Lucrezia

di smalljojo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1839 ***
Capitolo 2: *** 1839 (parte due) ***
Capitolo 3: *** Oppio ***



Capitolo 1
*** 1839 ***


Questa storia comincia in un modo sicuramente singolare, e ancora oggi, se ripenso agli eventi di quei giorni non posso fare altro che fermarmi impressionata bloccandomi in tutte le mie attività. I miei conoscenti di adesso di sicuro non potrebbero mai immaginare che io, in un passato non remoto, fui vittima di un sogno. Dietro questa forza d’animo, questa sicurezza, si cela il passato non di una, bensì di due anime che non hanno nulla in comune fra loro. Ma senza indugio, comincio il mio racconto.

Era un pomeriggio inoltrato, subito dopo l’ora del pranzo, quando mi introdussi nell’appartamento del mio caro amico Emmanuel Karr.

Ero un galantuomo di elevata statura morale, un erudito della società borghese che in pubblico aborrivo e in privato ringraziavo. Mi piaceva scandalizzare la morale comune insieme ai miei amici letterati, ci facevamo chiamare ‘Il Cenacolo’. Era il lontano 1839, e io, come tutti gli intellettuali che si rispettano, avevo preso residenza fissa a Parigi.

In realtà mi ci ero trasferito ben molti anni prima, quando mio padre, un ingegnere edile che si occupava della costruzione di ponti, decise per me che avrei dovuto completare la mia istruzione frequentando la facoltà di legge all’università*. All’epoca ero un bel giovane che aveva conosciuto solo le tristi mura del collegio, dove ero stato rinchiuso fin dai miei undici anni per causa della mia prodigiosa intelligenza.

Imparai infatti a leggere autonomamente all’età di tre anni e mezzo, e quando ne compii cinque avevo già cominciato a studiare il latino e il greco. I più grandi libri della letteratura avevano riempito le mie fantasie infantili, in particolare la filosofia e la mitologia greca riuscivano a soddisfare la mia curiosità ed insaziabile immaginazione. Il mio libro preferito era ‘Candido’**, a cui affiancavo una ossessiva rilettura dell’’Odissea’ e dell’’Eneide’. Quando mio padre, che di nome faceva Jean e di cognome Gautier, si accorse della mia fervida ricerca di conoscenza, mise immediatamente da parte le aspirazioni che nutriva verso il mio fratello maggiore Alphonse, un debosciato della peggior specie, appassionato sia di gioco che di donne, e si focalizzò totalmente su di me, per spianarmi la strada in ciò che considerava la più elevata professione, la carriera politica. Al tempo eravamo ancora guidati da quel sublime animo che incantò la Francia, Napoleone.

Alphonse, dopo essersi liberato del pesante fardello della responsabilità, che sentiva gravare su di lui fin dalla sua nascita, come un piede di bronzo sul suo petto, si arruolò nell’esercito. Lì trovò campo fertile per far emergere quelle che possono considerarsi qualità sorte dai vizi. La sua sconsideratezza lo rendeva cieco ai pericoli che potevano privarlo della vita, e la sua furia violenta lo rendeva sordo all’umana voce della coscienza che impedisce a tutti noi di uccidere. Sul campo di battaglia trionfava come un eroe, era un angelo della morte ammirato e quasi venerato dai suoi compagni. Il suo carattere affabile al di fuori degli scontri gli aveva permesso di rendersi simpatico agli occhi della gerarchia militare, e con gran celerità riuscì a salire le scale di questa fino a diventare un membro dell’ordine della Cavalleria Leggera napoleonica, prestigiosa quanto gli ussari.

Morì da eroe insieme ai suoi compagni nella battaglia di Waterloo***, uno fra i 25 000 soldati francesi periti sul campo, e fu da tutti i repubblicani ricordato con il massimo rispetto e devozione. L’ironia della sorte per uno spirito così distaccato da qualsivoglia ideale, fedele solo a sé stesso e al denaro! Non ho mai conosciuto al mondo persona più abbietta ed egoista di mio fratello. Difatti non bisogna mai fidarsi di ciò che ci tramandano gli storici, solo i veri romanzieri riescono a raccontare le sfaccettature della realtà, senza illusioni e distorsioni. Tuttavia, ciò non toglie nulla al fatto che lo amassi molto come unico membro che rispettavo della mia famiglia, e altrettanto ho sofferto per la sua finale dipartita. Io compivo dieci anni, e lui appena ventisei. Ancora, quando ci penso, gli occhi mi si offuscano e un dolore mi preme il petto.
Mio padre fu poi processato dalla repressione del Terrore Legale, che vide la promulgazione di una serie di leggi le quali prevedevano l’epurazione di tutti i rivoluzionari per restaurare l’Ancien Régime, e quindi un’apparente stabilità. Che ingenui furono allora! Quante ribellioni sarebbero poi fioccate proprio per questo tribunale della censura! Se ci penso adesso mi viene da sorridere. L’umanità agisce nel suo peggio quando cerca di ritornare al passato; questa constatazione mi è chiara adesso, guardandomi alle spalle.

