Dirupisti Vincula Mea (In Revisione) di Hoel (/viewuser.php?uid=86957)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Todeschi vol omnino Trevixo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Primo: 26-27 agosto 1511 ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo: 27-31 agosto 1511 ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo: 31 agosto 1511 (18 agosto 1496) ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quarto: 1 -2 settembre 1511 ***
Capitolo 6: *** Capitolo Quinto: 2-3 settembre 1511 ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sesto: 4 – 5 settembre 1511 ***
Capitolo 8: *** Capitolo Settimo: 5-6 settembre 1511 ***
Capitolo 10: *** Capitolo Ottavo: Confiteor ***
Capitolo 11: *** Capitolo Nono: 7 settembre 1511 ***
Capitolo 11: *** Capitolo Decimo: 8 settembre 1511 ***
Capitolo 12: *** Capitolo Undicesimo: 9 settembre 1511 ***
Capitolo 13: *** Capitolo Dodicesimo: 10 settembre 1511 ***
Capitolo 14: *** Capitolo Tredicesimo, parte prima: Confiteor ***
Capitolo 15: *** Capitolo Tredicesimo, parte seconda: Confiteor ***
Capitolo 16: *** Capitolo Quattordicesimo: 11-12 settembre 1511 ***
Capitolo 17: *** Capitolo Quindicesimo: 13-14 settembre 1511 ***
Capitolo 18: *** Capitolo Sedicesimo: 14-15 settembre 1511 ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciassettesimo: Confiteor ***
Capitolo 20: *** Capitolo Diciottesimo: Confiteor ***
Capitolo 21: *** Capitolo Diciannovesimo: Confiteor ***
Capitolo 22: *** Capitolo Ventesimo: Confiteor ***
Capitolo 23: *** Capitolo Ventunesimo: 16-17 settembre 1511 ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiduesimo: 18-19 settembre 1511 ***
Capitolo 25: *** Capitolo Ventitreesimo: 20-21 settembre 1511 ***
Capitolo 26: *** Capitolo Ventiquattresimo: 22-24 settembre 1511 ***
Capitolo 27: *** Capitolo Venticinquesimo: Confiteor ***
Capitolo 28: *** Capitolo Ventiseiesimo, parte prima: Confiteor ***
Capitolo 29: *** Capitolo Ventiseiesimo, parte seconda: Confiteor ***
Capitolo 30: *** Capitolo Ventiseiesimo, parte terza: Confiteor ***
Capitolo 31: *** Capitolo Ventisettesimo: 25 settembre 1511 ***
Capitolo 32: *** Capitolo Ventottesimo: 26 settembre 1511 ***
Capitolo 33: *** Capitolo Ventinovesimo, parte prima: 27-28 settembre 1511 ***
Capitolo 34: *** Capitolo Ventinovesimo, parte seconda: 27-28 settembre 1511 ***
Capitolo 35: *** Capitolo Trentesimo, parte prima: 28 settembre 1511 ***
Capitolo 1 *** Prologo: Todeschi vol omnino Trevixo ***
ANNUNCIO
Questa
storia è stata revisionata nelle seguente parti:
- Dialoghi:
le frasi in dialetto sono rimaste solo tra i popolani. Il resto dei
personaggi userà
esclamazioni in lingua e basta. Per ricreare un veneto più "antico" rispetto a quello parlato oggigiorno, ci siamo basati sulle produzioni letterarie dell'epoca.
- Legami
famigliari, riveduti e corretti laddove necessario.
- Termini
tecnici che hanno sostituito quelli più generici.
-
Piccole precisazioni e/o variazioni degli eventi, tuttavia non
importanti da
sconvolgere l’intera trama.
-
Suddivisione e layout della storia.
Ogni
aggiornamento verrà segnalato con la data di pubblicazione
del capitolo
aggiornato.
Ringrazio
tutti i miei recensori che fino ad oggi mi hanno seguito: Alessandroago_94, Semperinfelix, Sagitta72,
Mrosaria e Vanya Imaryek.
Un
ringraziamento in particolare a Sagitta72
per avermi largamente assistito durante la revisione di
questa storia.
PREMESSA
Metto
già in avanti le mani, dichiarando che quanto mi appresto a
narrare è un misto
tra vicende storiche con personaggi storici e al contempo romanzate con
personaggi all’occasione inventati per motivi di trama.
Per
quanto dettagliati, i “Diarii” di Marin Sanudo il
Giovane non riescono a
ricostruire passo per passo ogni evento, sicché laddove le
fonti svaniscono, la
fantasia (pur con giudizio) supplisce. Soprattutto,
dell’infanzia e della
giovinezza del protagonista non si sa quasi niente e dunque, usando le
biografie dei suoi parenti, le pochissime fonti disponibili
nonché i saggi
sulla vita dell’epoca, ho compiuto un’operazione di
“ricostruzione” della sua
esistenza pre-1511, l’anno in cui è ambientata
questa storia. Non solo. Nessuno
è mai riuscito a capire al 100% cosa sia successo realmente
al protagonista di
questa vicenda, neanche “L’Anonimo” suo
primo biografo e grande amico e
confidente, né il Sanudo tramite i funzionari che lo
interrogarono e che scriveranno
per ben tre volte dell’accaduto e per tre volte invece di
chiarirlo lo
complicheranno ulteriormente, riempiendo il lettore di dubbi.
Né tantomeno ci
sono d’aiuto le narrazioni postume, infarcite di elementi un
po’ troppo
soprannaturali nonché d’incongruenze
spazio-temporali, considerando le più
oggettive cronache del Sanudo. Perfino gli storici moderni si
contraddicono tra
di loro. Quindi, tra verità, agiografia e ricostruzione
romanzata, sperando
senza troppe licenze, proveremo a raccontare il mese
più lungo (dal
27 agosto al 27 settembre 1511) e punto di svolta di questo giovane
patrizio
veneziano che aveva all’epoca appena venticinque anni.
Vorrei
inoltre sottolineare che nelle cronache i personaggi
“bassi” non venivano quasi
mai considerati, sicché s’ignora il nome di quei
contadini, soldati, religiosi,
famigli, etc., che animarono i fatti qui esposti, tranne in caso si
siano
distinti in maniera particolare. Di conseguenza, poiché non
mi piace
presentarli soltanto tramite la loro, per così dire,
professione, ho dato a
quasi tutti un nome e una storia personale.
Mi pare
superfluo – ma non si sa mai nella vita – ricordare
che ci troviamo nel XVI
secolo, ergo che la mentalità dell’epoca
sicuramente non era quella del XXI
secolo, quindi per cortesia usiamo giudizio prima di offenderci
inutilmente.
Infine,
riguardo alla struttura del racconto, si dividerà in tre
parti e sarà un misto
tra riflessioni e narrazione d’eventi, pertanto sia pronto il
lettore a
“tuffarsi” nel passato del protagonista.
Vi lascio
quindi alla lettura del prologo, necessario per capire il contesto
delle
vicende – incontreremo il “nostro” nel
prossimo capitolo.
Vi
auguro una buona lettura,
H.
Aggiornato
02.07.2021
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DIRUPISTI VINCULA MEA
A
che giova a un uomo guadagnare
il mondo intero, se poi perde la propria anima? E che cosa potrebbe mai
dare un
uomo in cambio della propria anima?
(Marco
8, 36-37)
Prologo
Todeschi
vol omnino Trevixo
Sin
dal momento in cui i Collegati avevano firmato quel loro Trattato nel
1508,
sotto la falsa pretesa di combattere il Signor
Turco, l’Imperatore
Maximilian I. aus dem Haus Habsburg non aveva mai fatto mistero su
quanto
scalpitasse d’impadronirsi oltre dei vari territori veneziani
anche della città
di Treviso e della sua Marca [1].
Primo,
perché essa era la chiave per Venezia: caduta Treviso, i
Collegati non
avrebbero avuto più grandi ostacoli alla loro avanzata
almeno fino alla laguna,
costringendo così la Serenissima ad arroccarsi sulle sue
isole melmose e
terminando l’impresa con un bell’assedio marittimo.
Secondo, perché
tra i Domini di Terraferma guarda caso Treviso era la seconda per
prosperità
dopo Brescia e in data 1511 dopo due anni di guerra, incredibilmente,
era
ancora pulzella di conquista e saccheggio, mantenendo intatte le sue
ricchezze
e perciò preda golosa.
Terzo,
per una questione di principio.
Infatti,
se in nome di antiche pretese mai assopite in cui l’Impero si
vedeva in diritto
come detentore dell’eredità carolingia sui
territori veneti e che di
conseguenza portava il Re dei Romani a considerarsi il loro legittimo
signore e
padrone, ebbene la Marca Trevigiana Maximilian la considerava
doppiamente sua
per questioni d’eredità familiare, essendo stato
il suo bisnonno, Leopold
III. von Habsburg ritrovatosi per merto o per caso
Marchese di Treviso nel 1381.
Peccato che l’Imperatore si fosse scordato del piccolo,
insignificante
dettaglio che il suo avo stesso aveva tre anni dopo venduto ai
Carraresi la
Marca, quando s’era reso conto d’aver fatto un
pessimo affare a divenirne suo
proprietario, stritolato infatti dalle ambizioni e dai rancori delle
potenze
confinanti.
Anche
il suo prozio di parte materna di Maximilian, il Duca di Coimbra
Infante Don
Pedro d’Avis, lo era stato in via nominale nel 1418 e forse
per soddisfare una
sua curiosità di conoscere queste terre che nel 1452 la
nipote di Don Pedro,
l’Imperatrice D. Leonor d’Avis, durante il suo
soggiorno a Venezia aveva
chiesto al suo carissimo amico Carlo q. sier Nicolò Morexini
dalla Sbarra di
Santa Ternita, soprannominato “da Lisbona” per i
lunghi anni presso la corte
portoghese, di accompagnarla a Treviso risalendo il Sile. Il Morexini,
della
cui figliola neonata l’Imperatrice era stata madrina [2],
aveva accettato di
buon grado, accompagnandola nella capitale della Marca assieme a cento
cavalieri.
Per
questi motivi dunque Maximilian, di D. Leonor il figlio, considerava
sua e
soltanto sua Treviso e i suoi territori, più ancora del
resto del Veneto e
della Patria del Friuli. E credeva che tal sentimento
d’appartenenza lo
condividessero anche i trevigiani, sicché ci si
può immaginare la sua sorpresa
dinanzi all’inaspettata ostinatezza di Treviso e il suo
categorico rifiuto d’annettersi
all’Impero, checché ne dicesse lui, il Re di
Francia, il Papa e Venezia stessa,
che liberandola dai vincoli di fedeltà non la voleva
distrutta e saccheggiata.
Pertanto,
in quel mese orribile dopo la disfatta di Agnadello avvenuta il 14
maggio 1509,
in cui una stordita Serenissima brancolava nel buio, incapace di
reagire nel
frattempo che uno dopo l’altro dei suoi Domini di Terraferma
o cadeva o si
consegnava ai Collegati, assistendo impotente
e rassegnata al
generale gongolare della Lega che già vedeva conclusa la
partita e si preparava
a spartirsi il ricco bottino; ecco che l’unico caposaldo
rocciosamente
resistente nello sfasciume generale rimaneva Treviso, solitaria nella
sua
ferrea volontà di rimanere fedele fino alla morte a San
Marco, l’unica città
ante-lagunare ad aprire le sue porte agli sbandati soldati veneziani in
fuga
dal nemico.
Come
nel passato, tale decisione venne presa più dal popolo che
da chi la governava.
Nel
giugno del 1509, a Porta Santi Quaranta si presentava infatti
l’ambasciata da
parte di Leonardo Trissino da Dresano, capitano dell’Impero,
domandando la resa
pacifica di Treviso e la sua sottomissione alla potestà
imperiale come avevano
saggiamente scelto di fare le altre città venete.
All’inizio, grazie al
sostegno dei nobili trevigiani, la questione era già risolta
a favore di
Maximilian, poiché la città pareva ben disposta
all’annessione e così il
Trissino, rassicurato, tardò la sua entrata ufficiale in
città anche per
aspettare i rinforzi tedeschi, senza i quali non osava entrare a
Treviso per
timore della vicina guarnigione veneziana a Mestre.
Tuttavia,
malgrado l’arrivo e le garanzie dei cinque oratori trevigiani
inviati a
Vicenza, l’aquila imperiale ancora non veniva issata e anzi,
come notò il nuovo
provveditore sier Piero Duodo, a Treviso si respirava un’aria
pesante, i
cittadini “mal disposti” e pareva che
“tra lhoro mormoraseno” assai complici,
armandosi e studiando sospettosamente le porte della città.
Situazione
esacerbata dal ritorno degli oratori, la popolazione sempre
più convinta della
capitolazione di Treviso. Interessatamente, sier Piero Duodo non si
premurò di
smentire tale notizia, scrivendo solamente che quel che
“sarà se averà.”
All’oratore di Asolo, alla cui signora ex-regina di Cipro
domina Catharina
Corner era stata garantito il mantenimento della castellania e i
territori
intatti se Treviso si fosse sottomessa
all’Imperatore, sier Duodo
rispose seccamente: “Se li vostri
zerchano salvar il suo, che dovremo far nui altri?”
Mandò invece Bernardino
Pola e Zuan Antonio Apornio a Venezia per ricevere istruzioni dal
Collegio.
Dal
canto suo, non ricevendo conferma dell’effettiva resa e
sempre più incalzato
dall’Imperatore che da Marostica si stava spostando in
direzione di Feltre per
poi scendere nella Marca, Leonardo Trissino inviò di nuovo
il suo trombetta
Bastiano a Treviso col vessillo imperiale da issare, e in nome
dell’Imperatore
d’esigerne la sottomissione o affrontare la collera sua e del
suo esercito. Il
Trissino stesso avrebbe raggiunto il suo messaggero a Treviso con
rinforzi.
Ironicamente,
quel suo temporeggiamento gli salvò la vita: il trombetta
non raggiunse mai
Palazzo dei Trecento, appena il tempo d’entrare in
città e un gruppo di
trevigiani armati, circondatolo, senza tanti complimenti
l’uccise,
impadronendosi delle insegne imperiali e sottoponendole ai vituperi
più
fantasiosi quasi a vendicare la sorte dei leoni marciani oltraggiati
nelle
città venete
occupate. Dopodiché, con in testa Marco
Pelizer, di
professione calzolaio, a cavallo e con in mano lo stendardo dorato di
San
Marco, la folla si diresse verso il Palazzo gridando come un sol uomo:
“Marco! Marco!”,
sfidando il podestà ad
uscire da lì imperiale, se ne aveva il coraggio.
S’accarezzò perfino l’idea
d’irrompere e di defenestrare lui e tutti i membri del
Consiglio Cittadino per
aver osato venderli al Re dei Romani. Nel marasma generale, si diceva
come i
trevigiani avessero perfino scannato tre degli oratori scelti per
negoziare col
Trissino, dando la caccia poi ai nobili e supposti filoimperali domini
Zacaria
di Renaldi, Alvixe dal Corno e Rambaldo Avogaro, che non si trovavano
da
nessuna parte. Falsa la prima notizia, vera la seconda sebbene in quel
momento
tutto fosse possibile.
Al
che il provveditore sier Piero Duodo, dinanzi al panico totale dei suoi
colleghi,
prese in mano la situazione e, aperta la finestra, lesse alla bellicosa
folla
la lettera inviatagli da Venezia, in cui a premio della sua
lealtà Treviso
sarebbe stata esente dalle tasse per i prossimi quindici anni e a
ribadire tale
concetto diede ordine di bruciare pubblicamente i libri di conto della
città e
tutti si dimostrarono di ciò molto contenti. Sospirando
sollevati dello
scampato pericolo – imminente – il
podestà sier Hironimo Marin e sier Piero
Duodo, in accordo col Consiglio Cittadino, scrissero subito ai Pregadi
con la
richiesta di uomini e soldi per sostenere la certa rappresaglia
dell’Imperatore, a cui quella notizia non tardò ad
andar di traverso.
Tale
episodio equivalse allo schiaffo di cui Venezia aveva bisogno per
riprendersi
dal suo intontimento post-Agnadello: accolti commossi i nove oratori
trevigiani
e udita la conferma del loro appoggio alla Serenissima, il Consiglio
dei Dieci
inviò poi una lettera al podestà di Treviso,
elogiando il coraggio “del suo
beneamato ochio destro, dilettissima fiola primozenita de la Signoria
Nostra” e
giurando di difenderla con ogni mezzo a loro disposizione, anche con le
loro
vite se necessario.
Non
si trattavano d’iperboli o retoriche di circostanza, essendo
ora Venezia pronta
a dimostrare il perché l’appellavano la Dominante,
come dimostrato dal
carismatico discorso al Senato del doge Lunardo Loredan, passato da
vecchio
tremolante e balbettante a determinato guerriero: sì, la
Serenissima aveva
peccato di superbia e di gola, aveva perso il senso del giudizio e la
sua
potenza era stata tale da toccare il cielo con un dito; vittima
pertanto
dell’invidia altrui, per le sue colpe punita, non per
semplice malasorte. Ma
ora, basta cogli indugi e le ceneri sul capo, che per il bene comune ci
si
armasse degli antichi valori e delle cristiane virtù e
prendendo armi che fosse
la loro santa missione di riprendersi la Terraferma, con qualsiasi
mezzo, senza
cedere.
“Andèmo!
Andèmo!”, gli fu risposto e
così
la Repubblica “ribelle dalla Santa Chiesa, scomunicata,
interdetta e maledetta”
lanciava la sua personale crociata contro la Lega di Cambrai.
Nel
tesissimo mese di luglio che seguì, i Padri Veneti con
ostinatezza rifiutarono
ogni pretesa di cedere Treviso e la Patria del Friuli, sordi
all’insistenze dell’Imperatore
e del Papa Giulio II, il quale tramite il loro oratore sier Hironimo
Donado
“dalle Rose”, li fece ben sapere quanto non avrebbe
levato la scomunica se
Venezia non avesse accontentato le richieste del Re dei Romani, ovvero
che
Treviso e Udine ritornassero feudi imperiali. Per quel che lo
concerneva
personalmente, poi, Venezia doveva rinunciare ad ogni possedimento
sulla
Terraferma; le sue acque dovevano essere navigabili senza dazi; il
clero esente
da tasse e dal braccio secolare; di non nominare i vescovi; di mettere
a
disposizione le sue galee col Papa a loro capitano per la crociata
contro i
turchi, etc. etc, dimostrando quanto Giulio II volesse “la
ruina total nostra
di Veniexia e dil nome venitiano.”
Neanche
il Pontefice aveva però compreso, che se due mesi prima
dinanzi a tal discorso
Venezia si sarebbe ingobbita di paura e magari avrebbe pure
acconsentito, ora
invece, all’arrivo di tal rapporto dall’oratore
sier Hironimo Donado, l’intero
Palazzo Ducale per poco non crollò dalle urla indignatissime
del Doge e dei
Pregadi e il figlio stesso del Loredan, sier
Lorenzo, balzando in
piedi aveva gridato livido in volto: “50
oratori al Signor Turco!”, piuttosto che
acconsentire a quel vile ricatto.
Di tutti i Collegati, l’unico che non intese scherzo dietro
quell’affermazione
fu Fernando II d’Aragón el
Católico, il quale suggerì al Sommo Pontefice
di lasciar perdere Venezia e d’impegnarsi sul serio in una
crociata contro i
turchi, onde evitare che, approfittandone del conflitto, potessero
invadere
ulteriori regni cristiani. Il Papa gli rispose freddamente
ch’era facile per
lui parlare, dopo essersi impadronito di Brindisi, Otranto e degli
altri porti
pugliesi.
Mentre
l’alta politica si arrovellava sulla sua sorte, Treviso,
riassaggiato il sangue
dopo un secolo di letargo, si stava mobilitando per meglio affrontare
lo
scomodo corteggiatore, incominciando da una feroce purga di ogni
elemento
filoimperiale tra le sue mura. Inaugurò dunque la caccia al
“gebelino” e ogni
giorno v’era una processione di prigionieri a Venezia, tra
cui Alvixe dal Corno
e Rambaldo Avogaro, finalmente scovati e catturati; Piero Francesco
Barixam e
figli; Thadio del Mar e Guangelista Caleger, che
furono oratori per
negoziare con Leonardo Trissino; Guielmo e Guido Antonio da Unigo e
altri,
relegati alla Novissima con ordine che “niun li
parlasse”. Di Francesco di
Renaldi non si riuscì ad averne lo scalpo, lo si
cercò perfino nelle sue ville
in campagna per poi digrignare i denti alla notizia di come fosse
riuscito a
riparare sano e salvo a Trento. Pazienza! Ve n’erano altri su
cui rifarsi!
Molti
di questi “gebelini” appartenevano
all’antica nobiltà feudale, speranzosa nel
cambio di governo di acquistare quel potere che gli era stato sottratto
da
Venezia e i suoi burocrati, patrizi anch’essi. Non avevano
tenuto conto loro, i
Collegati e soprattutto l’Imperatore, come il
podestà, i provveditori e i
rettori veneziani, sebbene non dei santi incorruttibili, comunque
rappresentavano un sistema giuridico chiaro, definito e assai
imparziale quando
si trattava della pena capitale, un sistema in cui i cittadini e
soprattutto i
contadini trovavano supporto contro angherie e le interpretazioni del
diritto
da parte dei signori locali. Non ci fu quindi da stupirsi se i nobili
trevigiani vennero traditi e consegnati dai loro stessi servitori,
aprendo le
porte delle loro ville o palazzi o indicando ai provveditori dove
scovarli. I
più scaltri furono i conti da Collalto, i quali subito
misero le loro truppe
personali a disposizione della Serenissima, dichiarandosi
“boni marcheschi.”
Purtroppo,
la paranoica smania di Treviso d’epurarsi di ogni elemento
imperiale
all’interno delle sue mura giunse ad atti poco onorevoli,
come il saccheggio
dei banchi e delle proprietà dei “zudei de
Alemagna”, come i Rapp da Norimberga
e i Mintz. Tra questi, la scampò un ebreo di nome Calman
che, intuendo il
pericolo, aveva dato libero accesso alle sue casse, dichiarandosi
“bon
marchesco, grande amicho di Trevixo”, dimostrando
lungimirante capacità di
calcolo e di previsione, ovvero che ci avrebbe rimesso di
più ad aver devastato
il suo banco e i suoi beni saccheggiati, che a dar via qualche forziere
di
ducati. Alla prima occasione, comunque, fuggì via a Venezia.
Nel
frattempo, Maximilian era scocciato da tanta insolenza e un
po’ imbarazzato per
via della figura barbina di fronte ai suoi alleati, specie a Louis XII
Re di
Francia che aveva conquistato una Milano e lui, l’Imperator
semper Augustus,
inciampava su di una Treviso. Arrivato a Feltre, tra un banchetto e un Te Deum rincarò la dose di
minacce, promettendo
orride vendette se non si fosse piegata. Al Re dei Romani
s’aggiunse il Papa
che sempre lavando la faccia a suon d’urla e sputi al povero
oratore sier
Hironimo Donado, gli ricordava come l’Imperatore avesse
20,000 fanti pronti a
“questa impresa di Treviso”, mentre
quest’ultima poteva contare soltanto sui
7,000 rimasti a Mestre dopo Agnadello e che Venezia accettasse la
realtà,
ovvero cedendo ciò che non poteva difendere.
“E’
certo”, insisteva il Papa ad un sier Hironimo
Donado e a dei cardinali Domenego Grimani e Marco Corner ai limiti
della
pazienza “che oggi o in due giorni
l’Imperatore sarà giunto lì, se non si
trovi già a quest’ora a Treviso!”,
poi aggiunse con una punta d’ansietà che
l’acuto ambasciatore captò, piccola
defaillance nell’atteggiamento duro e intransigente finora
adottato dal
Pontefice e prontamente segnalata al Senato che ben avrebbe saputo
sfruttarla,
conducendo ai grandi mutamenti nel 1511: “Sarebbe
stolto da parte di Venezia d’irritare ulteriormente
l’Imperatore. Cedete
Treviso e Udine, riappacificate i rapporti: in questo modo ci saranno
future
discordie tra i due Re, cioè di Francia e dei
Romani.”
Il
cardinal Domenego Grimani guardò sier Hironimo Donado
lungamente, che replicò
cauto: “Sua Santità,
neppure il Doge in
persona potrebbe imporre la cessione di Treviso e di Udine, non in una
Repubblica retta da un Senato di sì gran varietà
d’opinione.”
Maximilian
non gradendo la risposta decise d’accantonare la diplomazia e
venir ai fatti,
occupando Castelnuovo di Quero; Bassano, Feltre, Cividale di Belluno,
Castelfranco, Cittadella, Sacile e altre città o paesi
limitrofi a Treviso,
così da prenderla per paura. Ma la superba non
batté ciglio, neppure dinanzi ai
racconti degli sfollati che si rifugiavano all’interno delle
sue mura, narrando
come i tedeschi distruggessero ogni cosa sul loro cammino, rubando il
rubabile,
profanando gli altari, facendo a pezzi o bruciando
vivi i contadini
nelle loro case e uccidendo perfino i neonati in culla. In risposta a
ciò,
Treviso avviò i rafforzamenti alle sue mura su progetto
dell’ingegnere Fra’
Jocondo da Verona, rompeva i canali e deviava il corso dei fiumi; si
riforniva
di viveri; mandava i suoi stradioti a compiere incursioni ed evacuava
le sue
donne e i suoi bambini, in un continuo viavai di
barche. I suoi
“villani arrabbiati”, che avrebbero preferito
“morir marcheschi” invece
d’assoggettarsi al dominio imperiale, s’armarono e
organizzarono una
determinata ed efficace guerriglia, rispondendo alle
crudeltà subìte con
altrettante crudeltà, come si riportò un caso di
soldati tedeschi ritrovati
sgozzati e castrati da contadini inferociti.
Eletta
trampolino di lancio e base strategica per la sacra riconquista, a
Treviso
giunsero poi i provveditori generali sier Andrea Griti, sier Christofal
Moro, i
condottieri Fra’ Leonardo da Prato e Alessio Bua con uomini,
cavalli,
artiglieria e denari nonché tre valenti “homeni de
mar”, Antonio Panese,
Philippo Brocheta, Vetor Trum, che assicurarono la difesa delle tre
porte
cittadine e il traffico sui fiumi di soldati, civili, armi e viveri.
Nell’arco
di poche settimane, Maximilian si vide sottratti uno ad uno i territori
conquistati attorno a Treviso, i suoi sostenitori (o traditori a
seconda del
punto di vista) prontamente imprigionati e spediti a Venezia. Sier
Andrea Griti
dovette intervenire più volte a frenare le smanie di
vendetta dei trevigiani,
come il caso di un tal Beraldo fatto prigioniero assieme ad un
borgognone, che
il provveditore sier Christofal Moro voleva assolutamente impiccare,
desiderio
negatogli dal Griti, che giudicò più vantaggioso
condurre il
Beraldo a Venezia per farlo
“examinare”.
E da
Treviso sier Andrea Griti partì a capo di
quell’audace e inaspettata spedizione
che avrebbe sconvolto i piani dei Collegati, rimettendo tutto in
discussione:
il 17 luglio, giorno di Santa Marina, con uno stratagemma degno
dell’omerico
Ulisse e del suo cavallo di Troia, [3] i veneziani entravano a Padova
da ben
quarantadue giorni sotto il dominio imperiale, sopraffacendo la
guarnigione
tedesca e catturando Leonardo Trissino e gli altri condottieri
collegati, il
tutto mentre i padovani ancora dominavano nei loro letti per svegliarsi
con il
vessillo dorato di San Marco e le campane Del Santo che suonavano a
festa.
Purtroppo, in quel frangente il Griti non riuscì a contenere
i suoi uomini e
Padova per punizione della sua resa alla Lega venne saccheggiata
pesantemente,
incominciando dalle case dei filoimperiali. Nondimeno, ci si
rallegrò lo stesso
ché l’asse Treviso-Padova era stata ristabilita,
Venezia ora sul serio
imprendibile.
Alla
notizia della riconquista di Padova, il Papa Giulio II
“fulminava” d’ingiurie
sier Hironimo Donado e i Cardinali Grimani e Corner, i quali sornioni
lo
lasciavano fare, scrollando le spalle e ridacchiando in cuor loro alla
vista
del Pontefice paonazzo in volto, proprio lui che s’era
proposto
“magnanimamente” di funger da intermediario tra
l’Imperatore e Venezia per la
questione di Treviso e Udine, nonché di farsi da garante
acciocché il Re di
Francia non saccheggiasse Venezia. E i due risero ancor più
forte ad agosto,
come tutti i marciani del resto, alla notizia della farsesca cattura da
parte
di quattro “villani in camisa” del Marchese
Francesco II Gonzaga e lo
spettacolo del Papa buttar per terra la berretta e fuori di
sé dall’ira
bestemmiare San Pietro li ripagò di tutte le ingiurie e
umiliazioni sorbite a
causa di quel tremendo pontefice.
Se a
Roma il Papa che aveva scomunicato, maledetto e interdetto
l’eretica Venezia
bestemmiava pesantemente il suo predecessore, i Collegati dal canto
loro non
sapevano più a che santo votarsi, realizzando
nell’arco di settimane quanto
fragili fossero state le loro vittorie.
Il
vaso di Pandora era ormai stato scoperto: Castelfranco cadde e senza il
Griti a
trattenerli, le truppe stradiote-trevigiane tagliarono a pezzi i
centocinquanta
spagnoli lasciati a presidio della città; il tentativo a
settembre del 1509 di
riprendersi Padova fallì miseramente dopo quindici giorni
d’assedio, tanto che
Maximilian, sul campo, dovette riparare in fretta e
furia a Trento
se non voleva essere scannato; come se non gli bastasse, suo
suocero Fernando
el Católico aveva ripreso a tampinarlo per certe questioni
sulla reggenza in
Castiglia; le città sottomesse si ribellarono e
sedare le rivolte costava
ai Collegati più risorse che l’averle conquistate;
gli indomabili contadini
veneti erano più feroci e arrabbiati che mai, tendendo
agguati alle truppe
collegate notte e dì e rubando armi e rifornimenti; Venezia
comprava i
mercenari della Lega offrendoli paghe più alte e grandi
privilegi; la Sublime
Porta si dichiarò amica della Serenissima e anzi, se voleva,
poteva pur
invaderle l’Ungheria fino a Vienna giusto per; il Re
d’Inghilterra Henry VIII
venne corteggiato per allearsi con Venezia, così da darla
sui corni a Louis XII
Re di Francia, già di suo stordito nel sentirsi nominare
“Invasore!” invece di
“Liberatore!” come al contrario durante le altre
guerre in Italia. Neanche le
sue riforme nel bresciano e nel bergamasco per renderle più
francesi riuscirono
a far dimenticare alla popolazione i loro “primi patroni et
lhoro vol solum S.
Marco”. Poemi propagandistici celebravano
sier Andrea Griti come la
reincarnazione di Fabio Massimo contro l’Annibale invasore
altresì noto col
nome d’Imperatore e Re di Francia, infervorando gli animi.
Venezia
aveva dunque contraddetto quanto affermato da Machiavelli, ovvero
dimostrando
che è possibile navigare anche la sfortuna,
basta saper sfruttare
la più piccola scheggia impazzita però favorevole
nel mare di vicissitudini
ostili. E il fiorentino stesso, a Verona, avrebbe commentato
stupefatto
della fedeltà del popolo alla Serenissima, preferendo morir
liberi che schiavi
di Francia o Impero [4].
Intanto,
a Trento, Maximilian si leccava le ferite, meditando vendetta e nello
specifico
contro Treviso, incapace di comprendere come avesse potuto perdere la
faccia
con quella politicamente insignificante città, il cui unico
momento di gloria
nella storia recente era stata la concessione da parte di Papa
Alessandro VI de
Borja di celebrare a Santa Maria Maggiore la Messa di Natale prima
dell’ora
canonica [5] e per aver costretto alla fuga il suo vescovo Bernardo de'
Rossi a
seguito di un fallito tentativo d'assassinarlo. Come aveva potuto
Treviso,
descrittagli da sua madre “non una Firenze, una Milano, una
Napoli, una Ferrara
o una Mantova”, essere stato il granello che aveva fatto
inceppare l’intero meccanismo
della, in apparenza, invincibile Lega? Nel pieno dei
suoi umori
neri, l’Imperatore si sentiva un po’ come Talete di
Mileto, che osservando il
cielo stellato cascò in un pozzo e una serva tracia lo
derise.
L’amore
per quella città si trasformò in odio, come
l’amante respinto.
Negli
anni successivi, più volte il Re dei Romani tentò
di riprendere la “impresa de
Trevixo”, piani saltati in aria sempre all’ultimo
momento, come nell’estate del
1510, quando dopo aver ripreso Feltre era in procinto di avanzare nella
Marca,
sennonché i marciani non solo avevano respinto
l’ennesimo assedio a Padova, ma
rincorrevano le truppe franco-imperiali fino al vicentino e oltre,
puntando poi
a Verona, al che il suo fidato braccio destro, il Principe
Rudolf von
Anhalt-Dessau der Tapfere si era
dovuto recare lì in fretta e
furia, abbandonando momentaneamente il progetto d’invasione
della Marca
Trevigiana. Il Duca di Ferrara, dal canto suo, s’era visto
scorrazzare la
peggior truppa veneziana nel Polesine e oltre il Po, seminando terrore
peggio
dei turchi e rubandogli a spregio la sua adorata artiglieria a
Polesella, la
medesima che aveva usato per affondare la flotta veneziana e, pertanto,
non
poteva momentaneamente soccorre gli alleati in nessun modo.
A
peggiorare la situazione, agli inizi di settembre del 1510 giunse a
Maximilian
la notizia che l’Anhalt, nel giro di neanche una settimana,
s’era ammalato ed
era morto in seguito a spasimi atroci da Golgota crocefisso. Il decesso
del
Principe venne reso pubblico più tardi, eppure tale nuova
non impressionò
Venezia che già lo sapeva e in maniera sospettosamente
troppo dettagliata, da
non lasciar spazio a sinistri dubbi, ovvero se il Missier Grande non
avesse
inviato qualche istruzione ai suoi abilissimi sicari in incognito e
magari fu
questo il suo personale epitaffio:
Sinque
zorni xé vissuo,
d’Aynalt
el gran cornuo;
trionfo
a Verona xéo arrivà,
morto
a Yspruch pur tornà. [6]
Verità
o illazioni, Rudolf von Anhalt-Dessau aus dem Haus der Askanier
rimaneva
comunque morto orizzontale e Maximilian si ritrovò senza il
suo carismatico
capitano, un colpo durissimo per lui. Sforzandosi di far buon viso a
cattivo
gioco, l’Imperatore si fece animo e provò a
nascondere il suo nervosismo, anche
perché sul cadavere ancora caldo del Principe
d’Anhalt, i condottieri della
Lega avevano preso a beccarsi sulla successione a capo delle armate
imperiali.
Contemporaneamente, i capitani di ventura esigevano a gran voce le loro
paghe
arretrate, giungendo alle minacce o scene madri come quelle del
condottiero
albanese Mercurio Bua Spata che galoppò fino a Trento al
cospetto
dell’Imperatore, intimandogli il giusto pagamento o lui
sarebbe andato a
servizio dal più generoso Re di Francia e coi veneziani se
la vedesse da solo.
Altro boccone amaro – lo dovette pagare e anche
profumatamente, nominandolo
pure conte di Soave e Illasi- ma necessario da
digerire se quel
satanasso del Bua gli spazzava via ogni resistenza sulla strada per
Treviso.
Siccome
però in qualche modo l’Imperatore doveva aver
adirato particolarmente Dio,
anche l’avanzata della primavera del 1511 finì
prima ancora di incominciare,
scongiurata da un tremendo terremoto che scosse l’intera
Terraferma fino a
Venezia, seminando indiscriminatamente il panico tra invasori e invasi,
entrambi troppo preoccupati ad evitare tegole, pietre e alberi in testa
per
perdere tempo dietro a facezie quali combattere. Poi, neanche a farlo
apposta, il
giovane provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini sbucando
fuori dal
nulla gli catturava Andreas von Liechtenstein, altro suo capitano,
spedendole
alle Toreselle e per colpa degli insistenti appelli del cugino Paul von
Liechtenstein, che a tutti i costi rivoleva indietro il parente e
dunque che si
pagasse quel furto di riscatto – ben 5,000 ducati
d’oro! – il Re dei Romani si
era trovato a ritardare l’impresa per l’ennesima
volta.
Infine,
si arrivò alla piovosissima estate del 1511 e un
irremovibile Maximilian
ritornò alla carica: aveva infatti
giurato a se stesso che avrebbe
conquistato Treviso, la ribelle superba e fonte di tutte le sue
disgrazie,
fosse dovuto recarvisi di persona e smantellare le sue mura pietra dopo
pietra
e stavolta non l’avrebbero fermato di certo quisquiglie quali
i terremoti, la
malaria, le piogge, le esondazioni e le apparizioni della Vergine Maria.
E
così, il sostituto di Rudolf von
Anhalt, Jacques II de Chabannes de
la Palice assieme a Mercurio Bua si trovarono all'ora del tramonto del 25 agosto
1511
davanti alla fortezza di Castelnuovo di Quero, importante collegamento
tra
Feltre e Treviso, presidiata da sier Hironimo q. sier Anzolo Miani di
San Vidal
alla Carità e di madona Leonora q. sier Carlo Morexini dalla
Sbarra di Santa
Ternita detto “da Lisbona”.
Continua
…
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Lo
scopo di questo prologo è appunto di dare un contesto alle
vicende narrate,
sulla Guerra della Lega di Cambrai e in particolare
sull’ostinatezza di Massimiliano
d’Asburgo nel conquistare Treviso, ripagata con altrettanta
testarda
resistenza. Spero non vi abbia annoiato, però mi ricordo che
nei libri di
storia nazionale la Lega di Cambrai veniva sempre riassunta in poche
pagine,
quindi molti dei come, dove, quando e perché non sempre
spiegati nel dettaglio.
Mi
auguro che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima!
Un po’ di noticine:
[1] Benché
la Lega avesse giustificato la sua fondazione per combattere
l’Impero Ottomano,
in realtà era più che palese che lo scopo finale
era la conquista della
Serenissima.
Prima
ancora di dichiararle guerra, i Collegati già si erano
spartiti i territori
veneziani:
All’Imperatore
Massimiliano: tutto il Veneto, il Friuli, l’Istria, Gorizia,
Trieste e
Rovereto;
Al Re
di Francia Luigi XII: Cremona, Crema, Brescia, Bergamo e la Gera
d’Adda;
Al Re
Ferdinando II d’Aragona: Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli
e altri porti
pugliesi.
A
Ladislao II d’Ungheria: la Dalmazia
Al
Papa Giulio II: Ravenna, Cervia, Rimini, Faenza e Forlì.
Al
Duca di Ferrara Alfonso I d’Este: il Polesine
Al
Marchese di Mantova Francesco II Gonzaga: Peschiera, Asola e Lonato
Al
Duca di Savoia Carlo II: l’isola di Cipro.
[2] Pur non
nominandola direttamente, così la madre del Nostro venne
menzionata dallo storico
e cronista Marin Sanudo il Giovane: “[…]
E poi partì in ditto zorno la serenissima Inperatrie per Sil
volse andar con
barcha fino a Treviso. Fo acompagnata da alchu zentilomeni deputatti et
da sier
Carllo Moresini “da
Lisbona»” al qual
lei li batixoe una fiola, et così ben sodisfa inseme con lo
Imperador andò in
Alemagna.”
[3] Brevemente, la stratagemma
funzionò così: un commerciante di frumento aveva
un parente nella Padova
occupata dagli Imperiali e sapendo come la città fosse a
corto di approvvigionamenti,
questo suo parente garantì per lui così da far
entrare i carri col frumento. I
veneziani si presentarono dunque con tre carri; il ponte levatoio venne
abbassato ma quando venne il turno del terzo carro di passare, questo
si bloccò
in mezzo cosicché la porta di Padova rimase aperta alla
cavalleria veneziana
che irruppe in città. Le campane Del Santo,
si riferisce qui alla
Basilica di Sant’Antonio da Padova.
[4] “Negli
animi di questi contadini è entrato un
desiderio di morire, e vendicarsi, che sono diventati più
ostinati e arrabbiati
contro a' nemici de' viniziani, che non erano i giudei contro a'
romani; e
tutto di occorre che uno di loro preso si lascia ammazzare per non
negare il
nome viniziano". E
ancora, il
26 novembre 1509, Niccolò
Machiavelli a
Verona annota come uno di quei contadini
“marcheschi” , catturato, “disse
che era marchesco, e marchesco voleva
morire, e non voleva vivere altrimenti; in modo che il vescovo lo fece
appiccare...”
[5] concessione di Papa Alessandro VI
de Borja =
a Santa Maria Maggiore a
Treviso la Messa natalizia è possibile celebrarla in
anticipo, cioè alle
diciotto, per una speciale concessione di Papa Alessandro VI che risale
al 13
dicembre 1498 e che è tuttora in vigore.
[6] Questa
canzoncina non esiste, è una mia composizione. Tuttavia,
simili canzoncine
sfottitrici erano assai frequenti all’epoca e talvolta
così insolenti che
Venezia stessa arrivava a proibirle, non sempre con successo.
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Capitolo 2 *** Capitolo Primo: 26-27 agosto 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
18.07.2021
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PARTE PRIMA:
Castelnuovo
di Quero e Montebelluna
(26 agosto
-12 settembre 1511)
Capitolo Primo
26-27
agosto 1511
L’ennesima
cannonata colpì a vuoto, il tiro ancora insufficiente
per far danni; ciononostante il viso gli si bagnò di acqua,
confermando i suoi
sospetti: si stavano avvicinando, era solo questione di tempo prima che
colpissero la fortezza. Potevano soltanto sperare che finissero prima
la
polvere da sparo.
Osservando
le file nemiche dinanzi a sé, Hironimo avvertì
uno
spaventevole gelo nelle viscere, l’armatura divenutagli
d’un tratto pesante
quanto un sudario.
Neppure
ad Agnadello aveva avuto tanta paura, quando
nell’infernale bailamme della rotta si era fatto strada verso
la fuga mulinando
alla cieca fendenti a destra e a manca e pure pugni e gomitate, mentre
scavalcava i cadaveri dei soldati di ambedue gli schieramenti e sempre
col
cuore in gola per il timore che qualche archibugiere o balestriere lo
puntasse.
Non gli fosse apparso all’improvviso il suo amato
Eòo, bestia nobilissima, che
gli aveva permesso di montargli in groppa e mettersi in salvo, a
quell’ora sarebbe
stato a far compagnia in Francia al Bortolo D’Alviano e tanti
altri prigionieri
– se gli fosse andata bene. In caso contrario, a mangiare
terra.
Non ebbe
così paura neppure durante la folle galoppata in fuga
fino a Treviso dopo essersi visto chiuso le porte di ogni
città, i vessilli
imperiali o francesi già svettanti sulle torri e sulle mura,
rinnegato dai suoi
compatrioti e braccato alla stregua di un criminale a casa sua, nella
sua
terra, il pensiero rivolto alla famiglia della cui sorte temeva.
Neanche in
quel frangente aveva osato sperare d’uscirne vivo, percependo
sul collo il
fiato dei nemici e distrutto dalla fatica. Sicché, ingoiato
l’orgoglio, come
tutti i pochi compagni rimastigli
anch’egli s’era messo ad implorare
davanti a Porta Santi Quaranta affinché la città
li offrisse la sua protezione.
“Verzé!
Verzé! Sun trevixan fio vostro!”, aveva
ruggito
disperato dietro di lui Donado Cimavin e la fortuna volle che a far da
sentinella in quel momento ci fossero stati proprio i suoi amici,
ché, ignorando
gli ordini, aprirono la porta cittadina e mai Hironimo poté
benedire a
sufficienza quel suo “colpo di matto”, come
l’avevano definito i suoi compagni,
quando a scapito della propria pelle era tornato indietro e caricando
aveva
impirato il lanzichenecco che si accingeva a finire il giovane
trevigiano, già
caduto per terra da una schioppettata fortunatamente di striscio.
Issatolo su
Eòo, i due erano poi ripartiti, forgiando
l’amicizia dei fuggitivi, anche
perché dovevano tenersi ambedue svegli in qualsiasi modo,
onde evitare la
cattura nel sonno. Il digiuno forzato non li aveva giovati, similmente
alle
ferite, non gravi ma lo stesso debilitanti.
Eppure,
neanche in quelle occasioni aveva mai provato una paura
così lacerante come ora sulla caminada di Castelnuovo di
Quero, quella paura
che non riusciva a dimenticare tramite l’ira,
l’ambizione e la smania di
combattimento come s’era imposto di domarla in quei due anni
di guerra; eccola
dunque, sottile e indescrivibile, quella di chi era braccato ma
soprattutto di
chi aveva un debito impossibile da sanare, un abisso dinanzi a
sé e con la sola
domanda: che faccio? per compagnia.
Hironimo
si girò, studiando i volti altrettanto tesi dei pochi
coraggiosi rimastigli, quei cinquanta civili bellunesi e feltrini che,
invece
d’imitare la vigliaccheria dei soldati e dei loro capitani
Andrea Arimondi e
Ludovico “Batagin” Bataja – serpi
malefiche, meriterebbero mille forche
e una tenaglia da ogni traghetto! – a loro
periglio avevano preferito
rimanere a difendere Castelnuovo pur consci di dar battaglia a 3000
fanti con
artigliere e 200 cavalli agli ordini del capitano Mercurio Bua, inviati
da La
Palice così da liberare al Re dei Romani la strada per
Treviso, l’antemurale
alla laguna di Venezia.
Ma per
raggiungere tale preda da Maximilian I. aus dem Haus
Habsburg a lungo ambita, i franco-imperiali dovevano passare
forzatamente per
Castelnuovo, da una parte serrato dallo strapiombo del massiccio del
Grappa,
dall’altra bagnato dall’irrequieta e vorticosa
Piave, cioè non permetteva ad
alcuno il passo se non tramite l’angusta porta. Un torrione
dall’altra parte
del fiume complimentava il Castello, poiché ad esso metteva
capo la lunga
catena di ferro destinata ad impedire il passaggio fluviale.
Due anni
addietro, il previo castellano di Castelnuovo, sier Moro
Donado, s’era arreso prima ancora d’ingaggiare
battaglia; per quel che lo
concerneva, il giovane Miani non avrebbe concesso tale favore agli
avversari.
Già
prima ancora del loro arrivo, colto da brutti presentimenti,
Hironimo aveva infatti dato l’ordine di alzare il ponte
levatoio e la catena,
specie dopo l’ignominiosa fuga dei suoi capitani e dei
soldati (tre volte
stramaledetti, se la scampo li apicho co le mie mani!) e
questo
li aveva immensamente aiutati, smorzando l’attacco e anche un
po’ l’iniziale
tracotanza dei nemici i quali si ritrovarono dinanzi ad una Piave
ingrossata e
cattiva, avendo avuto un’estate assai piovosa, e
perciò impossibilitati di
guadare il fiume senza correr il rischio d’annegare. I
franco-imperiali avevano
sudato freddo quando si resero conto d’essere finiti in una
gola, senza via
d’uscita se non quella d’arretrare e ritornare sui
loro passi. Pieni di
sconcerto avevano forzatamente appurato quanto gli assediati, nella
loro
disperazione, non avrebbero esitato a tirargli giù il
massiccio del Grappa con
tutte le sue cime, se ciò li avesse salvato la vita. Il
fatto, poi, che
piovesse a dirotto li aveva impantanati, rendendoli facile bersaglio
delle
bocche di fuoco marciane, impedendo lo strapiombo della montagna facile
riparo
nel bosco.
Contro
ogni prognostico, per quasi un giorno Castelnuovo aveva
resistito, i suoi difensori malgrado i piccoli successi col cuore
pesante: ogni
comunicazione con Feltre e Cividal di Belluno era stata interrotta; i
rinforzi
non sarebbero dunque arrivati e dal Castello ci sarebbero usciti
cadaveri.
Chissà, pensava Hironimo, se anche sier Zacharia Contarini
"dai
Scrigni" e suo figlio Piero s’erano sentiti così
impotenti e sdegnati,
quando a Cremona si videro disertati dai propri soldati?
L’unica
certezza rimaneva che il sole incominciava a calare anche
su quella giornata del 26 agosto e udendo dell’umiliante
situazione di stallo e
di come Mercurio Bua non si stesse neanche impegnando
nell’assedio (perché
poi?), il maresciallo La Palice decise inaspettatamente di presentarsi
per
intavolare le trattative, pur stando a debita distanza dal tiro dei
balestrieri
di Castelnuovo: ormai, quella guerra maledetta aveva assunto pieghe
troppo poco
cavalleresche per fidarsi della buona parola di chicchessia.
“Al
castellano di Castelnuovo di Quero - saluti. Riconosciamo il
vostro valore ed è per il rispetto guadagnatovi, che
l’Imperatore è disposto
alla clemenza: arrendetevi, consegnate la spada e il castello,
sottomettendovi
alla cesarea potestà e avrete salva la vita. Seguitate, e
continueremo finché
di questa fortezza non ne rimarrà che il ricordo e voi tutti
sarete preda del
nostro esercito. Sappiamo della vostra massiccia
inferiorità
numerica e non c’è bisogno che finisca per forza
in un inutile bagno di
sangue!”
Hironimo
rimase in silenzio, voltandosi di nuovo verso i suoi
compagni: i capitani bellunesi Paulo Doglioni, Christofal Colle e Vetor
dil Pozzo;
i due nobiluomini sier Michiel “Chiella” e sier
Benedeto Pagani; sier Vetor di
sier Francesco “Finotti” di Croxecalle; Zuane
Maresio; Hironimo di Batista Vezzan;
Vetor “Bragaza” Capitanei; Gotardo
dell’Agnella, Thomà nipote del Pigotin;
Bortolo Sassaio; Alexio detto “el Gobo da Salce”;
Andrea di Vitor Trepin; Zuam
Piero Vedestoni; Agustin di Antonio Becaria; Catarin di Longo Boato;
Francesco
“Pliz” di Batista; Christofal q. Cesare Tofol detto
“Mazaruol”; Piero e suo
figlio Sebastian Germini; Vetor Sofforzi; Simon Nogaredo; Gasparo
Vedestoni e
tutti gli altri soldati volontari bellunesi che lo fissavano a loro
volta
attenti e silenziosi, il volto sporco di polvere e di sudore. Accanto a
lui, i
suoi servitori Menego coi figli Trovaso e Vico e il nipote Nadalin, che
fedelissimi lo avevano seguito da Venezia. [1]
Pochi
giri di parole: avevano tutti una paura fottuta di morire
così, per niente, e per un momento Hironimo vi lesse nei
loro occhi la
tentazione d’accettare la proposta del francese. Poteva
biasimarli? Anche le
sue mani tremavano! Quale sventato si getta volontariamente nel grande
abisso?
Il
giovane castellano socchiuse allora le palpebre, respirando a
fondo, richiamando alla mente ogni ricordo, ogni sensazione che
cacciasse via
quella paura insidiosa per sostituirla con la più famigliare
ira e così
fortificarsi d’odio e determinazione.
Si
sforzò di ricordare lo stato pietoso in cui aveva trovato
Feltre dopo la riconquista, la città natale della sua
primissima infanzia [2]
quando suo padre ne era stato amatissimo podestà e capitano,
il cui nome era
ancora scritto su di una tabella commemorativa a Piazza Maggiore con lo
stemma
dei Miani, che i cittadini avevano voluto donargli per riconoscenza in
seguito
alla sua vittoriosa difesa contro il Duca d’Austria
nell’inverno del 1487,
nonché alla costruzione di nuove cinta
murarie e delle fontane
lombardesche rifornite da condutture di “cannoni”
di abete, l’acqua captata
sopra Pedavena.
Rivide
Hironimo la fuliggine dell’orribile incendio sugli edifici
un tempo riflettenti la brillante luce montana da sembrar diamanti; i
cumuli di
macerie alte fino alle finestre; i monasteri e le chiese profanate, gli
affreschi deturpati; il territorio guastato; le case gusci vuoti
similmente ai
sopravvissuti all’orribile saccheggio sia del 1509 e del
1510, facce di
cera, corpi da crudeli percosse ancor
tumefatti e donne pregne
di figli non voluti.
Ripensò
agli occhi arrossati e al volto cinereo di sua
madre Leonora Morexini Miani, alle lunghe notti insonni in preghiera a
piangere
in silenzio per non opprimere gli altri figli col suo dolore, il cuore
gonfio
di pena e angoscia al pensiero di Lucha in Alemagna, ferito e
prigioniero. Suo
fratello, il figlio primogenito ben più nobile e ben
più degno di lui, che le
era stato ritornato solo il novembre scorso, vivo sì ma
invalido col braccio
destro penzolante e inerte, avendogli i proiettili maciullato i nervi e
le ossa
del gomito durante la strenua difesa del Castello Della Scala. E
malgrado la
sua dedizione alla santa causa, comunque Lucha si era dovuto umiliare
dinanzi
al Maggior Consiglio, costretto per necessità a supplicarlo
per un mese
d’accordargli il permesso d’ottenere a
mo’ d’indennizzo la castellania di
Quero, anche se governata in sua vece da uno dei suoi fratelli,
incominciando
infatti a risentire le loro risorse economiche a causa della guerra.
E che
dire dell’enorme dispendio di energie e denari per
rinforzare Castelnuovo con una terza torre? Nonché degli
insulti iniziali dei
soldati e degli operai, non gradendo d’esser capitanati da un
“putachio
imberbe, polorbo” e divertendosi a
sottolineare con crudele gusto
ogni suo errore, finché, stufo marcio, Hironimo non aveva
preso di persona a
scudisciate i più insolenti a monito per gli altri?
S’era scordato delle
ingiurie al limite dell’assalto fisico della popolazione di
Quero, Alano e Vas,
che invece di comprendere la gravità della situazione,
preferivano poltrire,
neanche il Castello si potesse ricostruire da sé?
Si
sovvenne poi delle lunghe trattative coi podestà di Feltre e
di
Cividale di Belluno sulla necessità di stringere un patto di
reciproco sostegno
in caso d’attacco nemico. Hironimo si ricordò
delle sue insistenze sia col
Consiglio dei Dieci che col podestà di Treviso di
distruggere Scalon, situato
sulla forcella sopra Segusino e soprannominato “la mulattiera
dei
contrabbandieri”: oltre che a danneggiare l’erario,
esso corrispondeva ad un
passaggio ideale per le truppe avversarie. Nell’ansia aveva
venduto
l’argenteria, i tappeti e ogni suppellettile prezioso trovato
al Castello pur
d’assicurarsi fondi sufficienti: ora gli interni di
Castelnuovo parevano più
austeri della cella di un eremita.
Tanto
orrore, tanti sforzi, tante umiliazioni annullate da
un sì vigliacco?
Il
giovane Miani aprì gli occhi; per la terza volta si
girò verso
i compagni e molto probabilmente anch’essi dovettero aver
condiviso le medesime
riflessioni raffrontandole alle loro esperienze passate, sparita
infatti
l’ombra del dubbio dalla loro fronte. I franco-imperiali li
avrebbero ammazzati
comunque, che almeno chiudessero degnamente la partita come Sansone coi
Filistei.
Modulando
la voce in un tono fermo e deciso, egli rispose
pertanto: “Monsignor Gran Maestro di Francia
- saluti. Come mai
codesto bel discorso non viene il Re dei Romani a farcelo di persona? O
forse
gli brucia ancor la faccia, dopo lo schiaffo di Padova?”
Un rictus
nervoso piegò l’angolo della bocca del maresciallo
francese e suo malgrado, Mercurio Bua si lasciò sfuggire un
sogghigno
confermando quel nervo scoperto che tanto affliggeva il suo superiore:
effettivamente, da mesi l’Imperatore prometteva di scendere
per la Valsugana fino
a Treviso, rimpinguando le truppe di La Palice con uomini, armi,
cavalli,
rifornimenti e danari. Peccato che Maximilian parlasse e parlasse, ma
di fatti
concreti ben pochi. Lo confermava perfino l’irritato
Re di Francia, il
vero finanziatore di quell’impresa che gli stava costando
almeno più di 20,000
ducati aggiungendosi ai 50,000 d’arretrati già
dovutigli dal Re dei Romani, dei
quali da troppo tempo si prometteva il risarcimento. Voci indiscrete
sostenevano come Maximilian avesse chiesto in prestito soldi al suocero
Fernando el Católico. Cosa quella vecchia volpe gli avesse
risposto, non fu
dato conoscerlo.
“La
Cesarea Maestà non può venire di persona
giacché voi,
ostinandovi a non cedere il vostro Castello, glielo impedite.”
“Ah,
così la colpa è di noialtri? Meno male, qui
s’incominciava a
pensare che l’eccellente esercito dell’Imperatore
fosse bravo solo a
prendersela con le donne e i bambini, quando non troppo impegnato a
rubare, ben
inteso.”
“Ci
accusate di vigliaccheria? Suona grassa detta proprio da voi,
disertato dai vostri medesimi soldati!”
“D’inutili
palle al piede non so che farmene!”
“Tanta
cocciuta insolenza non difenderà queste mura! Arrendetevi e
cedete con onore, ciò che non poteste difendere con la
spada! Pensate alla
vostra gente e rimettevi alla clemenza
dell’Imperatore!”
Al che
Hironimo vide letteralmente rosso. “Oh, ma io ci penso alla
mia gente così come conosco la clemenza del Re dei Romani:
più volte ce l’ha
dimostrata al punto che mi par più misericordioso il Signor
Turco di lui!” E
levata ancor più in alto la voce: “Per quel che ci
riguarda, dai tempi di Santa
Giustina abbiamo consacrato la vita alla Signoria Nostra e fino
all’ultimo
respiro non cederemo il Castello e se persisterete a molestarci, vi
spediremo
tutti all’inferno da dove venite!”
La Palice
scosse il capo, indeciso se dispiacersi o meno per la
sorte che attendeva quei disgraziati. In ogni modo li aveva avvertiti,
la sua
coscienza era quindi a posto. “A piacer vostro”,
replicò incolore e assieme a
Mercurio Bua galopparono indietro verso il loro
campo. “Per oggi abbiamo
finito: lasciamoli un’ultima notte per confessare i loro
peccati.”
“E
dunque?”, chiese il capitano Paulo Doglioni ad Hironimo,
scrutandolo attendo.
Staccandosi
dal parapetto, il giovane patrizio gli rispose
seccamente: “Che andiamo a Patrasso [3] e facciamo la fine di
Leonida”, e scese
rapido la scalone di legno interno per imboccare il corridoio di pietra
in
direzione dei suoi appartamenti. Il tempo era poco, doveva sbrigarsi
prima che
riprendessero a bombardarli.
Spiando
di sottecchi la figura del castellano scomparire dalla
caminada, Thomà, un putto di sì e no dieci anni,
domandò sottovoce a Andrea
Trepin il bombardiere. “Ma chi xélo sto Liom Hida?
Lo cognosselo?”
L’uomo
fece spallucce. “Mah, sarà un che vien da Porto
Gruero.
Continua a smissiare ti!”, gli intimò, riferendosi
alla miscela di polvere da
sparo su cui stava lavorando per il cannone da caricare. Sei parti di
salnitro,
una di carbon dolce, uno di zolfo. “Fra puoco li avrem in
bocha, quei cancari
maladeti.”
“Andrea,
dime: sul serio andemo a morir tuti?”
L’espressione
del bombardiere si raddolcì, pur restando il suo
sorriso amaro. “Ne toleremo assa’ co nu”,
fu l’unica promessa che poté
garantire al suo giovanissimo assistente. “E
ch’ee zime dil Grappa et la
Piave fassano el resto!”
Apparentemente,
Castelnuovo di Quero si presentava una chiusa
insormontabile: la torre maggiore, inserita nella montagna, era coperta
da
terrazza, con perimetro esterno munito di piombatoie su cui
già i fanti s’erano
predisposti per versare al momento giusto del piombo fuso e altro
materiale
agli assalitori. Dalle strettissime feritoie, disposte a vari piani, i
soldati
avevano piazzato invece i loro archibugi. Dal lato opposto, la torre
minore
affondava nel greto della Piave, con fondamenta decisamente profonde.
Essa
serviva da abitazione al castellano, al capitano militare e ai loro
famigli;
anche questa torre era coperta da una massiccia terrazza, coperta da
grossi
merli di roccia viva, ideale per le bocche di fuoco. Un corridoio di
pietra
collegava le due torri nella parte alta del corpo centrale
più basso, dove i
soldati s’erano appostati dietro al muretto protettivo,
pronti a seconda della
necessità di respingere le scale appoggiate alle mura e di
tagliare le funi lasciate
cogli arpioni.
Allo
sbarramento della montagna si aggiungeva quello fluviale: la
Piave, a causa dei molti e ricchi affluenti, aveva un livello
d’acqua
costantemente alto e il suo impetuoso frastuono riecheggiava nella gola
di
Quero, il suo greto caratterizzato da rientranze, insenature, curve e
controcurve. Due soltanto erano i ponti che permettevano il suo
attraversamento: uno a Cividal di Belluno ed uno a Cesana.
Quest’unione
dunque – del massiccio del Grappa e della Piave –
rimaneva l’ultima speranza dei marciani, pregando Iddio di
contemplare un’altra
aurora.
Nel suo
appartamento spoglio, intanto, Hironimo fissava a lungo la
carta bianca su cui indugiava, due dita sotto il mento: cosa scrivere
alla sua
famiglia? Come accomiatarsi dai suoi cari? Con quali ultime parole lui,
castellano di Quero, sarebbe stato ricordato? Con che frasi avrebbe
potuto
consolare la madre, per rassicurarla che moriva con onore, da vero
patrizio
veneziano e che mitigasse la perdita del figlio con la consapevolezza
che aveva
adempiuto al suo dovere verso la Signoria? In che modo poteva
confortare
il Cor Suo, spronandolo a perseguire la
santa causa fino alla
vittoria e di non sentirsi schiacciato da quell’ennesimo
lutto, già di suo
oppresso dopo la cattura del padre e del fratello?
Un
fremito di collera portò la fronte del giovane castellano a
corrugarsi, le labbra martoriate dai denti e piegate
all’ingiù in una linea
dura.
Scrivere
alla famiglia … per cosa? A quale scopo? Per informarli
delle sue ultime angosciose ore di vita? Dei suoi timori? Della sua
impotenza?
Del suo spettacolare fallimento? Per farsi così deridere dai
fratelli maggiori?
Già li sentiva mormorare: Tipico del
Momolo di nascondersi dietro le
sottane della siora Mare, a piangere ogniqualvolta si trovi in
difficoltà.
No,
questo mai.
Intinta
la punta nel calamaio, scrisse invece:
“Di
Castel Novo di Quer, a dì 26 avosto 1511, sera. Informiamo
il magnifico provedador zeneral di Trevixo, sier Zuam Paulo
Gradenigo quondam sier
Justo, che Castel Novo di Quer, attaccata, si tiene ancora ma non si
pol
garantir per quanto, ergo si
prepari Trevixo. Si dubita
l’arrivo dei rinforzi – capetanij Andrea Rimondi e
Ludovico Bataja hanno
disertato el campo, ripiegando a Cividàl di Beluno. Nescio dei
podestà et capetanij sier Zuanne Dolfin et sier
Nicolò Balbi a Cividàl, la via
occupata da li inimici impedisce l’invio di qualsiasi
trombetta. Tamen si
è di bona voja, gli homeni qui tutti disposti a morir in
fede di San Marco.”
Sì,
decisamente meglio.
Deglutendo
la bile risalente su per l’esofago, Hironimo passò
la
polvere sull’inchiostro, asciugandolo e dopo averla soffiata
via chiuse la
missiva destinata al provveditore di Treviso: l’accampamento
a debita distanza
dalla fortezza per timore di bombardamenti notturni, aveva lasciato la
strada
per l’alto trevigiano ancora relativamente sgombra dalle
truppe nemiche per chi
conosceva bene il territorio – meditava. Se riuscivano a
resistere anche solo
per un altro giorno, almeno avrebbero evitato una sconfitta ben
più grave alla
Serenissima, allertando in tempo Treviso, i cui stradioti ed
esploratori
stavano sicuramente già pattugliando la Marca; inoltre, i
contadini del
Montello, a detta delle lettere dei podestà e provveditori,
erano
vigilantissimi, riparati strategicamente nei fitti boschi e pertanto,
se
avessero inviato un loro messaggero, le probabilità di
giungere in qualche modo
sano e salvo a Treviso, senza essere intercettato, erano buone. Certo,
la
scelta era stata tra la capitale della Marca e Feltre e Cividale di
Belluno,
quali avvertire per prima: qualcosa però suggeriva ad
Hironimo che quel
vigliacco del Bataja, ben al riparo a Miesna, avrebbe adempiuto
perfettamente
al suo nuovo ruolo di corriere, riferendo la situazione a sier Zuanne
Dolfin e
a sier Nicolò Balbi.
Magra
consolazione per loro e bisognava affrettarsi.
Portandosi
al caminetto, il giovane patrizio cercò a tentoni la
rientranza segreta sul raccordo della canna fumaria, estraendo una
piccola
borsa con 200 ducati, ciò che aveva faticosamente messo da
parte per le paghe
dei soldati. Un risolino isterico gli sfuggì di bocca: con
quei soldi ci
avrebbero pagato Caronte!
Dopodiché,
raccolti tutti i registri, le mappe del territorio
nonché l’intero pacco con la corrispondenza coi
podestà e i provveditori, il
Maggior Consiglio, il Collegio, i Dieci e i Pregadi, li
gettò uno ad uno nel
fuoco, assicurandosi che di essi non rimanesse altro se non
dell’inutile
cenere. Forse non sarebbe servito a nulla, nondimeno non poteva cavarsi
un
certo senso di soddisfazione nel privare il nemico di ogni qualsivoglia
forma
di bottino.
E a tal
proposito …
“Lo
so, dolcezza mia. Lo so. Non mi vuoi abbandonare, tu, più
fedele d’un cristiano.”
Oggettivamente
appariva logico affidare Eòo a Cabriel Germini, il
messaggero scelto per quella delicata missione e dunque bisognoso del
corsiero
più veloce e resistente, tutte qualità risiedenti
in quell’animale fedelissimo
da Hironimo amato più d’un essere umano, per il
quale era entrato in cavalleria
appunto per non doverlo cedere e al contempo evitare la multa di 25
ducati [4].
Ma il cuore, hé, il cuore gli aveva suggerito quella scelta
per non dover
sopportare il dolore di vedere il suo preziosissimo Eòo
ridotto a bottino,
finendo nelle cupide mani dei francesi o dei tedeschi.
Baciò
la fronte dell’adorato cavallo, suo compagno sia nelle
felici e spensierate cavalcate estive a Fanzolo sia nelle massacranti
missioni
notturne di disturbo operate dalla cavalleria
leggera. Hironimo lo
accarezzò tristemente, gli occhi fissi in
quelli grandi e liquidi
dell’animale che ricambiava solenne, quasi avesse compreso
trattarsi di un
addio.
“Hai
ben capito?”, si riprese, staccandosi a forza dal corsiero
per istruire Cabriel, montato timidamente in groppa, in quanto ben
conosceva la
protettività del suo castellano nei confronti
dell’animale, arrivando a
sfuriate tremende verso il malcapitato cui toccava ferrarlo se
l’operazione non
rientrava nei suoi gusti. “Questa lettera la consegni
direttamente in mano al
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, solo al sior provedador, a
nessun
altro! Manco al podestà! Al camerlengo [5], invece, gli
darai questa” e il
ragazzo si ritrovò la mano pesante col denaro. “E
mi raccomando: fatti
riconoscere sia dagli stradioti che dai villani, se vuoi evitare di
morir sul
posto, quelli prima t’assassinano e poi ti domandano il nome.
Comprendestu?”
Cabriel
annuì energicamente, tirando su col naso.
“E
non piangere, non sei un poppante!”, lo rimbeccò
aspramente
Hironimo, mentre faceva cenno a due soldati di aprire quanto
più discretamente
possibile l’entrata sud della fortezza, in direzione di
Treviso. L’ingresso non
era munito di saracinesche, bastando i ponti levatoi ad aprire e
bloccare il
passaggio, i quali vennero calatati lentamente, manovrando rapidi e
guardinghi
gli argani e le pulegge.
“Perdòname,
zelenza, pensavo al sior mio pare et a mio fradelo,
qui …”
Il
giovane patrizio si morse l’interno della guancia,
mascherando
la propria pena nel realizzare per colpa di quelle parole quanto poco
adeguatamente egli stesso si fosse congedato dalla sua famiglia. Sua
madre, la
sua roccia, lo aveva supplicato in ginocchio di ripensare alla sua
decisione,
quando Hironimo si era offerto volontario di sostituire Lucha. La donna
gli
aveva ricordato la sua inesperienza nel gestire una fortezza
così strategicamente
importante, concessa solo a reggenti di provata competenza e
fiducia. Essere
un valente cavaliere non fa di te necessariamente un buon
comandante, lo
aveva ammonito. Invece d’apprezzare il suo consiglio,
Hironimo s’era sentito
infantilmente offeso, ribattendo stizzito di non trattarlo alla stregua
di un
moccioso e ricordandole che qualcuno doveva pur onorare
quell’incarico ottenuto
a gran fatica, visto che né Carlo né Marco
avevano dimostrato sufficiente
fegato e amor patrio per rimpiazzare Lucha. E ciò lo aveva
affermato proprio
davanti a Marco, che s’era illividito a tal punto da
proferirgli i peggior
epiteti e Hironimo aveva realizzato come in un sol colpo, pur di
difendere la
sua vanità, avesse disprezzato il consiglio materno e
insultato i suoi fratelli
maggiori.
E questo
appena tornati dal funerale della loro sorellastra,
Crestina Miani da Molin "Murlon".
“Quando
sarai a Trevixo”, aggiunse il giovane Miani
all’ultimo
momento, costringendo Cabriel a fermarsi e girarsi, “porta
questo cavallo a mio
fratello Marco e riferiscigli che non avrà più da
invidiarmelo. Digli anche che
mi dispiace d’avergli dato del vigliacco.”
Anni
addietro, alla nascita di Eòo, lui e Marco accapigliandosi
avevano litigato come pazzi per decidere a chi sarebbe toccata quella
magnifica
creatura. Siccome Hironimo era il più testardo, con
più fiato nei polmoni e
ovviamente l’ultimogenito, sua madre aveva ceduto in suo
favore, al che Marco
s’era vendicato spingendolo dritto a faccia ingiù
nello sterco, sorprendendolo
di spalle nella scuderia mentre si godeva ignaro il suo ennesimo regalo.
Se
così poteva fare ammenda …
La porta
venne chiusa e con esso l’ultimo residuo dei tempi
passati.
Cor
mio, così dunque doveva finire la mia vita? In gabbia peggio
d’un sorcio? Fosse stato almanco in battaglia, in groppa al
mio Eòo e con te al
mio fianco …
“Domino
Vetor”, si scosse il giovane dal suo momentaneo
incantamento, raggiungendo rapido il capitano feltrino. Costui
s’era assai
distinto negli ultimi due anni di guerra, guidando coraggiosamente la
riconquista della sua città natale e bloccando
l’anno successivo le truppe del
principe di Noltz presso la Scala. Era stato il primo ad entrare a
Castelnuovo
di Quero – o quel che n’era rimasto –
dopo averlo espugnato di nuovo ai
tedeschi. Se c’era qualcuno di cui fidarsi per una sortita di
cavalleggeri,
Vetor dil Pozzo era il suo uomo. “Tenetevi pronti con la
vostra compagnia: in
caso il nemico dovesse entrare in questa fortezza, dobbiamo sbarrargli
la
strada per Feltre.”
“Non
proseguiranno per Trevixo?”, s’informò
il capitano, tirando
un intimo sospiro di sollievo nel sentire la sua città
natale fuori dalle brame
conquistatrici del nemico e pertanto la moglie e i figlioletti al
sicuro.
“Quello
è il loro piano, tuttavia hanno due città poco
distanti e
codesti branchi di cani sono perennemente affamati.”
“Provvedo
a radunare i miei uomini, allora”, concluse il feltrino,
proseguendo verso le scuderie.
“Eccellenza”,
si avvicinò il cappellano al giovane Miani,
prendendo il posto di Vetor dil Pozzo che s’era appena
allontanato, “stiamo per
celebrar Messa”, forse l’ultima, “non
desiderate venire a comunicarvi?”
Hironimo
lo fulminò con lo sguardo. “A che pro
pregare?”, chiese
sardonico, il bel volto distorto in una smorfia ferina. “A
meno che non faccia
scendere una legione d’angeli per tagliare a pezzi i
franco-imperiali, per me
si tratta d’una perdita di tempo.
D’altronde”, interruppe con veemenza
l’obiezione dell’uomo senza concedergli tempo
d’esprimersi, “se missier Domino
fosse veramente giusto e misericordioso, avrebbe fulminato
già da anni quel
cancaro fiorentino [6] bestemmiatore che siede a Roma, quel figlio di
femmina
pubblica che ci ha aizzato contro questi barbari maledetti, bravi solo
a
saccheggiare le nostre terre, a bruciar tutto, a sgozzare i nostri
fanciulli e
a violentare le nostre donne. No, Iddio se ne sta sul suo bel trono
d’oro a
guardare noialtri soffrire alla stregua di cani, permettendo che ogni
nefandezza in terra accada impunemente. In due anni di guerra, non
L’ho visto
difendere né la vedova né l’orfano,
né liberare nessuno dal nemico. Dio non ci
stima nulla, o avrebbe già provveduto.”
In altre
circostanze, ovvero come accaduto negli ultimi cinque
mesi, il religioso avrebbe ribattuto tenace il suo disappunto,
sospirando e
roteando gli occhi, ma fiducioso di possedere abbastanza tempo e
risorse onde
persuadere quell’ostinato castellano a riallacciare i
rapporti col Padreterno.
Adesso, a maggior ragione, non confidando nella sua salvezza terrena
malgrado
l’abito indossato, egli avvertiva l’impellente
necessità di concludere
quell’ultimo compito, così da presentarsi dinanzi
a San Pietro senza rimpianti.
“Capisco le vostre obiezioni, nondimeno considerando le
circostanze …”
“Colendissimo
padre, voi siete un uomo dabbene, non lo nego e vi
rispetto per la vostra devozione ed onestà. Se volete dir
Messa, fatevelo: se
può dar conforto a questi valent’uomini, ben
venga. Quanto a me, però, come vi
dissi al nostro primo incontro e come vi dico oggi, vi prego di non
costringetemi a partecipare.”
Il
cappellano scosse il capo e ritornò alla piccola cappella,
sconfitto e il cuore grave da tale ostinatezza, dispiacendosi per
quell’atteggiamento da turco del giovane patrizio. Un vero
peccato, cogitava
mesto, contemplare un’anima così passionale eppure
perduta …
Alle
prime luci dell’alba ripresero le cannonate e quindi altri
spruzzi in faccia.
***
Sier
Ferigo quondam sier Hironimo
Contarini di
San Cassian non si era mai fatto scrupoli di nascondere i suoi
pensieri: quando
c’era da mandare in malora, mandava in malora; quando
c’era da lodare, lodava.
Poco gli importava del suo interlocutore, se nobile o plebeo, la sua
filosofia
di vita si riassumeva nel chiamare sempre il diavolo col proprio nome.
Tale
sfrontata coerenza l’aveva portato a difendersi due anni
addietro con
disarmante schiettezza dinanzi ai Dieci, narrandogli di come avesse
evitato la
cattura a seguito della capitolazione di Asola travestendosi da soldato
mantovano e nascondendosi nell’ultimo posto, dove il marchese
Francesco Gonzaga
l’avrebbe cercato, cioè a Mantova stessa, da dove
Ferigo era tranquillamente
ripartito per Venezia in barca.
Senza
peli sulla lingua, audace ma non sventato, alla fresca età
di ventinove anni Ferigo malgrado la disfatta e rocambolesca fuga da
Asola
venne nominato ugualmente sulla fiducia provveditore di Cividale del
Friuli,
una scelta rivelatasi lungimirante ché il giovane si
dimostrò ben presto un
eccellente militare, collezionando spettacolari vittorie in Friuli, nel
Vicentino, nel Veronese e nel Polesine; si distinse mirabilmente a
Ficarolo,
Sassuolo e Mirandola. Al punto che si volle affidargli le truppe
più bellicose
e indisciplinate, cosicché appena trentenne divenne
provveditore degli
stradioti (un primato in assoluto considerata la giovane
età) che governava col
proverbiale bastone e carota, punendo in maniera esemplare ogni forma
d’insubordinazione ma al contempo lasciando ai suoi uomini
una ragionevole
libertà di far bottino, arrivando perfino a giustificarli
all’occasione.
Ovunque
andasse, il Contarini seminava il terrore tra i suoi
nemici e lo potevano ben testimoniare il Duca di Brunswick Erich I di
Brunswick-Lüneburg der Ältere o
il condottiero Andreas von
Liechtenstein che in più occasioni se lo videro piombare
addosso all’improvviso
peggio d’un rapace, incapaci di reagire al violento impeto
dei suoi attacchi e
la frase “vegliate, dunque, perché non sapete
né il giorno né l’ora”
assunse
per i suoi avversari un significato meno spirituale ma assai
più
terreno. Grazie alle sue imprese, la famiglia apostolica dei
Contarini a
gran voce poteva vantare con orgoglio la sua discendenza dagli Aurelii
Cotta,
prefetti del Reno [7]. Ferigo, al contrario, si schermiva con
pragmatica
modestia e a chi lo chiamava un Druso, un Germanico o un Ettore, egli
rispondeva con un sorrisetto sfottitore: “Puoah! Non avete un
miglior paragone?
Sono finiti tutti assai male!”
E sempre
con quel suo atteggiamento di chi sa ciò che vale e non
accetta contestazioni, egli si presentò a casa del
provveditore sier Andrea
Griti e perdiana stavolta l’avrebbero ricevuto.
“Me
spiace, missier provedador, ma la frebe di sier Griti non è
miorata, el sente fredo e caldo e anzi, el dotor è
lì per trar sangue.”
“Polelo
parlar?”
“Sì?”
“Donca,
cavate e lassame passar!”
Fortunatamente
per il povero segretario, già in posizione perfetta
per una solenne spintonata, gli comparve salvifico da dietro sier Polo
Malipiero, il fratellastro del Griti e i suoi occhi umidi ed arrossati
non
tradivano nulla di buono. “Sier Ferigo, prego,
entrate”, gracchiò, tirando su col
naso.
“Come
sta?”, s’informò sottovoce il giovane
provveditore,
scansando di malo modo il segretario, il quale giudicò
conveniente battere a
saggia ritirata, borbottando tuttavia come a furia di star cogli
stradioti
anche missier Contarini si comportasse in identica cafona maniera.
“Temo
che per mio fradelo sia la fine: il medico non porta buone
nuove. Ho tentato di persuaderlo a rientrare a Veniexia, ma lui non
vuole, non
con sier Christofal anch’egli in letto ammalato.”
“E
parrebbe tutta Italia con loro: il dottor Hironimo Donado ci ha
giusto confermato come a Roma anche il Papa stia giocando a dadi con la
morte.”
Polo
Malipiero assunse un’espressione disgustata. “Il
diavolo
volesse pigliarselo una volta per tutte …”,
mormorò rancoroso. “Adesso
s’è pentito
– el cancaro! – d’aver chiamato i barbari
in Italia, adesso che minacciano
i suoi di territori.”
“Il
mal italico”, sentenziò Ferigo, “sta nel
rimettersi nelle mani
degli stranieri per risolvere questione interne, manco fossero un
demiurgo che
agisce pel ben e gli interessi nostri, non capendo che così
facendo offriamo la
testa alla scure.”
“Voi
due là, avete finito di spettegolare fitto-fitto peggio
delle
lavandaie?”, li interruppe sier Andrea Griti dal letto,
nervoso quanto un leone
a digiuno in gabbia e malgrado il contesto non proprio roseo, quello
sfogo
provocò un risolino divertito nei due uomini, alleggerendo
la tensione vigente.
La stanza
puzzava dell’aria stantia tipica dell’ammalato, non
avendo infatti aperto le finestre sin dall’inizio della
malattia del
provveditore e ciò appariva più che
giustificabile considerato come l’intero
padovano pareva di recente flagellato da febbri improvvise e mortifere,
accarezzando l’ipotesi che si trattasse di malaria a causa
delle continue
deviazioni dei fiumi e rotture dei canali, perciò favorendo
l’elemento palustre
mai completamente debellato dalla pianura veneta.
Sier
Andrea giaceva in letto pallido quanto le lenzuola, forse
più
per il salasso cui il medico in quel momento lo stava sottoponendo che
per la
febbre di per sé, la quale comunque manifestava la sua salda
presa sull’uomo
sudato eppure tremante, il viso torvo per quella degenza forzata, un
insulto al
suo spirito attivo ed energico. Sedutagli accanto, la sua concubina
greca
Melpomeni [8] gli teneva la mano, tastando di tanto in tanto la fronte
che
inumidiva con un panno bagnato. Le sue nipotine Benedeta e Viena Griti
erano
già salite su di un burchiello diretto a Venezia,
accompagnate dalla madre
madona Maria Donado Contarini. Il loro nonno aveva veementemente
insistito,
poiché temeva il contagio se non da lui da qualcun altro,
essendo la febbre un
male sottile e vigliacco, rapidissimo ad ingoiarsi un’intera
città, come Padova
in quel momento. Inoltre, era giusto che ritornassero dal loro nuovo
patrigno,
sier Sebastian Contarini.
“Sier
Ferigo, mi consola saper almanco voi in piedi”, fu il saluto
del provveditore, contento sia di quella visita sia della fine del
salasso.
“Come si porta il magnifico provedador sier Christofal
Moro?”, s’informò,
invitandolo a sedersi seppur a debita distanza.
“Esattamente
come voi: un giorno migliora, l’altro peggiora. Anche
il governatore, il signor Lucio Malvezzi, si è buttato in
letto; è da ieri che
non si leva.”
Andrea
grugnì, puntellandosi sui gomiti e aiutato da Melpomeni, che
gli sistemò meglio il cuscino dietro la schiena.
“E la cagnara della notte
scorsa?”
“Un
falso allarme: le sentinelle credevano aver scorto dei cavalli
nemici. Ma il magnifico provedador sier Polo Capelo è
rimasto comunque al
bastione de Cao Longa per accertarsi.”
Sier
Griti annuì sollevato.
“Inoltre,
stamattina sono stati inviati alla volta di Trevixo i
3000 ducati assieme ai 500 fanti più gentiluomini a seguito,
come da voi
istruitomi. El vostro sior cugnado sier Zuam Paulo [9] sarà
contento, almanco
per qualche settimana”, aggiunse Ferigo, la cui venuzza
sardonica nel tono di
voce non sfuggì al suo collega più anziano, che
di fatti ribatté stancamente:
“Sier
Ferigo, già sappiamo la vostra opinione in materia
…”
“Dunque,
se si conosce la mia opinione, perché stiamo qui a
succhiarci il pollice, invece d’uscire alla volta di Vicenza
ed espugnarla? A
presidiarla è rimasta poca gente, non sarà
un’impresa impossibile! Mare de
diana!”, sbottò con veemenza, battendo i palmi
delle mani sulle cosce, “cosa
stiamo aspettando? Bassan, Axolo e Castel Francho si sono arrese senza
combattere! Se non reagiamo, i nemici non esiteranno ad attaccarci
perché ci
sapranno deboli!”
“Quindi,
secondo voi, Vicenza s’è svuotata
perché ci stanno
venendo in bocca?”, volle conferma sier Polo, lanciando
un’occhiata ansiosa al
fratellastro, che convenne:
“Corretto.
E senza Vicenza non avranno alcun luogo dove riparare,
dopo la sconfitta a Trevixo. Dico bene, sier Ferigo?”
“Sì,
ma chi ci assicura che l’impresa sarà a
Trevixo?”, insistette
Malipiero, anticipando l’altro provveditore. “Le
nostre spie ci hanno riferito
come la Peliza stia puntando invece qui a Padoa.”
“La
Peliza, come tutti i francesi, dice una cosa e ne fa
n’altra”,
gli spiegò il Contarini. “Se hanno messo questa
ciancia in giro, l’è per
confonderci. A tal proposito, abbiamo catturato una staffetta del gran
maestro
il signor Gastone de Foys: da Millan son partite 400 lance, 4000 fanti
e 12
bocche di cannone, tutte dirette a Marostega. Nella lettera
è stato scritto
chiaramente come l’Imperador debba trovarsi a Castel Novo de
Quer, se vuole che
il Roy di Franza continui a prestargli danaro. E dove conduce Castel
Novo?
Inoltre, da Marostega passando per Axolo, Castel Francho e Monte
Beluna, è
molto più facile e veloce puntare su Trevixo che su
Padoa.”
Meditando
in silenzio, Andrea Griti soppesò i pro e i contri.
“Ragionate pulito, ma dubito che il governatore vi
darà licenza de partir per
tale impresa. Troppo rischioso.”
Ferigo
serrò caparbio la bocca, raddrizzando il collo.
“Non fallirò,
se è questo ciò che teme.”
“Solo
perché siete sempre stato vittorioso in battaglia, non
significa che siete immortale”, gli ricordò
perentoriamente il Griti. “Un
assedio è rischioso e sussiste sempre la
possibilità, che da Marostega il
nemico cangi idea e ripieghi a Vicenza come campo. E se fosse
così? Che fareste
voi allora? No, spezzate le gambe ai rifornimenti per
l’impresa di Trevixo
mentre il nemico è in viaggio, ma non tentate né
un assedio né di dar battaglia
se non alla vostra portata. Non possiamo sguarnire troppo Padoa,
sbilanciandoci
in caso di centroattacco: ricordate, sier Ferigo, che la fortuna, gran
puttana,
potrebbe girar in malo modo anche per voi.”
Continuare
con azioni di disturbo, in modo da spingere via i
nemici dai confini del territorio padovano e al contempo ritardare il
cammino
di quella parte d’esercito già diretta alla Valle
della Piave.
Non
sarà stata quella la risposta che sier Ferigo Contarini
aveva
desiderato ottenere da quel colloquio col Griti - a
onor del vero
aveva sperato in un’intercessione del provveditore generale
presso il
governatore, sponsorizzandogli l’impresa. Tuttavia, la
prospettiva d’uscire per
una qualsiasi missione da quella città malata e
dall’aria mefitica finalmente
s’era concretizzata, liberandolo dal cruccio di dover
sprecare il suo tempo sia
a punire gli irrequieti stradioti (e giustamente, la paga era in
ritardo) sia a
fronteggiare giornate intere chiuso in ufficio a Palazzo della Ragione
a
scrivere, firmare e leggere lettere e documenti. Perfino aiutare sier
Polo
Capelo nella supervisione del rafforzamento del bastione di Codalunga
lo
annoiava.
Sospirando
pesantemente, il giovane provveditore si diresse quindi
verso Palazzo Contarini dietro al Duomo, sperando che la notizia
potesse
rallegrare in qualche modo il suo amico Marco di Zacharia Contarini
"dai
Scrigni", il quale versava in un umore nero bestemmia da quando aveva
appreso della presenza dell’Imperatore – vera o
pianificata che fosse – a
Castelnuovo di Quero, là dove si trovava a suo presidio il
loro comune amico e
parente alla lontana, Hironomo Miani. Dopodiché sarebbe
rincasato, così da
notificare anche suo fratello Marco Antonio delle ultime
novità.
Sennonché
…
“Ah!
E’ scappato via, quel mille volte ingrato! E senza dirmi
niente! Figlio mio, perché sei stato così crudele
verso di me?”
Ma che
diamine …?
“Toffolo,
cos’è questo carnevale? Che fa madonna ancora in
casa?
Non la doveva partire oggi per Veniexia?”
“Ah,
patron, zelenza, se vui savesse che tragedia! Altro che andar
a Veniexia: la mia povera patrona la more de doja, mezza
matta!”, gli rispose
mesto Toffolo, il servitore, aprendogli il portone e ad accogliere
l’uomo a
Palazzo furono le urla ferine miste ai pianti di madona Alba Donado
Contarini,
unite all’esclamazioni esasperate del figlio Francesco, che
tentando di
calmarla aumentavano per effetto contrario la sua isterica collera.
“Siora
Mare, calmatevi ve ne prego, o farete radunar tutta Padoa sotto i
nostri
balconi!”
“O
correte a riprender vostro fradelo o tacete, razza de polaco!”
Sorprendentemente,
a completare il giocondo quadretto si trovava
lì anche sua madre, madona Ysabela Falier relicta Contarini,
la quale osservava
il tutto attorcigliandosi le dita, indecisa se dar man forte o meno a
sier
Francesco in evidente difficoltà contro quella belva umana
di sua madre.
“Ah,
eccolo qua, el Juda Scariota!”, comparve a Ferigo
improvvisamente sotto il naso la donna, galoppando giù dalle
scale, gli occhi
iniettati di sangue e i capelli selvaggiamente in disordine, tanto che
lo
zendale in testa le penzolava negletto. “La xé
tutta colpa vostra se qui me
moro!”
Indicando
seccamente a Toffolo di serrare il portone onde non dar
spettacolo in strada, Ferigo domandò tra il confuso e lo
scocciato: “Mia, siora
Alba? E in che modo v’avrei strapazzata?”
Sua madre
afferrò madona Contarini per il braccio, allontanandola
dal figlio. “Alba, per carità, lasciate star. Non
è colpa di nessuno, se non
dello stesso Marcolino.”
“Ah,
no?”, ribatté l’altra, asciugandosi
furiosa le lacrime. “Chi
ha riferito a mio figlio, che l’Imperador si dirigeva verso
Trevixo? Chi gli ha
detto, che sicuramente avrebbe attaccato Castel Novo di Quer?”
“E
donca? Indove xélo el mal in zò?”
La mano
di Alba si mosse convulsamente, indecisa se schiaffeggiare
Ferigo o se cavargli gli occhi. “Indove xélo el
mal? Marcolin è partito stamane
coi 500 fanti e altri zentilomeni alla volta di Trevixo, e senza una
parola,
senza un saluto e soprattutto senza il mio permesso! Come avete potuto
perderlo
di vista così? E’ troppo giovane per un fronte
sì periglioso come quello di
Trevixo!”
Ah,
dunque tutti quei discorsi del suo amico non corrispondevano a
vuoti propositi, atti a metter solo in allarme la famiglia: alla fine
sul serio
aveva trovato il modo di partire anche se di nascosto,
checché ne pensasse sua
madre. Ah, borbotterebbero i vecchi moralisti, gioventù
discola sempre ad agir
di testa propria!
“Zovane
sì, siora Alba, ma non puto. Il Marcolin ha fatto la sua
scelta, voi fate la madre savia che la smette d’impicciarsi
nelle questioni
d’un uomo adulto!”
Se sua
madre e Francesco non si fossero praticamente gettati su di
lei, a quest’ora madona Alba avrebbe tenuto in mano lo scalpo
di Ferigo, il
quale comunque intuite le intenzioni della donna, aveva ugualmente
indietreggiato di qualche strategico passo.
“Can!
‘Ssassin! Vui me volé morta!”
Certo
però che madona Alba non imparava mai la lezione; insomma,
già Marco le era sfuggito una volta praticamente da sotto il
naso, quando
neppure ventenne era giunto volontario alla difesa di Padova nel
settembre del
1509. Perché stupirsi, quindi, di un bis
da parte sua? Gliel’aveva
perfino annunciato in più occasioni, peccato che nessuno dei
suoi l’avesse
preso sul serio, accusandolo di puerili millanterie.
Saggiamente,
Ferigo optò per un silenzio da sfinge (aveva promesso
all’amico di non tradire il vero motivo della sua partenza),
lasciando che
madona Alba si sfogasse ben bene su di lui, coprendolo
d’accuse e insulti. Non
glielo rimproverava, del resto: suo marito sier Zacaria e suo figlio
Piero da
ben due anni erano rispettivamente prigionieri a Parigi uno e a
Perpignan
l'altro, naturale che si preoccupasse a morte degli altri rimastole,
arrivando
a momenti a sequestrarli mettendoli sottochiave. Non c'era
però niente di cui
preoccuparsi: suo fratello sier Andrea Donado “dalle
Rose” era podestà a
Treviso e sicuramente avrebbe tenuto sott'occhio il nipote discolo.
Assordatosi
quindi convenientemente, Ferigo si distraeva invece
contando mentalmente il numero di stradioti necessari per cavalcare
rapidi in
direzione di Marostica ma sufficienti per sostenere un attacco
vincente. Magari
ne avrebbe discusso col conte Guido Rangoni, una volta tornato dalla
sua
missione a Longara per deviare il corso della Bacchiglione. Infatti,
aveva in
progetto una piccola modifica al piano originale approvato sia dai
provveditori
che dal governatore e cioè di non limitarsi a rallentare i
rinforzi per il
maresciallo, rubandogli soltanto qualche arma, ducato e vettovaglia.
No,
avrebbero al contrario ingaggiato le truppe nemiche in una vera e
propria
battaglia, annientandole.
La Palice
poteva anche marcire in loro attesa fino al Giudizio
Universale: a Castelnuovo non sarebbe arrivato nessuno.
***
“Sapristi,
capitaine Mercurio! Com’è possibile che una
fortezza difesa da un’accozzaglia di disperati riesca a
tenerci in scacco da
più di un giorno?”, si lamentava il maresciallo e
Gran Maestro di Francia
Jacques de La Palice nel suo accampamento di fortuna tra Quero e Vas.
Per
l’intera giornata la situazione era rimasta la stessa,
sfrontatamente
immutabile: Castelnuovo incassava i colpi dei cannoni, li
contraccambiava con
precisa e micidiale parsimonia, e non si riusciva ad avvicinarsi. Si
era
tentato un assalto, purtroppo fallito: ai franco-imperiali
s’era mozzato il
respiro non appena immersa una gamba nelle acque della Piave e alcuni
di loro
rischiarono d’annegare o annegarono proprio, avendo infatti
messo il piede in
un dislivello o scivolando su di una pietra erano inciampati, finendo
in acque
più profonde. I mulinelli, rapidi, avevano ghermito questi
malcapitati
trascinandoli seco e coloro che non erano stati prontamente afferrati
dei
compagni, ad un certo punto svanirono dalla superficie, invocando
inutilmente
soccorso. I pochi fortunati che riuscirono ad arrivare sotto il
Castello
divennero ben presto preda dei balestrieri marciani.
Dulcis in
fundo, aveva ripreso a piovere a dirotto e aumentò il
malumore dei soldati, assai frustrati da quell’affatto
gradito tiro al
bersaglio (dove loro erano il bersaglio); incominciarono di conseguenza
ad
eseguire di malavoglia gli ordini dei loro capitani, al punto da
considerare
l’opzione alternativa di prendere un’altra strada
per giungere a Treviso e
neppure la prospettiva delle più vicine Feltre e Cividal di
Belluno più li
allettava. Meglio impiegarci più tempo e vivere, che
pigliare una scorciatoia e
lasciarci nel tentativo le penne.
Sfortunatamente
per loro, un messo dell’Imperatore recava la
notizia di come Maximilian si stesse dirigendo da Bolzano per scendere
a
Castelnuovo di Quero, dove avrebbe sostato in attesa di ricongiungersi
con le
truppe provenienti o da Vicenza o Marostica inviatigli dal governatore
di
Milano, il duca Gaston de Foix-Nemours.
Et
à propos du Duc de Nemours, si
sovvenne all’improvviso il maresciallo La Palice, come mai
quell’inusuale
silenzio da parte sua? Neanche due righe di biglietto! A
quest’ora il
contingente doveva essere già in marcia, eppure non una
lettera di conferma,
non un messaggero. Tali negligenze non erano da lui. Bizarre,
très
bizarre …
“Se
si mette un gatto all’angolo, pur sapendosi fisicamente
più
debole esso soffia e cogli artigli punta agli occhi del suo
opponente”, lo
distolse il capitano Mercurio Bua dalle sue elucubrazioni,
rispondendo
alla sua frustrata domanda. Seduto sul bivacco accanto
lui, l’intera
postura del greco-albanese si presentava talmente rilassata, da
sembrare più a
riposo da una partita di caccia che nel bel mezzo di un assedio.
Dinanzi
all’espressione accigliata de La Palice, il mercenario
precisò: “Il punto è,
monseigneur, che non a tutte le città e castelli
basta la vista delle
nostre insegne per arrendersi. Fortunatamente alcuni
s’ostinano nella difesa,
rendendo questa guerra un po’ meno monotona.”
Il
francese lo guardò come se si fosse ammattito.
“Trovate dunque
diletto in tutto questo?”, inquisì scandalizzato,
ripensando agli eventi di
quell’infruttuosa giornata, a quella bolgia infernale di
spari, sibilo di
frecce e scatti di balestre, boati di cannoni e urla quasi
animalesche tra
imprecazioni e bestemmie.
Fu il
turno del Bua d’indurire la sua espressione. “Ho i
miei
motivi per non aver ancora disertato l’Imperatore”,
disse e de La Palice si
domandò se stesse forse alludendo al cambio di bandiera
avvenuto esattamente un
anno fa da parte di suo fratello Teodoro Bua, servendo ora
quest’ultimo con
gran fervore la Serenissima.
“Lo
dimostrate molto male, capitaine. Sembra quasi che non
v’interessi prendere Castelnuovo.”
Il
greco-albanese gli rise in faccia beffardo: “Quando la
Cesarea
Maestà mi pagherà come voglio io, allora
combatterò come vuole lei.”
Il
maresciallo si rilassò: in fin dei conti i mercenari erano
anime davvero semplici! “Et bien, una volta espugnato
Castelnuovo, potrete
appropriarvi di qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo
interno.”
L’intera
postura del capitano di ventura si rianimò, scattante e
sull’attenti, mentre un’espressione feroce gli
contorceva i lineamenti: “Qualsiasi cosa?”,
esigette conferma, sporgendosi famelico verso il maresciallo e
fissandolo
intensamente.
“Avete
la mia parola. Posso fidarmi?”
“Jamais,
monseigneur, jamais! La mia gente si fidò della clemenza
dei turchi, per finire poi impalata sugli spiedi come fagiani o segata
in due.
Per questo, io rispetto di più chi resiste fino alla morte
piuttosto che fidarsi dell’onore
vero o presunto del suo avversario”, gli confidò
tra il sincero e il sardonico,
esibendosi per l’ennesima volta in quel suo tipico altalenare
d’umori che
applicato in battaglia lo rendeva imprevedibile, ingestibile e
inarrestabile.
“Abbiamo
dunque un accordo, monseigneur de La Palice”,
rimarcò
solerte il Bua, istruendo a Zilio Madalo, suo
luogotenente,
acciocché alle prime luci dell’alba chiamasse a
raccolta i suoi stradioti. E
rivolgendosi poi alla loro guida, Borlholamio, domandò in
veneziano: “Donca, sto passajo dil qual ti
me parlavi e che porta
all’entrada dil Castelo, indove se trova?”
Nemmeno
in mill’anni avrebbe potuto Hironimo immaginare, quanto il
suo paragone con Leonida calzasse a pennello con la situazione sua e
dei
cinquanta difensori di Castelnuovo di Quero: oltre ad aver praticamente
gridato
al de La Palice un inequivocabile “Molon
labe!” [10], come il
re spartano anche loro dovettero subire il tradimento di un Efialte,
tal
Borlholamio, il quale conosceva un altro sentiero di montagna assai
ideale per
il contrabbando e che aggirava il Castello, talmente ben nascosto da
sembrare
innocuo ad occhi profani e pertanto sfuggito alla pur meticolosa
ricognizione
del territorio da parte del giovane castellano.
Non
ebbero neppure il tempo di voltarsi, che la porta sud esplodeva
in un enorme boato e in una grassa nuvola scura di polvere e pietre,
seguita da
un istante di mortifero silenzio che poi sfociò nelle urla
bellicose degli
assedianti pronti all’irruzione attraverso la breccia.
Il loro
arrivo, però, sortì l’effetto
d’innescare una piccola
accortezza preparata da Hironimo come ultima spes la notte precedente,
memore
della lezione appresa a Padova dal condottiero Zitolo da Perugia:
all’ingresso
del cortile interno avevano piazzato della polvere da sparo e i primi
malcapitati
fecero la medesima fine della porta, rallentando per un istante
l’impeto
dell’assalto, ma ben presto una seconda ondata si
riversò dalla parte opposta e
gli assediati adesso erano pronti a puntargli addosso balestre e gli
schioppi. Non soddisfatti, a quelli che la
scamparono vennero
gettati addosso i fuochi ardenti, trasformando gli assedianti in torce
umane e
così illuminando la sera già di suo di un bel
rosso vermiglio. Il fuoco faceva
esplodere i loro schioppi e archibugi, coinvolgendo in piccole
esplosioni non
soltanto chi lo reggeva ma anche chi gli stava accanto in una mortifera
reazione a catena.
“Bruseli
tutti! Bruseli tutti!”
Piccoli
stratagemmi, però, buoni a ritardare l’inevitabile
ché non
si poteva trattenere l’acqua con le mani e
appunto passati gli
iniziali momenti di sconcerto e smarrimento, i nemici impiegarono
maggior
vigore nell’assalto, bramosi di sfogare i giorni di
frustrazione e pioggia
battente in testa, senza un granché di cibo e senza paga.
Francia!
Impero! -
gridavano quelli, arrampicandosi
quasi pur di raggiungere i soldati marciani.
Marco!
Marco! –
replicarono i difensori del
castello, venendogli incontro con le armi in pugno.
Dopodiché,
fu l’inferno del corpo-a-corpo e l’aria
s’ammorbò di
sangue.
***
A
Domenico da Modone con uomini 189 era stato incaricato di
sorvegliare il tratto di mura che dalla cittadella conduceva al
bastione del
Sile; da lì, in direzione di Santa Maria fino alla Porta di
San Tomaso con
uomini 221 se ne sarebbe preso cura Carlo Corso. Dalla porta di San
Tomaso fino
al ponte della Botteniga ci sarebbe stato a presidiare Paulo Baxilio
con uomini
100 e da quel punto fino al lazzaretto Cipriano da Forlì
avrebbe provveduto
alla difesa con uomini 238 per concludere il cerchio con Vigo da
Perugia e i suoi
fino alla cittadella.
Queste
erano state le disposizioni di sier Zuam Paulo Gradenigo,
provveditore generale di Treviso, e dal signor Renzo Orsini di Ceri,
capitano
di fanteria per le pattuglie sia diurne che notturne delle mura. I due
avevano
in aggiunta ordinato che anche i gentiluomini giunti da Padova e
Venezia
contribuissero dandosi il turno nella ronda. Quanto
all’Orsini e al Gradenigo,
erano lì ogni notte o a consultarsi coi capitani e i
connestabili sulla
caminada o a cavallo a controllare che le ronde si svolgessero in
ordine senza
intoppi.
Quella
mattina del 27 agosto, tuttavia, l’energico provveditore si
trovava in compagnia del capitano Vitello Vitelli e di sier Lunardo
Zustignan
q. sier Unfrè e nipote del Doge, avendo avuto infatti al
pomeriggio scorso un
acceso diverbio con Renzo di Ceri circa il comportamento affatto
consono dei
suoi fanti alloggiati nelle case dai recalcitranti trevigiani, i quali
contraccambiavano la loro maleducazione finendo spesso alle mani e il
povero
auditore sier Piero Antonio Morexini stava impazzendo per il numero
crescente
di querele di padri, fratelli, mariti e fidanzati esasperati per le
continue e
volgari avances fatte alle loro donne, quest’ultime in
realtà non tanto
indifese quanto si lasciasse adombrare, anzi, se ogni tanto volava un
soldato
dalla porta di casa, a corrergli dietro con insulti ancor
più prosaici era una
florida matrona munita di secchia e scopa o la pentola per le castagne.
“La
prossima volta che te ripeti ste sporcarie a me fia,
t’amazaré!” Affacciatesi
alle finestre, le vigilantissime vicine di casa davano manforte e
terminavano
l’opera innaffiando il reo coi fetenti contenuti dei pitali
loro e dei
congiunti. Coloro che invece erano stati alloggiati nelle case
abbandonate dai
trevigiani rifugiatisi a Venezia, ugualmente si sollazzavano senza
tregua con
prostitute, mentre alcuni fanti senza né Dio né
Madonne tentavano tramite ogni
inganno d’infilarsi nel letto delle monache.
Più
volte sier Zuam Paulo aveva rimproverato la fastidiosa
malcostume dei soldati e più volte Renzo Orsini aveva
promesso di porvi
rimedio, ma sia lui sia l’altro Orsini, Troilo, alla fine
lasciavano
palesemente correre. Il podestà, sier Andrea Donado
“dalle Rose” q. sier
Antonio el cavalier, neanche ci metteva becco, ripiegando su di una
conveniente
neutralità. Purtroppo, quest’impasse non stava che
peggiorando il temperamento
sanguigno dei trevigiani, già di suo pungolato dalla
decisione di abbattere la
chiesa e monastero di Santa Maria Maggiore – la loro
amatissima Madona Granda –
per creare l’indispensabile difensivo guasto interno. Il
giorno prima, il 26
agosto, si era incominciata in quel quartiere la demolizione di tutte
le case
fuori e attaccate alle mura, nonché del campanile della
Madona Granda tra gli
ululati dolenti della gente, che si batteva il petto invocando perdono
alla
Madre di Dio per quel sacrilegio. Di conseguenza, le
mani
pizzicavano e quel pomeriggio accadde, infatti, che un soldato della
compagnia
di Troilo Orsini avesse allungato le mani sulla moglie di Donado
Cimavin,
mentre questa usciva dalla chiesa e infischiandosene dello stato di
palese
gravidanza di madona Felicita (avendo capito ormai i luoghi dove le
donne si
riunivano, i soldati non ci avevano messo molto per appostarsi
strategicamente
e lì aspettarle).
Non
calcolò l’uomo come anche il signor marito si
trovasse alla
funzione con lei, rimasto indietro a parlare col prete.
Sicché, testimone di
tanta sozza tracotanza, Donado aveva ruggito paonazzo in volto:
“Coss’elo sto
porco negozio?” e afferrato lo zendale della moglie,
arrotolandolo lo strinse a
mo’ di corda attorno al collo del soldato, trascinandolo
lungo il sagrato della
chiesa alla ricerca di un palo, incoraggiato dagli astanti che
gridavano in
estasi feroce: “Apichalo! Apichalo!”
E quando
il capitano Troilo Orsini ebbe pure la faccia tosta di
querelare Donado Cimavin, l’auditore Morexini esplose,
sbraitando
spaventosamente: “El gh’ha fatto ben, el
gh’ha fatto!”, assolvendo il marito
oltraggiato da ogni accusa.
Al che il
provveditore Gradenigo aveva aggiunto: “Se voi non
mettete un guinzaglio a quei cani in calore dei vostri uomini, li
impiccherò io
stesso, saveu? Io stesso!” e peccato che a presenziare ci
fosse stato anche
Renzo di Ceri, che subito tentò di calmare gli animi per poi
finire di litigare
a voce ancor più grossa col provveditore, minacciandolo di
percuoterlo con la
sua spada e di impiccarlo.
“Una
cheba di matti”, borbottava sier Zuam Paulo, sfogandosi in un
irato andirivieni sulla caminada delle mura. “Una vera cheba
di matti …”
“E
fra poco lo diverrete anche voi, se non la smettete
d’agitarvi
manco foste un diavol ne l’acqua santa!”
Il
provveditore, bloccandosi, si voltò e per la prima volta in
tutta la giornata il suo volto si distese alla vista della moglie,
madona Maria
Malipiero Gradenigo, avvolta in un pesante zendale. Poi,
però, ritornò la sua
fronte ad accigliarsi: “Non sarebbe questo posto per voi,
siora mojer.
Rincasate, ché l’aria stanotte è umida
e fredda.”
Più
che altro, sin dal giorno in cui gli era stata assegnata la difesa
di Treviso, l’uomo temeva costantemente in un attacco da
parte dei
franco-imperiali, specie notturno, e il pensiero che potesse avvenire
perfino
in quel momento, con la moglie così esposta, lo preoccupava
assai. Aveva in più
occasioni insistito acciocché ella restasse al sicuro a
Venezia coi loro
figlioli, ma lei era stata irremovibile: “Nella buona e
cattiva sorte, sior
marido mio”, gli aveva ricordato e intimamente Gradenigo
gliene era grato, non
potendo sfogare con nessun se non con Maria i suoi crucci e
l’ansia di
quell’incarico ogni giorno sempre più oneroso.
Degna
sorella del Griti, Maria non si lasciò scoraggiare dalle
parole brusche del consorte. “Sì, avete ragione:
vengo solo a portarvi un po’
di cena- o meglio, la colazione vista l’ora
- considerato che siete
scappato via peggio di un lievero, senza cenare” e gli
cedette poco
elegantemente una piccola cesta, girando subito sui tacchi.
“E comunque”,
esclamò perentoria, voltandosi all’ultimo mentre
scendeva la scalinata.
“Andando avanti così, credo che prima dei
franco-imperiali v’ammazzerà la
fatica! Va ben stare dietro a tutto e tutti, ma dormir e mangiare,
anche le
bestie lo fanno! Poi, arrangiatevi, io v’ho
avvertito” e lasciò un impacciato
marito lì, fermo immobile, in mezzo alla caminada con la
cesta in mano.
“In
effetti, se posso dir, vostra siora mojer avrebbe ragione”,
commentò sier Lunardo Zustignan, con cui quella notte
condivideva la
supervisione della ronda. “Vi state strapazzando troppo, sier
Zuam Paulo, non
avete più vent’anni, potete anche riposare una
notte.”
“Quando
avremo vinto sta maledetta guerra, dormirò per una
settimana intera – solo allora!”,
dichiarò serissimo sier Zuam Paulo, cedendo
il cesto ad una sentinella che non ci pensò due volte a
farne bottino.
Da un
po’ di tempo l’uomo sentiva delle fitte
all’altezza del
fegato e la bile gli risaliva acida lungo l’esofago,
levandogli l’appetito,
molto probabilmente dovute all’ansia di ritrovarsi a
difendere una città-chiave
della Serenissima sia dalle truppe franco-imperiali sia dai propri
disordini
interni. Non giovava il fatto, poi, che le sue richieste di rinforzi e
denari o
non ricevessero risposta o che gli venissero centellinate; ovvio che,
senza
paga, i soldati stessero dirigendo altrove le loro attenzioni, se alle
donne o
all’argenteria di chi doveva ospitarli forzatamente in casa.
La questione poi
della Madona Granda non aiutava, anzi, sua moglie stessa in uno scatto
di nervi
gli aveva dato del turco, mentre cercava di spiegarle il motivo di
quella
drastica scelta.
Fortunatamente,
il podestà era talmente incompetente e di
conseguenza malvoluto da attirarsi la stragrande maggioranza delle
antipatie
dei trevigiani; ciononostante, il Gradenigo non dormiva sonni
tranquilli,
addirittura lavorava più del dovuto per dimostrare la sua
totale dedizione alla
santa causa, da cui le lodi da parte di tutti.
Ma fino a
quando?
State
attento, sier Zuam Paulo, o metteranno la vostra testa su di
una picca, come fecero con Batiano, il trombetta di Leonardo Trissino.
Il
racconto di sier Hironimo Marini, il podestà in carica il
fatidico 10 giugno del 1509, ancora l’ossessionava,
portandolo a scrutare di
tanto in tanto dalla finestra del Palazzo dei Trecento la folla in
apparenza
tranquilla e dedita ai fatti suoi, in realtà un maremoto
umano pronto a colpire
al primo suo passo falso.
“Fuogi!
Fuogi dal Montelo!”
Il
provveditore Gradenigo e Zustignan scattarono in avanti verso
il parapetto, allungando il collo e gli occhi sgranati alla vista di
piccole
luci simili a torce illuminare i rimasugli della chiaria.
“Non
possono esser già qui!”, esclamò sier
Lunardo sconcertato,
“L’avremmo saputo!”
Sier Zuam
Paulo scosse il capo. “Saccomanni a cavalo, senza
dubbio. O cercano i villani … o i villani cercano
loro”, asserì concisamente e
si staccò dal parapetto, scendendo rapido le scale onde
salire a cavallo e
raggiungere il capitano Vitelli. “In ogni caso,
sarà meglio inviare domani
degli esploratori per degli accertamenti. Se i saccomanni si son spinti
fin
qua, significa soltanto una cosa: che la Valle della Piave è
stata invasa!”
E
– Dio li scampasse – che la fortezza di Castelnuovo
di Quero era
caduta.
Continua …
********************************************************************************************************************
Piccola
nota: alcuni fiumi in veneto sono al femminile: la Piave,
la Botteniga, la Brenta, etc. perciò ho deciso di tenere
questo “venetismo”
nella scrittura anche per fedeltà filologica: soltanto nel
XIX secolo il fiume
Piave diverrà maschile.
A parte
questo, come Mercurio Bua abbia espugnato Castelnuovo,
purtroppo non si sa con certezza. Un poema greco scritto su di lui
nell’Ottocento narra di come, davanti alle lagnanze del
Principe di Anhalt,
egli si sia messo a nuotare coi suoi stradioti il Piave, assalendo di
spalle i
marciani.
Ovviamente,
si tratta di una narrazione un po’ troppo fantasiosa,
poiché attraversare il Piave ingrossato è da
sventati in costume da bagno,
figurarsi con armature. Eppoi, cosa voleva fare senza armi? In aggiunta
nel
poema il povero de La Palice è messo da parte, senza contare
come il Principe
di Anhalt fosse già morto da un anno ai tempi
dell’espugnazione di Castelnuovo.
Tuttavia, io sono convinta che la parte del giungere alle loro spalle
sia
plausibile, pertanto ho preso quello spunto e sviluppato con una
strategia un
po’ meno romanzata.
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] questi sono i nomi dei militari a presidio
della fortezza, che sono giunti fino a noi grazie alle cronache
bellunesi del
Giampiccoli. I nomi degli altri, così come degli uomini di
scorta e dei famigli
sia del Nostro che dei suoi capitani, purtroppo, sono rimasti
sconosciuti.
[2] Feltre città natale
della primissima
infanzia = stando alla biografia
ufficiale, il Nostro
è nato nel 1486 a Venezia nella
parrocchia di San Vidal, dove presso
il ponte Vitturi si trova il palazzo della sua famiglia.
Tuttavia,
in quell’anno suo padre, Angelo/ Anzolo Miani era
podestà e capitano di Feltre e secondo il “Liber
juramenti rettorum et
officialium de extra” e le prescrizioni degli
“Statutorum magnificae civitatis
et communis Feltriae”, gli ufficiali di Stato erano tenuti a
trasferirsi con
tutta la famiglia sul luogo del loro incarico, essendo
anch’essi compartecipi
dei doveri e dei diritti del podestà al momento del
giuramento della presa di
possesso della podesteria.
Considerando
il viaggio Venezia-Feltre troppo faticoso per un
neonato, gli storici di recente hanno avanzato l’ipotesi che
forse il Nostro
sia nato a Feltre invece che a Venezia; non è da escludere
che sua madre,
incinta, abbia viaggiato per burchio risalendo il Piave. Purtroppo,
sono
soltanto speculazioni visto che non sappiamo tutt’oggi il
mese e il giorno
esatto della nascita del Nostro. Per la storia, ho scelto dunque questa
teoria
più recente, collocando la sua nascita a
Feltre.
[3] andar a Patrasso =
finire
male, morire.
[4]
multa di 25 ducati =
Nell’estate del 1509 venne
emanata una grida che chiunque possedesse cavalli doveva cederli alla
Serenissima ad uso dell’esercito o incorrere in una multa di
25 ducati per
ciascun cavallo trattenuto. Vista la loro importanza, quando si faceva
bottino,
i cavalli erano le prime prede su cui ci si buttava.
[5] camerlengo = da non confondere coll’omonima
carica nelle gerarchie ecclesiastiche. Nel sistema amministrativo della
Serenissima, il camerlengo era colui che amministrava le finanze
pubbliche di
una città.
[6]
fiorentino =
fiorentino, in questo caso sodomita.
Di sodomia (o “vizio
fiorentino”) s’additava Giulio II stando a
certe voci di corridoio riguardo ai suoi gusti effettivamente un
po’ ambigui.
[7]
famiglia apostolica = per
famiglia apostolica
s’intendono le 12 famiglie (come gli Apostoli) che si dice
fondarono Venezia,
tra cui appunto i Contarini, i Morosini (o Morexini) di cui faceva
parte la
madre del Nostro, i Giustiniani, i Gradenigo e i Corner, etc. Erano
anche dette
“Case Vecchie”, ovvero esponenti del patriziato
più antico. Le “Case Nuove”,
invece, erano le famiglie patrizie aggiuntesi o per meriti verso la
Repubblica
o per ricchezza prima della Serrata, tra cui ad
esempio i Miani, i
Gritti, i Malipiero, i Loredan, i Tron (o Trum), etc.
(…)
Aurelii Cotta prefetti del Reno =
il
clan dei Contarini vantava la propria discendenza dalla gens romana
degli
Aurelii Cotta e in particolare i prefetti del Reno, soprannominati
Cotta Rheni,
da cui Contareni, venezianizzati in Contarini. Ovviamente, non
è storicamente
dimostrato, però segue di sicuro la tradizione tutta
aristocratica d’inventarsi
origini illustri. I Miani, ad esempio, si vantavano di discendere dalla
gens
Emilia, da cui la latinizzazione (e conseguente italianizzazione) del
loro
cognome in Emiliani.
Stando
alle genealogie, la prozia del Nostro, Elena Miani, aveva
sposato nel 1428 Alvise Contarini, prozio di Federico, imparentandoli
seppur
alla lontana.
[8] prima di dare del fedifrago sporcaccione
ad Andrea Gritti, sottolineiamo che egli era rimasto vedovo
già dal 1476, anno
in cui gli era morta di parto la moglie Benedetta Vendramin, dandogli
l’unico
figlio legittimo, Francesco, che a sua volta morirà nel
1506, affidando al
padre la moglie Maria Donà e le due figlie Benedetta e
Viena. Poco più tardi,
Maria si risposerà con Sebastiano Contarini, amico del
Nostro. Vedovo a soli
ventun anni, Andrea decise allora di salpare per Costantinopoli e
lì si prese
in casa questa donna greca (il nome è inventato, purtroppo
lei è rimasta
anonima) con cui convisse in monogamia, bisogna dargli credito, e che
gli diede
quattro figli naturali: Alvise (o Ludovico), Pietro, Giorgio e Lorenzo.
[9] Gian Paolo Gradenigo aveva sposato Maria
Malipiero, figlia di secondo letto di Viena Zane vedova Gritti e di
Giacomo
Malipiero, quindi sorellastra di Andrea. Oltre a lei, Viena ebbe anche
due
maschi, Paolo e Michele Malipiero. Il rapporto tra i
fratellastri fu
sempre ottimo, anzi, in più occasioni Andrea diede prova di
grande affetto
verso i minori e viceversa.
[10]
Molon labe! =
Vieni a prenderle!, la famosa risposta
di Leonida all’intimazione di Serse di consegnargli le armi.
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Capitolo 3 *** Capitolo Secondo: 27-31 agosto 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato 29.07.2021
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Capitolo Secondo
27-31
agosto 1511
Fino
a quando, Signore, implorerò aiuto
e
non ascolti,
a
te alzerò il grido: “Violenza!”
e
non salvi?
Perché
mi fai vedere l’iniquità
e
resti spettatore dell’oppressione?
Ho
davanti a me rapina e violenza
e
ci sono liti e si muovono contese.
(Abacuc, Sap. 6, 12-16)
Un
silenzio di tomba regnava su quel freddo e umido meriggio del
27 agosto 1511.
Scioltosi
il livido sole dal laccio delle nuvole grigiastre e
diradatasi la nebbia della polvere da sparo, azzittitisi gli echi delle
grida
di battaglia e il fragore delle spade e delle schioppettate,
s’impose la pace
immobile e gelida del cimitero e tale dovette il Castello apparire al
maresciallo La Palice, quando vi entrò a cavallo: nulla si
muoveva né un sol
rumore umano si sentiva.
I corpi
dei marciani e dei franco-imperiali, ammassati uno sopra
l’altro in un mortale abbraccio, riuscirono a turbare il pur
navigato
generalissimo, avvertendo quegli per la prima volta in vita sua una
certa
insoddisfazione nella vittoria. Sì, avevano conquistato una
roccaforte
relativamente strategica, tuttavia … Forse
quell’aver combattuto sul serio fino
all’ultimo uomo aveva levato ogni godimento alla riuscita
dell’impresa,
schiaffando in faccia ai franco-imperiali la consapevolezza che se
quella era
la resistenza oppostagli da una fortezza male in arnese come quella di
Castelnuovo di Quero, cosa li attendeva una volta giunti sotto le mura
di
Treviso, l’irriducibile e ostinato Occhio
Destro di Venezia?
“Recherchez
les survivants!”,
ordinò ai suoi uomini La Palice, lui
per primo scettico sulla possibilità di trovare dei
sopravvissuti in quel
mattatoio. Di animo meno incerto appariva invece il capitano Mercurio
Bua, che
anzi, sceso da cavallo, rivoltava i cadaveri e all’occasione
levava loro
l’elmo, quasi stesse cercando tra di essi un volto in
particolare. Il
greco-albanese ansimava leggermente, l’aspetto più
scarmigliato del solito,
reduce infatti dall’ostinata schermaglia mossagli contro dal
capitano Vetor
Pozzo e dalla sua compagnia, la quale, per suo sommo smacco, era
riuscita a
sfuggirgli da sotto il naso e a riparare molto probabilmente a Feltre.
Se non
fosse stato per il condottiero feltrino e il suo attacco a sorpresa al
limite
del suicida, di sicuro i franco-imperiali avrebbero concluso
l’assedio assai
prima, invece di prolungarlo dolorosamente fin quasi a
mezzodì.
“Sopravvissuti?”,
ripeté snervato il Bua, passando sempre più
impaziente al prossimo corpo. “Si è combattuto
tutta la mattina, chi volete che
sia sopravvissuto? A parte quelli che hanno battuto in ritirata,
ovviamente”,
aggiunse, ribollendo di stizza al mero ricordo di Vetor Pozzo sparire
tra il
sentiero montano.
“Abbiamo
dato loro una scelta, capitaine. E loro
hanno
scelto la pace della morte.”
“Sicuro,
loro riposano in pace”, commentò ironico Mercurio,
“nella
breve attesa della nostra compagnia, perché senza bottino
quant’è vero Iddio
creperemo di fame. Forse, i vostri capitani tedeschi avrebbero dovuto
tenerlo
da conto, quando si sono avventati come i-d-i-o-t-i sui marciani,
invece di
salvarne qualcuno per il riscatto! Ogni volta la stessa storia: prima
distruggono tutto e poi si lamentano che non è rimasto
più nulla per il
rifornimento.”
Purtroppo
per lui, il maresciallo de La Palice dovette arrendersi
dinanzi all’innegabile verità proferita dal
mercenario greco-albanese, nell’intimo
anch’egli infastidito da quella cecità che li
portava sempre più sovente a
litigare tra di loro sulle scorte di cibo o altri beni di prima
necessità.
“Qualcuno
si deve pur essere salvato.”
“Nessuno
qui ci crede né lo spera. Guardatevi in giro: vi pare
questo il modo di festeggiare una vittoria? Sangue di Cristo, perfino i
nobili
hanno ucciso!”
Di nuovo,
Mercurio Bua aveva ragione. Perfino i soldati
franco-imperiali, solitamente così rumorosi nel loro
gozzovigliante razziare,
non osavano fiatare: coloro che ancora si reggevano in piedi dopo
quella mattina
di sangue si limitavano a rovistare delusi e frustrati tra le macerie e
a
spogliare i cadaveri sia dei marciani che dei propri compagni,
raggranellando
un misero malloppo composto di pezzi d’armatura; scarpe e
guanti; qualche spada
e pugnale; poche monetine e qualche anello.
Non
miglior fortuna ebbe chi invece setacciò gli interni del
Castello: di cibo era rimasto poco o niente; lo stesso per le
munizioni, avendo
dato fondo gli assediati ad ogni arma e giungendo perfino a buttare
giù in
testa le colubrine e i falconetti agli invasori pur di rallentarne
l’avanzata. Nelle stalle giacevano morti i
cavalli, se per lo
scontro o per mano degli stessi difensori di Castelnuovo difficile da
stabilire. Le stanze del castellano piangevano miseria, gli unici pezzi
di
valore – a parte il cassone cogli abiti –
risultavano la sua scrivania di legno
di quercia e le lenzuola del letto. La piccola cappella avrebbe potuto
competere con la Porziuncola delle origini in quanto a spoglia
semplicità, non
trovarono una sola pala rivestita di foglie d’oro, niente
ostensori, turiboli,
calici d’oro, d’argento e ricoperti di pietre
preziose, soltanto un crocifisso
di legno assai dozzinale subito staccato per farne legna. Neppure il
pane e il
vino per l’Eucarestia erano rimasti. Al cappellano, morto,
poterono rubare solo
un piccolo crocifisso d’oro al collo e le scarpe di cuoio
ché il rosario era
fatto con i semi di lacrime di Giobbe, perciò di nessun
valore dunque inutile.
Tanto
scoglionarsi - incominciarono a mormorare tra di loro gli
scontenti soldati la cui lungimiranza tattica si limitava alla paga
mensile e
alla sopravvivenza al giorno successivo- quasi due
giorni di
patimenti per questo in cambio?
Pietre e
cadaveri, era questo il bottino di Castelnuovo di Quero?
“Hé,
Finger weg! Ich
habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir!”
Mercurio
Bua, come molti soldati del resto, si girarono
velocemente dinanzi a quel primo scatto di vitalità in mezzo
alla silente
desolazione. Già un piccolo gruppetto di curiosi si era
stretto ai due
contendenti, chi intimando loro di darsi una calmata chi
incoraggiandoli in
quella distrazione assai benvenuta. Un soldato tedesco e uno francese,
i quali
pur non capendo un accidenti di ciò che l’altro
gli stesse urlando dietro, si
contendevano peggio di due bambini capricciosi una misericordia,
incuranti di
come stessero a momenti calpestando il corpo per terra da cui
l’avevano
sottratta. Finché il francese, elargita al tedesco una
violenta gomitata, se lo
scrollò di dosso, intimandogli feroce:
“Pas
de chance, sale
voleur, c’est à moi! Et si tu t’approches avec tes sales mains
allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau dans ta foutue gorge ! ”,
gli mulinò contro un lungo coltellaccio e appurato come il
contendente non
avesse intenzione di riprendere la disputa, se ne ritornò
soddisfatto alla
spoliazione della salma.
Aiutato
il compare a rimettersi in piedi, gli altri soldati
tedeschi gli batterono a mo’ di conforto la spalla,
consolandolo: “Passiert.
Nächste Mal.” [1] L’uomo,
massaggiandosi la mandibola dolente, fissò torvo
il francese e Mercurio Bua constatò come
quest’ultimo dovesse incominciare a
guardarsi le spalle d’ora in avanti.
“Hé,
tu!”, richiamò egli l’attenzione del
vincitore della contesa,
una volta dispersosi il gruppetto a spettacolo terminato. “Da
chi l’hai presa
quella misericordia? Da questo qui?”, inquisì,
girando prono col piede il
cadavere, le cui membra apparivano ancora flessuose, avendo magari
tirato le
cuoia da poco o da sé o per mano del francese stesso.
Gli occhi
inquisitori del greco-albanese ne studiarono attenti
l’armatura, troppo elaborata e di buona qualità
per appartenere ad un semplice
fante. Inoltre, per quanto scalfita, non notava affondi letali, tranne
ecco sul
corsaletto ma le budella erano ancora al posto suo, cioè in
pancia e il corpo
non era circondato dall’alone di sangue di chi salta in aria
o dall’alto cade
nel vuoto. Né sentiva il familiare tanfo
d’urina e feci. Cosa poteva aver
dunque provocato la morte?
“Spostati!”,
ordinò perentorio al soldato che, a malincuore,
dovette obbedire al suo superiore, augurandosi in cuor suo che non
volesse
sottrargli il suo bottino. Inginocchiatosi accanto al corpo, Mercurio
trafficò
coi lacci dell’elmo, imprecando a denti stretti per via dei
nodi
attorcigliatisi coi capelli. Eventualmente, riuscì
nell’impresa e l’elmo venne
levato, schiaffandolo il Bua in mano al francese i cui occhi
s’allargarono
cupidi per l’eccellente sua qualità.
Un viso
incrostato di sudore, polvere e sangue gli si parò
innanzi; ciononostante, il greco-albanese ben se lo ricordava,
impossibile dimenticarsi
di quel ragazzo che nella confusione della breccia del bastione di
Codalunga
gli aveva puntato contro la balestra, mancando lui di un dito ma
centrando
appieno il suo cavallo così da farlo cadere in un canaletto
maleodorante. Il suo luogotenente Zilio Madalo lo aveva
letteralmente
dovuto ripescar fuori dalla merda, però almeno Mercurio si
era salvato dal rogo
dei fuochi ardenti. Non aveva mai accarezzato l’ipotesi di
rincontrare quel
giovane in futuro, tantomeno a Castelnuovo di Quero.
Con
inusuale delicatezza gli tastò il capo alla ricerca di
ferite,
roteandolo sul collo: niente, nulla di rotto.
“Beata
ignoranza”, sogghignò compiaciuto, rivolgendosi al
soldato
francese che a momenti gli si appollaiava sulla spalla, pur di non
perdersi un
solo movimento del capitano
greco-albanese. “Sai tu a chi hai appena
rubato questa misericordia? Al reggente di Castelnuovo!”
Portato subito
l’orecchio sopra la bocca dell’altro,
percepì il flebile ma inconfondibile
solleticare del respiro. “Ed è ancora
vivo!”, esclamò deliziato
quanto un bambino il giorno dell’Epifania, afferrando la sua
preda e
caricatasela in spalla con sorprendente facilità, si diresse
all’interno dove
il La Palice stava completando un rapido rapporto da spedire ai suoi
capitani
rimasti al Barco e a Montebelluna.
Dietro a
Mercurio, silenzioso ma tenace alla stregua di un
cagnolino, lo seguiva serrato il soldato francese nella speranza
d’ottenere
comunque quella bella armatura.
Nel
frattanto, il maresciallo aveva inviato tre corrieri: uno a Conegliano
per domandar la sua resa; un altro incontro all’Imperatore
per informarlo della
conquista di Castelnuovo di Quero e il terzo, suo
segretario, per
annunciare all’accampamento di Montebelluna e del Barco del
loro prossimo
ritorno per i rinforzi necessari alla presa di Feltre e
Cividàl di Belluno.
L’uomo seguitava infatti ad arrovellarsi a causa di quella
mancata lettera da
parte del duca di Nemours e voleva rientrare al campo quanto prima,
giusto per
precauzione.
***
Il
salasso invece di migliorare peggiorò la già
compromessa salute
di sier Andrea Griti, al punto che suo fratello sier Polo Malipiero
aveva
scritto a Venezia per il rimpatrio immediato, non appena il
provveditore
generale fosse stato nelle condizioni di viaggiare senza rischi. Il
patrizio
aveva pianto apertamente e senza vergogna quando sier Andrea gli aveva
espresso
il suo desiderio di comunicarsi e ricevere l’estrema unzione,
nonché di
redigere il suo testamento.
Anche il
governatore domino Lucio Malvezzi e l’altro provveditore
sier Christofal Moro facevano gli equilibrismi con la morte e assieme a
loro
purtroppo i soldati e i padovani in
generale, lasciando sier Polo
Capelo ora da solo a comando di una città
pressoché moribonda. Non confortava
apprendere come queste febbri dal padovano incominciassero lentamente
ad
espandersi nelle campagne limitrofe, mietendo vittime senza
pietà. A
peggiorar la situazione, i soldi per le paghe non arrivavano, il
malumore
cresceva e ciò corrispose alla proverbiale ultima goccia che
spinse sier Ferigo
Contarini a persuadere sua madre Ysabela Falier a salire sul primo
burchiello e
portare con sé a Venezia i fratelli minori Marco Antonio e
Regina, nonché
madona Alba Donado (con cui si era riappacificato dopo averle promesso
di
scrivere a Treviso onde persuadere sier Andrea a rispedire Marco a
casa) e il
di lei figlio Francesco.
“Siora
Mare”, si raccomandò il giovane provveditore, dopo
aver
aiutato la genitrice a salire sul burchiello
dall’imbarcadero, “statemi bene,
vi prego di riguardarvi. Pregherò con gran fervore
l’Altissimo, affinché il
viaggio sia tranquillo, arrivando quanto prima a Veniexia.”
La vedeva
tanto curva e patita, la sua povera madre, invecchiata
precocemente. La tragica morte del marito sier Hironimo, avvenuta alla
Vigilia
di Pasqua del 1508, [2] l’aveva piegata nel suo tormento,
ancor più adesso che
i figli rischiavano la vita per la Signoria, soprattutto Ferigo, quel
suo
primogenito sempre tanto brillante quanto irresponsabile della sua
persona, una
fiamma ardente e meravigliosa che lei temeva spegnersi troppo presto da
un
momento all’altro.
“Fate
attenzione, gioia mia. Vi chiedo solo questo”, si
raccomandò, accarezzandogli teneramente la guancia e Ferigo
baciò quella
fragile mano, che tanto nella vita l’aveva protetto e
confortato.
“Mo
via, coss’elo sto muso da coroto, Marco Antonio?”,
si rivolse
poi giovale al fratello minore, più che altro per
allontanarsi dalla madre,
acciocché lei non scorgesse il luccichio umido dei suoi
occhi. “Voi siete
l’uomo di casa, ora: la siora Mare, Alvixe, nostra sorela e fra poco la siora Marina
vostra novizza contano
su di voi.”
Il
giovane uomo alzò il capo, serrando caparbio la bocca onde
mantenere un’espressione stoica. “Promettetemi di
scrivere! Ogni giorno!”,
esigette, deglutendo malamente.
“Promettetemi
di tornar vivo!”, l’abbracciò sua
sorella Regina,
nascondendo il volto sull’incavo della sua spalla e il
provveditore le scoccò
un bacio sul capo coperto dallo zendale, inalando a mo’ di
ricordo il dolce e
sottile profumo di rosa con cui ella soleva imbevere il panno ricamato.
Strinse
forte al petto quella figuretta minuta appena divenuta donna, quella
sorellina
avuta quando lui era ormai quindicenne e quindi riservandole attenzioni
più di
padre che di fratello, guidandola ad ogni passo fino alla
maturità.
“Promettetemelo!”
“Sempre
ritornerò vivo per voi. Non piangete, non desidero
ricordarvi in lacrime”, le disse, asciugandole le gote coi
pollici. Regina su
sua richiesta gli sorrise tremolante, baciandogli la guancia in barba
al decoro
e cingendolo di nuovo forte, cedette e singhiozzò
sommessamente.
All’occhiata
allarmata del fratello, Marco Antonio afferrò Regina
per le spalle, staccandola dolcemente da Ferigo e aiutandola a salire
sul
burchiello, prontamente abbracciata dalla madre, che le
sistemò premurosa il
velo scuro sul volto pallidissimo.
“Calar
i remi in barba!”, gridò all’improvviso
il pope del
burchiello, giunta infine l’ora della partenza.
“Rema!”,
gli risposero in coro i rematori.
“Avanti!”
Rivoltosi
a Francesco “dai Scrigni”, Ferigo gli promise:
“State de
bona voja, amico mio. Iddio m’ascolta, vi
riporterò indietro vostro fradelo
sano e salvo.”
“Prendetevi
cura di voi e non fate strambazzerie: non potremmo
sopportare n’altra desgrazia!”, gli
ricordò Francesco.
Il pope
gridò ancora: “Andèmo! Tira!”
Le facce
contorte dalla fatica iniziale di girare il burchiello
fermo, i rematori intonarono tra uno sbuffo e l’altro:
“Oh … ehi! Oh … ehi! Oh
… ehi!”
Partiti,
infine, rimpicciolendosi gradualmente, pian
piano, scivolando via sulla Brenta fino a Venezia.
Li
avrebbe mai rivisti? Quanto fragile appariva adesso a Ferigo il
battito del suo cuore, la nervosità dei muscoli e la
solidità delle sue ossa.
Doloroso e incerto il respiro, un lusso quasi, pronto a terminare in un
qualsiasi momento. Alberi pronti a spezzarsi al vento, ecco che si era,
in
balìa di forze insormontabili e oscure con cui non si poteva
negoziare,
destinati ad una fine non voluta né evitabile. Ah,
Fra’ Lunardo, tu che
cinque mesi fa cadesti così virilmente in battaglia,
disdegnando la resa pur
essendo in numero inferiore! Dimmi, carissimo e valoroso compagno con
cui
dividemmo le imprese di Concordia e Mirandola, dimmi che si
è provato in quegli
ultimi istanti? A che cosa hai pensato? A quale Dio sei andato
incontro? A
quello dei Veneziani o dei Collegati?
“Messer
Ferigo, vi disturbo?”
Il
giovane provveditore trasalì, sbattendo le ciglia e
strabuzzando gli occhi in modo da asciugare via i rimasugli delle
ultime
lacrime. Sistematosi i guanti e sospirando profondamente, si
voltò verso il suo
interlocutore e lo salutò cordiale, un mezzo sorriso sulle
labbra:
“Affatto
e bentornato, Conte Guido. Quali nuove?”
Il conte
Guido Rangoni ricambiò il saluto, rasserenandosi e
tirando un intimo sospiro di sollievo, ché un poco
l’aveva preoccupato quello
sguardo fisso del Contarini verso l’orizzonte.
Da quando
era rimpatriato da quelle che il patrizio veneziano
stesso definiva “terre aliene” della Romagna,
un’ombra malinconica ogni tanto
velava il suo sguardo vivace e ardente e il Rangoni comprendeva il
sentimento:
la morte del cavaliere di Rodi Fra’ Leonardo da Prato di
Lecce era stata per
tutti un duro colpo e per sier Ferigo in particolare, avendolo stimato
come
collega e maestro. La Serenissima, dal canto suo, perdeva un grande
condottiero
dotato di un carisma talmente trascinante, da persuadere i suoi uomini
a
combattere anche senza paga. Malgrado ciò, tra il conte
Guido e il
gerosolimitano era scorso sangue assai amaro specie dopo
l’incidente l’anno
addietro nel Polesine, cui solo l’intercessione di sier
Andrea Griti aveva salvato
il Rangoni dagli affilati artigli dei Dieci, colpa l'essere il nipote
di
Annibale Bentivoglio e gli anni passati trascorsi al soldo della casa
d’Este.
Eppure, neanche il conte modenese poteva negare
l’inestimabile valore e lo
spirito stratega del cavaliere rodiano, neanche quando, in un momento
d’impazienza, all’ennesimo diverbio gli aveva
sbottato contro un
umiliante: Uagnone, stai bellu carmu! Tu mancu eri
nato, ch’io già
massacravo i Turchi ad Otranto! [3]
Prendendo
il provveditore in disparte sull’imbarcadero, il
Rangoni riassunse quanto appreso dai loro esploratori: “Si
è saputo come il
duca Carlo di Borbone e Giovanni Gonzaga abbiamo raggiunto Vicenza con
400
cavalli e 300 fanti. Potrei sbagliarmi, ma tutta questa fretta
m’induce a pensare
che temano un qualche attacco da parte nostra.”
Sier
Ferigo annuì, pensoso. Dunque, quella vecchia volpe di sier
Andrea Griti non aveva nutrito sospetti così infondati, alla
fine. Il Duca
Charles III de Bourbon e Giovanni Gonzaga avevano fiutato arie di
grandi
manovre da Padova, rendendosi conto di quanto stupidamente si fossero
sbilanciati sulla Marca Trevigiana, lasciando scoperto il vicentino.
Maledizione, che occasione persa!
Una
risata sardonica, cattiva, scappò al provveditore degli
stradioti. “Puoah! E così il Borbone e il Gonzaga
si credono tanto
intelligenti, da potermi leggere i pensieri? Ma sì!
lasciamoglielo credere a
questi bambinetti che giocano alla guerra!”,
esclamò divertito tra sé e sé, due
dita sotto il mento. E rivoltosi al conte Guido con sguardo
furbescamente
malevolo, lo istruì: “Voglio che si sparga la
voce, che il Contarini di San
Cassian sta marciando alla volta di Vicenza per sgozzarli tutti fino
all’ultimo
uomo.”
“A
Vicenza?”
“A
Vicenza.”
“Ma
proprio uguali parole?”
“Sgozzare
o squartare. A banchettare sui loro cadaveri.
A bruciarli come la Vècia al Panevìn [4]! A
regalare all’Illustrissima Marchesa
Isabella d’Este una collana fatta coi denti di suo cognato.
Siete un
conte e avete studiato la lingua, domino Guido, usate la
vostra immaginazione!
Esagerate, tingete di rosso fosco i dettagli! Bisogna impaurirli,
bisogna che
si arrocchino a Vicenza, bisogna che abbiano tanta paura da non osare
uscire
dalla città tranne per inviare i rinforzi da Milano per La
Palice, in attesa di
un attacco che non accadrà mai. Comprendete?”
Il conte
Guido aprì la bocca in un Ah! complice,
realizzando ora a quale conclusione il Contarini voleva che si
giungesse. “E
mentre quelli aspettano, noi invece punteremo o su Bassano, o su
Castelfranco o
su Cittadella.”
“No,
le attaccheremo contemporaneamente; ciò
rallenterà i soccorsi
dei francesi, indecisi e in difficoltà su quale
città delle tre salvare e quale
sacrificare. Imperativo è riconquistare almeno Castelfranco;
certo, la Brenta
come porta a Bassano porta anche a Padova, però Castelfranco
ha i mulini per
macinare le loro farine, senza di essi non avranno di che nutrirsi e il
provveditore sier Zuam Paulo ci ha confermato come i contadini del
Montello
stiano facendo terra bruciata sul cammino dei nemici.”
“Quando
il Borbone e il Gonzaga avranno capito il trucco, noi con
le tre città in pugno fungeremo da muro in mezzo agli
accampamenti di Vicenza,
del Barco e Montebelluna, dove ora si trova il La Palice. Insomma, gli
taglieremo i rifornimenti da ovest.”
“Esatto.”
“Rimane
però il rischio, che quei crapuloni senza fondo dei
tedeschi puntino sulla Patria del Friuli per rifarsi.”
Lo
sguardo del Contarini si rabbuiò di una cupezza
mortale. “A questo mondo, non si
può difendere ogni cosa …”
“Domanderò
al signor Giano di Campofregoso se s’unirà
all’impresa”, cambiò celere discorso il
conte modenese, notando il languore
della malinconia fiaccare la determinazione del patrizio.
“Credete che il
provveditore messer Paolo Cappello approverà il
piano?”
Lanciata
un’ultima occhiata alla linea dell’orizzonte della
Brenta, sier Ferigo si allontanò assieme al conte Guido
Rangoni per discutere
nei dettagli il piano d’attacco, tra cui le parole onde
meglio persuadere il
provveditore generale a benedire la loro impresa.
***
“Zò,
Felipeto, gh’hastu finìo co’ quel
pozzo?”
Il
ragazzino per tutta risposta s’affrettò a buttar
giù nell’acqua
una strana pappetta fatta di fango, escrementi e grano. Il fratellino,
afferrata anch’egli quella poltiglia, gli dava manforte.
“Datte
‘na mossa!”, gli intimò suo nonno Zuane
detto Nane, mentre
sistemava i carichi di farina sul carro e la moglie le gabbie con le
galline, i
conigli e le oche. Le figlie maggiori e le nuore, invece, trascinavano
i maiali
e i rispettivi mariti sistemavano legando ai carri i cavalli e i bovi.
Il
piccolo esercito di nipoti d’ambedue i sessi con
l’aiuto di altri vecchi zii e
cugini trasportavano fagotti di vestiti, coperte e lenzuola e oggetti
di valore
in un frenetico viavai. “Svelti, svelti!”,
ribadì il capofamiglia.
Terminato
coi sacchi, il contadino afferrò il cadavere del cane da
caccia che suo figlio Titta aveva con gran maestria centrato in pieno
col suo
arco, prima che potesse ululare la loro presenza ai saccomanni venuti
in
esplorazione. Un trucco infame che i contadini del Montello stavano
imparando a
loro spese: compreso infatti quanto fossero o ben nascosti nel bosco o
semplicemente per evitare di vagare a vuoto in esso, i francesi avevano
addestrato dei cani per scovare i fuggitivi e soprattutto le loro
scorte di
cibo e gli animali da fattoria per farne bottino.
“Toh,
qua stai, coi toi patroni!”, grugnì il contadino,
gettando
in un altro pozzo il cane assieme ai cadaveri nudi dei nove francesi
tanto
stolti da pensare di venir a rubargli la roba e sopravvivere.
D’altronde,
quelle terre erano state la casa sua e dei suoi avi da che
mo’ e l’uomo
riconosceva ogni loro rumore, ormai. Ovvio che, in seguito
all’uccisione del
cane e all’udir lo scalpiccio di cavalli, Nane avesse
mobilitato tutti gli
uomini di casa e così armati di arco, frecce, una picca di
fortuna e occhi di
gatto che ben vedevano al buio, essi s’erano posti a difesa
della loro fattoria
e delle loro donne e siccome Dio e la Madonna l’avevano
benedetto con bravi
figlioli e altrettanto bravi generi, manco i signori durante le battute
di
caccia all’airone ne avevano impallinati in così
gran numero come loro coi
francesi! Un giovane soldato veneziano a cavallo li era venuto poi
inaspettatamente in aiuto, fiocinandoli con la sua balestra alle spalle.
Uno di
questi francesi, però, Nane l’aveva risparmiato e
non per
cristiana carità, bensì perché pareva
il miglior vestito e dunque se lo
portavano a Treviso per farlo esaminare, magari il provveditore
Gradenigo li
avrebbe ricompensati con un bel po’ di ducati,
rimpinguando la già
soddisfacente somma che il contadino avrebbe sicuramente raggranellato
coi
cavalli dei saccomanni. Aveva quindi strabuzzato gli occhi tra lo
stupito e il
goloso non appena il giovane soldato, ghermito il prigioniero per i
capelli e
costringendolo a piegare all’indietro il collo per meglio
osservarlo, aveva
esclamato ringhiando: “Ma mi lo cognosso sto baron!
(farabutto, ndr.) Xélo on
canzelier dil la Peliza! Lo gho ben visto a Castel Novo de Quer!
Puòh!”e gli
sputò in faccia, usando molto catarro.
Pertanto,
Nane aveva lasciato il francese alle cure di sua moglie
Oria, la quale l’aveva pestato come un
materasso al cambio di
stagione, dopodiché con l’aiuto delle figlie gli
avevano legato le braccia
dietro una barra di legno a sua volta dietro la schiena, sistemandogli
a mo’ di
collare la medesima corda riservata ai bovi. Spintonato sul
carro tra gli
animali, la testa del francese penzolava inerte in avanti,
l’uomo ancor
stordito e la faccia gonfia dall’ultima randellata della
contadina col
batocchio da polenta, reo di averle implorato diosacché
nella sua lingua, cui
la donna aveva replicato latrando: “Tasi, bestia!”
e via botte da orbi.
Magre
vittorie, ché ormai la loro pace era compromessa.
Già,
infatti, ringraziavano la Madonna per averla scampata per due anni
– alcuni
loro amici di tale fortuna non si erano giovati – adesso
bisognava arrendersi
all’evidenza e cioè che altri saccomanni o
stradioti o franco-imperiali non
avrebbero tardato a trovare la strada per la sua fattoria, magari in
numero ben
superiore dei temerari della notte scorsa. Cosa sarebbe accaduto
allora?
Morire, muoiono tutti prima o poi se per vecchiaia, malattia o un
nocciolo
andato di traverso. Ma non sgozzato come un porco a San Giovanni mentre
gli violentavano
la moglie, le figlie, le nuore e pure le nipotine e tagliavano a pezzi
i figli,
i generi, i nipotini anche in culla. No! Nane il contadino nulla aveva
commesso
di male a questo mondo per meritarsi tal sorte, manco fosse un
criminale da
decollare e squartare tra le colonne di San Marco e San Todero! [5]
Dai
carri, l’intera sua famiglia di tre generazioni osservava a
lavoro completato il capofamiglia in attesa di ulteriori istruzioni,
tutti
tranne la più piccola delle sue figlie, Màlgari,
che si stava accomiatando
dogliosa dal giovane soldato che li aveva sia aiutati a difendersi sia
li aveva
avvertiti di molto probabili e ulteriori scorrerie nel Montello, visto
che
Castelnuovo era stata cinta d’assedio. Il ragazzo, Cabriel,
s’accingeva ora a
ripartire alla volta di Treviso sia per via di un messaggio che doveva
consegnare al provveditore sier Gradenigo sia per quella lettera appena
rubata
al francese, ma dall’espressione infelice e il rossore alle
orecchie dovute
alle carezze alla nuca da parte di sua figlia, Nane appurò
come entro la fine
della prossima primavera sarebbe divenuto nonno per
l’ennesima
volta. Anche nella devastazione più totale, la
forza prorompente della
natura riusciva lo stesso a trovare ogni forma di sbocco pur di
rigenerarsi. E
poi, prima della guerra, quel giovane era ceramista, prospettiva non
disprezzabile per la sua Màlgari, la più bella
delle sue figlie.
“Sior
pare, xé tutto pronto …”, gli
annunciò suo figlio.
Nane
annuì gravemente e Titta accese la torcia tenuta da
Felipeto.
Con aria solenne, il contadino si diresse alla sua fattoria, costruita
dai suoi
avi prima ancora che Treviso e la sua Marca si dessero a Venezia, fonte
sia di
sostentamento per la sua famiglia sia di vanto
giacché roba
veramente sua. Quante generazioni vi avevano sudato! Quanti sacrifici
per
poterla mantenere a discapito degli alti e bassi della vita!
“Non
fifar, nezzo mio”, consolò il ragazzino, malgrado
anche i
suoi di occhi fossero umidi di lacrime. “Semo ancor omeni
liberi e liberamente
decidemo cossa far de la nostra roba. Della pietade de’
ladri, non xé da
fidarsi. O c’amazano o ci risparmiano ma la boaria non
sarà pì nostra, ma de
Muso-da-Baila [6] e nui a laorar da s-ciavi pel patron che ci
darà. No! Mi sun
un poaro villan, perhò a servir todeschi non
m’abbasso!”
E detto
questo, lanciò la torcia e la fattoria prese lentamente
fuoco.
“E
vedarem, cossa i manzeran e i berran sti barbari, co le boarie
e i molini bruzai e i pozzi avvelenai!”
A
giudicare dai fumi neri che si levavano dal Montello, Nane il contadino
non doveva esser stato l’unico ad aver seguito tal
ragionamento. Lungo la
strada conducente a Treviso a fine giornata si contarono almeno sedici
mulini
incendiati più fattorie e campi e innumerevoli pozzi
inquinati e vasche idriche
prosciugate.
***
Non
sussiste a questo mondo nulla di peggio quando chi ti fa
prigioniero in un certo qualmodo si ricorda di te e tu non di lui e non
solo
per motivi di passate beghe e vendette da servire fredde; no, basta
solo che
questi si ricordi chi tu sia e di chi tu sia figlio per rovinarti
l’esistenza.
Un
validissimo esempio poteva fornirlo il marchese di Mantova,
Francesco Gonzaga.
Era
l’agosto del 1509. Mentre il Marchese dormiva beatamente
ignaro in un casolare ad Isola della Scala, vi si erano intrufolati
dentro silenziosi
come anguille un gruppetto di contadini armati fino ai denti e venuti
allo
scopo di derubare nel sonno i soldati francesi e mantovani. Tra questi
militava
tal Domenego di Vinturin dal Termeno al Marchese assolutamente
sconosciuto, ma
se i grandi di questa terra non tengono da conto i piccoli,
quest’ultimi nei
loro confronti posseggono una memoria di ferro e non sempre nutrita
d’affetto e
Domenego il contadino ben si sovveniva della faccia di Francesco
Gonzaga,
giacché costretto di malavoglia a servirlo a Verona.
Riconosciuta dunque la sua
preda, il giovane villano si era gettato addosso al Marchese,
afferrandolo per
la manica della camicia e trascinandolo di peso dentro visto che
l’uomo stava
tentando la fuga dalla finestra del casolare. Alla proposta di comprare
il suo
silenzio con 6000 ducati, Domenego gli aveva risposto sprezzante:
“Vi vojo dar
in man di la Signoria” e assieme ai suoi compari lo aveva
condotto a Padova
come un bove alla fiera, da dove poi il Marchese venne trasferito a
Venezia alla
Torresella. Missier el Doxe Lunardo Loredan, sier Hironimo Querini
Capo dei
Dieci e gli altri tre consiglieri sier Alvixe Capelo, sier Hironimo Contarini e suo zio sier Batista Morexini avevano ricevuto di persona e con l’affetto riservato
ai figlioli i
quattro contadini artefici di quella miracolosa quanto farsesca
cattura,
istruendo che al loro capo Domenego fosse assegnata una rendita annuale
di 100
ducati più altri 100 di dote per sua sorella; agli altri tre
una rendita di 50
ducati all’anno. Infine, cadauno se ne tornò a
casa con altri 20 ducati a testa
per le spese immediate e pure degli abiti nuovi, giacché
s’erano presentati a
Palazzo Ducale davanti alle massime autorità della
Serenissima in camicia,
brache e babbucce.
Hironimo
Miani, rientrato nella sua casa di San Vidal, non avrebbe
mai scordato l’arrivo da Padova di Francesco Gonzaga, con
Lizza Fusina talmente
ostruita di barche, che pareva un ponte. Tutta Venezia aveva atteso in
febbrile
eccitazione il fu eroe di Fornovo, un tempo beneamato figliolo ora
Giuda
Iscariota e non c’era stata una finestra, un imbarcadero, una
riva, un ponte
che non fosse stato gremito di persone lì anche solo per
scorgere per un
istante il Marchese prigioniero. Marco, Marco,
vitoria, vitoria, apicha
el traditor, sorze in cotègo! Turco preso! e
gridavano come ossessi,
oscillando pericolosamente tra ilarità derisoria e ferocia
omicida, al punto
che la scorta del Gonzaga ebbe non poche difficoltà
nell’attraversare Piazza
San Marco, temendo infatti che le guardie o per mancanza
d’energie o perché in
combutta fallissero a contenere la folla impazzita, pronta a maciullare
a mani
nude il Marchese, le donne in prima fila avendogliela giurata per la
morte o la
cattura dei loro uomini.
Il
giovane patrizio aveva assistito basito a come i suoi
concittadini avessero fatto a gara per riuscir a centrare cogli sputi
il
Marchese o peggio ancora coi pitali, con immondizia, con fango o
qualsiasi cosa
li capitasse sottomano. Perfino dai conventi si sentivano certe
ingiurie da far
rabbrividire. D’accordo, Francesco Gonzaga era un infame
traditore e pure un
vigliacco, ma non avrebbe meritato forse un trattamento un
po’ più dignitoso,
magari evitando la parata per i canali come riservato ai malviventi?
Ma i suoi
erano pensieri di un ragazzo ancora ingenuo e sobrio da
una vera e propria vittoria militare. Hironimo avrebbe compreso infatti
il dionisiaco
potere provato dal vincitore sullo sconfitto a Padova
l’autunno del medesimo
anno, dopo aver umiliato i Collegati in un assedio che aveva tenuto col
fiato
sospeso tutta Europa, per decidere se la Serenissima sarebbe
divenuta o
meno un ricordo come la Roma degli Antichi. Trascorse due settimane a
tagliar a
pezzi e bruciar vivi senza sosta tedeschi, francesi, spagnoli,
ferraresi,
papalini e chiunque altro gli si era parato innanzi, il giovane Miani
aveva
perduto pezzo per pezzo ogni sua nozione del codice cavalleresco di cui
era
stato infarcito fin
dall’infanzia, arrivando a cantare a
squarciagola
coi suoi compagni mentre impiccavano sui bastioni di Padova gli
ufficiali
prigionieri tedeschi, affinché li vedesse bene da lontano
l’Imperatore in
fuga.
Gi
è partù quei slançeman!
Allegronse
tutti, friegi,
al
dispetto di ribiegi,
ch’i
se dié magnar le man.
Gi
è partù quei slançeman.
Oh,
gi ha havù el bel honore,
quella
zente della Magna,
digo
ben, l’imperaore,
Franza,
Frara, Roma e Spagna.
I
ha habù el cancaro ch’i magna
A
vegnire sul Pavan.
Se non
fosse stato per la presa alla collottola da parte di un
indignato Lucha, Hironimo avrebbe imitato coloro che, non paghi di
veder
scalciare nel vuoto i moribondi, avevano preso a gettar loro escrementi
e li
ingiuriavano: “Te volevi un toco de Padoa? Togalo, porco
d’on todesco, togalo,
muso-de-merda!” e ancora a cantare a squarciagola:
“Su,
Todeschi onti e bisonti
Su,
su, su, for de la paja;
Voi mai
più passate i monti
Se
verete
a dar bataja;
Vostre
arme poco taja
Se la
faza
v'è mostrata
Su, su,
su!”
La
prospettiva di poter un giorno finire prigioniero non aveva mai
sfiorato Hironimo, più rassegnato a quella della morte.
Eppure eccolo lì, nelle
stinche della suo stessa fortezza con un dolore lancinante alla testa e
al
fianco, più una nausea montante a serrargli la gola.
L’ultimo ricordo prima del
buio pece dell’incoscienza corrispondeva al colpo infertogli
a tradimento al
corsaletto, che l’aveva costretto a voltarsi e decollare
indignato il suo
avversario, imprecando: “Maladeto can
d’un todesco, toga qua!” ma
così facendo s’era sbilanciato e scoperto. Se il
suo nuovo avversario nella
smania di ammazzarlo non fosse inciampato su di un cadavere e di
conseguenza
rotolati assieme giù per le scale, hé, al posto
di ritrovarsi un bel bernoccolo
in testa, Hironimo avrebbe piuttosto rimediato un cranio aperto in due,
altroché.
Poi il
niente fino al suo risveglio in cella e senza la sua
armatura, con solo indosso la camicia, peggio dei contadini.
Messosi a
carponi, Hironimo cedette e vomitò anche l’anima,
reggendosi la testa che gli martellava.
Il tocco
leggerissimo di due manine gli levarono dal volto i
capelli sudati, per poi massaggiargli delicatamente la schiena.
Girandosi di
scatto, nella penombra il giovane Miani scorse Thomà,
anch’egli assai
malridotto, lo zigomo gonfio e un occhio pesto.
“Come
sei riuscito a scamparla?”, gli domandò incredulo;
teoricamente, non potendo tenere un’arma in mano, sarebbe
dovuto esser stato
tra i primi caduti nello scontro.
“El
reverendissimo sior cappellano, patron. El gaveva 8 ducati
co’
lu e i g’ha dati via per no degolarmi, perché
m’gero rifugià in la capela,
perhò i todeschi lo coparon uguale perché nol
gaveva danari per salvar se
stesso”, gli spiegò il bambino, tirando su col
naso e la voce che gli tremava
dal groppo in gola.
Pah,
tipico di quegli avidi agire così.
“Chi altro s’è
salvato?”
“Ch’jo
sapia, i capetanij Doglioni e Colle.”
“Dove
xéli?”
“Li
tragharon fora per examilarli e par razonar sora la taja. Vuj
anchor dormavate.”
Ovvio,
per il riscatto. Medesima sorte l’aveva sperimentata Lucha,
ma quali sarebbero state per loro le dinamiche? Soldi o scambio di
prigionieri?
Inoltre, quanto tempo avrebbero dovuto aspettare? Suo fratello era
stato
prigioniero per ben quattro mesi, un’eternità
quasi … O, ipotesi tremenda, se
l’avessero mai voluto scambiare com’era successo
col D’Alviano, ancora
prigioniero in Francia. Ma no! Figurarsi se lui valeva quanto il loro
condottiero!
Puntellandosi
sui gomiti, Hironimo strisciò fino alla parete,
appoggiandovisi con la schiena e il capo, la bocca serrata stretta in
modo da
impedire ulteriore vomito di fuoriuscire. Maledizione, neanche i
dopo-sbornia
del Carlevar gli avevano scombussolato così tanto lo stomaco!
Plock
… plock … plock …
Una
goccia gli cadde sulla scollatura della camicia, facendolo
sobbalzare per il gelo, seguita da un’altra e
un’altra ancora. Spostandosi,
Hironimo appurò trattarsi dell’acqua piovana che
s’infiltrava tra le grate
delle stinche, unita alla naturale umidità dei sotterranei
scavati accanto alla
Piave, il cui energico flusso riecheggiava simile ad un lugubre e sordo
rullo
di tamburo. Dunque ancora pioveva.
Plock
… plock … plock …, senza il suo corpo ad attutirne il
rumore, le gocce rimbombavano ora nella cella, amplificate
dall’oscurità e
martellando di conseguenza il cranio del giovane patrizio il quale,
esasperato,
batté la testa contro il muro tra il ringhio frustrato suo e
il gridolino
scioccato del bambino, che lo fissava come se avesse perduto il lume
della
ragione.
E magari
ciò corrispondeva al vero.
Idiota,
idiota, mille volte idiota, cosa aveva pensato di ottenere
col suo ingenuo patriottismo, se non un bagno di sangue? Quei poveri
disgraziati, li aveva ognuno sulla sua coscienza, tutta colpa sua,
idiota,
idiota, coglione orgoglioso a sacrificarli come agnelli pasquali per
una causa
persa in partenza mentre lui, il più stupido e inutile dei
comandanti, ancora
seguitava a vivere! Avrebbero potuto riparare a Feltre o a
Cividàl di Belluno come
quei fottuti bastardi dei Arimondi e Bataja e lì organizzare
la controffensiva,
invece d’ostinarsi a tenere quelle misere quattro pietre che
tanto erano lo
stesso state conquistate!
E Menego,
il leale servitore che l’aveva visto nascere … I
suoi
figli Trovaso e Vico! E Nadalin, neppure ventenne … compagni
di giochi, con cui
aveva condiviso i pomeriggi sulle ginocchia dell’Orsolina
… … Morti, uccisi per
colpa sua, non avrebbe mai potuto rimediare a quel torto …
Li aveva sottratti
dalla sicurezza di Venezia … Li aveva privati di ogni futuro
… Aveva ripagato
la loro fedeltà con la morte … Orsolina, Eudokia
Zanetta glieli avevano
affidati e lui … e lui … Inutile! Incompetente!
Stupido, stupido, stupido!
“Patron,
molighe! (smettetela, ndr.) Ve spacaré ea testa!”,
lo
strattonò per la manica Thomà nel tentativo di
distoglierlo da quell’autoflagellazione.
“Gera el nuostro deber custodir ea fortaleza, gavé
fato el vuostro deber! Niun
vi rimprovera gnente!”
“Perché
non è rimasto nessuno per farlo! Cospeto e tacca
via!”,
gridò Hironimo e appoggiò la fronte sulle
ginocchia portate al petto.
Calò
il silenzio, rotto dal solito Plock …
plock … plock …
“Mi
dispiace per tuo fradelo Andrea Trepin.”
Thomà
si morse imbarazzato il labbro già di suo gonfio, forse da
un manrovescio per indurlo a smettere di frignare dalla paura.
“Patron, horra
ch’el Andrea xé morto, ve lo digo sença
timor: el no gera mi fradelo.”
Il
giovane Miani girò di scatto la testa, chiudendo gli occhi
per
le repentini vertigini provocate da quel gesto inconsulto.
“Cosa?”
“El
sior mio pare e la mia siora mare i xéi volai in Cielo
presso
la Nostra Dona, cortesia de li todeschi, cussì chome i mii
veri fradeli e
sorele. Per on anno, me sun ranzato, niun ne volea saver de mi, poaro
orfano,
una bocha in pì da sfamar. Ma el Andrea l’gera un
bonomo e un bon christiano, cussì
com’el sior sòo par Vitor. El me g’ha
dito: Aver ti visin no me fa ni
pì richo ni pì poaro, ma un fradelo piccinin
xé senpre ‘na bea cossa d’aver.
E cussì la xé andà e mi sun zonto qua,
chome soo assistente per smissiar la
polvere da sparo.”
Un comandante
invero competente era stato, abbindolato
perfino dai propri bombardieri e i loro mocciosi appresso!
“Seu
arabià, sior patron?”
“Cosa
cambierebbe se lo fossi?”
“Donca,
sonjo libero de dirve n’altra cossa?”
“Se
proprio no te pol star zitto”, sospirò stancamente
Hironimo,
nettandosi gli angoli della bocca col dorso della mano.
“Me
facevate assa’ paura, senpre a criar pèzo
d’on matto e co tal
muso da gorgon, parevate voler trasformare gli omeni en
piere!”
Silenzio.
“Thomà?”
“Comandeu,
patron?”
“Tasi!”
In
quell’istante s’aprì la botola della
cella e sia Hironimo che
Thomà vennero issati su assai malamente, manco quei balordi
di soldati avessero
avuto intenzione di staccarli le braccia. Li
spintonarono fuori in
direzione del cortile interno, là dove li attendevano La
Palice già a cavallo e
i suoi uomini pronti a partire. Paulo Doglioni e Christofal Colle si
trovavano
lì, anche loro spogliati fino alla camicia, frastornati e
coi segni delle
percosse ben visibili. Li avevano legati le mani con corde strette ai
carri,
così da trascinarseli via al campo di Montebelluna; dunque,
cogitò Hironimo, là
sarebbe avvenuto lo scambio o il pagamento del riscatto. Non scorse
invece
Vittore del Pozzo, sicché ne dedusse esser riuscito a
riparare con la sua
compagnia o a Feltre o a Cividal di Belluno.
Malgrado
la luce livida di una giornata oscurata dalla pioggia,
essa ferì ugualmente gli occhi del patrizio e del bambino
oramai abituati
all’oscurità della cella; nondimeno, gradirono
assai l’aria pura e fresca,
sebbene per qualche istante. Passato infatti il piacevole
scombussolamento di
uscire all’aperto, esso venne rimpiazzato
dall’orrore di ciò che li circondava,
una volta guardatisi più attentamente attorno: cadaveri nudi
e lividi,
ammassati in pile manco cataste di legna per l’inverno era
quanto rimasto della
guarnigione di Castelnuovo di Quero. Riconoscendo tra di essi Andrea il
bombardiere, Thomà nascose di scatto il volto contro
l’anca di Girolamo,
piangendo sommessamente, le spalle minute sconquassate dai singhiozzi.
Senza
rendersene conto, il giovane castellano gli appoggiò la mano
sulla testa a mo’
di consolazione, fissando ipnotizzato quel grottesco spettacolo.
Percepì
lacrime salate colarli nella bocca, quando individuò,
rigidi in un’ultima angosciosa smorfia, i volti di Trovaso e
Nadalin,
semi-seppelliti in quel groviglio violaceo di corpi.
“Vi
avevo avvertito, monseigneur le châtelain ,
che avremmo fatto preda di voi, se aveste perseguito nella vostra
insensata
difesa”, gli ricordò il maresciallo francese col
medesimo tono di un padre che
redarguisce un figlio discolo. “Eccone la prova!” e
indicò i soldati marciani
trucidati.
Hironimo
digrignò i denti, replicandogli sferzante: “Se
intendente prova d’esser
degli animali, mi trovate molto
d’accordo.”
“Anche
nella sconfitta ci riservate solo insolenza?”
“Fin
troppa cortesia per voi barbari.”
La Palice
scosse il capo. “Legateli assieme agli altri. On
returne au champ de Montebelluna!”.
Ma prima
che i soldati potessero avvicinarsi a loro, un iroso
ruggito fendette l’aria, riecheggiando per il cortile interno
alla stregua di
un rombo di cannone. “Pas si vite! Al
tempo!” e girandosi videro
Mercurio Bua avanzare a grosse falcate verso il maresciallo francese,
gli occhi
iniettati di sangue e livido in volto.
“Avevamo
un patto, monseigneur de La Palice!”
“Vi
lascio presidiare questo Castello fino all’arrivo
dell’Imperatore, non gradite l’onore?”,
replicò sbrigativamente l’interessato
in questione, più che altro per evitare scenate dinanzi ai
soldati.
Il
comandante greco-albanese, invece, pareva di diverso avviso,
ché insistette: “Mi ci sciacquo il gargarozzo coi
vostri onori. Anzi, è grazie
ad essi, se siamo rimasti senza bottino e senza cibo, padroni di un
cimitero!”
“E
che mi dite delle scorrerie dei vostri uomini? Non portano
vettovaglie rubate ai contadini?”
“Appena
per sfamarci qualche giorno e quando i miei uomini
riescono a ritornare vivi e in un sol pezzo, ben inteso. Tra gli
stradioti
marciani e i contadini, non si sa chi si diverta di più a
maciullarli!”
“Poche
storie, capitaine Bua, è deciso: fino all’arrivo
dell’Imperatore, rimarrete qui!”
“Malakas”,
imprecò sottovoce l’uomo e meno male che La Palice
non comprendeva la sua lingua, altrimenti non avrebbe di sicuro gradito
il
complimento rivoltogli. “Non verrà, ve
l’assicuro!”
Un
agitato mormorio si diffuse tra i soldati. Come sarebbe a dire
che il Re dei Romani, garanzia di sostentamento e per il quale stavano
rischiando notte e dì la pelle, non
sarebbe venuto?
La Palice
percepì quel montante disagio e decise di porvi
immediatamente rimedio, evitando che sfociasse in disordini.
“Dubitate
dell’augusta e sacra parola
dell’Imperatore?”, sfidò egli
apertamente il
condottiero greco-albanese a contraddirlo, domanda ostica da rispondere
lì
davanti a tutti, senza rischiare un’accusa di sedizione.
Soddisfatto del
silenzio rancoroso di quel satanasso, l’uomo
impartì di nuovo l’ordine di
mettersi in marcia.
Sennonché,
all’ultimo, Mercurio Bua berciò ai suoi uomini:
“Tani!”
e in un lampo, Hironimo avvertì qualcosa stringerlo al collo
e trascinarlo
indietro mentre Thomà gli si aggrappava
nell’inutile tentativo di trattenerlo,
finendo invece per venire anch’egli trascinato via
dall’greco-albanese, subito
circondato dai suoi stradioti con le spade e le balestre puntate contro
i
disorientati soldati franco-imperiali. Zilio Madalo recise le corde di
Paulo
Doglioni e Christofal Colle, spintonando anche loro nel quadrato
improvvisato.
“Che
significa questo, monseigneur?”, gridò indignato e
confuso La
Palice da tanta sfacciataggine.
“Una
volta espugnato Castelnuovo, potrete appropriarvi di
qualsiasi cosa vi sia di gradimento al suo interno”,
gli ricordò verbatim
il condottiero la promessa del giorno precedente. “Ebbene,
questi qua” e
accennò col capo sia i capitani bellunesi sia un Hironimo
sempre più paonazzo
in volto per l’incapacità di respirare a causa
della stretta al collo, “si
trovavano all’interno del
Castello e sono assai
di mio gradimento.
Me li sono più che guadagnati! Se non
fosse stato per il sottoscritto, a quest’ora ce ne
stavamo stupidamente a
farci impallinare alla stregua di anatre! Non ho quindi il diritto di
reclamare
il bottino promessomi? O”, e qui il suo ghigno
s’allargò diabolicamente, “il
maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice è uno
spergiuro, che non mantiene
i patti? Questo dovrò riferire al Roi de France
Louis?”
Anima
semplice, aveva affermato il comandante francese? Anima da
forzato, di uno stramaledetto pendaglio da forca dalla lingua lunga,
ecco cos’era
quell’uomo!
“Tre
giorni, capitano Bua”, cedette infine La Palice, non
desiderando minata la sua autorità dinanzi ai soldati:
adesso capiva come mai,
tra tutti i capitani insoddisfatti e senza paga, l’unico a
riuscire a far
valere le sue ragioni dinanzi allo stesso Re dei Romani fosse stato
proprio
Mercurio Bua, costringendo il Cesare Augusto a piegarsi ed esaudire
ogni suo
capriccio. “Tre giorni rimarrete qui in attesa
dell’Imperatore. Se al
terzo non si presenta né ricevete conferma del suo arrivo,
potrete rientrare al
campo. Ovviamente, se riuscirete a tenere la fortezza in ordine fino ad
allora.”
La morsa
al pezzo di corda al collo di Hironimo s’allentò e
il
giovane boccheggiò aria, tastandosi di riflesso la carne
martoriata. “La vostra
ragionevolezza mi consola, monseigneur”, convenne soddisfatto
il
greco-albanese, esibendosi in un beffardo inchino deferente.
Il
maresciallo La Palice gli scoccò un’ultima
occhiata nauseata e
le truppe si misero in marcia.
Finito di
osservare sornione l’esercito che si allontanava dal
Castello, mormorando tra sé e sé Mercurio Bua
commentò: “E pensare che stavo
per essere sconfitto da un bambinetto come te … Di
nuovo”, cogitava ad alta
voce, notando come Hironimo ancora tossisse, il collo segnato da
chiazze scure.
Avvicinatoglisi, seguitò incautamente:
“Chissà poi com’hai ottenuto
quest’incarico … hai forse pianto
dall’avuncolo? O con quei begli occhi neri
hai sedotto qualcuno in Senato?”
Al che il
giovane Miani cessò di tossire e giratosi lentamente
verso di lui, lo fissò con tale odio da crocifiggerlo per
poi esprimere la sua
modesta opinione a riguardo in greco corrente: “Lo vuoi un
consiglio, keratas?
Cagati in mano e prenditi a schiaffi!”, gracchiò.
Un pugno
allo stomaco lo zittì, forzandolo a carponi.
“Dunque
sul serio, non ti ricordi di me a Padova?”
Ansimando,
il patrizio replicò: “Una faccia da turco come la
tua?
Avrei avuto gli incubi a ricordarmela!”
L’espressione
del Bua si trasformò in un qualcosa di mostruoso.
“Oh, li avrai gli incubi”,
l’assicurò, ordinando ai suoi uomini di rigettarlo
nei sotterranei. Siccome poi, si sentiva d’umor
particolarmente dispettoso, gli
fece gettar addosso una secchiata d’acqua gelida della Piave,
ridendo
sguaiatamente all’urlo acuto di protesta sia di Hironimo che
di Thomà, colpito
suo malgrado dalla fredda cascata.
“Avanti,
un’altra!”, gridò giulivo il capitano
tra le grasse
risate degli stradioti. “Che Sua Signoria si netti un poco la
lingua!”
***
“Me
maraveggio ch’el abbia uto tanto muso da mostrarsi qui a
Trevixo!”
“Non
solo g’ha abbandonà Castel Novo, ma pur
Cividàl de Belluno!”
“Pajàzo!
Canàja! Pendajo da forcha! Meriterebbe l’oggio
bollente!”
“No!
Le tenaglie!”
“Ma
perché el sier Provedador no g’ha dato orden de
farlo
apichar?”
“In
tempi de carestia, ogni omo xé utile ancha co nol
g’ha
cogiòni!”
“Aveu
visto con che muso el sier Marco Miani lo varda? Par
volerselo manzar vivo!”
“Burlestu?”
(scherzi, ndr.)
“El
Batagin Bataja g’ha abbandonà so fradelo, il quale
gera el
castelan de Quer!”
“Dasseno?”
(davvero?, ndr.)
“No!”
“Oh
sì! El magnifico sier provedador Zuam Paulo g’ha
affidato
apposta quel caga-in-braghesse dil Bataja a la supervision dil sier
Marco,
perché lu lo scruterà assa’
attentamente, nella speransa ch’el scampoli cussì
da cavarse el piazer de coparlo de propria man con la scusa di
diserzione!”
“Pulito!”
“An,
ecco perché el g’ha senpre ea man a la spada e gli
oci tacai
a la soa schiena.”
“Silenzio
là, banda di comari pettegole!”,
rimbeccò Lorenzo “Renzo”
Orsini degli Anguillara di Ceri quel gruppetto a suo gusto un
po’ troppo
chiacchierone, supervisionando intanto i lavori di
pulizia dalle
macerie della case abbattute lungo le mura. Non appena si
girò dalla parte
opposta, gli venne elargito un bel segno sconcio che provocò
l’ilarità degli
altri civili per poi chetarsi subito, quando il capitano delle
fanterie,
attirato dalle risate, si focalizzò di nuovo su di loro.
Onde
velocizzare i lavori di fortificazione delle mura e della
città già incominciati due addietro su progetto
di Fra' Giocondo da Verona, il
provveditore Zuam Paulo Gradenigo aveva emanato l’ordine che
ogni trevigiano –
sia laico che religioso – dovesse contribuire allo
smantellamento degli edifici
e smaltimento dei detriti. Infatti, per far fronte alle tensioni tra i
soldati
e i civili e soprattutto alla fiumana di fuggitivi dalle campagne che
si
riversava ogni giorno incontrollata in città, il
Provveditore e il Consiglio
Cittadino avevano convenuto come nessuno a Treviso dovesse stare con le
mani in
mano a poltrire; anche i rifugiati, se abili e in salute, al meglio
delle loro
possibilità e competenze col proprio lavoro dovevano
ripagare la protezione, il
pane e il vino offertoli da Treviso. Essendo la maggior parte
di essi dei
braccianti, con tale incarico ci andavano a nozze, fornendo un prezioso
aiuto.
Fin qui
dunque tutto bene, malgrado la pioggia battente che
proprio non voleva smettere di cadere e impacciava di conseguenza i
movimenti.
Abbandonate dunque la berretta, la veste e il farsetto in mano alle
loro donne,
(tutte schierate sotto i portici, le braccia incrociate sotto gli
zendali) i
trevigiani si erano messi a lavorare nel fango più fradici e
sporchi di quando
la Melma straripava e allora dovevano andare a rovistare e liberare le
zone
allagate. Anche i monaci si erano rimboccati le maniche, onorando
l’antichissimo ora et labora.
Tuttavia,
quando avevano visto arrivare il Batagin Bataja e i suoi
uomini assieme a sier Marco Miani (questi con una faccia da Gorgone
Medusa),
ecco che la bile aveva incominciato a ribollire, non gradendo dover
faticare
accanto a quei vigliacchi e all’occasione, quando
l’Orsini non guardava, ne
approfittavano per lanciar loro qualche manciata di fango addosso.
A
peggiorare le cose, dopo il campanile si era annunciato
l’imminente abbattimento del monastero di Santa Maria
Maggiore e ai trevigiani
era venuto un colpo, soprattutto essendo in pena per la sorte dei
Canonici
Regolari di San Salvatore, loro custodi. Al priore Fra’
Hironimo Francesco Bono
e i suoi confratelli non era rimasto altra protesta, se non quella di
piangere
e recitare rosari, mentre il loro amatissimo santuario veniva demolito
pezzo
per pezzo, manco fossero ritornati gli Ungari [7].
“Spero
solo che lassino star la capela di la Devotissima, la qual
senpre g’ha difeso Trevixo da li nemici”,
confessò a fine giornata Donado
Cimavin a Marco Contarini “dai Scrigni”, mentre si
dirigevano a casa del primo
poco distante dalla chiesa di San Francesco.
Il
giovane patrizio annuì distrattamente, più
impegnato a
scostarsi col polso alcune ciocche biondo-rossicce dalla fronte e a
guardarsi
infelice le mani doloranti e sanguinanti dalle vesciche pur avendo
lavorato coi
guanti, rimpiangendo quel suo colpo di testa di voler aiutare i soldati
e i
civili “volontari”. D’altronde, aveva
provato un bisogno matto di sfogarsi
contro i mattoni, non avendo potuto prendere a picconate la faccia del
Bataja.
Al convegno a Palazzo dei Trecento, dinanzi alla pesante accusa
d’aver mancato
alla parola d’onore data ad Hironimo Miani, ossia di venirlo
a prelevare in
caso di pericolo, ecco che il Batagin aveva replicato con una
scrollatina di
spalle: Non è mica colpa mia, se quel
pazzo insolente e cocciuto ha
voluto restare a tutti i costi lì a morire!
Come
Marco Miani fosse riuscito a trattenersi dallo strappare a
morsi quella faccia di bronzo, mistero e lode al suo autocontrollo.
Eppure,
Marco Contarini era certo di averlo scorto barcollare in preda ad una
violenta
vertigine nel momento in cui quel giovane soldato scampato dal Castello
-
Cabriel si chiamava? - gli aveva ceduto le redini di
Eòo e Marco
conosceva abbastanza bene il Cor suo da
sapere che solo da
morto egli si sarebbe separato dall’amatissimo cavallo.
Tre
giorni erano trascorsi dalla caduta di Castelnuovo di Quero,
ma della sorte dei suoi difensori si ricevevano notizie incerte e
contraddittorie: Domenico da Modone aveva appreso come se ne fossero
salvati
solo quattro su cinquanta, ma ignorava se il castellano fosse tra
questi, anzi,
confuse perfino Hironimo con suo fratello Carlo che per poco non gli
era
costato il collo da parte di un furibondo Marco Miani; il capitano
Costantino
Paleologo tramite i suoi esploratori infiltratisi nel campo di
Montebelluna
aveva riferito del ritorno del maresciallo La Palice e di come il
francese
stesse preparando un’invasione di Feltre risalendo
(chissà perché) la Valle
della Brenta. Altre spie avevano confermato il rilascio dei capitani
bellunesi
Doglioni e Colle dietro cospicuo pagamento. Feltre e Cividal di Belluno
erano
state abbandonate - avevano aggiunto- i rispettivi
podestà fuggiti a
Serravalle in attesa di conoscere la risposta dell’Imperatore
al loro
ambasciatore, non avendo infatti alcuna alternativa se non la resa,
specie se
era vera la notizia di un doppio attacco a sud-ovest della Valle
Serpentina.
Ma di
Hironimo, ancora nessuna conferma se fosse vivo o morto e
Marco Contarini, essendogli stato negato dal Gradenigo il permesso di
unirsi
alle missioni d’avanscoperta e incapace di respirare a causa
di quel groppo in
gola, era improvvisamente smontato da cavallo e s’era messo
furiosamente a
vangar via la terra e a sollevare mattoni pur di sfogare in qualche
modo quel
suo dolore, grato della pioggia torrenziale che gli nascondeva le
lacrime. Si
era ripetuto che in teoria era assai improbabile che avessero ucciso
Hironimo,
un patrizio veneziano rimaneva nel mercato dei riscatti una merce
troppo
preziosa da sprecare stoltamente. Eppure, non era da escludere che
il Cor
Suo, orgoglioso e testardo, avesse scelto di morire piuttosto
di lasciarsi
catturare.
“A
caxa, la mia mojer la ve darà un fiatin d'unguento e bende
– no
gh’aveu mai laorato co’ le mani?”, gli
chiese candidamente intrigato Donado e
Marco gli elargì un cortese sorriso di circostanza,
scuotendo il capo in
diniego.
