Jikan - la Terra, l'Uomo e il Paradiso

di Melanto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #1 - La Terra (sia le mie braccia attorno a te) ***
Capitolo 2: *** #2 - Il tempo del mondo ***
Capitolo 3: *** #3 - Ciò che è perduto e ciò che è ritrovato ***
Capitolo 4: *** #4 - L'Uomo (prima del Padre e del Figlio) ***
Capitolo 5: *** #5 - Malerba di Natale ***
Capitolo 6: *** #6 - Io sono ***
Capitolo 7: *** #7 - Le Grandi Serre ***
Capitolo 8: *** #8 - Il Paradiso (che ho donato a te) ***
Capitolo 9: *** #9 - La buona strada ***



Capitolo 1
*** #1 - La Terra (sia le mie braccia attorno a te) ***


Jikan - #1

Nota Iniziale: e si ricomincia :3

In questo periodo natalizio ormai ben più che alle porte, anche se siamo ancora a novembre, ecco iniziare anche questa raccolta che, di fatto, è una raccolta di MISSING MOMENTS :3

‘Malerba’ e la sua flora, ma soprattutto fauna (XD) sono tornati per tenervi compagnia nelle prossime NOVE SETTIMANE e mezzo! :D
Ritroverete i personaggi cui (spero) vi siate un po’ affezionati e affronteremo eventi che nella storia principale erano stati lasciati in sospeso o comunque messi da parte.

 

Come sapete, il XXX° capitolo e l’Epilogo affrontavano due salti temporali di una certa importanza: 2 anni (gli ultimi di prigione per Shuzo) e 6 anni (che si chiudono con l’esecuzione di Daidouji), per un totale di OTTO anni.
Questa raccolta coprirà una parte delle vicende avvenute in questi vuoti narrativi (circa i primi quattro anni, mentre gli altri quattro si immagina siano trascorsi abbastanza lisci XD, poveri figli!).

 

Iniziando dalla shot #1: temporalmente, si colloca subito dopo che Akio ha comunicato a Shuzo la sentenza contro l’assassino di suo fratello, Tate Daidouji. Shuzo ha già trascorso un anno in carcere e deve affrontare il secondo, prima di poter finalmente lasciare Fuchu da uomo libero.

Ma qui siamo altrove, qui siamo a casa Morisaki.

Il tempo comincia a scorrere.

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

Jikan

- La Terra, l'Uomo e il Paradiso -

 

 

 

 

- #1: La Terra (sia le mie braccia attorno a te) -

 

 

 

Akio era rientrato dopo l’ora di pranzo. Sulla strada, aveva avvisato che avrebbe mangiato fuori e che, per quel giorno, non sarebbe tornato al lavoro, ma avrebbe sbrigato delle faccende dallo studio di casa.

Yumeko aveva pranzato da sola, in un’abitudine che non le pesava più come un tempo, e quando suo marito aveva messo piede nell’ingresso era accorsa per avere notizie dell’incontro con Shuzo e, soprattutto, come avesse preso la notizia della sentenza di Daidouji.

Quando il giudice l’aveva letta, non si era sentita sollevare né aveva provato piacere. Semplicemente, non le era importato: suo figlio era morto, che morisse anche chi l’aveva ucciso non gliel’avrebbe fatto riavere. Per Akio era stato diverso; sul viso gli aveva letto emozioni contrastanti: collera e poi soddisfazione, ma non aveva commentato, tenendo come sempre ogni pensiero per sé. Quando lei aveva provato a indagare, nella speranza che si confidasse almeno un po’, la sola risposta che aveva avuto era stata un laconico: giustizia è fatta.

Di Shuzo, invece, era stata preoccupata. Temeva che una reazione forte potesse metterlo nei guai in carcere. Akio l’aveva rassicurata.

«È tutto a posto,» aveva detto, «ne era contento ma si è trattenuto. Non ha fatto scenate.»

«Cosa ha detto quando ti ha visto?»

Su quella domanda, Akio aveva tentennato.

«Non ha fatto i salti di gioia, ma mi ha ascoltato.»

Una stretta di spalle, una frase che diceva tutto e niente e poi aveva chiuso il mondo fuori dallo studio dove si trovava ancora adesso, nonostante fossero quasi le cinque.

Yumeko non aveva avuto bisogno di sentirselo dire a chiare lettere che, in realtà, la situazione non era stata così normale come aveva tentato di farla passare. Shuzo non era tipo da mordersi la lingua per sottrarsi alle discussioni, e Akio aveva solo cercato di evitarle una preoccupazione; anche questa era stata una certezza che, per le ore successive, si era fatta bastare, rifugiata tra le cose di Yuzo per sentirne ancora l’odore e la presenza. Spesso si era detta che avrebbe dovuto riprendere in mano la vita che aveva interrotto alla morte di suo figlio, recuperare i vecchi interessi; ci stava pensando seriamente da qualche settimana, ma non sarebbe stato facile quanto laborioso. Se fosse stata di nuovo in grado di prendersi cura di sé stessa a trecentosessanta gradi, smettendo di essere un’anima vagante e solitaria per casa, sarebbe stata anche in grado di prendersi cura di quel marito troppo silenzioso e quel figlio troppo disperato.

Tornare a vivere.

Era un pensiero strano per chi, effettivamente, su quella terra già camminava e respirava. Passava dall’essere una condizione fisica per divenire uno stato mentale. E con la mente aveva accarezzato varie possibilità, quali riprendere a insegnare la cerimonia del tè, il bon ton tradizionale, la vestizione del kimono o magari… magari aprire le vecchie tradizioni per accogliere il nuovo che aveva attorno, e insegnare a titolo gratuito presso i centri di recupero dei ragazzi in difficoltà. Rendersi utile, dopo essersi dedicata sempre e solo alla sua famiglia e agli eventi mondani del Morisaki Group, chiusa nel giro delle donne che contano di Nankatsu e dintorni. Non c’era più nulla, di quella vita altolocata, che le interessasse davvero e la sua famiglia aveva imparato a reggersi da sola su equilibri tutti storti che tentavano di raddrizzarsi con le loro sole forze. Forse, alla sua famiglia, lei non serviva più così tanto.

Yumeko ci pensava mentre sfogliava, per l’ennesima volta da che aveva avuto accesso al computer di Yuzo, le foto che il ragazzo conservava tra cartelle più o meno segrete.

Le mise in slideshow, sorridendo con l’amore nel cuore e le lacrime agli occhi, soprattutto quando spuntavano quelle in cui Yuzo e Shuzo erano insieme.

E risate.

Perché ogni volta il suo figlio ribelle aveva dei capelli terribili e il suo figlio obbediente li guardava con smorfie buffissime.

Ne aveva così tante, ma le aveva centellinate per trovarne sempre di nuove con cui lasciarsi sorprendere. Come quel video che partì nello slideshow.

Yuzo reggeva il cellulare e il suo viso fu la prima cosa che comparve. Adolescente giovanissimo, pieno di sogni e speranze, una vita che sembrava infinita e una bellezza che pareva non potesse sfiorire nemmeno dopo mille anni.

“E i Morisaki Twins sempre insieme. Boo-ya!”

“Non sono un cazzo di Morisaki, piantala.”

“Per me sì.”

“Per faccia di merda & soci no, quindi non ripeterlo, m’urta il cazzo!”

Yuzo mimò con mille smorfie un ‘caratteraccio!’ che le strappò una risatina, anche se aveva gli occhi lucidi e sentiva la commozione stringerle la sommità del naso.

Shuzo aveva i capelli legati con un codino alla samurai di colore bianco platino, mentre sulla nuca la rasatura castana spiccava con il decoro di una serie di V con il vertice in alto. Tagliava delle verdure e aveva un cerotto verso la fine del sopracciglio, accanto alla coda dell’occhio. L’alone di un livido era netto e intenso, e la punta rossa di una crosta sfuggiva all’adesivo. Un altro era sulla sommità del setto nasale; stesso copione e stessi colori.

“E comunque, la pianti un po’ di stare sempre a fare video? Che cazzo devi documentare? La mia vita?!”

“Al più è la nostra, e comunque voglio un ricordo! È la cena di Capodanno!”

“Ti prego. Fratello. Puoi mentire a chi ti pare, compreso quell’idiota dell’amico tuo, ma con me non attacca. Credi che non lo sappia che questi video sono per la mamma?”

“Ma non è vero!”

“Bugiardo. E anche pessimo. Mi pigli per coglione?”

Nonostante fosse un video vecchio di anni, Yumeko si mortificò per l’espressione di rimprovero che Shuzo rivolse al fratello e l’attimo dopo al display del cellulare, come guardasse proprio lei dritto negli occhi.

Yuzo sostenne lo sguardo del fratello per qualche istante, poi appoggiò il telefono sul ripiano e Yumeko vide la telecamera assumere un’inquadratura deformata che dal basso riprendeva entrambi i figli. Shuzo teneva gli occhi sul tagliere, sminuzzava delle zucchine; Yuzo era al suo fianco, dava le spalle al mobile e lei poté scorgerne solo la nuca e le spalle.

“Potresti farle una telefonata…”

“No.”

“Andiamo, che ti costa? Solo per dirle che stai bene. Pochi minuti. È Capodanno, le manchi.”

“Se ne farà una ragione.”

“Non può. È la mamma. Credi davvero che lei sia felice di non averti a casa? Sei un imbecille se lo pensi.”

“Non me ne frega un cazzo, Yuzo. Può anche strapparsi i capelli o battersi il petto, le cose funzionano così. Lei pensasse ad Akio, altrimenti va tutto a puttane.”

“Io vorrei solo che le cose-”

“Non si sistemeranno, okay? Fattene una ragione pure tu, non sei più un moccioso.”

“Ha parlato il grand’uomo che al primo problema o mena o scappa. Davvero, hai così tanta maturità che ti esce pure dal culo.”

“Ehi! Vuoi litigare a Capodanno? Ne sei sicuro? Pensaci.”

Rimasero in silenzio per i secondi successivi, meno di dieci, in cui Shuzo lanciò il coltello sul tagliere e Yuzo girò il viso dall’altra parte. Ma fu proprio il figlio ubbidiente a fare il primo passo: con la testa cercò la spalla del fratello che non si sottrasse, ma gli circondò subito il petto con il braccio, da spalla a spalla, e poggiò il viso nei capelli corti di Yuzo.

Sapevano discutere con forza, e offendersi anche pesantemente, ma alla stessa velocità tornavano a essere uniti, come se quel contatto fosse vitale tanto quanto l’aria per gli anfibi. Così i suoi figli, che senza l’altro non riuscivano a stare, e la boccata d’ossigeno era lo spazio che separava l’ultima invettiva dalla successiva comprensione.

“Non voglio litigare…”

“Nemmeno io. Cambiamo argomento? Altrimenti mi distraggo e ho karaage e kakiage da friggere. Sono cose serie, queste.”

“No, per carità! Ma… a proposito: e Ike?”

“Ike lo sa che non deve venire a rompere il cazzo quando sto con te.”

“Non dovresti trattarlo così. Sembrerà assurdo, ma ti è legato.”

“Chi?! Ike?! Legato?! Ma piantala! Ci divertiamo e basta, di che impegno parli? Tsk! Impegno, dice… ma sentitelo.”

Yuzo si volse, assunse un’espressione più seria, tanto da incrociare le braccia al petto.

“Senti, parlando di Ike e della mamma… io stavo pensando di dirle che sono gay.”

“Sì, certo.”

“Dico sul serio.”

“…davvero?”

Shuzo si fermò, dopo che aveva riafferrato il coltello. Tornò a posarlo per poter guardare in viso suo fratello.

“È mamma. Non si arrabbierebbe, lo so.”

“Anch’io, e non è lei il problema. Il problema è Akio, perché lei glielo direbbe.”

“…veramente, pensavo di farlo io. Dirlo anche a lui.”

Yuzo abbassò lo sguardo sul ripiano, cincischiò con una zucchina mezza tagliata. Poi tornò a guardare Shuzo.

Yumeko portò una mano al petto. Il cuore batteva forte, tra ansia e amore per i suoi figli e dispiacere per non aver dimostrato loro di potersi fidare fino alla fine.

Shuzo sbuffò una mezza risata di scherno.

“Vuoi scatenare la terza guerra mondiale? Quello che ho vissuto io non t’è bastato? Vuoi sentirti… ricoprire di merda? È questo che vuoi? Perché è questo che avrai! Akio non te la farà passare, stai scherzando?! E quello stronzo di suo padre?! Sei pronto a diventare la nuova vergogna della famiglia? A essere estromesso dai pranzi, dalla minka, a sentirti emarginare. E come ti chiameranno? Magari deviato o direttamente frocio. Perché i Morisaki non perdonano se sgarri dalla loro strada, lo hai capito o no? Non perdonano un cazzo, ti tagliano fuori! E a casa sarà un inferno! Vuoi questo? Essere messo alla porta anche tu? Se è tutta una scusa per venire a vivere con me, cazzo, non c’è bisogno di sparare così alto. Io sarei felicissimo di averti qui, ma poi non potresti finire il liceo e con il calcio come faresti?”

“I-io…”

“Se volessi dirlo a qualcuno, dovresti cominciare da quel coglione del tuo amico Izawa. Cristo, tanti anni che ti conosce e ancora non ha capito che stravedi per lui. Porca puttana, che cazzone!”

Yumeko aveva di nuovo gli occhi lucidi e le dita stringevano la stoffa sul petto. La disamina di Shuzo era stata così precisa e tagliente da averle aperto uno squarcio profondo che superava vestiti e carne. Faceva così male che neppure Yuzo fu in grado di replicare, rimanendo a testa bassa e a mordicchiando l’interno della guancia.

A quei figli non erano riusciti a dare nemmeno un briciolo di fiducia nei loro confronti, li avevano privati del coraggio di tentare, strappato le ali dalla schiena e fatte in mille piume. Li avevano mutilati, quei figli, anche nella fiducia in loro stessi. L’unica consolazione che ebbe, fu che almeno tra loro quella fiducia fosse invece stata centuplicata. Lo vide nell’abbraccio di Shuzo verso suo fratello, dopo che erano rimasti di nuovo in silenzio. Un abbraccio stretto stretto, che cercava di infondere tutta la protezione che lei e Akio non erano stati in grado di trasmettere.  

“Vorrei solo evitarti l’inferno che ho passato io, perché non voglio che tocchi anche a te. Akio ti direbbe delle cose orribili e nessuno, questa volta, potrebbe trattenermi dall’andare a prenderlo dove si trova per farlo a pezzi.”

“Non voglio questo. Vorrei che fossimo una famiglia normale…”

“La normalità ce la siamo giocata da tempo, e l’abbiamo pure persa.”

“…”

“…ehi! Ma quel coso sta ancora registrando?!”

“Non l’avevo spento?”

“Ma ha registrato tutto? Vedi di cancellare ‘sto video e non mandarlo a mamma! Te le suono a passo di valzer se lo fai!”

“Ti voglio bene, fratello, ma adesso friggi quel kakiage! Ho fame!”

Yumeko vide l’immagine cambiare ancora, ballare mentre Yuzo afferrava il cellulare e lo portava più vicino. Poteva vederlo con nitidezza adesso: nel rivolgersi a Shuzo sorrise come non aveva mai sorriso neppure a lei.

Il video si interruppe su di loro, sempre vicini, sempre uniti, e nella bocca, invece del solito sapore agrodolce che le restava alla fine di ogni video, si allargò un sentore d’amaro e acido. Bruciava nella gola.

Avevano deluso tutte le aspettative di quei ragazzi. Lei, Akio, le loro famiglie. Li avevano costretti a montare bugie su bugie come castelli traballanti; che fossero con gli altri, che fossero tra loro. Era così dura da accettare. Era dura perché non sembrava esserci un rimedio, un modo per fare ammenda, per tirare giù quelle impalcature di sfiducia piene di specchietti per allodole.

Yumeko sollevò la testa dopo averla tenuta calata sulle mani. Le responsabilità disattese non si rifuggivano, ogni errore doveva essere affrontato a testa alta. Non erano proprio i Morisaki a dirlo? Fronteggiare tutto con coraggio.

E l’unico modo con cui avrebbe potuto abbattere l’ennesimo muro di menzogne era solo con la verità. Dopotutto, non erano sempre le mamme quelle che affrontavano i papà quando i figli avevano bisogno d’aiuto?

 

«Ti concedi una pausa? È pronto il tè.» Yumeko fece capolino che mancavano una decina di minuti alle cinque del pomeriggio. Aveva bussato, ma non aveva atteso una risposta prima di farsi avanti.

Akio sollevò la testa dai documenti sparsi sulla scrivania, e altri aperti in .pdf sul monitor acceso del computer. Strinse leggermente gli occhi per riuscire a metterla a fuoco e solo in quel momento si accorse di essere stanco. Accennò il sorriso di chi aveva bisogno di una pausa e sfilò le lenti da vista, lasciandole sul tavolo.

La sua mattinata non era stata facile e aveva ancora ben nitida l’immagine del pianto liberatorio di Shuzo e della richiesta di non tornare. Un cedimento improvviso, poi di nuovo le mura per mantenere la distanza. La soddisfazione per la sentenza era stata offuscata dall’ennesimo incontro risolto in un rifiuto.

Akio sentiva come se qualcuno l’avesse colpito alle ginocchia e, nonostante fosse stato preparato a ricevere il colpo, fosse caduto lo stesso. Ci avrebbe rimesso un po’ e si sarebbe rialzato, per un nuovo tentativo, ma dopo ogni caduta la fiducia veniva meno e la forza per tornare in piedi anche. Il peso del suo corpo, invece, raddoppiava. Lo sentiva di piombo, e tirare su la gamba era come spostare una montagna.

«Ci sto», disse, cercando di nascondere tutto il resto. Lasciò gli occhiali sulla scrivania e si alzò.

«Bene. Volevo approfittarne per parlare un po’ dei nostri figli. Non lo abbiamo mai fatto per bene, senza urlarci addosso.»

Akio accennò un sorriso colpevole, mentre il peso dei suoi passi aumentava di una mezza tacca.

Sul tavolo della cucina il tè non era ancora stato servito, ma le yunomi erano disposte ordinatamente ai capi opposti della teiera.

Lui prese posto, Yumeko scelse quello di fronte. Opposti, come le due tazze, per potersi guardare dritto negli occhi. Con calma e quei movimenti sempre precisi e raffinati – le dita tutte unite nel tenere fermo il coperchio della teiera mentre versava, le braccia che assumevano angolazioni a dir poco geometriche e movimenti netti che parlavano di regole insegnate al corpo affinché le riproducesse sempre uguali e perfette – servì il tè per entrambi; le tazze piene fino a un centimetro e mezzo dal bordo.

L’odore del matcha era familiare, il suo colore intenso.

Akio guardò, attraverso quella giada liquida, il fondo della yunomi.

«Non andrò più in carcere. Aspetterò che Shuzo esca.»

«Perché?»

Lui sollevò la spalla sinistra, sciolse un sorriso che tirò solo un lato della bocca. «Mi ha detto di non tornare. Non voglio minare la tranquillità delle sue visite; che almeno ne associ qualcosa di buono, deve trascorrere ancora un anno lì dentro. Una volta fuori avrò altre occasioni.»

Ma mentre prendeva quella decisione, fin da quando aveva lasciato il carcere, aveva provato una smania tale, nel pensare che non l’avrebbe visto per così tanto tempo, che lo aveva scosso: aveva vissuto anni senza saperne nulla, senza cercarlo, senza neppure parlargli al telefono e ora l’idea di non poterlo andare a trovare in prigione gli sembrava inaccettabile.

Aveva vissuto per circa quindici anni come se si fosse dimenticato di avere un altro figlio, e ora che lo costringevano a non vederlo non avrebbe voluto fare altro che parlare con lui. Togliendosi il velo dagli occhi e dal cuore, tutti i desideri e pensieri inespressi nel corso del tempo erano venuti a battere cassa nello stesso momento.

Akio sollevò lo sguardo e lesse sul viso di Yumeko un’espressione crucciata.

«È meglio così, credimi. Meglio per lui.» Portò la tazza alla bocca e bagnò le labbra con il tè bollente. «Pensi faccia ridere che sia proprio io a parlare del suo bene?»

«No, non lo penso. Sei suo padre.»

«Avrei dovuto ricordarmelo prima.»

«È vero. Ma arrivati a questo punto conta che tu lo abbia ricordato. Non importa se prima o dopo. Stai cercando di fare il padre come avresti dovuto e io sto cercando di fare la madre che si sarebbe meritato di avere.»

«Sei stata una brava mamma.»

Lo pensava davvero; aveva visto quanto avesse cercato di essere presente con entrambi, e anche quando era Shuzo a mandarla via, lei faceva di tutto per esserci, fosse stato anche per rimanere fuori della porta della camera. Yumeko però scosse il capo.

«Non come avrei dovuto. Abbiamo sbagliato tutti e due. Ora non mi resta che provare a rimediare come posso. Per questo volevo parlarti dei nostri figli…»

Akio tornò ad abbassare lo sguardo sulla tazza. Prese un sorso più corposo di tè. Yumeko gli era parsa diversa dal solito. Non avrebbe detto severa, perché non lo era mai stata in passato, ma di certo aveva un’aria seriosa che gli smosse l’animo.

«Qualcosa in particolare?»

«Sì. E preferirei non girarci intorno, perché sarebbe inutile. Non ho più motivo di indorarti la pillola. Inoltre, da qui a qualche anno lo capiresti anche da solo, quindi meglio darti il tempo di abituarti all’idea. Sei sempre stato poco incline ai cambiamenti.»

Akio la osservò prendere fiato, e si rese conto che non aveva mai abbassato lo sguardo da che si erano seduti al tavolo.

«Shuzo è gay.»

 

Yumeko aveva deciso fin da subito che avrebbe trattato la faccenda separatamente, per ciascun figlio, in modo che Akio da un lato non si distraesse e dall’altro accusasse un colpo alla volta.

Decidere di partire da Shuzo le era risultato ovvio, perché se suo marito voleva davvero cercare di ricucire un rapporto con lui, allora era meglio se si fosse trovato subito davanti questa realtà per vedere come avrebbe reagito. Lei se n’era già fatta un’idea ed era pronta a rispondere con durezza, ma dopo i primi, calcolati istanti di sorpresa, Akio rimase in silenzio: yunomi tra le mani, occhi sgranati e bocca aperta di un filo. Più che infuriato, pareva stordito.

«Oh.»

«È così.»

Akio ci pensò ancora, sempre con quell’aria smarrita che non accennava a far partire l’attacco, le urla, la rabbia. Spostava lo sguardo dalla tazza a dei punti indefiniti della stanza. Poi strinse gli occhi, in cui balenò una sorta di illuminazione.

«Quindi… Aspetta, ma per caso… lui e Mamoru…»

«Non credevo te ne fossi accorto.»

«A dire il vero, non ci avevo pensato fino a che non mi hai detto che… In quest’ottica diventa quasi ovvio.»

Fu il turno di Yumeko di sentirsi stordita, perché l’attacco e le urla che stava aspettando tardavano ancora e, a giudicare dall’espressione di suo marito, non si sarebbero fatte vedere neppure in seguito.

«E… i suoi genitori lo sanno?»

«Sì. Con Rina parliamo spesso dei ragazzi e, quando è presente, interviene anche Hisoka.»

«A loro sta bene?»

«Certo.»

Akio annuì, fece cadere gli occhi su un punto non meglio precisato e alla fine accennò col capo con maggiore decisione.

«Okay.»

Yumeko lo fisso, sbatté le palpebre più volte, immaginando che quella fosse una sorta di allucinazione e l’espressione calma che gli leggeva in viso venisse soppiantata in un attimo da una furente.

«Okay?» fece eco.

«Sì, è okay.»

«E non ti arrabbi? Non sbraiti qualcosa sull’onore o sulla vergogna del buon nome di famiglia?»

Yumeko cercava di vedere suo marito da una qualsiasi prospettiva che le facesse capire cosa gli passasse per la testa, perché fino a qualche anno prima sarebbe stata in grado di prevedere ogni sua mossa, mentre adesso era un’incognita che parlava per rebus. A volte poteva aprirsi e gettare fuori una quantità indigesta di notizie sul suo mondo interiore, ma poi tornava a serrarsi in silenzi lunghi cui si era abituata e frasi che avevano imparato a non ferire, ma che spesso le solleticavano il naso con l’odore della menzogna.

«Forse prima lo avrei fatto. Avrei risposto davvero così.» Akio increspò appena le labbra solo da un lato. «Ma adesso… Il nome della famiglia? È da un anno che io e papà non ci parliamo, del nome dei Morisaki non m’importa niente e, in fondo, non si tratta di gang, prigione o gente pestata a sangue.» Allargò le braccia e sollevò le spalle, il sorriso divenne più ampio, ironico e rassegnato agli eventi che li avevano travolti. «Che sia omosessuale è la cosa più normale che tu mi abbia detto di nostro figlio. Magari fossero stati questi i problemi con Shuzo, sarebbe stato tutto risolto da tempo e noi non saremmo mai… non così, almeno.»

Anche se continuava a rimanere di troppe poche parole, quelle che Akio aveva iniziato a dire erano davvero diverse dal passato. Stava cambiando costantemente, un passo alla volta e con i suoi tempi, che potevano sembrare lunghi, ma rivelavano modifiche concrete. Quella era l’ennesima che le aveva messo davanti: Akio accettava suo figlio con tutte le differenze e difficoltà. Lo accettava perché non rinnegava più l’appartenenza che nutriva nei suoi confronti né il possesso.

«Sono davvero sorpresa.»

«Già… a volte anch’io mi sorprendo di quanto possa essere semplice dire la cosa giusta, quando in passato non ne ho azzeccata nemmeno una.»

«Non guardare sempre al passato. Guarda avanti.» Yumeko poggiò le mani sulle sue ancora attorno alla tazza. Le strinse per qualche istante e poi le ritrasse. «Stai cercando di avvicinarti a Shuzo, anche se ti rifiuta. Io queste cose le vedo, sono importanti e le apprezzo davvero.»

Akio abbassò lo sguardo sulla yunomi e fece per portarla alle labbra, ma Yumeko non aveva finito e adesso arrivava lo scoglio più grande: se lui fosse stato capace di abbattere anche quello, se fosse stato capace di sopportarne le conseguenze allora avrebbe potuto davvero covare una piccola speranza che la sua famiglia riuscisse a trovare finalmente un equilibrio stabile.

«Anche Yuzo era gay.»

Akio sollevò il capo di scatto, poggiò la tazza sul tavolo con un colpo secco che fece saltare tre gocce di tè oltre il bordo.

«No.»

«Sì.»

«No, ti ho detto!»

«E io ti sto dicendo di sì.»

«No, non è possibile! L’avrei saputo! Lui me l’avrebbe-»

«Cosa? Detto? Credi che te ne avrebbe parlato, Akio? Davvero? Tu sei quello che ha picchiato suo fratello, ricordi? Che lo ha disconosciuto, rifiutato, messo nella condizione di andarsene di casa. Tu sei quello che li ha costretti a vivere separati, sei proprio convinto che sarebbe venuto da te? Che si sarebbe fidato di te? Su quali basi?»

«Te lo ha… detto lui?»

«No. Non si fidava neanche di me. Siamo stati dei genitori orribili, Akio. Orribili. Perché abbiamo permesso ai nostri figli di non avere fiducia in noi. Che Yuzo fosse gay l’ho capito da sola, col tempo, e poi Shuzo me lo ha confermato.»

«Com’è possibile… Io lo vedevo, lui usciva sempre con i suoi amici, usciva sempre con…» Una nuova illuminazione nello sguardo di Akio, che generò una reazione dolorosa. «Non dirmi che anche lui… per Mamoru…»

Con il mento poggiato nella mano, Yumeko rispose con un sorriso, e poi gli raccontò della triste storia d’amore di suo figlio Yuzo, di un finale che non c’era mai stato e di come la tristezza fosse passata da una mano all’altra, da un cuore all’altro, tramandata da Yuzo a Mamoru, che aveva capito troppo tardi di ricambiare quel sentimento mai confessato e che per cercare di liberarsi di un simile peso aveva costruito il Mori no Kokoro come dono d’amore.

Akio ascoltò tutto senza interromperla mai, entrambi si dimenticarono del tè che smise a poco a poco di fumare. Yumeko toccò tutti i tasti più dolenti e gli raccontò anche di quel video che l’aveva convinta a metterlo davanti alla verità che ancora ignorava. Akio non diede pace alle proprie mani, se le passava sul viso, si copriva le labbra, cercava qualcosa da dire ma non la trovò e quando lei ebbe finito, rimase in silenzio, con lo sguardo fisso in un punto imprecisato per una decina di secondi.

In Yuzo, Akio aveva riversato tutto quello che non era riuscito a dare a Shuzo, raddoppiato il suo amore e le aspettative, raddoppiato l’orgoglio per quel ragazzo tanto diligente e bravo e che sarebbe diventato un campione. Per Akio, Yuzo era sempre stato tutto, e gli alti e bassi che tra loro avevano conosciuto – come conseguenze del rapporto con Shuzo – li aveva dimenticati in fretta ogni volta.

Yumeko sapeva di avere inflitto un duro colpo alla concezione molto idilliaca del rapporto che credeva di avere con suo figlio, per questo non si stupì quando lo vide alzarsi.

«Se mi cerchi sarò nello studio.»

Ma non c’era traccia della durezza che aveva sempre caratterizzato suo marito quando la vita e gli eventi gli mettevano davanti i loro imprevisti più subdoli. Non c’era la testa alta, non c’era la reazione, non c’era l’essere forte, tutti cari ai dogmi dei Morisaki. Le spalle di Akio erano curve mentre lasciava la cucina, il suo passo incerto e il capo chino.

«Anche questa è andata…» sospirò, quando si trovò di nuovo sola e con la mente volò ai suoi figli. «Ci perdonerete mai per aver sbagliato tutto?»

 

Akio raggiunse il salotto solo perché il suo corpo conosceva quella casa a menadito. Dentro provava una sensazione strana: uno sfarfallio continuo tra cuore e polmoni e poi nella testa. I piedi andavano avanti, ma non li percepiva. Lo spazio sembrava correre, lui era troppo lento e il fiato troppo corto. C’erano formiche bianche davanti agli occhi, tante formiche che mangiavano la vista. Una sensazione di caldo improvviso e soffocamento lo portò a spuntare i primi bottoni della camicia, ma non bastò.

Anche Yuzo era gay.

No! Non è possibile! L’avrei saputo!

Akio raggiunse la vetrata del salotto appoggiandosi sul basso tavolino con tutto il suo peso. Il respiro era affaticato, la testa leggera, il petto pesante.

La cornice che spostava di continuo gli cadde sulle mani. Aggrappò gli occhi al retro di color marroncino. Poi la sollevò e Yuzo sorrideva con il diploma stretto nella mano; in piedi, al suo fianco, si circondavano le spalle a vicenda.

Che cazzo gli hai fatto?!

Gli esplose all’orecchio, nemmeno Yuzo fosse lì accanto e glielo avesse appena urlato da distanza ravvicinata… come quella volta.

 

«Le mani addosso a mio fratello non ce le metti, hai capito?!»

«Ascolta-»

«No, cazzo! Non mi toccare! Che schifo di uomo sei?!»

«Che modo di parlare a tuo padre?!»

«Padre?! Che picchia i figli a sangue?! Vuoi picchiare anche me? Dai, fallo! Forza! Provaci! Provaci!»

«Vedi di darti una calmata, ragazzino!»

«Sì, esatto, sono un ragazzino! Lo siamo tutti e due, te lo sei scordato?! Shuzo è un ragazzino come me e tu sei un vigliacco!»

«Yuzo… non fate così… vi prego, non fate così…»

«E come dovremmo fare, mamma? Hai visto come lo ha ridotto?! Lo guarda come fosse spazzatura, ma siamo tutti e due figli suoi! Perché lo trattate in questo modo?! Che cosa vi ha fatto di male?!»

«Niente, tesoro mio, niente…»

«Se mi ascoltassi invece di gridare come-»

«No! Io non ti ascolto più. Tu con me hai chiuso. Non toccare mai più mio fratello, o sarò io a toccare te!»

 

Non si rivolsero la parola per mesi mesi. Yuzo non gli rispondeva, non lo guardava in faccia, e quando se ne andava nella serra aveva imparato a chiudere la porta, proprio come faceva Shuzo. Si comportava allo stesso modo e, forse, anche peggio: Shuzo aveva opposto comunque sempre un certo ardore nei loro scontri, come se andasse a fuoco, mentre Yuzo lo trattava con una freddezza che divorava le ossa. Era stato difficile, surreale e aveva temuto davvero che tutto si spezzasse definitivamente.

Che anche Yuzo, come Shuzo, smettesse di rispettarlo, si cacciasse nei guai, rovinasse la sua vita.

Il timore di fallire era un’altra volta appostato dietro l’angolo.

Poi si erano confrontati, avevano ripreso a parlarsi, il clima in casa si era calmato senza le tensioni con Shuzo – che restava chiuso in riformatorio. Qualcosa, dentro di lui, gli aveva sussurrato di continuo che dietro al confronto con Yuzo ci fosse la mano di quel figlio tenuto a distanza che era convinto di odiare e di essere odiato con la stessa forza, e che invece non aveva mai smesso di amare anche se lui, davvero, veniva odiato. Un odio pari al suo amore. Sentimenti così forti che avrebbero finito con l’ucciderli a vicenda, prima o poi.

Ma i suoi occhi, ora, erano su Yuzo, su quella foto di diploma che sembrava dire che la tempesta era stata lasciata alle spalle e quindi non c’era nulla da temere. Suo figlio era il ragazzo migliore del mondo: bravo, generoso, con il successo a portata di mano. Un ragazzo che lo abbracciava e sorrideva perché tutto andava bene, perché era felice.

E invece, d’improvviso, Akio fu in grado di vedere tutte le bugie nascoste dietro quel sorriso.

Nessuna felicità, nessuna serenità. Il successo, sì, ma pagato come?

Yuzo lo abbracciava sorridente, ma non aveva alcuna fiducia in lui, gli aveva nascosto le difficoltà e i pensieri più duri. Gli aveva nascosto l’altra faccia della medaglia, quella buia, premuta contro il petto, aveva mostrato solo l’oro che rendeva tutti felici e soddisfatti.

Ma che ne era stato di suo figlio? Chi era stato davvero? Quanto aveva sofferto?

Akio strinse con forza la cornice. L’immagine di Yuzo vacillò, si appannò e infine venne affogata dalle lacrime che aveva negli occhi, perché non aveva mai capito niente e aveva visto solo ciò che aveva voluto vedere. Aveva lasciato che gli mostrasse solo la superficie bella. Specchietto per le allodole della sua serenità.

«È colpa mia… è colpa mia, mi dispiace tanto. Mi dispiace, non ti ho mai capito… non vi ho…»

Serrò i denti, ma le lacrime precipitarono come goccioloni di pioggia estiva. Akio immerse il viso contro il vetro della foto, la tenne stretta più che poté, e si piegò come un salice. Nel petto il cuore faceva male, ma era un dolore concreto e niente più sfarfallava nella sensazione di essere sull’orlo di disfarsi: lui era tutto intero e a essersi disfatto era quel cuore che non si era solo spezzato ma sbriciolato davanti alla salma dagli occhi chiusi e dalla pelle fredda. Intera era anche la sofferenza. Ne sentì il peso sulle spalle, sulla schiena, lo sconfisse poco alla volta perché era martello e lui un chiodo arrugginito.

«Io sarei sempre stato orgoglioso di te… sempre, sempre, sempre…»

Akio toccò il pavimento con le ginocchia. Attaccato a quella fotografia che era ciò che gli rimaneva di Yuzo, tutta la propria colpa, e la tenne stretta come l’abbraccio della Terra stringeva suo figlio, ora. Gli aveva rubato il posto e non gliel’avrebbe restituito mai più. A lui aveva lasciato solo un cuore in polvere, il vuoto e un sorriso di mille bugie.

 

 


 

 

Note Finali: …e si riparte da qui. Da questo padre che non ha mai mostrato davvero quanto fosse distrutto per la morte di suo figlio, e che ci prova a recuperare con l’altro, ci prova… ma è difficile (Shuzo la rende difficile, e non gli si può dare torto).

E poi arrivano quelle scoperte che un po’ ti troncano le gambe nel momento in cui pareva ti stessi rimettendo in piedi.

Akio è un personaggio che cade, dopo aver passato una vita sempre in piedi, dritto e fiero.

Ma questo è l’inizio, siamo ripartiti dal punto più basso: la Terra, uno degli elementi principali dell’ikebana. Sono proprio questi tre a fare da sottotitolo alla raccolta il cui nome, ‘Jikan’, significa TEMPO.

E il tempo è ciò che passa sopra, sotto e dentro i personaggi.

Bentornati al Mori no Kokoro. <3

 

 

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Capitolo 2
*** #2 - Il tempo del mondo ***


Jikan - #2

Note Iniziali: E qui facciamo un salto in avanti. Ci troviamo esattamente alla fine del Capitolo XXX.

Shuzo è uscito di prigione, è tornato al Kokoro dove Mamoru e tutti gli altri lo ha accolto come non fosse mai andato via. Anche se all’inizio era convinto di non restare, alla fine Shuzo sceglie di iniziare da lì a ricostruire la propria vita.

Questa shot, si colloca alla fine di quella giornata :D

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #2: Il tempo del mondo -

 

 

 

Shuzo osservò Mamoru tirarsi dietro il cancelletto dell’ingresso posteriore del Kokoro con un colpo deciso. Il metallo vibrò con forza, ma nessuno dei due se ne preoccupò.

Era poggiato con la schiena alla macchina e aveva la testa troppo leggera per pensare ai rumori molesi in ora tarda.

Kumi, Tobi e Bruco erano andati via da meno di mezz’ora e l’orologio segnava che mancavano un paio di minuti alle 23.00. Avevano messo tutto in ordine, chiuso le piccole serre, fatto partire l’ultima lavastoviglie della giornata. I forni li aveva già settati Kumi.

Potevano salire a casa.

E la sua testa era leggerissima e doveva avere gli occhi lucidi su un sorriso tanto accennato quanto stupido. Aveva bevuto un po’, i festeggiamenti erano continuati anche una volta chiuso il locale. Kuromori, sakè. Era un giorno speciale e al resto si sarebbe pensato l’indomani, perché sarebbe arrivato tardi: di mezzo c’era ancora tutta la notte, e la notte era sempre stata loro.

Mamoru si volse e negli occhi scuri come il cielo sopra le loro teste Shuzo lesse la stessa consapevolezza: da soli, dopo tanto tempo e come si erano abituati a trovare alla fine di ogni giorno. Soli, ma insieme.

Mamoru allungò il braccio, gli prese la mano. Si incamminarono per fare il giro e raggiungere il cancelletto di casa. Il paese dormiva già, aveva ritmi che la sua assenza non aveva toccato e aveva pensato fosse rassicurante quella fissità conosciuta. Gli dava ancora di più la sensazione di essere tornato.

«Sei stanco?»

«Ma se non ho fatto niente tranne bere, mangiare e chiacchierare.»

«Be’, le emozioni stancano.»

«Sto bene, gioia. Mai stato meglio.»

Mamoru gli scoccò un’occhiata che era tutta un programma e racchiudeva i mille significati delle loro notti trascorse a parlare, stare vicini, un passo alla volta.

«Me lo auguro proprio.»

«Suona come ‘pessime intenzioni’, o me lo sono immaginato?»

Mamoru strinse la mano e lo attirò a sé; le parole volavano alla distanza del fiato, come le minacce.

«Io ho sempre cattive intenzioni quando ti sono vicino.»

Un sorriso svirgolò, si nascose nella luce dei lampioni che accresceva le ombre e la sua testa fu leggera un respiro in più mentre la fame – per la quale il cibo perfetto sarebbe stato carne viva da mordere – gli formicolò dal ventre alle gambe e a ciò che c’era nel mezzo.

«Gli dèi mi fottano, mi era mancato il tuo essere così stronzo.»

«Gli dèi aspetteranno, perché ti fotterò prima io.»

Shuzo affondò la risata nel collo di Mamoru, tra i capelli e la carne di cui respirò ogni odore.

«Ti ho influenzato proprio male, cazzo! Dovresti trovarti uno bravo e sistemato, invece di stare con me. Tua madre mi odierà per averti reso uno scombinato.»

«Mia mamma è arrabbiata perché tu non le dai molta confidenza.»

«Cosa?!»

«Giuro. Pensa di starti antipatica. Poi, okay, le occasioni sono state poche. Dovremmo recuperare.»

«Ma no! Non mi è antipatica, è solo che… ecco… avevamo avuto di che discutere e non sono proprio l’esempio di compagno ideale. Insomma, vorrei evitare che veda quanto io sia idiota.»

«E quindi fai il sostenuto per darti un tono?» Mamoru sbottò a ridere. «La prossima volta che li vediamo – che sarà questo week-end – attacca a parlarle come fai con mio padre. Vedrai che non ti mollerà più. Lei ti ha accettato da subito.»

Shuzo ringraziò l’oscurità serale che nascose l’imbarazzo salito alle guance con un’onda di calore che subito corse via, lasciando il posto a uno strano senso di colpa che in realtà non avrebbe dovuto appartenergli. Eppure, fu immediato fare il paragone con la propria famiglia che l’aveva rifiutato per una vita intera e poi sentirsi accettare dalla madre di Mamoru che alla fine era poco meno di un’estranea.

Entrarono in cortile senza dire altro. Cancelletto chiuso, stavolta senza fare casino, e poi le scale salite con calma, le dita sempre intrecciate come quei liceali che nella stretta delle mani vedevano la promessa silenziosa di non perdersi mai.

Shuzo si sentì tirare quando fece per avvicinarsi alla porta del primo piano, suo ex-appartamento.

«Dove credi di andare?»

«A prendere un ricambio. Ho solo quello che-»

«Domani. Non ti corre dietro nessuno, a parte me, e ho aspettato due anni e un giorno intero

Shuzo sollevò le sopracciglia in due archetti perfetti di fronte a quel tono minaccioso. Aveva sentito un brivido lungo le braccia e una punta d’orgoglio per avergli insegnato tutte le cose peggiori del suo repertorio.

Alzò la mano e non fece neppure la finta di protestare. Arreso al compagno, che avrebbe potuto guidarlo ovunque, anche all’inferno, riprese a salire tenendo l’oscillare dei capelli di Mamoru come faro guida. Li seguiva, seguiva la schiena, si lasciava ipnotizzare dalla forma che si stringeva verso i fianchi e dai muscoli del braccio teso all’indietro e appena accennato dal pullover, tirato fino al gomito. Ipnotizzare da quella mano che stringeva la sua, anche se erano a un passo di distanza e nessuno dei due sarebbe potuto sparire. Ma c’erano traumi che restavano come piccole ferite dalle cicatrici bianche: per quanto chiaro e rimarginato, il segno rimaneva a ricordarti che avevi sanguinato e che sarebbe potuto accadere di nuovo.

Un altro giro di chiave per un’altra porta che li accolse in penombra e silenzio, ma subito si richiuse alle loro spalle e lui sentì la durezza del legno aderire alla schiena, fredda. Si opponeva alla pressione del corpo di Mamoru che gli era addosso, caldo.

Labbra contro labbra, senza fiato, solo acqua, che era tornata a scorrere dalla bocca alla gola e lo riempiva, lo dissetava tanto da farlo rinascere, e allo stesso tempo lo mandava in apnea per la foga e l’impazienza. Irrequietezza nella carne che si muoveva sotto la sua e che avrebbe voluto toccare ovunque allo stesso tempo, ma non poteva.

Mamoru liberò un sospiro che fece rifiatare anche lui solo quando le mani riuscirono a sollevare i lembi della maglietta per afferrargli i fianchi e poi la schiena. Aprirsi di dita come un ventaglio per coprire più superficie possibile e sostare nella curva tracciata dalle vertebre.

Il suo respiro si scontrò con quello di Mamoru, a metà strada tra le loro bocche, mentre le fronti si erano già incontrate e il suo naso lo accarezzava, scivolando sulla guancia.