Comunque Jean Gautier non subì nessuna pena, addirittura fu sollevato definitivamente da ogni sospetto di collaborazionismo a suo carico: era evidente a tutti come avesse abbandonato il figlio maggiore, e non provasse nessun affetto paterno verso di lui già da molti anni.

Alla notizia della sua morte infatti non una lacrima gli rigò il volto, e anzi, pronunciò le seguenti parole di fronte a me, a mia madre Valeriè Rougon, e alle mie tre sorelle:
-io ho solo un figlio maschio e uno soltanto, come posso trovare il tempo per preoccuparmi della morte di un estraneo?-

Ma torniamo alla mia storia, dove l’ho lasciata. Quando le cure di mio padre si spostarono su di me cominciai a perdere l’amore per la conoscenza che era stato fin a quel momento il motore delle mie ricerche. Continuavo a leggere, ma solo i libri che lui trovava consoni a un’educazione virile, e ad imparare, ma tutto semplicemente per la spinta vigorosa che mi infondeva con le parole e con le punizioni. Ho dovuto abbandonare la filosofia per la pratica, la filologia per l’economia. Mio padre aveva infatti queste idee innovative (che ormai sono istanza comune) che per fare politica bisognasse avere esperienza in campi più redditizi dell’arte per l’arte. All’età di undici anni, io, un ragazzino magrolino, sempre triste e senza alcuna esperienza del mondo, fui costretto a rinchiudermi in un collegio che distava venti miglia dalla casa natia.

Il collegio era gestito dall’ordine dei gesuiti, ed era uno dei più eminenti dell’intera Francia. Jean Gautier sapeva che per arrivare dove voleva non sarebbe stato possibile risparmiare. Solo il massimo.

Quello che all’inizio mi sembrava un’ennesima prigione si è poi rivelato salvifico per la mia mente tarpata e mutilata: al collegio conobbi altri ragazzi che come me, sognavano i romanzi d’avventura, si immergevano nei versi dei poeti cimiteriali, aspiravano a dedicare la vita all’arte nelle sue forme più pure. Questo ritrovo di animi tormentati ha funto da acqua sorgiva per la mia bocca inaridatesi in anni di noia. La disciplina dei gesuiti era senza dubbio peggiore di quella di mio padre; ma nonostante ciò (forse anche aiutato dalle venti miracolose miglia che ci separavano) non mi ero mai sentito così libero. Mio padre mi veniva a trovare insieme alle mie sorelle, Dauphine e Hélène (mia madre e mia sorella Emélie perirono una dopo l’altra in un’epidemia di colera, al mio terzo anno di ginnasio), solo due volte all’anno, in occasione dell’inizio della quaresima e della Pasqua. Le estati in cui ero costretto a tornare a casa erano per me il periodo più angoscioso dell’anno, anziché essere il più felice. Riuscì per ben due anni a non ritornare nei mesi che vanno da luglio a settembre: una volta rimasi al collegio (a causa dell’epidemia colerica del 1818) e l’altra fui ospitato nella dimora estiva del mio collega Frédéric D’Houville, un aristocratico di campagna bonario e molto affezionato a me per la mia spiccata bizzarria.

Al collegio organizzavamo con i miei compagni scherzi a danni dei docenti, fughe notturne verso il paese, incontri con donne di malaffare. Ma soprattutto leggevamo, scrivevamo, commentavamo. Ho una copia dei I Canti di Ossian**** con le pagine consumate agli angoli a forza di sfogliarle. Non vedevamo l’ora di uscire e essere liberi. Molti di noi furono espulsi, io fui uno dei più furbi e, per quanto gli insegnanti mi considerassero un giovane giacobino ateo che si sarebbe cacciato in grossi guai, non riuscirono mai a cogliermi sul fatto di nessuna delle marachelle da me architettate. Senza considerare la mia splendida media, che mantenevo senza fatica.