Al suo
arrivo piuttosto inaspettato a Treviso, giacché aggiuntosi
all’ultimo momento e non volendo soggiornare dallo zio
– il podestà sier Andrea
Donado - il giovane Contarini era stato
assegnato in
via temporanea, ve lo zuro! in casa dei Cimavin, di
professione
mugnai, il che aveva impensierito non poco Marco, siccome non godevano
gli
esponenti di tale professione esattamente di buona fama –
ladri, imbroglioni,
usurai della farina - non si soleva forse
ripetere: i muneri
i roba pregando? [8] Non ne avrebbero mica
approfittato per derubarlo
nel sonno, vero?
Il
giovane patrizio aveva però ben presto scoperto con suo
sommo
sollievo come i Cimavin sì fossero mugnai, però
già agiati di loro nel senso
che possedevano ben tre “rode de molin” a Treviso
e lungo il Sile,
un gran lusso: un mulino, il più grande, lo lavoravano
direttamente loro; due
li avevano dati in affitto a conduttori di fiducia, venendo tuttavia a
controllarli spesso sia per la manutenzione che fosse costante sia per
la
produzione che non doveva calare sotto i livelli imposti della
Serenissima,
pena l’esproprio. E il padron peggiore è quello
del mestiere.
Anche con
la guerra in corso le loro fortune non erano mutate,
anzi, l’ultimo che more de fame
xé el munèr e Donado Cimavin
aveva ben compreso la pressante richiesta di farina e pertanto i suoi
mulini
giorno e notte macinavano non solo per la popolazione trevigiana,
bensì per
Venezia, per l’esercito e le città limitrofe, con
ritmi lavorativi talmente
serrati che lui stesso dormiva all’occasione al mulino. Con
l’arrivo dei
soldati e il timore di eventuali danni, Donado aveva organizzato una
contro-ronda
coi suoi braccianti, così da controllare che quelle malerbe
non gli rubassero o
peggio danneggiassero la sua roba, bastonando senza pietà
qualora necessario. E
per roba sua intendeva anche la moglie, la siora Felicita, il cui
palpeggiamento il Cimavin non aveva affatto gradito.
Ed eccola
lì, la matrona di casa, seduta accanto al centro della
stanza principale impegnata in apparenza a rammendare, in
realtà i suoi occhi
seguivano stretto ogni movimento della serva e del piccolo Jacopo
seduto in
braccio alla vecchia siora Luzia, sua madre. Donado
andò subito incontro
alla moglie, sennonché la giovane, annusando
l’aria lo bloccò prima che potesse
abbracciarla.
“Noli
me tangere!”, proclamò ieratica, il
braccio levato a
creare la debita distanza. “Seti onto, ve spuzate da cagnon e
non vi vojo da
rente! (vicino, ndr.)”, ma se le parole sembravano aspre, gli
occhi e la bocca
luccicavano di contentezza nel riavere ora per sé il marito,
seppur sporco di
fango e bagnato dalla pioggia e dal sudore.
“Aveu
assunto ‘na massera?” (serva, ndr.),
notò d’un tratto Donado
la ragazza che stava riattizzando il fuoco nel caminetto, la quale si
pose
frettolosamente in piedi e salutò il nuovo padrone con un
goffo inchino.
“Sior
sì.”
“Sença
dirme gnente?”
“Mi
sun la patrona de caxa.”
“E
mi el marido che paga.”
“Appunto,
paghé! Qua a furia di prender zente in caxa, mi non
sciò
pì chome starghe drio!”, si giustificò
impunita la moglie, senza smettere
l’agile andirivieni dell’ago nella
stoffa. “An, la puta la se ciama
Màlgari. La soa fameja la xé zonta ozi dal
Montelo e la g’han alozata a la
contrada di San Martim. Mi zerchavo guarda caso propio qualcheduna che
m’ajutasse e la soa siora mare la me g’ha dito a
man zonte: Madona,
tolevela in caxa, la xé na brava puta de quindece anni,
robusta e assa’ brava
in cucina, v’ubbidirà in ogni cossa le
comandaré . Et jo potevo
rifiutar ad una poara mare disperata? Hé! Un fia’
di carità christiana!”, gli
narrò, seppur l’espressione del marito seguitasse
a rimanere molto scettica. Al
che Felicita esclamò spazientita:
“Animo, andé a lavarve e fate pase
col savon, deboto (fra poco, ndr.) svengo per via de sta
spuza!”
“Vado,
vado, perhò dopo faremo i conti!”
“Sì,
sì sior marido, ché la puta la vol esser pagata
in anticipo
per la semana!” e rise all’imprecazione del
consorte che riecheggiò dalle
scale. Cambiando totalmente il tono di voce in uno più
vezzoso, cinguettò in un
sorrisone tutto fossette a Marco, rimasto saggiamente in disparte e
sordo: “Zelenza,
la massera la g’ha preparà un bel bagno ancha par
vu; stasera, poi, gavemo di
la lengua de bo’ co poenta e verdure bollite. Ve
piaseu?”
“Mi
piacerebbe, sì”, asserì educatamente il
giovane patrizio,
seguitando a sfregarsi le mani doloranti.
“Malgari,
corate a ciapar el balsamo e di le bende pel magnifico
messer domino Marco Contarini. Lesta!”, diede istruzioni
Felicita alla
domestica, la quale scese rapida ai piani
inferiori. Invitando Marco
a sedersi, la giovane matrona riprese il suo lavoro. “Chome
stanno i vuostri
omeni?”, s’informò, riferendosi ai
cinque soldati a spese del Contarini giunti
seco da Padova. D’accordo presentarsi all’ultimo,
ma senza nessuno come seguito
proprio no, troppo sospetto. Per fortuna Ferigo gli aveva
indirettamente
indicato dove poter trovare dei volontari poco inclini a porre domande
sconvenienti.
“Bene,
ch’io sappia.”
“No
ghe spiaseli alozar nel molino?”
“Si
accontentano.”
Madona
Felicita sospirò teatralmente. “Femo zò
che podemo.
D’altronde, cadaun zorno ne scapan cussì tanti a
Trevixo, che non si sa pì ni
dove metterli ni che cossa farli far. Bisogna dar a sta zente da
laorar, sennò
i vegne in testa strane idee. Chome predicava zustamente San
Paulo: Chi
non lavora non mangia! ché l’otium xélo pater de
ogni vitium!”
Ascoltando
il sermone in silenzio, Marco si guardava nel frattempo
attorno, cogliendo i piccoli dettagli della stanza, dalle grezze
decorazioni
del grande caminetto, al vasellame di ceramica dipinta di Bassano,
forse
l’unico pezzo di pregio della casa e di fatti ben esposto
all’occhio critico
del visitatore. Studiò il fuoco scoppiettante, il biancore
della tovaglia del
grande tavolo guizzare nella penombra, il buco dei calzoni sparire
gradualmente
sotto i colpi dell’ago e filo. Cogli occhi
accarezzò i soffici capelli del
piccolo Jacopo che giocava felice e ignaro ai piedi della madre, la
quale a sua
volta passava di tanto in tanto la mano sul ventre sempre
più grosso. Una
scena domestica, serena, irreale quasi: quanto lontana pareva la guerra
lì
dentro! Eppure, bastava varcare la soglia di quella stanza per
ripiombare nella
sua squallida realtà.
“Siete
molto tranquilla, madona”, commentò di punto in
bianco.
L’espressione
della giovane assunse tinte amare. “An, g’ho
patìo
de ben pèzo d’on assedio … Do anni fa,
per puoco non divenivo vedoa co’n puto
de quattro mexi, se nol gera pel magnifico messer Hironimo
Miani. Cossa gavaria fato mi sença el mio
Donado? Jo, sola al mondo
a diciasete anni co’n puto! Sier Hironimo me lo
g’ha riportà vivo, el non gavea
alcuna obligazion con elo, eppur me lo gh’ha
riportà indrio, vivo!”, tirò su
col naso, la maschera di cinica nonchalance caduta e Marco vi scorse
dietro una
fanciulla spaventata.
Felicita
s’accarezzò ansiosa il pancione, memore del
terrore
atroce provato quando s’era vista il marito ricoperto di
fango e sangue
zoppicare verso casa, con Hironimo che lo sorreggeva per il braccio.
“Poaro,
poaro sier Hironimo, g’ho tanto pregà la
Devotissima azzò
lo protegesse! Poareto, non se meritava sta
baronata. Non si
abbandonano cussì i propri compagni!”, si
asciugò la donna una lacrima ribelle,
sorridendo imbarazzata a mo’ di
scusa. “Zelenza, vuj seti omo de mondo,
donca per cortesia prudensa col fradelo, el
magnifico messer Marco
Miani: da quando g’ha savuo di la nova, a xé
divenuo un tal salvadego; non si
pol parlargli senza che ve morseghi. Poareta la soa siora mojer madona
Helena,
la compatisso!”
Marco si
drizzò sulla sedia, scattando in avanti verso la donna.
“Sier Marco xelo qui? In sta caxa?” Sin dal suo
arrivo a Treviso, il Contarini
aveva cercato invano di conferire con lui, tuttavia fallendo ad ogni
occasione
anche perché troppo impegnato il Miani sia con le ronde, sia
a tener sottocchio
il Bataja nella speranza di poterlo accusare di diserzione e
così ucciderlo
lentamente, con gusto.
“Macché,
i xei nuostri visini. I g’han na caxa qui da che
mo’, no
saveu? El mio missier (suocero, ndr.) masenava le farine pel quondam
sier
Anzolo Miani, el qual gera on tal galantomo, sì
sì.”
“No,
no ... cioè, sì ma non pensavo che
… Avessi
saputo, avrei chiesto …”
Gli occhi
di madona Felicita si strinsero di dispetto, la fronte
corrugata e le labbra piegate all’ingiù, pronte
alla pugna sia dialettica sia
della padella delle castagne in testa. “Zelenza, co tuto
respeto, non ci
credareu mica indegni d’alozar vuialtri patricij?”
“Non
sia mai, voi siete i migliori anfitrioni dell’intero Stato da
Tera! Non avrei potuto sperare in miglior alloggio!”,
tagliò corto Marco, le
gote vermiglie e sentendo la sua persona piuttosto minacciata.
“Solo, non
immaginavo che la famiglia Miani abitasse proprio in questa contrada.
Che caso
raro!”
“Ma
ve par? Manco mi ghe credea!”, esclamò gioviale
Felicita,
distendendo il viso in un’espressione più
rilassata. “Zò, Malgari, sistu andà
fin a San Vio [9] a ciapar sto unguento?”, gridò
verso le scale conducenti alla
cucina.
“Vi
servo, patrona, vi servo!”, sbuffò
l’ex-contadinella,
prendendo uno sgabello e posizionandosi davanti a Marco, afferrandogli
energicamente brusca il polso e mettendosi al
lavoro. “A vara zò che man
de tosa!” (ragazza, nr.), commentò in genuino
stupore.
Nascosto
in maniera strategica dalla fantesca che gli disinfettava
e bendava le mani piagate, il giovane Contarini sospirò di
sollievo per lo
scampato pericolo di un incidente diplomatico -domestico.
Come
facesse Hironimo a relazionarsi con ogni ceto sociale e
a stringere amicizie sincere tra i loro esponenti con tal
facilità da
risultargli naturale quanto respirare, Marco ancora
faticava a
comprenderlo ché lui dopo un’oretta a conversare
con madona Felicita già gli
stava venendo un gran mal di testa.
***
“Donca,
porco d’un can franzoso, hastu voja de parlar?”
“Alors,
sale chien
français, as-tu envie maintenant de parler ? "
“Comme
si vous me
faisiez peur, vous, un porc cocu
Vénitien ! ”
“Che
ciancia sto macaco?”
“Che
non vi teme e che … e che voi siete un porco cornuto,
magnifico sior Provedador.”
“A
mi dil cornudo?! Paron Fortunato: date a questo furbastro
qualche sorsetto d’acqua in più. Vedremo, se
avrà ancora voglia di far lo
spiritoso!”
Nelle
stinche dietro a Palazzo dei Trecento ci si stava impegnando
da molte ore e con grandi sforzi ad insegnare il veneziano al
prigioniero
francese, il segretario del maresciallo de La Palice, catturato da Nane
il
contadino sul Montello e condotto a Treviso legato e pestato alla
stregua del
baccalà mantecato del venerdì. Provando
una piccolissima pena nei suoi
confronti – le terrificanti prodezze che una donna arrabbiata
può compiere
quando armata anche solo di un batocchio di legno – gli
inquisitori avevano
deciso di limitarsi a farlo sedere al centro della sala,
schiaffeggiandolo ogni
tanto giusto per tenerlo sveglio, ma porgendogli soltanto domande. Una
volta
però ripresosi dal selvaggio trattamento campestre, il
francese s’era armato di
beffarda spavalderia e aveva rifiutato di tradire il suo maresciallo,
ingiuriando
sempre più pesantemente gli astanti al punto che
l’interprete sudava freddo ad
ogni frase tradotta.
In altre
circostanze, e magari con altre persone, tale tenace
atteggiamento avrebbe anche destato l’ammirazione di chi allo
spirito
cavalleresco ci credeva ancora. Siccome però la
vita reale si riassumeva
meglio in uno spiccio “ciò che voglio prendo, poco
importa come e guai a te se
mi fai la morale”, ecco che il segretario
all’ennesimo insulto agli onorati
presenti venne condotto in una cella sotterranea e lì
s’incominciò il vero e
proprio interrogatorio. Legato ad una tavola di
legno leggermente
inclinata verso il basso e con la testa in quella medesima direzione,
il
francese col naso tappato fu costretto a bere acqua finché
non si sentiva soffocare,
tra colpi di tosse, vomito e fiumi d’urina per la vescica
sovraccaricata da
quell’inaspettata quantità di liquidi da smaltire.
“Parla,
cancaro! O te fazzo tajar i cogiòni!”
“Parle,
racaille! Ou
je vais te faire couper les couilles! ”
Il
francese, trattenendo un po’ acqua in bocca, la
sputò in faccia
al Gradenigo, ringhiandogli contro: “Je vous encule,
boule de suif!”
Nettandosi
il viso bagnato e paonazzo per l’affronto, il
provveditore lanciò un’occhiata molto
significativa all’interprete, che
farfugliò penosamente quasi sveniva: “Sier Zuam
Paulo … devo proprio?”
L’arco
minaccioso del sopracciglio dell’uomo gli confermò
che sì,
doveva proprio bere l’amaro calice di tradurre tutto fino
all’ultima parola.
Pregando la Madonna, il poveraccio gli riferì quanto detto
dal segretario.
Un
silenzio di tomba calò nella cella e neanche il capitano
Vitello Vitelli, che pur di grossolanità ne aveva udite a
bizzeffe, riuscì a
guardare dritto in faccia il Gradenigo, il cui labbro inferiore
tremò in un
pericoloso rictus nervoso. L’unico serafico pareva sier
Lunardo Zustignan, che
anzi sorrideva lezioso al francese. “S-ciavo, sior canzelier.
Stavolta l’hai
fatta!”, gli sussurrò ironico.
Di
diverso umore sguazzavano l’interprete e lo scrivano,
spostando
agitati lo sguardo dal provveditore al prigioniero e viceversa, in
attesa
dell’esplosione. “Sier …”
“Ah
sì?”, sibilò sier Zuam Paulo, alla
penombra un diavol
d’inferno quanto l’era in
collera. “Cussì me la conti?
Che te me vol
…”, si trattenne a stento, inspirando forte per il
naso “… a me? Lo sai,
muso-da-mona, cosa facciamo a Veniexia a chi copula alla fiorentina? Li
bruciamo!”, berciò e preso un
attizzatoio, lo passò sul fuoco finché
non divenne rovente, sventolandolo infine sotto il naso del
prigioniero. “Se
non vuoti il sacco in questo esatto momento, puoi immaginare dove ti
ficco
questo?”
E
l’interprete più che tradurre le parole di Zuam
Paulo Gradenigo,
faticò a riportare parola per parola la fiumana che fu la
confessione del
terrorizzato francese.
Brevemente,
Castelnuovo di Quero era stata conquistata con un
inganno, essendoci dei traditori che fungevano da guida ai
franco-imperiali nel
feltrino, bellunese e trevigiano – Gradenigo volle e ottenne
i nomi. Del
castellano ignorava la sorte; l’Imperatore ancora
cincischiava a Bolzano e
intanto si puntava ora su Conegliano, Feltre e Cividàl di
Belluno. Il francese
aggiunse poi che La Palice aveva in progetto di rientrare a
Montebelluna in
attesa dei rinforzi che da Vicenza sarebbero arrivato a Marostica, dove
si
diceva li aspettasse il duca di Baviera e da lì sarebbero
partiti con fanti
almeno 10.000 per l’impresa, più 13 pezzi
d’artiglieria (grosse, mezzane) e
quasi 30 tra falconetti e colubrine; cavalleggeri tra i
1.500-2.000.
Treviso
sarebbe caduta - li assicurava -era già in mano loro come
tutta la Marca; appunto per questo era intenzione
dell’Imperatore di svernare
in città per poi puntare su Venezia.
Soddisfatto,
Gradenigo appoggiò l’attizzatoio rovente e il
segretario del La Palice ritornò a respirare con la bocca.
“An,
e dategli una dozzina di frustrate, come da protocollo. Non
troppo forte, ma neanche da putelo, tutto esercizio, tutta
salute”, aggiunse
poi il provveditore generale non appena lo scrivano appoggiò
la penna, mentre
si sedeva sullo scranno pronto a godersi compiaciuto i frutti del suo
duro
lavoro. Facendo spallucce, incurante, il boia si apprestò a
riscaldare la
frusta sulla schiena del francese.
“Ma
perché?”, chiese perplesso il podestà
sier Andrea Donado
“dalle Rose”. “Ha confessato!”
“Sì,
ma no me xé garbà el tono!”, insistette
seccamente Gradenigo,
massaggiandosi al fianco là dove friggeva il suo povero
fegato.
“Signor
Gian Paolo, con vostra buona licenza, incomincio il turno
di ronda per stasera.”
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
“Già
s’è fatta sera? Sì, sì,
andate pure capitano Vitello. Vi
raggiungerò più tardi.”
“Con
permesso.”
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
“Un
cosa qui ancora mi sfugge: questo Papa è vivo o
morto?”,
cogitò ad alta voce sier Lunardo Zustignan, una volta che il
capitano Vitelli
ebbe chiuso dietro di sé la pesante porta.
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
Osservando
sempre più disgustato lo spettacolo dinanzi a sé,
il
podestà replicò: “Il fante ferrarese
non aveva detto esser morto? Anche il
governatore di Millan, il duca Gastone di Foys si è
rallegrato pubblicamente
della sua morte. Che ne pensate, sier Zuam Paulo?”
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
“Mah
… quel fiorentino è una canaglia, un parassita,
difficilmente
la pula la si cava dal grano …”
L’essersi staccato dalla Lega di Cambrai, una
volta ottenute le città della Romagna, non aveva garantito a
Giulio II l’immunità
da lui sperata, al contrario: sia il Re di Francia che
l’Imperatore avevano
indetto un concilio a Pisa per eleggere un antipapa e gran gaudio
generale
nell’immaginare quel disgraziato rosolarsi nei suoi medesimi
rimorsi, avendo
dimenticato che Venezia, gli piacesse o meno, era un necessario
cuscinetto tra
lo Stato Pontificio e Francia e Impero. Chi troppo vuole nulla stringe,
dice il
proverbio, ma forse Della Rovere era stato disattento quel giorno.
Schiocco-urla
… schiocco-urla … schiocco-urla …
Avendone
abbastanza e ottenuto le informazioni necessarie, i tre
patrizi veneziani lasciarono la cella mefitica e claustrofobica e il
francese
nelle ottime mani di paron Fortunato, boia di qualità.
Quando
giunsero in Cancelleria, la trovarono rivoltata in piena rumorosa
confusione: i consiglieri, i rettori, i coadiutori e
l’auditore sier Piero
Antonio Morexini avevano circondato Cipriano da Forlì e la
giovane staffetta,
discutendo assai animatamente. Perfino Vitello
Vitelli, dimentico
della ronda, ascoltava incredulo.
“Coss’ela
sta cagnara? Siamo forse a Carlevar?”, li rimbeccò
il
podestà sier Donado.
Affatto
intimorito, Cipriano da Forlì gli venne incontro,
esclamando: “Signor Andrea, è appena giunto un
messaggio del magnifico domino
messere Francesco Foschari capo dei Dieci: il Papa è ancora
vivo!”
“Cosa?!”,
esclamarono basiti sier Lunardo e sier Zuam Paulo,
ricevendo quest’ultimo in mano la lettera del Foscari e
divorandone i
contenuti.
Di quanto
affermato da Gaston de Foix e l’emissario estense, sier
Francesco Foscari smentiva tutto, poiché un suo uomo aveva
appreso da fonti
attendibilissime – il patrigno del cardinal Arzentino e lo
stesso cardinale
Giovanni de’ Medici – come il Papa certamente si
trovasse in extremis e
disperata salute, ma non per questo necessariamente
orizzontale. In ogni
modo, Roma intera si trovava in arme in attesa di sviluppi e tutte le
spie dei
Dieci, l’ambasciatore sier Hironimo Donado
“dalle” Rose e i cardinali domino
Domenego Grimani e Marco Corner tendevano ben bene le orecchie pronti a
riferire all’istante.
Sier
Gradenigo sorrise carnivoro: forse la missione di sier
Hironimo Donado, dottor e orator della Signoria Serenissima a Roma, si
poteva
dichiarare ancora opus in corso.
***
Il
milanese Aloisio Ferrer, capitano d’uomini d’arme,
cavalcava
inquieto accanto ai capitani di fanteria monseigneur
de Richebourg e
monseigneur de Mongiron, la mente in subbuglio: la notizia di un
imminente
attacco da parte di Ferigo Contarini di San Cassian aveva instillato in
Vicenza
un panico sottile, presi infatti di contropiede sia Giovanni Gonzaga
che il
duca Charles de Bourbon, i quali tale mossa azzardata forse ancora se
la
sarebbero aspettata dal loro Bon Chevalier de Bayard, ma non di certo
da quel
diavolo d’inferno veneziano. Malgrado i sospetti del duca di
Bourbon, che aveva
suggerito d’inviare degli esploratori in avanscoperta per
confermare la
veridicità della notizia, alla fine era stata accordata la
decisione di
spostare immediatamente a Marostica i rinforzi giunti da Milano inviati
dal Duca
di Nemours, così da unirsi al contingente del Duca di
Baviera e proseguire fino
a Montebelluna dove La Palice e, a Dio piacendo, l’Imperatore
li stavano
attendendo per l’impresa di Treviso.
Ah,
Treviso … A sentir il Re di Francia e Gaston de Foix suo
nipote
la città già pareva conquistata, sicuri dei loro
numeri sia in fatto di uomini
e di cavalli sia d’artiglieria. Un assedio
facile - si
vantavano - le mura scaligere crolleranno al primo
tocco, vous verrez!
Eppure
… eppure …
Il Ferrer
non riusciva a districarsi dalla morsa stretta
dell’ansia, una sgradevole sensazione di stonatura in quella
marcia
precocemente trionfale.
Primo,
perché non arrivavano lettere dal maresciallo La Palice,
informandoli dei loro ultimi spostamenti?
Secondo,
perché proprio adesso quell’improvviso attacco
suicida
del Contarini di San Cassian?
Terzo,
perché, nell’euforia e ottimismo generale
(già il Re di
Francia brindava alla caduta di Treviso), soltanto la voce del
maresciallo Gian Giacomo Trivulzio s’era
levata contro l’impresa?
Egli era arrivato addirittura a sfidare apertamente il Re, rifiutando
l’incarico malgrado l’insistenza di
quest’ultimo e quando il sovrano aveva
esatto spiegazioni, il Trivulzio si era giustificato affermando che
dopo anni
di sfavillanti vittorie su grandi signorie e avversari, non voleva
rimpatriare
a Milano ricoperto dal fango del disonore e della vergogna, sconfitto
da una
città misconosciuta e dai suoi burocrati. “Sire,
Treviso come Venezia è
una luogo di cielo, terra e acqua. Quest’estate è
piovuto anche fin troppo, la
Marca sarà ritornata di sicuro una palude, cioè
un disastro per muovere truppe
e artiglierie, rallentandoci in ogni manovra ma esponendoci allo stesso
tempo
ai nemici. Inoltre, ricordatevi cosa fecero al trombetta di Leonardo
Trissino: sono
feroci quanto bestie lì, non arrischierò una
morte disonorevole ai miei uomini,
sgozzati nel sonno peggio d’agnelli!”
Sgozzati
nel sonno …
Le truppe
sfilavano in marcia a ranghi ben serrati, guardinghi al
massimo, viaggiando persino di notte e concedendosi solo qualche ora di
riposo,
così anche da cambiare i soldati nelle retrovie in modo da
guardarsi le spalle
da eventuali attacchi.
“Sandrigo, enfin!”,
esclamò il capitano de Richebourg,
guardandosi attorno. “Encore un peu, e
tosto arriveremo a
Marostica!”
Quasi a
segno di buon augurio, il sole s’erse su quel 31 agosto,
tingendo il cielo del delicato rosa dell’alba e levando gli
ultimi residui
della nebbia dovuta dal terreno ancora imbevuto dell’acqua
della pioggia
torrenziale del giorno precedente.
Il
capitano Ferrer si coprì gli occhi con la mano, ferito da
uno
strano bagliore. Come? Già
così splendente il sole?
Levato lo
schermo, il milanese spalancò la bocca in pieno orrore e
prima ancora che potesse urlare: “Imboscata!”, una
freccia trapassava la gola di
uno dei cavalieri accanto a lui e un fragore da far tremare la terra li
giungeva incontro, un fiume in piena che si divideva con diabolica
precisione
per spezzare la colonna di marcia delle truppe, una legione di diavoli
venuti
per il loro sangue.
“Marco!
Marco!”
I
vessilli dorati di Venezia brillavano beffardi alla luce del
sole, questo loro tacito complice che era sorto apposta per renderli i
franco-imperiali visibilissimi e tra gli stendardi il capitano Ferrer
riconobbe
lo stemma a tre bande azzurre in campo d’oro che tanto aveva
imparato a temere.
“Embuscade!
Embuscade!”
A che pro
chiedersi come avessero fatto a raggiungerli così in
fretta, intercettandoli? A che pro?
Bastavano
i fatti e cioè che Ferigo Contarini li aveva ingannati
tutti, non avendo mai avuto intenzione di andare a Vicenza e adesso,
per quella
loro ingenuità, avrebbero pagato con la vita.
Continua
…
****************************************************************************************************************
I
francesi sono dei pessimi perdenti: nella loro versione della
Guerra della Lega di Cambrai, mai non hanno accennato a questo episodio
né a
qualsiasi altra sconfitta inflittagli dai veneziani. Federico Contarini
mai
nominato. Appena appena si accenna alla sconfitta a Padova del 1509,
ovviamente
dando la colpa a Massimiliano, agli spagnoli, ad Alfonso
d’Este, al Papa, alla
gatta di Codalonga, etc. A sentir loro, insomma, non
persero neanche
una battaglia … Boh.
Treviso
contava all’incirca più di 200 mulini nel suo
territorio
per via dell’eccellente risorsa idrica: essendo i suoi fiumi
di risorgiva, non
soffriva della siccità estiva o del gelo invernale,
producendo pertanto per
tutto l’anno e Venezia esigeva quasi 30,000 staie (sacchi) di
farina come
rifornimento, anzi, alcuni mulini macinavano esclusivamente per la
città che
all’epoca contava quasi 150.000 abitanti; altri mulini
all’occasione erano
tenuti a macinare per Venezia mentre un’altra parte solo per
il territorio
trevigiano e dintorni. Sul Sile scivolavano continuamente burchi pieni
di
farina, ma anche lana che veniva follata a Treviso e pure legna dal
Montello
che veniva lavorata prima della spedizione in Arsenale per le
galere. I mulini molto spesso venivano dati in
affitto ai mugnai,
talmente importanti che prima dell’annessione a Venezia
avevano la loro
Corporazione. Sotto la Serenissima, i mulini appartenevano o agli
ordini
ecclesiastici, o al comune, o ai patrizi veneziani o ai nobili terrieri
locali;
tuttavia, non era improbabile per un mugnaio possedere il proprio
mulino, solo
che i costi di manutenzione sia ordinaria che straordinaria erano
talmente
alti, che se non possedeva sufficiente capitale per mantenerlo, allora
preferiva andare in affitto.
Riguardo
al Nostro, le cronache confermano come si salvarono in
quattro dal massacro di Castelnuovo di Quero: lui, i bellunesi Paolo
Doglioni e
Cristoforo Colle e un popolano di cui però non specificano
il nome. Vittore del
Pozzo s’era già portato fuori dal castello, quindi
non conta.
Per motivi di trama e per
tentare di spiegare (e anche anticipare) ciò che
accadrà al Nostro, ho deciso
essere un bambino. Interessantemente, ho trovato esempi in cui non era
improbabile utilizzare bambini per il trasporto delle polveri da sparo
e per la
mescolatura in loco, forse in quanto piccoli e difficile da centrare?
In ogni
caso, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Hé,
Finger weg!
Ich habe ihn zuerst gesehen, er gehört mir =
hé, giù le zampe! Lo visto
prima io, mi appartiene! // Pas de chance, sale
voleur, c’est à
moi! Et si tu t’approches avec
tes sales mains allemandes, je vais t’enfoncer ce couteau
dans ta foutue
gorge ! =
scordatelo (lett. Nessuna possibilità/fortuna), sporco
ladro, è mio ! E se
ti avvicini con le tue sporche mani tedesche, ti ficco questo coltello
giù per
la tua fottuta gola ! // Passiert.
Nächste Mal = capita /
succede. La prossima volta.
[2]
Sulla
morte di Girolamo Contarini, padre di Federico, riferisce il Sanudo in
data
1508: "A dì 10, fo la vezilia di
Pasqua di mazo. Et la sera achadete un caxo molto strano et miserando,
che fo
conduto in questa terra il corpo di sier Hironimo Contarini, quondam
sier
Moisè, era stato provedador di l’armada fuora
zà molti mexi, el qual si era
anegato versso Lanzam, e rota la so galia, et cussì quella
di sier Bernardim da
cha’ Tajapiera, sopracomito, per fortuna grandissima. Il
modo, quando e come,
scriverò di soto. Fo caxo zà molti anni non
sequito un tal, et a tutta la terra
si dolse."
[3] i Turchi ad Otranto =
Fra’
Leonardo partecipò alla Guerra d’Otranto (1480-81)
militando per Alfonso II di
Napoli, all’epoca principe ereditario e Duca di Calabria.
[4]
la Vècia al Panevìn = la vecchia (un fantoccio ben
inteso!) alla festa del Pane e Vino. Si tratta di un falò di
inizio anno, una
tradizione popolare dell’Italia nord-orientale che consiste
nel bruciare grandi
cataste di legno e frasche su cui viene posto il fantoccio di una
vecchia,
questo il giorno della vigilia dell’Epifania (5 gennaio). Si
suppone questo essere
un rito pagano poi cristianizzato risalente addirittura ai tempi dei
Paleoveneti, legato alla purificazione della terra. A seconda della
direzione
del fumo si saprà come andrà l’anno:
male se va ad occidente, bene se va ad
oriente, con tutte le varianti da città a città.
[5]
colonne tra San Marco e San Todero = a Piazza
San Marco si concludevano le esecuzioni dei condannati a morte dopo la
sfilata
tra i canali, appunto tra le due colonne con in cima le statue del
Leone
Marciano e di San Teodoro (Todero in veneziano), davanti a Palazzo
Ducale verso
il bacino di San Marco.
[6] Muso-da-Baila = Faccia
da
Badile, un fantomatico soprannome di Massimiliano.
[7] Nell’899 Treviso subì un
devastante saccheggio
da parte degli Ungari. Il santuario di Santa Maria Maggiore venne
pressoché
distrutto, salvandosi solo il muro coll’antico affresco della
Madonna, tuttora
esistente.
[8]
i muneri i roba pregando = I mugnai
rubano pregando. Si riferisce al gesto di prelevare
la farina con le
“mani giunte” come quando si prega, col
“rischio” di dare meno di quanto si
pagava per farla macinare.
[9]
San Vio =
San Vito di Cadore, comune in
provincia di Belluno, situato nel cuore delle Dolomiti. Appartenente ai
feudi
dei da Camino, nel 1420 passa alla Serenissima sotto cui conosce una
fase di
felice sviluppo economico (ovviamente prima e dopo la Guerra della Lega
di
Cambrai).
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Capitolo 4 *** Capitolo Terzo: 31 agosto 1511 (18 agosto 1496) ***
Vi auguro una buona
lettura,
H.
Aggiornato il 29. 08. 2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo Terzo
31
agosto 1511
e
18
agosto 1496
Io sont la Morte che porto
corona
Sonte signora de ogni
persona
Et cossì son fiera, forte
et dura
Che trapasso le porte et
ultra le mura.
[1]
Plock … plock …
plock …
Se
non fosse stato per la saltuaria apertura della botola, giusto per
darli da
bere e accertarsi che ancora indugiavano in questa valle di lacrime
(lui
almeno, del bambino agli stradioti non fregava nulla), Hironimo si
sarebbe
creduto già seppellito in tomba, completamente avvolto da un
nero bestemmia e
un silenzio sconsolante rotto dalle ritmiche gocce
d’umidità; dallo scorrere
della Piave; dallo zampettare degli onnipresenti ratti; dal gorgoglio
dei loro
stomaci e infine dallo schiocco affamato delle labbra di
Thomà, il quale aveva
di recente incominciato a suggergli la camicia pur di tenere i denti
occupati, quando
non battevano dal freddo ben inteso. Ambedue non si sovvenivano
dell’ultimo
loro pasto; in certi momenti, neppure si sovvenivano d’essere
mai stati in
vita, trascorrendo ore infinite incastrati l’uno
nell’altro in un disperato
abbraccio onde riscaldarsi, preoccupandosi il giovane Miani di come la
pelle
del piccino divenisse ad ogni istante sempre più fredda e
appiccicaticcia. Si tenevano desti a furia di
pizzicotti, ma il
sonno dell’affamato e dell’infreddolito talvolta li
intorpidiva, precipitandoli
in sonni inquieti, orribili, che li lasciavano al
risveglio
doppiamente spossati invece di ristorarli, complice inoltre
l’aria stantia
della cella, ammorbata oramai dal puzzo del loro sudore e, alas,
escrementi.
“Zò! Te
me dà el pie en bocha?”, protestò
Hironimo, svegliandosi di soprassalto per
colpa della rapida e dolorosa pedata in faccia da parte di
Thomà, il quale,
rannicchiandosi ulteriormente contro il suo stomaco,
bofonchiò contrito e
stanco:
“La
me perdoni, patron, nol gh’ho fatto apposta: mi dormivo e chi
dorme, manza …”
Sì,
dormiva scalciando peggio d’un mulo, il nanerottolo! Almeno
però dimostrava di
vivere ancora, rallentato infatti il suo respiro al punto che il
giovane
patrizio talvolta faticava ad udirlo, controllandogli di tanto in tanto
l’aria
con due dita sotto il naso giusto per assicurarsi di non stringere un
cadavere.
Hironimo
borbottò qualcosa, o meglio la sua gola lo fece
meccanicamente, sistemando il
capo sull’avambraccio nella disperata ricerca di una
posizione comoda: il
dolore alle tempie pian piano s’era attenuato, purtroppo
ciò non si poteva
affermare della ferita sul fianco, ancora bruciante e che gli tirava
molesta.
Thomà, ignaro, dormendoci sopra gliela premeva, causandogli
sottili fitte come
punture d’aghi sottopelle. Le palpebre gli divennero
pesanti, ghermendolo
una violenta vertigine che lo allettò a perdersi nella
lusinga del sonno e
appena riuscì a socchiudere gli occhi una strana sensazione
lo colse, non
dissimile a quella dello sfruscio in inverno del morbido e
caldo bordo di
pelliccia.
Peccato,
che la sua pelliccia non si muovesse e squittisse.
Hironimo
s’irrigidì peggio d’un cadavere, mentre
quell’essere immondo gli zampettava
impunito sulla
spalla. “Coss’elo?
Coss’elo?”, ansimò istericamente,
mulinando a caso il braccio e udì l’animale
cadere, sebbene continuando a
corrergli accanto nel tentativo di risalirgli sopra, squittendo confuso
e irato
da quella sua ribellione.
“Un
sorze, me sa!”, fu la secca constatazione del bambino,
insensibile al topo e
preferendo piuttosto continuare a dormire; al contrario, il giovane
Miani non
condivideva tale rassegnazione e appunto strillò:
“No!
Levamelo di dosso!”, calciava il nemico ben protetto
dall’oscurità, soffiandogli
contro adesso minaccioso.
“Se
vuj lo lassate star, no ve fa gnente!”
“Non
voglio sorci addosso!”
“Oh,
che putelezzi (bambinate, ndr.)!”
“Thomà,
cavami questo sorcio o te dago ‘na schiaffazza in tel
muso!”
Il
bambino scattò a carponi pronto alla pugna. “No,
patron! Gnente schiaffazze pel
poaro Thomà!”, frignò petulante e
quando il topo partì all’assalto per
l’ennesima volta, con gli occhi e la rapidità di
un gatto Thomà artigliò a
colpo sicuro il ratto e prima che la bestia potesse morderlo gli
spezzò l’osso
del collo, gettandolo poi in fondo alla cella in un umido tonfo,
là dove si
liberavano dei propri bisogno naturali.
Silenzio.
“Bauco!
(citrullo, ndr.)”, commentò sarcastico Hironimo,
già udendo la marcia di tutti
i topi di Castelnuovo darsi appuntamento lì. “Ora
lo raggiungeranno i suoi
compari per mangiarsi il cadavere!”
Al
che Thomà, dimentico di ogni prudenza, replicò
scocciato: “Saveu, patron? Andé
al diavol ché mi sun stuffo, non ve va ben mai
gnente!”, incassando con la
dignità di chi s’è sfogato a ragione il
doloroso scappellotto elargitogli prontamente
da un offeso patrizio. Dopodiché, mettendosi in
piedi, allargò bene le
gambe pericolosamente vicino al giovane uomo, che gli
domandò assai
preoccupato:
“Cossa
fastu?”
“Pisso,
patron”, sentenziò solenne e si slacciò
la braghetta.
Hironimo
lo spintonò via con un calcio. “Non
t’azzardare! Va’ nell’angolo!”
“Col
cadavar dil sorze? Patron, perché non poxo farla
qui?”
“E me
lo chiedi pure, sempio? (scemo, ndr.) Se te pissi qui,
c’insudici a tutti e
do!”
“Ma
me scapa!”
“Tientela!
O falla sull’angolo!”, sbraitò
esasperato il giovane Miani.
“No!”,
si ribellò Thomà e il famigliare zampillio da
fontanella riecheggiò nella
cella, formando una piccola pozzanghera che lentamente e sorniona
raggiunse e
bagnò la coscia di Hironimo, il quale sobbalzò
disgustato dalla parte
opposta.
“Òstrega!
[2] Orco Juda maladeto rotto-in-cul, che schifo!”, ripeteva
sdegnato,
asciugandosi convulsamente la coscia nuda con un lembo della camicia.
“Sacramento ! Che schifo! Che schifo!”
Scrollandosi
a fine pisciata, Thomà sospirò soddisfatto e
sollevato. “Ma vuj no pissate
mai?”, inquisì curioso, riprendendo posto accanto
al giovane patrizio, che,
trattenendo a stento un conato di vomito, gli spiegò
malevolo:
“Son
galantuomo, io! Mi so trattenere! E vado all’angolo,
contrariamente a te che sei
n’onto porzel!”
“An
pulito, se lo dixé vu …”, fece
spallucce il bambino, rannicchiandosi di nuovo
contro il più anziano. Poi, sogghignando perfido,
aggiunse: “Certo
perhò che col pisso indosso stemo horra
ben caldi!”
Un
secondo scappellotto lo indusse al silenzio.
La
botola s’aprì all’improvviso,
cogliendoli talmente alla sprovvista da
sobbalzare, le mani corse immediatamente a riparare gli occhi feriti
dalla
luce.
“Tirateli
su!”, berciò una voce dall’alto e
Thomà afferrò spaventato il braccio di Hironimo,
domandando:
“Che
dixélo? I nui copan?”, ignorando infatti la lingua
dello stradiota, il quale
parlottava coi suoi compagni in un curioso misto tra greco e albanese,
rendendo
ardua la comprensione perfino al giovane Miani, il quale
però, già dimentico dei
dispetti del piccino, gli accarezzò il capo, mormorandogli:
“Stammi
appresso e soprattutto guai a te se fiati. Da qui ne usciremo vivi
tutte e due
o nessuno e se quei cancari vogliono il riscatto, a loro
converrà la prima
opzione.”
Era
quella l’unica sua certezza in quei giorni di orridi
sconvolgimenti, avendo ben
capito Hironimo quanto il capitano Mercurio Bua come prigioniero lo
stimasse,
arrivando perfino a contenderselo col maresciallo La Palice. Tutto quel
fuoco,
pertanto, gli garantiva la sua sopravvivenza (pur in condizioni
discutibili)
fino al pagamento del riscatto o dello scambio.
“Puoah!
Puzzano di piscio e merda!”, li dileggiarono i soldati, una
volta estratti i
due dalla cella, pungolandoli con dei bastoni verso il cortile
centrale, manco
avessero a che fare con dei lebbrosi. “Non peggio dei loro
compagni
sicuramente!”, rincararono la dose e il giovane patrizio
afferrò il motivo di
quell’ora d’aria: nella loro immensa pigrizia, gli
stradioti invece di
seppellire loro i cadaveri dei marciani – oramai in via di
decomposizione –
avevano deciso di servirsi dei due prigionieri, cedendogli
l’onore del becchino
e ciò all’insaputa del Bua, Hironimo ci
scommetteva il mignolo destro.
Quarantasette
corpi, che la Fortuna li assistesse giacché a causa di
quella Quaresima
anticipata a malapena si reggevano in piedi dalla fame, figurarsi
scavare una
fossa comune e trasportare cadaveri uno ad uno.
“Quelle
sono le vanghe. Via, sbrigatevi! E se tentate di scappare o
d’attaccarci, raggiungerete
i vostri compagni un pezzettino alla volta!” e via a
ridersela di gusto,
affilando tuttavia le spade segno che la loro corrispondeva ad una
battuta
unilaterale.
“Andé
in mona de vostra mare, fioi de cagna turca, ch’el diavol vi
ciapi a la
florentina e col sabion …”, sibilò tra
i denti e Thomà arcuò il sopracciglio
genuinamente impressionato nel sentir tali prodezze poetiche uscire
dalla bocca
di un patrizio veneziano, il quale lo fissò storto:
“Coss’hastu da vardar,
mamalucco?”
“Patron,
poxiam per favor sepelir per primo mi fradelo Andrea?”
Stringendo
le labbra e sperando di aver perduto l’olfatto, il giovane
Miani iniziò a
scavare tra la pila di cadaveri alla ricerca del bombardiere e il
bambino, con
le ultime energie e lesto peggio d’una scimmia, vi si
arrampicò sopra, pronto
all’opera.
***
Et
son quela che fa tremar el mondo,
revolgendo
mia falze atondo atondo
O
vero l’archo col mio strale
Sapientia,beleza,
forteza niente vale
Non e
signor, madona, né vassallo
Bisognia
che lor entri in questo ballo.
18 agosto 1496
Quella mattina il decenne Momolo aveva
pianificato
ogni cosa con la coscienziosità di un generale
dell’Antica Roma: lo richiedeva
lo scopo ultimo di quella missione, cioè farsi perdonare da
Padre per avergli
risposto malamente (Andé in malhorra, orco!
tartaro!
Vi odio quanto che sé!) a causa del calamaio tirato contro
il priore di
Santo Stefano e lettore di filosofia, l’agostiniano Jacomo
Batista Aloisi da
Ravenna.
Costui a Ca’ Miani
esercitava il doppio ruolo di
precettore degli studi humanitas di suo fratello
Carlo e di protégé di
suo padre il senatore sier Anzolo Miani q. Lucha, il quale finanziava
le sue
pubblicazioni, in particolare i suoi studi su Aristotele,
nonché il fiorente Monastero
degli Eremitani di Santo Stefano e la sua scuola per fanciulli fondata
il
secolo scorso. E tanto il senatore era rimasto impressionato dalla
preparazione
dei magister puerorum, complice la fama di dotti
degli agostiniani, da
interrompere l’antica tradizione d’inviare i propri
rampolli a studiare al Monastero
della Carità, dall’altra parte del Canal Grande e
quasi opposto a Ca’ Miani.
Si poteva dunque affermare
senz’esitazione, che don
Jacomo Batista e il suo allievo e confratello don Bortolo Rivolta
fossero
oramai di casa, accettando sempre di buon grado gli inviti del loro
mecenate o
a pranzo o a cena così da discutere a tavola di certi
argomenti, che tanto
affascinavano i commensali quanto annoiavano a morte il piccolo Miani.
Non riusciva
a capire come mai Padre, suo fratello Carlo e perfino il suo cugino
sier Zuam
Francesco “il Pizzocchero”
s’entusiasmassero tanto al recente progetto
dell’Aloisi, ossia di redigere dei “commentari
sui libri degli analitici
posteriori di Aristotele dell’agostiniano Alberto di Sassonia”
(il
fantolino già s’era perso ad “analitici
posteriori”). Per lui, corrispondevano
a vuoti concetti, troppo astratti dalla sua vita quotidiana,
un’ingarbugliata
matassa di ragionamenti senza né capo né coda in
greco antico e in latino. Anche
alcuni padri agostiniani dal priore frequentemente citati –
Paolo Veneto,
Alberto di Sassonia, Egidio Romano, etc. etc. – [3] non gli
dicevano un bel
fico secco, al punto che Momolo biasimava i due religiosi ravennati per
la loro
meschinità, non reputando carino spettegolare
così sulla gente morta.
Tuttavia, non era per questo motivo
che il priore
di Santo Stefano s’era ritrovato imbrattato
d’inchiostro. Momolo aveva infatti
tentato di giustificarsi dinanzi all’inflessibile giudice
paterno, piangendo
sconsolato come aveva voluto lordar di nero non padre Jacomo Batista,
bensì suo
fratello Carlo – quel turco adottato! – che nulla
aveva di meglio da fare nella
vita, se non di sfottere il fratellino mentre tentava di domare la
grammatica
latina. Carlino ha la lingua così lunga ed
è così bugiardo – aveva
strillato battendo il piede per terra – che
riuscirebbe ad inchiodare per la
seconda volta in croce IHS XHS!
Quest’impenitente
sbeffeggiatore delle altrui
disgrazie li aveva scovati – Momolo e l’altro suo
fratello Marco - intenti ad
un disperato ripasso, lo Ianua di Elio Donato
aperto sulle ginocchia del
più grande dei due, i cui capelli arruffati tradivano quanto
ardua fosse stata
l’impresa.
“Poeta”, lo
interrogò Marco per l’ennesima volta, la voce
leggermente roca a furia di ripetere all’infinito il medesimo
passo. “Quae pars
est?”
“Nomen est.”
“Quare est nomen?”
“Quia … quia
significat subtantiam et qualitatem propriam vel …vel
comunem cum casu.”
“Nomini quot
accidunt?” e qui Marco gli presentò il palmo
aperto
della mano, iniziando la conta assieme al fratellino.
“Quinque: species
…”, un dito, “… genus
…”, un altro, “… numerus
…
figura et … euh … euh … euh
… l’ultimo non me lo ricordo
…”
“Ma se l’hai
appena menzionato!”
“Casu?”
“Casus!”
“Ed io che ho
detto?!”
“Molighe zò! Non
contestare o ti stampo a furia di sberle la
grammatica sulla fronte, così non te la scordi
più! Allora, cuius speciei?”
“Primitive, quia a nullo
derivat derivative, quia derivatur a
poesia. Visto che ho studiato?”
“Sicuro, coi piedi,
perché si dice “a poesis” - sempio! - non “a
poesia”!”
“Beh, non vale stavolta,
prima l’ho saputa dire correttamente!”
“Gne, gne, sempre una
testa-da-bigoli rimani. Cuius generis?”
“Ma … masculini
…?”
“E pure t’era
venuto il dubbio?”
Al che Carlo, dinanzi a quel giocondo
quadretto,
non aveva più resistito, rendendo nota la sua presenza
tramite un colpetto di
tosse. Hieronymus Aemilianus - Quae pars est?
I due giovinetti s’erano
immediatamente guardati
l’un l’altro perplessi.
Nomen est?, aveva cinguettato speranzoso Momolo.
Puer est?, era stata al contrario la sospettosa
risposta di
Marco, avvezzo al lato più dispettoso del fratello maggiore.
Lode al suo intuito poiché
Carlo, sfoderando un
sorriso rubato allo stesso Mazariol, aveva replicato: Asinus
est!, per
poi abbassarsi quando il decenne fantolino, rosso in volto e schiumante
di
collera, aveva afferrato il calamaio e glielo aveva scagliato contro,
colpendo purtroppo
per lui dritto in petto don Jacomo Batista, che disgraziatamente stava
entrando
proprio in quel momento nella sala grande accompagnato da Padre.
Tale spiegazione non aveva commosso il
senatore
sier Anzolo Miani, il quale gli aveva elargito ugualmente una salutare
mezza dozzina
di vergate, sennonché suo figlio, stufo marcio
d’aver il sedere dolorante due
volte su tre per via degli scarsi risultati scolastici, gli aveva morso
la mano
ed era corso via da Madre col furioso genitore alle calcagna,
nascondendosi
sotto le sue gonne.
Meno male, giacché esse
avevano ovattato la
litigata tra sier Anzolo e madona Leonora Morexini Miani, il primo che
accusava
la moglie di rovinare questo mio fiolo, voi me lo fate
crescere storto! Voi,
che alla sua età ancora gli permettete di giocare con le sue
germane e per di
più con sua nipote! Bone Jesu, s’è mai
visto un puto di dieci anni che gioca
con le pute? Naturale poi che frigni per un nonnulla! Ma
cos’ho avuto, io, per
creatura? Un maschio o una femmina? E l’altra
ribatteva inclemente: Cosa
volete ch’impari, se ad ogni sbaglio lo battete manco fosse
un tamburo di
galea? Si spaventa, povero piccolo, non capisce perché lo
puniate così
severamente. Sa solo che voi e il magister gli incutete una paura
tremenda!
Madona Leonora aveva ragione: il
severo agostiniano
suo insegnante metteva in soggezione il piccolo Momolo, schiacciato
dall’impari
raffronto coi fratelli. Et el Luchino l’gera
cussì, sapeva l’abaco a
maraveggia … et el Carlino lezeva et declamava chome Cicero
redivivo … et el
Marchetto scriveva pulito et richo de vocabuli … et ti,
Momolo, ti te sè na
bestia ignorante! e questo ovviamente mentre il fantolino era
sottoposto al
“cavallo”: tenuto fermo dai compagni e posto a
cavalluccio del magister e
parzialmente denudato, l’ultimogenito Miani si sorbiva, oltre
che alle vergate
sulle natiche, anche la lista dei suoi fallimenti più i
successi dei suoi
maggiori.
E questo per tre anni, da quando,
settenne, egli
aveva abbandonato il suo precettore privato per proseguire gli studi a
scuola.
Che ci poteva fare? Ogniqualvolta il rector
scholarum entrava in classe il
bambino panicava, non si ricordava la lezione e impappinandosi
sbrodolava frasi
sconclusionate in un misto tra latino e veneziano. Manco male che il
greco
antico non era previsto, poiché già nella testa
di Momolo facevano a pugni le
divergenze tra la variante candiota e quella peloponnesiaca del greco
vernacolare, in tutta onestà non necessitava di un terzo
incomodo a creargli
ulteriore confusione.
(Anche se, mano sul cuore, era
divertente assistere
alle pepate diatribe tra la vecchia prozia, madona Andronica da Modone
relicta
Miani, e la fantesca Eudokia di Sfakia di Candia, tra gli Ochi!
di una e
gli Oi! dell’altra.)
Ascoltando quindi i timidi resoconti
di don Jacomo
Batista sul suo rendimento –
il quale
tentava cristianamente di minimizzare , asserendo come il bambino fosse
sì
intelligente ma assai distratto e poco incline alla disciplina e al
duro lavoro
- Lucha e Carlo se
la ridevano sotto i
baffi; Padre, delusissimo, fissava Momolo in cagnesco, battendo poi
snervato il
pugno sulla scrivania ed ecco che i due maggiori si chetavano
all’istante;
Marco, impietosito e suo unico alleato, tentava d’aiutarlo
dandogli di nascosto
ripetizioni.
Ad ogni rientro dal Monastero di Santo
Stefano (col
sedere dolorante) Momolo correva a piangere disperato tra le braccia di
Madre (rigorosamente
all’insaputa di Padre) o in cucina tra quelle
dell’Orsolina, che si diceva troppo
rassomigliante al nonno sier Lucha Miani q. sier Marco, da non destar
sospetti
di una qualche consolazione da parte del patrizio tra una moglie e
l’altra. Pur
non essendolo stata de facto, Momolo la chiamava nèna
(balia, ndr.) e le voleva
un bene dell’anima contraccambiato con ugual fervore dalla
massera, neanche
l’avesse partorito lei. Gli piaceva trascorrere il tempo
assieme in
quell’arsenale in miniatura qual era la cucina di
Ca’ Miani, coi fuochi sempre
accesi e un viavai continuo di servi là dove nessuno lo
prendeva in giro
chiamandolo musso, oco, macaron de Pugia (asino,
stupido, mollaccione,
ndr.).
In quella calda e fumosa sancta
sanctorum sedevano
la fantesca e il bambino davanti al grande caminetto medievale
costruito con
colonnine di un qualche rudere di tempio romano, con
l’Orsolina che filava la
conocchia e annuiva pur non capendo il latino e il Momolo intento a
leggerle ad
alta voce i Disticha Catonis. A sua volta, il
piccino ascoltava rapito
le storie della donna, la sua preferita quella dei mercanti disonesti
tramutati
in pietra da Santa Maria Maddalena, le cui statue ancora si potevano
vedere a
Campo dei Mori a Cannareggio, chiaro monito ai loro colleghi. Se
i tochate co
la man, poderè sentir i cori palpitar e lì la
piera la xé tiepida, chome carne
viva.
A lei Momolo aveva confidato il suo
infallibile
piano onde ottenere il perdono di Padre, cui in seguito a quel suo
sfogo lo
trattava pien di gelida indifferenza, parlandogli a malapena e
solamente al dì
dell’Assunta. (A onor del vero, negli ultimi mesi il senatore
Miani spendeva
molto tempo a Palazzo Ducale e la notte rincasava a notte fonda, quindi
sì, il
suo discolo figliolo non aveva avuto concretamente modo di farsi
perdonare)
Per tutto il tempo, il decenne si era
esercitato
nel segreto della cucina a leggere quel passaggio maledetto dei Disticha
col proposito di declamarlo a memoria a fine pranzo, dove sarebbero
state
servite le anguille ai ferri con la polentina bianca di cui sier Anzolo
andava
assai ghiotto. Dopo aver ben disnà, el sior
vuostro Pare starà de bona voja
e bon consejo, lo aveva assicurato ottimista Orsolina.
Madona Leonora aveva ascoltato
benevola il piano
del figlioletto, permettendogli di accompagnare Orsolina e sua figlia
Zanetta a
Rialto a comprare le anguille, la cui preparazione affascinava il
bambino,
specie quando Nardo il cuoco le estraeva ancor vive dal sacco e queste
gli si
attorcigliavano ai polsi, mentre egli faceva cadere la mannaia e in un
sol
colpo le tranciava il capo. Ah, patron Momolo, durante la
guera contra Frara,
nel Po se pescavan zerti bisati (anguille, ndr.) da far
spavento: a Rialto
ne vendevan di grassi, bei et longhi chome un brazo e per
render l’idea
allungando l’arto appoggiava l’altra mano
all’altezza della spalla. Saveu
perché? Perché ste bestie, dopo la bataja, i se
notriban de cristiani! Ha-ha!-
e via! Un’altra testa rotolava.
Rosicchiando accanto al tavolo la
crosta della
polenta, Momolo ascoltava attento tali aneddoti e al contempo studiava
il
movimento meccanico delle fauci del pesce decollato e gli spasimi del
corpo
lungo e viscido: anche il florentin
(perché poi? Era veneziano!) s’era
contorto così, quando Padre l’aveva portato alla
Piazzetta assieme ai fratelli
onde assistere alla sua decapitazione tra San Marco e San Todero. La
testa era
stata spiccata via con la medesima precisione e forse dal collo era
uscito più
sangue, ma stranamente il corpo del florentin
seguitava a muoversi convulso
e Momolo s’era chiesto in quell’istante se si
potesse vivere anche senza capo.
Poi come l’anguilla anche i resti del condannato erano stati
gettato nel fuoco
e la folla aveva gridato contenta, che ben gli stava a quel degenerato.
“Hai ben guardato,
Momolo?”
“Siorsì.”
“Così finisce chi
si comporta da femmina, senza alcuna
considerazione e rispetto verso Dio, lo Stato e le buone leggi
veneziane!”
Il bambino sapeva d’essere
colpevole quanto il florentin
agli occhi del padre, giacché pizzicato a giocare con le
cugine germane Maria,
Querina, Magdalena, Anzola Morexini e la
sorellastra di quest’ultima, Maria Bolani. Non
era colpa sua, Madre gli
aveva insegnato a non fare malegrazie alle fanciulle, d’esser
con loro
cavaliere e di esaudirle in tutto per tutto, sopportando stoicamente le
loro
visite e se poi le capricciose seguaci di Onfale gli avevano serbato la
medesima
sorte di Ercole, di nuovo: non era colpa sua. Così come non
era colpa sua, se
gli piaceva giocare alla nena coi cuginetti ancora in culla.
Padre però negli ultimi
anni non lo capiva, non
ascoltava mai, non lo lasciava spiegare; sembrava che più il
suo ultimogenito
crescesse, più diminuisse il suo affetto, trasformandosi il
suo premuroso Tata
(papà, ndr.) in un intransigente patron di galea, ai cui
ordini tutti dovevano
scattare ed ubbidire.
Eppure, Momolo lo ammirava e gli
voleva bene, declamando
ai suoi compagnucci al Monastero di Santo Stefano tutte le gesta
paterne,
esagerandole ovviamente, e sostenendo come non esistesse miglior
veneziano di
Padre in tutta la Signoria. Et jo, sòo fiol
– mentiva - lo fazo assa’
contento. Tutte balle, infatti, con la rara eccezione di
quando Momolo
suonava il liuto; ecco lì sier Anzolo si scioglieva in
qualche complimento a
metà per poi commentare amaro: Se solo ci mettesse
lo stesso impegno negli
studi …
Ma oggi, 18 agosto, si sarebbe
ricreduto!
“Orsolina! Zanetta! Leste!
Andèmo! O non catarem pì
gnente!”, le chiamava a gran voce Momolo, incurante di
svegliare in questo modo
l’intera Ca’ Miani. Rivoltosi poi al pope de
casàda [4] saltellando impaziente
lo incoraggiava mentre questi faceva scivolare aiutato dal figlio Lucha
la
gondola in canale: “Symon! Dai mo! Almanco ti datte na mossa!
O femo mezzodì!”
“Servo vostro,
patron!”, esclamò gioviale l’uomo,
afferrando Momolo per le ascelle e issatolo, lo adagiò
lentamente dentro la
gondola. Subito comparvero la suocera e la moglie Zanetta che
s’era attardata
per indossare lo zendale più bello, ancora incredula ma
eccitatissima di
viaggiare sulla gondola dei padroni – Madre non aveva voluto
che le due donne
si recassero a piedi col figlio fino a Rialto, le calli ancora scevre
di luce
per l’ora troppo temprana. E Orsolina,
co’ te sarai a Rialto - aveva
aggiunto madona Leonora all’ultimo momento - ricordati di
comprare anche un fia’ di
colazione per il tuo patron: è uscito presto stamane per
andare in bottega,
temo che per far prima abbia saltato il pasto.
“Ancuò
xé sant’Helena Imperatriz …”
“… ora
pro nobis!”
“Dèmo!”
e detto questo Symon prese a vogare e il
piccolo Momolo dalla fèlze guardava estasiato il
sole apparire timidamente
tra i palazzi, illuminandoli d’oro e rosa come
l’Enrosadira baciava le
Dolomiti. Le prime finestre si aprivano pigre e le massere calavano le
tende
onde proteggere gli interni dal sole estivo, oppure salivano in altana
per
stendere il bucato o per battere i tappeti, canticchiando o
chiacchierando con
le loro colleghe del palazzo accanto. In Piazza San Marco palpitavano i
rintocchi del Paron de Casa, annunciando la Maragona l'inizio dell'attività lavorativa e che come il cuore coordinava il flusso
musicale di
tutte le altre campane, nonché la giornata di ciascun
lavoratore, richiamandolo
al proprio esercizio.
Usciti dal piccolo rio San Vidal ed
immettendosi nel
Canal Grande, il fantolino ammirò l’omonima chiesa
fondata dai suoi avi [5] con
la sua struttura gotica a tre navate e lo svettante campanile
cuspidato.
Entrando, immediatamente sulla sinistra si poteva ammirare
l’altare della
Madonna e un suo dipinto a grandezza naturale, commissionato da sier
Marco
Miani q. sier Lucha, lo zio paterno che Momolo non aveva mai
conosciuto,
giacché morto neppure trentenne nell’isola di
Schiro, nel mar Egeo, dov’era
rettore. Falciato dal tossicoloso morbo che flagellava
l’isola, sier Marco, non
desiderando arrischiare la vita dei marinai, aveva incaricato il suo
cappellano
don Hironimo e il suo lettore Alexandro Bernardo di seppellirlo
lì, a Schiro,
con la sua spada, gli speroni e lo scudo con raffigurato il leone di
San Marco,
secondo l’usanza. Ai suoi cari rimasti a Venezia,
quell’atto devozionale.
(Per questo motivo Momolo si
immaginava il suo
barba un po’ come il San Giorgio del maestro Bortolo
Vivarini: bello, nobile e
fiero che al posto del drago impirava qualche turco come
l’autunnale oca allo
spiedo)
Malgrado fossero oramai trascorsi
ventinove anni
dal decesso del fratello maggiore, gli occhi di Padre
s’inumidivano
puntualmente alla mera menzione di sier Marco, strappandogli un
malinconico
sorriso pieno d’affetto. Dopo la funzione, il senatore si
tratteneva parecchio
tempo in preghiera davanti a quell’altare, che tanta fatica
gli era costato per
realizzarlo, la sua ostinazione più forte
dell’inflessibilità del Maggior
Consiglio [6]. Pur non invitato, Momolo gli faceva compagnia e si
commuoveva
durante le sue ingenue orazioni, immaginando quanta tristezza gli
avrebbe
provocato la morte del suo di fratello Marco.
Subito dietro l’abside di
San Vidal, Ca’ Miani col
resto dei suoi magazzini s’affacciava sia sul rio San Vidal
sia sul Canal
Grande: l’intero sito, piuttosto vasto, era da secoli di
proprietà della
famiglia del bambino e appariva composito ed esteticamente modesto,
articolato
in numerosi fabbricati e unità abitative, con alcune aree
tuttora non
edificate, collegate da una corte centrale con al centro un pozzo in comune. Infatti, oltre che alla famiglia padronale, nella casa da
statio
coabitavano i rami cadetti dei Miani di Carità- San Vidal e
quelli di San Vidal,
nonché sier Polo Antonio Miani da San Giacomo
dell’Orio e la sua famiglia, che
pur non possedendo alcuna porzione dell’edificio, pagavano a
madona Magdalena
Miani q. sier Francesco un cospicuo affitto di 60 ducati annui. E
ciononostante, zia Maddaluzza seguitava imperterrita a lagnarsi a
tavola di
quanto lei fosse poara, vecia e sola, ricevendo
l’usuale replica: Poareta
vu, ve compatisso e poco importava se lei affittava mezza
contrada di San
Vidal.
(Un alveare insomma di parenti dai
gradi più
disparati e ronzante attorno alla dimora dominicale di Padre, il
capoclan del
ramo diretto e proprietario di gran parte dello stabile.)
Sporgendosi un poco, Momolo
respirò a pieni polmoni
l’aria mattutina ancora miracolosamente fresca e il suo
cuoricino decenne venne
colto all’improvviso da una grande gioia, voltandosi
sorridente verso
l’Orsolina e la Zanetta che lo imitarono altrettanto
contente, la più anziana
accarezzandogli dolcemente la guancia. Forse stavolta sul
serio Padre
avrebbe riservato anche a lui un simile trattamento, finalmente
sorridendogli
orgoglioso e perdonandogli la cattiveria urlatagli scioccamente contro.
Bisognava possedere umiltà e coraggio per chiedere perdono
– lo aveva ammonito
il suo padre confessore – e il fantolino si ripromise di non
fallire, così da
riferire al buon frate l’esito positivo dei suoi consigli.
Sicché, risalito il Canal
Grande, Momolo intravide l’imponente
ponte levatoio in legno strutturale di Rialto, le cui rampe inclinate si chiudevano su di una parte centrale, rimossa poi al passaggio delle imbarcazioni più alte. Per poco non si tuffò in
acqua pur di
raggiungere la Riva del Ferro, dove si vendeva l’omonimo
metallo.
Immediatamente s’imbatté nei magazzini del grano e
delle farine, grandi, ben
riforniti e dai numerosi banchi, da cui s’accedeva attraverso
due porte. Alla
fine del Ponte di Rialto si trovava la casa della dogana, dove le merci
venivano pesate, registrate e tassate. Su ogni prezzo vigilava accorta
e severa
la Signoria tramite una lista ad hoc, acciocché gli affari
si concludessero
quanto più onestamente e non si speculasse soprattutto sui
generi alimentari e
di prima necessità. Anche i rifornimenti privati dovevano
seguire la via della
temperanza: nessuna casa a Venezia doveva infatti accumulare
più d’un mese di
scorta di cibo e vino.
Tenuto per mano da ambedue le
fantesche e
camminando per le calli già gremite di gente, in direzione
della piazzetta,
Momolo si sentiva la creatura più felice del mondo, in
quell’allegro trambusto dove
egli giudicava essersi dati appuntamento ogni rappresentante della
razza umana,
riempiendosi gli occhi di visi e abiti dalle fogge più
disparate e le orecchie
d’accenti da ogni dove.
Purtroppo, similmente a tutti i
bambini, il suo
entusiasmo nel far le spese scemò ben presto, impiegando a
suo parere le due donne
troppo tempo per comperare il pane (che file lunghissime!), per contare
le uova
che ci fossero tutte nel paniere e per esaminare la frutta e la verdura
(la
moglie del frutaruol gli aveva pizzicato giocosamente le guanciotte - Caro,
dolce pí che no xé el zúcaro!
- e gli aveva regalato una pesca, prontamente
divorata).
Non paghe della sua noia
montante, madre e
figlia perfino s’erano messe a litigare insistenti in
Beccheria. No! Sì! No! E no!, sventolavano i pugni contro
l’altrettanto battagliero bechèr
(macellaio, ndr.) perché, durante le contrattazioni, quelle erano le uniche parole ammesse.
Peggio
ancora quando incontravano una loro comare amica, attaccando bottone e
non
finendola più e della Pescheria neanche l’ombra,
per sommo chagrin di Momolo
che davvero voleva vedere il pescaor estrarre a mani nude le anguille
dalle
vasche di legno! E i folpi appesi ad asciugare! E le aragoste
da Rodi! E
le cappelunghe fare la linguaccia! O mettere la mano dentro la bocca
gigantesca
della coda di rospo! Dall’Adriatico i pescatori di Murano,
Burano, Torcello e
Chioggia tornavano con pingui carichi di pesci di ogni grandezza e
qualità e
poiché esso si trovava alla base della dieta di ogni
veneziano,
indipendentemente dal ceto, il ricambio di merci era velocissimo, non
avanzava mai
nulla la sera sui banconi.
Di conseguenza, approfittando di un
attimo di
distrazione dell’Orsolina, il fanciullo
scivolò via dalla sua presa e
corse nella calca del mercato in avida avanscoperta, imbattendosi nei
banchi
dei pegni dei patrizi Pixani e Lipomano e dei cittadini Garzoni e
Augustini;
nei gallinari; nei venditori di telerie, nei pellicciai, nei funai, nei
cimatori di stoffe, sarti, bottai, argentieri e orafi, pellegrini e
visitatori,
osti e studenti della Scuola di Rialto in un vorticoso tourbillon di
colori e
odori e schiamazzi. Rialto, nel sestiere di San
Polo, era il cuore
pulsante di Venezia: chi voleva concludere affari veri doveva
obbligatoriamente
fermarsi in quel che si descriveva come il più ricco e
variegato mercato del
mondo. La città lagunare di per sé produceva
poco, ma di tutto si poteva trovare
e comprare, i suoi magazzini straripanti di mercanzia sia dal Levante
che dal
Ponente, e non si limitavano al pianoterra, ma si saliva in alto per
riuscir ad
esaminare tutta la merce trasportata dalle agili e infaticabili galee.
Senza accorgersene, Momolo si
ritrovò davanti alla
bottega di famiglia, là dove vendevano sia
all’ingrosso che al minuto fustagni
tedeschi e fiamminghi; pregiatissimi pannilana da Milano e i San
Martino
fiorentini, confezionati con le migliori lane inglesi; panni garbi di
lana
spagnola; panni di media qualità da Como, Monza e Brescia,
ordinari da Bergamo
e gli emergenti pannilana da Feltre e dal resto del Veneto, sempre
più
richiesti. Fruttuoso commercio, con solido mercato soprattutto nel
Levante, che
non soltanto aveva arricchito la gens Miana, ma che le aveva permesso
d’essere
inclusa nel Libro d’Oro, prima della Serrata, assicurandosi
in perpetuo il suo
posto nel campidoglio veneto [7]. Seguendo le orme dei loro antenati,
la
mercatura era una tradizione ben radicata nei patrizi veneziani, che
non
disdegnavano le fatiche e i pericoli del viaggio, imbarcandosi e
finanziando
spedizioni nelle Fiandre, in Barbaria, Beirut, Alessandria
d’Egitto, nelle isole
greche e Costantinopoli, nel Mar Nero e ad Aigues-Mortes. Tale spirito
avventuroso e proattivo, la costanza e l’esaltazione del
lavoro come mezzo di
riuscita sociale e non come svilente necessità, unito alla
prudenza e alla
saggezza del governo della Signoria, avevano contribuito alla fortuna e
alla
gloria della loro Venezia, bella, ricca, altera, invidiata.
Il bambino entrò
trotterellando nel famigliare
ambiente dell’emporio, dai pingui scaffali e arioso malgrado
la strettezza (le
proprietà a Rialto erano costosissime) sebbene
v’indugiasse un lieve sentore di
pecora per via della lana più grezza. Momolo
salutò allegro e scansò i garzoni
che trasportavano pesanti rotoli di tessuto e che li sistemavano a
seconda della
provenienza, del costo, del colore e della moda; poco distante, alcuni
clienti ragionavano
coi commessi, scrutandoli attentissimi mentre costoro srotolavano sul
banco i
campioni di stoffa scelta. Pendendo in avanti col naso a qualche spanna
dai
tessuti, i potenziali compratori vi scorrevano appena appena i
polpastrelli per
poi tastarli tra indice e pollice, quest’ultimo in esperti
movimenti circolari
onde saggiarne la qualità sia in robustezza che morbidezza.
“Quest’è
rosso, come si usa proprio a Stia. Altri
colori ch’abbiamo sono l’arancione, il verde e il
bigio”, spiegava Zandomenego
Martintoni, uno dei miglior commessi e rappresentante di Padre nelle
mude di
Fiandra, poiché, essendo egli originario di Rovereto,
conosceva bene il tedesco
così d’accaparrarsi le merci migliori ad Anversa,
Bruges e nelle città delle
Leghe Anseatiche. Sier Anzolo aveva fatto da padrino a due suoi
figlioli e la
moglie di Zandomenego ad ogni Santa Lucia regalava al loro datore di
lavoro una
grande torta alle mele, cannella e chiodi di garofano per la
felicità dei
bambini di Ca’ Miani.
In quel momento, l’uomo era
intento a contrattare
con dei mercanti napoletani per del panno cosentino, in un duello
all’ultimo
sangue sul prezzo, troppo alto per i clienti e troppo basso per quello
proposto
dal venditore. Piazzandosi in un angolino dietro al bancone, Momolo
s’acquattò
onde meglio assistere al serrato botta-e-risposta, finché,
dopo una bella
mezzoretta di sì e no e forse, si raggiunse un accordo,
ossia che i mercanti
avrebbero ottenuto uno sconto a patto che acquistassero il doppio della
quantità
richiesta e che pagassero metà in contanti entro la
giornata.
“Perché hanno
comprato tutto quel panno cosentino?
Non vale molto, lo usano i frati per i sai”,
commentò Momolo una volta che i
napoletani se ne furono andati, intanto che Zandomenego chiudeva
sottochiave l’anticipo
e il contratto firmato.
“La guerra, patron Momolo,
la guerra: ora li vedete
piangere il morto, ma questi furboni di mercanti rivenderanno quei
panni minimo
il doppio a chi vorrà ricavarci delle mantelline per le
cavalcature, braghe,
ziponi, vai te a sapere … Meglio per noi, ci siamo liberati
di merce ch’oramai
nessuno comprava da un bel po’ e, d’altronde, che
se ne fanno i soldati di
panno San Martino o milanese? Forse il Re e manco lui, cui a momenti
mancano i
soldi perfino per vestire se stesso.”
Il giovinetto annuì serio e
accorto: dei fatti di
guerra a Napoli, egli l’aveva appresi ascoltando i discorsi
tra Padre, senatore
dei Pregadi e perciò degli affari esteri, e gli zii materni,
assieme ad altri
argomenti quali la visita a luglio dell’Imperatore Maximilian
al duca di Milano
Ludovico il Moro e a sua moglie Beatrice d’Este,
nonché la spinosissima e non
ancor risolta questione del piacentino Giorgio Valla, professore di latino
e greco
alla Scuola di San Marco, e del suo allievo Placido Amerino,
imprigionati
ambedue da febbraio con l’accusa di spionaggio per conto del
Re di Francia,
passando a Gian Giacomo Trivulzio informazioni sulla lega stipulata tra
la
Signoria e il Ducato di Milano.
Ma Napoli occupava tenacemente il
primo posto nelle
conversazioni sia a tavola sia in studio anche per motivi famigliari:
sier
Francesco Morexini, suocero di sier Batista zio materno di Momolo, era
partito per
la Bassa Italia a combattere per la causa del re Ferrandino
d’Aragona, in piena
campagna di riconquista del suo regno occupato dai Francesi. A gennaio gli
ambasciatori napoletani erano giunti a Venezia allo scopo di strappare alla
Signoria un
sostegno sia militare sia pecuniario, favore che il giovane re aveva
ottenuto
impegnando i porti pugliesi di Otranto, Brindisi e Trani in cambio di
denari,
fanti, stradioti, uomini d’arme e galee. Se
l’Aragona fosse però riuscito ad
estinguere ogni debito, la Signoria gli avrebbe restituito tutte le
città, le
terre e le fortezze circostanti, immediatamente e
senz’eccezione. Un patto
semplice e onesto in vista, chissà, di una futura, lunga e
vantaggiosa alleanza
con Ferrandino, reputato uomo d’onore più del
padre Alfonso e del vecchio re
Ferrante messi assieme.
“Zandomenego, hai visto el
sior mio Pare?”, domandò
di punto in bianco Momolo, tallonando il commesso ch’aveva
incominciato ad
aggiornare i cataloghi.
“Avete controllato nel suo
ufficio?”
“E’ il primo posto
dove sono andato.”
“Il signor
Ruberto?”
“Manco lui lo sa.”
Al che l’uomo distolse lo
sguardo dalle pagine
fittamente scritte, guardandosi perplesso attorno. Da quando il suo
padrone
aveva ottenuto la carica di senatore nei Pregadi, lo si vedeva in
bottega e ai
fonteghi solamente di mattina presto o alla sera tardi, per controllare
l’inventario e l’incasso di fine di giornata.
Tuttavia, anche se di recente
sier Anzolo non si vedeva spesso, comunque rendeva ben nota la sua
presenza ai
suoi dipendenti, informandoli sui suoi spostamenti o di persona o
tramite il
suo segretario Ruberto Franco. In fin dei conti, quando a Venezia, il
patrizio si
dimostrava una creatura piuttosto abitudinaria.
“Strano, molto strano che
neppure lui lo sappia …”,
mormorò Zandomenego, chiudendo il pesante quadernone e
alzandosi dallo scranno.
Avanzò di qualche passo, a caso, allungando il collo onde
scovare tra i
presenti la nota figura di sier Anzolo. “Io non …
non credo d’averlo visto
uscire … Cioè, doveva in effetti andare dal Capo
Sestiere però non … penso …
non … Aspettate, patron Momolo, vado un attimo a parlare col
signor Ruberto!”,
si diresse l’uomo velocemente verso l’ufficio del
segretario del senatore,
abbandonando al bancone un interdetto Momolo.
Vedendolo così disorientato
e in pena, Lele, uno
dei garzoni, ebbe di lui compassione e gli spiegò brevemente
la faccenda: “Co’
ghemo averto, ea volta la gera tutta rebaltà, co la roba per
tera, ‘na gran
confusion dil diaol! El patron gh’avea creduo ser vegnui i
ladri e perzò gh’ha
volesto prima vardar cossa ghe gera stà robà e
depo’ a far la denunzia al Cao
de Contrada.”
Lo stomaco del bambino
s’attorcigliò dolorosamente,
provocandogli un lieve riflusso fino in gola, mentre ragnetti di
brividi freddi
incominciarono a risalirgli molesti lungo il collo, rizzandogli i
capelli.
S’inumidì le labbra d’un tratto secche,
attorcigliando ansioso le dita:
ignorava il motivo esatto, eppure un’arcana sensazione di
pericolo l’aveva
colto, quell’antica vestigia d’animale rimasta
negli uomini che, senza
l’ausilio di parole e ragionamenti, allertava e consigliava
ad una pronta
azione. Tale stato d’allerta irrigidiva ora le membra del
fantolino, sentendosi
questi improvvisamente solo e vulnerabile.
“Sai
s’è alla fine uscito?”,
soffiò Momolo,
avvertendo il cuore martellargli in petto.
Lele scosse il capo. “Lo
gh’ho visto ‘nultima volta
là” ed indicò uno sgabuzzino
seminascosto dagli scaffali, “depo’,
mi sun ‘ndà a laorar e nol poxo dirve
de pì.” Poiché il garzone
notò come il fanciullo stesse contemplando quella
porta col medesimo trasognato timore, che un condannato riserverebbe al
suo
ceppo e che di conseguenza non accennava ad avanzare d’un
passo, egli schioccò
le dita verso un collega poco lì distante, intimandogli di
controllare se il
padrone si trovasse ancora lì.
Nettandosi le mani sul grembiale,
l’altro ragazzo
gli rispose tramite un silente cenno affermativo e sparì
all’interno
dell’angusta stanza, lasciando la porta aperta per far
più luce.
Ed ecco.
Bastò un unico, acuto,
mezzo soffocato grido per
stravolgere quella placida mattina d’agosto, per segnare una
violenta linea
netta tra il “prima” e il
“dopo”, senza possibilità di capire, di
rimediare, di
tornare indietro e di cancellare per sempre quel brevissimo istante in
cui il
giovane apprendista usciva
incespicando dallo sgabuzzino, sconvolto
e la mano sul petto ansante, il viso piegato in una smorfia di pura
agonia. Indietreggiando,
egli tentava di parlare e indicava insistente l’interno
semibuio, da cui
s’intravedeva una scala e appoggiato a malapena su di essa
qualcosa di grosso e
scuro.
Immediatamente Lele lo raggiunse,
strattonando per
le spalle il compagno che farfugliava e piangeva e scuoteva il capo,
ordinandogli di rivelargli ciò che tanto lo aveva turbato.
Non ottenendo però
alcuna risposta, entrò anch’egli e di nuovo quel
grido, quel “No!” atroce,
mentre il ragazzo rimasto fuori si copriva la bocca con la mano, per
poi
segnarsi continuamente mentre scivolava per terra in ginocchio.
“Oh, Verzene
Maria … Oh, Madona …!”
Attirati da cotanta sinistra gazzarra,
si creò tosto
un folto gruppetto tra garzoni e commessi il cui numero crebbe fino ad
ostruire
l’entrata dello sgabuzzino, al che Ruberto Franco, giungendo
assieme a
Zandomenego, dovette subito intervenire, spintonando via gli astanti in
modo da
non sconcertare gli altrettanto incuriositi clienti.
“Oh, bone Jesus
dolciximo … El patron!
El patron! … Mi no savevo … mi no gh’ho
podesto … el gera vivo, eo gh’ho veduo
staman e horra … horra …”
Zandomenego, udito ciò,
pigliò subito per un
braccio un pallidissimo Momolo per allontanarlo. “Su, andiamo
a casa, patron
Momolo, vi ci porto io …”, lo esortò
dolcemente, ricevendo invece un feroce
strattone di diniego da parte del giovinetto.
Riavutosi dall’iniziale
spaesamento, Momolo gli
oppose una fiera resistenza, piantò ben bene i piedi prima e
tirò e scalciò
peggio d’un mulo in direzione opposta poi, rifiutandosi
d’abbandonare la
bottega fintanto che non gli spiegavano cosa fosse accaduto a Padre,
fintanto …
“No! No! Lassame!
Lassame!”, strillò quegli
instancabile; a furia di svincolarsi, torcersi e piegarsi era finito
col sedere
sul pavimento e la camicia fuori dalle brache, costringendo Zandomenego
a
sollevarlo di peso. “Vojo vardar! Xé’l
mio sior Pare!”, si dimenò di disperata
ansia e mulinò sconclusionatamente la braccia per
schiaffeggiare via il
commesso, che indietreggiando si stava dirigendo all’uscita
del negozio.
“Lo vedrete, ve lo giuro! Ma
ora andiamo a casa!”
“No! Lo voglio vedere ora!
Ora! Ora! Ora!”
“Patron Momolo, per favore
… Lo rivedrete …!”
Momolo inarcò la schiena in
un doloroso arco, si
girò ed elargì un calcio agli stinchi di
Zandomenego. Finalmente libero schizzò
velocissimo dentro lo sgabuzzino, seminando l’uomo che lo
rincorreva. “Tata!
Tata!” Si fece strada sgomitando, gli occhi già
umidi di lacrime e invocando il
padre, le braccia protese in avanti come se, una volta giunto in quello
stanzino, al suo interno fosse sicurissimo di trovarvi Padre, vivo e in
salute.
Come se fosse lì ad attenderlo a braccia aperte, pronto ad
abbracciarlo e a
consolarlo.
“Tata! Tata!”
Mia
figura o peccator contemplerai
Simile
a mi tu vegnirai
Digrignando
i denti e centellinando col naso l’aria
mefitica, Hironimo districò
faticosamente e a mani nude i cadaveri accatastati in barcollanti pile,
disponendoli
in ordine uno accanto all’altro, acciocché potesse
riconoscerli e salutarli
nella sua testa prima di seppellirli, in muto ringraziamento per il
loro eroico
ma inutile servigio.
Quando
arrivò il turno di sistemare il corpo seminudo di Menego, il
figlio dell’Orsolina,
grigio, mezzo marcio e assolutamente anonimo, il giovane Miani si
domandò perché
mai i volti dei morti s’assomigliassero tutti.
Non
ofender a Dio per tal sorte
Che
al transire non temi la morte
Che
più oltra non me impazo in be né male
Che
l’anima lasso al judicio eternale
Et
come tu averai lavorato
Cossì
bene sarai pagato.
Se non fosse stato per la toga nera
manco l’avrebbe
riconosciuto.
O meglio: lo avrebbe, ma Momolo per
quanto si
sforzasse non capiva come mai quel fantoccio penzolante scalzo, dalla
faccia
gonfia, dalle pupille dilatate e dalla lingua fuori potesse essere
Padre, il
senatore sier Anzolo Miani. Su quel viso di cinquantenne il bambino
aveva contemplato
ogni genere di sentimento, però mai quello gelido e immobile
della morte,
avendo Momolo sempre creduto Padre immutabile ed eterno come Domine
Iddio e
ironicamente, pensò, adesso stavano tutti a contemplarlo
sconcertati e dolenti
col naso all’insù come le Pie Donne e San Giovanni
sotto la Croce.
E appunto come la Maddalena il bambino
afferrò le caviglie
del genitore e se le strinse forte al petto, strusciando la guancia
sulla
stoffa nera. Trattenendo i singhiozzi, Momolo si mise in punta dei
piedi e
spinse in alto con tutte le sue forze, illudendosi di poter salvare suo
padre,
di poter sfilare quella corda dal collo bluastro.
Gridò dallo sforzo,
maledì la sua impotenza. “Tata!
Tata!”, gli batteva le ginocchia. “Tata!
Tata!”
All’improvviso, la luce
scomparve e Momolo si
ritrovò cieco a causa di una mano callosa sui suoi occhi:
Zandomenego l’aveva
preso in braccio, nascondendogli poi il viso sull’incavo
della sua spalla. Di
riflesso, il bambino strinse tra i pugni la stoffa del suo farsetto,
lasciandosi avvolgere da quel buio improvvisato affinché lo
conducesse via da
quel luogo, dalle immagini impietose marchiatesi a fuoco nel suo
cervello.
“Lele, molighe de fiffar e
corate dal Cao de Contrada,
lesto!”, gli giungeva sempre più ovattata e
distante la voce affannata di
Ruberto. “Vuialtri, mandé via tutti e serrate ea
botega! Nissun gh’ha da
vardarlo, nissun!”
Momolo voleva urlare. Voleva piangere.
Svenire.
Qualsiasi cosa pur di liberarsi da quel subitaneo nodo alla gola, che
gli
impediva di respirare e gli tingeva la visuale di chiazze. Invece,
tenuto
saldamente da Zandomenigo, altro non gli riusciva se non
d’aprire e chiudere la
mano, come se desiderasse afferrare quella spalancata e rigida del
padre.
Un prima. Un dopo. Un mai
più.
Il giovinetto avvertì il
mondo ruotare,
capovolgersi e schizzare via in una moltitudine di colori che si
mischiarono e
sciolsero vorticosamente fino a scagliarlo in un mare di luce
bianchissima,
dove il decenne fantolino v’affogò volentieri,
accogliendo a braccia aperte
quel doloroso nulla che tanto s’era fatto aspettare.
Nel dolore implose.
O
peccator non peccar non più
Chel
tempo fuge e tu non te n’avedi
Neanche
un prete a benedire le loro tombe. Oh, che differenza avrebbe poi
fatto? I
morti non si lamentano.
Thomà,
instancabile, intrecciava con l’erba piccole croci da mettere
sui petti di
ciascuno intanto che Hironimo scavava la fossa comune.
Le
lacrime sincere di quel bambino erano più sante di qualsiasi
acqua benedetta.
De la
tua morte che certeza aitu
Tu
sei forsi alo extremo et non lo credi
De
ricore col core al bon Iesu
Et
del tuo fallo perdonanza chiedi
Vedi
che in croce la Sua testa inchlina
Per
abrazar l’anima tua meschina …
Madre e le fantesche avevano
agghindato Padre con
la medesima perizia, che il defunto avrebbe usato per recarsi alle
riunioni dei
Pregadi a Palazzo Ducale, quasi a cancellare attraverso una raffinata
eleganza
ogni ricordo dello stato indecoroso, nel quale era stato rinvenuto.
Dopo che l’ufficiale
sanitario e i barellieri se ne
furono andati, lasciando il cataletto e il suo triste cargo sotto un
lenzuolo, madona
Leonora - riavutasi
dall’iniziale
deliquio e spediti i figli al piano di sopra da madona Maria Foscarini
Miani - gelida
come il marmo aveva disposto di sistemare il consorte sul tavolo e di
preparare
il necessario onde ripulirlo e acconciarlo per l’ultimo suo
viaggio terreno. Il
tutto in un silenzio assoluto, chiunque avesse osato fiatare avrebbe
incontrato
i latrati ferocissimi della vedova, la quale aveva concesso al massimo
di
piangere con la bocca chiusa, dando l’esempio coi suoi occhi
rosso fuoco e le
guance smorte rigate.
Lei stessa aveva insistito di vestire
sier Anzolo,
accarezzandogli furtiva i capelli con la scusa di pettinarglieli e le
guance di
chiudergli il colletto, lo sguardo dolente e amorevole fisso sul suo
corpo
rigido ed illividito come se, tramite le sue carezze, desiderasse
risvegliare
il marito da quel gelido sonno. Orsolina e le altre domestiche avevano
finto di
non vedere, concentrandosi sul gravoso compito, semmai accelerandolo
acciocché
tutto fosse pronto per l’arrivo del resto del parentado,
sempre senza proferire
alcun motto, avendo infatti già comunicato ciò
che dovevano comunicarsi, oramai
abituate a quella mesta usanza, la memoria ben allenata dai passati
decessi in
Ca’ Miani. Ne avevano seppelliti abbastanza da saper alla
perfezione cosa fare
e come comportarsi, sebbene non negavano un certo turbamento per le
circostanze
della morte del padrone, le quali nessuno pareva darsi la pena di
chiarire, in
primis la moglie.
Quando Zanetta salì a
chiamare Momolo ed i suoi
fratelli, era tardo pomeriggio e la vestizione completa;
s’attendevano i
parenti più stretti per trasportare il defunto a San Vidal e
lì iniziare la
veglia.
Uno alla volta giunsero a porgere i
propri
rispetti: il biscugino sier Zuan Francesco Miani e sua moglie Maria
Foscarini
Miani; l’anziana Maddaluzza Miani e madona Ysabeta Zen
relicta Miani ora Grioni col ventitreenne
figlio Alvixe Miani e il di lui fratellastro Piero Grioni; sier Polo Antonio Miani e sua moglie Maria Morexini
Miani,
cugina di Madre, e i loro cinque figlioli, di cui l’ultimo,
Piero, ancora in
braccio alla balia. Poco più tardi si presentarono Crestina
Miani da Molin, la
figlia di primo letto di sier Anzolo, assieme al marito sier
Thomà da Molin e
alla piccola Leonora detta Dionora; appena scorse la matrigna, la
venticinquenne patrizia le corse incontro, abbracciandola forte e
piangendo
silenziose lacrime sulla sua spalla, mentre madona Leonora le
accarezzava il
capo velato di nero.
A costoro s’aggregarono le
famiglie dei commessi e
degli operai di sier Anzolo, Ruberto Franco e Zandomenego Martintoni i
primi a
presentarsi; poi quelle della contrada di San Vidal e dintorni; in
serata alcuni amici
intimi del senatore, quali il
senatore della Zonta sier Antonio Trum e suo fratello minore Sebastian
Trum,
previi cognati del Miani. Madre ed i suoi figli li accoglievano
rigidamente
composti, la donna vestita interamente di nero, accollatissima, le
belle trecce
nascoste sotto una scuffia nera e un voluminoso paneselo nero lungo
fino ai
fianchi tanto da scambiarla per una suora. Il ventunenne Lucha e il
diciannovenne Carlo già si presentavano con
l’ombra della barba che, per tre
anni, avrebbero sfoggiato a mo’ di lutto, assieme al mantello
serrato bruno,
dallo strascico assai lungo, stretto ai fianchi da una cintura di cuoio
e
affibbiato sotto la gola.
“Le nostre più
vive condoglianze”, sentiva Momolo
ripetere ogni visitatore, mentre Madre e i fratelli stringevano di
continuo
mani e sorridevano forzatamente a quella processione di volti
familiari;
quest’ultimi però stentavano di rimando a
riconoscerli, stravolti com’erano da
quell’inatteso e tragico evento.
Sua nonna, madona Ysabeta Contarini
relicta
Morexini, accorgendosi del silente nipotino, gli accarezzò
la guancia,
sussurrandogli parole di conforto prima di recarsi nella camera da
letto del
morto per unirsi allo scoordinato coro di “Ave
Maria”. Ogni tanto gli si
batteva sulla schiena o sulla spalla, incoraggiandolo a farsi forza, al
che Momolo
replicava annuendo, ricacciando indietro quelle lacrime che solo dopo
le
esequie e nella segretezza della sua stanza gli sarebbe stato
consentito di
versare. Ma non ora. Non in pubblico, a quello ci pensavano le donne.
Non era
ciò che sempre Padre gli aveva rimproverato? Di frignare ad
ogni occasione? Mai
più – si ripromise – mai più
avrebbe pianto. Egli era un ometto e gli uomini
non piangono.
La genitrice e i fratelli si
dividevano anch’essi
tra gli infiniti convenevoli, i saluti e le melodrammatiche
proclamazioni su
quanto la morte di sier Anzolo Miani li avesse rattristati e se
ciò
corrispondesse al vero, meglio non sapere.
Momolo, aggrappato alla mano di Madre,
assisteva passivo
all’intero spettacolo e un poco innervosito, gli occhi ben
asciutti.
Al crepuscolo trasportarono Padre su
di un
cataletto nella chiesa parrocchiale di San Vidal per la veglia funebre
– al
lume delle torce rette dai fratelli Lucha, Carlo, dal biscugino sier
Zuan
Francesco e dai suoi zii sier Batista, sier Lunardo e sier Hironimo
Morexini “da
Lisbona” (quest'ultimo senatore dei Pregadi come il cognato) accorsi in tempi diversi durante il giorno. Un affare semplice,
privatissimo, quasi vergognoso
e in netto contrasto con la pomposa cerimonia che si apprestava a
compiere il
giorno seguente.
Nell’andirivieni generale di
partecipanti e babe
pizzochere, soltanto lo zio di Momolo, sier Batista, era sempre rimasto
in
chiesa, avendo infatti mandato avanti la matrigna madona Ysabeta, i
suoi
fratelli e la moglie madona Morexina Morexini, promettendo di
raggiungerli a
Ca’ Miani. In passato, vegliare su di un cadavere pronto per
l’ultima dimora
terrena non aveva mai scosso suo zio più di tanto,
ricordandoselo Momolo
impassibile se non talora annoiato; ora, invece, l’uomo gli
appariva inquieto,
forse per colpa dell’innaturale silenzio regnante nella
chiesa o forse perché,
come tutti, non si capacitava di tale disgrazia abbattutasi improvvisa
e
violenta sul cognato e sulla sua famiglia.
E il fantolino poteva ben immaginare,
quanto tale
sua apprensione non fosse rivolta a Padre – ormai in gloria
di Dio – bensì a Madre,
che sier Batista trovò là dove l’aveva
lasciata, seduta in uno stato pressoché
sonnambolico davanti al catafalco, illuminata a malapena dalla fioca
luce dei
ceri funebri, proiettando questi lunghe ombre sui muri e trasformando
il morto
in un’informe massa scura. Sulle ginocchia di madona Leonora
sonnecchiava
appena Momolo, la mano tuttora stretta a quella della genitrice; il
quindicenne
Marco, dal canto suo, s’era accontentato della spalla. Quanto
a Lucha e a
Carlo, erano rientrati a Ca’ Miani per coordinare il piccolo
rinfresco e
sorbirsi, volenti o nolenti, la compagnia del parentado, che fino al
dì del
funerale si sarebbe accampato nella casa da statio.
Sedendosi accanto alla sorellastra,
sier Batista le
mormorò dolcemente: “Dovreste coricarvi, almeno
per qualche oretta: non avete
neppure mangiato e domani …” e si
bloccò in tempo onde evitare sciocchezze
tipo: sarà una giornata impegnativa. E come no!
Madona Leonora scosse lentamente il
capo in
diniego, gli occhi vitrei riflettenti l’arancione delle
candele, fissandolo
sperduta come se l’avesse visto per la prima volta in vita
sua. Negli abiti neri
da vedova pareva ancor più giovane e al contempo vecchia per
via delle spalle
ricurve, del pallore dell’insonne e delle profonde occhiate.
“Domani lo lascerò
… non stanotte, no, stanotte rimango con Anzolo
…”, gracchiò, passandosi rapida
e vergognosa il dorso della mano guantata sugli occhi. “Il
fumo …”, bofonchiò a
mo’ di scusa, tirando su col naso.
Il suo fratellastro accettò
la debole giustificazione
senza commentare. In quel momento, Momolo uscì completamente
dalla sua
dormiveglia, ma, accorgendosi dell’espressioni serie di
confidenza tra Madre e Avunculo,
seguitò nel suo finto sonno, in ascolto, specie quando, inaspettatamente, l'altro zio sier Hironimo Morexini s'unì a loro.
“Siete ritornato in ritardo,
oggi.” Il tono di sier Batista suonava tanto duro quanto gli altari di marmo e quel suo velato rimprovero doveva fondarsi su ottime motivazioni, per rivolgersi così al fratello maggiore.
“Sapete
perché", replicò altrettanto tagliente sier Hironomo.
“Mi permetteranno di
seppellirlo in chiesa?”, altre erano le preoccupazioni della vedova e almeno in questo, i due Morexini ebbero di lei, rassicurandola:
“Il priore don Jacomo
Batista non nutre alcun
dubbio a riguardo.”
“Questo vi ha
trattenuto?”
Un istante d’esitazione.
“No.”
Madre si voltò verso sier Hironimo, guardandolo tanto supplicante quanto sier Batista accusatore. “Significa che sanno chi è stato. Mi
rifiuto di credere che mio
marito si sia tolto la vita”, interruppe lei la replica
del fratellastro più anziano, zittendolo
bruscamente. “Anzolo non s’arrendeva dinanzi a
nulla, né sarebbe stato così
codardo ed egoista da scegliere a nostro discapito questa triste
scappatoia.
Non lo credo! Non è possibile! Me lo hanno ammazzato e i
Dieci conoscono il
colpevole!”
Il senatore dei Pregadi girò il capo
dall’altro lato, evitando
di risponderle e ciò confermò le intime angosce
della donna.
“Voi lo sapete! Ve lo hanno
comunicato, quando vi
siete recato a Palazzo per assicurargli una sepoltura da cristiano!
E’ così?”,
lo incalzò sier Batista e madona Leonora, dinanzi all'ostinato mutismo del fratellastro, gli ordinò affannata: “Me lo
dovete dire, Hironimo! Sono sua moglie! I miei figli hanno il diritto di sapere
chi ha
ucciso il loro padre! Perché mi fate questo sgarbo
tacendomelo?! Perché ci
costringete a vivere con questo peso?”
Il patrizio allora
s’alzò di scatto, avanzando a
grossi passi verso il catafalco.
“Perché non
abbiamo prove!”, sbottò frustrato sier Hironimo,
appoggiando la mano poco distante da quella guantata ed inerte del
cognato,
quasi desiderasse scusarsi con lui
per la
sua impotenza. “Senza prove concrete, inizieremmo uno
scandalo di tal portata, che
se le nostre teorie si rivelassero sbagliate, ci risulterebbe difficile
se non
impossibile ritrattare”, le confessò, calmandosi e
respirando a fondo.
Dopodiché il Morexini riaccese alcune candele, lo stoppino
soffocato
dall’eccesso di cera. “Se Anzolo fosse stato ucciso
da un qualsiasi suddito
della Signoria, quant’è vero Iddio lo avremmo
scovato e tagliato a pezzi tra
Sen Marco e Sen Todero. Poiché sospettiamo non essere
così … Senza prove concrete
non possiamo nominare nessuno a voce alta”, e si
passò stancamente una mano
sulla tempia. “Noi tutti siamo amareggiati per quel che
è successo. Si poteva
evitare”, e terminata l’operazione di riaccensione
delle candele, riprese il
suo posto sullo sgabello in attesa dell’alba.“Ma
una testa rotolerà per certo,
sorella mia, questo ve lo promettiamo: hanno voluto darci un monito.
Ebbene,
anche loro riceveranno il nostro.”
Momolo rabbrividì
all’udire quella minacciosa
promessa, ch’odorava di sangue, stringendosi inconsciamente a
Madre.
A Venezia ogni cosa pubblica doveva
essere uno
spettacolo e il funerale di un suicida (o presunto tale, come si
correggeva
ferocemente lo sprovveduto pettegolo che affermava il contrario) lo era
assai,
attirando più partecipanti di quanti invitati, pareva aver
reso l’anima Missier
il Doge e non un senatore a giudicare dalle finestre gremite di facce
incuriosite e scandalizzate; delle calli quasi ostruite di gente che si
univa
al corteo o che tentava di sbirciare il volto del morto, se si notavano
i segni
della corda (c’erano e belli scuri sotto il velo rosso
postovi da Madre, in
modo da confondersi con il colletto della vesta).
Per sicurezza, durante il tragitto
verso Santo
Stefano, i Miani avevano ordinato ai servitori di tenere ben pronti i
bastoni
in mano, da calare su qualsiasi testa facinorosa e fanatica che avesse
osato
disturbarli. Per fortuna non fu il caso, procedendo
serenamente il pingue
corteo indisturbato, tra Litanie dei Santi e segni della croce dei
passanti o
di chi s’affacciava alla finestra, srotolando da essa un
panno viola o nero in
segno di partecipazione. Momolo aveva assistito ad altri funerali, come
ad
esempio quello del suo omonimo prozio sier Hironimo Miani e di sua zia
Barbara
Moro Morexini, però ugualmente rimase sopraffatto da tutta
quella gente, dai
preti agostiniani e dai chierici; dai dipendenti in bottega e magazzini
ai
marinai e comiti che avevano servito nelle fuste e galee di sier
Anzolo, quando
questi era stato Capitano della Riviera della Marca durante la Guerre
del Sale
e capitano della muda di Beirut.
Oltre a costoro, seguivano poi: sier
Thomà Miani
cugino di Padre con le figlie Anzola e Maria, maritate rispettivamente in sier Alvixe Zantani e sier Fantin
Dandolo; sier Daniel Contarini, figlio della prozia Helena Miani
Contarini, e
sua moglie Cypriana Arimondi Contarini; l'anziano procuratore di San Marco sier Andrea Contarini e madona Andriana Miani Contarini, altra zia paterna del defunot, e i loro numerosissimi figlioli e figliole tra cui sier Thadio e sier Antonio Contarini, che vivevano a San
Vidal,
il secondo assieme al figlio Sebastian Contarini e madona Pellegrina
Contarini
Morexini in compagnia dei figli Silvestro, Phelipo detto "l'Avaro" e Bortolamio Morexini.
Lontani parenti, ma pur sempre in
Ca’ Miani
partecipavano il novantaduenne sier Andrea Miani q. sier Vidal, tenuto
sottobraccio da sua nipote Maddaluzza Miani con accanto madona
Magdalena
Marzelo da Canal, moglie di Marin da Canal suo altro nipote.
Dei Miani di San Giacomo
dell’Orio si presentarono,
oltre a sier Polo Antonio e famiglia, anche i suoi fratelli Batista,
Sebastian,
Zuanne, Lorenzo e Domenego e i loro cugini germani, Segondo, Zuam
Batista e
Domenego figli del cugino del nonno paterno di Momolo, quel sier
Thomà Miani
che tanto lo amava quasi se non più d’un fratello,
da compartire l’anno di
esilio quando, stolti e impetuosi ventenni ch’erano stati,
sier Lucha e sier
Thomà avevano deciso d’impegolarsi in strane
sette. Momolo aveva conosciuto nei
dettagli la succosa vicenda al funerale del medesimo sier
Thomà, deceduto
quello stesso anno.
E per virtù di matrimoni,
che legano il mondo, la
cognata di sier Thomà, madona Agnete Vituri, aveva sposato
sier Nicolò Loredan
fratello di madona Crestina Loredan Miani, madre di sier Anzolo,
sicché costoro
non poterono mancare, anche dopo che sier Lucha Miani, soffrendo del
mal dell’eterno
marito, si era risposato con la giovane vedova di sier Francesco
Dolfin. Tra
questi parenti spiccava l’anziana madona Agnexina Minotto
Loredan, moglie del
prozio sier Bertuzi e figliola del magnifico messer Hironimo Minotto,
morto
decapitato a Costantinopoli assieme al figlio Zorzi e ad altri sette
patrizi
veneziani, dopo averla virilmente difesa contro i Turchi. Madona
Agnexina e suo
fratello sier Polo Minotto, catturati assieme alla madre e destinati ad
una
vita di schiavitù, per grazia di Dio e della Madonna erano
invece riusciti a
fuggire e a rimpatriare a Venezia, assegnando la Signoria una dote alla
fanciulla.
A proposito di Turchi: ai fratelli
sier Antonio e
sier Sebastian Trum s’erano aggregati i loro quanto mai
numerosi famigliari,
tra cui Momolo riconobbe sier Phelippo Trum q. il Serenissimo Missier
el Doxe
Nicolò Trum con la moglie e e la cugina di Madre sua cognata,
quest’ultima rimasta precocemente
vedova del sopracomito sier Zuane Trum, morto a Negroponte per “la fede e per el
stado”; i figli di
madona Francesca Trum Dolfin, il cui marito era stato
anch’egli alla custodia
di Costantinopoli sebbene con epilogo più felice; il
capitano sier Hironimo
Contarini “il Grillo” dei SS. Apostoli e sua moglie
Orsetta Trum Contarini,
nota per la sua bruttezza leggendaria, coi figli Francesco e Magdalena.
Degli
altri cugini di suo zio sier Antonio, il piccolo Miani si
soffermò su Stae Trum
q. sier Antonio, il quale i medici patavini avevano dichiarato
irrecuperabilmente pazzo furioso e di fatti lo tenevano ben stretto i
suoi
fratelli Carlo e Donado e seminascosto dagli altri fratelli, sier Francesco, sier Lucha e sier Marco. Il povero Stae, scagnato dai parenti e
seppellito vivo
in casa, al decenne Miani in verità suscitava
un’infinita tenerezza, povero
prigioniero della sua medesima mente, dal sorriso sghembo e svagato,
gli occhi distratti
sempre vaganti di qua e di là e un filetto di saliva che gli
rigava il mento,
quando parlando esibiva nei suoi criptici discorsi la tipica saggezza
dei
matti. Non era nato così - aveva appreso il giovinetto - avendo anzi lavorato come giudice nella Quarantia Criminal; semplicemente, nel corso degli anni qualche demone interiore aveva roso, poco alla volta, il senno di sier Stae e soltanto Domine Iddio poteva nominarlo.
Dalle bande di Madre, oltre alla nonna
Ysabeta, Momolo salutò i suoi cugini Zuanne, Donado e Francesco Michiel, quest'ultimo con la moglie Ysabeta Longo Michiel, figli dei sier Donado Michiel q. Zuanne detto "il Fusta", figliastro di sua nonna e di Cecilia Trum Michiel, cugina di sier Antonio e sorella di madona Francesca; dopodiché il piccolo Miani passò agli altri cugini, Alvixe, Andrea ed Hironimo Barbaro, figli dell'altra figliastra di madona Ysabeta, Diamante Michiel Barbaro e di Piero Barbaro q. sier Donado.
Venne anche il cognato dell'avia materna, sier Ambruoxo Contarini q. sier Beneto, capitano
della galea Aegeus
contro i Turchi, ambasciatore ed esploratore, in compagnia di sua
moglie madona
Margareta Crispo Contarini col figliolo Beneto Contarini. Momolo per
questo
parente nutriva una grande fascinazione e gli dispiaceva di
rincontrarlo in
tali infelici circostanze, adorando infatti sedersi ai suoi piedi per
ascoltare
le sue avventure nel Levante. Il piccolo Miani forse non si ricordava
manco
sotto tortura gli Ianua e i Disticha
Catonis, però poteva citare
verbatim ogni singola parola dei libri-resoconto “Questo
è el Viazo de
misier Ambrogio Contarini” e “Viaggio
al signor Usun Hassan re di Persia”,
ripetendo come da grande egli avrebbe imitato il prozio e viaggiato per
il
mondo in lungo e in largo, ammazzando Turchi, salvando donzelle in
pericolo e
divenendo amico di re e imperatori di paesi esotici e mai scoperti. “Sì,
sì,
sempio come sei, appena metti fuori il naso dal Golfo, ti catturano i
Turchi e
ti vendono schiavo al Sultano d’Alessandria
d’Egitto per fargli da scimmia!”
“Sior Pare, aveu sentito?” “Carlino,
molighe: qui nessuno vende nessuno al
Sultano!”
I più vicini al cataletto,
però, rimanevano i
Morexini dalla Sbarra di Santa Ternita, cognominati “da
Lisbona” per via dei
lunghi anni in Portogallo del fu sier Carlo Morexini q.
Nicolò, nonno materno
di Momolo, senatore e “companheiro”
del fiorentino Bartolomeo di
Jacopo di Vanni, con cui aveva fondato una società di cambi
tra Lisbona e Roma tramite
la banca Gianchinotti-Cambini di Firenze, società tra i cui
clienti s’era
annoverato perfino l’infante don Enrique d’Avis.
Tra i suoi sei figli di primo letto, avuti da
Querina Querini q. Piero q. Gelmo, spiccava appunto sier Batista che
pur il
minore di loro era divenuto per i suoi meriti il nuovo capofamiglia;
gli
camminavano vicino sua moglie Morexina “dalla
Testa” e i figli più grandicelli
Carlo, Piero, Nicolò, Hironimo e Maria, mentre Querina e
Ferigo erano rimasti a
casa con la balia. Un po’ in disparte, dietro padre, matrigna
e fratellastri,
li seguiva Andrea Morexini detto “il Vendramino”,
illegittimo, nato prima del
matrimonio di sier Batista. E dietro a costoro gli zii
Nicolò, Piero, Ferigo,
Hironimo e Lunardo con le rispettive consorti e prole, la cui compagnia
solitamente Momolo apprezzava grandemente, ma ora la rifuggiva, neanche
gli
ricordasse quei giorni felici che giudicava rubatigli ingiustamente,
provando
una forte invidia, poiché i suoi cugini, nel bene e nel
male, seguitavano a
godere della presenza di un padre, mentre lui ne sarebbe rimasto orbato
per
sempre. L'unico a salvarsi dal suo rancore rimaneva il figlioccio e il più giovane dei cognati di sier Battista, il diciassettenne Anzolo Morosini, il cui padre Francesco detto "da Zara" si trovava in Bass'Italia a combattere per Ferrandino d'Aragona re di Napoli.
A far da ponte, oltre a Madre, tra Miani e Morosini, erano venuti a porgere i propri rispetti anche i biscugini di Padre, in primis sier Christofal Moro q. sier Lorenzo: suo nonno il fu sier Antonio aveva impalmato la prozia di sier Anzolo - madona Barbara Miani Moro q. sier Zuanne. La sua omonima nipote, Barbara detta "Barbarella" s'era poi maritata con sier Hironimo "da Lisbona" zio di Momolo, morendo tuttavia due anni addietro, anch'ella ad agosto. Ma non era per la sua parentela, che l'arrivo di sier Christofal suscitò qualche bisbiglio e sorrisetto: era la compagnia della sua terza moglie, madona Istriana Pasqualigo Moro di sier Cosimo, la sua bellezza direttamente proporzionale alla grande gelosia che il marito nutriva nei suoi confronti. Madona Istriana era pregna per la terza volta e ci si domandava non senza malizia se, dopo le figliolette Ysabetta e Paola, il suo figliastro Lorenzo Moro avrebbe finalmente avuto quel tanto sospirato fratellino o se per tal impresa fosse necessario l'ausilio di una quarta moglie.
Codesto variegato corteo
occupò quindi la Chiesa di
Santo Stefano e la cerimonia soddisfò pienamente le sue
aspettative. Il cataletto,
una volta entrati, era stato collocato sotto un baldacchino pieno di
lumi su
cui incombeva il manichino di una Morte alata, dal pesante mantello
nero,
munita di falce e del suo usuale ghigno, reso doppiamente sinistro
dalla
penombra e i fumi dell’incenso. Simbolo della
caducità della vita e della
vanità delle passioni, a Momolo quel fantoccio parve al
contrario un difensore
del corpo di Padre, quasi volesse scansare da lui i suoi assassini e
risparmiargli le loro ipocrite lacrime.
Sier Anzolo giaceva in gelida composta
perfezione sul
suo catafalco, recante tra le mani ricoperte da morbidi guanti di cuoio
una
piccola icona della Panaghia Tricherousa [8], l’ultimo dono
di suo fratello
sier Marco da Schiro, da cui il patrizio non se ne separava mai. In
rispetto
alla sua carica nei Pregadi, la vesta sceltagli era di velluto
semplice, pavonazzo,
dalle maniche grandi e aperte e foderata d’ermellino; le
calze e le pianelle invece
erano rosse così come la stola sulla spalla. Sul capo, una
beretta nera.
Si recitarono le orazioni e si
cantarono le
esequie, incensando di continuo il defunto, alla mercé dello
sguardo indagatore
e venale di ogni visitatore, che valutava in pecunia ogni spanna di
seta e
velluto con la scusa di pregare per la sua anima, nonché
cercava di capire in
che cosa differisse il cadavere di un suicida da uno morto
cristianamente. Accanto
a Padre, i corocciosi (parenti in lutto, ndr.) assistevano
alla Messa da
Requiem gravi e solenni, in statuaria immobilità,
interamente coperti da un lungo
mantello nero a strascico e un cappuccio, tanto da scambiarli per
lugubri
statue.
Tenuto per mano stavolta da Marco,
Momolo notava
come tutti si rivolgessero con estrema cortesia al primogenito Lucha,
fino a
qualche giorno fa sempre dietro a Padre, in silenzio se non
interpellato.
Adesso, invece, lo accarezzavano ipocritamente dogliosi e lo trattavano
da gran
amico, ormai chiaro il temporaneo cambio di testimonio a Ca’
Miani. Dopodiché, al
compimento della maggiore età degli altri fratelli, il Tempo
avrebbe svelato
chi veramente avrebbe assunto il ruolo di capofamiglia.
Ai dubbiosi, agli addolorati
nonché ai morbosi e ai
pettegoli che s’accalcarono alla cerimonia funebre, sier
Batista imbastì un
gran bel discorso circa la causa di quel violento trapasso,
cioè un vile
assassinio causato dal crescente tasso di criminalità
notturna a Venezia. Come
poteva infatti il magnifico messere Anzolo Miani – declamava
pieno d’infuocata enfasi
- avvocato e giudice, capitano delle galere e podestà,
provveditore e senatore
essersi macchiato di un tal peccato mortale, aborrito dalla Serenissima
e
condannando la sua anima all’eterna dannazione? Sier Zuan
Francesco “il
Pizzocchero” e sier Antonio Trum rincararono poi la dose
sciorinandosi in
ulteriori articolate e solenni liste di benemerenze del defunto, ognora
indicandolo come un uomo devotissimo alla Signoria Loro, dalla condotta
irreprensibile, padre e sposo di rara virtù, meritevole solo
di grandi lodi e
onori. Il priore di Santo Stefano, don Jacomo Batista Aloisi, aveva
ricordato
commosso l’impagabile sostegno del Miani sia come mecenate
sia come benefattore
in generale e di come avesse sempre vissuto da buon cristiano.
Momolo ascoltava a malapena,
barcollando mezzo
stordito dalla stanchezza e dall’incenso. Un doloroso groppo
in gola gli si
formò a fine funzione, quando i becchini sollevarono il
corpo di Padre e lo
posero delicatamente nella costosa bara di larice. Marco lo dovette
trattenere
a viva forza, nel momento in cui il coperchio venne inchiodato e il feretro ricoperto d'un panno di velluto nero,
costringendo il
fratellino ad allungare il collo e a porsi in punta dei piedi,
così da contemplare
fino all’ultimo i lineamenti del genitore, celati per sempre
dietro quel
marmoreo sepolcro fino al dì in cui si sarebbero ricongiunti
nell’Aldilà.
“Non voglio dimenticare la
sua faccia, Marchetto.
Non voglio!”, confidò angosciato sottovoce al
maggiore, intanto che sollevavano
il feretro nell’arca, collocata nella parte posteriore
dell’abside.
“Te la descriverò
ogni sera, Momolo, promesso”,
giurò solennemente Marco, baciandogli furtivo la tempia onde
sigillare quel
segreto patto fraterno.
“Nudo uscii dal
seno di mia madre; e nudo vi
ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia
benedetto il nome del
Signore!”, concluse e benedisse l’arca
sigillata don Jacomo Batista Aloisi.
“Amen! Amen!
Amen!”, rispose grave l’assemblea, segnandosi
tre volte. “Misericordia! Misericordia!
Misericordia!”
Il povero Stae Trum, ridacchiando e
schioccando la
lingua, indicò la tomba e il fantoccio. “Varda!
Varda! La Morte s’è presa il
cugino Zanzetto, ch’è volato via con
lei!”
Nel frattanto, a Ca’ Miani,
Symon il pope de casàda
confidava sottovoce a Nardo il cuoco e alla di lui nipotina Ufemia
alcuni suoi
dubbi: suicida o assassinato? Ammettendo che sia vero, ma
perché? - insisteva Ufemia
mentre tirava il collo ai volatili per il pranzo - che motivo avrebbe
avuto il sior
patron di togliersi la vita? - A Rialto, poi! Dove tutta Venezia
l’avrebbe saputo!
- Debiti di gioco? - No, il sior patron li aborriva,
vi ricordate
come prese a schiaffi i padroncini Luchin e Carlino quando li vide con
le carte
in mano? - Mala gestione? Abuso della sua carica?
Accusa di
corruzione? - Macché! Ce ne fossero di
onesti in Senato come il
povero padrone! – Ascoltate qua: il servo di sier Antonio
della Zonta mi ha detto
che il suo padrone è andato a chiarirsi con uno suo
amico tra i Dieci e
che questi gli ha confermato come la Signoria Nostra non
abbia mai
avuto nulla da rimproverare al padrone nostro, al contrario sempre
l’è stata
soddisfatta del suo zelante operato. – La so io:
malfrancese! - Puoah,
caro mio, e tu pensi che la padrona gliel’avrebbe fatta
passare liscia, se
l’avesse cornificata?
“Olà,
bestie!”, ruggì Orsolina, chetandoli tutti.
“Aveu finio de ciacolar? Deboto zonzeran i patroni e gli
ospiti, e savé ben
chome i patricij i magnan per zento ! Cossa ghe servirem a
st’altri in tola? Le
vuostre zanze?” (ciance, ndr.)
Si preannunciava un pranzo
effettivamente
abbondante di commensali ché a
compiangere il senatore sier Anzolo
Miani oltre ai suoi parenti, ai suoi dipendenti, marinai, amici
s’erano
aggiunti anche i vicini di casa e di contrada. Nell’infinito
viavai dello
stipatissimo piano nobile di Ca’ Miani, Momolo, prima di
rintanarsi in un
angolo tranquillo, fu costretto a salutare la zia Ysabeta Morexini
Corner,
moglie di sier Zorzi Corner il cavaliere e fratello della Regina di
Cipro, coi
figli più grandi Zuanne, Francesco, Marco, Jacomo ed
Hironimo. E come se non ne avesse abbastanza, anche la zia Marina Morexini Vituri, moglie di sier Piero, la quale figli non ne aveva e non tanto perché lei fosse sterile, bensì il marito, ch'era un prete mancato. Niente figli neppure per lo zio sier Thadio Morexini, l’altro figlioccio e cognato di zio Batista, sposato da due anni con madona Contarina Contarini Morexini, nipote della prozia madona Andriana Miani Contarini per suo figlio sier Zentil Contarini, ma lì, Momolo aveva origliato, era questione soltanto di tempo.
Madona Maria Malipiero Gradenigo fu
l’unica che si
rivolse direttamente a Momolo, stringendolo al petto e accarezzandogli
tenera
il capo, per crocifiggere poi con un’occhiataccia il marito
sier Zuam Paulo
Gradenigo che, tra il goffo e il burbero, su sua insistenza, gli
bofonchiò:
“Fa’ il bravo, veh” per poi riparare
strategicamente tra sier Fantin
Dandolo e madona Laura Dandolo Contarini, altra biscugina del piccolo Miani, sposata a Thadio Contarini cugino di Padre e nipote del fu Serenissimo sier Zuanne Mozenigo .
Vennero a salutare Madre anche sier
Lunardo
Loredan, i suoi figli e le figlie coi generi che abitavano a San Vidal;
vestita
a lutto compartì le sue condoglianze anche madona Laura
Contarini relicta
Zustignan (cognata di sier Lunardo) e la figlia Luzia Zustignan Dolfin, ch’aveva
sposato il podestà e
capitano di Mestre sier Piero Dolfin figlio di Francesca Trum Dolfin,
così
d’avere stretti non solo i parenti ma anche i vicini. Degli
undici figli del fu
sier Unfrè, accompagnarono madre e sorella Alvixe,
Francesco, Andrea, Lorenzo,
Lunardo e Pangrazio, il resto a casa poiché troppo giovani,
nonché madona Paula
Zustignan maritata anch’ella ad un sier Piero Dolfin,
guadagnandosi il primato
di miglior barzelletta del sestiere, la quale adombrava scambi di
mariti tra le
due sorelle, quando annoiate. Momolo si chiedeva come potesse
ciò avvenire,
essendo i due Dolfin diversissimi tra loro, decisamente figli di padri
e madri
diverse.
La chicca però corrispose
alla partecipazione
inattesa del cavalier sier Zacharia Contarini “dai
Scrigni” con Alba Donado “dalle
Rose” sua moglie e i figli maggiori appresso.
Dell’intera sua gens (e
metà del patriziato lì presente) sier Zacharia
appariva l’unico genuinamente dispiaciuto della tragica
dipartita di sier
Anzolo, avendo infatti orato durante la funzione con gran fervore per la salvezza dell'anima del parente acquisito, ambedue pronipoti di Andriana Miani Contarini.
Il Cavaliere, ambasciatore e
rappresentante
speciale a suo tempo presso le corti di Francesco Gonzaga, Ludovico
Sforza,
Charles VIII e ora appena rimpatriato dalla corte
dell’Imperatore Maximilian
I., di recente aveva infatti riallacciato i rapporti col cugino alla lontana, specie in
gondola durante il tragitto
da Palazzo Ducale verso i rispettivi palazzi. Oltre alle accese
discussioni
sulle recenti difficoltà del Moro e sull’ignavia
dell’Habsburg che bravo era
solo ad incassare i soldi loro e del Duca, ad unire i due patrizi erano
le
lagnanze sui rispettivi figli minori. Sier Anzolo, ascoltando sier
Zacharia,
gli aveva in più occasioni confidato come
anch’egli si crucciasse per il suo Momolo,
da tutti adorato e coccolato e che tanto dicevano esser buono, cortese
ed
estroverso; chissà perché con lui invece si
comportava da turco, sempre serio e
rabbiosamente chiuso, che gli mordeva la mano se tentava di castigarlo
e gli
lanciava parole tanto dure, che il senatore neanche si capacitava da
dove
provenisse tutto quel rancore in un fantolino.
“Ascolta bene, Momolo:
checché ne dica lo stolto
volgo, il tuo sior Pare era un grand’uomo, per lui devi
provare soltanto
orgoglio!”
Soffocato da quella gazzarra di ospiti
e
infastidito dai loro rivoltanti sorrisi compassionevoli, Momolo
scivolò via inosservato
giù in cucina, alla ricerca della famigliare e rassicurante
compagnia dei
servitori, fintanto che Madre non l’avesse chiamato a tavola.
Strisciò sotto la
pistoria, s’accoccolò in posizione fetale e
catturò il gatto, abbracciandolo
mentre questi lo rilassava con le sue fusa; poco gli importava se
così facendo
si sporcava il farsetto di peli e farina, anzi in questo modo lo
avrebbero
spedito in camera sua e lasciato finalmente in pace.
“Zò, patron
Momolo! Cossa faseu qua sotto? Vegné, a
xé pronto en tola!”
“No gh’ho
fame!”
“Mo
via, gnente putelezzi!”
Al banchetto funebre si servirono le
pietanze amate
in vita dal defunto e gli occhi del piccolo Miani
s’ingrandirono terrorizzati
alla vista delle anguille portate in gran trionfo sui vassoi
d’argento.
Quando le ebbe sotto il naso, nella mente
del bambino cozzarono
violentemente vari ricordi, tra cui la testa del florentin tenuta in
mano dal
boia e quelle delle anguille scartate da Nardo il cuoco; della faccia
tumefatta
e irriconoscibile di Padre, colla lingua fuori come il toro a
Carlevar, e
sempre di Padre il viso rigido e color della cera che aveva baciato
sulle
labbra a mo’ di commiato.
“Di le toe virtù,
ricchezze e forza fidar no te
vole”, canticchiava serafico Stae Trum il matto, sviscerando
il pesce con le
mani con la medesima fascinazione di un infante. Accortosi di come i
bambini a
tavola lo stessero osservando divertiti, egli abbandonò
l’anguilla sul piatto,
tagliò a metà la sua fetta di polenta e ci
giocò, nella sua mente degli
scheletrini danzanti: “No sastu, Momolo?”, gli
chiese, ponendosi l’indice sulle
labbra. “La Morte chi lei vole, lei tole.”
Il piccolo Miani non
resse più e vomitò dunque
sul piatto e sarebbe stato allontanato in camera sua tra
l’imbarazzo generale,
se suo fratello Marco non avesse afferrato prontamente il piatto,
gettandone
non visto i contenuti fuori dalla finestra, in canale.
“E come dicono i Greci: buon viaggio, Anzolo
nostro.”
“Buon viaggio!”
Momolo incominciò a sudare,
ad avvertire fastidiosi
crampi allo stomaco e scalpitava per la fine di quel (per lui) infinito
calvario; inoltre, il fantolino esigeva
l’abbraccio confortante di
Madre e non riusciva più a trattenere il doloroso urlo
ingroppatosi in gola per
via della consapevolezza, che Padre era morto per davvero e senza che
lui, suo
figlio, avesse avuto modo di domandargli scusa e dirgli quanto
l’amasse.
No
sastu, Momolo? La Morte chi lei
vole, lei tole.
Le
mani gli bruciavano, sanguinanti; le braccia gli pesavano quanto il
piombo.
Hironimo s’asciugò la fronte madida di sudore, i
capelli arruffati in
battaglia, respirando a boccate irregolari, senza fiato e senza energie
rimaste, lo stomaco attorcigliato dalla fame e la gola secca. Accanto a
lui, il
piccolo Thomà barcollava sfinito eppure ancora
v’erano corpi da seppellire.
Il
sole stava calando, forse li avrebbero ricondotti in cella, bastava
fingere
ancora per un po’ di lavorare …
“No
ghe la fazzo! No ghe la fazzo pì!”, piagnucolava
il fantolino, usando la vanga
più alta di lui a mo’ di bastone, leccandosi le
labbra secche e screpolate.
Percependo
il peso delle occhiate degli stradioti sulla schiena, resosi infatti
conto di
come i ritmi lavorativi andassero rallentandosi, il giovane patrizio
diede un
colpetto d’incoraggiamento al braccio del bambino,
spronandolo ad uscire dal
suo incantamento. “Dèmo! Ancora un
altro!”, insistette dolcemente.
Thomà
scosse il capo, il moccio che gli fluiva liberamente dal
naso. “Sun
stracho! Gh’ho fame! Vojo la mama!”, prese a
singhiozzare, stropicciandosi
ambedue gli occhi e ritornando ad essere un piccino di dieci anni e non
il
linguacciuto assistente alle polveri di Andrea il bombardiere.
L’espressione
di Hironimo da compassionevole s’indurì.
“Non piangere, sempio, tanto lei non
tornerà mai più da te!”
Il
bambino strascicò qualcosa d’inintelligibile ,
sennonché un calcio al sedere da
parte di un contrariato stradiota lo interruppe, facendolo rotolare
dentro la
fossa tra i cadaveri. Dinanzi allo strillo
spaventato di Thomà,
agitandosi peggio d’un diavol nell’acqua santa in
quell’ammasso di carne gelida
e puzzolente, l’uomo e i suoi compari si scompisciarono dalle
risate e anzi,
afferrate delle manciate di terra, le buttavano addosso al decenne che
urlava e
piangeva isterico, scrollandosi via di dosso come ustionato la
terra.
“Toga! Toga! Fio dil
suicida! Fio dil dannato!”
In mezzo al chiostro del Monastero
della Carità, dove adesso
studiava, Momolo era divenuto il bersaglio preferito degli studenti, i
quali
tra una lezione di grammatica e di retorica adoravano tenere fermo e
ricoprire
di fango il nuovo arrivato, il figlio del Suicida, come ormai
appellavano il fu
sier Anzolo Miani alle spalle della famiglia, sottovoce.
“Basta!
Basta!” , guaiva sfinito Thomà, rannicchiandosi in
cerca di rifugio da quella
terrosa lapidazione.
Hironimo
strinse di riflesso la vanga, insensibile alle vesciche alle mani.
“Patron,
ajudo!”
E
quella vanga la spaccò in testa allo stradiota.
“Fio dil dannato! Fio dil
diavol d’inferno!”
Sì, forse lo era,
poiché non porgeva l’altra guancia e malgrado la
figura ancora esile e l’enorme disparità numerica
(uno contro tutti), Momolo
rispondeva a calci e pugni e morsi alle provocazioni dei compagni,
colpendoli
all’inguine approfittando della sua bassa statura e tirando
loro i capelli una
volta a terra; li graffiava quasi volesse strapparli gli occhi dal
cranio e
proferiva tali oscenità manco un battelante chioggiotto.
“Mi no sun debole! Mi no sun
femena! Mi no sun fio dil suicida!”
Rosso,
rosso di rabbia cieca e famelica, null’altro vedevano gli
occhi impazziti di
Hironimo mentre riempiva di pugni e randellate chiunque gli si parasse
di
fronte, prendendo e ricevendo, gli stradioti sgomenti
dall’incuranza con cui
incassava i colpi, senza neanche accorgersi del sangue che gli colava
dalla
fronte assieme al sudore, essendosi riaperta la ferita.
Indietreggiarono
a quel suo sorriso sghembo, malato, il biancore degli occhi esaltato
dalla
maschera scarlatta.
“Basta
così!” e stavolta non si trattò della
voce piagnucolosa di Thomà, bensì di
quella autoritaria e terribile di Mercurio Bua, ritornato dalle sue
scorrerie
nel territorio. Spronando il cavallo, il capitano di
ventura li
raggiunse, il viso torvo e i denti ben esposti, maledicendo tra
sé e sé quegli
sciagurati cialtroni incapaci di rimanere mezza giornata al campo senza
causare
danni. “Cosa significa tutto
questo?”, esigette spiegazioni,
indicando la fossa, gli uomini semi-incoscienti dalle botte e Hironimo
col
bastone in mano e il viso contorto di rabbia. Approfittando della
confusione,
Thomà era risalito nel frattempo, appiccandosi al fianco del
patrizio che di
riflesso lo strinse a sé.
“Allora?”,
non aveva in realtà bisogno d’alcun chiarimento,
l’albanese già si figurava
alla perfezione le dinamiche di quell’indecente bailamme;
ciononostante,
leggere l’incertezza e il timore in faccia a quei masnadieri
lo riempiva di una
perversa soddisfazione. “Razza d’otri piene di
sterco, chi vi ha dato l’ordine
di far uscire il prigioniero? Chi? Potete anche solo rendervi conto,
coglioni,
di che cosa sarebbe potuto accadere, se fosse riuscito a scappare?
Potete?”,
sbraitò, schioccando la scutica sulle loro spalle, sulle
braccia erte a mo’ di
difesa, ovunque riuscisse a colpirli. “Idioti! Cani bastardi!
Merde viventi!
Chi vi ha dato il permesso di toccare ciò che non vi
appartiene?”
“Ma …
ma capitano …”, tentarono una disperata
giustificazione. “Ha incominciato
questo pazzo furioso … ci ha malmenato senza alcun motivo!
…”
“E ha
fatto bene! Troppo delicato! Al suo posto vi avrei scuoiati vivi! Anzi!
Vi
acconcio subito!” e diede ordine che quei disgraziati
venissero passati sotto
le forche caudine [9] con sommo gaudio degli altri stradioti, assai
avidi di
distrazione da quel mortorio senza né soldi né
cibo né donne.
“Che
sia ben chiaro a tutti”, enunciò però
prima a gran voce e tutti i suoi uomini
si misero sull’attenti in ascolto, consci di aver tirato
troppo la corda col
loro tremendo capitano. Mercurio Bua si spostò col cavallo
dietro Hironimo e,
avutolo nel suo raggio d’azione, se lo issò sopra
con la medesima facilità di
un fanciullo che si ruba un gatto, indifferente all’indignato
divincolarsi del
giovane patrizio. “Questo qui non è un prigioniero
qualsiasi da tormentare a
vostro piacimento”, spiegò perentorio, mettendo
bene in mostra Hironimo in una
grottesca parodia della Madonna col Bambino, “questo qui
è Girolamo Emiliani,
patrizio veneziano e mio bottino personale. Intendete? Mio! Egli
è mio.
Ciò significa che nessuno di voi lo deve toccare
né gli deve parlare né
tantomeno anche solo avvicinarsi a lui, se non sarò io
stesso a comandarlo.
Violate questo mio ordine e mi premurerò
d’impalarvi di persona come fecero i
turchi con le vostre famiglie!”
Fu
sconcertante e meraviglioso leggere la paura in quei visi arcigni e
spavaldi,
ora ridotti a balbettanti scolaretti vergognosi e intimiditi.
Soddisfatto
dell’esito positivo di quel suo discorsetto, Mercurio Bua
spronò al trotto il
suo cavallo in direzione del cortile interno.
“Ributtateli
dentro e perdio dategli da mangiare: la Serenissima non sborsa danaro
per i morti!”,
comandò l’albanese. “Quanto a questi
cadaveri, buttateli nella Piave: siamo
soldati, non becchini! Ci penseranno a Venezia a seppellirli, quando le
acque
li trasporteranno in laguna. O quel che di loro
resterà”, e spinse giù Hironimo
su della paglia lercia di fango e altro sulla cui natura per la pace
dell’anima
sua preferì non inquisire.
Per
fortuna i due stradioti, che prontamente l’agguantarono,
tanta fretta avevano
avuto di assistere alla punizione dei compagni da confondere le celle,
da
gettare il giovane Miani e Thomà in una cella pulita senza
escrementi e
cadaveri di topi e i due, a seguito di un lauto pasto a base di pane ed
acqua,
s’addormentarono quella sera sfiniti uno tra le braccia
dell’altro, tirando un
gran sospiro di sollievo.
Continua
…
***************************************************************************************************************
Incominciamo
coi flashback! Di nuovo, a causa delle scarse notizie
sull’infanzia e sulla
giovinezza del Nostro, abbiamo molto supplito con la fantasia,
però sempre
tenendo a mente gli anni della sua vita matura come “meta
ultima” del suo
percorso di formazione.
La
morte di Angelo Miani, ritrovato impiccato il 18 agosto 1496 su di una
scala in
una bottega di Rialto (altre versioni addirittura sulla volta del
ponte) rimane
tutt’oggi un caso irrisolto: fu suicidio oppure omicidio?
Perché a Rialto, uno
dei luoghi più affollati di Venezia? In
ambedue i casi è assai
difficile stabilire il movente di tale gesto, ma una cosa è
certa:
immediatamente sia i Miani che i Morosini sostennero a gran voce la
tesi
dell’assassinio pur incapaci di fornire un nome,
più che altro per evitare
l’infamia di un seppellimento in terra sconsacrata.
L’unica
menzione di quest’avvenimento che si ha è
l’ambigua frase di Domenico Malipiero
“A' 18 d'Auosto, è
stà trova a Rialto, in
una volta, apicà Anzolo Miani ; e no è
stà lassà a veder a nissun.”
Poi
silenzio. Al che ci porta a due considerazioni: o fu suicidio fatto e
finito
oppure si trattò di un omicidio a fondo politico, messo a
tacere in nome del
segreto di Stato.
Ultimo
punto, i rapporti coi servi erano molto diversi rispetto ad altrove,
molto
informale almeno tra le mura domestiche, convivendo infatti in un
ambiente
quasi “incestuoso” per via degli spazi
ristrettissimi di Venezia. Non era
strano, pertanto, che i figli dei padroni frequentassero specie da
bambini i
servi, o che il padrone concedesse una dote ad una sua domestica o
tenesse a
battesimo i figli dei domestici, facendo da padrino
(se non era
anche il padre) o madrina. Non potendo ignorarli, i patrizi se li
tenevano
buoni anche perché i servitori potevano divenire
all’occasione i primi
accusatori dei padroni.
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima!
Un po’ di noticine:
[1] Da “La Danza
Macabra”, testi ed affreschi di Simone
Baschenis(1539), che si possono ammirare sulla parete sud della chiesa
di San
Vigilio a Pinzolo. Parti di questa ballata ispirarono il cantautore
Angelo
Branduardi per la sua celebre canzone “Ballo in Fa Diesis
Minore”.
[2] òstrega =
letteralmente significa “ostrica”, però
in questo contesto è usata con senso
eufemistico di Ostia!
[3] Paolo
Veneto o Paolo Nicoletti (1369-1429); Alberto di Sassonia (1316-1390)
ed Egidio
Romano o Egidio Colonna (1243-1316) furono tutti filosofi e teologi
agostiniani, su cui Giacomo Battista Aloisi si concentrò in
particolare nei
suoi studi e pubblicazioni.
[4] pope de casàda = il corrispondente
dell’autista moderno. Erano gondolieri
privati che vivevano a palazzo (spesso tramandavano di padre in figlio
il
mestiere), spostandosi i patrizi più per gondola che a
piedi, essendo infatti
più sicuro.
[5] La chiesa di San Vidal (o San
Vitale) fu in realtà fondata nel 1084 dal doge Vitale
Falier. Poiché nelle
antiche descrizioni delle famiglie nobili veneziane ho trovato indicati
invece
i Miani come fondatori della chiesa, ho deciso di lasciare
quest’incongruenza.
[6] Dal testamento di Marco Miani,
del 18 gennaio 1465: “ …
Item prego quei
ch’in Vanesia in la giesia de San Vidal per mezo el permetto
da cha Miani sia
fabricà uno altar con la immagine et grandezza de Nostra
Donna et spenda 10 ho
più quel imponerà …”
Anche le disposizioni per la sua sepoltura – con la
spada, speroni e scudo – di cui don Girolamo e Alessandro
Bernardi dovranno assicurarsi,
appaiono nel testamento.
Il 17
maggio 1473, suo fratello Angelo Miani chiede direttamente al Doge
Nicolò Tron
di autenticare la cedola testamentaria. Il doge, ignorando il decreto
del
Maggior Consiglio del 4 aprile dello stesso anno, si appellò
alle forme
abitudinarie e fece riconoscere la grafia del defunto, autentificando
il
testamento e pertanto approvando la costruzione dell’altare e
la commissione
del dipinto.
[7] Serrata = si riferisce alla Serrata del Maggior
Consiglio (1279). Brevemente, si trattò di una riforma con
cui si fissava in
via definitiva ed ereditaria, tramite puntigliosi parametri, il numero
di
famiglie patrizie che potevano accedere al Maggior Consiglio. Il
conseguente
malcontento portò alla congiura di Marco Querini, Bajamonte
Tiepolo e Badoero
Badoer (1310), che prevedeva l’assassinio del Doge Pietro
Gradenigo e dei suoi
fedelissimi, in particolare il clan di sua moglie, i Morosini della
Sbarra
(Leonora Morosini madre del Nostro discendeva proprio da questo ramo!)
e i Dandolo.
La congiura venne prontamente sventata. Tuttavia, nel corso dei secoli
molte
famiglie riuscirono ad entrare ugualmente “per
merito” nel M.C., come ad
esempio durante la guerra contro Genova.
[8] Panaghia Tricherousa= “Tutta Santa Madre delle
Tre Mani”
icona molto venerata nella Chiesa Ortodossa. In essa è
raffigurata la Madonna
col Bambino ed una terza mano, quella del teologo arabo San Giovanni
Damasceno,
che gli fu amputata e poi, miracolosamente, restituita.
[9] passati
sotto le forche caudine = punizione
fisica in ambito
militare in cui il condannato viene costretto a marciare tra due file
di
soldati e da essi frustato ripetutamente. Si riferisce alla celebre
umiliazione
dei soldati romani per mano dei Sanniti a seguito della loro sconfitta.
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Capitolo 5 *** Capitolo Quarto: 1 -2 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 03.09. 2021
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Capitolo Quarto
1 -2
settembre 1511
Per
questo tu correggi poco a poco quelli che
sbagliano
E
li ammonisci ricordando loro in che cosa
hanno peccato,
perché,
messa da parte ogni malizia, credano
in te,
Signore.
(Sapienza,
12,2)
Nella
solitudine degli appartamenti dell’ex-reggente di
Castelnuovo, Mercurio Bua osserva crucciato il fuoco scoppiettante nel
caminetto, una lettera stretta in mano e l’altra che
tamburellava impaziente le
dita sulla coscia.
Da Manoli
e Constatino Boccali niente buone, quei caparbi
linguacciuti dei suoi compatrioti non volevano cedergliela e dinanzi
alle sue
sacrosante insistenze per riaverla indietro, avevano osato
aggiungere: non
sperate in noi alcun appoggio né comprensione. Nessuno della
nostra famiglia
s’assocerà a voi, vendutosi ai Collegati. Non
riotterrete ciò che voi per primo
avete sacrificato per egoistica ambizione.
Suo
fratello Teodoro Bua e l’altro suo parente Alessio Bua
–
luridi pendagli da forca! - neppure
s’erano degnati di rispondergli;
suo nipote Andrea Bua era meglio se ne stesse a Mantova, inutile
com’era.
Oramai
troppo tempo era trascorso dall’ultimo soggiorno di
Mercurio a Venezia, le amicizie e le conoscenze decadute e pertanto
assai
difficile per lui poter agganciare qualcuno di fiducia onde appoggiarlo
nella
sua causa. Il che lo frustrava oltre ogni dire, ancor
più adesso che
possedeva un carta preziosissima quanto difficile da giocare, nutrendo
infatti
il capitano di ventura gravi dubbi sulla bontà
dell’impresa di Treviso ma
soprattutto sulla costanza dei suoi medesimi alleati, non ispirandogli
alcuna
fiducia: i francesi da una parte, altezzosi e moi-je-sais-tout (so-tutto-io,
ndr.), sempre pronti ad incolpare il prossimo in caso di sconfitta o a
prendersi il merito della
vittoria. Dall’altra parte i tedeschi,
ancor peggio, buoni solamente a rubare considerando tutto il porco
mondo loro
proprietà anche quando appartenente agli alleati. Mal in
arnese, disordinanti e
disobbedienti eppure mille volte Mercurio Bua aveva insistito col
maresciallo
La Palice ad usare i metodi forti, ovver prendere gli imperiali a calci
in culo
finché in quelle teste di stoppa non si scolpivano gli
ordini come fece Mosè
coi Dieci Comandamenti. I Tedeschi, gli
aveva spiegato il
greco-albanese al limite della pazienza, sono un popolo di
pecore, che non
pensa bensì agisce e se sente il latrato del can pastore,
ecco che saltella
belando in fila! Peccato che Vossignoria
dall’alto della sua saggezza
non si degnasse mai d’ascoltarlo. Puah!
Ad
arraffare però la sua roba - oh! - più lesto
d’un gatto!
Per un
soffio il Bua aveva evitato che il francese gli
sgraffignasse da sotto il naso il patrizio veneziano; ad aggiungere
l’insulto
all’ingiuria quei cretini dei suoi uomini, pur di non
rinunciare alla
consolidata tradizione di grattarsi la pancia e poltrire, poco ci
mancava che
non avessero offerto su di un piatto d’argento una
possibilità di fuga al
prigioniero, che per fortuna era troppo debilitato da tre giorni di
digiuno
forzato per attraversare la Piave a nuoto, ma non sufficientemente da
cambiare
i connotati ad alcuni suoi stradioti, i quali, a Dio piacendo, si
sarebbero ben
sovvenuti della lezione impartitali.
I bottini
erano poi scarsi e magri; dell’Imperatore neppure
l’ombra malgrado il capitano gli avesse concesso un giorno in
più d’attesa
oltre ai tre indicatigli da La Palice. Inutile quindi seppellire la
testa sotto
terra e ignorare la realtà, cioè che ben presto
quegli ingordi dei tedeschi
sarebbero venuti alle mani con quegli arroganti dei francesi, non per
l’onore
bensì per un pezzo di pane. Il che avrebbe potuto causare
spinosi grattacapi al
greco-albanese e alla sua compagnia.
No,
doveva assicurarsi che nessuno gli toccasse il suo castellano,
ché se fosse finito nelle mani dei tedeschi, quelli
avrebbero incassato
immediatamente il riscatto o scambiatolo con un prigioniero che
a loro interessava,
senza consultarlo; coi francesi, invece, impacchettato e spedito in
Francia
cogli altri prigionieri veneziani, di nuovo senza tenere in
considerazione il
vero merito nella cattura. Meno male che La Palice aveva avuto un
attimo di
lucidità mentale per concedergli di contrattare di persona
il riscatto dei due
capitani bellunesi, altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe
affogato di sua mano
nella Piave.
Presa
dunque la sua decisione, il mercenario balzò in piedi e
gettò stizzito nel fuoco l’inutile missiva,
dirigendosi verso la porta là dove
stava di guardia un suo famiglio.
La notte
non era poi così lunga e c’era tanto da fare.
***
Magnifice
ac generose frater carissime,
Oggi
vi fu scritto brevemente dal mio segretario, poiché ancora
mi
trovavo fuori Padoa con all’incirca 300 stradioti (i nomi dei
capi già vi sono
stati da lui elencati) e altrettanti 300 balestrieri sotto il comando
del
domino Jannes da Campo Fregoso.
Avevamo
lasciato Padoa verso l’imbrunire del 30 agosto, cavalcando
tutta notte per giungere all’alba presso Santa Crose,
là dove ci appostammo per
coordinare il nostro agguato: 100 cavalli decisi d’inviarli
tra Bassam e Castel
Francho e altri 100 verso Marostega per sabotare il trasporto dei
rifornimenti;
quanto a noi, avevamo giudicato più prudente rimanere tra
Citadela e Bassam
pronti all’occorrenza a prestar
soccorso. Quand’ecco, nel bel mezzo
dell’attesa, un mio esploratore fece all’improvviso
ritorno dalla sua missione
d’avanscoperta e mi riferì concitatamente come 200
cavalli fossero partiti da
Vicensa e diretti a Marostega, là dove si stava preparando
il campo per il Duca
di Baviera.
Immediate,
cangiammo piano e piombammo inattesi addosso ai
nemici, sorprendendoli infatti a marciare a ranghi serrati ignari della
nostra
presenza e con violento impeto ci scontrammo contro i loro
cavalleggeri, il
magnifico conte Guido Rangon e il sottoscritto in prima linea volendo
infatti
essere tra i primi feritori. Purtroppo, per il gran numero
d’uomini d’arme, il
conte Guido venne sopraffatto e con tre lance disarcionato; a me
spezzarono una
lancia sulla targa [1] et immediate fummo
da tutti, stradioti
e balestrieri, abbandonati. Il sopracitato conte Guido cadde
prigioniero e poco
ci mancò ch’io ne condividessi la triste
sorte, tamen come
meglio potei riuscii a sfuggir loro e ad indietreggiare assieme al
signor
Jannes da Campo Fregoso con all’incirca XX cavalli, pur
tuttavia rimanendo
sufficientemente presso ai nemici da tallonarli ugualmente e tagliarli
ogni via
di fuga in attesa dei rinforzi, intanto che cercavamo di radunare 100
fino a
150 cavalli.
Questo
finché il nemico, esasperato, uscì dalla strada
maestra per
Marostega, ormai distante 3 miglia, e correva allo sbando per la
campagna
violentemente incalzati da noialtri, al punto che dalla fretta della
disperazione abbandonò tutti i suoi carri,
ch’erano in gran numero. Non potei
di conseguenza non cogliere quell’inaspettata ma propizia
occasione e così
reingaggiammo subito battaglia contro i nemici, disperdendoli e
trucidandoli.
In
totale, catturammo uomini d’arme dai 30 ai 40; il resto, 200
cavalli tra arcieri, stradioti e alcuni balestrieri; 400 guasconi con
molti
schioppi che ne facevano gran danno, tutti armati benissimo e in ordine
eccellente per recarsi all’accampamento. I prigionieri ci
riferirono come il
Roy di Franza non avrebbe più inviato ulteriori rinforzi a
Marostega e come le
artiglierie non fossero ancora state trasferite da Soave. In aggiunta,
facemmo
prigionieri anche tre capitani - due di fanterie, i Monsignori de
Richebourg e
Mongiron ed uno d’uomini d’arme, il signor Aloisio
Ferrer - i quali
ci confermarono che, non fosse calata la Cesarea Maestà da
Bolzano, non
avrebbero compiuto alcun’impresa bensì se ne
sarebbero ritornati alla
guarnigione loro.
Altro
non vi dico per ora: Iddio sia con voi!
Paduae,
die primo septembris 1511, horre 7 noctis.
Frater
Contarenus,
Stratiotarum
Provisor
Sier
Ferigo Contarini soffiò via la polvere dalla pagina della
lettera,
richiudendola con movimenti lenti e accorti a causa della stanchezza,
ponendo
ben attenzione a non ustionarsi con la ceralacca al momento di
sigillarla. Ad
operazione terminata si stropicciò gli occhi arrossati,
sbadigliando sfinito e
anelante alla sola consolazione del letto; prese la missiva e
l’affidò al suo
servitore, acciocché la consegnasse alla prima staffetta
disponibile.
Malgrado
il suo ingresso trionfale al crepuscolo alla Porta
Codalunga, dove al lume delle torce avevano fatto sfilare in camicia e
catene i
prigionieri per lo più francesi ma con anche qualche
tedesco, dai capitani fino
alle loro puttane nonché i 200 carri per un valore di oltre
20.000 ducati di
bottino, il Contarini purtroppo per lui non era riuscito a svignarsela
prima di
notte fonda, avendolo infatti ghermito il provveditore generale sier
Polo
Capello, cognato della Regina di Cipro, giunto appositamente dal
bastione di
Portello dove stava supervisionando i lavori di rafforzamento, euforico
di
quella schiacciante vittoria e avido di particolari da riferire sia
alla
Signoria Loro sia ai suoi colleghi ammalati (a sier Christofal
Moro et a
sier Andrea Griti zoverà pì de tutti i intruji
ch’i gh’han fatto bevar
fin’horra!).
Divincolatosi
abilmente, sier Ferigo gli aveva promesso colloquio
come primo impegno della giornata, barcollando quasi verso i suoi
alloggi
eppure il sangue che ancora gli pompava furiosamente nelle vene,
animandolo di
febbrile energia. Il tempo poi di concedere al suo valletto
d’arme di
spogliarlo dalla corazza e di lavarsi mani e viso, che rimasto nei
più comodi
camicia e zipone s’era messo a scrivere quella lettera tanto
promessa a suo
fratello Marco Antonio, nella speranza che non gli avesse serbato
rancore se il
suo segretario gli aveva fatto di recente le veci per tenerlo informato
circa
gli ultimi avvenimenti.
Il
giovane provveditore s’abbandonò sfinito sullo
schienale della
sedia, tirandogli i muscoli indolenziti del collo piegato
all’indietro e le
tempie pulsanti e infastidite perfino dalla flebile luce della candela.
Se la
sua natura non fosse stata coscienziosa e ordinata, si sarebbe gettato
in letto
così com’era. Pur avendolo la guerra abituato ad
ogni genere di disagio tra cui
anche dormire all’occasione a cavallo, egli ci teneva quanto
più possibile di
mantenere una parvenza di civili maniere, perlomeno negli alloggi
cittadini e
d’altronde rovinare quelle belle lenzuola calde e pulite
equivaleva ad un
sacrilegio. Inoltre, prima di coricarsi doveva preparare uno straccio
di
discorso per sier Polo Capelo: ogni sua parola sarebbe stata riferita
verbatim
alla Signoria e al Consiglio, pertanto doveva sceglierle accorto specie
per
giustificare la seccante cattura del conte Guido Rangoni e non tanto
per il
riscatto di per sé, bensì per la malcelata
insistenza di suo zio Annibale
Bentivoglio e del fratello minore Annibale Rangoni a rivoler indietro
tra le
loro file quel ribelle e recalcitrante figliol affatto prodigo e ora
che
l’avevano in pugno, di sicuro l’avrebbero rinchiuso
sottochiave fin in cima
alla Garisenda[2] pur d’impedirgli di riunirsi alle truppe
veneziane. Il che scocciava il Contarini fino al suo
limite, sia per
aver perso un valido condottiero sia colui che stava incominciando ad
apprezzare anche come amico. Senza contare poi che a lui sarebbe
toccato
l’ingrato compito d’informare il giovanissimo
Francesco Rangoni, l’altro
fratello minore, in apparenza per rassicurarlo ma in realtà
per saggiarne la
fedeltà e la prontezza ad assumere eventualmente la condotta
al posto di Guido.
Quella
cattura bruciava beffarda al giovane provveditore,
imporporandogli le gote di stizza e colpevolizzandosi impietoso per non
aver
pianificato con sufficienza cura l’attacco, lasciandosi
guidare dalla smania di
sorprendere l’avversario ad ogni costo e
l’arroganza di averlo avuto già in
pugno. Non avesse posseduto il pronto riflesso di conficcare
ciò che rimaneva
della targa nella gola dell’avversario, usandola praticamente
alla stregua di
una mannaia e non fosse comparso Giano di Campofregoso a coprirgli le
spalle, a
quell’ora sier Ferigo Contarini si sarebbe trovato in
compagnia del Rangoni
diretto in catene a Marostica o peggio ancora a Vicenza e stavolta
nulla
l’avrebbe salvato dal finire prigioniero dei Gonzaga, i quali
ancora
arrossivano sia per la sconfitta a Casaloldo sia per
quell’insolente sua fuga
due anni addietro, specie la Marchesa Isabella d’Este che
vittima dell’astuto
inganno di Ferigo aveva firmato ignara il suo lasciapassare, credendolo
un
fedele suddito che trasportava la farina per le truppe del marito. Uno
bello
smacco per l’altera e gelida Estense ognora credutasi al di
sopra di ogni umano
sbaglio.
E mentre
l’uomo si crogiolava in questi poco lieti pensieri, il
sonno lo colse traditore e di conseguenza sobbalzò
buffamente all’irruzione di
uno suo stradiota, il quale senza neanche concedere al suo provveditore
il
tempo di dargli della canaglia per quella sua cafoneria
d’entrar senza bussare,
esclamò questi concitato: “Signore, dovete venire!
Oh, dovete proprio venire!”
e batteva il piede per terra impaziente, trattenendosi
dall’afferrare il
Contarini per una manica e trascinarlo via con sé.
Sbiascicando
un inintelligibile improperio e allacciandosi alla
bell’e meglio il zipone, il patrizio
s’augurò per lo stradiota che la notizia
valesse la pena di quel disturbo, o l’indomani
l’avrebbe fatto fustigare a
Piazze delle Erbe finché manco sua madre sarebbe stata
capace di riconoscerlo.
Arrivati
dunque all’entrata di Codalunga e trovandola stranamente
per l’ora tarda in giovale subbuglio, Ferigo
s’arrestò bruscamente, impietrito,
per poi piegarsi all’improvviso in due e, reggendosi la
pancia, si sganasciò
dalle risate come non faceva dai tempi delle sconcissime momarie e
commedie
scritte e rappresentate coi suoi amici per le feste organizzate dalla
Compagnia
degli Immortali. [3]
“Corpo
dil diavol!”, ansimò ilare, mancandogli il fiato e
asciugandosi le lacrime versate per il gran ridere. “Che gran
fio de …”
…
Bianca Bentivoglio, sorella di Annibale Bentivoglio, al secolo
conte Guido Rangoni che rientrava a Padova sornionamente trionfo in
groppa a
cavallo assieme a don Garcia, il cavaliere spagnolo che
l’aveva catturato. Il
modenese appariva talmente in disordine da sembrare un vagabondo,
inzaccherato
com’era dalla testa ai piedi di fango e il viso ridotto ad
una maschera di
terra, sudore e sangue su cui però s’allargava
raggiante un soddisfatto e
felino sorrisone.
“Fascio
humilissima riveronza a
tutti lor monseigneurs!”,
si esibì il giovane condottiero in un appositamente
esagerato inchino pomposo,
svolazzando e ondulando il braccio a scherno del
saluto alla
francese, imitandone poi beffardamente l’accento e gli uomini
lì presenti
rincararono le dosi di grasse e sfottitrici risate
di sottofondo.
“Hé, che poca creanza, signori miei! Ma come! Non
mi s’aspetta per festeggiare?
Ché siete stati tutti contagiati dalla zoticaggine francese?”,
inquisì falsamente scandalizzato, nel frattempo che alcuni
soldati lo aiutavano
solerti a scendere da cavallo, avendo infatti notato la ferita alla
coscia
fasciata da una benda di fortuna.
“Conte
Guido … noi vi abbiamo dato per prigioniero … ad
un certo
punto v’abbiamo perfino perso di vista!”, fece
incredulo sier Ferigo, offrendo
il suo braccio a mo’ di sostegno per il lievemente zoppicante
nobile modenese.
“Anche el
caballero qui presente mi aveva dato
per prigioniero: peccato che dalla fretta di catturarmi si sia scordato
come
vanno stretti i nodi e di conseguenza, lungo la strada per Marostica,
abbiamo
invertito le sorti!”, spiegò concisamente il
Rangoni al giovane provveditore,
il quale seguitava a sorridere un po’ demente,
nell’intimo orante mille grazie
alla Madonna per quell’inaspettata giravolta
d’eventi.
I due
s’incamminarono allora lentamente verso gli alloggi del
condottiero, quest’ultimo d’un tratto fermatosi,
rimbeccando a gran voce gli
stradioti che già agguantavano lo spagnolo poco
delicatamente, trascinandolo
quasi giù da cavallo: “No, trattate don Garcia con
rispetto: questi è un uomo
dabbene, mi ha curato malgrado fossi suo prigioniero. Fino al suo
riscatto, che
stia qui a Padova a suo agio e di buon cuore: tanto, paga tutto il
Gonzaga!”
A quelle
ilari parole, il livello d’allegria
schizzò
alle stelle come le scintille dei falò d’Epifania
e tutti gli uomini lì
presenti, dai soldati marciani agli stradioti, in coro gridarono
euforici,
agitando ben in alto le braccia:
“Viva!
Viva! Viva el Gonzaga che paga!”
Non fosse
stata notte fonda e non avessero avuto due giorni di
sonno arretrato, certamente essi avrebbero festeggiato quella loro
vittoria con
grandi bisbocce, avendo tutti la saccoccia e la pancia piena: infatti,
dopo
aver sequestrato i carri con l’oro destinato alla Signoria,
sier Ferigo aveva
nominato Giovanni Forti di Orte e il greco Teodoro Frasina responsabili
dell’equa distribuzione tra i soldati delle catene
d’oro, degli abiti di seta,
delle armi, delle armature e perfino dei guadagni strappati da sotto le
sottane
alle prostitute; alle prime luci dell’alba avrebbero poi
venduto i cavalli e se
tutto andava bene 24 ducati a testa non glieli levava nessuno. Perfino
i
contadini scesi appositamente dai monti per ammazzare i francesi
avevano
guadagnato la giornata, spogliando i nemici delle armi e delle corazze
di cui i
marciani già non se n’erano serviti, lasciando
letteralmente in camicia sia i
vivi che i morti.
Ci si
coricò quindi assai contenti, vittoriosi e senza
casualità
tra i loro, grati inoltre d’aver ottenuto sveglia
libera l’indomani.
***
Hironimo
avrebbe infranto l’ottavo comandamento affermando di non
aver provato una paura fottuta, quando uno stradiota venne a prelevarlo
di peso
dalla sua cella, strappandolo dal primo sonno decente in seguito alla
caduta di
Castelnuovo di Quero. Il silenzio inquietante dei soldati, unito
all’ora tarda
e al fatto che l’avessero separato a furia di manrovesci da
Thomà (che se ne
beccò la più parte perché no, non
voleva lasciare la sua presa alla camicia del
patrizio) l’avevano indotto a giungere alla tremenda
conclusione che il Bua
aveva intenzione tramite la tortura di interrogarlo, forse per supplire
a
quelle informazioni che il giovane Miani aveva precedentemente bruciato
onde
impedire finissero nelle mani dei franco-imperiali.
Si
stupì grandemente di conseguenza alla vista del capitano di
ventura seduto tranquillo e disarmato, anzi, palesemente divertito
davanti al
suo stupore e alla frenetica ricerca con lo sguardo degli strumenti del
supplizio, non trovandone però nessuno a meno che Mercurio
Bua Spata non avesse
intenzione di ricorrere ai più tradizionali pugni in faccia
e allo stomaco,
magari col guanto di ferro.
Invece,
congedato il famiglio, l’uomo gli ordinò in greco
con un
sorrisetto sfottitore sulla faccia: “Avanti, spogliati e
lavati; là c’è il
catino. Puzzi da nausearmi!”
Hironimo
si sentì avvampare di collera. “Grazie a chi
questo?”, fu
più veloce la lingua, incrociando le braccia al petto in
inconscia difesa.
Purtroppo per lui, il greco-albanese aveva ragione, il giovane patrizio
stesso
non sopportava più quell’odore rancido che si
portava addosso da quattro giorni
nonché il continuo prurito ai capelli e alla barba ormai
cresciutagli incolta.
Tuttavia, la soddisfazione di convenire con quel gaglioffo da morto
gliel’avrebbe concessa.
Mercurio
gettò indietro il capo, ridendosela alla grossa: gli
piaceva quella puerile sfrontatezza, avrebbe reso la loro convivenza
meno
noiosa. “Suvvia, niente capricci. Levati quello straccio di
dosso e datti una
bella strigliata, fra poco voglio coricarmi e non ho tutta la notte a
disposizione per farti da balia!”
Il
giovane Miani studiò dubbioso l’acqua, saggiandone
la temperatura
con un dito: immediatamente avvertì il gelo fino alle ossa e
oltre. “Mi vuoi
ammazzare? È gelida!”
“Prima
ti lavi, prima ti asciughi.”
“Girati
almanco!”
Il
condottiero allargò le braccia falsamente stupito.
“Siamo tra
uomini, ergo non hai niente da esibire ch’io stesso non
possegga già. Cos’è
questo tuo pudore da donzella?”, lo punzecchiò
impietoso, specie quando
Hironimo, rifilandogli un’occhiataccia velenosa, si
voltò dandogli le spalle.
Non si
trattava di verecondia, bensì di fastidio per
quell’umiliante
situazione, sentendosi infatti alla stregua di una bambolina nelle
capricciose
mani di quel masnadiere, del cui sguardo beffardo e scrutatore
percepiva il
peso sulla schiena ora denudata dalla sottile barriera della lercia
camicia. Prendendo un profondo respiro, Hironimo la
piegò a lato e
prese a slacciarsi le brache mentre cercava di scindere la sua mente
dal
presente, rifugiandosi in un altro contesto e in un altro luogo.
Quanto lo
odiava, quel cialtrone pervertito.
Terminata
la mortificante spoliazione, subito Hironimo entrò
dentro il catino di fortuna e, acquattatosi onde nascondere il suo
corpo quanto
più possibile all’indesiderato spettatore, molto
lentamente si versò addosso la
brocca d’acqua, rabbrividendo ad ogni goccia, stringendo i
denti che avevano
incominciato a battere per il freddo.
Tale era
la sua concentrazione da non accorgersi che il Bua s’era
nel frattempo alzato, pigliando una seconda brocca più larga
che gli rovesciò
all’improvviso in testa, innaffiandolo in una dolorosa
cascata ghiacciata al
punto che per un folle istante Hironimo vide chiazze gialle e nere,
urlando
all’assassino e così ingoiando acqua che gli
andò prontamente di traverso,
alternando a colpi di tosse e soffiate di naso dei coloriti epiteti e
severi
commenti sulla razza del Bua e sulla professione di sua madre. Al che
il greco-
albanese replicò sornione con una terza e una quarta
secchiata d’acqua, finché
la pelle di Hironimo assunse un colorito bluastro.
“Toh”,
gli calò di malagrazia un pesante telo, sollevandolo poi di
peso fuori il catino e trascinandoselo seco, lo lasciò
cadere sulla sedia
davanti al caminetto. Portando le ginocchia al
petto, Hironimo
s’avvolse velocemente nel ruvido panno, in sospettosa attesa.
I suoi
occhi neri s’ingrandirono al luccichio di una lama.
“Sta
fermo! O ti sbrego questo bel visetto!”, gli
intimò Mercurio,
tirandogli i capelli a mo’ di monito. Sconfitto, il giovane
Miani annuì a
malincuore, irrigidendosi ad ogni raschiare del rasoio improvvisato
sulla sua
pelle, in particolare sotto il mento. “Ti voglio in ordine
per quando
arriveremo a Montebelluna. O i Venedik, la tua gente,
m’abbasserà il prezzo
vedendoti più morto che vivo.”
Hironimo
aprì un occhio. “Ci spostiamo a Montebelluna? Ma
l’Imperatore?”, inquisì con nonchalance,
sibilando all’ennesima tirata di
capelli, segno che la sua intromissione non era la
benvenuta.
“Non
t’impicciare”, l’ammonì
infatti il Bua.
Testardo,
il patrizio replicò: “M’impiccio eccome
del mio
riscatto!” e massaggiandosi la guancia arrossata.
“E comunque come barbiere fai
proprio schifo!”
Il
capitano di ventura ridacchiò furbescamente, dirigendosi
verso
una cassapanca e, apertala, estrasse un indumento che gli
gettò contro. “Era
tua?”, cinguettò canzonatorio, gettandogli
effettivamente una delle sue camice
pulite, adesso requisite a mo’ di bottino di guerra.
“Ma
certo! L’unica preda che un condottiero della vostra sorte
riesce a conquistarsi!”
Mercurio
Bua smise immediatamente di ridere.
“D’altronde,
vi compatisco: tanti sforzi per conquistare una
fortezza di seconda categoria, per accontentarsi di briciole. Non che a
Feltre
vi andrà meglio, a meno che, dopo due incendi e saccheggi,
non v’accontentiate
di pietre annerite dal fumo. Quanto a Cividal di Belluno, quelli
là vi daranno
qualche spiccio per salvarsi la pelle, per poi aprirci di nascosto le
porte
alla prima occasione e venderci la vostra, di pelle”,
infierì il patrizio.
“Il
maresciallo non punta né a Feltre né a Cividal di
Belluno”,
strisciò lentamente le parole Mercurio, stringendo tuttavia
sospettoso gli
occhi.
“Oh,
e tu gli credi in tutto e per tutto?”
Voleva
menarlo – oh!, se il capo degli stradioti voleva menarlo!
–
tuttavia, Hironimo ben si figurava quale furioso meccanismo di pensieri
stesse
lavorando alacremente dentro il cranio del greco-albanese, conscio che
se
presentava ai negoziatori del suo riscatto un giovane Miani tumefatto
di
cazzotti, quelli con la scusa di sevizie e maltrattamenti poco degni ad
un
patrizio non solo non avrebbero pagato prezzo pieno, ma avrebbero
preteso anche
una sorta d’indennizzo. Scaltri mercanti, questo erano i
veneziani, maestri
indiscussi.
“Poche
storie”, ribadì seccamente il Bua, strattonando
via il telo
così da invogliarlo a vestirsi. Non ottenendo il risultato
desiderato, di malagrazia
afferrò la camicia e arrotolatala tentò
d’infilarvi dentro la testa di
Hironimo, che prontamente si ribellò in un gran sbracciare,
berciando mezzo
soffocato dalla stoffa:
“Non
mi toccare, mi vesto da solo!”
“Sai
quanto me n’importa?”, riuscì infine il
capitano
nell’impresa, sbuffando. Indietreggiando un poco,
osservò soddisfatto il suo
personale capolavoro, ovvero un livido Hironimo ancora mezzo bagnato,
la
camicia semitrasparente che gli delineava il petto ansante di collera
nera. “E ti sta anche bene, va’
che signorino!”, commentò sardonico.
“Mi ricordi quelle prostitute alle Carampane, che
s’affacciano col petto in
fuori alla finestra!”
“Turco
depravato!”, gli sputò di rimando il furente
patrizio e in
un battibaleno Mercurio gli fu addosso, costringendolo a retrocedere
fino al
tavolo, infelice mossa giacché proprio là lo
voleva, dove infatti afferratolo
rapidissimo per le caviglie lo issò sopra di esso,
schiacciandolo a sua volta
col suo corpo.
“Se
davvero fossi un turco”, gli spiegò dolcemente
velenoso
l’uomo, “bello come sei a quest’ora ti
ritrovavi senza palle e con le gambe
aperte a prendertelo dentro come una femmina. Dunque, carino, vuoi
ancora darmi
del turco?” e mica scherzava, non disdegnando infatti gli
Ottomani anche la
carne maschile e il condottiero, tenendo fermo il giovane per la gola,
ammise
una certa sua avvenenza. Ondulati capelli scuri fino alle spalle
s’accompagnavano perfettamente al suo incarnato olivastro,
incorniciando un
viso regolare dagli zigomi marcati, la fronte alta e il naso forse un
po’
grosso, mitigato però da un paio d’occhi molto
grandi, nerissimi, e una bocca
sottile e larga da sfoggiare il più radioso dei sorrisi. Non
come adesso, che
sembravano le fauci di un leone a furia d’imprecargli contro.
Hironimo,
trovandosi guarda caso esattamente nella posizione
descrittagli prosaicamente dall’avventuriero e percependo
pressioni sospette,
cremisi in volto sbrodolò un flebile: “No, no, per
carità … non dico più niente
…”
“Ecco
bravo e fossi in te seguiterei su questa linea, a meno che
tu non voglia divenire la puttana del campo e si sa, in tempi di
carestia …”
L’indignazione
per la minaccia di costringerlo a quel turpe
negozio soppiantò il timore di divenire eunuco.
“Sì, ma … non è che dopo
t’ingelosisci?”, domandò cinguettando un
falsamente innocentino Hironimo, ché
se l’altro voleva la guerra, l’avrebbe ottenuta.
“Ti ho visto, sai, come ti sei
scaldato quando La Palice mi voleva a Montebelluna tutto per
sé … Mi son
sentito la Briseide della situazione”, e sforzandosi con
tutta l’immaginazione
a lui disponibile in modo da evocare le fattezze generosamente morbide
e
femminee della sue passate ganze, gli zampettò le dita sul
polso risalendo fin
quasi al gomito e Mercurio Bua, neanche l’avesse pizzicato un
granchio, si
staccò bruscamente da lui con un’espressione
schifata in volto. Afferrato un
sogghignante Miani, lo tirò giù dal tavolo e lo
ributtò malamente sulla sedia.
“Taci
e mangia!”, gli ordinò perentorio, schiaffandogli
sotto il
naso la scodella fumante di minestra e lo stomaco del giovane patrizio
si
contorse voglioso al solo odore.
Ma
Hironimo, ignorandolo e ribollendo di bile nera, col Bua aveva
appena incominciato.
“No.”
“Come
no?”
“Non
mi va.”
Il
greco-albanese lo fissò stralunato, come se si trovasse
dinanzi
ad un pazzo furioso. “Tre giorni di digiuno e ieri un pezzo
di pane e tu mi
dici che non hai fame?”, gli chiese sarcasticamente incredulo.
Hironimo
fece spallucce, incurante.
Le dita
del mercenario si contrassero rabbiose. “Mangia!”,
sibilò.
“Ho
detto di no!”, sbottò il giovane Miani e, al
minaccioso
appropinquarsi del Bua, aggiunse in fretta: “Non posso
mangiare a cuor leggero,
sapendo che in quell’orrida stinca un bambino di dieci anni
languisce mezzo
morto d’inedia. Se lo porterai qui e anche a lui offrirai del
cibo e lo
tratterrai da cristiano, solo allora mangerò.”
Sorprendentemente
Mercurio si rilassò, la sua espressione scevra
della recente irritazione, anzi, quasi gli pareva contento, annuendo in
approvazione. “Mi par giusto”,
sentenziò, gridando qualcosa in albanese, molto
probabilmente al famiglio dietro la porta.
Poco
tempo dopo, infatti, la porta si apriva di nuovo e un
insonnolito Thomà venne spintonato verso Hironimo, che alla
luce del caminetto
storse la bocca alla vista dello zigomo nuovamente gonfio e delle
croste di
sangue dalle narici a causa dell’ultimo manrovescio ricevuto.
“Ecco,
volevi il moccioso? Pigliatelo e lavalo, che anche questo
qua puzza peggio d’un topo morto.”
Il
patrizio roteò gli occhi snervato, allungando invece il
braccio
verso il fantolino. “Vien qua, Thomà, vien che te
lavo.”
Thomà,
sospettoso, piantò i piedi ben per terra.
Allora,
spezzando un pezzo di pane, Hironimo ripeté,
porgendoglielo: “Mo via, vien qua, che te spuzi da
cagnon!”
Sniffando
a momenti il cibo, il bambino si lasciò persuadere ad
avvicinarsi al giovane Miani, strappandogli di mano il pane e mentre se
lo
masticava vorace, il più anziano gli toglieva i vestiti,
premurandosi di
schermarlo col suo corpo. Fortunatamente, Mercurio Bua non sembrava
interessato, al contrario, con la punta dell’attizzatoio
prendeva gli indumenti
unti del piccino e li gettava nel fuoco a far compagnia a quelli di
Hironimo.
“Scoltame
ben, horra: sta bon, non criar se l’aqua la xé un
fià
freda; ti te gh’ha d’armarti de corajo,
ché ti sè zà un ometo” e
così
incoraggiatolo, lo mise dentro il catino con Thomà sempre
intento a mangiare,
non smettendo neppure quando l’acqua gli toccò la
pelle. Meglio così, l’avrebbe
tenuto distratto da quell’immeritato supplizio.
Ingoiato
simil serpente l’ultimo boccone, il fantolino
esclamò
deliziato: “Oh, patron! Ma vui seti un gran buziardo:
l’aqua la xé bea calda,
mancho un potacchio (zuppa, ndr.)!”
Hironimo
strabuzzò gli occhi e Mercurio Bua si voltò di
scatto e
quasi in comica sincronia ambedue gli uomini infilarono la mano
nell’acqua
rimanente nella secchia, appurando sconcertati come sì, essa
si presentasse
calda, piacevole come quella termale di Abano. Prima però
che il capitano di ventura
potesse anche solo aprire bocca, Hironimo versò tutta
l’acqua addosso al
bambino, finendo di lavarlo e lo avvolse in fretta nel telo,
tirandoselo su in
braccio e portandolo al tavolo, dove un greco-albanese ancora confuso
porse in
silenzio una seconda scodella di minestra. Thomà,
ghermitala, si mise a berla
rumorosamente, dimentico del cucchiaio e delle buone maniere. Non che
servissero considerata la natura del loro
anfitrione.
Nel
frattanto che Thomà metteva a dura prova la
flessibilità e
resistenza del suo esofago, il giovane Miani domandò a
Mercurio Bua, che dal
canto suo osservava un poco affascinato la prodezza mangiatoria del
bambino ora
intento a leccare il piatto: “Perché avete
impedito di seppellire i cadaveri?
Non avete rispetto per i morti?”e intinse di sprezzante
veleno l’ultima parola.
Il
condottiero grugnì. “Avresti preferito che li
dessi in pasto ai
cani come fecero due anni fa i Francesi cogli abitanti di Castelbaldo?
Il
vostro è un popolo dal cuore marinaro: le tombe
d’acqua non dovrebbero
spaventarvi …” Notando però lo scettico
sopracciglio inarcato sulla fronte del
suo prigioniero, l’uomo continuò, stranamente
sulla difensiva: “Contrariamente
ai francesi e ai tedeschi, non sono stupidamente crudele.
Eppoi, a che servono i cadaveri in un castello, se non a far venire
topi e
peste? Prima ce li leviamo dai piedi, meglio è”,
sentenziò, fissando poi
significativamente il patrizio veneziano. “Io tenni la
promessa. Adesso
mangia.”
A onor
del vero, Hironimo avvertiva una leggera nausea, la gola
serrata. Ciononostante, doveva ammettere la sorprendente correttezza
del
greco-albanese - costui continuava a scrutarlo con la medesima
fissità
predatoria di un felino - e giudicando pertanto controproducente da
parte sua
infrangere i patti, si risolse ad onorare la parola data. Aveva udito
certe
dicerie all'inizio del mese di agosto, su come Mercurio Bua, a Verona,
avesse
catturato Jacomo da Malnisio (o Jacomo Mamalucho com'era conosciuto da
tutti) e
lo avesse rilasciato sulla parola, acciocché egli potesse
riscuotere da sé la
sua taglia. Sennonché, il capitano era rientrato a mani
vuote, ma rientrato
come solennemente promesso ed ecco che il condottiero tra lo stupore
generale
l’aveva rivestito di seta, asserendo: “Tu
è valente homo et di fede!” E Jacomo
Mamalucho fu libero.
Deglutendo
indietro la saliva acida, Hironimo portò quindi il
cucchiaio ripieno di zuppa alla bocca, sorbendola titubante. Un
secondo, un
terzo, un quarto cucchiaio e il suo stomaco traditore già si
rincuorava, sotto
lo sguardo compiaciuto del Bua che si pose in piedi, trafficando con
qualcosa
dal sinistro rumore metallico.
Catene,
tra cui una attaccata ad una palla di cannone.
Il
cucchiaio cadde pesantemente di mano ad Hironimo macchiando il
tavolo di minestra, subito raccolta dall’avida scarpetta che
Thomà fece col
pezzo di pane; intuendo poi questi come il patrizio, sconvolto, non
avesse
intenzione di continuare a mangiare, lentamente e di nascosto
attirò a sé la
scodella mezza piena, sostituendola con quella vuota.
“Hai
le mani leste, lo ammetto, non mi sono sfuggiti i ricordini
che hai lasciato – meritatamente – in faccia ai
miei uomini. Per questo motivo
e soprattutto perché tu ti levi dalla testa ogni piano di
fuga, mi vedo
costretto a mettertele. Non temere, ti ci abituerai presto!”,
gl’illustrò il
condottiero la situazione, ghermendogli la caviglia.
Immediatamente,
Hironimo gli elargì di riflesso un calcio in pieno
petto e il Bua barcollò all’indietro
più per la sorpresa che il dolore vero e
proprio; infatti, ripresosi, martoriò lo zigomo del giovane
con un possente
manrovescio da sbilanciarlo verso il tavolo sul cui bordo
sbatté dolorosamente
la fronte, cadendo in un sordo tonfo per terra.
Mezzo
stordito, il Miani avvertì qualcosa rigirarlo e stringergli
le mandibole. “Smettila d’atteggiarti come se fossi
tu a dettar legge e bada di
rigare dritto! Tu sei il mio prigioniero e di te posso fare quello che
mi pare
e piace e al diavolo se i Venedik mi pagano meno, almeno lo sfizio di
tormentare un patrizio veneziano me lo sarò
levato!”
“Sì,
così il ricordo di come leccavi i piedi al Doge per una
condotta ti brucerà di meno!”, soffiò
aspro Hironimo, incassando un secondo
pugno stavolta tra le scapole che lo indusse definitivamente a
più miti
consigli.
“Te
ne vol ancha ti?”, berciò il capitano di ventura a
Thomà,
levando minaccioso il braccio. Ficcandosi in testa la scodella eletta
ad elmo
di fortuna, il bambino scosse vigorosamente il capo in diniego.
Grugnendo
soddisfatto, Mercurio riprese il suo lavoro interrotto,
fissando bene i ceppi alle caviglie e ai polsi di un semi-incosciente
Hironimo,
al cui collo egli serrò una sorta di collare di ferro da cui
pendeva la piccola
ma pensante palla di cannone, la quale, cadendo e non trovando mani
pronte a
sorreggerla, trascinò rumorosamente seco il giovane
veneziano che per sua
fortuna si trovava già mezzo inginocchiato per terra, non
soffrendo pertanto
eccessivamente dell’impatto della sua faccia col pavimento.
Alla
stregua dei cani li costrinse il Bua a dormire quella notte,
per terra dinanzi al caminetto e meno male che Hironimo dava le spalle
sia
all’avventuriero che a Thomà, gli occhi arrossati
di lacrime di stizza e
vergogna dietro gli arruffati capelli e il respiro ridotto a soffocati
singulti.
***
Numero
di zente è in Trevixo soto il capetanio di le fantarie:
3.520
fanti soto 17 capi.
449
fanti soto 20 zentilomeni.
46
bombardieri.
Stradioti
- numero 228.
Maestranze
- numero 140.
Vitello
Vitelli, homeni d’arme 50, balestrieri a cavallo 25.
Orsino
Orsini homeni d’arme 40.
Batagin
Bataja, balestrieri 130 a cavalo, e fanti 70.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo si prese la testa tra le mani, leggendo
sconsolato quei numeri poco rassicuranti: per quanto si lavorasse senza
sosta
alla fortificazione di Treviso e malgrado lo spirito generalmente
ottimista
degli soldati e dei civili volontari, il provveditore non scorgeva
vittoria
certa con sì inferiore numero di uomini. La città
stessa non contava più di
14.000 abitanti, molti dei quali avevano già riparato nella
capitale sin
dall'inizio del conflitto. E come ogni giorno, alla richiesta a Venezia
di
portare almeno oltre 5.000 i difensori, nisba, neanche un sol motto a
riguardo.
L’unica
sua consolazione risiedeva negli scatenati stradioti, i
quali compivano miracoli, portando dalle loro quotidiane perlustrazioni
ricco
bottino di prigionieri e cavalli, 30 il giorno
prima, tra cui un
famiglio di Mercurio Bua che confermava come il suo capitano avesse
intenzione
di abbandonare tra la notte del 1 e 2 settembre Castelnuovo di Quero
alla volta
del campo di Montebelluna, ergo sfatando la diceria della presenza del
Re dei
Romani in Italia. Inoltre, se non era per
quell’intraprendente anima pia del
comandante Dimitri Megaduca di Costantinopoli, che gli riconquistava
Conegliano
in testa a 20 suoi stradioti e 100 balestrieri a cavallo prestatigli da
Renzo
di Ceri, aveva voglia ad attendere i porci comodi di
quell’inutile impiastro
del Bataja e dei suoi uomini, all’unanime rifiutatisi di
partire per
quell’impresa e il Gradenigo incominciò sul serio
a questionare la bontà della
sua scelta di non aver concesso a sier Marco Miani l’immenso
piacere di
squartar vivo quel codardo. (Sier Nicolò Balbi,
podestò di Cividal di Belluno,
gli aveva confermato la responsabilità della perdita di
Castelnuovo, disertando
il castellano di cui ancora si ignorava la sorte)
A sier
Zuam Paulo si era poi formato un groppo in gola dalla
commozione quando, mentre stava sigillando i rapporti per la Signoria,
sier
Lunardo Zustignan entrando in Cancelleria euforico da far spavento gli
aveva
raccontato del fortunato rientro degli stradioti con un bottino di
8.000 ducati
in contanti.
