Il gioco della vita

di itsg4ia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


Tendiamo a indossare maschere che possano aiutarci ad andare avanti, ma allo stesso tempo essere invisibili. Ogni mattina scegliamo quale maschera indossare e spesso nel corso della giornata le cambiamo adeguandoci alla persona che abbiamo davanti. Forse per puro desiderio di piacere. Forse perché, a volte, è meglio non mostrare ciò che gelosamente nascondiamo per non permettere di distruggere quella piccola fiamma che ognuno di noi ha dentro di sé. E' un fuoco lieve, certo, ma c'è. E deve essere alimentato. Come quando durante la notte di San Lorenzo arrivava il momento di accendere il fuoco e andavi alla ricerca di pezzi di legno robusti, e non esili ramoscelli che bruciavano troppo velocemente, ma puntualmente non ne trovavi abbastanza ed eri costretto durante la serata ad alimentarlo continuamente. Ma lo facevi, con la consapevolezza che quello era un fuoco destinato a scaldarti in quella notte magica e a spegnersi man mano con il sopraggiungere del mattino. 

 

Ecco, noi siamo proprio come quella fiamma lieve che deve essere alimentata, altrimenti non ne resta altro che cenere. Galatea, la protagonista della nostra storia, lo sa bene. Sa bene che "nel lungo cammino della vita incontrerai tante maschere e pochi volti" e sa bene che quando lo spettacolo finisce e il sipario si chiude, le maschere sono destinate a cadere. Ma non sapeva che sarebbe stato un ragazzo conosciuto per uno strano gioco della vita -che muove i fili e ci mette davanti persone destinate a cambiarci profondamente- ad irrompere nella sua quotidianità e a distruggere tutte le sue maschere, dandole la possibilità di ardere di passione bruciante per la vita, come quegli incendi che divampano senza controllo e distruggono tutto. Ma poi si calmano. Il fuoco è destinato a spegnersi, certo, ma la fiamma non si esaurisce mai. 

Quando Galatea incontrò Thomas per la prima volta, era una mattina di dicembre e le temperature rigide rendevano tutti un po' tristi, avvolti in cappotti pesanti, con cappello e sciarpa che coprono il volto e un freddo che fa compagnia a quello nel cuore. Dicembre poi è un mese malinconico. E' il mese del Natale, dei sorrisi, della famiglia, ma anche delle mancanze, della fine. E' il mese che accompagna verso la fine di un anno bello, forse brutto, certo intenso, mai scontato, che nel bene o nel male lascia sempre qualcosa. E' quindi un mese di sintesi di quello che c'è stato e di preparazione per quello che sarà. Di certo è un mese magico, immerso in una certa dimensione fiabesca data dalle mille luci e colori che illuminano la città; dalle melodie natalizie che invadono le strade all'odore di dolci e zenzero che si respira nell'aria e quella sensazione di pace ed attesa, in bilico tra ciò che sei stato e quello che sarai. 

Galatea ogni anno aspettava il mese di dicembre e puntualmente scriveva una lista di cose che avrebbe voluto fare, ma che aveva sempre rimandato, sperando di trovare il coraggio di affrontare le sue paure. Chissà se tutte le sue aspettative, nel corso degli anni, sono state realizzate... Quello che so per certo però è che quando incontrò per la prima volta Thomas era dicembre e il loro primo incontro non fu uno dei più belli. Thomas era l'esperto di teatro che avrebbe curato la rappresentazione scolastica del Liceo Classico Giulio Cesare, Galatea la professoressa incaricata di affiancare l'esperto nella realizzazione dello spettacolo.

E come chi sa che è sbagliato ma lo fa comunque, Galatea quella mattina si svegliò di buon'ora e dopo il solita caffè del risveglio scelse quale maschera indossare. Non è una scelta facile: ci vogliono perfetti, impeccabili, sempre sorridenti. Tutti uguali. Non possiamo essere stanchi perché "non fai niente tutto il giorno", non possiamo essere tristi altrimenti "sei la vittima", non possiamo essere arrabbiati perché "non ci sei solo tu". E allora arriva il momento di scegliere e tu non sai se essere spavalda, intelligente, timida, distante, educata ma maliziosa, attraente ma non troppo. Il problema delle maschere è che quando inizi ad indossarle non riesci più a smettere perché scopri che alla fine ti piace quella sensazione di potere che credi di possedere, quella sfrontatezza necessaria ad affrontare il mondo. Ma così rischi di perdere la tua vera essenza.

Galatea si chiedeva spesso chi fosse davvero: si guardava allo specchio e non riusciva a riconoscersi, in bilico tra un lavoro che non la soddisfaceva completamente e una solitudine con cui oramai aveva imparato a convivere, e si chiedeva cosa fosse rimasto di quella ragazza, ormai trentenne, piena di sogni e speranze per il suo futuro. E mentre guardava i suoi occhi stanchi attraverso lo specchio decise quale maschera indossare: quel giorno avrebbe dovuto dare il meglio di sé ed essere pronta a tutto. 

Aveva finalmente ottenuto il permesso dal dirigente scolastico della sua scuola per finanziare il laboratorio di teatro, un progetto che aveva sempre sognato di realizzare fin da bambina e sui cui aveva investito tempo ed energie, ma Donato Tondi aveva ceduto alle richieste della bella insegnante a patto che venisse aiutata da un esperto del settore, un certo Thomas Helby, che avrebbe accompagnato la donna "nella difficile impresa di controllare un gruppo di giovani aspiranti attori e mettere in scena uno spettacolo di tutto rispetto per dare lustro alla scuola". Ripensando a quel pomeriggio in cui quell'uomo l'aveva umiliata credendola incapace di dirigere autonomamente un progetto e affibbiandole un uomo al solo scopo di controllarla, si arrabbiò al punto che indossò il sorriso più falso che possedesse e uscì di casa con occhi alteri e impassibili, ma con il cuore invaso dalle fiamme. Pronta ad affrontare a testa alta quel Thomas Helby, che ancora non conosceva, ma che già le stava tremendamente antipatico. 

 

Una volta raggiunto l'edificio scolastico, Galatea parcheggiò la macchina nel parcheggio riservato ai docenti e ammirando l'immensa struttura della sua scuola, decise di farsi coraggio e concludere quella giornata nel miglior modo possibile. Si diresse a passo spedito nell'aula docenti, fermandosi durante il tragitto a salutare i suoi studenti che si preparavano ad affrontare le prime lezioni di quel lunedì mattina. Mentre guardava i giovani ragazzi chiacchierare in giro per l'edificio, altri studiare prima dell'interrogazione, altri ancora a copiare compiti e appunti, non riuscì a far a meno di sentire un calore avvolgerle il petto. Anche lei era stata una di loro dieci anni prima e ricordava perfettamente come si sentisse prima di un'interrogazione o di un compito in classe, oppure quando lei e le sue amiche di quel tempo speravano di far breccia nel cuore del ragazzo più bello dell'istituto. Ricordando i bei momenti vissuti pochi anni prima ma che adesso sembravano così lontani, Galatea non riuscì a non commuoversi. Anche lei era stata un'adolescente, una sognatrice... fin da bambina aveva sempre amato le materie umanistiche, non a caso anche lei aveva frequentato il liceo classico e aveva proseguito con una laurea in Lettere e Filosofia, coltivando il sogno che prima o poi sarebbe riuscita a diventare una scrittrice e che avrebbe vissuto soltanto di emozioni e parole. 

Alla fine però, i suoi sogni con il procedere incessante del tempo le sembrarono irrealizzabili e dopo la laurea aveva deciso di mettere da parte, anche se a malincuore, i suoi desideri e di tentare la strada dell'insegnamento. E adesso si ritrovava a trent'anni, a svolgere una professione che non aveva mai considerato in passato e che nonostante fosse solo un ripiego, alla fine aveva finito con il piacerle. Certo non sempre è facile gestire classi pieni di ragazzi nel pieno dell'adolescenza, con i loro malumori e paure, ma anche con i loro desideri e ambizioni: non è facile, ma qualche volta ne valeva la pena.

Come quel giorno, quando avrebbe potuto finalmente dedicarsi ad un piccolo sogno nel cassetto, mettendo in scena un breve spettacolo ispirato al celebre romanzo di Luigi Pirandello "Uno, nessuno e centomila" in cui vengono affrontati i temi più cari all'autore, l'identità e la solitudine dell'uomo, quando il protagonista Vitangelo Moscarda giunge ad una terribile verità: gli altri ci vedono in modo diverso da come ci vediamo noi stessi. Questo libro aveva accompagnato la giovane Galatea fin dall'età di quattordici anni, quando sua madre gliel'aveva regalato prima di iniziare il liceo, e nel corso degli anni quella copia era stata custodita gelosamente e riletta più volte, al punto che ormai sentiva che quel romanzo fosse completamente suo, anche se al contrario del protagonista, lei non voleva essere vista per com'era davvero; per questo ogni giorno indossava una maschera diversa per preservarsi, ma non sapeva che in questo modo avrebbe finito per perdersi completamente.

Persa nei suoi pensieri, Galatea raggiunse l'aula in cui quel giorno avrebbe incontrato tutti gli alunni che avrebbero preso parte al progetto: era il 6 dicembre ed entro due settimane la scuola avrebbe chiuso per le festività natalizie, ma la donna ci teneva ad iniziare a lavorare, approfittando così anche di quei giorni in cui i ragazzi erano più liberi da compiti e ansie pre interrogazioni e avrebbero quindi potuto dedicarsi alla magnifica arte del teatro. Mentre sistemava i banchi in fondo all'aula e disponeva le sedie a cerchio, non si accorse che qualcuno era entrato nell'aula fin quando non sentì un colpo di tosse provenire da dietro le sue spalle e si girò di scatto, pronta ad iniziare, ma le parole le morirono in gola. Non erano i suoi studenti, ma un uomo alto e robusto, che la guardava con divertimento appoggiato allo stipite della porta e Galatea capì. Quell'uomo era Thomas Helby! Avrebbe dovuto immaginare che ci sarebbe stato anche lui... ma aveva sperato che almeno quel buono a nulla del dirigente scolastico la ritenesse abbastanza in gamba da accogliere da sola i suoi ragazzi. E invece, ancora una volta, era stata ritenuta incapace di svolgere il suo lavoro e avrebbe dovuto imparare a lavorare insieme a quell'uomo. 

Così, dopo un primo momento di smarrimento, Galatea indossò un sorriso ingannevole e a testa alta andò incontro all'esperto di teatro, porgendogli la mano.

"Buongiorno, lei deve essere il mio assistente! Prego, si accomodi. Non stia fermo sulla porta." Iniziò la donna. "Sono la Professoressa Galatea Mariani, docente di storia e filosofia." Si presentò, scrutando l'uomo per tentare di capire che tipo fosse.

"Lieto di conoscerla professoressa! Sono Thomas Helby e sono stato incaricato dal signor Tondi di controllare che tutto proceda liscio. Mi dispiace deluderla, ma non sono un assistente. Non il suo perlomeno. Sono qui per lavorare con i ragazzi e aiutarli a comprendere cos'è davvero il teatro..."

Galatea si indispettì nel sentire le parole di Thomas, credeva forse che lei non sapesse cosa fosse il teatro? O che non potesse occuparsi dello spettacolo? O forse credeva di essere migliore di lei, solo perché era un attore di successo e un regista altrettanto bravo ... ma si sbagliava! La professoressa non avrebbe permesso a nessuno di rovinare il progetto a cui lavorava da una vita e se questo Thomas pensava di essere lì per istruire lei e i ragazzi su cosa fare e cosa non fare, come il burattinaio tiene i fili delle sue marionette facendo far loro ciò che più gli aggrada, avrebbe capito presto che con Galatea non ci sarebbe riuscito.

