Behind your green eyes

di Gaian15
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Behind your sadness ~1 parte~ ***
Capitolo 2: *** Behind your fears ***



Capitolo 1
*** Behind your sadness ~1 parte~ ***


Il suo aspetto non era cambiato dall'ultima volta in cui l'aveva vista.

Era rimasta bella e semplice proprio come un tempo, adornata dai suoi molteplici colori, dai primi germogli appena visibili tra i fiori e dal suo cielo, che negli anni aveva imparato ad osservare ad occhio nudo la realtà di tutti i giorni, quella realtà che nella sua verità cela più dolore di quanto se ne riesce a vedere con uno sguardo. 

E tra tanti, tra molti altri, avrebbe dovuto mettere gli occhiali per riuscire a concepirla, pur sapendo che avrebbe fatto totalmente l'opposto, cambiandola, ignorandola, continuando a raccontarsi bugie pur di riuscire a ricucire un cuore ferito in profondità e con le cicatrici ancora ben in vista.

 

 

 

Il primo amore, una cosa così banale,  così indelebile da ricordargli ogni giorno della sua vita che le favole sono solo stronzate, che non esistono principesse in pericolo e non esistono principi pronti a salvarti.... e purtroppo aveva imparato a capirlo a sue spese.

 

«C'è la signora Chamack al telefono, vorrebbe accordarsi con lei per decidere un orario per l'intervista di settimana prossima.»

«Le dica di richiamare in un altro momento, sto cercando di correggere dei bozzetti.»

«Mi dispiace ma la signora insiste...»

«Attacchi.»

«Ma signore-»

«Le ho detto di attaccare.»

«Si subito, come vuole lei signor Agreste.»

 

Subito si affrettò a lasciare la matita sulla scrivania, vicino ai fogli sui quali stava lavorando, per poi stringere col pollice e l'indice il piccolo solchetto sul naso creato dagli occhiali da vista. Subito dopo però, si rimise a lavoro ignorando le parole della sua segretaria. Non gli ci era voluto molto tempo ad imparare come liquidare una conversazione apparentemente noiosa con poche semplici parole, accompagnate dai soliti gesti i quali sorrisetti e piccoli cenni con la testa, un grande insegnamento, suo padre sarebbe stato fiero di lui. 

 

Non appena finì di pensarlo represse una sorriso sconsolato. Se solo ci fosse stato lui seduto su quella sedia e con gli strumenti in mano probabilmente sarebbe stato meglio per tutti. Odiava quel lavoro, sopratutto da quando suo padre se ne era andato nella tranquillità della sua malattia e lo aveva lasciato al comando di tutto. Adesso dipendeva da lui, Adrien Agreste, l'immagine dell'azienda per la quale Gabriel aveva dedicato gli anni della sua vita. Quegli anni in cui, attanagliato dal dolore per la perdita di sua moglie, si era perso ogni cosa, ogni momento, ogni istante della vita del suo unico figlio.

Si  era ripromesso di essere diverso da lui, di riportare la luce all'interno di quello studio immerso nel buio, ma sopratutto, aveva promesso a se stesso e a sua madre che il lavoro non gli avrebbe impedito di crearsi una famiglia che fosse totalmente, completamente sua. 

 

Inutile dire che aveva fallito anche su quel fronte...

 

Proprio in quel momento, la stanza fu invasa dal leggero bussare di una donna che, dopo aver ottenuto il consenso del suo superiore, si apprestò ad entrare a passo spedito nello studio di quest'ultimo.

 

«Ecco a lei i bozzetti restanti per la settimana della moda di Milano.»

Una volta alzato lo sguardo serrò fermamente la mascella, scrutando la giovane con occhio quasi critico.

«Proprio adesso stavo finendo di correggere quelli che mi hai portato stamattina, assicurati che vengano apportate tutte le modifiche necessarie affinché gli abiti vengano migliorati e valorizzati a dovere.»

Con sguardo intimorito, la donna si affrettò a rispondere.

«Come vuole lei, signor Agreste.»

 

 

 

Definitivamente, odiava essere chiamato da lei in quel modo, odiava che il suo nome dovesse uscire da quelle labbra con tanta formalità, tanta rigidità nel tono, seppure con sguardo dolce e sincero, quello sguardo che lui proprio non riusciva a sopportare.

 

Una volta afferrati i fogli -con un po' troppa forza- le lanciò un ultimo sguardo, scrutandola nuovamente ed infine rimettersi a lavorare.

 

Ma mentre si apprestava ad abbandonare la stanza, fu fermata da un'affermazione in particolare che le fece gelare il sangue nelle vene. 

 

«Sai, dovresti trattarti meglio, non hai proprio una bella cera, sei piena di occhiaie e guarda, stanno iniziando a crescerti i capelli bianchi, non sei più bella come quando eri ancora nel fiore degli anni. Ma lo capisco, deve essere dura per una donna del tuo calibro.»

 

Ma guardandola per bene, fu un dettaglio in particolare a richiamare la sua attenzione, uno ben preciso.

 

«Signorina Dupain-Chang vedo inoltre che ci siamo lasciate andare un po', sbaglio o è ingrassata?»

 

Subito nella stanza calò il gelo.

E lui serrò i pugni sotto la scrivania, quasi con foga.

 

«Ho fatto una supposizione e gradirei che mi rispondessi Marinette»

 

Lei non si voltò nemmeno a guardarlo, lo vedeva perfettamente nella sua mente con quel sorriso falso e ipocrita, pieno di astio e odio nei suoi confronti. E come dargli torto...

 

«Può essere, ma -con tutto il rispetto- non sono cose che la riguardano, la pregherei dunque di pensare al suo tenore di vita invece di stare a giudicare il mio, perchè in qualsiasi circostanza ho già qualcuno che mi ama anche con i miei chili di troppo.»

 

 

Il sorrisetto che fino a quel momento aveva mantenuto contro ogni suo volere scomparve immediatamente. Quelle parole gli avevano fatto più male di quanto gliene avessero fatto i fatti stessi. 

 

 

«Ora se vuole scusarmi, tornerei alle mie mansioni. Buona giornata signor Agreste.»

 

Se fino ad allora era rimasto cento passi indietro rispetto a lei, in quel momento sentì quella distanza raddoppiarsi.

Erano grandi parole buttate al vento con semplicità, rabbia, rancore, ma sopratutto erano parole di una donna ferita nel suo orgoglio di donna, parole che senza che fosse evidente, avevano esposto una parte di sè a quell'uomo che anni prima aveva avuto il coraggio di dichiararsi a lei con un sussurro pronunciato in ritardo. 

 

E così era andata, lui, Adrien Agreste, che aveva il mondo, qualsiasi cosa a sua disposizione, per un attimo si era privato di ogni cosa, anche del suo orgoglio, per confessarle ciò che custodiva nel profondo della sua anima, umiliandosi in questo modo.

 

Ancora non aveva capito -nel tempo- che la colpa di tutto ciò non era delle sue parole, ma del tempo in cui aveva finalmente trovato il coraggio di esporsi.... lei che aveva tanto amore da dare e lui che ai tempi non era ancora pronto a riceverlo, si erano ritrovati in due momenti completamente sbagliati per potersi appartenere.

 

E così adesso si ritrovava a 28 anni da solo, senza un padre, senza una famiglia, ma sopratutto senza quella donna che aveva capito troppo tardi essere fatta apposta per lui.

E quelle stesse parole che le aveva detto erano fonte di rabbia, tristezza, delusione e amarezza nel sapere che accanto a lei c'era un altro uomo, un uomo che non era lui e che non lo sarebbe mai stato, un uomo che aveva saputo valorizzarla in un tempo in cui lui non era ancora in grado di farlo, in un tempo in cui -semplicemente- non era ancora pronto a sè.

 

 

Si mosse in un attimo, premette quel pulsantino rosso accanto alla tastiera del computer e attese una risposta che non tardò ad arrivare.

 

 

«C'è qualcosa che posso fare per lei signor Agreste?»

 

 

No... 

non poteva fare niente al momento se non aspettare. 

Ancora una volta.

 

 

 

«Richiami la signora Chamack e fissi un appuntamento per mercoledì prossimo alle 13:30 a Places des vosges.»

«Come vuole lei.»

 

 

Ancora una volta, non era pronto.

 

 

 

 

 

Passavano i giorni e le ferite non facevano altro che infettarsi, raggrinzirsi e marcire nel silenzio delle sue menzogne.

 

 

 

 

«Nathalie ti pregherei di portare nel mio studio gli ultimi modelli revisionati il prima possibile.»

«Va bene signor Adrien, glielo farò portare quanto prima.»

«Ah e avvisa i nostri stilisti che entro le 12:00 mi appresterò ad ispezionare il loro operato, il grande evento si sta avvicinando e non possiamo assolutamente farci cogliere impreparati, ne va del nome degli Agreste.»

«Riferirò quanto prima.»

 

 

Erano notti che non riusciva più a prendere sonno, notti passate in ufficio a lavorare, creare, perfezionare ogni singolo dettaglio, anche il più insignificante, nonostante fosse un lavoro che aveva odiato fin da quando era appena un ragazzo, non poteva fare altro che impegnarsi in memoria di suo padre. 

Ma più ci pensava, più la consapevolezza di non avere qualcuno da cui tornare la sera lo tormentava da capo a piedi. 

 

 

 

 

Erano pressappoco passate le 12:15 ma lui si trovava sempre lì, immobile sulla sedia di quella scrivania nel vano tentativo di aggiustare l'ennesimo modello, con la pressione addosso e la stanchezza di quelle notti insonni che stava cominciando a farsi sentire. Perciò si rassegnò definitivamente e ripose ciò che stava mangiando in un contenitore che finì in uno dei cassetti in legno del mobile. Sorrise tristemente nel guardare l'oggetto che aveva tra le mani, lui che per anni si era chiesto come sarebbe stata la sua vita con una donna al suo fianco, qualcuno che rimanesse sveglio fino a tardi ad aspettarlo la sera, che con tanta premura e tanto amore si sarebbe preoccupato di fargli passare una buona giornata a lavoro, anche solo con qualcosa preparato al momento, qualcuno che potesse stargli accanto sempre, anche quando tornava a casa stanco e non riusciva a riposarsi del tutto per via di un lavoro particolarmente impegnativo e importante, era rimasto solo in compagnia dei suoi stessi demoni.

La verità però era una e lui -pur non volendolo ammettere- lo sapeva benissimo.

Era arrivato a provare invidia per i suoi stessi dipendenti. 