Un
po’ meno contento lo rendeva invece il costante malumore dei
molti civili “volontari” per la repulisti delle
macerie della chiesa monastero
di Santa Maria Maggiore e delle case attorno, i quali mal sopportavano
sia il
capitano Orsini degli Anguillara e i suoi soldati sia
l’incessante pioggia,
sostenendo quanto fosse ingiusto dover faticare come bestie al mero
scopo di
morire di catarro verde o cagando acqua.
Sulla
scrivania del provveditore, oltre alle lettere per e dal
Collegio, si trovavano lette e commentate anche quelle da parte dei
suoi
colleghi i quali non se la passavano certo meglio di lui.
Da Roma,
scrivevano l’oratore sier Hironimo Donado “dalle
Rose” e
il protonotaro sier Nicolò Lipomano, gran moria di gente: il
Papa aveva
contagiato indiscriminatamente servi e cardinali, tra cui il cardinale
Argentino che rendeva l’anima a Dio e con lui
s’ammalavano pure i cardinali
inglesi e svizzeri; avevano trovato un morto sottocasa e infine si
pensava di
spedire il della Rovere ad Ostia per non crear ulteriori danni. Il
cardinale
Giovanni de’ Medici gufava imbizzarrito quanto Giulio II
fosse assolutamente
spacciato, mentre quest’ultimo esigeva a furia di strepiti e
scenate la sola
compagnia fidata del parente Bartolomeo della Rovere, della sua cognata
veggente e della nipote madonna Felice sposata a Gian Giordano Orsini.
Tanto il
Papa era moribondo, che trascorreva intere giornate a sbraitare contro
i suoi
stessi medici, Marco Arcangelo in primis, subissandoli di tali
ingiuriose
villanie che mai si sarebbero dovute sentire uscir di bocca da un
pontefice
consacrato. Giulio II contro ogni consiglio pretendeva di bere
vino e
mangiar pernici e non quelle immonde zuppe cui lo costringevano; aveva
perfino
fatto rinchiudere in carcere i medici, per poi perdonarli quando questi
un poco
cedettero, concedendogli del pesce persico. Il cardinal Domenego
Grimani
commentava che, per uno con un piede nella fossa, di sicuro
aveva molte
energie da spendere.
In
verità al Pontefice più che il vino non giovavano
alla sua
salute i litigi crescenti sulla questione della legge salica aragonese
che
avrebbe lasciato Saragozza e Napoli senza eredi maschi, al che Louis di
Francia
già allungava cupido le manine, sennonché
Fernando El Católico gli ricordava
seccamente che un erede esisteva, soltanto qualche generazione
più in là e che
comunque, virile com’era, senz'ombra di dubbio un maschio
dalla seconda moglie
Germaine de Foix ce l’avrebbe tirato fuori. [4]
L’Inghilterra, come sempre,
parlava e nulla concludeva. In ogni modo, Roma restava sottosopra e in
arme,
tumulti all’ordine del giorno coi Colonna e gli Orsini
sospettosi dei fanti
stranieri e sier Nicolò Lipomano protonotaro concludeva le
sue missive
raccomandandosi a Dio ogni ora per arrivare vivo l’indomani.
Da
Padova, grande allegrezza e lodi al provveditore degli
stradioti sier Ferigo Contarini; il provveditore generale sier Polo
Capello
aveva poi aggiunto altri eventi quali il rimpatrio di sier Andrea Griti
a
Venezia per burchio; di come suo cognato sier Christofal Moro si fosse
un poco
ripreso, sebbene il dolore alla gamba gli impedisse di montare a
cavallo ed infine
di come il domino Lucio Malvezzi oramai si trovasse
all’estremo passo, vinto
dalla febbre e dal malfrancese.
E tante
altre cose.
“Ah,
mojer!”, sospirò affranto sier Zuam Paulo
Gradenigo,
rivolgendosi alla moglie Maria, la quale lo guardava assai accigliata
dal letto
poco distante: i due a seguito di un veemente litigio avevano raggiunto
un
compromesso, ovvero che se la donna non poteva costringere il suo
consorte a
ridurre le ore a Palazzo dei Trecento, che almeno lavorasse nei suoi
appartamenti là dove lei poteva assicurarsi che il marito
mangiasse almeno due
pasti al giorno e anche per poco tempo si concedesse qualche pausa, non
piacendole l’eccessivo zelo con cui il provveditore stava
organizzando la
difesa di Treviso, specie se detto zelo voleva in cambio la sua salute.
“Se
sopravvivremo a questa guerra, mi dovranno beatificare per non aver
strangolati
‘sti scarcavali!” (petardi, intesi come
scassapalle, ndr.)
Tirando
via le coperte battagliera e alzandosi snervata dal letto,
Maria Malipiero Gradenigo avanzò verso la scrivania e ivi
catturò per un
braccio il marito, trascinandolo seco e spogliandolo accigliata della
vesta.
“Puoah”, commentò dura, spingendo il suo
uomo in letto e non per motivi
lascivi. “A mi me gh’han da far santa, per avervi
sopportato per trentadue anni
senza affogarvi in canal! Dormite, strambazzo, almanco fino
all’alba!”
“Burleu,
femena? Gh’ho da scrivar le lettare et
…!”
“Seu
sordo o sempio? A Trevixo, comandate voi, ma qui in casa
comando mi! Donca, usate il vostro buonsenso e dormite, ché
la stanchezza è la
peggior consigliera!”
Continua
…
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Sia ben
chiaro: Mercurio Bua non attenterà mai più alla
“virtù”
del Nostro, né appartiene a quella sponda. Semplicemente,
voleva fare il
gradasso ma come dicono gli inglesi ha morso più di quanto
potesse masticare,
ché il Nostro aveva la linguetta assai lunga.
Siamo
dunque ai primi giorni della prigionia, il Nostro ancora
resiste, sebbene ora sia in catene non più figurativamente.
La
lettera di Federico Contarini è stata
“parafrasata” per via
della lingua e struttura molto telegrafica, quasi lista della spesa,
come se
appunto fosse stata scritta di gran fretta.
La
presenza di Maria Malipiero Gradenigo a Treviso è una mia
arbitraria decisione, giacché non si sa se effettivamente
lei seguì il marito;
tuttavia, non era improbabile che gli ufficiali di stato venissero
accompagnati
dalle loro consorti e dai figli più grandicelli.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
targa =
piccolo scudo di legno piegato e
ricoperto di cuoio, di forma quadrata o trapezoidale che si regge con
la mano
sinistra.
[2] Garisenda =
la Torre della
Garisenda assieme alla Torre degli Asinelli sono i due edifici simbolo
di
Bologna, di cui i Bentivoglio furono signori.
[3]
Compagnia degli Immortali, una
delle varie Compagnia della
Calza, era una sorta di club in cui i giovani patrizi si prodigavano a
creare
svaghi per ogni occasione, intrattenendo anche ospiti che venivano in
visita a
Venezia. Apprezzati erano gli spettacoli delle momarie e le commedie,
talvolta
scritte e interpretate dagli stessi membri della Compagnia.
[4] contrariamente a Castiglia, dove una donna
(pur come ultima spes) poteva regnare come sovrana proprietaria del
regno, in
Aragona vigeva la legge salica che aveva creato non poche
difficoltà ai sovrani
Cattolici, specie dopo la morte del figlio Don Giovanni Principe delle
Asturie,
l’unico erede maschio. Morta la Principessa delle Asturie e
Regina di
Portogallo Isabella d’Aragona e il di lei figlio Don Miguel
de la Paz, l’erede
era divenuta Giovanna di Castiglia (più nota come Giovanna
la Pazza), sposata
con Filippo il Bello figlio di Massimiliano d’Asburgo.
Purtroppo, il genero era
politicamente filo-francese, aspetto che non garbava a Ferdinando, da
sempre in
conflitto con la Francia per via di Napoli, del Rossiglione e della
Navarra. Il
timore quindi, che il genero potesse regnare tramite la figlia o il
nipote
Carlo, spinse Ferdinando a sposare in seconde nozze Germaine de Foix
sia come
segno di “benevolenza” verso la Francia ma
soprattutto per aver quell’erede al
trono aragonese che avrebbe scalzato ogni pretesa di Giovanna, Filippo
e Carlo.
Purtroppo, Germaine non riuscì ad avere figli che
sopravvissero e dunque
ambedue le corone le ereditò Carlo, visto che Filippo era
curiosamente morto di
uno “strano” malanno allo stomaco nel 1506. Le
teorie del complotto indicano
veneficio da parte di Ferdinando e noi conoscendo l’uomo, il
primo a dichiarare
pazza la figlia pur di assumere la reggenza di Castiglia, ci crediamo.
Comunque, la tensione del 1511 tra Francia e Spagna non
sfuggì a Venezia, con
conseguenze che ben si vedranno fra poco.
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Capitolo 6 *** Capitolo Quinto: 2-3 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato 06.
09. 2021
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Capitolo Quinto
2 -3
settembre 1511
Ambasciator
non porta pena, tranne quella inflittagli dal suo
adirato destinatario.
Seduto
nel suo cantuccio, Hironimo assistette non senza
apprensione al sollevamento della staffetta francese da parte di un
furioso
Mercurio Bua, strizzandolo a momenti quest’ultimo peggio
d’un panno pronto per
esser steso al sole.
“Cosa
significa, che il maresciallo La Palice s’è
spazientito del
mio ritardo? Cosa significa, ch’è risalito per la
Valle della Brenta per
occupare La Scala, Feltre e Cividal di Belluno? Non era a Treviso,
dov’eravamo
diretti?”
“Il
… il maresciallo non … o-ordini
dell’Im-imperatore … un messo
da T-Trento …”, balbettava ansimando il soldato,
paonazzo in volto
dall’ossigeno sempre più carente.
“L’Imperatore”,
lo interruppe sibilando il condottiero, aumentando
la presa, “deve raggiungerci qui, non certo a Feltre
né a Cividal di Belluno!
Come ti permetti, scalzacane, di rifilarmi codeste balle?!”
“E’
la verità! Lo giuro!”, protestò il
trombetta, afferrandogli
disperato i polsi. “Vi prego, capitano, lasciatemi spiegare
…!”
Magnanimo
seppur sbuffante, il greco-albanese concesse quella
piccola grazia e il francese poté rimettere i piedi per
terra.
“Monseigneur
il maresciallo non desiderava mancarvi di rispetto”,
esordì cauto l’uomo, massaggiandosi il collo
indolenzito e arrossato.
“Tuttavia, non udendo più alcune nuove da voi, ha
temuto che la fortezza fosse
stata riconquistata, sicché ha deciso di muovere le truppe
verso La Scala,
Feltre e Cividal di Belluno.”
Mercurio
incrociò le braccia al petto, arcuando scettico il
sopracciglio. “E per venire in mio soccorso, sua signoria il
maresciallo ha
scelto il percorso più lungo, che guarda caso evitava
Castelnuovo di Quero?”,
schioccò sardonico la lingua.
“Non
… non potevamo sapere la situazione, insomma, dei
cavalleggeri sono pur riusciti a scappare e …”
“E
insomma, le due città sono o non sono state
conquistate?”,
cangiò brusco discorso il condottiere, non gradendo che gli
si ricordasse la
fuga di Vetor dil Pozzo da sotto il suo naso.
La
staffetta di questo lo rassicurò, annuendo rapidissima.
“La
fortezza de La Scala e Feltre sono cadute subito, sebbene
quest’ultima fosse
già stata abbandonata sia dal podestà che dai
suoi cittadini. Non … i Tedeschi
non hanno raccolto pressoché niente di bottino
…”
Il Bua,
udendo ciò, con la scusa di cambiar peso da una gamba
all’altra si voltò verso Hironimo, il quale gli
sorrise trionfante. “E Cividal
di Belluno?”, strisciò l’uomo le parole,
gli occhi ben puntati sul suo
prigioniero.
“Il
commissario imperiale Jean d'Aubigny sta negoziando col
Consiglio di reggenza, onde riscuotere un’ingente somma di
danaro come
punizione per l’alleanza dei Bellunesi con la Serenissima. Si
parla di quasi
quattromila ducati!”
“Hanno
pagato?”
Il
francese si schiarì la gola. “Ehm … no.
Cioè, non ancora. Il
Consiglio sta valutando il riscatto; inoltre, da quanto ho capito hanno
protestato d’esser sempre stati neutrali e
…”
“…
stanno prendendo tempo, coglionando monseigneur d'Aubigny
così
da evitare sia il saccheggio sia di pagare una taglia troppo salata.
Furbi
loro”, terminò per lui la frase Mercurio,
raggiungendo Hironimo e piazzandoglisi
davanti, manco stesse conferendo col veneziano invece che col trombetta.
Il
giovane Miani gli mostrò i denti in disfida, sostenendo lo
sguardo indecifrabile del greco-albanese, il quale seguitava a fissarlo
silente, il capo reclinato appena su di un lato.
“Chi
fa parte della compagnia del commissario d'Aubigny?”
“Monsieur
Julien du Maine; monsieur Alexander Stewart de Lorne ,
monsieur Georg von Rotemberg e ...”
“Non
capisco”, lo interruppe bruscamente il capitano di ventura,
d'un tratto disinteressato alla lista. “La Palice guida la
spedizione, ma gli Imperiali
fanno bottino. Perché?”
A questo
quesito, il soldato francese perse ogni soggezione e
spavento per imporporarsi di sdegno. “Perché non
sono altro che dei porci
avidi!”, sputò rabbioso. “Sapete
l’ultima? Proprio ieri è stato letto un bando
dell’Imperatore nel nostro accampamento a Montebelluna: la
Sua Cesarea Maestà
ci proibisce di varcare la linea della Piave!”
Il
condottiere scrollò le spalle: lui militava per il Re dei
Romani, quindi l’affare più tanto non lo tangeva.
“A
noi e agli stradioti.”
Un gelo
assassino calò improvvisamente nella stanza e la
staffetta, non appena Mercurio si girò, inconsciamente
indietreggiò d’un passo,
temendo di finire sul serio appiccato allo stipite della porta.
“Questo è ciò
che l’Imperatore ha comandato!”,
s’affrettò a precisare il francese, la voce
improvvisamente più acuta.
“Che
ha detto a riguardo il maresciallo?”
“Lo
ignoro!”
Un
pesante improperio sfuggì dalla bocca del greco-albanese,
contratta in una smorfia di profonda stizza e al contempo
perplessità, la
medesima che provava Hironimo dopo aver appreso di
quell’assurdo ordine. Anche
se – cogitava il patrizio – in un qualche astruso
modo poteva ritornargli utile
…
“Zilio!”,
chiamò infine il capitano di ventura il suo
luogotenente, rimasto in disparte accanto alla porta.
“Abbiamo ricevuto la
taglia per i due bellunesi?”
“Sissignore.”
“Perfetto!”,
esclamò compiaciuto il Bua, ponendosi le mani sui
fianchi. E a voce ben alta, acciocché il trombetta potesse
ricordare bene ogni
sua parola e riferirla: “Date loro da mangiare, dei vestiti e
una cavalcatura,
che possano ritornare a testa alta dalle loro famiglie. Hanno
combattuto
valorosamente, in fin dei conti” e di nuovo guardò
Hironimo con la coda
dell’occhio. “Dopodiché, annuncia ai
nostri uomini che leviamo il campo:
ritorniamo a Montebelluna.”
Zilio
Madalo si pose sull’attenti, sparendo lesto a notificare il
resto della truppa.
“Non
sarete stato eccessivamente generoso?”,
s’azzardò di fargli
notare il soldato francese.
“La
Sua Cesarea Maestà non comprende, che non è
minacciando morte
e distruzione che si conquista il cuore della gente, bensì
mostrandogli la
propria convenienza nel seguirlo”, sentenziò
Mercurio, dirigendosi di nuovo
verso Hironimo e afferrandolo per il mento lo costrinse ad inarcare
indietro il
collo, strappandogli un piccolo guaito di dolore per la resistenza
oppostagli
dal peso della palla di cannone. “Questo la Serenissima
Signoria lo sa bene:
ecco perché i suoi cittadini sono disposti a morire
così volentieri per lei …”
Così,
nel cuore della notte alla stregua di ladri, si abbandonò
Castelnuovo di Quero. Ironia della sorte, considerato il miserrimo
bottino, per
certo si viaggiava leggeri e silenziosi per la strada boscosa,
vigilantissimi
per timore dei tremendi contadini e delle loro imboscate.
Hironimo
e Thomà marciavano accanto al capitano di ventura
condotti tramite una corda in mano allo stesso greco-albanese,
alternando
scatti di corsa a passi più lenti. Abituato a
cavalcare, Hironimo
contrariamente a Thomà faceva una fatica enorme a
trascinarsi avanti a piedi
nudi, pesandogli e graffiandogli la pelle le manette alle caviglie e i
polsi e
la palla di cannone appesa ad un cerchio serrato attorno al
collo. Ogni tanto, il suo compagno di sventura gli
trottava accanto
e gli reggeva la palla, così da sostenerne meglio il peso e
respirare più
liberamente.
Prima che
sparisse nascosto dagli alberi, il giovane
patrizio contemplò la sagoma del castello e gli si strinse
il cuore similmente
alla prima volta in cui l’aveva rimirato: ma se in
quell’occasione egli aveva
scorto una prospettiva di carriera e finalmente la sospirata occasione
di
distinguersi dai fratelli, adesso quelle rovine gli rammentavano il suo
fallimento, insinuandosi l’atroce dubbio se, una volta
libero, la Signoria gli
avrebbe mai perdonato la caduta di Castelnuovo.
Venezia
era una madre severa, prodiga nel dare ma altrettanto
esigente nel pretendere in cambio e della sua poca clemenza nei
confronti di
chi la deludeva faceva parlare di sé
ovunque, sia dentro che fuori i
suoi territori : di come depose il Doge Francesco Foschari e gli
torturò il
figlio sier Jacomo Foschari, esiliandolo a vita a Candia; il castellano
sier
Hironimo Trun q. sier Priamo, ch’aveva venduto Lepanto ai
Turchi pur di
salvarsi la vita, decapitato e disconosciuto dalla sua medesima
famiglia; i
Lippomano costretti alla fuga dopo l'arresto per insolvenza a causa del
fallimento del loro banco; sier Antonio Grimani Capitano da Mar a causa
di due
tremende sconfitte contro i Turchi s'era rifugiato pure lui a Roma dal
figlio
cardinale Domenego e soltanto due anni addietro la Dominante
l’aveva perdonato,
nominandolo provveditore, a seguito di dieci anni vissuti da latitante,
un
criminale ai suoi occhi. Sier Anzolo Trivixan anch’egli
esiliato per la sconfitta
a Polesella. E il tanto osannato sier Ferigo Contarini? Se non avesse
stupito
con la sua ardita fuga, gli avrebbero concesso altri
incarichi? Sier
Zuam Paulo Gradenigo per la rotta di Rovigo finito sotto processo e un
anno
senza incarichi.
La
famiglia d’Hironimo stessa era stata in passato inquisita da
parte dei Dieci, il suo bisnonno sier Marco Miani multato e sollevato
dall'incarico di Bailo per strane questioni a Corfù; suo
nonno sier Lucha Miani
esiliato per un anno da Venezia e cinque da ogni carica pubblica,
un’umiliazione che Padre s’era imposto con ogni suo
mezzo di cancellare,
dedicandosi anima e corpo alla Signoria acciocché nulla se
non lodi si
potessero dire dei Miani e così aveva cresciuto i propri
figli.
(Venezia
non sa che farsene d’inutile liquame, ricordava
loro Padre, ogniqualvolta lo deludevano)
Un’ondata
di sconforto assalì Hironimo: con quali parole si
sarebbe giustificato? Gli avrebbero creduto? Oppure sarebbe rimasto un
semplice
cavaliere e, a guerra terminata, relegato nel dimenticatoio di un
qualche
oscuro ufficio, magari su di un’isola greca semideserta?
L’oblio
… che ironico castigo per lui, da sempre alla ricerca di
fama e successo così da liberarsi dal pesante giogo
d’essere l’ultimogenito, il
cucciolo della nidiata, il piccolo Momolo, il figlio-del-suicida.
Non
gliel’aveva profetizzato quella veggente? Non
gliel’aveva
promesso?
Tu,
che hai l’anima di Lazzaro, supererai chiunque dei tuoi pari
a
Venezia e fuori d’essa. Nulla di vivo dei re, degli
imperatori, del Papa a loro
sopravvivrà, ma il tuo operato viaggerà nel tempo
e lo sconfiggerà e il tuo
nome sarà conosciuto fino agli ultimi angoli della Terra e
tutti lo ameranno,
tale è la sua grandezza.
“Puoah,
vecia bacuca, marantega (befana, ndr.), buziarda, mata e
sempio mi che t’ho creduto”, sibilò
sardonico Hironimo, infilando due dita
sotto il collare in modo da recare sollievo alla pelle arrossata dallo
sfregamento (già sentiva le prime vesciche formarsi).
Stupido, stupido proprio.
E
peccatore, la Chiesa non condannava forse la
chiromanzia e chi la consultava?
Oh beh,
pensava il giovane patrizio, un peccato in più uno di meno
… tanto ormai, come più volte ripetutogli dagli
indignati preti, lui era al di
là di ogni redenzione e allora che si peccasse e ci si
divertisse, se proprio
Domine Iddio non nutriva alcuna misericordia nei suoi confronti.
***
Marco
si girò sul fianco, appallottolando il cuscino sotto la
testa e grattandosi di riflesso la sottile barba che, a causa del
lutto,
avrebbe dovuto portare per tre anni e che gli dava non poco fastidio,
essendo
essa acerba come la sua età, contrariamente a quelle
più virili dei suoi
fratelli e parenti.
La
stanza giaceva in un inusuale silenzio, rotto dalle violente
sferzate del vento novembrino le quali graffiavano incessanti sui
sottili vetri
delle finestre, insinuandosi nei sottilissimi interstizi e
gonfiando
appena le pesanti tende tirate. Nel caminetto cadevano gli ultimi
ciocchi di
legno stanchi e consumati e accanto ad esso, ben accoccolato sul suo
materasso,
il servitore Trovaxo russava lievemente.
In
altre circostanze, Marco avrebbe esultato ogni Hosanna in
Excelsis dalla contentezza di avere infine la camera tutta per
sé, ma in quegli
ultimi mesi il sonno tardava a ghermirlo e si tormentava rigirandosi in
letto
simil San Lorenzo sulla graticola, le orecchie tese ad ogni rumore e si
meravigliava di rimpiangere persino il fastidioso scricchiolio delle
pagine del
libro che Carlo, insonne civetta, s’ostinava nel cuore della
notte a sfogliare
finché, esasperato, Lucha non gli lanciava un cuscino
addosso onde indurlo a
spegnere la bugia e dormire come ogni cristiano.
Un
improvviso refolo particolarmente forte provocò un sinistro
tremore nella finestra, al punto da indurre Marco a balzare
giù dal letto a
cassettoni e assicurarsi che essa fosse chiusa bene. Tra la Bora (a
Bora nassi
in Dalmaxia, la se scadena a Trieste e la mori a Veniexia) e
l’acqua alta, si
preannunciavano giorni seppelliti vivi in casa, ancor per loro
più tristi
ch’erano in lutto. Beato Carlo che con la scusa di
accompagnare lo zio Batista
si trastullava alle terme di Abano, talvolta v’erano giornate
in cui Marco
credeva d’impazzire, se non avesse potuto rifugiarsi al piano
di sopra dal
biscugino Zuan Francesco.
“Marchetto?”,
udì una vocina timida alle sue spalle e il ragazzo
sobbalzò per la sorpresa, sbuffando poi nel trovarsi davanti
il fratellino
scalzo e in camicia da notte.
“Cossa
fastu qua?”, sussurrò, non desiderando svegliare
Trovaxo e
dunque renderlo partecipe della loro conversazione.
Momolo
affossò il mento sul petto, stringendo convulsamente
l’orlo
della camicia.
“Zò,
oco?”, si piazzò Marco di fronte al bambino, le
braccia
incrociate al petto. “Cossa dirà la siora Mare, se
la non te vede in leto? Ciò,
non ti divertirai mica a strapazzarla?”
(Aveva
origliato una conversazione tra i genitori, in cui Padre
valutava se fosse il caso di spostare l’ultimogenito in
camera coi fratelli.
Madre, invece, gli aveva suggerito di attendere qualche anno,
sostenendo quanto
ancora fosse tenerello alle cose degli uomini, al che Padre, intuendo,
era
arrossito un poco e di fatti già quella sera Trovaxo dormiva
coi padroncini, i
quali non furono grati al genitore di quell’intromissione )
Momolo
bofonchiò un qualcosa d’inintelligibile,
costringendo il
maggiore a ripetere spazientito la domanda, ottenendo però
sempre i medesimi
borbottii finché Marco, tastando per caso la camicia da
notte del bambino,
scoprì un’umidità sospetta.
“Oh,
Momolo!”, esclamò allora dolcemente, abbracciando
il piccino
le cui esili spalle tremarono dai singhiozzi. “No
xé gnente, horra te netto mi,
sì?”
Dal
giorno del funerale di Padre, quasi ogni notte Momolo si
svegliava col letto bagnato e se all’inizio stimando la sua
età oramai
grandicella si pensava a sudore, purtroppo ci si dovette
arrendere
all’evidenza che, dopo anni, il bambino aveva ripreso ad
urinare nel sonno per
l’umiliazione sua e la preoccupazione di Madre ché
nessun medico sapeva
spiegarsi il perché di tal affare. Neanche loro, i fratelli
maggiori, di solito
sempre pronti a sfottere il piccino di casa, avevano osato commentare a
riguardo.
Delicatamente,
in silenzio e con le orecchie sempre tese acciocché
Trovaxo non si svegliasse, Marco lavò il fratellino e lo
aiutò ad indossare una
delle sue camicie da notte, che gli stava talmente lunga da fargli un
buffo
strascico. Prendendolo per mano, salirono assieme sul letto a
cassettoni e, ben
rannicchiatisi sotto le coperte, il ragazzo spense la candela
e sistemò in
maniera più comoda per entrambi i
cuscini. Immediatamente, Momolo si
strinse al maggiore e Marco notò con preoccupazione la
magrezza di quel
corpicino, proprio lui cui gli davano affettuosamente del porcellino
per il suo
appetito gagliardo e l’aspetto robusto e florido del ben
nutrito (Anche i dolci
di San Martino aveva rifiutato [1]) Non aiutava, poi,
l’umidità che Marco
sentiva bagnargli la stoffa della camicia, là dove Momolo
aveva affondato il
viso né tantomeno la presa convulsa ai suoi fianchi, quasi
il fantolino temesse
che il fratello spiccasse il volo, scomparendo per sempre.
“Marchetto?”
“Dime.”
“Lucha
non ha paura di dormire nella camera del nostro sior Pare?”
(Adesso
che lui occupava il posto vacante di capofamiglia, ogni
cosa di Padre era divenuta sua, anche la stanza da letto per quanto
Lucha la
prima notte vi ci fosse entrato con una faccia bianca da cencio appena
lavato)
“Perché
dovrebbe? Omo morto no' fa guerra.”
(Ignorava
come Lucha riuscisse a dormire lì dentro, senza
l’ansia
di scorgere l’ombra di Padre fissarlo dall’angolo
più buio, gli occhi
spalancati chiazzati di rosso e la lingua fuori)
“Marchetto?”
“Cosa
ancora?”
“Si
può uccidere qualcuno solo col pensiero?”
Marco
si girò di scatto, fissando stralunato il viso del
fratellino che ricambiava serissimo nella penombra della stanza.
(I
suoi occhioni neri un tempo sì ridenti adesso possedevano la
medesima inespressività dei putti dei monumenti funebri. Il
viso stesso era
marmoreo e freddo)
“No,
certo che no, strambazzo! S’ammazza con le mani, mica col
pensiero.”
(Non
era vero, Marco aveva voluto qualcuno morto col pensiero.
Magari, Dio l’aveva pure esaudito)
“E
ammazzarlo per omissione?”
“Ossia?”
“Cussì,
fradelo.”
Senza
dar tempo alla frase di dissolversi nell’aria, in un attimo
le mani di Hironimo gli furono al collo ed egli a cavalcioni sopra di
lui,
pesante quanto il coperchio di un sarcofago. Non era il suo fratellino
decenne,
bensì venticinquenne, bianco come la calce, la gola
squarciata, il viso
sfigurato dalle ustioni e schegge di bombarda, la bocca sghemba e lorda
di
sangue.
Marco
si portò di riflesso le mani alla gola nel tentativo di
liberarsi da quella presa, rabbrividendo dal gelo emanato da quella
carne
livida e putrefatta.
“Mi
hai lasciato andare in quella fortezza maledetta … Tu sapevi
che non sarei stato capace di difenderla, eppure non hai mosso un dito
per
impedirmi di partire! Tu mi hai abbandonato alla mercé del
nemico! Mi hai
condannato a morte per soddisfare il tuo vendicativo
orgoglio!”; gorgogliò
quella voce rotta e disumana, lordandogli la faccia di sangue vischioso
ad ogni
parola proferita.
“No
… No … Momolo, no …”
(Se
suo fratello avesse avuto occhi e non buchi vuoti e neri,
l’avrebbero guardato pieno d’odio)
“Mi
hai voluto morto?”
“No,
di giuro di no … Momolo, perdonami … Non ti ho
mai voluto
morto … no …”
(I
pollici premettero sulla sua trachea onde provocarne il
cedimento)
“No!
… No! …”
“Stai
di buona voglia, fradelo …”
“Markos
…?”
“…
ché morto lo sarò assai presto!”
“Oh,
Verzene Maria! … Perdoname, perdoname!
…”
“Markos!”, lo
scossero energicamente due delicate ma
forti mani, strappandolo da quella chimerica visione e catapultando un
gemente
Marco nel letto non della sua casa a San Vidal a Venezia,
bensì della stanza
padronale in cui alloggiavano a Treviso. Fuori il vento seguitava ad
ululare
imbizzarrito, manipolando la direzione della pioggia battente e
trasformandola
in frustate contro i vetri della finestre, alternandosi ad altri
scrosci di
acqua, quelli più pigri e regolari del mulino poco distante.
Ansimando
a grosse boccate, l’uomo si guardò intorno
spaesato,
sobbalzando al lieve e rassicurante tocco delle dita di sua moglie
Helena
Spandolin [2], che gli scostava via gli scuri ricci sudati dalla fronte
e dalle
tempie. Il suo viso dolce, dal pallore caldo del Levante e
circondato da
capelli nerissimi e ondulati, si sostituì a quello mutilato
e cadaverico di
Hironimo, così come le orbite oculari sanguinanti si
riempirono di vivaci occhi
nocciola, che lo studiavano ora inquieti.
“Sono
qui, méli mou (miele mio, ndr.) Sono qui
…”, gli sussurrò
teneramente ella in greco, lingua che condividevano
nell’intimità, conducendo
il suo capo al petto e continuando ad accarezzargli amorevolmente la
schiena.
“Si è trattato di un incubo, soltanto di un
incubo.”
Dilaniato
dai sensi di colpa, Marco pregò con tutto fervore la
Santissima Vergine Maria affinché ciò
corrispondesse al vero.
***
Sier
Lucha Miani uscì di corsa da Palazzo Ducale e senza neanche
penarsi di scusarsi se urtava malamente i suoi accigliati colleghi, si
diresse
spedito là dove Lucha di Symon il gondolier de
casàda stava cicalando
fitto-fitto cogli altri suoi compari nel sotoportego, balzando
comicamente in
avanti all’ inaspettato arrivo del padrone.
“Ndove
andèmo, patron?”
“Al
Ramo de la Stua.”
Lucha il
gondolier strabuzzò perplesso gli occhi. “A sta
horra,
patron? Non sarave un fià presto?” Sapeva,
infatti, trovarsi vicino alle
Carampane a Rialto, poco dopo l’allusivo Ponte delle Tette.
Dinanzi
all’espressione esagitata e inflessibile del padrone,
l’uomo accantonò ogni
obiezione e prese a remare con insolito vigore, intimamente contento di
gustarsi nell’attesa la vista del bel balconcino delle mamole
[3] affacciate
alle finestre.
In
realtà, il trentaseienne Miani stava delineando altri piani
d’azione ovvero piombare inatteso in una delle varie stue del
Ramo e di fatti
Lunario el Stuèr suo proprietario poco mancò di
strangolarsi con la propria
lingua alla vista di un patrizio con ancor la toga del Maggior
Consiglio
addosso presentarsi a lui terribile e solenne, come San Michele il
giorno del
Giudizio Universale. La lunga cicatrice lungo la mascella e il viso del
pallore
malsano del convalescente gli conferiva un ché di ancor
più feroce.
“Mi
no gh’ho fato gnente, no sun berton!”, ci tenne
tosto a
precisare lo stufaruolo, mettendo letteralmente le mani avanti. [4]
Lucha lo
squadrò seccamente dall’alto al basso.
“Lo spero ben”,
schioccò la lingua e aggiunse spiccio: “El consier
sier Batista Morexini, xélo
qua? Et no me dir che ti no te lo cognossi, ché te fazzo
prepar na bea tola a’
Pozzi! O mejo anchor: a le Orbe!”
Neanche
terminò di proferire il nome delle tanto temute stinche,
che Lunario scavalcando per poco il bancone guidava di persona il
patrizio
attraverso un piccolo dedalo di corridoi ben
riscaldati e senza
correnti d’aria, fino a giungere ad una stanzetta
specificatamente predisposta
per riposarsi dopo il bagno di vapore. Lì lo
stufaruolo bussò cauto alla
porta, contorcendosi in una smorfia dolorosa alla scocciatissima
risposta:
“Gran
mercé! Che vuoi ora? Non ti pago per
astiarme!”(seccarmi,
ndr.), berciò dietro una voce a Lucha assai nota e giusto
per abbreviare i
tempi (non per pena nei confronti dello stuèr), che appunto
replicò in fretta
alla giusta obiezione del senatore:
“Sior
Barba, sun el vuostro nezzo, Lucha.”
Immediatamente
il tono dello zio s’addolcì. “Lucha?!
Sangue di
diana, perché non me l’hai detto prima? Pelandrone
d’un Lunario, fallo subito
entrare, lesto!”, comandò perentorio allo
stufaruolo, che inchinandosi e
mormorando un deferente Vi servo, patron, zelenza,
vossioria, piegò
l’indice verso di sé onde comandare ad uno schiavo
moretto di portar una sedia
al patrizio. E rivolgendosi in gran confidenza al Miani:
“Zelenza,
lustrissimo, fé attension: el sior consier se porta
sempre pì mutrión (taciturno, ndr.), pien de
smara et gnàgna (malumore e
malinconia, ndr.); se podarave dir ch’i spiriti lu possegano
interamente …”
Uno
zoccolo con inquietante precisione colpì la spalla dello
stuèr, interrompendolo e sia il ragazzino che Lucha si
morsero le labbra pur di
non ridere.
“T’ho
sentito, pampalugo!”, vibrò minacciosa la voce del
consigliere. “Renditi utile e porta da mangiare e da
bere!”
“Vi
servo, patron, zelenza, lustrissima vossioria!”, si
massaggiò
l’uomo la spalla dolorante, raccogliendo lo zoccolo. E
rivolto allo
sghignazzante moretto: “Et movete, fio d’un
turco!”, spingendolo via malamente.
Intanto
che il ragazzino saltava a guisa di grillo onde accomodare
al meglio il nuovo arrivato, il consigliere e senatore sier Batista
Morexini,
torvo in volto e tutto avvolto in un morbido panno, salutò
il perplesso nipote
con uno spassionato: “Donca? Cosselo sto
muso da imbaucato (incantato,
ndr.)? Che t’aspettavi, nezzo mio? De trovarme a far a
l’amor con do pute?” e
indicando col capo il vassoio di marzemino e fritole alla cannella, gli
confidò
furbescamente: “Alla mia
età, quest’è l’unico
vizio che mi rimane!”
Ingoiando
l’incuriosita replica circa il perché proprio con
due
donne lo doveva pizzicare, Lucha sorrise complice allo zio,
l’unico ad
accezione di Madre e i fratelli che gli dava del tu con tanta
disarmante e
tenera confidenza. D’altronde certe
libertà poteva più che permettersele,
specie quando un allora inesperto Lucha si era ritrovato
improvvisamente a
ventun anni a rimpiazzare Padre e solo sier Batista Morexini
s’era interessato
attivamente alla sorte della sorellastra e dei nipoti, aiutandoli sia
materialmente che spiritualmente. Per lui era stato
un pilastro,
quello zio da tutti considerato un po’ stravagante, sempre
allegro e generoso,
ottimo padre e cotolón (donnaiolo, ndr.) ognora penitente.
Zio che
alla vigilia delle nozze di Marco e della bella Helena
Spandolin aveva preso da parte nel suo studiolo privato il novizzo
(fidanzato
ufficiale, ndr.) e gli altri fratelli Miani con la
scusa di
favellare; una volta ottenuta la loro
attenzione, era volato un tal
ceffone da far girare violentemente la testa al povero Marco, il quale
ci mise
un bel po’ per riprendersi e capire quanto appena
successo. Zò! Gnanca
gh’ho verto bocha! aveva poi esclamato
indignato, mentre i fratelli
assistevano scioccati, gli occhi fuori dalle orbite. Te
dole, eh?
Arecordate de sto dolor, nezzo mio, co’ te vien voja de bater
la mojer! e
rivolto agli altri nipoti: Ancha se ve vien ea spissa
(prurito, ndr.)
de ciaparla per el colo, avé da satre (sapere, ndr.) che ea
mojer sì la gh’ha
da obedir ma non xé ni da strapazzar, ni da menazzar, ni da
insolentar! Vui
seti omeni, abié juditio vui per primi, se volé
che l’abbia anch’ela. Onde
reiterare il concetto, aveva poi tra lo sconcerto generale elargito un
secondo
ceffone a Marco, sull’altra guancia. La
donna sbaglia, se l’uomo si
comporta da macaco! Sicché
l’allora diciassettenne Hironimo, nel
pieno di quella fase in cui i giovani proprio non
sanno tenere la
bocca chiusa, gli aveva ritorto: Parlate per vostra
personale
esperienza, sior Barba? per condividere
immediatamente la triste
sorte del fratello.
Era stato
grazie alla amicizie e conoscenze di sier Batista,
all’epoca nel Consiglio dei Dieci, alle sue macchinazioni e
abilità oratoria se
la dubbiosa Signoria aveva accettato l’anno addietro di
scambiare Lucha col
capitano Cristoforo Calepin, liberandolo dalla sua prigionia di quattro
lunghi
mesi in Alemagna. Inconsciamente, a quei ricordi, il Miani si
tirò appresso la
stola, usata come fascia di supporto per il braccio destro storpiato e
inerme.
“Sentate,
vuostu marèndar? (colazionare, ndr.)”, riprese il
senatore il discorso, bevendo cautamente il marzemino, onde non
sporcare il
panno bianco.
“Vi
trovo bene, sior Barba.”
Sier
Batista lo fulminò cogli stessi occhi neri di Marco e
Hironimo, quest’ultimo l’unico nipote Miani che gli
assomigliasse in tutto e
per tutto, una goccia d’acqua, e se non fosse stata Leonora
Morexini Miani ad
averlo partorito, le malelingue di certo avrebbero tambureggiato ogni
sorta di
pettegolezzi. “Burlestu?”, sbuffò
sardonico l’uomo, mostrandogli le mani
ossute, dalle vene ingrossate e dalle dita lievemente storte.
“Te par che stago
ben? An, la vecchiaia … i reumi proprio
non mi danno requie! In
questo periodo dovrei trovarmi ad Abano, non qui a crepar
dall’umido!” e
sbuffando ritornò alla silenziosa degustazione del suo vino.
Effettivamente,
appurò Lucha, sotto la scorza del sarcasmo il suo
avunculo appariva più stanco e fragile del solito,
rivelandosi per il
sessantanovenne che ormai era, cozzando con l’immagine
mentale da sempre
custodita di lui, ovvero dell’energico e giovane zio che si
issava anche due
nipoti alla volta sulle spalle, facendoli roteare tra grandi risate e i
preoccupati richiami di moglie e sorellastra, nelle dolci estati
trascorse a
Treviso e a Fanzolo.
“Talvolta”,
proseguì pensieroso il consigliere, “credo
d’aver
vissuto in un altro tempo, in un altro luogo. Quanti avvenimenti si
sono
succeduti in quest’ultimi anni! Quanta gente da me conosciuta
è oramai
sottoterra ... Mio padre, le mie due madri, i miei fratelli ...
Parenti,
colleghi, vicini di casa, amici, nemici
… Ci crederesti che neppure
sei anni fa seppellivo mio fradelo Hironimo (ancha se geravam in lite
et in
grandissimo odio) … e quest’anno il sior mio
zenero sier Zuanne Querini e la
mia nezza toa sorela Crestina? ... Ripensavo a quanto era stata
contenta di far
parte del gruppo di gentildonne scelte ad accogliere la olim Ducissa de
Bari,
quel maggio in cui giunse qui a Veniexia in visita. Ed ora sono ambedue
morte.
Ti ricordi di lei, della Ducissa? Eravate coetanei,
sì?”, e al cenno positivo
del nipote proseguì con un sorriso malinconico:
“Una creaturina spiritosa e
brillante, peccato che quel satiro del Ducha sòo pare si
fosse dimenticato
d’insegnarle, che gli affari si fanno in due o non si fanno
… Poareta, morta sì
zovane … ”, scosse il capo. “E il luglio
dell’anno scorso, assieme a mio
cugnado sier Alvise Malipiero, pure m’è toccato
comunicare al Mazor Consejo la
morte della mia siora cugnada Domina Catharina Corner … che
aveva
colazionato con la Ducissa! In quel momento, ho
pensato: ecco qua,
la fine d’un’epoca!”
E poi
c’era la questione di sua figlia, ma Lucha sapeva che lo zio
mai e poi mai avrebbe approfondito di sua spontanea iniziativa,
rivangando il
dilaniante spettacolo della sua adoratissima Maria rimasta precocemente
vedova
del marito Zuanne Querini conte di Stampalia e Amorgo, proprio lei che
era
stata benedetta da un matrimonio felice e un marito
amorevole. Intuiva il
Miani come lo zio avesse interpretato tale disgrazia come una punizione
divina
per il suo comportamento fedifrago nei confronti della, nonostante
tutto, amata
moglie, mortificandolo tramite la sofferenza della figlia e per questo
sier
Batista s’ostinava a sopportare stoicamente in silenzio senza
menzionarlo a
nessuno, tranne quando era corso disperato dalla sorellastra Leonora,
supplicandola di persuadere Maria anche solo a guardare la figlia
postuma di
Zuanne, la piccola Laura. Assieme a Francesco, il maggiore di anni
sette,
Piero, Agustin, Fantin, Nicolò e Crestina, il defunto conte
Querini di
Stampalia e Amorgo aveva lasciato una moglie devastata dal dolore che
si
rifiutava d’interagire con l’ultimogenita, anzi,
una volta rinsavita aveva
confessato vergognosa alla zia come avesse sperato morire di parto, in
modo da
ricongiungersi allo sposo. M’aspetterà,
sior’amia?, le aveva
chiesto in lacrime. Al che madona Leonora, con la
saggezza di chi
era sopravvissuto al calvario della vedovanza, le aveva risposto
brutalmente
onesta: V’aspetta sì, nezza mia,
perché dalla sua tomba sicuramente non
si muove! e detto questo, le aveva ceduto
l’infante tra le braccia,
che subito aveva cercato avida la poppa della madre.
Incredibilmente,
Maria s’era messa a ridere.
“… Una generazione
se ne va, un’altra viene, e
la terra sussiste per sempre”,
[5] terminò solennemente sier
Batista il suo monologo e con esso il vino, le palpebre socchiuse,
meditabondo.
“Sior
Barba …”
L’anziano
consigliere l’interruppe con un secco svolazzo della
mano. “Lo so, lo so. Non sei venuto per rivangare il passato,
bensì per
determinare il futuro. Vuoi sapere di tuo fratello.”
“Saveu
…?”
“Di
Trevixo: Item si ha, sier Hironimo Miani, era castelan in
Castel Novo, era presom di Mercurio Bua; il campo è pur a
Monte Belluna e non
se move, … etcetera, etcetera.
Continuo?”, citò verbatim sier Batista
il rapporto letto in Senato alle prime ore del mattino, assieme agli
altri sia
dai vari fronti che dallo Stato da Mar.
Navigato
politico e uomo di mondo, appena aveva udito il nome del
suo nipote e fiòzo (figlioccio, ndr.) il suo anziano cuore
pur avendo avuto un
sussulto non aveva tradito alcun’emozione sul suo volto,
seguitando ad
ascoltare impassibile e indecifrabile come una sfinge. Ciononostante,
sier
Batista già aveva previsto una prossima visita da parte o di
madona Leonora o
dei suoi nipoti Lucha e Carlo e, ad onor del vero, quasi era sollevato
che la
sorte avesse scelto il più mansueto Lucha, ché
sul serio non avrebbe avuto
animo di affrontare la sua sorellastra solo per aggravarle la
già pensante
croce che portava sulle sue esili spalle.
Inoltre,
Lucha aveva vissuto questo conflitto sulla sua pelle, ne
conosceva le dinamiche e sapeva cosa aspettarsi sia sul campo battaglia
che nei
consigli di guerra.
“Sior
Barba, riconosco che vi sto chiedendo un enorme favore …
Sempre nel bisogno ci avete soccorsi e avete vegliato per anni su di
noi, da
quando Padre … Ciononostante, vi supplico di … di
suggerirci almeno quelle
salvifiche parole, che potrebbero persuadere i Pregadi e i Dieci ad
intavolare
le trattative per la liberazione di mio fratello.”
Il volto
di sier Batista s’incupì. “Non
è così semplice”,
sentenziò secco, sistemandosi meglio sul lettino.
Lucha
strinse il pugno, digrignando frustrato i denti. Ovvio che
quando si trattava di prigionieri la Signoria ci andava cauta,
valutando i pro
e i contro, ma quale valore strategico poteva aver mai suo fratello
Hironimo,
semplice cavaliere fino all’altro giorno?
“Perché?”,
sbottò infine.
Lo zio
non si scompose, semmai gli spiegò con flemma:
“Perché la
Signoria Nostra tiene in mano l’unica cosa, che potrebbe
legare nuovamente il
signor Mercurio Bua a lei.”
“E
cioè? Danaro?”
“Moglie
e figlia”.
Lucha
avvertì il mondo cascargli addosso, spalancando poco
elegantemente la bocca e il braccio sinistro gli cadde dal grembo.
“Burléu?”
“Te
par?”, lo rimbeccò prontamente lo zio.
“Catharina Bochali, la
fia di Nicolò Bochali el capitan stratiota morto en la
Patria del Friul e
sorella dei nostri capitani Manoli e Constantin Bochali, i quali ce
l’hanno a
morte (chissà perché) col cognato e pertanto si
rifiutano di restituirgli le
sue donne. Figurati che quello sfacciato di Mercurio Bua, pur di
riaverle
indietro, s’è raccomandato direttamente alla
Signoria.”
“E
che cosa gli è stato risposto?”
“Secondo
te? Che non possiede alcun valido argomento per
giustificare questo scambio” in attesa in realtà
di vedere chi dei due, in quel
braccio di ferro, avrebbe ceduto per primo.
Se da una
parte Mercurio Bua vantava doti militari strategiche di
notevole audacia e potenti alleati, dall’altra la Serenissima
possedeva
pazienza e numerose risorse; in aggiunta, con quel suo gesto in
apparenza
tracotante, il condottiero si era sbilanciato, scoprendo in parte le
proprie
carte e Lucha ben immaginava quanto sfacciatamente la Signoria avrebbe
sfruttato quel suo tallone d’Achille, pronta a stringere la
presa sul
greco-albanese se necessario tramite la moglie e la figlia.
E suo
fratello, di certo, non valeva lo scambio se sussisteva la
possibilità di tener per le palle il terribile capitano di
ventura.
“Così,
tra i due medici litiganti, a rimetterci è il malato! Mi
state dicendo, sior Barba, che sussiste la possibilità che
mio fratello venga
rilasciato soltanto a fine guerra?!”, esplose allora di
collera Lucha, incapace
d’accettare quel cinismo da ambedue i contendenti, men che
meno da parte della
sua patria, per la quale aveva dato un braccio, la salute e continuava
a
finanziare colle sue risorse economiche.
“No.”
“Ma
come! Se m’avete appena detto che …”
Sier
Batista lo invitò a calmarsi e a risedersi. “Nezzo
mio, coi condottieri
non si discute, li si compra ed io, in tutta la mia vita, non ne ho mai
trovato
uno senza prezzo.”
“Tranne
quel francese, quel Baiardo.”
“Verissimo.
Lui non si compra” , convenne il consigliere e
indicando la tempia “…
s’uccide” e rise alla macabra battuta. Poi,
ritornando
più serio: “Bisogna che tu o Carlo andiate a
parlare col missièr (suocero,
ndr.) di vostro fradelo, domino Dimitri Spandolin, e che lo inviate in
ambasciata alla moglie del signor Mercurio a San Biasio. In
contemporanea, assicuratevi
che la vostra siora Mare mia sorela vada a trovare la sua amica, madona
Alba
Donado Contarini: suo fratello sier Andrea è
podestà e capitano di Trevixo,
chissà che trovandosi più vicino al fronte, non
riesca ad avvicinare vostro
fratello, anche solo per assicurarci che sia ancora vivo. Inoltre, sier
Francesco Contarini, il figlio di madona Alba, conosce personalmente
molti
esponenti della nobiltà francese, forse tramite qualcuna
delle sue conoscenze
riuscirà ad agganciare se non il signor Mercurio, almeno il
maresciallo
monsignor La Peliza. Dal canto mio, vedrò cosa
potrò fare in Senato … e fuori.”
Fortuna
che il Misser Grande lo conosceva bene e con lui anche
sier Francesco Foschari, sier Hironimo Querini e sier Lucha
Trum, cugino
germano dell’amico di famiglia e parente sier Antonio Trum,
tutti e tre ben
inseriti tra i Savi e i Dieci. Chissà se non fosse riuscito
a persuaderli a
prestargli i servigi dei loro contatti nelle terre dei Conti da
Collalto,
sospettosamente indenni dalle scorrerie dei
saccomanni e dei
franco-imperiali …
***
Le
campane della Chiesa di San Francesco avevano appena annunciato
i vespri che madona Felicita, non rincasando ancora il marito, decise
di
recarsi lei medesima al granaio onde preparare le staie da imbarcare
sui burchi
diretti a Padova e a Venezia e della farina per cuocere il pane
l’indomani.
Afferrato lo zendale e chiamata Màlgari, aveva
già un piede fuori l’uscio
quando comparve madona Helena Spandolin Miani, la quale le chiese se
poteva
accompagnarla, non essendo neanche sier Marco Miani ancora ritornato
dalla sua
ronda, contrariamente alle più fortunate madona Chiara
Spandolin Trivixan, sua
sorella minore, e a madona Orsola Malipiero da Canal, quest'ultima
generosamente ospitata dal Miani, poiché sia lui che il
marito della
nobildonna, sier Alvixe, erano stati assegnato a guardia del Castello.
Felicita
acconsentì di buon grado, contenta della
compagnia della vicina di casa e intimamente
affascinata
dall’esotismo trapelante dalla donna, stupore tipico di chi
non era mai uscito
oltre le mura cittadine. La giovane patrizia, d’altronde, vi
metteva del suo:
oltre alla forte inflessione greca nel suo veneziano, ella aveva
conservato
alcune usanze nel vestiario tipiche della sua gente. Pur indossando,
infatti,
un’accollata camicia bianca e una veste nera alla veneziana,
madona Helena
s’acconciava la testa con un velo di bombace, alquanto
lavorato all’ago,
avvolgendolo in maniera intorno ad essa così da lasciarne
pendere e cadere una
parte giù per le spalle. Solitamente il velo era bianco, ma,
in rispetto
dell’anno di lutto per la morte della cognata madona Crestina
Miani da Molin,
la giovane greca aveva optato per uno nero, anche se non corrispondeva
al
colore adatto secondo i suoi costumi e anzi, in cuor suo ella temeva
d’attirarsi
la malasorte, indossando un panno da sfoggiare esclusivamente alla
morte del
marito. Tuttavia, sier Marco le aveva pazientemente spiegato in
più occasioni,
che trovandosi a Venezia doveva adattarsi alla vestemica del luogo e il
velo
giallo, anche se in Grecia significava un onoratissimo lutto generale,
in
Italia equivaleva all’uniforme delle meretrici.
Il Miani,
sebbene vincitore su questo fronte, aveva dovuto
arrendersi dinanzi all’ostinazione di sua moglie
d’ornarsi le orecchie di due o
più anelli d’oro assai grandi, assai scandalosi
[6] e pertanto relegati alle
occasioni informali. Per contro, madona Helena non esagerava cogli
anelli alle
dita, limitandosi a due. Invece, adorava cingersi la vita con una
catena
d’argento, fatta con bell’arte, che pendeva poi
davanti con due o tre peri
d’argento, gli stessi che stavano in quel momento suscitando
l’interesse di
madona Felicita. E come la sorella maggiore, anche madona Chiara si
vestiva
compagna.
Talvolta,
passando per San Martino, le tre vicine di casa si erano
imbattute in qualche stradiota che, riconoscendo immediatamente le
donne degli
arconti [7], si metteva subito sull’attenti, servizievole e
mansueto agnellino;
i loro capitani, specie i Paleologi lontani parenti delle Spandolin, le
si
rivolgevano con la più estrema cortesia. Gli uomini stessi
che sier Marco Miani
e sier Nicolò Trivixan avevano portato con sé a
proprie spese a Treviso
provenivano dalla patria delle mogli, scelti accuratamente sia da loro
che dal
suocero, il cavaliere Dimitri Spandolin da Costantinopoli, tributario
del
Signor Turco.
Ciononostante,
Helena non ostentava vanitosa la sua diversità né
si comportava da superba in quanto patrizia, rispondendo con allegra
cortesia
alle numerose domande di una curiosa Felicita, nelle lunghe ore
vespertine in
cui attendevano i rispetti consorti. Chiara, dal canto suo, se ne
rimaneva in
disparte a cucire, dimostrando infatti una natura più timida
rispetto alla
maggiore, preferendo la compagnia di madona Orsola verso la quale
avvertiva una
maggiore affinità culturale, esprimendosi infatti la
nobildonna in fluente
greco vernacolare . Anche se figlia del patrizio veneziano Antonio
Malipiero,
madona Da Canal era nata e cresciuta a Corfù dove la sua
famiglia s'era da
tempo trasferita e dove proprio lì aveva conosciuto il suo
futuro consorte,
all'epoca castellano della fortezza a guardia dell'isola.
“Cadaun
zorno, i nuostri maridi fan senpre pì tardi, vero? Se no
fussimo en guera, pensaria mal!”, scherzò la
giovane donna.
La greca
sorrise sibillina. “Dubito: il vostro sior marido Donado
non mi è sembrato un farfallone. Vi guarda respirare, tanto
vi vuol bene”, le
confidò civettuola, provocando un grazioso rossore
compiaciuto nelle gote
dall’altra. “Vi confesso che un poco
v’invidio.”
Assicurandosi
che Màlgari e Cleofe, la fantesca della greca, si
trovassero fuori dal raggio udivo, Felicita le sussurrò con
genuina
preoccupazione: “Vuostro marido ve trascurelo?”
“Non
è facile essere ammogliate ad un patrizio”,
asserì Helena, rigirando
un poco malinconica la vera al dito. “Ché il
marito non v’appartiene mai
interamente: la Signoria viene sempre per prima; è lei la
vera moglie e noi le
concubine.”
Abituata
a trascorrere molto tempo col suo Donado, soprattutto per
via della gestione dei mulini, Felicita si dispiacque molto della
situazione
della nobildonna, non concependo come potesse stare così a
lungo separata dal
consorte senza rodersi dall’ansia nonché dal
dubbio circa la sua capacità di
resistere alle tentazioni della carne, ché alla giovane
trevigiana non erano
sfuggite le occhiate golose delle altre donne, maritate e non, saettate
con
sfacciata insistenza ad un ignaro Donado durante la Messa. Brutte
insolenti!
Felicita
aprì la bocca onde tentar di confortare la patrizia,
sennonché
un urlo si sostituì alle parole: distesi a terra, gli operai
addetti al granaio
giacevano svenuti con evidenti segni di colluttazione sui volti, gonfi
peggio
di una vescica. Il portone era stato sfondato e da esso simil formiche,
dei
soldati si servivano allegramente passandosele di mano in mano le staie
di
grano, orzo e di tutta l’altra farina macinata riservata
l’indomani a Venezia e
Padova.
Le gote
della giovane si gonfiarono di collera, imporporandosi
circa l’ingiustizia dell’affare: ma come? Loro si
dannavano l’anima lavorando
notte e dì onde soddisfare le richieste della Serenissima,
suo marito pure
precettato ad aiutare la squadra di guastatori sulle mura e quei
pelandroni dei
soldati mercenari, sfamati e alloggiati gratuitamente, ora gli venivano
pure a
rubare la roba?
“MALADETI
CANI! SASSINI! PENDAJO DA FORCHA! BARONI! DA TAJARVE LE
MANI!”, ruggì indignata e furibonda e prima che
Helena o Màlgari potessero
fermarla, madona Cimavin afferrava un bastone caduto agli operai e lo
fracassava in testa ad un soldato (voltato di spalle), il quale con una
bestemmia da far sanguinare le orecchie cadde a far compagnia agli
operai,
privo di sensi.
Purtroppo,
ciò distrasse i suoi degni compari dalla razzia del
granaio e di fatti uno di loro non tardò a disarmare con
violenza la giovane
donna. “Razza di troia, ad un uomo metti le mani addosso?
Toh, prendi, se ti
piace menare!”, sbraitò e Felicita appena ebbe il
tempo di deviare il cazzotto
che le diede, giusto per evitare che le spaccasse il naso sebbene esso
incominciò
a sanguinare lo stesso, tra lo sconcerto generale delle altre donne,
specie
quando il soldato, non pago, la colpì alla spalla e la
spintonò malamente per
terra e se non fossero stati i riflessi pronti di Màlgari,
la giovane donna
sarebbe certamente caduta di schiena.
Prontamente
le altre donne si ersero a difesa della poveretta,
intuendo come l’uomo avesse intenzione di infierire.
“Béco fottuto!”
(cornuto,ndr.), gridò la contadina, afferrando una pietra e
lanciandogliela
contro con inquietante precisione, da far invidia ai lapidatori di
Santo
Stefano primo martire. “Bater ‘na dona! (e una
pietra) Et gravia! (e un’altra
pietra) Seti pèzo de quei ch’i zogavan a dadi soto
ea Crose Sancta!”
Intanto,
aiutata dalle compagne che le coprivano le spalle, madona
Helena batteva a saggia ritirata di direzione di casa, gridando a voce
alta:
“Zente! Zente! Arme, fora arme! Ajuto! Zente!” e
tentando di trascinare seco
una scalciante Felicita che nonostante l’epistassi e i
lividi, urlava come un
ossesso i peggiori insulti mulinando feroce i pugni.
Piccati
sia per l’interruzione sia per l’esser stati
malmenati da
delle donne, alcuni mercenari lasciarono le staie che stavano prendendo
ed
esigere soddisfazione, malgrado i loro compagni li suggerissero di
lasciar
perdere e andarsene via col malloppo. Stando al loro discutibile codice
d’onore, si trattava ormai di una questione di principio il
lavar via
quell’onta insopportabile, al diavolo il gentil sesso e altre
baggianate da
poemi cavallereschi.
Sicché
colpirono forte e colpirono duro, finendo sia Cleofe e
Màlgari per terra e gli occhi di madona Helena si
spalancarono
impauriti al sinistro luccichio della lama di un pugnale.
Questi
ci ammazzano!, fu
l’unico pensiero che la sua mente
poté elaborare e d’istinto coprì la
donna incinta col suo corpo, serrando le
palpebre in attesa del colpo, gli ultimi pensieri rivolti al marito e
ai suoi
pargoletti a Venezia.
Invece,
qualcosa le saltò sopra a mo’ d’ostacolo
e colpì con un
calcio in pieno petto l’avversario, cogliendolo alla
sprovvista, che
indietreggiò e il pugnale tintinnò sui
sanpietrini.
“Maladeto
viliàco: se te gh’ha finio co’ le
femene, battiti horra
contra nuialtri omeni!”, lo sfidò Marco Contarini,
il più giovane e veloce
della mandria di tori che s’avvicinava pericolosa, al secolo
i rispettivi
mariti delle donne offese e gli operai ai mulini e gli uomini del
Miani,
Trivixan, da Canal e Contarini, tutti capeggiati da Jacopo Cimavin il
Vecchio,
il quale brandendo un nodoso bastone, ruggì come
quand’era andato in guerra
contro i Ferraresi:
“Manza-merda,
ve sbuso tutti et ve fazzo vegnir fora le buéle par
la bocha!” e che il sier Provveditore lo impiccasse pure, ma
prima - sangue di
diana! - ne avrebbe tagliati a pezzi quattro o
cinque di quei
rotti-in-culo che osavano picchiare la nuora gravida e rubargli la roba!
In quel
momento i mercenari seppero che l’avevano combinata
grossa, tanto che la maggior parte di loro si pigliò in gran
fretta le staie o
a mani vuote ugualmente fecero dietrofront e corsero
via, inseguiti
dai furiosi uomini.
Marco
Miani afferrò uno per la collottola, lo costrinse a voltarsi
e in rapida successione gli elargì un pugno dietro
l’altro; Donado Cimavin,
abituato sin da ragazzo a sollevare pesanti staie di semenza e farina,
appunto
ghermì un soldato e lo gettò di peso nel canale
tra grandi imprecazioni sue;
Marco Contarini, impratichitosi nelle risse del Carnevale, sbatteva la
testa di
un soldato contro il muro e il vecchio Cimavin sentendosi gagliardo
come ai
tempi della Guerra del Sale seguitava imperterrito a ricorrere la sua
preda,
che ad un certo punto, in panico totale, gli aveva lanciato contro a
mo’ di
difesa proprio la staia rubata che si stava portando sulle spalle.
La
cagnara infernale finalmente scrostò dalle rispettive case i
Trevigiani e si levarono molti: “Arme! Arme!” e chi
coi bastoni, chi coi
batocchi per la polenta, chi con scope o padelle e chi col solo ausilio
delle
proprie mani vennero a dar man forte e pareva di assistere alla rissa
ludica
sul Ponte dei Pugni a Dorsoduro, con tutta quella pressa di gente che
incassava
e mulinava pugni ora a caso ora ben mirati, tra bestemmie da far cadere
giù
l’intera Corte Celeste, volando alcuni in acqua e qualcheduno
nel frattanto si
fregava pure una o due staie lì abbandonate.
Più
tardi si sarebbero calcolati i danni: ora come ora, la
priorità era di scaraventare in canale quanti più
soldati possibile e al
diavolo ogni cosa.
Tale
teatro titillò la curiosità di un gruppo di
stradioti diretti
ai loro alloggi a San Martino e che, pur non conoscendo la causa,
decisero di
partecipare giusto per passare il tempo. Ad essi si unirono alcuni
soldati di
ronda, tra cui Cabriel che per poco non tagliò il naso ad
uno, quando
concitatamente Marco Contarini gli aveva spiegato come quei disgraziati
avessero picchiato le donne in casa del mugnaio, tra cui
Màlgari.
La
situazione s’aggravò coll’arrivo degli
uomini del capitano
Lorenzo Orsini venuti ad indagare su quel bailamme, ma la foga tale era
che gli
si coinvolse, picchiando anche loro specie quando uno di loro si mise a
gridare: “In nome del capitano …”,
interrotto dal cazzotto di un trevigiano dal
dente avvelenato per via della proscrizione da parte di detto
comandante a
distruggere il santuario della Madonna Grande. “Tasi, bestia
papalina!”, aveva
infatti sbraitato, atterrandolo. Il più scemo tra
questi mercenari onde
quietare gli animi pensò bene di sguainare la spada, col
risultato di finire in
acqua in un battibaleno e di far giungere a cavallo un livido capitano
Vitello
Vitelli, segno che la contesa finiva lì e poche storie,
tutti a casa.
“Risparmiate
fiato ed energie per i franco-imperiali!”, li
ammonì
severo, scudisciando a destra manca acciocché a nessuno
saltasse in testa lo
sghiribizzo di disarcionarlo.
“No
preoccupeve, sior capetano: ne avemo assa’ ancha par
eli!”,
berciarono i baruffanti e gli mostrarono con feroce gusto i pugni dalle
nocche
sbucciate e i denti macchiati di sangue (ci fu chi sputò
perfino un dito
staccato a morsi) e il comandante si domandò se le nuove
mura di Treviso
fossero state costruite per difendere i Trevigiani dai franco-imperiali
o
viceversa, per proteggere i franco-imperiali dai Trevigiani.
Dispersa
ora con moine ora con minacce la folla, Jacopo Cimavin il
Vecchio e suo figlio Donado, Marco Miani, Marco Contarini, Alvixe da
Canal,
Nicolò Trivixan e Cabriel si trascinarono a casa del
mugnaio, malconci ma
vittoriosi. Lì trovarono Màlgari che si
accommiatava da Mamma Gaia, una
curandera e levatrice, e poco ci mancò che Donado si
liquefacesse dal terrore,
correndo esagitato in camera da letto dove sua suocera madona Luzia
rimboccava
le coperte alla figlia.
“Donado!”,
esclamò la giovane, gli occhi umidi di lacrime.
“Oh,
Donado!” e allungò le braccia onde richiamare a
sé il marito, che subito
l’abbracciò con foga, baciandola disperato.
“Donca?”,
s’informò sottovoce Jacopo il Vecchio.
Màlgari
scrollò le spalle. “A xé
n’toro, patron. Et el puto, el
scalcia contento pèzo d’un musso!”,
informò ella il padrone circa l’esito
positivo della visita della levatrice, la quale aveva giusto suggerito
qualche
intruglio per calmare i nervi a Felicita, la cui salute fisica sua e
del
bambino era uscita miracolosamente indenne dall’aggressione
subita. “Col vuostro permesso, mi andaria
en cusina.”
“Sì,
sì vai et rengraxia el zovane soldà- chome se
ciamelo?
Cabriel? - servigli poi un goto (bicchiere, ndr.) di
vin caldo”, la
istruì e dopo che la fantesca se ne scese anche fin troppo
lesta e contenta in
cucina, l’anziano mugnaio sospirò di sollievo,
appoggiando il bastone. “Maria
Verzene, seti semper laudata!”, mormorò devoto,
segnandosi tre volte. “Besogna
horra ‘ndar dal cogitore a querelare …”,
bofonchiò tra sé e sé, raggiungendo la
stanza principale. “Donado! Olà, Donado!”
“Paron
Cimavin, se no v’incomoda”, s’intromise
Marco Contarini.
“V’accompagnarave jo a Palaço per la
querela.”
“Oh
no, magnifico missier Marco!”, si schermì il
vecchio Cimavin,
d’un tratto ansioso dinanzi all’aspetto scapigliato
del giovane patrizio, coi
lunghi ricci impiastricciati sulla fronte in un misto di sudore,
polvere e
sangue. Temeva, infatti, complicazioni. “Ve ghavemo
zà massa incomodà.
Riposatevi, zelenza, vi fazzo portar un goto di vin caldo …
Màlgari! Oh, dove
xéla quea puta?”
Marco lo
intimò dolcemente di rilassarsi, intuendo alla perfezione
la natura di quell’eccessiva sollecitudine nei suoi confronti
e infatti con
accorte parole rassicurò paron Jacopo il Vecchio come
ovviamente si sarebbe
cambiato camicia e zipone, nettato il viso e le mani e pettinati i
capelli,
prima di recarsi assieme in Cancelleria. “Inoltre”,
aggiunse con una fugace
punta di birbante malizia tipica dei giovani, “non penso sia
savio divider gli
sposi” e all’espressione confusa del mugnaio,
indicò la stanza da letto dalla
cui porta semichiusa Jacopo intravide il figlio Donado con la testa sul
petto
della moglie e la mano intrecciata con la sua sul ventre rigonfio.
Sicuro le
avrebbe elargito una bella ramanzina, ma non nell’immediato,
beandosi dei cari
rumori congiunti del battito del cuore di Felicita e
dell’insistente scalciare
del bimbo.
Onde
reiterare il concetto circa il perché egli corrispondesse al
miglior candidato, il giovane Contarini puntò
l’indice anche ai Miani che
stavano rientrando in casa, molto probabilmente per ritirarsi in camera
loro,
con Marco che cingeva forte Helena per la vita, stringendola a
sé in un misto
tra il protettivo e il possessivo.
Quanto al
motivo perché la servetta tardasse a presentarsi al
richiamo del padrone, hé, Jacopo non necessitava di lezioni
di vita da uno
sbarbatello neanche ventiduenne. Che amoreggiasse pure in cucina col
suo
spasimante, purché questi se lo tenesse ben dentro le brache
almeno fino
all’approvazione del padre di lei al matrimonio.
Poi,
figliassero pure come conigli, la cosa non lo concerneva.
***
Trovando
la Cancelleria chiusa, Jacopo Cimavin il Vecchio andò
dunque il mattino seguente alle prime luci a dolersi e lo fece a gran
voce con
toni foschi e drammatici, ché tutta la Piazza da fuori il
Palazzo udisse e
giudicasse se fosse mai possibile che un cittadino onesto come lui, che
sempre
le sue 30.000 staie alla Signoria le aveva consegnate puntuale, che pur
il
sangue la sua famiglia per gli interessi di Venezia aveva offerto, che
aveva
contribuito all’abbellimento delle chiese e degli altari,
doveva dunque,
Illustrissimi Messeri, sopportare le ingiurie e le ruberie di una banda
di
scalzacani senza né arte né parte, figli di mille
padri usciti dai più
squallidi tuguri veneti, bergamaschi e romagnoli.
Il
coadiutore, torcendosi le dita, avendo trascritto ogni singola
parola della querela la passò all’auditore sier
Piero Antonio Morexini, il
quale scosse il capo esclamando: “Ah, mi no, eh! Mi
no!”, la cedette al
cancelliere criminale che grugnendo un “Manco
morto!”, la sbolognò al podestà
stesso sier Andrea Donado che senza neanche aprirla la mise sulla
scrivania di
un perplesso sier Zuam Paulo Gradenigo, il quale, leggendola infine,
con calma
assassina aveva intimato che si determinasse a quale compagnia quei
farabutti
appartenessero e che, scovati ladri e refurtiva, essa venisse
restituita
immediatamente ai Cimavin. Tra le varie magagne che
l’assillavano, al
Provveditore mancava soltanto che da Venezia e da
Padova gli
arrivassero perfide lettere inquisitrici, sul perché non
giungesse la farina da
Treviso, onde sfamare la popolazione e le truppe.
Sier Zuam
Paulo digrignò i denti e spezzò in due una penna
alla
notizia che si trattava degli uomini del Batagin Bataja.
“Quel
bauco! Testa-da-bigoli! Non capisce, quell’immane
deficiente, che dopo aver compreso quant’è facile
picchiare i soldati, quegli
spiritati dei Trevigiani potrebbero ribellarsi e farci gran danno per
via della
Madona Granda?”, si lamentava furibondo. I
capitani Vitello Vitelli
e Renzo di Ceri gli avevano riferito degli sfacciati assenteismi dei
cittadini
precettati ad affiancare i guastatori, adducendo tutti un gran mal di
pancia e
già il Gradenigo si figurava davanti ai Dieci a
giustificarsi sul motivo per
cui a Treviso, invece di badare alla difesa, si sedavano insurrezioni
popolari.
E forse
perché aveva continuato a parlare da solo ad alta voce per
l’intera mattinata, che sua moglie madona Maria Malipiero
Gradenigo aveva
invitato a pranzo tutti i patrizi giunti alla difesa di Treviso, con le
loro
mogli se appresso, acciocché il provveditore potesse
distrarsi dai mille
progetti su come meglio vivisezionare l’indisciplinato
capitano di ventura.
Il saggio
piano della nobildonna funzionò: dopo che il
podestà
sier Andrea Donado ebbe elargito un bonario predicozzo a sier Marco
Miani e a
suo nipote Marco Contarini (che ancora si rifiutava di soggiornare a
casa sua),
la conversazione verté sulla triste notizia della morte del
governatore domino
Lucio Malvezzi, spentosi a Padova come confermato dal provveditore sier
Polo
Capello.
“Il
corpo del governatore il signor Lucio è stato sistemato in
un
deposito lì a San Benedetto, senza far altre
esequie”, terminò di narrare sier
Piero Loredan q. sier Alvixe.
“Perché?”,
domandò incuriosito il figlio del podestà,
Nicolò
Donado.
“Ecco
… perché lui è morto di …
di … ”, e si schiarì sier Piero la
gola a disagio , scoccando occhiate imbarazzate alla madre del giovane,
madona
Francesca Gradenigo Donado, a madona Maria, le sorelle Elena e Chiara
Spandolin, Orsola Malipiero da Canal e le altre patrizie lì
presenti, che
ascoltavano attentissime quanto gli uomini.
“Con
pessima fama!”, gli venne in soccorso sier Lodovico Querini
q. sier Jacomo, terminando per lui la frase e sier Piero gliene fu
infinitamente grato.
“Zoè?”,
aggrottò la fronte Maria Malipiero Gradenigo e gli uomini
lì presenti si mossero inquieti sulle sedie, incapaci anche
solo di pronunciare
“malfrancese” dinanzi ad una matrona tanto
rispettata e virtuosa. Ignoravano,
poveretti, che la patrizia li stava stuzzicando apposta ché
la sapeva più del
diavolo, avendo viaggiato in lungo e in largo fin dove aveva potuto
assieme al
marito.
“Il
Senato ha già appuntato un
vice-governatore?”, s’informò
sier Alvixe da Canal q. sier Lucha,
deviando abilmente il discorso tra il sollievo generale. “No
sia mai che
l’esercito rimanga senza un comandante, allo
sbaraglio”, aggiunse.
Rispose
sier Piero Gradenigo q. sier Anzolo: “Uno dei favoriti
parrebbe il conte Bernardino Fortebraccio.”
“Com’è
costui?”
“Ah,
fedelissimo per quello!”, lo rassicurò
quell’altro.
“Purtroppo, i rettori e i provveditori lo devono ancora
confermare, quindi per
ora nulla d’ufficiale.”
“Pulito!”
Sier
Sebastian Badoer q. sier Jacomo si rivolse a sier Zuam Paulo:
“Corrisponde al vero la voce, che il Gran Maistro de Millan
ha inviato un
trombetta alla Signoria, onde assicurarsi che i suoi uomini nostri
prigionieri
siano ben trattati?”
Un
risolino generale si diffuse nella sala e sier Zuam Paulo
arrossì violentemente, tanto che la cicatrice al collo
risaltò bianca sulla
pelle scarlatta. Lanciò un’occhiataccia malevola a
sier Lunardo Zustignan, il
quale giocò al nesci, continuando a mangiare ineffabile il
suo petto d’anatra
muta, ma con un sorriso sornione sulle labbra.
La
storiella di come il provveditore Gradenigo avesse minacciato
di sodomizzare con un attizzatoio rovente il segretario di La Palice,
dopo che
questi a sua volta gli aveva promesso di violare alla fiorentina la sua
virtù,
non era rimasta a lungo segreta nelle stinche dietro a Palazzo dei
Trecento e
adesso che il governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours negoziava
con la
Serenissima per un trattamento più umano verso i suoi
prigionieri, essa aveva
suscitato non poche ilarità a Palazzo. Sebbene, gli stessi
Veneziani avevano
dovuto dare un freno alle spicce maniere dei Trevigiani, i quali, per
risparmiare cibo e tempo, avevano l’uso di strangolare i
prigionieri nelle
carceri, seppellendo poi frettolosamente nelle fosse comuni.
Che tale
sinistra pratica fosse giunta fino a Milano, alle
orecchie del duca Gaston? In ogni modo, sembrava quasi che al francese,
rimuginando sulle parole del Trivulzio a Louis XII, fosse sorto qualche
scrupolo di coscienza e non per la benefica influenza del Chevalier de
Bayard
bensì perché ancora gli doleva la mascella alla
notizia di come quel diavolo
d’inferno di sier Ferigo Contarini in un colpo solo gli
avesse sottratto tutti
i rinforzi inviati da Milano, sebbene il giovanissimo duca millantasse
coi suoi
di non darsene pena. In realtà, temeva grandemente di non
rivedere più né i
suoi soldati né i suoi capitani e la notizia di come il
milanese Aloisio Ferrer
avesse disertato per passare a San Marco non lo aiutava certo a dormire
tranquillo la notte, timoroso com’era di sfigurare davanti
allo zio il Re di
Francia.
“Domani
o dopodomani manderemo un’ambasciata a La Peliza,
assicurandolo che questa guerra la combatteremo da
gentiluomini”, e
sier Zuam Paulo roteò scettico gli occhi, non credendoci
manco lui. “Ancora
sono indeciso se inviare il signor Alfonxo dal Mutade o
…”
“Ah,
eccovi infine!”
Un
silenzio di tomba calò nella sala, i commensali pietrificati
manco fosse entrata in quel momento Gorgone Medusa. L’unico a
scattare in
avanti convulsamente fu Marco Miani, subito trattenuto da Marco
Contarini per
il braccio. Madona Helena si morse bellicosa il
labbro inferiore
ancora gonfio, gli occhi torvi.
Ludovico
Battaglia da Cremona - o come lo chiamavano
tutti il Batagin Bataja - era marciato dentro con la decisione di chi
vuol
raddrizzare un torto subìto, ignorando i timidi richiami del
famiglio del
Gradenigo, che gli ricordava come almeno a pranzo lo si lasciasse
tranquillo.
“Nicolò”,
sussurrò il podestà sier Andrea al figlio,
“di grazia
accompagna nella stanza accanto la siora tua Mare e le altre
madone.” Annuendo,
il giovane si alzò cauto dalla sedia e, mormorata
velocemente qualche parolina
alle dame, offrì il braccio onde condurle nella stanza
accanto, lontano da
situazioni indiscrete che, a giudicare dai volti lividi di ogni
astante, non
sarebbero mancate a scoppiare in tutta la loro prosaica
virulenza.
“Sior
capetanio Ludovico, l’aspetabam en Canceleria
dopodisnà
(pomeriggio, ndr.)!”, lo salutò gelido sier Zuam
Paulo Gradenigo, rimanendo ben
seduto all’ingresso del capitano e parlando in veneziano
ché ormai l’uomo lo
capiva assai bene.
“M’avé
mandà a ciamar per parlar e qua sun!”,
replicò altrettanto
altezzoso il Bataja.
“Saveu
perché?”
“Siorsì”,
replicò sfacciato il condottiero, al che Gradenigo lo
rimbeccò accigliato:
“E
vi paiono azioni degne di voi? Forzare il granaio d’un onesto
cittadino, rubare l staie destinate a Veniexia e Padoa? Picchiare delle
donne
indifese?”
“Non
è stata un’idea mia, bensì dei miei
soldati.”
“Ch’è
assai peggio!”, sentenziò perentorio il
provveditore. “Un
capitano che non riesce a farsi obbedire dai suoi uomini non vale un
bel
niente!”
Batagin
Bataja impallidì dalla collera. “Sono due mesi che
le
paghe non arrivano! Non posso certo mantenerli a ciance e
promesse!”
“Così
hanno ben pensato di risarcirsi da loro”, mormorò
sogghignando sier Alvixe da Riva di sier Bernardin a suo fratello sier
Vincenzo, che annuì ridendo malevolo, guardando ben in
faccia il capitano di
ventura mentre lo faceva.
“Donca?”,
infierì serafico il provveditore. “I vostri uomini
non
mangiano? Non bevono? Non hanno un tetto sopra la testa e un letto dove
dormire? Sono forse maltrattati?”
Il
condottiero sbuffò sardonico. “La paga vostra e
dei vostri
patrizi sì che arriva, e anche puntuale! Magari la prelevate
dalla nostra!”
Un’esclamazione
di puro sdegno si levò a quella vituperazione e
più d’un gentiluomo s’alzò
bruscamente, pronto a reclamare la sua libbra di
carne.
“A
noi date del ladro?!”
“Ciò,
il bue che dà cornuto all’asino!”
“Senti
che sproposità, che linguaccia bugiarda!”
Con un
deciso gesto, sier Zuam Paulo li invitò a calmarsi.
“I
gentiluomini qui presenti sono tutti a proprie spese” e i
sopracitati
convennero in un minaccioso borbottio.
Bataja
rise sprezzante. “Ah sì? E di quanti? Cinque?
Dieci uomini?
Sapete quanti ne ho io da pagare, razza di tirchiacci?
Centotrenta!”
“Eh!”
“Oh!”
“Troppi
complimenti!”
“I
miei balestrieri a cavalli ed io rischiamo ogni giorno la vita,
mentre voialtri ve ne state tranquilli al caldo a bivaccare ed
ingrassare!”
“Ma
dove? Ma quando?”
“Se
sté tutto el zorno a gratarve la panza!”
“Avete
rifiutato di cavalcare a Conegliano! Non negatelo!”
“Calmeve,
de diana!”, sibilò il podestà,
incominciando a sudare
freddo dinanzi al nervoso scalpitare dei patrizi più
giovani, paonazzi in
volto. “Non ci troviamo in osteria!”
“E voi sior Provedador?“,
infieriva invece Ludovico Bataja, sordo ai richiami pacificatori di
sier
Donado. “Che
mi dite dei vostri ottanta ducati mensili?”
“Vi
dico, signor capitano, che io compio il mio dovere!”
“Ed
io il mio!”
Una
risata crudele e cattiva commentò l’ultima
affermazione del
Bataja, attirando su di sé l’attenzione degli
astanti che si voltarono verso il
suo proprietario. “Sicuro! Scappando a gambe
levate!”, lo sfotté inclemente
sier Marco Miani, abbandonandosi mollemente sulla sedia e la tensione
salì alle
stelle, ben consci dei sentimenti che animavano il patrizio nei
confronti del
Bataja.
Senza
scomporsi pur rimanendo un poco turbato, il condottiero
inquisì falsamente cordiale: “Avete forse qualche
pensiero da condividere, sier
Marco?”
“Jo?
Gnente!”, ribatté a tono l’uomo,
indicandosi teatralmente.
“Domandatelo a mio fratello, canaja!”,
ringhiò, aumentando così all’improvviso
il volume della voce, che non in pochi sobbalzarono sorpresi.
“Chi?
Quel puto?”, gli fece eco il Bataja, sovvenendosi grazie ai
lineamenti di Marco dell’ex- castellano di Castelnuovo e
delle sue tremende
sfuriate, proferite con mirata malizia da quell’ancora
imberbe ragazzo eppure
dalla mano già pesante e dal carattere impulsivo e violento,
gran nemico della
pazienza e del tutto inesperto su come trattare i sottoposti.
“Sì,
che voi abbandonaste al nemico, fio-d’on-can!”
“Io
m’ero offerto di ripiegare a Cividal di Belluno o a Feltre,
ma
credete che quel testardo di sier Hironimo m’abbia
ascoltato?”, s’affrettò a
giustificarsi il condottiero, notando il pericoloso tamburellare delle
dita di
Marco, le nocche gonfie e sbucciate, le artefici dei lividi sulle facce
dei
suoi uomini.
“Puoah,
balle di musso!”, s’intromise sier Lunardo
Zustignan tra i
due contendenti, aprendo una cartella di cuoio ed estraendo un foglio
di carta.
“Sier Nicolò Balbi, avanti la resa di
Cividàl di Belun, ci ha riferito come la
perdita di Castel Novo di Queer sia imputabile a voi e alla vostra
vigliaccheria!” , gli riferì perfido,
sventolandogli sotto al naso la lettera
dell’ex-podestà di Belluno, prima della
capitolazione della città e della sua
fuga precipitosa assieme al resto della popolazione fedele a San Marco.
Al che,
capendosi in trappola e messo alle strette da
quell’improvvisata commissione inquisitrice, Batagin Bataja
s’infuocò,
mulinando furioso il braccio: “Basta! Sangue di Cristo,
ché mi lascio
insolentare da un ciapo (banda di animali, ndr.) della vuostra sorte?!
Io non
son schiavo dei Veneziani! Vedetevela da soli, arrangiatevi coi
Francesi e i
Tedeschi! Di voialtri mi lavo le mani!”
“Come
se avessimo bisogno di un tal impiastro!”, rimarcò
sferzante
sier Lunardo Zustignan. “Anzi, pure ci imbarazzate davanti al
nemico! Traditore
e spergiuro!”
“A
me date del traditore e dello spergiuro, quando vostro zio
Marin Zustignan venne esiliato per spionaggio?”
Sier
Lunardo, impallidendo di colpo e battendo irato un pugno sul
tavolo, ruggì: “Non fu mai una spia! Il suo unico
peccato fu di fidarsi
ciecamente di suo cugino il vescovo di Brexa, don Lorenzo Zane! Gli
aveva
chiesto ospitalità per la notte, dicendo che doveva
consegnargli una lettera da
Trevixo! Che ne sapeva, che stava accogliendo un traditore in fuga?! E
comunque”, sputò lividissimo, “furono
tre anni d’esilio dai consigli segreti,
mica da Veniexia!”
Ma il
Bataja, forte di tal vittoria, calcò la mano nelle accuse:
“Si vocifera che a Trevixo ci sia una spia, che fornisce
informazioni a La
Peliza … Sior Provedador, vi siete mai premurato di
controllare la
corrispondenza della siora vuostra mojer, madona Maria? Ella era la
figlia di
sier Jacomo Malipiero, o sbaglio?”
Accennava
il condottiere ad un triste avvenimento svoltosi nel
1478: sier Marco Corner aveva appreso dall’ambasciatore a
Roma sier Jacomo de
Mezo, come il conte Girolamo Riario – e suo zio il Papa con
lui -
fosse fin troppo informato di quanto avveniva nel Consiglio dei
Pregadi;
sicché, non essendo il Riario di grande ingegno da tener la
bocca chiusa sulle
sue fonti, il Consiglio dei Dieci aveva dato ordine
d’arrestare il padre di
madona Maria, il senatore dei Pregadi sier Jacomo Malipiero q. sier
Dario e il
cognato di lui, il dottore e cavaliere sier Vidal Lando. A lungo
interrogati e
torturati, i due confessarono ai Dieci la lista completa degli altri
informatori implicati, tra cui figurarono appunto gli zii materni di
madona
Gradenigo, sier Andrea e Alvixe Zane e don Lorenzo Zane q. sier Polo,
quest’ultimo
vescovo di Brescia. Sier Marin Zustignan q. sier Pancratio, zio di sier
Lunardo, era stato suo malgrado coinvolto in quel fattaccio
poiché, ignaro di
ogni cosa, aveva ospitato nella sua casa a Murano il Vescovo fuggitivo
verso
Cesena. Per questo, ci si limitò ad escluderlo per tre anni
dai consigli
segreti di stato, per non aver posseduto la prontezza di spirito (o il
sospetto) di denunciare il cugino non appena questi aveva varcato la
soglia di
casa sua, avvertendo i Dieci, i quali trovarono imperdonabile che sier
Marin li
avesse notificati il giorno dopo, quando questi aveva finalmente capito
l’imbroglio, leggendo la lettera. Tutte codeste spie furono
severamente punite,
in primis sier Jacomo Malipiero, esiliato a vita ad Arbe e pure gli si
era piazzata
una taglia di cinquecento ducati, semmai avesse tentato di rientrare a
Venezia
con qualche sotterfugio o con la forza. Ironia della sorte, fu proprio
Girolamo
Riario (sicuramente istruito dallo zio Sisto IV) ad ottenere la grazia
per il
vescovo don Lorenzo, quando giunse in visita nel 1481.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo odiava sentir rivangato quel
vergognoso episodio, che per un soffio gli aveva impedito di convolare
a nozze
con madona Maria, all'epoca ancora sua fidanzata.
“Sior
capetanio, se non avete nient’altro
d’aggiungere …”,
sibilò gelido il provveditore, le dita robuste sul
coltello accanto a lui e guardandolo tanto fissamente, quanto una tigre
pronta
a balzare sulla preda. Contrariamente a sier Lunardo – molto
più giovane,
quindi più suscettibile ed irruento – Gradenigo
non diede alcuna soddisfazione
al Bataja, giustificandosi. Invece, preferì avvertire con la
sguardo il
condottiere, promettendogli tacitamente una morte lenta e dolorosa
semmai
avesse osato insultare sua moglie tramite il padre spia e traditore.
Non
replicando Ludovico Bataja, capita infatti l’antifona, sier
Zuam Paulo informò l’uomo tramite un chiaro cenno
di mano, che la conversazione
poteva benissimo terminare lì.
Siccome
però, l’ultima parola la doveva per forza avere
lui, ecco
che il cremonese, sporgendosi verso Marco, gli sputò in
faccia velenoso:
“Quanto a vostro fratello Hironimo, state di buon animo: pur
di aver salva la
vita, v’assicuro che non avrà esitato un sol
attimo d’aprire le gambe al capitano
Mercurio Bua!”
Marco
Contarini, sebbene giovane e dai riflessi eccellenti, fallì
miseramente di trattenere il suo furente omonimo, essendo Marco Miani
balzato
in avanti simil leopardo, ghermendo per la nuca il condottiere e
sbattendogli
poco cerimoniosamente la faccia sul piatto. Non pago, il patrizio
veneziano
acchiappando qualsiasi stoviglia gli capitasse per mano, la
fracassò sulla
schiena del capitano e, scavalcato il tavolo, lo rigirò e
gli strinse le mani
al collo.
“Sier
Miani, no fé!”, gli si gettarono addosso sier
Alvixe
da Canal e sier Nicolò Trivixan, afferrandolo cadauno per un
braccio e tentando
di strattonarlo via dalla sua preda.
“Tenélo
fermo!”, incitò sier Zuam Paulo gli altri
nobiluomini,
leggermente titubanti alla vista dei loro colleghi volare per terra,
scrollati
via di dosso da Marco come un cane col fango, il quale, afferrato un
bicchiere
e spezzatolo, ne avvicinò la punta all’occhio del
Bataja.
“Per
la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che
xé!” [9],
ruggì invasato, sennonché Marco Contarini tra uno
sbuffo e l’altro riuscì ad
afferrargli il polso e scansargli via il braccio, grazie ad una mossa
appresa a
Padova da Zitolo da Perugia. Tosto ne approfittarono sier Alvixe, sier
Lodovico
e i due fratelli sier Alvixe e sier Vincenzo da Riva per immobilizzare
il
furente Miani e costringerlo a sedersi.
Il
condottiere, finalmente libero, scivolò via, la mano alla
gola
dove già si stavano formando le prime macchie scure.
“Mi recherò a Venezia e lì
starò, finché non m’arrivano le
paghe!”, gracchiò, massaggiandosi la carne
offesa. “E voi, sier Marco, non m’importa di chi
siate parente, giuro su Dio
che voi me la pagherete!”, gli promise minaccioso e Marco
Miani gli mostrò
bellicoso i denti, bloccato dal partire nuovamente alla carica da una
secca e
decisa spinta di sier Alvixe da Canal.
Sier
Lunardo gl’intimò beffardo.
“Sì! Andé, andé à
Veniexia … a
butarve in canal, in bocca alle pantegane!”
Ludovico
Battaglia da Cotigliano detto Batagin Bataja gli rifilò
un’occhiataccia d’odio puro, uscendo quanto
più rumorosamente possibile e pure
buttando per terra il povero famiglio del Gradenigo, il quale, calato
infine un
esausto silenzio e il pranzo oramai rovinato, dopo un gran sospiro
annunciò ai
presenti:
“Sia
ben chiaro tutti: nella relazione al Senato, si scriva come
siano volate unicamente insolenze e strane parole!”
Una volta
ogni tanto, la decisione venne approvata
all’unanimità.
Continua
…
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Alcuni
storici sostengono che Mercurio Bua e Caterina Boccali si
fossero sposati nel 1519, ma stando al Sanudo parrebbe che
già lo fossero prima
della guerra. Sull'identità di questa
misteriosa prima moglie gli
storici non riescono a mettersi d'accordo: c'è chi la
identifica appunto come
Caterina Boccali figlia di Nicolò Boccali; altri come Maria
Boccali sempre
figlia di Nicolò oppure Maria Boccali sorella di
Nicolò; altri ancora come una
sorella di Costantino Arianiti Comneno. Per certo, la moglie del Bua
morì nel
1524, stando alle cronache del Sanudo circa il suo seppellimento a San
Biagio,
la parrocchia della comunità greco-albanese a Venezia.
Per
esigenze di trama e per i riferimenti ad una moglie da parte
del Sanudo nelle vicende del 1511, abbiamo deciso di adottare questa
versione e
optato "Caterina" come nome della moglie del Bua. La
prova
che i due si fossero sposati almeno prima del 1519 starebbe nel fatto
che nel
1517 si tiene il battesimo del figlio Flavio Bua. Inoltre, si menziona
anche
un’altra figlia, rimasta però anonima, che non
è da parte della seconda moglie.
La
lettera riguardo il furto dal granaio e del litigio tra il
Gradenigo e il Battaglia è effettivamente troppo corta per
non essere sospetta,
scarnissima di dettagli circa un fatto in fin dei conti assai grave.
Con
l’eccezione del provveditore e del condottiero, non si nomina
nessun altro,
neppure il derubato. Dei venti commensali a pranzo da Gian Paolo, il
Sanudo
riferisce che solo uno accusò direttamente il Battaglia di
diserzione del
campo, sebbene non si specifici se sia lo stesso che gli abbia o meno
letto la
lettera del Balbi. Di nuovo, neanche questo gentiluomo viene nominato
ma,
sapendo come Marco Miani si trovasse a Treviso, a mio parere solo lui
poteva
essere il meno diplomatico dei patrizi lì presenti, in ansia
per la sorte del
fratello e adirato col Battaglia per quell’atto di
vigliaccheria che era
costato la libertà al Nostro. Pertanto, considerata anche la
ritirata
ignominiosa del condottiero a Venezia, forse erano volati
qualcos’altro oltre
agli insulti ... La rissa del granaio invece è mia
invenzione, però assai
plausibile a causa della tensione tra civili e soldati.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
I dolci di San Martino =
l’11 novembre è San Martino di
Tours e si preparavano dolci a forma di medaglie fatte di mele cotogne
per
festeggiare il Santo.
[2] Helena Spandolin =
il
cognome originale di Elena era il greco
“Spandounes”, venezianizzato in
“Spandolin”.
[3
] bel
balconcino delle mamole = ovvero
il seno delle prostitute (= mamole), gioco di parole visto che alle
Carampane
le prostitute si affacciavano a seno nudo alla finestra onde attirare i
clienti.
[4] stua, stuèr =
stufa e
stufaruolo, da intendersi come i calidarium o hammam, dove si faceva la
sauna a
scopi terapeutici e per rilassarsi. Ovviamente, molti stufaruoli
arrotondavano
i guadagni mandando nelle stanzette degli avventori anche qualche
prostituta,
di cui erano i bertoni (= lenoni). Era un gioco molto pericoloso, visto
che le
prostitute a cortigiane a Venezia dovevano essere tutte registrate e
vivere in
determinati quartieri, con la sola eccezione di quelle sposate.
Infatti, molte
cortigiane si sposavano così da vivere dove e come volevano,
senza incorrere in
sanzioni.
[5] Ecclesiaste 1:4
[6] d’ornarsi
le orecchie di due o più anelli d’oro assai
grandi, assai scandalosi =
a Venezia era disdicevole indossare
gli orecchini, considerati gioielli più da schiave e
cortigiane che da donne
oneste.
[7]
arconti = da
"archon", intesa qui come
nobiltà.
[8] scappando come il Duca
tuo
compaesano = Cotignola era la città
d’origine degli Sforza. Si fa
riferimento alla fuga di Ludovico il Moro ad Innsbruck presso
Massimiliano
d’Asburgo dopo la caduta di Milano nel 1499 e paragonandola
alla fuga di
Ludovico Battaglia da Castelnuovo a Belluno.
[9]
Per la Crose Sancta, te fazzo vedar mi, che horra che xé = per
la Croce Santa, ti faccio vedere io che ora è. Questo
modo di dire
veneziano ha origine dall’uso di giustiziare in Piazzetta tra
le colonne di San
Marco e San Teodoro i criminali. L’ultima cosa che vedevano i
condannati a
morte era appunto la Torre dell’Orologio a Piazza San Marco,
costruita nel
1496.
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Capitolo 7 *** Capitolo Sesto: 4 – 5 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 06.09.2021
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Capitolo
Sesto
4 – 5
settembre 1511
Cautamente
e con lentezza estrema Hironimo si tamponò le piote,
sibilando all’appiccicoso strappo del telo sulle piaghe
aperte dei piedi,
martoriati dall’inaspettata marcia notturna e peggiorati
nonostante la completa
inattività del giorno precedente. Lo stomaco gli
gorgogliò altrettanto
dolorante.
“Gh’aveu
visto, patron? Mi veo gh’aveo dito de no schissar ee
papule, ma vui no, teston pì d’un vecio
musso!” (asino, ndr.)
In
effetti, Thomà gli aveva suggerito di non bucare le
vesciche,
consiglio cui il giovane Miani s’era ribellato,
già di suo innervosito per
l'umiliazione d'andarsene in giro in camicia e scalzo, peggio dei
villani.
Ancora arrossiva ai volgari e derisori fischi d’apprezzamento
della
soldataglia, delle vivandiere e delle sgualdrine al loro arrivo
all’accampamento di Montebelluna; perfino i prigionieri
marciani – un misto tra
civili, soldati e stradioti – avevano storto in disappunto la
bocca, vendendolo
così conciato, in mutande e con quel camicione bagnato ed
aderente a causa
dell’acquazzone sotto cui avevano marciato.
Unica
consolazione fu però che la sua umiliazione coincideva
all’unico lazzo che i franco-imperiali potevano permettersi:
stando a frammenti
di conversazione captati di qua e di là, nel campo
incominciava a scarseggiare
il pane e quel che c’era, scoprì Hironimo con suo
disgusto, appariva nero come
il carbone, immangiabile. Perfino Thomà, avvezzo a cibarie
di fortuna, lo
annusava sospettoso. Neppure battendo il territorio in continue
perlustrazioni
riuscivano i Collegati a scovare luoghi dove far adeguata provvista; i
contadini avevano bruciato quasi tutto, inquinando i pozzi e portando
gran
parte del loro bestiame via con loro. Molto spesso boicottavano essi
stessi i
rifornimenti, assalendo le comitive nemiche nei punti più
fitti del bosco e i
soldati e saccomanni più fortunati rientravano al campo in
camicia e mutande.
In
aggiunta, l’arrivo di Mercurio Bua e della sua compagnia
invece
di rallegrare gli animi, li aveva ulteriormente depressi
giacché il
greco-albanese non solo non portava con sé bottino, ma
neanche l’Imperatore
Maximilian e le sue truppe come promesso. Il proclama dei Re dei
Romani, poi,
d’impedire ai francesi e agli stradioti
d’attraversare la Piave e di fare
rifornimento aveva incancrenito gli animati, sicché tra i
due alleati
serpeggiavano invidia e malcontento. Al che il maresciallo La Palice
aveva rotto
ogni indugio e inviato in gran fretta un corriere a Milano, onde
premere su
Gaston de Foix-Nemours acciocché anche il Re Louis si
decidesse una buona volta
sul da farsi ché ora più che mai le parole di
Gian Giacomo Trivulzio risuonavo
nella mente del francese veritiere e tremende come quelle della Sibilla
Cumana.
Quanto al
resto, c’era solo l’incognita
dell’attesa. Intanto, si
raccoglievano scale, gabbioni, barche e altro materiale bellico.
“Tasi,
peocio” (pidocchio, ndr.), bofonchiò Hironimo,
guardandosi
infelice i piedi sanguinanti e provando a tamponarseli con un lembo
della
camicia. Com’era riuscito il bambino a camminare scalzo senza
colpo ferire?
“Mi
taso et ve saludo! Perhò no podé negar
ché sembrate un San
Roco …”
“Puoah,
no xé vero gnente!”
Dietro di
lui Thomà scosse il capo e riprese soffiargli sulle
abrasioni là dove il cerchio al collo aveva sfregato
inclemente. Adesso che
avevano raggiunto l’accampamento, Hironimo non doveva
più sopportare di reggere
la palla di cannone ivi attaccata, tuttavia appoggiandola per terra
significava
rimanere o disteso o accovacciato col collo in avanti, i muscoli del
trapezio
fino ai reni indolenziti da quell’innaturale posizione,
provocandogli inoltre
crampi allo stomaco i quali s’andavano ad aggiungere a quelli
dovuti alla fame.
Per lo
meno non doveva più sopportare
l’umidità, i topi e il
perenne buio della cella o star dentro una gabbia improvvisata alla
mercé degli
elementi come gli altri prigionieri. Mercurio Bua l’aveva
sistemato nella parte
più retrostante del suo padiglione personale, piantando un
palo dove aveva
inchiodato le catene e pure brigando in modo da improvvisare una tenda
separatoria con un lenzuolo, cosicché da nasconderlo in caso
di visite. Lì
dietro, in quello spazio limitatissimo, Hironimo poteva rilassarsi in
quella
poca riservatezza concessagli ma al contempo si sentiva soffocare, le
orecchie
tese in ascolto di un qualsiasi movimento esterno, corroso
dall’ansia e i sensi
di colpa a lui manifestatisi nel sonno con le facce dei suoi servitori
e soldati
trucidati a Castelnuovo. Più passava il tempo e
più essi assumevano una
sinistra nitidezza, alternandosi talvolta con altri volti e altri
spiacevoli
ricordi.
“Invece
assomigli proprio a San Rocco!”, commentò
sardonico
Mercurio, intento a controllare le ultime mappe e correggendone qualche
saltuaria imprecisione. “Sul serio, a volte mi sembri
più delicato di una
fanciulla! Forse saresti dovuto nascere femmina, gli spasimanti non ti
sarebbero di certo mancati.”
Hironimo
strinse gli occhi una linea sottile, bruciandogli nel
petto una voglia matta di strappare a morsi il pomo d’Adamo
del capitano di
ventura.
Voltando
sdegnoso il capo dall’altra parte, sentenziò
insolente:
“Non capisco, io non discorro coi Turchi”, e
sogghignò all’udire l’incrinazione
della penna sulla carta, nonché del profondo e scocciato
sbuffo del
greco-albanese.
“Perché
il moccioso è ancora qui?”, abbandonò
questi il tavolo,
dirigendosi verso i due prigionieri. “Non mi pare
d’aver detto che poteva
tenerti compagnia” e puntò il bambino che pur non
capendo intuì però trattarsi
di lui e subito s’acquattò dietro Hironimo,
fissando guardingo il capitano.
“Ebbene?”
Il
giovane Miani circondò protettivo Thomà con un
braccio,
cambiando idioma onde non agitarlo. “E me lo domandi, furbo?
Visto che non mi
posso neanche mettere in piedi, figurarsi muovermi, chi mi svuota
sennò il
pitale quando cago? Tu?”, lo sbeffeggiò
ferocemente.
La bocca
di Mercurio si piegò in una strana smorfia. “Io ti
stacco
quella linguaccia malefica e te la ficco su per
il …”, latrò e fece
per allungare un braccio, sennonché, usando le catene a
mo’ di frusta, Hironimo
gliel’allontanò, strappando un gemito di sorpresa
nell’uomo che, infuriato, lo
ghermì per i capelli e …
“Capitano?”
Il
luogotenente Zilio Madalo e Alessandro detto “Leka”
Busicchio,
altro capitano stradiota, rimasero per qualche istante lì
comicamente
imbambolati, temendo d’aver disturbato il loro compatriota in
un momento assai
intimo e delicato, ossia trasformare in
baccalà mantecato il suo
prigioniero.
“Cosa
c’è?”, a malincuore Mercurio
abbandonò la sua presa dalla
zazzera di Hironimo, che si vendicò elargendogli una
gomitata allo stinco,
rannicchiandosi subito dopo nell’angolo così da
ergersi a scudo umano di Thomà.
“Il
maresciallo e gli altri comandanti si stanno dirigendo qui. E
stanno venendo con un trombetta del capitano Vitelli.”
Il Bua si
voltò di scatto. “A far che?”
Zilio
alzò le spalle, al che il suo capitano sbuffò
snervato.
Prima dell’arrivo del giovane Miani nel suo padiglione, non
aveva mai avuto alcun
problema ad ospitare chicchessia, dai generali alle puttane. Ora,
però, non
voleva nessuno, a malapena tollerava i suoi uomini. Ovunque in quel
campo egli
fiutava cupidigia e tradimento, sia da parte dei malcontenti francesi
che degli
infidi imperiali e non voleva correre il rischio che gli si rubasse
quel suo
prezioso bottino. Ancora non aveva digerito quell’editto di
Maximilian,
figurarsi se gli sottraevano ora l’ultima sua preda.
“Sta
bene”, s’arrese e irritato afferrò la
tenda, scostandola con
malevola forza. “Sentiamo le loro signorie che han da
riferirmi. E tu”, ammonì
perentorio al patrizio, “vedi di comportarti
saviamente.”
Da dietro
il lenzuolo, Hironimo gli rispose col gesto della fica,
guadagnandosi di rimando un calcio sulla coscia.
***
Madona
Maria Malipiero Gradenigo osserva nervosa il marito, mentre
il suo valletto d’arme lo aiutava ad indossare
l’armatura: quasi all’ultimo
momento, infatti, sier Zuam Paulo Gradenigo aveva deciso, al posto del
condottiero Alfonso del Mutolo, di recarsi assieme ai capitani Renzo di
Ceri,
Vitello Vitelli e Troilo Orsini a negoziare di persona con
l’emissario del
maresciallo La Palice, che il trombetta del Vitelli aveva promesso di
portare
con sé una volta terminata la sua ambasceria al campo
nemico. E tutto ciò
l’uomo l’aveva fatto annunciare con una tal fanfara
che la patrizia veneziana
non si sarebbe stupita, se perfino il Re di Francia lo fosse venuto a
sapere.
Ora, la
donna conosceva quanto il marito avesse sempre dato prova
di grande coraggio, determinazione e sprezzo verso la fatica
(nonché un pelino
di superbia), combattendo ogni battaglia in prima fila al fianco dei
suoi
uomini; ma quella sua spavalderia la preoccupava, temendo che egli si
fosse
troppo montato la testa da non fiutare una potenziale trappola tesa dal
nemico,
smanioso com’era d’umiliare il La Palice dopo la
rotta di Rovigo che aveva
trascinato sier Zuam Paulo dinanzi al Senato, sotto processo e un anno
intero
senza alcun incarico. Maria gli aveva confidato la notte scorsa questi
suoi
dubbi, interrogandolo sulla bontà della sua scelta e
tentando di persuaderlo a
mandare incontro all’emissario francese qualcun altro e di
poco conto in caso
di cattura. Non mi fido di quei senzadio,
gli aveva mormorato
contro la schiena, con la scusa delle negoziazioni
potrebbero
imprigionarvi o uccidervi. Stranamente, Zuam Paulo non aveva
contro-argomentato come sua abitudine, limitandosi a rassicurarla che
conosceva
bene i suoi ex-sottoposti e che non doveva angustiarsi per lui.
Poteva
sul serio?, si tormentava la nobildonna, osservandogli la
cicatrice bianca e ricordando come il marito l’avesse
consolata a Cividale con
le medesime parole, per poi ritornare semisvenuto in lettiga, con un
panno
scarlatto premuto al collo e versando tanto di quel sangue che ci si
chiedeva
come fosse riuscito a sopravvivere.
“…
si laora à le mura con solicitudine, ma non li è
massa
opere. El populo xé molto angarizato et le zente
xé alozate a quartier, et i
soldai fa di stranie cosse. Ma almancho ancuò (oggi, ndr.)
se pol dir niuna
baruffa”, informava il podestà sier Andrea Donado
nel frattempo il provveditore
delle ultime novità, intanto che sier Lunardo Zustignan
prendeva velocemente nota
onde informare il Senato.
“Il
signor Lorenzo? Non l’ho visto da nessuna parte.”
“In
letto tutto il giorno per via del malfrancese ch’affligge la
sua gamba; la perdonanza, patrona”, si scusò il
podestà con Maria, che liquidò
la cosa con un irritato svolazzo della mano. “Stamattina
s’è tuttavia rimesso e
potrà accompagnarvi.”
“Come
proseguono i lavori del Ponte de Pria?”
“Le
fosse e la spianada sono quasi terminate, così come le
chiuse
a chiavica: all’occorrenza, possiamo ora deviare
l’entrata dell’acqua o in
città o verso le fosse. La Boteniga è stata
completamente deviata per
circondare completamente la città e per il Sile non
mancherà molto.”
Corrispondeva
quell’opera idraulica al fiore all’occhiello del
piano difensivo, su progetto di Fra’ Giocondo da Verona:
situato sul fronte
nord delle mura, le sette poderose arcate del Ponte de Pria
permettevano e
regolavano l’ingresso in città alle acque del
fiume Botteniga mentre un
partidor, un ingegnoso sistema di arginature artificiali, permetteva la
precisa
suddivisione delle portate d’acqua necessarie ad alimentare i
canali di
Treviso, rifornire l’ingresso del Canale delle Convertite e
riempire la fossa
difensiva esterna. Il tutto all’ombra protettiva della
mezzaluna del bastione
di San Bartolomeo, posto sia difesa del fianco occidentale Porta San
Tomaso
sia, dalla parte opposta, a copertura del Ponte de Pria.
“Bon,
cussì me garba”, approvò Gradenigo.
“Di grazia, riferite ai
capitani che a breve li raggiungerò. Ah”, si
sovvenne all’ultimo, richiamando
il collega, “che sia raddoppiata la guardia su tutto il
fronte nord delle mura,
da Porta San Tomaso fino al torrione di Santa Sofia.”
“Ma
i nostri esploratori hanno detto che il la Peliza attaccherà
a
sud!”
“Sì,
ma non oggi né domani”, replicò
sibillino il provveditore.
Il
podestà sier Andrea Donado annuì pur non
comprendendo perché
proprio a nord dovessero rafforzare la guardia visto che le spie
riferivano le
mura sud come piano strategico del maresciallo francese; tuttavia,
confidando
nell’esperienza militare del concittadino,
s’affrettò assieme a sier Lunardo
Zustignan di recarsi a fornire ai soldati le ultime istruzioni del
provveditore.
Rimasto
dunque solo con la moglie, sier Zuam Paulo cercò perplesso
la spada, sussultando nel trovarla ben stretta dalle piccole e fini
dita di
madona Maria, che avvicinandosi a lui gli puntò contro gli
occhi battagliera.
“Voi
siete un gran testone, un orgoglioso, uno sventato.”
“Mo
via, mojer, no credo che …”
Maria lo
interruppe bruscamente. “Però siete anca un uomo
di
parola e di grandissimo cuore, sempre avete portato a termine gli
obiettivi
vostri e della Signoria”, gli rammentò e
incorniciatogli il volto tra le mani,
gli elargì un breve e deciso bacio. “Zuam Paulo,
per i nostri figli, che non
restino senza il loro sior Pare, giuratemi sì di farvi onore
ma anche di tornar
vivo e in un sol pezzo.”
Un poco
commosso e un poco stralunato, il patrizio annuì piano,
accarezzandole affettuoso i morbidi capelli sotto la cuffia di seta;
all’improvviso, tenendola delicatamente per la nuca,
ricambiò il gesto della
moglie, baciandola col medesimo ardente trasporto di quando
l’aveva posseduta
alla loro prima notte di nozze trentadue anni addietro.
“Mojer”,
le soffiò sulle labbra arrossate. “Non
angustiatevi per
me, bensì per quei disgraziati che s’avvicineranno
troppo a Trevixo …”
Allora
Maria Malipiero Gradenigo comprese.
***
“…
così, su richiesta del governatore e Gran Maestro di Milano,
l'illustrissimo
messire duca Gastone di Foix-Nemours, la Signoria Nostra ha
acconsentito di
condurre questa guerra da buoni soldati; che in caso di cattura di
saccomanni,
famigli o fanti, sotto giusto pagamento del riscatto noi garantiamo che
li si
lascerà andare, senza muover alcun torto sulla loro persona. Similmente
da voi vien richiesto medesimo cordiale e ragionevole atteggiamento.”
Jacques
de Chabannes de La Palice, Gran Maestro di Francia, terminava così di leggere la
missiva del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e consegnatagli da
un
emissario della compagnia di Vitello Vitelli, tal Michele da
Brisighella,
appena giunto all’accampamento di Montebelluna.
“Sicché
quando possiamo attenderci il ritorno dei nostri
prigionieri?”
“Quando
disporrete del danaro per il riscatto.”
“E
quando possiamo attenderci il vostro, di
danaro?”
“Quando
vi deciderete di rilasciare i nostri, di
prigionieri.”
Con la
scusa di voltarsi a meditare, La Palice scoccò una velenosa
occhiata a Mercurio Bua, che arcuò incurante un
sopracciglio: nonostante fosse
trascorsa ormai più di una settimana dalla caduta di
Castelnuovo di Quero,
ancora il greco-albanese si rifiutava di cedere
l’ex-castellano e di nominare o
una cifra per il suo riscatto o un nome per lo scambio. In aggiunta, a
causa
del crescente numero di prigionieri marciani catturati per merto o per
caso, la
prospettiva di diminuire le bocche da sfamare e pure incassare profitti
non
appariva malvagia, calmando gli animi irrequieti dei soldati, che
scalpitavano
d’attraversare la Piave per far razzie nella Patria del
Friuli.
“Li
avete visti fuori, nelle gabbie”, tergiversò cauto
il
francese. “Tutti coloro che abbiamo preso.”
Il
trombetta abbozzò ad un sorriso furbo.
“C’è un volto che ancora
non ho intravisto e in parecchi a Treviso desidererebbero ottenere
più dettagli
sulla sua attuale condizione.”
Al che
Mercurio s’intromise, inquisendo falsamente apprensivo:
“E
chi domanda di lui? La mogliera?”
“Il
fratello”, rispose spassionatamente Michele da Brisighella,
per poi rivolgersi al maresciallo: “La Signoria è
al corrente di come molti dei
vostri comandanti siano caduti suoi …”
“Il
maresciallo monseigneur La Palice non può in alcun modo
decidere della sorte del N.H. sier Miani”,
l’interruppe bruscamente
il Bua, non garbandogli la piega che stava prendendo quella
conversazione,
portandosi anzi davanti alla tenda alla stregua d’un feroce
can da guardia.
“Fui io a catturarlo e se si vuole negoziare della sua
liberazione, che sia con
me e me soltanto!”
In altre
circostanze, una persona qualsiasi si sarebbe ingobbita
sulla difensiva dinanzi a quella portentosa aggressività.
Invece, il trombetta
apparve sospettosamente compiaciuto di quello scatto di nervi.
“Indubbio.
Per questo ed altre questioni, il magnifico
provveditore generale di Treviso, il signor Gian Paolo Gradenigo mi ha
incaricato di portare tramite emissario la vostra risposta,
nonché la vostra
adesione ai desideri del duca e governatore di Milano,
l’illustrissimo Gastone
di Foix-Nemours, nipote del Re di Francia.”
“Il
provveditore desidera che tu ritorni assieme ad un nostro
messo?”
“Corretto.”
“Chi
ci assicura che non lo catturerete, magari torturandolo?”,
s’informò invece assai scettico Artus Gouffier,
signore de Boisy e duca di Roannez. “Sappiamo come chi finisce prigioniero a
Trévise, da lì non
ritorna se non in bara!”
“I
magnifici messeri miei capitani ci verranno di persona
incontro, a dieci miglia da Treviso in direzione Porta Altinia
… sud”, si
lasciò sfuggire Michele, mordendosi colpevole il labbro
inferiore, proseguendo
poi in fretta: “In questo modo il vostro uomo avrà
ogni occasione di fuggire.
Saranno portati lì anche i vostri soldati, se avrete i
danari pronti per la
taglia.”
“Questo
quando?”
“Se
riparto adesso, giungeremo anche oggi istesso a Treviso.”
“E
il provveditore lo sa?”
“Sa
tutto.”
Il
maresciallo La Palice rilesse meditabondo la missiva di
Gradenigo, cercando una falla in essa, un qualsivoglia indizio
d’inganno. Il
francese ben era al corrente dei recenti scrupoli del Foix-Nemours,
specie dopo
la rotta di Marostica, e in fin dei conti l’accordo sancito
con la Serenissima
non suonava insensato e svantaggioso. Senza contare che nelle stinche
di
Treviso languivano due suoi caposquadra che al maresciallo avrebbe
fatto comodo
riavere indietro, preferibilmente vivi.
“Sia”,
acconsentì, ripiegando la lettera. “Segui i qui
monseigneurs Jules de Saint-Séverin e Galéas
Pallavicino: ti porteranno dal tuo
compagno di viaggio. Quanto al provveditore e ai tuoi
capitani”, aggiunse La
Palice, scribacchiando e firmando un messaggio di risposta,
“puoi confermare
che siamo qui a compiere la volontà del nostro governatore e
della vostra
Signoria, ossia che questa guerra verrà condotta da
gentiluomini.”
Michele
da Brisighella abbozzò ad un inchino e pigliando la
lettera uscì dal padiglione assieme a Giulio Sanseverino, fratellastro del Gran Scudiero, e
al marchese di Busseto Galeazzo
Pallavicino, non senza aver lanciato una fuggevole occhiata al lenzuolo
steso
davanti al quale ancora vigilava Mercurio Bua, le braccia conserte e
arcigno in
volto.
Un
pesante silenzio calò nel padiglione.
“Cosa
ne pensate?”, s’espresse per primo de Boisy.
“Manterranno la
parola?”
Soffrey Alleman, signore
du Molard e barone d'Uriage, alzò a mo’ di resa le spalle.
“Né loro né
noi abbiamo scelta, così è stato accordato tra la
Serenissima e il nostro duc
de Foix-Nemours, a tutti noi non resta che obbedire.”
“Comunque
sia, meglio non sbilanciarci coi riscatti: pagheremo
solo quelli strettamente necessari, casomai proporremmo degli scambi
- di veneziani e stradioti ne abbiamo a
sufficienza”, disse La
Palice. “Ci sono questioni più pressanti cui
pensare: l’artiglieria non può
viaggiare in queste strade melmose, né attraversare i boschi
pieni zeppi di
contadini pronti a tagliarci la gola. Dell’Empereur
Maximilien e dei rinforzi
tanto promessi neppure l’ombra e malgrado abbia dato ordine
d’impiccare
chiunque attraversi la Piave, i tedeschi del capitano Jacob tuttora
sfidano la
mia autorità. Il pane scarseggia e se non fosse per i conti
di Collalto, che ci
riforniscono in gran segreto, a quest’ora ci sarebbe
già stata una rivolta. Ah,
e non scordiamo la più bella delle notizie: il provveditore
generale André Grit
parrebbe esser guarito dalla febbre e tosto rientrerà a
Padue, onde riprendere
l’ufficio e incontrare il nuovo governatore. Jean Gonzaga
ancora non si decide
a muoversi da Vicenza. Da Bayard a Ferrara ci giungono sempre meno
missive e ci
metterei la mano sul fuoco che dietro c’è lo
zampino di quel satanasso di
Frédéric Contarini. Ci stanno isolando e
più indugiamo in questo pantano, meno
chances avremo di vincere!”, concluse, battendo snervato il
pugno sul tavolo.
Sia du
Molard che de Boisy convennero gravemente.
“Timeo
Venetianos et dona ferentes”, sentenziò
ad un tratto
Mercurio Bua. “A forza di brigare in Levante, son divenuti
infidi come i
Turchi. Non conterei sulla costanza della loro parola, men che meno di
quella
di Zuam Paulo Gradenigo che non fa nulla senza un tornaconto
personale.”
“Dite
piuttosto, che ancora vi brucia l’esser stato pubblicamente
da lui rampognato, quando egli era comandante degli stradioti e vostro
superiore. Ah, e non scordatevi di Lorenzo Orsini degli Anguillara, che
anche
lui vi sconfisse sul campo!”, lo derise Teodoro Trivulzio,
nipote di Gian
Giacomo Trivulzio e antico compagno della famosa battaglia del
Garigliano tra
Spagnoli e Francesi, al che il greco-albanese gli elargì di
rimando un sinistro
sogghigno, per poi proseguire:
“Io
propongo d’attaccare. Adesso che Gradenigo, Vitelli e i due
Orsini sono fuori Treviso. Il trombetta ha detto che
s’incontreranno in
direzione sud, Porta Altinia? Perfetto, noi attaccheremmo da nord, a
Porta San
Tomaso!”
“E
con che, sentiamo?”, puntualizzò scettico Soffrey du
Molard, “non
possiamo trasportare i cannoni per via della pioggia e del fango.
Pensate
d’arrampicarvi come scimmie sulle mura?”
“Restano
pur sempre mura antiche …”, spezzò
Artus de Boisy una
lancia in favore del Bua. “Possono averle soltanto
rinforzate, costruirne in
poco tempo delle nuove è materialmente impossibile. Inoltre,
bisogna
considerare le abitazioni a ridosso delle mura scaligere e fuori
città, così
come i piccoli borghi limitrofi di Fiera, Melma, Santa Bona
… Basterà
occuparli, tagliare loro ogni via di comunicazione e da lì,
via fiume, far
arrivare l’artiglieria. Saranno loro, quelli
isolati.”
Era stato
quello il punto debole del Dominio di Terraferma:
terminata la signoria delle famiglie locali e sotto la vigile egida di
San
Marco, le città venete non avevano per anni più
avuto ragione di temere
attacchi esterni, godendo di una pace impensabile rispetto agli Stati
limitrofi
e pertanto le loro difese si presentavano arcaiche e inadatte alla
nuova
guerra. Treviso non versava in una situazione tanto diversa, salvata
solo dalla
fortuna di trovarsi in una valle fluviale insidiosa ma per il resto,
anche
tentando disperatamente di modernizzarsi, non avrebbe mai e poi mai
portato a
termine un’impresa così titanica.
“Le
mura ormai fungono da decorazione, la città si è
espansa fuori
di essa e non riusciranno in tempo ad evacuare gente e roba. E di certo
non
bombarderanno i civili. In questo modo, otteniamo alloggi, viveri e
scudi
umani”, terminò il greco-albanese, mostrando il
tragitto a La Palice e gli
altri comandanti. “Maresciallo, il vostro piano di attaccare
a sud può tuttora
considerarsi valido; ciononostante, se Gradenigo, Vitelli e Orsini
hanno deciso
di parlamentare proprio lì, significa che sospettano un
nostro attacco e
pertanto avranno raddoppiato la guardia, anche per evitare di venire a
loro
volta o catturati o uccisi.”
“Di
conseguenza, il fronte nord rimarrebbe sguarnito e facilmente
occupabile …”, concluse Teodoro Trivulzio.
“E’ audace come piano, capitano Bua,
ma avventato. Troppe incognite, non sappiamo neppure con precisione la
morfologia attuale di Treviso. E se vi sbagliaste? Potreste finire
catturato e
noi non possiamo permetterci alcun passo falso, non ora che non abbiamo
il
supporto immediato né dell’Empereur né
del Roi!”
Mercurio
arricciò furbescamente l’angolo della bocca.
“Ho il mio
angelo custode in questo inferno, signor Teodoro.
Mi
scamperà lui dalla prigionia”, e rivolgendosi
all’ancor dubbioso La Palice.
“Quanto al pane, abbiamo i mulini di Castelfranco: mandate
lì a macinare la
farina. Ci vorrà più tempo, però
quantomeno smetteremo una buona volta di
addobbare di Tedeschi i rami degli alberi.”
Giulio
Sanseverino e Galeazzo Pallavicino entrano nel padiglione.
“Il trombetta sta per lasciare il campo col nostro
emissario.”
“Gli
sono stati dati i danari per il riscatto dei nostri
caposquadra?”, s’accertò La Palice.
“Sì,
certo.”
Il
maresciallo serrò le labbra. “La vostra fama mi
è nota dai
tempi di Fornoue, capitaine Bua, e so che voi non elargite
suggerimenti, bensì
esponete decisioni già prese. Avete il mio permesso
d’attaccare Trévise secondo
il vostro piano, ma” e alzò la mano onde
interrompere il greco-albanese, “con
la vostra compagnia e nessun altro. Se fallirete, codesto fiasco
sarà
imputabile a voi e a voi solo. Perciò pregate che il
vostro angelo
custode valga abbastanza agli occhi della
Serenissima per accordarvi
la liberazione” e rivolto a du Molard e de Boisy:
“Quanto a noi, alle prime
luci dell’alba calcheremo ininterrottamente fino a Vicenza:
poiché Jean Gonzaga
non vuol venire con le artiglierie, saremo noi ad andar da lui a
prendercele.
Dovesse funzionare la strategia del capitano Bua, in meno di sette
giorni
saremo sotto le mura di Treviso.”
“Contro
quelle bellezze ferraresi non avranno speranza alcuna di
resistere all'assedio”, commentò sornione du
Molard. “Due anni e mai
conquistata. Sarà un piacere mettere Trévise al
sacco …”
***
Etienne
de Toulouse, il trombetta scelto dal maresciallo de La
Palice, cavalcava dubbioso e guardingo assieme agli altri cinque suoi
compagni,
circondati da ogni lato dai laconici soldati marciani: pur non
conoscendo bene
il territorio, ad occhio e croce poteva affermare che non si trovavano
a dieci
miglia da Porta Altinia e che quel casolare dai muri ricoperti di fango
fin
quasi al secondo piano e in esso mezzo sprofondato di certo non era
Treviso.
Michele
da Brisighella arrestò la marcia della silenziosa
comitiva, scendendo da cavallo. “Vieni”,
invitò il francese a scendere tramite
ampi gesti, affinché supplissero
all’incomprensione di due idiomi simili ma non
troppo. “Ah! E fai attenzione al …”
Un suono
gutturale, che ricordava il suggere ingordo di un
affamato intento a trangugiare una zuppa, interruppe il brisighellese e
strappò
contemporaneamente gridolini di sorpresa al tolosano e i suoi compari:
non
appena, infatti, essi avevano appoggiato i piedi nel terreno melmoso,
ecco che
affondarono fin quasi al ginocchio e per poco non ci lasciarono le
scarpe e
parte delle calze a causa di quella morsa fangosa.
Etienne
aprì sconvolto la bocca, cercando in Michele una risposta
a quel fenomeno da palude marcia, non della terra fertile da Paese
della
Cuccagna descrittagli dai superiori. Il soldato del Vitelli, invece, si
limitò
a scrollare beffardo le spalle, conducendolo dentro il casolare
là dove l’attendevano
sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri, Troilo Orsini e
Vitello
Vitelli.
Immediatamente,
Etienne li salutò con un complicato svolazzo alla
francese, che provocò una scintilla di ilarità
negli astanti.
“Meno
male”, commentò ironico il provveditore ai
condottieri,
“stavolta ce ne hanno mandato uno di buone
maniere!” Dopodiché istruì
l’interprete di tradurre le dinamiche dell’accordo
tra la Serenissima e il
governatore di Milano, nonché di discutere le
modalità di pagamento del
riscatto dei prigionieri francesi.
“Soltanto
due caposquadra?”, fece un poco deluso Renzo di Ceri.
“Pensavo che il tirchio in questa guerra fosse Massimiliano,
non il La
Palissa.”
“Forse
conta di liberarli da sé, gli altri prigionieri”,
gli
spiegò sottovoce Vitello Vitelli.
La bocca
del laziale s’arricciò perfida.
“Qu’est-ce
que cela signifie, que ce soir on va dormir
ici?”, esclamò ad
un certo punto un indignato Etienne
all’interprete, il quale, serafico, gli aveva tradotto le
disposizioni del
Gradenigo ovvero che la liberazione dei due caposquadra sarebbe
avvenuto
l’indomani mattina: oramai la sera era calata e la strada
troppo pericolosa per
un francese a zonzo da solo per la Marca, non sia mai che il vostro
maresciallo
possa sospettarci di spergiuro, dovesse accadervi qualcosa di assai
spiacevole
…
Inoltre,
che i signori qui stessero di buon animo: gli ottimi
soldati del capitano Vitelli li avrebbero tenuto eccellente compagnia
assieme
all’interprete, così da divenire tutti amici e
cicalare senza disturbo alcuno
in quel casolare a mezzo miglio da Treviso.
“Quoi?”,
si voltò disorientato Etienne verso i suoi
compagni altrettanto increduli. “Mezzo …
miglio?”
Com’era
possibile? Se erano in piena campagna, circondati dal
nulla! Non potevano essere così vicini senza aver scorto
neanche un villaggio o
case e …!
A meno
che …?
***
Appena
giudicò esserci abbastanza luce da distinguere le forme
davanti al proprio naso, Mercurio Bua scese dalla branda per prepararsi
alla
lunga cavalcata che l’attendeva, scegliendo accuratamente
quale armatura
indossare e quali armi portarsi appresso, il giusto equilibrio onde
evitare sia
di combattere troppo leggero e vulnerabile sia di perdere
l’effetto sorpresa.
Anche i padiglioni di La Palice, de Boisy e Giulio Sanseverino erano
illuminati, segno che sarebbero partiti pure loro quello stesso giorno,
ma
diretti a Vicenza.
“Così
te ne vai?”
“Ti
dispiace?”
“Stimo
nulla.”
In certe
occasioni, quel veneziano inquietava il condottiere, non
avendolo visto negli ultimi giorni né mangiare né
dormire (contrariamente al
puttino accanto a lui, una vera e propria bestiola facilmente
accontentabile)
preferendo piuttosto scrutare il greco-albanese pieno d’odio,
gli occhiacci
neri che assorbivano avidi ogni suo movimento. Fosse stato un uomo
superstizioso, Mercurio avrebbe ipotizzato che gli stesse lanciando una
fattura.
“Cuore
di pietra! Sul serio non t’importa saper la tua
città sotto
assedio?”, gli chiese beffardo, girandosi
acciocché il suo famiglio gli
stringesse gli ultimi lacci del corsaletto. L’avventuriero si
raccomandò
inoltre a Zilio di far da buona guardia al padiglione fino al suo
ritorno. “A
proposito, vuoi che ti porti qualcosa da Treviso?”
“Qualche
paio di mutande e una corda per andar a farti impiccare.”
Mercurio
cacciò un sospiro profondo, imponendosi di non lasciarsi
provocare di prima mattina dal giovane Miani – conserva
le energie! -
più tarmante di sua moglie nei suoi periodi peggiori e ce ne
voleva! Il
capitano scosse il capo, d’un tratto immalinconito: cosa non
avrebbe dato per
poter risentire la voce della sua diletta, quel mulo testardo dalla
linguaccia
lunga. “Ti lascio il moccoloso, così non ti
sentirai solo”, gli concesse
magnanimo, infilando i guanti di cuoio e allontanando dalla mente quel
bizzarro
paragone tra Caterina e Hironimo.
“Puoah,
come se tu fossi di alcuna compagnia!”
“Beh,
fra poco avrai quella di tuo fratello”, insinuò
casualmente
il greco-albanese, godendo del lieve sussulto apprensivo del patrizio
veneziano
- oh! finalmente una reazione che gli conveniva al
suo status di
prigioniero ... “E chissà, anche del Gradenigo e
degli altri tuoi concittadini.
Anzi, no, quel bastardo lo ammazzo proprio!”,
ridacchiò compiaciuto del proprio
ambizioso progetto. “Immagina lo sconcerto di Treviso nel
vedersi privata del
suo provveditore generale! Del suo grande eroe!”
Hironimo
emise a sua volta una risata gutturale. “Sei nato e
cresciuto sotto l’ala di San Marco, eppure ancora non hai
capito un’emerita
cippa di noialtri. Uccidi pure Gradenigo, se ti va. La Signoria
invierà un
altro provveditore generale. E un altro. E un altro ancora”,
sibilò feroce,
puntandogli contro gli occhi nerissimi. “Non esiste da noi
un eroe,
non se inteso come singolo individuo. Ché da noi
è la civitas l’eroe. Venezia
stessa è l’eroe. Voi non state combattendo contro
Gradenigo o il Serenissimo
Principe, voi avete mosso guerra a tutti noi, dal contadino al Doge! E
come
un’Idra, più teste ci tagliate più ne
spunteranno per divorarvi!”
Piccato
da quella saccente ramanzina e genuinamente non avendo mai
approfondito quell’aspetto della mentalità
veneziana, Mercurio ribatté: “Dunque
questo significa che anche tu ai fini della Signoria sei
sostituibile?”
Hironimo
abbassò il capo, il suo silenzio più eloquente di
qualsiasi risposta. Naturale che fosse spendibile, se necessario a
conseguire
la vittoria ultima contro i nemici. Dinanzi alla mancata richiesta di
un
riscatto da parte dei suoi, nella mente sempre più sotto
pressione del patrizio
incominciava a prender forma una tremenda teoria e cioè che
lui non valeva la
pena il rischio di patteggi troppo svantaggiosi. Qualcosa impediva alla
Signoria di rivolerlo indietro, qualcosa più importante di
lui.
Se da una
parte il giovane Miani soffriva orribilmente, sentendosi
abbandonato e tradito, dall’altra comprendeva la
necessità di quel sacrificio.
Non era stato d’altronde allevato così,
nell’atipica Venezia in cui l’individuo
diventa anonimo e al contempo celebrato nella sua grandezza? Invano
cercare fra
calli, campielli e campi un monumento, una statua,
un’iscrizione a gloria di un
eroe. Venezia onora solo i nemici sconfitti: a Palazzo Ducale
più che le gesta
di chi l’ha resa grande sono esposte a macabro trofeo quelle
di coloro che
hanno tentato distruggerla, monito e sfida al mondo intero. Una
società
governata con la medesima disciplina delle sue
galee, dove tutti –
patrizi, clero, cittadini e villani – devono remare al ritmo
del suo tamburo e
dove nessuno, neanche il Doge, è più importante
della Signoria o al di sopra
delle sue leggi.
Chi
s’era creduto di essere lui, Hironimo Miani, per aver
vagheggiato un diverso destino?
“Ripeterai
questo tuo bel discorso davanti all’Imperatore a
Treviso?”, l’incalzò il capitano di
ventura onde punzecchiarlo e ottenere una
reazione da parte del ragazzo, lo sguardo divenuto vago e lontano quasi
più
nulla lo tangesse. “O davanti al cadavere di tuo fratello? Ha
anche per caso
moglie e figli?”
Hironimo,
a fatica, si pose allora in piedi e approfittando della
vicinanza di Mercurio, anticipando ogni sua reazione gli
ghermì il volto,
baciandolo feroce e mordendogli le labbra fino a trar sangue.
“Nel
Levante lo chiamano ölüm
öpücüğü (bacio
della morte, ndr.) quando prima di un’impresa è il
nemico a dartelo. Che ti
possa portar ogni male, Mercurio Bua Spata, che ti possa
condurre alla
peggior morte.”
***
L’ozio
è la fonte di ogni vizio e un accampamento in attesa ne
è
perfetto crogiolo.
Per i
soldati franco-imperiali stanziati a Montebelluna si
trattava quindi di naturale prassi se di tanto in tanto tra di loro
deambulava
qualche prostituta, squadrandoli affamata alla ricerca di chi possedeva
sufficiente sostanza da saziarla di danaro. Nessuno lo giudicava
inconsueto o riprovevole,
men che meno a quell’ora ancora temprana del mattino;
terminato il trambusto
della concitata partenza del maresciallo e del capitano degli
stradioti, il
campo era ripiombato nella consueta indolenza tipica di chi ha lo
stomaco vuoto
e nulla d’importante da fare.
Una di
queste peripatetiche, piuttosto seccherella e con in testa
un buffo turbante alla turchesca, con le mani ai fianchi si
destreggiava tra le
varie tende dove dormicchiavano i soldati affamati e annoiati. Al
contrario,
ella appariva assai vispa e accorta, studiando bene ogni angolo del
campo e
similmente a lei subito erano divenuti svegli e attenti i prigionieri
marciani,
non appena la intravidero dalle loro gabbie improvvisate.
“Toi,
la gueuse,
qu’est-ce que tu fais ici? Non è posto per te, questo!
Vattene!”,
le berciò dietro il soldato posto di guardia.
Sennonché
la prostituta, invece di scoraggiarsi, prese ad
ancheggiare sensuale, suggendosi lasciva l’indice e
massaggiandosi il pube in
uno spettacolo sempre più grottesco finché
l’uomo, spazientito, non la spinse
via di malo modo, allontanandola di molti passi.
“Ah”,
fece lei connivente, strizzando l’occhio. “Dur … te
plé dur … et mua, scie lé tre dur
…”
“Quoi?”
Il
sorriso civettuolo della puttana cangiò in uno ferino,
sollevandosi le sottane rattoppate e prima che il francese potesse
gridare la
sua sorpresa nell’apprendere ciò che sotto vi si
celava, ecco che ricevette un
doloroso calcio al petto, sbattendo malamente contro la gabbia dei
prigionieri.
Dietro di
lui sbucarono rapidissime due mani lerce e robuste, che
gli s’aggrapparono alla sua fronte e mascella e mentre la
prostituta
s’inginocchiava a cercare le chiavi – ottima
posizione promiscua per
l’osservatore distratto - il suo complice da dietro le sbarre
spezzava l’osso
del collo della guardia, che s’afflosciò per
terra. Tocco finale, la finta
meretrice, trascinato via il cadavere davanti ad una poco distante
tenda
francese, gli pose tra le mani un lembo di una
sopravesta tedesca e
gli rubò la saccoccia col denaro, onde simulare un furto con
omicidio e dunque
esacerbare la reciproca diffidenza già vigente tra i
Collegati.
“Vio,
te val gnente chome putana!”, scherzò sottovoce
uno dei suoi
compagni d’arme, intanto che il ragazzino armeggiava col
lucchetto.
“Ma
va’ in mona de toa mare, quea gran vaca”,
replicò Vio
indispettito e rosso in volto, forzando la serratura e, accertatosi di
operare
senza testimoni scomodi, aprì la gabbia. “Vestate
ti da putana e po’ dime, caro
ti, se te riesse mejo!”
Silenziosi
e lesti come gatti, i prigionieri scivolarono via nella
semioscurità in direzione della selva, là dove le
loro spie li avevano
comunicato attenderli gli uomini di Domenico da Modone, incaricati da
sier Zuam
Paulo Gradenigo di seguire e riferire ogni passo dei franco-imperiali.
Già uno dei
suoi corrieri stava cavalcando verso Treviso e Padova, avvisando i
rispettivi
provveditori generali della sortita del La Palice a Vicenza.
Purtroppo
tutti non potevano liberare senza destare sospetti,
dovendo apparire le fughe come casi isolati e frutto
dell’iniziativa personale,
un po’ alla volta, ora all’alba, ora al tramonto,
ora tra gli spostamenti delle
truppe. Come aveva giustamente affermato lo stesso maresciallo, neanche
la
Serenissima poteva permettersi ogni riscatto.
“Teodoro,
razza di coglione, che fai?”, sussurrò irato uno
stradiota marciano al suo conterraneo, che, strisciando quasi, si era
portato
vicino ai cavalli. Poi, intuendo subitaneamente le sue intenzioni,
inquisì
perplesso: “Ma non è il cavallo di tuo fratello
Zilio?”
Teodoro
Madalo, della compagnia del capitano stradiota Manoli
Clada, annuì aspramente. “Esatto e se non ci
avesse partoriti la stessa madre,
altro che la sua cavalcatura prenderei a quello là
…!” e detto questo, con
moine e schiocchi della lingua, le quattro bestie lo seguirono
docilmente tra
gli alberi.
Sorse
infine l’aurora e riprese a piovere a dirotto.
Continua
…
*************************************************************************************************************
E
così incominciamo ad entrar nel vivo dell’assedio:
pur
scervellandomi, sinceramente non sono riuscita a trovare un motivo
logico di
quell’attacco da parte dei franco-imperiali; onde evitare
dunque di farli far
la figura dei cretini, ho delineato una forma di strategia, anche
tenendo in
considerazione che non esistevano i droni all’epoca e quindi
non potevano avere
conoscenze esatte del territorio, senza averlo prima esplorato. E
figurarsi se
si potevano avvicinare facilmente.
Inoltre,
siccome non mi piace tenere anonima la gente, ho voluto
dare un nome agli emissari sia francesi che marciani.
Il
prossimo capitolo, come già si è intuito,
verterà sul primo
attacco a Treviso. Come si concluderà? Bene? Male? Pari?
Alla
prossima e strano ma vero, stavolta niente note finali! XD
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Capitolo 8 *** Capitolo Settimo: 5-6 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l'11.09.2021
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Capitolo
Settimo
5 (segue)
– 6 settembre 1511
Per un
istante, Mercurio Bua e Leka Busicchio credettero aver
sbagliato strada.
Dall’alba
avevano cavalcato ininterrottamente finché il terreno
scosceso e irregolare delle colline si era livellato nella pianura,
senza
tuttavia imbattersi in alcuna resistenza né attacco, fattore
bizzarro
ripensando a tutti gli agguati ogniqualvolta mettevano il muso fuori
Montebelluna.
Ad
aumentare il loro disorientamento s’aggiunse inoltre la
crescente desolazione che li circondava man mano
s’avvicinavano alla loro meta,
notando in lontananza le case vuote e i piccoli paesotti deserti, che
si
diradavano e lentamente sparivano in rovine diroccate e non dai colpi
di
cannone.
Sembrava
… gli edifici sembravano quasi smantellati.
“Cristo
Santo …! Cos’hanno fatto qui?”, udiva
mormorare Mercurio i
suoi uomini, basiti. “Ch’è
successo?”
E se
ciò li aveva turbati, nulla allora avrebbe potuti
adeguatamente prepararli allo spettacolo offertogli una volta giunti a
Treviso.
Di essa
Mercurio possedeva vaghi ricordi, essendoci passato brevemente
ai tempi di Fornovo, eppure era sicuro di non aver sbagliato luogo,
ché Treviso
se la sovveniva circondata da mura medievali dette a secco, alte e
snelle e
munite di molte torri da cui si accedeva tramite dodici porte. Otto
ampi e
popolosi borghi si diramavano da esse, brulicanti di case, negozi,
chiese e
monasteri, costringendo il perimetro del cuore cittadino
all’antico e
sovraffollato Cardo Maximus d’epoca romana, intricatosi nel
corso dei secoli in
uno sconclusionato dedalo di strade e abitazioni una sopra
l’altra, da cui
svettavano i campanili delle numerosissime chiese.
Invece,
agli occhi sconcertati degli stradioti le mura cittadine
si presentavano assai ridotte in altezza, costruite a terrapieno e
rivestite da
una spessa muraglia in laterizio e decorate a due terzi
dell’altezza da un
cordolo di pietra d’Istria, controventate da spalti esterni e
spianate dal
raggio di circa un miglio (pari al tiro delle più grosse
artiglierie) che aveva
comportato la demolizione integrale di quei borghi extra moenia, di
loro
rimasto qualche sparuto scheletro annerito dal fumo e non ancora
interamente
smantellato. Le porte, appurò il greco-albanese contandole
freneticamente,
s’erano ridotte almeno da quanto vedeva a due,
dimodoché Treviso apparisse coi
suoi tozzi bastioni più larga, massiccia, minacciosa e
impenetrabile, protetta
dalla Botteniga e dal Sile, spalti, fosse e cunette. Agli assedianti
non s’era
lasciato un angolo dove ripararsi né per accamparsi o
posizionare in tutta
tranquillità i cannoni. Mercurio aveva adocchiato un
monastero, tuttavia troppo
vicino alla porta cittadina da non sospettare che fosse tenuto
sottotiro.
Costantemente
sotto tiro. E pensare che ancora erano incomplete!
Quale fortezza avrebbe partorito Treviso, ad opera compiuta?
Un
brivido freddo percorse la schiena del capitano di ventura, le
budella attorcigliate da un oscuro presagio già di suo
fomentato dal malaugurio
invocato su di lui dal giovane Miani; il fango, poi, che gli zoccoli
dei
cavalli sollevavano scalpitando non lo rassicurò, semmai
esacerbò la sua
convinzione che, forse, avevano sottovalutato la determinazione del
nemico,
novello Sansone [1].
“Cosa
senti?”, volle il Bua l’opinione
dell’altro comandante, il
quale studiava anch’egli apprensivo l’imponente
silhouette delle mura stagliatesi
ancor più scure in controluce, il vessillo dorato di San
Marco intrecciato a
quello cittadino di Treviso, a croce d'argento accantonata in capo da
due
stelle di otto raggi, su sfondo rosso.
Mercurio
diede ordine di tenersi ben distante, così da rimanere
fuori dal raggio dei cannoni.
“Niente”,
gli rispose Leka Busicchio, umettandosi nervosamente le
labbra d’un tratto divenute secche. “Non odo
assolutamente niente.”
Il
capitano di ventura si morse l’interno della guancia.
“Appunto,
è troppo silenzioso qui … Dove sono le
sentinelle? Dove sono tutti?”
“Sul
fronte sud, come avevamo previsto!”
L’uomo
scosse il capo. “D’accordo, ma il provveditore
Gradenigo
non può aver lasciato sguarnito completamente il
lato nord.
Non avrebbe senso …”
Nessun
rumore infrangeva l’aria frizzante di fine estate, se non
il vento sverzante che aveva sostituito la pioggia mattutina e che
ingrossava
capricciosamente gli stendardi. Dalla compatta cinta muraria non
s’udiva né
vociare di soldati né i cigolii delle ruote dei cannoni e
dei carri, men che
meno lo scalpiccio dei cavalli e i loro nitriti.
Nulla, un
silenzio mortale, come se Treviso stesse emulando le
limitrofe montagne.
“Sarà
meglio portarci a quel monastero e avvicinarci a Porta Santi
Quaranta”, suggerì Leka al conterraneo, facendo al
contempo cenno alla sua
compagnia di muoversi. “Restiamo comunque sotto tiro
… Se solo riuscissi a
capire quante cannoniere hanno …”
“Ritorniamo
all’accampamento”, l’interruppe Mercurio.
“Qui non
finisce bene.”
“Ma
come?”, protestò Leka. “Dopo
l’intera cavalcata fin qua, te ne
vuoi andare così, senza aver concluso nulla?”
“Abbiamo
comunque ottenuto informazioni sulla struttura difensiva
di Treviso, che possiamo riferire a La Palice una volta ritornato da
Vicenza!”,
ribatté altrettanto adirato il Bua. “Pensi che
abbandonerei così su due piedi
un’impresa senz’alcun valido motivo?”
“Possiamo
spingerci più ad est, verso …”
All’inizio
pensarono trattarsi dell’ennesimo sibilo di vento,
sennonché le loro orecchie oramai smaliziate a tali rumori
riconobbero quel
fischio e impallidirono all’improvvisa comparsa di una
ballotta di quasi 2 palmi, lanciata chissà dove ché non un filo di
fumo si librava dalle cannoniere.
L’effetto
rimase comunque devastante e non trovando la palla alcun
ostacolo dinanzi a sé, essa viaggiò ancora
più lontano e veloce, falciando e
disperdendo la colonna di stradioti che ancora non s’era
allontanata dal suo
raggio.
Quale,
però?
“Ripiegate!
Ripiegate!”
Una
seconda palla di cannone, subito seguita da una
terza li colpirono nuovamente con inquietante
precisione, seguendone
i passi alla stregua di un’ombra mortifera.
Dove? Da
dove stavano facendo fuoco?
***
Il
cucchiaio cadde di mano ad Etienne de Toulouse e con lui ai
suoi compagni, impegnati a terminare il pasto offertogli dai loro poco
rassicuranti anfitrioni i quali, bisogna però dire, pur
avendoli tenuti sotto
strettissima sorveglianza non avevano in alcun modo attentato alla loro
persona,
sicché il tolosano e gli altri suoi compatrioti avevano
potuto riposare qualche
oretta e perfino godersi il primo vero pasto decente dopo settimane di
cibo
immangiabile.
Il rombo
dei cannoni ruppe tuttavia quella fragile bolla di
tranquillità e i soldati francesi si guardarono allarmati
l’un l’altro,
incapaci di comprendere quanto stesse accadendo fuori dal casolare.
Potevano
immaginare, sicuro, ma il timore della conferma li impediva
d’interrogare
quella sfinge dell’interprete.
La
novità giunse loro ugualmente nella furibonda persona di
Michele da Brisighella, avanzante verso di loro con la daga sguainata e
occhi
iniettati di sangue.
“Cani
fottuti!”, inveì loro contro e fendette
l’aria con la lama,
al che i francesi balzarono in piedi onde usare le dozzinali sedie a
guisa di
scudo, maledicendo la perquisizione del giorno addietro e il
consecutivo
sequestro dalle loro armi. “Così rispettate i
patti? Parlamentare per voi
corrisponde ad attaccare alle spalle? Vili canaglie!”
A nulla
valeva la presenza dell’interprete, ché Etienne
pur non
comprendendo la lingua dai gesti violenti e collerici di Michele aveva
ben
afferrato la gravità della situazione sua e dei compagni;
ciononostante,
confidando nella sua effettiva innocenza, tentò ugualmente
di riportare il brisighellese
a più miti consigli:
“On
ne savait rien! Je te
le jure! On ne savait
rien de cet attaque !”, si difese, incrociando e
sciogliendo le mani onde reiterare il concetto. Richiamando alla
memoria
frammenti di parole veneziane captate di qua e di là da
prigionieri e
traduttori, il tolosano sbrodolò in affanno:
“Gnente … gnente …”
Michele
da Brisighella non si commosse. “Infame traditore
d’un
mangiarane, chi vuol sentire le tue patetiche scuse?”, e gli
cacciò un pugno
dritto al naso, spaccandoglielo, per poi avventarsi coi suoi compari
sugli
altri francesi inermi.
Fuori dal
casolare, il capitano Vitello Vitelli assisteva al tutto
dalla finestre, sorridendo compiaciuto, assai divertito dalle doti
recitative
dei suoi soldati.
Per poco,
mano sul cuore, a quel teatrino ci cascava pure lui.
***
A gran
fatica Mercurio riuscì a domare il panico vigente tra i
suoi stradioti e a costringerli a raggrupparsi così da
riparare dietro gli
scheletrici ruderi degli edifici non ancora interamente abbattuti, quel
tanto
che bastava a tirarsi fuori dalla gittata dei cannoni e decidere sul da
farsi
prima di finire impallinati alla stregua di anatre selvatiche.
L’unica
soluzione papabile comprendeva l’immediata e indiscussa
ritirata a Montebelluna; il Bua, infatti, non desiderava arrischiarsi
di
testare fino a quando i marciani avrebbero continuato a bombardare,
ignorando a
quanto ammontasse il loro approvvigionamento in fatto munizioni.
Malgrado
avesse notato come esse fossero saltuarie ma ben mirate, quasi si fosse
dato l’ordine
di non sprecare alcun colpo, ciò non corrispondeva ad una
prova concreta,
contrariamente a quanto accaduto a Castelnuovo di Quero, dove
là sì che il suo
ex-castellano aveva dovuto lesinare sull’utilizzo delle
bocche di fuoco per
ovvia penuria di ballotte e polvere da sparo. Infatti, il
greco-albanese s’era
accorto di come dalla mezzaluna di San Bartolomeo avessero cessato di
sparare,
riprendendo invece dal torrione angolo di San Marco a protezione di
Porta Santi
Quaranta, dove egli, con un’abile finta, aveva condotto i
suoi stradioti,
disorientando per qualche attimo i marciani, che avevano creduto
volersi
nascondere dietro i ruderi davanti al rivellino di Porta San Tomaso.
Piccolo
vantaggio atto solamente a riprendere fiato. Onorando il
suo soprannome – l’Occhio Destro
di Venezia – Treviso per
davvero sembrava possedere mille occhi che tutto scrutavano e
seguivano, degna
emule di Argo Panoptes [2].
A
peggiorare la già complicata situazione, il cielo
s’era oscurato
in un tremendo grigio fumo e il vento aveva cessato di flagellarli,
sicché le
ballotte viaggiano ancor meglio. Un nauseabondo odore di terra putrida
e di
fogna ammorbò l’aria dal sentore metallico e
foriero del temporale,
costringendo Mercurio a valutare una strategia di fuga adeguata onde
sfruttare
al meglio la prossima tempesta, che non giovasse solamente agli
assediati.
“Il
tiro è a raggiera”, delucidò il
capitano di ventura al suo
collega Leka Busicchio. “E la gittata è ad occhio
e croce di mezzo miglio
abbondante, se non oltre. Bisogna ritirarsi retrocedendo, solo
così la
scamperemo, oramai non ci è più possibile
riprendere la medesima via da cui
siamo arrivati. Ci stanno costringendo verso il Montello, là
dove ci attendono
quelle bestie feroci dei loro contadini. Porco Giuda
maledetto!”, imprecò
frustrato, digrignando i denti ed espirando rabbioso. “Ti
giuro, Leka, che se
quella troia rotto-in-culo-suggia-cazzi di Giovanni Gonzaga non ci ha
rifornito
di quanti più cannoni possibili, mi aggrego alla spedizione
a Vicenza per il
mero gusto di fotterlo a fondo col sabbione, finché non
diventa femmina!”
Busicchio
non lo mise in discussione per un istante, convenendo
quanto Mercurio fosse capacissimo d’attuare quella colorita
minaccia. Chi si
scordava più della sua furibonda e sfacciata ramanzina
propinata allo
sbigottito Imperatore?
“Al
maresciallo cosa diremo?”
“Che
quel gran furbo del provveditore Gradenigo ci ha ben fregati.
Ora, voi tutti”, intimò ai suoi uomini,
“dopo questa ballotta, spronate i
cavalli in direzione di …”, ma un fischio acuto e
stridulo lo interruppe
bruscamente, centrando appieno le rovine del monastero dietro cui
s’erano
riparati, il quale crollò in un gran boato, polvere e
schizzi di acqua melmosa
ovunque, annebbiando loro visuale.
“Hanno
cannoniere alla base dei torrioni?”, proruppe Leka a gran
voce, trillandogli le orecchie dal riverbero del botto infernale,
impedendogli
di udire un altro fragore, stavolta meno meccanico però
altrettanto mortale.
Grida di
battaglia.
Diradatasi
quella nebbia artificiale di polvere, fumo e fango, per
un attimo Mercurio giurò d’aver scorto Porta Santi
Quaranta aprirsi,
approfittando della confusione generata dall’ultimo sparo;
forse un miraggio,
non reale come invece era la colonna di cavalleggeri che li stavano
caricando
simil mandria di tori imbizzarriti. A capo di essi,
il greco-albanese individuò Teodoro
Clada e Giovanni Paleologo, affiancati da altri cavalieri marciani.
“Ritirata!
Ritirata!”, gridò il capitano Busicchio,
confidando nei
pronti riflessi della sua compagnia e nella lontananza del nemico.
“In
formazione, invece!”, ruggì Mercurio il
contrordine,
replicando aspro all’occhiata interdetta del collega.
“Non ho mai voltato le
spalle al nemico; perdio, non incomincerò certo da oggi, men
che meno davanti
ad un Paleologo!”, e a quel nome sputò per terra
pien di
disprezzo. “Se oggi il destino ha disposto
che finisca all’inferno,
quant’è vero Iddio quegli scalzacani seguiranno
meco!” Impugnò forte la
zagaglia e sistemata bene la targa, incoraggiò i compagni:
“Avanti! Il peggior
biasimo è quello della nostra gente! San Giorgio! San
Giorgio!”
Gli
stradioti ulularono la loro approvazione - San
Giorgio! San Giorgio! - e in
breve da fuggitivi si
trasformarono in avversari, venendo incontro ai loro parenti
altrettanto
bramosi di battaglia, il dente avvelenato per quel che ambedue le
fazioni
consideravano un reciproco tradimento: all’inizio di quel
sanguinoso conflitto,
i medesimi stradioti avevano tentennato durante gli scontri, consci di
fronteggiare i propri famigliari e non avendo cuore di ucciderli se non
costretti, ad ogni occasione avevano preferito catturare e i disarmare
i
compatrioti. Mercurio stesso più volte aveva contattato i
parenti e antichi
colleghi nella speranza di portarli dalla parte dei Collegati, talora
riuscendoci talora ricevendo secche repliche di rifiuto. Adesso
però, trascorsi
due anni, gli stradioti alle parentele curavano di meno, badando a
conservare
la condotta e soprattutto le proprietà e i privilegi
assegnati alle rispettive
famiglie a Venezia a seguito della progressiva
diaspora dalle loro
terre assoggettate dai turchi. Se in passato, infatti, solo i
condottieri
salpavano per tentar la sorte in guerra e ritornavano dalle famiglie
col
compenso, ora anch’esse seguivano i loro uomini, chiedendo
questi profughi di
conseguenza speciali concessioni alla Serenissima, la quale tanto
generosamente
gliele elargiva e tanto rapida sapeva toglierle se di loro
insoddisfatta.
L’impatto
tra i due contendenti rimbombò col fragore di un tuono,
forse non avendo confidato gli stradioti marciani in un simil disperato
gesto
da parte di quelli franco-imperiali, supponendo al contrario di doverli
rincorrere più che affrontare.
Nondimeno,
il loro intontimento durò un fuggevole istante e
caricarono feroci onde rompere la formazione avversaria e disperderli;
in
particolare, si premuravano di disarcionarli, un po’ come
nelle giostre, al che
d’afferrare le redini dei cavalli rimasti senza padrone e
legare gli appiedati
con un laqueus.
A
Mercurio parve allora evidente come il loro obiettivo primario
fosse la maggior acquisizione di prigionieri e siccome gli stradioti
marciani
pressavano nella sua direzione, capì trovarsi egli il primo
in lista.
Un moto
d’incontrollata stizza gli scosse le membra –
maledetto,
maledetto Gradenigo! Lo aveva aspettato, l’intera sceneggiata
delle
negoziazioni un mero pretesto per attirarlo in quella trappola
appositamente
preparata per lui, memore ancora della sua natura temeraria e
opportunista
malgrado i quattordici anni trascorsi dall’ultima volta in
cui avevano
combattuto assieme. Il provveditore sapeva che il Bua non si sarebbe
lasciato
scappare quella ghiotta occasione e ogni parola, perfino il lapsus,
riferita
dal trombetta era stato un accurato studio d’inganno.
Un’isterica
risata sfuggì dalla bocca contratta del capitano:
ironicamente, si sentiva lusingato da tanta premura, dimostrando come,
tra
tutti i comandanti nemici, Gradenigo avesse gran fretta di metterlo
quanto
prima fuorigioco, reputandolo il più pericoloso. E il
bastardo aveva
perfettamente ragione, poiché la sua cattura non sarebbe
corrisposta ad un
affare indolore.
Stringendo
la zagaglia, Mercurio spronò il cavallo e puntò
con
precisione contro il cavaliere marciano che gli stava venendo addosso
– povero
sciocco, che credeva d’ottenere? Il
capitano di ventura neanche gli
concesse tempo d’accorgersi del suo arrivo, che gli
lanciò la zagaglia contro
con gran possanza, colpendo in pieno la targa e spaventato di
conseguenza il
cavallo, che nitrendo acutamente inciampò e si
piegò in avanti, cosicché il suo
cavaliere si ritrovò da esso sbalzato e rotolante nel fango.
Non pago di quella
vittoria, tali cortesie lasciamole alle giostre, il Bua
agguantò una zagaglia
rimasta conficcata per terra e l’alzò per colpire
il veneziano, il quale si
rimetteva in piedi con grandi difficoltà, barcollando e
molto probabilmente
frastornato dalla caduta, con la melma fin quasi alle ginocchia.
Avvertita
la presenza dello stradiota, il cavaliere evitò
l’affondo gettandosi prontamente fuori dal tiro
dell’avversario; risvegliatosi
dal torpore iniziale grazie allo scorrere impazzito
dell’adrenalina , estrasse
la spada e impavido attese che il Bua lo caricasse di nuovo.
Bravo, pensò perfido Mercurio, stattene
lì
fermo ad attendere la morte! E si preparò
a impironarlo, sennonché in
un lampo egli non solo si vide disarmato, ma gli venne frantumata anche
la
targa da una lancia.
Per puro
miracolo e per la saldezza della sua montatura Mercurio
riuscì a rimanere sul suo cavallo, assorbendo
l’impatto abbastanza da rimanere
in equilibrio e allontanarsi dal suo nuovo avversario, dimentico di
quel
fortunello cui era stato concesso di vivere ancora qualche giorno.
Sguainando
la spada e disfacendosi dello scudo oramai inutile, il capitano
girò il cavallo,
pronto alla pugna e similmente lo era il suo avversario, la cui
tracotanza fu
tale, da impirare la lancia per terra ed estrarre a sua volta la sua
lama.
Incerto
se congratularsi per il coraggio o sfotterlo per la sua
sventatezza, Mercurio si concesse un breve istante per studiare quel
pazzo
sconsiderato davanti a sé, non trovando in lui
alcunché di minaccioso o
misterioso,un anonimo cavalleggero in groppa ad un corsiero bianco
latte che
mordeva impaziente il freno.
Peggio
per lui.
I due
cavalieri si curvarono sul dorso dei rispettivi cavalli e
corsero ad incontrarsi. Mercurio levò la spada per colpire
alla spalla
l’avversario, ma l’agile corsiero di
quest’ultimo si drizzò sulle zampe e gli
volteggiò davanti in maniera così imprevista che
il veneziano riuscì a
strisciare la punta della lama sul corsaletto del greco-albanese, che
dovette
rinculare in fretta, stupito da tanta rapidità.
E sempre
improvvisamente, il cavaliere si spinse di colpo quasi ad
abbracciare il condottiere, che tentò per difendersi di
calargli un fendente
sul capo, subito però bloccato dal nemico, conseguendone in
una prova di forza
tra i due, chi possedeva maggior vigore nel braccio da non solo
sciogliere il
nodo di lame ma anche di spingere i lati affilati contro il viso e la
spalla dell’altro.
Di primo
acchito risultava Mercurio il vincitore di quella
contesa, imprimendo una forza tremenda e costringendo il veneziano ad
arcuare
la schiena all’indietro, sopraffatto. Sennonché,
raggiunto il punto di massima
tensione, ecco che questi scattò in avanti come una fionda,
elargendo una
poderosa testata al Bua, che, sia a causa dello stordimento che della
furia
cieca, di rimando colpì il cavaliere talmente forte da
levargli la spada parata
a difesa con un riverbero doloroso, al punto che il veneziano
cacciò un mugolo
di dolore. Allorché il greco-albanese s’accinse ad
un secondo fendente, l’altro
si piegò all’ultimo, estraendo dalla fusciacca un
qualcosa di sottile e
luccicante.
Ad urlare
fu dunque il turno di Mercurio, i nervi impazziti che
gli offuscavano la vista e gli facevano fischiare le orecchie. Quando
credette
di poter riaprire gli occhi appurò con orrore il sangue
scorrere grasso e
languido lungo il lato scoperto della sua coscia, tratto dai mortiferi
pugnali
berberi giunti a Venezia assieme ai vari carichi di merci e schiavi. Si
diceva
fossero così leggeri e sottili da poterli infilare nelle
maniche più strette,
risultando al contempo talmente affilati da provocare la morte con
estrema
rattezza.
Di
riflesso il Bua si pose una mano sulla ferita, con l’altra
stringendo la spada, ostinato a combattere. Il cavaliere veneziano,
invece,
serbava per lui altri progetti e giostrò il cavallo in modo
da fargli perdere
l’equilibrio e non soddisfatto, con lo scudo lo
colpì dritto in faccia al che
il capitano di ventura ruzzolò per terra dentro una pingue
pozza di fango,
sconfitto. Nella caduta a faccia ingiù Mercurio
ingoiò suo malgrado acqua e
fango, tappandoli bocca e nari al punto che si sentiva soffocare,
impantanato
nella terra acquitrinosa che subito lo abbrancava avida.
Il
cavaliere veneziano, appurata la vittoria, staccò allora dal
terreno fangoso la sua lancia e la conficcò appena appena
sulla spalla del
condottiero, non tanto da ucciderlo né ferirlo gravemente,
giusto per levarsi
la soddisfazione di torturarlo un po’. Ché quando,
sceso da cavallo e infilata
la spada di Mercurio nella propria fodera vuota, il cavaliere
alzò la celata,
l’uomo s’imbatté in un paio di occhi
nerissimi, che mai in vita sua avrebbe
scordato.
Destino
beffardo, invero! Aveva promesso ad Hironimo di portargli
prigioniero il fratello e invece da questi era stato battuto! Quella
peste
bubbonica per davvero gli aveva appiccato contro la malasorte!
“Et
cussì, sistu un Miani? E qual? El Strùpio
(storpio, ndr.)?”,
rise il greco-albanese, sperando così di provocarlo ad
uccidere, ché Mercurio
non aveva intenzione di lasciarsi prendere, no, non da vivo! Anche se
non
avesse mai più potuto riabbracciare la sua Caterina e la
piccola Marietta,
almeno loro avrebbero appreso della sua morte onorevole, con la spada
in mano,
piuttosto di vederlo arrivare a Venezia in catene. “Scommetto
che mi vuoi
catturare, per chiedere uno scambio e così liberare tuo
fratello. Ti manca,
nevvero? Vuoi sapere come sta”,
infierì malevolo. “Tranquillo, il
tuo caro piccolo Hironimo è tratto col massimo rispetto.
Certo, mi scalda il
letto ogni notte, dovresti vedere come piange quando lo monto da
dietro: sembra
una fanciulla alla sua prima notte di nozze …” e
attese la sfuriata.
Ne rimase
deluso: il Miani era invece rimasto in strano silenzio,
piegando la bocca in una smorfia inquietante e sempre senza proferire
parola
avanzò verso di lui. E una volta che l’ebbe sotto
di sé, col piede gli premette
sulla coscia ferita mentre in sincronia perfetta rigirava la punta
della lancia
conficcata nella sua spalla, al che Mercurio credette
d’impazzire dal dolore,
finché il corpo ad esso cedette ed egli non seppe
più nulla. Il veneziano solo
allora cessò di tormentarlo e allungò un braccio
per ghermirlo, quand’ecco che
alle sue spalle lo stesso cavaliere che il Bua aveva disarcionato gli
gridò:
“Sier
Marco, sté zoso!” e lo scatto del meccanismo della
balestra
fendette l’aria, impiantandosi nel collo dello stradiota che
stava per
decollare il Miani alle spalle. La sua morte comperò tempo
ad un secondo
stradiota che approfittando della confusione caricò il
veneziano, il quale
riparò in fretta e furia balzando in groppa al suo corsiero,
perdendo tuttavia
Mercurio, prontamente issato da Leka Busicchio che spronò il
proprio cavallo
alla stregua d’un ciuco, galoppando via rapidissimo.
“Ritirata!
Ritirata!”
Dal
dispetto, Marco Miani degolò lo stradiota
dinanzi a
sé, battendo gli speroni sui fianchi di Eòo onde
tallonare quel maledetto e
ripigliarselo; purtroppo neppure la nobile bestia riuscì
nell’impresa. Certo, i
marciani inseguirono fin quasi alle pendici del Montello i nemici
sconfitti,
catturando ulteriori uomini e cavalli, ma la preda che il patrizio
voleva già
aveva spiccato il volo, svanendogli da sotto il naso anche a causa del
violento
temporale scatenatosi e della fitta pioggia che gli ostacolava la
visuale e
rallentava Eòo a furia di rimpinguare il terreno oramai
saturo.
“Sier
Marco”, lo richiamò Giovanni Paleologo, fermandosi
dinanzi
l’entrata della selva, “dobbiamo rientrare a
Treviso. Che siano i contadini lì
nascosti a finirli!”
Un’implosione
di collera bruciò nel petto di Marco, il quale
aprì
la bocca in un ruggito nato muto, maledicendo il Bua, i
franco-imperiali e
tutta quella razza bastarda d’invasori, le dita strette
convulsamente all’elsa
della spada vinta a Mercurio, che a sua volta l’aveva
sottratta ad Hironimo,
conservandola come trofeo.
“Radunate
i vostri uomini assieme ai cavalli e i prigionieri
catturati”, istruì egli il Paleologo, lanciando
un’ultima occhiata alla fitta
vegetazione boschiva: volesse il Cielo che quei dannati
s’imbattessero nei
contadini, finendo impiccati a testa ingiù come fagiani!
Sotto
alle mura di Treviso, Marco individuò ed afferrò
il vessillo
della compagnia di Mercurio Bua: alla festa della Madonna fra tre
giorni,
l’avrebbe offerto all’altare della Patrona, nella
speranza che gli desse forza
e consiglio, che la disperazione e l’ansia per la sorte del
suo Momolo non li
straziassero più l’anima.
Avrebbe
trovato il modo di liberare il suo fratellino, Iddio gli
era testimone che l’avrebbe trovato, a qualsiasi costo!
***
Sier Zuam
Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e Vitello
Vitelli entrarono ieratici e solenni nel casolare, le espressioni gravi
e
rammaricate dirette ai prigionieri francesi lì legati e dai
visi gonfi di
botte, tenuti al guinzaglio da un sornione Michele da Brisighella.
“E
cussì xélo questo el modo de parlamentar
d’i Franzosi? Atacar
drio le spale? Tanto ve rempite ea bocha de parolle chome honor,
vertù,
cavalaria, et tuto quel che volé, ma a la fine, vuj seti
‘na banda de can
sassini, viliachi et pure onti e straonti.” (unti e straunti,
ndr.)
“C’est
ainsi que vous les Français …”,
iniziò a tradurre
l’interprete, sennonché Etienne de Toulouse lo
interruppe, protestando la sua
estraneità all’attacco appena avvenuto.
Purtroppo
per lui, le orecchie del provveditore non erano ben
disposte a sorbirsi ulteriore francese, intimandogli di zittirsi con un
secco
gesto.
“Grazie
a Domine Iddio e alla Vergine Maria, Treviso si conserva
intatta a San Marco: in caso contrario, le vostre sarebbero state le
prime
teste a cadere!”
I soldati
francesi deglutirono alla mimica perfetta del
provveditore.
“Ora
ascoltatemi bene” e s’avvicinò ad
Etienne de Toulouse,
annodandogli al collo a mo’ di fazzoletto lo stendardo
insanguinato dei gigli
di Francia, “uno di voi ritornerà
all’accampamento di Montebelluna e riferirà
al vostro maresciallo monsignor de la Palice, che se vuole venire qui a
Treviso, faccia pure, noialtri non aspettiamo altro. In aggiunta, se
vorrà
indietro i suoi uomini, monsignore dovrà sborsare doppia
taglia per
il suo inganno. In questo modo, imparerà a suo danno che con
la Signoria non si
scherza.”
Al cenno
del suo capitano, Michele da Brisighella sciolse i nodi
che legavano Etienne dai suoi compagni ed ignorando i disperati
richiami di
essi, lo spinse via dal casolare.
“E
voialtri”, ringhiò minaccioso Gradenigo,
“considerate la vostra
vita ostaggio della Signoria: pregate la Vergine acciocché
il vostro
maresciallo s’astenga da altre monade (cazzate, ndr.),
perché vi riavrà
indietro, sicuro, ma un pezzettino alla volta!”
Detto
questo sier Zuam Paulo uscì seguito dai capitani, beandosi
della vista, mentre s’avvicinava a galoppo a Treviso, della
fila di prigionieri
e cavalli condotti all’interno della città. Un
quarto dell’intera compagnia del
capitano di ventura greoco-albanese - non male come
risultato.
“Il
Bua non c’è”, commentò deluso
Renzo di Ceri, storcendo la
bocca. “Su questo punto abbiamo fallito.”
Vitello
Vitelli sospirò profondamente. “Bisognava tener
conto
anche di questa possibilità. I suoi l’avranno
difeso strenuamente, pur
d’evitargli la cattura!”
“Per
quanto sia frustrante, qualcosa abbiamo ottenuto”,
ribatté
Gradenigo e all’occhiata inquisitiva degli altri due,
spiegò: “Oggi abbiamo
inculcato al terribile Mercurio Bua del sano e mai abbastanza timor
di
Dio. Non oserà più questi
colpi, non con noi, non qui a Treviso,
poiché sa che sotto le nostre mura l’attende solo
la morte. E senza i suoi
slanci arditi e imprevedibili, La Palice non potrà
più - tatticamente parlando
- sorprenderci.”
***
Mentre i
suoi comandanti discutevano le prossime mosse e
valutavano il bilancio della giornata, acciocché al Senato
arrivasse il miglior
rapporto, a Treviso si respirava aria di festa: la vittoria sui
franco-imperiali aveva disteso il clima di tensione e attesa,
ringalluzzendo i
suoi difensori e la certezza di scacciare gli invasori in via
definitiva dalla
Marca non appariva più un miraggio. Terminate di scrivere le
lettere e
inviatele a Venezia, anche i magistrati e funzionari palatini
finalmente
poterono tirare un lungo sospiro di sollievo e sier Lunardo Zustignan
commentò
malizioso tra i vari brindisi celebrativi come il suo collega sier Zuam
Paulo
Gradenigo fosse corso fin troppo speditamente dalla moglie; lode al suo
intuito, ché madona Maria Malipiero Gradenigo sul serio
l’aspettava impaziente,
pronta a ricevere il marito onde coccolarselo ben bene, con tutti i
crismi.
Gli
stradioti di Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in particolare
vennero sommamente laudati e accarezzati, felici d’essere al
centro
dell’attenzione e descrivendo in un misto tra greco e
veneziano la battaglia
agli avidi ascoltatori, ovviamente infarcendo i dettagli in modo
d’apparire
ancor più valenti. Fissato su di una picca l’elmo
di Mercurio Bua, lo esibivano
orgogliosi alla folla euforica e stupefatta.
Anche i
bombardieri ovviamente avevano da dire la loro, specie i
più giovani e celibi che mimavano alle impressionate ragazze
ogni dettaglio
dell’impallinamento del nemico, sperando d’ottenere
sul momento almeno una
carezza o un bacio a mo’ di complimento, se altro era troppo
domandare.
Ad un
certo punto, e col beneplacito del podestà sier Andrea
Donado “dalle Rose”, ad ogni piazza si radunava
gente a festeggiare, ballando e
bevendo di buon animo (vino rigorosamente assai annacquato), cogli
stradioti
che animavano la festa con le loro danze vorticose, le braccia tese
come ali
d’uccello e schioccando le dita roteavano in cerchi sempre
più stretti. Per
rendere il tutto più difficile e spettacolare, si ruppe
qualche boccale e il
ballerino, con in testa a sua volta una piccola brocca, evitava
agilmente i
cocci pur non alterando alcun passo di quel ballo accompagnato dal
battito di
mani dei suoi compagni e le vivaci melodie delle loro terre lontane.
Nella
casa dei Cimavin vigeva simile clima festoso, in particolare
il ritorno di sier Marco Miani e sier Marco Contarini; immediatamente,
i due
uomini vennero acciuffati dalle donne e costretti al bagno, non
gradendo le
delicate nari femminili l’odore di sangue, terra e sudore che
si portavano
appresso. E se Marco Miani aveva avuto la fortuna
d’appartenere esclusivamente
a madona Helena Spandolin Miani e pertanto solo lei aveva ogni
sacrosanto
diritto di spogliarlo e gestirselo a suo piacimento, ecco che invece
Marco
Contarini, reo d’esser celibe, finì nelle grinfie
delle sornione madona
Felicita e Màlgari, convenientemente sorde e cieche alle
vive proteste degli
uomini di casa.
“Hastu
proprio da nettarlo ti?”, s’oppose Donado,
assistendo
impotente al volo dei pezzi d’armatura, sciolti con
sospettosa maestria da
parte della moglie. Tale era il suo disagio, che neanche più
pretendeva di
parlar distinto in presenza del patrizio veneziano, dando a Felicita
del tu.
“Zò,
caritade christiana!”, si giustificò impunita la
giovane
donna, liberando un paonazzo Marco Contarini dall’usbergo.
“Curar i amalati
et i feriti, el gh’ha dito Nuostro Missier Domine
Jesu! E mi sun bona
cristiana.”
“Sì,
sì, ma fé attension che no te me devegni anca
santa, co tuta
sta devosion!”, e sollevando maligno il sopracciglio,
aggiunse: “Fusse stà
missier Marco un vecio scorfano [3], lo gh’avarestu
nettà uguale?”
Felicita
schioccò la lingua in dispetto. “Aria, sior
màmara!”
(babbuino, ndr.)
“A
mi?”, trillò indignato Donado.
“A
ti!”, confermò inclemente la giovane donna,
mulinando le
braccia come se stesse scacciando le galline dal pollaio.
“Aria, che gh’ho da
nettar el sier Marco, ch’el me se giassa tutto!”
Il povero
mugnaio boccheggiò simil pesce fuor d’acqua
– rimanendo
in tema di scorfani – cercando furiosamente
d’appigliarsi ad un qualsiasi
argomento per ribattere a tanta sfacciataggine, sennonché
suo padre Jacopo
Cimavin il Vecchio lo cinse per le spalle e con delicatezza lo
portò sulla
panca davanti casa, godendosi il timido sole sbucato a temporale
terminato.
“Caro el mio toxo (ragazzo, ndr.), ti no te capissi gnente
de’ femene: co xéle
in pì de do in una camara, ti no te parlamenti, ti te fuzi e
anca lesto!”
Donado,
infelice all’eventualità di tal malefico gineceo
in casa
sua, s’augurò di generare solo figli maschi. In
ogni modo quella sera, sotto le
lenzuola, ben si sarebbe adoperato a rimarcare il territorio.
“A
drèta, un fià pì a
drèta!” (destra, ndr.)
“An,
che bele spale!”
“Ah,
che forte schena!”
“Che
fianchi streti!”
“Patron,
feve vardar le vuostre bele gambe!”
“Le
vuostre cosse (cosce, ndr.) lisse!”
“La
camisia, patron! Via la camisia!”
“Per
metar l’oggio (olio, ndr.) in la macaura (livido, ndr.) a
besogna cavarla de dosso!”
“Gran
mercé? Coss’elo sto parlar da sbisào
(plebeo, ndr.)?”,
inquisirono in coro i due Cimavin, girando ambedue di scatto le teste
all’udir
quei commenti e fischi d’apprezzamento da soldataglia
infoiata. E d’accordo
dover sopportare le donne che ci scelgono, ragionò il pater
familias, ma adesso
esser pure preso d’assalto dalle vogliose vicine? Passi per
le vedove, però le
nubili? Le maritate? O tempora o
mores! “Coss’ele ste sporcarie
da
bordello?”, s’alzò bellicoso dalla
panca, pronto a difendere
l’irreprensibile mos
maiorum di casa sua.
L’arrivo
dei due patrizi non era stato un affare privato,
nossignore. Notando il loro aspetto scarmigliato e i capelli arruffati
e
sudati, le donne avevano colto l’occasione per appostarsi
alla finestra e costì
godersi lo spettacolo di un bel giovine ignudo. E ovviamente, mica si
chiudeva,
la finestra!
“Molighe
(basta, ndr.), rassa de betòneghe!” (pettegole,
ndr.), si
sbracciò indignato Donado. “No ghe xé
gnente da vardar!”
Una
valanga d’insulti sommerse padre e figlio: “Via,
via, che vuj
do seti zà maridai!” (sposati, ndr.)
“Pene perso!”
“Un
pochetto de flemma, patrona, mi saria anca védoo!”
“Varé
là, munèr, ti te sé pur vecio, bruto e
teo gh’ha fiapo!”
“A
mi?”, s’accalorò sdegnato Jacopo il
Vecchio, e levando in alto
l’avambraccio, le sfidò: “Mi lo
gh’ho pì duro di quel puto; se volé
pinciàr
(scopare, ndr.) co un vero omo, vegnite suso in camara, horra, e
vedarem, siore
patrone, se xélo o no fiapo!” e le donne gli
risero dietro ancor più forte e
pure una gli scoccò un bacio al volo. Il pater familias
allora accettò la sfida
e si mise a correre bramoso dietro la più grassottella, una
vedova il cui
sedere alto e sodo gli provocava gravi turbe esistenziali, e questa tra
grandi
sgonnellamenti stette al gioco, cinguettando ilare.
Dinanzi a
sì poco decoroso spettacolo, il povero Donado si
coprì
sconsolato la faccia con una mano e Marco Contarini, approfittando
della
confusione, agguantò un telo di lino e uscì di
corsa dalla vasca, ritirandosi
nella sicurezza di camera sua.
Soltanto
l’inaspettato arrivo del podestà sier Andrea
Donado
riportò la calma, proprio ora che Jacopo aveva ghermito la
sua vedovella
- guastafeste inopportuno!
“El
mio nezzo, xélo in caxa?”
“Siorsì!”,
esclamò esasperato Donado. “Et Lustrissimo,
Zelenza, de
bona grassia, tolévelo con vu!”
Ed era
ciò che il podestà aveva ogni intenzione di fare,
fumando
infatti di dispetto a causa della disobbedienza di quel ragazzaccio:
sua
sorella, madona Alba Donado Contarini, gli aveva scritto lunghe lettere
in cui
gli raccomandava il figlio, che lo tenesse lontano dallo scontro
diretto e in
generale da ogni pericolo. E non solo quel disgraziato non si era
recato al
torrione di San Marco come ordinatogli, ma perfino s’era
accodato a sier Marco
Miani, i due fratelli da Riva e gli stradioti per la sortita fuori
dalle mura!
Non pago, pure aveva tentato d’attaccare Mercurio Bua! Se
sier Marco Miani non
l’avesse intercettato, a quest’ora altro che star
dentro una tinozza! In una
bara! E chi lo comunicava poi ad Alba? Meglio la morte, piuttosto
…
Basta,
volente o nolente, quel gaglioffo l’avrebbe seguito a casa
sua!
Poaro
illuso,
ridacchiò sorniona madona Felicita,
indicandogli la strada e mentre inviava Màlgari a stendere i
panni.
Ad
attendere la fanciulla c’era per sua somma gioia Cabriel, che
la sorprese cingendole la vita da dietro e schioccandole un sonoro
bacio sulla
nuca.
“E
jo? No te me netti? Mi gero al bastion de San Bortolo, no
sastu? Varda, chome sun’onto!”, scherzò,
mostrando il viso effettivamente
brunito dal fumo della polvere da sparo.
Imbevendo
un panno d’acqua, Màlgari gli ripulì
via la sporcizia,
approfittandone anche per accarezzargli le guance. “Co te
parli col sior mio
pare et co el dise che sì, che podemo darghece ea man
(sposarci, ndr.), caro
ti, vedaré chome te lavo tuto …”, e
arricciò la boccuccia scaltramente
civettuola.