E mentre finalmente suonava la campanella e i ragazzi iniziarono a prendere posto in aula, Galatea giurò a se stessa che non avrebbe permesso a quell'attore da strapazzo di dominare la scena, che non si sarebbe preso i meriti per un progetto grazie a lei, e che si sarebbe pentito amaramente di aver accettato quel lavoro.
 

Fin da bambino, Thomas era sempre stato un bambino attento e curioso, con lo sguardo furbo e due occhietti vispi e luminosi. Crescendo, non ha mai perso quella luce negli occhi, nonostante più volte in passato avesse perso la voglia di andare avanti. Ciò che lo portava a stringere i denti e a resistere era il ricordo di suo padre, che era sempre stato malato fin da che ricordava, ma che ogni giorno, nonostante le sofferenze della malattia, ringraziava Iddio per la vita che aveva vissuto e affrontava con fermezza e coraggio le intemperie della vita. Ripensando a suo padre, gli scappò una lacrima. 

Quel giorno avrebbe dovuto iniziare il suo nuovo lavoro: era stato scelto per dirigere lo spettacolo teatrale di una scuola della città e sperava che almeno questa fosse la volta buona. Dopo un'intensa carriera teatrale, prossimo ai quarantadue anni, aveva dovuto ripiegare su lavoretti secondari: ormai il teatro aveva perso la bellezza che aveva un tempo, oscurata dal cinema e dalla televisione, e Thomas non si sarebbe mai piegato a recitare in una banale telenovela o prendere parte a un programma tv. Avrebbe potuto, però. Era ancora un uomo affascinante, dai lineamenti delineati e una leggera barba che gli copriva il volto, dallo sguardo attento e sincero come quando era bambino e, proprio per questo, non avrebbe mai rinunciato alla sua anima. Non avrebbe mai rinunciato alla vita. Bisogna vivere per la vita e vivere della vita. Se ci pensate, è davvero così. Bisogna solo trovare qualcosa per cui lottare e aggrapparsi a essa. "Puntare in alto, oltre le nuvole." Ma per prendere il volo è necessario alimentare il motore. Il nostro motore è la nostra anima, che va preservata e alimentata e, quella di Thomas era viva solo grazie alla parola che è personificata ed entra a contatto con il pubblico, coinvolgendolo nella scena e facendolo entrare a contatto con la realtà, con tutte le sue sfaccettature, e accettarla per quello che è, cioè inalterabile. 

Sicuro delle sue idee e delle sue capacità, si assicurò di aver preso tutto ciò che gli sarebbe servito per la lezione e si diresse nell'aula in cui si sarebbe svolto il primo incontro con una certa professoressa Mariani, che avrebbe dovuto affiancarlo nel lavoro e di cui non conosceva né il volto né le idee. Giunto davanti all'aula si accorse che questa era già occupata da una donna, intenta a sistemare sedie e banchi che, presa com'era da ciò che stava facendo, non si era accorta del suo arrivo. Si prese un momento per ammirarla. Era sicuramente più giovane di lui, con lunghi capelli biondi raccolti sul capo, un fisico minuto e un'espressione vulnerabile. Era lì, riusciva addirittura a sentire il suo profumo leggermente fruttato, ma era come se lei non ci fosse, distratta da chissà quali pensieri, e sentì l'esigenza di richiamarne l'attenzione. La ragazza si girò di soprassalto e Thomas non riuscì più a vedere quell'espressione fragile e indifesa e quello sguardo inquieto che un attimo prima gli oscurava il viso... adesso vedeva soltanto un volto dai lineamenti rigidi e lo sguardo sicuro, vedeva una donna forte, capace di padroneggiare qualsiasi situazione. Galatea Mariani disse di chiamarsi, mentre appellandolo come semplice assistente, lo invitava ad accomodarsi e Thomas, sapete, non riuscì a fare a meno di stuzzicarla. 

Aveva capito subito il suo gioco, gli era bastato osservarla pochi secondi per capire che la sua era solo finzione. E che quell'espressione superba altro non era altro che una maschera. La maschera del controllo. Come se si potesse controllare la vita... D'altronde lui era bravo nell'indossare maschere, le aveva provate tutte perché per un po' puoi diventare qualcun altro, puoi essere nei suoi panni, pensarla in modo diverso, provare cose nuove. Le maschere sono l'altra faccia dell'umanità. "Quando l'uomo agisce, è una marionetta", diceva Oscar Wilde, "quando descrive, è un poeta". Io aggiungerei che quando l'uomo vive è un poeta, un'artista, un pittore, un architetto... E Thomas era un'artista, bravissimo nell'indossare maschere ma altrettanto bravo a farle cadere e a lasciar spazio al suo vero io, per non cadere in un baratro senza via di uscita che avrebbe annientato la sua identità. Perché non serve nascondersi, cercare di passare inosservati e desiderare di controllare le emozioni e i sentimenti, non puoi sfuggire alla vita. E allora tanto vale godersela appieno, nutrendosi di essa, respirandola a pieni polmoni e non nascondere il dolore dietro un sorriso di circostanza, ma affrontarlo e imparare ad amarlo. 

Il suono della campanella mise una pace momentanea tra i due: gli studenti affollavano l'aula mentre Galatea continuava a rivolgere a Thomas uno sguardo di sfida, nel frattempo che questi, dopo aver rivolto un simpatico occhiolino alla sua nuova collega, si preparava a presentarsi alla classe. Visti da fuori, quei due sarebbero potuti sembrare distanti anni luce: lei una donna schiva e resa dura e arida dalla vita, lui un sognatore, un'anima pura, amante della natura e di tutto ciò che esiste ed è. In un mondo in cui tutti indossano maschere, Thomas spiccava per la sua autenticità e forse era proprio la sua sincerità d'animo a indispettire Galatea, che da molto tempo la sua anima non la sentiva più.

 

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Capitolo 2
*** II ***


Tutti gli studenti partecipanti al laboratorio presero posto sulle sedie disposte a cerchio e i due docenti, dopo aver aspettato che i giovani si accomodassero, si prepararono ad affrontare quella prima lezione.

"Buongiorno, ragazzi! Grazie a tutti di essere qui e aver preso parte a questo progetto. Mi chiamo Galatea Mariani e da oggi tutti noi lavoreremo insieme con il Signor Thomas Helby alla realizzazione dello spettacolo di fine anno."

"Sono lieto di essere stato incluso in questo meraviglioso progetto, e vi prego, chiamatevi solo Thomas." Si rivolse affabile alla classe, mentre chinato sullo zaino che si era portato appresso tirava fuori una serie di fogli e iniziava a distribuirli. "Prima di iniziare questa esperienza insieme, vi porgo una domanda" continuò, consegnando un foglio anche alla professoressa Galatea. "Che cos'è per voi il teatro?" domandò, ma notando i ragazzi iniziare a scrivere, precisò "Non dovete rispondere oggi, né domani... ma al termine di questo progetto mi consegnerete i vostri biglietti firmati e li leggeremo insieme. Capirete presto che mi piacciono i giochi." Scherzò Thomas, rivolgendo un'occhiata divertita alla professoressa che evitava di guardarlo, dedicandosi ai ragazzi.

"Cosa dobbiamo fare prof?" domandò uno di loro, rivolgendosi alla docente e ottenendo l'approvazione della classe. "Metteremo in scena uno spettacolo nuovo, mai visto prima, che sarà ispirato ad un romanzo che abbiamo studiato in classe..." iniziò Galatea. "Se vi dico "la storia parla di un naufragio dell'esistenza", chi sa dirmi di quale romanzo sto parlando?"

"Ma certo prof! E' "Uno, nessuno e centomila" di Pirandello."

"Bene Visconti! So bene che a molti di voi è piaciuto come libro... quindi porteremo in scena una storia ispirata a questo romanzo e i protagonisti sarete voi." Spiegò la professoressa, ottenendo il consenso della classe. Guardando l'emozione dei ragazzi, Thomas non riuscì a fare a meno di pensare che se avesse avuto a suo tempo una professoressa come la Mariani, anche lui avrebbe affrontato la scuola con quell'entusiasmo. Ridendo tra sé e sé si ripromise, una volta rimasto solo con la donna, di chiederle che idee avesse per quello spettacolo.

"Questo è stato solo un incontro per conoscerci ragazzi, ma dal prossimo inizieremo a lavorare. Come già sapete, ci incontreremo tre volte alla settimana, ogni mattina, fino alle festività natalizie. A gennaio riprenderemo le lezioni e inizieremo ad incontrarci a teatro. Fino ad allora, grazie a Thomas, scopriremo segreti e trucchi del mestiere, ma soprattutto stabiliremo le varie parti." Galatea iniziò a elencare il programma che avrebbero seguito e Thomas pensò che quella tendenza a pianificare poco gli piaceva. Evitò di interrompere la donna, ma quando questa si fermò prese parola e continuò. "Ora, vorrei conoscervi meglio, ma per farlo vorrei chiedervi per la prossima volta di dividervi in gruppo e preparare uno piccolo spettacolo per me e la professoressa, con la promessa che tutti voi avrete parte attiva nella rappresentazione" concluse Thomas, ottenendo cenni di assenso e risposte positive.

La lezione si concluse velocemente e quando suonò la campanella, i ragazzi si apprestarono a lasciare l'aula per dirigersi a quella successiva. Nel frattempo, Galatea aveva già ripreso a sistemare l'aula come l'aveva trovata e Thomas pensò di non aver mai conosciuto una donna così strana.

"Mi scusi, forse abbiamo iniziato con il piede sbagliato... " iniziò titubante, aiutando l'insegnante a spostare i banchi. Galatea sembrò accorgersi solo in quel momento che lui era ancora lì e si maledì per essere stata così poco professionale. "Hai ragione, mi dispiace." Si scusò frettolosamente lei, che aveva sempre odiato le formalità, dandogli del tu. "Allora, che ne pensi del progetto?" chiese , sorridendogli educatamente.

Thomas guardando la donna si chiese che colore fossero i suoi occhi. Non ricordava di averli visti prima.. Forse erano blu? Verdi..? Non riusciva a guardarla negli occhi neanche ora mentre conversavano, Galatea sfuggiva continuamente al contatto visivo, fingendosi impegnata a far altro, interessata a tutto o forse a niente, perché in realtà non vedeva davvero. Sembrava disinteressata, eppure mentre parlava con i ragazzi era diversa, quasi spontanea. Si chiese chi fosse davvero quella donna, come facesse a cambiare così repentinamente e sentì la curiosità prendere il sopravvento e il tatuaggio sul polso prudergli. Grattandosi, lanciò uno sguardo al tatuaggio "Oltre" e, guardando la donna, si chiese cosa nascondesse sotto tutto quelle maschere. "Chi sei davvero?" pensò Thomas, sempre più interessato.

"Mi sorprende la scelta del libro, in realtà. Sono curioso.. vorrei saperne di più." Ammise poi, e il mondo in cui la guardo la turbò. E quel "sono curioso" che aveva pronunciato sembrava intendere molto di più. Galatea si spaventò, di cosa era curioso? Di lei? Decise di non volerlo sapere davvero perché non le doveva interessare. Però perlomeno delle loro idee avrebbero dovuto parlare per poter lavorare insieme.. Ma non quel giorno. Quel giorno, Galatea aveva cose ben più importanti da fare.

