Asulòs

di CHAOSevangeline
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Luna nuova ***
Capitolo 2: *** Luna crescente ***
Capitolo 3: *** Ultimo quarto ***
Capitolo 4: *** Luna calante ***



Capitolo 1
*** Luna nuova ***


Asulòs
 



I.
Luna nuova
 

 
Un arco che si tende, per un cacciatore, produce un suono di pura adrenalina; l’orecchio è allenato al punto da percepire la flessione delle fibre di legno, il rumore della corda che promette di vibrare rapida quando la freccia sarà fuggita dalla cocca insieme al respiro dell’arciere.
Un cacciatore respira con il suo arco e smette di respirare con esso fra le dita, se il destino vuole graziarlo con un simile onore. Un cacciatore respira con la preda perché non lo scopra.
Ma se è lui, la preda, l’eccitante suono di ogni parte dell’arma perde il suo fascino.
Orione sentì il legno flettersi e spalancò gli occhi. Vide la punta acuminata di una freccia puntata dritta verso il suo viso; pareva brillare di una luce argentata, come se fosse stata imbevuta in acque lunari.
«È il tuo nuovo modo di darmi il buongiorno?» domandò, un sorriso sghembo e assonnato sulle labbra.
«È il mio modo di dare il buongiorno ai clandestini, sì.»
«Clandestino, io?»
Orione scostò di lato arco e freccia con il braccio, ma la ragazza che torreggiava su di lui non glielo rese facile irrigidendo le braccia.
«Non mi hai annunciato il tuo arrivo, quindi lo sei.»
«Sono arrivato stanotte, ho pensato di non disturbare.»
«È mio fratello che si occupa del giorno, dovresti saperlo. La notte è mia.»
«So anche che la notte a te piace russare.»
«Brutto…!»
Orione approfittò di quell’attimo: un piede saettò fra le caviglie della giovane e la fece rovinare a terra in un singulto di sorpresa. La bloccò sulla sabbia di Delo e la guardò divertito.
«Buongiorno, Artemide.»
La salutò come se si stesse annunciando, come se ce ne fosse bisogno.
I capelli castani di lei erano composti nel laccio di cuoio con cui li teneva legati e gli occhi d’argento intenti a trapassarlo da parte a parte, simili alla freccia con cui avrebbe potuto trafiggerlo ma che ora giaceva a terra insieme al suo arco. Erano rigidi anche dopo tutto quel trambusto.
La leggeva bene, Orione: conosceva mille modi per innervosirla e li usava per creare una crepa da cui infiltrarsi, insidioso come la sabbia.
«Sono arrivato stanotte da…»
Ma aveva i riflessi rallentati dal sonno.
Una ginocchiata sullo sterno gli fece trattenere il fiato prima di rovinare di lato, i capelli di mogano sciolti e scarmigliati per la notte in mezzo ai granelli di sabbia che facevano da zavorra alle pieghe di stoffa del chitone di Artemide.
«Cafone», lo liquidò lei.
Dal fondo della spiaggia si udì abbaiare e poi lo scalpiccio di zampe esagitate sul bagnasciuga.
«Grazie Sirio, con più calma la prossima volta…» esalò Orione tenendosi lo stomaco.
Il segugio grigio appena giunto gli leccò il viso, poi raggiunse Artemide. La dea gli diede una grattata dietro le orecchie e sistemò la fronte contro la sua mentre il cane scodinzolava.
Smise di sorridere e si fece torva solo per rimproverare Orione.
«Non dare la colpa a Sirio per la tua negligenza.»
«La mia negligenza sta a dormire?»
«Esattamente», lo rimbeccò. «Sulla mia isola non si abbassa mai la guardia.»
Delo era sempre «la mia isola», per Artemide: lì era nata, lì cacciava e lì viveva.
Quando Orione alzò gli occhi, Artemide era seduta e lo guardava; non era arrabbiata, nonostante la ginocchiata in pieno stomaco, e questo avrebbe dovuto spaventarlo: infuriandosi Artemide avrebbe potuto fare molto peggio.
La giovane si distrasse scompigliando ancora il pelo di Sirio che agitava gaudente la coda. Accorgendosi che Orione non aveva smesso di fissarla si arrestò.
«Che c’è?»
«Niente», rispose. «È bello tornare a casa.»
«Oh», fece lei canzonatoria. «Scusa, è vero: dovevo chiamare la tua bella Eos per accoglierti.» Il suo viso fu teatro di puro disgusto. «Magari precederla con un corteo di fanciulle che gettassero fiori al suo passaggio.»
Orione fece una smorfia. Artemide pensò fosse per l’idea sdolcinata e anche per il modo denigratorio con cui aveva parlato di lei.
«Lasciamo perdere Eos.»
Artemide rispose nel modo peggiore possibile a quell’informazione celata. Un sorriso comparve sulle labbra della dea: non era cattivo, solo furbo.
«Problemi in paradiso?»
«Diciamo.»
Artemide fu sul punto di chiedere, e lei non lo faceva mai. Non per timore d’essere invadente o di turbare il proprio interlocutore: Artemide non chiedeva perché il più delle volte non le interessava e non voleva conoscere i problemi degli altri. Era comunque conscia che prima o poi sarebbe stata costretta ad ascoltare qualcuno e che una buona dose di turbe l’aveva raggiunta. Il più delle volte si trattava di Apollo. Era un’eccezione, lui: Artemide aveva sempre un orecchio da prestare al fratello per le sue lamentele, le sue sciocchezze, l’amore della sua vita o ancora altre idiozie. Non le dispiaceva nemmeno.
Orione però era diverso. Orione era tutto fatti e poche parole; parlava solo per punzecchiarla, per il resto si sarebbero volentieri espressi a grugniti entrambi.
Però allora sì, scoprire che Orione ed Eos non se la stavano passando così felicemente la colpì come la colpiva a mo’ di ceffone la loro gioia ogni volta che la sfoggiavano passeggiando per le vie soleggiate di Delo.
Era egoista perché con Eos, Orione era felice. Ma Artemide non aveva mai fatto nulla per ostacolarli; se la sua arma erano solo delle battute taglienti per difendersi non avrebbe smesso di usarle per nulla al mondo. Prima doveva pensare a difendere sé stessa.
«Vuoi…?» azzardò lei.
Orione la fissò.
«… Parlarne?»
«… Sì?»
«Risparmiami.»
Artemide alzò un sopracciglio.
«Scusa se ho chiesto.»
Si alzò in piedi, scrollandosi la sabbia dalle pieghe del chitone che lasciava scoperte le gambe snelle ma allenate dalle continue corse fra la boscaglia e le pianure.
Orione la fermò. Era stato brusco così come Artemide era stata brusca con lui. Le prese una mano.
«Aspetta», disse, sperando fosse sufficiente.
E sperando che Artemide non lo colpisse con l’arco, o la faretra, o con i pugni: le sue mani erano piccole in confronto a quelle di Orione, che in proporzione alla stazza della dea aveva delle mani enormi. Eppure i pugnetti di Artemide parevano appartenere alla progenie delle clave.
Uno «scusa» era più di quanto il cacciatore potesse riuscire ad articolare, ma doveva proseguire in fretta per non vedere Artemide fuggire: si erano toccati sempre e solo per fare la lotta, di tanto in tanto, o per trattenersi in caso di pericolo.
Una mano che prendeva la sua era fin troppo e intimarle di aspettare era stato più utile a giustificare il proprio gesto che a trattenerla.
«Non mi va di parlarne», bofonchiò Orione. «E poi ora qui ci sei tu, non vedo perché parlare di Eos.»
Artemide ancora non aveva afferrato il proprio arco, o avrebbe corso il rischio di lasciarlo cadere a terra senza alcun ritegno per la sorpresa data da tali parole.
«È la normalità sentirti parlare di Eos», ribatté velenosa Artemide. «Eos qui, Eos lì.»
Mimò un conato di vomito e benché lo stesse apertamente prendendo in giro, Orione rise perché in fondo aveva ragione. Era proprio la gemella di Apollo, con quegli sprazzi di teatralità.
«Sei tu che ispiri fiducia.»
Artemide lo prese come un complimento, ma fece finta di nulla e ostentò anzi il contrario.
«Già, bella scusa», esalò facendo spallucce. «Eracle ha avuto le sue dodici fatiche da compiere, io ho le mie a quanto pare.»
Le dita della dea erano ancora strette fra quelle di Orione; s’era preoccupato tanto della sua reazione, ma non si era anche affrettato a lasciarle.
«Dunque, hai ancora intenzione di andartene?»
Artemide scosse il capo, fulminea.
«Ero venuta a chiederti di andare a caccia. Ho dovuto attraversare l’isola per venire fin qui, non mi va di andarmene a mani vuote», rispose. «Voglio portare almeno Sirio con me.»
«Ah, solo Sirio?»
La donna si liberò solo allora la mano, puntando i pugni sui fianchi.
«Catturerebbe di certo più prede di te.»
«È una sfida?»
Orione percepì l’estasi che precede la caccia, il cuore palpitare per l’adrenalina di doversi nascondere, di non farsi udire da nessun animale designato come preda.
«Se vuoi rischiare allora sì.»
«Devi dirmi se c’è un premio, altrimenti una sfida non ha senso.»
«Niente consolatori “l’importante è partecipare”?» chiese tagliente lei.
«Non se so di poter vincere.»
Sulle labbra di Artemide sbocciò di nuovo uno dei suoi sorrisi: forgiato nella furbizia più fredda e disegnato con le ombre per sfiorare l’inquietante. Più che una giovane donna felice per l’imminente pomeriggio di passatempi pareva una ragazzina inconsapevole pronta alle peggiori follie pur di stringere fra gli artigli una vittoria.
«Non giocare con il fuoco, mortale», lo rimbeccò. «Stai parlando con una delle figlie di Zeus.»
Ma Orione sapeva che aver timore d’Artemide, per lui, era sciocco e inutile, così si permise anche d’alzare gli occhi al cielo.
«Certo mia signora, Artemide Basileia[1]
La giovane recuperò arco e frecce e gli mostrò il palmo di una mano all’altezza del volto per accennargli di stare zitto; dovette stendere quasi del tutto il braccio per riuscire nell’intento mentre lo superava.
«Fammi il favore.»
Dopo averlo oltrepassato di qualche passo parve rendersi conto di qualcosa. Si voltò e allungò le dita verso il viso di Orione. Sfiorò le cicatrici accanto ai suoi occhi.
«È stato un viaggio fruttuoso? A Lemno, intendo.»
Lì si era diretto Orione e da lì era tornato.
Era stato strano per lui rimettervi piede senza essere inseguito da un re furioso per le attenzioni riservate alla figlia.
Il cacciatore annuì.
«Efesto è stato cortese.»
«Li ha riparati?»
Gli occhi di Orione non erano più gli stessi da molti anni, ormai; la cupidigia di quand’era ragazzo, sfumante nell’inconsapevolezza che l’aveva spinto a sottovalutare la crudeltà dei provvedimenti di un sovrano s’erano estinte come la sua vista aveva fatto per quasi due volte. Aveva dovuto abbandonare Delo settimane prima per raggiungere Lemno, nella speranza che Efesto riparasse quegli occhi artificiali forgiati solo per lui: l’impalcatura dorata insisteva sulla pelle e sorreggeva quelle che sembravano due gemme sfaccettate, più azzurre del cielo terso. Artemide ricordava ancora l’angoscia di averlo visto attaccare da un puma; Orione si era liberato da solo, ma era svenuto prima che lei riuscisse a raggiungerlo. Era stata l’ultima volta che aveva visitato il palazzo di Eos. Poi Orione si era svegliato e, con un occhio scheggiato e privo del proprio bagliore vitale aveva insistito per raggiungere Lemno da solo.
Ma ora sembrava stare bene, non più cupo come quando aveva creduto di aver perso di nuovo parte di quel dono ormai divino.
Artemide non sapeva cosa vedesse Orione, né come lo vedesse.
Grazie al cielo il fabbro degli dei aveva scelto d’essere misericordioso una seconda volta e le crepe su quei due gioielli erano sparite. Erano tornati ad essere brillantemente inquietanti. Artemide diceva solo che a lei parevano belli. Un momento, forse l’aveva sempre e solo pensato, non detto.
«Vedo i bersagli, se è questo che ti preoccupa.»
Orione rispose con un sorriso beffardo, perché in qualche modo doveva pur gestire il contatto delle dita di Artemide con il proprio viso.
La dea le ritrasse in fretta.
«Mi preoccupava stessi bene», lo liquidò. «Andiamo? Elio non aspetterà noi per far tramontare il sole.»
Era sempre Artemide: caustica e frettolosa, incapace di soffermarsi sui propri sentimenti per più di qualche istante. Rapida come una freccia scoccata dal suo arco infallibile.
Ma ad Orione, Artemide piaceva anche per questo.
Soprattutto per questo.
 