Shuzo riconosceva quei contatti, riconosceva la pelle. Li rincorreva in ogni movimento, anche se le sue mani erano ancora ubbidienti e ferme ai fianchi, sopra i jeans del compagno. Ancora per poco, però, perché anche lui voleva toccarlo.

«Ho aspettato troppo. Non ce la faccio più. Voglio farti di tutto.»

Shuzo ammiccò. «Cominciamo bene.»

«La notte mi sei mancato da morire.»

«Perché la notte è nostra.»

Shuzo sospirò e nel gesto sfiorò appena le labbra che Mamoru coinvolse in un nuovo bacio. Le mani ripartirono, risalendo la spina dorsale fino alle scapole e poi tornare giù in fretta, sul bordo dei jeans che strinsero e tirarono in avanti. Bacino contro il suo, troppo per non riconoscere che la voglia non era solo uno stato mentale. Troppo per non fargli capire che fosse una legge universale. Sorrisero di quella conversazione corpo a corpo, mentre le dita armeggiavano con bottoni e cerniere.

«Non aspettarti una gran resistenza, devo togliere un po’ di ruggine. Sono fermo da due anni. Sai che non possiamo fare niente.»

«Sempre da solo?» Mamoru gli torturava il collo, ma per fortuna gli rivolgeva domande semplici perché aveva l’attenzione a mezzo servizio.

«Sì, la mia solita cella.» Shuzo riuscì a infilare la mano dentro ai pantaloni del compagno e, come quest’ultimo succhiò più forte sulla clavicola, lui serrò i genitali in maniera rude e decisa.

Mamoru tirò via un’aspirazione imprevista e strinse d’istinto le cosce.

«Tu, piuttosto, che hai fatto mentre non c’ero?»

«Vuoi che te lo mostro o che te lo faccio?»

Shuzo mimò un fischio a labbra strette, poi aprì un sorriso rapace dei suoi; la presa allentata si fece carezza sensuale. «Mi piace questa domanda.»

«Vediamo dove ci porterà la notte…»

«Andiamoci piano, domani si lavora.»

«No. Adesso ti distruggo e domani ti riposi.» Mamoru gli prese il viso tra le mani, per guardarlo dritto negli occhi. «Non avere fretta, prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno. Nessuno ti porterà via la tua libertà, né Obuchi. Noi siamo qui.»

Rallentare quella macchina che aveva sottopelle e che non si fermava mai. Mollare i giri, come dovesse togliere via il piede dal pedale sbagliato per piazzarlo adagio sul freno.

Mamoru rafforzò il concetto accompagnandolo a un bacio più lento degli altri, più attento, che gli diede la sensazione di doversi prolungare all’infinito. Perché lui aveva l’infinito tra le mani, ora. Doveva goderselo poco alla volta.

Mamoru inarcò un sopracciglio rubandogli quella smorfia storta che era sempre stata sua per arricciarne una similare.

«Ora devi solo pensare a fottermi come si deve. Il primo giro è tuo, offre la casa.»

Questa volta il fischio gli uscì davvero, lungo e basso. E lento. Come il suo tempo.

 

Anche se aveva il viso sprofondato nel cuscino, Shuzo sapeva che Mamoru era sveglio. Per questo non si sentì molesto nel continuare a disegnare percorsi immaginari sulla sua schiena con la punta delle dita. L’anulare e il medio arrivavano fino alla base, dove l’indice chiudeva la piccola processione e poi tornavano su, in circoli più o meno ampi, fino alla sommità della spalla.

Gli occhi, però, erano sul viso. Poggiati lì, addomesticavano alla mente le linee perfette del suo compagno. Il ricordo di quei tratti, delle iridi nascoste a ridosso delle palpebre e del tempo che avevano condiviso nei suoi quaranta giorni di libertà gli aveva fatto compagnia in prigione tra piacere e tortura. Piacere di non sentirsi troppo solo, tortura di non poter sciogliere troppo la fantasia perché non avrebbe potuto soddisfare il richiamo sessuale. Quante erezioni dolorose gli avevano fatto compagnia assieme al pensiero di Mamoru.

Però erano ricordi già lontani, perché Mamoru era al suo fianco, perché l’aveva avuto e si era lasciato avere e fuori era ancora buio. E attorno c’era ancora tempo.

Magari poteva rilassarsi un po’ e mollare la presa su sé stesso.

Mamoru aveva ragione nel dire che le emozioni stancavano, e anche se non aveva voluto ammetterlo era esausto. Aveva fatto un mare di cose quel giorno: era tornato libero, aveva accettato di avere una casa, aveva detto ‘ti amo’ per la prima volta nella vita. Poteva rilassarsi un pochino e accettare che tutta quella felicità fosse davvero sua. Con Kido ci aveva lavorato tanto, parlandone di continuo e con Mamoru aveva sciolto ogni remora, ma l’istinto di conservazione era difficile da perdere. Solo che ora, magari poteva appoggiarlo sul comodino come una cosa che si indossava solo in caso di necessità. E adesso, in quel letto, non era della prudenza che aveva bisogno, non era della diffidenza o dell’inquietudine. Si era nudi non solo fisicamente sotto le coperte sfatte, c’era anche il cuore lì in mezzo.

«Stai di nuovo pensando troppo. Lo sento.»

Mamoru aprì gli occhi, lui sorrise.

«Mi stavo godendo il momento.»

«Bugiardo.»

Shuzo sorrise di più, ma non smentì né smise di accarezzargli la pelle.

«Dèi, a volte vorrei così tanto essere nella tua testa per prenderti a calci il cervello.» Mamoru lo sospirò e lui alla fine sbottò a ridere. «Neppure adesso riesci a metterli da parte? Siamo qui, sei con me. Smettila di pensare a chissà cosa!»

«Ci sto provando, gioia. Dammi ancora un po’ di tempo.»

«No, facciamo che intervengono le maniere forti.» Mamoru lo afferrò rudemente per il fianco e lo attirò a sé, mentre lui ancora ridacchiava. «Ti scoperò fino a farti perdere la memoria!»

«Puff! Questa l’hai sparata bella alta.»

«Pensi che non lo farei?»

«Mh, non ci metterei la mano sul fuoco. Ho notato che sei carico.»

«Anche tu non mi sembrava scherzassi.»

Shuzo sogghignò; Mamoru gli era scivolato sopra, coprendolo in parte; braccia puntellate sui cuscini per potersi guardare negli occhi.

«Le mie batterie si ricaricano con l’uso.»

«Quindi vuol dire che domani sarai una macchina da guerra?»

«Gioia, lo sono già.»

Si fissarono a lungo e poi si misero a ridere come gli idioti che non avevano smesso di essere.

«Che discorsi del cazzo.»

«Dovremmo parlare di cose più serie.» Mamoru crollò di nuovo al suo fianco, col viso rivolto al soffitto.

«Del tipo?»

«Del tipo che dovresti smetterla di arrovellarti su problemi che abbiamo superato per pensare ad altri più immediati.»

«Altri problemi?! Per tutti gli dèi, ne abbiamo già?!»

«Certo! Dobbiamo andare a fare spese, hai un guardaroba da rifare. Non puoi continuare ad andare in giro con gli abiti che ti ha passato Tobi! Diventerai presto socio del Mori no Kokoro, hai bisogno dell’abbigliamento adatto, che ti dia credibilità. Dovrai saperti vendere.»

Shuzo mollò un pugno contro il braccio di Mamoru. «E io chissà che diavolo mi credevo, cazzo! Mi hai fatto prendere un colpo!»

«Ehi! Non sottovalutare queste cose!»

«Fanculo, Mamoru, con tutto il bene.»

«E poi dovrò farti spazio.»

«Spazio? Quale spazio? Ma se ne ho tantissimo giù che è inutilizzato.»

«Ma mica giù! Parlo del mio armadio.»

«E perché dovrei avere spazio nel tuo armadio?»

A quel punto, Mamoru si sollevò, puntellandosi su un gomito. Lo fissò dritto negli occhi, tanto che Shuzo pensò che volesse inghiottirlo nel buio delle iridi che distingueva a malapena. Aveva un sopracciglio inarcato ad angolo acuto perfetto e i capelli che scivolavano spettinati su metà viso.

Ma a colpirlo di più fu la serietà, tanto da arrivare a pensare d’aver detto qualcosa di sbagliato o aver esagerato.

«Davvero non hai capito?»

Quella era la domanda trabocchetto cui, se fosse stato furbo, avrebbe dovuto rispondere prontamente ‘certo che ho capito, ti prendevo per il culo’, e nel frattempo spremersi le meningi per riuscire a indovinare a che diavolo si stesse riferendo. Invece scelse la via stupida, quella in cui l’espressione di smarrimento diceva con chiarezza che non aveva capito un cazzo.

La serietà di Mamoru si sciolse in un sorriso a metà tra strada tra il rassegnato e il divertito. Ma non c’era pericolo nei suoi occhi, non era arrabbiato, anzi Shuzo colse qualcosa di tenero nel tono in cui disse: «Vieni a vivere con me.»

Si trovò così spiazzato da non riuscire a rispondere in fretta. Un’esitazione, la sua, che diede modo a Mamoru di continuare.

«E se hai intenzione di dirmi ‘non corriamo’, ti ci mando per direttissima. Che a te piaccia o no, siamo insieme da due anni, direi che è abbastanza per tentare la convivenza.»

«Ma non sono due anni!»

«Non mi importa se eri in prigione, valgono lo stesso, per me.»

Shuzo sentì un attimo la morsa di qualcosa che si stringeva provocargli una sensazione di fastidio all’altezza del petto, come se stesse finendo l’aria. Eppure, mentre era in cella, aveva espresso a lungo il desiderio di potersi svegliare ogni giorno accanto a Mamoru, coricarsi con lui. Era stato convinto d’esser pronto ad accettare qualsiasi cosa, compresi i suoi stessi sentimenti. Lo aveva abbracciato stretto quel pomeriggio, no? Gli aveva detto di amarlo.

Che senso aveva fare il passo del gambero, ora?

«Penso che dovremmo discuterne…»

«No, è già deciso. Anche se a lavoro saremo soci, sappi che comando io.»

«Ah, sì. Vorresti comandarmi, uh?» Inarcò un sopracciglio provocatorio, mentre osservava con quanta decisione Mamoru si tirasse ancora più su. Lo sovrastava fisicamente solo perché lui era ancora sdraiato e non aveva voglia di alzarsi per tenergli testa.

Stava comodo così.

Mamoru era meraviglioso così.

«Ovvio.»

«E credi anche di riuscirci, magari.»

«Vuoi mettermi alla prova?»

«…yes, boss

«Allora cominciamo subito.» Nemmeno il tempo di dirlo, e Mamoru fu a cavalcioni su di lui, con un movimento sinuoso che gli diede dei segnali inequivocabili.

Shuzo lo divorò con gli occhi, mentre sul fondo dello stomaco il cannibale alzava la testa, sentiva l’odore della carne fresca e familiare, sentiva il richiamo. Non si era fatto vedere fino a quel momento e adesso si sgranchiva le gambe, scrocchiava le dita. Le stesse che Shuzo fece scivolare sulle cosce del suo uomo fino ad arrivare al sedere, che strizzò con forza.

Mamoru era piegato su di lui.

«Non vuoi provare a darci questa possibilità?»

«Ho paura di rovinare tutto. Lo faccio sempre.»

«La paura non passerà mai se non tenti.» Nel bacio che ricevette c’era la rassicurazione di cui aveva bisogno, l’onestà dei sentimenti e la prepotenza dell’autorità che Mamoru voleva esercitare e che a lui, sotto sotto, piaceva subire. «Proviamoci. Ti amo.»

«Quante volte vorrai ripetermelo?»

«Quante saranno necessarie affinché ti si tatui qui», disse Mamoru, poggiandogli una mano sul cuore. «Più a fondo di quello dei 3Kitsu. E ti dovrà fare malissimo, così sono certo che non lo dimenticherai.» Gli prese la mano e la portò al petto che Shuzo toccò con tutto il palmo. «Il tuo fa già male.»

«Okay…»

«E ora lascia che ti dimostri come ti comando a dovere.»

Mamoru poteva farlo davvero, dentro e fuori dalle lenzuola. E mentre si sentiva mordicchiare il collo, Shuzo pensò di avere tanti di quei segni, addosso, che nasconderli a Spydey non sarebbe stato facilissimo, e non era neppure sicuro che le balle avrebbero funzionato, ma ci avrebbe pensato l’indomani, e assieme al nuovo giorno anche l’idea di convivere faceva già meno paura, perché in fondo aveva tempo.

Tempo per abituarsi, tempo per capirsi, doveva solo prenderci confidenza, e lo stava già facendo, in quel letto con Mamoru: prendeva confidenza con la sua nuova realtà, quella a cui era stato pronto a rinunciare per il loro bene, ma che ora era sua, l’aveva tra le mani. Così come il tempo.

Tutto il tempo del mondo.

 

 

 


 

 

Note Finali: …e dopo il drama di papà Morisaki, ecco uno zuccherino fluffoso ♥

Questi ragazzi hanno sempre bisogno di cose carine, considerando quello che gli ho fatto patire. Qui si iniziano a gettare le fondamenta solide del futuro che avete letto nell’epilogo di ‘Malerba’, ambientato sei anni dopo questo momento. Ora, invece, loro iniziano il percorso di convivenza: niente più appartamenti separati, niente più ‘dormo da te’, ‘dormi da me’. Non ci si corre dietro come ragazzini: ora si inizia a fare le cose sul serio e davvero. Shuzo ha bisogno di una stabilità concreta, nella vita lavorativa come in quella affettiva, e Mamoru ha imposto un passo che Shuzo avrebbe posticipato fino alla prossima glaciazione XD

Quindi: libertà, felicità, stabilità. Il trittico base da cui far ripartire il tempo. ♥

 

 

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Capitolo 3
*** #3 - Ciò che è perduto e ciò che è ritrovato ***


Jikan - #3

Nota iniziale: questa shot si colloca tre mesi DOPO la shot #2.

Se nella #2 eravamo a Maggio, ora siamo ad Agosto dello stesso anno :D

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #3: Ciò che è perduto e ciò che è ritrovato. -

 

 

 

“Mi dispiace, Gen. Mi dispiace tanto.”

 

Le parole di Karl Heinz gli erano ronzate nella testa da che aveva preso l’aereo da Monaco. Compagne di viaggio che neppure la musica nelle cuffie era riuscita a silenziare.

Non ci ripensava da molto, ma nel momento in cui era entrato nell’aeroporto ciò che era stato sepolto dal tempo era tornato. Le parole di Karl Heinz non erano state le uniche. Poco alla volta, frase dopo frase, i ricordi erano tornati a galla.

Facendo i conti, erano passati nove anni e spiccioli da quando Genzo aveva scoperto che le pessime giornate non sempre si riconoscevano perché iniziavano male, quasi avessero un marchio o un odore che le preannunciasse e ti facesse dire ‘ehi, stai in campana, sta per arrivare una giornata di merda’. Poteva invece capitare che tutto filasse liscio, che la sveglia suonasse in punto come ogni mattina e che ci si alzasse dal letto riposati e affamati. Il sole nel cielo come sempre, magari un po’ tiepido, magari opaco, ma comunque familiare e che faceva dire che la giornata poteva cominciare. Una giornata tra le tante.

Colazione, allenamenti. Pranzo, allenamenti. Nella vita scandita da decisioni prese a undici anni di cui non si era mai pentito; non importavano le difficoltà o le distanze dalla famiglia: l’aveva scelto, l’aveva desiderato e costruito.

Genzo si era convinto a poco a poco, giorno dopo giorno e dopo ogni battaglia o ostacolo superato, che nessun intoppo avrebbe mai potuto guastare una giornata delle sue, tanto da rimanere saldamente aggrappato a tale sicurezza con tutta la solidità dell’esperienza accumulata, rendendo le sue spalle più larghe e capienti, che avrebbero potuto sopportare qualsiasi cosa.

Anche di quello si era convinto.

Fino alle cinque del pomeriggio di un normale giorno di novembre di nove anni prima.

Solo allora, Genzo aveva capito che le pessime giornate che arrivavano senza preavviso erano le peggiori di tutte, quelle che riservavano il colpo più duro; l’ultimo fuoco artificiale in chiusura della festa, che non faceva più luce ma solo rumore. Un rumore cupo che batteva dentro al petto.

 

“Stai calmo, Ishizaki. Stiamo parlando del Giappone, mica del Bronx. La polizia è lì, risolveranno tutto. Voi state calmi e nervi saldi.”

 

Di quel giorno, di quell’ora scarsa, Genzo ricordava ogni parola. Le sue, quelle degli altri. Ricordava tutto, conservava ancora i vocali che aveva ricevuto, le conversazioni con Tsubasa, con Ryo, con Hajime e Teppei. Ricordava tutto, tutto. Anche che fosse stata una semplice telefonata alle cinque del pomeriggio a sconvolgere le sue convinzioni.

Lui si trovava ancora nello spogliatoio, aveva scherzato con i compagni e riso a una battuta sconcia di Kaltz. Il cellulare era stato dimenticato dentro al borsone, tanto aveva tutto il tempo di guardarlo una volta arrivato a casa: quando era con i suoi amici e compagni, invece, preferiva dimenticarlo.

Ma il tempo, come le pessime giornate, doveva essersi offeso per una simile leggerezza, si era allora fermato e aveva ricordato a tutti chi fosse a comandare quella vita relativa.

Il mister era entrato con espressione scura e l’aveva raggiunto, tagliando la stanza satura di vapori, gioventù e sudore.

 

“Mi ha appena chiamato l’allenatore Mikami. Ha detto di metterti subito in contatto con lui; sta succedendo qualcosa in Giappone…”

 

Genzo non aveva colto come il tono del mister avesse battuto la marcia funebre. Lo aveva compreso a distanza di tempo, ripensando a quel momento preciso per analizzare il proprio dolore in ogni minimo particolare.

Era stato superficiale, forse, molto sciocco o solo molto, molto ingenuo. Era un ragazzino convinto di essere più adulto degli altri, che si poteva pretendere?

Cosa avrebbe potuto pretendere da sé stesso? Che potesse vedere e comprendere prima della fine come sarebbe terminata quella vicenda?

 

“L’Ispettore… non so quanto sia vero, ma… pare che Yuzo… pare che Yuzo sia ferito.”

 

Nemmeno allora aveva voluto vedere che la giornata fosse ormai in caduta libera ai suoi piedi.

Le pessime giornate, quelle brutte davvero, da volerle solo cancellare dal calendario e dalla propria vita. Quelle da voler dimenticare, ma che sarebbero rimaste dentro più a lungo di tutte, forse per sempre.

Genzo, l’inevitabile non aveva voluto vederlo, perché gli era sembrato troppo fuori da tutto, troppo impossibile, troppo catastrofico. Nelle attese tra una chiamata e l’altra, tra un messaggio e l’altro, tra un vocale e l’altro non aveva fatto altro che ripetersi la stessa frase.

Anche quella era tornata durante il viaggio, per fargli compagnia. Era tornata e aveva portato con sé l’amaro sapore della disillusione.

Il Giappone è sicuro. Un rapinatore qualunque non avrebbe avuto vita facile con la polizia già schierata in forze.

Il Giappone è sicuro. Non era mica l’Europa, accidenti! Non era mica l’America!

Il Giappone è sicuro, sicurissimo.

Se l’era ripetuto andando avanti e indietro sotto gli sguardi silenziosi e preoccupati di Karl ed Hermann.

Il Giappone è sicuro, risolveranno tutto…

…pare che Yuzo sia ferito.

Di nuovo, come allora, quelle due sentenze si accavallarono, cozzarono come onde di correnti avverse, abbattute contro lo stesso scoglio. In sottofondo, le parole di conforto degli amici che cercavano di rassicurare, ma lui non ne aveva avuto bisogno: era già stato sicurissimo. Sicurissimo come sicuro era il Giappone.

…pare che Yuzo sia ferito…

Genzo scalò la marcia con decisione, il piede premuto un po’ di più sull’acceleratore e la Jaguar XJ50 – la prima del parco macchine di famiglia di cui aveva agguantato le chiavi – pareva quasi volare, silenziosa come una folata di vento, lungo la statale che portava a Fuji e alle foreste di cedri adagiate ai piedi della montagna più importante del loro paese.

Aveva pensato che gliene avrebbe dovute dire tante, a Yuzo, appena quella storia fosse finita. Ricordò anche quello, e ricordò il sorriso teso di Karl e come Kaltz cambiasse lo stecchino dopo che la tensione gli aveva fatto spezzare quello che stava masticando. L’amico aveva cercato di rabbonirlo, mentre lui aveva ripetuto che avrebbe rimproverato uno dei suoi amici più vecchi e più cari come non aveva mai fatto da che si conoscevano. Quei suoi slanci da supereroe che in campo usava sempre troppo poco. Chissà che aveva combinato, aveva detto, chissà che si era messo in testa. Ne avrebbe dette quattro anche a Mamoru.

Genzo aveva fatto di tutto per non focalizzarsi sui mille significati che la parola ‘ferito’ portava con sé.

 

“Che… che significa ‘lo abbiamo perso’? Che stai dicendo, Nishimoto?... Che significa?! Che stai dicendo?!”

 

Le pessime giornate, Genzo aveva imparato, potevano essere quelle che distruggevano ogni certezza cementificata negli anni della propria vita, in quella dei propri genitori, nelle tradizioni millenarie, nella facciata di una civiltà pacifica e sicura, nella protezione di una ricchezza che avrebbe potuto comprare qualsiasi cosa, ma che in quel pomeriggio di novembre, dal cielo opaco e un sole pallido, gli aveva insegnato che, per quanto larghe fossero divenute le sue spalle, non lo sarebbero mai state abbastanza.

Era una lezione dura per un ragazzo così giovane, la più dura di tutte.

Non importava quanto lontano da casa si fosse trasferito, quante esperienze nella vita avesse fatto: si era trovato davanti a una porta che non era riuscito a spalancare né a sfondare senza accorgersi che non c’erano effettivamente maniglie né serrature. Una porta che non si poteva aprire né superare. Un limite da accettare così com’era, davanti al quale smettere di smaniare ed essere arrogante, ma lasciarsi andare come il braccio che aveva fatto ricadere e il telefono che, con ancora la comunicazione aperta, aveva toccato terra in un tonfo secco che l’aveva spento. Morto.

Come era morto Yuzo.

Allora aveva pianto l’anima, immobile in mezzo alla stanza, incapace di raccattare la fragilità di quei ventun anni che gli era caduta dagli occhi e dal cuore per raccogliersi ai piedi di un portone che non esisteva per essere aperto, ma per costringere a fermarsi e ad accettare che la vita, a volte, aveva regole che non ammettevano eccezioni.

 

Quando Genzo tolse la chiave dal quadro di comando, gli sudavano le mani.

La sua era stata una decisione che non aveva potuto rimandare ancora. Gli eventi e gli impegni lo avevano costretto a farlo fino a quel momento, e quando si era trovato l’occasione giusta tra le mani, l’aveva afferrata al volo. Sentiva di doverlo a Yuzo e a sé stesso. Ma ciò non gli evitava di avvertire la tensione fin dentro ai palmi, che strofinò tra loro per togliere quel fastidioso effetto sudaticcio.

Alzò lo sguardo oltre il volante, il Mori no Kokoro era a pochi passi, e il valore di un uomo non si misurava in quanto tempo restasse seduto nell’abitacolo a farsi passare la strizza di conoscere, finalmente di persona, il fratello di Yuzo.

Con uno sbuffo, Genzo scese dalla Jaguar e si calcò meglio il berretto sulla testa. L’afa di agosto gli fece rimpiangere l’abbraccio della condizionata, poi si incamminò a passo spedito verso il locale. Non aveva chiaro cosa avrebbe detto, come si sarebbe presentato anche se, dopotutto, si erano conosciuti già tramite videochiamata, ma era stato un paio d’anni prima e dal vivo era tutta un’altra cosa. Vederlo prima in foto e poi via WhatsApp aveva avuto un forte impatto, e non sapeva cosa avrebbe provato o pensato una volta che se lo fosse trovato davanti in carne e ossa, quale reazione avrebbe avuto. Nella sua testa, mentre percorreva quell’ultima breve distanza, ripensava solo all’unico rimpianto che aveva, un desiderio che sembrava microscopico, ma che si era tenuto dentro per tutto quel tempo e che sapeva sarebbe stato irrealizzabile per il resto della sua vita.

«Ehi! Dove scappi su quelle gambine da ranocchio?»

Genzo si fermò a pochi passi, attirato da una voce familiare che era tuonata in un misto di forza e presa in giro. Nello stesso istante, un bambino corse fuori dalle porte aperte del locale, ridendo a crepapelle.

«Ohi! Yuzo! Vuoi proprio che te le suoni a passo di valzer?!»

Anche un ragazzo uscì dal Kokoro, padrone d’un sorriso storto che gli piegava le labbra. Familiari, anch’esse, come la voce e le linee del volto, il colore degli occhi. Forse l’espressione era diversa, forse il taglio di capelli, ma tutto il resto non lo avrebbe mai potuto confondere.

«Vieni subito qui, che con quel pannolino sembri una polpetta! Una polpetta!»

«Noooo!»

«Invece dico di sì. E sai cosa faccio alle polpette… me le mangio! Waaaaaah!»

Il bambino esplose in una risata acuta, passò tra le gambe del ragazzo, che finse di non riuscire ad afferrarlo, e rientrò nel locale nel locale. «Fila dalla mamma, nano!» disse il giovane, in un finto tono minaccioso, poi sospirò: mani ai fianchi, sguardo al cielo limpido sopra le loro teste e sul far avanzato del tramonto. «Guarda te se devo mettermi a rincorrere un cagotto del demonio. Che fine ingloriosa per te, Malerba. Sai Tasho le risate che si farebbe? E quel nanetto diventa sempre la copia più sputata di sua madre! Poveri noi!»

«Che stai borbottando, Shuzo?!» gridò qualcuno dall’interno.

«Niente, Spydey! Ma che cazzo di udito c’hai?!»

«Io sento sempre tutto!»

«Sì, e ascolta pure stoca-… pperò, salve!»

Genzo si riscosse nel momento in cui il ragazzo si accorse di lui.

«Bella serata, eh? Non ci faccia caso, siamo anche normali.»

Ma nel momento in cui fece per rientrare, si fermò, con ancora la mano appoggiata contro lo stipite della porta. Tornò indietro di un passo e lo guardò.

Solo allora, Genzo riuscì a osservarlo bene, quando furono faccia a faccia e l’orecchino che oscillava al lobo quasi non si vedeva; neppure i tatuaggi sulla mano che sollevò verso di lui si vedevano bene, una volta cambiata la prospettiva, neppure i tatuaggi sulle braccia che sparivano sotto maniche di t-shirt arrotolate quasi fin sulle spalle. Spariva tutto, restavano gli occhi nocciola, la forma del viso dolce sulle mascelle, la linea del naso dritta che aveva sempre reso particolare il suo profilo.

No. Non il suo, si corresse.

Quello di Yuzo.

E quel ragazzo non era lui, anche se la natura gli diceva quanto fossero uguali e quanto, anche nella smorfia che gli storceva le labbra ci fosse dell’uno e dell’altro.

«Ehi, aspetta… ma tu…»

Quanto si potessero confondere, l’uno nell’altro.

«…tu sei…»

Quanto, anche solo per una volta, potesse scambiare l’uno per l’altro.

«…il ragazzone dalla Germania! Wakaba-weoh

Genzo gli si proiettò addosso con così tanta foga da farlo arretrare di alcuni passi; gli ultimi tre/quattro li aveva divorati come si divorava un boccone sgradito e allora bisognava toglierselo da davanti in fretta, ingollarlo con tutta la forza di volontà e l’acqua che si aveva disposizione.

Buttare giù l’amaro, per riuscire a prendersi il dolce dell’unico rimpianto che avrebbe finalmente trovato pace.

Forse era poco giapponese da parte essere così plateale. Magari sarebbe sembrato invadente; si poteva dire che non si conoscessero neppure. E invece, sotto quella stretta disperata con cui lo stava abbracciando, sentì il fratello di Yuzo rilassarsi e ricambiare, dandogli una leggera pacca d’incoraggiamento.

La concessione di realizzare quell’ultimo desiderio, di comprenderlo e anche se non sarebbe valso a niente, Genzo vi racchiuse tutto ciò che non era mai riuscito a dire a Yuzo: la sua gratitudine, il suo rispetto e il suo addio.

L’ultimo abbraccio a qualcuno che era andato via da anni, nella speranza che potesse raggiungerlo in qualche modo attraverso suo fratello. Attraverso Shuzo.

«Benvenuto al Mori no Kokoro, Wakabayashi Genzo.»

 

«Avresti potuto chiamare per avvisare! Ti avrei fatto trovare la cena pronta. Una bella cenetta giapponese, per disintossicarti da salsicce e crauti.»

Kumi aveva le braccia incrociate sul pancione del suo futuro secondogenito che continuava a chiamare ‘Baco’.

Genzo, seduto al tavolino, scosse il capo. Davanti aveva una bottiglia di birra già bevuta a metà e degli stuzzichini con cui accompagnarla tra gyoza e dolcetti che erano stati preparati quel giorno.

«È stato deciso tutto all’ultimo momento, non preoccuparti, non mi fermerò molto. E poi non mangio mica solo salsicce in Germania. Seguo una dieta precisa.» Le lanciò un’occhiata eloquente che fece arrossire l’amica fino alla punta delle orecchie.

«Mi stai dicendo che sono grassa?! Wakabayashi! Sono incinta! Questa roba andrà via!»

«Io te l’avevo detto di andarci piano con la cioccolata, Spydey…»

«E tu sta’ zitto!» Kumi mollò uno scappellotto a Shuzo che era piegato sul tavolino a ridere.

Genzo li osservava, rideva anche lui.

Dopo l’abbraccio, durato neppure sapeva quanto, aveva cercato di recuperare una certa compostezza; quella solita, a tratti un po’ burbera e che, anche se involontariamente, lo poneva in una posizione di vantaggio. Era sempre stato lui che sfotteva e che manteneva la calma, il sangue freddo. In quei pochi minuti se n’era dimenticato del tutto. Era stato un momento che aveva atteso per molto tempo e che non sarebbe tornato più. Aveva dovuto afferrarlo perché sarebbe stata l’ultima volta e dopo… dopo tutto sarebbe scorso senza più rimpianti.

Kumi l’aveva accolto a braccia aperte e pancione, il piccolo Yuzo l’aveva guardato con diffidenza e si era nascosto dietro le gambe del papà, Shuzo l’aveva fatto accomodare offrendogli una birra bella fredda e qualcosa con cui accompagnarla. Era arrivato giusto in tempo per la chiusura.

«Quando in un’altra vita rinascerete femmine, e sarete incinte, allora sì che ne potremo riparlare! Cafoni!»

Genzo sorseggiava la birra e si sentiva a suo agio. Ci si era sentito fin da subito e non solo perché era in Giappone e conoscesse già Kumi, ma proprio con Shuzo. Si era sentito tranquillo nell’averlo davanti con quel viso che ingannava con facilità, al primo impatto, e dopo, quando ti prendevi il tempo per osservarlo meglio, ti svelava ogni differenza che non avevi notato al primo sguardo.

Quella delle espressioni, prima di tutto, a partire dal sopracciglio inarcato e il sorriso obliquo, sempre storto, per il novantanove per cento delle sue smorfie. Seguivano i capelli, che di quelli di Yuzo avevano conservato solo il colore, mentre il taglio seguiva un mohawk disordinato. E poi il naso, un po’ più dritto di quello di Yuzo; le labbra un po’ meno piene. Forse. Forse cercava di trovarle per forza, forse erano meno visibili di quanto credesse. Le differenze che convincevano che quello che aveva di fronte non era Yuzo. Le differenze che rassicuravano.

I tatuaggi erano un grande aiuto, perché erano così tanti e visibili: dalle dita, lungo le braccia, fino alle spalle e a lambire il collo. E poi c’erano i modi di parlare, di ridere, di gesticolare. Di accendersi una sigaretta con disinvoltura e fumare come se lo si fosse sempre fatto. Di sicuro per Shuzo era davvero così, mentre non aveva mai visto Yuzo anche solo reggerne una.

Le differenze.

Quelle che segnavano i confini di due fratelli gemelli.

Nonostante fossero labili come il fumo della sigaretta che volò sopra le loro teste, nonostante lui con quel ragazzo ci avesse parlato solo una volta in videochiamata, Genzo si sentiva a suo agio, si godeva il momento, rideva.

«Manca ancora molto alla nascita?» domandò, prima di prendere un nuovo sorso di birra; Asahi e limone, faceva così estate.

«Un paio di mesetti.» Kumi disegnò un gesto circolare sulla sommità della pancia, guardandola con amore. «E avremo un nuovo Bachino a sgambettare in giro.»

«Sapete già il sesso?»

«Maschio», gongolò Tobi. Shuzo sospirò.

«Mi toccherà lavorare il doppio per non farlo venire su come te.»

«Che spiritoso.»

Yuzo abbracciò più stretto le gambe della mamma e guardò severo verso di lui. «È mio fratellino!» mise in chiaro.

Genzo sollevò le mani. «Questo è certo, piccolo.»

«È mio!»

«Stai tranquillo, polpetta, lo zio Genzo non vuole certo portartelo via.»

«Chicchan è mio e di mamma!»

«E di papà?» Tobi si indicò, Yuzo sollevò le spalle.

«No.»

«Ma come?!»

Risero, mentre Tobi prendeva in braccio il recalcitrante figlioletto che squittiva e cercava di liberarsi come un indemoniato.

«E tu, invece, quando ne metterai uno in cantiere?» Kumi lo insinuò con sorriso furbo e sguardo sottile. Le sopracciglia sollevate in fretta.

«Sto bene così, al momento. Non ho tutta questa fretta, e poi c’è tempo, ho solo trent’anni.»

«Trentuno.»

«Che è parente di trenta.»

Genzo annaffiò l’imbarazzo con l’ennesimo sorso di birra, ma la ragazza continuava ad annuire con fare malizioso.

«Vedi di non rimandare in eterno. Potrai essere il SGGK, ma saresti sempre un nonnetto! Non avrai più il fisico per stare dietro a un marmocchio. Ascolta la voce dell’esperienza.»

«Mi appunterò il consiglio, Kumi, grazie.»

La ragazza gli abbassò la visiera del cappellino sul naso per dispetto, continuarono a ridere e quell’ambiente rilassato, che aveva non solo gli odori di casa, ma le stesse sonorità nella lingua, gli disse che aveva fatto bene a seguire l’istinto, aver preso il biglietto e aver volato fin lì.

La parola ‘casa’, per lui, aveva assunto sfumature nettamente diverse le une dalle altre con il tempo.

Casa erano una lingua dura e una più musicale.

Casa era odore di birra e di tè.

Casa erano salsicce e gyoza.

Casa erano la Germania e il Giappone, e lui sapeva di potersi sentire accolto in due posti così differenti l’uno dall’altro; era una gran fortuna, quando sapeva che c’era gente, al mondo, che non era in grado di trovare casa in nessun luogo. Su quel pensiero, lo sguardo si spostò per un attimo su Mori. Conosceva un po’ della sua storia tramite gli amici; Hajime e Teppei avevano parlato molto con Mamoru e lui si era fatto raccontare qualcosa per capire che persona fosse il fratello di Yuzo. Capire perché proprio lui avesse mentito per tutto questo tempo, e come avesse fatto a essere tanto bravo da non far sospettare niente a nessuno.

Cercare di conoscere Shuzo Mori… per riuscire a capire chi fosse stato davvero Yuzo Morisaki.

«Allora noi torniamo a casa, siamo a cena dai miei genitori», spiegò Kumi con un po’ di dispiacere. «Ma non far passare altri anni prima di farti vedere? Quando riparti? Organizziamo una cena qui, scordati di rifiutare! E vediamo se anche gli altri sono liberi. Rimpatriata!» esclamò in fine, alzando le braccia al cielo.

«Wakabayashi, dici di sì, tanto l’organizza lo stesso.»

Mori si beccò l’ennesimo scappellotto.

Poi furono saluti e abbracci, con la promessa di tenersi in contatto per quei giorni. Infine, al Mori no Kokoro rimasero solo loro due, che era un po’ quello che Genzo aveva sperato fin dall’inizio: poter scambiare due parole in privato.

Shuzo richiuse la porta, senza girare la chiave, ma aveva il cartello ruotato su ‘CHIUSO’. Tornò a sedersi, tirò un’ultima boccata dal mozzicone prima di spegnerlo. Della birra era rimasto solo il fondo.

«Te l’avevo detto che siamo anche normali», scherzò.

«Sono abituato ai modi di Kumi.»

L’altro sorrise e lui si sporse sul tavolo, assumendo una posizione più composta. Le mani intrecciate sulla superficie liscia.

«Mi spiace se prima sono stato, come dire…»

«Lascia stare. Sono troppo terra terra per formalizzarmi.»

«È che… non è per giustificarmi, ma vi somigliate così tanto…»

Mori aveva l’espressione di chi se l’era sentito ripetere mille volte, ma non appariva seccato. Continuava a sorridere, e a tenere i denti a ridosso delle labbra. Yuzo, invece, anche se lui era partito presto per la Germania e non si vedevano così assiduamente, nei suoi ricordi non era mai stato avaro di sorrisi aperti, solari. Snudavano i denti, ti facevano capire quanto fosse felice.

D’improvviso, nel ripensarci e nell’immagine dell’amico che gli esplose davanti agli occhi in uno dei momenti trascorsi insieme, si domandò se lo fosse stato davvero, dopotutto.

«Guarda che lo capisco. Rilassati.»

Genzo vuotò quello che era rimasto della birra e Shuzo gli fece cenno per chiedergli se ne volesse dell’altra. Rifiutò, avrebbe dovuto guidare, non era andato con l’idea di bere. Tolse il cappellino, passandosi una mano nei capelli corti. Appese il berretto all’angolo della sedia.

«Ci eravamo visti l’ultima volta in videochiamata, un paio di settimane prima. Yuzo mi aveva chiesto dei consigli calcistici. Era sempre un piacere poterlo aiutare, sapevo che avrebbe imparato in fretta e avrebbe fatto tesoro di ogni cosa gli avessi detto. Di persona non ci vedevamo da svariati mesi.»

Negli anni era capitato spesso che ricordasse Yuzo assieme agli amici; ogni volta che si vedevano finivano col rivangare qualcosa del passato, qualche aneddoto. Ryo era quello che li ricordava meglio di tutti. Ma parlarne con suo fratello, ora, la sentiva una necessità. Era confrontarsi con l’altra faccia della luna, quella tenuta nascosta. Forse si aspettava di riscoprire una persona diversa dalle sue parole o solo la speranza che potesse confermarle, e confermare che la persona che lui aveva conosciuto e a cui aveva voluto bene fosse stata davvero così come ce l’aveva impressa nella memoria e non solo una facciata.

«Ascoltava sempre quello che dicevi. Eri il suo mito, l’esempio da seguire.» Mori si rilassò contro lo schienale della sedia, un braccio poggiato sulla sommità in una postura disordinata. Giocherellava con la bottiglia vuota. «C’è stato un periodo in cui t’ho odiato come la merda.»

Genzo sgranò gli occhi davanti al sogghigno di Shuzo.

«Yuzo parlava sempre di te! Wakabayashi qua, Wakabayashi là. Ha fatto questo, mi ha insegnato quello. Cazzo ero geloso marcio! Ero io suo fratello, mica tu! Ma lui parlava di te come se lo fossi stato e odiavo che potessi essere un esempio per lui, mentre io no. La mia sola consolazione era sapere che fossi in Germania», concluse in un’alzata di spalle.

«Anche per me Yuzo era come un fratello, e conta che ne ho tre più grandi, ma lui… lui era un ipotetico fratello minore.» Genzo liberò un profondo respiro carico di amarezza. «Sono arrabbiato che non mi abbia mai detto niente, che si sia tenuto tutto dentro. Io non volevo essere solo un esempio calcistico; eravamo amici. Parlavamo di un sacco di altre cose, dello studio, del vivere fuori casa, della famiglia. E lui… mi ha mentito ogni volta con facilità.»

«Che ti abbia mentito è innegabile, ma credimi non era facile. Non lo era mai, per quanto fosse abituato a farlo.»

«Ma non aveva bisogno di mentire! Eravamo suoi amici! Non sarebbe cambiato niente!» Genzo si tirò indietro dopo essersi lasciato prendere dalla foga. Con gli altri aveva sempre mantenuto la calma, le volte che affrontavano l’argomento, portatore di un atteggiamento che avrebbe potuto sembrare distaccato, ma che non faceva che rimuginare su ogni ricordo. Col ragazzo che aveva di fronte poteva finalmente concedersi di far emergere quella frustrazione che solo con i suoi amici più stretti come Hermann e Karl si era lasciato sfuggire. Mori era l’unico che avrebbe potuto dargli delle spiegazioni, che avrebbe potuto ribattere punto su punto. L’unico che avrebbe potuto metterlo in pace con sé stesso e col ricordo di Yuzo.

Guardò fuori della vetrata che affacciava sulla strada. Qualche macchina passava adagio e poi si faceva di nuovo il silenzio.

«Così come non era facile mentire,» proseguì Mori, «non lo era neppure dirvi la verità. Da una parte perché ero io che non volevo, l’avrebbe messo in una posizione scomoda, creato problemi. Era un ragazzino, non doveva caricarsi anche dei miei guai, bastavano le tensioni in famiglia. Dall’altro… penso non sapesse più neppure lui da dove cominciare, arrivato a un certo punto. Ma avrebbe sempre voluto farlo, questo sì. Non aspettava altro che il momento in cui avrebbe potuto dirvi la verità.» Anche Shuzo guardò fuori della vetrata, Genzo ne seguì il profilo con la coda dell’occhio. «Non c’è stato il tempo però.»

«Mi fa arrabbiare non poterlo rimproverare, adesso. Sarebbe stata la prima volta, pensa.» Scosse il capo, ma il vero problema venne fuori in un nuovo sospiro: «Non mi ero accorto di niente.»

Che razza di amico era stato? Proprio lui, che era sempre attento a tutto, si era lasciato ingannare senza neppure accorgersi che qualcosa non andava.

«Non sentirti in colpa, è stato così per tutti.»

Nessun conforto sapeva dargli sollievo e continuava ad avvertire un senso di responsabilità: era stato disattento verso un amico che aveva considerato come un fratello minore. Magari, se fosse stato più presente...

Tornò a scrutare oltre le vetrate, sperando di scorgere, nel sopraggiungere della sera, anche quelle risposte ai ‘se’ nascosti nell’ombra.

«Avrei voluto la possibilità di salutarlo come si deve.»

«Anch’io.»

Ancora di profilo, Shuzo aveva stretto leggermente gli occhi. Genzo si domandò se anche lui stesse cercando ancora delle risposte che lo mettessero in pace, ma il sorriso malinconico che gli vide affiorare all’angolo della bocca gli sussurrò che forse doveva averle già trovate, e non doveva essere stato facile. Genzo ricordò un po’ di ciò che i ragazzi gli avevano raccontato, del fatto che gli fosse stato impedito di essere al funerale. Una punizione terribile per chiunque, ma anche quella pareva essere stata superata, e quel sorriso, che di profilo non sembrava così storto, gli ricordò quello di Yuzo.

Sorrise, si sentì rincuorato per qualcosa che non seppe identificare, ma che gli fece rilassare le spalle.

«E tu, invece, come ti trovi qui? So che prima vivevi a Shizuoka.»

«Sarebbe più corretto dire che prima vivevo in galera. Però, sì, prima ancora c’è stata Shizuoka.»

«Obuchi è decisamente più piccola.»

«Sì, ma è molto tranquilla. L’aria è buona, la vista fantastica e le persone ficcanaso abbastanza da non annoiarsi.»

«Spero che i ragazzi non ti stiano troppo addosso.»

«Nah! Ishizaki la prima volta ha cercato di insegnarmi le regole del calcio. Ci ha riprovato anche due settimane fa. Credo non si arrenderà tanto facilmente, ma Mamoru mi ha dato il permesso di defenestrarlo, quindi… Aspetto il momento giusto.» Mori agitò la mano con noncuranza; lui rise.

