Cigno Nero

di Angel TR
(/viewuser.php?uid=53227)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ombra ***
Capitolo 2: *** Luce ***



Capitolo 1
*** Ombra ***


Storia partecipante al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di Efp.
Nome: Angel Texas Ranger
Titolo: Cigno Nero
Fandom: Tekken
Pacchetto Cigno Nero:
Obbligo: Nota Lime
Prompt: Rissa/Litigio
Oggetto: Biglietto
Bonus — Colore: Ardesia (grigio)
Bonus — Canzone: From Ashes to New - Breaking Now

Partecipa alla challenge Parole Quasi Intraducibili indetta da Soly Dea su efp: Kattebel: un breve biglietto scritto in modo informale e dato a qualcuno per attirare la sua attenzione oppure tenuto per sé come promemoria per non dimenticare qualcosa.





CIGNO NERO



*

"Cigno nero: la rivalità come pretesto per un confronto con una fondamentale ma repressa parte di sé."
Le Cinematographe



너는 나고 나는 너야, 알겠니
우린 한 몸이고 부딪치겠지
~
You are me, I am you, now do you know
We are one body and we are gonna clash

BTS - Shadow



1) Ombra



"L'ombra come parte inferiore della personalità e coincidente con il concetto di inconscio personale. Successivamente si passa a una concezione sovrapersonale, in cui l'ombra è Ombra assoluta, il negativo dell'esistenza."
Estratti dalla Teoria dell'Ombra di Carl Jung



I just don't care anymore and I can't pretend
I haven't been here before and haven't seen the end
I sometimes hope for a cure I'm just lost within
I just don't care anymore, why can't I win



I muri della doccia del complesso dove si teneva il torneo parevano rinchiuderlo in una prigione, una prigione dalla quale Hwoarang non aveva nemmeno la forza di uscire. Le braccia tese verso le piastrelle sporche, lasciò che l'acqua gli scorresse lungo la schiena per lavarlo e togliergli di dosso le tracce del peccato appena commesso. Il rumore dei passi, udibile persino sopra lo scrosciare del getto d'acqua, gli fece sollevare la testa verso le piastrelle. Nello scorgerle, gli sfuggì un ghigno: erano state ironicamente pennellate di un colore in tinta con il suo umore, non c'era che dire: grigio ardesia, grigio come il cielo triste che avvolgeva come una cappa la città di Tokyo.
Istintivamente chiuse gli occhi, come se quel piccolo gesto potesse proteggerlo dalla realtà e isolarlo da quei passi che, inesorabili, si facevano sempre più vicini. Ciuffi di capelli rossi ormai fradici gli si attaccarono sul collo, un promemoria di quanto avessero bisogno di una spuntata. Vai via, urlò dentro di sé, augurandosi che il messaggio arrivasse anche a chiunque avesse avuto la pessima idea di raggiungerlo dopo la sconfitta.
Sconfitta. La sola parola faceva ribollire il sangue nelle vene di Hwoarang, gli faceva digrignare i denti da quando era poco più di un ragazzino orfano, cresciuto da un maestro squattrinato di Taekwondo che l'aveva preso a cuore. Quel ragazzino si era trasformato poi in uno scapestrato che si azzuffava nei vicoletti bui di Seoul. I suoi calci riuscivano a strappare via i ghigni di disprezzo dalle facce dei ragazzotti snob e arroganti più grandi di lui.
Hwoarang aveva sempre vinto.
Ogni match, ogni incontro, ogni rissa, ogni torneo, ogni avversario.
Fino a quel momento.
Non poté evitare al proprio pugno di sferrarsi contro le malandate piastrelle della doccia. Dannazione.
«Mi dispiace, Hwoarang. So quanto ci tenevi a partecipare al torneo.»
Hwoarang aprì di scatto gli occhi. Davanti al suo sguardo furioso, le gocce d'acqua seguivano il tracciato disegnato dalle piastrelle in un gioco di forme geometriche, indifferenti al piccolo dramma umano che si consumava dentro al suo animo. L'oggetto del suo odio si stagliava proprio dietro di lui e Hwoarang si chiese se potesse avvertire le ondate di rabbia che emanava il suo corpo, se fosse abbastanza sveglio da cogliere l'antifona e filarsela. Le dita cercarono un appiglio nelle piastrelle, arpionandone gli incavi e distruggendo il sentiero delle goccioline. Fece un respiro profondo prima di girarsi e affrontare il suo nuovissimo acerrimo rivale.
Com'era possibile che persino in quel cesso di posto Jin Kazama brillasse di luce propria? I suoi occhi ambrati lo stavano scandagliando come se potessero analizzare ogni suo pensiero; improvvisamente, Hwoarang si sentì terribilmente in imbarazzo e terribilmente nudo. Alzò gli occhi al cielo e gli diede nuovamente le spalle per cercare il suo accappatoio che, ovviamente, non trovò. Al limite della sopportazione, con un'imprecazione a fior di labbra, si voltò lentamente verso Kazama, sentendosi dannatamente stupido.
«Che cazzo vuoi adesso, eh?» sbottò, evitando di guardarlo negli occhi.
Lui si limitò a scrollare il capo mentre, con un movimento fluido, si sfilava la divisa, lasciandola scivolare lungo le spalle. Anche sotto la luce fredda che gettava un'ombra malsana sulle cabine doccia che parevano vuoti contenitori, la pelle di Jin assumeva un colorito sano, come se avesse passato la giornata a godersi un sole che non era mai spuntato nel cupo cielo di Tokyo. Kazama non è grigio fu tutto quello a cui riuscì a pensare Hwoarang, intontito dal misto di emozioni – rabbia, delusione, acuite dalla palese indifferenza di Kazama.
«Non intendevo causarti un tale danno» rincarò la dose quest'ultimo.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«E allora non avresti dovuto farlo, stronzo» quasi gli ringhiò contro Hwoarang, questa volta dandogli davvero le spalle perché il ricordo dell'eliminazione dal Torneo iniziava a sbiadire davanti agli addominali scolpiti di Kazama – non regge minimamente il confronto con me, tentò di rassicurarsi.
La voce alle sue spalle giunse pericolosamente vicina alle sue orecchie. «Non avrei mai mancato di rispetto al mio avversario» rispose Jin, serio.
Hwoarang sentì il sangue affluire alle guance. Le gocce d'acqua cadevano dal microfono della doccia con un ticchettio che scandiva il battito forsennato del suo cuore. La parola "mio" fra le labbra di Jin suonava così… «Avversario, Kazama? Ti sei appena guadagnato un rivale. Ora smamma se non vuoi che ti prenda a calci in culo!» abbaiò, tanto per scacciare quegli strani pensieri dalla sua mente.
Ma Kazama non smammò: rimase dietro di lui, il respiro lieve fra i suoi capelli bagnati. Hwoarang rabbrividì, suo malgrado, digrignando i denti per la stizza. «Devo farmi la doccia, Hwoarang. Non prenderla sul personale: era solo un incontro» spiegò il suo nuovo rivale.
Il fruscio alle sue spalle lo informò che Jin si era liberato anche dei pantaloni. Il getto d'acqua che si azionò gli disse che ora era sotto la doccia. Hwoarang stava tremando di freddo: allora perché sentì un'ondata di calore travolgerlo con un tale impeto da farlo barcollare? Con l'accappatoio che finalmente lo avvolgeva, proteggendolo dagli sguardi intensi del ragazzo, si sentì abbastanza forte per gettare appena un'occhiata al suo corpo: rivoli d'acqua scorrevano lungo la schiena ampia, le ciocche di capelli neri rilucevano come diamanti neri.
Eccoli arrivare di nuovo quel vuoto, quel calore, quei brividi che parevano febbre e fu allora che Hwoarang comprese di odiare a morte Jin Kazama.