 
«Ti sei davvero offesa per non aver vinto?»
«Mi sono offesa perché era diventato gioco di squadra e se tu non ti fossi deconcentrato avremmo preso quel cinghiale.»
Orione le camminava accanto con gli occhi puntati alle fronde degli alberi come alternativa al cielo che da lì, lo scrosciare del ruscello poco lontano, non poteva vedere.
Avrebbe ribattuto ricordandole che di cinghiali ne aveva catturati a centinaia durante la sua intera vita di cacciatrice, ma lui era come Artemide: quando un animale diveniva preda non era ammesso perderlo, si trattava di una questione di principio. Un lieve senso d’irritazione solleticava anche lui, per l’errore compiuto distraendosi; cacciare con Artemide significava cacciare a un livello superiore a quello dei comuni mortali. E lui lo era, un comune mortale: brillante, abile e scaltro. Ma era pur sempre un mortale che giocava nella categoria fuoriserie degli dei, e spesso non era facile.
Così incassò la critica di Artemide e restò in silenzio.
Quando un animale diviene preda, vederlo fuggire è un’onta, una spina avvelenata dritta nell’orgoglio. E Artemide d’orgoglio ne aveva da vendere.
«Prenderemo il prossimo», oppure «La prossima volta andrà meglio». Palliativi inutili che sulla dea della caccia non sortivano alcun effetto. Non ci sarebbero riusciti nemmeno se Orione ne fosse stato convinto – e ne era convinto, che quella stessa notte la loro battuta sarebbe andata meglio –, figurarsi se era il primo a non pronunciare con certezza quelle parole perché il fastidio di Artemide era il suo.
Erano diretti al ruscello per dissetarsi, il fiato corto ormai risanato in entrambi. Le clavicole di Artemide, lasciate scoperte dal chitone che ricordava un drappo di marmo per la sua compostezza nonostante la corsa nel fitto sottobosco, erano imperlate di sudore così come il viso della dea.
Quel cinghiale l’aveva davvero messa a dura prova.
A Orione l’immagine scomposta di Artemide non dispiaceva: il volto corrucciato, le labbra serrate in una linea che puntava pericolosamente verso il basso. I capelli erano ancora stretti nella morsa del suo laccio di cuoio; chiedeva pietà dopo la fatica di mantenere unite le ciocche durante la corsa.
Sembrava più umana, così. O più che umana, meno inarrivabile di quanto normalmente non fosse.
Una volta giunti sui ciottoli che facevano da confine al ruscello, Artemide abbandonò arco e faretra su un masso alto fino alle sue ginocchia. Si slacciò i sandali e senza troppe preoccupazioni mosse qualche passo fra le correnti fresche. Le bagnavano a malapena le cosce.
Raccolse una coppa d’acqua con le mani e si bagnò il viso prima di bere qualche sorsata.
Orione preferì dissetarsi a bordo del rio.
«Devo voltarmi dall’altra parte?» fece Orione.
Artemide si sollevò e fece un cenno in sua direzione, l’espressione confusa ma di certo allietata dal sollievo dato dall’acqua: stava dimenticando la caccia infruttuosa.
«Sbaglio o hai fatto fuori qualcuno che ti aveva vista fare le tue abluzioni?»
La dea fece una smorfia.
«Non hai occhi che per Eos», gli fece notare. «Non credo di dovermi preoccupare di te.»
Artemide percepì un moto di fastidio tanto forte da non essere nemmeno sfiorata dal pensiero che quello stesso pungolo potesse averlo provato Orione alle sue parole. Lui però sorrideva.
Artemide era certa di doversi preoccupare di più per sé, che non per lui.
Era lei ad essere terribilmente confusa, a sentirsi tremendamente strana. E a sentirsi spaventosamente stupida: Orione era innamorato di Eos. Lei era la sua compagna di caccia, una sua amica. Solo questo sarebbe rimasta, per una serie di questioni tanto spirituali quanto burocratiche: una dea vergine che viene meno ai suoi voti non è esattamente un buon esempio; le ragazzine d’Atene avrebbero smesso di essere inviate al suo tempio perché nessuno le avrebbe affidate alla protezione di una dea voltafaccia. C’era già Afrodite per quel ruolo.
Quando Artemide stava con Orione si sentiva confusa. Confusa dalla sua voce, dalle sue parole. Quel mattino quando l’aveva visto addormentato sulla spiaggia per poco non era inciampata sui propri stessi passi.
Orione le faceva uno strano effetto. Un effetto che ad Artemide capitava di rado di provare; lo sentiva raccontare da Apollo, che si accalorava per uno sguardo o una parola e non faceva che parlarne.
Artemide non era così. Artemide era distaccata, molto più posata circa i sentimenti di quanto non fosse il gemello. Lei stava a compostezza come lui stava a trasporto e trovarsi nella condizione contraria la agitava quanto e forse più di quando sentiva Orione parlare di Eos.
Udì un diverso scrosciare dell’acqua e si accorse che anche Orione era entrato nel ruscello.
«Ti dovresti rilassare.»
Perché fosse tanto in sintonia con lui poi, che aveva proprio l’aria di un bonaccione tutto battute, caccia e poco altro, Artemide non lo capiva. Forse perché erano accomunati da quella che era la sua passione più grande. Forse perché era gentile. E forse perché era una delle poche persone da cui non sentiva l’esigenza di allontanarsi, perché sapeva condividere il silenzio.
Ma Artemide era diretta e chiara: non le piaceva essere confusa e se qualcosa la confondeva la rifuggiva, s’allontanava. Significava mancanza di compatibilità e non vedeva ragioni per perderci tempo.
Forse in fondo era masochista. O curiosa di capire.
«Pensi di poter dare consigli a una dea?»
«Non mi è mai parso tu volessi essere trattata come una dea.»
Artemide sorrise sorniona.
«È terribilmente noioso. Ci sono mille cose che non puoi fare se sei una dea.»
«Del tipo?»
Artemide allargò le braccia; sembrava volesse invitare l’intera isola a raccogliersi contro il suo petto perché era l’unico modo per farle comprendere che era quanto di più caro avesse al mondo.
«Tutto questo» rispose. «Quante dee credi si divertano a cacciare? O a starsene a piedi scalzi in mezzo all’erba? O a preferire gli animali ai templi venerati dagli uomini?»
«Una di certo», fece Orione. «Tu, Artemide. Tu tutto questo lo fai ogni giorno.»
Ancora quella scomoda sensazione, martellante e furiosa com’era il fiume più in alto, rapido e inesorabile.
«Infatti sull’Olimpo dicono che sono una selvaggia.»
«Chi lo dice?»
«Afrodite», fece lei. L’ombra di un sorriso inquietante. «Ha detto anche che sono un maschiaccio. Subito dopo ho scoccato una freccia che le ha portato via una ciocca di capelli.» Rise. «Ha strillato per ore.»
Sembrava andarne orgogliosa e Orione ridacchiò con lei, anche se pregò qualche istante che la dea dell’amore non lo udisse pensando bene di punirlo: ne aveva già passate abbastanza.
«Non sei un maschiaccio, sei divertente.»
«Davvero?»
Lo chiese con un’espressione di genuina sorpresa ad arcuarle le sopracciglia. Le labbra erano arrotondate per lo stupore, appena schiuse.
«Davvero», le rispose l’uomo. «Con nessun’altra dea potrei fare questo.»
Artemide si chiese cosa intendesse, ma fu un secondo perché subito dopo uno spruzzo d’acqua le bagnò i vestiti.
Tutti parlavano di Orione descrivendolo come un gigante leggendario; dicevano che la sua ombra oscurava campi e città e che la sua testa riusciva a fare capolino tra le cime degli alberi più alti. In realtà era solo un uomo particolarmente alto e nerboruto persino in confronto ad Artemide, che non era esattamente la più minuta fra gli olimpi.
Ma le leggende, si sa, vengono da mille e più persone diverse e ancora da nessuna.
Se c’è un fatto di certo più concreto di una leggenda, questo è che da grandi stazze derivano grandi quantità d’acqua raccolte con le dita: Artemide si ritrovò colpita da quella che le parve una secchiata.
Il chitone le aderì al corpo, ma non ebbe il tempo per notarlo.
«Brutto…!»
Imitò Orione, colpendolo agli occhi con uno spruzzo. Ben presto quella lotta a distanza si trasformò in una rissa ben più scomposta e confusa: Artemide gli si aggrappò a un braccio e tentò di farlo rovinare nella corrente del ruscello, ma avrebbe dovuto immaginare che la meglio non sarebbe spettata a lei, non se Orione non intendeva farla vincere. Con lui avrebbe dovuto usare l’astuzia, non la mera forza bruta che la vedeva in notevole svantaggio.
Orione la disarcionò dalle proprie spalle e con un tonfo Artemide cadde in acqua. Venne inghiottita dai flutti e nonostante il suo corpo fosse ben visibile attraverso le pieghe incessanti della superficie non si mosse subito.
Riemerse poco dopo, fradicia e scomposta, gli occhi sgranati per quella che Orione non seppe se definire sorpresa, rabbia o forse dolore.
Gli fu inevitabile preoccuparsi, almeno un poco.
«Oh Dei… Artemide, ti ho fatto male?» Le porse la mano. «Non volevo.»
Più che di una saetta dal padre degli dei o una freccia in mezzo agli occhi, Orione sembrava genuinamente preoccupato solo per lei. Artemide si sarebbe potuta sentire in colpa, ma l’avrebbe fatto dopo: prese la sua mano e lo strattonò. Orione poteva essere forte, ma opporre resistenza a un attacco imprevisto sarebbe stato impossibile anche per lui.
Così anche se questo costò ad Artemide un secondo tuffo nell’acqua che ormai poco poteva nuocerle, ottenne la propria infantile vittoria.
Orione riemerse con i capelli di mogano incollati al viso. Lei sorrise.
«Mai abbassare la guardia, mio prode cacciatore.»
«Sei seria? Io ero preoccupato», annaspò dopo aver sputato l’acqua che aveva bevuto.
Si guardarono qualche istante, poi scoppiarono a ridere.
Artemide s’accorse solo allora di quanto Orione fosse vicino, un ginocchio fra le sue cosce per sorreggersi e il viso a un palmo dal suo. E solo allora Orione realizzò quanto Artemide fosse scomposta, il laccio di cuoio ormai in fuga tra le rapide del ruscello; aveva i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle, fradici e arricciati a causa dell’acqua. Persino la sua tunica bianca e immacolata aveva smesso d’essere perfetta: così zuppa le aderiva al corpo e seguiva la linea del seno e della vita. Era vestita, eppure era quanto più vulnerabile Orione l’avesse mai vista.
Un cacciatore è istintivo, fiuta l’aria e i minimi cambiamenti nei suoni. Valuta il momento giusto e agisce, rapido e fulmineo. Persino allora né Orione né Artemide riuscirono a scordarsi cos’erano tutti i giorni: due predatori che quel giorno avevano fallito già una volta.
Artemide portò le dita sotto il suo mento ispido di un accenno di barba e gli fece alzare il viso.
«È più di quanto qualsiasi uomo abbia mai visto.»
Orione sentì l’esigenza di aprire la mano a ventaglio dietro la sua schiena, quasi avesse bisogno di essere sorretta.
«Dunque cosa vuoi fare ora?» le chiese. «Cavarmi gli occhi anche tu o farmi inseguire da qualche bestia feroce?»
Artemide sbuffò una risata nonostante quella battuta macabra.
«Pensavo di lasciarti continuare a guardare», rispose, sfiorando la spilla che sorreggeva il suo chitone.
Se l’avesse schiusa la corrente si sarebbe portata via la stoffa.
Si avvicinò alle labbra del cacciatore e Orione, dal canto suo, fece altrettanto. Le portò una mano sul viso, le dita fra i capelli e le parve tutto così naturale, così semplice da domandarsi perché tanto a lungo se lo fosse negata.
«Non dovremmo.»
«Per i miei voti?» fece lei.
«E per Eos.»
Artemide si arrestò e lo guardò negli occhi. Si era scordata di lei o era almeno riuscita a fingere di riuscirci.
«Eri furioso con Eos.»
«Sono furioso con Eos», ripeté. «Ma non posso stare con te. Non sarebbe giusto.»
«Pensi ai miei o ai suoi sentimenti quando lo dici?»
«A quelli di entrambe.»
Artemide si sfilò da sotto di lui, si mise in piedi e fece il possibile per scollare la stoffa dalla pelle. Pregò in cuor suo che il sole asciugasse i suoi vestiti in fretta, ma non ce ne sarebbe stato motivo: se Elio l’avesse graziata Apollo avrebbe saputo. E si vergognava abbastanza da sola, senza che ciò accadesse.
«Aspetta, puoi usare la mia pelliccia per coprirti.»
Artemide conosceva mille storie su quella pelliccia e alcune coinvolgevano anche lei. Allora l’ultima cosa che voleva era un aiuto da parte di Orione, seppure quell’intera situazione fosse colpa sua. Averla creata la costringeva a stringersi nelle spalle e a desiderare di sparire.
«Non ho bisogno della tua pelliccia», lo liquidò. «Non ho ragione di nascondermi.»
Invece ne aveva fin troppe.
Ma non restò abbastanza a lungo per dirglielo.