Loro che avevano una moglie, dei figli, o perlomeno qualcuno da cui tornare, qualcuno che sentisse la loro mancanza, ma sopratutto qualcuno che si accorgesse della loro assenza.

Più di tutto, Adrien invidiava quegli uomini che solo grazie all'amore delle loro donne erano degni di essere felici e sentire di meno il peso di tutto quel lavoro gravare loro sulle spalle.

 

 

 

 

Alle 14:00 decise che se avesse continuato a guardare quei fogli, che da varie settimane ormai adornavano il suo studio, avrebbe perso completamente il lume della ragione, si decise perciò ad incamminarsi verso i vari reparti per un'ispezione generale -anche se un po' in ritardo- dei vari operati. 

Fu compiaciuto nel sapere che mancava sempre meno al termine del lavoro e che avrebbe finalmente potuto prendersi un periodo di pausa per riposarsi da tutto lo stress che aveva accumulato durante le settimane addietro. Difatti, ogni anno all'arrivo della settimana della moda, in azienda era solito regnare un clima piuttosto caotico e soffocante in cui veniva messo in discussione il lavoro di tutto un anno. Erano settimane pesanti, piene di consegne, di scadenze e nelle quali c'era bisogno di grande inventiva e capacità direttive, doti che fortunatamente il giovane Agreste aveva ereditato da suo padre. Vi erano periodi interi in cui persino Adrien stesso era costretto a fermarsi fino al mattino presto per perfezionare i modelli che da lì a poco avrebbero dovuto presentare davanti a tutta l'Italia.

 

 

Proprio quando stava per inoltrarsi tra i vari stilisti, cominciarono a tornare alla luce vari ricordi e pensieri che avrebbe tanto voluto dimenticare. 

Lei che negli anni della sua giovinezza aveva fatto carriera proprio nell'agenzia di Gabriel, era diventata una sua apprendista, la stagista più talentuosa in mezzo a tutte le altre, lei che aveva dimostrato di possedere una grande forza di volontà e una grande ostinazione verso i suoi obbiettivi, in quel preciso istante stava perfezionando uno dei suoi modelli migliori prima di un debutto nazionale. 

Solo allora si rese conto di tutta la strada che aveva percorso da quando era solo una ragazzina, essendo passata dal disegnare piccoli bozzetti sul suo quaderno rosa ad un debutto vero e proprio nel mondo dell'alta moda.

Vederla lavorare ogni giorno con energia ed allegria aveva ispirato ogni suo passo in quell'universo parallelo che da sempre sentiva come estraneo, eppure lei gli aveva dato una ragione per cui provare e impegnarsi veramente, non darsi per vinto e continuare ad andare dritto per quella strada tortuosa che la vita aveva avuto in serbo per lui. 

Lei che ogni mattina lasciava alla sua segretaria uno dei cornetti della balougerie dei suoi genitori solo per farglielo recapitare, per augurargli una buona giornata, lei che quando bussava alla sua porta gli si presentava davanti con un sorriso in grado di rassicurare, lei che nel tempo non aveva smesso di sperare nel suo perdono, e in fine lei che ogni giorno gli dava un motivo per svegliarsi il giorno successivo.

 

 

 

Afferrò con decisione la maniglia della porta, e in un attimo se la ritrovò davanti intenta a tagliare un ultimo pezzo di stoffa per completare quello che doveva essere il suo nuovo modello. Era bello, eccome se lo era, semplice, semplicemente nel suo stile...

 

 

E in un attimo gli passarono nella mente tutti i modelli che lei aveva disegnato e lui degnamente indossato, tutti i complimenti che le aveva rivolto nel vedere tanta passione e tanto impegno immersi nelle sue creazioni, ma sopratutto quel bagliore che le aveva sempre caratterizzato lo sguardo e che -segretamente- aveva sempre sperato potesse rivolgergli un giorno, seppur lontano.

 

 

L'accenno di un sorriso si fece spazio sul suo volto, ma lo ritrasse immediatamente per lasciare posto alla sua solita espressione seria e severa.

 

«Sono venuto a vedere come procedono i preparativi, tutti gli altri reparti sono sul punto di una revisione definitiva, spero di poter dire lo stesso di voi.» 

 

All'improvviso i volti degli stilisti si fecero più seri e ammutolirono in un colpo solo.

 

Non riuscendo a comprendere il significato di quell'insolito silenzio, decise di ripetere nuovamente la domanda.

 

« Ovviamente sarebbe un problema se -essendo ormai così vicini alla data di scadenza per la consegna dei modelli- non aveste ancora terminato il vostro operato. E sinceramente parlando spero di sbagliarmi.»

 

 

Ancora un volta ad attenderlo ci fu un silenzio tombale. 

A quel punto, un po' per via della stanchezza, un po' per il timore che dentro di sé stava iniziando a provare, iniziò ad alterarsi.

 

«Vi ho fatto una semplice domanda e se non vi dispiace vorrei anche avere una risposta da almeno uno di voi. Sono o non sono pronti questi modelli?»

 

Fu allora che la giovane corvina si fece avanti a tutti e con uno sguardo timoroso ma al tempo stesso determinato, diede finalmente una risposta ai dubbi di Adrien, e sfortunatamente per lui, trovarono giusta conferma.

 

 

«Signor Agreste, le chiedo scusa a nome di tutto il reparto per il disturbo, sappiamo quanto siete impegnato in queste settimane e quanto avete sacrificato per rientrare entro i termini stabiliti, ma sfortunatamente per noi ci sono state delle complicazioni che non siamo stati in grado di evitare per via dei fornitori di stoffa. L'ordine effettuato risultava non corretto e perciò abbiamo dovuto ordinarla nuovamente, ci vorrà qualche giorno perchè possa arrivare. Se lei potesse darci una proroga di qualche giorno le assicuriamo che sarebbe tutto quanto pronto per la data pattuita.»

 

 

 

Una volta appresa la notizia Adrien sarebbe stato capace di tornarsene nel suo ufficio, prenotare il primo volo disponibile per Dubai ed andarsene via, lontano da tutti quei problemi. Dopo tutto quello che aveva fatto per quell'azienda, tutto il tempo che aveva speso per riuscire a terminare il progetto e tutte le ore di sonno perse inutilmente pur di andare avanti, tutto sprecato nel giro di due ore. 

 

 

Questo proprio non poteva accettarlo.

 

 

Lentamente si avvicinò alla postazione della giovane donna, esaminandola, ispezionandola nei minimi dettagli. Gli strumenti di lavoro sparsi sul tavolo insieme ai bozzetti da lui corretti e revisionati, le tracce appena visibili delle cancellature della gomma e varie mine spezzate immerse nella loro stessa grafite. E poi quell'abito. Quell'unico abito che risaltava per tutto l'atelier, con le sue balze leggere, le perline nere appena visibili sulla vita ed il corpetto ricamato in pizzo bordeaux, quel semplice, bellissimo abito. Una volta che vi si trovò davanti, senza dire una parola, riuscì a malapena a sfiorarlo con la punta delle dita, era morbido, fatto con una stoffa di buona qualità, leggera, soffice al tatto, quello sì che era un lavoro ben fatto, un lavoro adatto a quel tipo d'evento.

 

 

Poteva quasi dire di ritenersi soddisfatto.

 

 

Ma il solo pensiero che fosse lei l'artefice di tale capolavoro, la mente che stava dietro l'opera, lo faceva quasi ribollire di rabbia, quel tipo di collera che arriva piano piano e nella sua lentezza ti butta dritto dritto nelle braccia dell'Inferno.

 

 

Prese la parte superiore dell'abito e lentamente si mise ad accarezzarne la manica sinistra.

 

 

Tutto ciò che accadde dopo avvenne con il ritmo di un battito di ciglia. 

Tutto ciò che si riuscì a percepire fu l'eco di un suono sordo ma netto, preciso, un rumore quasi letale. 

 

 

Solo pochi secondi dopo si rese conto che la sua mano non si trovava più sul modello della giovane stilista, ma che nonostante ciò teneva ancora tra le dita quel piccolo pezzo di stoffa.

Poi senza rendersene conto fece la stessa cosa con la manica destra, con la cintura di perline, con lo scollo a V e tutti i ricami in pizzo presenti sul bordo della gonna. 

Successe tutto in un attimo, ma ciò che ne rimase alla fine fu il nulla.

 

 

La corvina, la quale era stata obbligata ad assistere a quello spettacolo straziante, percepì esattamente l'attimo in cui tutto il lavoro di quelle settimane e tutte le sue fatiche vennero fatte a pezzi in pochi semplici istanti.

Il suo cuore smise di battere. E fu proprio quella la goccia che fece traboccare il vaso che nel giro di poco si infranse definitivamente in mille pezzi.

 

 

Si diresse a passo spedito verso la sua postazione e senza riflettere sulle conseguenze del suo gesto gli diede uno schiaffo in pieno viso sulla guancia sinistra.

 

 

Tutti rimasero pietrificati ad osservare i due intenti a guardarsi negli occhi con odio e rancore, mentre il silenzio regnava imperterrito per tutta la stanza.

 

 

Poco a poco tutti gli stilisti si diressero verso la porta, volendo evitare altri inconvenienti ed avendo intuito la tensione, appena palpabile, tra i due.

 

 

Una volta rimasti soli, tra i mormorii dei suoi colleghi che si apprestavano ad andarsene, Marinette scoppiò in un pianto quasi disperato.

 

 

E lui davanti a quella scena, completamente impotente, non avendo nulla tra le mani per poter placare quello che si preannunciava l'inizio della tempesta, non potè fare altro che rimanere in silenzio davanti al fatto compiuto.

 

 

Non seppe neanche lei per quanto tempo rimasero in quelle posizioni, lei con le mani intente a coprire i suoi occhi, ormai lucidi per via delle lacrime, e con quel leggero filo di trucco sbavato a malapena sotto le palpebre, le labbra screpolate, la voce roca e impastata e sulle gote il segno appena visibile delle sue unghie.

Solo alla fine, prendendo coraggio e con la voce ancora tremante, alzò lievemente lo sguardo verso di lui, fermandosi poco prima di arrivare a guardarlo negli occhi.

 

«Io non ti riconosco più, posso sapere che ti ho fatto? Potrei sapere qual è la terribile ragione che ti ha spinto a questo repentino cambio di personalità nei miei confronti? Spiegamelo, perchè io da sola non riesco affatto a capirlo.» 

Fece qualche breve passo indietro aspettando invano una risposta che non arrivò mai.

 

«Sono in ritardo, torni alla sua postazione e pulisca a terra, dirò alla mia assistente di darle una mano.»

