vittoria vinta

di fame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** cap 1: famiglia ***
Capitolo 2: *** Don Paolo ***
Capitolo 3: *** fiumana ***
Capitolo 4: *** la galleria ***
Capitolo 5: *** fuga ***
Capitolo 6: *** speranze ***



Capitolo 1
*** cap 1: famiglia ***


Rosa guardava sua figlia dinanzi a lei. Le diceva parole che la bambina non capiva; riusciva a distinguere solo: suore e brava. Intanto passava lo sguardo da sua madre, al finestrino dell'abitacolo; ma quest'ultima la riprendeva sempre: "Mi devi guardare, Maria"; e allora tornava con gli occhi ad osservarla. Maria era nata in un piccolo paesino dell'entroterra ligure. Era una bambina timida con i grandi; ma come tutti i fanciulli e fanciulle, aveva anche i suoi momenti di vivacità. Abitava con i genitori in una cascina. Suo padre si chiamava Giovanni, ed era un grande lavoratore: allevava otto vacche, sei maiali ed una trentina tra galli e galline; andava a caccia d'inverno e passava il tempo libero a tagliare legna. Inutile dire che per maria, lui fosse uno sconosciuto: mai una parola d'amore le dava, ne un abbraccio quando tornava a casa dal lavoro; parlava solo con Rosa per qualche minuto, mangiava, e andava a dormire. Maria lo osservava, mentre faceva tutto ciò; a volte lo chiamava anche, ma la guardava e basta. Poi arrivò un giorno una lettera; Maria vide sua madre piangere; Giovanni baciarla e partire. Ora toccava alle donne di famiglia, badare alle bestie e alla stalla. Infatti arrivò presto il giorno in cui Rosa vendette cascina, animali e pure la figlia, se avesse potuto. Maria non fu venduta, ma quasi: fu affidata ad un cotolengo di suore della città. Maria adesso stava abbandonando per sempre la sua casa, i suoi averi e soprattutto sua madre. La carrozza si fermò davanti ad un grosso portone verde, Rosa scese; poi maria. Una suora le stava aspettando: la bambina abbracciò sua madre; quest'ultima aveva uno sguardo impassibile, solo una brutta ruga le corrugava la fronte. La suora prese per mano Maria, che non fece alcuna resistenza; cercava solo di ruotare la fronte verso la madre, per fissare ancora quella sua brutta ruga.

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Capitolo 2
*** Don Paolo ***