[1] Uno degli epiteti di Artemide. Significa “sovrana”.



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Volevo scrivere questa storia da davvero tanto tempo, perché Artemide è un personaggio della mitologia greca che mi affascina molto. La settimana scorsa, infine, sono riuscita ad avere l'ispirazione necessaria per questa mini-long composta da quattro capitoli.
Non voglio dilungarmi troppo, in realtà nemmeno sul titolo di cui svelerò il significato con l'ultimo capitolo perché, pur essendo in effetti un altro epiteto di Artemide, potrebbe spoilerare un po' la direzione della storia.
Voglio solo dire che la storia non seguirà una versione specifica: ne ho lette diverse e da altrettante ho preso spunto, seguendo la logica del "se sono state narrate, un fondo di verità starà un po' in ognuna!"
Conto di aspettare qualche parere prima di pubblicare il seguito, ma la storia è comunque già conclusa.
Ringrazio chiunque sia giunto fin qui e spero vogliate farmi sapere cosa ne pensate!
Alla prossima! ~

 

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Capitolo 2
*** Luna crescente ***


II.
Luna crescente
 


 
«Buongiorno ragazze!»
La voce di Apollo era l’ultimo suono che Artemide avrebbe voluto udire allora.
L’accampamento delle Pleiadi era nascosto in una radura cinta di alberi; solo Apollo ed Ermes ne conoscevano l’ubicazione. Ermes perché i messaggi urgenti dovevano pur essere consegnati al legittimo destinatario per potersi dire un diligente messo, Apollo perché era difficile tenergli nascosta qualsiasi cosa. Ma non era mai stato un pericolo: sapeva che Artemide non avrebbe esitato a usarlo come puntaspilli per le sue frecce se avesse osato anche solo immaginare qualche impudicizia sulle sue sorelle acquisite ed era comunque troppo innamorato di quel principe spartano conosciuto qualche tempo prima per vederle come delle possibili amanti.
«Apollo!» trillò una delle giovani.
«Cosa ci hai portato di buono oggi?» chiese un’altra.
«Così mi offendo», si lamentò il dio. «Preferite i miei doni a me.»
Artemide non era nella sua tenda: era seduta su un masso nel fitto degli alberi poco lontano. Udiva tutto, ma non poteva essere vista.
Apollo aveva portato con sé un vassoio di fichi e di datteri per le ragazze. A tratti ricordava un domatore di bestie che si destreggiava nel lanciare tagli di carne per aprirsi un passaggio. Le giovani Pleiadi erano piuttosto gelose di Artemide, o sarebbe stato meglio dire protettive. La dea avrebbe dovuto immaginare avrebbero detto qualcosa ad Apollo circa il suo pericoloso stato d’animo.
Il vociare si fermò e Artemide tese le orecchie.
Il borbottio nel campo era così sommesso che nulla giunse alla cacciatrice.
Stavano parlando solo Merope e Apollo.
«Per fortuna sei arrivato», sussurrò la ragazza quando le altre giovani si furono allontanate con le leccornie portate in dono dal dio. «Artemide è in pena, oggi.»
«Me n’ero accorto», esalò Apollo senza grandi spiegazioni. «Cos’è successo?»
«Credo sia per Orione.»
Apollo si fece cupo come se una tempesta avesse improvvisamente deciso di velare i suoi occhi.
Non sopportava Orione.
«Le ha fatto qualcosa?»
«Non credo. Ma lo conosco e dunque…»
«Me ne occupo io.»
C’erano degli sprazzi in cui gli dei sembravano umani e dei momenti in cui parevano quanto di più irraggiungibile al mondo. Apollo allora, con quella punta di rabbia negli occhi acuminata come una lancia, fu quanto di più inarrivabile in quel campo. Rubò un dattero dal vassoio e si diresse a passo sicuro verso un punto nascosto nel fitto degli alberi.
Superata la linea del sottobosco vide le spalle della gemella e scagliò il dattero verso di lei. Artemide non lo stava guardando ma afferrò il frutto senza sforzo.
«Allora sapevi che ero qui.»
«Fai più chiasso di un elefante, chiunque avrebbe saputo che eri qui.»
«Potevi venire a salutarmi allora.»
«Quando una persona si siede su un masso in mezzo alla foresta di solito non ha voglia di parlare.» Si accorse di essere stata troppo brusca e borbottò qualcosa di simile a delle scuse. «È una brutta giornata.»
Apollo le si posizionò davanti: Artemide aveva il volto poco più in basso del suo e se ne stava accovacciata sulla propria faretra, intenta ad appuntire le proprie frecce tanto da consumarle.
Il dio la scrutò.
I lunghi capelli erano raccolti da un nuovo laccio e il chitone era assicurato con una spilla. Sembrava tutto in ordine.
«… Che c’è?»
Apollo scosse il capo, senza rivelare la ragione del proprio sguardo. Poi fissò i suoi capelli.
«Che hai fatto ai capelli?»
«Niente.»
«Sembrano delle liane.»
«Quindi fammi capire, sei venuto fin qui per insultarmi?»
Apollo scosse il capo di nuovo. Di solito Artemide sbuffava e tornava a occuparsi delle proprie mansioni, non evitava così i discorsi se non c’era nulla da nascondere.
Il dio della luce abbandonò a terra la propria faretra e vi infilò una mano all’interno. Raschiò sul fondo e ne estrasse un pettine.
«… Perché hai un pettine nella faretra?»
«Perché serve sempre un pettine se non voglio rischiare di sembrare irsuto come te in questo momento.»
Apollo si posizionò alle sue spalle e le sciolse i capelli. Artemide immaginò la sua smorfia quando si accorse che alcune delle sue ciocche non volevano saperne di dividersi, poi iniziò a sentire i denti del pettine scivolare inghiottiti dalla sua chioma.
«Allora, perché è una brutta giornata?»
Artemide sapeva che Apollo era lì per una ragione e questa poteva essere tanto salutarla quanto voler scoprire qualcosa che già aveva intuito. O immaginato. O visto. C’erano troppe opzioni e poche scriminanti per individuare la risposta corretta.
«Quanto sai?» fu la risposta di Artemide.
«So che c’entra Orione. Che c’entra un ruscello e che Merope è preoccupata.»
Artemide si irrigidì.
«Come sai del fiume?»
«Hai i capelli bagnati», rispose. «È successo qualcosa che era meglio non vedessi?»
Artemide si strinse nelle spalle.
Apollo era subdolo: la obbligava a spazzolargli i capelli perché lo aiutava a rilassarsi e gli piaceva lamentarsi dell’universo tutto o raccontare ciò che lo rendeva felice mentre la sua chioma lucente tornava a splendere. Artemide si era sempre chiesta quale trauma infantile lo spingesse a questo. Ora però sentiva nascere in sé il dubbio che Apollo per anni l’avesse solo traviata con quell’abitudine, facendo maturare in lei il desiderio di confidarsi a propria volta mentre lui le pettinava i capelli.
«Nessuno avrebbe dovuto vedere cos’è successo lì.»
«Quindi che è successo?»
«Sei sordo o cosa? Ho detto che è megl-…»
Apollo districò un nodo con troppa energia. Voluta energia.
Artemide gemette e si voltò per guardarlo, torva.
«Potevi startene con Giacinto a Sparta? Qui me la cavo benissimo.»
Si preparò a sentirsi strappare qualche capello, invece Apollo tornò ad essere gentile.
«Mi ha consigliato lui di venire qui», rispose. «Ero in pensiero.»
Se Apollo metteva da parte il proprio orgoglio rischiando di sembrare melenso proprio agli occhi di Artemide doveva credere la situazione fosse davvero grave.
«Non ne vedo il motivo.»
«Sapevo che Orione era tornato. E sapevo che non stavi bene.» Apollo fermò l’incedere del pettine mentre cercava le parole giuste. «Cioè, sapevo saresti stata male. Hai capito che intendo.»
Artemide puntò gli occhi su una piccola zolla di terra, quasi come stesse prendendo la mira per colpirla con un’arma immaginaria. Quanto avrebbe voluto farlo.
«Al fiume», fece lei. «Stavo per baciarlo.»
«Cosa?!»
Apollo gridò. Non sbottò, non alzò la voce di poco. Gridò quella domanda con acuta incredulità e Artemide giurò di aver sentito qualche uccellino abbandonare il proprio nido fra le fronde degli alberi.
Era più di quanto si fosse preparato a gestire.
«Sai essere discreto?!» lo rimbeccò nervosa.
«No, mi riesce difficile», rispose lui dando l’idea di aver ripreso contatto con la realtà. «Art, sei seria? Da dea vergine a dea che ruba i quasi mariti alle altre dee? Wow, cioè, papà ti ha insegnato bene.»
La ragazza incrociò le braccia e anche le gambe, afflosciando la schiena.
«Non avrei fatto…» esitò.
«Che cosa?»
Apollo la incalzò e Artemide si ricordò quanto suo fratello gemello fosse terribilmente dispettoso.
«Quello
«Sorellina, ti assicuro che tra il bacio e tutto quel che viene dopo il passo può essere molto breve», le fece presente. «Ovviamente dipende dai casi. Per esempio io e…»
«No, zitto, non lo voglio sapere!» si portò le mani sulle orecchie.
Apollo la fissò solenne e la colpì in testa con il pettine.
«Ahi!» protestò lei.
«Ti atteggi sempre a gran donna, ma appena ci avviciniamo all’argomento sentimenti sei poco più di una bambina.»
