Ombre di Ambra

di EvrenAll
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ringraziamenti ***
Capitolo 2: *** Mappa di Egalen ***
Capitolo 3: *** Bacio di Luna ***
Capitolo 4: *** Conoscenze ***
Capitolo 5: *** Invito ***
Capitolo 6: *** Passaggio ***
Capitolo 7: *** Oner ***
Capitolo 8: *** Blackout ***



Capitolo 1
*** Ringraziamenti ***


Ringraziamenti

 






«Esce tutto così»

«Esce tutto in che senso?» 

«Che tu mi fai una domanda e scateni 'ste cose... Così, senza pensarci, esce tutto come un fiume...» 

«È bello, così ^^» 

«Sono un pozzo di storie!» 

«Tesoro, dovremmo scrivere un libro xD»

 

 

 

 

 

A chi mi ha spronato nella mia folle impresa, nonostante i miei ritardi e nonostante dovesse essere il mio Progetto Segreto. 

Sai che senza di te non esisterebbe niente di questo.

 

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Capitolo 2
*** Mappa di Egalen ***


Egalen


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Capitolo 3
*** Bacio di Luna ***


1

Bacio di Luna



I raggi dell'ultimo quarto di luna oltrepassavano le finestre penetrando tra i varchi lasciati dalle pesanti tende di velluto. Giocavano con angoli e pertugi creando ombre e dipingendo delicati chiaroscuri sui mobili di legno. Agevolata da quella lieve luce, Elettra si muoveva veloce nei corridoi schivando scrivanie e scaffali: da ormai diversi anni la famiglia Ronat aveva messo a disposizione degli studiosi dell'Accademia la sua fornita biblioteca e si era operata per offrire alle giovani promesse un ambiente ottimale in cui perseverare con le loro ricerche. 

Ad Elettra non erano mai interessati i libri, e si trovava a guardare con perplessità i cumuli di tomi posati sui tavoli senza alcun criterio apparente. Non capiva l'ostinazione di alcuni uomini nel passare la loro vita chini a leggere, trasformando in una gobba la schiena che era stata donata loro sana e dritta. 

Geografia di Egalen, Erbe e Fiori, Libro dei Morti II... 

Rallentò il passo, cercando una risposta alla sua domanda nei titoli dei volumi. Aprì la copertina del primo, imbattendosi in una mappa dettagliata della sua terra. 

La catena di Ashaos tracciava un confine netto con i terreni del Sud, isolando i territori del Duinan quasi completamente. Le avevano raccontato che i nani avevano scelto quelle montagne come dimora ancora prima che gli uomini popolassero la terra, prima che diventassero talmente numerosi da essere convinti di averne il dominio.

Accarezzò il familiare fiume seguendone il corso con le dita fino alla foce, a Sud del porto di Gal'Duin. 

Di certo quel libro era molto più utile rispetto alla Guida alla comunità elfica di Ramos

Scosse la testa raggiungendo la sua meta. 

La difficoltà del lavoro si prospettava minima. Ken Ronat era sì un personaggio di spicco della loro modesta città, un mecenate buono, preciso ed affamato del sapere che gli altri avrebbero potuto regalargli, ma non era abbastanza importante da necessitare di particolari protezioni nella sua dimora, non per custodire il singolo pezzo di carta dal dubbio valore che lei stava cercando. 

Si chinò quel che bastava per allineare il suo sguardo con il buco della serratura del grosso portone di mogano che le sbarrava la strada. Un buio perfetto si stagliava al di là del piccolo foro in cui andava inserita la chiave. Non c'era nessuno oltre a lei. 

Morse il labbro inferiore cercando di inquadrare il tipo di chiusura che aveva davanti, quindi, prima di estrarre i suoi attrezzi, esercitò una lieve pressione sulla maniglia. 

Il pezzo di ferro si inclinò senza esitazione seguendo il movimento delle sue dita.

«Troppo facile» bisbigliò tra sé, spingendo la porta quanto bastava per infilarsi nel nuovo ambiente. 

Un odore penetrante le riempì i polmoni in pochi istanti, facendole pizzicare il naso. La stanza sapeva di aria chiusa e polvere, come fosse un cimitero di carta. 

Appoggiò la porta alle proprie spalle lasciandosi avvolgere dall'aroma. Se qualcuno avesse avuto la perversa idea di entrare nella biblioteca a notte fonda, osservando l'apertura dall'esterno non avrebbe avuto nessuna ragione di credere che ci fosse qualcun altro già impegnato a consultare manoscritti nello studio del proprietario. 

Elettra soffiò verso l'alto per scacciare un ciuffo di capelli dai propri occhi, cercando nel contempo con la destra la familiare forma del ciondolo che portava al collo. Estrasse il cristallo trasparente e bisbigliò una singola parola: il materiale si illuminò debolmente, permettendo agli occhi della ragazza di distinguere le forme del mobilio che arredava la stanza. 

Non era un cimitero, ma un piccolo e riservato mausoleo. Raccoglitori e documenti vecchi e nuovi riempivano gli scaffali fino a nascondere le pareti dietro di esse, sulla destra alcune teche di vetro riparavano dalla polvere i volumi più preziosi, aperti per mostrare sorprendenti capolettera decorati in foglia d'oro. 

Facendo solo pochi passi la ladra si trovò al cospetto di una scrivania di legno massiccio. L'ordine perfetto presente su di essa faceva a pugni con la caoticità dell'ambiente che si era appena lasciata alle spalle. 

Elettra si diresse dall'altro capo del tavolo e si sedette sulla pesante sedia imbottita continuando a guardare ciò che la circondava. La cura della stanza le suggeriva che il proprietario avesse una personalità metodica e decisa: se il documento che cercava non era già stato riposto insieme agli altri, allora avrebbe dovuto trovarsi in uno dei cassetti alla sua sinistra, alla diretta portata del padrone. 

Con uno sbuffo annoiato aprì il primo dei tre vani ed iniziò a controllare meccanicamente ognuna delle buste e delle pergamene al suo interno. La missiva che cercava era stata marchiata con il sigillo degli Arborei e quello della città da cui era partita, Mirzam: avrebbe dovuto cercare due V intersecate circondate da un anello discontinuo e un fiore aperto e rigoglioso, di cui aveva sempre fatto fatica a ricordare il nome nonostante il suo amore per l'erboristeria. 

Non le era dato sapere cosa racchiudesse quel foglio. La Gilda dava ordini senza aspettarsi domande. Obbedendo ai doveri che aveva nei suoi confronti, lei non ne faceva, ma ricercava le risposte per se stessa. 

Il solo fatto di aver mandato lei a svolgere un compito così futile accendeva la sua curiosità: che fosse davvero una ricetta di farmacia o che celasse altre informazioni al suo interno? Da quello che sapeva i Ronat non avevano nulla da nascondere, niente traffici illegali, nessuna merce peculiare in grado di attirare l'attenzione. 

Trovò quello che cercava all'interno del secondo cassetto. 

Saldamente legata da un nastro verde e sigillata dal timbro di cera con l'effigie del fior di Maero, la missiva sembrava essere composta di molti fogli e recare al suo interno uno spessore anomalo rispetto a quello utilizzato di norma per non far perdere forma al rotolo. Fece scorrere uno degli angoli tra le dita rivelando sei pagine ben accostate tra loro e, dopo aver tastato ancora la consistenza del materiale, provò ad annusarlo. 

Subito la pervase un forse senso di nausea ed un conato di vomitò minacciò di salirle fino in gola. 

«Per Noreg...» sussurrò malapena, nascondendolo nella tasca interna del proprio mantello e tappandosi la bocca con il palmo della mano per non tossire. Era acre, talmente dolce da darle allo stomaco e con il retrogusto di fieno lasciato seccare al sole. 

Aspettò qualche attimo sperando che l'olezzo si fosse dissolto nell'aria confondendosi con l'odore della stanza. Portò le dita al naso assicurandosi che su di esse non fossero rimaste tracce del fetore e gonfiò le guance, stizzita: o la Gilda si era improvvisamente rammollita o si stava divertendo alle sue spalle. 

Fosse dipeso da lei, la spilla che anche in quel momento era appuntata sul bavero del suo mantello sarebbe stata svuotata del suo significato: lavorare senza gratifiche iniziava a stancarla. Aveva accettato quel compito per imposizione anche se avrebbe preferito occuparsi dei propri affari in completa autonomia e dedicarsi prevalentemente a missioni datale da privati, ma ciò non era quello che la Gilda voleva: una volta presa parte alla sua schiera di adepti devozione ed obbedienza erano un obbligo ed anche il tentativo di svincolarsi da quel rigido sistema chiedendo libertà al suo maestro per ovviare alla monotonia crescente dei suoi compiti si era rivelato vano. Nonostante la presa si fosse allentata, doveva recarsi da lui per farsi assegnare almeno una missione ogni tre settimane. 

Strinse le labbra, seccata dai suoi stessi pensieri, cercando di rimettere a fuoco la sua determinazione. 

Non era così lontana dalla prima meta che le avrebbe ufficialmente consentito maggiore libertà di azione e maggior rilievo. Edward gliel'aveva detto chiaramente mentre spiegava le direttive a cui avrebbe dovuto sottostare fintanto che sarebbe stata sua: le avevano messo gli occhi addosso e lui era la prima persona a cui si sarebbero rivolti per avere riscontro delle sue capacità. 

Non poteva permettersi di sgarrare. 

Insieme lusingata ed intimorita, Elettra aveva sentito per la prima volta il fiato della Gilda sul proprio collo. Umido, caldo e troppo, troppo vicino. Del resto, loro erano le Cappe Nere; un nome, una garanzia. 

Nelle città più popolose della regione i suoi componenti si muovevano agili confondendosi con le ombre e mantenendo il loro anonimato sotto il sole. Alcuni di loro erano facili da individuare: vedette incaricate di gestire le trattazioni con chi poteva permettersi di richiedere un loro servizio, spie girovaghe che apparivano laddove l'illegalità era all'ordine del giorno, confuse tra contrabbandieri e ladri in un mercato nero che la giustizia non era ancora riuscita a debellare. Informatori, raccoglitori, collezionisti di incarichi, quindi quelli come lei, che svolgevano le missioni raccolte ed erano abbastanza in gamba da poter osare dedicandosi ad opere sempre più elaborate. Il tutto covando la speranza di farsi notare ed essere scelti dalla Gilda. Salire di grado, arricchirsi in denaro e prestigio. La selezione era aiutata dalla giustizia perché come per un procedimento naturale chi non era in grado di nascondere i propri crimini pagava con il carcere, o peggio, con la vita. 

Elettra doveva aver impressionato il consiglio grazie alla testardaggine che la faceva tendere verso l'alto nonostante il pesante muro che la Gilda stessa aveva eletto per tutelarsi, ma non era ancora abbastanza. Giorni, settimane... molto tempo era passato dalla velata promessa di Edward. Non era successo nulla ed Elettra aveva iniziato ad essere stanca di aspettare. 

Nessuno tra gli uomini allo stesso livello di Elettra sapeva esattamente quando o come avvenisse il Passaggio e nessuno sapeva con certezza chi fosse riuscito ad attraversare quel confine. Le poche conferme arrivavano quando alcuni dei migliori smettevano di frequentare la Sala, iniziavano a dedicarsi alla cura di nuove reclute diventando a loro volta Maestri o più semplicemente sparivano. I loro veri compiti annegavano nella nebbia, ma per quanto fossero diversi una cosa era certa: Passaggio o no si finiva sempre a vivere per la Gilda, lavorare per la Gilda, morire, tradire, uccidere, essere per la Gilda. 

Una parola simile alla precedente decretò la fine dell'incantesimo. Mentre la luce si affievoliva Elettra ebbe il tempo di tornare all'ingresso della stanza. Dischiudendo la porta riscoprì il flebile chiarore lunare di cui si era servita per svicolare all'interno della casa. 

Osservò ancora l'ambiente attorno a sé per accertarsi di avere la via libera. La colpiva come lo studio fosse stato situato in una zona priva di vie d'accesso dirette verso l'esterno, ma cercare di comprendere le motivazioni alla base dell'architettura della villa le sembrava essere solamente uno spreco di tempo. Probabilmente si trattava di un rimasuglio di un vecchio rifugio o magazzino, ora adibito ad un uso alternativo. 

Dopo aver chiuso il battente alle sue spalle, quando i suoi occhi si furono abituati alla poca luce abbastanza da distinguere l'ambiente circostante si guardò indietro, appurando di non aver lasciato traccia del suo passaggio. Rassicurata, iniziò a camminare, percorrendo il suo itinerario in senso contrario. 

Uscì dalla biblioteca introducendosi nel corridoio che legava quella stanza all'ala Orientale della villa. Lì avrebbero dovuto trovarsi le stanze da notte della famiglia ed i monili dell'unica aristocratica presente: Eva Porldreg in Ronat, nuora di Ken.

Quale sarebbe stato il rischio di avventurarsi in quel luogo ed effettuare la sua fuga proprio dalla camera nuziale, magari dopo una breve ispezione? 

Tentennò, indecisa. Forse la domanda giusta da porsi sarebbe stata: il guadagno valeva il rischio? 

La ladra si accostò alla parete, confondendosi nell'ombra di una delle porte di servizio mentre il barlume aranciato di una torcia ed alcuni tonfi ritmici annunciavano plateali il passaggio di una guardia. 

Il suono fastidioso del metallo contro la pietra si interruppe, sostituito da quello di un profondo sbadiglio. Affacciandosi dalla sua posizione Elettra non riusciva a vedere l'uomo, ma solo la sagoma che la luce portava con sé, proiettata sull'arredo. Si era fermato poco dopo il punto in cui la linearità del corridoio veniva interrotta da una curva a gomito. La ladra si mordicchiò le labbra sovrappensiero. Ricordava la forma ad U dell'edificio: se la guardia aveva deciso di concedersi una pausa esattamente a metà del passaggio centrale, davanti alla scalinata, allora la strada di accesso al secondo piano dell'ala Est, e all'oro che le faceva gola, era bloccata. O per lo meno lo era quella interna. 

Espirò in silenzio, prendendo l'inevitabile decisione. 

Passando da un vano all'altro, arrivò all'unica finestra in vista: quella alla fine del corridoio Occidentale, la stessa da cui era entrata. Gettò un'occhiata al fondo del cunicolo dove l'unico tremore presente era ancora quello della leggera danza che il fuoco stava conducendo sulla pista d'olio, ed allora aprì gli infissi. Senza doverle forzare, le ante si dischiusero verso l'interno sotto la guida delle sue mani, permettendole di avere lo spazio sufficiente per posizionarsi sul davanzale e calarsi da esso. 

Fece scorrere i piedi sulla parete fino a che non furono appoggiati sul marcapiano. Si spostò verso destra e ringraziò in silenzio i ricchi per le loro assurde manie di decorare all'inverosimile gli edifici di cui venivano in possesso perché attraverso quei pochi millimetri di pietra in più creavano dei gradini parecchio utili per chiunque avesse voluto compiere lavori simili ai suoi e fosse bravo almeno la metà. Ci avrebbe pensato l'oscurità a proteggerla dalla vista delle guardie di ronda lungo le strade ed il giardino: il buio era il suo ambiente, il rifugio sicuro in cui nessuno l'avrebbe trovata a meno che lei non l'avesse voluto, uno dei pochi amici a cui riusciva ad affidarsi completamente, forse l'unico oltre ad Alice e Diane. 

Erano altre le ombre che temeva. 