I'm stuck in back of the line and behind the mix
Still trying to find what is mine find where I fit

I open my eyes and these lies
They breed and they feed off of me
I try to revive a design
But can't see a need to agree
I'd hide in my mind and rewind
The scene or I'd flee underneath
But time after time I still find
I bleed more for me to succeed


La valigia ancora sfatta e aperta in due rispecchiava in pieno l'animo di Hwoarang, steso sul letto, con le gambe e le braccia spalancate, gli occhi persi nel soffitto dello stesso colore sporco delle docce. L'intonaco si era staccato in più punti, creando crepe qua e là e l'umidità di certo non aiutava: infiltratasi attraverso gli strati sottili della parete, si mostrava in tutto il suo splendore con grosse macchie.
Hwoarang sospirò, sconfitto ancora una volta, prima da Jin Kazama, poi da sé stesso e infine dal bugigattolo che aveva chiamato "casa" per tutto il tempo in cui aveva soggiornato a Tokyo, giusto per non farsene mancare nemmeno una.
Inclinando la testa, poteva vedere la città attraverso l'unica finestra del monolocale: Tokyo ricambiò lo sguardo con durezza dall'alto della sua prosperità. Nonostante fosse grigia e inquinata, nonostante la notte non fosse ancora calata su di lei per accenderla di neon – verde e azzurro, giallo e rosso così brillante da ferire gli occhi – e farla bella, Tokyo conservava la sua dignità e la sua opulenza come una signora dell'alta società decaduta.
A Hwoarang sfuggì una risata amara, quasi isterica. «Seoul è più bella di te» sputò fra i denti, come se una città potesse offendersi a causa di quell'insulso paragone.
Tokyo non lo degnò di una risposta.
«Fottiti» biascicò, voltandosi per darle finalmente le spalle e concedere ai suoi occhi di chiudersi per non vedere più tutto quel lerciume.
Finalmente un senso di alienazione iniziò a strisciare verso di lui, preannunciando l'arrivo di Morfeo; ma, proprio quando Hwoarang era sul punto di sprofondare, un colpo alla porta lo fece saltare di botto sul letto, la schiena dritta e l'aria vigile. Scese dal letto e si diresse verso la porta scalzo, sfidando l'esercito di batteri che si annidavano nella moquette di bassa qualità, ormai di un borgogna talmente sbiadito da parere grigio, la stessa sfumatura ardesia del cielo di Tokyo. Siccome la porta non era provvista di occhiello, Hwoarang aprì la porta con un moto di noia, la mano stretta attorno alla maniglia pronta a richiudere immediatamente in caso di seccature.
Ad attenderlo sull'uscio, però, non c'era proprio nessuno.
«OK… Davvero divertente» esclamò, strascicando le parole, seccato da quella perdita inutile di tempo che l'aveva strappato dall'abbraccio di Morfeo. Richiuse la porta e si voltò, scalpitando per gettarsi sul letto malandato ma, appena mosse il primo passo, calpestò una consistenza dura che poco sapeva di moquette. Senza pensarci troppo, abbassò lo sguardo e scorse un foglietto.
Un biglietto.
Incuriosito, si chinò per raccoglierlo.
Incontriamoci da me per la rivincita, lesse Hwoarang in un sussurro. Non ebbe nemmeno bisogno di riflettere: la sua mente collegò subito quel biglietto agli occhi ambrati di Jin Kazama e un ghigno piegò un angolo delle sue labbra. Girando il biglietto, lesse l'indirizzo e un fischio gli sfuggì dalle labbra: Asakusa? Dove diavolo si trovava Asakusa ora? Quel rincoglionito davvero pensava che lui conoscesse la geografia del Giappone? «Non ho nemmeno internet, ora come faccio a sapere dov'è questa Asakusa!? Sarà un quartiere di Tokyo, no?» si sfogò.
Il sangue gli pompava velocemente nelle vene, rendendolo inquieto e pronto all'azione. Corse nel bagno per darsi una sistemata: doccia veloce, shampoo, vestiti puliti, il portafoglio leggero nella tasca posteriore del paio migliore di jeans che possedesse. Si controllò velocemente allo specchio appannato del bagno prima di uscire. Rallentò solo quando si rese conto di star affannando. Sbuffò, infilò le mani nelle tasche del giubbino di pelle e s'incamminò, fingendo di sapere quale fosse la sua direzione. Incrociò persino un paio di combattenti squattrinati come lui, alcuni dei quali avevano passato le selezioni per l'Asia.
Il Torneo del Pugno di Ferro, infatti, per accogliere un bacino di aspiranti partecipanti più ampio possibile, aveva stabilito che si tenessero delle selezioni per ogni continente. Hwoarang aveva avuto la sfortuna di capitare con Kazama proprio nell'ultima fase prima degli ottavi di finale, dove i lottatori sarebbero stati smistati casualmente e non più in base al continente di appartenenza. Quando aveva scoperto il suo avversario, Hwoarang si era lasciato andare a una risata: aveva avuto modo di conoscere Kazama in uno di quegli stupidi incontri clandestini. Si vedeva lontano un miglio che non era il suo ambiente: Jin, con il suo viso pulito quasi nascosto dal cappuccio della felpa e l'aria seria, sembrava non appartenere nemmeno alla stessa specie degli avanzi di galera che girovagavano nei vicoli bui dove si tenevano i match. Hwoarang l'aveva notato subito ma Jin non aveva mai notato lui – o, almeno, così aveva creduto fino a quel momento.