Artemide restò in silenzio, perché Apollo non la stava insultando gratuitamente: diceva solo la verità. E quanto aveva detto Apollo, in parte, la spaventava; al fiume non intendeva solo baciare Orione.
Che Apollo lo sapesse con certezza o meno non era fra le informazioni di cui disponeva Artemide.
«Tentavo solo di difendermi visto che sembrava volessi darmi della meretrice.»
Artemide s’aggrappò a una colpa da dare al fratello pur non credendoci. Apollo parve interdetto, come se per un istante avesse davvero temuto di averle passato quel messaggio.
«È da quando hai fatto voto di castità che ti ripeto di aver fatto una sciocchezza. Amare qualcuno fa bene all’anima. E al corpo. E soprattutto rilassa.» Apollo portò le mani sulle sue spalle. «E tu sei terribilmente tesa.» Artemide s’irrigidì ancor di più e Apollo alzò le mani. «Con te la psicologia inversa funzionerebbe bene, ma non ti darei mai della puttana.»
«Wow che classe», fece Artemide. «E comunque per la cronaca se anche l’avessi fatto non potrei batterti.»
Apollo rise, poi tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo. Non la vedeva, ma immaginò Artemide mordicchiarsi il labbro.
La dea percepiva il lavoro industrioso del tarlo introdottosi nei suoi pensieri, intento a farla rimuginare.
Non avresti voluto solo un bacio.
«Siamo caduti nel fiume ed ero tutta inzaccherata, prima.»
«Oh», fece Apollo. Poi realizzò. «Ew.»
Artemide gli tirò una gomitata in pieno stomaco ma Apollo la schivò.
«Mi ha respinta.»
Artemide lo biascicò prima di abbassare lo sguardo. Si fissò il petto e si portò le mani sotto il seno, quasi stesse tastando qualcosa che mancava.
Apollo si sporse e la vide.
«… Art, sei seria?»
Artemide scosse il capo in fretta; lo era, ma non era su questo che voleva soffermarsi. Non voleva che Apollo parlasse della sua dotazione non inclusa: sarebbe stato troppo.
«Orione era furioso con Eos, ho pensato di avere un’occasione.»
A quel punto Apollo capì che il discorso era troppo serio per pensare ai capelli della gemella e si arrampicò sul masso, facendola spostare per guadagnarsi un posto accanto a lei. Si sedette al suo fianco, rivolto verso la dea.
Artemide era sempre stata interessata a Orione: parlava di lui, delle sue gesta. Lo lodava e lei questo non lo faceva mai; i complimenti venivano centellinati dalla sua bocca solo nei momenti più critici e per il resto del tempo la sua approvazione era una continua incognita. Trascorrevano insieme quanto più tempo possibile e se fosse stata negligente quanto lui Apollo avrebbe potuto dire di averla vista impazzire d’amore come lui era impazzito per Giacinto.
Lui era stato fortunato, ma la gemella?
Quindi sì, capiva quanto la situazione fosse grave. Lo sapeva, anche se Artemide non voleva vederlo. Non era lì per dirle cosa fare, ma solo per farle aprire gli occhi.
«L’ha sorpresa mentre lei era con Ares. Va avanti da mesi», le disse. «Onestamente il tuo amico Orione è più cornuto dei cervi che ti piacciono tanto.»
Artemide l’avrebbe guardato in tralice se solo la gravità della situazione non le fosse stata subito chiara, portandola a pensare a qualcosa che non fosse la squallida battuta di Apollo.
«Sarà stato a pezzi.»
«Che importa?», rispose Apollo. «Sai che non mi è mai piaciuto Orione.»
«Perché tu non ci passi del tempo insieme», ribatté. «A me importa.»
«Sì beh, di solito non passi tempo insieme alle persone che non ti piacciono.» Attese un istante e riformulò la propria domanda. «Che ti importa? Le questioni di cuore ti sono sempre parse sciocche insieme alle loro conseguenze.»
Artemide avrebbe potuto guardarlo male di nuovo, ma si trattenne sebbene il modo di fare del fratello stesse mettendo a dura prova la sua pazienza.
«Artemide, ti spezzerà il cuore. E non lo dico per esperienza: lo dico perché lo so», protestò. «Ti troverai costretta a fare qualcosa che non vorresti mai fare. Voglio solo evitartelo.»
Artemide conosceva la regola: suo padre aveva imposto ad Apollo di tacere le proprie profezie. Solo l’oracolo di Delfi poteva rivelarle, criptico com’era costretto ad essere il gemello. Era frustrante. Apollo poteva anticipare solo le previsioni più sciocche, spesso piccoli imprevisti più utili se celati per godersi una buffa scena.
Più volte Era l’aveva accusato d’essere un falso profeta, un ciarlatano, ma senza ragione.
Apollo non conosceva tutto, per qualche beffa del destino le Moire non lo mettevano a parte di ciò che più gli sarebbe stato utile sapere, ma gli avevano dato un’occasione: aiutare la gemella. E lui l’aveva colta, perché poco contava dimostrare qualcosa alla madre degli dei, che si sentiva tanto importante pur non essendo la madre della maggior parte di loro.
«Non è come credi di conoscerlo tu», tentò di convincerla. «È un egoista. E dopo oggi diventerà ingordo e presuntuoso.»
«Perché non lo conosci.»
«Può darsi, ma conosco te», ribatté. «E non lo perdonerai.»
La giovane scese dal masso e si voltò.
«Ti prego, risparmiami la ramanzina, Apollo!» gli ringhiò contro. «Vieni qui con le tue previsioni a metà e non mi dici niente di utile.»
Apollo assottigliò lo sguardo. Artemide sapeva quanto lo uccidesse non poter parlare quando conosceva il futuro.
«Se ti fidassi di me un’utilità la ricaveresti. Ma sai che sto dicendo qualcosa che non vuoi sentire e quindi non vuoi nemmeno ascoltare.»
Artemide camminava nervosamente, i piedi scalzi nell’erba e i capelli ancora sciolti sulle spalle. Gli occhi grigi fiammeggiavano per la rabbia mentre guardava tutto meno che Apollo.
Chiunque, o chiunque avesse almeno un briciolo di riguardo si sarebbe fermato; Artemide era al limite della sopportazione, solo un filo sotto tensione a tenere unite le due estremità di una fune. Il filo era l’autocontrollo che le impediva almeno per il momento d’esplodere riversando i propri nervi su Apollo.
Chiunque, prima di proseguire nella propria invettiva, avrebbe almeno tentato di rabbonire la dea, di placarla. Ma Apollo non era chiunque: Artemide non si risparmiava con lui quand’era il caso di non farlo e Apollo allora stava scegliendo la stessa via, ma non per un’infantile ripicca; Artemide non si risparmiava perché era l’unico modo per farlo riflettere e così avrebbe fatto lui.
«Sai come sono andate le cose, tra lui e Merope.»
Giocare quella carta fu un colpo basso anche per lui, un pugno invisibile dritto allo stomaco di Artemide. La dea accusò il colpo trovandosi a trattenere il fiato.
«Adesso basta», sbottò mentre d’improvviso il bosco si faceva silenzioso.
I suoi occhi parvero brillare e il suolo tremò come se l’intera fauna dell’isola fosse sul punto di radunarsi lì per fare scempio di Apollo. Era una vibrazione continua, lieve, come il tremolio di dita tese.
Il dio non si mosse, piantato sui propri piedi, il masso a dividerli come una barriera. Apollo era stoico nella sua espressione ferma e severa; non avrebbe ammesso repliche né accettato Orione. Di tutti i suoi sorrisi non erano rimaste che ombre.
«Lo sai», ripeté.
Artemide non aveva risposto e Apollo una risposta la voleva. La esigeva.
Aveva visto qualcosa spezzarsi oltre la barriera fredda che erano gli occhi di Artemide, un pilastro crollare. Su quel pilastro, ora a terra, stava la sua consapevolezza. Apollo poteva tentare ancora di raggiungerla.
«Quello che so è che sei egoista, fratellino», lo schernì Artemide. «E che può esistere solo la tua felicità per questo.»
Apollo sentì una freccia conficcarsi nel proprio petto con quelle parole e Artemide provò lo stesso nel pronunciarle. Lui non gridò, non disse nulla. Attese.
«Tornatene a Sparta dal tuo bel principe. Non ho bisogno dei tuoi consigli.» La voce di Artemide era gelata come un pezzo di ghiaccio. Afferrò il proprio laccio di cuoio e si raccolse i capelli. «Né di quelli di nessun’altro.»
Apollo non parlò e non smise di guardarla; la fronteggiò ogni istante.
Artemide doveva sapere che non la stava ingannando. Doveva ricordare che i suoi occhi vedevano più di qualunque altro dio o mortale. Lui si era sempre fidato di lei e non l’aveva mai ingannata: perché ascoltarlo doveva esserle tanto difficile?
Perché la sua gemella, la sua controparte, la sua metà doveva crederlo un bugiardo?
Perché fidarsi di un uomo di cui non sapeva quasi nulla?
Gli occhi di Apollo si incollerirono, quasi iniettati del veleno di Pitone stesso.
«Spero non vorrai nemmeno la mia pietà quando ne avrai bisogno», sibilò. «Perché ne avrai bisogno.»
Solo quando Apollo abbandonò l’accampamento delle cacciatrici la terra smise di tremare

