Quando i sogni diventano realtà

di lilac_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo appuntamento alternativo ***
Capitolo 2: *** Volevi solo soldi ***



Capitolo 1
*** Primo appuntamento alternativo ***


Finalmente: non so come ci sia riuscita, non so come uno come lui abbia accettato di uscire con una come me.

Oddio, non è che abbia proprio accettato. Effettivamente mi ricordo molto poco di come abbia reagito alla mia proposta, forse ho sbagliato a spegnere il cervello subito dopo aver realizzato che effettivamente si, glielo avevo proprio chiesto. Un appuntamento. Io e i suoi occhi azzurri. Ehm ehm. Volevo dire, io e Giotto, da soli, ad un vero appuntamento.

Ansia.Come sempre d’altronde, non è propriamente una novità, ma questa volta ho più dubbi del solito.

Generalmente non sono una che prende l’iniziativa, generalmente sono una che aspetta che le cose le piovano dal cielo mentre si lamenta dell’assenza di nuvole.

E forse mi preoccupa anche questo attimo di follia, questo squilibrio ormonale, non so bene chiamarlo, insomma questo raptus che mi ha portata oggi a presentarmi davanti a lui e senza neanche dire il mio nome, assumendo che sapesse chi io fossi e che avesse piacere di parlarmi, si insomma di chiedergli di uscire con me.

Oddio, avrà pensato che sono folle.

Che poi neanche lo conosco troppo bene, ma in questo caso sento basti soltanto l’impressione di conoscerlo. L’ho osservato abbastanza a lungo a lezione da avere delineato perfettamente (ma solo idealmente) il suo carattere, le sue abitudini, gli atteggiamenti che odia e i particolari che solo riesce ad apprezzare.

E di solito mi limito a questo: a fantasticare senza osare vivere, perché la mia mente sente molto più della carne. Ma per una volta mi sono detta: Angelica e che cavolo, comportati come gli altri! Vedi per una volta cosa provano, perché fanno quello che fanno, cosa li spinge a voler vivere un primo appuntamento.

Insomma, si potrebbe dire che questa uscita sia diventata un’indagine sociologica. L’unico problema è che sicuramente io non sono la persona più adatta a condurla. Non è che dubiti della particolarità o dell’unicità della mia personalità: mi ritengo una persona interessante e amo passare del tempo con me stessa.

Però ci ho messo un po’ di tempo a scoprirlo. Diciamo anche anni.

E questo mi porta a concludere che non credo proprio di essere capace a fare una buona prima impressione. Lui non mi conosce, io non lo conosco: non avrò tutta quella scioltezza e confidenza necessaria per fargli apprezzare la vera me, per mostrargli come sono davvero, e scapperà. Perché sarò banale, timida, impacciata e noiosa.

Farò osservazioni imbarazzanti e mi dimenticherò il nome del suo gatto. Non riuscirò a dire la verità quando lui mi chiederà se mi piace fare sport e dovrò fingermi una persona interessante secondo gli standard.

Perché essere sé stessi all’inizio è troppo pericoloso. È questo quello che fanno tutti, no? Poi però passa il tempo, e le vere abitudini, le opinioni schiette e crude emergono prepotentemente, e cozzano violentemente con quell’immagine falsa che quella persona ci ha aiutati a costruire.

E finisce che ci si lascia. E allora perché si comincia? Si spera forse di trovare quella persona con cui non si debba, non si possa fingere? Quella persona che non può fare a meno di portare fuori ed elogiare il vero te, ricordandoti che scegliere di stare con qualcuno non lo si fa semplicemente per trascorrere del tempo, ma significa sostenersi e sostenere la necessità di rimanere unici in un mondo che ti spinge ad omologarti per la sopravvivenza.

Forse però sono io che la butto troppo sulla filosofia. Per questo ho deciso di farmi accompagnare da mia sorella: lei è più grande, ma in realtà nella coppia sono io la sorella maggiore, quella saggia e prudente.

È in momenti come questo che ho bisogno della sua impulsività e disinvoltura per spingermi a non tirarmi indietro all’ultimo momento e lamentarmi per il resto della mia vita di aver buttato via un’occasione che potrebbe essere stata quella giusta.

È così che ci ritroviamo alle cinque davanti alla stazione di Napoli, ad aspettare qualcuno che forse neanche si presenterà. E invece, contro ogni aspettativa, lo vedo in lontananza, ma neanche lui è da solo.