Cabriel,
sentendosi audace, la trascinò a sé e
l’accomodò sulle
sue ginocchia. “Ancha sença camisia?”
Le
piccole e forti dita curiose di Màlgari scesero rapide e
dispettose all’inguine del ragazzo, che trasalì
dalla sorpresa, per poi
imbronciarsi. “Sovratuto sença la
camisia”, gli soffiò sulle labbra,
baciandoselo con gusto.
D’umor
totalmente opposto invece sguazzava sier Marco Miani, che
sua moglie madona Helena Spandolin Miani trovò seduto su di
una sedia a fissar
il vuoto, ancora vestito di tutto punto e la spada del fratello ben
stretta tra
le mani. Appena appena quest’ultime e il viso si era pulito,
forse per
nascondere il rossore dei suoi occhi.
“Méli
mou”, s’inginocchiò la giovane donna
davanti al marito,
scorrendo la mano sui folti ricci sudati.
“Lo
avevo in pugno”, mormorò roco Marco in greco, i
muscoli
facciali contratti. “Lo avevo in pugno e mi è
scappato. Tutti gli sforzi di
sier Zuam Paulo, tutto … tutto inutile. Quel tanghero
è ancora in circolazione
e … e Momolo ancora suo prigioniero”,
abbassò il capo contrito ed espirò
affranto.
Rivedeva
ogni istante, scena per scena, l’intera battaglia
dall’apertura di Porta Santi Quaranta alla carica contro il
nemico; di come
Mercurio Bua aveva disarcionato Marco Contarini e di come,
contrariamente ad
ogni buon senso, invece di catturarlo lo stava per impirare.
Ricordò il
salvataggio dell’amico d’Hironimo, del suo
personale duello brutale col Bua e
soprattutto del salvifico intervento del pugnale berbero, un dono di
nozze da
parte del cugino Andrea Morexini.
Notando
lo sguardo perso di Marco, Helena si pose con
determinazione in piedi e, tolta di mano la spada dal marito, lo
costrinse ad
imitarla, armeggiando a levargli l’armatura. “Io la
guerra la conosco solo
tramite mio padre e mio fratello", esordì,
alludendo al cavaliere Dimitri
Spandolin e suo figlio Giorgio. “E
similmente ad essa, conosco
Merkourious Buas Spatas solo tramite i loro racconti e quelli di sua
moglie
Aikaterinī e ti assicuro che egli è molte cose, troppe cose,
ma non uno stolto
inutilmente sanguinario. Hieronymos è troppo prezioso per i
suoi scopi, per
torcergli anche solo un capello!”
“Neanche
ti voglio ripetere ciò che m’ha
confessato!”, ritorse di
rimando Marco, imporporandosi di disgusto. “Le …
le porcherie cui lo
sottopone!”
Helena
aggrottò scettica la fronte. “E tu così
poca fiducia hai in
Hieronymos, quel terremoto di tuo fratello che quando
s’arrabbia tutta Rialto
trema? Proprio tuo fratello che partecipa di nascosto alla Guerra dei
Pugni?
Pensi sul serio che si lascerebbe” e qui la greca stessa ebbe
qualche
difficoltà a scegliere la parola, “oltraggiare da
uno come
Merkourious Buas? Se quello sprovveduto gli si dovesse anche solo
avvicinare
con intenzioni poco caste, stai sicuro che la povera Aikaterinī si
ritroverebbe vedova col marito
vivo!”
Un debole
sorriso s’increspò sulla bocca di Marco.
“Méli
mou, sotto certi aspetti, è stato meglio così: se
tu avessi
catturato Merkourious Buas, la sorte d’Hieronymos sarebbe
divenuta ancor più
oscura. La Signoria avrebbe spedito il capitano alla Torresella o alle
Novissime, sorvegliato a vista fino alla fine del conflitto, senza
accettare
alcun riscatto né scambio. E dunque? Che ne sarebbe stato
d’Hieronymos? Lo
avrebbero deportato o in Alemagna o in Francia, come successo al padre
e al fratello
di Markos. Allora sì, che non l’avresti forse mai
più rivisto. Ma, fintanto che
sta col Buas, sussiste sempre la possibilità che Hieronymos
riesca a fuggire o
che noi riusciamo a salvarlo, in particolare … ”
“…
quando si accamperanno qui per assediare Treviso”,
incominciava
a capire Marco dove la moglie stesse andando a parare.
“Mercurio non si fiderà
di lasciare Momolo a Montebelluna, lo costringerà a
seguirlo. Sarà lui
stesso a riportarcelo indietro.”
“Esatto”,
convenne Helena, trafficando cogli ultimi lacci. “E
conoscendo il provveditore generale, mentre i franco-imperiali saranno
impegnati a bombardarci, di sicuro invierà alle loro spalle
un contingente di
stradioti per far razzia del loro accampamento, rubando armi,
munizioni, cibo e
liberando i nostri soldati.”
“Mi
proporrò volontario d’affiancare i comandanti
Peleologi o
chiunque sier Zuam Paulo vorrà nominare per quella
spedizione”, decise Marco,
rincuorato da quella prospettiva e già sentendosi rifiatare,
ripromettendosi
che in quell’occasione avrebbe raggiunto il suo obiettivo.
Strinse
forte al petto l’adorata moglie, la sua colonna portante
nonostante le recenti increspature nel loro matrimonio, dovute
purtroppo al mal
consiglio dell’orgoglio e della guerra.
“Se
soltanto fossi nata uomo”, le sussurrò pieno
d’ammirazione,
inalando quel caro odore di gelsomino con cui ella si profumava le
trecce nere,
“che comandante degli stradioti saresti stata!”
“Avrei
riconquistato Costantinopoli”, stette Helena allo scherzo,
ponendo piccoli baci al giugulo del marito, vezzeggiando lieve la pelle
salata
con la punta della lingua. Sorrise compiaciuta al fremere involontario
di
Marco, all’eco del suo respiro già più
profondo e irregolare, sebbene dal modo
in cui stringeva le labbra ella intuiva come si stesse trattenendo,
forse non
reputando il momento adatto, non quando ancora sussistevano gravi
questioni da
regolare.
Beh,
oramai il crepuscolo era sceso e fra tre ore sarebbe scattato
il coprifuoco, inflessibile anche in quel clima di vittoriosa festa. A
che pro
scervellarsi, cavandosi il giusto ristoro? Ogni
giorno ha la sua croce,
si legge nei Vangeli, verità assodata e assoluta. La guerra
ci sarebbe stata
anche l’indomani, così come le lunghe discussioni
su strategie, rifornimenti,
lavori di rinforzamento della città … tutte cose
che avrebbero totalmente
assorbito suo marito, addirittura sottraendoglielo per sempre (Dio la
scampasse
da tale fato orribile!). Dunque, che non le si negassero quelle poche
ore
assieme, non quando il suo Marco era lì con lei, vivo, di
carne e sangue, i
muscoli delle forti braccia guizzanti sotto i suoi polpastrelli, pronti
all’azione e al contempo dominati in rispettosa attesa.
“Però,
che triste sorte sarebbe stata la tua”, ronronnò,
sostituendo le unghie ai polpastrelli, piano e senza fretta, che ogni
terminazione nervosa di lui la percepisse.
“La
mia?”
Helena
abbassò languida le palpebre, schiudendo appena la bocca
quel tanto da lasciar intravedere la lingua che fece scorrere
pensierosa sui
denti. Si puntellò sui piedi, cingendo il marito con un
braccio e con l’altra
disegnando strani arabeschi sul suo petto nudo.
“Sì, la tua. Se io fossi stata
maschio, non avresti potuto certo …” e
s’interruppe, scoccando un’occhiata
birbante a Marco, per poi sciogliersi via troppo in fretta per i gusti
dell’uomo, che rapido si premurò di riacchiapparla.
“Non
avrei cosa?”
“Ah,
niente!”, fece la greca con noncuranza, controllando la
temperatura dell’acqua, che ancora fosse calda.
Marco
strinse gli occhi, lasciando cadere le braccia mollemente ai
fianchi e avvicinandosele tuttavia felino, predatorio.
“Niente?”, ripeté in un
soffio, appoggiandosi a lei appena appena da dietro,
acciocché ella sentisse la
sua presenza senza però sentirsi oppressa.
“Ecco,
fossi stata uomo, non avresti di certo avuto una moglie che
ti ricorda, signore caro, come bisogna lavarsi quando si ritorna a casa
più
lercio d’un villano il giorno
dell’aratura!” , ridacchiò, per poi
lanciare un
gridolino quando, inattese, avvertì le mani di Marco
intrufolarsi abili sotto
le sue sottane, cercando, tastando e conquistando il suo premio
più ambito.
“E
io pensavo perché non avrei goduto di questa!”
“Ah,
non mi dire! Credevo …”, Helena
deglutì, mordendosi le labbra
ché tali soddisfazioni non gliele avrebbe date, non subito
almeno. “Credevo che
a … ah! … a s-sua magnificenza non …
non garbasse più …”
“Sbagliatissimo”
e con un gesto deciso Marco cessò la sua dolce
tortura, portandola delicatamente ad appoggiare la testa sulla sua
spalla e
costì baciarla tra sospiri e furtivi incontri delle loro
lingue, intanto che
l’altra mano scivolava pigra e liberava la moglie
dall’intrigo dei vestiti.
Fingendo
ritrosia, Helena provò a sciogliersi per ondulare invece
bene il sedere sull’inguine di Marco, i cui movimenti
divennero un buffo
connubio d’impazienza e voglia di gustarsi il gioco,
contraddizione che divertì
assai la moglie, che ne approfittò spudoratamente.
“Sul
serio”, si lamentò, accomiatandosi dai vari pezzi
del suo
abito scivolati uno dopo l’altro in un gran fruscio ai suoi
piedi. “L’acqua si
sfredda e … e poi unto come sei … mi sporchi, dai
…”
Marco
allora la sciolse dal suo abbraccio e tenendola per mano, la
invitò a girarsi verso di lui.
“Pazienza”, sentenziò egli, portando le
sue mani
ai fianchi di lei e abbassandosi un poco. “Vorrà
dire che ti laverò io, se ti
sporco”, la rassicurò e in un battibaleno Helena
si ritrovò issata in braccio
al marito, le gambe penzoloni sulle sue spalle.
Rise di
quella prova di forza, mentre si lasciavano ricadere sul
letto; sotto quell’aspetto il suo uomo non era cambiato dal
giovane
ventiduenne che l’aveva impalmata otto anni addietro.
“Mi
laverai come fa il gatto?”, lo pungolò
perfidamente giocosa.
“Come
fa il gatto. Anzi”, le descrisse pigramente Marco, le dita
che le scorrevano dal ginocchio lungo l’interno della coscia,
dilettandosi a
fine corsa a dar tormento alla rosea boccuccia con cui intendeva
intensamente
dialogare. “Anzi, come un grande …”,
scivolò in basso, “… grosso
…”, le sorrise
birichino, “ … pasciuto gatto
…”, leccò e baciò il palmo
della mano che Helena
gli scorse tra i capelli, suggendole le dita a guisa
d’infante, “… soddisfatto
e satollo di quella povera passerotta che s’è
ingoiato …”
Uno
sbuffo divertito fuoriuscì dal petto della donna, tuttavia
teso e fremente d’anticipazione. “Sfacciato
melenso!”, lo rimproverò falsamente
altezzosa.
Marco non
replicò, limitandosi a sorriderle carnivoro, lingua e
denti ben in mostra e con quella zazzera scarmigliata più
che ad un gatto
ricordava il leone del suo omonimo santo. Che la mojer obiettasse
quanto
volesse, una volta partito alla carica e messosi all’opera
quant’era vero che
il sole sorge ad est, l’ultima parola l’avrebbe
avuta lui.
***
“Altolà!
Chi vive?”
“Zente
in fede di San Marco!”
A
mezzogiorno dell’indomani, 6 settembre, a Porta San Tomaso si
presentarono alle sentinelle di guardia i prigionieri marciani fuggiti
da
Montebelluna, seminudi e talmente inzaccherati di fango che parevano
dei
saraceni. A guidarli c’era Vio, il più giovane
degli esploratori delle truppe
veneziane sin dai tempi della Guerra del Cadore [4], suo fratello
Bernardin da
lui liberato, nonché i due stradioti Teodoro Madalo e Nicola
Cazantachi, più
quattro cavalli rubati.
“Verzé
la porta!”
Giubilando
felici, chiaro segno della fine delle loro peripezie, i
fuggitivi entrarono di corsa dentro, prontamente accolti dai compagni
assai
contenti di rivederli.
“Teodoro!”,
esclamò uno stradiota, correndogli incontro e
abbracciandolo con foga, arruffandogli poi i capelli. “Gran
figlio di puttana …
che poi sarebbe anche mia madre. Come diavolo hai fatto?”
Spintonandolo
scherzoso, Madalo spiegò brevemente al fratello:
“Ringrazia il capitano Domenico di Modone e quello scricciolo
laggiù”, indicò
Vio che litigava paonazzo in volto col fratello a causa della sua
narrativa
boccaccesca circa la loro fuga, con tanto di mimesi esplicativa per il
gran
sollazzo dei soldati che se la ridevano alla grossa. “Quello
là ha dimostrato
di possedere un paio di coglioni che non si trovano facilmente
oggidì!”
“Et
po’ el se gh’ha alsà le cottole et
…”
“Molighe
o te squarto!”
“In
ogni modo sei libero e questo è ciò che
conta!”, disse Giorgio
Madalo, “Anche se … anche se vorrei che Zilio ti
avesse seguito …”
Teodoro
gli appoggiò fermamente una mano sulla spalla.
“Ritornerà
con noi, vedrai!”
“Oooooh
… te plé trè dur!
…”
“Argh!
Simia (scimmia, ndr.) maladeta, te me la pagharé!”
La
piccola bolla di buonumore non durò a lungo: appena saputo
dell’arrivo dei fuggitivi, essi immediatamente vennero
convocati a Palazzo dei
Trecento onde riferire al provveditore generale quanto visto e udito,
il tutto
tra un vorace boccone di gallina bollita, carote, sedano, pane e vino
saporito.
Guardandoli
ingozzarsi incuranti di chicchessia, sier Zuam Paulo
appurò quanto a corto di rifornimenti si trovassero i
franco-imperiali.
Da loro
Gradenigo apprese come La Palice fosse partito per Vicenza
per portare al campo i cannoni promessi da Giovanni Gonzaga,
giacché, malgrado
le smargiassate del governatore di Milano, la rotta di Marostica li
aveva assai
danneggiati; dell’Imperatore si disperava l’arrivo,
però si diceva che tosto
sarebbe arrivato al campo un vescovo - il nome
purtroppo non
sapevano riferirlo però suonava francese - nonché
il conte Gianfrancesco di
Gambara – quel can traidor brexiano!,
ruggirono i patrizi al
sentirlo nominare – appunto grande sostenitore di Maximilian,
da lui molto
probabilmente inviato per farne (forse) momentaneamente le veci. Il
pane
scarseggiava, era duro e nero peggio del carbone; il vino sapeva
d’aceto e si
faceva la fame, i capitani avevano ricevuto pertanto l’ordine
d’impiccare
chiunque tentasse di oltrepassare il Piave per far razzia o disertare
direttamente. I francesi e i tedeschi poco si fidavano l’un
l’altro ponendo per
sicurezza mezzo miglio di distanza tra i loro accampamenti e
ciononostante, le
baruffe e gli assalti notturni per rubare restavano
all’ordine del giorno.
“E
dil Bua?”
Ingoiando
a viva forza il boccone troppo grande, a rispondergli fu
Teodoro Madalo. “Ho visto i suoi uomini trasportarlo in
barella, ma se per
fargli il funerale o lenire la sofferenza delle ferite, non saprei
dire.”
“E
mio fratello?”, l’incalzò Marco Miani.
“L’hai visto?”
Lo
stradiota scosse il capo. “Il capitano Mercurio lo tiene nel
suo padiglione personale, segregato e isolato dagli altri prigionieri.
Da quel
che ho compreso, neanche i suoi sottoposti possono avvicinarsi a lui
né
tantomeno parlargli”, gli spiegò contrito,
dispiacendosi per la pena dell’uomo.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo s’accarezzò il mento, cogitando a
lungo
su quanto udito. Bisognava rallentare il ritorno di La Palice a
Montebelluna,
forse distruggendo il ponte di Bassano?
E se
invece il francese avesse avuto intenzione di deviare
direttamente a Treviso, magari portando seco il Gonzaga?
Alzatosi
in piedi e ringraziati i fuggitivi, lasciandoli adesso
tranquilli a godersi il meritato pasto, l’uomo si diresse
assieme ai colleghi
verso il Ponte de Pria, là dove scorreva l’acqua
vorticosa.
“La
chiusa è davvero pronta? Così come il
partidor?”
“Siorsì”,
rispose il podestà sier Andrea Donado, desideroso di
distrarsi a seguito dell’ennesimo rifiuto del nipote di
seguirlo a casa sua,
anche dopo la sfuriata con cui l’aveva
subissato.
“Ottimo!”,
asserì entusiasta il provveditore, studiando i mille
intorcolamenti dell’acqua e i giochi delle alghe.
“Ho intenzione di far deviare
il corso dell’acqua fino a un miglio da Porta San Tomaso,
così d’allagare la
campagna circostante tra detta porta fino a quella di Santi Quaranta. E
che la
si faccia scorrere per due giorni consecutivi, in tal modo la terra
s’imbomberà
e al nemico non resterà che piangere sotto le mura di
Trevixo!”
A meno
che i francesi non si fossero infatti trasformati nelle
rane da loro tanto apprezzate, sier Zuam Paulo Gradenigo dubitava
fortemente
nella loro capacità d’accamparsi o più
in generale di muoversi nell’immenso
acquitrino che Treviso si stava per trasformare.
***
Un attimo.
Un solo,
fottutissimo attimo in cui Hironimo aveva chiuso gli
occhi, stravolto dal sonno di una veglia forzata e dall’ansia
provocatagli dall’eco distante dei cannoni
(dunque invero avevano
attaccato Treviso?) ed ecco che Thomà era sparito dal suo
giaciglio di paglia e
stracci. Abituati infatti a dormire oramai uno incastrato
all’altro onde
tenersi caldi e scacciar via la fredda sensazione d’umido
alle ossa, il giovane
Miani aveva percepito a livello tattile quella scomparsa prima ancora
della sua
realizzazione logica.
Balzando
di scatto seduto, il patrizio si era messo a carponi,
scostando la tenda e aguzzando la vista alla ricerca della figuretta
del
bambino, spingendosi a gattoni fin quanto la catena attaccata al palo
glielo
permetteva e anche quando ebbe raggiunto la massima tensione egli
tentò di
proseguire oltre, stringendo i denti al dolore al collo e
all’aria mancante.
“Thomà!”,
gracchiò apprensivo, la mente che elaborava ogni sorta
di scenario, uno più orribile dell’altro sulla
sorte del piccino. Che glielo
avessero sottratto nel sonno? Che fosse morto a sua insaputa? Hironimo
a quel
punto contemplò di chiamare Zilio, il loro personale can da
guardia, onde
raccogliere maggiori informazioni, ma all’ultimo desistette:
quello scimunito
d’un energumeno manco gli portava loro da mangiare, figurarsi
se gliene importava
alcunché della loro salute.
“Thomà!”, l’appellò
in affanno. “Thomà!”
“Sssssh,
patron! Sté chieto chome un sorzetto, sennò el
gato ce
magna!”
A quelle
paroline accorte e sussurrate, il patrizio veneziano si
voltò rapidamente, tirando un gran sospiro di sollievo e
strisciando nel suo
angolino là dove Thomà lo attendeva, il lembo
inferiore della camicia levato su
a mo’ d’involto. Per il resto era grigio di fango
più d’un maiale nel suo
accogliente porcile.
“Da
dove sbuchi?”
“Da
là zoso!” e il bambino indicò la buca
che aveva scavato sotto
la tenda, approfittando del dislivello che la terra, ricolma
d’acqua non
smaltita, aveva creato. Ecco dunque spiegato il suo aspetto a dir poco
selvaggio.
Inoltre,
tirò fuori dalla paglia un osso di pollo, l’unica
carne
che avevano visto in più di una settimana e che Hironimo
l’aveva ceduta ad un
Thomà sbavante dalla fame, e che il fantolino aveva con
pazienza appuntito,
sfregandolo ironicamente sulla palla di cannone che pendeva dal collare
del
patrizio. In questo modo, sega un giorno sega l’altro e
ovviamente agevolato da
un’ottima conoscenza dei nodi, egli aveva tagliato la corda
che lo legava alla
caviglia, giacché Mercurio Bua più di tanto non
s’era curato di prevenire
un’eventuale sua fuga.
“Sei
scappato?”
“Siorsì.”
“E
tornato indietro?”
“Sior
patron, el campo xé pieno de soldai, ‘ndove voleu
che fugga?
El me van suito zaffar!” (subito acciuffare, ndr.),
giustificò Thomà la, a suo
parere, insensata obiezione del giovane Miani, la cui attenzione venne
catturata dal fagotto stretto al petto del bambino.
“Cos’è?”
“Dil
pan, patron.”
“Rubato?”
Thomà
gonfiò le guance di dispetto, fulminando il patrizio.
“El xé
pan di Samarco, sior patron”, sibilò iroso,
“sti cancari todeschi et
franzosi lo gh’han robado a
nuialtri.”
“An,
così ti sei risarcito?”, replicò aspro
Hironimo, più per la
paura di un eventuale e crudele castigo nei confronti del bambino se
beccato,
che per il furto di per sé. “No sastu, caro ti,
cosa fanno ai puti che rubano?”
Al che
Thomà, terminato d’ascoltare la ramanzina in
rancoroso
silenzio e scarlatto in volto, scattò in piedi e
alzò battagliero il mento onde
apparire più grande e minaccioso, i pugni stretti
convulsamente tra di loro e i
denti ben esposti in una smorfia ferina. “Sì,
patron, lo sciò cossa fan a li
puti che roban e anca a quei ch’i no fan gnente!
L’gh’ho ben visto mi a Feltre
co i todeschi et tajani (italiani, ndr.) [5] ce
massacravan tuti!
Saveu per dasseno cossa i fan? I
nuj fan le sporcarie, i nuj
taja a pezzi, i nuj dan in pasto a li cani! Par eli, semo
zogàtoli!”, strillò,
le vene del collo ingrossate e gli occhi sempre più umidi.
“El
mio fradelino, el no gh’avea un anno ancora, i todeschi el
gh’han ciapà per un pie di la cuna e
l’gh’han fracassà el cranio sul muro! La
mia siora mare e le mie sorele tute vergognate, anca quee menori de mi!
La
Gegia mia sorea, la gera ‘na puta de sie anni e la
gh’han trattà de putana, a
turno, ea xé morta cussì, lo stomego a tochi,
pissando sangue!”, ingollò aria,
nettandosi via stizzito le lacrime.
“Il
mio sior pare e i mii fradei brusai vivi, perhò prima i
soldai
i gh’han tajà via le récie (orecchie,
ndr.), ea napia (naso, ndr) e le man! Et
zò, co la spartidora (sega, ndr.) dil mio sior
pare!”
Dai
piccoli indizi sparsi di qua e di là nei discorsi di
Thomà, un
sempre più basito Hironimo aveva appreso come suo padre
dovesse aver esercitato
la professione di falegname.
“La
poara siora mia nonna, la gh’han taja en tochi,
perché la gera
massa vecia per i soldai! Depo’ i todeschi gh’han
ordenà a li cani: Fresstir,
fresstir! [6a] E sì, i can se
gh’han ben nutrio di le buele di la
siora mia nonna! E vuj, sior patron, me dite horra ch’el no
xé justo robar a
sti cancari el pan? TUTO LHORO I ME GH’HAN
ROBADO! Anca
l’anima, ché i me volean copar, i ridevano
– per cossa, po’? Lustiche
bube [6b], i ridevan, et i ridevan! Ah
sì?, digo
mi, voleu rider siori patroni? El todescho,
mi l’gh’ho morsegà a la
gola, tragando sangue azò crepasse mal!” e
mostrandogli le mani, proseguì
febbrilmente: “Mi sun corrotto, sior patron, cossa voleu che
sia robar co gh’ho
amazzà un omo? Gnanca in Paradiso per colpa lhoro
andrò, perché sun dannato!
Perhò”, e singhiozzò, il viso rigato di
pingui lacrime che più Thomà si
sforzava d’asciugare più copiose scendevano,
“perhò sior patron no me pento, se
podessi – oh se solum podessi! – de novo lo farave,
et tuto, tuto!, i roberei a
sti cani, sti sassini, sti baroni maladeti, i strupiaria, i strazzeria
coi
denti, i tormentaria, i faria le pèzori cosse! A Domine Idio
gh’ho dimandà:
Pare Nuostro che Vui seti in Cel, se non poté darme
l’assoluçion, se non poté
fulminar i todeschi, almancho la vendeta, de grassia, concedetemela!
Cussì moro
contento!” e nascondendo il viso tra i palmi delle mani
pianse amaramente, le
esili spalle sconquassate mentre disperati gemiti si mischiavano ai
singulti.
Un
bruciante groppo in gola impedì ad Hironimo di replicare
alcunché, serratosi a guisa d’un cappio man mano
che il bambino proseguiva
nella sua angosciosa confessione, il respiro mozzato e il labbro
inferiore
tremante similmente all’intero suo corpo, quasi
l’avesse ghermito la febbre
quartana. Senza accorgersene più volte aveva sbattuto
furiosamente le palpebre,
la vista offuscata da lacrime figlie della collera, della tristezza e
dell’orrore: a quelle infernali descrizioni la sua
immaginazione aveva
crudelmente scambiato gli sconosciuti volti della famiglia di
Thomà alla sua,
figurandosi la madre Leonora tagliata a pezzi e divorata dai cani, le
nipoti
Dionora, Crestina e la cognata Helena brutalmente stuprate fino
all’assassinio; i
suoi fratelli Lucha, Carlo e Marco, i nipotini Gasparo e Anzolo mutilati
e poi
bruciati vivi, il neonato Scipio lanciato contro il muro, imbrattandolo
con le
sue cervella. Fosse accaduta una cosa simile a lui, avesse Hironimo
assistito a
quel massacro di certo sarebbe impazzito dal dolore e sì,
sì avrebbe cercato
vendetta ad ogni costo, anche a discapito della sua vita, ma
…
…
ma niente ciò li sarebbe mai accaduto. Non a loro, nel bene
e
nel male.
Hironimo
realizzò d’un tratto quanto fosse stato fino a
quel
momento un privilegiato, un intoccabile e per di più padrone
della sua vita.
Tranne per i doveri a lui richiesti dalla Signoria, ogni sua azione e
decisione
era stato il frutto della sua volontà, di una sua scelta. E
lui aveva scelto d’abbracciare
la guerra allo mero scopo d’avanzar di carriera, di gloriarsi
d’onori, cieco
della disperazione di chi volente o nolente la subiva, di chi era
più che
sacrificabile ai “grandi scopi” dei rispettivi
governi.
Adesso
comprendeva.
Antropocentrismo
… humanitas … l’uomo libero e padrone
della sua
esistenza … cura benevola tra i propri simili …
sì, certo! Se si era patrizi,
duchi, conti, principi, re ed imperatori allora sì che tutto
ruotava attorno a
loro, sovrani indiscussi dell’universo e perfino sopra Dio!
Ma gli
altri? La gente comune?
Non erano
anche loro di carne e di sangue? Non avevano anche loro
sogni, progetti, talenti, gioie e dolori, non provavano caldo e freddo,
non
ridevano allo scherzo o piangevano all’affanno o
s’adiravano ad un torto?
Utili
numeri, utili bestie, meno del fango sotto i calzari, meno
di niente.
Quanto a
lui, egli non era altro se non un ipocrita che tanto
parlava dell’uomo, della sua dignità, della sua
anima superiore, della
solidarietà umana ma poi non muoveva un dito, malgrado il
suo status sociale di
privilegiato glielo concedesse, per attuare concretamente le nozioni
apprese e
di conseguenza portare ad un vero miglioramento, nascondendosi dietro
sterili
letture e sterili discussioni, cullato e pasciuto in quegli agi
ottenuti non
per merito suo, adoperandosi però alacremente a raddoppiarli
a scapito degli
altri.
Hironimo
provò un’infinita vergogna verso se stesso.
“Non
morirai”, mormorò mestamente, la voce
tremante. “Sempre
ti proteggerò.”
Thomà
tirò su col naso, levandosi un po’ di muco con le
dita.
“Anca l'Andrea me lo gh’avea promesso. El
xé morto lo stesso.”
“Te
lo giuro! Vivrò
per te, per
proteggerti.”
Le
braccia gli si mossero di volontà propria e prima che il
giovane Miani potesse rendersene conto, ecco che avviluppava un
recalcitrante
Thomà in un consolante abbraccio, stringendolo a
sé forte quasi a dimostrare la
serietà di quel giuramento, scostandogli la frangia dagli
occhi e asciugandogli
le lacrime coi pollici.
“La
mama!”, pigolò affranto il fantolino, arrendendosi
poco alla
volta, le mani artiglianti i lembi del camicione del patrizio.
“No la rivedrò
mai pì, patron! No scolterò mai pì la
sua vose, ni sentirò el calor di soi
abrassi, ni le soe cansoni per indormensarme. Zà la soa
fazza me la sto
desmentegando. El sior cappellan me diseva: ea stà in
Paradiso cum Domine
Jesus, perhò mi la vojo qui, gh’ho besogno
d’ela! El bone Jesu gh’ha la Madona,
la Soa Mare, perché me gh’ha da ciapar la
mia?”
Come
rispondere a tale domanda, quando quindici anni addietro
Hironimo ne aveva urlata una non tanto dissimile a Madre,
all’ennesimo suo
rifiuto di recarsi alla Messa?
Se
a questo mondo esiste un dio così egoista e crudele che ruba
ai
bambini i loro padri, io non lo voglio pregare!
“Quando
avevo più o meno la tua età, fu trovato impiccato
a Rialto
il sior mio Pare. Era morto senza ch’io potessi dirgli quanto
l’amassi. Del suo
viso, oramai, mi ricordo assai vagamente.”
Thomà
sollevò il capo, sbattendo incredulo le ciglia umide: chi
l’avrebbe mai immaginato, che l’altero e collerico
reggente di Castelnuovo
serbasse nel cuore un lutto simile al suo? Lo aveva sempre immaginato
fortunato
su di ogni fronte!
“Sparirà
mai sta doja?”, domandò flebilmente,
accoccolandosi al
petto del patrizio che non si dava noia del camicione oramai sporco di
fango e
muco, seguitando al contrario ad accarezzare piano la testa del
piccino,
cullandolo lievemente e ricambiando la timida stretta della sua manina.
Scomparire?
No, il dolore generato da quell’improvviso vuoto non
sarebbe mai scomparso, infelice ombra che per sempre
l’avrebbe accompagnato per
tutta la vita.
“Col
tempo, imparerai a conviverci.”
Thomà
lo fissò a lungo come alla ricerca d’inganno; non
trovatolo,
abbozzò ad minuscolo sorriso, una fiammella di speranza
ravvivata in
quell’oceano di disperazione.
“Se
pol disnar horra, patron?”, tentò un debole motto
di spirito,
arrossendo al gorgoglio del suo stomaco.
Hironimo
aprì la bocca per replicare, sennonché fu
interrotto da
un concitato vociare da fuori il padiglione e l’avvicinarsi
di lunghe ombre
dietro l’ingresso principale.
“Scòndete!”
“Patron!”
Ma il
giovane Miani lo spinse via, al che il bambino, dopo uno
sconclusionato girar attorno alla tenda in cerca di un posto sicuro
dove
celarsi, optò per la cesta delle camice sporche di Mercurio.
“Toh,
ecco dunque la famosa concubina del Bua!”, lo
salutò
beffardamente cortese il marchese di Busseto, Galeazzo Pallavicino,
scostando
il lenzuolo là dove si vociferava il greco-albanese
custodisse il suo
prigioniero più gelosamente del sultano con le sue amanti
nel Topkapi [7].
“Come sono caduti in basso i patrizi veneziani!”
Hironimo
gli sorrise graziosamente velenoso. “Toh, ecco il
reggipalle dei francesi!”, cinguettò.
“Come sono caduti in basso i nobili
milanesi! Come sta il signor Giulio? E suo il signor
fratello
Galeazzo? Si sta godendo il nuovo titolo di Gran Scudiero?”
“Certo,
certo, quasi mi scordavo del vostro insulso umorismo
veneziano.”
“Ah,
non vi preoccupate, magnifico messere, ho tutto il tempo per
rinfrescarvi la memoria!”
Appurando
come il dialogo stesse degenerando, il marchese di
Pizzighettone, Teodoro Trivulzio, s’intromise in quella
tenzone. “Risparmiate
le vostre battute di spirito al maresciallo La Palice: appena
sarà rientrato da
Vicenza, vi trasferiremo alla gabbia vicino al suo
padiglione.”
“Mi
spiace deludervi, signor marchese, ma io sono prigioniero di
Mercurio Bua e dubito che a quest’ultimo faccia piacere non
ritrovarmi là dove
mi ha lasciato!”
Il
marchese di Busseto lo compatì e scosse il capo, intanto che
l’altro gli si avvicinava per slegarlo dalla catena.
“Non avete appreso
l’ultima nuova? Il Bua è morto!”
Un
macigno cadde nello stomaco del giovane Miani, rizzandosigli in
allarme i capelli dietro la nuca. “Non è vero
…” Sul serio il solo desiderio di
saperlo morto aveva funzionato? Ma no, ridicolo!
“Mi
rincresce contraddirvi, ma così è!”,
confermò spiccio il
Trivulzio. “A quanto pare, il suo tanto ingegnoso piano
l’ha condotto alla
morte sotto le mura di Treviso. Di conseguenza, ogni sua avere passa
sotto la
tutela di monsignor La Palice, prigionieri compresi.”
“Puoah”,
grugnì ironico il veneziano, ripigliandosi in fretta
dallo sconcerto iniziale. “Insomma, il cadavere del Bua
è ancora caldo e voi
già siete qui a razziare il suo padiglione? Certo che avete
ben appreso le
cattive abitudini dei francesi, chapeau!”
Galeazzo
Pallavicino lo strattonò in piedi di malagrazia.
“Sono
contento che conosciate l’idioma francese”,
dichiarò a denti stretti,
imponendosi la calma e di non cedere alle provocazioni del patrizio.
“Vi
servirà egregiamente, non appena il maresciallo
avrà disposto la vostra
deportazione prima a Milano e poi in Francia …”
“…
o in Alemagna”, s’intromise una voce alle loro
spalle. “Vi
ricordo, magnifici messeri, che quest’impresa monsignor La
Palice la conduce
per conto dell’Imperatore, non del Re di Francia”,
ricordò loro il conte
Gianfrancesco di Gambara, entrando nella tenda. “Ergo, ogni
prigioniero
appartiene alla Cesarea Maestà!”
Hironimo
scoppiò all’improvviso in una fragorosa risata,
costringendo a sé gli sguardi attoniti dei tre nobili,
credendolo uscito di
senno e non avvedendosi invece di come Thomà fosse
anguillato fuori dal
padiglione in cerca di Zilio, la cui stolidità era tale che
anche da morto
avrebbe eseguito gli ordini del Bua e cioè che nessuno
s’avvicinasse al suo
prigioniero.
Continua
…
*******************************************************************************************
Non mi
ricordo in quale romanzo di André Gide lo lessi,
però mi
colpì quella sua riflessione quando, a seguito dello
scampato pericolo di
morte, una coppia dalla vita amorosa pari ad un surgelato tutto
d’un colpo si
ritrovi a far maratone di gambe all’aria, stimolate appunto
dall’adrenalina e
quel senso di caducità della vita.
Beh,
grazie a Gide possiamo dunque capire il perché di tanta
euforia a Treviso. Se il Sanudo diceva che a Padova, dopo la sconfitta
dei
Collegati, c’era gente che si abbracciava e baciava, vuoi che
Treviso, famosa
per la sua vita gaudente, non fosse da meno? ;)
Inoltre,
la scena del Nostro e di Thomà per quanto breve mi ha
molto depressa, quella dell’attacco mi ha sfinita e
perciò volevo inserire
all’ultimo un qualcosa di rilassante e divertente da
scrivere. La vita
d’altronde è fatta così, Eros e
Thanatos non devono essere letti in chiave
prettamente tragica e romantica …
Comunque,
non ho esagerato riguardo all’orribile sacco di Feltre
del 1510 né alle torture che la gente indifesa
subì da parte dei Collegati.
Purtroppo ve ne saranno ancora, più in là con la
storia. E dispiace dire, ma
come il Sanudo ha anche laconicamente commentato, anche gli
“italiani” ci
misero del proprio comportandosi né più
né meno come gli stranieri.
Bene
(insomma), spero che il capitolo vi sia piaciuto. Di nuovo,
scusate per la lunghezza!
Alla
prossima,
Un
po’ di noticine:
[1] Sansone =
personaggio
biblico dall’incredibile forza risiedente nei suoi lunghi
capelli, che con
l’inganno gli furono tagliati, rendendolo facile vittima dei
suoi nemici.
Accecato e legato a due colonne, Sansone invoca Dio di concedergli la
forza per
l’ultima impresa, da qui la famosa frase: “Muoia
Sansone con tutti i Filistei”,
per indicare tutt’oggi un atteggiamento autodistruttivo pur
di prevalere sul
proprio nemico.
[2] Argo Panoptes =
Argo che
tutto vede, secondo la leggenda questo gigante sorvegliava per ordine
di Hera
la ninfa Io trasformata in mucca da Zeus, onde nasconderla dalla moglie
gelosa.
Pentitosi di averle ceduto la ninfa-ora-vacca, ma non riuscendo ad
avvicinarvisi per via degli innumerevoli occhi del gigante, ecco che
Zeus
affida ad Ermes l’ingrato compito d’accopparlo e di
ritornargli la bovina
amante. Hera, commossa dalla fedeltà del gigante,
staccherà dal cadavere di Argo
i suoi occhi e li appiccicherà sulla coda del pavone, suo
animale sacro.
[3] scorfano =
tipo di pesce,
nel linguaggio comune è anche sinonimo di persona assai
brutta e sgraziata.
[4] Guerra del Cadore =
conflitto combattutosi nel 1508, a causa dell’invasione del
Cadore da parte di
Massimiliano d’Asburgo, che con la scusa di scendere a farsi
incoronare a Roma,
ben aveva pensato di far un po’ di conquista dei territori di
confine
veneziani. Affidando il comando a Bartolomeo d’Alviano, Carlo
IV Malatesta, Rinieri
della Sassetta, Girolamo Savorgnan e pure col sostegno di Gian Giacomo
Trivulzio a capo di un contingente francese, Venezia non solo
respingerà
l’invasione, ma pure estenderà il suo dominio nel
resto Val di Grestra,
Gorizia, Cividale, Cormons, il triestino e Fiume. Immenso fu il
supporto della
popolazione cadorina alle truppe veneziane, le cui guide locali
guidarono
l’Alviano tramite la forcella Cibiana, scendendo per la Valle
di Cadore e
pertanto tagliando la strada agli Imperiali in fuga verso Cortina.
[5]
italiani =
generalmente s’intende tutti coloro
che non sono veneziani / marciani.
[6a]
Fresstir, fresstir =
storpiatura di “Fresst ihr, fresst
ihr”, ovvero “Mangiate! Mangiate”
– fressen, in tedesco è generalmente
utilizzato quando a mangiare è un animale o se applicato ad
una persona assume
allora un connotato negativo. [6b] Lustiche bube,
invece
corrisponde a “lustige Bube”, ovvero
“bambino divertente”.
[7] Topkapi =
Palazzo del
Topkapi o Serraglio del Topkapi era appunto la residenza ufficiale del
sultano
ottomano, dove si trovava anche il suo famoso harem.
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Capitolo 10 *** Capitolo Ottavo: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 06.09.2021
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Capitolo
Ottavo
Confiteor
(Non
avrai altro Dio fuori di me. Non nominare il nome di Dio invano.
Ricordati di
santificare le feste.)
6 settembre 1511
Faceva
uno strano effetto rivedere la luce per più di qualche ora
e osservare il sole che si teneva ben nascosto dietro infernali cirri
grigio-nerastri.
Hironimo
aveva perduto ogni nozione del tempo, seduto
semicosciente con la schiena appoggiata alla gabbia. Lentamente, ogni
tanto
accarezzava là dove gli pulsava il fianco, storcendo la
bocca ed espirando
forte dal naso alla vista del sangue sui polpastrelli.
“A
ti manco te curo, traidor d’un brixiano
fio-di-cagna!”
“Non
parlo veneziano.”
“Ah,
no? Vuostu ch’i toi degni compari i capiscan? Pulito! Donca
nettati ben le rècie et scolta qua: Brescia è
della Signoria!”
“Era.”
“Ritornerà!
E la tua testa sarà la prima a rotolare!”
“Mio
caro messer Girolamo, mi ricordavo della tua linguaccia lunga
a Venezia; un vero peccato che il tuo cervello non sappia
trattenerla!”
“Avrò
la lingua lunga, però almeno non è ruvida a furia
di leccare
i piedi al Re di Francia!”
“Io
servo l’Imperatore! Basta con le bambinate, dicci dei
podestà
scappati da Feltre e Belluno e della tua corrispondenza intrattenuta
con Gian
Paolo Gradenigo!”
“Se
vuoi davvero ch’io canti, mi devi fare un favore.”
“Quale?”
“Visto
che servi così zelantemente l’Imperatore, mettiti
in
ginocchio e servi con altrettanto ardore il mio cazzo! E magari, da
lì ne tiri
fuori qualcosa!”
Più
che gli impietosi colpi incassati sia onde costringerlo ad
uscire dal padiglione di Mercurio Bua sia per aver insolentito quel
rinnegato
del conte Gianfrancesco di Gambara (e manco ti degni di
pestarmi di man tua,
brutto coglione?) al patrizio doleva l’antica
ferita ottenuta a Castelnuovo
di Quero, riapertasi proprio ora che si stava rimarginando. Isolato nel
carro-gabbia
in attesa del ritorno di La Palice così da tirare a dadi
sulla sua sorte –
prigioniero dell’Imperatore o del Re di Francia? –
e senza il piccolo Thomà a
fargli da ombra e compagnia, al giovane Miani non restava che
appellarsi al
buonsenso di quegli scimuniti, ovvero di dargli anche solo un pezzo di
tessuto
per tamponare via il sangue.
La
nausea, creduta estinta giorni addietro, ritornò a serrargli
la
gola, bruciandogliela, mentre acute fitte di dolore gli percorrevano
ovunque e
impazzite il corpo sfinito da tutti quegli strapazzamenti, iniziando a
sudare
freddo.
Eh, merda.
Stavolta
aveva sul serio esagerato, pensava Hironimo, ridacchiando
amaro e appoggiando stancamente il capo sulla spalla, troppo fiaccato
nel corpo
come nell’anima per infastidirsi della pioggia che gli
bagnava faccia e
capelli.
“Mare
…”, si mossero inconsciamente le labbra screpolate
prima
dell’oblio di un sonno forzato, prosciugate le ultime energie
“… nunc et in
hora mortis nostrae …” e cadde in un tonfo sulla
paglia, lordandola di sangue.
***
1496
Nella sua
immensa pena Madre s’era scordata di chiudere la porta e
Momolo e suo fratello Marco poterono spiarla indisturbati da dietro la
pesante
tenda rossa. Seduta sul letto, con una mano ella accarezzava la toga
nera che
il marito indossava quando l’ufficiale sanitario finalmente
glielo aveva
riportato a casa. Con l’altra, coccolava dogliosa Frisopo il
cagnolino maltese
il quale, intuendo il malessere della padrona, le
s’acciambellava mesto e
fedele sul grembo, le orecchie basse e guaendo piano la comune
afflizione.
“Anzolo,
perché m’hastu lassà sola a sto
mondo?” (Momolo trasalì
dalla sorpresa: mai aveva udito Madre appellare Padre per il nome di
battesimo
né dargli del tu; in casa lui era sior
patron; sior marido; sior Pare;
sior cugnado, sior zerman e nezzo …) “De
grassia,
stame vizin. Solum cussì mi catarò
(troverò, ndr.) ea forsa …”
Captando
il celato singulto in quella supplica, Eudokia cinse la
padrona per le spalle precocemente ricurve e le sussurrò con
infinita dolcezza:
“Il kyrie Angelos sempre vi rimarrà
accanto e veglierà su di voi, ovunque egli si
trovi.”
Madre
sorrise tremula, silente, stringendo le dita lunghe e scure
della sua cameriera personale.
“Se
soltanto quest’amaro calice mi fosse stato risparmiato
…”
“Se
non per voi, fatevi forza per i vostri figli! Siete il loro
unico punto di riferimento rimastoli.”
Frisopo drizzò le orecchie e levò la candida testolina in
direzione di Momolo e Marco, abbaiando e scodinzolando la sua scoperta
scese
dalle ginocchia della padrona, la quale sbiancò nel vedersi
colta in
quell’intimo momento di sconforto, non desiderando
coinvolgere nei suoi
tormenti anche i figlioletti più giovani.
Alzatasi
dal letto e avanzando verso di loro, Madre allargò le
braccia e senza troppo temporeggiare Momolo le si avvinghiava, il volto
nascosto nel pesante abito nero, inumidendolo di lacrime. Marco,
invece, se
n’era rimasto in disparte, le mani strette dietro la schiena
e il collo ben
ritto così da giustificare i suoi quindici anni; eppure,
madona Leonora ben
notò il labbro inferiore tremolante e gli occhi cerchiati di
rosso sul volto
malsanamente pallido e tirato.
“Cosa
ci fate ancora in piedi? E vestiti poi!”,
s’informò la donna
in un misto di preoccupazione e rimprovero. “Seu mica di le
notole?”
(pipistrelli, ndr.), tentò di scherzare, passando la mano
sulla zazzera scura
di Momolo, che bofonchiò qualcosa
d’inintelligibile, prontamente tradotto da
Marco:
“Urlano
dabasso; non si può dormire manco a pagar oro!”
Ché
Lucha, Carlo e Crestina ancora si trovavano coi parenti nello
studio privato di Padre nella galleria del piano nobile e le loro urla
riecheggiavano talmente forti a Ca’ Miani, ch’era
un miracolo se i Signori di
Notte al Criminal [1] ancora non li avevano bussato alla porta,
inquisendo il
motivo di tale baccano notturno.
Terminate
le esequie e riposto il fu senatore sier Anzolo Miani nella
sua bella arca nella parte inferiore dell’abside di Santo
Stefano, sul suo
cadavere ancora caldo immediatamente la famiglia sua, del genero e
della moglie
avevano preso a scannarsi a vicenda, pigliando la povera vedova in
mezzo la
quale nessuno voleva vedere, tranne i figlioli. Purtroppo, i parenti
del marito
li aveva in casa e i suoi a Venezia e non potendo sfuggire
né all’uno né
all’altro doveva ogni santissimo giorno sorbirsi le
reciproche accuse, pretese
e insulti. Non potendosi beccare in Senato, pena severe sanzioni, si
sfogavano
nell’intimità delle mura domestiche.
La
questione appariva di semplice causa ma di difficile soluzione:
il testamento.
La
scomparsa improvvisa di sier Anzolo oltre a rompere
l’equilibrio familiare in Ca’ Miani aveva scatenato
un putiferio, giacché tra
lo smacco generale si era scoperto come l’uomo non avesse
lasciato alcun
testamento, il che apriva una miriade di questioni
sull’effettiva distribuzione
dell’eredità. A ciò
s’aggiungevano i richiami del notaio che dietro
chiari ordini della Signoria ricordava solerte ai corocciosi come
la strada del Paradiso passasse attraverso la carità, ovver
provvedere ad
elargire pingui lasciti e donazioni agli ospizi, e sier Anzolo Miani ne
aveva
di strada da fare, per il Paradiso …
A Venezia
non si riconosceva il diritto di primogenitura che
spogliava i figli minori in favore del primo. Anima di mercante, la
Serenissima
non amava il denaro liquido e condannava le fortune eccessive,
arrivando ad
imporre alla sua classe dirigente o di finanziare a loro spese opere di
pubblica utilità o, come accadde ai ricchissimi cugini
Corner, di maritare a
qualsiasi costo i loro figlioli onde disperder meglio il patrimonio.
Avesse
sier Anzolo lasciato un testamento in cui favoriva i suoi altri quattro
figli
(o uno di loro) di più rispetto a Lucha, benissimo, a suo
piacere! Il
ventunenne Miani conservava solo il titolo simbolico di capofamiglia,
giusto
perché era il maggiore e dunque suo dovere, ora,
d’aiutare Madre a provvedere
ai fratelli.
La
Signoria, comprensiva e riconoscente per i servizi di sier
Anzolo anche senza pecuniario guadagno in tempi di crisi [2], aveva
disposto
una piccola pensione e garantito la gratuita istruzione dei suoi
orfani, poiché
né Lucha né Carlo ancora erano entrati di diritto
nel Maggior Consiglio e
pertanto dovevano affidarsi agli introiti degli affitti dalle loro
proprietà
fondiarie e del commercio della lana. Purtroppo, però, tale
generosità era al
contempo oculatamente controllata, sicché ogni spesa doveva
essere
giustificata, dal vestiario
all’approvvigionamento di cibo e vino
(che non doveva superare per durata un mese), dai divertimenti al
numero di
domestici. Madona Leonora, facendo accorta leva sulla grande devozione
mariana
della Signoria, era riuscita a persuaderla a
condonarle perlomeno il
completamento di un ritratto con l’intera famiglia sotto il
manto della
Madonna, un capriccio che sier Anzolo aveva voluto concedere alla
moglie per celebrare
i ventiquattro anni di felice e prospero matrimonio.
La
Signoria aveva perfino in parte saldato alcuni naturali debiti
accumulati e anticipato le somme che una masnada di creditori,
spaventata
dall’incertezza di rivedere i propri soldi, pretendeva
indietro a gran voce,
arrivando perfino a cingere d’assedio Ca’ Miani, al
che i servitori Nardo,
Menego, Polo, Symon e Baldissera erano stati costretti ad un certo
punto ad
uscire e randellare senza pietà alcuna quegli avidi, prima
che il Capo Contrada
si stufasse e chiedesse rinforzo agli Zaffi o peggio ancora che si
sguinzagliassero gli Arsenalotti e allora bondì a
tutti.
Inoltre,
s’aggiungeva la questione della cospicua dote della prima
moglie di sier Anzolo, madona Andriana Trum nipote del fu doge
Nicolò Trum, che
i da Molin reclamavano passasse di diritto a Crestina; e poi quella di
madona
Leonora Morexini Miani. In teoria, la dote di quest’ultima le
sarebbe dovuta
spettare indietro in totum (come
sostenevano i Morexini) in
pratica, però, nulla di scritto lo garantiva come
transazione automatica (come
invece sostenevano i Miani). Senza contare che non si parlava
solo dei
2,000 ducati d’oro versati da Ysabeta Contarini relicta di
Carlo Morexini
"da Lisbona", bensì di appartamenti e altre
proprietà a Venezia.
Da
settimane i Morexini, i Miani e i
da
Molin si stavano quindi sgolando senza raggiungere un accordo.
Ogniqualvolta
pareva si fosse giunti ad un compromesso, ecco che saltava fuori un
cavillo e
via daccapo a litigare.
Questo
perché, scartabellando i libri di conto, le dichiarazioni e
altri atti notarili, ci si rese conto che l’unico denaro
liquido rimasto era
per lo più quello dalle entrate della bottega a Rialto e della dote della vedova, la quale rimaneva
sua da gestire ma comunque
a nome del marito. Sier Anzolo lasciava il negozio, i
magazzini, la
sua parte di proprietà di Ca’ Miani, dei campi a
Fanzolo ereditati da sua madre
madona Crestina Loredan Miani e quelli comprati, dal 1467 al 1470,
assieme a
delle case date in affitto e un bosco per il legname, più
una casa a Treviso.
In questo modo, la famiglia avrebbe sempre contato su di una rendita
sicura e
diversificata, finalizzata anche alla provvista degli elementi
necessari alla
tavola padronale (grano, vino, salumi) e la biada e il fieno per i loro
cavalli. Ma contanti pochi, troppo pochi.
“Eudokia,
per favore, potresti portarmi la cappa?”, chiese di
punto in bianco madona Leonora, respirando a fondo e prendendo per mano
sia
Momolo sia Marco; una volta che la sua fantesca l’ebbe
fermato sulla cuffietta
di seta nera il pesante paneselo nero, che la ricopriva dalla fronte
fin quasi
ai piedi, la donna scese coi figli in direzione dello studio privato
del
marito.
Senza
salutare né curarsi dell’interdetto silenzio
generato dalla
sua solenne entrata, la vedova si portò dietro la scrivania
di quercia venata
d’oro e fatto cenno al segretario Ruberto Francho, che
incominciasse a
trascrivere, sentenziò costì: “Vedo qua
che xé impossibile de far che ci si
pacifica e se lo fasse lo faràve tutti per forza, e doman
se tornarave da
capo. Avé sentìo i capitoli; mi sun
ea patrona de sta caxa,
e mi penserò a
provveder tutto, e a niun lasserò mancar el
bisogno”, e indicando il suo primogenito:
“Lucha
m'agiuterà a tegnir l'economia di la caxa e cussì
l'imparerà.
Carlo, Marchetto e Momolo proseguiranno i loro studi e poi
s’avedarà. La
Signoria ha già provveduto a fornirci il danaro necessario e
il buon don Jacomo
Batista Aloisi è più che contento, di continuare
ad insegnare a Carlo. Da
voialtri, quindi, non mi aspetto né pretendo un singolo
mocenigo.
“Al
parentado mio, che si tranquillizzino: se la mia dote non si
potrà
in alcun modo recuperare, pazienza, se ne gioveranno i miei figli i
quali, a
conti fatti, in futuro ne avranno più bisogno di me. A mia
fia Crestina toccherà
in totum la dote della sua siora Mare, madona Andriana, e co’
la se sgrava, dovesse
ancora rimanere qualcosa di suo, venga a prenderselo, nulla
quaestio.
“Non
si suol dire, che le vedove veneziane abbracciano, con la
morte del marito, la morte di tutte le vanità?
Anch’io farò così e giustamente non
mi servono né ornamenti né vestiti, né
zendali, cappe, scuffie, calcagneti,
ventagli, gioielli nuovi: Haec ornamenta mea !”
[3], asserì grave
la matrona, mostrando orgogliosa i suoi figlioli.
“Al
parentado dil mio sior marido, se questa soluzione non risulta
di loro gradimento, che i vaga in tel lhor appartamento de
sóra, nuialtri
starem in quel de sotto. Ghe darò parte di la
servitù solo par eli, ghe farò
per un fià tóla (tavola, ndr.) separada, e no vedendose
e no trattandose,
pol ser che le question la se quieta, se ciò può
far ritornare la pace in
questa nostra famiglia in lutto!”
E prima
che chiunque osasse contraddirla, madona Leonora Morexini Miani
s’issò in braccio un Momolo ciondolante dal sonno
e scortata da Marco, Eudokia
ed Orsolina uscì trionfante dallo studiolo,
l’intero parentado ammutolito.
***
1497
Nella
tragedia, dunque, madona Leonora Morexini relicta Miani si
costrinse a rimanere forte, saggia e coraggiosa e non a gloria sua
personale
bensì per il bene delle sue creature, la luce dei suoi
occhi. Da sempre abile
nel maneggio dell’economia domestica e nel tenere i conti di
casa, talento
acquisito dalla sua famiglia di mercanti e all’occasione
banchieri, Leonora
seppe dimostrare agli scettici parenti di sapersela sbrigare
egregiamente da
sola e senza alcuna intromissione o consiglio
nell’amministrazione del
patrimonio immobiliare a Venezia, Castelfranco e nella Valle della
Piave ma
soprattutto nella conduzione del commercio laniero ereditato dai
suoceri.
Impegni politici, amministrativi, commerciali e militari avevano tenuto
suo
marito Anzolo spesso e volentieri lontano da casa, sicché
l’uomo, per
pragmatico buonsenso, già in vita s’era affiancato
la moglie nei proprio esercizi,
confidando più in lei che nell’onestà
dei suoi segretari e amministratori.
D’altronde, gli unici parenti stretti del marito, ovvero i
cugini germani sier
Zuan Francesco e sier Thomà Miani avevano già le
loro cariche cui pensare e i
cognati che Leonora mai conobbe, sier Marco e sier Vorzilio Miani,
erano morti
prematuramente, lasciando dunque il fratello mediano Anzolo erede universale di
tutto.
Man mano
che il matrimonio si saldava tramite un reciproco e
profondo affetto (pur seguitando all’occasione di litigare),
non si poté dire
che Anzolo fu con Leonora un maestro avaro: le
insegnò da pari ogni
sua conoscenza in materia e senza nasconderle nulla, come trattare coi
clienti
e i mediatori; come piazzare la merce sul mercato più
vantaggioso; come scovare
il miglior offerente; come anticipare e sbaragliare la concorrenza,
specialmente quella toscana e lombarda. Le aveva insegnato a gestire le
spese
di spedizione nonché della manutenzione delle galee, del
cargo e del
reclutamento dell’equipaggio così come il
pagamento dei loro stipendi.
Il tavolo
di quercia venato d’oro dopo il periodo di lutto
ritornò
seppellito di carte di navigazione, di contratti, libri di conto,
cedole,
cambiali, corrispondenza da Rodi, Candia, Cipro, Cattaro, Sebenico,
Spalato,
Durazzo, Scutari, Smirna, Costantinopoli, Tana, Beirut e Alessandria; da Buda (Budapest, ndr.), Anversa, Bruges, Antona (Southampton, ndr.), Londra, Lisbona, Barcellona,
Lione, Aigues-Mortes … Accanto a
Madre sedeva Lucha, leggendo e discutendo assieme le ultime
novità economiche e
politiche udite a Rialto e firmando ambedue sui documenti ufficiali.
Ben
presto, con la scusa di osservare, Marco s’era unito a loro,
dimostrandosi un
allievo ancor più recettivo e avido d’apprendere
del maggiore, azzardandosi di
tanto in tanto di suggerire, con l’ingenua perspicacia dei
suoi sedici anni,
qualche piccola mossa di compravendita. Carlo, quando non studiava a
Santo
Stefano, era riuscito a ritagliarsi il suo angolino di nicchia ossia
l’aspetto
legislativo della mercatura, le sue leggi e i suoi regolamenti, e
lì trionfò,
applicandovi con efficacia gli studi di
giurisprudenza. Quanto a
Momolo, anch’egli venne ammesso al grande tavolo
più che altro perché cessasse
di guardarli storto durante la cena, offesissimo, sentendosi a sua
detta
ingiustamente escluso. Tuttavia, Madre ugualmente gli affidava alcuni
esercizi,
tra cui: se il ricavo di oggi è stato X, ma ci sono volute Y
di spese fisse e Z
di spese straordinarie, più aggiungi i ricavi dei mesi
scorsi e considerato il
totale di ogni spesa, dici che questo quadrimestre, tenendo in conto lo
stesso
periodo dell’anno precedente e il valore della lira e del
ducato, stiamo
andando in perdita o in guadagno? Almeno così stava quieto,
dimostrando la sua
naturale inclinazione verso la matematica rispetto allo studio della
Bibbia e
dei classici antichi, il cui profondo odio verso di essi il fantolino a
stento
riusciva a celare.
Spiando
l’ultimogenito di sottecchi, concentratissimo a risolvere
l’ultimo problema, Leonora s’umettò le
labbra, il cuore pesante. Malgrado
Momolo s’ostinasse a lasciarsi crescere disordinato i
capelli, tanto
d’appellarlo scherzosamente zazzerone,
alla donna non erano
sfuggiti i lividi sugli zigomi che il bambino copriva con le ciocche
fingendo
di grattarsi la testa, o le nocche gonfie seminascoste goffamente dalle
maniche
della camiciola assieme ai graffi e tagli sparsi fino ai gomiti
– colpa della
corda dell’arco, le mentiva con allarmante naturalezza.
Rideva sempre di meno,
il fu pagliaccetto di casa.
Di tutte
le quotidiane angosce che attanagliavano madona Leonora e
contro cui combatteva a spada tratta, la sorte dei figli rimaneva
quella
maggiore. I più vecchi non le davano, in fondo, grandi
preoccupazioni; col
tempo, Lucha e Carlo avrebbero intrapreso una solida carriera a seconda
delle
proprie abilità e talenti; anche Marco era sulla medesima
buona strada. Momolo,
invece …
Momolo,
pur ereditando i tratti fisici dei Morexini, assomigliava
in tutto e per tutto a suo padre caratterialmente, anche negli aspetti
più
infelici. Sotto la scorza d’estrema vivacità,
intraprendenza e affabilità, si
celava un animo inquieto, nervoso, prono a frequenti scatti
d’irascibilità,
quest’ultime vere e proprie fiammate d’ira che
s’accendevano senza preavviso e
la donna sapeva come crescendo, sostituendosi gli umori
dell’uomo adulto a
quelli del bambino, esse erano destinate solamente a peggiorare.
Laddove suo
fratello sier Batista lodava il coraggio del nipote a rispondere per le
rime a
chi insultava la memoria del defunto senatore, Madre vi scorgeva
soltanto
temerarietà ai limiti dell’autodistruttivo, specie
dinanzi alle ecchimosi ogni
giorno più grandi e i continui segni della ferula sulle mani
e sulle natiche quando
ritornava dalle lezioni al Monastero della Carità, sulla riva opposta del Canal Grande.
Leonora
sapeva quante forze in bene e in male covassero nel suo
ultimogenito, per il momento ancora tutto suo ma fino a quando?
Già la
rifuggiva, sgattaiolandole via e reclamando i propri spazi.
Precisamente
adesso, alla soglia degli anni difficili della prima giovinezza, il
Signore
aveva disposto che gli venisse a mancare il solido appoggio (e freno)
del padre
Anzolo.
La vedova
Miani neanche si figurava quanto vicina fosse arrivata alla
verità. Avesse, infatti, potuto spiare a guisa di mosca le
ore trascorse a
scuola, di certo la sorte del figlio l’avrebbe turbata
doppiamente. E appunto
giacché l’undicenne sapeva di avere la coda di
paglia e sapeva quanto Madre
avrebbe sofferto per il suo scarso rendimento assieme alle continue
vessazioni
da parte dei compagni, che aveva cessato di riferirle qualsiasi cosa
accadesse
al Monastero della Carità.
Momolo
era al contempo fonte di timore e dileggio. Facile vittima
per il suo aspetto mingherlino, per quei capelli lunghi “da
femena” e
ovviamente per il presunto suicidio di Padre, se provocato soffiava a
guisa
d’un gatto e come tale mordeva e graffiava
l’avversario fino a trar sangue.
Grazie all’inarrestabile sviluppo del suo corpo, la sua
malizia nella vendetta
cresceva esponenzialmente alla sua forza fisica, tanto da divenire il
terrore
dei poveri canonici regolari suoi precettori il cui unico rimedio
consisteva
nel bacchettargli le mani o il sedere come se potesse fargli alcuna
differenza.
E poi
c’era la questione religiosa, che li turbava non poco.
Momolo già aveva appreso da Madre e sua sorella Crestina i
primi rudimenti
della Fede, ma quanto praticato s’era inaridito in mefitico
rancore alternato
ad indifferenza verso ogni aspetto del credo cristiano, disertando ogni
funzione, rosario e adorazione nella piccola cappella privata a Ca'
Miani o nell'adiacente Chiesa di San Vidal.
Grandi guerre per andare a Messa prima della lezione, accaparrando ogni
sorta
di scusa per bigiarla; se ci andava, s’annoiava o
s’addormentava o fissando il
soffitto ascoltava svogliato le letture della Bibbia, appoggiando
imbronciato
la mano sulla guancia. Ogni disciplina classica l’affrontava
di malavoglia e con
poco impegno; solo nelle lezioni di matematica e scienze meccaniche
Momolo si
risvegliava al che al magister suo prudevano le mani, poiché
sapeva che il
bambino stupido non era, semmai il contrario, soltanto un gran
fannullone.
Ignorava come in realtà Momolo si sforzasse di stare
attento, ma semplicemente
quando un concetto gli sfuggiva, non potendo
interrompere con
domande il precettore e non curandosi questi di fermarsi ad indagare se
i suoi
alunni avessero ben assimilato le nozioni appena enunciate, allora il
fantolino
perdeva il filo del discorso e lì si distraeva, non
riuscendo a capire più
nulla. Imparava a memoria, quella l’aveva assai buona, per
poi dimenticarsi già
tutto il giorno successivo.
Neanche
in quella grigia mattina di marzo, la situazione appariva
tanto diversa.
Il
magister, desiderando iniziare i suoi allievi alle opere del
grande poeta Dante Alighieri, aveva portato una sua personale copia
così da
leggere, parafrasare e commentare qualche passo dei canti
dell’Inferno, il più
facile, approfittandone d’aggiungere inoltre qualche nozione
storica;
quand’ecco, che l’uomo scivolò
nell’errore di menzionare Pier della Vigna e il
giardino dei suicidi.
Tutte le
teste si voltarono in sincronia perfetta verso Momolo,
così come i sorrisi crudeli dei suoi compagni, e il
più insensibile di loro
esclamò: “Anche il tuo sior Pare, il suicida, sta
marcendo all’inferno,
trasformato in un albero a tener compagnia al Pier della
Vigna!”
Neppure
ebbe tempo il canonico di rimproverare l’alunno discolo,
che Momolo gli aveva rapidissimo sottratto la sua adorata Divina
Commedia da
sotto il naso, sbattendola in faccia al provocatore, che cadde
rovinosamente a
terra, reggendosi il capo dolorante e il naso sanguinante.
“Perché
l’hastu fatto? Quella scimmia sarebbe stata punita e
invece hai visto, ricorrendo alla violenza, come sei passato tu dalla parte del torto?”, lo
rimproverò Marco.
I due
fratelli, terminata la lezione del minore, avevano
approfittato delle ultime ore di sole per recarsi alla spiaggia di San
Nicolò
al Lido e colà esercitarsi nel tiro con l’arco,
disciplina da Momolo molto
amata e in cui si stava dimostrando più che capace, persino
in quel momento con
le mani bendate per via delle dodici apostolicamente feroci bacchettate
elargitegli dal furente pedagogo.
“Donca?
Il gatto t’ha mangiato la lingua?”, insistette il
maggiore, corrugando la fronte dinanzi all’ostinato silenzio
del bambino, che
serrando le labbra seguitava a mirare al bersaglio, centrandolo in
pieno a
freccia scoccata.
“El
sior nuostro Pare, non è un albero come quel Pier della
Pigna!”,
protestò infine Momolo, gli occhi di bragia.
"Vigna, sempioto, Vigna!"
“Vigna, pigna, ugualmente me gh'ha insolentà! Quel muso-da-mona a xé stà ‘na gran carogna, gh’averia dovuo batterlo pì forte!”
Marco
sospirò pesantemente, pizzicando simil arpa la corda del
proprio arco. “Momolo, riconosco quanto sia dura accettarlo,
ma le cose
purtroppo stanno così: se il sior nuostro Pare
s’è per davvero tolto la vita, ha
commesso un peccato imperdonabile che dovrà scontare
all’inferno.”
“Chi
disélo?”
“Missier
Domine Iddio.”
“Mi
credea che Lu l’è perdonador.”
“El
xé anca zudese.”
“Donca,
Lu nol capisse gnente.”
Marco
spalancò sbalordito la bocca, incapace di credere a quanto
appena proferito dal fratellino.
“Egli
non capisce niente”, ripeté testardo Momolo.
“Nostro padre
era un brav’uomo: non faceva e non ha mai fatto del male a
nessuno, non rubava,
s’adoperava in moltissime opere di carità, vai a
chiedere a quei mangiapane ad
ufo degli Agostiniani a Santo Stefano, a questi Canonici Regolari
Lateranensi
alla Carità, ingrassati dai nostri soldi! Padre pregava
tutti i giorni, non
mancava ad alcuna Messa, non picchiava la siora nostra Mare
né bestemmiava il
corpo di Cristo e di venàre (venerdì, ndr.)
cascasse il mondo, si mangiava
esclusivamente baccalà!
“E
ora tu hai il coraggio di dirmi, che Missier Domine Iddio non
tiene conto di ciò? Che fosse almanco vero, poi! Il nostro
sior Pare mai e poi
si sarebbe tolto la vita! Ci amava e ci proteggeva! È la
gente, quella cattiva,
vigliacca e senz’onore!”, gridò
all’improvviso, divenendo paonazzo in volto e
battendo pesantemente il piede per terra. “E anche Dio
è ingiusto e crudele!”,
aggiunse con altrettanta foga l’undicenne, tendendo malamente
l’arco e di fatti
la corda gli s’impigliò sul naso, ferendogli la
guancia e ingarbugliandosi con
la maschera, quasi ne uscì accecato. “Che sia
maledio! Vermocane!”, imprecò,
massaggiandosi la guancia offesa.
“Zò,
bocha de rosa! Cossa xele ste finéze?”
(raffinatezze, ndr.),
fischiò suo fratello maggiore, volendo il suo corrispondere
ad uno scherzoso
richiamo, ma il tremolio nella sua voce tradiva quanto la veemente
confessione
di Momolo l’avesse turbato.
“Ti
te ne disi ben pì sporche”, ribatté
imbronciato il fantolino.
“E ti fa anca le cosse sporche!”,
l’accusò, ripetendo più che altro le
parole
di un’imbarazzata Orsolina, quando Momolo le aveva chiesto
perché talvolta di
notte Marco dormisse col suo còco in
mano, sospirando.
“Sì”,
roteò il più anziano gli occhi, le orecchie rosse
al ricordo
della ramanzina di Madre circa i suoi passatempi notturni.
“Però io dopo mi
confesso mentre tu, turchetto, manco
t’avvicini alla chiesa!”
“Più
bugiardi dei miei compagni di scuola, rimangono solo i preti!”
Al che,
colmata la misura, Marco pigliò Momolo per ambedue le
orecchie, intimandogli perentorio: “Scolta ben,
pajàzo: tu queste cose le
ripeti solo a me e a nessun altro. Comprendestu? O te
squarto!”
Fortunatamente,
il Lido a quell’ora si presentava semideserto e
comunque, cortesia del Carlevar, le maschere che indossavano fornivano
loro
adeguata protezione da orecchie e occhi indiscreti.
D’altronde, tutta Venezia
in quel momento era riversa in ciascuna sua piazza, campo o campiello a
far
baldoria e la sua attenzione rivolta ben altrove.
Piccato,
il bambino cedette e annuì forzatamente, il cuore in
subbuglio e la gola stretta dal dispetto e la voglia di gridare e
mordere.
“Domani
vieni a Messa,
sastu? E poche
storie!”
“No
gh’ho voja!”
“Te
la farai venire, anche perché c’è il
battesimo del nostro
nipote Gasparo.”
“Uffa,
proprio domani che c’è il Zuoba della Caza?!” [4]
“Ih!
La fanno ogni anno; non morirai se per questo la perdi!”
Momolo
sbuffò talmente forte e scalciò doppiamente irato
sulla
sabbia che pareva lui, il toro in Piazzetta.
Sua
sorella Crestina aveva dato di recente alla luce un bel
puttino roseo e grassottello, rallegrando assai l’intero
parentado e Madre in
particolare, che se lo coccolava instancabile e confidando ad un
imbarazzatissimo Lucha circa il suo desiderio di volerne presto un
altro da
lui. Solo la piccola Leonora, o Dionora per distinguerla dalla nonna,
si doleva
di quella nascita, gelosa del fratellino e sentendosi messa in
disparte,
dimenticata.
Vermocane,
da questa non posso defilarmi! O mia sorela Tina m’en
vorrà! Vermocane!, inveì Momolo astioso e in trappola,
assicurando la freccia sulla cocca e ignorando bellamente il sorriso
sornione
di Marco, quasi avesse intuito i suoi pensieri.
Quand’ecco
che all’ultimo l’undicenne cangiò
bersaglio, mirando ad
un rumoroso gabbiano col pesce in bocca appena catturato. Sistu
felice,
stupida bestia? e scoccò, sogghignando
malevolo al gorgoglio
agonizzante dell’uccello che cadde in un pesante tonfo in
acqua, la preda
ritornata in libertà.
Il
sorriso svanì subito dalle labbra di Marco.
“Co
m’insegnarastu ea scrima?” (scherma, ndr.)
Essendo
nel bel mezzo della Settimana Grassa del Carnevale
(l’ultima prima delle Ceneri) tra zuffe, assassinii, arresti,
furti nonché
cani, orsi, tori e buoi randagi scappati dalle corride, alla gente
veniva
concesso di girare armata anche di notte mentre i più
previdenti preferivano
rinchiudersi in casa anticipando di parecchi giorni il periodo della
penitenza. Marco pertanto era venuto a prendere di
persona il
fratellino assieme al servitore Trovaxo e Momolo aveva per tutto il
tragitto in
ganzaruòlo spiato con occhio goloso le spade e le daghe ben
allacciate alle
cinture del maggiore e del domestico.
“Ea
scrima? Quando tradurrai dal latino senza becanòti (errori,
ndr.)!”
Cioè
il giorno del mai.
“Puoah,
rassa de sgrimio basacòco (antipatico baciapisello, ndr.)
…”,
mugugnò indispettito il bambino,
stringendo gli occhi al
grugnito di Marco, già preparandosi allo scappellotto.
Invece, un pizzicotto al
fianco lo face sobbalzare in avanti stile ranocchio, presto seguito da
un altro
che gli provocò un fastidioso solletico.
“A
mi dil basacòco? Mo via, te fazzo pissar
indosso
dalle risate!”, esclamò Marco, fingendosi offeso,
al contrario ridendosela alla
grossa davanti al buffo spettacolo di Momolo che si contorceva fino a
cadere
per terra dalle risate e scattando al suo inseguimento quando il
fratellino
riuscì a sgusciargli via. “Se te ciapo!”
Voltandosi
brevemente e seguitando a ridere sguaiato, Momolo si
batteva irrispettoso il didietro, sfidandolo: “Corri, corri,
vecio, ché te
gh’arivi ultimo!”
(Al
battesimo si comportò civilmente, solo dietro promessa di
poter tener in braccio l’infante Gasparo e tanto gli piacque
che chiese a
Crestina quando gliene faceva un altro. Purtroppo, malgrado la sua
condotta
esemplare, Madre non gli concesse di recarsi
ugualmente in Piazza
per assistere al combattimento di galli. Per ripicca, Momolo non solo
si
nascose nell’altana [5] assieme al cagnolino Frisopo,
perdendo la Messa lui e
facendo arrivare in ritardo la famiglia, ma pure si mangiò a
spregio uno
spiedino di fritole messo da parte il giorno precedente, tra le
occhiatacce
piene di biasimo delle vecchie babe alle finestre – turchetto!
turchetto! – che lo spiavano affamate e
crocisegnate di cenere sulla
fronte)
***
1498
L’avvertimento
di Marco sul moderare il linguaggio nelle
imprecazioni, non corrispondeva al suo desiderio di apparire
più autorevole nei
confronti del fratellino, quando anzi lui per primo predicava male e
ruzzolava
peggio. Ma anche il ragazzo conosceva bene i limiti delle concesse
trasgressioni
a Venezia, il primo e imperdonabile tra questi era il mal suo
più antico e più
ostinato da sradicare: la bestemmia.
In atroci
e rabbiose maledizioni si sfogava e inveiva il popolo e
con loro parecchi degli stessi patrizi e addirittura i preti,
nonostante ai
laici spettasse il taglio della mano o della lingua assieme alla
perdita degli
occhi, mentre i religiosi venivano rinchiusi della cheba (gabbia,
ndr.),
sospesa ad un palo alla metà circa del campanile di San
Marco.
Niente da
fare, si seguitava imperterriti. Similmente al
raffreddore la bestemmia viaggiava e contagiava lingua e orecchie,
finendo
d’impararle volenti o nolenti a furia di sentirsele ripetere
in continuazione,
seppur proferite sottovoce o ringhiate sibilando tra i denti onde non
attirar
l’attenzione.
Sicché
il cugino di Padre, sier Zuan Francesco Miani detto
"Pizzocchero" come suo padre sier Hironimo, al minimo accenno
d’imprecazioni strizzava con notevole forza un lembo
dell’orecchio
dell’impudente (poco importava se maschio o femmina, parente
o famiglio) per
ricordare gravemente solenne al malfattore della triste sorte del
patrizio
Zuanne Zorzi di San Maurizio, cui era stata cinque anni addietro
tagliata una
mano.
Purtroppo,
nelle numerose sfaccettature della bestemmia intesa
come imprecazione s’inseriva la bestemmia come blasfemia e
lì camminava Momolo
su di una sottilissima lastra di ghiaccio. Se pur s’esibiva
in raffinate e
creative volgarità – lengua
ontissima!, commentava indignato sier
Zuan Francesco - non aveva mai oltrepassato quella linea
tabù. Questo,
però, non l’ostacolava dal condividere la sua
opinione circa i contenuti della
Bibbia, che soltanto la sua giovanissima età impediva
all’ascoltatore di
pigliarlo sul serio.
Vittima
sua preferita rimaneva, giustamente, il suo povero
magister al Monastero della Carità.
“Perché
undì gh’ho d’orar San David re?
Perché lo considerano un
“santo”? El gera n’onto
cotolòn; un bigamo e un adultero, ch’aveva mandato
a
morire il suo miglior amico e generale Uria, perché quel
bèco (cornuto, ndr.)
non voleva riconoscere il figlio bastardo messo in pancia da David alla
sua
siora mojer Betsabea!”
Oppure
quando commentando la condanna per stupro di un bigamo [6]:
“Et
Jacopo d’Isaco, che s’era preso sia Lia che sua
sorella
Rachele? O re Solomon con tante femene quanto Gen Soldan e il Signor
Turco
messi assieme?”
Al che
l’esasperato precettore replicava:
“Capisco,
Momolo, tuttavia considera che i patriarchi e i profeti
dell’Antico Testamento erano giudei.”
“E
noialtri cosa siamo?”
“Noi,
cristiani. Su di te, nutro qualche dubbio.”
Al
beffardo risolino di sottofondo, al ragazzino saltò
immediatamente la mosca al naso. “E dunque come mai perdiamo
tempo a leggere le
vicende dei Giudei, se noi non lo siamo?”
“Se
tu avessi prestato attenzione quando ti spiegavo il Vangelo
secondo il Missier Sen Mathio, ti saresti accorto come Domine Jesus
Christo sia
il compimento dell’Antico Testamento.”
“Sì,
però Lui ci ha comandato di non pigliarsi più
d’una moglie,
mentre i Padri d’Israele facevano e disfacevano matrimoni a
destra e a manca! È
una contraddizione, signor maestro!”, s’erse una
vocina, imprevista alleata.
“Marcolin,
te scomenzi ancha ti, horra?”, si lamentò il
canonico,
provocando un furioso rossore nelle gote del novenne Marcolino
Contarini “dai
Scrigni”, che abbassò contrito il capo. Momolo,
invece, si girò a guardarlo
perplesso, notando solo adesso per la prima volta il bambino, nuova
addizione
nella classe, uno dei tanti figli dei Contarini di San Trovaso, i
generosissimi
mecenati del Monastero. “Iddio ha creato un ma-scio
et una femena,
i quali s’uniscono in un unico ed eterno maridaùro
(matrimonio, ndr.)! Il sior marido
ha da custodire e guidare la siora mojer, perché fu Eva a
far precipitare Adam,
persuadendolo a mangiare il frutto proibito, lei per prima ingannata
dal vile
serpente!”
“Pì
ch’el pòmo”, resisteva a tutto Momolo
tranne che alle
tentazioni, “la siora Eva ha offerto ad Adam la sua pignatèla (potta, ndr.)!
Per questo, quello
scemo s’è coperto el còco davanti a
Dio, ché ce l’aveva ancor …”
Sciaff!
Un
possente ceffone l’interruppe e il dodicenne si
portò lesto la
mano sulla gota, inchiodando furente il magister con lo sguardo.
“Adesso
tu ed io ci rechiamo in confessionale, a chieder perdono a
Dio e a mondare quella tua lingua d’inferno!”
“Siornò!”
“Vuostu
morir biastemador?”
“Io
non crepo né sono un bestemmiatore!”,
protestò Momolo
scattando in piedi, il volto scarlatto e la vista offuscata dalla
collera, le
mani talmente tremanti da spezzare inconsciamente una penna.
“Sior magister,
deboto volé scoltar na vera biastema? Or- “,
ma il precettore
l’anticipò, tappandogli la bocca e trascinandolo
fuori dall’aula sotto lo
sguardo attonito degli altri alunni, trascinandolo di peso nella chiesa
attigua
al monastero, rabbrividendo alla fiumana
d’oscenità rigurgitate dalle labbra
del ragazzino, avvertendole se non con le orecchie con la pelle della
mano che
le bloccava.
Ovviamente,
neppure descrivendogli le peggiori torture
dell’Inferno aveva scalfito la granitica ostinazione del
giovinetto a non
confessarsi, neanche lasciandolo lì in ginocchio dinanzi al
crocifisso per
l’intera giornata finché, esasperato, il canonico
non l’aveva condotto lui
stesso a Ca’ Miani dove ruppe gli argini di due anni di
disperazione e tormenti
cui quel masnadiere l’aveva costretto.
Ascoltando
ambedue costernati, un Lucha porpora e Madre bianca
latte s’umiliarono a suon di scuse, biasimando lamentevoli la
ferita tuttora
aperta che la morte del fu sier Anzolo aveva lasciato nel cuore di
Momolo, che
gli aveva levato ahimè la pace dello spirito. In lacrime,
madona Leonora aveva
afferrato le mani del precettore, domandandogli se avesse avuto cuore
di far
tagliare la mano e la lingua o cavar gli occhi ad un fanciullo di
dodici anni.
A ciò l’uomo, pur grande amatore della legge
secolare e della morale cristiana,
non s’era saputo difendere, provando in effetti un intimo
orrore dinanzi a tal
punizione eccessivamente severa per un ragazzino. “A patto
però”, aggiunse
prima di congedarsi, “che il Momolo si dia una calmata o
l’espelleremo seduta
stante: oggi invero ha passato ogni limite.”
Momolo
terminò il resto dell’infelice giornata in
punizione senza
cena, con le orecchie ancora fischianti dai ceffoni e del furibondo
predicozzo
del cugino di Padre sier Zuan Francesco: Chi ti credi di
essere, razza di
ingrato? Il mio sior Barba sier Nicolò Miani ha fatto dare i
scasi di corda a
sier Jacomo Foschari, il figlio di Missier il Doxe Francesco Foschari!
[7] Cosa
credi che ci voglia alla Signoria per cavarti gli occhi e tagliarti la
lingua?
Sì, proprio a te, che te sé un missier
nissùn ? Sempio! Bauco! Oco! Mamara!
Testa-da-bigoli! - nonché
cogli occhi ancor pieni del
manrovescio che sier Zuan Francesco aveva dato a Lucha - Indriòto
(idiota, ndr.) anca ti, co il tòo sior Pare l’gera
in vita, queste cose mai e
poi sarebbero accadute! Per secoli i Miani hanno patrocinato il
Monastero della
Carità, per secoli siamo stati ad esso legati e sempre
tenuti in grandissima
considerazione: adesso, per colpa di quel turco di tuo fratello e per
la tua
imbecillità, siamo divenuto oggetto di pettegolezzo e
scandalo!
Vergognati!
Disteso
sul letto il ragazzino fissava gli arabeschi del
baldacchino, ripetendosi ostinatamente quanto non avesse né
detto né fatto
nulla di male, che come sempre gli adulti esagerassero nelle loro
reazioni,
incapaci di accettare una qualsivoglia critica od opinione differente
dalla
propria.
“A
questo punto, sarebbe meglio mandarlo a bottega o ai fonteghi,
che apprenda almanco un mestiere se non vuole studiare. Ancora poco e
avrà
quattordici anni, basterà tener duro fino ad
allora.”
Momolo
udì Madre sospirare pesantemente, stringendoglisi il cuore,
ché l’unico rimorso da lui provato era di averle
dato ulteriori motivi di pena.
“A
quest’ora i pupilli della Carità avranno
già riferito tutto ai
loro parenti. Certo, i puti mentono spesso e volentieri,
però basta che uno
soltanto degli adulti li creda e cussì bondì
sioria per nuialtri!”
“Hai
ragione, Lucha”, convenne infine madona Leonora a seguito di
un lungo silenzio. “E’ la soluzione migliore. Ti
confesso che avevo già da un
po’ intenzione di recarmi a Fanzolo per la questione degli
affitti; tra una
cosa e l’altra, alla fine sono due anni che nessuno va a
controllare e non
vorrei che, via la gatta, i topi si mettessero a ballare.
Porterò dunque meco
sia il Momolo che il Marchetto: in questo modo il primo avrà
occasione di
cambiare aria, prima di ritornare a scuola, mentre il secondo
apprenderà
qualcosa di più sulla gestione del patrimonio.”
Marco le
sarebbe stato di grande aiuto: sebbene appena
diciassettenne, già dimostrava una grande propensione e
intraprendenza verso il
commercio, più forse dei suoi fratelli Carlo e Lucha, il
primo oramai deciso a
dedicarsi all’avvocatura mentre il secondo interamente
assorbito dalla
politica, entrato finalmente nel Maggior Consiglio nel dicembre
dell’anno
addietro.
Momolo si
girò sul fianco, fingendo di dormire, quando Madre
entrò
nella stanza, prendendo silenziosamente posto accanto a lui. La donna
non si
lasciò ingannare, accorgendosi della tensione della sua
schiena e il respiro
corto. Dolcemente, segno che non si trovava lì per
rimproverarlo o aggiungere
ulteriori busse a quelle già prese in gran abbondanza,
madona Leonora accarezzò
la testa dell’ultimogenito, scorrendo le bianche dita tra le
folte ciocche
scure ch’egli si rifiutava di tagliare e pertanto cresciute
oltre le spalle. Le
si strinse il cuore alla vista del sorpreso sussulto del dodicenne,
quasi non
si aspettasse più alcuna carezza da chicchessia, solamente
percosse.
“Donca
m’esiliate”, l’accusò Momolo,
le parole ovattate dal
cuscino. “Vi vergognate di me e quatti-quatti mi cacciate via
da Veniexia …”
“Donca
ce ne andiamo via in tre: tu, io e il Marchetto”,
replicò
ineffabile Madre, perseverando nel suo accarezzare il figlio.
“Ci trasferiremo
per qualche tempo nella casa a Trevixo. T’aricordi chome te
piaseva star lì? Coi
giardini, gli orti, le vigne, i prati, le fontane … Ti geri
tanto contento coi tuoi
amici! Quando farà più caldo ci recheremo alla
villa a Fanzolo e poi a Castel
Francho a trovare madona Pellegrina Nani Morexini e la Marina e il signor Tuzio Costanzo
…”
Il
ragazzino fece spallucce, incurante. Sì, in passato, prima
del fatto aveva sempre scalpitato
impaziente all’avvicinarsi
dell’estate, tarmando i genitori sul giorno della partenza
alla villa dove
trascorreva le sue intere giornate a scorazzare per la
campagna libero, felice e selvaggio assieme agli
altri bambini del
paese suoi compagni di gioco, in brache e in maniche di camicia senza
le
costrizioni di tutti quei costosi e ingombrati vestiti cittadini. Poi,
per far
vita sociale e spezzare la monotonia, ci si recava in visita ai
Costanzo e
altri loro amici e conoscenti a Castelfranco.
Le
settimane prima e dopo l’Assunta, fino a settembre, le
trascorrevano rigorosamente a Treviso, quella bellissima
città giardino, centro
commerciale fiorente e ricercato luogo residenziale. Ne approfittavano
sia per
necessità mondane sia per assistere alla magnifica
processione o semplicemente
per perdersi nei borghi fuori dalle mura, gustandosi le vivaci
piazzuole, gli
antichi monasteri e chiese, i giardini profumatissimi, i fiumi e i
canali. Momolo,
sporgendosi in avanti sul Ponte degli Impossibili agli squeri, stava
per buon
tempo a bocca aperta a rimirare i colori differenti delle acque del
Sile e
del Cagnan che scorrevano l’uno accanto all’altro,
con Padre che lo teneva ben
fermo acciocché non cascasse dal ponte. Oppure, sempre sulle
spalle di Padre,
tendeva il collo nel convento di Santa Margherita per meglio vedere
l’arca di
Pietro Alighieri, il figlio di Dante o gli affreschi di Tomaso da
Modena (pur
conoscendola alla nausea, adorava sentire Padre raccontargli la storia
di
Sant’Orsola). Con la scusa di visitare i frati domenicani, i
due Miani si dilettavano
a commentare gli affreschi a San Nicolò, ridacchiando col
genitore alla fila degli
studiosi ivi rappresentati, intenti a scrivere e leggere ponderosi
volumi, in
particolare di Hughes de Saint-Cher e Nicolas de Rouen con indosso i
loro buffi
occhialetti sul nasone adunco.
Adesso,
invece, niente di ciò l’entusiasmava
più. Nulla lo
stimolava. Non c’era più Padre a tenerlo in
equilibrio sul ponte citandogli
Dante, o a narrargli di Sant’Orsola o a commentare maliziosi
la buffa vecchiaia
degli eruditi domenicani. Padre giaceva nella sua arca, come Pietro
Alighieri,
in alto e inaccessibile, senza che Momolo avesse potuto ringraziarlo
del tempo
assieme, confessandogli quanto l’avesse sempre amato e quanto
gli fosse
dispiaciuto, negli ultimi anni, di non essere stato un figlio esemplare.
“Momolo,
dime, vuoi bene alla tua Mamma?”
Il
giovinetto si voltò verso la madre, confuso.
“Siorasì”, mormorò
lentamente, non comprendendo dietro quale ragionamento ella lo stesse
conducendo.
Certo che le voleva bene - che domande? - se non addirittura
più di se stesso!
“Mi
chiameresti mai putana?”
Momolo
impallidì, sgomento. “Siorano!”
“E
al tuo Tata – requiescat in pace – gli volevi
ben?”
Annuì.
“Lo
chiameresti forse can?”
Negò.
“Donca,
quando ti prude in bocca la tentazione di bestemmiare Dio
e la Madonna, che sono il tuo Padre e la tua Madre celesti, immaginati
mentre
dici: Cane il mio sior Pare Anzolo e puttana
la mia siora Mare Leonora!”
Momolo
balzò seduto, il labbro tremante e congiungendo le mani
scosse con tal veemenza il capo, che Leonora temette volerselo
staccare: “No!
No! No! Questo mai! Mai e poi insolentirò voi e il sior
Pare! Preferirei morire
piuttosto!”, asserì angosciato. Abbassando il tono
della voce, le confessò in
un misto di astio e affanno: “Però Dio
… Lui mi suscita una gran rabbia e
altrettanta paura … Non mi riesce più di pregarLo
come prima! Egli m’odia! Come
può la gente affermare tutta convinta quanto sia giusto e
misericordioso, quando
invece Lui mi ha strappato il mio sior Pare? Vojo mio Pare! Vojo il mio
Tata! Lo
voglio qui con me, ho bisogno di lui, perché Iddio non ha
tagliato la corda che
l’ha impiccato? Non compie miracoli, forse? Perché
si burla così di noialtri?”,
singhiozzò per la prima volta dopo due anni, coprendosi
disperato le mani. “E’
questa la mia punizione per esser stato disobbediente? Per aver mandato
Tata alla
malora? S’è per questo motivo, perché
Dio non se l’è presa direttamente con me?
Perché ha dovuto uccidere Tata?”
Leonora
si portò il piangente figlio al petto, stringendolo forte
e cullandolo, di tanto in tanto schioccandogli baci consolatori sul
capo o
sulle tempie, massaggiando le spalle già più
larghe (ma sempre magre! sempre
troppo magre!) onde consolarlo e calmarlo.
“Amor
mio, Dio non ti odia né vuole il tuo male. Le cose, anche
quelle malvagie, capitano perché devono capitare.”
“Lo
stesso non mi va di pregarLo; Lui non ascolta, non capisce …
Giudica e punisce soltanto!”
“Donca
rivolgiti alla Madonna, confidaLe i tuoi crucci e pensieri,
come con me quando volevi ottenere il perdono del tuo Tata, ma eri
troppo
timoroso di domandarglielo direttamente. Aricordate ben, Momolin dil
cor
mio: Eia ergo, advocata nostra … Quando
dubiti – a torto – che
Dio non ti voglia ascoltare, stai certo che Ella sempre lo
farà.”
(Nelle
settimane successive, mentre aiutava Madre a preparare i
bagagli tra le obiezioni dei parenti, che non vedevano di buon occhio
la sua
decisione di andare a vivere da sola a Treviso, arrivava al Senato la
notizia
del voltafaccia a Pisa del Duca Ludovico il Moro, colui per la cui
causa
Venezia aveva mobiliato ingenti risorse tra uomini e denaro, passando
egli
dalla parte della nemica Firenze. Il pagatore di campo sier Zuam Paulo
Gradenigo e il provveditore sier Nicolò Foscarini da Mantova
avvertivano
inoltre la Signoria di guardarsi dall’infido Francesco
Gonzaga che, pur
comandante dell’esercito della Serenissima, troppa simpatia
ancora nutriva
verso il cognato e oramai la scusa del comune dolore per la prematura e
sfortunata morte della giovane Duchessa Beatrice non giustificava
più quella
sospettosa vicinanza tra Mantova e Milano.
Il giorno
in cui Momolo partì da Venezia assieme a Madre, Marco e
alcuni servitori, navigando via burchio in direzione di Portegrandi di
Quarto
d’Altino e colà imboccando il Sile, ecco in quel
giorno con la sua secolare
gelida flemma la Signoria discusse, elaborò e prese
l’irrevocabile sua
decisione di sbarazzarsi una volta per tutte di Ludovico Sforza duca di
Milano
assieme alla sua nipote illegittima Caterina Sforza contessa di
Forlì e signora
di Imola, le cui intromissioni aveva impedito loro di raggiungere la
Toscana o impedendo agli stradioti d'arrivare a Pisa o proprio
ingaggiando le truppe veneziane in continui scontri. A peggiorare la già precaria posizione del Duca, suo suocero il duca Ercole d'Este era venuto a proporsi come arbitro tra Firenze e Pisa, dispiacendo la sua proposta di pace sia alla Signoria sia agli ambasciatori pisani, i quali, gettandosi ai piedi di Missier el Doxe, lo supplicarono di conceder loro solo danari per difendersi dai fiorentini. E tanta fu l'indignazione generale, che né il Duca di Ferrara, né gli ambasciatori fiorentini, né quelli milanesi ebbero, per qualche tempo, coraggio di mettere il naso fuori di casa.
Frustrata, tradita, avvelenata da una malsana smania vendicativa, questa fu
la solenne promessa della Signoria davanti a Dio e agli uomini: il Moro deve cadere.)
***
6 settembre 1511,
sera
Madona
Leonora rimboccò le coperte al nipotino Anzolo, detto
Zanzi, rimasto mezzo scoperto a furia di scalciare nel sonno e gli
sistemò il
cuscino caduto per terra. Dopodiché, la donna
controllò che la culla del
piccolo Scipio si trovasse ben distante dalla finestra e i suoi
spifferi,
massaggiandogli il pancino quando l’infante
corrugò il viso forse a causa di
qualche sogno molesto, arricciando il naso onde frignottare, chetandosi
subito
al rassicurante tocco della nonna e dopo uno sbadiglione e un felino
strofinarsi del viso, ripiombò nel regno di Morfeo, suggendo
contento il suo
pollice. La loro sorella Crestina (o Ina per, distinguerla dalla
defunta zia) dormiva
invece quietamente, abbracciata alla sua bambola preferita. Ai piedi del letto, acciambellati, si scaldavano Frisopin e Baffo, il gatto di casa.
Da quando
quella maledetta guerra era incominciata, la vedova
Miani aveva sviluppato un bisogno quasi patologico di sentire
fisicamente
accanto a sé la propria famiglia, dando ordine di trasferire
i lettini e la
culla dei nipoti nella sua stanza da letto così da tenerli
ben sott’occhio. A
Marco scriveva dettagliate lettere sulla salute dei suoi figli Zanzi,
Ina e
Scipio, a sua volta raccomandandosi di riguardarsi e non gettarsi in
strane
imprese.
E mentre
i nipoti dormivano il sonno del giusto, la nobildonna
invece trascorreva le sue notti in preghiera, con Eudokia e Orsolina a
farle
compagnia nelle lunghe veglie. Lì Madona
Leonora aveva fatto
sistemare un inginocchiatoio davanti al ritratto di famiglia ai piedi
della
Madonna, avendo preferito tenerlo per sé invece di esporlo
nella cappella
privata contrariamente all’originaria intenzione.
Il
pittore aveva voluto lasciare un’impressione
d’intima
informalità nella composizione, lasciando solo a lei e a suo
marito sier Anzolo
espressioni calme e solenni, confacenti ai ruoli di patrizi e
capofamiglia.
Crestina, accanto al padre, lo guardava di sottecchi dolce e
introversa;
accanto a lei sulla sinistra, Carlo osservava pensieroso e attento.
Lucha, alla
destra di sier Anzolo, mostrava un certo orgoglio per aver ottenuto la
sua toga
nera, mentre Marco arricciava la bocca in un sorriso furbetto, con
davanti
Momolo che guardava in alto, verso la Madonna, con
un’espressione d’infantile
curiosità e aspettativa (Marco gli aveva detto che per
davvero Lei stava sopra
di loro sennò come avrebbe potuto dipingerLa il pittore? Al
che il fantolino,
credendogli, aveva alzato la testa; al pittore questa deviazione dalla
posa
stabilita tanto piacque che aveva insistito di ritrarlo
così). Ai lati della
Vergine, Leonora aveva poi chiesto d’aggiungere
all’ultimo due angioletti con
le fattezze, descritte a memoria, degli altri suoi figlioli Marco
Antonio ed
Emilia, morti purtroppo bambini.
“Sancta
Mare d’Idio, Sancta Verzene dòlzissima, Sancta
Maria: de
grassia, salvé mio fio! Liberelo di le catene!
Riportémelo indrio!”, La pregava
Leonora come ormai da quindici anni, di restituirle il figlio libero da
ogni
catena.
“Sancta
Mare d’Idio, Sancta Verzene dòlzissima, Sancta
Maria,
salvé el fio! Liberelo di le catene! Riportélo
indrio!”, le facevano eco Eudokia
e Orsolina, dondolando con lei nella preghiera e pregando anche per l'anima dei loro figli e del marito, morti sicuramente a Castelnuovo di Quero.
Così
La supplicava fino alle prime ore dell’alba, gli occhi velati
dalle lacrime fissi sul soave volto sorridente della Madre di Dio, alla
quale
Leonora aveva chiesto al pittore di dare le medesime sembianze
dell’affresco
della Madonna dei Miracoli a Treviso.
Come
potrà
un giovane tenere pura la sua via?
Custodendo
le Tue parole.
Con tutto
il cuore Ti cerco;
non farmi
deviare dai Tuoi precetti.
(Salmo
118)
Continua
…
***************************************************************************************************
Capitolo
introspettivo, ci prendiamo una pausa prima di ripiombare
nella realtà della guerra. Avrete
sicuramente notato se non le
medesime parole, ma il parallelismo tra il discorso di Thomà
e del Nostro,
spiegando dunque il perché quest’ultimo sia
rimasto così scosso dal racconto
del bambino.
Dopo i
vari Concili, la figura di Dio Padre e Cristo Gesù sono
state molto “ammorbidite” e pertanto potrebbe
risultare difficile la
comprensione circa la grande devozione dell’epoca verso la
Madonna, mediatrice
e Madre di Dio, la cui potente intercessione avvicinava a Colui che si
credeva
fermamente inavvicinabile, lontano e
tremendo. Questo in caso ci
siano stati attimi di perplessità leggendo le riflessioni
del Nostro e delle
sue remore interiori.
I tre dei
dieci comandamenti all’inizio del capitolo vi avranno
fatto appunto capire che questa, del Nostro, non è solo una
rimembranza ma
anche un esame di coscienza. Prima della confessione, si medita sui
dieci
comandamenti, se li si hanno osservati.
Infine,
in questo capitolo v’è una piccola citazione di
un’opera
letteraria veneziana, quando ho scritto la scena non ho saputo
resistere alla
tentazione d’inserirla … senza suggerir niente,
chi la sa, la scova :-)
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, ci si vede al prossimo!
Un
po’ di noticine:
[1] Signori di Notte al Criminal =
sei magistrati (un patrizio per ogni sestiere) che di notte erano
incaricati
assieme agli Zaffi di far la ronda per le calli di Venezia onde
mantenere
l’ordine pubblico (in collaborazione col Capo
Contrada/ Capo sestiere )
e la sicurezza notturna delle strade. La loro sede – la
Camera del Tormento –
si trovava a Palazzo Ducale.
[2] ebbene sì, quando Venezia si
trovava in
difficoltà economiche o in uno stato d’emergenza
in cui aveva bisogno di ogni
ducato, pur di non vessare con eccessive tasse il popolo preferiva
togliere gli
stipendi ai suoi funzionari, magistrati e senatori.
[3] Haec ornamenta mea = Ecco i
miei gioielli,
(lett. Questi sono i miei gioielli). A pronunciare questa frase
– sinonimo delle virtù matronali
- fu Cornelia figlia di Publio
Cornelio Scipione Africano e madre dei
populares Tiberio Sempronio e
Caio Sempronio Gracco.
[4] corrisponde al Giovedì Grasso. In quel giorno avveniva una grande processione, che terminava col taglio della testa del toro è
un’antica tradizione del
Giovedì Grasso, in cui si ricorda la vittoria nel XII secolo
del Doge Vitale
Michiel contro il Patriarca di Aquileia e i suoi dodici suoi feudatari
ribelli.
Come ammenda presente e futura, ogni anno il Patriarca doveva regalare
a
Venezia un toro (simbolo del Patriarca) e dodici maiali (i feudatari),
i quali
venivano fatti sfilare per la città fino alla Piazzetta,
dove il macellaio con
un solo colpo tagliava la testa all’animale, da qui il detto
“tagliar la testa
al toro”, ovvero chiudere in maniera secca una faccenda una
volta per tutte. Le
carni del toro e dei maiali venivano poi distribuite ai patrizi, al
clero, al
popolo e anche ai carcerati. Oggigiorno, la traduzione pur continuando
ha
perduto l’elemento “vivo”, ossia che il
toro è un fantoccio e i maiali gente in
maschera.
[5] altana =
terrazza in legno
sopra i tetti delle case
[6]
la condanna per stupro di un bigamo =
prima del Concilio di Trento, a Venezia la gente si sposava per lo
più col rito
civile. Siccome bastava qualche testimone, senza un atto notarile vero
e
proprio talvolta risultava difficile “provare” la
validità del matrimonio e
siccome inoltre gli uomini non portavano la fede nuziale, la sposa
doveva
fidarsi sia di lui che dei testimoni, ovvi complici. Pertanto, siccome
il
bigamo “ingannava” la giovane così da
vincere ogni sua ritrosia a concedersi a
lui, per la legge di Venezia esso era paragonabile ad uno stupro in
quanto la
sposa perdeva la virtù sua tramite un raggiro, che la
rendeva “forzatamente”
consenziente. Uno dei vari compiti dei Signori di Notte era anche di
scovare
questi bigami e di arrestarli.
[7]
Jacomo Foschari /
Francesco Foschari =
già in passato costretto ad un
temporaneo esilio per aver accettato doni dal Duca di Milano Filippo
Maria
Visconti, Jacopo (Jacomo) Foscari (1416 - 1457) figlio del Doge Francesco Foscari (1373 -1457) ,
venne
accusato dell’omicidio dell’avogadore di Comun
Ermolao Donà, nel 1451.
Arrestato e torturato finché non confessò il
delitto, dopo quasi tre mesi di
processo venne esiliato a vita a Creta. Nel 1456, di nuovo Jacopo venne
riportato a Venezia per un altro processo stavolta per aver
intrattenuto una
corrispondenza col Duca di Milano Francesco Sforza e il sultano
Maometto II;
tra la scelta di giustiziarlo e di confermare la condanna
all’esilio, prevalse
la seconda e il Foscari venne rispedito a La Canea (oggi Cania) a Creta dove, stremato dal carcere, dalla tortura subìta e dall’umiliazione dell’esilio, morì nel gennaio del 1457.
Suo padre, il Doge Francesco Foscari, venne costretto ad abdicare lo
stesso
anno e morì di lì a poco.
Nicolò
Miani, prozio paterno del Nostro, nel 1451 era Capo dei
Dieci e anzi fu colui che raccolse la confessione dell’accusa
del Foscari. Nel
1457, invece, faceva parte dei 25 della Zonta (Giunta) assieme a
Nicolò Tron
(Trum in veneziano), allora Avogadore di Comun che, su iniziativa di
Giacomo
Loredan ( il figlio di quel Pietro Loredan che per poco non aveva
ottenuto il
dogato e che si vociferava fosse stato avvelenato proprio da Francesco
Foscari)
riuscirono a convincere il Senato a deporre il Doge.
La triste
vicenda di Jacopo Foscari – l’uomo infatti, era
innocente dell’omicidio, il vero colpevole si fece avanti
solo in confessione e
in punto di morte – divenne ghiotto materiale per i grandi
esponenti del
Romanticismo come Lord Byron, Delacroix, Hayez e Verdi che compose la
celebre
opera lirica “I due Foscari”.
Levando
la patina tragica del Foscari dipinto come capro
espiatorio e vittima della vendetta della famiglia Loredan (i quali
sfruttarono
certo la situazione ma non la crearono come invece sosteneva Byron),
bisogna
dire che l’intera vicenda giudiziaria dimostrò una
volta per tutte la
supremazia delle leggi di Venezia su qualsiasi individuo, perfino
quello
considerato il più intoccabile. Anzi, proprio
perché figlio del Doge, le colpe
relativamente blande di Jacopo (levando il delitto che non commise)
divenivano
maggiormente imperdonabili e pertanto punibili col massimo della pena.
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Capitolo 11 *** Capitolo Nono: 7 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 25.09.2021
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Capitolo
Nono
7
settembre 1511, domenica
“Potevate
anche farvi annunciare”, commentò freddamente il
conte
Gianfrancesco di Gambara, senza neanche premurarsi di staccare gli
occhi dalla
mappa che stava consultando assieme al capitano Jacob Empser.
“Monseigneur du Molard
… signor marchese Galeazzo …
signor marchese Teodoro … come posso
aiutarvi?”
“Scartiamo
per cortesia i convenevoli e veniamo al dunque”,
tagliò
corto il barone d'Uriage, piazzandosi davanti al bresciano. “Ovvero
che siete un ladro e
un porco.”
La testa
di Gambara guizzò in alto. “Come
prego?”, sibilò ostile e
perfino i due nobili lombardi sobbalzarono stupiti dal sermo adoperato
dal
francese, solitamente più gentile e diplomatico nella scelta dei vocaboli.
“Avete
udito benissimo.”
Il conte
sospirò snervato: “Se vi state riferendo
all’uccisione di
quella vostra guardia, vi ripeto che si è trattato di un
…”
“Chi
se ne fotte di quel coglione che s’è fatto
ammazzare sì
stupidamente!”, sbraitò fuori di sé il capitano delle fanterie guascone, giunto al limite della sopportazione, rovesciando il
tavolo che per poco non cadde sul piede del condottiero tedesco Jacob Empser,
costringendolo a balzare all’indietro. “Siete
un ladro ché
approfittando della confusione generata dalla morte del capitano
Mercurio vi
siete impossessato di un nostro prigioniero; un porco ché
vi
nascondete dietro l’Empereur per tenervelo ben stretto alle
sottane! Già ci trattate alla stregua di servi, impedendoci d'attraversare la Piave e far rifornimenti e ora ci rubate i prigionieri, frutto delle nostre imprese? Pardi, per chi ci prendente?!”
Digrignando
i denti ma seguitando a sorridere affettato, il
Gambara replicò tagliente: “Abbiate
dunque l’amabilità di spiegarmi, quale
negozio avevano le loro illustrissime signorie nel padiglione del
signor
Mercurio” e indicò Teodoro Trivulzio e Galeazzo
Pallavicino, che aprirono la
bocca per replicare, sennonché il conte li interruppe:
“Ma ormai poca importa:
vi recherà immenso piacere apprendere di come egli sia
sopravvissuto alla sua
disfatta a Treviso: proprio stamane gli stradioti l’hanno
riportato in barella
al suo padiglione. Dite, quale fretta vi spronava ad accaparravi il
patrizio veneziano,
da non poter neanche attendere la conferma del decesso del capitano
Mercurio?”,
li sfotté con velata ed accorata perfidia.
Il
marchese Teodoro Trivulzio si difese carezzevolmente astioso:
“Ci limitavamo a prendere in custodia un prigioniero
pericoloso, nel frattanto
che attendevano sue notizie!”, rigirò abile la
questione, in realtà sorpreso di
quella novità quanto il marchese Pallavicino e il medesimo
du Molard. “In
passato questo nostro zelo ci ha molto giovato, o mi
sbaglio?”
Il
cinquantatreenne nipote di Gian Giacomo Trivulzio si riferiva
alla cattura il mese scorso del capitano Alessio Bua, per mano di
Giulio
Sanseverino in una sua audace sortita. Quest’ultimo aveva
subito contattato a
Treviso il capitano Vitello Vitelli, proponendo di scambiare lo
stradiota per
il comandante spagnolo Francisco Maldonado. Onde forzare la mano al
recalcitrante condottiero, il Sanseverino l’aveva avvisato
che, in caso di
rifiuto, nessuno stradiota veneto fatto prigioniero sarebbe stato
restituito
alla Signoria.
Il
bresciano grugnì sardonico: “Pericoloso! Ma chi
credete d’aver
catturato? Un altro Bartolomeo d’Alviano? Piuttosto direi un
insolente
ragazzino che non sa tenere la lingua a freno!”
Notando
la vendicativa foga in quelle dure parole e sovvenendosi
dei pesanti insulti cui il prigioniero aveva subissato il conte,
Teodoro
Trivulzio insistette mellifluo: “Dunque restituitecelo, se
per voi non ha alcun
valore.”
“Molto
volentieri, se si trattasse di un patrizio qualsiasi”,
s’ostinò invece il Gambara, intuendo il gioco
dell’altro. “Purtroppo,
quell’Emiliani è un nipote di un consigliere
ducale e questo a me – e
all’Imperatore di conseguenza – è
sufficiente per considerarlo un nostro prigioniero.”
“E
con ciò?”, corrugò la fronte Soffrey du Molard,
non comprendendo dove
il conte volesse andare a parare. “Cosa vale un
consigliere?”
“Niente”,
mentì ineffabile il signor Gianfrancesco, rimettendo in
piedi il tavolo calciato per terra. “Assolutamente
niente.”
Ignoravano
spesso gli stranieri come il Doge, pur essendo il
personaggio più eminente di tutta Venezia, non
rappresentasse che la facciata
dello Stato, il suo potere diviso con i suoi sei Consiglieri e i tre
Capi della
Quarantia Criminal. Non era dunque lui bensì questo Minor
Consiglio a
presiedere i Consigli di Stato; non lui bensì il Minor
Consiglio che vagliava
le credenziali e discuteva con gli ambasciatori; che effettuava le
visite negli
uffici di Palazzo Ducale, nei cantieri
dell’Arsenale, alle udienze
dei tribunali, salvo rari casi in cui si necessitava della presenza del
Doge.
Solo il Minor Consiglio disponeva del diritto di grazia ed esaminava in
ultima
istanza le suppliche e le petizioni dei condannati. Sulle lire e sui
ducati,
l’effigie al rovescio raffigurava un uomo inginocchiato ma
irriconoscibile nei
tratti del Doge in carica, un personaggio stereotipato di fattezze
anonime,
talmente insignificante che lo si poteva imprigionare su decisione di
due Avogadori
su tre. Il Doge quindi era niente di meno d’un simbolo,
un’efficace maschera
per celare un potere ben più articolato e complesso,
difficile da agganciare e
con cui intessere relazioni privilegiate anche per via dei frequenti
cambi di
carica.
Per
questo un’occasione simile il conte Gianfrancesco voleva
sfruttarla al massimo: Dio solo sapeva quando gli sarebbe ricapitata,
una volta
scaduti gli otto mesi di mandato del consigliere Batista
Morexini! Come
posso negare all’Imperatore una leva così preziosa
su chi veramente governa la
Serenissima Repubblica?
Du Molard
strinse scettico gli occhi, odorando puzza d’imbroglio.
Contrariamente al bresciano, non conosceva tutte le dinamiche politiche
interne
di Venezia, però gli era bastata la testardaggine di
Mercurio Bua nel
contendersi quel patrizio con La Palice per convincersi
dell’importanza di quel
prigioniero. “Vi rammento”, tornò
cocciuto alla carica, “che l’Empereur
può
essere colui che ha voluto quest’impresa; tuttavia, chi sta
cacciando fuori i
soldi è le Roi! Di conseguenza, considerato
l’abnorme debito del
vostro Habsbourg nei suoi confronti, minimo ci
dovete risarcire con questo prigioniero.”
“C’è
tanta gente importante a Treviso, che vi procurerà ottimo
bottino. Vi rifarete con loro”, scrollò il conte
incurante le spalle.
“E’
la vostra ultima parola, monseigneur de Gambara?”,
avanzò d’un
passo verso di lui il capitano delle fanterie
guascone, fissandolo
lungamente dritto negli occhi.
“Sì.”
“Perfetto.”
E senza
aggiungere altro du Molard uscì dalla tenda ad ampie
falcate, lasciando gli altri astanti interdetti e a guardarsi
disorientati per
qualche istante, prima che la tremenda realizzazione delle sue
intenzioni
calasse in Gambara che, imprecando furioso, lo imitò in
egual misura seguito a
ruota da Trivulzio e Pallavicino.
***
Presa la
Messa e comunicatosi, sier Zuam Paulo Gradenigo si
preparò all’ennesima giornata intensa, spendendo
due buone ore a rampognare gli
stradioti i quali, insofferenti per la paga mancata, davano
preoccupanti segni
d’irrequietezza e solo la passata esperienza come loro
comandante aveva aiutato
il provveditore a trovar le giuste parole, onde rimetterli prontamente
in riga
e anzi, spronandoli ad impiegar maggior zelo nelle loro operazioni di
avanscoperta, alla ricerca di informazioni e di bottino. Simile
trattamento
l’aveva riservato anche ai soldati di Troilo Orsini,
trasformatisi
all’occasione in petulanti comari.
“Quaranta
giorni senza paga!”
“Il
vino ce lo date talmente annacquato che neanche si distingue
il sapore!”
“Qui
le donne ci menano! E ci tirano addosso i pitali!”
“La
Madre Superiora ci ha presi a scoppettate, insultando noi e le
nostre madri!”
“E’
indecente! Almeno un pochino di svago!”
“O
lo stipendio!”
“Niente
denaro, niente vino, castità perpetua … A questo
punto
ingaggiate dei monaci, no?”
Al che il
provveditore, sorridendo loro ambiguo, aveva replicato
con feroce malizia: “Mi par di capire, signori miei, che qui
a Treviso non si
lavora abbastanza se avete tutte queste energie da spendere per
lamentarvi,
ubriacarvi e correre dietro alle donne. Sta bene: risolveremo la
questione
raddoppiando i vostri turni di guardia e le ore a potenziare la difesa
cittadina, ché il bravo soldato crolla stanco sulla sua
branda!”
Dopodiché
Gradenigo si era recato a Porta Santi Quaranta, là dove
sospettava trovarsi il luogo principale dell’attacco dei
nemici (se non
addirittura dove si sarebbero accampati) e pertanto personalmente si
era messo
a coordinare l’allagamento della campagna circostante
più altri tre punti
limitrofi, grazie al piccolo capolavoro ch’era il Ponte de
Pria. [1]
Allo
stesso tempo, aveva dato ordine di continuare i lavori di
deviazione del fiume Sile, augurandosi che la squadra dei guastatori
avesse ben
colazionato e sprizzasse d’energia poiché nessun
trevigiano, essendo domenica,
si era presentato ad aiutare. Dinanzi alle giuste obiezioni del
capitano Renzo
di Ceri, il quale gli proponeva di trascinare quei pigri gaglioffi per
i
capelli se necessario alle loro postazioni di lavoro, Gradenigo aveva
ribattuto
serafico che se voleva svegliarsi con un pugnale in gola, facesse pure.
L’assalto al granaio assieme alla malcostume e generale
indisciplina dei
soldati aveva creato una sottile crepa tra la popolazione locale e le
autorità
e il provveditore non osava sfidare la sorte, inimicandoseli proprio
ora al momento
del bisogno.
Le
lettere della Signoria divenivano cadaun giorno sempre più
perentorie e intransigenti, spronando una miglior difesa della
città e del
territorio fino a pretendere due aggiornamenti al dì sulla
situazione nella
Marca. Gradenigo rispondeva loro promettendo che avrebbe
fortificato in
perfezion Treviso, assicurandoli che se Dio voleva
quell’assedio,
allora esso sarebbe stato a vergogna e a danno dei franco-imperiali,
spedendoli
, così giurava, uno ad uno all’inferno. Certo,
aggiungeva poi alla fine, se
avessimo almeno 5,000 fanti e più denari per le paghe, si
potrebbero ottenere
maggior risultati.
I nemici,
aveva poi fatto scrivere il provveditore quella mattina
al suo segretario, ancora indugiavano a Montebelluna in attesa di un
buon
numero di artiglierie; si contavano più o meno 8,000
imperiali però assai mal
equipaggiati; 2,000 francesi più 300 uomini
d’armi, quest’ultimi partiti alla
volta di Bassano. La sua spia gli aveva riferito inoltre come i
franco-imperiali stessero lavorando a dei gabbioni, ponti e scale e
confermava
da una conversazione origliata dal padiglione del conte Gianfrancesco
di
Gambara la loro ferma intenzione di seguitare in questa loro impresa di
Treviso, malgrado la batosta di due giorni addietro. L’unico
inghippo rimaneva
la crescente scarsità di pane, la reciproca diffidenza tra
tedeschi e francesi,
nonché un raffreddamento di stomaco e polmoni che stava pian
pianino colpendo
un buon numero di soldati, costringendoli ammalati nelle loro tende.
Infine,
niente nuove sulla calata dell’Imperatore, sier Antonio
Zustignan orator e dottor
spiegava in Collegio come Maximilian si trovasse inattivo a Sterzene,
senza dar
segni di aver preparato alcun esercito d’affiancare a quello
di La Palice.
Per il
resto, pioggia, pioggia, tantissima pioggia.
“Ma
è il pisciatoio d’Italia questo?”,
bofonchiò tra sé e sé il
capitano Renzo di Ceri, scostandosi i capelli bagnati dalla fronte e
rabbrividendo alla sensazione dell’acqua che, entratagli
dentro la gorgiera,
gli scivolava gelida lungo la schiena. Non si sovveniva più
dell’ultima volta
in cui aveva goduto del secco calore degli abiti asciutti.
“Non può smettere di
piovere per qualche giorno?”
Accanto a
lui Vitello Vitelli starnutì, tirando su col naso.
“Sempre a lagnarvi peggio d’una femmina, voi,
eh?”, lo rimbeccò, sogghignando
all’occhiataccia dell’Orsini che, al secondo
starnuto, s’allontanava da lui per
precauzione. “Cacasotto …”, lo
schernì sottovoce.
“Benvenga,
invece, la pioggia”, ribatté sier Zuam Paulo.
“Anzi,
spero che continui così per i prossimi due o tre giorni:
allora sì, che i
franco-imperiali dovranno trasformarsi in rane se vorranno giungere qui
a
Treviso - o in pesci per attraversare la Piave”, disse,
mentre osservava
l’acqua della Botteniga alzarsi lenta ma inesorabile di
livello al punto di
confondersi con la linea dell’orizzonte,
espandendosi. “Avvisate
invece i vostri balestrieri di prepararsi - stanotte cavalcheranno
assieme agli
stradioti. Vediamo se riescono a danneggiare un po’ i nemici,
così da far
bottino e smetterla d’importunare sia i cittadini che i
villani …”, lanciò
l’uomo un’occhiata assai eloquente
all’Orsini, che ebbe la decenza di arrossire
al ricordo degli arrabbiatissimi contadini inseguire con falci e
forconi i suoi
uomini, pizzicati a rubare nei loro casolari con la scusa di
perlustrare il
territorio.
“Era oggi che
Matteo da Zara doveva partire per Mestre? Per i rinforzi?”, gli
chiese confermaVitello Vitelli, levando
d’impaccio il collega. “E con loro spero porti anche le paghe.
Viaggerà via fiume. Questo lo rallenterà non poco
…”
“Meglio
impiegarci un’ora in più e arrivare a
destinazione, che
prendere la scorciatoia e sparire nel nulla”,
sentenziò brusco Gradenigo, il
pollice premuto sulla lunga e orrida cicatrice bianca sul collo e segno
della
palese protezione dall’oltretomba da parte del suo carissimo
fratello sier Zuam
Gradenigo, morto ironicamente per un’analoga ferita presso
Valiceno.
Sia
Vitelli che Orsini tacquero saggiamente, indovinando l’evento
cui il veneziano stava sottintendendo.
Ogni uomo
porta la croce di un grande rimpianto nella vita sua e
di due si tormentava ancora il provveditore generale di Treviso: il
primo, di
non esser stato al posto del fratello in quell’agguato di
tredici anni addietro
così da rovesciarne le sorti e risparmiare al minore quel
triste destino – Zuam
Paulo aveva combattuto contro Gian Giacomo Trivulzio, cos’era
per lui quella
lurida masnada a confronto? Il dolore del ricordo del feretro di Zuam
giungere
a Pisa tuttora lo straziava così come la frustrazione di non
esser stato più in
quel momento provveditore di campo, bensì semplice synico.
Nella lunga e ultima
veglia al corpo del fratello nella chiesa di Santa Croce in Fossabanda a Pisa, Zuam Paulo si era
fatto
narrare esattamente quanto accaduto, sorridendo amaro dinanzi al
coraggio del
suo Zuaneto che pur quando gli erano stati addosso in cinque e gli fu
intimato
di arrendersi e darsi prigioniero a Firenze, egli, sprezzante,
sciabolandoli
tutti li aveva gridato: “Rendite ti!”
prima del colpo mortale al
collo. “Quei maladeti florentini,
manza-bàgari, busi-verti,
onti-spurij, fioi-di-putana-turcha, caga-alto!”, aveva
imprecato con
le lacrime agli occhi l’allora pagatore di campo, incurante
del luogo sacro, i
pugni serrati e mordendosi il labbro fino a ridurlo in carne
viva. “Me
la pagheranno! Anche a costo di sgozzarli uno ad uno!” Ed
ecco dunque
il suo secondo rimpianto, ovvero di non aver avuto né modo
né occasione di
potersi vendicare di man propria su di Paolo Vitelli, Giovanni
de’ Medici e
Caterina Sforza. Se solo avesse potuto metterli gli artigli addosso!
Altro che
prigionieri! Zuam Paulo Gradenigo avrebbe riservato
loro i metodi
turchi, in particolare al Vitelli che gli accecava gli uomini e glieli
mutilava
delle mani. Il veneziano avrebbe infatti dato ordine di segarli vivi in
due per
poi impalarne le metà sulle picche più alte,
cucendo infine le loro teste su
cagne impagliate da presentare in dono alla Signoria. Dateve
cum un
legno,[2] lo esortava invece la perentoria lettera di sua
moglie madona
Maria Malipiero Gradenigo, all'epoca incinta e pertanto rimasta a
Venezia,
lettera recapitatagli personalmente tramite suo fratello sier Marco
Gradenigo. Non è né il luogo
né il momento d’andar fora de vada. Ste inzendènti (orribili,
ndr.) turcherie non fanno onore né a V.S.
né al nostro Zuaneto. Limitatevi
a compiere il vostro dovere in nome e per la gloria della Signoria
Nostra e lasciate
la vendetta a Missier Domino Iddio: vedaré, colendissimo
sior marido mio, come il
Suo castigo non mancherà d’abbattersi sopra i
fautori di quest’orrendo delicto
– videlicet el Villan, ea Gata de Forlì et quel
Zanizero dil Vitelli. Qui
gladio ferit gladio perit. Savia profetessa la sua
Maria, ché nel giro
di neppure due anni, mentre Gradenigo sfogava in Albania la sua rabbia a
danno
dei turchi, il Popolano calava di malattia nell’Ade; sua
moglie perdeva lo
stato e la libertà per mano del Valentino e la testa di
Paolo Vitelli,
illuminata da una torcia, dileggiata dai medesimi fiorentini per cui
aveva
combattuto.
Perdonami,
fratello, per non aver potuto né proteggerti né
vendicarti. Veglia su di me. Guida la mia mano. Che almeno io possa
difendere e
vendicare i torti subiti dalla Signoria Nostra per la cui gloria noi
nasciamo e
moriamo.
“Il
collaterale Pietro Antonio Battaglia da Cremona e il signor
Carlo Valiero giungeranno entro la fine della prossima settimana - con l’ordine
d’ispezione credo - il
primo da Padova e il secondo da Venezia”,
interruppe Vitello Vitelli il denso silenzio impostosi tra i tre, dopo
essersi
schiarito la gola. “Evidentemente, la Signoria non si fida
troppo dei nostri
resoconti.”
E
co la se fida mai, pensò
Gradenigo. “Sta bene”, rispose
atono, la bocca arricciata meditabonda. Ci scommetteva il mignolo
destro che
dietro le pressanti lettere del Minor Consiglio si nascondeva il tocco
di sier
Batista Morexini. Da quando quest’ultimo era stato nominato
ad agosto
consigliere ducale, il tono del Consiglio era cambiato in uno
più spiccio e
affatto incline ad udire scuse. Nulla quaestio a riguardo, solo che
sier Zuam
Paulo sospettava che dietro l’apparente ansietà
del Minor Consiglio si celasse
la ripicca del Morexini contro il podestà di Treviso sier
Andrea Donado “dalle
Rose”, che aveva ignorato le lettere di suo nipote sier
Hironimo Miani, in cui
gli denunciava i transiti dei contrabbandieri e di come urgesse il suo
intervento. La questione si era conclusa con un nulla di fatto, manco
con la
chiusura del passaggio dello Scalon giusto per dar al ragazzo un
contentino ed
ecco che, a punizione della loro leggerezza, Castelnuovo di Quero
cadeva,
magari proprio per colpa di uno di quei sentieri di contrabbando.
Sorteggiato
inoltre l’altro nipote sier Marco Miani per la custodia di
Treviso, naturale
che il loro barba Morexini sfruttasse la sua posizione onde tenere ben
puntati
gli occhi sulla città e sui suoi capi.
“Sta
bene”, ripeté il patrizio veneziano, dirigendosi
verso il
bastione di San Bartolomeo per controllare come procedeva
l’allagamento a Porta
San Tomaso. “Aggiungete alla missiva ai provveditori di
Padoa, ch’i stagan vigilanti e
fasse qualche
bon’opera contra quei nemici pur ch’i pagamenti
nol’i impedissa”, riferì il
provveditore al segretario che annuendo s’appuntò
mentalmente il messaggio che
avrebbe trascritto al primo riparo disponibile. “Su di un
secondo foglio, indirizzata
alla Signoria, richiedete i seguenti … Cospetto e tacca via!
Cos’è questo … questo
… quest’obbrobrio?”,
s’interruppe all’improvviso Gradenigo,
spalancando schifato la bocca dinanzi all’orrore
architettonico dinanzi a sé.
“Sono
casematte?”, gli fece eco un confuso Renzo di Ceri, colui
che aveva dato l’ordine d’erigere alcuni bastioni
in forma di casematte e
d’alzarli in altezza.
Sier Zuam
Paulo contrasse i muscoli della mascella. “Vi pare si
costruiscano così le casematte?”
“Sempre
sono state così.”
“E
sempre la fortezza è caduta!”, sbottò
il provveditore,
sciogliendo dalla cintura il fodero con la spada e, tra le grida di
protesta
del capitano Orsini e dei manovali, col pomolo buttò
giù i mattoni non ancora
fissati. “Noi stiamo demolendo mezza città, per
non dar possibilità ai cannoni
di farci danno con crolli e voi ben pensate di alzare
le casematte?” e quando giudicò essersi ben
sfogato, intimò
ad un paonazzo Renzo di Ceri: “Rifate le volte a botte
secondo le misure e
indicazioni di Fra’ Jocondo: non ci troviamo qui per giocare
agli artisti!”
“Sono
giorni che ci lavoriamo e abbiamo lavorato bene!”, si difese
indignato l’Orsini.
“Un
lavoro raffazzonato, superficiale e alla checcefrega,
tipico di voi papalini!”
“Cosa
pretendete da noi? Non abbiamo né uomini, né
risorse, né
finanziamenti necessari – nome di Dio, cosa vi
aspettate?!”
“La
perfezione!”
“Siete
un vecchio pazzo balordo, allora!”
Neppure
il tempo di terminare la frase, che sier Zuam Paulo
afferrò fulmineo il capitano delle fanterie per la gorgiera,
la punta del pugnale all’altezza del pomo
d’Adamo. “Innanzitutto,
voi quel tono con me non lo usate, poppante.
Secondo, voi siete
al nostro soldo e
perciò lavorate secondo i nostri parametri
senza proferir né ai né bai,
ma solo signorsì e
se io voglio quelle cazzo di casematte basse, voi costruirete quelle
cazzo di
casematte basse e le vostre opinioni ve le tenete ben serrate in quella
lercia fogna
della vostra bocca!”, lo redarguì feroce.
“Inoltre, credete che non conosca la
mentalità di voi condottieri? Morto un committente se ne fa
un altro: oh, caro
mio, state ben certo che se Treviso dovesse cadere voi cadrete con
essa,
giacché prima che ci facciano prigionieri
m’assicurerò di tagliarvi
personalmente la gola, acciocché voi rimpiangiate
all’inferno la vostra
negligenza e faciloneria!” , lo minacciò il
provveditore senza tanti giri di
parole, la sua pazienza giunta invero al limite. Nonostante le provate
capacità
militari, sulla fedeltà dell’Orsini egli ancora
non si fidava completamente: la
Signoria forse aveva archiviato nel dimenticatoio il suo rifiuto di
servirla
due anni addietro per fedeltà al Papa, ma non di certo
Gradenigo che lo teneva
ben sottocchio, pronto ad agire al minimo suo sgarro.
Quanto al
capitano Renzo di Ceri, egli fissava sconvolto il
veneziano quasi lo vedesse per la prima volta in vita sua: il giorno
delle
presentazioni ufficiali, non gli aveva suscitato una granché
d’impressione,
giudicandolo assai anonimo come ogni burocrate della Serenissima,
pedante,
pignolo e tendente al brontolamento cronico. Invece ora, con quegli
occhiacci
da belva assatanata e scintillanti di morte e dannazione, il
condottiero
riconobbe l’ostinato avversario di Gian Giacomo Trivulzio, di
Ranuccio da Marzano,
di Paolo Vitelli e dei Turchi.
“Signor
provveditore, per cortesia, ci stanno osservando tutti
…”,
s’intromise Vitello Vitelli, appoggiando cautamente una mano
sull’avambraccio
dell’uomo, tacito invito a non scambiare il suo collega per
un puntaspilli.
Allentando
la presa, il patrizio veneziano rinfoderò il pugnale,
asserendo in tono più conciliante: “Non dubito vi
abbiate messo impegno, signor
capitano Lorenzo; tuttavia, non possiamo permetterci un solo errore,
poiché
questo di Treviso non sarà un assedio
bensì l’assedio: dopo
di noi
c’è solo Venezia e se cadiamo sarà la
fine, Padova da sola non riuscirà a
reggere l’attacco di tutti i Collegati. Io sarò
vecchio e appunto in quanto
tale ho ben compreso come il mondo della mia giovinezza sia morto,
distrutto
dalla guerra alla moderna cui se vogliamo sopravvivere non ci resta che
adattarci e anche in fretta. Quelle spanne in meno sulle volte delle
casematte
che voi tanto sottovalutate, corrispondono invece alla sottile linea
tra la
sicurezza e la perdita della nostra artiglieria! Capite?”
“Capisco”,
gracchiò Renzo di Ceri, massaggiandosi la gola offesa.
“Però sul serio avremmo bisogno di più
uomini e mezzi, o non riusciremo mai a
completare i lavori in tempo e La Palissa potrebbe piombarci addosso da
un
momento all’altro!”
“Avrete
tutto a disposizione, di questo ve lo garantisco”,
convenne Gradenigo, auspicandosi che, a furia d’insistere,
prima o poi la
Signoria avrebbe ceduto, inviandogli quanto desiderato. “Oggi
focalizzatevi
sulle casematte, domani riprenderemo col guasto. Signor capitano
Vitello,
quanto a voi, per cortesia sovraintendete i lavori di deviazione del
Sile”,
ordinò ad entrambi i condottieri, scendendo le scale assieme
al segretario. “Voi,
invece, recatevi da sier Hironimo Capelo, sier Alexandro Pexaro e sier
Vicenzo
da Riva: ho da conferire urgentemente con loro.”
“Vi
servo, zelenza!”
Osservando
la figura del provveditore montare a cavallo,
finalmente Vitello Vitelli espresse la sua opinione: “Siete
invero poco furbo”,
apostrofò aspro il collega. “Cosa andate a
litigare con chi ha combattuto per
due anni contro i Turchi sulle montagne albanesi?”
Ironia
della sorte, non era quello ciò che turbava Renzo di Ceri:
analizzando l’altezza delle casematte, a malincuore il
condottiero dovette
ammettere quanto quella vecchia volpaccia asserisse il vero nel
descriverle
troppo alte e perciò vulnerabili ai colpi di cannone nemico.
“Dai,
al lavoro! Sennò qua er castigamatti ce mena a tutti
quanti!”,
incitò l’Orsini i manovali, che grugnendo in
disappunto ricominciarono l’intera
costruzione pressoché daccapo.
“Sier
Lunardo”, salutò il provveditore il concittadino
appena
giunto da cavallo dal porto cittadino. “Quali nuove? Mi
è stato riferito di un
gran viavai di gente a San Martim”, domandò
incuriosito, riferendosi al
brulicare di bastasi indaffarati a ponte San Martino, in un serrato
andirivieni
di botti e di sacchi diligentemente poi stipati nei magazzini per le
provviste
durante l’assedio.
“Rifornimenti
da Chioza, sior proveditor! Un piccolo regalo da
parte loro, per augurarci la buona sorte!”
“Da
Chioza?”
Zustignan
rise di gusto. “Un piccolo scherzetto al Duca di Frara. I
marinai mi hanno raccontato, come don Alfonxo avesse ordinato di
trasportare dal
Polesene a Frara quanti più rifornimenti possibili. Appena
saputolo, i nostri
chiozoti hanno armato alcune barche, eletto capitano un loro
concittadino –
Piero Pagan – e risalendo il Po hanno catturato sette
burchielli ferraresi
carichi di botti di vino, poiché erano venuti a vendemmiare
alle basse …”, e qui
sier Lunardo s’interruppe, asciugandosi le lacrime agli occhi. "E così il Duca alla fine è rimasto a bocca asciutta!"
Doveva
esser stato uno spettacolo indimenticabile quello dei
marinai chioggiotti assalire all’arrembaggio le imbarcazioni
ferraresi cariche
dei vittuarie, col coltello tra i denti e tanta cattiveria in corpo, nonché dei ferraresi buttati fuoribordo a far compagnia alle anatre. .
“Scommetto
che quei vendemmiatori ferraresi li hanno lasciato andare;
chissà se quel gran cancaro del Duca ci avrebbe concesso
uguale magnanimità,
lui che faceva decapitare i nostri prigionieri! Suo padre in questo era più savio ed equilibrato.”, storse
Gradenigo disgustato
la bocca.
Sier
Lunardo scosse paziente il capo. “Perché don
Alfonxo sarà pur
il “duca artigliere”, peccato che non capisca come
un morto non valga nulla,
contrariamente ai vivi da cui sempre qualcosa si può
ricavare.”
“Avete
ragione”, gli concesse sier Zuam Paulo, stringendo nervoso
le redini del cavallo. “E a proposito di provviste: ho dato
incarico di
trasportare domani il laterizio e i legnami; sier Alexandro e sier
Vicenzo porteranno
i materiali via barche, mentre sier Hironimo via carri. Meglio
sfruttare al
massimo la lentezza e i tentennamenti del nemico, finché
possiamo …”
“Chi ha tempo non
aspetti
tempo, sior Provedador.”
***
Blu
e bianco mischiati nella luce accecante del meriggio. Quel
calore tremendo eppur confortante che gli penetrava le ossa. Lo
sciabordio
delle onde, l’ombra protettiva della Fortezza. Le risate dei
fratelli, il
latrato del cane Argo.
Mitéra
che li chiamava, scherzosa, ridente.
L’armatura
luccicante di Patéras. Il primo pugnale nelle sue mani.
Ricorda gli Antichi: guai ai vinti!, riecheggiavano le sue parole
mentre con la
lama fendeva l’aria o il duro tronco centenario di un olivo,
Patéras che
assisteva orgoglioso assieme a theíos.
Ombre,
tutte ombre che lo stavamo chiamando insistentemente. Le
loro pallide braccia che lo ghermivano. I visi scarni, gli occhi
incavati.
Larve umane, orride, fredde, avide. Vieni con noi, hai già
penato abbastanza.
Vieni, trova in noi il ristoro dell’oblio.
No,
non ancora!
Sì,
ora!
Patéras
… Mitéra … suo fratello maggiore
… parenti … amici …
compagni d’arme … quanti volti! Quanta morte!
Vieni
con noi, tocca a te ora!
Una
risata cristallina, civettuola di giovane donna che lo adulava
e al contempo lo scherniva – bella, raggiante, vestita
d’oro, gli occhi
risplendenti come il suo rubino. Ma come! Non vuoi seguire neppure me?
Patéras!
Patéras!
Il
suo angelo gli correva incontro, le mani piene di fiori
primaverili colte su campi fecondati di cadaveri. A che vita
l’aveva costretta?
Patéras!,
lo invocava la piccina in braccio alla madre,
quest’ultima livida e inclemente, degna figlia di suo padre.
No!
No! Aikaterinī, aspetta! Non andartene! Non portatemela via!
La
moglie gli si avvicinò, gli occhi di bragia, la bambina
piangente. Come hai potuto farci questo? Che uomo sei?
No!
Sarebbe
meglio se crepassi!
No!
Così
da liberarci dal tuo disonore!
No!
Della
tua crudeltà!
No!
Della
tua insensatezza!
No!
Torna
da me, allora!
No!
No!
Allora
muori, non ci servi!
Aikaterinī,
aspetta … Lasciami spiegare …
I
lineamenti cambiarono, la loro dolce femminilità
s’indurì in una
più maschile.
E
se lo vide di nuovo davanti, ridente e biancovestito, senza
catene e col puttino in braccio. Accanto a lui, Jacomo Mamalucho, vestito di seta, gli rideva in faccia.
Ciò,
signor beota! Cosa fai, mi muori così da coglione? - lo schernì
- Sei proprio un macaco fanfarone!
Dal
nulla gli balzò addosso una scimmia che gli tirò
la barba per
baciarlo in bocca mentre l’altro se la rideva alla grossa.
“Maledetto!
T’ammazzo io!”, ruggì un delirante
Mercurio Bua,
afferrando un disgraziato a caso per il colletto della casacca e
trascinandolo
seco. “Come ti permetti, razza di stronzetto? Ti spezzo le
ossa una ad una …”
Schiaffeggiando
via assai scocciato la mano artigliata alla sua
povera preda, liberandola, il cerusico di campo sbraitò
insofferente: “Insomma,
qualcuno me lo può tenere fermo? O legatelo direttamente,
sennò qua finisce che
lo eviro e allora sì che avrà motivo di dolersi
sul serio!”, dovendo infatti
egli operare alla coscia, in pericolosa prossimità
dell’inguine.
Immediatamente,
Leka Busicchio e un altro stradiota gli strinsero
con una corda le caviglie e i polsi all’improvvisato tavolo
operatorio, intanto
che i suoi compagni immobilizzavano il convulso greco-albanese onde
facilitare
l’impresa.
“Si
salverà?”, s’informò
apprensivo Busicchio, osservando preoccupato
il collega giacere pallido ed esangue sul tavolo, la pelle un malsano
misto tra
giallognolo e bluastro e sudata per via della febbre montante.
“Me
lo avessi chiesto un istante fa, ti avrei detto di no”, gli
confessò brutalmente onesto il cerusico, mentre passava la
lama sulla fiamma e
indicava al suo assistente di preparare una tintura
d’oppiacei che poi
costrinse il poco collaborativo paziente ad inghiottire. “Ora
invece …
Santissimi Cosma e Damiano [3]! Mai visto un moribondo con
così tante energie
…”
Il
capitano stradiota si morse il labbro inferiore, in pena e allo
stesso tempo arrabbiato col Bua, biasimandolo intimamente per la sua
ostinatezza a voler rimanere a tutti i costi sul campo di battaglia,
malgrado
questa fosse stata già persa in partenza.
“Leka”,
biascicò Mercurio, la lingua gonfia e impastata e gli
occhi guizzanti in ogni direzione, esausti dallo sforzo di rimanere
focalizzati. “Perdio, Leka!”
“Eccomi!”,
si portò il condottiero al suo fianco.
“Andrà tutto
bene … il cerusico qui …”
“Stai
zitto e dimmi: la battaglia?”
“Persa.”
“Quanti
dei nostri?”
“Un
quarto.”
Mercurio
s’umettò le labbra secche, deglutendo malamente
acida
bile. “Dove siamo?”, si guardò attorno
disorientato.
“A
Montebelluna, nel tuo padiglione. San Giorgio sia benedetto,
non siamo incappati in alcun agguato, sebbene poco ci mancasse che quel
cavaliere veneziano …”
Il
greco-albanese, che fino a quel momento aveva ascoltato ad
occhi chiusi e semicosciente, spalancò le palpebre, girando
il collo di scatto.
“Dov’è?”, ringhiò,
realizzando ora il perché avvertisse qualcosa mancare nella
sua tenda, impedendogli un pronto riconoscimento.
“Te
l’ho già spiegato: quel veneziano
l’abbiamo seminato alle
pendici del Mont- …”
“Non
quello, l’altro!”, gli
esplicò (male) Mercurio,
digrignando i denti nel tentativo di puntellarsi sui gomiti, solo per
realizzare d’esser legato al tavolo. Il che
aumentò la sua arrabbiatura.
“L’altro! L’altro! Quel maledetto uccello
del malaugurio, quello stronzo
infame, quell’insolente farabutto, quella brutta scimmia,
quella femmina
mancata, quel …” e appurando quanto Leka
l’avesse perso in calle, uscì dai
gangheri e incominciò a far pressione sui lacci, prontamente
premuto giù
disteso dai fin troppo solerti stradioti ora al comando
dell’inflessibile
cerusico.
Quand’ecco
entrare nella tenda Zilio Madalo, cui Mercurio
s’appellò manco San Giorgio redivivo sceso in
terra: “Zilio, almeno tu salvami
da questi farisei! Dov’è finito?”
Il suo
sottoposto gli rispose sollevando Thomà e portandoglielo ad
altezza d’orecchio. “Parla s-cieto, puto, e
lesto!”, l’intimò perentorio il
capitano di ventura. “Dove xélo el tòo
patron?”
“Lo
gh’han i todeschi!”, gli spiegò conciso
il bambino. “Co si
pensava che geravate morto, vanti xéi venui tre omeni
tajani, do dil partio di
Franza et on d’Alemagna. El mio patron lo gh’han
messo in la cheba, i disen
cheo portan in Alemagna, perhò i franzosi no xéi
contenti, i lo volen ancha
lhori e se lo litigano chome la veste sancta di Domino Jesu
Christe.”
“Tre
uomini italiani, due di parte francese ed una tedesca?”,
corrugò Mercurio la fronte. Il fratellastro del Gran
Scudiero era partito
assieme a La Palice e de Boisy alla volta di Vicenza, quindi dovevano
trattarsi
sicuramente di Pallavicino e Trivulzio. Ma chi militava per
l’Imperatore pur
italiano? L’unico che gli veniva in mente era il conte
Gianfrancesco di
Gambara, il cui arrivo era stato annunciato … Il Bua
socchiuse gli occhi e
cercò di recuperare dalla mente annebbiata dalla febbre e
dagli oppiacei le
ultime missive ricevute e dunque i prossimi movimenti
all’interno
dell’accampamento. “Allora ci ha già
raggiunto … Sistu seguro, che gera per
dasseno on tajan a soldo di l’Imperador? Se ciamelo Zuan
Francesco de Gambara?”
Thomà
gli lanciò un’occhiataccia. “Gambara,
gambero, gambera … chi
sonjo, mi, el Imperador che cognesse tuti i nobeli di sta terra? Mi ve
conto solo
zò che gh’ho vardà e sentio! No
franzosi, no todeschi, tre tajani i xéi entrai!”
“Pulito,
basta che ti te tasi”, lo liquidò uno snervato
Mercurio,
avvertendo una maggior pesantezza sia nel cervello che nelle membra.
Fatto
cenno col capo a Zilio di metter giù Thomà, gli
ordinò: “Pigliati i più robusti
dei nostri e vammelo a riprendere con qualsiasi mezzo, lecito e non!
Anche a
costo di spaccare il muso a tutti i francesi e tedeschi di questo
campo! E se
quegli schifosi di Trivulzio, Pallavicino e soprattutto di Gambara
dovessero
intralciarti, hai la mia benedizione di spedirli a guardar crescere le
margherite per le radici!”
Fiutando
guai e conoscendo la natura fin troppo zelante di Madalo,
Leka s’intromise, offrendosi anch’egli volontario
così da evitare un inutile
massacro prima e dopo per le punizioni sicuramente inflitte a scontro
terminato. “M’accerterò di riportartelo
indietro”, assicurò il dubbioso
collega. “Tu devi solo pensare a guarire.”
Mercurio
Bua annuì debolmente, adesso sul serio sfinito.
Una volta
usciti gli stradioti e finalmente tranquillo di lavorare
in santa pace, il cerusico s’avvicinò al paziente
con un bastoncino, cacciandoglielo
tra i denti. “Ah, urlate pure se vi va. Prometto di non
giudicarvi”, asserì,
sorridendogli d’una poco rassicurante e gaudente ferocia.
“Ti
piacerebbe”, bofonchiò Mercurio, preparandosi
mentalmente alla
peggior ora della sua vita, dopo ovviamente il primo incontro con la
suocera.
***
Hironimo
s’era appena addormentato quando captò lo stridore
del
cancello della gabbia, accompagnato da rauche grida sia in francese che
in
tedesco. A destarlo completamente fu però la presa e il
conseguente strattone
alla caviglia, costringendolo a scivolare fuori dalla gabbia in un
doloroso e
pesante tonfo, finendo dritto in una pozzanghera a mangiar fango e
acqua.
Senza
capire i come e i perché, si sentì schiaffeggiare
via la
mano che lo stringeva per poi venir issato in piedi e malamente
scaraventato
contro le sbarre, nascosto dal corpo massiccio della sua guardia, la
quale
puntò la sua picca contro il gruppetto di soldati guasconi
dietro i quali
Hironimo riconobbe il capitano du Molard.
“Laisse-nous
passer! C’est
un
ordre!”, ringhiò il guascone al tedesco, estraendo
la daga e avvicinandosi
minaccioso.
Quell’altro
gli rise in faccia, affatto impressionato. “Wahnsinn! Meine Pflicht ist es,
die Befehlen zu
gehorchen. Und mein Kapitän hat mir gesagt, dass er unser
Gefangener ist! So …
verschwindet ihr alles!”
Osservando
inebetito quell’assurda conversazione in idiomi
così
dissimili tra di loro, Hironimo, ripresosi dallo sguarattamento
iniziale, si
rese conto di tre grandi verità: primo, sebbene schiacciato
dalla schiena del
tedesco comunque si trovava fuori dalla gabbia.
“Je
ne parle pas
allemand, sale connard! Fiche-moi la paix et donne-moi le
vénitien! C’est le
maréchal de La Palice qui le commande !”
Secondo:
aveva i ceppi solo ai polsi.
“Leckt
mich!”
Terzo:
nessuno lo stava badando sul serio.
“Veux-tu
désobéir au
maréchal? Veux-tu pendre au gibet?”
Il
tedesco poteva anche ignorare in totum la lingua francese, ma
quell’insistente ripetizione del nome di La Palice
incominciava a smuovere gli
ingranaggi del suo cervello, riempiendogli la testa di dubbi.
L’ordine di
vegliare sul prigioniero veneziano gli era stato dato, in effetti, dal
conte di
Gambara che rappresentava l’Imperatore. Tuttavia, il
comandante in campo era La
Palice e se quel guascone gli si stava avvicinando col nome del
maresciallo in
bocca, forse un valido motivo sussisteva per cedere il prigioniero.
D’altro
canto, però, perché il maresciallo non era
lì con loro? E
neppure il Gambara o almeno il capitano Jacob Empser? Cosa voleva il capitano
delle
fanterie guascone da lui?
No,
finché uno dei suoi commilitoni o comandanti non si fosse
presentato assieme a loro, l’imperiale non si sarebbe
scrostato di un
centimetro dalla sua postazione.
“Wo
ist denn mein
Kapitän? Was befehlt er?”,
insistette egli assai sospettoso.
Il
guascone batté
snervato il piede per terra, sbuffando e con lui anche du Molard, che
esclamò
esasperato: “Est-ce qu’il n’y a pas un
foutu allemand ici qui connaît le
français afin d’informer ce fils-de-pute, que le
vénitien appartient au Roi de
France?”
E il
tedesco, che tanto stupido non era, captando qualche parola
abbastanza simile alla sua lingua incominciava a capire
l’inganno cui tentavano
di sottoporlo, alterandolo grandemente specie quando avevano intenzione
di
fregarlo sì meschinamente. Stette quindi per ribattere che
il prigioniero non
apparteneva al Re di Francia bensì all’Imperatore,
quando un’esclamazione da
parte di du Molard lo distrasse, costringendolo a voltarsi di scatto: i
suoi
medesimi occhi s’ingrandirono alla vista di come Hironimo con
l’agilità di una
scimmia si fosse arrampicato sopra la gabbia e stesse gattonando dalla
parte
opposta per scappare.
In un sol
uomo, si lanciarono tutti sulla gabbia; il guascone anzi
ne approfittò per sganciare un bel cazzotto contro il
tedesco, tramortendolo,
per poi issarsi sulle sbarre sennonché, girandosi, il
giovane Miani gli frustò
via la mano con le catene: “Toga qua!” e il
guascone cadde rovinosamente per
terra, reggendosi la mano dolorante.
Medesima
sorte toccò agli altri suoi compari che tentavano di
raggiungere il patrizio, il quale a guisa della coda del cavallo,
scacciava le
moleste mosche francesi tra un: “A ti! A ti! Et ancha a ti!
Ne gh’ho qua per tutti!”
supplendo con calci in faccia laddove le catene non arrivavano.
Dinanzi
all’inefficacia di quel bizzarro assedio, i guasconi
allora cangiarono tattica e afferrate le sbarre della gabbia presero a
scuoterla con l’intenzione di far cascare Hironimo a guisa di
mela dall’albero,
non calcolando come il giovane s’aggrappasse simil gatto,
rimanendo in beffardo
equilibrio. Purtroppo per loro, la guardia tedesca, imprecando, si
riscosse dal
suo forzato torpore e riconosciuto il suo assalitore, lo
ghermì per la spalle e
costretto a voltarsi gli ricambiò la cortesia ricevuta tre
volte tanto, per poi
passare ad un altro francese.
Ciò
provocò una fulminea reazione a catena: accortisi dei
compagni
in difficoltà, alcuni guasconi abbandonarono la gabbia e si
gettarono quasi di
peso sul tedesco, arrivando a bloccarlo per ambedue le braccia e a
colpirlo tra
faccia, addome e pure inguine, cacciando l’uomo urla disumane
a quell’ultimo
tormento che sortì l’effetto d’attirare
l’attenzione dei suoi commilitoni.
Indignatissimi, gli imperiali sopraggiunsero di corsa, tuffandosi per
liberarlo
dall’impari lotta in una confusa mischia di corpi e cazzotti.
Nel
frattempo, Hironimo scendeva quatto-quatto dalla gabbia,
approfittando della confusione col progetto di raggiungere indisturbato
il
limitare del bosco, là dove sperava essersi rifugiato anche
Thomà quando
l’aveva visto scappare dal padiglione di Mercurio Bua al
momento del suo cambio
di custodia. Il patrizio procedette dunque come i granchi, guardandosi
costantemente attorno e nascondendosi all’occasione dietro un
carro, un barile
o una tenda, soddisfatto da come i soldati fossero presi dalla loro
contesa –
accresciuta in una vera e propria rissa di campo –
apprestandosi col cuore in
gola allo scatto finale, quel lembo di terra vuoto tra
l’accampamento e la
selva.
Ancora un
po’ … ancora un po’ …
Hironimo
corse, maledicendo le gambe intorpidite dai lunghi giorni
di forzosa inattività e chiudendo la bocca onde risparmiare
ossigeno.
All’improvviso
una mano gli afferrò un lembo del camicione,
tirandolo indietro e, perduto l’equilibrio, ingamberandolo al
punto da cadere
prono per terra e trascinando seco il suo assalitore, che lo
soffocò col suo
peso. Subito Hironimo si sistemò supino e memore degli
esercizi di lotta libera
sulle spiagge del Lido roteò il bacino così da
portare le ginocchia all’altezza
del mento e, inarcandosi, strinse tra le cosce il collo del soldato
francese
per ribaltarsi prima sul fianco e poi sopra di lui, così da
finire l’uomo con
un pugno sul naso.
Al
francese che l’aggredì alle spalle, il giovane
Miani elargì
prima una frustata con le catene e poi, rotolando sulla schiena e
scivolandogli
alla giusta altezza, una tallonata sui testicoli.
Rimessosi
in piedi, il patrizio riprese la corsa ma oramai la sua
fuga era stata scoperta e in più lo insidiavano da
più lati, sia francesi che
imperiali. Ad uno egli afferrò il braccio e, torcendoglielo,
l’atterrò
dolorosamente. Ad un altro gli cinse le catene al collo per usarlo come
scudo
umano ed avanzare di qualche spanna; un altro ancora si
ritrovò piegato a
metà in avanti col braccio tra le gambe e
Hironimo, dandogli un
calcio ben assestato al sedere, lo usò come ariete di
sfondamento contro i suoi
compari. Il più abile tra questi riuscì ad
afferrarlo per il colletto del
camicione e lo strattonò verso di sé; facendo
perno con la gamba e tirando in
direzione opposta, Hironimo riuscì a divincolarsi in qualche
vorticosa
piroetta, pur stracciando l’indumento e ritrovandosi
letteralmente in mutande.
Nessuno
dei suoi avversari si giovava nella lotta di alcun’arma se
non delle proprie mani, evidente infatti l’ordine di
riportarlo vivo a chiunque
di quei masnadieri lo rivolesse indietro. Tuttavia, malgrado questo
vantaggio,
la stanchezza pesava sempre di più in Hironimo, man mano che
il gruppo di
soldati s’infoltiva e un “Ma va’ in
mona!”, gli sfuggì dalla bocca alla vista
di quel rotto-in-culo di Gambara raggiungere du Molard.
La
presenza dei loro comandanti evidentemente ringalluzzì i
soldati, desiderosi forse di non sfigurare, e di fatti uno di loro,
roteando
all’inverso la picca, mirò alle ginocchia e agli
stinchi del patrizio col
palese scopo di gambizzarlo. Concentrato ad evitare i colpi, Hironimo
non
poteva porre sufficiente attenzione a quanto gli accadeva alle spalle e
la sua
difesa ne risentì, divenendo gli attacchi avversari
più efficaci e la sua
reazione più lenta e imprecisa. Finché una
stoccata particolarmente maligna
alla caviglia gli strappò un mugolo di dolore, incrinandolo
in avanti; in
subitanea successione gli si calò un colpo
all’addome e, cadendo bocconi, sul
trapezio, atterrandolo e subissandolo di calci così da
impedirgli un
qualsivoglia centroattacco. Neanche il tempo di rialzarsi e quattro
paia di
mani afferrarono lo sfinito veneziano per le braccia, tirandolo in
direzioni
opposte manco volessero squartarlo vivo, la vista oscurata dal sudore e
dal
sangue che gli colava dalla fronte e le orecchie che gli martellavano,
ovattando le grida dei soldati.
Quand’ecco
che delle nuove voci più forti e più irose delle
altre
s’intromisero, sovrastandole. La pressione ai suoi muscoli
aumentò di
conseguenza e così il dolore, credendo Hironimo che se
avessero tirato ancora
qualche spanna in più gli avrebbero lussato la spalla come
nella strappata. Si
morse perciò le labbra a sangue, l’orgoglio troppo
radicato in lui per dar a
chicchessia la soddisfazione di vederlo urlare in agonia, come invece
faceva il
suo cuore: Mare … Mare ajuto! I me copan !
I me mazzan! Mare! Mare!
“Se
il Bua lo rivuole indietro, che se lo venga a prendere di
persona!”
Cosa? Che
stavano dicendo? Mercurio Bua non era morto a Treviso?
Poco
importava ciò che gli stradioti – ché
di loro si trattava –
avessero latrato di rimando. La stretta e la pressione alle braccia
svanirono e
come una marionetta senza fili Hironimo cadde per terra, respirando
liberamente, per poi accomiatarsi dal suolo e, in una vorticosa
capovolta,
trovarsi a contemplare la schiena di colui che solo
quell’energumeno di Zilio
Madalo poteva essere, a giudicare dall’altezza. E correva
anche veloce,
constatò Hironimo con strano distacco, osservando gli
sbraitanti
franco-imperiali alle loro calcagna e come Leka Busicchio aprisse la
strada a
Zilio a suon di pugni a chiunque gli si parasse
innanzi. Dopodiché,
preso un profondo respiro, il veneziano incominciò a mordere
e a graffiare il
volto del mercenario, rallentandolo e così per la par
condicio anche gli
stradioti dovettero faticar non poco onde salvarsi da
quell’immensa zuffa.
Nessuno
si accorse, nel parapiglia generale, degli uomini dalle
dubbie uniformi avvicinarsi alle zattere costruite per trasportare via
fiume le
artiglierie attese da Vicenza. Nessuno tranne forse un soldato tedesco
che,
notando alcune inesattezze nei colori, aveva
esclamato: “Du bist kein
Franzose!” per beccarsi una pugnalata sui reni e uno
sbrigativo:
“Et
no, beo ti!”
Liberatosi
della presenza ingombrante del tedesco, Bernardin fece
cenno ai suoi compari di sbrigarsi, rimanendo di vedetta onde captare
il minimo
interesse alle loro azioni. Quella rissa pareva un dono inviatogli da
San Liberale,
benedisse il trevigiano mentalmente il loro santo patrono, non poteva
capitare
più a proposito così da operare in fretta, a
colpo sicuro e senza neppur
attendere l’incerta complicità della notte.
Boicottati in pieno giorno nel loro
stesso accampamento, che smacco per quei boriosi! Appena rientrato a
Treviso,
l’uomo si ripromise di accendere un cero lungo un braccio
nella cripta del
Duomo, davanti alle reliquie del santo. [4]
“Dèmo
su! Lesti!”, li spronò, mentre i marciani
gettavano del
liquido viscoso e infiammabile sulle zattere.
Afferrate
delle braci da un bivacco abbandonato, Bernardin le
lanciò una per ciascuna imbarcazione. “Via,
via!”, intimò ai compagni di
correre veloci verso il bosco, prima che le fiamme
s’alzassero e inghiottissero
le zattere inermi.
***
“Cos’è
quella faccia? Non speravi che sopravvivessi?”
“E
con ciò? Che vuoi da me? Un applauso?”
Quando
Hironimo poté finalmente metter di nuovo i piedi per terra
fu nel padiglione di Mercurio Bua, là dove il suo
proprietario, terminata la
sua agonia sotto i ferri del cerusico, lo stava aspettando disteso
sulla
branda, la schiena appoggiata su di una pila di cuscini così
come la gamba
ferita. Il suo valletto d’arme l’aveva ripulito e
aiutato ad indossare una
camicia pulita, dal cui colletto aperto si notava la stretta fasciatura
e la
perspirazione della febbre che tuttora piagava il greco-albanese,
malgrado
l’espressione adesso meno delirante. Il condottiero si
limitò d’arcuare
scocciato il sopracciglio alla vista dei profondi e rossi graffi sul
volto di
Zilio, assai contento quest’ultimo d’essersi
liberato di quel gattaccio selvatico
antropomorfo che ora teneva in ginocchio ben fermo per le spalle. Non
che il
veneziano se la passasse meglio, pallidissimo e ricoperto
d’ematomi ed
escoriazioni manco un San Rocco.
“Va’
dalla tua nënë (mamma, ndr.)”, spinse
Mercurio col braccio
buono Thomà, il quale senza manco capire che accidenti gli
avesse ordinato
corse d’istinto verso Hironimo, il quale prontamente
l’abbracciò protettivo,
lanciando un’occhiataccia al capitano di ventura, accusandolo
dei più turpi
delitti.
“Adesso
che te l’abbiamo riportato, puoi startene tranquillo a
riposare?”, rimbeccò Leka Busicchio il suo
collega, interrompendo sul nascere
la vivace protesta che questi stava per rifilare al patrizio veneziano
e le sue
insensate chimere denigratorie. “Azzoppato e febbricitante
non ci sei affatto
utile! Anzi, una palla al piede!”
“El
xé senpre ‘na bala al pie”,
bofonchiò tra sé e sé Hironimo,
prontamente rampognato da un celere scappellotto da parte di Zilio.
“Ringrazia
il fratello di questa … pescivendola!”,
sbottò
petulante Mercurio, indicando il giovane Miani che gli rispose con un
gesto
assai scurrile delle dita e beccandosi un altro ceffone alla nuca.
“M’ha
fronteggiato da turco, quel vigliacco, altrimenti l’avrei
sgozzato io!”
“Sì,
ma intanto ci sei tu in barella e se non ti dai una calmata,
qui finisce che ti spediscono a Trento o a Milano a sbollire i tuoi
umori
biliosi!”, non si commosse Leka, arrabbiato quanto se non di
più del
conterraneo. “Inutile atteggiarti da struzzo: hai fatto una
figura di merda a
Treviso! Pertanto, se vuoi conservare un minimo di dignitosa
autorità in
quest’accampamento, ti conviene mantenere un profilo basso e
non impegolarti in
altre cazzate! E questo include …”
“Capitano!
Capitano!”, l’interruppe gridando uno stradiota,
irrompendo trafelato nel padiglione. “Fuoco! …
Fuoco! …”, ansimò, deglutendo
malamente l’aria.
“Come?
Dove?”
“Le
zattere! Le zattere per trasportare l’artiglieria! Sono
andate
tutte a fuoco! Non se n’è salvata nessuna! Il
campo è in subbuglio! Sono anche
scappati dei prigionieri! I tedeschi stanno entrando in tutte le tende
per
rubare cibo, vino, denari e Dio sa cos’altro!”
Un
silenzio mortale calò nella tenda e lentamente ogni sguardo
accusatore e incredulo cadde su Hironimo che, stringendo a
sé Thomà e
raddrizzando battagliero le spalle, berciò infastidito:
“Ciò! Non mi guardate
così ché io non c’entro
un’emerita cippa!” e notando come gli stradioti
continuassero a fissarlo astiosi, esclamò indignato:
“E come avrei fatto,
sentiamo? Mi stavate tutti attaccati al culo peggio delle mosche sul
latte, mi
dite come sarei riuscito a pestarvi e allo stesso tempo bruciare le
zattere e
liberare i prigionieri?” D’un tratto ansioso, si
rivolse a Mercurio: “Si è
trattata di una mera coincidenza, non ne sapevo niente!”
Il
greco-albanese lo squadrò a lungo, esitante. Il suo naturale
istinto gli diceva di non fidarsi, che molto probabilmente il patrizio
aveva
funto da specchietto per le allodole così da permettere ai
suoi conterranei
d’agire indisturbati, sfruttando
l’immunità conferitagli dal suo status sociale.
Dall’altra parte, però, suonava come un piano
esageratamente elaborato e basato
su parecchie variabili di natura troppo incerta per concludersi con
successo.
Semplicemente,
risolse il condottiero, il giovane Miani aveva
creato in maniera casuale e inconsapevole il momento giusto per gli
uomini
giusti.
“Zilio”,
comandò Mercurio, gli occhi sempre puntati su Hironimo.
“Lavamelo come si deve da capo a piedi, bendagli la ferita al
fianco e poi
dagli una delle mie camice pulite. Dopodiché, prendi la
chiave e aprigli uno
dei ceppi e richiudilo al mio polso, cosicché se me lo
vogliono rubare di nuovo
stavolta dovranno passare sul serio sul mio cadavere.
L’accampamento è in
tumulto, stanotte ci si può aspettare di tutto sia dai
marciani che dai
franco-imperiali! Armatevi dunque e vigili! Leka”, disse al
collega, ponendogli
una mano sulla spalla, “ti ringrazio per il tuo aiuto.
Ammetto d’aver agito da
sconsiderato e spero che tu voglia ancora combattere al mio fianco. E
per
cortesia taci, non ho mai sopportato i tuoi sentimentalismi”,
lo chetò avanti
che Busicchio potesse replicare. “Invece, piglia le cose di
valore dalla tua
tenda e i tuoi uomini più gagliardi: veglieremo assieme
finché la situazione
non si acquieta. Fai appostare i nostri ai padiglioni e ai cavalli e
spero che
nessuno qui tra voi abbia tanto sonno, ché sarà
una notte assai lunga …”
Sollevati
per il ritrovato polso del proprio comandante, simili ad
api gli stradioti s’adoperarono zelanti ad adempire alle
direttive di Mercurio
e in meno di un’ora si disponevano armati di tutto punto al
suo capezzale,
studiando accorti l’entrata della tende e le ombre convulse
che s’agitavano
dietro, stringendo la zagaglia o l’elsa della spada o
accarezzando nervosi
l’impennaggio delle frecce. Persino il convalescente stava
impugnando la sua
arma, il braccio incatenato ben stretto ai fianchi di Hironimo che a
sua volta
teneva Thomà sedutogli sulle ginocchia.
Tutto
questo in un silenzio da predatore, i respiri ridotti a
flebili sussurri e i cuori tuttavia tambureggianti in gola, in netto
contrasto
con le acute grida convulse che riecheggiavano all’esterno.
“M’ero
scordato di dirti”, mormorò piano Mercurio al
patrizio,
“adesso che siamo legati spero non ti scandalizzerai,
donzelletta mia, quando
dovrò usare il pitale!”
“Non
preoccuparti per me, pan de zucaro”, gli sorrise con
magnanima sufficienza Hironimo, pur tuttavia sperando che il suo tono
di voce
non tradisse la crescente ansia per la sorte sua e di Thomà.
Ironico come
dovesse affidarsi a quel satanasso onde sopravvivere. “Spero
invece non mi
creperai d’invidia, quando toccherà a me
pisciare!”
In altre
circostanze, il Bua gli avrebbe pizzicato il fianco a mo’
di punizione per quel suo umorismo puerile. In quel momento,
però, gli fu grato
d’averlo aiutato a sdrammatizzare e quindi distendergli i
nervi e ragionare più
lucidamente, specie quando la tenda prese a muoversi a causa dei primi
assalti,
scostandosi appena da rivelare la punta di una
lama e la mano che
l’impugnava ...
Continua
…
*******************************************************************************************
Come
sempre, ricordiamo che le vicende qui sono romanzate per
supplire sia alla mancanza di fonti che alla concisione del Sanudo in
certi
eventi.
Un
contadino fuggito dal campo dei franco-imperiali notificò
come
essi fossero venuti pesantemente alle mani, così da fornire
un’occasione d’oro
ai marciani di bruciare le zattere destinate a trasportare
l’artiglieria.
Conoscendo i soldati mercenari, possiamo ben intuirne i motivi
– soldi, cibo,
donne, naturale antipatia tra francesi e tedeschi, etc. –
ciononostante, perché
non fare il Nostro la ragione di questo litigio? Inoltre,
sì, i soldati
dormivano armati e non per paura dei marciani bensì dei loro
stessi alleati,
poiché le ruberie nelle rispettive tende erano
all’ordine del giorno.
Se
pensate poi che Gian Paolo Gradenigo stesse esagerando nelle
sue fantasie su come punire i responsabili della morte di suo fratello
Giovanni
Gradenigo, hé, sappiate invece che quelli erano veramente i
metodi dei turchi,
per quanto orribili essi possano suonare.
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] non sappiamo come Fra’ Giocondo
ideò
l’originale Ponte de Pria (Ponte di Pietra in italiano),
essendo la forma
attuale quella della ricostruzione del 1521, sotto la podesteria di
Priamo
Legio. Pertanto, abbiamo tenuto quanto più vaga la
descrizione.
[2]
Dateve cum un legno =
dattele in testa col legno, cioè
prenditi a legnate in testa, modo di dire per darsi una
calmata. Andar fora
de vada = fuori di testa, impazzire.
[3] Ss. Cosma e Damiano = protettori
dei medici e chirurghi, sono stati appunto due medici romani
martirizzati sotto
Diocleziano, gemelli e fratelli maggiori dei santi Antimo, Leonzio ed
Euprepio.
[4]
San Liberale = San
Liberale d’Altino, patrono di Treviso, di Castelfranco Veneto
e di tutta la
diocesi trevigiana, fu un militare, un predicatore e asceta, grande
avversario
dell’eresia ariana, che s’adoperò per
tutta la vita a sradicare dal territorio.
La leggenda, oltre che a legarlo ai santi martiri Teonisto, Tabra e
Tabrata, narra
che fu lui a salvare Treviso da un’incursione degli Unni o
dei Longobardi, a
seconda della versione.
Laisse-nous passer! C’est
un ordre! = lasciaci
passare ! E’ un ordine!
Wahnsinn! Meine Pflicht
ist es, die Befehlen zu gehorchen. Und mein Kapitän hat mir
gesagt, dass er
unser Gefangener ist! So … verschwindet-ihr alles! = Follie! Il mio dovere
è di obbedire agli ordini. E il mio
capitano mi ha detto ch’egli è un nostro
prigioniero! Quindi … sparite tutti!
Je ne parle pas allemand,
sale connard! Fiche-moi la paix et donne-moi le
vénitien! C’est le
maréchal de La Palice qui le commande ! = Non
parlo tedesco, brutto
coglione! Smettila di rompermi le palle (lett. Lasciami in pace) e
dammi il
veneziano! È il maresciallo de La Palice che lo comanda!
Leckt
mich !
= sucamelo!
Veux-tu
désobéir au maréchal? Veux-tu pendre
au gibet? = vuoi
disobbedire al maresciallo ? Vuoi pendere dalla
forca ?
Wo ist denn mein
Kapitän? Was befehlt er? = dov’è
allora il mio capitano? Cosa comanda?
Est-ce qu’il n’y a pas un
foutu allemand ici qui connaît le français afin
d’informer ce fils-de-pute, que
le vénitien appartient au Roi de France? = non
c’è qui un fottuto tedesco che conosca il francese
da informare questo figlio
di puttana, che il veneziano appartiene al re di Francia?
Du
bist kein Franzose!
= Non
sei francese!
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Capitolo 11 *** Capitolo Decimo: 8 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 21.10.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Decimo
8
settembre 1511, Festa della Madonna
Sub Tuum
praesidium confugimus,
Sancta
Dei
Genetrix.
Nostras
deprecationes ne despicias in necessitatibus,
sed a
periculis cunctis libera nos semper,
Virgo
gloriosa et benedicta. [1]
Da ogni
campanile di Treviso suonavano con festosa baldanza le
loro campane, rincorrendosi in echi e dialogando in diverse
tonalità,
incominciando dal Duomo ed espandendosi a macchia d’olio
così da formare un
gioioso coro che rallegrava i cuori.
Levandosi
dai rispettivi giacigli e sgranchendosi la schiena e le
articolazioni anchilosate dal costante sforzo fisico, ai guastatori
addetti
allo smantellamento di Santa Maria Maggiore e al rafforzamento dei
bastioni di
Santa Sofia si presentò un curioso spettacolo: in fila
ordinata e compatta, malgrado la pioggia battente, una
crescente folla di fedeli avanzava coi ceri in mano in direzione della
chiesa,
cantando Sub Tuum praesidium a
voce talmente alta, che
chiunque nel proprio letto avesse indugiato nel sonno poteva ben
accommiatarsi
da esso e magari unirsi agli oranti. Tutta Treviso d’altronde
pareva essersi
data lì appuntamento, i suoi cittadini negli abiti della
domenica e
un’espressione in faccia di grande
determinazione. Quel giorno era
la Natività della Beatissima Vergine Maria e grandi lai al
folle che avesse
boicottato la loro processione verso il Santuario. (Che poi essa di
norma
avvenisse solo il giorno dell’Assunta, era irrilevante, quei
forestieri mica lo
dovevano sapere)
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Dinanzi a
tal moltitudine, i guastatori rimasero imbambolati e
indecisi su come reagire; si lasciarono quindi scavalcare con assoluta
noncuranza da parte dei fedeli che s’accalcarono nel
profanato edificio sacro
onde poter rendere omaggio alla loro amatissima Signora e invocarne in
quei
giorni amari e difficili la potentissima intercessione, affidando sotto
il Suo
manto materno le sorti della città come sempre avevano
fatto. Entrati, gli
oranti avanzavano genuflessi verso l’altare
dell’affresco miracoloso, le
braccia incrociate al petto o le mani giunte, incuranti della pressione
e dello
sporco sulle ginocchia, gli occhi umidi e la fiduciosa preghiera
insistente
sulle labbra tremanti.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Ben prima
dell’arrivo dei Romani, gli argini del Sile (e di tutti
i fiumi) erano stati luogo di venerazione per gli antichi Eneti
domatori di
cavalli, i cui fieri guerrieri gettavano le spade più belle
e preziose in
offerta a Reitia potnia theron, l’amatissima dea madre e
signora degli animali,
dalla veste rosso fuoco e il lungo velo azzurrino quanto
l’acqua dei fiumi e
delle fontanelle del trevigiano. In quel punto, si narrava, ella
camminava e
ascoltava le preghiere dei suoi fedeli, benevola e protettiva come la
genitrice
che era.
E
poiché cambiano gli uomini, ma non il loro spirito, anche
quando
il nome di Reitia era scomparso dalle bocche dei Veneti, questi non
cessarono
d’adorare la madre.
Dapprincipio
infatti sede di un timido nucleo
paleocristiano fondato da San Prosdocimo e abilmente celato col
pretesto d’ivi
venerare l’allattante dea Iside col pargoletto Horus in
grembo, su quel tempio
pagano nacque la prima vera e ufficiale chiesa cristiana e da quel
momento in
poi a Treviso non vi fu più posto che per una sola Regina
dei Cieli [2].
Nell’anno
del Signore 780 il duca Gevardo di Treviso, uomo di fede
sincera e desideroso di garantirsi la salvezza eterna,
aveva dato ordine di riedificare in quel suo
fondo un tempietto a onore della beatissima Vergine Maria, della Croce
Gloriosa
e di Santa Fosca vergine e martire; dispose inoltre che il piccolo
santuario
fosse aggregato al monastero di Nonantola e dai suoi monaci
amministrato. Sua
moglie Albergonda, nell’812, nel suo testamento aveva poi
offerto ogni sua
proprietà alla nascente chiesa. Neppure il
saccheggio, l’incendio e la
distruzione di Treviso nell’898 per mano della spietata orda
d’Ungari poté
cancellare la memoria di quel luogo di culto, semmai rafforzandolo
quando,
tornata indietro la popolazione sopravvissuta, trovarono sì
la chiesa distrutta
tranne però per un muro e su di esso, l’immagine
della Madonna, intatta e
incorrotta dal fumo.
Sul
ricordo di questo primo miracolo decise, nel 1045, il vescovo
Olderico d’operare, nel suo intimo preoccupato per lo stato
di degrado morale
ch’aveva circondato quei luoghi e, in generale, la sua
medesima città. Sparito
il borgo attorno alla chiesa, esso era divenuto luogo
d’esercitazioni militari,
di combattimenti e di tornei che molto spesso, iniziati amichevolmente,
degeneravano in zuffe sanguinose. Sicché Olderico fece
restaurare l’antico rudere,
adattando il muro a forma di tempietto votivo e tale sua iniziativa
venne tosto
premiata, poiché negli anni a seguire molti cavalieri,
feriti gravemente, ottennero
inspiegate guarigioni, come accadde nel 1094 durante la giostra in
onore
dell’Imperatore Heinrich IV, giunto in visita a Treviso.
Ma fu
madona Lucrezia della Torre colei che n’elevò la
fama.
Paralitica da nove anni e senz’alcuna speranza rimastale se
non d’affidarsi
alla volontà di Dio, la nobildonna aveva udito del caso dei
due conti Da Camino
i quali, militando per Venezia contro il Patriarca
d’Aquileia, erano stati
mortalmente feriti in combattimento eppure, per il voto fatto alla
Madonna di
Treviso, la loro vita era stata risparmiata e le piaghe sanate.
Riconoscenti, i
due Caminesi non avevano esitato a divulgare il miracolo, prostrandosi
dinanzi all’affresco
e commissionando l’ampliamento del semplice capitello in una
cappella votiva.
Forte di questo precedente e fiduciosa nella misericordia divina, la
vedova
Lucrezia pregò dunque la Madonna di Treviso, supplicandoLe
la grazia di
liberarla dalla prigione del suo letto d’ammalata. Tale
fervente e sincera
preghiera non cadde nel vuoto: la Madre di Dio le apparve esattamente
nelle
sembianze dell’immagine di Treviso e
l’esortò a recarsi il giorno successivo
alla Sua cappella, ottenendo così l’agognata
guarigione. In aggiunta, la istruì
acciocché si costruisse una vera e propria chiesa in Suo
onore e che la si
chiamasse Santa Maria Maggiore. Era il 1096. Madona Lucrezia non La
deluse e la
mattina seguente ordinò ai suoi servitori di trasportarla
nella cappella,
davanti all’affresco. Lì era rimasta in estatica
contemplazione per all’incirca
due ore finché, destatasi all’improvviso,
balzò in piedi dalla sua lettiga e
camminò senza alcun impaccio, completamente guarita tra lo
stupore generale.
Memore
delle indicazioni ricevute, la nobildonna
s’adoperò subito con
ogni suo mezzo per erigere, a sue spese, un tempietto votivo riccamente
decorato
e sollecitò instancabilmente le autorità
trevigiane, acciocché richiamassero i
dispersi monaci Nonantolani, che avevano la reputazione
d’essere
particolarmente devoti, i quali avrebbero gestito la chiesa e si
sarebbero
presi cura dei sempre più numerosi pellegrini. Accolti dal
popolo giubilante,
nel 1115 i monaci di San Silvestro ripresero di nuovo possesso del
tempio
mariano e l’umile cappella si trasformò in uno
splendido santuario: assieme ai
sacelli per conservare le reliquie dei santi Liberale e Teonisto,
quelle rive
del Sile oltre a vie commerciali diventavano ora vie devozionali per i
pellegrini che, prima di proseguire fino a Roma, decidevano sostando di
ammirare il gioiello custodito all’interno della chiesa,
l’affresco della
Madonna dei Miracoli offrente in trono il prezioso Figlio agli occhi
dell’umanità.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Secoli di
fedeli in ginocchio L’avevano adorata; a Lei levavano
gli occhi, i palmi in alto, donandoLe ceri votivi di ogni grandezza; i
rosari
ora di semi ora di pietre preziose; le grucce divenute inutili; le
conchiglie
di San Giacomo Apostolo; dei panni preziosamente ricamati, il cuore
gonfio di
speranza e penitenza, d’afflizione e di gioia, ognuno
invocandoLa per alleviare
un’intima pena o un esteriore malanno o per intercedere
qualche grazia o il
perdono presso Dio, sicuri d’essere esauditi. Lo dimostravano
gli innumerevoli
ex-voto nonché i generosissimi lasciti dei signori feudali e
dal XII secolo il
nome della Madonna Grande a Santa Maria Maggiore ricorreva costante
negli atti
notarili della Marca Trevigiana, legandosi indissolubilmente alla sua
storia.
Liquidati
gli Ezzelini nel 1260 e cacciati i Caminesi (a dare il
segnale della rivolta cittadina, il 15 dicembre 1312, erano state
proprio le
campane di Santa Maria Maggiore), il Libero Comune di Treviso in segno
di
riconoscimento aveva decretato, il 19 luglio 1313, che venisse posta
un’immagine
della Madonna nel gonfalone comunale. L’anno dopo
s’aggiunse negli Statuti
Comunali il riconoscimento pubblico di Santa Maria Maggiore da parte
del
Podestà in occasione della festa dell’Assunta. Al
priore del santuario venne
perfino concesso il privilegio di custodire le chiavi della porta
cittadina
adiacente, onde regolare il grande flusso di pellegrini che arrivavano
notte e
giorno. Orgogliosamente, il Comune sentenziava che non conosceva altro
vassallaggio se non quello verso la Vergine Maria, l’unica
Signora di Treviso.
E tutti i Trevigiani, indifferentemente dal sesso, età e
stato sociale, le
erano devotissimi cavalieri.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Né
la dominazione dei conti di Gorizia, degli Scaligeri, dei
Tempesta, del duca d’Austria, dei Carraresi né la
dedizione alla Repubblica di
Venezia scalfirono mai l’assoluta fedeltà alla
Madonna Grande. Semmai, accorta
e sensibile a quella ferrea devozione mariana, la nascente Serenissima
aveva
confermato gli antichi statuti e s’adoperò negli
anni per ampliare ulteriormente
il veneratissimo santuario, in stretto rapporto coi religiosi di Santa
Maria
Maggiore. I Benedettini avevano nel frattanto ceduto il posto ai
Canonici
Regolari di San Salvatore e per quarant’anni il santuario era
stato felicemente
amministrato dal priore Fra’ Lorenzo Filippari, trevigiano,
d’umili origini eppure da tutti
lodato per la sua saggezza, erudizione e onestà, come
riferiva il vescovo
domino Ludovico Barbo alla Signoria nel 1437. Gli introiti della chiesa
–
spiegava – erano stati interamente devoluti al
ripristino del pavimento, al restauro ed
ampliamento del monastero, alla riparazione dell’organo e non
ultimo
all’ulteriore abbellimento del tempietto della Madonna. Il
vescovo Barbo,
durante la sua visita episcopale, aveva insomma trovato una chiesa ben
ordinata
ed i parrocchiani soddisfattissimi della sua gestione.