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Capitolo 3
*** Ultimo quarto ***


III.
Ultimo quarto
 


 
Orione si era accampato sulla spiaggia perché il mare lo calmava.
Le onde spazzavano ritmiche il bagnasciuga ed erano una certezza, un moto inesorabile e indiscusso. Più o meno tumultuose, non si sarebbero mai sottratte al compito di danzare sulla sabbia per poi ritirarsi, portando con sé in fondo al mare qualche nuovo granello e restituire dei tesori alle rive.
Quel giorno era come se qualcosa fosse cambiato. Era come se gli occhi di Orione vedessero in modo diverso da come avevano sempre fatto.
In principio s’era chiesto se non si trattasse dell’intervento di Efesto; forse vedeva in modo diverso e dunque percepiva così: diversamente. Sì, i suoi occhi dovevano aver subito qualche modifica fisica.
Ma non era questo. Questa era una scusa.
Orione aveva iniziato a percepire la realtà in modo nuovo dal giorno prima. Non l’aveva notato, non subito almeno: le prime differenze erano state nelle sfumature, in qualche pensiero.
Poi il cambiamento era avvenuto e lui aveva smesso di prestarci attenzione, perché quella era diventata la nuova naturalezza. E non gli dispiaceva affatto.
Il mare era sempre stata una certezza per Orione: era lì e si muoveva con il suo ritmo più o meno impetuoso.
Orione aveva iniziato a domandarsi perché lo facesse, perché credesse di dover sottostare a una decisione che gli era stata imposta; perché proprio lui non si ribellasse al dominio di Poseidone e non scrivesse le proprie regole, perché non violasse le gerarchie e le strutture impostegli da qualcun altro.
Doveva non essere ancora conscio della propria forza, era l’unica spiegazione che Orione riusciva a trovare.
Quel mattino presto il cacciatore aveva gettato le braci del proprio focolare ormai estinto e richiamato Sirio per cercare Artemide nella foresta. Il loro saluto del giorno prima era stato imbarazzante per la dea, ma Orione non era dello stesso avviso.
Mentre pensava a questo e camminava nel fitto sottobosco vide Sirio irrigidirsi con la coda dell’occhio e lo sentì ringhiare.
«Cosa succede bello?»
Doveva trattarsi di una bestia feroce. Orione mise mano al proprio arco, ma prima che potesse anche solo pensare di prepararsi a colpire l’aria fra gli alberi fischiò: una freccia si era conficcata dritta in mezzo ai suoi piedi.
Ma non si trattava di una freccia comune, né di una freccia di Artemide: riluceva di un bagliore dorato.
Apollo.
Orione non era mai andato troppo d’accordo con Apollo, forse perché il dio per primo aveva dimostrato quanto scarse fossero le sue intenzioni di essere gioviale con lui; era un presuntuoso, un egocentrico e se Orione aveva tenuto per sé certe considerazioni era solo per via – o grazie, la sfumatura era quella di una concessione – alla sua amicizia con Artemide.
Il dio emerse dalla boscaglia prima ancora che Orione parlasse: non aveva bisogno del suo permesso per mostrarsi, né tantomeno era così codardo da non assumersi la paternità di quel dardo.
«Da quando il dio del sole va a caccia in queste foreste?» domandò Orione.
Nel suo tono non c’era scherno, ma l’aveva usato per avvelenare ogni sillaba della propria frase, celandolo fra i suoni.
«Da quando è libero di farlo», rispose secco Apollo. «Cioè da molto prima di te.»
Orione non sapeva della discussione fra Apollo e Artemide. Non poteva esserne a conoscenza perché Apollo era cauto e perché lui, in ogni caso, aveva la tendenza a notare molto poco oltre il proprio stesso naso.
Nella caccia però Orione sapeva sempre cosa aspettarsi, a cosa prestare attenzione.
Un presentimento gelido come una mattina invernale gli scivolò lungo la schiena.
«Eppure si dice che non sbagli mai il bersaglio», fece il cacciatore. «Una preda troppo veloce?»
Apollo sorrise, algido.
«Al contrario: camminava», rispose minaccioso, dirigendosi verso di lui.
Gettò uno sguardo a Sirio, che smise di ringhiare. Doveva essersi reso conto di non poter competere, perché si rilassò come se avesse creduto di aver preso un abbaglio considerando Apollo un nemico. O come se avesse pensato di dovergli portare rispetto.
«E non ho mancato il bersaglio. Ho mirato fra i tuoi piedi», aggiunse. «Insolente da parte tua pensare il contrario.»
Apollo recuperò la freccia e lo superò.
Avrebbe potuto rendere quell’unico colpo un colpo di grazia. Orione aveva colto il telaio della sua minaccia, costruito solidamente con una freccia sul suo cammino e un sorriso dalle venature intimidatorie.
«Febo Apollo, è tua sorella la dea della caccia. È legittimo io abbia pensato non la eguagliassi», rispose Orione. «Perché mai avresti dovuto scoccare una freccia ai miei piedi?»
Apollo non raccolse la sfida. Artemide sosteneva di sapersela cavare da sola e lui nemmeno avrebbe dovuto mettere in atto quell’avvisaglia alle spese di Orione, dunque preferì evitarsi la bile in gola dovendo trattenere le proprie mani dal compiere un efferato omicidio in quel di Delo.
«Chissà, forse per la previsione di qualche atto da punire.»
«Artemide non la prenderebbe bene.»
Apollo allungò una mano verso la faretra, ma solo per riporvi la freccia che aveva recuperato. Non voleva sprecarne nemmeno una per Orione.
«Perché? Perché sei il suo favorito?» chiese. «Guardami bene, cacciatore. Ho la faccia di uno a cui importano i favoritismi di mia sorella quando questi possono farle del male?»
Le labbra morbide di Apollo si incurvarono mentre parlava.
Orione per un istante mostrò confusione, ma fu solo un momento perché poi tornò a guardare il dio del sole con quello sguardo di sfida.
«Non intendo farle del male.»
«Oh, risparmiami. So riconoscere un animo crudele quando lo vedo.»
Orione camminava in bilico su un filo ma fingeva di non farlo; fingeva di avere i piedi ben saldi a terra quand’era sospeso metri e metri più in alto. Apollo avrebbe potuto farlo precipitare in ogni istante.
Il cacciatore voleva chiedere se allora Apollo vedesse in sé stesso in un animo crudele, ma soffocò le parole.
«E so cosa stai pensando. Ero come te, un tempo: crudele», gli concesse Apollo. «E so esserlo ancora.» Le ciglia bionde calarono sulle iridi color del cielo, assottigliando il suo sguardo. «Sta pur certo che la prossima volta ti colpirò. Ti strapperò il cuore dal petto mentre mi guardi, se me lo renderai necessario.»
Orione non disse altro. Restò in silenzio a fissare il viso di Apollo prima che questi si decidesse a voltarsi e a scomparire.
Parlava con velata circospezione, ma era chiaro cosa volesse dire: sapeva dove Orione era diretto anche se il luogo non era preciso.
Da Artemide.
Dovunque lei fosse.
 