Accanto c’è quella sua amica, Fiona, che sembra anche troppo perfetta per essere vera. Ecco, ora ci manca soltanto che lui me la presenti come la sua ragazza e lei mi minacci di stargli lontano oppure sono guai. Insomma, le crederei anche, è una tipa in forma.

Eccoli, si avvicinano. Tremo, sudo, le rotule sono budini e il cervello il motore di un aereo. Penso che la confusione e l’ansia abbia deciso di attaccare solo me, quando vedo Giotto buttarsi su mia sorella e andare a salutarla chiamandola con il mio nome. Non so che fare, se fuggire, svenire oppure insultarlo pesantemente.

Nell’impossibilità della scelta mi aiuta mia sorella, che sorridendo gli fa notare << Io sono Serena, Angelica è lei >> e mi indica. Lui sbatte le palpebre un po’ confuso, poi realizza l’enorme figura da idiota appena fatta e prova a rimediare goffamente salutandomi anche troppo calorosamente.

Mi appunto di ricordargli di non avvicinarsi troppo a me durante un primo appuntamento e mentre mi ricordo che non ci sarà mai più un nostro primo appuntamento o un appuntamento in generale, mi ritrovo da sola con lui. Respiro e cerco di non farmi prendere dal panico: siamo in gioco e giochiamo.

Dovendo ricordare cosa ci siamo detti non riuscirei a dare un senso logico alla nostra discussione o qualsiasi cosa sia successa in quei cinque minuti, però la sensazione di pace e serenità che ho provato tutto il tempo, quella difficilmente la dimenticherò. Non dirò che sia stata una cosa mai provata prima, perché non è vero. Ma sicuramente è una sensazione mai provata prima con una persona conosciuta da così poco tempo. Forse è davvero la volta buona.

Mentre continuiamo a chiacchierare mi accorgo che abbiamo imboccato una scala a chiocciola dotata di scarsa illuminazione.

<< L’hai portato il costume? >> mi chiede. Il costume? Stiamo andando al mare? Dietro la stazione? A quanto pare nota il mio smarrimento e aggiunge sorridendo << Ti avevo detto che oggi avrei avuto gli allenamenti e non potevo posticiparli, però si poteva fare una nuotata assieme >>.

Sicuro che l’ha detto, mentre io ero attenta a non ascoltarlo. Sorrido imbarazzata e gli rispondo sinceramente dispiaciuta che mi era caduto di mente. Non fa in tempo a rispondermi mentre sta già togliendo la maglietta che si sente urlare << Vrax! >>

<< Arrivo >> dice lui girandosi, dopo avermi salutata con un cenno della mano. Lasciata così un po’ a caso mi siedo a bordo piscina e realizzo che non posso fare molto altro che assistere ai suoi allenamenti e continuare ad alimentare la fantasia.

Già ci vedo in una casa, io che rientro da lavoro e saluto il gatto, i nostri bambini che corrono ad abbracciarmi e poi lui, che sapendo della giornata pesante a lavoro, ha deciso di regalarmi una cena a base di gelato. Ah, già lo amo.

Non mi accorgo dei passi che mi si avvicinano fino a quando una voce non mi fa sobbalzare: << Sei nuova?>>, chiede una ragazza mora e slanciata, indossa un costume anche lei. << No, veramente non mi alleno qui. Sono con Giotto >> rispondo allegramente.

Lei mi fissa profondamente, e dal suo sguardo indagatore sento che sta scrutando la mia anima per capire se dico la verità. Forse intuisce che le mie doti attoriali sono più scarse di quelle delle attrici dei fotoromanzi e decide quindi di credermi, ma non riesce a trattenere una sonora e sincera risata. Ancora trattenendosi la pancia si rivolge nuovamente a me domandandomi incredulamente << Non dirmi che ti ha portata qui per un primo appuntamento?! >>.

<< … veramente si >> dico flebilmente. Perché rispondo sottovoce? Cosa c’è di male in questo primo appuntamento? Perché all’improvviso stavo dubitando di tutto quanto era successo fino a quel momento, quello che avevo sentito e quello che avevo immaginato, solo per i dubbi di un’altra persona?