«Me lo hanno raccontato. Siamo un po’ dei fissati, è vero. E non hai ancora conosciuto Tsubasa. Se ti propone di tirare due calci a un pallone, di’ di no! Dai due tiri alla rovesciata è un attimo.»

«Me ne ricorderò.» Shuzo inarcò un sopracciglio. «Ma sei sicuro di non volerti fermare a cena? Ai fornelli me la cavo bene e sono anche più veloce di Kumi.»

«Sicuro. Anzi, meglio se vado ora. Ti ringrazio, Mori-»

«Avevo detto di non esser tipo da formalismi, men che meno con gli amici di mio fratello. Chiamami Shuzo.»

Il divario, tra loro, che fin dall’inizio aveva percepito breve e superabile, si assottigliò ancora di più.

«E tu chiamami Genzo.»

«Non vuoi neppure fare un salto alle grandi serre? Mamoru vorrebbe di certo salutarti. In questi giorni è impegnato con la vendemmia, quindi ha orari un po’ sballati.»

Lui fece cenno con la mano e scosse la testa. Entrambi si alzarono per avviarsi all’uscita. Genzo stiracchiò le braccia e avvertì uno schiocco non doloroso nella spalla; era irrigidito a causa del viaggio. Recuperò il cappellino, ma non lo indossò, scegliendo di rigirarlo tra le mani. Fuori il fatto che il sole fosse tramontato non bastò a far rinfrescare l’aria, calda e satura di un’umidità che si appiccicava addosso. Nemmeno la presenza del Fuji, così vicino, o delle foreste da un lato e del mare dall’altro parve creare una lieve corrente.

«Non mi va di disturbarlo, avrà di certo un sacco da fare. Tanto ci vedremo comunque prima ch’io riparta, Kumi è stata categorica. E in fondo… ero venuto per scambiare qualche parola con te.» D’un tratto non trattenne uno sbadiglio che gli fece addirittura lacrimare gli occhi. Scosse il capo, cercando di darsi una svegliata. «Scusa. Sono in viaggio da due giorni interi. Il tempo di arrivare a Nankatsu e ho preso la prima auto a disposizione per venire qui. Inizio a sentire la stanchezza del volo.»

«Che ne dici se ti faccio un caffè prima di-…» Shuzo si fermò che erano a pochi passi dalla Jaguar. La guardò da sopra lenti immaginarie, mentre incrociava lentamente le braccia. «Hai preso la prima auto a disposizione, uh? E se ti fossi messo a scegliere con cosa saresti venuto, una Ferrari?!»

Genzo sbottò a ridere e indossò il berretto. L’abitudine al parco auto di suo padre a volte gli faceva dimenticare che non fosse cosa comune per tutti.

«Aaah, Jaguar. Ne ho rubate varie di queste a Shizuoka e dintorni. Bei tempi. Le portavo a un garage dei nostri dove le smantellavano e rivendevano i pezzi al mercato nero. Ci ho portato anche Yuzo, in varie occasioni, tanto che aveva fatto amicizia con uno dei meccanici.» Genzo si accorse di come cambiasse espressione. Era questa l’altra faccia della luna che aveva cercato venendo a parlare con Shuzo. «Stava addirittura imparando a smontarle.»

Lui non riuscì a immaginare quel ragazzo così gentile e sorridente, sempre troppo buono e accondiscendente con tutti, che si muoveva a suo agio in mezzo ai membri di una gang. Ma gli bastò tornare a fissare il profilo del giovane che restava fermo al suo fianco per rendersi conto di quanto, invece, fosse facile. Genzo poteva vedere Shuzo, e Shuzo era uguale a Yuzo.

«Questo era il massimo dell’esempio che avrei potuto essere per lui. Tu avresti vinto a prescindere a mani basse, non potevo proprio competere.»

«Avrei preferito mille volte essere un amico più attento che un buon esempio.»

Si guardarono. Genzo provò di nuovo l’illusione di stare parlando con la persona sbagliata e la speranza che Yuzo potesse ascoltare anche quello. Pensò di averne conferma quando Mori sorrise; una smorfia che non era più storta o ironica, ma contenta della risposta che gli aveva dato. Quasi rassicurata. E quell’espressione lo fece assomigliare a Yuzo ancora di più. Poi, tornò a essere il ‘gemello che era uguale ma non lo stesso’ quando assottigliò lo sguardo.

«E, dimmi, la sai guidare?»

«Ci sono venuto fin qui...»

«No. Io intendo se la sai guidare.» Shuzo sottolineò il verbo con particolare verve. «È una XJ, uh? Fa i duecentocinquanta, se non sbaglio.»

Lui si grattò un sopracciglio. Non era un gran patito di macchine, era sempre stato abituato o ad avere l’autista quando era più piccolo, o a essere scorrazzato in giro dal vecchio Mikami. I primi tempi, in Germania, usava i mezzi pubblici e si era comprato la prima auto intorno ai venticinque anni: un SUV compatto che gli permettesse non solo di avere abbastanza spazio per caricarsi i suoi compagni di squadra, ma anche di riuscire a parcheggiare a Monaco senza diventare matto nel giro di un secondo.

«Mi sembra, sì. Non l’ho mai tirata fino alla fine.»

«Maddai», cantilenò l’altro. «È uno spreco agli dèi avere una macchina così e non farla andare su di giri ogni tanto. Gliel’ho detto anche a Mamoru. Se non lo sgaso io quel povero CHR

«Per caso… ti andrebbe di farci un giro?»

Genzo l’aveva capito da come l’aveva guardata che la risposta sarebbe stata affermativa, e lui era curioso di vedere all’opera questo misterioso fratello che era stato in carcere e che rispondeva a un curioso nomignolo. Malerba.

«E avere l’occasione di essere io quello che, per una volta, insegna qualcosa al mito di mio fratello?» gli occhi nocciola di Shuzo si illuminarono di sfida. «Cazzo, e quando mi ricapita?! Certo!»

In fretta tornò sui loro passi, chiuse a chiave la porta del negozio, spegnendo le luci e calando la serranda. Quando gli fu abbastanza vicino, Genzo gli lanciò le chiavi che il giovane prese al volo.

L’antifurto scattò con un ‘bip’ e loro presero posto, lasciando fuori dall’abitacolo l’afa e le zanzare di agosto.

Genzo osservò Shuzo prendere subito confidenza con la plancia, i pedali e gli specchietti. L’aria di chi sapesse già dove mettere le mani su un’auto come quella.

«Sempre più tecnologici i modelli nuovi.»

«Ormai li fanno tutti con il parcheggio assistito e i sensori.»

«Roba da fighette,» decretò e poi mise in moto. Fece ruggire il V6 sotto al cofano fregandosene di spezzare la quiete serale del quartiere. «Allaccia bene la cintura.»

«È già a posto.»

«Okay, uhm… Genzo, è bene che però ti avvisi di una cosa.» Shuzo gli rivolse un sorriso colpevole che non capì.

«E sarebbe?»

«Lo dissi anche a Matsuda la volta che mi smollò le chiavi della sua macchina…» Finalmente, la smorfia si tese al tal punto da snudare i denti che aveva tenuto a ridosso delle labbra fino a quel momento. E quella mezzaluna non era un sorriso, ma una tagliola che balenò nella sera. «A darmi fiducia così in fretta, si fa peccato.»

 

Mamoru si era ricordato dell’esistenza di un mondo, al di fuori delle grandi serre, solo quando aveva richiuso il cancello dei possedimenti alle spalle del SUV. Quando si trattava della vendemmia praticamente smetteva di avere degli orari e trascorreva il tempo al vigneto assieme ad Hamoto e ai suoi ragazzi. Quella sera, come le altre, aveva ritardato perché erano rimasti a organizzare il lavoro per il giorno successivo. C’erano anche dei torchi da cambiare e avevano perso tempo a parlarne.

Quando aveva distolto lo sguardo dallo specchietto retrovisore, appena i cancelli si furono chiusi, e aveva guardato avanti, si era reso conto che era ormai buio. Erano le 20.30 passate, non aveva avvisato Shuzo e non aveva neppure controllato se il ragazzo l’avesse cercato.

Imprecando, aveva recuperato il telefono e solo allora aveva scoperto che Genzo si era presentato al Kokoro. L’imprecazione era stata doppia.

E perché non l’aveva avvisato, quello stupido d’un portiere nippocrucco?! Sarebbe venuto via dalle serre per tempo, permettendo anche al povero signor Hamoto e ai suoi di tornare a casa a orari decenti. Era davvero da parecchio che non si vedevano, e gli avrebbe fatto piacere poter scambiare due chiacchiere, sapere come si era evoluta la sua vita in Germania e se stesse davvero pensando di prendere il passaporto tedesco per giocare con la loro nazionale. Era una notizia che aveva iniziato a serpeggiare da un po’, a metà tra il reale e il pettegolezzo. Sarebbe stato un duro colpo per la nazionale giapponese, ma dopotutto, era anche arrivato il momento che iniziassero a cavarsela da soli. Da che lui aveva memoria, avevano sempre fatto troppo affidamento su Genzo, riposto in lui aspettative enormi e il portiere aveva il diritto di poter decidere se vestire una maglia con una differente bandiera: tanto era ormai chiaro per chiunque che la Germania non fosse solo un ‘luogo di lavoro’ per Genzo e così come aveva donato buona parte della propria abilità a rendere fortissima la nazionale giapponese, era giusto che ne donasse un po’ anche a quella tedesca. Almeno, lui non ci vedeva nulla di male, quanto di onesto; né che fosse un traditore o mercenario, come purtroppo avevano iniziato a definirlo su alcuni giornali sportivi e di gossip. Più passavano gli anni e più difficile diveniva la posizione in quello sport.

Scegliere di mollare tutto per cambiare vita forse non era poi stata un’idea così folle.

Mamoru parcheggiò all’interno del solito vicolo, su cui affacciava l’ingresso secondario del Kokoro.

Il tempo di scendere e inserire l’antifurto al SUV, che un rombo di motore arrivò sparato a tutta velocità, facendogli stringere gli occhi per il frastuono. L’inchiodata, poi, fu brusca, seguita dal leggero slittare delle gomme sull’asfalto.

Lui emerse di corsa dal vicoletto, per vedere chi diavolo andasse in giro a fare tutto quel casino, quando da una elegante Jaguar di colore scuro scesero Shuzo e Genzo.

Shuzo, nemmeno a dirlo, emerse dal lato guida.

Parlavano a voce alta, invasati, con Malerba che gesticolava animatamente.

«Ma la lavorazione è tutta diversa, uno non può solo dire ‘la carne di Kobe è migliore di qualsiasi altra’

«È esattamente quello che dico io!» accordò Genzo con la stessa foga. «Non si può mettere a paragone un bratwurst e un filetto! A parte che sono carni diverse, ma poi perché si deve ricercare a tutti i costi il piatto migliore o la cucina migliore?»

«Ma che stronzata! Non esiste una cucina migliore! Basta che si mangia!»

«Oh! Qualcuno che ragiona!» Genzo alzò le braccia al cielo. «A volte l’eccesso di nazionalismo mi fa incazzare!»

«È come con la birra.»

«Non me ne parlare, per carità! Quando dico che l’Asahi potrebbe avere un buon confronto con quelle tedesche, apriti il cielo!»

Shuzo agitava l’indice e annuiva, dandogli ragione. «Che poi, se uno non sa abbinarla al piatto che sta mangiando… di che parla?»

«Dell’aria fritta!»

«È alcool, porcomondo! L’alcool va bene su tutto!»

Genzo rise, mollò a Malerba una sonora pacca sulla spalla.

In tutto questo, Mamoru era rimasto a guardarli a braccia conserte e sopracciglio inarcato. Stupito dalla confusione che stavano facendo e dalla confidenza che sembravano aver raggiunto, e contento allo stesso modo. Sembrava quasi che si conoscessero da tempo e, osservandoli di schiena mentre camminavano fianco a fianco, aveva avuto un déjà-vu che gli aveva punto il cuore con malinconia.

«Sembrate due vecchie zitelle.»

Genzo e Shuzo si volsero insieme e solo allora si accorsero di lui.

«Ehi!» Malerba s’aprì in un sorriso raggiante quando lo vide. «Allora sei risorto dalle grandi serre! Se non ti avessi trovato al mio rientro avrei iniziato a preoccuparmi.»

«Dove siete stati, voi due?» domandò avvicinandosi e scoccando un’occhiata di rimprovero a Genzo. «Ti pesavano tanto le dita a mandarmi un messaggio del cazzo, Capitano? Temevo che non sarei riuscito neppure a salutarti.»

«Ah, per quello non devi temere: Kumi ha già provveduto a mettere in chiaro che avremmo tenuto una cena tutti insieme.»

Quando fu abbastanza vicino, Mamoru scambiò una stretta di mano e un abbraccio con il suo vecchio amico d’infanzia, scuola e squadra. E non importava il tempo che sarebbe trascorso o il fatto che non fosse più un calciatore, Genzo sarebbe sempre rimasto ‘il Capitano’, per lui, quasi fosse una forma di rispetto.

«È bello vederti. Avviene sempre così di rado.»

«Sono un uomo dai mille impegni,» ironizzò il SGGK, «ma come ho potuto, ho colto l’occasione.»

«E tu?» Mamoru spostò lo sguardo su Malerba.

«E io?» Sorrise il giovane con una faccia di bronzo per cui avrebbe voluto menarlo.

«Ti ho visto che scendevi dal lato del guidatore e ho sentito come sei arrivato, tirando la frenata.» Mamoru assottigliò lo sguardo. «Non gli avrai mica fatto prendere una multa?!»

«Nah, ma ti pare?! So benissimo dove sono gli autovelox, ormai! Gli ho solo mostrato di cosa potrebbe essere capace una Jaguarina come quella.»

«Ti prenderei a schiaffi.»

«Non ci riusciresti, gioia.»

«Mi ha anche spiegato come rubarle», s’intromise Genzo con aria compiaciuta.

«La prossima volta glielo faccio vedere!»

«Opperglidèi.» Mamoru si passò una mano sul viso, mentre Malerba sghignazzava. «Cosa cazzo ridi, tu?! Sei la solita figura di merda con le gambe!»

Shuzo rideva ancora e con naturalezza lo agguantò alla vita, attirandolo verso di sé, vicino. Molto vicino.

«Hai mangiato, gioia?»

«No, non ancora.»

«Tranquillo, ci ho pensato io.» Shuzo sollevò il sacchetto che aveva nella mano libera. «Mentre portavo il tuo amico Genzo a fare un giro turistico sul lungomare della malavita, sono passato a prendere yakisoba e kakiage. Non sono perfetto?»

«Sei perfettamente coglione, te lo concedo.»

Shuzo rise, arricciando la sommità del naso. «Ti precedo su, così do una botta di microonde alla cena.» Si prese un innocente bacio a stampo e sciolse l’abbraccio discreto con cui l’aveva tenuto stretto. «Genzo, è stato un piacere», salutò poi, la mano allungata verso il SGGK che la strinse con vigore e il saluto divenne qualcosa di più personale e amico, quando la stretta si concluse con uno scambio di pugno.

«Anche per me.»

«Ci rivediamo per la famosa cena, allora. Buonanotte!»

Mamoru seguì Malerba con lo sguardo fino a che non girò l’angolo del vicoletto di casa. Non riusciva a togliersi quel sorriso pacificatore. Ce l’aveva da che Shuzo era tornato in libertà e a riempire le sue giornate a tempo pieno. Innamorarsi era l’unico processo della vita che, nel bene e nel male, ti rendeva felice d’essere al mondo e lui si sentiva felice come era convinto d’aver rinunciato. Non pensava sarebbe potuto accadere, un giorno; non l’aveva neppure chiesto. Eppure, alla fine, qualcuno che riuscisse a fargli chiudere le porte col passato era arrivato sul serio, aveva travolto tutto, l’aveva fatto incazzare e poi stupire, e temere e gioire. L’aveva fatto sperare, eccitare e ringraziare quello stesso passato per il futuro che gli aveva donato.

Con ancora il sorriso, Mamoru si volse verso Genzo e si sentì colto in fallo: il portiere aveva le braccia conserte, sorrisetto sghembo e mento sollevato.

«Ma come siamo spigliati», insinuò. «Non ci vergogniamo proprio di niente, Izawa?»

«Vergognarmi? Dopo che ho mandato al diavolo la carriera per aprire un bar e un vivaio, ti pare che dovrei vergognarmi di baciare il mio compagno?»

Genzo sciolse ogni sfottò e rilassò spalle ed espressione.

«Hai ragione.»

«Al massimo dovrei vergognarmi di lui e delle figure di merda che mi fa fare di continuo!»

«È uno che parla parecchio, è vero.»

«Per lo più a sproposito.»

Ridacchiarono. Anche la sua storia con Shuzo era divenuta di dominio pubblico tra gli amici, non era un problema, ed era stato felice di sapere che non lo fosse neppure per gli altri. Avevano tutti continuato a presentarsi al florocafè, a organizzare serate e cene e feste di rimpatriata alla prima occasione. Shuzo ormai faceva parte anche di loro.

«Avresti dovuto avvertirmi che saresti venuto.»

«Non sapevo neppure se avessi avuto il coraggio di presentarmi davvero qui. Non avevo idea di cosa avrei trovato.» Genzo prese un profondo respiro. «Parlarci per telefono è diverso che averlo davanti.»

«Ti confonde», convenne Mamoru che per quella fase ci era già passato.

«…però mi piace», Genzo sorrise. «Gli somiglia, e non parlo di una mera questione affettiva. In certi atteggiamenti gli somiglia davvero.» Ridacchiò. «Guida come un folle.»

«Lo hanno scosso troppo da bambino e ha qualche rotella saltata.»

«E dire che io l’avevo capito…»

Mamoru inarcò un sopracciglio. Genzo aveva un’espressione un po’ colpevole.

«Che Yuzo avesse un debole per te. Io l’avevo capito e invece non sono riuscito a capire tante altre cose.»

«Perché non me lo hai mai detto?!»

«Perché non dovevo farlo io. A dire il vero, non ne ho mai parlato neppure con Yuzo, perché quando provavo a sondare il terreno, lui nooooo, non era interessato agli uomini. Ma io ero certo che la verità fosse un’altra…» Genzo rivolse il proprio sorriso rassegnato alle stelle che iniziavano a trapuntare il cielo. «Yuzo era davvero testardo come pochi.»

Fu allora Mamoru a prendere un respiro profondo, con l’intenzione di svuotarsi i polmoni del tutto, tirare fuori le piccole malinconie che tornavano sempre quando si trattava di Yuzo, e che probabilmente non se ne sarebbero andate mai perché non potevano.

«Aveva paura di perdere ciò che ancora gli era rimasto. La sua famiglia agiva di facciata, aveva perduto la possibilità di parlare di suo fratello e vivere sotto lo stesso tetto… penso che temesse di perdere anche noi.»

«E invece siamo stati noi a perdere lui.»

«…ma se ci concentrassimo su quello che abbiamo ricevuto, dopo un po’ potremmo riuscire a mettere da parte l’amarezza.»

Mamoru aveva fatto i conti con sé stesso e ciò che aveva ricevuto, che fosse un progetto lavorativo che adorava o l’amore che non stava cercando, era meraviglioso e gli faceva pensare che tutta quella sofferenza e gli eventi del passato non fossero stati gettati al vento, senza senso. Lui un senso era riuscito a darlo a tutta la sua vita, e adesso poteva dire di essere finalmente felice.

«Quello che abbiamo ricevuto…» fece eco Genzo. Il sorriso divenne sghembo, mentre calcava meglio il cappellino sulla testa. «Mi sembra un buon punto di vista.»

Lui annuì e per qualche istante il silenzio cadde tra loro, ma d’improvviso si riscosse realizzando una cosa che gli era sfuggita tra la sorpresa e la confusione. «Un momento! Ma ti ha almeno invitato a restare, quel cretino?!»

Genzo liberò una sonora risata. «Sì, ma come ho detto anche a lui: appena messo piede a Nankatsu sono venuto qua. Se non mi presento a cena, penso che mia madre mi ucciderà! C’è anche uno dei miei fratelli!»

Così si salutarono, tra pacche sulle spalle e abbracci calorosi. Si sarebbero tenuti in contatto per organizzare la cena e Genzo si offrì di aiutarlo a contattare gli altri, in modo da fare prima.

Mamoru lo osservò mettersi in macchina e andare via, sgommando in maniera criminale. Non riuscì a non nascondere il viso nella mano, convinto che fosse un insegnamento di quella dannata malerba di cui era innamorato.

 

L’autoradio era ancora ferma sulla stazione in cui Shuzo l’aveva lasciato mentre giravano per Fuji City e dintorni. Più zone periferiche, in verità, che s’immergevano tra foreste di cedri dove le torrette della stradale non erano presenti. Shuzo doveva conoscerle bene, ormai, perché gli aveva dato l’aria di sapere esattamente dove fossero collocate.

Passava una canzone di Nina Simone, e si chiese dove potesse correre un peccatore come Mori. Dove avesse mai corso per tutto questo tempo che nessuno di loro l’aveva mai visto e conosciuto. Che fosse al fiume, al mare, da Dio o all’Inferno adesso non era importante, perché era arrivato, e la sua destinazione era Obuchi. La sua destinazione era in mezzo a loro.

Genzo rallentò fino a fermarsi lungo il ciglio della strada poco prima di arrivare a Fuji City. Ripensò alle parole di Mamoru, alla compagnia di Malerba, alle bugie di Yuzo. Ripensò al fatto che non avesse provato alcun disagio, né oppressione a causa della consapevolezza per la morte di un amico caro. Aveva avuto un’immagine completamente diversa di quell’incontro, credeva avrebbe finito per affogare tutto in tristezza e malinconia. E invece nel petto aveva provato la sensazione di aver ritrovato qualcosa che si era creduta persa per sempre.

Qualcosa che non l’avrebbe più fatto sentire preda dei propri errori e disattenzioni, qualcosa che a ogni momento di sconforto l’avrebbe consolato. Il Super Ganbari Goalkeeper pure nella fine aveva lasciato un dono per loro, che avrebbe scacciato l’amarezza dell’addio fino al prossimo ritorno al Mori no Kokoro, dove neppure i ricordi facevano più del male.

Genzo tolse il cappellino e lo lasciò sul sedile del passeggero. Si passò la mano nei capelli corti, spettinandoli assieme ai pensieri.

C’era voluto un giorno solo… ma che diceva? Addirittura poche ore, per scacciare quello che in anni aveva continuato a tornare, nemmeno compisse una lunga rivoluzione su un’orbita fissa.

Era bastata una birra, un giro in macchina, qualche curva presa stretta, dei gyoza, un abbraccio, l’amore nei gesti dei suoi amici. L’amore per i fratelli.

Sorrise.

Genzo staccò il cellulare dal supporto e aprì la cartella di gestione dei file archiviati che comprendeva le tracce audio dei vocali di WhatsApp. Quelle della rapina erano state rinominate e salvate. Le aveva riascoltate spesso e ogni volta era stato un trauma.

Le selezionò tutte. Le cancellò.

Non c’era più bisogno di ricordare il dolore, ma solo il bello che Yuzo aveva lasciato dietro di sé. E dietro c’era qualcosa creduto perso che invece era stato ritrovato.

All on that day.

 

 

 

 

 


 

 

Nota Finale: … <3

Questo incontro era stato programmato all’interno di ‘Malerba’.

Genzo sarebbe dovuto arrivare all’improvviso al Kokoro per conoscere Shuzo, in una fase in cui lui e Mamoru non avevano ancora perfettamente chiari i sentimenti reciproci. Genzo avrebbe dovuto far riflettere Mamoru in quel senso, ecco. Dargli uno sprone.

Solo che al momento in cui avrei dovuto introdurre Genzo… Mamoru aveva già le idee chiarissime XDDDD e allora, parlandone anche con Kara the Counselor (XD), mi sono resa conto che quell’intervento di Genzo… non aveva più alcun senso, diveniva superfluo: e il superfluo – per quanto ci possa piacere – in molti casi va tagliato. Dura lex, sed lex.

Così, il pezzo è stato eliminato dalla scaletta, ma ci tenevo che Genzo e Shuzo si incontrassero dal vivo. Il rapporto tra i SGGK per me è un bellissimo esempio di Broship o BROTP, come preferite, quindi era ovvio che prima o poi avrei finito con l’analizzare la morte di Yuzo anche nell’ottica di Genzo.

L’idea della raccolta mi ha dato modo di inserire questa cosetta :3 

 

 

PS: l'aggiornamento della prossima settimana arriverà alla mezzanotte tra DOMENICA e LUNEDI'! Questo perché il Lunedì sarò in viaggio per tornare al paesello ♥

 

 

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Capitolo 4
*** #4 - L'Uomo (prima del Padre e del Figlio) ***


Jikan - #4

Nota Iniziale: siamo ancora ad Agosto, quindi stesso mese della shot #3

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #4: L’Uomo (prima del Padre e del Figlio) -

 

 

 

Akio si alzò dopo essere rimasto in ginocchio per una ventina di minuti.

Davanti alla lapide di Yuzo c’era ancora un po’ di confusione, tra fiori ormai secchi che erano stati sostituiti da altri freschissimi. Corolle sgargianti, che facevano bene agli occhi e male al cuore come ferite vive.

Akio aveva portato una busta per i rifiuti, e nonostante il caldo aveva lavorato con dedizione e un sorriso. Camicia a maniche corte, pantaloni jeans dal taglio più classico e adulto. Diede una spolverata alle ginocchia e poi si tirò dritto, per guardare il lavoro d’insieme.

«Che ne dici, ti piacciono? Erano di questa mattina, arrivati da poco.»

Akio osservò soddisfatto i gambi dei lunghi gladioli gialli, arancioni, magenta e sfumati. Aveva smesso di prendere sempre il solito mazzo di fiori, e aveva iniziato a rivolgere maggiore interesse alla scelta che compiva. Da quando si era fermato a comprare la Caesalpinia per l’inaugurazione del Mori no Kokoro dopo la ristrutturazione, aveva cercato di ridurre la distanza che aveva messo tra sé e le piante fin da quando i suoi figli erano piccoli, con risultati a volte disastrosi e a volte incoraggianti. In esse seguitava a rivedere la composizione di Shuzo sotto la campana di vetro. Solo i Lycoris erano rimasti la scelta che sentiva imprescindibile, come il suo dolore.

«Non ne ho mai capito molto e lo sai, ma penso di preferirli alle rose. Sono più belli e penso, sì… che forse sarebbero piaciuti di più anche a te. Nella serra c’erano sempre così tanti colori…»

Anche quel ricordo era vivo allo stesso modo e faceva male in egual misura. Gli rammentava che era stato attento e distratto nel medesimo istante e lo mortificava.

Akio raccattò la busta e ne chiuse la sommità dopo avervi infilato le rose secche. La tomba era pulita, la superficie del marmo lucida, l’incenso bruciava.

Lui giunse le mani e rivolse tutte le preghiere più belle che aveva a quel figlio inafferrabile, mentre il cimitero rimaneva silenzioso in quel sabato mattina d’estate.

Agosto non perdonava con la sua afa, ma c’era una cicala proprio sul tronco del glicine sopra la tomba di Yuzo che disperdeva un canto continuo che gli rinfrancava lo spirito e non lo faceva sentire troppo solo. Un verso di cui qualcuno, quando era arrivato, si era lamentato. Ma per Akio era come lamentarsi del caldo. Ora che era rimasto solo già da un po’, aveva potuto godersi quell’intenso frinire in tutta tranquillità, ricordando le estati di famiglia – troppo poche, si rese conto, e troppo brevi – trascorse tra la minka dei Morisaki e il mare. Ci erano andati tutti gli anni e per loro, che vivevano in una prefettura bagnata dall’acqua, rinunciarvi sarebbe stato come privarsi di una parte del proprio spirito. Ricordò anche questo, i momenti che avevano vissuto come famiglia felice, quando i bambini erano piccoli, e tutto era gioco, anche il rimprovero. Tutto era semplice come svegliarsi la mattina e passeggiare sulla spiaggia, riempiendosi i polmoni dell’odore del mare.

Tra una preghiera e l’altra, e in mezzo ai ricordi, Akio pensò che Shuzo fosse fuori già da quasi tre mesi e lui non aveva approfittato di nessuna occasione per avvicinarlo. Si era ripromesso che lo avrebbe fatto, che non sarebbe scomparso dalla sua esistenza, a qualsiasi costo e prezzo – il conto della via dell’odio era sempre salato – eppure la paura dell’ennesimo rifiuto lo aveva frenato, accompagnata dalla paura che Shuzo potesse fare qualcosa per cui sarebbe finito di nuovo nei guai. Tra le mille cose che non voleva più fare, minare la serenità di suo figlio era al primo posto. Soprattutto adesso, che aveva saldato il debito con la giustizia, che aveva un posto stabile in cui stare, brave persone che gli volevano bene… qualcuno che lo amasse.

Yumeko gli raccontava sempre tutto ciò che lo riguardava, e per Akio era come viverlo attraverso di lei, felicissima come non la vedeva da tempo. Serena.

Tutti lo erano, lui sperò di poterlo tornare col tempo.

Akio portò le mani alla fronte e le disgiunse, chiudendo anche la sua preghiera che non cambiava mai, e vedeva sempre la famiglia al centro: sua moglie, suo figlio; e la speranza che il figlio che li vegliava dall’alto continuasse a prendersi cura di loro come aveva fatto fino a quel momento.

Akio si guardò attorno, aveva sistemato tutto e sarebbe anche potuto tornare a casa, ma voltare le spalle alla lapide era qualcosa che gli era sempre costata fatica e alla fine, pur se non ci fosse stata una reale necessità, avrebbe finito con l’indugiare un po’ di più, prendersi fino all’ultimo secondo possibile per stare con Yuzo o con ciò che ne rimaneva. D’estate, poi, era ancora più facile attardarsi, tra il caldo, la brezza e il sole.

«Che dici, ragazzo mio, ti va se resto ancora un po’?»

Ma il rumore di passi che si avvicinavano gli disse che non sarebbe più stato da solo e che forse non era il caso di farsi sentire mentre parlava con una lapide. La disperazione era un dolore troppo personale per essere mostrato davanti a chiunque, e lui non voleva compassione.

Akio tirò indietro le spalle, si finse affaccendato e spostò la busta con i rifiuti da una parte all’altra, in attesa che l’ultimo arrivato passasse alle sue spalle e raggiungesse la propria destinazione; invece si ritrovò affiancato.

Si volse, convinto che fosse qualche amico di Yuzo; passavano spesso quando rientravano a Nankatsu nelle pause del campionato, soprattutto Ryo. E invece i suoi occhi si fecero enormi nell’incontrare, prima di qualsiasi altra cosa, il tatuaggio di un cobra che si attorcigliava a un braccio fino quasi a fondersi col disegno colorato di una carpa che poi spariva sotto la manica corta di una t-shirt, mentre i suoi occhi salivano, salivano ancora e si trovarono a seguire il dondolio di un ciondolo a forma di rosa dei venti che pendeva da un orecchino circolare.

Capelli corti, spettinati in una cresta, e un profilo che non era solo familiare quanto genetico nel naso dal taglio dritto come una scogliera.

Akio si tirò su a mano a mano che gli occhi svelavano la presenza al suo fianco, e lo stupore che lo invase aveva tanti aspetti che si mischiavano tra loro da non fargli comprendere bene quale stesse prevalendo.

Forse che Shuzo fosse lì, forse che lo aveva raggiunto di proposito, forse che non l’avesse ancora apostrofato male.

Forse che era felice di averlo accanto, a prescindere da quello che sarebbe accaduto nei prossimi minuti; per lui quei secondi in cui stavano condividendo lo stesso spazio valevano più di tutto il resto.

 

Non era stato un caso se al cimitero ci era andato di sabato: aveva chiesto lui a sua madre quando Akio facesse visita a Yuzo, di solito; il giorno, l’orario.

Da dove pensi che nasca la tua rabbia? Da un sentimento, da un evento, da una persona?

Perché aveva imparato che esistevano ostacoli che non andavano abbattuti con la forza. Non andavano abbattuti e basta.

Credo… anzi, ne sono certo: da una persona.

Dopo quella volta che era andato a comunicargli della sentenza di Daidouji, Akio non gli aveva più fatto visita.

E chi?

Aveva rispettato la sua volontà; era stato lui a dirgli di non tornare e non era tornato. Fuori dai cancelli di Fuchu non ci era stato, né lui l’aveva cercato con gli occhi o si era aspettato di trovarlo. Anzi, se l’avesse fatto, se fosse stato presente, era stato certo che non l’avrebbe presa bene e l’emozione dell’uscita sarebbe stata contaminata dalla collera.

Mio padre.

Ma Mamoru gli aveva detto che Akio era andato varie volte al Kokoro e non solo durante le festività comandate.

Perché?

In quell’occasione, era stata la prima volta che la presenza di Akio in spazi che considerava ‘suoi’ non lo aveva infastidito: l’aveva presa come un dato di fatto, come fosse stato un cliente qualsiasi. Anche se l’ultima volta che l’uomo era stato al Kokoro era finita con le mani e la sua rabbia era strabordata in maniera incontrollabile.

Perché non mi ha mai considerato degno di essere suo figlio.

Il fatto che non si fosse arrabbiato, che non avesse avvertito il cannibale premere per uscire in qualche modo, fosse stato anche solo attraverso un insulto, aveva suggerito a Shuzo che avrebbe potuto provare: provare ad avvicinarsi all’ostacolo, guadarlo senza avere la foga di volerlo abbattere a tutti i costi, in maniera testarda e ottusa, proprio come Akio era stato nei suoi confronti in passato. Le volte che lo aveva fatto non avevano portato a niente. Allora magari era venuto il tempo di studiarlo, questo ostacolo, e capire cosa ne avrebbe dovuto fare e come lasciarselo alle spalle, se era quello che davvero voleva.

Era entrato nel cimitero con estrema sicurezza, molta di più di quanta ne aveva avuta la prima volta, perché con suo fratello si era già chiarito e non aveva più nulla da farsi perdonare ai suoi occhi. Nella mano stringeva un mazzo di gerbere, semplicissime e senza composizioni particolari, ma i petali creavano un arcobaleno serrato nel palmo.

Aveva camminato spedito, ricordando la posizione della tomba di Yuzo, e solo quando aveva notato la figura di Akio aveva sentito distintamente l’eco del rancore arrivare in fretta da un punto lontano del cuore per rimbombargli nella testa e far destare il cannibale. Il respiro pesante aveva ansimato alle orecchie come un cane idrofobo e i vecchi torti, le parole avevano battuto ai timpani. Non puoi dimenticare, dicevano, non puoi. Non potrai.

Non puoi perdonare, non puoi. Non potrai.

Un’altra eco si sovrappose alle sentenze che la rabbia non riusciva a scrollarsi di dosso, e aveva una voce diversa dalla propria.

Della visita in carcere, Shuzo non aveva dimenticato neppure un particolare, tanto da poterne trascrivere tutto il dialogo che avevano avuto, parola per parola.

Kido aveva cercato di fargli capire perché l’avesse segnato così tanto, così come l’aveva segnato lo scontro avuto al Kokoro. La domanda di Mamoru, anche a distanza di due anni, non aveva ancora trovato una risposta. Lui non l’aveva ammessa, perché negare era più facile. Ammettere avrebbe significato scontrarsi con una debolezza che aveva ancora i piedi d’argilla del bambino che era stato e braccia corte che cercavano di allungarsi come potevano, ma afferravano solo aria.

Allora perché ti fa così male?

E dunque, così come il mostro era emerso con la sua sete di guerra e rivalsa, tanto velocemente si era ritirato; un passo alla volta, era tornato indietro, ma aveva scrollato il capo lasciandogli in petto un piccolo senso di fastidio, perché non era stato d’accordo, non era stato convinto.

Anche lui era tornato a camminare quando si era sentito di nuovo pienamente padrone di sé stesso, e i passi erano stati compiuti in avanti. Nel frattempo che la distanza era andata riducendosi, il suo studiare l’ostacolo era già iniziato. Studiare le espressioni che era riuscito a carpire dal profilo, e poi i gesti, i movimenti di braccia e spalle. Ampi, sicuri, metodici, attenti.

Akio aveva delimitato il proprio spazio e possesso attorno a quella tomba.

È mio. Mio figlio. Non vi ci potete avvicinare. È mio. Il mio amato figlio.

Perché, sì, i suoi gesti lo erano stati: pieni d’amore.

Come puliva la lapide, come toglieva le erbacce, come cambiava i fiori.

Oh, aveva iniziato a sceglierli? Shuzo aveva notato che non erano gli stessi dell’altra volta, quelli dall’aria compassata e che, era stato certo, aveva portato tal quali ogni volta. I gladioli facevano un effetto bellissimo, ora. Erano pieni di fantasia. Ma la nota che gli aveva fatto capire che quei fiori li aveva portati Akio era nei Lycoris. Shuzo era stato sicuro che, in ogni suo dono floreale per Yuzo, ci sarebbero sempre stati. Perché Akio era Lycoris, il fiore dei morti, velenosissimo, che si sconsigliava da donare come regalo, ma che nasceva accanto all’acqua o dopo forti piogge.

Il giglio uragano.

Infestante, che cresce accanto alle porte dell’Inferno e sulla strada di chi non si incontrerà mai più.

Una malerba piena di dolore.

Shuzo riuscì a vederla per la prima volta, fu come un lampo, quella congiunzione di pensieri che passano i blocchi mentali e i rifiuti per andare oltre, dove non ci sono rancori, dove si riesce a ‘mettersi dall’altra parte’, dove prima del ‘padre’ e del ‘figlio’ c’è solo l’Uomo.

Riuscì a vedere la sofferenza di Akio raccontata nei gesti, nei Lycoris.

Un attimo. Brillò on-off, interruttore che si accese e spense e poi lui tornò indietro, dalla parte dei blocchi e dei rifiuti che continuavano a vedere solo l’amore strabordante per un figlio e il vuoto assoluto per l’altro.

Shuzo non aveva mai preteso di avere un posto superiore a suo fratello nell’affetto dei loro genitori. Nati insieme e uguali, uguale sarebbe stato l’affetto di chi li aveva messi al mondo, o almeno aveva creduto che così sarebbe stato; si era illuso come tutti i bambini. Poi era cresciuto e aveva conosciuto la disillusione, aveva cercato di conviverci e farla divenire alleata più che nemica, ma il vuoto era rimasto, un vuoto tra le radici. Sua madre lo aveva riempito in parte e da poco, ma c’era ancora spazio e lui si era talmente abituato a quell’assenza da non sapere più se avesse voluto o meno vederla riempita adesso.

Il cannibale sussurrò disappunto quando girò per dove si trovava la tomba di Yuzo e l’immagine di Akio era vicinissima ormai. Venti passi. Diciannove. Diciotto.

Il glicine era un tripudio di foglie verdi, faceva ombra protettiva dalla calura.

Tredici. Dodici. Undici.

Magari sarebbe potuto tornare indietro, era ancora in tempo, ma che senso avrebbe avuto se aveva fatto tanta strada e l’ostacolo era solo a sette, sei, cinque passi?

Che senso avrebbe avuto non fermarsi al suo fianco e capire che si aveva tutto lo spazio per superarlo, e allo stesso modo l’occasione di non farlo?

Tre. Due. Uno.

Shuzo si fermò davanti alla tomba di suo fratello per realizzare le cose che lui e Akio continuavano a compiere al contrario. Non stare insieme quando avrebbero potuto farlo, ma farlo ora che non avrebbero potuto mai più.

Lui da un lato, Akio dall’altro.

Non si dissero niente, non ce n’era bisogno e forse avrebbe finito per spezzare il primo vero equilibrio che avevano raggiunto da che lui era venuto al mondo.

Si inginocchiò, sciolse il laccetto di rafia che univa le gerbere e le sistemò assieme ai gladioli e Lycoris nei due vasi. La tomba di suo fratello esplodeva di colori, e davano gioia al solo vederli e malinconia allo stesso modo, con la stessa forza.

Quando fu soddisfatto si alzò, infilò le mani nelle tasche dei jeans. Non aveva bisogno di giungere i palmi per innalzare preghiere, a lui bastava pensare e sapeva che suo fratello l’avrebbe sentito ovunque.

Così come sentiva il sottile ringhiare del cannibale che era accucciato, faceva il bravo, ma reagiva alla vicinanza di Akio in maniera istintiva e continuava a sussurrare che non poteva dimenticare, non poteva perdonare.

L’occhio gli cadde sui Lycoris.

Non ancora.

 

“Sto passando dei momenti duri,

ma prometto che sarò forte per te, come hai detto,

e mi terrò in carreggiata.

Ma resterò quaggiù a sentire la tua mancanza.

Così, la tua mancanza.”

 

Have a great flightYelawolf

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …questa volta è Shuzo a fare un passo avanti.

Fino alla fine di Malerba (Capitolo XXIX) abbiamo visto come sia stato sempre Akio, in maniere diverse, a cercare di fare dei passi verso Shuzo e a sentirsi sempre rispondere picche. S’è pure beccato un pugno, e quando è andato a trovare il figlio in prigione – quell’unica volta che lo ha fatto! – si è sentito dire di non tornare più.

Ma sappiamo che nell’Epilogo le cose tra Shuzo e suo padre sono cambiate, si sono evolute e hanno perso quella distanza che abbiamo sempre conosciuto. Un po’ alla volta entrambi hanno fatto dei passi avanti, fino ad arrivare ad avere delle conversazioni, cenare allo stesso tavolo. Ma come è avvenuto tutto questo se ogni volta Akio prendeva solo risposte negative?

Ovviamente, grazie ai passi che ha fatto anche Shuzo. Qualcosa che Akio stesso non si sarebbe mai aspettato potesse accadere.

Invece eccoli, prima di essere padre e figlio: due uomini, spalla a spalla. Ed è così che Shuzo vede suo padre per la prima volta: come un uomo che sta soffrendo per la perdita di una persona cara. Akio perde, ai suoi occhi, l’aura quasi mitizzata di questa creatura terribile per diventare un suo pari, con lo stesso dolore sulle spalle.

Un primo passo piccolo, quasi insignificante, ma di un’importanza pantagruelica. :3

 

 

PS: la prossima settimana, l’aggiornamento arriverà mercoledì 25 Dicembre! per festeggiare il Natale con voi e i personaggi di questa storia! :D.

Per chi mi segue su Facebook: l’anticipazione arriverà comunque sempre di Sabato. :3

Grazie a tutti e... ci rileggiamo a Natale! :D

 

 

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Capitolo 5
*** #5 - Malerba di Natale ***


Jikan - #5

Note Iniziali: Questa shot è ambientata il 25 Dicembre (ma va? XD) dello stesso anno della shot #4 (sono quindi passati quattro mesi).

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #5: Malerba di Natale -

 

 

 

Shuzo il Natale lo odiava e già dagli inizi di novembre si trasformava in un Grinch.

Lo infastidivano le lucine, lo irritavano le musichette a tema, non sopportava la gente che correva a comprare i regali. E magari queste tre cose insieme riusciva ancora ancora a sopportarle, paragonate al ricordo di averlo sempre passato da solo, perché con Yuzo preferiva trascorrere il Capodanno: il Natale lo lasciava ai suoi genitori.

Forse neppure questo ricordo di solitudine era proprio il primo motivo per cui avrebbe abolito il Natale da tutti i calendari del mondo.

La verità era che faceva un freddo del diavolo che la metà bastava.

E lui odiava il freddo, ne era refrattario. Era nato lucertola, e d’inverno sarebbe dovuto andare in letargo. Perché la sua natura lo costringeva a vivere e dover abbandonare il caldo del piumone per uscire fuori al freddo?!

Lo odiava.

Shuzo lo odiava proprio.

Con quell’infantilismo con cui i bambini odiavano i broccoli e battevano i piedi a terra per dire ‘no, no e poi no!’.

Il freddo, Shuzo non riusciva a soffrirlo perché ne aveva patito tanto, da entrargli nelle ossa come una malattia che si riaccendeva appena la temperatura scendeva sotto alla soglia di guardia – che per lui erano i venti gradi.

Freddo quando scappava di casa, e restava a dormire sotto i ponti di Nankatsu.

Freddo quando in riformatorio lo mettevano in punizione.

Freddo quando a Shizuoka spacciava in strada anche con meno sette gradi perché, ehi!, il lavoro non andava in vacanza.