"Io oggi non posso fermarmi, ci vediamo domani a scuola e parliamo?"

"A scuola... mh si certo! Ci vediamo domani allora..." disse titubante lui, incerto se trattenerla o lasciarla andare. Avrebbero voluto capire, la testa gli scoppiava per la confusione, ma aveva preso consapevolezza del fatto che non sarebbe stato facile. E mentre cercava le parole giuste per salutarla, non si accorse che nel frattempo la donna aveva recuperato le sue cose ed era già andata via.

Quel giorno Galatea non aveva altre lezioni da svolgere, sarebbe dovuta passare da sua madre per tenerle compagnia e poi l'aspettava la sua amica Christine, l'unica che le era rimasta dopo quello che era successo. Mise in moto la macchina e partì, diretta alla casa di cura Jenson Hill (1), dove sua madre era ospite da ormai tredici anni, e durante il tragitto ripensò a quel Thomas. Era stata piuttosto scortese e con lui si era messa subito sulla difensiva. D'altronde quell'uomo non aveva colpe per essere lì, l'aveva chiamato il preside! Si ripromise di essere meno dura la prossima volta e parcheggiò. Era arrivata. Si fece coraggio e scese dall'auto e mentre si dirigeva verso la reception ripensò alla prima volta in cui era stata lì. Aveva diciassette anni ed era stata più spesso in un ospedale che a casa sua. Spesso si ritrovava con sua madre al pronto soccorso perché era caduta dalle scale, ma in realtà era papà che l'aveva spinta, o picchiata, o perché sua madre perdeva sangue perché lavorava in una fabbrica e si era ferita, ma in realtà era papà che ogni volta che tornava a casa era sempre ubriaco, e arrabbiato. Ma questo non lo dicevano mai. Nella piccola cittadina di Satorno(2) in cui vivevano tutti sapevano in realtà, ma nessuno diceva niente. Fu solo quel pomeriggio di agosto quando zia Matilde portò Galatea al mare e si accorse dei lividi che le ricoprivano il corpo che decise di non stare più zitta. Quello fu l'ultimo giorno in cui vide suo padre e il giorno in cui sua madre impazzì e venne rinchiusa in quella casa di cura, che non era come gli ospedali cui si rivolgevano di solito, ma aveva gli stessi pavimenti lucidi e si respirava la solita aria viziata e asettica.

Galatea salutò cordialmente l'anziana signora alla scrivania, che la guardava sempre con quell'odiosa espressione di compassione di chi ha tutto e quando ti guarda si sente in colpa perché non ce l'hai anche tu, e si diresse verso il secondo piano, nella stanza di sua madre. Rimase ferma sulla porta, a guardarla. Era stesa sul letto, legata a tubi e tubicini che la tenevano in vita, con lo sguardo perso fuori dalla finestra, dove un grande albero con poche foglie, a causa delle rigide temperature, copriva la visuale dell'intera strada. Chissà se almeno oggi l'avrebbe riconosciuta. Con passi incerti entrò nella stanza, dove notò, appoggiato sul comodino, un piccolo albero di natale illuminato e in quel simbolo di festa, Galatea non vide altro che il tentativo di portar vita lì dove non ce n'era. Sua madre, non c'era più. Da tanti anni ormai. Della donna che era stata, ora non rimaneva altro che l'ombra, stanca e provata dalle fatiche della vita e dai malanni del cuore. Cercando di trattenere le lacrime, si sedette affianco a lei, stringendole la mano... "Mamma...sono qui." Sussurrò Galatea, che non ottenne risposta, ma rimase lì, in silenzio, accarezzandola, fin quando le infermiere non le riferirono che l'orario di visita era concluso. E rivolgendo un ultimo sguardo allo donna che l'aveva cresciuta e amata, nonostante tutto, perse in un momento tutte le sue maschere e tornò ad essere quella bambina dai codini biondi che nascosta dietro la porta, sperava solo che la sua mamma stesse bene.

Galatea si è sempre tenuta tutto dentro. I suoi pensieri, le sue paure, i suoi timori e i suoi malumori. A volte è più facile: se non prendi consapevolezza del problema, allora il problema non esiste. Ma non è proprio così, fai solo finta che quel mostro orrendo di cui hai sempre avuto paura da piccola non sia più nascosto da qualche parte, in agguato, pronto ad esplodere. Ma lui c'è. Non è più sotto il tuo letto, però. E' dentro di te, nascosto per bene, ma c'è. E ogni giorno si fa sempre più grande e più spaventoso ma imperterrita continui ad ignorarlo. Procedi a vivere la tua vita di sempre, quella finta, perché quella vera non ti piace, ti fa male e allora la nascondi, ma quel fardello è sempre lì, tra le cose dette e non dette, tra ciò che eri e ciò che sei. Ti illudi di poter dimenticare il passato ma così facendo non avrai futuro. Stringendosi nel cappotto a causa del freddo dicembrino, Galatea tirò fuori una sigaretta dal pacchetto e se la porto alle labbra, mentre con la mano sinistra prendeva la clipper per accenderla. Aspirò la nicotina e, mentre la sentiva invaderle i polmoni, si prese un attimo per recuperare le forze. Erano solo ora di pranzo, ma già si sentiva esausta. Sarebbe volentieri tornata nel suo letto, lontana dalla realtà, per trovare un momento di pace e solitudine in cui non essere nessuno. Né Galatea, la ragazza vittima di violenza domestica, né la professoressa di lettere o la donna dalle mille maschere, ma un corpo vuoto, un guscio che ricopre un cuore altrettanto arido. Finì di fumare la sigaretta, che ormai non le dava più alcun sollievo, e si diresse di nuovo in macchina, pronta ad indossare una nuova maschera, quella della gentilezza necessaria ad affrontare la sua amica Christie e i preparativi per il suo imminente matrimonio.

"Tea! Sei arrivata!" la salutò, quando la vide entrare nell'immenso atelier da sposa in cui si erano date appuntamento. Le andò incontro, stretta in un abito sbarazzino a fiori, con i ricci che le scendevano lungo il volto, e un sorriso radioso. Era così felice, e Galatea si sentì così egoista a non condividere il suo stesso entusiasmo che assunse anche lei un'espressione smagliante e si immerse in quel mondo di abiti e gioielli meravigliosi. Mentre Christie era chiusa in camerino a provare il suo abito, Galatea guardava il suo. L'amica aveva scelto per lei un abito corto, stretta in un corpetto a cuore ricamato, e una gonna che si apriva in morbide pieghe sulla vita. Era bellissimo, di un colore pescato che le illuminava il volto e la faceva sentire una principessa. Le venne quasi da ridere guardandosi, e pensare che da piccola aveva sempre immaginato indossare abiti meravigliosi e progettare con Christie il loro matrimonio. Ora di anni ne aveva trenta però, e si sentiva così inadeguata in quell'abito così giovanile e provocante, da chiedersi che cosa ci facesse lì. Doveva smetterla di farsi certi pensieri, lei era lì per Christie, che c'era sempre stata, che l'aveva sempre protetta e amata, che l'aveva consolata quando piangeva e non diceva perché, quando si rifugiava a casa sua senza dare spiegazioni o quando l'aveva ospitata quando aveva scoperto tutto. La stessa Christie che l'aveva voluta lì per vedere il suo abito da sposa ed era bellissima, nascosta dietro un velo bianco ricamato e avvolta in quell'abito bianco dalla gonna ampia e voluminosa, con quella coroncina di fiori che le risaltava il volto, già luminoso per la felicità.

"Sei bellissima Christine, la sposa più bella che abbia mai visto!" sussurrò commossa Galatea, avvicinandosi all'amica, che si ammirava allo specchio con occhi lucidi. Si guardarono negli occhi attraverso lo specchio. "E' lui", affermò Christine con la voce rotta dall'emozione. "E' l'abito giusto."

Le due amiche uscirono dall'atelier tenendosi per mano e si incamminarono verso la tavola calda più vicina, per fare una pausa e passare del tempo insieme. "Sono così emozionata! Ci pensi che tra esattamente una settimana mi sposo!" esultò Christie entrando nel locale e suscitando la risata dell'amica.

"Finalmente vorrai dire! Marco non si decideva più a chiederti di sposarlo. State insieme da otto anni." Scherzò, mentre si accomodavano attorno ad un tavolino e prendevano a sfogliare il menù, ma vennero interrotte dal cameriere che, munito di taccuino, era in attesa delle ordinazioni.

"Salve, per me un'insalata... sa, devo sposarmi fra una settimana!" ordinò Christie, facendo l'occhiolino all'amica che ordinò anch'essa un'insalata. "Per mantenerci leggere... sa, sono la damigella della sposa!" stette al gioco Galatea, suscitando le risate divertite dell'amica e del cameriere.

"Mi sei mancata Tea." Ammise Christie, facendosi d'un tratto seria e guardandola attentamente. "Come stai?"

Ah, bella domanda Christie, pensò Galatea. "Chris sto bene, davvero." Cercò di rassicurarla. "Lo sai che dovrò lavorare con Thomas Helby, l'attore di Don Jon? (3)"

"Cooosa? L'hai conosciuto? E com'è?" domandò l'amica, emozionata all'idea di ottenere pettegolezzi in più sull'uomo su cui aveva fantasticato da ragazza, a teatro con le amiche.

Galatea, felice di aver distolto l'attenzione, ma un po' meno di dover parlare di quel Thomas, alimentò la curiosità dell'amica dicendole che l'indomani si sarebbero rivisti per il progetto, suscitando le risate della donna che già immaginava possibili situazioni compromettenti in cui i due avrebbero potuto trovarsi.

Il pomeriggio procedette tranquillo, tra chiacchiere e risate, e le due amiche si separarono con la promessa di sentirsi il giorno seguente per sapere le ultime novità.

Sulla via del ritorno, Galatea si ritrovò a pensare per l'ennesima volta a quell'attore da strapazzo. Pensare a lui la innervosiva e non sapeva perché. C'era qualcosa in Thomas che la turbava, la rendeva inquieta. La faceva sentire tesa e sempre in allerta e non capiva. Non lo conosceva neanche! E non avrebbe dovuto conoscerlo, pensò. Doveva solo lavorarci insieme per un po'. E pensare che anche lei, da adolescente, aveva fantasticato su Don Jon, l'eroe di Haston City, poliziotto imbranato che finisce per risolvere il mistero dell'assassino, e aveva sperato venisse a salvare anche lei e sua madre dal mostro che abitava in casa sua. Che ingenua che era, si ritrovò a pensare. Nella vita vera non esistono eroi che possano salvarti, o cavalieri erranti pronti a portarti via. Non puoi sfuggire al tuo destino. Chi è nato servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino, questo rimane fino alla morte. (4)

Note

1 Jenson Hill, casa di cura, luogo di mia invenzione

2 Satorno, cittadina natale della protagonista e luogo in cui sono ambientati i fatti

3 Don Jon, spettacolo teatrale famoso e completamente di mia invenzione

4 citazione dello scrittore e poeta Giovanni Papini:

"Fino a sei anni l'uomo è prigioniero di genitori, di bambinaie o d'istitutrici; dai sei ai ventiquattro è sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo dell'ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie; tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle abitudini (terribili più d'ogni padrone) e servo, schiavo, prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte."

* * * * *

Ciao a tutti! Eccomi con il secondo capitolo. Cosa ne pensate? Troppo lungo? Troppo corto?... sappiate che io vi vedo, miei cari lettori silenziosi, e mi farebbe davvero tanto piacere sapere la vostra opinione. Non siate timidi!

