TerraNova

di Rumenna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 02 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


Jennifer aprì la porta della sua casa silenziosamente, togliendosi la mascherina dal volto. Vi era l'odore del pollo arrosto sulle tende e nell'aria, stuzzicando il suo appetito: erano l'una passate e non aveva avuto modo di mangiare un boccone durante il suo turno di lavoro. Non avrebbe comunque approfittato della sua posizione di fattorina delle pizze per cenare gratis, quasi non sopportava più quell'odore di salsa cotta e wurstel. Corse in bagno a lavarsi le mani con il disinfettante e si annusò le dita: era impossibile pensare di godersi il fuso di pollo con quell'odore stomachevole sulle mani, ma era necessario per cercare di diminuire una possibilità di contaminazione. Aprì il frigorifero e si prese una bibita gassata, poi si diresse alla pentola coperta e senza neanche togliersi la giacca di dosso, si sedette sul divano e si mise a mangiare sprofondandoci la testa dentro.

Mentre si sfilava un osso di bocca, si lasciò sfuggire un grugnito: la sua ultima consegna era nel distretto Z dove stavano dando una festa con gli ex alunni della sua scuola, c'era anche tutta la sua classe e coloro che Jennifer definiva le sue amiche di comitiva, coloro a cui confidava le sue cotte e persino la timida Lily, che non sembrava più così timida come la ricordava nei giorni di scuola. Non era stata invitata. Nessuno che si fosse degnato di avvisarla eppure, pensò, aveva mandato a Lily gli auguri per il suo compleanno proprio tre giorni prima . Pazienza, evidentemente non era stata una delle loro migliori amiche, non come loro lo erano state per lei. Sbuffò, ripensando alla sua sfortuna sociale di tutta la vita. Sbuffò ancora, pensando che per delle nullità simili stava trascurando il suo bel piatto di pollo arrosto, continuando a mangiare come un maiale.

 

All'alba Jennifer era già pronta per uscire: si era messa in testa da una settimana che avrebbe immortalato il sole nel momento in cui si sollevava da terra, ma senza successo dati i suoi orari di lavoro. Il sole non era ancora sorto eppure in cucina c'era già odore di pancake: era ora per suo padre di andare in azienda, dove lavorava come operaio. Lo baciò e lo abbracciò prima di uscire, ricevendo una carezza con quelle mani grandi e callose che lei adorava tanto: pesanti ma piene d'affetto. Mascherina sul viso, pedali sotto ai piedi e sfrecciò con la sua bici diretta al sentiero sterrato sulla collina ai margini della città, nel punto migliore per fotografare l'alba tra i grattacieli. Arrivata in cima posizionò la sottile macchina e catturò i colori tenui ed ispiranti del sole dormiente, continuando a guardarsi intorno. 

Valbari era una grigia città con dei palazzi alti e tristi. La terza guerra mondiale era finita da decenni, eppure quella città cercava ancora disperatamente di risorgere, come se cinquant'anni non fossero stati abbastanza per riuscirci. I palazzi erano di nuova costruzione eppure sembravano logori di secoli: l'aria malsana che aveva invaso il pianeta con tutte quelle armi chimiche avrebbe avuto il suo riscontro malefico ancora per molto tempo, tempo che Jennifer temeva di non riuscire a vivere pienamente prima che la contaminazione la portasse via senza neanche arrivare alla vecchiaia. Controllò lo schermo della macchina digitale soltanto per storcere il naso: le cupole vetrate d'ossigeno che servivano a purificare l'aria nelle aree più trafficate della città avevano riflesso tutta la luce del sole, rendendo la foto troppo abbagliante.

Si voltò verso il boschetto alle spalle della collina: sarebbe stato bello andare in esplorazione per cercare di fotografare dei fiori colorati o degli scoiattolini sui rami degli alberi. Nonostante avesse vent'anni sua madre le proibiva ancora delle cose, tra le quali bere troppi alcolici, drogarsi, fumare, correre col motorino, bruciare la frittata, andare nel bosco. Sapeva bene che lo diceva per il suo bene, che poteva essere pericoloso addentrarsi senza delle armi, ma il cinguettio di quel passerotto continuava a stuzzicarle la fantasia e l'istinto spericolato che l'aveva sempre contraddistinta.

