre occasioni di stare soli avrebbero potuto avere? Taehyung
non molla Jimin neanche un secondo, Hoseok non è da meno ed è costantemente preoccupato per
lui. E Jin, beh, sai come è fatto, più di tutti
detesta veder litigare la gente. Rimanevi solo tu, l’ultimo ostacolo. Ora
potranno finalmente confrontarsi.»
Note dell’autrice (mannaggia,
il tempo è sempre meno, ma ci sto provando a stare dietro a tutto!):
Eccomi qui, arrivo io a interrompere sul più bello perché fondamentalmente sono
una stronza simpaticona che ama fare crescere l’hype
per lo scontro inevitabile tra due dei protagonisti. Mi auguro possa piacervi
almeno una percentuale di quanto sta piacendo a me scriverla: siete sempre meravigliosi
a farmi sapere cosa ne pensate e a dedicare un attimo di vita ai miei aggiornamenti.
Voglio ringraziare enormemente la dolcissima Alice
CiuffredaakaTenuequi
su Efp, per la meravigliosa fanart
dedicata a Jimin, Tae e Jungkook:
indoviniamo chi è chi! Tesoro, il tuo contributo visivo è stupendo e
importantissimo, grazie grazie e ancora grazie!
Alla prossima,
-Stefy-
«Allora, cosa vuoi? Perché sei qui?»
La voce di Jungkook era gelida. Non solo: mostrava
una rabbia latente pronta ad esplodere da un momento all’altro, una bomba ad
orologeria che inevitabilmente sarebbe arrivata allo zero. Questo Jimin lo aveva colto nel momento stesso in cui era entrato
nella stanza accompagnato da Namjoon: in quel preciso
istante stava detestando l’essere stato lasciato solo con lui. Perché non
poteva semplicemente fare la sua parte intraprendendo il duro percorso di
training verso la realizzazione del proprio scopo? No, doveva andare a sbattere
ripetutamente contro una figura rigida come la pietra ed empatica come il
ghiaccio. Che aveva fatto poi? Ancora doveva scoprirlo e sapeva che se non ci
fosse riuscito in quel momento esatto, sarebbe esploso.
Inspirò, ricostruì il miglior sorriso di convenienza che sarebbe stato in grado
di gestire e rispose: «Namjoon mi ha detto d’aver
bisogno di me, mi ci ha letteralmente trascinato.»
Bene, ottimo, suonava come una scusa ed era esattamente il contrario di ciò che
aveva in mente. Si trovava lì suo malgrado e cominciò a pensare, in un
recondito angolino della sua testa, che il nuovo compagno l’avesse fatto
apposta, trascinandolo di proposito in una simile situazione per poi darsela a
gambe con Yoongi, abbandonandolo all’interno di una
sala studio. Non ricevette risposta, come s’aspettava d’altronde. Uno guardava
i libri aperti sulla scrivania, le braccia conserte a tentare di dare
attenzione a qualcosa che stava detestando quasi più della presenza inopportuna,
mentre l’altro se ne stava ad una distanza minima di sicurezza non sapendo cosa
aspettarsi di preciso, oltre all’astio apparentemente immotivato. Non conosceva
ancora il ragazzo che gli stava di fronte ma visti i precedenti incontri…
preferì non azzardare. Si soffermò però ad osservarlo: i tratti delicati di
un’adolescenza da poco iniziata erano incorniciati da corti capelli lisci e
mori, la pelle chiara su cui spiccavano occhi ridotti a due fessure scure
rivolte verso il basso tradiva un pallore evidente.
Disagio, ogni singolo centimetro quadro di quella stanza stava soffocando nel
disagio, ma Jimin se n’era accorto: Jungkook non era in grado di reggere il suo sguardo per più
di un paio di secondi. Pareva d’aver a che fare con un animale ferito e
braccato. Avrebbe tentato un approccio diverso per cercare di smuovere lui e la
situazione, prima di doversene andare per evitare di spezzare definitivamente
un gruppo che sembrava non avere poi così tanto bisogno di lui. Ci provò.
«Matematica? Hai problemi con questa materia? Pensavo tu fossi a scuola durante
la settimana.» La dinamica della sua istruzione non gli era ancora chiara, ma
materie simili avrebbero potuto mettere in difficoltà non pochi, figurarsi seguendo
lezioni intere in completa autonomia. Avrebbe potuto farsi avanti nella
speranza di annullare le distanze, o quanto meno accorciarle in un timido
tentativo di rivalsa verso se stesso e il suo modo
passivo e onestamente non molto coraggioso di approcciarsi alle cose.
«Non me la cavavo male, sai? Potrei darti una mano.»
Si spinse fino al bordo del precipizio decidendo di sua spontanea volontà di
proseguire senza il suolo sotto ai piedi. Sarebbe caduto?
Ovviamente.
Lo sguardo di Jungkook si spostò dai libri a Jimin, fulminandolo.
«Stai insinuando di essere migliore di me?»
Precipitava, i metri a distanziarlo dal suolo si stavano accorciando e la
previsione di completo sfacelo sulle pietre acuminate si faceva sempre più
nitida.
«No, certo che no, stavo solo dicendo…»
«Di saperne più di me.»
Già sentiva il vento sussurrargli di sorridere agli ultimi momenti prima dello
schianto e della dipartita.
«No, dai. Ammetto di andare bene sulle materie scientifiche, ma l’ho detto solo
per poterti aiutare.»
«E chi cazzo te l’ha chiesto?»
Impatto avvenuto.
«Allora?» Jin aveva raggiunto Namjoon
e Yoongi, dopo aver stressato i due colleghi con
continui messaggi curiosi – impiccioni, fastidiosi, continui – nel tentativo di
aggiornarsi rispetto la situazione attuale.
Intervenne Nam con una pacatezza fuori dal comune:
«sono fiducioso sai? Credo proprio che quei due possano cominciare ad andare
d’accordo.»