Giuseppe era nato in città all'inizio del Secolo; sua madre era una donna malaticcia; suo padre era morto in miniera. Giuseppe crebbe con la zia, che dovette prendersi cura sia di lui, che della sua povera madre. All'età di 40 anni, Mariuccia ( così si chiamava la zia) morì d'infarto, mentre dava da mangiare ad Ada (ossia sua sorella, la madre di Giuseppe). Fu così che quest'ultima e Giuseppe si ritrovarono soli, senza alcun aiuto. Non conoscevano nessun parente, nessun amico, che gli potesse dare una mano, nella lotta per la sopravvivenza. Dopo il funerale di Mariuccia, Giuseppe, si dedicò lui alla sua povera madre: l'assisteva ogni giorno; la sera le accarezzava il viso, la notte dormivano l'uno accanto all'altro. Ma una mattina di gennaio, di quelle mattine in cui i raggi del sole entrano fitti dalle finestre, ma senza riscaldare nulla; proprio durante quella mattina, ne le carezze di Giuseppe, nè l'invernale tepore di quei raggi, bastarono a riscaldare il viso di Ada. Suo figlio chiamò invano la madre: "Mamma svegliati; è mattino, c'è la colazione"; ma lei non rispondeva, non si svegliava. Giuseppe scese nei vicoli, a chiedere aiuto ai suoi vicini, ai passanti, ai bottegai. Nessuno gli rispondeva, gridava invano, piangeva. Sentiva il suo cuore scoppiare. Per fortuna passava di li il prete della chiesa vicina, che era appena tornato da qualche sua commissione; quest'ultimo era un uomo buono, sempre disponibile con i poveretti dei vicoli, con i bisognosi e i poveri di ogni tipo. Don Paolo (così si chiamava il sacerdote) camminava veloce, ma non tanto da non notare le lacrime di Giuseppe: "Cos'hai ragazzo" gli chiese. Giuseppe rispose:"sto cercando aiuto; mia madre non respira più". Al che, Don Paolo e il fanciullo salirono le scale, entrarono in casa e attraversarono il corridoio; infine, una volta giunti dinanzi ad Ada, nella camera da letto, il prete diede l'ultima unzione alla salma. La bocca di quest'ultima, era come se fosse immortalata in un eterno sorriso; come se quella morte fosse stata la sua salvezza più grande; come se, prima chiudere definitivamente gli occhi, fosse riuscita ad intravvedere qualcosa di magnifico; forse un suo vecchio famigliare, forse il suo povero marito; o forse qualcosa di più lieto, di quello che si vede solitamente in questo mondo. Don Paolo, da quel giorno, si prese lui cura di Giuseppe. Il bambino crebbe tra la chiesa e la sacrestia, tra una bibbia e l' altra. Don Paolo era un uomo che amava leggere; aveva una immensa biblioteca, nascosta dietro la sacrestia, come se fosse stato un luogo pieno di verità, e quindi segreto. Giuseppe, passava le giornate a leggere quei libri che il suo tutore gli consigliava. Leggeva i grandi classici della letteratura: Dickens, Stendal, Dumas e bisognerebbe riempire dieci pagine piene di nomi, per passare a rassegna ogni autore su cui si cimentava. Lui prendeva spunto da questi ultimi, perche gli riteneva dei grandi saggi, ed i saggi devono essere ascoltati, per il bene dell'umanità. Era un pò come l'ascoltare le Sacre scritture durante la messa; o le parole di don Paolo all'omelia: poichè Giuseppe le riteneva parole di un certo peso, e di grande saggezza. Il bambino leggeva ogni giorno, ogni notte; sognava di leggere pure quando s'addormentava. Don Paolo un giorno si ammalò; dopo qualche mese morì. Giuseppe, ormai abbastanza grande ( aveva si e no 13 anni); fu lasciato solo nella parrocchia per una settimana. Passava le giornate ad alternare pianti e letture; piangeva per la perdita del suo tutore, e leggeva per sentirlo più vicino al suo cuore. Andava pure a trovalo al cimitero ogni giorno: gli parlava, gli leggeva quel passo di quel tale libro; pregava per lui. Era in una domenica di giugno, che Giuseppe conosceva il suo prossimo tutore: il Cardinale della diocesi della città, che non ci pensò due volte, a far rinchiudere il bambino nel collegio della curia.

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Capitolo 3
*** fiumana ***


Maria e Giuseppe si erano conosciuti al collegio; fin dal primo sguardo, dal primo momento, si capiva già il loro intendimento, soprattuto per un motivo palese: il quale riguardava il fatto che portavano il nome di due personaggi biblici; quindi, era già scritto che si sarebbero incontrati amati già dal primo istante. I due passavano le giornate insieme; dalla colazione alla cena si parlavano, si coccolavano. I baci però, essendo proibiti dalla chiesa e soprattutto dalle suore, non erano contemplati durante accessi gli affettuosi ai quali si prodigavano. La notte, pure, la passavano insieme; ed il trasferimento dal dormitorio femminile a quello maschile, era un impresa a dir poco ardua: Maria aspettava la mezzanotte, si assicurava che la superiora fosse a dormire ed insieme a lei, tutta la schiera di suore al suo comando. Al che Maria, cercando di non fare rumore, un po in punta di piedi e un pò cercando di evitare i letti d'intralcio delle sue compagne, disseminati per tutto il reparto, si cingeva a raggiungere la porta del corridoio. Una volta giunta ad esso, proseguiva verso il suo amoroso; giunta da lui, i due si mettevano sotto le coperte e ascoltavano, trattenendo a dir poco le risa, le russa pesanti dei vari compagni di collegio maschi. Passavano così le loro notti, e tra un bacio nascosto e l'altro, si addormentavano; o meglio, Maria si addormentava. Poi Giuseppe tassativamente, alle cinque del mattino, richiamava la sua amorosa, dicendole che era giunto il momento di tornare al suo dormitorio. Intanto il tempo passava, ed i giorni seguivano le stagioni. Un giorno però, uno strano vento tirava; un vento più freddo di quello solito; seguito da una sirena, diversa dalla campanella di inizio scuola, che solitamente suonava la mattina. Maria riusciva a capire poco, come anche giuseppe, che lui sembrava sapesse già tutto di solito. I due vedevano la superiora correre, fare segno con il dito: indicare di la, di quà. Si vedevano bambini correre in ogni dove, cercando di mettersi in fila indiana. Maria era prorprio dietro giuseppe, che la teneva per mano. Uscirono in città: la gente correva tutta nella stessa direzione; sembrava che fosse una fiume in piena, o che il fiume fosse piuttosto alle loro calcangne; Si vedevano poveri vecchietti, che mezzi invalidi, poverini, venivano presi in braccio dai figli o addirittura dai nipoti. La folla intanto s'andava sempre più ad ingigantire: centinaia di migliaia di persone o forse più, tutte a correre dalla stessa parte; la schiera occupava tutta la carreggiata della strada, e forse alcuni erano talmente stipati ai muri delle case, che si graffiavano la pelle, per riuscire a farsi strada nella folla. Intanto le sirene continuavano a squillare come trombe; la fiumana, al contrario, era silenziosa: sembrava quasi una processione religiosa che doveva cessare in fretta, per l'arrivo di una tempesta imminente. Dopo una lunga corsa, la folla raggiungeva l'imbocco di una via; questa aveva ai suoi lati due grosse gallerie, una dirimpetto all'altra; si vedevano persone correre un po a destra e a sinistra di esse; entravano nelle gallerie come se quelle avessero qualcosa di inestimabile al loro interno; e forse, qualcosa, c'era pure dentro.

