Angel Of Iron

di _Zaelit_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Children Of The Damned ***
Capitolo 2: *** 02. The Evil That Men Do ***
Capitolo 3: *** 03. Stranger in a Strange Land ***
Capitolo 4: *** 04. Hungry Planet ***
Capitolo 5: *** 05. Blood Brothers ***
Capitolo 6: *** 06. Gangland ***
Capitolo 7: *** 07. Remember Tomorrow ***
Capitolo 8: *** 08. London Dungeon & Dark Side Of The Moon - Prima Parte ***
Capitolo 9: *** 09. London Dungeon & Dark Side Of The Moon - Seconda Parte ***
Capitolo 10: *** 10. Running Free ***
Capitolo 11: *** 11. Daysleeper ***



Capitolo 1
*** 01. Children Of The Damned ***


NOTA AUTRICE: Salve, cari lettori. Vorrei iniziare con una breve premessa per avvisare che questa è la prima ff riguardante JoJo che scrivo, ho cercato di informarmi il più possibile e di mantenere lo stile quanto più simile a quello adottato dall'anime e dalla light novel PHF. La protagonista di questa storia sarà un mio personaggio OC, Irene, che ho plasmato all'interno dell'universo di Araki e in particolar modo di Vento Aureo, la mia stagione preferita dell'opera. Questo capitolo, dunque, sarà più che altro introduttivo e presenterà il personaggio, tuttavia vedrete anche qualcuno di familiare, consideriamolo un prologo. Non so ancora se manderò avanti l'opera, vedrò in base ai risultati ottenuti dalla pubblicazione e al mio approccio alla storia, sperando che mi soddisfi. Nel frattempo vi auguro buona lettura e vi chiedo, se ne avete voglia e se ne avete il tempo, di recensire questo primo capitolo con le vostre opinioni, positive o negative che siano. Enjoy!

 
**********
 

[ CHILDREN OF THE DAMNED ]

 

La pioggia scrosciante cadeva a dirotto su asfalto ed edifici. Un plic plic incessante, invece, riecheggiava brevemente dopo il rimbalzo delle gocce d'acqua sugli ombrelli.
Il cielo era grigio. Le nuvole temporalesche avevano avvolto ogni centimetro della volta celeste, ammantandola con crudeltà.
Tutto era in trambusto. Le persone correvano per raggiungere in fretta macchine e abitazioni. Il rumoroso fragore dei clacson proveniente dalla strada era così acuto da far dolere i timpani.
Le onde si infrangevano con forza contro i moli e le sponde dell'isola di Ortigia, a Siracusa, e il mare era nero come se fosse fatto d'inchiostro. Il vento ululava correndo sull'acqua e trasportando schizzi salati nell'aria.
Dalla scuola media situata nella zona Sud dell'isola, difatti, era possibile udire quell'orchestra selvaggia della natura. Si sommavano al resto gli schiamazzi delle bambine che venivano trascinate via dai genitori, sollevate per evitare le pozzanghere di fanghiglia su cui ancora pioveva a catinelle.
La Federico II era proprio una scuola media tutta al femminile, frequentata da studentesse che rientravano nella fascia d'età compresa fra i dieci e i quattordici anni. Non era stata diramata un'allerta meteo ma, per sicurezza, ora che la campanella dell'ultima ora era suonata, le alunne erano state portate via dal cortile dell'istituto in fretta e furia. Tutte tranne una.
Con i capelli castani scompigliati e legati da elastici viola in due codini calanti sulle orecchie ai lati della testa e le braccia conserte attorno alle ginocchia tirate al petto, una delle bambine del secondo anno attendeva seduta sulle scale davanti al portico, fortunatamente all'asciutto, l'arrivo di un familiare che la venisse a prendere.
La sua casa non era esattamente nei paraggi. Per arrivarci avrebbe dovuto attraversare il ponte Umbertino o quello di Santa Lucia, accanto alla statua di Archimede che torreggiava su una piattaforma di cemento circondata dall'acqua nel centro delle due strade, e procedere per circa venti minuti fino alle Catacombe di San Giovanni. Lì vicino si trovava la villa dove aveva abitato in quei suoi pochi anni di vita. Il luogo dove avrebbero dovuto portarla. Ci sperava.
"Se ne sono dimenticati di nuovo", realizzò all'improvviso.
Non era affatto una novità, quella di essere abbandonata a se stessa, specie quando si trattava di essere prelevata da scuola. Non aveva mai potuto chiamare a casa quando stava male, né partecipare alle gite in città organizzate per la sua classe.
Le ultime famiglie sfilarono accanto a lei, lasciando il cortile e superando il cancello di ferro nero, andando via raccontandosi come fossero andare le loro mattinate. La piccola avrebbe voluto far cadere quell'enorme cancello del parcheggio e bloccare loro la strada. Costringerli a farle un po' di compagnia, a non lasciarla sola. Ma non poteva. Sarebbe stato egoista, malvagio, pericoloso e soprattutto impossibile. Era una normale bambina, solo un po' troppo triste e sola.
Dopo quasi mezz'ora di attesa in totale solitudine, sprecata a pensare che magari quel ritardo dei genitori fosse dovuto al traffico caotico causato dalla tempesta, si alzò in silenzio e si assicurò meglio lo zaino in spalla. In mancanza di un ombrello, tirò il cappuccio della felpa bianca sulla fronte e abbassò lo sguardo. Iniziò a camminare.
Nulla l'avrebbe riportata a casa, quel giorno, se non le sue gambe.

[ • • • ]

Irene Cacciatore nacque il sei giugno del 1983 a Siracusa, una città piuttosto tranquilla situata sulla costa ionica della Sicilia, sotto il segno dei Gemelli. Fin da neonata venne marchiata con una colpa ben più grande di lei, qualcosa che andava oltre la sua comprensione a quei tempi.
Sua madre, Valeria Cacciatore, tradì occasionalmente il marito, trascorrendo una notte con un uomo sconosciuto, un teppista di passaggio in città che incontrò una sera in un bar dopo aver bevuto troppo. Quella notte, però, fu sufficiente a generare la sfortunata Irene.
Suo padre sparì nel nulla, non lo incontrò mai e sua madre faceva a stento il suo nome, sempre ammesso che fosse quello giusto. La famiglia pretendeva che Valeria non portasse avanti la gravidanza, eppure lei decise di dare alla luce la bambina e di tenerla con sé, convinta che avrebbe imparato ad amarla. Questa cosa, però, non accadde: Irene, pur portando il nome della dea greca della pace, attraversò sin dalla nascita un periodo infinito di guerra. I suoi familiari non tenevano realmente a lei, esattamente come sua madre, da cui ereditò il cognome.
Il marito della donna, se avesse potuto, avrebbe forse divorziato da lei, ma non poteva permettersi un simile sfregio. Nonostante ciò impedì a Irene di prendere il suo cognome, ovvero Alloro, non avendo alcun legame di sangue con la bambina e vedendo il lei, ogni volta che la incontrava, il tradimento della moglie.
Questo fu uno dei motivi per i quali Irene non incontrò quasi per nulla il suo patrigno. Vivevano in una grande villa, gli Alloro erano una famiglia piuttosto importante in città, in quanto il nonno era stato un componente politico regionale di grande prestigio, e Irene non riuscì mai nemmeno a visitare tutta la casa. Restava nella sua stanza, senza nessuna voglia di studiare, e di tanto in tanto scappava dalla finestra e si arrampicava sugli alberi per correre in strada a divertirsi. Le bastava giocare a pallone con i ragazzi, o anche a braccio di ferro. Aveva imparato persino le regole di Briscola, Scopa e del Poker, ogni tanto puntando anche qualche spicciolo rubato dal portafoglio di Valeria, e con ciò che guadagnava comprava ciò che le serviva: vestiti, cibo, giocattoli. Non aveva molto, ma se lo faceva bastare.
Da quando era stata iscritta alla scuola media, però, tutto andava storto. La Federico II era importante, molto, a Siracusa. Sua madre Valeria aveva studiato lì prima di lei, venendo ammessa al collegio con i voti più alti della sua classe all'esame di fine percorso. Le ragazzine che frequentavano quella scuola erano ben diverse da lei, le tipiche figlie di papà, come soleva etichettarle, proprio lei che un papà avrebbe tanto voluto averlo.
La scuola non era per lei, e questo lo aveva capito alle elementari, uno scapaccione dopo l'altro ogni volta che non risolveva un'espressione o scriveva un tema perfetto. Non era stupida o incapace, affatto, era decisamente intelligente e astuta per qualcuno della sua età, solo non riusciva ad applicarsi nello studio. Favoriva alcune materie, ad esempio la lingua inglese, lo sport e la bella grafia, odiando al contrario la matematica o le scienze.
Anche alle scuole medie, dunque, venne spesso tirata dalle orecchie dall'insegnante o messa in castigo, con le ginocchia sui ceci o un colpo di bacchetta di legno sulle dita. Ma non se ne lamentò mai.
Era avvezza a quel tipo di comportamento da parte dei più adulti: la odiavano. Non gli importava nulla di lei, del suo futuro, al quale non aveva mai neppure pensato. Non riusciva nemmeno a credere che sarebbe diventata adulta. Non lo credeva possibile. Era arresa a quello stile di vita, una schiava sopita del proprio destino.
Finché non si risvegliò.
Accadde proprio in quell'anno. Benedetta era una sua compagna di classe, una delle poche con le quali fosse mai riuscita a instaurare un rapporto, a dialogare. Eppure non era affatto sua amica, non lo sarebbe mai stata. Benedetta credeva che Irene fosse il bersaglio perfetto per le proprie angherie, si divertiva a farle i chiodi, a incastrarla in problemi che non aveva neppure causato.
Irene cercava di ignorarla, benché desiderasse ardentemente prenderla per i capelli e lanciarla a terra di peso. Respirava a fondo e rimediava, sempre.
Poi un giorno, all'uscita di scuola, Benedetta esagerò e superò il limite della pazienza di Irene. Quest'ultima stava per tornare a casa da sola, un'altra volta, ma fortunatamente non pioveva ancora. A un tratto, mentre attraversava il parcheggio dell'istituto, si ritrovò circondata da tre ragazze capeggiate da Benedetta.
«Te ne vai senza salutare, Irene?» le rise in faccia la figlia di papà.
Lei non rispose. Sapeva cosa volessero ma rimase ugualmente a guardare, le mani strette attorno alle bretelle dello zaino rosso.
Quella mattina aveva fatto visita alla scuola un professore universitario piuttosto celebre in città, un uomo giovane e bello. Tenne una lezione speciale di costituzione e poi andò via. Chissà perché, aveva deciso di fare alcune domande alle studentesse e fra loro aveva scelto proprio Irene, che aveva saputo rispondere correttamente, per fortuna o per merito. L'insegnante le aveva sorriso e si era complimentato. Benedetta non l'aveva presa affatto bene.
«Non parla, se la sta facendo sotto.» grugnì una delle altre ragazzine, che si era avvicinata e l'aveva spintonata per poi pizzicarle un braccio.
«Oggi hai fatto gli occhi dolci al professore. Cos'è, hai già pensato al metodo perfetto da usare per entrare in qualche facoltà, dato che sei stupida come una capra?» continuò Benedetta. Senza pensarci due volte, la raggiunse a grandi passi e le sollevò la gonna con un gesto brusco, strappandone persino un lembo. «Ti serve mostrare cosa c'è quaggiù, per andare avanti?» rise insieme alle altre, «O hai paura di fare la stessa fine di tua madre?»
Irene non s'interessò all'insulto nei suoi confronti o in quelli di Valeria, al contrario, fu il suo gesto troppo audace a mandarla su tutte le furie. Indietreggiò e si abbassò la gonna della divisa scolastica mentre le altre ridevano, nera in viso.
«Ti metterai a piangere adesso?» le fece il verso una delle altre bulle.
Affatto. Non era triste, solo furiosa. Irene prese una gran rincorsa e afferrò Benedetta dal colletto della maglia, sbattendola al muro esterno della palestra. Un secondo dopo la colpì con un pugno così forte da romperle un dente. Continuò a colpirla, mentre lei le metteva le mani in faccia e le urlava di smetterla e le altre ragazzine correvano via urlando.
Irene aveva i denti scoperti e respirava nervosamente.
«Non toccarmi mai più.» sillabò tra un cazzotto e l'altro. La tirò dai capelli per impedirle di scappare e le assestò una ginocchiata nello stomaco che le tolse il fiato.
Mentre il pestaggio procedeva, le urla della malcapitata attirarono l'attenzione della docente che corse in cortile e strattonò Irene, tirandole anche un orecchio e dandole uno schiaffo sul collo.
La ragazza, però, era così furiosa che non si astenne dal colpire anche lei, facendola cadere a terra. Non la ferì ma riuscì a rendersi conto di cosa avesse fatto: Benedetta era irriconoscibile, una sacca di sangue malconcia che respirava a fatica e si contorceva senza riuscire più a parlare.
La famiglia di Benedetta denunciò l'accaduto e gli Alloro dovettero pagare una somma consistente per rimediare al guaio scatenato da Irene, che per giunta fu espulsa. Fu chiaro, a tal punto, che la scuola non le avrebbe concesso nessun futuro, così i suoi genitori le ordinarono di trovarsi un lavoro o di non farsi affatto rivedere. La giovane, però, aveva appena dodici anni e non riuscì a farsi assumere nemmeno come cameriera. Quando Valeria ebbe un secondo figlio, questa volta legittimo, Irene fu letteralmente sbattuta fuori di casa, non mise più piede in quella villa. E iniziò così la sua vita di stenti. Di solitudine.

[ • • • ]

Irene non viveva, sopravviveva. Andava avanti grazie a furtarelli, gioco d'azzardo, e a soli sedici anni cominciò ad aiutare altri delinquenti e criminali di piccolo conto, rubando persino auto di tanto in tanto e rivendendone i pezzi. Lasciò Siracusa, si spostò spesso per evitare che la polizia la seguisse. Ancora giovane arrivò a Napoli, dove proseguì con la sua vita di sempre, di tanto in tanto costretta a fare a pugni per un pezzo di pane o per dei vestiti. La centrale di polizia, oramai, la conosceva bene.

Un giorno le capitò di nuovo di non passarsela bene come avrebbe voluto. Aveva incontrato, la mattina presto, due teppisti come lei che aveva conosciuto in un bar qualche mese prima. Li aveva poi aiutati a scacciare uno spacciatore che si era preso la "loro zona". Ora che era stato arrestato, lei e i suoi amici avrebbero potuto compiere tutti i piccoli crimini che volevano, purché la polizia non li beccasse.
«Irene, ce ne hai messo di tempo!» le urlò uno di loro, di qualche anno più grande, vedendola arrivare in ritardo.
Lei si grattò la testa e rispose. «Dammi tregua, Rob, non è facile attraversare la città a piedi in pochi minuti.»
I due delinquenti stavano armeggiando con la serratura di un'Alfa Romeo 164 di colore rosso, una buona macchina benché non fosse esattamente l'ultimo modello.
Irene si avvicinò e portò le mani sui fianchi.
«Sul serio? Stavolta volete rubare una macchina?» chiese con uno sbuffo sorpreso.
«Perché, hai paura?» ridacchiò come una iena l'altro ragazzo, un ventitreenne di nome Vincenzo.
«Fottiti. Io non ho paura.» gli rispose lei.
Rob, cioè Roberto, si fece una bella risata.
«Questa ragazzina ha una lingua davvero tagliente!»
«Piantala, non sono una ragazzina!»
«Come ti pare, in ogni caso...»
La serratura della macchina scattò e Vincenzo fece in maniera tale che potesse essere messa in moto.
«Devi portare quest'auto nell'Arenella, sul retro della scuola elementare Alighieri. Lì ti aspetta un nostro contatto, ti darà dei soldi e si prenderà la macchina. Ci incontreremo dopo lo scambio al ristorante sul lato opposto di questa strada.» le spiegò Roberto, per filo e per segno.
Irene sussultò. Non che non fosse capace di fare quanto richiesto, solo che il luogo dello scambio non le sembrava particolarmente favorevole.
«Come, scusa?» esclamò all'improvviso, «Davvero... davvero devo portare fin lì l'auto?»
«Allora è vero che hai paura.» sghignazzò ancora Vincenzo.
«Considerala una prova di fiducia.» continuò al suo posto Roberto, «Ora che questa zona di Napoli è nostra, dobbiamo capire se possiamo fare affidamento su di te oppure no.»
Irene alzò gli occhi al cielo. Quella situazione le puzzava, tuttavia non poteva astenersi dal lavoro.
«D'accordo, prenderò quei soldi, però voglio il cinquanta percento del totale.» disse allora.
Questa volta, entrambi risero.
«Sei pazza, ragazzina.» mormorò Vincenzo senza più fiato nei polmoni.
«O alzate la paga, o non si fa nulla.» ribatté lei.
«Allora... facciamo il trenta.» provò a contrattare Roberto.
«Quaranta.»
«Va bene, va bene... avrai il quaranta percento del malloppo. Ora sbrigati, però.»
Contenta, Irene strattonò Vincenzo per farlo uscire dall'auto e prese il suo posto.
«Fai in fretta, Irene, o pranzeremo senza di te.» continuò poi il ragazzo.
«Non ci vorrà molto, vedrai.» gli rispose, poi mise i piedi sui pedali e partì nel giro di qualche secondo. Raggiungere il quartiere interessato non fu difficile, così parcheggiò sul retro della scuola, in un piccolo vicolo, e notò un uomo appoggiato alla parete che fumava una sigaretta in tutta tranquillità. Irene scese dalla macchina e lo osservò.
«Cacciatore?» le chiese.
Lei annuì.
«È questa la macchina?»
«Sì, l'ho presa qualche minuto fa. Hai i soldi?»
L'uomo affondò una mano in una tasca e le parlò senza guardarla direttamente.
«È stato difficile rubarla così, alla luce del giorno?»
Irene incrociò le braccia, non vedendo l'ora di poter girare i tacchi e prendere il primo autobus per tornare da dove era venuta. Pensò anche di escludere Roberto e Vincenzo dalla storia, per ingraziarsi l'uomo in maniera tale che sganciasse qualche banconota in più.
«Una passeggiata. Perché me lo chiedi?» chiese dopo, non comprendendo il motivo di quella curiosità.
Lui trovò ciò che cercava e sospirò. «Anche questo è stato più facile di quanto mi aspettassi.» commentò, totalmente fuori dal contesto. Poco dopo aprì la mano davanti agli occhi stupiti della ragazza, che si ritrovò di fronte un distintivo della polizia.
L'uomo strinse il viso ai vestiti, dove probabilmente era nascosta una cimice, e parlò. «Allora, avete sentito tutto?»
Una voce meccanica rispose subito. «Affermativo. Procediamo con l'arresto.»
Irene sbiancò di colpo. Si rese conto di aver confessato il furto direttamente a un poliziotto in borghese.
"Maledizione!" pensò trasalendo, "Quei maledetti lo sapevano?"
Due autovetture della polizia sbucarono dalla strada alle sue spalle e bloccarono l'ingresso del vicolo.
Il poliziotto provvide subito a prendere due manette dalla cintura legata al contrario, sulla sua schiena, e le strinse attorno ai suoi polsi. Irene era così sconvolta che non provò nemmeno a ribellarsi.
«Abbiamo ricevuto una soffiata anonima, piccoletta. Dev'essere il tuo giorno sfortunato.»
Altri poliziotti, questa volta in divisa, si avvicinarono a loro per prendere in custodia la ragazza.
«Irene Cacciatore, diciassette anni, nata a Siracusa... qualche precedente di poca importanza, tra cui un'aggressione ai danni di una coetanea a soli dodici anni. Sì, pare proprio che sia tu.» Il poliziotto in borghese lesse con calma quanto ricavato dalle ricerche, vicino alla macchina. «Tutto sommato non sembri un individuo pericoloso, non in confronto agli altri che sono dentro in questo momento. Un annetto in riformatorio ti basterà, vedrai.»
Le parlò come se non fosse altro che una dei tanti. Una di quei ragazzini senza futuro, cresciuti per strada, buoni a nulla. Esattamente come tutti le avevano parlato dal giorno in cui era nata.
«Sovrintendente, dobbiamo indagare sulla vettura. Cosa facciamo con la ragazza?» esclamò di colpo un agente.
«Mh... lasciatela al nuovo arrivato. Può benissimo scortarla in centrale da solo.»
L'agente sussultò.
«Parlate di Abbacchio, signore? Ma... ne siete sicuro?»
«Poche storie, stiamo già perdendo tempo. Abbacchio è un uomo grande e grosso, non credo proprio che avrà problemi a far stare buona una bambina.»
Irene strinse gli occhi. Non le piaceva essere considerata una bambina, capì però di non essere nelle condizioni adatte per lamentarsi.
L'agente tacque e la portò a una delle vetture, facendola salire nella zona posteriore. Bastò poco a capire che fosse un vecchio modello, uno di quelli dove non era nemmeno presente il separatore tra i sedili posteriori e quelli anteriori, o forse non era un'auto adatta agli arresti. In ogni caso, chiunque fosse l'autista, sicuramente si trovava in condizioni simile alle sue: qualcuno stava cercando di metterlo in difficoltà.
L'agente spiegò al collega quanto richiesto e poco dopo la macchina partì.
Irene trascorse il tempo del viaggio a pensare e, quando fu un po' più lucida, osservò lo specchietto retrovisore per dare un'occhiata al poliziotto alla guida. Forse poteva ancora tirarsi fuori da quel guaio. Pensò a un'idea e si lasciò sfuggire un sorriso.
«Cos'hai da guardare?» la rimbeccò poco dopo l'agente. Irene notò i suoi occhi gialli, tendenti al viola, scrutarla attraverso il vetro dello specchio.
Irene si guardò attorno. Notò accanto al volante un lettore CD e, sotto di esso, un libretto pieno di dischi con su scritto un nome a pennarello indelebile.
«Leone Abbacchio...» lesse ad alta voce, con un tono volutamente provocatorio. «Un nome un po' controverso, considerato che l'abbacchio è carne d'agnello...»
«Piantala.» la zittì l'uomo, molto giovane ma dall'aria severa, di nuovo con lo sguardo fisso sulla strada. «Non ho voglia di chiacchierare, quindi fai silenzio e torna a guardare fuori dal finestrino, o dove ti pare.»
Irene sollevò un sopracciglio. Era un tipo difficile, poco ma sicuro. L'impresa si rivelava più ardua di quanto immaginato.
«E perché no? Nessuno di noi due ha di meglio da fare, potremmo parlare un po'.» Strinse le labbra, preparandosi. «Qui, oppure... potresti fermare la macchina...»
Abbacchio non smise di guardare la strada ma, notando il cambiamento di voce della ragazza, parve quasi che una goccia di sudore freddo gli bagnasse la fronte.
"Ottimo", pensò Irene, che poco dopo si sporse in avanti senza smettere di sorridere.
«Pensaci bene. Un poliziotto ha sicuramente di meglio da fare che arrestare una ragazzina come me. Non ho mica ucciso qualcuno.» proseguì, «E potrei anche farmi perdonare, chi lo sa...»
Nel pronunciare quell'ultima frase, addirittura, arrivò a sfiorare il lobo dell'orecchio del poliziotto con le labbra tinte di rosso scuro.
Sapeva essere provocante con un minimo impegno: la aiutavano i suoi vestiti, la maglia corta piuttosto scollata e i pantaloni attillati, tutto di un color nero pece. I capelli, anch'essi tinti di rosso, incorniciavano il viso magro e facevano risaltare gli occhi allungati, truccati con una matita scura, dalle iridi del colore dell'oro.
Anche Abbacchio, d'altronde, era un bell'uomo, dai capelli bianchi e ben curati e l'aria da adulto nonostante avesse per certo pochi anni in più della ragazza. Irene provò vergogna nel tentare di sedurlo ma, nonostante ciò, non sarebbe mai arrivata fino in fondo. Le bastava distrarlo un po' e infine, alla prima occasione, darsela a gambe levate. Tra l'altro non vedeva l'ora di prendere a pugni in faccia i suoi due colleghi traditori.
Leone strinse gli occhi. Alla fine dei conti era un uomo, per cui non riuscì a restare impassibile in quella situazione. Irene continuò a guardarlo attraverso lo specchietto, calando man mano il viso verso il suo collo, convinta che stesse funzionando, finché i suoi occhi non la folgorarono di nuovo con un singolo sguardo.
«Non ci provare nemmeno, andrai dritta in centrale.» alzò la voce il poliziotto, scrollandosela di dosso con un movimento brusco del collo.
Irene tirò indietro la schiena, appoggiandola al sedile e sospirando. Il suo tentativo era fallito, per cui abbandonò l'aria da seduttrice per assumere un'espressione da ragazzina furente.
«Accidenti, agente. Dammi un'occhiata, ti sembro una criminale?»
«Hai rubato una macchina in pieno giorno e la tua fedina penale non è esattamente immacolata. Quindi sì, mi sembri una criminale. Una pessima criminale...» si beccò in risposta.
Stizzita, le lanciò un'occhiata. «Ho sbagliato, è vero, ma sono stata incastrata. Due idioti mi hanno chiesto di consegnare l'auto a una loro conoscenza. Perché non arrestate anche loro?» domandò come se pretendesse giustizia.
Abbacchio sollevò le spalle. «Non è a me che devi raccontare la tua storiella. In centrale avrai tutto il tempo di incolpare chi ti pare.»
Irene comprese che l'agente non le credeva. Probabilmente non le avrebbe creduto nessuno.
Infatti, una volta raggiunta la questura, venne interrogata ma nessuno la prese sul serio, come se stesse costruendo una storia con la quale tirarsi fuori dal problema, arrampicandosi sugli specchi senza risultati positivi.
Irene si arrese all'idea che ben presto ci sarebbe stato un processo e che, senza la presenza di valido avvocato, sarebbe stata sbattuta nel carcere minorile per un bel po'. La sola idea di essere reclusa in una zona di sole ragazze, obbligata a studiare e a lavorare sul suo comportamento, la fece star male. Le sembrava di dover rivivere il periodo della sua infanzia che odiava di più: quello della scuola. Quello in cui la sua vita era andata a rotoli.
E poi, quasi per miracolo, mentre attendeva in una cella provvisoria in attesa di una sentenza, un agente aprì la porta.
Irene sollevò gli occhi e poco dopo li spalancò, riconoscendo il volto di Leone Abbacchio.
«Tu...?» sorpresa domandò, sicura che non fosse una visita di cortesia.
Lui si fece da parte, sgombrando il passaggio.
«È il tuo giorno fortunato, ragazzina», esordì dopo, contraddicendo quanto detto dal poliziotto in borghese quella mattina. «La tua cauzione è pagata, sei libera di andare.»
Irene scattò in piedi, confusa.
«Cosa?» A grandi passi raggiunse il poliziotto e lo osservò dal basso della sua statura. Era una ragazza piuttosto alta, ma Leone Abbacchio la superava di netto. «Non conosco nessuno che sarebbe disposto a pagare per tirarmi fuori. Di chi tratta?» chiese.
Abbacchio le lanciò un'occhiataccia. Evidentemente non lo sapeva e non gli importava.
«Perché non lo scopri da sola?» la invitò.
Irene calò la testa e lo seguì dopo che richiuse la porta della cella. Poco dopo si ritrovò all'ingresso della questura.
«Cacciatore...» la chiamò Abbacchio prima di aprire la porta e lasciarla andare.
Lei si voltò a guardarlo con fare interrogatorio. Lui non la stava osservando direttamente, come se fosse un po' imbarazzato nel rivolgersi a lei.
«Non capita tutti i giorni di essere aiutati in questo modo. Pare proprio che tu abbia un santo in paradiso.» le spiegò con cura, «Quello che sto cercando di dirti è... non sprecare questa occasione. Dubito che chiunque abbia pagato per te lo rifarebbe di nuovo, quindi sta' attenta e medita sulle tue azioni.»
Irene non riuscì a reprimere un piccolo sorriso. Leone aveva ragione, certo, ma era stato carino da parte sua darle quella lezione di vita. La aiutò a riflettere.
«Perché mi dici questo? Se anche facessi di peggio una volta uscita, non causerei guai a te.» chiese dopo, per curiosità.
Lui le voltò le spalle, tenendo con una mano la visiera del cappello dell'uniforme.
«È solo un consiglio, non fraintendere. Scegli tu se seguirlo oppure no.»
Irene trattenne una risatina.
«Be', ti ringrazio. Proverò a fare come mi hai detto.»
Abbacchio le rispose con un singolo "mpf", un verso di congedo, e camminò via.
Irene ebbe l'impressione che prima o poi l'avrebbe rivisto. Chissà come, dove o quando. Il mondo è un posto piccolo e sicuramente sarebbe riuscita a incontrarlo di nuovo.
Uscì dalla centrale senza più guardarsi attorno, pronta a incontrare chiunque l'avesse salvata da una pena che le avrebbe causato più danni di quanto avrebbe potuto giovarle.
Eppure, incredibilmente, si ritrovò da sola sul marciapiede della strada. Chiunque fosse il suo benefattore, non era rimasto per incontrarla.
Nonostante ciò non si lasciò abbattere: la persona che aveva pagato per lei e Leone Abbacchio, quel giorno, le lasciarono un insegnamento fondamentale, più importante di tutto ciò che aveva appreso a scuola da piccola.
Da quel giorno si apriva un nuovo capitolo della sua vita, tutto cambiava. In meglio, in peggio... questo sarebbe dipeso da lei.
C'era un solo fattore certo: ben presto avrebbe vissuto una fantastica quanto bizzarra avventura.

 

 

 

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Capitolo 2
*** 02. The Evil That Men Do ***


[ THE EVIL THAT MEN DO ]

 
 

Trascorse più di un anno dalle vicende dell'auto rubata e dal rilascio di Irene dalla questura.
Furono mesi in cui cercò di vivere al meglio delle sue possibilità: non aveva intenzione di tornare a scuola e non avrebbe comunque avuto senso tentare, ora che era così grande, per cui si limitò a lavorare onestamente ogni volta che ne aveva l'occasione. Durante l'estate riuscì a farsi assumere come barista nel locale di una sua conoscenza a Napoli. Con il ritorno delle stagioni fredde, invece, si occupò di vendere giornali presso un'edicola non lontana dal luogo dove abitava: era un monolocale piuttosto sgombro, però almeno l'affitto non aveva un prezzo alto e lei poteva avere un tetto sulla testa.
Arrivò la primavera e, a quel punto, riuscì a farsi assumere in una tabaccheria in un quartiere tranquillo della città.
Finalmente aveva l'impressione di poter ricominciare da capo, di essere diventata una persona migliore. Stava bene con se stessa e aveva lasciato il passato alle spalle, tutto ciò finché una sera non accadde qualcosa che parve trascinarla brutalmente nell'abisso dal quale era riuscita a sfuggire dopo tanti stenti.