Lo sbuffo dell’amico uscì con tale cinismo da ferirlo moralmente, ferire colui
che tanto appoggio stava dando al progetto, se così poteva chiamarsi, che aveva
ideato con Jin per poter permettere una buona
convivenza.
«Niente. Questo qui ritiene basti farli parlare qualche minuto per risolvere la
faccenda. Ridicolo.» Yoongi ne sapeva più degli altri
per puro intuito, e per un fortuito incontro notturno al momento giusto nel
posto giusto. Tutte le supposizioni a cui aveva tentato di dare senso se le era
tenute per sé approcciandosi in modo sempre più diretto a Jungkook
senza mai ottenere altro che piccoli indizi, rare disattenzioni evase dall’ego
di quel ragazzino che stava iniziando a diventare pedante ed esagerato nelle
proprie reazioni. Non solo nei confronti del nuovo arrivato. «Vi siete fermati
a riflettere? Vi siete seduti un momento chiedendovi perché il nostro Jungkook abbia cambiato atteggiamento così, su due piedi?»
Il silenzio fu una risposta più che valida. Jin si sentì punto nel vivo da quelle parole tinte da
una pennellata di superiorità. «Un giovincello che cambia umore fin troppo
facilmente può essere spinto dagli ormoni, no? Chissà, potrebbe stare meglio
col passare dei giorni. Io ancora adesso sono così, e non ho nemmeno la scusa
dell’età a reggere il gioco. Se dovesse continuare però, inizierebbero a girarmi
davvero i coglioni.»
«Delicatissimo, grazie.»
«Senti Nam, questa storia deve finire. Non lo sai? Ai
piani alti si sono pure lamentati della condotta scolastica del nostro
piccoletto.»
Esattamente come il leader scelto aveva inscenato nelle sue peggiori ipotesi:
non c’era da stupirsene. Ingoiò il boccone amaro, aveva sperato in un unico
momento di distrazione; un calo nello studio poteva caratterizzare chiunque, ma
non potevano certo permetterselo. Dovevano lavorare sodo comunque, senza
mollare, ed il fatto che uno di loro stesse incespicando inesorabilmente verso
le insufficienze, non era buon segno. Si voltarono in due in direzione
dell’altro aspettando un verdetto.
«Non ci arrivate proprio? Potrebbero sbatterlo fuori.» Jin lo squadrò come a pesare la veridicità delle
parole appena ascoltate per poi scuotere la testa con rabbia in entrambe le
direzioni, aprendo la porta della sala con una spinta a palmi aperti. Entrò a
passo rapido travolgendo letteralmente Jimin per poi
raggiungere lo stesso Jungkook che si stupì della sua
presenza in quel frangente teso e particolarmente fastidioso. Guardò
quest’ultimo con un bagliore per nulla rassicurante a rilucere nelle iridi.
«Adesso gli spieghi che cazzo hai, senza tante storie.»
Il più giovane spalancò gli occhi incredulo.
«Come?»
Il ragazzo invece di ripetere l’affermazione impulsiva avvicinò Jimin spintonandolo verso l’altro portandolo a pochi
centimetri dal suo petto.
«Ecco, ora potete chiarirvi.» Concluse così recuperando la chiave dalla toppa
interna e portandosela via. Clack.
«Che cazzo hai combinato, Jin?» Yoongi osservava perplesso il collega più grande,
consapevole di come potesse essere alle volte infido nel raggiungere i propri
scopi; aveva intuito non lo facesse certo con cattiveria, però anche che s’era
prefissato obiettivi parecchio alti nella vita. Obiettivi che prevedevano tanto
lavoro, duro lavoro, troppo lavoro. E lui queste cose le aveva particolarmente
a cuore.
«Io? Nulla. Non ho fatto nulla e non ho niente da nascondere.» Il ragazzo
scambiò una rapida occhiata con Namjoon che ancora
sostava all’esterno della stanza, nella speranza di veder uscire i due più
piccoli da là con il sorriso sulle labbra ed i problemi accantonati.
Uno scenario troppo roseo a cui faticava a credere persino lui ormai.
«Strano, considerando che hai appena girato la chiave in una toppa vecchia di
una porta ancora più vecchia.» Jin si bloccò un attimo, stringendo il piccolo pezzo
di metallo tra le dita. Un po’ troppo, in maniera spasmodica. Ingoiò ed inspirò
prima di voltarsi in direzione dei due stampandosi un sorriso forzato tanto
quanto la voce. «Non avrei dovuto?» Namjoon intervenne massaggiandosi la tempia: non
sapeva se ridere per la situazione oppure imprecare animatamente per il gesto
estremamente stupido che era appena stato compiuto dal maggiore.
«Jin, ci avevano avvertiti l’altro giorno di non
chiudere quella porta. È rotta.»
Jungkook guardava basito l’uscita bloccata
borbottando tra sé e sé un colorito insieme di parole ben poco carine, nei
confronti del ragazzo che lo aveva appena bloccato senza via d’uscita.
Detestava quella situazione, avrebbe preferito aprire la porta finestra e
chiudersi fuori piuttosto che stare lì ancora. Jimin s’era reso conto dell’irrequietezza con qui
l’altro passava dall’osservare la porta e l’accesso all’esterno, e poteva ben
comprenderlo: ora l’animale in gabbia non era solo lui, erano in due. Non
avrebbe mai pensato di trovare tanta risolutezza in una figura come quella di Jin, anzi, a tratti gli era pure parso troppo leggero – per
non definirlo immaturo. Avrebbe tentato di sfondare le difese del più piccolo
ancora, prendendolo per sfinimento se necessario. Non poteva uscire da quella
situazione da solo, avrebbero dovuto farlo assieme, volenti o nolenti.
«È chiaro che vogliono risolviamo la cosa, non credi?» Jungkook lo guardò torvo, stringendo i pugni contro i
fianchi per poi spostare l’attenzione alle punte dei piedi; non sopportava lo
stress di quella vicinanza sgradita, non avrebbe mai pensato di ritrovarselo
davanti dopo quegli anni passati a sentire il suo nome ridondante ripetuto
tante di quelle volte da fargli venire la nausea.
