Kenkyushitsu Island

di ___Page
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Scomparso ***
Capitolo 2: *** Conoscenze ***
Capitolo 3: *** C142 ***
Capitolo 4: *** Ricerche ***
Capitolo 5: *** Caro collega ***



Capitolo 1
*** Scomparso ***


Uscì sul ponte, nell’aria della sera, la tiepida brezza a scompigliargli il ciuffo fulvo, libero una volta tanto dal cappellino, e a riempirgli i polmoni, a ogni sconfortato respiro.
Le informazioni che riuscivano a carpire qua e là erano contrastanti e scarne. Si era visto obbligato a filtrarle secondo una logica tutta sua, che di certo o scientifico non aveva nulla, e cominciava a temere di avere scelto la strada sbagliata da seguire.
Si passò una mano tra la zazzera rossa, sospirando.
Non era rigetto di una responsabilità di cui andava onorato, ma non avrebbe mai immaginato che accettare il ruolo di vice potesse implicare qualcosa di tanto enorme per le sue spalle. Se credeva che occuparsi della ciurma durante i mesi in cui Law li aveva “abbandonati” fosse stato impegnativo, Penguin si stava rendendo conto di quanto si fosse sbagliato. All’epoca non aveva dubitato un solo istante nel ritorno del Capitano. Certo Law si era volontariamente andato a invischiare in un bel carnaio, ma era il suo piano e Law sapeva sempre ciò che faceva. Diventare di proposito uno Shichibukai, collaborare con Ceaser il Clown, attaccare Doflamingo in persona. Penguin non aveva mai compreso lo schema completo ma sapeva che c’era, si fidava e sapeva cosa fare.
Ora, era tutto diverso. Non erano in attesa ma alla ricerca. Law non se n’era andato spontaneamente. E nessuno poteva giurare che sarebbe tornato o che, tanto per non scartare nessuno scenario, sarebbe sopravvissuto. Penguin non stava facendo le veci ma era in tutto e per tutto il capitano. E colui che stava cercando, in lungo e in largo per lo sconfinato mare, non era il suo Capitano ma il suo migliore amico.
E per questo motivo, proprio per questo, lui era il solo che potesse riuscire in quell’ardua impresa o almeno, così pensavano gli altri. Lui, dal canto proprio, viveva con il costante terrore di essere sempre in difetto a partire dall’ordine di ridipingere il Polar Tang di un anonimo grigio, pur di viaggiare sempre in emersione tranne in caso di attacchi massici da parte della Marina o di altri pirati, una strategia che Jean Bart aveva appoggiato, bramoso, come Penguin e come tutti, di scendere su ogni singola isola e chiedere informazioni a ogni singola nave, alla ricerca di una nuova traccia, un nuovo indizio, qualcosa che confermasse che quella era la direzione giusta o che lo spingesse a tornare indietro.
Penguin non poteva deludere le aspettative dei suoi compagni, tantomeno infrangere le speranze di Bepo, che già travolto dallo sconforto a malapena mangiava e ormai non chiedeva più neanche scusa, tanto si era fatto taciturno.
Non poteva ma dipendeva da lui fino a un certo punto. L’attacco era stato improvviso e rapido, al punto da non essere nemmeno riusciti a identificarne i perpetratori.
La Marina? Kaido? Cosa stavano cercando? Dove? Penguin non lo sapeva. Erano saliti sul sottomarino in una fulminea sortita e Law si era, come sempre, esposto in prima linea, a fare da scudo a tutti loro.
Sacrificato.
Di notizie sulla sua eventuale cattura non vi era stata traccia ed era l’ultima esile speranza a cui Pen si aggrappava ormai, ricordandosi e ricordando ai compagni che la condanna a morte, di un pirata come il loro Capitano, un ex Shichibukai, il primo alleato di Cappello di Paglia, uno dei pirati all’origine della distruzione di Punk Hazard, delle rivolte di Wano e Dressrosa non sarebbe mai passata in sordina. All’opzione che potesse essere stato Kaido a ordinare l’attacco, e poi accontentarsi del rapimento del Capitano, non voleva né poteva pensarci. Non se non voleva soccombere.    
Era facile assistere Law nelle operazioni, rattoppare i propri compagni. A essere un "medico" decente glielo aveva insegnato. Ma per essere un Capitano, gli mancava la stoffa.
Guardò di fronte a sé le luci sfocate dell’ultima isola su cui erano stati, da cui si stavano allontanando.
Cos’avrebbero fatto?!
Dove sarebbero andati, ora?!
Che vita li avrebbe attesi se non fossero riusciti a trovarlo? Senza un cadavere da piangere, avrebbero incessantemente proseguito ma fino a quando lui sarebbe riuscito a recitare la parte del capofamiglia, prima di dimostrare quanto inadeguato fosse per quel ruolo?  
Serrò le mani in due pugni tremanti, come il resto del suo corpo, per la rabbia e la frustrazione.
Non era morto, la vivre card non lasciava spazio a dubbi. Continuava a bruciare, imperterrita, nella tasca dei suoi pantaloni ricongiunta al foglio originale, che avevano ritrovato abbandonato sull’isola dove quella macabra e snervante specie di caccia al tesoro aveva avuto inizio. Quindi no, Law non era morto ma, dopo quasi quattro settimane, era davvero la morte lo scenario peggiore?
«Ehi!»
Penguin sobbalzò, mentre una mano si posava sul suo braccio, libero dalla tuta bianca degli Heart e coperto solo fino a metà bicipite da una maglia grigio-blu che portava il loro Jolly Roger. Se sul Polar Tang lo aveva dovuto nascondere, su di sé non avrebbe mai smesso di sfoggiarlo.
«Ikka!» protestò, portando l’altra mano al petto e staccandosi dalla balaustra. «Dannazione»
«Scusa tanto, non volevo interrompere il tuo momento da filosofo nichilista» lo schernì la compagna, alzando le mani ai lati del viso, e Pen le lanciò un’occhiataccia. «Ti stavi di nuovo deprimendo»
«Riflettevo»
«Per te sono sinonimi. Che c’è? Quando mai ti ho visto riflettere prima di quest’ultimo periodo. E quando mai, in quest’ultimo periodo, non erano riflessioni disfattiste»
Penguin sospirò, più per la consapevolezza che in fondo Ikkaku aveva ragione che per la velata accusa di comportarsi da pessimista. «Che c’è, comunque? È pronta la cena?» 
Ikkaku corrugò le sopracciglia, le braccia incrociate sotto il seno. «La cena era pronta quando Shachi è venuto a chiamarti prima e tu gli hai detto che non avevi fame»
Pen sbatté le palpebre interdetto, rievocando vagamente la distratta conversazione con Shachi. Non si era neanche accorto di aver declinato e comunque credeva fossero passati appena dieci minuti. Avrebbe avuto senso, che anche Ikkaku tentasse nell’impresa di convincerlo a scendere a mangiare ma, a quanto pareva, aveva trascorso parecchio tempo con gli occhi fissi all’orizzonte, nella speranza di individuare un nuovo fazzoletto di terra o incrociare un’altra nave a cui poter chiedere qualche informazione.
«Uni ti ha messo da parte qualcosa, anche se non l’ha presa bene»
Probabilmente si parlava di ore.
«E dici che Skua non se l’è già sbafato?» domandò, facendola sospirare.
«Si è anche offerto di fare il primo turno in sala macchine. Dovresti proprio sotterrare l’ascia di guerra con lui, sai?»
Pen aggrottò le sopracciglia, riflettendo per un attimo sulle parole della compagna. «È un interessante scelta di parole» le fece presente, riferendosi all’arma con cui Skua combatteva e, a cadenza regolare, tendeva agguati più o meno letali a lui e, ben più sporadicamente, al resto dei compagni, in un tentativo di sfogare in qualche maniera la presunta sociopatia di cui era sicuramente affetto, nonostante nessuno si fosse preso mai la briga di diagnosticargliela, e che, comunque, Law non aveva ritenuto un impedimento sufficiente per impedirgli di unirsi alla ciurma.
«Hai bisogno di dormire» sentenziò Ikkaku. Non gli avrebbe dato corda, quella rivalità era infantile e ridicola, nonché fuori luogo in quel momento. Era ancora vivo, no? Che senso aveva lamentarsi?! «Il fatto che tu ora sia il capitano non significa che devi essere come lui in tutto e per tutto, sai?» aggiunse con un sorrisetto che Pen riuscì a ricambiare un momento soltanto.
Si riavvicinò al parapetto, posandovi i palmi e fissando, senza vederla, la linea dell’orizzonte che tanto a lungo aveva tenuto d’occhio.
«Non so neppure dove stiamo andando» ammise a voce così bassa che a Ikkaku venne il dubbio che non lo stesse dicendo per farsi sentire da lei. «E se fosse tutto inutile? Se avessimo dovuto fare rotta su Impel Down? Se anche ritrovandolo non fosse più il Law che conosciamo?! Se stesse mor…»
«È vivo» lo interruppe Ikkaku, la voce intrisa di un veleno e una rabbia che, Pen lo sapeva, non erano per lui. Si girò di nuovo a fissarla e inalò a fondo.
«Lo so»
«Perché lo dice la vivre card»
«No!» negò con veemenza il rosso. «Lo so» ripeté portando la mano serrata al petto, all’altezza del cuore.
Ikkaku lo fissò un lungo istante prima di annuire, secca ma soddisfatta.
«Ti conviene andare a riposare, Capitano» ribadì Ikkaku, voltandosi per rientrare sottocoperta. «Le occhiaie non ti donerebbero, se la tua speranza è diventare più sexy»
Pen la guardò sparire nel buio del corridoio che portava sul ponte, le mani ancorate alla balaustra e si concesse un lievissimo sbuffo, vagamente simile a una risata, mentre scuoteva il capo. Lentamente staccò le mani dal parapetto e fece per rientrare, tornò sui propri passi, lanciò un’incerta occhiata all’orizzonte, ormai denso e buio come la volta senza luna sopra la sua testa, e poi riprese a camminare verso il sottocoperta.
Lo stomaco brontolò sonoramente nel silenzio rotto solo dallo sciabordio delle onde contro lo scafo. Forse, dopotutto, una capatina in cucina era meglio farla.
Sempre che Skua non lo avesse battuto sul tempo.   
 

 
§
 

Metallo. Si trovava in un luogo con pareti di metallo.
Alle sue orecchie il suono era inconfondibile, una eco dilatata, lugubre che però, per lui, sapeva di casa. Non in quel momento, non in quel luogo, lì non era a casa ma quel luogo aveva pareti di metallo.
Non era più nella stiva della nave dove lo avevano tenuto prigioniero e se i suoi rapitori pensavano che bastasse tenerlo bendato per confondergli le idee si sbagliavano di grosso. Sapeva esattamente quanti giorni fossero trascorsi, sapeva di non essere più nella stiva della nave, sapeva di essere ora sulla terraferma. Sapeva esattamente quanta acqua bere e quanto cibo mangiare per dare l’impressione di non aver nemmeno toccato le vivande che insistentemente i suoi sequestratori gli avevano portato. Li aveva sentiti bisbigliare, fuori dalla porta. Lo credevano un mostro, capace di sopravvivere senz’acqua né cibo per un mese intero, e Law non avrebbe gradito definizione migliore.
C’era un intrinseco sadismo nel fare paura ai propri carnefici e nemmeno l’effetto accecante che, lo sapeva, la luce avrebbe avuto sui suoi occhi lo avrebbe privato del piacere malsano di farsi trovare con un ghigno compiacente e rilassato, quando gli avessero tolto il cappuccio. Ragion per cui sarebbe dovuto essere grato del fatto che nessuno sembrava intenzionato a togliergli la benda dagli occhi e la cosa cominciava a spazientirlo non poco.
Aveva tollerato a sufficienza e se non si era ancora ribellato era solo perché si trovava in una situazione strategicamente svantaggiosa per essere sicuro al cento per cento di uscirne indenne e il cento per cento era la sola percentuale accettabile, perché non era riuscito a ordinare Pen e gli altri di non andare a cercarlo, come quando si era messo in viaggio per Dressrosa, perciò, stavolta, doveva per forza sopravvivere, per tornare da loro o per lo meno mettercisi in contatto.     
Ma ora, cosa stavano aspettando ancora?
Law pensò seriamente di concedersi un istante di frustrazione come solo Cappellaio riusciva a provocargliene di solito, quando sentì la porta richiudersi con un secco clangore ma resistette abbastanza da accorgersi, e darsi dell’idiota per averci messo così tanto, anche se in riserva com’era non era poi così strano, che i suoi polsi non erano più costretti. Non completamente liberi, sentiva ancora i bracciali di agalmatolite contro la pelle, la sola cosa che aveva addosso oltre ai boxer, ma non più legati insieme.
Con un gesto cauto portò le dita sotto al bordo inferiore della benda e la scostò, lasciando filtrare un po’ di luce, naturale o artificiale che fosse, perché gli occhi si riabituassero alla propria funzione. Avrebbe voluto sedersi ma doveva pazientare ancora un po’, soprattutto perché non era certo di essere solo e non voleva mostrarsi meno che perfettamente in controllo ai propri nemici. La debolezza non era contemplata neppure come inevitabile alterazione fisiologica, non per lui.
Non era sicuro di quanto fosse passato ma il solo aver perso la cognizione del tempo lo rassicurò di potersi azzardare e sfilare la benda una volta per tutte. Occhi socchiusi e mano a schermare eventuali fonti di luce troppo forti, Law espirò sollevato nel constatare di essere solo.
Con sguardo analitico e per quanto i sensi rallentati glielo permettessero, si guardò intorno nell’immacolata stanza in cui si trovava, munita solo di un letto, un comodino con una lampada, grate alla finestra e sulla sinistra una porticina che di certo era un piccolo bagno. Non faceva freddo ma neanche caldo e tuttavia di starsene nudo non è che avesse voglia, ma l’idea di infilarsi la tuta di cotone bianco, ben ripiegata sulla branda dall’aria non proprio comodissima, non era più allettante.
Non era certo una questione di estetica, tutt’al più che gli ricordava le loro tute, ma se la stanza gli aveva dato subito la sensazione di trovarsi in una specie di ospedale, quella tuta faceva manicomio.  
Tre tonfi lo riscossero e Law si limitò a lanciare un’occhiata da sopra la spalla nuda, verso la porta che filtrava ancora di più una voce già ovattata di suo.
«Ora di cena, datevi una mossa!»
Lo stomaco si contrasse rabbioso.
Aveva fame, i braccialetti di agalmatolite lo indebolivano, aveva bisogno di energie ma l’istinto gli diceva che non poteva fidarsi di ciò che veniva servito in un posto del genere.
Se solo il suo stomaco non si fosse ribellato così, brontolando e dolendo, e il solo pensiero di mettere qualcosa sotto i denti non lo avesse fatto fremere, la lingua impastata di acquolina e saliva. Dio, era patetico!
D’altra parte non è che perdere la capacità anche solo di pensare lucidamente per evitare eventuale cibo drogato fosse esattamente una soluzione e andare a dare un’occhiata era il primo passo.
Indagare, valutare. Ideare una soluzione in caso estremo. Era così che agiva lui.   
Senza più remore, si avvicinò al letto, il marmo freddo gli pungeva i piedi senza ottenere soddisfazione alcuna, e infilò veloce la tuta, le calze e gli scarponcini posati ai piedi del comodino, tutto di misura perfetta per lui, e si rimise subito in piedi, senza perdere altro tempo. Le gambe un po’ instabili, si avvicinò alla porta bianca dell’asettico alloggio e fu senza esitazione che girò il pomello e aprì per avventurarsi fuori, alzandosi con l’altra mano il cappuccio della tuta sulla testa.
Non si illudeva servisse a nascondere la propria identità, in quel frangente non aveva senso, se non ad altri detenuti/pazienti ficcanaso, ma comunque avrebbe schermato il suo viso dalla luce, concedendo ai suoi occhi un altro po’ di tempo.
Lungo il corridoio una manciata di altri soggetti, tutti vestiti come lui, camminavano nella stessa direzione, senza interagire certo ma non avevano neanche l’aria di essere degli automi senza volontà. Law afferrò l’aria con la mano destra, dove di solito la sua Kikoku gli dava sicurezza.
Quel luogo gli ricordava l’ospedale di Flevance, gli ricordava gli innumerevoli ospedali visitati con Cora, gli riportava alla mente una miriade di brutti ricordi che gli facevano tremare l’anima ma non avrebbe permesso alle brutte sensazioni di prendere il sopravvento.
Doveva capire dove si trovava e possibilmente trovare qualcosa di adatto al suo stomaco. Dopo avrebbe dovuto lavorare sul perché. In poche parole, non aveva tempo da perdere.
Si mosse insieme agli altri, simulando una sicurezza che non provava, quasi che non fosse appena arrivato. Sinistra, destra, ancora destra.  
Porte identiche a quella della sua stanza, asettiche, bianche e senza numeri sopra, si aprivano ad intervalli regolari nel muro, davanti ad alcune di esse dei tizi vestiti in azzurro con dei caschi, che davano tanto l’impressione di voler essere una misura anti-contagio, a celarne i volti e alterarne la voce, come quello che aveva chiamato per il rancio. Si perse un momento a squadrare uno di quegli inservienti e quando riportò gli occhi di fronte a sé, mise a fuoco una grossa porta a due ante di metallo scuro, aperta e presidiata da altri due tizi in azzurro.  Law la varcò, non senza un’altra occhiata a uno dei due inservienti, che ricambiò seguendo il suo avanzare con la testa, un avanzare che, per la prima volta da quando aveva lasciato la propria stanza, si arrestò per permettergli di assorbire i dettagli del luogo dov’era giunto.
Di fronte a lui c’era un balcone, un balcone al chiuso, che seguiva le quattro pareti di una stanza rettangolare e di dimensioni notevoli, costruita su due piani con mattoni a vista, probabilmente il nucleo originario di quel luogo, poi ampliato negli anni utilizzando un materiale più resistente e facile da maneggiare.
Sotto di lui, un mare di persone vestite di bianco e celeste si muovevano in tutte le direzioni, parlottando tra loro e sollevando un brusio che giungeva fino al soffitto, che terminava con un immenso arco a sesto acuto. Alcune finestre si aprivano nelle pareti e, anche se era sera, dalla loro forma e posizione Law calcolò che la luce dall’esterno filtrasse senza inondare completamente lo stanzone, mantenendone alcune zone immerse nella penombra.
In una zona del salone si trovavano alcune lunghe tavolate, intorno ai quali i detenuti stavano mangiando di gusto mentre il resto della stanza era disseminata di sedie, tavoli più piccoli e qualche panchina rasente al muro, che permetteva ai soggetti in bianco di intrattenersi, giocando, chiacchierando o leggendo, mentre gli inservienti in azzurro giravano tra loro, tenendoli sott’occhio.
Si accorse di essere ancora lì fermo mentre quasi tutta la fiumana di gente che man mano si era unita a lui nel corridoio era già scesa senza esitare e, individuata la rampa di scale più vicina, si affrettò a raggiungerla e imboccarla, ostentando calma e tranquillità. Al piano inferiore il brusio quasi assordante, risultava molto più delicato e quasi soporifero.
Appuntò mentalmente tutte quelle informazioni, ammesso che fossero in qualche misura utili, mentre prendeva ad aggirarsi tra le tavolate, più o meno sorvegliate dagli inservienti, studiando i volti dei commensali per capire se di quel cibo potesse fidarsi.  
Nessuno di loro aveva lo sguardo perso, sebbene vi fosse un grande assortimento di stati d’animo.
C’erano persone terrorizzate, altre rassegnate, qualcuno arrabbiato e pochi sguardi determinati ma nessuno che si astenesse dal mangiare, e Law lo avrebbe negato fino alla morte ma il sollievo per un momento lo travolse.
Quel cibo sembrava sicuro, ergo poteva finalmente mettere qualcosa nello stomaco.
S’impose di non lanciarsi verso la fila che avanzava tutto sommato rapida per farsi riempire il vassoio e con altrettanta calma trovò un posto libero, possibilmente isolato. Afferrò la forchetta e cominciò a mangiare, masticando piano e stando attento a non ingozzarsi, consapevole che cibarsi in fretta avrebbe solo peggiorato le condizioni del suo stomaco.
Mentre ingollava il primo boccone, cercando subito il bicchiere dell’acqua con la mano, continuò a guardarsi intorno con interesse, ben nascosto dal cappuccio bianco, cercando di captare qualche informazione utile ma la quantità di persone di cui la stanza brulicava non faceva che aumentare la sua confusione. Caso strano, nonostante tutti si scambiassero almeno qualche parola, nessuno sembrava interessato ad avvicinarsi a lui.
Posò il bicchiere e riprese in mano le posate. Doveva sfruttare quell’ora d’aria per farsi idee più precise, capire se c’era qualcuno con cui parlare, ma non aveva intenzione di alzarsi senza aver ripulito il piatto fino all’ultimo chicco di riso e boccone di pesce, che infilzò senza tante cerimonie, salvo poi restare bloccato con la forchetta a mezz’aria quando qualcuno parlò da sotto il tavolo. E oltre a essere una logistica piuttosto strana, era per di più una voce sottile.   
Troppo sottile, e il sangue gli si gelò nelle vene, per appartenere a un adulto.
«E tu chi sei?!»
 