Invece mi aveva notato. Ricorda anche il mio nome, pensò, con un senso di trionfo che gli lasciò l'amaro in bocca. Essere riconosciuto da un combattente del livello di Jin doveva fargli piacere, no? Ma Jin non era poi così forte… Non era assolutamente migliore di lui. Quella vittoria era stata frutto di una mera casualità, un puro colpo di fortuna che non si sarebbe ripetuto quella volta.
Hwoarang avrebbe battuto Jin, finalmente.
Il pensiero di prendere a calci in culo Kazama fece spuntare un sorriso soddisfatto sul suo viso e lo rese ancora più sfacciato, se possibile. Sfoggiando la sua migliore faccia tosta, fermò un uomo sbattendogli in faccia l'indirizzo e chiedendogli informazioni in un terribile e maccheronico giapponese. Non sarebbe certo stata la barriera linguistica a impedirgli di scontrarsi con Kazama.
Ora, però… Come superare la barriera denaro?
Alla biglietteria gli dissero che l'unico modo per recarsi ad Asakusa gratis era a piedi e quindi Hwoarang fu costretto a sacrificare gli ultimi yen rimasti per la giusta e nobile causa di rendere pan per focaccia a Kazama. Prendere la metro a Tokyo era faticoso quasi quanto un incontro del Tekken: il ragazzo si ritrovò a spintonare per guadagnarsi un centimetro nel vagone strapieno, il tutto mentre il suo cervello non ne voleva sapere di concentrarsi su quella lotta per lo spazio vitale ma continuava a mandargli immagini di Kazama sotto la doccia – beh, menomale che si lava.
Riuscì finalmente a respirare aria fresca, per così dire, e a stiracchiarsi quando uscì dalla metropolitana. Tre signore anziane stavano passeggiando lungo la strada, delle buste tra le mani nodose, i loro occhi ancora vispi adocchiarono subito il giovane bellimbusto che bighellonava davanti alla fermata della metro.
Nella sua innocenza, Hwoarang corse loro incontro per chiedere indicazioni, sventolando il biglietto di Kazama; invece, si trovò a trasportare le pesanti buste della spesa fino a casa delle signore che lo incoraggiavano con dei colpi della mano.
«Dopo questa sfacchinata, Kazama me lo dovreste portare fino a Seoul» si lamentò Hwoarang in coreano, posando l'ultima busta sull'uscio della porta. Affannando, si guardò intorno: altre signore anziane ticchettavano lungo le stradine, alcune in silenzio, altre chiacchierando, ma tutte rigorosamente con delle buste in mano; una rovistò nel bottino e rivelò cautamente, come se fosse un tesoro, un filo di stoffa rossa: intimo! Hwoarang distolse lo sguardo, vagamente imbarazzato. È il quartiere Harajuku delle nonne!
«Porta bene, porta bene!» commentò la signora – che aveva notato la scenetta – piazzandogli tra le mani dell'intimo maschile di un rosso ancora più brillante di quello dei suoi capelli e costringendo ad accettarlo. «L'avevo comprato per mio nipote ma prendilo tu. Porta bene!» insistette davanti ai vani tentativi di Hwoarang di restituirle il pacchetto incriminato.
«Accettalo» disse una voce che Hwoarang aveva imparato a conoscere con dolore. Chiuse gli occhi, traendo un respiro profondo: il suo corpo, ormai una macchina impazzita, non la smetteva di sudare e schioccare ovunque.
Non è possibile.
Come in un film dell'orrore – o una commedia di pessimo gusto – il ragazzo si voltò per incontrare il suo rivale sull'uscio della porta affianco alla casina dell'anziana signora. Con quel tempio – Sen… Sen qualcosa – che si stagliava alle sue spalle in lontananza, Jin Kazama pareva uscito direttamente da un fottutissimo film sugli imperatori dell'antico Giappone. Hwoarang restò immobile, imbambolato sia da quella visione che dall'imbarazzo, in mano l'intimo rosso, a osservarlo senza proferire parola.
Gli occhi vispi dell'anziana passarono dal suo volto a quello di Jin, vi lessero qualcosa e si incresparono di rughe. Batté la mano sulla scatolina incriminata. «Mettilo, scaccia il male!» suggerì un'ultima volta prima di rintanarsi nella sua casa.
Jin s'inchinò e Hwoarang si affrettò a imitarlo.
«Hai ricevuto il mio biglietto» disse Jin, guardandolo dritto negli occhi mentre con un cenno lo invitava a entrare in casa. Hwoarang distolse velocemente lo sguardo, tentennò sull'uscio prima di decidersi a seguirlo. Gettò un'occhiata al monolocale: era spoglio ma ordinato. Kazama non lasciava mutande in giro. A dir il vero, quella stanza sarebbe potuta appartenere a chiunque: Jin non aveva lasciato impronte, testimonianze della sua presenza, il che lasciava presupporre che si fosse trasferito lì da poco.