Proprio mentre si apprestava ad abbandonare la stanza con le mani dentro le tasche dei pantaloni, apparentemente indifferente all'attuale situazione si irrigidì in un secondo, sentendo come una scossa elettrica trapassargli la spina dorsale e un leggero tremore impadronirsi dei suoi arti.

 

«Non posso farlo.»

«Mi spieghi il perchè.»

«Non è un compito che spetta a me, io qua dentro sono pagata per disegnare e creare abiti per la sua stessa linea, perciò non mi occupo delle pulizie e in ogni caso non sono io la persona che dovrebbe raccogliere quanto sta a terra.»

 

Adrien era una persona paziente, sapeva come trattare con gente ostinata come lei, lo aveva già fatto in passato molte altre volte ed erano ormai erano diventate quotidiane discussioni come quella.

 

«Non è di certo colpa mia se quello che lei chiama "lavoro" l'ha svolto in maniera obbrobriosa e indecente, certamente era un capo inadatto ad un evento di tale importanza, avrebbe solo fatto sfigurare il mio marchio, evidentemente era quello che meritava.»

 

La giovane donna rimase pietrificata, colui che aveva davanti, quell'uomo che in passato era stato capace di farle battere il cuore e riempirle l'anima di calore, quel giovane uomo che nel periodo più brutto della sua vita l'aveva guardata in faccia e le aveva confessato quanto di più profondo ci fosse dentro di sè, promettendo di amarla ogni giorno della sua vita, finché non fosse morto di quello stesso amore, quell'uomo che le aveva giurato fedeltà a costo di violare ogni singola legge della natura... in un attimo aveva lasciato un posto ormai vuoto ad una macchina priva di ogni sorta di calore umano... e in un attimo aveva distrutto quanto di più bello avesse mai creato, quel progetto per cui non aveva dormito per giorni, non aveva mangiato, quel lavoro per cui aveva dato l'anima nonostante le difficoltà, nonostante i vari sforzi nel portarlo a termine e nonostante se stessa.

Definitivamente quell'uomo non era più un uomo giusto, ma un uomo perennemente, incondizionatamente distrutto dal dolore e dal rancore.

 

«Non posso più lavorare per te...»

 

Riuscì a dirlo in un sussurro appena percettibile, un sussurro che le era costato caro pronunciare.

 

E lui, Adrien, era paziente -molto paziente- ma sapeva anche lui che era arrivata l'ora, dopo tanta attesa, della resa finale dei conti. 

Perciò da quel momento, si dichiarò non responsabile delle sue stesse azioni. 

 

Il vaso che nei giorni precedenti era stato riempito tante e tante volte crollò... 

 

E alla fine, si polverizzò al suolo.

 

«Cosa vuol dire? Tu puoi ancora lavorare per me, non puoi abbandonarmi proprio adesso, proprio ora che la tua carriera sta per decollare, che la sfilata si avvicina e che gli altri stanno lavorando per te e si stanno dando da fare per darti un futuro... per darci quel futuro per cui abbiamo sudato tutti questi anni.»

«Ma non è quello che voglio io.»

«E cos'è allora quello che vuoi? Davvero, non riesco a capirlo.»

Prese un respiro profondo, ma sembrava come se avesse smesso di respirare da un momento all'altro, come se avesse dimenticato come fare per continuare a vivere... e tutto d'un tratto non vedeva più un futuro davanti ai suoi occhi, ma solo un grande, candida pagina bianca. Quasi non gli sembrò vero che per lui, che nel tempo aveva pianificato ogni singola mossa di quel percorso che avrebbero dovuto percorrere insieme, la fine fosse arrivata così in fretta, e pur sapendo che sarebbe arrivata non se ne era minimamente preoccupato. 

 

 

Allora lei lo guardò ancora negli occhi, ma stavolta con un lieve velo di tristezza nello sguardo, titubante avvicinò una mano verso il suo viso, proprio come quando erano ancora ragazzi incasinati nei loro amori complicati, come quando sarebbero stati capaci di mollare tutto per una frase sbagliata nel momento meno opportuno, senza sapere cosa fosse realmente un dolore cresciuto nel silenzio di una camera da letto o di un ufficio, talmente vuoti da sentire l'eco di quel sentimento ormai maturo. Si guardarono ancora... e lei si rese conto di non essere più capace di interpretare quegli occhi che anni prima l'avevano fatta innamorare così tanto di quella che adesso non era nient'altro che l'ombra di un uomo. 

 

 

E lui che aveva provato così tanto dolore e non era stato capace di perdonarla, di lasciarsi il resto alle spalle e continuare una vita che da allora non aveva che perdere peso, si rese conto che quella donna era stata davvero una rovina per lui, come quell'amore che l'aveva tenuto ancorato ad un mostro che aveva preso le sembianze della madre in quei pochi ricordi che custodiva gelosamente e che non riusciva a lasciar andare via con il resto.

 

 

Rifiutò quel gesto gentile.

 

Raccolse una delle maniche che poco prima aveva lasciato cadere insieme al resto di quei pezzi di puzzle e lo posò su uno dei tavoli lì vicino. Voleva andarsene, provare ancora una volta a nascondersi dietro i suoi stessi occhi, nascondersi da quel cuore per evitare di provare ancora dolore.

 

 

«Non so neanche perchè te lo sto per dire...»

Iniziò lei nel silenzio di quella piccola stanza, col sole alle spalle, quella flebile luce appena visibile dalla finestra e che in quel preciso momento la illuminava da capo a piedi, ma non completamente...

 

«... io aspetto un bambino Adrien.»

 

E solo allora gli sembrò come di sentire dieci, cento se non mille calci sempre nello stesso punto, proprio lì dove potevano fargli più male tutti insieme, calci, pugni, schiaffi, graffi che in qualche modo sperava gli potessero lasciare dei segni permanenti su quella pelle ormai insofferente. 

 

Fu proprio quello il momento in cui ammise con sincerità a sè stesso che quel genere di dolore che mai aveva provato in vita sua, mai forte come in quell'attimo, gli aveva fatto più male di quanto gliene avesse fatto lei anni orsono, che tutto ciò che aveva provato in quel momento, rabbia, astio, orgoglio, erano il niente in confronto alla morsa che, sempre più velocemente, si apprestava a stringergli il cuore. 

 

Si fermò un momento a pensare, capendo subito che non ci fosse più niente su cui dover riflettere. Tutte le volte in cui aveva sperato, tutte le volte che aveva sognato di poter vivere al fianco di quella che davanti ai suoi occhi era rimasta, per tutti quegli anni, la donna più bella al mondo, quella che un giorno sarebbe diventata la sua anima gemella e avrebbe posto fine a quell'eterna lotta contro il passato che da anni lo aveva abbandonato alla parte più oscura del suo essere, quella giovane donna che lo aveva riportato in vita quando, dopo essere caduto una volta di troppo, non era stato più in grado di rialzarsi e combattere per una vita che era sua di diritto e che gli era stata strappata in modo atroce da quel mondo che ai suoi occhi appariva solo crudele e ingiusto, ingiusto e crudele... troppo male concentrato in un unico corpo.

 

 

Con un nodo in gola e con le mani nelle mani, la guardò ancora una volta, ma stavolta il suo sguardo aveva una meta ben precisa.

 

«Da quanto lo sai?»

 

Per un attimo gli parve di vederla incerta... fatto sta che incrociò le braccia al petto e distolse lo sguardo dal suo, rivolgendolo con finto interesse verso una delle macchine da cucire lì vicino.

 

«Due settimane...»

«E quando pensavi di dirmelo?»

 

Non seppe nemmeno come fece a mantenere ferma la voce, nè come fece lui stesso a rimanere immobile nel mentre che la donna che per anni aveva amato, che aveva aspettato, gli stava comunicando quella che forse era la notizia più bella della sua vita. 

Un nuovo inizio per lei, ma la fine di una storia per quel povero, piccolo uomo.

 

«Non è facile come credi... bisogna fare degli accertamenti e ci vuole del tempo. Ho ricevuto i risultati ieri pomeriggio.»

«Perchè non me l'hai detto stamattina quando ci siamo visti?»

 

Iniziò a tremare lievemente, forse per la leggera brezza che si preparava ad accompagnarli verso un rigido inverno, uno dei più freddi a Parigi, gli alberi spogli, la neve candida che si preparava ad aderire a terra, il sole che man mano che il tempo passava iniziava a nascondersi tra le nuvole e le panchine diventate d'un tratto completamente vuote... 

Oppure per la tensione, l'agitazione che si apprestava ad accompagnare ogni sua frase che sapeva, alla fine, l'avrebbe condotta verso un futuro di consapevolezza verso se stessa e verso quella piccola creatura che si riduceva, allora, a un ammasso di cellule, ma che nonostante ciò lei aveva iniziato ad amare nell'esatto momento in cui, guardando quel test diventare positivo, si era sentita mamma per la prima volta.

 Perciò prese coraggio per lei e per quel suo grande amore che sapeva, un giorno non molto lontano, sarebbe stato presto ricambiato.

 

«Perchè stavolta voglio tenerlo...» aveva detto in un sussurro appena percettibile.

 

Dal canto suo Adrien si era ritrovato a strabuzzare gli occhi, senza più sapere cosa dirle, inizialmente credendo di aver sentito male, rendendosi poi conto dell'effettivo significato di quelle tristi parole.

 

«Cosa intendi con "voglio tenerlo" ? Marinette, te lo chiedo per favore, rispondi sinceramente alla domanda che ti sto per fare...»

 

Prese la rincorsa decidendo di rischiare. 

Un bel respiro.

Due.

Tre.

 

«È la prima volta?»

 

Lei non rispose. Si avvalse così della facoltà di nascondersi, per quanto possibile, agli occhi dell'autenticità dei fatti stessi. Dal fatto che aveva sofferto e non poco, che aveva combattuto contro tutto e tutti per riuscire a dimenticare quella parte della sua vita che per tanto tempo l'aveva tenuta lontana da sé stessa e ancorata a qualcosa a cui nemmeno la scienza poteva porre rimedio... dal fatto che non importa quanti scheletri avesse nell'armadio, perchè i suoi mostri, quelli veri, quelli malvagi, continuava a conservarli nella testa.

 

 

Un lieve sospiro passò attraverso quelle amare labbra, bagnate da quelle lacrime dannate che aveva iniziato a versare nel suo religioso silenzio, con le mani fredde, prive di quel calore talmente familiare, talmente suo da non riconoscersi più nemmeno lei, che non sapeva il perchè di tanta esitazione.... 