 



Angolo dell'autrice: 
Buonsalve a tutti! Ordunque, ho infine deciso di lanciarmi in questa avventura, che è la riscrittura di una storia che avevo scritto tempo fa ormai e che era comunque molto, molto, moooooooooolto diversa all'epoca. Alcuni elementi sono rimasti identici, altri drasticamente cambiati. 
Oda poi, ci da tanto materiali e poche informazioni, il che può essere anche stimolante anche se mi piacerebbe tanto sapere cosa gli costa darci qualche dettaglio in più alla fine è lui che mette un milione di personaggi, porca vacca! e quindi mi sono lanciata nell'uso e conseguente tentativo di caratterizzazione degli Heart. I ruoli di ciurma sono assolutamente frutto della mia fantasia, così come Skua. 
Ora, Skua per intenderci è quello con la maschera che si intravede spalla a spalla con Ikkaku nel capitolo 815, quando gli Heart incontrano Rufy. Il nome gliel'ho dato io perchè sentivo il viscerale bisogno di dargli un'identità. 
Lo skua è un simpatico uccello predatore delle zone artiche che oltre a, purtroppo, predare i pinguini, utilizza anche quest'adorabile tecnica di pungolarli e rompergli le penne allo sfinimento finchè non rigurgitano il cibo appena cacciato prima di digerirlo, permettendo allo skua di sbafarselo al posto loro. Ragazzi, I regret nothing! 
Spero vivamente che abbiate apprezzato, intanto ringrazio di cuote tutti quelli che sono arrivati fin qui. 
Un bacio grande. 
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Capitolo 2
*** Conoscenze ***


Sentì distintamente tutto il nutrimento di ciò che era riuscito a mangiare cominciare ad andare in circolo, nelle gambe, nelle braccia e nella testa. E più tornava lucido più si accorgeva di quanto, di tutta quell’assurda storia, la cosa più surreale fosse la sua attuale situazione.
Lanciò un’altra occhiata alla bambina, accovacciata sotto al tavolo tra le sue gambe, chiedendosi se l’agalmatolite lo avesse indebolito anche nella volontà perché era assurdo che stesse davvero tollerando quella persistente creatura, nonostante le ripetute richieste di lasciarlo in pace. Le aveva anche offerto del cibo, con Cappellaio in genere funzionava, ma a quanto pareva non era per fame che non gli aveva ancora levato gli occhi grigio-verdi di dosso.  
Certo, a Law mica piaceva l’idea che ci fossero dei bambini in un luogo del genere, anche solo uno, lo riportava a Punk Hazard e non era un bel ricordo ma non era come se ci potesse fare qualcosa, soprattutto con le zero informazioni in suo possesso. Se ne sarebbe preoccupato se e quando ci avesse capito qualcosa. Per il momento era solo un fastidio di circa quattro o cinque anni e dalla parlantina sciolta.
«Perché porti il cappuccio?»
Molto sciolta.
«E tu?» gli rigirò la domanda, occhiando al cappuccio in miniatura da cui sfuggivano ciocche castano ramate, mentre si versava un ultimo bicchiere d’acqua.
«Io mi devo nascondere. Tu ti devi nascondere?»
«Può darsi» mormorò asciutto il pirata.
«E da chi?»
Inalò a fondo, vagando con gli occhi sul coltello che aveva la punta arrotondata. Erano previdenti in quel posto, nulla da ridire.  
«Dai bambini noiosi» rispose in un sibilo, lanciandole un’occhiata che non riuscì a intimorirla per niente. Indignarla, semmai.
«Io non sono noiosa!» protestò, abbassando poi subito la voce. «È questo posto, si fanno sempre le stesse cose e ci sono sempre le stesse persone, non è stimol… Stilo…»
«Stimolante» non riuscì a trattenersi Law, sinceramente e internamente colpito da quanto fosse sveglia la bambina.
«Sì quello!» si illuminò grata e i suoi occhi per un momento sembrarono brillare. «Però tu sei nuovo!»
Law la fissò un lungo attimo, prima di intrecciare le mani e appoggiarvi la fronte, scostando di pochi millimetri la sedia. Okay, era persistente e poco collaborativa, ma se si trattava di parlare non si tirava indietro e forse quella marmocchia poteva dargli qualche informazione utile. Ne sapeva sicuramente più di lui.
«Sei qui da molto?»
«Da un po’» annuì. «Siamo arrivati tutti insieme ma non mi ricordo bene bene il primo giorno»
Law aggrottò le sopracciglia. «Tutti insieme?» proseguì con l’indagine anche se temeva di sapere dove sarebbe andato a parare.
«Io e gli altri bambini»
Law trattenne un’imprecazione.
Merda, c’erano altri bambini.
Un brivido freddo gli percorse la schiena e smosse le spalle.
Perché ci dovevano sempre andare di mezzo i bambini, dannazione?!
Se non lo avesse conosciuto per il codardo che era, troppo per arrischiarsi a fare il recidivo, Law avrebbe pensato a Caesar. Ma più si guardava intorno meno gli sembrava il suo stile e, in effetti, più si guardava intorno e…
«Dove sono gli altri bambini?» domandò, più scettico di quel che avrebbe voluto suonare. Non era come se volesse mettere in dubbio le parole della bambina ma se la presenza di altri ragazzini fosse stata solo un prodotto della sua fervida immaginazione Law l’avrebbe già considerata una vittoria. Ci sperava, che gli avesse mentito.   
«Da un’altra parte, nella zona kinker… kinter… k-kin…» aggottò le sopracciglia la piccola, in uno sforzo immane di ricordare la parola corretta.
«Kindergarten»
«Sì! Ma io vengo qui tutti i giorni, tanto non si accorge nessuno» affermò con un sorriso mefistofelico a cui a Law venne quasi voglia di rispondere con un ghigno.
Persistente e temeraria, la creatura.  
«Dovresti stare attenta» le fece notare invece, e si sarebbe anche raccontato che era banale buon senso, il suo, se solo la marmocchia non avesse pensato bene di trasformare quel ghignetto storto in un vero sorriso, luminoso e solare.
«Ma io sto attenta!» si mise ben dritta con le spalle. «Nessuno si accorge di me e Kay ha detto che è quello l’importante»
«Kay?» tornò serissimo e analitico all’istante, Law «È una tua amica?» Si guardò intorno attento a non dare nell’occhio quando la bambina annuì e poi scostò la sedia, quel tanto che serviva per piegare di più il busto ma senza rischiare di esporla a occhi indiscreti. «Puoi portarmi da lei?»
La bimba si mise più dritta e annuì di nuovo. «Agli ordini, capitano. Seguimi» scivolò sotto il tavolo e Law fissò per un attimo il vuoto, cercando di metabolizzare che la creatura lo aveva chiamato capitano e poi gli aveva dato un ordine e di non pensare a quanto buffa fosse quell’uscita e, forse, quasi anche divertente. D’altronde non c’era niente da ridere in quella situazione e comunque era meglio non perderla di vista se voleva cavare almeno un ragno dal buco. Aveva la netta impressione, che per lui significava essere praticamente certo, che quella “Kay” non fosse affatto una bambina.
Con la coda dell’occhio osservò un fulmine bianco schizzare tra le gambe degli altri pazienti o detenuti che fossero, probabilmente entrambe le cose, e contò fino a cinque prima di alzarsi con calma e seguire gli agili movimenti della piccola a debita distanza.
Doveva dargliene atto, schizzava a una tale velocità da un tavolo all’altro che se lui non avesse saputo che era lì, difficilmente l’avrebbe notata. Sembrava capace di teletrasportarsi e certamente era molto, molto brava a nascondersi, complice anche il fatto che era lunga più o meno come la gamba di un uomo di statura media. In mezzo a tutto quel bianco era facile per lei confondersi e Law faceva anche affidamento sulla stupidità degli inservienti. Insomma non ci volevano delle cime per tenere prigioniere delle persone in un bunker e probabilmente all’esterno la sorveglianza era ben più massiccia.
Scartò tra un paio di tute bianche, passò dietro un gruppetto che si intratteneva giocando a carte, sbraitando e imprecando a ogni punto dell’avversario e infine si fermò, fingendo di ammirare un disegno che una donna stava abbozzando su un blocco, mentre individuava una delle tra le finestre verso cui la bimba si era lanciata, lasciandosi inghiottire dalla maggior penombra, illuminata però, in quella nicchia particolare, da una piccola ma potente fonte di luce.
Strascicando appena i piedi, le mani nelle tasche della tuta, Law si avviò flemmatico verso la nicchia, scrutando con interesse la ragazza che diventava sempre più visibile, illuminata appunto dalla luce che stava usando per leggere. Si chiese perché fare tutta quella fatica per leggere relativamente al buio e si stava già per rispondere da solo, con un supposto bisogno di starsene isolata dal caos che anche lui si stava lasciando alle spalle, quando si accorse che in realtà la ragazza non era per niente concentrata sulla propria lettura, ma continuava a lanciare attente occhiate verso il salone. Era ancora qualche metro quando la vide chinarsi appena e prendere a parlare con, ne era certo, la marmocchia.
Accelerò il passo, ora impaziente di trovare qualche altra risposta.
«…’ovo paziente! Ha detto che voleva conoscerti e… Eccolo!» si illuminò la marmocchia e Law era ormai abbastanza persuaso che, per avere quattro anni, ne sapesse già abbastanza di quel luogo da non temere che tutto quell’entusiasmo l’avrebbe fatta scoprire.
E poi anche la sua amica, adulta come da lui predetto appunto, non sembrava preoccuparsi della sua indole poco discreta. Certo, c’era da dire che forse il motivo era che era troppo intenta a fissare lui come fosse stato un essere con tre teste, occhi spalancati e labbra strette. Un’ondata di fastidio lo pervase. Si cominciava davvero bene.
«Kay, lui è…» la bambina si accigliò. «Non mi hai detto come ti chiami!»
Law sollevò un sopracciglio. «Nemmeno tu» le fece notare il pirata, senza realmente smettere di tenere d’occhio Kay. Che aveva da fissare, santo Roger?!
«Io sono Leilanee, tutti mi chiamano Laine però! E tu…»
«Cosa ci fai qui?»
Law si girò incredulo e lento verso Kay, gli occhi che lanciavano schegge di ghiaccio, e si concesse un istante per studiarla con attenzione. Capelli castani raccolti sulla nuca con qualche ciocca in disordine intorno al viso, occhi blu e occhiali da vista che forse usava solo per leggere, forse no. Fatto sta che Law non l’aveva mai vista in vita propria e, sì okay, era consapevole di avere una faccia nota ma mica era una giustificazione per rivolgerglisi così.
«Da quanto sei arrivato?»
«Scusa un attimo, tu chi…»
«Ora non è il momento»
Dita tra le dita, Law si ritrovò strattonato in avanti senza preavviso, verso la nicchia con la panca, che non era affatto una nicchia con la panca ma una vecchia finestra murata con un davanzale abbastanza ampio da potercisi mettere comodi e su cui si ritrovò in effetti seduto, la luce per la lettura a rischiarare abbastanza penombra da guardarsi in faccia.
«Ti hanno fatto esami, prelievi, ti hanno visitato?»
Law aprì la bocca ma la richiuse di scatto quando si accorse che stava per perdere il controllo perché no, dopo quattro settimane a tenere sulla corda un gruppo di persone organizzato e preposto alla sua cattura non aveva intenzione di perdere i filtri per una ragazzina impertinente. Senza dimenticarsi dell’altra, di ragazzina impertinente, che cercava di arrampicarsi sul davanzale con scarso successo e alla fine, con un sospiro e vedendoci una scusa perfetta per prendere tempo e calmarsi, Law si chinò per aiutarla, spingendola in su da sotto il sedere.
«Niente di tutto questo, sono appena arrivato, mi hanno scortato alla mia stanza e poi hanno chiamato per la cena»
Kay annuì e perse lo sguardo nel vuoto, riflessiva e Law sentì la pazienza venire meno ogni secondo che passava. Il fatto che ora lei sembrasse pure preoccupata, francamente non aiutava.
«Che posto è questo?» chiese autoritario. Era andato lì per fare domande non per rispondere. «È chiaro che ne sai più di me e forse più di quanto ne dovresti sapere»
«Quindi non ti sei fatto catturare di proposito» sentenziò Kay, dopo aver soppesato le sue parole. «Non è come Punk Hazard»
«Cosa…»
«Tesoro, dimmi»
Law quasi si strozzò con la saliva e fu la sola cosa che gli impedì di protestare, prima di rendersi conto, e darsi conseguentemente del deficiente, che quel “tesoro” non era ovviamente rivolto a lui ma a Laine, attaccata al braccio di Kay e chiaramente vogliosa di chiedere qualcosa, anche se non osava, per non interrompere il colloquio dei grandi. Come facesse a esserne così sicuro, Law non lo sapeva, ma nemmeno aveva dubbi.
«Lo conosci?»
«In un certo senso» Kay l’accarezzò sul visino, sorridendole. «Puoi chiamarlo Doc»  
Law non amava restare all’oscuro. Non tollerava di non capire le cose. Stava per farlo caldamente presente se non che l’universo non voleva proprio collaborare per lasciargli almeno un briciolo di pazienza quella sera.
«Che state facendo voi due?!»
Venire interrotto era un’altra cosa che non sopportava e Law avrebbe volentieri sfogato il proprio fastidio sull’inserviente che li osservava da dietro il casco, mani sui fianchi e gambe divaricate, e si atteggiava a grande autorità quando a occhio non gli arrivava nemmeno alla spalla. Ma l’istinto fu più forte e, senza bisogno di pensarci, scivolò impercettibilmente verso Kay, e Kay verso di lui, per nascondere Laine, accovacciata dietro di loro.
«Allora?!»
«Parliamo» rispose Kay, calma e determinata «Non mi risulta sia contro il regolamento»
«Parlare no. Fare altro sì» precisò l’inserviente, con una nota minacciosa nella voce che non sortì l’effetto desiderato. A meno che l’effetto desiderato non fosse che Kay chinasse il capo, socchiudesse gli occhi e soffiasse roca:  
«Oh se avessimo da fare altro, non lo faremmo di certo qui. Io le cose le faccio fatte bene oppure niente»  
E per quanto a Law non sembrasse esattamente la migliore delle strategie, dovette ammettere con se stesso che sapeva il fatto suo, la ragazzina, quando l’inserviente sobbalzò a disagio e si allontanò borbottando parole incomprensibili.
«Frustrazione sessuale. Funziona sempre» sentenziò Kay, tornando al tono pratico di poco prima. «Ad ogni modo stiamo attirando troppo l’attenzione, meglio proseguire domani»
«Non mi serve un soprannome» sentenziò Law, lapidario. Non aveva intenzione di farsi dare direttive, non senza neanche sapere da chi le stava ricevendo e, no, conoscere il suo nome, ammesso poi che fosse quello vero, non significava sapere chi fosse.
«Che cos’è un soporone?»  
«Soprannome. È un modo per chiamare una persona senza usare il suo nome»
«Ah come un mignolo?»
Law si girò appena verso Laine e la scrutò qualche secondo. «Intendi “nomignolo”»
«Non è la stessa cosa?»
«Quasi» ribatté asciutto Law, prima di tornare a trapassare Kay con gli occhi, che lo fissò di rimando e prese un profondo respiro.
«Ora non è…»
«Il momento. Sì ho capito. Ma facciamo che non decidi più tu quando è il momento di fare cosa, okay?» sibilò, gli occhi lampeggianti. «Cosa ne sai di Punk Hazard e di questo posto? Io devo uscire da qui, devo tornare dai miei uomini e ci sono dei bambini da salvare!» espirò pesantemente dal naso, e si stava giusto ricomponendo che rischiò di perdere di nuovo la calma quando Kay schiuse le labbra in un appena udibile “Oh” per poi incresparle in un sorriso.
«Laine, ho un favore da chiederti» Kay ruppe finalmente il silenzio tra loro, che si stava facendo assordante. La piccola si girò all’istante verso di lei, attenta a non perdersi una parola. «Devi tornare di là e parlare con gli altri bambini, mi serve un resoconto dettagliato. Cos’avete mangiato, che giochi sono stati fatti, quali libri sono stati letti. Ogni cosa, d’accordo?»
«D’accordo» annuì Laine, senza esitare. «Domani ti racconto tutto tutto. Buonanotte» si sporse a darle un bacio sulla guancia e Law si stava già scostando per farla scendere quando si ritrovò il collo circondato da due minuscole braccine. «Buonanotte Doc» scoccò un bacio anche a lui prima di scendere agilmente dal davanzale e lanciarsi in una nuova sessione di nascondino.
«Nonostante la poca disciplina della divisione, ti stupirebbe comunque scoprire quanto è facile mettere le mani sui resoconti del G-5. Soprattutto per un rivoluzionario abituato a infiltrarsi»
Law riportò lentamente l’attenzione su Kay ed era ormai certo che si sarebbe potuto autoconvincere senza fatica che fosse tutto un sogno, se solo non fosse sembrato tutto così reale.
«Il mio vero nome è Koala e non credo tu abbia bisogno che ti spieghi come faccio a sapere chi sei. Ma è meglio che Laine resti all’oscuro delle nostre vere identità»
Law annuì secco. Ora si cominciava a ragionare, dopotutto era una richiesta comprensibile e soprattutto non era un ordine.
«E cosa sei riuscita a scoprire?»
«Domani» ribatté ma anche quella suonava come una proposta, una domanda quasi. «Stiamo davvero attirando troppa attenzione. Domani ti dirò tutto»
«Ammesso che mi lascino muovermi libero come stasera»
«È un rischio che dobbiamo correre e poi, alla peggio, verrò a cercarti» si rimise in piedi Koala e non aveva affatto l’aria di scherza, nonostante ancora sorridesse.
«Ehi» la richiamò Law prima che si allontanasse, restando seduto sul davanzale, busto piegato in avanti e dita intrecciate. «A che ti serve il resoconto che hai chiesto a Laine?»
Koala ruotò un po’ di più il busto verso di lui. «A tenerla impegnata, sentirsi utile e farle credere in qualche modo che sia una specie di gioco» spiegò allargando appena le mani. «Buonanotte Doc» lo salutò anche con un cenno del capo, prima di riprendere ad allontanarsi, lasciandolo lì da solo a metabolizzare ciò che aveva scoperto.
E sì, certamente era una situazione abbastanza schifosa, Law se ne rendeva ben conto. Ma, a quanto sembrava, non doveva fare tutto da solo e non era detto non ci fosse un modo per uscirne senza sporcarsi di merda.
 