Era una calma serata di inizio aprile. Faceva abbastanza caldo, benché l'inverno fosse finito da poco. Irene era in servizio al tabacchino e, dopo aver servito una donna che le chiese un pacchetto di Marlboro e le lasciò un paio di lire, lieta di donarle il resto. Era una cliente abituale e una volta aveva comprato un gratta e vinci fortunato grazie alla ragazza, che aveva quindi preso in simpatia.
Rilassata, Irene sistemò tutto in cassa e andò a sedersi in un angolo del bancone, leggendo in tutta tranquillità un giornalino, occupata nel risolvere un cruciverba che, al 13 orizzontale, le chiedeva cosa si prendesse dopo il decollo. Mentre scribacchiava distrattamente la parola “quota” con la bic nera sulla pagina, un uomo alle sue spalle incrociò le braccia.
“La signora Nocetti non ha comprato nessun gratta e vinci, questa volta?” le domandò in tutta calma.
Irene, dando una sistemata ai lunghi capelli rossi legati in uno chignon dietro la testa, rispose senza voltarsi.
“No, pare proprio che avesse finito le monete per stasera, ha chiesto solo le sigarette.” raccontò prima di continuare con il suo passatempo. “Mh... “Copricapo con visiera frontale”. Otto lettere. “Cappello” non corrisponde.”
“Hai provato con “berretto”?”
Irene inserì subito la parola.
“Ber - ret - to. Entra perfettamente, tra l'altro era più facile di quanto pensassi. Grazie, Sergio!”
L'uomo si fece una risata, divertito. Irene non represse un sorriso.
Da quando aveva iniziato a lavorare lì, aveva stretto un'amicizia sincera con Sergio Canestrelli, il proprietario un po' anziano del negozio. Era un uomo beneducato e gentile con tutti, in zona era molto conosciuto e tutti lo rispettavano: quando lei si era presentata nella speranza di poter occupare il posto vacante come dipendente e aveva dovuto rivelare di avere dei precedenti penali, lui non l'aveva respinta come altri avevano fatto subito. Al contrario, l'aveva tratta come una normalissima persona e l'aveva aiutata a migliorarsi e a tornare sulla retta via. Ormai Irene lo considerava un caro amico, nonostante l'incredibile differenza d'età.
Sergio diede un'occhiata alla strada prima di voltarsi.
“Pare che non ci sia nessuno. Si è già fatto tardi e ormai arrivano solo pendolari in cerca di ricariche telefoniche o pacchetti di sigarette. Sei sicura di non voler tornare a casa? Posso cavarmela per qualche ora anche da solo, lo sai.” le propose.
Irene scosse una mano e alzò il viso per guardarlo.
“Non c'è bisogno di preoccuparsi! Lo sai che per me aiutare è un piacere, preferisco fare gli straordinari gratuitamente che starmene chiusa in camera senza far nulla.”
Sergio sospirò e passò accanto a lei, tornando indietro e dandole una pacca sulla spalla prima di osservare gli scaffali dietro la ragazza.
“Accidenti... le Marlboro in esposizione sono finite. Ti dispiacerebbe andare a prendere qualche altro pacco in magazzino?” domandò, un po' stanco a causa dell'orario.
Irene, energica, mise da parte il cruciverba e saltò giù dalla sedia. Memorizzò l'esatta marca da dover prendere e anche quelle che stavano per finire.
“Ci penso io, non preoccuparti!” rispose serena, avvicinandosi verso la porta sul retro.
“Grazie mille, sei davvero gentile. Attenzione però, fuori tira un po'di vento.” l'avvertì Sergio, massaggiandosi i baffi grigi e folti.
Irene afferrò la giacchetta di jeans prima di uscire. Era lieta che finalmente soffiasse un po' di brezza, l'aria ultimamente era piuttosto calda e dentro il tabacchino i riscaldamenti erano ancora accesi poiché Sergio era molto freddoloso.
Per raggiungere il magazzino doveva solamente uscire sul retro, attraversare una stradina erbosa ed entrare in una seconda struttura più piccola, dove il signor Canestrelli aveva sistemato la merce di rifornimento che gli giungeva dalle aziende dedite alla diffusione dei prodotti.
Entrò, trovò le sigarette e le ripose in uno scatolo di cartone per trasportarle meglio. Ci mise meno di due minuti e si fermò solo per inspirare a fondo l'aria primaverile del luogo. Una pianta di gelsomino cresceva accanto all'uscio del negozio e il venticello le trasportò il dolce profumo dei suoi fiori. Fu una splendida sensazione, tuttavia dovette presto ridestarsi e tornare al suo lavoro. Quando aprì la porta sentì due voci scambiarsi qualche battuta e così pensò che fosse arrivato un altro cliente. Stava per attraversare il piccolo corridoio per tornare al bancone quando, all'improvviso, non comprese e sentì meglio cosa stava accadendo.
“Sei sordo, vecchiaccio? Ti ho detto di mettere i soldi nella borsa!”
Irene strabuzzò gli occhi e smise istintivamente di respirare, sentendo il cuore battere sempre con più forza nel suo petto. Quella non era la voce di Sergio. Non era una voce amichevole.
“Ehy, ascolta... non farlo, ragazzo, questi soldi mi servono...” provò a convincerlo Sergio.
Lei sapeva che stava dicendo il vero: la moglie di Canestrelli era molto malata e lui utilizzava il ricavato delle vendite per pagarne le cure mediche. Aveva assunto Irene proprio perché aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse in tabaccheria da quando la coniuge si era dovuta ritirare a una vita domestica.
“Credi che possa fregarmene qualcosa? Muoviti o ti ritroverai una pallottola nel cranio!”
Irene udì quelle parole e strinse le dita, accucciandosi contro la parete del corridoio e posando a terra lo scatolo. Avrebbe tanto voluto intervenire ma, in quel momento, pensò alle conseguenze che quell'azione avrebbe comportato ed ebbe paura. Il rapinatore era armato e lei non avrebbe certo potuto sconfiggerlo con un pacco di Marlboro.
“Ti prego di ascoltarmi. Se cambierai idea non chiamerò nemmeno la polizia. Non posso darti questi soldi.” Sergio tentò di far ragionare il giovane criminale.
“Zitto! Fa' come ti ho detto!”
“Mia moglie è malata. Il ricavato mi serve per comprare i farmaci necessari.”
“Non m'importa! Sbrigati o ti ammazzo!”
“Cerca di ragionare...”
Irene si sporse da un angolo della parete, vedendo a stento la scena.
Il criminale non sembrava particolarmente lucido. Aveva gli occhi arrossati e la pelle molto pallida. Le mani gli tremavano compulsivamente. Non fu difficile comprendere che fosse un tossicodipendente in cerca di soldi per acquistare un po'di droga. Probabilmente era in astinenza già da un bel po'.
Sergio avrebbe voluto aiutare anche lui. Era una persona buona come il pane e, ritrovandosi davanti un ragazzino dell'età di Irene, decise di provare a fargli cambiare idea.
“Ciò che cerchi ti farà stare solo peggio. Non vedi cosa ti sta facendo fare proprio adesso? Abbassa la pistola, parliamone con calma...” mormorò appena, con voce calma.
Lo sconosciuto, però, afferrò l'arma con entrambe le mani e lanciò un urlo così imbestialito che una piccola schiuma si formò ai lati delle sue labbra.
“Non sai stare zitto, vero vecchio? E allora va' al diavolo!” strillò prima di premere il grilletto con un altro grido.
Irene si coprì la bocca con entrambe le mani, pietrificandosi sul posto.
Sergio non urlò ma emise un verso dolorante: si portò entrambi le mani al torso e indietreggiò fino a sbattere la schiena contro gli scaffali. Da lì, poi, cadde accasciandosi al suolo mentre il criminale continuava a tremare.
Irene sentì le lacrime pizzicarle gli occhi ma non ebbe l'istinto di piangere, l'adrenalina glielo impedì. Piuttosto, un montante di furia cieca la attraversò come una scarica elettrica.
Il tossicodipendente si gettò sulla cassa nell'esatto momento in cui lei, senza pensare ai rischi della sua mossa, gli si parò davanti per gettarsi al suolo e controllare le condizioni in cui versava Sergio. 
Nel vederla, l'aggressore sussultò e indietreggiò spaventato finché non capì che si trattava di una ragazzina. A quel punto sollevò di nuovo la pistola, respirando con affanno ma pronto a ripetere lo stesso errore.
Irene tentò di parlare con il vecchio proprietario che stava per perdere i sensi. Una macchia rossa si allargò sulla sua spalla, sporcando la sua maglia bianca e la giacchetta sopra di essa.
“Sergio! Sergio, non chiudere gli occhi!” provò a dire con voce spezzata, finché non si girò in preda al panico e si ritrovò l'arma da fuoco a pochi metri di distanza.
Senza esitazioni, il rapinatore sparò per uccidere anche lei, che chiuse gli occhi senza neppure realizzare cosa stesse accadendo. Il suo movimento era stato istintivo.
Sentì un click poco rumoroso. Poi un alto. E un altro ancora.
“Eeehhh?!?”
Il criminale sembrava deluso.
La ragazza aprì gli occhi e sudò freddo ma sospirò di sollievo nel vedere la pistola fuori uso. Sembrava che si fosse inceppata e, per quanto egli provasse a cliccare il grilletto, questo non si abbassava e il proiettile in canna non veniva sparato, come se fosse scarica.
A quel punto, le espressioni dei due cambiarono del tutto. Il criminale si ritrovò con le spalle al muro e disarmato, mentre Irene si sentì pervadere dall'ira e realizzò di avere letteralmente il coltello dalla parte del manico. Infatti portava un piccolo coltellino sempre con sé, nella tasca dei pantaloni sulla sinistra, e lo afferrò per l'occasione. Non l'aveva mai usato contro qualcuno prima d'allora ma lo teneva a portata di mano per qualsiasi emergenza. Questa era una di quelle emergenze.
“Hai ferito Sergio…”
Quasi soffiò aria dalle narici.
“Perché lo hai fatto, maledetto? È un brav'uomo! Non hai sentito cosa ti ha detto?!?”
Il criminale indietreggiò.
“Stai… stai indietro! Ti ammazzo se ti avvicini, i- io ti ammazzo!” prese a balbettare.
Nera in volto, la ragazza dimenticò qualsiasi buon proposito imparato il giorno in cui era stata salvata dal processo che l'avrebbe spedita in un carcere minorile.
Aggirò il bancone e lo osservò con il veleno negli occhi.
“Non te lo perdonerò. Adesso proverai il peso delle conseguenze delle tue azioni…”
Terrorizzato, il tossicodipendente su di giri lanciò a terra la pistola e, facendo un mezzo giro su se stesso, corse a perdifiato verso la porta del tabacchino, uscì fuori quasi rompendosi una spalla contro un muro e cominciò a correre.
Irene avrebbe tenuto fede alla promessa fatta. Si voltò a guardare l'anziano, che tese docilmente una mano verso di lei.
“Irene…”
“Non preoccuparti, Sergio. Gli restituirò il favore con gli interessi.”
Dopo aver risposto, senza neanche attendere una replica, si gettò alle calcagna del rapinatore con l'intenzione di fargli davvero molto male. In quel momento finire in carcere non le interessava, ci sarebbe andata volentieri pur di vendicare il signor Canestrelli che, nel frattempo, cercò di impedirle di andare e rovinarsi con le sue stesse mani. Purtroppo, Irene non udì mai le sue parole.
Aveva lasciato la giacchetta nel tabacchino, per cui fuori sentì più freddo di quanto avesse pensato, eppure ciò non fu sufficiente a impedirle di inseguire a perdifiato l'uomo che avrebbe voluto ridurre in brandelli su quel marciapiede sul quale stava correndo. Era piuttosto lontano ma non lo perse di vista neanche per un attimo, con i nervi a fior di pelle.
Lo rincorse per le strade e per i vicoli, urlandogli dietro e, per sicurezza, afferrò anche il telefono e chiamò subito un'ambulanza. Non rilasciò altre informazioni se non il tipo di ferita che stava per uccidere Sergio e il luogo in cui si trovava. Era sicura che l'avrebbero trovato e che lei avrebbe fatto i conti con le autorità più tardi. Forse addirittura con un’accusa di omicidio.
Svoltò l'angolo per l'ennesima volta dopo la telefonata e vide l'aggressore arrampicarsi su una rete all'interno di un vicolo e rintanarsi all'interno di un campetto da calcio. Imperterrita, Irene lo seguì mimando i suoi spostamenti, senza riuscire neppure a pensare. Riusciva solo a vedere il suo obiettivo: raggiungerlo e fargliela pagare a tutti i costi.
Quando svoltò per l'ennesima volta, infine, si ritrovò in un vicolo cieco.
Il criminale era davanti a lei, spalle al muro, e la osservò con aria fin troppo tranquilla.
Irene rigirò il coltellino tra le dita.
"Hai ferito un uomo innocente!" gli urlò contro, furibonda. "Per cosa, poi? Un po' di soldi per comprarti della droga? Quella roba ucciderà anche te!" sbraitò.
Il tossicodipendente si grattò il mento, divertito, e si fece una risatina.
Irene si sentì pervadere da un'altra ondata di furia cieca.
"Ti sembra divertente, maledetto?!?" si avvicinò a lui, pronta a colpirlo.
"Non è quel che hai detto a essere divertente," le rispose lui mentre la osservava avvicinarsi con cattive intenzioni, "Ma quello che ti faranno i miei amici ora che ti ho portata da loro..."
E scoppiò in un'altra risata.
Questa volta, la ragazza trasalì nel sentire un rumore alle sue spalle.
Fece appena in tempo a voltarsi quando qualcuno la colpì con una gomitata in pieno viso. L'attacco fu così improvviso che non ebbe tempo di pararsi o di realizzare cosa stesse accadendo. Volò a terra, inerme, e sentì un forte bruciore espandersi in tutto il viso, che si tastò quando un lamentò le sfuggì di bocca. Sangue caldo scorreva sulle sue dita.
"Una ragazzina?" domandò un uomo che non aveva mai visto prima, "Sul serio? Hai portato fin qui una ragazzina? Che intendevi farci?"
Il tossicodipendente si rigirò la pistola inceppata tra le mani, poi la gettò a terra.
"È stata lei a inseguirmi. La rapina è andata male e quell'idiota del tabaccaio si è beccato una pallottola..."
"Idiota. Così hai attirato l'attenzione su di noi!"
"Calma, calma... non è detto che morirà! Potrebbe... guarire, no?"
"In ogni caso risalirebbero a noi. Complimenti, ci hai messo in un bel guaio. Specie ora che questa paladina della giustizia ha visto la tua faccia. Sai cosa ci tocca fare adesso?"
Un piede toccò il viso di Irene e lo colpì di nuovo, obbligandola a stendersi a terra sulla schiena e a rivolgere il volto al cielo notturno. Naso e labbra erano pesti, il coltello era caduto lontano e lei era stata confusa da quel colpo inaspettato.
Notò almeno altre quattro persone accanto a lei, tra cui l'uomo che aveva parlato con il rapinatore.
Era un colosso di muscoli alto almeno un metro e novanta, con i capelli lunghi e la barba folta, ricoperto di tatuaggi anche sulla faccia. Gli altri stavano alle sue spalle come fedeli scagnozzi. Alcuni avevano in mano tubi di ferro o mazze di legno.
"Quanti anni avrà? Sedici o diciassette? Che spreco." sputò a terra l'uomo barbuto. "Comunque sia non possiamo lasciarla andare. Non è tanto della polizia che mi preoccupo, quanto di Passione..."
Passione?
Irene non capiva a cosa si riferisse, non riuscì a trovare il senso di quella frase e diede la colpa ai suoi sensi annebbiati.
"Che vuoi che importi se è giovane o no? Facciamola fuori e poi torniamo a finire il vecchio. Sarà un problema in meno per tutti." tornò a parlare l'aggressore della tabaccheria, avvicinandosi pericolosamente a Irene.
Lei non riusciva a muovere un muscolo, come se gli arti non rispondessero più ai comandi del cervello.
Sprofondò nel panico, non sapendo che fare. Temette che sarebbe finita lì la sua breve vita: lontana dalla sua città natale, senza una famiglia, in una strada sperduta della periferia di Napoli, per una stupida azione impulsiva che in condizioni normali avrebbe certamente evitato di compiere.
Chiuse gli occhi, ricevendo un altro calcio, questa volta dritto alle costole.
"Bah. La colpa è tua, occupatene tu. Non voglio avere una bambina sulla coscienza." annunciò l'uomo barbuto, come se l'evitare di ucciderla restando però a guardare mentre qualcun altro sbrigava il compito al posto suo fosse più onorevole.
Irene pregò per la prima volta in vita sua. Non credeva in un Dio specifico, si ritrovò solo a domandare al cielo di aiutarla in qualche modo. Anche perché non solo lei era in pericolo, ma anche Sergio.
Il criminale raccolse il coltello della ragazza da terra e le si avvicinò.
"Sei il solito fesso. Ti mostro come si fa, dato che non hai le palle di occupartene da solo!" sghignazzò sollevando le braccia, pronto a colpire.
Irene chiuse gli occhi e strinse i denti. Non aveva fiato e la paura l'aveva congelata. I suoi capelli rossi e disordinati erano sparsi per terra tutt'attorno al suo volto e uno zigomo aveva iniziato a tingersi di una tonalità livida.
Continuò a pregare. E avvenne un miracolo.
Di colpo, qualcuno urlò e cadde a terra. Era uno degli uomini alle spalle del delinquente con la barba. Irene diede una sbirciata e riuscì a notare che una gamba gli era stata strappata ed era adesso a terra, dove stava perdendo sangue. I suoi margini erano costeggiati da qualcosa che aveva tutta l'aria di essere una cerniera.
Irene si chiese come fosse possibile e se non stesse delirando, già tra le fredde braccia della morte.
"Ma che diamine...?" urlò uno dei restanti, che venne subito trascinato nelle ombre del vicolo e gridò di paura.
L'uomo con la barba indietreggiò, raggiungendo il tossicodipendente, e parve alquanto spaventato.
"Chi diavolo c'è?!?" sussultò furente.
Il criminale rivolse il coltellino alle tenebre.
"G... Guarda che sappiamo che sei lì! Fatti avanti, così posso affettarti come un pesce!" minacciò inutilmente.
Non ci fu altro che silenzio. Solo, all'improvviso, qualcosa sferzò l'aria.
Qualcosa che aveva tutta l'aria di essere un braccio, legato a un filo identico alla cerniera sulla gamba dell'uomo, ora scomparso nel buio come il compagno.
I tre criminali rimasti erano tutti ammassati in un unico punto e il pugno volante arrivò dritto in faccia a uno di loro, per poi ritirarsi di colpo.
"Cosa?!?" gridarono i due rimasti in piedi, rispettivamente il rapinatore e il capobanda barbuto.
Irene non riuscì a seguire tutta la scena, sentendosi ancora disorientata a causa del colpo ricevuto in pieno mento. Comprese solo che qualcosa, o qualcuno, le aveva salvato la vita.
"Allontanatevi dalla ragazza." ordinò una voce ferma e determinata, dotata di una certa autorità. "Se lo farete, non vi farò del male."
Di nuovo, l'aggressore si guardò attorno impugnando la piccola lama.
"Ah!" rise sfacciato, "Chi ti credi di essere? Fatti vedere, se ne hai il coraggio!"
Seguì un breve silenzio, poi lo sconosciuto tornò a parlare.
"Tempo scaduto. Avete fatto la vostra scelta."
Un rumore di suole contro la strada riecheggiò più vicino e, in breve, un uomo dall'aria insolita apparve accanto a Irene, in piedi e dalla postura composta. Aveva l'aria di essere un giovane intelligente e audace, ma la ragazza non riuscì a vederlo bene in volto.
"Sei tutto solo, poverino..." rise ancora il criminale.
"E-Ehy...! Aspetta, io so chi sei tu!" balbettò di colpo l'altro, iniziando a preoccuparsi.
"...Eh? Che intendi dire?" gli chiese il compagno.
"Butta via quel coltello, idiota! Dobbiamo andarcene!"
Immediatamente l'uomo barbuto voltò le spalle al misterioso eroe e tentò di scappare e, a quel punto, accadde qualcosa che cambiò la vita di Irene per sempre.
Accanto al soccorritore si materializzò una strana figura antropomorfa, uno strano essere che sembrava l'unione tra un umano e una macchina da guerra. La sua pelle era bluastra e portava in viso un curioso elmetto argentato che gli copriva tutti il volto eccetto le labbra. Vari tiretti uguali a quelli delle comuni cerniere lampo adornavano il suo corpo come accessori dorati, esattamente come facevano con l'uomo accanto alla creatura, vestito quindi in maniera alquanto bizzarra.
Lo strano guerriero apparso dal nulla sollevò in aria i pugni mentre l'uomo guardava impassibile la scena, dopodiché si avvicinò al fuggitivo.
"Ariii!!!" urlò prima di colpirlo con un pugno dritto alla schiena che lo fece cadere a terra. Incredibilmente, sul dorso gli si creò una zip che lo divise a metà da una spalla al fianco opposto.
Il criminale armato sussultò, senza far cadere il coltellino. Messo alle strette non poté che decidere di attaccare a sua volta, così prese la rincorsa e si gettò sull'estraneo.
I suoi movimenti sembravano una registrazione al rallentatore al confronto di quelli dell'eroe senza nome, che in meno di mezzo secondo sollevò il braccio e lo colpì allo stomaco con forza tale da farlo barcollare all'indietro e vomitare.
"Sparisci dalla mia vista." intimò all'aggressore che, però, non si diede per vinto e tornò alla carica non appena ebbe di nuovo l'aria nei polmoni.
Affatto indulgente, il soccorritore mantenne la parola data e lo colpì un'altra volta, poi un'altra ancora.
Il criminale barcollò all'indietro, martoriato, e perse i sensi cadendo a terra.
Nessuno dei nemici era più in piedi, e tutto grazie a quell'eroe misterioso.
La strana creatura scomparve come per magia, fondendosi con l'uomo come se tramontasse alle sue spalle, ed egli si avvicinò alla ragazza a terra, portando due dita gelide alla sua gola per controllare il suo battito. Parve sospirare nel sapere che stava bene e che era intervenuto appena in tempo.
"Ragazzina, riesci a sentirmi?" chiese poi calandosi su di lei. Delicatamente la afferrò per le spalle e, messa una mano sulla sua schiena, la aiutò ad alzarsi.
Irene sputò un fiotto di sangue che le macchiò i vestiti e mancò per miracolo il ragazzo.
"Non sei nella migliore delle condizioni..." commentò tristemente il giovane uomo, "In ogni caso non devi preoccuparti. Adesso sei al sicuro."
Irene volse appena la testa per osservarlo: aveva un insolito taglio di capelli, con una frangia nera aperta sulla fronte che aveva l'aria di essere stata tagliata di recente, e una treccia percorreva il capo in alto, sostenuta da due fermagli dorati. I suoi occhi erano di un profondo azzurro e ricordavano tanto le acque del golfo napoletano nei giorni d'estate.
Quella fu l'ultima immagine che impresse nel suo pensiero prima di chiudere gli occhi, esausta, e di lasciarsi andare tra le braccia del suo salvatore, il quale provò a richiamarla più e più volte prima che perdesse i sensi.
Da quella sera, la sua vita sarebbe di certo cambiata. Non restava che affidarsi al destino.


 

***

Nota Autrice: Salve cari lettori! Sono tornata con questo nuovo capitolo, un altro pezzo che non rientra tra i miei preferiti fra quelli che ho immaginato di preparare ma che mi serviva per aprire realmente la storia e presentare finalmente... il caro Bruno, il mio personaggio preferito! Non ho potuto descriverlo benissimo in quanto si tratta del suo primo incontro con Irene, tuttavia nei prossimi capitoli vi assicuro che vedrete non solo lui ma anche gli altri membri della sua banda e conoscerete le loro condizioni in quest'AU dove tutti sono sopravvissuti allo scontro con Diavolo. La nota si chiude qui, spero di postare presto un nuovo capitolo, intanto se vi va lasciate pure una recensione, le apprezzo molto! Un saluto ^^

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Capitolo 3
*** 03. Stranger in a Strange Land ***


Irene si risvegliò a causa di un fortissimo mal di testa. 
Non riconobbe l'ambiente in cui si trovava finché la stanza non smise di girare su se stessa. Intense luci a led bianche erano appese al soffitto e un leggero venticello soffiava da una finestra semiaperta.
Si tastò la fronte dolorante sicura di avere qualche livido e cicatrice in viso, oltre a delle bende. Impiegò qualche secondo a ricordare cosa fosse successo e, quando ci riuscì, tra i suoi pensieri prevalse l'immagine di colui che le aveva salvato la vita dal gruppo di criminali intenti a ucciderla.
Incredibilmente, una voce familiare la attirò dal lato opposto della stanza.
«Ti sei svegliata.» constatò solamente, quasi con sollievo. In generale, però, sembrava atona e alquanto severa.
Irene sussultò e seguì il suono con lo sguardo, che incontrò degli occhi dello stesso colore del mare. Aveva davanti a sé proprio colui che l'aveva soccorsa.
Capì subito di essere in ospedale. E che era stato lui a portarla fin là.
«Come ti senti? Immagino che i tuoi sensi siano ancora confusi. Quei criminali ti hanno colpita con forza.» continuò a dire in tutta tranquillità.
Tra le mani teneva un libro, Trainspotting di Irvine Welsh, Che richiuse con calma dopo aver posto un segnalibro tra le prime pagine. Irene non conosceva la trama di quel romanzo ma giudicò bizzarra la copertina gialla e molto semplice.
Piuttosto, mentre i ricordi si facevano man mano più chiari, si mise a sedere con la schiena contro la spalliera.
«Chi sei tu? E... e dove mi trovo?» domandò immediatamente, agitata come un animale selvatico che non si fida di alcun uomo. Dopotutto, era così che era cresciuta: non sapeva nemmeno cosa fosse la fiducia.
«Questo è l'ospedale San Paolo. Sei arrivata ieri notte al pronto soccorso, avevi perso i sensi, e i medici si sono occupati di te.» gli rispose lui con calma, dando una rapida occhiata all'orologio appeso alla parete, che segnava le nove del mattino.
«Arrivata? Di sicuro non sono venuta fin qui da sola.»
«Vado a chiamare il dottore, così potrà visitarti. Dato che ti sei ripresa, lascerò l'ospedale. Cerca di guarire in fretta.»
L'uomo si alzò in tutta tranquillità, senza rispondere alla domanda più importante.
Irene si sentì più frustrata che mai. Non riusciva a capirlo.
«Aspetta!»
Nell'urlare quella parola si alzò dal letto e per poco non perse l'equilibrio, finendo a terra. Si resse in piedi per pura fortuna ma notò che l'uomo parve pronto a muoversi verso di lei per sorreggerla, preoccupato. Quello era un buon segnale.
«Non dovresti stare in piedi.» sottolineò composto, tornando a drizzare la schiena.
«Chi sei tu?» insisté ancora la ragazza, «E... chi diavolo era quell'uomo mascherato con te ieri sera?» provò a descrivere. L'immagine di quella strana figura umana dalla pelle blu rinforzata d'argento, con zip sparse qui e là sul corpo, la tormentava.
Lo sguardo del salvatore si fece incerto.
«Uomo mascherato?» domandò allora, «Non c'era nessuno con me ieri sera. Evidentemente sei ancora molto confusa. Cerca di riposare prima di essere dimessa.»
Irene scosse le braccia con vigore.
«Non sono affatto confusa! C'era quella... quella strana persona che combatteva per te! Aveva un casco argentato e... e degli spuntoni, con delle cerniere!»
Nel giro di qualche secondo si rese conto che ciò che stava dicendo non aveva affatto senso. Difatti le bastò osservare il viso del suo interlocutore per accorgersene. L'uomo sembrava impallidito all'improvviso, quasi incredulo.
Irene si schiacciò una mano contro il viso, senza speranze.
«Maledizione... sembro una pazza. Che abbia davvero immaginato tutto?»
«Tu puoi vedere Sticky Fingers?» domandò lui senza nemmeno ascoltare quella sua ultima frase, con una serietà sconvolgente.
La ragazza batté le palpebre, più confusa di prima.
«... Sticky- che?» ripeté.
L'uomo respirò a fondo e portò l'indice al di sotto del mento, pensoso.
«Incredibile... una portatrice di Stand che non fa parte dell'organizzazione. Non mi capitava un caso del genere da tempo.» parlò fra sé e sé, peggiorando lo stato d'animo della povera Irene.
Ella, infatti, indietreggiò piegando la testa su di un lato.
«Che stai farfugliando?» cercò di attirare la sua attenzione, «Inizio a pensare di non essere l'unica matta qui...»
L'uomo dall'insolito vestiario le voltò le spalle, assorto in altri pensieri.
«Ascoltami: noi due dobbiamo discutere di questa faccenda, ma non qui e non adesso. Vedrò di farti dimettere in giornata. Quando lascerai l'ospedale, sarò lì ad aspettarti. Tu intanto lascia che il dottore ti visiti e pensa a riposare, ti sarà tutto spiegato a tempo debito.»
Non aggiunse altro. Non aspettò nemmeno che gli rispondesse: spedito attraversò la porta e lasciò la stanza. Irene l'avrebbe persino seguito, se non fosse che era scalza e indossava un pigiama azzurrino che sicuramente qualche cameriera le aveva messo dopo averla guarita.
Con il mal di testa più forte che avesse mai avuto tornò a stendersi sul letto, notando entrare il dottore.
La visita durò relativamente poco e la ragazza fu sorpresa di notare il trattamento riservatole dall'ospedale e dai suoi dipendenti: mangiò prima di qualsiasi altro paziente e nel corso della mattinata più volte delle infermiere accorsero a chiederle se le servisse qualcosa. Dopo pranzo le spettò un'altra visita. Terminata questa, il dottore scribacchiò distrattamente qualcosa su un foglio, con aria soddisfatta.
«Il signor Bucciarati aveva ragione, può essere dimessa oggi stesso. Tra un'ora alcuni membri del personale le consegneranno i suoi vestiti e potrà lasciare l'edificio.» avvisò l'uomo, per poi fermarsi. «È la prima volta che si dimostra così frettoloso di vedere uscire qualcuno dall'ospedale, o almeno da quando io sono in servizio qui al San Paolo. Lei... è per caso una sua amica o parente?» domandò allora con curiosità.
Irene lo guardò totalmente confusa. «Bucciarati? E chi sarebbe?»
Il dottore rise brevemente.
«Ho capito... lei non è del posto, vero? Da quanto tempo si trova a Napoli?»
«Da un paio d'anni... per quale motivo? Dovrei conoscerlo?»
Lui non le rispose.
«Accidenti, quell'uomo non perde mai il vizio di aiutare i più bisognosi. Dovrebbe esserle grata, Bucciarati è un uomo... piuttosto importante, qui in città. Sembra avere un'occhio di riguardo per lei.»
Irene capì che portare avanti la discussione l'avrebbe solo confusa ancor di più. Rimase quindi in silenzio, frustrata da quel giochetto che tutti parevano conoscere tranne lei.
La visita continuò senza intoppi. Ebbe modo di chiedere informazioni a proposito del signor Canestrelli e, fortunatamente, scoprì che grazie alla sua telefonata era stato soccorso appena in tempo e adesso era ricoverato in quello stesso ospedale. Irene ne era felice ma sapeva che ci sarebbero state conseguenze legali a quell'episodio, il che le fece pensare che sarebbe stata giudicata colpevole anche lei per aver cercato di aggredire il tossicodipendente. Con grande stupore, però, si sentì dire dal dottore che non v'era ragione di preoccuparsi. L'uomo della sera prima si era già occupato di tutto.
Come le era stato promesso, nel pomeriggio poté finalmente uscire dall'ospedale. La luce del crepuscolo tingeva il cielo di rosa e arancio, le nuvole grigiastre si stagliavano contro quel manto sfumato.
Lasciò l'edificio, lieta che i suoi vestiti fossero stati ripuliti e che non fossero strappati, ma pensò lo stesso di dar loro un'altra lavata una volta tornata a casa, prima di fare una lunga doccia calda per rilassarsi almeno un po'.
Aveva quasi dimenticato l'incontro con il suo fantomatico eroe, per cui subì un brusco risveglio dai suoi pensieri di gloria quando se lo ritrovò davanti nel parcheggio di fronte al San Paolo.
«Ben trovata. Come ti senti?» la salutò lui, dimostrando una certa educazione a discapito del viso un po' burbero.
Al contrario, Irene non aveva regole o morali da rispettare. Gli lanciò un'occhiata alquanto torva, considerando il loro incontro una sorta di sfortuna.
«Come qualcuno che è stato malmenato da una banda di idioti e che ha solo voglia di andare a casa per dormire un po'.» rispose con intenso sarcasmo, sorprendendosi di non vedere alcun segno di fastidio nell'uomo. Allora, curiosa, pensò di prendere le redini del discorso. «Allora? Si può sapere chi sei tu? Il dottore ha accennato un nome e ha detto che sei un tipo importante qui a Napoli. Un vero peccato che io sia l'unica a non conoscerti.»
Il ragazzo incrociò le braccia mentre il sole tramontava alle sue spalle.
«Il mio nome è Bruno Bucciarati.» si presentò quindi, schivo almeno quanto lei. «Ma non ti servirà sapere altro su di me. A essere sinceri, non ti conviene affatto conoscermi. Il motivo per cui sono tornato qui è che intendo capire chi sei tu
L'altra ascoltò cercando di non infuriarsi inutilmente.
«Vuoi conoscermi, ma non vuoi che io conosca te. A che gioco stai giocando?» lo provocò come suo solito, cercando come sempre di averla vinta.
«Ti assicuro che non sto affatto scherzando. Il motivo per il quale mi comporto così è più che valido.» ribatté lui.
Incredibile: nonostante Irene sapesse rendersi odiosa quando lo desiderava, quel giovane non batteva ciglio di fronte alla sua spavalderia. Era calmo come se fosse fatto di ghiaccio. Irremovibile.
Capì di non avere né il tempo né la pazienza per metterlo alla prova.
«Mi chiamo Irene.» sibilò quindi, senza smettere di fissarlo, «Irene Cacciatore. E prima che tu me lo chieda, non sono di qui. Quindi potrei sapere perché non vuoi rispondermi? Non capisco il motivo della tanta pericolosità di cui parli.»
Bucciarati parve riflettere per un attimo, come se il nome non gli fosse nuovo, ma non aprì un secondo discorso. Era chiaro che non fosse un amante dei giri di parole. Si limitò a chiederle di seguirlo e, dopo averla finalmente convinta, i due si ritrovarono a un bar della zona chiamato Le Dolcezze di Zefiro.
Se non altro, Irene poté bere un caffè. Quando provò a pagarlo, però, il cameriere disse che "Per il signor Bucciarati e i suoi amici offre sempre la casa". Un altro dettaglio che si aggiunse ai dubbi della ragazza.
«Sei un uomo molto conosciuto, rispettato ovunque e non vuoi che si abbia a che fare con te...» ricapitolò ad alta voce, incrociando le gambe sotto al tavolino circolare.
L'uomo le rivolse la sua attenzione, senza interromperla.
«Non sono un'idiota, Bucciarati. Adesso finalmente ho capito.» mormorò con più calma, facendo dondolare tra le dita il cucchiaino usato per sciogliere lo zucchero e indicando con quello il suo salvatore, «Tu sei un malavitoso, dico bene? Troppo educato per essere una persona qualunque, troppo rigido per essere uno dei pesci più piccoli. Allora? Ho indovinato?»
Bruno Bucciarati distolse lo sguardo, rivolgendolo al tramonto ormai in procinto di sparire per lasciar spazio al buio e alle stelle. Non sembrava né sorpreso né incredulo, forse addirittura soddisfatto. Come se Irene fosse giunta a una conclusione assolutamente prevedibile.
«Hai centrato in pieno.» rispose allora. «Motivo per il quale mi limiterò a farti qualche domanda e poi le nostre strade si separeranno.»
Irene sorrise vittoriosa. «E se non volessi collaborare? Non avrai intenzione di torturarmi, spero?» riprese con le provocazioni.
«Credi che non ne sarei capace?»
Stavolta il suo sguardo glaciale si diresse verso di lei, perforandole l'anima. Irene rabbrividì e per lo spavento le cadde di mano il cucchiaino.
«Rilassati.» tornò composto Bucciarati, «Non ce ne sarà bisogno. So che, in ogni caso, mi risponderai senza fare troppe storie.»
Irene si lasciò cadere contro la spalliera della sedia, umiliata. Non vedeva l'ora di tornare a casa.
«E cos'è che ti preme tanto sapere?» domandò.
Bucciarati appoggiò i gomiti sulle ginocchia e incrociò fra loro le dita delle mani.
«Dimmi, Cacciatore... Tu sai cos'è uno Stand?» chiese quindi.
Irene sollevò un sopracciglio quando un formicolio le attraversò la schiena. Pensò di saperlo, poi però restò senza parole. No, in effetti non aveva mai nemmeno sentito nominare quella parola. Si domandò se non fosse qualche nuova auto o dispositivo tecnologico, a giudicare dal nome.
«No. Dovrei?»
«A quanto pare sì, dato che riesci a vedere il mio Sticky Fingers.»
Irene piegò la testa. Di nuovo quello strano nome.
«Ricordi quella persona che hai detto di aver visto ieri sera accanto a me, nel vicolo? Quello è Sticky Fingers. Solo che... non è una persona.» si spiegò meglio lui per evitare di confonderla.
«Allora cosa sarebbe? Un costume di carnevale?» sbuffò non comprendendo.
«No. È il mio Stand.» rispose lui con infinita pazienza, «Uno Stand è la rappresentazione fisica dello spirito di un combattente. I portatori di Stand sono persone rare, motivo per il quale ero piuttosto curioso. Qualche mese fa sono emersi molti portatori di Stand qui a Napoli, ma da quando sono stati sconfitti a causa della loro insubordinazione non ne è stato rivelato nessun altro.»
La ragazza ascoltò senza interrompere, boccheggiante... per poi scoppiare in una fortissima risata. Tutti i clienti delle Dolcezze di Zefiro la guardarono incuriositi, per poi tornare ai loro affari. Bucciarati non si scompose neanche per un attimo.
Irene cercò di trattenersi e, quando tornò a respirare, si tenne lo stomaco con una mano e con l'altra scacciò una piccola lacrima dovuta alle risate.
«Aspetta, aspetta... fammi capire... mi stai dicendo che quello strano mostro blu in realtà sarebbe... una sorta di fantasma che reagisce al tuo volere?»
Prima ancora che potesse risponderle, scoppiò di nuovo a ridere e batté a terra i piedi.
«Hai finito?» chiese, stavolta vagamente spazientito. Nonostante ciò non badò al suo comportamento. «Puoi anche considerarli fantasmi o quel che credi, ma esistono. E a giudicare dal fatto che riesci a vedere il mio, anche tu dovresti possederne uno.» spiegò di nuovo pacato.
Irene tornò seria di colpo e lo indicò con aria nervosa.
«Adesso ascoltami tu. Che tu sia un malavitoso, un principe o il presidente degli Stati Uniti, io ho comunque ben altro da fare che assoggettare le tue fantasie. Ti ringrazio per avermi salvato la vita, se è questo che vuoi sentirti dire, ma non mi piace sprecare il mio tempo.» Si alzò da tavola in fretta, mentre Bucciarati la guardava impassibile. «Io me ne vado. Arrivederci!»
Prima che potesse voltarsi, però, lui si guardò cautamente attorno e assunse un'aria sicura. Ben presto una sagoma chiara parve distaccarsi dal suo corpo, come se la sua ombra avesse preso fattezze fisiche. La creatura che Irene aveva visto la sera prima tornò a palesarsi davanti a lei, con le sue strane cerniere e le labbra corrucciate.
Terrorizzata, la ragazza balzò indietro e urtò con la schiena il tavolo di altri due clienti, che presero a lamentarsi.
Bucciarati sollevò una mano.
«Vi prego di scusare la mia amica, tornerà subito a sedersi senza recarvi altri fastidi.»
Non appena fiatò, i due si zittirono e Irene comprese di dover riprendere posto. Lo fece senza mai smettere di guardare l'essere che si era materializzato di fronte a lei.
Bucciarati sembrava alquanto seccato.
«Nel mio mestiere bisogna sempre essere cauti, motivo per il quale non si dovrebbe mostrare il proprio Stand pubblicamente. Per fortuna conosco tutti gli altri clienti qui al locale e so per certo che nessuno di loro è un portatore di Stand e può vedere Sticky Fingers. In quanto a fiducia, però, credo tu possa essere paragonata solo a qualcuno come San Tommaso...»
Non appena ebbe finito di parlare il mostro scomparve, dissolvendosi tra le sue spalle.
Irene non riusciva a parlare, a metà fra lo stupore e il terrore.
«L'unico motivo per il quale sto insistendo così tanto nel metterti al corrente dell'esistenza degli Stand è che, spesso, questi sono poteri latenti che si risvegliano in momenti di pericolo o quando altri poteri più forti hanno effetto sui loro portatori. Nel tuo caso, potresti aver risvegliato le tue abilità grazie al tuo istinto di sopravvivenza, oppure... qualcuno a cui sei legata in maniera particolare si trova attualmente in città o nelle sue vicinanze.» rivelò, «Il che significa che si tratta di un portatore di Stand molto potente e che potrebbe rappresentare un pericolo per la mia organizzazione. Indagare fa parte del mio dovere in quanto membro e seguace del boss. Mi capisci adesso?»
Irene non riuscì a elaborare subito quella realtà destabilizzante. Non comprese che, proprio come lui, anche lei probabilmente possedeva un'abilità più unica che rara e che aveva avuto un ruolo fondamentale nell'aggressione della sera prima. Forse era il motivo per il quale la pistola del criminale si era inceppata, o perché era guarita così in fretta...
E invece rispose nel modo più banale che riuscì a immaginare.
«Non c'è nessuno a Napoli che abbia un legame con me.» deglutì ancora scossa, «Nè di sangue nè affettivo.»
«Allora hai avuto la fortuna di ereditare la predisposizione al possedimento di uno Stand. Per le donne è più raro manifestarne uno, quindi immagino che ti sia stato trasmesso da un antenato.» dedusse Bucciarati.
Lei scosse la testa.
«Nessun membro della mia famiglia possiede... uno di quelli...» ripeté decisa.
«Non puoi esserne sicura. Il potere a volte rimane latente per l'intera vita ed è difficile portarlo alla luce. Nel mio caso, ho avuto bisogno di uno strumento particolare. Una freccia, per la precisione. Ti è mai capitato di essere punta da una strana freccia dorata?»
«Cosa? No! È assurdo...»
Il ragazzo sospirò.
«Non so come tu abbia manifestato lo Stand, ma so che potrebbe trattarsi di un potere benevolo o distruttivo. Questa città è sotto il controllo della mia organizzazione, che si assicura di mantenere l'ordine e di proteggere i cittadini, quindi è nostro compito tenerti sotto controllo e avvisarti di utilizzare il tuo potere solo per il bene, o ne subirai le conseguenze. Non hai di che preoccuparti finché non lo userai per fare del male a qualcuno o per scopi malvagi, io e la mia organizzazione ci manterremmo lontani da te e non dovrai avere a che fare con noi.» la rassicurò in fine, arrivando al sodo del discorso.
Irene batté i palmi sul tavolo, alzandosi appena.
«Aspetta! Vuoi dire... che ce ne sono altri? Intendo... portatori di Stand, insomma, quelli...» pronunciò non ancora abituata a quella parola. A quella verità.
«Più di quanti tu possa anche solo immaginare. E non solo a Napoli, ma in tutto il mondo.» spiegò lui, finalmente lieto di poter parlare senza doverla convincere ad ascoltarlo.
«E... nella tua organizzazione? Sono tutti portatori di Stand?»
Sul viso di Bucciarati apparve l'ombra di un sorriso. «No, certo che no. Molti di noi lo sono, ma non tutti.»
«Anche il capo?»
Questa volta, tornò serio.
«Non risponderò a domande che riguardano specifici membri dell'organizzazione.» le spiegò, «Non posso rivelare informazioni segrete a qualcuno che non fa neanche parte dell'organizzazione.»
Irene si trattenne dal battere un pugno sul tavolo. Di colpo più determinata, strinse i denti.
«Allora fammi entrare nell'organizzazione!» esclamò cercando in tutti i modi di non alzare la voce.
Questa volta, Bucciarati parve addirittura sorpreso. Atterrito. La guardò come se fosse lei la pazza ad avergli rivelato l'esistenza di spiriti combattenti che si manifestano per volere del portatore.
«Scusami?» domandò allora, sicuro di non aver sentito bene.
«Hai capito. Voglio fare parte del tuo gruppo.» ripeté lei.
«No. Non se ne parla.»
«Perché?» insisté la ragazza, «E non dirmi che è perché non mi conosci o scemenze simili. Dubito fortemente che tu sia amico di tutti i tuoi compagni, giusto?»
«Non è per questo.» la ammonì lui, «Ma perché tu sei solo una ragazzina e a quanto pare non comprendi la serietà della situazione.»
Irene sollevò le sopracciglia.
«Non sono una ragazzina.» soffiò nervosa, tornando a sedersi.
«Comunque sia, ho sbagliato io. Non avrei mai dovuto parlarti dell'organizzazione e fidarmi così ciecamente. Evidentemente ero troppo preso dall'idea di aver incontrato un naturale portatore di Stand dopo mesi dall'ultima volta.» sospirò.
Irene provò a parlare di nuovo, inutilmente.
«L'organizzazione, gli Stand... non è un gioco, Cacciatore.» la interruppe sul nascere, «È pericoloso, specialmente per qualcuno che ha appena saputo degli Stand e che non sa ancora come controllare il suo. Rischieresti la vita inutilmente o la sprecheresti. Hai tante opportunità davanti a te: potresti continuare gli studi o trovare un lavoro e nel giro di qualche anno avere persino una famiglia. Perché gettare al vento questa possibilità?» domandò.
Irene abbassò lo sguardo e strinse in mano il cucchiaino che le era caduto poco prima. Un miscuglio di emozioni ribollì il lei, un oceano di ricordi repressi al cui capo vi era solo una profonda rabbia.
«E chi ti dice che io abbia tutte queste opportunità?» mormorò con astio, la testa bassa e appoggiata sulle nocche della mano ancora libera. Quasi sentì il bisogno di piangere, ma non l'avrebbe mai fatto, specialmente in pubblico. «Io potrei anche considerare tutto questo un gioco, ma tu non sai nulla di me. Posso assicurarti che non ho avuto la benché minima speranza di vivere una vita tranquilla dal giorno in cui sono nata. E le uniche persone che si siano mai preoccupate per me...», aggiunse con un sorriso amaro, ricordando quel poliziotto che fortunatamente aveva deciso di darle una speranza e quel misterioso uomo che invece aveva pagato la sua cauzione, «... sono persone che a stento hanno potuto conoscermi. Persone che mi hanno fatto capire che avrei dovuto fare del buono in vita mia, e non abbassarmi al livello di molti altri che a causa delle loro origini sono finiti per diventare reietti della società. E cosa ho fatto io? Ho deluso anche quelle persone. Ieri, quando il mio amico è stato ferito dal criminale, ho davvero desiderato uccidere il colpevole. L'ho inseguito decisa a massacrarlo. Ho ignorato i consigli di quei pochi che hanno visto del buono in me. Perché, forse, non sono tanto diversa da chi ha premuto quel grilletto. Forse sono marcia anche io, nel profondo.»
Sollevò lo sguardo su Bucciarati, che ascoltava con attenzione e - avrebbe potuto osare - anche una punta di compassione.
«Non potrò mai essere una brava persona, Bucciarati. Non importa quanto io mi impegni, non sono nata per questo.» continuò quindi lei, «E, a essere sincera, non resisterei un solo secondo in questo mondo che pretende che tutti siano uguali e perfetti.»
Il malavitoso sembrò esitare. Era indeciso ma, di certo, avrebbe voluto aiutarla. Irene lo capì facilmente, gli leggeva l'incertezza negli occhi. Lasciarla entrare nell'organizzazione e renderla una criminale a tutti gli effetti o abbandonarla a un destino che l'avrebbe quasi certamente distrutta?
Dover scegliere al posto suo faceva male. Questo era evidente.
«Cacciatore...» rese quindi il tono di voce vagamente più docile, «Io voglio credere nella possibilità di un futuro migliore per te. Una redenzione. Tutti meritano un'occasione simile.» iniziò a spiegare, «E tu non sei da meno. Posso aiutarti, se è quello di cui hai bisogno. Darti un posto in cui stare, trovarti una buona scuola o un lavoro, ma non ho intenzione di trascinarti in qualcosa ben più grande di te.» rifiutò alla fine.
Irene aveva sentito abbastanza. Annuì come se comprendesse le sue ragioni, dopo aver sfogato tutta la rabbia e la sofferenza di quegli anni di solitudine parlando con lui, un estraneo che si era dimostrato gentile, che l'aveva salvata. Ma che ora si rifiutava di salvarla davvero.
«Devo essermi sbagliata. Dimentica ciò che ho detto.» mormorò quindi, alzandosi dalla sedia e lanciando le monete necessarie a pagare il caffè sul tavolino. Non aveva voglia di sentirsi in debito con nessuno. «A quanto pare ho creduto che fossi diverso dagli altri. Chissà perché, poi... sarà che sono ancora una ragazzina ingenua come dicono tutti. Inutile sperare che qualcuno possa comprendere come ci si senta a essere me.»
Gli voltò le spalle, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni.
«Sei una persona gentile, comunque. Grazie per avermi salvata da quei criminali. Ora non mi resta che sopravvivere a tutti gli altri giorni della mia vita.»
Rapidamente attraversò la stanza e uscì dal locale senza pensarci due volte.
«Cacciatore, aspetta!» provò a fermarla Bucciarati alzandosi e muovendo qualche passo, smosso dal senso di compassione che aveva suscitato in lui e temendo di aver sbagliato.
Tuttavia, era troppo tardi. Irene non sarebbe tornata indietro.
Un cameriere si avvicinò al suo tavolo, perplesso.
«Signor Bucciarati, va tutto bene? Ha bisogno di qualcos'altro?» chiese cortesemente.
Con un sospiro, l'uomo si lasciò ricadere sulla sedia e si massaggiò le tempie.
«No, no. Sto bene così. Ti ringrazio.» rispose, pur non stando affatto bene. Sapeva che il rimpianto di non aver aiutato una persona bisognosa di aiuto l'avrebbe tormentato. Doveva, quindi, fare qualcosa per rimediare.
Nel frattempo, però, lanciò un'occhiata alla sedia vuota difronte a sé: sul tavolo, dal lato in cui era stata servita Irene, adesso non vi era che un cucchiaino di ferro accartocciato come se fosse fatto di alluminio.

 
[ * * * ]
 
Salve, cari lettori! Rieccomi tornata con un nuovo capitolo che apre finalmente la bizzarra avventura che Irene dovrà affrontare in questa storia. Abbiamo un Bruno che, come al solito, tende a non voler trascinare nell'organizzazione giovani promettenti, e un'Irene che invece sa benissimo di non avere alcuna speranza di avere una vita normale e tranquilla che le è stata negata sin dalla nascita. La vera domanda è: cosa accadrà adesso? Bruno cambierà idea o sarà Irene a cercare un modo di aggirarlo? E soprattutto, dove sono gli altri membri della gang? Nei prossimi capitoli troverete personaggi non ancora visti e tante informazioni in più. Se intanto avete voglia di lasciare una recensione, mi farà più che piacere conoscere il vostro parere! Ringrazio chi ne ha lasciata una nello scorso capitolo, sono lieta che la storia vi stia piacendo! Per adesso vi saluto, ma ci vedremo nel prossimo capitolo. Un abbraccio! Arrivederci!