Nel giro di qualche minuto la ragazza riuscì ad issarsi sull'edificio fino a raggiungere il davanzale della finestra del secondo piano e si rannicchiò sulla piccola superficie. Strinse i denti, massaggiando le braccia per sciogliere la tensione dei muscoli mentre analizzava la situazione ed i percorsi invisibili offerti dalla parete. 

Vittima di una sbadataggine da principianti fece l'errore di fissare lo sguardo a terra abbastanza a lungo da essere percorsa da un brivido di vertigine. Essere a quasi una decina di metri di altezza e non avere alcun modo di salvarsi da una eventuale caduta la stava preoccupando più del solito. Chiuse gli occhi, dando la colpa ad un incidente accaduto il mese precedente: una presa falsa l'aveva fatta precipitare e solo un groviglio di cespugli le aveva impedito di farsi davvero male, frenandola prima che potesse toccare il suolo. Grey l'aveva presa in giro per una settimana e lei aveva ancora il sospetto che fosse stato proprio lui a manomettere il muro, la pietra o perfino le sue stesse mani con la magia che non ammetteva di usare. 

Scosse la testa recuperando la calma e si focalizzò sul suo obbiettivo: camera padronale. Soldi. 

Sfidò di nuovo la sorte scivolando addosso alle pareti più scure per percorrere dall'esterno il corridoio Occidentale. Raggiunta quella che doveva essere la finestra della prima stanza dell'ala Ovest, la scassinò infilandosi di nuovo nell'oscurità ovattata della casa. 

Si morse le labbra con forza, impedendosi di urlare per un'improvvisa fitta al piede. Lo sollevò e si chinò cercando di raccogliere qualsiasi cosa fosse riuscita a piantarsi con tale forza nella suola dei suoi stivali. 

Aveva trovato la stanza dei giochi. 

Imprecò sottovoce, tirando lontano dalla sua strada il modellino metallico raffigurante un soldato. L'oggetto tintinnò contro il pavimento per qualche secondo, rompendo il silenzio, quindi si fermò contro la parete. Aveva considerato solo il pregio di portare calzature dalla suola sottile quando le aveva indossate quella sera: buona aderenza alle pareti, ottima per l'arrampicarsi tra le case senza scivolare. Ora ne aveva ricordato i difetti. 

Attraversati con cautela i metri che la separavano dall'uscio, si affacciò al corridoio e lo percorse fino ad individuare la stanza padronale.

La porta era solo appoggiata. 

Fece scorrere le dita sullo stipite osservando dalla sottile fessurai i corpi dei coniugi sdraiati a letto, avvolti dalle coperte. Svicolò all'interno, dirigendosi verso il mobile con specchiera su cui erano disposti alcuni dei portagioie della signora. Scosse la testa, fingendo disappunto per l'ingenuità dimostrata dai proprietari e ne sollevò uno per verificarne il peso. 

Infilò una mano tra i capelli, recuperando tra essi una forcina metallica. Forzò il piccolo lucchetto senza fatica ed estrasse dal cofanetto un completo di perle ed un anello, infilandoli nella sacca assicurata alla sua cintura. Accompagnò il coperchio durante la chiusura in modo che non emettesse il tipico suono di schiocco dato dallo scatto. 

Era stato facile e noioso, ma non era pentita della sua scelta: la madreperla valeva diverse monete d'argento a pezzo ed avrebbe tenuto l'anello per rivenderlo in futuro, garantendosi cibo e sostentamento ancora per qualche tempo se la ricompensa della missione non fosse bastata a saziare la sua brama. 

Quando si ruba per vivere la finanza non è così complicata. Se si è abbastanza bravi basta allungare la mano per esaudire gran parte dei propri desideri; una volta accumulata una sufficiente quantità di ricchezze si può arrivare ad avere tutto. 

Elettra non puntava ad avere tutto, ma stava tenendo da parte denaro da qualche tempo per migliorare il suo arsenale: aveva in progetto di spendere gran parte della sua fortuna per comprare un gioiello dal potere particolarmente utile per chi, come lei, cercava riparo dalla luce. L'accordo era già stato steso qualche settimana prima: lo stesso fabbro che si occupava della manutenzione di Alice e Diane le avrebbe forgiato un anello che le avrebbe permesso di diventare invisibile per qualche minuto. Il mago con l'incarico di infondere l'incantesimo era stato chiaro sul prezzo e il valore di un manufatto di quella specie. Elettra era riuscita ad accumulare la somma indicata già da due settimane, ma preferiva comunque tutelarsi. Avere con sé perle e pietre ancora da vendere sarebbe stata una piccola garanzia. 

Uscì dalla villa nello stesso modo in cui era entrata e svicolò tra le siepi del giardino giocando a nascondino con le loro ombre. 

La luna ancora la guardava, ormai bassa all'orizzonte, guidandola a suo modo lungo le vie della città che iniziava a risvegliarsi.


 

* * *


 

Entrò nella stanza di Edward senza bussare. Il giorno stesso in cui lui le aveva assegnato quella banale missione l'aveva avvisato: gli avrebbe consegnato quello che chiedeva prima della terza alba a partire dal loro incontro. 

Memore della sua puntualità, l'uomo non si era fatto sorprendere. Immerso tra carte dai contenuti imprecisati ed affiancato da un logoro pugnale, Edward la stava aspettando anche se il sole doveva ancora iniziare a sorgere. 

Aveva lasciato la porta aperta in modo da percepire il suo arrivo. 

«Buongiorno» salutò la ragazza spostando lateralmente il foglio che stava consultando. 

«Tieni» gli appoggiò davanti agli occhi la pergamena arrotolata che aveva recuperato. La carta era visibilmente più scura di quella che stava maneggiando il suo vecchio maestro: il colore doveva essere associato alla provenienza o al materiale stesso con cui era stata realizzata. A Mirzam dovevano essere abituati a quel tanfo. 

Edward allungò la destra fino a prenderla e ruppe senza remore il sigillo in ceralacca, percorrendo con lo sguardo il contenuto della prima facciata. 

«Brava ragazza» ricompose la confezione e si alzò, dirigendosi verso il mobile di legno dall'altra parte della stanza. 

Elettra sbuffò, impaziente, cacciando uno sguardo sprezzante in direzione del corridoio. 

«Si sono proprio sprecati a darmi questo incarico» 

«Avevano bisogno di qualcuno disposto a fare il lavoro velocemente. Tu non eri impegnata» 

«Ho solo ritardato un viaggio importante, nulla di che» mosse una mano rapidamente come per scacciare una mosca fastidiosa da sotto il proprio naso. Non si stava impegnando a fingere di essere di buon umore. 

Mosse qualche passo nella direzione del suo maestro. 

Conosceva Edward da anni. Era l'uomo a cui doveva i principi del suo addestramento e l'ammissione alle Cappe Nere. Salvandola dalla penosa vita che conduceva al suo villaggio natio, aveva sfruttato il potenziale intravisto nelle sue imprese da furfante per condurla su una nuova via. Elettra aveva dimenticato la mediocrità ed aveva imparato a combattere con le sue lame e a sfruttare la naturale capacità di non essere notata che aveva tanto odiato da bambina. Nel suo periodo di noviziato aveva lavorato parecchio insieme ad Alice e Diane, le sue sorelle d'acciaio, impratichendosi fino a maneggiarle con la stessa disinvoltura con cui muoveva le proprie dita. Erano diventate un'estensione delle sue mani, strumento perfetto da affiancare al suo silenzio ed alla sua agilità. 

Convinta che così facendo avrebbe imparato ad essere la donna che voleva diventare, sconfiggendo l'impaccio che aveva sempre avuto nei confronti del suo corpo, aveva inoltre concesso ad Edward tutta sé stessa. Anche se non aveva funzionato ed era rimasta incapace di approfittare dell'aspetto per agevolarsi nel suo mestiere, aveva approfittato del debole del suo maestro per rubargli ogni singola goccia di sapere. 

Una volta resasi conto che all'interno del mondo che stava scoprendo lui non era né il più bravo, né il più importante era stata lei stessa a rompere quell'indefinita relazione di carne. Aveva preso da lui tutto quello che poteva, l'ammirazione nei suoi confronti si era spenta e, stanca di giocare, si era dedicata per alcuni anni alle più svariate missioni per crescere ancora e trovare da sola la strada per migliorare. 

Nonostante la differenza del loro rango, nel momento in cui aveva formalmente chiesto ad Edward l'indipendenza dai suoi ordini e aveva ottenuto la massima libertà che la Gilda era disposta a concedere, aveva avuto l'implicita conferma di essere diventata sua pari. 

«Che hai per le mani?» 

Lo guardò aprire uno dei cassetti e spostare lentamente qualche recipiente. Qualche filo biancastro si mimetizzava tra i capelli biondicci pettinati all'indietro, rivelando come il tempo stesse passando anche per lui. 

«Nulla che ti riguarda. Commissioni, personali e per la Gilda. Ho intenzione di divertirmi più di quanto abbia fatto stanotte» 

Edward rise a bassa voce, voltandosi verso di lei. 

«L'ambizione rischia di essere controproducente» 

Edward percorse i pochi metri che li separavano affrontando il suo sguardo determinato, quindi tornò a sedersi, mettendo tra di loro la lunghezza del tavolo di noce su cui stava lavorando. Stringeva tra le mani un piccolo sacchetto, chiuso con uno spago grigio e consumato. 

«Soprattutto quando è accompagnata dalla clemenza» 

Le labbra della giovane si piegarono in una smorfia seccata. Edward faceva di nuovo riferimento alle vite che aveva risparmiato nelle ultime missioni che aveva svolto per conto della Gilda, ma lei si era già spiegata: non le piacevano le morti inutili. 

«Stai cercando di spaventarmi?» 

Edward alzò le spalle continuando a guardarla. 

«No» rigirò tra le dita la piccola borsa di stoffa che racchiudeva la ricompensa della ladra. 

«Però cerca di usare cautela» gliela lanciò con un gesto rapido. Elettra afferrò il pacchetto con un tintinnio e lo aprì per verificarne il contenuto. 

«Quando passeremo al platino?» 

«Quando l'oro diventerà troppo ingombrante» 

«Quattro monete in tutto, Ed» alzò il sopracciglio chiaramente contrariata. 

«Che ti aspettavi? Era un pezzo di carta» La ragazza storse la bocca e nascose il piccolo premio direttamente nel corpetto dell'armatura, abbandonando il sacchetto sul tavolo. 

«C'è altro?» 

Edward seguì le dita della ladra, indugiando un attimo di troppo sul modo con cui la pelle soda si era modellata seguendo la loro lieve pressione. Ad Elettra non sfuggì la sua occhiata fugace. Il maestro si era affezionato un po' troppo all'allieva durante l'addestramento, ed ora ne subiva le conseguenze. 

«Potrei avere una missione per te» 

L'uomo rialzò lo sguardo, scontrandosi con quello furbo della giovane. Sul fondo dei suoi occhi scuri era apparsa una traccia di quella stessa luce che aveva scoperto ed imparato a conoscere anni prima. 

«Genere?» 

La smorfia di compassione che l'accompagnava lo fece sentire deriso, come le poche altre volte in cui aveva provato ad avvicinarla di nuovo, venendo rifiutato ancora, ancora ed ancora. Era colpa sua: era lui ad averla amata.

Scosse la testa, leggermente spazientito, iniziando ad illustrare la sua proposta. 

«Potrebbe esserci bisogno di un infiltrato alla corte di Esghildar» 

«Se c'è bisogno di recitare la parte della serva per mesi solo per dei pettegolezzi di palazzo, non credo di volermi intromettere. Dà l'impressione di essere una vera noia e, come accennavo, ho altro da fare» alzò le mani ed appiattì la stoffa del mantello sulle spalle mettendo a fuoco qualcosa dietro la schiena di Edward. 

«Ti consiglio di tenere comunque gli occhi aperti, se giri da quelle parti» 

«C'è da tenere gli occhi aperti ovunque», sottolineò la ragazza con ovvietà, «Ora, se non ti dispiace, vorrei congedarmi» sollevò il cappuccio fino a nascondere il bruno della sua capigliatura. Gli rivolse un sorriso e parlò senza dargli l'opportunità di ribattere alla sua richiesta. 

«Ossequi, maestro» lo salutò con un inchino improvvisato, quindi si voltò e lasciò rapidamente il piccolo studio. 

«Piccola maledetta» commentò a messa voce il biondo, cercando di rilassarsi ed appoggiandosi all'indietro sullo schienale della sedia. 

L'aveva viziata e questo era il risultato: una criminale sfrontata libera da ognuna delle catene con cui aveva tentato di domarla. Gliele aveva rigettate addosso, ma nemmeno lui aveva intenzione di lasciarsi intrappolare. 

Si riscosse, riprendendo tra le mani le pagine scomposte: scostò l'angolo di uno dei fogli, rivelando incastrati tra di essi dei veli ancora più sottili. Tra di essi, disposti ordinatamente, fiori di Ilyen secchi e pressati, spiccavano rossastri, diffondendo nell'ambiente il loro profumo dolciastro ed intenso. Storse le labbra, insoddisfatto, interrogandosi sulle scelte degli alti ranghi: perché l'avevano mandata a rubare dei fiori? 

Ricompose la missiva avvolgendo tra loro i fogli di pergamena e la infilò in una delle tasche del suo abito. 

Avrebbe eseguito gli ordini, come sempre. 

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Capitolo 4
*** Conoscenze ***


2

Conoscenze



Non appena l'ebbe visto, Elettra smise di girare a vuoto. Si appoggiò alla parete di pietra alla sua sinistra tenendo le braccia incrociate ed iniziò a fissare il mezzelfo, rimanendo in attesa. 

Le voci della città le impedivano di distinguere le parole che stava scambiando con la giovane cameriera de La Tana: un flusso intermittente di gente passava tra di loro, ostruendo in parte anche la vista. Caotica e calorosa, Nerish era la città più popolata della regione di Egalen e la temperatura mite che annunciava l'arrivo imminente dell'estate faceva riversare ancora più gente all'esterno delle case. 

Picchiettò le dita sul braccio ed afferrò un lembo della maglia di mithril che portava nascosta sotto il corpetto giocando con i piccoli anelli di metallo mentre un paio di guardie sfilavano davanti a lei con ostentata sicurezza. Sembrava esserci un'aria diversa dall'ultima volta in cui aveva visitato Nerish: era piena di chiacchiere, le strade erano continuamente sferzate dai movimenti dei cittadini indaffarati. C'era meno paura. 

Se avesse alzato gli occhi, Elettra avrebbe visto le impalcature di legno e ferro svettare oltre il confine dettato dai tetti delle case e scoperto che il cambiamento non era solo una sua sensazione. Zarog Kane stava riuscendo laddove suo padre aveva fallito. Invece di rimanere indifferente alla città egli si era imposto subito, facendo sentire la propria presenza ed occupandosi del proprio popolo: la fiducia nei suoi confronti si era accresciuta, così come quella nei provvedimenti che stava prendendo all'interno della capitale. 

La ricostruzione della torre Nord della cinta interna ne era la prova tangente. 

Tornò con i pensieri al mezzelfo, ancora piacevolmente impegnato a conversare. La ragazzina, dimentica dei suoi incarichi, reggeva tra le mani una scopa di saggina e sorrideva come una sciocca, affascinata dalla parlantina del suo interlocutore. Si guardò attorno per un attimo prima di alzarsi sulle punte dei piedi e rispondere ad una delle sue domande bisbigliandogli all'orecchio. 