«Posso sapere cosa ti ho fatto? Non credo di conoscerti, o almeno penso di non
averti mai incontrato prima. Mi sembra strano, e parecchio. Capisci?» Ci stava
mettendo tutto se stesso, stava mantenendo un tono
pacato e quieto, allungando il braccio verso di lui, cercando di avvicinarsi
con la dovuta cautela. Si stava dando in pasto alla bestia scocciata, come un
idiota; era consapevole d’aver già sbagliato in precedenza, ci stava riprovando
a suo rischio e pericolo. «Ti va di spiegare?»
No che non gli andava, certo che no, altrimenti l’avrebbe già fatto. Era la
stessa identica domanda che Yoongi aveva proposto a
più riprese, e non aveva risposto a lui. Figurarsi alla causa di tutti i suoi
problemi.
«Ehi, sono qui per lavorare, non per litigare.»
Stavolta il tono più basso, le parole scandite con lentezza, quasi accarezzate.
Non avrebbe mollato Jungkook, certo che no. Dargli la
soddisfazione di sapere per cosa, poi? Non sarebbe cambiato nulla lo stesso,
non avrebbe potuto comunque modificare ciò che era già accaduto. Jimin inspirò sonoramente senza neppure fare più caso
alle reazioni dell’altro. Stava definitivamente perdendo la pazienza.
Al diavolo l’essere buoni fino alla nausea.
Al diavolo assecondarlo con i suoi ormoni che giravano a casaccio portandolo a
comportarsi da testa di cazzo nei confronti suoi, e non solo. Lo avrebbe
costretto a parlare, ormai ne aveva le tasche piene. Si infilò le mani in esse
guardandolo un’ultima volta con impazienza. «Te lo chiedo per cortesia, so
quanto possa essere stressante avere qualcosa che ti logora dentro, senza poter
risolvere. Appunto per questo, parla. Sul serio, risolviamola.»
«Tanto non mi staresti nemmeno ad ascoltare.»
L’ultimo briciolo di pazienza era svanito con quella risposta, e non solo per Jimin, ma per entrambi. Quest’ultimo fece due passi avanti,
tre, fino ad arrivare a meno di mezzo metro da lui. Per la prima volta aveva
accorciato le distanze tanto da violare il suo spazio vitale.
«Ti ascolto.» Gli occhi puntati sui suoi, le iridi pronte a non cedere. Jungkook respirò cercando di darsi coraggio, la
tensione gli stava divorando lo stomaco tanto da creare contrazioni dolorose:
se non avesse parlato sarebbe imploso.
«Tu non hai idea di chi io sia, ma io so chi sei. Park Jimin,
da Busan. Questo è sufficiente. Beh, pure io sono di Busan, ed ho studiato alla
scuola di danza in cui hai studiato tu.»
«Mi sarei ricordato di te, no?» Jimin tentava di
visualizzarsi un mini Jungkook
a ballare nella stessa sala di quella vecchia scuola in cui aveva mosso i primi
passi in direzione di una passione che gli era stata inculcata dai nonni
materni. Cercava all’interno della memoria uno scenario simile ma a parte tante
bambine e qualche giovane maschietto, non trovava un viso simile al suo. «No,
mi spiace, non riesco a collegare.»
«Certo che no, è ovvio, sono arrivato un paio di anni dopo iniziando con la
classe della signorina Soo.»
Ecco spiegata l’assenza: Soo e la signorina Min erano le due insegnanti di danza classica presenti, e Jimin era stato allievo della seconda.
«E ti sei offeso perché non mi sono ricordato di te?» Era un tentativo, uno
sparare a casaccio. Ormai si aggrappava ad ogni indizio sperando di uscire
presto da quella cosa; sembrava più una cazzata che non un vero e proprio
problema su cui costruire tanto odio, ma chissà, magari Jungkook
era un tipo vendicativo ed egocentrico.
«Ti sembro il tipo?»
Intuizione sbagliata. Il ragazzo s’appoggiò alla scrivania senza far caso ad un
paio di libri rovesciati sul pavimento. Li lasciò lì, incurante del proprio
materiale scolastico.
«No, immagino di no. È un dato di fatto quindi che io e te non ci siamo praticamente
mai presentati prima.» Jimin chiuse gli occhi masticandosi
l’interno della bocca con i molari. «Mi spieghi allora?» Il tono non era più quello
impostato precedentemente, in compagnia di Yoongi e Namjoon al suo ingresso nella sala, ora era solamente…
esasperato.
«Tu sei stato l’ossessione di mia madre per tutta la mia infanzia.»
Parole da brivido, ed il ragazzo pensò d’aver capito male. Sperò d’averlo
fatto.
«Come scusa? Non credo d’aver capito.»
Il sospiro del più giovane s’accompagnò ad un totale abbandono di esso e della
tensione muscolare sul ripiano di legno: ci si sedette sopra, dondolando le
gambe come un bambino sulla sedia in prima elementare.
Il primo giorno.
La prima ora.
In una scuola mai vista prima.
Le labbra si schiusero, e le parole uscirono mentre continuava a guardare il movimento
ritmico delle proprie scarpe. Sua madre conosceva le altre madri presenti a
lezione, fiere della prole che s’impegnava costantemente in una disciplina che
avevano imposto nel proprio interesse. Così era stato per Jungkook,
spinto ad imparare per fortificare carattere e fisico, sottoponendosi alla
disciplina ed al rigore della danza. Non dispiaceva, anzi: aveva avuto modo di
fare amicizia, di ritagliarsi momenti fuori dall’ambito familiare e staccare
pian piano quel cordone ombelicale che la madre ostinava a mantenere ancora solido.
Era piccolo ma non stupido e s’era reso conto dopo poco tempo che un nome
continuava ad uscire dalle labbra della donna. Jimin.