 
«Tuo fratello è forse in collera in questi giorni?»
Artemide staccò gli occhi dalla propria strada per voltarsi a favore di Orione.
«Quando l’hai visto?»
«Mentre ti raggiungevo. Era vicino alla spiaggia», rispose. «Mi ha scoccato una freccia in mezzo ai piedi e mi ha detto che mi aveva mancato di proposito. In più il cielo mi pareva buio, si dice reagisca così quando è arrabbiato.»
Artemide stava provando una lunga serie d’emozioni complicate nell’arco di troppi pochi giorni: appena il pomeriggio prima s’era vergognata di sé come non ricordava d’aver mai fatto; si era incollerita con Apollo e aveva dovuto affrontare il proprio imbarazzo preparandosi a una nuova battuta di caccia con Orione. Se non altro inviperirsi nuovamente con il fratello le aveva concesso qualche momento di tregua dalla sensazione che le annodava lo stomaco e che credeva troppo astratta per parlarne con l’uomo al proprio fianco.
«Malaka», sibilò fra i denti.
Non si fosse imposta un certo portamento avrebbe addirittura sputato a terra.
A quell’insulto sul viso del cacciatore parve comparire l’ombra di un sorriso.
Artemide sembrava furiosa e Orione forse questo trarre dalla propria rivelazione.
«Ignoralo, vuole rovinarmi la vita», riprese la parola Artemide.
«Avete discusso?» indagò Orione.
«Più o meno.»
Per Artemide il discorso era da concludersi lì. Orione non era dello stesso avviso.
«Di che cosa?»
«Siamo qui per parlare o per cacciare?»
Artemide gli camminava sempre un passo avanti, guidava com’era giusto facesse una dea. Allora però gli appariva solo sfuggente, desiderosa di sgusciargli dalle dita come l’acqua fresca di un torrente.
«Sono venuto a incontrare te. La caccia è solo l’attività a cui siamo più abituati.»
Artemide credeva la propria domanda, brusca e graffiante come sabbia sulla pelle, sarebbe stata sufficiente a spostare tutta l’attenzione di Orione sulla ragione per cui lei credeva si fossero incontrati: cacciare. Poco importava che volesse anche parlargli; lei non parlava, soffocava ogni briciolo di quella volontà in fondo al cuore. E dopo le disastrose pieghe prese dalla discussione avuta con Apollo il giorno prima dubitava avrebbe trovato tanto in fretta la voglia di aprirsi con altre persone.
«Stai forse dicendo che cacci per forza, di solito?» lo provocò.
Tutto pur di svoltare al primo bivio disponibile nella conversazione, di imboccare una strada sicura per un nuovo argomento.
«Artemide», incalzò lui.
Le prese la mano come aveva fatto il giorno prima, per trattenerla quand’era stata sul punto di fuggire. Artemide guardò le loro dita e i suoi occhi per un istante parvero sul confine tra l’oltraggiato e lo sconvolto. In realtà aveva gli occhi così spalancati solo perché si rendeva conto che l’icore sarebbe stato in grado quanto il sangue degli umani di renderla paonazza.
«Cosa vuoi sentirti dire?» ribatté lei. «Quel che ho detto ad Apollo? Gli ho raccontato di ieri al fiume», strariparono le parole. «Non ho alcuna voglia di affrontare ancora il discorso dopo aver visto gli effetti che un dialogo civile ha su mio fratello.»
«Io non sono tuo fratello», le fece notare Orione.
Artemide schioccò la lingua e con un sorriso sarcastico rifuggì i suoi occhi.
«Sei un uomo e io credo di non saper parlare con… voi
«Così mi offendi.»
«Così ti dico la verità.»
Artemide si accorse che Orione aveva mosso un passo verso di lei.
«Perché hai pensato al fiume?»
Quell’unica parola, fiume, avrebbe dovuto farle capire quanto si sarebbe compromessa solo pronunciandola.
Per qualche ragione, del tutto incoerente con le proprie parole, Artemide scelse di rispondere; perché non c’era ragione di fare altrimenti, o di contenersi.
«Perché mi sono sentita un’idiota. Mi vergognavo.»
«Di che cosa?»
Le domande di Orione parevano quelle snervanti di un bambino curioso e portarono Artemide a strappare le proprie dita alla presa salda delle sue.
«Oh, lo sai di che cosa!» quasi gli gridò contro. «Di quel che ho fatto, di quel che ho detto.»
Di come mi hai respinta.
Ma lo pensò, senza parlare.
Pensò questo e che, ancor di più, si vergognava del pensiero che se solo avesse ricordato di nuovo che Eos non era mai stata tanto lontana da Orione come allora avrebbe tentato ancora di sedurlo, perché per la prima volta nella vita sentiva il bisogno di avere qualcuno con sé. Sentiva il bisogno di avere lui, con sé.
«Non hai ragione di vergognartene, Artemide.»
Un altro passo verso di lei. Artemide arretrò e iniziò a sentire con un tallone le radici nodose di un albero.
Non si sarebbe fatta mettere con le spalle contro un tronco, se non avesse voluto. Non sarebbe rimasta a guardare il sorriso seducente sulle labbra di Orione.
«Mi hai respinta.»
Lo esalò, alla fine.
Era un pensiero che faceva male come mille aghi conficcati sotto la pelle, le bruciava come il sale su una ferita aperta.
«Pensavo fosse meglio così.»
Quand’era con Orione, Artemide perdeva la bussola. Il sud diventava nord, l’est diventava ovest. Non si orientava, non capiva. Poi lo guardava e continuava a non comprendere, ma realizzava anche quanto non le importasse.
Racimolò delle parole e costruì una domanda. Rudimentale e impacciata, ma pur sempre qualcosa che soddisfacesse i suoi pensieri o le desse la pallida illusione di riuscire a farlo.
«Perché ora?»
«Perché ci ho riflettuto.»
Le dita di Orione erano ruvide per le molte ore trascorse nella foresta, calde e robuste. Dopotutto di lui le leggende narravano fosse un gigante. Artemide non le aveva mai sentite sul proprio viso, farsi largo fra i capelli e camminare sicure come un contadino fa nel suo campo di grano.
Pensò che le bastasse. Pensò fosse sufficiente sapere questo, che ci aveva riflettuto, che nella sua mente avesse una logica e che qualsiasi cosa sarebbe accaduta, la vergogna del giorno prima non aveva motivo d’esistere: non si era resa ridicola. Orione era lo stesso uomo che aveva riconosciuto in quelli che per tutti erano i suoi difetti più grandi ciò che la rendeva unica.
Poteva fidarsi di lui.
Artemide non aveva mai baciato qualcuno.
Non era previsto lo facesse.
Aveva conosciuto solo baci casti, sulle guance e sulla fronte, o fra i capelli. Baci carichi d’affetto e che aveva creduto le sarebbero bastati per sempre.
Quando le labbra di Orione sfiorarono le sue fu strano. Per un momento si ritrasse, come scottata, mentre sentiva il suo fiato caldo e si rendeva conto che così, funzionava; così sarebbe stato baciare qualcuno.
Ma non riusciva a provare una bella sensazione.
Non riuscì a sentire il cuore scalpitare, non si sentì felice e colma di quel calore di cui tutti parlavano.
Mentre una mano di Orione le teneva il viso, l’altra scese lungo il suo chitone. Sul fianco e sulla sua gamba. Sfiorò la pelle.
Poi d’improvviso una consapevolezza le lampeggiò nella mente.
Ha sorpreso Ares ed Eos insieme.
Le parole di Apollo. Come una profeta o come un guastafeste, il gemello aveva fatto capolino ancora una volta nella sua mente.
Il tarlo del dubbio era lì, insidiato nel proprio nido fra i pensieri; non avrebbe potuto pensare ad altro nemmeno mentre Orione la baciava.
Era il suo desiderio più grande, il giorno prima. Un desiderio che era incapace di comprendere, nel momento in cui quello stesso bacio era arrivato. Quei pensieri glielo resero indigesto, sbagliato.
Ma non era colpa di Apollo.
Era perché Artemide, a quelle parole, stava dando un significato. E quel significato si componeva dei gesti di Orione.
Artemide si ritrasse.
«Che cosa c’è?» chiese lui.
Parve spazientito.
«Perché…» biascicò Artemide. «Perché ci hai ripensato?»
«Ne dobbiamo parlare ora?»
Tentò di baciarla ancora e Artemide si scostò.
«Sì. Sì, ne dobbiamo parlare ora.» Capì che non avrebbe ottenuto risposta, così fu lei a chiedere. «Perché sei in collera con Eos?»
Silenzio.
«Rispondimi.»
Non alzò la voce, non gridò. Si innervosì, solo questo.
Artemide iniziò a sentire mille rivoli di ghiaccio farsi acqua dopo essersi sciolti lungo le sue scapole e la sua spina dorsale. Parvero scendere giù e la fecero rabbrividire.
«Mi ha tradito.»
Artemide pensò che sotto i suoi piedi si fosse spalancata una voragine pronta a precipitarla nell’Ade. Sentì anche le vertigini. Ma si trattò solo di una speranza vana, irrealizzabile; Ade sarebbe stata un’ottima compagnia, allora, ma non le aveva fatto l’enorme favore di farsi largo con prepotenza in un momento simile accogliendola nel proprio regno.
«Con Ares.»
Fu Artemide a completare la sua frase.
Orione fu sorpreso, ma ancor più arrabbiato nell’udire quel nome.
«Lo sapevi?»
Artemide avrebbe annuito, ma la sua mente era già altrove. Lontana, come lei si allontanava quando cacciava. Lontana, troppo rapida per i propri stessi pensieri. Saettava fra gli alberi e non un’idea o un problema riusciva a raggiungerla.
«Lei ti ha tradito con Ares», cominciò. «Quindi tu ora stai tradendo lei.» Prese un respiro prima di dirlo. «Con me.»
«È più complicato di così, Artemide.»
«Oh no invece, a me sembra tutto estremamente chiaro.»
Conquistare la fiducia di Artemide era difficile: andava accudita, curata come una pianta bisognosa di mille e più attenzioni. Ma perderla era di gran lunga più semplice. Serbava rancore e chiudeva un capitolo senza dargli più alcuna speranza.
«Ieri mi desideravi, perché ora no?» domandò Orione. «Cos’è cambiato?»
«Ieri non sapevo quello che so ora.» Le sembrava sciocco anche solo doverlo spiegare. «Ieri hai detto di avermi respinta perché stavi pensando ai miei sentimenti e ai suoi. Hai detto di aver riflettuto, ma penso tu abbia solo capito cosa potevi permetterti di fare.»
L’interesse di Artemide l’aveva scottata.
Questo aveva detto, Apollo: diventerà ingordo.
Aveva ragione.
Artemide lo superò. Improvvisamente il proprio atteggiamento del giorno prima smise di sembrarle degno di vergogna; fu quel bacio a farla sentire così. Usata da un uomo. Proprio lei, Artemide.
Dei, quant’era caduta in basso?
«Non ti importava di Eos ieri. Sapere cos’è accaduto non cambia le cose.»
Fu questo a farle perdere le staffe, a farla infuriare.
Fino ad allora Artemide gli aveva dato le spalle, troppo orgogliosa perché i suoi occhi che mai si mostravano lucidi dessero voce alla verità, a quanto stesse soffrendo. Ma non era così codarda da non affrontare un nemico guardandolo negli occhi.
Per un istante parve quasi che i suoi capelli si fossero fatti elettrici, gli occhi grigi che minacciavano lacrime ma perseveravano nel trattenerle come una diga. A fatica, ma forti.
«Non sono un qualche giocattolo che usi e poi lasci da parte quando non serve più», gli ringhiò contro. «Ti voglio lontano da quest’isola. Non mi importa se ci vive anche Eos, non mi importa se te ne andrai con o senza di lei.»
Orione incassò in silenzio, perché Artemide aveva ogni ragione. E aveva ragione.
«Sta lontano da me.»
«Artemide…» parlò solo allora lui, muovendo un passo.
«Sta lontano da me!»
Artemide fu di nuovo lontana. Da tutto e da tutti. Si spinse fin sulla cima rocciosa del monte Cinto e vi rimase, in silenzio, mentre tante emozioni che mai credeva di aver provato le si scuotevano dentro e le rendevano difficile respirare.
Apollo aveva ragione. E lei era stata una sciocca.