Freddo, che gli aveva sempre ricordato che sapore avesse la solitudine, perché circondato dai 3Kitsu lui non aveva smesso di considerarsi unità solitaria nel branco di volpi. Potevano essere un prototipo o surrogato di famiglia, potevano pranzare assieme, condividere una birra, abitare sullo stesso pianerottolo, ma la verità era che per il ruolo che aveva e per la persona che era, lui non aveva mai avuto nessuno per cui sentire di essere indispensabile o su cui avrebbe potuto contare mettendoci la mano sul fuoco.

Tasho, forse. Ma Tasho era il capo, e al capo non si creavano casini, non ci si appoggiava come dei bambini piagnucolosi, non si raccontavano i propri tormenti in attesa della pacca sulla spalla o del consiglio giusto come fosse un analista. Al capo si toglievano le castagne dal fuoco, si portava il suo nome a spasso come un cane che pisciava sui muri per marcare il territorio. Al capo si dimostrava di essere forti e di poter contare su di te, perché non saresti caduto giù alla prima scossetta, ma eri fondamenta antisismica.

Per tutte queste ragioni, e per mille altre ancora, Shuzo odiava il Natale e il freddo che portava con sé.

Quindi, quella mattina del 25 dicembre, il primo che passava fuori Fuchu da uomo libero, Mamoru gli aveva detto di andare al lavoro più tardi e rimanere appallottolato come un ghiro sotto al piumone.

Che poi gli si fosse insinuato una sorta di ‘spirito di responsabilità’ e avesse comunque deciso di non approfittare troppo di questa libertà era un altro paio di maniche. Ma invece di alzarsi pigramente alle sette del mattino – correre col freddo alle cinque?! Ma nemmeno sotto tortura! – si alzò alle nove.

Cioè, alzarsi. Tirare fuori il naso dal bozzolo caldo che aveva creato sarebbe stato più appropriato. Perché Shuzo, quando si trattava di abbandonare il letto nel pieno dell’inverno, doveva farlo un pezzetto alla volta, abituare il corpo a temperature glaciali che separavano la savana racchiusa dalle coperte, alla tundra esterna. E quando la savana era data da una commistione di calori del suo corpo e di quello di Mamoru era anche più difficile: in quel calore ci sarebbe voluto morire per quanto era paradisiaco.

E invece.

Bip-bip-bip-bip.

Ore nove.

Tirare giù le chiappe dal letto.

Farsi un caffè, una doccia calda e andare ad aiutare il suo compagno, perché le piante si curavano anche in inverno, i caffè si servivano anche in inverno e le composizioni venivano richieste anche nel fottuto inverno.

Con un mugugno profondo, da bestia infastidita e ferita, Malerba fece emergere il viso a poco a poco dalla montagnola di coperte che lo sovrastava interamente, testa compresa.

«Perché devi fare così freddo?» fu il primo lamento mattutino.

Il cambio di clima lo avvertì subito contro le guance. Sbuffò. Le braccia emersero, prima la destra e poi la sinistra.

«Giuro che mi compro uno di quei pigiami di pile che ti basta guardarli per farti cadere l’uccello in depressione cronica. Cazzo. Roba che nemmeno il vecchio Abe metterebbe.»

Ma con la sua t-shirt a maniche corte e i capelli da pazzo, si mise a sedere nel mezzo del letto. Il freddo lo fece stringere subito nelle spalle e strofinarsi le braccia scoperte.

«Brrrrrr! Ti odio, Natale di merda!»

Anche quell’anno fece la sua dichiarazione all’inverno e, sempre come ogni anno, questo non cambiò le cose.

Così si alzò, dopo aver visto la metà vuota di letto al suo fianco. Mamoru era già al lavoro da ore e finì col sentirsi in colpa per non essersi alzato anche lui alle sette.

«…l’anno prossimo farò il bravo, promesso.» Un mugugno di scuse che avrebbe voluto rivolgere al suo compagno, e ciondolando per l’appartamento si mise a pensare a come avrebbe potuto farsi perdonare. L’idea di scaldare la cena natalizia con del buon cibo tradizionale, tipo karaage, e poi con una bella corsa sotto la sua ‘savana piumonica’ gli parve la migliore offerta possibile. Tanto che sorrise, mentre apriva la manopola dell’acqua calda della doccia, lasciando che l’ambiente si riempisse di vapore e raggiungesse una temperatura ottimale.

Mentre si spogliava e infilava nel box, Shuzo ripensò che pochi giorni prima avevano festeggiato anche il primo compleanno di Mamoru insieme.

Si era sentito un po’ in difficoltà, perché non era solito fare regali che non fossero a suo fratello, e perché non sentiva di conoscere ancora così tanto Mamoru da potergli fare il pensiero giusto.

Aveva cercato di chiedere consiglio a Kumi, ma ogni suggerimento riguardava qualcosa cui lui non ci sarebbe mai potuto arrivare: sarebbe apparso subito chiaro che l’avevano aiutato o indirizzato.

Lui e Mamoru avevano bisogno di tempo per conoscersi meglio, sempre più a fondo. Così, alla fine, aveva ripiegato sull’unica cosa che li aveva accomunati fin dall’inizio: le piante. Con una serie di ricerche e giri per le prefetture era riuscito a rimediare dei semi piuttosto particolari e rari: Cosmos astrosanguineus detto Cosmo cioccolato per il colore e il profumo; Butea monosperma detta Fiamma della foresta e lo Strongylodon macrobotrys detto Vite di giada.

Non era stato certo della riuscita di quel regalo, perché gli sembrava davvero una sciocchezza, e invece Mamoru gli aveva dimostrato non solo di conoscere tutte e tre le specie, ma di esserne interessato e galvanizzato.

«Ci pensi? La prima sfida che affronteremo insieme», aveva concluso con un entusiasmo così genuino che lo aveva fatto arrossire e girare il viso altrove per minimizzare l’imbarazzo di vederlo tanto felice per un regalo che gli aveva fatto.

La loro prima avventura come soci alla pari, la loro prima coltivazione congiunta. Magari, un giorno, sarebbero arrivati a ibridare le specie come avrebbe voluto fare suo fratello.

Era stato un bel momento che l’aveva fatto sentire ancora di più ‘parte di qualcosa’. In questo caso, di una relazione.

Partner.

Compagni.

Amanti.

Io sto con te, tu stai con me.

Plurale.

Il famoso e sempre più avvolgente plurale. Più caldo di un piumone, più dolce di un rambutan, più rassicurante di un muro di venti metri.

Shuzo vi prendeva le misure poco alla volta, perché abituarsene tutto in un colpo era pericoloso. Era come con la felicità, quindi sentiva di potersi permettere di mordere appena un po’ quella sensazione di pluralità, ma senza esagerare. Doveva entrarci adagio, nel nuovo stato della sua vita, e non come il solito animale da sfondamento. Poco alla volta, per non fare danni agli altri e a sé stesso.

E quindi, quando abbandonò la doccia, si sentì molto più di buon umore di quando vi era entrato e il pensiero del freddo parve distante e accettabile… almeno fino a che non mise il naso fuori di casa.

Con lo sciarpone avvolto attorno al viso e il cappuccio della felpa tirato sulla testa, tutto ciò che si riusciva a vedere era la striscia di occhi. Giaccone imbottito, guanti senza dita e mani infilate nelle tasche dei jeans. La sua mise giornaliera per percorrere il brevissimo tragitto da casa al negozio era pronta, mentre fuori, il tempo di mettere piede sulla scala, ecco cominciare a cadere qualche fiocchettino di neve.

Oh, la magia del Natale che faceva impazzire il mondo. Il cielo bianco, la neve che svolazzava lieve. La sua mente che rivangava giornate intere fermo all’angolo della sede universitaria di Shizuoka a spacciare, e il gelo delle notti di Fuchu dove la divisa invernale era sempre troppo leggera e i riscaldamenti che non riscaldavano neppure il fiato che gli abbandonava la bocca.

«’Fanculo, quanto ti odio.»

Scese in fretta le scale, tentato di mettersi addirittura a correre, e uscì in strada. Passò veloce davanti all’ingresso frontale del Kokoro, ma non entrò da lì, preferendo il retro, in modo da poter subito buttare giù del buon tè bollente o caffè, o qualsiasi cosa ci fosse stata pronta purché avesse avuto una temperatura superiore ai settanta gradi.

Quindi, tirò dritto e a testa bassa, in modo che l’aria fredda non lo colpisse direttamente nell’unisca striscia visibile del viso, estrasse le chiavi dalla tasca con movimenti svelti nemmeno dovesse fare uno scambio di bustine di coca, e si richiuse il cancello dell’ingresso laterale alle spalle senza neppure accompagnarlo. Strinse solo i denti appena lo sentì sbattere, imprecando un ‘checcazzo’ che frantumò sotto gli incisivi.

La musica allegra, che a quanto pareva stava riempiendo il locale, l’aveva sentita fin da un attimo prima che entrasse dalla veranda. Richiuse la porta con uno scatto e solo allora, finalmente al sicuro dalle intemperie esterne, emise un lungo sospiro sollevato.

Abbassò il cappuccio, srotolò lo sciarpone e inarcò un sopracciglio, mentre guardava nella direzione della porta di servizio che divideva i due ambienti.

Si sentiva un vociare intenso oltre alla musica.

Sorrise, mentre entrava in cucina, e venne investito da calore e profumi dolci di zucchero e ananas. Niji-mama era al lavoro, ma lui sgranò gli occhi quando la vide che era intenta a tagliare della frutta.

Frutta esotica.

«E questa?»

«Oh, zuccherino! Finalmente sei uscito dal letargo, monello!»

«Da dove arriva tutta questa-»

«Niente domande, niente domande. Ha pensato a tutto Mamoru-kun. Tu devi solo mettere questi!»

Shuzo si trovò tra le mani un malloppo di vestiti coloratissimi e un paio di infradito.

Li guardò con occhi pallati, perché anche uno tonto come lui riusciva a non cogliere il nesso tra il 25 dicembre e quell’abbigliamento dalla fantasia hawaiiana.

«Mama… non vorrei fare il guastafeste, ma fuori ci sono zero gradi e sta iniziando a nevicare, nel locale ne faranno al massimo quindici-sedici, diciotto se vogliamo esagerare. Ancora troppo pochi per le infradito.»

«Non è il momento di essere polemici, dolcezza. Cambiati al volo e poi torna qui, devo darti dell’altra roba da portare nel locale. Forza, forza!»

Praticamente spinto fuori della cucina, Shuzo si vide costretto ad andare al bagno e senza neppure la possibilità di protestare o servirsi un caffè per connettere con il mondo – e scaldarsi le viscere. Scosse il capo, chiudendosi nella stanza e anche se riluttante – perché non riusciva a capire che assurdità avesse messo in piedi Mamoru – si ritrovò con addosso una camicia verde brillante, piena di ibiscus multicolore che si rincorrevano ovunque e dei calzoncini bianchi che arrivavano giusti al ginocchio. Ci mancava solo la paglietta in testa ed era pronto per andare a vendere cocco fresco sul lungomare di Shizuoka.

Tornò in cucina che aveva il sopracciglio settato su ‘scettico’, ma, ancora una volta, la nonna arcobaleno non gli diede modo di avanzare proteste.

«Ma guardati! Guardati! Quanto sei bello e colorato! Sempre detto io che ci vuole colore nella vita!» E lei ne era una maestra; quel giorno, ad esempio, era il catalogo pantone dei verdi, intervallati sapientemente da qualche elemento bianco e rosso che la rendevano estremamente natalizia, anche se aveva le maniche corte e quel vestito tutto pareva tranne che fatto per l’inverno.

«To’, vai a lavorare e Buon Natale, zuccherino. Buon Natale!» concluse, mollandogli tra le mani un vassoio di frutta appena tagliata e poi strizzandogli le guance in due sonori pizzicotti, che lo fecero imprecare, ma solo mentalmente.

«Fuon Nafale a fe, ‘a’a…»

Venne mandato via con l’ennesima, sonora spinta. Shuzo non si oppose, ormai rassegnato a quella giornata che per lui era nera a partire dalla sua natura.

«Mi fottano gli dèi, questo giorno rende la gente idiota oltremisura…» sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Chissà che diavolo si sarà messo in testa, quell’altro; e senza dirmi niente! Ora capisco perché mi ha fatto alzare più tardi… altro che ‘no, resta al caldo, tu che odi tanto il freddo’. Ceeeerto. Paraculo infame, voleva avere campo libero, lo stronzo. Ah, ma adesso ci penso io.»

Dando la schiena alla porta, perché aveva entrambe le mani occupate, Shuzo ne spinse l’uscio e già prima di girarsi una vampata di caldo e musica da spiaggia lo avvolse. Nel momento in cui si volse, rimase fermo dove si trovava, con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta.

«Ma… che… dove sono finito?!»

Il Mori no Kokoro tutto sembrava tranne che calato nel Natale. O meglio, a ben guardare lo era pure, ma per il resto… sembrava di essere passati dalla Siberia alle Bahamas nemmeno avesse usato il teletrasporto.

«Ehi! Ti fai vedere! Era ora!» esclamò Kumi, con in braccio il piccolo Chikara di due mesi, che se ne stava bello che appisolato con la testa sulla sua spalla e, come era stato per Yuzo a suo tempo, pareva non risentire affatto della confusione e della musica.

Shuzo, ancora fermo, vide Mamoru andargli incontro vestito esattamente come lui, ma con colori differenti.

«Buon Natale!» disse, con un sorriso meraviglioso e i capelli legati in una coda di cavallo.

«Natale? Forse andrebbe meglio ‘Buon Ferragosto’…» protestò lui blandamente, mentre il compagno gli passava attorno al collo una ghirlanda di fiori bianchi e freschissimi. «Ma che sta succedendo?»

Mamoru gli prese il viso tra le mani e non voleva separarsi dal sorriso perfetto che gli illuminava gli occhi sempre troppo neri, sempre troppo d’oro. «È il mio regalo di Natale, per te che lo odi tanto. Magari se te lo riscaldo un po’ cambi idea.»

Gli fece l’occhietto e gli fregò il vassoio dalle mani lasciandolo ancora che boccheggiava come una triglia.

Tutt’attorno i clienti si godevano il caldo, i cocktail, il tè freddo, la frutta. Ridevano, felici di quell’angolo d’estate mentre fuori cadeva la neve. La Banda Bassotti sollevò nella sua direzione i succhi di frutta con gli ombrellini colorati, le liceali – che avevano finito la scuola mentre lui era in prigione – lo salutarono luminosissime e sorridenti in uno svolazzare di mani e dita.

E Shuzo ci mise qualche secondo in più per carburare e capire che, sì, era Natale, no, non faceva freddo, sì alla radio c’era ‘O come, all ye faithful’ ma con un ritmo così allegro che sembrava di stare in mezzo alla savana, mancava solo il leone che passeggiava pigro.

Ci mise qualche secondo per capire che Mamoru aveva fatto tutto quello per lui.

Lo cercò con gli occhi, girando la testa piano piano e lo trovò che stava sistemando la frutta appena tagliata nelle coppette, che Kumi – pupo sulla spalla – provvedeva a decorare con un ombrellino, uno svirgolo di panna e un fiore; anche quest’ultimo rigorosamente estivo che chissà da dove se li era fatti arrivare, quel pazzo.

Shuzo lo guardò, Mamoru sollevò solo gli occhi senza smettere di riempire le coppe, e fissava la sua sorpresa, quella che doveva aver stampata in faccia e che doveva essere davvero tanto, tanto buffa, perché gli si aprì un nuovo sorriso perfetto.

Solo per lui.

Il primo Natale in compagnia di qualcuno che amava e che lo amava.

Il primo Natale in cui non si sentiva solo.

Il primo di una lunga serie.

Come la brina scrollata da una foglia, Shuzo si liberò di ogni sensazione spiacevole e rispose al sorriso del suo plurale. Un cenno del capo, un grazie silenzioso che poi avrebbe trovato parole migliori e nuovi clienti che entravano nel locale e si lasciavano sorprendere, come lui, da una magia che aveva mille sfaccettature.

«Benvenuti al Mori no Kokoro, e Buon Natale!»

 

La giornata fu un vero successo.

Qualcosa di diverso che era stato accolto con calore da tutti quelli che erano entrati nel Kokoro.

Shuzo non aveva toccato la Cimbali, servendo invece tè freddi, cocktail e succhi di frutta. Con gigli, agrifoglio e piccole palline di Natale aveva decorato le bevande e i dolci. Cheesecake, mochi immancabili, kasutera e rava kesari dello Sri Lanka, ma anche macedonie e tagliate di frutta con panna.

Mamoru l’aveva visto a suo agio per tutta la giornata, girando con disinvoltura e lavorando come fosse estate e lui uscito dal letargo. Aveva scherzato con Kaede quando era arrivato per iniziare il turno pomeridiano dopo scuola, portandosi dietro anche il resto delle Mezzeseghe, che sapevano già di quella sorpresa ed erano venuti a curiosare.

Durante la pausa pranzo era stato rilassato e si era tenuto il piccolo Chikara sulla spalla per dare modo a Kumi di andare a prendere l’altra peste al nido, che lo aveva successivamente monopolizzato: Shuzo non aveva avuto tempo neppure di entrare nelle piccole serre, ma non era stato un problema non mettere fuori il naso.

Mamoru lo aveva visto ridere tutto il tempo, lavorare con piacere e si sentiva felice così. A volte non gli sembrava vero che fossero trascorsi già sette mesi da quando Shuzo era uscito di prigione. La viveva come se non vi fosse mai più rientrato, come non fosse stato inghiottito da quelle pareti di cemento e tatami puzzolente per due anni interi. Li aveva cancellati in poco tempo, quello che aveva impiegato per abbracciarlo e puff, era sparito tutto.

Mamoru scorse Shuzo a cavallo della porta di servizio, dopo che era andato a fumare una sigaretta in cucina – nello spiraglio piccolo della finestra, però! Uscire addirittura in veranda?! Ah! Nemmeno per sogno! – e intanto si godeva un bicchiere di succo di frutta, tanto c’era Kaede che correva per il locale, adesso.

Lo raggiunse e Shuzo seguì con gli occhi ogni suo movimento, fino a che non si trovarono uno di fronte all’altro, sotto l’arco della porta a spinta.

«Da quanto la stavi preparando questa cosa?»

«Da quando hai cominciato a lamentarti che faceva freddo. Era solo l’inizio di ottobre e c’erano ancora venti gradi.»

Shuzo storse un sorriso, terminò il succo e rimase col bicchiere vuoto tra le mani. «Me lo ricordo. Parlammo anche del Natale, quella volta.»

Mamoru annuì ed entrambi si trovarono a guardare il fondo di succo all’ananas che macchiava di giallo il vetro.

«Grazie.»

«Non ti ci abituare troppo. Non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire a trovare dei fornitori in questo periodo.»

«Posso immaginarlo. Piuttosto… dove hai messo i fiori stagionali?»

Mamoru guardò verso l’angolo di confezionamento che aveva riempito di quelli prettamente estivi.

«Li ho spostati nelle piccole serre. Stasera, o al massimo domattina prima della riapertura, li rimettiamo a posto.»

«’kay… Però il vischio lo hai tenuto.»

Mamoru sollevò il viso seguendo l’indice di Shuzo puntato alla sommità della porta. Un rametto faceva da decorazione, adornato da un fiocco dorato. Lui si strinse nelle spalle.

«È pur sempre Natale. Un po’ di tradizione.»

Shuzo si poggiò con la testa allo stipite, sollevò il mento, le labbra si tirarono leggermente a sinistra, e l’angolo piegò una curva che le rendeva sfacciate e sensuali. Ironiche. Desiderabili.

Shuzo lo era, con le sue espressioni che chiamavano la rissa così come chiamavano l’amore. La sfumatura della differenza era infinitesimale, nascosta in quella piccola curva all’angolo della bocca.

«Mi piacciono le tradizioni.»

Nella sfumatura della bocca. Nella sfumatura della voce.

Quella notte, una volta chiuso il bar, il calore del loro Natale diverso avrebbe continuato ad avvolgerli anche a casa, solo loro due. La festa non sarebbe finita prima dell’alba.

Mamoru lo sapeva, glielo leggeva nello sguardo e lo sostenne senza timore ma con altrettanta provocazione. Era su quella che giocavano il loro rapporto, li manteneva tesi non per paura di essere sorpresi alle spalle da eventi imprevisti, ma per il desiderio di trovarsi stretti l’uno all’altro senza riuscire a controllarsi se non quando non si fossero dissetati.

Lasciò che Shuzo si avvicinasse, ma non gli andò incontro: almeno uno dei due doveva mantenere il sangue freddo e il controllo della situazione, perché erano ancora nel locale e c’erano i clienti, ma ormai della loro relazione lo sapevano un po’ tutti in paese e nessuno aveva avuto da ridire. Erano protetti e appoggiati dai nonni, dai clienti abituali, dalle Mezzeseghe, da Kumi e Tobi. Quando la signora Mimi lo aveva saputo, si era portata le mani ai fianchi con piglio offeso.

«E allora?! Potevate dirmelo! Ho anche dei nipoti maschi da accasare!»

Così non lo fermò né si tirò indietro quando Shuzo lo baciò sotto al ramo di vischio. La bocca sapeva d’ananas e di mentolo del tabacco, ma le labbra erano fresche e Mamoru non le fece fuggire in fretta. Lo trattenne a sé con una mano poggiata sulla nuca, dove sfiorò la coda della cresta che aveva ripreso a portare da che era uscito di prigione. Quando era tornato a casa con quel taglio di capelli era stato travolto da un senso di déjà-vu intenso che gli aveva fatto rivivere tutta la loro storia, a partire dall’inizio. Sorprese, problemi, bugie e rancori annessi. E lui non aveva avuto altro istinto se non di baciarlo fino a togliergli il fiato.

Adesso a quella cresta si era abituato di nuovo, e anche se avesse cambiato pettinatura non ne avrebbe fatto un dramma, perché tutti i rispettivi cambiamenti avrebbero potuto viverli insieme. Quel Natale era l’ennesimo importante: un Natale in famiglia, la nuova.

Si separarono e guardarono ancora, sempre vicini, tanto che Mamoru vide Malerba spostare gli occhi verso la sala, abbozzare un sorriso e fare l’occhietto a qualcuno che, era certo, aveva assistito al bacio.

L’attimo dopo sentì un vociare acuto di ‘kyaaah’ e ‘squeee’ che gli fece alzare gli occhi al cielo.

«Lo hai fatto di proposito.»

«No. L’ho fatto perché anche a me piacciono certe tradizioni.»

«Lo hai fatto perché sei uno stronzo.»

«Questo non posso negarlo.» Shuzo sollevò le spalle. «E poi è divertente mandare quelle ragazzine in visibilio, così come è divertente marcare il territorio.»

«Marcare il territorio? Non fai prima a pisciargli attorno, aniki?» sghignazzò Kaede mentre passava a posare il vassoio con i bicchieri sporchi.

«Chiudi il becco, mezzasega. Vuoi che insegni qualcosa pure a te?»

«Ma per carità, no!» Kaede sgusciò via prima che Shuzo potesse agguantarlo per la maglia; anche perché Mamoru gli aveva impedito di allungare il braccio.

«Non incominciate», li rimproverò, ma dopo fu lui a rubare un altro bacio a Shuzo. Più veloce, più irruento, dal quale si separò con un piccolo schiocco. «E ora torniamo a lavorare.»

Shuzo sorrise e nella curva della bocca c’era anche una sfumatura del Paradiso che l’avrebbe atteso quella notte e che non vedeva l’ora di divorare.

«Yes, boss.»

 

 

“Oh, cantate, cori di Angeli,

Cantate in esultanza.

Oh, venite, oh venite a Betlemme.

Venite a vederLo,

è nato il Re degli Angeli.”

 

Oh, come all ye faithfulPentatonix (cover)

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …MERRY CHRISTMAS WITH FLUFF <3 :3

Questa storia è stata pensata, tipo, a Natale 2017 circa (o forse era già il 2018)?! XDDDD Ahahahahah! Solo che non avrebbe mai potuto vedere la luce se prima la storia non fosse finita, altrimenti sarebbe stata spoiler! ROTFL! Quindi ho dovuto aspettare e ora eccola qui, progettata giusta giusta per arrivare il 25 dicembre come piccolo regalino natalizio e dolcettoso.

Dopo tanto drama in questa storia, mi è sembrato giusto premiare il vostro affetto (e la pazienza dei personaggi XD) con qualcosa di carino e tenero. Diamo una gioia a questi figlioli, se la sono meritata! XDDD

 

Quindi, ne approfitto per fare a tutti voi tantissimi auguri di Buon Natale! Passate una meravigliosa giornata in compagnia, aprite tanti regalini e magnate in abbondanza!!! <3
Noi ci ritroveremo non so se lunedì o mercoledì, per l’augurio di Capodanno! Si vedrà! ;)

Nel frattempo… AUGURI A TUTTI!

 

 

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Capitolo 6
*** #6 - Io sono ***


Jikan - #6

Note Iniziali: ambientata un mese dopo la shot #5. Siamo quindi a metà Gennaio.

 

Buona lettura :3

 

 

 

 

 

 

- #6: Io sono -

 

 

 

Fermo sul marciapiede che attorno a lui facevano almeno cinque gradi sotto lo zero, e talmente intabarrato in giaccone, sciarpa e cappello che la striscia degli occhi pareva la feritoia del periscopio di un sommergibile, Shuzo pensava che Mamoru facesse presto a parlare. La faceva facile.

Massì, che ci vuole? Vai lì, ti presenti e chiedi del direttore.

Facilissimo, come no. In quei termini lo era di sicuro, peccato che Mamoru non avesse tenuto conto della quantità enorme di varianti. Una su tutte, quella che, dopo quasi tre anni, il direttore Mizuno della Scuola Kadoenshu di Ikebana non si ricordasse affatto di lui.

Salve, sono Shuzo Mori, vorrei parlare con il Direttore Mizuno. Sa, tre anni fa mi aveva invitato a iscrivermi in questa scuola.

Magari avrebbe fatto trascorrere un quarto d’ora di risate a chiunque l’avrebbe accolto in segreteria prima di andarsene accompagnato da un nomacertosaràcosìmachicazzoseiaddio. Tutt’al più senza ‘cazzo’.

Essere abituato alle figure di merda non era sinonimo di divertirsi a farle, così se ne stava fermo fuori dai cancelli scolastici, camminando avanti e indietro e preda dell’indecisione: entrare o andare via? Ma se se ne fosse andato, Mamoru gli avrebbe fatto una testa come un pallone e sarebbe stato capace di accompagnarlo di persona, magari trascinandolo dentro tenendogli la manina.

E quindi la decisione da prendere era tra: fare una figura di merda da solo o farne una centuplicata in due?

«Aspetti qualcuno, giovanotto?»

Shuzo sobbalzò nel sentire quella voce stridula, leggermente nasale, alle sue spalle. In tempi non sospetti, per una simile colpo di sorpresa, avrebbe fatto salti da medaglia d’oro, ma per fortuna le sedute con il dottor Kido stavano mitigando anche la sua paura a venir colto alla sprovvista. Non avrebbe saputo dire, però, se fosse un bene o un male. L’unica certezza era quella di aver ridotto i rischi di infarto del trenta per cento.

La vecchina stava forse cercando di abbassare la soglia?

E poi… perché diavolo doveva sempre incontrare vecchie sulla sua strada?!

Mai una persona con meno di settanta, tutti over.

Questa, in particolare, indossava un kimono da sotto un cappotto nero e una sciarpa appena annodata alla gola. Il primo pensiero non fu per i capelli sobriamente acconciati o per l’eleganza dell’abbigliamento e del modo in cui tenesse tra le mani il manico della borsetta corta, quanto un più pratico: ‘Dèi, ma non muore di freddo?!’.

«Ah, io… ecco, veramente…»

«Sarà mica una delle studentesse dei corsi mattutini?»

La donna si portò maliziosamente la punta delle dita alle labbra, per nascondervi dietro un sorrisetto, ma bastarono le sopracciglia a mostrarglielo ugualmente.

Ed ecco l’ennesima nonnina che cercava di accasarlo pure con i sassi.

Shuzo nascose uno sbuffo nello sciarpone.

«A dire il vero, cercavo il coraggio di entrare.»

«Devi iscriverti?» Da maliziosa e divertita, l’espressione della nonnina si fece sorpresa.

«Dovrei…»

«Allora vieni, ti accompagno io.»

A Shuzo non diede neppure modo di replicare, che gli infilò una mano sotto al braccio.

Eccolo di nuovo incastrato da quelle dannate signore formato mignon cui bastava mettere in mostra le grinze per farlo cedere in un attimo. Perché se era vero che le vecchie parevano avere un debole per lui, era vero anche il contrario.

Shuzo si lasciò guidare attraverso il vialetto che attraversava il cortile della scuola: un fabbricato davvero piccolo, a un solo piano; mattoncini a vista rosso scuro, forme squadrate con siepi curatissime nelle curve che si scontravano con gli spigoli vivi dell’edificio.

«È sempre una sorpresa quando a iscriversi è un ragazzo», spiegava l’anziana signora. «Quando capita, di solito sono i figli dei maestri, che perpetuano la tradizione. E non mi sembra tu voglia fare solo il corso serale per principianti.»

«No, infatti.»

«Molto interessante.» La donna gli lanciò un nuovo sorriso sottile, carico di sottintesi, mentre lo lasciava davanti alla porta della segreteria. «Da qui puoi continuare da solo, immagino.»

«In realtà anche da solo sarei riuscito a entrare, non mi sembrava ci fosse la palude a ostacoli qui fuori.»

«Oh, non sempre gli ostacoli sono quelli che si vedono, ragazzo. E quelli che non si vedono sanno essere i più insidiosi, perché non li riconosci. Io ti ho aiutato a passarne uno.»

Shuzo non replicò, anche se avrebbe avuto una risposta ovvia e ironica come sempre, però la lasciò in bocca, perché sapeva che se non ci fosse stata quella strana vecchina in kimono lui non sarebbe mai entrato. Avrebbe tergiversato e poi sarebbe tornato indietro, inventando una scusa qualunque e mollando la presa.

Ora era dentro, davanti alla segreteria: il primo ostacolo era superato.

«A presto, giovanotto.» L’anziana si era già allontanata di qualche passo, prendendo la strada dei corridoi che portavano alle aule. «E chissà, magari ti troverò come mio allievo.»

Shuzo la vide sparire, accompagnata da una risatina divertita e lasciandolo con un palmo di naso. Aveva appena conosciuto una sensei della scuola e non l’aveva neppure ringraziata per l’aiuto. Pessimo come al solito; non c’era proprio verso che imparasse a essere più ‘pronto’ quando si trattava di relazioni interpersonali.

Shuzo sbuffò e si liberò della sciarpa prima di bussare alla porta della segreteria. Nemmeno a dirlo, dall’interno provenne un’altra vocina che avrebbe catalogato come ‘over-anta’ e non venne smentito: seduta alla scrivania, una signora con occhiali sottili e cordicella, batteva veloce i tasti di un computer. Capelli corti e almeno mezzo secolo sulle spalle e sugli occhi stretti, pieni di rughette.

«Posso aiutarla?» gli chiese, dopo aver spostato lo sguardo dal monitor e aver avuto un leggero sobbalzo nel trovarsi davanti un ragazzo come lui, con una cresta spettinata in testa e l’orecchino. Per fortuna che non si era più tinto e che aveva ancora i guanti alle mani.

Iscriversi a quella scuola continuava a essere una pessima, pessima idea. Pessima.

«Vorrei parlare col direttore Mizuno, se possibile. Mi chiamo Shuzo Mori.»

Una rapida occhiata all’orologio alla parete e la segretaria si tirò su gli occhiali scivolati più verso la punta del naso.

«Mizuno-san dovrebbe terminare a breve la sua lezione, le andrebbe di aspettare qualche minuto?»

«Certo.»

Anche se sarebbe stata l’occasione perfetta per svignarsela, il pensiero degli ‘ostacoli invisibili’ lo fece desistere e lo convinse ad avere un po’ più di spina dorsale. Ormai era lì, andarsene adesso sarebbe stata quella pura e semplice codardia che in sé stesso non era mai riuscito ad accettare, e aveva camuffato con l’abilità dell’indifferenza quando la faccenda era più spinosa e con le botte quando lo era di meno.

La segretaria si alzò e gli fece cenno di seguirlo. Sparirono anche loro lungo gli stessi corridoi per dove si era allontanata la sensei. Corridoi che ricordavano in tutto e per tutto una scuola, come quella delle medie: l’ultimo ricordo che ne aveva era del cesso dei maschi, lui teneva il piede sulla nuca di un compagno costretto con la faccia nel water, mentre un altro bulletto tirava lo sciacquone e il povero disgraziato si pisciava nei pantaloni. Grasse risate di sottofondo che gli diedero fastidio come unghie sulla lavagna. Si poteva essere orribili in tanti modi diversi e lui, che con la faccia nel cesso c’era stato messo a sua volta, li aveva imparati bene e aveva saputo riprodurli alla perfezione.

Ma il corridoio silenzioso, dalle porte chiuse e le targhette che indicavano le designazioni delle aule erano lì e i neon erano accesi sulla sua testa anche se era giorno, ma il corridoio interno era buio, le vetrate erano solo all’ingresso e una sul fondo dell’andito, dove c’era una porta che forse conduceva proprio ai bagni.

«Prego, può aspettare qui.»

La segretaria over-anta dagli occhi stretti lo fece accomodare in un’aula molto spaziosa e vuota. I banchi erano lunghi tavoli bianchi, odore di disinfettante agli agrumi che si mescolava a quello dell’erba tagliata, dei rami recisi.

La scrivania del docente era piena di elementi abbandonati in maniera disordinata: pezzi di tronchi, foglie strappate, rametti sfoltiti e corolle di fiore che non erano state scelte. In ogni cosa esistevano gli scarti, anche nell’arte come l’ikebana in cui tutto sembrava doversi elevare per raggiungere un fine simbolico, dalla base del vaso alla sommità dello shin. E invece, se ci si faceva attenzione, anche nella perfezione della materia prima si effettuava un’ulteriore cernita e per quanto fossero pezzi di Paradiso, rimanevano scarti.

Shuzo ringraziò la donna con un cenno del capo e avanzò per la stanza ostentando una certa sicurezza di sé che però era più apparenza che sostanza. Lo si capiva dal modo in cui si guardava attorno, perché quando era davvero sicuro di sé, Shuzo guardava sempre in direzioni precise senza distogliere gli occhi. Adesso le sue iridi vagavano un po’ per i soffitti con le luci al neon spente, mentre luminosità naturale entrava dalle grandi finestre che affacciavano l’aula all’esterno.

L’occhio si fermò poi sugli unici elementi di interesse presenti nell’ambiente: ovvero la scrivania e ciò che vi era sopra.

Si avvicinò e studiò nel centro la bellissima opera conclusa che aspettava solo di essere spostata in un posto più consono, o di essere mostrata alla classe. La guardò con ammirazione, riempiendosi gli occhi di quelle curve così estreme e precise, dei rami accessori di tsuga che sembravano seguire l’onda invisibile del vento. Il tronco portante aveva un diametro di almeno due dita, infisso nel kenzan. Vaso rettangolare di bronzo, aveva una lavorazione antica di quattro draghi che si trasformavano nei piedini. Doveva essere molto antico e non una copia, ma lui non ne capiva ancora abbastanza; di sicuro il nonno di Natsuyuki avrebbe saputo rispondergli con certezza. Così i suoi occhi risalirono, lungo il ramo del Paradiso da cui nasceva la Terra, in un’origine comune che prendeva diverse strade. L’eventualità della vita. Puoi puntare al massimo e averlo come obiettivo, ma i bivi ti aspettano lungo la strada, ti sorprendono e a volte ti accecano, fino a farti sbagliare tutto. Tra loro, l’Uomo, aggrappato a entrambi ed estraneo, con il rosso intenso dei petali di camelia. Poteva appartenere all’uno o all’altro, poteva essere più vicino all’uno all’altro, ma tutti e tre tendevano all’obiettivo, invisibile come gli ostacoli.

Shuzo appoggiò i gomiti sulla scrivania e si abbassò, guardando la composizione da ogni angolazione. Non aveva mai visto piegature così forti e al tempo stesso naturali all’apparenza: sembrava davvero che il ramo fosse nato così. La vecchia Saito non si era mai spinta a tanto, i suoi lavori erano sì curvi, ma poco nei rami e tanto nelle foglie; a volte restava un sacco di tempo a lavorarle affinché prendessero la piega che voleva.

Poi si guardò attorno, e abbandonati ai piedi della perfezione vide gli scarti. Il troppo che diveniva inutile.

Troppo perfetto, troppo naturale, troppo lungo, troppo corto.

L’ikebana era anche quello: sfrondare affinché l’opera riempisse l’occhio, ma rispettasse il vuoto. E tra gli elementi correva un patto segreto che il semplice osservatore avrebbe potuto solo accettare come un dato di fatto, senza domandarsi niente, mentre l’ikebanista doveva conoscerlo a fondo, perché di quel patto era testimone e doveva farlo rispettare.

Lui col vuoto a volte tendeva a esagerare, isolando gli elementi fino al limite possibile. Forse perché dal vuoto era sempre stato circondato quindi lo interiorizzava anche troppo.

Quell’opera che aveva davanti, invece, nei suoi vuoti gridava ‘forza’ e non ‘solitudine’. Il ramo di tsuga si ergeva con potenza e solidità, sembrava nascere dal fondo stesso del vaso, la camelia brillava come un rubino. Un’opera grande, che stando ben dritto arrivava quasi al suo naso. Non doveva essere stato facile lavorarla, né tagliare l’eccesso, ma aveva un equilibrio generale che lui non era mai riuscito a sentire negli abbozzi di lavori che aveva fatto.

…e che non faceva da troppo tempo, ormai.

Guardando quello che aveva davanti sentì la mancanza dare una bastonata al fianco, qualcosa di doloroso, e poi fargli accelerare i battiti nel petto per il desiderio di volerlo fare: scegliere dei fiori, lavorarci, prendere dei rami. Anche gli scarti, dalle forme bellissime – perché ciò che veniva dalla perfezione non poteva essere meno bello – e i colori intensi come le foglie della camelia.

Shuzo si passò la mano sul viso e sulle labbra, gli prudeva nei palmi e sentiva la smania risalire lungo la schiena come ai tossici in astinenza che hanno la dose a un ago di distanza. Si guardò attorno e prese uno sgabello, avvicinandolo alla scrivania, ma senza l’arroganza di sedersi dalla parte del maestro. La sensazione tattile con i rami, però, non gli tolse il fiato, perché aveva ripreso a lavorarci da mesi al florocafè, la familiarità era tornata subito, ma li rigirò tra le mani, facendo scorrere i polpastrelli lungo le rugosità del legno, poco alla volta, come si toccava un corpo amato: lo stesso rispetto, la stessa sacralità e quella lentezza che ti faceva imparare che sensazione desse, come poterla ricordare e riconoscere la prossima volta, perché una pianta non si conosceva solo dalle foglie o dai fiori, ma anche dal legno. La corteccia di un tronco era importante quanto tutto il resto.

E Shuzo si trovò a rigirare quel ramo di tsuga che era stato reciso dal principale, era stato leggermente piegato sulla punta e questo significava che solo in seguito era stato reputato superfluo. Lo piegò un po’ verso il centro, con il pollice vi fece pressione cercando di accompagnare la curvatura del legno per imprimerne una che imitasse il tronco principale. L’imitazione della perfezione, ma fatta con gli scarti, perché anche ciò che era piccolo e all’apparenza insignificante poteva avere potenziali significati. Lui con i lavori contenuti si trovava più a suo agio, riusciva a tenerli sotto controllo, quasi avesse paura che potessero scappargli di mano e l’essenza di ciò che stava cercando o tentando di intrappolare potesse sfuggire allo stesso modo. Perché ognuno nell’ikebana riversava qualcosa di diverso: chi la rappresentazione dell’ordine naturale, chi il rapporto uomo/natura, chi lo scorrere del tempo. Per lui era un’eterna ricerca del sé; aveva capito che la risposta alla domanda ‘Chi sei?’ era destinata a variare costantemente. Non si era mai qualcosa di definitivo e la mobilità era la sua arte, la rappresentazione del mutamento intrappolato nell’unico istante e poi già diverso quello successivo. Questo era l’ikebana per lui: un’istantanea di sé stesso e dei suoi sentimenti.

Nel tempo che formulava tali pensieri, le mani lavorarono in autonomia, dando forma a una versione miniaturizzata dell’opera che aveva davanti. Una tazza più larga di una yunomi normale e più bassa, quasi tozza, era stata scelta come vaso e non potendo contenere un kenzan, aveva creato dei fermi con dei rametti di legno, sfruttando la tecnica usuale per lo stile Nageire. Arrangiarsi come si poteva e con cosa si aveva a disposizione non l’aveva mai preoccupato nella vita, era un’abitudine. Riuscì a tenere fermo il ramo principale e gliene accostò uno più piccolo e corto che rappresentava la Terra. L’Uomo, invece, era un bocciolo che stava appena iniziando ad aprirsi e il rosso dei petali della camelia faceva capolino con timidezza, accompagnato da due foglie verde brillante.

Quando fu certo che tutto si sarebbe mantenuto in equilibrio, Shuzo allontanò le mani piano piano e poi le intrecciò davanti alla creazione. Si fermò a guardarla, sollevando di tanto in tanto gli occhi sull’opera grande e maestosa. Inclinò il capo, si sollevò sullo sgabello per osservare la propria dall’alto.

Così simili, i due lavori, e allo stesso tempo così diversi nell’interpretazione che recavano, nel messaggio, e anche se la propria opera era chiaramente più raffazzonata, Shuzo fece affiorare comunque un sorriso perché non poteva negare il benessere che gli si era allargato nel petto, come una macchia d’olio: piccola come una goccia, all’inizio, ma che riusciva a divorarti in un solo boccone.

«Lo sapevo.»

Questa volta, Shuzo non riuscì a contenere i gesti e fece un salto che lo portò almeno a tre passi di distanza dallo sgabello.

Sulla porta – dove doveva essere rimasta per tutto il tempo, forse; lui comunque non si era accorto di nulla – c’era di nuovo la maestra che lo aveva scortato all’interno della scuola.

«Obaa-san, che cazzo di modi!» Malerba portò una mano al petto e riprese fiato, sbuffando un paio di volte.

«Vacci piano, giovanotto. Non sono così vecchia e non sono mica tua nonna!»

Shuzo fece per replicare, ma un improvviso déjà-vu gli fece sostituire al viso tondo uno sottile e lungo, però le altezze erano troppo diverse e lui scrollò il capo, pensando di essersi sbagliato.

La maestra, intanto, si era avvicinata per guardare meglio la tazza e ciò che vi emergeva. Annuiva con convinzione, sulle labbra si formarono delle grinze che accompagnarono il sorriso.

Lui si strinse nelle spalle e nascose le mani nelle tasche.

«Stavo aspettando e facevo passare il tempo.»

«E tu passi il tempo in questo modo?» ironizzò la donna, girando attorno alla scrivania, dal lato dell’insegnante. «Una bella contrapposizione, tra noi. Tu tanto grosso con una composizione così piccina, e io tanto piccina…»

«È sua?!» Shuzo strabuzzò gli occhi, indicando la grande opera in stile Seika.

La maestra sollevò il mento rendendo ancora più tonda la prospettiva del viso. «Credi sia così deboluccia solo perché ho una certa età? Queste braccia hanno sollevato pesi che neppure immagini.» Si tirò su la manica del kimono mettendo in mostra un muscolo di pelle cadente e sottile.

Lui soffocò una risata.

«Non essere indisponente!»

«Scusi, mi scusi.»

«La tua tecnica fa acqua da tutte le parti.»

«Non ho mai preso lezioni serie, né ho seguito un corso. Altrimenti perché sarei qui?»

«Ma hai qualcosa di familiare nel lavorare gli elementi…» La maestra strinse gli occhi, avvicinando il viso alla piccola riproduzione. «Ti ho visto, prima.»