 

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Capitolo 4
*** 04. Hungry Planet ***


Per quasi un mese, Irene non rivide più Bucciarati, l'uomo che l'aveva salvata ma che si era infine rifiutato di accoglierla nella sua organizzazione
(un rapido bozzetto di Irene da me realizzato)


 

[ HUNGRY PLANET ]


 
Per quasi un mese, Irene non rivide più Bucciarati, l'uomo che l'aveva salvata ma che si era infine rifiutato di accoglierla nella sua organizzazione. La ragazza avrebbe voluto porgli mille domande, aveva così tanti dubbi... ma il suo orgoglio era più potente del suo buonsenso, questo era sicuro.
Quel che fece per un intero mese fu cercare di trovare lavoro, uno qualsiasi le sarebbe andato bene. Presentò domanda come cassiera, commessa, persino come cameriera, ma non venne mai accettata. A causa della sua cattiva reputazione, neppure l'idea di poter fare da baby-sitter per mettere da parte qualche soldo andò mai in porto. Era cosciente di ciò, per cui non si prese nemmeno la briga di tentare quest'opportunità.
Le sembrava di impazzire. Non aveva davvero speranze, era tornata a essere la ragazzina sperduta di un tempo. Ogni tanto, per la disperazione, usciva di casa a ora tarda e finiva per bere fino a star male.
Si stava rovinando con le sue stesse mani.
Quasi ogni giorno, però, poteva sentirsi un po' meno sola visitando l'ospedale San Paolo e, nello specifico, il signor Sergio, che fortunatamente si stava riprendendo dalle vicende di qualche settimana prima.
Da quando era stato colpito dal proiettile la tabaccheria nella quale aveva lavorato era stata chiusa per impossibilità del proprietario di continuare a lavorare lì. Sergio avrebbe voluto lasciare a Irene il compito di mandarla avanti e anche di prendere parte degli incassi per ringraziarla del disturbo, ma i suoi figli, già adulti ed entrambi molto educati e con più lauree che senso della compassione, conoscevano Irene e i suoi precedenti e si rifiutarono di affidarle quel compito per mancanza di fiducia, specie dopo aver saputo di come si era gettata alle calcagna dell'aggressore con un coltellino in pugno per farlo a pezzi in un impeto di rabbia.
Sergio provava a confortare Irene come possibile ma era chiaro che v'era poco che potesse fare in merito. Quando venne dimesso dall'ospedale, infine, i figli decisero di vendere una volta per tutte il tabacchino e di aiutare i genitori a pagare le spese mediche della madre, tenendo il padre a casa con loro. In breve, Irene venne tagliata fuori dalle loro vite, con grande dispiacere dell'anziano uomo che, anzi, le era molto riconoscente e vedeva sempre e comunque del buono in lei.
«Non lasciarti schiacciare dal peso dei pregiudizi,» le aveva detto una volta, mentre lei era seduta nella stanza d'ospedale proprio accanto a lui, «né dalla disperazione. Andrà meglio e tu troverai la tua strada. Troverai le persone giuste. Qualsiasi cosa farai, so che sconfiggerai il tuo destino.»
Irene ricordava spesso quelle parole. Le sembrava ancora di sentirle rimbombare nella sua testa, mentre finiva l'ennesimo bicchiere di birra e anche le ultime monete rimaste.
Una mattina, mentre si aggirava nei pressi del centro città, sentì lo stomaco brontolare con una forza tale da costringerla quasi a piegarsi sulle ginocchia. Istintivamente cercò il portafoglio nella tasca, tirandolo fuori in tutta fretta.
Lo aprì e per un momento soltanto si fermò a riflettere su quanto fosse vuoto: non aveva che i documenti con sé. Niente foto di amici o parenti, non un portafortuna o anche solo un bigliettino di promemoria per eventi particolari. Era completamente spoglio.
E poi notò che le foto non erano le uniche a mancare: pareva che il portafoglio avesse un buco nel mezzo, perché non le era rimasto nemmeno un centesimo lì dentro.
Colta dal panico, controllò di nuovo e un'altra volta ancora, sicura di sbagliarsi. Eppure realizzò che non aveva soldi. Non poteva più nemmeno comprarsi da mangiare.
Come si era ridotta così? Perché si era lasciata andare?
Aveva deluso tutti. Il giovane poliziotto che le aveva offerto una lezione di vita, il misterioso eroe che l'aveva tirata fuori dalla gattabuia appena in tempo... e anche se stessa. Era come se non fosse più una persona, ma solo un'ombra opaca che vagava senza meta e riposo, attendendo solo di svanire del tutto.
Si era annullata. Non aveva più neppure la speranza. Non le restava che una fortissima fame. E la disperazione.
Fu per questo che, quando udì una voce nelle vicinanze, in lei si risvegliò un istinto simile a quello di un animale che desidera solo nutrirsi per sopravvivere.
Un ragazzo all'apparenza più piccolo di lei le passò affianco senza nemmeno guardarla: tutta la sua attenzione era rivolta a un foglio bianco che teneva fra le mani e in cui vi erano parecchi segni rossi e scarabocchi.
Il giovanotto si grattò la testa, a capo chino, e lesse ad alta voce perso nei suoi pensieri.
«Accidenti... ho sbagliato anche questo esercizio. Era il... come si chiamava? Quadrato di... binocolo? No, quello non c'entra... binomio! Quadrato di binomio!» ridacchiò vittorioso, «Argh, ho confuso la formula. Qui andava il due, non il tre!» continuò a farfugliare.
Irene lo guardò con parecchio interesse. Non perché gli importasse di lui più di tanto, ma perché notò un dettaglio che l'attrasse come la falena al lume: portava una maglia a scacchi legata in vita e, dalla tasca posteriore, riuscì perfettamente a intravedere un portafoglio che faceva capolino e che praticamente la implorava di afferrarlo.
Il ragazzino continuò a camminare e a borbottare sottovoce.
«Spero di non aver preso un'altra insufficienza...» sospirò prima di girare il foglio. Poi, all'improvviso, si fermò. Le sue mani parvero tremare. «Sei?!?» esclamò allora, a voce così alta che, se ci fosse stato qualcun altro lungo la strada a parte loro due, avrebbe certamente attirato l'attenzione di tutti. «Porca miseria! Ho preso sei!» scoppiò a ridere e praticamente saltellò per la gioia.
Era abbastanza distratto. Irene scelse di entrare in azione. Si avvicinò di soppiatto alle sue spalle e, non appena egli saltellò per l'ennesima volta, con un rapidissimo movimento afferrò il portafoglio e senza che se ne accorgesse lo infilò in una delle proprie tasche e balzò indietro. Il suo tocco era come quello di un fantasma, impercettibile. A quanto pare il lupo perdeva il pelo ma non il vizio, dato che ricordava ancora perfettamente come si borseggiasse qualcuno senza farsi scoprire.
Il ragazzino continuava a festeggiare il suo buon voto.
«Sei! Sei!» batteva i piedi a terra, «Fugo sarà contentissimo quando lo saprà! Per non parlare di Bucciarati!» esclamò quindi, iniziando a correre lungo la strada.
Irene dimenticò la sua fame per un paio di secondi.
Bucciarati? Aveva sentito bene? Quel ragazzino conosceva Bucciarati?
Si fermò anziché scappare e osservò confusa il giovanotto che si allontanava, tentata dal fermarlo per chiedergli informazioni. Purtroppo, però, aveva rubato il suo portafoglio. Non poteva certo rischiare di farsi scoprire e perdere la possibilità di pagarsi il pranzo.
Sconfitta dalla tentazione, però, decise di fare un tentativo. Avrebbe potuto comunque rubare una pagnotta più tardi. Sviluppò un'idea abbastanza in fretta.
Allentò la presa sul portafoglio e lo fece cadere a terra, a qualche metro da lei, come se si fosse già trovato lì.
«Ehy tu, con quella bandana arancione!» chiamò quindi, alzando le braccia al cielo e gesticolando per farsi vedere. Subito dopo le abbassò e indicò l'oggetto a terra. «Ti è caduto questo...» recitò infine.
Il ragazzetto sembrò riconoscere il richiamo e si volse in sua direzione, spalancando gli occhi all'improvviso.
Irene sussultò.
"Cos'è quello sguardo sorpreso? Che mi abbia scoperta...?" si chiese iniziando a pensare al peggio.
«Be'?» chiese dunque, indietreggiando. «Non torni a pren-?»
Non finì la frase.
«Sta' giù!» le gridò il ragazzo dall'altro lato della strada. Prese immediatamente a correre verso di lei.
Irene, a quel punto, non comprese più cosa stesse accadendo. Piuttosto che ascoltare le sue parole, ebbe l'istinto di guardarsi alle spalle. E, quando compì un giro su se stessa, rabbrividì.
Un enorme mostro alto almeno tre metri la guardava dall'alto al basso, con le braccia sollevate. Sembrava essere fatto di terra o di roccia e ricordava vagamente un gigantesco gorilla a causa della sua postura. Differiva dall'animale grazie al viso dall'aspetto più robotico, come se la mascella pietrosa fosse attaccata al grosso viso tramite bulloni grandi come sassi. Gli occhi, poi, erano scavati nel suo volto, profondi come piccole caverne, e dal buio emergevano solo due piccole pupille rosse. Sulla fronte e sulla schiena, invece, apparivano degli strani tubi dello stesso materiale della pelle, rialzati, e dai quali uscivano dense nubi di vapore caldo.
La ragazza non ebbe il tempo di osservarlo oltre. Il mostro si batté i pugni sul petto e poi alzò le braccia, lasciandole ricadere con enorme forza e velocità proprio su di lei.
«GORAAAAH!!!» gridò mentre attaccava, mettendo i brividi.
Irene dimenticò la fame, il portafoglio e il ragazzino. Veloce come una serpe si gettò su di un lato e rotolò fino a raggiungere il marciapiede, riempiendosi di terriccio e polvere. I pugni della belva toccarono il suolo e scavarono fino a creare dei crateri.
La giovane li guardò con gli occhi quasi fuori dalle orbite: se l'avessero colpita, a quel punto sarebbe stata bella che spacciata. Già all'altro mondo.
«Prendila, Hungry Planet!» gridò una voce lontana. Impossibile capire da dove provenisse o a chi appartenesse.
La ragazza tornò in piedi con fatica, sentendo la testa girare e le gambe farle male. Per la fretta aveva colpito il marciapiede, il che non era stato esattamente piacevole. Barcollando guardò la creatura scuotere le braccia per far cadere i detriti di cemento rimasti incastrati tra le dita.
Immediatamente, ricordò qualcosa a cui avrebbe dovuto pensare sin dal primo momento in cui aveva visto quella creatura.
«Uno Stand...» mormorò allibita, «Quello è uno Stand!»
Non ebbe neppure il tempo di spaventarsi. Un rumore di passi la riportò bruscamente alla realtà.
«Vattene, ho detto!» gridò il ragazzo che stava per raggiungerla mentre correva. Sicuramente aveva già provato a chiamarla diverse volte. «Qui è troppo pericoloso, lascia perdere le spiegazioni! Adesso ci penso io!» ruggì fieramente.
Si fermò proprio di fronte allo Stand, che lanciò un altro dei suoi mostruosi urli.
Gli occhi violetti dello studente incrociarono quelli di Hungry Planet senza nessuna paura.
«Uno Stand nemico a Napoli? Bucciarati aveva ragione, sono ricomparsi. Allora non mi resta che massacrarti...»
La voce di poco prima tornò a risuonare alle spalle della belva di pietra.
«Non avere pietà, Hungry Planet, uccidi quel ragazzino!»
«Aerosmith!» gridò a sua volta il ragazzo, sollevando le braccia e indicando lo Stand avversario, «Vai! Crivellalo di colpi!»
Irene comprese immediatamente cosa stava succedendo e ne ebbe conferma quando un curioso suono attirò la sua attenzione.
Un ronzio particolare e potente. Come il suono di un motore... o di un aeroplano d'altri tempi. Non si sbagliava, in effetti: ben presto un oggetto volante sfrecciò sopra la testa del ragazzo e si avvicinò allo Stand di roccia rapido come il vento.
«Un... un caccia a elica?» lo riconobbe subito, sicura di averne già visti altri ad alcune mostre d'epoca a Siracusa, da piccola. «Lo ha chiamato lui... dev'essere...»
L'aeroplano volò sul nemico, decine di volte più grande di lui, e gli scaricò addosso una raffica di proiettili che colpì la sua corazza di pietra.
«Un altro Stand!» capì allora, sentendo un nodo in gola.
Ma in che situazione si era andata a cacciare per colpa di un maledetto portafoglio?
I proiettili, malauguratamente, rimbalzarono sulla roccia di cui era fatto il nemico e per poco non vennero riflessi contro gli altri due presenti.
Il ragazzo che era accorso per salvare Irene indietreggiò preoccupato.
«Merda!» imprecò marcando fortemente l'accento napoletano, «Aerosmith non riesce a ferirlo! Quanto è spessa quella corazza di pietra?»
Hungry Planet parve ridere divertito e poggiò le grosse mani a terra, iniziando a scuotere il terreno che, effettivamente, tremò.
"Un terremoto?" si chiese Irene, ma capì ben presto che l'abilità del nemico era tutt'altro che quella.
Ben presto i pezzi di cemento staccatisi dalla strada vibrarono e presero a fluttuare come se fossero privi di peso, ondeggiando in aria mentre dalla schiena dello scimmione di pietra soffiava altro vapore.
«Oh-oh...» deglutì il ragazzetto, comprendendo cosa stesse per accadere. Senza esitare, saltò indietro e prese a correre.
A quel punto i macigni si scagliarono contro di lui a piena potenza. Uno atterrò a un soffio da lui, sfiorandogli un fianco e facendogli perdere l'equilibrio. A quel punto egli cadde a terra e il secondo planò davanti alla sua faccia. Se avesse fatto un solo passo di più, sarebbe stato colpito in pieno.
L'ultimo arrivò un secondo più tardi, ma sembrò letale quanto gli altri.
Irene capì che il giovane non avrebbe fatto in tempo ad alzarsi e a evitarlo. Istintivamente allungò un braccio verso di lui.
«Attento! Alle tue spalle!» gridò per avvertirlo.
Lui la sentì, per fortuna. Rotolò sulla schiena e fronteggiò il masso. Sempre con estrema rapidità, l'aereo da caccia lo raggiunse e, questa volta, sparò abbastanza colpi da fare a piccoli pezzi il macigno, non abbastanza compatto come invece era lo Stand nemico.
La polvere terrosa cadde e coprì la faccia dello studente, che tossì e si guardò attorno. Accanto a lui, la pagina che poco prima aveva in mano era stata stracciata e strappata da uno dei macigni. Nel notarlo, parve arrabbiarsi di brutto.
Saltò in piedi e strinse i pugni, fuori di sé.
«Maledetto! Hai distrutto la mia verifica! Dovevo portarla al mio amico Fugo, e tu l'hai distrutta! Proprio ora che avevo finalmente preso una sufficienza!» gridò con voce acuta, «Mi hai fatto proprio incazzare! Questa me la paghi!»
Con voce stridula ordinò di nuovo al suo Stand di attaccarlo, ma questa volta intervenne la voce dell'uomo che ancora non si era fatto vivo ma che sicuramente era il portatore di Hungry Planet.
«Ignora il ragazzino, il suo Stand non può ferirti. Occupati di lei! Il boss ha dato ordini precisi!» ordinò da un punto indefinito.
Hungry Planet si voltò lentamente in direzione della ragazza mentre i proiettili dell'aeroplano da combattimento gli facevano il solletico piovendogli addosso.
Irene capì che qualcosa non andava. Il nemico... voleva vedersela con lei? Per quale motivo, fra l'altro? Non sapeva nemmeno chi fosse.
Con un pugno il nemico colpì la strada: altri pezzi di cemento iniziarono a fluttuare ma, questa volta, si accartocciarono in un unico globo roccioso grande almeno quanto la stessa Irene, che capì di essere nei guai.
«Huh? Mi stai ignorando? Ti distruggo!» continuava a infierire lo studente dai bizzarri vestiti, di colore arancio e violaceo. Avrebbe volentieri preso a calci l'avversario ma sapeva che, se lo avesse fatto davvero, si sarebbe di sicuro rotto un piede nel tentativo di infliggergli un minimo danno.
La palla di cemento vibrò e si lanciò verso di lei, rotolando furiosamente.
Irene sentì di essere giunta al capolinea. Realizzò che non aveva possibilità di fuga. Una macchina alla sua sinistra si era ribaltata sul marciapiede a causa dei colpi dello Stand, mentre a destra il terreno era spaccato e non le permetteva di trovare il tempo di saltare per evitare di cadere.
Istintivamente si coprì il viso con le braccia e portò le ginocchia al petto.
«No, no, NO!» gridò con tutta la forza di volontà rimastale mentre chiudeva gli occhi, nel panico.
Sentì un tintinnio metallico non appena la roccia sfiorò i palmi delle sue mani, che si erano spinti in avanti nel tentativo di difendere il resto del corpo. Poi un tonfo fece trasalire la ragazza, che riaprì gli occhi e non riuscì neppure a prendere fiato.
La grande roccia davanti a lei... sembrava una gigantesca palla di alluminio liscia, pesante centinaia di chili più del normale. Non aveva dubbi: il macigno che giaceva ora innocuo ai suoi piedi era fatto di metallo. Uno strano ferro molto resistente e di colore scuro. Non si muoveva più, come se il possessore di Hungry Planet non potesse più muoverlo.
«Cosa...?» si chiese, osservando le proprie mani. Non notò nulla di particolare.
Lanciò allora un'occhiata allo studente dai capelli neri arruffati: che fosse opera sua? Improbabile. Il suo Stand non sembrava avere poteri del genere. Allora chi l'aveva salvata?
Hungry Planet non sembrava felice del proprio attacco respinto. Tornò sulle gambe posteriori e si batté il petto una seconda volta.
«GORAH!» urlò di nuovo, selvaggiamente.
Notando la sua distrazione e la posizione favorevole, il ragazzo portò le mani sui fianchi e sogghignò.
«Non vuoi proprio andare giù, eh?!» sbuffò ancora furioso per quanto accaduto alla sua verifica. Forse non aveva notato quanto accaduto a Irene. «Allora beccati questo! Vediamo se anche questo non ti farà battere ciglio!»
Aerosmith volò rapido a un'altezza più alta e le sue eliche ruotarono con forza tale da permettergli di restare sospeso in aria. A quel punto, dal ventre dell'aereo, qualcosa cadde a chiodo sul nemico.
Una bomba. Piccola ma potente.
«Mettiti al riparo!» urlò il ragazzo a Irene, che non se lo fece ripetere due volte e strisció fino a ripararsi dietro la macchina capovolta.
Anche lui indietreggiò in tutta fretta, finché la bomba non piovve sulla testa dell'avversario.
L'esplosione fu abbastanza forte da riscaldare l'aria e fare scattare gli allarmi di tutte le altre macchine parcheggiate nei dintorni. Sicuramente sarebbe presto intervenuta la polizia e non sarebbe stato facile spiegare quanto accaduto.
Irene pregò che l'idea di quel ragazzo fosse efficace. E lo fu, almeno in parte.
Hungry Planet emerse dalla nube di polvere con il viso per metà sgretolato. Delle urla in lontananza suggerirono un indizio importante.
«Uno Stand a distanza, eh? Quindi non ricavi gli stessi danni subiti dal tuo Stand. Vorrà dire che mi occuperò prima di questo bestione e poi ti prenderò a calci!» esclamò ancora arrabbiato il ragazzino.
Irene notò che il nemico sembrava riprendersi in fretta. Quando soffiava vapore, però, faticava a mettersi di nuovo in piedi. Fu allora che ebbe un lampo di genio.
«Ehy, tu!» si sbracciò di nuovo per attirare l'attenzione dello studente, «Ho capito come sconfiggerlo! Lo distrarrò, tu colpiscilo con quel tuo aeroplano nei comignoli sulla sua schiena! Inizierà a non funzionare più, come un robot, e allora si distruggerà dall'interno!» suggerì astutamente.
Hungry Planet non poteva certo capire la sua conversazione e il suo portatore era troppo lontano per udirla. Era il momento perfetto per entrare in scena.
«Buona idea! Allora io...» provò a dire lo studente, poi però batté le palpebre, colto impreparato. «Aspetta, quindi tu... puoi vedere gli Stand? Sei una portatrice di Stand?» chiese sconvolto.
«Non c'è tempo per questo! Te lo spiegherò quando entrambi non rischieremo più di lasciarci le penne! Fai come ti ho detto!» tuonò la ragazza, spazientita.
Il ragazzo sollevò le braccia, come a scusarsi.
«Oh, be'... se proprio insisti.» concluse per poi voltarle le spalle e mormorare sottovoce un'altra frase. «Cavolo, una portatrice di Stand! Che faccia parte dell'organizzazione? Ma Giorno non l'ha mai presentata alla nostra squadra...»
Irene non badò a ciò che aveva detto. Sapeva solo che, dopo aver scampato il pericolo di morire per un soffio, l'adrenalina stava muovendo i suoi muscoli e non riusciva più nemmeno a pensare.
Senza esitare raggiunse lo Stand nemico e urlò per attirare la sua attenzione.
«Cerchi me, bestiaccia?» lo provocò sfacciatamente, «Vieni a prendermi allora. Sempre se ce la fai!»
Hungry Planet ruggì e iniziò a battere le mani sul terreno, distruggendolo. Un attimo dopo prese a correre verso di lei.
Irene trasalì. Non credeva che fosse così veloce, ma era troppo tardi per pentirsi del proprio piano. Gli voltò le spalle e corse anche lei, fuggendo.
«Adesso! Vai!» gridò allo studente.
Lui puntò i piedi a terra e usò tutta la forza possibile per l'attacco finale.
«Aerosmith! Finiscilo!»
Il caccia a elica volò rapido e ronzò alle spalle del nemico, individuando i punti deboli. Aveva ben tre forti addosso, oltre a quello sulla fronte ormai distrutto: due si trovavano sulle spalle e l'ultimo in corrispondenza della spina dorsale, al centro della schiena. Con mira impeccabile, sparò all'interno dei primi due e li mise fuori uso in breve tempo. Una nube di vapore, però, lo investì.
Rabbioso, Hungry Planet alzò un braccio per colpire e distruggere immediatamente l'aereo. Sarebbe bastato un colpo per ridurlo a un rottame e questo Irene lo sapeva.
Per questo motivo, corse a perdifiato in direzione opposta, tornando da lui, e allungò una mano verso quella del nemico, come se potesse trascinarla a terra.
«Accidenti! Fermati!» imprecò, sicura che adesso l'avrebbe gettata via contro un edificio e che non si sarebbe risvegliata tanto facilmente una volta subito il colpo.
Al contrario, però, la mano sembrò non riuscire più a sollevarsi dal terreno. Vi ricadde addosso con grande pesantezza e, mentre Irene indietreggiava cambiando idea grazie al buonsenso ritrovato, cigolò in maniera insolita.
La mano si ricoprì o forse si trasmorfò in metallo, identico a quello che aveva avvolto la roccia. Il ferro mangiò la roccia e la bloccò al suolo per sempre.
Hungry Planet tornò a urlare come un animale feroce, esasperato.
«Allontanati da lì!» gridò il ragazzo quando ebbe ripreso il controllo di Aerosmith. Aveva sicuramente un'idea.
Irene non se lo fece ripetere due volte. Confusa ma decisa a sopravvivere, scappò a gambe levate.
L'aereo da combattimento tornò a funzionare correttamente e raggiunse di nuovo il nemico. Si avvicinò all'ultimo comignolo rimasto... e sganciò una bomba proprio al suo interno.
Quando esplose, persino il vapore prese fuoco e pezzi di roccia esplosero in aria. Uno di loro raggiunse il ragazzo e, a causa della punta affilata, segnò un taglio sul suo braccio, non troppo profondo per fortuna. Lo stesso accadde a Irene, che invece se la cavò con qualche taglio sulla guancia.
Hungry Planet lanciò un urlo finale, più forte di tutti, e prese a tremare in maniera spasmodica. Fumo nero fuoriuscì da ogni suo poro e, ben presto, il colosso di pietra crollò inerme al suolo. Lo Stand era stato sconfitto.
Irene era stata sbalzata via a causa della vicinanza, ma riprese fiato e si alzò in fretta, guardando il ragazzino.
«Stai bene?» gli chiese pur essendo dall'altro lato della strada.
Lui bloccò la ferita con la mano del braccio opposto e annuì, alquanto stanco.
«Non è ancora finita!» sbuffò subito dopo.
Irene strabuzzò gli occhi.
«Che intendi? Lo hai appena distrutto!»
«Era uno Stand a distanza. Tra un paio d'ore il suo portatore sarà in grado di utilizzarlo di nuovo. Sempre che... non elimini anche lui...»
Senza distrarsi, si passò una mano sul viso con aria nervosa. Quando abbassò il braccio uno strano oggettino levitava davanti al suo occhio destro. Irene non poteva vedere a cosa servisse, ma sembrava uno schermo.
Lo studente respirò a fondo e controllò bene cosa stesse accadendo.
«Fortunatamente non c'è nessuno oltre noi su questa strada. E a giudicare dalla direzione di provenienza della sua voce... dovrebbe essere...»
A quel punto indicò il tetto di un edificio lungo quella stessa strada. Era una vecchia casa abitata ma al momento vuota, per miracolo. Alcuni panni erano ancora stesi nel balcone ad asciugare.
Sul terrazzo, tuttavia, un uomo se ne stava accovacciato e sussultò quando venne individuato.
«Cosa?!? Come diavolo hai fatto a trovarmi?»
Scattò in piedi e saltò agilmente fino al tetto successivo.
«Non mi scappi! Aerosmith, colpiscilo alle gambe!»
L'aeroplano saettò verso di lui, che tremò spaventato.
«Vuoi impedirmi la fuga così potrai torturarmi e farmi parlare, vero?» ridacchiò poi, follemente, all'improvviso. «Ti risparmio la fatica. Non ti dirò nulla! La mia fedeltà va oltre la semplice mortalità del corpo!»
Irene non comprese molto di quanto stesse accadendo, ma si coprì le labbra quando il nemico su gettò volontariamente giù dal tetto, con un sorriso soddisfatto. Non si sarebbe mai fatto catturare vivo.
Chiuse gli occhi e sentì solo un tonfo quando il suo corpo toccò il marciapiede.

 
[ 26 aprile 2002. "?", Stand: Hungry Planet ... Sconfitta totale. Ritirato. ]

 
Subito dopo il ragazzo lo raggiunse e pigiò due dita sulla sua gola.
«Niente da fare. È bello che andato.» sospirò, affatto colpito da quella scena. Come se non fosse la prima volta che vedeva morire qualcuno.
Irene lo raggiunse con le gambe che le tremavano. Non era una debole di stomaco, per fortuna, ma restava comunque inorridita.
«Ora non potrò fargli domande e sapere per chi lavorava! Accidenti, e cosa racconto a Bucciarati?» si grattò la testa il ragazzino.
Lei lo osservò e notò che non sembrava nemmeno preoccuparsi delle sue ferite.
«Quindi... non lo conoscevi, giusto?»
Lui scosse il capo.
«Stavo per farti la stessa domanda. Speravo che ne sapessi qualcosa tu, dato che sembrava avercela con te.»
Poggiò le mani sui fianchi, soffiando aria dalle narici con un'espressione combattuta.
«No... a dire il vero non ho idea di chi fosse, né del perché sembrava volermi eliminare.» replicò lei, ancora disorientata.
Si era fatta dei nemici tra i portatori di Stand? Di questo passo sarebbe morta nel giro di poco tempo.
Il ragazzino sospirò e richiamò il suo Aerosmith, che lo raggiunse planando. Lui allargò e sollevò le braccia in orizzontale. L'aereo lo raggiunse, calò sul suo braccio e con una sgommata svanì dietro il suo collo senza ricomparire.
Irene incrociò le braccia, osservandolo.
«Quindi... quello sarebbe il tuo Stand, o qualcosa del genere, giusto?»
Il ragazzo tornò a grattarsi la testa.
«L'ho usato senza riflettere. Il mio capo non vuole che mostriamo i nostri Stand se non per assoluta emergenza. L'ho fatto perché credevo che non potessi vederlo. A proposito, tu non fai parte dell'organizzazione, giusto?»
«No, io...» provò a dire, ma non voleva rivelare troppo.
Fortunatamente il ragazzo tornò a parlare senza darle tempo.
«E il tuo Stand? Non l'hai usato per niente, a parte per ripararti da quel macigno che ti aveva lanciato?»
Irene batté le ciglia, confusa.
«Cosa? Stai dicendo... che non sei stato tu a fermarlo?»
«Certo che no. Il mio Aerosmith non può mica bloccare massi in movimento, solo distruggerli con raffiche di proiettili.»
La ragazza dovette tenersi la testa, convinta che stesse per svenire. Non era stata lei, non poteva essere stata lei. Quel macigno si era trasformato palesemente in metallo, come il braccio di Hungry Planet. Lei non sapeva fare trucchetti del genere.
Lo studente si chinò sull'uomo sconfitto e frugò nella sua giacca, prendendo una carta.
«Ah! Per fortuna questo idiota aveva i documenti addosso!» esultò, poi lesse, «Gabriele Ferragamo, nato il 7 settembre del 1977. Qui dice che faceva l'imprenditore... chissà se è una carta d'identità falsa.» sbuffò.
Irene notò qualcosa di particolare che a lui era sfuggito.
«Cos'è quello strano segno sul suo collo?» domandò, «Non sembra un tatuaggio...»
Il ragazzo scostò la parte di colletto della camicia che nascondeva gran parte dello strano simbolo, dopodiché rivelò una forma particolare: nella sua pelle era scavata una sagoma particolare. Una sorta di "A", dagli estremi allungati.
«Huh? Che roba strana. Sembra inciso con un ferro caldo, come si fa con le mucche e i cavalli! La pelle intorno è un po' bruciacchiata e rossa, in effetti.» spiegò in modo grezzo.
Irene guardò bene quel simbolo ma non riuscì a riconoscerlo. Rapidamente cacciò via dalla tasca il cellulare e lo fotografò per sicurezza. La foto era sfocata a causa della bassa risoluzione dei telefoni di quel tempo, ma sarebbe andata bene comunque.
Lo studente mosse qualche passo, dando le spalle al nemico.
«Non c'è storia, devo subito fare rapporto a Bucciarati. Io non ci arrivo proprio a capire queste cose...» sospirò ancora, «Mi sembri una persona affidabile, quindi non mi preoccupa averti mostrato il mio Stand, però non raccontarlo in giro o dovrai finire come lui!» la guardò poi, più minaccioso.
Irene non gli rispose nemmeno, tanto era sconvolta.
«Be', ci si vede! Stai lontana dai guai!» consigliò lui.
Non appena mosse un altro passo, lo stomaco della ragazza brontolò con aggressività, ricordando un lontano rombo di tuono. Lei si tenne lo stomaco. Non mangiava da un giorno intero e non aveva fatto altro che bere alcolici: il dolore al ventre era inimmaginabile.
Il ragazzino si fermò e i suoi occhi assunsero una luce nuova per un attimo.
«Tu... non starai mica morendo di fame, vero?» le domandò, indicandola.
Irene calò la testa, vergognandosene.
«Pensavo fossi una studentessa, ma ora che ti guardo meglio... immagino tu non sia nella migliore delle condizioni, vero?» chiese, sapendo già di avere ragione, «Pensa te... mi ricordi tanto qualcuno...» mormorò poi, perdendosi un attimo nei propri pensieri.
La ragazza lo guardò stranita. Se stava per offrirle del cibo, non lo avrebbe di certo rifiutato.
«Be', il mio capo è un tipo per bene, uno gentile per davvero! Se ti porto con me al Libeccio sono sicuro che ti offrirà un bel piatto di spaghetti caldi. Ti piacciono gli spaghetti?»
Irene sorrise. In quel momento avrebbe mangiato qualsiasi cosa. Il pensiero di poter avere degli spaghetti era paradisiaco.
«Forza, seguimi. Così avrai modo di parlare anche con lui e spiegargli insieme a me il casino che è successo qui. Ci penserà lui a tenere la polizia fuori dalla questione.» la invitò, muovendo una mano e ripulendosi il braccio insanguinato. Prese a camminare, tranquillamente, per poi guardarla di nuovo mentre lei si affrettava a raggiungerlo.
«Come ti chiami?» le domandò, innocentemente.
«Irene.» rispose lei, ancora alquanto imbarazzata dall'idea di star mendicando cibo a uno studente.
«Irene, eh?» si portò le mani dietro la testa, «Io sono Narancia! Sembri simpatica, sai? Scommetto che andrai d'accordo con gli altri.»
E con quella predizione, Irene e Narancia si diressero al ristorante Libeccio, dove avrebbero incontrato persone a lei sconosciute... e anche alcune che invece le erano familiari.

[ • • • ]

Spazio Autrice
Un saluto a tutti i miei lettori. Fortunatamente sono riuscita a rilasciare questo capitolo in poco tempo. Tra l'altro mi soddisfa molto questa presentazione a sorpresa di Narancia, spero possa piacere anche a voi! In quest'AU, il nostro caro amico negato nella matematica è sopravvissuto agli eventi di Vento Aureo ed è tornato a scuola, dove sta pian piano migliorando e imparando nuove cose. Fugo e Bruno saranno sicuramente fieri di lui.
Adesso Irene sta per raggiungere il ristorante più iconico della parte 5, il Libeccio, dove ne accadranno delle belle. La squadra Bucciarati è ovviamente raccolta lì, quindi cosa accadrà? Ci sono alcuni personaggi che conoscono già Irene, la riconosceranno? Oppure dovrà ricominciare dal principio? Comunque vada, la nostra bizzarra avventura procede con la sconfitta del primo nemico e con un mistero che andrà infittendosi man mano che la storia procede. Se vi va e se ne avete il tempo, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo con una recensione. Ne approfitto anche per ringraziare tutti quelli che hanno letto la storia fin qui e chi ha anche voluto commentarla, spero che Angel of Iron vi stia piacendo e interessando. Io vi saluto e vi aspetto al prossimo capitolo, che spero di fare uscire presto. Arrivederci!

 

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Capitolo 5
*** 05. Blood Brothers ***


Il capannone era buio, cigolante, e tutt'altro che ospitale. Era esso stesso una porzione di tenebra, capace di nascondere qualsiasi insidia e pericolo. Effettivamente, le figure che s'immersero nelle sue ombre non erano esattamente pure e innocenti.
Si muovevano come gatti dal passo felpato, gli occhi bassi e le spalle un po' ricurve, quasi come se non avessero una meta precisa.
Erano tre in totale, tutti maschi. Si trascinavano dietro le gambe in silenzio, come morti viventi. A tratti erano abbastanza spaventosi.
«Che notizie ha portato Ferdinandi?» chiese uno di loro, la voce roca che sorgeva come un lamento dal buio.
«Love On The Air ha visto tutto. Quell'idiota di Ferragamo si è fatto ammazzare.» rispose un secondo. Sputò immediatamente a terra, nervoso.
Occhi luminosi fendevano la penombra vicino a una vecchia finestra. Con gli alberi oltre le pareti, nemmeno il sole pomeridiano filtrava a dovere.
«Ha agito imprudentemente, lo conosciamo bene. Non gli è mai piaciuto stare a sentire gli ordini del Padre.»
«Com'è successo?»
«Ferragamo ha avuto una discussione con gli altri fratelli. Ha detto di voler eliminare la ragazza e ha iniziato a cercarla almeno una settimana fa. Oggi l'ha trovata ma non ha atteso gli ordini.»
«E lei? Ha visto Hungry Planet?»
«Poteva già vederlo. Sì.»
«Allora stiamo impiegando troppo tempo...»
Un altro lamento. Come di sconforto, o di fastidio. Poi lui ricominciò a parlare.
«Nostro Padre ha detto che la vuole viva e che non deve manifestare lo Stand. Non sappiamo che tipo di potere possa avere.»
«Non le va bene morta?» aggiunse a quel punto il terzo, che non aveva ancora parlato.
«No, se non vuoi fare la fine di Ferragamo.»
L'altro ridacchiò sottovoce. Sembrava che l'idea della morte non lo spaventasse.
«Comunque, un ragazzino l'ha aiutata. Aveva uno Stand. Una sorta di aeroplano, dice Ferdinandi...» riprese il primo, accanto a quello che rideva.
«Avrebbe dovuto seguirlo. È Narancia Ghirga.»
«E tu come lo sai?»
«Facevo parte di Passione e conoscevo molta gente, lo sai. È uno degli scagnozzi di Bucciarati.»
Alcune voci si levarono preoccupate.
«Bucciarati è vivo?» domandò quello che aveva riso.
«Dove sei stato per tutto questo tempo? Sì, è vivo, e aggiungerei per miracolo, considerata la sua battaglia con il vecchio Boss di Passione. Adesso è il secondo in carica.»
«Si hanno notizie del Boss attuale?»
«So solo che è un ragazzino. Comunque sarebbe meglio non sottovalutarlo, ho sentito che è un portatore di Stand molto pericoloso. E nulla vieta a Irene Cacciatore di diventare come lui, o di allearsi con lui.»
«Siamo sicuri che nostro Padre la voglia viva? Sembra un ostacolo più che un vantaggio per noi.» si lamentò l'ultimo.
«Gli ordini sono precisi. Possiamo uccidere chiunque si metta in mezzo, ma lei deve sopravvivere.»
Un'altra mezza risata.
«Pare proprio che dovremo contenerci... chi attaccherà per primo?»
«Chiunque riesca a trovarla e possa agire senza rischi. Ci incontreremo di nuovo quando l'avremo catturata. Saluti, fratelli. Avvisate anche gli altri. E buona fortuna.»
Quello più isolato si alzò dall'ammasso di scatoli su cui aveva trovato posto e si allontanò.
Quello che aveva riso, invece, cercò l'amico nell'ombra.
«Possiamo collaborare, non è vero?»
«Rilassati, Michele. Non l'abbiamo sempre fatto?»
Lui rise.
«Giusto. Magari la troviamo prima degli altri!»
Il raduno terminò così. Fu rapido ma coinciso. I piani non erano cambiati.