<< Devi essere proprio disperata >> aggiunge lei, rincarando la dose. Alzo lo sguardo su di lei, e la osservo: è bella, atletica, sicura di sé, schietta. È perfetta, ma non è me. E non può giudicare il mio primo appuntamento. Sono abbastanza sicura che non ci siano delle regole o un manuale da studiare per queste occasioni, e sono anche abbastanza convinta che la mia opinione conti più di quella degli altri, almeno su ciò che mi fa stare bene. Avrò il diritto di essere contenta anche io no? E che cavolo.

<< Pensala come vuoi >> la assecondo semplicemente, voltandomi con un sorriso per tornare a seguire gli allenamenti. Giotto è intento in un esercizio di tecnica per delle bracciate più precise ed è concentratissimo: sente la sua allenatrice spronarlo e non vuole deluderla, forse anche la mia presenza lo spinge a dare il meglio di sé.

Sono convinta che non serva parlare con una persona per conoscerla veramente. La bocca filtra i discorsi e fa uscire solo ciò che c’è di bello. I suoi gesti invece parlano per lui: la voce che trema ad un primo saluto, il palmo al mento mentre ti ascolta, il sopracciglio incurvato per l’interesse, il braccio premuroso mentre scendi le scale, il passo incostante e vistosamente frenato perché non abituato a seguire il tuo, gli occhi che sorvolano sul corpo per osservare la tua anima. Percepisco la ragazza ancora accanto a me perché la sento borbottare un << Affari suoi >> e poi andarsene.

Già. Affari miei. Nessuno può togliermi il diritto di decidere per me stessa. E io ho già deciso. Lo vedo uscire dalla vasca, credo che per oggi abbia finito. Mi guarda con complicità e soddisfazione, capisco che anche lui la pensa come me.

Sono sicura che anche lui, mentre nuotava, abbia imparato a conoscermi. Così, quando con schiettezza mi chiede << Mi piaci. Ti va di uscire anche stasera? >> io rispondo << Mi dispiace, ma devo andare al cinema con Federica >>.





******
Non pubblico da tanto, forse troppo tempo. Ma finalmente mi è venuta un'idea che potrei potenzialmente riuscire a proseguire! Non so se su questo sito ci sia ancora qualcuno o se si siano tutti trasferiti a Honolulu, quindi se avete idee, pareri e insulti fatevi sentire!
P.s. Ovviamente tutti i nomi sono fittizzi perchè il racconto fa riferimento a persone e fatti non puramente casuali.

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Capitolo 2
*** Volevi solo soldi ***


Finalmente l’ho trovato. È quello perfetto per me. Il cappellino più bello che potessi desiderare. Il verde delle piume si sposa perfettamente con il giallo del costume da bagno. Domani farò sicuramente un figurone, e allora sarò io a vincere il premio per la migliore maschera di coppia. Gianrico sarà fiero di me. Mi dirigo verso l’uscita, stringendo il piccolo tesoro appena trovato tra le mani, nascondendolo agli occhi indiscreti degli altri cacciatori. Arrivo alla cassa mentre cerco di tirare fuori il portafoglio dalla borsa, e quando sollevo lo sguardo mi accorgo che la cassiera è proprio Lin. 

«E tu che ci fai qui?» le chiedo appena incontro i suoi occhi vispi che mi osservano da dietro il bancone.
«Sto dando una mano ai miei genitori, hanno aperto il negozio da poco» risponde timidamente sorridendo.
«Sarà anche nuovo» dico «ma le persone sembrano già non poterne fare a meno». Mi giro e con la mano accompagno il suo sguardo che si posa sulla fila che si è creata dietro di me: il negozio è veramente strapieno.
«Facciamo il possibile» risponde lei pacatamente, ma sento una punta di fierezza nel suo tono.

Mentre osservo le sue mani muoversi lentamente ma con decisione, intente digitare il codice del mio cappellino, mi concedo un’occhiata al negozio: è un negozio cinese, ma non è il tipico negozio cinese. La passione per questo lavoro emerge dalla cura dei dettagli, l’attenzione per la scelta della merce, che rendono l’atmosfera diversa da quella delle catene di enormi magazzini copia-incollati che hanno tolto la magia ad una così antica cultura. 
Il bip della prezzatura mi risveglia e automaticamente allungo verso Lin la mano con dentro gli spicci. 