 

 

Poi finalmente parlò, e ogni cosa, in un modo o nell'altro, venne alla luce.

 

 

«Ne ho già persi due. Non è stato per niente facile andare avanti con la mia vita, perchè la consapevolezza di non poterci fare niente mi ha lacerata giorno dopo giorno, e per tutto questo tempo non ho fatto altro che sentirmi in colpa, responsabile della loro stessa morte solo per un mio errore, un qualcosa che se evitato mi avrebbe permesso di stringerli tra le mie braccia e di non lasciarli più andare... tu non hai idea di quanto faccia male l'idea di perdere un figlio in questo modo per poi svegliarti e realizzare che effettivamente il tuo letto è vuoto, ma lo sei anche tu.... non puoi capire quanto sia crudele perdere qualcosa che hai cercato così tanto.»

 

 

 

La giovane sorrise nostalgica, ripensando a quanto, in quell'anno, la sua vita fosse stata stravolta in mille modi diversi.

 

 

 

Lo guardò un'ultima volta, ma stavolta lo guardò per davvero, riuscendo a scrutare ogni singolo particolare di quell'anima, che nel profondo riusciva ancora a definire sincera. Quell'anima che, voleva credere, fosse ancora degna di un lieto fine.

 

Quel lieto fine che si augurava tutti i giorni e che forse sarebbe arrivato anche per lei, un giorno. 

 

 

« Dicono che la terza volta in genere sia quella buona, quindi sta a te decidere. Sono disposta a tutto, ma ti prego, dammi questa possibilità.»

 

 

 

 

Poi fu il buio. 

 

 

 

 

«Fuori.»

«Adrien...»

«Ho detto fuori...»

«Adrien per favore, ascoltami, ti prego.»

«Ti ho detto di andartene da questa stanza e da questa azienda, se i tuoi problemi personali ti rendono incapace di svolgere il tuo lavoro da oggi non ritenerti più una mia dipendente. Sei gentilmente pregata di tenerti a debita distanza da tutto ciò che riguarda me e i miei stilisti. 

Non voglio rivederla mai più signorina Dupain-Chang,mai più, spero di essere stato esaustivo.»

 

E col buio arrivò il suono sordo di un cuore diviso a metà, il silenzio.

 

«Cristallino, signore.»

 

E col silenzio, la tempesta vera e propria.

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Capitolo 2
*** Behind your fears ***


A volte l'uomo riesce a perdersi perfino quando è accecato dalla luce di un giorno senza svolta, una di quelle giornate in cui la mente non riesce a sorpassare quella miriade di pensieri balenanti che non fa che ostacolarla, metterle i bastoni tra le ruote, sabotarla. E il sole che fino ad allora era rimasto apparentemente dalla nostra parte cambia fazione come se nulla fosse, come se tutto ad un tratto l'ombra che ci regnava dentro già da tempo avesse deciso di mostrarsi allo scoperto, di farsi vedere anche da chi ci sta intorno per mostrare quanto siamo fragili, quanto la nostra anima sia stata fatta a pezzi, ridotta in tante piccole briciole che mai, mai potranno ricomporsi. E quando questo succede ci si dispera e si arriva, a malincuore, a toccare il fondo del baratro. Perché quando il cuore grida qualcosa, grida un nome, è impossibile, per quanto possa essere razionale, dare ascolto al cervello anche solo per un minuto.

 

Tutt'ora non so se ho fatto le scelte più giuste che potessi fare in questa mia vita di stenti e delusioni, in questo mondo che lentamente mi ha tolto tutto ciò a cui tenevo, che mi ha tolto la vita prima ancora che potessi assaporarla, io, che dormo ogni notte abbracciato a quei ricordi dal sapore talmente amaro da far male alla gola, in grado di procurare lacrime che rigano il viso e lo graffiano per bene, indelebili, permanenti come la cicatrice che porto e porterò sempre con me per tutto questo lungo, eterno viaggio . Io che non sarò mai in grado di dire addio al passato e che adesso, ripensandoci a mente fredda e con le mani in mano, non ho mai voluto farlo, ti chiedo, solo per stavolta ... e ti chiedo per favore di farlo davvero , di guardarmi negli occhi un istante e dirmi se mi vedi ancora intrappolato in quelle quattro mura di camera mia o se riesci, forse per la prima volta, a vedermi davvero libero in questa realtà che ora come ora altro non fa che oscurarmi gli occhi. Forse non sono pronto a guardarti in faccia e dirti che amarti non è mai stato semplice, che amarmi non è mai stato semplice, che averti davanti a me è sempre stata una certezza che ho temuto di perdere negli anni e forse non ho ancora il diritto di guardarti e dire a me stesso di averti meritata con ogni mio singolo gesto ... non posso mentire a me stesso in una maniera così profonda da distruggermi.

 

 

 

 

Un giorno forse troverò la forza di lasciarmi tutto alle spalle, andare avanti con la mia vita e fare finta che questa sia stata solo un'altra delle stravaganti fantasie dei fratelli Grimm da raccontare agli amici quando usciamo a bere, forse troverò la forza di dimenticare un peso che mi opprime l'anima sempre di più giorno dopo giorno,forse  viaggerò, andrò in giro per il mondo e scoprirò da cosa realmente mio padre sperava di tenermi al sicuro, contro cosa ho combattuto per tutti questi anni e riuscirò addirittura ad innamorarmi di nuovo, a riempire il vuoto di una sedia accanto alla mia, ma non quello del cuore... forse andrà davvero così e sarò in grado di vivere normalmente come se tu non fossi mai esistita, non lo so... forse sto solo portando avanti un processo di autoconvinzione che non ha nè capo nè coda ed io sono stanco, stanco di queste menzogne ​​che mi occupano i pensieri, stanco di questo amore ... ed anche se so che non sarà facile lasciarsi andare, lasciare andare l'idea che avevo di noi due, se voglio davvero che tu sia felice devo fare ciò che ho sempre avuto il timore di fare e provare a reagire alla vita ancora una volta. Qui ci sono un paio di occhi verdi che se trattati con cura saranno capaci di grandi cose in futuro, due grandi scudi che saranno in grado di guarire anche il più lacerato tra i cuori spezzati, che saranno in grado di dar speranza anche a chi, perso nella propria ombra, penserà di non essere più capace di rialzarsi da terra, due occhi verdi che saranno gli unici testimoni di un amore buono, un amore talmente giusto da doversi fare da parte per permettere ad una nuova vita di crearsi, fondersi con il mondo e fare il suo corso.

 

 

 

Questo sarà il mio regalo per te, farmi da parte per permetterti di creare una vita che avrebbe dovuto essere la nostra ma che non ho potuto nemmeno provare ad inventare, e dopo tutto ciò che c'è è successo ecco cosa nascondevo dietro questi grandi occhi verdi , spero tu lo abbia capito e faccia tesoro del fatto che dietro di me si celava la vita.

 

 

 

 

 

E così passò l'ennesimo freddo inverno dentro quello studio legato da un'oscurità ormai incombente e silenziosa, legato davanti al solito schermo, sulla stessa solita scomoda sedia, la porta chiusa, le tapparelle abbassate e le finestre serrate attentamente in modo tale da relegare il freddo all'esterno della struttura, ma così facendo neanche la luce riuscì a penetrare le solide barriere di vetro, a regalare un minimo di colore a quelle pareti ormai spoglie e quasi del tutto rovinate. Probabilmente avrebbe dovuto ritinteggiare l'ufficio una volta finite le sue mansioni, o come al solito avrebbe pagato qualcuno per farlo. Si tolse distrattamente gli occhiali e portò due dita - esattamente il pollice e l ' indice della mano destra - per premerle sul setto nasale costatando con rassegnazione che probabilmente avrebbe agito proprio in quel modo. Le sue giornate erano diventate un susseguirsi di solite azioni, perennemente, tremendamente uguali. E lui era diventato ciò che mai e poi mai avrebbe voluto essere, quella parte di sé che aveva cercato di nascondere per così tanto tempo ma che alla fine era riuscita a prevalere sulla sua razionalità, il lato oscuro in grado di corrompere l'uomo per portarlo dritto sulla strada sbagliata, quella del dolore e della consapevolezza del problema, quel problema che per anni aveva cercato di rinnegare a sé stesso e agli altri, soprattutto a sé stesso, ma purtroppo stavolta era arrivato troppo tardi e il danno era stato capace di arrivare alla meta prima di lui, la distruzione. 

 

Sospirò pesantemente prima di avvicinare la mano opposta al famoso pulsantino rosso accanto alla tastiera, tenendo gli occhi chiusi e una posizione tutt'altro che rilassata, e richiamando la sua segretaria con un piccolo segnale acustico, non prima di aver infilato con cura e attenzione gli occhiali nella loro apposita custodia.

 

«Nathalie chiama il signor Dubois e prenota un appuntamento per la prossima settimana per ritinteggiare l'ufficio, è in condizioni indecenti, è impensabile che ci possa concentrare in un ambiente simile, provvedi quanto prima.»

 

«Mi dispiace deluderla signor Agreste ma il signor Dubois  ha telefonato in mattinata e ci ha informato che non sarà disponibile prima di due settimane.»

 

Aprì appena gli occhi prima di rivolgere altrove lo sguardo, sospirò nuovamente con pesantezza e strinse lievemente a pugno la mano sinistra.

 

«E secondo quale criterio sarebbe tenuto a farlo? Lavora per noi da quasi tre anni e non ha mai mancato una consegna o un singolo impegno riguardante il nostro marchio,mi viene difficile pensare che possa farlo proprio ora.»

 

Cercò di mantenere la voce ferma e decisa nel pronunciare le parole che il suo cervello aveva elaborato, lasciando nuovamente da parte qualsiasi tipo di ragionamento logico, senza dunque riflettere davvero sulla banalità apparente della situazione, tirando, dunque, fuori un lato di sé con il quale avrebbe dovuto presto fare per bene i conti.

 

«Ha voluto informarci del fatto che sua moglie partorirà a breve e che dunque tra la nascita del bambino e la prassi di riconoscimento presso l'anagrafe non potrà essere disponibile per questo breve lasso di tempo. Ha inoltre aggiunto che confida nella sua più sincera comprensione e nel suo supporto in una situazione di questo calibro»

 

Gli ci volle qualche secondo per elaborare per bene il significato di ciò che gli era appena stato riferito . Eppure non riusciva a capire. Non riusciva ancora a capire come potesse un imprevisto, una semplice svista, danneggiare la vita degli altri una maniera talmente profonda da arrivare a ferire più di una spada. Non riusciva a comprendere secondo chi o secondo cosa si dovesse per forza amare qualcuno che ancora non si conosce, qualcuno che è dentro di te per nove mesi e non fa altro importi dei limiti e farti del male dall'interno,qualcuno che non può ancora esprimerti il suo amore perché non ne è capace... qualcuno che quando crescerà non farà altro che ricordarti tutti gli errori che hai fatto nella tua vita e che tu stesso dovrai impedire a lui o lei di compiere quando nemmeno tu sei riuscito ad evitarli. 