«Non si spia.» Shuzo era un po’ sulla difensiva come sempre gli capitava quando qualcuno si metteva nella posizione di giudicarlo. Poi però rilassò le spalle. «Come fa a piegarli così tanto e in questo modo?»

«I rami, dici?»

Shuzo annuì, quelle onde avevano fatto centro al primo sguardo.

«Mai sentito parlare della tecnica kusabi-dame

«La vecchia che mi insegnato le due cose che so fare ne ha parlato qualche volta.» Ma lui non gliel’aveva mai visto fare.

«La ‘vecchia’?!» La maestra rise, lui si passò una mano tra i capelli con una punta di imbarazzo.

«Be’, giovane non era.»

«Ma era una grande artista.»

Una terza voce s’intromise nella discussione.

Shuzo vide il direttore Mizuno avanzare con sicurezza e un ampio sorriso. Il volto era scavato come lo ricordava, così come la sua figura segaligna; solo i capelli si erano ingrigiti di più dall’ultima volta.

«È esattamente come me ne avevi parlato, Yoshi. L’ho capito non appena l’ho visto.» La sensei guardò il direttore di sottecchi, e poi lui, sempre con quell’accenno di sorriso furbo che le riempiva di grinze gli angoli della bocca. «Simili giovanotti non si iscrivono mai per caso a un corso di ikebana.»

«Non potevo farmi scappare tutto questo potenziale, Saito-san. Te l’avevo detto.»

«Saito?!» fece eco Malerba guardando l’anziana maestra con occhi sgranati. La sensazione di déjà-vu trovò la certezza cui non aveva voluto credere, sulle prime, a causa delle troppe differenze con la vecchia dei suoi ricordi.

«Sono Saito Emiko. Saito Hanako era mia sorella maggiore.» Si presentò la sensei con un cenno del capo, poi incrociò le braccia al petto e inarcò un sopracciglio. «E ora spiegami come sei riuscito a sopportare quell’arpia!»

«Emiko-san!»

«No no, Yoshi. Era un’arpia! Di quelle grosse! Non difenderla sempre solo perché era brava. Lo so anch’io che era brava! Ma ciò non toglie che fosse acida come il tofu andato a male!»

Sensei Saito gonfiò le guance e a Shuzo venne in mente un criceto che si era appena infilato in bocca semi e noccioline. «Lei mi sembra sullo stesso filone, come acidità, ma magari mi sbaglio.»

«Cosa?!» L’insegnante tirò indietro il mento, aggrottando le sopracciglia in una smorfia piccata. Guardò Mizuno. «Solo uno con lingua tanto lunga poteva reggere mia sorella! Mi piace!»

Alla fine, la vecchietta gli rivolse un ampio sorriso che lo fece sentire a suo agio. Quell’ambiente, d’un tratto, non gli risultò troppo sconosciuto e la sensazione di un filo che non si era mai reciso tornò a tendersi e a far cadere la polvere accumulata nel tempo.

Shuzo rilassò le spalle, non si sentì tra estranei e un vecchio discorso stava per essere ripreso, quasi con gli stessi interlocutori.

«E scommetto ti piacerà ancora di più nei prossimi mesi, ma ora ti lasciamo al tuo lavoro. Io e il giovane signor Mori dobbiamo espletare le formalità dell’iscrizione. Vogliamo andare?» Mizuno accennò in direzione della porta.

Malerba e Saito-sensei – questa volta si sarebbe comportato per bene, a partire dall’onorifico giusto – si scambiarono un breve inchino di saluto, prima di prendere ognuno la propria strada. Ma solo per adesso. In quell’aula, tra la perfezione e gli scarti, Shuzo era certo che sarebbe riuscito a porre tutte le domande cui ancora non aveva pensato e a ottenere tutte le risposte che non aveva ancora trovato.

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …e il percorso serio, da ikebanista, comincia da qui: nella scuola Kadoenshu (una branca della Scuola Enshu di Ikebana), con la sorella della sua prima maestra :3 Quando si dice il destino…

Shuzo finalmente torna a creare, questa volta nella maniera giusta, affinando l’istinto e imparando le regole come non ha mai fatto con la vecchia insegnante. :3

Noi sappiamo già che alla fine di ‘Malerba’ lo ritroveremo insegnante a sua volta – un sensei! ** – quindi il percorso è andato a buon fine, e anche di più! :D


E con 'Jikan' ci ritroveremo lunedì 6, puntuale! Sarà la vostra calzina della Befana! XD
Ma credete forse che il 1° Gennaio vi lasci a secco? *sogghigna* In questi ultimi anni, vi ho sempre lasciato qualcosa per festeggiare il primo dell'anno, e quindi, quasi come da tradizione - visto che finisce che li aggiorno sempre durante le feste XD - ecco che arriverà una nuova shot della serie Soulmate! *_*

Arrivederci al 2020!!! *_________* <3 Buona Fine e Buon Principio a tutti voi!!! <3

 

 

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Capitolo 7
*** #7 - Le Grandi Serre ***


Jikan - #7

Note Iniziali: ed ecco arrivare un momento che qualcuno di voi mi aveva chiesto dopo la lettura dell’Epilogo: ma Kaede e Nobu?!? XD
Eccoli qui! *-*

Le mie Mezzeseghe T_T Crescono. T_T No, pliz! Restate bambini scemi per sempre! PLIZ!!! *valle di lacrime*

Siamo a Marzo, sta per arrivare la fine dell’anno e l’inizio delle vacanze che termineranno a metà Aprile, circa, quando inizierà il nuovo anno scolastico. Shuzo ha iniziato la scuola di ikebana da poco più di due mesi, e i ragazzini stanno per affrontare il passaggio dal secondo al terzo anno di liceo.

Grandi cambiamenti nell’aria, grandi decisioni… e grandi serre. 😉

 

Buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

- #7: Le Grandi Serre -

 

 

 

«Vedi che mi fermo qualche minuto in più, stasera.»

«Perché? C’è da lavorare?»

«No, devo parlare con aniki.»

«Di cosa?»

«Di una cosa!»

«Cioè?»

«Di una cosa, Nobu!»

«Ma stai facendo il misterioso?»

«E tu che cazzo vuoi sapere?!»

«…boh, okay.»

«No, dai… scusa…»

«Il solito carattere di merda. Ci vediamo dopo.»

«Aspetta! Dai, ti ho chiesto scusa. Yuki?»

Ma quando si accorse che il ragazzo non visualizzava i suoi messaggi, Kaede tirò un lungo sospiro e si passò la mano nei capelli ricci che crescevano come un cespuglio di bosso appena potato sulla sommità della testa. Piegò il capo di lato e si mordicchiò l’angolo della bocca, mentre infilava il telefono in tasca e afferrava il grembiule per cominciare il turno pomeridiano al Mori no Kokoro.

«Sono proprio uno stronzo…»

«Abbiamo l’autostima a mille, vedo.»

Kaede sobbalzò alla voce di Shuzo, che restava con una spalla appoggiata alla porta della cucina. Niji-mama non era ancora arrivata e Kumi aveva appena infornato e poi raggiunto la sala del locale.

«Tutto okay?»

«Sì, a posto.»

«E quando è a posto ti dai dello stronzo?»

Kaede sbuffò. «Ti ci metti pure tu?»

«Io mi ci metto sempre, bamboccio.»

Che fosse quasi al terzo anno del liceo non faceva alcuna differenza, Kaede ormai si era abituato: tanto per aniki sarebbe sempre rimasto una mezzasega. Non gli rispose neppure e Shuzo non infierì.

«Piuttosto, come stai messo con lo studio? Non hai da recuperare in vista della fine dell’anno scolastico?»

«No, no. Ho tutte sufficienze. Sono a posto.»

«Vedi di non scherzare», venne ammonito con tanto di indice puntato. «Il prossimo è l’ultimo anno, devi prepararti agli esami. Niente stronzate. Se vengo a sapere che non ti applichi come si deve, te le suono a passo di valzer.»

Kaede sbuffò, alzando le mani in segno di resa. «Lo so, lo so. Me l’hai ripetuto ogni fottutissimo anno. L’ho imparata la canzone, aniki!»

«Bene. La prossima volta ti chiederò di cantarmi il ritornello, allora.»

«Senti…» Kaede lo fermò prima che se ne andasse, ma tenne il viso abbassato fingendo di dedicarsi al laccio del grembiule. «Più tardi ce l’hai un minuto o devi andare alla Kadouenshu?»

«Vuoi già cantarmi il ritornello?» lo canzonò Shuzo, e lui gli lanciò un’occhiata eloquente che lo fece ridacchiare più forte. «Sì, ho più di un minuto. Non ho lezione, stasera.»

«Okay, allora ti va se parliamo di una cosa, dopo?»

A Kaede non passò inosservato come Malerba strizzasse appena gli occhi, studiandolo. Però non chiese altro, dando invece un colpetto sul legno dello stipite.

«Certo. Ma ora sbrigati a metterti al lavoro, c’è gente al locale, avremo parecchio da fare. Sei pronto?»

«Sissignore.»

 

Shuzo non gli aveva staccato gli occhi di dosso, ma con discrezione. Come quando controllava i pivelli della gang cui doveva fare da scuola e balia i primi tempi. Vigilava. Seguiva Kaede nei movimenti quotidiani già rodati, che si mischiavano alla confidenza che ormai poteva permettersi con i clienti abituali, primi fra tutti i nonni: quella mezzasega era stata eletta a nuova vittima sacrificale dalla Banda Bassotti che non gli aveva risparmiato gli scherzi peggiori del repertorio, come aveva fatto con lui. Kaede doveva conquistare la fiducia, ed era sulla strada giusta, perché stava imparando a tener loro testa; o forse erano Abe e gli altri a non avere più l’età per poter dare da pensare a un ragazzino come Satou, nel pieno della fase più bastarda dell’adolescenza? Quella che comprendeva il liceo e ti faceva credere d’esser già maturo abbastanza da permetterti di poter tenere testa a un adulto, senza renderti conto che dovevi ancora macinarne di strada. L’arroganza della maggiore età che si faceva sempre più vicina, la follia delle nuove esperienze o la conferma di altre già assaggiate alle medie.

A quella stessa età, lui ne aveva già fatte di cotte e crude, aveva tre condanne sulle spalle e una lista di capi d’accusa che sembrava infinita. Sarebbe stato a un passo dal morire, avrebbe ucciso con le sue mani, e il suo corpo sarebbe stato costellato di tatuaggi in breve tempo, come un foglio bianco che doveva essere riempito di tutto.

Per fortuna, sapeva che Kaede si sarebbe evitato il peggio che lui aveva preso in pieno viso, ma ciò non significava che sarebbe riuscito a scansare tutto e il suo sesto senso gli aveva detto fin dall’inizio che qualcosa di importante era nell’aria.

Avrebbe solo dovuto aspettare.

Lo aveva osservato, studiato, ma aveva atteso, senza mettergli alcuna fretta, tanto sapeva che sarebbe stato Kaede a cercarlo quando avrebbe deciso che fosse arrivato il momento di parlare.

Per questo, Shuzo aveva lavorato come sempre fino alla chiusura e ora se ne stava in veranda a fumare una sigaretta, con un piede che ciondolava giù dal legno dell’engawa.

Stava arrivando la primavera, l’hanami avrebbe scatenato la pioggia dei suoi petali di lì a qualche settimana e questo avrebbe significato solo una cosa: il vecchio anno scolastico sarebbe terminato e uno nuovo di pacca si sarebbe profilato all’orizzonte. Si diventava più grandi, si sentiva l’odore delle aspettative e a lui sfuggì un sorriso nell’aspirare una boccata dalla sigaretta.

«E anche oggi, il nonno di Jiro si è dovuto arrendere: se sperava di fregarmi è cascato male, sono troppo avanti per loro.» Kaede avanzò con passo baldanzoso e le scarpe da ginnastica nella mano. Indossava di nuovo il gakuran, ed era pronto ad andare.

«Non darti tante arie, bamboccio, o finisce che te lo farai mettere nel culo senza accorgertene.»

Kaede storse la bocca con supponenza e si appoggiò alla colonna di legno. Tergiversava un po’ nello spostare lo sguardo verso le piccole serre, e non aveva l’aria di voler andare via subito.

«Viene a prenderti lo spilungone?» domandò d’un tratto, mentre ciccava sul selciato.

«Sì, ma gli ho detto di passare un po’ più tardi. Posso sedermi?»

Shuzo accennò con il mento e Kaede appoggiò le scarpe sullo scalino di pietra, poi assunse una posizione speculare alla sua, con la schiena poggiata alla colonna e la borsa scolastica abbandonata accanto.

Che Kaede fosse nervoso era così palese che la prima cosa che fece fu di offrirgli una sigaretta. Il ragazzo l’accettò subito e lasciò che fosse lui ad accendergliela. Esalò la prima boccata con quello che si manifestò come un lungo sospiro.

«Senti, uhm… com’è che hai fatto tu? Perché lo sei, insomma, si vede. E poi con Izawa-san, ecco, cioè voi, non è una situazione equivoca, vi ho visti, vi hanno visti tutti al locale. Quindi, volevo capire, no, voi due-»

«Vuoi sapere se scopiamo?»

Da rosso che Kaede era diventato già, mentre cercava di articolare quel discorso senza capo né coda, il viso divenne quello d’un semaforo. Ci sarebbe mancato solo che gli fosse uscito il fumo dalle orecchie.

Shuzo storse le labbra in un sogghigno, mentre prendeva una nuova boccata dalla sigaretta. L’aveva detto, lui, che qualcosa di importante sarebbe venuto fuori.

«Sai sempre dire le cose con classe e maestà.» La manata di Mamoru lo colpì dietro alla nuca con uno schiocco che gli fece stringere gli occhi, ma non smettere di masticare una risata stronza. «Shuzo Mori tra i mille talenti è anche un poeta.»

Il boss gli passò alle spalle e scese dalla veranda con un saltello, lanciandogli un’occhiataccia sottile come lama d’ossidiana scheggiata.

«Oh, e che ho detto? È la verità.»

«Sì, ma c’è modo e modo.»

«Scusa, volevi che usassi un po’ più di sentimonto?» lo scimmiottò, sbattendo le ciglia e portandosi teatralmente una mano al petto.

Mamoru scosse il capo e raggiunse le piccole serre, borbottando un ‘deficiente’ che però rimase frammentato sotto ai denti.

Shuzo aspirò ancora e spostò lo sguardo su Kaede che stava recuperando una tonalità più normale. Deviava il suo sguardo e fumava con nervosismo. Lo aveva capito già da un po’ che quegli argomenti lo imbarazzavano, ma non aveva mai capito perché. Alla sua età, i ragazzi non facevano che parlare di chi portarsi a letto e come, o delle nuove, e più o meno vere, imprese sotto le lenzuola: la scopata dell’anno, la tettona dell’anno, chi aveva il culo più sodo, quanto in bocca sapevano prenderlo. Kaede, invece, deviava, minimizzava, dava a intendere che non gli interessava, ma in realtà diventava teso.

Ora sapeva perché.

«Comunque, sì, stiamo insieme. Siamo anche piuttosto palesi.»

«Sì, lo so, e non è di voi che volevo parlare. Insomma, io volevo sapere… cioè, tu quando ci sei arrivato?»

«Prima media.»

Kaede inarcò un sopracciglio, si passò una mano nei capelli, ma i ricci non si mossero dalla loro forma, perché troppo stretti. Aveva assunto un’espressione di colpa.

«Tu ci sei arrivato ora?»

«L’anno scorso…»

«Non è importante quando. C’è chi lo capisce prestissimo e chi ha bisogno di tempo. Non devi sentirti in ritardo per questo.»

«No, ma io-!» Kaede sollevò il capo di scatto pronto a darsi un tono più esperto o di disinteresse, ma ci ripensò all’ultimo, perché si era reso conto che lui non lo stava prendendo in giro.

«Cos’è che vuoi sapere, di preciso?»

Il ragazzo tergiversò ancora un istante, la sigaretta ormai finita aveva gli ultimi due tiri prima del filtro.

«Come si fa se… se c’è qualcuno che ti piace? Cioè non è come andare da una ragazza, okay? Ti guardano male.»

«E invece si fa esattamente allo stesso modo. Vai dal tipo, gli chiedi di uscire, e tanto potrai ricevere un sì o un no come risposta, insulto annesso. Non cambia niente. Sai quando cambia, invece?» Shuzo spense il proprio mozzicone nella piccola noce di cocco che usava come ceneriera. Kaede pendeva dalle sue labbra. «Quando la persona a cui vuoi chiederlo è uno spilungone che conosci da una vita e che, finito il liceo, partirà per un’altra prefettura.»

Kaede si tirò indietro e sgranò gli occhi. Non ebbe neppure la forza di arrossire, tanto dalla sorpresa, ma rimase a bocca aperta a fissarlo con le sopracciglia aggrottate che urlavano: ‘come cazzo hai fatto a capirlo?!’.

«Boom!» Shuzo gli mollò un colpetto alla fronte. «Sono un cazzo di dio! Un cazzo di dio, gioia, hai sentito?!»

«Sei un coglione», provenne con rassegnazione dalla piccola serra.

Kaede, ancora sconvolto, afflosciò le spalle e spense la sigaretta senza terminarla.

«…non so che fare.»

«Sì, che lo sai. Vi incontrerete e gli dirai come stanno le cose.»

«No, ma sei matto, aniki?!» Kaede scosse il capo con vigore. «E se dovesse andare male?! Se dovesse fargli schifo o se gli facessi schifo io? Come faccio a rischiare…»

Shuzo affondò il viso nella mano, gomito contro il ginocchio. In quella paura rivide smorfie conosciute e timori affrontati tante volte in lunghe chiacchierate notturne, o al telefono. Rivide errori fatti a fin di bene e scelte vigliacche.

«Facciamo che ti racconto una storia, ascoltala bene: mio fratello era innamorato del suo migliore amico. Lo è stato per quasi tutta la vita, si conoscevano dalle elementari, ma non gli ha mai detto nulla perché, be’, aveva paura, come te. Paura di perdere lui e la loro amicizia. Allora iniziò col dirgli che era gay e il suo amico lo accettò. All’epoca gli era sembrato un traguardo importantissimo, qualcosa che avrebbe potuto bastargli… Ma vedere la persona che ami uscire con altre ragazze, ascoltare i suoi racconti su come le ha baciate e come ci è andato a letto, credimi, ti fa un male fottuto. Mio fratello ci ha sofferto tanto e, quando ne parlavamo, diceva sempre: ‘sì, glielo dirò, prima o poi glielo dirò’. Aspettava, non so, forse la certezza che non sarebbe stato rifiutato, almeno come essere umano. E poi è morto. E il segreto se l’è portato nella tomba.»

Kaede abbassò la testa, si torturava le pellicine attorno al pollice sinistro, che ogni tanto mordicchiava. «E l’amico? È stata dura, per lui, perderlo?»

«Oh, sì. Puoi dirlo forte. Sai perché? Perché ha capito che il dolore che sentiva non era solo per la scomparsa dell’amico più caro che avesse, ma perché anche lui lo amava. Lo amava, ma era troppo tardi. E ha passato l’inferno nel sapere che anche mio fratello l’aveva amato. Due imbecilli che non facevano che dirsi palle: uno per troppa paura e l’altro perché non capiva niente.»

«Mi stai dicendo che devo rischiare?»

«Ti sto dicendo che mio fratello credeva di avere tempo. Non è così, non è mai abbastanza. Credi di fare del bene all’altra persona, ma fai male a te stesso e nessuno dei due ne uscirà illeso. I rimpianti sono gli unici nemici che non puoi battere, e se andrà male almeno potrai dire d’essere stato onesto e sarai pronto per guardarti attorno, o altrimenti Nobu non ti uscirà più dalla testa.»

«E… che ne è stato di quell’amico?»

«Sta bene, ora, ma ci sono voluti anni. Non è stato facile e alla fine anche lui ha trovato qualcuno con cui provare a essere felice. Ma entrambi sanno che se mio fratello fosse stato onesto, le cose sarebbero andate diversamente. Lui magari sarebbe ancora vivo, chi può dirlo?»

Shuzo osservò Kaede passarsi ancora una volta la mano nel riccio stretto dei capelli e pensò d’esser stato forse troppo duro, ma quando gli vide alzare la testa si sentì tranquillo dello sguardo che lesse nei suoi occhi scuri: per quanto complesso fosse e pieno di dubbi, aveva capito ed era più pronto a fare la sua mossa.

Shuzo l’aveva sempre saputo che Kaede era un ragazzo in gamba; dopotutto, si somigliavano.

Il trillo del campanello di una bicicletta seguì quasi simultaneamente quello di un messaggio arrivato sul cellulare di Satou. Il ragazzo lo estrasse in fretta dalla tasca del gakuran per sbirciare di chi fosse. Lui osservò ogni movimento e catturò il guizzo che gli passò negli occhi, irrigidendolo un istante o, semplicemente, facendogli capire che anche quel tempo – quello dell’attesa del confronto – era finito.

«È arrivato, vero?»

«Gli avevo detto che ci avrei messo un po’ di più, ma lui è sempre puntuale…»

«Tanto non credo ci sia più niente da dire. La prima lezione è finita, ti aspetto per la seconda.» Nel dirlo, passò più volte il medio della sinistra nel cerchio chiuso tra indice e pollice della destra.

Kaede divenne di mille colori, Mamoru gli lanciò un sasso che lo mancò per un soffio, andandosi a schiantare sul legno.

«La finezza!» gli urlò dietro con sguardo truce.

«Aniki!»

«Cosa?! Quello è lo step numero due, c’è bisogno che qualcuno glielo spieghi! E i porno non sono realistici!»

«Sei una figura di merda, cazzo! Una totale e disagiata figura di merda!»

«Ah sta’ zitto, moralista delle mie palle!»

Kaede si infilò al volo le scarpe e saltò giù dalla veranda, pareva volesse scappare a gambe levate da quella discussione che aveva preso la piega più storta di tutte.

«Grazie, per i dettagli facciamo un’altra volta!»

«Paura, eh?»

«Fottiti!» Kaede gli mostrò il medio, poi però infilò le mani nelle tasche. «E grazie.»

«Le mie consulenze non sono mica gratuite. Mi devi da bere… che so, un po’ di quel liquorino di tuo padre?»

«Non dargli retta, Satou.»

Shuzo lanciò un’occhiataccia a Mamoru, che era il solito guastafeste, e gli fece una smorfia. Appoggiato con la spalla all’ingresso della piccola serra, il fondatore del Mori no Kokoro aggiunse: «Anzi, se ti serve un posto dove poter affrontare il discorso con Nobuyuki, vai alle grandi serre.»

«Posso davvero, Izawa-san?»

«Basta che ti ricordi di chiudere il cancello quando avrai finito.»

«Ottima scelta. Niente può andare male alle grandi serre.»

Kaede spostò lo sguardo su entrambi e poi rivolse loro un inchino di ringraziamento. Si caricò la borsa a tracolla e corse a recuperare la bicicletta parcheggiata accanto al cancelletto d’ingresso. Pochi minuti e si lasciò loro e il Kokoro alle spalle.

Shuzo era riuscito a carpire, per un istante, la testa di Nobu che svettava sopra tutto e tutti, prima che il cancello venisse richiuso.

Sorrise.

Mezzeseghe che, da tre quarti di sega, stavano davvero per diventare seghe intere a tutti gli effetti. Poco alla volta, un passo dietro l’altro, mentre si perdevano e trovavano nel tempo anche loro.

Non aveva idea di cosa avrebbe risposto Nobu quando Kaede si sarebbe fatto avanti, perché lo spilungone era molto riservato e non si tradiva facilmente, ma lui sperò che andasse davvero per il meglio. Erano i suoi ragazzini, quelli, mica voleva vederli con i cuori infranti!

«Beata gioventù…» gli sfuggì con un tono che avrebbe fatto compagnia a quello del vecchio Abe, ma dentro pensava davvero che fossero beati in quell’età così leggera e pesante al tempo stesso. Dove ti scontri con i primi grossi ostacoli, ma che non è ancora definitiva come la maturità che aspettava tutti alla fine del liceo. Lui, poi, la sentiva ancora più nostalgica e distante perché non l’aveva mai vissuta in maniera normale.

Il tocco deciso di dita che si infilavano nei suoi capelli, spingendo leggermente la testa di lato, lo fece voltare e sollevare lo sguardo. Lasciò che la mano si intrecciasse ai capelli più volte nell’andare e venire di quella lunga carezza.

Mamoru aveva un sorriso morbido come pasta mochi e gli occhi stretti appena un po’.

«Ci pensi ancora.»

«Perché, tu no?»

«Sempre», sospirò Mamoru e Shuzo catturò una punta di colpevolezza negli occhi.

Appoggiò la testa contro di lui e chiuse gli occhi, prendendo respiri lunghi e profondi. Godeva delle mani tra i capelli, scivolavano dalla tempia alla nuca, e godeva della primavera a un passo, con la sua aria nuova.

«Ma nella sfortuna,» riprese Mamoru, «non dimentico neppure d’esser stato fortunato, perché ho incontrato te.»

«Non è la stessa cosa.»

«Non deve esserlo. Siete due persone diverse, è giusto che sia così.»

Forse avrebbe dovuto smetterla di sentire quella punta di egoistica felicità quando Mamoru diceva di essere felice di aver incrociato la sua strada, quando sottolineava la differenza tra lui e suo fratello. Eppure, non smetteva di essere lì, lo faceva sentire – almeno un po’ – unico ai suoi occhi, qualcuno che non poteva essere sostituito, come sempre sarebbe stato Yuzo per entrambi. Poteva sperare di essere altrettanto importante, anche solo per un attimo velocissimo, prima di tornare a piantare bene i piedi per terra.

«Maaaa…»

Shuzo sentì tirare con forza i capelli, tanto da sollevare la testa. Mamoru adesso aveva un tono di rimprovero e il sopracciglio inarcato.

«Ahio! Ahio!»

«…devi imparare a dire le cose come si deve.»

«Che ho fatto?!»

Il sopracciglio di Mamoru raggiunse angoli acutissimi. «Scopare?»

«Ah! Ancora con quella storia?!» Shuzo si liberò della stretta con una manata, mentre il compagno prendeva posto proprio dove Kaede era rimasto seduto fino a qualche momento prima.

«Certo che riprendiamo quella storia. Hai dei modi di merda.»

«Perché? Perché ho chiamato le cose con il loro nome?»

«Ah, perché quindi noi scopiamo?»

«Certo che sì.» Shuzo sollevò i palmi delle mani e le spalle. Ma l’espressione truce di Mamoru gli fece alzare gli occhi al cielo e portarsi una mano al petto. «Scusa, preferisci che dica che ‘facciamo l’ammmore’

«E lo stai anche chiedendo?»

«Gioia, è la stessa cosa.»

«No che non lo è.»

«Invece sì, e posso dimostrartelo. Scommettiamo? Se vinco, stanotte farai tutto quello che voglio. E ovviamente starai sotto.»

Allo stesso modo, Mamoru storse le sue labbra, lasciandosi sfuggire un mezzo sbuffo sorridente. Aveva l’atteggiamento sicuro che l’aveva conquistato e la certezza di non poter mai perdere. Lo faceva impazzire quando lo guardava così, e sperò di poter rivedere quello stesso sguardo anche la notte; gliel’avrebbe fatto tirare fuori a costo di usare unghie e denti.

«Ma se perdi, allora sarai tu a fare quello che io vorrò. Andata.»

«Perfetto.» Shuzo ammiccò e cambiò posizione. Ne assunse una più composta, gambe incrociate a mo’ di indiano e schiena dritta. Le braccia erano abbandonate sulle cosce e le dita intrecciate. «E quindi, insomma, la grande differenza sta che dire ‘scopare’ è ridurre tutto al sesso, mentre dire ‘fare l’amore’ eleva la faccenda sul piano sentimentale, giusto?»

«Giusto.»

«Okay, allora rispondi a un paio di domande: con chi scopi?»

«Con te», rispose pronto Mamoru.

«Perfetto. E di chi sei innamorato?»

«Ma che domande! Di t-» Mamoru si bloccò, e lui, nello stesso momento, sciolse un sorriso, mentre distendeva le braccia nell’aria e faceva scrocchiare lentamente le dita.

«Sai, mi pare entri in gioco quella cosa chiamata proprietà transitiva, no?» Shuzo si sporse, affondò con piacere il colpo di grazia riuscendo finalmente a catturare il suo sguardo infastidito. «Non è come lo chiami ciò che importa, ma con chi lo fai. E con te io scopo e faccio l’amore allo stesso tempo, ogni volta. Sono la stessa cosa.»

Adagio, prendendosi solo mezzi sbuffi come risposta, Shuzo infilò le ciabatte e si alzò, scendendo dall’engawa. Nel passargli accanto per andare a sistemare le piccole serre gli strinse la spalla, avvicinando le labbra all’orecchio.

«E vedrai come te lo dimostrerò, stanotte.»

Si aspettò d’essere mandato a cagare per direttissima, magari di dover schivare una manata, ma quando si allontanò, tutto quello che udì fu un mezzo borbottio ingrugnito che gli fece alzare i pugni al cielo in segno di vittoria: «Detesto quando ha ragione.»

 

Nobu non nascose la sorpresa nel momento in cui vide Kaede uscire dal cancello posteriore del Kokoro, tanto da mettere in ombra anche l’espressione scazzata con cui aveva voluto giocare la carta del senso di colpa nei confronti dell’amico. Il messaggio glielo aveva mandato da nemmeno un minuto, si era aspettato di dover attendere almeno una mezz’ora, se non di più, invece Kaede era appena uscito spingendo la bicicletta e lasciando che il cancello si richiudesse sui suoi passi con un tonfo.

«Ma non avevi detto che avresti fatto tardi?»

«Mi sono liberato prima del previsto.»

Nobu ingoiò la sorpresa, indispettito dal tono e dalle sue rispose evasive. Proprio non glielo voleva dire di cosa doveva parlare con aniki. Quest’ultimo e Kaede, da quando lavoravano entrambi al Kokoro, erano diventati ancora più stretti nei rapporti. Kaede si lasciava guidare da Shuzo e gli chiedeva pareri su tutto. E dire che c’era stato un tempo in cui non ne aveva voluto sapere, in cui lo detestava come fosse il peggior nemico. Ora non sapeva fare un passo senza di lui.

Nobu si era riscoperto geloso, perché vedeva scalzata la propria posizione di migliore amico, colui che sapeva sempre tutto. Adesso non sembrava essere più così: Kaede e Shuzo parlavano di cose in cui lui non poteva più inserirsi. La sua esclusività era stata cancellata e non gli era andata a genio. Neanche un po’. Per riflesso, si era buttato negli allenamenti di basket alla ricerca di consolazione e, sì, anche un pizzico di ripicca: magari, vedendolo un po’ più distante e assente, Kaede si sarebbe posto qualche domanda, gliene avrebbe poste a lui. Magari sarebbe riuscito a parlargli come lui stava cercando di fare da un po’ di tempo senza però trovare il coraggio necessario, e invece il suo migliore amico non chiedeva nulla, gli lasciava tutto lo spazio di cui aveva bisogno.

Devi allenarti? Bravissimo, non perdere tempo! Hai le selezioni per l’università! Devi studiare! Devi diventare un campione!

Incoraggiamenti a tutto andare e mai una volta che se ne fosse uscito con un egoistico ‘molla gli allenamenti, cazzo, e andiamo a fare qualcosa insieme!’. Probabilmente, la sua presenza non era più così importante. Neppure la loro amicizia.

Magari Kaede aveva sviluppato altri interessi che li stavano separando e, una volta finito il liceo, ognuno sarebbe andato per la propria strada. Telefonate sporadiche, cartoline d’auguri. Fine.

Eppure, nonostante tutto, lui continuava a presentarsi puntuale agli appuntamenti, anche quando era palese che prima o dopo non avrebbe fatto la differenza. Lui non faceva più alcuna differenza nella vita di Kaede.

«Gli altri sono alla tavernetta del nonno di Daichi, andiamo.»

«Prima passiamo alle grandi serre.»

Lui alzò gli occhi al cielo e gonfiò le guance, ma trattenne lo sbuffo. Sempre le grandi serre, sempre qualcosa che aveva a che fare con aniki e le sue dannate piante.

«Dobbiamo proprio? Non hai staccato con il lavoro?»

«Sì, devo proprio, okay?»

Fino a qualche anno prima, Nobu aveva avuto per Shuzo lo stesso rispetto che ne avevano gli altri. E anche adesso sapeva di dovergli qualcosa e sapeva che, se avesse avuto bisogno di un consiglio, sarebbe sempre potuto andare da lui. Aveva impedito che Kaede finisse in casini troppo grandi e pericolosi. Eppure… quella gelosia che nutriva nei suoi confronti gli faceva risultare tutto fastidioso e la sua presenza troppo ingombrante nell’amicizia che aveva con Satou.

Poi si dava del cretino, sapeva che non era colpa di Shuzo e che, soprattutto, non c’era interesse verso Kaede: punto primo perché era un ragazzino, e punto secondo perché stava con Izawa, era noto. Era solo lui che si faceva mille film e paranoie e inventava anche le cose che non esistevano. Nella sua testa ingigantiva tutto.

L’aveva detto, era un cretino.

Ma Kaede lo era ancora di più.

«Come ti pare», replicò mimando un moto di disinteresse, nella speranza che l’altro dicesse finalmente qualcosa, ma Kaede aveva labbra cucite e ogni parte di sé proiettata in una sola direzione. E lui, che continuava a ripetersi di essere cretino, ci si sentiva ancora di più perché invece di piantarlo lì, lo seguiva.

Insieme, breve fila indiana, pedalarono verso le grandi serre senza dirsi nulla, ma stando l’uno dietro l’altro. A esser dietro era sempre lui; lui che seguiva e inseguiva, che gli guardava le spalle, perché a prescindere da ogni altro sentimento, il rispetto che nutriva per la sua posizione di leadership nel gruppo veniva per prima. Kaede era il capo, anche se non erano più ragazzini delle medie ma iniziavano tutti a pensare con le proprie teste, mettendosi sullo stesso piano. Ai suoi occhi, però, rimaneva come il capitano della nave su cui veleggiavano; e avrebbe potuto essere amico strettissimo, ma prima di ogni altra cosa sarebbe stato sempre quello a cui affidare anche la vita.

Il rispetto tra ragazzi era una cosa seria, come un marchio. Lo imparavi fin da subito, ti rimaneva addosso.

Davanti al cancello d’entrata delle serre smontarono entrambi dalle biciclette.

Kaede aprì un battente, e lo lasciò così. Loro entrarono, bici alla mano. Le poggiarono accanto alle porte chiuse delle strutture di legno e pvc che aveva avuto l’onore di vedere dall’interno più volte. Kaede gliele aveva mostrate con occhi pieni di una meraviglia che non gli aveva mai visto. Che si fosse innamorato di quel posto era stato lampante, e anche a lui era piaciuto moltissimo.

Le grandi serre. Così le chiamavano. E spesso aveva carpito qualche discorso tra aniki e i nonni o Izawa in cui dicevano fossero magiche. Magari era vero, a giudicare dall’effetto che avevano fatto su Kaede, e anche lui non ne era rimasto indifferente, trovando nell’enorme distesa divisa tra viti, filari di tè, serre e piante qualcosa di indefinibile che ogni volta gli faceva trattenere il fiato per alcuni istanti.

Anche ora, che avrebbe dovuto odiare la devozione che Kaede riversava su di esse, si sentì strappare l’aria dai polmoni per un paio di respiri, tre, mentre il tramonto sgocciolava il finale e il cielo si era fatto già scuro. Nonostante il buio, o forse proprio a causa di esso, quel posto sembrava avere un ascendente maggiore di quando era investito dal sole. Un ascendente che, nel suo caso, era anche inquietudine.

Kaede, invece, ci si muoveva a suo agio, consapevole di dove andare e toccare. Accese la luce del grande lampione esterno, posto su uno dei lati della serra. L’oscurità si schiarì, ma allo stesso tempo creò nuove ombre che prima non c’erano state.

Il suo miglior amico prese posto sulla staccionata accanto alla serra; si sedette sulla sommità e mise mano al tabacco per farsi una sigaretta.

Nobu osservò per un po’ la sua testa bassa, concentrato su ciò che stava facendo. Si era aspettato dovesse intrattenersi in qualcosa di urgente, ma sembrava che tutta l’attenzione di Kaede fosse solo sulla cicca.

Iniziò a spazientirsi.

«Come fai a fumare dopo una simile salita?»

«Abitudine», sorrise. «Forse ho i polmoni migliori dei tuoi, campione.»

Nobuyuki si emozionava sempre quando era Kaede a chiamarlo così. Presagiva un futuro di successi, dandoli per scontati, e questo lo faceva sentire ‘bravo’ ai suoi occhi. Uno che poteva farcela. Ma in quel momento, che era già irritato, lesse quel complimento come una presa in giro.

«Non sono ancora campione di niente, piantala di ripeterlo.»

«Lo diventerai. Manca poco, ormai. Solo qualche giorno e inizieremo il nostro ultimo anno.» Kaede sparse parole e fumo che Nobu seguì come se la sua voce fosse divenuta solida abbastanza da essere visibile. Voce di fumo. «Passerà in fretta», concluse esalando verso il cielo la nuova boccata, affinché non fosse lui a respirare il suo fumo passivo. Poi lo guardò, ma la luce del lampione che pioveva dall’alto creava troppe ombre, perché Kaede c’era proprio sotto. Lui, invece, aveva la luce dritta in faccia.

«Siediti.»

«Sto in piedi», s’affrettò a rispondere. «E poi non mi hai detto che siamo venuti a fare, qui. Cioè, non mi dirai che volevi solo fumarti una sigaretta?!»

«Ora ci arrivo, ma prenditela con calma anche tu. Dai, siedi.»

«Ho detto che sto in piedi. Poi lo sai che se mi siedo devo stare curvo per parlarti. Meglio se resto qui.»

«Ehi, non infierire dandomi del tappo!»

«Non ti do del tappo!»

Anche se nascosto dalle ombre, Nobu vide quel mezzo sorriso sulle labbra di Kaede. Lo stava prendendo in giro e non ne capiva il perché. Non capiva il perché di quella conversazione, della sfacchinata per arrivare alle grandi serre, non capiva niente.

«Dovrai iniziare a studiare seriamente per gli esami di ammissione alla Aichi University.»

«Lo so.» Il pensiero della scelta universitaria che si avvicinava fino a respirargli sul collo, il fatto che avrebbe lasciato Obuchi per provare a seguire una possibile carriera sportiva, lo fecero sospirare. «E tu? Hai deciso dove andrai?»

L’interpellato sorrise più apertamente, inspirò ancora dalla sigaretta e poi la spense anche se era arrivato solo a metà. Sfregò le mani tra loro, come dovesse togliersi della terra e appoggiò i palmi sulle cosce, con le dita rivolte verso l’interno.

«Resto qui.»

«Che vuoi dire?»

«Quello che hai sentito.» Kaede sollevò le sopracciglia in due archetti divertiti mentre sorrideva. «Non l’avresti mai pensato, eh? Non sei il solo. Anche papà m’ha guardato come stai facendo tu; credeva che me la sarei data a gambe da Obuchi.»

«Non andrai all’università?!»

«Andrò al College Botanico delle Tecnologie Orticole; ne hanno aperto una succursale a Shizuoka City da qualche mese.» Kaede sciolse un sorriso fiducioso e soddisfatto. «Ho scoperto che lavorare con le piante mi piace. Ma, soprattutto, mi piace coltivare e controllare che tutto proceda bene.»

Alla sorpresa, negli occhi di Nobu, si sostituì un moto di collera inaspettato. «È a te che piace o te l’ha detto aniki?!»

«Aniki? E che c’entra?»

«C’entra sempre visto che fai tutto quello che dice!»

«Ma piantala. Lui nemmeno lo sa!» Kaede agitò una mano. «L’ho detto solo a mio padre… e a te. Non lo sa nessun altro. Siete i primi.»

Una vampata di vergogna colpì Nobu in pieno viso. La riconobbe nel calore che bruciò le guance e lo costrinse a spostare il viso a terra e infossare le mani nelle tasche della divisa scolastica. Ebbe la sensazione d’essersi esposto troppo.

«Strano, eh, che proprio io alla fine scelga di rimanere. Voi ve ne andrete, anche Daichi e Jiro, prima o poi. Shota forse sarà il primo di tutti; lo sai, no, che vorrebbe tentare con la polizia. Voi andrete, io rimarrò.»

Aveva un’espressione divertita, ma non dispiaciuta. Era felice di rimanere e Nobu non riuscì a capire perché. Proprio lui che aveva sempre detto che avrebbe lasciato quel paese di merda, che aveva progetti troppo grandi, l’idea perenne di fare soldi in fretta e tornare per sbatterli in faccia a chi l’aveva preso in giro e gli aveva ostentato un benessere sociale che lui non poteva raggiungere né uguagliare. Ma quel ragazzino pieno di rancore non c’era più da tempo, anche se aveva cercato di trovarlo sempre nei modi di rispondere bruschi e che lo irritavano ma che, allo stesso tempo, glielo facevano riconoscere.

Quello era Kaede.

Ma era anche questo?

Credeva che a cambiare e crescere sarebbe stato solo lui, mentre il suo migliore amico gli aveva dimostrato giorno per giorno che anche un carattere spigoloso come il suo potesse trovare la quadra nella vita per non graffiarla di continuo.

E magari sarebbe stato felice a Obuchi… ma lui non ci sarebbe stato, se non qualche volta.

Kaede sarebbe stato felice… senza di lui.

Io resto, tu parti, la nostra amicizia finisce.

«Forse dovresti andare anche tu.» L’egoismo prese il sopravvento assieme alla gelosia. «Provare altrove, trovare una strada fuori da Obuchi.»

«E perché se è qui che voglio restare?» Kaede lo guardava senza capire quell’insistenza a un passo dalla supplica. Parti anche tu. Parti anche tu con me. «Così quando tornerete potrete sempre trovarmi, lo saprete. Anche tu. Mi troverai qui.»

Ma Kaede non riusciva a capire che non era il ‘dove’, ma il ‘come’ l’avrebbe trovato. Quanto sarebbe cambiato in sua assenza? Le persone che avrebbe conosciuto e qualcun altro sarebbe arrivato a prendere il posto dei vecchi amici, e il suo.

«L’idea che tu sappia sempre dove potrai trovarmi, mi piace.»

Detta così piaceva anche a lui. Da morire. Gli dava una certezza che, se entrambi fossero partiti per andare a studiare fuori, non avrebbero avuto. Avrebbero finito per disperdersi come i petali di ciliegio dell’hanami che stava per esplodere. Hanami che anticipava l’inizio del nuovo anno scolastico e accorciava il tempo in cui sarebbero rimasti liceali scemi.

Si appoggiò di spalle alla staccionata su cui Kaede restava seduto. Tirò indietro i capelli che dalla prima liceo aveva deciso di portare più lunghi e arrivavano a incorniciare il viso. Si torturò il labbro inferiore con gli incisivi che l’apparecchietto aveva quasi rimesso a posto; lo avrebbe tolto tra qualche anno, ma nessuno lo sfotteva per il suo sorriso di metallo perché era troppo alto e si era irrobustito; faceva un po’ paura.

«A te non sta bene?»

Sollevò una spalla alla domanda di Kaede, ma non si volse a guardarlo. Teneva gli occhi fissi sulle mani dalle dita lunghe e la presa forte, per trattenere il pallone da basket.

«Non deve stare bene a me.»

«Yuki…»

Nobu sussultò perché il respiro della voce di Kaede gli era arrivato caldo sulla guancia, come l’eco di una carezza. Si ritrovò a masticare il cuore sotto i denti e a buttarlo giù prima di girarsi.

Kaede lo fissava, sporto in avanti e tenendosi alla staccionata, ma i suoi occhi rimbalzarono impazziti per un istante e poi si fermarono sulla bocca.

«…sto cercando di dirti una cosa.»

Quale?

Il pensiero rimase intrappolato sotto i denti assieme al cuore. Poi un movimento appena percettibile e lui si tirò indietro, perché gli era sembrato che Kaede si fosse avvicinato.