• • •


Irene seguiva Narancia tenendosi lo stomaco con le mani. Aveva una fame da lupi e il solo pensiero che si stessero dirigendo verso un ristorante la rendeva oltremodo contenta. Quello di essere quasi stata uccisa da uno gigantesco Stand roccioso e di stare per incontrare Bucciarati per raccontargli per filo e per segno quanto accaduto, però, le faceva puntualmente passare la fame. Per questo motivo preferì discutere con il ragazzo piuttosto che sprofondare in un silenzio imbarazzante.
Scoprì che Narancia frequentava la terza superiore in un istituto tecnico nei paraggi del ristorante Libeccio, non troppo lontano dal mare e situato in una bella zona di Napoli, piena di negozi e scuole. A dir la verità aveva solo un anno in meno di Irene, benché ne dimostrasse non più di quindici, ma aveva lasciato la scuola tempo prima per motivi che non le vennero spiegati subito. Irene comprese solo che Narancia era tornato a studiare da meno di un anno, a partire dall'ultimo settembre. Parlava con estrema euforia dello studio, era chiaro che si stesse impegnando seriamente per riuscire a rendere orgoglioso Bucciarati e questo suo amico di nome Fugo che lei non conosceva.
«E tu? Dovresti aver già finito la scuola, no?» le domandò a un tratto.
«No, io...» Irene esitò per un momento e si pizzicò un braccio, «A dire il vero non ho mai finito gli studi. Non amo molto la scuola.»
Narancia sollevò le spalle.
«Magari è perché non hai trovato la scuola giusta.» si sentì di commentare,  senza nemmeno giudicarla.
Irene fu profondamente colpita da quella sua reazione. Era abituata a essere guardata dall'alto in basso da persone che si erano sempre credute migliori di lei. Adesso, però, stava parlando con qualcuno che si era ritrovato sicuramente nella sua stessa situazione e che si era rialzato a testa alta.
Prese a domandarsi se anche lei c'è l'avrebbe mai fatta. Non trovò risposta. Non era ancora pronta.
Intanto, una porta si aprì davanti a lei.
Narancia si schiarì la voce, un po' in imbarazzo.
«Ah... Irene... posso chiamarti Irene, sì?»
La ragazza annuì.
«Ecco, non offenderti ma... forse è meglio se prima entro solo io e avviso Bucciarati. Non ti lascerà qui fuori, tranquilla, ma l'ultima volta che abbiamo accettato un novellino non tutti l'hanno presa subito bene. Specialmente uno dei miei compagni...»
Irene comprese che si trovava alquanto a disagio a dire una cosa del genere. Annuì senza preoccuparsi ma cambiò idea non appena il ragazzo ringraziò e sparì oltre la porta: e se avesse fatto il suo nome a Bucciarati e lui si fosse rifiutato di accoglierla?
Spaventata, si accostò alla finestra e provò a scorgere qualcosa ma Narancia aveva appena svoltato un angolo della parete dopo la quale supponeva vi fosse un tavolo. Il locale per fortuna era quieto e le voci dei clienti si udivano ben distinte.
«Buongiorno ragazzi.»
«Narancia, ben tornato.» esclamò una voce lieta ma anche pacata. Era un ragazzo molto giovane, senza dubbio, esattamente come gli altri che parlarono dopo di lui.
«Finalmente! Adesso non siamo più in quattro! Io lo dico sempre, che quel numero porta sfiga...»
«Solo perché hai perso a carte non puoi dire che sia una questione di sfortuna. Qualsiasi gioco da tavolo è basato sulla strategia.»
«Strategia un corno! Non mi è capitata una sola carta buona negli ultimi turni! Mi stai dissanguando!»
«Ragazzi, fate un attimo di silenzio.» aggiunse una terza voce.
Irene trasalì. Lo riconobbe. Era lui.
«Narancia, va tutto bene?» chiedeva Bucciarati, «Hai un taglio sul braccio e sei coperto di polvere. Cosa ti è successo?»
Il più giovane si trovò in difficoltà. «Eh... come dire... potrebbe essere una storia lunga e credo ci sia qualcosa di più urgente per il momento. Bucciarati, ho incontrato una ragazza che sembra ridotta in pessime condizioni, a dir la verità parlandole mi è sembrato di rivedere il me di qualche anno fa... non potremmo invitarla a entrare e mangiare qualcosa con noi?»
«Grandioso.» tuonò un'ultima persona. Incredibile ma vero, il suo era un timbro vocale alquanto familiare. «Ci hai portato un altro idiota come Giorno?»
«Sii rispettoso. Giorno è il Boss, adesso, e sono stato io ad accoglierlo e presentarvelo.» lo riprese il capo, per poi tornare a parlare con Narancia. «Non voltiamo le spalle ai bisognosi, mai. Ma evitiamo di parlare di Passione e di lavoro mentre mangia con noi, d'accordo?»
«Oh- ehm... sì, direi di sì...» balbettò Narancia, «Allora vado a chiamarla!»
Qualcuno rise in sottofondo e abbassò la voce.
«Oi, Fugo...»
«Mh?»
«Chissà... magari è anche carina!»
«...Sei incorreggibile, Mista.»
Irene sussultò quando la porta si riaprì a qualche passo da lei. Narancia non se la ritrovò davanti e si guardò attorno, confuso, finché non la rivide intenta a ricomporsi dopo aver sbirciato dalla finestra.
«Oh, sei qui.» la richiamò. «Puoi entrare. Solo... meglio se non fai troppe domande.»
Lei annuì e lo seguì. Non appena mise piede nel Libeccio, un inebriante odore di cibi italiani la circondò e fece tuonare il suo stomaco dalla fame.
Quando raggiunse il tavolo, alle spalle di Narancia, strinse le mani tra loro alquanto insicura.
«D'accordo, ragazzi... vi presento Irene Cacciatore!» la presentò lui, facendosi da parte.
Ed ecco ben quattro sguardi puntarsi su di lei, chi più interrogativo chi meno interessato.
A partire dalla sinistra, al tavolo erano seduti un uomo dai lunghi capelli bianchi e un giaccone nero, uno con indosso un particolare cappello e un maglioncino corto dai colori brillanti, un altro ancora con un ciuffo biondo e una maglia bucherellata e, infine, il povero Bucciarati che osservava Irene come se avesse appena visto un fantasma.
Il ragazzo con addosso il maglione sollevò una mano e strinse gli occhi, gettandosi a capofitto nella speranza di poter parlare con una bella coetanea.
«Ehylà, Irene, piacere di conoscerti! Io sono Guido Mis-»
«Tu?!» lo interruppe Bucciarati, sollevandosi dal suo posto e guardando sorpreso la ragazza.
Irene si sentì tremare sotto il suo sguardo severo.
Di nuovo, tutti gli altri fecero silenzio.
L'uomo dai capelli bianchi, che aveva rivolto alla ragazza giusto un'occhiata e poi era tornato a badare al suo piatto, guardò il capo.
«Che succede, Bucciarati? Conosci questa ragazza?» gli domandò. Bastò quell'idea a fare irrigidire tutti i presenti, Narancia compreso, che non capiva cosa stesse succedendo. In effetti Irene non gli aveva detto di conoscere già il suo capo.
«Cosa...?» mormorò infatti, boccheggiante.
Irene si strinse nelle proprie braccia.
«Già. Lo so, è curioso incontrarci così, ma non ho potuto farne a meno... non ci siamo salutati nel migliore dei modi e da quel momento le cose non sono andate affatto bene.» mormorò prima di rivolgersi a Narancia, «Scusami se non ti ho detto tutta la verità. Aspettavo il momento giusto per...»
«Mi hai preso per i fondelli?!» urlò il ragazzo più giovane, puntando i piedi a terra. «Sei una nemica? Bada bene, rivela tutto o ti riduco a un colabrodo con il mio Aerosmith!»
«Narancia, siediti e abbassa la voce.» esclamò Bucciarati, respirando a fondo e calmando i bollenti spiriti. «Non è una nemica, al contrario. Possiamo definirla una mia conoscenza.» spiegò con calma. «E a questo punto immagino sia legittimo chiedervi cosa vi sia accaduto, dato che non avete affatto una bella cera.»
Irene provò a parlare ma un brontolio proveniente dal suo stomaco la fece vergognare.
I due ragazzi davanti a lei, quello con il cappello e quello con il ciuffo, si scambiarono un'occhiata e il primo di loro si lasciò sfuggire un sorriso.
Bucciarati tornò a sedersi e invitò Irene a fare lo stesso, sospirando.
«Ho capito. Narancia ha detto la verità, dopotutto, stai davvero morendo di fame. Avrai modo di raccontarci tutto prima che la tua portata venga servita.» consentì.
Bastò uno schiocco di dita e qualche breve frase per ordinare un intero pranzo a Irene, che si sentì subito in debito. Un mese prima aveva rifiutato persino un caffè e ora sopravviveva grazie a un pranzo pagato dalla stessa persona con cui aveva litigato prima di finire nei guai.
Con l'aiuto di Narancia, Irene spiegò cosa fosse accaduto quella mattina, raccontò di Hungry Planet e del comportamento del suo portatore, spiegò come Narancia lo avesse sconfitto con il suo Stand. Dimenticò, però, di accennare alla trasformazione dei macigni in ferro liscio. O magari evitò volontariamente di parlarne.
«Un portatore di Stand ostile?» si domandò quello dalla maglia piena di buchi, massaggiandosi il mento, «Non va bene, Bucciarati. Ero convinto di aver fatto fuori gli ultimi traditori rimasti quando Giorno mi ha dato l'opportunità di tornare nella squadra. Chiunque fosse questo portatore, non faceva parte dell'organizzazione.»
Irene si sentiva girare la testa. Non aveva ancora mangiato, non conosceva nessuno lì dentro e capiva metà dei loro discorsi.
Bucciarati la osservò con aria comprensiva quanto combattuta: aveva chiaramente detto di non volerla trascinare in problemi che non fossero suoi, ma adesso non aveva più senso. Erano stati i problemi ad andare da lei.
«Capisco, sei confusa. Tutto questo è nuovo per te e, a questo punto, non credo abbia più molto senso avere segreti. Ti spiegherò meglio le condizioni in cui ci troviamo.» promise.
Irene riuscì finalmente a sorridere.
«Sì, immagino potrebbe far comodo.» commentò prima che Bucciarati continuasse.
«Iniziamo dal principio. Noi non siamo persone comuni, Irene, ma dei gangster. Facciamo parte di un'organizzazione chiamata Passione, che si divide in diverse squadre con vari incarichi sparse in tutta Italia. Ogni squadra risponde ai comandi di un Capo Regime, legato direttamente al Boss. Nel nostro caso, io stesso sono un Capo Regime e loro sono i miei compagni di squadra.» li guardò, aspettando che si presentassero da soli.
Quello con il ciuffo biondo sollevò appena il mento, ancora abbastanza sospettoso.
«Sono Fugo... Pannacotta Fugo.» disse solamente.
Accanto a lui, il ragazzo con lo strambo maglione rosso e blu sorrise e si accasciò contro la sua spalle.
«E io mi chiamo Guido Mista, come cercavo di dire prima. Mi fa piacere che tu conosca Bucciarati, sai? I suoi amici sono anche miei amici.» la accolse calorosamente.
Irene si sentì subito ben accolta, specialmente da Mista, e non poté nascondere un sorriso.
Mancava solo che si presentasse l'ultimo, più a sinistra. Lo guardò interessata mentre sollevava di nuovo lo sguardo su di lei e, a quel punto, si paralizzò.
I suoi occhi gialli e violetti, una sfumatura che non avrebbe mai dimenticato... lo conosceva. Ne era sicura. Non ricordò subito di chi si trattasse ma, quando ci riuscì, le parve che le si fosse aperto un mondo davanti. Sconvolta, strabuzzò gli occhi e non poté distrarsi per un po'.
L'uomo sbuffò, circondando la spalliera della sua sedia con un braccio e sollevando un lato delle labbra mentre dirigeva la propria attenzione su di lei.
«Tagliamo corto. Io sono...»
«Leone... Abbacchio?» pronunciò quindi la ragazza, con abbastanza sicurezza.
Questa volta, tutti quanti tacquero e la osservarono come se avessero davanti un'indovina. Nemmeno Bucciarati capiva cosa stesse accadendo.
L'uomo con cui stava parlando piegò la testa e alzò un sopracciglio, confuso e schivo.
«Come diavolo fai a sapere il mio nome? Non mi ero ancora presentato.» domandò mentre Fugo iniziava a tamburellare le dita sul tavolo, inquieto.
Irene realizzò cosa avesse appena fatto. Scrollò le spalle e scosse la testa, desiderando solo di potersi pizzicare un braccio e giudicandosi come una stupida.
«No, io... devo averlo sentito prima di entrare, quando stavate parlando tra di voi. Diciamo che ho tirato a indovinare.» si giustificò in un attimo, stringendo i denti.
Abbacchio, il poliziotto che in centrale, tanto tempo prima, aveva deciso di darle un consiglio di vita quando a nessun'altro era mai importato di lei. Un piccolo gesto che però, per lei, significava tanto. Le sue parole erano diventate un'ispirazione per Irene, che giorno dopo giorno cercava di fare della sua vita qualcosa di buono, pur fallendo di continuo. Era grazie a lui se non aveva ancora toccato davvero il fondo senza possibilità di ritornare a galla, di vivere davvero.
Eppure, lui non sembrava ricordarsi di lei. Certo, aveva sicuramente incontrato un sacco di persone in questura e non mancavano i giovani sciocchi che combinavano bravate e finivano lì per qualsivoglia motivo, esattamente come lei. Nulla le vietava di credere che, magari, il poliziotto dicesse la stessa cosa a tutti gli altri, per assicurarsi che non commettessero lo stesso errore una seconda volta.
Avrebbe fatto luce sulla questione più tardi, possibilmente in privato. Per il momento doveva ancora capire il perché lui si trovasse là, insieme a dei malavitosi, se era un poliziotto. E ancor di più, giudicò ironica la scelta del destino di farli incontrare così all'improvviso.
«Comunque sia», sviò Pannacotta Fugo, alquanto distaccato e impassibile, «Stando a quanto riportato da Narancia e Irene, il nemico cercava di catturare o uccidere lei.» portò all'attenzione di Bucciarati, parlando direttamente con lui.
Il capo annuì.
«Cacciatore, per caso conoscevi il nemico? Hai mai avuto discussioni con lui, o fatto qualcosa che possa averlo portato a prendere questa scelta?»
«No, a dire il vero non sapevo nemmeno chi fosse finché Narancia non ha trovato il suo documento. Non so cosa volesse.»
Mista incrociò le gambe e si grattò il mento, confuso.
«Caspita. E se fosse stato solo uno squilibrato?»
«Nemmeno un folle attaccherebbe il suo obiettivo all'impazzata in pieno giorno e nei pressi del centro città. Più che matto, sembra che fosse frettoloso.» ribatté il capo.
Narancia si schiarì la voce, deciso a intervenire a sua volta nella discussione dopo aver smaltito il broncio.
«Non credo che fosse da solo, quel maledetto. Prima di togliersi la vita ha detto che "la sua fedeltà" andava oltre la morte. O qualcosa del genere. In ogni caso, se ha detto di essere fedele a qualcuno allora significa che non lavora da solo, giusto?» analizzò bene la situazione.
Fugo sorrise e ammiccò in direzione del compagno dall'altro lato del tavolo. «Ottima osservazione, Narancia, congratulazioni. Per non parlare della capacità di memoria.»
«A furia di studiare ho imparato a ricordarmi le cose importanti...»
«Tornare a scuola è stata una scelta più che giusta. Sono felice che si sia rivelato un successo.»
Mista quasi cadde dalla sedia, ricordando qualcosa.
«Ah! A proposito, Narancia, oggi il professore di matematica non doveva consegnarti i risultati della verifica della settimana scorsa?» domandò. Immediatamente l'attenzione del gruppo ricadde sul ragazzino.
«Già, ce le ha restituite e stavo per portarla a voi, ma quel bastardo di Hungry Planet ha fatto a pezzi il foglio nel combattimento. Il professore mi farà una bella lavata di capo...» sospirò per poi riprendersi, «Però ho preso un bel sei, questa volta!»
«Sei?!» esclamarono in coro Fugo e Mista. Quest'ultimo continuò subito dopo. «Cavolo, hai davvero preso sei? Complimentoni, Narancia, sei davvero migliorato!»
«Vedi? Te lo dicevo che il tuo duro lavoro prima o poi sarebbe stato ricompensato.» sorrise ancora Fugo.
«Non viziatelo troppo o non s'impegnerà oltre.» li riprese pacatamente Abbacchio, appoggiando la guancia a una mano e probabilmente trattenendo un'espressione lieta da quando aveva udito la notizia.
Narancia si passò una mano fra i capelli, imbarazzato quanto contento di tutte quelle attenzioni.
«Ah ah... sempre se deciderà di non abbassarmi il voto quando gli dirò che non ho più il foglio della verifica...»
A questo punto fu Bucciarati a parlare.
«Sono molto orgoglioso di te, Narancia. Sono sicuro che a fine anno otterrai dei voti ancora più alti e che il tuo professore ti lascerà quel sei anche senza il foglio. In caso contrario andrò a parlargli per chiederglielo di persona, dopotutto adesso sono il tuo tutore legale.» sorrise con la stessa espressione che avrebbe avuto un reale genitore.
Irene lo osservò quasi rapita: aveva davvero firmato le carte per diventare il responsabile di un ragazzo più piccolo? Non che non ne fosse capace, data la sua influenza in città, ma si rivelava comunque una scelta alquanto doverosa e che necessitava attenzioni particolari, e lui era un ragazzo giovane come gli altri, forse addirittura più di Abbacchio, anche se circondato da quella speciale aura di maturità ed educazione che lo rendevano simile a un adulto.
Poco dopo l'espressione del giovane uomo tornò a essere pragmatica come quella di sempre e la magia svanì.
«Per il momento, però, non perdiamo di vista la tematica principale. A quanto pare questo Gabriele Ferragamo rispondeva a degli ordini che gli imponevano di rapire o uccidere Cacciatore. Dovrò chiedere alle autorità di permetterci di fare delle indagini per conto nostro, così potremo scoprire qualche indizio che possa rivelare di più sulla faccenda.»
Irene cacciò subito una mano in tasca e afferrò il cellulare, quasi scarico ma per fortuna ancora acceso. Frettolosamente, pigiando i pesanti tasti e le frecce, trovò in galleria la foto del segno marchiato a fuoco sulla pelle di Ferragamo.
«Il nemico aveva questo simbolo sul collo. Non so cosa possa significare, ma non ha l'aria di essere un tatuaggio.» disse mentre mostrava la foto al capo della squadra. Tutti gli altri si sporsero per dare un'occhiata e, a quel punto, Fugo s'irrigidì.
«Credo di aver già visto qualcosa di simile altrove...» si tastò la fronte, sforzandosi di ricordare, «Sì, ho trovato! È un sigillo esoterico. L'ho letto in un libro molti anni fa. Se non erro, questo si riferisce all'Arcangelo Gabriele della religione ebraica. Sono sigilli che derivano dalla formazione del nome ebraico sulla Croce di Rose e che vengono impressi su talismani o strumenti religiosi per la preghiera o le invocazioni. Non capisco, però, come possa essere collegato al nemico...» spiegò per filo e per segno, abbastanza sicuro di sé e dimostrando di essere un grande studioso.
Mista emise un lungo verso pensieroso.
«Magari faceva parte di una setta religiosa o una scemenza simile?» propose.
«Sembra la soluzione più plausibile. Oppure potrebbe essere una scelta personale, per quanto insolita possa apparire.» giudicò Bucciarati.
Narancia borbottò sottovoce.
«Be', detto da qualcuno che ha tutto il torso tatuato...»
«Hai detto qualcosa, Narancia?»
«Nulla, capo!»
Irene non poté trattenersi dal lanciare un'occhiata a Bucciarati e, in particolar modo, al curioso scollo sul suo vestito bianco puntellato da segni neri a forma di goccia, che lasciava intravedere i pettorali allenati e, come aveva detto il giovane studente, anche un interessante rete di linee nere che quasi sembrava un ricamo.
Prima che qualcuno si accorgesse di dove fosse caduto il suo sguardo, riportò gli occhi sul piccolo schermo del telefono e si trattenne dal fare una battuta sul fatto che Bucciarati non sembrasse affatto un "tipo da tatuaggio", considerata la sua perenne serietà e il grande segno di responsabilità.
Pannacotta Fugo sospirò.
«Potrei fare ricerche e cercare di scoprire qualcosa in più, ma mi ci vorrà del tempo. Sorge il problema che potrebbe trattarsi di un componente di una squadra, come gli assassini che l'anno scorso hanno cercato di rapire Trish.»
Mista intervenne di nuovo.
«In tal caso ci basterà tenere d'occhio Irene, no? Se stanno cercando lei, prima o poi qualcuno salterà fuori.»
Abbacchio mostrò una smorfia poco convinta. A quanto pare l'idea di avere una novellina fra loro non lo entusiasmava troppo. Anche Fugo gli lanciò una sorta di occhiataccia, mentre Bucciarati si limitò a rinchiudersi in una profonda riflessione.
Narancia alzò gli occhi su una finestra poco lontana, forse un po'imbarazzato.
«Ecco... passare il tempo con Trish non è stato male, e da quando è diventata una cantante famosa non abbiamo più avuto occasione di vederla molto.» iniziò quindi, attirando su di sé l'attenzione.
«Insomma... quello che sto cercando di dire è che magari ci farebbe comodo una ragazza in squadra.»
«Una ragazza?» gli fece eco, scettico, Abbacchio.
Mista ridacchiò. «Dillo che ti piace essere coccolato, Narancia! Con quell'aria da piccoletto le conquisti tutte.»
«Ripetilo e ti massacro!» alzò la voce il ragazzino, benché avesse chiaramente le guance più rosse.
«Smettetela di litigare.» li riprese Bucciarati. Irene si chiese come facesse a mantenere quella pazienza con un gruppo di sottoposti tanto chiassoso.
Bastò quella semplice frase e tutti tacquero e lo osservarono in silenzio, come in attesa di un'ordine o di una sua decisione. Sembravano tutti molto leali al loro capo. Tutti molto uniti. Una vera famiglia. La ragazza percepì un clima di fiducia e unione mai respirato prima in vita sua.
«Narancia,» chiamò poi l'uomo, «Stai suggerendo di far entrare in squadra Cacciatore?» chiese. Non sembrava arrabbiato, affatto.
«È un'idea.» rispose Narancia sollevando le spalle, «Dopotutto è una portatrice di Stand, no? Uno in più potrebbe farci comodo. E questa ragazza ispira fiducia, anche se mi ha nascosto una parte di verità.» sospirò.
Irene calò la testa. «Ho chiesto scusa... e non è una cosa che faccio tutti i giorni.»
Fugo intervenne. «Uno Stand? E che potere ha?» domandò, schivo.
Bucciarati stava per parlare, ma Irene fu più rapida.
«Non lo so ancora. Non ho mai visto il mio Stand, ma riesco a vedere l'Aerosmith di Narancia e lo Sticky Fingers Di Bucciarati.» rivelò ricordando ancora il nome pronunciato dal capo.
Quest'ultimo non sembrava contento e Irene capì perché: non avrebbe dovuto rivelare la sua condizione a Fugo. Lui non voleva sapere nulla del suo Stand, solo metterla alla prova, e quella prova l'aveva fallita.
«Che ce ne facciamo di qualcuno che non sa nemmeno come usare il suo Stand?» chiese Abbacchio, pronto a coprirsi di nuovo le orecchie con un paio di cuffie per isolarsi un po'e ascoltare della musica.
Bucciarati non apprezzò il suo commento. «Qualcuno di voi sapeva anche solo cosa fosse uno Stand, prima di diventare un gangster?» lo riprese con aria più nervosa ma affatto scomposta. «Cacciatore è proprio come Trish. Il suo è uno Stand innati che ha iniziato a risvegliarsi solo di recente, mentre noi abbiamo dovuto acquisirne uno tramite l'uso della freccia posseduta dal precedente Capo Regime, Polpo. Questo mi porta a pensare che, una volta rivelato e domato, il suo potrebbe essere uno Stand potente. Quello di Trish, ad esempio, è dotato di un intelletto proprio.»
Le sopracciglia di Fugo si abbassarono. «Bucciarati, perché riveli così tanto davanti a questa ragazza? Non sappiamo ancora se fidarci o no. A meno che...»
«A meno che io non abbia già deciso di accoglierla in squadra.» fu lui a completare la frase.
Vi fu un sussulto generale e Narancia arrivò persino a sorridere.
Irene era la più allibita di tutti. Non credeva a quanto aveva udito. Non le sembrava vero. Aveva chiesto all'uomo di prenderla nell'organizzazione un mese prima e lui aveva rifiutato. Ora, però, stava cambiando idea.
«Ma... credevo che avessi detto...» balbettò, senza finire la frase.
«Lo so. E continuo a pensare che sarebbe stato meglio per te evitare tutto questo e tenerti lontana da noi e dalla nostra vita spericolata. Però adesso sappiamo che sei il bersaglio di un gruppo avversario che opera nello stesso territorio di Passione senza alcuna autorizzazione e per motivi sconosciuti. Il mio proposito era quello di tenerti al sicuro ed è esattamente ciò che intendo far tutt'ora.» spiegò a occhi chiusi e braccia conserte, accavallando le gambe con una certa compostezza, «Abbandonarti a te stessa ora che non hai modo di difenderti contro dei nemici possessori di Stand equivarrebbe al condannarti a una fine terribile. Non permetterò che accada, anzi, ti aiuterò a sviluppare il tuo Stand e a controllarlo a tuo piacimento. Fino a quel momento, se non ti dispiace, devo chiederti di restare vicina alla nostra squadra in maniera tale che possiamo agire in situazioni d'emergenza. Un trasloco sarebbe un problema per te?» domandò in tutta sicurezza.
«Bucciarati!» Abbacchio intervenne di nuovo, «Lo stai facendo davvero? Sai benissimo che chiunque sia questo nemico non ha interesse nell'inimicarsi Passione. Vogliono solo lei. Non siamo obbligati ad attirare su di noi una nuova minaccia proprio ora che abbiamo fatto fuori Diavolo.»
Narancia sussurrò a Irene una spiegazione in tempo reale. «Diavolo era il Boss di Passione prima di essere sconfitto. Il nome gli calza a pennello, era un tiranno e un assassino. Una vera carogna, insomma.»
Irene annuì comprendendo, ma restando preoccupata per la disputa tra Abbacchio e il capo della squadra, che controbatté immediatamente.
«Come ho già detto, Abbacchio, non abbandonerò Cacciatore al suo destino. E l'unico modo per proteggerla è tenerla sotto controllo.», tornò a guardare Irene, «Quindi?» le ripropose la domanda.
Irene viveva in uno squallido monolocale al piano di sopra rispetto a un bar particolarmente chiassoso. A volte non funzionava bene la luce, altre volte l'acqua. E riuscire ad addormentarsi nel fine settimana era un vero incubo. Avrebbe fatto ciao ciao con la manina a quella catapecchia più che volentieri.
«E dove dovrei trasferirmi?» chiese incuriosita.
«Ho una casa nella periferia di Napoli, in una zona tranquilla e vicina alla spiaggia. Te ne avevo già parlato, ricordi?» le spiegò tranquillamente.
Quella domanda non piacque all'uomo dai capelli bianchi e le labbra tinte di viola, che con un borbottio mostrò il suo disappunto.
Irene annuì.
«Da qualche settimana, anche Fugo e Narancia abitano lì, ma c'è ancora spazio per qualcuno. Abbacchio e Mista possiedono degli appartamenti altrove, in città. Ritengo che trasferirti con noi sia la scelta più sicura. Se una volta debellata la minaccia vorrai tornare a vivere da sola sarai libera di farlo, ovviamente.» illustrò quindi lui, in attesa di una conferma.
Irene non aveva mai vissuto con nessuno. Persino quando abitava nella grande casa della famiglia del suo patrigno non aveva mai avuto davvero qualcuno con cui condividerla: sua madre non le dava mai particolari attenzioni e il marito, che non era davvero suo padre, faceva di tutto per evitarla, ritenendola insopportabile. Non aveva mai avuto fratelli o sorelle prima che sia madre partorisse di nuovo, ma non aveva nemmeno avuto modo di conoscere il piccolo Ezio, suo fratellastro nato da pochi anni, in quanto venne mandata via di casa alla sua nascita. L'idea di trasferirsi in un appartamento con altri tre uomini era una scelta ardua da compiere. Avrebbe dovuto dire addio a una parte della sua libertà, ad alcune abitudini e ai suoi ritmi. Avrebbero davvero pranzato e cenato assieme? Quasi non ci credeva. Tutto sommato, però, l'idea non le dispiaceva affatto. Ciò che Bucciarati le stava offrendo era anche una buona compagnia, a giudicare dalla sua protettività benché si conoscessero appena e la simpatia di Narancia. Fugo, invece, sembrava un ragazzo calmo e intelligente, ma non poteva ancora formulare un'idea precisa su di lui.
La risposta fu spontanea, quasi disperata, dopo anni e anni di solitudine.
«Sarebbe... un piacere, immagino.» pronunciò ancor prima di riflettere sulle proprie parole. Per un attimo volle maledirsi, ma il pentimento durò ben poco.
Bucciarati sorrise proprio come Narancia e Mista. Fugo e Abbacchio sembravano quelli meno convinti dalla scelta del capo.
«Allora è deciso. Oggi ti aiuteremo con il trasloco, Cacciatore, ma domani, se non ti dispiace, vorrei presentarti al nostro Boss.» propose.
Mista sussultò. «Aspetta, Bucciarati, vuoi davvero portarla da...?»
«Sì. Ripongo assoluta fiducia in lui e voglio che sappia dell'aggiunta di questa ragazza alla nostra squadra. Sono sicuro che capirà. E poi devo avvisarlo della nuova minaccia...»
«Se sapessimo chi è il nostro nemico, potrebbe eliminarlo in un istante.» sospirò Narancia.
«Dobbiamo prima valutare la sua pericolosità. Non credo sia necessario scomodare qualcuno come lui.»
«Questo è tutto da vedere, purtroppo.» commentò infine Fugo.
Quando la conversazione finì, a completare l'opera fu l'arrivo di un enorme piatto di pasta: una montagna di spaghetti al nero di seppia dall'odore invitante che fece venire l'acquolina in bocca ad Irene solo a vederlo.
«Questa volta lo offro io, sul serio.» riferì Bucciarati, aprendo una mano e usandola per indicare il piatto. «Non preoccuparti. D'ora in poi non farai più fatica a trovare qualcosa da mangiare. Buon appetito.»
Irene sentì gli occhi pizzicare. Non le sembrava vero... nessuno era mai stato così gentile con lei. Mai.
Aveva subito e subito e subito... ed era sempre stata sola. Senza una via di fuga. Le tornarono in mente le parole di Sergio, il suo caro amico: "Troverai le persone giuste."
Ecco, in quell'istante pensò davvero di averle trovate. La sua vita aveva subito una svolta e lei sarebbe andata contro al proprio destino senza paura. Perché non era più sola.
In un attimo afferrò le posate e si tuffò affamata sul piatto. Nessun pasto le era mai sembrato così buono, prima d'allora.

* * *

 

[ Spazio Autrice ]

Salve! Rieccomi a postare con tempistiche che non stanno né in cielo né in terra ma, almeno, sono riuscita a scrivere un capitolo abbastanza lungo. Finalmente Bruno è riuscito ad adottare per l'ennesima volta il bisognoso di turno, in questo caso Irene, che ancora non sa di essere entrata a far parte di una vera e propria famiglia. Non ci resta che chiederci: cosa accadrà quando incontrerà Giorno? E rivelerà ad Abbacchio di conoscerlo, anche se lui non ha memoria del loro incontro? L'obiettivo principale per adesso è scoprire l'identità del nemico, che non è uno solo e ha intenzioni misteriose. Questa bizzarra avventura continuerà presto ma, intanto, se vi va potete lasciare una recensione a questo capitolo e farmi sapere che ne pensate, lo apprezzerei molto! Come al solito io vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo, Arrivederci!

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Capitolo 6
*** 06. Gangland ***


[ GANGLAND ]