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Capitolo 3
*** C142 ***


«Sono arrivata che Laine era qui già da una settimana. Da quello che mi ha raccontato, devono aver preso e spostato i bambini tutti insieme e in una sola volta»
«Ovviamente. La sparizione di un bambino si nota di più e mette più allerta di quella di un adulto» mormorò, fingendo di studiare le carte.
Koala sollevò un istante gli occhi dal proprio ventaglio di carte da gioco al proprio interlocutore, sguardo perennemente adombrato dal bordo del cappuccio.
«Ci sono tre luoghi in cui ha senso un’organizzazione di questo tipo» scartò per continuare a simulare la partita a un gioco che nemmeno  avevano concordato. «Divise uguali per tutti, sorveglianza stretta, momenti di collettività accuratamente scanditi. Le opzioni sono: ospedale, prigione e laboratorio» Koala si spinse i finti occhiali da vista sul naso.
«Escluderei la prigione visto che io e te siamo notoriamente due stinchi di santo» asserì Law, guadagnandosi un’altra occhiata, tra lo scettico e il divertito. Era lui quello che voleva tutte le informazioni e subito e poi si metteva a fare il sarcastico? Anche se, certo, non si sarebbe lamentata per questo. «Le attività di gruppo sono troppo dilatate nel tempo e si può parlare troppo liberamente. Sembra che vogliano mettere le persone a proprio agio, illuderle di non essere in trappola»
«Quindi è una prigione» gli fece notare Koala. 
«Sì ma con un fine diverso. Un ospedale o un laboratorio» la indicò con una mano tatuata, prima di lanciare una carta a caso sul tavolo, con un gesto secco ma rilassato.
«Ho riflettuto molto sull’ospedale, sull’opzione che si tratti di una struttura atta a contenere una qualche forma di contagio senza  provocare panico di massa. Spiegherebbe anche i caschi degli inservienti. Potrebbe esserci una zona isolata che non conosciamo, che ospita i malati più gravi e molti dei… come vogliamo chiamarci, detenuti o pazienti?»
«Detenuti» ribatté senza esitare Law.
«Okay. Molti detenuti vengono dallo stesso arcipelago, alcune miglia da qui»
Law si accigliò, guardandola da sopra le carte. «Con quanti di loro hai parlato scusa?»
«Nessuno, sono solo molto brava ad ascoltare e poi abbiamo triangolato con cura la posizione prima che partissi per la missione, le denunce di scomparsa arrivavano in gran quantità da una stessa zona» Koala sollevò le sopracciglia, mentre prendeva un sorso d’acqua. «Per cui, l’ospedale potrebbe avere senso »
«Ma…?» la invitò a proseguire. Sapeva che c’era un “ma”, lui stesso aveva un “ma” però voleva sentire il suo prima, era curioso. Era una spia tascabile, Koala.  
«Ma, a parte che io sono perfettamente sana e mi hanno portata qui lo stesso dopo un controllo preliminare, poi sei arrivato tu»
«Io sono un medico» le ricordò.
«A-ah e ti hanno fornito camice e fonendo a quanto vedo»
Law si trattenne dallo schioccare la lingua, le mani giunte davanti alle labbra. No, lo sapeva che non poteva essere un ospedale. Lo avevano preso a migliaia di chilometri di distanza da quel posto, il tempo di navigazione da lui accuratamente calcolato non lasciava spazio a dubbi. Lo avevano cercato, non era stato un caso e, se fosse stato lì come dottore o anche, perché no, come ex malato per studiarne gli anticorpi, non lo avrebbero lasciato mischiarsi agli infetti. A meno che…
«Potrebbero voler vedere se vengo infettato nonostante il mio frutto del diavolo» riprese in mano le carte, Law mentre Koala gli lanciava una strana occhiata. 
«E questo non lo chiami un esperimento?»
«Certo, ma un esperimento non fa dell’intera struttura un laboratorio»
«Io non ho niente»
«Ne sei così sicura?»
«Vuoi farmi un check up?» domandò Koala con un sorrisetto che lo prese sinceramente, ma non visibilmente da fuori, in contropiede. Law la fissò per un attimo, prima di tornare alle carte.  
Sapeva il fatto suo, comunque, non c’era che dire.  
«Falsa ingenua»
«Spirito di conservazione, faccio uno sporco lavoro. Ad ogni modo, ci sono altri indizi. Laine, per esempio non ha mai cercato un solo adulto in questa sala, né sua madre, né suo padre, uno zio, un parente qualsiasi» Law l’ascoltò attenta. «La sua famiglia non è qui, né quella di tutti gli altri bambini che per inciso sono suoi compagni di scuola. Non ci sono coppie, conoscenti tutt’al più, qualche amico. Perciò insomma, ho una malattia che voglio contenere, scremo sulla base di un esame preliminare e, per un caso fortuito, nessun nucleo familiare, completo o parziale, è stato colpito ma un’intera scuola sì?»
«Magari hanno operato una divisione in base allo stadio della malattia»
«Non ci credi neanche tu»
«No, non ci credo, hai ragione» concesse Law dopo un lungo attimo. Koala aveva ragione e per la legge dei grandi numeri era improbabile, quasi impossibile che nemmeno una coppia di fratelli, madre/figlio o compagni di vita non avesse contratto il morbo nello stesso momento. «Però quei caschi sembrano anti-contagio, lo hai detto anche tu»  
Koala si strinse nelle spalle. «Da dopo la Guerra dei Vertici in Marina non sono più tutti così ben disposti a collaborare con il Governo Mondiale e chi lo è non gradisce farlo sapere ai compagni d’armi. A volto coperto si ottengono più adesioni. O meno proteste, non è che puoi precisamente disobbedire a un ordine quando scegli la divisa bianca» si guardò un momento intorno prima di sporgersi verso di lui. «Guarda» reclamò la sua attenzione, senza neanche dargli il tempo di metabolizzare l’insinuazione, che detta da lei pareva una certezza fondata e inoppugnabile, che ci fosse il Governo Mondiale dietro a tutta quella strana faccenda. Law non ebbe comunque il tempo di ribattere quando Koala sollevò la manica della tuta, a mostrargli qualcosa nella zona interna del proprio avambraccio destro.
Girò appena il capo, gli occhi sul tatuaggio che le marchiava la pelle chiara.
C142.
«Che significa?!» domandò, dominando l’impulso di afferrarle il polso per esaminare meglio la scritta. Sperava di cuore che non fosse permanente.
«Numero identificativo» spiegò Koala mentre già riabbassava la manica. «Ce l’hanno tutti, anche Laine, sono progressivi e sono piuttosto certa che dipende dall’ordine di arrivo qui alla struttura. Ma non sono tutti uguali» riprese in mano le carte e si sporse ulteriormente sopra il tavolo, imitata da Law che ascoltava attento, lo sapeva Koala. «Il regolamento ci impone di tenerli coperti ma quando siamo aumentati di numero hanno cominciato a faticare a tenerci tutti sott’occhio e ho scoperto che alcuni sono segnati con la lettera F e sembrano statisticamente molti meno di quelli con la C»
«E suppongo tu ti sia già fatta un’idea del perché»
«Perché il ricambio è più rapido» rispose infatti senza esitazione. «Laine è molto brava a memorizzare i volti e si accorge subito se c’è qualcuno di nuovo» affermò e Law annuì. Ne sapeva qualcosa, decisamente. Era per quello che la piccoletta lo aveva puntato la sera prima. «Beh ogni tanto qualcuno sparisce e viene sostituito e la maggior parte dei nuovi  detenuti sono quasi tutti segnati con la lettera F quindi, a rigor di logica, dovrebbero essere di più delle lettere C ma non è così»
«Sento che vuoi arrivare da qualche parte ma mi sfugge dove» la informò il pirata, la sua preziosa pazienza, così accuratamente centellinata, che rischiava di sfuggirgli tutta di mano in una sola volta.
«E dire che le voci su di te ti dipingono incredibilmente intuitivo»
Law sollevò lentamente uno sguardo gelido su di lei.
Lo stava prendendo in giro?
La guardò sorridere e appoggiarsi allo schienale della sedia, alzando le carte per celare le proprie labbra piegate all’insù. Sì, decisamente lo stava prendendo in giro e, decisamente, era arrivato il momento di concentrarsi e non permettere alla preoccupazione di prendere il sopravvento. Non sarebbe stata una buona pubblicità per il Chirurgo della Morte e presso l’Armata Rivoluzionaria, niente meno. La reputazione era stata un effetto collaterale di quello che aveva dovuto fare ma ormai che ce l’aveva, tanto valeva salvaguardarla.  
«Quelli segnati con la lettera F sono persone chiave per qualsiasi cosa facciano qua dentro» rispose Law, lasciandosi infine andare a un ghigno di sfida. 
«Allora qualcosa di vero c’è!» non si trattenne Koala, che chiaramente non sapeva cosa fosse la soggezione, prima di piegare di nuovo il busto in avanti e appoggiare i gomiti al tavolo «Ma il punto è se sono così importanti, perché non assicurarsene di più, non rapire più persone chiave e meno persone C?» domandò, chiaramente retorica ma comunque in attesa di una risposta che non si fece attendere.  
«Perché le persone F hanno delle caratteristiche che sono più rare rispetto alle persone C»
«Bingo!» 
«La tua teoria riguardo a suddette caratteristiche?»
«Sono proprio carini quei braccialetti» mormorò Koala, indicando con un dito i due sottili monili che cingevano i polsi del pirata, su cui si spostò anche l’attenzione di quest’ultimo. «Io non ce li ho e, da quanto ho potuto vedere, nessuno di quelli marchiati con la C li ha, ma i pochi marchiati con la lettera F che sono riuscita a individuare li portano»
Law non ci mise che pochi istanti a incassare quell’informazione e metabolizzarla, per destabilizzante che fosse. Okay, non era un ospedale, se aveva ancora qualche dubbio quell’ultima informazione glieli aveva tolti tutti.
F e C potevano anche segnalare stadi differenti di una qualche presunta malattia, e il maggior ricambio poteva dipendere dal tasso di mortalità ma quale medico avrebbe permesso di mischiarsi a malati terminali e persone contagiate, sì, ma ancora relativamente sane? Persino lui, che di scrupoli ne aveva pochi, non lo avrebbe mai fatto. A meno che non fosse una specie di esperimento ma in quel caso sarebbe stata un’ulteriore conferma che l’opzione laboratorio era decisamente la più probabile e la lettera F stava per…
«Frutto del diavolo» sussurrò Law, parlando più a se stesso che a Koala che tuttavia annuì convinta. 
«Ne sono sempre più convinta»
«E la C…» tornò a guardarla, il pirata.
«Temo stia per cavia»
Law serrò la mascella. Non c’era che dire, Koala sosteneva senza esitazione le proprie opinioni, così convinte e ben argomentate da far venire voglia di crederle anche in presenza di un ragionevole dubbio, che per inciso nemmeno c’era.
Il concetto di cavia umana poteva non essere totalmente estraneo al suo vocabolario ma questo non significava che lo approvasse o ne facesse un uso non ben valutato. Quando a Punk Hazard aveva sostituito arti umani con appendici animali, lo aveva fatto su uomini privi di funzionalità motoria e i cento cuori consegnati alla Marina non avevano avuto nulla di sperimentale. Sapeva che poteva prenderli senza fatali conseguenze, almeno non per mano sua, ed era solo un metodo di cattura alternativo e più rapido, per ottenere più in fretta ciò che gli era necessario. Dopotutto, i deboli non potevano decidere come morire, era legge di natura.
La medicina e la scienza, però, erano altra faccenda e chi giocava a fare dio lo disgustava da sempre. 
«Tu non ce l’hai vero?» di nuovo, la voce di Koala tagliò in mezzo alle sue riflessioni, riportandolo alla realtà dell’immenso salone. Gli ci vollero circa cinque secondi per riprendere il filo e verificare, sollevando le maniche, che in effetti no, i suoi avambracci erano intonsi, a parte i tatuaggi che lui aveva scelto di fare anni prima.
Perché? Perché lui non aveva il numero identificativo?
La sensazione di essere trattato differentemente dagli altri non lo abbandonava, anche se l’apparenza lasciava intendere tutt’altro. Era una sensazione di pancia e la mancanza del numero identificativo la confermava, ma perché? Certo, si rendeva conto di non essere esattamente un prigioniero nella media ma, una volta giunto lì, in qualità di possessore di un interessante frutto del diavolo, non era uguale a tutti gli altri?
Che si fossero dimenticati, era impensabile e una calma, ferale furia prese a scorrergli nelle vene. Era già stato uno strumento da bambino, lo aveva scelto convinto di essere una bomba prossima all’esplosione ma aveva imparato dai suoi errori e, comunque, non accettava di venire usato senza consenso e per di più per scopi sconosciuti.
Cosa volevano da lui?
Si concentrò sul tempo trascorso nella stiva della nave, rievocando gli smozzichi di conversazioni origliate, nella speranza di ripescare un qualche dettaglio che, alla luce delle recenti scoperte, assumesse un nuovo significato ma non c’era molto, tranne forse…   
«Per caso hai sentito di un certo dottor Burkhard?» domandò, alzando gli occhi su di lei, che scosse piano il capo.
«Mai sentito! Chi è?»  
«Io lo conosco»  
Law e Koala si fissarono per un dilatato secondo, sapevano benissimo cosa l’altro stesse pensando. Il tempo delle speculazioni era finito ma non era come se potessero dirsi delusi o scocciati dalla cosa e se sul viso di Koala era scritto chiaramente, che l’arrivo di Laine la faceva felice, Law si concesse solo l’ombra di un ghigno ma era colpito dalla totale assenza di fastidio che provava.  Scostarono contemporaneamente le sedie e puntarono gli occhi sotto al tavolo, da cui Laine li guardava di rimando, con un sorrisetto sul mefistofelico che pure non le toglieva neanche un briciolo di innocenza.
Era un demonio incarnato, Law ne era sempre più certo e il ghigno si distese un po’ di più sulle sue labbra, mentre con gli occhi analizzava attentamente che nessuno stesse anche solo per sbaglio guardando verso di loro. Si spinse indietro, la schiena ben adesa allo schienale, e allargò le gambe per fare spazio a Laine, che si arrampicò sulla sedia e si appoggiò a lui, lasciandosi avvolgere dalle sue braccia.
«Come mai lo conosci?» le chiese Koala, che intanto aveva fatto il giro del tavolo e si era seduta accanto a loro, per meglio proteggere Laine da occhi indiscreti.
«Oggi è venuto da noi, stamattina, per conoscerci ha detto. Non ha la faccia simpatica.  Sorride e sorride ma si vede che lo fa per finta e non mi piace» parlò seria e concentrata la bambina. «E poi non ho potuto inderagare come mi avevi chiesto» si girò con cipiglio corrucciato verso Koala, che la accarezzò sul viso con la delicatezza di una piuma.
«Non ti preoccupare, Laine»
«Comunque si dice indagare» precisò Law, guadagnandosi un’occhiata incredula e assassina dalla rivoluzionaria, a cui rispose con una perplessa. Che aveva mai detto?! «Quindi non era mai successo prima?» decise di lasciar perdere, tornando a “indagare” appunto, mentre sollevava la gamba fino a posare la suola sulla seduta, per coprire Laine dal lato scoperto.  
«No» negò anche con il capo la bambina e Koala le risistemò il cappuccio sulla testa prima che cadesse, mentre scambiava un altro sguardo di intesa con Law.
«E vi ha visitato?» fu il turno della rivoluzionaria di chiedere. «Vi ha ascoltato il cuore o fatto delle punture?»
«A-ah» negò di nuovo Laine. «Ha solo voluto parlare con noi. Uno per uno»
«Uno per uno. Cioè non tutti insieme?»
«Uno per uno»
Law perse lo sguardo nel vuoto prima di tornare a cercare, per l’ennesima volta, Koala. Che suddetto dottor Burkhard avesse fatto una mossa, si fosse anche solo comportato diversamente dal solito non era un buon segno. Che fosse proprio il giorno dopo il suo arrivo lo era anche meno. Che fosse partito dai bambini era lo scenario che entrambi gradivano meno, senza contare la stranezza dei colloqui privati.
Le informazioni erano ancora troppo poche per allarmarsi, a parte che un laboratorio/prigione con una zona adibita a ospitare dei bambini era allarmante di suo. Ma una cosa era certa e non dubitava che Koala stesse macinando il suo stesso identico pensiero.
Qualcosa si stava muovendo e loro dovevano sbrigarsi.
 