Il 20
luglio 1474, con sessanta voti a favore e due contrari, il
Gran Consiglio Cittadino di Treviso approvò
l’ennesimo restauro di Santa Maria
Maggiore, su sollecita richiesta del suo priore Fra’ Tommaso
da Gubbio.
L’allora podestà e capitano, sier Jacopo Morexini,
s’era così rivolto ai
consiglieri onde persuaderli ad intraprendere tale costosa impresa:
“La nostra città
è scampata da molti pericoli
e calamità […] Voi conoscete perfettamente che il
Monastero, a causa
dell’enorme e continuo concorso e della straordinaria
devozione, è troppo
piccolo e del tutto insufficiente per una così grande
moltitudine di genti che
vi convengono ogni giorno più. E’ doveroso dunque,
sia per l’onore e la
riverenza della gloriosissima Avvocata e Madre nostra, sia per la
protezione
della nostra città, restaurare e ampliare questo Suo
Santuario.”
Venne
così demolito il porticato antistante la facciata,
allungando il corpo del tempio e ristrutturandolo in tre navate,
corrispondenti
a tre cappelle dell’abside. Per far fronte a tali ingenti
spese, il Comune,
oltre a giovarsi degli aiuti del governo veneziano, decretò
di destinare metà
degli introiti ottenuti da ammende giudiziarie ai lavori del Monastero.
S’aggiunsero anche molti generosi lasciti privati,
addirittura da fedeli al di fuori
della Marca, tanto s’era propagata la fama della Madonna
Grande, definita nei
documenti ufficiali la “luce sfolgorante” di
Treviso. Sotto il priorato di
domino Antonio Contarini, due coniugi milanesi, Antonio Tassino e sua moglie Timotea, per grazia ricevuta
avevano
fatto erigere un sontuoso colonnato attorno all’immagine
miracolosa e al suo
altare, che l’intera comunità trevigiana
poté contemplare estatica, il dì della
riconsacrazione del santuario da parte del vescovo domino Sebastian
Nascimben.
Qualche anno dopo lo stesso papa Alessandro VI, debitamente informato
sull’espansione ed intensificazione della pietà
mariana, diede il suo
contributo, concedendo il medesimo privilegio di cui godeva la Basilica
di San
Marco a Venezia, di anticipare la solennissima Messa di Natale alla
sera della
Vigilia. Inoltre, riconfermò alle dipendenze di Santa Maria
Maggiore tutte le
chiese della Marca Trevigiana, sottraendole alla giurisdizione dei
Nonantolani.
Tanta
reputazione aveva reso la piazza davanti alla chiesa un
luogo ricercatissimo per dimorarvi, osservando i suoi abitanti dalle
finestre i
fiumi di devoti riversarsi all’interno del santuario e
assistendo ai miracoli
gridati al cielo dai fortunati, ognuno prontamente registrato nei
pingui libri.
Tra questi pellegrinaggi certamente non era passato inosservato
l’arrivo di
sier Alvixe Pizamano, capitano delle galee di Barbaria che, scampato
dai
pericoli della navigazione, subito dopo l’attracco a Venezia
s’era recato con
gli altri mercanti e la sua ciurma intera a Treviso e lì
sciolto il solenne voto
fatto alla Madonna dei Miracoli. Questo nel 1508, prima che la lunga
ombra
funesta della guerra oscurasse ogni cosa, perfino la “luce
sfolgorante” di
Treviso. Poiché se Santa Maria Maggiore aveva prosperato
grazie alla pax veneta
in tutta la Terraferma, adesso per essa giungevano i setti anni di
vacche magre
e sofferenza.
Perché
quando fu deciso di radere al suolo le fortificazioni
scaligere e di costruire il nuovo sistema difensivo alla moderna, la
porta
cittadina occidentale e il santuario ad essa adiacente vennero
inesorabilmente
aggiunti alla lista nera d’edifici d’abbattere. La
stessa immagine della Madre
di Dio che era sopravvissuta alla prima grande distruzione del suo tempio
per mano
degli Ungari ed era finita quasi dimenticata in un luogo
d’esercitazioni belliche,
ironicamente per la seconda volta si ritrovava in un campo di
battaglia,
stavolta assediata dalla cinica logica degli ingegneri militari e senza
un
vescovo a proteggerla, essendo stato infatti domino Bernardo
de’ Rossi
trasferito a Venezia, dubitando quest’ultima della sua
lealtà, sospetto acuito
della sua parentela col filo-imperiale Filippo Maria de’
Rossi.
Ciononostante,
allora come adesso, ugualmente a sua difesa s’erse
un Olderico o meglio, molti Olderichi: giammai i Trevigiani avrebbero
permesso
quel sacrilegio, colpire la loro Signora era come trafiggerli uno ad
uno dritto
al cuore, privandoli di una devozione che non era astratta,
bensì concreta, una
parte fondamentale della propria identità collettiva. Troppi
eventi del loro passato
s’erano intrecciati alle vicende di Santa Maria Maggiore;
troppi benefici
avevano ricevuto dalla Devotissima per disertarLa senza neppure levare
in alto una
protesta. Troppe generazioni avevano pregato dinanzi a quel volto
soavissimo,
da permetterne l’eterna rimozione.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Nel tardo
Trecento, il pittore Tomaso da Modena aveva infatti dovuto
ritoccare l’antica immagine bizantina della Madonna,
raffigurata come la
Nicopeia o fautrice di vittorie, similmente a quella venerata a San
Marco a
Venezia, stile iconografico assai diffuso in tutte le terre venete.
Vestita
d’un verde acquamarina, avvolta da un candidissimo mantello
fermato da una
spilla e il capo cinto da una corona d’oro e gemme scolpita
in bassorilievo, la
Madonna sorrideva serena e benevola, gli occhi
allungati e colmi
d’una sorprendente vivacità che seguivano lo
spettatore ovunque si spostasse,
quasi lo confortasse rassicurandolo che, ovunque egli fosse andato, Lei
e il
Figlio l’avrebbero vegliato. Dinanzi a tal espressione
così piena di pace e
bontà era impossibile non aprire il proprio cuore,
impossibile non affidarsi
nelle Sue mani.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
E
affidati a Lei si sarebbero, proteggendoLa i Trevigiani da ogni
nemico. Anche se non potevano più celebrare Messa,
ugualmente cantavano e
pregavano, i ceri ben alto quasi a monito per il mondo intero: siamo
qui,
Nostra Donna, siamo qui ai Tuoi piedi come un sol uomo, pronti a tutto
per la
difesa del Tuo tempio e della Tua città!
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
“Varda,
Jacopino”, indicò Donado Cimavin
l’affresco al figlioletto
sedutogli sulle spalle – il santuario, già di suo
rimpicciolito dai guastatori,
non riusciva più a contenere come in precedenza un gran
numero di persone e
pertanto il giovane mugnaio e la sua famigliola s’erano
dovuti accontentare di
un angolino lontano. Avrebbero tentato a fine orazione di avvicinarsi
all’immagine.
“Varda la Patrona, varda che bela!”
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Il
fantolino s’esibì in una buffa sequela di smorfie,
stringendo
gli occhi e poi spalancando la bocca, estasiato. “Bela
… bela …”, ripeteva,
indicando a sua volta la figura splendente di bianco e il cui sorriso
illuminava l’ambiente più delle candele votive.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
“Bravo,
metti le man cussì e pregaLa,
t’agiuderà sempre”, gli
congiunse le manine sua madre Felicita, costringendo il marito ad
abbassarsi un
poco e il piccino, intuendo come la questione richiedesse grande
serietà e
impegno da parte sua, premette i palmi con decisione e corrugando la
fronte
pregò con parole che solo il cuore di un bambino conosce.
Unendo a sua volta le
mani, Felicita invocò la protezione sulla creatura che
portava in grembo e
tutta la sua famiglia; sulla città che resistesse
all’assedio e il pronto
rilascio di sier Hironimo Miani, che tanto del bene le aveva fatto,
riportandole vivo il marito senza poi chiedere nulla in
cambio.
Sancta
Dei Genetrix, urbem tibi dicatam conserva!
Con le
mani giunte e genuflesso malgrado il pavimento gli stesse
massacrando i ginocchi, Marco Contarini pregava con grande fervore per
la
liberazione del padre il cavalier sier Zacharia, di suo fratello minore
Piero e
del Cor suo. In particolare, La supplicava
di preservare l’amico
carissimo da ogni male, soprattutto da una morte in dannazione,
accogliendo con
preoccupazione le notizie circa la scarsità di pane e di una
strana febbre che
s’era insinuata nell’accampamento nemico.
Come due
personalità così differenti – devoto
uno e turco l’altro
– avessero potuto convivere e nutrirsi di vicendevole
affetto, a tutti un po’
sfuggiva però al contempo convenivano come la presenza del
Contarini addolcisse
l’animo sanguigno del Miani. Forse perché
più pacato, più serio o forse perché
era l’unico che lo ascoltasse per una buona volta senza
atteggiarsi a Cristo
nel tempio, giudicandolo ancor prima che aprisse bocca.
“Cor
mio”, gli aveva confessato una volta nel
segreto
della felze, “tu non ti rendi conto del
grande carisma che eserciti
sulle persone: ovunque tu vada, riesci a stringere e soprattutto a
mantenere le
più sincere e durature amicizie, indipendentemente dal
soggetto. A chiunque tu
ti rivolga, risulti immediatamente simpatico, ti trattano come se ti
avessero
conosciuto da una vita! Malgrado i tuoi eccessi, ti si perdona ogni
cosa e
anzi, non si esita a giustificarti pur di conservare la tua amicizia.
Di te
tutti hanno sempre e solo buone parole, un’altissima
opinione. Li avvinci e
pendono dalle tue labbra al punto che potresti chieder di compier
qualsiasi
impresa e loro ti esaudirebbero pure. Perché non utilizzi
questo tuo dono per
compiere qualcosa di buono? Per … per cambiar in meglio
questo …” Ma
Hironimo lo aveva interrotto, in apparenza bonario ma Marco percepiva
la
collerica vibrazione di fastidio nella sua voce, tipica di quando
riceveva una
critica mal digerita. “Cor mio, cambiar
cosa? Questo mondo? E perché
mai? A me va bene così, al popolo va bene così,
alla Signoria va bene così
anzi, guai a chi scuote il suo centenario status quo! E non solo qui da
noi,
guarda quel domenicano ad esempio: voleva trasformare Firenze e la
cristianità;
Firenze e la cristianità hanno trasformato lui in un pugno
di ceneri. Chi ha,
ha. Chi non ha, non ha e s’impicca. Questa è
l’unica verità”, aveva
concluso, facendo spallucce. Al che Marco aveva insistito
ch’era facile
filosofeggiare, quando tutto girava pel verso giusto e si campava
sereni,
illesi dalle brutture della vita. Hironimo allora aveva piegato la
bocca
all’ingiù, inquisendo un poco accigliato se stesse
parlando sul serio con
cognizione di causa o giusto per aprir bocca, sicché il
giovane Contarini aveva
giudicato saggio dirottare altrove la conversazione.
Eppure,
avrebbe tanto voluto poterlo convincere a vivere più
rettamente, invece di sprecare così aridamente la sua vita.
Oh, non che Marco
si giudicasse uno stinco di santo (mica si sottraeva alla vita
mondana),
tuttavia s’angustiava nel veder scendere nel fango
quell’anima buona ch’era
Hironimo, quello strano ragazzo incredibilmente sensibile ma
altrettanto
orgoglioso e ostinato proprio per non farlo notare, che latrava i
peggiori
insulti a chiunque lo pizzicava mentre si svuotava il borsello per fare
la
carità ad un mendicante, neanche si vergognasse di quel suo
gesto.
Sua madre
madona Alba Donado Contarini gli aveva spesso ripetuto
che non si può costringere a bere il cavallo condotto alla
fonte;
ciononostante, Marco non voleva demordere nel suo intento. Salvalo,
salvalo e illuminagli il cuore!
Ave Maria
di molte grazie piena,
con teco
sia l’Altissimo Signore.
Tu fra le
Donne benedetta sii;
e
benedetto il frutto del tuo ventre Iesu.
Uguali
pensieri agitavano la mente di Marco Miani, mentre affidava
alla Madonna la moglie e i figlioletti Anzolo, Crestina e Scipio.
Pregava per
la sua famiglia, per ricevere protezione in questo assedio e non per
gloria sua
personale bensì per non mancare al suo ruolo di sostegno nei
confronti di
Helena e dei figli, tremando all’idea di lasciarli indifesi e
soli al mondo.
Gli occhi
chiusi e i pugni serrati, Marco si batteva il petto in
spietati mea culpa, supplicando l’intercessione della Vergine
onde perdonargli
i molti peccati, in primis il concepimento adulterino del suo
terzogenito (atto
d’imperdonabile debolezza dettato dal suo orgoglio unito al
malcostume della
guerra e ancora ringraziava pieno di riconoscenza per non essersi
beccato in
tal circostanze il malfrancese), seguito poi dall’ultimo
aspro diverbio con
Momolo.
Non aveva
desiderato aggredire così suo fratello, non con quelle
parole malsane e crudeli, non il medesimo giorno del
funerale della
loro sorellastra Crestina. E sarebbe stato facile, similmente ad ogni
loro
errore, incolpare nuovamente la guerra, sostenendo come essa li avesse
abbruttiti,
privandoli della sensibilità e raffinatezza dei
gentiluomini. La verità era che
avevano permesso a delle stupide incomprensioni e infondate gelosie di
venire a
galla, un meschino marciume che aveva avvelenato quegli ultimi preziosi
istanti
assieme prima di ripiombare nell’incertezza del futuro.
Marco
aveva nutrito le solite piccole invidie nei confronti del
minore – non lo nascondeva - specie il suo rapporto
privilegiato con Madre, mal
tollerando di conseguenza come Momolo la ripagasse recandole di
continuo mille
dispiaceri e come ella continuasse a giustificare le sue baronate,
malgrado i
rimproveri suoi e degli altri fratelli maggiori. Contrariamente
però a Lucha e
a Carlo, che sì gli volevano bene ma con il pacato
equilibrio della differenza
d’età, Marco invece per Momolo era stato un rivale
con cui misurarsi e un
complice da spalleggiare, un maestro e un confidente sebbene con
l’avanzare
dell’età e il suo matrimonio i due fratelli si
fossero un po’ allontanati,
ognuno con la propria compagnia, e Marco ammetteva una venuzza di
gelosia verso
il giovane Contarini, che s’era insinuato a suo sostituto.
Ciononostante,
il profondo affetto che li aveva legati non s’era
mai sciolto e Marco per questo aveva scelto Momolo come santolo di ogni
sua
creatura. A lui doveva la scelta del nome di Scipio, quando questi fece
il suo
imbarazzante ingresso a Ca’ Miani. Reggendo il piangente
pargolo, Momolo aveva
esclamato ilare: poiché il piccino strillava più
imperioso d’un generale, già
che era un Aemilianus che Scipio lo si chiamasse [3] ed era uno
spettacolo
vederlo giocare a gattomiao con Zanzi ed Ina o a fare il vola-vola a
Scipio,
più bambino lui di loro, dolci quadretti familiari che Marco
custodiva nel
cuore alla stregua dell’oro.
Ma era
bastata quella parolina di troppo e il perfido sussurro del
demone della superbia per rovinare tutto.
“Essere
un valente cavaliere non fa di te necessariamente un buon
comandante!”
“Di
diana, potresti almeno per una volta, Madre, cessare di
trattarmi alla stregua di un poppante? Non è la prima volta
che vado al fronte!
Devo ricordarti, poi, quante settimane ci siano volute
affinché il Maggior
Consiglio concedesse la castellania a Lucha? A come si è
dovuto umiliare,
prostrandosi a momenti? Proprio adesso dobbiamo rinunciarvi? E come ci
sostenteremo, visto che la nostra filanda è chiusa, molto
probabilmente
distrutta, i nostri fonteghi semivuoti? Qualcuno deve in vece di Lucha
presidiare Castelnuovo e se né Carlino né
Marchetto hanno abbastanza fegato né
amor patrio per offrirsi volontari, hé, dunque non rimane
che a me il compito
di tener alto il nome dei Miani!”
Qualche
parolina di troppo …
“Arrogante,
maligno, ingrato pezzo di merda! Vattene pure in
quella sorciera di quattro pietre marce, chi ti vuole qui a impestarci
con la
tua odiosa presenza? Sei un peso morto in famiglia, un essere inutile!
Vattene
e per quel che mi riguarda, puoi anche crepare, non ci tangerebbe!
Anzi,
equivarrebbe ad una liberazione!”
Quante
volte aveva rivissuto quella scena, nel vano tentativo di
poterla cambiare? Quante volte s’era morsicato la lingua
nella speranza di
cancellare quell’assurda invettiva? Quel desiderio mostruoso?
Perché
aveva visto, sì, Marco aveva visto come
aveva
annientato Momolo in spirito, anche se quest’ultimo non
s’era scomposto
- gliel’aveva letto negli occhi nerissimi,
divenuti improvvisamente
opachi, vuoti.
Come il
giorno in cui l’ufficiale sanitario aveva riportato il
cadavere di Padre a casa.
Il
trentenne patrizio si guardò le mani congiunte in preghiera,
le
medesime che avevano afferrato e tirato suo fratello per lo zipone,
strattonandolo, dopo avergli impedito d’uscire dalla chiesa
di Santo Stefano.
Avrebbe dovuto lasciar correre e non tanto per dargliela vinta,
bensì perché
sapeva che Hironimo stava parlando a vanvera, sapeva
che il minore non rifletteva mai sul peso dei suoi discorsi
quando una forte emozione lo turbava. Avrebbe dovuto lasciarlo in pace
a
piangere sulla tomba di Crestina, a confortare i suoi singhiozzanti
nipoti Dionora
e Gasparo. Avrebbe dovuto scegliere un altro argomento di conversazione
o
dirottare quest’ultima su temi innocui. In fin dei conti,
decidere a gennaio
chi dei due a marzo sarebbe partito alla volta Castelnuovo di Quero non
corrispondeva in quel momento ad un’impellente
priorità. Marco si era
giustificato aggrappandosi all’età
d’Hironimo, ormai abbastanza adulto e uomo
da dominarsi in ogni situazione. La verità? Marco aveva
voluto distrarsi per
soffocare il suo dolore, senza tuttavia badare a quello del minore e
come un
gatto messo all’angolo, quest’ultimo gli aveva soffiato contro.
Madonna
Santissima, ti supplico di riportarmelo indietro. Non
voglio che quelle siano le ultime parole ch’abbia sentito da
me. Non voglio che
quel porco di mercenario lo torturi. Salvalo, salvalo te lo supplico!
Che io
sia punito, piuttosto, che io sia punito per le mie parole inique e
orrende ma
salva mio fratello!
O Madre
dell’eterno Sire,
Porgi i
tuoi dolci prieghi inanzi a Lui,
per noi,
che siamo erranti e peccatori.
Amen!
“Sier
Marco?”, lo chiamò sottovoce sier Lunardo
Zustignan,
portatosi con molto sgomitare dietro alle sue spalle.
Il Miani
sobbalzò, asciugandosi veloce e furtivo le lacrime
inconsciamente scivolategli lungo le guance. “Ve scolto, sier
Lunardo.”
“Avete
per caso delle novità da parte del vostro barba, el
consier?”
Guardandosi
cautamente attorno, Miani rispose in un mormorio intellegibile:
“Ancuo el Menor Consejo va far colegio. I decidaran in
prèssa.”
“Spiero
in Dio sia cussì.”
“Cosa
dice il sior Provedador?”
“Iguali
cosse: come i nemici siano accampati a Monte Beluna e da
qualche parte tra Asolo e Castel Francho, probabilmente in attesa delle
artiglierie. I nostri esploratori hanno contato finora quattro cannoni
minuti e
uno grosso, tre colubrine, quattro falconetti da parte dei Franzosi. I
Todeschi, invece, quattro cannoni grossi. Sier Zuam Paulo ha inoltre
ordinato
di fortificare maxime porta
Altilia e nel frattempo ha scritto alla Signoria d’inviargli
circa trecento
facchini e altrettante zappe e badili. A sostegno della sua richiesta
ha
allegato il rapporto del camerlengo, così da dimostrare la
buona gestione delle
risorse fino ad oggi ricevute”, li riassunse
il nipote del Doge i fatti del giorno.
“Dal Cadore, intanto, il capitano sier Phelippo Salamon ci ha
informati di come
siano passati dalla Val Sugana all’incirca 6000 fanti
todeschi guidati da domino
Zorzi Felzer, sebbene tutti mal equipaggiati. Anche il vescovo di
Lubiana e il
conte Zuam Francesco de Gambara sono stati avvistati lungo la strada
per Monte
Beluna, forse inviati dall’Imperatore per farne le
veci.”
“Le
veci?”
“A
quanto pare, l’Imperatore ancora non si è
mosso.”
“Per
essere uno dei principali sostenitori dell’impresa di
Trevixo, il Re dei Romani se la piglia assai comoda!”
“Maximiano,
sier Marco, non ha mai brillato per tempestività
d’azione.”
“Così
come i suoi comandanti: ad esempio, si dice che Thodaro
Triultio, per quanto valoroso ed esperto nel mestiere delle armi, sia
tardo e
pigro nel dar battaglia. Il duca di Roanné fino
all’anno addietro era il tutore
del giovane Francesco d’Orliens. Il marchese di Busseto non
lo conosco, se non
per fama di uomo d’ottimo consiglio e Mercurio Bua obbedisce
solo a Dio.
Pensate poi che il Gran Scudiero di Francia neppure
s’è degnato di presentarsi,
mandando al posto suo il fratello domino Julio …”
Lunardo
grugnì sardonico. “Come ci riferì a suo tempo il nostro ambasciatore sier Marco Lipomano, Monsieur le Grand, o come si fa
chiamare adesso monsieur Galéas de Saint-Séverin,
è valente soltanto con la
lancia!”, sussurrò e i due quasi coetanei si
coprirono la bocca onde soffocare
una poco consona risatina.
D’altronde,
se era vero che il fu genero di Ludovico il Moro aveva
brillato nelle corti italiane per l’eleganza delle maniere e
la vasta cultura;
per contro nell’ambiente militare egli non godeva di grande
stima, giudicando i
condottieri il signor Galeazzo bravo soltanto nelle giostre ma inutile
in
battaglia, irritati dalla sua incapacità di governare una
sola compagnia di
soldati figurarsi un intero accampamento. Lo stesso sier Zuam Paulo
Gradenigo
aveva avuto da ridire sull’effettive qualità del
Sanseverino, specie durante la
campagna militare ad Alessandria. Galeazzo e suo fratello Fracasso non
avevano
osato dare l’assalto al castello nemico sul Monte Baldo,
temendo una presenza
di soldati e artiglierie sufficiente a danneggiarli, sicché
avevano rinculato
per salvare carriaggi e il resto, lasciando Gradenigo solo alla
retroguardia e
senza avvisarlo, peggio d’un allocco. Si vociferava che, in
seguito a
quest’episodio, ogniqualvolta l’allora provveditore
degli stradioti udiva il
signor Galeazzo menzionato per il suo soprannome, egli tra
sé e sé borbottasse
rancoroso: “Figlio della Fortuna.
Sì, sì,
un vero e proprio rotto in culo.” E soltanto gli
esponenti della previa
generazione potevano cogliere nell’immediato il senso di quel
calembour, non
avendo in effetti ancora capito per quale esatto merito fosse stato il
Sanseverino posto a capo dell’esercito sforzesco.
“In
ogni modo – rapidi o veloci che siano – i nemici
ugualmente
hanno intenzione di porre l’assedio, su questo non ci piove.
Di conseguenza,
bisognerà velocizzare i lavori alle mura … Per
fortuna la Signoria s’è affidata
a sier Zuam Paulo, il Podestà qua non è che abbia
molta pratica nella guerra
…”, fu la clemente opinione del Zustignan su sier
Andrea Donado, che se non
fosse stata per la granitica risolutezza e ferrea organizzazione
del provveditore generale, Dio li scampasse tutti.
“Per
terminare le mura, mi sa che i nostri capitani dovranno
apprendere il compromesso”, sentenziò Marco,
alludendo alla folla compatta di
Trevigiani davanti alla Devotissima, a mo’ di scudo umano. A
Renzo di Ceri
sarebbero cresciuti i vermi allo stomaco non appena la notizia
l’avrebbe
raggiunto, poco ma sicuro.
“Una
dura lezione d’umiltà per loro”,
convenne Leonardo. Dopodiché
s’informò, cambiando argomento: “E col
domino Symon Michiel, chome xela finia?”
Alludeva
il patrizio ad un singolare caso avvenuto di recente a
Treviso, del sano pettegolezzo onde mitigare la tensione della
preparazione
all’assedio. Il canonico Symon Michiel di sier
Nicolò cavaliere e procuratore e
residente lì in città, era stato incolpato di
aver criticato con aspre parole
l’operato della Signoria e pertanto
arrestato. L’uomo s’era difeso
proclamandosi innocente e calunniato da gente invidiosa, che solo
voleva la sua
rovina.
“An,
i Cai di X l’hanno a lungo esaminato, ma, non trovando niente
di concreto contro di lui, l’hanno prontamente
assolto.”
Il nipote del Doge
arricciò la bocca, sbuffando. “Verità o
bugia, in futuro domino
Symon imparerà a tener la bocca ben serrata”,
disse, per poi chetarsi
bruscamente alla benedizione del priore Fra’ Hironimo:
“Alleluia,
alleluia. Felix es, sacra Virgo Maria, et omni laude
dignissima: quia ex
te ortus est sol iustitiae, Christus, Deus noster. Alleluia.”
Un fitto
bosco di braccia e mani si levò in alto, speranzoso,
risoluto e adorante. “Alleluia!”, ripeterono in un
sol uomo i fedeli, scandendo
con fervore ogni singola lettera. “Alleluia!”
Falliscono
e deludono gli uomini, pensavano con granitica fiducia
i Trevigiani, ma non Lei, non la loro Signora.
Mai.
***
Fu
una notte alquanto strana: ogniqualvolta l’ombra di un
soldato
s’avvicinava all’ingresso del padiglione, gli
stradioti si tendevano in avanti
pronti allo scontro per poi rilassarsi quando i loro compari
riconducevano a
miti consigli quegli sfacciati predoni, allontanandoli tra urla e
stridore
d’armi. Il tempo trascorreva lento, ogni granello di
clessidra sembrava restio
a scendere e il silenzio riempiva la testa di ogni astante
d’orride chimere, di
agguati e assalti e neppure si aveva il coraggio di chiudere per un
istante gli
occhi nel timore di venir attaccati esattamente in
quell’istante. Gli stradioti
s’umettavano la bocca secca e al contempo umida del sudore
che non osavano
tergere col dorso della mano, ambedue impegnate a tenere la zagaglia, la mazza,
lo scudo,
l’arco o la spada.
Hironimo,
seduto nel lato della branda, aveva dal canto suo
avviluppato simil serpente Thomà, offrendogli col proprio
corpo quanta più
protezione possibile e strabuzzando gli occhi al doloroso pizzicore
delle
unghie del bambino, le quali gli si conficcavano nervose nella carne
alla vista
delle sagome dei soldati avvicinarsi alla tenda. Mercurio, invece, pur
seguitando a fissare davanti a sé col medesimo ardore
predatorio d’un felino,
scuoteva di continuo il capo onde tenersi lucido e sveglio, essendogli
la
febbre risalita ma sforzandosi di non tradirlo ai suoi sottoposti
acciocché il
panico di perdere il loro capitano non li sopraffacesse. Dovevano
rimanere
assolutamente concentrati.
Solo alle
prime luci dell’alba la situazione cangiò corso e
s’erse
nel padiglione un grande sospiro sia di sollievo che di vittoria: un
grave
silenzio s’era poco a poco imposto nel campo e gli ultimi
schiamazzi vennero
scacciati dai raggi del sole come la neve a primavera.
E quando
gli stradioti alla guardia della tenda lasciarono entrare
la figura che s’appropinquava, si comprese che ogni focolaio
di sommossa era
stato completamente debellato.
“A
quanto vedo il mio padiglione s’è trasformato in
un’osteria”,
commentò aspro Mercurio Bua al nuovo arrivato, puntellandosi
sui gomiti e
nettando la fronte madida di sudore, la spada ceduta a Leka Busicchio.
“Si va e
si viene a proprio piacere, senza domandar permesso.”
Il conte
Gianfrancesco di Gambara gli rifilò un sorriso stretto.
“Vi si credeva morto, capitano”, rispose,
soffermando lo sguardo su Hironimo
che strinse gli occhi bellicoso. Perfino Thomà lo
fissò di traverso,
mostrandogli una scaltra linguaccia con la scusa di leccarsi le labbra
secche.
“Neppure
una puttana si consola così in fretta!”,
sbuffò sardonico
il greco-albanese, tirando alquanto possessivo al petto la catena,
avendo
seguito la traiettoria dello sguardo del bresciano e non garbandogli
quella sua
insistenza nello scrutare il giovane Miani. “Bando alle
ciance, in che
poss’esservi d’aiuto, signor Conte?”, lo
canzonò falsamente servile.
“Non
badate a me, piuttosto alla giustificazione che dovrete al
Gran Maestro circa la vostra disfatta a Treviso!”
La bocca
del capitano di ventura si piegò in rictus nervoso.
“Almeno la mia è stata un’azione
coordinata a concludere un risultato utile.
Voi, invece, come gli spiegherete la sommossa nel campo? Come si
potrà fidare
il maresciallo e soprattutto l’Imperatore di chi non
è neppure in grado di
tener a freno i propri uomini?”, sputò velenoso,
le dita contorte da spasimi
specie dinanzi alla faccia di bronzo del nobile, che pur nel torto
continuava a
fissarlo con condiscendente sufficienza.
“Vi
piacerà apprendere”, gli riferì infine
il conte, porgendogli
un rapporto appena giunto all’accampamento da un emissario,
“che il Gran
Maestro si appresta a ritornare.”
Fingendo
di cercare fantomatici pidocchi tra i ciuffi biondi di
Thomà, Hironimo si spostò strategicamente sul
lato della branda, leggendo di
sottecchi i contenuti del rapporto.
Arrivati
a Vicenza sabato 6 settembre; artigliere avviate a
Marostica. Aggiunte alle nostre plus lance 200 e 2,000 fanti grigioni.
Entrati
a Vicenza si è dato ordine di suonare le trombe e a gran
voce si son fatte
levare grida: “A Treviso! A Treviso!” unde
infondere coraggio ai soldati.
Inventario è il seguente: 400 munizioni, ponti, scale e
burchi per il trasporto
lungo la Brenta partendo da Bassano. 4 cannoni, 3 colubrine, 4
falconetti, 4
grosse di calibro e un cannone grosso. Falconetti e altre artiglierie
però di
piccolo calibro. Quantità più che soddisfacente
di rifornimenti per
fronteggiare la carestia di pane nel campo. Si cerchi di capire chi in
Treviso
sia disposto a collaborare.
“Evidentemente”,
indicò il Gambara l’ultima frase,
“neanche
Gradenigo s’è rivelato capace di governare la
propria città, se La Palice
adombra l’esistenza di simpatizzanti alla causa
dell’Imperatore”, e attese in
sorniona aspettativa l’occhiata indispettita del
greco-albanese.
Ne rimase
deluso. “Sicuro”, asserì incolore
Mercurio, rileggendo
il rapporto e piegandolo indifferente in due. “Vi apriranno
le porte, certo, ma
per tagliarvi a pezzi e trasformarvi in soprèssa da mangiar
con polenta e
funghi, visto che fra poco siano in stagione.” [4]
Al che il
conte s’inalberò parecchio. “Date del
bugiardo al Gran
Maestro di Francia?! Pensate che si sia inventato questa
notizia?”
“E
voi?”, esclamò spazientito lo stradiota,
strattonando
improvvisamente Hironimo, che finì per sbilanciarsi in
avanti e per poco non
gli cadde addosso sulla gamba ferita. “Credete che
queste” e mostrò
teatralmente le bende, “siano le ferite infertemi da una
città pronta a
consegnarsi? Di una città che ha un traditore pronto a
svelarci i suoi piani?
Se è vero, è una ciancia messa in giro da
Gradenigo così da cullarci in false
aspettative prima e fottercelo poi dentro a palazzo
comodamente!”
“Non
nascondete la vostra incapacità accusando gli altri
d’inefficienza o superficialità!”
“Voi
non eravate sotto le mura di Treviso! Non avete visto in che
modo preciso, matematico quasi, ci hanno respinto. Se non rivediamo
alla svelta
i nostri piani e non cambiamo tattica, ci uccideranno uno ad uno come
sorci in
trappola. La città è preparata e mi hanno
lasciato avvicinare solo per darmi un
assaggio della sua potenzialità bellica! La Palice, voi e
tutti i vostri
buffoni da osteria potete cantare A Treviso! A
Treviso! quanto
vi piace, ma io vi dico ch’è inutile porla
d’assedio: avessimo anche il doppio
delle forze in campo, non la prenderemo mai! Treviso ora come ora
è inespugnabile.”
Quelle
parole caddero come una gelida secchiata d’acqua sulla
schiena del conte di Gambara, affermazione resa ancor più
insopportabile dal
compiaciuto arricciare di labbra di Hironimo che tuttora si fingeva
interessato
a spidocchiare Thomà.
“Vigliacco
…”, sibilò il bresciano, il volto a
chiazze. “Non siete
che un vigliacco, un fanfarone che si spaventa alla prima
difficoltà. Uno
schiaffo all’onore cavalleresco, al senso del dovere in ogni
soldato, uno sputo
alla disciplina marziale e ai nobili ideali della guer-
…”
“Ma
per favore!”, interruppe scocciato Mercurio la sequela di
accuse del conte, smanioso di terminare lì la questione
anche perché oltre alla
febbre percepiva gli acuti spilli dell’emicrania martoriargli
le tempie e il
collo. “Rifilate tali puerili asinerie agli esaltati bambocci
che servite. La
guerra è affar di mercante, dove per ottenere un bene invece
che col denaro si
paga in vite umane! E anch’io voglio aver il mio profitto,
non mi nascondo
dietro grandi retoriche né mi vergogno delle brutture del
mio mestiere! E voi
pure mi siete compare, caro il mio conte di Gambara: non pensate di
corbellarmi
sciorinandovi in elegie sui diritti ancestrali
dell’Imperatore e altre
stronzate varie sulla necessaria sacralità della guerra,
ché vi rido in faccia.
La verità è che vi brucia come Venezia
v’abbia giuridicamente equiparato alla
plebe. Vi brucia di compartire i medesimi diritti e doveri di uno Zane
qualsiasi dinanzi alla legge veneziana e di come un qualsiasi rettore
veneziano
vi possa trascinare in tribunale. Pur di riottenere i vostri antichi
diritti
feudali, combattereste al fianco del diavolo in persona! E ben lo avete
dimostrato cangiando ripetutamente bandiera, voi che mi predicate
l’onore e la
fedeltà!”
Gianfrancesco
di Gambara balzò in piedi, livido, la mano corsa di
riflesso sull’elsa della spada. Ciononostante,
l’uomo s’impose di calmarsi
anche perché la sua indignata reazione aveva provocato un
pericoloso
irrigidimento da parte degli altri stradioti, pronti a scannarlo in
caso si
fosse avvicinato troppo al loro capitano.
“Sappiate
che vi farò appiccare come disertore, al minimo vostro
cenno d’abbandonare quest’impresa di Treviso
…”, gli puntò minaccioso contro il
dito, mormorando a denti stretti e frenando a stento la collera.
Mercurio
alzò a mo’ di sfida il mento.
“Avvertitemi non appena
rientra il maresciallo e il vescovo di Lubiana”, lo
congedò, sostenendo lo
sguardo finché il nobile bresciano non si risolse ad uscire
dal padiglione.
Solo allora si lasciò cadere sul cuscino, stremato.
“E tu? Non hai nulla di
brillante d’aggiungere?”, inquisì
beffardo, notando come Hironimo se ne stesse
sospettosamente in silenzio.
In
effetti, il giovane patrizio aveva ascoltato con la massima
attenzione il diverbio tra i due comandanti, sorpreso assai del tono
duro e
irrispettoso nei confronti di chi nell’accampamento
rappresentava il Re dei
Romani. D’accordo nei confronti degli altri comandanti
francesi, tedeschi e
italiani; d’accordo pur con molte riserve verso lo stesso La
Palice ma certi
attriti e sgarbatezze verso il Gambara? Dunque quel lupo affamato di
greco-.albanese
invero non serviva altro padrone se non il danaro, infischiandosene di
tutto e
tutti? Forse … già il fratello e i cognati
avevano disertato … forse …
“Hai
già i tuoi buffoni di corte”, replicò
calmissimo Hironimo,
terminando la sua guerra personale alla zazzera di Thomà,
che reclinando
indietro il capo lo studiò perplesso. “Chiedi a
loro di divertirti.”
Stava
azzardando un gioco rischioso e colmo d’incognite, lo
sapeva. D’altra parte, però, tredici giorni e
neppure un emissario per
informarsi sulla sua salute, figurarsi chiedere del suo rilascio e
pattuire un
riscatto o uno scambio. O s’erano dimenticati di lui o
qualche impedimento
bloccava le trattative, vai tu a indovinare cosa.
Poco
male.
Hironimo
se la sarebbe cavata da solo anche questa volta.
Come
sempre.
***
Negli
ultimi quindici anni madona Leonora Morexini relicta Miani aveva
acquisito l’uso di recarsi di buon mattino alla Chiesa di
Santo Stefano e lì di
pregare sull’arca del marito sier Anzolo Miani. A tal rituale
s’erano aggiunte
le orazioni per l’anima della figliastra, madona Crestina
Miani da Molin,
deceduta lo scorso gennaio.
Ognora
accompagnata dall’inseparabile Eudokia, in via eccezionale
quella mattina s’erano aggiunti il piccolo Anzolo, la sua
omonima nipote e
Lucha, dovendo questi raggiungere suo fratello Carlo e il resto del
parentado
a Palazzo Ducale, malgrado le insistenze della madre la quale non
desiderava
allungare inutilmente il tragitto del figlio.
Alla
gentile obiezione materna, Lucha si era schermito, sostenendo
di non provare alcun incomodo, anzi, gli giovava solo, non stimando la
sua
invalidità un motivo sufficiente per abbandonare ogni
attività
fisica. Al che Leonora non aveva insistito oltre,
lasciandolo far il
suo piacere, abituata ormai a non pugnare se non strettamente
necessario contro
l’irremovibile testardaggine tipica dei Miani e a non
sforzare l’umore talvolta
suscettibile del suo primogenito, un tempo il più tranquillo
e mite dei suoi
figlioli. Dal suo rientro a dall’Alemagna, il suo Lucha,
partito forte, bello e
baldanzoso per La Scala, le era ritornato l’ombra di se
stesso, reso quasi
irriconoscibile e coperto di cicatrici e lividi, col braccio destro
storpiato a
causa di un colpo d’archibugio, tenuto su completamente
inutilizzabile dalla
fascia di supporto legata al collo. C’era voluto un
po’ di tempo, prima
che Lucha cessasse di sobbalzare ad ogni tocco, riabituandosi al
contatto
fisico; invece, tuttora seguitava a nascondere vergognoso le sue
ferite,
disgustato lui per primo da esse e non per la loro bruttezza
bensì per le
occhiate di compassione che gli procuravano. Voleva ritornare al
fronte,
vendicare quella bruciante sconfitta, non invecchiare anzitempo dietro
una
scrivania. Adesso poi che Hironimo era caduto prigioniero dei nemici,
Lucha si
dimenava peggio d’un diavolo nell’acqua santa pur
di trovare una pronta
soluzione al suo rilascio, memore dei tormenti patiti durante la sua
cattività.
Il suocero di Marco, il cavalier Dimitri Spandolin, ancora non era
riuscito a
farsi ricevere da Caterina Boccali Bua e il suo barba sier Batista
Morexini,
pur in una posizione di grande influenza, non era onnipotente.
“Siora
Mare, mi sono scordato, ieri, di leggervi la lettera del
cugino Zuam Francesco.”
“Non
importa. Come sta? Non dev’essere una carica facile, quella
di Conte e Capitano a Sibinico.” [5a]
Madre e
figlio s’erano messi a cicalare del più e del
meno, così
da scacciare la ultime ombre dell’ennesima notte insonne. Pur
invalido del
braccio destro, Lucha aveva però offerto il sinistro alla
madre per sostenersi,
spiando preoccupato il suo incedere strascicato e un poco claudicante.
Un
fragile uccellino intirizzito dal freddo, ecco chi gli ricordava in
quel
momento la genitrice.
“Nostro
cugino mi narrava di certi malumori tra la popolazione
locale per colpa d’alcuni gentiluomini, rei di furto e
d’altri crimini poco
onorevoli. Zuam Francesco ha però già debitamente
informato la Signoria
dell’intera faccenda e non dubita di un suo pronto
intervento, onde quietare
gli animi e punire i felloni.”
“Ti
confesso che quando il tuo sior Pare era stato provveditore
sia di Nepanto che di Zacinto [5b], io non dormivo la notte e
chissà come
facesse lui, beato nel sonno dei giusti. Par mi, lo Stato da Mar
xé tera de
salvadeghi. ”
“Uhm,
dipende forse dal posto. L’altro nostro parente, Polo
Antonio, è Ducha di Candia, però non mi pare si
trovi male, almeno stando alle
lettere della sua siora mojer vostra germana.”
“E’
il titolo di Ducissa di Candia che la consola! E per sua fortuna il titolo non è ereditario, sennò finiva come la povera Ducissa di Nixia, madona Thadia Loredan Crispo, uccisa dal marito divenuto folle e ci scommetto per via del suo sangue ormai marcio ... Possa Dio perdonare l'anima di entrambi e ricongiungerli al Suo cospetto", si segnò. [5c] ”
Lucha prontamente imitò la genitrice, provando in effetti pena per il giovanissimo Duca di Nixia, Zuanne, e sua sorella madona Catharina, rimasti orbati d'ambedue i genitori in sì tragiche circostanze.
“Oggi
m’incontrerò con madona Alba, per andare insieme a
distribuire viveri e indumenti agli sfollati dello Stato da
Tera alla Cha' del Ducha di Frara e all'Ospedale di Sant'Antonio”, riferì
madona Leonora al figlio, che annuì meditabondo.
“Non
dimenticate di chiederle d’organizzare un colloquio con suo
figlio sier Francesco.”
“Figurati
se mi scordo di conferire con chi potrebbe aiutarci a
liberare tuo fratello!”
“Non
lo mettevo in dubbio, siora Mare. Perdonate se v’ho mancato
di rispetto. ”
La
nobildonna piegò all’ingiù gli angoli
della bocca. Dalla morte del
marito, i suoi rapporti col primogenito s’erano di molto
formalizzati, così
come il senso di responsabilità aveva invecchiato Lucha
anzitempo,
conferendogli un’aura severa e poco incline a perdonarsi il
benché minimo
errore. Per questo Leonora sperava ardentemente in un prossimo
matrimonio del
figlio: siccome non poteva più coccolarlo, era giusto che lo
facesse una
moglie, sostenendolo e confortandolo.
“Piuttosto,
ti suggerirei di non insistere eccessivamente col tuo
Barba. Ricordati, che qui a Veniexia c’è
chi veglia sui custodi”, l’ammonì
velatamente la nobildonna, rammentando al
figlio che pur avendo ottenuto l’ambito posto di consigliere
ducale e
supervisore dell’operato del Doge, anche sier Batista
Morexini era soggetto al
serrato scrutinio da parte dei suoi tre colleghi Avogadori nel Minor
Consiglio,
pronti a dimetterlo se non addirittura incarcerarlo al minimo cenno
d’abuso di
potere.
“Me
ne rendo conto, siora Mare.”
“So
che sei giudizioso, fio mio. Te vojo tanto ben”, lo
benedisse,
disegnandogli una croce sulla fronte col pollice. Lucha le
baciò di rimando la
mano alla greca, pieno d’affetto, appoggiando le nocche di lei sulla fronte. Dopodiché si
accommiatarono, essendo Leonora
giunta al convento degli Eremitani Agostiniani di Santo Stefano, mentre
il
Miani proseguì oltre verso la Piazza e poi a Palazzo Ducale.
In
quell’ora tutta per sé e protetta da
quell’aura di sospensione
tipica dei luoghi sacri, nel dolce silenzio profumato
d’incenso madona Leonora
incominciò dunque le sue orazioni dove raccomandava
costantemente la sua
famiglia a Missier Domeneddio, alla Madonna e agli Angeli Protettori.
Nella
privatezza della parte posteriore dell’abside, la vedova
patrizia instaurava
tramite la preghiera una sorta di dialogo col defunto marito, in cui
gli
narrava come se avesse potuto ascoltarla ogni suo pensiero e ogni
novità,
ancora incapace d’accettare, nonostante i quindici
anni trascorsi, d’esser
stati separati in modo sì improvviso e violento.
Quel
giorno, però, inginocchiata sotto l’arca del
consorte, la
nobildonna confidò ad Anzolo come, al posto dei sogni, da
molti notti la
tormentasse un antico ricordo, che credeva da lungo tempo seppellito.
Sommessamente
glielo descrisse, attendendo che sua nipote Dionora terminasse le sue
preghiere
in modo poi d’allontanarla con la scusa di mostrare al suo
germano Zanzi le
tombe monumentali dei dogi Andrea Contarini e Zuanne Soranzo, le quali
si
trovavano nel chiostro trecentesco del monastero adiacente.
Leonora
si rivedeva gravida e intenta a ricamare nel giardinetto
del palazzo pretorio a Feltre, godendosi gli ultimi pomeriggi di
quell’estate
del 1487, già rendendosi cadaun giorno più
frizzantina l’aria. Accanto a lei
cicalavano allegre la sua figliastra Tina e sua madre Ysabeta,
circondate dalle
fantesche occupate a rammendare. Da lontano s'udivano gli echi dei
manovali che
rafforzavano le mura sotto la direzione dell’ingegnere
Dionigi da Viterbo a sua
volta supervisionato da Anzolo, podestà e capitano della
città. Anche in quegli
anni erano in guerra, nello specifico contro il duca del Tirolo
Siegmund von
Habsburg per questioni di dazi. L'improvvisa e scioccante morte di
Roberto
Sanseverino d’Aragona a Calliano aveva persuaso il consorte a
dare
un’accelerata ai lavori, acciocché fossero
già ben impostati all’arrivo del suo
sostituto. Anzolo aveva espressamente chiesto i servigi di messer Dionigi, conosciutone in prima persona le competenze durante la Guerra del Sale, quando aveva preparato i due grandi ponti galleggianti per l'attraversata del Po a Lagoscuro.
La
patrizia aveva appena destato Momolo dal sonnellino pomeridiano
e già il suo fantolino era lì a zampettare
sull’erbetta soffice, impegnato a
tormentare i fiorellini selvatici che coglieva e studiava con estrema
concentrazione. Sopra la camiciola bianca, la nobildonna gli aveva
infilato una
larga vesticciola rossa come rosse erano la cuffietta e le scarpette,
lasciandogli però il massimo di libertà di
movimento. E se si muoveva, quel piccolo
terremoto!
Seguendolo
attenta con la coda dell’occhio, Leonora provava
un’immensa gioia nel bearsi della vista di un figlioletto di
sì provata salute,
specie dopo aver perduto il suo Marco Antonio, morto due anni addietro
di peste,
la quale prima di pigliarselo l'aveva ridotto ad un febbricitante
scheletrino.
Ancora non si capacitava di quel piccolo miracolo, non alla sua
età e non dopo
cinque anni in cui nulla era più stato concepito dal suo
ventre. Si sovveniva
perfettamente del viso pallidissimo e sgomento di Anzolo alla notizia
dell’inaspettata
gravidanza e doppiamente ridacchiava al ricordo di quando, balbettando,
il suo
sposo le aveva chiesto come avessero fatto, neanche si fosse scordato
all’improvviso delle numerose notti di passione, una volta
ritornato dalla muda
di Beirut. Dopo quattro anni di guerra sul Po e un anno in Siria, i due
coniugi
finalmente riuniti s’erano amati con tale gioioso e affamato
trasporto, che
l’unica conseguenza doveva per forza essere il concepimento
di un figlio.
E
quanto ambedue avevano scalpitato in quei nove mesi, impazienti
di conoscere il visetto della loro creatura!
Invano
avevano tentato d'istruire madona Leonora sin
dall’adolescenza a tener un certo distacco nei confronti
della prole: alunna
discola, nessuno dei suoi pargoli la Morexini l’aveva
completamente affidato
alle cure di balie, domestiche o contadine come invece solevano fare le
altre
patrizie, neppure la figliastra Crestina, all’epoca del suo
matrimonio con
Anzolo un’infante di poco più di un anno. Anzi,
con lei la giovane sposa s’era
impratichita nel mestiere di madre. E adesso che Leonora si trovava ben
distante da Venezia, tutt’al più se ne
approfittava sfacciatamente, libera da
ogni forma d’etichetta e aspettativa. Fin quanto possibile,
voleva crescere i
suoi figli nella consapevolezza dell’assoluta
totalità del suo amore nei loro
confronti, anche il piccino che le stava crescendo in ventre.
(La
sua piccola Emilia, che strinse a malapena per un mese tra le
braccia)
Un
gridolino sorpreso seguito da un acuto vagito catturò
l’attenzione
della patrizia, costringendola in piedi e in un gran fruscio di gonne a
correre
verso il suo fantolino, caduto a faccia ingiù e piangente in
un misto di stizza
e paura. Leonora se lo issò in braccio, baciandogli le gote
umide di lacrime e
spazzando via i fili d’erba e il terriccio dai vestiti e
dalla fronte di Momolo
che, ancora scosso, si pose il pollice in bocca e con l’altra
mano si strinse
allo zendale bianchissimo della madre, ritornata nel frattempo al suo
ricamo.
Annoiandosi
però ben presto e passato lo spavento, Momolo
incominciò d’un tratto a scalciare e ad arcuarsi
frignottando, insofferente di
quella posizione, il suo interesse attirato altrove.
Sorridendogli tenera,
madona Leonora lo sciolse dalle dolci catene del suo abbraccio e
pigliandolo
per la manina cicciotta, lo guidò nella direzione laddove
l’ultimogenito
agognava recarsi, ancheggiando in quella buffa camminata da papera
tutta gambe
e bacino tipiche degli infanti.
“Ma-ma
… ma … co! Ma-ma
…
ma … co!”, cinguettava contento e Leonora vide il
suo terzogenito Marchetto correre
incontro a braccia aperte al fratellino il quale tanto tirava, che la
madre
dovette liberarlo dalla lieve stretta alla mano.
“Ma-ma
… ma … co!”
Pensare
che Marchetto aveva pianto disperato alla nascita di
Momolo, battendo i piedi per terra e mulinando indispettito i piccoli
pugni,
perché non aveva chiesto alla Madonna un nuovo fratello
bensì rivoleva indietro
quello vecchio. Senza contare, che d’ora in avanti non
avrebbe mai più potuto
godere dei privilegi dell’ultimogenitura.
“Momolin!”
Eppure
eccolo là accucciarsi all’altezza del fantolino
che gli
trottava incontro, abbracciandolo forte e sollevandolo per le ascelle
mentre
l’altro se la rideva sguaiatamente tra strilli e gorgoglii,
le guanciotte
baciate e ribaciate dal maggiore. “Momolin
s’è svegliato! Momolin è tornato!
È
tornato dal sonnellin, il mio bel Momolin!”, canticchiava
battendo le mani e il
fratellino, ridendo di pancia, lo imitava.
Leonora
li osservava felice e assorta, in disparte, accarezzando
la mano che aveva stretto e guidato quella del suo Momolo fino a
Marchetto …
Quale
significato può avere codesta reminiscenza?, s’interrogava
disorientata la nobildonna, Perché
così ricorrente? Io che accompagno
Momolo fin da Marchetto. Cosa mi si vuol dire?
Un sogno
premonitore? Un presagio? Un semplice ricordo?
Solo in
quel momento s’accorse di come suo nipote Zanzi avesse
terminato il suo giro, portatosi accanto a lei e con le mani giunte
borbottava
all’arca del suo omonimo nonno, da lui mai conosciuto:
“Sior Avio, de grassia, vegliate
sul mio Tata vostro fio e la mia Mama, che stanno alla custodia di
Trevixo. Vegliate
sull’Ina e sull’altro mio fratellino, tutti e due
vostri nezzi anche se Scipio
ha una mamma diversa. Vegliate sulla mia siora Nonna vostra mojer, sui
miei
Barba Luchin e Carlino e soprattutto sul Barba Momolo, che lo liberino
in
fretta!”
Madona
Leonora, sorridendogli mestamente, gli accarezzò da dietro
i folti ricci scuri.
“Patrona”,
interruppe di malavoglia Eudokia quel piccolo idillio,
essendosi allontanata per qualche istante onde ricevere
un’ambasceria da parte
di un’altra domestica. “La massera della despina
Alba m’ha appena riferito,
come la sua patrona non stia bene, sospettano trattarsi di quelle
febbri che di
recente stanno affliggendo la Terraferma. La despina non sembra grave,
per
fortuna, e le sue figlie la stanno assistendo. Cosa le rispondo,
patrona?”, le
riferì dispiaciuta, ben intuendo la candiota cosa quel
contrattempo
significasse per la nobildonna.
Rigirando
pensosa la vera nuziale, Leonora si risolse a seguito di
una lunga pausa: “Torna dalla massera di madona Alba e dille
di porgerle da
parte mia ogni augurio di pronta guarigione; aggiungi poi che ci tenga
al
corrente delle sue condizioni di salute e che non mancheremo di recarci
in
visita a casa sua.”
Eudokia
annuì, filando via a riferire lesta come il vento.
“V’accompagnerò
io a dar da mangiare ai fuggiaschi”,
s’offrì
volontario Zanzi, notando come le spalle della nonna si fossero
subitaneamente
curvate e ignorava il perché. Per lui infatti la presenza di
madona Alba
corrispondeva ad una mera compagnia per i loro esercizi di
carità e soccorso
verso gli sfollati di Terraferma, non essendo punto al corrente del
doppio fine
di quell’incontro.
Vista la
mancata reazione di Leonora, il settenne bambino afferrò
dunque la mano piccola e rugosa dell’avia, gli occhi
nerissimi ereditati dal
padre scintillanti d’entusiasmo. “Non avete bisogno
di madona Alba: Dionora ed
io v’aiuteremo con le ceste! Guardate, visto che come sono
forte?”, esclamò
orgoglioso, flettendo il braccio per mostrare gli acerbi bicipiti.
Al che
sua nonna non si trattenne e scoppiò in una timida
risatina. “No vorave pì mejo cavalier de
ti!”, gli confessò sincera, e, toccata
con la punta delle dita l’arca d’Anzolo, preso per
mano il nipote si recarono
assieme a Dionora verso l’uscita della chiesa.
A
Te, che immersa in angoscia mortale per il tormento del Figlio,
ti fu trafitto il cuore da una spada: dammi forza, Santissima Madre di
Dio!
Dammi tanta forza per sopportare questo strazio atroce! Non disprezzare
le mie
suppliche, ma liberaci da ogni male. Liberami il figlio da ogni male,
oh
Vergine gloriosa e benedetta!
“Siora
avia? Coss’aveu? Perché piangete? È
successo qualcosa?”
“Oh,
Dionora cara. Non è niente. Soltanto della polvere negli
occhi.”
***
“Beata
viscera Mariae Vírginis, quae portaverunt aeterni Patris
Fílium.”
La
solenne ma sentita formula d’invocazione e ringraziamento
pronunciata dal primocerio [6] della Basilica di San Marco, domino
Hironimo
Barbarigo, si disperse leggera tra le volte dorate e il trionfo di
mosaici
della cappella palatina e chiesa di Stato, ripetuta con mistico fervore
da
Missier il Doge Lunardo Loredan.
Corrugando
la fronte alta in un volto scarno e serio, eppur pacato
nella sua risolutezza, il Principe affidava l’intera
Repubblica alla Madonna,
supplicandoLe intercessione presso Dio onde concederle vittoria contro
il
nemico nonché perdono per l’arroganza sua,
risparmiandola dall’umiliazione
della schiavitù allo straniero. Invocò inoltre
consiglio all’anime dei suoi
predecessori – in particolare di Andrea Contarini vincitore
dei Genovesi nella
tremenda Guerra di Chioggia – acciocché gli
concedessero saggezza, prudenza e
audacia per affrontare una delle crisi più acute nella
storia della
Serenissima. Se così dev’essere
- fiat voluntas Tua. Ma fino al
nostro ultimo respiro, sostienici nella battaglia, o Signore. Kyrie
Eleison,
Christe Eleison.
Accanto
al Serenissimo, sotto l’attento scrutinio
dell’icone
bizantine del Christus Rex Mundi, della Vergine Nicopeia, delle schiere
angeliche e dei Santi, oravano assieme al doge il legato del Papa,
l’episcopo
di Monopoli, il Minor Consiglio al gran completo e alcuni patrizi,
quest’ultimi
in attesa che il Collegio a Palazzo Ducale concludesse la sua
consultazione
acciocché il Principe e i suoi consiglieri, terminata la
Messa, potessero
accogliere la loro proposta di decisione.
Fuori la
Basilica la vita scorreva nell’usuale gran frenesia,
alternandosi il vociare della gente allo scalpellare degli operai
intenti a
ricostruire la cuspide del Campanile di San Marco, gravemente colpita
durante
il tremendo maremoto del marzo scorso.
Rigirando
irrequieto l’anello di zaffiro al dito, sier Batista
Morexini “da Lisbona” meditava a quale sorte
stessero andando incontro. Per due
anni avevano resistito a questa guerra che non pareva voler terminare
mai, i
loro nemici irriducibili nel proprio odio e invidia verso la
Repubblica. Era
nato in un mondo di uomini liberi, cogitava il patrizio, doveva dunque
morire
in uno di cani assoggettati ad un padrone, cui nulla importava se non
sfruttarne le risorse e l’ingegno? Sarebbe stata anche la
Serenissima spazzata
via come le altre Signorie italiane? O avrebbe
resistito caparbia?
Il
“da Lisbona” ripensava al lontano anno
dell’elezione a Doge di
sier Nicolò Trum, marito della sua lontana parente madona
Aliodea Morexini:
anche in quel frangente, strangolata da un enorme ed impagabile debito
nonché
dall’incessante incalzare dei Turchi, sola e abbandonata
nella sua miseria, la
Serenissima era sembrata sull’orlo del
precipizio. “Chi si lagna e
nulla combina per cangiar la sorte, è uno sconfitto in
partenza che non merita
alcuna commiserazione”, aveva allora
sentenziato il settantenne ma
ancor energico Principe, arringando in via straordinaria il Senato con
tal
piglio che nessuno osava fiatare. “Piangeremo
quando non ci sarà più
niente da fare e sarà solo dentro le nostre tombe. Fino a
quel ben triste
giorno, però, duri i banchi! A vogare tutti per la
Signoria!” E nel
giro di un anno, la Repubblica s’era ripresa economicamente e
militarmente,
stupendo il mondo esterrefatto da tal impensabile prodigio.
“C’è
un motivo per cui Nostro Signore ci pone in un certo posto ad
una certa ora. È la prova che ci dà e soltanto in
quell’istante vediamo chi
siamo e cosa valiamo”, aveva confessato madona Aliodea a sier Batista
quando, vedova del doge sier Nicolò e ritiratasi in
convento, durante la peste
del 1478 s’era rifiutata di lasciare Venezia onde soccorrere
assieme alle
consorelle gli ammalati, insensibile ai richiami della famiglia che la
supplicava di rifugiarsi nelle proprietà di campagna.
“C’è
sempre un futuro, anche quando esso si presenta nero pece”, aveva
riassunto Jacomo Mamalucho la sua incredibile vita dinanzi al Senato e
lui sì,
che poteva parlare ex cathedra. Catturato giovanissimo in una
scorribanda dei
Turchi nella Patria del Friuli ai tempi della seconda guerra
turco-veneta,
Jacomo s’era opportunisticamente convertito, entrando nel
corpo militare dei
mamelucchi e distinguendosi per la sua abilità
nell’uso dell’arco e del
giavellotto. Nel 1506 egli aveva accompagnato a Venezia
l’ambasciatore turco Taghrī
Bērdi, da cui però era fuggito l’anno seguente,
troppo forte il suo attaccamento
alla terra natia e alle sue origini. Jacomo aveva scelto dunque di ritornare
alla
fede di Cristo e si era fatto battezzare di nuovo, supplicando la
Signoria di
riaccoglierlo anche come suo cittadino e condottiero, richiesta
immediatamente
esaudita anche per la sua fama di valent’uomo, confermata
persino dal
comandante nemico Mercurio Bua, che l’aveva catturato lo
scorso agosto vicino a
Verona ma poi liberato per aver mantenuto la parola data su di un loro
patto.
Poco dopo il suo rilascio, Jacomo era stato gravemente ferito in
battaglia e,
malgrado fosse riuscito a riparare prima a Padova e poi a Venezia, non
era scampato
alla febbre che lo aveva condotto alla morte. Tre giorni addietro, sier
Batista
Morexini aveva partecipato al suo funerale nella chiesa di Santa Croce
alla
Giudecca, dolendosi come l’intera Signoria di tale perdita e
domandandosi,
mentre osservava la tomba venir sigillata, se lui avrebbe mai
dimostrato tanta
forza e tanta determinazione quanto Jacomo Mamalucho, la cui vita era
stata
bruciata per poi riemergere dalle ceneri, più trionfante di
prima. “Basta ghermire
quell’unica e minuscola
opportunità offerta, stringerla a sé e farla
propria e allora anche un destino
già scritto si può cambiare!”, si
ripeté il consigliere ducale le sagge
parole dell’ex- mammalucco friulano.
“Duri
i banchi. Afferrare l’opportunità per cambiare il
destino.
L’ora della prova”, esordì
così sier Batista, portatosi vicino alla presidenza,
segno ch’era venuto il suo turno di parlare, ad assemblea
incominciata. “Se ci
lasciamo cogliere impreparati in questo momento di dura prova, che
Missier
Domeneddio abbia pietà di noi perché il nemico di
certo non ne avrà. Avé sentio
i capitoli: Trevixo per nulla al mondo dev’essere perduta.
Sì, anche Padoa per
quello”, levò il palmo, bloccando
l’alzata di mano del collega sier Andrea
Trivixan, savio di Terraferma. “Così come la
Patria di Friul” e di nuovo, non
concesse d’essere interrotto dalla silenziosa richiesta
d’intervenire di sier Bortolamio
Minio, altro consigliere ducale, che sempre in silenzio
abbassò il braccio,
attendendo il suo turno. “Tutte e tre minacciate
contemporaneamente. Ora, non
nego l’importanza di nessuna di queste terre, però
dobbiamo essere realistici:
quanto possiamo difendere? A quale delle tre dobbiamo dare la
priorità? Quale
delle tre corrisponderebbe per noi alla peggior perdita? Meglio un
nemico vicino
o uno lontano?”
I
senatori abbassarono il capo, le labbra strette per non
pronunciare ad alta voce la risposta già conosciuta dal
“da Lisbona.”
“Esatto.
Trevixo”, parlò egli al posto dei suoi colleghi.
“Senza
la Marca non possiamo bloccare a nord e ad ovest i franco-imperiali;
senza la
Marca non possiamo bloccare a sud gli spagnoli e i ferraresi; senza la
Marca
non possiamo, in caso d’occupazione, riprenderci
né Padoa né il Friul. Senza la
Marca, la strada per Veniexia è libera. Con la Marca, i
Collegati non riusciranno mai
ad avanzare" e detto questo, ritornò
seduto sulla tribuna e lasciò che il concetto piantasse
radici nelle menti dei
senatori.
Sier
Alvixe Malipiero, savio di Consiglio e cognato di sier
Batista, preso posto vicino alla presidenza, espose la proposta:
“Si suggerisce
di mandare a Trevixo, oltre alle già pattuite provvisioni,
altri quattrocento
fanti da Mestre. In aggiunta, di spedire 4000 ducati oggi e 6000 ducati
domani
per le paghe dei nostri capitani e soldati alla custodia della
città. Infine,
proponiamo d’inviare il capitano Mafio Cagnolin e la sua
compagnia di cinquanta
fanti non a Pordenon bensì a Trevixo e con lui sier Zuam
Vituri q. sier Daniel,
previo provveditore della Patria di Friul, stipendiando
quest’ultimo a quaranta
ducati mensili.”
Sier
Antonio Zustignan alzò la mano, chiedendo di parlare. Sier
Alvixe Malipiero glielo consentì, ritornando al suo posto.
“Se davvero la
custodia di Trevixo è divenuta la nostra
priorità, a questo punto sarà il caso
che Padoa le ceda alcuni dei suoi fanti, bombardieri e stradioti.
Momento!”,
pose in avanti le mani dinanzi all’accigliarsi
dell’assemblea e alle numerose
braccia di conseguenza levatesi in alto. “Scolté
n’atimo: dalle informazioni forniteci
dalle nostre spie a Vinzenza, abbiamo trovato conferma sulla
volontà del La
Peliza di porre l’assedio a Trevixo e non a Padoa, come va
cianciando in giro
per spaventarci e confonderci. Lo stesso capitano Mercurio Bua ha
attaccato la
città, quali altre prove necessitiamo per convincerci che
l’impresa sarà quella
di Trevixo? Pertanto, suggerisco che si scrivano lettere ai
provveditori di
Padoa sier Christofal e sier Polo affinché inviino al provveditore sier Zuam
Paulo
il loro presidente delle artiglierie Orlando da Bergamo, assieme ad
altri tre
bombardieri ed a Zuam Forte e la sua compagnia di duecento
cavalleggeri, in
modo d’aumentare il numero di gente alla custodia di
Trevixo” e si sedette,
lasciando spazio agli altri senatori d’esprimere la loro
opinione a riguardo.
Quando
infine non s’ebbe più nulla
d’aggiungere, si chiamò l’ora
della votazione, l’ora della verità, la definiva
sier Batista Morexini,
attendendo assorto, i due indici alle labbra.
Invero
stavano chiedendo molto, levare uomini da Padova e
soprattutto privarla dei suoi migliori bombardieri corrispondeva ad un
azzardo
non da poco, scommettendo sulla loro ferma convinzione che La Palice
non aveva
alcun’intenzione di attaccare Padova, come invece aveva
lasciato credere il
mese addietro con tutti quegli spostamenti sospetti nel veronese e
vicentino.
No, nient’altro che una messinscena per poter armare in
tranquillità il campo
di Montebelluna e dopodiché attaccare Treviso, sfruttando il
dubbio della
Signoria, circondata com’era dai nemici, da dove
l’avrebbero colpita, se da
nord, ovest o sud.
Appunto
per questo, il consigliere Morexini s’attendeva molte
resistenze e rinvii al voto, non varando alcun provvedimento se la
maggioranza
dei voti non fosse stata netta; si sorprese assai, piacevolmente, nel
constatare come invece a fine di quella sessione ogni proposta venne
accolta e
approvata con buona maggioranza e le disposizioni presto
scritte su
verbale per i provveditori, capitani e camerlenghi. Un piccolo prodigio
invero,
laudato Domine Deus.
Dopodiché,
si passò alla lettura dei rapporti.
“Lettere
di sier Hironimo Donado, dotor et orator nuostro a Roma
…”
Ancora
poco, sorrise perfido sier Batista accogliendo con sommo
gaudio i contenuti delle missive del loro ambasciatore, ancora poco e
gli
irriducibili nemici della Serenissima avrebbero ricevuto una tal amara
sorpresa, da farli perdere in via definitiva la loro infinita
tracotanza.
E allora
sì che avrebbero finalmente combattuto ad armi pari.
***
Jacques
de Chabannes de La Palice, Giulio Sanseverino, Artus
Gouffier de Boisy e Giovanni Gonzaga, fratello del Marchese di Mantova,
s’erano
Vicenza,
sbuffando sudati ché li era stato detto con accorata malizia
come la grazia, ai
pelandroni che andavano su per il colle a cavallo, non si concedeva.
Costruita
in stile gotico e affrescata da Bortolamio Montagna, la
chiesa era stata una richiesta da parte della medesima Madonna,
comparsa a donna
Vincenza Pasini durante la peste del 1426, mentre l’anziana
contadina saliva il
colle per portar il pranzo al marito intento a lavorare nei vigneti.
Figurarsi
s’Ella venne esaudita! Malgrado la tenace testimonianza della
Pasini, derisa e
additata pazza dai più colti e saggi di lei, solo alla
seconda apparizione nel
1428, quand’ormai la peste aveva spezzato le gambe a Vicenza,
venne allora la
veggente creduta e più per disperazione che per vera fede.
Il Comune diede
subito ordine di costruire in soli tre mesi un piccolo tempietto e
quasi
immediatamente l’epidemia cessò di mietere
vittime, sicché gli stupefatti
santommasi ora un po’ più credenti risolsero di
dedicare alla Vergine una vera
e propria chiesa, la prima pietra benedetta dal vescovo di Vicenza in
persona,
domino Piero Miani di San Cassian.
Sull’altare
addossato alla parete, là dove la Madre di Dio aveva
piantato il bastone a prova dell’apparizione, tra i marmi
policromi spiccava
dominante la statua della Madonna della Mercede, raffigurata
così come donna Vincenza
L’aveva veduta, vestita d’una
sfolgorante
zupa dorata e il capo coperto da un velo bianco leggerissimo e
scintillante.
Sotto il manto celeste e pieno di stelle della Vergine si rifugiavano i
supplicanti e questa mirabile scultura in pietra tenera dei Colli
Berici era
stata dipinta da Nicolò da Venezia, un tempo ingioiellata
più di qualsiasi
donna mortale avesse mai osato sognare, ma gli scaltri Serviti che
gestivano il
santuario già prima dell’occupazione dei Collegati
avevano provveduto a
nascondere i gioielli, evitando che quei doni devozionali finissero
nelle
cupide mani degli invasori.
Ai Suoi
piedi dunque s’inginocchiarono il maresciallo La Palice,
Sanseverino, de Boisy e il Gonzaga, i ceri tra le mani congiunte.
Nonostante
le iniziali difficoltà, i preparativi per
l’assedio di
Treviso avevano ripreso con maggior vigore e i frenetici ma
soddisfacenti
giorni a Vicenza avevano fatto sperare al francese in un esito
positivo: gli
umori erano alti, i grigioni ben preparati e motivati e
l’artiglieria ferrarese
impeccabile come suo solito. Inoltre, il Gran Maestro di Francia non
nascondeva
il suo intimo sollievo per il mancato arrivo del Gran Scudiero, il
quale aveva
mandato in sua vece il fratellastro minore, il trentaseienne Giulio Sanseverino, a capo di cento lance. Confrontate le passate imprese militari dei due figlioli del fu Roberto, il generalissimo si prospettava, quindi, una
collaborazione molto più promettente col signor Giulio, che col signor Galeazzo, non giudicando quest'ultimo abbastanza incisivo in guerra. Per
carità, a livello
personale il Gran Scudiero piaceva moltissimo a La Palice, eccellente
conversatore e di gran compagnia, ma la vita
dell’accampamento non era quella
di corte ed era meglio tenersene fuori, se inesperti, piuttosto di
sfigurare
divenendo un’imbarazzante palla al piede.
E di
palle ai piedi, i francesi ne avevano avute anche fin troppe
ultimamente: sicuro, il maresciallo non s’illudeva di come
quell’impresa
sarebbe stata una passeggiata alla marina; nondimeno, confidava di
poter
riuscire là dove il Trivulzio s’era tirato
indietro e se Bayard non si fosse
ritrovato a far da balia al Duca di Ferrara, la sua presenza avrebbe
ringalluzzito le truppe e magari tenuto a bada
quell’indisciplinato di Mercurio
Bua. Lo scudiero del Bon Chevalier, Jacques de Mailles, gli aveva
raccontato
alcuni fatti poco rassicuranti a riguardo del capitano epirota, come ad
esempio
quando a San Bonifacio veronese Mercurio s’era
convenientemente dimenticato d’avvertire
Monseigneur de Ru della presenza di stradioti veneziani nelle vicinanze
del
castello, permettendo di conseguenza che il capitano borgognone venisse
catturato durante il sopralluogo della zona. Questo sgambetto il greco-
albanese
gliel’aveva fatto un po’ per ripicca,
perché il Ru aveva scambiato un prigioniero
del Bua, il patrizio Bragadin, per un suo soldato; un po’ per
avidità, perché
anche Mercurio aveva desiderato per sé quel castello.
Oppure
del litigio tra Bayard e l’epirota, quando
quest’ultimo
aveva dato ordine ai suoi stradioti di suppliziare alcuni
prigionieri croati con dieci colpi di
scimitarra, per fissare sulle punte delle picche le loro teste mozzate.
Dinanzi
alle accuse d’eccessiva ferocia da parte del Bon Chevalier,
Mercurio s’era tranquillamente
giustificato asserendo come quei Croati non fossero neppure cristiani.
E quando
un furioso Bayard gli aveva ricordato che il capitano di predetti
Croati rimanesse
comunque un prigioniero di guerra e dunque soggetto o ad uno scambio o
al
pagamento di un riscatto, il Bua, piccato, gli aveva velenosamente
raccontato
come fossero stati da sempre nemici giurati perché, oltre ad
essere un
apostata, il suppliziato in vita era stato anche suo cugino germano che
approfittando della sua tenera età lo aveva scacciato dal
suo dominio
patrimoniale nel Levante, costringendolo esule a Venezia. Siccome
però il
francese non sembrava incline a credere a quella storia, ecco che il
greco-albanese, uscito non poco dai gangheri, s’era
sciorinato in una
lunghissima e truce lista di soprusi subiti per mano di quel suo
parente,
descrivendolo al pari d’un Giuda Iscariota. Soltanto in nome
della vendetta
aveva il condottiero rinunciato a ben 10 000 ducati e sei splendidi
cavalli
turchi, offerti dallo stesso capitano croato per il suo riscatto;
avrebbe
potuto accettarli e andarsene con Dio, ma l’onor suo era
l’onor suo e anche il
suo parente prima di morire aveva convenuto che, fossero stati i ruoli
invertiti,
anch’egli si sarebbe vendicato dell’odiato rivale.
E forse tale svantaggiosa cocciutaggine
aveva un poco convinto Bayard della veridicità di quel
racconto.
Nondimeno,
i due seguitarono a mal sopportarsi, chiamandosi
rispettivamente “macellaio” e
“pretino”, però almeno, quando gli
girava, il Bua
ascoltava Bayard di più rispetto agli altri, forse
perché, sosteneva
irriverente, le sue strategie avevano maggior senso di “voi
generalucci
dilettanti”.
Mon Dieu,
se non fosse stato un abile comandante, La Palice avrebbe
già strangolato Mercurio in più di occasioni. Ma non poteva e il gaglioffo era ben conscio del suo valore in guerra, sicché anche Giulio Sanseverino aveva dovuto ingoiare il rospo al ricordo della trappola in cui era caduto suo nipote Faccendino. Quando il Sanseverino rinfacciava al Bua di come, sfidato a duello, piuttosto di presentarsi avesse preferito assassinare Faccendino assieme a 25 stradioti, il greco-albanese scrollava le spalle e gli replica: "E dunque? Ancora con quella storia? Ha voluto morire arditamente, l'ho accontentato!" Per poi continuare che aveva già pagato per la sua passata colpa, perdendo la condotta del Re di Francia.
Che masnada s'era il Gran Maestro di Francia ritrovato a comandare!
Incidenti
di percorso a parte,il maresciallo si consolava come la Serenissima pur pugnando
irriducibile per due anni consecutivi, non aveva speranze di scamparla.
Circondata da ogni angolo, senza alleati, non poteva contare sul
sostegno di
nessuno e le sue risorse non potevano durare all’infinito. A
rigor di logica si
trattava soltanto di una questione di tempo e Venezia ben presto si
sarebbe
trovata costretta a piegare la sua dura e orgogliosa cervice
all’ineluttabilità
del suo destino. Quella dei Collegati corrispondeva ad una santa causa
per
spezzare quella superba, una guerra giusta e benedetta dal Papa atta a
ridimensionare la Serenissima all’isolotto palustre
ch’era stato alle origini e
ritornare i suoi territori ai legittimi proprietari. Dio stava dalla
parte
della Lega di Cambrai, soprattutto del loro re cristianissimo Louis XII
e
questo lo testimoniavano le sue vittorie sia passate che presenti.
“Soyez
bénie, Vierge
Marie. Aidez-nous dans la bataille, donnez-nous la victoire contre les
ennemis
de la France et de la chrétienté. Que la chute de
Trévise l’orgueilleuse soit
le signe de la sainteté de notre mission et de la
volonté de Dieu et de Sa
justice. Car nous
combattons pour Sa gloi- … Aïe! ”,
[7] lanciò
il maresciallo un piccolo gemito di dolore, la sua preghiera interrotta.
Confuso,
controllò di riflesso la candela di sego che reggeva,
stupendosi di come la cera che gli aveva bruciato il dorso della mano
non fosse
caduta da lì. Né da quella del Gonzaga, del Boisy
e di Giulio Sanseverino,
inginocchiati accanto a lui e che lo scrutavano disorientati.
Una
seconda goccia s’unì alla sorella, stavolta
però evitata
dall’uomo, che balzò indietro e scoprì
che le gocce bollenti provenivano dalle
lucerne appese al soffitto e semi-sospese da lunghe catene. Con
crescente
apprensione La Palice notò come esse oscillassero
lievemente, eppur non un
refolo d’aria viaggiava nel santuario, finché ogni
lume attorno all’altare non
si spese all’improvviso, lasciando solo le deboli fiammelle
del cero suo e dei
suoi compagni.
“Comment?
Comment?”, mormorò turbato il Gran Maestro di
Francia,
avvicinandosi incredulo ai piedi della statua avvolta nella
semioscurità.
“Comment c’est possible?”
Un secco
schiocco d’aria e anche le loro candele condivisero la
sorte delle lucerne, spegnendosi
***
Hironimo
si svegliò di soprassalto, battendo la fronte contro il
bordo della branda di Mercurio, giacché
quest’ultimo, agitandosi indiavolato
nel letto per via della febbre, s’era girato dalla parte
opposta, trascinando
con sé la catena e di conseguenza il patrizio, accoccolato
per terra.
“Brutto
fio d’un can!”, bofonchiò il giovane,
afferrando la catena
e tirando, costrinse poco alla volta il greco-albanese a ritornare
più vicino a
lui, così anche da permettergli di appoggiare per terra il
braccio addormentato
dall’innaturale posizione. “Se potessi, ti darei un
tal stramuson (ceffone,
ndr.) ch'el muro t’en dà n'altro!”
E mentre
le dita intorpidite scorrevano gli anelli di ferro, la
tentazione di strangolare con esse il mercenario si faceva sempre
più forte
sennonché la parte razionale del Miani, non ancora intontita
né dal sonno né
dalla disperazione, gli sovveniva di ricordarle il seguito del suo
brillante
piano ovver, ad assassinio compiuto, come intendeva liberarsi dai ceppi
e
uscire dal padiglione sorvegliato a vista dagli uomini del Bua, per non
parlare
dell’intero accampamento.
Inoltre
non poteva fuggire senza Thomà, gli aveva giurato di
proteggerlo e protetto l’avrebbe anche a costo della vita,
sia in qualità di
bambino sia in qualità di ultimo “uomo”
della sua massacrata guarnigione di
Castelnuovo di Quero; ormai era l’unica impresa
d’onore che gli restava per
redimersi, cogitava frustrato il veneziano, aprendo e serrando il pugno
onde
facilitare la ripresa della circolazione sanguigna della mano.
La vocina
sommessa del bambino attirò la sua attenzione e Hironimo
si trovò sul punto di rispondergli, sennonché
s’accorse ben presto di come
Thomà non si stesse rivolgendo a lui. Chetandosi, suo
malgrado (erano legati,
come non poteva altrimenti?) origliò.
“Siora
Patrona, mi no m’aricordo pì l’orazion
en latin per orarTe,
perhò te priego de scoltarme igual. No te chiedo gran cossa,
si no de no farme
soffrir ‘na dolorosa morte; de darme da magnar cadaun zorno;
de portarme ben
cussì mi vago en Paradiso co la mea fameja e se me
volé far scapolar da questo
campo, ancha mejo, Te ringrassiarò co un zero grande chome
un campanil. Te
priego, Siora Patrona, de vejar ancha sul sior patron, el sarave pur un
turcho
et un orso, perhò el xé tanto bon e me faria
pecà ch’el vada a l’inferno.
Sancta Patrona, ve vojo tanto ben, a Ti et al Tòo Fio Domine
Jesu. Nel nome dil
Pare, dil Fio, e dil Spirito Sancto. Cussì sia”,
si segnò sottovoce Thomà,
concludendo la sua personale preghiera e riprendendo posto accanto ad
Hironimo,
accoccolandosi al suo fianco in cerca di calore.
Inconsciamente
il giovane Miani lo cinse col braccio e lo strinse
a sé, gli occhi umidi fissi al soffitto del padiglione e un
inspiegabile groppo
in gola.
Continua
…
************************************************************************************************************
Peste,
peste, quanta peste: nel 1406, 1426-28, 1438, 1457, 1478,
1485 (la più grave, per la cronaca, in tutto il territorio
della
Serenissima) …
Ebbene
sì, incredibile ma vero le assemblee a Venezia venivano
svolte nel più rigoroso silenzio e guai a chi osava parlare
sopra all’altro;
interrompere; insultare o confabulare col vicino durante il discorso
pubblico
di un altro. Si alzava la mano e si aspettava il proprio turno, salendo
o la
scala o sedendosi vicino alla presidenza.
Ovviamente
le assemblee e soprattutto le votazioni duravano molto
di più, si potrebbe scrivere un romanzo solo sullo
svolgimento di una!
Capitolo
d’impronta molto religiosa, in cui ciascuno o quasi dei
personaggi si fa una chiacchierata interiore e d’altronde non
poteva essere
altrimenti date le circostanze. Spero di non aver urtato nessuna
coscienza.
Mi auguro
che il capitolo sia piaciuto! Alla prossima,
Un
po’ di noticine:
[1]
Sub Tuum praesidium = sotto
la Tua protezione. Si tratta
della più antica invocazione a Maria Madre di Dio (III
secolo), laddove
s’invoca con fiducia il Suo aiuto nei momenti difficili.
Ignoro nella Chiesa
pre-tridentina quali delle tre versioni venisse usata –
bizantina, romana o
ambrosiana. Ho scelto quella romana, speriamo bene. Sennò,
mea culpa.
La
traduzione è la seguente:
Sotto
la tua protezione cerchiamo rifugio,
Santa
Madre di Dio:
non
disprezzare le suppliche
di noi
che siamo nella prova,
ma
liberaci da ogni pericolo,
o
Vergine gloriosa e benedetta.
[2]
Regina dei Cieli = previamente
alla Madonna,
questo titolo già in passato veniva attribuito a diverse
divinità pagane femminili
quali: Iside, Astarte, Era / Giunone, Frigg, etc.
[3] già che era un
Aemilianus che Scipio
lo si chiamasse = gioco di parole tra la versione
latina del cognome
Miani – Aemilianus, da cui Emiliani – e Emiliano
ovvero Publio Cornelio
Scipione Emiliano, il famoso console che distrusse Cartagine e che fu
un
avversario politico dei Gracchi.
[4]
soprèssa = salume
tipico della provincia di
Vicenza.
[5a] Sibinico=
l’odierna Sebenico in
Croazia. [5b] Nepanto, Zacinto =
rispettivamente Lepanto
e Zante, per chi si ricorda del buon Ugo Foscolo. [5c] L'evento cui Leonora Morosini si riferisce è avvenuto il 15 agosto 1510: Francesco Crispo, duca di Nasso (Nixia), soffrendo già da un anno di un'acuta malattia mentale, in un raptus di follia uccise sua moglie Taddea Loredan di Matteo. In breve, questo duca di Nasso, che già aveva dato segni di cedimento mentale nel 1509, una sera rincorse sua moglie Taddea Loredan fino alla casa della zia di lei, Lucrezia, dove la duchessa si era rifugiava dopo esser stata cacciata da palazzo. Per due giorni tentò d'entrare, finché non riuscì a persuadere le donne ad aprigli. Una volta dentro, picchiò a sangue Lucrezia e la sua domestica. La moglie s'era nascosta sotto il letto e lui, scovatala, la pugnalò al ventre per 4 volte e la poverina morì in agonia il giorno dopo. Francesco, braccato da tutti, si rintanò nel suo palazzo, prendendo ostaggio il figlioletto Giovanni che aveva appena 11 anni. Fortunatamente, questi riuscì a fuggire prima che potesse uccidere anche lui, approfittando un servitore di un attimo di distrazione del duca per portarlo via e si buttarono ambedue giù dal balcone. I soldati forzarono la porta e catturarono Francesco. Condannato, morì in carcere a Creta (Candia) il 15 agosto 1511. Paolo Antonio Miani, che si trovava a Creta in veste di duca, seguì personalmente il caso.
[6] primocerio =
primo canonico
della basilica di San Marco, ch’era cappella ducale e chiesa
di Stato,
amministrata invece di un metropolita direttamente dal Doge. Infatti,
il
Patriarca di Venezia spostò la sua diocesi a San Marco solo
dopo la caduta
della Repubblica. Erede del patriarcato di Grado, il Patriarca se ne
stava a
Castello, assai lontano da Palazzo Ducale. Aggiunto al fatto
ch’era il Doge che
nominava a Venezia i vescovi e che l’intera curia veneziana
rispondeva del suo operato
a lui soltanto ed era come i laici soggetta alla legge secolare,
nonché i
patrizi che sceglievano la carriera ecclesiastica si vedevano preclusi
da
qualsiasi carica pubblica (tranne quella di ambasciatore) ci fa ben
capire lo
straordinario, per i tempi, secolarismo della Serenissima ma
soprattutto quale
suo aspetto avesse fatto girare i cocomeri a Giulio II e agli altri
Papi prima
di lui. Riassumendo, a Venezia accadeva il sogno proibito
d’ogni Imperatore del
SRI durante la lotta per le investiture.
[7] Soyez bénie, Vierge
Marie. Aidez-nous dans la bataille, donnez-nous la victoire contre les
ennemis
de la France et de la chrétienté. Que la chute de
Trévise l’orgueilleuse soit
le signe de la sainteté de notre mission et de la
volonté de Dieu et de Sa
justice. Car nous combattons pour Sa gloi- … Aïe! = Siate benedetta,
Vergine Maria. Aiutateci
nella battaglia, concedeteci
la vittoria contro i nemici della Francia e della
cristianità. Che la caduta di
Treviso l’orgogliosa sia il segno della santità
della nostra missione e della
volontà di Dio e della Sua giustizia. Poiché noi
combattiamo per la Sua glor-
Ahia!
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Capitolo 12 *** Capitolo Undicesimo: 9 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 21.10.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Undicesimo
9
settembre 1511
“Demo
… su, demo …”, digrignava i denti
Hironimo sia dallo sforzo
che dal crescente dolore della carne spellata a causa del continuo
sfregamento
contro la catena al polso, roteando e storcendo quest’ultimo
in pose sempre più
dolorose, così da aumentare sulle ossa carpali la stretta e
implacabile
pressione del poco collaborativo ferro. Neppure lubrificato dal sangue
né
piegando fino all’impossibile l’intera falange del
pollice riusciva il patrizio
a sfilarsi quel tormento di dosso.
All’ennesimo
tentativo fallito il giovane Miani ringhiò frustrato,
battendo il pugno per terra pieno di stizza. Chiuse gli occhi e
provò a
regolare il respiro affannoso, le tempie pulsanti per via
dell’ennesima notte
trascorsa in bianco.
Quanti
pensieri un cervo atterrito agita nella sua mente quando i
cacciatori gli stringono intorno un cerchio di morte, tanti pensieri
s’accavallavano nella mente di Hironimo e a nulla serviva il
suo incessante e
infruttuoso sforzo di cacciarli via, di costringerli al silenzio e
colà
perdersi almeno nel dolce Lete del sonno ristoratore.
Essi al
contrario scivolavano nelle crepe di quegli attimi in cui
la sua mente non vigilava né si teneva attiva come poteva,
in quella forzosa
inezia tipica della prigionia. Quando Hironimo non si concentrava onde
ricordare quanto più possibile dei piani di guerra dei
comandati francesi e
tedeschi, così da riferirli verbatim al provveditore di
Treviso non appena si
fosse liberato; quando non si prodigava a tener occupato
Thomà così da non
farlo cadere in tentazione di svuotare il piatto dell’ancor
convalescente
Mercurio Bua e dunque cacciarsi nei conseguenti guai; quando colmo di
bile nera
non si risparmiava in strali velenosi allo scopo di cavar al
sopramenzionato
condottiero quella sua aria strafottente, ecco, quando nulla poteva
distrarlo
il giovane Miani si ritrovava faccia a faccia con lo specchio
implacabile di se
stesso – solo, livido, rabbioso, umiliato
- un essere grottesco
nutrito di crudeli parole e vergognosi ricordi nati al mero scopo di
tormentarlo e da cui egli non riusciva a scappare. Altro non gli
restava se non
subire inerme, la sua anima oppressa da un’inspiegabile
tristezza mortale.
Il
giovane patrizio conosceva bene il fiele del rimorso, del “se
avessi potuto …”, del “se fosse andata
così …”, o “se avessi fatto
colà …” ma
sempre s’era scrollato via di dosso quella malinconia con
l’energica fiducia
nel futuro e nelle sue capacità. Con immenso orgoglio si
vantava d’aver
ereditato dai genitori la loro grande passione per attività,
organizzazione,
intraprendenza, sviluppando contemporaneamente un coraggio ai limiti
della
temerarietà.
Odiava
compatirsi ed essere compatito, nelle rarissime occasioni
in cui si lagnava lo faceva per cercare col suo interlocutore tramite
la
maieutica una soluzione pratica e non per sentirsi rifilare un a lui
inutile e
scocciante “poverino, quanta
pena!” E come non lo sopportava per
sé,
non lo sopportava in coloro che l’avvicinavano
sottoponendogli problemi
apparentemente troppo invalicabili anche a seguito del più
grande scervellamento
da parte di lui.
“Evita
costoro”, l’avvertiva
Padre, “ché nulla
sono se non sanguisughe egoiste e pigre, pronte a succhiarti via le
energie.
Anzi, più tu ti arrovelli per una soluzione, più
s’infastidiscono quasi avessi
fatto loro un gran torto: perché in verità non
vogliono aiuto, vogliono solo
attenzione e benevolenza su di sé e tu, figliolo, col tuo
ragionamento e la
buona volontà smascheri impietosamente
quest’ignavia loro.”
Similmente,
Hironimo aveva odiato chi lo subissava di continuo di
sermoni pregni di morale, o meglio di ipocrisia, e che con la scusa di
volerlo
guidare in realtà lo rallentava nei suoi progetti. Con la
rara eccezione di
Madre, e anche con lei faceva pur orecchie da mercante, Hironimo da
tempo non
ascoltava più i consigli di chicchessia, l’unica
sua vera guida, Padre, perduta
e strappatagli ingiustamente. Sapeva quel che voleva e ai suoi
obiettivi
puntava con una ferocia pressoché marziale; alle soglie
dell’età adulta e
asciugandosi le ultime lacrime dell’adolescenza, Hironimo
aveva giurato a se
stesso che si sarebbe spezzato piuttosto di piegarsi; che avrebbe
stracciato
coi denti chiunque avesse osato intralciargli il cammino.
Fino a
Castelnuovo di Quero, sotto certi aspetti aveva mantenuto
quest’intima promessa, vivendo in libertà
assoluta. Ora, però, nella quiete
delle ore prive d’una qualsivoglia attività,
quell’arcana inquietudine
riemergeva, sconquassandogli il petto e annodandogli la gola al punto
che
faticava a respirare – dentro
di me palpita violentemente il
mio cuore e una paura mortale mi è piombata addosso. Non
stare lontano da me,
perché l’angoscia è vicina e non
c’è chi mi aiuti (o roba
simile, se
Hironimo non si sovveniva male, le letture dei Testi Sacri ridotti a
vaghi e
confusi ricordi conditi da grande noia e disattenzione)
Ma
di che cosa hai paura, imatonìo?, si
rimproverava il giovane, Che ti uccidano? Non li
conviene, sei un
prigioniero troppo importante! Che ti tormentino? Sprezzo il dolore!
Hai paura
delle umiliazioni di questo tanghero d’uno stradiota? Che ci
provi, gli renderò
la pariglia e perfino cogli interessi!, botta e risposta che
cadevano nel
vuoto, non sortendo alcun effetto consolatorio, semmai gli lasciavano
maggior
amarezza in bocca.
Paura
… paura … forse paura d’esser stato
dimenticato dai suoi e
dalla Signoria (Sei un peso morto in famiglia, un essere
inutile!) – e
non ne avrebbero avuto ogni diritto, d’altronde? Con loro
s’era comportato
peggio d’un cane.
Paura di
aver deluso ogni aspettativa e di aver imbarazzato il
nome suo e della sua patria (la Signoria del liquame non sa
che farsene)
– così agiscono infatti gli inetti e i mediocri.
Paura di
non aver combinato nulla di nota, d’aver sprecato solo
occasioni (Perché non utilizzi questo tuo dono per
compiere qualcosa di
buono?) – un futuro stroncato prima ancora di
nascere.
Tanti
timori inconfessabili; ciononostante Hironimo ugualmente non
comprendeva quale tra questi fosse la vera catena che lo stava
soffocando in
quel momento.
Girandosi
inquieto sul fianco, il veneziano contemplò nella
penombra generata dalla chiaria la figuretta raggomitolata di
Thomà, immerso
totalmente nel sonno del giusto. Come faceva a rimanere così
sereno, si
domandava, quel marmocchio indifeso, un signor nessuno alla
mercé dei capricci
dei più potenti di lui? Thomà aveva assistito
impotente al massacro della sua
famiglia, della sua gente, dei suoi compagni d’armi e del suo
maestro, la sua
vita fluttuante instabile come alghe nei fiumi e malgrado tutto il
fantolino
non tradiva alcuna paura, non quella dell’anima almeno. Come
si difendeva?
Ignoranza? Sventatezza? Ingenuità? Fede?
Hironimo
si ritrovò ad invidiarlo, ironia della sorte. Cosa non
avrebbe dato per una goccia della sua serenità, quel tanto
da esorcizzare
quelle voci incessanti che godevano nel straziargli il cervello. O
perlomeno da
ritornare a pregare, trovandoci un poco di conforto.
Pregare?
Chi? Dio? La Madonna? Oh, se li aveva pregati in quelle
notti di lutto, supplicati di restituirgli come Lazzaro suo padre, o di
trasformare tutto in un incubo da cui risvegliarsi; più in
là, al picco del suo
malessere, li aveva anche pregati d’accopparlo
così da cessare quella sua
tormentosa esistenza segnata da null’altro che delusioni e
fallimenti.
Niente,
non aveva ricevuto un bel niente, solo un grande silenzio.
Pertanto, Hironimo aveva smesso, stufo marcio d’implorare
miracoli
evidentemente impossibili, giungendo alla conclusione che né
la Provvidenza né
il famigerato castigo divino esistevano in realtà. Quanti
reprobi aveva visto
trionfare e pure vantarsi dei propri misfatti? I medesimi che poi
predicavano a
gran voce l’etica e la morale - sepolcri imbiancati! - e al contempo dileggiavano
chi s’affidava
genuinamente a Dio.
Si
rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se
davvero lo ama!,
avrebbero costoro ricordato la sera scorsa a Thomà mentre
pregava; inghiottendo acida saliva, Hironimo ammise d’aver
pensato simili
obiezioni e la tentazione d’interromperlo aveva fatto anche
capolino, per poi
crollare nel momento in cui il fantolino lo aveva incluso nelle sue
orazioni. Ti prego, Siora Patrona, di vegliare anche
sul sior patron,
che sarà anche un turco e un orso però
è tanto buono e mi farebbe piangere
saperlo all’inferno.
Che aveva
provato Hironimo a quelle parole?
Stizza
– come osava quel moccioso appellarlo
“turco” e “orso”?
Fastidio
– figurarsi se aveva bisogno delle altrui preghiere per
cavarsela!
Vergogna
– il piccino si preoccupava per lui e
senza
alcun merito da parte di Hironimo, anzi, a Castelnuovo e anche dopo per
un bel
po’ aveva trattato Thomà alla stregua
d’un cencio lercio, con sufficienza e
falsa bonarietà ma sotto-sotto fregandosene altamente di lui.
Tristezza
– che in lui il bambino scorgesse della bontà.
Hironimo
aveva rinunciato ad essa, non gli aveva mai portato alcun profitto
semmai ad
ulteriori sofferenze, approfittandosene infatti la gente sfacciatamente
del suo
buon cuore (quando ancora lo aveva). Sfruttato e ingannato, aveva per
ripicca
incominciato a sfruttare e ingannare a sua volta e sfidava poi a
lamentarsi di
lui. Na volta bon xé bon; do volte bon
xé santo, tre volte bon xé
mona, recitava il proverbio e il giovane Miani non
solo conveniva ma
pur s’era già fermato al primo
“bon”. Piuttosto di subire il male, preferiva
infliggerlo.
Eppure
Thomà raccontava alla Madonna quanto lui fosse
“buono”.
Hironimo quasi se La immaginava scuotere il capo – figlioletto
mio, che
ciance mi racconti? Di buono non gli è rimasto un sol
capello!
Un
grugnito, seguito da uno strattone alla catena al polso e
l’attenzione del patrizio veneziano si concentrò
sulla prova vivente di quanto
lui non fosse “buono”: da molte ore Mercurio Bua si
stava contorcendo dalla
febbre, il viso pallidissimo e i muscoli contratti dagli spasimi. Il
cerusico
s’era raccomandato d’avvertirlo immediatamente in
caso la febbre fosse
ricomparsa; che colpa ne aveva, si giustificava Hironimo, se il
greco-albanese
era un maledetto orgoglioso e i suoi sottoposti dei fenomenali idioti?
Se il
Bua nel suo delirio di congiure e tradimenti fosse arrivato al punto da
non
voler in tenda neppure un valletto d’armi o il suo scudiero?
Doveva forse lui,
suo prigioniero, avvertire il medico onde curarlo? Lui a cui aveva
massacrato i
servitori e la guarnigione, sottratto il castello e distrutto ogni
futura
possibilità di carriera ; lui che aveva spogliato fino a
ridurlo alle mutande
che indossava ché manco la camicia gli era restata; lui che
il Bua si divertiva
ad umiliare e demascolinizzare ad ogni occasione; lui costretto ad un
collare e
a delle catene alla stregua di un cane rabbioso; lui, lui doveva
notificare il cerusico della ricaduta del comandante?
Che
burla! Si raccoglie ciò che si semina, no? Per quel che
concerneva il giovane Miani, il capitano di ventura poteva anche
crepare tra
spasimi atroci da Golgota Crocefisso, non avrebbe versato una lacrima
sulla
fossa scavatagli. Semmai lo doveva invece ringraziare che non lo avesse
ancora
degolato nel sonno (voleva, ma poi scappare sarebbe stata una bella
gatta da
pelare).
Peccato
però che Mercurio Bua appartenesse alla categoria dei
malati che non ne volevano sapere di morire quietamente: ai mugugni
s’aggiunsero ben presto delle piccole convulsioni,
costringendo il braccio di
Hironimo in uno strano balletto e ben presto questo
incominciò a dolergli per
le eccessive brusche tirate, l’ultima talmente violenta da
svegliare perfino
Thomà.
“Ostregha,
gh’ho da smissiar la polvere da sparo!”,
farfugliò
disorientato, balzando prontamente in piedi, ancora convinto di
trovarsi a
Castelnuovo sotto le direttive di Andrea Trepin il bombardiere.
“Portami
dell’acqua!”, lo istruì Hironimo,
indicando tra uno
sguarattamento e l’altro la brocca poco distante.
Thomà
sbadigliò a bocca larghissima, grattandosi la caviglia
arrossata dal ceppo. “Chi? Mi?”
“No,
varda, quel gran porceo di Maximian. Sì, ti! Lesto, prima
che
sto bècho d’on straliota me fazza vegnir suso ea
fùgaza (focaccia, ndr.) di la
Pasqua passà!”, berciò, avvertendo una
pressione sospetta alle tempie, frutto
sia della notte trascorsa insonne sia di tutto quello strapazzamento.
“Cossa
fastu, strambazzo?”, inquisì poi il patrizio,
notando come il fantolino si
stesse abbassando le mutande dopo aver appoggiato il boccale per terra.
“De
diana, patron! No saveu ch’el pisso xélo parfeto
per curar ea
fiebre? Vardé, ghemo ancha el bocale!” [1], si
difese innocentino Thomà di
fronte allo scettico arcuare di sopracciglio di Hironimo. Rinfilando il
suo
còco dentro le mutande, il bambino versò
imbronciato l’acqua nel boccale.
“Gnanca ‘no spuacio?” (sputo, ndr.),
insistette, fissando speranzoso e impunito
ora il Miani ora il liquido trasparente nel bicchiere.
Per tutta
risposta, Hironimo gli sottrasse brocca e boccale di
malagrazia, gongolando perfido però assieme al fantolino
dinanzi al sobbalzo di
Mercurio quando le gocce gelide gli caddero sul torso nudo e sudato.
Alla
fioca luce della candela morente, un pittore avrebbe trovato
grande ispirazione per fermare sulla tela il famoso episodio biblico
dell’eroina israelita Giuditta, con le due figure di Hironimo
e Thomà che
scivolavano silenziose e guardinghe sul corpo di Mercurio aggrovigliato
tra le
coperte, pendendo su di lui alla stregua di famelici avvoltoi, le ombre
lunghe
e minacciose. Il pittore avrebbe immortalato al meglio
l’espressione disgustata
anche se risoluta di Hironimo e quella concentrata di Thomà,
perfetti per quei
foschi ruoli ma se Giuditta e la sua ancella avevano portato la morte
ad
Oloferne, i due invece si stavano sforzando d’evitarla al
greco-albanese, il
patrizio veneziano che afferratagli la mandibola gli costringeva la
bocca
aperta acciocché il bambino potesse cacciargli dentro
l’acqua.
“Bevi,
zò, turcho maladeto! Manzasborae! (mangiasperma, ndr.)
Bevi, quea vacha sfondrada de toa mare! Chei cani di toi morti!
Cagasangue!
Stomegoso can impestà, ch’el te sofeghe!
Squartao!”
Solo al
settimo tentativo, tra insulti sempre più sozzi, tra
sputazzi, colpi di tosse e vomito, si riuscì a costringere
il Bua a bere e non
appena il fresco liquido venne assorbito dal corpo debilitato, il suo
effetto
benefico già calmava gli spasimi dell’uomo che,
elargito l’ultimo strattone,
s’accasciò sfinito sulla branda mentre i due
infermieri improvvisati si
sedettero ansimando ai bordi, contemplandolo in cagnesco.
“Perché
ghemo salvà la vita a sto muso-da-mona?”, esigette
Thomà
una spiegazione, nettandosi via il sudore dalle guance col dorso della
mano.
Ingollando
aria, Hironimo si sporse verso il fantolino,
rivelandogli con fare cospiratore: “Se questo cancaro muore,
i Todeschi fanno
di noi un bel sguazeto (brodo/sugo, ndr.) come quello di Biasio Cargnio
el
luganegher (salsicciaio, ndr.) di San Zan Degolà.”
“An?
Lo sguazeto dil Biasio el luganegher?”, ripeté
lentamente
Thomà, gli occhi due uova al tegamino.
Ovvio che
il bambino ignorasse quella turpe vicenda d’otto anni
addietro, giacché troppo piccolo e per giunta foresto di
Feltre. Hironimo,
all’epoca diciassettenne, invece si ricordava benissimo
quella sera di novembre
in cui suo fratello Lucha era rincasato verde in volto, con
l’orlo della manica
della toga lercia di vomito e non era stato il solo -
diceva perfino
gli Zaffi e i Signori di Notte,
abituati ad ogni genere di torture durante gli interrogatori,
s’erano sentiti
male, rigurgitando perfino l’anima. Su insistenza
d’Hironimo, Lucha con mani
tremanti aveva raccontato, tracannando bicchieri ricolmi di vino
schietto, di
come quella sera fosse stato staro arrestato a Campo San Zan
Degolà Biasio
Cargnio el luganegher, famoso in tutta la Venezia operaia per il suo
sguazeto di
carne. Un avventore dell’osteria aveva trovato nella sua
porzione un ditino con
ancora l’unghia attaccata e, avvertito il Capo Contrada, la
sera stessa questi
e i Signori di Notte avevano fatto irruzione nell’osteria,
scoprendo il segreto
di quel guazzetto così saporito: appesi aperti e sviscerati,
macellati e a
macerare nel vino e spezie e nei pentoloni alla stregua di
maiali, il luganegher aveva trasformato dei bambini,
spesso
medicanti o orfanelli di cui nessuno avrebbe denunciato la scomparsa,
in carne
da brodo e spezzatino.
E
alla domanda dei giudici della Quarantia Criminal sul perché
avesse assassinato quegli innocenti, sapete che rispose? Son soldi!
Curiosamente,
il giorno dell’esecuzione del salsicciaio, invece
d’inveirgli e sputargli contro mentre un cavallo lo
trascinava dal carcere fino
alla sua bottega, dove gli sarebbero state in seguito tagliate le mani
e da lì
condotto alla Piazzetta per decapitarlo e poscia, squartato, esporlo in
quattro
diversi angoli di Venezia; invece di provare o un’isterica
indignazione o una
rabbia furibonda da richiedere l’intervento dei Zaffi per
evitare che la folla
linciasse il Cargnio prima che il boia potesse guadagnarsi il suo
salario,
ecco, contrariamente a tutti gli astanti, Hironimo aveva provato
esclusivamente
una gran pena in petto per le piccole vittime, indifferente in totum
alla sorte
dell’assassino.
“Alla
fine nessuno pensa a loro”, aveva
confessato a Lucha. “Son qui solo per
lui.”
“Ma
se lo hanno condannato per questo? Non vedi come la folla
sia arrabbiata?”
“Bella
cosa! E quando questi bambini sparivano, che faceva la
gente? Scrollava le spalle e guardava dalla parte opposta!”
“Momolo
…”
“Vado
a casa, quest’esecuzione mi annoia!”
A
racconto terminato, Thomà s’afferrò i
capelli, terrorizzato.
“Potta d’on cancaro! I Todeschi ci metton en
tècia?” (pentola, ndr.)
“Ciò,
sai come li descrive Dante? E come là tra
li Tedeschi
lurchi … Ci cucineranno esattamente come le
seppie, in umido e con un po’
di sughetto … Tu per primo, perché te
sé picinin e la carne dei puteli è la
più
tenera e gustosa.”
Thomà
deglutì malamente.
“Per
questo motivo ci conviene rimanere prigionieri del Bua:
perché lui non mangia i cristiani, soltanto i turchi. E i
puti che rubano l’altrui
cena …”, aggiunse, scoccando un’occhiata
significativa al bambino che, intuendo
benissimo a chi si stesse riferendo, appoggiò il mento al
petto e s’ingobbì
tutto penitente come la Maddalena.
“Ma
el xélo malà, nol pole magnar e no voleu mica
sprecar tutto
quel ben di Missier Domeneddio, an?”
Uno
strattone fallì per poco di costringere per terra Hironimo
prima
che potesse replicare e, di fatti, il giovane grugnì il suo
disappunto per
quell’interruzione. Armatisi d’acqua, lui e il
fantolino ritornarono alla loro
missione di tener in vita il loro improbabile protettore in attesa che
quel
fesso del suo scudiero venisse ad assicurarsi delle sue condizioni.
Il
giovane Miani non scalpitava affatto di finire deportato in
Alemagna o peggio ancora in Francia là dove si rivedeva
novello Zorzi Corner
[2]. Pur costretto a sopportare la sua becera compagnia, Mercurio se lo
teneva
ben attaccato allo zipone e ciò significava un alto tasso di
probabilità di
fuga, specialmente in prossimità di Treviso. La mente ancora
semplice di Thomà
– limitata a ragionamenti di causa/effetto – non
poteva afferrarne la logica,
perciò meglio spaventarlo con la storia di colui che da otto
anni a Venezia era
divenuto il Barababao per i bambini disobbedienti.
“Sia
ben ciaro, patron, che perhò mi nol tegno in man el
sòo còco,
co’l pissa!”
“No
preoccuparte, caro ti. Se nol pol farla nel bocale, se la fa
indosso. Chome diseva el mio sior Pare: co’ che
l’omo xé stimà, el pole pissare
in leto e dir che’l gh’ha
suà!” (sudato, ndr.)
Thomà
si tappò la bocca, soffocando la risata e producendo uno
strano grugnito malignamente divertito.
“Tanto
per suar, el sua e spussa chom’on porceo per via di la
fiebre … donca, manco s’accorge! E nuj
muci !” (zitti, ndr.)
“Appunto,
te par ?”
Spiando
di sottecchi il bambino armeggiare col boccale, Hironimo
percepì una bizzarra tranquillità
nell’animo. Se non per te stesso, sii
forte per lui: a te s’appoggia, non deludere la sua fiducia.
***
La
notizia della partenza del maresciallo La Palice da Vicenza non
era caduta sterilmente nel vuoto e all’arrivo a Padova del
collaterale generale
domino Pier Antonio Bataja, già la sera precedente il
provveditore sier Polo
Capelo aveva posto l’ordine di una cavalcata di 3000
cavalleggeri con a capo
Zuam Paulo Manfron di Schio allo scopo d’intralciarne la
marcia e rubargli le
golose artiglierie ferraresi. Allo stesso tempo, Carlo di Montone
veniva
incaricato con 150 uomini d’arme, 800 cavalleggeri, 150 fanti
e due falconetti
di recarsi a Bassano e colà bruciarne il ponte,
acciocché i franco-imperiali
non potessero attraversare la Brenta che divideva la città.
La mattina stessa
il provveditore e il vicegovernatore di Padova, domino conte Bernardino
Fortebracci di Montone, accoglievano soddisfatti il
resoconto di un
loro esploratore laddove, giunti al ponte di Liziera poco distante da
Cittadella, volendo passare per forza con le artiglierie i Collegati
avevano
invece ottenuto la loro perdita, con una grossa
caduta in acqua e a nulla era serviti lo sbraitare del La Palice, le
sue
maledizioni al destino avverso e agli infidi fiumi veneti: non
c’era stato
verso di recuperarla.
“Altolà,
chi vive?”
Domino
Pier Antonio Bataja frenò il suo cavallo, la strada
bloccata dall’arcigna figura del condottiero Giano di
Campofregoso.
“Pier
Antonio Bataja da Cremona, collaterale generale. Cedetemi il
passo, ho da conferire coi provveditori sier Christofal Moro e sier
Polo Capelo
e il vicegovernatore domino Bernardino di Montone”, si
presentò l’uomo,
rizzando bene il collo e dandosi un gran contegno.
Invece di
scansarsi, il genovese suo interlocutore aggrottò le
sopracciglia, affatto convinto. “E che volete voi dai
provveditori?”, inquisì
diffidente, dando di sperone al suo cavallo così da
avvicinarsi al collaterale
che gli rispose cauto:
“Ho
un importante dispaccio da consegnare.”
“Potete
cederlo a me, m’assicurerò di recapitarlo a chi di
dovere.”
“Mi
dispiace, non posso servirvi, sono fatti riservati tra loro e
la Signoria.”
Forse si
trattò del tono arrogante del cremonese unito alla
secchezza della sua risposta, poiché la proverbiale mosca
saltò al naso di
Giano di Campofregoso che, inalberandosi, gli gridò
sputandoli contro:
“Impostore! Spia, giuda iscariota! Dammi subito quelle
missive, s’affermi il
vero! O t’impicco al primo albero!”
Pier
Antonio Bataja scansò via con la scutica la mano tesa del
condottiero, replicando altrettanto velenoso: “Tu menti per
la gola! E non ti
darò un bel niente!”, per poi pentirsi
immediatamente dinanzi al furente
genovese che, in un lampo, aveva estratto la spada e tagliato a spregio
la
scutica a metà.
Vedendosi
poi calare un secondo fendente addosso, il cremonese
tentò invano di sottrarvisi costringendo il suo cavallo ad
indietreggiare e
chiuse gli occhi in attesa del dolore straziante di carne seviziata dal
ferro,
sennonché uno stridore di lame cangiò il corso di
quella baruffa, imponendo un
pesante silenzio tra i due contendenti.
“Che
cosa accade, signori miei?”, li apostrofò
duramente sier
Ferigo Contarini, provveditore degli stradioti, messosi in mezzo a
cavallo tra
il Bataja e Campofregoso e la spada ben incastrata in una prova di
forza con
quella dell’alterato genovese. “Siete impazziti?
Volete sollevare il vicinato e
finire appesi a Piazza delle Erbe?”, ricordò loro
l’uomo la pena prevista a
chiunque disturbasse la quiete cittadina in tempo di
guerra.
“Quest’è
una carogna!”
“Quest’è
un traditore!”
“Ah,
disgraziato!”
“Maledetto!”
Con una
secca rotazione del braccio, Ferigo Contarini districò la
sua lama da quella di Giano di Campofregoso, allontanandolo con forza
da un
ansante Pier Antonio Bataja, ancora scosso dalla furia
dell’attacco e sollevato
per averla anche oggi scampata.
“Perdonatelo,
domino, ma la prudenza di questi tempi non è mai
troppa, specialmente quando non è il valore bensì
il tradimento a far cadere
solide fortezze”, giustificò il giovane
provveditore il collega, che pur
continuava a riempire di strali velenosi il collaterale generale.
“Domino Pier
Antonio, cedetemi la missiva della Signoria e vi giuro che la
consegnerò
immediatamente ai provveditori. Di me si fidano altissimamente,
più di se
medesimi. Parlare con me, è come parlare con loro.
Similmente, qualsiasi
dispaccio attendano, può essere ceduto a me.”
“Sier
Ferigo”, replicò costernato l’uomo,
“vi ringrazio ma non
posso separarmi da queste lettere.”
“Osate
dubitare della mia onestà? Non sapete voi, che appartengo
alla più nobile e antica Ca’ Vecchia e apostolica
di Venezia, famiglia di dogi
e patriarchi, nata dal sangue degli illustri Aurelii Cotta avi di
Giulio
Cesare? Temete forse che io tradirei i segreti della
mia
Signoria?”
“Possa
mozzarsi la mia lingua ante di tacciarvi di simil crimine,
sier provveditore. La Signoria m’ha però
espressamente ordinato di recapitare
le direttive in mano ai provveditori sier Polo Capelo e sier Christofal
Moro e
a nessun altro. Ed io obbedisco alla Signoria prima e a voi
dopo.”
Un
sorriso carnivoro s’allargò sul viso di Ferigo,
mentre i suoi
occhi brillavano felinamente furbi. In realtà nessuna
famiglia patrizia a
Venezia poteva fregiarsi di godere di poteri e privilegi superiori alle
altre e
il Bataja, come tutti i foresti, queste sottigliezze ovviamente le
ignorava.
Ciononostante, aveva passato ugualmente la sua prova, non lasciandosi
ingannare
né dalle generose profferte di liberarlo dalla
responsabilità della sua
missione né dai titoli pomposamente esposti con tono
minaccioso e arrogante,
rimanendo ligio alle direttive della Signoria.
Anche fin
troppo: Giano da Campofregoso non se lo ricordava,
Ferigo invece benissimo il feroce litigio tra il Bataja e Zitolo da
Perugia,
quando il cremonese aveva accusato il condottiero di far la cresta sui
pagamenti. Affare che il perugino non lo usava al posto delle balote di
cannone
a San Martino.
“Seguitemi,
domino.”
L’ultima
conferma gliela diede comunque il vicegovernatore
Bernardino Fortebracci di Montone e il provveditore sier Polo Capello,
di ronda
poco distanti dal luogo della baruffa e più che volentieri
disposti a garantire
per il collaterale, riconoscendolo come rappresentante della Signoria.
Ristabilita
la pace tra domino Pier Antonio e Giano di Campofregoso, li portarono
tutti a
pranzare assieme e a discutere sul da farsi a lettura terminata delle
missive.
Quanto
disquisito a tavola tra il collaterale generale, il
provveditore e il vicegovernatore conseguì nella ricerca di
sier Ferigo
Contarini del presidente delle artigliere Orlando da Bergamo. Saputo da
un suo
sottoposto, come si trovasse alla basilica del Santo onde pregare sulla
tomba
di domino Latanzio Bonghi da Bergamo, il giovane provveditore degli
stradioti
lo aveva raggiunto, rimanendo in angolo con accorta discrezione,
acciocché il
capo bombardiere potesse terminare le sue orazioni personali per il suo
defunto
maestro, seppellito di fronte al condottiero Zitolo da Perugia.
Il
patrizio si stupì un poco della presenza accanto al
bergamasco
di Tician Vecelio, ingaggiato l’anno addietro ad affrescare
la Scoletta accanto
all’Oratorio di San Giorgio presso la basilica. Ducati un
po’ buttati alle
ortiche, considerati i pressanti costi della guerra, ma se
Sant’Antonio,
commosso per il ciclo d’affreschi sulla sua vita, li
concedeva la grazia di
spedire i Collegati alla malora, hé, allora il sacrificio
pecuniario aveva
senso.
“Dim
un po': venite spesso qui a pregare?”, parlottava il
bombardiere col giovane pittore cadorino.
“No,
soltanto per scrollarmi un po’ di fatica dalle ossa. Quel
braccio in rilievo nell’affresco m’ha assassinato
… E voi?”
“Salveregina,
per pregare anche se suonerà strano. È pur sempre
l’anniversario
della morte del mio maestro.” Un triste giorno per il
bergamasco, così amaro
come le lacrime che aveva dovuto ingoiare quando, colpito alla coscia,
Latanzio
Bonghi gli aveva intimato di lasciarlo perdere e di continuare a
dirigere al
posto suo l’incessante bombardamento da Porta Vescovo al
castello di San Felice
a Verona, mentre i rabbiosi fanti di Zitolo da Perugia, con la forza
dell’odio
e della vendetta per il mortale ferimento del loro capitano,
respingevano senza
pietà alcuna i lanzichenecchi venuti ad insidiarli per le
artiglierie,
difendendo magistralmente la loro postazione. Già un anno
era trascorso, eppure
ad Orlando pareva ieri.
“Vara
zò”, commentò pensoso il ventitreenne
Tician, “anche voi
avete perduto l’anno scorso un maestro … Voi
per colpa della guerra ed io della
peste. È dura senza di lui, vero? Anche se
l’odiamo e gli auguriamo ogni male,
alla fine il maestro è come se non più del nostro
sior pare. Il primo ci ha
dato la vita; il secondo ci ha insegnato a viverla.”
A onor
del vero, Zorzi Barbarella da Castelfranco detto
“Zorzon”
per il giovane Vecelio non era stato il suo maestro ufficiale
bensì un semplice
collega, almeno sulla carta, con cui aveva condiviso la firma sul
contratto che
prevedeva la decorazione esterna del nuovo Fontego dei Tedeschi,
ricostruito
dopo l’incendio che l’aveva distrutto sei anni
addietro. Eppure Tician, in quei
brevi anni di collaborazione, percepiva tuttavia di aver grazie al
Zorzon
completato la sua educazione da lui giudicata incompleta fino a quel
momento,
malgrado gli ottimi insegnamenti dei fratelli Zentil e Zuam Belini, i
pittori
ufficiali della Serenissima. Zorzon l’aveva sempre trattato
alla pari, non
curandosi della misera esperienza di Tician fuori dalla bottega, in un
continuo
confronto delle rispettive idee creative, anche quando velatamente
criticava il
giovane Vecelio per l’eccessiva e schietta
drammaticità nei suoi dipinti, così
diversa dall’olimpica ed enigmatica staticità
contemplata dal neoplatonismo e
presente nelle enigmatiche opere dell’artista di
Castelfranco. [3]
Mentre
ascoltava le riflessioni del giovane pittore, Orlando
ridacchiò nostalgico, la mente volata ai tempi burrascosi
del suo apprendistato
laddove il conte Bonghi l’aveva preso sotto la sua
ala - lui, un
ragazzino senza né arte né parte – per
iniziarlo al mestiere delle armi.
“Chigasang, ti te gh’ha rasun!”,
esclamò. “Se a Pisa, quel rugant (maiale,
ndr.) di Paulo Viteli non è mai riuscito a tagliarmi le
mani, è stato grazie
agli insegnamenti del mio maestro!” Mesi pieni di ansia, dove
oltre alla paura
di morire s’accompagnava quella di cadere prigionieri di quel
turco del
Vitelli, cui piaceva instillare timore tra i bombardieri veneziani
grazie al
macabro rituale d’amputarli ambedue le mani. Sancte Alexander
Bergomensis ora
pro nobis [4], Orlando era sempre scampato a tal orrido destino sia per
la sua
mira micidiale (el mio falcon, lo complimentava
orgoglioso il conte
Latanzio), sia per la sua lesta cavalcatura quando
l’occasione chiamava. Poco
onorevole, ma primum vivere deinde philosophari, specie se ci si
ritrovava a
filosofare da monchi e senza un soldo.
“E’
dura da soli”, commentò atono Tician, studiando
malinconicamente l’ostinato sporco dei colori e della calce
sotto le unghie.
“E’
dura, sì … Che ve piàs, sior
provedador?”, si voltò
bruscamente Orlando da Bergamo verso sier Ferigo Contarini, il volto
corrugato
dal dispetto per quell’indesiderato origliare.
“Na
parolla, sior Orlando.”
Il
bergamasco annuì, messo sull’attenti dal tono
perentorio del
giovane provveditore e da infastidito il suo atteggiamento
riacquistò la
marziale obbedienza del soldato. Si congedò dunque a
malincuore dal giovane
Vecelio, che ricambiò cortese, dovendo infatti anche lui
riprendere il suo
lavoro alla Scoletta, o addio paga.
“Comandate,
v’ascolto.”
“Oggi
il collaterale generale domino Pier Antonio Bataja ci ha
consegnato delle lettere da parte della Signoria, dove vi si menziona
espressamente. Infatti, vi si comanda di scegliere tre dei vostri
migliori
bombardieri e di trasferirvi da Padoa a Trevixo.”
“Trevixo?
Dove attaccherà la Paliss?”
“Sì,
ben? Qual è il problema? Avete paura di lui?”, lo
provocò
sornione sier Ferigo, ben conscio di come cadaun giorno il fronte
trevigiano
divenisse sempre meno appetibile, appunto per il lento ma inesorabile
appropinquarsi dei Collegati alle mura della città.
A quella
velata accusa il bergamasco s’imporporò sdegnato.
“No set
chi so'? In tutto lo Stato da Tera non troverete un miglior artigliere
del
sottoscritto! Perfino il Papa, a Mirandola, s’è
complimentato con me!”, si
batté orgoglioso il petto, dimentico di ogni cortesia e
formalità verso il suo
superiore. “La Paliss, io, lo ribattezzo col
piscio!”
Al
Contarini s’incrinò una costola onde trattenere la
risata al
solo immaginarsi la scenetta. “Anche il vostro collega, Mafio
Cagnolin, si
recherà alla custodia di Trevixo: eravate ambedue allievi
del fu domino conte
Latanzio, giusto? Vi farà piacere combattere
fianco-a-fianco, come ai vecchi
tempi.”
“Digh
el ver, sior provedador, tut e tres bergamasch onorati e
fedeli alla Repubblica”, rispose un poco altezzoso Orlando
tutto un pavone per
via del complimento, per poi stringersi al Contarini e chiedergli
più confidenzialmente,
sottovoce: “Voràf ch'a' gh' fesséf on
favur, sior provedador, p'piasée.”
“Cossa
voleu?”
“Il
sacro da sei libbre ferrarese, ch’avete
menà via ai franzes a Marostega.”
“Per
portarvelo a Trevixo?”
“Certissem!
Ho dei grandi progetti sul suo uso …”
In un
certo qualmodo, meditava sier Ferigo nel frattanto che
Orlando sbracciandosi entusiasta gli delineava il suo tremendissimo
piano ai
danni dei Collegati, sia il capo bombardiere che il Vecelio erano
ambedue degli
artisti nel loro campo, uno dedito alla distruzione e l’altro
alla creazione.
***
La
solenne processione dell’8 settembre a Santa Maria Maggiore
oltre che ad atto devozionale era corrisposto al gesto della fica da
parte
dell’intera popolazione trevigiana al progetto di abbattere
completamente il
santuario, cappella della Madonna inclusa. Perfino il provveditore sier
Zuam
Paulo Gradenigo, il podestà sier Andrea Donado e
l’intero Gran Consiglio
Cittadino non potevano più ignorare la plateale sfida
lanciatagli contro senza
temerne le preoccupanti conseguenze; solo il capitano delle fanterie
Renzo di
Ceri seguitava ostinato in quel braccio di ferro, infastidito al limite
dalla
(per lui) insensata bigotteria della città e grato
d’aver trovato perlomeno un
valido supporto in sier Carlo Valier, inviato dalla Signoria onde
investigare e
riferirle sui lavori di fortificazione a Treviso.
“Il
motivo per cui ci inviano denari e uomini da Venezia è per
creare un guasto adatto a contenere le cannonate nemiche, non certo per
celebrare Messe e processioni!”, arringò Renzo di
Ceri il Collegio al Palazzo
dei Trecento. “Per quanto doloroso, è un
sacrificio che i Trevigiani debbono
sostenere e preferibilmente senza lagnarsi troppo!”
“Sença
contar i molti desordeni …”
“Parlé
tajan, sier Valier o’l foresto qua manco ve
capisse!”,
interruppe bruscamente sier Zuam Paulo l’altro patrizio. Il
provveditore
appariva inquietantemente pallido quella mattina, le orecchie
fischianti e le
dita di continuo sulla cicatrice al collo, massaggiandosela onde darsi
un poco
di sollievo. Forse avrebbe dovuto ascoltare la sua Maria e rimanersene
in
letto, invece di ignorare le vertigini che l’avevano colto
non appena s’era
messo in piedi. Poco importava, ormai si trovava lì.
Fissando
astioso Gradenigo, sier Carlo Valier riprese in volgare italiano:
“Senza contare i molti disordini che codesta questione sta
creando a Treviso,
rallentandone i lavori.”
“I
disordini di cui la Signoria è stata informata appartengono
a
ben altra natura e tutti risolti puntualmente”, ci tenne a
precisare il
capitano Vitello Vitelli, sentendosi indirettamente preso in causa per
via
dell’indisciplina dei soldati, “quanto alla
fortificazione delle mura, per
questo motivo gli illustrissimi provveditore e podestà
hanno sollecitato
l’arrivo di ulteriori manovali. Tutti qui a Treviso lavorano,
giorno e notte, e
di buona lena malgrado lo sforzo titanico di
quest’impresa.”
“Siamo
ancora in stato di opera in corso, ma già da domani
s’incominceranno a vederne i frutti. Anzi, oseremmo dire che
le fortificazioni
sia dentro che fuori le mura siano addirittura a buonissimo punto,
tanto da
minimizzare e riparare in breve tempo qualsiasi danno inflittoci dalla
batteria
nemica”, aggiunse sier Marco Miani, sperando che il suo
intervento potesse
tramite il rappresentante placare i sospetti di suo zio sier Batista
Morexini e
dell’intero Senato. “Inoltre, la guardia alle porte
è stata raddoppiata e ogni
notte noi gentiluomini siamo a pattugliare come se ci fosse
già l’assedio.
Nessuno entra e nessuno esce senza
identificarsi. Inutile aggiungere
infine le incessanti perlustrazioni del territorio per mano degli
stradioti,
che rendono impossibile ogni incursione da parte del nemico. Dico il
vero,
signor capitano?”
“Sì,
la città è vigile e preparata e aspetta di buon
animo il
nemico”, ammise Troilo Orsini, beccandosi
un’occhiataccia dal parente,
accusandolo di tradimento per quel suo schierarsi col Miani. Renzo
Orsini, a
sua discolpa, non aveva torto nelle sue argomentazioni; purtroppo,
stava
pericolosamente sottovalutando la guelfa guelfità della
guelfa città più guelfa
del guelfo del Papa guelfo [5] e se la Marca veniva giocosamente
sfottuta col
nomignolo di “sagrestia della Terraferma” un motivo
sussisteva.
“Infatti,
i torrioni potenziati così come il Ponte de Pria sono
già operativi, l’avete visto”,
rincarò la dose sier Andrea Donado, ansioso di
non compromettersi dinanzi all’occhio vigile della Signoria.
“E da Padova, sier
Polo Capelo ci ha confermato la partenza dei loro migliori bombardieri
per
sistemare al meglio le artiglierie.”
“Sì,
l’ho visto e meno male che ho viaggiato in
burchio”, commentò
sardonico sier Carlo Valier, non essendogli sfuggito il lago di fango
su cui
Treviso si specchiava a causa dell’allagamento delle campagne
onde testare il
funzionamento delle chiuse. “Voi sostenete come i lavori
siano quasi giunti al
loro termine. Eppure, ancora noto dei monasteri fuori le mura in piedi
o mezzi
abbattuti da palle di cannone. Il Santuario seguita a rimanere in
piedi. A mio
parere, la città non è stata sufficientemente
fortificata, tutt’altro, e si
perderà di certo. Mi domando se non sia il caso di riferire
alla Signoria di
mandar una commissione di quattro di collegio qui a Treviso, per meglio
sorvegliare l’operato dei suoi capi.”
“Riferite
allora alla Signora, di smetterla di tergiversare e
d’inviarci soldati, manovali, zappe, badili e ovviamente
denari ché la guerra
non la combattiamo muniti soltanto di preghiere e buona
volontà!”, s’impuntò
Vitello Vitelli, dando voce al disagio generale di tutti, dai
comandanti fino
all’ultimo degli stallieri.
“Sier
Domenego Malipiero ha pagato e inviato i 200 manovali
richiesti …”
“500
a dire il vero!”
Imperterrito,
sier Valier continuò: “E sier Lucha Trum oggi ha
pagato il resto dei fanti a Mestre. Sier Zuam Vituri e i dieci
connestabili
partiranno domani e oggi sono già in marcia Mafio Cagnolin
da Bergamo e la sua compagnia..”
“E
quanti?”
“In
totale 500.”
La
mascella del podestà cadde aperta rovinosamente.
“Bone
Jesu! Perché non i 1000 richiesti?”,
tartagliò pallidissimo.
“In
ogni modo”, riportò sier Lunardo Zustignan la
discussione al
punto iniziale, “non corrisponde al vero che il Santuario di
Santa Maria
Maggiore non sia stato abbattuto. Infatti, il campanile
s’è quasi terminato di
minare così come gran parte del monastero. Comprendiamo
appieno l’importanza
del guasto ma allo stesso tempo stiamo procedendo con cautela,
valutando quanto
effettivamente possa esser sacrificato e quanto invece no.”
“Non
mi par questa l’impressione datami”,
ribatté Renzo di Ceri.
“Ogni giorno i miei uomini subiscono molestie da parte di
quei bacia-altari dei
vostri compaesani. È evidente che non si ha intenzione di
demolire la chiesa!”
“Di
nuovo: capiamo la vostra situazione e vi assicuriamo che il
monastero verrà smantellato tranne per la cappella grande,
le due piccole e la
sagrestia.”
“La
cappella grande?”
“Quella
dell’affresco miracoloso.”
“E
quando sarebbe stato deciso questo?”
“I
Trevigiani dai tempi dell’evangelizzazione hanno dimostrato
una
fede granitica nella Madonna, devotissimi. Distruggere
quell’affresco per loro
corrisponderebbe al più turpe e imperdonabile dei sacrilegi
e nulla esclude una
consecutiva rivolta contro noialtri”, gli ricordò
pragmatico Zustignan,
evadendo però al contempo la previa domanda
dell’Orsini. “La cappella si trova
fuori dall’area designata per il guasto, perché
non lasciargliela? Loro credono
fermamente che la Vergine Santissima li aiuterà in
quest’assedio e che
combatteranno fino all’ultimo uomo per preservare la
città a Lei votatasi,
perché scardinare questa convinzione se li motiva contro il
nemico? Siete un papalino,
signor Lorenzo, certe sottigliezze dovreste conoscerle.”
“Tutto
quel che volete”, tagliò corto il capitano delle
fanterie,
snervato dalla frecciatina finale. “Ma chi ha dato
l’ordine, a mia insaputa, di
preservare la cappella?”
In quel
momento entrarono silenziosamente sier Alexandro da cha’
da Pexaro e sier Alexandro Michiel, i quali, camminando quasi rasente
ai muri
affrescati, si portarono accanto al colpevole di quell’ordine
dato senza
consultare l’Orsini.
“Sior
Provedador? Avete ricevuto delle nuove?”,
s’informò cauto il
podestà e tutte le teste si girarono verso l’uomo
in sincronia perfetta.
Una
nausea fastidiosa riempì d’acida saliva la bocca
di sier Zuam
Paulo Gradenigo, rimasto stranamente in silenzio fino a
quell’istante,
ascoltando a fatica, il capo appoggiato sulla mano.
“Ebbene”,
strascicò un poco le parole, “stando a due
prigionieri
francesi appena catturati, a Montebelluna i nemici sono stati avvisati
della
partenza di La Palisse da Vicenza con le artiglierie e che questi
dovrebbe
rientrarvi o mercoledì o giovedì.
Dopodiché, il piano sarebbe di spostare
l’accampamento a Musano, sei miglia da Treviso, e di
sgattaiolare di soppiatto
di notte per costruire i cestoni sottoterra atti a piantare
l’artiglieria. I
loro comandanti, incuranti della sconfitta inflittali, continuano a
confidare
nella presa di Treviso in meno di tre giorni.”
Silenzio.
“Ecco!”,
sbottò sier Carlo Valier, “ecco il risultato della
vostra
insensata prova di forza con Mercurio Bua! Se prima avevano intenzione
d’attaccare Treviso, adesso pure millantano di conquistarla
in meno di tre
giorni!”
“E
che vengano, li stimo nulla quei boriosi caga-sego!”,
ruggì
sier Zuam Paulo e più di uno balzò sul proprio
seggio dalla sorpresa e il
Valier sudò freddo, ricordandosi come avesse punzecchiato lo
stesso patrizio
che a Pisa aveva afferrato sier Thomà Zen per il collo della
corazzina e,
puntatagli la misericordia sotto il mento, lo aveva sfidato a
ripetergli dritto
negli occhi quanto detto, dopo l’ennesimo ingiusto e
umiliante rimprovero da
parte del provveditore per via di un’iniziativa del Gradenigo
contro i
fiorentini, incurante dell’esito positivo della spedizione.
“Meglio
che si decidano ad assediarci ora!”, continuò sier
Zuam
Paulo. “Piuttosto che o la fame o
l’avidità li spingano verso la Patria del
Friuli. Non tanto i francesi piuttosto i tedeschi, visto che
l’Imperatore …
Oh, Santiximi Theonisto, Thabra e
Thabrata! ” [6] e più non
riuscì a
proferire, roteando gli occhi dietro le orbite e mancandogli per un
istante il
respiro e si sarebbe spaccato la fronte cadendo in avanti se Alexandro
Michiel
non l’avesse afferrato in tempo.
“Sier
Zuam Paulo? Sier Zuam Paulo?”, gli batté sier
Michiel la
guancia con apprensione, scuotendolo leggermente.“Ajere,
fé un puoco d’ajere!”,
ordinò agli imbambolati astanti che, riscuotendosi, presero
a girovagare per la
sala alla stregua di mosche impazzite.
Vitello
Vitelli aprì l’ampia finestra e Renzo di Ceri,
accantonando le divergenze, aiutò sier Marco Miani e sier
Alexandro Michiel a
trasportare il provveditore sotto di essa, mentre il podestà
sier Donado
comandava ad un suo famiglio di correre a prendere i sali e una brocca
d’acqua
fresca.
Storcendo
il naso per via del pungente odore e rifiutando il
bicchiere, sier Zuam Paulo tentò di sottrarsi dai suoi
soccorritori. “Sto ben! Sto
ben!”, li rassicurò malgrado barcollasse
vistosamente, le gambe instabili.
Sier
Lunardo Zustignan non si lasciò ingannare.
“Menèlo en cha’,
menèlo!”, e onde reiterare, fece strada a Miani e
Michiel che sorreggevano il
provveditore per le braccia.
“No
ghe vojo ‘ndar!”, protestò Gradenigo, le
gote rosse per
l’imbarazzo. “Sto ben, gh’ho dito!
Lassème voialtri do!”
“E
vui gh’avé ben da vegnire!”,
rifiutò categoricamente Zustignan
ogni appello, incaricando il figlio del podestà, sier
Nicolò, di correre ad
avvertire madona Maria Malipiero Gradenigo dell’arrivo del
consorte, anche per
evitare alla nobildonna un gran spavento e al patrizio un gran ceffone
per aver
disdegnato i suoi savi consigli. “Signori, sarà
consigliabile riprendere il
collegio dopo pranzo.”
Nessuno
ebbe da ridire, mormorando ancora frastornati il proprio
consenso.
***
Le agili
dita del cerusico manipolavano con ferma accortezza le
membra intorpidite e rigide di Mercurio Bua; leggere come una piuma si
soffermavano sul giallognolo viso sudato e gli aprirono prima una
palpebra e poi l’altra, studiandone il
colore. Dopodiché, l’uomo gli
aprì la bocca e ne esaminò la lingua, borbottando
tra sé e sé fino a scendere
sul collo che controllò a lungo.
Era stato
Zilio Madalo a correre a chiamarlo, tutto tremante manco
si fosse beccato la terzana e il cerusico aveva compreso immediatamente
l’identità del suo paziente.
“E’
curioso … molto curioso …”,
bofonchiò, scostando la coperta e
incominciando a ispezionare sotto le ascelle del capitano di ventura.
“Che
intendente?”, inquisì cauto Leka Busicchio
seguendo con lo
sguardo come le dita del cerusico tastassero la carne tesa
dell’inguine.
“Cos’ha?”
L’uomo
non lo degnò di una risposta, dirigendosi invece verso
Hironimo e Thomà, i quali si erano fatti convenientemente
trovare addormentati
quando Zilio era entrato nella tenda con la colazione e che ora
assistevano in
prudente silenzio. Senza tanti preamboli il cerusico
appoggiò i pollici sotto
le orecchie del patrizio veneziano e gli fece piegare indietro il capo,
premendo fino a raggiungere il suo pomo d’Adamo.
“Levati
la camicia”, gli intimò con tal distacco
professionale che
Hironimo nulla ebbe da obiettare e neanche s’era sfilato
completamente
dell’indumento, che già il cerusico gli alzava le
braccia onde esaminare a sua
volta le ascelle. L’uomo agì più pudico
quando gli chiese di scostare un poco
le mutande quel tanto da denudare la regione crurale, non
perché si vergognasse
lui di per sé bensì per non agitare né
il giovane né il fantolino che lo stava
fissando sospettosissimo.
Infatti,
arrivato il turno d’esaminare Thomà, questi si
sentì in
dovere di chiarire: “A mi nissun me varda drento le
mudande!”
“Devi
solo sollevarle un poco, stupidotto”, ribatté
serafico il
cerusico, parlando lentamente acciocché il bambino
afferrasse ogni parola,
mentre lo esaminava sotto l’ascella e poi
all’inguine. A operazione completata,
l’uomo si mise in piedi e andò a lavarsi le mani.
“Dunque?”,
insistette Leka Busicchio, fino a quel momento
rispettoso del silenzio necessario al cerusico per operare in tutta
tranquillità, ma adesso avido di conoscere il responso.
“Come sta? È grave? E
perché anche i prigionieri?”
L’uomo
sospirò a fondo, asciugandosi. “Temo questa febbre
non
esser figlia di una ferita infetta. Ho controllato sotto le bende e la
cicatrizzazione sta seguendo il suo naturale corso, quindi no, non si
tratta di
un’infezione.”
Il
condottiero sbiancò, il labbro inferiore tremante.
“Non … non
si tratterà mica di … di
…?”, neanche osava pronunciare
quell’orrido nome,
quasi temesse d’evocarla alla stregua del diavolo o della
iettatura.
“Essa
ne sta falciando abbastanza nel campo, che sarebbe
imprudente negarne la presenza. Non escludo pertanto il contagio,
considerando
la condizione di salute già debilitata del
capitano.”
“E
non c’è niente che si possa fare?”
Il
cerusico scosse il capo. “Attendere e pregare che scenda la
febbre. Finora macchie o pustole non ne ho viste.”
Intanto
che i due discutevano fitto-fitto a voce bassa, Mercurio,
forse per via della sete o dei continui maneggiamenti del suo corpo, si
destò
dal suo torpore e notata l’imponente figura di Zilio pendere
su di lui, gli
fece cenno di portare l’orecchio alla sua bocca.
“Che
… che cos’ho?”, parlava in albanese onde
impedire ad Hironimo
d’origliare.
“Il
capitano Leka lo sta apprendendo ora dal cerusico, signore.
Sembra che la febbre vi sia risalita … forse, forse la
ferita s’è infettata …”,
tentò di spiegargli lo stradiota, il volto tirato e
visibilmente in pena per la
sorte del suo superiore.
“No
… no, non è così … non
è la ferita … è
qualcos’altro … San
Giorgio mio! Mi sento … mi sento le ossa come spezzate
… neanche … neanche
m’avesse calpestato uno stallone imbizzarrito
…”, ansimò Mercurio, corrugando
per il dolore la fronte e inghiottendo a fatica la saliva.
“Zilio … Zilio! … Mi
ha preso! … Oh, San Giorgio, è lei! Lo so!
È lei! … È lei! … Oh, San
Giorgio …
oh, Sancte Georgi adiuva me! … ”
Madalo
negò con ogni fibra del suo essere. “No, capitano!
Non
l’avete presa! Non potete averla presa! Vedrete che il
cerusico confermerà
trattarsi di altro!”
Il
condottiero epirota si morse scettico il labbro inferiore,
imponendosi di calmare il panico crescente che gli stava paralizzando
le membra
e costringendo il cuore a martellargli rumorosamente in petto.
“Zilio …”, disse
quando fu sicuro di poter continuare a parlare senza tradire alcun
tremore
nella sua voce.
“Capitano?”
Mercurio
gli strinse la mano, puntandogli contro gli occhi lucidi
e febbrili. “Dovessi morire … ti prego
… ti prego ammazzalo …”
Zilio
reclinò il capo, confuso. “Chi dovrei
uccidere?”
“Il
Veneziano”, proferì Mercurio a voce talmente bassa
che il suo luogotenente
dovette leggerli le labbra. “Non voglio che se lo prenda La
Palice … né il
Gambara … se non posso averlo io, nessun altro
l’avrà …”,
digrignò feroce i
denti. “Quindi … dopo avermi chiuso gli occhi
… dopo … chiuderai anche i suoi …
me lo giuri?”
Madalo
annuì solenne. “Sulla tomba di San Giorgio, lo
giuro.”
Un
sorriso tra il sollevato e il carnivoro graziò le labbra
esangui dell’uomo, che s’accasciò
sfinito sul cuscino. “Grazie …”,
mormorò nel
frattanto che scivolava nuovamente nell’incoscienza,
“grazie …”
Continua
…
************************************************************************************************************
La
macabra vicenda di Biasio Cargnio il salsicciatio
(l’originale
Sweeney Todd) oscilla tra verità e leggenda,
poiché pur con l’ausilio delle
sentenze della Quarantia Criminal, tutt’oggi gli storici sono
indecisi se
collocare la sua vicenda nel 1395, nel 1503 o nel 1520. Noi abbiamo
optato per
la versione più famosa, ovvero la sentenza del 18 novembre
1503 anche perché si
colloca perfettamente nel contesto del percorso di formazione del
Nostro.
Tradizione vuole che Riva de Biasio a Venezia stata così
nomata a rimembranza
della vicenda e dove sorgeva l’osteria del salsicciaio, si
può vedere una testa
maschile scolpita, si dice ad immagine dell’assassino. In
realtà molto
probabilmente è un San Giovanni Battista, trovandosi appunto
a Campo San Zan Degolà.
La scena
tra Pietro Antonio Battaglia, Giano di Campofregoso e
Federico Contarini purtroppo è vera e descrive il clima di
vigilanza mista a
paranoia nelle città ancora rimaste sotto la Serenissima,
temendo infatti la
presenza di traditori.
I
condottieri Lattanzio Bonghi da Bergamo e Zitolo
da Perugia morirono entrambi nel 1510 mentre
conducevano un’operazione
congiunta durante l’assedio di Verona e di fatti vennero
seppelliti uno di
fronte all’altro nella Basilica di Sant’Antonio da
Padova. Ironia proprio della
sorte, visto che i due erano stati avversari durante la guerra di Pisa,
il
Bonghi sotto la Serenissima e Zitolo agli ordini di Paolo Vitelli.
Tiziano
Vecellio si trovava nel 1511 a Padova per affrescare la
Scuola del Santo (o Scoletta) con scene sulla vita di
Sant’Antonio tra cui: il
Miracolo del neonato; il Miracolo del piede sanato e il Miracolo del
marito
geloso. Quest’ultima in particolare presenta una
peculiarità menzionata nel
capitolo: il braccio levato in alto della moglie, per difendersi dalla
pugnalata del marito, è stato reso tridimensionale
applicandovi numerosi strati
di intonaco e modellato sulla figura.
La
questione del santuario di Santa Maria Maggiore e tutt’altro
che conclusa, essa corrisponde allo stallo messicano di questa storia.
Sia Gian
Paolo Gradenigo sia Renzo di Ceri avevano ottime ragioni, il problema
che
nessuna delle due riusciva a mettere tutti d’accordo.
Ormai
credo abbiate capito cosa stia accadendo nel campo di
Montebelluna … Quando si dice non saper di che morte morire
…
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
gh’emo ancha el bocale = gioco
di parole :
“bocale” significa sia
“boccale” che “pitale”
[2] novello Zorzi Corner =
Giorgio Cornaro, nonno di Caterina Cornaro regina di Cipro, prigioniero
di
Filippo Maria Visconti durante le Guerre di Lombardia, venne
ferocemente
torturato da quest’ultimo per sette anni quando, apprendendo
dell’arresto di
Francesco Bussone conte di Carmagnola, volle estorcere al Cornaro
quanto i Veneziani
sapessero nel dettaglio circa i rapporti tra lui e il condottiero,
decapitato
per tradimento. Nonostante le sevizie brutali descritte dal patrizio
stesso
nella “Cronachetta Corner”, egli non
rivelò nulla e per spregio, a guerra
terminata, il Visconti fece circolare la falsa notizia della sua morte
pur di
non restituirlo a Venezia, sennonché il Cornaro
riuscì ugualmente a mettersi in
contatto col figlio Andrea e il Duca, sbugiardato, dovette cederlo.
Ammalato e
distrutto fisicamente dagli anni di tortura e prigionia, Cornaro
morì il 4
dicembre del 1439, due mesi dopo la sua liberazione.
[3] Che Tiziano fosse l’allievo,
nel senso
tradizionale del termine, del Giorgione è
un’affermazione del Vasari; studi
recenti, infatti, suggeriscono che i due si conobbero da colleghi,
piuttosto
che da maestro-discepolo, per quanto il ventenne Tiziano
imparò moltissimo dal
Giorgione. Tra i maestri ufficiali di Vecellio invece figurano appunto
Gentile
e Giovanni Bellini, i pittori ufficiali della Serenissima ed i maggiori
esponenti della pittura veneta del Quattrocento.
[4] Sancte Alexander Bergomensis =
Sant’Alessandro da Bergamo, fu un soldato della legione
tebea, subì il martirio
a Bergamo di cui poi divenne santo patrono. Sul sagrato della chiesa a
lui
dedicata si può ammirare la colonna dove venne decapitato.
[5] sottovalutando la guelfa
guelfità
della guelfa città più guelfa del guelfo del Papa
guelfo = Qui
“guelfo” è inteso come
“clericale”
[6] Santissimi Theonisto, Thabra e
Thabrata! = Assieme a San Liberale patrono
di Treviso, Ss.
Teonisto, Tabra e Trabata appartengono anch’essi alla storia
e alla devozione
locale: vicino al fiume Sile i tre subirono il martirio per mano degli
eretici
ariani, li stessi contro cui combatté San Liberale.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo Dodicesimo: 10 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 21.12.2021
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Capitolo
Dodicesimo
10
settembre 1511
L’ambasciatore
sier Hironimo Donado
“dalle Rose” chiuse la finestra, lanciando
un’occhiata torva sulla piazza
semivuota sottostante. Cadaun giorno a Roma s’apprendeva di
nuovi ammalati di
febbre, quest’ultima assolutamente equa nel suo contagio e
trasportata dai
putridi venti ch’ammorbavano l’aria, rendendola
irrespirabile, come se la Città
Eterna avesse avuto bisogno d’ulteriore lezzo, onde apparire
più marcia di
quanto già non lo fosse.
Forse era
la stanchezza, forse era
l’età non più fresca, ma nelle ultime
settimane s’era ritrovato molto spesso ad
anelare alla sua patria, alla moglie madona Maria Gradenigo Donado e ai
loro
numerosi figlioli, a sua sorella madona Alba Donado Contarini e a suo
fratello
sier Andrea Donado, podestà di Treviso, chiedendosi della
loro salute, delle
loro occupazioni, di quali crucci li stessero tormentando, dei loro
progressi e
progetti, se avessero ricevuto le sue lettere e quali sentimenti li
avevano
suscitato. Né la musica né la composizione di
poesie in greco ed in latino,
grandi sue passioni fin da giovinetto, lo consolavano più; a
malapena lo
distraevano le conversazioni con il suo segretario, Lorenzo Trivixan.
Talora,
tra la veglia e il sonno nella
sua abitazione a Campo Marzio, sier Hironimo ripercorreva gli episodi
di vita
famigliare trascorsi assieme, tra un incarico e l’altro:
ripensava al giorno
delle sue nozze, ai frizzanti distici latini del suo compare
d’anello, Almorò
Barbaro, ch’avevano fatto sghignazzare i giovanotti ed
arrossire le fanciulle; ai
battesimi dei vari nipoti; al primo incontro tra suo figlio Phelipo e
il
magister Marino Becichemo e di quanto il giovane avesse sprizzato
d’orgoglio
alla prospettiva di divenire l’allievo d’un uomo
sì dotto. Sier Hironimo si
rivide alle nozze di sua figlia Ysabeta con sier Faustino Dolfin e
anche al
secondo matrimonio della sua Luzia con sier Cabriel Moro, dopo averla
consolata
per la perdita di domino Francesco Martinengo suo primo sposo.
Questa
malinconia, questo rivangare il
passato inquietava assai l’ambasciatore: sin da giovane aveva
viaggiato in
lungo ed in largo per l’Italia e per l’Europa,
avendo ricoperto ruoli che
l’avevano quasi sempre condotto fuori da Venezia, quali
oratore in Francia, in
Portogallo, a Milano, a Genova, a Lucca e presso
l’Imperatore; era stato Duca
di Candia; visdomino di Ferrara; podestà a Brescia, Ravenna
e Cremona e Roma la
conosceva oramai meglio della sua scarsella, avendo in più
occasioni
rappresentato la Signoria presso la corte papale, delle cui insidie suo
padre,
il fu sier Antonio “dalle Rose”, ben
l’aveva istruito avendo egli stesso
ricoperto la medesima carica. Eppure, mai aveva il Donado avvertito
tanta
nostalgia di casa come in quel momento, mai quella smania di
riabbracciare la
sua famiglia e d’aggrapparsi al ricordo d’essa per
non lasciarsi confondere da
una sottile angoscia. Si diceva che soltanto chi era prossimo alla
morte s’immergeva
nei ricordi del passato; al che, se tale era il suo ineluttabile
destino, il
“dalle Rose” pregava Iddio e la Vergine di
concedergli di concludere prima la
sua missione e poi di disporre di lui come meglio credevano.
Sier
Hironimo sospirò pesantemente:
forse le sue erano le tipiche crisi della vecchiaia, acuite dai soliti
acciacchi ai reni. Aveva cinquantaquattro anni e troppi viaggi, troppe
missioni
delicate alle spalle, ch’avrebbero sfibrato chiunque. Gli
ultimi anni,
specialmente, gli pesavano alla stregua di macigni, avvertendo come
Atlante il
pesantissimo fardello affidatogli dalla Signoria: su di lui, infatti,
dipendeva
la sua salvezza.
Perché
mentre i generali e condottieri
tenevano impegnato sul campo di battaglia il nemico, la diplomazia
veneziana
gli scavava il terreno da sotto i piedi. Già nel 1509, dopo
la sconfitta dei
Collegati sotto le mura di Padova, la Signoria era riuscita ad
attaccare
economicamente la Lega antiveneziana, stipulando un accordo con la
Sublime
Porta: i Turchi, infatti, avevano incominciato a boicottare i panni di
Firenze,
di Ragusa e di Genova, diminuendo i finanziamenti del nemico e rendendo
insidiose le rotte marittime. Non meno importante, il coinvolgimento
indiretto
del Sultano aveva garantito la neutralità del Re
d’Ungheria, il quale se
all’inizio s’era lasciato sedurre dalle ipotetiche
conquiste promessegli
dall’Imperatore, aveva poi rinculato per tenersi buoni i
Veneziani per non
essere invaso dai Turchi.
Il vero
obiettivo, però, era e rimaneva
il Papa.
Il
cardinale Marco Corner del cavalier
sier Zorzi aveva riferito alla Signoria come Giulio II, prendendolo in
disparte, gli avesse confidato d’aver in realtà
sempre amato la Repubblica e di
quanto gli dispiacesse veder la rovina dello stato veneziano per mano
di quei
barbari. Aveva sostenuto d’esser stato costretto ad unirsi
alla Lega di
Cambrai, poiché sdegnato dalle violazioni dei diritti papali
e delle sue terre
per mano dei Veneziani.
La
realtà, invece, era ben altra: il
Papa aveva capito d’aver fatto il passo più lungo
della gamba e di trovarsi
dinanzi ad un avversario che, per la sua sopravvivenza, non aveva (e
non
avrebbe) esitato a giocar sporco. Pertanto, aveva cambiato opinione per
trarne
il maggior profitto. Egli aveva imposto alla Serenissima di riconoscere
per
giusta la scomunica e di chiedere pubblicamente perdono per essere
assolta. In
più, l’aveva obbligata a restituire Rimini,
Faenza, Cervia e persino Ravenna; a
sopprimere il diritto del Doge di designare i vescovi, di prelevare le
decime,
le imposte sui beni ecclesiastici; le aveva proibito di giudicare in
tribunale
gli ecclesiastici, a disconoscere il suo dominio nel Golfo e a
permettere ai
sudditi papalini di navigare liberamente le sue acque.
Sier
Hironimo Donado, sier Domenego Trivixan,
sier Lunardo Mozenigo, sier Alvixe Malipiero, sier Polo Capelo e sier
Polo
Pisani il 24 febbraio 1510, nell’atrio della Basilica di San
Pietro, avevano
recitato la dichiarazione di Venezia di pentimento e di sottomissione
dinanzi
al Papa e a dodici cardinali. Questi poi, impugnate delle verghe,
avevano cantato
il Miserere mentre gli ambasciatori avevano
ascoltato lividi e rancorosi
in ginocchio. Giulio II, trionfo, aveva recitato solenne la formula di
assoluzione,
ignaro dell’odio e della vendetta ch’animavano le
preghiere degli oratori
veneziani. I notai avevano letto la lista delle penitenze imposte e poi
tutti
s’erano recati nella Cappella Sistina per assistere alla
Messa, tra squilli di
trombe e grandi dimostrazioni, laddove gli ambasciatori avevano pregato
Dio e
la Madonna di confondere il Papa. E al funerale di sier Polo Pisani,
morto di
lì a poco, i legati veneziani avevano solennemente giurato
sul catafalco del conterraneo
d’ingegnarsi in ogni modo per sconfiggere i numerosi nemici.
Così
fu: mentre Della Rovere gongolava
per la sua vittoria, la Serenissima progettava alla prima occasione di
disconoscere ogni capitolo di sottomissione, nel frattanto che sier
Hironimo,
rimasto a Roma, assieme al cardinale Marco Corner aveva incominciato a
tastar
il polso ai condottieri da assoldare, incominciando da Renzo di Ceri,
Giampaolo
Baglioni e Troilo Savelli.
La
volontà di potenza di Giulio II era
stata tale, inoltre, d’aver peccato di hybris: dopo aver
creduto d’aver soggiogato
la ribelle Venezia, egli aveva ripreso l’antico progetto dei
Borgia, ossia
l’assoggettamento della Romagna al diretto controllo di Roma.
Così, in barba al
fatto che fossero alleati, il Papa aveva dato il terzo scossone alla
Lega di
Cambrai attaccando il Ducato di Ferrara, dopo aver tentato di sottrarre
Genova
ai Francesi. Sier Hironimo e i suoi colleghi avevano seguito Giulio II
durante
l’intera campagna invernale, fino allo zenit
dell’assedio di Mirandola.
Ciononostante, malgrado il Papa si fosse messo lui di persona a capo
dell’esercito, aveva trovato in Alfonso d’Este un
avversario altrettanto
ostinato, oltre a ben spalleggiato da Francia e Spagna,
sicché l’incapacità di
Della Rovere di portare a termine la conquista di Genova, Bologna,
Ferrara e
delle altre terre emiliane e romagnole aveva minato non soltanto la sua
immagine di ferocia e imbattibilità, semmai
l’aveva indebolito e screditato agli
occhi del mondo.
Il
tentativo d’accordo a Mantova del
marzo del 1511, laddove una Lega visibilmente in difficoltà
si era dimostrata
disposta a porre fine alla guerra, a patto che Venezia pagasse le spese
della
pace e riconoscesse l’alta autorità imperiale sul
territorio di Terraferma,
pagando all’Imperatore un grosso censo, era fallito non
soltanto perché la
Serenissima aveva fatto intendere a Maximilian cosa gli avrebbe dato di
grosso
al posto del censo, bensì per l’intemperanza di
Giulio II, che non aveva
gradito la spocchia del segretario del Re dei Romani, Mathias Lang vescovo di Gurk, che
s’atteggiava da trionfo
vincitore.
Dulcis in
fundo, poco dopo la debacle a
Mantova, a Pisa s’era riunito un concilio di natura
palesemente scismatica, indetto
dal cardinale di Santa Croce Bernardino López de Carvajal,
dal Re di Francia, dall’Imperatore,
dal cardinale Federico Sanseverino ed altri porporati per eleggere
pontefice proprio
de Carvajal e ciò allo scopo di punire quella banderuola di
Della Rovere. Al
che questi, tra una bestemmia e l’altra, aveva giurato su
ogni cosa sacra al
mondo, che non sarebbe morto prima d’aver interdetto,
scomunicato e tagliato a
pezzi tutti i sostenitori di Louis XII, laici e religiosi, a partire da
quel
traditore di Carvajal che s’era prestato a
quell’indegna porcheria. Malgrado
queste sfuriate, però, il Papa stava perdendo la sua
fierezza ed arroganza, non
essendosi atteso questa contromossa. Ed ecco, sommo miracolo, che il
persecutore era venuto a chiedere consiglio al perseguitato: purtroppo
per lui,
stavolta Venezia aveva idee e soprattutto richieste ben chiare e sier
Hironimo
Donado non gli si presentava più supplice al suo cospetto,
bensì in veste di
negoziatore.
Abbandonando
la finestra, sier Hironimo
“dalle Rose” si risedette a tavola tra i suoi
compatrioti lì presenti: domino
Nicolò Lipomano q. sier Thomà, protonotario
apostolico; domino Marco Corner di sier
Zorzi ed infine il loro anfitrione, domino Domenego Grimani di sier
Antonio. Approfittando
dell’indisposizione del Papa Giulio II di vedere chicchessia,
il cardinale
Grimani aveva, tramite accorti messaggi, invitato i tre suoi ospiti ad
“ammirare
un manoscritto greco assai raro, miniato ad arte, di recente
acquistato” nel
suo elegante Palazzo di San Marco [1] dai marmi di travertino del
Colosseo e
del Teatro Marcello, costruito dal loro conterraneo Papa Paolo II
quand’era
ancora il cardinale Piero Barbo.
Inutile
dire quanto nessuno avesse
sospettato di un imbroglio: la fama del cardinale
d’eccellente filosofo e
teologo, di bibliofilo e mecenate s’equiparava a quella di
fine politico, ed
egli stesso amava raccogliere attorno a sé una piccola corte
dei migliori
talenti artistici ed intellettuali che transitavano a Roma, come ad
esempio
Erasmo da Rotterdam, suo graditissimo ospite per l’intero suo
soggiorno romano.
Sier Hironimo stesso aveva usufruito della sua ricca collezione di
libri,
manoscritti, breviari, codici, avendogli il Grimani procurato il De
Anima
d'Alessandro d'Afrodisia, che il “dalle Rose” aveva
successivamente tradotto in
latino, prima di cederlo al Poliziano. Naturale, quindi, che il
cardinale
avesse voluto invitare i suoi conterranei, onde ammirare
l’ultimo suo acquisto.
L’intero
Palazzo di San Marco trasudava
del resto di quest’amore di domino Domenego per la cultura e
per l’arte, in
particolare per i pittori settentrionali, spiccando una robusta
raccolta di
dipinti di Hans Memling, Hieronymus Bosch ed Albrecht Dürer,
ma era la sua biblioteca
il suo vero motivo di vanto, arrivando perfino ad acquistare, nel 1498,
la collezione
intera di Pico della Mirandola. I suoi conterranei giocosamente lo
sfottevano, asserendo
come amasse più le donne miniate degli incunaboli che quelle
in carne ed ossa.
Il cardinale ridacchiava, rispondendo altrettanto mordace
ch’era proprio così,
poiché quelle sui libri si lasciavano sfogliare senza
chieder nulla in cambio. Quando
non sguinzagliava i suoi agenti in cerca di rarità
d’aggiungere alla sua
biblioteca, Domenego Grimani aveva inoltre incominciato sei anni
addietro
robuste opere di restaurazione ed abbellimenti al Palazzo di San Marco,
oltre a
comprare dei terreni presso il Quirinale dove aveva fatto costruire una
magnifica villa privata, sede di feste e divertimenti atti a dimostrare
la
potenza della sua famiglia e soprattutto a creare utili amicizie per il
futuro.
Qui vi aveva soggiornato suo padre sier Antonio, libero finalmente
d’abbandonare
l’isola dalmata dov’era stato confinato dalla
Signoria per aver perduto la
battaglia di Zonchio del 1499; il cardinale l’aveva accolto
senza discutere e a
braccia aperte, invitandolo a pazientare e di vivere ritirato,
finché alla
Serenissima non fosse passata in via definitiva
l’arrabbiatura.
A far
compagnia al Grimani caduto in
disgrazia, c’era stato il fratello di domino
Nicolò Lipomano, sier Hironimo
Lipomano, riuscito anch’egli dopo anni d’assenza
forzosa (o esilio informale a
seconda dei punti di vista) a rimpatriare a Venezia, grazie al cospicuo
patrimonio lasciatogli dalla sorella Maria, deceduta senza eredi, e
manna dal
cielo onde ripulire e rilanciare il loro nome a seguito del disastroso
fallimento del loro banco [2]. Vero che inserendosi tra le dinastie
ecclesiali
i fratelli Lipomano erano riusciti a navigare in acque tempestose, ma
la
nostalgia era stata troppa, specie per sier Hironimo Lipomano cui non
garbava
quella vita da vagabondo tra Roma e Bologna. Sier Hironimo
“dalle Rose” aveva già
conosciuto domino Nicolò ai tempi dei suoi studi
universitari a Padova, in
comune amicizia con il fu domino Sebastian Priuli e sier Marco Dandolo.
[3]
Questi
dunque erano i commensali
ch’animavano quell’informale colazione, uomini
lontani dalla madrepatria e di
essa nostalgici, pur impiegando ogni loro energia e pensiero per la sua
salute.
“Xéo
stà on pecà la morte
dell’ambasciatore portoghese”, esordì il
giovane cardinale Marco Corner,
giocherellando coi chicchi del suo melograno, prima di portarseli alla
bocca.
“Dopo il cardinale Argentino, abbiamo perduto non soltanto un
valido alleato,
ma anche un gran brav’uomo.”
Sier
Hironimo Donado annuì,
ricordandosi il fu oratore e di come gli fosse risultato simpatico
già al loro
primo incontro a Lisbona, anche se ormai si trattava di quasi
venticinque anni
addietro.
“Lasciamo
che i morti seppelliscano i
loro morti e badiamo al futuro”, liquidò invece in
fretta le condoglianze
domino Domenego Grimani, focalizzandosi sulla spinosa sfida del
presente. “Ciò
che mi preme, in questo momento, è di sapere se Di la Roare
abbia intenzione di
vivere o di morire. Un giorno sembra migliorare, mangia persici e
olive,
sbevaza vino peggio d’un ubriaco in osteria e minaccia
d’impiccare chiunque
glielo impedisca. Il giorno dopo, però, eccolo in fin di
vita, pronto a render
l’anima a Missier Domeneddio.”
“Di
sicuro la malattia del Papa crea
molti disordini e rallenta el tutto”,
asserì domino Nicolò Lipomano
corrucciato. Inghiottì un sorso di malvasia.
“Questa febbre è stata una
maledizione per noialtri”, commentò.
“In
effetti”, aggiunse sier Hironimo
Donado, “anche il cardinale Flisco [4a] e il cardinal
d’Ingaltera domino
Christofal Bambrize [4b] risultano contagiati. Tuttavia, prima di
buttarsi in
letto, l’episcopo eboracense m’ha assicurato che il
suo signore, il re Errico, v’era
etiam. E come lui, anche l’oratore yspano, el
segnor Vich [4c], conferma che
don Ferrando viene di bone gambe.”
“Credete
che ci possiamo fidare del Re
Cattolico?”, inquisì Marco Corner.
Sier
Hironimo Donado allargò le
braccia. “Se non della sua persona, del suo odio giurato nei
confronti del Roy
di Franza e del suo timore che Maximian, con la scusa della guerra,
s’avvicini
troppo a re Ludovico, estraniandogli gradualmente il nipote, il Duca di
Borgogna [5], ed erede delle corone di Castija ed Aragò.
Sapete bene come, per
raggiungere i suoi obiettivi, don Ferrando non si fermi davanti a
niente: ha
perfino dichiarato pazza sua figlia, la regina Zuanna, ed assassinato
il di lei
marito don Phelipo, figlio
dell’Imperatore.”
Il
cardinale Corner arcuò scettico il
sopracciglio. “Null’altro che una ciancia, sier
Hironimo.”
“Co’
ghe xé na óse, (voce, ndr.) ghe xé
na nóse (noce, ndr.), si suol dir”, gli
ricordò ambiguo il protonotario
Lipomano.
I
commensali tacquero un istante
all’arrivo del panunto con fichi e lattemelle; licenziati i
servitori e
congratulato l’anfitrione, sier Hironimo Donado
proseguì il discorso di sier
Nicolò:
“E
la noce è che il Cattolico sta
tirando verso il Royssilion ed ha preteso quattro castelli dal re di
Navara per
segurtà dei suoi confini. Il Roy de
Franza dovrebbe fidarsi di don
Ferrando come dell’assassino di sua madre. Ricordatevi del
Trattato di Bloys:
re Ludovico ha ceduto i suoi diritti su Napoli a sua nipote Zermana de
Foys,
maritata al Cattolico e ora regina d’Aragò.
Tuttavia, il patto prevede che se
la Reyna non dovesse generare eredi maschi, ogni rivendicazione della
corona
aragonese su Napoli cadrebbe in perpetuum, tornando indietro il Reame
al Roy de
Franza. Che io sappia, fino ad oggi, di figli maschi e vivi don
Ferrando dalla
sua siora mojer ancora non ne ha avuti”, espose
l’oratore l’attuale rapporto
politico tra re Fernando e re Louis, una corda tesissima di liuto
pronta a
spezzarsi alla prima incauta pizzicata. “Perciò mi
sono preso la libertà d’esporre
i miei dubbi al segnor Vich: se Veniexia avesse da cader, chi
v’assicura ch’el
roy de Franza nol punti al
Royssilion dopo
Napoli? E perché non anche alla Cicilia, la quale non mi
sembra distare tanto
da Napoli? Come già se n’era discusso
l’anno addietro, ho ricordato al segnor
Vich che ho conosciuto di persona don Ferrando, di cui ne avevo
apprezzato la
prudenza e la saggezza, e di come fossi certo che anche lui avrebbe
ritenuto pericoloso
il favorire i disegni francesi di dominio, cedendo lo Stato da Tera
all’Imperatore.”
“E v’ha
creduto?”
“Era
bianco di paura.”
“Come
il Papa”, dichiarò Domenego
Grimani. “Malgrado le sue minacce, le sue bestemmie ed
escandescenze, Di la
Roare vive nel timore che a suo danno Franza e Impero affettino
l’Italia con
piron e cortelo. Ma più del Re dei Romani, cui basta lo
Stato da Tera e danari
per placare la sua fame, è il Roy de Franza colui che
veramente ruba il sonno
al Papa.”
“Il
Papa, con la Lega, ha creato un
mostro che non sa più gestire e che finirà per
divorarlo”, puntualizzò sier
Hironimo.
“Appunto
su questa paura dobbiamo
premere e attaccare, senza pietà, finché Julio
non s’arrenderà all’evidenza
d’essersi estraniato ai suoi previi alleati e, isolato, non
gli resterà che ballare
alla nostra musica!” e il cardinale Grimani batté
sul tavolo ad ogni parola la
punta dell’impugnatura del coltello, onde reiterare il
concetto.
“Lasciatemi
tentare. Con me il Papa s’è
sempre dimostrato ben disposto.”
“E
chissà perché, reverendissimo sior
Marco, la cosa non ci sorprende.”
Il
giovane Corner, intuendo
l’allusione, arrossì violentemente.
“Il
Papa in questo momento naviga nella
confusione: più della capitolazione di Mirandola lo scorso
gennaio, è stato il
Concilio di Pisa indetto da Franza e Impero ad averlo veramente
scardinato. Chi
potrà mai credere alla sua autorità, quando gli
stanno letteralmente togliendo
il trono di Sen Piero da sotto le terga, per offrirlo ad un
Antipapa?”
“Nessuno”,
risposero domino Nicolò e
sier Hironimo.
“Giusto.
Nessuno lo temerà, nessuno lo
prenderà più sul serio e le sue terre diverranno
preda golosa e Di La Roare
potrà biasimar soltanto se stesso e la sua cupidigia
– vae victis, e il
perdente ingoia e tace”, sorrise obliquamente domino
Domenego, colui che grazie
alla sua pazienza di predatore aveva smussato un poco alla volta,
giorno dopo
giorno, l’ostilità antiveneziana
nell’implacabile pontefice, finché questi non
aveva revocato la scomunica alla Serenissima. Di più: a
maggio egli aveva
cantato la Messa di Pentecoste e niente gli stava impedendo
d’imporsi tra i
porporati più importanti dell’Urbe.
Dinanzi a
tal obiettivo di vitale
importanza, il cardinale Grimani e il cardinale Corner erano perfino
giunti ad
accantonare le rispettive divergenze ed antipatie, non essendosi, a
livello personale,
mai piaciuti. Domino Marco era d’altronde ricco, ambizioso e
generalmente un
bel giovane di ventinove anni, fattore da non sottovalutare alla corte
edonista
di Giulio II. Ma il cinquantenne domino Domenego possedeva maggior
esperienza,
amicizie e acume politico da sapersi giostrare alla meraviglia
nell’insidiosa
curia romana. Per amor della Serenissima, i due avevano deciso di
lavorare in
comune accordo come in mutuae, il Corner sfruttando
la beltà del viso
suo e la giovinezza tanto gradita al Papa e il Grimani
l’acuta scaltrezza d’una
vivace intelligenza.
Quanto
all’ambasciatore, sier Hironimo
necessitava d’ambedue i cardinali per la sua missione: che si
beccassero pure
peggio dei capponi, se la cosa li dava gusto, però solo alla
fine del conflitto,
non prima.
“Saria
vera sta favoleta?”, fece
sardonico il Donado “dalle Rose”, massaggiandosi
all’altezza della vescica, là
dove ultimamente lo coglievano alcune fitte moleste.
“Crederà davvero che
Franza e Impero, con l’ausilio dei loro lacchè,
abbiano intenzione d’invadere
le sue terre una volta spodestatolo?”
“Perché
altrimenti scomodarsi ad indire
un Concilio, consci del rischio di scomunica? Inoltre, don Alphonso
d’Este ci
ha fatto un grandissimo regalo, con quel suo maldestro complotto
d’avvelenare
il Papa. Praticamente, l’ha spinto dritto tra le nostre
braccia ed ora in
avanti, ciò che noi diremo a Di la Roare, sarà
per lui tanto vero quanto il
Vanzelo!”, ribatté il cardinal Grimani. E
sogghignando: “Siete stato davvero
scaltro, sier Hironimo, a suggerirgli di muovere guerra contro il
Ducato.”
Il
“dalle Rose” fece spallucce: “Gli ho
soltanto fatto notare, che Frara apparteneva allo Stato della Chiesa e
che
l’unico motivo, per il quale il signor Duca faceva la voce
grossa e rifiutava
sottomissione ed obbedienza alla volontà papale, era
perché puttaneggiava a
turno con Francia e Spagna. Se poi il Papa ha voluto implementare le
mie
osservazioni, problemi suoi: anche nella sconfitta noi ci abbiamo
comunque
guadagnato. Infatti”, sottolineò,
“l’attacco agli Estensi primo li ha fatto
passare la sbornia di Polesella; secondo, ha sviato
l’attenzione dei Collegati
da Trevixo, dando alla città tempo e modo di continuare a
fortificarsi.”
“Stando
alle lettere di vostro fratello
sier Andrea, i franco-imperiali stanno nuovamente puntando contro la
città”,
rimarcò domino Nicolò. “Proprio non
demordono dal loro progetto d’assoggettare
la Marca!”
“Sì”,
ammise un poco preoccupato
l’ambasciatore, ripensando ai dispacci del
podestà, “ma la Trevixo di adesso
non è più quella dell’anno scorso e la
presenza di veterani come sier Zuam Paulo
Gradenigo, Lorenzo Orsini e Vitello Vitelli hanno di molto tirato su il
morale.”
“Anche
ad Agnadello avevamo dei
veterani a capitanare le nostre milizie”, gli
ricordò il Lipomano. “E sappiamo
tutti com’è finita.”
A
quell’obiezione sier Hironimo non
poté controbattere, limitandosi a piegare la bocca in una
smorfia amarissima.
“Dobbiamo
aver fede” sentenziò
fiducioso Marco Corner, interrompendo lo scoraggiato silenzio,
“Trevixo ha
sempre dimostrato d’esser all’occasione una fiera
combattente e la sua gente è
famosa per scegliere da sé la propria forma di governo,
coerente fino alla
morte nelle proprie decisioni. Non dimentichiamo, poi, della
grandissima
protezione di Nostra Donna a quella città, rimasta per due
anni illibata da
ogni saccheggio. La mia povera siora Amia Catharina – a chi
Dio perdoni – per
ben due volte è dovuta scappare da Asolo, di cui era
signora. E Trevixo, che
non dista molto, non è mai stata sfiorata dalle truppe
nemiche. Non è
umanamente possibile tanta fortuna.”
“La
sconfitta dei Francesi e dei Tedeschi
sotto le sue mura saranno la prova definitiva del favore di Dio e della
Madonna
alla nostra causa”, dichiarò grave il cardinal
Grimani. “Tuttavia, dobbiamo
anche noi dare il nostro contributo: gli eventi dell’anno
scorso ci hanno ben
indicato il modo in cui possiamo sconfiggere i Collegati”, disse e scelse dalla cesta
d’argento una
particolare mela, la più grossa e dura in quanto ancora
acerba e impossibile
perciò da addentare.
A
brigante, brigante mezzo e quanto
dissetava la dolce vendetta; se Domenego Grimani non aveva ceduto alla
disperazione o alla vergogna, neppure quando Giulio II
l’aveva obbligato in
concistoro assieme a Marco Corner d’ascoltare muti e in piedi
la scomunica
della Serenissima, egli facendosi tetragono aveva trovato la forza di
reagire
grazie al costante pensiero e affetto che nutriva per la Signoria: sto
al
mondo, aveva confessato al padre sier Antonio Grimani, per
servirla ed
onorarla.
“Il
Papa deve annegare nella paura
d’emulare i suoi predecessori avignonesi: solo
così ci verrà veramente incontro!
Non basta l’aver sciolto formalmente la Lega. Dobbiamo
spezzarla in via
definitiva!”, concluse il cardinale Domenego e i suoi
ascoltatori annuirono
solenni in muta approvazione, osservando attenti come il cardinale
avesse preso
a tagliare la mela in otto parti, il numero esatto dei fautori della
Lega di
Cambrai. Disposti in linea gli spicchi, una alla volta se li
mangiò, finché
quella mela, così difficile da mordere, non era svanita dal
piatto nell’arco di
quale istante.
Nicolò
Lipomano si recò allora alla
scrivania, abbozzando la prossima lettera al Senato.
“In
conclusion, l’orator gh’ha
manchato de molti avisi e di le cosse de Ingaltera. Item,
gh’è stà dal Papa et
verba pontificis, qual non xé ben varito et fa desordeni, e
l’orator yspano nui
gh’ha dito, aver hauto letere di Spagna et mandato amplo di
far la liga, e si
’l Papa stesse ben saria conclusa, et v’era etiam
Ingaltera; tamen l’orator
gh’ha zonto, il papa si acorderà con Franza. Item,
fiorentini danno Pisa al
concilio, il papa l’à ’uto molto a mal
et dicunt, xé stà perlongà a chalende
di
novembrio dito concilio …”
E mentre
ancora il protonotario stava
scrivendo, il segretario di sier Hironimo Donado bussò
discretamente alla
posta. “Zelenza. Domino Cajtan dei Conti di Thiene
è appena giunto”, comunicò
Lorenzo Trivixan sottovoce al suo superiore, che a sua volta
scoccò un’occhiata
significativa al cardinal Grimani. “Pulito. Conducilo qui.
È solo?”
“Peggio
d’un cane.”
“L’ha
seguito qualcuno?”
“Nessuno,
zelenza, ci siamo ben
accertati di questo.”
Sier
Hironimo espresse la sua
soddisfazione, congedando il segretario che scese nell’atrio
del Palazzo per
far salire il nuovo arrivato.
“Domino
Cajtan?”, reclinò il capo il protonotario
Nicolò Lipomano, intrigato nel sentir nominato il proprio
collega. “Siete
riuscito a persuaderlo ad unirsi alla nostra causa?”,
domandò leggermente
incredulo, non appartenendo infatti il Thiene allo storico patriziato
veneziano, la sua famiglia ammessa soltanto in seguito
all’annessione di
Vicenza alla Serenissima.
L’ambasciatore
sier Hironimo negò, arricciando
tuttavia furbescamente gli angoli della bocca.
“L’ho convinto a porgere i suoi
saluti ai reverendissimi domini Domenego e Marco, i quali, gli ho
confidato, si
sono dimostrati assai volonterosi d’aiutarlo a finanziare le
sue opere di
carità”, ed ignorando gli sbuffi sarcastici dei
diretti interessati per una
scusa sì debole, egli continuò:
“Sì, sì, sembra banale ma corrisponde
al vero:
del resto, fonti attendibili mi hanno rivelato che i suoi benefici
parrocchiali
a Malo e a Bressanvido non gli rendono molto e come potrebbero con la
guerra in
corso, che ha devastato l’intero agro vicentino?
Verrà dunque alla prospettiva
di danaro e sarà lì che i reverendissimi
cardinali termineranno la mia opera di
persuasione. Alla fine, domino Cajtan rimane comunque un uomo di chiesa
e ben
può schermarsi dietro la religione per rifiutarci il suo
aiuto. Voialtri,
reverendissimi” ed indicò Grimani e Corner,
“siete i soli qui che possono parlargli
alla pari.”
I due
porporati si scambiarono
un’occhiata connivente, gradendo assai il piano del
“dalle Rose”.
Lorenzo
Trivixan ricomparve poco dopo,
camminandogli appresso il protonotario apostolico il quale, dopo le
introduzioni ufficiali, s’inginocchiò dinanzi al
cardinale Grimani prima e poi
al Corner, baciandoli l’anello.
Cajtan da
Thiene era giunto neppure
quattro anni addietro a Roma, soggiornando nel palazzo poco distante
dalla
chiesa di San Simeone ai Coronari ch’apparteneva a domino
Giovanni Battista
Pallavicino vescovo di Cavaillon, suo esatto coetaneo e nipote del fu
cardinale
domino Antonio Pallavicino Gentile. Di trentun anni, dalle belle
maniere e di
pronta intelligenza, Cajtan aveva da ragazzo conseguito a Padova la
laurea in
utroque iure, scegliendo in seguito contro il parere di sua madre
domina Maria
da Porto la via del sacerdozio, avendo infatti perduto il giovane,
oltre a suo
padre il conte Gaspare da Thiene, anche due fratelli e la contessa
vedova
temeva di conseguenza l’estinzione del ramo diretto del
casato. Né le lacrime
né le giuste obiezioni materne avevano smosso la
determinazione del figlio, il
quale aveva ugualmente ricevuto la tonsura dal vescovo di Vicenza
domino Piero
Dandolo e anzi, a prova della serietà della sua vocazione, a
sue spese aveva
promosso l’edificazione della chiesa di Santa Maria Maddalena
nella tenuta
comitale di Rampazzo.
Spinto
però dall’energica sete
d’esperienze tipiche della gioventù, il Thiene
s’era trasferito a Roma e dal
Papa Giulio II aveva ottenuto l'incarico di scrittore delle lettere
apostoliche, entrando a far parte della sua cerchia personale. Il
pontefice,
compiaciuto dalla serietà e dedizione del giovane, lo aveva
inoltre beneficiato
delle chiese di Santa Maria di Malo e di Santa Maria di Bressanvido e a
livello
personale sempre l’aveva lodato e stimato, appellandolo in
pubblico spesso
“figlio diletto” e “nostro
familiare”. Ed in effetti, aveva appurato sier
Hironimo Donado, v’era qualcosa di estremamente limpido nel
volto di Cajtan,
una freschezza non ancora deturpata dal cinismo ed arrivismo
ch’infettava
l’animo di ogni componente della Curia Romana. Un giovane di
buona volontà, seriamente
convinto della propria missione religiosa e determinato nei suoi
obiettivi, ma
pronto tuttavia a conseguirli onestamente, senza inganni.
Un
infiltrato perfetto - aveva
concluso l’ambasciatore, iniziando pian
pianino ad avvicinarlo e lavorarselo - l’ultima persona di
cui Giulio II
avrebbe mai sospettato.