Lasciò la bicicletta sul sentiero principale ed iniziò ad incamminarsi nel bosco, seguendo il dolce cinguettio del passerotto. Scavalcò un tronco marcio infestato dagli insetti e iniziò a fischiettare, cercando di emulare il piccolo uccellino, mentre tra un passo e l'altro ballava sulle note dello slogan pubblicitario del dentifricio per bambini che aveva in testa da giorni. Le persone l'avevano sempre trovata bizzarra per il suo modo di agire fuori dalla norma e, nonostante questo avesse influenzato negativamente le sue amicizie, Jennifer si piaceva proprio per quello:  odiava essere 'noiosa', anche se il suo atteggiamento bizzarro non era frutto di uno sforzo per distinguersi dalla massa.  

Passo dopo passo, Jennifer iniziò a sentire il verso dell'uccellino sempre più vicino e sempre più vivace, come se fosse agitato. 'Forse è caduto da un albero', pensò, mentre tirava su il naso per cercare un nido tra le chiome degli alberi mezzi morti, mentre scattava delle foto ai rami non molto robusti dell'albero alla sua sinistra: il contrasto tra il verde ed il grigio era tanto interessante visivamente quanto triste, pensando che era stato l'uomo e le sue inutili bombe chimiche a ridurlo così. Sentendo il passerotto cinguettare sempre più forte dietro dei folti cespugli, si accovacciò ed iniziò ad avvicinarsi, con la macchina fotografica ben salda davanti al viso. 

Man mano che Jennifer si avvicinava, l'odore nauseante di marcio si faceva sempre più forte. Le si raggelò il sangue nelle vene quando scoprì perché il passerotto si agitava tanto dall'altra parte dei quel fitto fogliame che aveva un odore di bruciato: un animale strano lo stava mangiando vivo. Lo osservò disgustata: era grande quanto un maiale ed era evidentemente contaminato: la pelliccia sembrava essergli stata staccata a morsi lasciando la carne viva allo scoperto e preda degli insetti, dal muso gli spuntavano degli incisivi grandi che lo rendevano riconducibile alla famiglia dei roditori. Mentre sbranava il piccolo uccello emetteva dei versi simili a delle grida strazianti di un neonato, mentre picchiettava con forza gli incisivi nel petto lacerato della bestiola come se fosse posseduto, con gli occhi sanguinolenti.

Jennifer aveva trovato sia il passerotto che lo scoiattolo che desiderava. Non sapendo cosa fare scattò delle foto compulsivamente  che avrebbe potuto inviare al governo, mentre l'aria malsana le saliva in gola, facendola tossire da dietro la mascherina che doveva servire a proteggerla da quell'aria tossica. Udendola, lo scoiattolo contaminato la fissò negli occhi ruggendo impazzita, mentre si preparava alla carica, con la bava sporca di sangue che gli colava dal muso.

«Cazzo.» Jennifer saltò dal posto ed iniziò a correre il più veloce possibile, cercando di non voltarsi: sapeva che se l'avrebbe fatto si sarebbe rallentata e la bestia l'avrebbe catturata. Un solo morso le sarebbe stato fatale: sarebbe stata contaminata e si sarebbe ridotta anche lei in quello stato. O forse no, in alcuni casi era capitato che i contaminati fossero direttamente soppressi. In preda al panico iniziò a frugare nelle tasche con tale foga che le cadde la macchina fotografica di mano, sentendola andare in pezzi sotto i denti della bestia: fin troppo vicina a giudicare dalla rapida successione tra azione e suono. Tirò fuori dalla tasca interna della giacca la bomboletta spray al peperoncino anti maniaci che sua madre le diede quando iniziò a lavorare come fattorina: sperando che stritolasse anche quella tra i denti, la gettò all'indietro, continuando la sua corsa.