 
§

 
«L’arcipelago Pae?» domandò conferma Pen, studiando attento le carte nautiche che Bepo gli stava mostrando.
Clione aveva avvistato le isolette in mattinata, solo grazie al cielo particolarmente limpido e nel giro di poche leghe erano già diventate invisibili a occhio nudo ma Pen aveva voluto saperne di più. Si trovavano in quella zona perché lì gli indizi li avevano portati, e ogni atollo o lingua di terra abbastanza grande da fornire un attracco poteva essere il luogo che cercavano. O una perdita di tempo.
«Sono le isole di Manhu’ai, Mahalo e Kalakua» confermò, indicando con la zampona sulla cartina. «Questa zona del Nuovo Mondo ha un clima più mite e clemente, quindi è ben documentata Pen… ah eh, C-capitano» si corresse, gli occhi che già si perdevano nel vuoto per la gaffe. Pen sollevò la mano a grattarlo appena dietro un orecchio per calmarlo. Gli serviva sul pezzo e poi odiava vederlo mortificato.
«E questa?» indicò quella che poteva anche essere una macchia di caffè sulla pergamena tanto era piccola.
«Labula Island. Non è proprio un’isola, in realtà, ma nemmeno un atollo, è piccola ma non come Ramè» Bepo indico quello che stavolta sembrava davvero solo un segnetto lasciato per sbaglio. «Però data la distanza, Labula non viene neanche contata come parte dell’arcipelago. Comunque non fa molta differenza, è disabitata» si strinse nelle spalle l’orso.
«Okay» annuì Pen, rimanendo con gli occhi fermi sulla cartina ancora alcuni istanti.
Sì, okay. Ora sapeva che cos’aveva avvistato Clione. E quindi? Che tipo di informazioni gli dava quella scoperta? Come si sarebbero dovuti muovere?
Se c’era una cosa che proprio mancava loro, era il tempo. Il tempo per deviare dalla rotta prestabilita e permettersi di fare un altro buco nell’acqua. Sollevò piano la testa, puntando gli occhi verdi verso di lei, che assisteva all’altro lato del tavolo.
«Comunico le coordinate a Jean-Bart?» domandò e Pen stava quasi per lasciarsi andare ad un sorriso di sollievo quando Ikkaku aggiunse. «O proseguiamo secondo la rotta?»
Pen morse un’imprecazione tra i denti. Si era per un attimo illuso che Ikkaku stesse tra le righe dando il proprio parere e, francamente, trovava abbastanza fuori luogo sfruttare quella situazione per giocare alla “crescita psicologica del piccolo Penguin”. Sapeva che se ognuno avesse detto la propria si sarebbe generato il caos totale ma un consiglio glielo poteva anche dare, no?
Ma Pen sapeva anche che non c’era cattiveria nel suo comportamento, che Ikka, come Shachi e come tutti, aveva incrollabile fiducia nel Capitano e di conseguenza aveva incrollabile fiducia nelle ragioni che avevano spinto Law a sceglierlo come vice, tra cui apparentemente rientrava anche il suo presunto istinto.
E se né Ikka né Shachi parlavano, era per non influenzarlo, non certo per negargli un consiglio. D’altra parte Law credeva fermamente nel destino e tutti loro avevano imparato a fidarsi del suo fatalismo, che in effetti lo aveva sempre riportato sano e salvo a casa.
Solo che per Pen, stavolta, credere nel destino e nell’istinto risultava un po’ più complicato perché il destino e l’istinto erano lui. Lui che doveva scegliere e raramente veniva contraddetto, ma non è che le volte in cui lo avevano lasciato fare avessero portato a qualche svolta. Semmai qualche pallido e vago indizio, una caccia al tesoro fatta di enigmi che lui non era bravo a decifrare.
Non come Law, che quando prendeva una decisione tollerava i loro consigli non richiesti ma raramente li ascoltava e, puntualmente, dimostrava di aver avuto ragione.
Lui, d’altra parte non era Law, non era un capitano e, a dirla tutta, non fosse stato proprio per Law, non sarebbe stato neppure un pirata. Sarebbe rimasto un delinquentello da quattro soldi per tutta la vita e non avrebbe probabilmente mai lasciato Swallow Island, anche perché ci sarebbe morto dissanguato, se non fosse stato per Law.
Ma Ikka e Bepo e nessun altro di loro sembrava aver capito quella basilare informazione. 
Se solo… Dannazione, se solo Law fosse stato lì! Per potergli chiedere un consiglio o a fargli vedere dove sbagliava!
«…’tano! Capitano!» la voce di Ikkaku lo riportò indietro e Pen aprì bocca, senza sapere neanche lui cosa stava per ordinare, quando la porta si spalancò con un tonfo.
«Pen, la Marina!»
Il fiato gli si mozzò in gola mentre incrociava gli occhi di Shachi, che più di tutti, primo fra tutti, aveva insistito per iniziare a chiamarlo Capitano, nonostante i suoi divertiti tentativi di declinare, e ora lo chiamava per nome, chiamava suo fratello, con quella nota urgente nella voce di quando era imperativo decidere cosa fare e deciderlo in fretta, come quando da ragazzini si ritrovavano braccati e dovevano trovare un modo per uscirne, un modo che non contemplasse nel modo più assoluto di lasciarsi indietro o anche solo separarsi.
Pen conosceva bene quello sguardo e quella tensione. Pen sapeva cosa fare.
«Arrivo» annunciò senza esitare, aggirando veloce il tavolo, mentre sfilava la parte superiore della tuta, che aveva indossato quella mattina in uno slancio di nostalgia, legando le maniche intorno alla vita. In quattro falcate era fuori dalla sala comune interna, in pochi attimi aveva salito due rampe di scale, ancora qualche passo e si ritrovò sul ponte, a fissare a viso scoperto la corazzata di ridotte dimensioni che stava per incrociarli, la vela dell’albero maestro che, a differenza della loro, sfoggiava il gabbiano blu.
Per un momento, un moto di pura vergogna lo travolse, per aver fatto ridipingere il Polar Tang, per aver sostituito la vela nera con una anonima a righe, identica a quella di poppa e priva di Jolly Roger. Law si sarebbe indignato, ne era certo.
«Avviso Jean-Bart di prepararsi all’immersione» sussurrò Ikkaku che, neanche si era accorto Penguin, li aveva seguiti a ruota.
«No» rispose lapidario, senza staccare gli occhi dall’altra nave.
«Come?»
«Ho detto no»
«Pen, vuoi restare qua fuori a farti bers…»
«Ikka è un ordine, il mio» si girò verso di lei, che lo guardava scioccata e immobile sulla porta del castello di prua. «Immergendoci adesso, con una manovra d’urgenza, desteremmo molti più sospetti»
«Siamo in superficie con un sottomarino, non ti sembra che sia già abbastanza sospetto, Capitano?!» tornò indietro di due passi ma Pen non aveva né l’aria né l’intenzione di vacillare.
«Pen, Ikka ha rag…» fece per spalleggiarla Clione, solo per venire interrotto.
«Anche Pen» si fece avanti Shachi, mentre il rosso voltava nuovamente loro le spalle e avanzava fino al parapetto, ascoltando solo per metà Shachi che aggiungeva sottovoce: «Fidatevi di lui»
Era sempre stato così tra loro, in fondo. Shachi seguiva le tracce e indagava, lui li tirava fuori dalle situazioni più spinose, con faccia da schiaffi e trovate del momento.
E forse era solo un delinquentello di Swallow Island che sarebbe dovuto morire dissanguato ma il destino aveva messo Law sulla sua strada e ora era un pirata e forse non era il Capitano ma, in quel momento era un capitano, che doveva proteggere i propri fratelli e ritrovarne uno perduto, e come tale doveva comportarsi. Anche a costo di ridipingere il Polar Tang e nascondere il Jolly Roger.
«Tutto bene?!» una voce distante ma non troppo, portata dal vento, seguì lo sbracciarsi di uno dei marine.
Pen portò le mani a coppa intorno alla bocca e prese fiato. «Stiamo verificando un’anomali a uno dei motori! Sembra essere solo una piccola perdita, il nostro carpentiere è già all’opera!» urlò, restando poi in attesa che acqua e vento trasportassero il messaggio.
«Serve una mano?!»
«Siamo a posto!» ribatté subito senza esitare Pen. Altri marines stavano uscendo sul ponte e si rendeva conto che un sottomarino in superficie attirasse l’attenzione, Ikkaku non aveva protestato per niente. Lo stomaco prese a chiudersi, il coppino gli si imperlò di sudore. Sarebbe bastata una pioggia di granate per spedirli tutti sul fondo. «A meno che qualcuno di voi non sia diventato padre di recente e gradisca qualche Wapol Toys per il proprio pargoletto!»
Pen riabbassò le mani. Percepiva la tensione di Ikkaku, Shachi e Clione dietro di lui, così palpabile da poterla afferrare e sperava davvero che non stessero trattenendo il fiato. Se stavano dando loro la caccia e stavano solo prendendo tempo per un attacco a sorpresa…
«Mercanti della W.T.F. eh?! Non mi stupisce che giriate con un sottomarino, mi sa che il metallo ve lo mangiate anche a colazione! Se non riuscite a risolvere, comunque, a poche leghe da qui c’è l’arcipelago Pae!» indicò verso dove si trovavano più o meno le isole il marine mentre Pen si apriva in un sorriso.
Okay, sì, non era lo stile di Law ma lui non era Law, appunto, e ce l’aveva fatta. Ce l’aveva fatta anche stavolta.
«Grazie mille!» rispose, alzando un braccio in segno di saluto.
«Che il vento gonfi sempre le vostre vele!» rispose il marine mentre ormai la nave passava oltre, lasciandoli al loro galleggiare, che era durato già fin troppo.
Pen tornò con i piedi ben adesi al ponte, sia metaforicamente che non, lo sguardo duro come il diamante ora puntato verso le isole che non vedeva ma sapeva che c’erano.
«Comunicate a Jean-Bart le coordinate per raggiungere l’arcipelago» ordinò, tornando verso di loro per rientrare, senza realmente guardarli. Aveva bisogno di una doccia fredda e di recuperare un briciolo di autocontrollo, ora che il concreto rischio di venire bombardati e morire su quel fondale, conosciuto ma decisamente poco pericoloso del Nuovo Mondo, era rientrato. «Voglio essere là entro sera. Sbarchiamo a Manhu’ai e ci dividiamo in gruppi, Jean-Bart prosegue con il sottomarino e attracca a Kalakua, dove ci ritroveremo poi tutti. Noi intanto noleggiamo delle navi di piccola dimensione e ci fermiamo in ogni singolo centro abitato tra le isole principali, battiamo al tappeto l’intera zona, cerchiamo qualsiasi indizio. Tutto chiaro?»
Non erano arrivati fin lì per caso. Bivio dopo bivio, era vero, ma non per caso. E della bravura di Shachi di seguire le tracce, Pen non si sarebbe potuto fidare di più. Poteva esserci qualche indizio determinante, in una di quelle isole, glielo diceva l’istinto e Pen, una volta tanto, stava ascoltando.
A differenza dei suoi tre compagni forse.
Si girò, accigliato nel realizzare che non aveva ancora ricevuto una risposta.
«Sì, Capitano!» si mise sull’attenti Clione appena incrociò il suo sguardo interrogativo, in attesa di un segno che avessero sentito cos’aveva detto.
«Sì, Capitano» sorrise Shachi, con fraterno orgoglio, la bocca un po’ sghemba.
«Sì, Capitano…» soffiò Ikkaku a occhi spalancati.
Pen li osservò uno ad uno ancora un momento, prima di annuire e dirigersi verso il bagno.
 

 
§

 
Law era irrequieto.
Non che ci fosse niente di cui stupirsi, vista la situazione.
Era bloccato in quel luogo senza ancora un’idea di quanto stesse succedendo, Burkhard i bambini non li aveva certo fatti rapire per passatempo e forse si apprestava a muovere le prime pedine su quella scacchiera e, come se non bastasse, una brutta sensazione alla bocca dello stomaco lo aveva attanagliato quel pomeriggio.
Avevano fatto qualcosa di avventato, avevano rischiato, se lo sentiva, glielo diceva l’istinto. Per fortuna lo spasmo allo stomaco era passato com’era venuto dopo pochi minuti, a tranquillizzarlo che la sua ciurma l’aveva scampata, almeno per il momento.
Si chiese, mentre portava l’avambraccio sulla fronte, occhi grigi al soffitto della propria stanza, supino nella scomoda branda, cosa stessero combinando. Un mezzo sorriso fece capolino sulle sue labbra perché, nonostante tutto, era fiero di loro, fiero di Pen.
Sapeva che non sarebbero rimasti con le mani in mano e sapeva di averli affidati al migliore dopo di lui, capace di prendersene cura.
L’istinto, il suo istinto, non lo aveva mai tradito.
Era uno stratega, un calcolatore, ma anche nei suoi più dettagliati schemi c’erano sempre incognite e bivi, scenari imprevisti o previsti ma scartati e, in quei frangenti, persino lui si affidava alla propria impulsività. E al destino.
Law nel destino ci credeva. Lo aveva odiato visceralmente, ringraziato in segreto e mai ci si era piegato davvero. Semmai, con il fato lui ci collaborava, restando artefice della propria esistenza.
Certo, sarebbe stato più semplice potersi preoccupare solo per te stesso, non pensare di avere uno scopo lì, ma era inutile fingere che a tenerlo sveglio fosse solo il pensiero di come lui sarebbe riuscito a fuggire. C’era in ballo molto di più e Law non pensava proprio di essere disposto a lasciare che il Governo Mondiale continuasse a fare ciò che più gli aggradava, com’era capitato e capitava già troppo spesso.
Di sicuro, comunque, non gli avrebbe lasciato Laine, Governo o non Governo. Perché si rendeva ben conto di non avere prove concrete a parte l’opinione di Koala. Solo che lui, di Koala, si fidava.    
Era una sensazione a pelle, istintiva e Law, comunque, non poteva fare a meno di pensare che se lui, uno dei più grandi pirati della sua generazione, e uno dei migliori esemplari dell’Armata Rivoluzionaria si erano trovati in quel luogo, nello stesso momento, non era casuale.
Potevano farcela, non sapeva ancora come, e neanche cosa con precisione, ma se agivano insieme potevano farcela e Laine sarebbe stata al sicuro.
Lasciò scivolare il braccio sul materasso, gli occhi che gli si chiudevano per la stanchezza. Fece appena in tempo a rendersi conto che la direzione presa dai suoi stessi pensieri lo aveva rilassato, abbastanza da riuscire a prendere sonno, che già si stava addormentando.
   