 

Prese un respiro profondo... ed il pugno solido che fino ad allora aveva preso il controllo dei suoi pensieri si sciolse delicatamente come neve al sole e trovò finalmente il suo posto nella tasca dei pantaloni. 

 

«Allora si vede che ha sbagliato posto o ha sbagliato proprio a chiamare, qui non facciamo beneficenza e soprattutto non offriamo comprensione verso i nostri dipendenti, offriamo posti di lavoro, opportunità di portare a casa uno stipendio per far sì che le persone siano in grado di essere autonome e possano mangiare.»

 

«Signor Agreste la prego di ragionare...»

 

«Evidentemente non è il tipo di persona che può fare al caso nostro, né in questo momento né in futuro. Nathalie ti chiedo di preparare la lettera di licenziamento per il signor Dubois quanto prima, ovviamente dopo aver svolto le tue mansioni.»

 

«Come desidera signore... mi lasci solo dire che suo padre-»

 

«Non ho tempo da perdere con queste stupidaggini.»

 

Inarcò lievemente le sopracciglia e rivolse uno sguardo del tutto stizzito verso la porta, pur sapendo che lei non poteva vederlo e ritenendo che forse era più giusto così. Riportò entrambe le mani sulla tastiera del computer riprendendo dunque la digitazione, spostando la sua attenzione nuovamente sull'ordine che stava effettuando prima di lasciarsi trasportare dai pensieri.

 

«... suo padre non è certamente stato il migliore dei genitori e di certo non è stato il migliore degli uomini, ma in una situazione del genere persino lui avrebbe mostrato un minimo di umiltà e soprattutto più umanità di quella che avete mostrato voi adesso nei confronti di due persone che hanno sempre lavorato onestamente per costruirsi una famiglia. Con permesso.»

 

Con le mani ancora immerse tra le lettere cercò di non lasciarsi sopraffare dalle parole, cercando di lasciarsi scivolare addosso anche quelle della sua segretaria.

 

Eppure lo sapeva. Lo sapeva benissimo.

 

E proprio per questo se ne sarebbe pentito a vita.

 

 

 

 

 

«Cosa avevo detto al riguardo? Non vi avevo per caso lasciato l'ordine di ritirare un tessuto color pervinca? Allora spiegatemi perché davanti ai miei occhi ho un tessuto color indaco? Forse è il caso che prima di lavorare nel mio atelier voi tutti torniate a scuola, non vedo altre possibili soluzioni.»

 

«Signor Agreste, a nome di tutto il reparto le chiedo umilmente perdono per questo piccolo inconveniente. Le garantisco che una cosa del genere non avrà più modo di accadere qui dentro, le do la mia parola.»

 

«Certamente un errore che tu reputi piccolo e lieve, ma che invece avrebbe potuto interferire con l'operato di mesi e mesi di duro lavoro e sacrifici, non avrà modo di accadere una seconda volta nella mia azienda. Il semplice fatto che possa essere accaduto anche solo una volta è dovuto ad una svista causata da un'evidente mancanza di professionalità  e rispetto verso il tuo superiore e verso tutti coloro che lavorano con te in questa stanza.»

 

 

E nuovamente quel pugno si ritrovò a chiudersi, ad essere stretto così forte che per qualche istante le nocche divennero di un color latte, segno che la circolazione era stata momentaneamente bloccata. Le sopracciglia si inarcarono e la rabbia prese il sopravvento, come di consuetudine, su ogni pensiero razionale, su ogni azione e ogni pensiero.

 

«Mi risulta davvero difficile credere che dopo anni di lavoro qui nella mia compagnia vi siano persone ancora in grado di compiere sbagli davvero frivoli e da dilettanti... e non parlo solo della stoffa.»

 

Disse con ira, con astio, con frustrazione e con una nota di sarcasmo, una nota dolente che portò un semplice rimprovero a sfociare in una violenta conversazione individuale.

 

Stava certamente impazzendo, senza alcun dubbio, stava sfoderando il meglio della parte peggiore del suo essere, un essere solo, un essere, purtroppo, consapevole.

 

«Guarda qui e dimmi se ti sembra un modello degno di essere presentato pubblicamente tra le mie nuove collezioni, guarda le cuciture, guarda la qualità della stoffa, ma soprattutto guarda che razza di modello hai scelto».

 

«Signore io...»

 

«Non sai che dire, ovviamente. Una cosa è certa però. Non permetterò mai a te e alla tua incompetenza di mettere in ridicolo l'azienda per la quale mio padre si è spaccato la schiena tutta la vita. Non ti permetterò di vanificare tutti i sacrifici che ha fatto per dare a me e a tutti voi un futuro».

 

E proprio in quel momento, tra i sui pensieri più oscuri e reconditi, c'era lei.

 

«Non vorrai certo fare la fine della signorina Dupain-Cheng. A quest'ora l'unica cosa che è in grado di fare è spedire curriculum su curriculum alle varie case di moda nella speranza che possa capitarle un'altra occasione come questa, mentre sappiamo tutti che esperienze del genere capitano una volta nella vita ed è nostro compito saperle cogliere e sfruttare nella miglior modo possibile».

 

Si spostò di poco, solo qualche passo in avanti, prese tra le dita quella stoffa dal colore tanto sbagliato... ed era morbida. Una sensazione tremendamente familiare, che  a tratti sembrava come rigargli l'anima con la sua morbidezza, la delicatezza di un tocco familiare che pochi mesi prima aveva avuto la sfrontatezza di rovinare, un gesto accecato da una visione distorta dei suoi pensieri, un gesto condizionato dalla rabbia, dal non essere in grado di gestire la sua posizione come non era stato in grado di gestire la sua vita, la percezione di un fallimento personale mischiato alla delusione del non essere stato in grado di controllare il lavoro che suo padre gli aveva affidato con la fiducia e la speranza che ciò che un tempo era stato il suo sogno un giorno potesse diventare anche quello di suo figlio. 

 

E lei era stata in grado di portargli via anche quello. 

 

Lasciò andare delicatamente la stoffa sotto lo sguardo attento di tutti i presenti e si preparò ad abbandonare la stanza con la stessa irruenza con la quale era entrato. Si sistemò per bene la cravatta, la raddrizzò alla cieca provando a sembrare il più naturale possibile in una situazione del tutto insolita come quella che stava vivendo. Affrettò il passo ed in pochi secondi si trovò alla soglia della porta senza lasciare a nessuno lo spazio di replicare alle sue aspre affermazioni.

 

Nei suoi pensieri però continuava a regnare il caos. 

 

 

 

 

Senza accorgersene si era già fatto tardi, l'orologio bianco che si trovava sopra alla porta segnava le otto di sera, mentre quello che portava al polso segnava le otto e mezza. L'indomani si sarebbe dovuto ricordare di passare dal ferramenta per prendere delle batterie nuove in modo tale da farlo ripartire, ebbe appena il tempo di segnarselo mentalmente nella speranza di non dimenticarsene, per poi prendere la giacca  dall'appendiabiti e infilarla insieme alla sciarpa azzurra. Fu un gesto che durò giusto un attimo, un semplice istante, ma che fu in grado di scatenare in lui qualcosa di più impetuoso di una semplice tempesta interiore... e fu così che tutto il caos che aveva nella testa ebbe modo di uscire e manifestarsi per bene in tutta la sua forza e in tutto il suo rancore. 

 

Una volta afferrata la maniglia della porta non fece nemmeno in tempo a chiuderla che si avviò in fretta e furia verso la sua macchina, lasciando, testimone del suo passaggio, solo una porta socchiusa.

 

Non seppe neanche lui come, ma si trovò, immerso com'era in una battaglia a perdifiato contro sé stesso, davanti alla panetteria dei signori Dupain-Cheng, nonostante sapesse che non avrebbe più potuto trovarvi la protagonista dei suoi pensieri, ma riuscì comunque a pensare ad un nuovo motivo da ritenere abbastanza valido da spingerlo ad andare avanti nella sua assurda corsa notturna. 

 

E finalmente gli ultimi anni della sua vita trovarono il loro posto in un passato che sarebbe dovuto rimanere tale, senza ripresentarsi, senza dovergli più insegnare niente. Si incantò per pochi semplici secondi ad ammirare la bellezza di una struttura che precedentemente aveva ospitato i ricordi migliori del suo repertorio, la dolcezza di una rimembranza dal tono gentile e senza alcun tipo di pretesa, senza alcun tipo di richiesta se non quella di un attimo di serenità, soltanto un attimo, per poi poter tornare a concentrarsi su un qualcosa di maledettamente concreto... qualcosa così maledettamente, assurdamente, reale.

 

Non seppe neanche lui quanto, di preciso, rimase lì, fuori dalla panetteria, seduto nella sua macchina con le mani sul volante e gli occhi fissi in un unico punto, ad aspettare qualcosa, o qualcuno, che non sarebbe mai tornato. Il suo era un respiro del tutto regolare, privo di qualsivoglia sentimento, probabilmente perso in un mare di pensieri che mezz'ora prima avevano finalmente trovato il coraggio di sfociare e di farsi sentire da un paio di orecchie che da tempo avevano smesso di ascoltare i rumori. Peccato non si possa scappare dai pensieri.

 

"Ritenta, sarai più fortunato" pensò ironicamente accennando appena la forma di un sorriso colmo di malinconia. Fu allora che decise e cominciò così ad agire, nella lentezza di una notte.

 

Prese ciò che doveva tra le mani, imbattendosi nuovamente con la morbidezza del tessuto celeste, facendolo sfregare contro i polpastrelli, immergendosi completamente nel calore di un oggetto che fino ad allora aveva ricoperto accuratamente il suo collo. Fece scivolare per bene l'oggetto tra le dita e mise per primo un piede fuori dall'auto nera. Una volta chiuso lo sportello si incamminò a passo lento verso la sua meta, notando che la sua mano destra aveva pian piano iniziato ad assumere i toni freddi dell'inverno circostante, ma la sinistra, sovrastata dalla stretta salda rivolta all'oggetto, continuò a preservarsi, a conservare quella strana sensazione di familiarità con un calore che stava iniziando ad irradiarsi per tutto il suo corpo, fino a riscaldarlo completamente.  Per tutto il breve tragitto non abbassò lo sguardo nemmeno per un secondo. Non riuscì a trovare una motivazione valida che potesse giustificare una minima disattenzione, a testa alta, senza vergogna, si fece sempre più vicino alla struttura, e ciò che fino ad allora era rimasto flebile come un semplice, un dolce respiro regolare... degenerò man mano, nel buio e nel silenzio della decisione.