Un trasloco. Non sembrava vero. Non dopo tutto quel tempo di buio. Irene aveva davvero scorto e raggiunto la fioca luce in fondo al tunnel?
Abitava da sola da quando era stata scacciata di casa dalla madre e dal patrigno, che non volevano avere nulla a che fare con una piccola delinquentella violenta come lei, specialmente dopo la sua tremenda lite con la compagna di classe, che ovviamente aveva rigirato la storia a suo favore grazie all'abilità di piangere a comando... e alle terribili condizioni in cui versava, il modo in cui lei l'aveva ridotta.
Quella mattina, dopo l'ennesima provocazione, Irene era esplosa.
"Non mettermi mai più le mani addosso."
Era questo ciò che aveva pensato.
Nessuno le aveva mai dato affetto, era come una di quei cani selvatici senza padrone dispersi in vicoli luridi della città: allo stesso modo viveva lei a Siracusa, abbandonata a se stessa, incapace di comprendere il significato di una carezza o di un abbraccio. Sapeva che, se qualcuno la toccava, era per farle del male. Uno schiaffo, un calcio... conosceva bene le punizioni. Essere toccata equivaleva a provare dolore, e lo sperimentava spesso nella casa di sua madre. Anche le maestre, di tanto in tanto, le colpivano le mani con le bacchette o la costringevano a inginocchiarsi sui ceci pungenti. E lei non aveva mai pianto, benché i più forti puntassero a questo. Volevano vederla piangere. Era divertente.
Solo adesso, da sola e seduta sul letto morbido e caldo della sua nuova stanza, ebbe l'impressione che una lacrima le avesse rigato il viso. Si guardò attorno con aria sperduta: una scrivania illuminata dal sole che filtrava da una finestra occupava l'angolo accanto alla parete di sinistra, un armadio con un grande specchio verticale stava invece sulla destra. Un tappeto blu di moquette la accoglieva quando scendeva dal letto e dietro la porta, che adesso era chiusa, vi era un termosifone su cui riscaldare i vestiti in inverno.
Provò a domandarsi se meritasse davvero tutto ciò e, per la prima volta in vita sua, si rispose di sì. Perché, lei che aveva sofferto così tanto a causa degli altri, doveva subire e basta? Aveva commesso degli sbagli, è vero, ma a causa della giovane età e della sua solitudine. Ciò non era un buon motivo per essere triste per sempre. Per essere sola.
Si alzò con calma e si affacciò alla finestra, che dava su un piccolo balcone ornato da fiori e piante grasse. Aprì l'anta e uscì all'aperto, ammirando la bellezza del golfo di Napoli, le barche a vela in lontananza e le persone che passeggiavano tranquille sul lungomare. Qualcuno era persino in spiaggia, benché facesse ancora un po' di freddo. La città era viva e tranquilla davanti a lei, che la guardava dall'alto del secondo piano della sua nuova casa, e non più da una stradina di periferia immersa nel buio.
Nessuno, tra i passanti, la guardava più con aria di superiorità, al contrario, non la guardavano affatto. Non avevano intenzione di giudicarla. Era come gli altri: una cittadina che si rilassava nella sua stanza in un bel pomeriggio soleggiato.
Certo, con l'eccezione di essere sotto il controllo di cinque malavitosi intenti a proteggerla da uno strano culto nemico o qualcosa del genere, ma questo gli altri non lo sapevano.
Qualcuno bussò alla sua porta e lei si ridestò dal suo stato di ammirazione. Tornò in stanza, lasciando la finestra aperta per rinfrescarla, e aprì senza problemi dopo aver aggirato qualche scatolone ancora da sistemare.
«Ti disturbo, Cacciatore?» domandò Bucciarati, apparso davanti a lei. Teneva una mano appoggiata allo stipite della porta e, benché avesse un'aria del tutto composta, la sua voce mostrava una punta sbrigativa.
«No.» rispose Irene, inaspettatamente contenta di trovarlo di fronte. Non perché fosse lui, ma perché i segni del vivere insieme a qualcuno iniziavano a manifestarsi: qualcuno bussava alla sua porta, dal piano di sotto provenivano voci che discutevano su un qualche insolito argomento e il silenzio non la straziava più, non la assordava.
«Bene... allora dovremmo andare, se non ti spiace. Più tardi ti aiuteremo a sistemare il resto se vuoi, ma adesso dobbiamo raggiungere la villa del Boss.» comunicò l'uomo, spostandosi per permetterle di passare.
Irene annuì, afferrò cellulare e portafoglio e li mise in tasca, per poi affiancarlo e richiudere la porta dietro di sé.
«Bucciarati...» chiamò all'improvviso.
Lui si voltò, fermandosi dopo aver mosso un singolo passo.
«Questo Boss... credi che mi accetterà nell'organizzazione?» si preoccupò. Ovviamente. Non aveva ancora imparato a credere realmente in se stessa. «Insomma... io non sono come voi. Non so nemmeno come usare il mio Stand, o che potere abbia... o se addirittura esista davvero.»
«Cacciatore,» il tono pacato del capo la calmò subito, così come il suo sguardo deciso, «Non hai nulla in meno di noi. Abbiamo tutti attraversato la fase in cui ti trovi tu, devi credermi. So cosa provi in questo momento e so che hai paura.»
La ragazza distolse l'attenzione dai suoi occhi, odiando ammettere che aveva ragione.
«Se la cosa può rassicurarti, il Boss è un mio caro amico. L'ho presentato io alla squadra perché sapevo che avrebbe realizzato il suo sogno. Mi fido ciecamente di lui, e lui ripone fiducia in me. Quando saprà che ti ho accolta personalmente accetterà subito, vedrai.» le sorrise per rassicurarla.
Irene ricambiò appena. Non era abituata nemmeno ai sorrisi.
«Giorno, giusto?» esclamò poi.
Lui piegò la testa, confuso. «Cosa...?»
«Giorno, il Boss. Si chiama così, non è vero?»
«Come fai a saperlo? Non te ne ho mai parlato.»
«Potrei aver origliato la tua conversazione con Abbacchio al Libeccio. In ogni caso, l'avrei scoperto comunque, no?»
Bruno sollevò un sopracciglio.
«Devo ammetterlo, Cacciatore, sei una ragazza furba e con la risposta sempre pronta. La tua grinta ci farà comodo.» la lodò non potendone fare a meno, divertito dalla sua astuzia, e tornò a camminare verso le scale. «Ora andiamo. Gli altri sono al piano di sotto ma non verranno con noi, devono riscuotere alcuni dividendi dai casinò della zona.» spiegò.
Come annunciato, Fugo e Narancia erano al piano terra, seduti al tavolo della sala da pranzo con dei libri aperti e molti fogli stropicciati in giro.
«Ragiona, Narancia: hai imparato a risolvere le equazioni semplici, una con le frazioni non sarà un problema. E hai una verifica su questo argomento il mese prossimo! Non vorrai rovinare la tua media ora che hai preso quel sei?»
Spronato dall'amico, un annoiato Narancia si grattava la testa dolente.
«Ma non lo capisco! Questo minimo comune multiplo deve essere il numero più grande o quello più piccolo? E perché qui è sei?!? Da dove diamine è spuntato quel numero?»
«Non è così difficile! I denominatori da entrambi i lati dell'equazione sono due e tre. Ora dimmi, qual è il numero più basso per il quale possono entrambi essere divisi?»
«Non lo so... otto?»
«...Otto? E da quando otto sarebbe divisibile per tre?»
«
Stavolta ne sono sicuro! Tre per uno tre, tre per due sei, tre per tre otto.»
Bucciarati entrò nella stanza un attimo prima che Fugo spiaccicasse il tomo di algebra in faccia a Narancia in un impeto di rabbia.
«Ragazzi, io e Cacciatore siamo diretti alla villa di Giorno. Torneremo nel giro di un'ora, salvo imprevisti. Voi cercate di non fare tardi con il lavoro.» avvisò il capogruppo, sollevando un indice e folgorando Fugo con una semplice occhiata.
Narancia schizzò giù dalla sedia come un gatto che trova la porta aperta sul giardino, pronto a uscire in libertà.
«Ottimo! Vengo con voi, così saluto Giorno!» sorrise vivacemente.
Fugo lo acchiappò per la maglia a scacchi arancione legata attorno alla vita e con uno strattone lo fece cadere a terra.
«Tu non ti muovi da qui. Abbiamo ancora almeno quindici minuti di tempo e non hai ancora finito i compiti per domani.» lo sgridò come se fosse lui il suo professore. «Inoltre quella di Bucciarati non è una visita di cortesia. Non possiamo permetterci di disturbare Giorno solo perché vuoi chiacchierare con lui.»
Il capo scosse le spalle. «Spiacente, Narancia, ma Fugo ha ragione. Pensa a studiare, porterò io i tuoi saluti al Boss.»
Il ragazzo più giovane sospirò e tornò a sedersi massaggiandosi il fondo schiena, con il quale aveva colpito il pavimento.
Bucciarati, dopo i saluti, condusse Irene fuori dalla casa e verso il parcheggio, attraversando la strada.
«Quei due fanno sempre così?» domandò divertita la ragazza. Non riusciva a non pensare che Bruno sembrasse proprio la mamma del gruppo pronta a riappacificare i suoi bambini.
«A volte, sì... ma ci farai l'abitudine. Fugo non gestisce bene la rabbia e Narancia spesso sembra provocarlo di proposito, eppure vanno molto d'accordo. Non preoccuparti per loro.» la rassicurò ancora.
Quando furono saliti sull'auto, un vecchio modello ma molto pulito e ordinato, Irene prese posto sul sedile del passeggero anteriore, pensando persino di mettere la cintura per non infastidire il conducente, come se avesse dovuto mantenere un rigoroso comportamento per sempre per evitare che quel sogno finisse all'improvviso.
Partirono poco dopo e Bucciarati, senza staccare gli occhi dalla strada, parlò con Irene per non costringere entrambi a un imbarazzante silenzio.
«Non ti ho ancora chiesto come ti sembra la casa. Capisco che vivere con tre uomini potrebbe darti fastidio, ma cerca di capire che...»
«Sto benissimo.»
La risposta di Irene non era secca o annoiata, anzi molto sincera. Pronunciata forse con troppa enfasi, ecco perché si corresse in fretta.
«Insomma... intendo che non è male. Un po' chiassosa, sì, ma sempre meglio di quella fogna dove abitavo prima.»
Spostò lo sguardo fuori dal vetro del finestrino, seguendo gli oggetti in movimento con gli occhi prima che sparissero alle sue spalle.
«Spero solo che il cambio improvviso che ha subito la tua vita non ti sconvolga. So cosa significa vedere tutto attorno a sé mutare e non sapere come reagire...» mormorò l'uomo.
«Lo sai?» chiese quindi la ragazza, «E perché? Credevo fossi l'incarnazione del cittadino perfetto, che fa la bella vita e aiuta gli altri che non hanno avuto la sua stessa fortuna.» borbottò, senza dimostrarsi riconoscente anche se avrebbe voluto. Era una questione d'orgoglio.
Lui strinse le palpebre per un momento.
«Lasciamo stare, l'ho detto senza pensarci.» si giustificò, «Sei pericolosa, Cacciatore. Sicura che il tuo Stand non abbia il potere di spingere gli altri a rivelare scomode verità?»
«Sarebbe decisamente imbarazzante. Spero non sia così.» ridacchiò la rossa.
Alla breve risata si aggiunse anche lui.
«Magari è semplicemente una questione di carisma.»
«Carisma!» replicò, «Voleva essere un complimento?»
«Solo un'osservazione.»
«In ogni caso credo che il mio Stand abbia doti più... materiali, che psichiche.»
«E cosa te lo fa pensare? Hai notato qualcosa di rilevante durante il tuo scontro con Hungry Planet?»
Irene ripercorse la battaglia con i propri ricordi. Non aveva dimenticato di aver visto un intero macigno trasformarsi in metallo davanti ai suoi occhi. Eppure non poteva esserne sicura.
«No. È stato Narancia a lottare, io ho solo suggerito un'idea.» mentì, o almeno sperò che la realtà fosse quella.
Bucciarati tacque per un attimo, probabilmente poco convinto.
«Non importa.» aggiunse poco prima di raggiungere la loro meta, «Abbiamo ancora del tempo per scoprire il tuo Stand. Quando ne avrai bisogno, vedrai che si manifesterà da solo.»
«Posso... posso farti una domanda?» tentò poi, senza un motivo preciso oltre alla semplice curiosità, Irene.
«Dipende di che tipo.»
«Ecco... volevo sapere, come hai fatto a ottenere il tuo Stand? Avevi accennato a una freccia un mese fa o ricordo male?»
Bucciarati rallentò premendo gradualmente il freno con un piede e , senza distrarsi, continuò a conversare con lei.
«Non dimentichi nulla, eh?» dovette ammettere, «In ogni caso non ti sbagli. Ho sostenuto una prova per entrare a far parte di Passione, quando ero anche più giovane di te. Pensavo di averla fallita e invece mi ha portato... a questo.»
Una mano opaca si materializzò affianco alla sua, le dita strette attorno al volante. Era Sticky Fingers ma scomparve dopo poco.
«Uno dei precedenti Capi Regime possedeva una freccia in grado di risvegliare il potere sopito negli umani. Non tutti, però, sono inclini al possedimento di uno Stand. Per quanto ne so, fin troppi hanno perso la vita in quella prova... io sono solo stato fortunato.»
"O forte", aggiunse mentalmente Irene.
La macchina accostò in un altro parcheggio e il motore si spense.
«Siamo arrivati. Seguimi, finché sarai con me nessuno ti farà domande.» diede disposizioni poi, prima di uscire.
Irene annuì e richiuse lo sportello qualche attimo dopo, incamminandosi con lui verso quella che sembrava una meravigliosa villa nella campagna più vicina a Napoli, circondata da cancelli di cespugli ben curati e chiusa da un cancello di ferro nero verniciato alla perfezione. Due statue di leoni realizzate in bronzo dorato vegliavano sull'ingresso in compagnia di due uomini vestiti in modo elegante, con il borsalino in testa. Bastava uno sguardo per capire che fossero anche lei dei gangster. Guardie, per di più.
Bucciarati si avvicinò a loro dopo aver chiuso a chiave la macchina. Un cenno della mano e i due chinarono la testa in segno di rispetto.
«Bentornato, capo.» disse uno.
L'altro, invece, studiò con attenzione Irene.
«E la guagliona?» domandò curiosamente con un forte accento napoletano.
«È con me. Devo presentarla al Boss, fa parte della mia squadra adesso.» chiarì Bruno.
Il primo rise. «Non ho mai visto un malavitoso di buon cuore come voi, capo.»
Bucciarati gli rivolse un'occhiata scontenta e quello tacque. La confidenza non era un tabù, ma sarebbe stato meglio mantenere una certa formalità con lui.
I cancelli vennero aperti e i due passarono senza problemi, entrando in un giardino che avrebbe potuto fare concorrenza all'Eden stesso. Alti alberi da frutto, orti coltivati, cespugli che prendevano la forma di animali, fontane di marmo e piccole piscine erano ovunque. La grandezza di quel posto era quasi intimidatoria.
Irene capì che il Boss non andava sottovalutato. La sua ricchezza era inferiore solo al suo potere in Italia.
Quando entrarono, dopo che altri due uomini del Boss si fecero da parte e salutarono il capo, la ragazza ebbe occasione di parlare con lui.
«Quindi anche tu hai una certa influenza in città, dico bene?» domandò scettica. Non credeva di star davvero vivendo quel momento.
«Pensavo di avertelo spiegato, ma lo ripeterò per sicurezza.» rispose lui, «Sono il "braccio destro" del Boss, il secondo in carica nell'organizzazione. Mi occupo del controllo di tutta la zona di Napoli da circa un anno e in più posso conferire direttamente con il Boss e con qualsiasi altro membro di Passione senza necessità di un permesso.» illustrò impeccabilmente. Non vi era alcun segno di vaneggiamento nella sua voce: non aveva intenzione di apparire potente o di sbandierare i suoi vantaggi al vento per il solo piacere di farlo. Era chiaro che prendesse molto seriamente il suo incarico, riuscendo a ricoprire quella carica in modo doveroso. Passione di fidava si lui, il Boss era stato un suo sottoposto e i cittadini di Napoli lo amavano e rispettavano. Bruno Bucciarati era, senza ombra di dubbio, una persona molto importante.
Irene batté le ciglia, impressionata.
«E... quanti anni hai, se posso chiedere?»
«Ventuno.»
«E hai ottenuto tutto questo... a soli ventun'anni?! Incredibile...»
Bucciarati sorrise.
«Se questo ti sembra incredibile, aspetta di conoscere il Boss.»
Irene provò a immaginare questo fantomatico Giorno, che tipo di persona potesse essere: nel suo immaginario lo dipingeva come un omone elegante di almeno trent'anni, coperto di gioielli e dall'aria saggia, una figura quasi biblica, con tante persone a lui devote. Ora le parole del capo la stavano facendo dubitare di quella sua impressione.
Raggiunto l'atrio della casa, Bruno chiese informazioni su dove poter trovare il Boss. Una signora che si occupava di ricevere i suoi ospiti disse che Giorno si trovava in biblioteca, a studiare, e che lo avrebbe avvisato del loro arrivo.
«Non c'è bisogno di scomodarsi,» la tranquillizzò il giovane, «Non voglio infastidirlo mentre studia. Andrò a trovarlo e lo lasceremo tornare ai suoi impegni fra poco.»
In un attimo i due si ritrovarono ad attraversare i corridoi della villa e Irene poté chiedere altre informazioni.
Scoprì che Giorno non si occupava solo di Passione ma, per l'appunto, stava anche completando il suo percorso di studi, il che significava che era più giovane di quanto Irene pensasse. Spesso si recava alla biblioteca di un'università locale per prepararsi agli esami, e che prima di tornare alla villa aveva l'abitudine di fermarsi a comprare un gelato. A volte si occupava anche di volontariato e una consistente somma del ricavato dell'organizzazione, quella che non finiva nelle tasche dei gangster al suo servizio, andava in beneficenza.
Mai e poi mai Irene aveva pensato che potesse esistere un Boss così. Nella città in cui era nata la mafia non aveva una forte presenza ma i criminali e le organizzazioni non mancavano. Nessuno dei delinquenti con i quali aveva avuto a che fare in un modo o nell'altro le erano mai apparsi così buoni.
Che Giorno avesse preso dal suo precedente capo, Bucciarati? Era possibile, anzi, molto probabile. Evidentemente era un uomo dotato di una certa sensibilità e dalla mente aperta.
Raggiunta la biblioteca, i due fecero il loro ingresso. Una guardia li scortò in una zona della grandiosa sala e, prima di raggiungere il Boss, li lasciò soli, un altro segno di assoluta fiducia.
«Lascia che sia io a introdurti al Boss.» consigliò Bruno sottovoce, «Giorno è una persona educata e accogliente ma non si è mai troppo prudenti.»
Prima che lei potesse rispondere, Bucciarati si avventurò verso un'altra fila di altissimi scaffali, tutti ordinati per genere e titolo.
E infine raggiunse l'ala della biblioteca che stava cercando.
Immersa in quel labirinto di cultura dall'aspetto rustico e ordinato, una figura se ne stava seduta nella penombra, in cima a una scala di legno che terminava con una sedia, la quale poteva essere spostata in orizzontale e in verticale quasi come una sorta di ascensore.
La persona là seduta teneva le gambe incrociate con una certa grazia e un libro in mano, mentre l'altra reggeva la testa all'altezza di una tempia. Era un giovanissimo ragazzo, affatto spaventato o almeno preoccupato dalla notevole altezza alla quale si trovava. Il suo viso era nascosto dall'ombra dello scaffale dalle labbra in sù.
Bucciarati si fermò ai piedi della scala e chinò appena la testa, lanciando un'occhiata a Irene per ricordarle di fare lo stesso.
«Giorno, perdona il disturbo.» salutò con calma l'uomo.
L'altro rispose con la sua stessa tranquillità.
«Tu non mi disturbi mai, Bucciarati.»
Irene rabbrividì. Quella... era la voce di un ragazzino!
Quando sollevò lo sguardo e mise a fuoco il Boss riconobbe subito un giovane di certo più piccolo di lei, che poteva avere non più di quindici o sedici anni.
Un liceale. Il Boss della più potente organizzazione malavitosa italiana era un liceale.
Non chiuse il libro, non smise di leggere e forse nemmeno rivolse loro uno sguardo. Il suo accento non era napoletano, né italiano in generale, e il suo vestiario era di un curioso color magenta acceso.
«Mi hai portato qualcuno?» domandò poco dopo. Solo a quel punto poggiò con cura il tomo nello scaffale, dopo aver lasciato scivolare le dita fino allo spazio vuoto dove si trovava prima che lo prendesse. A quel punto si sistemò una corta treccia bionda dietro la testa, lasciandola ricadere sulla spalla sinistra.
«Ti porto i saluti di tutta la squadra. E sì, volevo anche presentarti una novellina che ho deciso di accogliere tra noi.»
Il Boss sorrise. I suoi occhi non erano visibili, ma sembrava sinceramente contento. Visto di sfuggita, così, non sembrava affatto pericoloso.
«Non sei cambiato di una virgola. È un bene.»
Irene quasi non si accorse del suo movimento, quando raggiunse la scala e scese con agilità, scuotendosi la polvere di dosso e incamminandosi verso di loro. Poco dopo, iridi color verde acqua le perforarono l'anima, come se fossero state lance da guerra o proiettili di un mitra.
Solo a quel punto iniziò a comprendere il motivo per il quale fosse diventato chi era in quel momento.
«Qual è il tuo nome?» le domandò Giorno, pacato.
Era a pochi metri da lei e già le gambe di Irene presero a tremare. Non perché avesse un aspetto spaventoso, al contrario: il ragazzo sembrava un serafino, un angelo dalla pelle chiara e i capelli aurei, emanava persino un buon profumo.
Era la sua aura. La sua stessa presenza... era terrificante.
Emanava un'aria di potere, di pericolosità. Come se lo spazio attorno a lui godesse di una maggiore gravità. Irene non aveva mai percepito una sensazione simile e, per la prima volta in vita sua... desiderò davvero di non diventare mai nemica di qualcuno. Comprese che deludere il Boss, per quanto giovane e gentile sembrasse, sarebbe stato un vero e proprio suicidio.
Chinò del tutto la schiena, terrorizzata, e sperò di non dare una cattiva immagine di sé. Non sapeva quale fosse il suo potere Stand e non voleva scoprire. Qualunque esso fosse, era certa che in caso di battaglia l'avrebbe spedita all'altro mondo in un battito di palpebre.
«I... Irene Cacciatore, signore!» quasi urlò, sull'attenti.
Sia Giorno che Bruno la guardarono sorpresi, ma il primo di loro non ci fece troppo caso. Evidentemente era abituato a reazioni del genere.
«Irene... una volta ero al tuo stesso posto, lo sai?» le raccontò.
La ragazza alzò la testa abbastanza per osservarlo con aria interrogatoria.
«Se oggi sono il Boss di Passione, il merito è solo di Bucciarati. Aveva ricevuto l'incarico di uccidermi ma non portò a termine la missione. Al contrario, investì su di me e mi presentò al Capo Regime presso il quale superai la prova di iniziazione.» si spiegò meglio il ragazzo.
Irene lanciò un'occhiata a Bruno, che intanto manteneva un'aria sicura, affatto imbarazzata.
«Se è stato lui ad accoglierti, non ci sono problemi. Qual è la tua missione, Irene?» continuò Giorno, voglioso di conoscere il suo sogno.
«A dire il vero,» intervenne l'altro, «Avevo inizialmente deciso di non immischiarla negli affari di Passione. Solo dopo ho scoperto che, in realtà, potrebbe essere in pericolo.»
«Pericolo?» chiese Giorno, aggrottando la fronte.
«L'altro motivo per il quale sono corso a parlarti. Sembra che un'altra organizzazione, forse una strana setta, stia agendo alle spalle di Passione qua a Napoli.» riportò fedelmente quanto constatato da Fugo il giorno prima, «Un portatore di Stand ostile ha cercato di uccidere o rapire Cacciatore ieri mattina. Narancia l'ha fermato prima che potesse riuscirci e poi l'ha portata al Libeccio. Il nemico rispondeva agli ordini di qualcuno, ma non sappiamo chi o quanti siano i suoi compagni.»
«Capisco...» rispose Giorno.
Si sfiorò il mento con un dito, voltando loro le spalle e tornando ad allontanarsi, di nuovo nelle ombre. «Mi ricorda molto la nostra guerra contro la squadra esecuzioni. Potrebbero essere come loro, o anche più pericolosi, considerato che non appartengono alla nostra stessa organizzazione.»
«Dovremmo agire prima di loro o attendere che facciano la prima mossa e poi contrattaccare?» domandò Bruno.
Giorno si voltò girando su un solo piede.
«Lo chiedo a te, Bucciarati. Sei sempre stato il migliore a ideare piani. Cosa pensi che dovremmo fare?»
L'altro si rinchiuse in un breve silenzio, a testa bassa, una bocca appoggiata alla punta del naso in segno di riflessione.
«Potrebbe essere rischioso» esordì dopo, «ma credo che la soluzione migliore sia aspettare che agiscano per catturare di nuovo Cacciatore.»
«Cioè usarmi come esca?!» tuonò Irene, pentendosene un attimo dopo avendo parlato senza essere stata interpellata. Si calmò solo quando notò un'espressione comprensiva sul volto del Boss.
«Il vero problema non è proteggere te» spiegò direttamente, «ma il fatto che potrebbero agire da un momento all'altro, con qualsiasi potere e in numero superiore.» Subito dopo tornò a parlare con il suo precedente capo: «Qualcuno ha già trovato un indizio o sta indagando?»
«Sì. Cacciatore ha notato uno strano marchio sul collo dell'uomo che potrebbe ricondurre a una setta. Fugo si è mobilitato per fare ricerche.»
«Fugo... sono lieto che stia cercando di rendersi utile come possibile ma non vorrei che si sentisse ancora in colpa per quella volta.»
«Purtroppo non ha ancora superato questa difficoltà. Vuole riscattarsi, ti è davvero grato per avergli offerto una seconda possibilità.»
«La meritava. È stato un compagno formidabile e ha salvato la mia vita e quella di Abbacchio contro Illuso.»
Irene ascoltava alternando l'attenzione visiva tra l'uno e l'altro, ma non riusciva comunque a comprendere ciò che stessero dicendo. Dopotutto faceva parte della squadra da circa ventiquattr'ore, non poteva conoscere tutto il passato del team Bucciarati.
«Vorrei aiutarvi, dico davvero, ma non mi sarà possibile.» cambiò poi argomento lo stesso Giorno.
«Non credo ne valga la pena. Ci limiteremo a fare rapporto a ogni azione degna di nota e sconfiggeremo questo nemico per mantenere alto l'onore di Passione.»
«Non mi sono spiegato bene, ti chiedo scusa. Intendo dire che non sarò in città.»
Bucciarati sollevò un sopracciglio.
«Devi partire? Per dove?»
Il giovane Boss abbassò lo sguardo.
«Florida, Stati Uniti. Mi sono giunte voci che potrebbero aiutarmi a fare chiarezza... su mio padre. Il mio vero padre. Spero tu possa comprendermi.»
Irene sentì una fitta al petto far bruciare le sue costole.
Il Boss era nelle sue stesse condizioni, allora? Non sapeva chi fosse suo padre e voleva scoprire qualcosa?
Lei sapeva solo che il suo era un vagabondo e un delinquente da quattro soldi, che non aveva esitato a divertirsi un po' con sua madre e poi abbandonarla con una bambina in grembo senza mai fare ritorno. Non provava amore per quell'uomo, ma avrebbe voluto saperne qualcosa di più.
Bucciarati annuì comprensivo.
«Non preoccuparti, Giorno. Immagino quanto ciò sia importante per me.»
Il ragazzo sollevò di nuovo gli occhi verdi, sforzando un sorriso.
«Ti ringrazio, Bucciarati. Contavo di dirtelo prima della partenza ma sei venuto da me prima che lo facessi io. Posso lasciare in mano tua la gestione di Passione fino al mio ritorno?»
Bucciarati si portò una mano al petto.
«Con piacere. Manterrò l'ordine, Boss, è una promessa. Quando tornerai avremo già sventato la minaccia.»
Giorno affondò una mano in una tasca e lanciò una rapida occhiata a Irene prima di tornare a parlare con l'amico.
«Ti fidi di lei, Bucciarati?» chiese improvvisamente.
«Cosa?» fiatò lui, non perché non avesse capito ma per lo stupore. Tacque per un momento, poi replicò con più sicurezza: «Sì, immagino di sì.»
Stranamente, quella risposta significò molto per Irene. Era la prima volta che qualcuno diceva di fidarsi di lei.
«Allora mi fiderò anche io.»
Giorno estrasse la mano dalla tasca e mostrò il palmo: su di esso vi era una chiave dorata, con un bassorilievo a forma di coccinella sopra.
«Vorrei che conservassi questa mentre io non ci sono. Non voglio rischiare di perderla in America.» mormorò mentre lui la prendeva e la osservava con attenzione, «È la chiave della cassaforte che si trova nel seminterrato della villa. La freccia... Requiem... è al suo interno.» pronunciò. «La affido a te.»
Bruno la strinse nella propria mano, annuendo una singola volta.
«Ti ringrazio, Giorno. Buona fortuna in Florida. Spero tu possa trovare le risposte che cerchi.»
«Lo spero anch'io.» sospirò il ragazzo. «Per quanto riguarda la faccenda della setta nemica, se non dovesse risolversi nel tempo sperato vi aiuterò certamente una volta che avrò fatto ritorno in Italia.»
Si rivolse a Irene e sorrise anche a lei, sorprendendola.
«Conosco Bucciarati e la sua squadra meglio di quanto conosca me stesso, sono stati la mia famiglia. Non temere, Irene, sei in ottime mani. Te lo assicuro.»
Quello era il segno che era arrivato il momento di salutarsi.
Irene guardò Giorno, poi Bruno e poi di nuovo il Boss. In un certo senso, un curioso istinto le consigliò di fidarsi di quelle parole.
I due si salutarono prima che il ragazzo tornasse al suo studio. Gli altri due lasciarono la villa in totale silenzio, una sorta di tacito rispetto nei confronti della situazione che si rivelava sempre più complicata.
In silenzio... finché la ragazza non pronunciò un'importante domanda.
«Cos'è Requiem?» chiese rompendo quel muro invisibile che aveva separato lei e il capo in macchina.
Bucciarati contrasse le sopracciglia e le labbra, come se stesse ricordando qualcosa. Non si stupì della sua curiosità, era più che normale che volesse conoscere meglio la storia di Passione.
«La freccia di Requiem...» pronunciò quindi, solennemente, «...è dotata di un'abilità molto potente, più di qualsiasi altra freccia conosciuta legata agli Stand. Era in possesso di Diavolo una volta, ma Giorno la ottenne dopo averlo sconfitto.»
«Sconfitto? Intendi dire che Giorno ha ucciso il precedente Boss di Passione?»
«Ucciso? No... meritava di peggio. Giorno l'ha condannato
«Condannato a cosa?»
«Fidati se ti dico che non vuoi davvero saperlo.»
«E quale importanza aveva la freccia nel loro conflitto?»
«Requiem ha il potere di rafforzare qualsiasi Stand entri in contatto con la freccia, purché sia abbastanza forte da sopportare il cambiamento. La freccia non è di chiunque, sceglie il suo padrone e lo rende invincibile. Senza di essa, temo che Giorno non sarebbe riuscito a sconfiggere Diavolo.»
Irene realizzò che, quindi, il potere del nuovo Boss dovesse essere ben più che pericoloso. Ecco il motivo per il quale la freccia era tenuta sottochiave in una cassaforte nascosta nelle fondamenta della sua villa.
«Dobbiamo proteggere questa chiave per poter proteggere anche te.» chiarì Bruno, continuando a guidare. «Se i nostri nemici dovessero riuscire a mettere le mani sulla freccia...»
«Sarebbe la fine.» comprese Irene, concludendo la sua frase con voce pensosa.
Appoggiò la testa al finestrino senza più fiatare per tutto il tragitto di ritorno a casa, di colpo più preoccupata.
Già, sarebbe stata la fine di tutti loro.

 
[ • • • ]
 
Spazio Autrice:
Salve carissimi lettori! Eccoci giunti alla fine del sesto capitolo (che pensavo sarebbe stato un po' più corto e doveva avere una seconda parte, ma poi ho notato di aver già scritto molto e ho scelto di dividerlo). Ecco finalmente apparire anche lui, il nostro angioletto Giorno, nei panni del Boss di Passione! (Il riferimento a suo padre era d'obbligo, sono una fan di DIO all'ennesima potenza e quindi dovevo incastrarlo in qualche modo nella storia... e chissà, potrebbe riapparire più in là in qualche modo, è tutto da vedere). Bruno diventa il possessore temporaneo della freccia di Requiem, un incarico tosto, ce la farà a proteggere sia essa che Irene? E quando e come attaccherà il nemico? Non ci resta che attendere il prossimo capitolo per scoprirlo. Intanto vi invito, se vi va, a lasciare una recensione con le vostre impressioni e le vostre idee a riguardo, positive o negative che siano, perché mi fanno sempre molto piacere! Grazie anche ai nuovi lettori che hanno iniziato la storia solo da qualche giorno, cercherò di aggiornare il prima possibile. Un bacio e, come sempre... Arrivederci!

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Capitolo 7
*** 07. Remember Tomorrow ***


[ REMEMBER TOMORROW ]

 

Una sera più tardi dall'incontro tra Irene, Bruno e Giorno, la ragazza si trovava nella sua nuova casa, seduta tranquillamente nel salone al piano terra, accanto alla sala da pranzo, con la televisione accesa che non prendeva bene qualche canale. Poco importava, perché Irene non la stava né ascoltando né guardando: i suoi occhi erano persi al di fuori di una delle finestre luminose, da cui ora filtrava la calda luce del crepuscolo, e sulla strada al di fuori di essa, in quel momento poco affollata. C'erano solo i soliti passanti, abitanti che avevano deciso di fare una passeggiata, turisti oppure fotografi volenterosi di catturare nelle macchine digitali un ritratto della splendida costa dall'altro lato del viale.
Non era triste né pensierosa, nemmeno agitata per lo stato in cui si trovava. Aveva elaborato in fretta l'idea che qualcuno, là fuori, la stesse cercando per far di lei chissà cosa. Non era la prima volta che finiva nei guai e, benché questo fosse un problema ben più grande, non era sola. Stavolta aveva con sé degli alleati. Un gruppo di persone che, con il tempo, sperava di poter chiamare amici. O famiglia. Si sentiva tremendamente bene quando era con loro.
Per cui non stava affatto male, se ne stava lì a guardare un punto indefinito realizzando soltanto di essere calma e in pace con se stessa. Un evento più unico che raro, perciò sperò potesse durare per sempre.
Si distrasse solo quando sentì la porta principale aprirsi. Quel pomeriggio era in casa con Narancia, che da circa un'ora si era praticamente rinchiuso in camera sua ad ascoltare musica con un piccolo stereo e un paio di cuffie. Ogni tanto, dalla porta chiusa, si sentiva arrivare un qualche assolo stonaticcio che cantava in preda all'emozione, per lo più si trattata di parole inglesi a casaccio.
Il rumore della porta presagiva che qualcuno fosse entrato e, considerato che bisognava avere delle chiavi per accedere all'atrio, Irene pensò di alzarsi dalla poltrona dove si era accomodata e, senza spegnere la TV, di andare a dare un'occhiata in tutta cautela.
Bucciarati le aveva spiegato che, quando la gang era occupata in altri affari come ad esempio la riscossione delle tasse di protezione dai cittadini, lei sarebbe rimasta in casa con almeno uno di loro, in questo caso per l'appunto Narancia, ma ora il rumore di passi sembrava appartenere a una singola persona.
Fece capolino dall'angolo del soggiorno e, con un sospiro di sollievo, scoprì che nessun nemico aveva trovato la casa di Bruno, era solo Fugo che faceva ritorno dai suoi impegni.
«Ehylà, Fugo.» salutò allora con più calma, appoggiandosi a uno dei lati di una grande porta scorrevole che garantiva il passaggio dall'atrio al salotto.
Per poco il ragazzo non sobbalzò e le urlò contro. Non l'aveva vista arrivare e dovette respirare a fondo prima di risponderle.
«Dov'è Narancia?» chiese secco.
Neanche un saluto. Non un minimo riguardo.
Irene sollevò un sopracciglio, poco contenta. Si era già fatta una mezza idea di quel Fugo: aveva due anni in meno di lei ma era già un piccolo genio, lo si vedeva semplicemente notando la facilità con la quale offriva sostegno come tutor di studio di Narancia in materie complesse quali l'algebra e la geometria o addirittura la fisica, benché fosse più piccolo d'età. Se non aveva capito male, Mista e Narancia avevano accennato al fatto che avesse anche frequentato l'università ma lei non aveva chiesto dettagli in più. Non si spiegava, quindi, come mai avesse abbandonato gli studi e scelto di entrare a far parte di Passione pur avendo un brillante futuro da intellettuale davanti. Altra cosa che non comprenda, oltre alla sua irrazionale quanto palese poca tolleranza nei confronti delle donne all'interno della squadra se non forse in generale, era ciò che Bucciarati e Giorno avevano accennato durante il loro incontro: Fugo si sentiva in colpa per qualcosa e, a quanto pareva, aveva trascorso un notevole periodo di tempo da solo, voltando le spalle alla loro squadra. Sicuramente era stata una decisione dovuta al conflitto con il precedente Boss, tuttavia avrebbe voluto saperne di più per curiosità. Il problema era che Pannacotta Fugo non le avrebbe mai e poi mai parlato a cuore aperto delle sue vicende passate.
«Al piano di sopra, in camera sua.» rispose con altrettanta impassibilità lei, facendosi da parte.
«Allora vado ad avvisare anche lui.» sospirò Fugo togliendosi le scarpe.
«Avvisare? Di cosa?»
«Giusto... Bucciarati non te lo ha ancora detto. Stasera ha deciso di invitare tutti a casa sua, faremo una cena con la squadra al completo.»
Irene batté le ciglia, confusa.
«Perché, fa il compleanno qualcuno?» domandò indiscreta.
«Al capo non servono inutili pretesti per riunire il gruppo. Ha sempre avuto un dono nel creare legami fra le persone...» riferì l'altro, passandole accanto e perdendosi con lo sguardo nel vuoto per qualche secondo. «Ad ogni modo, dai una sistemata al salone intanto. Alla cena ci penseremo noi due, ho portato qualcosa.»
Fugo fece dondolare una busta che pendeva dal suo braccio. Era senz'altro la spesa. Irene la prese per ordinare gli elementi nel frigo e nel congelatore, notando una significante quantità di lattine di birra all'interno, nonché una di vino.
"Scommetto che questa è per Abbacchio." pensò tra sé e sé la ragazza, ricordando come quell'uomo avesse sempre portato con sé, da quando lo aveva incontrato due giorni prima.
Come aveva fatto quell'uomo a ridursi così? Irene ne era sicura, era lo stesso Abbacchio che l'aveva scortata fuori dalla centrale di polizia tempo prima. Era stato un poliziotto, uno fedele alla sua causa, quindi perché adesso era caduto così in basso?
Quella riflessione la portò ad avere un'idea brillante. Quella sera avrebbe trovato il momento adatto per parlare con lui e avrebbe risolto questo suo dubbio. Sempre che lui avesse collaborato...
Quel pomeriggio trascorse in fretta. Fugo e Narancia prepararono la cena in attesa del rientro degli altri, Irene diede loro una mano e riuscì anche a dare una sistemata alla casa.
Quando voltò le spalle ai fornelli, Narancia afferrò un cucchiaio e in tutta furtività rubò un po' di riso da un piatto che la ragazza aveva preparato, assaggiandolo. Un secondo dopo mandò giù e i suoi occhi brillarono.
«Cavolo! Non sapevo che cucinassi così bene, René!» esclamò massaggiandosi lo stomaco per enfatizzare il concetto.
Irene batté le ciglia. Non riuscì a essere arrabbiata con lui, quindi si soffermò su quel soprannome molto curioso.
«René?» ripeté quasi a voler provare a nominarlo anche lei.
«Ah, scusa! Se ti dà fastidio, posso sempre chiamarti-»
«No, no. René va benissimo.»
Le piaceva quel soprannome. Le dava l'impressione che appartenesse a una nuova Irene.
Fugo colpì le nocche di Narancia con un cucchiaio di legno.
«Ahia! Ma che fai, imbecille?»
«Non toccare il cibo nei piatti finché non saranno arrivati tutti. È disgustoso.» lo riprese il più giovane.
Narancia si difese subito, a mani alzate. «Ma non potevo resistere! La cena ha un profumo meraviglioso. La colpa è della bravura della cuoca.» ridacchiò guardando la ragazza, «Allora? Hai seguito qualche corso di cucina o roba del genere?»
Lei quasi si abbandonò a una piccola risata.
«No, nulla di simile. Ho vissuto da sola per molto tempo quindi ho imparato a cucinarmi il pasto da me. Quello... o il digiuno.» sospirò poi.
«Allora mi dispiace per te, perché dovrai assolutamente insegnarmi a cucinare.» Narancia incrociò le braccia e Fugo sbuffò.
«Così potrai dare fuoco alla cucina? Lo sappiamo tutti che sei una frana ai fornelli.»
«Solo se non mi viene spiegato quel che devo fare! Fidati un po' di René!»
Fugo storse il naso, tutto meno che convinto. "Fidati" era una parola che non gli piaceva affatto se attribuita a un estraneo. Irene aveva l'impressione di non stargli affatto simpatica, al contrario: la sua presenza in casa di Bucciarati era per lui fonte di fastidio. A quanto pare la sua aggiunta alla squadra gli ricordava un evento passato. Un'altra ragazza lo aveva diviso dai suoi compagni. Una ragazza l'aveva segnato a vita, non perché vi fosse stato qualcosa tra di loro, ma perché non avevano mai sviluppato un legame.
Per ripicca, quello fu proprio l'argomento che Irene scelse di trattare mentre tornava a controllare che l'acqua per la pasta stesse bollendo.
«Allora, Narancia, l'altro giorno hai nominato una certa Trish. Posso chiederti chi è? Non sarà mica la tua ragazza?»
Fugo s'irrigidì nel sentire quel nome e Irene sogghignò nascondendosi dietro una tendina di capelli rossi.
Narancia invece divenne di colpo più rosso.
«No che non è la mia ragazza! Trish è solo la mia migliore amica!»
«La tua unica amica, vorrai dire.» lo corresse l'altro.
«Almeno io ci ho fatto amicizia invece di abbandonarla al suo destino.»
Il cucchiaio cadde dalle mani di Fugo, colpendo il ripiano di marmo sottostante e rimbalzando fino a finire a terra, sporcando il pavimento e facendo un fracasso incredibile.
Narancia si morse la lingua e poi riprese a parlare.
«Fugo... non volevo, scusami, non intendevo...»
«Lascia perdere.» sospirò lui, sistemando il casino creato.
Narancia tornò a guardare Irene e abbassò la voce.
«Meglio se non parliamo di Trish, okay? Fugo non va molto d'accordo con lei. In ogni caso lei non vive più qui, si è trasferita in Calabria ed è in tour all'estero al momento...»
Irene si cucì le labbra, capendo di aver esagerato un po'. Si pentì di aver toccato quel tasto dolente solo per fare un torto a quello che ormai era diventato un suo alleato e, come se non bastasse, uno dei suoi protettori. Avrebbe dovuto essergli grata e non prendersela con lui.
Continuarono a cucinare parlando d'altro e, quando il sole tramontò del tutto, rincasarono i restanti membri della squadra.
«Bucciarati! Ragazzi!» Narancia corse a salutarli all'ingresso, «Puntuali come la morte, la cena è pronta!»
«Lo immaginavo, c'è un profumo delizioso qui in casa.» sorrise Bruno, poggiando una mano sulla sua spalla per ricambiare il saluto, dopodiché raggiunse la cucina con gli altri.
Mista era tranquillo alle sue spalle, iniziò subito a parlare con gli altri del menù, mentre Abbacchio si lasciò letteralmente cadere su una sedia e, incrociate le braccia e le gambe, rimase in silenzio ad aspettare di essere servito, senza neanche salutare.
Irene gli lanciò un'occhiata preoccupata. Non lo conosceva bene, ma quello non era più l'uomo di una volta. Del Leone che aveva incontrato lei non vi era più la minima traccia, il che le fece stringere il cuore.
«Ciao, Cacciatore.» Bucciarati si avvicinò a lei, strappandola ai suoi pensieri. Per un attimo seguì il suo sguardo e strinse le labbra, probabilmente condividendo il suo stesso pensiero. Quando si fu ripreso tornò a guardarla, più sereno. «Narancia dice che è opera tua. Ti ringrazio per aver aiutato i ragazzi. E i miei complimenti.» commentò.
Irene abbassò il viso. «Ma no, figurati... aiutare mi sembrava il minimo, considerato che mi avete ospitata in casa vostra. E che mi avete probabilmente salvato la vita, certo.» sospirò. «Allora? Com'è andata oggi?»
«Un giorno come un altro. Non c'era l'ombra di un possibile portatore di Stand, in città.»
Mista s'intrufolò tra i due, mostrando di aver rubato qualche arachide da una ciotolina. Poggiò un gomito sulla spalla della ragazza e parlò mentre ancora aveva le guance piene, senza farsi alcun problema.
«In cofpenso... affiamo fovuto fare i confi con un ladronfolo da nienfe.» deglutì e si massaggiò la pancia, «Quel furbastro ha scippato la borsa di una nonnetta ed è praticamente andato a finire contro Abbacchio mentre scappava a gambe levate. Potremmo dire che si è lanciato dalla padella alla brace.»
Irene sollevò un sopracciglio. «Fatemi indovinare, al momento è all'ospedale?»
«Ha avuto quello che si meritava.» commentò gelidamente Abbacchio dall'altro lato della stanza.
Bruno respirò a fondo. «Starà bene, non è conciato troppo male. L'anziana ha riavuto la sua borsa ed è tornata a casa sana e salva.» assicurò.
Mista ridacchiò. «È stata parecchio fortunata, Abbacchio è il più calmo di solito... ma quando si infuria non lo ferma più nessuno!» raccontò come fosse un vanto, «Comunque adesso mettiamoci a tavola e ceniamo. Ho una fame da lupi. Narancia, porta qui quei piatti!» continuò dopo.
Tutti andarono a cercare il proprio posto a tavola. Quando Bruno si mosse a sua volta, Irene tirò piano una delle sue maniche.
«Bucciarati, aspetta...» mormorò appena, avvicinandosi per non essere sentita. «Scusami se te lo chiedo ma... Abbacchio è sempre stato... così?»
Lui la osservò per un attimo confuso, dopodiché si rabbuiò notevolmente. Sembrava che le sue iridi azzurre fossero diventate di un blu più scuro all'improvviso.
«Posso solo dirti che ne ha passate di tutti i colori. Non lo biasimo per il suo carattere, non ha avuto una vita facile. In ogni caso, se vorrà, un giorno sarà lui a raccontarti la sua storia.» si mantenne vago, rispettando l'amico e non scendendo nei dettagli.
Irene annuì, pensierosa.
«Allora? Vi sbrigate o no?» li richiamò Mista dal tavolo, scuotendo una mano.
«Tanto hai già iniziato a mangiare!» rispose Irene provocatoria.
«Io l'ho detto che la colpa è della cuoca. Il cibo è troppo invitante. Vi conviene darvi una mossa o vi resteranno solo le briciole.» gli diede man forte Narancia.
«E tu non dargli ragione!» rise Irene, andando a sedersi accanto a lui.
La cena iniziò in un'atmosfera calorosa. La squadra era un'unica, bizzarra famiglia riunita finalmente a tavola. Vennero raccontate storie e battute, si rise e si mangiò a volontà.
Irene non aveva mai provato quella sensazione. Non era mai stata così bene con nessuno. Non aveva mai avuto amici o parenti che la facessero sentire a casa. 
Quando a Bruno venne chiesto di fare un breve discorso, sentì quasi di stare per piangere.
«È difficile spiegare quanto io sia contento di vederci riuniti stasera, tutti insieme, dopo tanto tempo e dopo tutto quello che abbiamo affrontato nell'ultimo anno.» aveva esclamato alzando un bicchiere di vino, «Ne approfitto per ringraziarvi di essere sempre al mio fianco, di non temere mai nulla e di seguirmi in qualsiasi decisione, non importa quanto essa sia rischiosa. Sono fiero di tutti voi.» I suoi occhi si erano poi posati sulla ragazza, guardandola come nessuno aveva mai fatto prima. Come se anche lei fosse parte di quella famiglia. «E voglio ringraziare anche Irene che, in un certo senso, ci ha riuniti in una nuova missione e non ci ha giudicati come invece molti altri hanno fatto. Ti proteggeremo, è una promessa, perché adesso fai parte della nostra squadra.» terminò.
A quel punto Mista sollevò la sua lattina di birra con talmente tanta forza da far volare sul tavolo alcune gocce della bevanda. «A Irene, allora!» propose il brindisi.
«A Irene!» gli fece eco Narancia.
Fugo e Leone non si unirono al coro, ma sollevarono i bicchieri e bevvero senza fare polemica.
"A me?" pensò lei con gli occhi lucidi.
Si coprì il viso fingendo di nascondere un sorrisetto. "Sono io che non vi ringrazierò mai abbastanza..."
Bevve un sorso dal suo bicchiere quasi come stesse singhiozzando, mascherò bene le sue intenzioni.
La cena procedette. Venne chiesto a Narancia del suo percorso scolastico e lui spiegò come stesse migliorando notevolmente in alcune materie. Fugo gli spiegò con calma l'importanza dell'educazione e dell'apprendimento e lo fece in maniera così convincente da far pentire Irene di non aver proceduto con gli studi liceali quando ne aveva avuto l'occasione.
In seguito Bruno domandò ad Abbacchio e Mista di raccontare quanto successo il giorno precedente, quando erano andati a svolgere le loro mansioni in città, ma fu praticamente solo il secondo di loro a parlare. A Napoli sembrava andare tutto bene: a parte la minaccia che incombeva su Irene, non vi erano stati crimini degni di nota in città.
La discussione riprese normalmente e Narancia decise di fare qualche domanda a Irene per curiosità.
«René, hai detto di non essere di Napoli, giusto?»
«Esatto.»
«Allora da dove vieni?»
Irene si massaggiò il collo, ricordando per un momento la sua infanzia.
«Siracusa, in Sicilia.»
Fugo parve stringere le labbra per un momento, come se rimembrasse qualcosa.
«Siracusa...» sorrise Bruno, in tutta tranquillità, «Dicono sia una città bellissima.»
«È un luogo molto bello, ma la gente che la abita non lo merita.» chiarì lei, ricordando sua madre e il suo patrigno, nonché le sue compagne di scuola e le maestre.
«Mi spiace per te, ma Napoli non è da meno!» la mise in guardia Mista prima di divorare un altro boccone della cena.
«Non è così male, qui.» ribadì Irene, «Insomma... voi non sembrate cattive persone.»
Di nuovo il silenzio. I ragazzi si lanciarono qualche occhiata furtiva, senza fiatare. Era chiaro però cosa intendessero: "Non siamo dei santi. Siamo gangster. Abbiamo ucciso, rubato e commesso molti altri atti orribili". Irene si domandò se fosse possibile essere buone persone anche con un passato del genere alle spalle. Strano ma vero, non le sembrava affatto strano.
Senza dire nulla, Abbacchio si alzò dalla sua sedia e sempre in religioso silenzio uscì dalla cucina, poi dalla porta principale.
Irene lo guardò confusa, finché Bucciarati non abbassò gli occhi e le spiegò meglio la situazione.
«Non preoccuparti per lui. A volte ha bisogno di stare un po' da solo. So che può sembrare scontroso, ma...»
«No, non lo sembra affatto.» lo interruppe lei, aggrottando le sopracciglia. "Anzi, lo capisco eccome", avrebbe voluto aggiungere, ma tacque.
Due minuti più tardi al massimo, si alzò anche lei e con la scusa di dover usare il bagno lasciò la cucina, per poi raggiungere l'atrio. Era il momento perfetto per parlare con Leone, o almeno credeva che lo fosse. Voleva essere sicura di non aver sbagliato persona. Voleva sapere se lui aveva memoria del loro incontro.
Spinse piano la porta e uscì a sua volta di casa, notando subito Abbacchio nel cortiletto, appoggiato con le spalle e un piede a una delle pareti dell'edificio. Non aveva con sé le cuffie né la fedele bottiglia di vino, solo una sigaretta che fumava con lo sguardo perso nel vuoto.
Non si accorse della ragazza finché lei non mosse un passo avanti, calpestando la stradina dinnanzi a lei.
A quel punto gli occhi dell'ex-poliziotto, a metà tra il violaceo e il giallino, la inchiodarono infastiditi.
«Ehi...» salutò lei, cauta.
«Cosa vuoi, novellina?» rispose lui brusco, abbassando il braccio destro e irrigidendosi di colpo.
Irene piegò la testa. Fosse stato qualcun altro, avrebbe risposto a quella scortesia per le rime. O con un bel pugno in viso o allo stomaco.
«Magari ho solo pensato che avessi bisogno di un po' di compagnia.» replicò sarcastica.
«Ma per favore.» continuò lui, «Come se ne avessi bisogno. Torna dentro a parlare con gli altri, sembra che la maggior parte di loro ti trovi simpatica.»
«Tu no?»
«Se c'è una cosa che ho imparato negli ultimi tempi è che non sopporto i nuovi arrivati.»
La ragazza sospirò con forza e si appoggiò a sua volta al muro, incrociando le braccia.
«Ho capito. Non ti vado a genio.»
Abbacchio tacque. Chiaro segno che le stava dando ragione.
E lei sbuffò.
«Almeno dimmi perché. Non mi sembra di aver mai fatto qualcosa per infastidirti.»
«Te l'ho detto,» riprese Leone, cercando di non innervosirsi, «Non tollero i novellini.»
Irene finì per brontolare sottovoce.
«Non ti stavo troppo antipatica tempo fa, però.»
«Hai detto qualcosa?» chiese lui, drizzando improvvisamente le orecchie.
La giovane si maledì per essersi fatta scappare quel dettaglio. Non voleva necessariamente spiegargli il loro primo incontro, avrebbe preferito scoprire qualcosa su di lui in tutta calma.
«Nulla.»
«Che intendi dire con "tempo fa"? Ti ho conosciuta solo avantieri.» pretese però il giovane uomo, mostrando di aver sentito ciò che gli conveniva.
Lei sospirò, capendo che cercare di aggirare l'argomento non avrebbe fatto altro che innervosirlo ancor di più.
«Non te lo ricordi proprio, eh?» chiese guardando la luna che, in lontananza, si rifletteva sulle acque del golfo.
Abbacchio strinse gli occhi come un felino interessato. Il fumo della sigaretta sparì confondendosi con un rapido soffio di brezza primaverile.
«Cosa dovrei ricordare?» domandò, forse curioso, forse arrabbiato. Sembrava perennemente infuriato, il che rendeva difficile riconoscere i suoi stati d'animo e i suoi toni di voce.
Non era uno a cui piacesse tirare a indovinate. Essere vaghi nel dargli una risposta avrebbe solo aggravato la situazione.
«Ci siamo conosciuti molto prima dell'altro giorno. Tu... eri un poliziotto, dico bene?» domandò cercando di porre con una certa delicatezza l'interrogativo.
Incredibile ma vero, parve che Abbacchio avesse la pelle d'oca. Il suo sguardo cambiò completamente una volta che lei gli pose la domanda, sbalordendola.
«Una volta mi venne chiesto di rubare una macchina da due piccoli criminali che credevo miei compagni. In realtà volevano liberarsi di me, quindi mi incastrarono mandandomi incontro a un poliziotto in borghese. Dopodiché fui portata in centrale...»
«E con questo? Mi hai riconosciuto dopo avermi visto in centrale?»
«Sei stato tu ad accompagnarmi fin lì. E a scortarmi fuori, quando poi qualcuno pagò la mia cauzione.» sospirò Irene, stringendosi nelle proprie spalle.
Abbacchio lasciò cadere la sigaretta e la calpestò, trattenendo un colpo di tosse e infilando le mani nelle tasche del giaccone nero che arrivava al di sotto delle ginocchia. Si morse il labbro inferiore e le sue lunghe ciglia nere tremarono.
«Prima di lasciarmi andare mi hai rivolto delle parole che non scorderò mai.» continuò poi lei, tornando a osservarlo, «Mi hai detto "Non sprecare questa occasione". Nessuno si era mai preoccupato per me o per il mio futuro, prima d'allora. Se non fosse stato per quelle parole, probabilmente adesso sarei ancora un reietto della società, occupata a menare le mani in qualche vicolo di periferia pur di avere un po' di soldi con cui mangiare.»
Abbacchio separò lentamente le palpebre, realizzando quanto gli veniva raccontato.
«Tu...» fiatò poi, «Sei quella ragazzina che provò a convincermi a lasciarla andare prima di arrivare in centrale. Con metodi alquanto discutibili.»
Irene si sentì piovere un macigno addosso e avvampò da capo a piedi per la vergogna. Leone non si sbagliava: lei lo aveva dimenticato, ma aveva provato a sedurlo pur di distrarlo e riuscire a scappare a gambe levate.
«E- ecco... non fraintendere, non sapevo che fare... s- sono molto cambiata da allora, in ogni caso...»
«Bah, lascia perdere.» la interruppe lui, allontanandosi dalla parete. «In ogni caso non è quello il motivo principale per il quale ho ricordato il nostro incontro.» continuò poi, «In realtà quello fu un giorno molto importante per me. Il primo giorno... in cui incontrai Bucciarati.» rivelò.
Irene sbarrò gli occhi, confusa.
«Cosa? Ma... tu eri un poliziotto e lui un malavitoso! Come è possibile che vi siate conosciuti?»
«Non ti sei mai chiesta chi abbia pagato quella cauzione pur di salvarti dal riformatorio?» sbuffò lui, come se fosse ovvio.
E all'improvviso, come se qualcuno avesse spalancato una finestra luminosa davanti ai suoi occhi, Irene comprese cosa Leone intendesse dire.
«Stai... stai dicendo che quella volta, a pagare per la mia scarcerazione, fu proprio...»
«Non dovresti sorprendertene. Bucciarati è sempre stato un uomo fin troppo buono. Se vede qualcuno nei guai, anziché puntargli il dito contro, lo aiuta a redimersi.» sospirò l'altro, «Come ha fatto con tutti noi, d'altronde...»
Irene quasi non lo sentì. Era semplicemente sconvolta. Aveva trascorso anni a domandarsi chi fosse il suo salvatore. A volte, la notte, era rimasta sveglia per ore e ore a pensarci. Si rivoltava fra le lenzuola fredde del suo monolocale e, intanto, sperava di poter un giorno incontrare quella misteriosa persona. Quell'eroe nelle tenebre. Voleva ringraziarlo e mostrargli di essere diventata una persona migliore, chiunque esso fosse.
E quella sera scoprì che, per tutti quegli anni, era stato Bruno Bucciarati ad averla salvata da un destino inesorabile. Ad averle cambiato la vita.
Non sapeva chi lei fosse, non la conosceva affatto e non poteva essere sicuro che avrebbe colto il suo messaggio, ma lei l'aveva fatto. Era cambiata: per lui, per il poliziotto che le aveva regalato quel prezioso consiglio e per se stessa.
Aveva cambiato il suo fato. Quello stesso fato che, adesso, l'aveva condotta fino a loro. Come poteva non credere nel potere del destino, adesso?
«Quando accadde, Bucciarati preferì restare anonimo. Non voleva che lo rincorressi per "essere come lui", diventare come lui, sai come la pensa. Ma ora fai comunque parte della squadra quindi non ha più senso nascondere la verità.» raccontò Leone per concludere la storia. Subito dopo fu chiaro che stesse per andar via, tornando a tavola prima di finire la cena e tornare a casa. «Se non altro abbiamo qualcosa in comune. Bucciarati ha salvato anche te. Almeno non sei come quell'idiota di Giorno, con i suoi sogni bizzarri...»
Ancora Irene non riusciva a prestargli la dovuta attenzione. Fissò il vuoto per un minuto intero, riflettendo sulla scoperta appena fatta. E, finalmente, si sentì libera di un peso che gravava sulle sue spalle da troppo tempo. Ora poteva ripagare il suo debito servendo e aiutando chi l'aveva salvata.
Abbacchio notò quanto fosse assorta nei propri pensieri e per questo pensò di allontanarsi senza aggiungere altro.
All'improvviso, poi, lei girò su se stessa e lo chiamò a gran voce.
«Abbacchio?»
Lui si fermò senza voltarsi. La stava ascoltando.
«Perdonami se te lo chiedo in modo così diretto, ma... cosa ti è accaduto dopo? Perché non sei più nella polizia?»
Per un momento l'unico rumore a risponderle fu il vento leggero e lo sciabordare delle onde contro la spiaggia in lontananza. Qualche voce nei paraggi, di passanti spensierati, e le macchine che sfrecciavano sulla strada in tutta fretta.
Leone incurvò le schiena per un momento, non mostrando a Irene la sua espressione, nascondendo quell'esplosione di emozioni che lo investì di colpo.
«Perché...» respirò a fondo, «...ho scoperto di non essere in grado di cambiare il mondo da solo. E i sogni sono sono delle idiozie che ci vengono insegnate da piccoli. Ecco cosa succede, a inseguire le proprie ambizioni...»
Senza aggiungere altro si ritirò all'interno della casa, lasciando la porta aperta alle sue spalle, non sapendo se Irene volesse entrare a sua volta o meno.
Lei, però, rimase lì dove si trovava, con il cuore spaccato a metà.
Da una parte riuscì a cogliere la sofferenza caratterizzante la vita di quel pover'uomo, il fardello che si portava dietro, qualunque esso fosse. Dall'altra, si sentì riscaldare da una gioia mai provata prima. Aveva forse trovato il suo posto del mondo? Non lo sapeva ma, in quell'istante, non avrebbe voluto essere da nessun altra parte. Era proprio lì dove desiderava trovarsi: con le persone che si erano prese cura di lei, in silenzio e a distanza, per tutto quel tempo. E nulla le era mai sembrato più simile alla sensazione di aver trovato finalmente la sua famiglia, le "persone giuste" che da tempo cercava.