“Carissimo”,
pose una mano domino
Domenego sul capo del Thiene a mo’ di benedizione.
“La vostra visita ci
rallegra immensamente. Prego, sedetevi. Avete già
colazionato?”
“Vi
ringrazio”, prese posto Cajtan da
Thiene, sorridendogli, “non necessito di nulla.”
“Suvvia,
permettetemi d’adempiere ai
miei doveri di padrone di casa. Volete forse ledere la mia
reputazione?”, lo
rimbrottò giocosamente il Grimani, al che il chierico
cedette, richiedendo
soltanto un bicchier d’acqua. “No, no. Almeno un
biscotto. Li riconoscete?”,
inquisì l’uomo, mentre gli porgeva il vassoio
d’argento e non gli sfuggì il
luccichio nostalgico negli occhi del Thiene, alla vista di quei dolci
tipici
della sua madrepatria.
“Ancora
grazie”, si servì titubante
Cajtan di un biscotto, rigirandolo un poco imbarazzato tra le dita.
Onde
metterlo a suo agio, il porporato offrì il vassoio a domino
Marco, che si servì
e poi lo passò a domino Nicolò e questi a sier
Hironimo, il quale lo cedette
per ultimo al suo segretario.
“Non
è di vostro gradimento?”,
s’informò sornione il cardinal Domenego, notando
l’esitazione del vicentino a
mordere il biscotto, ch’aveva anzi timidamente appoggiato sul
tavolo, mentre
gli altri commensali o l’avevano già finito o
erano in pieno processo di
degustazione. E dinanzi all’espressione colpevole del Thiene,
sospirò: “Già.
Vedo che vi siete ben abituato agli usi e costumi di questa
città. Anche il
reverendissimo cardinal domino Zuanne Michiel – a chi Dio
perdoni! – m’aveva
spiegato, vent’anni fa al mio arrivo da Venezia, quanto
l’ospitalità romana potesse
rivelarsi agli incauti piuttosto … velenosa”,
lasciò ad intendere, spezzando a
metà il suo biscotto come l’Ostia benedetta. Ne
addentò enfaticamente un pezzo,
cedendo il secondo al protonotario apostolico, che stavolta
accettò docile.
“Eppure voi ben sapete, domino Cajtan, come non sia nostra
usanza uccidere di
nascosto sia i nemici sia i traditori. Lo facciamo alla luce del sole,
anche se
ciò significa suscitare l’altrui sdegno.”
Dinanzi a
quel velato rimbrotto, il
Thiene arrossì, sbatté le palpebre, prese un
piccolo morso del dolce a mo’ di
scusa, s’impappinò nel tentativo di giustificarsi.
“Io … mi dispiace, non è che
dubitassi … Io … ecco … in questi
giorni sto offrendo i miei digiuni e le mie
preghiere a Missier Domeneddio e alla Madonna, in suffragio delle anime
dei
miei conterranei, vittime di questa guerra …”,
mormorò a disagio, masticando un
altro pezzettino di biscotto.
“Ciò
vi rende onore”, asserì ieratico
domino Domenego, socchiudendo un poco gli occhi. “Pregate.
Pregate con fervore per
quegli infelici. Pregate per i morti quanto per i vivi, domino Cajtan.
Pregate
per quegli uomini trucidati per la loro lealtà a San Marco;
pregate per quelle
donne vergognate, indifferentemente dall’età e
dalla condizione, esibite a seni
nudi alle lerce voglie del nemico. Pregate per i neonati infilzati
nelle loro
culle, pregate per i bambini torturati ed uccisi o deportati come
schiavi in
Alemagna. Pregate, domino Cajtan, pregate per quei piccini morti senza
battesimo, soffocati nel sangue del grembo materno violato dal ferro e
dalla
foia del vincitore, piccole anime innocenti destinate al Limbo eterno,
che mai
contempleranno la gloria di Cristo! Pregate per coloro cui è
stata negata una
sepoltura da cristiani, gettati in pasto ai cani! Pregate,
sì, pregate per
questa Rachele che piange i propri figli e che non vuol esser
consolata, poiché
essi non sono più!”, elencò impietoso
l’uomo le crudeltà perpetuate dai
Collegati ai danni della popolazione veneta negli ultimi due anni ed
appresa
dalle missive degli ambasciatori.
Ad ogni
atrocità, le spalle di Cajtan
s’abbassavano ed egli stesso sussultava, neanche equivalesse
ad una frustata
alla schiena. Deglutì a fatica, sbattendo le ciglia
già inumiditesi di lacrime.
“Che altro volete ch’io faccia?”,
domandò infine dopo un lungo silenzio,
fissando il porporato in un misto tra rassegnato e speranzoso, avendo
infatti
colto la velata critica in quel discorso. “Non sono un uomo
d’arme, altro modo
non ho per sostenere la mia gente se non tramite la preghiera
…”
“E
le opere di carità?”,
s’inserì nel
discorso Marco Corner. “E’ cosa notanda di come voi
usiate i benefici parrocchiali
e aspettative per finanziare opere di carità in soccorso dei
derelitti,
ammalati e convertite qui a Roma …”
“An,
riguardo a quello …”
“Di
questo appunto vi volevamo parlare.
Di danaro e della sua gestione”, interruppe il cardinale
Grimani la spiegazione
di Cajtan. “Noi siamo più che disponibili a
contribuire in pie donazioni, però
al contempo vogliamo garanzie di buon uso. Altrimenti, sterco del
diavolo
rimane.”
Il
chierico vicentino fissò interdetto i
due porporati e le loro espressioni severe; dopodiché
spostò lo sguardo verso gli
altri astanti, avvertendo una sgradevole sensazione nelle viscere,
parendogli
quasi di trovarsi dinanzi ad un tribunale. “Non capisco
…”, asserì lentamente.
“Dove … dove sarebbe il male nelle mie opere? Si
tratta comunque di persone che
necessitano d’aiuto …”
“E
la vostra gente no?”, obiettò secco
il Corner. “Le vostre entrate provengono da parrocchie
vicentine, domino
Cajtan. Le quali sono al momento occupate da truppe straniere,
così come i
vostri parrocchiani sono continuamente perseguitati, torturati, uccisi,
vergognati! Il denaro che voi usate per rimpinguare questi parassiti
romani è macchiato del loro sangue!”
“Nostro
Signore ci ha comandato di
soccorrere il nostro prossimo, senza badare alla sua nazione e bandiera
… Egli
si trova in chiunque abbia bisogno d’aiuto”, difese
testardo il Thiene le sue
posizioni, sebbene sier Hironimo avesse afferrato un leggero nervosismo
in lui,
dal modo in cui tamburellava le dita sullo sgabello.
Era
inquieto, agitato dalle parole dei
due cardinali, i quali gli stavano offrendo una prospettiva che il
trentunenne
o ignorava o di cui non s’era curato finora
d’apprendere.
“E
il vostro prossimo”, inquisì
l’ambasciatore, “non è anche la vostra
gente, domino Cajtan? Come potete
dormire tranquillo la notte, sapendo che mentre i vostri conterranei
soffrono e
muoiono, voi sanate e sfamate proprio coloro che hanno voluto la loro
rovina?”
“Si
tratta soltanto di derelitti ed
ammalati …”
“…
che potrebbero un giorno arruolarsi
nell’esercito”, concluse per lui la frase sier
Hironimo. “Sicché ogni uomo
ucciso, ogni donna sforzata e ogni puto degolato o rapito
peserà sulla vostra
coscienza. Perché in Italia, la riconoscenza ha la memoria
corta. Credete forse
che coloro che avete beneficiato, mostreranno altrettanta clemenza nei
confronti della vostra gente? Neanche si ricorderanno del vostro nome,
nella
frenesia del saccheggio.”
Al che,
spazientito e col groppo in
gola, il protonotario vicentino balzò in piedi.
“Per questo motivo sono stato
qui invitato? Per ricevere rimproveri sul mio operato?”
“Al
contrario”, replicò placido il
cardinal Domenego. “Noi v’ammiriamo per la vostra
dedizione. Soltanto … che la
troviamo implementata nella direzione sbagliata.”
“Mi
state suggerendo di rimpatriare a
Vicenza?”
“Non
oseremmo chiedervi tale
sacrificio, mettendo inutilmente a repentaglio la vostra
vita”, l’assicurò su
quel punto Grimani. “Tuttavia, pur restando qui a Roma, lo
stesso voi potrete
aiutare i vostri conterranei.”
“E
non solo con preghiere”, puntualizzò
Marco Corner. “Ma con opere concrete.”
Cajtan si
risedette, ascoltando attento
e un poco apprensivo dinanzi a tanta apparente vaghezza.
“Sua
Celsitudine vi stima moltissimo”, esordì
cauto il cardinal Domenego, “al punto d’avervi
incluso nella sua famiglia”
e lo guardò significativamente.
“Apprezza
il mio lavoro, sì”, confermò
il Thiene, confuso.
“Non
mettiamo in dubbio, che vi siate
guadagnato onestamente la sua fiducia”,
chiarì subito il Corner, fugando
ogni allusione a doppio senso. “E la sua grande e
disinteressata considerazione
nei vostri confronti, non è un privilegio da poco qui a
Roma.”
“Immagino
di sì”, mormorò Cajtan,
irrigidendosi poiché incominciava a capire dove i porporati
e gli altri suoi
conterranei lo stavano pian pianino conducendo.
“In
questi momenti d’incertezza sulla
sua salute e sulla stessa stabilità del suo potere, Sua
Celsitudine non
desidera ricevere nessuno, tranne i suoi familiari e di chi si fida
ciecamente”, proseguì il Grimani. “Voi
incluso.”
“Gli
scrivo soltanto le lettere”, si
schermì il Thiene. “Non … non siamo in
confidenza.”
“Davvero?”,
gli domandò sornione il
cardinal Domenego. “Mentire è peccato,
figliolo.”
“A
voi o al Papa?”, ribatté Cajtan,
stringendo la bocca in una linea dura. “A chi dovrei
mentire?”
“A
nessuno”, fece lo gnorri domino
Marco.
Il
protonotario batté snervato il pugno
sulla coscia. “Voi mi state chiedendo di divenire la vostra
… la vostra spia”,
verbalizzò alla fine i suoi sospetti, ponendo fine a quello
stillicidio e
obbligando così i presenti a scoprire una volta per tutte le
proprie carte e a parlare
a viso aperto. “Mi state chiedendo di sfruttare la
benevolenza del Papa, per i
vostri scopi!”, li accusò sdegnato.
“E
se ciò fosse?”, ritorse altrettanto
aggressivo domino Nicolò Lipomano. “Vogliamo la
salvezza della nostra patria,
lo giudicate forse un crimine?”
“Voi
avete guadagnato molta più
reputazione di me presso Sua Celsitudine!”,
rimarcò Cajtan. “Io … io non valgo
nulla a confronto! Non sono un politico, in che modo potrei manipolare
uno come
… come il Papa?”, sbottò esasperato.
“Voi
ci riferirete ogni parola del
pontefice e voi gli riferirete ogni nostra parola”, gli
semplificò la questione
l’ambasciatore sier Hironimo.
“Se
n’accorgerà, figurarsi! Mica è nato
ieri!”
“Avete
studiato giurisprudenza, domino
Cajtan, rigirare le parole a vostra convenienza non dovrebbe risultarvi
complicato”, non si lasciò commuovere il Donado.
“Avete
ricevuto la tonsura, è vero, e dovete
lealtà a Cristo e alla Sua Santa Chiesa”, gli
concesse più benevolo il cardinal
Corner. “Ma siete anche veneto e dovete lealtà
alla madre che vi ha generato.
Ora questa madre è violentata, umiliata, saccheggiata e le
persone che vi hanno
nutrito ed allevato disperse, angariate, uccise. Volete voi prolungare
il loro
martirio? Chi state servendo in realtà? È il
vostro orgoglio che vi impedisce
di aiutare la vostra madrepatria? O la vostra ambizione?”
“No!”,
negò veemente Cajtan, scotendo
il capo. “Non è questo! È che mi pare
disonesto ripagare la fiducia concessami
dal Papa, tramando alle sue spalle! È pur sempre il vicario
di Cristo e …”
“…
e bestemmia, sodomizza e va di
persona alla guerra. In quale aspetto è più santo
degli altri cristiani?”
Il Thiene
aprì la bocca e boccheggiò
qualcosa alla stregua d’un pesce fuor d’acqua,
incapace di giustificare l’atteggiamento
poco consono di Giulio II alla carica ricoperta. “Il suo
essere un peccatore
non condona il mio abbassarsi al suo livello”,
sentenziò infine. “Soltanto
perché lui pecca, non significa che debba farlo
anch’io.”
“An,
così soccorrere la vostra
madrepatria equivale a peccare? Ignoravo questa
novità”, asserì implacabile il
cardinal Grimani, la fronte aggrottata e un’espressione
arcigna in volto, che
non suscitava molte speranze di clemenza da parte sua. “Non
soltanto si pecca in
parole e opere, domino Cajtan, ma anche in omissioni.
E voi, ch’avete la
possibilità d’aiutarci a vincere questa guerra, vi
rifiutate di prender partito
e di dare il vostro contributo!”
“Avete
preso i voti per vivere senza
infamia e senza lode?”, infierì Marco Corner.
“O
forse la vostra decisione già l’avete
presa e dobbiamo considerarvi nostro nemico?”,
insinuò malevolo sier Hironimo.
“No!
No, non vi sono nemico!”, protestò
scioccato il Thiene. “Non ho mai rinnegato le mie
origini!”
“Lo
state facendo ora!”, appurò al
contrario domino Nicolò Lipomano. “Come tutti i
codardi traditori, ora che
Veniexia è morente, voi le voltate le spalle!”
“Ma
io … non è vero! Non … è
che non
posso e non voglio né mentire né congiurare, io
… io non ho preso i voti per interessi
personali o … o per perseguire il male, io
…”
“Voi
siete figlio d’un conte”, gli
ricordò sier Hironimo, “e se proprio non ve ne
cale un fico secco della
Repubblica e dei suoi cittadini, almanco degli abitanti delle vostre
terre
dovrebbe importarvene! Dei loro paesi messi a ferro a fuoco! Dei fiumi
tinti
del loro sangue! Delle stragi, delle morti perpetuate dal furore
gallico e
teutonico, che non conosce pietà e che giorno dopo giorno si
abbatte su povera
gente inerme! E invece no, per amor della vostra presunta correttezza
anche loro
avete abbandonato! E per che cosa? Per chi? Degli accattoni romani,
bravi solo
a mangiare a sbafo e a grattarsi la panza, senza curarsi di lavorare
per vivere?
Per un vecchio porco che palpeggia i ragazzini? Per un bordello
chiamata
Basilica di Sen Piero? Per una cloaca fetente appellata Roma?”
“Conobbi
bene vostro padre, il conte
Gaspare”, scosse il capo deluso domino Domenego.
“Un valent’uomo devoto alla
Signoria, pronto al sacrificio per i suoi. A vedere la vostra
pavidità si
vergognerebbe al punto da maledirvi: costui non è
un Thiene, non è figlio di
conti veneti: costui del Papa e di Roma è lo schiavo!”,
e gli puntò l’indice
contro, le sue parole più affilate e dure di una spada di
Toledo, che
penetrarono nel cuore del chierico vicentino, ammutolendolo.
Alla
menzione del padre, la cui
venerata memoria Cajtan serbava in cuore, avendolo perduto appena
dodicenne e
pertanto amandolo al pari d’un beato, egli si
sentì morire al solo pensiero che
il fu conte Gaspare da Thiene potesse biasimarlo e disconoscerlo
dall’oltretomba.
L’uomo s’accasciò su se stesso, il capo
chino, dilaniato dall’amore cristiano
che significava anche pregare per il nemico e la mai sopita fierezza
d’appartenere
alla Serenissima. Si era sempre considerato troppo insignificante per
poter
cambiare le sorti della madrepatria, o forse aveva intimamente sperato
di non
rimanerne coinvolto? Dopotutto, per amor di Cristo aveva rinunciato al
mondo,
ma esso ora lo chiamava a gran voce, le ombre degli estinti suoi
conterranei
gridavano giustizia e protezione verso i loro cari sopravvissuti alle
angherie
dello straniero. Che fare? Zittirle? Rimanere neutrale? Compromettersi
per un
bene superiore? Davvero tutto sulla terra era vanità? Oppure
v’erano dei principi
eterni e incontestabili?
“Figlio
mio”, gli pose il cardinal
Grimani una mano sulla spalla, provocando un lieve sobbalzo nel Thiene,
non
essendosi reso conto di come il porporato si fosse nel frattanto
alzato. “La nostra
gente non sta morendo per la fede, per mano d’infedeli a
testimonianza del
Verbo incarnato. Muore per mano di vili peccatori, per la loro invidia
e
cupidigia. Preservare i nostri compatrioti dalla morte non
macchierà la vostra
anima, semmai l’esalterà per la pena che tale
scelta le ha inflitto.”
“Avete
ragione: tanta doppiezza già per
me corrisponde ad uno strazio.”
“Equivalga
dunque esso alla vostra
penitenza. Non temete, fio mio: Dio capirà il vostro
sacrificio e vi perdonerà.”
“Prego
sia così, reverendissimo domino,
prego ardentemente sia così”, si coprì
Cajtan il volto tra le mani,
arrendendosi però alle richieste dei suoi conterranei.
***
A seguito
della visita del cerusico, Leka
Busicchio e Zilio Madalo si davano il turno, pur con discrezione, di
controllare con maggior frequenza le condizioni di salute del loro
capitano e
siccome quest’ultimo non poteva protestare, contro i suoi
illogici ordini il
collega aveva imposto almeno allo scudiero di portare seco la branda e
di
vegliare in tenda Mercurio, sicché Hironimo e
Thomà si videro costretti a
rimandare a tempi più tranquilli ogni loro tentativo di
liberarsi dai ceppi.
“Sdrissa
chea man! No te sè drio arar
el campo, ti!”
“A
me fan male le dita, patron!”
“Made!”
Pertanto,
impossibilitati a dormire a
causa di quel costante andirivieni, nonché dai mugugni di
Mercurio Bua – oltre
che ad agitarsi, adesso pure parlava nel sonno -
i due prigionieri avevano deciso d’impiegare
il tempo come potevano e al giovane Miani era balzata in mente
l’idea
d’insegnare a leggere e a scrivere a Thomà,
così da distrarlo dallo stomaco
gorgogliante. Il terreno fangoso sotto le stuoie bombe
d’acqua si presentava
ideale, essendo il limo penetrato ormai ovunque e restituendo anche
qualche
bastoncino e foglia, credutisi seppelliti dopo averlo battuto per
erigervi
sopra la tenda. Che importava se sporcavano o, scostando le stuoie
decisamente
consunte, facevano pervenire l’umidità? Al primo
cenno d’attività esterna o
interna, si copriva tutto in fretta e furia e d’altronde il
padiglione intero,
imbevuto da mesi e mesi di pioggia, puzzava di terra e acqua rafferma.
La paglia
stessa su cui i due prigionieri sedevano, non avendola ancora nessuno
cambiata,
si presentava anch’essa bagnata, maleodorante e lercia, come
incrostate
apparivano le loro gambe nude e l’orlo mai asciutto delle
rispettive camice.
Così,
trascritte le lettere dell’alfabeto,
Hironimo aveva ceduto la penna improvvisata al fantolino che malgrado
le ore e
ore di pratica, ancora s’ostinava d’impugnare il
bastoncino dritto nel pugno,
invece di inclinarlo limitandosi ad usare le prime tre dita. E mica ci
credeva
il patrizio trattarsi di stanchezza, anche quando Thomà
scrollava la mano con
fare tragico, bensì di vera e propria pigrizia da parte sua
ché appena
rimbeccato, infatti, subito il piccino correggeva la postura e scriveva
da
cristiano.
“Hai
finito di scrivere il tuo nome?”
“Siorsì”,
annunciò fiero il bambino e,
puntando il dito sporco su cadauna lettera, lesse con esasperante
lentezza: “TO-MM-A
DI VIET-OR MA-RAN-CON.” Si girò verso Hironimo in
speranzosa attesa.
Scorrendo
la punta del bastoncino sulla
grafia sgangheratissima, il giovane gli indicò laddove il
fantolino aveva
toppato. “Uhm, allora, qui ci andrebbe la h”,
sottolineò, “e l’accento
sopra la a. Così. Poi tu dici di
chiamarti Thomà, quindi ci va
una m de manco. Riscrivi sotto … No! Non
cancellare, altrimenti non ti
ricordi!” Un fugace sorriso gli illuminò il volto
stanco, ripensando alle sue
prime scaramucce con la scrittura nonché alle ben
più severe punizioni del suo
magister, quando messo dinanzi ad errori sì grossolani.
Piegandosi
quasi a metà, Thomà
riscrisse il suo nome, mormorandolo a mezza voce durante il processo,
come se
se lo stesse dettando.
“Il
nome del tuo sior Pare?”, continuò
Hironimo.
“Gera
Vetor, chome l’on dil do sancti
patroni de Feltre! [6] Anca el sior Pare d’Andrea Trepin se
ciamava Vitor!”
“E
tu come l’hai scritto?”
Thomà
arricciò il naso, leggendo
parecchie volte a fior di labbra lo scarabocchio sul fango.
Quand’ecco,
l’illuminazione. “Oh, la perdonança,
patron! Sença la i !”,
esclamò,
mettendosi subito a correggere. Volendo strafare onde dimostrare la sua
diligenza, anticipò Hironimo soggiungendo: “E la g
- chea durra - al
posto di la c, m-a-r-a-n-g-o-n!”
Il
patrizio annuì compiaciuto. “Ultima cosa:
non va bene il di bensì devi usare il quondam
riferito a Vetor”,
e pronunciò con molto tatto quella parola, specie dopo aver
conosciuto l’orrida
fine del padre di Thomà e della sua famiglia.
“Che
vorave dir cuo-n-diam?”, si grattò
invece la testa il fantolino, confuso.
“Quondam
significa fo” - ché
el sior tòo pare nol xélo pì in vida,
avrebbe voluto Hironimo aggiungere,
ma per delicatezza tacque.
“Che
lengua xelà, patron?”
“Latino.
Come fai a non riconoscerla?
Quando preghi, non reciti Pater Noster e Ave
Maria? Ecco, quello
è il latino. Varda, così compare il tuo nome
negli atti ufficiali: Thomas
q. Victoris fabri filius”, scrisse, la differenza
di grafia un pugno
nell’occhio, lasciando a bocca aperta il fantolino che,
affascinato, la calcò
con l’unghia sporca e azzardò di leggerla,
meditando sul suono bizzarro
prodotto, così diverso dalla lingua che parlava
quotidianamente.
Poi
riprendendosi dal suo stupore: “La
siora mea Nona, no me gh’ha mai insegnà el latin,
manco per orar. Depo’ perché mi
gh’ho da orar en ‘na lengua, che mi nol capisso ni
cognosso se no a memoria? A
me par falso. Mi a la Madona ghe parlo pulito en veneto de Feltre,
perché aliter
mi no sapria dirgheLe le cosse che vojo.”
“Lei
già conosce ciò di cui hai
bisogno, prima ancora che glielo domandi. Come disse Dante: La tua benignità non pur
soccorre a
chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre
…”,
quand’ecco un brivido,
mentre recitava quel verso, gli attraversò
l’intera lunghezza della schiena,
risalendo fino alla radice dei capelli e inspiegabilmente Hironimo si
sentì
bruciare gli occhi, quasi gli fosse sorto in petto una gran voglia di
piangere.
Bizzarro,
bizzarro invero che dopo
quindici anni di totale aridità e disinteresse spirituale,
proprio ora quelle
poche letture di tema religioso gli stessero riaffiorando alla mente,
turbandolo e punzecchiandolo come il puttino col cadavere di una medusa
arenatasi
sulla spiaggia.
“Patron?”
Hironimo
sbatté le palpebre, arrossendo
lievemente per quell’attimo di debolezza.
“Dime.”
“Ma
‘sto Dante, l’gera amigo vuostro?
Lo gh’avé senpre en bocha.”
Le labbra
del giovane Miani si
piegarono in una buffa smorfia e Thomà, vendendolo allungare
il braccio e
paventando l’ennesimo scappellotto, prontamente
serrò gli occhi e si preparò
all’impatto, sennonché la mano viaggiò
oltre la nuca, cingendogli le spalle e
trascinandolo contro il petto del più anziano.
“Co’ te impari a menadèo
l’abezedé mi
te parlarò di Dante.”
Thomà
gli mostrò la fila di denti,
entusiasta all’idea di conoscere l’amico del suo
patron, anche se capiva
soltanto la metà delle sue citazioni. Un foresto,
sicuramente. S’apprestò quindi
a far promettere ad Hironimo, quand’ecco che lo scudiero di
Mercurio si pose in
piedi, avvertendo l’appropinquarsi di passi al padiglione.
Velocemente, i due
prigionieri risistemarono la stuoia, nascondendo il tutto
ché gli stradioti non
misinterpretassero, credendolo un piano di fuga o diosacché
di losco.
“Come
sta, Niko?”, s’informò subito Leka
Busicchio. “S’è agitato molto?”
Lo
scudiero annuì. “Solo verso le prime
luci dell’alba ha smesso sia di rigirarsi simil diavol
nell’acqua santa, sia di
parlare nel sonno.”
Leka
osservò a lungo la pelle tirata e
cinerea del suo collega, le ciglia appoggiate su profonde occhiaie.
“E quei
due?”, indicò col capo Hironimo e
Thomà, divenuti più inespressivi di statue di
pietra.
“Immobili
al loro posto, sebbene …”
“Cosa?”
“Forse
mi sbaglio, però li ho sentiti
confabulare ogniqualvolta voi e Zilio uscivate dalla tenda.”
“E
tu non sei mai andato a
controllare?”, soffiò pericoloso Leka, fissando in
cagnesco lo scudiero e
torreggiandolo minacciosamente.
“Mi
avevate ordinato di vegliare sul
capitano ed io questo ho fatto”, si difese il ragazzo,
sudando freddo. “Eppoi,
dove volete che fuggano, specie il nobiluomo ch’è
legato al polso del capitano!”
Busicchio
schioccò la lingua pieno di
disprezzo, portandosi davanti a Miani, che ricambiò lo
sguardo diffidente di
lui con un vezzoso reclinare del capo.
“Così
ti piace chiacchierare di notte,
al posto di dormire, eh?”, esordì il capitano con
velenosa ironia. “Di’ un po’,
perché non ci rendi partecipi?”
“Ah,
ed io anche te le riferisco?”, gli
rispose invece Hironimo con magnanima sufficienza. “Ignoravo
voi stradioti
foste delle tali pettegole!”
Leka
grugnì beffardo, accucciandosi
all’altezza del patrizio e, fissandolo dritto negli occhi,
sibilò: “Al tuo
posto, non mi darei tante arie né tirerei la corda,
atteggiandomi dal re degli
smargiassi. Tu non sei che un ostaggio, anzi, il più inutile
degli ostaggi
poiché dopo quattordici giorni, ancora nessuna proposta di
riscatto né di
scambio. Coi due capitani bellunesi, al contrario, abbiamo incassato in
neanche
due giorni. Silenzio totale dalla Signoria tua. Forse, ai suoi occhi
non vali
quanto credi. O forse, ha la memoria corta. Magari”, e
lentamente estrasse
dalla fodera il pugnale, “magari se le spedissimo un tuo dito
o un orecchio,
forse gliela rinfrescheremmo …”,
sogghignò ed Hironimo, pur con la lama a
qualche pollice dalla guancia, ricambiò mostrandogli ferino
i denti, deciso a
non lasciarsi intimidire pur terrorizzato all’idea di quella
barbara mutilazione.
“Tagliagli
anche un solo capello e alla
Signoria spedisco la tua, di testa.”
Hironimo
avvertì sopra la sua spalla il
gelo di una spada rivolta contro Busicchio che, rialzandosi,
optò per
rinfoderare il pugnale. “Non ti scaldare, Maurikos, stavo
scherzando”, si
giustificò ridacchiando. “Noto con piacere come la
febbre non t’abbia privato
della sua solita prudenza di dormire armato …”
Stringendo
l’elsa e digrignando i
denti, il greco-albanese berciò al collega:
“Ancora malakas non l’ho
scritto sulla fronte. Costui”, e il patrizio
avvertì il pizzicore della lama
sul collo, “sa bene quale ben triste fine
l’attende, in caso volesse fregarmi.”
“D’accordo.
Tuttavia, dormirei sonni
più tranquilli se tu richiamassi in tenda almeno i tuoi
famigli”, negoziò Leka.
“E non dico perché dubiti della tua
capacità di difenderti da questo qua, bensì
per la febbre la quale … la quale ne sta falciando perfino
ora che stiamo
parlando”, sospirò, passandosi una mano sulla
fronte. “Negli ultimi giorni non
si fa che seppellire morti, ché o si crepa di febbre o
impiccati per aver
tentato di attraversare la Piave. Si viene alle mani per un tozzo di
pane … In
ogni modo, il cerusico è stato chiaro: dobbiamo controllare
che …”
“Conosco
bene, ciò che state aspettando
ch’appaia sul mio corpo. San Giorgio sia laudato, tuttora la
morte mi schifa”,
grugnì affaticato il condottiero, riponendo via
l’arma e puntellandosi sui
gomiti, intanto che lo scudiero gli sistemava i cuscini dietro la
schiena. “Peccato
che non ci siano più le epidemie di una volta,
m’avrebbe giovato assai gettar
terra sopra a qualcheduno dei nostro colleghi comandanti”,
mormorò
spassionatamente, lanciando un’occhiata significativa a
Busicchio. “Quali nuove
del maresciallo? Arrivano o no, questi tanto favoleggiati cannoni
ferraresi o
ci hanno promesso l’araba fenice?”
Lo
stradiota prese posto accanto a lui,
totalmente dimentico della sua questione con Hironimo. “La
Palice dovrebbe
giungere o oggi o domani. O anche dopodomani,
chissà”, bisbigliò sottovoce.
“Purtroppo,
stando ad un suo emissario, il fango ha rallentato di molto lo
spostamento
dell’artiglierie ed i fiumi sono così ingrossati,
da impossibilitarne
l’attraversamento. Anzi, a Liziera presso Cittadella ne hanno
perso uno,
cascato come un pero giù in acqua.”
Mercurio
mordicchiò pensoso l’unghia
del pollice. “Dunque ripiegherà su Bassano e
tenterà di passare per il suo
ponte”, concluse.
“Sarebbe
la scelta più saggia.”
“Saggia?
Non ne possiede altre”,
contraddisse Mercurio il suo collega. “Cittadella si trova
nel raggio d’azione
di Padova ergo del provveditore Federico Contarini e delle sue bande.
Se La Palice
è lì impantanato e non riesce ad attraversare il
fiume, per forza dovrà
dirigersi a Bassano ch’è più lontana e
in apparenza più sicura. Nondimeno, ci
scommetto i miei speroni d’oro che i Veneziani qualcosa
lì combineranno pur d’intralciarlo.
Un dirottamento troppo ovvio da passare inosservato. ”
Leka
allargò fatalista le braccia,
sconfitto dall’inconfutabile logica del conterraneo.
“Piuttosto,
non hai qualcosa di meglio
per colazione? Se non la febbre m’ammazza questo pane
schifoso, talmente nero
che pare l’abbiano bruciato!”, si lagnò
Mercurio, cui i giorni di digiuno
forzato avevano stimolato un certo appetito.
“Questo
passa al convento; da Noale e
da Castelfranco arriva sempre meno farina macinata e i saccomanni,
colpa lo
zelo dei nostri parenti marcheschi, non osano addentrarsi troppo nella
Marca,
temendo di finire loro prigionieri. Abbiamo inviato una richiesta
d’approvvigionamenti sia a Giovanni Gonzaga che ai Conti di
Collalto, solo
quest’ultimi ci hanno inviato quanto necessario.”
“Tzé,
il nostro pane se lo sarà sicuramente
mangiato tutto quella grassa giovenca della Marchesana di
Mantova”,commentò
sardonico Mercurio, annusando accigliato la pagnotta. “Ora
come ora, mi domando
chi sia veramente l’assediato, qui, se noi o i
Veneziani.”
“Quando
rientrerà La Palice, questo
stallo si sbloccherà di certo. Jean d’Aubigny
s’è definitivamente installato a
Cividal di Belluno: come avevi previsto, quei furbi di bellunesi hanno
dichiarato neutralità e pertanto evitato di pagare il
riscatto di 4000 ducati!”
“Maggior
ragione per i Tedeschi per disertare
in massa verso il Friuli.”
Leka
incrociò le braccia al petto. “In
tutta onestà, avrebbe senso: è strategico - pensa soltanto a Gradisca!
- e n’avremo in
abbondanza per l’inverno. Perché non attaccarlo?
E’ indifeso ora, fiaccato dalla
rivolta popolare, dal terremoto e dalla pestilenza. In questo modo
apriremo un
altro fronte per i Veneziani, indebolendoli ulteriormente.”
“Ah
beh”, soffiò il Bua, abbandonando
disgustato ogni tentativo d’addentare quel pane poco
allettante. “Già piango i
Tedeschi che invaderanno le terre di Girolamo Savorgnan del Monte e di
suo
cugino Antonio Savorgnan.”
“E
chi soni costoro?”
Il
condottiero piegò la bocca in una
smorfia complice. “L’incubo di
Massimiliano.”
Una
nobile famiglia friulana di
frontiera, guerriera e ostinata. Mercurio aveva conosciuto
personalmente Jacopo
Savorgnan a Fornovo, Novara e San Regolo (un diavolo a cavallo!) e non
dubitava
dei racconti di come Hironimo Savorgnan suo parente avesse fermato con
un
contingente di cernide [7] l’avanzata delle truppe di
Maximilian in Cadore nel
1508, permettendo a Bortolo d’Alviano di tagliar la strada ai
tedeschi e di
massacrarli nella battaglia di Tai di Cadore in pieno inverno e con la
neve alta
fino alle ginocchia. Tale era stato lo sdegno della Serenissima per
quell’ingiustificata invasione e razzia dei suoi territori da
parte
dell’Imperatore, da non mostrare alcuna pietà,
passando a fil di spada i
soldati tedeschi arresisi e invocanti misericordia e coloro che
riuscirono a
sfuggire ai marciani e agli stradioti, perirono ugualmente per mano
della
popolazione cadorina, arrabbiata al limite per le ruberie dei tedeschi
che li
avevano privati delle scorte destinate ai lunghi mesi invernali. Quel
giorno le
Dolomiti s’erano tinte di rosso e non per
l’Enrosadira.
Da quanto
Mercurio aveva appreso, Hironimo
Savorgnan era stato nominato senatore soprannumerario dalla Signoria,
fatto
straordinario poiché non appartenente al patriziato
veneziano, per
ricompensarlo delle sconfitte inflitte a Maximilian sui confini
orientali della
Repubblica. Inoltre, il condottiero aveva saputo anche del cugino
d’Hironimo
Savorgnan, Antonio
Savorgnan o Antoni il
Sassin, che con un trucco degno di Odisseo, aizzando la popolazione
udinese
credutati assediata dagli imperiali, aveva fatto da essa massacrare la
famiglia
rivale dei Della Torre, filo-imperiali e capi riferimento degli
Strumieri, il
dì del Giovedì Grasso di quello stesso
anno. Molti polsi erano tremati ai racconti di come i contadini
avessero
indossato gli abiti degli aristocratici uccisi per inscenare una
macabra
mascherata dove ne imitavano i comportamenti, in pieno spirito del
“gioco delle
parti” del Carnevale. Dalla città di Udine questa
rivolta s’era estesa a tutto
il Friuli con massacri, stupri e saccheggi ai danni della
nobiltà locale - Crudel
Joibe Grasse, il Crudele Giovedì Grasso,
l’avevano chiamato.
Adesso il
clan dei Savorgnan si trovava
però isolato e dai sanguinosi disordini interni tra
Strumieri e Zamberlani ne
erano usciti indeboliti nonché impopolari, rendendoli facile
preda, eppure
qualcosa suggeriva al Bua che, anche conquistando la Patria del Friuli,
finché i
Savorgnan fossero rimasti in vita nessun tedesco avrebbe dormito sonni
tranquilli. Era cosa notanda, infatti, il loro secolare vassallaggio a
San
Marco.
“Il
tuo pessimismo mi conforta”, arcuò Leka
il sopracciglio.
“Difficile
rimanere di buonumore,
quando sussiste la possibilità di morire inermi di
pestilenza. O di fame”,
ribatté seccamente Bua. “Se attaccassimo il
Friuli, ci allontaneremmo da
Treviso, fornendo ai Veneziani tempo e modo di trasformare la Marca in
una
frontiera invalicabile, intanto che i cugini Savorgnan e le loro bande
ci
trasformano in spiedini da bivacco, logorandoci in
un’infinita guerra di scaramucce
e agguati. No, appena La Palice arriva, dobbiamo levare il campo e
sforzare la
linea fino a giungere sotto le mura di Treviso e lì porre
l’assedio.”
“Come?”
“Nervesa.
È fondamentale occuparla: la
Piavesella è il collegamento con la Piave che ci serve per
trasportare fino al
Sile le artiglierie.”
“Non
avevi previamente affermato come
la città fosse inespugnabile?”
“Le
sfide mi stuzzicano.”
“Sta
bene. Al suo ritorno, cercherò di
persuadere il maresciallo a radunare quanto prima tutti i comandanti
per
discuterne”, si pose in piedi Busicchio, contento di quel
piano e del ritrovato
vigore nel collega. “Tu però riguardati, senza di
te questo assedio non lo
vinciamo.”
Mercurio
scrollò le spalle in apparente
disdegno di quel complimento, ma dal modo in cui arricciò
compiaciuto le labbra
tradì il suo intimo gradimento.
Uscito
Leka dal padiglione, Mercurio si
sistemò seduto, contemplando a malincuore la magra
colazione. “Niko”, riferì
allo scudiero, sollevando con sospetto la fetta di carne affumicata.
“Doveste
voi tutti pizzicare i tedeschi o i francesi intenti a scambiare i
nostri
cavalli per prosciutto, avete il mio permesso d’utilizzarli
per carne da
spezzatino.” Troppo spesso il greco-albanese aveva assistito
a simili episodi
di soldati talmente affamati e disperati, da macellare i propri
cavalli.
Piuttosto di mangiarsi lo strumento essenziale del suo lavoro, il Bua
avrebbe
preferito, nel peggiore dei casi, cambiar committente e al diavolo
l’onore.
“M’han
detto esser bue, capitano.
Quelli presi ai contadini.”
Il pezzo
di carne cadde pesantemente
sul piatto. “Quelli destinati a trasportare i
carri?”
Lo
scudiero annuì velocemente,
confermando i timori del condottiero: dai buoi ai cavalli la strada era
breve,
così male versava l’accampamento?
Maledizione, doveva subito conferire con Molard e Gambara,
prima
abbandonavano Montebelluna prima avrebbero evitato …
L’uomo
si passò una mano tra i capelli
sudati, inspirando profondamente, la visione sconvolta da repentine
vertigini.
Un’ora soltanto di veglia e già si sentiva stanco,
anelando a riprendere il
sonno interrotto. Si sentiva miracolosamente meglio rispetto al giorno
precedente, la febbre abbastanza calata da consentirgli una parlata
coerente
nonostante però egli seguitasse a dormire da cani, la mente
piagata da incubi e
il corpo rigido dai muscoli intorpiditi.
Per
quanto odiasse ammetterlo, Leka
aveva ragione, doveva ritemprare il suo corpo e scrollare la stanchezza
della
malattia dal suo cervello, impedendogli di coordinare azione e
volontà. Era
convalescente, non guarito. Inoltre, le febbri e la carestia nel campo
avrebbero ridimensionato l’ego di quei pomposi aristocratici,
riportandoli a
più miti consigli e bisognosi di sostegno e in quel
frangente Mercurio avrebbe
trovato riscatto e autorità, azzerando la sua figuraccia a
Treviso in una
piccola e perdonabile defaillance.
Confortato
da tali pensieri, il Bua congedò
lo scudiero mandandolo a chiamare il cerusico e addentò la
carne (schifosissima
ma s’era nutrito di cibo ben peggiore), interrotto da un
inaspettato e rumoroso
gorgoglio di stomaco. Si girò e scovata la fonte,
l’uomo si lasciò andare ad un
perfido sogghigno.
“Come
ci si sente”, stuzzicò il suo
prigioniero, “ad ascoltare impotenti i piani
d’attacco del tuo nemico, conscio
di come saranno la rovina della patria tua?”
Hironimo
corrugò la fronte ma non
proferì alcuna parola né diede segno
d’aver proprio ascoltato.
“Ormai
dovresti averlo capito, di come
la Signoria stia combattendo una guerra perduta in partenza. I suoi
nemici sono
troppi e ben uniti nel comune odio contro di lei. Ammirevole la sua
resistenza
di due anni, almeno si scriverà di come la Serenissima sia
capitolata con la
spada in mano.”
Il
giovane Miani s’ostinò a tacere,
registrando tuttavia quell’uso singolare della terza personal
plurale al posto
della prima, quasi il greco-albanese volesse tenersi fuori dalle beghe
e
invidie ch’avevano condotto al conflitto.
“Scommetto,
che ti piacerà molto ritornare
allo status di semplice mercante di una città ridotta ad
anonima provincia
dell’Impero. No?”
Niente,
silenzio.
Mercurio
reclinò il capo, deluso da
quell’indifferenza. “Cos’è? Il
gatto t’ha mangiato la lingua? Non ti degni più
di parlarmi?”, sbuffò irritato. Afferrata una
fetta di carne, con crudele gusto
gliela tirò contro, colpendolo in piena faccia e ungendo la
pelle già di suo
sporca.
Hironimo
ingoiò le labbra, le nari
dilatate dalla rabbia. Ciononostante, senza dir nulla raccolse la
carne, ci
soffiò sopra e datole un morso la cedette poi a
Thomà, che l’ingollò in un sol
boccone.
“A
piacer tuo, pescivendola altezzosa.
Non parlarmi – non me cale una cippa. Invece, smettila di
giocare al buon
samaritano e mangia qualcosa. T’ho già detto che
da morto non mi servi!”
“Ed
io t’ho già detto”, schioccò
annoiato la lingua il giovane patrizio, “che se non mangia il
bambino, non
mangio neanch’io.”
“Tu
fai quello che dico io. O proprio
quel cervello moscio non afferra la tua situazione?”
“Io
so che si comanda ai soldati e alla
moglie e, mi pare, io per te non sono né l’uno
né l’altro. Sebbene, il mio
signor padre spesso affermava come né al vento né
alle donne, specie le mogli,
si può imporre alcunché.”
Ripensando
a Caterina e sentendosi
pigliato in castagna, il greco-albanese dichiarò sprezzante:
“Tuo padre era un
idiota smidollato.”
Gli occhi
nerissimi d’Hironimo
assunsero una tinta quasi vermiglia da quanto si dilatarono e per un
folle
istante, Mercurio percepì un inusuale sconquassare di
viscere. “An, non
insultare mio padre, altrimenti incomincio col tuo. E ne ho di cose
interessanti da dire, credimi”, sibilò aspro, il
bel volto ridotto ad una
grottesca maschera da Gorgone Medusa.
Bua
avvertì il sangue ribollirgli a sua
volta nelle vene. Di Pietro Bua Spata conservava vaghissimi ricordi,
morto
infatti quanto il figlio era appena undicenne. Ciononostante, egli era
cresciuto imbevendosi dei racconti dei suoi parenti, anelando ad
imitarne il
coraggio e il prestigio se non proprio di superarlo. “Mio
padre era un uomo da
bene!”, ringhiò il condottiere, tirando la catena
così da far cadere riverso il
giovane Miani che, dimentico della precarietà della sua
situazione, altrettanto
porporino in faccia dallo sdegno gliela tirò di rimando e
per poco Mercurio non
cascò dal letto, portandosi allo stesso livello del patrizio
che gli soffiò
contro:
“Il
mio anche!”
“Tuo
padre era un suicida!”, infierì
Mercurio, sovvenendosi all’improvviso di quel tanto
chiacchierato episodio e
ricollegando nomi e persone. “Si dice che l’abbiano
tirato giù alla stregua
d’un criminale alla forca!”
“Menzogne
da carogna!”, gridò
spaventoso Hironimo, tanto che Thomà balzò in
piedi, guardando vigile i due
contendenti. Mercurio s’irrigidì in difesa pronto
a parare il pugno che s’aspettava,
che l’intera figura tesa in avanti del veneziano tradiva. Ma
non arrivò mai,
limitandosi quest’ultimo ad avvicinare il viso al suo e di
fissarlo rabbioso.
“L’hanno ammazzato per invidia e chi sostiene il
contrario è una lurida testa
di …”
“Stai
zitto, ti fa più onore”, tagliò
corto arrogantemente il greco-albanese, risistemandosi sulla branda e
fingendo interesse
per i contenuti del piatto. Si passò una mano sul collo,
massaggiando i muscoli
indolenzenti e percependo con preoccupazione il calore sospetto dietro
l’umidità della pelle.
Miani
all’udire ciò proruppe in una
gaia risata di scherno. “Signore e signori, dame e cavalieri,
ecco a voi
Mercurio Bua Spata l’eterno indeciso, che
s’arrabbia se gli parlo e altrettanto
s’arrabbia se non gli parlo. Insomma, deciditi una buona
volta: cosa vuoi da
me?”
Preso di
contropiede nella sua evidente
contraddizione nonché da quel repentino cambiamento
d’umore, il Bua aspirò
l’aria frustrato, maledicendo il giorno in cui aveva deciso
di non chiedere il
riscatto anche per quella tarma antropomorfa, dopo aver riscosso quello
dei due
capitani bellunesi. “Mangia, non mi scocciare”,
intimò al suo prigioniero,
lanciandogli un altro pezzo di carne che Hironimo addentò
con sospettosa
docilità.
“A
proposito”, si sovvenne quegli, deglutendo
con rumorosa teatralità, gli occhi nerissimi brillanti di
sinistra malizia, “quest’è
carne di cavallo” e gongolò maligno
all’afflosciarsi della bocca dello
stradiota, da cui cadde il bolo sul piatto.
“Tu
menti per la gola!”, trillò
scandalizzato e si nettò celere le labbra col dorso della
mano, studiando
incredulo la poltiglia mezza mangiucchiata.
Hironimo
allargò il sorriso, staccando sornione
un altro morso di carne per poi cederla definitivamente a
Thomà. Povero, povero
Mercurio, pensava beffardo, meno male ch’era giaciuto
semisvenuto sulla sua
branda, così da risparmiarsi gli angosciati nitriti dei
cavalli mentre i
soldati, data la scarsità di provviste, li inglobavano nella
loro nuova dieta.
***
Ripresosi
dalla fatica del viaggio e la
pancia piena dell’ottima trippa preparatagli, Orlando da
Bergamo si mise
immediatamente al lavoro, convocando assieme ai suoi sottoposti e
concittadini
Batistin e Zuan Antonio il resto dei bombardieri a Treviso, cinquanta
in tutto,
una pelliccia pezzata di maestranze da ogni parte dei Domini di Terra e
di Mare
e anche d’Italia. Ad assistere gli stavano accanto sier Marco
Contarini “dai
Scrigni” e suo cugino sier Nicolò Donado
“dalle Rose”, all’occasione traducendo
qualche espressione bergamasca per miglior comprensione e Orlando
stesso si
sforzava di parlar moscheto [8].
Il
presidente delle artiglierie s’era
informato sul numero esatto delle bocche di fuoco; sul calibro e
tipologia;
sulla quantità disponibile di polvere da sparo e di balote;
sulle loro attuali
postazioni lungo le mura e i bastioni e l’unità
operativa ad essi dedicata, di
in quanti fossero e dove avessero ubicato i mastri bombardieri.
Le
risposte lo lasciarono abbastanza
soddisfatto, complimentando (così da rendersi subito
benvoluto) i mastri per la
saggia collocazione dei cannoni, specialmente quelli sulle porte
cittadine e
sui bastioni. Invece, era rimasto un po’ perplesso sulla
mancanza di un
adeguato sfruttamento delle gallerie interne per posizionarvi
l’artiglieria e
di conseguenza, Orlando aveva annunciato che lì avrebbe
implementato dei
cambiamenti, anche considerando l’incessanti giornate di
pioggia non ideali per
la polvere da sparo. Appellatosi alla pazienza e buona
volontà dei bombardieri,
li aveva chiesto di mostrargli la cinta muraria, sia i camminamenti
esterni che
le gallerie interne.
E fu
durante questo pellegrinaggio,
mentre si dirigevano al Castello, che Orlando s’era fermato
all’improvviso,
contemplando in estasi il campanile di San Nicolò.
“Sier
Marco, sier Nicolò”, aveva
esclamato, indicando l’edificio. “Con vostra buna
licenza, voj menà icsì el
sacro de 6.”
I due
cugini levarono in alto gli
occhi, sgranandoli tra l’incredulo e lo scettico. Quasi
leggendoli i pensieri,
Orlando li aveva invitati a salire fin in cima con lui e, una volta
dinanzi
alla vastità del campo visivo offertogli, l’uomo
li aveva spiegato come il
campanile fosse perfetto giacché alto a sufficienza per
colpire a tutto tondo
la batteria nemica, ovunque essa si spostasse, nonché in
posizione tale da
rendere impossibile ai fuochi nemici di centrarlo.
All’obiezione del giovane
Contarini, se il bergamasco fosse certo che i franco-imperiali non
disponessero
d’artiglieria di lunga gettata (memore infatti
dell’assedio di Padova dove l’Imperatore
aveva portato certe bocche di fuoco il cui rombo s’era udito
fino a Venezia)
questi rispose con un sogghigno malevolo come i pezzi migliori stessero
adesso
ospitando sott’acqua i pesci di Liziera.
Sicché,
chiamati i robusti bastasi
(facchini, ndr.) mandati da Venezia, ci si era rimboccati le maniche
per
trasportare il sacro sul tetto.
“Porco
d’un can! Strénzi ben sto gropo
(nodo, ndr.), potta d’un cancaro, situ cascà da
picolo di la carega (sedia,
ndr.) che gnanca ti te sè bon a far ‘na cossa
sì fassile?”
“Mi
fazzo el gropo dil’apichato - mi
fazzo; cheo che ti me gh’ha dito -
mi fazzo. Chea vaca putana, cossa me veniu a
insolentare, an?”
“Zò,
bestie, taselà, no semo à
carlevar! Qua
gh’avé da laorar
et muci!”
“Lesti,
ante che scomenzi a piovar!”
Appurato
infatti la grande difficoltà
di far passare il sacro per lo stretta scala di 242 gradini,
s’era deciso
d’issare il cannone da fuori mentre la cassa veniva
trasportata a mano. I
bastasi in quel momento stavano fissando gli ultimi nodi - quelli
dell’impiccato come li appellavano con
macabro gusto - da passare sulle estremità del sacro e
congiungere le corde al
gancio.
“Chigasang!
Ferma, maidé maidé!”, bloccò
tutti all’improvviso Orlando, sbracciandosi onde fermare i
bastasi ch’avevano
già iniziato a tirare e sollevato di qualche spanna il
sacro. E gridando alla
gente rimasta in basso: “Bisogna che quach vergü
(qualcuno, ndr.) si sieda in
su’l canù e che lo guidi lungo la salita!
Sennò, el fà dil dan al campanil!” ed
in effetti, oscillando il cannone poteva danneggiare il muro
dell’edificio, creando
crepe o buchi.
“Mi
vago”, s’offrì volontario Marco,
sceso nel frattanto onde coordinare i lavori da terra. Dei presenti,
era il più
giovane e snello a sufficienza da non pesare eccessivamente ai bastasi,
anzi,
per aiutarli s’era levato quanto più strati di
vestiario possibile, rimanendo
in braghe e camicia.
“Zerman,
siete impazzito?”, gli strillò
dall’alto suo cugino Nicolò. “Volete
rompervi il collo? Cosa riferirò poi alla
vostra siora Mare mia Amia?”
“Un
bel niente!”, urlò Marco, venutogli
un piccolo e colpevole tuffo al cuore al pensiero di sua madre madona
Alba, ammalata
a Venezia. L’ultima cosa che le mancava, povera donna, era di
leggere come suo
figlio salisse per campanili di 88 braccia (60 m.) in groppa ai
cannoni. Beh,
occhio non vede (o in quel caso, legge), cuore non duole …
Se Nicolò avesse
fatto la spia, giurò a se stesso il ventiduenne,
l’avrebbe affogato di persona
nel Cagnan.
“Brào
tus (ragazzo, ndr.), coragiùs come
il vostro amico Ferigo Contarini!”, si
complimentò invece Orlando, orgoglioso. “Adès,
drizzé le gambe; come
salite su, punté i pé e
caminé!”
Il
giovane Contarini annuì,
rabbrividendo (dal freddo, si giustificò) mentre prendeva
posto sul sacro. Come
istruitogli, stese in avanti le gambe quanto più possibile,
così da toccare il
muro con l’intera pianta del piede e guidare
l’ascesa del cannone, impedendogli
di oscillare e cozzare contro l’edificio.
“Pront?”
“Siorsì!”
“Partiamo
allora! E il primo che
s’azzarda a tirar giù sante e madóne,
lo tiro giù io dal campanil, oh sì!”,
rammentò
severo il bergamasco ai bastasi d’astenersi da ogni
bestemmia, un po’ per
superstizione un po’ per genuina fede.
“Oh
… ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”
Al primo
strattone che lo sollevò da
terra, Marco velocemente si segnò tre volte, stringendo le
corde fin quasi a
sbiancare le nocche. Sollevò lo sguardo, concentrandosi
sulle facce di Orlando
e di Nicolò che da sfuocate macchie di colore si definivano
in forme più
precise e allo stesso tempo ignorando lo scricchiolio delle corde,
nonché il
vento dietro la nuca man mano che aumentava di quota o l’aria
sotto le gambe
che risalendo gli gonfiava la camicia. Il ragazzo sperò
inoltre ardentemente
che i piccioni stessero a pranzo in quel momento.
“Oh
… ehi! Oh … ehi! Oh … ehi!”
Dopo le
prime braccia, però, la sensazione
di vuoto scomparve e Marco quasi si divertì, soprattutto
quando, affacciandosi
dalle finestre o interrompendo per un istante la ronda, una piccola
folla aveva
incominciato a gridargli incoraggiamenti per poi sciogliersi in fischi
e
applausi al suo arrivo sul tetto, dove Orlando lo pigliò
veloce, aiutandolo a
scendere.
“Brào!
Brào!”, gli batté la spalla il
capo-bombardiere e il patrizio si sciolse in un sorriso un
po’ sghembo, incerto
se per isteria o sincera contentezza, sicuramente le ginocchia se le
sentiva
molli come la ricotta e la fronte madida di sudore.
Dirigendosi
al Castello dove stava di
presidio, attirato dalla cagnara, sier Marco Miani aveva assistito,
assieme ad
un perplesso sier Alvixe da Canal suo compagno di ronda,
all’intrepida scalata.
Decisamente capiva adesso perché il giovane Contarini e
Momolo fossero così
amici, quei due scavezzacolli disobbedienti nati allo scopo
d’imbiancare
precocemente i capelli dei propri parenti.
Nel
frattanto, a Palazzo dei Trecento
si respirava ben altra aria: in un nervoso andirivieni, il capitano
Renzo di
Ceri imprecava alla stregua d’un giannizzero, gli occhi fuori
dalle orbite e
livido in volto sotto lo sguardo confuso di Troilo Orsini e stanco di
Vitello
Vitelli. L’Orsini degli Anguillara aveva richiesto al
podestà sier Andrea
Donado un incontro d’emergenza, a seguito
dell’arrivo dei rinforzi richiesti a
Venezia nonché dei denari.
“Li
mortacci sua, ce stà à pijà per
culo?”, sbraitò il condottiero, provocando un
sobbalzo nel podestà e un
arcuamento del sopracciglio da parte di Vitelli. “Chiediamo
alla Signoria 1000
fanti, ce ne promettono 500 e poi da Mestre ne arrivano 400 di cui
più della
metà ammalati? Ci
si garantisce l’arrivo
di 10,000 ducati e ne arrivano 3,000? Ma c’abbiamo Giocondo
scritto sulla
fronte? Voglio tenere o perdere Treviso? A questo punto, arruoliamo
donne,
vecchi e ragazzini! E Carlo Corso dove diavolo è finito?
S’è perso per la
laguna?”
Sier
Andrea Donado s’attorcigliò le
dita, costernato forse più del condottiero e intimamente
turbato dalla
prospettiva che sì, in mancanza di adeguati mezzi e uomini,
la città non
avrebbe retto l’assalto delle truppe franco-imperiali.
Lamentò assai la
mancanza a Palazzo di sier Zuam Paulo Gradenigo e del suo supporto, ma
gli
ordini del medico erano stati categorici: riposo assoluto, il
provveditore –
Deo gratias! – era crollato svenuto solamente a causa degli
eccessivi strapazzi
cui si sottoponeva, lavorando alle mura fino a notte fonda al lume
delle torce
e riprendendo all’alba. Sicché Gradenigo era
rimasto in letto tutto il giorno
precedente e quella mattina, venuto a cercarlo, sua moglie madona Maria
Malipiero Gradenigo aveva promesso morte e dannazione al temerario
ch’avesse
avuto l’ardire di venirlo a disturbare.
“Cerchiamo
di rimanere obiettivi e
razionali”, provò il capitano Vitelli a
tranquillizzare il collega, che
sbuffando scettico si sedette. “La situazione è
lungi dall’essere ottimale,
però non dobbiamo lasciarci guidare dal panico o la
peggioreremo. Vero, non ci
sono arrivati né i fanti né i denari promessi,
però i bombardieri e i facchini
sì e già stanno lavorando a migliorare la
disposizione dell’artiglieria e a
rafforzare le mura. Quanto ai ducati, m’era parso di capire
che sarebbero stati
spezzati in due o tre pagamenti, onde evitare complicazioni durante il
trasporto. Purtroppo, l’intero territorio è stato
colpito da queste febbri e
come se la sono pigliata i nostri soldati, se la sono pigliata anche i
franco-imperiali. E a proposito di loro: finché La Palisse
non ritorna a
Montebelluna non tenteranno niente e quelle dei prigionieri catturati
corrispondono a ciance belle e grosse.”
Troilo
Orsini aggiunse: “Da Padova c’è
giunta notizia come Giovanni Forti di Orte coi suoi cavalleggeri abbia
distrutto i mulini dei Collegati da Castelfranco fino a Godego,
sottraendoli
numerosi sacchi di farina macinata. A stomaco vuoto quei diavoli non
combatteranno
di certo. Quanto a La Palisse, si trova ora tra Quinto e Liziera
…”
“…
con 350 lance e 3500 fanti
aggiuntivi”, concluse secco Renzo di Ceri. “Come
questa possa corrispondere ad
una buona notizia, mi sfugge.”
“Perché
ora che il maresciallo ritorni
e s’accordino sul da farsi – quando mai, tra
francesi e tedeschi si collabora
in armonia? – noi avremo già completato i lavori
di rafforzamento e ricevuto il
necessario dalla Signoria”, contro-argomentò
Vitelli. “Il signor podestà ve lo
può confermare, quanto si stia dannando in continue lettere
di sollecitazione
al Senato!”
“Un
tempo la Serenissima pagava e
pretendeva; adesso, non paga ma continua a pretendere!”,
puntualizzò snervato
Renzo di Ceri.
“Due
anni di guerra, capitano Lorenzo,
due anni di guerra ininterrotta metterebbero le casse di qualunque
Stato sotto
pressione.”
L’Orsini
degli Anguillara aprì la bocca
onde replicare, sennonché entrò
all’improvviso sier Lunardo Zustignan, rosso in
viso e un’espressione di collera sulfurea da non ammettere
contestazioni da
parte di chicchessia. Tra le mani teneva accartocciata la missiva
appena
consegnatali dal povero postiglione, balbettante e trascinato
lì suo malgrado.
“V’affliggete
per i pochi uomini e i pochi
denari?”, berciò il nipote del Doge, rivolgendosi ora al
capitano delle fanterie ora
al Vitelli e Troilo Orsini. “Allora preparatevi a piangere
come ai funerali dei
vostri padri, ché questa … cosa
ci ricopre del fango più schifoso. Voi
per primo, signor capitano Lorenzo” e indicò Renzo
di Ceri, il quale strabuzzò
gli occhi confuso, “ché in questi giorni si
discuterà in Senato se confermarvi
o meno la condotta.”
Sier
Andrea Donado prese coraggio e,
impedendo al condottiero una qualsivoglia reazione, inquisì:
“Quali notizie da
Palazzo Ducale?”
Aperta la
lettera, il Zustignan declamò
l’impressioni della Signoria circa il rapporto compilato e
inviatole da sier
Carlo Valier.
In un sol
uomo tutti gli astanti si
levarono dai rispettivi scranni, puntando come bracchi alla casa dove
alloggiava sier Zuam Paulo Gradenigo e se per conferire con lui
dovevano
fronteggiare l’ira e le urla di sua moglie, ben venga,
piuttosto di rischiare
di finire come il Carmagnola [9].
Come
profetato dal Zustignan, il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo aveva dovuto sorbirsi, prima di
rifugiarsi sotto le coperte, una tremenda filippica da competere con
quelle
leggendarie dell’istessa Santippe, poiché madona
Maria Malipiero Gradenigo delle
tre virtù muliebri incoraggiate nella Repubblica –
chea piasa, chea tasa,
chea staga chaxa – di certo fallava in quella del
tacere e siccome sier
Zuam Paulo aveva ben appreso i classici, non gli era risultato
difficile in
quel frangente applicare i consigli di Marco Terenzio Varrone,
cioè che i
difetti della moglie o si raddrizzano o si sopportano e Gradenigo ora,
come nei
trentadue anni di matrimonio, aveva sempre preferito
quest’ultima opzione.
Sussistevano peggiori mancanze in una consorte, ragionava, che la sua
brutale
schiettezza e ciò a onor del vero non lo infastidiva: se la
sua Maria parlava,
non era mai a vanvera.
Perciò
s’era lasciato spogliare e
condurre a letto dalla furente donna senza proferire parola, mite come
un
agnellino anche quando madona Maria gli dava del turco e
dell’assassino,
rimproverandogli la poca considerazione che aveva della sua salute
andando ogni
notte a far la ronda e ridurre così le ore del sonno ad
appena quattro ore
risicate. Gli aveva ricordato la sua non più giovane
età nonché gli obblighi
che aveva verso Dio, verso la Signoria e infine verso la sua famiglia,
ricattandolo con tragici scenari sul destino suo e dei suoi figlioli,
della sua
crudeltà nell’abbandonarli in sì
tremende circostanze e spargendo ulteriormente
sale sulla piaga dell’amore paterno grazie alle fosche
descrizioni dell’immane
dolore, che sier Gradenigo avrebbe di certo causato al loro
ultimogenito Zuam,
ancora tenerello e tanto bisognoso della ferma guida di suo padre per
crescere
sano e onesto. Come avrebbe potuto proteggere quel giovinetto, lei,
povera
vedova indifesa? Come avrebbe fatto lei - avanti,
rispondete voi che sapete tutto!
- piccola fragile
donna che non era
altro, senza il suo scudo, la sua gruccia, la sua roccia? Voleva che si
cavasse
il cuore dal petto dallo strazio?
“Mo
via, basta!”,
aveva infine
borbottato a disagio Zuam Paulo, accarezzando la guancia umida della
moglie,
che cingendogli la mano con le sue più piccoline e delicate,
l’aveva baciata
affranta. “Lo sapete che non gradisco vedervi
piangere”, le aveva
confessato un po’ impacciato e, giurandole solennemente di
riguardarsi in
futuro, l’aveva attirata a sé in modo che lei
appoggiasse il capo sul suo petto.
I due coniugi stettero così a lungo, le mani intrecciate,
finché la nobildonna
non aveva udito un lieve russare, segno che il marito s’era
finalmente
addormentato.
Maria
Malipiero Gradenigo, cessato
allora il ruolo di donzella indifesa e mater dolorosa, postasi in piedi
ne
aveva approfittato per passargli con pragmatica delicatezza
l’unguento sulla
cicatrice tesa e arrossata, piegando all’ingiù la
bocca dinanzi agli
involontari spasimi del marito. S’era poi sistemata sulla
sedia accanto al
letto, pigliato il suo tombolo e soffiato a guisa di drago sangiorgesco
a
chiunque avesse osato bussare alla porta, onde disturbare il dormiente
provveditore.
La sua si
trattava di una commedia da tempo collaudata, freno
necessario per l’eccessiva vitalità e gusto per la
sfida, talora doti talora
difetti del suo consorte con cui ella aveva dovuto confrontarsi ben
prima del
loro matrimonio, quando un diciannovenne Zuam Paulo, adocchiatala
vicino alla
chiesa di san Gironimo mentre lei prendeva il fresco
sull’acqua, infatuatosi
subitaneamente s’era incaponito che quella fanciulla doveva
diventar sua
moglie, o lei o nessun’altra. Grazie all’amicizia
che legava madona Viena Zane Malipiero
a madona Lucchese Dandolo Gradenigo, dopo molto insistere il giovane
era
riuscito a strappare a sier Jacomo Malipiero il permesso di conversare
con la
sua figliola, lei al balcone più basso del palazzo e il
volto celato dal velo
mentre lui poco sotto in gondola, tutto questo in presenza della madre
madona
Viena. Naturalmente alla quindicenne Maria quella tenace dedizione
garbava
assaissimo, anzi, il maggior suo diletto consisteva nel tormentare il
suo
spasimante, mostrandosi ora annoiata, ora triste ora lusingata
finché un
giorno, gli aveva chiesto di vincere la regata al prossimo fresco ed
era
rimasta turbata e commossa nel vedere come Zuam Paulo, invece di
delegare la
disfida ad abili rematori, avesse imbracciato egli stesso il remo,
sostituendosi al pope.
Per lui
aveva sollevato per un istante il velo da nubile e gli
aveva accordato di guardarle il viso e i morbidi boccoli scenderle
lungo le
guance. Inoltre, adesso che anche lei l’aveva visto ben bene,
le risultò
gradito quel giovanotto dai capelli in battaglia, scarmigliato e dalle
gote
rosse dallo sforzo che la guardava sfacciatamente beato e quattro anni
dopo,
fattosi egli più uomo, le piacque ancor di più.
Anche
perché, dopo l’esilio ad Arbe del padre, madona
Maria si era
considerata ormai una paria, condannata a rimanere sola ed emarginata
per
sempre, lei e i fratelli minori. Era pertanto rimasta esterrefatta
quando Zuam
Paulo, suo novizzo, le aveva confermato che sì,
l’avrebbe ugualmente sposata,
avendo infatti creduto volesse egli
rompere il fidanzamento. “Sono
disonorata” - gli aveva confessato in lacrime,
dinanzi alla sua caparbia
insistenza -
“la mia vergogna diverrà
la vostra vergogna. Siete giovane, siete un
valent’uomo di cuore, non dovete rovinarvi per una come
me.” Al che,
infastidito al limite, il ventiduenne patrizio aveva sbottato:
“Se le colpe dei padri dovessero
ricadere
sempre e comunque sui figli, allora in Maggior Consiglio non dovrebbero
più
sedere né Querini, né Thiepolo, né
Badoer! Voi non siete vostro padre e dopo
che ci saremo sposati non sarete nemmeno più la sua
figliola, bensì mia moglie
e così vi presenterete davanti a tutta Venezia, il vostro onore ristabilito.
Certo, bisognerà
magari attendere un anno che le acque si calmino, tuttavia
…” e più non
aveva potuto aggiungere, avendogli Maria circondato il viso e baciatolo
d’impeto. “Vi
amerò doppiamente, come
padre e marito, ché mi avete dato oggi una nuova
vita.”
“Ben
svejà!”, salutò la Malipiero il marito,
notando i primi cenni
del risveglio. “Vi siete un poco riposato?”,
s’informò, indicando alla fantesca
di lasciare il vassoio sul tavolo vicino alla finestra.
“Quanto
sono stato in letto?”
“All’incirca
due giorni.”
“An?
Già s’è fatto sera?”,
esclamò basito Gradenigo, balzando giù
dal letto e contemplando incredulo le ombre vespertine colorare
d’arancione la
stanza. “Perché non m’avete svegliato
prima?”
“Dasin,
dasieto (adagio, adagio, ndr.), avrete tutto domani per
brigare a Palazzo”, lo bloccò la nobildonna,
intanto però che lo aiutava ad
indossare una turchesca di seta azzurra. “Ricordatevi dei
consigli del medico: riposo,
riposo. Avete proprio ansia di morir, voi!”
“No,
no”, la rassicurò il provveditore, captando il
sottile tono
bellicoso nella voce della moglie mentre si lasciava condurre al
tavolo. “Non
mi va di poltrire inutilmente, ecco tutto. Non posso dirigere i lavori
anche da
casa?”
“Uhm
…”
“Come
sta vostro fratello, sier Andrea?”
“Assa’
mejo. Mi raccontava che quando si sarà completamente
rimesso, ritornerà a Padoa da nostro fratello
Polo.” A onor del vero, memore
delle affrante lettere scrittegli da sier Polo Malipiero, la patrizia
avrebbe
preferito che il suo fratellastro sier Andrea Griti completasse la
convalescenza a Venezia, invece di rischiare una ricaduta a Padova e
glielo
aveva anche suggerito, ricevendo una vaga risposta arzigogolata
(tradotta, no).
Che ci voleva fare, se Domine Iddio aveva deciso di circondarla di
uomini più
testardi di un mulo?
I due
coniugi si sedettero a tavola e Maria versò al marito prima
da bere, riempiendogli poi il piatto di polentina, carne bollita,
soppressa,
formaggio e funghi, intanto che gli riassumeva le ultime
novità, dagli impegni e
la salute dei loro figlioli d’ambo i sessi al proseguimento
dei lavori a
Treviso. Gradenigo l’ascoltava attento, mangiando in
silenzio.
In
effetti, ripensava la Malipiero, anche lei un poco s’era
preoccupata alla vista del consorte dormire alla stregua d’un
morto, valutando
se destarlo o meno, in particolare dinanzi alle insistenti ambasciate
di sier
Andrea Donado in cui si richiedeva d’urgenza la presenza del
provveditore a
Palazzo. Conscia di peccare forse d’egoismo, certamente non
voleva privare la
Signoria del suo provveditore ma al contempo, lei non voleva privarsi
del
marito e Zuam Paulo pur di fibra robusta, non apparteneva agli
immortali e
Santa Lucia l’assistesse, la povera donna aveva scampato a
sua volta un malore
nel vederselo trasportare semicosciente da sier Marco Miani e sier
Alexandro
Michiel.
Tuttavia,
spiando di sottecchi il colorito più sano e la
voracità
dei bocconi di Gradenigo, Maria vi trovò consolazione e
giudicò la sua scelta la
più adatta e ora poteva allentare le catene della sua
muliebre potestà,
restituendo il consorte ai suoi doveri di patrizio veneziano.
Neanche a
farlo apposta, la fantesca bussò alla porta, annunciando
l’arrivo del podestà, dei capitani e di sier
Lunardo Zustignan.
Chiusosi
sul petto la turchesca e indossate le braghe, il
provveditore scese nel salone là dove lo si attendeva in un
misto d’ansietà e di
sollievo nell’appurare la ritrovata salute.
Senza
tanti preamboli, Zustignan gli cedette la missiva ricevuta e
Gradenigo vide letteralmente rosso.
“Sanctissimo
e Divinissimo Sacramento!”, ruggì al punto che
madona
Maria s’affacciò all’uscio della porta,
impensierita da quel violento sfogo.
“El … chome se gh’ha permesso de scribar
… scribar ste mingonarie?!
(minchionate, ndr.) Ma mi a lu ghe staco i brassi et i ghe meto in man,
cussì
l’apprendarà a contar busie!”,
sbraitò paonazzo in volto, già immaginandosi a
giustificarsi dinanzi ai Dieci per l’ennesima volta e sempre
ingiustamente a
causa delle calunnie di gente incompetente e pusillanime.
“Dobbiamo
replicare immediatamente”, propose concitato sier Andrea
Donado e sia Vitelli che Orsini annuirono energici, “prima
ancora che la
Signoria digerisca in totum le obbrobriose bugie di
quell’intrigante bugiardo di
Carlo Valier!”
“O
qui noi si finisce senza condotta e voi sollevati
dall’incarico!”, aggiunse Vitello Vitelli,
rabbrividendo al pensiero. “Dopodiché
se la veda il signor Valiero a riferire ciò ai miei soldati,
io di certo me ne
lavo le mani!”
“Se
ci va bene”, gli ricordò pessimista Renzo di Ceri,
il più
arrabbiato tra loro in quanto aveva sperato in un supporto in sier
Carlo per
poi invece ritrovarsi cornuto e pure mazziato. “Se ci va
male, tutti sotto
processo e poi o alle Orbe o in Piazzetta.”
“Per
carità, non esagerate!”, sbiancò il
podestà. “Non siamo mica
dei Carmagnola, noi! Al massimo … al massimo
accadrà come suggerito dal
capitano Vitello …”
“Nella
lettera si parla esplicitamente di traditori!”,
trillò
l’Orsini degli Anguillara. “E se la mia testa deve
proprio rotolare, che sia in
battaglia, grazie mille!”
“La
lettera menziona la presenza di un traditore a Treviso, vero,
ma non cita nomi e cognomi”, lo calmò sier Lunardo
Zustignan. “In ogni modo,
Missier il Podestà ha ragione: il nostro silenzio ci
condanna, più tempo
aspettiamo più le accuse infondate di sier Carlo si
solidificheranno e non
mancherà la Signoria d’aprire
un’indagine su di noi.”
“Moglie
mia, per favore, incaricate il mio valletto di correre a
chiamare il postiglione”, istruì Gradenigo la
consorte che, annuendo anch’ella
preoccupata, sgonnellò via a cercare il ragazzo. E invitando
i presenti a
seguirlo nel suo studio, là dove avrebbero scritto in comune
accordo la loro
difesa, il provveditore confessò irato a sier Lunardo:
“Spero solo di non dover
più incrociare per strada o a Palazzo quel turco bugiardo, o
giuro al Cielo che
l’impicco alla porta di casa!”
“
[…] El podestà et
provedador ebbe na letera di la Signoria, che gh’ha inteso,
quelli zenthilomeni
fano tuto il zorno custion cum soldadi, et voleno, dove i stanno, se li
fazi le
spese per forza, la qual letera gh’ha tolto el ben servir di
molti, che meteno
li danari et la vida per la patria, qual xéla ingrata, et
sono obedienti, et si
fatichano tutti. Et il podestà et provedador qua respondono
humili et divoti a
la Signoria in bona forma, et pregando la lhor letera sia lecta in Gran
Consejo.
[…] Chome
se gh’ha inteso
quello dito da sier Carlo Valier a la Signoria di Trevixo,
et che il podestà
gh’ha dito publice, non
si maraviglia di tal parolle, perché questo inverno el
volea condur biave in terra
todescha e lui
non volse; ben xé vero, li
soldadi xéli un pocho licentiozi zercha li
alozamenti, et voleno viver cum minaze ma no cum fati, et di questo, al principio, fo qualche
turbazion, ma horra
le cosse xéle asetate
assa’ ben, et non ghe xé
pì rechiami per le minaze fatoli; et xé
vero,
il capetanio voria aver fato apichar qualche d’on.
Item,
che ghe xé confusion
tra el provedador e i capi, no xé vero,
et
tuti sono uniti et maxime
cum il provedador
et tuti li zenthilomeni.
Item,
che l’artelarie non
xéle preparade ai so luogi, no dize il vero,
perché tuti
i cavalieri et bastioni di le
porte li sono le sòe artelarie; le altre xéle
preparade, et vegnando i nimici a meter campo, dove si alozerano,
lì sarano poste,
segundo el besogno, et tute quelle di
bronzo xéli su
li soi cari, et quelle di ferro
bona parte, le altre si va compiando e si
condurà dove besognerà. Item,
si
stà cum bon cuor et non dubitemo gnente.
Item,
dito sier Carlo Valier si havea fato far capo
di contadini da le sue
possession e tute quelle ville
intorno per letere di
la Signoria, et xélo stà
alcuni zorni, et per paura de’ inimici dormiva
in uno burchielo a mezo il fiume, et quando la intesi, i nimici
vien zerto a campo
lì xé vegnuo a Veniexia, et va
sbaiafando per
le piatze et incolpar il
provedador e capi etc., qual
stanno fina horre una
di note su li repari e
fabriche fino con le torze, et comenzano a l’alba.
El signor Vitello et Orsini mai stanno im paze, et cussì
tuto il resto, secondo
li exercij datoli. Laudemo
depo’ quel Orlando da
Bergamo, capo di l’artelaria, arlievo di Latanzio, qual va a
far meter
l’artelarie dove bisogna […]”
“Soddisferà
questo la Signoria?”
“Chi
vivrà, vedrà.”
“Non
mi consolate, provveditore.”
“Non
era mai stata mia intenzione, signor capitano Lorenzo.”
***
“Fu
mai trovato il colpevole?”
Hironimo
si destò dallo strattone che Mercurio Bua, non ricevendo
risposta, gli aveva elargito attraverso la catena onde attirare la sua
attenzione. La tenda si trovava a malapena illuminata dalla fioca luce
della
lucerna, il resto avvolto in un nero pece.
Maledizione,
pensò il patrizio, proprio nel cuore della notte gli
era venuta voglia di discutere? Lo preferiva moribondo, in tutta
onestà, almeno
se ne stava zitto. Anche delirante, mica parlava con lui,
bensì alternandosi in
invocazioni a tali Aikaterini e Maria. Grugnendo infastidito, il
giovane si
girò sul fianco, richiudendo gli occhi e se il
greco-albanese voleva un
confessore, che andasse a cercarsi un prete.
Un
secondo strattone lo pose nolente seduto.
“Allora?”, insistette
il condottiero, decisamente bello vispo.
“Orco
juda maladeto, cosa vuoi da me?”, sbottò frustrato
il Miani,
stropicciandosi gli occhi pesante e gonfi di sonno.
“Non
riesco a dormire.”
“Dunque
ti debbo tener compagnia?”
Mercurio
s’esibì in un secco svolazzo della mano.
“Tuo padre”,
chiese, “sostieni che l’abbiano assassinato. Fu mai
trovato il colpevole?”
Hironimo
reclinò il capo, sospettoso da quell’inusuale
interessamento da parte del capitano, specie dopo il diverbio di quella
mattina. Se da una parte era prono pensare trattarsi
dell’ennesima
provocazione, dall’altra incominciava a formularsi la teoria
che si trattava di
un indiretto tentativo di Mercurio di scusarsi per aver ingiuriato suo
padre.
Sì,
certo, come no. Fosse stato un altro, ancora poteva credere in
tal miracolo, ma da quel turco senzadio era assai improbabile.
“No”,
rispose incolore, stendendosi di nuovo sul suo pagliericcio.
“Perché?”
“Non
ricordo, avevo dieci anni.”
“Ti
manca?”
“Non
pormi domande idiote.”
L’ambiente
versava forse nella semioscurità, ma
l’occhiataccia di
Mercurio il veneziano la subì in tutto il suo collerico
splendore.
Tamburellando le dita e ormai il sonno partito per lidi migliori,
Hironimo
sospirò, concludendo che forse gli conveniva ricambiare la
“cortesia.”
“A
te manca tuo padre?”
“Non
proprio. Avevo undici anni, di lui ricordo ben poco. Tu?”
“Neanche
io quasi niente. Di ch’è morto?”
“Sul
suo letto, di vecchiaia, circondato dalla sua famiglia.”
“Una
bella morte, insomma.”
“Se
l’è meritata.”
“An?”
“Ognuno
va incontro alla morte che s’è guadagnato in vita.
Agisci
bene, muori bene. O almeno così sosteneva mia
madre.”
“Le
dispiacerà quindi apprendere, la morte da traditore di suo
figlio.”
“Prego?”
“Per
questo motivo, sotto-sotto non sopporti il conte di Gambara”,
proseguì imperterrito Hironimo, “siete banderuole
uguali, pronti a cambiar
padrone al primo vento contrario e solo per gretto guadagno
personale.”
“Nel
mio mestiere”, sibilò Mercurio, “se non
mi si paga, non
mantengo la compagnia e se non mantengo la compagnia, quella mi diserta
e se mi
diserta, io m’impicco piuttosto di crepar di fame. Pensavo
possedessi
abbastanza intelletto d’arrivarci!”
“Non
c’è onore tra voi condottieri, dunque.”
“Forse
non come lo concepite voi signorini cresciuti nella
bambagia.”
“O
tuo padre.”
“Come?”
“Se
non erro, tuo padre guidò la rivolta di Morea. [10] Perfino
il
sultano Mehmed, dopo averla sedata, non aveva potuto non riconoscere il
suo
valore e di fatti non guerreggiò mai più contro
di lui. Tuo padre era rimasto
coerente nella sua causa, anche quando le sorti si erano per lui
rovesciate e, pur
conscio di una fine orrenda in caso di sconfitta, non cambiò
mai fazione e
rimase coi suoi fino alla fine. Ammirevole, per conquistare la fiducia
e la
considerazione dei Turchi, i quali quasi mai rispettano i nemici
sconfitti.”
Un
sorriso stranamente dolce distese i lineamenti pallidi e tirati
di Mercurio. “Tempi passati.”
“Comportarsi
con onore e coerenza alla propria causa non si può
considerare una moda.”
“Parli
per esperienza?”
“Sono
in catene perché non ho voluto cedere Castelnuovo di Quero,
l’hai
scordato?”
“Avresti
dovuto, forse.”
“No,
sarebbe equivalso al gesto della fica alla gente ch’avevo
giurato di proteggere. Si può fallare in molto” ed io ho molto peccato “ma dai
propri doveri non si deve scappare.
Questo m’insegnò mio padre.”
Silenzio.
“Com’era
egli?”, s’informò Mercurio, incuriosito
da quell’uomo
divenuto oggetto di speculazioni a Venezia per quella sua misteriosa
morte e
che tuttavia, persino dalla tomba, ancora riusciva a suscitare tali
forti
emozioni nel figlio. Doveva esser stato un personaggio peculiare,
cogitò l’epirota.
Purtroppo
per lui, Hironimo deluse ogni sua aspettativa,
rispondendogli infatti con una scrollatina di spalle: “Lo
ignoro. Cioè, conosco
a menadito il suo cursus honorum, però di lui come persona
… io non ho mai
capito chi fosse …”
“Che
differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”
No, non
al giovane Miani non bastava e inoltre per lui costituiva
un’abissale
differenza, giacché non aveva mai voluto un padre-statua da
ammirare ed imitare
da lontano, bensì una persona vicina in carne ed ossa con
cui crescere e da cui
imparare.
Ahimè,
il destino altro non gli aveva lasciato se non la prima
opzione, ovver la fredda arca di sier Anzolo Miani a muto insegnante e
sterile
esempio da seguire.
E
Hironimo, giustamente, s’era rivelato il peggiore degli
allievi.
Continua
…
*****************************************************************************************************
Ebbene
sì, questo Cajtan da Thiene è proprio San Gaetano
da Thiene
(1480-1547), presbitero italiano, fondatore dell'Ordine dei Chierici
regolari
teatini; nel 1671 è stato proclamato santo da papa Clemente
X ed è conosciuto
anche come il “Santo della Provvidenza”. San
Gaetano ricoprirà un ruolo
importantissimo nella vita del Nostro, tuttavia molto più in
là delle vicende
qui narrate. Stando alle biografie del Thiene, gli storici gli
attribuiscono
una certa influenza su Giulio II, aiutando o direttamente o
indirettamente la
diplomazia veneziana a mitigare l’ostilità del
terribile pontefice. Purtroppo,
non specificando costoro l’esatto modo, abbiamo un
po’ romanzato.
A
Treviso, poco distante da Santa Maria Maggiore, l’antica
chiesa
dei Cavalieri di Malta è stata riconsacrata a devozione di
San Gaetano da
Thiene, prima della sconsacrazione definitiva (oggi infatti
è un museo e un
auditorium per concerti).
Ignoriamo
come siano riusciti a portare un sacro da 6 fin in cima
al campanile di San Nicolò a Treviso; purtroppo, non ci
è mai stato permesso
salirvi per via dei continui restauri e diosacché altri
impedimenti, ma avendo
visitato abbastanza campanili di simile stile in giro per
l’Italia e l’Europa,
supponiamo la scala essere ugualmente angusta e stretta, senza
possibilità di
grandi manovre da parte dei facchini, a meno che non volessero scalfire
il
muro.
Se
abbiamo fallato, chiediamo venia.
Il
“Crudele Giovedì Grasso” fu la
più grande rivolta popolare del
Rinascimento in Italia e la più sanguinosa: iniziata per
ripulire Udine da ogni
elemento filo-imperiale, essa scappò di mano e
s’estese a tutto il territorio,
al punto che il provveditore di Pordenone dovette intervenire in
soccorso agli
Strumieri. Purtroppo non se ne parla molto sia perché
oscurato da un evento più
“importante” – la guerra della Lega di
Cambrai – sia perché la storia del
Friuli non ci pare esser mai stata trattata nel dettagli nei libri di
storia nazionale
al liceo, a parte nei capitoli sulla fine dell’Ottocento e il
Novecento –
irredentismo, Prima e Seconda Guerra Mondiale.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Palazzo di San
Marco =
noto oggigiorno come Palazzo Venezia. Per quanto riguarda la villa
del Grimani, gli storici suppongo essersi trovata nell’area
dove oggigiorno si
trova Palazzo Barberini.
[2]
Per farla
breve, nel 1499-1500 il banco dei Lippomano fallì
rovinosamente e Girolamo
Lippomano, data la cifra spaventosa da ripagare, finì in
carcere per debiti
mentre la famiglia cercava di racimolare i fondi necessari. Nel 1501,
però, il
Lippomano riuscì a evadere in modo rocambolesco. Il Sanudo
racconta come
Girolamo, fattosi arrivare dei dolci dai familiari, una volta apertagli
la
barca coprì la faccia del suo carceriere col mantello e
puntatogli un coltello
alla gola, gli rubò le chiavi, fuggendo via là
dove l’attendevano tre barche
armate per partire alla volta di Bologna e poi Roma. Solo nel 1511
riuscì a
ritornare a Venezia e non perché la Signoria ce
l’avesse particolarmente con
lui, anzi pure gli firmò i lasciapassare, più che
altro erano i suoi creditori
che gliel’avevano giurata.
[3] Sebastiano
Priuli fu arcivescovo di Nicosia e Patriarca d’Antiochia,
morì il 2 ottobre
1502. Marco Dandolo (1458-1535) fu un diplomatico, politico ed
umanista, fino
al 1488 zio acquisito di Marco Corner, avendo sposato sua zia Lucia nel
1485.
[4a] cardinal Flisco = Niccolò Fieschi
(1456-1524), cardinale e arcivescovo, uno dei più stretti
collaboratori di
Giulio II e fratello di Santa Caterina Fieschi Adorno, autrice del
Trattato del
Purgatorio. [4b] Christofal Bambrize = Christopher
Bainbridge (1464-1514),
arcivescovo di York (Archiepiscopus Eboracensis in latino), poi
cardinale e oratore
di Enrico VIII Tudor presso Giulio II. [4c]
segnor Vich = Jeronimo
Vich y
Valterra (1459-1535), ambasciatore di Ferdinando II il Cattolico. [4d] Antonio Pallavicino Gentile
(1441-1507) fu cardinale, datario apostolico, camerlengo ed elettore di
Alessandro VI, Pio III e Giulio II. Morì nel 1507 ed
è sepolto a Santa Maria
del Popolo. Suo nipote Giovanni Battista (1480-1524) diverrà
cardinale sotto
Leone X e titolare di Sant’Apollinare. Venne seppellito, alla
sua morte, nella
medesima chiesa dello zio.
[5] Ducha di Borgogna = Carlo
d’Asburgo, figlio dell’Arciduca
d’Austria Filippo d’Asburgo, nipote di Massimiliano
e futuro Imperatore Carlo V.
[6]
San
Vittore e Santa Corona (o Stefania nella versione greca), sono i santi
patroni
di Feltre, le cui reliquie si possono venerare nell’omonima
basilica
santuario a 3km
dalla città.
[7]
cernide = sotto la Serenissima, la cernida indicava una
milizia
territoriale costituta da contadini addestrati. Il vantaggio rispetto
alle
truppe mercenarie era la rapidità del reclutamento.
[8] parlar moscheto = linguaggio più
alto, cittadino, in contrapposizione con la parlata locale e popolare.
[9] Carmagnola = Francesco
Bussone, detto il Carmagnola. Insospettita dai continui rinvii
dell’attacco
finale da parte del condottiero, malgrado i successi militari finora
collezionati, attacco che avrebbe assicurato la sua vittoria contro
Milano, la
Serenissima aprì un’indagine sul Carmagnola per
scoprirne i motivi. Ne risultò
come egli si fosse messo d’accordo con Filippo Maria Visconti
dalla cui parte
aveva in progetto di passare. Arrestato, venne processato e decapitato
per alto
tradimento. Nel Romanticismo (specie Manzoni e Hayez) la vicenda del
Carmagnola
venne riletta in chiave innocentista, col Bussone vittima degli
intrighi e
invidie del Senato veneziano. Revisione errata, giacché la
condanna del
Carmagnola fu votata pressoché
all’unanimità, cosa rarissima e dunque segno che
le prove c’erano ed erano schiaccianti.
L’atteggiamento ansioso/furente del
Visconti dopo l’esecuzione (vedi “Giorgio
Corner” nel capitolo precedente)
aveva tradito poi una coscienza sporchissima.
[10] Rivolta di Morea = a seguito
della caduta di Costantinopoli, Pietro Bua Spata incitò alla
rivolta i 30,000
albanesi residenti in Morea (Peloponneso) contro i despoti Tommaso e
Demetrio
II Paleologi (il primo padre di Zoe Paleologa, poi divenuta
granduchessa di
Mosca col nome di Sofia Paleologa) a causa dei pesanti tributi che
dovevano
versare. Temendo il controllo degli Albanesi in Morea, il sultano
Mehmed II intervenne
per sedare la rivolta in favore dei Paleologi, tuttavia risparmiando lo
sconfitto Pietro Bua Spata e riconoscendolo come rappresentante della
comunità
albanese in Morea. Il sultano inoltre mantenne la promessa di non
attaccare i
territori non occupati dagli Ottomani, tra cui appunto Napoli di
Romania
(Nauplia) e le zone veneziane rimaste in Grecia, dove risiedette il Bua
e dove
nacque Mercurio.
Secondo i
nostri calcoli, siccome la
rivolta è durata dal 1453 al ‘54, supponendo che
Pietro Bua (di cui non si
conosce la data di nascita) avesse avuto all’epoca almeno 25
anni, questo
significa che morì sessantenne nel 1489, data certa della
sua morte in quanto
corrisponde al trasferimento di Mercurio a Venezia. Di conseguenza,
Pietro
avrebbe avuto Mercurio quand’era all’incirca
cinquantenne e ciò non sorprende
in quanto in data 1511 e trentatreenne, Mercurio aveva già
un nipote, Andrea
Bua, che militava con lui. Dalla scarnissima genealogia della sua
famiglia
abbiamo trovato un fratello, Nicolò, morto nel 1500 e molto
probabilmente figlio
di primo letto, mentre Mercurio e Teodoro (quest’ultimo forse
il padre di
Prodano Bua, l’altro nipote) erano di secondo letto, quindi i
conti tornano (si
spera).
Ringrazio
Semperinfelix che ci ha aiutato coi
vari calcoli, perché due
cervelli son meglio di uno!
|
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Capitolo 14 *** Capitolo Tredicesimo, parte prima: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 20.09.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Tredicesimo, parte prima
Confiteor
(Onora
il Padre …)
“Com’era
egli?
“Lo
ignoro. Cioè, conosco a menadito il suo cursus honorum,
però
di lui come persona … io non ho mai capito chi fosse
…”
“Che
differenza fa? Era comunque tuo padre, non ti bastava?”
Già.
Chi era
Padre?
Quante
volte dopo la sua morte Hironimo se l’era chiesto,
meditando se veramente avesse conosciuto l’uomo in
padre o
solo uno dei tanti ruoli da lui ricoperto.
Sempre
gli era stato dipinto come uomo energico e dinamico, capace
di passare con disinvoltura dal comando di una galea a quello di una
città, dai
tribunali ai fonteghi, dal dibattito nelle assemblee di Palazzo Ducale
alla
dura vita di un accampamento.
Chi era
però sul serio Padre? Il capitano, il podestà, il
mercante, il massaro della Zecca, il camerlengo, l’avvocato,
il giudice o il senatore?
Quindici
anni erano trascorsi dall’atroce giorno in cui Hironimo
aveva riconosciuto il cadavere penzolante del genitore su quella scala
a
Rialto; quindici anni in cui egli aveva cercato sia di fuggire la sua
ombra che
d’aggrapparsi disperato ad essa.
Chi
eri per me, Padre?
I ricordi
più recenti l’amareggiavano, riportandolo agli
sguardi
delusi del genitore dinanzi agli scarsi risultati scolastici; alle
scudisciate
sul sedere per ogni singola marachella o disobbedienza; alla fredda
formalità
dei loro dialoghi e i severi monologhi, durante le esecuzioni in
Piazzetta tra
S. Todero e S. Marco, sulla Santa Trinità veneziana ovver:
Dio, la Legge e lo
Stato. Punizioni e divieti ogni santissimo giorno che Domine Iddio
metteva in
terra condito da quel “briccone” insopportabile -
no a questo, no a quello; stai
dritto e non gobbo; smettila di piangere; parla schietto e non
tartagliare;
lascia perdere le tue cugine; i tuoi cuginetti non sono piavoli
(bambolotti,
ndr.) con cui giocare; non mentire; non rubare i bussolai dalla cucina;
non
parlare se prima non ti s’interpella; non voglio gatti o cani
in letto; non
rispondere sgarbato; obbedisci ai tuoi anziani, e bla, e bla, e
blablabla …
Costui
era stato Padre negli ultimi anni, quando Hironimo aveva
incominciato a rispondere: Perché? ad
ogni ordine, ad ogni
ipse dixit, ad ogni cosa che non capiva e che desiderava che Padre
gliela
spiegasse, giacché il suo cervello di fantolino credeva
fermamente in una sua
onniscienza e infallibilità alla pari del Padre nei Cieli.
Perché
devo darti del “voi”, signor Padre?
Perché
così ci si rivolge tra patrizi e soprattutto ai tuoi
genitori.
Perché?
Perché
così stanno le cose.
Perché?
Perché
vuoi forse parlare come il popolino?
E
perché allora voi mi date del “tu”?
Perché,
si chiedeva l’allora Momolo, Padre doveva sempre andar via
da Ca’ Miani, anche quando non lo trattenevano più
gli affari di Palazzo?
Perché non poteva seguirlo?
Perché
quando lo vedeva con Madre, Momolo percepiva una fitta
acuta, un grandissimo astio nei suoi confronti - voi
lasciate sempre
sola Madre durante il giorno; io le faccio compagnia in vostra assenza;
voi non
avete alcun diritto di starle accanto, lei è mia! Mia! Mia!
Perché, Padre,
talvolta neppure voglio il Luchin, Carlino e Marchetto vicino a lei?
Gliel’aveva
letta negli occhi, codest’ostilità? Oppure egli
avevo
scorto la sua quando s’intrufolava spaventato in letto di
Madre, lamentando un
incubo e scalzando il genitore da esso, oppure quando in altana Momolo
le
sedeva davanti mentre lei merlettava a mazzette e Padre non si poteva
avvicinare per imbastire quei discorsi, che solo tra marito e moglie
dovevano
stare?
Quando
incominciarono ad essere gelosi l’un dell’altro?
Momolo per
Madre veniva sempre prima, anche del consorte. D’altronde,
non le aveva Padre
sottratto i maggiori per avviarli gradualmente alla vita pubblica?
Dunque, le
lasciasse il minore, ancora suo.
O
…
O quando
fu Momolo ad incominciare a preoccuparlo? Come il Missier
Grando, Padre quando si trattava di lui sembrava possedere occhi e
orecchie
ovunque, beccandolo puntualmente in castagna, colpevolissimo.
Me
lo fate crescere storto,
questo rimproverava Padre spesso a
Madre. Perché Momolo frignava per un nonnulla, diceva; si
fidava di chiunque,
scorgeva bontà dove non esisteva e solo ora Hironimo capiva
come mai l’avesse
riempito di ceffoni, quando aveva scoperto, di ritorno da scuola, la
focaccina
alla cannella regalatagli dal pasticcere dietro promessa di ritornarvi
più
spesso [1].
“Chi
te l’ha data? Chi? Perdio, parla! Chi t’ha dato
questa
focaccina?”
“Non
lo so, sior Pare, non lo so!”
“Anzolo,
per l’amor di Dio, smettetela di scuoterlo così,
lo
spaventate!”
“Non
t’ho insegnato niente? An, stupido? Quante volte
t’ho
ripetuto, che non si parla, né si accetta niente da
chicchessia se non dalla
tua famiglia? Ma a chi parlo, io? Al muro? E smettila di piangere, no
sta far
la pittima, e dimmi chi è stato a regalarti quella focaccina
o quant’è vero
Iddio ti rinchiudo nello sgabuzzino del fontego per tutta la
notte!”
“Stavo
rincasando da scuola, non mi ricordo dove stesse …”
“E
non hai aspettato Menego? O Baldissera? Ma ascolti o fai finta?
Tu hai d’aspettarli a scuola, cosa stava pensando quel tuo
cervello da gallina?
Lo sai, testa di rapa, cosa fanno ai bambini che se ne vanno in giro a
zonzo da
soli e che danno confidenza a chi non devono? An? Lo sai, oco
bauco?”
Storto
perché Momolo al competitivo e aggressivo mondo dei
“veri
uomini” preferiva il locus amenus in cui Madre era
Imperatrice e Padre era
l’Ospite, pieno di luce calda, di colori morbidi come le tele
del Zorzon. Il
suo pomeriggio ideale consisteva nel stare sull’altana
assieme a Madre,
Crestina, Eudokia, Zanetta e Orsolina e a madona
Maria
Foscarini Miani, spingendo il girello di Dionora o Agustin o Marco
Antonio, le
orecchie piene del loro cicaleggio. Grande festa poi quando veniva sua
zia,
l’amia Morexina con i cuginetti, allora si preparavano i
biscotti, il panunto
col lattemelle e frutta di stagione e Momolo giocava con loro,
specialmente con
Maria Morexini la quale gli mostrava orgogliosa le sue bambole, vestite
alla
milanese, alla fiorentina, alla fiamminga e una perfino alla turca. Gli
piaceva
un po’ meno, ecco, quando l’altre cugine - Anzol, Magdalena e
Querina Morexini - lo
costringevano o a perdere a carte o peggio ancora a scegliere chi tra
le due
possedesse le bambole più belle – domanda
trabocchetto, giacché avrebbe
ottenuto il broncio perpetuo di una o dell’altra e i
conseguenti dispetti; in
quel frangente, Momolo pigliava per mano il suo cuginetto Carlo e in
fuga
strategica e si rifugiavano dietro a Madre.
Dopo la
morte di Padre, Hironimo si comportò in maniera
diametralmente opposta, disprezzando ogni mollezza e atteggiamento
sensibile e
compassionevole quasi si fosse convito che ad uccidere il genitore, al
posto
della corda, fosse stato il suo rifiuto del mondo, per vivere nel suo,
di
mondo. Ciononostante, quando molto alterato, il suo spirito
s’acquietava di
nuovo accanto a Madre o all’Orsolina, tenendole i fili di
lana quando
sferruzzava berrette ai ferri.
“Sior
Pare?”
“Dimmi.”
“Ho
scoperto, che il mastro tessitore è un uomo.”
“Sì
ben, e dunque?”
“Dunque,
visto che non è solo negozio da femmine, posso imparare
senza che voi mi rimproveriate.”
“Davvero?
E perché vuoi apprendere a lavorare la lana?”
“Primo,
perché se dovrò aiutare i miei fratelli a
valutare i panni
di lana prodotti nelle filande, come faccio a sapere se ci stanno
imbrogliando,
rifilandoci tessuti di seconda qualità, se non conosco il
loro mestiere?
Oppure, come posso pagarli adeguatamente se non so la fatica dietro?
Terzo,
perché quando l’Orsolina mi confeziona una bereta,
sono contento. Vorrei anche
io far contente le persone e imparare qualcosa che porti a creare
invece di
distruggere. Sior Pare, è sbagliato?”
“No,
Momolo, non è affatto sbagliato.”
Chi era
Padre? Il nemico.
Chi era
Padre? Il difensore.
Chi era
Padre? Atlante con l’ingrato peso dell’esser
genitore.
Eppure,
non era sempre stato così. La sfortuna volle che padre e
figlio si separassero in cattivi termini, tra contrasti e
incomprensioni, però
Hironimo dal più profondo dell’anima credeva con
ostinato ardore che esistette
un tempo in cui egli per lui fu il suo Momolo, un tempo in cui, mentre
Padre
compilava questo o quel rapporto o controllava i conti, sulle sue
ginocchia
egli si sentiva invincibile, un re.
E gli
confidava i suoi pensieri senza paventare rimbrotti o
sminuimenti.
Con
questa missione, il preservamento della memoria di Padre e la
ricostruzione del mosaico che fu Anzolo Miani, Hironimo nel corso degli
anni
aveva raccolto con certosina scrupolosità ogni indizio sulla
vita del genitore,
letto e collezionato ogni cartiglio, interrogato ogni persona che
l’aveva
conosciuto, in cerca di tracciare un disegno definito e rispondere
all’annosa
domanda: chi era mio Padre?
Di
nascosto dai famigliari, da Madre istessa, sotto il suo letto a
cassettoni a San Vidal egli celava una cartella di marocchino rosso con
dentro
il frutto delle sue ricerche, da Hironimo consultata in quei giorni in
cui
invero si sentiva una nave senza nocchiero in gran tempesta.
***
(lettera
del N.H. Anzolo Miani di
Lucha a suo fratello maggiore il N.H. Marco Miani, Rettore di Sciro, 1464)
Carissimo
amico e fratello, compagno fedele e confidente,
mi
conforta apprendere come il viaggio da Negroponte a Schiro si
sia concluso felicemente, senza ritardi né intoppi e un poco
confesso invidiarvi
i caldi raggi del sole di cui sicuramente starete godendo. Approfittate
dunque
della buona aria e del clima favorevole, che vi possa giovare ai
polmoni,
avendomi la siora nostra Maregna riferito quanto ancora voi soffriate
di
sporadici attacchi di tosse. Vi rammento di portarle, al vostro
ritorno, di
quel salutare olio di iperico ivi prodotto: ella lo gradirà
e i suoi nervi con
lei e non assorderà più la povera Orsolina.
Vi
scongiuro di riguardarvi: anche se quest’anno potremo raderci
la barba, il lutto della morte del nostro dolcissimo fratello Vorzilio
corrisponderà per me ad una piaga ognora aperta e il sapervi
distante da casa e
per di più ammalato mi angoscia. Non strapazzatevi;
nutritevi adeguatamente,
dormite le giuste ore e pur praticando svaghi all’aria
aperta, non in eccesso
da mancarvi il fiato.
Quanto
al resto della nostra famiglia, le cose stanno così: il
nostro sior Pare ancora risiede a Pola, totalmente assorbito dal suo
nuovo
incarico di Provveditore della legna dell’Istria e della
Dalmatia; le lettere
scritteci dalla siora Maregna confermano la sua salute, le solite noie
e disagi
legati al ruolo, qualche novità locale e basta. Suppongo
quindi portarsi bene,
ché niente nuove buone nuove. Il sior barba
Nicolò ugualmente poco lo si vede,
si direbbe dormir quasi a Palazzo e rimprovera spesso nostro cugino
Thomà di
non imitarne lo zelo lavorativo, trascorrendo troppo tempo ai fonteghi
come se
si trattasse d’un gran crimine l’aiutarmi. Inoltre,
la moglie del nostro
germano aspetta un altro figlio, naturale voglia restarle un poco
più accanto e
dopo la Marietta egli spera ricever da lei un maschio. Il sior barba
Hironimo
si dileggia nelle ore morte o nello studio a legger di filosofia e
teologia o
in chiesa a San Vidal, al Monastier di la Caritae e dagli Agostiniani
di Santo
Stephano. Ultimamente mi reco con lui da quest’ultimi,
rafforzando il mio
latino e, avessi figli, già ho deciso a quali tutori
affidarli ché i
Domenicani, vi confesso, m’incutono un certo timore. Nostra
nipote Marietta e
nostro cugino Nane-Chéco crescono sani, di eccellente
costituzione e appetito e
assai rumorosi ma temo un poco per quest’ultimo, essendo il
sior barba Hironimo
d’età più nonno che padre, non vorrei
lo viziasse troppo; per il momento
Nane-Chéco resta in cuna e in custodia della siora amia
Maria e come crescerà,
si vedrà.
Per
me, colmo il vuoto della vostra assenza tra i fonteghi, le
visite alle filande e i libri di diritto, ché non
mancherà la mia occasione di
servire concretamente la Signoria, oltre in galea, e voi ben sapete
quanto
m’irriti trovarmi impreparato in qualsiasi compito affidatomi.
Item,
sto seguendo molto da vicino i nostri ordini di lana inglese
– lo spazio di galea acquistato ci garantisce un buon carico;
stendendo il
contratto con sier Zuane Foschari, mi chiese questi se avessi voluto
rivenderla
a Tunisi e /o a Siracusa – contro l’opinione di
Padre ho rifiutato poiché
lavorando in loco detta lana nelle filande otterremo maggior introiti,
senza
contare che il Foschari pur sarà uomo d’onore, ma
in galea la legge è lui e non
posso controllare i noli addebitatimi. Padre ed io abbiamo navigato e
commerciato a sufficienza da riconoscere immediatamente i metodi dei
contrabbandieri - tra le righe ciò ho
fatto intendere a sier
Foschari: non s’atteggi da furbo con me. [2]
Al
momento, dopo essersi trattenuti due mesi a Londra e passata la
fiera di Vintona, la Foschara di sier Zuane Foschari e la Malipiera e
la
Squercia del vicecapitano sier Stephano Malipiero si trovano ad Antona
e lì
finalmente avremo il nostro cargo. Aspetto novembre con impazienza,
quando
rimpatrieranno a Veniexia.
Conosco
bene i vostri scetticismi riguardo quest’insolito
investimento, ma credetemi che contrariamente a molti altezzosi la lana
inglese
la considero invece d’eccellente qualità e
testura, resistente e di prezzo
economico pur aggiungendo i costi di viaggio e ciò
giustifica i miei sforzi ed
ansie - il vostro prestito è ben
garantito. Vi ricordate il panno
acquistato per curiosità dall’ultima spedizione di
Fiandre? Teneva talmente
caldo da poter vestir estivamente sotto, impermeabile tutt’al
più. Senza
contare che anche a Florenza e a Millan la usano per confezionare panni
d’eccelsa qualità, sicché garanzia
assicurata.
Il
N.H. Priuli residente fisso ad Antona – cui mi sono
raccomandato, anticipando il Foschari e anche il Malipiero - mi
spiegava che di
lana in Ingaltera ne producono in sovrabbondanza, ma non son capaci di
lavorarla appropriatamente, cioè non con la maestria dei
tessitori e tintori italiani
sicché ad Antona hanno costruito una “Casa della
Lana” apposta per venderla a
noi e agli altri mercanti stranieri - Aragonesi, Fiamminghi, Anseatici
e
qualche Scandinavo. Di Genovesi e Napoletani sempre di meno
- mi riferiva
il N.H. Priuli le lamentele di un grossista alla Casa - colpa
della guerra
tra Eboracensi e Lancastrensi e degli stolti che essa mai uccide. Meno
male che
la Signoria vostra è tenace e non si è lasciata
intimorire - dice costui -
da quattro scalzacani che pensano di campare mangiando aria. Si
riferisce
quest’inglese ai saccheggi delle case dei Lombardi a Londra e
delle furberie di
Zuanne Peine, fu sindaco di Antona. Per nostra fortuna, il nuovo Re
eboracense
è molto ansioso di ristabilire i commerci con la Signoria
nostra e fa il tutto
per riportare l’ordine e punire i sudditi ribelli, che non ci
molestino né ci
impongano noli al di là di quelli
convenuti.
Parrebbe,
dunque, fratello carissimo, che questa mia idea di
tentare la sorte in Ingaltera possa dare i suoi frutti: il cargo
soddisferà le
nostre esigenze e potrebbe essere l’anno della ventura.
Vi
scriverò quanto prima e prego la Madonna che sempre stenda
su
di voi il Suo manto materno,
Vostro
fratello Anzolo
Item.
Giuntami nuova, dai consoli nostri a Londra il N.H. Priuli
ha appreso e mi riferisce come detto Re sia maldisposto nei confronti
del Conte
Varvici, ché questi gli vuol imporre moglie francese quando
lui la vuol
borgognona; pur il Conte ha già accarezzato il Roy di
Francia o per la sua
figliola madona Anna o per la sorella della Reyna, madona Bona di
Savoia. Si
vocifera però che il Re tutto è preso
d’amore per una nobildonna della fazione
sconfitta, madama Yxabela Greia, la quale è vedova con due
figlioli, e di come
sia il Conte che il Consiglio Privato non favoriscano tale unione, se
la pigli
il Re come amante ma come Reyna eia non digna est. Item, il N.H Priuli
teme
come il Conte, se ulteriormente infastidito, potrebbe anche disertare
il Re per
servire il rivale sconfitto e sarebbe grande disgrazia per
l’attuale Re e per
noi, di nuovo privati di un mercato tanto profittevole come quello
inglese,
dovesse la Signoria giudicare nuovamente Antona porto pericoloso per le
nostre
galee.
Novembre
però arriverà presto e per allora saremo a
posto. [3]
“In
certi periodi, in casa lo si vedeva o poco niente, specie
negli anni della guerra contro Frara. Ciononostante, la sua presenza la
percepivi eccome. S’informava spesso di noi, la siora Mare
gli scriveva lunghe
e dettagliate lettere; tant’è vero che,
rincasando, quando conversavamo e mi
chiedeva dei miei progressi nelle letture e nel ricamo, mi sembrava che
Padre
non fosse mai partito”, gli
confidò Crestina un pomeriggio.
Momolo
era venuto a salutare lei e i nipoti Dionora e Gasparo
prima della partenza per Treviso, dove Lucha si sarebbe diretto in
virtù di
camerlengo e non avendo egli ancora famiglia propria, Madre
aveva suggerito a
Momolo e a Marco d’accompagnarlo così da familiarizzarsi coi
futuri incarichi che
l’attendevano. Avrebbero viaggiato da soli, Madre doveva
seguire la
distribuzione e la catalogazione delle merci nei fonteghi e Momolo di
conseguenza stava sguazzando nell’angoscia, mai veramente
separato dalla
genitrice fino a quel momento e, non sapendo dove sbattere la testa,
s’era
rintanato a casa della sorellastra, l’unica a non rifilargli
il solito
ritornello del “non adesso”, “non ho
tempo”. Persino il barba Batista, sempre
disponibile, da quando l’avevano eletto Savio di Terraferma
pareva la laguna
averlo inghiottito.
Ignorava
gli esatti come, dove e perché, però ad un tratto
i due
avevano incominciato a discorrere di Padre: il sole piacevole li aveva
condotti
sull’altana del palazzo, dove Crestina prediligeva cucire ed
insegnare tale
arte alla figlia Leonora detta Dionora e, forse a seguito delle
lagnanze della
sua sorellastra circa le assenze del marito Thomà, ecco che
lei aveva correlato
i due uomini e Momolo ne aveva approfittato infido per interrogare
avidamente
la donna, Gasparo sulle sue ginocchia intento a mangiucchiare un
piavolo di
pezza.
(lettera
indirizzata dalla N.D.
Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e
dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1482)
[…]
La Tina mi scrive dal convento come le suore la stiano
impegnando in pie opere di carità, la quale ella offre a Dio
onde gli piaccia
di preservarvi dai pericoli della guerra. Mi manca molto il suo
chiacchierio e
le giornate trascorse lietamente in
giochi, quant’è strano visitarla in
parlatorio! Approverete di sicuro la scelta del convento: le suore non
seguono
una regola né troppo severa né troppo lasca, anzi
paiono dimostrare grande
benevolenza verso i talenti della Tina e le insegnano con zelo le
virtù della
matrona cristiana, invece di nutrire invidia come solgono spesso
indulgere
coloro che si monacano per costrizione […] Ogni giorno
Luchin e Carlino
recitano per la salute di V.S. delle deliziose Ave Maria e con molto
fervore
pregano Missier Sen Bastian che vi protegga dalle febbri malariche. Il
Luchin
v’allega qua la sua prima letterina […]
Marc’Tonin sempre chiede di voi e il
Marchetto sta imparando a camminare col girello e non sta mai fermo
[…] Giunta
ci è la nuova della presa di Comacchio da parte di V.S. e
ben siamo orgogliosi
di voi […]
(lettera
indirizzata dalla N.D.
Leonora Morexini Miani a suo marito Capitano di Galee della Marca e
dell’Istria, il N.H. Anzolo Miani, 1483)
[…]
comprendo la vostra penna esser legata da segretezza assoluta,
spero che voi e le vostre fuste restiate saldi e al sicuro per tutta la
durata
di quest’impresa. I vostri figlioli pregano assai il Signore
per il vostro
ritorno e ogni giorno Luchin e Carlino m’accompagnano per le
opere di carità.
Altro non si può fare, vige una gran confusione per via
della scomunica, pur la
Signoria è implacabile col clero veneziano: scelgano la loro
lealtà, se
Veniexia o Roma. Più a riguardo non vi so dire, la nostra
anima è in pace col
Signore Il Quale vede ogni cosa, anche le doppiezze dei suoi ambiziosi
servi
che, come il primo che sedette a Roma, Lo rinnegano in terra ignorando
come Egli
li rinnegherà in Cielo. La Tina vi saluta e vi mando, tra
gli oggetti da voi
richiestimi, un fazzoletto da lei cucito. I piccini mi chiedono di
scrivervi di
ogni dettaglio delle loro giornate; pregano per
l’incolumità vostra e delle
vostre galee e altre cinguettii che voi ben conoscete esser tipici
dell’età
loro.
“Com’era
Padre con te?”
“Molto
affettuoso, attento ad ogni mia necessità e pur non capendo
di ricamo, conscio però quanto in esso mi dilettassi, mi
portava in Merceria e
lì mi diceva: compra tutto ciò
che t’aggrada! Credeva che non
me ne rendessi conto, quando mi contemplava triste, forse gli ricordavo
mia
madre o forse l’avvicinarsi del tempo della
separazione”, disse la nobildonna,
intorcolando con arte le mazzette in un’agile danza ipnotica.
Ridacchiò:
“Talvolta Padre me lo ricordo anche un po’
impacciato con me, come ogni uomo
che non concilia più la sua bambina con la donna adulta che
diviene”, e
all’insistenze di Momolo di fornirgli maggiori dettagli ella
negò col capo, non
potendogli descrivere senza violare un segreto esclusivamente
femminile. “Era
gelosissimo e sospettoso di Thomà, gli aizzò
dietro i miei barba Antonio e Sebastian,
no sastu?”
(lettera
indirizzata al N.H. Antonio
Trum q. sier Stae dal Provveditore del Polesine di Rovigo, il N.H. Anzolo
Miani q.
sier Lucha, 1488)
Carissimo
amico, fratello mio,
ho
accolto con sollievo la pronta guarigione di vostro fratello
Sebastian; vi prego d’aggiungere i miei saluti e complimenti
al vostro germano
Lucha, che mi dicono distinguersi a Palazzo, in questo si
può ben vantare
d’assomigliare al quondam vostro Serenissimo barba
Nicolò […] Come vi scrissi,
il ponte di pietra – “del Sale”
– è completato, ad uso ed ornamento della
città; simile, il nuovo Palazzo Pretorio si
finirà presto cosicché la Fiera del
17 agosto possa suscitar ancor più entusiasmi e introiti per
la città e Ruigo
ne ha assai bisogno […] Tra le altre cose, fratello
carissimo, se non
v’incomoda troppo, un unico favore vi chiederei
poiché il mio ufficio mi vieta
d’assentarmi qua dal Polexine. Vorrei se per cortesia voi
v’informaste con
tatto e discrezione su Thomà figlio del fu sier
Thomà da Molin “Murlon” da la
Madalena. Poiché costui ben persiste nel suo proposito di
maritarsi con mia
figlia, io ho da sapere chi egli sia realmente, delle sue occupazioni
civili e
frequentazioni private, quale sia insomma il suo vero animo nei
confronti della
mia Tina. Nulla quaestio sulla sua famiglia – la conosco
bene, solido credito,
grandi elemosinieri, di buone qualità, molto cattolici e suo
nonno, sier
Francesco, un vero galantuomo – ma di questo Thomà
niente. Capirete, fratello
carissimo, che maritare una figlia non è come ammogliare un
figlio; una nuora
la si può raddrizzare, se falla verso il marito. Ma un
genero? Mia figlia da
sposata non m’apparterrà più, se il
marito dovesse rivelarsi una bestia solo
tramite la Quarantia potrei riaverla indietro e in quali condizioni?
Per amore
della vostra nipote e fiozza e per l’amore che portavamo per
la defunta
Andriana, vi prego d’aiutarmi a proteggere questa nostra
perla, ché darla ad un
indegno ci rende ad egli uguali e Dio non ci fa uomini né la
legge ci
conferisce i poteri e le libertà degli uomini, onde
permettere che una donna
venga strapazzata, men che meno se sangue del nostro sangue.
“Tu molto probabilmente non te lo ricordi, avevi tre
anni appena.
Al termine della festa nuziale, quando venne il momento di congedarmi
da Padre
per seguire mio marito in casa sua, ecco, m’inginocchiai come
conveniva e,
afferrategli ambedue le mani, gli dissi: Padre, voi
sapete quanto vi
ami e vi rispetti, dell’immensa gratitudine ch’io
nutro per voi per avermi
messa al mondo, cresciuta ed educata, facendomi buona veneziana e buona
cristiana. Padre mio, se v’ho offeso, se v’ho
deluso, se mi son comportata indegnamente
verso di voi, vi scongiuro, in nome di Dio e della Beata Sempre Vergine
Maria,
di perdonarmi ogni mancanza nei vostri confronti e di benedirmi in
questa nuova
parte della mia vita.” Ci crederai,
Momolo, che dovetti aspettare un
bel po’ prima della sua benedizione, giacché Padre
aveva un tal groppone in
gola, da non riuscir a parlare?”
Momolo
stentava, invece, immaginandosi il genitore di marmo come
le statue degli dei, dei generali romani e degli eroi greci.
“E
quando nacque Dionora … Ah! Padre per poco non
inciampò sulla
toga al suo rientro da Nepanto, tanto era ansioso di vederla e d’assicurarsi
ch’io stessi bene …”
Sì,
quello Momolo se lo ricordava, così come la fitta di gelosia
che gli aveva trapassato il suo cuoricino di seienne alla vista di
Padre
sorridere tutto orgoglioso sulla culla di Dionora. Traditore,
avrebbe voluto rimproverargli il bambino, manco più
mi badi? E per cosa? Per
questo macaco spelato?
E
naturalmente il biscugino Zuan Francesco doveva pure lui mettersi a procreare e
di fatti due anni dopo
nasceva il piccolo Agustin e a Momolo venne una crisi di pianto,
quando, non
capendo la differenza tra padre e padrino, credette che Padre per
davvero non
ne volesse più sapere di lui e su
quest’inquietudine a Carlino il Turco non
parve vero di soffiarci sopra, confidandogli come Padre avesse avuto
intenzione
di venderlo ai Genovesi alla stregua di una scimmia.
“Madre!
Padre non mi vuole più bene! Mi vuol vendere ai Genovesi!
Non sono una scimmia!”
“Ma
no, Momolin, che dici?”
“E
allora, perché sta sempre dietro a loro e a me niente? Odio
lui, odio quei ladri ramarri dei miei nipoti e cugini! E se
… e se vendesse
loro ai Genovesi?”
Non li
odiava, tutt’altro; Momolo scoprì man mano che le
numerose
sue amie (zie, ndr.) o cugine ne scodellavano uno all’anno,
che i bambini gli
piacevano, almeno dopo che la balia li aveva ripuliti e fasciati. A tal
punto
si divertiva a giocare con loro che s’azzardò un
giorno durante la pennichella
del dopopranzo estivo ad imitare la balia. Non visto, Momolo era
entrato nella
stanzetta dove il neonato Agustin dormiva ignaro ed estrattolo dalla
culla,
s’era slacciato prima i lacci del farsetto e poi della
camicia giudicando per
il rasoio di Occam che se Stin poppava dalla tetina della balia, poteva
benissimo
riuscirci dalla sua e che altrimenti ce l’aveva a fare?
Se a
Momolo codesto mistero dell’anatomia sfuggiva, al fantolino
no di certo, anzi, riconoscendosi gabbato da quella falsa promessa di
pappa,
strillò talmente forte il suo sdegno da svegliare
l’intera Ca’ Miani e sfortuna
decretò che il primo a giungere sul luogo del misfatto fosse
appunto Padre.
Per la
prima volta in vita sua, Momolo ebbe di lui una paura
fottuta.
“Beata
te, con me si comportava da tartaro!”, bofonchiò
il
quindicenne Momolo, giocherellando con i ciuffi morbidi di Gasparo.
“Sempre una
critica, sempre una predica da rifilarmi … Non riuscivo mai
a compiacerlo! A
volte mi chiedo, se fosse mai stato felice della mia nascita
…”
(lettera
indirizzata al N.H. Batista
Morexini da sua sorella N.D. Leonora Morexini Miani, da Feltre, luglio
1486)
Carissimo
e generoso fratello,
Cento,
mille baci alla mia nipotina, la bellissima Maria e le mie
felicitazioni alla dolce mia sorella Morexina vostra moglie
[…] Dalla vostra
lettera comprendo come la piccina v’abbia rubato il cuore
– è giusto, qualcuno
dovete pur viziare […] Quanto alla nostra famigliola,
godiamo tutti di buona
salute e della protezione della Vergine Dolcissima, tranne la siora
nostra Mare
che si lamenta del clima feltrino, a lei insopportabile: malgrado il
Palazzo
Pretorio ci offra le adeguate comodità, Feltre si presenta
talmente fredda che
pure in estate sembra d’esser in primavera e la sera si sta
bene con uno
zendale di cotone pesante […] Riguardo alle mie condizioni,
non v’angustiate:
voglia la Madonna, quest’autunno c’arricchiremo
d’un puttino o d’una puttina. Il
mio sior marido e la siora nostra Mare mi tengono avvolta in seta e
piume; in
particolare il mio illustrissimo consorte neanche quando rimasi grossa
del
Luchin mi trattò con tale premura, pare faccia a gara per
indovinare ogni mio
desiderio e ogni sera prima di coricarci mi bacia le mani,
benedicendomi per la
gioia che gli sto regalando. D’altro canto, però,
è anche tutto un’agitazione –
credo per via della mia età - talvolta mi piglia una gran
voglia di scuoterlo e
intimargli di calmarsi, che il fantolino lo debbo fare io e non lui,
che ho sì trenta e quattro
anni ma non son vecchia e decrepita e che se proprio mi vuol aiutare,
compia il
dover suo di Podestà e riappacifichi una buona volta questi
Feltrini, che a
seguito della peste altro non pensano di ringraziare Dio, San Vetor e
Santa
Corona d’esser sopravvissuti se non scannandosi a vicenda in
tristi e
sanguinose contese […] Oggi poi
parlerò con Mastro Isepo e suo
figlio Vetor, falegnami, per la questione della culla […]
Crestina
gli afferrò la mano, costringendolo a guardarla negli
occhi, i medesimi di Padre, grigi come il mare d’inverno.
“Mathuzhèlo
(stupidotto, ndr.) mio! Padre ti voleva molto, molto bene, ma lui non
era
Madre.”
“Che
significa?”, inquisì intrigato
l’adolescente.
“Un
padre deve badare all'educazione ed al mantenimento dei suoi
figli, prezioso pegno di continuità, e sovraintendere alla
loro riuscita in
società; alla madre vanno lasciati i sentimenti e la
partecipazione affettiva.”
Momolo
storse la bocca, affatto d’accordo. “Che
jotonia!”, grugnì
scettico.
“Così
va il mondo.”
“E
chi l’ha deciso?”
Crestina
sospirò, conscia che quando il fratellastro partiva col
piede polemico, la conversazione correva al litigio.
“Io”,
dichiarò solenne il quindicenne, “quando
avrò figli, li
educherò come un padre e allo stesso tempo li
amerò come una madre! E a chi
m’intralcia o mi critica, gli caccio la testa dentro un
gàtolo [4] e poi
vedremo, se il mondo lo giudicherà ancora strano!”
La
trentenne nobildonna scosse il capo, bonaria, lasciandolo
blaterare al vento.
[lettera
indirizzata al N.H. Antonio
Trum q. sier Stae dal N.H. Anzolo Miani q. sier Lucha, dicembre]
Carissimo
amico e fratello,
prego
Iddio, i Missieri Sen Bastian e Sen Rocho e la loro
protezione su di voi e la vostra famiglia. Mi perdonerete gli sghembi
scarabocchi, gettati in pressa e senza forza di controllare quanto e
come
scrivo. Dopo settimane di strenua lotta, il morbo è infine
riuscito stanotte a
rubarsi via il nostro piccolo Marco Antonio. “Sior
Pare”, mi chiedeva in un
sussurro, “sono stato abbastanza buono per il
Paradiso?” E mentre pregavamo, la
sua manina, ch’io stringevo, perse ad ogni parola di vigore,
finché non divenne
lassa e fredda ed io seppi che d’ora in avanti Marco Antonio
avrebbe seduto
sulle ginocchia della Madre di Dio. Volesse Egli per questi attimi
avermi
creato donna! Potrei piangere senza pudore alcuno assieme alla mia
povera e
infelice consorte, strapparmi i capelli e urlare al Cielo
l’ingiustizia di ciò,
che non posso né voglio accettare malgrado la gran moria di
gente che ci ha
circondato e che credevamo per sempre finita . Non è mai ovvio, né naturale per un
padre seppellire un figlio!
Ancora potei reggere lo strazio della perdita dei miei due fratelli
– scesi
nella tomba giovani e in forze – ma di un fanciullo
sì tenero? Di un figlio? Marco
Antonio era così buono, così innocente, se invero
è un castigo divino perché il morbo non si porta via chi se lo merita? Potrei compilare per giorni
liste piene
zeppe d’indegni … Perdonate! Perdonate! Perdonate
se v’affliggo, con qualcuno
avevo bisogno di sfogarmi, non oso oberare la povera mia siora mojer
d’ulteriori pene, ma questa lama in petto
m’assassina. Almeno, unica mia
consolazione, sono riuscito a rimpatriare da Barutto in tempo per
abbracciare
il mio puttino un’ultima volta.
(lettera
indirizzata al N.H. Antonio
Trum q. sier Stai dal Podestà e Capitano di Feltre, il N.H.
Anzolo Miani q, sier
Lucha, novembre 1486)
Io
più contemplo questo bimbo e più rimango commosso
e sbalordito
dinanzi alla potenza e misericordia di Dio, che dopo il lutto
atrocissimo ci ha
benedetto di un altro figliolo, nato di domenica quasi a sottolineare
la
santità del dono offertoci. Non fraintendete: Marco Antonio
rimarrà nel nostro
cuore, è il nostro piccolo angioletto adesso e spero lo
sarà anche del suo
fratellino. Vedeste come mi guarda! Ha gli occhietti neri, grandi e
intensi dei
Morexini, s’agita, strilla e non vuole che lo si fasci,
schifa la balia ed
esige solo la poppa della madre. Lo amo già moltissimo e
prego Missier Domine
Iddio e Missier Sen Isepo di guidarmi nuovamente nel mio difficile
compito di
padre. Non credevo poter ritrovare gioia a questo mondo, dopo la morte
di Marco
Antonio […] Il parto s’è svolto in gran
fretta, sia ringraziata la verzene
Sancta Malgarita d’Antiochia, quasi il nostro figliolo
scalpitasse di venir al
mondo. La levatrice è arrivata appena in tempo e ci ha
confermato di com’egli galda
di eccellente robustezza e di come abbia tutto ciò che serve
al suo posto. La
mia illustrissima consorte dopo quattro giorni ha di nuovo le gote
latte e
rosa, fresca come la brezza montana. Le suggerisco di riposarsi ma lei
non
m’ascolta e pensa solo ad organizzare il battesimo. Abbiamo
pensato
d’appellarlo o Nicolò, come il mio sior Barba e il
fratello primogenito e l’avo
della mia siora mojer; o Hironimo, come l’altro mio sior
Barba e l’altro
fratello della mia colendissima sposa. Io preferisco Nicolò,
in famiglia ha più
importanza. Quanto alle altre questioni […]
Item.
Alla fine l’abbiamo registrato Hironimo ché la
moglie qua
non sente ragioni, m’accusa d’aver deciso per
cinque e il sesto è suo. Inoltre è nato il giorno di San Girolamo dottor e quindi lei dice "esser destino". Non fu
vero, Carlo l’ho nomato per onorare il mio fu missier
Morexini, ché a mia
memoria non s’ebbe mai un “Carlo” in
famiglia nostra. Ma né al vento né alle
donne si comanda e va bene così.
Item.
Marco vi ringrazia per il regalo per il suo compleanno,
un’eccellente idea la vostra onde distrarlo dalla delusione
di non essere più
l’ultimogenito, se ne va in giro con certi musi lunghi e per
sicurezza con
Hironimo s’accompagna soltanto in mia presenza, non sia mai
lo sottoponga per
gelosia a qualche malagrazia.
Item.
A ringraziamento di Dio e la Madonna, a spese mie ho deciso
di finanziare il progetto per quelle fontane con serbatoio per
approvvigionamento idrico di cui v’accennavo, che per varie
questioni ancora
non sono state costruite e che invece gioverebbero alla
città sia in utile che
in ornamento. Si discuteva di commissionare la facciata agli scultori i
maestri
Tullio et Piero Lombardo […]
Item.
Pur nella gioia s’annida il fiele, alla Signoria
m’auguro
siano giunti puntuali i miei rapporti circa i sospetti movimenti del
Ducha
d’Austria ai confini - attendo istruzioni.
A
voi mi raccomando e invoco la benedizione di Dio sulla vostra
casa.
Vostro
perpetuo amico e fratello, padre fortunato, Anzolo Miani
scrisse.
(lettera
indirizzata al N.H. Batista Morexini
dalla sua matrigna N.D. Ysabeta Contarini relicta Morexini, da Feltre,
17
novembre1487)
[…]
a dì 17 con nostra infinita pena e grandissimo dolore,
seppelliamo in Feltre questa mia ultima nipote, nomata Emilia.
Già vi confidai
mesi addietro le mie preoccupazioni, quando mia figlia vostra sorella
mi
comunicò d’esser nuovamente grossa, malgrado mi
fossi più volte e con
insistenza raccomandata d’usar prudenza con suo marito vostro
cognato, non
essendo lei d’età consigliabile per affrontar un
altro parto, in particolar
modo dopo nostro nipote Hironimo ch’è
già si può dir un miracolo per la svelta
e facile nascita, nonché per la robustezza di membra e
salute, miracolo che non
s’è ripetuto con sua sorella Emilia, talmente
piccola e fragile che subito la
battezzammo temendo non passasse la notte. Un poco c’eravamo
illusi potesse
sopravvivere notando incoraggianti miglioramenti, ahimè non
fu così e oggi s’è
disposta la sepoltura e una messa per l’animuccia sua
innocente. In casa
abbiamo pianto tutti a lungo e doppia sarebbe per noi stata la doglia
se non
fosse alleggerita da Hironimo, cognonimato
“Momolo”, che ignaro di quanto
accaduto seguita ad esser un puttino vivace e felice, rallegrando
questo nostro
cuor in lutto[...] Malgrado la fine della guerra contro il Duca d'Austria, ancor nulla dell'arrivo del nuovo podestà, sier Hironimo Capelo. Ormai l'inverno s'appropinqua e già fioccano le prime nevicate. Pertanto, se non per Natale, sicuramente festeggeremo assieme la Pasqua [...]
(lettera
indirizzata alla N.D. Ysabeta
Contarini relicta Morexini da sua figlia N.D. Leonora Morexini Miani,
da Lepanto,
1491)
[…]
Il Momolo vi saluta con tutto l’affetto del suo cuoricino.
Pur
tenerello, si rammenta assai bene di voi e mi domanda spesso vostre
notizie. Sa
esprimere qualsiasi concetto, forte e chiaro, e recita, correttamente,
il Pater
Noster e l’Ave Maria; è un piacere ascoltarlo.
S’inventa poi tante di quelle
storielle e scherzi d’animare i lunghi pomeriggi in giardino.
Dalle fantesche
greche ha perfino appreso molti vocaboli e si fa capire da loro. Sta
visibilmente crescendo: se sopravvivrà a questi anni
incerti, a Dio piacendo
verrà su un assai bel giovane, un po’ scuro di
carnagione né tantissimo alto
tuttavia forte di corporatura e vigoroso, le gambe belle dritte, le
spalle già
si vedono ampie e avrà fianchi stretti – Dio possa
oltre alla bellezza fisica
conferirgliene una ugualmente spirituale, tanto da farne di lui un buon
cristiano! Il suo magister è di lui piuttosto soddisfatto,
sostiene che quando
vuole ha ingegno e una lingua pronta. […] Marchetto vi
scrive ogni giorno; il
mio sior marido vostro zenero gli ha regalato il suo primo calamaio di
corno,
completo d’inchiostro, penne e carta e Luchin vi
darà oltre alle sue letterine
quelle di Carlino, così possiate sentirli crescere accanto a
voi […]
(lettera
indirizzata alla N.D.
Crestina Miani da Molin dalla sua matrigna N.D. Leonora Morexini Miani
da Zante,
ottobre 1493)
[…]
Mi chiedi con grande ansietà di tuo fratello Momolo e ti
dirò
questo: che sta crescendo nel puttino più dolce e bello di
cui si possa sperare
esser genitore. È sorprendente quanto sia di spirito vivace
e curioso; impara
in fretta e a memoria senza difficoltà –
purtroppo, però, solo se la lezione
gli garba o non c’è santo presso cui si possa
intercedere. Le sue orazioni le
recita alla perfezione, oltre al Pater Noster, l’Ave Maria
ora conosce il
Credo, Salve Regina, Qui abitat e molte altre preghiere cui io e la
siora
vostra avia ci prodighiamo d’insegnargli quotidianamente. Per
l’Avvento, a Dio
piacendo, saprà leggere il latino senza interrompersi e
senza strafalcioni di
pronuncia; conosce a menadito molte poesiole e canzonette sia in lingua
veneziana che greca, con cui ci diletta dopo cena. Possiede una robusta
inclinazione
verso la matematica, il tuo sior Pare mio marido per gioco lo interroga
con
alcune somme e sottrazioni così, al volo, che Momolo risolve
con grande
facilità. Si diverte a giocare all’aria aperta,
anche se i dispetti dei suoi
coetanei lo fan star male, e trova molto spasso
nell’accompagnare in barca i tuoi
fratelli a pescare o in spiaggia a raccogliere conchiglie.
Dal
tuo sior Pare mio marido ha ereditato l’attitudine ad
organizzare ogni attività fino al dispotico se non lo si
ferma. Vuol far tutto
lui e non accetta né consigli né aiuti.
[…]
Ogni
giorno Momolo mi chiede di te e pretende notizie dettagliate,
s’accende del medesimo fuoco del tuo sior Pare se lo
s’ignora e non accetta “no” o
“non adesso” o “più
tardi” per risposta. Perfino progetta d’imbarcarsi
per
Veniexia e di visitarvi alla Pasqua Teofania, mi elenca tutto il
necessario per il
viaggio e vuole che venga anche l’Orsolina. […] Scrivimi
ogni cosa su Dionora, come sta crescendo, mi dispiace assaissimo
perdermi
questi suoi primi anni. Non dimenticarti d’estendere i miei
saluti anche al tuo
sior marido Thomà mio zenero, al suo sior fradelo sier
Timotheo e al loro avo
sier Francesco e non ultima alla tua madona la siora Gracimana Trivixan
relicta
da Molin.
***
Sier
Antonio Trum q. sier Stae, nipote del fu Serenissimo e in
quell’anno Savio di Consiglio, incuteva di primo acchito una
certa soggezione: non
molto alto ma di membra robuste, di non bella faccia, pareva un orso
eppure, se
preso in disparte, possedeva il medesimo carattere generoso e
accattivante del
suo illustre barba, pur indurito dalle necessità del tempo.
Prima di
divenire cognato di Padre, già tra i due esatti coetanei
vigeva una fortissima amicizia, nata dalla mutuae tra i Trum e i Miani
per la
muda di Candia e di Rodi, dove i primi possedevano solidi appoggi, ora
famigliari – la madre di Antonio, madona Maria, era una
Contarini del ramo
candiota – ora d’amicizie accuratamente coltivate
dal nonno sier Lucha Trum e i
suoi quattro figli, Nicolò, Donado, Antonio e Stae.
Pertanto, i lunghi anni di
collaborazione commerciale li avevano avvicinati al punto da
considerarsi
fratelli ancor prima d’imparentarsi tramite il matrimonio con
Andriana Trum e
anche dopo la sua morte di parto, sier Antonio seguitò a
frequentare Ca’ Miani,
più che altro per la nipote Crestina cui ricopriva di mille
amorevoli
attenzioni – l’adorava. [5]
“Scherzosamente,
Anzolo mi definiva un mercante sedentario,
giacché pur conoscendo a menadito i diritti e regolamenti
commerciali e il
codice nautico, soltanto una volta in vita mia misi piede su di una
galea e mi
bastò per tutta la vita! Fortunatamente, tuo padre mi prese,
a modo suo, sotto
la sua ala … Anzolo apparteneva alla vecchia scuola, in cui
le mani dei patrizi
sono incallite dal remo prima che dal ferro.”
Seduto
a gambe penzoloni su di un pozzo, Toniolo osservavano
attento, il mento appoggiato sui pugni. Il sole ancora non scaldava
eppure
ovunque pullulava di gente. La curiosità morbosa per
l’esilio di sier Jacomo
Foschari figlio di Sua Serenità Missier il Doge e la
spensierata baldoria per
la visita dell’Imperatore Friedrich III e
dell’Imperatrice Leonor d’Avis erano
episodi ormai relegati al passato, riprendendo ciascuno le rispettive
attività
con la solita dovizia di formichine operose.
Quei
giorni Piazza San Marco era ricoperta di un considerevole
numero di piccole tavole e di bandiere ornate degli stemmi della
famiglia del
capitano-commerciante, il finanziatore della spedizione e reclutatore
delle
duecento e più anime che a fine luglio si sarebbero
imbarcate con lui alla
volta dei vari porti mediterranei e oceanici.
Anche
il signor padre di Toniolo, sier Stae Trum, v’era tra
questi, installato dietro il suo banco assieme ai suoi barba Donado e
Antonio,
valutando i candidati con precise domande e aggiudicandoli la mansione
che
avrebbero ricoperto nella galea nonché la paga in anticipo,
differenziandosi
infatti Venezia dall’uso straniero d’impiegare
forzati e schiavi ai suoi remi e
pertanto gloriando la propria flotta col nome di “galee
libertà”. L’araldo
pubblico aveva avvisato da parecchi giorni la popolazione e una folla
di poveri
ma robusti diavoli dalla Terraferma, Slavonia e Dalmazia
s’era raggruppata a
semicerchio, in attesa del proprio turno.
Poiché
il codice nautico aveva già regolato la maggior parte dei
problemi e dei casi, ai fratelli Trum non rimaneva che ingaggiare
rapidamente
l’equipaggio, incominciando per loro un febbrile periodo di
attività e se di
suo li si vedeva poco in casa, adesso ancor meno. Onde raccogliere i
fondi
necessari per finanziare l’impresa e acquistare la merce
prevista nel
capitolato d’appalto, oltre alla fraterna stavolta i Trum
avevano ricorso ad
una mutuae coi Miani e di fatti nel banco accanto stavano assieme a
loro sier
Lucha e suo fratello sier Hironimo Miani, molto probabilmente
discutendo
dell’attrezzatura e della squadra di calafati e maestri
d’ascia da reclutare
per l’ottimo e constante mantenimento della galea. Infatti,
se al loro ritorno
i Trum non voleva esser tenuti responsabile di danni o
d’avarie, essi doveva
controllare accuratamente l’attrezzatura del naviglio
consegnatogli
dall’Arsenale. Dulcis in fundo, i patrizi avrebbero chiamato
di nuovo il notaio
per sistemare i loro affari privati, salutato sier Stae sua moglie
madona Maria
Contarini da Candia e i suoi figlioli Bastian e Andriana e poi
buondì fino a
Natale, giacché onde meglio badare alle operazioni di
carico, nelle ultime due
settimane i fratelli Trum non avrebbero potuto per un solo istante
abbandonare
l’imbarcazione. Quell’anno di grazia 1452, poi, il
loro fratello Nicolò e i
nipoti Phelippo e Zuane non avrebbero viaggiato, troppo impegnati nei
loro
uffici a Palazzo Ducale, e quindi mancando d’aiuti dovevano
lavorare il doppio
in preparazione alla partenza.
“Toniolo,
venite qua! Lesto!” , chiamò Stae Trum suo figlio
decenne, che
trasalendo dalla sorpresa balzò giù per
raggiungere il banco paterno.
“Comandate,
sior Pare?”
“Il
viaggio a giugno per Tana del nostro caro amico e socio sier
Lucha si prospetta assai impegnativo; pertanto ha pensato
d’aggregare ai
Signori di Poppa della Trona il suo figliolo, Zanzetto, invece di
portarselo
seco.”
Toniolo
si morse il labbro inferiore, scoccando un’occhiata
scettica al suo esatto coetaneo dietro a sier Lucha Miani, un giovinetto
silenzioso dal
capo perpetuamente chino (almeno in presenza del padre) magrolino e
agile,
olivastro di volto e le gote arrossate dal sole e dal vento. Come molti
cadetti
o figli di cadetti, s’imbarcava per via della
possibilità di ottenere una borsa
di studio, nel frattanto che, a spese della Signoria, gli
s’insegnava il mestiere
di marinaio e commerciante.
“Zanzetto
è sì un paggio, ma essendo già stato
l’anno scorso a
Barutto sa il fatto suo e quindi vi terrà egregia
compagnia.” Tradotto tenerlo
d’occhio che non impacciasse le manovre o
s’esibisse in momarie, giacché sier Stae
non aveva né tempo né voglia di badare a lui.
Anzi, Toniolo nutriva il sospetto
che già suo padre si stesse pentendo di averlo arruolato e
che quello sarebbe
equivalso per lui al primo e ultimo viaggio verso Candia. Oh beh,
almeno
avrebbe visitato i suoi parenti materni.
Toniolo
ingoiò saliva amara, non contento di quella sua nuova
balia.“Ci saluteremo alla partenza?”, gli chiese
con un sorriso forzato.
“Se
non mi crepi prima”, dichiarò scocciato Zanzetto,
beccandosi
un pronto scappellotto da sier Lucha Miani. “Sarà
un piacere”, si corresse,
ghignando verde.
Il
giorno della partenza arrivò per Toniolo troppo in fretta e
in
quell’alba di fine luglio otto galee si apprestavano a
lasciare la laguna, le
vele così alte che oltrepassavano il tetto delle case.
“Adjutorium
nostrum in nomine Domini.”
“Qui fecit caelum et
terram!”
“Dominus vobiscum.”
“Et cum spiritu tuo.”
“Oremus.
Propitiare, Domine, supplicationibus nostris, et benedic
navem istam dextera tua sancta et omnes qui in ea vehentur, sicut
dignatus es
benedicere arcam, Noë ambulantem in diluvio: porrige eis,
Domine, dexteram
tuam, sicut porrexisti beato Petro ambulanti supra mare; et mitte
sanctum
Angelum tuum de caelis, qui liberet, et custodiat eam semper a
periculis
universis, cum omnibus quae in ea erunt: et famulos tuos, repulsis
adversitatibus, portu semper optabili, curusque tranquillo tuearis,
transactisque, ac recte perfectis negotiis omnibus, iterato tempore ad
propria
cum omni gaudio revocare digneris: Qui vivis et regnas in saecula
saeculorum.”
“Amen!”,
si segnò Toniolo in mezzo al resto dei Signori di Poppa
intanto che il cappellano di bordo deambulando per la corsia centrale
benediceva nave e uomini.
Ciascun
membro dell’equipaggio si trovava precisamente al suo
posto, indaffarato; i balestrieri a supporto dei fanti in piedi lungo
l'impavesata; il pilota al castello di prua, il timoniere nella sua
navicella,
mentre centosettanuno remi, in gruppo di tre, agli ordini del comito
incominciarono
a battere l’acqua ritmicamente. Davanti a loro, decine di
piccole lance
s’affannavano a rimorchiare le grandi galee attraverso il
passaggio del Lido .
Un
vento favorevole li aveva benedetti e una volta superato il
porto, i rematori lasciarono i banchi e aiutarono gli altri marinai a
issare le
vele del trinchetto, della mezzana e dell’albero maestro e le
galee
incominciarono tosto ad acquistare velocità,
finché i contorni di Venezia si
persero all’orizzonte, fondendosi con la linea piatta del
mare. I gagliardi,
giovanissimi gabbieri più ossa che muscoli, si arrampicavano
e scendevano con
abilità d’acrobata lungo le corde, talora
rimanendo sospesi come scimmie alle
sartie.
“Sai
che diceva il nostro illustrissimo ammiraglio, il
Capitano Generale da Mar sier Piero Loredan?”, [6]
confessò Zanzetto ad un
sofferente Toniolo, aiutandolo a distendersi sulla branda dentro il
pizzuolo, là dove avrebbero condiviso pasti e sonno
col Patron e i
suoi ufficiali. Zanzetto, afferrato Toniolo per la mandibola lo
costrinse a
guardarlo negli occhi così da mantenere un punto fisso e non
soffrire la nausea
causata dal mal di mare. Quanto a quella per il puzzo di freschin e di
sudore
animale e umano, a quella non sussisteva alcun rimedio.
“N-no
…?”, sbrodolò sbiancando Toniolo,
stringendo la coperta al
petto, le budella sconquassate dalle oscillazioni della galea.
“Induritevi alla fatica e alla
sofferenza acciocché sappiate esporre la vostra vita per la
difesa e la
prosperità della Signoria!” Quindi duri
ai banchi e sopporta senza tanti
piagnistei e se osi vomitarmi addosso stanotte, ti rifilo uno stramuson
che
manco più ti riconosci allo specchio!”
Toniolo
deglutì, intimidito.
Zanzetto
grugnì in approvazione. “Vedrai che poi
t’abitui”, gli
disse più dolcemente, afferrandogli la mano cui Toniolo
s’aggrappò come un
naufrago ad un pezzo di legno. “L’importante
è che camminando fissi un punto
dritto davanti a te, così da stabilizzarti. Ah, non
scordarti d’indossare una
bereta, a meno che tu non voglia stramazzare al suolo. Il sole del
Levante non
perdona. Poi, qualunque cosa, non hai che da chiedermi!” e
sorrise, contagiando
anche il suo coetaneo.
Fino
a Parenzo e a Pola, in Istria, le galee avrebbero viaggiato
assieme anche per rifornirsi di acqua, di legname, di viveri e di
montoni.
Dopodiché, sorpassata Corfù, avrebbero seguito la
rotta per la Morea arrivando
a Negroponte e lì sarebbe avvenuto il vero addio,
dividendosi ognuna verso la
propria rotta: verso Candia e Rodi per far scorta
dell’eccellente vino e
dell’uva passa di cui i popoli del nord impazzivano; verso il
Mar Nero e Tana
per ammassare le stive di pellicce, pelli, pesce salato, caviale e
tutti i
prodotti d’Oriente trasportati dall’India o dalla
Cina dalle carovane
dell’Asia.
Trentacinque
giorni di navigazione prima d’attraccare a La Canea,
per poi proseguire a Retmino ed infine a Candia, l’omonima
capitale dell’isola.
Sull’infinito mare blu intenso dell’Egeo
frusciavano le onde schiumose sotto la
chiglia, correndo le galee di Candia e Rodi incalzate dal vento e si
faceva il
paesaggio costiero sempre più brullo e d’un ocra
intenso, così come la luce
solare vivacizzava ogni colore, rendendolo quasi accecante.
Trentacinque
giorni in cui Toniolo e Zanzetto, dopo l’iniziale
ostilità, impararono a conoscersi fino a divenire
inseparabili, dove stava uno
compariva l’altro e a Candia egli presentò il
piccolo Miani ai suoi barba
Contarini come “il più caro amico ch’io
abbia mai avuto a questo mondo.”
Le
malelingue battevano, ovviamente. Le amicizie delle
galee,
contro cui il Consiglio dei Dieci tuonava, meditando in qual momento
Dio, come
nella Bibbia, avrebbe sfogato la sua collera contro certi vizi
lì assai
frequenti, fomentati da una ciurma giovane (non si reclutava oltre i
trentacinque anni) e seminuda per la maggior parte del giorno.
Momolo
non aveva mai dato credito a tali dicerie, pur non
sfuggendogli i toni rilassati e complici tra Padre e sier Antonio,
diversi
perfino da quelli che il genitore riservava a Madre. Un
uomo, se
assennato, si morde la lingua dinanzi ad una donna. Tra di loro,
invece, non
sussiste alcun freno. E se il Momolo tradiva qualche
scetticismo,
l’Hironimo confermava ché i discorsi tra lui,
Marco e Piero Contarini e i suoi
amici difficilmente li avrebbe potuti riferire a Madre o Helena senza
imporporarsi imbarazzatissimo.
Sicuramente,
la vita marinaresca non aveva reso Padre un gran
gentiluomo: la pelle brunita; i capelli castani schiariti e un poco
rovinati
dalla salsedine; le mani più callose di alcuni patrizi suoi
pari; sboccatissimo
nella collera, superstizioso (il verde non lo indossava neanche sotto
tortura),
goloso di panbiscotto ammorbidito nel vino e ogni volta che da piccino
Momolo
l’abbracciava, giurava di cogliere l’odore salso
del mare sulla sua pelle e
paesaggi esotici affioravano immediatamente alla sua mente. Prima di
sposarsi,
molto spesso, nei bei giorni d’estate, di conserva coi suoi
amici remava la sua
gondoletta e faceva con essi a gara a chi arrivasse per primo alla
Chiesa del
Lido. Oppure, nelle piscine (o bagni) formatisi a causa del moltiplicarsi degli edifici e dell'interramento, lui ed i suoi coetanei si sfidavano a gare di nuoto oppure di lotta libera nei ginnasi, in gare di salto, di corsa o di tiro dell’arco a seconda
dell’inclinazione del
giorno. Passatempi che Hironimo aveva ereditato e che
anch’egli praticava con
gusto.
Abituato
ad essere obbedito senza discussioni e ad esprimersi in
concetti chiari e concisi, a Padre la galanteria e la diplomazia
rimasero
grandi sconosciute fintanto che esercitò la mercatura
navale. D’altronde, in
galea non servivano a nulla, non quando s’intraprendevano
insidiosi viaggio di
quattro mesi fin quasi di un anno e mezzo, con la claustrofobica
compagnia di
una ciurma composta dai più indigenti della Repubblica,
sotto la disciplina
ferrea del mare, con l’ansia del cargo e la paura
ogniqualvolta s’avvistava una
vela foresta, seguita immediatamente dalla furia
dell’arrembaggio.
“In
quel momento, un amico fidato accanto è tutto, che ti guardi
le spalle e che ti sproni fino alla morte”, gli
raccontò sier Antonio, in vena
di confidenze e come biasimarlo? Era la festa di matrimonio tra Marco
ed Helena,
aveva ecceduto di malvasia e marzemino e la malinconia
l’aveva colto,
lamentando l’assenza del padre dello sposo e amico carissimo.
Momolo,
improvvisatosi suo confessore, lo lasciava parlava a ruota libera.
“In quel
momento, sei tu e il tuo avversario. Non hai nessun luogo dove fuggire
o
nasconderti, sei prigioniero tra il legno e il mare e lì
è la tua vita o la
loro …”, e incominciò a narrargli di un
abbordaggio così come l’aveva saputo da
suo cugino il fu sier Zuane Trum, anch’egli un amico intimo
di Padre.
“Duri
ai banchi! Duri ai banchi!”
Dal
ponte di comando Zuane Trum, sopracomito, intimava urlando ai
rematori per avvertirli di mollare la presa ai remi e di tenersi
saldamente
ancorati alle panche, in vista dell’imminente impatto.
Appena
avvistate le piccole ma agilissime navi dei pirati berberi,
non scorgendo via di fuga e piuttosto di lasciarsi attaccare il figlio
di
Nicolò Trum aveva deciso di speronare quella maestra per
primo, cogliendola
alla sprovvista. Le sue galee sorelle avrebbero poi stretto il loro
cerchio di
morte, creando un’unica piattaforma di combattimento.
Il
cannone di corsia centrale e quelli di piccolo calibro sulla
rembata avevano tenuto i pirati sufficientemente distanti per
coordinare la
manovra, tuttavia le sollecitazioni delle bocche di fuoco stavano
scuotendo
troppo la galea, rischiando di danneggiarla più
dell’attacco delle fuste
nemiche.
“Tenete
pronte le falci e quando le saremo contro tagliatele le
manovre! Preparate i vasi di calce e polvere! Stoppe imbevute di pece,
resina e
zolfo - veloci! I balestrieri mirino alle vele! I fanti pronti a
respingere
ogni tentativo d’abbordaggio!” e rivolgendosi
concitatamente al cappellano di
bordo: “Quanto a voi, Padre, assolveteci dai nostri peccati e
benediteci per la
battaglia!”
“…
quando le galee collidono, vedi doppio e ti rimbomba ogni
organo interno che te li senti uscire dalla bocca. Non ragioni
più, sai solo
che hai in mano una scure, una daga o qualsiasi oggetto tagliente e a
guisa di
macellaio ti getti all’urlo di Marco! Marco! perché
se quei
cani ti rubano il cargo, eh!, o in fondo al mare o in fondo ai Pozzi,
per
debiti ci finisci … Mio cugino, buonanima, contrariamente ai
signorini
d’oggigiorno che se ne stanno al sicuro a poppa, scendeva in
prima fila coi suoi
e tuo padre non era da meno, per un amico non avrebbe esitato prendersi
una
freccia in pancia al posto suo … ”
E
via! Uno, due, tre, in una claustrofobica rissa di corpi, scudi,
picche e scuri; gli schizzi di sangue volavano alti assieme a grida e
bestemmie,
ad arti tranciati in netto, gole sgozzate e budella fuoriuscite, unite
al tanfo
di carne bruciata ed escrementi – Avanti! Marco! Marco! Nella
speranza che
tutto finisse presto, gli occhi brucianti dal sangue, sudore e
salsedine …
Zuane
Trum aveva perduto il conto contro quanti avesse affondato
la lama, o di quante avessero scalfito il suo corsaletto a botta,
imbrattato da
capo a piedi di sangue viscido e schiumoso. Le orecchie gli
fischiavano,
rendendolo sordo ad ogni stimolo esterno se non quello
d’avventarsi sul
prossimo avversario, senza concedersi il lusso neanche di premersi il
naso
gocciolante da un pugno finito male, leccando via con la lingua.
“Sopracomito,
indietreggiate!”
L’uomo
cercò affannato con le orecchie la sorgente di quella voce,
come solgono fare i ciechi così da evitare colpi vigliacchi
e morte certa.
Un
diciottenne Anzolo, sbucato chissà dove, con dei fanti
stavano
gettando sul parapetto vasi di sapone molle e i pirati, scivolando,
offrivano
con divina facilità la gola alle spade e scuri veneziane.
“Che
diceva sier Zuane di Padre?”
“Lo
descriveva come un compagno leale e generoso, ma spietato
peggio d’un turco coi nemici.” E da parte di colui
che li odiava a morte,
avendogli ucciso barbaramente il cugino Zuane a Negroponte,
corrispondeva essa
ad un’esauriente descrizione sulla ferocia dimostrata da
Padre contro chiunque
attaccasse lui e la famiglia.
Momolo
gli credeva, da arrabbiato Padre lo terrorizzava al limite,
accendendosi d’ira come il fuoco greco e se Madre non
intercedeva,
ammorbidendolo, in più occasioni sarebbero volati (nel suo
caso) rimproveri ben
peggiori di quelli già tremendi che doveva incassare.
O sarebbe
volata direttamente gente, come quella volta, durante la
pressa dei dì del Carlevar, in cui spintonarono Madre per
terra e Padre,
afferrato il fellone per la gola, l’aveva costretto a
domandarle perdono. Come
avessero evitato una conseguente denuncia, mistero.
“Devi
capire, Momolo, che tuo padre non era una persona di natura
violenta, lo diventava quando si sentiva minacciato. Purtroppo, in
galea
incancrenisci codesto difetto.”
“E
allora, quando stava … tranquillo? Non lo ricordo mica
affabile, io.”
“Vero,
possedeva un’anima nervosa e inquieta …
Però in una cosa
v’assomigliate.”
“In
che?”
“Una
linguaccia lunghissima. An, possedeva una fantasia di poeta
nell’insulto! Poi, sai Momolo, credo si
sia ingentilito una volta
abbandonato il remo.”
“Uhm.”
“Non
sei convinto?”
Momolo
sospirò, guardando infelice la sala addobbata a festa,
laddove i giovani, indossate le maschere e abbandonando i rispettivi
genitori e
parenti alle eccellenti vivande, s’erano portati al centro
per improvvisare
gaie danze e civetterie maliziose. Al tavolo degli sposi Marco stava
litigando
ridendo con Lucha e Giorgio suo cognato, intenti a strappargli il
bicchiere
dalle mani. “Basta vino, hai da lavorare stasera!”
In altre
circostanze, il diciassettenne sarebbe stato tra i più
chiassosi animatori, sennonché al momento delle
felicitazioni (grazie a Dio
ancor da sobri e digiuni) la mancanza di Padre gli s’era
palesata largamente,
intristendogli il cuore.
“Sembra
quasi un contrappasso che l’abbia colto una morte
sì
violenta”, asserì il ragazzo, ingollando il vino
in un sol sorso.
A
quell’affermazione Trum non seppe come controbattere.
“Sier
Antonio”, domandò all’improvviso Momolo,
afferrando
un’albicocca e tormentandola agitato. “Da tempo
desideravo chiedervelo: vi
sovvenite del cifrista Antonio Landi? Quello … quello che
s’accordò con Zuam
Batista Trivixan e il Marchese di Mantoa?”
L’uomo
annuì lentamente, cauto.
“Credete
… credete Padre abbia incontrato tale destino,
giacché
anche lui …? Insomma, in quell’anno i Dieci
avevano firmato il mandato di
arresto di Zorzi Valla con l’accusa di spiare per il Triultio
…”
“Il
magister Zorzi fu rilasciato lo stesso ottobre per
insufficienza di prove”, gli rammentò severo il
Savio di Consiglio.
“E
se invece fosse stato perché nel frattanto aveva fornito dei
nomi? Se tra questi nomi ci fosse stato Padre? Se … se
l’avessero impiccato a
mo’ di monito? Non era la politica allora dei Dieci, per
scoraggiare la fuga di
notizie?” ansimò ansioso.
Quel
dubbio l’aveva tormentato negli ultimi sei anni, dopo aver
assistito all’impiccagione post-mortem del segretario Antonio
Landi.
Una turpe
e vergognosa faccenda: Zuam Batista Trivixan, residente
da quattro anni a Mantova e segretario di Francesco Gonzaga, durante le
sue
visite a Venezia visitava spesso in casa il segretario del Senato
Antonio
Landi, settantenne, così da informare il Marchese di Mantova
su alcuni segreti
di Stato, in particolare sul motivo esatto per cui la Signoria aveva
revocato
la condotta al Gonzaga. Ora, codesto Trivixan frequentava una
cortigiana cui
incautamente s’era lasciato sfuggire alcuni dettagli di
quell’intrigo e la
donna, ovviamente, aveva a sua volta riferito il tutto
all’altro suo cliente,
il segretario degli imprestiti, Hironimo di Amadi cui non era parso
vero di
sporger denuncia ai Capi dei Dieci. Arrestati i traditori, Antonio
Landi venne
torturato senza alcun riguardo per la sua veneranda età e di
fatti egli morì
straziato dai ferri; non soddisfatti e piccati di non averlo potuto
decapitare
in Piazzetta, i Dieci avevano deciso allora che il corpo del Landi
venisse
rivestito col suo comeo da segretario e, legatolo in modo che dalla
folla fosse
ben riconosciuto, lo impiccarono ad una forca eretta in Piazza.
Hironimo di
Amadi ottenne in premio due fonteghi alle farine e la cortigiana cento
ducati.
A Momolo
quel macabro e chiaro monito riportò alla mente quel
maledetto 18 agosto dello stesso anno dell’arresto di Giorgio
Valla, professore
di retorica originario di Piacenza, studente dell’umanista
neoplatonico
Costantino Lascaris e precettore dei figli del fu duca Francesco
Sforza. Si era
scoperto, dopo otto mesi di carcere e numerosi interrogatori
corroborati da
robusta tortura, che la colpa risiedeva nel suo allievo Placidio
Amerino, il
quale l’aveva incastrato, nascondendosi dietro
l’amicizia di lunga data tra il
suo maestro e il luogotenente del Re di Francia, Gian Giacomo
Trivulzio, quest’ultimo
il vero artefice di quell’intrigo finalizzato a scoprire i
maneggi tra la
Serenissima e il duca Ludovico il Moro. Valla per un soffio aveva avuto
salvo
il collo, mentre il suo discepolo, malgrado le suppliche di clemenza ai
Dieci,
condannato a morte per spionaggio. Gran bell’amico
s’era rivelato il Trivulzio,
che l’aveva sfruttato per impiantargli addosso un suo
informatore, cacciandolo
nei guai con la Signoria!
In ogni
modo, il sospetto che forse, magari, Padre avesse potuto …
“Per
qual motivo, sentiamo, avrebbe dovuto Anzolo lavorare per il
Triultio?”, berciò adirato sier Antonio, la fronte
corrugata. “Così poca stima
nutri nei suoi confronti, da pensarlo un gretto venale che si vende al
primo
minchione che gli sgancia danari? Tuo padre finanziò di
tasca propria molte
opere pubbliche; in prima fila combatté sia sul Po sia
assieme a Guido de’
Rossi contro quei cani degli Austriaci, in pieno inverno nel Passo di
Celazzo
con la neve fino alle ginocchia e nel bel mezzo di una bufera! E tu
credi che
si sarebbe a tali porcate abbassato?”
“Molti
cosiddetti fedelissimi e boni marcheschi hanno calato le
braghe o per paura o per avidità, servendo oggi la Signoria
e l’indomani
tradendola!”
“Sacramento,
ragazzo! Se non fossi suo figlio ti spaccherei il
muso!” e da come sier Antonio s’alzò
dalla sedia, Momolo sospettò la veridicità
di quella minaccia.
Fortunatamente
per ambedue, sier Batista Morexini li raggiunse,
sedendosi strategico tra i due litiganti.
“Via
con la malinconia!”, riempì loro di vino le coppe
l’allora
Savio di Terraferma, improvvisandosi Ganimede a scapito del povero
servitore
cui aveva sottratto la caraffa. “Momolo, le feste esistono
per scappar via dai
noiosi vecchioni, mica per punzecchiarli riesumando antiche
reminescenze, le
quali, come lo sterco, a furia di rivangare puzzano di
più.”
“La
perdonanza, sior Barba e anche a voi, sier Antonio”, ammise
il
ragazzo, studiando mesto il liquido dorato. “Non avrei dovuto
imbastire certi
discorsi …”
Captando
il visibile malessere nel nipote, sier Batista
s’informò
da sier Antonio: “Di che conversavate?”, pur
intuendone benissimo il tema.
Il Savio
di Consiglio sbuffò snervato. “Momolo qui
teorizzava una
correlazione tra l’arresto di Zorzi Valla e la morte di
Anzolo”, riassunse
brutalmente sintetico.
“A
bèmpo! Che monae vai blaterando?”
Paonazzo
in volto, il diciassettenne pur a malincuore difese la sua
ipotesi: “Il mio bisnonno Marco finì sotto
processo per corruzione a Corfù e
mio nonno Lucha esiliato per un anno da Veniexia per aver fatto parte
di una
strana setta. Forse, forse possediamo un sangue disonesto
…”
I due
Savi si scoccarono un’occhiata compassionevole.
“Momolo,
guardami bene dritto negli occhi”, posò sier
Batista le dita sotto il mento del
nipote, costringendolo a sollevare la testa. “Anche mettendo
caso che tuo padre
fosse stato un traditore, credi sul serio che la Signoria
l’avrebbe fatto
assassinare così, di nascosto, con metodi da Borja? No, come
opera con tutti,
l’avrebbe condotto in Senato e lì
giudicato, publice e non
nell’ombra, e sempre davanti agli occhi di Dio e degli
uomini, se colpevole,
giustiziato o esiliato!”
“Sì
ma i fuoriusciti, quelli sì che li assassinano di nascosto
…”
“Per
evitare casus belli e solamente se non riescono a rapirli e a
riportarli qui, a Veniexia, ond’essere giudicati dalla sua
buona giustizia”,
tagliò corto sier Batista. “Quanto a tuo padre,
ripetendo il mio discorso al
funerale, s’è trattato di un tentativo di furto o
comunque della diffusa
criminalità notturna …”
La musica
di una piva d’impose tra i tre, chetandoli.
“Oppure
siete voi il colpevole”, alluse sornione sier Antonio nel
tentativo di scacciar via la depressione generata da quella
conversazione.
“Anzolo l’odiavate perché ogni volta vi
batteva nelle regate e nelle gare di nuoto e voi,
pregno di quella boria imparata dai Portoghesi, non tolleravate che uno
delle
Cha’ Nuove umiliasse voi delle Cha’ Vecie e
Apostoliche.”
“Zò,
lustrissimo sior Toniolo, la senilità v’ha
sbattuto la
padella in testa?”, inalberò scioccato sier
Batista. “Che asinerie andate
ragliando? Al quel cancaro del mio cugnà volevo bene. Anche
quando mi batteva
nelle gare. Certo, ancor mi domando come quella santa di mia sorella lo
sopportasse, ma tra moglie e marito non ci mettere il dito,
no?”
“Ma
se veniste alle mani e vi buttaste giù in canale!”
Il Savio
di Terraferma bevve un lungo sorso di malvasia. “Non mi
ricordo”, nicchiò e sier Antonio ghignò
feroce.
“Ma
sì, stavamo assistendo ad una momaria e ad un certo punto,
uno
dei personaggi affermò come al mondo non esistesse donna
più brutta di sua
moglie. Al che, alzandovi, esclamaste che invece esisteva ed era mia
cugina
Orsetta, talmente brutta da trasformare il vino in aceto e che solo un
cieco,
un infoiato o povero in canna avrebbe avuto il coraggio di
sposarla!”
“Io
questo ho detto?”
“Sì,
pur aggiungendo che ormai vista l’età doveva aver
la mona
asciugata e che piangevi la sorte di colui che se lo sarebbe scorticato
in
carne viva, fottendola …”
“Ma
va là!”
“Carissimo,
eravate talmente ubriaco che avreste ingiuriato anche
il Papa, l’intera curia romana e loro madri, se, arrabbiati,
non v’avessimo
chetato prima. Imbriago spòlpo geravate, vui!”
“An
sì?”
“Oh
sì. E quando Anzolo s’erse a difesa
dell’onore di mia cugina,
gli elargiste il gesto della fica urlandogli: Squattrinato
come sei, te
la scoperesti anche domani pur di mettere legna in camino e una toppa
alle
braghe tue, an, Miani? Pezzente!”
“Oh,
gran mercé”, si dolse sier Batista, pizzicandosi
la radice
del naso e tuttavia a Momolo non sfuggì
l’arricciamento divertito della sua bocca.
“V’accapigliaste
alla stregua di due lavandaie. Voi ad un certo
punto tagliaste i lacci delle calze ad Anzolo, per prenderlo a
scudisciate con
la vostra scarpa, dandogli del rematore greco, sennonché
Anzolo vi diede a sua
volta una tallonata sui vostri cogliombari e tentò
d’annegarvi in canale,
dandovi della puttana. Ancora mi domando come evitaste l'arresto in quell'occasione!”
Momolo
tappò una scrosciante risata con la bocca, ricavandone un
misto tra singhiozzo e grugnito e pure sier Batista, ilare,
batté il pugno sul
tavolo e assieme a sier Antonio Trum i tre uomini divennero paonazzi in
faccia
dal gran ridere, al punto d’asciugarsi le lacrime agli occhi.
“An
sì, adesso mi sovvengo della zuffa. Ma quelle parole in fede
mia mai le pronunciai! Ve lo giuro sulla tomba di mia
suocera!”, protestò
ansimando sier Morexini, prendendo fiato. “Il mio sior barba
Francesco, Momolo,
le sberle che non mi diede Anzolo finì per darmele
lui!”, esclamò ilare.
Attirata l’attenzione del coppiere, lo istruì di
servirli d’un altro vino,
rosso scuro e corposo, appellato Lacrime di Cristo.
“Che
poi, Toniolo, voi non me la raccontate giusta: perché
v’incavolaste? In fondo, in tutta Veniexia era risaputo come
Orsetta Trum
vostra cugina pareggiasse in beltà a Gorgone Medusa! Non
foste voi, a Palazzo
Ducale, a commentare durante la sua festa di matrimonio col
Grillo: Alegreza
per otto dì et grameza per sempre?” [7]
Sier
Antonio per poco non mancò di soffocarsi col vino,
ridendosela alla grossa.
Ristabilito
l’umore spensierato e frivolo da festa nuziale, Momolo
si concesse di lasciarsi contagiare e coinvolgere in quei lazzi
triviali, pur
contenendo a fatica la sorpresa nell’apprendere quel lato di
Padre, di solito
descritto all’unanimità come serio, poco incline
agli scherzi e rispettoso del
prossimo e della legge.
Quant’è
bella giovinezza invero.
Continua
…
*************************************************************************************************************
Nomi di
città e isole in veneziano /italiano:
Barutto =
Beirut; Antona = Southampton; Ventona = Winchester;
Candia = Creta;
Bruza = Bruges
Come
accennato nell’introduzione del capitolo, la parte 2 non
tarderà ad essere pubblicata. Infatti il capitolo era venuto
un qualcosa di
mostruoso, 50 pagine circa. Siccome Hoel non desidera venir accusata
della
morte degli altrui occhi, ha deciso di dividerlo. Quindi state in
campana.
l nuoto era di antica tradizione presso i Veneziani. Da un codice si ha questo passaggio: "Angelus Heremita, anno 1312, cum esset fere annorum 100, respondit, quod bene vidit dictam piscinam et ibi intus se balneavit". Nelle isolette lagunari si formavano piscine e laghetti a causa dell'interramento e del moltiplicarsi degli edifici. Lì nuotavano i ragazzi e alcune di queste piscine erano usate al posto dei bagni, supponiamo quelli termali visto che comunque si trattava d'acqua salsa. Uno di queste piscine più famose era quello di San Daniele, dove c'è attualmente l'Arsenale.
Inoltre, nel quadro "Miracolo della Croce caduta nel canale di San Lorenzo" di Gentile Bellini (1500), si vedono dei natanti utilizzare stili di nuoto quali lo stile libero e rana.
Ci siamo
molto divertiti a scrivere questo capitolo, soprattutto
perché buttato così, senza dover seguire la trama
tranne per le riflessioni che
s’allacciano al capitolo precedente. Spero di averle rese
bene, soprattutto
dall’ottica maschile.
Queste
digressioni possono sembrare superflue, ma come anticipato,
in questa storia ci sono due narrazioni qui: quella prettamente storica
e
quella intimistica, per dire. Il Nostro sta tirando le somme, si sta
guardando
indietro e cercando di far pace con se stesso. Le lettere sono di mia invenzione, utilizzando però come modello delle loro sorelle coeve, scritte tra famigliari.
In ogni
modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, a prestissimo
col numero 14!
Un
po’ di noticine:
[1] il motivo per cui Anzolo si
arrabbiò
così tanto, fu perché, come previo avvocato e
giudice, ben conosceva questo
metodo esser usato dai pasticceri per adescare i bambini e ragazzini
per
prostituirli dopo averli portati in retrobottega. I pasticceri, assieme
ai
barbieri, fungevano spesso da mezzani nella prostituzione maschile.
[2] che Giovanni Foscari facesse un
po’ la
cresta sui noli (dazi) ci è confermato dalle lettere di
lamentela ai consoli
veneziani a Londra da parte di Marino Dandolo, costretto a pagare 17
ducati sui
panni venduti a Siracusa.
[3] le vicende narrate da Anzolo riassumono
le Guerra delle Rose tra i Lancaster e gli York, la prima fase vinta da
Edoardo
IV York, il quale istallatosi sul trono, aveva riaperto immediatamente
i
commerci, specialmente con Venezia a seguito dei vergognosi eventi
della
“caccia al Lombardo” a Londra, dove molte case di
mercanti italiani vennero
brutalmente saccheggiate. Infatti, a causa della guerra e delle
tensioni tra
mercanti e i locali, molti Genovesi e Napoletani avevano smesso di
commerciare
con l’Inghilterra e anche i Veneziani furono lì
per lì d’imitarli, specie a
seguito delle angherie del sindaco di Southampton John Payne (Zuanne
Peine nel
capitolo) che raddoppiava impunito i dazi e li ostacolava in generale.
Edoardo
IV mise subito in chiaro con la Signoria, promettendo severi
provvedimenti a
chiunque osasse molestare i Veneziani. In ogni modo, loro se ne stavano
o sulla
galea o nei fonteghi o a casa dei loro conterranei fissi, a Southampton
sappiamo essere i Priuli e i Pisani per certo. Le tappe di solito erano
almeno
tre: Londra, Winchester per le sue fiere e appunto Southampton. Essendo
l’Inghilterra un mercato ancor più profittevole
rispetto a Bruges e Anversa, le
galee si trattenevano di più, fin quasi ad un anno. Altri
eventi menzionati
sono le tensioni tra il nuovo re Edoardo IV e il Conte di Warwick
(Conte di
Varvici) “The King’s Maker” colui che
aiutò gli York a vincere contro i
Lancaster. Il Conte voleva sposare Edoardo o ad Anna di Valois o a Bona
di
Savoia (sì, proprio la Bona che andò in sposa a
Galeazzo Maria Sforza), ma
Edoardo s’era innamorato follemente di Elizabeth Woodville in
Grey (Yxabela
Greia), vedova lancasteriana. Si sposarono segretamente appunto nel
1464 con
disastrose conseguenze.
[4]
gàtolo =
collettore in muratura posto sotto la
pavimentazione dei percorsi cittadini. Fogna, in soldoni.
[5] Lo supponiamo da questo fatto: Antonio
Tron, al momento della morte nel 1524, nominò suo erede il
suo pronipote
Gaspare di Tommaso da Molin e di Cristina Miani, lasciandogli in
eredità una
grandissima somma di danari, mentre ai cugini Luca e Marco Tron, solo
un “zerto
stabele a Rialto, conditionato si harano fioli”.
Quanto
alla sua poca dimestichezza nella marina, lo ammette lui
stesso quando giustifica al Senato il suo rifiuto di sostituire Angelo
Trevisan
come Capitano Generale da Mar; noi vogliamo credere all’uomo
e non perché gli
fu chiesto in un periodo delicatissimo, il 1511 appunto. Tuttavia, ci
par
ugualmente strano, visto che i Tron fecero i soldi appunto coi commerci
e suo
nonno Luca Tron e suo padre Eustachio (Stae o Stai) Tron stavano
più a Creta
che a Venezia, in un continuo su e giù, tant’era
vero che Eustachio si sposò
perfino con una Contarini del ramo cretese. Fino a prova contraria,
concediamo
il beneficio del dubbio. Almeno è stato onesto, dai.
[6] Pietro Loredan, fu
Capitano
Generale da Mar e Provveditore d’Armata, uno dei migliori
comandanti della
Serenissima: vincitore dei Genovesi a Modone; dei Turchi a Gallipoli;
del Re
d’Ungheria a Motta di Livenza; conquistatore della
Dalmazia e colui
che, dopo aver respinto i Milanesi a Brescia, per poco non aveva preso
a calci
nel deretano il Carmagnola, intimandogli di cessare i suoi
tentennamenti e
d’ingaggiare il nemico, come puntualmente avvenne a Maclodio.
Fu il grande
avversario politico di Francesco Foscari. Questa sua riconosciuta
grande
abilità militare gli costò il dogato,
perché gli avversari politici durante i
ballottaggi per l’elezione ducale, fecero pesare la sua
eccellenza militare a
sfavore del successo nell’elezione, dicendo che il Loredan
sarebbe stato molto più
utile come capitano che come doge. A peggiorare la rivalità
tra le due
famiglie, Foscari e Loredan, fu il sospetto d’avvelenamento
di Pietro L. da
parte del Francesco F. e ai processi del ’52 e ’56
di suo figlio Jacopo F. a
capo dell’accusa, nel Consiglio dei Dieci, ci furono
rispettivamente il figlio
e il nipote di Pietro L., Giacomo e Francesco Loredan che persuasero
poi il
Senato ad approvare l’abdicazione dello stesso Doge.
Nicolò Miani di Marco, zio
di Angelo, giocò un ruolo attivo in ambedue le vicende,
prima come consigliere
dei Dieci (fu lui ad aprire l’inchiesta, interrogando il
testimone circa
l’omicidio d’Almorò Donà) poi
nella Zonta. (maggiori informazioni la vicenda
Foscari-Loredan, vedi “Jacopo Foscari”, nota del
Capitolo IX)
[7] questa è proprio vera. Narra
il
Sanudo: Questo Doxe (Nicolò Tron) maridò
una sua
fiola brutissima in sier Hironimo Contarini q. sier Francesco ditto
“Il Grillo”
et fo fatto belle feste in Palazo, la quale andò a marido in
bucintoro. […] E’
da saper sier Antonio Trum q. sier Stai, nepote del Doxe, andava
dicendo:
“Alegreza per otto dì et grameza per
sempre.”
Che
cavaliere!
|
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Capitolo 15 *** Capitolo Tredicesimo, parte seconda: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 13.11.2021
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Capitolo
Tredicesimo, parte 2
Confiteor
(Onora
il Padre …)
Visitatori
e ambasciatori a Venezia spesso annotavano, sbalorditi
e scandalizzati, la balzana sintonia tra patrizi, cittadini e popolo,
laddove
non sussisteva alcun aspetto della vita quotidiana né alcun
divertimento, in
cui i cosiddetti “inferiori” non condividessero coi
loro “superiori” e come
quest’ultimi non esigessero alcun rispetto esteriore dai
primi. Una convivenza
pacifica regolata dalle scrupolose leggi e lo spazio risicato rispetto
alla
popolazione. Strabuzzavano gli occhi, i foresti, scorgendo magari in
beccheria
tra il popolino e i servi un senatore contrattare col bécher
il prezzo della
carne, magari il medesimo nobiluomo con cui a Palazzo Ducale avevano
discusso
con olimpica flemma di delicate questioni diplomatiche.
Sicché
i servitori ai patrizi, nell’intimità del palazzo,
fungevano anche da amici, confidenti, occasionali amanti
(purché non lo si
denunciasse ai Signori di Notte), balie, compagni di giochi, santoli e
figliocci. Custodi quindi dei segreti dei padroni e spesso loro
complici, non ci
si stupiva se i Signori di Notte e la Quarantia Criminal puntassero
immediatamente su di loro onde estrarre confessioni e testimonianze
utili alle
loro indagini. Tutt’al più li incoraggiavano con
lauti compensi, come quelli di
condividere metà delle multe o espropri, ad esempio, quando
denunciavano i loro
padroni per cospirazione, frode, fornicazione, violazione delle leggi
suntuarie, sodomia e gioco d’azzardo.
Hironimo,
similmente a tanti suoi coetanei, era appunto cresciuto
in questo equilibrio, giostrandosi tra il piano nobile di Ca’
Miani e
l’affollato Campo San Vidal; tra il portego arioso e
raffinatamente ammobiliato
e il marasma fumoso delle cucine; tra le fragranze d’incenso
e sandalo dei
brucia-profumi di bronzo e gli odori di cipolle e noce moscata delle
pentole;
tra la colta compagnia di Madre e quella grezza di Orsolina.
Costei
era stata allevata dalla seconda moglie del nonno sier
Lucha, per arginare la mancanza di figli suoi. Nata,
ufficialmente, da un
marinaio chioggiotto morto in mare, in realtà a
Ca’ Miani non era sfuggito come
la ragazza assomigliasse in maniera inquietante al padrone. Tuttavia, i
servi
avevano sempre taciuto a riguardo e non confermarono mai niente
all’interessata
in questione, prima fra tutti la sua stessa madre.
Orsolina,
anima semplice, s’era dimostrata una compagna
devotissima alla sua benefattrice e tale lealtà
trovò premio quando, rimasta
senza la sua padrona, invece d’esser scalzata da Eudokia, la
fantesca di madona
Leonora, quest’ultima se l’affiancò nel
governo di casa giacché “voi
conoscete anche l’ultima sua pietra”. A
sancire tale muliebre
alleanza, suo figlio Menego aveva sposato la candiota.
A chi
dunque se non all’anziana Orsolina poteva Hironimo porre
quelle domande, che neanche i suoi onorati parenti e fratelli osavano
rispondere senza tergiversare, arrossire e tartagliare?
“Com’era
madona Andriana, la prima moglie di Padre? In che
rapporti erano?”
L’anziana
massera levò lo sguardo dall’elaborata brocca di
vetro
che stava lavando con grande attenzione, nel frattanto che Zanetta e
Ufemia o
finivano d’asciugare le coppe di vetro con decorazione in
doratura e smalto o
lucidavano i piatti d’argento da parata. Pur non estraendo la
balla d’oro alla
Barbarella, Madre aveva ugualmente desiderato organizzare una
festicciola per
Hironimo, tirandolo su di morale e scherzando che avrebbe avuto la vita
intera a starsene chiuso a Palazzo Ducale.
“Madona
Andriana, patron Momolo?”, ripeté confusa la
donna. Il
ragazzo annuì. “Perché?”