“Quanto è bravo Jimin.”
“Ho parlato con sua mamma e ho scoperto che è stato notato da una scuola
prestigiosa che ricerca nuovi talenti.”
“Sai, la mamma di Jimin mi ha detto che tra due anni
comincerà il corso all’istituto Major Dance Academy.”
“Tesoro, impegnati come Jimin. Punta in alto anche
tu.”
“Jimin ha vinto il suo primo concorso regionale. La prossima
volta parteciperai anche tu.”
“Bravo, hai ottenuto buoni risultati, ma so che Jimin
è apparso in un piccolo programma nel canale 56.”
Continuò, stupendo e uccidendo l’orgoglio di figlio dell’altro.
Continuò, mostrando come negli anni l’interesse per il successo di un allievo
della stessa scuola era diventato ossessivo nello spronare il giovane Jungkook a dare di più.
«Quando mi ha detto “perché non sei bravo come lui?” la prima volta, non ci ho
fatto caso. Quando l’ha detto la decima, ho cominciato ad allenarmi anche a
casa. Quanto lo ha detto la centesima, sono stato fermo a casa con la caviglia
fasciata e un polso rotto.» Stava tremando.
«E quando lo ha detto la millesima ho scaraventato sul pavimento tutto ciò che
c’era sul tavolino.» Jimin era perplesso: quanto poteva essere umiliante
sentirsi trattati in quella maniera? Doveva essere stato orribile.
«Non mi sentivo mai abbastanza, non ero abbastanza. Lei aveva sempre fallito in
tutto ciò che aveva provato a fare nella vita, mi aveva costretto a cominciare
a ballare. E dopo che aveva visto e riconosciuto i tuoi successi, voleva fossi
come te.»
Le nocche bianche spingevano contro la scrivania, la frangia scura copriva gli
occhi lucidi. La voce incrinata pronunciò un’ultima frase, poi si spense. «Quando
mi disse “perché non sei lui…” credetti di morire dalla vergogna.»
Non odiava Jimin, odiava l’idea che la madre aveva di
lui. Gli aveva rovinato l’infanzia, soltanto per fargli inseguire un sogno che
non gli apparteneva nemmeno. Il ragazzo azzerò le distanze e gli poggiò una
mano sulla spalla accarezzandola lievemente con il pollice. Era tutto tanto
contorto da sembrare surreale, l’unica cosa vivida e fisica in quel momento era
un quindicenne traumatizzato da una madre frivola e da un lavoro troppo pesante
da gestire a quell’età.
Non disse nulla, non poteva, non se ne arrecava neppure il diritto. Se ne stette
lì in piedi a rimuginare su un atteggiamento tanto imperdonabile quanto negativo.
Qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata inascoltata. Per la prima volta aveva
sfiorato Jungkook, e non era stato rigettato, rifiutato.
Fermi lì, attesero il niente.
Taehyung spalancò gli occhi, l’ora del riposo che s’era concesso era passata;
il capo chino quasi fuori dal materasso, gambe e braccia divaricate nella
tipica posizione a stella che amava assumere durante le sue pause rappresentavano
ciò che avrebbe definito con il sorriso “comodità”. Aveva sempre avuto un
rapporto meraviglioso con Morfeo: lui lo amava ed il dio lo faceva dormire come
un sasso ad ogni singola occasione. Si stropicciò gli occhi scuri osservando il
mondo dalla serranda spezzata a metà altezza.
I lampioni ormai erano accesi.
Quanto aveva dormito? Hoseok lo riportò alla realtà, gli auricolari e la
penna in mano, un blocco di appunti pieno di schizzi, frecce e numeri sparsi.
«Che stai facendo?» Incuriosito, Taehyung si sporse dal letto superiore, tanto
da rischiare di cadere sul pavimento. «Stai studiando di nuovo?»
Il compagno di stanza scosse il capo soddisfatto: stava immaginandosi
coreografie, passi, movenze spinte da ritmi alternati e variegati che la musica
trasmetteva direttamente al cervello.
«Sai, mi chiedo come fai, io proprio non capisco.»
«Vedi,» disse Hoseok voltando il quaderno nella sua
direzione, «io focalizzo le persone ballare i passi che la mia testa immagina.»
«E questa persona è Yoongi? Lo stai facendo per lui,
vero?» Il ragazzo era sempre stato estremamente diretto, spesso al limite
dell’imbarazzante. L’altro dal canto suo non poté ribattere, anzi arrossì
grattandosi nervosamente lo zigomo e ridendo come un ebete: certo, erano passi
studiati per il compagno che ancora stava lottando contro la scarsa capacità di
muoversi a tempo senza inciampare, o rischiare di cadere rovinosamente a terra.
Non era stata una richiesta esplicita quella di Yoongi,
un muto aiuto nemmeno, ma c’erano stati segnali inequivocabili che Hoseok aveva colto con occhi rammaricati ad ogni lezione
sofferta portata a termine con particolare fatica. Richiuse il blocco
portandoselo appresso come si trattasse di un tesoro d’inestimabile valore, ed
invitò l’altro a seguirlo in cucina; «non ti sembra ci sia troppa calma?»
«Chiama, muoviti. È tutta colpa tua, razza di…»
«Yoongi, basta. Adesso Jin
avvertirà un inserviente così da risolvere la faccenda senza problemi. Jin, su, va a chiamare l’inserviente. Dai.» Namjoon sospingeva con pacata pazienza il collega verso la
portineria, nella speranza che almeno uno dei dipendenti si fosse attardato al
lavoro. Jin camminò prima, poi corse osservando
nervosamente l’orologio da polso: il turno dei dipendenti era già finito,
tranne che per la bonaria ed affidabile presenza della signora Choi, la guardia
notturna.
E non c’era.