Alcuni di questi amici li ritrovai a Parigi, e li portai con me nel Cenacolo.

Quando mi diplomai, a diciotto anni, conoscevo, oltre ovviamente al francese, l’italiano, il latino, il greco antico, l’arabo, lo spagnolo, il tedesco (grazie a Kant) e sapevo decifrare una parte di geroglifici. Avevo le idee chiare su quale strada intraprendere e non un franco in tasca. Fu così che convinsi il mio, ormai vecchio, padre di mandarmi a Parigi e finanziarmi per l’iscrizione all’università. Jean pensava che avessi abbracciato il suo sogno e lo avessi portato ad un gradino addirittura superiore, e che io volessi comandare alla città delle Luci; quanto si era sbagliato! Andai davvero a Parigi, e cominciai veramente l’università, ma non certo la facoltà di legge. Scelsi lettere.

 Le frequentazioni bohémien, che altro non era che passare tutte le notti in bianco per le strade più sporche, più schifose e malfamate di Montmartre, a bere assenzio, fumare oppio, e comportarsi da sudici mentecatti facendo le imprese più oscene, mi avevano fatto entrare in un circolo di giovani rivoluzionari del pensiero, i romantici. Il Cenacolo. Lasciai l’università poco prima di laurearmi e utilizzai tutti i soldi che mi mandava Jean Gautier per mantenere la mia vita mondana.

Agli occhi dei molti questo mi rende una persona spregevole, e non pochi mi hanno chiesto come si può ingannare un anziano credulone, ormai svuotato del suo spirito critico che gli permette di discernere la verità delle cose, nel farmi dare tutti i suoi risparmi piano piano. Intaccare come una locusta il suo tesoretto, il lavoro di una vita di privazioni, astinenze e sudore, tutto il tempo che non avrebbe potuto più essergli restituito. Un essere ormai indifeso, nelle mani e nelle cure dei suoi cari per i quali aveva tanto altruisticamente faticato. Cosa rispondevo io a queste accuse?
Semplice; che di sicuro non potevo definirmi una persona buona, ma con la stessa sicurezza nessuno poteva darmi del malvagio. Ognuno porta con sé le proprie decisioni ambigue e moralmente errate. E non solamente io continuavo a vivere in quelle scelte. In altre parole: nuotiamo tutti ugualmente nel mare del peccato, chi per un motivo chi per un altro.  

C’erano persone migliori di me là fuori? Sicuro.

Me ne importava qualcosa? Non un’oncia del grano più marcio.

*della Sorbona
**romanzo di François-Marie Arouet, soprannominato Voltaire, pubblicato per la prima volta nel 1759
*** datata 18 giugno 1815
**** opera poetica di James Macpherson pubblicata anonimamente per la prima volta nel 1760

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Capitolo 2
*** 1839 (parte due) ***


Scrivevo, più per farmi presentare come scrittore che per altro, trafiletti in molte riviste come critico teatrale e piccoli racconti alla moda genere feuilleton. Essendo sempre invitato ai salotti delle dame più in vista, e anche ad eventi di stampo epicureo decisamente meno formali, tutte le porte delle testate giornalistiche erano aperte per me. Gli editori, operosi di giorno e compari di baldoria la notte, mi salutavano fraternamente, e i lettori borghesi erano assetati, come i terreni secchi del deserto di pioggia, dei pettegolezzi di quei personaggi in vista, spregiudicati ed eretici, che narravo fin nel dettaglio più scabroso, e che erano l’epicentro dei loro sogni di avventure più sfrenati. Difatti io, come oggetto di quelle fantasie anticonformiste, sempre a teatro e fra le ballerine mi sollazzavo.L’attività, per quanto poco redditizia, mi diede di che sostentarmi nel buio periodo che precedette la morte di mio padre, avvenuta nell’anno del signore 1831, alla veneranda età di settantasei.
In questi ultimi tempi mia sorella maggiore Dauphine, una vecchia zitella acida di trentotto anni che non tollerava si pronunziasse il mio nome, aveva portato in risacca i piccoli assegni che mi giungevano mensilmente dalla provincia e che andavo a ritirare alle poste, come un onesto lavoratore con il suo meritato stipendio.