Magari l’aveva fatto sul serio, magari voleva dirgli il motivo per cui erano lì. E lui ne aveva avuto paura per una frazione di secondo perché aveva pensato che, invece…

Riuscì a staccare lo sguardo dalla bocca di Kaede solo per scoprire nei suoi occhi qualcosa di altrettanto inatteso che cambiò la prospettiva di tutto.

Ferito.

Per quel gesto di tirarsi indietro.

Kaede gli oppose l’abbozzo di un sorriso nel deviare lo sguardo. Saltò giù dalla staccionata con abilità.

«Va be’, facciamo un’altra volta. Si è fatto tardi, poi chi se lo sente Shota?»

Una frattura netta nel momento che avevano creato e di cui lui si rese conto solo quando vide Kaede dargli le spalle, con le mani nelle tasche. Gli sfilò davanti come sempre, con l’atteggiamento arrogante che gli era usuale e che credeva di conoscere.

Appunto, credeva.

Era rimasto indietro, e Nobu non sapeva rispondersi perché. Dentro e fuori era andato avanti, era cresciuto, eppure pretendeva che Kaede restasse intrappolato in qualcosa riconducibile ai suoi ricordi, quando il mondo erano solo loro due e inseparabili.

Ma stavano per separarsi, invece. Lui stava per partire e Kaede non ne era arrabbiato neanche un po’, anzi, non faceva che tifare per lui e chiamarlo ‘campione’ anche se non era ancora niente più che un pivello.

Lo chiamava campione, sarebbe rimasto dove avrebbe sempre potuto trovarlo e l’aveva portato alle grandi serre perché doveva dirgli qualcosa…

 

«Lo sai cosa dice aniki di questo posto? Che è magico. Cazzo, io non ci credevo, pensavo esagerasse. E invece… forse lo è davvero. Forse qui funziona tutto sul serio.»

 

Nobu drizzò la schiena al ricordo della prima volta che era stato lì con Kaede. Galvanizzatissimo, l’amico gli aveva detto quella frase. Anche a lui erano piaciute, ma niente di più; aveva pensato che Kaede si stesse facendo influenzare troppo. Non aveva capito nulla e solo adesso si ricordava di essere stato il primo del loro gruppo a venir portato fin lì. Solo loro due.

Lui veniva sempre per primo e la sensazione di arrivare, invece, troppo tardi gli esplose nel petto.

«Tra un anno me ne vado!» esclamò a un tratto, piantandosi a gambe larghe dove si trovava, e pugni stretti lungo i fianchi.

Più avanti, Kaede si fermò e gli rivolse la tre quarti. «Come se non lo sapessi. Non fai che ripeterlo. Tra pochi giorni potrò segnarmelo sul calendario per fare il conto alla rovescia. Manco a Capodanno!» rise, tornò a camminare.

«Quindi mi lascerai andare e non mi dirai nulla?!»

Stavolta, il ragazzo si girò completamente.

«E che ti dovrei dire? Non stai mica partendo per la guerra, Nobu! Se tutto va bene, vai a conquistare la fama e un bel gruzzolo! Ti dovrei fare gli auguri e dirti di ricordarti degli amici!»

Rise ancora più forte, e anche se era lì, Nobuyuki vide chiaramente che stava scappando.

Lo raggiunse in poche falcate coperte dalle gambe lunghe come quelle delle cicogne, lo sovrastò con tutti i suoi centonovantadue centimetri.

«Mi devi dire qualcosa.»

«Ohi, fai poco il gradasso con me, Yuki. Sarai alto, ma io posso ancora metterti al tappeto.» Kaede sogghignò. «Di’, non vorrai mica litigare? Poi dici che ho io il carattere di merda. Tu pure sei strano forte.»

«Quello strano sei tu. Da un po’ di tempo parli meno del solito e sei irritabile di più. E ora mi porti qui e non mi dici cosa dovresti dire! Non te ne faccio andare se non lo butti fuori!»

«Oh, certo, e credi di potermi fermare?» Kaede sollevò il mento; gli occhi scuri sottili come lame. «Io sono a posto. E tu pure, mi sembra. Quindi se hai qualcosa da dire, sei tu a doverti fare avanti, se proprio ci tieni.»

«Certo che ci tengo!»

Lo afferrò per il braccio prima che potesse superarlo e poi fu collisione scoordinata di teste e nasi. E labbra.

Si scontrarono come le macchinine al luna park in un gesto dettato dalla paura e dalla fretta, le stesse che l’avevano fatto ritrarre quando era stato Kaede ad avvicinarsi. Ora sì, ne era certo.

Nobu non fece niente che non fosse tenere la bocca appoggiata all’altra. Solo questo. Un bacio a stampo come nemmeno all’asilo, ma era l’unica cosa a essergli venuta in mente; tutto il resto gli era parso insensato e pericoloso.

Sulla pelle gli si trasmise un fastidioso sapore di tabacco e fumo di cui si accorse solo dopo i primi tre o quattro secondi. Poi si separò, con la stessa decisione con cui si era avvicinato, e le labbra schioccarono come ventose.

Dall’alto di quel metro e novanta, Nobu vedeva tutto e niente, appannato dalla fretta e dalle emozioni tutte insieme, tutte forti e arrabbiate che gli stavano dicendo che, sì, aveva appena baciato il suo migliore amico, ma che invece di scappare a gambe levate o scusarsi restava a fissarlo con espressione incazzata.

Nemmeno Kaede si mosse o si scompose o andò in panico. Non cercò di divincolarsi, ma si limitò a fissarlo come lo stava fissando lui; e aveva l’espressione severa, un sopracciglio inarcato.

«Baci una vera merda.»

«Non mi pare che tu ti sia impegnato più di tanto! Non posso mica fare tutto io!»

«Be’, prova a tirare fuori la lingua la prossima volta e vedrai.»

«Oh, ha parlato l’esperto!» Nobu alzò occhi e braccia al cielo. «Ti sei portato a letto una ragazza e già vuoi fare quello che ne sa più di tutti?!»

«Andiamo, ancora con questa storia?! Non siamo andati proprio a letto! E poi, secondo te, perché credi che lo abbia fatto?»

«Non ne ho idea, visto che neppure ti piaceva! Ma qualsiasi sia stato il motivo, spero sia stato almeno illuminante!»

Nobu se lo vide arrivare addosso con l’irruenza che conosceva bene, capace di far indietreggiare anche lui, che lo superava di dieci centimetri buoni, se non qualcosa di più. Ma Kaede era forte, lo era sempre stato, e sembrava non avere paura di nulla. Era quello che era entrato nel covo di un assassino come il Ratto quando era un ragazzino, cosa ci si poteva aspettare da lui se non un temperamento tanto deciso?

Era anche per questo che gli piaceva.

Era per quegli occhi, ora spalancati, che sembrava volessero divorarlo per intero, era per i tratti spigolosi e marcati, era per come si prendesse sempre cura di lui. Era per come facesse tanto il gradasso, ma fosse spaventato dal futuro e dal fatto che tutti avessero una strada e che toccasse sceglierne una anche a lui.

«Oh, sì. Lo è stato.»

Kaede sembrava sul punto di mollargli un pugno; Nobu lo temette perché ormai non sapeva più che aspettarsi, ma nel momento in cui cercò di mettere un passo di distanza, venne afferrato per la nuca e tirato giù.

Furono di nuovo labbra contro labbra, e poi le bocche s’aprirono per accogliersi l’un l’altro in quello che fu un bacio. Un bacio vero. Di quelli umidicci che aveva scambiato con Saotome della I° Sez., che facevano rumore, che erano sensuali e un po’ cannibali. E belli, ti toglievano il fiato ma non saziavano, e se si separarono fu solo per respirare, guardarsi negli occhi con i visi ancora vicini in cui tutto si poteva leggere con chiarezza.

Dopo un bacio così, niente si poteva fraintendere.

«Non… sì, non male.»

Kaede sghignazzò. «Te l’avevo detto.»

«Adesso vorrai vantarti come al solito…»

«No. Voglio baciarti ancora.» Il sogghigno perse la piega di scherno per assumerne una divertita. Negli occhi brillò qualcosa che Nobu vide bene perché illuminata a giorno dal lampione: poteva chiamarla ‘emozione’? Sentiva di averla anche nel proprio sguardo, e gli aveva messo lo stomaco sottosopra e sottovuoto.

Non aspettò che fosse Kaede a muoversi, lo anticipò e non aveva smesso di sentirsi un idiota per come si era comportato e per aver pensato male di Shuzo, ma almeno era un idiota felice.

E ora che i baci con Kaede divenivano troppi da calcolare, ora che poteva stare tranquillo perché nessuno glielo avrebbe portato via, ora che tutto si faceva più stretto tra mani che aggrappavano e braccia che avvolgevano, anche Nobu riuscì a capire quanto magiche fossero le grandi serre.

Una magia che partiva in sordina e poi esplodeva tra le mani, sulle labbra, dentro al cuore.

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …ç_ç ♥

Piccolini ç_ç sono cresciuti. Be’, con quel cacacazzi di fratello maggiore acquisito a caso non avrebbe potuto tergiversare ancora troppo a lungo, o gli avrebbe fatto fare una figura di merda delle sue pur di sputtanarli XDDDD

E quindi, siamo arrivati anche a questo momento che nell’Epilogo vi aveva sorpreso: sì, Kaede e Nobu stanno insieme e, come sapete, non sarà una cosa da poco! :D

Un bel dolcetto fluffettoso in questa vostra calzina della MelaBefana! XD

 

E intanto, vi anticipo che nel prossimo aggiornamento… avremo un gradito (lo so! XD) e lolloso ritorno ♥ Stay tuned!!! XD

 

 

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Capitolo 8
*** #8 - Il Paradiso (che ho donato a te) ***


Jikan - #8

Note Iniziali: avevamo lasciato la shot #7 che era Marzo e ora ci troviamo… ad OTTOBRE! :D

Shuzo è fuori di prigione esattamente da un anno e cinque mesi. :3

 

Buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

- #8: Il Paradiso (che ho donato a te) -

 

 

 

«Non è solo la posizione e l’estensione dell’appezzamento – che, come vi ho già detto, è una rarità in queste zone – ma anche la ricchezza del terreno e, be’, la vista.»

Ichinobu, l’agente immobiliare che li stava tenendo a parlare da almeno un’ora e mezza, illustrando fin nel più piccolo dettaglio ogni qualità di quei cinque ettari di terreno, allungò il braccio verso lo spettacolo del Monte Fuji che svettava davanti ai loro occhi, mentre alle loro spalle si apriva l’intera vallata che ospitava Obuchi e Fuji City. Se il tempo era limpido, aveva detto, si poteva intravvedere anche il luccichio del mare.

Shuzo se ne riempì gli occhi fin dove poteva arrivare, stretto nel chiodo di pelle e una pashmina che gli girava attorno alla bocca. Per un attimo si dimenticò anche dei primi, insinuanti freddi autunnali di ottobre tanto era meravigliosa la vista da lassù, ti faceva sentire padrone del mondo – se non pensavi che, rispetto alla dimensione reale del mondo, quello non fosse altro che un semplice fazzoletto per soffiarsi il naso.

«Potreste anche convertire una parte in terreno edificabile», continuò Ichinobu, disegnando volute con la mano. «Lo sviluppo turistico della zona è in aumento e molta gente si sta allontanando sempre di più dalla città e dai suoi rumori. Per non parlare del calore durante l’estate. Anche i turisti stranieri; pare stia incrementando l’interesse per l’offerta gastronomica. La Prefettura di Shizuoka ha una grande varietà di proposte e potrebbe divenire un interessante business. Penso, per esempio, alle coltivazioni dei Maronouchi, verso Fujinomiya.» Con la mano indicò ad ovest. «Le loro distese di tè sono liberamente accessibili ai turisti che possono fermarsi per delle degustazioni.»

Ma Shuzo non era molto interessato all’aspetto pratico della faccenda, quello relativo ai guadagni. Sapeva di essere un pessimo venditore di sé stesso, e su certe cose era fin troppo idealista; a lui era il posto che prima di ogni altra cosa doveva colpirlo, le sue potenzialità produttive e, solo dopo, quelle pecuniarie. Dell’aspetto finanziario, lasciava che fosse Mamoru a interessarsi, perché lui non era ancora entrato nell’ottica pratica dell’essere parte di una società.

Si volse a cercare un qualche segnale nel volto del suo compagno e lo vide con gli occhi pieni di verde selvaggio e potenzialità. Le vedeva tutte, lo elettrizzavano mantenendo disteso il sorriso, ma senza farlo sbocciare del tutto. Avrebbe voluto, ma si stava contenendo.

Se n’era già innamorato.

Shuzo sorrise, infossò le mani nelle tasche. Gli diede una leggera spallata affinché si riscuotesse e prendesse in considerazione il povero agente immobiliare che non sapeva più come decantare le meraviglie.

«È bellissimo e molto versatile.» Mamoru e il suo savoir-faire sempre pronto all’azione presero subito le redini che aveva lasciato andare per qualche minuto. «C’è un margine di trattativa?»

«I proprietari possono arrivare al massimo a quattro milioni di yen, ma non sono disposti a scendere più di così.»

Mamoru annuì severo, prendendo il labbro inferiore tra i denti. Tornò a guardarsi attorno e poi guardò lui, ma della meraviglia di poco prima sembrava aver perduto l’ottimismo.

«Rimane comunque una bella cifra», ammise con rammarico. «Che ne pensi?»

«Possiamo pensarci e fare due conti.»

Mamoru abbozzò e tornò a parlare al signor Ichinobu. «Come ha detto il mio socio, dovremmo fare alcune valutazioni.»

«Ma certo, certo. Prendetevi il tempo di cui avete bisogno, anche se devo comunque avvisarvi che abbiamo ricevuto numerose richieste per vedere il terreno. Però i proprietari hanno un occhio di riguardo per voi, conoscono il Mori no Kokoro di fama e sono rimasti davvero colpiti dal vostro Kuromori

Mamoru drizzò la schiena e il sorriso più dubbioso di qualche momento prima prese sicurezza, si fece affascinante, secondo Shuzo che continuava a ridacchiare della conversazione: Mamoru era entrato nel mood di chi tutto avrebbe potuto e voluto, e tutto si sarebbe preso.

«Ah, sì? Ne siamo lusingati.»

«Mi hanno detto di averlo provato in un ristorante locale; loro sono di Tokyo, ma hanno vari possedimenti nella prefettura. Si trovavano a Izu per vacanza, e così…»

«In quella zona ci sono un paio di locali che servono il nostro vino.»

Shuzo pensò fosse stata un’ottima coincidenza che poteva giocare in parte al loro favore, ma il problema principale rimaneva: il capitale.

«Dunque, se per voi va bene, potremmo aggiornarci verso la metà della prossima settimana. Immagino che per allora avrete una risposta definitiva.»

«Sì, l’avremo di certo.»

«Ottimo. Venite, vi accompagno alla macchina.»

E cominciarono a camminare verso l’uscita, ma a Shuzo non sfuggì come Mamoru si guardasse ancora una volta alle spalle, abbracciando la possibilità che aveva più volte accarezzato, ma mai provato ad afferrare per paura, e che rischiava di sfumare ancora una volta.

 

Durante il tragitto per tornare al Kokoro lasciarono che a parlare fosse la musica dell’autoradio.

Discuterne senza numeri concreti alla mano non aveva molto senso e poi Shuzo l’aveva capito che Mamoru voleva che la magia del frutteto – dannazione, già si era trovato un nome! Questo non andava bene – aleggiasse ancora un po’ nell’aria, assieme alla musica.

Perché c’era una magia anche lì, come alle grandi serre. L’avevano sentita entrambi tanto da dimenticarsi perché fossero lì; era come se l’incantesimo gli fosse entrato in circolo e facesse già parte di loro. Almeno concettualmente; materialmente era un altro paio di maniche, uno difficile da arrotolare.

Al locale, ancora chiuso per la pausa pranzo, Kumi li accolse con Baco in braccio e l’espressione trepidante di chi stava aspettando il responso di quel sopralluogo. Anche a lei il posto era piaciuto, già solo guardando le foto. Con tutta la sua stregonesca influenza aveva agitato il mestolo come fosse stato un bastone magico.

«È lui!» aveva esclamato con occhi sgranati: una benedizione che era stata certezza e che aveva chiuso la laboriosa ricerca portata avanti da qualche mese, ma senza grandi soddisfazioni; la scintilla non era scattata con nessuno.

«Allora?»

Mamoru si strinse nelle spalle. «Allora niente.»

«Ma che risposta è?! Shuzo?»

«Niente, Spydey. Il posto è bellissimo.»

«E spazioso.»

«Ci si potrebbe coltivare la qualunque.»

«E ha una vista incredibile.»

Kumi rimpallava lo sguardo dall’uno altro con un sorriso che si faceva più ampio per ogni buona qualità che sottolineava l’ovvio.

«E quindi?!»

«E quindi non cambia che costi troppo.» Mamoru non ci girò attorno. «Dobbiamo fare dei conti e capire quanto potremmo perderci e se ce lo possiamo permettere.»

Tutto l’entusiasmo di Kumi si afflosciò davanti al muro della realtà.

Shuzo la vide abbassare le spalle e spingere in fuori le labbra in una smorfia a culo di gallina per cui ridacchiò. Si accese una sigaretta e rimase a cavallo tra la cucina e il corridoio, tenendo la cicca fuori dalla stanza.

«Niente trattativa?»

«Scenderebbero massimo di duecentomila yen. Non cambia molto quando la cifra continua ad avere sei zeri.» Mamoru fece per versarsi un bicchiere di vino, ma alla fine si fermò, rimanendo a guardare la bottiglia di Kuromori che gli aveva dato una grande chance, ma che forse non sarebbe stata sufficiente.

«Abbiamo tempo fino alla fine della settimana per decidere,» disse lui, Kumi lo guardò ancora con il broncio.

«Odio quando le cose che mi piacciono costano. Dovrebbero smetterla. Sono troppo bella per pagare.»

Shuzo sbottò a ridere e anche Mamoru uscì dalla malinconia, decidendo di versarsi quel mezzo bicchiere di rosso su cui aveva tergiversato troppo.

«La bellezza dovrebbe essere ripagata, non viceversa!»

«Ma la pianti, Spydey

Shuzo le colpì la fronte con il palmo della mano; rise anche lei e alla fine sospirò. Tirò un po’ su Chikara affinché stesse comodo.

«Be’, ci abbiamo provato, ragazzi. E poi non è ancora tutto perduto.» Guardò Mamoru con quel sorrisetto furbo che a lui aveva sempre messo i brividi. «Parliamone prima col commercialista, magari potremo trovare una soluzione. Non si molla la partita prima del fischio finale. Tsubasa non ti ha insegnato nulla?»

 

Shuzo si rese conto solo dopo qualche giorno della reale importanza di quell’ultima provocazione di Kumi. Perché questa era stata: un invito a non arrendersi che, a quanto pareva, il buon Ozora aveva sciorinato in lungo e in largo per anni, tanto da fare a tutti il lavaggio del cervello; suo fratello compreso.

Seppur in passato l’avesse considerato ossessivo al limite del maniacale, ora che aveva la maturità necessaria seppe trovarne la reale utilità: Mamoru era rimasto attaccato al telefono per due giorni interi, tra commercialista, fornitori e il signor Hamoto. Usciva presto, rientrava tardi. Stava cercando di trovare una quadra e la voleva a ogni costo, perché il frutteto significava molto per lui: era l’atto pratico che mancava a sé stesso per dimostrare che aveva voltato pagina e che non aveva più paura di vedersi fallire né di perdere ancora Yuzo.

Shuzo l’aveva lasciato fare, consapevole che ne avesse bisogno, e si era offerto più volte di aiutarlo, facendo qualche chiamata, ma Mamoru si era fatto carico di tutto mentre lui si occupava del bar e frequentava la scuola di ikebana.

Fu proprio tornando il mercoledì sera dopo la lezione che trovò il tavolo del salotto-cucina pieno di fogli, ma senza nessuno che vi stesse dietro.

«Sono a casa,» aveva detto, aprendo la porta, e quando sulle prime non aveva ricevuto risposta, aveva creduto che Mamoru fosse ancora fuori, e invece la luce accesa della piantana e i fogli lasciati sul tavolo dicevano tutt’altro.

Shuzo li raggiunse, ne spostò un paio facendoli scivolare l’uno sull’altro.

Erano conti, preventivi di materiali e manodopera, di alberi, di viti. Conti che portavano a cifre da centinaia di migliaia di yen.

Accompagnò il disappunto con un lungo respiro e si guardò attorno. Individuò Mamoru fuori al terrazzo, dava le spalle al vetro.

«Non sei stato tu a darmi che non si beve da soli?» chiese, dopo averlo raggiunto ed essersi fermato sulla soglia della portafinestra.

Mamoru si volse, aveva un bicchiere vuoto tra le mani e una giacchetta leggera sulle spalle. Alla sera l’arietta non era dolce come quella della primavera, ma si riempiva di legno bruciato, castagne e incenso.

«Avevo voglia di un goccetto e tu non c’eri. Sono giustificato.»

«Si brinda a qualcosa, almeno?»

«Più che altro si cerca conforto.»

Shuzo abbandonò la soglia del balcone per raggiungerlo e fermarsi al suo fianco. Entrambi davano lo sguardo al paese assonnato e che aveva la pancia piena della cena.

Mamoru sospirò. «Facendo i calcoli, la spesa complessiva tra l’acquisto del terreno, la messa a nuovo, le piante, l’attrezzatura e la manodopera, verrebbe di circa cinque milioni yen ed è troppo fuori dal mio budget.»

«Nemmeno se io-»

«Tu lavori da troppo poco tempo e a Kumi non sognerei mai di chiedere chissà che cifra quando ha dei figli cui pensare.»

«Chiedere un prestito?» tentò ancora, un po’ troppo testardo forse e di sicuro senza una reale soluzione: Mamoru rispondeva con l’incisività di chi aveva vagliato qualsiasi possibilità e non ne aveva trovata nessuna abbastanza efficace.

«Mettersi in mano alle banche non è semplice, e non voglio trovarmi a pagare mutui trentennali che solo gli dèi sanno come andranno a finire. Né voglio che, se le cose non dovessero andare, ci ritroviamo a rischiare di perdere molto più di un terreno.»

«Tuo padre?»

«Mi ha già aiutato abbastanza. E chiedere al tuo è fuori discussione.» Mamoru gli rivolse un mezzo sorriso mentre appoggiava il bordo del bicchiere alle labbra. «Non ho ragione?»

Shuzo ingoiò una mezza imprecazione e non rispose. L’idea non gli piaceva per niente ed era lontanissima da ogni suo pensiero, però…

«Se non c’è altra soluzione, potrei anche… provare.»

Mamoru sgranò gli occhi per un lungo istante. Risultava incredibile anche a sé stesso di averlo proposto sul serio, ma per Mamoru sarebbe stato disposto a farlo. Piegarsi, scendere a patti con Akio che sembrava non veder l’ora di stringere i rapporti, anche se lui continuava a essere diffidente e guardingo.

«Davvero lo faresti?» Mamoru piegò appena il capo di lato, aggrottando le sopracciglia, mentre il vento smuoveva l’arrangiato man-bun con cui teneva legati i capelli.

Shuzo annuì e Mamoru alla fine sbuffò un sorriso, nel poggiargli la mano sulla guancia in una carezza lunga e affettuosa. Gli toccò la mascella, sfiorò il collo. La sua mano era calda e accogliente; Shuzo ci si appoggiò contro.

«Lo sai che non ti chiederei mai una cosa simile, inoltre non voglio debiti con tuo padre. Però grazie.»

Mamoru gli stampò un bacio leggero sulle labbra e Shuzo sentì di dover essere lui quello che avrebbe dovuto ringraziare: il solo pensiero che non avrebbe dovuto chiedere nulla ad Akio l’aveva fatto sentire subito sollevato.

Il problema però rimaneva: ogni possibile soluzione era stata cestinata; la strada appariva senza uscite.

«E quindi?»

«E quindi niente. Ci abbiamo provato. È andata male. Domattina chiamo l’agente Ichinobu e gli dico-»

«Ehi, ehi! Aspetta. Non andare così di fretta. Ci ha dato tempo fino alla prossima settimana, prendiamocelo.»

Mamoru inarcò un sopracciglio. «E per cosa? Anche avendo più tempo, le spese non si dimezzeranno.»

«Per lo stesso motivo non c’è bisogno di correre. Proviamo a contattare qualcun altro, sentiamo gente anche fuori della Prefettura. Prendiamoci fino all’ultimo secondo.»

«Credi servirebbe?»

«Non lo so, ma immagino che tu non abbia mai abbandonato il campo da calcio prima che l’arbitro fischiasse, no?»

Mamoru gli mollò un colpo alla spalla, mentre rientrava in casa. «Non incominciare a fare battute alla Kumi, ti prego! E vieni dentro, c’è da preparare la cena.»

«Solo se versi anche a me un bicchiere di vino!»

Per il resto della serata ne parlarono pochissimo, giusto una ventina di minuti dopo cena, mentre Mamoru gli mostrava i conti e i preventivi. Shuzo li comprese con maggiore attenzione dando qualche suggerimento su dove si sarebbe potuto provare a risparmiare di più o cosa procurare successivamente. Metteva idee sul piatto, perché era tutto quello che poteva fare, accompagnando di baci ogni proposta affinché Mamoru non ci si concentrasse troppo e non desse loro troppo peso, perché altrimenti si sarebbe accorto che erano solo palliativi per non fargli perdere le speranze.

E Shuzo non voleva che Mamoru le perdesse così in fretta. Qualcosa gli sarebbe venuto in mente.

Con quella strana leggerezza che voleva rimandare i problemi al giorno dopo, andarono a letto. L’unico posto in cui Malerba sapeva per certo cosa fare per rilassare e consolare il suo uomo, tanto da fargli dimenticare qualsiasi cosa. E Mamoru si sciolse tra le sue mani, inarcandosi di piacere mentre lui restava con la testa affondata tra le sue cosce.

«Sei fantastico…» ansimò, spingendo appena con i fianchi.

«Lo so, gioia.»

«…e un modesto del cazzo.»

«So anche quello.»

Shuzo lo coccolò per ore, dando al suo corpo tutto il conforto di cui aveva bisogno; un conforto non già fatto di preliminari e penetrazioni, ma di massaggi, baci, mani che correvano ovunque e non si stancavano di conoscerlo. Sotto le dita, Mamoru era divenuto mappa imparata a memoria ma da cui non era in grado di separarsi.

E dopo avergli donato ogni orgasmo, Shuzo lo osservò addormentarsi con un sorriso pacificatore sulle labbra; spuntava genuino da sotto i capelli spettinati. Lui glieli scansò appena dal viso, affinché potesse vederne i tratti con chiarezza, e poi si alzò, senza fare rumore. A piedi scalzi tornò in cucina e accese la luce della piantana. Fece brillare una sigaretta e sfogliò di nuovo i preventivi, ma quest’ultimi avevano già parlato chiaro: non c’era gran margine di risparmio, la rinuncia era imminente e a lui faceva incazzare non poter fare nulla di più. Anche se stava rigando dritto, se stava cercando di lavorare onestamente e fare tutto seguendo le regole sembrava non essere abbastanza. In un moto di fastidio maledisse i giudici che gli avevano sequestrato i conti: se glieli avessero lasciati, di sicuro comprare quel campo e rimetterlo a nuovo non sarebbe stato un problema.

Magari il prestito avrebbe potuto chiederlo a Tasho, certissimo che non gliel’avrebbe rifiutato, ma era la reazione di Mamoru da mettere in conto: conoscendolo, non gliel’avrebbe permesso in nessun modo.

Allora davvero non restava nulla da fare se non arrendersi?

Con il suo vecchio modo di pensare arrivò addirittura a domandarsi se non ci fosse una possibilità di fottere il sistema. Allora si lasciò sfuggire un sorriso storto, dando al cannibale dello stronzo perché tornava a farsi sentire, insinuandosi in maniera subdola tra i suoi meccanismi; soprattutto quando era alle strette. Ma l’attimo dopo quel pensiero, Shuzo balzò in piedi a occhi spalancati e bocca che veniva aperta lentamente su una certezza comparsa dal nulla: un modo per ottenere il frutteto c’era, ed era proprio nelle sue mani.

 

Gofuku-cho offriva un’ampia varietà di posti per incontrarsi, che fosse in maniera casuale o combinata, senza dare nell’occhio.

La via dello shopping di Shizuoka City era costellata di negozi e centri commerciali, e a poco serviva che, verso la fine, ci fosse anche la Centrale di Polizia della città, anzi: il bello era fargliela sotto al naso.

Per Shuzo, quella era stata una vecchia abitudine, quindi restava appoggiato con molta naturalezza contro una delle colonne dello Shizuoka Parco Shopping Mall che davano sulla via principale. Di tanto in tanto guardava l’orologio sul cellulare – sempre quello dallo schermo scheggiato, e a nulla erano valse le polemiche di Mamoru affinché almeno ne facesse sostituire il vetro – e tirava sul naso gli occhiali da sole circolari, dai vetri che restituivano uno specchiato blu elettrico.

Non aveva dovuto mentire troppo a Mamoru per trovare una scusa che lo portasse lì in pieno giorno, quando avrebbe dovuto essere al locale, però un po’ si sentiva in colpa di avergli taciuto la verità; insomma, non c’era quasi niente di male in quello che stava per fare. Certo, conoscendo Mamoru avrebbe avuto da ridire sulla compagnia di cui aveva bisogno per farlo, ma era un piccolo male necessario dato il fine. E poi non glielo aveva detto anche per non dargli troppe speranze. Lui non ne riponeva tantissime, preferiva volare basso e tenere sotto controllo le aspettative, in modo che il botto che avrebbe fatto una volta che fossero state disattese non facesse troppo rumore e dolore.

«Sfacciato da parte tua, ma con la testa di merda che ti ritrovi non me ne stupisco neppure più.»

Shuzo sollevò gli occhiali sulla fronte e sfoggiò uno dei suoi sorrisi storti peggiori: Tasho aveva le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e lo stava affettando con lo sguardo. Però sorrideva anche lui, quindi era tutto a posto.

«C’erano due sbirri a passeggio, davanti a me: ti hanno guardato male, ma poi hanno tirato dritto. Cazzo, si vede che i tempi stanno cambiando.»

«Sono solo un libero cittadino poggiato a una colonna.»

«Uno con la tua faccia io lo arresterei a prescindere.» Tasho gli si avvicinò e gli mollò una pacca sulla spalla. «Ci si ricorda degli amici sempre nel momento del bisogno, eh?»

«Cazzo volevi? La telefonata fuori dalla prigione?»

«Non mi sarebbe spiaciuta, no.»

«Ma non fare lo stronzo egoista. Quello dentro ero io, avresti dovuto chiamarmi tu! Frequento proprio della gente di merda, dovrei smetterla.»

«Ti piacerebbe.»

Non sentivano da quando Shuzo aveva sbattuto la porta andandosene via dal palazzone dei 3Kitsu e mandandolo a fare in culo, ma certi legami non si recidevano con una semplice porta chiusa o una parolaccia detta con rabbia. Erano talmente forti e radicati che erano associati a concetti altrettanto profondi e solidi come quello di ‘famiglia’. Tasho e i 3Kitsu continuavano a essere una parte di essa; come quei tatuaggi che non si potevano più cancellare, il suo restava sempre sul cuore.

«Allora, vogliamo andare?» Tasho guardò il pesante cronowatch da polso. «Abbiamo appuntamento tra una mezz’ora.»

«Ma se non ti sei nemmeno fatto spiegare cosa dobbiamo fare! E poi dove stiamo andando? Mi hai solo mandato un messaggio dicendo orario e luogo dove vederci!»

«Eccerto. Solo un deficiente parlerebbe di cose simili per telefono.» Tasho lo spinse in avanti con una manata di rimprovero.

«E come avrei fatto a spiegarti di cosa avevo bisogno, scusa?»

«Magari usando qualche parola in codice?! Merda, ma ti sei dimenticato tutto? Esistono le fottute intercettazioni! Secondo te perché cambio regolarmente numero di telefono? Per sport?!»

Shuzo agitò una mano con disinteresse. «Non stavamo mica parlando di droga o armi! Il solito paranoico.»

«Sei tu che sei rimasto tecnologicamente arretrato. Lo sei sempre stato.»

«Diosanto! Non parlare come se i servizi segreti mondiali stessero per venire a prenderti da un momento all’altro! Sai il cazzo che gliene frega di un maledetto conto off-!»

Shuzo si trovò la bocca coperta dalla mano del capo dei 3Kitsu, l’odore di sigaretta era inconfondibile. Tasho gli stava facendo segno di tacere con l’indice ben dritto davanti al naso. Aveva gli occhi così stretti che Shuzo pensò di uscirne a julienne da quella conversazione.

«Chiavati la lingua nel culo, Malerba! Non si parla di certe cose quando attorno a te ci sono cellulari, computer e fottute telecamere stradali che possono riprenderti e registrarti sempre. Chiaro?»

Shuzo inarcò un sopracciglio, si liberò della sua mano e strinse anch’egli lo sguardo. «Stai vedendo Person of Interest, di’ la verità.»

«Cammina.»

«Davvero, sta roba ti fa male. Ma male male! Ecco perché la tv non la guardo mai.»

Camminarono fianco a fianco per una decina di minuti, abbandonando il viavai del centro, per scegliere vie laterali più defilate e tranquille, ma ugualmente trafficate dalle auto. Parlarono del più e del meno; Shuzo gli raccontò del frutteto e della scuola di ikebana.

«Frocetto,» sentenziò Tasho con un’alzata di spalle.

«Però sono un frocetto bravo.»

«Stai a vedere se non ci fai pure i soldi con ‘sta roba.»

«Non lo faccio per quello.»

«Allora sei il solito frocetto scemo. Tutto regolare.»

«Penso esista qualcosa di più dei soldi.»

«Frocetto scemo e idealista. Che brutta accoppiata.» Tasho sospirò. «E dire che eri così bravo a vendere, ma è chiaro che non era la roba giusta per te.»

Shuzo abbozzò un sorriso, guardando a terra: strade pulite, tirate a lucido come se ogni giorno passasse una massaia con l’aspirapolvere e la ramazza. I netturbini erano casalinghe pagate.

«Non sono entrato nei 3Kitsu per i guadagni.»

«Ognuno ha i suoi motivi. Per me fare soldi è tutta una metafora: più ne faccio, più la metafora diventa grande, più glielo metto in culo.»

«Frocetto.»

Tasho rise e si fermò davanti a uno dei tanti palazzoni dalla forma squadrata e ordinata, grigio perla, di marmo lucido fino al primo piano e poi interamente a specchio. Sulla parte lucida c’era un grosso logo nero formato da tre chiavi che si incrociavano e una sigla di tre lettere in romaji che non riconobbe. Lui masticava l’inglese, il coreano e un pochino di cinese, ma quello non seppe associarlo a nulla di familiare. Ad aiutarlo, però, intervenne la piccola bandiera alla fine dell’acronimo: rossa, con una croce bianca nel mezzo.

Shuzo inarcò un sopracciglio, guardò Tasho e indicò l’edificio.

«Vuoi inculare la Svizzera?»

«La Svizzera è solo un tramite. Come il lubrificante, se capisci che intendo.» I tratti affilati di Sousuke fissavano con sorriso rapace quello che vedeva come un lasciapassare per i suoi obiettivi: la porta era lì per essere aperta da chiunque, anche da uno come lui. Soprattutto da uno come lui. «Quello che conta è entrare: una volta dentro, puoi fare quello che vuoi.»

 

«Ma se il conto è alle Cayman perché cazzo siamo nella filiale di una fottuta banca svizzera?!»

Tasho alzò gli occhi al cielo per la centesima volta da che erano entrati nell’edificio.

«Il tramite! Il concetto del ponte! Del lubrificante! Del mezzo! L’hai già dimenticato?! Ne abbiamo parlato cinque minuti fa!»

«Sì, ma le Cayman non sono provincia svizzera!»

«Ma non mi dire?!»

«E allora non sto capendo!»

«Volevi andare direttamente alle Cayman a controllare il tuo conto, genio?!»

«Non prendermi per idiota, lo so che esiste internet!»

«Sì. E magari volevi usare il tuo computer di casa.»

«Che ha che non va il computer che ho a casa?!»

Il direttore della filiale, che li stava scortando nel caveau sotterraneo, tossicchiò con forza sufficiente da farsi sentire e interrompere il ronzio delle loro voci, fastidiose come un moscone.

Shuzo e Tasho drizzarono le schiene e si allontanarono l’uno dall’altro, assumendo un atteggiamento di colpo più composto.

Malerba infossò di più le mani nelle tasche dei pantaloni e si rosicchiò l’interno della bocca con fastidio. Forse non era stata una grande idea, quella; forse avrebbe dovuto lasciare perdere. E poi odiava la spocchia di Tasho quando voleva fargli pesare la sua ottusità tecnologica: oh, lui a certe cose non ci arrivava e allora? Era sempre stato una capra informatica e, soprattutto, non era così tanto paranoide a livello governativo: i suoi problemi erano più spiccioli e vicini, come gli sbirri e le altre gang. Sbuffò e per un attimo ravanò nella tasca alla ricerca del cellulare per vedere se avesse ricevuto chiamate, ma si ricordò che il telefono era stato lasciato all’ingresso del caveau: questioni di sicurezza, aveva detto il direttore che li stava accompagnando. E quindi il paranoico non era solo Tasho.

«Non è sicuro controllare queste cose dal computer di casa», riprese il capo dei 3Kitsu in tono più calmo e sempre basso. «Hai bisogno di non lasciare tracce e di una linea di comodo, non di una che potrebbe portare a te in un attimo.»

«Sì, sì.»

«Non accondiscendere come un cretino, te lo sto spiegando.»

Shuzo sbuffò, tornando in silenzio stampa, e si era anche rotto il cazzo, ma Tasho riprese dopo qualche attimo di pace.

«Comunque, toglimi una curiosità: perché te lo sei ricordato solo ora?»

«Non me lo sono ricordato ora!»

«Ne sei sicuro? Perché ho fatto una scommessa con la mia fata: lei credeva che ci avessi rinunciato per chissà quale nobile e romantico motivo, io invece che ti fossi dimenticato perché sei scemo come la merda. Chi ha ragione tra noi due?»

Shuzo serrò le labbra. Si strinse nelle spalle e infossò il capo. Sempre a fargli domande retoriche del cazzo, quell’altro. «Be’, scusami tanto se ho avuto da fare con due anni in carcere e poi il lavoro e non c’ho avuto tempo per pensare anche a questo!»

«Lo sapevo. Sei proprio scemo di natura.»

«Fanculo.»

«Siamo arrivati.» Il direttore della filiale si fermò davanti a una porta di metallo.

«Era pure ora, cazzo! Che ci sta dall’altra parte? Il Minotauro?!»

Tasho ridacchiò, sollevò una mano verso il direttore che guardava Shuzo con rimprovero.

«Lo perdoni, è nervoso. Non è abituato alle cose da grandi.»

«Fottiti pure tu!» rincarò Shuzo con tanto di dito medio.

Il direttore tossicchiò per l’ennesima volta da che loro due gli si erano presentati davanti con la richiesta di vedere una particolare cassetta di sicurezza di cui custodivano la chiave.

Shuzo non aveva avuto modo di chiedere da dove diavolo Tasho l’avesse tirata fuori, ma immaginò gliel’avesse lasciata suo fratello: Yuzo aveva organizzato tutto fin nel dettaglio, mentre lui era troppo impegnato a fare il gradasso dalla voce grossa e il cervello piccolo.

Il direttore, un ometto non giapponese ma che parlava benissimo la loro lingua, fece scattare la serratura magnetica della stanza, dopo aver passato una chiave rettangolare – simile a quelle degli alberghi – su un dispositivo che da luce rossa, divenne verde. Invitò entrambi a entrare per primi e Tasho fece gli onori di casa, dando a intendere di conoscere già simili ambienti.

Shuzo lo seguì a un passo e si trovò a far girare la testa come quelle delle bambole a corda. Entrambe le pareti laterali erano piene di cassette di sicurezza. Arrivavano fino al soffitto dove un braccio meccanico che prelevava quelle troppo in alto. Loro non ne ebbero bisogno, perché la cassetta di loro interesse era ad altezza media, verso il margine di fondo della stanza.

Nel resto dell’ambiente non c’era altro se non un tavolo di metallo e due sedie pieghevoli di plastica. Tutto rigorosamente in scala di grigio.

L’ometto estrasse la cassetta lunghissima e larga una trentina di centimetri dalla sua allocazione, accompagnandone lo sfilare con una mano inguantata, sopra cui la poggiò per trasportarla fino da loro, fermi presso il tavolo. La depose piano sulla superficie e Shuzo non faceva che domandarsi che diavolo potesse esserci dentro quel salsicciotto metallico: troppo lungo per essere solo documenti, poco alto per contenere chissà che cifra. Il direttore si fece dare la chiave, aprì la cassetta davanti a loro, sollevandone la parte superiore. All’interno fece la sua comparsa un astuccio di quelli usati per portare in giro le console di piccole dimensioni.

Shuzo sollevò le sopracciglia e strinse la bocca a culo di gallina. «Una Switch o una Wii-U?» fu la domanda rivolta a Tasho, e si accorse dello sforzo che quest’ultimo fece per trattenere quella che avrebbe dovuto essere l’imprecazione definitiva.

«Ci lascia qualche minuto?» Il capo dei 3Kitsu rivolse un sorriso di plastica al direttore di banca.

«Tutto il tempo di cui avrete bisogno. Aspetterò qui fuori.»

L’ometto si congedò in fretta e solo quando si fu chiuso la porta alle spalle Tasho lo incenerì sul posto. «A volte penso che dirti che sei scemo come la merda sia farti un complimento, cazzo!»

Shuzo rise, col viso piegato sul tavolo e i pugni sulla superficie. Non evitò lo scappellotto che ricevette, ma rise ancora più forte.

«Ma perché quando sto con te il livello culturale della conversazione deve scendere sotto lo zero?!» Sousuke non faceva che borbottare mentre afferrava l’astuccio e lo apriva. Dall’interno srotolò una tastiera usb e la collegò a un accrocco pieno di microchip e dotato di un sei pollici a cristalli liquidi. Shuzo non ne aveva mai visti se non smontati o accatastati alla rinfusa sui tavoli di qualche ricettatore o meccanico. Riconobbe però la powerbank che Tasho estrasse dalla tasca interna della giacca e collegò all’apparecchietto, accendendolo. Un semplice sfarfallio luminoso e poi la schermata di un terminale, con il prompt grigio luminoso che attendeva la digitazione del comando. Tasho si mise comodo, sedendosi al tavolo e, dalla borsetta delle meraviglie, estrasse una chiavetta usb che gli agitò sotto al naso.

«Questa non la devi perdere, ma non sto qui a spiegarti i perché della vita, tanto non li capiresti: sappi solo che il sistema operativo montato su questa chiavetta ti permette di fare tutto il cazzo che vuoi su un computer, compreso quello di casa tua, e di non lasciare tracce una volta che la stacchi.»

«E se c’avevi la chiavetta magica, perché siamo dovuti venire fin qui?! Non potevano trovarci a casa tua?!»

«Perché una fottuta cassetta in una banca svizzera e ben più sicura del fottuto cassetto della mia scrivania!» Tasho buttò fuori aria e pazienza in un respiro pesante. «E ora guarda bene quello che faccio, perché poi dovrai saperlo fare tu. Mi auguro sia abbastanza semplice per il tuo cervello da gallina.»

Shuzo gli fece una smorfia e osservò Sousuke infilare la chiavetta nella porta usb, impartire un comando diretto per richiamare un determinato file presente sulla penna, ma subito dopo l’invio apparve un riquadro di richiesta password.

A quel punto, Tasho incrociò le mani davanti alla tastiera e sollevò il viso verso di lui, in attesa.

«Cosa?»

«Aspetto la password.»

«E la vuoi da me?!»

«Tuo fratello disse che l’avresti saputa.»

«Io?!» Shuzo sgranò gli occhi, mentre Tashonori si alzava per cedergli il posto.

«Proprio tu. A meno che tuo fratello non ti facesse più furbo del normale, il che sarebbe comprensibile, dato il suo carattere, ma oltremodo utopico. Ma nel frattempo che riflettiamo sulle eventualità della vita, poggia il tuo culo su questa sedia e pensa.»