Uno scuro battito d'ala distrasse Elettra da quella scena: un corvo nero come l'inchiostro era planato fino a raggiungere l'insegna sopra la testa di Aaron e la fissava insistentemente. La ladra sorrise. Ad un suo piccolo cenno il volatile si alzò, avvicinandosi ed appollaiandosi sul braccio che lei aveva teso nella sua direzione. 

«Nero» lo salutò, sfiorando il piumaggio del suo corpo in una lieve carezza. L'uccello inclinò la testa e volò ancora verso l'alto, sparendo tra le case. 

Dopo averlo perso di vista, Elettra si staccò dalla parete iniziando ad avanzare verso la locanda. Aaron congedò la giovane lasciandole un breve bacio sulla mano e si separò da lei, camminando fino a raggiungere la ladra. 

«Ciao Elettra» 

«Il tuo compagno è più cortese di te» gli rinfacciò, sorridendo tra sé e stringendo la mano che il mezzelfo le stava porgendo in una presa salda. 

«Nero è un gentiluomo. Allora: che abbiamo oggi?» fermò per un attimo lo sguardo sulla cameriera che ancora lo sbirciava svolgendo il suo lavoro. Elettra ignorò il suo sbuffo senza temporeggiare. 

«Aggiornami. Città, affari e mercato» 

Aaron si rivolse finalmente a lei e sollevò il cappuccio sul viso. 

«Niente di specifico?»

«Le domande specifiche arriveranno al momento opportuno» 

«Ci spostiamo in piazza Harlot nel frattempo» 

La vista dell'uomo si fermò nel vuoto. Sembrò per un attimo perdere il filo del loro discorso per seguirne un altro, a miglia di distanza, mentre i suoi piedi si muovevano in un rodato automatismo. 

Solo una volta messa una discreta distanza dalla locanda, abbassò la stoffa lasciando adagiare il cappuccio sulle spalle. Una sfumatura scura aveva sostituito il rosso dei suoi capelli come se sul suo capo fosse stata proiettata un'intensa ombra. La punta delle sue orecchie aveva assunto una forma più acuta e la carnagione si era fatta pallida, rivelando l'aspetto che Elettra conosceva come veritiero. La teoria della giovane era che nelle sue vene ci fosse più sangue esotico di quello che lui affermava di avere. 

Aaron portò un ciuffo di capelli dietro l'orecchio iniziando a camminare. 

«Ti avevo già parlato del nostro collega. Dopo quello spiacevole episodio non c'è stato altro di particolarmente interessante in città. Qualche altro arresto, ma nulla di importante e nulla a che fare con la Gilda. Dopo la retata e la cattura di Galor siamo rimasti in pochi stabili in città» 

Elettra lo seguiva attraverso le vie della capitale ascoltando in silenzio. 

«Del resto l'abbondanza di guardie scoraggerebbe chiunque» imboccò la via del mercato consentendo alla ragazza di stare al passo con lui senza difficoltà. 

«Quasi chiunque» si corresse, lanciandole un'occhiata complice. 

«Il tuo amico, il conte Gorshin, avrebbe piacere a ricevere ancora un paio di ampolle di quello che gli hai portato l'ultima volta» 

«Hai idea del perché?» intervenne, interrompendolo. 

«Nero mi ha riferito che è stato avvicinato da qualcuno, ma non ho ancora nessun nome» 

Un membro del consiglio coinvolto in scambio di ingredienti così particolari in quantità così cospicue era quantomeno sospetto. Si trattava di una rara droga fabbricata dall'altra parte del golfo di Esano che era abituata a maneggiare: la mescolava in piccole dosi con estratto di passiflora e valeriana per ottenere un potente sonnifero. 

«Il resto dei tuoi clienti abituali è silenzioso, ed il clima non è dei migliori nemmeno per fartene avere di nuovi. Credo che la gente tema un'improvvisa rappresaglia legale. Con un controllo o poco più rischierebbero il processo e a nessuno piacciono i provvedimenti di Zarog. A differenza del vecchio Thymal riesce a rendere vero tutto quello che dice, e con la piccola rivoluzione effettuata tra i capi di guardia e l'abbassamento delle tasse per l'esporto di merci in città ha creato un piccolo paradiso per la gente onesta» 

Aaron proseguì svoltando sulla destra: la piazza del mercato era colma più di quanto Elettra avesse mai potuto vedere nella sua vita, e non era nemmeno la più grande della città. Come era riuscito ad arrivare a questo nel giro di soli pochi mesi? Da quanto tempo non visitava Nerish durante il giorno? 

«Confido che nel giro di un mese gli altri si rendano conto che questa baraonda è un ambiente ancora migliore per fare quello che devono fare» l'uomo camminò tra le bancarelle fino a raggiungere la fontana nel centro della piazza ed Elettra lo seguì, stranita dall'anomala confusione. 

«Mereg aspetta fremente le duecentocinquanta monete d'oro che gli hai promesso» 

«Ovviamente» Elettra annuì, stringendo le labbra, ritornando a concentrarsi sui suoi affari. Nonostante fosse un prezzo di favore, quell'oro era comunque tanto. 

«È il miglior artigiano della città, ragazzina. Per lo meno hai la garanzia che la merce sia buona» 

Il mezzelfo alzò le spalle, appoggiandosi al bordo di marmo. 

«Non hai mai visto duecentocinquanta monete d'oro tutte insieme, vero?» 

«Sfortunatamente no»

«Allora non puoi capire» Il suono della risata della ladra fu interrotto dall'urto di un bambino sulle sue gambe. 

Ricominciò a correre, urlando ai suoi amici senza nemmeno far caso al suo gesto sbadato. 

La smorfia divertita di Aaron si acuì mentre Elettra tornava a guardarlo. 

«Problemi?» 

«È divertente» stese un braccio all'indietro, sfiorando la superficie dell'acqua con le dita. 

«Ti sei irrigidita» alzò il braccio verso l'alto intercettando il volo di Nero. Lo abbassò lasciando che il volatile cambiasse posizione e si appoggiasse alla sua spalla. 

«Non ti piacciono i bambini, Elettra?» gli accarezzò la testa con le dita, lisciando le piume arruffate. 

«Sei un ottimo osservatore» affermò Elettra con cautela, sfilando la propria borraccia dalla borsa e sporgendosi quanto bastava da riempirla con acqua fresca direttamente da uno dei rubinetti della fontana. 

«Dove trovo il conte?» 

Aaron la guardò chiudere il recipiente ed infilarlo al suo posto velocemente. Nero gracchiò al suo orecchio e strinse le zampe sulla stoffa: avevano fretta. 

«Solito posto, subito dopo il tramonto» 

Si rizzò in piedi rivolgendo alla giovane un discreto sorriso. Elettra scosse la testa disapprovando la sua esplicita soddisfazione ed estrasse un piccolo sacchetto dallo zaino prima di chiuderlo. 

«Sono troppo gentile» 

«Mi piace fare affari con te» Aaron accettò il sacchetto di buon grado, soddisfatto che l'accordo con la giovane volgesse ancora a suo vantaggio: dieci monete d'argento per una breve chiacchierata, più un eventuale bonus che lei poteva concedergli come esortazione a rimanere in silenzio sul suo conto. 

Appoggiò una mano sulla spalla della ragazza prima che questa tornasse ad occuparsi delle sue faccende. 

«Ultima cosa: Grey è in città» 

Elettra si fermò, valutando l'utilità di qualche parola in più. Aaron come al solito aveva aspettato di essere pagato per rivelargli un ultimo piccolo interessante dettaglio. 

Si arrese, tornando a guardarlo. 

«Sai in cosa è impegnato?» 

L'uomo le porse la mano rivolgendola all'insù. Elettra sbuffò, scavò nelle tasche del mantello e, presa una moneta d'argento, la posò sul suo palmo. 

«Cerca qualcuno» 

Ne aggiunse un'altra, seccata dall'espressione di Aaron. 

«Un certo John, non ricordo...» alla terza, la memoria del mezzelfo si fece chiara. 

«John Knight, giusto! A quanto pare è avvenuto uno screzio in famiglia: non erediterà lo zio ma il nipote... Sai come vanno queste cose» alzò le spalle. 

«Si paga per affrettare la successione» concluse Elettra con sufficienza. 

«Esatto, esatto» 

Sbrigativamente, Aaron allacciò il nuovo sacchetto di monete alla cintura. 

«Sempre piacevole parlare con te» ribadì, udendo il tintinnio dell'argento. 

«Va' al diavolo, Aaron» 

Gli diede le spalle lasciandolo sghignazzare per conto suo. 

«Buona permanenza, Elettra» 

La giovane alzò una mano senza voltarsi: questa volta avrebbe dovuto accontentarsi di quel semplice gesto di saluto.

 

* * *

 

Elettra fece finta di nulla mentre il giovane uomo varcava la soglia della locanda e si dirigeva al bancone senza notarla. 

Coperto da un mantello leggero, il suo abbigliamento non era meno elegante del solito: sotto la stoffa scura si intravedevano gli sbuffi delle maniche di una camicia bianca ed il caldo marrone della sua armatura di pelle borchiata. La polvere sugli stivali e sull'orlo della cappa tradiva una giornata di lavoro tra le vie sterrate della città: aveva camminato parecchio. Niente cavallo, quindi? 

La ragazza sorrise. Era sicura che odiasse quella mancanza nel suo perfetto modo di agire tanto quanto le ombre chiare che la terra aveva lasciato sui suoi vestiti. 

Distraeva la locandiera dal chiedergli subito il conto comportandosi come il nobile che non era, togliendo dalle mani guanti scuri di velluto. Afferrò con grazia il bicchiere di vino che gli avevano portato e ne saggiò l'odore prima di bere il primo sorso. 

Le sue labbra si socchiusero lasciando scorrere il nettare sulla lingua e nella gola. Le dita, prima serrate fermamente sul vetro, si rilassarono mentre appoggiava il calice alla tavola. Le strinse a pugno per un attimo dopo aver abbandonato il bicchiere, quindi le riportò al viso accarezzandone la pelle. 

Non portava la barba, Grey. 

Era perfetto in modo ossessivo. 

Incrociati i suoi occhi scuri, Elettra sorrise appoggiando il mento al dorso delle proprie mani intrecciate. Grey recuperò il vino e la raggiunse riservandole un piccolo inchino come saluto. 

«Elettra» 

«Grey» 

Prese posto davanti a lei scostando il mantello in modo che non gli fosse d'intralcio. 

«Gira voce di una tua anomala disponibilità economica» 

Diritto al punto. Ascoltandolo, Elettra si chiese se la frusta che portava allacciata al fianco fosse stata usata quello stesso giorno.

«Sarebbe un vero peccato se tutto l'oro che porti con te sparisse» continuò, facendo ondeggiare il calice e cercando un'esitazione nelle sue iridi. 

«Sarebbe un vero peccato se Yuri Knight ricevesse una soffiata» ribatté la ragazza, sciogliendo l'intrico di dita per svelare a Grey la sua espressione soddisfatta. 

I loro sorrisi di circostanza si trasformarono in complicità dichiarando una momentanea tregua. 

«Posso offrirti del vino?» il giovane alzò una mano richiamando l'attenzione della cameriera. 

Davanti allo sguardo perplesso di Elettra, ordinò un calice di una bevanda dal nome impronunciabile e la congedò. 

«Tu sai che non bevo, vero?» 

«Me ne dimentico sempre» mentì Grey, adagiandosi sulla sedia e gustando un sorso del liquido ambrato che aveva nel bicchiere. 

«Duecentocinquanta, allora» 

Elettra rise, non troppo sorpresa della sua testardaggine nell'avere informazioni riguardo a soldi che non fossero suoi. 

«Li ho già spesi, non ti angustiare troppo» 

«Non sono così disperato da dover rubare dei soldi a te. Mi interessa sapere dove li hai spesi, anche se credo di avere una mezza idea a riguardo» 

Le fece un occhiolino, osservandola fino a dove il tavolo glielo permetteva. La cameriera appoggiò il nuovo calice, pieno a metà di vino rosso, davanti alle mani di Elettra. Quest'ultima continuò a parlare con Grey, ignorandola. 

«Quanto ti darà Lord Knight per il tuo piccolo lavoro?» 

«Abbastanza» 

«Gilda?» 

«Privato» sorrise, sbieco. Non avrebbe dovuto dividere il compenso con nessuno.

Elettra si ritirò sulla sedia, incrociando le braccia al petto: l'avrebbe tempestato di domande se il suo orgoglio non le avesse tenuto ferma la lingua. Aveva conosciuto Grey anni prima, durante una missione nello stretto di Rishu in cui era stata costretta a rivolgersi a lui per ottenere informazioni fondamentali ai suoi scopi. Rotto il ghiaccio quel contatto si era trasformato in un'arcigna rivalità, infervorata dai commenti pungenti di Grey e dalla voglia che la ragazzina aveva di mostrarsi migliore di lui. 

In pochi mesi gli incarichi di Elettra erano cresciuti di importanza, fornendo ad entrambi inaspettati scenari in cui provare a sfidarsi e vincere. Lavoravano sporadicamente nelle stesse città incrociandosi, deridendosi; due mani non bastavano a contare le occasioni in cui le loro direttive si erano intrecciate ed ognuno aveva dato il peggio di sé per ostacolare l'altro. Era diventato un passatempo ed entrambi avevano potuto osservare la crescita delle abilità e dell'acume dell'altro. Giocavano a raggiungere i loro limiti e a superarli. 

Elettra era diventata brava, ma ciò non era abbastanza. Piccole frecciatine del suo rivale le avevano fatto capire che Grey aveva compiuto il Passaggio pochi mesi dopo la loro conoscenza. 

Lei era rimasta indietro. 

Lei era inferiore, non sapeva nulla dell'altra parte della Gilda e fare domande l'avrebbe solo resa ancora più patetica. 

«Sarò via per qualche tempo, poi. Niente giochetti e niente vino elfico» 

«Ne morirai» Elettra sospirò, arresa di fronte ai suoi vizi, sfiorando con le dita il bordo del calice di fronte a lei. 

«Come è certo che respiro» terminò il bicchiere in un sorso, si sporse verso di lei e le afferrò la mano in una presa salda da cui Elettra non poté ritirarsi. 

«Duecentocinquanta per un anello d'argento?» lo strofinò appena con il pollice, osservandone la fattura. 

«Credo di preferire quello incastonato di galena», aggiunse, «Anche se la semplicità colpisce sempre» 

La ladra strappò la mano dalle sue rigirando l'anello al dito. 

«Idiota, non è l'aspetto» 

«È anche quello: utile e dilettevole» la sfidò con uno sguardo, osservando soddisfatto il modo in cui si era ritratta a quel breve contatto. L'avrebbe negato fino alla morte, ma la distanza che lei imponeva naturalmente lo provocava quasi più del suo aspetto. 

Era bella, Elettra. 

«Idiota» 

La sottile maglia di mithril che si intravedeva appena sotto il corpetto di cuoio nero era separata dalla sua pelle solo da una semplice casacca chiara di cui poteva scorgere l'orlo; aveva abbandonato il mantello sullo schienale della panca, senza dare importanza a quello che la gente avrebbe pensato di una pellegrina in armatura. 

I capelli corvini che aveva sempre visto raccolti sul suo capo erano sciolti: cadevano morbidi lungo la sua schiena e si appoggiavano ai suoi abiti raggiungendo e superando l'altezza del seno. Qualche ciuffo le nascondeva il viso, creando un forte contrasto con la pelle pallida di chi, come lei, era abituata a mestieri molto diversi da quelli da svolgere sotto il sole. 