 

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Capitolo 2
*** 02 ***


La bestia contaminata aveva stritolato la bomboletta spray al peperoncino sotto i denti? Sì. Era servito a qualcosa? No. Chissà quali dolori pativa il suo corpo per non sentire nulla. Per fortuna Jennifer era magra ed agile e con un grande salto riuscì ad aggrapparsi alla sua bicicletta fuori dal bosco prima di essere colpita dalla bestia che, raggiunto il confine naturale, si ritirò nel suo territorio.

Jennifer era salva dalla contaminazione, anche se si fece un lungo tragitto della collina rotolando insieme alla sua bicicletta, che aveva spinto con sé durante lo slancio, illudendosi di riuscire a salirci in volo come nei film d'azione. 

La caduta le aveva salvato la vita ma non la pelle, rimasta sollevata e graffiata qua e là. Con la schiena dolorante si tolse la bicicletta ammaccata di dosso, con le ferite aperte che le pulsavano sulle articolazioni di ginocchia e gomiti, risistemandosi subito la mascherina sul viso: sentendo troppa brezza arieggiare sul naso, prese lo specchietto che aveva nel marsupio e vide la vistosa ferita circolare e rossa. «Ciao Rudolph.» La pelle le mancava sul dorso e sul setto. Sbuffò, toccandosi una ciocca del caschetto rosso fuoco che le circondava il viso ovale «Adesso c'è troppo rosso.»

Quando rientrò a casa, a sua madre Caroline quasi venne un mancamento: vedendola in quello stato credeva si fosse contaminata. Jennifer le disse che era caduta dalla bici, ma le raccontò una bugia sul perché, dicendole di aver inciampato perché si era appoggiata alla bicicletta mentre cercava smaniosamente di fotografare le nuvole.

«Va bene, ti credo. Sei una brava ragazza... stramba sì, ma sempre stata onesta. Non mi mentiresti mai su una cosa così pericolosa.»

«Ma secondo te ho cinque anni? Ma dico io... che fai?» Jennifer seguiva tesa i movimenti della madre con la cassetta del pronto soccorso tra le mani.

«Cerco di medicarti, no? Avanti, spogliati.» Prese la figlia tra le mani ed iniziò a sfilarle la giacca ormai consunta, poi la maglietta. Sulla schiena vi erano dei lividi, mentre i rigagnoli di sangue provenienti dalle ferite sui gomiti le avevano sporcato tutte le braccia. «Ma che razza di caduta hai fatto, si può sapere?»

«Ero sulla collina e... ahi, piano!»

«Cos'è questo?» Sua madre le picchiettò la parte bassa della schiena, indicando il disegno sbiadito di una donna con il volto a teschio, una rosa tra le labbra ed un cappello da cowgirl. 

«Stavo... è finto, okay? Stavo cercando ispirazione perché volevo farne uno vero...»

«Siamo sicuri che sia finto?» 

«Mamma, non si vede neanche più! E se proprio vuoi saperlo quella è già la quarta prova! Vedi tracce degli altri? No, quindi stai tranquilla se ti dico che è tutto finto!»

«Jennifer. Io lo so che sei creativa e tutto quanto, ma ti rendi conto di cosa ti mettono nella pelle?»

«Inchiostro...» sbuffò seccata, pronta ad una ramanzina, mentre si lamentava della gelida pomata che sua madre le spalmava sui lividi.

«E fosse solo quello il problema... usano gli aghi per farti quella roba, Jennifer! Ti bucherellano la pelle, ti fuoriesce del sangue! Potresti venir contaminata!»

«Mamma, non esageriamo! Allora potrei venire contaminata anche da questi gomiti sbucciati? O dal naso?» Jennifer realizzò in quel momento quanto le dolesse il naso e quanto fosse estesa quella ferita. «Mamma, ho il naso tutto trucidato, che faccio adesso? Devo andare in giro così come se fossi un'appestata? O peggio ancora con una maschera antigas sul viso per nascondere la crosta?» Iniziò a piagnucolare rumorosamente, facendo svegliare il fratellino che dormiva al piano di sopra.