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Capitolo 4
*** la galleria ***


Maria cercava Giuseppe all'interno della galleria di sinistra: lo cercava in mezzo ai mille volti che vi erano nel buio di essa; ma niente, a parte qualche suo compagno di collegio, nessuno conosceva. Tutti stavano in silenzio; c'era chi si sedeva; alcuni bambini sperduti volevano le proprie madri; queste ultime facevano il contrario e vagavano per la galleria, alla ricerca dei loro figlioli. Maria, ormai troppo stanca per qualsiasi sforzo fisico e mentale, aveva trovato un angolo libero, ad un lato buio della galleria. Trovava quello un buon rifugio, perchè era un po in disparte e non si scostava troppo dalla folla. Maria, dopo essersi seduta e rannicchiata in quel tugurio, pensava al suo povero Giuseppe; la sua mente la assaliva di mille pensieri diversi: che il suo amoroso fosse morto, o che avesse preso l'altra galleria; ma le era davanti, e come faceva ad averlo perso di vista così facilmente? Erano domande che le si rivolgevano alla mente, tutte insieme, senza che lei avesse il tempo di rimetterle al loro posto. La sirena ad un tratto era cessata, e con essa cadeva un silenzio quasi tombale: si potevano sentire solo i pianti dei neonati, o i sussuri che si facevano, o qualche madre che cantava la ninna nanna al proprio figlio, per farlo addormentare. Maria ascoltava tutto ciò con un'apatia malata; come se lei, rifugiata a quel lato della galleria, non fosse al suo interno, ma guardasse il tutto come quando si guarda un film, o si legge un libro. Non era li, fisicamente; la sua mente stagnava ancora sul pensiero del suo amoroso, che chissà dove era finito in quel momento; ma soprattutto, perchè tutta quella folla stipata nello stesso luogo? Ad un tratto un grido proveniente dall'ingresso della galleria eccheggiava per tutta la sua volta; subito dopo, un boato, un pianto. Il fumo entrava da ogni parte, c'era chi tossiva, chi piangeva, chi gridava; pure, in molti, si accasciavano a terra su chi era seduto ai loro piedi; questi ultimi poi, spaventati a morte dalle terribili cadute, si cingevano a far rinvenire a suon di schiaffi e richiami le povere vittime. Maria cercava di mettersi la sua maglia sulla bocca, per non respirare tutto quello che le offuscava la vista, e non le permetteva di vedere a solo un palmo dalla sua mano. Sembrava che una nebbia fosse salita dalle impurità sudicie del tunnel, dalle fessure di esso; ma quella non era nebbia e nemmeno fumo; erano le polveri che si alzavano dai ruderi abbattuti dagli aerei militari tedeschi, nella città.