Sghignazzò apertamente, fissandola. I suoi occhi scuri gli nascondevano un mondo, rimanendo inchiodati nei suoi, stizziti per quello che si era permesso di fare. 

Era bella, sì, ma dannatamente incapace di sfruttare quella dote per il suo lavoro criminale. Non sembrava essere in grado di allacciare con nessuno una relazione che superasse la fredda e inespressiva diplomazia propria di un rapporto lavorativo. A volte Grey si chiedeva se avesse mai conosciuto il piacere, se la risata le avesse mai risalito il viso, illuminandole lo sguardo. 

«Rilassati. Non ho intenzione di mangiarti, Yuren» rise di lei afferrando il suo calice ancora pieno. Un lampo di risentimento attraversò il viso della giovane e Grey nascose il proprio ghigno sorseggiando la bevanda. La ragazzina si sentiva ancora in colpa per l'innocente scherzo giocatogli proprio nella città di Yuren, al di là dello stretto: una denuncia che aveva finito per farlo incastrare dalla guardia cittadina. 

Non le aveva mai detto come era riuscito a cavarsela. L'aveva vista godersi lo spettacolo del suo accerchiamento, tentennare mentre lo atterravano ed infine scappare quando la pattuglia era arrivata troppo vicino a lei. 

«Dovresti sapere che sono indigesta» 

Grey ricordava di aver visto la paura stampata sul suo volto un attimo prima di lasciarlo indietro e volatilizzarsi tra gli edifici, e allo stesso modo ricordava l'incredulità con cui l'aveva accolto due settimane dopo. Incredulità e sollievo. 

Peculiare come quelle sensazioni fossero riuscite a penetrare la sua maschera di indifferenza. 

Sorrise tra sé prima di bere ancora. Quella ragazza era uno strano concentrato di contraddizioni. 

«Quasi quanto l'estratto di bacche di Fiodhe allungato col vino» confermò, ricevendo in risposta una risata della giovane. 

«Così mi lusinghi» 

Si beò di quel breve suono trattenendo in bocca il sapore fruttato della bevanda prima di deglutire e umettarsi le labbra. 

«Non sei così cara» suggerì suscitando sul suo viso un'espressione provocante. 

«Ne sei certo?» la sfumatura indomita nella sua voce gli fece alzare appena le sopracciglia in un moto di sorpresa. 

«Sì» tentennò, accigliato, mentre lei gli rubava il calice dalle mani e lo avvicinava alla bocca. 

«Benissimo» concluse. 

Elettra bagnò appena le labbra del liquido sanguigno: sembrava ottimo, odorava d'uva e frutta risultando più dolce che aspro, ma tutto ciò che le interessava era che il bicchiere rimanesse pieno. 

«Torni a Gal'Duin, ora che hai finito?» si spostò lateralmente per avvicinarsi a lei ottenendo solo un'occhiata guardinga. 

«Hai paura di sentire la mia mancanza?» Elettra inspirò l'aroma dolce della bevanda cercando di tenere il passo del gioco di scherno a cui erano abituati. 

«Ho paura che tu senta la mia» puntualizzò il criminale, sporgendosi piano fino a sfiorarle la schiena con la mano.

«Perché questo non succeda potrei aver convinto Keane a prendere per sé parte della mappa delle Cripte di Chaku» aggiunse con un sussurro, ghignando per il modo in cui le mani della ragazza si erano strette contro il tavolo, manifestando la sua rabbia. 

«Grey» ringhiò, trattenendosi dall'estrarre una delle sue fidate lame dal fodero sulla cintura. Il ragazzo ridacchiò scuotendo la testa. 

«Sei così prevedibile: una missione di recupero! Quando ti deciderai a farti notare da qualcuno?» 

«L'hai fatto davvero?» 

«Chiedilo a Keane» alzò le spalle, sereno ed impenetrabile. 

«Sei incorreggibile!» Elettra alzò la voce, assumendo un'espressione offesa e ferita. 

Grey si accigliò mentre la locandiera rallentava il passo e si voltava verso di loro. 

«Non è qui che devi farti notare» sottolineò, afferrandola piano per una manica per riportarla vicina a sé e ricalibrare il tono della conversazione. 

«Dopo quello che ho fatto per te? Tu mi ricambi, così?» la ladra si mise in piedi facendo strisciare rumorosamente la sedia dietro di lei. Il criminale assottigliò lo sguardo: non avevano fatto nulla l'uno per l'altra oltre che darsi fastidio. Stava bluffando? 

«Di che diavolo stai parlan-» 

Le sue parole furono interrotte dallo scroscio del vino versato direttamente sul suo petto. 

«Addio» 

Elettra appoggiò il bicchiere al tavolo e, gettando il proprio mantello sulla spalla, si diresse all'uscita mentre Grey ringhiava. Gli dedicò un occhiolino ed un sottile ghigno prima di sbattere la porta ed uscire dal locale, lasciandolo con una macchia bordeaux sulla camicia ed il conto, per due, da pagare.

 

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Capitolo 5
*** Invito ***


3

Invito




Strinse l'elsa di Alice, cercando di placare la tensione che le permeava le membra. 

Non si era aspettata di ricevere una lettera da Edward al suo ritorno, né che quella lettera fosse ciò che aspettava da così tanto tempo. 

Era firmata con effige di fiori e spine che sembravano soffocare il simbolo stesso della Gilda, due rombi colorati di nero posti uno poco sopra l'altro a formare l'immagine di una cappa. Chiunque l'avesse scritta non si era perso in discorsi inutili: in poche righe era stato riassunto tutto ciò che Elettra aveva bisogno di sapere per affrontare il suo Passaggio. 

Quel foglio sottile sembrava pesare come un macigno nel fondo delle tasche del suo mantello. Non le serviva cercarlo per sapere che era lì. Finalmente aveva con sé la prova che sarebbe stata ammessa dall'altra parte di quel muro invisibile che spaccava in due la Gilda, la prova che era stata giudicata come degna. La prova che era uno tra i migliori adepti. 

Il contatto con l'arma conosciuta non riusciva a far scemare l'ansia dell'attesa. Non le avevano detto che cosa avrebbe dovuto fare, ma solo il luogo e l'ora in cui avrebbe dovuto essere presente e pronta. 

Aveva camminato a lungo, uscendo dalla città e dirigendosi a Sud. Dopo una ventina di minuti sulla strada principale aveva virato verso Ovest, seguendo il sentiero che si immergeva tra gli alberi e spariva nella foresta di Gandala. 

Pur essendo vicina alla città era abbastanza estesa da essere pericolosa per gli uomini che ci si addentravano troppo profondamente, ma Elettra aveva la mentre così occupata dall'aspettativa da non preoccuparsi dei rischi che avrebbero potuto attenderla al suo interno. Sapeva come evitarli e era certa di poterli affrontare. 

Primo bivio a destra. 

La vegetazione si era infittita in fretta attorno alla via, un'unica striscia di terra nuda cosparsa di impronte. Il terreno aveva ceduto piano sotto i suoi piedi lasciando traccia anche del suo passaggio. 

Cinquanta passi. 

Si era allontanata lungo una strada più stretta e meno battuta. 

Ad Ovest fino al ruscello. 

Era uscita da essa immergendosi tra gli arbusti verdicci che la primavera aveva da poco chiamato alla luce. Aveva sentito rami spezzarsi e visto lo scatto scuro di un capriolo tra i tronchi degli alberi. 

Raggiungi la sua fonte. 

Aveva seguito il rivolo d'acqua con cautela, maledicendo l'attesa ed i rovi su cui il mantello tentava di aggrapparsi frenando la sua marcia ed era arrivata in una piccola radura. 

Aveva visto allora una forma accucciata vicino all'argine della pozza d'acqua in cui la corsa del ruscello rallentava fino a fermarsi. Vestito in maniera semplice di color ametista, il giovane seduto a terra sembrava raccolto in un momento di preghiera e riflessione. Aveva estratto le mani dall'acqua del piccolo stagno e l'aveva guardata sorridendo con occhi dello stesso colore chiaro del cielo. Aspettava lei. 

Lo stava seguendo da ormai diversi minuti. 

Elettra appoggiò la suola degli stivali seguendo i suoi passi uno ad uno, senza lasciare che l'erba si rialzasse. Non si erano scambiati nessuna parola, oltre ad un ordine informale a cui aveva obbedito immediatamente: «Seguimi».

Alzò gli occhi da terra per guardarlo. Tatuaggi neri decoravano il cranio rasato e percorrevano la nuca, scendendo lungo il collo e venendo nascosti dai suoi abiti. La giornea viola che portava era posta sopra ad un'anonima tonaca avorio ed entrambe erano fermate in vita da una cintura di cuoio. 

Non conosceva il significato dei segni geometrici che gli intarsiavano la pelle, piegandosi al ritmo dei suoi movimenti; la giovane età dell'uomo ed il suo modo pacato di camminare tra la vegetazione le suggerivano però che non si trattasse di un ricordo di guerra o di un'onorificenza militare quanto piuttosto del simbolo di un rituale o di una religione a lei ignota. 

Proseguirono in discesa e finirono per costeggiare una parete di roccia e muschio alta un paio di braccia più di loro. Il bosco si era fatto più umido e buio nonostante Elettra sapesse che il sole si stava alzando sempre di più all'orizzonte ed avrebbe raggiunto lo zenit di lì ad un paio d'ore. Era costretta ad avanzare con attenzione per non rischiare di scivolare sulle foglie umide o incastrare i piedi tra le radici degli alberi, strette come dita sul terreno in una morsa ferrea. Allo stesso modo in cui quelle si protendevano verso il basso, i loro rami erano tesi verso il cielo per raggiungere e rubare i raggi di sole che riuscivano malapena ad oltrepassare la coltre di foglie. 

«Manca poco, Viierin» 

Strinse le labbra, frustrata dalla propria limitata conoscenza delle lingue della sua regione, seguendolo con lo sguardo mentre spariva in un pertugio nella parete così stretto da essere notato a stento dalla sua posizione. 

Viierin

Che voleva dire? Prese un profondo respiro per contenere la propria irritazione e procedette con attenzione. 

L'apertura si allargava velocemente, tramutandosi in un cunicolo facilmente percorribile tutto uguale a sé stesso. L'uomo aveva già provveduto ad illuminarlo: un globo sferico svelava la roccia attorno a loro e faceva brillare minuscoli refoli d'acqua che continuavano a scavarla.

«Vieni» 

Il pavimento dissestato della grotta mutò man mano che si muovevano all'interno del cunicolo diventando un piatto ed ordinato mosaico. Nonostante il loro colore rimanesse quello della pietra, le pareti si raddrizzarono fino ad essere perfettamente verticali e l'umidità svanì lasciando posto ad un calore anomalo. Dopo quell'oblio, dilatato dalla tensione, Elettra distinse quella che sembrava la fine dell'eterno corridoio: una chiazza di luce rossastra e sempre più vicina. 

Oltrepassarono il varco, trovandosi in una stanza delle dimensioni della Sala Comune illuminata da una serie di torce appese alle pareti. Teche scure e banchi di legno pesante riempivano l'ambiente, arredandolo alla stregua di un laboratorio sotterraneo. Si potevano percepire incartamenti, libri, una fonte di fuoco inestinguibile al centro della stanza e, sopra di esso, un supporto da cui era lasciato pendere un calderone di rame. Qualcosa ribolliva al suo interno, seminando nell'aria un odore d'erba che le ricordava la drogheria di sua madre e sembrava mettere in secondo piano altre mille sfumature di aromi propri di tutti gli intrugli che dovevano essere stati creati il quel luogo. L'insieme risultava nauseante. 

L'intero nascondiglio era stato scavato nella roccia, sfruttando una grotta preesistente: sottili stalattiti pendevano dal soffitto, minacciando con le loro punte il pavimento decorato. Alcune crepe sui tasselli di marmo e scheggiature sulle tavole testimoniavano a loro sfavore e rafforzavano la sensazione di pericolo che la ladra aveva iniziato a sentire dal momento in cui era entrata. 

«Benvenuta» 

Allarmata distolse lo sguardo dall'ambiente concentrandosi sul suono della nuova voce. 

Allora li vide: confusi tra le ombre gettate dal fuoco sulle pareti, altri due uomini avvolti in una tonaca scura li guardavano da qualche metro di distanza. Erano un vecchio torchiato ed un trentenne con una cicatrice che gli attraversava il volto. Il segno rosaceo sembrava essere il ricordo visibile di un'esplosione avvenuta troppo vicino alla sua faccia. Anche loro come il ragazzo al suo fianco non indossavano protezioni, né sembravano essere equipaggiati con qualsivoglia arma. 

Dov'era la sua prova? Cosa avrebbe dovuto fare? 

Avanzò, superando il giovane tatuato con convinzione. 

«Sono pronta» 

L'uomo che aveva parlato scosse la testa, facendo ondeggiare i suoi riccioli canuti ed accendendo il proprio sguardo di presunzione. Le rughe sul suo viso diventarono più marcate mentre ghignava e con un gesto le indicava una porta alle proprie spalle. 

«Sii paziente» 

Non era più sicura che il loro compito fosse metterla alla prova. Elettra lo precedette, entrando per prima nella stanza. Era più piccola della precedente; vuota a meno di un tavolo in marmo bianco ed uno scaffale. 

I più giovani la superarono, sparendo attraverso un'ulteriore apertura. 

«Secondo e Terzo ultimano i preparativi. Io mi occuperò di te, Viierin» 

L'uomo richiamò ancora la sua attenzione appellandosi a lei con la stessa parola usata dal ragazzo. 

Aprì lo scaffale alle sue spalle estraendo da esso un telo bianco di cotone ed un barattolo riempito di un liquido trasparente. 

«Spogliati» concluse, appoggiando i due elementi sul tavolo interposto tra di loro. 

La ladra rimase ferma sul posto. Inclinò la testa con sospetto controllando di nuovo l'ambiente: nulla faceva presagire pericolo, ma ciò che le stavano chiedendo distava miglia dalle sue aspettative. 

«In cosa consiste il Passaggio?» 

Posò la sua sacca, calciandola sotto al tavolo e sciolse il nodo del mantello lasciando che scivolasse a terra. 

«La tua fortuna è immensa, Viierin. Pochi hanno la possibilità di prendere parte a questa cerimonia» 

Primo sistemò una spugna accanto al vaso di vetro e le si avvicinò per assisterla. 

La giovane sciolse la cintura che aveva in vita e sfilò dal busto il corpetto e la cotta di maglia, consegnandoli all'adepto. Tolse gli stivali rabbrividendo mentre i suoi piedi arrivavano ad essere a contatto con il freddo pavimento. 

«Accetterai quella parte di te devota a Noreg. Per essere un'assassina non devi aver paura del buio, del sangue e della morte» 

Buio, sangue, morte. 

Sembrava l'iniziazione ad una setta religiosa, più che un passaggio di casta.

Avrebbe dovuto uccidere qualcuno a sangue freddo davanti ai loro occhi? 

Uccidere non le piaceva. Aveva causato quattordici vittime nella sua vita ed aveva costretto se stessa a imprimere nella sua memoria l'immagine dei loro volti nel momento precedente alla fine, mentre Alice o Diane penetravano con facilità la loro carne. Voleva ricordare le persone a cui aveva rubato l'anima. 

Aveva mirato direttamente al loro cuore. Aveva cercato di non farli urlare o soffrire, per quanto nella maggior parte dei casi fossero stati individui dalla dubbia condotta morale. 