«Ero sicuro che avresti voluto una rivincita!» sbottò, incrociando le braccia al petto. In realtà, era Hwoarang stesso a desiderare un'occasione per provare a Kazama quanto il risultato di quell'incontro, che aveva determinato la sua squalifica dal Torneo, fosse stato solo un caso.
Kazama, ovviamente, non abboccò. Nei suoi occhi ambrati balenò solo una luce divertita che si spense immediatamente, un angolo delle sue labbra accennò un sorriso così fugace che se Hwoarang avesse battuto ciglio non l'avrebbe colto.
«Sì. Credo sia giusto così» furono invece le sue parole molto neutrali.
Kazama dominava bene le fiamme che ardevano nelle sue vene e, se da un lato ciò spingeva Hwoarang a fare altrettanto per dimostrare di essere migliore di lui, dall'altro lo infervorava ancora di più. D'altra parte, il ghiaccio, paradossalmente, brucia quanto e più del fuoco.
E Hwoarang era sempre stato una testa calda.
Lasciò cadere il pacchetto rosso.
«Esatto! Allora bando alle ciance, coglione! Ho proprio voglia di spaccarti quel bel faccino da privilegiato. Bello crescere nella villa Mishima, eh?» urlò perché, in fondo, anche lui sapeva dosare le parole e trasformarle in armi affilate. Solo che non si aspettava che l'espressione addolorata che velò per un istante gli occhi di Jin avrebbe fatto molto più male di una coltellata.
«Non abito più con Heihachi, come puoi vedere» rispose laconicamente.
Nonostante se lo fosse aspettato, Hwoarang restò spiazzato. «Perché?» chiese, sospettoso, gironzolando fino al frigo. «Nemmeno una birra? Che noia terribile sei.» commentò, scandagliando i piani del frigo alla ricerca di qualche schifezza per riempirsi la pancia – in fondo, quel viaggio gli era costato il pranzo.
«Se hai fame, ho del petto di pollo» eluse abilmente la domanda Jin.
Hwoarang poteva sentire i passi del ragazzo alle sue spalle, lo strisciare della sedia sul pavimento e improvvisamente realizzò di essere solo con lui in un luogo privato per la prima volta da quando lo aveva conosciuto. L'aria gelida che alitava l'interno del frigo fu un sollievo per le sue guance in fiamme. Deglutì. «In fissa con la linea, vedo. E non mi hai detto perché te ne sei andato da casa del vecchio» riuscì a gracchiare.
Passò qualche secondo prima che la voce di Jin riempisse il silenzio. «Avevo bisogno di trovare i miei spazi.»
Una risata amara sgorgò dalla gola di Hwoarang. «I miei spazi…» lo canzonò. «Oh, ramen coreani… L'unico assaggio di Corea che avrai mai nella vita» dichiarò, voltandosi verso Jin per agitare ironicamente il barattolo.
Ma poi si rese conto di come suonasse la frase e il suo ghigno si spezzò. Davanti alla sua espressione confusa e imbarazzata, Jin si lasciò sfuggire un sorriso: non un sorriso derisorio bensì uno dolce, quasi come se fosse consapevole quanto e più di lui di tutto ciò che si nascondeva dietro quella frase e, per questo, ne era intenerito.
E fu proprio quello a far perdere le staffe a Hwoarang.
«Cazzo ridi, stronzo? Ti diverti a prenderti gioco di me, eh? Credi di essere migliore di me?» sbraitò, allargando le braccia.
Jin restò fermo, seduto. «Non ho mai riso di te, Hwoarang.»
Il suo nome scivolò tra quelle labbra lisce come una melodia. Le gambe del coreano divennero molli, il sangue sembrava ormai essergli defluito dalla testa.
«Sì, invece! Da quando mi hai visto a quel raduno, un anno fa! Te ne stavi lì, con la tua aria altolocata snob: "Ah, che schifo questi sfigati!" Mi guardasti dall'alto in basso, me, i miei vestiti consumati e il mio accento straniero. Tu, tutto vestito per benino, nemmeno un livido, profumato di bagnoschiuma, mi disprezzavi solo perché non ero alla tua altezza. E ieri hai confermato la tua idea di superiorità: mi hai buttato fuori dal Torneo. Voglio ucciderti, Kazama. Non ho mai odiato qualcuno come odio te» finì il suo sfogo quasi sibilando, scandendo le parole affinché il veleno si distillasse a dovere e penetrasse nella pelle di Jin.
Restò fermo e ansimante, in mano ancora il barattolo di ramen, il dito accusatore puntato verso Jin – la causa di tutti i suoi mali, di ogni suo dolore e problema.
Jin sbatté le ciglia, stoico. «E allora uccidimi, Hwoarang» sussurrò in un soffio di voce appena udibile.
Quella frase avrebbe dovuto essere musica per le sue orecchie eppure non era quello l'invito che una parte di Hwoarang desiderava. Ed era proprio quella parte che voleva mettere a tacere.
E così, quasi come seguendo le battute di uno squallido copione da teatrino, piegò un angolo della sua bocca all'insù. «Con piacere, Kazama» annunciò, prima di fiondarsi su di lui.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Luce ***