Il
ventenne fece spallucce, accarezzando distrattamente Baffo il
gatto che, ristoratosi dai suoi vagabondaggi notturni, si strusciava
ora tra i
suoi stinchi, ronronnando. “Così? Non ne parli
mai” e invero assieme ai
fratelli Marco Antonio ed Emilia, morti prima ancora che Hironimo
potesse
conoscerli, la prima moglie di Padre corrispondeva al fantasma di
Ca’ Miani,
una presenza talmente passeggera e presto dimenticata, da non aver
lasciato
alcun’impressione duratura al punto che la sua sorellastra
Crestina era
considerata all’unanimità più figlia
della seconda padrona, che della
prima.
Orsolina
si leccò le labbra, riprendendo il suo lavoro interrotto.
“Una rosa graziosissima dal fascino delicato che piace agli
uomini, dai modi
cortesi e imperscrutabile come un’icona greca”,
esordì la massera, rievocando
quei lontani ricordi di trentasett’anni addietro, quando sier
Anzolo aveva
condotto la giovane sposa a Ca’ Miani dopo i festeggiamenti
nuziali. “Parlava
poco col Patron e trascorreva la maggior parte del tempo o in camera
sua o in
altana e sempre in compagnia delle cugine, cognate e amiche,
sicché si poteva
dire andasse molto d’accordo con la nostra famiglia. Molto
elegante nel vestire
al limite della vanità, sempre sfoggiava abiti ed
acconciature alla moda,
ognora pronta a farsi ammirare alle feste di precetto e alle cene
dogali.
All’incoronazione a Principe Serenissimo del suo barba
Nicolò Trum e a Dogaresa
della sua amia Aliodea Morexini, ella sfilò in Bucintoro nel
corteo di
quest’ultima e pareva una stella nel firmamento,
biancovestita di raso e
splendente di diamanti e filamenti di perle. Se non
m’inganno, teneva la
treccia legata a mo’ di crocchia da una sottilissima rete di
fili d’argento, la
quale luccicava alla luce del sole. Fu l’ultima volta che la
si vide in
pubblico, prima di … voi lo sapete.”
Hironimo
storse la bocca, il cuore stretto da un’infida vena
d’astio a chiunque osasse sciorinarsi in lodi
sull’altrui muliebre beltà, che
non fosse quella di Madre. “Erano felici? Padre
l’amava?”
Quella
vecchia volpe d’Orsolina captò immediatamente la
sua
malcelata asprezza. “L’amava per la famiglia che
rappresentava. I Trum si erano
rivelati un aiuto impagabile per noi, ottimi soci negli affari e in
generale
brave persone, anche se un po’ eccentrici. Naturale, che si
combinasse un
matrimonio per rafforzare la mutuae”, lo rassicurò
e con fare cospiratore,
aggiunse: “Io penso che madona Andriana non avesse mai
dimenticato il vostro
barba, il sior Marco.”
“Dunque
è vero, ch’erano fidanzati e che Padre la
sposò per
onorare la promessa?”, strabuzzò incredulo gli
occhi il giovanotto:
effettivamente, un matrimonio sì importante e vantaggioso
avrebbe avuto più
senso per il primogenito che per il secondogenito, specie se la
fanciulla in
questione si trovava in perfetta età da marito ancora quando
il suo barba Marco
era in vita.
“No,
ciance da pettegola! Ma che madona Andriana avesse sospirato
per il bel Marco, quello sì che è vero, come
tutte le ragazze della contrada
per quello. An, l’aveste conosciuto! Un … come si
chiama, quell’idolo pagano
che tanto va di moda adesso? Quello sempre in bocca ai poeti?”
“Apollo?”
“Ecco,
bravo, un Apollo. An, non come il vostro barba Batista da
ragazzo - oh, bone Jesu, che gran bel pezzo di
figliolo! Con quegli
occhi nerissimi e impertinenti, m’avesse
dato appuntamento in casoto
dopo la caccia … L’avrai spolpato io che manco
più camminava dritto, altro che
quelle frigide cortigiane …”, si perse per la
calle Orsolina, uno sguardo di beata
malizia sul volto e Hironimo si mordicchiò il labbro
inferiore, trattenendo a
stento una risata.
“Eh-ehm,
dicevamo. Il vostro barba Marco coniugava – si dice
così?
– bellezza con nobiltà d’animo, di fatti
stringeva amicizie con grande facilità
e sapeva ben conservarle. Tutti lo tenevano in gran stima. Quando
rideva,
avevate il sole dinanzi e non si poteva rimanergli indifferente, vi
contagiava
con la sua allegria. Voi, patron Momolo, me lo ricordate moltissimo.
Vostro
padre, il Patron, l’adorava così come adorava
l’altro suo fratello più giovane,
sior Vorzilio, e più della morte del Vecchio Patron, lo
devastarono quelle dei
fratelli. Povero, povero sior Vorzilio, non aveva neppure vent'anni
… La
Vecchia Patrona, pur non sua madre di sangue, divenne mezza matta dal
dolore,
poiché l’aveva allevato quand’era
pressoché un puttino … Vostro padre dovette
intercedere presso Missier il Doxe per eseguire le ultime
volontà del vostro
barba Marco, non concedendogli l’autorizzazione di costruire
un altare alla
Madonna nella nostra chiesa di San Vidal”, tacque, tirando su
col naso.
Hironimo le coprì la mano con la sua e l’anziana
donna lo ringraziò con un
tremulo sorriso.
Sbattendo
via con le ciglia le lacrime traditrici, Orsolina si
schiarì la gola e
proseguì: “Il sior Marco aveva
iniziato bene la
carriera, specie nello Stato da Mar e chissà cosa sarebbe
divenuto se la
malattia non l’avesse stroncato così giovane, a
neppure trent’anni. Il sior
Lucha vostro nonno, poi, l’aveva educato bene, nutriva grandi
aspettative su di
lui, contrariamente ai figli minori cui poco badava. Non so neanche
perché il
Patron abbia battezzato vostro padre Anzolo,
non mi ricordo nessuno
in famiglia con un nome simile … Ah sì!,
perché suo santolo fu il mastro
tessitore [1] … E manco Vorzilio lo
so, forse
perché al Vecchio Padrone piaceva leggere poesia?
Bah … Erano diversi
come il giorno dalla notte, il sior
Marco e il Patron, uno pareva un cavaliere e l’altro un
corsaro berbero.
Eppure, vostro padre era tutt’altro che stupido o ignorante,
faceva le ore
piccole nello studio a leggere tomi e tomi di diosacché.
Solo, le letture –
come si dicono? Galanti? Cortesi? – lo annoiavano, le trovava
frivole e fini a
se stesse; sapeste che battibecchi con la Vecchia
Patrona, le sue
amie e le sue zermane Contarini e Loredan! Alla prima critica sul
comportamento
di quel cavaliere francese o inglese – Lanza-lotto?
– lo scannavano vivo,
dandogli del turco, del bifolco, dello spirito gretto e materialista!
Come se a
‘sto mondo si avesse bisogno d’ulteriori incentivi
a commettere adulterio! Che
poi, se è Lanza-lotto e Ginepra, va tutto bene, è
grande amore; se sono io, son
gran puttana! E se lo fa mio marito, è un uomo
morto”, roteò l’indice in aria
Orsolina, più infiammata del fu Savonarola sul pulpito.
“D’altronde,
dico io, cosa vuoi? Cosa pretendi da quel povero
figliolo, se lo mandi ad undici anni in galea? Cosa t’aspetti
ch’impari? La
galanteria? Le poesie d’amore? Il bonjù
monsù?”, imitò la domestica
con grottesca abilità il modo affettato dei foresti
francesi, appoggiando le
mani sul ambedue i fianchi e dondolandosi a mo’
d’odalisca ottomana. La cucina
si riempì immediatamente del trillo allegro di risate
femminili e anche
Hironimo s’unì a loro. “Disciplina,
obbedienza, la bestemmia e la sodomia, ecco
che s’impara in mare. Manco mal che quest’ultima il
Patron l’ha scampata …”
“Padre
bestemmiava?! Non l’ho mai sentito!”
“Come
se non peggio d’un turco prima di sposarsi con la Patrona.
Il suoi poveri barba si strappavano i capelli all’udirlo,
invece il Vecchio
Patron scrollava le spalle, turco anche lui. Mi rincresce sentire che
codesto
viziaccio, estirpato dal padre sia ricresciuto nei figli”,
commentò la massera,
scoccando una lunga ed esauriente occhiata ad Hironimo che,
imporporandosi
offeso, si difese subito:
“Io
non bestemmio! Mi cimento in sporchissime imprecazioni e
insulti, lo ammetto, ma mai bestemmio, ché le sberle del
sior Nane-Checo mi son
bastate. E’ Carlino, quel turco adottato, che ingiuria e
maledice San Piero [2]
e Luchin talvolta quand’è in collera nera, per poi
pentirsi immediatamente. Il
Marchetto si sciorina in ontissime poesie da bordello, però
non l’ho mai
sentito tirar giù né santi né
madonne.” Prese fiato, aspirando aria
rumorosamente. “Ma dimmi, quando conobbe Padre mia
Madre?”
“Dunque
… la questione è un po’ complessa. Sier
Donado Michiel, il
figliastro della vostra siora nonna, s'era ammogliato con madona
Cecilia Trum e
sempre una zermana di vostra madre aveva sposato sier Zuanne Trum,
fratello di
madona Cecilia e ambedue zermani di madona Andriana. Ora non dico che i
vostri
genitori si vedessero tutti i giorni, vostro padre è sempre
stato molto
intraprendente e fino ai venticinque anni aveva viaggiato andata e
ritorno in
Levante, tuttavia ci furono occasioni in cui sì, ebbero modo
di frequentarsi,
giusto per sapere uno dell’esistenza dell’altra.
Inoltre, madona Andriana e la
Patrona, sfruttando il legame condiviso con la moglie di sier Zuanne,
erano nel
frattanto divenute amiche ed ecco che madona Andriana invitava vostra
madre al
suo matrimonio.”
“Quindi
già all’epoca un poco si conoscevano?” e
al cenno
affermativo della fantesca. “Che impressione le
fece?”
“An,
non molto favorevole suppongo: quando si sposò con madona
Andriana, vostro padre aveva appena terminato una serie di lutti, uno
dietro
l’altro: i vostri barba Vorzilio e Marco, il vostro nonno il
Vecchio Padrone e
ultimo il suo barba, il sior Nicolò, proprio poco prima
dello sponsalicio, al
che, considerati i cattivi auspici, avremmo tutti dovuto comprendere
molte cose
su questo matrimonio. Furono anni duri per lui, patron Momolo, doversi
assumere
la responsabilità di Cha’ Miani in sì
poco tempo. Pertanto, non c’era da
stupirsi se si comportava da re dei selvatici e con quella barba lunga
pareva
un saraceno del Cayro. Buon pro per la sua nomina ad avvocato degli
Uffici a
Rialto, un po’ meno per noi tarmati da processi anche in
famiglia. Se il Patron
s’addolcì, fu grazie alla presenza di vostra
madre. Con la prima moglie si
dimostrava rispettoso e cortese, guai però a
contrariarlo.”
Insomma,
come si comportava con tutti e ciononostante, la massera
aveva ragione: pur finendo magari di borbottare rancoroso nel suo
studio, Padre
non esercitava alcun’influenza né
autorità sull’operato di Madre, la quale se
faceva quel che diceva lui era perché conveniva con la sua
idea, non perché
glielo fosse stato comandato. “Come ci riuscì
Madre?”, l’incalzò dunque.
“Nel
senso, come riuscì a …”, non voleva
usare sedurre, troppo
scandaloso associato a lei, “… ad attirare la sua
attenzione? Cos’aveva di
diverso?”
“Vostra
madre si comportò l’esatto contrario di madona
Andriana,
cioè ascoltava vostro Padre e s’interessava al suo
mondo. Anche agli uomini
piace, mica soltanto alle donne. La Patrona adesso la vedete come una
nobildonna distinta, piena di grazia e dignità, ma da
ragazzina, oh!, sapeste
che scimmietta curiosa, una chiacchierina, il tormento delle suore del
convento
dove aveva studiato fino a quindici anni! Tutto l’incuriosiva
e che risate
quando tampinava con infinite domande vostro padre, pareva un levriere
che
tallonava la volpe. Mi ricordo che quando madona Andriana e il Patron
ritornarono da Ravena, dov’era stato camerlengo
…”
“An,
Leonetta! Sapessi che viaggio da Ravena fin qua! Per poco, ho
creduto di soffocare in quell’imbarcazione mezza-marcia,
stipata più delle
bestie da macello in galea!”
Ad
orecchie profane il tono di Andriana poteva suonare giocoso,
eppure Leonora ben aveva captato la venuzza di fastidio sotto
l’ingannevole
buonumore, forse dovuta alla gravidanza della giovane donna. Il volto
pallido,
tirato e lievemente sudaticcio tradiva o l’inizio di una
febbriciattola o la
fine di un gran mal di mare. Al che, conoscendo bene gli svantaggi di
contraddire una persona già di suo alterata, la Morexini
tacque e annuì, cosa
che invece non fece Anzolo Miani il quale, strabuzzando gli occhi
sorpreso da
tal inaspettato brio nella consorte, replicò con altrettanta
vivacità:
“Ma
che dite? L’imbarcazione era sana e spaziosa, il vento
tranquillo e regolare e non abbiamo avuto né tempesta
né bonaccia.”
La
maschera di gaiezza scomparve dal volto d’Andriana,
indurendosi
in una di pietra. “An sì? Siete stato
così tanto tempo in mare, che si potrebbe
dire che perfino una zattera potrebbe risultarvi comoda! Un mariner ho
sposato,
non un patrizio!”
Gli
angoli della bocca dell’uomo s’incurvarono
all’ingiù, subito
sulla difensiva. “Per essere veneziana, disprezzate troppo il
tramite della
fortuna di vostro padre, dei vostri barba e anche di vostro
marito” chiarì
aspro, mentre allungava il collo in direzione di Leonora, seduta dietro
il suo
ricamo. La Trum aveva invitato a casa sua l’amica per
raccontarle il soggiorno
a Ravenna, nonché la notizia della sua prossima
maternità, ma nella fretta
s’era scordata d’informare il marito, il quale,
attirato dal concitato cicalare
nelle stanze della moglie, vi s’era subito recato onde
indagare. “Non m’avete
ancora presentato la vostra … conoscente?”,
s’informò lentamente, sospettoso.
Andriana
emise un ibrido tra uno sbuffo e una risata,
s’alzò dal
suo posto e, pigliata l’amica per il polso la costrinse in
piedi e quasi gliela
spinse sotto il naso. “Vi ricordate di Leonora Morexini? La
figlia di madona
Ysabeta, la zia della moglie del mio povero zerman Zuanne nonché maregna di sier Donado, il marito della mia zermana Cecilia. Vi siete
già
incontrati al battesimo del piccolo Lucha [3], ai tempi ancora del
nostro
fidanzamento!”, gli ricordò velenosa. "E
ovviamente al nostro matrimonio,
ma forse eravate allora troppo distratto ..."
Anzolo
deviò lo sguardo dalla moglie per non tradirle la sua
crescente stizza; piuttosto, preferì squadrare Leonora da
capo a piedi con la
medesima pignola oculatezza di un mercante, che valuta la
qualità di una stoffa
o di una spezia. Confrontò mentalmente le forme piene e mature di Leonora, così morbide e promettenti fertilità, a quelle acerbe e spigolose di quella ragazzina sempre seminascosta dietro la madre, che ogni tanto, di sguincio aveva notato senza però mai rivolgerle la parola. E non si poté dire che la fanciulla non ricambiò tale meticoloso studio, ugualmente
intrigata da questo marito di cui la sua amica si lagnava in
continuazione e di
cui, personalmente, poco si ricordava. A suo modo scoprì al
contrario garbarle:
pur castigato da quel perenne cipiglio, lei scorgeva in quel viso
serissimo
occhi molti buoni. Si rilassò immediatamente, sorridendogli
ed esibendosi in
quei vezzosetti inchini imparati in convento.
“Vi
vedo molto cresciuta dall’ultima volta”,
mormorò l’uomo,
leggermente spaesato senza saper bene perché.
“Siete divenuta una donnina,
ormai …”
“Sì,
a furia di secchiate d'acqua in testa!”, scherzò
Leonora e
prima che Anzolo potesse replicare, Andriana gli raccontò:
“Leonetta m’ha
sempre tenuto molto compagnia, sin da piccole, mentre voi eravate a
giocare al
corsaro in Levante.”
“Corsaro?
Giocare?”, ripeté suo marito, strisciando irritato
la
parola.
Non
avrebbe dovuto impicciarsi, Leonora ne era consapevole, ma al
contempo non desiderava finire arrostita tra quei due fuochi incrociati.
“E
la città com’era, sier Anzolo? Come sono i
Ravenati? Fa più
caldo o più freddo che a Veniexia? Ma è vero che
lì c’è la malaria? Non vi
sarete ammalato, spero! Avete visto i mosaici a Sen Vidal? A
Sant’Apollinare?
Sono belli come quelli a Sen Marcho e a Torzelo o di più?
Aneta, carissima,
suvvia, persuadete vostro marito a raccontarci tutto!”
“A
che pro, Leonetta? Mio marito non va in chiesa se non per
pregare: di sicuro non avrà ammirato al di là del
suo naso.”
“Vi
sbagliate, ho molto apprezzato le chiese e i loro mosaici,
così come ho visitato il mausoleo di Galla Placidia e i due
Battisteri. Eravate
con me, ve lo siete già scordato?”
“An,
non vi facevo così osservatore. E che opinione
v’hanno
lasciato, sior marito?”
“Non
saprei. La stessa impressione di chiunque veda un Cristo
senza barba, più femmina che uomo e le pudenda ben in mostra
ai fedeli!” [4]
Andriana
spalancò la bocca, scandalizzata, aggrottando tuttavia la
fronte in un muto rimprovero, mentre Leonora si copriva la bocca con la
mano,
soffocando un risolino, le orecchie tuttavia cremisi.
“Eretici sul serio!”,
commentò ilare e gli angoli della bocca di Anzolo
accennarono ad un timido
sorriso. “Per cortesia, raccontateci la vicenda di Galla
Placidia, sono sicura
che a Ravena avrete imparato maggiori dettagli su di lei. Aneta
è così parca di
dettagli nelle sue narrazioni!”
“Leonetta,
non vorrete ora che mio marito ci tedi con una lezione
di storia?”
“Tediarci?
Come? Una principessa, figlia di un imperatore, rapita
durante il sacco di Roma da un re barbaro, di cui da ostaggio ne
diviene la sua
regina! Neanche i vostri novellatori o poeti riuscirebbero ad
inventarsi di
meglio!”
“Non
confondete, amica mia, la politica con l’amore!”
“Suvvia,
crudele, concedetemi di sognare un poco! Inoltre, se non
erro, siete voi e non io quella che legge troppi romanzi, novelle e
sonetti!”
“E
voi troppo pochi! La cara Leonetta, sior marito”,
ignorò
Andriana le giocose proteste della ragazza, “temo sia
l’unica a non aver mai
gradito le imprese di un Galvano, un Percivalle o un Lancillotto. Ma
oh!, come
s’infiamma nel leggere le imprese degli Scipioni, di Cesare,
di Germanico …
Soprattutto di Germanico …”, aggiunse maliziosa,
scoccandole un’occhiata
obliqua.
Leonora
arrossì violentemente. “Oh, Aneta, per favore non
fatemi
passare per una rustica beota agli occhi di vostro marito; adesso
penserà che
disprezzo la cultura!”
“Non
trovo assolutamente rustica né superficiale una persona, che
trae beneficio dalle vicende di personaggi reali piuttosto che
fittizi.”
Captando
l’espressione interdetta d’Andriana da quella
stilettata,
la giovane Morexini subito corse ai ripari, afferrando a mo’
di sostegno il
braccio dell’amica. “Noi povere donne possediamo
ben pochi svaghi, sier Anzolo;
fortunatamente gli scrittori e i poeti, ogni tanto mossi a
pietà per noi, ci
dilettano con le loro creazioni. Basta non confonderle con la
realtà, per il
resto sono spiriti dell’immaginazione, innocui”, la
difese, sfruttando
l’accurato uso delle parole appreso indirettamente dai suoi
fratelli.
A
sua volta conscio di aver esagerato a rimproverare così la
moglie dinanzi all’amica, anche Anzolo cangiò
celere discorso: “Così voi
prediligete Germanico?”
“Siorsì.”
“Quali
aspetti, se posso chiedere, vi hanno di lui colpito?”
“L’amore
per la famiglia; l’amore per la Patria; la sua natura
benevola e generosa; la sua determinazione nella battaglia. Tutte
caratteristiche che di certo avranno ispirato i protagonisti dei poemi
e
novelle cavalleresche da noi tanto amate”, reiterò
quell’ultimo concetto in
modo da tamponare quella sottile ma palese nota di biasimo
dell’uomo circa le
letture della moglie. “Dimostra che se è esistito
un Germanico, un Galvano non
può nascere totalmente dalla fantasia.”
“Ma
ha Galvano accanto a sé un’Agrippina Maggiore che
lo sostiene
e lo consiglia, che lo segue all’accampamento, che incoraggia
lui e i suoi
soldati anche nei momenti più bui e disperati; una donna con
cui condivide sia
i disagi e le ansie sia il trionfo della sua impresa? Non credo. O
è
un’evanescente dama-trofeo-angelo per cui langue
d’amore per nulla avere in
cambio se non uno sguardo, o un’adultera seduttrice che lo
disonora più che
elevarlo. In ambedue i casi, una palla al piede. Per questo, il
cavaliere alla
fine rimane sempre solo, poiché alla fine la donna lo
intralcia, deviandolo con
la sua natura sostanzialmente viziosa, quando non angelicata, ma in
quel caso
non può trattarsi di un essere umano di carne e
sangue.”
Le
due giovani donne tacquero, il capo chino ma dialogando cogli
occhi, quale miglior risposta dare. Al che, Leonora, armatasi di
coraggio e non
avendo nulla da perdere, sorridendo furbescamente azzardò:
“Appunto questo,
sier Anzolo, la nostra illustre conterranea Crestina da Pisan [5]
rimproverava
ai suoi colleghi: “Sembrano tutti parlare con la stessa
bocca, tutti d'accordo
nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne
è incline ad ogni
tipo di vizio.” Vedete, come noi donne per prime biasimiamo
codesti
vaneggiamenti di poeta se eccessivamente immaginosi? Se nella loro
fantasia
appariamo sfuggenti, capricciose e sfacciate, nella realtà
siamo savie,
discrete e prudenti - più delle Agrippine che delle Ginevre.
Ora, però, non
perdiamoci in calle con questi discorsi a noi non congeniali e invece
dilettateci con la storia di Galla Placidia che ci avete promesso
…”
Similmente
agli infaticabili mulini trevigiani, il cervello
d’Hironimo girava in piena confusione, incapace di conciliare
le immagini
evocate, di Padre e Madre come li conosceva lui
- composti, sicuri
di sé, fieri – a come li aveva invece conosciuti
Orsolina, la quale aveva
spiato la gustosa scenetta, ovver un serioso giovane uomo stanco dal
lungo
incarico fuori sede e una fanciulla iperattiva, che gli dava il
tormento con
infinite domande e lo impegolava in lunghe conversazioni. Il ventenne
concluse
che tal comportamento gli ricordava il suo; ripensandoci bene, anche
lui da
piccolo non voleva staccarsi da Padre al suo rientro dagli uffici,
aggrappandosi
alla manica della toga e tirandogliela piccato quando non soddisfaceva
esaurientemente la sua infinita curiosità o peggio, quando
Hironimo si
accorgeva come Padre stesse fingendo di ascoltarlo, mentre lo rendeva
partecipe
dei suoi ragionamenti.
“E
non s’infastidiva?”, arcuò dubbioso il
sopracciglio, memore dei
stizziti rimproveri di Padre all’ennesimo strattone.
L’anziana
donna ridacchiò sorniona. “A parole! Ma gli occhi
raccontavano ben altro …”, arricciò
maliziosa la bocca, al che lo stomaco d’Hironimo
s’attorcigliò dolorosamente su se stesso,
paventando scenari disonesti dietro
le ragioni di quel secondo matrimonio. Afferrandole le mani rugose,
inquisì
ansioso:
“Orsolina,
sii sincera, in quegli anni Padre e Madre furono mai …
?”
“Cospetto!”,
s’inalberò la massera, sottraendo di malagrazia la
mano e fulminando il giovane con lo sguardo, indignatissima da quella
sconcia
insinuazione. “Vostro padre pur coi suoi difetti rimaneva un
uomo timorato di
Dio e vostra madre la più onesta delle
fanciulle!”, protesse a spada tratta i
padroni. Sbuffando a guisa di toro, riprese un po’
più calma: “La Patrona
peccava di grande ingenuità, questo sì, e se
aveva dato simpatia e conversato
col Patron più del lecito, fu perché lo
considerava quasi un parente e dunque
inoffensivo, come se codesti legami possano difendere una fanciulla
dalle
malizie degli uomini. Fu una fortuna per lei, che il Patron non
appartenesse a
quell’infame categoria che s’approfitta delle
amicizie e delle parentele delle
rispettive mogli per i loro sozzi comodi, vergognando così
la malcapitata di
turno, la sua famiglia, la legge, Veniexia e Domine Iddio stesso.
Vostro padre,
io so quante volte si batté il petto in mea culpa e le
rigorose penitenze cui
si sottoponeva per scappare alle lusinghe del malvagio demone asmodeo
… Però i suoi occhi
s’illuminavano d’una luce speciale ogniqualvolta
veniva in visita alla moglie la Leonetta”,
e sorrise dolcemente, le
dita sotto il mento e un’aria quasi sognante. “Orsola,
Orsola cara, scendeva
correndo trafelato in cucina, vien la Leonetta per la
merenda, fai
preparar quei dolcetti di fichi e noci che tanto le piacciono! Neanche
da ragazzino lo vidi mai così contento. Ahimè,
s’era beccato il mal del
Lanza-lotto, solo all’inverso.”
Hironimo
in tutta onestà, man mano che il racconto proseguiva, non
sapeva più cosa pensare, basito. Aveva creduto Padre un uomo
pio, severo,
bacchettone e non un potenziale adultero a neppure due anni di
matrimonio, con
la moglie che ancora indossava le perle da novizza [6] “Non
cedette mai?
Proprio mai?”
“Lo
spirito è forte, ma la carne è debole. Vostro
padre pur non
sfiorandola con un dito né palesandole i suoi pensieri,
purtroppo non riuscì a
non commettere una piccola imprudenza: regalò infatti a
vostra madre una
striscia di bel panno di lana inglese, da metter sul collo
d’inverno quando
l’umidità della nebbia diventa insopportabile. Il
vostro barba Batista glielo
scorse immediatamente e trascinatala in studio dai fratelli, la
costrinse a
rivelarle dove e come se lo fosse procurato. Estortale la
verità, i vostri
barba andarono su tutte le furie, manco il Patron
gliel’avessero mangiata viva.
Quand’invece la colpa ricadeva totalmente su di loro: invece
di contar soldi o
fare i Portoghesi, avessero tenuto più sott’occhio
la sorellastra! Vermocane!
Una scena indegna e con la povera madona Andriana in cima alle scale
che
ascoltava, grossa della vostra sorellastra, talmente bianca che dovetti
accompagnarla in letto o mi moriva sul posto!”,
gonfiò le guance Orsolina,
nelle cui orecchie ancora rimbombava il furioso confronto tra i
Morexini al
gran completo e sier Anzolo nello studio di quest’ultimo,
laddove egli
protestava furibondo la sua innocenza all’accusa di stupro e
adulterio ed
esprimeva la sua sorpresa e delusione nel sapersi così poco
stimato, se invero
lo si credeva capace d’approfittarsi della candida innocenza
di una fanciulla,
per di più amica intima di sua moglie.
“La
povera Patrona, cascando giù dalle nuvole, provò
un’immensa
vergogna per tale incresciosa situazione e scrisse numerose lettere a
madona
Andriana, in cui giurava sulla tenera memoria del fu suo padre
il senatore
sier Carlo "da Lisbona", come mai e poi mai si sarebbe impegolata in
sì turpi negozi. Ci volle un bel po’ di tempo,
prima che le due amiche si
riconciliassero e comunque, da allora in avanti, le visite le faceva
madona
Andriana e non viceversa.”
Un punto
ad Hironimo non tornava. “Come mai i miei barba
acconsentirono alle loro nozze? Da quanto mi racconti, lo
odiavano!”
“Suppongo
che sotto-sotto non avessero mai creduto nell’innocenza
del Patron e che quindi il loro corrispondesse al giusto modo di
riparare al
torto inflittoli. Razza di portoghesi impestati di veleno, dovettero
sventolarli le lenzuola nuziali alla festa, per indurli a cambiare
idea!”,
agitò la massera il pugno nel vuoto, in testa sua
però in faccia a ciascuno dei
Morexini "da Lisbona". Strano
comportamento, cogitava il
giovane Miani, ché Madre verso i suoi fratellastri esprimeva
solo parole
d’altissima stima e affetto.
“E
la siora nonna? S’oppose? Fu d’accordo? Che
fece?”
“Lei
all’inizio m’era parsa un po’ delusa,
forse sperava in una
migliore alleanza per vostra madre. Poi però,
s’acquietò e fu ben contenta che
il Patron desse la mano alla figlia. Era una drittona, la vostra nonna,
come
tutte le donne ch’hanno avuto più d’un
marito!”
“Perché
allora mi dicono, che non furono felici nei primi anni di
matrimonio?”
“Non
avete compreso? Ambedue temevano d’aver fatto torto alla
povera madona Andriana. Vostro padre pensava d’averne
inconsciamente desiderato
se non addirittura provocato la morte, mentre vostra madre
d’aver tradito
l’amica, inducendo il consorte in tentazione. Ché
quando venne il tempo di
risposarsi – il Patron rimaneva l’unico del ramo
diretto e solo una figliola
aveva - dopo un’iniziale ritrosia e
tentennamenti, egli altre non
volle che la sua Leonetta e siccome i vostri barba si trovavano
d’accordissimo
la ottenne in gran fretta, a grand'insoddisfazione però di
sier Batista,
rispetto agli altri il più protettivo della
sorellastra.”
Hironimo
roteò gli occhi. “Sì, alla fine il
barba m’ha confessato
di quella rissa e di come da giovani lui e Padre si beccassero alla
stregua di
galline … E la storia della cortigiana?”
“Malelingue,
padroncino, malelingue!”, esclamò ad alta voce
Orsolina, acciocché sua figlia Zanetta e la nipote Ufemia
l’udissero bene e
abbassassero di colpevole verecondia il capo. “Vi racconto io
ciò che accadde
veramente. Dunque, il cugino del Patron, il sior Zuan Francesco, era
giunto ad
un’età in cui ai maschi il sangue scorre
unicamente dabbasso e soltanto un
pensiero fisso li circola nel cervello …”
“Illazioni!”
“Disse
la gallina che fece l’uovo. Il vostro barba ritornava da
una festicciola con degli amici, era se non m’inganno la
settimana della Sensa.
Abituato in casa a non bere vin schietto, immaginatevi in quali
condizioni
rincasò, imbriago spolpo, e appunto a sorreggerlo ci furono
un suo amico e una
cortigiana di lume. Il Patron in quel momento stava ritornando
anch’egli da una
cena a casa di sier Antonio Trum, il suo previo cognato, e vistosi il
cugino in
tali imbarazzanti condizioni, onde non svegliare l’intera
Cha’ Miani coi suoi
schiamazzi da ebbro decise di aiutarlo a salire nel suo appartamento.
Dopodiché, augurò la buona notte
all’amico di sior Zuan Francesco e congedò la
cortigiana, pagandole il suo dovuto. E là si
consumò la tragedia: vostra Madre,
insonne, s’era destata per scendere in cucina e domandarmi
qualche infuso e
assistette sfortunatamente soltanto al pagamento, null’altro.
Misinterpretando,
non disse però nulla, ritornandosene in letto. Alle prime
luci dell’alba, senza
alcuna spiegazione, diede ordine a Symon di preparare la gondola e
presa la
Tina, con l’Eudokia ritornò nella casa
paterna.”
Orsolina
prese fiato, gli angoli della bocca piegati
all’ingiù e
un’espressione angosciosa sul volto. “Io ne ho
passate tante, patron Momolo, ne
ho assistite a tante di stranezze in ‘sta casa, ma
… Voi non avrete mai idea di
quanta paura ebbi il giorno seguente. Bone Jesu! Non ricevendo
risposta, dopo
aver bussato alla porta, il Patron m’ordinò
preoccupato di aprila, temendo in
un malore della moglie. Quando trovò la stanza vuota
…”
Hironimo
temeva già la reazione.
“M’appiccicai
al muro, desiderando fondermi con esso, non avevo
neanche la forza di correre via tanto ero impietrita dal terrore.
Vostro padre
- Dio mio! - vostro padre sembravano averlo
posseduto tutti e sette
i diavoli della Maddalena, ruggiva spaventoso ogni genere di
profanità,
ribaltando il materasso, volavano i bancali sui cassoni, rovesciava
quest’ultimi,
tirava giù qualsiasi cosa gli capitasse a
tiro … Irruppe poi in
camera di Symon e lo prese per il collo, scuotendolo da sguarattargli
il
cervello fuori dalle orecchie, e minacciandolo d’affogarlo
personalmente a
Canal dell’Orfano gli intimò di rivelargli dove
fossero fuggite moglie e
figlia. Il poveraccio collaborò immediatamente e condusse il
Patron a Cha’
Morexini e lì dovette usare ogni sua risorsa e
abilità diplomatica per
riportarsi a casa la Patrona, senza coinvolgere gli Avogadori Civili.
Quattro
giorni prima d’esser ricevuto a palazzo. Quattro. Povero
Patron.”
“Non
avrei mai immaginato un tiro del genere da parte vostra … In
che modo v’offesi da essere da voi abbandonato
così, senza una parola, una
spiegazione, alla chiaria alla stregua dei ladri, con mia figlia,
umiliandomi dinanzi a tutta Veniexia come l’ultimo dei
cornuti?!”
“Siete
voi che m’umiliate, siete voi che mi rendete cornuta, siete
voi che m’offendete e ogni vostra disgrazia ve la siete
attirata da solo, di
man vostra!”
“Io?
Che diavolo blateri, femmina testarda?”
“Avrei
dovuto immaginarlo … I miei fratelli avevano ragione sul
vostro conto: siete un malvagio, un perverso, un maledetto adultero,
uno
spergiuro, un senzadio, un satiro licenzioso ognora voglioso di coito,
uno
schifoso!”
“Frascona,
a me così parlate?”
“A
voi!”
“Perdio,
mi credete uno dei vostri garzoni da pigliarvi codeste
libertà?! Son vostro marito, chea vaca putana!”
“Ed
io chi sono? La vostra serva? Qualcheduna che avete raccattato
dalla fogna? Pensate forse che una nobildonna della mia sorte,
figlioccia
dell’Imperatriz, si lasci strapazzare da un pescivendolo
qualsiasi come voi? Da
uno delle Cha’ Nuove? Quando voi Miani ancora sventravate i
pesci in Istria,
noi Morexini eleggevamo il primo Doxe Paulo Luzio Anafesto! [7] Carogna
cafona!
Se i miei fratelli non m’avessero aperto gli occhi,
chissà cosa ne avreste
fatto di me? M’avreste certo condotta nell’angolo
più remoto del vostro fontego
e lì vergognatami, come magari faceste con altre
donne!”
“Ma
porco …”
“Non
bestemmiate!”
“
… giuda! Ancora quella fottutissima storia?! Il vostri
fratelli
a furia di frequentare quei caga-alto dei Portoghesi, si sono imbevuti
di tutte
le loro stronzate sull’onore, sulla cavalleria,
sull’alto lignaggio dei miei
coglioni! Cervelli fritti! Una banda di protervi,
ecco cosa siete
voi Morexini! Me ne cale un gran cazzo che la vostra famiglia abbia
fondato la
Signoria, che annoveri tra i suoi Doxi e Dogarese, Regine consorti
d’Hongaria e
Beati in Paradiso, in niente vi sono inferiore da meritarmi un tal
trattamento
da contadino! Vermocane! Ora siete mia moglie, non più la
loro sorella, voi
appartenete alla mia famiglia e non agite contro di me alle mie spalle!
Voi a
casa dei vostri fratelli (vadano a farsi squartare!) non ci tornate
senza prima
avermelo comunicato e men che meno con la mia Tina! Cul del cancaro,
v’informo
sempre dove vado e quando torno, si può dire lo stesso degli
altri mariti qui a
Veniexia? Quando volete uscire, ve l’ho mai proibito? Vi ho
strapazzata? Vi ho
chiusa a chiave nelle vostre stanze? V’impedisco di ricevere
le vostre amiche e
cognate? Quella becera di vostra madre? Ho rimandato indietro la vostra
Eudokia? Vi rimprovero quando parlottate in portoghese coi vostri
fratelli,
poiché io non capisco una maledetta e rischio
d’esser oggetto dei vostri lazzi?
An, ingrata? … Tagliando corto, invece
d’insultarmi, parlate schietto una buona
volta: che v’ho fatto?”
“An,
turco sfacciato! Anima di prava! Serpe biforcuta! Ipocrita
d’un predicatore, con le tue ciance riusciresti a
crocifiggere Cristo una
seconda volta! Mi fate passare dalla parte del torto, adesso? Che
m’avete
fatto? Domandatelo a quella donnaccia di malaffare, a quella sporca
peripatetica di cui vi portate indosso ancora il fetore e con cui,
senza timore
di Dio e della decenza, vi siete sfogato bestialmente sotto il mio
naso!
Attendevo il mattino per darvi una gran bella notizia, ma voi avete
rovinato
tutto! Vi detesto, non vi voglio più vedere!
Manderò i miei fratelli dal
Patriarca a far annullare le nozze! Il sol guardarvi mi fa sputar
bile!”
“Che?!
Quale sfogo? Quale meretrice? Non pigliatemi per … il
… oh,
cagasangue! Can fotuo impestà!”
“Vi
ricordate ora, an?”
“E
no, signora bella! No! Io non c’entro un cazzo in questo
negozio, quella cortigiana l’ho pagata, verissimo, ma per la
compagnia tenuta a
mio cugino!”
“Puoah!
Ed io ci credo! Guardate, leggetemi “oca giuliva”
sulla
fronte! Da ben sette miei fratelli ho udito codeste scuse! Ipocriti
sepolcri
imbiancati!”
“Per
favore, adesso non mettetevi a piangere per una tal
sciocchezza …”
“Non
piango!”
“Suvvia,
ritornate a casa – dimentichiamo questa questione, va
bene?”
“No!
Lasciatemi in pace!”
“Cospetto!
D’una … puttana sareste gelosa?”
“Mi
pensate di pietra? Che non provi sentimenti? Che non sia fatta
anch’io di carne e di sangue come voi? Certo che sono gelosa!
Gelosissima!
Anche voi m’appartenete, l’avete giurato davanti a
Missier il Doxe e
soprattutto a Domine Iddio ed io non … e non … oh
…”
“Sancte
Spiritu! Leonetta? … Leonetta! Su, aprite gli occhi
…
Leonetta, splendore, aprite questi benedetti vostri occhietti, non
è né il
luogo né il momento di scherzare …
Olà, olà! Gente, aiuto, gente! Creature! La
si sente male, madona si sente male! … ”
“A
prova della sua buona fede, il Patron trascinò sior Zuan
Francesco da vostra madre, acciocché udisse da lui la
verità. E da allora,
questo palazzo divenne più morigerato del Santuario di Monte
Berico!”
“Lo
perdonò? Anche se, onestamente, Padre non aveva commesso
alcunché di male.”
“Certo,
si riappacificarono, sebbene i primi giorni avessero
seguitato a tenersi il broncio, a dormire e a
mangiare rigorosamente
separati, neanche un bondì e un bonasera! Tuttavia, ogni
screzio scomparve
qualche settimana più tardi alla notizia della prima
gravidanza della Patrona,
così come ogni rimpianto e ogni accusa se li gettarono alle
spalle. Si potrebbe
affermare, che il Signore non li avesse accordato di concepire fino a
quel
momento, finché non avessero accettato il passato e
abbracciato il futuro. Come
diceva quel tizio fiorentino che tanto piace citare a
voialtri?”
“Incipit
vita nova?”
“Ecco.”
Silenzio.
Grattando
la testa del gatto e imboccandolo di un pezzettino di
prosciutto avanzato dalla colazione fredda, Hironimo azzardò
la domanda più
spinosa. “Orsolina … Madre amava Padre? Non lo
sposò per obbligo o per
compassione del suo amore? Davvero voleva l’annullamento dal
Patriarca?”
“Patron
Momolo, quando in collera la gente parla alla babalà e voi
per primo dovreste saperlo, quando v’arrabbiate”,
scosse benevola il capo la
massera, quasi si stupisse di quella domanda così scontata.
“Vostra madre amava
moltissimo vostro padre; al contempo, non era il tipo di donna da
piegarsi alla
volontà di chicchessia. Infatti, doveva ricordare al sior
Patron che lei non
era uno dei suoi rematori od operai. Ignoro quanti degli altri patrizi
usino
farlo, ma i vostri genitori vi assicuro che ancora dormivano nello
stesso
letto, tranne quando il Patron stava alzato a lavorare fin tardi e
siccome la
Patrona faticava a riaddormentarsi, se destata, per non disturbarla si
recava
in camera sua.”
L’illuminazione.
“Ecco perché non gli garbava che stessi ancora in
stanza di Madre e voleva spostare il mio lettino in camera dei miei
fratelli.
Gli disturbavo le sporcherie!”
“Padroncino,
non è da biasimare se accadono tra moglie e
marito.”
Hironimo
socchiuse gli occhi con forza, scacciando via dalla mente
ogni immagine osé maliziosamente creatavisi, ché
i figli, pur consci dei
meccanismi della riproduzione umana, ugualmente credevano con fermo
imbarazzo
la loro procreazione tramite il pensiero, piuttosto di figurarsi i
genitori
impegnati in tali attività.
“Quindi
l’amore di Madre cambiò Padre?”
“No,
fu lui che volle cambiare per amor suo. Se l’iniziativa non
vien dalla persona stessa, nessuno la può
cambiare.”
***
Alla
vigilia della sua partenza verso Castelnuovo di Quero,
Hironimo s’era ritrovato a vagabondare senza meta per le
calli semideserte di
Venezia. Pur sopravvissuta due anni addietro al primo, tremendo
scossone
l’ombra opprimente della guerra pesava sulla
città, in perpetua attesa di
conoscere la sua sorte, se di vittoria o di sconfitta. Il maremoto e il
conseguente crollo del Campanile di San Marco avevano poi inasprito
quei
presagi d’imminente sventura, controbilanciata dalla
disperata tenacia di chi, tuttavia,
non poteva né voleva arrendersi. All’ennesima
richiesta dell’Imperatore
Maximilian di ritornargli gli antichi feudi imperiali di Padova,
Treviso e il
Friuli, la Signoria aveva replicato che avrebbe preferito giocarsi il
tutto per
tutto con la guerra, piuttosto di cedergli di sua iniziativa anche una
sola
zolla di terra.
Duri ai
banchi.
A tale
convinzione s’aggrappava anche il giovane Miani, il cuore
tuttavia pesante non tanto per il compito di grande
responsabilità affidatogli;
piuttosto, per la freddezza con cui Marco e Carlo lo trattavano a
seguito del
litigio al funerale di Crestina – il primo addirittura gli
aveva tolto il
saluto. Era conscio d’esser lui nel torto, nondimeno la
tenace protervia del
suo sangue Morexini gli impediva d’abbassarsi ad invocare
perdono,
scervellandosi invece in mille scuse e giustificazioni atte a placare
la sua
coscienza.
A che
pro, se lo condannava alla solitudine? A che pro congedarsi
pieni di stupidi rancori, quando l’indomani avrebbe potuto
esser cibo per
vermi? Questo rimpianto voleva lasciare in eredità alla sua
famiglia? Questo
magone?
Sarebbe
morto anch’egli come Padre, all’improvviso,
violentemente,
senza una parola di conforto, di incoraggiamento, d’amore?
Nel suo
avvilito deambulare, solo come non mai in vita sua,
Hironimo si ritrovò inaspettatamente nella parte posteriore
dell’abside di
Santo Stefano, dinanzi alle arche di famiglia, in particolare a quella
di sier
Anzolo Miani.
S’irrigidì
alla vista di sua madre madona Leonora lì attenderlo,
serena, avvolta nel pesante paneselo vedovile. Poco distante,
silenziosa e
discreta, l’accompagnava Eudokia.
“Siamo
stati un tutt’uno per nove mesi, amore mio, ti conosco come
il mio cuore”, fu il suo saluto, mentre allungava la mano a
mo’ di invito.
Lesto, Hironimo l’afferrò, baciandola e
stringendosela al petto. “Vieni,
siedimi accanto.”
“Come
sapevate di trovarmi qui?”
“Testone,
non t’ho detto che ti conosco? Tre sono i posti in cui
ti sei sempre nascosto, quando triste o arrabbiato: l’altana,
che escludo
poiché in casa è sorto il problema da cui vuoi
fuggire; dal Marcolino
Contarini, il quale è partito ieri per Padoa e quindi no;
sotto l’arca di tuo
padre rimane dunque il terzo e ultimo posto dove cercarti, sebbene tu
mi abbia
costretta ad una lunga attesa.”
Il
giovane si morse colpevole il labbro inferiore, una fastidiosa
voce che dall’angolo più remoto del suo cervello
gli ricordava maligna come da
anni facesse aspettare sua madre.
“Perdonate,
non era mia intenzione incomodarvi …”,
sussurrò, il
capo chino sulla mano ossuta e affusolata di madona Leonora, della
quale pur
coperta dal guanto ne conosceva la morbidezza e, ahimè, le
rughe e le vene
sporgenti. Gli appariva così fragile tra le sue, pronta a
frantumarsi al primo
tocco incauto.
“Non
sei mai un fastidio per me.”
Hironimo,
indeciso se ridere sardonico o sbuffare avvilito,
partorì dalla sua bocca un verso ingolato ch’era
un ibrido tra i due. Come
poteva nutrire nei suoi confronti tanto affetto e benignità,
malgrado le sue
imprudenze, disobbedienze e cattiverie? Quando lui per primo si odiava
per
averle compiute, quietando però la sua coscienza con doppia
razione di
esse?
“Il
Marchetto è ancora arrabbiato con me?”,
cambiò in fretta
discorso, per quanto ugualmente interessato ai sentimenti in cui
versava suo
fratello. Rispetto a quelli di Carlo, il suo rancore gli risultava il
più
insopportabile.
“Non
dubitare che gli passerà. È un orgoglioso, come
te,
concedigli del tempo e vedrai che saprà perdonarti. Tu
però devi compiere il
primo passo”, lo rassicurò e al contempo lo
spronò sua madre, liberando la mano
dalle sue e passandogliela tra i folti e disordinati capelli, non
avendo badato
Hironimo neppure di pettinarseli tanto l’arrovellavano gli
intimi suoi crucci.
“Forse
non avrò del tempo”,
asserì in un lungo
sospiro, imperterrito nell’evitare lo sguardo di madona
Leonora, la quale
domandò confusa e turbata:
“Che
intendi?”
“Domani
parto per Castel Novo di Quer, siora Mare. Per quel che ne
so, potrei morire entro il mese, entro la settimana, entro il giorno
stesso.
Nulla mi garantisce la sopravvivenza.”
“Dunque
scusati stasera con lui. E anche col Carlino.”
Hironimo
serrò caparbio le labbra, tormentandosi le dita guantate
e premendo il pollice al centro del palmo della mano, quasi progettasse
di
forarlo in profane stigmate. La soluzione dell’anziana
genitrice abbagliava
nella sua disarmate semplicità e logica: sì,
avrebbe potuto chieder perdono a
Marco e a Carlo e riconciliarsi, trasferendosi alla fortezza sulla
Piave in
pace con se stesso. Ciò tuttavia comportava umiliarsi e
riconoscere il proprio
errore, invocando una grazia cui non gli spettava e non
perché si sentisse
indegno, bensì perché lui non aveva agito in fin
dei conti male, aveva espresso
soltanto la sua opinione e cioè che se tiravano indietro il
culo dopo esserselo
fatto per ottenere quella dannata castellania, decisamente non si
poteva
evitare d’appellarli vigliacchi. Perché
biasimarlo, per avergli rinfacciato
null’altro se non la verità?
Neanche
avesse intuito quali pensieri s’agitassero nella mente del
suo ultimogenito, madona Leonora gli raccontò un piccolo
aneddoto: “Quando tuo
padre, onde fermare le scorrerie degli Austriaci capitanati dal Duca
d’Austria
Sigismondo, raccolse le sue cernide e assieme alla compagnia del conte
Guido
de’ Rossi si mosse in pieno inverno verso il Passo di
Celazzo, la sera
antecedente la partenza …”
La situazione invero
non si presentava rosea per la Repubblica: sotto la guida di Gaudenzio
di
Matsch, l’esercito austriaco era partito da Trento per
puntare a Rovereto,
terra all’epoca veneziana e bagnata sulla sinistra
dall’Adige, situata negli
stretti delle Alpi. All’inizio le truppe marciane avevano
virilmente resistito,
comandante dal podestà sier Nicolò Priuli q. sier Zuanne e
pertanto, a mo’ di vendetta, gli
invasori avevano infierito nei villaggi circostanti, massacrando la
popolazione
e seminando il terrore. Allora la Serenissima, appresa la notizia,
aveva
nominato provveditori sier Piero Diedo, che in quel tempo ricopriva la
carica
di podestà di Verona, e sier Hironimo Marzelo.
Contemporaneamente, Guido de’
Rossi e il figlio Filippo raggiungevano Feltre onde presidiarne i
confini.
Sier
Anzolo Miani, podestà e capitano di Feltre, non aveva perso
tempo e prima
ancora che arrivasse il condottiero, già s’era
attivato a rinforzare la sua
città, facendo abbondanti provvisioni in caso
d’assedio sia di cibo sia di
uomini, reclutando chiunque fosse in grado di tener in mano
un’arma, impresa
non facile giacché la peste dell’85 aveva falciato
gran parte della popolazione.
Tali provvedimenti non avevano tuttavia rassicurato i Feltrini,
soprattutto
udendo delle scorrerie di Sigmund von Habsburg nel Vicentino e Veronese
e di
come si stessero avvicinando pericolosamente al Passo di Celazzo, il
quale
avrebbe dato libero accesso al distretto. Al che il Miani aveva rotto
ogni
indugio e, convocato a palazzo domino Guido, gli aveva
delineato l’importanza d’anticipare le
mosse
del nemico.
“Vi
basteranno 2,000 uomini? Gli Austriaci ...”, non riusciva
Leonora a darsi pace, mentre osservava in un misto tra terrorizzato ed
affascinato il ritmico ed ipnotico saliscendi della cote sul filo della
lama.
“…
sono bravi solo a rubare, uccidere i contadini in fuga e a
prendersela con donne e bambini. E si vantano
d’esser grand’uomini d’arme!”,
terminò Anzolo la frase della moglie e dalla rabbia repressa
le sue dita
imposero maggior vigore al suo lavoro. “Delle femmine col
cazzo, piuttosto,
assaggeranno presto il ferro veneziano e a quel rotto-in-culo del Duca
d’Austria altro non rimarrà, che succhiarsi il
pollice in quella cloaca fetente
della sua lercia tana di legno e paglia! Così
imparerà, che noi non siamo
puttane che si piegano a chi fa la voce grossa!”, le
garantì sinistramente.
“Ugualmente,
guerreggiare in pieno inverno …”
“Appunto.
Poiché loro giudicano improbabile un nostro attacco, noi
invece li sorprenderemo nel bel mezzo del loro svernamento, con le
braghe in
mano. Li ingaggeremo al Passo di Celazzo, così da bloccarli
ogni ingresso nel
feltrino. Il conte Guido de’ Rossi è una
volpe, sa il fatto suo negli
assalti a sorpresa e a muovere in fretta le sue squadre – non
avranno neppure
il tempo d’invocare la loro madre. L’importante
è impedire agli Austriaci di
spingersi ulteriormente nei nostri territori, nel frattanto che la
Signoria mobiliti
il conte Roberto Sanseverino col grosso dell’esercito.
Leonetta mia, basta un
solo, spietato assalto e come i topi che sanno della presenza del
gatto, se ne
staranno buoni e nascosti nella loro tana.”
“E
se riuscissero a sconvolgervi i piani, ribaltando la
situazione? Se a rimanere bloccati nel passo non fossero loro,
bensì voi?”
“Le
mie cernide sono preparate e abili, tutti locali, conoscono
ogni sentiero più delle loro stesse mogli. Inoltre, il tempo
s’è spezzato, le
montagne fumano, segno che il vento sta girando e ci conosciamo molto
bene, il
vento ed io. Entro dopodomani dovrebbe scatenarsi una bufera, che
disorienterà
gli Austriaci e li bloccherà in Valsugana. Non prenderei mai
questo rischio, lo
sapete, se non avessi la certezza assoluta di vittoria.”
“La
guerra è un negozio di cui non si ha alcuna
certezza.”
“Vi
… ti giuro che non mi farò ammazzare tanto
facilmente.”
“Non
puoi promettere ciò che solo Dio può
disporre.”
“Alla
Cui volontà mi sottometto. Leonetta, dovesse accadere il
peggio … No, dimentica ciò che ho detto. Invece,
ho dato disposizioni al
Consiglio Cittadino di preparare la difesa. Ho anche inviato delle
chiari
istruzioni e i recenti movimenti degli Austriaci a sier Dardi
Zustignan,
podestà di Cividal di Belluno e al castellano di Castel Novo
di Quer. Vorrei
inoltre che tu ti recassi a Cividal coi bambini, dove sarete
più al sicuro.”
“Se
lo credi opportuno, manderò i piccini con mia madre a
Cividal,
ma resterò qui. Vero, non so niente del mestiere delle armi.
Però so quanta
fiducia i Feltrini abbiano riposto in noi, dopo la peste e le faide
civili che
solo attraverso molti sforzi sei riuscito a pacificare. Siamo divenuti
i loro
punti di riferimento. Dovessero vedere la moglie del loro
Podestà e Capitano
fuggire via, crederanno che la Signoria li stia abbandonando al loro
destino e
colti dalla paura, non esiteranno ad aprire le porte agli Austriaci. La
mia
famiglia ha sempre servito in prima fila la Repubblica, io non
sarò da meno.”
Anzolo
si voltò di scatto, i suoi occhi spalancatisi dal terrore
al sol pensiero di sapere l’altra metà della sua
anima in pericolo, alla mercé
di quelle belve assassine. “I nostri figli hanno
più bisogno di una madre, che
una città di un simbolo. Pensa al Momolo, indifeso e ancora
in fasce: lo
condanneresti a crescere senza né padre né
madre?”, tentò di dissuaderla,
indicando l’ignaro figlioletto che dormiva nella sua calda
culla il sonno
dell’innocente.
La
Morexini vi si portò accanto, quasi a mo’ di
protezione, il suo
sguardo però infuocato di grandissima
determinazione.“Il Signore non li lascerà
mai orfani: la nostra causa è giusta, e Lui ci
darà la vittoria!”
Neanche
l’avesse evocata, la bufera di neve invero arrestò
la
marcia degli Austriaci e diede la vittoria ai Veneziani,
sicché la famiglia del
podestà e i Feltrini non ebbero necessità di
riparare a Cividal di
Belluno. Alle
soglie della primavera,
Guido de’ Rossi si trasferì con la sua cavalleria
a Bassano per sventare ulteriori
attacchi del Duca d’Austria e per ricongiungersi, a
metà giugno, a suo suocero,
il comandante generale Roberto Sanseverino, allo scopo di sferrare un
contrattacco e liberare Rovereto, essendo questa caduta e il
podestà Priuli
finito prigione degli tedeschi e deportato in Austria. Nello stesso periodo, sier Zustignan Morexini raggiungeva Feltre in veste di provveditore
Nel
frattanto, Anzolo, forte del successo della spedizione del
Celazzo, di persona s’era recato a Cividal di Belluno e
là aveva spronato il
podestà sier Dardi Zustignan a far lega e a prepararsi a
difendere assieme la
Val Serpentina. Gli elencò i suoi dubbi
sull’effettivo arrivo del Sanseverino
in loro soccorso, giudicandolo sia troppo lento nelle trattative con la
Signoria per la sua condotta sia più incline ad operare a
sud, là dove le
scorrerie nemiche rischiavano di farsi più frequenti.
Sicché, rimasti da soli,
i due podestà riuscirono a raccogliere uomini a sufficienza
per occupare
Grigno, luogo situato nello stretto della Valsugana, ben presidiato da
genti austriache
che diedero gagliarda battaglia, prima di soccombere ai Veneziani, i
quali
sottomisero il castello alle fiamme. Purtroppo tale buon esito non
liberò la Valle
dalla pressione del nemico: cogliendo impreparato il presidio lasciato
a
guardia del monte Celazzo, gli Alemanni non senza ingenti perdite lo
espugnarono.
Ciò
non aveva però scoraggiato Anzolo, tutt’altro:
pieno del sacro
fuoco guerresco che l’aveva animato durante la Guerra del
Sale, riorganizzò in
brevissimo tempo la difesa di Feltre e del distretto. Leonora lo vedeva
sempre
a cavallo, con l’armatura indosso a dirigere i lavori di
rafforzamento alle
mura, ai serbatoi idrici, sia alla luce del sole sia delle torce.
Dormiva poco
e vestito; mangiava in piedi; scriveva
molti dispacci e coordinava instancabile i rifornimenti cittadini,
specie del
frumento e delle biade, e questo con il dodicenne Lucha sempre accanto,
giudicando
esser giunto per lui il tempo d’imparare i fatti di guerra.
Dal palazzo
pretorio la Morexini seguiva con lo sguardo il figlio maggiore e il
marito
finché poteva, con una mano stringendo il lattante Momolo al
seno e con l’altra
accarezzandosi il ventre, là dove intuiva crescere
un’altra creatura. Ogni
sera, infatti, Anzolo veniva da lei affamato come se fosse stato
l’ultimo suo
istante in terra, ignorando gli ammonimenti della suocera madona
Ysabeta che
gli aveva suggerito prudenza per il recente parto della moglie,
nonché la sua
non più fresca età.
Ma
che potevano farci? Leonora per prima non voleva negarsi a quei
suoi ardenti abbracci, non quando cadaun giorno il suo consorte
rischiava di
non rincasare mai più.
L’era
pertanto venuto un colpo, quando Anzolo le comunicò
d’aver
reclutato venticinque uomini, tra i più forti e coraggiosi
della zona, per
liberare il presidio occupato dagli Austriaci sul Celazzo: se la
nobildonna
aveva dubitato di duemila soldati guidati dall’eccellente
conte Guido de’
Rossi, cosa sperava il Miani d’ottenere con un gruppetto
sì sparuto?
“Antonio
Bonmassaro di Fonzaso, oltre ad essere un valoroso
capitano, è più esperto del territorio di
qualsiasi altro condottiere, oserei
perfino dire del medesimo signor Roberto. Non abbiamo i numeri, ma
possiamo
coglierli impreparati. D’altronde, anche tu avrai compreso
come ormai il
distretto dobbiamo difenderlo noialtri; non è improbabile
che mandino il grosso
delle truppe a riprendersi Rovereto. Questo significherà che
il signor Roberto
e il signor Guido partiranno dall’agro veronese o vicentino,
al massimo da
Bassano, comunque senza passare dalle nostre bande.”
La
patrizia strinse inconsciamente il rosario tra le dita, quello
stesso che recitava assieme alle altre donne feltrine davanti
all’immagine
miracolosa della Madonna di San Lorenzo. “Sarebbe un rischio
da parte della
Signoria, lasciare i nostri confini scoperti. E questo il signor
Roberto lo sa
bene, se non gliel’ha già spiegato suo
genero”, mormorò apprensiva, gli occhi
ancora pieni dei fuggitivi dai villaggi saccheggiati, riparati a Feltre
coi
soli stracci addosso e che lei, assieme alla figliastra Crestina, a sua
madre, alle
altre nobildonne locali e alle religiose, si prodigava a rivestire e
sfamare,
alloggiandoli nei conventi cittadini. “Se il Feltrino dovesse
cadere, seguirà
la Val Serpentina e poi … chi li fermerà
dall’attaccare la Marca Trevisana? I
nostri provveditori e condottieri non possono ignorarlo!”
“Conosco
il signor Roberto: se potrà, invierà qualche
contingente
in nostro soccorso”, la tranquillizzò Anzolo e le
si sedette accanto sul letto,
circondandole le spalle. Strinse la bocca in una linea dura alla vista
dei
timidi fili d’argento imbiancarle appena appena le tempie, i
quali ben si
ricordava non possedere l’anno addietro. “Al
contempo, non possiamo né
aspettare i suoi comodi né crederlo onnipotente. Anche qui
abbiamo genti valide
e pronte a guerreggiare: forse il mondo non si ricorderà
della nostra impresa,
ma Dio e la popolazione sicuramente.”
“…
allora, come quella volta che partì assieme al signor Guido,
tuo padre mi domandò perdono e non in segno di perpetuo
congedo, bensì per
infondergli maggior vigore nella battaglia …”
“Combatterò
meglio, ricco della certezza del tuo amore,
nient’altro che del tuo amore”,
afferrò il Miani le manine della sposa tra le sue,
baciandole le nocche.
Al che a
Leonora comparve, dopo tanto tempo, la sua solita espressione birbante,
che
tanto aveva fatto innamorare il marito. Ricambiando il bacio, la
Morexini non riuscì
a trattenersi dal
domandargli, non senza
una punta di malizia, dove avesse letto quella frase alla Rinaldo.
Anzolo divenne
allora rosso in faccia ed esclamò: “Mojer,
so bene quali sono i miei doveri verso te e la Signoria: ritornare vivo
e
vincitore, né più né meno!”
“Ed è l’unica
promessa di cui veramente m’importa!”, lo
baciò sulla bocca Leonora, guidando
le sue mani sul ventre. “Soprattutto a questa creatura, che
scalpita di
chiamarti padre!”
“Lo
perdonai, poiché insisteva, e mi diede grande conforto;
qualsiasi cosa fosse accaduta, non ci saremmo divisi in cattivi termini
e
brutti ricordi, sicuri invece del nostro reciproco affetto e
fiducia.”
Contro
ogni aspettativa, il presidio a Celazzo venne riconquistato ed il
capitano Antonio
Bonmassaro vi rimase a sua brava ed inviolata guardia fino alla fine
del
conflitto, a novembre. Ringalluzziti dalla vittoria, le locali truppe
venete
marciarono a Borgo di Valsugana e non soltanto impedirono
l’ennesimo tentativo
d’entrata da parte di Iorio di Innsbruck e dei suoi
quattrocento fanti nel Feltrino,
ma pure li costrinsero a ritirarsi nel castello, ponendo il tutto a
ferro e
fuoco per risarcimento dei mesi di guerra e ruberie.
A metà
luglio, quasi a premio della lunga resistenza opposta al Duca
d’Austria, arrivò
un contingente inviato da Roberto Sanseverino per rinforzare gli aspri
confini,
scorrendo per la Valsugana ed il Tirolo, con uccisioni ed incendi, ed
il
terrore stavolta lo provarono le genti austriache, intanto che il
comandante
generale puntava alla liberazione di Rovereto.
“Ebbi
tanta paura di non riabbracciare tuo padre, Momolo. Più
ancora di quella volta di Frara: per questo non badai, almeno per quel
periodo,
ai suoi malumori ed escandescenze. Sapevo che non agiva per
meschinità sua:
semplicemente, aveva paura e la gente diviene cattiva,
quand’ha paura.”
“Vorrei
chiedere perdono al Marchetto e al Carlino. Solo che non
ci riesco”, si giustificò in fretta Hironimo,
interpretando quella rimembranza
non come un esempio da imitare, bensì come
l’ennesima critica. Padre del suo
comportamento ne sarebbe rimasto assai deluso, definendolo infantile ed
egoista, a lungo termine un dannoso parassita che erodeva il solido
albero
familiare. “Marchetto ha ragione: la mia collera congiura
contro di me.”
Hironimo
sarebbe diventato turco a sapere quale entità lo
possedeva ogniqualvolta s’arrabbiava, cosa lo spingeva a
reazioni verbalmente
e, purtroppo, fisicamente aggressive, le quali intimorivano lui stesso
in
quanto incapace di controllarsi. Si sforzava di domare l’ira,
però
corrispondeva a trattenere un mostro, la poteva quasi gustare dietro i
denti
quando dallo stomaco essa gli risaliva in gola e si propagava a guisa
di veleno
in tutto il suo corpo fino agli occhi, che più non vedevano;
alle orecchie, che
più non ascoltavano e al cervello che in uno schiocco di
dita cessava ogni
freno umano per lasciar spazio alla bestia interna.
“La
collera decisamente l’hai ereditata da tuo padre.”
Ecco,
immediatamente il giovane Miani avvampò, sibilando astioso:
“Solo i suoi difetti? Null’altro?”
Sboccato,
impertinentaccio, comandino, irascibile,
ostinato - chiunque avesse conosciuto Anzolo Miani
solo queste
caratteristiche rivedeva nel suo ultimogenito. E il resto? Niente di
suo padre
era sopravvissuto in lui? Solo il peggio?
“Tuo
padre non era perfetto”, replicò serafica madona
Leonora.
“Grazie,
n’ero già a conoscenza!”,
fischiò beffardo Hironimo,
scattando bruscamente in piedi e sfuggendo al tocco materno.
“Aspetta.
Non era perfetto, però al contempo si sforzava di
divenire il padre ideale per te e per i tuoi fratelli. Se falliva,
bisogna
imputarlo al modo in cui l’hanno a sua volta cresciuto. Tuo
nonno infatti non
gli aveva riservato tali riguardi, lui era il padre e il patron e tutti
avevano
da ballare alla sua musica o niente e, secondo me, tuo padre ne
soffrì più di
quanto avesse mai lasciato intendere. Con la sua matrigna non era mai
riuscito
a legare veramente, forse perché in lei non aveva trovato il
supporto di cui
necessitava. Di conseguenza, non avendo ricevuto un granché
d’affetto, non
possedeva delle solide basi per esprimerlo e donarlo a sua
volta.”
“Si
comportò ugualmente”, sentenziò
rancoroso il giovane.
“Dici?”
Hironimo
incrociò i suoi occhi nerissimi e furiosi con quelli
altrettanto nerissimi e quieti della madre. “Si comportava da
capitano di
galea! No a questo, no a quello; critiche, rimbrotti, punizioni
… Quando mai mi
fece sentire amato? Apprezzato? Incoraggiato?”, si
sfogò, arrivando ad un certo
punto a girarsi di scatto adesso verso l’arca silenziosa del
padre, quasi
reclamasse anche il suo di ascolto. “Certi giorni mi sentivo
talmente inutile,
indegno …
“E
sostenete che mi volesse bene? Non ribattete”, interruppe sul
nascere la replica della madre, zittendola, “che
così va il mondo, che è ciò
che la società s’aspetta, che il
“padre” deve solo provvedere a sfamare la
famiglia e al massimo benedire i figli alla sera prima di coricarsi! A
questo
punto, che differenza c’è tra un
“padre” e un contadino che dà da
mangiare alle
bestie o da bere alle piante? Non li nutrono? Non li crescono? Non li
educano
gli animali a compiere il loro mestiere? Cosa me ne faccio di un
“padre” cui
non posso confidare i miei pensieri, i miei dubbi, le mie angosce, i
miei
progetti senza provare ogni volta paura e vergogna del suo
giudizio?”
“E
tu credi che non soffrisse ad ogni critica, ad ogni rimbrotto,
ad ogni punizione inflittati?”, gli rammentò
madona Leonora, ascoltando con
avvilita attenzione lo sfogo del figlio il quale, a siffatte parole,
esplose:
“Quindi
la colpa ritorna sempre a me!” e l’eco
rimbombò per
l’intero abside, anche Eudokia, nell’angolo
più remoto, sussultò dalla
sorpresa.
La
nobildonna s’alzò, avvicinandosi al figlio e
afferratagli la
mano, gli rivelò con disarmante schiettezza:
“Nessuno ti accusa di alcuna
colpa. Semplicemente, tu ti comportavi come si comportava un qualsiasi
bambino,
né più né meno: disobbediente,
impulsivo, scatenato, sbeffeggiavi ogni
autorità, specialmente di chi ti voleva guidare. Anzolo, dal
canto suo, si
comportava da padre, un ruolo che purtroppo conduce a divenire il primo
nemico
del proprio figlio, se questo però lo può salvare
da assai peggiori, di
punizioni.” Notando il persistente scetticismo nel giovane,
ella proseguì:
“Momolo, tuo padre era ancora molto giovane, quando
esiliarono sier Jacomo
Foschari …”
“La
conosco, quella storia”, roteò gli occhi Hironimo,
snervato, battendo
impaziente il piede per terra.
Madona
Leonora non si lasciò scoraggiare dal brusco commento.
“Dunque saprai anche, come aprirono le porte
acciocché il Doxe suo padre, sier
Francesco Foschari, potesse ben udire le urla del figlio mentre lo
sottoponevano
ai tratti di corda. Trenta tratti
di corda finché questi
impazzì dal dolore.”
Al
giovane Miani andò di traverso la saliva, il collo pizzicato
da
brividi freddi. Attraverso la carica di Lucha, giudice della Quarantia
Criminal, era a conoscenza delle pratiche d’interrogatorio,
nonché di come a
Palazzo Ducale le urla inumane dei torturati si mescolassero ai
dibattiti nelle
sale e ai gemiti dei pazienti dei cavadenti sotto i portici. Supponeva,
considerata l’imperturbabilità di suo fratello
dinanzi a tale prassi, che col
tempo ci si abituasse, se non si provasse addirittura fastidio per quei
rumori
molesti, ch’interrompevano le assemblee oppure rallentavano
il corso
dell’inchiesta.
Come
avrebbero reagito però Lucha, se sospeso con le braccia
dietro la schiena legate ad una corda, invece di un tizio qualsiasi si
fosse
trovato uno dei suoi fratelli? Se a gridare dai più
insondabili recessi
dell’anima fosse stato il sangue del suo stesso sangue?
Avrebbe mantenuto la
flemma? Si sarebbe allontanato sconvolto? Si sarebbe strappato di dosso
gli
occhi?
O sarebbe
corso a tagliare quella tremenda corda, pur conscio dei
rischi cui incorreva?
C’era
da impazzire al solo pensiero di
quell’eventualità. In quale
modo era riuscito Sua Serenità a resistere?
L’unico figlio rimastogli, poi!
“Il
suo barba Nicolò, che aveva avuto un ruolo attivo in questi
processi, glielo ricordava spesso, quando tuo padre
s’incaponiva e gli remava
contro: Finirete come il Jacomo Foschari! Solo, in
esilio, senza la
consolazione di vostra madre, la vergogna della vostra famiglia e di
Veniexia
intera!, lo minacciava”, proseguì madona
Leonora ed Hironimo comprendeva
adesso il motivo per cui quel nome compariva spesso sulla bocca del
biscugino
Zuan Francesco, quando da piccolo lo rimbeccava per le sue malefatte.
“Ma di
quel triste affare a tuo padre non rimase impressa la tortura di per
sé
- no, la violenza dall’alba dei tempi
coabita nell’animo umano
- bensì il fatto che Missier il Doxe non
fece nulla, non mosse un
dito per salvare il figlio, anzi, lo esortò il giorno della
condanna all’esilio
di sottomettersi docilmente alla legge e d’accettare
stoicamente il suo
destino.” [8] L’anziana nobildonna
invitò Hironimo a sedersi, portandosi la
mano stretta tra le sue sul grembo. “Tuo padre mi
confessò, un giorno mentre
aspettavo il Luchin, che se fosse stato egli Missier il Doxe non
sarebbe
rimasto lì inerme, che se non poteva contestare la legge che
almeno lo si
lasciasse uccidere il figlio di sua propria mano, così da
risparmiargli il
supplizio della tortura. Egli pertanto vi voleva indirizzare sulla
buona
strada, crescervi nel timore di Dio e della legge acciocché
non giungesse mai
il giorno, in cui si fosse trovato lui sullo scranno e voi dietro
quella porta
ad urlare sotto i ferri della tortura.”
Un
castigo peggiore non poteva sussistere al mondo per un
genitore, d’assistere impotente all’agonia della
sua creatura, le mani legate.
Quest’aspetto
Hironimo non l’aveva mai considerato.
“Vi
voleva proteggere. Da voi stessi e dagli altri.”
“Dorme?”
“Sì,
l’Orsolina lo sta vegliando. Tutto quel piangere
l’ha
stancato, è crollato in letto.”
Anzolo
fissò il libro dei conti, mordendosi l’interno
della
guancia, le dita unte d’inchiostro che rigiravano nervose la
penna. Si era
attardato nello studio, la candela ormai consunta e l’unico
rumore proveniente
dalla finestra semichiusa era l’assonnato sciabordio delle
onde del sottostante
rio San Vidal. Una notte tranquilla per un anno così
turbolento per la
Serenissima e per l’Italia intera.
“Non
mi fossi accorto di quella focaccina, avrebbe pianto molto di
più”, sentenziò gravemente, riprendendo
il lavoro interrotto dal discreto
arrivo della moglie nella sua sancta sanctoroum. Quand’ecco,
resosi conto di
come stesse sbagliando le somme più elementari, il Miani
increspò le labbra e,
sparso del polverino, chiuse il pesante tomo. “Davvero ha
pianto così tanto?”,
s’informò apprensivo.
Leonora
si portò accanto a lui. “Quella tua scenata
l’ha
spaventato a morte. Dovresti atteggiarti in maniera più
delicata con lui.”
“Con lui il mondo non
sarà delicato”, ribatté Anzolo,
tormentando la penna. “Inoltre, non capisco perché
ogniqualvolta lo rimproveri,
reagisce neanche lo trascinassi al martirio … insomma,
né Luchin, né Carlino,
né Marchetto s’esibivano in tali
momarie!”
“Ma
il Momolo non è né il Luchin né il
Carlino né il Marchetto. È
se stesso, è unico e dovresti trattarlo come tale, non come
la copia dei suoi
fratelli.”
“Perché
non mi ascolta mai? Perché questa sua continua e ostinata
disobbedienza? Dov’ho sbagliato con lui?”, le
chiese angosciato il marito,
passandosi una mano sulla fronte e poi sugli occhi.
“Perché non comprende che
non provo alcun gusto ad atteggiarmi a Missier Grando con lui, che
… che se non
indurisce il suo cuore crescendo scambieranno la sua bontà
per stupidità,
approfittandosene sfacciatamente? E se questa sua
sensibilità d’animo lo
conducesse a finire nei guai, ad impegolarsi con la legge? Se
… se la si
scambiasse per altra natura più vergognosa, non degna degli
uomini?”, batté il
senatore il pugno sulla scrivania di quercia venata d’oro,
accalorandosi. “Non
può permettersi alcuna debolezza, non in questa vasca di
squali dove viviamo!
Quelli come nostro figlio li trangugiano e poi ne sputano gli ossi; con
questo
in mente ti pare ch’io possa dormire sonni tranquilli? Che
possa soprassedere?”
Leonora
non replicò nulla, limitandosi ad appoggiargli la mano
sulla spalla. Immediatamente, Anzolo gliel’afferrò.
“Lo
dimostrava malissimo, però si preoccupava per voi. Da
giovane,
quand’esercitava l’avvocatura, talvolta gli
capitavano dei casi … delicati, in
cui molti piccini venivano costretti ai torti dei più
turpi.”
“Quando
ho visto Momolo, tornare a casa, da solo, con quella
focaccina in mano, ho rivisto in lui quel bambino. Dopo
un’eternità, l’ho
rivisto.”
“Quale
bambino?”
“Quanti
anni aveva? Dieci? Otto? Stava … stava attendendo che i
servi giungessero per prelevarlo da scuola, quando quell’otre
di sterco, quel
figlio-del-diavolo l’avvicinò, regalandogli una
fritola: ti porto a casa io,
dammi la manina … Quel che gli hanno fatto … i
danni … come urlò quando i
medici lo esaminarono, come pianse quando l’interrogai, di
vergogna e pena e mi
pregava di non chiedergli altro, che voleva la sua mamma e che voleva
morire.
Quale bambino ad otto anni invoca la morte? Fui così grato
della sentenza dei
Dieci … così grato e non per il compenso
… Mio Dio, per un istante ho temuto
che lo stesso fosse accaduto a Momolo … Perché si
ostina a non dirmi il nome? …
Se quel becco fottuto avesse osato toccarlo, anche solo sfiorarmelo
… Non ci
sarebbe arrivato vivo dai Dieci … Oh, no! L’avrei
squartato vivo, quel cancaro,
l’avrai squartato vivo a mani nude e mangiato
finché di lui non sarebbe rimasto
niente!”
“Perché
allora non lo palesò mai, non ce lo disse chiaro e
tondo?”, esigette di sapere Hironimo, le orecchie che gli
bruciavano per la
diversa chiave di lettura di quell’episodio, che lui aveva
all’epoca percepito
come una grande e immeritata ingiustizia. Si diede dello stupido, di
non
essersi mai fermato a capire le motivazioni dietro il rimprovero di
Padre, così
come di tutti gli altri.
Madona
Leonora levò gli occhi verso l’arca del marito,
un’espressione malinconica sul volto scarno.
“Suppongo perché gli fosse stato
insegnato come la bontà e la sensibilità
d’animo appartengano ai deboli; quando
invece essi, uniti alla Grazia dello Spirito Santo, rendono invincibili
e
tetragono a qualsiasi avversità.”
“Nel
Regno di Saturno, forse”, confutò scettico
Hironimo. “Quando
vinceremo questi porci balordi, non sarà per benevolenza e
magnanimità; sarà
perché siamo stati più feroci e astuti di loro.
Padre aveva ragione ed io un
deficiente ad oppormi: a questo mondo, chi segue la via della
moralità viene
destinato a null’altro se non alla derisione e ad essere
calpestato, a trovarsi
i piedi in testa. Ho ben appreso questa lezione.”
“Ti
sei molto indurito di cuore, questo sì”,
commentò tristemente
sua madre.
Portandosi
sotto all’arca di Padre, il giovane Miani si pose in
punta di piedi per sfiorarla. “Mi distinguerò in
questa guerra, Madre”, le
promise con ferma convinzione, voltandosi, gli occhi luccicanti di
febbrile
ardore. “Duratura seges– duraturo
frutto, [9] non era questo il
motto di Padre? Vincerò gloriosamente e
cancellerò ogni infamia dal nostro
nome, il quale non sarà più associato ad un
presunto suicidio, bensì a nobili
imprese; lo renderò immortale e conosciuto fino
all’ultimo angolo della Terra,
dove verrà pronunciato con la più alta devozione!
Così avverrà, Madre, ve lo
giuro: da delusione ad ultimo, diverrò l’orgoglio
e il primo e sarà questa la
mia espiazione e il mio ringraziamento nei confronti di Padre, per
tutti i suoi
sforzi. Dimostrerò al mondo intero che lui non ha perso il
suo tempo con me!”
Madona
Leonora l’ascoltava in silenzio, il volto una sfinge
indecifrabile.
***
Chi
era Padre?
L’unico,
assieme a Madre, che l’aveva amato incondizionatamente,
contro i propri interessi, anche a costo di ricevere in cambio rancore
da parte
sua.
I suoi
fratelli gli volevano bene, però avevano anche la loro vita
cui badare, le loro nuove famiglie da sostenere e proteggere. Hironimo
corrispondeva per loro ad un sovrappiù.
Mentre
Padre e Madre, ovunque egli fosse andato, qualsiasi cosa
avesse fatto, qualsiasi scelta avesse compiuto, sarebbero stati
lì per lui,
granitici sostegni. Un privilegio che non molti genitori concedevano ai
propri
figli, Hironimo in retrospettiva lo vedeva ora chiaramente nelle
dinamiche
familiari dei suoi amici, i quali si credevano liberi ma in
realtà ben piegati
al giogo parentale.
In fin
dei conti, Padre non aveva mai ostacolato le sue
inclinazioni – a parte il tentativo d’allattare i
cuginetti – l’aveva sempre
lasciato sperimentare e anzi, anche se non tralasciava
alcun’esplicita
impressione a riguardo, adesso Hironimo si ricordava con folgorante
nitidezza
l’interesse nei suoi occhi quando lui condivideva le sue
opinioni, le sue
scoperte, il risultato dei suoi personali apprendimenti –
come diceva
l’Orsolina, era ruvido ma non insensibile.
Solo,
questa libertà concessagli doveva camminare mano nella mano
con la consapevolezza della responsabilità delle proprie
azioni – ciò cui
Hironimo desiderava sfuggire e ciò che Padre invece
s’ostinava d’insegnargli.
Che
nascere in un mondo di privilegiati non equivaleva a rendere
lecito l’illecito, bensì a dare
l’esempio e a scontare gli errori con doppio
rigore. Che appartenere ad una posizione di potere non si limitava ad
impartire
ordini ai subordinati, ma di essere il loro scudo, il loro punto di
riferimento
nel momento del bisogno, assumendosi e giustificando il peso del loro
fallimento. In
porto, non è il rematore che viene processato per la mala
gestione della galea
o per una sconfitta: è il patron che viene
condannato, riecheggiarono
in Hironimo le parole di Padre, definite e precise come non mai dopo
anni di
silenzio. Il rematore dirà: che scelta
avevo io? Mi è stato dato un
ordine e quello io ho eseguito. Ma il patron potrà affermare
lo stesso? No, gli
diranno i Cai dei X, noi ti abbiamo dato ogni potere di decidere, di
comandare,
di disporre degli uomini come meglio potevi. Non ti mancava nulla. Ora
però tu
ci devi rispondere del tuo operato, non i tuoi inferiori.
Può il servo ordinare
alcunché al padrone? Paga dunque il prezzo del tuo
privilegio.
Alla
fine, ogni persona interrogata dal giovane Miani, pur
descrivendolo in maniera differente, conveniva sul fatto che suo padre
non si
tirasse mai indietro dinanzi a qualsiasi sfida e alle sue conseguenze,
i meriti
e le colpe. Convenivano su come egli non desse mai per scontato la sua
appartenenza al patriziato, come non considerasse la nobiltà
una distinzione
sociale bensì un titolo da guadagnarsi onestamente
attraverso la mercatura,
l’esercizio di una carica pubblica, un servizio pubblico. La
devozione.
Convenivano
tutti come Padre sì disprezzasse le melensaggini e
l’esaltazioni eroiche dei poemi e romanzi cavallereschi,
eppure narravano di
come egli non esitasse a combattere in prima fila e ad ergersi a scudo
umano
per i suoi compagni; convenivano tutti come pur non declamando in
latino
ciceroniano, Padre praticasse nel concreto le tanto osannate ma assai
poco
praticate virtù romane: clementia, dignitas, firmitas,
frugalitas, honestas,
industria, severitas, pietas, prudentia, fides, iustitia, …
Per lui non
corrispondevano ad una sterile moda da
sfoggiare onde stupire
i suoi ospiti della sua cultura, per lui era un modo di
vivere
e da tramandare ai suoi figli, la sua eredità viva.
Padre
aveva voluto che Hironimo in queste virtù si fortificasse,
fedeli alleate per affrontare il mondo ostile fuori le rassicuranti
mura
domestiche. Che lo aiutassero a sopravvivere e a prosperare. I
suoi metodi
saranno stati goffi – come pretendere d’insegnare
amore se non lo si è mai
ricevuto? – però impregnati di grande
sincerità e devozione paterna. Perché
sapeva che la clessidra girava inesorabile per lui, che un giorno
sarebbe
arrivato il tempo di presentarsi a discutere con San Pietro,
impedendogli
quindi di proteggere all’infinito suo figlio, la sua famiglia.
Quale
utilità ricavava altrimenti del suo affanno?
Hironimo
capiva, ora, la sofferenza nel guidare un figlio per
ricevere in cambio amore ma anche odio. Era facile per lui viziare i
suoi
nipoti Anzolo, Crestina e Gasparo, giocare al barba amorevole ma
educarli, oh!
Da scuotere le fondamenta di casa rimbombavano severissime le paternali
di suo
fratello Marco ai figli, seguite poi da grandi e avviliti sospiri in
privato,
quando Zanzi e Ina correvano piangenti in camera loro. Anche Padre,
dopo averlo
punito, sospirava così tristemente?
In quella
stasi notturna, alla luce traballante della lucerna nella
tenda di Mercurio Bua, si compì uno
strano fenomeno: per un istante,
in bilico nel dormiveglia, Hironimo ebbe la sensazione di ritrovarsi
nel suo
corpo decenne, spaparanzato sul suo lettino accanto a Madre.
Avvertì una
presenza sopra di lui, un tocco di dita ruvide e timide sulla fronte,
scostando
via i ricci ribelli. Un bisbiglio – non
aver mai paura, sei nato per
lottare – e poi, la dolce pressione di un
bacio sulla testa e il
profumo di Padre, salato come il mare, che lo avvolgeva, cullandolo nei
migliori
sogni.
Le dita
di Hironimo corsero di riflesso sulla sua fronte, tastando
incredule, i suoi polmoni pieni di quell’aroma a lui tanto
caro.
“Padre,
voi sapete quanto vi ami e vi rispetti, dell’immensa
gratitudine ch’io nutro per voi per avermi messo al mondo,
cresciuto ed
educato, facendomi buon veneziano e …”,
recitò a mente la formula enunciata
dalla sua sorellastra Crestina al momento del congedo dalla casa
paterna.
Solamente buon cristiano non
riuscì pronunciare, sentendosi
altrimenti ipocrita. “Padre mio, se v’ho offeso, se
v’ho deluso, se mi son
comportato indegnamente verso di voi, vi scongiuro, in nome di
… in nome di
… Mater, di perdonarmi ogni
mancanza nei vostri confronti e di
benedirmi in questa nuova parte della mia vita.”
Hironimo
proferì il tutto a cuore aperto, lacrimante. Eppure, dopo
quindici anni, percepiva trattarsi di lacrime di gioia, di chiusura.
Sotto
certi aspetti, quel gran bischero di Mercurio Bua aveva
ragione: Padre era suo padre. Non era il fratello di Marco e Vorzilio
Miani o
il figlio dei suoi nonni. Né l’amico di sier
Antonio Trum né il cognato/rivale
del barba Batista. Né il capitano della Miana.
Né tantomeno il
marito di Madre. Era tutto questo, ma per lui era suo padre, neppure
quello dei
suoi fratelli, il suo.
Perché
per il bene di Hironimo, egli agiva; per il suo bene aveva
diretto le sue energie, i suoi pensieri, anche se per approcciarsi a
lui usava
il metodo meno consono.
Perfettamente
imperfetto, ma era suo padre.
I cui
insegnamenti, se Hironimo si fosse deciso a seguirli,
l’avrebbero accompagnato per tutta la vita.
Altrimenti,
sul serio, sarebbe stato come se per lui Anzolo Miani
non fosse mai esistito.
Continua
…
*************************************************************************************************************
Ed eccoci
qui alla fine de “Alla ricerca del padre perduto”.
La
seconda parte del quarto comandamento “… onora la
madre”, non sarà così lunga,
promesso! Avrete capito che il Nostro ci tiene tantissimo a lei!
In ogni
modo, potrà sembrare che non sia accaduto niente, invece
sì, c’è stato fatto un passo
fondamentale in avanti per il Nostro. Le bellezze
delle salite …
Vorrei
ribadire, che le riflessioni in questo capitolo su famiglia
e genitori non sono dogmi universali, quindi niente flagellazione della
povera
Hoel se non si è d’accordo.
Certamente
i ruoli dei genitori all’epoca - come fin
quasi 50-60 anni fa - erano ben definiti, molto
più rigidi rispetto
ad oggi, però leggendo i carteggi di alcuni patrizi
veneziani dell’epoca, ho
trovato esempi di padri molto affettuosi e presenti, in contrasto al
generale
sentire di padre autoritario e distante. Pertanto, credo fosse a
seconda della
personalità dell’interessato e al suo livello di
sensibilità.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima (con la
narrazione “regolare” XD) Un ringraziamento a Semperinfelix (che
m’ha aiutata nella revisione).
Un
po’ di noticine:
[1] un’usanza curiosa del
patriziato della
Serenissima, che nella scelta dei padrini per il battesimo non si
limitava a
scegliere solo tra parenti stretti e i membri di famiglie cittadine, ma
anche
tra il popolo e i loro stessi servitori. Di conseguenza, il numero di
padrini
era assai notevole – si
stabilì fino a 6 dopo una serie di
eccessi
(150 in un sol battesimo) contrariamente ad oggigiorno che sono al
massimo due.
[2] probabilmente era la sua imprecazione
preferita. Narra il Sanudo, che come nel 1514 Carlo Miani, ripresa
l’attività
forense, durante un processo in Quarantia Criminal contro un
Lampugnano, accusato
d’aver ordinato l’assassinio di un figlio di
Domenico Marin Becichemi, s’era
lasciato sfuggire una bestemmia – “maledeto sia San
Piero” - forse
frustrato dall’impasse in cui era caduta l’udienza.
Ovviamente la cosa suscitò
un grandissimo sdegno e il Miani venne condannato a pagare una multa o
di 25
lire o di servire un mese a Padova.
Considerati
gli usuali provvedimenti per i bestemmiatori (taglio
della mano e d’un pezzetto di lingua) gli andò di
lusso! Secondo noi, Carlo
Miani durante il suo processo si giustificò astutamente
dicendo che per “San
Piero” intendeva non il santo bensì il Vaticano.
Oppure, siccome Della Rovere
bestemmiava sempre San Pietro, appellandosi
all’infallibilità papale, se il
Papa lo faceva allora va bene. Oppure, essendo ancora la guerra in
corso ed
essendosi il Miani distintosi a Brescia e a Bergamo, forse la Quarantia
non
vedeva il vantaggio nello sprecare così un valente militare,
tanto
nell’esercito bestemmiavano tutti. Chissà.
[3] Di questo Luca Tron figlio di Giovanni Tron e
nipote del Doge Nicolò non si trova alcun altro riscontro,
se non nell’albero
genealogico del Cappellari, ragion per cui sospettiamo esser morto
fanciullo,
prima ancora della Balla d’Oro.
[4] quello che Angelo Miani sta descrivendo
è il
“Battesimo di Cristo” nel Battistero degli Ariani a
Ravenna.
[5]
Crestina da Pisan= Cristina
da Pizzano o Christine de
Pizan, è una scrittrice e poetessa vissuta a cavallo tra il
XIV e il XV secolo,
nata a Venezia e poi trasferitasi in Francia con la famiglia presso la
corte di
Carlo V di Valois. Il suo componimento più celebre
è “La Città delle Dame”, una
risposta ai suoi colleghi Boccaccio e Jean de Meung le cui produzioni
letterarie considerava ingiuste e denigratrici nei confronti delle
donne. Oltre
ad esercitare da laica la professione di scrittrice, di Cristina va
notato che
in molte sue poesie viene toccato il tema della prematura perdita del
marito
Etienne de Castel, di cui era molto innamorata.
[6] durante i primi due anni di matrimonio
alla novella sposa (novizza, che vuol dire anche fidanzata) veniva
concesso
d’indossare una collana d’oro e/o una di perle
grosse, nonché di vestire più
sontuosamente del solito, così da segnalare il suo nuovo
status sociale di
donna maritata.
[7]
Paulo Luzio Anafesto =
Paolo Lucio Anafesto, primo Doge di
Venezia, al governo dal 697-717. I Morosini furono una delle dodici
famiglie
veneziane che lo elessero, da qui l’aggettivo
“apostolico” a Ca’ Vecchie.
Oggidì gli storici dubitano della storicità di
Anafesto, ma all’epoca di questo
racconto sicuramente per Leonora Morosini e con lei tutta Venezia
corrispondeva
all’indiscussa realtà. Quanto ai Miani, pur
vantandosi di discendere dalla gens
Emilia, in realtà erano dei navigatori-commercianti
provenienti dall’Istria, i
quali si trasferirono a Venezia verso la fine del X secolo.
[8] Narra il Sanudo: et quando
‘l andò (il
Doge Francesco Foscari nella camera dove avevano portato il figlio per
congedarsi dalla famiglia), li parlò molto
costantemente, che pareva
non fosse suo figlio licet fosse unico figlio. Et lui disse:
“Messier padre, vi
prego procurate per mi che torni a caxa mia.” Il Doxe disse:
“Jacomo (Jacopo) va
ed obedisci a quello vol la Tera, et non zerchar
più oltra.” Ma ben si
disse che il Doxe, tornato a Palazo, stramortì, et detto
sier Jacomo fo mandato
al suo confin alla Cania.
[9] duratura seges =
“Frutto
duraturo”. Questo motto fu scolpito nella targa commemorativa
in marmo sulla
fontana lombardesca a Feltre, sopra di cui è posto un fascio
di piante di
miglio con un nastro volante. Poiché il miglio compare nello
stemma dei Miani,
non sappiamo se questa frase fosse il loro motto oppure semplicemente
l’incipit
del contenuti della targa. Finché non riusciremo a trovare
fonti precise a
riguardo, per non sbagliare ci limiteremo a dire che si trattava del
motto
personale di Angelo Miani.
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Capitolo 16 *** Capitolo Quattordicesimo: 11-12 settembre 1511 ***
Ecco qua
il (vero) quattordicesimo capitolo!
Ulteriori
note si trovavano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti:
linguaggio scurrile, teorie del complotto e altre
peculiarità.
Ricordiamo
che le vicende narrate sono una ricostruzione
romanzata, in mancanza di fonti specifiche sul protagonista in quel
periodo e
alcuni punti oscuri nelle cronache stesse dell’assedio.
Chiedo
venia se ogni tanto qualche parola di “terraferma”
si
mescola al veneziano “di Venessia”, per quanto
risciacquiamo i panni in laguna
non tutte le ciambelle riescono col buco.
Un
ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix,
Mrosaria e Sagitta72. Grazie a chi ha messo questa storia tra le
seguite,
preferite e ricordate.
Vi auguro
una buona lettura,
H.
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Quattordicesimo
11-12
settembre 1511
Ca’
Contarini dai Scrigni e da Corfù riluceva al sole e al
riflesso ondulato e danzate dell’acqua, mescolando pietre
rosa d’alba mattutina
a bianche d’Istria, vivacizzate dalle calde fantasie degli
arabeschi dei
tappeti persiani e dai grandi vasi di fiori ai balconi, conferendo al
palazzo
un che di leggiadra civetteria femminile.
Sier
Piero “Pinze d’Oro” Contarini
l’aveva costruito alla fine del
Trecento in stile gotico e il suo discendente e attuale proprietario,
il
cavaliere sier Zacharia dai Scrigni q. sier Francesco, ereditato
quell’edificio
nella contrada di San Trovaso, aveva deciso di ritorno dalla sua ultima
missione in Alemagna nel 1496 di restaurarlo e di ampliarlo,
inaugurandolo due
anni dopo tramite suntuosissima festa. Dei
tre piani del palazzo i due nobili
centrali erano stati decorati ciascuno tramite eleganti quadrifore a
sesto
acuto balaustrate al centro e due monofore ogivali per lato iscritte in
una
cornice rettangolare. La porta d’acqua era stata ingrandita e
valorizzata con mezze
colonne doriche e sopra un timpano a forma d’arco con
decorazioni a raggiera a
guisa di conchiglia, creando maggior impatto al visitatore giungente
dal
canale, il quale non poteva non ammirare il felice connubio tra la
spinta
ardita e fiorita del gotico e la placida armonia delle nuove forme
classicheggianti
degli Antichi.
Un luogo
pieno d’aria, di luce, la casa della felicità ecco
lo
scopo ultimo di quel progetto.
Sier
Zacharia in persona aveva seguito i lavori, tra una seduta e
l’altra in Senato e la cura dell’educazione dei
suoi figli minori. Dopo anni di
missioni diplomatiche a Mantova, a Ferrara, a Milano, in Francia e in
Alemagna,
giustamente la Signoria gli aveva concesso un po’ di requie e
dunque l’annoiato
ambasciatore s’era dato alle gioie dell’edilizia,
desideroso di infondere nella
sua casa la sua ritrovata contentezza nella quotidiana
domesticità. Non fosse
stato chiamato nel giugno del 1499 a ricoprire il ruolo di
podestà e capitano a
Rovigo, il Contarini si sarebbe pure dedicato all’antico
castello di famiglia a
Piazzola sul Brenta, uno dei beni portati in dote da sua nonna domina
Maria da
Carrara q. domino Jacopo, ultimi esponenti dell’illustre
famiglia signorile di
Padova.
Tredici
anni da allora e Ca’ Contarini seguitava a conservare
quell’aria di coccola dolcezza, in fiero contrasto
però coi cupi sentimenti dei
suoi abitanti. Sull’intero palazzo gravava infatti una densa
coltre di silenzio
e tristezza, mai mitigata, malgrado i tentativi del figlio di sier
Zacharia,
Francesco, di tener alti gli spiriti acciocché il suo sfarzo
seguitasse ad
abbagliare i preziosi e necessari
ospiti
da lui invitati onde accelerare le trattative per la liberazione del
padre e
del fratello minore Piero, catturati a Cremona nel 1509 e condotti in
Francia
prigionieri, il primo a Parigi e l’altro a Perpignan.
Rifiutando di rassegnarsi
al fato palesemente avverso, Francesco Contarini assieme ai fratelli
rimastigli
– Phelippo, Marco e Polo – e i cognati sier Andrea
Guxoni e sier Marin
Trivixan seguitava ostinato a
battere ogni strada a lui percorribile, intrattenendo fitte
corrispondenze con
diplomati e comandanti francesi per intercedere presso
l’irremovibile Louis XII.
Con buona licenzia della Signoria il patrizio aveva nel maggio scorso
viaggiato
fino a Bologna a casa di domino Franco degli Uberti per discutere
personalmente
del riscatto. Tale era la sua determinazione da riuscire egli a convincere il Consiglio
dei Dieci a
rifiutare richieste di scambi di prigionieri da parte dei francesi,
fintanto che
il re di quest’ultimi s’incaponiva a non rilasciare
sier Zacharia e Piero
Contarini.
A costui
dunque s’erano rivolti madona Leonora Morexini relicta
Miani e suo figlio Lucha su suggerimento del consigliere ducale sier
Batista
Morexini, nella speranza che, grazie alle sue conoscenze, sier
Francesco
riuscisse ad agganciarli a qualcheduno dei comandanti nemici e iniziare
il
processo di riscatto di Hironimo. In particolare madona Leonora
s’era parecchio
raccomandata alla madre del Contarini e sua amica di vecchia data,
madona Alba
Donado dalle Rose, d’intercedere per la sua causa.
Ed
evidentemente dovevano esserci delle novità,
poiché quella
mattina un loro servitore portò in ambasciata a
Ca’ Miani un invito a pranzo,
onde discutere di certe faccende a loro note. Madona Leonora non aveva
fatto
attendere troppo la sua risposta e la Nona [1] ancora non aveva battuto
il
diciottesimo tocco che la sua gondola attraccava alla porta
d’acqua di Ca’
Contarini.
“Le
siore patrone colendissime la N.D. Leonora Morexini relicta Miani,
la N.D. Leonora da Molin dil Bragadin et domina Maria Morexini
relicta
Querini, comtessa de Stampalia et Amorgo.”
Non
potendo accompagnarla né Lucha per via dei suoi impegni in
Quarantia Criminal né suo fratello Batista per via del suo
incarico che lo
obbligava a rimanere super partes,
madona Leonora aveva scelto come chaperon due sue nipoti,
così da non apparire
una supplice disperata e per dirottare altrove l’attenzione
degli elementi in
sovrappiù a Ca’ Contarini.
Il
maestro di casa a seguito dell’annuncio guidò le
tre donne nel
portego del piano nobile, là dove tra i muri tappezzati di
ricchi arazzi, i
pavimenti di seminato ricoperti di tappeti turcheschi, gli scranni in
legno
scolpiti e decorati a foglie d’oro e ottomane di cremisino
l’attendevano madona
Alba Donado in Contarini e sette dei suoi dieci figli –
Francesco, Phelippo, Maria, Camilla, Lugrezia, Talesia
e Contarina [2] - tutti
vestiti con tal
eleganza da confondersi con la lussuosa stanza e parevano decorazioni
anche
loro. Madona Alba e le sue figlie vestivano di balzo di velluto e i
fiori
d’argento ed oro ricamati ad arte sul raso delle loro ampie e
gonfie maniche
rilucevano alla settembrina luce del meriggio, così come le
scuffie di seta
ricamate a filo d’oro con motivi geometrici e le due sottili
collanine di perle
intrecciate al collo. Sier Francesco, invece, indossava una casacca
nera
sciallata che lasciava intravedere la camicia bianca plissettata e le
maniche
di velluto scarlatto; quella del fratello Phelippo, invece, si
presentava turchese
e ambedue portavano i capelli a caschetto e la barba, secondo la nuova
moda
vigente.
A
confronto di tal variopinta tavolozza, le tre ospiti
corrispondevano ad un pugno nell’occhio: vestite
sì di velluto, ma di un nero
cupissimo da capo a piedi, ognuna col suo personale lutto,
l’unica macchia di
colore la fine camiciola di seta bianca che copriva la scollatura della
sola
madona Leonora, non giudicando le sue nipoti, entrambe nel fiore degli
anni,
necessario fustigare il naturale rosato del loro decolté.
Levatesi il pesante
paneselo nero che li arrivava fino a metà coscia, le donne
rimasero con le loro
scuffie sempre nere che coprivano in toto le loro trecce; niente
gioielli, se
non le vere nuziali al dito.
Sembravano
uno stormo di corvi che s’imbatteva in uno di pavoni.
Ciononostante, ironia della sorte aveva pur disposto un unico elemento
in
comune tra quegli astanti diversissimi tra di loro, ossia
espressioni serie e granitiche, nessuno
incline al sorriso e non per cattiveria o maleducazione.
“El
fio mio Lucha, el vu dimanda la perdonaça, s’el
nol gh’ha
podesto vegnir à disnar cum vui: ea Quarantia Criminal lo
tegne occupà pì dil
necessario”, si scusò madona Leonora con
l’amica, dopo aver scambiato i dovuti
convenevoli. “Staltro fio mio, Marco, el me scrive
ch’el Marcolin vuostro se
porta ben et che se fa honor, che no xélo mai stuffo
d’agiudar i soi compari a
l’opere a le mura di Trevixo”, aggiunse e il volto
smunto di madona Alba si
tinse brevemente di sollievo, inquieta a causa delle scarse notizie
circa il
fuggiasco suo figliolo che col suo silenzio aggiungeva insulto
all’ingiuria,
tutto il contrario di suo fratello Polo Contarini che pur imbarcato
nell’Armata
del Po scriveva regolarmente alla madre.
Attraversata
la vasta stanza attigua al portego, adibita a
lanziera d’armi, il gruppetto si stava nel frattanto portando
nella sala ove desinare,
anch’essa ricoperta di broccati e quadri dai soggetti ora
sacri ora profani e
sulle cui pareti s’appoggiavano credenze di legno di noce
stracolme di
scintillanti argenterie, di vivaci e variopinte maioliche di Faenza, di
Cafaggiolo, di Urbino; di sottili vetri di Murano, di ninnoli e
statuette delle
più variegate forme e provenienza e perfino di pezzi
d’antichità greche e
romane, tutti raccolti in artificioso assetto. Il tavolo stesso, per un
pranzo informale
quasi en famille, era stato
preparato
con elegante dovizia di vasellame e decorazioni.
“Co’
ripatrieré a Stampalia, siora comtessa?”,
s’informò sier
Francesco, tallonando immediatamente la vedova figlia di sier Batista
Morexini,
la cui bellezza non si lasciava strapazzare né dal lutto
né dalla nascita del
figlio postumo del fu conte Zuanne Querini. Semmai, il nero
dell’abito di
velluto le slanciava la figura e risaltava il biancore alabastrino
della sua
pelle, così come gli occhi nerissimi e la bocca vermiglia e
sensuale. Eppure,
dietro a tal beltà si celava un dolore acutissimo, del quale
Maria pareva
quasi gelosa, custodendolo per sé senza mostrarlo al mondo.
Che le pizzocchere la
tartassassero pure scambiando il suo stoicismo per indifferenza, lei
non doveva
dimostrare niente a nessuno. Zuanne le mancava da morire,
però la nobildonna doveva
vivere per i suoi figli e per la sua famiglia.
“Nol
sciò”, replicò la giovane contessa in
un sussurro vellutato,
le palpebre abbassate come il gatto che fingendo di dormire in
realtà osserva
attentissimo ogni movimento che lo circonda. “Gh’ho
da star drio ai lavori a la
nova Cha’ Querini; el
mio missere Nicolò Querini
tendaran optime a le tere anca sença de mi. De
pì, el mio putelo Nicolò xélo
massa picenin per inbacarse et la siora mia Mare et el sior mio Pare
voleno
ch’el staga qui a Veniexia cum eli. Chi songio mi par
desobedir?” e soprattutto
perché a Venezia Maria poteva tutelare
l’eredità dei figli minorenni contro
ogni pretesa della famiglia del marito, nonché evitare di
sentire il costante
fiato sul collo della minaccia turca alle isole greche infeudate ai
Querini.
“Chome
steli i vuostri parenti, i lustrissimi sier Antonio Trum
procurator et Lucha Trum savio a tera ferma?”, domandavano le
Contarini a
Dionora da Molin in Bragadin, la quale rispose lentamente e con
diffidenza,
mentre s’accarezzava i primi cenni del ventre rigonfio:
“Assa’
ben da l’ultima volta che mi gh’ho
parlào cum eli.”
“Gh’ho
sentio ch’el Procurator gh’ha da depositar 800
ducati de
presenti a la Signoria per un anno. O geran 900?”
“Nol
sciò, el sior barba di la siora mia Mare ancuo (oggi, ndr.)
gh’ha
da parlar en Colejo –
s’avedarà.”
“Xélo
vero, ch’el gh’ha refudà ea nomina a
Capitan Zeneral?”
“El
cognosse i soi limiti.”
“Raccomandatime
à lhor siori riveriti, donca.”
“No
falarò”, finse di promettere Dionora, cogliendo la
frecciatina
delle due donne sulla salute del suo prozio materno. Tuttavia,
dissimulò
ignoranza e non tanto per ingannare le sue interlocutrici, quanto
coloro che
rappresentavano, ovver i mariti ed i fratelli la cui linea politica non
sempre
coincideva con quelli dello zio e cugino della sua defunta madre madona
Crestina Miani da Molin. Il recente rifiuto poi di sier Antonio Trum
a
sostituire il capitalo generale sier Anzolo Trivixan gli aveva
guadagnato molti
occhi puntanti contro e critiche borbottate a denti stretti. Il nipote
del fu
Serenissimo, imperturbabile, s’era giustificato sostenendo la
sua poca dimestichezza
nella marina militare, mancanza inaccettabile in tempi delicati come
quelli:
piuttosto, che tale compito venisse affidato ad un comandante
d’esperienza,
magari più giovane di lui, povero vegliardo settantunenne
pieno di reumi qual
era.
In
aggiunta, alla giovane patrizia i Contarini dai Scrigni non
erano mai andati tanto a genio (con l’unica eccezione del
Marcolin e del Piero,
gli amici del suo barba Momolo) e di conseguenza non li frequentava
più del
dovuto, avendo infatti ereditato quella nuova generazione la medesima
aristocratica spocchia della loro bisnonna domina Maria da Carrara,
credendosi
alla pari di Dominiddio soltanto perché possedevano un
fottio di terre, danari
e potevano permettersi ospiti illustri e per di più foresti,
senza che la
Signoria avesse molto da ridire. Bah.
“Amiga
mia, no me scolté? An, la perdonança!”
Madona
Leonora strabuzzò gli occhi disorientata. “Per
cossa,
Alba?”, fece confusa.
La
nobildonna scosse il capo, stringendo con imbarazzo il piròn
che mulinava in aria a vuoto, indecisa se impirare la carne sul piatto
o se
appoggiarlo.
“Jo
stago qui a lamentarme di le mie desgrassie, co’ anca vui
gh’avé
le vuostre.”
Stavolta
arrossì Leonora, giacché a onor del vero non
aveva
prestato grande orecchio alla triste e lunga brentana che fu lo sfogo
della sua
amica, la quale trascorreva da ben due anni notti d’angoscia
per la sorte del
marito e del figlio, acuita adesso da quella per il fratello e gli
altri suoi
due figli al fronte. Da Parigi le giungevano lunghe lettere da parte di
sier
Zacharia, ma da Perpignan quasi niente, se non ciò che il
cavaliere riusciva ad
estrapolare da terzi sulle condizioni del suo ultimogenito. E il
Marcolin con
la sua recente fuga l’aveva assassinata e nonostante le sue
veementi insistenze
quell’inutile di suo fratello sier Andrea Donado non riusciva
a persuaderlo ad
alloggiare in casa sua, figurarsi ritornare a Venezia. E a proposito
del podestà
e capitano di Treviso … “Et saveu cossa
gh’ha scrito en Consejo sier Lunardo
Zustignan vuostro parente zerca mio fradelo Andrea?”
“No?”
“Ch’el
podestà val puocho, et usa miseria in li danari di la
Signoria.”
Al che la
vedova Miani, piuttosto di commentare, giudicò
più
saggio bere una sorsata di vino rosso annacquato. Quanto riferito dal
patrizio
corrispondevano alle medesime lagnanze nelle lettere del Marchetto,
laddove suo
figlio si sfogava frustrato protestando quanto sier Andrea Donado
centellinasse
i soldi inviati a Treviso da Venezia per la costruzione delle mura
difensive,
neanche li cacciasse fuori di tasca
propria e pertanto tra soldati, cittadini, popolani, gli
stessi patrizi e
comandanti si lavorava tutti alla stregua di formichine, notte e
giorno, ad
infernali ritmi d’Arsenale.
“Xéle
cosse che se disen”, nicchiò infine madona
Leonora,
appoggiando il bicchiere. “Pitosto, Alba, sora la question di
staltro fio mio …”,
introdusse discreta l’argomento che più le stava a
cuore e per il quale aveva
abbandonato la quiete di Ca’ Miani, arrivando a scomodare
perfino le sue
nipoti.
Similmente
agli antichi pellegrini di Delfi, madona Leonora
interrogava costantemente suo figlio Lucha, i suoi parenti e il
fratello
Batista onde reperire anche la più minuscola informazione
sul suo Momolo,
ricevendo ogni volta la medesima risposta, ossia ch’era in
vita, sorvegliato a
vista da Mercurio Bua e fine della storia. Ma in quali condizioni
versasse, se
in salute o in malattia; se sfamato o lasciato deperire
d’inedia; se vestito o
nudo, se torturato o ben trattato … lo ignorava. Con Lucha,
invece, pur
ricevendo notizie saltuarie le aveva comunque avute, anche per mano di
altri
prigionieri, nel periodo in cui il suo primogenito giaceva nella branda
intontito dagli oppiacei dopo l’operazione chirurgica per
salvargli il braccio
destro. La nobildonna aveva sofferto orrendamente, sì, ma
mai aveva dubitato
della sua incolumità nonostante la prigionia, né
del ritorno di Lucha malgrado
i quattro mesi di attesa.
Momolo,
al contrario … Mille tremende immagini sulla sua sorte si
alternavano nella mente di Leonora, togliendole il sonno già
scarso,
prosciugandole gli occhi di lacrime e l’anima
d’energie. E anche a te una spada
trafiggerà l'anima,
mai parole furono più veritiere.
Talora la
nobildonna si svegliava sussultando
e madida di sudore, l’immagine del
figlio talmente nitida dinanzi a sé che quasi le pareva di
poterlo toccare e
stringere al petto. In altre occasioni giurava d’udire
l’eco della voce di
Anzolo, che la spronava a continuare a pregare, a pregare
ininterrottamente la
Devotissima.
Maria,
afferrando al volo l’ansietà di sua zia, per la
prima
volta dal suo arrivo guardò dritto negli occhi sier
Francesco, sorridendogli
tra il supplice e il civettuolo: “Seti riussì a
parlar cum qualchedun di
comandanti franzosi o todeschi?”
La bocca
del secondogenito di sier Zacharia si contrasse in una
strana smorfia, in bilico tra il dispiaciuto e
l’incoraggiante. “Sì ben
…”,
esordì curiosamente impacciato rispetto alla sua usuale
parlantina assai
sciolta. “Cognosséu la comtessa di Corejo, domina
Veronica de Gàmbara?”
“La
fiola dil traditor brexiano Zuan Francesco de Gambara?”
“La
medesma. Saveu anca chome el sior sòo Pare se trovi horra
à
Monte Beluna agli hordeni di la Peliza, per l’impresa di
Trevixo? Ecco, in
nomine di l’amititia ante la guera, le gh’ho scrito
et spiegà ea situazion …”
Madona
Leonora trattenne il fiato, incalzando impietosa sier
Francesco: “Gh’avela capiò
l’importança …?”
L’uomo
annuì. “La comtessa la me gh’ha riferio
che l’intende et
chome la gh’avea scrito al sòo sior Pare de
zò unde agiudarci.”
“Perché
el conte de Gàmbara vol horra ser
d’ajuto?”, arcuò
scettica Dionora il sopracciglio.
“El
gh’ha scoperto a sòo danno che li franzosi non
xéli cussì
amizi chom’el credea. A Brexa i se gh’han petuffai
de bruto coi gasconi dil cavalier
Bayart; niun i vol pì vedar manco dipinti. Cussì
el Gàmbara horra vorave tornar
a san Marco, ma el Consejo dei X no se fida et chome podaria? El
gh’ha canbià
zò massa bandiera.”
“Perhò,
vui credete a elo”, puntualizzò Leonora.
“Gh’avé
da satre, madona, chom’el 6 di setembrio, ghe gera
stà a Trevixo
‘na scaramuzza coi stratioti dil Mercurio Bua, el qual tegne
prexom vuostro fio
sier Hironimo. El Bua scampolò perhò
s’amaloe et credutolo morto, el conte de
Gambara gh’avea dato hordene de tuor Hironimo im soa
protetitione, cussì che
vuialtri podesse pagar ea taja …”
Dionora e
Maria lanciarono un piccolo gridolino entusiasta, già
figurandosi l’esito positivo di quel piano: accaparrandosi
infatti il
prigioniero per sé, il conte di Gambara poteva disporne a
proprio piacimento,
concludendo scambi o pagamenti di riscatto assai vantaggiosi e anche
dimostrando quanto veritiere fossero le sue lettere inviate al
Consiglio dei
Dieci, nelle quali giurava e stragiurava la sua lealtà alla
Serenissima pur
proclamando a voce alta l’incontrario. Madona Leonora, al
contrario, non
giubilava, accortasi infatti dell’espressione sempre
più mesta sul viso
solitamente superbo del Contarini e non presagendone nulla di buono.
“Purtroppo
desgrassia gh’ha volesto, ch’el Bua nol
gh’avea niuna
intençion de crepar, sicché el se gh’ha
ciapà indrio cum la força vuostro fio, el
qual tegne sconto im sòo pavion, niun pol vedarlo niun pol
propinquarselo
(avvicinarsigli, ndr.) A me spiase …”,
mormorò genuinamente contrito sier
Francesco, percependo quel rovescio d’eventi come
l’ennesima personale sconfitta.
Infatti, aveva creduto il salvataggio di un signor nessuno quale
Hironimo Miani
poca cosa, sottovalutando l’ostinazione
dell’incognita impazzita, al secolo
Mercurio Bua che se lo costudiva manco avesse catturato il Doge in
persona.
La vedova
Miani socchiuse per un istante gli occhi, incassando
stoicamente quell’ennesima stilettata, la speranza di
riabbracciare il suo
ultimogenito di nuovo dispersasi come il caìgo invernale dal
vento e dal sole. “Chome
stelo el fio mio?”, s’aggrappò tenace a
quell’ultima consolazione. “El Gambara,
gh’avelo parlà cum elo? Gh’avelo
visto?”, stridette la sua voce di tal
angoscia, che sier Francesco sussultò lievemente, mentre sua
madre sgranava gli
occhi, pallidissima.
“Siorasì”,
s’affrettò a rassicurarla madona Alba.
“El Momolo l’gera
ligà cum catene et en camisia, bianco puina et malmenao,
perhò im boni spiriti
et lengua prontissima.”
Dionora
artigliò quasi la stoffa sopra il pancione, deglutendo;
Maria cacciò un profondo sospiro, appoggiando la sua mano
sopra il polso
della zia a mo’ di conforto.
“Insistareu
cum el conte, sier Francesco?”, esibì poi la
giovane
contessa la più sconsolata delle sue espressioni, le iridi
nerissime da
cerbiatta velate di accorte lacrime. La mano libera viaggiò
molle e discreta
verso quella più grande dell’uomo, sfiorandogli
appena le nocche con la punta
delle dita. Così sporgendosi offrì agli occhi del
Contarini il motivo per cui
non aveva indossato la camiciola bianca e non perché a
Maria importasse un
fico secco di lui, bensì della sorte del suo amatissimo
cugino per la cui causa
era disposta ad offrir il suo modesto contributo.
“Fazzo
el tutto che se pol far”, le promise a disagio sier
Francesco, ansioso di ben figurare con lei pur non perdendo di vista la
personale missione di riscattare i suoi di parenti, ché
stando al saggio
proverbio, ad una bea femena non se nega gnente soprattutto se
s’era come lui
ancora celibi. “Basta spetar l’occasion
propitia.”
Maria
lo trafisse impietosa con quel suo sorriso birichino
pieno di fossette, annuendo soddisfatta mentre con la scusa di levargli
la mano
gli sfiorò il polso, dentro la manica.
“No
v’indubité”, reiterò madona
Alba, scoccando tuttavia
un’occhiata obliqua di monito al suo primogenito maschio, che
tossicchiando
portò il braccio più da rente al bordo della
tavola. E rivolgendosi benevola
verso l’amica: “O prima o dopo el Bua
gavarà pur da dimandar ea taja. No pol
mica tegnirlo seco per sempre!”
Madona
Leonora convenne rigidamente, poco persuasa da quelle
incoraggianti parole, e riconcentrò lo sguardo sulla sua porzione di ambroyno sul
piatto, pollo cotto
con cipolla, zenzero, chiodi di garofano, cannella, cardamomo e sopra
salsa
alle mandorle speziate allo zafferano. In altre circostanze quel piatto
così
ricco e gustoso l’avrebbe di molto gratificata; invece in
quel momento la
nauseava, specie al pensiero di sapersi lì, al sicuro e ben
nutrita, mentre la
carne della sua carne molto probabilmente stava patendo la fame, il
freddo,
forse perfino ammalato e lei non poteva fare alcunché onde
alleviare quelle
tremende condizioni, tranne pregare per una liberazione
ch’ogni giorni si rimpiccioliva
in un pallido miraggio.
“Ma
mio fio insistarà, digo ben Francesco? El conte vol tornar
in
brazo a la Signoria: codesto ajuto pol zogar a sòo et
vuostro vantajo.”
Leonora
avrebbe ardentemente desiderato alzarsi e disertare la
compagnia, sennonché desistette, indossando la sua
giornaliera maschera di
stoica imperturbabilità. Lo doveva al suo Momolo:
dimostrandosi forse troppo
sconvolta, avrebbe scoraggiato sier Francesco nella sua delicata
missione di
persuadere il conte Gianfrancesco di Gambara a non gettare la spugna al
primo
tentativo fallito, impresa non facile considerando la
volubilità dell’uomo.
“Gh’avé
rason, Alba. Tentar et ritentar.”
***
Un altro
magro meriggio si trascinava via al campo dei Collegati di
Montebelluna, immobile in abulica attesa del maresciallo de La Palice,
il tempo
dilatato e scandito a malapena dal muoversi del pallido sole
settembrino,
appesantito da un’aria umidiccia e fastidiosa – el vento dil pizzegamorto, lo chiamavano
i locali.
Vino e
pane pressoché introvabili, al punto che i soldati avevano
dovuto dar fondo alla preziosa carne essiccata e a mattare le bestie
anche per
il trasporto. Si vendeva a prezzo ignominioso del mosto ma la terra,
marcia
d’acqua, aveva prodotto uva scadente da rivoltare lo stomaco.
La pancia non si
riusciva a riempirla adeguatamente da montare la guardia, figurarsi
marciare e
combattere. Ogni tanto qualcuno tornava da qualche perlustrazione con
del cibo,
a malapena sufficiente per sé e pochi compagni. Se ritornavano, caduti in qualche dolina
dell’insidioso Montello o
scannati dai contadini nascostisi nelle grotte.
I litigi
per il cibo erano all’ordine del giorno, specie tra
francesi e tedeschi, quest’ultimi dalle mani ognora lunghe
sulle misere scorte
dei cisalpini.
Le
incessanti piogge costringevano ad una costante manutenzione di
armature e armi, inumidendo le polveri da sparo e il fango di quella
terra
sostanzialmente paludosa rubava letteralmente le loro calzature, alcuni
rimanendo
pertanto scalzi onde evitare di perderle o in attesa di un bottino
migliore per
sostituirle. L’apatia era tale, che neppure le puttane di
campo interessavano
più, preferendo ognuno restarsene o per i fatti suoi o coi
suoi commilitoni, a
domandarsi quale morte l’aspettasse, se o per malattia o in
battaglia, e un
poco rimpiangendo la loro terra natale,
abbandonata a causa dell’allettante promessa di facile
bottino in quel Paese di
Bengodi com’era stata loro da anni descritta
l’Italia.
Ogni
tanto, da qualche angolo non precisato del campo, s’elevava
un fastidioso concerto di grasse tossi catarrose e raschi di gola
seguiti da
sputi e gemiti di chi non riusciva più a respirare col naso.
O il
rumore della terra scavata per tumulare chi non respirava
affatto.
Quand’ecco
che l’inaspettato squillo di tromba ridestò
l’accampamento dal malsano torpore in cui era da giorni
sprofondato.
Una
stanca eppure festante esclamazione di giubilo si levò
all’ingresso del maresciallo Jacques de Chabannes de La
Palice, in testa ai
rinforzi portati da Vicenza. Sia tedeschi che francesi, accantonando le
loro
divergenze, gli erano andati incontro, salutando il comandante e i
nuovi
compagni e ovviamente adocchiando famelici il carro dei viveri.
Eppure,
chi aveva occhi per vedere non gioiva: da Vicenza era
giunta una barzelletta di rinforzi, sia in termini di uomini che di
munizioni.
Uguale
sconforto lo stava assaporando in quell’esatto momento
anche il de La Palice, guardandosi intorno smarrito e incredulo: aveva
lasciato
un campo abbastanza completo di soldati e invece gli si presentava il
desolante
spettacolo di un branco d’ammalati macilenti e di prostitute.
Le barche per
attraversare il Piave erano ridotte a moncherini carbonizzati. Le fosse
coi
cadaveri aumentate e i rami degli alberi ornati più di
impiccati che di foglie.
Il campo emanava ovunque un tanfo nauseabondo di carne putrescente,
d’erbe
marce, di terra bagnata e di feci.
Il
francese allungò il collo verso il padiglione di Mercurio
Bua e
dove attorno stava la sua compagnia; deglutì malamente
appurando quanto il
fallito attacco di Treviso l’avesse quasi dimezzata. Aveva
udito della debacle
dell’albanese, soltanto che non si figurava un tal disastro.
Tutti,
giurò tra
sé e sé il furibondo l’uomo, tutti i
suoi sottoposti gli avrebbero dovuto
spiegare molte cose e dettagliatamente.
Lecha
Busicchio irruppe nella tenda del collega, tallonato da
Zilio Madalo. “Il maresciallo è
tornato!”, annunciò tutto d’un fiato.
Puntellandosi
al contrario pigramente sui gomiti, Mercurio si
grattò la testa, sbadigliando sonoramente. “E
dovevi proprio svegliarmi in sì
malo modo per comunicarmelo?”, disse affatto compiaciuto di
quell’eccesso di
zelo. Il magro pranzo non l’aveva sfamato e si sa che ci
dorme mangia, tanto
era convalescente e aveva ogni sacrosanto diritto di poltrire.
Grugnendo
il Bua si pose seduto, osservando soddisfatto
l’eccellente processo di risanamento della sua coscia: invero
quella sua lesta
guarigione aveva un che di miracoloso, considerando come cinque giorni
addietro
il cerusico se lo fosse disputato alla morte a dadi e scalpello.
L’animo
superstizioso del condottiero ne dedusse che la fortuna stava pian
piano
ritornando ad arridergli e quisquiglie quali il de La Palice e le sue
rogne non
gli avrebbero di sicuro guastato il ritrovato buonumore. Neppure gli
ultimi
fastidiosi rimasugli di febbre. Alla faccia di chi gli diceva
ch’aveva
contratto il Male Innominabile e già gli cantava la Messa da
Requiem.
L’albanese
gioì un po’ di meno quando, postosi in piedi, la
gamba
ferita cedette al primo passo, sbilanciandolo rovinosamente e se
Thomà gli
sfuggì eseguendo una circense capriola, Hironimo si
ritrovò a fungergli da
materasso, assorbendo in totum l’urto della sua caduta, il
fiato mozzato da
quel massiccio corpo.
Perlomeno,
Zilio e Lecha accorsero solerti a liberarlo di tal peso
morto e il giovane Miani ritornò a respirare, la mano
premuta all’addome,
avendogli involontariamente dato Mercurio una gomitata proprio
sull’antica
ferita.
Sicché,
non trovando modo di sciogliere la catena che l’aveva
ingarbugliato al prigioniero, l’albanese si risolse
d’aprire la manetta, anche
perché l’arrivo degli altri comandanti significava
per Hironimo ritornarsene
nel suo angolino dietro la tenda. Se non fosse stato per i ceppi, le
cavigliere
e soprattutto il collare con la palla di cannone, che lo costringeva
disteso
sul pagliericcio, il giovane veneziano ne era quasi contento,
rassicurato e
protetto dall’intimità di quella mea. Nondimeno,
ritornare a tu per tu col
fetore della stuoia umida d’acqua e fango e
l’innaturale posizione riversa gli
sconquassarono ugualmente le budella, rischiando di fargli vomitare la
poca
colazione consumata, se non fosse stato per il provvidenziale
intervento di
Thomà che gli tappò la bocca, costringendolo a
ricacciare tutto indietro.
Inoltre,
da quella mattina Miani percepiva un acuto dolore alla
gola, non dissimile a quello provocato da una spina di pesce e
ogniqualvolta
tentava di deglutire, gli sembrava d’avere un sasso ad
ostruirgli l’esofago. Doveva
aver dormito a bocca aperta oppure era disidratato, si disse
giustificando quel
nuovo e persistente malessere.
Hironimo
tossicchiò di prova e gli parve d’aver due
tenaglie ora,
oltre al collare.
“Cos’era
quella?”, udì il giovane la seccata domanda del
condottiero da dietro la tenda. Senza neanche degnarlo di una risposta,
il patrizio
si rigirò sul fianco e si mise a richiamare quanta
più saliva in bocca, così da
inumidire la gola irritata.
“Bevete,
patron”, gli offrì solerte Thomà la sua
ciotola d’acqua,
dopo essergli gattonato accanto. Gli offrì poi un pezzetto
di pan nero,
previamente salvato dall’ultimo pasto e che aveva tenuto
nascosto sul fianco
ossuto, dentro la mutanda.
Miani si
voltò di scatto, gli occhi nerissimi spalancati.
“Ripeti!”, gli ordinò perentorio,
disdegnando le vivande, più interessato a
squadrare fissamente il perplesso fantolino.
“Patron?”
“Che
disestu?”
“Mi?”
“Parla
de novo!”
“Mi
no gh’ho dito gnente, mi!”
“Cossela
sta voze da masorin?” (anatra selvatica, ndr.)
Il
biondino decenne si grattò colpevole il collo, ingobbendosi
contrito. “A me dole ea golla, patron”, ammise
infelice.
“Da
quanto?”
“D’eri.”
“Et
ti, ebete, ti no te m’avverti?!”
“Cospetto,
patron!”, esclamò di rimando Thomà tra
l’incredulo e il
deliziato. “Anca vui gh’avé la voze da
galina! Semo compagni horra et podemo
orar Sen Biasio tuti et do!”
“Cancaro
d’un puto, te scortego la fazza a furia di s-ciafoni,
altro che i peteni de Sen Biasio!” [3]
Poco
incline a beccarsi lo scappellotto castigatore per la sua
impertinenza, il bambino sbrodolò lesto
un’intellegibile sequela di
piagnucolosi miagolii e paternostri-avemarie, mulinando esagitato le
braccia,
finché il troppo parlare gli rubò il fiato e il
patrizio si ritrovò il viso
ventilato da una lunga e profonda tosse secca.
La tenda
si scostò bruscamente.
“Cos’è
questa cagnara?”, ringhiò Mercurio Bua,
sostenendosi su di
una sorta di gruccia sotto l’ascella e vestito di tutto punto
col corsaletto
già indosso, presagendo infatti un’eventuale
visita da parte del maresciallo de
La Palice alla sua tenda. Gli occhi dell’uomo scandagliarono
ogni minimo
dettaglio della “cella” del suo prigioniero, dalla
ciotola vuota appoggiata sul
pagliericcio al veneziano che si premeva il viso del moccioso contro il
petto. “Ebbene?”
“Parlavamo,
o ci è proibito anche questo?”, sibilò
astioso
Hironimo con tono di voce sospettosamente basso e roco, neanche fosse
ubriaco.
Mercurio
avanzò piano verso di lui. “Chi dei due
tossiva?”,
inquisì aspro.
Il
giovane Miani si scorticò petto, esofago e gola fino alle
lacrime
in un roboante colpo di tosse. “Io”,
mentì, peccato che poi gli venne da
tossire sul serio, rimanendo per un istante senza fiato e pure gli
venne da
sputare, cosa che fece senza rimpianti e per di più ai piedi
di uno schifato
Mercurio.
Un’espressione
sgomenta impallidiva tuttavia il volto da
convalescente del condottiero, che per una volta non seppe cosa
ribattere,
specie dinanzi al biancastro grumo per terra. Imprecando stizzito, si
voltò per
andarsene ma ecco che uno starnuto lo bloccò.
“Di
nuovo io?”, si strofinò Hironimo il naso,
sforzandosi con ogni
fibra della sua persona d’ignorare il muco e la saliva sulla
sua camicia,
cortesia di Thomà che ci aveva starnutito sopra.
“Gamo ti poutana mou!”,
inveì ruggendo Mercurio, zoppicando rapido verso uno dei
suoi cassoni e in un
battibaleno Miani si ritrovò ad acchiappare più o
meno al volo una pesante coperta
di lana. “Vedi di un creparmi!”, gli
intimò snervato il capitano di ventura,
chiudendo malamente la tenda, nel frattempo che abbaiava ordini ai suoi
sottoposti, il suo umore decisamente guastato.
“Faccio
quel che posso, ma non t’assicuro un bel niente!”,
lo
sfotté poco convinto Hironimo, intento al contrario nella
difficile operazione
di avviluppare con la coperta sia lui che Thomà,
ostacolatagli infatti dalle
catene e la palla al collo. Sicché il piccino, pigliando in
mano la situazione,
afferrò il panno e fatto cenno al più grande di
stendersi, lo sistemò sopra di
loro.
Quel
ritrovato tepore sarebbe stato pure una bella sensazione, se
il giovane patrizio non si fosse ritrovato a contemplare le smorfie del
bambino
mentre deglutiva a fatica, all’occasione interrotto da
timorosi colpetti di
tosse, che Thomà soffocava sotto la coperta, sulla paglia.
Non avendo nulla da
fare, il fantolino d’un tratto incominciò a
sbadigliare, si stropicciò gli
occhi e serrando la mano contro lo scollo della camicia del Miani, si
addormentò così da ignorare i crampi della fame e
del mal di gola.
Vegliando
accorto sul dormiente piccino, Hironimo gli massaggiava
intanto dietro la schiena, tra i capelli, tentando di dargli un poco si
sollievo. Espirò a lungo, più che altro per
impedire di tossire anche lui,
emettendo così un penoso ibrido tra un gemito e un ansimo e
gli sembrò d’esser pure
lui scorticato dai pettini di ferro di San Biagio.
***
“Ponti?”
“Esatto:
se non possiamo scendere con le zattere, lo faremo
costruendo dei ponti man mano che procediamo verso Treviso. Legna, come
potete
vedere, qui non manca.”
“In
questo modo terremo anche occupati i soldati, così da
evitare
eventuali diserzioni o, Dio non voglia, sollevazioni. È
inutile rimanere qui a
marcire a Montebelluna: bisogna muovere il campo, adesso o mai
più.”
Mercurio
Bua arcuò un sopracciglio in direzione del conte
Gianfrancesco di Gambara, sorpreso da quell’inusuale supporto
da parte sua.
“Esatto”,
reiterò
l’albanese, “avete sicuramente sentito
della spedizione di Giovanni
Forti da Orte? Di come abbia distrutto a Noale dei mulini? O, come da
me
previsto, della distruzione del ponte di Bassano per opera di Giampaolo
Manfrone
di Schio?” e alla risposta positiva degli astanti
proseguì: “Ci stanno sia
affamando, sia creando terra bruciata attorno. Non possiamo
tergiversare,
maresciallo, una decisione deve esser presa, anche a costo di
disobbedire
all’Imperatore!”
Riunitisi
per comodità il de la Palice e il resto dei comandanti
nel suo padiglione e ascoltato il predicozzo del francese con la
medesima
svogliatezza dello scolaro impenitente, Mercurio Bua non aveva perso
tempo e
subito dirottava l’argomento su questioni più
urgenti, ossia decidere se
continuare l’impresa di Treviso o di tornarsene a Verona a
svernare, ritentando
in primavera. Ormai l’estate volgeva al termine e considerate
le premesse, si
prospettava un autunno infame e un inverno da lupi, fattori non ideali
per
cingere d’assedio una città così ben
fortificata.
“Cesare
Borgia conquistò la rocca di Ravaldino in
gennaio”,
ricordò Giulio Sanseverino al Bua. “E anche quella
era considerata
imprendibile.”
Du Molard
e de Boissy convennero, memori di quel famoso assedio
che aveva tenuto in scacco per quasi un mese il Valentino e tutta
Italia col
fiato sospeso. “Saint-Séverin ha ragione:
perché dovrebbe Trévise sottrarsi da un
destino analogo?”
“Perché,
monseigneurs? Perché da allora son trascorsi ben undici
anni”, fu la semplice e disarmante replica di Mercurio Bua.
“I tempi sono
cambiati. Gli ingegneri militari sono cambiati. Il nemico stesso
è cambiato. Se
pensate d’assediare Treviso alla stessa maniera di Ravaldino,
allora è meglio
che ce ne torniamo tutti a Verona a farci un bell’esame di
coscienza e magari
testamento!”
Treviso
sarà anche stata una città-fortezza in via di
perfezionamento,
aveva concluso l’albanese, ciononostante rimaneva comunque
una fortezza alla
moderna, progettata e costruita ad hoc per respingere gli attacchi
della
medesima artiglieria che tanto aveva sconvolto le sorti
d’Italia. I comandanti
francesi lì presenti stavano inoltre sottovalutando un altro
fattore
importantissimo, ovvero che il provveditore Zuam Paulo Gradenigo poteva
contare
non soltanto sul supporto militare di compagnie di ventura ormai
avvezze a
combattere contro cisalpini ed imperiali, ma anche sul pronto e fedele
sostegno
della popolazione locale, vantaggio di cui l’irriducibile
Contessa di Forlì non
aveva potuto giovarsene ai tempi di quel lontano assedio.
Galeazzo
Pallavicino ci tenne però a puntualizzare:
“Verissimo, il
vostro previo scontro sotto le mura di Treviso ha confermato la
preparazione bellica
della città. Tuttavia, bisogna anche considerare che i
nostri numeri appaiono di
gran lunga superiori rispetto ai loro. Possiamo infatti contare sulle
truppe
ausiliari del Duca di Brunswick, di quelle stanziate a Castelfranco e a
Soave.
Lo stesso Giovanni Gonzaga è disposto ad unirsi a
quest’impresa. Perché
rinunciare proprio ora, quando siamo ad un passo dalla meta
finale?”
Tutte le
teste si voltarono in direzione di Mercurio, il quale a
onor del vero non possedeva alcuna risposta precisa a riguardo,
soltanto l’eco
di una brutta sensazione che non l’aveva più
abbandonato, dopo la cocente
sconfitta sotto le mura di Treviso.
Le prime
ombre vespertine e il conseguente consiglio di guerra
l’avevano infatti sorpreso ancora intento a terminare gli
ultimi dispacci,
nello specifico al contino di Melzo Galeazzo Sforza e a Sebastiano
d’Este,
ambedue stanziati a Soave assieme a buona parte della compagnia di
Federico
Gonzaga da Bozzolo. Li aveva avvertiti di non abbassare la guardia,
insospettito dalle continue e serrate sortite da Padova delle bande di
Ferigo
Contarini, di Zuam Paulo Manfron, del conte Guido Rangoni, di Giano di
Campofregoso e ovviamente dei parenti di Lecha, i Busicchio al gran
completo.
Pareva che i provveditori di Padova Christofal Moro e Polo Capello e il
vicegovernatore Fortebracci di Montone avessero dato ordine ad ogni
capitano di
ventura di sbizzarrirsi in incursioni a loro piacere, colpissero dove
volessero. All’apparenza a caso, eppure il Bua intuiva uno
schema di fondo.
Quale però?
“Evidentemente,
questa serie di continue sconfitte incomincia a
pesare sul vostro giudizio tattico, o mi sbaglio?”, lo
stuzzicò Teodoro
Trivulzio.
“Pah,
a Garigliano c’eravate anche voi!”, lo
rimbeccò astioso
l’albanese. “Così come tra i vincitori
c’era l’Orsini degli Anguillara cui
stiamo per andare incontro! Scommetto che gli farà piacere
rivedervi!”
Anticipando
un probabile battibecco tra i due offesissimi
condottieri, il conte di Gambara s’intromise, tagliando la
testa al toro: “Non
è il numero, bensì la qualità. Ora
come ora, non possediamo sufficiente
artiglieria né polvere da sparo per sostenere un lungo
assedio. Per questo
concordo col capitano Bua: prima attacchiamo, prima toglieremo a
Treviso ogni
possibilità di terminare il rafforzamento delle mura. Prima
attacchiamo, prima
evitiamo di finire sbranati dai nostri stessi soldati.”
“Maresciallo,
a voi l’ultima parola.”
Eletto a
Salomone in quella contesa, Jacques de Chabannes de la
Palice si ritrovò dunque inguaiato nell’ingrato
compito di mettere d’accordo ciascuno
senza scontentare chicchessia. Una bella gatta da pelare e tutto
perché
Maximilian ancora tergiversava nel raggiungerli di persona, le sue
promesse
solide quanto il vento di burrasca.
“Soit”, sentenziò
grave
il francese, “l’impresa di Trévise
continuerà e non per obbedienza nei
confronti dell’Empereur, bensì per non venir meno
alla parola data: ne va del nostro
onore. Se Maximilien è un codardo
e preferisce vincere dalla sicurezza delle retrovie, non significa che
dobbiamo
esserlo anche noialtri”, disse e un mormorio
d’assenso si diffuse nel
padiglione, malgrado l’irrispettoso aggettivo rifilato al Re
dei Romani. Soltanto
i capitani tedeschi strinsero piccati la bocca, sennonché
neppure loro potevano
descrivere altrimenti il comportamento ambiguo dell’Habsburg,
né giustificarlo
all’infinito.
“La
maggior parte del campo verrà levato stanotte stessa per
trasferirlo
a Villorba. Non appena il capitano Bua si troverà nelle
condizioni adatte per
viaggiare, provvederà di occupare Nervesa così da
controllare più da vicino
ogni transito sul Piave e colà assicurarci il trasporto
fluviale
dell’artiglieria”, proseguì imperterrito
il de la Palice, tracciando il
percorso sulla cartina con la punta della ferula. “Nel
frattanto daremo ordini
di tagliare legna, in modo da costruire ponti per guadare il fiume.
Infine, invieremo
un trombetta a Padoue per annunciare un futuro assedio da parte nostra,
così da
confondere il nemico e guadagnare tempo; una piccola compagnia da 300
s’avvicinerà
invece quanto più vicino possibile a Trévise,
onde capire a che punto siano
nella costruzione delle cinta murarie, se non compiere addirittura
qualche
azione di disturbo.”
“Quest’ultima
meglio di no”, gli suggerì Mercurio, cui non
piacevano gli sprechi. “Per il resto, mi trovo
d’accordo. Voialtri?”
Du
Molard, de Boissy, Pallavicino, Sanseverino, de Gambara e gli
altri comandanti convennero, chi con maggior e chi con minor entusiasmo
ma
almeno non sorsero obiezioni.
Con
l’augurio all’albanese di pronta guarigione e di
tenerli
aggiornati sulle sue condizioni di salute, il maresciallo de la Palice
dichiarò
terminato il consiglio, congedando i presenti.
“Signor
conte!”, chiamò il Bua il nobile bresciano, mentre
questi s’apprestava
ad uscire dalla tenda assieme ai suoi commilitoni. “Volevo
ringraziarvi per il
supporto di oggi. Non me l’aspettavo, se posso esser
sincero.”
Gianfrancesco
di Gambara fece spallucce. “Dovere”,
replicò
laconico.
Mercurio
però non desistette, trattenendolo di nuovo.
“Posso
inquisire di questo vostro mutamento d’animo? Considerate le
nostre passate e
accese divergenze, voglio dire”, precisò,
studiando attentamente ogni singolo
rictus del volto del suo interlocutore, in cerca forse di una
contraddizione o
di una conferma della sua buonafede.
“Il
vostro appassionato discorso s’è rivelato assai
illuminante”,
gli sorrise ambiguo il conte, abbozzando ad un inchino.
Quand’ecco, che le
guance gli si gonfiarono ed egli coprì immediatamente la
bocca sull’incavo del
gomito, tossendo ferocemente.
“Pure
voi! Mi sembrate assai pallido, signor conte, vi sentire
bene?”, s’informò apprensivo il Bua, pur
tenendosi a debita distanza dal
bresciano che effettivamente sfoggiava un viso tirato e giallognolo.
“Un
piccolo raffreddamento, niente di cui preoccuparsi”,
liquidò in
fretta la questione di Gambara, respirando a lungo onde riprendere
fiato e
massaggiandosi il petto dolorante. Si schiarì la gola,
nettandosi l’angolo
della bocca con un fazzoletto. “Già sto
migliorando. Queste piogge e questo
umido … Piuttosto, perché dite Pure
voi?
Vi siete ammalato?”
“No,
non io …”, mormorò pensoso
l’albanese, fissando di striscio
dietro la tenda, ignaro di come Gianfrancesco di Gambara avesse subito
seguito
il suo sguardo, registrando mentalmente ogni dettaglio.
***
Al
Castello tra Porta Altinia e Porta Santi Quaranta, sier Marco
Miani deambulava lungo le mura come suo solito, insonne.
Nonostante
gli altri gentiluomini suoi commilitoni assegnati alla
ronda di quel tratto si fossero più volte offerti di
sostituirlo, il trentenne
patrizio rimaneva fermo nella sua decisione di non schiodarsi da
lì, neanche ne
fosse dipesa la sua vita. Si muoveva talmente inquieto e silenzioso da
scambiarlo per un fantasma, impressione esacerbata dal tremulo riflesso
delle
torce sul suo corsaletto in contrasto col nero della notte.
Montare
di guardia aiutava Marco a non pensare; il tarlo del senso
di colpa infatti rodeva con maggior gusto in presenza della moglie e
dell’amico
di suo fratello minore, imprigionandolo in un vortice senza di fine di
“E se
…?”, scenari dove egli riusciva ad appendere a
testa ingiù Mercurio Bua e a riprendersi
indietro Hironimo.
Helena lo
aveva rassicurato e più volte delucidato quanto la
cattura del solo condottiero poco avrebbe cangiato la situazione del
ragazzo;
malgrado ciò, il prurito di stringere le mani attorno al
collo dell’albanese
non s’era facilmente assopito. Di pari passo si nutriva la
sua frustrazione
dinanzi a quello stillicidio d’attesa caratterizzata da
informazioni tra di
loro contraddittorie, laddove un giorno i Collegati parevano voler
abbandonare
l’impresa di Treviso e un altro dove sarebbero giunti entro
la settimana.
Miani si
mordicchiò nervoso il labbro inferiore, sfilandosi i
fastidiosi guanti di cuoio e liberando le mani bendate, i palmi
rovinati da
calli e vesciche a causa dei frenetici ritmi di costruzione delle mura
e di
demolizione degli edifici ad esse adiacenti.
Quella
mattina era toccato ai monasteri di Santa Maddalena e di
Santa Chiara, bruciati e smantellati brutalmente; alla Madonna Granda,
invece,
si avanzava con maggior prudenza onde non rovinare la Cappella della
Devotissima e l’affresco miracoloso. Lavoravano tutti senza
sosta – militari e
civili – perfino i capitani Vitello Vitelli e Renzo di Ceri
erano stati scorti
per ben due ore trasportare pesanti carriole cariche di materiale
edile.
Tali
impegnative attività avrebbero dovuto fiaccare chiunque,
cullandolo la sera nel dolce sonno del giusto. Al contrario, Marco si
sentiva
doppiamente vispo e vigile e ogni picconata se l’immaginava
rispettivamente sulla
faccia del Bua, del Re dei Romani e del Re di Francia.
“Sier
Marco”, l’attirò una voce alle sue
spalle. L’uomo si voltò,
sorridendo al nuovo arrivato.
“Patron”,
salutò egli sier Alvixe da Canal di sier Lucha, il quale
incominciava il suo turno e curiosamente portava con sé due
boccali di
terracotta.
“No
ghe xé a sto mondo na pì mejo medesina per ste
fiebri et
pesti”, gli rivelò complice il patrizio,
cedendogli il caldo bicchiere dal cui
odore Miani intuì trattarsi di acqua calda, miele, zenzero e
qualche goccetto
di acquavite, abbastanza da riscaldare il sangue e disinfettare la gola
ma non
da ubriacare.
“Obligao,
grassie!”, levò il boccale a mo’ di
brindisi,
schioccando in approvazione le labbra. “Bona, al
zinepro?”
“Solum
al zinepro!”, ridacchiò sier Alvixe.
“Novità?”
“Nol
se move gnanca na foja” e prendendo un secondo sorso, Marco
domandò al concittadino: “Sta storia di la peste
… ea xé vera?”
Da Canal
aggrottò la fronte, la bocca ridotta ad una linea dura.
“48 casi a Veniexia ancuo, medici et spezieri xéli
tutti in arme, pronti al
besogno. Mi spero ch’i mii puteli i stagi ben, im
protetitione di la Madona”,
mormorò cupo, roteando in maniera circolare il caldo liquido
fumante, la mente
rivolta alla consorte e ai suoi figlioletti, l’ultima volta
che li aveva visti
tutti lì a circondare come pulcini la gonna della madre.
Miani
accolse in silenzio la notizia, limitandosi a vuotare d’un
tratto avido il boccale, lo stomaco stretto da una molesta fitta
d’ansia: da
parecchi giorni correvano dicerie di focolai di peste in tutta la
regione e
aveva ardentemente sperato ch’essa non raggiungesse mai
Venezia. A quanto
pareva, di nuovo le sue preghiere non erano degne d’esser
esaudite e altro non
gli restava se non augurarsi che nessuno della sua famiglia la
contraesse.
“El
sier Alvixe da Riva el va a ripatriar diman a Veniexia. Sòo
fradelo sier Vizenzo resta qui inveze.”
“Xélo
messo cussì mal?”, strabuzzò incredulo
Marco gli occhi,
incapace di concepire il rapido deterioramento della salute del
collega, con
cui aveva condiviso molte ronde notturne. Lo sapeva certo ammalato in
letto con
la febbre, ma non al punto da dover rientrare in sì gran
fretta a Venezia.
Sier
Alvixe da Canal aprì appena la bocca per meglio spiegargli
la
questione, quand’ecco che il concitato suono di una campana
lo interruppe,
ponendo ambedue i patrizi sull’attenti. “La vien
dai Santi 40!”, esclamò l’uomo,
mentre una seconda campana più vicina alla porta cittadina
veniva suonata,
presto seguita da una terza e da una quarta. “Xéla
ea compagnia dil Cypriam de
Forlì!”
Di
riflesso Marco scattò alla campana del loro camminamento,
agitando il batocchio quasi volesse spezzarlo ed ecco che nemmeno in un
battito
di ciglia l’intera Treviso diveniva una cacofonia di
scampanate, cui tosto
s’aggiunsero quelle di ciascun campanile della
città, svegliandola, nonché gli
echi sempre più incalzanti e netti dell’ordine:
“Arme!
Arme!”
Destatisi
di colpo dal rumore di pesanti passi correre giù per le
scale, madona Felicita e Donado Cimavin balzarono giù dal
letto, correndo alla
finestra, spalancandola apprensivi.
“Arme!
Arme!”
Da ogni
casa si riversavano sulle strade gruppi di soldati, tutti
miracolosamente armati quasi si fossero costì coricati.
Anche Marco Contarini,
per quanto scarmigliato e con la barba sfatta, saliva preparatissimo in
groppa
al suo cavallo.
“Coss’elo
sto strepitare? Che accade?”, urlò Cimavin al
giovane
patrizio, il quale tenendo a freno l’irrequieto animale gli
esplicò succinto:
“Franzosi
et todeschi!” e battuti i tacchi sui fianchi del
cavallo, sparì rapido alla sua postazione.
Manco
avesse il Contarini evocato il demonio, grida terrorizzate
si librarono una dietro l’altra nella notte e ogni finestra
della contrada
s’illuminò, mentre i suoi abitanti in maniche di
camicia s’armavano di un
qualsiasi oggetto contundente, sprangando le entrate.
Anche
Donado e suo padre Jacopo scattarono all’azione e presero
rispettivamente una vecchia spada e una picca; dopodiché si
posero dietro il
portone dopo averlo rinforzato con sedie e cassapanche. Felicita con in
braccio
un piangente Jacopino, madona Helena Spandolina in Miani, Luzia e
Malgari
correvano nell’angolo più remoto e riparato della
casa, brandendo la greca
l’ascia per la legna e le serve una mannaia e un lungo
coltello per affettare
il pane.
“Arme!
Arme!”
Il
nitrito degli irrequieti cavalli degli stradioti si confuse
alle loro colorite imprecazioni, mentre essi in gran fretta li
sellavano, cavalcando
poi verso la piazza in un uniforme e roboante clamore di zoccoli sui
sanpietrini, i loro comandati Teodoro Clada e Giovanni Paleologo in
testa.
“Animo!
Animo! Per Agios Georgios! Animo!”
La
fantesca di madona Malipiero spalancò folle di terrore la
porta
della camera della padrona, incespicando per poco ai suoi piedi, la
quale
assieme al valletto aiutava il marito sier Zuam Paulo Gradenigo ad
indossare gli
ultimi pezzi dell’armatura.
“Franzosi!
Todeschi! I xéli zonti qui a Trevixo!”,
singhiozzò
disperata, facendosi il segno della Croce. “Miserere
nobis!”
“Tasi,
a fifar no te xé d’ajuto!”, la
rimproverò invece aspramente
il provveditore, sortendo tuttavia l’effetto desiderato.
Afferrato l’elmo e
indossatolo, con delicatezza circondò il viso di sua moglie
Maria, fissandola
lungamente dritta negli occhi.
La donna
lo baciò forte.
“Dove
sono i balestrieri porco diavolo?”, inveì il
capitano
Vitello Vitelli, girandosi attorno e sbuffando sollevato alla vista di
Naldo di
Brisighella e la sua intera compagnia far capolino assieme agli
archibugieri
capitanati da Piero di Novelon.
“Pronti,
capitano!”
“Ai
vostri posti, non siamo qui per menarcela!”
“Ma
… ma cosa sta succedendo?”, gli chiese
disorientato il
collaterale Piero Antonio Bataja, giunto la mattina precedente a
Treviso da
Padova per far rapporto alla Signoria e come tutti letteralmente
sbrandato giù
dal letto, l’unico però a rimanere senza un
preciso compito nel vespaio in cui
s’era trasformata la città.
“Un
drappello di francesi e di tedeschi è stato avvistato a meno
di un miglio dalle mura e minaccia di venirci incontro.”
“E
questo quando?”
“Meno
di un’ora fa!”
Il
cremonese reclinò diffidente il capo: se non lo stesse
assistendo coi propri occhi, non avrebbe mai creduto possibile un
raduno di
soldati così rapido e preciso.
“Orsini!
Dove sono quei due dannati?”, sbraitò Vitelli alla
ricerca di Renzo di Ceri e di Troilo Orsini.
“Rispettivamente
al bastione di San Bartolomeo e di San Marco,
capitano!”, gli indicò Naldo.
“Chi
c’è a quello di Santa Sofia?”
“Vigo
da Perugia!”
Vitello
Vitelli grugnì in approvazione. “Signor
Provveditore!”, accolse
egli calorosamente l’arrivo di Gradenigo, accompagnato da
sier Lunardo
Zustignan e il podestà sier Andrea Donado.
“Quanti
avvistati?”
“All’incirca
300, difficile stabilire con questo buio.”
“I
bombardieri si trovano alle loro postazioni?”
“Già
con la polvere fumante, signor Provveditore!”
“Eccellente!”
“Attendono
tutti il segnale di Orlando da Bergamo.”
Il
sopracitato presidente delle artiglierie in quel momento stava
salendo gli scalini del campanile di San Nicolò a due a due,
manco una scimmia.
“Chigasang!”,
schiumava per la rabbia e per la fatica il
bergamasco. “I coparé tutti, cussì
imparan!”, giurò a se stesso, mentre caricava
celere il sacro da sei, il dente ognora avvelenato dalla morte del suo
maestro,
il conte Lattanzio da Bergamo, per mano dei Collegati sotto le mura di
Verona. Puntò
la bocca da fuoco nella direzione delle fiaccole intravedibili in
lontananza e
quando i suoi occhi di falco le focalizzarono, calcolata mentalmente la
traiettoria, il suo viso si piegò in una smorfia
perversamente compiaciuta.
Zuam
Paulo Gradenigo levò in alto il braccio, imponendo il
silenzio ai soldati più vicini e per imitazione
l’intera Treviso si chetò, con
l’eccezione del fruscio degli stendardi e dello sfrigolio del
fuoco delle
torce. Neppure i civili osavano più fiatare.
Dalla sua
postazione, il collaterale inviato da Venezia assisteva
in rapita estasi allo spiegamento dei battaglioni, gli occhi contesi
tra la
contemplazione di quello spettacolo e la compilazione del rapporto che
stava
scrivendo in gran velocità: quando il Campanón de
'l Cànpo ebbe terminato di
battere i suoi severi rintocchi, i balestrieri si trovavano a Piazza
del Duomo;
gli uomini d’arme a Piazza di San Martino; gli stradioti a
Piazza del Castello,
600 soldati a Piazza Maggiore e doppia guardia sui camminamenti.
Tutto in
un’ora secca dal primo allarme.
La
Signoria sarebbe stata invero lieta d’apprendere, quanto i
suoi
timori si fossero rivelati assai infondati: salvo problemi di mancate
paghe,
Treviso poteva benissimo opporre fiera resistenza ai Collegati.
“Schifosi
soreghi …” (sorci, ndr.), bofonchiò
Orlando da Bergamo, accendendo
la miccia e, tappatosi le orecchie, si spostò indietro onde
evitare il rinculo
del sacro.
Un secco
colpo di cannone rimbombò per il campanile, scuotendo un
poco il batacchio della campana, la quale cantò un breve
requiem al drappello
di franco-imperiali incautamente avvicinatisi alle mura.
Troppo
pochi per azzardare un attacco diretto alla città, ma
abbastanza per danneggiarli, forse per distruggere i loro mulini lungo
il Sile
e a Melma, complice l’oscurità notturna.
Immediatamente
da lontano giunsero agli assediati le grida
concitate e isteriche del nemico e i nitriti imbizzarriti dei loro
cavalli, seguite
dallo spegnersi delle fiaccole e dal suono ritmico dei tamburini, che
indicavano sia il raggruppamento che la ritirata, come se
ciò avesse potuto
salvarli da una seconda micidiale cannonata, che sortì
l’effetto di ucciderli e
disperderli ulteriormente.
“Me
cojoni!”, cadde a Renzo di Ceri la mascella, genuinamente
impressionato dalla precisione a dir poco chirurgica del bergamasco.
“Abbiamo
un artista tra noi … Archibugieri e balestrieri, pronti a
coprire i
cavalleggeri!”
Una
compatta squadra di cento stradioti stava infatti uscendo da
Porta Santi Quaranta per d’avventarsi su quella disordinata e
mutilata dei
nemici, terminando l’opera.
***
Il
cavaliere Dimitri Spandolin q. Teodoro da Costantinopoli non si
stupì, una volta giunto alla parrocchia di San Biagio a
Castello, delle furtive
occhiate lanciategli da gente apparentemente affaccendata o a lui
estranea: a
parole Caterina Boccali in Bua (Caterina Minore o "Cate" per distinguerla dall'omonima madre) soggiornava nella casa che fu di suo
padre
Nicolò, a fatti era un preziosissimo ostaggio della
Signoria, sorvegliata a
vista. L’inaspettato ritorno di Manoli e Costantino Boccali
in seno a San Marco
era stato accolto con grande benevolenza, non essendo quelli tempi da
rifiutare
il benché minimo aiuto; la fama poi del fu capitano
Nicolò Boccali, della sua
fedeltà e delle sue imprese a Sebenico, Spalato e nella
Patria del Friuli aveva
assicurato ai suoi figli il pronto perdono per quel loro voltafaccia.
Eppure,
l’occhio vigile dei Dieci li scrutava accorto, soprattutto la
sorella, giacché
ancora legata a quel marito alla Repubblica ufficialmente nemico.
Per
giorni il cavaliere aveva tentato di approcciarla in maniera
tale da non destare eccessivi sospetti sulla cagione della sua visita;
l’ultima
cosa che desiderava, specie adesso che s’avvicinava il suo
rientro per affari a
Costantinopoli, era di ritrovarsi a tu-per-tu dinanzi ai Dieci a
giustificarsi
del suo operato.
Da una
parte, il greco si ritrovava spinto da obblighi familiari a
quell’ambasciata; dall’altra, da genuina
curiosità ché quell’enigma di Caterina Boccali
tuttora intrigava l’anziano Spandolin, quel tarlo insinuatosi
che forse la
donna non fosse mai stata rapita dai suoi fratelli, come ufficialmente
narrato,
bensì che lei li avesse seguiti di sua spontanea iniziativa,
portandosi
appresso la figlia e il cognato Teodoro Bua. Da fonti attendibilissime
–
Venezia era piccola e il quartiere greco di San Biagio ancora
più piccolo – il
cavaliere aveva appreso come neanche per un istante aveva lei
dimostrato grande
dispiacere per quella separazione, recandosi al mercato e in chiesa
assieme
alla sua fantolina senza preoccuparsi della sorte del Bua.
“Kalimera,
keeria Aikaterini.”
“Kalos
ton, keerie Dimitrios Spandounes”
Spandolin
aveva atteso pazientemente fuori dall’edificio sacro,
sul sagrato, finché adocchiata la donna non le si era
avvicinato con
nonchalance, aggregandosi al compatto corteo. Cate stessa finse con
estrema
naturalezza, pur sorpresa da quella visita, e costì i due
camminarono
indisturbati fino alla casa della greca, dove ad accoglierli venne loro
incontro
la piccola Maria e sua nonna, Caterina Arianiti Topia Comnena,
sorella
del famoso condottiero Costantino Arianiti Topia Comneno e di
Andronica, moglie
di Giorgio Castriota Skanderbeg.
“Ci
perdonerete per la frugalità di casa nostra – noi
qui siamo
una famiglia semplice”, si giustificò con studiata
modestia l’anziana nobildonna
albanese, favellando in greco e invitando Spandolin a sedersi e
offrendogli una
calda bevanda d’erbe e dolci al miele e pistacchi.
Pur
esponenti di famiglie di mercenari, madre e figlia si
presentavano assai dignitose e aristocratiche nei loro abiti
tradizionali, un
curioso miscuglio di greco e albanese: sotto, una lunga tunica
celestrina dalle
maniche lunghe e aperte, chiusa fino al collo da una fila di vistosi
bottoni e
stretta ai fianchi da una molle cintura; sopra, una sorta di sbernia
vermiglia dai
bordi foderati in pelliccia. Ai piedi facevano capolino le opinga, le
calzature
dalla punta all’insù tipiche albanesi. Al collo
ambedue le donne indossavano
due ampie collane intrecciate in complessi nodi, abbellite da diversi
pendagli a
forma di palla, vuoti all’interno e formati da una sottile
ragnatela di
filigrana d’argento, arricchita da piccoli tasselli di
corallo e turchese. Al
centro del petto, pendeva invece il morčić, un ciondolo in smalto a
forma di
testa di moro col turbante, comprato durante il periodo di servizio di
Nicolò
Boccali in Croazia, un portafortuna locale (anche se un po’
macabro) e copia
dei più ricchi moretti veneziani, spille decorative in oro,
cammei e rubini di
cui appunto gli stessi veneziani amavano adornarsi i mantelli.
Similmente
alle due donne, anche la casa ostentava una certa malinconica
ricchezza nobiliare, piena zeppa infatti di tutti quei preziosi cimeli
salvati
dopo la caduta di Durazzo che ricordavano alla famiglia gli antichi
splendori
della prosperità e indipendenza, quando ancora erano
feudatari e padroni del
loro. L’abile spada dei maschi e le ricche doti delle figlie,
ecco cosa
rimaneva della morente aristocrazia dei Romei.
“Adesso
che Manouel e Konstantinos combattono di nuovo sotto il
vessillo di Agios Markos, possiamo finalmente riprendere fiato e
concederci
qualche piccolo lusso”, dichiarò domina Caterina
Arianiti, servendo di persona lo
Spandolin, massimo segno di considerazione. Adocchiando le serve
sull’attenti
dietro le padrone, il cavaliere greco ridacchiò scettico
dietro la coppa
finemente cesellata, gustandosi l’infuso di erbe amarognole. Qualche lusso, diceva lei. Certo, certo.
“Immagino
la cosa vi rallegri.”
“Oh,
immensamente”, replicò civettuola domina Caterina,
sorridendogli
però ambigua. “Vi pare?”
L’Arianiti non aveva mai fatto mistero delle sue simpatie filo-veneziane, forse ereditate da suo padre, il
principe albanese domino
Giorgio Arianiti Topia Comneno, dopo che questi aveva tagliato formalmente i rapporti col Regno di Napoli. Certamente, ciò aveva per
significato tagliare i
ponti coi suoi fratelli e perfino con la sua stessa matrigna, domina
Pietrina
Francone, figlia del barone aragonese Oliviero Francone da Lecce,
dov’ella era rimpatriata
coi figli una volta rimasta vedova del consorte. Contro il volere
della nuova madre e della sorella Andronica,
domina Caterina era rimasta invece a Durazzo e da lì a poco
aveva sposato il greco
domino Nicolò Boccali, capitano di ventura
e altro fedelissimo della Signoria.
Decedutole
il marito sei anni addietro e rimasta senza patria a
seguito della conquista ottomana di Durazzo, domina Caterina non
s’era scoraggiata
e grazie alle amicizie a Venezia pur nelle difficoltà
economiche aveva trovato
modo di barcamenarsi – non s’è mogli di
condottieri per vivere nella mollezza.
Fierissima, l’anziana nobildonna albanese aveva rifiutato
ogni ducato inviatole
dai figli, specie se questi introiti provenivano dai nemici della
Repubblica. Meglio
mangiare un piatto di polenta di miglio ma da uomo libero, che uno
d’arrosto ma
da schiavo, sosteneva.
“Mi
consola sapervi adesso in migliori condizioni e riconciliata
con la vostra famiglia. Anzi, mi dispiace non avervi potuto aiutare di
più.
Greci, albanesi, siamo tutti esuli, qui, dobbiamo soccorrerci a
vicenda”,
asserì generosamente Dimitri Spandolin.
Gli occhi
di domina Caterina si strinsero in penetrante osservazione,
sicché il greco comprese come mai s’andava
cianciando come perfino il terribile
Mercurio Bua provasse una certa soggezione nei confronti della suocera.
“Vi
ringraziamo, però suppongo voi abbiate dovuto anche badare
agli interessi della
vostra famiglia. In fin dei conti, i primi a perdere la patria foste
voi
Greci”, velenosetta frecciatina dinanzi alla poca resistenza
dei greci contro i
turchi, contrariamente al valore degli albanesi che pur erano
considerati dai romei
esponenti di una nobiltà minore.
Il
cavaliere allargò le mani, concedendole vittoria su
quell’argomento. In effetti, pur trasferendosi da
Costantinopoli, egli non
aveva tagliato completamente i ponti con la madrepatria,
tutt’altro, aveva
intessuto buoni rapporti commerciali anche col signor Turco, pur di
conservare
una certa ricchezza e conseguente dignità, ché a
Venezia egli non aveva intenzione
d’andarci mendicando come altri suoi connazionali.
“Si fa quel che si può per
sopravvivere. Non amo rimanere inerme in attesa dell’onda che
mi travolgerà”,
dichiarò bonario.
“Giusto”,
convenne lentamente domina Caterina. “Come state in
famiglia?”
“Ottimamente.
Mia moglie soffre un po’ di reumi per via
dell’umido
qui a Venetía; i miei figli vivono delle loro condotte e le
mie figliole felicemente
sistemate coi rispettivi mariti. Mio nipote Nikolaos [4], adesso che
non può
più proseguire gli studi di medicina a Padova, ha deciso di
seguirmi a Costantinopoli.
Un bravo ragazzo, molto volonteroso, grande lavoratore e pieno di
grinta”,
anche se povero in canna, avendo i Da Ponte perduto ingenti beni e
proprietà
dopo la caduta di Negroponte, da dove traevano le proprie ricchezze. Ma
ciò
aveva giovato comunque lo Spandolin, avendo avuto infatti egli in
progetto di
accasare le figlie con patrizi veneziani, acciocché non
fossero più considerate
delle straniere, finalmente tranquille e protette. Una famiglia
economicamente
disagiata non era una famiglia schizzinosa e non badava troppo da dove
provenissero i danari. E in fin dei conti i suoi generi non gli davano
grandi
grattacapi, tranne forse per quel pirata saraceno di Marco Miani, che
se il
greco non stava attento, quello sfacciato di suo genero sarebbe stato
capacissimo di portargli via perfino le mutande.
Per amor
di sua figlia il cavaliere aveva deciso di aiutare il
fratello di quel tanghero. Solo per lei.
“La
mia Eleni, invece, si trova a Trevizo col suo consorte”, la
buttò lì casualmente Dimitri, osservando attento
il rossore sparire dalle gote
di Cate e l’occhiata furtiva di domina Caterina in direzione
della figlia.
“Ah,
capisco …”, mormorò assente la giovane
donna, giocherellando
nervosamente col bordo della manica.
“Vostro
marito, fra poco potrebbe condurre lì il campo.”
“Lo
so”, ribatté seccamente la Boccali, alzandosi e
portandosi
alla finestra, là dove si mise a contemplare senza
particolar gusto la riva
sottostante e il viavai di gente sul ponte e delle gondole in canale.
La
figlioletta Maria, udito il nome del padre, prontamente la
seguì, cingendole il
fianco con un che di protettivo.
“Saprete
anche che il fratello di mio genero Markos Mianes,
Hieronymos, è suo prigioniero.”
Gli occhi
neri della donna guizzarono rapidi in direzione del
cavaliere Dimitri, per poi ritornare al suo inquieto studio del
paesaggio
urbano. “Sì, ne ho sentito parlare”,
ammise infine. “Mi dispiace per lui.”
“Stiamo
cercando di avvicinare vostro marito per avanzargli una
somma di danaro, onde riscattare il ragazzo. Purtroppo vicende varie ce
lo
impediscono. Voi, forse, potete aiutarci”, instette
Spandolin.
Cate
cacciò fuori un profondo sospiro, passandosi una mano
sulla fronte. “Da voi non accetterà neanche un
soldo”, gli confessò triste,
facendo cenno ad una fantesca di portar via seco la bambina, segno che
ci si
stava addentrando in acque non consone alle sue innocenti orecchie.
“Non è la
prima volta che mi manda simili ambasciate, ma è la prima
che ricorre a tali
stratagemmi. Dunque è ricorso adesso allo scambio di
prigionieri pur di
riavermi indietro?”
“Siete
sua moglie”, gli ricordò imperturbabile il
cavaliere,
“avete l’obbligo di seguire vostro marito, ovunque
egli vada.”
“Sua
moglie, certo. Ma non un cavallo né un suo sottoposto da
comandare. Né un oggetto di cui disporre a suo
capriccio”, lo contraddisse
feroce Cate, le iridi nere luccicanti di battagliero fuoco.
“Troppo spesso
Maurikos s’è scordato chi io sia, da quale
famiglia io provenga.”
“Nondimeno,
anche se costretta dai vostri fratelli, il vincolo del
matrimonio rimane sacro e inviolabile; nessuno vi si deve
intromettere.”
“Lui
per primo l’ha infranto!”, s’intromise
domina Caterina,
stringendo i pugni sulle ginocchia. Dopodiché,
ricomponendosi in fretta,
dichiarò solenne: “Noi restiamo agli ordini della
Signoria. Se vuole che ce ne
andiamo, obbediremo. Fino ad allora, però, non abbiamo
intenzione d’abbandonare
Venetía. Già in passato abbiamo perduto una
patria, se possibile vogliamo
evitare di ripetere una seconda volta tale atroce esperienza.”
Di fronte
a quell’ostinatezza, il sospetto che Caterina Boccali in
Bua avesse disertato di sua spontanea iniziativa il consorte
incominciava a
materializzarsi in certezza. Tuttavia, Spandolin necessitava della
prova
finale. “Ma se voi domandaste alla Signoria di lasciarvi
partire, sicuramente
non avrà nulla da obiettare. A meno che più che
di lei, voi non temiate la
reazione dei vostri fratelli”, gettò
l’amo, in attesa di quale risposta avrebbe
pescato.
L’inaspettata
risata di scherno da parte di Cate lo colse un
poco impreparato. “A chi credete debbano i miei fratelli e
mio cognato il
pronto perdono della Signoria nei loro confronti? Io non posso tornare
dai
Collegati, non dopo quello che ho fatto.”
Il
cavaliere Dimitri strabuzzò gli occhi, disorientato.
“Prego?”
“Contrariamente
a mio marito e ai miei fratelli” e la bocca della
donna si piegò manco avesse pronunciato un improperio,
“non ho mai dubitato,
io, della mia fede in Agios Markos”, gli spiegò,
ritornando a sedersi accanto
alla madre, la cui mano afferrò a mo’ di sostegno
per quanto stava per
rivelare. “Contrariamente a loro, non siamo delle ingrate. La
Signoria ci ha
sempre protette, ci ha offerto aiuto quando gli altri Stati lavandosi
le mani
di noi ci hanno lasciato in balia dei Turchi. Dov’era quel
vanaglorioso
francese, quel Re Cristianissimo quando Durazzo cadeva?
Dov’era quell’altrettanto
borioso Imperatore quando mio padre dovette fuggire dalla Morea?
Dov’era il
Papa? Se ne stettero tutti quanti al sicuro nel loro bel palazzo col
culo al
caldo, ecco dove! A contar soldi e ingrassare alla stregua di capponi!
Ed io
dovrei schierarmi con questi codardi, questi
“cristiani” per sentito dire? E
per cosa? Per denari ottenuti da ruberie? Per terre su cui loro ancora
non
comandano? Quando l’Imperatore nominò conte mio
marito, glielo dissi: cosa ti
può dare Maximilianos, quando nulla di quanto possiede
è in realtà suo? Ti dona
il fumo, per quest’ultimo stai sacrificando il tuo onore e la
tua vita?”
Spandolin
si ritrovò a convenire suo malgrado. Le sue simpatie
politiche
al massimo s’erano sbilanciate verso i napoletani, ai tempi
della Lega tra
Venezia, Napoli e il Papato nel lontano 1472, ma neanch’egli
tollerava
l’arroganza francese e tedesca, il loro concetto di difendere
la cristianità
esplicato nel turpe massacro di altri cristiani.
“Per
anni ho seguito fedelmente Maurikos, anche se ciò
m’ha
condotto lontano dalla mia famiglia. Come da voi affermato, il marito
è il
marito e va obbedito. Ma ci sono cose che …”,
Cate s’interruppe, portandosi
due dita alla bocca, il viso un’espressione d’acuto
dolore. Domina Caterina le
circondò le spalle col braccio.
“Seguendo
mio marito, mi sono imbattuta appieno nella brutalità
della guerra e ho sopportato tutto per amor suo: il degrado morale
degli
accampamenti, la fame, la miseria, la malattia. Ma questa guerra che si
protrae
da due anni … No! Per me fu troppo.
“Voi
ignorate che razza di bestie siano i francesi e i tedeschi.
Voi non avete visto come soffocarono col fumo quei vecchi, donne e
bambini
riparatisi nelle caverne a Vitséntsa, pur di farsi rivelare
l’ubicazione degli
ori e dei danari – neanche stessero sterminando degli
scarafaggi! O come trasformarono
Feltre in un mattatoio, macellando alla stregua di vacche la
popolazione inerme
- per quale
soddisfazione poi? O a
Verona, dove quel maledetto principe-arcivescovo di Trento addobbava la
città
impiccando civili indiscriminatamente a destra e a manca! Questa terra
mi ha
accolta, keerie Spandounes, mi ha ridato la vita, la amo e non potevo
tollerare
di vederla così martoriata! Né volevo essere
un’indiretta complice della sua
fine!
“Sicché,
quando giungemmo l’anno addietro da Soave a Verona
assieme alla compagnia del Principe di Anhalt, ne approfittai per
mettermi in
contatto con mia madre. Sapevo che lei poteva aiutarmi a rimpatriare.
Così come
sapevo delle spie veneziane in città.
“Mi
misi in contatto con loro; mi chiesero fin dove mi sarei
spinta per rientrare in grazia della Signoria, quale prova potevo
offrirle
della mia lealtà. A mia volta domandai loro, se stessero
alludendo ad una testa
in particolare. Mi risposero: la Signoria
vuole quella dell’Anhalt. Sappiamo che è malato,
quanto può durare?”
Spandolin
deglutì, incominciando a comprendere il macabro disegno.
“Il
principe austriaco risiedeva al palazzo pretorio. Il viaggio
da Soave l’aveva assai debilitato. Neanche noi,
d’altronde, ce la passavamo
meglio. I Veneziani tenevano il campo ad Agios Martínos,
pronti a dar assedio;
l’Imperatore non pagava né mio marito
né i miei fratelli, checché ci rabbonisse
il principe-arcivescovo di Trento e gli altri comandanti. Il generale
malcontento giocava a mio favore.
“Al
che, proposi all’Anhalt di trasferirsi da palazzo pretorio
alla
casa di Dominikos Marioni, come indicatomi dalle spie. Gli spiegai come
lì si
sarebbe trovato meglio, in un edificio più sano e
accogliente, lontano dal
continuo andirivieni di gente. Avete
bisogno di riposo assoluto, lo blandii, non
ne troverete certo a palazzo. L’Austriaco mi
credette e come non poteva? Il
Marioni, in apparenza, era filo-imperiale ed io ero la moglie di uno
dei
comandanti favoriti dall’Imperatore stesso. Una volta
lì, divenni
volontariamente cieca e sorda su quanto stesse accadendo in quella
casa.
L’Anhalt v’entrò vivo, ne
uscì cinque giorni dopo morto. Inutilmente cercarono
di occultarne la morte; i provveditori veneziani già ne
erano a conoscenza.”
Cate
chiuse gli occhi, la mente volata a quella lontana
settimana, in cui giorno dopo giorno osservava l’effetto
della polvere di
diamante mischiata al cibo dell’Anhalt, la quale,
straziandogli le viscere, lo
torturava con una lenta e dolorosa agonia, contorcendosi esso nel
letto,
consumato sia dalla malattia contratta a Soave sia dal veneficio
somministratogli
ad arte. Che il principe fosse già ammalato era un segno di
Dio, s’era detta, e
la Sua mano colpisce forte quando l’uomo la guida. Loro
s’erano soltanto
limitati ad affrettargli il trapasso.
La donna
si sovvenne dei visi preoccupati del principe-arcivescovo
di Trento Georg von Neideck e di Monsignor Ru, delle lacrime del
valletto e
dello scudiero dell’austriaco e dell’espressione
cupissima di suo marito
Mercurio Bua, tanto che la donna all’epoca aveva temuto se
stesse sospettato
qualcosa.
Si
ricordò dell’immobile volto di cera di Rudolf von
Anhalt-Dessau
aus dem Haus der Askanier illuminato grottescamente da quattro ceri,
domandandosi a quale giudizio fosse andato incontro ora che si trovava
dinanzi
a San Pietro. Per via delle orride brutalità commesse contro
chi non poteva
difendersi, Cate aveva sperato nel budello più profondo
dell’inferno.
“Con
la scusa di spedire il feretro dell’Anhalt in Austria da suo
fratello ed erede, mio marito ne aveva approfittato per recarsi da
Maximilianos
e lì reclamare la paga arretrata. Così, senza la
sua ingerenza, andai dai miei
fratelli ed esposi loro la situazione. L’Imperatore e il Re
di Francia
combattevano una guerra perduta in partenza, cosa speravano
d’ottenere?
Promettevano tanto, ma cosa di concreto li avevano offerto? Fu un
rischio da
parte mia, lo confesso, però fuggire e lasciare indietro
Manouel e Konstantinos
… Ironia della sorte, quando andai da loro già
stavano progettando di disertare
assieme a mio cognato Theodoros, solo che temevano
nell’inflessibilità della Signoria
…”, ridacchiò amaramente la donna,
mordicchiandosi il mignolo. “I miei fratelli
mi proteggono sostenendo d’avermi rapita, però
… Non posso tornare da Maurikos.
Non così, una traditrice ai suoi occhi.”
Sporgendosi
verso di lei, Dimitri Spandolin tentò un nuovo
approccio: “Comprendo il vostro motivo e il vostro sacrificio
per aiutare la
Signoria. Siete stata coraggiosa e leale. Siatelo di nuovo, ora.
Permettete che
le venga restituito questo suo figlio. E magari, come a suo tempo avete
persuaso i vostri fratelli e vostro cognato, forse riuscirete a
convincere
anche vostro marito a ritornare a servire sotto il vessillo di Agios
Markos.”
Cate
levò gli occhi neri, asciugatisi all’improvviso
dalla
patina di lacrime e induritisi in due pietre d’onice.
“Impossibile”, sentenziò
brutale. “Vi giuro che il mio cuore piange la sorte di quel
ragazzo e pregherò
l’Agia Parthena Maria giorno e notte per la sua liberazione,
ma per nessun
motivo al mondo ritornerò da Maurikos.”
“E’
un capitano di ventura, servire il migliore offerente è
insito
nel suo mestiere, non potete più di tanto biasimarlo per le
sue scelte”, non
demorse il cavaliere Dimitri. Ben celato dallo scudo del patriottismo,
egli percepiva
un altro motivo dietro la granitica testardaggine della Boccali.
Qualcosa di
più oscuro. Di più personale. “I vostri
stessi fratelli …”
“Mio
marito”, l’interruppe bruscamente Cate, il
volto torvo di
collera “cambiando bandiera, mi ha allontanata dalla Patria
del Friuli, da mio
padre. Mi ha impedito di raggiungerlo al suo capezzale, mi ha negato la
sua
ultima benedizione per quanto l’avessi supplicato di
lasciarmi partire! Niente,
neppure dinanzi al mio strazio quel cuore di diavolo si
lasciò commuovere! E
questo, Agios Georgios mi è testimone, finché
vivrò non glielo perdonerò mai. A
meno che …”
“Che?”,
l’incalzò speranzoso Spandolin, lo stomaco in
subbuglio a
quella confessione.
“Rivuole
mio marito indietro sua moglie e sua figlia? Soltanto
quando avrà giurato fedeltà ad Agios Markos e
strisciando, in ginocchio, egli
avrà supplicato il mio perdono!”
Iddio
invero protegga l’uomo dalla ferocia di una donna furibonda
e chi ride dinanzi a tale massima si consideri solo uno stolto
fortunato.
***
Sier
Francesco Contarini figlio del provveditor d'armata sier
Hironimo detto “Il Grillo” corse a perdifiato in
direzione a Palazzo della
Ragione, là dove i due provveditore e cognati sier Christofal Moro e
sier Polo Capello
stavano discutendo assieme al vicegovernatore il conte Bernardino
Fortebracci
da Montone circa la recente ambasciata da parte di un emissario del
maresciallo
de la Palice, il quale annunciava la decisione dei Collegati
d’attaccare Padova
al posto di Treviso.
“Se
questa nuova fosse vera, sarebbe stato davvero imprudente da
parte nostra sbilanciarci così!”, lamentava il
Fortebracci. “Specie dopo aver
inviato a Treviso i nostri migliori bombardieri!”
“La
Palisse ne racconta talmente tante da non risultare più
credibile”, ragionava sier Christofal Moro, appoggiandosi sul bastone, dandogli noia la gamba ammalata. “Inoltre,
la strada è troppo lunga per
arrivare fin da noi senza incappare nelle nostre bande. Non
correrà il rischio
di ripetere la rotta di Marostica.”
“A
meno che La Palisse non abbia intenzione d’assediare Padova dopo Treviso; questo significherebbe che
la città non si trova sufficientemente fortificata
…”, presagì il peggio il
provveditore Capello.
Avvicinatosi
al suo conterraneo sier Ferigo Contarini, il quale
ascoltava in disparte e in religioso silenzio assieme a Giano di
Campofregoso,
sier Francesco gli porse la missiva appena giunta da una staffetta.
“Signori”,
attirò su di sé l’attenzione il
provveditore degli
stradioti, sventolando teatralmente le carte. “Un messaggio
da Treviso. Forse
questo dipanerà gli ultimi nostri dubbi.
[…] zonse ancuo
domino Constantin Paleologo, capo di stratioti, e disse, i nimici ser
levati et
venuti mia 5 lontan di Trevixo, e li soi cavali lizieri venuti mia 2
lontan di qui
per botinizar.
Dize che
franzosi et todeschi xéli 10-12
milia
fanti et homeni d’arme 1200, et cavali lizieri 5000 tra
stratioti, corvati e taliani;
artelaria grossa boche 16, canoni, falconeti e altre artelarie menude,
et xeli per
vegnir a questa impresa cum animo di far cosse assai, et Trevixo li
speta cum
lo ajuto de Dio, cum bon animo et cuor, perché lì
temeno di cossa alcuna.