«Da quando gli adepti vengono iniziati a Noreg?» 

Non avrebbe ucciso se non avesse dovuto perché aveva provato sulla propria pelle il significato della morte. 

Edward l'aveva avvertita più di una volta... 

Alla Gilda non piace la compassione. 

La Gilda ti sta tenendo d'occhio. 

Nascose la sua espressione nella stoffa della maglia, compiendo un lento movimento per sfilarla dal proprio corpo e chiese perdono ad Alice e Diane, facendo la propria scelta.

Avrebbe obbedito: se per quel passaggio la Gilda aveva bisogno di vederla abbandonare la propria pietà, non si sarebbe opposta. 

Avrebbe potuto ritornare a seguire il suo codice personale una volta compiuto quel solo assassinio. 

Tolse calze e pantaloni, rimanendo vestita solo della propria pelle e dell'intimo bianco. 

«Sei fortunata, Elettra» ribadì il vecchio, ungendo il telo ed avvicinandosi a lei per pulire la sua pelle. 

La ragazza sciolse la fascia chiara che le copriva il seno e chiuse gli occhi, aspettando una risposta e la fine di quegli insulsi preparativi. 

«Dopo oggi, sarai una persona nuova» 

«Verrai portata là dove tu non riesci ad arrivare. Le tue mani si muoveranno con più precisione, le tue membra con più sicurezza. Il tuo giudizio sarà limpido come quello del nostro dio» 

Le sue parole da fanatico non offrivano nessuna spiegazione. 

A palpebre serrate, circondata dal buio, le era più facile concentrarsi su ciò che gli altri sensi avevano da offrirle. Il paziente discorso del Primo, atto a proclamare la grandezza di ciò che stava per vivere, si tramutò in un borbottio sordo, mentre altro catturava la sua attenzione. Uno scroscio di acqua proveniente dall'altra stanza, il rumore netto di qualcosa che cadeva a terra. 

Un sottile aroma, nuovo, dolce, le si infilò nelle narici, richiamando la sua mente immagini di carta ruvida e scura, di pergamene, cassetti e del chiarore della luna. 

Non aveva più freddo. 

«Smettila con queste sciocchezze, vecchio» 

Spalancò le palpebre. Il moro, affacciato in quel piccolo anticamera la soppesava con lo stesso sguardo orgoglioso con cui un genitore osserva il figlio prediletto. 

«È il tuo momento, Viierin»

 

* * *

 

Si ritrovò a fissare intensamente la fossa rettangolare scavata nel pavimento roccioso, piena di liquido scarlatto. I bordi della buca erano leggermente rialzati e resi lisci dall'azione del tempo. 

Quante mani avevano toccato quel materiale? Per quanti e quali riti era stata usata quella vasca? 

Quante persone erano morte per riempirla? 

Non aveva bisogno di avvicinarsi per avere conferma della natura del fluido al suo interno: era certa che fosse sangue così come era sicura che se avesse immerso le mani attraverso la sua superficie l'avrebbe scoperto caldo. 

Anche se l'olezzo del ferro era sfumato ed ora si era definitivamente confuso dalla nota dolciastra che aveva captato dall'anticamera, esso era inconfondibile e terribilmente familiare. 

«Avanti» 

La fecero camminare fino a che i suoi piedi furono ad una spanna dalla cornice. 

Mentre il ragazzo ed il vecchio si disponevano ai lati della fossa, il moro prese parola, posando per un attimo le sue mani ruvide sulle spalle della ladra. 

«Immergiti, Viierin» 

Elettra scoprì sulla propria faccia un ghigno di follia e disgusto. 

Il cuore le batteva all'impazzata dentro al petto, così forte da farle pensare che anche la sua pelle stesse tremando a quel ritmo. La mente le si riempì di rosso mentre ricordava quello stesso colore sui vestiti dei suoi morti, sul pavimento della propria casa. 

Chiuse gli occhi. 

Avrebbe preferito uccidere che gettarsi in quel bagno di sangue. 

«Ti voti alla Gilda?» 

Ignaro dei suoi tormenti, l'uomo strinse le dita sulla sua pelle e scostò con un lento movimento i capelli dal suo viso, avvicinandosi e sussurrandole la formula del suo Passaggio. Il suo fiato le accarezzava l'orecchio lasciandovi una traccia calda ed umida. 

«Ti disponi ad osservare quanto richiesto dai tuoi superiori?» 

Sembrava rosso anche il colore delle palpebre che le coprivano lo sguardo. 

Rosso, dolce. 

«Ti disponi all'arte dell'astuzia? Al pugnale?» 

Il mondo traballò e fu costretta ad aprire gli occhi per mantenere l'equilibrio, scontrandosi ancora con la pozza scarlatta. Inspirò a fondo mentre un fascino inconsueto per quel colore si impadroniva di lei. 

«Alla segretezza?» 

I contorni persero definizione e sfumarono. Non c'era nulla di importante. 

Rosso, caldo. 

«All'assassinio?» 

Assuefatta dal profumo respirò ancora trovando la calma. Mentre la presa dell'uomo si allentava e le sue braccia smetteva di sostenerla si accorse di non avere più paura: la stavano chiamando. 

«Al sangue?» 

L'ultima parola fu pronunciata con un sibilo, e le avvolse la mente di uno strano fervore ed un'anomala urgenza. 

«Sì» 

Rosso, silenzio. 

Si abbassò fino a terra ed immerse il proprio corpo nel sangue. 

Le loro mani la guidarono leggere sotto la superficie e si ritrovò immersa in un bagno caldo, scarlatto, meno denso rispetto a quanto si sarebbe aspettata. Meno terribile. 

La sua testa era stata svuotata dalle emozioni e si era riempita di mormorii suadenti, accompagnati solo da una scia di esaltazione e da un tepore profondo, che sembrava nascere dalla bocca del suo stomaco e propagarsi ovunque. 

Lei stessa era ovunque: sangue nel sangue, illimitata, rossa e confusa. 

Le ultime tracce del movimento compiuto per scendere sotto la superficie la cullarono avanti e indietro in una lenta oscillazione: rilassò i muscoli e lasciò le sue membra affondare fino a percepire il pavimento della vasca. I tre adepti le stavano impedendo di galleggiare, esercitando una lieve pressione sul suo busto e sul capo. 

L'odore penetrante del fluido sangue svanì dai suoi polmoni mentre tratteneva il fiato, rimanendo una traccia opaca sulla punta della lingua, il coro sembrò attutirsi, ma la sua melodia non perse fascino. 

Iniziò a contare senza rendersene conto per impedire che la pace datale da quel caldo velluto rosso le facesse perdere la cognizione del tempo. 

Non era avvezza ai giochi di apnea, ma ipotizzava di riuscire a stare lì sotto per almeno un minuto. 

Iniziò a sentire la fatica dopo aver contato mentalmente fino al numero cinquanta. Con essa apparvero altre voci, ed una tremenda consapevolezza. 

Richiamata da fuori, richiamata da dentro. 

Qualche bolla d'aria le sfuggì dalla bocca. I confini del suo corpo riacquistarono definizione, facendola sentire un po' più sé stessa. 

Mi vogliono uccidere. 

Al sessanta mosse le dita delle mani, anche se sentiva che stare ferma sarebbe stata la cosa migliore per resistere ancora. Non era più affascinata, non voleva più stare lì. 

Le mani le si erano appoggiate alla schiena e alle spalle, incoraggiandola a fare di più.

Mi vogliono uccidere

Settantatré. 

Di più? 

Voleva respirare. Doveva respirare.

La voce dell'aria la chiamava più forte sovrastando l'intimo sussurro che l'aveva convinta ad entrare. 

Settantasette. 

Non voglio morire. 

Iniziò a fare forza sul fondo con mani e piedi per alzarsi. 

Inutile.

Non glielo permisero.

 

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Capitolo 6
*** Passaggio ***


4

Passaggio



Soffocarono i suoi tentativi di ribellione con una forza che non avrebbe mai attribuito loro. Si mosse di nuovo, facendosi scappare l'ultimo filo d'aria dai polmoni e contorcendosi per raggiungere l'ossigeno. 

Il mondo era rosso e confuso al punto tale da non riuscire a distinguere il momento in cui aprendo la bocca avrebbe bevuto ancora o sarebbe davvero riuscita a respirare. Spinse ancora verso l'alto ed ingoiò un miscuglio di sangue ed aria mentre le loro mani le scivolavano addosso senza presa, ostacolate dallo stesso viscidume vermiglio che la stava soffocando. Il sapore del ferro sembrava il giusto prezzo anche solo per un respiro. Non aspettò che la loro presa si saldasse: roteò il corpo, portandosi prona e spingendo i piedi contro il fondo con più convinzione. 

Non voglio morire

Il giovane lasciò la presa. La ammirò tendere le braccia in avanti ed appigliarsi alla prima cosa alla sua portata in un disperato tentativo di salvezza: le sue unghie scavarono il volto del vecchio serrando la presa. Occhi, bocca: mentre il sangue le copriva la vista gli unici segni del proprio successo erano la consistenza gelatinosa in cui le sue dita erano affondate, l'urlo di dolore dell'uomo che aveva davanti e lo scalpiccio di passi sulla pietra. Elettra strofinò un braccio sul viso riuscendo ad aprire finalmente le palpebre: con innaturale furore si rizzò ed afferrò con decisione la chioma corvina del secondo uomo, colui che aveva tentato di scappare. Era imponente, ma troppo sorpreso per poter reagire alla forza di quelle braccia che gli erano sembrate così esili solo un minuto prima. 

Lo trascinò con sé sul pavimento, concentrata nel distruggere i fautori del suo sopruso. Nella sua mente caotica e preda dell'istinto, omicidio e vita ora si stringevano come amanti. 

Un colpo dopo l'altro il sangue proveniente dal suo cranio sfondato addosso al pavimento di marmo si fuse con quello che già copriva la ragazza, infiammandola di scarlatto. 

Leccò con decisione le labbra sporche e calde, assuefatta dall'adrenalina della morte. 

Immersa in una lucida rabbia, avvolta da un velo rosso più fine di qualsiasi stoffa, lasciò che il suo corpo si muovesse da solo, obbedendo ad un richiamo più forte.

Dov'è l'altro?

Allargò le narici inspirando a fondo l'aria a sua disposizione ed esplorò la sala con lo sguardo fino a vedere il giovane: la guardava, inginocchiato al fianco della vasca. 

Tendeva le mani verso l'alto e verso di lei, mormorando con intensità crescente parole che non riusciva a comprendere. 

Strisciò sul marmo fino a raggiungerlo e gli mise le mani al collo, interrompendo la litania. 

Invece di difendersi, l'adepto continuò a fissarla con un sorriso storto sulle labbra e gli occhi illuminati da una fiamma indecifrabile. Tremava alla ricerca del fiato per pronunciare l'ultima parola mentre le sue dita si posavano sulla guancia della donna tracciando un'intima carezza. 

«Kaha'lum» 

Sacerdote

Elettra strinse con tutte le sue forze, fino a che i suoi occhi furono rivolti all'indietro. 

Sentì il suo corpo tendersi verso i lamenti dell'unico superstite, il primo che aveva attaccato. Si mosse, richiamata da quel barlume di ignobile vita: doveva ucciderlo. Voleva farlo. 

Inclinò la testa, avvicinandosi al corpo che ancora tentava di trascinarsi sul pavimento. 

Il rumore viscido del liquido sotto i suoi piedi fu pendolo ed annuncio dell'esecuzione. 

Prese a calci l'uomo fino a farlo girare sulla schiena e dopo avergli sollevato leggermente il mento con il piede lo guardò nelle cavità che erano stati occhi prima che le sue dita li raggiungessero. Vittoriosa liberazione. 

«Muori» 

Pestò con un calcio la sua gola e continuò ad infierire sulla carotide con il tallone, fino a sentire i rantoli spegnersi e la colonna vertebrale cedere. 

La sua maschera di indifferenza cadde: rise abbassandosi ed immerse le mani in quel sangue, ancora più rosso di tutto quello che aveva addosso. L'unico vezzo in quel mare era il colore bianco delle ossa. 

«Ci hai provato» 

Si passò le dita sul viso e respirò a pieni polmoni. 

«Hai provato ad ammazzarmi, ma non ci sei riuscito!» 

Con l'ultimo colpo la testa dell'uomo oscillò senza nessun vincolo, attaccata al torso per mezzo del tessuto ancora intatto. 

Tra un fiato e l'altro rantoli di fatica le uscivano dalla bocca come gemiti sommessi. 

Fatica, sollievo. 

Li aveva ammazzati tutti. 

Era viva. 

Sputò sul corpo inerme e gli diede le spalle fermandosi ad ammirare la sua opera. 

Tre cadaveri. 

Rosso. 

Chiuse gli occhi e passò di nuovo la mano sul viso per accertarsi ancora di avere tutti i pezzi apposto, tastare la consistenza della sua pelle e sincerarsi di essere in grado di percepire il suo stesso tocco. 

Sì: funzionava. 

Espirò con lentezza e riaprì le palpebre sul mondo, imbattendosi ancora in quel colore. 

In un attimo il significato delle sue azioni la sommerse. 

Le sue mani erano rosse. 

Le sue mani erano sporche. 

Le sue mani avevano fatto questo. 

Il brivido di adrenalina che l'aveva sostenuta fino a quell'istante si tramutò in un'ondata di puro panico: le era piaciuto farlo. 

Si spaventò di nuovo a sentire il suo stesso verso di disperazione riecheggiare nella sala mentre abbassava lo sguardo sul suo corpo e realizzava di essere coperta da capo a piedi di quel liquido, un vestito scarlatto che l'aveva avvolta senza avviso. 

I capelli su cui il sangue aveva già iniziato a rapprendersi avevano una consistenza schiumosa, ma il peggio era sentire ancora in bocca quel sapore inconfondibile. 

Arretrò fino alla parete ed abbassò lo sguardo per non assistere di nuovo allo strazio di cui era stata autrice. 

La porta. 

Doveva scappare. Quanto tempo aveva prima che qualcuno si accorgesse di quello che era successo? 

Sperò che le lacrime potessero riuscire a lavarle almeno il viso mentre camminava ancora velocemente fino all'anticamera e raccoglieva i suoi abiti e il suo equipaggiamento. Armatura, zaino. 

Le else dei pugnali erano vuote. 

Alice e Diane non erano dove le aveva lasciate. 

Strinse la mascella. 

«Chi di voi le ha prese?» urlò ai morti, senza ricevere risposta. 

Si diresse verso il cadavere immerso a metà nella vasca e con un colpo netto strappò la stoffa del suo vestito in corrispondenza della tasca destra. 

Passò all'altra non sentendo nulla cadere. Non voleva toccare quel corpo, non voleva sporcarsi ancora. 

Lo spinse leggermente, lasciandolo scivolare nella vasca. Si soffermò ad osservare il placido ciondolare di quel sacco di carne sulla superficie. Avrebbe vinto il peso dei vestiti o sarebbe rimasto a galleggiare per giorni? 

Il secondo tentativo fu più fortuito: il tintinnio del metallo sul pavimento duro le annunciò che aveva trovato quel che cercava. 

Si chinò, afferrò le lame e represse a forza l'istinto di piantare l'acciaio nella carne dell'uomo. Alice e Diane non lo meritavano. Alice e Diane non l'avrebbero voluto.

Sputò ancora, assorbita dal disprezzo per quell'azione effimera e tentando di far sparire quello schifoso sapore, ancora troppo forte sulle labbra. 