L’entrata del palazzo era deserta. Le pareti azzurro antico – e per antico s’intendeva
vecchio, non certo una tal parvenza di nobiltà di tinta – non risuonavano del
solito caotico mix diurno di voci; i quadri osservavano silenziosi il corridoio
stretto, vuoto. Doveva trovarla. Aveva creato un danno non indifferente solo
perché distratto, e naturalmente gli altri avevano preteso lui sistemasse la
faccenda. Di sfondare la porta a calci non se ne parlava, dunque doveva
rimediare a costo di sondare tutto l’edificio. La guardiana sarebbe
potuta essere letteralmente ovunque. Si incamminò sconsolato,
maledicendo l’impulso che l’aveva portato a comportarsi così; era frustrato,
non s’era fermato a riflettere prima d’agire ma era sicuro che la sua “terapia
d’urto” sarebbe stata efficace. Doveva esserlo, ne andava del percorso del loro
futuro.
Del suo futuro.
Mugugnava svoltando prima a destra, poi a sinistra e di nuovo a sinistra; aveva
bussato a tutte le porte constatando l’inevitabile epilogo di una tanta e tale
cazzata: la signora Choi non c’era. Come poteva fare? Osservò lo spiraglio di
una serranda constatando che era già sera: possibile? Certo, ormai l’estate se
l’era lasciata alle spalle, e l’autunno stava dando il meglio di sé con
pioggerelle leggere e tendenzialmente fredde, accorciando le giornate quel
tanto da sconvolgere i ritmi più caldi a cui s’era ancora abituati. Come tanti
altri stava facendo un’enorme fatica ad abituarsi al cambio stagione; mica come
Jungkook, pensava scuotendo il capo con disappunto. No,
lui era diverso. Lui non scaricava le sue frustrazioni sugli altri.
Non sempre.
Più o meno.
Ok, forse più che meno.
«Cazzo.» L’unica cosa che s’era permesso di esprimere ad alta voce visto che il
resto era decisamente peggiore. Restava una sola cosa da fare a questo punto,
prendere a calci la porta bloccata nella speranza di buttarla giù, o
scardinarla nel peggiore dei casi.
Bene.
Taehyung stava soffiando ripetutamente sulla superficie di quella che non aveva
neppure sembianza di cioccolata calda: grigiastra alla vista, rovente, le bolle
simili a miasmi sulfurei. Non la rendevano certo invitante. Hoseok
lo osservava contrariato, le sopracciglia corrugate, il solito cipiglio allegro
ormai assente.
«Spiegami ancora cosa sarebbe.» Si riferiva al liquido che sobbolliva
minaccioso nella ceramica.
«Comfort food.»
«Non dirmi che hai davvero intenzione di mandare giù quella roba.»
L’amico lo guardò torvo, offeso dall’affermazione: ci aveva messo amore, e un’eternità
anche solo per capire da che parte cominciare. Era al suo terzo tentativo, ed
era comunque il migliore risultato ottenuto; dopo un pentolino contenente latte
bruciato ed un altro lanciato sul lavandino con un mestolo annerito assieme
all’interno color pece, finalmente aveva portato a termine una preparazione lontanamente
accostabile a quella della foto riportata sulla confezione.
A modo suo ovviamente.
Rigirava il cucchiaino trovando il coraggio di assaggiarla con l’unica
conseguenza di ustionarsi la lingua, buttando la tazza a far compagnia al
pentolame sconfitto dall’eterna lotta contro l’incapacità genetica di cucinare.
Si accasciò sconsolato sul tavolo, le braccia a fare da cuscino alla fronte su
cui scendeva disordinata la zazzera castana.
«Di solito me la prepara Jin, e sai che quando mi
sento triste ho bisogno di cioccolato. Non c’è Jin,
non c’è felicità, non c’è cioccolata calda. Che giorno di merda, cosa potrebbe
succedere di peggio?» Jin sbatté rovinosamente il piede contro lo stipite
dell’entrata del cucinino, imprecando visibilmente.
«Jin, ehi, ehi Jin potresti
preparami la cioccolata calda? Jin? Dai, stai un
attimo. Su, le tue mani magiche sono in grado di preparare qualsiasi cosa. Ti
prego, ho fame, sono triste, tanto triste, giuro, tantissimo…»
Il maggiore, spaesato e confuso da quel fiume in piena di parole che lo stava
travolgendo trascinandolo al largo e sempre più distante dall’obiettivo prefissato,
lo squadrò contrariato mormorando quanto non avesse tempo per quel genere di
cose inutili.
«Sapete dove sono gli altri? Li avete visti?» Hoseok parlò al posto di un Taehyung giustamente e visibilmente
contrariato: «no, non abbiamo visto ancora nessuno. Pensavamo di andare a
cercarli in palestra. Aspetta, ma non doveva studiare Jungkook?
Prova a cercarlo in aula.»
«Genio.» Lo fulminò Jin e riprese a correre.
«Beh, cosa ho detto adesso di male?»
L’amico intanto rinunciò al proprio spuntino, depennando dalla lista mentale
delle abilità anche la preparazione di una cioccolata calda e densa. Ripensò sconsolato
alla pubblicità che spesso passava alla televisione, osservando un’ultima volta
il lavello sbuffando. Un piccolo brivido lo scosse, un presentimento che cominciò
a scavare passando dallo stomaco fino alle viscere.
«Un momento…» guardò il quadrante dell’orologio appeso in alto a sinistra. «Non
è l’ora del caffè di Namjoon?» Hoseok voltò il capo nella stessa direzione dell’altro,
constatandone la veridicità. «E Yoongi
avrebbe già dovuto mangiare, fissato com’è con gli orari.»
«Si può sapere dove cazzo sono finiti tutti? E Jimin, l’hai visto lui? Dov’è?»
«Tae, sta tranquillo.»
«Jungkook? E Jungkook, lui
dove sta? Doveva darmi la rivincita, ho una partita in sospeso con lui dall’altra
sera.»
Ogni singolo elemento mancava all’appello.
«Jungkook… ehi, Jungkook?
Sicuro di stare bene?»