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Capitolo 5
*** fuga ***


Giuseppe, una volta abbandonata la mano di Maria, non era riuscito ad entrare ne all'interno della galleria di sinistra, nè in quella a destra. Era rimasto insieme ad un gruppetto di cinquanta, sessanta persone all'inizio della via: quest'ultima poi, proseguiva per una lunga salita, tra palazzoni e vicoli paralleli ad essa. Il povero Giuseppe non sapeva dove andare a ripararsi: le gallerie erano stracolme; ad un tratto si sente un rumore: era come se la sua testa fosse appiccicata ad un motore, ma di esso non sentiva solo il frastuono, ma anche il calore che emanava da quanto era potente e letale. Poi, subito dopo, un boato fortissimo, proprio sopra uno di quei palazzi, all'imbocco della via e tra le due gallerie. Una valanga di macerie cadeva sopra ogni sorta di persona o cosa: i padri coprivano con il loro corpo i propri figli e le mogli; invano però, poichè quelle cascate di pietra non potevano per niente essere fermate. Ovunque si sentivano scoppi, grida, urli; qualcuno si lanciava pure sulla folla dentro la galleria, ma appena vi entrava, veniva subito respinto fuori a suon di spintoni. Dal porto i cannoni delle navi militari buttavano qualsiasi tipo di artiglieria verso il centro della città; aerei da guerra sganciavano bombe ad ogni secondo: si sentivano scoppi ovunque. Vi era gente colpita da un masso o da una tegola, poichè precipitati sulle loro teste e piangevano grondanti di sangue. Altre erano riverse a terra prive di sensi, altre ancora si mostravano impassibili o ridevano pure. Queste ultime facevano quasi effetto agli occhi di un osservatore; poichè sembrava che la natura umana, sempre pronta alla frustrazione e alla noia, in quel momento di disperazione pareva che essa avesse preso quasi colore, che fosse quasi più bella, che avesse preso una piega migliore

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Capitolo 6
*** speranze ***


Ad un tratto tutto era cessato; gli uccelli avevano ripreso a volare; ma quello che vedevano dall'alto, adesso, erano solo le macerie dei palazzi; A volte, si udivano i brandelli delle abitazioni che franavano qua e la sulla strada, e una nebbia di polvere non permetteva di vedere nulla. Si sentiva solo il rombare dei motori delle autoambulanze, che andavano ad assistere le vittime delle città. I superstiti vagavano per le strade dei quartieri: ci si poteva imbattere in un mutilato, o trovarsi davanti ad una intera famiglia sterminata dalle bombe. Le altre vittime non si potevano vedere, perchè erano nascoste sotto tonnellate di macerie: gli stessi muri che in passato davano fiducia, che riscaldati dal fuoco dei focolari, a Natale, assistevano alle feste e potevano essere grati della loro funzione; adesso, questi, coprivano le loro stesse vittime come fossero le lapidi improvvisate di un cimitero. Giuseppe passava in rassegna tutte persone sulle quali si imbatteva: appena riconosceva una fattezza o un viso, che potesse assomigliare a quello di Maria, lui lo prendeva tra le mani e lo stringeva forte per trattenerlo ed osservarlo meglio; anche se poi ne rimaneva sempre deluso, poichè scopriva che non era quello della sua amata; quindi lo lasciava e ricominciava la disperata ricerca. Maria, anche lei, non vedeva ne macerie, nè mutilati e nulla le faceva rimpiangere il passato più del suo Giuseppe. Anche lei lo cercava tra i visi sporchi e impolverati delle persone, ma non aveva il coraggio di trattenerli come faceva Giuseppe. Alcuni cercavano i loro famigliari tra la folla: altri erano già stati trovati. Ora non servivano le lacrime; quella non doveva essere una sconfitta, ma la speranza di un avvenire migliore. Da quei raggi di sole che filtravano attraverso la polvere, si poteva intravvedere una pur piccola speranza; ma quel momento non era fatto per guardare al futuro; si poteva solo pensare alla disperazione presente; si poteva solo meditare sulla salma di quel famigliare o amico, sdraiato sull'asfalto, mutilato o ucciso dalla ferocia della guerra.

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