***

Spazio Autrice
Rieccomi dopo un periodo fin troppo lungo di attesa con un nuovo capitolo! Vi chiedo scusa per averci messo così tanto a scriverlo :(
In ogni caso, ecco un'altra parte abbastanza leggera, perché ADORO vedere la gang al completo (manca Giorno purtroppo, ma gli altri sono tutti a tavola come se fosse Natale) e di conseguenza dovevo inserire almeno un momento di tranquillità prima della tempesta. Cosa sia questa, però, lo scoprirete più avanti.
Abbiamo anche scoperto chi è il famoso eroe di Irene, benché non fosse difficile immaginarlo, e sembra che Leone stia prendendo più in simpatia la nostra protagonista pian piano... è già un buon inizio!
Nei prossimi capitoli avremo più azione, è una promessa, e la bizzarra avventura di Irene e i suoi amici procederà verso verità celate, contro il destino e il passato che ritorna. Per adesso vi chiedo solo di lasciare una recensione se vi va e ringrazio chiunque sia arrivato fin qui, Arrivederci!

 

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Capitolo 8
*** 08. London Dungeon & Dark Side Of The Moon - Prima Parte ***


 

[ LONDON DUNGEON & DARK SIDE OF THE MOON - PRIMA PARTE]


Trascorsi un paio di giorni dalla cena di gruppo, la situazione a Napoli sembrava ancora tranquilla. Irene aveva vissuto per un po' come una sorta di Raperonzolo chiusa nella sua torre con ben cinque draghi a fare da guardia al di fuori della sua stanza, con l'unica eccezione che lei, a differenza della principessa, non era ricercata da un principe azzurro sul suo agile destriero ma da una possibile setta religiosa dai piani oscuri. Non aveva smesso di chiedersi il perché di tutto ciò, non se lo spiegava, ma avrebbe atteso pazientemente per non sembrare un peso sulle spalle dei suoi compagni.
Una o due volte, però, si era concessa qualche visita in città. Narancia l'aveva accompagnata a comprare dei vestiti, sembrava il più lieto di aiutarla con le questioni più femminili. Stare in compagnia di una nuova amica lo entusiasmava parecchio e Irene, francamente, lo trovava adorabile. Tra tutti, era forse colui che trovava più simpatico e con il quale si confrontava di più.
Un'altra volta aveva preso parte a una squadra formata da lei, Mista e Abbacchio. Insieme erano andati a visitare un uomo che da un po'si rifiutava di pagare Passione nonostante questa gli avesse offerto supporto economico in precedenza. Mista era il più bravo a premere su situazioni del genere e "convincere" le persone a fare come richiesto, e Leone era abbastanza intimidatorio da persuadere chiunque con un singolo sguardo. Di conseguenza, Irene non doveva fare che lavorare come loro autista personale. Non aveva ancora la patente ma sapeva guidare abbastanza bene, in più Bucciarati le aveva detto di non preoccuparsi. Ora che faceva parte della sua gang, nessuno le avrebbe fatto problemi per un motivo simile.
Quella di quel mattino era la sua terza uscita. Stavolta ad accompagnarla c'erano Guido e Bruno. Fugo si stava occupando delle ricerche riguardo il misterioso culto, e Abbacchio si era preso un giorno libero per andare a fare una visita al cimitero, Irene non sapeva a chi ma immaginò che avesse perso qualcuno di importante e non volle insistere per conoscere la realtà dei fatti.
Quella mattina non avevano un appuntamento preciso: l'uscita era stata più che altro un favore per la ragazza, che aveva dichiarato di voler fare una passeggiata in città prima o poi. Incredibile ma vero, Bucciarati aveva pensato di accontentarla subito con la scusa di pattugliare una zona di Napoli che non visitava da un po'.
Erano circa le dieci quando, all'improvviso, un uomo le sbatté violentemente contro una spalla e per poco non la fece cadere. Al contrario, fu lui il poveretto che finì con la faccia a terra.
Bucciarati afferrò al volo il braccio dell'alleata e la aiutò a sorreggersi mentre lei, imbestialita per l'evento, si volse e urlare contro al malcapitato.
«Ehi, maledetto! Perché non guardi dove vai mentre cammini?!» lo rimproverò brutale, massaggiandosi la spalla dolorante. Le sembrava quasi che l'avesse colpita di proposito.
Guardando ai suoi piedi, però, notò un uomo gracilino, così magro che sembrava bastasse un soffio di vento a portarlo via. Era pallido, aveva il viso scavato ma sembrava in salute, solo un po' scosso. Si massaggiò le guance lentigginose sulle quali era atterrato privo di grazia e le rivolse un'occhiata spaurita.
Guido trattenne una risata e si preparò a tornare a camminare. Probabilmente pensò che, se un tipo del genere fosse andato a colpire lui anziché la ragazza, si sarebbe di certo fatto male al solo impatto.
L'ometto singhiozzò alla ricerca di qualche scusa plausibile e, infine, si mise seduto a terra.
«A- Accidenti... scusami, per favore... non ti avevo proprio vista...» pronunciò con un timbro di voce così acuto da sembrare femminile. Con una mano spolverò via la sporcizia dai ricci ramati sul suo capo.
Bruno ne approfittò per guardarsi intorno e sollevò un sopracciglio. Non c'era praticamente nessuno lì, oltre a loro. Stavano attraversando un piccolo parco frequentato per lo più la sera, in quanto i bar della zona preparavano aperitivi o mettevano musica per i più giovani. A stento si scorgeva qualche cane abbaiare in lontananza e pure i piccioni sembravano evitare quella zona, che non aveva nulla di particolare. Allora come aveva fatto quel tipo strambo a non accorgersi di lei? Non aveva un telefono per le mani, né delle cuffie per la musica sulle orecchie. Che fosse semplicemente distratto?
Irene, con le mani sui fianchi, guardò arrabbiata l'uomo magro.
«Allora cerca di tenere gli occhi aperti la prossima volta. Mi hai fatto male!» gli urlò in faccia. Odiava il contatto fisico, figurarsi il vedersi arrivare addosso uno sconosciuto.
Lui annuì come impazzito, terrorizzato dalla giovane.
«Lo farò! Chiedo ancora scusa! Maledetta fretta...» provò a mettersi in piedi ma un ginocchio gli cedette e lui si rannicchiò di nuovo a terra, tenendolo stretto alla vita. Con un "ouch" tutt'altro che virile, strinse gli occhi e iniziò a lamentarsi.
Irene pensò che fosse un povero pazzo, ma non poté non preoccuparsi vedendo quella scena.
«Oh... è tutto a posto? Non ti sarai mica rotto qualcosa, vero?» borbottò con una punta di senso di colpa.
Guido ridacchiò sottovoce. «Fragile com'è, sarà ridotto alla sedia a rotelle...» mormorò da dietro una mano.
Il magrolino si lamentò ancora un po', dopodiché scosse la testa.
«Non preoccuparti, devo aver preso una botta quando sono caduto... più tardi ci metterò del ghiaccio su... ghiaccio sul livido, sì!» ripeté.
Sì, era assolutamente un tipo strano, ma questo non significava che non avesse bisogno di un po' di aiuto.
Irene alzò gli occhi al cielo e sospirò, tendendogli la mano sotto lo sguardo attento e cauto di Bruno.
«Dà qua. Ti aiuto a rialzarti.» aggiunse seccata, sapendo di essere troppo buona, in fondo.
L'uomo sembrò più che lieto di accettare il suo aiuto.
«Ma come sei gentile!» sorrise a trentadue denti, che non erano esattamente tutti dritti o ben puliti.
Quando la sua mano strinse quella della ragazza, poi, il dorso di essa parve tremare per un momento.
Irene non ci fece caso, mentre Guido aveva lo sguardo altrove. Bruno invece, trovandosi fra i due, se ne accorse subito e comprese che c'era qualcosa di strano.
La pelle tremò ancora, parve sollevarsi. E, il secondo dopo che anche René riconobbe quell'insolito movimento, l'epidermide venne bucata da due spuntoni mostruosi.
«Molto gentile... ti meriti una ricompensa, sì...» canticchiò l'uomo magro intanto.
Irene spalancò gli occhi e tutto accadde con una velocità spaventosa.
Dalla pelle dell'uomo si sollevò qualcosa, gli spuntoni di allungarono. Sembravano artigli ricurvi colore alabastro.
Bruno cercò di fare quello che poteva.
«Cacciatore, attenta!» gridò prima di afferrare la ragazza per le spalle e strattonarla verso di sé. Aveva riconosciuto il pericolo, ma troppo tardi.
Il braccio di Irene si spostò quando venne tirata indietro e gli spuntoni, di conseguenza, si richiusero con forza sulla sua mano destra, bucandola. Un fiotto di sangue spruzzò in aria. Irene osservò inorridita quelle grosse spine aguzze conficcarsi nella sua pelle e, successivamente, avvertì un dolore lancinante. Cacciò un urlo tremendo, accasciandosi a terra davanti al compagno, che per istinto mostrò il suo Stand, Sticky Fingers.
Quando l'uomo lo notò, dimostrando di essere anche lui un possessore, lasciò andare la mano della ragazza e fece un balzo indietro.
Guido, intanto, sobbalzò e cercò di elaborare l'accaduto. Un momento prima andava tutto bene, quello dopo essersi girato per pochi secondi vedeva davanti a sé Irene in preda al dolore.
Bucciarati era diventato buio in viso. Non era un segreto che sentisse un forte senso di responsabilità nei riguardi dei suoi sottoposti e, per questo, ogni qual volta accadesse loro qualcosa si risvegliava in lui un innato istinto di proteggerli. A tal proposito, comandò a Sticky Fingers di attaccare con un pugno dritto al viso l'uomo magro dai capelli color carota, il quale però evitò il colpo spiccando un balzo all'indietro.
Mista ruggì imbestialito, mettendo mano alla sua rivoltella viola.
«Altro che dolore al ginocchio, quel tipo aveva pianificato tutto!» comprese, abbassandosi per afferrare Irene dalle braccia e aiutarla a rimettersi in piedi mentre Bucciarati separava loro dal nemico.
Quest'ultimo si rialzò, dimostrando di non essere particolarmente alto, e si scosse la polvere di dosso battendo le mani sulla maglia. Gli spuntoni erano ancora visibili sul suo braccio. Non vi era dubbio che si trattasse di uno Stand ostile.
Ridendo, sollevò le spalle con naturalezza.
«Accidenti, avrei dovuto riprendervi! Non avete visto le vostre facce!» quasi si piegò in due per il divertimento. A debita distanza, poi, indicò tutti e tre. «Fatemi indovinare, voi due siete Mista e Bucciarati, giusto? Giusto? Raffaele mi ha parlato tanto di voi!» cantilenò ancora, «Il tuo Stand sembra bello forte, che figata!»
Si protese verso Sticky Fingers ma questo, a denti serrati, sollevò i pugni pronto a colpirlo.
«Chi diamine sei tu, cosa vuoi? E chi è questo Raffaele di cui parli?» iniziò a chiedere Bruno, lapidario. Non perdeva la calma neanche in occasioni del genere a quanto pareva.
«Calma, calma!» il tipo strambo dondolò le mani davanti a sé, «Sono troppe domande, poi mi confondo!» respirò e si calmò, «E comunque non vi servirebbe a nulla saperlo. Vogliamo solo la ragazza, tutto qua. Non la uccidiamo nemmeno, dai!» iniziò a implorare come se stesse chiedendo una cosa semplicissima.
Irene sollevò lo sguardo mentre tentava di fermare la propria emorragia. Il dolore le dava al cervello quindi pensò di aver capito male le sue parole.
Guido tossì una risata, lieto che fossero in tre contro uno soltanto.
«Perché non provi a prendertela, faccia-da-pesce?» lo provocò bellamente.
Il tizio annuì di nuovo. «È quello che faremo se non vi arrenderete! Tanto non mi state affatto simpatici!» rivelò tranquillamente. «Da brava, Irene, convincili tu!»
«Fottiti, lurido verme.»
«Oh, ma che linguaggio colorito! Non si addice a una signorina, no?» s'imbronciò. A quel punto pensò bene di continuare a parlare.
«Be', siccome ho deciso che vi ucciderò, lasciate almeno che mi presenti. Io mi chiamo Michele Fendi, molto piacere! E lui...»
L'aria attorno al suo braccio sinistro parve vibrare. Le pelle sembrò sdoppiarsi, poi un alone si allontanò da essa. Stava manifestando il suo Stand, poco ma sicuro.
«È London Dungeon, il mio carissimo amichetto!»
Gli occhi dei tre gangster si puntarono sull'abominevole creatura che si creò dal corpo del possessore: quello Stand era ancora più magro e gracile del suo padrone, aveva la pelle grigia e secca, sembrava una mummia essiccata. Teneva gli occhi socchiusi ma, per quel che si poteva vedere, le iridi sotto le palpebre erano opache, probabilmente cieche. Spuntoni d'osso ornavano le sue spalle, la fronte e le articolazioni. Le unghie del mostro erano assurdamente lunghe e affilate, sembravano uscite da un film dell'orrore. Come se non bastasse, alcune di esse erano tinte del sangue di Irene.
«Ora, dato che non volete proprio ascoltare, vi faremo cambiare idea con le maniere forti. Sarà anche più divertente!» trillò Fendi, assumendo una posa insolita per mostrare di essere pronto allo scontro.
Irene socchiuse le palpebre. Era la terza volta che lo sentiva parlare in quel modo: al plurale. Pensava di aver capito male all'inizio ma adesso non poteva fare finta di nulla. Possibile che stesse parlando di sé e del suo Stand come due individui separati? Oppure...
Guido, stanco dei suoi scherzetti, fece girare il tamburo della rivoltella, per poi puntarla dritta sul nemico.
«Mi hai rotto. Ora faccio tornare te e quello scherzo della natura dritti nella fogna dalla quale siete usciti.» minacciò, prendendo la mira.
Bucciarati colse lo sguardo preoccupato di Irene che, di colpo, si guardò attorno alla ricerca di qualcosa. E comprese quale fosse la sua preoccupazione.
«Mista, aspetta, non- !» provò inutilmente a fermarlo.
Michele Fendi sorrise mentre London Dungeon si piazzava davanti a lui.
L'altro, cosciente di quanto quello Stand fosse gracile, lo trovò divertente e premette il dito sul grilletto. Bastò un tocco e il proiettile esplose sferzando l'aria.
E poi, all'improvviso, qualcosa trascinò via l'avversario con una velocità surreale. Fu difficile notare il suo spostamento a occhio nudo, fatto sta che Fendi e il suo Stand svanirono in un lampo e per un attimo e fu impossibile rintracciarli.
«Cosa... cosa è stato?!» domandò confusa Irene, riuscendo finalmente a trovare l'equilibrio.
Con uno sguardo soltanto, Bruno fece capire a Mista che era ora di prendere sul serio la questione. I due affiancarono la ragazza, circondandola e stringendola tra le loro spalle, in maniera tale da tenerla al sicuro fra loro e al contempo potersi guardare tutt'attorno.
«Si è nascosto!» si lamentò Mista, «Non riesco più a vederlo!»
Bucciarati rispose subito dopo, mentre la sagoma di Sticky Fingers Di sfocava e tornava ad assumere una forma fisica più compatta subito dopo.
«Temo che il problema sia più grave di quello che sembra...» strinse i denti, «Non hai fatto caso alle sue parole? Ha continuato a parlare al plurale per tutto il tempo. Pensavo fosse solo uno svitato, però è successo qualcosa che ha confermato i miei dubbi.»
«E sarebbe?»
«Quando ha infilzato la mano di Cacciatore, il suo movimento non è stato affatto rapido, tant'è che ho avuto il tempo di avvertirla e strattonarla. E adesso è corso via all'improvviso? No, non me la bevo.» Il suo sguardo si fece più buio e determinato. «La verità è che sono in due!» rivelò infine.
Irene sbatté le palpebre e provò a sollevarsi sulle punte per guardare oltre le teste dei due compagni.
«Due? Quindi... un suo alleato l'ha tratto via prima che il proiettile di Mista lo colpisse?» dedusse.
«Esatto.» rispose ancora lui. «Stava aspettando il momento giusto per agire. Il suo segreto deve essere la velocità...»

 
Mentre loro cercavano di comprendere dove il nemico si fosse rifugiato, Fendi tornava con i piedi per terra e trotterellava allegro oltre un carosello, più avanti nel parco.
«Bella mossa, Uriele!» si complimentò salendo su uno dei cavallucci fermi e arrugginiti. London Dungeon rimase in braccio a un'altra creatura, quella che l'aveva portato in salvo.
La sua testa era a forma di mezzaluna, il corpo per metà nero e per metà bianco. I piedi avevano la forma di curiosi pattini a rotelle.
«Te lo ripeto, smettila di chiamarmi così. Preferisco solo Cucinelli. La storia del cambio del nome non mi piace.» sbottò nervoso il compagno. La sua voce proveniva da dentro lo Stand. «Comunque sia, stavi per farti ammazzare. Non dovresti prestare più attenzione?» brontolò.
«Come sei scontroso! L'importante è che l'abbia trovata, no? Nostro Padre sarà così contento di vederla! Dici che ci promuoverà? Diventeremo i suoi sudditi preferiti?!» chiese a sua volta Michele.
«Non mi considero un suddito, solo un seguace, ma una promozione non sarebbe male. Stiamo pur sempre parlando di soldi. Gestire solo lo spaccio di droghe in segreto e scortare gli altri mi annoia, ormai.» sogghignò quindi l'altro. «Prima di badare ai nostri sogni di gloria, però, finiamo quei due teppisti. Riesci a utilizzare London Dungeon da questa distanza?»
«Ho già toccato uno di loro, quindi non dovrebbero esserci problemi, no! L'importante è che Dark Side Of The Moon lo porti abbastanza vicino da attaccare. Una volta uscite dal corpo, le ossa diventano come cemento! Non lo batte più nessuno!»
Lo strano essere dalla testa a mezzaluna, o meglio colui che vi si nascondeva dentro, sollevò le spalle.
«Lascia fare a me, e sbrighiamo in fretta questa faccenda.»
Si allontanò quindi da Michele, svanendo fulmineo.

 
«Non tornano... dobbiamo scappare, capo?» chiese Guido intanto, le mani che sudavano stretta attorno al calcio della rivoltella.
«Sarebbe inutile. Vogliono Cacciatore e io non intendo lasciare che la prendano. Dobbiamo cercare di catturare uno di questi farabutti e trascinarlo da Giorno per estorcergli qualche informazione, fortunatamente non è ancora partito.» gli venne risposto.
Irene, nel frattempo, pensò di aver notato una strana figura monocroma in arrivo. Aveva svoltato a destra, poi a sinistra. Non ci fece subito caso ma, quando elaborò il tutto, lanciò l'allarme.
«Rieccoli! Attenzione, Mista! Bucciarati!» chiamò, indicando dritto laddove lo aveva visto.
I due giovani seguirono le sue direttive ma non videro altro che un lampo scuro scattare prima a destra e poi a sinistra. Infine, come farebbe una palla da bowling con dei birilli, non riuscirono a prevedere il colpo. Sia Bruno che Guido furono sballottati lontano da Irene, il primo qualche metro più isolato dagli altri due. Percepirono presto il dolore di un attacco che non avevano nemmeno visto: gli artigli d'ossa di London Dungeon avevano disegnato un macabro motivo nelle vesti e nella pelle all'altezza delle clavicole.
Mista, fortunatamente, riuscì a mettersi in piedi e raggiungere Irene per evitare che venisse portata via.
«Merda!» imprecò il ragazzo, controllando che René non avesse riportato ferite e poi sollevando lo sguardo.
Bucciarati era rimasto solo ma si stava rialzando da terra. Il velocissimo Dark Side Of The Moon gli girò attorno e poi sparì di nuovo, senza infliggere ulteriori danni.
«Bucciarati, stai bene?» chiese quindi Guido, premendosi la ferita che aveva preso a sanguinare. Se non altro, era più lunga che profonda.
Il capo del gruppo, tuttavia, sembrava non averlo ascoltato. Era rimasto piegato sul terreno con le ginocchia, facendo leva sugli avambracci. Poi, di colpo, si portò una mano al viso, la scosse davanti ai suoi occhi e spalancò la bocca.
«Mista, Cacciatore! Non... non riesco più a...»
Si rialzò a fatica e immediatamente prese a fissare un punto indefinito dello spazio di fronte a sé. Allungò le braccia e provò a cercare un appiglio vicino, andando a tentativi.
«Che sta succedendo?» impallidì Irene, cercando istintivamente di raggiungerlo.
Mista la tirò per le spalle.
«Frena! Stavolta l'ho visto!»
La coppia di Stand tornò alla carica: il più veloce corse fino a raggiungere di nuovo il capo, l'altro allungò gli spuntoni sulle sue spalle fino a trafiggere il bicipite destro del malcapitato.
Con un urlo contenuto, Bruno si gettò in avanti e rischiò di cadere di nuovo, ruotando su se stesso in modo disorientato. Sticky Fingers si palesò di nuovo, prendendo a pugni l'aria attorno a sé all'impazzata.
«Dannazione!» esclamò nervoso il suo possessore, chiudendo le palpebre.
Guido e Irene osservavano allibiti la scena. Il primo di loro mormorò qualche domanda alla quale nessuno avrebbe saputo rispondere.
«Ragazzi, dovete fare attenzione!» Il braccio di Bruno squarciò l'aria. «Io... non so per quale motivo, ma non riesco più a vedere nulla. I miei occhi non sono feriti e quando sono stato colpito avevo ancora la vista. È successo poco dopo, non capisco...» biascicò non sapendo più come reagire. Per un possessore di Stand è importantissimo guardarsi attorno, specialmente quando nel caso in cui dovesse trovarsi in una zona che non si conosce bene. Fosse stato in casa sua o al Libeccio, Bruno si sarebbe mosso agilmente come sempre a discapito di quel male che l'aveva colpito, ma quel parco non era una sua metà abituale e pertanto non sapeva come muoversi. Lì in giro c'erano lampioni, panchine, giostre e gazebi, per non parlare di possibili civili di passaggio. Anche il solo tentare un attacco disperato era una mossa azzardata.
Irene continuò a dimenarsi per liberarsi dalla stretta di Mista.
«Lasciami! Non capisci che dobbiamo aiutarlo?!» scalpitò ancora.
Non aveva detto a Bruno quel che aveva scoperto grazie a Leone, ma sapeva ancora quanto dovesse realmente a lui, che l'aveva salvata da una tragedia tempo prima.
La sola idea che gli venisse inflitto altro male la fece infuriare più di quanto pensasse.
«Calmati! È quello che sto cercando di fare!» insisté Guido, indicando qualcosa. «Guarda il terreno. Non l'hai notato?»
Gli occhi gialli della ragazza si scostarono posandosi laddove le era stato detto. Difatti, la fretta le aveva impedito di notare un dettaglio vitale.
Un tratteggio. Come quelli che sui fogli indicano dove si debba tagliare con la forbice. Una linea spezzata, che segnava un percorso sulla stradina del parco, sull'erba fresca, e girava tutt'attorno al caposquadra.
«Era... era già lì, quello?» chiese lei. allibita. Non se n'era affatto accorta.
«No, direi di no.» spiegò l'amico. «L'ho notato poco fa, quando quello Stand è passato di nuovo da qui. Dietro di lui è apparsa un'altra linea tratteggiata.»
«È... un ritaglio...»
«Già, ma non capisco a cosa serva.»
«A catturare una persona.» giudicò lei, guadagnandosi un'occhiata incuriosita. Motivo per il quale seguitò a spiegarsi seduta stante. «È anche attorno a noi, l'hai notato? Sembra che quei due abbiano creato tanti ritagli attorno a noi. E prima hanno cercato di dividerci. Bucciarati è stato l'unico a essere allontanato, ecco perché hanno attaccato prima lui! Adesso ho capito!» esclamò allora.
Puntando i piedi per terra, alzò la voce per farsi sentire dal capo.
«Bucciarati, segui la mia voce! Devi cercare di avvicinarti a noi!» chiamò a pieni polmoni, sicura che lui si sarebbe affidato alla sua chiamata come una nave si affida a un faro nella notte, «Uno dei nostri nemici può accecare le persone, e per farlo deve intrappolare ciascuno di noi in un ritaglio diverso!» annunciò.
Bucciarati, a occhi chiusi, si volse verso di lei. Annuì fermamente e prese a correre con Sticky Fingers davanti a sé, pronto a rimuovere qualsiasi ostacolo.
Subito, però, un colpo rapido come il vento la disorientò. Sentì gli spuntoni di London Dungeon affondare nella sua spalla sinistra, alcuni anche nel fianco. L'attacco la prese alla sprovvista, sbalzandola verso il lato opposto. Come se colpita dal colpo di frusta durante un incidente stradale, volò in aria e atterrò sulle proprie braccia svariati metri più avanti. La sua vista si annebbiò per un paio di secondi e non riuscì neanche a pensare, tantomeno a capire cosa stesse accadendo.
Riaperti gli occhi, vide il bellissimo cielo azzurro e sereno di Napoli sopra di sé, mentre in lontananza sentiva la voce di Guido chiamarla preoccupata.
Poi, di colpo, notò la veloce creatura dalla testa a forma di mezzaluna avvicinarsi a lei con lo Stand più piccolo sulle sue spalle. Non la attaccò. Le sfrecciò accanto due volte, girandole attorno. E all'improvviso non vide altro che il buio.

 
Fine prima parte
 
 
[ ••• ]
 
Spazio Autrice:
Salve a tutti i miei lettori. Volevo iniziare questo angolo autrice con un tono un po' più serio del solito, augurandovi di stare bene e al sicuro in questo periodo difficile non solo per noi italiani ma per il mondo intero. Spero davvero che stiate tutti bene e che questa difficoltà passi presto, ma sono certa che tutto andrà per il meglio se continuiamo a essere forti!
Per tornare alla storia, mi scuso per il ritardo nel postare ma vi prometto che inizierò subito a lavorare alla prossima parte del capitolo. In questa prima fase abbiamo conosciuto due portatori di Stand nemici, Michele Fendi e Uriele Cucinelli, e le loro macabre abilità. Cosa succederà a Irene, Bruno e Guido? Come faranno a sconfiggerli o a sfuggire ai loro poteri?
Prima di svelarvelo nel prossimo capitolo, vi invito a lasciare una recensione con il vostro parere, se vi va! La storia vi sta piacendo? Cosa pensate che accadrà?
Per il momento, io vi saluto non solo con il mio abituale "Arrivederci" ma anche con un grande abbraccio. A presto!

 

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Capitolo 9
*** 09. London Dungeon & Dark Side Of The Moon - Seconda Parte ***


[ LONDON DUNGEON & DARK SIDE OF THE MOON - SECONDA PARTE ]


Irene si sentiva ancora girare la testa. Il cielo davanti ai suoi occhi era stato sostituito da un abisso oscuro. Non vedeva neppure il nero delle proprie palpebre, né la più flebile luce, solo il nulla. In sé, sapeva che quella non era una conseguenza del colpo che aveva subito quando era atterrata al suolo, di quello non restava altro che il dolore alle tempie e alle braccia. Ne era certa: il potere del nemico aveva colpito anche lei.
Non riusciva più a vedere London Dungeon Dark Side Of The Moon, così come non poteva vedere i suoi compagni di squadra.
La voce di Guido, però, le giunse sempre più distinta e concisa alle orecchie.
«Irene!» gridò preoccupato il ragazzo. Un rumore di passi si avvicinava a lei.
«Cacciatore, stai bene? Cosa è successo?» chiamò intanto Bucciarati, nelle sue stesse condizioni. Era molto più lontano dell'altro.
«Dovrai scegliere chi salvare, caro mio...» rise qualcuno alle sue spalle.
Non era la voce di Guido, né di Bruno. Non era neanche quella di Michele Fendi. Capì dunque che si era trattato dell'avversario dalla testa a forma di mezzaluna.
Guido si bloccò a metà strada, guardandosi attorno: aveva capito che, inserendosi nel ritaglio di chi era stato colpito, poteva annullare l'effetto dell'accecamento. Purtroppo Bruno e Irene erano molto distanti fra loro e, come se non bastasse, lui non era neanche lontanamente veloce quanto Dark Side Of The Moon. L'avversario non aveva tutti i torti: doveva scegliere.
Sapeva di non poter perdere tempo, quindi si affidò all'istinto. Irene era più o meno a quattro metri da lui, Bruno leggermente più vicino. Un po' per scaramanzia nei confronti di quel numero per lui molto sfortunato e un po' per convenienza in fattori di distanza, decise di non sprecare altri istanti preziosi e si lanciò contro il capo, sperando di raggiungerlo prima di essere attaccato a sua volta.
«Dove cerchi di andare, ragazzino?» tuonò Dark Side Of The Moon, correndo alle sue spalle.
Guido strinse i denti e lo maledisse in silenzio.
"Se possono attaccarci solo uno alla volta, l'importante è che almeno uno di noi non resti solo e possa combatterlo." comprese astutamente, "Spero vivamente che lo Stand valga come estensione del proprio possessore. Sex Pistols, non deludetemi!" invocò.
Improvvisamente il suo cappello si sollevò e due minuscoli esserini gialli dalla testa molto grande fecero capolino, cadendo sulle sue spalle.
«Abbiamo capito, Mista! Facci partire!» lo invitò con determinazione uno di loro, avviandosi verso la rivoltella.
Guido sorrise, girò il tamburo della pistola non appena i due piccoli Stand raggiunsero l'arma e mirò dritto davanti a sé.
«Number 1, Number 6!» invocò, «Raggiungete Bucciarati. Aiutatelo a sconfiggere questi maledetti e a salvare Irene!»
Premette due volte il grilletto, mirando a un punto indefinito sopra la testa del caporegime.
I proiettili volarono con un sibilo e i due esserini li cavalcarono ridacchiando, atterrando poi sulle spalle di Bruno.
«Bucciarati! Bucciarati!» chiamò Number 1, «Siamo qui! Riesci a vederci?»
L'uomo schiuse di nuovo le palpebre, battendole per qualche attimo. La luce gli sembrò di colpo abbagliante e per questo impiegò un po' a riprendersi. A quanto pareva, anche solo essere affiancati dallo Stand di un alleato poteva liberare dalla buia prigione imposta da Dark Side Of The Moon, e quello di Guido era perfetto per l'occasione: diviso in varie parti indipendenti con un intelletto proprio.
«Pistols... sì, vi vedo. Mista ha avuto un'idea saggia...» commentò, cercando subito l'amico con lo sguardo.
Quel che vide lo fece infuriare: Mista era stato trafitto dai lunghi spuntoni affilati di London Dungeon e la ferita alla schiena, essendo stato colpito alle spalle, non sembrava una sciocchezza.
«Mista!!!» gridarono i Pistols, tendendo le piccole braccia verso il loro giovane padrone.
Guido cadde, stringendo gli occhi.
«N- non ci vedo più!» si lamentò per poi alzare la voce, «Bucciarati, devi fermarlo! Ora non può più accecarti!»
Bruno avrebbe voluto raggiungerlo, ma la velocissima creatura gli si piazzò di fronte.
«Dove pensi di andare, Bucciarati?» lo chiamò quasi sorridendo. Un braccio nero scattò verso di lui e London Dungeon si arrampicò come un'edera su esso, allungando le ossa verso di lui.
L'uomo aggrottò la fronte, rispondendo prontamente.
«Sticky Fingers!»
Lo Stand rispose prontamente, materializzandosi di fronte a lui e colpendo all'improvviso London Dungeon con un gancio alla mascella, lanciando un urlo di battaglia: «Ariii!!!»
Dark Side Of The Moon reagì con un verso furibondo e corse a recuperare l'alleato.
Bruno strinse un braccio attorno al vita del proprio Stand, usando la mano per indicare i due nemici mentre i Pistols si accomodavano sul suo completo bianco.
«Mi dispiace per te, ma non sei di certo il primo nemico che mi tocca affrontare. Ho dovuto subire di peggio che qualche secondo senza vista.» esordì allora, a testa alta, «Una volta recuperata la capacità di vedere, inoltre, non sei più tanto pericoloso. Ho capito perché lavorate assieme: il tuo potenziale distruttivo è molto basso, mentre London Dungeon non è affatto veloce. Insieme vi completate. Ma ho una brutta notizia per voi...» avvisò infine, «Il mio Sticky Fingers è sia veloce che forte. Se riesco a vedervi, non avete più possibilità di ferirmi.»
«Questo è tutto da vedere.» sfidò Dark Side Of The Moon, tornando alla carica come impazzito.
Eppure, una volta raggiunto Bruno, gli spuntoni di ossa del suo compagno vennero distrutti con un pugno ancora prima di aver raggiunto la massima estensione. Questa volta, prima che London Dungeon cadesse al suolo, il braccio di Sticky Fingers si rivestì di una cerniera che subito di aprì e il pugno venne scaraventato metri più avanti. Afferrò il fragile Stand, lo tirò a sé e lo investì con una raffica di colpi. Tutte le sue ossa sembrarono frantumarsi come granelli di pane raffermo e, una volta toccata la strada, di London Dungeon non restava che un cumuletto pesto e dolorante che a stento riusciva a muoversi. Lo Stand di Michele Fendi era stato annientato.
Bruno non perse tempo e iniziò a correre verso Mista. Lo raggiunse mentre il nemico sconvolto tentava di riprendersi e subito gli sfiorò una spalla.
«Mista, stai bene?»
«Una favola...» rispose l'altro con pungente sarcasmo, «Almeno ci vedo di nuovo.»
Dark Side Of The Moon si lamentò a gran voce, gridando un'imprecazione dopo l'altra. Un attimo dopo si chinò a raccogliere un osso spezzato dello Stand alleato e in meno di un secondo fu accanto a Irene, rimasta sola e priva di difese, nonché della vista.
La strattonò verso di sé, serrando un braccio attorno al suo collo e usando la mano opposta per puntare alla gola l'osso.
Irene, dimenandosi come un serpente in un sacco, affondò le unghie corte nel braccio dell'avversario, senza ottenere però grandi risultati. I suoi occhi gialli guardavano senza vedere, puntati sul cielo. Erano opachi e spaventati.
«Adesso mi avete stancato! Credete forse che io sia uno sciocco?» sghignazzò follemente, «Porterò via con me la ragazza, fate un solo passo e la uccido. Giuro che lo faccio.»
Irene non sembrava contenta della situazione.
«Lasciami andare, idiota!» lo offese cercando di liberarsi. Lo spuntone d'osso, però, scavò nella pelle della sua gola finché una minima goccia di sangue non volò fino alla scollatura della sua maglia. «Aghh-!» si rese conto del pericolo allora, «B- Bucciarati, Mista!» chiamò allora nella speranza di essere aiutata. O che scappassero.
Guido abbassò la voce, sudando freddo. 
«Bucciarati, che facciamo? Non la raggiungeremo mai in tempo...» dovette confrontare l'avversa verità.
Gli occhi di Bruno si fissarono su quelli di Irene, anche se lei non poteva accorgersene.
Non poteva lasciarla nelle loro mani. Lo aveva capito da quando l'aveva vista presentarsi al Libeccio, qualche giorno prima. La sua ambizione, la sua forza... non si erano spente neanche quando lui le aveva negato di unirsi a loro, prima di conoscere la sua condizione. Non si spiegava il motivo per il quale tenesse a quella ragazza esattamente così come teneva agli altri suoi sottoposti, che conosceva da decisamente più tempo di lei. Di una cosa era certo, però: non avrebbe mai lasciato che la fiamma in lei si spegnesse. Un tempo aveva investito su Giorno garantendo per lui e adesso quel ragazzo era diventato il capo indiscusso di Passione. Poteva fare lo stesso con lei, non gli costava nulla, e chissà quali soddisfazioni avrebbe donato a Passione. Era parte della sua squadra. Della sua famiglia. Doveva e voleva proteggerla a ogni costo, non le avrebbe permesso di soffrire più di quanto non avesse già fatto in passato a causa della sua sfortunata vita.
Per questo motivo decise di sussurrare a Guido: «Ricarica la rivoltella.», dopodiché si rialzò con fredda compostezza, uno dei Pistols ancora sulla spalla per sicurezza, iniziando a camminare verso lei e Dark Side Of The Moon.
«Oi, sei sordo per caso?! Ho detto che la ammazzo!» gridò ancora, serrando la presa attorno alla gola di Irene.
Bruno stava scommettendo su di lei. Non la stava salvando, stava facendo in maniera tale che imparasse a salvarsi da sola, forse solo con un piccolo aiuto. Puntò lo sguardo dello stesso colore del mare sulle mani della ragazza quando queste, improvvisamente, parvero sfuocarsi e iniziò a formarsi un alone grigiastro attorno alle sue dita. Una mano scura, diversa da quella di Irene, si strinse a sua volta attorno al polso del nemico, che neanche se ne accorse. Toccò la sua pelle e immediatamente fu possibile udire uno strato ticchettio, uno soltanto, a cui Uriele Cucinelli nemmeno badò.
«L'hai voluto tu, maledetto! Un altro passo ed è morta!»
«Non le torcerai un solo capello.» assicurò Bruno, gelido come sempre, «La verità è che hai già perso. Arrenditi, e forse avremo un po' di pietà per te. Ucciderti non è più necessario.»
«Cosa? Stai delirando, per caso?»
«Niente affatto, ti sto offrendo una possibilità. Non farmelo ripetere, lasciala andare. Irene ti ha sconfitto nell'esatto momento in cui hai deciso di prenderla come ostaggio.»
A quel punto fu lei a battere le ciglia rapidamente, non comprendendo cosa intendesse. Pensò si trattasse solo di un bluff e, per evitare di mandare a monte il piano di Bruno, non fece domande e cercò di non dare a vedere la sua perplessità. Cieca e spaventata, non poteva che affidarsi ai suoi compagni.
Dark Side Of The Moon rise a crepapelle, senza rendersi conto che in realtà stava facendo solo il suo gioco.
«Mi eri stato descritto come un tipo in gamba e intelligente, Bucciarati, ma inizio a pensare di aver sbagliato persona! A me sembri solo uno stupido!»
Bucciarati si fermò, smettendo di camminare, un piede posto sul bianco tratteggio segnato dal suo passaggio.
«A quanto pare non sei disposto ad accettare la nostra misericordia. Allora mi dispiace, ma la nostra sfida si chiude qui.» alzò la voce.
A quel punto sollevò un braccio, dando il segnale. «Mista, sparagli!» comandò.
Uriele trovò la sua convinzione molto divertente. Sapeva benissimo quali fossero le proprie capacità e una sparatoria non lo spaventava affatto: il suo Stand equipaggiabile, Dark Side Of The Moon, era ben più veloce di qualsiasi proiettile. Afferrò saldamente Irene per trascinarla via con sé e, a quel punto, mosse le gambe per fuggire prima ancora che Guido potesse premere il grilletto.
O almeno, provò a muoverle, ma non si spostò di mezzo centimetro.
Improvvisamente sentì una carica di terrore pervaderlo da capo a piedi e puntò la sua attenzione proprio su quest'ultimi.
«Ma cosa...? Quando...?» provò a domandare ma era così sconvolto che non riuscì neppure a formulare una frase completa.
I suoi piedi, e dunque anche quelli del suo Stand, si erano come pietrificati. Ma non era roccia, quella, peggio ancora. Erano solidi e lucidi, pesanti come il metallo. Più precisamente, le sue gambe si stavano trasformando in piombo.
«Cosa mi hai fatto, Bucciarati?!» gridò impaurito.
«Io? Assolutamente nulla. Il merito è di Irene, te l'ho già detto.»
A quel punto, René non poté più trattenersi. Appena Cucinelli mollò la presa attorno alla sua gola, strisció sugli avambracci e si allontanò, in cerca anche di spiegazioni.
«Cosa sta succedendo?» domandò confusa e spaventata anche lei. Non vedeva altro che il buio e non si era mossa da quando era stata colpita: com'era possibile che avesse fatto qualcosa?
«Avevano detto che non aveva ancora manifestato il suo Stand, è impossibile! Neppure l'ombra di uno Stand... non sa neanche lei cosa stia accadendo!» continuò a insistere Uriele.
«Narancia mi ha raccontato cosa è successo durante lo scontro con uno dei vostri compagni, Gabriele Ferragamo e il suo Hungry Planet. Irene ha toccato uno dei macigni da lui scagliati e questo si è trasformato in metallo. Era impossibile che ci fosse un altro portatore di Stand nei paraggi, quindi il merito non poteva che essere il suo. Il suo Stand potrà anche non essersi ancora manifestato, tuttavia il suo potere è già attivo: Irene può trasformare qualsiasi oggetto in qualsiasi metallo!» spiegò.
La ragazza si sentì mancare il fiato. Poteva davvero? Era questo il suo potere? Non sapeva nemmeno come funzionasse. Non era stata lei a chiedere a quella roccia di diventare di ferro.
«Ammetto di aver rischiato molto, comunque. Non ero certo che il suo potere si sarebbe attivato, né che avesse effetto sulle persone, ma siamo stati anche abbastanza fortunati.» continuò Bruno, «Tu non potrai più muoverti, per cui non ha senso neppure interrogarti. Il tuo compagno avrà perso i sensi quando ho ridotto a pezzi il suo Stand, quindi ci serviremo di lui. Come ho già detto, avete perso.»
Guido intanto aveva preso la mira.
«Eh eh... mica male questo potete!» commentò prima di far partire i proiettili. Non aveva bisogno dei Sex Pistols per il momento, quindi non li spedì in battaglia. Solo, rapidamente, quei proiettili si conficcarono nell'armatura di Dark Side Of The Moon e, di conseguenza, nelle carni del suo portatore. Un colpo al petto, due a ciascuna gamba.
Uriele gridò ma non poteva liberarsi. Come un soldatino di piombo, era legato alla sua pesantissima piattaforma e non aveva modo di scappare.
«Avresti dovuto pensarci due volte prima di affrontarci.» commentò ancora Bruno, per poi concludere, «Arrivederci.»
Cucinelli continuò a urlare e, ora che era troppo tardi, iniziò persino a invocare perdono. Ben presto il piombo continuò a inghiottire il suo corpo. Persino i fiotti di sangue e i fori d'entrata dei proiettili si trasformarono in metallo, finché il potere di Irene non raggiunse la sua testa a forma di luna, che rimase impressa nel metallo con un'espressione straziata. Infine non urlò più.