A presto,

itsg4ia

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Capitolo 3
*** III ***


“Sopporta bambina mia". “ Andrà tutto bene.”

“Sei solo un mostro! Non sei mia figlia!”



Le voci dei suoi genitori si sovrapponevano nella sua testa e, mentre Galatea si agitava tra le lenzuola, si facevano sempre più forti, al punto che non capiva cosa dicesse l’una o l’altra, ma ricordava soltanto un vociare indistinto, le urla e poi il suono stridulo della sveglia giunta a salvarla dai suoi incubi.
Rimase protetta sotto le coperte per più tempo del solito quella mattina, non aveva voglia di uscire e affrontare il mondo esterno. Aveva già abbastanza problemi con il suo, di mondo. Stropicciandosi gli occhi, si chiese quando tutto quell’inferno sarebbe finito. Il dottor Del Monte, il suo psicologo, le aveva assicurato che gli incubi sarebbero passati, che doveva darsi tempo, ma ormai erano passati tredici anni e Galatea non riusciva a ricordare una notte in cui avesse dormito serenamente. Ma anche prima gli incubi erano presenti nella sua vita, solo che erano reali. Le scese una lacrima ripensando a quando, nascosta sotto le coperte della sua cameretta, aspettava che i passi del papà si allontanassero per raggiungere la sua mamma.
 
Adesso ci sei solo tu, andrà tutto bene.
 
A volta come risposta al dolore, ci si isola. E si cerca un rifugio sicuro in cui essere al riparo dalla cattiveria del mondo. In fondo si sta così bene, da soli. Dove nessuno può raggiungerti. Dove nessuno può ferirti.
Il rifugio di Galatea era quel piccolo monolocale in cui si era trasferita dopo la sua laurea e che, anche se era troppo vicino alla sua vecchia casa, non avrebbe mai cambiato per nulla al mondo. D’altronde non aveva altra scelta. Doveva rimanere lì, per sua madre, per starle vicino... Lei, che le sussurrava all’orecchio storie di fate, principesse e cavalieri erranti per farla dormire, dopo averle asciugato le lacrime.
 “Andrà tutto bene”, fu come un sussurro lieve quello che sentì Galatea. Si guardò attorno, era così desiderosa di sentire ancora la voce di sua madre che addirittura la immaginava! pensò.
Rabbrividendo a causa del freddo e stringendosi nelle spalle per darsi da sola un po’ di calore, Galatea si diresse verso la piccola cucina color giallo canarino, per prepararsi il solito caffè e, poggiata al ripiano della cucina, pensò che quella mattina fosse in realtà il suo giorno libero, poteva rimanere a casa e invece… doveva incontrarsi con Thomas Helby. Pensò di non avere la forza di uscire quel giorno, aveva la possibilità di rimanere nel suo mondo e invece… Non poteva neanche avvisarlo per disdire e non presentarsi sarebbe stato da maleducati! poi si trattava di un progetto scolastico, importante, di massima priorità… Infine, decise.
 
 
 
 
 
 
 
Arrivata a scuola, si precipitò a firmare il registro e si diresse verso l’aula docente. Si guardò attorno, cercando Thomas, ma non lo trovò. Che fosse in ritardo? Che non venisse più? Al solo pensiero iniziò a innervosirsi. Era andata fin lì solo per quello stupissimo incontro, quando invece sarebbe dovuta rimanere a casa per godersi il suo meritato giorno di riposo. E quella mattina non era stata di certo la giornata giusta per alzarsi! Certi giorni andare avanti è più difficile. Prova a svegliarti con gioia la mattina quando non hai ragioni per farlo. Quando ti sembra tutto uguale, monotono, senza senso.  Quando la tua intera vita ti sembra senza senso. Ecco, in quei giorni lì, cosa ti fa andare avanti?

“Galatea, buongiorno!”

“Buongiorno.” Borbottò l’insegnante, che finalmente capì: qualcuno doveva per forza odiarla per farle incontrare proprio lei quella mattina.

Lidia Grani, docente di matematica del medesimo istituto, era appena entrata nella stanza, con il suo tailleur firmato e il solito sguardo di sfida. Cercando di non pensare al fatto che proprio quella mattina non fosse nelle condizioni giuste per affrontare uno scontro alla pari - sembrava una bambina, fasciata da un paio di jeans troppo larghi, un maglione recuperato all’ultimo momento, e la faccia pulita, priva di trucco, gli occhi stanchi messi in risalto dagli enormi occhiali che pendevano sempre sul naso, Galatea si preparò ad affrontare quell’incontro già sapendo che ne sarebbe uscita stremata.

“Ho saputo che Donato ha accettato di finanziare il tuo progetto…cos’avrai mai fatto per convincerlo!” sibilò con malizia. Galatea strabuzzò gli occhi, tutti sapevano nella scuola della relazione tra l’insegnante di matematica e il preside, come poteva accusarla? Era forse gelosa? Le venne da ridere al solo pensiero, ma riuscì a trattenersi. O quasi.

“Forse dovremmo chiedere al preside Tondi perché in un liceo classico i corsi pomeridiani e i concorsi cui i ragazzi possono aderire non servono ad altro che a imparare a svolgere calcoli.” La provocò.

“I ragazzi amano i miei corsi, è per questo che ne fanno parte e ogni anno la domanda è in aumento.”

“O forse lo fanno perché non hanno altra scelta.”  Sorrise amara Galatea, che ben conosceva i problemi della scuola e i suoi ragazzi, così emozionati all’idea di partecipare al laboratorio teatrale. “O forse perché ormai i ragazzi di oggi non perdono tempo, non interessa loro star sui libri ore infinite per imparare la vita di qualcuno che dimenticheranno il giorno dopo.” Cercò di replicare la donna,  incrociando le braccia al petto, rendendo la sua figura ancora più autoritaria, per intimidirla. La odiava! Da quando lavorava lì, non faceva che provocarla con battutine di ogni tipo, per cercare di farla esplodere. Ma Galatea non sarebbe esplosa, mai, sarebbe rimasta nascosta dietro la sua maschera, imperturbabile, mettendo a tacere quel mostro orrendo dentro di lei che provava ad uscire fuori. Ci provava sempre, si nutriva del suo rancore e della sua rabbia e tentava di aver la meglio su di lei. Ma ormai Galatea era diventata un’esperta nell’incassare, non si faceva fregare da quel mostro. Era più forte di lui. Negli anni, attorno a sé, si era costruita una bella corazza che rivestiva l’interno e l’esterno del suo corpo per garantirle doppia protezione, ed era davvero resistente. Non ricordava più quando fosse stata l’ultima volta in cui si fosse sentita ferita dalle parole della gente, dal peso di mille ricordi, perché da un po’ di tempo a questa parte, il cuore non soffriva più per i mille chiodi che vi s’infrangevano contro, ma era avvolto da una sorta di calma placida, come quella dopo una tempesta o che sta per annunciarne una. 

Galatea non rispose, prese un profondo respiro e semplicemente sorrise. Non dargli questa soddisfazione, disse a se stessa. Sopporta.

“Ora non rispondi più? Allora ammetti che ho ragione…” proseguì Lidia, non contenta di essere stata ignorata dalla collega, che era divisa tra la voglia di andarsene e lasciarla lì, impunita, o risponderle e zittirla una volta per tutte. Non ebbe il tempo di decidere cosa fare che una voce interruppe quello scambio di sguardi:

 “Ho interrotto qualcosa?”

Era Thomas, appena entrato nell’aula, con la sciarpa avvolto intorno al collo e lo sguardo serio, indagatore.

“Oh, si figuri… stavamo solo chiacchierando.” Ammise la donna, irritata per l’interruzione, dirigendosi verso la porta. Girandosi verso la collega, le sorrise falsamente, “A presto!”


E così com’era entrata se ne andò.
 
Nel frattempo, Thomas era rimasto sulla soglia della porta, incerto se varcarla, oppure no, e guardava Galatea, ferma al centro della stanza, con gli occhi fissi sul pavimento. La vide lì, immobile, in silenzio, ma non sembrava davvero lì.

“Non so a te, ma a me è sembrata una minaccia.” Scherzò Thomas, per smorzare la tensione.

“Sei in ritardo.” Pensò Galatea, “Stai bene?” chiese lui.

No, “Sì.”

“Aspetti da molto?”

E mentre Thomas iniziò ad avanzare verso di lei, forse per salutarla, Galatea si convinse che se lui non avesse fatto tardi, lei non avrebbe incontrato Lidia quel giorno e adesso non si sarebbe sentita una sconfitta, una buona a nulla, che non è neanche capace di difendersi. E in un attimo, tutta la frustrazione provata trovò il suo capro espiatorio.

“Si lo so, ti dispiace di aver fatto tardi. Non serve dirlo.” Disse acida, mentre si guardava attorno. Non sapeva cosa fare, sarebbe voluta andar via ma lui era lì, davanti alla porta; e poi non poteva certo andarsene così all’improvviso, alla fine era con lui che doveva incontrarsi quel giorno.

E Thomas si fermò, non le andava più incontro, ma la guardava con occhi sorpresi. Era davvero necessario rispondere in quel modo? si chiese. Lui era stato solo… gentile.

E non seppe più cosa dire. Le parole gli rimasero incastrate nella gola e guardandola si chiese cosa le avessero fatto per renderla così. E si maledì alla ricerca delle parole giuste, che non lo facessero sembrare inopportuno o sconveniente. Ma non le trovò e rimase lì, in silenzio: lui che la guardava e lei che fissava ora il pavimento, ora un punto indefinito dietro di lui, ora fuori alla finestra.
E Thomas non parlava, ma continuava ad ammirarla. Perché fuggi? Perché non mi parli?, Perché non mi guardi?, si chiedeva, irrequieto a causa del silenzio che li avvolgeva. E pensò che forse avrebbe dovuto dire qualcosa.

“Ti va un caffè?”

“Sì.”
 
 
 
 
Uscirono dall’edificio scolastico, avvolti nei loro cappotti ingombranti, stringendosi a questi per proteggersi dal freddo invernale, e camminarono in silenzio verso la prima caffetteria.
Si accomodarono a un tavolino, vicino alla grande vetrata che dava direttamente sulla strada e, dopo essersi liberati dai loro cappotti, il loro ostinato silenzio fu interrotto dal cameriere, l’unico presente in quel piccolo bar, se non forse proprio il proprietario, che si avvicinò ai due.
“Che cosa posso portarvi?”
“Un caffè.” Ordinarono entrambi e finalmente, si guardarono negli occhi.
 
 
“Allora, dimmi qualcosa di te. Da quanto tempo insegni?” domandò curioso Thomas, appoggiando la tazzina vuota sul tavolo.

“Cinque anni e tu? Insomma, cosa fai?”

“Io beh, faccio quello che posso… Ultimamente le opportunità scarseggiano ma sono positivo: sto lavorando a un mio progetto e nel frattempo, ho conosciuto te!” ammise.

Galatea lo guardò incerta, ancora non sapeva se averlo conosciuto fosse una cosa buona oppure no.

“E poi ehi, la mia fama mi precede, non ci vorrà molto a trovare qualcosa da fare.” Alluse forse al suo spettacolo più famoso, Don Jon, di cui era stato attore e regista, e che aveva determinato il suo successo. E guardandolo, Galatea non riuscì a non pensare a quel poliziotto da tutti considerato incapace ma che si era rivelato l’unico in grado di risolvere l’omicidio. Era lui, quel poliziotto dallo sguardo buffo e premuroso, eppure era anche Thomas, quell’uomo dallo sguardo brillante e simpatico, che la guardava con due occhi sinceri, mentre lei sorseggiava lentamente il caffè.