Dal momento in cui il ragazzino aveva deciso di aprirsi e vuotare anni interi
di dissapori interni e umiliazioni personali, aveva sentito qualcosa
stringergli il petto in una morsa dolorosa e sempre più opprimente. No, non
andava bene affatto, stava per dirgli. Avrebbe voluto gridarglielo in realtà, urlargli
addosso sfogando tutto quanto; non l’aveva mai fatto prima, mai aveva palesato
tutto quel malessere se non con la madre stessa. Lei assimilava, per poi
sbottare e rincarare la dose.
Mai una volta fosse stata dalla sua parte.
Tacque invece, accasciandosi sulle ginocchia, per poi nasconderci la testa.
S’era chiuso nel mutismo, spaventato all’idea di una eventuale reazione d’urto.
Aveva paura di cosa avrebbe potuto dirgli Jimin?
No, assolutamente no.
Non ne aveva, aveva già quindici anni, si trovava teletrasportato nella
Capitale all’interno di un dormitorio mezzo cadente con altre persone
sconosciute con cui condividere la vita; tutte più grandi di lui, e riteneva
fossero pure più talentuose. Di cosa avrebbe dovuto avere paura? Del vedere
materializzarsi tutte quelle sensazioni di come aveva gridato, imprecato,
pianto chiuso solo dentro una stanza nella totale mancanza di conforto? O
forse… forse Jimin lo riteneva uno stupido immaturo, un bambino appena
cresciuto che non era capace di fare i conti con la realtà. Quel no che si era
ripetuto svariate volte nella testa stava svanendo. Aveva paura. Certo. Una
fottuta paura di affrontare non solo chi gli stava davanti, ma qualsiasi cosa –
qualsiasi altra – che gli si sarebbe parata di fronte.
Per questo se ne stava lì, immobile.
Attendeva una sorte imprecisa, delle parole ancora mute, probabilmente una
risata di scherno. O forse peggio. Avrebbe voluto reagire attivamente in
qualche modo ma sentiva soltanto la forza di reggere la fronte con i palmi
aperti, a nascondere invano nuove lacrime.
Jimin lo osservava immobile, non sapeva cosa fare: non lo sentiva nemmeno
singhiozzare, aveva intuito stesse piangendo dal sobbalzare aritmico della
schiena curva. Si sentiva terribilmente in colpa, sentiva di non appartenere a
niente delle sensazioni che stavano pesantemente ricadendo su di lui.
Senza aver fatto nulla.
Eppure la testa vorticava confusa. Sembrava così fragile Jungkook,
tanto da rischiare di rompersi in milioni di frammenti. Se non fosse
intervenuto, avrebbe dovuto tentare di raccogliere solo cocci sparsi
dell’emotività dell’altro. Dunque fece l’unica cosa che
avrebbe fatto chiunque – o forse soltanto lui – in una situazione simile: gli
si inginocchiò accanto, poggiando la propria testa sulla sua e stringendogli
l’avambraccio con fare imbarazzato, sperando di cedergli tutta la forza di
volontà che ancora possedeva. Non sapeva quanto tempo avrebbe dovuto
trascorrere in quella posizione: si trovavano soli, ormai la sera stava calando
e le serrande ancora sollevate mostravano il buio procedere quieto verso il
traffico di Seoul. Jin li aveva chiusi a chiave senza
dargli la possibilità di uscire in alcun modo, e ogni speranza di ritrovarsi
fuori in breve tempo svaniva ad ogni minuto passato osservando il vuoto. Voleva
dire qualcosa, doveva forse, ma cosa avrebbe potuto aggiungere? Non poteva
dispiacersi e scusarsi con lui per dei traumi non suoi.
Se l’avesse fatto poi, Jungkook avrebbe accettato
comunque le sue parole?
Era una situazione di stallo assurda, ma valeva la pena tentare con un’arma che
Jimin riteneva non fallire mai: la gentilezza. Certo, affiancata ad una buona
dose di pazienza. Inspirò. Aveva imparato ad accumularne parecchia e ad
utilizzarla con chiunque, era sempre un buon modo per farsi degli amici; aveva
funzionato in più occasioni, persino con gli altri membri del gruppo in cui era
stato incluso poco tempo prima. Tranne che con Yoongi
e il compagno che ora stava accarezzando impercettibilmente. Lo trovava buffo,
era alto quasi quanto lui nonostante la differenza di età, anche se minima; i
capelli ricadevano scompigliati, avrebbe volentieri passato le dita tra di essi
per poterglieli sistemare in un’altra maniera.
Che pensiero scemo, si disse sorridendo: s’era immaginato a scuotere l’altro
per le spalle e veder la chioma muoversi in tutte le direzioni come nei cartoni
animati che tanto amava guardare. Un quadro semplice, quotidiano, tra buoni
colleghi di lavoro. Un modo efficace per strappare una risata e forse pure un
insulto.
Qualsiasi cosa, sempre meglio di vederlo in quello stato.
«Ti faccio tanto ridere…?»
L’aveva sentito davvero? Era così sottile il filo di voce che aveva pronunciato
quella domanda… il silenzio nella stanza però aveva acuito i suoi sensi, e gli
si avvicinò ancora.
«No, sono stupido io a pensare a cose stupide.»
«Ti sei ripetuto, genio della scuola.» Jungkook aveva
sollevato di poco il capo, rivelando parte di quello sguardo che stava
scrutando Jimin da sotto in su, nascondendo ancora le labbra imbronciate tra i
polsi incrociati. Il naso colava.
Jimin scoppiò a ridere tenendosi il torace con la mano. Rideva tanto da non
riuscire più a trattenere la tensione.
«Sembri un bambino!»
«E tu un idiota.»
Però un sorriso era riuscito a strapparglielo finalmente.
«Dove sono andati questi adesso?» Jin si ritrovò solo di fronte alla porta sbarrata.
Aveva preso una decisione.