[ 3 maggio 2002. Uriele Cucinelli, Stand: Dark Side Of The Moon ... Sconfitta totale. Ritirato. ]

[ 3 maggio 2002. Michele Fendi, Stand: London Dungeon ... Ritirato. ]

Irene non riuscì quasi a crederci quando i suoi occhi tornarono a vedere. Non fu mai così contenta di poter scorgere il cielo su di lei, l'erba verde dei prati del parco, e soprattutto il viso di Bucciarati, che l'aveva raggiunta e si era chinato su di lei per soccorrerla.
«Cacciatore, riesci a vedermi? Come ti senti?» domandò con tono premuroso. Uno che Irene non aveva mai sentito prima.
Con la testa che le girava un po', rispose. «S- sì, ora la vista mi è tornata, anche se non capisco cosa sia successo...»
«L'hai sconfitto.» spiegò lui, sorridente. «Il tuo Stand ti ha protetta non appena hai iniziato ad avere paura. Sei stata molto brava.»
«Brava?» ridacchiò, «Non so neanche cosa ho fatto, ma grazie del complimento.»
Sorreggendosi al suo braccio, si alzò pian piano tenendosi la testa. Aveva fatto un bel volo a causa del forte attacco dei due, cadendo proprio sulla strada. I suoi avambracci erano ridotti abbastanza male, le maniche strappate e graffi dappertutto.
Guido corse da loro, riponendo la rivoltella nell'insolito luogo dove usava custodirla: il lembo del largo pantalone rosso tigrato di nero.
«Accidenti, Irene... non credo che ti sfiorerò mai più senza essere sicuro che non ti spaventerai, o rischi di trasformarmi in un'opera d'arte classica.» rise un po' a disagio.
Irene abbassò lo sguardo.
«Non hai tutti i torti... sarà meglio che io impari a controllare questo potere e a manifestare il mio Stand in forma fisica, o rischio di ferire uno di voi. Sembra che possa tramutare tutto in qualsivoglia metallo, ma non ho idea di come invertire il processo o fermarlo una volta che è già partito.»
Al sentire quella frase, Mista arretrò di un passo. Se prima stava scherzando, ora era decisamente impaurito.
«Non hai nulla da temere. Imparerai a controllare il tuo Stand prima di quanto immagini e, fino a quel momento, ti proteggeremo noi.» le assicurò Bruno, per poi dare un ordine a Mista con un gesto della mano.
«
Immagino che Fendi sia ancora vivo e privo di sensi nei paraggi. Mista, trovalo e portalo da noi. Lo trascineremo subito da Giorno.»
«Sissignore, ma prima si beccherà qualche bel pugno dritto sui denti. Il suo dannato Stand mi ha bucherellato dappertutto!» si lamentò lui, allontanandosi mentre i Pistols lo raggiungevano e parlavano con lui.
Nel frattempo, Irene si tamponò come possibile alcune ferite.
«Cosa farà il Boss quando lo porteremo da lui?» chiese, forse un po' ingenuamente.
Bucciarati abbassò lo sguardo su di lei.
«Non mi sembra il caso di scendere nei dettagli. Un interrogatorio non è mai una scena piacevole. Fatto sta che sapremo qualcosa in più e Giorno potrà decidere che farne di lui.» si spiegò, «Inoltre gli chiederò di guarire le nostre ferite. Non hai avuto modo di vedere come opera il suo Stand, ma spero si fidi di te almeno quanto mi fido io.»
Irene rabbrividì alla sola idea di sapere quale potere potesse avere lo Stand del Boss. Era un uomo potente, senza dubbio, e aveva sconfitto il vecchio capo di Passione a soli quindici anni. Poi, una domanda le spese spontanea.
«Il Boss... era un tuo sottoposto una volta, non è vero?»
«Sì, faceva parte della mia squadra. Era chiaro che però avrebbe risalito i gradini dell'organizzazione molto velocemente.»
«Ma, se eri il suo capo, perché non sei diventato tu il Boss dell'organizzazione?» domandò allora.
Bruno incrociò le braccia, senza esitare. «Non sono tagliato per un ruolo del genere. Ho voluto scommettere sul suo sogno d'oro perché avevo fiducia nelle sue buone intenzioni e non mi ha mai deluso. Ho imparato molto da lui, ed è stato grazie a lui se Passione è diventata ciò che è oggi. Essere un caporegime, il braccio destro del Boss per giunta, mi basta e avanza.»
Irene non fece altre domande. Le bastò quella singola risposta per capire quanto Bucciarati fosse dedito al suo compito: non era un malavitoso come quelli che si vedevano in televisione, capaci solo di violenza e interessato al denaro. Chissà perché e come, era entrato nell'organizzazione perché voleva rendere il suo paese un posto migliore. Era una brava persona, un ragazzo dal cuore d'oro. Non aveva dubbi al riguardo.
Ben presto Mista tornò trascinandosi dietro quello scricciolo di Fendi, ridotto a un punching bag da Sticky Fingers che, peraltro, utilizzò una cerniera per separare temporaneamente il suo corpo dalla stanza per impedirgli di scappare nel caso in cui avesse ripreso i sensi.
Era la prima volta che Irene vedeva il potere dello Stand di Bucciarati e trovò la sua abilità abbastanza curiosa.

Nel giro di un'ora o poco più, avvisati anche i restanti membri della squadra, i tre si recarono alla villa di Giorno per consegnare il nemico di Passione direttamente al Boss. Lì, i suoi uomini lo avrebbero fatto confessare per benino.
Una volta arrivati, Giorno li aveva subito ricevuti e visitati da sé. Gli bastò sfiorare le loro ferite per guarirle completamente. Irene pensò che il suo fosse un potere incredibile.
Circa tre ore più tardi, oramai superato mezzogiorno, l'attesa non era ancora finita. I tre sedevano in una saletta all'interno della villa, al secondo piano della residenza di Giorno.
Uno dei Pistols scivolò giù dal cappello di Guido e iniziò a picchiettargli una tempia, nervoso.
«Mista! Mista! Abbiamo fame, dannazione!»
«Oi, oi! Datti una calmata, Number 3!» ribatté lui.
«È già passata l'ora di pranzo! Stamattina ti abbiamo aiutato e non ci hai dato nemmeno un po' di salame ungherese per ricompensarci!»
«Quando torneremo a casa vi preparerò un pranzetto coi fiocchi e vi lascerò fare un riposino. Per ora siate pazienti, stiamo ancora lavorando.»
A interrompere il battibecco ci pensò la porta che collegava la sala a quella accanto, che si spalancò all'improvviso.
Bucciarati e gli altri si alzarono di scatto, sapendo che stavano per avere delle risposte.
Dalla sala uscì Giorno, circondato da una schiera di sottoposti in completo scuro che lo accerchiava in qualità di guardie del corpo. Il ragazzo era maestoso: era vestito di nero, elegante e formale, e i suoi biondi capelli lisci ricadevano sciolti sulle spalle. Un passo dopo l'altro, raggiunse i tre compagni e si fermò.
«Ha detto qualcosa?» domandò subito Bruno, di colpo più serio che mai.
«Era un osso duro...» commentò Giorno prima di incrociare il suo sguardo, «Ma sì, con la giusta leva ha cantato. Non mi ha voluto rivelare per chi lavora o chi siano i suoi superiori, ma ha detto che il suo compagno si chiamava Uriele Cucinelli. È un collega di Ferragamo. E non sono i soli della loro squadra...»
«Cioè anche loro fanno parte di una squadra?!» alzò la voce Mista.
«Di una vera e propria organizzazione, si direbbe.» Giorno si massaggiò il collo prima di tornare a rivolgersi a Bucciarati. «So che ti farà infuriare, ma non posso lasciarti all'oscuro di questo.» Affondò una mano nella piega della giacca nera e ne cacciò fuori una bustina di plastica che conteneva una curiosa polvere bianca. «Aveva questa con sé. Dubito vivamente che l'abbia comprata qui a Napoli.»
Bucciarati s'irrigidì di scatto. Irene lo osservò sbalordita: all'improvviso sembrava davvero nero di rabbia. Eppure, il suo tono di voce non mutò minimamente, glaciale e severo.
«Un motivo in più per scoprire chi lo ha assoldato e farlo fuori.»
Giorno annuì. «Aveva anche uno strano simbolo sotto al colletto della maglia, simile a una bruciatura. Non gli ho dato troppa importanza ma è giusto informarvi.»
«Anche Ferragamo...» fece notare Irene.
«Ferragamo?» la interpellò il Boss, incuriosito.
Irene sudò freddo. Il suo sguardo la faceva sentire a disagio.
«Ecco... anche Ferragamo aveva una strana bruciatura sul collo. Fugo ha fatto delle ricerche e ha scoperto che si trattava di un simbolo angelico. Più precisamente mi pare fosse quello riconducibile all'arcangelo Gabriele, che peraltro era il suo nome.»
«Allora sono sul serio un manipolo di pazzi religiosi!» esclamò Guido.
«Allora si spiega tutto.» Giorno si sfiorò il mento. «Fendi ha rivelato due dettagli ancora più importanti: i nomi di due dei suoi compagni di squadra e la loro locazione attuale.»
«Ottimo! Così potremo raggiungerli e farli fuori prima ancora che possano fare loro il primo passo.» considerò il caporegime.
Il Boss continuò, d'accordo con lui, «Barachiele Zegna e Geudiele Bulgari. Nomi di angeli, immagino che siano fittizi...» esordì, «A quanto pare attendevano l'arrivo di Fendi e Cucinelli a Salina, nell'arcipelago delle Eolie, per poter scortare altrove Irene una volta catturata. Purtroppo Fendi non ha aggiunto altro.»
«Perché no? Poteva rivelare altro, già che c'era...» si lamentò Irene senza pensarci troppo.
«Temo che non sarà più in grado di parlare per un bel po'. Non vi causerà più problemi, in ogni caso.» spiegò il Boss.
René rabbrividì. Sarebbe stato meglio se non avesse chiesto.
«Salina...» gli fece eco Bruno, «Partiremo per l'isola il prima possibile, così potremo scovare Zegna e Bulgari il prima possibile.»
Mista sospirò. 
«Di nuovo in viaggio, dunque... mi ricorda qualcosa, non è vero, Giorno?» ridacchiò avvicinandosi all'amico e dandogli una leggera gomitata.
I malavitosi che circondavano il Boss gli lanciarono un'occhiata torva. Se non si fosse trattato di lui, avrebbero già fatto fuori chiunque avesse toccato il capo di Passione, era certo.
Giorno, però, non si scompose, anzi sorrise e poggiò una mano sulla spalla di Guido.
«Vorrei davvero poter venire con voi. Ho una certa nostalgia delle nostre avventure... mi intristisce il fatto di dover partire mentre voi sarete via.»
«L'importante è rivederci tutti! Anche se sentiamo la tua mancanza, sai?»
«Come io sento la vostra.» Giorno respirò a fondo per poi allargare le braccia. «Se non altro, questa volta ci sarà Irene con voi, dico bene?»
René sussultò e si sentì rabbrividire. Era imbarazzante sapere che Giorno la spaventava.
«Già...» riuscì a stento a pigolare, quasi eclissandosi alle spalle di Bucciarati.
«Non ti deluderemo, Giorno. Chiunque sia il nostro nemico, si è rivelato essere anche un nemico di Passione. E per questo verrà sconfitto.» giurò il caporegime, ancora abbastanza rigido. Gli era bastato vedere quella minima quantità di droga per cambiare totalmente stato d'animo. A quanto pare vi era una storia non raccontata dietro quel suo cambio repentino.
«Non ne dubito. Solo, siate prudenti, vi prego. Ho già rischiato di perdervi una volta.» implorò il più giovane, i suoi occhi verdi di colpo più preoccupati. «Quando tornerò, prometto di passare più tempo con voi. Se la questione non si sarà risolta, mi unirò alla missione con il mio Golden Experience Requiem
Irene drizzò le orecchie all'improvviso. Requiem... Bruno gli aveva spiegato cosa significasse. E questo la portò a essere letteralmente terrorizzata dal giovanissimo Boss.
Se fosse intervenuto lui, probabilmente nessuno avrebbe avuto speranza di vittoria.
In seguito a quella promessa, il gruppo fu costretto a dividersi: era tempo di tornare a casa e prepararsi a un viaggio che non avrebbero dimenticato facilmente.

[ ••• ]

Angolo Autrice
Felice giornata a tutti! Ho voluto pubblicare questo capitolo oggi in onore del compleanno di Abbacchio (25 marzo) anche se non l'ho potuto includere in questo combattimento, ma lo rivedremo presto!
Altri due nemici sono stati sconfitti e il team è pronto a salpare per Salina, una bellissima isola delle Eolie dalla spiaggia nera e dal mare mozzafiato.
Cosa accadrà sull'isola? Irene riuscirà a scoprire chi la sta cercando e per quale motivo?
Mentre i suoi rapporti con la squadra diventano sempre più importanti, la nuova avventura ha inizio.
Per adesso vi mando un abbraccio, vi auguro una buona giornata o nottata e vi saluto. Arrivederci al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 10
*** 10. Running Free ***


 

RUNNING FREE ]

Un pugno colpì con forza la superficie del tavolo del bar, che tremò con forza facendo quasi rovesciare il caffè nel piattino.
Qualche dipendente e alcuni dei clienti si voltarono a osservare la scena ma tornarono a occuparsi degli affari propri quando uno dei due uomini seduti al tavolo rivolse loro una rapida occhiata generale capace di fare venire la pelle d'oca.
«Sapevo che non c'era da fidarsi di quei due idioti.» tuonò l'altro uomo, giocando nervosamente con i propri capelli neri, raccolti in un'alta e lunga coda di cavallo ben curata, tenuta stretta da un laccio con un ciondolo a forma di sole dorato.
L'altro, seduto davanti a lui e più giovane di qualche anno, accavallò le gambe più tranquillo.
«Rilassati, Raffaele. Erano pesci piccoli, le pedine che si manda avanti quando si vuole cominciare il gioco.»
«Sarà, ma li avevo contattati dopo il nostro ultimo incontro al magazzino abbandonato. Speravo che collaborando avrebbero ottenuto risultati migliori e invece...»
«Abbiamo ancora Zegna e Bulgari sull'isola. E pare che la squadra di quel cane di Bucciarati si stia dirigendo proprio lì.» avvisò accendendosi un sigaro e tirando verso di sé il posacenere.
Raffaele drizzò le antenne, di colpo più attento.
«Come, scusa?»
«Hai capito bene. Li ho spiati per due giorni dal loro scontro con i nostri compagni con il mio Love On The Air.»
«Dunque?»
«Prenderanno il traghetto questa notte. Per depistare eventuali spie avevano anche prenotato due diversi aliscafi per Salina. Fortunatamente il mio Stand va oltre la semplice informatica.»
«Ottimo. Allora m'imbarcherò anch'io e li prenderò alla sprovvista sulla nave.» azzardò Raffaele.
Il portatore di Love On the Air quasi soffocò e dovette tossire e percuotersi il petto con forza.
«Non ti fidi di-?»
«Mi sono fidato di Fendi e Cucinelli, e di Ferragamo ancor prima. Hai visto qual è stato il risultato. Ritengo che l'unico modo per essere soddisfatto sia agire in prima persona.» lo bloccò l'altro.
Lui dovette raddrizzarsi sulla sedia e prendere un profondo respiro.
«Sono d'accordo, ma non ritieni che sarebbe meglio collaborare a questo punto?»
«E con chi? Con quei due pagliacci in vacanza a Salina? Non se ne parla. Avranno anche Stand affini adatti al combattimento in coppia, ma io lavoro meglio da solo.» negò Raffaele, «Sei in grado di procurarti un biglietto per la corsa di stanotte con un documento falso?» chiese poi al compagno.
Lui si massaggiò le tempie. «Ovvio che sì. Il problema è che sarà pericoloso.»
«Poco importa. Torno all'hotel per prepararmi al viaggio. Ci rivedremo questa sera.»
Raffaele si alzò rapidamente dal tavolo, su cui lasciò alcune monete.
L'altro, rimasto solo dopo giusto un paio di secondi, dondolò arrendevole la testa.
«Povero pazzo.» commentò infine. «Speriamo solo che non spiccichi parola sul Padre.»

[ • • • ]

5 maggio 2002, undici di sera circa.
Trovare un traghetto notturno e diretto dal golfo di Napoli all'isola di Salina era stata una vera impresa. Fugo aveva impiegato ben due giorni a trovare i biglietti per tutti. Aveva prenotato con dei nomi fittizi per minimizzare il rischio e permettere una traversata pacifica.
Quella sera, la squadra Bucciarati si ritrovò al porto con le valige pronte e una casa alle spalle. Una missione da portare a termine.
Irene e Narancia persero un po'di tempo a scherzare sul loro falso documento dopo l'imbarco.
«Le serve una mano con il bagaglio, signorina Abate?» domandò con aria raffinata il ragazzo.
«La ringrazio, messer Formisano, ma posso farcela benissimo da sola, sa!» rispose René, un attimo prima che entrambi scoppiassero a ridere come se li stessero torturando a suon di solletico ai fianchi.
«Piantatela.» tuonarono in coro Fugo e Abbacchio.
Il primo continuò subito dopo: «Occuparmi dei documenti non è stato affatto facile. Potreste almeno sforzarvi di prendere seriamente il lavoro?» li bacchettò severamente.
Narancia abbassò la voce, avvicinandosi a Irene.
«Il signor Caruso sembra di cattivo umore oggi, non trova?» mormorò rischiando di causare di nuovo le risate della ragazza.
Fugo, purtroppo, lo udì e gli rivolse un'occhiataccia memorabile, che mise fine all'innocuo giochetto.
La nave era abbastanza spaziosa, ricordava un po' i traghetti dedicati alle traversate verso la Sardegna, con aree di riposo e più d'un punto di ristorazione a bordo. Inutile dire che il Mediterraneo, per quel che era visibile a causa del buio, era spettacolare. Profondo, immenso, maestoso. Un mare quasi poetico.
Irene lo osservò per svariati minuti dal ponte, appoggiandosi pigramente alle ringhiere di sicurezza e godendosi la brezza e l'odore marino di sale e di libertà.
La traversata sarebbe durata all'incirca sei ore o poco meno. La squadra si era riposata nel pomeriggio per poter essere vigile durante la notte ma non perse comunque tempo a ordinare dei caffè una volta saliti a bordo.
In seguito si sparpagliarono un po' tutti sul ponte principale. Mai troppo lontani, ovviamente, ma ognuno si prese qualche piccola libertà.
Mostrando grande empatia, Bruno non perse occasione di avvicinarsi a Irene per farle un po' di compagnia e assicurarsi che stesse bene.
La ragazza lo vide reggersi alla ringhiera di ferro e posare gli occhi sulle onde scure in tutta naturalezza. Lei aveva un po' di vertigini nel guardare l'abisso sotto di lei, nonché un certo mal di mare, ma lui sembrava tranquillo come se fosse nel salotto di casa.
«Il Tirreno è meraviglioso come sempre.» respirò a fondo l'uomo, godendosi quell'aria pulita.
Irene annuì debolmente.
«Un po' mosso, come unica pecca.» commentò osservando un orizzonte invisibile. «O forse sono solo io a percepirlo. Sono anni che non prendo una nave...»
Bucciarati la ascoltò con calma.
«Hai detto di venire da Siracusa, giusto?»
«Esatto. Perché?»
«Be', è in Sicilia. Avrai pur dovuto prendere dei traghetti per tornare a casa.»
Irene si sentì avvolgere da una sensazione di solitudine all'improvviso. Ricordare la sua casa, la sua famiglia, la faceva stare abbastanza male.
«Io... non sono mai tornata a casa dal mio arrivo a Napoli, in realtà.» confessò. «Non credo neanche di avere più una casa, lì. Ho preso un solo traghetto da Messina per Villa San Giovanni e da lì ho risalito la penisola poco alla volta, fino a finire qui. Credo sia stata l'unica volta che ho attraversato il mare...»
Bruno rimase in silenzio per un po'. Forse non sapeva cosa dire: probabilmente non aveva mai vissuto le problematiche che invece aveva dovuto affrontare Irene. La ragazza lo vedeva come un uomo ricoperto di amore e rispetto da ogni lato. Era impossibile odiare un tipo onesto come lui, così compassionevole e altruista. Possibile che fosse cresciuto senza affetti?
«Mi dispiace davvero tanto per quel che ti è accaduto. Posso solo immaginare come tu ti sia potuta sentire, abbandonata dai tuoi genitori a una simile età.» parlò poi, trascinante, senza guardarla direttamente. «Ho conosciuto molte persone come te. Ragazzi rinnegati dalle loro famiglie, sbattuti fuori di casa, finiti con l'acqua alla gola. La trovo una cosa terribile.»
«Non dispiacerti, non per me. Sono sopravvissuta, no?» esclamò Irene cercando di ironizzare. "E se non fosse successo, non avrei mai potuto conoscere nessuno di voi. Non sarei qui", aggiunse poi nella propria mente. «Piuttosto... tu sembri totalmente diverso da me.» gli fece notare poi.
A quel punto, Bucciarati le rivolse uno sguardo confuso. «In che senso?»
«Sei totalmente a tuo agio, nonostante la nave traballi di continuo. Mi aspetto solo di vederti spuntare una coda al posto delle gambe prima di tuffarti in acqua. Allora? Qual è il tuo segreto?» domandò sollevando un sopracciglio e sogghignando.
Bruno non trattenne una piccolissima risata. «Spiacente, nessun segreto. Solo abitudine.» si giustificò. «Vedi... ti sembrerà strano, ma sono il figlio di un umile pescatore, nato in un paesino non troppo lontano da Napoli. Ho passato l'infanzia in barca, tra reti e canne da pesca. Il mare è un po' come una seconda casa per me.» rivelò, non senza una certa nostalgia. Era chiaro che in quel momento fosse tornato ai ricordi di quando era solo un bambino.
Irene lo ascoltò come se le stesse raccontando la più grandiosa delle epopee.
«Hai ragione, fatico a crederci! Non ti ci vedo proprio con la canna da pesca in mano!» risero insieme. Solo dopo pensò di fargli un'altra domanda.
«E come mai ti sei trasferito in città? Tuo padre ha chiuso con l'attività da pescatore?»
Di colpo, come se l'avesse ferito con una pugnalata al petto, la luce sparì dai suoi occhi gentili. Il suo volto si rabbuiò e le sue spalle si tesero, rigide come le labbra che rimasero serrate per un po'.
«No, lui... se n'è andato un paio d'anni fa a causa di alcune complicazioni, dovute a un brutto incidente.» mormorò appena.
René rabbrividì e si maledì per essere stata tanto indiscreta. Istintivamente poggiò una mano sul suo braccio, per dargli un po' del conforto che lui aveva offerto a lei per primo.
«Santo cielo, ti chiedo scusa... non ne avevo idea, non avrei dovuto chiedere. Sono proprio un'idiota.» sbuffò prendendosela con se stessa. Non poteva neanche immaginare cosa significasse perdere un genitore, lei che non aveva mai neppure conosciuto suo padre.
Lui scosse il capo.
«Non potevi saperlo, non fartene una colpa.» cercò di sorriderle per rassicurarla, ma fu un'espressione alquanto forzata, che celava una sofferenza mai superata. Solo dopo riuscì a scuotere la testa e tornare quello di sempre. «Era una conversazione molto piacevole, non roviniamola rimuginando sulle brutte esperienze. Perché non mi dici cosa ne pensi di questi ultimi giorni in nostra compagnia?» le domandò per deviare argomento.
La giovane si appuntò i lunghi capelli rossi scompigliati dal vento dietro un orecchio e non poté fare a meno di pensare a quanto si sentisse grata di essere lì, su quella nave.
«Lo sai... credo che conoscervi sia stata la mia più grande fortuna. Mi sembra di essere parte della squadra da anni, quando in realtà sono passati solo pochi giorni.» spiegò, «Anche se... non tutti hanno preso bene la mia aggiunta, a quanto pare.»
Bruno si voltò, questa volta appoggiando le spalle alla ringhiera e mettendo un ginocchio davanti all'altro.
«Ci faranno l'abitudine, non preoccuparti. Fugo ha attraversato una brutta situazione ultimamente, per cui non si fida molto degli estranei, mentre Abbacchio cerca sempre di spaventare i novellini.» la informò.
«Sempre? Intendi dire che si comportava alla stessa maniera anche con Giorno?»
«Oh, no, assolutamente. Con lui ha fatto anche di peggio.» rispose lui divertito, «Proprio non riusciva a farselo piacere, nonostante continuasse a mostrare il suo valore in ogni battaglia. Ci ha salvato la vita molte volte. Se non fosse stato per lui, non sarei qui a parlare con te adesso.» le raccontò, catturando subito la sua attenzione, «Fatto sta che Abbacchio tiene moltissimo alla squadra. Siamo una vera famiglia alla fine dei conti, e lui farebbe di tutto per proteggere i suoi compagni. Non ti odia affatto, se è questo a preoccuparti. Sono sicuro che fosse anche abbastanza affezionato a Giorno, nonostante non lo dimostrasse.»
Irene batté le dita sulla struttura in metallo qualche volta, prima di tornare a parlare. Lo fece solo quando le balenò in mente un'idea.
«Vorrei dimostrare anch'io il mio valore. Se solo riuscissi a controllare il mio Stand...» sospirò.
«Non è mai facile all'inizio, ma puoi già sfruttare il tuo potere in situazioni di pericolo, e questo è un bene. Pensavo di poterti insegnare a controllare la sua forma fisica ma di questo passo credo che non ce ne sarà bisogno. Probabilmente il tuo Stand si manifesterà all'improvviso quando meno te lo aspetterai, durante la lotta. Credo proprio che avrai svariate occasioni per difenderti...»
«E se facessi del male a voi? O... o se per sbaglio mi trasformassi io stessa in una statua di metallo?!» ipotizzò nel panico.
«Rilassati, gli Stand non possono riflettere certi poteri sui loro portatori, e agiscono solo sulla difensiva. Nessuno di noi vuole farti del male, per cui non rappresentiamo un pericolo e ciò significa che il tuo Stand non ci attaccherà.» la calmò lui con efficacia.
René poté finalmente respirare di nuovo.
«Spero solo che sia davvero così. E mi dispiace di avervi tirato in mezzo a questa faccenda.» si scusò dopo.
«Niente di tutto questo è colpa tua, Cacciatore. Ti avremmo aiutata comunque e, in ogni caso, è diventato anche un nostro problema. Quando Giorno è diventato il Boss di Passione ha vietato il commercio delle droghe nell'organizzazione. Ci sono sempre stati dei gruppi ribelli che si sono opposti a questa scelta, ma li abbiamo rimessi in riga con facilità. Uno dei nostri nemici, però, questa volta aveva della droga con sé a Napoli e ciò significa che deve averla portata per smerciarla su ordine di qualcuno per far soldi. E questo proprio non posso accettarlo. È stata una vera e propria dichiarazione di guerra a Passione.» spiegò con cura Bucciarati, tremendamente serio a riguardo. Sembrava davvero metterci l'anima nel suo lavoro. Per un motivo che Irene non conosceva, quell'uomo odiava le droghe in maniera molto personale.
Irene stava per commettere un altro errore dovuto all'impulsività, domandandogli il perché di tanta determinazione nel voler impedire lo spaccio di sostanze stupefacenti in Italia, ma venne interrotta da una voce allegra alle sue spalle.
«Oi, René!» alzò il tono Narancia, che corse fino a raggiungerla. «Stavo pensando di andare a fare un giro per la nave, tanto di tempo ne abbiamo a volontà! Ti va di venire con me?» chiese euforico, mostrando il suo lato più fanciullesco.
Irene lo trovava molto simpatico e per questo non avrebbe saputo rifiutare. Tra l'altro, una piccola avventura non le dispiaceva.
«Perché no? Volentieri!» si preparò a seguirlo, finché lo sguardo di Bruno non li inchiodò sul posto.
«Aspettate, voi due.» sospirò, «Non avevo detto che saremmo dovuti restare uniti per qualsiasi occasione?» chiese bacchettandoli.
Narancia incrociò le mani come a volerlo implorare. «E dai, Bucciarati! Non combiniamo guai, promesso! Non salgo su un traghetto da quasi un anno e volevo fare un giretto!»
Irene non volle insistere: avrebbe solo aspettato una decisione del capo.
Le palpebre di Bruno si strinsero fino a far diventare gli occhi due piccole lunette cariche di sospetto. «Voi due soli? Continuo a essere dell'idea che potrebbe essere pericoloso.» Si guardò bene attorno e alzò un braccio, poi anche la voce. «Abbacchio, ho un favore da chiederti.» chiamò quindi.
L'ex-poliziotto se ne stava seduto a gambe divaricate su una delle panchine del ponte, con le cuffie in testa e il Lamento della Ninfa di Monteverdi a tutto volume ma, quando notò il caporegime fargli un cenno, non esitò a liberarsi le orecchie e alzarsi di scatto, raggiungendo il gruppetto.
«Tutto bene, Bucciarati?» chiese dunque. Irene notò il cambio nella sua voce quando si rivolse a lui: era probabilmente la prima volta che lo sentiva parlare con tanta gentilezza e disponibilità.
«Sì, ma a dir la verità devo chiederti di accompagnare Narancia e Cacciatore. Non voglio che restino soli e penso che sarebbe meglio se io restassi con gli altri, nel frattempo.» rispose lui più tranquillo.
Leone lanciò un'occhiata ai due ragazzi più piccoli. Sapeva che quel favore era stato chiesto a lui in quanto il più anziano del gruppo e uno dei più maturi e cauti.
«E dove, di preciso?» chiese poi, seccato.
«A fare un giro!» ribatté Narancia.
«...Un giro?»
«Già. Nulla di più.»
Abbacchio rivolse uno sguardo a Bruno e respirò a fondo. «Solo perché me lo hai chiesto tu.» accettò di malavoglia, mettendo le mani in tasca e voltando loro le spalle. «E voi smettetela di fare i capricci per certe cose. Non mi sembra proprio il momento di scorrazzare in giro per nessun motivo valido.» rimproverò gli altri due.
Irene e Narancia si scambiarono un'occhiata colpevole.
"Abbacchio sembra lo zio austero della combriccola." avrebbe voluto dire, ma tenne quel commento per lei.
Tutto sommato, comunque, non le dispiaceva fare un giro con loro due: Narancia era il membro della squadra con cui andava più d'accordo, mentre Leone quello che sembrava averla presa del tutto in antipatia, ma lei provava una sorta di strana devozione nei suoi confronti, probabilmente a causa di quanto era accaduto durante il loro primo incontro.
Quando Bruno finì di fare la paternale ai due più giovani, spiegando loro l'importanza di essere cauti e di non dare nell'occhio, il gruppo poté partire liberamente. Narancia aveva visto dei particolari cannocchiali sulle balconate ai lati del traghetto e volle avvicinarsi a dare loro un'occhiata più da vicino. Sembrava davvero triste di non poterlo utilizzare: inserendo i soldi per il loro funzionamento non avrebbe fatto che sprecarli, con quel buio non avrebbe visto niente di speciale a largo.
Dopo quella prima tappa, non appena Abbacchio ebbe terminato di fumare una sigaretta di rito, tornarono all'interno dell'imbarcazione, passando per la zona dei bar e dei piccoli negozietti a bordo. Alcuni erano aperti anche a quell'ora e per questo Irene e Narancia, entusiasti, si fermarono a prendere due cartoline come souvenir. René provò a domandare a Leone se ne volesse una da conservare, ma lui non rispose neppure, o quantomeno si fece capire semplicemente voltandosi dall'altro lato con sdegno. Qualcosa che si sarebbe potuto tradurre in "Non sono interessato in queste bambinate".
Un attimo dopo stavano di nuovo attraversando la nave, spiando vetrine buie, e Abbacchio dovette tornare a trascinarsi alle spalle degli altri due senza nemmeno la possibilità di tornare ad ascoltare la sua adorata musica.
Non ci volle molto per raggiungere il lato opposto della nave. Bruno e gli altri si trovavano a prua, nel punto più lontano da loro, ma non c'era nessuno a parte i tre restanti sulla balconata del traghetto. Era tutto molto tranquillo, persino la marea sembrava essersi calmata almeno un po', e la nave era in movimento da più di un'ora come minimo. I pochi viaggiatori sulla nave stavano cercando un luogo dove riposare, essendo tarda notte. Mancavano ancora più di quattro ore all'arrivo a Salina, e non c'era fretta.
Il mondo sembrava essersi fermato per permettere a Irene di prendere un profondo respiro e godersi quell'attimo. Per un attimo tornò bambina, ma senza tutte quelle sofferenze che avevano caratterizzato la sua infanzia. No, tornò a essere una piccola bimba spensierata, desiderosa di partire all'avventura. E tutto pian piano si stava realizzando attorno a lei.
Poi, quasi all'improvviso, notò che qualcun altro aveva raggiunto la balconata. Non ci fece neppure caso: c'erano altri passeggeri e ognuno era libero di muoversi per la nave come preferiva.
Era un uomo di almeno trent'anni, ben vestito per proteggersi dalla brezza fredda notturna. Una lunga coda di cavallo nera dondolava alle sue spalle, sostenuta da un fermaglio a forma di sole.
Si strinse il colletto della giacca di pelle, curiosamente più corta della maglia scura, che si spezzettava all'altezza dell'ombelico formando tantissimi piccoli ciondoli a forma di rombo.
Nessuno badò troppo a lui, neanche Narancia o Abbacchio. Erano voltati di spalle, addirittura rilassati, e sembravano aver finalmente abbassato un po' la guardia.
Irene non era da meno: credeva fosse una persona come le altre.
Invece lui, in tutta tranquillità, si avvicinò alla ragazza appoggiandosi al stessa ringhiera alla quale lei si stava sorreggendo.
René inizio a ritenerlo un po' fastidioso: con tutto lo spazio libero possibile, doveva proprio starle così appiccicato?
«Irene Cacciatore, immagino.» esclamò poi.
La ragazza sobbalzò e percepì il proprio sangue gelarsi nelle vene. Istintivamente, si allontanò abbastanza da sentirsi al sicuro ma anche da poterlo ascoltare.
«Chi sei tu?» chiese di nuovo sull'attenti. Lanciò un'occhiata anche ai suoi compagni, metri più avanti. Un solo urlo e sarebbero corsi da lei e massacrato quello strano individuo...
«Rilassati, per favore. Non sono in vena di grandi scontri o di uccidere i tuoi amichetti a causa di qualche capriccio. Intesi?» le suggerì con tetra calma, per poi presentarsi spontaneamente: «Mi chiamo Raffaele Marzotto. Faccio parte dei sette Angeli di Apocalisse.» pronunciò. Lentamente si scoprì il colletto, mostrando il marchio impresso a fuoco nella sua pelle, uno che assomigliava molto a quelli ritrovati su Ferragamo e Fendi.
Non c'era dubbio che quell'uomo fosse un loro complice, eppure quel che diceva sembrava non avere senso. Angeli? Apocalisse? Irene non capiva altro oltre ciò che mostrava l'apparenza.
Irrigidendosi pian piano, desiderando potersi avvicinare ai due compagni per assicurarsi una certa sicurezza, René pensò che la cosa migliore fosse assecondarlo, per un po', per estrapolare informazioni importanti.
«Perché me lo hai rivelato? Avresti potuto attaccarmi di sorpresa...»
«Perché tu verrai con me. Dovrai sparire dalla vista della tua squadra per un po', fino al nostro arrivo a Salina. Una volta sull'isola ti condurrò in un altro posto.»
«Stai scherzando, spero?» Irene fu abbastanza sfacciata da soffiargli una risata in faccia, «Mi stai chiedendo di farmi rapire senza lamentarmi. Per quale motivo poi? E per portarmi dove?»
«Fai troppe domande, ragazzina. Fammi indovinare... non hai ancora sviluppato del tutto uno Stand, dico bene? Per cui non sei in grado di fermarmi da sola. Per il resto, conosco gli Stand di tutti i tuoi compagni di squadra. Compresi Aerosmith di Narancia e Moody Blues di Abbacchio, che peraltro non ha un vero potenziale combattivo. Se rifiuterai, inizierò eliminando loro. Vuoi davvero rischiare?» chiese Marzotto audacemente.
A quel punto, Irene si sentì quasi cedere le gambe. Neanche lei era al corrente di quale fosse il nome o il potere dello Stand di Leone, ma non vi era dubbio che il nemico conoscesse bene Narancia. E non avere il favore della sorpresa sarebbe stato un bel guaio: un nemico preparato era sempre più pericoloso di uno che ignora l'abilità altrui. Niente da fare, se avesse agito impulsivamente avvisando gli altri del pericolo avrebbe finito per condannarli a morte. Non aveva idea di quale fosse il potere del nemico.
Non aveva altra scelta. Marzotto non era a conoscenza del forte potere di cui Irene era dotata. O almeno, non sapeva che potesse utilizzarlo ancor prima che si manifestasse fisicamente lo Stand vero e proprio. Certo, non era ancora particolarmente forte e non rispondeva a comando ma, in un modo o nell'altro, la ragazza decise che avrebbe sfidato l'uomo che stava cercando di rapirla con le sue sole forze. Non voleva trascinare in quel rischio nessun altro. Avrebbe almeno dovuto guadagnare un po' di tempo.
«Non ti permetto di far loro del male.» sibilò in una perfetta recita, allontanandosi ancora di qualche passo.
Raffaele la afferrò per un polso. «Ti sei decisa? Mi seguirai senza fare storie?»
«Sì, per adesso. Ma se oserai anche solo sfiorare uno di loro...»
«Questo dipende tutto da te. Sono distratti, vedi? Seguimi adesso senza fare troppe storie.» comandò, facendole segno di muoversi. Lui l'avrebbe seguita senza perderla d'occhio per un singolo istante.
Irene si mosse, non prima di aver lanciato un ultimo sguardo a Narancia e Abbacchio che stavano parlando tra di loro distrattamente, e dirigendosi verso il corridoio destro della nave. Da lì, poi, entrò di nuovo all'interno e venne condotta fino a un ascensore.
«Premi il pulsante del primo piano.» ordinò Marzotto capendo di non poter voltarle le spalle per farlo da sé, «Ma prima copri tutto il tastierino con braccia e busto in maniera tale che non si veda cosa stai premendo. Non fare scherzi o userò il mio Stand contro di te.» la avvisò dopo averle date precise istruzioni.
Irene strinse gli occhi. Perché si preoccupava così tanto? Non c'era nessun altro oltre a loro in quell'ascensore. La nave si divideva in tre piani, eccezion fatta per la cabina del capitano, e loro si trovavano al terzo di questi. Al primo piano non vi erano che macchine parcheggiate e bagni. Da lì si poteva poi prendere le scale per risalire di nuovo.
Raffaele voleva far perdere le sue tracce compiendo vari giri per raggiungere una determinata meta. Ma perché coprire quell'indizio proprio ora?
Lo capì per semplice casualità, un piccolo pensiero che le balenò in mente all'improvviso. Solo Narancia e Abbacchio l'avrebbero cercata una volta notata la sua assenza. Aerosmith non avrebbe mai potuto seguire le sue tracce. Raffaele aveva paura che qualcuno potesse vedere ciò che stava accadendo e che Irene stava facendo. Ma se non temeva l'intervento di Narancia, allora... non restava che Leone.
Si era lasciato sfuggire più del solo nome, a proposito dello Stand dell'ex-poliziotto: questo Moody Blues non era del tutto adatto ai combattimenti. Allora qual era il suo ruolo nella squadra? Che abilità possedeva?
Raffaele conosceva quella capacità. E, di sicuro, aveva paura proprio di essa. Abbacchio era la soluzione a quel problema: solo lui avrebbe potuto seguirla passo dopo passo, ritrovarla e sconfiggere quel nuovo, pericoloso nemico.
Motivo per il quale Irene fece come detto. Pigiò il pulsante. Eppure, un attimo prima che le porte dell'ascensore si chiudessero, si assicurò di facilitare il lavoro al suo alleato.