“Ti piace lavorare con i ragazzi?”

“A volte sì.”

“Hai lezione dopo?” chiese poi. E Galatea scosse la testa.

E vide pian piano quella scintilla negli occhi di Thomas spegnersi. Forse, avrebbe dovuto chiedergli anche lei qualcosa sulla sua vita, o forse parlare di più della sua. Ma lei non era mai stata brava con le parole e temeva di dire la cosa sbagliata. Ripensò al progetto a cui avrebbero dovuto lavorare insieme e pensò che forse avrebbe potuto parlare di quello.

“Mi è piaciuta la domanda che hai rivolto ai ragazzi…” iniziò Galatea.

“In realtà quella domanda era anche per te.” Precisò.

“Ma io non sono una tua alunna!” protestò la donna. “Lo sembri però.” Ammise, soffermandosi sul suo viso privo di trucco e i capelli biondi raccolti in malo modo sul viso, ma si pentì subito.

“Ti sembro piccola?”

“No, io non volevo offenderti… intendevo dire che-“ cercò di giustificarsi, ma perse le parole, di nuovo.

“Credi forse non possa gestire da sola questo lavoro?” insinuò la donna, rivolgendogli uno sguardo duro. “Che senza il tuo aiuto non possa farcela?” continuò, “Io non ho bisogno di te.” concluse infine, stringendo le braccia al petto.

E Thomas in quel momento non seppe perché, ma si sentì un animale in trappola, si sentì attaccato e come tutti gli animali, semplicemente, reagì.

“Guarda che è stato il preside a chiamarmi perché ha bisogno di me, non ho cercato io questo lavoro!”

“ Esatto, il preside ha bisogno di te, non io.” Rispose Galatea, arrabbiata, mentre di tutta fretta recuperava il suo cappotto e usciva di corsa dal locale. E fuggì, così, all’improvviso. E Thomas si chiese perché scappare senza cercare almeno di chiarirsi mentre indossava di tutta fretta la sua giacca e seguiva la ragazza, che percorrendo la strada a ritroso, si era già incamminata verso la scuola.  

“Aspetta!” la chiamava e quando finalmente riuscì a fermarla, si scusò “Mi dispiace, io non volevo offenderti.”

Ma l’hai fatto, pensò Galatea. “Oggi non è giornata, davvero. Che dici ci vediamo domani con i ragazzi?” cercò di porre fine a quell’assurdo teatrino, indossando il suo sorriso migliore. Voleva solo tornare a casa. Thomas, guardandola, non poté far a meno di notare un momento in cui, quando Galatea si era girata, aveva visto i suoi occhi lucidi e un’espressione così triste che quello sguardo gli inflisse una pugnalata dritta al cuore, ma poi aveva sorriso, e per quanto lei ci avesse provato, non sembrava affatto un vero sorriso. Aveva sorriso e sembrava star bene, che fosse già tutto passato, e che quel breve scambio di battute che c’era stato poco prima, non fosse altro che uno spiacevole episodio di poco conto.

“Se è quello che vuoi…” mormorò incerto, guardandola di sottecchi, ma lei ormai già non ricambiava più il suo sguardo. “Allora ci vediamo domani…”

“A domani, ciao.” Lo salutò frettolosamente, andando via. E sparì, semplicemente, verso la sua macchina, senza voltarsi indietro. Senza rendersi conto dello sguardo di Thomas che l’aveva seguita fin quando non aveva lasciato il parcheggio della scuola, pronta a immettersi sulla strada principale.
 
 
Tornando verso casa, Thomas si maledì. Il pomeriggio precedente non aveva fatto altro che pensare a cosa avrebbe detto l’indomani alla donna, immaginando cosa stesse facendo o se anche lei avesse pensato a lui. Aveva cercato le parole giuste per ottenere la sua attenzione, ma appena l’aveva vista aveva dimenticato tutto e non solo, l’aveva anche fatta arrabbiare. Ripensando al loro incontro, si chiese in che modo avrebbe potuto rimediare. Lei era sempre così sfuggente, nascosta dietro quella corazza di ghiaccio, al punto che non riusciva mai a capire cosa pensasse! E invece lui era sempre stato bravo nell’indossare maschere e poi farle cadere… O far cadere quello degli altri. Ma quello era il suo lavoro, la sua passione. Galatea si proteggeva dietro le sue innumerevoli maschere, che nel tempo erano aumentate, al punto che ogni volta che la incontrava, sembrava essere una persona diversa. Neanche lui era così bravo, pensò. Così nascosta, quasi non vedeva qualcosa di vero in lei. Se non quei piccoli e rari momenti in cui il suo viso si adombrava, e i suoi lineamenti cedevano, dando modo a Thomas di vedere quella crepa nella sua maschera perfetta. Ma erano momenti unici, come quando aveva visto i suoi occhi lucidi, velati di lacrime, o quando l’aveva vista abbassare lo sguardo di fronte alla sua collega, incapace di sostenerne lo sguardo. O quando aveva visto i suoi occhi, sempre oscurati da una sorta di malinconia, sollevarsi verso l’alto quando all’unisono avevano ordinato il caffè. E lo aveva visto, quel leggero sorriso illuminargli il volto per un breve istante e il suo sguardo, illuminarsi di luce nuova. Eppure era stato un solo attimo in cui aveva potuto cogliere quel breve frammento di luce che, rapido, scemò via. E lui restò a guardarla, incapace di poter dire altro, perso nel suo sguardo di cioccolata, e pensò che sarebbe potuto rimanere lì, accanto a lei, anche in silenzio, se questo sarebbe avrebbe potuto servire a farla star bene. Eppure, lui che era sempre stato quello dalle mille parole, dalla battuta sempre pronta, il chiacchierone del gruppo, davanti a quegli occhi da cerbiatta, semplicemente, ammutolì.


Ripensando al loro incontro, che non era andato proprio come si era immaginato, si arrabbiò con se stesso per non aver avuto il coraggio e la fermezza necessaria per trattenerla lì con lui, almeno un altro po’… Ma non si lasciò abbattere dai suoi pensieri e, alzando gli occhi al cielo, capì. “Lotta sempre per ciò che ami, anche se fa male.” Ricordò le ultime parole di suo padre, che aveva combattuto tutta la vita contro un male incurabile e aveva lottato per lui, per essergli vicino e vederlo crescere nonostante tutto, e per sua madre, che anche se aveva scelto di abbandonarli, perché “non era abbastanza forte”, con tenacia suo padre continuava a scriverle, a chiamarla, a mandarle fiori, e anche se non aveva mai risposto alle sue lettere, lui non aveva mai smesso di provarci, nonostante tutto.

Ripensando a quell’uomo tenace, che fino all’ultimo aveva lottato per un amore non corrisposto e per sopravvivere allo stesso tempo; nonostante il telefono squillasse a vuoto e i fiori tornassero sempre al mittente, nonostante il dolore, nonostante il silenzio, lo immaginò seduto sulla sua poltrona, nascosto dalla scrivania, chino a riempire di parole e promesse l’ennesima lettera che non avrebbe ricevuto risposta, alternando lo sguardo: ora rivolto al foglio bianco, alla ricerca delle parole giuste, ora perso a guardare fuori dalla finestra, desideroso di veder comparire la sua amata da un momento all’altro, ma senza mai perdere quel sorriso nostalgico di chi lotta per la vita, consapevole del suo limite, e nonostante tutto ci spera ancora, che Thomas non avrebbe mai dimenticato.  

E pensò che non si sarebbe arreso fin quando non avesse conosciuto la vera Galatea, quella nascosta dietro strati di menefreghismo, superbia, controllo. Perché sentiva che c’era molto altro. Dietro quel volto dai lineamenti rigidi e lo sguardo gelido, vedeva chiaramente quella lieve scintilla illuminare l’oscurità che imperversava nel suo cuore. Riusciva a percepirla, ma era così lontana e sfuggente che pensò che sarebbe stato rischioso, per lui, addentrarsi senza sapere da che parte andare. Eppure, se solo fosse riuscito a raggiungere quella fiamma, che sperava fosse in realtà una lanterna, forse questa l’avrebbe guidato attraverso il labirinto delle sue paure, attraverso i sentieri che portavano ai suoi pensieri; facendo luce per guidarlo negli antri nascosti della sua mente, per riuscire a entrare dentro di lei, per capire.

E spero soltanto di esserne in grado. Chi sei davvero?

 
* * * * *
Ecco qui, l'ultimo capitolo del 2019... Ci tenevo a pubblicarlo oggi per augurarvi Buone Feste e invitarvi, ogni anno sempre di più, a cercare qualcosa, o qualcuno, per cui valga la pena lottare. Vi auguro di trovare l'Amore, e realizzare i vostri sogni o trovarli, se ancora non ne avete uno. Vi auguro di essere felici, sempre, godervi ogni attimo di questo futuro ancora tutto da scrivere e vi auguro il coraggio di rischiare, se serve, e di non mollare, se poi cadrete.
Vi auguro di mettervi in discussione, sempre, per scoprire nuove parti di voi e amarle, nonostante tutto. 

A presto!
 

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Capitolo 4
*** IV ***


Il mattino dopo, ancor prima del suono della sveglia, Galatea si alzò dal letto, che quella notte l’aveva tenuta prigioniera dei suoi soliti incubi, e si preparò con cura. Indossò un jeans a vita alta con un paio di stivali neri, lunghi fino al ginocchio, e una camicetta bianca. Si sistemò i lunghi capelli biondi nella solita coda alta, stretta in un elastico nero, e si truccò con cura, eliminando le occhiaie violacee. Si piaceva, vestita così. Si sentiva bene. Specchiandosi, fece una serie di smorfie che avrebbero dovuto somigliare a un sorriso ma che non coinvolgevano lo sguardo. Era stanca di dover fingere di essere qualcun altro. Fingere di essere radiosa. Fingere che vada tutto bene. Eppure non ne poteva far a meno, ormai.

Galatea, fin da piccola, aveva imparato a essere una brava signorina, educata e servizievole. Era stata educata a suon di schiaffi e rimproveri a rigare sempre dritto. Ad andare bene a scuola e ad aiutare la mamma a casa. Le sue insegnanti dicevano sempre che era una bambina perfetta, ma che doveva sorridere di più. Che non aveva amici. Stava spesso e volentieri sola e rimaneva a studiare in classe, persa nel suo mondo. Galatea era una bambina di buona salute, ma parlava poco e aveva uno sguardo sempre triste. Nel corso degli anni, crescendo, Galatea capì come evitare le attenzioni degli insegnanti, la rabbia del padre e il mondo là fuori. E così, imparò a sorridere. Un sorriso finto, di circostanza, ma che bastava per andare avanti ed evitare domande scomode. E imparò che a volte per proteggersi basta dare agli altri ciò che vogliono. E Galatea col tempo aveva imparato l’arte disperata del fingere, con una facciata di sicurezza fuori, che nascondeva una bambina spaventata al suo interno.