 

 Si liberò, si lasciò andare all'impeto di un desiderio più forte della razionalità.

 

Sentì i capelli scompigliarsi leggermente, mossi appena dal vento debole che si era sollevato. "Che strana la vita" si ritrovò a pensare mentre con delicatezza adagiava la piccola sciarpa, stando ben attento a non farla cadere, a non rovinarla con un movimento brusco nell'impeto delle sue emozioni, proprio come quando, qualche mese prima, aveva dato il colpo di grazia ai sogni di una giovane ragazza dai capelli corvini. La legò saldamente alla maniglia della porta, senza aspettarsi più nulla, con la consapevolezza di star abbandonando un altro dei suoi ricordi più belli nella speranza di proteggersi ancora una volta. La guardò di nuovo e poté giurare di aver rivisto le sue iridi in quel colore chiaro, un'ultima volta. 

 

Un'ultima volta prima di andare e lasciarsi andare verso la macchina che lo stava aspettando per riportarlo forzatamente alla realtà. 

 

Un ultimo sguardo. Un'ultima volta.

 

 

 

 

Passarono i mesi e con loro prese la sua strada anche l'inverno. La rigidità delle giornate andò a sfumarsi nella lentezza continua delle giornate, nella loro monotonia costante e persistente, pur sapendo che qualcosa era cambiato dalla fatidica sera in cui aveva deciso di appendere alla maniglia di una porta tutti i suoi sentimenti  più profondi rinunciando - non seppe mai se con codardia o con coraggio- al dolore per vivere senza sé stesso.

 

La primavera stava ormai terminando per lasciare il posto ad una nuova, torrida estate. Il sole filtrava a malapena dalle solite tendine abbassate, illuminando con fatica una parte della grande scrivania. La situazione era rimasta la stessa, fogli sparpagliati ovunque, evidenti segni rossi su ognuno di essi, correzioni, cancellature, la mina scheggiata della matita che, probabilmente, era caduta a terra per via di una leggera distrazione, la luce soffusa del computer ben visibile attraverso le lenti degli occhiali del giovane uomo la cui concentrazione era quasi palpabile. Aveva deciso, ormai da molto tempo, che l'unico modo per non stare male, per preservare un minimo di umanità dentro sé, fosse evitare qualsiasi tipo di coinvolgimento, concentrarsi unicamente sul suo lavoro, proprio come quando cercava ancora di impressionare suo padre.

 

Sospirò amaramente allontanando solo per qualche istante le dita dalla tastiera. Chissà cosa avrebbe detto se lo avesse visto in quel momento, probabilmente lo avrebbe guardato con quei suoi grandi occhi azzurri, la stessa solita espressione priva di emozioni, le labbra appena socchiuse, e gli avrebbe chiesto di tenere d'occhio gli stilisti fino al giorno del lancio della nuova collezione, si sarebbe toccato gli occhiali con due dita e avrebbe rivolto nuovamente lo sguardo sul tablet, intento ad occuparsi delle correzioni dei bozzetti. Eppure era sorprendente. Era sorprendente come potessero mancargli anche quelle due parole,  come potesse sentire la nostalgia di un padre dedito esclusivamente al suo lavoro e mai a suo figlio... un padre al quale stava man mano iniziando ad assomigliare, seppure inconsciamente.

 

Strinse appena la mascella, come a trattenere qualsiasi cosa volesse fuoriuscire dalle sue iridi, per poi riprendere, con serietà, la digitazione.

 

Nonostante si fosse convinto di aver superato quella fase di sconforto, si stupì del fatto che il tempo non aveva fatto altro che appesantirgli il carico senza tregua alcuna. Eppure sperava che col passare degli anni avrebbe dimenticato quella sensazione di vuoto in mezzo al petto, lo sperava davvero. Povero illuso.

 

D'un tratto sentì la porta dell'ufficio aprirsi e, una volta che si fu voltato, il volto incerto di Nathalie comparve davanti ai suoi occhi, ma ciò che catturò la sua intenzione non fu tanto l'espressione della sua segretaria in quel momento, quanto la busta che teneva stretta tra le mani. 

 

«Signor Agreste mi perdoni per l'intrusione ma hanno appena consegnato la posta e ho pensato volesse vederla di persona».

 

Dal canto suo il giovane uomo scosse appena la testa storcendo appena le labbra.

 

«Spero sia da parte dei fornitori, sono due giorni che provo a contattarli ma per via di alcune urgenze non ho ancora ricevuto risposta. Gli stilisti hanno assolutamente bisogno della stoffa per completare i loro  modelli, altrimenti temo che non riusciremo a rientrare nelle scadenze»

 

 

 

 

Senza avergli fornito alcun tipo di risposta la donna appoggiò delicatamente  sul tavolo una pila disordinata di lettere. Prima di congedarsi e tornare alle sue mansioni si fermò sullo stipite della porta, appoggiandosi con una mano ad esso. Guardò per un attimo colui che una volta aveva considerato quasi come un figlio, accorgendosi per la prima volta di quanto fosse cresciuto durante tutto quel tempo. Pian piano stava prendendo coscienza del fatto che l'odio che provava verso sé stesso, verso le sue emozioni, prima o poi lo avrebbe distrutto completamente e non avrebbe risparmiato niente, ma sfortunatamente per lei non poteva intervenire, non ancora. Sapeva che avrebbe capito, ne era sicura. Prima di abbandonare la stanza quasi del tutto buia guardò quel ragazzo un'ultima volta, poi, sospirando, tornò al suo posto.

 

 

 

 

Senza staccare gli occhi dallo schermo ne prese una tra le mani. A primo impatto notò con passività che si trattava proprio di una lettera di scuse da parte dei fornitori che per problemi interni non erano riusciti a mandare per tempo i vari ordini alle case di moda. Sospirò pesantemente per poi togliersi gli occhiali e appoggiarli vicino alla tastiera del computer. "Perfetto" pensò  ironicamente nel mentre che si alzava dalla sedia. Afferrò saldamente la tazza azzurra in cui pochi minuti prima aveva versato qualche goccia di caffè, per poi portarla alle labbra e berne appena un sorso, bagnandosi le labbra di quel sapore inebriante è fortemente amaro. Prese poi svogliatamente in mano il mucchio di lettere ancora chiuse per poi dirigersi verso la finestra dell'ufficio con mille pensieri in testa. Lentamente iniziò ad alzare le tapparelle e far filtrare quel poco di sole che rimaneva del tardo pomeriggio. A breve il sole sarebbe tramontato e, anche se per poco, sentiva il bisogno irrefrenabile di percepire di nuovo del calore sulla sua pelle. Per un attimo ebbe il tempo di ammirare concretamente uno dei molteplici bagliori illuminargli le dita della mano sinistra, attirato appena dal colore dorato che i raggi solari stavano pian piano assumendo. Si lasciò cullare in quel modo giusto il tempo di un sospiro, chiudendo lentamente le grandi iridi per potersi beare, ancora una volta, di quella sensazione che ormai non era più abituato a percepire. Il tutto rubò solo una manciata di minuti, minuti nei quali il cuore di un'uomo parve aver ritrovato, dopo tanto tempo, un posto in cui alloggiare. Dopo a malapena qualche istante si decise ad aprire con delicatezza una busta più piccola delle altre, non facendo nemmeno caso a chi effettivamente potesse esserne il mittente. Con leggerezza strappò appena un lembo del sottile strato di carta per poi prelevarne del tutto il contenuto poggiandolo appena sulla mano opposta nel mentre che il sole decideva di svanire in un fascio di nuvole. Aprì con delicatezza e assoluta spensieratezza il foglio piegato accuratamente a metà per poi affacciarsi, in un attimo, all'assoluta realtà dei fatti.

 

 Fu così, nel calore e nell'oscurità di una notte di inizio estate, che un momento perfetto si preparò a lasciar posto ad uno meno perfetto. Il livello finale. La follia dell'essere umano.

 

 

 

A 9 anni aveva scoperto di avere un talento, un po' insolito dagli altri ma d'altronde era pur sempre un talento di cui andare fiero, forse. Aveva capito di saper correre, meglio, di saper scappare, dalle persone, dai luoghi, dalle situazioni e anche dai problemi. A 12 anni, dopo aver ricevuto il primo giudizio negativo dal suo insegnante privato, ricordava di essersi alzato dalla sedia con estrema disinvoltura per poi iniziare a camminare a passo svelto, deciso, sempre più veloce, finché non si era deciso ad iniziare a correre via, per tutta la villa, in cerca di qualcosa che potesse far scemare tutta la frustrazione che aveva in corpo, una qualsiasi sensazione che potesse rimpiazzare i battiti del suo cuore che altro non facevano che rimbombargli nelle orecchie come fossero un tamburo. Ancora. Sempre più forte. Gli tornò in mente l'adrenalina provata tra un respiro e l'altro, l'apparente felicità che gli illuminava gli occhi, felicità di essersi come liberato dalle catene che aveva attorno ai polsi e alle caviglie, la prima volta che si era sentito davvero invincibile. Ricordava anche di essere caduto  sul ciglio delle scale, proprio davanti l'ufficio di suo padre, e di essersi sbucciato un ginocchio. Una cosa da niente. Ma aveva ancora impresse nella mente quelle lacrime impregnate di dolore miste a fallimento che gli sgorgarono dagli occhi quello stesso giorno. Eppure pensava che se solo fosse riuscito a sfuggire a quei sentimenti avrebbe potuto dimenticare ogni cosa ed andare avanti. Come se niente fosse mai successo.

 

 

Non vi era vento durante quella corsa. Non vi erano alberi in quei luoghi affollati, solo grandi ammassi di linee rette senza colore e senza dimensione. Non vi era ossigeno in quei polmoni, non vi era sudore su quella fronte candida. Non vi era espressione su quel viso, provato, nulla era riflesso in quegli occhi stanchi, solo tanta voglia di tornare a dormire e continuare a sognare. 