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Capitolo 4
*** Luna calante ***


IV.
Luna calante
 


 
Artemide credeva che ciò che aveva detto e ciò che non aveva osato dire sarebbe stato un monito sufficiente, se accompagnato dalla sua rabbia: una dea in collera è un temibile nemico. Nemmeno il più stolto fra gli uomini accetterebbe di crearsi un simile avversario dopo essere stato avvertito.
Ma questa leggenda non parla di come Artemide incontrò sul proprio cammino il più stolto fra gli uomini, né di come una dea scelse di dimostrarsi un nemico spaventoso.
Artemide era, allora, solo una ragazza distrutta. Poteri e discendenza non significavano nulla; non avevano mai significato nulla in momenti simili, per nessuno degli olimpi.
Era sola, circondata solo dalle proprie cacciatrici che però non lasciava avvicinare. Le aveva intorno, le ascoltava e mentre le guardava domandarsi cosa passasse per la testa della loro guida, Artemide si scostava. Di un passo, poi di un altro.
Non aveva pianto giorni addietro, quando aveva salutato Orione. Gli aveva solo chiesto di starle lontano, glielo aveva ordinato, ma si era trattato di un addio: non voleva romantiche trame a cui dedicarsi, non voleva incontrarlo sulla propria strada o sulla spiaggia. Non voleva si mettesse sulle tracce dell’accampamento delle Pleiadi, che narrasse le sue gesta accompagnato dallo stridore di una lira che era incapace di suonare né tantomeno che tentasse di tornare nelle sue grazie con un dono di cui era in grado come la pelle del più maestoso degli orsi. Non voleva provasse a vincere il suo amore.
Artemide non voleva nulla: non voleva compagnia, non voleva parlare e non voleva pensare.
Da cacciatrice era divenuta preda di tante angosce e paure che per anni non aveva sentito proprie. Le vedeva negli altri e lei, fiera, si era costruita uno scudo più formidabile di quello vantato da Atena dopo avervi incastonato la testa di Medusa.
Non c’era ragione di preoccuparsi dell’amore, perché Artemide non gli avrebbe mai permesso di ferirla.
Ma ormai anche se correva fra le file di alberi nel fitto della foresta e attraversava un terreno sterrato più rapida del suono non c’era angolo di quell’isola dove le sue ansie non la trovassero. Per la prima volta i suoi pensieri erano veloci quanto lei e correre, rotolarsi nell’erba e porre sul loro cammino ostacoli come tronchi d’albero che lei scavalcava rapida come una cerbiatta non impediva loro di raggiungerla.
Artemide non voleva nulla, perché l’unica cosa che desiderava non poteva ottenerla: la pace, sé stessa prima di quei terribili giorni.
Evitava le Pleiadi e non voleva incontrare Orione.
Né Eos.
Né Afrodite, che come dea dell’amore avrebbe potuto credere di poterci mettere del proprio per aiutarla.
Non voleva incontrare nemmeno Apollo.
E non per orgoglio, perché non volesse rivelargli che sì, aveva avuto ragione fin dal primo momento ed era stata terribilmente sciocca e ingrata nel non volergli credere: Artemide non voleva incontrare nemmeno il gemello perché preferiva stare sola, essere sola. Abbandonarsi nel proprio crogiuolo di rabbia e dolore finché non fossero passati entrambi. Perché sarebbero passati, si aggrappava a questo. Non sapeva quando, non sapeva come, ma sarebbe successo. Doveva crederlo.
Quel giorno, ecco, andava meglio anche se solo di poco. Si trovava un gradino più in alto su quella scalinata che partiva dal baratro di ciò che Artemide non avrebbe mai voluto essere, di come non avrebbe mai voluto sentirsi.
Durò finché non udì un grido.
Acuto, spaventato.
Era vicina all’accampamento.
Subito fece fumare la terra sotto i propri piedi in una corsa sfrenata verso la radura. Quando fu lì vide le tende lacerate, i tizzoni del fuoco spento da quel mattino sparsi fra i fili d’erba e la selvaggina scempiata.
Non c’era nessuno.
Solo Merope.
Gli occhi di Artemide videro una figura scura, un’ombra, ma si trattò di un’illusione senza significato persa negli alberi.
«Che cos’è successo?»
Non era stato un gioco della sua mente, quell’ombra: era stato l’istinto a fargliela registrare. Una convinzione.
Merope era accasciata a terra e Artemide fu su di lei. La prese fra le braccia.
Merope era una cacciatrice, come Artemide e le sue sorelle. Sapeva difendersi e delle frecce giacevano conficcate nel suolo, senza un lembo di stoffa o tracce di sangue sui loro steli di legno esile: l’aggressore non era ferito.
Merope era una cacciatrice, ma fra le più vulnerabili. Con i suoi lunghi capelli biondi, ammorbiditi dai bagni nel fiume e dalle ore trascorse a spazzolarli, Artemide mai avrebbe creduto potesse divenire una compagna fidata come invece aveva fatto.
«Artemide…»
La giovane gemette fra le sue braccia, aggrappandosi a lei.
«Calma, va tutto bene, sono qui», sussurrò, tentando di prenderle il viso fra le dita. «Dimmi cos’è successo.»
Quando le alzò il capo, Artemide notò con orrore la guancia gonfia di Merope, arrossata e lucida.
«È stato lui», mormorò. «È stato Orione.»
Tremò mentre diceva quel nome.
Artemide non provò angoscia, non provò paura. Provò solo disgusto, rabbia. Lei che era responsabile delle sue sorelle aveva lasciato le raggiungesse fin lì.
«Non mi ha toccata, te lo giuro», sussurrò lei. «Ma ti cercava.»
Artemide capì cosa intendeva Merope e ne fu sollevata.
Dunque quell’ombra era vera. Quella che come il vento si era celata fra gli alberi.
«Schifoso codardo», sibilò fra i denti la dea.
«Sembrava impazzito, Artemide», mormorò.
Fu come se allora avesse ripreso a vedere Merope, esile come un fiore spezzato fra le sue braccia. La strinse a sé e annuì.
«Nessun pazzo viene su quest’isola a seminare caos e resta impunito», mormorò. «Lo scaccerò da casa nostra, fosse l’ultima cosa che faccio.»
 