Cwtch: non un semplice abbraccio, non un abbraccio qualsiasi, ma un abbraccio affettuoso che diventa un luogo sicuro, quel luogo in cui ci sentiamo veramente a casa, tra le braccia della persona amata.



2) Luce



Non fu come Hwoarang aveva immaginato.
Proprio come in uno spettacolino da bettola, l'elegante Karate di Kazama e l'incessante Taekwondo di Hwoarang sparirono per lasciare il posto alla rabbia e alla maldestrezza delle risse di strada tra teppisti. Le dita di Hwoarang cercarono e trovarono i capelli di Jin: uno strattone, due strattoni. Inizialmente Jin si era limitato a difendersi ma, dopo quella smania, digrignò i denti in un ringhio e gli assestò un cazzotto così forte che il coreano si ritrovò con il sedere a terra.
Ghignò. «Ti piace violento, eh?» insinuò, pulendosi il sangue dal labbro spaccato con il dorso della mano.
Jin lo incitò. «Non ne hai nemmeno idea.» rispose, abbassando la voce di mezzo tono.
Come poteva quella frase risultare così minacciosa e invitante al tempo stesso? Il suo corpo fu scosso da piacevoli brividi che gli diedero la pelle d'oca. Hwoarang viveva per lo scontro ma delle reazioni così spropositate non gli erano mai capitate. I jeans gli comprimevano la circolazione: rialzarsi in piedi fu più difficile del solito.
In quel brevissimo lasso di tempo, Jin parve totalmente cambiato. L'aria malinconica e vagamente apatica che lo circondava era evaporata, sostituita da un'arroganza che ben si manifestava nel sorriso sghembo e nello scintillio nei meravigliosi occhi ambrati del ragazzo. La sua postura era tesa, come una pantera pronta a scattare sulla preda. Si passò le dita fra le ciocche scure come ebano, senza mai staccare lo sguardo dal suo, in un gesto lento che a Hwoarang mozzò il fiato.
«Ah, Hwoarang… Non impari mai.» lo riprese divertito; solo che la sua voce, roca e lasciva, non suonava assolutamente come quella di Jin.
Il ragazzo l'osservò, vigile, misurando il perimetro. L'ambiguità di Jin l'aveva sempre affascinato, attratto e respinto allo stesso tempo. Il suo avversario si sfilò la felpa, rivelando la pelle della stessa sfumatura della sabbia del deserto, nonostante il freddo.
Scoprì i denti in un sorriso provocatorio. «Hai paura?»
Come tutti gli esseri viventi, Hwoarang possedeva l'istinto di sopravvivenza che, al momento, gli intimava di fuggire da quella tana maledetta e tornare in Corea a gambe levate. Peccato che lui, nella tipica arroganza dei giovani, non desse mai troppo retta al sesto senso, troppo sicuro della forza della sua arte di combattimento. Quindi, iniziando a giocare allo stesso gioco del suo avversario, rispose alla sua domanda con un gesto piuttosto volgare della mano.
Una leggera risata sgorgò dalla gola di Jin, così sensuale da fargli venire la pelle d'oca. «Vedremo.» commentò, in modo ambiguo.
Cosa?, si chiese Hwoarang, confuso, prima di parare l'attacco di Jin. Questa volta, i colpi si fecero più precisi e potenti, la furia precedente alimentava appena una calma e una sicurezza, quasi una superficialità, nella sua tecnica. Più che un combattimento alla pari, a Hwoarang parve che Jin stesse solo giocando con lui, come il gatto con il topo. Se questo è solo l'antipasto, cos'ha in serbo? Non mi pareva trattenersi ieri durante il Torneo, rifletté, vagamente intimorito.
Intento a schivare i pugni che ormai si erano trasformati in proiettili, Hwoarang non si rese conto che Jin l'aveva trascinato dritto dritto nella sua trappola: era spalle a muro. «Stronzo.» sibilò fra i denti, lanciandogli un'occhiata piena di rabbia.
Gli occhi di Jin vagarono sul suo viso, accesi da una strano bagliore che fece scendere un brivido lungo la schiena del ragazzo intrappolato. Si avvicinò, fin quando il suo alito si fuse con quello di Hwoarang che fu colto dalla repentina sensazione che l'oggetto del suo odio più profondo stesse per baciarlo.
Per quale assurdo motivo si sentiva tanto spinto ad assecondarlo?
Terrorizzato da quell'ondata di emozioni sconosciute – e ancor più terrorizzato all'idea di identificarle – gli sferrò un pugno dettato dalla consapevolezza di essere stato sconfitto di nuovo. Un pugno che, contro ogni aspettativa, lo centrò in pieno volto, spedendolo a terra e così Hwoarang poté finalmente prendere fiato, appoggiando la schiena al muro.