L’avrebbe buttata giù a calci. In fondo, lo facevano pure nei film, sarebbe
stata una cosa facile; era una porta vecchia, sarebbe andata in pezzi in poco.
Già si immaginava il titolo di “Eroe” cucito addosso per il resto
dell’esistenza, gli applausi dei presenti – che al momento non c’erano – e la
stima profonda e incrollabile dei due rinchiusi dall’altra parte. Gonfiò il
torace come gonfio era il suo orgoglio, e si diede la giusta carica.
Avrebbe salvato tutti.
E gli avrebbero voluto bene, sempre bene. Gli avrebbero dedicato le più sentite
attenzioni, ed i sorrisi più sinceri. Era il ragazzo più grande, meritava
rispetto e riconoscimento, in fondo.
Prese la rincorsa e chiuse gli occhi. Partì, alzando le braccia e colpendo una
prima volta la superficie dura con la suola della scarpa da ginnastica.
Niente.
Sbuffò allargando le gambe e facendo due piegamenti. Non poteva arrendersi
così, avrebbe dovuto riprovare, ne andava della salvezza di qualcuno. Tornò
indietro, stavolta contò cinque falcate piene dall’alto del suo quasi metro e
ottanta, e ripartì.
Secondo colpo, stavolta la carica era superiore ma non ancora abbastanza. I
piegamenti furono più profondi, il conteggio dei metri maggiore, fino ad
arrivare a metà della lunghezza totale del corridoio. Soffiò fuori dai polmoni
tutta l’aria possibile. Era pronto, sentiva sarebbe stata la volta buona. Non
udì da lontano il richiamo di Namjoon, certo che no:
era troppo concentrato su ciò che stava facendo, e questo lo portò a non dare
la minima attenzione a Yoongi che stava indicando la
signora Choi accanto a sé. Lei stringeva tra le mani il bicchierino di caffè di
un distributore automatico, quello accanto ai bagni della sala prove dove erano
soliti trascorrere il tempo.
L’unico angolo dove Jin non aveva controllato, il
primo, il più plausibile. Quello più ovvio.
«Caro, mi hanno detto che mi stavi cerc-»
Il tonfo interruppe la donna, che fece cadere ciò che stava tenendo tra le dita.
Corse, insicura sui suoi passi e con la corporatura morbida che non permetteva
grande velocità; corse più che poteva, mentre i ragazzi raggiungevano il
compagno che era steso a terra, le lacrime agli occhi e le dita tremanti
strette attorno al piede.
Solitamente la custode manteneva un tono ed un sorriso cordiale, un certo
parlare formale con gli altri dipendenti, ma il “che cazzo hai combinato” non
glielo levò nessuno.
Jin tentava inutilmente di scaricare il peso del piede, mantenendosi in
equilibrio precario su quei benedetti supporti a cui non era abituato. Le
stampelle erano estranee appendici delle braccia in quel momento: non era un
ballerino, non lo era mai stato, non aveva mai avuto a che fare con infortuni
del mestiere.
Una prima volta la sua. Una fastidiosissima, estenuante prima volta. E neppure
legata al lavoro, bensì ad un’immane cazzata che ora aveva assunto tutt’altro
significato, osservandola a posteriori.
La sera prima la signora Choi aveva contattato una guardia medica notturna
nella speranza di una visita a domicilio, negato per motivi di forza maggiore.
Non potendo trasportare il ragazzo fino all’ambulatorio, si avvalse della buona
volontà e dell’esperienza pregressa di Hoseok, il ballerino di punta del
gruppo. Ne aveva strette di fasciature, coinvolgendo articolazioni di ogni
tipo. Stavolta non sarebbe stato diverso, aveva compresso bene il tutto per
tener ferma la caviglia, consigliando riposo e astensione dall’attività fisica
– una buona notizia almeno, disse Jin ridendo.
Ora non aveva nulla da ridere.
Lui, e Jungkook.
No, il dolce far niente del più grande s’era tramutato in ansia, palesata con
il solito atteggiamento di chi aveva bisogno di attenzioni per scaricare pensieri
negativi e imprevisti non graditi. Ansia che aveva colpito anche il collega più
giovane, presente con lui di fronte alla porta chiusa che li separava dal
manager e dall’insegnante di danza. Aspettavano di entrare, erano stati
convocati giusto poco prima della fine del turno pomeridiano, quando avrebbero
dovuto trovarsi in studio di registrazione a seguire le lezioni di canto. Sapevano
entrambi il motivo della loro presenza lì, anche perché difficilmente era
permesso loro l’esonero dallo studio.
«Ehi, tutto bene?»
Jin lo fulminò con lo sguardo. «Bene un cazzo, è tutta colpa tua. Tua e di quel
cretino di Jimin.»
Rise Jungkook, perché l’accusa mossa verso di loro non aveva alcun senso.
Scosse la testa nascondendo le labbra con la mano, non voleva dare a vedere
d’essere colto da un improvviso e irrefrenabile attacco di ilarità.
«Cosa ridi?! Ne sentiremo come non mai, e tu ridi?»
Il ragazzino esplose senza aver la forza di fermarsi.
«Beh, almeno lo stai facendo.»
«Come?»
«Non sorridevi più. Era triste, mi stavo seriamente preoccupando. E non
arrossire, sei imbarazzante.»
Jungkook non diede peso subito a quelle parole, era fin troppo impegnato a
tentare di non immaginare scenari tragici al di là di quella porta.
«Beh, l’importante è che tu ora abbia fatto pace con lui, così noi potremo
continuare a lavorare in pace.»
«Noi? Come noi? Sei con il piede bloccato perché hai voluto giocare al
supereroe contro una porta.»
«Però è servito, dì quello che vuoi. Se non fosse stato per me, tu saresti
ancora chiuso là dentro a discutere con quell’altro.»
Stava per ribattere quando la loro attenzione venne assorbita da una voce
autoritaria al di là dell’entrata. Si guardarono un’ultima volta, facendosi
seri, ed attraversarono l’uscio col capo chino e il magone a chiudere la gola.