Shuzo non seppe nemmeno che rispondergli. Una chiavetta criptata, una password che lui avrebbe saputo per certo secondo Yuzo. Magari, sì, lo aveva sopravvalutato come al solito. Malerba si grattò la fronte e guardò la tastiera e poi lo schermo, dove il prompt luminoso aspettava la terza chiave di quella strana guest da videogame. Dopo un istante, digitò la cosa più semplice che gli venne in mente, e la più immediata.

1203.

Invio.

Lo schermo cambiò schermata in favore di un’interfaccia molto più user friendly, con le classiche cartelle, icone e finestre.

«Allora la combinazione è 12345… ouhf!» Tasho si piegò in avanti, dopo che lui gli ebbe mollato un pugno nelle palle. Sghignazzava con il suo gorgoglio un po’ roco.

«Piantala, o te ne tiro anche uno sul naso.»

«Ah, fatti sfottere, grand’uomo.»

Dall’astuccio, Tasho estrasse anche un foglietto di carta con scritti, a penna, i codici di accesso alla banca. «Queste sono le tue credenziali, e l’indirizzo del sito internet della banca.»

«Sì, ma non ho l’accesso a internet.»

«Invece ce l’hai.» Usando la tastiera, Tasho richiamò le connessioni attive e Shuzo vide che, oltre a quelle della banca e dei negozi accanto ce n’era una con il bizzarro nome da fumetto porno: SweetBabyCandy. Nemmeno a dirlo, fu su quella che Tasho cliccò. «La password è ‘iamthefox’, ‘I’ e ‘F’ maiuscole, la ‘o’ è uno zero.»

Shuzo alzò lentamente il capo verso di lui, fissandolo da sopra lenti immaginarie con palese ironia. «Poi dici a me, uh?»

«Ah, è una roba usa e getta, non seccare. Quello che devi sapere è: usa la chiavetta su computer pubblici, sfrutta le connessioni degli altri, roba che non possano risalire a te, e sposta il denaro poco alla volta. Poco alla volta, Shuzo: non devono insospettirsi, e, credimi, quando si tratta di soldi tengono aperto anche il buco del culo per vederci meglio.»

Lui annuì, anche se di tutta quella manfrina sulle reti sicure e il grande fratello ci guarda ci stava capendo poco, ma il succo stava più o meno divenendo chiaro: non era uno scherzo né un gioco.

«Ora che siamo connessi e sicuri: andiamo a vedere questo famoso conto.»

Shuzo digitò in fretta l’indirizzo web sulla barra del browser e una pagina colorata con una bella immagine header di una spiaggia comparve sul piccolo schermo del computer.

«Questa è la tua banca. Penso che saprai fare da solo, ora. L’onore è tuo.»

Senza dargli modo di replicare, il capo dei Kitsu uscì, lasciandolo da solo con quel piccolo accrocco. Shuzo lo guardò come fosse alieno, indeciso su cosa fare e sul prendere davvero in mano quello che, da un lato, considerava come l’ultimo lascito di suo fratello, l’ultima cosa che aveva fatto per lui, per proteggerlo. Ogni volta pensava di non meritarselo e che non fosse giusto che lui ricorresse sempre alla soluzione veloce che gli altri gli avevano fornito. Però c’era anche che non lo stava facendo per sé stesso, quanto per Mamoru e che se era per lui, allora al diavolo qualsiasi principio. Anche Yuzo si sarebbe fatto in quattro per poterlo aiutare. Si poteva dire che entrambi lo stessero ripagando per non aver mai dimenticato, per aver salvato ciò che sembrava insalvabile.

Estrasse il pacchetto di sigarette dalla giacca, anche se sapeva che non poteva fumare, quindi ne tolse una con i denti, pensando che non c’era alcun motivo per essere nervosi. Si trattava solo di qualche milione di yen. Lui non ricordava neppure quanto avesse avuto sul suo vecchio conto bancario, figurarsi. Tenendo la sigaretta al lato della bocca e fermata con i denti, Shuzo inserì le credenziali e attese che la connessione – un po’ lenta, per la scarsità del segnale – facesse il resto.

Dieci secondi dopo, sputò via la sigaretta con così tanta forza da farla arrivare all’altro capo della stanza.

 

Quando uscì dalla camera, Tasho tirò uno sbuffo che avrebbe spento in un colpo cento candeline su una torta. A volte, avere a che fare con Shuzo era stancante. Ottuso, irragionevole, testardo e così dannatamente ingenuo che, davvero, non poteva credere fosse stato il suo braccio destro per anni nei 3Kitsu. E la cosa più assurda era che continuava a vederlo come il più adatto tra tutti a succedergli, una volta che avesse mollato la frasca. Che problema aveva, pure lui?!

Appoggiato alla parete con una spalla, Tasho si cacciò in bocca una gomma da masticare e poi fece cadere l’occhio sul direttore della banca che lo fissava con le sopracciglia aggrottate.

Starà pensando che siamo un duo di coglioni, si disse, e sfoggiò un mezzo sorriso di circostanza.

«È più normale di quello che sembra. Fa ikebana.» Ma si strozzò per non sbottare a ridere da solo e soffocarsi con il chewingum.

Pensare che quella capra facesse ikebana era un controsenso così comico che faceva il giro e diventava geniale.

Malerba un artista.

Malerba un artista delle piante.

Qualcosa da tenere in vita, curare e preservare. Dopotutto, non era quello che aveva fatto con sé stesso fino a quel momento? Shuzo era sopravvissuto anche quando la situazione era stata critica e ne era uscito più forte ogni volta, più determinato e più testardo.

Un guerriero.

Che sapeva passare a filo di spada giganti grossi il triplo di lui, e allo stesso modo trattenere senza spezzarlo un filo d’erba sottile un paio di millimetri. Le grandi cose, le piccole cose. Shuzo passava dalle une alle altre con una semplicità di cui, sicuramente, non riusciva a rendersi conto, ma lui sì. Lui lo vedeva e, di sicuro, l’aveva visto anche Izawa.

Poteva essere un 3Kitsu, ma non aveva dimenticato cosa significasse tenere agli altri prima che a sé stessi. Era per questo che, nonostante tutti i suoi difetti, continuava a vederlo come suo successore, e avrebbe tanto voluto vedere la faccia che avrebbe fatto nel momento in cui-…

«Porcadiquellasantammerda!»

Tasho rise, scrollando il capo. Sollevò una mano per fermare lo sconcerto del direttore che aveva fissato la porta chiusa con bocca spalancata.

«Lasci, lasci. È tutto a posto. Ha solo scoperto d’essere ricco.»

 

Mamoru parcheggiò nel solito vicolo, di fronte al cancello secondario del Kokoro, e solo una volta che ebbe spento il motore tirò un lungo e sconsolato sospiro.

La settimana che Ichinobu gli aveva concesso era ormai agli sgoccioli, ma uno o due giorni in più non avrebbero potuto fare alcuna differenza. Aveva voluto dare fiducia all’ottimismo di Shuzo, aveva provato a cercare altri fornitori, fatto altri preventivi, ma dopo aver battuto praticamente tutta la prefettura a tappeto il risultato non era cambiato, nella sostanza. Certo, magari era un po’ oscillato nei numeri, ma non in maniera così significativa da ribaltarlo.

Quella partita era persa e lui stava giocando gli ultimi minuti con sforzo, in attesa che l’arbitro fischiasse.

Era stata una grande possibilità, questo lo sapeva. Quel terreno, il frutteto, era perfetto. Era ciò che aveva sempre sperato di trovare, ma a cui aveva rinunciato in partenza per paura di fallire. Ora era pronto a rimettersi in gioco, ma forse non era ancora il tempo che osasse così tanto e magari il destino stava cercando un modo carino per dirglielo, mettendogli i bastoni tra le ruote. Poi però si ricordò che il destino non c’era, c’era solo il caso. Così aveva sempre detto Haruna.

Peccato che Haruna non avesse mai tenuto conto del fattore ‘Shuzo’ e del suo arrivo così preciso e sconvolgente, che tutto faceva pensare tranne che nell’ordine universale vigesse solo il caso.

Mamoru si passò più volte le mani nei capelli e sbadigliò. Quella sera avrebbe detto a Shuzo che gettava la spugna, tirarla per le lunghe sarebbe stato inutile e scorretto. Ma prima di parlare con il suo compagno, avrebbe telefonato a Ichinobu, perché lo sapeva che poi Shuzo avrebbe trovato un argomento qualsiasi per convincerlo a prendere ancora un po’ di inutile tempo all’inevitabile.

Tolse allora le chiavi dal quadro e scese dall’auto. L’antifurto scattò con un solo suono, accompagnato dal lampeggiare delle luci, e lui si incamminò lungo la via principale.

La strada era ormai deserta e non aveva avuto bisogno di affacciarsi nel cortile posteriore per sapere che Shuzo era già risalito: si erano scambiati dei brevi messaggi mentre era sulla via del rientro. Anche Kumi era tornata a casa, il locale era chiuso e Mamoru vi passò davanti, lanciando alla vetrina un’occhiata d’affetto e un sorriso.

Andava bene anche così, dopotutto. Aveva il locale per cui aveva tanto lavorato, aveva le grandi e le piccole serre, una clientela affezionata e buoni affari, non aveva bisogno di incastrarsi anche con un frutteto così grande, avrebbe portato altro lavoro e problemi cui pensare. Eppure, nella grande distesa che scendeva verso il paese, aveva già immaginato di suddividere gli spazi, di aumentare la produzione di vino e vedere distese di pruni fiorire d’inverno mentre attorno tutto il resto del mondo dormiva.

Loro sarebbero fioriti, forti come nessun altro.

Perseveranti come Yuzo.

Ce li aveva avuti in testa fin dall’inizio, ed erano stati bellissimi.

Scrollò il capo, scacciò la fantasia e tenne il capo dritto, sguardo sulla concretezza della realtà. Era a quella che doveva pensare, ora, come sempre aveva fatto. Con la stessa decisione, recuperò il cellulare e ne guardò il display, fermandosi due passi più avanti all’ingresso principale del Kokoro.

Una telefonata e ci avrebbe messo una pietra sopra.

Pareva così difficile, ma sapeva fosse solo dovuto al primo passo: compiuto quello, sarebbe riuscito ad andare fino in fondo. I primi passi rimanevano i peggiori.

Mamoru sospirò e richiamò il numero dell’agente immobiliare. Quando sentì squillare libero per due, tre volte, fu quasi tentato di chiudere e tornare a far sparire il telefono nella tasca o nella borsa, non guardarlo più fino al giorno dopo e magari ignorare ogni tentativo di richiamata da Ichinobu. Alla fine, però, la maturità e il buon senso prevalsero e lui attese.

Izawa-san, mi ha letto nel pensiero.

«Spero di non essere stato un’ossessione.»

Una battuta e una risatina politically correct furono quanto di meglio riuscì a servire al giovane agente immobiliare, ma poi scelse di andare subito al sodo.

– Procede bene la vostra decisione? C’è qualche novità per cui dovremmo festeggiare?

«Da parte nostra, la decisione è sempre stata chiara fin dall’inizio: la voglia di acquistare il terreno c’è tutta, ma è il resto che ci rema un po’ contro. E proprio perché sono sempre stato onesto con lei e ringrazio i signori Harikawa della considerazione che hanno avuto nei riguardi del Mori no Kokoro, purtroppo le ho telefonato per dirle che siamo costretti a rinunciare.»

Oh…

«È una spesa ancora molto lontana dalle nostre possibilità, al momento. E non immagina quanto ci dispiace.»

– Sì, capisco. Sono sicuro che anche gli Harikawa saranno dispiaciuti di saperlo.

Mamoru provò un leggero sollievo nel carpire reale dispiacere da parte del signor Ichinobu. «Sono desolato di averle fatto perdere tempo…»

No, no. Non lo dica neppure, Izawa-san. È stato un piacere potervi guidare nella conoscenza dell’appezzamento. Lei e Mori-san siete stati gli unici che hanno apprezzato le caratteristiche tecniche di quel terreno, a livello agricolo.

E, dopo il sollievo, ecco arrivare il tuffo al cuore. Per un attimo aveva davvero sperato di poter ritentare più avanti, ma un terreno simile era davvero ben piazzato per lasciarselo sfuggire così.

«Quindi ha già incontrato altri acquirenti?»

– Sì. Immagino che venderemo molto in fretta.

«Capisco. Be’, glielo auguro: chiunque lo comprerà, farà davvero un ottimo affare.»

La ringrazio, Izawa-san. Allora le auguro una buona serata, e magari ci risentiremo per un acquisto futuro.

«Lo spero. A risentirci, Ichinobu-san.»

Così com’era cominciata, la telefonata si concluse: con un sospiro.

Adesso non restava che affrontare le lamentele del suo uomo; quello che gli avrebbe detto di essere il solito frettoloso del cazzo. Il fatto era che aveva imparato sulla propria pelle quanto perdere tempo fosse controproducente.

Mamoru, però, cercò di non partire in anticipo e salì le scale di casa senza troppa fretta. Sciolse i capelli che aveva tenuto legati e vi passò dentro le mani in un gesto pieno d’abitudini che affondavano le radici nell’infanzia: li aveva sempre portati così, non aveva mai pensato di tagliarli più di una spuntatina ogni tanto.

Entrò in casa e il profumo degli yakisoba pronti che aspettavano solo di essere impiattati lo avvolse subito e lo rassicurò rendendosi conto solo in quel momento di averne bisogno: un po’ di conforto, qualcosa o qualcuno che gli dicesse che andava bene lo stesso e che sarebbe andata meglio la prossima volta. Che ci sarebbero state altre occasioni, magari più vantaggiose di quella. Che il desiderio era stato solo rimandato e non cancellato.

«Okaeri. Hai fatto tardi anche stasera. Dovrò dire ad Hamoto-san di rimandarti a casa quando fate una certa ora, peggio d’una moglie.»

Mamoru trovò Shuzo seduto al divano, con un libro tra le mani, la matita sull’orecchio e l’evidenziatore a penna tra le dita. Nel posacenere, sul tavolino davanti al butsudan, il nulla fumava l’ultimo tiro di sigaretta.

«Tadaima. E sfotti poco.»

Chiuse la porta e si liberò di ogni cosa aveva addosso: sciarpa e giacca appese all’attaccapanni, scarpe scalciate e borse sulla parte libera di divano.

«Pare che la macchina essiccatrice per il tè non vada bene, e dire che avevamo fatto manutenzione ordinaria come tutti gli anni e non avevano trovato problemi. Mah.» Si stropicciò la faccia con le mani in maniera un po’ infantile, fino a passarsi più volte il fondo dei palmi sulle palpebre chiuse. «Yakisoba stasera?»

Shuzo gli abbozzò un sorriso storto dei suoi e lui si sentì rinfrancato già così.

«Sissignore.» Il ragazzo richiuse il libro e abbandonò tutto sul tavolino. Spense anche il mozzicone.

Mamoru s’accorse che era già arrivato a metà, e quel volume era entrato in casa da meno di una settimana. Si stava impegnando così tanto per la scuola di ikebana, mentre contemporaneamente lavorava anche in negozio, che un po’ si sentì in colpa di aver pensato subito a doversi difendere nei suoi confronti. Non sapeva davvero cosa Malerba avrebbe risposto quando gli avrebbe detto della rinuncia al frutteto, preferendo partire prevenuto in una vecchia e fastidiosa abitudine.

Faticava ad ammettere che tutto ciò di cui aveva bisogno fosse solo un abbraccio. Scelse però di non cercarne nessuno e di non cedere alla tentazione di gettarsi a peso morto su di lui, schiacciandolo completamente contro il divano e restare così per un tempo variabile tra il minuto e la mezz’ora.

«Ho chiamato Ichinobu e ho rinunciato al frutteto», disse senza alcun preavviso né girandoci attorno. Appoggiato al bracciolo fece il passo diretto: via il dente, via il dolore.

«Non ce la facevi proprio ad aspettare un altro paio di giorni?» Shuzo sorrideva, per nulla sorpreso.

«E a che pro? Non sarebbe cambiato niente. Ho girato a vuoto una settimana intera, conosco i prezzi di ogni fornitore del cazzo della prefettura. Potrei stilare preventivi nemmeno le aziende fossero mie!» Mamoru diede una botta secca al bracciolo e si allontanò dal divano.

«Gli hai detto perché non lo compriamo?»

«Sì. Sono stato sincero e lui pareva dispiaciuto, ma tanto si tratterà di poco: credo lo venderanno entro la fine della prossima settimana.»

Shuzo annuì e si alzò, sgranchendo le gambe. Un gesto che gli disse che doveva essere in quella posizione da molto. E lui, per riflesso, si tirò indietro ancora, certo che se si fossero avvicinati troppo, poi avrebbe ceduto e sarebbe finito col piangersi addosso tra le sue braccia.

«Troverò di meglio e la prossima volta non me lo farò scappare.» Lo disse con così tanta convinzione da pensare di crederci. E mentre Shuzo si avvicinava, lui tornò verso la cucina, andando a spulciare la zona dei fuochi e le padelle.

«Vedrai, magari non era questa l’occasione che stavamo aspettando.»

Sollevò il coperchio del wok in cui gli yakisoba fumavano ancora e ne inspirò l’odore invitante.

«A Obuchi e dintorni ci sono ancora svariati campi non utilizzati che potrebbero finire in vendita, bisogna solo aspettare e tenere gli occhi aperti.»

Richiuse il wok, rivolse al suo compagno un sorriso smagliante e si appoggiò con una mano al bordo dei fuochi. Shuzo, invece, si era fermato presso il bracciolo del divano e vi restava appoggiato, con le braccia conserte e l’espressione di chi non credeva a una sola parola.

Mamoru ammise a sé stesso di stare facendo uno di quei discorsi a vuoto pieni solo di autoconvinzione, ma al momento non sapeva essere diverso da così.

«Mangiamo? Ho una fame!»

«Certo. Apparecchia pure.»

Mamoru batté le mani in uno schiocco sonoro e le sfregò. Si diresse al tavolo con passo deciso e afferrò un plico avvolto da un nastro rosso che restava abbandonato e solitario.

«Cos’è? Roba della scuola? Carini, ti infiocchettano addirittura le dispense.» Mamoru sorrise e agitò il plico. Shuzo si limitò a una stretta di spalle.

«Cosa c’è scritto sopra?»

Mamoru guardò meglio. A penna, in nero, riconobbe i kanji del suo nome. Il sopracciglio saettò subito verso l’alto.

«Per me?» fece eco; gli occhi che passavano in fretta dal pacco al compagno, un paio di volte. «Che cos’è?»

«Per saperlo dovresti aprirlo.»

«A-ah!» Mamoru puntò l’indice con espressione sorniona. «Sapevi che avrei rinunciato al frutteto e hai preparato qualcosa per consolarmi! Che so, un viaggetto! Oh, che romantico.» Lo prese in giro portandosi il plico al petto e sbattendo velocemente le ciglia. «Guarda che non ce n’era mica bisogno. Non sono un bambino.»

«E tu vuoi blaterare ancora o lo vuoi aprire?»

Mamoru gli fece una smorfia, ma era preso in uno strano imbarazzo: era commosso dal gesto di Shuzo, e temeva che l’ironia con cui stava rispondendo potesse essere fraintesa.

«Okay, lo apro! Però quanto è spesso? Oltre ai biglietti hai svaligiato il negozio di dépliant?»

Ma il sorriso si spense adagio quando dalla busta marrone tirò fuori due fascicoli di fogli, scritti fitto fitto.

Nomi, dati.

Il sottoscritto Mori Shuzo, nato il 12/03… a Nankatsu, Prefettura di Shizuoka… denominato da adesso in poi, per brevità, come Acquirente… in data… alla presenza del notaio… acquista il lotto terriero numero…

Date, cifre.

Firme.

Quella del signor Ichinobu, come agente immobiliare e mediatore della compravendita, quella dei signori Harikawa, quella di Shuzo e quella del notaio.

Mamoru alzò la testa e fece un sol boccone della figura di Malerba, ancora ferma presso il divano, con le sue braccia conserte come statua e l’espressione così tranquilla da sembrare fuori dal mondo, perché gli aveva appena messo tra le mani la realizzazione di un desiderio e non poteva – non era ammissibile! – che avesse tutta quella serenità nel darglielo. Non era legale! Non era umano!

«…è il frutteto? Hai comprato il frutteto?!»

Un’altra alzata di spalle. Semplice, lineare, aliena.

Lui sgranò gli occhi ancora di più, nemmeno avesse dovuto farseli cascare dalle orbite. Rilesse i fogli, le scritte scorrevano velocissime, tanto che sembravano avere vita propria e correre via prima che riuscisse a dare loro un senso compiuto nella testa. Ne afferrava parole e stralci, e nella mente aveva confusione e ansia, l’incredulità faceva da collante in quel pastone indigesto.

«Come diavolo… oddio… Oddio, ti sei messo nei casini?!»

I cattivi pensieri si attivarono in automatico, perché non era in grado di ragionare lucidamente, e non sapeva darsi una risposta alle domande che aveva nella testa. Pensare male gli venne facile, anche troppo, e non ebbe la prontezza di pentirsene, ma di arrabbiarsi, mollare le carte con un colpo secco sul tavolo e distruggere la distanza che lui per primo aveva messo tra loro.

«Che cazzo hai fatto, Shuzo?! Che cazzo hai fatto!»

«Niente di illegale», sorrise Malerba.

«Hai chiesto i soldi a tuo padre?! Dimmi di no!»

«No, infatti.»

«E dove li hai… Tasho!» Quel nome s’illuminò come un’insegna al neon nelle sue intuizioni. Tanto da farglielo sputare fuori con tutta l’acredine possibile.

Shuzo sollevò le spalle, strinse appena l’occhio destro.

Ancora. Così. Mortalmente. Serafico.

«Nì… lui c’entra.»

«Lo sapevo! Cazzo, lo sapevo! Sei impazzito?! Perché l’hai chiamato?!»

«Mamoru…»

«Come diavolo ti è venuto in mente di contattare i 3Kitsu?!»

«Mamoru…»

«Che ti dice il cervello?!»

«Mamoru!»

«Cosa?!»

Oh, e adesso pretendeva di essere lui quello che lo teneva saldo per le spalle per farsi ascoltare?

Mamoru avrebbe voluto liberarsi dalla presa con uno scrollone, ma la stretta di Shuzo era ferma e stava ancora sorridendo.

Shuzo sorrideva, e lui non stava capendo più niente.

«Non ho fatto niente di illegale, non ho chiesto soldi a nessuno.»

«E allora come?!»

«Mi sono solo ricordato che, be’… le Cayman sono un bel posticino.»

La quadra si ordinò nella testa di Mamoru proprio come se tutti i pensieri fossero stati figure geometriche mischiate che non facevano che girare velocemente, sovrapponendo gli spigoli l’uno all’altro. Poi, di colpo, l’ordine perfetto e quel ricordo della conversazione avuta con Tasho anni prima.

«…il conto offshore

«Me l’ero completamente dimenticato. Ma non dire a Tasho che l’ho ammesso, già mi ha preso per il culo. E ho dovuto contattarlo per forza, perché, be’, era lui ad avere tutti i miei dati, io non sapevo neppure che cazzo dovevo fare. Si è ammazzato dalle risate, se può consolarti.» Shuzo lo lasciò andare e la presa si fece carezza che gli scivolò lungo le braccia. Si appoggiò di nuovo al bracciolo del divano, spostando lo sguardo a terra di tanto in tanto. «Lo so, non è proprio denaro pulitissimo, ma… almeno posso usarlo per qualcosa di buono.»

Nell’ordine, nella quadra, Mamoru realizzò la verità più importante di tutte, quella concreta che poteva toccare con mano. Anzi, in cui le mani presto ce le avrebbe fatte sprofondare, dentro la terra.

«Hai comprato il frutteto?» chiese con un filo di voce.

«Sì. Ho comprato il frutteto.»

«Ma Ichinobu-san…»

«Gli ho detto io di fingere nel caso avessi telefonato. Sapevo l’avresti fatto.»

«Ma il tempo…»

«Mi sono fatto aiutare da zio Tomohisa: come ogni buon Morisaki, conosceva le persone giuste.»

Tutto in ordine, tutto legale, tutto a posto. Tutto vero.

«Abbiamo il frutteto.»

«Leggi bene. Il secondo blocco di fogli.»

Shuzo indicò il plico abbandonato sul tavolo e Mamoru lo raggiunse, sempre confuso. Spostò l’atto di acquisto, guardò il resto e la sorpresa divenne voragine all’interno del petto.

«Una donazione?»

«Hai il frutteto.»

«Perché?»

Non riusciva a capirlo, e a far risalire la felicità che avrebbe dovuto travolgerlo. Shuzo aveva comprato il frutteto, era loro adesso, ma Malerba subito dopo l’aveva donato a lui, come unico beneficiario. Tutto firmato, tutto registrato.

Shuzo sorrise e le spalle vennero sollevate per l’ennesima volta.

«Perché te ne sei innamorato a prima vista e perché… hai dedicato così tanto tempo, passione e denaro a questo posto, al Mori no Kokoro… Volevo che il frutteto fosse tuo, comunque vadano le cose.»

«Stai dicendo che potrebbe finire male tra noi?»

«No no, non dico questo. È che… non saprei come spiegartelo. Io volevo…» Shuzo distolse lo sguardo per qualche istante, forse per cercare le parole. Ora sì che la felicità era risalita, ma non come esplosione che lanciava tutto in aria. Era arrivata fino all’orlo, gli aveva riempito il cuore piano piano e poi era tracimata. Quando il giovane lo guardò di nuovo, lui gli concesse il primo sorriso da che aveva letto l’atto di acquisto.

«Volevo donarti un pezzo di Paradiso, come tu lo hai donato a me.»

Mamoru lasciò i fogli sul tavolo e con calma tornò verso il compagno. Fece scivolare le mani sui fianchi e poi dietro la schiena, dove intrecciò le dita. Poggiò la fronte contro la sua.

«Il Paradiso ce l’ho ogni giorno, al tuo fianco», disse e ne cercò le labbra in baci brevi e continui, un sorso dietro l’altro, prima di appoggiare il mento sulla sua spalla e stringerlo. Stringerlo forte. Il Paradiso era tutto racchiuso tra le sue braccia.

«A volte raggiungiamo picchi di romanticismo che temo ne uscirò diabetico», sospirò Shuzo.

«Oh, ma so io come farti bruciare gli zuccheri.» Da dietro la schiena, le mani arpionarono le chiappe in una strizzata. «Sei un folle bastardo.»

Mamoru rise, lo abbracciò più stretto che poté e dentro si sentiva elettrico, perché adesso la carica si era attivata, dopo essere pacificamente tracimata. Era come certe eruzioni: prima effusive e poi esplosive. Sempre allo stesso modo spettacolari.

«Grazie.»

Shuzo gli baciò la punta del naso. «Rendilo speciale.»

«Lo renderemo speciale. Cosa credi? Ti ci dovrai fare il culo anche tu!»

«Ehi, io ho fatto la mia parte!»

«Non ci provare, Mori! Già penso che ad Hamoto-san verrà un colpo quando glielo dirò, mi servi per attutire la botta!» Mamoru si allontanò con una spinta brusca, dandogli anche un buffetto al braccio.

«E quindi son incastrato lo stesso?» Sbuffò Malerba, mentre lui recuperava un paio di bicchieri e ci versava dentro del Kuromori.

«Certo, che domande! E guai a te se ti lamenti! Credevi che il frutteto si sistemasse da solo?!» Gli offrì un bicchiere. «Un brindisi alle future migliaia di bottiglie in più che produrremo.»

«E fu così che diventammo degli ubriaconi.»

I vetri tintinnarono, il vino oscillò e nei loro occhi c’era tutta la felicità del mondo.

«Ehi, ma senti: quanto diavolo ci tieni sul famoso conto?» chiese Mamoru dopo aver bevuto un sorso di vino. Adesso sì che era curioso; questo conto era diventato una figura mitologica.

Shuzo si grattò la nuca e storse una smorfia. «Facciamo che te lo dico all’orecchio, Tasho mi ha fatto diventare paranoico: lui e i complotti, le intercettazioni.»

«Addirittura? E che siamo in Mr. Robot

Malerba fece spallucce, l’aria di chi non ci capiva niente e Mamoru non se ne stupì, si avvicinò e un mormorio lo raggiunse nel momento in cui aveva messo in bocca un nuovo sorso di vino… che risputò l’attimo dopo con un meraviglioso spruzzo rosso.

«Cosa?!»

Shuzo sorrise, si guardò alle spalle. «E mi sa che dobbiamo rifare il divano.»

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …gnì. <3

XD un po’ di lollosità Tashika (per una volta non fanno cose pessime, lui e Malerba!) e un po’ di dolcezza. Il tutto condito dalla stupidità cronica di Shuzo verso la tecnologia XDDDD Evvabè, non tutte le ciambelle riescono col buco! XDDD

Penultima shot di questa raccolta. I ragazzi hanno finalmente il frutteto *-* Mamoru lo aveva desiderato per tanto tempo, e ora può dimostrare a sé stesso di non avere più paura di fallire. :3

Dall’epilogo di ‘Malerba’ sappiamo che il frutteto dà tante gioie a tutti loro, con la sua bellissima distesa di pruni che fiorisce in inverno. :3

Cose belle per questi figlioli, ancora cose belle. Quelle che hanno meritato, dopo tante fatiche! :D

 

Prossima settimana arriverà l’ultimo capitolo della raccolta.

Stay tuned!!! :D

 

 

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Capitolo 9
*** #9 - La buona strada ***


Jikan - #9

Note Iniziali: e un altro Dicembre è arrivato :D Sono passati esattamente due mesi dalla shot precedente, e 1 anno e sette mesi dall’uscita di Shuzo di prigione.

 

Buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

- #9: La buona strada -

 

 

 

«Forse sarebbe meglio se non venissi.»

Yumeko evitò di alzare gli occhi al cielo, ma il sospiro profondo e rassegnato non lo trattenne.

Era da almeno una settimana che quella frase rispuntava a caso nelle loro conversazioni. E anche ora che il giorno era arrivato e lei gli stava sistemando il nodo alla cravatta, Akio la tirò fuori, accompagnandola sempre con la stessa espressione che voleva dissimulare fermezza, ma era carica di incertezze: labbra tese e sopracciglio inarcato che formava un solco profondo sulla fronte.

Suo marito così indeciso non lo era mai stato da che lo conosceva, ma la strada aveva cambiato il corso da quando Shuzo era tornato nelle loro vite in maniera inaspettata. Akio aveva preso il coraggio di abbandonare la via dritta di sempre per addentrarsi lungo la traversa più tortuosa, dove non era possibile scorgere più in là di ogni curva. Aveva paura, tanta, di commettere un passo falso e cadere di sotto, portando con sé le speranze di riuscire a trovare un dialogo con suo figlio.

Ora erano in grado di stare insieme nella stessa stanza e riuscire a scambiare due parole smozzicate. Un risultato enorme e insperato, a prima vista, che faceva desiderare di più. Faceva sperare potesse esserci un ‘di più’.

Lei ci credeva, Akio ne era terrorizzato anche se non lo diceva.

«Ne abbiamo discusso ogni giorno e ormai non puoi tirarti indietro.» Yumeko diede una lisciata al colletto della camicia, dopo averne ripiegato gli angoli. «Sei suo padre, e questa è la prima cena che riusciamo a fare tutti insieme da almeno sedici anni. Ci hanno invitato i genitori di Mamoru, non dimenticarlo; non presentarsi all’ultimo momento sarebbe maleducazione.»

Fu allora Akio a sospirare, mentre si allontanava di qualche passo e allentava ancora il nodo alla cravatta, quasi gli mancasse l’aria. Yumeko sbuffò: era da almeno una mezz’ora che non faceva altro che sistemarglielo.

«Shuzo preferirebbe che non ci fossi.»

«I figli preferirebbero un sacco di cose comode che non gli possiamo concedere perché almeno noi dobbiamo essere lungimiranti. Non potrai evitare per sempre questo discorso. È l’occasione buona per fargli capire che sai più di quello che crede e dargli il tuo supporto.»

«Oh, certo, magari tra il dolce e un bicchiere di vino posso dirgli ‘bella giornata, vuoi una sigaretta? Tua madre mi ha detto che sei gay’. Dovrò prepararmi a un altro pugno in faccia.»

Yumeko nascose una risatina nella mano. «Non ci saranno pugni in faccia.»

«Sei troppo sicura che le cose possano andare bene e dimentichi che stiamo parlando di Shuzo e di me. Se c’è una cosa che ho imparato in tutto questo è che, quando si tratta di noi due, le cose non potranno mai andare né bene, né lisce, né civilmente.»

Yumeko rimase a osservare la schiena di suo marito. Le spalle ampie e l’altezza imponente che l’avevano reso sequoia accanto a lei. Una solidità che pareva inaffondabile e che ora invece sembrava nascondere un cuore di truciolato. Provò tenerezza per quelle incertezze che, se solo fossero emerse prima, avrebbero potuto cambiare le cose fin dal principio o prima che precipitassero.

«Sono quasi due anni che riuscite a stare nella stessa stanza e a parlarvi senza che avvenga nulla di disastroso. Dovresti avere anche tu un po’ più di fiducia nei tuoi mezzi e in quelli di tuo figlio. Se non ti ha più rifiutato un motivo ci sarà. Sai che avrebbe fatto di tutto pur di non avere contatti con te, se davvero avesse voluto.»

Arrivò a toccare quella schiena che per molto tempo aveva pensato non meritasse il suo supporto né la benedizione d’aver avuto due figli meravigliosi. Con le dita lisciò il cotone della giacca, da un lato e dall’altro, nel desiderio di livellare ogni differenza ancora presente sulla strada della sua famiglia.

«Shuzo ci sarà, stasera. Devi esserci anche tu, perché i genitori fanno anche questo: afferrano le più piccole concessioni e le trasformano in opportunità.»

 

«Senti e se mi dessi malato?»

In quel preciso momento, Mamoru desiderò prendere il volante a testate. Sarebbe stato di sicuro più edificante che rispondere – per l’ennesima volta – alla domanda di Shuzo seduto al suo fianco, con il viso sprofondato nel palmo della mano e quasi tutto addossato al finestrino. Scomposto, com’era di natura.

«Ancora con questa storia?! Ma quanti anni hai?»

«Non è quanti anni ho, okay?»

«Io direi proprio di sì, perché ti stai comportando come un bambino che fa i capricci e non vuole andare dal dentista!» agitò una mano ed effettuò una curva in maniera troppo decisa per le strade di Nankatsu. «E poi siamo quasi arrivati.»

«Allora ferma; torno indietro con un taxi!»

«Merda, Shuzo! Piantala! Ne abbiamo parlato fino allo sfinimento, non ricominciare.»

«Il fatto è che tu non puoi capire.»

Quando non sapeva che rispondere, ecco che Malerba s’impuntava con la solita frase preconfezionata del ‘tu non puoi capire’. L’aveva sentita talmente tante volte che fu tentato di girarsi e tirargli un pugno dritto in faccia.

«Ah, no? Non posso?! Anche io ho avuto problemi con mio padre.»

«Sì, ma è differente. Tuo padre ha un cervello che funziona.»

«Anche il tuo, non sottovalutarlo. Siete riusciti a non darvi contro per quanto? Un anno e mezzo? Due? Vedi di non rovinare tutto stasera e di non metterti sulla difensiva.»

«E perché dovrei essere io quello che rovina le cose?! Di sicuro sarà lui!»

«Se parti così allora finirà una merda.»

«Sì, sì…»

Mamoru lanciò un’occhiata veloce, giusto in tempo per vedere Shuzo che alzava gli occhi cielo sull’ultima risposta piena di accondiscendenza. Gli dava il contentino per chiudere una discussione che adesso gli risultava fastidiosa, perché non si stava svolgendo come voleva lui.

Molto maturo, pensò stringendo gli occhi.

E adesso, ecco che Malerba guardava fuori. Finiva sempre così quando non voleva più affrontare gli argomenti scomodi: girava lo sguardo, lo teneva distante. Credeva che in tutto quel tempo non l’avesse ancora capito? E invece sapeva esattamente cosa gli passasse per la testa; ogni cosa aveva un significato e spesso corrispondeva a un’emozione in particolare.

«Ammettilo, sei solo spaventato a morte.»

Shuzo saltò dal seggiolino.

«Cosa?! Chi?! Io?! Ti droghi, gioia?! Spaventato da chi e per cosa?! Fammi il piacere.»

«Sei sulla difensiva da duro: significa che sei nervoso.»

«Vaffanculo, Mamoru. Un’altra cazzata e ti faccio fermare sul serio.»

Mamoru storse le labbra, divertito dalle sue minacce di cartapesta, non erano quelle dette per fare paura e, forse, non c’era più alcuna minaccia che temesse davvero da lui.

«Tu non vai da nessuna parte, perché comando io.»

«Stocazzo!»

«E affronterai tuo padre come avresti dovuto fare già da un po’.»

«Oh, andiamo! Perché avrei dovuto? Cos’è, devo chiedergli il permesso? Io non gli devo nessuna spiegazione! Se sto con te sono solo cazzi miei e tuoi.»

«Non si tratta di chiedergli il permesso, ma di metterlo al corrente della nostra relazione, dopo quasi quattro anni. Tutto qua.»

«Sì, tutto qua.» Lo scimmiottò Malerba. «Se avessi una vaga idea di chi sono davvero i Morisaki non è quello che diresti.» Scosse il capo, sprofondando nello schienale del seggiolino con le braccia conserte; sembrava il buttafuori scoglionato di una discoteca. «Gesù, sento già l’odore della figura di merda che mi farà fare davanti ai tuoi genitori.»

«Non ti farà fare nessuna figura. Dovresti fidarti di più di tuo padre.»

«Fidarmi ‘cosa’?! Ti prego sto per soffocare dalle risate. Fidarsi di lui… Questa è grossa.»

Mamoru lo guardò storto. «Ti ha più fatto scenate?»

«Ma che c’entra?»

«Rispondimi, te ne ha più fatte o no?»

«Solo perché è un cacasotto! Ha paura di prenderle di nuovo!»

«Non fare il gradasso, tanto non gliene tireresti mai un altro e lo sappiamo tutti e due. E anche se fosse, non ne avrebbe paura, sai anche questo. Quindi, rispondi alla domanda.»

«No…» Un masticare di parole a mezza bocca per cui non provò pietà.

«Ti ha più detto cose per cui mandarlo a quel paese?»

«No.»

«Allora, magari, dovresti concederglielo quel pochiiino di fiducia in più e dirgli che stiamo insieme. È la prima cena ufficiale che facciamo con i miei e i tuoi, facciamola funzionale. Okay, gioia

«…’kay.»

Una conclusione altrettanto masticata alla sua arringa, ma bastò a Mamoru per chiudere la discussione.

Trattenne un sorriso nel vederlo imbronciato e con lo sguardo ancora rivolto all’esterno. Anche lui era un po’ preoccupato, ma ammetterlo non avrebbe fatto altro che legittimare la fuga del suo compagno. E Mamoru sapeva di non poterlo permettere, perché era questo che facevano i figli: lasciavano in giro piccole concessioni nella speranza che i genitori potessero trasformarle in opportunità.

 

Vedere l’auto di suo padre parcheggiata nel cortile di casa Izawa gli fece serrare la mascella tanto da sentire un leggero dolore nei denti e poi il sapore del sangue. Lo buttò giù e sbuffò.

«Smetterai di fare la ciminiera?» chiese Mamoru entrando nella proprietà dopo aver lasciato l’auto nella stradina di casa. Aveva aperto con le chiavi.

«Non posso nemmeno sbuffare? Vorrai stare a sottolineare tutto quello che faccio?»

Mamoru non gliene stava facendo passare una; lo riprendeva di continuo e lui soffriva sempre meno quella situazione.

Quando i genitori di Mamoru l’avevano invitato a cena, lì per lì non ci aveva visto nulla di male, capitava spesso, così aveva accettato senza neppure pensarci. La seconda parte della faccenda era arrivata dopo e a quel punto non si era potuto tirare indietro, anche perché Mamoru aveva subito detto che era un’ottima idea per parlare anche con sua madre e Akio. Soprattutto con Akio.

Di tutti, suo padre era l’unico a non sapere ancora come stavano le cose. Non aveva neppure idea se si fosse mai posto qualche domanda, ma dopotutto non gli era fregato più di tanto: Akio e la sua cricca Morisaki potevano pensare un po’ quello che volevano, tanto non erano affari loro.

A quanto pareva, invece, stavano per diventarlo.

Forse avrebbe dovuto infierire, dirgli che anche Yuzo era gay. Dèi, gli avrebbe fatto venire un infarto secco, ne era certo, ma sarebbe stata una grande rivincita, quasi una consolazione… se non fosse stato che non c’era nulla per cui consolarsi.

Glielo avrebbe detto e allora? Che sarebbe cambiato? Suo fratello era morto, ormai, e Akio l’avrebbe disprezzato ugualmente. Le tregue che avevano tacitamente firmato sarebbero andate a gambe all’aria, la civiltà che erano riusciti a mantenere sarebbe crollata, Akio avrebbe dimostrato che il suo era solo un atteggiamento di facciata e tutto sarebbe tornato a com’era stato prima che uscisse di prigione. O addirittura a prima che vi entrasse.

A prima che gli dicesse ‘cacciami pure, tornerò’, a prima che gli dicesse ‘sono qui’.

Tanto era stata solo questione di tempo e per questo non si era aspettato nient’altro se non di vedere la tregua sparire. Una strada, quella volta, cui non si sarebbe più tornati indietro.

«Kanna! Shuzo-san!»

Pooja, la governante indiana di casa Izawa, li accolse con un largo sorriso e la braccia aperte non appena misero piede in cucina: tappa fondamentale ad ogni loro arrivo.

Fin dalla prima volta che c’era stato, la signora Pooja gli aveva fatto sentire tutta l’accoglienza della civiltà cui apparteneva, dove l’ospitalità era importantissima e legata al cibo e al tè: gli ospiti che mettevano piede in casa dovevano mangiare e bere, non c’era verso che se ne andassero a stomaco vuoto. E lei aveva addosso l’odore delle spezie e dell’incenso, impregnato nei colori sgargianti dei saree che indossava sempre. Anche quella sera ne aveva uno, molto elegante e di colore blu notte, dai bordi d’oro. Lo teneva appuntato in modo che non le desse fastidio, con la stoffa fermata sulla spalla da delle spille da balia.

Era così diversa dalla governante di casa Morisaki dei suoi ricordi: una donna tipicamente giapponese nei modi, negli abbigliamenti e nelle tradizioni, minuta e silenziosa, a volte impercettibile. Sua madre gli aveva detto che, dopo la morte di Yuzo, l’aveva fatta tornare in Hokkaido dalla famiglia, e lui non aveva faticato a immaginare la casa in cui era nato e in parte cresciuto sprofondare ancora di più nel silenzio e nelle distanze tra chi la abitava.

A casa Izawa, invece, c’era tutt’altra musica e aveva l’armonia dei sitar e il ritmo dei dholl.

«Auntie, ti ho sempre detto di non usare il ‘san’ con me. Non ce n’è bisogno.»

«È per rispetto. Lo dice la signora e ormai l’ho imparato anch’io.»

Shuzo le fece una smorfia, mentre Mamoru l’abbracciava in maniera molto informale. Lui, con quella donna, ci era cresciuto fino a che non era andato via di casa, era più di una semplice domestica agli occhi del suo compagno.

«E cosa hai preparato di buono? Sento un profumino…»

«Tutto quello che auntie prepara è buono», intervenne lui con solennità, porgendole un bel bouquet in cui spuntava un enorme Hyppaestrum bianco con una sfumatura rossa nel cuore che sembrava spruzzata con l’aerografo, e delle fresie profumatissime. «E deve essere omaggiata per il suo duro lavoro.»

«Oooh, chellam!»