Il cuore gli batteva all'impazzata. «Vaffanculo, Kazama. Sei un pervertito del cazzo.» riuscì a dire tra gli ansiti.
Massaggiandosi la guancia arrossata con la mano, Jin si girò verso di lui, lo sguardo illuminato dalla rabbia.
«Ti ho battuto, stronzo.» affermò il coreano, ghignando.
Jin si rialzò. Stranamente, sembrava cambiato di nuovo: la portentosa aura di potere che l'aveva circondato si era dileguata.
«Ora ti riconosco!» esclamò Hwoarang, rimettendosi in posizione. Non era ancora sazio: aveva bisogno di lottare fino allo sfinimento, fino a che Kazama non avesse implorato pietà.
Jin ancorò il suo sguardo come se volesse scavargli dentro. «Tutto ciò è veramente patetico, Hwoarang. Pensi di volermi distruggere ma quello che vuoi è distruggere te stesso. Dovresti smetterla e seguire il tuo istinto.» disse, avanzando. Lo stava sfidando, di nuovo. «Avanti. Baciami.» piazzò le braccia ai lati della sua testa, intrappolandolo esattamente come prima.
Non è possibile. Questa situazione è assurda. Non sta succedendo veramente, pensò Hwoarang, osservandolo sconvolto.
Lo spinse via senza risultato: Jin pareva un macigno che non si poteva spostare, come se avesse messo su una tonnellata. Com'era possibile? Hwoarang doveva avere un'espressione proprio atterrita perché il suo rivale atteggiò le labbra in una smorfia. «Sei così umano. Così debole. Se ti dicessi che tutto questo non è reale e che sta succedendo solo nella tua testa, cederesti?» gli chiese in un sussurro.
Hwoarang scosse la testa. «Che cazzata.» commentò, tentando di evitare gli occhi penetranti dell'oggetto del suo odio, schiacciando quanto più possibile la schiena al muro; ma, dovunque cercasse una via di fuga, trovava le braccia di Jin che lo ingabbiavano.
Gli sollevò il mento con un dito. «Hwoarang.» lo chiamò, come se veramente avesse a cuore la sua salute mentale. «Smetti di combattere una battaglia che sei destinato a perdere. Scoprirai che potresti vincere ben altro.» consigliò, la sua voce un rollio calmo e convincente a cui Hwoarang voleva aggrapparsi con tutto sé stesso.
Squadrò Jin con diffidenza. «Ti sei drogato, vero?» insinuò per smorzare quella luce serena che balenava negli occhi dell'avversario e che gli faceva perdere la poca lucidità rimasta.
Jin si avvicinò fino a che il battito del suo cuore rimbombò nelle orecchie di Hwoarang, fino a quando la sua vista si riempì dell'ambra fusa dello sguardo del maledettissimo stronzo, fino a quando le ciocche scure sfiorarono la sua fronte. Il rivale lasciò scorrere il dorso della mano lungo le sue braccia e Hwoarang non poté far altro che rabbrividire. Il suo cervello si era staccato e non riusciva più a far fluire i pensieri, come se avesse dimenticato chi fosse, quale fosse il suo posto nel mondo – ma, in realtà, Hwoarang non l'aveva mai saputo. Eppure, mentre Kazama gli sfiorava piano, quasi assaporandola, la pelle febbricitante, ormai nuda, Hwoarang avvertì una sensazione che pareva quasi estranea tanto gli era poco familiare: la sensazione di trovarsi esattamente dove avrebbe dovuto.
«Lasciati andare.» gli bisbigliò Jin alle orecchie in un filo di voce appena roca. La mano di Hwoarang scattò automaticamente, infilandosi tra le ciocche setose del suo rivale. Rivale… Era davvero così? Jin era effettivamente la sua nemesi oppure era la personificazione di tutto ciò che Hwoarang avrebbe voluto essere? O – ancora un'altra possibilità che si sarebbe manifestata solo se lui fosse stato veramente sincero con sé stesso – Jin era tutto ciò che avrebbe voluto? Qualcuno al suo fianco, che gli tenesse testa, che apprezzasse ogni strato che lo componeva, che fosse al tempo stesso il suo opposto e il suo sosia. La metà perfetta della mela.