Dauphine aveva preso il controllo delle economie famigliari a seguito di un colpo apoplettico che aveva immobilizzato Jean su una sedia a dondolo, impossibilitandolo a comunicare in alcun modo con i suoi cari (e con chiunque a dirla tutta). Dell’uomo autoritario che fu non era rimasto che lo sguardo. I suoi due piccoli occhi dalla sclera giallognola, seppelliti fra le palpebre cadenti, avevano assunto una perenne espressione incattivita dall’impossibilità di poter impartire ordini, abitudine di tutta una vita.

Neppure Hélène riuscì a sposarsi dopo essersi compromessa con un giovane universitario di una famiglia benestante del nostro villaggio, che a tutto pensava meno che ad accasarsi. Egli dopo l’estate dell’affaire ritornò a Parigi per non farsi più vedere. La sua natura dolce e remissiva ritrovò nel padre paralitico una conca in cui riversare affetto e cure amorevoli, e per la prima e unica volta uno di noi figli lo amò sinceramente, con tutto il cuore.

Potrei affermare con sicurezza che Hélène è l’unica della mia famiglia che avrebbe meritato la felicità, ma è noto che la vita è ancora più ingiusta con chi possiede un animo incorruttibile. D’altronde io l’ho sempre ammirata senza mai amarla veramente, era di una pasta troppo diversa dalla mia, e la sua sorte, per quanto infelice, non mi intenerì mai più di tanto.

Dauphine, che la solitudine e lo stigma sociale avevano reso più furba e navigata, aveva chiaro che tutti i soldi che ricevevo li utilizzavo non per studi e dottorati. Di punto in bianco quindi, senza nessun avvertimento, mi ritrovai povero. Ma considerato la vita sgangherata che conducevo questa povertà non si esauriva in una semplice rinuncia a qualche frivolezza, bensì nell’essere privo delle necessità primarie, come il cibo e un tetto sotto cui ripararsi. Ovviamente tutto questo tragico susseguirsi di eventi non ha certo mutato le mie idee e la mia quotidianità, se così vogliamo chiamarla, e semplicemente vivevo alla giornata, passando da amico in amico.

Potrei dilungarmi lungamente su come ho passato i miei anni parigini, che vanno dal 1823 al 1839 (anno dell’evento che ha stravolto la mia esistenza) ma poi perderei di vista il mio scopo, ossia raccontarvi la seconda parte della mia vita, la più stravagante.

Quindi, dove ero rimasta: era un pomeriggio inoltrato dell’agosto del 1839, e stavo entrando nell’appartamento del mio caro amico Emanuel Karr.

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Capitolo 3
*** Oppio ***


Emanuel Karr era stravaccato sul divano stile Luigi XIII, dai piedi di mogano corti e dal broccato bordeaux intenso con ricami di filigrana d’oro fiorati ormai usurati dall’incuria e dagli anni. Il suo appartamento è quello che all’epoca era considerato la moda per gli artisti: pareti senza carta da parati, ma con appesi disordinatamente da chiodi arrugginiti opere di inestimabile valore, quadri di Rubens, bassorilievi ellenici, opere di vario tipo. I mobili erano stracolmi di oggetti di ogni forma e tipo, vasi cinesi pregiati sbrecciati o addirittura rotti, ceramiche di Palissy, bozzetti di opere di pittori, busti di imperatori e pretori romani e quadrati di stoffe damascate, di velluto, di lino, dai colori sgargianti. Appeso a un trespolo di fianco al divano una ulteriore stravaganza, un pappagallo dal piumaggio esotico era legato da una sottile catenina di argento, quasi invisibile. Emanuel Karr mi aspettava circa verso le tre di quel caldo giorno di agosto.

Parigi si era svuotata, i giovani di Montmartre si erano spostati a gozzovigliare, sempre con le stesse compagnie, sulle rive della senna, alla Grenouillère. Io avevo deciso di rimanere a Parigi per riuscire a scrivere un ultimo pezzo da mandare al giornale, poi in serata avrei raggiunto i miei amici e le loro accompagnatrici sul ristorante galleggiante.

Appena mi vide Emanuel Karr mi fece segno di sedermi accanto a lui: stava aspirando da una sottile pipa scura di foggia orientale, e la luce limpida di Parigi che inondava la camera dalla finestra si rarefaceva nella nuvola bianca di fumo che circondava come bruma immobile il salotto.  I colori blu rosso e verde del pappagallo si distinguevano senza confini troppo definiti. Un odore acre aleggiava nella stanza come la scia di profumo della pelliccia di una nobile signora a cui lasci il passo all’entrata del teatro. Mi sedetti su una poltrona sfondata e ricoperta da panni blu che affiancava il largo divano.
- oh Maurice, sei tu- mi disse il mio amico, prima di aspirare un’altra boccata dall’aggraziato tubicino incandescente.