 

Per tanto tempo si era sentito in colpa, responsabile dei suoi stessi sentimenti, come se avesse potuto scegliere di innamorarsi di lei troppo tardi, come se avesse potuto decidere riguardo la morte di suo padre, come se non gli fosse stato imposto e avesse deliberatamente scelto, per passione, di gestire qualcosa più grande di lui e che soprattutto non gli apparteneva... ma lui era stanco. Era stanco di dover sottostare ai sensi di colpa di qualcosa che non era stato in grado di prevenire e che da un giorno all'altro gli aveva portato via ciò che lui aveva imparato a considerare la felicità. Era stanco di svegliarsi la mattina e dover fingere di vivere una giornata diversa dalle altre, di dover fingere di darsi una possibilità nuova ogni giorno, fingere di perdonare la vita per tutti i casini in cui lo aveva cacciato. Era stanco di doversi ripetere ogni sera, solo in un letto vuoto, che andava bene. 

 

Riuscì a sentire a malapena il clacson dell'autobus, giunto oramai a capolinea, che lo avvertiva di lasciargli libero il passaggio, spostandosi appena in tempo ma non interrompendo comunque la corsa. Proprio come quel giorno, come quando era un ragazzino, accelero ancora un passo dopo l'altro verso una metà sconosciuta, senza un soldo in tasca, col cappotto e la valigia ancora nel suo ufficio e con la cravatta slacciata quasi del tutto. Per poi urlare, ancora e ancora più forte, sempre più deciso. Uno. Due, alla terza dovette prendere un respiro profondo, tra una corsa e l'altra. Proprio come allora, si era sentito proprio come nella sua prima vera corsa, libero. E non gli importava se lo avesse sentito qualcuno, se lo avrebbero trovato strano, in quel momento non gli importava più niente del giudizio delle altre persone. Niente. Non aveva più niente da perdere in quella sera di luglio, in cui il sole, che aveva oramai lasciato posto alle prime stelle della serata, oltre alla luce aveva portato via la rabbia e le ultime forze di quell'uomo che aveva appena smesso di gridare, lasciandosi così cadere al suolo dopo la corsa più sfrenata di tutte. 

 

 

 

Aveva ormai perso la cognizione del tempo quando si decise di raccogliere i pezzi rimasti del suo corpo e alzarsi finalmente da terra. Riuscì a malapena a scrollarsi lo sporco da dosso con le poche forze che gli erano rimaste, pensando che probabilmente avrebbe dovuto lasciare la tenuta in lavanderia il giorno seguente, imprecando mentalmente all'idea di dover aggiungere altro alla sua lista delle cose da fare. Tra un sospiro e l'altro si era ritrovato in un punto ben preciso della città. Un parco. Il parchetto davanti scuola dove era solito passare del tempo con i suoi amici quando poteva, tra una lezione di pianoforte e una di scherma. Quel piccolo angolo di paradiso che riusciva in qualche modo a riportare il suo cervello su un intervallo di tempo felice della sua vita, quello della spensieratezza, dei primi sbagli e delle prime avventure. Si avvicinò appena a quella che ricordava essere la sua panchina preferita e la sfiorò a malapena con le punta delle dita, percependo subito la ruvidità del legno. Non c'era un perchè, era la sua preferita da quanto ricordava. Era solito sedersi lì quando doveva aspettare che i suoi amici lo raggiungessero per tornare a casa insieme, quelle volte che suo padre glielo permetteva, quando si riunivano in gruppo per parlare, ridere e scherzare tutti insieme prima di entrare in classe ed affrontare un'ennesima giornata di scuola, tra un'interrogazione e un compito in classe, tra la stanchezza disarmante dello studio e le risate fragorose che accompagnavano ogni singola ora di quella che ai tempi definiva "una tortura vera e propria" ma che col tempo aveva iniziato a mancargli sempre più profondamente.

 

Non avrebbe mai immaginato qualcosa di simile, nemmeno lontanamente, ma era stata proprio grazie alla scuola che aveva avuto modo di conoscere tutte quelle persone che avevano reso gli anni della sua adolescenza indimenticabile, ma soprattutto, era grazie alla scuola che aveva avuto l'opportunità di essere felice ancora una volta. Si sedette così sul bordo di quella vecchia panchina, sentendola scricchiolare appena una volta venuta a contatto col suo peso. Prese nervosamente a mordersi le labbra nel mentre che chiudeva gli occhi e si lasciava cullare dalla leggera freschezza di quella brezza estiva, lasciandosi andare ai ricordi più lontani come a ricostruirli pezzo per pezzo nella realtà, come se avesse potuto sentire ancora la voce del suo migliore amico che gli diceva di raggiungerlo al suo  posto, il suono della campanella che annunciava la fine di una giornata faticosa, abbandonandosi completamente a tutto ciò che potesse riuscire ancora a ricordare, aggrappandosi, ancora una volta, al desiderio, alla speranza di poter tornare indietro un'ultima volta e poter cambiare ciò che oramai era stato,rendendosi amaramente conto, ancora una volta, che il mondo è crudele e che ciò che abbiamo intorno e vorremmo tanto poter ignorare è invece capace di disarmarci completamente ogni volta.

 

 La realtà.

 

«E io che pensavo che gli uomini d'affari altro non facessero che passare il loro tempo tra un ufficio e l'altro, una scrivania di quercia e una in mogano, tutto il giorno, tutti i giorni, fino a lasciarci le penne uno dopo l'altro.»

 

Abbozzò appena un sorriso ironico, quasi sorpreso prima di rispondere a tono a quella vecchia conoscenza non poi così vecchia.

 

«Peccato per te che non sia quello il mio mestiere. Io mi occupo di moda, settore di product designe e fashion style all'interno del mercato mondiale. Sono io a dettare legge qui» si fermò un attimo, sospirando leggermente per via della stanchezza accumulata «Però su una cosa ci hai quasi preso, devo ammetterlo, tranne per la storia delle penne. Cosa pensi? Credi davvero che non facciamo altro nelle nostre insulse vite basate su questo maledetto sistema patriarcale?». Provò a donare un tono più enfatico possibile alle sue parole, non riuscendo pienamente nel suo intento, ma la ragazza sicuro di aver reso lo stesso l'idea.

 

Si morse appena le labbra prima di estrarre dalla tasca posteriore dei pantaloni un piccolo pacchetto bianco ed aprirlo per poi prelevarne il contenuto e portarselo lentamente tra esse.

 

«Vuoi?» Lo chiese senza pensarci due volte.

 

Ma lei non si fece abbindolare per un solo secondo, presa com'era da ciò che aveva affianco. Rifiutò educatamente la proposta dell'uomo biondo per poi ricominciare a dondolare la carrozzina avanti e indietro, indietro e avanti, destra sinistra, sinistra destra, come fosse un'antica danza cerimoniale, senza mai fermarsi.

 

«Non sapevo fossi interessata anche tu a questa cosa della maternità, ma cos'è, una moda per caso? Sul serio Lila non ti ci  facevo.»

 

Scosse la testa con finto disappunto, provando a nascondere lo sdegno iniziale verso chiunque fosse trasportato all'interno della piccola struttura, non riuscendo a concepire quale tipo di scherzo avesse in mente per lui il destino, sbeffeggiarlo così apertamente senza alcun apparente motivo quasi fosse uno dei criminali più pericolosi al mondo, come se avesse bisogno di un qualche tipo di punizione per redimersi da chissà quale peccato capitale.

 

Ma lei dal canto suo non si fece intimidire dall'affermazione del suo vecchio compagno di classe. Si passò una mano tra i capelli castani, che fino all'anno precedente erano certamente più lunghi, ma trovava comunque che quel nuovo taglio le donasse particolarmente, quasi ad incorniciarle il viso ornato ormai da qualche occhiaia, niente di più, niente di meno.

 

«Nemmeno io sai... non sono mai stata brava in queste cose... in realtà nemmeno lo volevo io un bambino, o almeno così credevo» si affrettò a dire in maniera impacciata « Invece devo ammettere che mi sta facendo bene prendermi cura di una persona che non sia io per una volta.»

 

Sorrise appena, ripensando a quanto realmente fosse cambiata la sua vita in soli 365 giorni cicli lunari e a quanto anche lei fosse cambiata durante quel lasso di tempo. Forse troppo. Ma forse non era un male.

 

Lui rimase interdetto per qualche secondo, non riuscendo a trovare le parole, solo pochi istanti, mantenendo la compostezza che era solita caratterizzarlo.

 

«Cosa intendi? Non ti sei fatta affascinare anche tu dal meraviglioso mondo di pappe e pannolini sporchi? E dimmi un po', come è stato? Hai avuto paura? O sei come quelle donne indipendenti di - non so più quanti anni fa - che ci tengono a partorire con dolore e sofferenza, sofferenza e dolore per dare la possibilità a madre natura di benedire i loro pargoletti con la luce divina del Signore?»

 

Cercava di guardarla negli occhi mentre lei altro non faceva che distogliere lo sguardo da quello di lui nella vana speranza di doversi risparmiare un discorso vissuto e rivissuto almeno un centinaio di volte da almeno un centinaio di donne diverse.

 

 Ma niente. 

 

Più lei ostentava dal voler rispondere alle sue insulse provocazioni, più lui sembrava ostinato a voler ottenere una risposta a quelle domande ormai completamente prive di contesto e soprattutto poste alla persona sbagliata.

 

«Non è così semplice come credi tu...»

 

Aveva provato a biascicare di sfuggita tra un pensiero e l'altro.

 

«...dietro c'è un mondo che voi uomini non capirete mai a causa del vostro ego smisurato e di quella capacità di giudicare a prima vista che vi appartiene e  che tanto amate.»

 

Di tutta risposta lui si lasciò scappare tra le labbra una boccata di quel fumo nocivo, portandosi poi una mano sulla nuca e l'altra, contenente ancora l'oggetto dalla punta consumata, davanti agli occhi rimanendone come rapito per pochi semplici istanti. Lo sgretolarsi della sua vita sembrava essere racchiuso in quella amara ma dolce, piccola sigaretta. Come se, nonostante avesse davanti agli occhi il miracolo della vita, lui stesso avesse tra le mani il potere di porre fine ad un'altra. Ne tirò un'altra boccata, tossicchiando appena nel mentre che rilasciava quel fumo scuro.

 

«Hai ragione, non è mai così semplice come crediamo, d'altronde siete voi le donne, è così pesante e difficile anche solo pensare di doversi liberare di un ammasso di stupide, inutili cellule agglomerate tra loro senza un senso, poter continuare a scegliere senza farsi comandare la vita da qualcosa che non ha orecchie per sentirti, né occhi per vedere quello che stai facendo, o che in questo caso gli stai facendo del male, né voce per chiederti di fermarti  e che soprattutto non ha un cuore per volerti bene e perché tu ne voglia a lui, cavolo Lila.»