 
Artemide era abbastanza paziente da amare preparare le proprie armi: acuminava le frecce, affilava i coltelli.
Efesto le aveva insegnato i fondamenti alla base della forgiatura e seppur incapace di creare armi prodigiose e formidabili quanto le sue, Artemide aveva fatto proprie quelle tecniche.
Si accucciò sull’erba e posò le dita a terra. Uno scorpione corse giù dalla sua spalla, lungo la pelle del braccio. Nemmeno le diede la pelle d’oca. L’animale giunse alle dita e si nascose fra i fili d’erba.
Artemide lo guardò sparire, poi uscì dalla cornice buia degli alberi e mise piede sulla spiaggia.
Il mare era calmo nelle ore oscure poco prima dell’alba. A qualche metro stava un focolare in procinto di spegnersi.
Orione era lì, dormiva. Sirio al suo fianco.
Fu lui ad alzare il muso per primo e Artemide lo guardò negli occhi. Il segugio non ringhiò né si mosse.
Gli occhi grigi di Artemide brillarono di un bagliore lunare e Sirio si mise in piedi.
«Va da Eos, avrà bisogno di un compagno fidato come sei tu.»
Sirio corse lungo la striscia di spiaggia, in direzione del palazzo di Eos.
Quella notte chiunque avesse vita si allontanava da Artemide. Chiunque a cui lei concedesse il diritto di farlo.
Sulla spiaggia c’era l’arco di Orione, il suo coltello e la pelle su cui più volte si erano sdraiati a guardare le stelle, a chiedersi quanto tempo sarebbe trascorso prima di vedere un nuovo eroe con il suo mito a brillare sulla coperta scura del cielo notturno.
Non calciò via una sola delle armi del cacciatore, ma avrebbe dato fuoco a quella pelle.
Un arco che si tende, per un cacciatore, produce un suono di pura adrenalina; l’orecchio è allenato al punto da percepire la flessione del legno, il rumore della corda che promette di vibrare rapida quando la freccia sarà fuggita dalla cocca insieme al respiro dell’arciere.
Un cacciatore respira con il suo arco e smette di respirare con esso fra le dita, se il destino vuole graziarlo. Un cacciatore respira con la preda perché non lo scopra.
Artemide respirava con il respiro di Orione, lento e pesante. Non un ripensamento nelle dita piegate a mantenere la freccia.
Gli schiacciò il petto con un piede e lo vide svegliarsi di soprassalto.
Orione la guardò. Non c’era il sorriso bonario di quando era tornato sull’isola: c’era solo sfida. Scherno. Superbia.
«Non voglio le tue ultime parole, non ti salveranno», sibilò Artemide. «Voglio solo che tu sia cosciente mentre muori. E che sappia che sono stata io.»
Orione aprì la bocca per parlare. Artemide esalò il respiro per lui e la freccia si conficcò nel suo petto, dove prima l’aveva pressato con il piede.
L’uomo sgranò gli occhi e sbiancò. Il sudore prese a scivolare copioso sul volto, la luce sinistra dei suoi occhi celesti che si scuoteva.
La freccia di Artemide aveva la punta ricurva. Era il pungiglione dello scorpione che aveva liberato. Il suo colpo poteva non aver centrato il cuore, ma il veleno l’avrebbe raggiunto presto.
Arretrò di un passo e lo fissò in silenzio. Lui la sentiva, ma non poteva parlare.
«Non avresti dovuto toccare Merope», gli disse. «So che avresti voluto sporcarla, l’avrei dovuta cacciare.» Tacque un istante, come se avesse tutto il tempo per farlo e fosse lei a decidere quando tagliare il filo della vita di Orione, privando di quell’onore le Moire. «Ma il tuo errore più grande è stato credere che non sarei stata capace di questo.»
Assottigliò gli occhi.
«L’unica persona a cui sarò sempre fedele sono io stessa.»
Gli ultimi convulsi movimenti di Orione, Artemide nemmeno li guardò. Ravvivò il fuoco e ci buttò in cima la pelle d’orso, poi le sue armi.
Finse di dimenticare che il corpo del cacciatore fosse lì e si avvicinò al bagnasciuga. Si sedette al confine tra la sabbia asciutta e quella bagnata; se avesse steso le gambe il sale le avrebbe impregnato la pelle.
Il sole iniziò a crescere all’orizzonte. Inghiottiva ogni cosa.
Dei passi smossero la sabbia accanto a lei, mentre Artemide guardava il mondo nascere ancora un giorno. I passi si fermarono, immaginò qualcuno guardare il focolare che divampava alle sue spalle.
Poi il nuovo arrivato si sedette.
«Avevi ragione.»
Fu la prima cosa che Artemide disse. Non per giustificarsi, ma come se fosse un peso troppo grande per trascinarlo ancora.
«Non volevo avere ragione.» Apollo era accanto a lei. «Volevo solo che stessi bene.»
«Lo so.»
«E volevo risparmiarti questo.»
Artemide non era certa di cosa avrebbe fatto se una notte avesse sognato l’animo del gemello andare in pezzi, o se in un momento di pace l’avesse visto costretto a combattere i propri sentimenti compiendo un gesto tanto disperato. Si sarebbe sentita disorientata, confusa. Forse avrebbe provato il suo stesso dolore.
«Ha ferito Merope.»
«Sono passato a controllare. Mi hanno detto loro dove fossi», rispose Apollo. «L’ho guarita. Sta bene ora.»
Artemide si voltò, le labbra schiuse. Sembrava non aspettarsi una simile gentilezza.
«Grazie.»
Tacquero di nuovo qualche istante e Artemide guardò ancora il mare. Non la calmava affatto.
«È tornato da me, il giorno dopo che mi hai raggiunta», mormorò. «Ma ormai è morto, cosa importa?»
Apollo sapeva molte cose, ma non sapeva tutto.
Sentì la collera rimontare dentro di sé, perché non contava che Orione fosse morto, ma cosa avesse osato fare prima.
«Che cosa ti ha fatto, Artemide?»
«Tutto ciò che non ho mai permesso ad alcun uomo di farmi», rispose secca.
Apollo la guardava e lei guardava il sole. A costo di bruciarsi.
Artemide si voltò verso di lui. Aveva un sorriso sulle labbra, ma il viso inondato di lacrime. Aveva iniziato a piangere tanto piano che Apollo nemmeno se n’era accorto.
«Mi ha fatta a pezzi.» Singhiozzò. «Ma è strano… un bacio non dovrebbe farti sentire felice?»
Apollo sentì il cuore spezzarsi.
Artemide non aveva pianto una lacrima mentre affrontava tutto questo da sola, e se le stava piangendo ora era solo perché non poteva fare altrimenti: il suo corpo, seppur divino, era allo stremo, un contenitore troppo angusto per tutto quel dolore.
«Oh, sorellina…»
Apollo gemette come se sentisse i singhiozzi di lei nella gola e il cuore nel baratro dove Orione aveva gettato quello di Artemide.
Apollo la strinse fra le braccia o forse fu Artemide a rifugiarsi per prima contro il suo petto.
Singhiozzò forte come credeva di non aver mai fatto, forse gridò mentre Apollo cercava quasi di farla scomparire contro di sé, l’unico luogo dove Artemide stesse riuscendo a trovare del calore dopo essersi convinta non esistesse più. Mentre un fuoco divampava dietro di loro.
Apollo le sussurrava che sarebbe passato. Artemide piangeva perché non aveva esitato un secondo.
Si placava e poi singhiozzava ancora, pensando adesso che non avrebbe voluto essere costretta a tanto.
Quando le sue lacrime finirono, Apollo doveva averne raccolte tante da poter chiedere a Poseidone di creare un nuovo oceano.
Apollo le scostò i capelli dal viso, Artemide finalmente alzò il capo. Aveva gli occhi gonfi e arrossati, provati dal pianto. Guardò il cielo.
«Papà lo metterà fra le stelle, ne sono sicura.»
«Sarebbe crudele se lo facesse», rispose Apollo.
«Siamo dei», sussurrò. «Siamo crudeli.»
«Tu non lo sei stata.» Apollo sentì il bisogno di dirlo. «Artemide, non pensarlo un istante. Non sei stata crudele.»
La dea si voltò e gli sorrise.
«Non per averlo ucciso», confermò. «Ma per amare gli umani sì, siamo crudeli. Verso noi stessi. Restiamo qui quando loro se ne vanno e ci ostiniamo a non dimenticarli. Con una costellazione, o con un fiore.»
La costellazione di Orione sarebbe stata come sale su una ferita ma anche un monito per lei, per il futuro.
Si alzò in piedi e tese la mano ad Apollo. Lui la prese e si alzò con lei.
«E i più crudeli fra gli uomini ci assomigliano come non mai.»
Apollo le arruffò i capelli.
«Se non amassimo qualcuno tanto quanto noi la nostra vita sarebbe vuota.»
Pensò di doverla distrarre, ma fu lei a prendere la parola.
«Andiamo a caccia?»
«Sarebbe fantastico.»
Artemide si voltò un ultimo istante verso l’orizzonte.
Il sole pendeva poco più in alto del mare.
Il mondo nasceva un altro giorno, e lei con lui



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Eccomi giunta all'ultimo capitolo di questa storia.
Ho deciso di continuare a pubblicare nonostante purtroppo la storia sia stata un po' un flop in fatto di commenti, ma ho visto che qualcuno la stava seguendo e mi son detta che mi piace troppo portare a termine i progetti per attendere, siccome comunque la pubblicazione è iniziata lo scorso mese.
Se a qualcuno andasse di lasciarmi un parere globale al racconto ne sarei davvero felice!
Tengo molto a questa storia, è nata in un periodo nero per la scrittura e riuscire a iniziarla e a terminarla in poco tempo per me ha significato davvero molto: pur avendola ricorretta ora, non ci ho messo mano quasi per nulla.
Essendo ormai alla fine posso rivelare, per chi non lo conoscesse, il significato di Asulòs: è uno degli epiteti di Artemide, che significa "inviolabile". Ho pensato subito fosse accurato considerando l'andamento della storia e la sua conclusione.
Se vi andasse di rimanere aggiornati con mie eventuali pubblicazioni e qualche chicca sulle mie storie vi rimando alla mia pagina FB, dove vorrei riuscire a spiegare anche i significati dietro ai titoli dei singoli capitoli <3
Ringrazio chiunque sia giunto a leggere fin qui e spero davvero di sentire qualche vostra opinione!
Alla prossima ~

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