 

SPAZIO AUTRICE

Questa volta ho impiegato un po' di più a scrivere il capitolo e ho dovuto tagliarlo in maniera tale da inserire più d'una singola scena: la squadra è finalmente partita alla volta dell'isola di Salina ma un nemico ha già fatto la sua comparsa sulla nave, prendendo Irene in ostaggio. Cosa accadrà adesso? L'unica cosa certa è che vedremo finalmente Moody Blues in azione nel prossimo capitolo. Vi ringrazio per la lettura fin qui! Se volete lasciate una recensione e fatemi sapere cosa ne pensate, lo apprezzerei molto. Per adesso vi saluto, Arrivederci!

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Capitolo 11
*** 11. Daysleeper ***


DAYSLEEPER ]

Narancia adorava assillare Abbacchio con domande di ogni tipo. Quella volta non fu tanto diverso. Pensò che fosse una buona idea chiedere curiosità casuali sulle navi e sul mare a un tipo come lui.
«Che vuoi che ne sappia?» rispose lui a un tratto, incrociando le braccia con un movimento lento quanto annoiato. «Facevo il poliziotto, non il comandante su una nave.» sbuffò quindi.
Il più giovane sollevò un sopracciglio.
«Ma anche la polizia ha le navi, no?»
«Quelli sono motoscafi.»
«E quindi tu non hai mai guidato una nave?»
«Non ero nella Marina Militare.» continuò a rispondere lui, seccato. Era piuttosto ovvio, fra l'altro. Nel farlo, si voltò per appoggiare le spalle contro la ringhiera della balconata della nave e assicurarsi che Irene non si fosse allontanata troppo.
Nel frattempo, Narancia continuò a esprimere i suoi dubbi.
«Però non è così diverso, no? E poi non solo la Marina Militare ha le nav-!»
«Narancia!» lo interruppe Leone, irrigidendosi di colpo.
«Cosa? Stavolta è vero!» si lamentò lui.
«No, non parlavo di...! Oh, dannazione, girati e guarda!»
Il giovane fece come chiesto e si rivolse alla balconata. Inutile dire che sbiancò di colpo.
«René... è scomparsa!» realizzò correndo verso il punto in cui si trovava lei fino a poco prima.
Abbacchio scoprì i denti come un cane rabbioso. Desiderò veramente tirare un calcio a qualcosa per sfogare un po' il nervosismo.
«Bruno le aveva detto di non allontanarsi, maledizione!» A grandi passi avanzò, furibondo. «Quando la troveremo mi assicurerò di farle entrare il concetto in quella bella testolina che si ritrova. Non capisce che la situazione è pericolosa?!»
Narancia afferrò la sua manica, bloccandolo. «Abbacchio, aspetta! Non credo che Irene si sia allontanata da sola. Perché mai avrebbe dovuto farlo?» chiese riflettendo, «Fino ad ora non si è mai mossa senza prima avvisarci, persino a casa ha sempre chiesto il permesso per andare al bagno o per dormire, e tutto per non darci alcun tipo di preoccupazione.» continuò poi a spiegare, «Deve esserle successo qualcosa, ne sono certo!»
Abbacchio avrebbe voluto rispondere le rime, tuttavia prese un bel respiro profondo e si calmò.
«Quindi c'è un portatore di Stand nemico sulla nave...» realizzò di colpo. Gli bastò fare qualche rapido calcolo per sapere cosa fosse necessario fare. «Narancia,» chiamò dunque in seguito, «Quando siamo arrivati qui? Quanti minuti fa hai parlato con Irene per l'ultima volta?» domandò rigidamente.
Lui balbettò per un attimo e contò sulle dita delle mani.
«Ecco... cinque o sei minuti fa?» rispose poi, non del tutto sicuro.
Leone annuì. «Lei si trovava qui, ne sono sicuro. Riguarderemo velocemente gli ultimi minuti che abbiamo trascorso qui sulla nave.» annunciò.
Il ragazzino gli lanciò uno sguardo incredulo.
«Stai dicendo che vuoi usare...?» provò a chiedere.
«Non fa troppo piacere neanche a me, ma è l'unico modo che abbiamo.» storse lui le labbra. Un attimo dopo sollevò una mano quando un colpo di vento più forte degli altri sollevò i lunghi capelli alle sue spalle, facendoli fluttuare in aria per qualche secondo. «Moody Blues!» evocò senza esitare oltre.
La sagoma del suo corpo vacillò e si sdoppiò lentamente. Una figura apparve baluginante alle sue spalle, di un colore violaceo, e si allontanò poco a poco rimanendo in piedi fra Leone e Narancia.
Aveva occhi grandi, dalla forma tonda e l'aria impassibile, molto simili agli speaker di una radio per cassette. Non possedeva tratti simili a un naso o una bocca, tuttavia sulla sua fronte era incavato un piccolo timer digitale con delle cifre: "00: 00: 00".
Lo Stand emanò un suono simile a quello di un telefono che squilla in attesa che qualcuno risponda, mentre piccoli glitch attraversavano il suo corpo lucente.
Narancia si grattò con energia la testa.
«Hai sul serio richiamato Moody Blues, Abbacchio?!» esclamò sorpreso.
«Te l'ho detto, è l'unico modo che abbiamo per trovare subito Irene.»
«Ma così non avrai più difese! Se ci fosse un possessore di Stand nemico sulla nave potresti finire nei guai!»
«Lo so benissimo. Ecco perché dovresti iniziare a pregare che quella ragazzina non ci stia facendo solo uno scherzo.»
Presa una boccata d'aria e recuperata la calma, la mano di Leone si mosse rapida verso la ringhiera. L'ordine fu chiaro: il suo Stand occupò lo spazio dove fino a poco prima si trovava la ragazza e, nel giro di qualche secondo, assunse il suo aspetto fisico. Era in tutto e per tutto identico alla vera Irene, eccezion fatta per il timer sulla fronte, che segnava ben cinque minuti di tempo.
Abbacchio ripeté a velocità aumentata alcuni secondi del passato, finché non notò lo sguardo della ragazza, pur essendo solo una replica, mutare di colpo. Sembrava preoccupata.
Narancia notò qualcosa subito dopo.
«Ah! L'hai vista? Ha mosso le labbra!», indicò.
«Stava parlando sottovoce con qualcuno...», analizzò con più attenzione l'ex-poliziotto, avvicinandosi alla copia, «E non era affatto a suo agio. Guardava verso di noi in continuazione.» serrò i denti.
«Merda! Se le hanno fatto del male, io...!», iniziò a surriscaldarsi il più giovane.
Gli occhi di Abbacchio, intanto, notarono un altro dettaglio.
«Quei segni...»
I suoi occhi si puntarono sul braccio della ragazza.
Narancia si sporse per osservare.
«Huh?»
«Guarda il suo polso. La pelle è premuta in maniera anormale. Qualcuno l'ha afferrata per il braccio.»
Non appena Leone ebbe finito di esprimersi, Moody Blues voltò loro le spalle e si diresse altrove, mostrando il percorso che Irene aveva seguito poco prima.
«Non... non sembra che l'abbiano trascinata, però...» commentò poi il ragazzino.
L'altro scosse la testa. «Quell'idiota... l'avranno minacciata per convincerla a seguirli. Non ha pensato di chiamare aiuto, invece? Adesso sta mettendo tutti nei guai.» si lamentò. Subito affondò le mani in tasca e avanzò rapido per seguire il suo Stand. Narancia lo seguì a ruota.
Il percorso non fu lungo: bastò procedere lungo il fianco della nave, entrare all'interno della zona coperta e allontanarsi di qualche metro.
La replica di Irene si arrestò di fronte all'ascensore del terzo piano. Questo si aprì senza che lei premesse alcun tasto. Era ormai certo che fosse scortata e sorvegliata da qualcuno. Il problema risedeva nel non sapere quanti nemici l'avessero allontanata e quali fossero le loro abilità.
«Presto Narancia, chiama l'ascensore!» ordinò frettolosamente Abbacchio.
Il più giovane era il più vicino al pulsante, motivo per il quale eseguì senza fiatare. Il riavvolgimento si arrestò finché non poterono entrare a loro volta nell'ascensore e le porte metalliche si richiusero.
A quel punto Moody Blues si avvicinò al tastierino con i numeri di ciascun piano e il tasto d'emergenza. Mostrò come Irene avesse coperto quel tastierino con il suo stesso corpo dopo essere rimasta ferma per qualche secondo.
«Ah?! Ha coperto tutti i pulsanti?» quasi strillò Narancia, nel panico, «Ma così perderemo troppo tempo a cercarla su ogni altro piano sottostante!»
Abbacchio lo fermò subito sibilando per zittirlo. Indicò poi il viso semicoperto dai capelli della ragazza. Oltre quella sottile tenda di ciuffi rossastri, le labbra erano ben visibili e si mossero per pronunciare qualcosa. Era chiaro che stesse scandendo bene quella singola parola, lettera per lettera, senza dirla a voce alta.
«Aspetta...» Abbacchio si chinò alla sua altezza per osservare meglio e rallentò il replay, ripetendolo tre volte per assicurarsi di comprendere cosa stesse cercando di dire.
«"Primo". Irene ha mimato la parola "primo". Ma come...?» si domandò, sconvolto.
«Quindi sapeva che avremmo osservato il replay, giusto? Non pensavo che conoscesse il segreto del tuo Moody Blues, però...» sottolineò Narancia.
«Perché non lo conosce. Non le ho mai mostrato il mio Stand, neanche una singola volta. Eppure sembra davvero che fosse cosciente del suo potere...»
Leone era incredulo. Premette il pulsante del primo piano e tentò di riflettere. Narancia non sarebbe comunque mai arrivato a una soluzione complessa, la logica non era il suo forte.
«Temo che, chiunque sia il nostro nemico, conosca i nostri Stand. Tieniti pronto, Narancia.» avvisò l'altro una volta dedotta l'ipotesi più sensata.
Lui batté velocemente le palpebre per la sorpresa.
«Ma nessuno, a parte alcuni fidati membri di Passione, sa dei nostri Stand!» si lamentò.
«Allora è probabile che ci sia una spia tra le fila di Passione.»
L'ascensore scese lentamente mentre quella rivelazione faceva tremare Narancia.
La finta Irene uscì dall'ascensore e camminò in silenzio finché non arrivò ai piedi di una scalinata.
«Dobbiamo risalire? Vuoi confondere i miei compagni, dico bene?» pronunciò poi all'improvviso, a voce abbastanza alza da poter essere riprodotta da Moody Blues in maniera impeccabile.
I due alleati aguzzarono vista e udito finché la giovane non riprese a spostarsi.
«Nessuna risposta?» chiese confuso Narancia.
«Il suo interlocutore ha continuato a parlare sottovoce per tutto il tempo, non è un ingenuo. Ma Irene è riuscita a darci degli indizi importanti.»
«E cioè?»
«Primo: chiunque l'abbia rapita l'ha portata di nuovo ai piani alti, per cui non può averla fatta scendere dalla nave con un'imbarcazione. Secondo: il nostro nemico agisce da solo.»
«Oh... giusto... ha rivolto la domanda a una persona soltanto.»
«Ottimo. Così potremo prenderlo a calci in tutta tranquillità...»
I due ricominciarono a salire, seguendo passo per passo ogni spostamento di Irene. Era stata portata in alcuni negozi e aveva acquistato degli oggetti casuali. Il suo rapitore voleva che desse l'impressione di essersi allontanata di sua spontanea volontà, ma il segreto era ormai stato rivelato. Infine si era diretta verso una zona un po' isolata e li aveva lasciato le sue buste.
Nessuno sulla nave, tra i passeggeri, sembrava notare la presenza di Moody Blues. Era impossibile che il nemico fosse uno di loro, o si sarebbe allarmato.
Seguendo lo Stand, dunque, i due raggiunsero uno stanzino.
Era una curiosa sala fumatori che si affacciava su una sorta di balconcino sul fianco del traghetto, uno spazio non troppo grande ma abbastanza da ospitare qualche sedia e un tavolino con vari posacenere già usati.
Abbacchio e Narancia videro Irene entrare là dentro proprio mentre il timer dello Stand stava per raggiungere lo zero. Di conseguenza, quindi, la ragazza doveva trovarsi ancora lì dentro. Si prepararono all'incursione: avrebbero spalancato la porta, ancora chiusa, e sorpreso il nemico. Meglio non utilizzare subito Aerosmith per farlo fuori: forse avrebbe potuto sganciare qualche informazione importante.
Alla conta del tre, la porta si aprì e i due membri di Passione si ritrovarono nello stanzino.
Irene era lì, seduta e imbavagliata con una delle magliette che era stata costretta a comprare a uno dei negozietti sulla nave. Non sembrava agitata ma, quando notò i due amici, spalancò gli occhi ambrati e tentò di raggiungerli.
Un uomo, Marzotto, le sbarrò la strada andando a posizionarsi tra lei e i due compagni.
«Irene!», Narancia si sentì sollevato nel constatare che non le fosse stato fatto del male, ma presto la rabbia lo pervase: desiderava poter spaccare la faccia di quell'idiota che le aveva messo le mani addosso per trascinarla fin lì. Era comunque una sua cara amica, ormai!
Abbacchio squadrò la ragazza: sembrava stare bene, grazie al cielo. Adesso, però, andava liberata. E per farlo avrebbe dovuto fare molto, molto male a quel nemico.
«E così siete arrivati fin qui grazie a Moody Blues, eh? Quindi questa piccola bugiarda vi ha lasciato degli indizi senza che me ne accorgessi...» sospirò quest'ultimo, incrociando le braccia.
Irene parve quasi ringhiare sotto al suo bavaglio. Era alquanto nervosa, seppur contenta di essere riuscita ad attirare fin lì i suoi amici senza allarmare tutti gli altri.
Narancia stava per avanzare ma la mano di Abbacchio lo afferrò per la spalla sinistra, impedendoglielo.
«Lasciala andare immediatamente e spiegaci come fai a conoscere i nostri Stand,» minacciò lui con tono grave, «e magari non ti calpesterò fino a farti implorare pietà.»
Il labbro di Marzotto si sollevò in una smorfia.
«Dato che ho intenzione di uccidervi, sarò generoso e risponderò alla tua domanda. Facevo parte di una squadra di Passione, prima di unirmi ad Apocalisse.»
«Apocalisse? E che roba sarebbe?» continuò l'altro.
Raffaele fece schioccare la lingua. «Non hai bisogno di saperlo.»
Abbacchio lo fissò truce.
«Comunque sia, l'aver fatto parte di Passione in passato non è una valida ragione. Nessuno di cui non sappiamo già conosce i nostri Stand.»
«Forse... o forse no.» Marzotto sollevò le spalle. «Curioso, non trovate? Di sicuro non sto mentendo, conosco davvero le vostre abilità. Avete considerato l'idea che mi sia stato riferito da qualcuno?»
Quella domanda scosse entrambi. Narancia tentennò e si avvicinò all'amico.
«Cosa... cosa sta dicendo questo idiota, Abbacchio?» domandò insicuro.
«Solo un mucchio di fesserie.» gli venne risposto.
Marzotto si fece una breve risata.
«Non è un mio problema se non mi credete. Ma... sbaglio o siete già stati traditi da qualcuno della vostra squadra in passato?»
Anche Irene, che non poteva fare altro che ascoltare, drizzò le orecchie.
«Questo non è vero!» ribatté il più piccolo, «Siamo uniti come una vera famiglia! Nessuno fra noi tradirebbe l'altro!»
«Ah sì?» lo interrogò il nemico, «E ditemi... non vi preoccupa sapere cosa abbia fatto il vostro amico, Pannacotta Fugo, dopo aver lasciato la vostra squadra mesi fa?»
Narancia strabuzzò gli occhi, Leone mostrò un ghigno disgustato.
«Bastardo...» lo insultò l'ex-poliziotto, comprendendo le sue intenzioni.
Il compagno, invece, gli puntò un dito contro.
«Stronzate!» gli gridò in faccia, furioso come mai Irene l'aveva visto, «Fugo è un nostro carissimo amico! Non ci ha mai traditi, neanche dopo aver abbandonato la squadra! Ha solo preso una decisione!»
Irene non era a conoscenza degli eventi accaduti all'interno della squadra Bucciarati l'anno prima, quando avevano mosso guerra al Boss di Passione per sovvertire le sue leggi e salvare sua figlia Trish, ma quel che Marzotto stava dicendo non le piaceva affatto.
«Sei davvero un ingenuo, ragazzino. A quanto pare ti sei fidato troppo di lui...»
«Smettila! Basta, maledizione!» strillò ancora lui, «Non mi spingerai a dubitare di Fugo, questo mai! Ti faccio a pezzi, razza di-»
Non terminò neanche la frase, sostituendo il colorito termine finale con un urlo frustrato e gettandosi addosso a lui. Era così arrabbiato che non utilizzò Aerosmith per attaccare, ma si gettò lui stesso sull'avversario e lo trascinò a terra.
«Narancia! Fermo!» provò ad avvisarlo l'amico, invano.
«Ti distruggo! Ti distruggo!» urlò lui furente mentre lo ricopriva di pugni. Marzotto si limitava a ripararsi con gomiti e mani, ma gli venne assestato qualche colpo anche in pieno viso o sulla gola. Il suo naso sanguinava.
Poi, all'improvviso, la figura del nemico si sdoppiò. Tutti, a parte l'aggressore, compresero che Raffaele aveva richiamato il suo Stand.
Questo si sollevò dal petto del suo portatore e prese posto alle sue spalle: sembrava un vecchio uomo incappucciato dalla schiena un po' ricurva. Il viso era ulteriormente nascosto da una visiera semitrasparente, attraverso la quale si intravedevano gli occhi, simili a due brillanti luci laser rosse che sfumavano ai contorni. Non aveva labbra né orecchie, e il busto era piuttosto spoglio e compatto, così fino ai piedi, che presentavano un puntino rosso su ognuno come unica peculiarità. Curiose erano invece le mani: di colore nero come il cappuccio, quasi come se fossero coperte da guanti, avevano i palmi bucati da strani cerchi spenti che pian piano presero a brillare di una luce dorata. Il cappuccio alle sue spalle, anche se dall'aria pesante, andava a trasformarsi in uno strumento simile a una frusta che quasi sfiorava il terreno e che ricordava molto la coda di cavallo del portatore.
Irene percepì il pericolo e provò a urlare ma ottenne come risultato solo un vago mugolio. Si gettò istintivamente in avanti ma dimenticò le maglie legate che tenevano strette le sue caviglie a scivolò a terra, impotente, mentre Leone si lanciava verso Narancia per tirarlo indietro. Purtroppo non fece in tempo.
«Daysleeper!» chiamò il nemico, mentre il suo Stand emetteva un suono simile a quello di un fucile laser futuristico che carica energia prima di sparare il suo colpo.
Il suo spirito si gettò in avanti, afferrò Narancia per le spalle e premette i palmi contro il suo corpo.
«C-cos..?» provò a dire Narancia, sentendosi strano.
Tutto inutile: non ebbe neanche il tempo di realizzare quanto accaduto. I palmi riversarono in lui qualcosa che gli fece spalancare bocca e occhi: da essi uscì la stessa intensa luce che si era formata al centro delle mani. Con un grido e quello stesso suono simile a un laser, Narancia venne spedito indietro e investì in pieno Abbacchio. I due volarono via con tanta forza da colpire e piegare la porta della stanza.
Irene provò di nuovo a gridare mentre Marzotto si rialzava e il suo Stand tornava composto davanti a lui.
Leone dovette riprendersi dal colpo, confuso dall'intenso dolore alla schiena. Si ritrovò Narancia addosso, riverso sulle gambe e privo di sensi. Dal suo corpo sembrava provenire un sottile fumo grigio e un vago odore di bruciato.
«Narancia!» gridò, sollevandolo immediatamente con le proprie braccia e mettendo due dita sulla sua gola. «Grazie al Cielo... c'è ancora battito...» respirò con affanno. Un attimo dopo si volse a fronteggiare l'avversario. «Cosa gli hai fatto, bastardo?!» gli gridò contro indicandolo.
Marzotto rise di gusto. Non fu difficile notare come, pian piano, le sue ferire e ammaccature scomparvero. Tornò come nuovo, eccezion fatta per il sangue perso e per la polvere finita sui suoi vestiti e nei suoi capelli, che andò a sistemare con un passaggio delle mani ben curate.
«Lasciate che vi presenti Daysleeper...» introdusse il suo Stand senza troppi complimenti. «La presenza di Narancia mi preoccupava, devo essere sincero. Vedete, Daysleeper ha il potere di assorbire qualsiasi danno fisico da me ricevuto e di incanalare l'energia dell'attacco stesso dentro di sé, per poi riversarla direttamente nel corpo dell'avversario al singolo tocco, portandolo al sovraccarico. Nei casi più gravi, se l'energia è troppa per un solo corpo, quest'ultimo potrebbe persino esplodere... consideratevi fortunati.»
Abbacchio non poté che emettere un singolo "tsk" preoccupato, prendendo in braccio Narancia con un po'di fatica a causa del corpo indolenzito e poggiandolo sui sedili della saletta. Ormai il ragazzo era fuori combattimento.
«Il mio Stand non può assorbire attacchi se non attraverso un diretto contatto fisico. Aerosmith avrebbe potuto crivellarlo di colpi senza alcun problema, per questo mi sono assicurato di occuparmi prima di lui.» sorrise vittorioso. «Leone Abbacchio... sbaglio o il tuo Moody Blues non ha alcuna abilità utile al combattimento? Puoi solo sfidarmi in un corpo a corpo, che peccato...» lo derise.
Leone iniziò a sudare freddo. Quel maledetto idiota aveva ragione. L'unico potere del suo Stand era quello di visualizzare un replay di un qualsiasi momento temporaneo al mondo, anche i più lontani, e non aveva modo di sfruttarlo per un attacco. La questione stava diventando sempre più complicata.
Marzotto si avvicinò a lui, infastidendolo con un piede.
«Avanti, amico, non ti va proprio di colpirmi?» continuò a provocarlo.
Lui si rialzò, guardandolo con uno sguardo carico d'odio.
«Pezzo di...»
«Ah? Come come?» Marzotto mise una mano a cono davanti all'orecchio, «Continui a insultarmi nonostante tutto? Che maleducato... forse per vendicarmi dovrei tornare a prendermela con Narancia?»
Mosse un passo verso di lui.
Leone non poté trattenersi.
Il suo pugno si abbattè sullo zigomo di Raffaele con forza inaudita, spedendolo dall'altro lato della sala. Persino le sue nocche iniziarono a sanguinare.
Daysleeper gli apparve accanto, aggrappandosi alla sua spalla sinistra, e scaricò l'energia dell'attacco contro di essa. Il braccio dell'ex-poliziotto cadde inanimato mentre lui finiva in ginocchio, urlando.
Marzotto si rialzò: la sua mascella era mostruosamente scomposta ma tornò automaticamente al suo stato originale mentre lui si lamentava. Sputò persino un molare, imprecando.
«Non hai un minimo briciolo di intelligenza in quel tuo cervelletto da scimmione?» gridò massaggiandosi la guancia, «Razza di idiota! Te lo ripeterò per l'ultima volta: se mi colpisci ti renderò l'attacco con la stessa potenza! Che dolore...»
Irene capì che doveva fare qualcosa. Non poteva stare semplicemente ferma a guardare mentre Leone si faceva massacrare da un nemico che non poteva colpire senza ricevere in cambio un danno uguale.
Sapendo che Raffaele era troppo concentrato sul nemico a lui di fronte, individuò un posacenere quadrato di vetro nel tavolino di fronte. Lo tirò a sé con i polsi e attutì la sua caduta con i piedi, per poi schiacciarlo sotto le scarpe senza fare troppo rumore. A quel punto tenne fermo il pezzo più grande con il piede e si piegò, iniziando a sfregare la stoffa della maglia che le legava i polsi contro il lato tagliente della scheggia. Fortuna volle che la qualità della maglia fosse piuttosto scadente: il tessuto si tagliò con facilità e finalmente le sue mani furono libere. Senza fiatare si slegò il bavaglio intorno alla bocca, prendendo fiato fino a fondo, e iniziò a ragionare in fretta. Neanche Leone si era accorto dei suoi movimenti.
Come poteva aiutare senza saltare alla gola del nemico e rischiare di essere sovraccaricata d'energia? Per non parlare del fatto che avrebbe potuto raccogliere l'energia dei colpi di entrambi per poi riversarla unicamente su Abbacchio, uccidendolo in un modo orribile.
Poi le venne in mente un'idea, come una lucina in mezzo al buio più totale.
Afferrò la maglietta che aveva attorno al collo come bavaglio e la stese a terra alle spalle di Marzotto, per poi adocchiare una bottiglia d'acqua lasciata lì vicino da qualche passeggero un po' troppo menefreghista o distratto. Prima di versarla sulla maglia asciutta, la tocco con l'intero palmo della mano.
"Ti prego... ti prego funziona..." sperò stringendo i denti.
Non sapeva ancora come controllare il suo Stand. Avrebbe fatto quel che voleva? Agito come chiedeva lei? O l'avrebbe ignorata?
Sbatté le palpebre, incredula, quando vide una mano scura separarsi dalla sua e toccare il tessuto.
"È... È lui!" avrebbe voluto urlare, ma così avrebbe rovinato il suo piano. Pensò all'ordine da impartirgli e sorrise quando notò la stoffa, sotto le dita del suo Stand, indurirsi e assumere un colore più grigio e lucido.
Intanto Raffaele prese a infastidire di nuovo Abbacchio con altri insulti.
Leone si rialzò, testardo e coraggioso, degno del nome che portava.
Bruno gli aveva impartito un ordine: proteggere e vegliare su Narancia e Irene. Chissà perché, sembrava avere a cuore quella ragazza, anche se la conosceva da un tempo relativamente breve. Aveva visto in lei lo stesso sguardo che aveva avuto lui un tempo: quello dell'abbandono, della solitudine e della disperazione. Uno sguardo privo di futuro.
Aveva sempre voluto proteggerla. E lui avrebbe rispettato il suo desiderio.
Anche perché, nel profondo del suo cuore, in realtà Abbacchio provava un'emozione strana nei confronti della nuova arrivata in squadra. Avrebbe voluto detestarla: a causa sua erano di nuovo finiti in un guaio più grande di loro, ma che comunque li vedeva di nuovo uniti contro un nemico comune, come una vera famiglia. Era stato il primo a conoscerla, quando l'aveva arrestata... forse in una vita diversa, dato che gli sembrava così lontana. E lei gli aveva ispirato fiducia, forse anche un po' di pietà. Gli era sembrata una ragazza così sola, così triste. Doveva ammetterlo: stava iniziando ad affezionarsi a lei, il che non gli piaceva affatto, ma non poteva non cercare di proteggerla, anche se tendeva a comportarsi in maniera così brusca.
Doveva attaccare. Doveva mettere in gioco la sua vita per poterle permettere di scappare.
«Credi che mi importi di finire ridotto a brandelli?» sbraitò audacemente in faccia al nemico, «Quel che mi interessa è spaccarti la faccia. Ti pesterò così tanto che nemmeno il tuo Daysleeper riuscirà a incanalare così tanta energia e a rimetterti a posto.» giurò.
Prima che Marzotto potesse ridere, spostarsi o spaventarsi, prese una rincorsa e gli finì addosso, spintonandolo con forza e colpendolo con una gomitata alle costole.
Raffaele non si preoccupò: pensava di poter assorbire il colpo, ma poi...
Mentre indietreggiava scivolò su qualcosa.
Abbassò rapidamente gli occhi per vedere di cosa si trattasse e li strabuzzò, sconvolto:
Una lastra di acciaio galvanizzato a forma di maglietta e ricoperta d'acqua. Irene si era liberata da ogni bavaglio e aveva creato un vero e proprio scivolo, degno di un acquapark.
La ragazza era al suo fianco e sorrideva vittoriosa. Qualcosa baluginò alle sue spalle, un viso scuro, con dei grandi occhi intimidatori, ma scomparve subito.
Irene si affrettò ad arrestare la corsa di Leone con un braccio mentre Raffaele cadeva all'indietro, sfondando la porta di vetro e finendo sul balconcino della nave. Sarebbe presto caduto oltre la ringhiera, molto vicina.
Eppure, all'ultimo secondo, afferrò il braccio di Irene e la trascinò con sé.
Marzotto inciampò contro il corrimano e cadde nel vuoto, Irene subito dietro di lui. Fortunatamente la ragazza ebbe i riflessi pronti e afferrò la sbarra più bassa della ringhiera bianca, che tuttavia era molto scivolosa a causa della salsedine.
Raffaele stava per precipitare, ma si aggrappò saldamente alla caviglia di Irene, facendole così un male tremendo.
Il peso dell'uomo adulto era fin troppo da sopportare per lei, che non aveva molta forza nelle braccia ed era una ragazza abbastanza magra. Sarebbe caduta a sua volta, se Abbacchio non si fosse gettato sul balconcino acciuffando per un soffio il suo polso con entrambe le mani.
Era salva, per il momento, ma si sentiva strappare in due per il dolore: Leone la tirava dall'alto, e il peso di Raffaele dal basso. La gravità era sua nemica in quel momento.
Certo, neanche per Abbacchio, fisicamente forse il più forte e muscoloso di tutta la squadra, fu facile sopportare il peso di due persone adulte con la sola forza delle mani. Quando stava per scivolare, si sedette a terra e piantò due piedi contro le sbarre di metallo fissate sul pavimento.
Raffaele, più un basso, si dimenava per la preoccupazione. Avevano lasciato il porto da più di un'ora ed erano già in alto mare da un po'. Se fosse caduto nessuno l'avrebbe visto a causa del buio o sentito a causa del rumore delle onde e della nave eccetto loro due, che di sicuro non avrebbero perso tempo a gettare un salvagente in acqua per aiutarlo. Raggiungere la costa sarebbe potuta essere un'impresa troppo ardua e, con il mare tanto mosso come quella notte, forse sarebbe persino annegato prima di riuscirci.
Abbacchio lo maledisse senza parlargli, rivolgendosi invece a Irene che cercava di resistere ma era chiaramente terrorizzata. Aveva paura del mare, che non conosceva, e non aveva alcuna intenzione di morire in quel modo.
«Reggiti!» urlò Leone per farsi sentire, «Riusciró a tirarti su, non mollare la presa e prova a sollevarti verso di me!»
Irene strinse le palpebre. Aveva una paura tremenda. Si ripromise di non guardare in basso o le sarebbe venuto un infarto come minimo.
«Tiratemi su! Tiratemi su, maledizione!» urlava intanto Marzotto più in basso.
La ragazza pensò di provare a trasformarlo in piombo per farlo cadere, ma dimenticò presto l'idea: se lo avesse fatto davvero, il nemico avrebbe trascinato lei, e forse anche Leone, nelle profondità del Mar Tirreno.
Abbacchio richiamò Moody Blues. La sua mano lucente e violacea afferrò una delle spalle del portatore, l'altra si strinse al muro della porta che dava sul balcone fino ad ammaccarlo e affondare le dita nella roccia. Solo a quel punto ebbe la forza sufficiente a tirare verso di sé entrambi. In breve afferrò Irene per le spalle, poi per la vita, e la trascinò con quanta più forza possibile.
La ragazza fece del suo meglio per rimanere immobile e non rendere il tutto ancora più difficile, ma Marzotto continuava a muoversi e a rischiare di farli precipitare.
Quando Irene fu abbastanza in alto, poggiò a sua volta il piede contro il palo della ringhiera e si gettò a terra, fra le braccia del compagno per paura di scivolare di nuovo nel vuoto.
Lui la sollevò con il proprio Stand e la portò al sicuro sulla balconata.
Raffaele mollò finalmente la sua caviglia per reggersi alla ringhiera, ma ancora non riusciva a sollevarsi.
Quando sollevò la testa, notò solo gli occhi gialli e furenti di Abbacchio che lo squadravano con odio e superiorità.
Provò a evocare il suo Stand alle sue spalle, ma quando si materializzò Moody Blues lo sorprese, bloccandogli le mani dietro la schiena.
Raffaele divenne incredibilmente più simpatico a quel punto.
«Eh... eheh... Abbacchio, amico!» sudò freddo, «Che... che ne diresti di dimenticare i rancori e di aiutarmi? L'ho fatto solo perché mi è stato ordinato!»
«Ah davvero? Vuoi che ti aiuti? Allora comincia a dirmi chi, di preciso, ti ha ordinato di rapire Irene.»
«I- io non ho mai incontrato il capo, no! E neanche i superiori! Faccio parte di un'organizzazione di nome Apocalisse e il boss, quello che noi chiamiamo Padre, si fa chiamare Arcangelo!» soffiò subito la verità.
Irene, che stava riprendendo fiato, sentì una strana sensazione investirla.
"Arcangelo..." si ripetè, come se dovesse conoscere quel nome.
«Ma... ma io non so di preciso né cosa voglia né dove si trovi! L'unica cosa che so per certo è che due miei compagni sono a Salina, in attesa! Io mi sono arruolato solo per il denaro che Arcangelo mi ha offerto!» giurò ancora.
Abbacchio sollevò un sopracciglio e piegò le labbra tinte di viola scuro.
«Tutto qui?» domandò con tono carico di disappunto.
«Non so altro, lo giuro!»
«Be', non è molto.» sbuffò lui, «Non abbastanza da farti perdonare, questo è certo. Stavo pensando a un modo per farti ancora più male prima di gettarti in acqua.»
Raffaele rabbrividì.
«Mi prendi in giro, idiota?!» tornò a offenderlo, «Non potresti comunque colpirmi, te l'ho detto e ripetuto!»
«Daysleeper può assimilare colpi fisici, giusto? Ad esempio calci, pugni, gomitate... cose del genere, no?»
«Per l'ultima volta, sì!»
«Ma non assorbe l'energia di altri tipi di colpi...»
«No, e quindi?! Non hai comunque modo di ferirmi!»
«Tu dici?» Abbacchio indicò la sua mano, legata intorno alla sbarra di ferro. «Io scommetto di sì...»
Con un movimento rapido, tirò il suo anulare e lo piegò in maniera innaturale fino a fargli toccare il dorso della mano. Fu un gesto così brusco da fratturare subito l'osso.
Raffaele gridò e imprecò ancora.
«Ma tu guarda... a quanto pare funziona. Non è un colpo, se mi limito a tirare qualche dito. Quale sarà il prossimo che romperò?»
«No!!! Ti prego, fermati o cadrò!!!»
«Dovrebbe interessarmi?»
Con incredibile naturalezza, tirò indietro anche il mignolo e lo ruppe. Un altro grido, e Marzotto iniziò a perdere la presa attorno all'appiglio.
«Basta! Basta!»
«Avresti dovuto pensarci due volte, prima di ridurre Narancia in quello stato. Questo era da parte sua.»
Irene si avvicinò ai due, toccando la mano di Marzotto con calma, quasi in maniera delicata.
«Ah! Irene!!!» la chiamò Marzotto, quasi tra le lacrime di gioia, «Vuoi aiutarmi, vero? Aiutami a risalire, prometto che non vi recherò altri fastidi in futuro!»
La ragazza lo osservò rabbiosa.
«Aiutarti?» pronunciò disgustata, «Aiutare un vigliacco della peggior specie come te? Preferirei camminare scalza sui carboni ardenti.» commentò.
«Ma... ma allora... cosa stai...?» le chiese lui, di nuovo disperato.
«Volevo farti un regalo, per ringraziarti di avermi rapita e di aver ferito i miei amici, cosa credi?» rispose lei sarcastica, «Il tuo bracciale è molto bello. Ma quanto peserebbe se fosse fatto di piombo?»
Non appena gli pose la domanda, il bracciale di Raffaele Marzotto iniziò a diventare di metallo.
«No... no, no, no!» iniziò a gridare il malcapitato.
«Spiacente, "amico". Ti è andata male questa volta!»
Sia Abbacchio che la ragazza gli sorrisero, vittoriosi.
«Arrivederci.» esclamarono all'unisono.
Un attimo dopo Leone colpì con una pedata la mano dell'avversario. Le sue dita si aprirono inevitabilmente e lui cadde rapido verso l'acqua, urlando terrorizzato, e sparendo poi tra le onde mentre il traghetto avanzava veloce, lasciandolo indietro.
Il bracciale di piombo avrebbe fatto il suo dovere: difficile da togliere, lo avrebbe fatto sprofondare pian piano per un po'. Gli sarebbe servita molta fortuna per sopravvivere.

[ 6 maggio 2002. Raffaele Marzotto, Stand: Daysleeper ... Ritirato. ]

I due Stand scomparvero.
Irene e Leone si lasciarono cadere per un po' sul pavimento della balconata, sfiniti per la battaglia. Nessuno di loro due fiatò, ma il rumore del respiro affannato riusciva a coprire anche quello del mare e del motore della nave.
«Ma voi malavitosi non avete mai un momento di pace?» chiese Irene coprendosi la faccia.
«A quanto pare no.» si lamentò Abbacchio.
La ragazza si mise a sedere, sicura che non avrebbe più preso una nave per un bel po'. Preferiva decisamente di più restare sulla terraferma.
Aveva davvero rischiato molto, ma più di tutto l'aveva sorpresa l'altruismo di Leone, che l'aveva salvata un attimo primo che precipitasse fra le onde. Credeva che lui la odiasse, o comunque di starle decisamente antipatica, ma dovette ricredersi. Non solo era stata aiutata, Abbacchio era anche stato molto gentile e l'aveva incoraggiata, promettendole che non l'avrebbe lasciata cadere.
Un po' come era accaduto durante il loro primo incontro, quando si era preoccupato per lei.
«Ehy, Abbacchio...»
«Cosa c'è?»
«Grazie. Sul serio.»
«Tsk.» sbuffò l'uomo, tentando di rimettersi in piedi. «Bucciarati mi ha chiesto di badare a voi e così ho fatto. Adesso non montarti la testa, novellina...»
Era tornato a nascondersi dietro quella maschera da uomo burbero e maligno, pur avendo in realtà un cuore d'oro.
Irene lo aveva capito, e per questo sorrise, alzandosi a sua volta.
«Anche se credo che ci strangolerà quando ci vedrà ridotti così.» sospirò ancora Leone, continuando il discorso precedente. «Avanti, recuperiamo Narancia e torniamo dagli altri. Abbiamo molto da riferire.»
Aveva proprio ragione. Adesso sapevano con chi avevano a che fare, almeno in parte.
Arcangelo era il nome di colui che stava tirando i fili di Apocalisse, la nuova organizzazione criminale che aveva mosso guerra a Passione.
Arcangelo era il nome dell'uomo che Irene, prima o poi, avrebbe dovuto affrontare.

[ * * * ]

- spazio autrice -
Salve a tutti! Chiedo scusa se ho impiegato un po' più del solito a scrivere questo capitolo, ma ho voluto postare una one-shot il 16 aprile e mi ha portato via un po' di tempo.
In questo capitolo abbiamo lo scontro con Raffaele Marzotto e il suo Daysleeper, nonché una rivelazione molto importante. Salina è molto vicina e lì i nostri eroi dovranno affrontare nuovi pericoli. Inoltre pare che nella squadra vi sia un traditore, sarà vero?
Questo lo scopriremo nel prossimo capitolo, che spero di pubblicare il prima possibile. Per adesso vi lascio, augurandovi una splendida settimana e tanta serenità in questo periodo difficile. Arrivederci!

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