«Allora, quando si muovono? Hanno finito?»
«Taehyung, calmati. La situazione è quella che è, hanno sbagliato entrambi ed è
giusto che ne paghino le conseguenze. Questo è essere persone responsabili.»
Namjoon fingeva un tono distaccato, cercando di giustificare una chiamata così
repentina. Sapeva che la situazione non era certo delle migliori, ma convocare
due di loro senza dargli alcuna spiegazione come rappresentante e riferimento
del gruppo… no, non doveva pensarci, era giusto così. Erano adulti e vaccinati
– più o meno, Jungkook dall’alto dei suoi quindici anni difficilmente avrebbe
potuto considerarsi tale – e quindi capaci di comprendere i propri errori.
Poteva solo sperare in una serie di conseguenze non troppo pesanti.
«Come sta Jin?»
«Non bene. Si è scagliato a gamba tesa contro una porta, solo un deficiente
avrebbe potuto fare una cosa del genere. Sarebbe bastato aspettare un minuto in
più.»
«Hai capito perché l’ha fatto?» Taehyung rimescolava il caffelatte con
insistenza, senza averne ancora preso un sorso.
«Sinceramente? Non ne ho idea. È stato un gesto così stupido che mi ha preso
alla sprovvista. Io ti giuro, certe volte non capisco proprio.» Namjoon si
portò alle labbra la tazzina di caffè bollente, con il solo risultato di
sputarne il contenuto sul tavolo: aveva scambiato il sale per lo zucchero.
Di nuovo.
«Buono?» Rideva l’amico, perché episodi simili accadevano abbastanza spesso.
«Sei tanto stressato?»
Il biondo non capiva il perché di quella domanda: certo che era stressato, era il leader di un
gruppo di ragazzini che spesso dimostravano l’indole da bimbi della scuola
elementare. Doveva tirare le redini, reindirizzare certi comportamenti,
riequilibrare i rapporti personali tra i compagni e nel mentre cercare di
imparare a ballare, continuare a scrivere testi di canzoni fino allo
sfinimento, e mantenere sano l’equilibrio generale. In quei giorni non era
riuscito a fare nessuna di quelle cose, nonostante ci avesse provato. Sbuffò
asciugando la superficie macchiata con uno straccio, per poi accasciarsi sulla
seduta dello sgabello con la testa tra le mani.
«Tae, dove sto sbagliando?»
Taehyung non capì in quel momento quanto sarebbero state pesanti le conseguenze
di una tale domanda, credeva l’altro stesse vivendo uno di quei tanti momenti
di breve sconforto che caratterizzava la vita dei giovani. Solo che loro non
erano ragazzi qualsiasi.
«Non stai sbagliando niente, siamo tutti sulla stessa barca. Stiamo imparando,
stiamo andando avanti, e non è facile per nessuno di noi. Guarda che non sei da
solo, sai?» Taehyung si sporse verso di lui stringendolo in un caldo abbraccio,
donandogli tutto l’affetto ed il sostegno possibile. Si staccò poco dopo
sorridendo, allargando le labbra in una di quelle smorfie che solo lui sapeva
fare. «Fidati di me, andrà tutto bene.»
«L’ultima volta in cui mi sono fidato di qualcuno, ha rischiato di spaccarsi la
gamba imitando Hulk.»
«Jin è Jin, io non sono Jin. Vedi? Ho un’altra faccia, guarda gli occhi, i miei
sono più chiari, più brillanti. I capelli? Vogliamo parlarne? I miei sono più
fluenti, non c’è storia, ed il colore si intona meglio alla carnagione.»
«Non ti preoccupare, ho capito. Stai cercando di farmi stare meglio, e di
questo ti ringrazio. Solo che ci sono delle volte in cui penso al motivo per
cui sono stato scelto come leader… ci sono tante responsabilità, mi stanno
pesando addosso come non mai…»
Si bloccò mordendosi il labbro, la sensazione di stare parlando troppo e a sproposito
lo stava facendo sprofondare nell’imbarazzo. Doveva tenersele per sé quelle
conclusioni, come punto di riferimento non avrebbe mai dovuto mostrarsi debole;
con Taehyung però era diverso, aveva la capacità di tirar fuori tutto ciò che
la mente e il cuore tentavano di nascondere. Rovistò nella tasca alla ricerca
del lecca lecca che teneva
di riserva: il dolce multicolore lo aiutava a scaricare il nervosismo, in barba
ai dentisti. Lo scartò e se lo ficcò in bocca cominciando a morderlo con
insistenza.
«Nam? Ehi? Sicuro che…?»
«Cosa succede adesso?»
«Ti verrà il mal di pancia, tutto qui.»
L’alzata di spalle mostrò un finto disinteresse, ma in realtà il ragazzo amava
quel genere di attenzioni che gli dedicava l’amico, lo faceva sentire
importante ed apprezzato. Si mosse verso il corridoio per schiarirsi le idee e smaltire
la stanchezza della lezione del pomeriggio, quando intravide Yoongi e Hoseok
muoversi verso di lui conversando in maniera attenta: il secondo stava
stringendo tra le mani un blocco per appunti, mostrandogli qualcosa con la
punta della penna. L’altro osservava concentrato sagomando nell’aria qualcosa
con l’indice come a tentare di imprimersi delle immagini precise in testa.
Doleva interromperli, anche perché ultimamente Namjoon s’era accorto che Yoongi
passava più tempo con Jungkook che non con tutti gli altri, e vederli così lo
rallegrava: stavano di nuovo collaborando, era un bene, si disse. I due lo
superarono, Hoseok sorrise per poi cambiare tono facendosi improvvisamente serio.
«Ah, a proposito, sono appena usciti.»
Namjoon corse verso l’ufficio principale sperando di ricevere buone notizie, ma
i volti scuri di Jungkook e Jin sembravano non promettere nulla di buono.