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Capitolo 4
*** Ricerche ***


A Law non fare niente piaceva.
Non che fosse pigro ma trovava la noia un toccasana, di tanto in tanto.
Aumentava la creatività, concedeva alla testa un riposo a volte migliore del sonno, infastidiva i nemici. Non c’era niente di meglio che mostrarsi pacifico e crogiolante a coloro che speravano di incutere timore solo perché possedevano le chiavi di un paio di manette in agalmatolite. D’altra parte i deboli erano, non sempre ma spesso, anche stupidi e mediocri.
Purtroppo però non c’era nulla di pacifico o rilassato nel far niente di Law, in quel momento. Nel suo sguardo c’era tensione e attesa e la noia era solo simulata.
Laine non si faceva viva dalla sera prima e Law si augurava che il dottor Burkhard non avesse avuto la malsana idea di farle qualcosa, se lo augurava davvero.
Per il dottor Burkhard.
Poco importava se non aveva prove che Burkhard le avesse fatto qualcosa e se, magari, era solo che aveva trovato di meglio da fare nella zona kindergarten che sgattaiolare dove non doveva. Di spaccare il capello in quattro non aveva tempo né voglia. Lui non la vedeva, ergo era sparita, ergo era in una situazione di potenziale pericolo e il responsabile era, in ogni caso, il dottor Burkhard, anche solo per averla portata lì.
E Koala aveva pensato bene di imitarla.
Che fosse andata a cercarla o a raccogliere informazioni non era un’ipotesi da scartare né remota, ma con lui a pranzo non ne aveva fatto menzione, ed era abbastanza per dubitarne. Non l’avrebbe mai lasciato all’oscuro di una simile decisione, ne era così certo che solo per quello Law non aveva ancora preso l’iniziativa e ideato qualcosa di testa sua, ma forse era arrivato il momento.
Non doveva renderle conto di niente, dopotutto. Erano complici in quella situazione, si era creato un legame che li aiutava a mantenere il senno, la sera precedente si erano distratti a vicenda con svariati aneddoti e informazioni più o meno dettagliate sulle loro vite e i loro passati, tutto nella speranza che Laine spuntasse dal nulla come suo solito, ma non gli serviva il suo permesso e, di non fare niente, ora Law era stufo.
Con un movimento che non tradiva il nervosismo provato, per non attirare l’attenzione, si scostò dal pilastro a cui era stato appoggiato per non sapeva esattamente quanto, lanciando occhiate al salone, al balcone rialzato, alla loro nicchia.
Niente. Non c’era traccia di Koala e si era posizionato in modo da essere il più visibile possibile per Laine, che lo avrebbe senz’altro trovato se fosse stata nel salone. Era ora di levarsi da lì e andare a cercarle.
«Ma come? Te ne vai di già? Proprio adesso che io arrivo»
«Kay» Law si voltò di scatto, gli occhi a scandagliare su e giù lungo la sua persona, in cerca di segni più o meno evidenti di… beh di qualsiasi cosa. «Dov’eri finita?»
«Ciao anche a te» ribatté con un sorriso la rivoluzionaria, socchiudendo appena gli occhi. «Mi sono attardata sotto la doccia» spiegò per poi tornare seria «Ancora niente?»
«Niente» confermò Law, facendo l’ennesima panoramica del salone, sopra la testa di Koala. Quando tornò a guardarla, era così rabbuiata che i suoi occhi sembravano quasi scuri e Law non si rese neanche conto di cosa aveva fatto, finché le dita di Koala non lo sfiorarono.
Law sbatté le palpebre un paio di volte, girò gli occhi sulla propria mano, stretta sulla spalla della rivoluzionaria, e su quella di Koala, sovrapposta alla propria, in un gesto di reciproco conforto, così familiare che Law avrebbe voluto ritrarla e allontanarsi da lei, perché non era proprio cosa sua affidarsi così tanto a una persona dopo appena tre giorni. Se solo non gli avesse fatto così bene.
«Sta bene, ne sono sicura» affermò determinata Koala, alzando il viso verso di lui, con un sorriso. «Insomma, con la parlantina che si ritrova, neppure Burkhard ha speranza»  
Law sogghignò, con il ghigno più bastardo che aveva in repertorio, un po’ perché l’immagine di Burkhard torchiato dalla mocciosetta era un idillio nonostante non avesse idea di che faccia avesse Burkhard, un po’ perché, nel girarsi, Koala lo aveva involontariamente obbligato ad abbracciarla per le spalle e Law non era granché bravo a gestire quel genere di situazione, se non in un modo. Sarcasmo.
«Suppongo tu stia parlando per cognizione di causa»
Koala sgranò gli occhi con finta, anche se forse appena un po’ vera, indignazione. «Mi stai dando della logorroica?!» lo sfidò ma senza neanche accennare a smettere di sorridere. Così come Law non accennava a smettere di sogghignare, il provocatore bastardo. «Fino a prova contraria, la logorrea mi ha portato a essere dove sono oggi» sollevò il mento con fierezza, scivolando via da lui per dirigersi verso la loro nicchia.
«E dove sei?» non aveva intenzione di mollare, Law, mentre la seguiva con passo strascicato. «In un laboratorio per esperimenti non meglio definiti, in una qualche zona non meglio identificata del, forse, Nuovo Mondo, senza una chiara idea di come andartene?»  
«Beh almeno io oggi ho scoperto qualcosa» lo informò, voltandosi e puntellando le mani sul davanzale della finestra murata alle sue spalle. «Ho scoperto perché ci rimandano in stanza tra le tre e le sei» si issò con un movimento fluido quanto quello del sopracciglio di Law che si sollevava.
«Ovvero?»
«Suppongo sarebbe difficile individuare le cavie da esaminare, se ci lasciassero tutti nel salone»
Una scarica attraversò il pirata da capo a piedi e sperò di aver capito male. «Ti hanno… esaminata?» domandò piano, ricominciando a scandagliare su e giù la sua persona, con occhi attenti e gelidi. Perché diamine avesse aspettato per dirglielo gli sfuggiva decisamente. «Che ti hanno fatto?»
«Prelievo del sangue, elettrocardiogramma e poi quello che, decisamente, definirei un test attitudinale. Niente di allarmante, davvero»
«Non era mai successo prima» ribatté duro e, dal suo punto di vista, tanto bastava per allarmarsi eccome. La gente spariva da quel luogo così come ci arrivava. In sordina e senza un apparente motivo ma lui e Koala il motivo lo potevano immaginare, perché le cavie raramente facevano una bella fine nei laboratori. «Burkhard?»
«Se c’era, non si è fatto vedere. O riconoscere. Avevano tutti la maschera, ovviamente, e anche noi eravamo bendati, non ho visto granché»
Law inalò a fondo, lo sguardo perso nel vuoto, che guardava ancora insistentemente Koala, senza davvero vederla. Non era per gli spargimenti di sangue gratuiti, se poteva evitare di uccidere lo faceva ben volentieri, ma il sedicente dottore della struttura non sembrava apprezzare poi molto la propria vita, visto che continuava a mettere a durissima prova la sua pazienza. Usarlo per i propri scopi come fosse uno strumento, esaminare Koala come un topo da laboratorio, far sparire Laine e in generale prendersela con dei bambini. 
Senza contare, poi, che poteva benissimo farlo a pezzi senza per questo causarne una prematura dipartita. Non gli dispiaceva per niente l’idea di Burkhard smembrato fino alla fine de suoi giorni ma, in quel momento, le piacevoli immagini che si susseguivano nel suo cervello riguardo il destino del dottore erano di secondaria importanza.
«Devi andartene da qui. Dobbiamo trovare il modo di farti uscire il prima possibile»  
«Come scusa?!»
Law tornò alla realtà, da lei che lo guardava come se avesse appena usato una lingua incomprensibile, e si avvicinò di un altro passo. «Devi andare via, Koala. Lo hai detto tu che il ricambio è continuo, lo sai meglio di me cosa rischi se…»
«Io non vado da nessuna parte»
Law rimase per un attimo interdetto, le parole bloccate in gola, prima di riuscire a recuperare abbastanza autocontrollo da rispondere con sufficiente calma e distacco.  
«Non è il momento di giocare all’eroe, questo»
«Io ho una missione qui»
«Non ne vale la pena»
«Prego?»
Koala non sembrava neanche arrabbiata, nei suoi occhi, che lo fissavano da sotto in su, Law leggeva solo disprezzo e serrò la mascella con fastidio. Era così stupido quello che Koala stava facendo, come poteva non rendersene conto?!
«Si accontenteranno delle informazioni che sei riuscita ad accumulare finora»
«Non è così semplice e riduttivo. Ci sono centinaia di persone prigioniere»
«E, se non vado errando…» scandagliò con cura ogni parola Law «…lo stile dell’Armata è scatenare rivolte e ribellioni in modo che il popolo si liberi da sé, strategia in cui, ammetterai, ho parecchio esperienza anche io» piegò il busto in avanti, mentre Koala invece stendeva la schiena ben dritta, restando seduta sul davanzale per essere più vicina alla sua altezza, risultando quasi imponente grazie alla sola portata della sua determinazione.
«Law, io resto»
Lo sguardo di Law si fece vitreo.
Non era possibile, andava bene la dedizione alla causa, la capiva, ma non era possibile. Che usassero il lavaggio del cervello all’Armata? E perché poi gli importava così tanto?!
A lui. A lei.
Perché non poteva accettare di aver esaurito il tempo, di aver fatto quanto in suo potere ma non poter fare altro, che fosse solo controproducente sacrificarsi così quando da fuori avrebbe potuto fare ancora molto e, soprattutto, vivere?          
Perché non potevano almeno mandare qualcuno, qualcuno che sapesse come, ad aiutarla?!
Il pensiero lo colpì tra capo e collo, peggio di una sprangata.
«Non sai come fare vero? Non c’è nessuno predisposto al tuo recupero»
Non era una domanda, era un’ovvietà. Una sola persona, con il giusto supporto esterno, poteva farcela, soprattutto una persona addestrata come lo era lei. Se non se ne andava, era perché non poteva. E più realizzava quell’evidenza più si sentiva un idiota e nauseato.
Da sola. 
«Law»
L’avevano lasciata da sola, dopo averla fatta infiltrare in una missione suicida.
«Se pensi che Dragon mi abbia gettato in pasto ai lupi, sei fuori strada»
In pasto ai lupi, come Cora in pasto al suo stesso fratello.
«Ho chiesto io di essere mandata in questa missione, ho insistito, lui non era neppure d’accordo all’inizio! Law!»
Da soli. Il mondo li aveva lasciati da soli, in pasto al Governo, alla Marina, ai mitra spianati per sterminarli tutti.
Sentì le proprie dita scricchiolare tanto le aveva strette forte in due pugni, le uniche armi a sua disposizione finché quei maledetti bracciali in agalmatolite gli cingevano i polsi e ci aveva provato Law, a liberarsene. E se la voce di suo padre non gli avesse ripetuto quanto importanti fossero le mani per un bravo medico e chirurgo, avrebbe tentato anche di spaccarli contro il muro.
Denigrabile. Per lui quel comportamento era nient’altro che denigrabile e degno di disprezzo, per lui che avrebbe attraversato l’inferno pur di non mettere in pericolo i suoi e davvero Dragon voleva ergersi a vessillo della lotta contro i soprusi con un atteggiamento del genere?
Non era neanche…
La sensazione era familiare quanto estranea e soprattutto non se l’era aspettata. Non si era aspettato due mani intorno al volto e un viso alla stessa altezza del proprio, che gli sorrideva. Non se l’era aspettato e non capiva perché gli sembrasse familiare, ma fu abbastanza per riportarlo lucido e frenare il flusso folle dei suoi pensieri.
«Io non me ne vado senza Laine. E nemmeno senza di te»
Delle tante reazioni che Law avrebbe potuto avere di fronte a una simile invasione del proprio spazio personale, qualcosa di concesso solo a Bepo e, occasionalmente, a Pen, Shachi e Ikka, tutto ciò che riuscì a fare fu chiedersi come avesse potuto pensare che Koala lo avesse guardato con disprezzo. Era evidente che mai sarebbe potuto accadere e Law non sapeva da dove gli venisse quella consapevolezza.
«Dov’è che andate?»
Si rese conto solo in quel momento che non aveva ancora distolto gli occhi, se ne rese conto quando Koala cambiò espressione, sorpresa e sollevata quanto lui.
«Laine» esalò la rivoluzionaria, con gli occhi che brillavano, mentre Law la prendeva in braccio e squadrava attento anche lei, realizzando dopo un momento che Laine stava facendo altrettanto.
«Vi siete dati un bacio?» 
«No» rispose dopo un momento Law, ignorando come poteva il sorriso divertito di Koala.
«Ma sembrava di sì»
«Hai visto male» ribatté asciutto il chirurgo, mentre si accomodava a sua volta sul davanzale, trucidando con gli occhi Koala e il suo sorriso divertito. E lui che si era pure preoccupato per la sua sorte. Ingrata. «Dov’eri finita? Io e Koala ti stavamo aspettando»
Laine si accigliò, spostando lo sguardo da uno all’altra. «Chi è Koala?!»
Law trasalì e Koala si mise sull’attenti, gli occhi sgranati in un’espressione di allerta.
«Nessuno, è stato un lapsus»
«Un lupus? Cos’è un lupus?»
«Lapsus. È una cosa di noi adulti. Laine perché ieri non sei venuta qui?» insistette Law, anche se gli sembrava abbastanza palese, ormai, che non le fosse successo nulla.
Laine piegò il capo di lato, riflettendo. «Se te lo dico, poi mi spieghi cos’è il lupus?»
Law la fissò impassibile qualche istante, cercando di dominarsi. Era una macchina da guerra con quella lingua sciolta, dannazione. Lui non ricordava proprio di essere mai stato così molesto da bambino.
«Laine, tesoro, è successo qualcosa?» s’intromise Koala, dolcemente e non le fosse stato grato per l’aiuto, Law si sarebbe forse anche potuto offendere e indignare quando, a lei, Laine rispose senza fare tante storie.
«Azaleea non stava bene e le ho promesso che stavo con lei»
«Azaleea è una tua amica?» domandò ancora la rivoluzionaria e Laine annuì.
«Poi stamattina il dottore l’ha visitata»
«Il dottore?» chiese conferma Law.
«Sì, quello dell’altra volta. Ah e io poi l’ho seguito in laboratorio!» esclamò, quasi se lo fosse ricordato di colpo. 
Il tempo sembrò congelarsi per un attimo, come il sangue nelle vene di entrambi ed entrambi sperarono di aver capito male. Volevano aver capito male.
«Ti hanno portato al laboratorio?» scelse con cura le parole Koala, e trattenne il fiato quando Laine, dopo averla guardata qualche secondo, socchiuse gli occhi come se si stesse sforzando di ricordare.
Il sangue di Law prese a ribollire. Se l’avevano anche solo sfiorata…
«Io l’ho seguito» ripeté la bambina, con un convinto cenno del capo.
«Non ti hanno fatto niente?»
«A-ah» negò stavolta e Koala non trattenne un sospiro di sollievo, mentre Law si sfregava gli occhi con pollice e indice.
Okay, non era proprio un sollievo il pensiero di Laine che seguiva di nascosto Burkhard in giro per la struttura, Law non voleva neppure pensare all’evenienza che la cogliessero in flagrante, c’era già Koala che si aggirava ovunque riuscisse ad arrivare, ma, fintanto che nessuno si accorgeva delle sue malefatte, Laine che giocava alla piccola spia era comunque meglio dell’alternativa.
«Il laboratorio è strano. Ci sono un sacco di cose di metallo, ma è un metallo blu e sembra che c’è il mare dentro»
Law alzò gli occhi su Koala, che negò impercettibilmente. Non aveva visto granché ma un dettaglio del genere non le sarebbe sfuggito. Ergo, non l’avevano portata nel laboratorio vero e proprio per il test attitudinale oppure era Laine ad aver seguito Burkhard in quello che lei credeva fosse il laboratorio e invece era un altro luogo pieno, e non era un dettaglio secondario, di agalmatolite.
«Cos’è l’algamatite?»
Law sbatté le palpebre, interdetto. Quello, lo sapeva, era il suo punto di non ritorno, quando iniziava a pensare ad alta voce senza accorgersene. Doveva trovare delle risposte o ne andava della propria sanità mentale.
«Agalmatolite» la corresse, era più forte di lui.
«E cos’è?» insistette Laine. «Me lo dici cos’è, Doc?» 
«Un minerale che viene dall’isola di Wano»
«E dov’è Wano?»
«Nel Nuovo Mondo»
«E il lupus che cos’è?»
Law alzò gli occhi verso Koala, che si stava platealmente trattenendo dal ridere, e li riabbassò su Laine, incapace di trattenersi. Ghignò mentalmente, mantenendosi serio all’esterno. 
«Una malattia cronica autoimmune»
Laine soppesò le sue parole. Era proprio, curioso, Law, di vedere cos’avrebbe chiesto adesso. Sarebbe dovuta bastare quella difficile risposta, in teoria, per porre fine alla sequela di domande, così pensava Law, ne era piuttosto certo in realtà.
Law, però, pensava male  e non si sentì neppure di biasimare Koala per aver ceduto ed essere scoppiata a ridere, quando sentì che altro la mocciosetta avesse ancora da dire. In fondo, molto nel profondo, veniva quasi da ridere anche a lui.
«Perché non vi siete dati un bacio?!»
Quella bambina sarebbe stata la sua fine.