 

Dentro la sua testa solo emozioni contrastanti tra loro, solo pensieri su pensieri su altri maledetti pensieri che rimbombavano nell'anticamera del suo cervello senza dargli un attimo di tregua. Estenuante. Si sentiva consumato da sé stesso al solo elaborare concetti di questa portata. La fatica di qualcuno che lentamente stava decidendo se cedere al ciclo della vita e ammettere un'altra sconfitta, oppure continuare a far finta di niente e continuare a vivere in una realtà fatta di parallelismi e illusioni infondate. 

 

«Detto francamente pensavo fossi più intelligente di così.»

 

Digrignò appena i denti per la foga del momento senza rendersi conto che la ragazza al suo fianco si era ormai alzata dal suo posto per avvicinarsi alla carrozzina azzurra.

 

Distolse lo sguardo per concentrarsi solo sul mozzicone ormai del tutto consumato per poi buttarlo a terra pochi secondi dopo, voltandosi dal lato opposto alla castana che nel mentre continuava ad armeggiare senza sosta con il piccolo mezzo producendo una serie di brevi suoni sordi come fossero scatti.

 

Prima ancora che potesse rendersene conto, il bambino era già posizionato tra le braccia di sua madre. Gli occhi chiusi, le piccole labbra socchiuse, un'aria del tutto innocente, privo di qualsiasi tipo di malizia, di colpa, ancora troppo innocente per quel mondo. 

 

Nel mentre lui non osava guardarlo, nemmeno con la coda dell'occhio, non ne aveva il coraggio, né la forza o la voglia di farlo. 

 

«Vedi, nella mia non così lunga esperienza di vita, ma soprattutto di madre, ho capito che al mondo esistono due tipi di uomini: quelli coraggiosi e quelli come te. Forse tu non hai ancora il coraggio di ammetterlo, ma per te il mondo è esattamente come una sigaretta. Lo tieni tra le mani, ci giochi quanto vuoi, come vuoi, è alla tua mercé e nessuno può portartelo via... e detto sinceramente gli altri nemmeno ci provano. Hai tutto perfettamente sotto il controllo delle tue candide dita. Solitamente poi, dopo cinque minuti, decidi che ti sei stancato e la butti a terra senza il minimo ripensamento solo perché pensi che ti abbia dato tutto ciò che aveva da offrirti.»

 

Si alzò dalla panchina, per poi posizionarsi davanti ai suoi occhi, non dietro, non accanto, difronte. Lo fissò per un lasso di tempo che a lui parve infinito, esattamente come quello delle sale d'aspetto dove il tempo non passa, e poi il silenzio si infittisce tra quelle pareti a volte spesse, altre volte sottili. Si ritrovò a boccheggiare appena, mentre lei, decisa più che mai, era pronta a vedere dove sarebbe stato disposto ad arrivare con la sua saccenza , la sua arroganza, la sua ricerca continua di conflitti.

 

« Ebbene , io prima ho detto che voi uomini siete bravi a giudicare dalle apparenze, ed è proprio perché non siete in grado di vedere ciò che sta oltre alla vostra sigaretta che non sarete mai nemmeno capaci di regalare al mondo più di quei famosi cinque minuti che secondo voi sono così preziosi.»

 

Finalmente tornò a guardare gli occhi di quell'uomo senza il minimo timore, con in braccio il suo bambino e con addosso la consapevolezza più bella di tutte.

 

 «Per favore Adrien, cerca di ricordare che per mettere in piedi un mondo certe volte non basta una vita intera.»

 

Lila prese un breve respiro prima di ricominciare a parlare, non sapendo nemmeno lei da dove partire, dove fermarsi, cosa raccontare e cosa omettere, su cosa essere sincera e su cosa invece inventarsi una delle sue solite storie del tutto irreali.

 

 Per un attimo si fermò a guardare quel piccolo essere che fino a poco prima occupava due terzi della carrozzina col suo sonno profondo almeno mille metri sotto terra. Provò per un attimo a cercare la risposta giusta da dare dentro di sé per poi scoprire che effettivamente una risposta giusta non c'era, ma che semplicemente il destino aveva deciso di divertirsi alle sue spalle eliminandola dalla sua stessa percezione della realtà.

 

Una lacrima solitaria si unì a quelle che fino a pochi mesi prima aveva continuato a versare senza sosta nella speranza di trovare una qualsiasi via d'uscita che fosse per lo meno fattibile e che potesse aiutarla a riprendersi in mano la sua vita.

 

Chiuse distrattamente gli occhi giusto il tempo di un sorriso accennato per sbaglio con malinconia.

 

«E dimmi... questo uomo coraggioso invece cel'ha un nome?»

 

E potè quasi giurare di sentirsi come morire, nel mentre che tornava a puntare lo sguardo avanti a sé, con l'estrema consapevolezza del fatto che non sarebbe stato affatto facile per lei rispondere.

 

«... no.»

 

Per un attimo le sembrò quasi di percepire dello stupore nel suo stesso tono di voce. Non gli diede molto peso, era certamente prevedibile.

 

«Lui non è con me, con noi. Lo so che magari te lo stai chiedendo e... ora come ora potresti non avere il coraggio di dirmelo per paura di ferire il mio stupido orgoglio, perciò ti rispondo direttamente, senza troppi giri di parole. La verità. Nient'altro che la mia verità.»

 

E con totale risolutezza, nonostante i mille dubbi nel cervello, tutto ebbe inizio.

 

« Ci siamo conosciuti l'anno scorso in Italia, Milano fashion week. Era uno dei modelli di punta di un noto marchio italiano di cui ovviamente non ti dirò il nome. Non perché non mi fidi di te, sia chiaro, ma perché vorrei un giorno, in qualche modo, riuscire a dimenticare ciò che probabilmente non farò altro che ricordare per il resto della vita.»

 

Sospirò appena prima di raccogliere nuovamente le forze e tutta la buona volontà del mondo e continuare quel racconto a tratti surreale, la nascita di suo figlio, il suo primo bambino.

 

«Non so neanche come o cosa mi abbia affascinata così tanto di lui, stregata a tal punto da togliermi qualsivoglia certezza avessi, ma ci sono cascata proprio in pieno, ammaliata da qualcosa che evidentemente a me mancava, per quanto difficile da credere, è così e basta. Eppure per un attimo io ci ho creduto... quando ho scoperto di aspettare un bambino per un secondo, uno solo, ho provato ad essere egoista, ad immaginare come sarebbe potuta essere la nostra vita in tre, insieme, come la famiglia che avremmo dovuto essere e che tanto avrei voluto essere in grado di donare a mio figlio.»

 

Con la coda dell'occhio si soffermò appena sui tratti che tanto le ricordavano il suo grande amore, gli occhi chiusi persi in un sogno ancora in bianco e nero, senza sfumature, le labbra socchiuse dalle quali passava a malapena un filo d'aria, le manine piccole, strette tra le sue più grandi, l'immagine di un'intera vita avanti a lui e la speranza di potergli offrire tutto l'amore del mondo, quell'amore orfano che non aveva mai imparato a distribuire agli altri ma che invece, d'ora in avanti avrebbero avuto un solo ed unico destinatario.

 

«Non credevo cel'avrei fatta ad arrivare fino a qui, nonostante non abbia dubitato un solo istante sul futuro di questo piccolo miracolo, mai.»

 

Tornò a sedersi, finalmente, il battito era tornato regolare, ed anche il suo respiro. Poteva concedersi un attimo di pace.

 

«Sai perché non l'ho fatto?» chiese con una nota di commozione nel tono di voce, appena appena incrinato dall'ammasso di ricordi che ancora circolavano ininterrottamente dentro di lei come il più falso tra i film a lieto fine.

 

«Io penso che un figlio sia l'unica persona capace di amarti davvero per tutto il resto della sua vita Adrien, dai suoi primi attimi di esistenza, anche quando, come dici tu, un cuore per amare non cel'ha ancora... amare non è tanto un fatto di cuore, quanto di vita. Io lo amo e sto vivendo per questo. Lui vive e vivrà sempre grazie a quell'amore di cui il mio cuore, formato in tutto e per tutto, non lo ha privato mai.»

 

E forse per la prima vera volta negli ultimi 10 anni, trovò il coraggio di pentirsi della maggior parte delle parole che aveva pronunciato con -fin troppa- leggerezza nell'anima. 

 

E se fino ad allora aveva sempre vissuto nel buglio di una paura asfissiante, quella degli altri, in quel momento gli sembrò quasi di intravedere davvero uno spiraglio di luce appena accennata, non sapendo ancora se poter credere davvero che fosse la scelta giusta da fare. Prese d'istinto -di nuovo- il pacchetto bianco tra le mani, ma prima ancora che potesse aprirlo, sentì una scossa leggera attraversargli la colonna vertebrale, fino ad arrivare alla mano destra, facendone cadere a terra il contenuto. Decisamente, non ne aveva bisogno. Non ancora. Non più. Forse per davvero, questa volta. 

 

 

Di solito in casi come questo si può dire che la speranza che possa avvenire un cambiamento effettivo nella mente, ma soprattutto nel cuore, di chi ha perso il senno ormai da tempo, sia come l'ultima a morire. Non si sa come, e soprattutto non si sa perchè prima o poi ci ritroviamo tutti con la testa completamente esterna e scollegata dal resto del corpo. Senza più niente da dire, senza più niente da pensare, solo una montagna di momenti che è difficile riordinare nello spazio e nel tempo.

 

«Posso... sapere che nome hai scelto?» 

 

E probabilmente tutto ciò avviene perchè si pensa di perdere definitivamente il coraggio necessario per mettersi d'impegno e riordinarli veramente, che sia nello spazio, che sia nel tempo. 

 

«Lucas.»

 

Disse con fierezza, ad alta voce, finalmente senza più paura.

 

«Ti presento Lucas. 

Ed io sono la sua mamma.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scusate se ci ho messo più di anno ad aggiornare (e per eventuali errori di battitura) , giuro che per la pubblicazione dell'ultima parte (e quindi del finale) ci metterò molto di meno, parola mia! Spero di essermi fatta in qualche modo perdonare stasera. Intanto noi ci leggiamo al prossimo capitolo (l'ultimo) nella speranza che qualcuno sia ancora interessato a sapere come andrà a finire ;).

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