Uscì nuda, tenendo i vestiti contro il corpo e le lame nella destra e corse. 

Aveva attraversato un ruscello per arrivare lì. 

Voleva pulirsi. 

L'avrebbe lavata l'acqua, non il sangue. 

Si lasciò scivolare nella corrente gelata fino a non poter più sopportare tale temperatura. Riemerse e cercò di avvolgersi almeno nel mantello, cercando un odore diverso da quello che le aveva permeato le narici, i polmoni, la gola, penetrandole fin nel midollo. 

L'aveva bevuto! Aveva bevuto sangue! 

Il pensiero di quell'azione bruta, della consistenza delle ossa bianche sporgenti dal collo dell'adepto sulle proprie mani, di tutto quel rosso e dell'odore crudo della materia uscita dal cranio del moro furono troppo per il suo stomaco. 

Si chinò, rimettendo il poco che aveva provato a mangiare quella stessa mattina. 

I conati non le diedero tregua fino a che le sue viscere non furono completamente vuote. Si trascinò di nuovo vicino all'acqua per provare a bere e togliere da sé il sapore acido, anche se quest'ultimo era molto più sano e giusto rispetto al metallo che aveva sentito fino a pochi minuti prima. 

Strinse a sé la stoffa rabbrividendo. 

Faceva freddo, dannazione se faceva freddo. 

Lavarsi lì non era stata la migliore delle sue idee, ma qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di avere addosso ancora il rosso. Ora sembrava solo un brutto sogno. 

Si guardò di nuovo le mani: avevano assunto un colorito cadaverico a causa della temperatura, ma sembravano pulite, se cercava di tralasciare quello strato scuro rimastole sotto le unghie. 

Qualsiasi fosse il suo scopo, la cerimonia non si era svolta secondo i piani della Gilda e ciò voleva dire solo una cosa: guai. 

Doveva scappare. 

 

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Capitolo 7
*** Oner ***


5

Oner

Fece oscillare i piedi nel vuoto cercando ancora sotto le proprie unghie un segno di quello che era successo solo pochi giorni prima. Erano pulite adesso, candide ed abbastanza lunghe da essere utili per graffiare chiunque se lo sarebbe meritato.

Erano le sue solite mani, ma la loro immagine, filtrata attraverso gli occhi della ladra, si accendeva di rosso, diventando troppo lucida e vivida. 

Non riusciva a capacitarsi delle sensazioni che aveva provato. 

Sì, c'era una rabbia immensa nei confronti dei suoi aguzzini, alimentata dal puro terrore di morire e dall'istinto di conservazione della propria persona, ma il resto? La soddisfazione? L'assenza di pietà? 

Probabilmente erano collegate alla volontà di preservarsi. Ma allora ciascuna azione avrebbe dovuto diventare piacevole e giustificabile quando in gioco c'era la propria esistenza? No. La morte è morte. 

Non aveva dimenticato Alice e Diane. 

Aveva stabilito giusto solo un omicidio, un omicidio che forse non sarebbe mai arrivata a compiere, e non era quello degli adepti della Gilda che aveva brutalmente assassinato a mani nude. 

Rigirò l'anello d'argento tra le dita, spostandolo sull'indice e poi ancora sull'anulare. Per essere riuscita a scappare con tale facilità doveva essere stata sottovalutata dal Consiglio o da chiunque avesse convocato il suo rito di Passaggio. L'unico dei tre uomini che a posteriori riusciva ad identificare come pericoloso era stato il primo a morire sotto la sua furia, gli altri non erano riusciti a resisterle, ed il giovane... il giovane aveva accolto la sua stretta come una benedizione. 

Viierin, Kaha'lum. 

Quei nomi non le suggerivano niente e non aveva ancora avuto l'occasione di indagare sulla loro natura. 

Non capiva la Gilda, non comprendeva lo scopo della prova a cui l'avevano sottoposta. Non capiva, ma qualcosa le suggeriva che il rito non era andato secondo le loro aspettative. 

Per quello era scappata. 

Sospirò pesantemente, alzandosi in piedi. Arrivò sulla strada dopo pochi istanti scendendo in silenzio lungo la parete della casa su cui si era appollaiata. 

La cittadina in cui si trovava si chiamava Oner, ed era insipida quanto i suoi abitanti. 

Aveva cercato di mettere più distanza possibile tra sé ed il nascondiglio nel bosco senza riuscirci appieno: tre giorni non erano abbastanza. Le sarebbe stata necessaria almeno un'altra settimana per far svanire le sue tracce, soprattutto in una regione come quella, troppo abitata e piena di villaggi. Al loro interno non mancavano mai le persone disposte a vendere i propri occhi per poche monete di rame. 

Essere vista equivaleva a lasciare una traccia, e di conseguenza essere in pericolo. Ma in fondo, era così certa che la Gilda le avrebbe dato la caccia per quel piccolo incidente? 

Senza credere alla sottile voce di speranza che le soffiava all'orecchio, alzò il cappuccio sulla testa, camminando pigramente sulla strada sterrata in cerca della piazza o del tempio attorno ai quali avrebbe trovato qualche segno di vita in più. E magari del cibo. 

Inspirò a fondo, provando a scacciare la crudele sensazione di vuoto che le attanagliava lo stomaco: non aveva previsto di non poter tornare a Gal'Duin ed aveva finito le provviste la mattina del giorno precedente. 

Aveva con sé solo l'equipaggiamento essenziale: armatura, armi, Alice e Diane, lo zainetto di Ewa che aveva voluto pagare di sua tasca per accertarsi delle sue qualità. Al suo interno qualche misera moneta d'oro, alcune fialette dall'utile contenuto ed un cambio di vestiti, rubati appena entrata in città. 

Nessuno diede peso a lei mentre scivolava tra i passanti a bordo strada e si accostava alle mura del piccolo tempio di Dunen, luminoso e bianco come tutti gli edifici dedicati a quella divinità. Alla sua ombra, accartocciato su di sé come uno straccio sporco, un vecchio senza incisivi chiedeva l'elemosina borbottando e tendendo verso la poca gente un consunto cappello di paglia. 

Elettra storse la bocca. Nonostante scene del genere fossero frequenti nelle città maggiori, le riteneva patetiche tanto quanto gli individui che le mettevano in pratica. Erano un insulto per tutti coloro che tentavano di rialzarsi con le loro forze, lavorando più o meno legalmente. 

Interruppe la sua passeggiata quando l'inconfondibile odore di pane fresco arrivò a stuzzicarle il naso. Scosse la testa, scacciando i propri pensieri, e si diresse nella bottega vicina seguendone la traccia. 

Ne uscì con due pagnotte croccanti riposte nello zaino e tenendo tra le mani un panino tiepido condito con uva passa. Le tre monete di rame che aveva speso valevano quel piccolo frammento di dolce e la momentanea tregua dai morsi della fame. Non era una taccheggiatrice, dopotutto. Lo sarebbe diventata solo se costretta dalle circostanze. 

Per reggere ancora nel suo viaggio senza meta, però, avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più sostanzioso del pane, in grado di conservarsi a lungo e darle più energia. Carne secca, magari. 

Sbocconcellando la morbida mollica ricominciò a camminare: quella piccola merenda l'aveva messa di buon umore. Attraversò la piazza principale e si immerse nei viottoli meno frequentati.

L'affare nelle Cripte di Chaku era saltato anche senza lo zampino di Grey: avrebbe impiegato troppo tempo per avere di nuovo il via libera nei territori attorno a Gal'Duin. Un paio di settimane affinché si calmassero le acque da quando avevano scoperto il suo lavoro. Forse, però, se avesse trovato qualcuno della Gilda a cui chiedere informazioni sul proprio conto allora avrebbe potuto... 

Adocchiò la macelleria di paese e ne controllò i dintorni: qualche comare immersa nelle chiacchiere sostava davanti all'entrata in attesa che i clienti della baracca si togliessero di torno. Il posto era al confine Est della città, leggermente isolato dal resto del villaggio e separato dalla campagna verdeggiante solo da un sottile muro di cinta. Il negozio doveva essere stato ricavato direttamente dalla casa in cui i viveva il macellaio e sembrava talmente piccolo da poter contenere all'interno a malapena tre o quattro persone. Certo, quanti clienti poteva aspettarsi da una città di poco più di duecento anime? 

Elettra si morse le labbra. Sapeva di aver terminato gli spiccioli e non voleva attirarsi addosso l'attenzione dei paesani pagando con l'oro che non potevano permettersi. Avrebbero ricordato il suo viso, i suoi tratti... 

Gettò un'occhiata a destra e sinistra prima di intrufolarsi all'interno della proprietà, ma la sua concentrazione fu interrotta sul nascere da un grido straziante che le fece puntare gli occhi nel cortile dietro alla casa. 

Conosceva quel suono: stavano per ammazzare un maiale e lui, come ogni essere della terra implorava per la sua vita. Il macellaio lo stava trascinando a forza nel piccolo capanno dedicato all'uccisione. 

Povero animale. 

Ma la morte in questo caso avrebbe permesso all'intera famiglia di mangiare, e mentre la moglie si occupava dei clienti nel negozio ed il marito ammazzava il maiale, lei avrebbe potuto procurarsi ciò di cui aveva bisogno.

Si avvicinò all'edificio con passo spedito, cercando di ignorare i versi della bestia ed il primo colpo. 

L'avrebbero stordito, gli avrebbero tagliato la gola e ne avrebbero appeso il cadavere al soffitto. 

Data una rapida occhiata attorno a sé per assicurarsi di non avere addosso l'attenzione di nessuno, aprì il cancelletto della sottile recinzione che delimitava la piccola fattoria dal resto dei possedimenti del villaggio. 

Il macellaio sarebbe stato occupato abbastanza a lungo da permetterle di entrare, dare un'occhiata all'intero retrobottega ed uscirne avendo fatto la spesa a modo suo. 

Certo, i grugniti della bestia agitata iniziavano a darle i brividi. 

Accarezzò il muro e una volta arrivata davanti alla porta abbassò la maniglia. Sorrise non trovando alcuna resistenza nel tentativo di aprirla senza scasso. 

Stupido uomo: che teneva lì dentro per essere così tranquillo da non chiuderla a chiave? Dopotutto era solo un villaggetto di contadini: tutti ingenui e semplici... 

Si infilò all'interno dell'edificio e socchiuse il pannello di legno sull'entrata. 

Come aveva previsto non c'era nessun segno di vita. Era una stanza straordinariamente fredda però, perché qualcuno ci abitasse. Sospirò, rilassandosi: i versi della bestia, soffocati dalle quattro pareti di pietra, giungevano alle sue orecchie in modo molto più discreto di quanto avevano fatto fino ad un momento prima. 

Il sollievo fu solo momentaneo: giratasi verso il centro della sala si congelò sul posto. 

Non era entrata nella dispensa, ma nel laboratorio del macellaio. 

Dal soffitto pendevano a testa in giù due cadaveri di maiale freschi abbastanza perché alcune pigre gocce di sangue non ancora rappreso cadessero dalla slabbratura sul loro collo sgozzato; sul tavolo davanti a lei, illuminato dalla fioca luce dell'unica finestra lì presente, il corpo del terzo giaceva scomposto e smembrato, nel bel mezzo della macellazione. 

Zampe e testa staccate dal torso, petto squarciato, aperto in modo che gli organi interni fossero in bella vista. Polmoni, cuore, eccoli lì, ingabbiati dalle ossa. 

Un ultimo verso della bestia nella stalla le fece capire che era arrivato alla fine. 

Il lamento sembrò scuoterla per un attimo. Senza riuscire a distogliere lo sguardo dal macabro spettacolo davanti a lei, arretrò lentamente fino a sfiorare con le mani la fredda porta di legno. 

Il maiale urlò ancora. Le sembrò udire il filo della lama affilata strappargli la pelle del collo ed il gorgoglio del sangue uscito fiottante dalle arterie. Cercare lì le provviste non era stata una buona idea, non lo era stata per niente. 

Uscì dalla stanza con l'intenzione di scappare verso il villaggio più prossimo, ma invece di dirigersi lontano dalla macelleria come avrebbe voluto, le sue gambe la guidarono alla porta dell'edificio adiacente, pilotate da una volontà non sua. 

Tentò di muoversi con l'intenzione di voltarsi all'indietro ed il suo essere rimase immobile, ignorando il comando: Elettra non poté distogliere lo sguardo dalla figura del macellaio e del cadavere della bestia e sentì le proprie mani afferrare con disinvoltura i manici di Alice e Diane. 

«Cosa ci fai qui? Ragazzina, esci dalla mia fattoria» 

Estrasse Diane: gli piantò il coltello in gola senza esitazione e lo fece scorrere attraverso la pelle fino a vedere annaffiare di sangue il grembiule già sporco e gli occhi dell'uomo rivoltarsi all'indietro. 

Affondò la lama al centro del torace forzando verso il basso come doveva aver fatto lui con il maiale nella stanza. 

Sono tutti maiali. 

Ficcò la mano libera nella ferita per allargarla e sentire la consistenza delle viscere: che caldo il suo sangue. 

Bollente. Rosso.

«Papà?» 

Abbandonò il cadavere a sé stesso lasciando che cadesse sulla schiena, precipitando sul pavimento. La gravità gli avrebbe fatto sbattere la testa: il solo pensiero le metteva addosso una strana ilarità. Iniziò a ridere sottovoce non appena sentì lo schiocco umido dell'osso sulla pietra, quindi si girò seguendo quel sottile fiato alle sue spalle. 

Una ragazzina di quindici anni la stava guardando terrorizzata, ma la paura che vedeva in quegli occhi non era nulla in confronto a quella di Elettra che sentiva il suo stesso corpo sfuggirle dal controllo. 

Agiva da solo, svuotato e riempito di qualcosa di buio che era altro da lei e insieme rispondeva ad una parte del suo essere che non aveva mai creduto di possedere. 

Era spaventoso, era totalmente sbagliato. La avvolgeva un senso di esaltazione crescente dato da tutte le emozioni che fino a quel momento aveva intravisto solo per errore nella sala del Passaggio quando aveva ucciso, guidata da un lampo di pazzia ed immersa in una pozza di sangue: la bollente morbidezza della pelle appena squarciata, le carezze del vento che raffreddavano il liquido sulle proprie mani... Ne portò una al viso, accarezzando con vigore la guancia per lasciare la sua impronta. L'odore metallico e dolce le riempì le narici, un brivido freddo la scosse nel profondo e le fece saggiare con la lingua il sapore del nettare vitale. Piena di orrore percepì distintamente una presenza sovrapporsi alla sua identità, uno spettro che l'obbligò a stringere gli occhi e tendere i muscoli per prepararsi, eccitata, istintiva. 

Prepararsi a cosa? 

A giocare. 

La bocca le si storse involontariamente e le sue gambe scattarono inseguendo la bambina verso la strada: la afferrò per i capelli e la sgozzò osservando come il sangue fiottasse dall'arteria in un getto che non avrebbe mai pensato essere così irruento. 

L'urlo di una vecchia la distrasse da quella fontana seducente.

Cercò di chiudere gli occhi, di fermarsi afferrando con le mani il palo di legno che delimitava il recinto da cui stava per uscire, ma fallì miseramente: il suo corpo non le obbediva e sentiva in lei crescere l'euforia che aveva già provato nell'assassinio dei tre adepti delle Cappe Nere. 

Questa volta Diane si piantò in corrispondenza dello stomaco squarciando la pancia della donna. Ne uscì seguita da viscere bollenti. 

Usò la mano libera per strapparle e far urlare di nuovo la vecchia che nonostante la ferita rimaneva ancora viva. 