Il suono metallico della sveglia invase l’intero appartamento. Galatea si precipitò a spegnerla, infastidita da quel rumore disturbante nel silenzio delle sette del mattino, e dopo aver recuperato i suoi occhiali, finì di prepararsi, pronta, o quasi, ad affrontare una nuova giornata. Inviò un messaggio alla sua amica Christie, sempre più impegnata a causa dell’imminente matrimonio, e uscì, chiudendosi la porta di casa alle spalle. Quel giorno aveva deciso di non prendere la macchina. Odiava sentirsi chiusa in quella scatola dalle quattro ruote, si sentiva soffocare lì dentro. Aveva preso la patente solo perché era necessaria per acquisire la sua indipendenza e prendersi cura di sua madre, ma se solo avesse potuto, non si sarebbe mai spostata in auto. Amava inoltre fare lunghe passeggiate per la sua città, con lo sguardo perso al cielo pallido, gli stivali che affondavano nelle foglie che cadevano dagli alberi, e il cuore in pace, mentre il suo fidato mp3 trasmetteva le note delle canzoni in riproduzione casuale. Mentre camminava per le strade ghiacciate di Satorno, osservando i primi lavoratori che si preparavano ad affrontare l’ennesima giornata di lavoro, e i ragazzi protetti dai loro cappellini colorati che si affrettavano a salire sul pullman che li avrebbe portati a scuola, mentre un intenso odore di pane caldo, appena sfornato, invadeva le strade; Galatea guardava i soliti volti che l’avevano vista crescere, diventare donna, che la salutavano con leggeri sorrisi da lontano. Ma si sentiva invisibile, dietro la sua maschera sofisticata, mentre ricambiava il saluto cordialmente e procedeva per la sua strada. E si chiese se anche loro non fossero stanchi di quei sorrisi di cortesia, di quel saluto che si sentivano di rivolgerle ogni mattina da anni, delle frasi di circostanza che le ripetevano da quando suo padre era scappato e sua madre era chiusa nell’istituto. E si sentì parte di quella messinscena, di quel teatrino sempre uguale e sorrise, mentre a testa altra continuava a camminare. Alla fine, pensò e sé, siamo tutti dei burattini.

 
Arrivò a scuola in anticipo e, dover aver salutato i volti più o meno noti dei suoi colleghi, si diresse verso la sua classe. Entrò nell’aula vuota, con i banchi disposti in tre file ordinate, la cattedra posta affianco alla lavagna, ricoperta da frasi scritte col gesso, e le pareti tappezzate da cartelloni e cartine geografiche. Si beò di quel silenzio che avvolgeva la stanza e i corridoi della sua scuola, prima del trillo della campanella e, sedendosi dietro la scrivania, chiuse gli occhi e respirò a fondo. Doveva lasciare fuori tutto da quel momento in poi: se stessa, i suoi malumori e le sue questioni irrisolte, per dedicarsi solo ai suoi ragazzi. E’ questo che dovrebbe fare una buona insegnante, pensò. Quando entra in aula dai suoi studenti, deve lasciar fuori la sua vita privata per concentrarsi sul suo ruolo: non esiste più la vita esterna, ma solo la lezione e quell’incontro speciale tra insegnante e allievo. E Galatea amava spogliarsi per assumere le sue vesti da insegnante; amava trascorrere il tempo con loro, beandosi delle loro espressioni curiose, i loro occhi speranzosi e il loro cuore sensibile; ascoltare le loro risposte timorose e rispondere alle loro domande impertinenti. Riaprì gli occhi solo quando la campanella della prima ora suonò e schiamazzi e risate iniziarono a invadere i corridoi dell’istituto.

“Buongiorno, prof!” si annunciarono i primi ragazzi, sedendosi al loro solito posto. Si liberarono dal peso delle cartelle e iniziarono a chiacchierare tra loro. Quando finalmente arrivarono tutti i ragazzi, Galatea fece l’appello e si preparò ad affrontare la lezione.

“Allora ragazzi, vi ho portato i compiti!” esordì, recuperando il plico di fogli protocollo e iniziando a distribuirli. “Sono andati abbastanza bene, ma questo non significa che non dovete studiare durante le vacanze.” Continuò.

“Prof, ma è Natale! E a Natale siamo tutti più buoni… no?” parlò Nicola Altini, rappresentante della classe e leader indiscusso del gruppo, tra l’approvazione generale degli amici e gli sguardi adoranti delle ragazze.

“Sarò buona ragazzi, ve lo prometto. Ma non potete sperare di non far nulla!” concesse l’insegnante, mentre distribuiva l’ultima verifica corretta. “E penso di essere stata fin troppo buona anche con i voti del compito… consideratelo il mio regalo di Natale!” scherzò.

Mentre i ragazzi si confidavano i rispettivi risultati, Galatea li guardò amareggiata. Odiava attribuire un voto, come se loro non valessero nient’altro e fossero classificati secondo criteri di merito. Per questo, quando doveva giudicare, preferiva valutare i ragazzi nel corso dell’intero anno scolastico, attribuendo loro un voto solo perché costretta, lusingandoli quando lo meritavano e rimproverandoli quando doveva. Preferiva dir loro dove sbagliavano e come migliorare il loro approccio alla materia, aiutandoli con mappe concettuali e spiegazioni più facili, dando loro la possibilità di riprovare ancora e ancora. Il voto è riduttivo, perché non si può racchiudere in un numero tutte le infinite capacità di un ragazzo; è limitato, in quanto non da’ una visione complessiva del singolo, e limitante, perché distrugge o accontenta le aspettative dell’alunno, che si sentirà inadeguato, un numero sei o un numero dieci, invidioso di chi ha il voto più alto e deluso da se stesso. E mentre guardava i ragazzi, nonostante tutto felici  solo perché non avevano ricevuto insufficienze, avrebbe voluto urlare loro che non era quel numero a renderli speciali, ma che loro erano molto più di quel  voto scritto su un foglio: erano vita, passione, sogni, desideri, rabbia, tristezza… Guardandoli, Galatea godeva della vita che sprigionavano i loro corpi acerbi, i loro volti fanciulleschi, e i loro occhi luminosi; contagiata dalla loro allegria, dalla loro voglia di vivere giorno per giorno, delle loro scelte coraggiose, talvolta sbagliate, ma vere. E sentì uno strano calore avvolgerle il cuore, mentre guardava i loro sorrisi sinceri e affettuosi verso i compagni e si sentiva invadere delle risate emozionate a causa delle imminenti vacanze natalizie, e un sorriso involontario le spuntò sul volto, mentre lo sguardo si perdeva tra i ragazzi.

“Prof, allora che facciamo oggi?” chiese Amalia, una ragazzina dai riccioli rossi e la pelle chiara costellata di efelidi. Guardandola, sentì un moto di tenerezza invaderla. Era così timida quella ragazza, che le si era avvicinata per farsi sentire a causa della sua voce incerta, mentre stringendosi nelle spalle, si torturava le mani. Le ricordava se stessa, sempre con lo sguardo basso, chino sui libri. E la mente persa altrove, sognando mondi da scoprire, avventure da vivere, desideri da realizzare.

“Oggi ragazzi, parleremo della Conoscenza.” Le rispose, rivolgendosi alla classe per ottenere la loro attenzione. “Cos’è per voi la conoscenza?” domandò, e il pensiero volò immediatamente a Thomas, alla domanda simile che anche lui aveva posto ai ragazzi, rivedendolo mentre con uno sguardo sfacciato le porgeva il foglio.
Scacciò immediatamente dalla sua testa l’immagine di quel tipo, che prepotente era arrivato nella sua vita, per insegnarle il suo lavoro!, su richiesta di quell’incapace del preside Tondi che aveva messo in dubbio le sue capacità, e si concentrò sui volti incerti dei suoi ragazzi, timorosi di rispondere in modo sbagliato.

“ Conoscere è sapere!” azzardò Altini, seguito dal compagno Tonelli. “Significa avere la consapevolezza di ciò che ci sta attorno.”, “Conoscenza è verità.” Mormorò invece Amalia Bianchi.

“Il termine stesso filosofia, ovvero “amore per la sapienza”, indica la ricerca incessante, da parte dei filosofi, della verità.” Iniziò Galatea.

“Conoscere per i primi filosofi significava trovare il principio primo della natura e Socrate fu il primo a dedicarsi alla ricerca della verità, partendo dalla consapevolezza di non sapere, alla base della conoscenza. Con Socrate la conoscenza è ricondotta alla riflessione individuale e la vera sapienza nasce dal conoscere se stessi; per Platone invece, conoscere significa ricordare: il sapere è innato nella nostra anima e la conoscenza non è altro che un processo di reminiscenza di ciò che sapevamo già ma non riuscivamo a vedere. Ancora, Aristotele, nella Metafisica, afferma che l’uomo aspira alla conoscenza, e la forma di saggezza più sublime è la conoscenza disinteressata, libera da vincoli, che mira al puro e semplice desiderio di conoscere… Perché, secondo voi, questo sapere, che in fondo non serve a nulla, è la cosa più importante per gli uomini?” chiese retoricamente, interrompendo la spiegazione e dando modo ai ragazzi di prendere appunti.

“ È proprio il fatto di non servire a niente che lo innalza: una cosa che non serve è più nobile perché non è legata a un rapporto di servitù.”, “I gran di filosofi del tempo studiavano la realtà esterna e le sue cause non perché dovevano, ma perché erano pervasi dalla sete di sapere e andavano alla ricerca della verità delle cose, ponendosi domande e dandosi risposte.” Proseguì.

“ Il filosofo Francesco Bacone affermava “Sapere è potere” e invitava gli uomini a liberarsi dagli idoli della mente, dai pregiudizi e dagli errori della tradizione, per restaurare il dominio sulla natura, conoscere le cause dei suoi fenomeni e le leggi che la governano. Analogamente Cartesio, invitava a esercitare il dubbio metodico per mettere tra parentesi le conoscenze apprese dalla tradizione e costruire un nuovo albero della filosofia, metafora dell’unita del sapere. Dubitando, l’uomo giungeva alla prima certezza. Ed estendendo il dubbio su tutti gli aspetti della vita conosciuti, poteva aspirare a conoscere la realtà intera.”

“Perché dal dubbio giunge una certezza? Se metto in dubbio tutto, come arrivo alla verità?” chiese perplesso Donati, un ragazzetto dallo sguardo attento e curioso.

“Se dubito di tutto, ma nonostante ciò qualcosa si salva, allora quel qualcosa sarà indubitabile. Bisogna distruggere per costruire, ragazzi!” li spronò.

“ Non dovete accontentarvi delle risposte perché “ipse dixit” (l’ha detto lui!), ma dovete andare a fondo alle cose, andare oltre ciò che vedono gli altri; dovete aver voglia di sapere, di conoscere.”

“A volte è meglio non sapere le cose…” mormorò pensierosa Rosa, una ragazza dai lunghi capelli neri che le nascondevano il viso, seduta in fondo alla classe, vicino la finestra, come a nascondersi dallo sguardo degli altri. “A volta la verità fa male…” continuò, con gli occhi lucidi, distogliendo poi lo sguardo dai compagni.

Galatea capì che la ragazza si riferiva alla sua vita privata: aveva scoperto da poco di essere stata adottata e da quel giorno aveva perso la voglia di studiare, di andare a scuola e di uscire. Sua madre, richiamata a causa del comportamento della ragazza, aveva riferito agli insegnanti che per ore intere si chiudeva nella sua stanza, senza parlare con nessuno, e che la notte la sentiva piangere senza poter far nulla. Le sorrise, incerta su cosa dirle.

“ Nascondere la verità non significa che questa non esista. Bisogna affrontare la realtà.” Iniziò, cercando le parole giuste.. “Anche se a volte fa male, come hai detto tu..”