 
§

 
L’isola di Manhu’ai era grande, non la più grande dell’Arcipelago Pae, ma la più densamente popolata e questo spiegava logicamente, per quanto non fosse normale, perché l’isola di Manhu’ai fosse tappezzata di manifesti di gente scomparsa, corredati di foto e ricompense di varia natura a seconda del grado di benessere della famiglia da cui il manifesto era stato affisso.
Pen aveva interiormente ed egoisticamente gioito. Pen credeva di avere una pista. Poi, erano iniziati i problemi. La diffidenza dilagava ormai, in un luogo un tempo generoso e accogliente, e se le porte non restavano chiuse, venivano loro sbattute in faccia non appena si toccava l’argomento rapimenti.
A Kalakua era andata meglio. L’accoglienza, non di certo le indagini. Che fosse per convivere meglio con l’accaduto o per sincera convinzione, gli abitanti lì si erano detti certi non ci fosse nulla di cui essere tanto allarmati. Le sparizioni prendevano un lasso di tempo più che ragionevole per imbarcarsi in quello che, dalla descrizione degli autoctoni, appariva come un pellegrinaggio spirituale verso Tiklanish Orollari, culla della loro civiltà e il fatto che tutti i desaparecidos appartenessero alla stessa generazione rafforzava quella credenza in chi era rimasto.
Anche loro lo avevano fatto in gioventù e sì, decidendo dalla sera alla mattina, provocando un flusso di partenze che si era protratto per giorni senza posa. Era così che funzionava.
Perché invece a Manhu’ai fossero convinti che si trattasse davvero di rapimenti, era un mistero, per gli abitanti di Kalakua. A Mahalo, dove alla fine si erano riuniti in quella locanda fatta di legno, paglia e gentilezza, neanche si riusciva a comunicare. Non parlavano la stessa lingua o forse fingevano, non era dato saperlo e nessuno di loro aveva sufficienti energie per scoprirlo, in quel momento.
Erano stati due giorni estenuanti di esplorazione, viaggio e infruttuose ricerche. Sì, forse non avevano sbagliato a seguire gli indizi, vista la delicata situazione in cui versava l’arcipelago, ma che quei rapimenti fossero collegati a quello del capitano non era detto. Ci erano arrivati bivio dopo bivio e il dubbio di avere preso una  o più direzioni sbagliate a un certo punto di quel viaggio li attanagliava, impietoso.
Pen fece una panoramica della tavola, tra i compagni sfiniti che rischiavano di addormentarsi con la faccia spalmata sul legno, altri sconfortati e testa tra le mani, passando per Bepo con le lacrime agli occhi, Uni completamente sprofondato nel dolcevita, Ikkaku intenta a incidere il bordo del tavolo con uno shuriken per sfogare la tensione in qualche modo, Skua che si rigirava la scure tra le mani occhiando di tanto in tanto verso di lui. Probabilmente stava meditando come attentare alla sua vita, considerò Pen con un sospiro trattenuto.  
Solo Shachi e Jean-Bart mancavano all’appello ma avevano avvisato del loro possibile ritardo, per loro Pen non era in pensiero. Per il resto della ciurma, sì.
Erano stanchi. Stanchi, scoraggiati e senza concrete prospettive.
Okay, c’erano stati dei rapimenti, checché ne dicessero a Kalakua, ma da lì in poi non c’era più mezzo indizio da seguire. Erano a un punto morto, anche avessero voluto aiutare gli isolani non avrebbero saputo dove andare, figuriamoci ritrovare Law.
Pen infilò la mano in tasca, sfiorando la Vivre Card come un amuleto protettivo, che da un paio di giorni crepitava e bruciava meno intensamente.  Anche in quel momento ma, stavolta, non gli era di particolare conforto e la ricacciò sul fondo della tasca, prima di rimettersi dritto dalla posizione svaccata in cui si era lasciato pesantemente cadere sulla sedia.
«Dunque…» posò i gomiti sul tavolo. «…ipotesi più accreditata?» domandò, sperando di almeno accendere un briciolo di discussione. Certo non si era aspettato che tutti rispondessero in coro: «Trafficanti di schiavi» con voce strascicata e un singhiozzo maltrattenuto di Bepo a coronare il tutto.
Pen scambiò un’occhiata con Ikka e sospirò di nuovo, allargando le mani per prendersi le tempie. «Magnifico» sibilò al tavolo.
Non avevano neppure un legittimo dubbio di cui discutere. Non aveva nien…
«Trafficanti di organi!»  
Pen sobbalzò a molla e si portò una mano al petto, nonostante il cuore se lo sentisse in gola.
«Porco…» imprecò sottovoce, occhiando minaccioso Shachi, che si era materializzato alle sue spalle. Con Jean-Bart, poi, che grande e grosso com’era, come faceva a essere tanto silenzioso?! «Organi?» tornò velocemente sul pezzo, scostando la sedia accanto alla propria in un muto invito a sedersi, affamato di nuove informazioni o anche solo congetture che potessero sbloccare un pensiero, una linea guida da seguire.
«Dove siete stati?» Ikka si sporse sul tavolo, lo shuriken ben stretto in mano.
«A Ramé, l’isolotto vicino a Manhu’ai. C’è solo un orfanotrofio»
«Completamente disabitato» intervenne Jean-Bart. Pen girò gli occhi da uno all’altro compagno. «Ma non ha l’aria di essere diroccato o abbandonato»
«Abbiamo parlato con un paio di manovali del deposito barche di Manhu’ai, che ci hanno detto dove trovare una delle ragazze che lo gestisce, la sola che a detta loro sarebbe stata disposta a parlarci. Qui a Mahalo, arriviamo da casa dei suoi genitori. A quanto pare i bambini sono spariti circa tre settimane fa. In massa, così, puff. Dissolti nel nulla»
«Li hanno presi tutti» annuì convinto Jean-Bart.
«E perché pensate ai trafficanti di organi?» Pen spostò gli occhi da uno all’altro. «Anche chi traffica in schiavi è interessato ai bambini»
«Ma non è il loro stile» ribatté roco Jean-Bart, il fuoco negli occhi.
«I trafficanti di schiavi arrivano in un posto, razziano, fanno quanti più prigionieri possono e ripartono. Le sparizioni sono iniziate prima che l’orfanotrofio venisse preso di mira e il sequestro è stato studiato nel dettaglio. Sono entrati, hanno addormentato tutti e hanno preso solo i bambini e dopo un colpo del genere, se fossero stati trafficanti di schiavi, se ne sarebbero andati, ma le sparizioni sono continuate. E non solo tra gli isolani, pare che anche dei turisti siano rimasti coinvolti»
Pen puntò gli occhi nel vuoto, concentrato sulle parole di Shachi e sulle mille e più possibili implicazioni e alternative che prendevano forma nella sua testa.
Trafficanti di organi.
Era una teoria interessante, una teoria… allettante quasi. Perché se erano trafficanti di organi, Law poteva avere un senso in mezzo a loro, poteva essere prezioso. Poteva essere uno dei tanti illegali traffici di Kaido ed ecco che l’opzione della vendetta, una vendetta che univa utile e dilettevole, tornava a galla. Ce lo vedeva, Pen, l’Imperatore che ordiva il rapimento del loro Capitano, progettando di metterlo a proprio servizio per un mercato del genere.
Piegarlo alla sua volontà, per lo meno provarci, sarebbe stato per la Bestia un delizioso passatempo.
Aveva senso, si incastrava tutto bene e con logica. Tanto. Troppo per potersi cullare in quell’idea, che poteva essersi creata nella testa di Shachi per il suo stesso disperato desiderio di ricevere anche un infimo segnale che la direzione giusta era quella.
Pen non voleva cedere e Shachi lo sapeva. Glielo leggeva in faccia.
«Pen, pensaci! La dinamica è comune a quella incontrata finora. Nel navigare fino a qui abbiamo incrociato altre due ciurme pirata che hanno subito perdite e, come qui, i rapiti erano tutti giovani e in salute. Poi mettici i bambini e, guarda caso, la sera che i bambini spariscono, di sorveglianza all’orfanotrofio c’è una delle anziane di Kalakua, che non viene presa!» Shachi si guardò intorno quando si accorse di aver alzato forse troppo il tono e si curò di abbassarlo a quasi un sussurro prima di aggiungere, senza abbandonare la propria verve: «Tu ora mi dirai che uno schiavo anziano è poco interessante e hai ragione, ma non si ha tempo di fare selezione in una razzia!»  
Pen lo fissò qualche secondo, assorbendo tutte la raffica dell’amico. «Kalakua eh…»
«A me non l’hanno data a bere, con quella storia del pellegrinaggio, Pen» intervenne Clione, a muso duro. «Secondo me fanno solo finta di non essere preoccupati o forse sono più contenti così»
«Com’è possibile che nessuno si sia preoccupato di quei bambini?»
«Sono orfani, a chi importa?»
«Per cui la sorvegliante potrebbe essere stata risparmiata non perché anziana ma perché di Kalakua»
 «Stai insinuando che a Kalakua sono d’accordo con i rapitori?»
«Perché no? È possibile!»
«Sia trafficanti di schiavi che trafficanti di organi sarebbero capaci di corrompere un’intera isola»
 «Questo è secondario!» 
Skua smise di rimpallare con gli occhi da uno all’altro dei compagni, ringalluzziti dallo scambio di ipotesi, di nuovo infiammati, e puntò lo sguardo celato dalla maschera verso il suo attuale capitano, imitato dalla ciurma al completo.
«A me non sembra second…» cominciò Shachi ma si zittì al gesto gentile che Pen fece con la mano per chiedergli di lasciarlo terminare.
«Quale che sia la merce che trafficano, devono avere una base qui. È come dite voi, hanno studiato il sequestro dell’orfanotrofio, e le sparizioni sono continuate anche dopo, così come avvenivano prima. Hanno una base qui vicino ma perché non a Ramé?» domandò ma nessuno rispose, tutti volevano capire dove Penguin stesse andando a parare. «Una volta messi gli occhi sui bambini, sarebbe bastato fare prigioniera anche la maestra, l’unica che parla una lingua diversa da quella locale qui a Mahalo, e nessuno avrebbe saputo mai nulla. L’orfanotrofio ha sicuramente un’infermeria che deve funzionare come un piccolo ospedale, avrebbero già avuto tutto il necessario per l’estrazione degli organi e in caso contrario si trattava comunque di una base comoda, vicina ai centri abitati più densi e alle mete dei turisti. A nessuno sembra importare di quei bambini, escluderei che qualcuno andasse a trovarli da Manhu’ai e da Kalakua. Ma…» si alzò in piedi senza quasi accorgersene, e si allontanò di qualche passo dalla tavola, lo sguardo perso fuori dalla finestra che consisteva in un varco quadrato nella parete di legno della locanda, per poi tornare indietro e afferrare con entrambe le mani lo schienale della propria grezza sedia. «…Ramé non andava bene. È comoda, già munita di tutto ma troppo, troppo vicina ai centri principali. Chi lavora al deposito barche di Manhu’ai conosce le maestre dell’orfanotrofio. Prima o poi qualcuno avrebbe fiutato delle stranezze. Eppure la base deve essere qui vicina. Abbastanza da permettere periodiche infiltrazioni ma non così tanto da destare sospetti. Ramé è troppo vicina» lo sguardo di Pen fu di nuovo attratto da qualcosa all’esterno, mentre un pensiero si faceva strada in lui e un brivido lo scuoteva, iniettandogli adrenalina direttamente nel cervello. «Ma Labula no»
«C-come?» si mosse a disagio sulla propria sedia Bepo, picchiandone gli zoccoli al suolo.
«Labula Island» ripeté Pen a se stesso, finendo di afferrare il pensiero. «Hai detto che Labula Island è disabitata e anche se si trova a poche leghe non è considerata nemmeno parte dell’arcipelago per la distanza a cui si trova» cercò conferma dall’orso polare che già si guardava intorno spaesato.
«Sì, l’ho detto ma…»
«Sarebbe un covo perfetto» bisbigliò. «Dobbiamo andarci»
«Pen» lo chiamò Ikkaku ma venne interrotta prima di poter aggiungere qualsiasi altra cosa da un mugugno alquanto sofferente, almeno in apparenza. Con sguardo assassino e shuriken pronto, si voltò piano verso destra.
«Uni, il dolcevita» grugnì piatto Clione. 
Il cuoco degli Heart sembrò metterci qualche secondo a metabolizzare, prima di abbassare l’immancabile collo alto che portava sempre davanti alla bocca. «Dicevo che rischia di essere una perdita di tempo. Sono solo congetture, non abbiamo certezze. Io dico di tornare a Kalakua ed essere un po’ più… Persuasivi»
«Non andremo a fare terrorismo psicologico tra i civili» 
«Ma sono altri due giorni di navigazione, se poi è un buco nell’acqua…»
«Possiamo arrivarci in una nottata» affermò convinto Pen. «In immersione e usando anche i motori di emergenza, basta accedere manualmente ai comandi e aggirare il sistema preimpostato. E se poi è un buco nell’acqua per noi ma dovessimo trovare quei bambini…» scosse appena il capo, i palmi completamente aderenti al tavolo e le braccia tese. «Siamo a un punto morto comunque. Volete starvene qui a rimuginare o fare qualcosa, mentre capiamo in che direzione muoverci per continuare le ricerche? Perché io ho pochi dubbi su cosa preferisco» li sfidò, girando gli occhi su tutti loro, finendo con un’occhiata a Shachi, da sotto il proprio stesso braccio.
Sapeva che l’amico lo avrebbe sempre seguito ma capiva il suo tentennamento. Non si aspettava che Shachi si lanciasse testa avanti in un’impresa che era una potenziale perdita di tempo, ma era veramente tempo perso arrivati a quel punto?
Law lo avrebbe fatto. Law si sarebbe fermato ad aiutare quei bambini, come una volta si era fermato a difendere un cucciolo di orso polare senza colpe, sarebbe andato a cercarli su quell’isola disabitata, come una volta era andato a cercare due imbecilli in una foresta che si stavano dissanguando, li avrebbe liberati, come una volta aveva liberato uno schiavo senza neppure prendersi il meritato merito, avrebbe deviato dalla rotta prestabilita, come una volta aveva mancato il luogo e l’ora del ritrovo prestabilite per la partenza per fermarsi a liberare un ragazzino che…
Non ebbe nemmeno mezzo sussulto quando il tonfo fece vibrare l’intero tavolo. Era inconfondibile per lui il rumore del masakari di Skua che si conficcava, quale che fosse il materiale della malcapitata superficie. E non sarebbe potuto essere altrimenti visto quante volte era capitato a un soffio dalla sua faccia ma, stavolta, Skua non attentava alla sua vita. Stavolta il gesto di quasi segare il tavolo in due era il modo di Skua di esprimere forte e chiaro quanto fosse dalla sua parte.
Lo sapeva Pen, nonostante il compagno non parlasse e non lo si potesse nemmeno vedere in faccia. Lo capiva dalla sua postura che gli stava rivolgendo lo stesso inquietante sorriso della sua maschera.
Skua era con lui e anche Ikkaku, che allungò la mano sul tavolo dopo pochi istanti, annuendo decisa quando Pen la cercò con gli occhi, imitata da Jean-Bart, Clione e tutti gli altri. Uni resistette ancora qualche istante prima di sospirare e fare altrettanto e Shachi sorrideva già da qualche minuto, pieno di orgoglio, quando Bepo si alzò in piedi, facendo scivolare lentamente la sedia al suolo.
Si alzò in piedi in tutta la sua morbida e imponente mole, il muso contratto in una smorfia determinata. «Andiamo a Labula» affermò deciso, giusto quei tre secondi che gli servirono per rendersi conto, sobbalzare e guardarsi attorno spaesato. «Ah s-se siamo tutti d’accordo ovviamente, io non… non… scusate»
Pen si rimise dritto, ricambiò il sorriso di Shachi, li guardò ancora un momento uno per uno e poi prese fiato:
«Partiamo immediatamente. Date il corrosivo al Polar Tang, così mentre navighiamo la vernice grigia si scioglie, non ne posso più di vederlo di quel colore»      
«Ma… E come facciamo con le barche noleggiate?!» si allarmò Bepo, ancora in piedi.  
Pen ghignò. «Oh andiamo! Siamo pirati! Se davvero pensavano che gliele avremmo riportate sono loro che hanno qualche problema!» si strinse nelle spalle, voltandosi per cominciare a uscire. C’era da lavorare in manuale per attivare tutte le turbine e non un attimo da perdere. Tranne forse per una piccola precisazione. «Oh, e ragazzi» tornò a guardarli un istante. «È “capitano”, non “Pen”» precisò senza aspettare risposte né cenni di consenso.
Nessuno degli Heart diede segni di volersi muovere per un’abbondante manciata di secondi, gli occhi fissi su di lui che si allontanava con il passo più rilassato che mai gli avessero visto calzare. Ikkaku sorrise, scuotendo appena il capo.
«Mi sa che lo preferivo quando non sapeva che pesci pigliare» mormorò Uni, inarcando la schiena.
«Oh ti prego» li rimbeccò la compagna «Era deprimente e… Skua, ti vedo! Metti giù la scure!»