Lei li osserva, e con sguardo confuso mi dice «Sono 294 yen».
Cavolo, come ho fatto a dimenticarmene! Avevo letto sul cartellino tre cifre, e la mia mente occidentale aveva subito tirato fuori dalla borsa tre euro (i 6 centesimi li avrei lasciati come mancia). 
Lin deve aver notato che ho già iniziato a sudare freddo, perché mi tranquillizza «Accettiamo anche i pagamenti con carta, ormai i circuiti sono internazionali e lo scambio di valuta avviene in automatico».
Oh, la carta: la mia salvezza. La tiro fuori dal portafoglio in un lampo, rischiando di far cadere le banconote che stavano dentro: sento su di me la pressione della stupidità, che mi ha fatto dimenticare di cambiare i soldi, ma soprattutto delle persone in coda dietro di me, che hanno iniziato già a spazientirsi. Presa dall'ansia passo la carta senza neanche guardare, digito in fretta il codice e mi lancio sul cappellino già imbustato.

«Allora io vado, ci vediamo presto!» dico salutandola con la mano mentre corro verso l’uscita.
«A presto» ricambia lei già alle prese con un altro cliente.
«Scusami per averti fatto perdere tempo» aggiungo quasi sottovoce, ormai fuori dal negozio.

Certe volte sono proprio stupida: a mia madre piace dire che mi dimentico come si vive, io preferisco descrivermi come un’inetta della vita. In entrambi i casi però penso abbiate afferrato il concetto.
Il flusso di insulti mentali è interrotto dallo squillo del mio telefono, che mi avvisa del pagamento appena effettuato. Quel sottile presentimento che ti porta a dubitare di qualunque azione passata mi convince ad aprilo, e ringrazio il momento in cui non mi sono fidata di me stessa. Appena i mie occhi leggono le tre cifre precedute da un meno ma seguite dal simbolo dell’euro, mi viene un infarto.
Mi si blocca il respiro, le gambe tremano e cedono. Il mio istinto di sopravvivenza mi suggerisce di rimanere sul marciapiede e aggrapparmi al muro: rischiare anche di essere investita da una macchina sarebbe troppo per un giorno solo, meglio distribuire le scariche di adrenalina equamente. Per un momento il cervello va in tilt, vedo passare davanti ai miei occhi tutta la mia esistenza passata e cancellarsi quella futura, causata dalla bancarotta scatenata da quest’acquisto.
Nel panico più totale si accende una lampadina: ricordo di aver visto una banca mentre venivo qui, e la cosa più sensata da fare in questo momento mi sembra quella di chiedere aiuto a loro, a costo di inginocchiarmi e implorare perdono per la mia stupidità. 

Varco le porte automatiche impaurita: da ciò che mi diranno qui dentro potrebbe dipendere la mia vita. Purtroppo mi rendo conto immediatamente che tutti gli operatori sono non solo impegnati, ma addirittura alle prese con delle code chilometriche. Non so se rassegnarmi alla mia disfatta, convinta che in qualche modo l’attesa e lo scorrere del tempo possano rendere sempre più irrimediabile questa situazione. Ma ecco, forse la mia buona stella è tornata a splendere su di me, perché mi accorgo dell’uomo seduto all’info point, intento a digitare chissà che cosa sul suo tablet. 

Mi fiondo immediatamente da lui «Bu-buongiorno!» esordisco con un po’ di affanno, dovuto sia alla corsa che all'ansia che mi sta divorando dentro.
«Salve signorina, come posso esserle utile?» risponde meccanicamente, senza nemmeno alzare lo sguardo dal dispositivo.
Inspiro profondamente, rassegnandomi al fatto che questa purtroppo è la mia unica occasione e che in qualche modo devo fare funzionare le cose. Spiego la situazione il più chiaramente possibile, sorvolando sulla mia disattenzione, spostando piuttosto il focus sulle conseguenze catastrofiche che questo avvenimento comporterà. 
«Non possiamo fare nulla per lei, mi dispiace» risponde con tono neutro e il riflesso delle caramelle colorate ancora sui suoi occhiali.
Congiungo le mani e gli occhi mi si inumidiscono «La prego, ne va della mia vita», ribatto, «è la prima volta che vi si presenta una situazione del genere?» domando ancora, speranzosa.
«No signorina, ma non possiamo comunque fare nulla per lei» continua imperterrito, ma finalmente alza lo sguardo e lo posa su di me, contemplando lo stato di disperazione in cui mi trovo, a metà tra lo scocciato e l’incredulo.
«E vi sembra normale che finora non abbiate fatto nulla per i vostri clienti?» sbotto allora inviperita: ormai non c’è più nulla che trattenga la mia frustrazione.
Non gli do neanche il tempo di replicare perché mi giro sdegnata, marciando con rabbia verso l’uscita.
E ora chi lo dice a mia madre?!