Alla donna brillarono gli occhi nell’accettare il dono e guardarlo con meraviglia. Inspirò l’odore delle fresie e poi gli sorrise, portando una mano vicino alla sua tempia. La prima volta, Shuzo aveva creduto volesse fargli una carezza e invece col palmo aperto aveva afferrato l’aria e quello stesso pugno chiuso l’aveva poi portato alla propria tempia. Pooja gli aveva spiegato che era un gesto d’affetto, scaramantico: serviva ad allontanare il malocchio dalle persone cui si voleva bene.

«Abbiamo portato anche i dolci, auntie

«Lasciate tutto a me, ci penso io a servirli a fine pasto.»

«D’accordo, allora il vino lo portiamo di là.»

«Sì, e non perdete tempo: gli ospiti sono già arrivati.» Strizzando l’occhio, Pooja gli diede di gomito. «Shuzo-san, non avevi detto di somigliare così tanto a tuo padre.»

«Mai nessuno che mi dica che assomiglio alla mamma.»

«Somigli anche a lei. Vedi gli occhi.» La governante gli pizzicò il mento tra indice e pollice. «Belli come i suoi. E ora andate, svelti. C’è un po’ di aperitivo che vi aspetta.»

Shuzo e Mamoru abbandonarono la cucina per dirigersi in salotto, anche se lui, improvvisamente, non aveva più tanta voglia di fare conversazione, figurarsi trascorrere un’intera cena.

«Ruffiano.» Mamoru aveva le mani nelle tasche e un accenno di sorriso sulle labbra. «Ogni volta te la ingrazi con in fiori. So che lo fai di proposito.»

«Sì! Adoro quando mi fa quel gesto con la mano!» Shuzo lo imitò in maniera rozza nei confronti di Mamoru che rise e gli diede una spinta. Poi aprì la porta del salotto senza neppure chiedergli se fosse pronto; e avrebbe dovuto? Non aveva davanti degli sconosciuti, ma i suoi genitori e quelli di Mamoru; per cosa avrebbe dovuto prepararsi?

La sua vocina interiore aveva sempre quell’arroganza urticante che il cannibale rilasciava in sbuffi pesanti, tra un sonnellino e l’altro: ascoltava, ma non interveniva, non ce n’era bisogno e allora sbuffava perché era seccato.

Solo che quando la sala gli apparve davanti agli occhi, con il caminetto già acceso e tutti e quattro che ridevano e dialogavano per poi interrompersi al loro ingresso, ebbe la sensazione di aver infranto qualcosa di sereno per portare tensione, anche se non aveva neppure detto niente. Doveva essere proprio la sua presenza, il problema. La sua esistenza.

«Oh, ce l’avete fatta!» esclamò Hisoka battendo l’indice sull’orologio.

«Scusate il ritardo, ma c’era traffico. Ricordate che veniamo da Obuchi.»

«Devi sempre avere la risposta pronta.» Hisoka mollò una pacca sulla spalla di Mamoru e abbozzò un inchino verso di lui. «Scommetto che lo fa anche con te.»

«Ci prova, ma non sempre gli riesce. Io ce le ho più pronte delle sue.»

«Ah, andiamo bene! Quella povera ragazza di Kumi si trasformerà in una bambinaia!»

Rina accorse per abbracciare suo figlio. «Che cosa hai portato, tesoro?»

«Vino.» Mamoru sollevò le due bottiglie di Kuromori che teneva per il ventre. «E dei dolcetti, li abbiamo lasciati ad auntie

«Perfetto. Ma vieni a salutare i Morisaki.» Rina invitò Mamoru ad avanzare con una spintarella, poi prese lui sottobraccio. Gli rivolse un’occhiata maliziosa, cui Shuzo rispose con uno sguardo sottile di intesa e sfida. Poteva immaginare cosa stesse frullando nella testa di quella donna, con la quale aveva legato proprio bene e in maniera inaspettata. Non aveva creduto a Mamoru quando gli aveva detto che avrebbe solo dovuto darle un pizzico di confidenza e sarebbe stato accolto subito, e invece era accaduto proprio questo: una battuta al momento giusto, ricevuta e servita, e avevano rotto ogni indugio. E con quell’espressione divertita e sorniona, di sicuro la signora Rina non aspettava altro che il momento in cui il grande discorso della serata sarebbe stato affrontato. Che pettegola!

«Shuzo, caro, con tua madre stavamo parlando della scuola di ikebana. Ma davvero hai trovato la sorella della tua prima maestra?»

«Sì. È lei la mia sensei, adesso.»

«Oh! E com’è?»

«Meno acida della vecchia.»

«Shuzo, non si dice», lo rimproverò sua madre.

«Oh, dai, è vero.» Non cercò di difendersi, mentre Rina rideva e scioglieva la presa dopo averlo praticamente scortato fino ai suoi genitori. Della serie: figurati se ti lascio scappare ora che sei qui. In quello riconobbe così tanto di Mamoru che, quando distrattamente aveva alzato lo sguardo incrociando il suo, l’aveva visto accennare un sorriso soddisfatto. Diavolo, era circondato.

Yumeko si sollevò sulle punte per dargli un bacio in segno di saluto, ma quando lui si trovò faccia a faccia con suo padre, tutto quello che fu in grado di dire e fare fu accennare col capo e farsi uscire uno strozzato ‘ciao’ che ottenne una risposta speculare, anche nell’imbarazzo.

«Be’, noi abbiamo già dato fondo a un po’ di bollicine, vi unite?» propose Hisoka e Shuzo non se lo fece ripetere: nell’alcool aveva appena visto la via più facile per affogare quella serata.

 

«Questo biryani di pollo è fantastico.»

Shuzo era seduto proprio di fronte ad Akio, attorno al tavolo rettangolare. Alla propria destra, a capotavola, c’era il signor Izawa e alla sua sinistra Mamoru. Di fronte a Mamoru era seduta sua madre e l’altra estremità del tavolo era occupata dalla signora Rina.

La serata stava procedendo meglio del previsto e senza particolari uscite. Per fortuna i signori Izawa sapevano mantenere viva la conversazione, e anche Mamoru, perché fosse dipeso da lui si sarebbe mangiato e basta in totale silenzio. Non si sentiva particolarmente a suo agio nell’avere conversazioni sciolte con altre persone davanti ad Akio: avrebbe potuto introdursi nella discussione e avrebbe finito con l’essere troppo ‘rilassata’; Shuzo temeva di abbassare la guardia e concedere più del necessario.

Mentre Akio sembrava perfettamente a suo agio, parlava con disinvoltura, complice anche il fatto che i Morisaki e gli Izawa si conoscevano da anni grazie all’amicizia tra Mamoru e Yuzo.

Shuzo si sentì tutelato nel proprio silenzio, rompendolo solo di tanto in tanto affinché la sua tensione potesse passare inosservata.

«Vero?» Hisoka appoggiò il tovagliolo sul tavolo e versò dell’altro vino ad Akio. «Eravamo un po’ restii all’idea di una cena a base di cucina indiana, ma sappiamo che Pooja dà il meglio con i piatti della sua tradizione.»

«Era da parecchio che non la mangiavo, l’ultima volta sarà stato in Malaysia, lo scorso anno.»

«Viaggi ancora molto per lavoro? Vedi che cominci ad avere un’età!»

«Fintanto che si tratta dell’Asia, le ore di volo non mi preoccupano. È quando si parla di Europa che inizia a essere pesante.»

«In Malaysia penso di non esserci mai stato; vero, Rina?»

La signora Izawa inclinò leggermente il capo. «Non vorrete mettervi a parlare di lavoro?»

«Ma se stiamo parlando di cucina!» Hisoka schioccò le dita e tornò a conversare con Akio. «Sono stato a Singapore, però.»

«Bellissima e molto pulita, ma la cucina malese di Penang è la migliore di quella zona. Ricordo con piacere di un loro piatto tradizionale, molto speziato, con questa specie di curry di pesci secchi e arachidi.»

«Il naci lemak

«Sì, quello!»

«Ah! Fantastico! Pooja ne conosce la ricetta, la prossima volta le chiedo di prepararlo.»

Shuzo si sentì urtare la gamba con insistenza, mentre lo scambio di battute virava sull’uso delle noccioline americane nella cucina asiatica. Si volse e vide Mamoru abbozzare un sorriso divertito mentre accennava col capo ai due uomini immersi nella loro discussione.

L’espressione diceva ‘guardali come vanno d’accordo’ e sottintendeva una sghignazzata che si limitò a immaginare ma che gli echeggiava nella testa.

Lui sollevò entrambe le sopracciglia e fece ruotare gli occhi.

Sì, sì. Pappa e ciccia. Che culo.

L’intenzione, subito dopo, fu quella di buttare giù l’ultimo boccone con un sorso di vino.

«E tu, Shuzo?»

Il rumore che vino e cibo fecero mentre ingollava fu simile a un fumettistico ‘glom’.

«È già da un anno buono che sei libero, non hai ancora preso in considerazione l’idea di un viaggio?»

«Fuori dal Giappone, intende?»

Hisoka annuì, lui nicchiò.

«Be’, considerando la mia fedina penale, non penso che le altre nazioni farebbero a gara per accaparrarmi come ospite…»

«Ma per molti paesi noi non abbiamo bisogno del visto, almeno per novanta giorni.»

«Questo è vero, ma alcuni richiedono di compilare dei moduli e di certo, al momento, l’ultima cosa a cui penso è di mettermi a fare questioni con un agente aeroportuale sui perché e percome della mia vita.» Gli sembrava troppo lungo spiegare al signor Hisoka di tutti i viaggi che aveva programmato con suo fratello e che non erano mai riusciti a realizzare per tantissimi motivi. Viaggiare non rientrava proprio tra le sue priorità, anche se forse a Mamoru sarebbe piaciuto…

Shuzo si volse alla ricerca di un segnale sul volto del suo compagno che potesse dargli una risposta a una domanda non posta, ma Mamoru sembrava tranquillo e intento a terminare con gusto ciò che aveva nel piatto.

«Ci credo sia l’ultimo dei tuoi pensieri, perché scommetto che il primo è il frutteto!» intervenne la signora Rina, strizzandogli l’occhio e cambiando argomento.

«Oh, sì! Il frutteto!» anche sua madre ne era entusiasta.

Sentirsi approvare in qualcosa era un evento nuovo con cui stava prendendo confidenza.

«So che hai chiesto aiuto a zio Tomohisa.»

Shuzo spostò su Akio uno sguardo di ferro e labbra tese.

«Consulenza», ci tenne a specificare.

«Ammetto che aver saputo che fosse tuo fratello l’avvocato coinvolto nella compravendita mi ha un po’ tranquillizzato.» Hisoka fece ruotare il fondo del vino nel bicchiere. «Non si parla di piccole cifre, e loro avevano già fatto tutto quando ci hanno comunicato l’acquisto.»

«Hisoka-san, la stupirà sapere che non abbiamo dieci anni.» Shuzo si trattenne dall’essere più acido.

«Ti ricordo che il Kokoro l’ho tirato su da solo, papà.»

«Sì, ma ti ho aiutato con l’acquisto.» L’uomo sbuffò, il viso sprofondato nel palmo. «Ammetto di essermi sentito un po’ tagliato fuori.»

«Non dovrebbe essere contento, invece? Suo figlio non dipende più dalle sue sottane.»

«Ehi! Non sono mai dipeso dalle sottane di mio padre!»

Mamoru gli mollò una gomitata e lui sghignazzò.

«Piuttosto, vorrei capire come mai tu abbia cambiato idea.» Hisoka aveva assunto un’espressione seria nel rivolgersi a Mamoru. «Mi avevi detto che il prezzo era troppo alto e vi avresti rinunciato. Siete forse riusciti a contrattare? Non avrete mica chiesto un prestito?!»

Ecco, quella non se l’erano preparata. Shuzo si rese conto che non avevano pensato a una risposta da dare ai loro genitori. Parlare del conto offshore non gli sembrava il caso, soprattutto con suo padre presente: lo infastidiva che ficcasse il naso nei suoi affari, magari infarcendo il tutto con consigli non richiesti e filippica scontata. Avrebbe anche dovuto spiegare da dove provenisse quel conto, e parlare dello spaccio di droga avrebbe fatto piazzare a tutti l’ottimo biryani sullo stomaco.

«Ah… be’…»

«No… Certo che no, nessun prestito.»

Mamoru lo guardò, ognuno alla ricerca di una soluzione qualunque negli occhi dell’altro, e Shuzo scelse di sfruttare la sua carta migliore, l’unica su cui sapeva di poter contare sempre, anche a sproposito.

«Svaligiare una banca rende ancora bene.»

Akio tossì forte, il vino andato di traverso.

«Tutto bene? Bevi un po’ d’acqua…» Yumeko gliene versò un bicchiere, ma Akio lo allontanò con la mano; il viso rosso per lo sforzo.

Shuzo lo fissò da sopra lenti immaginarie con un sopracciglio inarcato.

«Era una battuta.» Sottolineò, accusatorio con contorno di sottintesi, mentre abbassava gli occhi sul piatto e spostava il bicchiere da un centimetro all’altro.

«Ah… sì?»

«Mi sembra ovvio. Credevi dicessi sul serio?»

«No, io… avevo pensato-»

«Che fossi così fesso da giocarmi la libertà con una rapina.» Gli rise in faccia con un’alzata di spalle. «Di cosa parlavamo in macchina, Mamoru? Di fiducia? Verso questo qua? Certo.»

«Non era quello che volevo dire. Se ti togliessi il vizio di interrompere la gente prima che finisca...»

«E se tu ti togliessi il vizio di pensare sempre male del sottoscritto.»

«Chi ti ha detto che ho pensato male? Io mi sono solo-»

«No, non dirlo! Eri preoccupato? Oh! Quale emozione.» Lo scimmiottò portandosi una mano al viso e sbattendo le ciglia.

Suo padre drizzò la schiena e il gesto provocò in lui un moto di sottile soddisfazione. Da quanto tempo era che non si azzannavano come erano stati abituati a fare? C’era qualcosa di familiare nell’alzare la voce, frase dopo frase, nell’assumere posizioni aggressive e speculari, nel cercare di prevalere. Qualcosa di familiare e ovvio.

Era ovvio che finisse così.

Era stata solo questione di tempo.

«Sei uscito di prigione da circa due anni, lavori regolarmente dallo stesso tempo. D’un tratto compri un terreno da quasi sei milioni di yen, e credi che io debba pensare che sia stata opera e virtù degli dèi?!»

Shuzo espirò con le narici e si rilassò contro lo schienale della sedia: il gomito sulla sommità della spalliera e l’altra mano che picchiettava l’indice sul tavolo.

«Dovevo immaginarlo che un Morisaki non avrebbe mai saputo tenere la bocca chiusa. Non mi affiderò più a lui come avvocato.»

«Tuo zio era preoccupato che potessi cacciarti di nuovo nei guai! Hai versato in contanti metà della cifra e quando ti ha chiesto da dove provenissero non hai risposto, che avrebbe dovuto fare?!»

«Il suo mestiere, che include anche un certo segreto professionale, mi sembra.»

Akio allontanò bruscamente la mano di Yumeko che aveva cercato di intervenire, mentre tutt’attorno regnava un gelo che la Siberia a confronto pareva Tokyo in pieno agosto.

«Non nasconderti dietro questo atteggiamento. Vuoi finire di nuovo in carcere?»

«Uso l’atteggiamento che mi pare e che meriti, chiariamo questo prima di tutto.» Shuzo si sporse di nuovo in avanti, appallottolando il fazzoletto che aveva tenuto sulle gambe e sbattendolo sul tavolo in malo modo. Fosse stato per lui, quel tavolo l’avrebbe scavalcato in un attimo, ma il selfcontrol stava tenendo ancora il cannibale alla catena in una maniera talmente magistrale per la quale avrebbe dovuto fargli un applauso. E lui lo sentiva scalciare, strepitare. Si contorceva e gli provocava fitte lancinanti al ventre, dove quello che aveva mangiato si rimescolava per l’agitazione e risaliva in nausea fino alla bocca dello stomaco.

Il cannibale si contorceva e guaiva, mentre lui gli dava il contentino lasciandolo abbaiare a piacimento.

«Seconda cosa, io non devo discutere di quello che faccio con te perché, ultim’ora!, non ti riguarda! Quindi se voglio svaligiare banche e se voglio tornare in galera, mi fottano gli dèi!, sono solo cazzi del sottoscritto, d’accordo?!»

Il silenzio tagliò tutto all’improvviso.

I cani si erano azzuffati, in quel primo round, ed erano stati tirati indietro dai padroni. Agli angoli dell’arena rimanevano a guardarsi male, pronti per una nuova carica. Sulla faccia, le cicatrici si erano riaperte assieme ai segni nuovi, e sanguinavano.

Loro, allo stesso modo, si fissavano da sopra una cena tranquilla e che avrebbe dovuto portare delle discussioni con sé, ma non di quella portata né con quella aggressività. Shuzo era stato preparato a sentirsi attaccare su altri fronti, e quello l’aveva colto un po’ alla sprovvista, ma quando si trattava di difendersi era un maestro.

Akio, invece, dava l’idea di qualcuno cui la situazione era sfuggita di mano quando aveva cercato di controllarla per tutta la cena, riuscendoci anche bene. Ma anche i bravi equilibristi finivano col cadere, qualche volta.

Il primo a distogliere lo sguardo dagli occhi dell’altro fu Shuzo, che sbuffò un sogghigno carico di disprezzo e scosse il capo. Sulle labbra aleggiava una piega storta verso il basso.

La cosa che più lo faceva arrabbiare era che, come al solito, qualcuno aveva dovuto assistere ai loro scontri; e che il pubblico fossero proprio i genitori di Mamoru era un’aggravante per i suoi nervi come corde di violino stonato. Percepiva i loro occhi addosso, imbarazzati, e la sensazione fastidiosa di non essere mai abbastanza, anche quando cercava di fare qualcosa di buono.

«Scusate.» Si alzò di scatto e i piedi della sedia strusciarono sul pavimento con uno stridio acuto.

Lasciò il salotto con addosso il bisogno impellente di fumare.

 

Mamoru non era riuscito a intervenire per fermare il precipitare della conversazione. E neppure gliel’avrebbero permesso: quando Shuzo e Akio partivano, gli altri che stavano loro intorno smettevano di esistere; aveva già avuto modo di testarlo e capire che tornavano a essere in grado di interagire con il mondo – Shuzo soprattutto – una volta che avevano sfogato l’accumulo di collera. Come una piaga purulenta. Ecco, la collera di Shuzo era quel pus che bisognava far uscire tutto.

Akio, invece, aveva una maggiore consapevolezza dello spazio e delle persone, semplicemente tendeva a ignorarle fino a che non aveva esposto del tutto le proprie ragioni.

Mamoru lo vide rimestare saliva a labbra strette e guardare la sedia vuota che aveva davanti. I pugni sul tavolo venivano aperti e chiusi e l’espressione non si decideva a sciogliere la tensione.

«…la solita, maledetta testa calda», borbottò alla fine mollando il tovagliolo sul tavolo e lasciando anche lui la stanza a passo svelto.

Lo scontro non era ancora finito e Mamoru sospirò, poco tranquillo all’idea di quei due da soli ora che erano carichi come mine.

«Quanto hai detto che erano durati?» chiese sua madre.

Yumeko sospirò, guardando in basso. «Quasi due anni. Suppongo non si potesse fare più di così…»

«Penso che Akio abbia avuto delle buone motivazioni per arrabbiarsi. L’avrei fatto anche io.» Suo padre lanciò un’occhiata indagatrice nei suoi confronti, mettendolo in una situazione scomoda.

«Mamoru, è davvero tutto a posto con l’acquisto del frutteto?» Yumeko, negli occhi, aveva la stessa preoccupazione che aveva avuto anche lui quando Shuzo gli aveva detto d’aver comprato il terreno.

«Sì. Tutto legale, tutto okay.»

«Va bene.»

«Forse è meglio andare a vedere che non si ammazzino…» Mamoru aveva già visto di cosa Shuzo fosse capace quando veniva accecato dalla collera; uno spettacolo cui sperava di non dover più assistere, perché raccogliere i cocci di ciò che rimaneva lacerava le mani. Nel gesto di alzarsi, però, Hisoka lo fermò.

«Lasciali fare o non impareranno mai ad affrontarsi.»

«Ma…»

«Tuo padre ha ragione, Mamoru.» Yumeko aveva la stessa fermezza nella voce. «È il momento che capiscano come rimettere insieme ciò che disfano senza l’intervento di nessun altro. Vale per Shuzo, ma soprattutto per Akio. Se davvero tengono l’uno all’altro e a costruire qualcosa, allora devono anche imparare a litigare come un padre e un figlio.»

Era un discorso che Mamoru capiva. Gli sarebbe quindi toccato aspettare, sperando di non sentir volare altre grida.

Sospirò, e affondò il viso nella mano. «E pensare che non gli abbiamo ancora detto che stiamo insieme…»

 

Possibile che dovesse sempre finire così, tra loro?

Possibile che anche quando cercava di avvicinarsi appena un po’, un passo solo, fosse sempre con il gesto sbagliato o la parola fuori luogo?

Akio non sapeva rispondersi, si stava convincendo non ci fosse proprio niente da fare e la loro – la sua – fosse una partita persa. Non esistevano conversazioni che, seppur storte, potessero finire in maniera ordinata o quantomeno civile. Si urlava, si parlava a vanvera, ci si voltava le spalle.

Con Shuzo sapeva di essere stato lui ad avergli insegnato a scappare dalle loro conversazioni, perché non gli era mai corso dietro.

«Se mi volti le spalle sei un vigliacco.» Aveva detto in più occasioni, quando non gli aveva concesso altra soluzione. E lui cos’era stato se non vigliacco allo stesso modo per aver preferito la sicurezza del vincere facile quando ad andarsene era niente più di un ragazzino arrabbiato e confuso?

Vigliacco della peggior specie, perché aveva scelto di sentirsi forte su suo figlio nella convinzione di insegnargli qualcosa.

Nessuno dei due, adesso, poteva permettersi di scappare ancora; lui per primo, ma si fermò nel mezzo del corridoio di casa Izawa senza sapere dove andare. La conosceva troppo poco o l’aveva dimenticata, nel tentativo di silenziare tutto ciò gli ricordasse Yuzo in maniera intensa e dolorosa, e adesso che ne aveva bisogno per trovare l’altro figlio si era bloccato.

«È in cucina, Morisaki-san. Sulla sinistra.»

La governante degli Izawa, la signora Pooja, emerse dalla penombra con il suo saree fatto di notte e stelle. La lunga treccia aveva campanelli che tintinnavano sulla punta e nel passarle accanto era accompagnata da un profumo intenso di fiori. Fiori e incenso.

«Cerca suo figlio, no? Sulla sinistra.» La donna si fermò a un passo nel vederlo ancora confuso, indicò col braccio verso una porta dai battenti scorrevoli di cui era rimasto aperto solo uno spiraglio che proiettava una frattura di luce sul pavimento. «Sembrava un po’ arrabbiato, ma dà l’idea di essere un tipo da fiammata e non da incendio.»

Qualcosa che brucia all’istante e in fretta, e poi si spegne in un ambiente circoscritto. I danni limitati a chi gli sta troppo vicino. E se lui avesse voluto limitare il danno a sé stesso avrebbe solo dovuto tenersene alla larga, ma quella era stata l’origine di ogni loro problema.

«Grazie.» Proseguì spedito, aprendo di slancio un battente della porta.

Shuzo si volse, esalando fumo dalle narici.

«Cazzo vuoi, adesso? Non è nemmeno più possibile fumare una sigaretta in pace?»

«Non si pianta una conversazione a metà, né ci si alza dal tavolo quando si è ospiti; mi pareva di avertelo insegnato questo.»

«Ma vai a farti fottere tu e i tuoi insegnamenti del cazzo. Con chi credi di parlare?!»

Akio richiuse il battente, tirandolo con un gesto secco che lo fece schioccare. Nel mezzo, la penisola dal ripiano in marmo li separava, mantenendoli ai capi opposti.

«Voglio essere sicuro che non hai fatto una stronzata.»

«Perché ovviamente io faccio solo stronzate, non è così?»

«No, non lo è! Ma se fosse davvero tutto a posto perché non dire la verità?»

«Perché dovresti fidarti di me e basta, mi sembra chiaro.»

«E io lo farei, credimi, se tu non avessi già mentito in passato e non fossi finito in galera. È normale ch’io voglia sapere da dove vengano quei soldi.»

«Vuoi controllarmi e farmi i conti in tasca? Mi pare di essere fuori da questa fase da un sacco di tempo. Quindi la mia risposta continua a essere: fatti i cazzi tuoi.»

Akio non si era mai reso conto quanto effettivamente fosse stato disposto a scendere a patti con Shuzo se non in quel momento, in cui suo figlio gli rispondeva nel modo in cui lui avrebbe risposto con ceffoni diretti, anni prima. Invece riuscì a farsi scivolare ogni cosa addosso, nemmeno fosse ignifugo rispetto alla famosa fiammata che continuava ad ardere violenta. Poteva addirittura vederne il colore: vermiglio fiore di melograno.

«Non hai chiesto né a me né alla mamma o a qualcuno della famiglia, e so che il terreno lo hai comprato tu e non Mamoru. Quindi anche gli Izawa ne sono rimasti fuori.»

«Chiedere a te?! Mi sarei fatto tagliare un braccio, piuttosto!»

«E allora dove li hai presi?»

«Impiccati.»

«Shuzo!» Akio colpì duramente il marmo col palmo aperto. Suo figlio girò adagio il capo con un sorriso soddisfatto raccolto all’angolo destro della bocca. «Non sto cercando di controllarti.»

«Ci mancherebbe.»

«Voglio solo che non ti cacci nei guai un’altra volta.»

«E perché, te n’è mai fottuto?!» Shuzo si volse dandogli modo di essere faccia a faccia; le mani afferrarono strette gli angoli della penisola. «In passato, ti è mai fottuto qualcosa dei guai in cui finivo?! Tu arrivavi solo a sistemare la situazione con i tuoi soldi e il tuo potere. Di come ci finissi o del perché non te ne fregava un cazzo di niente e adesso?» schioccò le dita, imitando il suo interesse che, agli occhi di Shuzo, era nato dal nulla. «Ti sto permettendo di avere una sorta di dialogo, ed è una gran concessione. Ma non sognarti, nemmeno per scherzo, di infilare naso e becco negli affari miei. Non abbiamo niente a che spartire che non siano chiacchiere di convenienza.»

Shuzo andò a segno con un affondo diretto che bastò a mettere chiari paletti in quello che avevano fatto nei quasi due anni precedenti. Shuzo gli aveva fatto una concessione affinché potessero essere in grado di mantenere un rapporto civile qualora si fossero trovati in mezzo ad altre persone. Niente di più. I muri che avevano tra loro erano rimasti, solo erano divenuti trasparenti.

Akio fece un passo indietro e infilò le mani nelle tasche del pantalone.

«Avevo detto a tua madre che non era una grande idea che venissi a questa cena.»

«Pensa, nemmeno io ci volevo venire, ma Mamoru ha tanto insistito.»

«A proposito di lui: se ti imbarchi in qualcosa di poco chiaro, cerca solo di non coinvolgerlo. È un bravo ragazzo.»

«Tu sei l’ultima persona al mondo a potermi dire come devo comportarmi con il mio compagno!»

Akio guardò suo figlio negli occhi e Shuzo fece altrettanto, approfondendo il sorriso con una nota di rivalsa.

«Già. Sorpresa. Ecco il motivo della cena, giusto per la cronaca. Così, già che ci sei, oltre a sparlare con la famiglia dei miei affari, sparlate anche di questo: sono finocchio e sto con Mamoru. Dopo quattro anni ci teneva che lo sapessi anche tu, nonostante gli avessi detto che non erano cazzi tuoi, ma, ehi!, lo sapevano tutti, mancavi all’appello.» Shuzo spense il mozzicone della sigaretta e incrociò le braccia al petto; la schiena dritta, il mento sollevato lo sfidava a dire qualsiasi cosa, aspettandolo al varco. «Mi raccomando, sii folkloristico con gli insulti. Fammi almeno ridere.»

Akio avanzò dopo qualche secondo di silenzio. Girò attorno alla penisola, ma si fermò sul lato. Non erano più opposti, quanto prossimali: Shuzo ancora ritto a braccia conserte, con tutto il suo orgoglio; e lui con l’onestà nelle tasche, dove teneva affondate le mani.

«Lo so da quando eri ancora in carcere.»

«Che cos-?» Un sospiro, una smorfia. «Mamma.»

Lui ammiccò.

«Quindi è stata lei a dirti di non urlarmi addosso. Non sei ancora partito in quarta, dai! Non ti sei fatto una lista delle cose da rinfacciarmi? So che le stai pensando. Tirale fuori.»

«Non c’è niente da tirare fuori.» Akio non distolse mai lo sguardo. «Per me non è un problema.»

«Non ti credo.»

«Come preferisci.»

Shuzo cambiò piede d’appoggio e poi disincrociò le braccia. «Cos’è, vuoi far vedere che non me la dai vinta così puoi andare a gongolare con gli altri Morisaki?»

«No.»

«Balle!»

«Allora chiedi a tua madre le mie reazioni quando abbiamo parlato di te e Yuzo.»

«A-ah!» Shuzo puntò l’indice e sogghignò soddisfatto. «Ecco la fregatura! Hai saputo che era finocchio anche il figlio perfetto e quindi non ti sei potuto incazzare. A questo punto immagino che nessuno dei Morisaki lo sappia, altrimenti che figuraccia ci faresti? Due figli, due froci. T’è andata male.»

«Veramente ho saputo prima di te. Di Yuzo l’ho saputo dopo e mi sono risentito perché non me ne aveva mai parlato.» Prese un profondo respiro e si allontanò dalla penisola. Tornò sui propri passi, fermandosi a un metro dalla porta e dando le spalle a Shuzo. «Credevo che almeno con tuo fratello qualcosa si fosse salvato… Mi ero sbagliato. Se i soldi te li sei procurati legalmente, va bene, non ti chiederò altro e mi fiderò di te, ma se dovessi aver fatto casini, sappi che le conseguenze si pagano sempre. In quel caso, chiamami, vedremo di sistemare.»

La conversazione e la cena per Akio furono concluse e dentro avvertì una sensazione di calma che non si era aspettato. Si sentiva sollevato, ma non sapeva perché.

«No, aspetta! Aspetta, cazzo!» Shuzo gli si parò davanti in tutta fretta con aria stravolta e sopracciglia aggrottate. «Io ti ho appena detto che sono gay, che lo era anche mio fratello… e tu te ne vai così? Senza dire niente?»

«Veramente ho detto che non è un problema.»

«E ti aspetti pure che ci caschi?!»

«Mi sono mai fatto problemi a misurare le parole nei tuoi confronti? Pensi che se l’avessi trovato inaccettabile non te l’avrei detto?»

Shuzo non rispose e i suoi occhi vagavano un po’ dappertutto come impazziti. Magari pensava a quella risposta che potesse convincere in prima misura sé stesso, che spiegasse tutto, ma Akio sapeva che l’unica risposta non era quella che Shuzo si era aspettato di dare e darsi.

Camuffò un sorriso affinché suo figlio non potesse mal interpretarlo.

«Mamoru ha la testa sulle spalle, è onesto e lavoratore. A me sta bene.» Gli passò accanto e lì si fermò, ancora una volta, mentre faceva scorrere piano l’anta della porta. «Per quanto riguarda i Morisaki, anche loro lo sanno già. E quello che pensano non mi interessa.»

Richiuse il battente alle proprie spalle e quando fu da solo si concesse di prendere un profondo respiro.

Avevano discusso, Shuzo l’aveva provocato più volte e lui non aveva risposto, era stato onesto, gli aveva detto quello che pensava. Non era tutto, certo, e forse non era neppure sufficiente, ma non era finita con le parole sbagliate con cui erano sempre stati abituati a ferirsi.

Nessuno dei due era ferito.

Le sue mani, quelle che guardò quasi di riflesso, erano pulite. Lui si sentiva pulito e, per una volta tanto, aveva fatto il papà.

«Non era così difficile…» e allo stesso tempo non era stato neppure facile, ma si poteva fare, si poteva cambiare, anche se suo figlio diceva che gli aveva fatto niente più che una concessione, anche se c’erano mura trasparenti a dividerli: le mura potevano essere ancora abbattute e la trasparenza, la concessione, poteva essere quella possibilità che Yumeko gli aveva detto che avrebbero dovuto afferrare.

Sulle mani pulite, nella penombra del corridoio, Akio sentì di averne stretto una piccola.

E non l’avrebbe lasciata andare.

 

Mamoru iniziò a preoccuparsi quando, dopo quasi venti minuti, non li vide tornare. Almeno uno, giusto per iniziare a formulare ipotesi.

Cambiò posizione sulla sedia e l’insofferenza dell’attesa iniziò a essere manifesta, tanto che suo padre sorrise.

«Sembra che ti abbiano acceso un fuoco sotto al sedere. Rilassati.»

«Rilassarmi? Con quei due da soli? Pfffft!» Mamoru appoggiò il tovagliolo sul tavolo e si versò dell’altro vino. Ne aveva già svuotato tre bicchieri. «Tu non immagini di cosa sono capaci. No, cioè, te l’immagini perché lo hai visto, ma… Shuzo parte come una mitragliatrice…»

«Anche Akio», sorrise Yumeko che non appariva preoccupata e come facesse lo sapeva solo lei.

«Appunto!»

«Akio mi sembra cambiato molto da quando è morto Yuzo.» Rina rivolse a Yumeko un sorriso comprensivo. «Me ne avevi parlato spesso, ma ora ho potuto vederlo con chiarezza.»

«Per lui è stato molto difficile, anche se non ne ha mai parlato molto.»

«Lo sarebbe stato per chiunque.»

«È vero,» annuì Yumeko all’osservazione di Hisoka, «ma io credo che lui stia accusando il colpo in maniera chiara solo ora che Shuzo è tornato.»

«Le situazioni si sbloccano in maniera inaspettata, e finisce che tutti si ritrovano con qualcosa da imparare.»

Hisoka lo guardò, non fu più specifico, ma Mamoru capì lo stesso. Tutti erano radici di un’unica pianta: quella principale nutriva le altre, poco alla volta e viceversa.

«Spero tu non ti sia perso, vedi che qui abbiamo quasi finito il vino.»

Hisoka guardò verso la porta dalla quale Akio era tornato a passo deciso. Mamoru si girò subito, Shuzo però non era dietro suo padre.

«Sì, scusa, ho sbagliato strada un paio di volte.»

«Esagerato! Non siamo mica a Villa Wakabayashi!»

Risero entrambi e Akio prese posto, bagnandosi le labbra con il vino che aveva ancora nel bicchiere.

Mamoru non gli staccò gli occhi di dosso: si era aspettato di trovarlo teso, e invece era tranquillo. Forse troppo.

«Direi che possiamo anche passare agli ottimi dolci del Kokoro. Spero ci sia del kasutera al matcha

«Sì, è una buona idea. Mamoru, perché non aiuti Shuzo a portarli di qua?»

A quella richiesta di Akio, si alzò di slancio; seduto non ci sarebbe più riuscito a stare comunque.

«Certo. Arriviamo in un attimo!»

Sparì dal salotto alla velocità della luce e, a dispetto delle difficoltà di Akio, riuscì a trovare la strada da prendere anche nella penombra. Spalancò le porte scorrevoli della cucina con fretta e la figura di Shuzo fu la prima cosa che i suoi occhi misero a fuoco: davanti a lui, con la schiena poggiata alla penisola e le braccia conserte. Le sciolse piano appena lo vide, la testa mossa a rallentatore e l’espressione che Mamoru classificò come stravolta. Gli parve che lo fosse così tanto da non avere neppure una vera reazione alla sua presenza.

Lui rallentò ogni frenesia, ma non abbassò la guardia perché Shuzo appariva come se qualcuno gli avesse messo una mano nel petto e avesse strapazzato il cuore per bene.

«Ehi…» Mamoru avanzò fino a raggiungerlo. «Tutto a posto? Mi hanno mandato a prendere il dolce.»

«Ah, sì… il dolce…» Shuzo si mosse a rallentatore e guardò dietro di sé, verso il ripiano della cucina in fondo alla stanza. «Auntie li aveva già preparati, sono pronti da servire…»

«Era solo una scusa per vedere se stessi bene.» Mamoru gli toccò la spalla e Shuzo si girò di nuovo.

Ancora fuori fase, rallentato. Smarrito come un bambino. Glielo poteva leggere negli occhi, tanto che racchiuse ogni conforto nella carezza con cui gli sfiorò il viso, fino a poggiare la mano sulla mascella. Il contatto, di solito, aveva sempre fornito un effetto rassicurante tra loro.

«Che ti ha detto?»

Mamoru si aspettò il peggio; con quell’espressione non poteva essere altro, e mentalmente maledisse la fottuta cena e l’idea bislacca di voler fare una dichiarazione d’ufficialità davanti a tutti e quattro i loro genitori. Aveva creduto fosse la cosa giusta per rispettarli, ma aveva finito con l’intelarsi negli stupidi formalismi giapponesi che molto spesso avevano ferito Shuzo.

«Akio…» Malerba scosse il capo e girò il viso. «Sapeva di me e Yuzo da tempo, anni. Sapeva di noi.» Gli occhi di nuovo nei suoi.

«Glielo ha detto tua madre?»

«Sì.»

«E lui?» Mamoru lo chiese anche se temeva la risposta.

«Ha detto che va bene.»

«…Eh?!»

Shuzo annuì. «Ha detto che per lui va bene, che non è un problema.»

«Sul serio?!»

«Sì. Lo ha ripetuto più volte.»

«Ma è fantastico! È tutto risolto! Ai miei va bene, ai tuoi pure. Non poteva andare meglio di così.» Gli prese il viso con entrambe le mani, costringendolo a guardare la sua felicità, nella speranza di trasmettergliela come un riflesso, perché Shuzo tutto sembrava tranne che contento. «Cosa c’è che non va?»

«Non gli credo.»

«Shuzo…»

«Mi sta prendendo per il culo.» Malerba si liberò senza essere troppo brusco e si allontanò dalla penisola. «Tutto questo non ha senso, deve avere un piano!»

«Perché dici così?» Mamoru accompagnò la domanda con un lungo sospiro.

«Perché quella risposta non è da Akio! Una vita intera a sentirmi criticare anche nel modo di respirare, e ora?! Gli dico che sono gay, che lo era anche Yuzo… Yuzo! Il suo figlio preferito! E lui?!» Shuzo allargò le braccia e le lasciò ricadere a peso morto lungo i fianchi. «Lui non batte ciglio, non m’ingiuria, non strepita. Non posso credergli, è solo una stronzata.»

Mamoru piegò appena il capo, sorridendo comunque con quella gioia che non riusciva – e non voleva – a mettere da parte. Guardava Shuzo appoggiato con entrambe le mani sul bordo del lavandino e capì che aveva paura come ne aveva avuta per andare lì quella sera. Paura di aver compreso una cosa e poi restarne deluso, paura di essere ingannato e tradito.

Lo raggiunse in passi calibrati per non allarmarlo e fargli mettere un’altra distanza tra loro. Il cannibale non era in giro; doveva essere terrorizzato quanto Shuzo stesso, tanto da scegliere di starsene con la testa sotto la sabbia. Allora Mamoru ne approfittò, toccò la nuca e il suo osso preferito, e rubò a Malerba un bacio dissetante. Aveva bevuto solo vino, a cena, aveva bisogno d’acqua, di sentirlo vicino, perché quando erano vicini così, da respirare l’uno il fiato dell’altro, allora andava tutto bene, le paure passavano. Quando restavano l’uno appoggiato alla fronte dell’altro sapevano di poter dire tutto.

«Non sono preparato… Lo ero per le offese, per le delusioni, per sentirmi dare dell’ingrato, ma per questo… per questo non sono preparato.»

«Credi ti stia ingannando?»

«Deve essere così… Lui è sempre stato così…»

«Perché non portiamo il dolce, così chiudiamo la serata e torniamo a casa?» Mamoru respirò l’odore del suo viso. Gli afferrò la vita e se lo strinse addosso, affinché tutta la vicinanza del suo corpo potesse rilassarlo. «Penserò io a te, ce ne staremo tranquilli sul divano… o a letto.»

«Con tutto quello che abbiamo mangiato?»

Si baciarono di nuovo; sentì Shuzo desiderarlo con più convinzione. Andava già meglio adesso.

«Allora divano.» Mamoru cercò il collo, vi chiuse la bocca nell’angolino morbido che la carne formava con la spalla, ma non strinse forte da lasciare il segno: ci avrebbe pensato una volta a casa.

«Ti dispiace se resto qui ancora un minuto?»

Mamoru lo guardò e lo smarrimento era minore di prima, ma aveva bisogno di un attimo in più prima di tornare dagli altri e da suo padre.

«Ti precedo.»

Prese il vassoio e raggiunse la porta, fermandosi sulla soglia per osservarlo fissare di nuovo il lavello, nemmeno avesse dovuto leggervi le istruzioni della vita all’interno.

«Shuzo?»

«Mh?»

«Hai mai pensato che potesse dire sul serio?»

Lo lasciò da solo a meditare su quel dubbio, perché Shuzo poteva essere sospettoso quanto voleva, ma per Mamoru era chiaro dove stesse andando quella strada, dove lo stesse portando poco alla volta. Ed era una buona strada, insperata, bisognava solo avere pazienza e presto o tardi le cose sarebbero cambiate.

Bisognava avere fiducia.

Akio verso Shuzo, Shuzo verso Akio.

E la fiducia era come Roma: non si costruiva in un giorno, lui ne sapeva qualcosa.

Con il vassoio pieno di dolci, Mamoru pensò che di Roma loro avessero appena posto la prima pietra.

 

 

E ti userò come segnale di pericolo:

che se ragioni troppo finisci col perdere la testa.

E ti userò come punto focale,

così da non perdere di vista quello che voglio.

Mi sono allontanato più di quanto avessi creduto,

ma mi sei mancato più di quanto avessi voluto.

E ti userò come segnale di pericolo:

che se ragioni troppo finisci col perdere la testa.

 

E ho trovato l’amore dove non era supposto ci fosse:

proprio davanti a me.

Mi sta parlando razionalmente.

 

I found – Amber Run

 

 

 

Fine

- Jikan: La Terra, L’Uomo e il Paradiso -

 

 

 

 

 


 

 

Note Finali: …e così, con quest’ultima one shot si chiude la raccolta ‘Jikan’.

Il tempo di mezzo, quello che non vi avevo raccontato a partire dalla fine del Capitolo XXX, è terminato e un altro aspetta i nostri eroi, più avanti negli anni. Da questo momento all’Epilogo di ‘Malerba’ dovranno passare altri quattro anni e spiccioli.

Come avrete capito, se ricordate l’Epilogo, in questo lasso di tempo le cose tra Akio e Shuzo non sono molto cambiate, né ci sono stati altri passi avanti plateali. I due Morisaki hanno di sicuro un rapporto maggiore rispetto a prima, ma Shuzo continua a rimanere ancorato sulle proprie convinzioni e distacchi che concedono sempre troppo poco, mentre Akio continua a rigirare tra le mani quella piccola possibilità che ha ottenuto con questa cena, senza concretizzarla.

Sono due uomini spaventati, che dell’altro sono stati abituati a conoscere e confrontarsi solo con il peggio che potevano offrirsi. Allora Shuzo concede a suo padre il minimo sindacale per non litigare e allo stesso tempo non farlo avanzare, e Akio accetta quel poco senza forzare troppo la mano e non rendersi una presenza invadente.

Lo sapete, vero, che non potranno restare così ancora a lungo?

Anch’io lo so e lo sanno anche loro.

Per questo c’è ‘Roots’. :)

Se riuscissi a terminarla per tempo, dovrebbe arrivare verso marzo e sarà una easy long piuttosto breve: Prologo + 6cap.

Un riferimento al Prologo di ‘Roots’ c’è già in questa ultima shot di ‘Jikan’… Dopotutto, se si vuole andare avanti, spesso è necessario ricordare cosa si è lasciati indietro. ;)

 

Come sempre, grazie mille a tutti voi per aver seguito fino alla fine questa storia. Siete sempre preziosi e spero di ritrovarvi ancora a farmi compagnia. :D
Nel frattempo, la serie ‘Soulmate’ è dietro l’angolo che vi aspetta!

Stay tuned <3

 

 

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