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Capitolo 5
*** Caro collega ***


Alla fine, era crollata. Persino per essere Laine, era molto più attiva del solito, quasi come se avesse troppa adrenalina in circolo da gestire e pur di stare con lei erano riusciti a farla mangiare lì di straforo. Un paio di altri detenuti l’avevano notata ma tutti avevano sorriso con cortesia e una qualche strana forma di distacco, per poi proseguire con le proprie faccende.
E alla fine, Laine era crollata, stretta al fianco di Koala, sul loro davanzale su cui Law era mezzo sdraiato e rischiava di seguire a ruota il piccolo demonietto e non che la rivoluzionaria fosse da meno ma, forse, accarezzare incessantemente Laine e canticchiare a fior di labbra la aiutava a restare più sveglia. A Law, dal canto proprio, si chiudevano gli occhi. 
Scosse la testa per risvegliarsi e si tirò su dalla posizione infossata in cui era scivolato senza neanche rendersene conto.  Non poteva addormentarsi, in realtà nemmeno Laine avrebbe potuto e una muta comunicazione passò tra lui e Koala quando i loro sguardi si incrociarono. Piangeva il cuore a tutti e due all’idea di interrompere quel sereno dormire, per un attimo Law arrivò addirittura a pensare che sarebbe stato bello poterla portare nella sua stanza  senza svegliarla e scosse di nuovo la testa.
Doveva ritrovare lucidità, smetterla di fare certi pensieri non da lui e, soprattutto, dovevano svegliare Laine per farla tornare nella zona kindergarten, non potevano permettere che qualcuno si accorgesse della sua assenza e si insospettisse.
«Ehi?»
Quasi che gli avesse letto nel pensiero, Koala smise di canticchiare e sollevò appena Laine per parlare al suo orecchio, senza smettere di pettinarle i capelli con le dita. Laine mugugnò, sfregando il visino contro il fianco della rivoluzionaria ma dopo qualche istante aprì gli occhi verde-grigi, liquidi di sonno e confusi.
«Ehi, piccola stella marina. Devi tornare nella tua camera» sussurrò dolcemente Koala, spostando le dita a sfregarsi sulle sue guance per aiutare a svegliarla ma non sarebbe stata un’impresa semplice, gli occhi le si stavano già richiudendo da soli.
«Devo proprio?»
Koala sorrise comprensiva, caricandosela ancora di più in braccio, per svegliarla mettendola dritta ma si fermò un momento per rivolgersi a lui.
«Vai, mi assicuro io che torni di là» lo invitò.
A Law, normalmente avrebbe dato fastidio. Lui non era debole, era stato costretto a non poterlo essere neppure da bambino, e odiava chi lo trattava come tale. Ma c’era solo gentilezza nella voce di Koala e lui era stanco. I braccialetti di agalmatolite, portati incessantemente per giorni, lo stavano provando, il che lasciava spazio a ben più di un sospetto sulla presunta velleità di indebolirlo di proposito usando il principio della maggiore o minore densità del minerale utilizzato, e di certo la tensione che continuava ad accumulare non contribuiva ai suoi tentativi di recuperare energie.
Non aveva ancora abbastanza informazioni per elaborare una strategia, non sapeva cosa si facesse lì e perché lo avessero portato in quel luogo, a che scopo avessero rapito dei bambini e che finalità avesse il test attitudinale a cui Koala era stata sottoposta.
Trafalgar Law navigava in acque alte e melmose, senza galleggianti né terraferma in vista e la carenza di sonno non era sua alleata. Doveva andare a dormire e lasciare che Koala si assicurasse che Laine tornasse alla zona kindergarten.   
Con un respiro profondo a riattivare il corpo almeno il tempo necessario per lasciare la sala comune, mezz’ora prima dell’effettivo coprifuoco, Law scivolò giù dal davanzale e, in un movimento fluido e automatico, piegò il busto in avanti, bloccandosi poi con il fiato sospeso, il cervello di nuovo attivo.
Una mano appoggiata al davanzale, Law si impose di mantenere la calma perché, dopotutto, non era successo niente. Si era fermato in tempo, no? Si era fermato e lo avrebbe saputo solo lui che stava per baciarle in testa tutte e due.
Non era stato un gesto premeditato né particolarmente intenzionale e forse quello lo avrebbe stranito anche di più se Law non si fosse reso conto, grazie a un flash improvviso che gli accese le sinapsi, da dov’era originato. Un ricordo, sfocato e vago, lontano nel tempo e nella sua memoria.
Suo padre che si alzava per andare a dormire e prima di raggiungere lui alla scrivania, per la consueta buonanotte e spettinata di capelli, si chinava a baciare sua madre e Lamy, che le dormiva in braccio.
Le fissò ancora qualche secondo, il cuore stretto e al tempo stesso calmo come forse non aveva battuto mai, più colpito di quanto gli sarebbe piaciuto lasciar trapelare, ma Koala non sembrava essersi accorta di niente, men che meno Laine che finalmente si stava svegliando.
«Tutto bene?»
Law tornò a focalizzarsi su di lei, che non aveva proprio l’aria di una prigioniera di un laboratorio dai fini sconosciuti, su un’isola non meglio localizzata nel bel mezzo di non era certo che mare, possibile cavia di chissà che esperimento. Non ce l’aveva mai avuta. Koala era una roccia in mezzo ad acque in tempesta e lo guardava, preoccupata. Preoccupata per lui.  
«Law…»
«Tutto bene» si rimise dritto il pirata, prima che Koala pensasse che la sua strana postura fosse dovuta a un qualche malore e si allarmasse ancora di più. Cosa stesse effettivamente per fare, neppure lei avrebbe potuto sospettarlo. «Buonanotte»
«Buonanotte Doc» mormorò in risposta, scuotendo appena Laine per riportarla del tutto tra loro.
Law si staccò a fatica dal davanzale ma si allontanò con passo deciso e senza guardarsi indietro, testa avanti fino alla propria stanza, dove si concesse un momento di lampante confusione, mani a sfregarsi il viso e riavviarsi i capelli. Si era distratto e aveva perso tempo prezioso, a giocare alla famiglia felice, e se non si fosse fidato ciecamente di lei avrebbe pure potuto sospettare che fosse quello l’esperimento. Quel luogo, quella situazione, gli riportavano alla mente ricordi e immagini che scavano di punta nella sua anima e nel suo cervello.
Esperimento o non esperimento, non avrebbe ceduto a quel ricatto della sua psiche, non si sarebbe più lasciato distrarre.
L’indomani, a mente fresca, avrebbe ideato un piano, anche solo decente sarebbe andato bene e se di visitare qualche altra zona di quel posto non ci sarebbe proprio stato verso, come aveva già tentato sempre a vuoto nei giorni precedenti, si sarebbe concentrato sul mandare via Koala, che le piacesse o meno, e mettere in salvo Laine mentre capiva come liberare anche tutti gli altri e se stesso, ovviamente. Era ora di agire.
Non avrebbe lasciato che la luce di Laine si spegnesse né che Koala venisse inghiottita dai flutti per aspettarlo. Lo aveva già visto succedere una volta, gli era bastato per la vita e lui non era più un bambino.
Mosse un passo verso il letto, dormire era il primo punto dello schema che avrebbe seguito, ma non riuscì ad andare molto lontano quando due braccia lo bloccarono e una mano salì a tappargli naso e bocca.
Fu questione di un paio di secondi, il tempo di realizzare che non cercavano di soffocarlo ma chiunque lo stesse trattenendo gli stava anche premendo un fazzoletto in faccia, e l’odore dolciastro e pungente del cloroformio già gli riempiva le narici.
Law provò a lottare con tutta l’energia che gli restava in corpo, decisamente scarsa per resistere a qualcosa che, in fondo, induceva uno stato che era precisamente ciò di cui aveva bisogno. Sentì le molecole narcotiche riempirgli i polmoni, raggiungere il circolo ematico, viaggiare con i globuli rossi fino al suo sistema nervoso centrale e inibirlo, mentre i suoi movimenti si facevano sempre più deboli e sconnessi, finché, per la prima volta da settimane, Law smise di lottare e si arrese al buio accogliente che lo circondava.
  