Il suono della campanella la interruppe e, mentre i ragazzi si affrettavano a lasciare l’aula, Galatea riprese a respirare. Il trillo improvviso l’aveva salvata in calcio d’angolo! Come poteva lei, che si nascondeva dietro innumerevoli maschere, motivare quella ragazza! Menomale che quell’aggeggio aveva suonato in tempo, pensò, altrimenti sarei rimasta a fissarla come una stupida senza sapere cosa dire.

Stupida, stupida, stupida.

Si ripeteva, mentre distrattamente salutava i ragazzi e Rosa con un cenno distratto della mano, recuperando i suoi oggetti personali e recandosi alla prossima lezione.

Stupida, stupida, stupida.

Continuava, maledicendosi per quel lavoro che la portava a contatto con i drammi dei ragazzi! Lei, che di problemi ne aveva a bizzeffe e si trascinava per inerzia, nascondendo la solitudine, la paura, il perenne senso d’inadeguatezza, sotto una rigida maschera di circostanza.

Stupida, stupida, stupida.

Si malediceva, mentre seppelliva le lacrime che tentavano di uscire dietro uno sguardo di ghiaccio e si fermava per recuperare fiato.
“Sopporta, Tea. Sopporta.” Disse a se stessa, scacciando il malumore dal suo viso e i brutti pensieri, mentre varcava la soglia dell’aula in cui avrebbe tenuto la prossima lezione.
 
“Buongiorno, ragazzi!” esordì, guardandosi attorno. Riconobbe i volti familiari dei suoi allievi e anche qualche volto ancora sconosciuto e si stranì. Aveva forse sbagliato aula? Continuò a far vagare il suo sguardo nell’aula silenziosa fin quando non incontrò lo sguardo divertito di Thomas Helby.

“Che ci fai qui?” esordì, sorridendo nervosamente. “Ti stavamo aspettando, oggi abbiamo lezione di teatro!” svelò il mistero. Che stupida!, pensò Galatea, che si era dimenticata di quell’incontro, mentre imbarazzata distoglieva lo sguardo. Avrebbe dovuto guardare la sua agenda, quel giorno. Forse avrebbe evitato di fare figuracce. “Bene, adesso che ci siamo tutti…” la guardò Thomas, “Iniziamo!” ricevendo un’occhiata di astio battuta da Galatea, che lo guardava con le braccia strette al petto, in tensione, pronta a scattare. Fortunatamente, i ragazzi iniziarono ad agitarsi e Galatea distolse lo sguardo, rilassando le braccia lungo il corpo e assumendo una postura meno severa. “Sì, iniziamo!”

“Ok ragazzi, la scorsa lezione vi avevo chiesto di prepararvi un breve spettacolo per decidere i ruoli. Chi inizia per primo?” indagò Thomas, guardando i due gruppi di ragazzi. Un ragazzo bruno, dalla carnagione olivastra e con un berretto rosso, calamitò l’attenzione e, insieme ai suoi compagni, disposero due file di tre sedie ai lati opposti e i sei ragazzi presero posto, mentre il ragazzo dal berretto rosso, che Galatea scoprì chiamarsi Matteo, impersonava il controllore di un treno giunto a chiedere i biglietti. Alcuni passeggeri diedero al controllore il biglietto, ma una coppia finse di averlo perso. E il trio, composto dal controllore e dagli altri due ragazzi, iniziò a inscenare una simpatica litigata, che si concluse tra le risate della classe. I due insegnanti applaudirono, contagiati dall’atmosfera, mentre il secondo gruppo si preparava a mettere in scena un pestaggio, da parte di alcuni bulli, impersonati dai ragazzi più robusti, ai danni di un gruppo di ragazzine, mentre la voce di Elisa, una ragazza minuta dagli occhi color cielo, raccontava la storia della cattiveria umana, commuovendo Galatea, che si sentì stringere il cuore a quelle parole.

“Siete stati bravissimi, ragazzi!” si complimentò Galatea, “Sembravate dei veri attori!” scherzò Thomas. “Sono sicuro che lo spettacolo sarà un successo”, ammise poi, ricevendo un applauso da parte della classe.
“Allora ragazzi, oggi vi racconto una breve storia!” proseguì Galatea, appoggiandosi alla cattedra e rivolgendosi ai ragazzi.

“Un giorno, guardandosi come ogni mattina allo specchio Vitangelo Moscarda, detto Gengè, nota un particolare di cui non si era mai accorto: il naso pende verso destra. Improvvisamente si sente sdoppiato in un altro se stesso, conosciuto solo dallo sguardo altrui. Ma immaginate se al posto di uno specchio da cui scoprire un particolare di cui non ci si è resi conto prima (il naso che pende verso destra), Vitangelo Moscarda si trovasse tra le mani uno smartphone e arrivasse alla stessa rivelazione tramite un selfie.” Iniziò a raccontare, tra i mormorii curiosi della classe e gli sguardi sorpresi di Thomas.

“Con un “io” ormai totalmente frantumato nei suoi centomila alter ego, il protagonista, in preda alle sue considerazioni deliranti e ai suoi tormenti, trova conforto prima in un religioso, che gli consiglia di abbandonare i beni materiali e poi, nel mondo di Natura, l’unico luogo in cui sente di poter abbandonare le molteplici maschere che la società gli ha imposto.” Concluse.

“In pratica dobbiamo essere noi stessi.” Affermò Visconti, dal fondo dell’aula.

“Esattamente. Io credo che il romanzo di Pirandello sia più attuale che mai: noi tutti cerchiamo di essere sempre perfetti per non sentirci fuori posto e indossiamo maschere fittizie che celino la nostra identità, che è unica, ma che si frantuma in centomila identità diverse in base alle persone che abbiamo davanti mentre noi non siamo più nessuno perché nessuna delle identità  corrispondono al nostro vero io. Chi siamo noi? Come ci vedono gli altri?” chiese retoricamente Galatea, con la mente persa. Chi era lei? Cos’era diventata?

Forse al termine di quel progetto l’avrebbe capito, pensò.

E mentre l’insegnante continuava a parlare ai ragazzi, con quello sguardo luminoso e quella passione che traspariva dalla sua voce, Thomas avrebbe voluto risponderle che quando la guardava vedeva  una guerriera impavida, forgiata dalla vita, dallo sguardo fiero e appassionato; un’insegnante capace che amava i suoi ragazzi, ma vedeva anche una bambina dalle trecce bionde, dallo sguardo timoroso e impaurito; una giovane donna dallo sguardo sfuggente e dal sorriso enigmatico. Avrebbe voluto interromperla e dirle che se si era persa, lui l’avrebbe aiutata a ritrovarsi. Ma conservò quelle parole per un altro momento.

“Io e il professor Thomas lavoreremo insieme al copione che studierete durante le vacanze e a Gennaio inizieremo le prove.” Terminò la donna, in sincronia con il suono della campanella. “Ok ragazzi, per oggi può bastare: ci vediamo al prossimo incontro, buona giornata!”
Mentre i ragazzi lasciavano l’aula per la ricreazione, Thomas si avvicinò a Galatea e la fermò prima che fuggisse via.

“Possiamo parlare?” domandò incerto, sicuro di ottenere una risposta  negativa, dopo lo sfortunato incontro del giorno prima. Ma si sorprese quando la donna invece gli rispose di sì, rivolgendogli un tenue sorriso. “Certo, ma prima ho bisogno di un caffè!”

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Capitolo 5
*** V ***


Camminavano fianco a fianco, diretti verso il bar dove erano stati entrambi insieme per la prima volta: Thomas teneva le mani nascoste nelle tasche del cappotto nero, proteggendosi dal freddo di quella mattina; Galatea con le mani si aggrappava alla sua borsa, come se fosse l'unico appiglio sicuro per non essere portata via dal vento, e affondava il naso nell'enorme sciarpa che l'avvolgeva. Camminava, mantenendo lo sguardo ben attento davanti a sé, mentre Thomas di tanto in tanto rivolgeva lo sguardo verso di lei, al profilo delicato del suo volto, il naso grazioso, la figura così minuta, lì affianco a lui.

"Siamo arrivati." Sussurrò, guardandolo con la coda dell'occhio e affrettandosi ad entrare nel locale.

Una volta entrati, il calore li investì ed entrambi tirarono un sospiro di sollievo. Quell'inverno le temperature erano inclementi, molto più rigide degli anni precedenti, tant'è che vi era la possibilità che venisse a nevicare. Presero posto allo stesso tavolino dell'ultima volta, come se quel giorno lei non se ne fosse andata via, all'improvviso, e fosse rimasta lì con lui.
 

"Sapevo che sareste tornati." Li salutò il proprietario. "D'altronde vi siete dimenticati di pagare la scorsa volta."

"Oh, i-o... sono mortificato, signore!" balbettò imbarazzato Thomas, a disagio, non gli era mai capitato di andar via senza pagare!

"Scherzo, ragazzo." Rise l'uomo. "La signorina era molto più importante!" ammiccò complice, rivolgendo un sorriso divertito alla ragazza.

Galatea immediatamente arrossì: chissà cos'aveva pensato quell'uomo di lei...Che figuraccia!

"Io... non so cosa dire." Sussurrò poi, a disagio, torturandosi le mani.

"Non si preoccupi signorina! I problemi di cuore li capisco!" Galatea strabuzzò gli occhi e se possibile arrossì ancora di più.

"Oh no, ha frainteso, noi non stiamo insieme!" precisò, negando con la testa per dare enfasi alle sue parole.

"Certo, certo." La liquidò con un gesto della mano. "Non ti preoccupare ragazzo, le donne sono così: dicono no ma in realtà è sì." Rise, rivolgendosi a Thomas con sguardo comprensivo.

"Allora, vi porto un caffè?" 

 

Avevano bevuto il loro caffè già da un po', chiacchierato con il proprietario del bar, che avevano scoperto chiamarsi Gionata: era un uomo in gamba, dalla battuta sempre pronta, mai invadente; gestiva il locale da solo da quando la moglie era morta due anni prima, e aveva raccontato loro commosso della sua amata, di suo figlio Nicola che lavorava fuori per lavoro e lo veniva a trovare di rado; infine, aveva spettegolato di alcuni clienti del locale, e la mattina sembrò passare in un soffio. Quando Galatea si rese conto dell'orario, era quasi ora di pranzo!, si scoprì di aver passato delle ore così spensierate con Thomas, una persona che fondamentalmente non conosceva, ma che era piombato all'improvviso nella sua quotidianità.
 

"Ma è tardissimo!" esclamò. "Davvero?" chiese preoccupato Thomas. "Non mi sembrava fosse passato così tanto tempo." Mormorò, controllando il telefono ancora nello zaino.

"Avevi qualcosa da fare?" chiese poi.

"Sì, cioè, devo iniziare a lavorare al copione e altre cose... ma va bene così." Ammise.
 

Ed era sincera, Galatea, mentre lo diceva: infatti per la prima volta non si pentiva di aver perso del tempo o di averne sottratto al suo lavoro. Era stata bene, per qualche ora non aveva pensato a nulla, solo a spettegolare sulla clientela del locale e ad ascoltare le chiacchiere di un simpatico vecchietto. E Thomas vide la sincerità nel suo sguardo e sentì un calore avvolgergli il petto. Temeva che si sarebbe arrabbiata e invece... Si convinse di averci visto giusto, la prima volta che l'aveva conosciuta, a pensare che la sua fosse solo una maschera.

E pensò che forse avrebbe potuto osare.

 

"Ti va di uscire insieme?"

"Cosa?" strabuzzò gli occhi Galatea. "Intendi un appuntamento? Io e te?" continuò incerta, presa alla sprovvista.