La spinse a terra ed infilzò la lama più volte nel suo petto, fino a quando l'Ombra decise che era abbastanza. Ma c'erano ancora rumori, ancora singhiozzi. 

Si alzò seguendo il suono innocente del pianto di un piccino che cercava di scuotere la sorella a terra di schiena, senza realizzare che con la gola squarciata non avrebbe potuto più vivere. 

«Le puoi fare compagnia» 

Elettra non avrebbe voluto parlare. 

«Che ne dici?» 

Calciò il piccolo corpo ignorando il lamento di dolore e terrore proveniente da quelle labbra arrossate, fissò gli occhi chiari e pieni di lacrime, uguali a quelli della ragazzina riversa sulla strada. 

Appoggiò il piede di peso sulla caviglia del bambino godendo dello scricchiolio proveniente da sotto la suola del suo stivale. 

Elettra avrebbe voluto solo piangere e chiudere gli occhi mentre la sua bocca augurava buon viaggio ed anche Alice si sporcava di sangue innocente. 

Altri rumori, altra carne. 

C'era bisogno di più silenzio. 

 

* * *

Fu silenziosamente grata alle guardie che le bloccarono le braccia dietro la schiena e la sollevarono da terra. Aveva sentito la tensione sciogliersi e le sue membra cedere sotto il peso della gravità e si era lasciata trascinare al suolo, incapace di riappropriarsi del corpo che aveva smesso di essere suo. 

Non aveva ancora provato a muoversi: aveva troppa paura di non riuscire a farlo. 

Lasciò che la trascinassero così come avevano fatto con i cadaveri riversi a terra. Ad occhi chiusi distinse il rumore dell'acciaio sull'elsa delle sue lame. 

Alice. Diane. 

Un singhiozzo le uscì dalle labbra. 

Sorpresa di poterlo fare, scattò: strinse appena le mani e cercò di divincolarsi. 

Trattenne un lamento di dolore quando le afferrarono le braccia con più forza e la colpirono sulle gambe per farla alzare in piedi e camminare. Per nulla incoraggiata, incespicò su sé stessa. 

«Avanti!»

Le guardie continuarono a sostenerla, facendole compiere un passo dopo l'altro. I due uomini armati al suo fianco e i quattro che le camminavano attorno scortandola la guardavano come una bestia pericolosa, inorriditi dallo spettacolo ancora visibile a pochi metri da loro. 

Ma non era stata lei a compiere quella strage. Non aveva voluto uccidere quelle persone, non era stata lei a farlo! 

Sapeva che nessuno le avrebbe creduto. 

«Quella puttana ha ucciso mio figlio! Li ha uccisi tutti!» 

Un lampo di agitazione percorse i volti dei presenti: una donna urlava inseguendo il corteo, sola voce nel silenzio della morte sceso sul villaggio. 

«Kul'ZaTur, ti strappi gli occhi, maledetta!» 

Un uomo la bloccò sulla strada stringendola tra le braccia. 

«Kul'ZaTur, ti faccia annegare nello stesso sangue che hai spanto!»

La forza del paesano non le impedì di continuare a chiamare quel nome proibito: le parole fluivano dalle sue labbra creando un nuovo anatema, preghiera per il demone il cui solo nome era presagio di sciagura e morte. 

«Kul'ZaTur ti tolga tutto!» 

I lamenti di disperazione seguirono la piccola processione fino alla cita muraria rimbalzando tra le case. 

Elettra avrebbe riso se la maledizione che già aveva sulle spalle non si fosse manifestata in quel modo solo poche ore prima. I vecchi spiriti non la spaventavano. 

Arrivati nei pressi del cancello la legarono troppo stretta e la fecero salire su un carro insieme a due delle guardie. Un altro degli uomini si pose alla guida del mezzo affiancato dallo sfortunato funzionario che aveva la responsabilità di amministrare il paese. 

Chiusero il portone. 

«Spero che ti ammazzino» 

Nessuno le avrebbe creduto. 

«Come cazzo ha fatto questa pulce a fare un lavoro come quello?» 

Sentiva il loro sguardo truce sulla pelle. Osò alzare la testa: erano coperti di maglia di colore argentato ed equipaggiati di una semplice spada corta. Sembravano abbastanza grossi da riuscire a metterla a tappeto senza difficoltà e tranquillizzati dal fatto che lei fosse disarmata e inerme. 

Il moro le sputò ai piedi con disprezzo, mentre il collega esordiva in una smorfia di soddisfazione e si avvicinava afferrandole i capelli con forza. 

«Ringrazia che tra quelli non ci sia stato mio figlio, cane, altrimenti non avrei aspettato la giustizia del re» 

Lasciò la presa facendole sbattere la testa sulla parete di legno. 

«Il boia avrà un collo in più su cui calare l'ascia» 

Strinse i denti ignorando la botta e senza abbassare lo sguardo. 

«Una morte rapida e indolore» concluse, sfacciata. Preferiva la morte alla tortura. 

Le guardie le legarono una benda sulla bocca, impedendole di parlare, ma non riuscirono a sfuggire in nessun modo da quello sguardo scuro e intenso, portavoce di un'anima triste e profondamente determinata ad andare incontro al futuro, qualunque esso fosse.

 

 

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Capitolo 8
*** Blackout ***


6
 
Blackout


 

Chiusero la grata alle sue spalle con un tonfo metallico. 

L'avevano isolata degli altri detenuti. Grazie alla sua morbosa opera aveva guadagnato il privilegio di una cella singola ed ora il suo spazio era limitato ad un rettangolo di un paio di metri quadri. 

Si mosse fino ad appoggiare la fronte sulla fredda pietra della parete. Se si concentrava abbastanza da ignorare il rumore delle catene proveniente dal corridoio, riusciva a sentire il mare. Le onde sbattevano placidamente sulle mura portando nella cella non solo il loro ipnotico scrosciare, ma anche l'umidità che rendeva il freddo ancora più intollerabile. La prigione sotterranea doveva essere stata scavata nella scogliera. 

Mosse le dita l'una sull'altra, stropicciandosi le mani e portandole al viso. 

Adesso i suoi movimenti erano precisi e chiari, sentiva e controllava ognuno dei suoi muscoli come se non fosse successo nulla di insolito nelle ore precedenti. 

In qualche angolo della sua mente aveva ancora la speranza di svegliarsi e trovarsi in locanda, nello stesso letto in cui si era addormentata la notte passata. Ma non erano questi i suoi soliti incubi e l'indolenzimento ed il dolore del suo corpo erano troppo forti per essere un'illusione.

Il suo burattinaio si era divertito ad usarla senza risparmiare nessun colpo e portandola oltre ai suoi limiti. Riusciva a distinguere ognuno dei muscoli forzati: le cosce doloranti per gli scatti, braccia e spalle dolenti a causa della furia con cui avevano diretto le lame nella carne. Stava tremando. 

Massaggiò i bicipiti girandosi per cercare il conforto di una luce nel buio del sotterraneo. 

«La cella non è di tuo gradimento?» 

La guardia si beffò di lei, alzandosi dalla sua postazione per avvicinarsi. 

Lo fissò stringendo le mascelle.

«Che hai fatto per finire qui sotto, bellezza?» 

«Che hai fatto tu per avere un incarico così banale?» sputò al suo indirizzo. Allungò una gamba calciando la grata all'altezza delle mani dell'uomo. 

Amareggiata, si rese conto di non averlo colpito mentre questi le alzava verso il petto in segno di tregua. 

«Almeno non sono dietro le sbarre» affilò lo sguardo e rise ancora, arretrando mentre Elettra si dirigeva verso di lui e spingeva contro la porta per forzarla. 

L'arrendevolezza aveva lasciato spazio alla rabbia: dopo cinque anni di carriera perfetta era stata sbattuta in carcere per azioni che non aveva nemmeno voluto compiere! 

«Sei avvisata bambolina: meglio ti comporterai qui dentro, meglio verrai trattata quando dovremmo spogliarti, lavarti, nutrirti... Basta un brutto tiro e la tua permanenza qui dentro diverrà un inferno» 

«Quando uscirò di qui sarete voi a bruciare» minacciò, alzando la voce. Le grate rimanevano immobili. 

La cella sembrava progettata alla perfezione, ma doveva esserci un punto debole. 

L'uomo scosse la testa, come se quelle parole facessero parte di un mantra già sentito e risentito allo sfinimento. 

«Alice! Diane!»

Ignorò le sue urla e prese la torcia che aveva agganciato al muro al suo arrivo. Iniziò a camminare nello stretto corridoio allontanandosi da lei e controllando il resto dei prigionieri. 

Il buio sommerse la ladra, soffocò le sue parole e cancellò le lacrime di rabbia che inclementi le sferzavano le guance. Batté i pugni sulla grata immobile, ottenendo solo nuovi lividi sul suo corpo maltrattato. 

La sua speranza annegò di nuovo, cullata dallo scroscio delle onde del mare.

 

* * *

 

«Ci ha fatto passare una brutta giornata» 

Johan scelse una delle chiavi dal mazzo ancorato alla sua cinta. Aprì la grata e lasciò passare Elva dopo di sé in modo da richiudere subito il passaggio. Lei gli rimase vicino. Aveva paura degli spazi chiusi: gradiva le visite ai sotterranei quasi come l'essere chiusa viva in un armadio. 

Suo cugino l'aveva fatta vivere quella piccola tortura quando aveva solo sette anni. Ricordava perfettamente il buio e le inutili spinte sul legno mentre il ragazzino rideva di lei. 

«Ha cercato di forzare la porta della cella, sono dovuto intervenire un paio di volte e sono arrivati in tre a scortarla al cambio. Non me l'aspettavo così combattiva, insomma, avrà poco più di vent'anni» 

Strinse una mano sul tessuto del proprio abito infastidita dall'odore viziato che era arrivato al suo naso nonostante avessero percorso solo qualche metro all'interno della prigione. 

«Devo ancora vederla» 

«Detto tra me e te, non sembra molto pericolosa, se trascuriamo gli sguardi rabbiosi e i tutti quei bisbigli che mi fanno dubitare della sua sanità mentale» 

La guidò attraverso i cunicoli con sicurezza, illuminando la strada con il fuoco della torcia.

«Ha ucciso una ventina di persone. Stando a quello che dice Vincent un terzo erano bambini. I rimanenti donne, civili e guardie del luogo che hanno cercato di fermarla» 

Johan si voltò, fermandosi lungo il corridoio. Lo sguardo corrucciato tradiva sorpresa. 

«Stai scherzando?» 

Elva scosse la testa: «Vincent sembrava piuttosto serio» 

«Dannazione» si grattò la nuca impensierito. 

«Era da un po' che non avevamo qualcuno di così ...importante» 

«Siamo arrivati?» chiese, spazientita dal suo chiacchiericcio. 

«Sì, scusa. Giù per le scale» indicò un varco alla sua sinistra che si addentrava ancora di più nella nuda terra. Il tanfo di salsedine dava il voltastomaco. 

Fece strada, seguito dalla donna. Le scarpe scivolavano appena sui gradini umidi, troppo stretti per appoggiarci il piede intero. Elva non sapeva se sarebbe stato peggio sfiorare il viscidume depositato sulle pareti per cercare un appiglio o cadere direttamente a terra. Chissà chi ci aveva camminato, lì. 

Optò per una via di mezzo piuttosto semplice: la lentezza. Amava i compromessi. 

Forzò sé stessa ad ignorare la fretta della guardia e si concentrò sui proprio passi. Tutta quella situazione, dal buio attorno a loro alla pesantezza del suo incarico, non faceva altro che agitarla. Inspirò profondamente ignorando l'odore che la circondava. I polmoni ne risentirono comunque, investiti da una traccia gelida di umidità che le entrò fino alle ossa, facendola rabbrividire. Continuare a conversare forse l'avrebbe distratta abbastanza da riuscire a sopportarla. 

«Che cosa dice?» 

«La ragazzina?»

«Sì» rispose a parole, impegnata a seguirlo in un labirinto di cunicoli che sarebbe apparso molto meno intricato se osservato dall'alto.

«Dice dei nomi» Johan si strinse nelle spalle, rallentando per lasciare ad Elva il tempo di seguirlo. 

«Sembra che parli con qualcuno, ma non chiede aiuto» Elva intuì che dovevano essere arrivati non appena la sua voce piena venne sostituita da un sussurro. 

«Forse prega» 

La donna si accigliò osservando il suo interlocutore: pregare? A quale dio avrebbe potuto rivolgersi un'assassina con quelle colpe sulle spalle? 

Non era lì per redimere i suoi peccati, ma per farla parlare causandole il meno dolore possibile. Il suo dio, Dunen, non era un dio violento, ma giusto, e la giustizia non andava proclamata solo con belle parole. Azioni, perseveranza, fede e forza. 

«È lei» 

Si fermò a guardarla. Non le avevano lasciato nulla se non la divisa delle carceri reali: come un fagotto color del fango giaceva a terra, accucciata ad un piede dal muro più distante dalla porta della cella. 

Scacciò la pena che avrebbe provato in altre occasioni ripensando alla storia che le avevano raccontato: omicidi, assassini, setta. Avrebbe meritato tutt'altro che pietà. 

Si morse il labbro, pentita che il solo pensiero che si meritasse quella sorte le avesse attraversato il cervello. Chi era lei per giudicare? 

«Ragazzina, lei è qui per farti delle domande» 

Non una parola, né uno sguardo. 

«Fammi entrare» 

Alla richiesta di Elva, Johan scelse una delle chiavi agganciate alla sua cintura e fece scattare la serratura, attirando per un attimo lo sguardo della criminale. Elettra si raccolse su sé stessa, arretrando e rizzando la schiena. I suoi occhi guizzarono dalla soglia ai propri piedi, tradendo una leggera tensione. 

La donna varcò la porta raccogliendo sicurezza. La carcerata era davvero una ragazzina. Minuta, apparentemente innocua, trattenuta al muro con un paio di catene che le permettevano di allontanarsi da lì solo di qualche braccio. 

Le tese una mano per incoraggiarla ad alzarsi. 

Gli occhi di Elettra non si mossero dal pavimento. Aveva deciso di ignorare deliberatamente la nuova arrivata, avrebbe lasciato che i suoi pensieri continuassero a macerare nei più profondi angoli della sua mente e non avrebbe permesso nemmeno a qual gesto di smuoverla. 

«Non hai voglia di parlare con me?» 

La donna si appoggiò alle sbarre con la schiena guardando la ragazzina seduta a terra. Avrebbe dovuto mettere alla prova le capacità acquisite all'accademia per interrogarla senza farsi uccidere: doveva guardarsi dall'essere mostruoso che Vincent le aveva descritto, avere paura delle sue mani, anche se erano vuote. 

Lui e Reder erano state le uniche due guardie reali inviate al paesello dopo la notizia del massacro e se il racconto concitato del messaggero ed il terrore nei suoi occhi non era bastato a far allarmare Zarog, ci avevano pensato loro a descrivere l'orrore, a contare le vittime e riportare il carnefice, una ragazza legata e sporca di sangue fino all'osso, fino alle prigioni della capitale. 

«Come ti chiami?» 

Nei pozzi neri che si rivolsero a lei non vide quello che si aspettava. La ragazza la guardava con un'intensità anomala, indispettita dall'insistenza delle parole che avevano fermato il flusso dei suoi pensieri, tormentata, ma senza un briciolo di paura. 