Il caldo asfissiante della città, unito alla mancanza di ispirazione per il mio articolo mi avevano reso quella giornata particolarmente odiosa, e rimpiangevo di non essere come tutti gli altri alla gara di canoa, con le spalle bianche come il ventre di un pesce esposte alla calura e ai raggi del sole.

-Lo senti anche tu Maurice? Milton sta parlando…- il pappagallo aveva cominciato a gracchiare -dice che le formiche che sono sul tavolo si stanno organizzando-.
Karr mi passò la pipa e trassi anche io una vigorosa boccata. Le volute di fumo uscirono dalle mie labbra come cerchi da cui tigri di sogno saltavano ubbidendo a un ammaestratore fantasma. I cerchi andavano poi ad allargarsi in forme elicoidali disperdendosi verso il soffitto.

- Maurice, le formiche si stanno organizzando, vogliono fare una piscina…-

-Dove la vogliono fare amico mio?- la figura di Karr era quasi onirica nella nebbia acre, e pur cercandolo non riuscivo a fissare il suo sguardo.

-Maurice, le formiche si stanno facendo il bagno nel bicchiere con lo zucchero, e dicono che fa molto caldo…-

In effetti sul tavolino da caffè di fronte al divano una fila compatta di formiche stava marciando intorno a un bicchiere di acqua e zucchero per metà rovesciato.
Cominciai anche io ad avvertire una emozione strana, come se fossi osservato da qualcosa sul soffitto, accompagnata da una sensazione quasi di prurito sulla nuca. Avrei voluto grattarmi, ma le mani giacevano inermi sui braccioli della poltrona. Appoggiai quindi il capo all’indietro. Il soffitto era blu.

 -Karr, quando hai dipinto il tuo soffitto di blu? Non era forse nero?- prima di riuscire a rispondere Karr fu interrotto dall’improvvisa apparizione di un altro mio caro amico, il compositore Franz Brum; si era aperto un varco attraverso la parete, che poi si era subito richiuso.

- Beh cari compagni, adesso vi vedete senza nemmeno invitarmi? Male, anzi malissimo!-

Alchè non potei fare a meno di chiedere -ma Franz, come hai fatto a salire fino al secondo piano visto che sei entrato dalla parete?-

La risata grassa e piena da ungaro di Franz riempì di suono l’aria ferma dell’alcova.

-Maurice! Quanto mi sei mancato vecchio mio! Che il diavolo ti porti!-

Visto che Franz non aveva alcuna intenzione di rispondere alla mia domanda, e nemmeno Karr voleva dirmi quando aveva dipinto il soffitto di blu, anzi i due si erano messi a parlare animatamente di demoni ed esoterismo, decisi di guardare meglio il colore del palco. Era blu, si, ma non era uniforme. Macchie nere in continua espansione si distribuivano su tutta la superficie, e a un certo punto mi accorsi che non si trattava più di una superficie piatta, bensì del cielo notturno. Stelle piccole e bianche punteggiavano questa apertura sul firmamento. Scendevano su una strada di luce una comitiva di fantasmi luminosi di ogni epoca, in tunica o in vesti egizie, damine settecentesche e cavalieri in armatura. In men che non si dica tutta questa parata cominciò ad aggrapparsi alla modanatura delle pareti, che negli angoli era più arzigogolata e quindi di più facile appiglio. Alcuni stavano semplicemente lì seduti, altri volevano buttarsi giù per raggiungerci. Una donna in particolare mi colpì.

Pareva per la sua bellezza una statua greca policroma: i capelli erano biondi come quelli di una nordica valkiria, il naso dritto, la pelle eburnea dalle sfumature dell’aurora boreale, le guance tinte e fresche. Le labbra disegnate da un pittore fiammingo erano strette e inespressive, lo sguardo gelido era posato su di me e le lunghe ciglia chiare creavano una ragnatela di ombre sullo zigomo candido. Il delizioso piede sporgeva dalla modanatura e ricordava il marmo per la sua perfezione di seta.
Questa visione mi spinse per la prima volta in vita mia quasi ad innamorarmi, e non potendo più resistere vinsi quella forza che mi pesava addosso tenendomi fermo per allungare una mano verso la Willa.

Chiusi gli occhi sopraffatto dall’emozione e quando li riaprii non ero più a casa di Emanuel Karr.

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