"Siamo colleghi...io non lo so, non so nulla di te." Ammise sulla difensiva, appoggiando rigida la schiena sulla sedia e le mani a pugno sul tavolino, come a prendere le distanze.

"Sì... potremmo fare qualcosa, andare da qualche parte." Continuò Thomas, meno sicuro di quello che avrebbe voluto sembrare.

"Thomas, io... Non mi sembra il caso, non lo so..." balbettò Galatea a disagio, scorrendo velocemente lo sguardo, ora fuori la grande vetrata, ora fisso sul cliente seduto al bancone, ora il soffitto; imbarazzata, presa dalla necessità di andar via. E si maledì di mettersi sempre nelle situazioni meno opportune.

Thomas, vedendo lo sguardo sfuggente delle ragazza, e l'agitazione che la invadeva a poco a poco, incassò il colpo.

"Non fa niente, è tutto ok." Mise da parte il tutto, come se non avesse importanza, come se l'avesse detto così, preso dal momento, ci aveva provato e aveva fallito. Ecco tutto. E mentre Thomas con aria strafottente assumeva un finto sguardo sicuro di se, tentando di non mostrare il suo orgoglio ferito, Galatea quasi si offese, sentendosi liquidare così. Ma poi si sentì una sciocca, perché lei l'aveva trovato antipatico ancor prima di conoscerlo, e anche dopo averlo conosciuto, e adesso era stata lei la prima a liquidarlo, non lui, che adesso fingeva indifferenza. Bene, meglio così, pensò Galatea.

"Adesso vado." Disse poi, alzandosi e infilandosi il cappotto. "Domani sei a scuola?"

"Sì, perché?"

"Dobbiamo lavorare al copione, sei stato assunto per un motivo." Disse più acida di quello che avrebbe voluto essere. Ma Galatea capì che avrebbe dovuto prendere le distanze fin dall'inizio con Thomas. E invece... Si era fatta fregare, bene! Ma si ripromise che non sarebbe più ricapitato. 

Thomas rimase in silenzio, arrabbiato con lei e con se stesso. Si malediceva di essere stato troppo precipitoso e accusava lei di essere solo una zitella antipatica, colpito dal suo rifiuto, mentre rimaneva in silenzio, imperturbabile. "Non sei l'unica a saper indossare le maschere", pensò, guardandola con sufficienza.
 

Nascosti dietro quelle maschere fittizie, si guardavano con rabbia, con sfida, mentre tutto il resto perse significato. Testardi, i loro sguardi fiammeggianti si fronteggiavano: in tensione, pronti a scattare, come due felini che lottano per ottenere lo stesso territorio. Ma cosa speravano di ottenere loro?

Si guardavano in cagnesco, mentre Galatea finì di sistemarsi e uscì dal locale, posando una banconota sul tavolo e uscendo senza salutare. E Galatea sentì lo sguardo invadente di Thomas seguirla, attraverso la vetrata del locale, fin quando non girò l'angolo per tornarsene finalmente a casa.


 

Quando Galatea sparì, così com'era sua abitudine, Thomas scostò bruscamente la sedia e si diresse verso il bancone. "Cos'ho sbagliato?" si chiese, appoggiandosi al ripieno e stropicciandosi gli occhi. "Quella donna mi farà venire il mal di testa, non la sopporto!" sbottò arrabbiato, muovendosi irrequieto. Maledì il giorno in cui aveva accettato quel lavoro, per di più sottopagato! La professoressa credeva forse lui fosse contento di quell'incarico?

"Va tutto bene?" intervenne Gionata, appoggiandogli la mano sulla spalla con fare paterno.

"No! È una psicopatica quella! Ma che crede, che non vedo l'ora di uscire con lei?" iniziò a dire, preso dalla rabbia. "Non ci sei solo tu!" si lamentava, sotto lo sguardo sorpreso ma divertito di Gionata.

"Senti un po', ma adesso parli anche da solo?" scherzò.

"E tu non prendermi in giro!" abbaiò nervoso Thomas. Si sentiva in trappola, aveva bisogno di aria. E di capire.

"Ora è meglio che vada, scusami. Ci vediamo presto." Promise frettolosamente, salutandolo. E Gionata sorrise, in silenzio, guardandolo andar via, e pensò alla ragazza fuggita via prima di lui e annuì. Sapeva anche lui che si sarebbero rivisti presto.


 

Camminando per le vie di Satorno, Thomas ripensava a quella strana mattinata trascorsa. Aveva passato con Galatea ore piacevoli, perdendo la cognizione del tempo: era stato così bene che le aveva chiesto di rivedersi di nuovo ma lei aveva rifiutato. Non se l'aspettava di certo, Thomas, il suo rifiuto. E si era sentito ferito. Non aveva certo chissà quali pretese, voleva solo conoscerla meglio. E gli era sembrato di essere sulla strada giusta, per questo aveva tentato chiedendole di uscire, deviando dal percorso prestabilito. Forse era stato avventato da parte sua, chiederglielo così, sicuro di una risposta positiva, senza pensare se era quello che voleva anche lei. Evidentemente no, si disse. Altrimenti non lo avrebbe rifiutato in quel modo. E si innervosì di nuovo mentre ripensava al suo sguardo serio e distaccato mentre gli diceva di no, perché erano solo colleghi, niente di più. Ma lui non la voleva mica sposare! Andava tutto bene, stavano chiacchierando amabilmente, ma poi lui aveva rovinato tutto preso dalla smania di saperne di più di lei! Stupido!, maledì se stesso, stringendosi nel cappotto, hai rovinato tutto.


 

Mentre tornava verso casa, Galatea aveva cercato di non pensare a Thomas Helby, alla mattinata passata insieme, al suo invito ad uscire insieme, il suo sguardo risentito quando lei aveva rifiutato; cercò di distrarsi, liberando la mente di ogni pensiero, ma di fronte al volto rivedeva gli occhi lampeggianti di Thomas quando gli aveva detto di no e il suo sguardo freddo come risposta al suo saluto.

"È meglio così, Tea." Sussurrò a se stessa. "Se non fosse per quello stupido del preside Tondi, lui non sarebbe qui! Resisti, finito lo spettacolo andrà via." Si diceva, dandosi forza, cercando dentro sé il coraggio di affrontarlo il giorno dopo.

Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato!

Sbuffò spazientita, irrompendo finalmente nella sua casa, liberandosi dei vestiti ufficiali e indossando il suo amato pigiama; si sciolse i capelli, costretti in acconciature ordinate, che si riversarono morbidi lungo la schiena ed eliminò dal suo volto il trucco, spogliandosi a poco a poco di tutte le sue maschere.

Finalmente se stessa, Galatea inviò un messaggio alla sua amica Christie, chiedendole cosa stesse facendo, e prese il suo computer, sistemandosi sul divano. Aprì la pagina bianca di Word e iniziò a scrivere. Poi cancellò. E iniziò a scrivere di nuovo. Poi eliminava tutto, non soddisfatta, e lo riscriveva con le stesse parole. E così via, adeguandosi al flusso dei suoi pensieri. Quando iniziava a scrivere, non esisteva più niente e nessuno. Non esisteva più la bambina dai codini biondi e i genitori assenti; Tea, la ragazzina studiosa e solitaria; Galatea, la donna ambiziosa, né quella disillusa, né la professoressa Mariani, docente premurosa ma esigente. 
 

Fuori era centomila identità diverse ma lì, da sola, rilassata sul suo divano, al sicuro dentro le mura della sua casa, con i capelli ribelli ad incorniciarle il volto giovane, sentiva di non essere più nessuno. Non aveva gambe, braccia, mani, volto, non sentiva più la superficie ruvida del divano sotto di sé, nel il calore del computer sulle sue gambe, non sentiva quel peso all'altezza del cuore che non le lasciava mai tregua; ma sentì quel dolore accompagnarla da sempre affievolirsi, farle meno male, mentre non esistevano più odori, ne colori, non sentiva più caldo, né freddo, non sentiva il suono dei clacson delle automobili fuori dalla finestra, né la sua vicina far baccano com'era suo solito. Tutto quello che era intorno a lei sembrò sparire e si sentì travolgere da una fiamma travolgente, un torpore diffuso ma piacevole: e scriveva, e scriveva, senza sentire il formicolio alle dita, mentre il sole tramontava e la luna si innalzava nel cielo.
 

E si sentiva viva, mentre metteva per iscritto i suoi pensieri, liberandosi delle sue paure, delle sue angosce, mentre il suo corpo man mano l'abbandonava e la sua mente elaborava. Le dita frenetica scorrevano sulla tastiera, e Galatea non guardava neanche i tasti che premeva, tanto che erano un tutt'uno, lei e il suo computer.
 

Scrivere era sempre stata l'unica cosa che la facesse star bene. Fin da piccola scriveva biglietti con lettere incerte e tremolanti e, una volta diventata più grande, aveva iniziato a scrivere storie fantastiche di cavalieri e fate, come quelle che la sua mamma le raccontava prima di andare a dormire. Galatea aveva poi iniziato a scrivere i suoi pensieri più segreti in un diario, che portava sempre con sé e da cui non si separava mai, in cui raccontava dei suoi sogni, delle sue paure, della rabbia di suo padre, delle lacrime di sua madre e in cui abbozzava le sue storie, che prendevano vita da scene di vita quotidiana.
 

Un giorno, quel diario che sarebbe dovuto rimanere segreto, venne letto da tutta la scuola. Da quel momento la sua vita scolastica divenne un incubo: i pettegolezzi che serpeggiavano tra i ragazzi del paese allarmarono insegnanti e genitori che chiamarono gli assistenti sociali, ma il padre di Galatea era un brav'uomo agli occhi dei cittadini di Satorno, e fu così che la faccenda finì presto nel dimenticatoio. D'altronde, Galatea era sempre stata una bambina fantasiosa, che amava raccontare storie, a volte anche terrificanti, perciò nessuno diede più peso a quella storia, se non fosse stato per le prese in giro e gli scherzi dei suoi compagni. O almeno così era stato fino a quel giorno.
 

Riprese contatto con la realtà quando fuori era ormai buio: osservava la pagina una volta bianca, ora intrisa di parole, e si affrettò a salvare il tutto. Si perse ad osservare il riflesso della luna che entrava dalla finestra del salotto, immersa nel silenzio dell'appartamento.

Controllò l'orario sul computer: erano quasi le nove di sera! Affrettandosi a mettere da parte il suo fedele portatile, sentì lo stomaco borbottare. Quel giorno non aveva mangiato niente! Si diresse di tutta fretta in cucina per prepararsi un sandwich, ma il suono improvviso del cellulare cambiò i suoi piani. Chi diavolo era a quell'ora della sera? Non la cercava mai nessuno...

Recuperò allarmata il cellulare, leggendo la schermata che riportava 'numero sconosciuto' e rispose.

"Pronto?"
 

* * * *

Ciao a tutti! Pian piano entriamo nel vivo della storia... che ve ne pare? Oggi vi presento un nuovo personaggio, che rivedrete spesso: Gionata, un simpatico vecchietto che insomma, sa il fatto suo. E poi abbiamo Galatea, sempre la solita! Ma quando capirai che non serve scappare? Lei infondo vorrebbe pure lasciarsi andare, ma non ci riesce... E Thomas, che ha ricevuto un bel due di picche e ci è rimasto parecchio male... poverino! Ma non temete, presto ne vedrete delle belle. Cosa vi aspettate da questi due? Io prevedo scintille! Ahahaha

Ma bando alle ciance! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e di farmi sapere cosa ne pensate... Secondo voi chi sarà il misterioso sconosciuto? Ahaha

A presto!

 

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