Appena messo piede in casa mi travolgono due novità, una bella e una brutta: la notizia positiva è che non devo affrontare l’imbarazzo di iniziare questa conversazione, Mamma e Sabrina, mia sorella, già sanno tutto (a quanto pare i pagamenti della carta sono collegati anche al loro telefono); la notizia negativa è che purtroppo devo ancora recuperare i miei 294 euro. Cerco di spiegare loro che bisogna trovare una soluzione, perché altrimenti dovrò dichiarare bancarotta eterna, ed entrambe mi danno ragione, aggiungendo che non hanno intenzione di mantenermi economicamente perché “troppo ingenua per vivere in questo mondo”. Scuoto la testa ormai arresa: che bello l’affetto e il supporto familiare. 
Tra le urla e gli insulti la Mamma comunque riesce a tirare fuori un’idea non troppo sbagliata: dovremmo ritornare al negozio e contrattare con loro. 


Varco per la seconda volta nello stesso giorno le porte di un negozio che sinceramente non vorrò vedere più nella mia vita, affiancata stavolta da mia madre e mia sorella, una a destra e l’altra a sinistra, con l’intento di difendermi ma anche di evitare una mia possibile fuga. Mi conoscono bene. Appena vedo Lin spazzare all'ingresso sento un briciolo di speranza accendersi in me: siamo amiche, sicuramente farà di tutto per aiutarmi.

«Mi dispiace, non possiamo fare niente» dice lei scuotendo le spalle, e torna a rivolgere le sue attenzioni al pavimento, dopo un ultimo sguardo impotente.
Sento mia madre irrigidirsi accanto a me. Ecco, la donna cannone è carica: tra poco ci sarà la guerra.
«Lin, non è vero, una possibilità ci sarebbe» a quanto pare qualcuno vuole concludere questa battaglia a tavolino. Il paciere sembrerebbe essere proprio il padre di Lin, che aggiunge «potremmo restituirle i soldi, ma non in contanti, purtroppo la ragazza ha pagato con la carta» eccolo infrangere ancora una volta le mie speranze.
«Potremmo ridarle l’intera cifra in oggetti acquistabili qui in negozio» continua «purtroppo però l’unico articolo di cui abbiamo sufficiente disponibilità sono le extension per capelli» continua lui. 
Ma che trattato di pace sto firmando?

«Io però porto i capelli corti» faccio notare con estrema tranquillità a tutti i presenti, ammutoliti in attesa di una mia risposta.
«Appunto, le extension servono proprio in questi casi» azzarda Lin, cavalcando l’onda dell’equilibrio interiore che sembro finalmente aver raggiunto.
«MA SE LI PORTO CORTI VUOL DIRE CHE LI VOGLIO CORTI, NO?!» urlo liberando tutta la frustrazione e la tensione accumulate durante questo dialogo surreale. Scoppio a piangere disperata, ormai rassegnata al mio destino da barbona.

Percepisco mia madre che continua a contrattare cercando di trovare una soluzione, ma ormai è lontana, Lin è lontana, il negozio, le extension sono lontane: davanti a me sento presente e tangibile solo il futuro che mi è stato negato a causa di un acquisto disattento. Che stolta che sono.

Una mano mi tocca la spalla: è il padre di Lin. Mi guarda a stento imbarazzato per la quantità di lacrime che sto versando e forse spaventato che possa inondargli il negozio nuovo. 
«Potresti lavorare qui da noi quest’estate, così recupereresti i soldi» mi propone timidamente, sperando che questa soluzione possa placare il Tigri e l’Eufrate che sgorgano dai miei occhi. 
Mi fermo a fissarlo, incredula di poter riacchiappare il futuro strappatomi. Stringo le mani del mio salvatore piena di riconoscenza e mi volto verso mia sorella sorridendo.

«Almeno potrò aggiornare il curriculum».





Saaalve a tutti, sono tornata.
Ci tengo a specificare che nei sogni emergono parti della mia personalità in maniera estremamente accentuata e che nella vita reale non sono così ansiosa e disfattista. O forse si. In ogni caso, mi fa sempre piacere sapere cosa ne pensate, perché io mi diverto un sacco a scrivere racconti nonsense, ma forse sono troppo cringe. 
fu

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