§
 

Il profumo del lemon curd gli solleticò la punta del naso e della lingua, mentre stirava le gambe ed estraeva la testa da sotto le coperte, conscio di avere un aspetto impresentabile e i capelli sparati in tutte le direzioni. C’era un motivo se portava sempre il capello, oltre a non apprezzare particolarmente il freddo alle orecchie.
Era mattina, lo sapeva perché il suo orologio biologico non falliva mai nel svegliarlo all’ora giusta per non arrivare tardi a scuola, anche quando scuola non c’era ma era un piccolo prezzo da pagare per mantenere una buona reputazione.
Insomma, cos’avrebbero detto se il figlio del miglior medico del paese fosse stato uno scapestrato ritardatario e pigro? Avrebbero dato la colpa a suo padre, alla sua dedizione al lavoro, lo avrebbero additato a pessimo capofamiglia, cosa che non era, assolutamente non era e lui avrebbe fatto di tutto perché questo non avvenisse mai. E poi a lui piaceva studiare.
Voleva bene a suo padre, gliene voleva davvero tanto, a lui e alla mamma.
La sua mamma profumava di lemon curd, e di vanillina. Come ci riuscisse, passando così tanto tempo ad assistere l’uomo che amava, tra farmaci e disinfettante, era un mistero ma la sua mamma profumava di lemon curd come la scia che arrivava dalla cucina.
Aveva l’impressione di sapere perché la mamma stesse preparando del lemon curd. Insomma, non era raro che cucinasse qualcosa di buono a colazione quando erano a casa tutti insieme, ma il retropensiero che non fosse solo un semplice giorno di riposo e neppure un giorno di festa qualsiasi, spingeva per emergere insieme a lui dal sonno.
Sentiva sua sorella ridere a una qualche battuta di suo padre e si agitò ancora un momento nel letto caldo prima di rotolare sulla schiena. Due dita lo accarezzarono sulla fronte e sapeva che se avesse sollevato le palpebre avrebbe incrociato occhi grigi, come i suoi, dolci e accesi da un sorriso, sfiorato da ciocche dello stesso colore del pan d’arancio, una delle tante torte alte e soffici e ricche di farina e lievito, tipiche del luogo. Dolci da forno che cuocevano lentamente e si gonfiavano, incamerando calore e aria, tra cui scegliere per i giorni di festa, che tutti amavano.
Tutti tranne lui ma non era un problema, perché a lui la mamma trovava sempre un’alternativa, nei giorni di riposo, come in quelli di festa e, soprattutto, nei giorni speciali come quello.
«Buon compleanno, amore»
Il profumo del lemon curd sovrastava tutto ma non aveva bisogno dell’olfatto per sapere che in cucina non avrebbe trovato una torta alta e soffice, ricca di lievito e farina, ma una croccante e gustosa torta di riso con mandorle e pistacchi, da mangiare con la crema al limone. Lo sapeva perché era la sua preferita, era la torta del suo compleanno e non vedeva l’ora di mangiarla, al punto che non si premurò nemmeno di aprire gli occhi nel mettersi seduto, così velocemente da sbilanciarsi e rischiare di rovinare al suolo, se le mani della mamma non lo avessero fermato in tempo, trattenendolo come mezzo sospeso, con il busto piegato in avanti.
«Beh, ben svegliato» rise al suo orecchio, la mamma, e Law si rese conto che non riusciva ad aprire gli occhi e che spalle, polsi e braccia gli dolevano.
Tentò ancora e ancora ma fu solo quando l’aroma del lemon curd prese a scomparire che ci riuscì, nonostante gli costasse non poca fatica. Perché si sentiva così rintronato?!
«Ben svegliato»
Law sollevò il capo di scatto, provocandosi una fitta al collo, costretto in una posizione tutt’altro che comoda da funi che gli tenevano braccia e polsi legati allo schienale di una sedia metallica. Sapeva di dover cercare chi aveva parlato, si sarebbe dovuto mostrare a proprio agio nonostante la situazione di evidente svantaggio, intoccato dall’ambiente circostante. Ma l’ambiente circostante era il luogo su cui da giorni cercavano di racimolare informazioni. Finalmente poteva analizzare il laboratorio e non riusciva neppure a mettere ancora bene a fuoco, a causa delle inalazioni di cloroformio che però, per i ceppi di Roger, non spiegavano la debolezza fisica. Sembrava che braccia e gambe gli fossero diventate liquide.
Era strano, il laboratorio, Laine non aveva sbagliato per niente aggettivo. Non aveva tanto l’aria di un “laboratorio” quanto di una sala operatoria, nonostante l’enorme acquario di pesci rari e variopinti che nuotavano placidi e ignari di quanto avvenisse al di fuori del loro minuscolo universo di vetro.
Ma era asettico, ordinato, c’era un tavolo carico di strumenti a Law fin troppo noti e lasciava pochi dubbi quel lettino su cui giaceva qualcuno che non riusciva a vedere in faccia, privo di coscienza o, forse, di vita.  
Poco distante un ripiano scuro reclinabile munito di ganci, dall’aria poco rassicurante e probabilmente gemello di quello che ospitava il paziente incosciente, si trovava vicino ad un carrellino su ruote su cui era appoggiato un cilindro con dei tubi attaccati. Law non aveva mai visto niente del genere, così come non aveva mai visto così tanta agalmatolite in una sola stanza e neanche il tizio che se ne stava seduto comodo su una grossa scrivania, dai riflessi bluastri e cangianti, come se avesse il mare dentro, e che gli aveva augurato un buon risveglio, ma sapeva di chi si trattava.
Law lo studiò, mentre mangiava di gusto una fetta di un rotolo di pan di spagna blu, ripieno di una crema candida e morbida e decorato con mirtilli e more, posato al suo fianco. La mascella pronunciata come l’arcata sopraccigliare, il setto appena deviato, gli occhi azzurri, piccoli e acquosi, Law stava finalmente dando una faccia a un nome.
«Ne vuoi un po’?» domandò mentre rigirava qualche briciola nella bocca impastata dal ripieno, indicando la torta con la forchetta. Law smise di studiare i suoi tratti un po’ asimmetrici, e si concentrò sull’insieme della sua schifosa faccia che avrebbe volentieri preso a schiaffi.
«Non mangio pan di spagna» rispose asciutto.
«No?! Oh è un vero peccato, questa blue velvet è paradisiaca. Ma capisco!» mise giù il piatto e alzò le mani in segno di resa, per poi sfregare i palmi tra loro per ripulirle «Tutti gli uomini di scienza hanno le proprie piccole fissazioni» Law si impose di rimanere mentre si avvicinava, anche perché, per quanto fastidioso ammetterlo, non aveva poi molte energie per provare a liberarsi, ma poteva sempre ostentare.
«Anche quelli non di scienza, a giudicare dalla tua fissazione per il blu»
Burkhard si fermò e lo squadrò per un momento, con sadismo, lo stesso che Law sapeva di avere nei propri occhi, ma che Law smorzava con coerenti ghigni e che invece il suo ospite accentuava con lo smagliante sorriso che gli stava rivolgendo.
«Avevo sentito che è divertente parlare con te ma non credevo che le voci fossero vere. Per una volta devo ricredermi» riprese ad avvicinarsi. «E ammetto che ero in ogni caso molto impaziente di fare la tua conoscenza, dottor Trafalgar» si chinò verso di lui e Law si distrasse un momento, incerto se fosse la sua mente a fargli qualche strano scherzo o la luce particolare del laboratorio ma, a distanza ravvicinata, sembrava proprio che Burkhard avesse qualche pelo della barba appena velata sulle guance che tirava del blu. Che problemi doveva avere, quell’uomo. «Ti stringerei la mano ma ti vedo impossibilitato. Oh, a proposito, dimmi, è un po’ troppo la sedia in agalmatolite?!» riprese il tono quasi spensierato con cui gli aveva offerto la torta e Law indurì la mascella.
Sedia in agalmatolite. Nessuno stupore che si sentisse tanto a pezzi, dannazione. E se non percepiva male, portava ancora anche i braccialetti.
«Nah, sembra di no, hai l’aria di tollerarla molto bene. Ad ogni modo, mano o non mano, io sono il dottor…»
«Burkhard» sibilò Law e più che per completare la frase dello scienziato, gli uscì quasi come un ammonimento. Gliel’avrebbe fatta pagare, gliele avrebbe fatte pagare tutte, compresa l’ignobile affermazione con cui se ne uscì un attimo dopo. 
«Quale onore! Ha sentito parlare di me da qualche collega?» s’informò e Law rischiò seriamente di perdere il lume della ragione.
Come si permetteva? Come si permetteva quel pazzo psicopatico di metterlo allo stesso livello suo, di suo padre, di qualsiasi altro medico? Lui non era un medico, loro non erano colleghi!
«Ho sentito parlare di te dai tuoi uomini che sono così idioti da non conoscere nemmeno le regole basilari quando si tiene un ostaggio nella propria stiva per settimane» ribatté Law, concedendosi un po’ di soddisfazione.  
Guardò il sorriso scivolare via dal viso di Burkhard, che arcuò le sopracciglia, in un gesto di finta riflessione, il mento stretto tra due dita. «E tu…» lo indicò con una delle due dita. «…credi sia una gran cosa? Conoscere il mio nome ti da qualche vantaggio su di me?» girò appena il viso, come a invitarlo a rispondere, una pausa a effetto per lasciargli il tempo che rischiò di spedire seriamente le sinapsi di Law in orbita.
Non sopportava che quel gran bastardo giocasse con lui come il gatto con il topo e la debolezza non lo aiutava ma non lo avrebbe dato a vedere. Non lo avrebbe…
«No, esatto. Ero certo potessi arrivarci da solo, Trafalgar Law, dopotutto sei intelligente, furbo e senza scrupoli, lo sappiamo tutti. E per questo spero di cuore che si possa trovare un punto d’incontro e iniziare una collaborazione»
Law strinse per un attimo i pugni ma li rilasciò quando, con sollievo, le sue labbra si stirarono in uno spontaneo ghigno di autentico scherno.
«Collaborare? Io e te?»
Purtroppo, era destinato a vita breve.
«Io, te e il Governo Mondiale» confermò Burkhard, come se nulla di strano ci fosse in quell’affermazione. «Tecnicamente questo laboratorio è di proprietà di Saint Oozark, uomo di grandi, grandissime vedute, mi piacerebbe fartelo conoscere, collega, mi piacerebbe molto. Tuttavia il nostro mentore e finanziatore ha ben accettato di affidare questo ambizioso progetto al Governo Mondiale, a patto che fosse gestito da me» Burkhard fece schioccare la lingua con soddisfazione, immettendo un po’ d’aria in bocca a denti stretti, le spalle scosse da un fremito di orgoglio. «A volte ancora non mi sembra vero! Cioè ma ci pensi?! Ad ogni modo, vedi, a Saint Oozark importa solo dei risultati. Lui, sai, è un uomo di scienza»
«Suppongo avrà qualche piccola fissazione allora» ironizzò Law, aggrappandosi a qualsiasi cosa pur di non farsi sopraffare da quanto surreale e scioccante fosse tutto ciò che stava scoprendo.
Governo Mondiale, come aveva detto Koala, e addirittura Draghi Celesti. E lui cosa c’entrava in tutto quel folle progetto?
«Ah esatto!» rise Burkhard, battendo le mani. «Esatto! Vedi?! Siamo già sulla stessa lunghezza d’onda! Meraviglioso, meraviglioso…» scosse il capo il sedicente dottore. «Comunque ti dicevo, a Saint Oozark importano solo i risultati da studiare e con tutto quello che gli devo, tu immagina il mio disappunto nel non riuscire a portare neppure un esperimento a buon fine. Neanche uno! Per il Governo Mondiale mi importa poco, sono abituati ai fallimenti, ma c’è anche una certa voglia di rivalsa personale, sono sicuro che tu mi capisci. Insomma gli studi sulla gigantificazione sono fermi a un punto morto oramai da anni e i pacifista sono un bello strumento ma non poi così comodo da controllare. Cioè non ci puoi interagire, se capisci che intendo» indicò se stesso e un punto di fronte a sé con mano oscillante Burkhard. «Ma poi, Saint Oozark ha compreso subito la genialità della mia idea, e anche i Cinque Astri in persona si sono dovuti piegare di fronte all’evidenza che un esercito di possessori di Frutto del Diavolo su richiesta è un’arma inestimabile»     
«Nonché una trovata originale» non provò neanche a trattenersi Law. Quel tizio era assurdo. Come gli era venuto in mente di mettersi in casa proprio lui, che aveva passato anni a pianificare la distruzione dello stesso identico progetto che Burkhard gli stava esponendo, ma ad opera di Doflamingo?
Forse si era preoccupato troppo, se Burkhard era come Caesar allora non…
«Mmmmmmh, sssì, l’idea degli Smile non era male. Un’idea mediocre per uno scienziato mediocre, dopotutto, ma gli zoozoo non sono certo i frutti più rari e nemmeno i più interessanti»
Law ci aveva provato. Law ci era anche riuscito, fino a quel momento, a dissimulare il suo reale stato d’animo, come a Punk Hazard con Vergo che non nascondeva di essere lì per ucciderlo, come a Wano con Hawkins che si accingeva a torturarlo.
Ma Law era stanco e decisamente preso in contropiede da quello che credeva di avere capito e, suo malgrado, trasalì. 
«Non puoi creare rogia e paramisha in laboratorio» si ricompose immediatamente.
«Oh no, hai ragione! Ma…» Burkhard recuperò una sedia e in due falcate gli si piazzò di fronte, busto proteso in avanti a spiegare, eccitato come un bambino. «…posso trasferirli da un corpo all’altro» simulò il gesto di spostare qualcosa con le mani, prima di estendere l’indice sinistro. «E nella misura in cui voglio io»
La faccia una maschera di pietra, Law sgranò gli occhi. Di cosa. Stava. Parlando?!
«Riesci a immaginare? Soldati calibrati sulla base delle necessità del momento, il potere di due Frutti in un unico corpo, estraibile, ritrasferibile e forse un giorno anche riproducibile artificialmente! Dimmi se non è una rivoluzione, eh!» gettò le mani al cielo ma Law non sembrava molto dell’idea di unirsi ai festeggiamenti.
Il pirata continuava a fissarlo e mandò giù una bella quantità di saliva prima di parlare di nuovo.
«E da me cosa vuoi?» lo sfidò, lo sguardo adombrato e pronto a uccidere.  
Burkhard sembrò colto alla sprovvista dal tono gracchiante e tutt’altro che amichevole dell’altro medico. Forse era sincero, forse fingeva. Law non lo sopportava più.
«Oh giusto. Tu, collega, sei l’anello di congiunzione» si rimise dritto sulla sedia, portando la caviglia sinistra sul ginocchio destro «Ora, non dubito tu conosca il meccanismo di funzionamento di un frutto del diavolo. Assorbimento da parte dell’apparato digerente, entrata in possesso del potere, Risveglio, modalità di rigenerazione del frutto, bla, bla, bla. Ovvio che si possono uccidere quelli che un frutto ce l’hanno in una stanza piena di mele o arance e darlo poi da mangiare a chi si vuole ma così ci si deve accontentare di un frutto a persona. Niente più potere combinato, impossibilità di dare lo stesso potere a due persone contemporaneamente. Regole, regole, regole» gesticolò all’aria Burkhard. «Però i frutti del diavolo, non sono frutti e basta. Possono animare oggetti, non possono coesistere in più di uno nello stesso corpo. Hanno un’essenza, un’essenza viva, che si lega inscindibilmente al proprietario e gli scorre nelle vene, insieme al sangue. Tu la senti vero? La senti l’essenza del tuo frutto che ti pompa nelle vene, come ti indebolisce il fatto che non fluisca liberamente insieme ai tuoi globuli rossi e all’ossigeno, solo perché sei legato a quella sedia. Fisicamente è come un siero. Un siero che io ho trovato il modo di estrarre» lo scienziato si voltò a indicare lo strano cilindro. «E se si impara a calibrare nel modo corretto, nello stesso corpo potranno coesistere le essenze di due, tre e chissà quanti frutti del diavolo contemporaneamente. Ma purtroppo, e te lo dico in confidenza perché siamo colleghi, sono ancora lontano da questo obiettivo. Sono bloccato da uno stupido dettaglio, le cavie muoiono perché il corpo non tollera l’assunzione dell’essenza per endovena. Ci pensi che assurdità?! Quanta frustrazione ho dovuto sopportare?! Quanti laboratori ho dovuto cambiare, spostandomi ovunque, perché poteva essere la razza, poteva essere il clima, poteva essere l’alimentazione come agivano sull’organismo fino ad arrivare qui, a Kenkyushitsu Island. Ha un bel suono vero? I locali la chiamano Labula ma è così… così…» schiocco la lingua come a indicare quanto lo trovasse noioso, muovendo la mano in un effimero gesto. «E poi, ti dicevo, arrivato qui a Kenkyushitsu Island, l’illuminazione! L’essenza scorre nel flusso ematico, si comporta come il sangue e di conseguenza il suo punto di raccolta sarà nel…»  
«Cuore» mormorò Law, troppo sconvolto per impedirsi di fare il gioco di Burkhard. Era chiaro, ormai, cosa c’entrasse lui in tutta quella storia. Avrebbe voluto essere un po’ meno intelligente, per restare nell’ignoranza ancora pochi istanti, fintanto che Burkhard ancora non aveva confermato l’ovvio.
«Il cuore» si riappoggiò allo schienale lo scienziato. «Organo affascinante, non trovi? Ed ecco finalmente lo step finale del mio progetto. Il segreto è iniettare l’essenza direttamente nel cuore ma non basta essere precisi, non basta inserire un ago lungo nel petto del donatore e del ricevente e neppure è una soluzione espiantarli. Mi servono i due organi, ben visibili e pulsanti, per gestire la quantità di essenza trasferita dall’uno all’altro»
Ghiaccio fu quello che a Law sembrò di aver inalato quando Burkhard smise finalmente di parlare. Si sentiva stordito e senza forze ma questo non significava che si sarebbe piegato.
«Io non ti aiuterò» comunicò con tono piatto e fattuale, che non lasciava trapelare neanche un briciolo della rabbia che gli si stava scatenando dentro, come un mare in tempesta.
Era arrabbiato, Law, arrabbiato, disgustato, inorridito. Quel pazzo era protetto dal Governo Mondiale e appoggiato da un Drago Celeste. E lui non era per gli spargimenti di sangue ma solo qualora non fossero necessari.
Si rendeva conto che nelle condizioni in cui si trovava poteva fare ben poco ma era solo questione di aspettare il momento giusto e non per questo avrebbe rinunciato al proprio libero arbitrio. Per abbassare la guardia, Burkhard doveva credere di averlo piegato e a Law non dispiaceva affatto in quel momento, poter dare voce a ciò che pensava davvero.
«Non ti aiuterò mai» decise di rincarare la dose e sapeva che Burkhard non si sarebbe fatto scoraggiare da così poco, ma lo spiazzò quando si alzò e, fatto il giro della sua sedia, prese a slegare le funi.
Law sentì le gambe scattare. Il corpo gli stava già chiedendo a gran voce da parecchi minuti di trovare un modo per alzarsi da lì e, ora che l’obbiettivo era vicino, urlava proprio.
«Questa non me la voglio perdere. Vedi, caro collega, è normale aggrapparsi al proprio libero arbitrio…»
Le funi caddero a terra e Law rischiò di rimettere per il bisogno di allontanarsi da tutta quell’algamatolite ma si fece violenza per non alzarsi subito e di fretta. Non voleva barcollare.  
«…ma a volte, semplicemente non si ha scelta. Come il mio piccolo soldatino» Burkhard smise di sussurrare al suo orecchio e si rimise dritto, alzando il tono. «Vero, piccolo soldatino?»
Law non aveva idea di cosa Burkhard stesse dicendo, né di cosa volesse mostrargli, ma sapeva che era il momento giusto per approfittarne e rimettersi in piedi senza dare l’impressione di avere raggiunto la soglia di tolleranza, salvo poi scoprire che ciò che stava per accadere gli avrebbe mozzato le gambe.
Non l’aveva vista ma era chiaro che fosse lì da tutto il tempo. Da prima del suo arrivo. Da chissà quanto. Si sentì morire un pezzo alla volta come se ogni tassello di quella storia che andava a posto richiedesse una parte di lui in pagamento. Più il quadro si delineava completo, meno ciò che stava guardando aveva senso.
E tutto aveva un nuovo significato.
Come facesse a muoversi così liberamente nella struttura, come facesse a sapere così tante cose. Non lo aveva mai fatto di nascosto, non era per la loro causa che si era aveva fatto la spia.
Il cuore gli si strinse, così forte da spremere fuori tutto il sangue, allagandogli il petto e l’addome. Faceva male, faceva così male. A Law non fregava niente di non essersi reso conto, anche se avrebbe dovuto. A Law non importava degli indizi logici che non aveva colto.
Law voleva soltanto che fosse un incubo, che non fosse reale, che non fosse lei.
Non lei, perché proprio lei?!
Chiunque, chiunque ma non…
«Laine»
Sapeva che non poteva sentirlo. Laine non era lì per davvero. Camminava senza cognizione di dove si trovasse né con chi, gli occhi fissi di fronte a sé, in trance, come una macchina.
«Non è stata meravigliosa a raccogliere informazioni per me per tutto questo tempo? Il mio piccolo soldatino è stato modificato prima di venire portato qui, selezionata con cura mentre era ancora all’orfanotrofio. È la mia piccola talpa da quando questo laboratorio è stato ufficialmente attivato. Una piccola talpa furba e irresistibile, non sei d’accordo, caro collega? Che poi, devo dirtelo, doveva raccogliere quante più informazioni poteva su di te e tenere d’occhio le tue interazioni con gli altri ma mai avrei creduto in un simile vantaggio, così ben servito su un piatto d’argento. Che proprio lei diventasse il tuo punto debole»
«Che le hai fatto?» sibilò Law. Non aveva neanche sentito le provocazioni di Burkhard e non riusciva a staccare gli occhi da Laine, come Laine era incapace di staccarli da un niente, un vuoto dei sensi, che in quel momento rappresentava tutto il suo mondo.
Law voleva vomitare. Voleva distruggere tutto, uccidere qualcuno.
Uccidere chiunque gliel’avesse portata via.
«Come scusa? Perdonami non ho s…»
«Che le hai fatto?!?» ruggì e un calo di pressione quasi spense per un attimo le luci al neon del laboratorio. Law percepì vagamente i polpastrelli pizzicare, come dopo aver usato il Counter Shock, ma non ci diede peso. Aveva i bracciali, non poteva essere stato lui e poi non gli importava di niente che non fosse Laine.
Burkhard sorrise, squadrando per un attimo la bambina, con un affetto che era rivolto alla propria invenzione, non certo alla piccola creatura che era stata usata come involucro. «Diciamo che è stata riprogrammata. In modo che quando si trova in questo stato alterato possa sentire e rispondere solo a me»
Law non riusciva neppure a ragionare. Era così abominevole da sfuggire a una comprensione completa, così scioccante e letale da inibire anche il più primordiale istinto di attaccare e uccidere. E non sarebbe comunque servito a niente.
Non gli sarebbe bastato, uccidere Burkhard, in quel momento. Non sarebbe stata la giusta direzione per ottenere ciò che davvero bramava.
Riportarla indietro.
Rivoleva Laine, la sua piccola Laine, la rivoleva con sé.
«Se collabori, la libero»
«Io non mi fido della feccia»
«No certo» concesse con un cenno del capo che indicava un falso profondo rispetto. «Ma pensaci, caro collega. Se accetti di restare, di fare quanto ti ho chiesto, potrei farla tornare normale e starebbe con te. Se accetti, non avrò più ragione di provocarle questo stato, a parte qualche sporadica occasione che potrebbe ovviamente presentarsi, non voglio mentirti»
Law non capiva.
Sapeva che non era la risposta, che non era nemmeno un’opzione, sapeva che era la cosa sbagliata da fare, che c’era in ballo molto di più eppure non vedeva altro che quella soluzione.
Non vedeva altro che Laine e che doveva salvarla e niente era più importante, neppure la sua ciurma, neppure la sua vita.
Law non capiva.
Quando era diventata così importante, quando era diventato così essenziale che lei stesse bene a discapito di qualsiasi altra cosa? Come?
Forse era la debolezza, forse Burkhard era riuscito a piegarlo davvero, forse era tutto un brutto sogno.
Organo affascinante, il cuore.
A passi lenti si fece più vicino, gettando al vento qualunque interesse a mostrarsi inscalfibile, si piegò piano su un ginocchio, di fronte a lei che nemmeno lo vedeva. Il visino tondo non appariva sofferente ma era una sofferenza vedere i suoi occhi così vuoti. Law provò l’impulso di scostarle i capelli ramati dietro un orecchio per poterla guardare meglio, di stringerla per metterla al riparo e tenerla al sicuro, di portarla via il più lontano possibile da quel luogo.
Ma non avrebbe funzionato, non sarebbe servito.
Prima doveva svegliarla e c’era un modo soltanto.
«D’accordo»
Non si stava arrendendo, quello era certo, non era il suo ultimo atto come pirata e uomo libero. Stava solo facendo ciò che andava fatto. Doveva svegliarla e poi avrebbe potuto escogitare un piano. Se avesse dovuto collaborare per un po’ lo avrebbe fatto ma, da stratega, Law sperava che la cavia morisse anche a cuore espiantato. Un simile esito avrebbe posto un freno a quella follia, facendogli guadagnare prezioso tempo. Se se la giocava bene al momento dell’estrazione, forse poteva anche intervenire sull’organo in questione per far accadere ciò di cui aveva bisogno.
«Io farò la mia parte, tu fai la tua»
Tutto, qualsiasi cosa per lei.
«Molto bene» Burkhard batté i palmi tra loro per poi sfregarli con soddisfazione mentre Law portava le mani ai fianchi di Laine. Lanciò una veloce occhiata sopra la propria spalla, verso Burkhard che sganciava una den den mushi. «Porta dentro la cavia» ordinò all’interfono e Law ignorò il brivido e ricacciò giù la bile mentre tornava su Laine, sperando e pregando di vederla riprendere coscienza per un tempo che gli parve infinito e non avrebbe mai saputo quantificare.
Capì che era trascorso solo quando sentì la porta del laboratorio aprirsi e dei passi avvicinarsi.    
La cavia prescelta non si stava lamentando e sembrava camminare con calma e senza essere costretta. Chiunque fosse quella povera anima, o non sapeva incontro a che destino stesse andando o lo aveva già accettato e quella considerazione provocò un fastidioso spasmo a Law. Non meritava quella fine, chiunque fosse, ma non avrebbe sperato diversamente da ciò che sapeva essere il miglior scenario per salvare Laine. Alzò la testa perché non era un codardo, era equo guardare in faccia la persona a cui stava probabilmente per togliere la vita.
E solo in quel momento Law si rese conto di non aver considerato un elemento di fondamentale importanza nella propria strategia, un’incognita dell’equazione che aveva, non sapeva neanche lui come, dimenticato di riportare, che ribaltava tutte le sue ultime considerazioni, che collocava definitivamente Burkhard un gradino al di sopra.
Perché davanti a lui, che lo guardava di rimando con determinazione e calma, il braccio stretto nella mano di un inserviente, c’era Koala.

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