Hwoarang aveva sempre ripetuto come un mantra, fino a convincersi, di non aver bisogno di nessuno, che solo al suo maestro doveva gratitudine, affetto e lealtà, e che nel suo team perfetto figuravano lui, lui e ancora lui. Solo che, mentre Jin gli sfiorava la carotide con le labbra morbide, nella sua mente fiorì spontanea una domanda: e se proprio lui fosse il partner ideale per il suo team dei sogni? Se proprio lui rappresentasse la chiave per aprire le porte di una vita migliore, più stabile, più serena? Avrebbe voluto cercare più a fondo la risposta a tutte quelle domande ma Jin aveva cominciato a lambire un angolo imprecisato tra l'ombelico e il basso ventre e Hwoarang non poté fare altro che inclinare la testa e lasciarsi sfuggire un ansito. E poi il tocco umido salì, intervallato da baci leggerissimi come piume, su fino alle clavicole, alle spalle, al collo, alla guancia.
«Tu sei come me, Hwoarang.» gli sussurrò Jin a fior di labbra, prima di catturarle tra le sue, infilandogli le dita tra le folte ciocche rosse per attirarlo a sé. Lo baciò come se la sua vita dipendesse da quel gesto, abbandonandosi a gemiti che infiammarono ancor di più il sangue nelle vene di Hwoarang. Nonostante avesse chiuso gli occhi, il coreano poté udire il tintinnare della cintura slacciata, il fruscio dei jeans sfilati e, soprattutto, poté sentire il calore del marmoreo corpo nudo del suo rivale.
Hwoarang dovette aggrapparsi al bancone della cucina per non crollare sotto le carezze incessanti del ragazzo. Pareva che entrambi avessero atteso quel momento così a lungo da non riuscire a controllare più l'istinto, così aggrovigliati tra di loro da non poter essere distinti l'uno dall'altra.
«Ammettilo, Hwoarang.» gli intimò Jin, mordendogli appena il labbro inferiore. «La tua vita ruota attorno a me.» rivelò al suo orecchio, prima di dedicargli un ghigno arrogante. Era proprio uno stronzo. Dov'era finito il ragazzo scostante e freddo dell'ultimo match?
Hwoarang sbarrò gli occhi e scosse la testa.
Jin inclinò la testa, uno scintillio divertito nei suoi occhi. «No? Sicuro?» lo stuzzicò.
Gli scoccò un'occhiata così sensuale da arroventare l'aria e accettò la sfida, consapevole di averla già vinta. Il suo tocco delicato ma fermo sulla zona più sensibile del corpo di Hwoarang gli mozzò il fiato. Senza dargli nemmeno il tempo di respirare, Jin si avventò di nuovo sulle sue labbra. Le scariche di piacere gli lacerarono il ventre. E mentre Kazama si beava pomposo del potere che aveva su di lui, l'antico sentimento di repulsione riemerse prorompente, acido come bile.
«Io non sono come te, Kazama.» ringhiò a denti stretti, così furioso da non riconoscere nemmeno la propria voce.
Un filo di lucida follia fece sì che le dita aggrappate al bancone riconoscessero un'impugnatura familiare, talmente familiare che si strinsero automaticamente attorno a essa. Quante volte aveva usato quell'oggetto per affettare salumi, procurandosi anche qualche taglio? Sapeva per esperienza quanto fosse micidiale la lama di un coltellaccio da cucina.
Quel pensiero sfrecciò molto meno rapidamente della lama, stretta nella sua mano, che calò a picco sul viso d'angelo di Kazama una, due, tre volte.
La lama grigio ardesia, lo stesso grigio delle mura degli spogliatoi del Tekken, si intinse di sangue rosso, dello stesso rosso dei capelli di Hwoarang – eppure, fino a quel momento, avrebbe giurato che il sangue di Jin fosse blu, come quello degli imperatori.
Il petto che gli si alzava e abbassava furiosamente, Hwoarang osservò il suo rivale accasciarsi sul gelido pavimento in una pozza di sangue. I suoi occhi ambrati scattarono un'ultima volta verso di lui.
«È davvero questo quello che sei disposto a fare pur di non ammettere cosa vuoi?» chiese in un rantolo.
Hwoarang lo guardò senza capire, il suo cervello completamente offuscato, come avvolto da una coltre di nubi. Questo cosa? Perché Kazama era steso lì per terra? Da dov'era uscito tutto quel sangue? E poi vide il coltellaccio tra le sue mani sporche, sporche del sangue di Jin, e capì. Il coltello gli scivolò tra le dita. Hwoarang indietreggiò.
Avrebbe voluto dire qualsiasi cosa ma le parole gli si mozzavano in gola, come un boccone mal digerito, bloccandogli la respirazione. Le gambe non ressero il suo peso e lui cadde bocconi, finendo per affondare le mani nella pozza che si allargava sempre più.
Una mano gli accarezzò la guancia.
In lontananza, Hwoarang scorse il pacchetto rosso bruciare.