«Andiamo, Jennifer! Non ti succederà niente, basta coprire tutto per bene con della garza ed un cerotto!»

«Sì, così poi mi viene il naso a forma di melanzana! E poi scusa ma anche il tatuaggio viene coperto, vabbè lasciamo stare.»

«Sono finiti i cerotti normali. Va bene questo?» Caroline le sventolò davanti agli occhi un cerotto con il disegno di un supereroe di quelli che amava guardare in TV suo fratellino Miky di un anno.

«Ma... mamma, è rosso!»

«Sarà coordinato con i capelli, no? E poi se si sporca di sangue almeno non si vede l'alone, dai.»

«Devo assolutamente cambiare il colore dei capelli.»

«Fai come ti pare, ho rinunciato a capire il tuo criterio sulla scelta dei colori. Perchè invece non te li fai crescere? Ti stavano così bene finché non hai deciso di tagliarteli corti dopo il diploma.»

«Perchè corti sono comodi.» Jennifer pensò a quello che sarebbe potuto accadere se quello scoiattolo contaminato le avesse afferrato una ciocca di lunghi capelli svolazzanti da dietro la schiena: scosse la testa, fiera della giusta scelta di stile che aveva compiuto un paio d'anni prima.

 

Nel pomeriggio, mentre si preparava per andare al lavoro, ricevette una mail sul cellulare: era Nick, che la invitava ad una festa dove avrebbe suonato con la band di cui faceva parte. Fortunatamente ricadeva nel giorno in cui la pizzeria era chiusa, quindi accese la radio ed iniziò a ballare sul canale dedicato al liscio, dove in quel momento davano una polka, prendendo in braccio il piccolo Miky e facendolo roteare per aria, finché non gli fece sbattere i piedi su una piccola statuina in argilla che aveva sulla mensola, mandandola in frantumi.

«Jennifer, sei impazzita del tutto? Che stai facendo?»

«Mamma! Stavamo ballando, vero Miky?» Miky le rispose ridendo contento e sbattendo le mani mentre si divertiva a ballare la polka da seduto, sul letto.

«Non so se sei più tu a creare problemi o Michael» Disse sua madre ridendo «Aspetta, prendo la scopa. Poi dimmi il perchè di tanta contentezza» le fece un occhiolino e sparì dalla loro vista. 

Jennifer si sedette sul letto e tutta contenta si mise a giocare con il fratellino: «Miky, ti rendi conto? Nick mi ha invitata, Nick, Nick! Capisci?»

Michael non capiva, ma era felice comunque. 

«La cosa più bella è che si esibiranno, capisci? Ed io potrò vederlo dal vivo!»

Michael inclinò la testa, non capendo.

«Ma senti questa! C'è qualcosa di ancora migliore in tutto ciò! Ovvero... che mentre tutti staranno lì a sbavare sul cantante ed il chitarrista, io potrò mandare occhiate languide del tutto indisturbata!»

«Ma che bel piano, mi sembra perfetto.» Entrò Caroline, con scopa e paletta alla mano, sorridendo molto interessata alla faccenda.

«Mamma, Nick mi ha invitata ad una festa venerdì, si esibisce con la band! Secondo te dovrei andarci pesante, tipo una gonna super mini e una scollatura super profonda?»

«Jennifer, se ti presentassi alla mia festa vestita in quel modo e con quei bei cerotti e bendaggi in vista, mi sembreresti di più la zia appena ritornata dalla convalescenza all'ospedale. Sii te stessa e se gli piaci, è meglio che sia per la vera te stessa, no? Non ti ho mai vista indossare una gonna prima d'ora e non sapresti neanche dove andare a comprartelo un vestito del genere.» Caroline le accarezzò il viso dolcemente, mentre le scostava una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Hai ragione. Ma sai... ci saranno un sacco di oche ed io voglio mettermi in competizione.»

«Quale competizione migliore di essere l'unica non oca in un posto affollato di oche? Vedrai, venerdì ti divertirai tantissimo.»

«Lo spero... senti, ma la ferita sarà guarita per venerdì?»

«Jennifer... venerdì è dopodomani.»

 

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