Diversa da altri criminali che aveva già fatto parlare, boriosi e folli decantatori di assurde imprese, doveva essere folle a suo modo per non temere l'inevitabile destino a cui sarebbe stata condannata. 

Le ricordava l'unico membro delle Cappe Nere di cui aveva visto l'interrogatorio. Non aveva aperto bocca nemmeno una volta passati alle frustate; si era ucciso la notte stessa e non aveva detto una parola.

L'umidità le aveva incollato i capelli sul capo. Cadevano come fili scomposti sulle sue spalle, nascondendo il collo. 

Si rannicchiò di più per allontanarsi e forse cercare di superare il freddo con il calore della sua stessa pelle. 

«Ieri era più agitata» Johan assisteva, pronto ad intervenire al minimo segno di opposizione. 

Elva inclinò la testa, espandendo il proprio sentire al di fuori di sé. Pervase la piccola cella del suo potere lasciandolo scorrere sul pavimento come una corrente invisibile e calda. Si mise in ascolto. L'assassina non era completamente neutra: il lieve pizzicorio che le solleticò la pelle le suggeriva che la giovane sapesse relazionarsi con la magia in maniera minore. Probabilmente riusciva ad attivare e maneggiare oggetti straordinari con relativa facilità, qualità quasi comune nei criminali, ma oltre a quella piccola abilità le sue capacità erano nulle. Nessun incantesimo, nessuna aura, nessuna scintilla. 

«Qual era il suo equipaggiamento?» 

Johan tentennò per un attimo «Armatura, due pugnali da mischia, qualcuno da lancio» si grattò la testa. «Anche qualche gioiello, ma non ne sono certo. Non sono stato io a perquisirla prima di entrare» 

L'incantatrice avanzò nella cella, osservando ancora la giovane. 

«Le Cappe Nere in genere non ordinano stragi» respirò l'aria salmastra prima di continuare. Alcune parole le si fermarono sulla lingua senza che riuscisse a dar loro concretezza. Dovevano essere state invocate con forza, pensate con una tremenda intensità. Aprì la bocca lasciando che uscissero naturalmente in un sussurrò che attirò nuovamente lo sguardo della criminale «Alice, Diane. Sangue» 

Sbatté gli occhi, mentre prendevano consistenza nella sua mente, quindi parlò.

«Chi sono Alice e Diane?» 

Il tormento era svanito, rimpiazzato dalla rabbia. Elettra storse la bocca in una smorfia e voltò la testa contro la parete alla sua destra. Fece forza sulle gambe e si mise in piedi facendo scorrere la schiena contro il muro gelato. 

C'era dolore in quei nomi, dolore e tremendo affetto. 

«Ventitré persone aspettano le tue parole. Avevano dei nomi anche loro, proprio come Alice, proprio come Diane» 

Gli assassini avevano senso di colpa? 

«Nomi, volti... Ventitré persone aspettano di conoscere la ragione per cui sono state uccise da te» 

Elva la vide socchiudere gli occhi e stringere forte una mano a pugno. 

«Perché hai ucciso quei bambini?» 

Tanto dolore, troppo, talmente tanto da spandersi al di fuori di lei senza che potesse controllarlo. Invase Elva per un attimo, facendola rabbrividire e trattenere il fiato. 

Il dolore era intriso di morte, paura e desiderio. 

«Erano bambine anche loro...» sussurrò senza trattenersi, raggiungendo un'improvvisa consapevolezza. 

L'aria tremò ad un gemito trattenuto di Elettra, si quietò come l'acqua scossa da un sasso e rimase immobile. Densa. Il silenzio rimase totale per secondi, forse minuti. 

Così come era nata, l'ondata di emozione si spense, riassorbita dalla criminale. 

L'incantatrice deglutì, recuperando la calma. Era stata sorpresa nel momento di massima recezione perché non immaginava di poter avere a che fare con sensazioni di tale intensità e con un sapore così blu. Dov'erano la rabbia? Il disprezzo e tutto il rosso istinto che l'aveva resa capace di uccidere? 

Sospirò. Aveva sperato di non dover utilizzare magie superiori e muoversi sul sottile filo che delimitava lecito e proibito: la nuova riforma di Zarog sul trattamento dei prigionieri. 

Non era divertente invadere le menti della gente, ancora meno quelle degli assassini, ma era convinta che fosse meno doloroso cedere per una manciata di secondi che essere torturata fisicamente. Dopotutto se avesse collaborato e non avesse trattenuto i suoi pensieri per sé, forzandola ad abbattere le sue difese con la violenza, non avrebbe sentito nulla oltre ad un flebile ed innocuo ronzio, ed avrebbe udito quello solo perché in grado di percepire la magia.

 Cercare di resistere avrebbe reso le cose difficili per entrambe. 

«Ho bisogno che tu collabori con me» si avvicinò di un passo, sussurrando, cercando il contatto con il suo sguardo scuro e sfuggente. 

«Sono stata mandata per conoscere quello che hai fatto, individuare i tuoi mandanti e capire se altri membri della tua Gilda vogliono mettere in pericolo il regno» spiegò, caricando la voce del piccolo incanto che avrebbe dovuto convincerla a girare la testa e guardarla. 

La magia di Elva si infranse sulla pelle della criminale senza esito, facendola scuotere la testa per la frustrazione. Ora comprendeva il senso di impotenza provato dal suo maestro nel tentare di forzare l'impenetrabile scudo di Galor Freccia Rossa. Ma Galor non era un pesce piccolo quanto quella ragazza: ce la poteva fare, ce la doveva fare. 

«Johan» chiamò la guardia e schiarì la voce, sorpresa dal tono flebile uscito dalla sua gola. 

«Bloccala» 

Mentre l'uomo spostava Elettra dalla parete e le teneva le braccia ferme dietro la schiena, la donna le artigliò il mento con le dita. Un sussurro ed uno studiato movimento della mano libera fecero capire ad Elettra le intenzioni di Elva troppo tardi. Senza poter reagire si trovò intrappolata nelle sue iridi chiare, incapace di sfuggire, incapace di imporre la sua volontà sul proprio corpo, quasi come era successo al villaggio. Fu travolta dal panico. Non poteva spostare lo sguardo da quel frammento di cielo che aveva deciso di mostrarsi così lontano dalla luce. 

Calciò davanti a sé ed Elva perse il contatto, permettendole di parlare. 

«Sapete quello che ho fatto, non vi serve niente» sibilò voltando la testa per nascondere gli occhi all'incantatrice che aveva davanti. Avrebbero potuto reagire: immobilizzarla con una parola e costringere a rivelare tutti i suoi pensieri. 

Cosa avrebbero visto? E cosa aveva cercato quella donna? 

La Gilda le avrebbe fatto passare dolori più atroci della morte stessa se avesse rivelato qualcosa su di loro; Alice, Diane, erano sue, solo sue! E altrettanto sua era l'Ombra che le aveva fatto compiere il massacro! Sua e diversa da lei. 

Non le avrebbe creduto nemmeno quella strega. L'avrebbero uccisa con ancora più cautela perché avrebbero capito quanto poteva diventare pericolosa. 

«Elettra» 

S'irrigidì nel sentire il suo nome e strattonò ancora le catene, nel tentativo di tornare nell'angolo della gabbia in cui l'avevano rinchiusa. Meglio la solitudine, l'umidità. Meglio la fame ed il dolore rispetto alla magia. 

«Tienila ferma ancora un attimo, Johan» 

«Tutto quello che vuoi» 

L'uomo sciolse il lucchetto solo per accorciare la corda. Rapidamente, sorprendendola con uno strattone, la tirò verso di sé, fermandola. Nonostante i tentativi di lotta Elettra era bloccata contro la parete, senza una via di scampo. Una parola della donna rese le sue membra molli e la testa pesante: l'assassina collassò sotto il suo stesso peso. Proprio le stesse catene che la imprigionavano frenarono la caduta, lasciandola indifesa. Le mani di Johan guidarono la sua testa verso Elva con decisione, in modo che i loro occhi potessero ancora incrociarsi. 

Nuova immobilità, nuova invasione. 

Urlò, frustrata, mentre il terrore la dilaniava dall'interno e l'Ombra rispondeva, muovendosi nelle profondità della sua anima per scacciare l'intrusione. Poteva sentirle all'interno di sé il chiarore dell'incantatrice che frantumava le sue protezioni, l'Ombra nera che approfittava del sigillo rotto per infilare le sue spire nei meandri della sua anima, riempirla, sommergere lei e la luce. La torcevano, stritolandola nel loro potere in uno scontro inaspettato, senza darle la possibilità di un respiro, bruciandola come fiamme incandescenti. Riuscì solo a spalancare di più gli occhi e pregare di non perdere coscienza nell'azzurro. Voleva scappare. Voleva urlare. 

«Basta» 

Una parola all'unisono decretò la fine della magia. Richiesta d'aiuto e dato di fatto. 

Elettra si accasciò a terra, senza coscienza. Elva si spostò sul fondo della cella. Lontana da lei, la fissava, spaventata ed in guardia, cercando di calmare il respiro furioso e di spegnere la voce che le urlava nella mente dicendole di scappare subito dalla cosa che aveva davanti. Un velo di sudore le bagnava la fronte. 

«Cos'è successo?» 

Elva scosse la testa senza dare risposta alla guardia. Ondeggiando nella confusione, tenendo salda la presa sul muro al suo fianco uscì dalla cella mentre Johan allentava le catene della prigioniera. Uscirono insieme dai sotterranei, senza aspettare che si risvegliasse.

 

* * *

 

«In piedi» 

La guardia la afferrò per un braccio, facendola alzare senza aspettare che lei aprisse gli occhi. 

Prigione, magia... Sbatté gli occhi, abbagliata dalla luce della torcia, puntata dritta addosso al suo volto. 

«Avanti» 

La trascinò lungo il corridoio manovrandola come una bambola di pezza. Le sembrava che la sua testa sarebbe scoppiata da un momento all'altro: pulsava ancora per la stanchezza e per lo scontro di cui era stata vittima prima di perdere coscienza. Cos'era successo in quell'attimo? 

Ondeggiava in un mare ovattato di dolore mentre il mondo si muoveva al doppio, triplo della sua velocità. 

Sbarre, gradini... 

I passi erano confusi, c'era troppa luce. La sua testa... avrebbe preferito che gliela staccassero dal collo pur di far smettere quel rimbombo prepotente che seguiva ogni pensiero ed ogni azione. 

 «Johan mi ha raccontato che non sei stata educata con Elva»

Si accorse di essere stata legata solo quando le corde le furono strette alle caviglie tanto da farla lamentare per il dolore. 

Si mosse senza successo. I tentativi di opporsi al brusco trattamento a cui la guardia la stava sottoponendo erano inutili: Elettra non aveva la forza fisica per far fronte al mastino che ora le stava assicurando le braccia alla parete con catene di ferro. Qualunque cosa l'avesse fatta muovere al villaggio e mandare al tappeto tutti gli oppositori sembrava non voler intervenire a suo favore. 

«Non sono favorevole alla filosofia di Zarog» 

Riuscì a mettere a fuoco l'uomo mentre le fermava l'ultima catena sul polso destro. Capelli corti e biondicci, naso storto. 

«Il tuo caso è troppo fresco per prendere provvedimenti: "dobbiamo conoscere perché ha fatto ciò che ha fatto", "non dobbiamo forzare la mano e favorire le sue menzogne"» 

Perse il contatto suo viso mentre si allontanava, distinguendo solo le forme di un corpo massiccio che sembrava scoppiare sotto all'uniforme. 

«Ha troppa fiducia nella magia, crede troppo che le cose si possano risolvere con il "bene di tutti". Uomo stolto, dico io» 

Elettra abbandonò il capo verso il basso, sopraffatta da una fitta al collo data dal tentativo di seguirlo guardando dietro di sé. Avrebbe dovuto affidarsi solo all'udito, ma il dolore era troppo, la confusione la soffocava. 

«Allora poiché le domande di Elva non hanno avuto risposta, ora ci penso io a te» 

La voce dell'uomo si incupì, ricordandole per un momento il mostro Nero delle storie che le raccontava Jasmine la notte per farle paura. Si lamentò a mezzavoce: i tentativi di riacquistare lucidità si infrangevano come cristallo ogni volta che scuoteva per errore la testa. Ondate di nausea e capogiri erano l'unico risultato ottenuto dalla sua futile opposizione. 

«Ti propongo un gioco, ragazzina» continuò. Sembrava soddisfatto del vederla così inerme. 

«Si chiama "rispondi alle domande o ti frusto", è la mia personale variante dell'interrogatorio che ti hanno già provato a fare» 

Tortura. Avrebbe dovuto immaginarlo. 

«Iniziamo con qualcosa di facile» 

Tirò un braccio verso il busto, sentendo il ghiaccio del ferro scontrarsi con il suo polso, annaspando in un mare di caotica debolezza. Mani legate, caviglie immobilizzate... 

«Qual è il tuo nome?» 

Scosse le braccia, senza capire, mentre un fischio le invadeva la testa e le parole si confondevano l'una con l'altra. 

Elettra. Elettra Vatos. 

Un borbottio ovattato, il tentativo di tornare a galla. L'adrenalina l'avvolse all'improvviso mentre la frusta le segnava la schiena regalandole un secondo di lucidità e facendola gemere. 

«Qual è?» 

Il secondo colpo arrivò senza darle la possibilità di risposta. Spalancò gli occhi sulla stanza arrossata dal colore dei fuochi sospesi sulle pareti, ingoiando il dolore e le lacrime. Quanto tempo era passato dall'incontro con la strega? Quante possibilità c'erano che l'uomo sapesse il suo nome? Poteva rinunciarci, al nome. Poteva. 

La voce uscì troppo flebile, l'uomo non era contento. 

«Non borbottare» 

«Isabel»

Tre

La frustata le fece inarcare la schiena. 

«Bugiarda oltre che assassina» 

Le sue mani si strinsero a pugno. Non poteva scappare, non poteva fare niente.

«Chi ti ha mandato?» 

Nessuno. Nessuno. 

Non le avrebbe creduto, l'avrebbe colpita più forte e basta. 

«La Gilda?» 

«Le Cappe Nere non ti dicono nulla?» 

Voleva la verità? Voleva davvero la verità? 

«Galor non è passato tra le mie mani, ma tu non avrai la stessa fortuna» 

L'avevano già citato. Non lo conosceva Galor, l'aveva visto al quartier generale, null'altro! 

«La strage non poteva essere l'obbiettivo. Chi sono i complici?» 

«Nessuno» 

Quattro

«Parla più forte» 

«Nessuno!» 

Urlò. 

«Non mentire! ‒ cinque ‒ Cos'avete fatto ad Oner? Chi ti ha mandato?» 

«Non avete bisogno delle mie parole per sapere quello che ho fatto!» 

La voce le uscì spezzata, acuta, rotta dalla sofferenza. 

Un altro segno la fece piegare e piangere lacrime bollenti. L'uomo non aveva più bisogno di fare domande. 

 «Ho ucciso! Elettra Vatos ha ucciso!» 

Urlò quando l'ennesimo colpo di frusta le sferzò la schiena. 

Sette

«Perché?» 

Aveva risposto. Basta. Basta! 

«Per niente» 

L'aria le graffiò la gola mentre sputava le ultime parole. Udì ancora la voce del mastino e si sentì colmare di una rabbia improvvisa. Un'Ombra nera e bruciante la inondò dall'interno, senza misura, oltrepassando i confini del suo stesso corpo. Incapace di sopportarla collassò, inerme, sostenuta dalle stesse catene che la tenevano imprigionata.

 

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