All the time it's trying to break me
Every lie is trying to take me
Now I find I'm dying to save me


Annaspò, cercando disperatamente aria per i polmoni.
Hwoarang si alzò di soprassalto, la maglia incollata al torace sudato. Sollevò tremando le mani davanti agli occhi e sospirò di sollievo nello scorgerle pulite e immacolate.
Che cazzo mi sono mangiato per fare un sogno del genere?
L'immagine di Kazama che moriva l'avrebbe tormentato fino alla fine dei suoi giorni. Deglutì due volte prima di aver il coraggio di posare i piedi sul pavimento e brancolò fino al bagno per sciacquarsi il viso con acqua fresca. Si guardò allo specchio e sbuffò. «Che faccia di cazzo! Guarda un po' se Kazama deve ridurmi così anche nel sonno.» imprecò.
Ritornò nell'unica stanza per buttarsi sul letto, ancora sconvolto dal sogno o, meglio, incubo. Stizzito, si girò sulla pancia per cercare di sfilarsi i jeans – strano, non ricordava di averli indossati. Nel divincolarsi, notò un pezzo di carta nella tasca. Un brivido scivolò lungo la sua schiena mentre, lentamente, le sue dita si avvicinavano al lembo di carta per tirarlo dalla tasca.
«Ci vediamo da me per la rivincita.» lesse ad alta voce, assimilando il messaggio. Osservò i Kanji a lungo, fino a che questi non volteggiarono, accavallandosi tra di loro.
Un senso di nausea gli bloccò la gola. Allora era stato il biglietto a scatenare quel delirio, pensò.
«Ad Asakusa.» bisbigliò Hwoarang e s'impose di non sussultare quando lesse l'indirizzo: era lo stesso che ricordava di aver memorizzato nel sogno.
E tutto si ripeté esattamente come nell'incubo.
Spese i suoi ultimi yen per la metro, incontrò le signore dell'intimo rosso. «Tieni, tieni! Ora sei sveglio. Ora sai.» rivelò misteriosa la stessa signora che aveva insistito nel porgergli il pacchetto. Lui accettò il dono senza fare troppe storie ma continuando a non avere ben chiaro il suo ruolo né quello delle anziane. Che fossero streghe o spiriti?
E adesso arriva Kazama, ricordò Hwoarang, vagamente intontito, mentre soppesava il pacchetto.
«Accettalo.» disse una voce profonda e serena come un vento di primavera.
Era la stessa voce che aveva imparato a conoscere con dolore eppure le gambe di Hwoarang ruotarono di centottanta gradi e le sue braccia si avvolsero attorno alle spalle di Kazama, le dita ancora strette attorno al regalo rosso. Il corpo del ragazzo si schiantò letteralmente contro quello di Jin che sussultò, sorpreso.
Il mondo, che fino a quel momento aveva girato come una trottola impazzita, finalmente si fermò.
«Tutto bene?» chiese a bassa voce, avvertendo il suo turbamento.
Hwoarang non seppe far altro che annuire mentre accoglieva dentro di sé la sensazione dolce e ormai non più estranea di trovarsi esattamente dove avrebbe dovuto essere.
E, quella volta, era sicuro che non si trattasse di un sogno ma della realtà. Strinse più forte a sé Kazama, senza smettere di tastarlo per assicurarsi che fosse pulsante di vita. Il battito del suo cuore, già ascoltato nel sogno, il ritmo del suo respiro, il suono rasserenante della sua voce: come poter spiegare a parole il sollievo che provava nel poter assistere a tutto ciò? Come spiegargli che la sua reazione era la conseguenza di un incubo maledettamente reale?
«Non era un incubo, sciocco ragazzino, ma il destino, una delle possibili realtà che avresti plasmato se ti fossi crogiolato nel tuo finto odio e se avessi continuato a reprimere te stesso e i tuoi sentimenti.»
Hwoarang sollevò appena la guancia dalla spalla di Jin per lanciargli un'occhiata confusa. «Cosa dici?» chiese.
Jin inclinò la testa. «Non ho detto nulla.» rispose, ricambiando l'occhiata.
Hwoarang si limitò ad alzare le mani e posò nuovamente la guancia sulla spalla poderosa del ragazzo, sospirando beato. «Strano, sembrava proprio la tua voce.» commentò, senza dare troppo peso all'accaduto.
Non poté vedere l'ombra di apprensione che velò gli occhi di Jin – anche perché questa si dissipò piuttosto velocemente. «Mi fa piacere vedere che tutto si sia risolto tra noi.» commentò, vagamente divertito.
Mentre Hwoarang annuiva vigorosamente, intravide le loro ombre proiettate sul suolo, fuse tra di loro nell'abbraccio, e gli scappò un sorriso che, però, non raggiunse le guance. Qualcosa non quadrava nelle sagome: l'ombra di Jin si protendeva più del dovuto, come se dalla sua schiena spuntassero… Una risatina proruppe dalla sua gola perché, appena aveva sbattuto le palpebre, il gioco di luci e ombre era scomparso.
Jin doveva proprio pensare che fosse pazzo, considerò Hwoarang, concedendosi un sorriso. Eppure, mentre veniva cullato dalle braccia del suo ex acerrimo rivale, francamente se ne infischiò.


But down inside I care a little less lately
From Ashes to New - Breaking Now


"Non c'è luce senza ombre e non c'è pienezza psichica senza imperfezioni. La vita richiede per la sua realizzazione non la perfezione, ma la pienezza. Senza l'imperfezione non c'è né progresso né crescita.“
Carl Gustav Jung



Note:
-Il quartiere di Asakusa viene davvero chiamato "Harajuku delle nonne"! XD quale quartiere più indicato di questo per Jin? È famoso questo intimo rosso che scaccia il male… che le vecchiette fossero a conoscenza dello spirito in Jin?
- Ho immaginato un Torneo organizzato per continenti in una fase iniziale.
- Perdonate il mio uso improprio e profano della psicologia analitica di Jung. Blame it on BTS (e ascoltate il bellissimo intro del nuovo album!)
- Il titolo è palesemente ispirato al film "Black Swan" e al pacchetto. Nonostante mi incuriosisca molto, non l'ho mai visto, ho letto varie recensioni più che altro… Lo vedrò, prometto xD ammetto che sembra poco originale ma era proprio il senso che volevo dare alla storia.
- Il pacchetto era tagliato su misura per loro due, we! In realtà ero indecisa su loro e LilixAsuka ma non lo vedevo abbastanza dark come pairing per reggere questo pacchetto. Dovendo scegliere, ho optato per HwoarangxJin.
- Ho sempre trovato l''espediente del sogno molto interessante
- Ovviamente volevo che ne uscisse qualcosa di meglio ma spero di aver espresso il conflitto all'interno di Hwoarang.
- il singolo dei BTS si chiama "Black Swan". Non era programmato, lo giuro AHAHAHAHHA anche loro shippano Hwoarang e Jin ahahahha

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3881227