Un terzo dei
niminici xélo fato di amalati et femene, et ogni
dì ne moreno assa’, anca di
fame. Item, per uno altro
venuto dil campo, avisa di l’artellarie venute, et sono boche
6 et 5 fra
falconeti et sacri, et che in campo di todeschi xéli zonto solum cavali 3000 di
l’imperador, et
no si aspeta più.
I nimici
alozerano a Villa Orba, perché ancuo gh’han spento
un squadron di cavali
lizieri,
et, per
quello si judicha, domenega si ianteranno le sue artelarie soto questa
terra.
Nostri stanno con bon cuor et animo, et spera, i nimici si partirano
cum
vergogna etc.
Sier Zuam
Vituri zonse. Etiam Antonio
di
Castello cum li soi provisionati et alcuni xéli rimasti a
Mestre. Etiam è
zonto Maphio Cagnolim, qual à
posto in castello. Item,
gionseno
li X contestabeli mandati, cum uno fameio per uno; zà messi
in exercitio. […]
“Allora,
che vi pare? Dobbiamo ancora credere a questa
provocazione del La Palisse?”, cedette la lettera sier Ferigo
ai due
provveditori, acciocché se la passassero, leggendola con calma.
“E’ palese che
stesse mentendo: l’impresa rimane a Treviso, dove mi sembrano
più che pronti a
dar il benservito ai Collegati. La Palisse voleva confonderci e nel
panico
dividerci. Invece, adesso noi gli dimostreremo il contrario!”
“Che
cosa proponete, signor Contarini?”, inquisì
intrigato il
vicegovernatore.
Il
giovane provveditore ghignò sinistramente. “Con vostra buona licenza, avrei bisogno almeno di cinquecento tra balestrieri e
cavalleggeri, tutti insonni e ben motivati!”
“A
qual fine?”
“Cospetto!
Per rispondere all’ambasciata del La Palisse”,
spiegò
dolcemente sier Ferigo. Quand’ecco che i suoi occhi
s’illuminarono di gioia
assassina. “A Castelfranco.”
Continua
…
***************************************************************************************************
Ovviamente,
circa la morte dell’Anhalt rimangono supposizioni, non
essendoci prove concrete che sia stato effettivamente assassinato.
Ciononostante, le dinamiche della sua improvvisa morte rimangono
tuttora assai misteriose
e troppo ghiotte per non ricamarci sopra.
Questo
capitolo è un po’ il punto di svolta della storia,
nel
senso che finalmente il la Palisse ha deciso di muovere le chiappe e di
procedere con questo benedetto assedio! Povero Mercurio, impiegato
sottopagato
e pure incompreso!
Quanto
alla natura banderuola del conte di Gambara è assolutamente
vera, sebbene il suo coinvolgimento nel piano circa liberare il Nostro
rimane una
nostra invenzione.
Orlando
da Bergamo aveva sul serio una mira pazzesca, colpendo
chiunque sia di notte che di giorno, Sanudo conferma.
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] La Nona era la
campana del Campanile di San Marco che indicava mezzogiorno.
[2]
Purtroppo non siamo riusciti a reperire tutti i nomi delle figlie di
Zaccaria Contarini. Tuttavia, considerando il nome delle sue nipoti
(figlie di
Paolo/Polo), delle altre donne di famiglia (i.e. suocera) e tenendo presente come certi nomi ritornassero frequenti
in
famiglia, abbiamo supposto le Contarini mancanti potersi appellare "Maria" e "Camilla".
[3] orar Sen Biasio / peteni
de Sen Biasio = San Biagio di
Sebaste fu un vescovo e santo armeno vissuto e martirizzato nel IV
secolo. Suo
simbolo iconografico sono i pettini di ferro con cui si
dilaniò il suo corpo.
San Biagio è invocato come protettore contro il mal di gola
e i raffreddori, in
quanto il più famoso dei suoi miracoli attribuitigli fu il
salvataggio di un
bambino che stava soffocando dopo aver ingerito una lisca di pesce. Il
3
febbraio in alcune chiese ancora si celebra la benedizione delle gole,
di
solito appoggiando due ceri uniti a croce di Sant’Andrea sul
collo del fedele
(o circondando il collo coi ceri, a seconda delle varianti).
[4] nipote Nikolaos =
ossia Nicolò Da Ponte, figlio di Antonio Da Ponte e di
Regina Spandolin,
diverrà nel 1578 Doge di Venezia. Siccome poco si sa di lui
dal 1511 fin quasi
al 1532, è probabile che si diede alla mercatura anche per
risollevare la
situazione economica della famiglia, forse seguendo il nonno materno
negli
affari. Nel 1520 si sposerà con Arcangela da Canal figlia di
Alvise da Canal di
Luca, che in questo racconto si trova assieme a Marco Emiliani alla
custodia di
Treviso.
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Capitolo 17 *** Capitolo Quindicesimo: 13-14 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.11.21
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PARTE SECONDA:
Nervesa e Torre
di Maserada
(13 -27
settembre 1511)
Capitolo
Quindicesimo
13-14
settembre 1511
Hironimo
non sarà stato un fisico o uno speziale, tuttavia aveva
affrontato, specie al cambio di stagioni, sufficienti raffreddamenti da
sapere
che se il mal di gola persisteva oltre un giorno, esso diveniva foriero
di mali
ben peggiori. Solitamente, ai primi sintomi sua madre gli faceva
preparare
dagli spezieri di grosso a San Bartolomeo una miscela di erisimo,
achillea,
partenio, artemisia e valeriana da pigliare sotto forma di tisana tre
volte al
dì prima dei pasti. Se proprio s’ostinava, allora
ricorreva all’enula, al ribes
nesro, al mirtillo rosso e all’ontano nero e se proprio il
malanno non voleva
mollar la presa, ci s’affidava all’infallibile
Triaca che l’avrebbe per certo
guarito.
Nelle sue
attuali circostanze, il giovane patrizio si sarebbe
accontentato anche di un semplice cucchiaio di miele, pur di non
risvegliarsi
l’indomani col fuoco dell’inferno in gola e la voce
pressoché inesistente.
Thomà non se la passava di certo meglio, tossendo a bocca
larga e sputando un
misto di saliva e catarro per terra, per poi soffiarsi con le dita il
naso
rosso che ripuliva o con la manica della camicia o sulla paglia. Il
fantolino
si strofinava gli occhi vitrei e arrossati, come se avesse pianto tutta
la
notte.
Miani
s’era astenuto dal rimproverarlo, rassegnato infatti al
medesimo fato. Invece, gli aveva passato il dorso della mano sulla
fronte,
sospirando di sollievo nel sentirla ancora relativamente fresca.
Altra
magra fortuna consistette nella poca attenzione che Mercurio
Bua poneva su di loro, impegnato infatti a sovraintendere lo
smantellamento del
campo a Montebelluna per muoverlo a Nervesa e il coro di rauche tossi e
scatarri si era rivelato talmente diffuso, da confondersi quello dei
due prigionieri
tra quelli degli altri soldati.
Più
che un esercito in marcia pareva il corteo d’un Trionfo della
Morte, composto da ammalati che trascinavano i piedi e la punta delle
loro
lance; di cavalleggeri ciondolanti dal sonno e dalla fame; di
prostitute talmente
ossute da non indurre in tentazione neppure il più infoiato
dei libertini.
Avanzare
nel terreno fangoso toglieva energie, così come tirare i
buoi e i muli dei carri, i cavalli e le artiglierie, le quali
s’impantanavano
ad ogni pisciata di cane, come commentava frustrato Mercurio beccandosi
di
rimando una velenosa replica dal capitano Jacob Empser, il quale lo
sbeffeggiava ricordandogli l’enorme abisso vigente tra
fanteria e cavalleria.
“Magari
una volta arrivati a Nervesa, ve lo rispiegherò”,
ghignò
il tedesco.
“Non
ho bisogno”, scrollò le spalle Mercurio,
massaggiandosi
noncurante la coscia laddove era stato vilmente ferito, ma la
contrazione dei
muscoli facciali tradiva quanto in realtà quel rimprovero
l’avesse infastidito,
specie se davanti ai propri uomini.
“Suvvia,
non c’è vergogna nell’ammettere la
superiore e antica
tradizione bellica tedesca!”
Al che
l’albanese gli rise in faccia di gusto, sganasciandosi al
punto che perfino Hironimo, fino a quel momento incurante delle beghe
tra i due
condottieri, levò gli occhi in loro direzione,
subitaneamente interessato.
“Pah! Quando voi Tedeschi ancora dondolavate nudi sugli
alberi, noi Greci
conquistavamo Babilonia!”
Il
capitano Jacob digrignò i denti, adesso lui
l’offeso. “Piano
con gli insulti, cane turco!”
Il viso
dell’albanese mutò in una maschera diavolesca,
esacerbata
dalla sommessa risatina di scherno del suo prigioniero.
“Ripetilo e pregherai
che siano i Veneziani ad ammazzarti per primi!”
“Mi
minacci, Mistkerl?”
“Ti
avverto, malakas!”
“Capitaine
Jacob, al posto d’attaccar briga col capitain Bua, vi
consiglio di badare con maggior attenzione alle retrovie. Ci stiamo
avvicinando
al Montello e da ogni buca potrebbero sbucar fuori nemici!”,
gli consigliò
Jacques de Chabannes de la Palice con falsa flemma, intromettendosi tra
i
contendenti che borbottando obbedirono.
Non fosse
il maresciallo intervenuto, i due sarebbero giunti alle
mani e Mercurio si appuntò di farla pagare alla prima
occasione a quel tedesco
borioso.
Non era
il solo a condividere tal sentimento: tra i francesi e gli
imperiali serpeggiava un odio cadaun’ora sempre
più palpabile, lanciando i
gallici sospettose occhiate alle proprie spalle e le loro dita
accarezzavano
nervose le rispettive spade, balestre, lance e pugnali,
giacché temevano più
l’infida lama dei tedeschi che quella ufficialmente ostile
dei marciani. Oltre
alla più gretta questione del cibo, a dividerli rimanevano
le idee tuttora
discordi sul da farsi: i francesi non volevano sputtanarsi la
reputazione
venendo meno all’impegno preso di conquistare Treviso; i
tedeschi ancora
rimanevano testardi dell’idea di andare a saccheggiare la
Patria del Friuli,
oramai ad un tiro di schioppo, incominciando dalle più
vicine Conegliano,
Sacile, Motta di Livenza e Oderzo.
“I
briganti sono più disciplinati di questa masnada di bifolchi
cenciosi: in quale merdaio alemanno li ha scovati
l’Imperatore?”, si lagnava
adirato Mercurio, scoccando di tanto in tanto qualche occhiataccia al
capitano
Jacob Empser, trastullandosi in dolci progetti di vendetta, in cui
vedeva il
tedesco squartato vivo da quattro cavalli. “E tu muoviti,
pelandrone!”,
strattonò la corda che legava le catene di Hironimo,
sbilanciandolo bruscamente
in avanti e solo però un soffio il veneziano
mancò di cadere bocconi per terra.
Conoscendo
assai bene quello sguardo, Lecha Busicchio
s’adoperò a
calmarlo subito: “Lascialo perdere, ci penserà
l’assedio a spedir sottoterra
quell’otre di sterco. Fra poco entreremo nei feudi dei Conti
di Collalto,
alleati dell’Imperatore. Lì avremo di che
sfamarci. Se non erro, a Nervesa
dovremmo trovare anche dei monasteri o roba simile.”
“Sì,
l’Abbazia di Sant’Eustachio e la Certosa di San
Girolamo, me
li ricordo. Benedettini e certosini, molto ben forniti. E sotto la
protezione
dei Collalto.”
“Dunque?”
“Dunque,
giusto per rimanere in tema, ci converrà pregare
affinché
almeno per stavolta i tedeschi si tengano le zampe ben attaccate al
culo e non
si abbandonino a saccheggi. Altrimenti nulla ci salva da una figura di
merda
coi Conti e ora come ora, fin troppa gente qui cambia
bandiera.”
Lecha
strinse le labbra in una linea dura, convenendo suo
malgrado, memore della diserzione del fratello di Mercurio e dei suoi
cognati.
“Allora
oggi le vuoi proprio prendere?”, abbaiò il
capitano
albanese a Hironimo, vibrandogli in faccia minacciosamente la scutica.
In
realtà a rallentare il patrizio era Thomà, che
tra i colpi di
tosse e la stanchezza a causa di quella marcia piuttosto sostenuta per
le sue
gambette arrancava e incespicava, finendo trascinato da Hironimo
finché questi
rapido lo rimetteva in piedi prima che il Bua se ne accorgesse.
“Mi
hai scambiato per un levriere?”, gracchiò il
giovane Miani,
levando a fatica il collo, forzatamente piegato dalla pendente palla di
cannone.
“No,
per un somaro!”, ridacchiò Mercurio.
“Attento,
non vorrei che tu finissi col prenderti in faccia un bel
calcio!”, gli sibilò di rimando Hironimo, balzando
di nuovo in avanti per il
piccato trattone che gli diede l’albanese, che per ripicca e
anche per
distrarsi dal suo cattivo umore, aveva ben pensato di passare ad un
leggero
trotto, lasciando ambedue i prigionieri senza fiato dallo sforzo di
stargli
dietro.
Il che
non giovò ai polmoni già provati del piccolo
Thomà.
“Patron”,
ansimò piagnucolando, le gote costantemente gonfie dai
colpi di tosse e il muco che gli colava in bocca, “no ghe
stò pì in piè!”
“Mo’
via, stà bon!”, lo rimbeccò dolcemente
Hironimo. “Tacate a la
mia caéna”, lo istruì,
acciocché il bambino si aggrappasse alla catena che gli
cingeva i fianchi, nella speranza di giungere quanto prima
all’Abbazia di
Sant’Eustachio a Nervesa.
Lì
(pia speranza) i monaci avrebbero di sicuro provveduto a
curarlo con qualcuno dei loro decotti. Hironimo oramai aveva compreso
che al
Bua serviva vivo, perciò come curavano lui, egli avrebbe
insistito affinché
anche il fantolino ricevesse le medesime attenzioni, secondo la
promessa
fattasi di mantenerlo vivo fino al riscatto o allo scambio.
“Tegni
duro”, mormorò a Thomà, “semo
quasi arrivai.”
Voltandosi,
però, Hironimo non s’era accorto della punta
d’un
pingue sasso far capolino nel fango della strada e puntualmente vi
sbatté il
piede contro, perdendo l’equilibrio e dalla sorpresa le sue
mani abbandonarono
la catena che reggeva la palla di cannone, cosicché il peso
di quest’ultima lo
scaraventò doppiamente più veloce a terra.
A
malapena Hironimo riuscì a coprirsi parte del viso, battendo
dolorosamente il mento e mordendosi di conseguenza la lingua, per poi
sentirsi
il peso di Thomà cadergli sulla schiena nonché la
ruvidezza del sentiero in
alternanza sui fianchi e le ginocchia, non avendo Mercurio ancora
registrato la
sua caduta e pertanto proseguendo imperterrito nella sua cavalcata.
Dulcis in
fundo, la palla di cannone creava attrito, impantanatasi infatti nel
fango,
serrandogli di conseguenza il collare al punto che per qualche istante
il
patrizio si sentì soffocare.
“Che
diavolo stai facendo? Ti pare il momento di fare i capricci?
Sei già stanco, donzelletta?”,
l’apostrofò infastidito Mercurio, tirando la
corda neanche stesse pescando un luccio dal fiume. Hironimo
tentò di rimettersi
in piedi, però la caviglia cedette, frustato da un dolore
acutissimo che gli
provocò striduli fischi fino alle orecchie. Ricadde in
ginocchio, finendo
trascinato ancora per qualche brevissimo tratto. “In piedi!
In piedi, pezzente!
Ratto di laguna! In piedi, perdio, o ti scortico vivo!”
Invece di
aiutare o anche solo biasimare il capitano di ventura
per quell’inutile accanimento, gli stradioti lì
accanto sorridevano compiaciuti
e divertiti da quel piccolo divertissement capitato proprio a pallino
per
interrompere la noia della marcia. Solo Lecha non disse niente,
scuotendo il
capo.
“Zò!
Zò! Fermeve! Fermeve!”, si sforzò
Thomà a gridare, la sua
vocina troppo flebile e roca per giungere alle sorde orecchie del Bua.
“Fermeve! Eo copate!”, strillò isterico.
Notando il modo insensibile in cui il
condottiero seguitava a strattonare Hironimo senza concedergli adeguato
tempo
per rimettersi in piedi, il bambino afferrò un sassetto e lo
lanciò con
chirurgica precisione contro l’albanese, come faceva a casa
sua a Feltre contro
i cani randagi.
Mercurio
ebbe appena il tempo di captare il sibilo, che un dolore
atroce da Golgota crocifisso gli annebbiò la vista.
Maledetta fu la volta che
s’era alzato la visiera dell’elmo! Esaminando a
tentoni l’eco della sassata
subita, gli occhi del Bua s’allargarono alla vista del sangue
lordargli il guanto, assaggiandolo inoltre sulle
labbra e mentre si
nettava con la lingua capì di come esso provenisse dal naso.
Una
rabbia furibonda, figlia dell’umiliazione d’aver
giocato al
Santo Stefano per mano di un moccioso, portò il capitano
degli stradioti a
portare veloce la mano sull’elsa della spada sordo alle
parole che Hironimo gli
gridava mentre col suo corpo copriva quel mostriciattolo, pronto il Bua
come
gli altri stradioti a decollare quel disgraziato e rispedirlo dai
villani suoi
antenati, al diavolo l’età e il motivo dietro
quella lapidazione improvvisata.
“Avete
finito di dar spettacolo?”, s’intromise la voce
nasale del
conte Gianfrancesco di Gambara, abbandonata la sua postazione per
controllare
quanto accadeva, insospettito dal rallentamento della colonna della
compagnia
del Bua. E guardando pieno di disprezzo lui e i suoi stradioti,
commentò aspro:
“Bel modo di trattare i prigionieri d’alto
rango!”
“Alto
rango? Non vedete che si tratta d’un fottuto villano? Una
bocca in meno da sfamare!”, protestò veemente il
condottiero, indicando con la
scutica un Thomà mezzo coperto dal Miani, già
pronto a difendersi con una
pietra più grossa, reso temerario dalla consapevolezza di
star comunque per
morire.
Mettendosi
in ginocchio, Hironimo ringhiò dietro a Mercurio:
“Questo che tu chiami fottuto villano,
furbo, è mio figlio!”
“Tu
non hai alcun figlio, bugiardo!”
“Tu
non me l’hai mai chiesto, idiota!”, e neanche la
presenza del
Gambara risparmiò il giovane Miani da una scudisciata per la
sua insolenza,
regalandogli una striscia rossa sul braccio sotto il lembo di camicia
strappato.
“Rimettiti
in piedi: ripartiamo”, sbuffò snervato il Bua,
specie
davanti all’insistenza del nobile bresciano a non schiodarsi
dal suo posto,
ritornando alla sua colonna, neanche temesse che l’albanese a
furia di sevizie
finisse per ammazzare il prigioniero. “In piedi,
disgraziato!”
“Non
posso.”
“Non
ho tempo per le tue stronzate …!”
“Non
posso!”, insistette frustrato Hironimo, tossendo poi fino a
sconquassarsi il petto per aver alzato la voce malgrado
l’infiammazione.
“Cadendo temo di essermi storto la caviglia, ti pare che
riesca a camminare?!
Con queste poi?”, scosse platealmente le catene e gli
schiaffò sotto il naso
l’arto offeso, il quale in effetti si presentava sempre
più rosso e gonfio,
pulsando leggermente.
Mercurio
si morse l’interno della guancia, tentennante.
L’arrabbiatura gradualmente spentasi, egli appurò
l’effettiva incapacità del
prigioniero di proseguire la marcia, almeno a piedi. Questo
però comportava
ammettere che il veneziano aveva ragione, l’ultima cortesia
sulla faccia della
terra che gli avrebbe concesso, men che meno col conte Gianfrancesco di
Gambara
come testimone.
Inoltre
il naso non s’era rotto, pertanto poteva anche
magnanimamente risparmiare la vita al nanerottolo, adesso scopertosi
figlio di
quel tanghero linguacciuto. Certo! E quando l’avrebbe
generato quello? In
culla? L’aveva preso per uno stolto sprovveduto? Mercurio
più volte aveva
origliato il moccioso chiamare “patron” il
patrizio, quando mai un figlio si
rivolge così ad un padre? Anche se, ripensandoci, a Venezia
s’interloquiva così
anche tra parenti, specie nei saluti ... Magari
quella era usanza
coi figli illegittimi, chissà, troppi anni erano trascorsi
dall’ultima volta in
cui il Bua aveva vissuto nella città lagunare, i tempi e le
mode cambiavano
ultimamente troppo in fretta … Fermo restando che non fosse
tutta una bufala
per salvare quella bestia antropomorfa, della cui sorte il condottiero
non si
capacitava come mai al veneziano stesse così a cuore. Era
solo un bambino, una
pulce, un essere inutile in guerra, destinato a perire se non di spada
di
stenti o malattia. A che pro mettere a repentaglio la propria vita e
reputazione per tale nullità?
Poco male
- concluse Mercurio - anche se quella notizia non fosse
corrisposta al vero, se il Miani affermava trattarsi di suo figlio, chi
era lui
per contraddirlo se l’affare poteva risolversi a suo
vantaggio? Un padre e un
figlio per una madre e una figlia, uno scambio più che equo
cui nemmeno
quell’intrigante della Signoria poteva obiettare ... Tanto,
che ne avrebbe
potuto sapere lei della verità?
Un poco
raccomandabile sorriso arcuò la bocca ancora macchiata di
sangue del Bua, intanto che questi scendeva faticosamente da cavallo,
poggiando
il peso sulla gamba sana.
Hironimo
strinse gli occhi, sospettoso di quel repentino cambio
d’umore. Anche il di Gambara condivideva medesima
impressione, studiando
accorto ogni movimento del condottiero.
“Giusto”,
soffiò malevolo Mercurio, issando di malagrazia il
giovane Miani e conducendolo zoppicante al primo carro disponibile,
ironicamente quello delle prostitute di campo, e lo pose lì
seduto. “Le donne
sempre viaggiano in carretta!”, esclamò a voce ben
alta acciocché lo
ascoltassero tutti e una risata da parte degli stradioti non
mancò d’elevarsi
nell’umida aria settembrina. “Là! Stai
comodo? Finalmente un ambiente a te
famigliare, una puttana figlia di puttana tra le puttane!”
Alla
stregua di una molla un livido Hironimo scattò in avanti,
raschiandosi ben bene la gola e un grumo grasso e giallo
planò in mezzo al
corsaletto di Mercurio, per poi finire il giovane tra le braccia di una
meretrice a causa di un portentoso cazzotto da parte di Lecha,
prontamente
spintonato via lo stradiota dal conte bresciano.
“Avete
intenzione d’andare avanti così per tutto il
dannatissimo
di giorno?”, ruggì snervato il di Gambara, il suo
sermo subitaneamente
dimentico di ogni lirica raffinatezza aristocratica. “Neanche
ce la stessimo
spassando in una scampagnata estiva!”
Mercurio
montò in sella al suo cavallo senza neanche degnare il
nobile di una parola, pulendo via lo sputo con una decisa strofinata.
Busicchio
prontamente lo imitò, sospirando e domandosi che accidente
avesse preso al suo
collega quel giorno. Raramente l’aveva visto di
così pessimo umore e non poteva
trattarsi solamente a causa degli screzi cogli altri comandanti.
Qualcosa di
ben peggiore gli stava ribollendo in petto e lo stradiota nutriva
qualche
sospetto a riguardo.
“Oh,
poveretto, vuoi una mano?”, deridevano intanto le prostitute
Hironimo, il quale ancora stordito dal pugno si copriva con la mano
l’occhio e
la parte di zigomo martoriati, già l’epidermide
che andava scurendosi in un
bell’ematoma blu e giallo. “Eh? La
vuoi?”, lo schiaffeggiavano e spintonavano
finché Thomà, soffiando a guisa di gatto
selvatico, non prese a sua volta ad
elargire zampate, premurandosi d’usare le unghie.
“Pussa
via, ontissime bagasce!”, berciava e tossiva,
sicché le
meretrici, temendo il contagio, indietreggiarono e si dispersero peggio
degli
scarafaggi. “Mi ve cavo i ocij, mi!”
“Oh,
che carino!”, cinguettò melensa la più
coraggiosa del carro.
“Che vorresti farci, pulcino?”, disse, pigliando il
bambino per le guance e
scotendogli il muso.
Questo, le rispose a fatti Thomà, mordendole
la mano
tra pollice e indice fino a trar sangue e la prostituta urlò
peggio d’un porco
sgozzato, colpendo il fantolino e tirandogli i capelli
acciocché mollasse la
presa, ma i denti di quest’ultimo eguagliavano in tenacia
quelli di un mastino
napoletano.
Ripresosi
dall’intontimento, Hironimo intimò al decenne di
lasciarla andare e a malincuore egli obbedì, non senza
essersi tolto lo sfizio
di tormentare con una poco velata minaccia le altre puttane, esibendo
loro i
denti lordi di sangue. Acquattandosi ben in fondo al carro, le donne
non
osarono più avvicinarsi, paventando una possessione
demoniaca del putto.
“E
così avete un figlio, non l’avrei mai
immaginato!”, insinuò
malizioso il conte Gianfrancesco di Gambara, il quale cavalcava accanto
al
carro. “Non mi date l’impressione di un padre …”
“Voi
non mi date l’impressione di un amico,
cui
confido i fatti miei”, ribatté acido il patrizio,
soffiando non appena i suoi
polpastrelli sfioravano l’ematoma, i recettori di dolore
estremamente attivi e
impazziti. Cautamente mosse la palpebra dell’occhio, per
fortuna non così
gonfia da impedirgli di aprirlo.
“Nondimeno,
non credete sia stato un poco irresponsabile da parte
vostra portare un fanciullo così tenero al fronte?”
“Ciò
dimostra che i nostri bambini posseggono più coglioni dei
Francesi e Tedeschi messi assieme!”
“Uhm
… Più che da figlio, questo pargolo si comporta
alla stregua
d’un can da guardia!”, non desistette il nobile
bresciano in quella (al Miani)
molesta conversazione, scoccando una veloce occhiata a Thomà
che appunto lo
guardava in cagnesco. “Mai visti denti
così!”, commentò gioviale.
“Quei
denti”, ribatté invece cupamente il patrizio,
“gli hanno
salvato la vita” e tacque non arrischiandosi di compromettere
la sua bugia
raccontando di quel triste episodio, laddove durante il sacco di Feltre
un
lanzichenecco, una volta terminato di massacrare la famiglia di
Thomà assieme
ai suoi degni compagni, si trovava lì per lì a
completare l’opera scannando
anche il piccino se quest’ultimo non l’avesse
anticipato, azzannandogli la gola
fino a strappargli via la carne e costì degolarlo, fuggendo
via nel marasma
generale della città saccheggiata e nascondendosi tra i
boschi, giudicando più
misericordiosi i lupi degli uomini.
Un’espressione
molto vicina al rimorso scurì il volto giallognolo
del conte, quasi potesse intuire l’implicazione di quel
mordere animalesco, ma
si trattò un attimo. S’avvicinò invece
al carro, inclinandosi verso di lui come
se volesse render partecipe il veneziano di una qualche confidenza.
“Prima che
ritorni alla mia compagnia, avete bisogno di qualcosa?”,
s’informò neutro, non
tradendo alcun’emozione.
“Da
un traditore non voglio niente” e quel malcelato veleno
provocò un breve rictus nella mascella del conte.
“Non
siate così rancoroso”, blandì questi
flemmatico il giovane
patrizio. “È la guerra, ognuno fa i propri
interessi.”
“Anche
domino Soncino Benzone faceva i suoi interessi e guardate
com’è finito”, gli ricordò
Hironimo con crudele divertimento, sogghignando al
subitaneo irrigidimento della schiena del Gambara, il cui colore
già malaticcio
divenne cinereo, peggio d’un morto.
Come
poteva d’altronde egli obliare la punizione esemplare
riservata al traditore cremasco?
“La
Signoria è la causa dei suoi stessi mali, si è
creata da sé i
suoi nemici”, sentenziò dopo un lungo silenzio il
conte, tuttavia evitando
d’incrociare lo sguardo di Miani. “Soncino Benzone
ne è la prova, vittima sia
dell’invidia del vostro conterraneo Zuam Paulo Gradenigo, suo
rivale fin
dall’epoca della guerra di Pisa, sia della poca riconoscenza
da parte della
Signoria nonostante i suoi successi militari. Fu lui a catturare il
cardinale
Ascanio Sforza e come venne ripagato? Col confino a Padova e questo
grazie alla
testimonianza di Gradenigo, presentando questi frasi vecchie e in altri
contesti. Non l’avessero codeste circostanze umiliato, sono
sicuro che domino
Benzone non avrebbe serbato tal rancore da passare dalla parte del Re
di
Francia, aprendogli le porte di Crema due anni addietro.”
“Il
mio parente [1] Gradenigo l’ha solo inquadrato, capendo
immediatamente con chi avesse a che fare ossia uno scaltro
approfittatore
pronto a cambiar bandiera al primo vento contrario”, si
scaldò il giovane
veneziano, affatto contento di quel vilipendio e in aggiunta desideroso
di
sfogare con qualcuno la stizza dell’umiliazione appena subita
per mano del Bua.
“Domino
Soncino voleva solo risparmiare la sua amata Crema dal
saccheggio e dalla distruzione!”
“Su
suggerimento del suo grande amico, Gian Giacomo Trivulzio, che
gli aveva anticipato i piani suoi e del Re, a patto ovviamente che
oltre alla
città questo novello Giuda consegnasse ai Francesi anche il
podestà sier Nicolò
Pexaro!”, obiettò Hironimo, cingendo
Thomà con un braccio e tenendolo fermo,
acciocché appoggiasse la testa ciondolante dagli scossoni
del carro. “Li
abbiamo ben letti i rapporti di domino Latanzio da Bergamo.”
Su quel
punto di Gambara non poté controargomentare. “Anni
di
confino avvelenerebbero il sangue a chiunque. Per cause ingiuste, per
di più!”,
insistette tuttavia l’uomo. “Negate forse che i
continui rapporti negativi
inviati dal Gradenigo non abbiano influito sull’opinione
della Signoria,
rendendola irriconoscente verso il Benzone e costì
disconoscendone i meriti?
Gli aveva tagliato il mantello dinanzi alle autorità
veneziane. Era ovvio che
gli avesse ordito contro una congiura!”
“Congiura!”,
rise sardonico il giovane patrizio. “Il mio parente
sarebbe incapace di tali bassezze, non possiede una sola fibra
disonesta nel
suo corpo!”
“Nondimeno
per ripicca ha contribuito alla condanna di un
innocente!”
“Un
innocente che ha tentato di corrompere un Capo dei Dieci con
centoventi ducati!” Il conte Gianfrancesco si
voltò di scatto, sbalordito. Al
che Miani schioccò la lingua trionfante. “Ah,
questo non lo sapevate.”
“Un
uomo disperato si dimostra disposto a tutto”,
bofonchiò il
nobile bresciano, stringendo convulsamente le redini del cavallo.
Hironimo
emise uno sbuffo assai scettico. “Dite, signor Conte, non
avrete forse timore di dover un giorno far compagnia a domino Soncino
nell’Antenòra?”, [2] lo
stuzzicò perfido. “O di finire cadavere appeso ad
un
palo in balia degli animali e delle intemperie?”
Gianfrancesco
di Gambara aspirò profondamente dal naso, avvertendo
una certa strettezza al collo mentre fredde gocce di sudore gli
scendevano
lungo la nuca accaldata. Una sensazione di vuoto allo stomaco
seguì poco dopo,
rendendolo ipersensibile ad ogni stimolo esterno, quasi
l’avessero
improvvisamente denudato e costretto all’aria fredda. Tutto
questo il conte
s’ingannava rassicurandosi che si trattava dei sintomi della
malattia contratta
a Montebelluna; in realtà, eccome se ci pensava a domino
Soncino, così come
all’eventualità d’emularne la triste
sorte in caso l’avessero catturato a
Treviso la cui difesa, oh somma ironia, era stata affidata proprio a
Zuam Paulo
Gradenigo, la sua fama di uomo poco tenero coi traditori ben nota a
tutti.
Il conte
bresciano aveva combattuto al fianco di Soncino Benzone,
lo conosceva abbastanza bene e pur simpatizzante per le sue amare
vicende e
ammirandolo per lo spirito ardito e abilità diplomatica e
militare, anch’egli a
malapena aveva tollerato il carattere altero e iracondo del cremasco,
nonché la
violentissima crudeltà con cui trattava la popolazione
assoggettata tra
Vicenza, Verona e Padova, quasi il Benzone avesse voluto
sfogare su
quegli inermi poveracci il suo inestinguibile odio nei confronti della
Signoria.
Onestamente,
sarebbe stato meglio per lui esser rimasto nel
bresciano e nel bergamasco.
Louis XII
aveva infatti commesso un imperdonabile errore nel
trasferire il Benzone così vicino al raggio
d’azione della Serenissima. Il 19
luglio 1510 tra Este e Montagnana venti stradioti riuscirono
inaspettatamente a
catturare il condottiero cremasco con cinque suoi uomini, mentre da
Verona
trasportavano carri di panni e seta a Vicenza. Condotto a Padova, con
non poche
difficoltà venne il prigioniero portato a Palazzo della
Ragione per
l’interrogatorio, le strade bloccate dalla folla inferocita e
intenzionata ad
impiccarlo al primo palo disponibile. Sicché il passaggio
dal giudizio
all’esecuzione era stato immediato ed esemplare: la notizia
della sua cattura
ancora non era giunta a Venezia, che già Soncino Benzone
penzolava dalla forca
su ordine del provveditore, il suo cadavere appeso poi con un sasso ad
un palo
fuori città sull’argine del Brenta, esposto alle
intemperie e agli uccelli.
A
giudicare dalla sua tardiva reazione nell’invio di emissari,
sicuramente Louis XII non s’era aspettato tanta solerzia nel
giustiziare il suo
capitano. Condannando a morte il cremasco senza indugio, il
provveditore sier
Andrea Griti aveva ottenuto il doppio scopo di eliminare un traditore
della
Repubblica e di vanificare un prevedibile intervento francese in suo
favore,
privando il loro re di un validissimo e determinato alleato.
D’altronde
Soncino Benzone nella sua arroganza s’era inimicato la
persona sbagliata. Mai avrebbe creduto che Gradenigo, oltre che a
notificare i
Dieci, avesse largamente condiviso i suoi dubbi e le sue accuse contro
di lui
con amici e familiari. Mai avrebbe il cremasco immaginato, fra tutti i
provveditori, di finir prigioniero del cognato dell’odiato
rivale – sier Andrea
Griti. Mai avrebbe immaginato, dopo la dolce illusione d’aver
vendicato il suo
onore, che l’ultima risata se la sarebbe fatta proprio il
veneziano,
maledicendo chissà il momento in cui le loro strade
s’erano incrociate.
“E’
stato vittima di sfortunate circostanze”, concluse
malinconico
Gianfrancesco di Gambara, percependo una certa pesantezza sulle spalle
che lo
fece sentire d’un tratto ancor più vecchio e
spossato per quel mondo governato
dalla follia, ironicamente da lui invitata a martoriare quelle terre
feconde e
tranquille. Soncino Benzone aveva agito spinto dall’orgoglio
e dalla sete di
vendetta. Lui per la difesa dei privilegi ancestrali e contro
l’imposizione del
governo veneziano. Aveva fatto bene, però? , si domandava
talvolta angosciato.
Quale eredità avrebbe lasciato ai posteri, quale immagine di
lui? Di un
liberatore o di un traditore?
Quella
guerra iniziata con la certezza assoluta della sconfitta
veneziana, quella guerra ch’era stata descritta
dall’Imperatore come la giusta
vendetta per l’arroganza di San Marco, quella guerra che il
Re di Francia
giudicava rapida alla stregua d’un fulmine, ecco quella
guerra per il Gambara
era da tempo divenuta soltanto un’avida voragine buia che
tutto inghiottiva,
uomini, donne, amici, nemici, onore, cavalleria, verità,
menzogna, il giusto e
il sbagliato per rigurgitar fuori null’altro che miseria e
morte per ambedue i
contendenti.
“E
voi, signor Conte”, gli chiese lentamente Hironimo,
scuotendolo
dalle sue cupe elucubrazioni. “Siete anche voi vittima di
sfortunate
circostanze?”
“Voi,
invece?”, gli ritorse il nobile contro la domanda.
Al che
Miani s’ingobbì su se stesso in difesa, sebbene la
sua voce
rimase ferma: “Io non sono una vittima. Io ho fatto le mie
scelte, giuste o
sbagliate che siano, le ho fatte. Non temo le conseguenze.”
Il conte
l’ascoltò in meditabonda contemplazione ora del
suo
interlocutore ora dei contorni dei monti all’orizzonte, i
quali si stagliavano
scuri nel cielo plumbeo quando però le nubi basse non li
celavano, creando
l’illusione di un immenso
incendio.
Similmente
una vampata calda e improvvisa riempì i polmoni del
Gambara, dilatandosi essi fino a correre l’aria rapida lungo
la trachea,
fermandosi in gola e premendogli dietro i denti finché
l’uomo, coprendosi la
bocca, si sfogò in una portentosa tosse talmente profonda,
che ricordava
vagamente il raglio di un asino. Egli tossì,
tossì, tossì in continuazione ed a
brevissimi intervalli a malapena necessari onde ripigliare fiato,
neanche
avesse per azzardo ingoiato della salsa al pepe, il viso paonazzo dallo
sforzo
e la vista annebbiata da pingui lacrime.
Vedendo
il nobile piegato su se stesso e a momenti sputar fuori
l’anima, per un fuggevole istante Hironimo provò
un pelino di pietà nei suoi
confronti.
Giusto un
pelino.
Gianfrancesco
di Gambara si costrinse a raddrizzare la schiena,
schiarendosi la gola e dominando la smorfia di dolore provocatagli
dalle
ghiandole parotidi. S’asciugò in fretta le lacrime
dal viso chiazzato da
macchie rossastre, un po’ per l’affaticamento e un
po’ per aver sputato a terra
del catarro, atto assai poco aristocratico.
Un
incomodo silenzio s’impose tra i due uomini.
“Sul
serio non necessitate di nulla?”, riprese incolore il
bresciano la domanda scatenante quel loro acceso dibattito, intuibile
tentativo
sia di cambiar discorso sia di concluderlo lì.
“Non
ho bisogno del vostro aiuto”, anche il tono di Hironimo
suonava secco e tagliente, poco desideroso di disquisire oltre.
“Men che meno
se finalizzato a placarvi la coscienza!”
Il conte
giostrò con le redini e schioccò la lingua,
acciocché il
suo cavallo intuisse il suo desiderio di girarsi e tornare indietro
alla sua
colonna. Non senza tuttavia aver condiviso col giovane patrizio
un’ultima
confidenza: “Forse un giorno imparerete
l’umiltà di accettare aiuto, messer
Emiliani, dovunque esso arrivi”, fu il suo consiglio.
Dopodiché
speronò il cavallo, galoppandosene via e lasciando
Hironimo in compagnia dei suoi pensieri e ignaro delle frequenti e
segrete
occhiate scoccategli da Mercurio Bua, giratosi infatti questi per
controllare i
movimenti dei due uomini. La fronte dell’albanese, man mano
che il di Gambara
s’attardava col Miani, s’era increspata in una
smorfia scocciata nonché
insospettita.
Cos’era
quel negozio? Sin dal suo arrivo al campo, il conte
bresciano aveva dimostrato fin troppo interesse nei confronti del suo
prigioniero, anche dopo che il Bua aveva chiarito in via definitiva le
modalità
d’uccisione a chi glielo avesse sottratto e giustamente alla
fine ogni pretesa
sul veneziano era decaduta. Evidentemente quel cocciuto pezzente non
aveva
recepito il messaggio.
Prima
sarebbero giunti all’Abbazia, meglio sarebbe stato per
tutti. Lì il condottiero avrebbe messo il patrizio
sottochiave in qualche
cella, ben distante dal nobile.
Poiché
figli della medesima razza, Mercurio sapeva benissimo che,
tradito una volta, non ci si metteva nulla a tradire una seconda.
***
Il
blu incominciava a scacciare in cielo l’ultimo oro del
tramonto, ammantando delle sue ombre la dolce pianura sotto la sua
volta e di
gran brillantezza rifulgeva adesso Espero, la sua prima stella. I
grilli al
contempo vicini e lontani cantavano le loro incessanti serenate,
accompagnati
dal lieve fruscio delle fronde degli alberi e dei giunchi dei canali e
fiumi,
il cui scorrere sereno e incurante degli affanni umani riecheggiava
flebile ma
persistente.
In questo
momento di placido transito dal giorno alla notte,
Francesco Contarini di sier Hironimo “Il Grillo” e
i suoi compagni esploratori
s’apprestavano a ritornare con succose notizie a
Camposampiero, laddove era
appostato il resto della compagnia, un totale di cinquecento uomini tra
stradioti e balestrieri agli ordini del provveditore sier Ferigo
Contarini q.
sier Hironimo, di domino Giano di Campofregoso, del conte domino Guido
Rangoni
e dai capitani Domenico, Giorgio, Pellegrino e Pietro Busicchio.
Il
giovane provveditore degli stradioti aveva insistito su quella
sosta, ordinando ai soldati di cenare bene e dormire quanto
più possibile, in
attesa che il conterraneo gli fornisse gli ultimi tasselli necessari a
completare il suo piano. Sicché tutti l’avevano
preso in parola e il campo era
sprofondato in uno stato di beata pennichella di fine estate. Soltanto
lui,
sier Ferigo, seguitava a scrutare insistentemente l’orizzonte
oscurarsi e
perdere la sua fulgente doratura man mano che il carro di Febo cedeva
il passo
a quello di Selene.
Guido
Rangoni l’osservava da lontano, indeciso
se
raggiungere il Contarini e invitarlo a riposare qualche ora o di
lasciarlo al
suo impaziente andirivieni, interrottosi all’improvviso in
una marmorea
immobilità, le mani ben serrate dietro la schiena.
Sebbene
tra i due uomini fosse nata una cauta amicizia, il giovane
conte non si giudicava abbastanza conoscitore dell’animo di
sier Ferigo
nell’approcciarlo quando, dimessa la sanguigna maschera del
capitano impetuoso
e carismatico, egli riacquistava quella sua naturale aria riservata,
discreta
ed esteriormente tranquilla qualunque fossero i suoi contrasti interni,
un po’
tipica della sua gente.
Da
fanciullo Guido aveva appreso da suo padre, il conte Niccolò
Maria Rangoni, come i veneziani generalmente fossero dei simulatori e
dei vendicativi.
Solo molti anni dopo, andando esule e scomunicato a vivere tra di loro,
Guido
capì cosa intendesse veramente il genitore: più
che dei simulatori, i veneziani
erano di natura assai introversa, ossia chiusa e diffidente, poco
inclini a
parlare di sé semmai grandi ascoltatori. Accordavano
difficilmente l’amicizia,
ma una volta concessa non la toglievano, sicché con doppia
tenacia
perseguitavano chi li tradiva, il modenese stesso aveva avuto un
assaggio di
codesta ferocia punitiva, quando s’era adombrato un certo
favoritismo nei
confronti dei suoi conterranei durante la campagna del
Polesine.
Se
sier Andrea Griti vi crede innocente al punto da difendervi dal
parere dei Dieci, non vedo perché non debba fidarmi
anch’io della vostra lealtà
a San Marco. Nondimeno, sappiate che se mi tradirete, il mio settanta
volte
sette sarà quello di Lamec e non di Nostro Signore [3]
“L'é
un quèl ed cl' êter mònd! Mi domando
come accidenti faccia”,
borbottò suo fratello minore Francesco, provocando nel
giovane conte un lieve
sussulto, avendolo infatti creduto ancora beatamente addormentato
accanto
all’altro cadetto, Ludovico.
“C'sa?
Chi?”
“Il
provveditore Contarini”, sbadigliò Francesco,
passandosi una
mano tra gli arruffati capelli castano scuro. “Non dorme mai,
piglia un pasto
tra il dì e la notte, vigilantissimo. Per dîrla
s'cèta e nèta, par quasi
possedere una natura diabolica, che mai si consuma.”
Guido
abbandonò la sua infruttuosa contemplazione delle spalle di
sier Ferigo, oramai accantonando ogni proposito di discorrere con lui.
“Egli
combatte per la sua patria”, gli spiegò
concisamente, prendendo posto accanto
al fuoco e invitando Francesco ad unirsi a lui, se proprio non aveva
alcun’intenzione di tornare a dormire.
“Et
nuêter?”
Con la
scusa di spostare dei ciocchi con l’attizzatoio, il
ventiseienne condottiero evitò al minore risposte infelici.
“Da parte di chi è
quella missiva?”, inquisì cambiando velocemente
discorso, notando il pezzo di
carta mezzo accartocciato tra le dita del fratello che, tentennante,
rispose in
un sussurro:
“Di
… d’Hannibal …”
“Ch'
ét gnés 'n antcōr! Dammi qua!”,
scattò rapido e sottratta di
malagrazia la lettera, il maggiore dei Rangoni la gettò nel
fuoco, che
l’ingollò in una sola vampata.
“Êşen! Quante volte ti ho detto di non accettare
mai più alcuna missiva da parte sua?!”
Da un bel
po’ sia il loro fratello Annibale che il loro zio
Annibale Bentivoglio, da quando avevano recuperato Bologna, stavano
insistendo
coi tre Rangoni acciocché ritornassero a prestar servizio
alla famiglia signorile
bolognese, come ai vecchi tempi. Il Bentivoglio li aveva pure garantito
come si
fosse riappacificato col Duca di Ferrara, alleato degli stessi francesi
che
l’avevano aiutato a riconquistare lo Stato, e come Alfonso
d’Este avesse
dimenticato e perdonato ogni passato screzio tra di loro.
Mal per
l’Estense, Guido Rangoni non aveva dimenticato né
perdonato.
“Ma
Guido! L’è nòster
fradèl!”, protestò sbigottito
Francesco, gli
occhi fuori dalle orbite che si spostavano dal viso del maggiore al
mucchietto
di ceneri in cui s’era trasformata la lettera.
“Nella
nostra professione non abbiamo fratelli, solo una sorella
ovvero la nostra spada!”
“An
dîr dal cojunêdi! Hannibal rimane nostro
fradèl, così come lo
sío Hannibal rimane nostro sío e i Bentivoy
nostri parenti!”
“Anche
Lucrezia d’Este è nostra zia e gli Estensi nostri
parenti,
eppure guarda come ci hanno allegramente sbattuto la porta in faccia al
primo
vento contrario! Ti ricordo, fradèl, che se lo
sío Hannibal ha dovuto mendicare
supporto ai Francesi per ripigliarsi Bologna, deve ringraziare proprio
quel
ciocapiât del Dóca ed Ferêra,
tanto bravo a proclamarsi loro amico e
dispiaciuto per le loro disgrazie che misere nobis quando i Bentivoy
hanno
voluto riprendersi lo Stato! Li ha consegnati al Papa su di un piatto
d’argento
come Salomè! Anni di servizio da parte sia nostra sia di
nostro padre, tutti
buttati giù nella cloaca e perché cosa?
Perché noi abbiamo dimostrato di
possedere rispetto a lui più onore alla parola data e
lealtà verso i legami
familiari?”
Richiamato
il suo capitano in gran pressa da Bologna a Ferrara, il
duca Alfonso d’Este lo aveva posto dinanzi ad un aut-aut: o
il servizio alla
casata ducale ferrarese, o la sua famiglia bolognese. Se
varcherete
quella soglia, lo aveva avvertito
minaccioso, guadagnerete un
nemico tenacissimo.
Per
la vita, gli
aveva allora a sua volta promesso
Guido Rangoni, voltando le spalle al Duca, a Ferrara e
all’antica alleanza che
per anni aveva unito gli Estensi ai Rangoni. Per mesi Alfonso
d’Este aveva
cercato di catturare il ribelle, le cui spiccate doti militari lo
avevano però
sempre salvato da ogni imboscata da parte dei ferraresi capitanati dal
fratello
dell’Este, il cardinale Ippolito. Si narrava perfino che
quest’ultimo,
frustrato e umiliato dall’ultima abile fuga del Rangoni,
dalla stizza avesse
ordinato d’impiccare l’oste che aveva ospitato a
Bologna il giovane conte.
Abbandonata
la madrepatria e scomunicati dal Papa Giulio II, Guido
e Ludovico Rangoni s’erano acclimatati facilmente alla nuova
vita a Venezia,
riparando al loro feudo di Cordignano impestati d’odio a
causa di
quell’ingiusto tradimento da parte di coloro per le cui cause
avevano sempre
combattuto, ponendo la vita in prima fila, per poi venir ripagati con
del
gretto egoismo calcolatore. Al contrario Francesco Rangoni, il
più piccolo dei
fratelli, ancora faticava a lasciarsi tutto indietro e a voltar pagina.
“La
verità”, gli rammentò aspro Francesco,
“è che a te non importa
più della nostra famiglia, né dei Bentivoy. A te
basta dargliela in qualsiasi
modo sui corni agli Estensi!”
Guido si
sporse in avanti verso il cadetto, puntandogli severo
contro le iridi marroni. “Vuoi tornartene a Bologna? Fai
pure, vattene! Chi ti
trattiene? Sei forse mio prigioniero? Però rammenta che se
tu dovessi cadere
una seconda volta col culo per terra, sappi che non mi troverai
lì ad
aiutarti!”
Il
ragazzo abbassò il mento sul petto, le dita strette e
intorcolate tra di loro. Comprendeva perfettamente la situazione in cui
le
avverse vicende li avevano scaraventati; era
quell’implacabile rigore da parte
di suo fratello maggiore che non comprendeva.
“Mi
manca … mi manca tanto nostro fradèl …
nostra mêdra, le nostre
surèle … Mòdna ... Bologna ... il
nostro palazzo a San Sismondo …”,
farfugliò
mesto, avvertendo un familiare pizzicore agli occhi.
“Mócio!
An fêr di snóm! Non piangere, non sei
più un putèin!”, lo
zittì perentorio Guido, a voce forse troppa alta
ché Ludovico si scosse dal
sonno, puntellandosi disorientato sui gomiti.
“…
‘sa succede?”, si stropicciò gli occhi,
ancora mezzo
addormentato. “E’ già ora di
partire?” e accortosi sia dello sguardo duro e
furioso del fratello maggiore sia di quello basso e penitente del
cadetto,
insistette: “Perché quelle facce?” Scese
dal letto e li raggiunse, studiandoli
preoccupato.
Guido
cacciò fuori un profondo sospiro, massaggiandosi stancamente
la fronte intanto che si poneva in piedi a contemplare il fuoco. Sin da
quando,
quindicenne, aveva perduto il padre e s’era trovato costretto
a sostituirlo sia
alla guida dell’esercito che della famiglia, il giovane conte
s’era sempre
prodigato per assicurare il meglio ad entrambi. A quanto pareva, era
più facile
dirigere una masnada di indisciplinati soldati che i propri parenti.
“Allora?
Di che cosa stavate discutendo?”
Il
maggiore dei Rangoni invitò Ludovico ad avvicinarglisi e
anche
al minore. “Hannibal rimarrà per sempre nostro
fradèl, però ha fatto la sua
scelta e noi la nostra. A Mòdna non ci possiamo
più tornare, se non a capo di
un esercito”, asserì rassegnato, scrutando accorto
il viso impassibile di
Ludovico e quello dispiaciuto di Francesco. Colto da un subitaneo moto
d’affetto, Guido appoggiò le mani dietro la loro
nuca, conducendoli a sé e
abbracciandoli. “Ludovico, Francesco … in questo
momento voi siete tutto ciò
che mi rimane della nostra famiglia frammentata e dispersa. Dobbiamo
impedire
ad ogni costo di perdere fiducia l’uno nell’altro.
E come abbiamo servito
fedelmente i Bentivoy e gli Estensi, adesso con altrettanto zelo noi
dobbiamo
servire la Repubblica, senza se e senza ma. Mi si spezzerebbe il cuore
vedervi
penzolare come Soncino Benzone …” ed ebbe appena
il tempo di terminare il suo
discorso, che improvvisamente l’aria serale vibrò
dell’energia della tromba e
del tamburo, cui funse d’accompagnamento musicale agli
schiamazzi concitati dei
balestrieri e degli stradioti, i nervosi nitriti dei loro cavalli e il
ventiseienne conte seppe che il campo aveva ricevuto l’ordine
di levarsi.
“Su,
sbrigatevi, non facciamo la figura dei poltroni!”
Allorché
i tre fratelli modenesi raggiunsero il resto della
compagnia, trovarono il provveditore degli stradioti già
pronto, occupato a
monitorare alla stregua d’un gatto ogni preparativo, mentre
ascoltava
soddisfatto e sornione quanto sier Francesco Contarini gli stava
riferendo.
“Buone
notizie?”, s’informò celere Guido
Rangoni col suo collega
Giano di Campofregoso.
“Ottime”,
esclamò vivacemente il genovese, salendo sul suo
cavallo. “Si preannuncia uno scontro interessante. E
proficuo”, aggiunse,
girandosi poi ad ordinare le ultime istruzioni ai suoi uomini.
Quand’ecco che
il suo sguardo cadde su Francesco Rangoni, che se ne stava un
po’ a disagio
seminascosto dietro al fratello Ludovico. “Belin, anche il
piccolino viene?
Dite, è la vostra prima volta?”,
s’informò cortese, peccato che
quell’innocente
domanda venne travisata da maliziose interpretazioni, almeno a
giudicare dal
divertito grugnito di Ludovico, subito fustigato da
un’occhiataccia da parte di
Guido.
“Francesco,
l’illustrissimo signor comandante di Campofregoso
v’ha
posto una domanda”, incoraggiò questi il minore a
parlare, essendosene rimasto
lì imbambolato a bocca aperta.
Il
ragazzo strabuzzò comicamente gli occhi e annuì
veloce, grato
dell’oscurità che gli copriva il fastidioso
rossore alle gote.
“Avete
paura?”
“Nossignore”,
gracchiò Francesco, stringendo convulso le redini.
“Non
vergognatevene: tutti abbiamo paura al primo assalto. Dopo
però diverrà per voi naturale come
respirare”, l’assicurò il
cinquantaseienne
condottiero, sorridendogli tenero, memore dei tempi passati quando
anch’egli
aveva tremato la prima volta in cui aveva battezzato di sangue la sua
spada.
“Osservate bene vostro fratello e imparerete dal
migliore!”
“Grazie
signore, lo terrò a mente e farò del mio
meglio”, espresse
il giovane la sua riconoscenza verso quei consigli. E non appena il
Campofregoso gli diede le spalle per conferire con Guido, Francesco
elargì una
stizzita manata a Ludovico, che ridacchiando lo ripagò
d’una sfrontata
linguaccia, forte della distrazione del maggiore.
Un
attento silenzio generale impedì al ragazzo di rendergli la
pariglia, ogni sguardo diretto verso sier Ferigo Contarini,
ch’aveva levato la
mano in alto per conferire.
“I
nostri esploratori ci hanno comunicato come il nemico abbia
dato ordine di preparare e spedirgli da Castelfranco carri di pane,
farine e
biade per sfamare loro e i cavalli”, esordì il
provveditore. “Vedete che
ladri?” e calcò bene la parola, strisciandola e
riempiendola di veleno e
disgusto. “Si nutrono del cibo rubatoci! Del cibo cavato di
bocca a chi se l’è
onestamente guadagnato! Del cibo prodotto da una terra che non li
appartiene!”,
esclamò veemente, indirizzato soprattutto questo discorso
alle coscienze dei
soldati veneti, i quali digrignavano feroci i denti, essendosi infatti
alcuni
di loro arruolati sia per patriottismo sia perché non
avevano altro modo di
sfamare le loro donne e i loro figli. “Allora io dico: con
tal feccia non c’è
da esser gentiluomini!”
Un primo
entusiasta ululato fendette la quiete notturna, garbando
ai soldati la piega che quell’arringa stava prendendo.
Conscio
di aver ben scaldato gli animi, sier Ferigo annunciò
dunque con trascinante impeto: “Dieci carri spettano alla
Signoria, il resto è
tutto vostro!”, fu la sua solenne promessa.
Un
giubilante ruggito l’accolse, accompagnato dal forsennato
battersi
il pugno sul corsaletto e dal cozzare della zagaglia contro la targa e
gli
stradioti apparivano quasi commossi dalla bella notizia, qualcuno
addirittura
che accarezzava il possente collo del proprio fedele cavallo,
raccontandogli
della scorpacciata di biada che a breve si sarebbe fatto.
Sier
Ferigo domandò di nuovo di porgergli orecchio.
“Domani oltre
che ad essere domenica, è la festa
dell’Esaltazione della Santa Croce. Anche se
non possiamo ufficialmente celebrare la Messa [4], ugualmente preghiamo
e
affidiamo nelle mani del Signore le nostra missione e le nostre
vite”, esortò
il giovane provveditore a quel breve attimo di raccoglimento, onde far
pace con
Dio e cavalcare sereni al loro destino, qualsiasi esso fosse stato.
Eseguito
un lento e grave segno della Croce, il Contarini recitò a
voce ben alta e chiara il Salmo della Messa festiva:
“Ascolta,
popolo mio, la mia legge,
porgi
l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la
mia bocca con una parabola,
rievocherò
gli enigmi dei tempi antichi.
Quando li
uccideva, Lo cercavano
e tornavano
a rivolgersi a Lui,
ricordavano
che Dio è la loro roccia
e Dio,
l’Altissimo, il loro redentore.
Lo
lusingavano con la loro bocca,
ma Gli
mentivano con la lingua:
il loro
cuore non era costante verso di Lui
e non
erano fedeli alla Sua alleanza.
Ma Lui,
misericordioso, perdonava la colpa,
invece di
distruggere.
Molte
volte trattenne la Sua ira
e non
scatenò il Suo furore.
Nos autem
gloriari oportet in cruce Domini nostri Iesu Christi, in
quo est salus, vita et resurrectio nostra, per quem salvati et liberati
sumus!”, terminò ieratico sier Ferigo, aprendo gli
occhi. “Amen!”
“Amen!”,
lo imitò il resto della compagnia, la quale aveva
ascoltato in devotissimo silenzio, a capo chino e chi poteva a mani
congiunte,
tingendo conforto in quelle sacre parole, unica certezza in un mondo
dai
continui rovesci di fortuna, morale ed amicizie.
“In
nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”, si
segnò
nuovamente il giovane provveditore degli stradioti tosto imitato dai
soldati.
Dopodiché, egli appoggiò la sua fiaccola sul
braciere e avvoltasi di fiamme la
punta, la ritirò e accese quella dell’altro
Contarini, che a sua volta accese
la fiaccola di Giano di Campofregoso e lui quella di Guido Rangoni e
così via a
catena, finché tutto il campo venne illuminato a giorno.
“In
nome del Cristo Risorto, della Vergine, di San Marco e di San
Giorgio, a Castelfranco!”, incitò sier Ferigo i
suoi stradioti e balestrieri,
cui fecero eco le zagaglie, le balestre e le insegne levate in alto
dagli
uomini eccitatissimi alla prospettiva della battaglia e soprattutto del
pingue
bottino.
“A
Castelfranco! A Castelfranco! Marco! Marco!”
Perfino i
cavalli parvero nitrire il loro assenso, guidati al
galoppo dai loro cavalieri in una compatta colonna formatasi assai
rapidamente
e in un batter d’occhio il campo si era svuotato
completamente, ingoiato dal
silenzio.
E un
fiume luminoso penetrò nell’oscurità
notturna, simile ad una
folgore in cielo preannunciante un portentoso temporale di morte e
distruzione
del nemico.
***
Le
truppe dei Franco-Imperiali giunsero a Nervesa di prima
mattina e subito Jacques de Chabannes de la Palice, monseigneur de
Boissy e du
Molard, Mercurio Bua e Lecha Busicchio, Gianfrancesco di Gambara,
Giulio
Sanseverino e Galeazzo Pallavicino si diressero all’Abbazia
di
Sant’Eustachio[5], la quale sovrastava la zona
dall’alto di una collina
terrazzata da viti feconde. Il capitano Jacob e gli altri comandanti
tedeschi
invece avevano preferito sostare alla Certosa di San Girolamo, da
lì poco
distante.
Appartenente
all’ordine benedettino, l’Abbazia di
Sant’Eustachio
era stata fondata nel 1062 dal conte Rambaldo III di Collalto e da sua
madre
Gisla, godendo pertanto essa della costante protezione della famiglia,
la quale
le aveva garantito una notevole indipendenza dalla diocesi di Treviso
nonché
l’ingerenza del suo vescovo, il cui potere i Collalto avevano
voluto limitare.
Di
conseguenza, vista dal basso l’Abbazia poteva assomigliare
più
ad una piccola fortezza che ad un edificio di preghiera o di
sanificazione del
territorio, come invece erano le sue consorelle sparse nella
Terraferma,
costruite infatti ai piedi di colli o montagne, in terreni dapprincipio
marci e
inutili. Le spesse mura del corpo principale del monastero e il
massiccio
campanile da cui si poteva visualizzare la vallata sottostante lo
rendevano un
robusto rifugio da ogni pericolo esterno.
Il
maresciallo francese l’aveva scelta apposta per la sua
posizione strategica e i suoi sottoposti avevano convenuto animosamente
con
lui, assai allettati dall’idea d’alloggiare in un
luogo finalmente asciutto e
confortevole, anche a costo di doverlo condividere tra di
loro.
Purtroppo,
la lunga ed estenuante marcia li aveva fatto scordare
come quel giorno fosse domenica e per di più festa solenne
dell’Esaltazione
della Santa Croce e ciò ritardò i loro piani di
ristoro, costringendoli
all’attesa.
“Siete
i benvenuti ad assistere alla Messa”, spiegò il
padre
guardiano ai nuovi arrivati, non appena li ebbe raggiunti dalla sua
casetta
poco lontano dal cancello principale. Parlava nervosamente, incerto
cosa
aspettarsi da quegli stranieri malgrado le rassicurazioni del conte
Joanne
Antonio da Collalto. “Tuttavia dovete attendere la fine della
funzione, prima
di poter conferire con l’Abate.”
“Molto
volentieri, fateci per cortesia strada”, accettò
La Palice
di buon grado quella proposta, sia per ripararsi dalla pioggia
ch’aveva ripreso
ad importunarli sia perché sentiva l’impellente
necessità di una benedizione,
preoccupato nel suo intimo di tutte quelle sciagure capitatigli di
recente tra
capo e collo, quali epidemie nel campo, penuria di approvvigionamenti,
liti
continue tra soldati francesi e tedeschi, i Veneziani che lo
tallonavano da
ogni angolo e l’Imperatore che s’era perso tra i
monti, giurando e stragiurando
che si sarebbe unito alle sue truppe per l’impresa di Treviso
e invece di
Maximilian non si vedeva manco la punta del suo grossissimo naso.
La
tentazione di mandare l’Habsburg a mangiar rave nei campi lo
tentava ogni dì sempre di più, soltanto il senso
dell’onore e dell’impegno
preso gli impedivano di tornarsene a Verona o a Milano direttamente.
Che magra
figura ci avrebbe fatto, ragionava poi, col suo Roi Louis e con
quell’arrogantaccio di suo nipote Gaston de Foix-Nemours?
Neppure l’ognora
comprensivo Bayard l’avrebbe giustificato, rimproverandogli
la poca costanza e
d’altronde conoscendo le Bon Chevalier, quello sarebbe stato
capacissimo di
correre scalzo e in mutande a Treviso pur di non mancare alla parola
data.
Contemplando
abbacchiato le betulle ai lati della stradina onde
salire all’Abbazia, il de La Palice
s’augurò di trovar risposta nella
preghiera, non essendogli mai capitato in vita sua di non saper quale
decisione
prendere.
Il
maresciallo e il resto dei comandanti passarono per il secondo
portone, quello del monastero vero e proprio, attraversando un ampio
cortile di
solito brulicante d’attività ma in quel momento
silenzioso per via della Messa
solenne, le cui litanie cantate si potevano udire già dai
gradini dalla
basilica in stile tardo romanico. Quasi in punta dei piedi il gruppetto
si
ritagliò un angolino tra le colonne della navata principale,
ammirando con la
tipica imbarazzata curiosità dei visitatori gli affreschi
trecenteschi sulle
volte e le statue in rilievo sulle colonne. In realtà, essi
guardavano altrove
per non dover incrociare lo sguardo penetrante dell’Abate, il
quale li
squadrava dal suo scranno con la medesima intensità del
gigantesco Christus
Triumphans posto al centro dell’abside, dalle cui braccia
pendeva un pesante
panno d’oro di broccato finissimo e ghirlande.
Terminato
di cantare il Gloria si
passò alle
Letture e neppure quando il monaco lesse cantando il passo biblico,
smise
l’Abate il suo accigliato studio di La Palice e compagni, in
particolare di
Mercurio Bua e Lecha Busicchio che coi loro abiti orientaleggianti
potevano
benissimo passare per ortodossi o peggio per turchi.
“Dal
libro dei Numeri: In quei giorni, il popolo non
sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro
Mosè: “Perché ci avete
fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto?
Perché qui non c’è
né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo
così leggero.” Allora il
Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali
mordevano la gente, e un
gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da
Mosè e disse: “Abbiamo
peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro
di te; supplica il
Signore che allontani da noi questi serpenti”.
Mosè pregò per il popolo. Il
Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo
sopra un’asta; chiunque sarà
stato morso e lo guarderà, resterà in
vita”. Mosè allora fece un serpente di
bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso
qualcuno, se
questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.”
L’Abate
poteva ben figurarsi quale favore quegli stranieri
sarebbero presto venuti a chiedergli – già il
conte Joanne Antonio da Collalto
gli aveva anticipato la loro venuta. L’uomo chiuse gli occhi
e sospirò a fondo,
il petto dilaniato da sentimenti contrastanti. Da una parte sapeva che,
in
quanto supportati dalla famiglia dei Collalto, nessun male sarebbe
incorso
all’abbazia e ai suoi abitanti. Dall’altra,
però, conosceva bene il cuore della
gente del Montello ed esso era marchesco, sicché costoro che
si trovava
costretto per cristiana carità (e politica convenienza) ad
ospitare per i
locali erano messaggeri di morte, così come per Treviso
nella cui giurisdizione
l’abbazia si trovava.
Mio
Dio, sorreggici nella prova, noi che non siamo nulla senza di
Te, pregò
l’Abate, mandando a Messa terminata a prelevare il
maresciallo francese e i suoi comandanti, invitandoli a seguirlo per il
chiostro adiacente fino al suo studiolo.
“Padre
reverendissimo, vi saluto”, s’inchinò de
la Palice,
baciando l’anello portogli dall’Abate.
“Vi ringraziamo dell’ospitalità
vostra.”
“Ringraziate
i conti di Collalto di San Salvatore”, lo corresse
ambiguo l’anziano monaco. Quand’ecco che la sua
espressione s’indurì. “Vi
rammento che questa è la casa di Dio e un sacro luogo di
preghiera e che
pertanto non saranno tollerati atteggiamenti ad esso inaccettabili,
checché a
comandarvi sia un re autoproclamatosi cristianissimo”,
l’ammonì
perentorio, puntandogli al petto il riccio del pastorale.
La Palice
deglutì a disagio, schiacciato dal peso delle passate e
tristemente note colpe dell’esercito franco-imperiale, famoso
per razziare il
razziabile, in barba alla funzione dell’edificio
saccheggiato. “Giuro sul mio
onore che ci comporteremo nella maniera più discreta e
consona a questo luogo sacro.
Chiediamo soltanto ospitalità per qualche notte, in attesa
di completare il
ponte e di muovere a Treviso il campo”, gli
garantì solennemente.
L’Abate
soppesò a lungo i pro e i contro, tamburellando le dita
sul pastorale finché non chinò lentamente il capo
in assenso. “Vi farò avere
una celletta per voi, maresciallo de la Palissa. E anche al signor
conte di
Gambara”, aggiunse, notando il viso pallidissimo del nobile
bresciano, gonfiato
di tanto in tanto da colpi di tosse che questi cercava di trattenere in
petto o
di coprire con la mano. “Quanto al resto dei vostri
comandanti, potranno
usufruire degli ospizi dei pellegrini.”
“Vi
ringraziamo infinitamente della vostra generosità.”
“Padre
colendissimo”, s’intromise con ossequiosa mitezza
Mercurio
Bua, inchinandosi con l’elmo sottobraccio, “potrei
aver l’ardire di domandarvi,
se per caso avreste qualche celletta assai isolata?”
“Per
voi?”, domandò confuso e lievemente sospettoso
l’uomo,
conoscendo infatti la fama poco raccomandabile dei mercenari
greco-albanesi.
“No,
venerabilissimo Padre, per due miei prigionieri, la cui …
sicurezza mi sta molto a cuore.”
L’Abate
strinse gli occhi, non molto convinto. Ciononostante,
rispose affermativamente: “Ci sono le celle dove i monaci
ribelli alla Regola
hanno modo di riflettere sui loro peccati.”
“Non
avrei osato sperare di meglio, Padre eccellentissimo”,
baciò
riconoscente il condottiero l’anello del perplesso religioso.
Così,
mentre Mercurio Bua col beneplacito del maresciallo de la
Palice distruggeva le altrui aspettative di ristoro mettendo i soldati
subito
al lavoro alla costruzione del ponte per transitar sul Piave, berciando
a
destra e a manca come si fossero anche fin troppo riposati a
Montebelluna
nell’ozio più osceno, Hironimo e Thomà
vennero tirati giù dal carro e
trascinati al loro nuovo alloggio. Un asfissiante buco stretto, senza
luce
naturale e puzzolente di muffa, però almeno se ne stavano
per conto proprio.
Il
veneziano si adoprò subito per preparare un giaciglio dove
poter far distendere il ciondolante fantolino, sostenendo questi non
aver
dormito bene e di conseguenza sofferente d’un brutto mal di
testa e rigidità
del collo.
Con la
scusa di accendere una pingue candela, Mercurio ne
approfittò per spiare i movimenti del giovane,
meravigliandosi dall’infinita
premura impiegata nell’avvolgere il bambino nella ruvida
coperta di lana e nel
sistemargli della paglia sotto la testa, nonché dalla
tenerezza in cui gli
scostava via dalla fronte le ciocche umide. Tali amorevoli gesti
l’albanese li
aveva visti soltanto in sua madre e in sua moglie Caterina, quando la
sera
aiutava la loro Maria ad addormentarsi, spaventata la piccina dalle
sinistre
ombre proiettate dall’armatura sulla tenda e dagli schiamazzi
dei soldati.
E
similmente agli occhi neri di Caterina, i quali dopo aver finito
con la loro creatura lo fissavano ricolmi di malcelato disprezzo, anche
quelli
di Hironimo non gli risparmiavano alcunché, biasimandolo di
ogni loro
disgrazia.
A
Mercurio si serrò la gola, imprimendo le sue dita eccessiva
forza nella cera tanto da lasciarne l’impronta: in quei
grandi occhi nerissimi
egli rivedeva ogni sguardo della moglie e pertanto
s’immalinconiva e al
contempo s’arrabbiava quand’essi lo guardavano
rancorosi, poiché per lui era
come ritrovarsi davanti alle sue colpe nei confronti di Caterina. Il
Bua s’era
sempre vantato d’esser stato un buon marito, ma
più trascorreva il tempo in
compagnia del suo prigioniero, più le sue espressioni si
confondevano con
quelle della moglie e allora l’uomo incominciava a dubitare
se avesse mai
capito l’animo di lei, se non avesse dato per scontata la sua
presenza accanto
a lui.
Ed ecco
che a Mercurio sfuggì un risolino amaro: tanto
filosofeggiare
per una banale somiglianza nel colore degli occhi!
Cos’avrebbe fatto, allora,
se a Castelnuovo di Quero avesse catturato una castellana al posto di
un
castellano?
“Ti
piace la tua nuova stanza?”
“Tutto
è bello senza te tra i piedi!”
L’albanese
ridacchiò magnanimo, posando per terra la candela.
“In
questo modo potrò coordinare i lavori al ponte e dormire
sereno la notte, senza
la scocciatura di voialtri tossicolosi”, gli
spiegò, intanto che sfilava
all’imbronciato patrizio le manette, le cavigliere e il
collare. Neanche il
tempo di posare quest’ultimo, che il Bua ghermì
per la gola Hironimo e lo
costrinse a guardarlo ben in faccia, avvertendolo mortalmente serio:
“Bada a
non giocare al furbo, o massacro di pugni questo tuo muso impertinente
che perfino
tua madre si schiferà al sol guardarti!”, e
abbandonò malamente la presa, tanto
che il giovane cadde all’indietro di schiena.
Massaggiandosi
il collo arrossato e tossendo forte sia per la
malattia che per il ritrovato ossigeno, Miani si sforzò
d’apparire tranquillo,
elargendogli noncuranti spallucce. “Se lo dici tu”,
sputò e tossì ancora,
nettandosi l’angolo della bocca con la camicia.
“La
tua caviglia?”, s’informò brusco
Mercurio.
“Grazie
a te non bene”, gli cantilenò beffardamente dietro
Hironimo, dalla cui smorfia però si tradiva il fastidio
ch’essa gli provocava.
In
effetti, appurò il condottiero storcendo la bocca, il
veneziano
non stava panicando alla stregua d’una donnicciola: la
caviglia aveva assunto
un colore tra il rosso e il bluastro, il piede in una posizione
più rigida e
storta rispetto all’altro.
Delicatamente,
l’albanese lo sollevò dal tallone, esaminandolo
cauto tramite lenti movimenti circolari e fermandosi non appena
avvertiva
piccoli spasimi convulsi nel patrizio, il quale a viva forza tratteneva
ogni
esclamazione di dolorosa protesta dinanzi a quella manipolazione.
“Te
la senti intorpidita?”
“Sì.”
“Hai
come una sensazione di bruciore?”
“No.”
Mercurio
appoggiò per terra il piede e si rialzò.
“Ti farò portare
delle pezze d’acqua fredda e qualche unguento. Non credo tu
te la sia
fratturata, il che è un bene perché in barella
fino a Treviso non ti ci porto!”
Magari il suo prigioniero ne avrebbe approfittato anche per pulirsi un
poco,
avendo le gambe sporche di fango, di croste di sangue per le
escoriazioni ed i
tagli, nonché piene di punture d’insetto e
arrossamenti cutanei a causa del
bacio dell’ortica. S’appuntò di dargli
poi una camicia pulita, neanche un
porcaro se ne andava a zonzo con una talmente lercia come la sua.
“An,
visto che sei così gentile, perché non mi porti
anche un
vasetto di miele?”, esigette petulante Hironimo, indicandogli
la gola con uno
storcere di bocca assai infantile. “Mi fa bua qua”
e rise
sardonico.
Mercurio
borbottò qualche improperio, sbattendo la porta e
chiudendola a chiave.
Rimasto
finalmente solo, Hironimo gettò indietro il capo e
cacciò
un profondo sospiro, portandosi poi al petto le ginocchia che
abbracciò a mo’
di conforto, percependo ogni singola energia abbandonargli il corpo.
Negli
ultimi giorni gli stava costando moltissimo tener testa sia fisicamente
che
mentalmente al suo carceriere, tormentato in ambedue dalla malattia e
dai mille
dubiti e quesiti che lo punzecchiavano feroci.
Perché,
perché ancora nessuno aveva domandato di lui?
Perché
nessuno s’era fatto avanti con una proposta di riscatto? O di
scambio? Le
famiglie dei capitani Colle e Doglioni avevano subito provveduto a
pagare la
loro taglia, liberandoli, come mai nessuno della sua famiglia aveva
mandato
alcun’ambasciata al Bua?
Vero, con
Lucha avevano dovuto attendere ben quattro mesi prima di
riabbracciarlo, però perché l’avevano
trasferito in Alemagna e dunque non era
stato facile capire dove fosse finito.
Ma lui?
Come facevano a non sapere dove si trovasse? A meno che …
A meno
che non lo pensassero già morto. No, no, non poteva essere.
Altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe ammazzato, una volta
compresa la sua
inutilità … O forse era
così, l’albanese ancora non sapeva che a
Venezia lo davano per ucciso e quindi nulla gli avrebbe impedito,
appresa la
novità, di gettarlo nel Piave con la palla al collo
…
No, no,
no! Di sicuro, in qualche astruso modo, le spie veneziane
avevano riferito in Senato della sua sopravvivenza alla mattanza di
Castelnuovo
di Quero. Ma allora perché quel silenzio?
Quell’inazione? Cosa attendeva la
Signoria per riscattarlo?
Hironimo
aveva origliato frammenti di conversazioni degli emissari
di uno dei capitani alla custodia di Treviso, il signor Vitello
Vitelli, e
nessuno chiedeva di lui, neppure suo fratello Marco che lì
si trovava, o
meglio, che il giovane Miani aveva scoperto trovarsi lì
tramite terzi perché
Marco …
…
lo odiava.
Ancora
gli riverberavano le dure parole del fratello all’orecchio,
la loro collera, la loro delusione nel dover ascoltare le minchionate
che
Hironimo, giudicandosi all’apice della saggezza umana, aveva
stoltamente
pronunciato.
Parole
pronunciate giusto perché aveva la lingua, senza
rifletterle, senza ponderarne l’effetto devastante che
avrebbero potuto avere
su una delle poche persone che per tutta la sua giovane vita
l’aveva amato e
protetto, contro questa persona le aveva lanciate, azzannandola
sconsiderato,
vigliaccamente, stupido idiota che non imparava mai niente! Ogni
confidenza, ogni
difficoltà superata assieme, la fiducia estrema tra di loro
sputtanata dal suo
nocivo orgoglio, da quella tossica necessità di volersi
sentire superiore a
chiunque, più intelligente, più coraggioso e
invece eguagliava a stupidaggine
una lumaca spiaccicata dallo zoccolo di un asino.
Era stato
meschino, antipatico, ingiusto nei confronti di Marco e
anche di Carlo, arraffando come dovuto il loro affetto e non
premurandosi di
proteggerlo, né di nutrirlo
… Anche se fosse riuscito a ritornare a
casa, con che faccia li avrebbe affrontati? Con quali parole poter
spiegare
loro il motivo dietro quella sua sconsideratezza?
Non devi
prendertela, gli era stato rassicurato; sono arrabbiati
anche loro, hanno bisogno di tempo per gettarsi alle spalle quanto
accaduto … Balle!
Balle! Balle! Hironimo ben s’era accorto del gelo,
dell’imbarazzo e della
delusione aleggiare negli occhi dei fratelli, in Marco soprattutto, non
lo
avevano perdonato, non avrebbero dimenticato, una volta oltrepassata
una certa
linea non c’era via di ritorno, nulla sarebbe ritornato come
prima ed egli non
poteva convivere con l’eterna angoscia del biasimo nascosto
dietro un’ipocrita
maschera di cordialità, di udire il pianto
dell’anima sua lacerata dal rimorso
e dai dolci ricordi laddove rivedeva quei giorni pieni
d’amore l’uno verso
l’altro …
Amore?
Come avevano potuto amare una persona così ingrata? Come
avevano potuto amare una persona così vile?
E lui,
cretino altero, perché non s’era scusato?
Perché non li
aveva spiegato i suoi motivi, non li aveva costretti ad ascoltarlo
anche a
costo di trattenerli fisicamente? Li aveva urlato di far il piacer
loro, che
non doveva delucidazioni a nessuno, men che meno a chi si rifiutava di
capirlo
… Se non volevano accettare ciò che stava
sostenendo, erano affaracci loro,
troppo ciechi e sordi nelle loro convinzioni per abbracciare la
verità!
La
verità!
Quale
verità?
Si
meritava il loro disprezzo, ecco qual era la verità, si
meritava il loro disinteresse per la sua sorte. Era stata questione di
tempo
che si disinnamorassero di loro, disillusi da una falsa sua
bontà per poi
scoprire realmente quale bestia lui fosse e magari, magari …
magari anche Madre
aveva visto finalmente dietro la cortina dell’inganno,
realizzando che razza di
mostro avesse generato …
Niente se
non un continuo fallimento, ecco cosa lui rappresentava
per la sua famiglia, una pietra di scarto, d’imbarazzo, una
zavorra che forse
non sarebbe mai dovuta esistere …
Aveva
rovinato tutto. Come sempre. Tutto quello che toccava, lui
rovinava.
Come
sempre.
“Etcì!”
Hironimo
scattò in un buffo balzo, voltandosi indietro verso il
fagotto qual s’era trasformato Thomà.
Aiutandosi
a porsi in piedi appoggiandosi contro il muro, il
patrizio zoppicò fino al giaciglio di fortuna laddove
giaceva il fantolino,
avvolto da una pesante coperta di lana. Sin dal suo risveglio, la sua
faccia
appariva d’un giallo cera poco rassicurante, circondate le
tempie da ciocche
bagnate e perle di sudore e adesso il labbro aveva incominciato a
tremare
similmente al suo corpicino.
Il
giovane gli si sedette accanto, accarezzandogli la punta del
naso arrossato col dito, così da svegliarlo evitandogli un
coccolone al cuore.
“Thomà? Ti te dromi ancora?”
Si
stupì d’udire la sua voce così tremula,
d’un tocco talmente
infantile che perfino Thomà sbatté le ciglia
disorientato.
“Uhm
…?”
“Su,
Thomà, sveia, zò!”, lo scosse
dolcemente Hironimo, nel suo
intimo tuttavia preoccupato dalla mancanza di reazione nel solitamente
vispo
decenne, il quale alzò un poco la testa, guardandosi attorno
distratto e
affaticato, per poi ripiombare sul raffazzonato guanciale di paglia.
“Gh’ho
sono, patron …”, sbiascicò, al che
Miani lo sollevò di
spalle, appoggiandoselo al petto e abbracciandolo onde riscaldarlo, il
cuore
che gli batteva impazzito nel percepire i continui tremiti nel bambino.
“Lassème pisocar …”, chiuse
gli occhi, accoccolandosi contro il giovane uomo,
la testa pesante e i muscoli intorpiditi.
Hironimo,
imperterrito, lo scosse ancora e gli accarezzò col
pollice la guancia, costringendolo a star sveglio. “No
xélo pì patron,
ma sior Pare, gh’hastu
desmentegà?”, gli ricordò, tentando di
mascherare la sua ansietà dietro un tono allegro.
“Chome
volé”, bofonchiò Thomà,
riappisolandosi.
Miani non
glielo permise, destandolo per la terza volta. “Via,
verzi sti ocieti bei!”, lo incoraggiò e stavolta
il fantolino si mise
d’impegno, sistemandosi a fatica seduto, pur avviluppando il
braccino magro
contro quello più robusto del patrizio.
Silenzio.
“Perché
gh’avé dito al Griego, vui seti el sior mio
pare?”,
inquisì infine Thomà, giocherellando svogliato
coi lacci della camicia di
Hironimo.
“Te
volevi ea testa su la panza?”, gli delucidò
questi,
sovvenendosi dell’enorme paura provata alla vista del sangue
dal naso del Bua e
dell’animalesca espressione assassina nei suoi occhi, quando
stava per estrarre
la spada e costì vendicare il suo onore. Nonché
della sorpresa nel vedersi
coprire col proprio corpo il bambino, d’istinto, quasi stesse
proteggendo un
figlio suo invece di un mocciosetto, che fino a qualche mese fa per lui
era
stato un signor nessuno, un anonimo addetto alla mescolatura delle
polveri come
tanti altri.
“No,
no, sora queo vuj gh’avé rason. Perhò,
a saria stà pì logico
dir che mi gero on fradel picenin ch’on fio vuostro. Seti
massa zovene par
farme da pare”, argomentò Thomà le sue
perplessità circa la scelta di parentela
da parte del Miani, che esclamò ilare:
“Massa
zovene? Co’ te geri nato, mi gh’aveo zerca quindexe
anni,
nol gero cussì picenin!”
Il
decenne schioccò la lingua affatto persuaso. “El
mio sior Pare
l’gera omo no putelo!”, sentenziò,
levando lo sguardo vitreo in alto onde
incrociare quello di Hironimo. “Comprendeu?”
Anche se
gli costava ammetterlo, sì, egli comprendeva. La
paternità era questione di maturità mentale, non
fisica. Tutti possono generare
figli, a qualsiasi età, però allevarli si
trattava di ben altro negozio che non
sempre si concludeva con successo. Hironimo col senno di poi aveva
appurato
quanta fatica fosse costata ai genitori la sua educazione, ripagando
assai
miseramente i loro sforzi. L’unica consolazione che gli
rimaneva stava nel
saper Padre morto, risparmiandogli la vergogna di aver avuto un fallito
per
figlio.
“Hé,
ti no te pol ser mio fradel, anca perché
la siora
mia Mare xéla fià vecia par ser la toa.”
A questo
Thomà non vi aveva pensato, logicamente all’oscuro
delle
dinamiche familiari del Miani. Anzi, fino a quel momento
l’aveva sempre creduto
figlio unico, tanto gli ricordava il suo carattere inflessibile e
prepotente
quello di chi l’aveva ogni volta avuta vinta. “La
perdonança, mi no la
cognosso. Chome xéla?”, volle improvvisamente
sapere.
“Bona
chome la Madona”, sussurrò flebile Hironimo,
d’un tratto
vergognoso nell’accennare a Madre, quasi si considerasse
indegno di lei e del
suo amore.
“Donca
chome xéla che vuj seti un Turcho?”
“No,
mi sum l’Orso.”
Thomà
arrossì colpevole, borbottando imbarazzato come non fosse
educato origliare le altrui preghiere.
“Me
piasarave incontrarla …”, confessò al
patrizio in un gran
sospiro. “Et ringrassiarla.”
“De
che?”
“Sciò
mi.”
“Co’
saremo liberi, mi te zuro che ‘ndremo tuti et do a Veniexia
da ela.”
“Sì,
un zorno …”, scosse il bambino sognante il capo,
socchiudendo
gli occhi. “Grassie, mille grassie per esserme stà
siempre vizin, anca se per
vuj nol gero nissun. Mi me despiase se ve gh’ho talvolta
astià, perhò a mi me
consola morir cum qualchedun ch’a me vol ben et no da solo
chome un can …” e
tacque in un gran sospiro, umettandosi le labbra secche.
Un lungo,
possente e doloroso tremore rivoltò ogni nervo di
Hironimo da capo a piedi all’udire quelle rassegnate parole,
recependone allibito
il tremendo significato e ribellandosi di conseguenza ad esso
– non con lui
vivo, non se poteva far qualcosa per impedirlo!
“Thomà?
Thomà, sveia, ti no te xé divertente!”,
lo rimproverò,
impaurito dalla lassa immobilità del fantolino tra le sue
braccia. “Thomà!
Thomà!”, gridò il giovane panicando e
squillando acuta la sua voce nella
semioscurità di quella fetida cella. Strisciando il Miani
afferrò la candela e
la portò al viso del bambino, mordendosi a sangue il labbro
dinanzi al suo
pallore mortale e al bianco dei bulbi oculari, quando aprì
forzatamente le
palpebre del piccino.
“Agiudo!
Agiudo!”, ruggì, fustigato dal crudele e sterile
eco
rimbombante dalle pareti. “Agiudo!”,
ripeté, ponendosi faticosamente in piedi e
gettandosi quasi di peso sulla porta sbarrata e chiusa a chiave.
“El more!
Agiudo! Agiudo!”, prese Hironimo a battere i palmi delle mani
fino a
scorticarseli di schegge, alternandoli con disperati pugni
finché il legno non
si tinse di macchioline rosse.
Constatata
la loro inefficacia, il giovane si voltò alla
forsennata ricerca di un qualsivoglia oggetto utile ad attirare
l’attenzione
dall’interno, trovando soltanto il pitale che però
essendo di terracotta non
poteva certo resistere all’impatto senza sgretolarsi.
E va
bene, non gli mancavano altri mezzi!
Hironimo
strinse i denti e ingoiò il dolore generato
dall’impatto
della sua spalla contro il legno e del peso sulla caviglia ferita,
mentre
rinculando prendeva una breve rincorsa.
Non aveva
combinato niente di buono nella sua vita, né per lui
né
per il suo prossimo. S’avvide chiaramente delle delusioni
date come figlio,
fratello, cittadino, castellano, malgrado non gli fosse mai mancato
né coraggio
né determinazione. Non meritava alcuna pietà
né giustificazione.
Non
stavolta, però, in quest’occasione.
Miani
aveva giurato a se stesso che a qualsiasi costo avrebbe
protetto quel bambino, anche anteponendolo ai propri interessi
personali.
Poca cosa
dunque massacrarsi le ossa contro quel duro legno, se
col suo sangue poteva salvare la vita di un innocente.
Contemporaneamente
a quei disperati tonfi sulla solida porta,
s’aggiungevano quelli nell’acqua provocati dal
legno del ponte, scardinata la
struttura dalla possente corrente del Piave, ingrossatosi per via delle
piogge
e pertanto ribelle ad ogni guado.
Fortuna
che l’Abbazia e la Certosa si trovavano abbastanza
distanti da non crollare dal peso delle bestemmie che si levarono, una
babele
di profanità in francese e tedesco e pure arricchite dalle
espressioni
regionali di tal idiomi.
Jacques
de Chabannes de la Palice assisteva accigliato ai miseri
progressi, le mani strette convulsamente tra di loro dietro la schiena.
S’impose di portar pazienza e insistere sulla costruzione di
quel dannato
ponte: ogni cosa d’altronde si piega al volere umano, se
sussisteva sufficiente
determinazione.
L’ennesimo
crollo lo contraddisse, provocandogli un rictus nervoso
all’occhio specie nel vedere alcuni suoi soldati nuotare a
stento sulla riva,
rigirandosi supini sulla riva, ansimando alla stregua di cani.
“Forse
dovremmo ordinar loro di fare una pausa”, gli
suggerì cauto
Giulio Sanseverino, le cui vicende famigliari gli avevano reso ogni
fiume assai
antipatico [6].
“Avranno
modo di riposarsi stanotte”, commentò aspro la
Palice,
rimbeccando invece i suoi uomini per quel loro tergiversare e
spronandoli a
riprendere chiodi, martelli, corde, livelle e seghe e costì
terminare almeno
metà ponte prima del calar della sera.
“Speriamo
a pancia piena”, gli fece notare Mercurio Bua, levando
gli occhi al plumbeo cielo senza
sole. “Non dovevano arrivare i
viveri da Castelfranco?”, chiese al Sanseverino, il quale si
guardò a disagio
la punta dei piedi.
“Non
una parola a riguardo dal nostro luogotenente”, ammise egli
infine. “Eppure mi ero personalmente raccomandato di spedirmi
una staffetta,
non appena i carri fossero partiti.”
“A
che ora eravate rimasti d’accordo?”
“Verso
le ore undici.”
E adesso
erano quasi le ventuno, pomeriggio inoltrato virante al
tramonto.
“Io
dico che gli è successo qualcosa di brutto”,
concluse il
capitano Jacob Empser, incrociando le braccia al petto. Ottenuta
l’attenzione
dei tre uomini, il tedesco prese coraggio ed esternò la sua
personale opinione:
“Non mi piace star qui ad aspettare di far la fine del
sorcio, morto o di fame
o mangiato dal gatto. Una volta terminato il ponte, andiamocene nella
Patria
del Friuli e riforniamoci lì di provviste e
munizioni!”
La Palice
lo fulminò con lo sguardo. “Vade retro,
satana”, sibilò
velenoso, allontanandosi fisicamente da quel diavolo tentatore.
Il
capitano Jacob non desistette, anzi, pure inseguì il
francese
nel disperato tentativo d’indurlo alla ragione:
“Maresciallo, voi non siete uno
sprovveduto, ciononostante non capisco perché vi ostiniate a
morire di fame in
questa terra ostile! Abbiamo già perso troppi uomini di
malattia, perché
raddoppiarne il numero? Senza contare che le polveri da sparo non ci
bastano né
tantomeno i cannoni! Non chiedo mica di disertare, sapete? Soltanto di
prendere
le piazzeforti friulane, di svuotarle e una volta ben forniti di andare
a
conquistare questa fottuta Treviso!”
Il
maresciallo si bloccò all’improvviso, voltandosi
di scatto
verso il tedesco e spingendolo quasi col petto lo costrinse ad
indietreggiare.
“Volete sapere perché preferisco aspettare qui
piuttosto che in Friuli? Perché
se lì le cose dovessero mettersi male, voi Allemands non
c’impieghereste nulla
a riparare a gambe levate in Allemagne, branco di conigli codardi che
non siete
altro! Mentre noi, capitaine Jacob, noi rimarremmo in balia della
popolazione
assetata del nostro sangue!”
“Dubitate
del sostegno del Kaiser?”, boccheggiò indignato il
capitano Jacob Empser, paonazzo in volto. “Credete che vi
sbatterebbe
irriconoscente la porta in faccia?”
Il
silenzio di la Palice fu molto esaustivo.
“Kapitän
Bua!”, s’appellò allora in extremis il
condottiero
all’albanese. “Il Kaiser vi ha nominato Graf di
Soave e suo consigliere: cosa
ne pensate voi? Che vi diserterebbe, lasciandovi morir sgozzato da un
branco di
bifolchi friulani?”
Ovvio che
no, coi suoi indiscussi meriti Mercurio s’era ben
conquistato la fiducia del Re dei Romani, tanto che questi assecondava
ogni suo
capriccio, il suo aiuto militare divenutogli indispensabile dopo la
morte del
Principe di Anhalt.
Eppure
…
Povero,
povero il mio Maurikos, Conte del Niente! Di quali terre e
titoli ti può investire Maximilianos, se ancora non ha vinto
la guerra? Vai
piuttosto a chiedergli di darti un feudo in terra
austriaca e poi
torna a riferirmi la sua riposta!, gli riecheggiarono d’un tratto le
taglienti parole di sua moglie Caterina, i cui lineamenti nella sua
testa si
stavano sinistramente sostituendo con quelli di
Hironimo. Ogni
volta la stessa storia con lui: molto onor, pochi contanti!
Tutt’al più se non
sei del suo paese!
“Io
non penso niente”, fu la gelida risposta del Bua al
comandante
tedesco, che si bloccò sconcertato, rimanendoci
letteralmente di sasso.
Dopodiché,
riprendendosi da quella tranvata, l’uomo imprecò
due o
tre volte e saltò in sella, spronando stizzito il suo
cavallo in direzione
della Certosa.
“Se
quei mangiarane vogliono crepare di fame o ammazzati dai
Veneziani, facciano pure che ce ne cale?!”, ringhiava tra
sé e sé. “Conigli
codardi … Pah! Quegli arroganti non sanno
che con l’onore non si
mangia?!”
Continua
...
**********************************************************************************************************************
La
questione di Soncino Benzone, come tutte le vicende, rimane
assai ambigua, considerandosi ambedue le parti nel giusto.
Manzonianamente
diciamo: Ai posteri l’ardua sentenza.
Certo
però che noi non crediamo per niente alle accuse a Gradenigo
di avergli congiurato contro; da come ce lo descrive il Sanudo e gli
altri suoi
contemporanei, Gradenigo era una persona moralmente retta e se gli
stavi
antipatico un motivo c’era e anche oggettivo, non personale.
Insomma, con lui o
si rigava dritto o si finiva male.
Di
conseguenza, Soncino Benzone avrà pur avuto validi motivi
per
serbar rancore contro la Serenissima, ciononostante è anche
vero che se è
finito com’è finito lo deve alle decisioni da lui
prese.
Francesco
Rangoni farà il bravo, Guido il fratellone lo tiene ben
sottocchio XD
Nel
prossimo capitolo si concluderanno le vicende qui iniziate e
si spera la prima parte di questa storia.
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
ovviamente alla lontana. Sua
figlia
Gradeniga aveva sposato nel 1506 un altro biscugino del Nostro,
Sebastiano
Contarini di Antonio di Andrea Contairni e Andrianna Miani. Parentela
dunque
alla lontana e acquisita che però il Nostro sta
spudoratamente sfruttando onde
mettere in soggezione il conte Gianfrancesco di Gambara,
giacché a quanto pare
il buon Gradenigo era un po’ il babau dell’epoca.
[2]
Antenòra,
nell’inferno dantesco è dove
si trovano i traditori della patria.
[3]
Gioco di
parole tra l’episodio in Matteo 18,
22 - E Gesù gli
rispose:
“Non ti dico (di perdonare) fino a sette volte, ma fino a
settanta volte sette
- e quello in Genesi 4,
24 - Sette volte sarà
vendicato Caino, ma Lamec settantasette.
[4]
la Messa
vespertina del sabato, che vale come Messa domenicale, è
stata introdotta da
papa Pio XII nel 1953.
[5]
La
descrizione dell’Abbazia di Sant’Eustachio
è stata scritta “intuitivamente” in
base alle poche immagini reperite e a ciò che rimane di
essa: infatti,
l’abbazia è andata distrutta durante la Prima
Guerra Mondiale dopo la Rotta di
Caporetto, trovandosi infatti poco distante dal Fronte del Piave, e
oggigiorno
non rimangono che i ruderi. Al momento non sono riuscita a reperire
testi
descrittivi dei suoi interni prima del 1917, quando ci
riuscirò, modificherò.
Ringraziamo
Semperinfelix
per averci dato qualche supplemento di fonti per orientarci sul modus
operandi
delle abbazie, specie dove risiedevano i viaggiatori.
Piccola
curiosità: l’Abbazia di Sant’Eustachio
era soprannominata
“L’Abbazia del Galateo”,
giacché lo scrittore, letterato e arcivescovo
monsignore Giovanni della Casa vi compose tra il 1551 e il 1555 il
libro
“Galateo overo de' costumi”, dopo essersi ritirato
a Nervesa onde trascorrervi
gli ultimi anni della sua vita. Il libro infatti verrà
pubblicato postumo, nel
1558.
Tra gli
altri ospiti illustri ricordiamo Pietro Aretino e Gaspara
Stampa, insomma un posto culturalmente parlando sia sacro che profano!
[6]
il padre
di Giulio, Roberto Sanseverino d’Aragona, era morto affogato
il 10 agosto 1487
nella Battaglia di Calliano.
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Capitolo 18 *** Capitolo Sedicesimo: 14-15 settembre 1511 ***
Ecco qua
il sedicesimo capitolo!
Ulteriori note si trovavano a fine
pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti:
linguaggio scurrile, scene piuttosto truculente,
totale assenza delle Convenzioni di Ginevra e altre
peculiarità.
Un
ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix e Mrosaria. Grazie a chi ha messo questa storia tra le
seguite,
preferite e ricordate.
Se vi chiedete come mai non rispondo
alle recensioni di Sagitta72 (che sempre ringrazio), si tratta di un
semplice
accordo preso da entrambe: è più divertente
risponderci e commentarle dal vivo!
Vi auguro una buona lettura,
H.
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Sedicesimo
14-15
settembre 1511
Un timido
vento disperdeva i miasmi di legno bruciato misto a
polvere da sparo, animando l’altrettanto timida aquila nera
imperiale a due
teste sovrastante la città dalla torre civile, la quale
pareva voler spiccare
il volo onde evitare la sorte delle sue sorelle cadute preda dei suoi
mortali
nemici e da loro strappate, dileggiate e bruciate senza
pietà alcuna.
Un
giovane soldato le comparve alle spalle, recidendo con
trionfante gusto i legacci che la reggevano all’asta e tosto
l’aquila tedesca
sì volteggiò cullata dal vento settembrino,
però per cader in ipnotici e
vorticosi cerchi giù dalla torre, ai cui piedi altri soldati
l’attendevano in
avida attesa di ghermirla e sfoggiarla prigioniera, essendo lei la
più
importante.
“Crepa!
Crepa maladeta!”, urlavano questi, sputandoci sopra mentre
un loro compare la piegava, deponendola sul carro dei vincitori,
là dove
avevano ammassato viveri e prigionieri.
Dall’alto
della torre il ragazzo rideva sguaiatamente, contagiato
dall’euforia dei suoi compagni, intanto che si scioglieva
dalla vita il secondo
vessillo ed ecco che il leone dorato ritornò a sventolare
nell’aria, ruggendo
al cielo in un fruscio di stoffa.
“Marco!
Marco! Vitoria! Vitoria!”
Dal
palazzo pretorio della liberata Castelfranco, sier Ferigo
Contarini assisteva all’intera operazione assai compiaciuto,
provando anch’egli
un piacere quasi fisico alla vista del vessillo tedesco rimpiazzato da
quello
veneziano, non dissimile dall’orgasmo raggiunto dopo un
amplesso assai focoso e
diamine se di fuoco ce n’era stato in
quell’assedio, lo dimostravano i resti
carbonizzati della porta cittadina e dei forni costruiti dai
Franco-Imperiali
per cuocere il pane.
Il morale
altissimo per quella schiacciante vittoria e il pingue
bottino gli avevano cancellato ogni fatica del combattimento,
nonché di una
notte intera trascorsa in sella. Sicché, approfittando
quindi dei
festeggiamenti dei suoi uomini e della spartizione tra essi della preda
di
guerra, il giovane provveditore degli stradioti si portò
allo scrittoio per
scrivere una lettera a suo fratello minore Marco Antonio,
così da informarlo
dei recenti avvenimenti prima ancora dei provveditori di Padova sier
Christophal Moro e sier Polo Capello, cui il Contarini doveva far
rapporto.
Magnifice
ac generose frater carissime
Come già scrittovi,
cavalcai tutto ieri fino a portami a Campo San Piero con 500 cavalli
tra
balestrieri e stradioti, appartenenti questi alla compagnia del signor
Jannes
da Campo Fregoso. Giunto che fui al campo, intesi come una scorta di
nemici
dovesse venire a prelevare otto cassoni di pane da Castel Francho,
laddove
veniva appunto preparato. A tal proposito levai il campo a mezzanotte e
cavalcai fino all’alba.
Stamattina
mi imboscai a due miglia o più sopra Castel Francho ed ebbi
la fortunata
intuizione di far sorvegliare ogni strada conducente alla
città acciocché
venendo il drappello nemico, questi si scontrasse con noialtri.
Lì stetti
nascosto per circa sei ore, senza che tuttavia alcun nemico si facesse
vivo.
Esplorai allora un tratto più avanti, circa sei miglia oltre
Asolo, allo scopo
d’apprendere maggiori informazioni sul campo nemico,
operazione finora
impossibile giacché dopo l’occupazione il paese
era rimasto disabitato. Inviai
dunque 50 stradioti con l’ordine di assaltare il campo, ossia
di catturare
qualche prigioniero, onde scoprire l’ubicazione esatta del
nuovo campo e
affinché il nemico non facesse ritorno a quello vecchio,
sapendolo vulnerabile.
Ritornati
indietro, galoppammo di corsa alle porte di Castel Francho e
lì diedi il
segnale d’ingaggiar battaglia e appiccare il fuoco alla porta
d’ingresso tanto
che nell’arco di due ore entravamo in città, dove
catturammo il luogotenente –
un gentiluomo di Pavia –
20 fanti, 12
cavalli e 8 fornai che rifornivano di pane il campo nemico.
Feci
saccheggiare tutto il pane che si trovava nei magazzini così
come i sacchi di
farina e di biada, in modo che ogni stradiota e balestriere potesse
caricare in
abbondanza i propri cavalli, chi di pane, chi di farina, chi di biada.
In
aggiunta ordinai di distruggere 8 nuovi forni fatti costruire dai
nemici (…)
“Come
posso aiutarvi, signor Conte?”, non staccò sier
Ferigo gli
occhi dal tavolo sotto di sé, pur ripiegando in fretta e
furia la lettera per
infilarla in una piccola borsa appesa alla cintura sotto la scarsella
dell’armatura.
Guido
Rangoni avanzò con delicata discrezione verso il
provveditore,
avendo infatti notato la maniera quasi protettiva con la quale questi
aveva
riposto via la missiva: si fosse trattato di un rapporto o a Padova o a
Venezia, di certo non gli avrebbe riservato, seppur di sfuggita,
quell’aria
lievemente offesa tipica di chi viene disturbato in un attimo di
privatezza.
“Il
signor comandante Giano di Campofregoso mi manda a chiedervi
istruzioni.”
“Sono
stati caricati i carri di pane, farina e biada?”
“Sì.”
“I
prigionieri?”
“Anche
loro sui carri.”
Il
Contarini s’accarezzò il mento, contemplando
pensoso il cielo
dalla finestra, le dita dell’altra mano tamburellanti sul
cosciale. Perduta la
tranquillità di scrivere senza interruzioni, già
stava rimandando ad altra
occasione il completamento della sua lettera.
“Sarà
meglio ritornare a Camposampiero finché
c’è luce”, gli
suggerì il capitano modenese, “onde evitare
stavolta d’imbatterci sul serio in
un drappello nemico, col rischio che si riappropri dei
viveri.”
Una
pessima eventualità. “Concordo appieno”,
sentenziò il
patrizio, alzandosi e raccogliendo i guanti e l’elmo.
“Non credo resti molto da
fare qui al momento”, aggiunse un poco deluso, nel suo intimo
desideroso di
sottrarre al nemico ulteriori fortezze e città occupate, se
non d’assaltare
direttamente il loro campo e degolarli tutti, dai comandanti fino
all’ultima
delle loro puttane.
Magari
una volta rientrati a Padova ne avrebbe discusso coi
provveditori, se fosse il caso di concentrare i loro sforzi nella Marca
in modo
da provocare i Collegati e costì distoglierli dal loro
proposito d’attaccare la
Patria del Friuli. La situazione si presentava troppo spinosa,
costellata di
scelte difficili: Treviso o i confini a nord-est, nella speranza che
nessuno
dei capi lì cedesse al nemico se per sconfitta militare o
viltà, giungendo a collaborare
nello specifico cogli imperiali, conoscendo infatti il Contarini gli
animi
ghibellini di alcuni nobili friulani e degli Ampezzani, il cui
atteggiamento
ambiguo sempre aveva lasciato grandi incognite nel corso dei vari
conflitti
affrontati dalla Signoria. Sui Cadorini, al contrario, il giovane
provveditore
degli stradioti poteva metterci la mano sul fuoco, la loro
lealtà solida e
immota come le montagne e anzi, nulla dava più piacere a
quella gente
d’aggiungere i tedeschi alla loro lista di selvaggina da
cacciare.
Il che
gli riportò alla mente …
“Com’è
parso a vostro fratello Francesco il suo primo assedio?”
Guido
Rangoni avvertì la gola d’un tratto secca per
quell’inaspettata e specifica menzione del suo cadetto.
“E’ rimasto tutto il
tempo accanto a me, sono sicuro che avrà avuto modo di
imparare bene.”
Ferigo
Contarini assottigliò gli occhi e il giovane conte si
domandò freneticamente tra sé e sé
quale ragionamento quella mente
imprevedibile stesse rincorrendo. “Ne sono anch’io
sicuro. Il signor Francesco
si può ben dire fortunato d’aver avuto come
esempio un uomo di somma integrità e
valoroso, quale il vostro illustrissimo signor padre. Nonché
voi, signor
Conte”, asserì sibillino il patrizio, deambulando
distrattamente, con quella
sua solita placida camminata felina.
Il
condottiero modenese reclinò attento il capo, in silenziosa
attesa e nelle orecchio l’eco tambureggiante dei propri
battiti cardiaci. Dove
voleva arrivare il provveditore con quel suo bislacco discorso? Che
c’entrava
ora Francesco che letteralmente fino a ieri non aveva mai contato nulla
come
militare?
“Eppure,
i fratelli minori si rivelano sempre problematici, vero?”,
fu la domanda retorica del veneziano, sulle labbra uno strano sorriso.
Guido
percepì una goccia di sudore scivolargli lentamente lungo la
schiena. “Essendo
appunto i più piccoli, i genitori non posseggono
più né le forze né la pazienza
riserbata ai maggiori e a quest’ultimi spetta
l’ingrato compito di supplire per
meglio educarli …”, ridacchiò
senza
gusto. “Sarà per questo che i primogeniti
tendenzialmente sono tra i più restii
a sposarsi?”
Il
Rangoni deglutì malamente la saliva, sforzandosi di ridere
alla
battuta e di modulare la voce onde mascherare il suo nervosismo.
“Può darsi. Prima
di far da padre ad eventuali figli miei effettivamente devo badare ai
miei
fratelli minori, i quali, lo ammetto, talvolta si dimostrano piuttosto
giovani
per questo mestiere …”
“Non
esistono giovani
nell’esercito, bensì soldati
vincolati da chiari obblighi”, lo interruppe gelido il
Contarini, il viso più
duro della pietra, usando ora il medesimo tono che riserbava agli
stradioti ai
suoi ordini ribelli, prima di frustarli al primo palo disponibile.
“Detto
questo”, si portò egli talmente vicino a Guido che
i loro fiati parvero
mescolarsi, “fingerò di non aver ascoltato quanto
udito a Camposampiero tra voi
e vostro fratello. Citandovi, mi si spezzerebbe il cuore doverlo veder
penzolare come Soncino Benzone”, gli confessò
perentorio, allontanandosi dal
condottiero cui mancò per poco di cadere in ginocchio, tale
fu lo spavento che
lo colse nell’udire quella rivelazione.
Come
aveva fatto il provveditore a venir a conoscenza di quella
loro assai privata conversazione?
Al
punto di citargli verbatim le sue stesse parole?
Guido
avvertì il viso avvampare e poi freddarsi da un improvviso
reflusso di sangue, portandolo ad ansimare pesantemente, di colpo
terrorizzato
per la sorte del fratello e desideroso di scagionarlo a qualsiasi
costo, con
qualsiasi argomentazione.
Di nuovo,
Ferigo lo anticipò, impedendogli di parlare tramite un
deciso cenno della mano. “Non mi guardate con quella faccia
né tantomeno
perdete tempo in inutili giustificazioni. Non vi sto accusando
d’alcunché,
anzi, capisco benissimo i vostri crucci e per questo vi sto avvertendo.
Anch’io
ho un fratello più piccolo e m’è noto
quanto i nostri minori possano agire e
parlare sconsideratamente, neanche provassero gusto a tormentarci con
le loro
insensatezze”, disse sfoggiando un’espressione
contraddittoriamente malinconica
rispetto alle sue dure parole. Il patrizio spostò gli occhi
dal volto del conte
ai graffiti sulle pareti del palazzo pretorio.
“L’amaro prezzo del nostro
privilegio di primogeniti …”, mormorò
più a sé che all’altro, estraendo un
pugnale dalla fodera e con la punta andando a scalpellare dal muro una
scritta
al veneziano molesta.
“Che
cosa fareste se un giorno il vostro cadetto dovesse
tradirvi?”, ruppe Guido l’incomodo silenzio
interpostosi tra loro due.
Domandava sì per curiosità, ma soprattutto per
cercar una consolante conferma
che a questo mondo non sarebbe stato né il solo
né il più reprobo dei fratelli
ad agire così contro il suo stesso sangue. Chiedeva
perché in cuor suo il
giovane sapeva che nel Contarini aveva trovato uno spirito affine, che
l’avrebbe compreso senza giudicarlo. “Come vi
comportereste con lui?”
La lama
del pugnale si bloccò improvvisamente
sull’intonaco da
esso grattugiato.
“Che
cosa farei se Marco Antonio dovesse tradire la Signoria?”,
ripeté Ferigo talmente incolore, che Guido temette la sua
voce provenire
dall’oltretomba. “Lo ucciderei con le mie stesse
mani, onde punire sia lui che
me stesso”, gli confidò e grugnì mentre
imprimeva un’eccessiva forza contro il
muro, staccando un grosso strato di malta che cadde rovinosamente per
terra.
“Ho risposto in maniera esaustiva alla vostra
domanda?”, si voltò infine il
provveditore verso il modenese, il quale osservando la mortale
serietà sul viso
di questi non poté non costatare la veridicità
delle sue parole.
Nessuna
punizione, giudicava infatti Ferigo, poteva per lui
superare in crudeltà a quella di dover sopprimere di persona
il suo amatissimo
fratello, così da portare per sempre sulle spalle sia il
peso del fratricidio sia
dell’amaro rimpianto di non aver potuto impedire
l’infamia del tradimento. Contrariamente
a quanto affermato da Caino, il Contarini sì che si
considerava il custode del
suo diletto Marco Antonio.
“Se
non v’incomoda, dopo aver fatto relazione ai provveditori
sier
Capello e sier Moro, vorrei dopodomani che m’accompagnaste a
Venezia”, cambiò
repentinamente discorso il patrizio. “O meglio, mi dovete accompagnare, poiché la
vostra presenza è richiesta a
Palazzo Ducale dal Serenissimo e dalla Signoria.”
In altre
circostanze, Guido Rangoni sarebbe stato molto lusingato
da quella convocazione; ora come ora, a seguito di tutti quei pesanti
discorsi,
era indeciso se gioirne o incominciare a preoccuparsi. “Per
quale motivo, se
posso chiedere?”
Il
giovane provveditore degli stradioti sorrise a fior di labbra,
giocherellando con la punta dei piedi coi pezzi di intonaco scalpellati
via dal
muro. “Per discutere della compagnia del fu governatore di
Padova, domino Lucio
Malvezzi”, fu la sua vaga spiegazione.
“Chissà che voi e vostro fratello
Francesco non possiate trarne qualche vantaggio, visto che il ragazzo
s’è
comportato davvero valorosamente in questo suo primo assedio
… Uhm, che
cos’abbiamo scritto qua? Hoch lebe
der
Kaiser Maximilian von Habsburg, Sieger des Löwen Venedigs
…”, ripeté a voce
alta Ferigo in un comico ed incerto tedesco lo scarabocchio che, a
furia di
grattare, aveva staccato via dalla parete e che ora giaceva scomposto a
pezzi
per terra. “Puoah, che sgradevole lingua barbara!”,
commentò in sardonico
disgusto e pestò malevolo la scritta, premendovi bene sopra
il piede e triturando
la malta in sottile polvere. “Dopo di voi, signor
Conte”, fece cenno al nobile
ad operazione completata, indicandogli la porta.
“Grazie
mille.”
Fosse
stato Guido Rangoni un’altra persona, dopo un tale confronto
minimo avrebbe nutrito o risentimento o paura nei confronti del
patrizio.
Invece, da quel poco ch’era riuscito a determinare del suo
carattere, appunto
perché il Contarini l’aveva preso in disparte e
ammonito laddove nessuno poteva
fungere da scomodo testimone, appellandosi per di più al
comune amore che
portavano verso i loro fratelli minori, che il giovane condottiero
sapeva di
poter contare su di lui quasi come su di un amico.
(…)
dopodiché mi riportai a Campo San Piero non avendo altro da
concludere, anche
perché ogni soldato, carico di bottino, voleva ben portaselo
casa.
Altro
non vi dico per ora: Iddio sia con voi!
Campo San
Piero, 14 settembre 1511, ore 21.
Frater Contarenus,
Stratiotarum
Provisor
***
Fai il
bravo, Thomà, comportati in
maniera
degna della chiamata che hai ricevuto, con ogni umiltà,
dolcezza e magnanimità, s’era
raccomandata la nonna il giorno della sua Prima Comunione. Prega tanto Domine Iddio, la Madonna, i Santi
Vittore e Corona e vedrai
che non andrai mai all’inferno!
Com’è
l’inferno, siora Nonna?
Un luogo
dove brucia un eterno incendio, le fiamme talmente alte che ti
squagliano il
viso; dove i diavoli arpionano e infilzano le anime inermi dei dannati;
dove né
pietà né speranza esistono. Solo terrore, pianto
e stridore di denti. Un luogo
senza la luce di Dio.
E
l’inferno Thomà l’aveva vissuto sulla
sua pelle, altroché.
Forse
perché senza saperlo egli era già morto e la sua
breve vita talmente
costellata di peccati, da precludergli il Padreterno il Paradiso,
spedendolo appunto
all’inferno. Altrimenti, il bambino non riusciva a spiegarsi
come mai quella
spirale di morte, distruzione e odio non giungesse mai al termine,
laddove non
sussisteva altra logica se non quella di versare quanto più
sangue a seconda
dell’offesa ricevuta. All’inizio aveva tentato di
dissociarsi, considerando la
guerra affare tra soldati ma poi …
Poi
divenne questione personale, il sangue e la vendetta le uniche
fonti di sollievo in un dolore inumano, un palliativo
all’odio che gli
consumava le giovanissime viscere, ammorbando ogni pensiero e
divorandogli
pezzo per pezzo la sua innocenza di bambino.
Thomà
non vedeva alcun futuro, non si figurava adulto. Un tempo,
felice e pieno d’amore, sognava d’apprendere il
mestiere del nonno e del padre,
di aprire la sua bottega, di sposare la figlioletta della vicina di
casa e
avere con lei tanti bei bimbi, grassi e morbidi come i suoi fratellini.
Egli
stesso avrebbe costruito la loro culla, si riprometteva.
Negli
ultimi due anni, il fantolino aveva al contrario appreso a
vivere alla giornata, a procurarsi il cibo e possibilmente la morte del
nemico.
Se da piccino era rimasto turbato durante la veglia funebre del nonno,
adesso
la vista di un cadavere lo lasciava totalmente indifferente; anzi, se
si
trattava di un tedesco pure lo rallegrava. Non distoglieva lo sguardo
dai pezzi
di carne umana schizzare a seguito dell’impatto della balota
del cannone,
semmai miscelava con maggior ardore le polveri come insegnatogli da
Andrea
Trepin il bombardiere. I rantoli, le bestemmie, l’odore acre
del sangue e del
fumo delle bocche di fuoco gli erano divenuti compagni di viaggio,
assuefandosi
ad essi. Soltanto il distante eco delle preghiere della nonna gli
impedivano di
sacramentare e anche perché, nelle cupe ore in cui gli
mancava la mamma, lo
consolava sapere che gliene fosse rimasta sempre Una che lo vegliava,
anche se
da distante.
Vivere,
morire, uccidere; giusto o sbagliato che importanza
avevano per lui? Tanto Dio aveva distolto lo sguardo dalla sua terra e
la sua
assenza aveva scatenato i diavoli, scesi dalle montagne apposta per
tormentarli, a loro volta però dilaniati dalle stesse
vittime trasformate in
carnefici.
Thomà
era uno di loro.
La prima
volta fu il 3 agosto del 1509.
I
Feltrini s’erano ribellati alla volontà dei loro
nobili di
sottomettersi ai Tedeschi e malgrado la città avesse accolto
lo stesso
Imperatore, già di soppiatto apriva le porte alle milizie
veneziane per
ritornare a San Marco. La
risposta degli
Imperiali non tardò a farsi sentire e miracolosamente la
famiglia di Thomà si
salvò dal fiume di sangue che scorse nella sua Feltre, la
loro modesta
casa-bottega scampata all’occhio famelico e vendicativo dei
tedeschi, non
giudicandola essi degna di saccheggio. Tuttavia il bambino
fagocitò per sempre
nel suo cervello le urla dei 400 feltrini massacrati nel più
brutale e
infamante dei modi, il vagito dei bambini prima di venir strappati
dalle loro
isteriche madri, costrette ad assistere alla loro morte mentre venivano
ripetutamente violentate. Gridavano a squarciagola al cielo, nella
speranza di
un miracolo che mai sarebbe avvenuto, invocando Dio come ultima suprema
difesa.
All’epoca
Thomà non vide niente, udì soltanto tra le
braccia di
sua nonna, la quale gli tappava la bocca acciocché non
emettesse alcun suono e
dunque credessero quelle bestie teutoniche vuota la casa. Quando
poté uscire,
gli parve di camminare in un cimitero a cielo aperto: le strade pregne
d’un
silenzio mefitico e di cadaveri mutilati, irriconoscibili, insidiati
dagli
magri cani randagi.
Tra
questi visi di gesso Thomà scoprì la bimbetta che
aveva in
progetto di sposare un giorno. Quante volte glielo aveva promesso,
arrossendo
imbronciato dinanzi ai bonari risolini della vicina e di sua madre?
Thomà le
accarezzò le trecce insanguinate, quante volte gliele aveva
viste pettinate?
Quante volte gliele aveva tirate per farle dispetto, ma in
realtà perché voleva
la sua attenzione?
Il Re dei Diavoli aveva
fatto questo, quello schifoso austriaco dalla faccia da badile, che se
n’era
cavalcato tutto trionfo a Feltre, credendosi chissà chi. L’Ultimo Cavaliere lo
soprannominavano, quel porco farcito di pura
arroganza, entrato in città solamente perché i
soliti ghibellini avevano
cospirato in segreto ai danni della Signoria. Te
Deum, aveva ordinato di cantare in Cattedrale, cosa voleva
ringraziare Dio se manco aveva messo in gioco la sua vita per un
istante? Ovvio
che chi vince facile, poi al primo schiaffo si vuol vendicare
più ferocemente.
Perché la sua sconfitta è la prova della sua
inettitudine.
A
novembre dello stesso anno, con ancora il viso esangue della sua
fantolina marchiato a fuoco nell’animo suo, Thomà
aveva gioito del congiunto
assalto dei Feltrini e Veneziani all’antico Castello di
Alboino, nonché al
massacro della seconda guarnigione lasciata da Maximilian, ivi
asserragliatasi.
Di essa sopravvissero soltanto il capitano e due soldati, trascinati
dalla
popolazione inferocita in piazza, Thomà in prima fila contro
il parere materno.
Dove vai? Cosa fai?, gli urlava
dietro la sua mamma, ignorando di come il malvagio seme
dell’odio già gli stesse
germogliando nel cuore. Rise il bambino quando al capitano tedesco
vennero
cavati gli occhi coi ferri ardenti. Ai due soldati che ebbero in
consegna il
loro capitano, affinché lo consegnassero
all’Imperatore, invece si limitarono
ad amputare le mani. E Thomà rise ancora più
forte.
Evidentemente,
Dio lo punì per quello.
Erano i
primi di luglio quando l’odiosa aquila a due teste si
ripresentò alle porte di Feltre. Di nuovo Thomà
s’era nascosto al solito posto,
sotto una panca, ma stavolta i diavoli teutonici seppero dove scovare
la sua
famiglia. Questa volta vide il
padre
e i fratelli torturati prima di venir uccisi, vide
lo stupro di madre e sorelle. Vide
la povera sua nonna divenire cibo per cani. Vide
gli stivali unti di fango e sangue
avvicinarsi al suo nascondiglio, distruggerlo, si vide
ghermito dal lanzichenecco e seppe che la sua vita finiva quel
giorno.
A meno
che …
Tempo
addietro, durante una visita a dei parenti a Pedavena, Thomà
aveva assistito alle pubbliche lamentazioni di un pastore, cui il lupo
aveva sbranato
alcune pecore. Maledette bestie! ,
aveva imprecato, mostrando loro le penzolanti gole aperte.
Bestia
… bestia … Gli animali non possedevano spade,
balestre,
archibugi o cannoni, eppure uccidevano ugualmente.
Se non
posso difendermi da essere umano, allora sarà da animale.
Thomà
spalancò la bocca e azzannò il pomo
d’Adamo del
lanzichenecco. Era il 3 luglio 1510.
Il primo
affondo si rivelò difficile, riempiendogli il sangue la
gola, le nari e macchiandogli gli occhi, accecandolo e provocandogli un
conato
di vomito. Ma resistette, in nome della vendetta e della sopravvivenza.
Il
tedesco dimenandosi convulsamente tentava di scrollarselo di dosso, al
che il
bambino affondava con maggior vigore i denti nella carne, masticandola,
trincerandola finché il muscolo non si staccò e
Thomà lo sputò, mentre fiotti
rossi e caldi gli inondavano la faccia. I due caddero in un tonfo
assieme e il
fantolino rubò al lanzichenecco il suo pugnale, per poi
scappare via dalla
finestra, gettandosi e cadendo su di uno cumulo di cadaveri. Tra essi
Thomà si
camuffò, avanzando difficoltosamente passo per passo, corpo
per corpo, mentre
una voluta di fumo saliva al cielo.
Poi
furono le fiamme. Alte e grandi, peggio di una muraglia.
Ovunque, inarrestabili, ingoiandosi case, chiese, conventi, persone.
Thomà si
gettò dentro le vasche d’’acqua gelida
delle belle fontane lombardesche, riemergendo
intirizzito, tossendo e annaspando avido d’ossigeno.
Rabbrividendo attraversò
la fornace ardente che s’era trasformata Feltre, i tetti
sfrigolanti, i vetri
che scoppiavano dalla pressione per poi vomitare fuoco, ogni segno
dell’umano
passaggio divorato, spazzato via, come se i Feltrini non fossero mai
esistiti.
Le ustionanti vampate di calore gli ribollivano il sangue nelle vene,
però
Thomà stringendo i denti correva verso Porta Oria, in
direzione forse di
Cividale di Belluno, che ne sapeva lui? Uscire, uscire
dall’inferno doveva,
ovunque, senza guardare i diavoli che con le loro lance arpionavano
gente
indifesa, ridendo e sghignazzando in quella loro ruvida lingua.
L’inferno,
l’inferno in terra. E Thomà un’anima
dannata, rincorso
dai diavoli, seminudo, lordo di sangue e bagnato fradicio, la pelle
nera di
fuliggine da scambiarlo per un moretto, il pugnale ben stretto in pugno
che
mulinava per farsi largo tra la vegetazione, incurante dei rovi, delle
ortiche,
delle lacrime mischiate al sangue, della flemma che gli colava in bocca
dal
naso, del piscio che gli appiccicava le cosce.
Correva,
piangeva – Mamma!
Mamma! invocava la povera donna ridotta ormai a polvere al
vento.
Mio Dio,
mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Per tre
giorni e tre notti la città bruciò. A Cividale di
Belluno,
distante venticinque miglia, videro il cielo sopra Feltre tinto
d’arancione, poi
una possente e densa colonna di fumo e un silenzio di morte calare
sulla
vallata.
Bisognò
attendere la primavera prima che Venezia si riprendesse
Feltre, che coincise con l’arrivo di Thomà a
Castelnuovo di Quero in qualità di
assistente del bombardiere Andrea Trepin da Belluno e questo poco dopo
l’insediamento
a marzo del 1511 del nuovo castellano e reggente della fortezza sul
Piave, sier
Hironimo Miani q. sier Anzolo. Il fantolino aveva riconosciuto
immediatamente
il patronimico e il cognome, avendoli infatti
“letti” ogniqualvolta la sua
mamma attingeva l’acqua dalle fontane in Piazza Maggiore: era
quello del
podestà e capitano sier Anzolo Miani, colui che aveva difeso
la città dal duca
austriaco Sigmund von Habsburg nel lontano 1487, respingendo in pieno
inverno
la sua invasione e costì salvando la sua gente. Lo sai che tuo nonno e tuo papà
costruirono la culla ai figli del
Miani? , gli narrava orgogliosa la sua nonna, indicandogli
lo stemma.
Forse era
un segno del destino che il figlio di un tal valente
podestà e capitano fosse giunto da queste bande. Forse era
il miracolo che
serviva loro per sconfiggere i diavoli tedeschi, aveva giudicato
Thomà il
giorno delle presentazioni ufficiali col giovane Miani a Castelnuovo.
Ne rimase
deluso.
Chi gli
si era parato innanzi (impressione da tutti condivisa del
resto) non era nient’altro se non un ragazzo. Per
carità pieno di iniziative, di
grinta, di sopportazione, indefesso lavoratore però sempre
un ragazzo che aveva
assistito a troppe carneficine in troppo poco tempo, un ragazzo
spaventato che si
nascondeva dietro alla rabbia per non sembrare da meno rispetto agli
altri. E
chi non lo era in quell’inferno?
Se il
nuovo castellano non gli avesse ripetutamente urlato dietro
manco un indemoniato, forse Thomà avrebbe potuto anche
volergli bene e a rassicurarlo
che non c’era vergogna nella paura, bastava solo vincerla con
la crudeltà,
pensava egli accarezzando il pugnale della sua prima vittima.
Perché
sapete, Thomà aveva un segreto, tenuto nascosto anche ad
Andrea Trepin che pur amava alla stregua d’un fratello. A
questi aveva infatti
raccontato soltanto di come avesse vissuto fino al loro incontro
d’espedienti,
tra furti e accattonaggio ora da solo ora in compagnia di qualche
compaesano.
Non gli aveva raccontato di Primiero, di ciò che
lì combinò, anche se fu poca
cosa a confronto degli altri Feltrini sfollati e impestati
d’odio verso
qualsiasi cosa fosse stata tedesca.
La
valle di Primiero era governata dai
Welsberg, nota famiglia legata alla casa d’Austria.
A
Primiero si parlava tedesco, si
scriveva in tedesco, si pregava in tedesco con preti tedeschi, i suoi
minatori
erano tedeschi e chissenefregava se condividevano il medesimo
vescovado,
chissenfregava se Primiero non aveva supportato l’eccidio di
Feltre in alcun
modo, anzi, aveva ribadito la sua amicizia. Agli occhi dei Feltrini gli
abitanti della valle di Primiero erano tedeschi ergo odiosi sudditi del
più
odioso dei nemici, il Re dei Diavoli, Faccia da Badile, Maximilian von
Habsburg.
Terre
grasse, terre vergini dalla
guerra, dalla fame, dalla distruzione. Felici e fertili terre tedesche.
Terre
dell’Imperatore. Terre vicine.
Dopo
mesi di vagabondaggi
sopravvivendo alla stregua d’un animale, Thomà
conosceva a menadito le strade
per la Valsugana e incurante dei suoi dieci anni, più che
volentieri assieme ad
altri locali guidò i 2.500 fanti e 50 cavalieri feltrini che
si misero in
marcia, un esercito raccogliticcio ma assai motivato dal solo scopo
della
vendetta. Soldati improvvisati, gente che non aveva più
nulla da perdere perché
tutto aveva perduto, anima compresa.
I diavoli
avevano distrutto il loro Paradiso, adesso avrebbero sfondato
i cancelli del loro.
Penetrarono
rapidamente nella Valsugana, poi nelle valli del
Tesino, lasciandosi alle spalle incendi e brutali saccheggi, senza star
tanto a
guardar in faccia a chicchessia, sordi all’invocazioni di
pietà, di pensar a
Dio e al suo castigo. A chi toccava, toccava, assolutamente imparziali
nell’elargire la morte.
Poi fu il
turno di Primiero e che Dio avesse pietà delle anime
loro, ché i Feltrini non ne ebbero. Settanta volte sette
s’abbatté su di loro
la vendetta di quella torma infuriata e incattivita dalle disgrazie
subite per
mano dei lanzichenecchi di Maximilian.
Come un
branco di lupi rabbiosi i Feltrini si sfogarono sulle
genti di Primiero, seminando il terrore nell’intera valle,
battendo
accuratamente villaggio dopo villaggio, spadroneggiandovi indisturbati
finché,
razziato il razziabile, lo incendiavano e passavano al successivo,
inarrestabile masnada di senzadio che in ferocia poteva eguagliare
quella dei
Turchi. Nessuno si poteva dire al sicuro, non permisero a nessuno di
scappar
via.
Ovunque
andassero, i Feltrini bruciavano, saccheggiavano,
ammazzavano e Thomà sempre con loro. Era lì
quando incendiarono la Bastia
tirolese ad inizio della vallata. Era lì quando piombarono
inaspettati sul
primo villaggio, gettandosi voracemente sugli abitanti, estraendoli uno
ad uno
fuori dalle proprie case e trascinatoli nelle strade li scaraventavano
contro i
muri e li trasformarono in porcospini con frecce al posto degli aculei,
come
Diocleziano aveva ordinato agli arcieri di San Sebastiano. O similmente
al
drago di San Giorgio finivano infilzati dalle picche feltrine tra
grugniti e
grida agonizzanti. Qualcheduno si beccò persino il medesimo
trattamento di
Sant’Erasmo e San Floriano, neanche si volesse metter in
scena qualche iperrealistico
mistero o leggenda aurea. Se mancavano gli istrumenti, si suppliva con
le mani,
dipingendo le pareti con le cervella dei paesani. Oppure li
defenestravano
direttamente e torcendo col piede il collo ai disgraziati, completavano
l’opera. L’impiccavano, li bruciavano vivi
– oh, l’immaginazione non mancava ai
Feltrini grazie all’arte appresa dai lanzichenecchi! [1]
Thomà
diede una mano ai suoi concittadini a riutilizzare le federe
dei cuscini come gran sacchi da riempire di cibo, vasellame, ori,
argenti, di
qualsiasi cosa o utile nell’immediato o come futura merce di
scambio. Si riempì
la scarsella di pane, fette di formaggio, di bottoni, di anelli, di
collane; si
arrotolò al collo giri di salsicce e un rosario
d’ambra. Entrato in una chiesa,
s’avvolse alla vita la tovaglia di seta bordata
d’oro dell’altare e si riempì
la fiaschetta di vino; quando il prete tentò
d’indurlo alla ragione, il bambino
gli puntò contro il pugnale, ferendogli di striscio la mano
e berciando (anche
se molto probabilmente l’uomo non capì niente): Taci, prete: vi siete bevuti il nostro vino,
sbafati il nostro cibo,
saccheggiato le nostre chiese! Adesso tocca a noi! Thomà si tolse
persino lo sfizio di lanciar
merda sull’aquila asburgica dipinta nella Rathaus e di
pisciare sullo stendardo
e lo scudo scaraventati giù per il pubblico ludibrio.
S’ingozzò
del ferocemente agognato cibo, seduto su di un
materasso finito chissà come in strada, mentre assisteva a
quella folle danza
macabra, che gli ricordava vagamente la mattanza dei porci a San
Giovanni.
Nessuno ebbe il pudore d’allontanarlo quando, liquidati gli
uomini, si decise
di passare alle donne, ricambiando il favore che i tedeschi avevano
riserbato a
quelle dei Feltrini, costringendole a vergognose rusticità.
Tanto, la
violenza in ogni sua manifestazione non turbava più
l’anima del fantolino. Non si scompose neanche alla vista di
un suo compaesano,
da tutto il borgo suo conosciuto come un uomo mite e di gran cuore,
avventarsi
contro una madre che stava difendendo il suo figlioletto. Mein Kind!, gridava disperata la donna, Gnade! Gnade! Mein Kind! Es ist nur ein Kind! Nur
ein Kind ,
piangeva, le braccia sanguinanti e piene di lividi levate in alto sia
supplici
sia in segno di resa.
Non ho più
pietà! Non ho più figli! Non ho più
moglie! Non ho più vita!, le ruggì
dietro il feltrino tra amare lacrime, ghermendola per i capelli e
sbattendole
la testa su di una panca ad ogni esclamazione, finché il
corpo della donna,
dopo un violento spasmo, s’afflosciò privo di vita
e la sua faccia divenne una
poltiglia irriconoscibile; ciononostante, l’uomo
seguitò imperterrito,
ritrovandosi macchiato di sangue e cervella fino al gomito. Ansimando,
si
ritrasse singhiozzando dal cadavere, gli occhi spenti e vacui.
Dietro di
te!, lo
avvertì d’un tratto gridando Thomà e
voltandosi di scatto il
feltrino menò di riflesso un rapidissimo taglio di striscio,
recidendo la
carotide dell’assalitore alle sue spalle talmente a fondo,
che si vedeva
l’osso.
E
così via per parecchi giorni. Stesso scenario, ma con facce
nuove. Saccheggiare, ammazzare, bruciare. Saccheggiare, ammazzare,
bruciare.
Infine,
quando ebbero raggiunto un sufficiente numero di villaggi
ridotti a macerie fumanti, i Feltrini si considerarono abbastanza
satolli di
vendetta e, con le mani e le vesti incrostate di sangue, se ne
tornarono alla
loro città di cenere, percorrendo trionfanti e carichi di
bottino la via di
Schenèr, con Thomà in mezzo al festoso corteo.
A quanto
pareva, neppure quelle sue azioni piacquero a Dio, ed
ecco che Castelnuovo di Quero malgrado la strenue difesa cadeva, il suo
fratello d’anima Andrea Trepin moriva in combattimento e lui,
finito
prigioniero, s’era ammalato magari di peste o di polmonite o
di tutt’e due e
stavolta nulla l’avrebbe salvato dall’inferno
dell’Aldilà, dopo l’assaggio
dell’Aldiqua.
“…
perzò, sior pare confessor colendissimo, gh’aveu
capio horra
perché mi no gh’ho timor ni de crepar ni de finir
a l’inferno? Mi sun zà
cativo, gh’ho fato cosse assa’ brutte et Domine
Iesu nol me va a perdonar.”
Fra’
Anselmo strinse convulsamente il crocifisso appoggiato alle
ginocchia, sopraffatto dal peso della stola da confessione, gli occhi
gonfi e
umidi di lacrime. Guardò smarrito il bambino che al
contrario ricambiava
tranquillissimo, le dita incrociate al petto sulle coperte tirate fino
al
mento. Il frate s’umettò le labbra, incapace per
la prima volta in vita sua di
fornire consiglio al penitente: né il rigoroso esercizio
della Regola benedettina,
né i pingui volumi pregni della saggezza dei Dottori della
Chiesa avrebbero
potuto ispirargli una parola anche solo per commentare su quanto visto,
udito e
fatto da una creatura, il cui massimo peccato doveva limitarsi a far i
capricci
per non voler coricarsi all’ora stabilita.
Chi invece
scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe
meglio
per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e
fosse
gettato negli abissi del mare.
E di
scandali ne avevano creati in sì gran copia, che il frate si
chiese come facesse Dio a non nausearsi di loro, scaraventandoli ancora
vivi
nella Geenna o annegandoli tutti in un secondo Diluvio Universale,
amici e
nemici. Per via di questo suo disgusto l’uomo s’era
ritirato dal mondo, anche
nel tentativo di capire tramite le Scritture e la vita ascetica il
perché di
tanta misericordia verso coloro che non la praticavano, come la
parabola del
servo malvagio che, pur condonatogli dal padrone il grosso debito, non
aveva
esitato a gettar in prigione un suo pari per una piccola somma di
denaro. Ma
era anche vero che Dio non seguiva la logica umana, la quale per quanto
si
sforzasse non sarebbe mai riuscita a decifrarne i pensieri,
né a trovare un
nesso in coloro che lei considerava palesi contraddizioni. Ad esempio,
in
quanto veneto il monaco teoricamente non doveva curare i soldati
francesi
ammalati e ricoverati nell’infermeria dell’Abbazia;
tuttavia lasciarli morire
significava divenire agli occhi di Dio un assassino. Talvolta il dare a
Cesare
e il dare a Dio non risultava di così facile esecuzione come
si predicava.
Schiarendosi
a disagio la gola, Fra’ Anselmo si sporse sul fantolino
disteso sul lettuccio.
“Ti
te xé veramente pentio de li toi pecadi?”, gli
chiese infine,
celando il groppo in gola.
Thomà
abbassò il mento sul petto, piegando
all’ingiù la bocca e il
frate capì quanto sforzo quella risposta gli costasse e
avrebbe d’altronde
potuto biasimarlo? I tedeschi gli avevano portato via quei pochi punti
di
riferimento della sua giovanissima vita – la famiglia, la
casa, a momenti la
stessa fede – privandolo di un futuro, un’orfana
foglia al vento in balia degli
eventi. Dio sapeva essere davvero esigente talvolta …
Nondimeno,
il bambino annuì sincero e per la prima volta
dall’inizio della confessione l’uomo vi lesse un
flebile barlume di speranza.
“Così, vi dico, ci sarà
più
gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti
che non
hanno bisogno di conversione. Domine Iesu Christo, el bon
Pastor che nol
gh’ha volesto perdar manco na piegora al pecado,
ch’el te daga, mediante el
minister di la Giesa, ea perdonança per le toe
colpe”, gli impose Fra’ Anselmo
la mano sul capo, pur con qualche difficoltà non fidandosi
Thomà di lasciarsi
toccare da chicchessia. “Ego te absolvo a peccatis tuis in
nomine Patris et
Filii et Spiritus Sancti. Amen.”
“Amen.”
“Ancuò
xé zorno di la Madona Dolorà. Te cognossi el Stabat Mater?”
“Siorno.”
“El
Salve Regina?”
“Siorno.”
“Almanco
l’Ave Maria?”
“Un
puoco”, s’afflosciò Thomà
imbarazzato nel cuscino, tirando su
la coperta, intimidito dallo sguardo ora severo ora sconfortato del
benedettino,
il quale si domandava in che razza di mondo di pagani e ignoranti fosse
nato e
cresciuto.
Ironicamente,
più la cultura si diffondeva grazie alla stampa e alle
raffinate corti italiane, più il popolo sprofondava
nell’ignoranza, soprattutto
religiosa. Ah, non che lor signori fossero meglio, con le loro
arroganti teorie
d’antropocentrismo! Se davvero l’uomo è
padrone del proprio destino, perché
allora egli col suo intelletto superiore non aveva
impedito
che un bambino
s’insozzasse l’anima assistendo e divenendo
complice di turpitudini
innominabili? L’uomo piuttosto è folle, non
ragiona se non d’istinto e l’unico
freno è Dio Padre e appunto come ogni figlio discolo Lo ama
e Lo odia, perché
vuol sì la Sua protezione senza però seguirne i
precetti.
E ora
questa loro follia gli uomini l’avevano imposta pure nella
casa del Padre, invadendo l’Abbazia e la basilica con la
scusa della guerra.
“Ti
no te cognossi l’Ave Maria,
perhò te gh’ha pur fato ea Comunion! Qual prete
turcho te gavei a Feltre, caro
ti?”
“No
xé colpa mia et manc’elo cognosse l’Ave Maria!”, si
discolpò Thomà indicando prontamente Hironimo, il
quale se ne stava a debita distanza, acciocché il decenne si
potesse confessare
in tutta tranquillità.
Il
giovane Miani si voltò verso i due, arcuando
inquisitivamente
il sopracciglio, seguitando tuttavia a suggere la sua calda tisana.
“Spion!”,
commentò in una piccata cantilena. Thomà
replicò tramite una rumorosa
linguaccia e Fra’ Anselmo si grattò la fronte
assai imbarazzato. “Gh’aveu
terminà, sior frate?”, li raggiunse il patrizio e
si sedette accanto al malato,
togliendogli la pezza d’acqua dalla fronte e, imbevutala di
nuovo nella
bacinella accanto, gliela riposizionò, controllandogli la
temperatura sotto le
orecchie col dorso della mano bendata.
“Cum
lu sì. Voleu anca vu confesarve?”
Hironimo
s’irrigidì e lo fulminò con lo sguardo.
“Mi no gh’ho
gnente da dirve!”, gli ringhiò contro bellicoso,
torvissimo, per poi tornarsene
ad accudire il marmocchio, il quale già ciondolava dal
sonno, le poche energie
spese per confessarsi col frate.
Che strano
giovine!, meditava
Fra’ Anselmo, spiando i due di sottecchi con la scusa di
riempire il boccale di terracotta con dell’altra tisana
d’ontano nero. Raramente
aveva scorto in un uomo tanto amore nel prendersi cura di un bambino,
figurarsi
in uno poi così giovane!
Il frate
ben si sovveniva dell’irruzione di Hironimo in infermeria
tra i Vespri e la Compieta, recante questi tra le braccia sanguinanti e
ricoperte di lividi e schegge il suo piccino privo di sensi, talmente
pallido
in volto da temerlo il monaco un qualche fantasma dei tempi antichi. Il
patrizio gli aveva ceduto esagitato il suo fardello, supplicandolo
piangente di
salvarlo ad ogni costo.
Come
poteva egli rifiutarsi dinanzi a tanto tormento?
Fra’
Anselmo conosceva bene le sue erbe ed esse di nuovo non lo
tradirono, disputandosi tutta notte Thomà con la morte e
solo alle prime luci
dell’alba il fantolino aveva ripreso conoscenza, quel tanto
per chiedere subito
di confessarsi giacché sicuro d’aver visitato per
qualche ora l’inferno. Molto
probabilmente, ragionava il benedettino, il delirio della febbre doveva
avergli
rievocato quei tremendi ricordi custoditi nel cuore.
Fino a
quel momento, Hironimo gli era rimasto seduto accanto,
incurante di sé e rifiutando ogni assistenza, specie quando
Fra’ Anselmo gli
aveva offerto una camicia nuova e di bendargli i graffi e sbucciature
alle
mani, spalle e perfino sulla fronte. Soltanto al risveglio di
Thomà cedette, ma
neanche in quel frangente volle riposarsi, preferendo rifugiarsi in un
angolo
lontano dell’infermeria.
All’inizio,
mea culpa, il frate non aveva compreso chi i due
fossero in realtà, lasciandogli l’emergenza poco
spazio per congetture e
spronandolo invece all’azione. Furono i segni rossi e
spellati delle manette e
delle cavigliere, nonché la faccia preoccupatissima di un
suo confratello e la
sua celere spiegazione a svelargli il mistero. Fra’ Anselmo
rimase vivamente
impressionato che il giovane fosse riuscito a sfondare una porta
così robusta,
a nulla invidiabile a quelle di un vero e proprio carcere. Quella porta è costruita apposta
affinché i monaci in punizione non
scappino! Com’avrà fatto?, gli aveva
sussurrato confuso all’orecchio il
confratello.
“No
me maravejo che vuj gh’avé sfondà ea
porta cum ea testa: quea
sì, che vu l’avé ben dura! Testa da
copo!”, commentò Fra’ Anselmo, mulinando
il
dito all’impenitente patrizio, che gli rifilò
un’espressione da gnorri totale.
E alzandosi proseguì: “Mi vago. Ve fazzo portar ea
Comunion, almanco pel céo
(bambino, ndr). Po’ se gh’avé besogno de
mi, vu savé ndove trovarme.”
“Pì
ch’ea Comunion, félo portar on fià de
pan et de sopa!” (zuppa,
ndr.), lo esortò ad alta voce Hironimo, ridacchiando
impunito dal modo in cui
le spalle del frate s’irrigidirono per il nervoso.
“Turcho!”,
borbottò questi, scuotendo il capo, prima di dedicarsi
al prossimo paziente ricoverato in infermeria.
Miani lo
seguì sornione con lo sguardo, intanto che si sistemava
più comodo sulla sedia. Quand’ecco che si
sentì tirare timidamente per la
manica.
“Patron?”,
lo chiamò sottovoce Thomà, accertandosi della
lontananza del monaco.
“Dime.”
“Xélo
vero, che vu gh’avé sfondà ea porta a
testate?”
Sfiorandosi
il crescente bernoccolo costellato da escoriazioni più
o meno profonde, Hironimo scherzò: “Solum un puoco
a la fin …” ed
effettivamente corrispondeva alla verità, arrivato ad un
certo punto dove gli
dolevano troppo sia i pugni che le spalle per proseguire
all’abbattimento di
quell’ostinato ostacolo. Oh beh, in testardaggine aveva
trovato il suo fiero
avversario.
Il volto
di Thomà s’illuminò estasiato e pieno
d’ammirazione.
“Ostrega, che força zò!
M’insegnaré un zorno?”
“Co’
ti te stà mejo, zerto.”
Il
bambino annuì vivacemente, felicissimo all’idea.
Quand’ecco che
la sua espressione s’incupì, ingobbendosi su se
stesso e storcendo vergognoso
la bocca. “Patron? Jo ve fazzo schifio horra?”
“Cossa
te blateri?”, sbottò immediatamente Hironimo,
scrutandolo
severo, le braccia incrociate al petto.
“Sun
stà malguajo (malvagio, ndr.) mi”,
bofonchiò dispiaciuto il
fantolino, dimenando nervoso la punta dei piedi sotto le coperte.
Temeva,
infatti, che una volta appreso il suo vero passato il patrizio non
volesse più
rapportarsi con lui, nauseato da cotanta sua cattiveria e al decenne
deludere
l’opinione che aveva di sé l’angustiava,
non tanto perché avrebbe potuto
perdere un protettore bensì un amico. Strano ma vero, se
all’inizio non poteva
soffrire quell’arrogante nobile, adesso gli voleva bene e gli
sarebbe
dispiaciuto ritornare alla freddezza di prima. Il suo cuoricino aveva
battuto
impazzito di pura felicità, quando Hironimo
l’aveva protetto dal Bua
presentandolo come un figlio illegittimo; non aveva mai creduto che un
privilegiato come lui si abbassasse a tali stratagemmi pur di salvare
la vita
ad una nullità. Gli era venuta una gran voglia di
abbracciarlo, però s’era
trattenuto, i veri uomini non s’abbracciano, gli aveva detto
Andrea Trepin il
bombardiere, l’è roba da femmine.
All’oscuro
di questi suoi ragionamenti, Hironimo sospirò invece
alle sue parole, mordicchiandosi il labbro inferiore. “Ti te
gh’ha solum copià
le porcade di staltri. I puti xéi ea spièra
(riflesso, ndr.) de l’omeni, i nol
gh’ha juditio ni cossiensa di l’ati
lhor”, dichiarò mestamente, riflettendo sui
propri gesti di bambino, quando si sforzava di imitare Padre in ogni
suo
aspetto, dal modo di parlare, di camminare e pure di comportarsi senza
però
capire il significato profondo di ciò che scimmiottava. Egli
era il suo modello
e Hironimo, simile ad una pagina bianca, assorbiva ogni cosa e non la
filtrava,
non possedendo gli strumenti necessari di discernimento. Di conseguenza
l’allora
Momolo li aveva reputati normali e naturali e mai li aveva contestati,
semmai
arrabbiandosi se qualcuno lo rimproverava a causa d’essi.
“Donca
Domine Iesu me pardonarà?”, insistette
Thomà, d’un tratto
ansioso. Aveva sempre creduto d’esser ormai al di
là di ogni redenzione,
tuttavia Fra’ Anselmo l’aveva assolto e se inoltre
era vero che le sue colpe
derivavano dalla sua scempiaggine per aver imitato degli sconsiderati
adulti,
forse-forse in Paradiso dalla sua mamma e papà ci poteva
ancora andare.
“Se
Lu no pardona a ti, che te xé on gnorante petusso (pulcino,
ndr.), chi altro pole pardonar?”, gli propose il giovane
Miani quella grama
prospettiva. Un sardonico sbuffo gli sfuggì dalle labbra: se
un bambino si
fustigava così tanto per aver soltanto ceduto
all’istinto di sopravvivenza,
come si doveva sentire lui?
Sì,
quella confessione l’aveva sconvolto, non lo negava, incapace
di scorgere tanto odio nel cuore di chi era un innocente per
antonomasia.
Tuttavia, avesse egli vissuto le medesime esperienze di
Thomà, avrebbe agito in
maniera differente?
Risposta:
no di certo, anzi si sarebbe comportato peggio di lui.
Thomà
non era altro che il prodotto vivente delle follie degli
adulti. Un loro mostro. Non era nato malvagio, lo avevano fatto
divenire tale.
Qualcheduno poteva anche ribattere: non è una
giustificazione, poteva scegliere
di tenersene fuori.
Quale
giustificazione razionale può dare un bambino, che senza la
guida genitoriale è tutto istinto, inconsapevole delle
proprie azioni e del
significato di responsabilità?
Si
può biasimare la foglia sbandata al vento, se viene staccata
dal ramo robusto?
“Mi
credea che Lu gera pardonador. Perhò horra i me disen
ch’en
verità Lu xé zudese, che Lu no scolta i pecadori,
ma li buta zò a l’inferno.”
Hironimo
percepì un doloroso e subitaneo crampo allo stomaco
nell’udire
quelle parole, sinistramente a lui famigliari e infatti si rivide
d’un tratto
bambino a ripeterle e discuterne con suo fratello Marco, in quel
lontano
pomeriggio al Lido di quattordici anni addietro.
Eppure,
di altri discorsi si sovvenne contemporaneamente, discorsi
snobbati all’epoca ma mai del tutto obliati per quanto si
fosse sforzato. In
automatica e inarrestabili, le parole di Madre incominciarono
inaspettatamente
a fluire perfette e sicure dalla sua bocca: “Donca parla
à la Madona, la qual senpre
te scolta et senpre la intersede vizin Deo: Eia ergo,
advocata nostra …”e
Hironimo s’interruppe, non riuscendo più a
ricordarsi come proseguisse. Eppure
Madre e Crestina gliel’avevano insegnata e dalle lettere a
Padre egli sapeva
che da piccino recitava alla perfezione e con sentimento ogni
preghiera, specie
quelle mariane. Adesso la sua memoria a riguardo s’era
tramutata in un arido
deserto, vuoto e silente. “Et horra molighe coi putelezi: i
malà gh’han da
dromir, sennò nol guariscon pì”, si
ricompose in fretta il giovane, scacciando
quell’attimo di malinconia che l’aveva
proditoriamente colto. Che importanza
aveva ormai conoscere o meno il Salve
Regina? Non era quello ciò che l’avrebbe
salvato dalla sua attuale
situazione.
“Pulito,
perhò podeu star qui meco?”, gli offrì
Thomà la manina
sudaticcia, arrendendosi alla sua poco virile smania di coccole e
affetto,
incolpando al contempo la malattia che lo rendeva capriccioso, come gli
ripeteva solerte la siora sua nonna.
Hironimo
gliela strinse delicatamente. “Sì, mi stago
qui”,
sorrise, scrutandolo attento finché il fantolino, tirato un
sospiro
soddisfatto, chiuse le palpebre e si rilassò,
addormentandosi.
Allora,
avvertendo anch’egli una certa stanchezza, il giovane
Miani appoggiò i gomiti sul materasso e la testa su di essi,
pronto ad
appisolarsi. Tuttavia, il suo sguardo si posò casualmente
sulla scultura lignea
di una Crocifissione e nello specifico sulla figura curva e piangente
della
Madonna, gli occhi immobili e scuri fissi sul Figlio agonizzante.
L’anonimo scultore
aveva disposto le statue, ch’Egli pareva ricambiare lo
sguardo materno e la
bocca dischiusa mormorante quasi: “Donna, ecco tuo
figlio!” e “Ecco tua madre!”
Per una
madre non doveva esserci nulla di più tremendo
d’assistere
al supplizio e alla morte della propria creatura e ad appendere Cristo
alla
croce era stata la medesima umanità che non solo era stata
perdonata, ma per la
quale Lei continuava indefessa ad intercedere, consolare, fornire
esempio e
consiglio. Il Figlio dell’Uomo spogliato di tutto, anche
l’ultima cosa
rimastaGli generosamente donava – sua madre. Quale magnifica
contraddizione!
Quanto amore ripagato con ingratitudine!
…
Ecco tua madre …
Se Le
avesse parlato, l’avrebbe ascoltato? Per quindici anni
s’era
categoricamente rifiutato … Perché incominciare
ora? E
perché doveva la Madre per eccellenza
ascoltarlo? Proprio lui, che neppure con la sua madre terrena
s’era mai
comportato bene, facendola costantemente preoccupare e deludendola col
suo
comportamento indisciplinato e il suo pessimo carattere?
Anch’ella l’aveva
sempre perdonato e l’aveva coperto da capo a piedi
d’amore incondizionato, senza
mai perdere fiducia in lui. Anch’egli l’aveva
ringraziata atteggiandosi da
ingrato, d’egoista, da selvaggio.
… Ecco
tua madre …
Come si
può amare e difendere uno che ti fa soffrire? La spada che
ti trafigge l’anima?
Come ha potuto mia madre sopportarmi, quand’io non ero altro
se non un peso
morto? Un figlio ribelle e scapestrato? Un insulto
all’educazione datami da lei
e da Padre?
Sopraffatto
da codesta sensazione di solitudine mortale, Hironimo
s’addormentò, la manina di Thomà ben
custodita dalla sua.
Anche se
Lei m’ascoltasse, cosa potrebbe dire al Padreterno per
discolparmi di tutte le
mie colpe? Del rancore e indifferenza che per anni ho nutrito nei Suoi
confronti?
…
Eia ergo, advocata nostra …
Ci sono
tante persone più innocenti e meritevoli di me del sostegno
divino. Che
speranze avrei io? Che diritto di chiedere ciò che ho sempre
disprezzato?
… Donna,
ecco tuo figlio.
***
Il ponte
sul Piave era stato finalmente completato e sarebbe stato
motivo di gran festa nell’esercito dei franco-imperiali, se
non fosse stato per
un piccolo ma non trascurabile dettaglio presentatosi agli occhi del
maresciallo Jacques de Chabannes de la Palice nella veste di malmenati
soldati
francesi.
“Cosa
vorreste dire”, fumò il condottiero, strascicando
feroce le
parole, “che hanno attraversato il ponte?”
I
poveracci farfugliarono qualcosa, tremanti sia dalla paura che
dal freddo, rivelandosi infatti bagnati fino all’osso.
“Avevamo appena
completato il ponte, quando le capitain Jacob cogli altri suoi compari
ha dato
l’ordine di passarlo. Noi l’abbiamo contestato,
sostenendo che non ci risultava
tale ordine provenire da voi e loro ci hanno riempito di botte e
gettati giù …”
La Palice
gettò un’occhiata furibonda al de Boissy, du
Molard, al
Sanseverino e al Pallavicino. In particolare si soffermò su
Mercurio Bua, che
già quella mattina gli aveva portato la fastidiosa
ambasciata della caduta di
Castelfranco in mano veneziana e della distruzione dei forni.
“E la Certosa? La
maggior parte dell’esercito imperiale
s’è accampato lì, impossibile
che tutti i suoi soldati abbiano
attraversato il ponte in sì breve tempo!”
Il
soldato scosse il capo. “Je l’ignore, monseigneur.
I nostri
compagni andati a controllare alla Certosa non sono ancora tornati, les
Allemands non ci permettono di avvicinarsi senza giungere a discussioni
e
talvolta alle mani!”
“Come
sarebbe a dire che non
vi permettono? Siamo alleati o che? Pour
les plaies de Christe! È le Roi che paga
quest’impresa e loro osano
comandarci cosa possiamo e cosa
non possiamo fare?!”, ringhiò il maresciallo, i
pugni che si serravano e
aprivano collerici.
A tal
proposito, arrivò la stoccata finale. “Les
Allemands si sono
presi parte delle nostre munizioni e dei nostri viveri
…”, pigolò infine un
altro soldato, augurandosi di sprofondare negli abissi della terra.
“FOUTUS
CHIENS!”, esplose la Palice, la misura oramai colma.
“Basta! C’est trop de
félonie! È
dunque questa la tanto osannata disciplina militare teutonica? Un
branco di
masnadieri, avidi briganti il cui unico vanto è quello di
saccheggiare villaggi
e di correre via al primo abbaiare del nemico?! È evidente
che quest’impresa di
Trévise non lo vogliono fare e non vedo perché
dobbiamo rimetterci noi! Tutto
abbiamo messo a disposizione di questi valorosi
“alleati”: soldi, armi, uomini,
il nostro stesso onore! E così che ci ripagano? Scappando
all’alba alla stregua
di ladri? Beh, che Trévise se la conquisti da solo
l’Empereur! Io ho chiuso con
questi vigliacchi!”
“Datemi
l’ordine, monseigneur”,
s’offrì un altrettanto furente du
Molard, “datemi soltanto l’ordine e i miei guasconi
vi riporteranno indietro le
teste di quei fottuti disertori!”
“Non
si saranno spinti troppo lontano: al massimo fino a
Conegliano, se partiamo ora possiamo raggiungerli assai in
fretta”, insistette
du Boissy.
Sordo a
quell’allettante promessa, la Palice si concentrò
invece
su Mercurio. “Voi lo sapevate! Voi sapevate che sarebbe
finita così!”,
l’accusò, puntandogli contro l’indice.
“Che
c’entro io?”, si difese adirato
l’albanese, la proverbiale
mosca saltatagli al naso.
“Non
siete conte e consigliere dell’Empereur?”
“E
allora? Mica implica che debba anche far da balia a quei
coglioni dei suoi capitani!”, allontanò il
condottiero il dito del maresciallo
dal suo petto. “Sono forse il custode delle loro
anime?!”
Pigliando
coraggio, Giulio Sanseverino s’intromise nella concitata
discussione prima che degenerasse: “Monseigneur, maresciallo,
sia a Milano che
in esilio coi miei fratelli ho avuto modo di conoscere gli alemanni e
vi
assicuro che non diserterebbero tanto facilmente. Se hanno attraversato
il
ponte, l’hanno fatto in quanto spinti dalla fame.
Sì”, s’affrettò ad
aggiungere, anticipando l’obiezione del la Palice,
“hanno contravvenuto ad un
vostro ordine. Nondimeno, sono persuaso che una volta terminate le loro
scorrerie al di là del Piave e in Friuli ritorneranno pronti
per l’impresa!”
“Effettivamente
il capitano Jacob non ha mai parlato di
diserzione, soltanto di svernare in un posto più sicuro e
meglio fornito”,
reiterò Galeazzo Pallavicino, placando momentaneamente il
giusto sdegno del
maresciallo francese.
“Che
ne pensate voi, capitain Bua?”, volle l’uomo
conoscere
l’opinione del condottiero, non ancora persuaso
dall’appassionata difesa dei
due nobili lombardi.
Mercurio
trasalì, perso nei suoi poco rassicuranti pensieri,
l’intera situazione d’un tratto un doloroso
déjà vu. “Chi sparisce dal campo
difficilmente ritorna, ecco la mia opinione. Vi debbo ricordare, messer
Sanseverino, le vicende di Ver -…” e
s’interruppe, il cuore cascatogli nello
stomaco.
Una
rapidissima sequenza di ricordi gli scorse davanti agli occhi.
Il suo ritorno a Verona dal colloquio con l’Imperatore. La
compagnia dimezzata.
Suo fratello Teodoro e i suoi cognati spariti. Il letto vuoto di
Caterina e
Maria …
“Dov’è
il conte di Gambara?”, inquisì
all’improvviso il Bua,
pallidissimo in volto e tremante manco avesse contratto la terzana.
Guardandosi
meglio attorno, constatò ansioso come non avesse scorto il
bresciano in nessun
luogo per tutto il giorno e dai conti di Collalto decisamente il de la
Palice
non l’aveva inviato.
E ora i
tedeschi se l’erano data.
“E’
rimasto all’Abbazia, sin da ieri esibiva una tal brutta cera
…
Capitano Bua, in nome di Dio che state facendo?!”,
esclamò sconcertato Giulio
Sanseverino, allibito dinanzi alla folle corsa dell’albanese
verso il suo
cavallo, balzandovi sopra più agile d’una scimmia.
“Capitan Bua!”, gli urlò
dietro, girandosi impotente in cerca di sostegno verso gli altri
sconvolti
comandanti.
“Maurikos!”,
lo richiamò gridando Lecha Busicchio, montando
anch’egli in sella e lanciandosi all’inseguimento
di quel pazzo del suo
collega, il quale spronava il suo cavallo alla stregua d’un
ciuco. “Fermati!
Dove vai?”
Lo sapeva
Mercurio dove stava andando, digrignando i denti e gli
occhi iniettati di sangue, mentre irrompeva indiavolato
nell’Abbazia tra grandi
esclamazioni intimorite dei suoi abitanti, terrorizzati da quel suo
incedere
violento ed esagitato. Disceso dalla sua cavalcatura, a grandi falcate
e
facendo letteralmente volare via ogni benedettino che gli si parava
innanzi, il
condottiero raggiunse le celle dei monaci in punizione, ululando
rabbioso alla
vista della porta sfondata e, dopo aver aperto con un calcio quella
della cella
del Gambara, anche alla vista del letto vuoto del conte. Ecco! Ecco!
Esattamente come aveva sospettato! Quel porco d’un nobilastro
gli aveva
sottratto il suo prigioniero e per di più da sotto il naso!
“Parla
disgraziato! Dov’è diavolo è finito il
conte di Gambara?”,
pigliò Mercurio un frate per il saio, scrollandolo talmente
forte manco volesse
staccargli la testa.
“In
… infermeria …”, tartagliò
quegli atterrito. “Non … non stava
molto bene e … Fra’ Anselmo gli sta dando qualche
rimedio …”
“Per
la salute del tuo corpo mortale, prega Dio che sia
così!”,
s’augurò il Bua, mollando sgarbatamente la presa e
gettando il monaco tra le
braccia dei suoi spaventati confratelli, per poi virare alla stregua
d’un
ossesso alla meta designata.
Oh beh,
dall’infermeria al camposanto il passo era breve e
Mercurio si sarebbe d’esso assicurato …
L’odore
di minestra solleticò le nari di Hironimo, invitandolo a
sbirciarsi attorno: lo stanzone era rimasto sempre uguale, coi suoi
ammalati
tossicolosi o dormienti, i benedettini che giravano tra i letti onde
assisterli
e Fra’ Anselmo impegnato a sorvegliare la distribuzione
adesso del pranzo.
Si
sorprese di trovare lì anche il conte Gianfrancesco di
Gambara,
dalla cui espressione meravigliata egli dedusse condividere il suo
stupore.
Memore della loro ultima conversazione, il giovane finse di non
accorgersi di
lui, chiudendo lesto gli occhi. Peccato che il nobile avesse altre
intenzioni.
“Prendete,
avete perso troppo peso, dovete nutrivi se volete
arrivare vivo a Treviso”, gli porse una scodella fumante,
provocandogli
l’allettante profumino un’ondata di saliva
nonché un rumoroso gorgoglio
d’approvazione nel suo stomaco. “E’ dei
monaci”, lo rassicurò scherzosamente il
Gambara, alludendo a come l’orgoglioso patrizio rifiutasse
ogni aiuto da parte
di un traditore, fatto confermato dalla sua palese riluttanza
nell’accettare la
minestra.
Si
trattò di un brevissimo scrupolo di coscienza: il bresciano
aveva appena terminato di parlare e già Hironimo gli
sottraeva cupido la
scodella, gettandovisi a pesce in barba al liquido bollente che gli
ustionava
la lingua. “Anche al piccino!”,
l’ammonì ferino, indicando Thomà, pure
lui
svegliato dall’odore di zuppa.
E mentre
il conte serviva il villano (oh, l’ironia!), Hironimo ne
approfittò per studiarsi segretamente il Gambara,
cercandogli in faccia il
motivo per quella bizzarra compassione nei suoi confronti e scovandovi
al
momento soltanto una tinta ancor più gialla, quasi verde,
rispetto a quella del
giorno precedente. Piccole gocciole di sudore gli ammorbidivano i
capelli
ingrigiti, divenutegli le occhiaie più profonde e scure
così come gli occhi
vitrei s’erano ulteriormente arrossati.
“Ecco”,
cedette il nobile il piatto a Thomà, ma prima che
quest’ultimo potesse soddisfare la sua fame, Miani lo
bloccò, domandandogli:
“Cossa
te disi al sior conte?”
“A
la bon’horra che te me davi da magnar!”
Gianfrancesco
di Gambara corrugò accigliato la fronte, affatto
compiaciuto di tanta cafonaggine, Miani invece sogghignò
divertito sulla sua
zuppa.
“Vi
vedo male, signor Conte: l’aria della Marca non vi
giova?”,
gli domandò beffardo. “E meno male che dovevo
esser io, quello bisognoso del
vostro aiuto!”
“Io
sarò ammalato, ma voi rimanete prigioniero”,
scrollò incurante
le spalle il conte Gianfrancesco.
“Della
mia sorte che v’en cale?”, ribatté
aggressivo Hironimo, non
sopportando il paternalismo da parte del nobile.
“Di
voi non m’importa un granché”,
replicò impietoso quegli,
“piuttosto dell’intero quadro generale.”
Bruciandogli
le gote dall’ira, il giovane patrizio ingoiò una
rispostaccia assai ingiuriosa, la parte calcolatrice di lui che gli
suggeriva
di portar pazienza e ascoltare quanto il bresciano avesse da dire.
Nella sua
mente quelle frasi ambigue incominciavano ad incastrarsi e a prender
forma, la
quale avrebbe ben potuto giovargli a lungo termine. Ciononostante, onde
non
fallare né cadere in un tranello, bisognava giocar fino e
seguitare a
comportarsi ostilmente. Il Gambara doveva sbilanciarsi per primo, non
lui.
“Ah
sì?”, sbuffò Hironimo, inchiodando il
suo sguardo con quello
del conte Gianfrancesco. “E quale sarebbe il quadro
generale?”
“Niente
assicura l’esito di una guerra, tranne la Fortuna”,
gli
spiegò sibillino l’uomo.
“Sicché
voi state cercando d’accaparravi la vostra, di
Fortuna?”
“Ho
buone ragioni di temere il futuro senza di essa”,
nicchiò il
bresciano, sedendosi accanto al Miani. “Noi tutti abbiamo
qualcuno da cui ritornare,
no?”
A che
cosa il di Gambara alludesse, se ad uno schieramento politico
o semplicemente alla famiglia, Hironimo non ebbe il tempo di domandare
delucidazioni, giacché un maremoto umano investì
in pieno entrambi.
Avvenne
tutto troppo in fretta anche solo per rendersene conto,
figurarsi per reagire: un attimo prima il veneziano stava discutendo
col nobile,
l’attimo dopo quest’ultimo giaceva per terra,
reggendosi la spalla dolorante e
inveendo contro il nuovo arrivato, mentre il patrizio si trovava
subitaneamente
avvinghiato da una stretta ferrea e, sollevato da terra, trascinato via
di peso
dall’infermeria, malgrado si dimenasse e scalciasse
forsennatamente, inseguito
dal tonante rimbombo delle urla di protesta del conte Gianfrancesco, di
Fra’
Anselmo e di Thomà.
“Cori
a ciamar l’Abbas! Cori a ciamar l’Abbas! Eo copa!
Eo copa!”
La sua
visione ritornò stabile solamente quando sbatté
la faccia
contro il pavimento. Tentò di riconoscere
l’ambiente che lo circondava, notando
soltanto mura bianche, un letto e un tavolo piuttosto dozzinale. Di
riflesso,
si pose a gattoni per balzare in piedi e correre via,
sennonché si ritrovò
ghermito per una spalla e rigirato brutalmente supino, un avambraccio
premuto
sulla gola e la faccia di Mercurio Bua a qualche pollice dalla sua,
quest’ultimo con una tale espressione raccapricciante, manco
l’avesse rubata al
diavolo in persona.
“Che
brigavi tu col Gambara?”, l’assordò per
poco l’albanese, i
denti ben in mostra.
“Cosa?
Cosa?”, fu l’unica intelligente replica che
poté fornirgli
Hironimo, la cui visione si stava oscurando di macchie gialle e nere,
sia per
la pressione al collo sia per il peso del corpo del condottiero
sistematosi a
cavalcioni sopra di lui: non avrà forse questi indossato
l’intera armatura,
avendo infatti indosso solo il corsaletto, però di certo non
era neppure una
piuma per il fisico provato del giovane.
Accorgendosi
dello sguardo sempre più vacuo del suo prigioniero,
Mercurio sostituì il suo avambraccio col pugnale, premendone
la punta sulla
pelle già arrossata. “Come accidenti sei uscito
dalla cella? Chi ti ha sfondato
la porta? Chi ti ha aiutato? I monaci? Quel bresciano?”
“Sono
stato io! Sono stato io!”, gracchiò Miani tra un
colpo e
l’altro di tosse, giungendogli il fiato poco e male nei
polmoni. “Non mi ha
aiutato nessuno!”, s’affrettò a chiarire
cosicché lo stradiota terminasse lì la
questione e si schiodasse da lui, magnanimamente concedendogli di
ritornare dal
suo fantolino ammalato.
Una
pingue goccia di sangue gli scivolò dal collo, imbrattando
la
camicia e parte del pavimento.
“Dunque,
come mai ti trovavi in infermeria col Gambara?”,
sibilò
minaccioso Mercurio, strisciando la punta del pugnale dalla gola su
fino al
mento, soffermandosi dolorosamente sul labbro inferiore del giovane.
“Vi siete
dati convegno?”
“Ci
siamo imbattuti lì per caso; quello là mi ha solo
dato un
piatto di minestra e m’ha raccontato due o tre bagatelle che
t’assicuro manco
m’han divertito!”, confessò celere
Hironimo un riassunto di quanto avvenuto,
ovviamente omettendo quei piccoli particolari compromettenti, che
però non
toglievano alcuna veridicità al suo racconto: sul serio non
aveva pianificato
nulla col bresciano, ogni cosa era frutto di una sfortunata
coincidenza.
Purtroppo
per lui, Mercurio Bua apparteneva a quella categorie di
persone perennemente convinte delle proprie ragioni, che non concedono
mai il
beneficio del dubbio. Sicché, afferrato il patrizio per il
bordo della camicia,
gli sbraitò contro feroce: “E quando
t’ho permesso di parlargli? Di stare in
sua compagnia? Di guardarlo?”
Un
famigliare schiocco al cervello azzerò la parte
conciliatrice
del Miani, il cui viso si tinse di scarlatto e non solo
perché, a furia di
sbatacchiarlo, il sangue gli rifluiva malamente per le vene:
“Hé! Oh! Queste tue
patetiche gelosie risparmiale a quella poveraccia di tua
moglie!”
Il
condottiero si staccò da lui come scottato, ansimando
lievemente, quasi Hironimo l’avesse colto in fallo su
qualcosa allo stradiota
soltanto noto. Quand’ecco che una maschera di animalesca
furia cacciò via
quella confusa ed in un battibaleno, per l’ennesima volta, il
giovane si
ritrovò martoriato da quelle tenaglie di mani.
Mercurio
l’aveva infatti strattonato per il braccio destro,
d’istinto levato in alto dal Miani per difendersi da un
eventuale cazzotto, e rimesso
forzatamente in piedi l’aveva condotto fino al tavolo dove lo
costrinse a
piegarsi in avanti su di esso, tenendogli sempre il braccio premuto
dietro la
schiena.
“Tu
credi di continuare a fare lo spiritoso, eh? Tu credi di fare
all’infinito lo spiritoso con me?”, gli
sussurrò dolcemente perfido il
capitano, torcendogli dolorosamente l’arto.
“M’hai forse scambiato per un
Giobbe?”, e flesse di nuovo. Il veneziano strinse caparbio le
labbra dal
dolore. “Va bene, d’accordo, abbiamo scherzato, ce
la siamo un poco spassata,
ci siamo fatti qualche risata ma adesso basta! Mi stai decisamente
stufando! Tu
sei un prigioniero, la cui vita dipende da un mio sì e un
mio no! Non mi costa
nulla tagliarti la gola né ordinare di spedire a tua madre
un tuo pezzo alla
volta, cosicché lei si diverta a ricomporti!”,
ringhiò. “Chi ti credi di
essere? Uh? Superiore? A me? E in quale modo? Non hai più un
castello, né una
spada, né una famiglia, né amici, non hai nulla, non sei nulla! Se sei vivo non
è per merito tuo, bensì per un mio
capriccio!”
Hironimo
deglutì un singulto di rabbia e umiliazione, ferito
più
da quelle crudeli parole che dalle sevizie dell’albanese.
“Suvvia,
parla: come sei uscito da quella cella?”
“Ho
sfondato la porta, te l’ho già detto!”
“Con
questo tuo ammasso di pelle ed ossa?”
“E’
la verità, perché ti dovrei mentire?”
“Che
negozi hai con Gianfrancesco di Gambara?”
“Cosa?”
“Che
accordi!”
“Nessuno!”
“Neghi
di avergli parlato?!”
“Solo
per insultarlo!”
“Neghi
di essere combutta con lui?”
“Nego!
Le tue prove?”
Mercurio
s’appoggiò di peso col gomito in mezzo alle
scapole del
giovane, tirandogli all’indietro il braccio destro che
costrinse ad un arco
innaturale e Hironimo spalancò la bocca in un grido nato
morto, le vene del
collo ingrossate dal suo sforzo di non urlare.
“Troia
bugiarda, vi ho pizzicati a confabulare assieme
l’altroieri, quand’eravamo in marcia! Cosa gli hai
promesso in cambio della
libertà?”, insistette nel suo interrogatorio
l’inflessibile albanese. “Soldi?”,
strattonò egli il braccio. “Il perdono della
Serenissima Signoria?” un’altra strappata.
“Il tuo culo?”, glielo palpò volgarmente
esplicito e se non fosse stato
impegnato a contorcersi da atrocissimi spasimi di dolore, Miani si
sarebbe
anche offeso per quelle indecenti illazioni.
“Figurati
…”, boccheggiò, la bocca che gli
tremava e la visione
vacillava a causa dei nervi impazziti, “figurati se
… se voglio qualcosa da …
da un traditore! Figurati …”, sibilò,
collera e paura che gli annebbiavano il
cervello, imbevendolo di suicida temerarietà,
“figurati se ricorro ai tuoi
stessi metodi per … per
… per mio
profitto! Conferma … su conferma
quant’è piaciuto farti … farti fottere
da
Massimiliano!”, e rise isterico, cangiando in un singulto al
logico strappo al
braccio che ne conseguì.
“Un
altro insulto e ingoierai il tuo medesimo cazzo!”
“Le
tue minacce … non cambieranno mai il fatto che tu sei
… e
resti … una
lurida baldracca, ognora … pronta
a … a vendersi al miglior offerente!”,
gridò Hironimo, talmente intontito dal
dolore da parlare a ruota libera. “Non … non mi
predicare l’onore … quando tu …
per denaro … hai
volentieri abbassato
testa e braghe!”
Il Bua
allentò un poco la presa, concedendo un attimo di respiro
al prigioniero, difficile affermare se per stanchezza del suo di
braccio o se
trafitto da quella cinica osservazione.
“Bah,
insulti noi condottieri proprio come i Francesi ingiuriarono
i Tredici ai tempi della disfida di Barletta …”
“Sai
… quanto me ne frega dei … Francesi
… dei
Tredici e … e di Barletta? Per quel che mi
concerne … si possono anche gettare …
allegramente da uno scoglio! Io … mi
sto riferendo a te, Mercurio Bua Spata … a
te … e a te soltanto!”
“Ho
le mie ragioni e non sono tenuto a giustificartele!”
“Dunque
… sii altrettanto grazioso … da
non tediarmi … coi
tuoi moralismi della malora!”
Un
tesissimo silenzio s’impose tra i due uomini, rotto dai
rispettivi respiri irregolari e pesanti: quello di Hironimo a causa
della
sevizia subita, quello di Mercurio per la rabbia che quel disgraziato
s’ostinava a pungolargli in petto. Se non avesse purtroppo
avuto bisogno di lui
per lo scambio, a quest’ora l’avrebbe
già tagliato in piccole strisce di carne,
distribuite poi ai porci.
Schiacciandogli
ulteriormente il busto contro il tavolo grazie al
peso del suo corsaletto sulla schiena, l’albanese non demorse
nel suo intento
di scoprire il nesso tra la quasi-fuga del prigioniero e il fitto
cicalare col
conte bresciano. “Cosa stavi tramando col
Gambara?”, gli sussurrò all’orecchio,
torcendogli il polso del quale da tempo ormai Miani aveva perduto ogni
sensibilità, pizzicandogli la punta delle dite informicolate.
“Niente
…! Se mi stessi … seriamente ad …
ascoltare, ti … accorgeresti
che non … sto mentendo!”
“Perché
ti trovavi allora in infermeria con lui? Chi ti ci ha
portato?”
“Nessuno,
te lo … giuro! È … venuto dopo
… non so quando … forse
mentre dormivo! È malato … non te ne sei reso
conto? Non hai visto la sua
faccia da … cadavere?”
In
effetti, il tarlo del dubbio incominciava ad insinuarsi in
Mercurio, rivalutando la sua mente ogni singola noticina stonata in
quella
grottesca gagliarda. Purgatosi della frustrazione degli ultimi
fallimenti,
dello spavento per aver perduto una merce così preziosa di
scambio, nonché dei
brutti ricordi legati ad una diserzione di massa, adesso il condottiero
poteva
analizzare la situazione con maggior freddezza e si
rimproverò della sua ottusità
per non aver considerato l’elemento più palese,
che avrebbe scagionato i due
italiani.
“Ammettiamo
che tu abbia sfondato quella porta. Perché non sei
scappato?”
Ovvio no?
Un prigioniero quello fa, alla prima occasione propizia
fugge. Invece, il Bua aveva ritrovato il patrizio in infermeria, mossa
non
proprio intelligente, specie se il Gambara era suo complice. Non se ne
sarebbero rimasti lì a chiacchierare. Sarebbero balzati sui
primi due cavalli
disponibili per galoppare in un sol sorso fino a Treviso.
“Con
tutti … i tuoi uomini attaccati al mio culo …
come … come sarei
riuscito … secondo te … a scappare?”
Un altro
valido punto a favore del veneziano. Al suo ingresso in
Abbazia il Bua aveva lasciato Zilio Madalo ed altri suoi fedelissimi e
nessuno
di loro aveva accennato ad una fuga. Al contrario, pure
l’avevano guardato
straniti manco stesse scherzando.
Hironimo
ansimò e deglutì a fatica, flettendo le gambe
onde
scivolare giù dal tavolo e dalla presa del condottiero che,
accorgendosene,
aumentò la sua presa su di lui, bloccandolo e premendogli
con maggior vigore il
bacino contro il bordo del tavolo. “Il … piccino
stava male”, gli rivelò, il
fiato mozzo. “Siccome nessuno rispondeva … ai miei
richiami, ho … dovuto
prendere in mano la situazione e …
portarlo dal frate … Questo è quanto …
Non ho mai … concepito di fuggire …” Non con Thomà ammalato.
“Così
tu avresti combinato questo gioioso bordello per salvare la
vita a quel moccioso?”, riassunse sardonico Mercurio,
scuotendo ilare il capo.
“Ti rendi conto di quante stronzate stai
vaneggiando?”
“E
perché no?”, lo sfidò indefesso Miani.
“Gli voglio bene … è mio
figlio!”
“Tu
non hai alcun figlio!”
“E’
come se lo fosse!”
Mercurio
rise gutturalmente, il viso deturpato improvvisamente da
una smorfia cattiva, maliziosa. “La sai una cosa? Secondo me
il motivo è un
altro. Secondo me”, e gli pigiò con maggior forza
il gomito sulla schiena,
strappandogli l’ennesimo mugolo di dolore, “questo
tuo ardore nel difendere il
marmocchio non deriva dall’amore, che tu nutri nei suoi
confronti, bensì dal
senso di colpa. Meglio ancora: lo fai per addolcire il peso del tuo fallimento. Non hai saputo difendere
Castelnuovo di Quero, non hai saputo difendere i tuoi soldati dalla
sconfitta e
dalla morte. L’unico appiglio di redenzione che ti resta
è questo bambino, cui
tu ti sei aggrappato ferocemente per mitigare il fatto che non sei
altro che un
inetto, bravo soltanto a parlare, ma poi ai fatti vali ben poca cosa.
Che mi
vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la
sorte
della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi
disgusti!”
Hironimo
sperò ardentemente che la lacrima colatagli sulla guancia
fosse stata provocata dalla torsione al braccio. Lo sperava con ogni
fibra del
suo essere, malgrado sapesse corrispondere ad una bugia. Il giovane
batté la
fronte sul tavolo: la terra gli era testimone, non avrebbe dato a quel
maledetto alcuna soddisfazione della sua pena interiore. “Sei
odioso!”, sputò
aspro onde mascherare l’instabilità della sua voce.
“E’
questo il meglio che sai fare?”, lo sfotté il
condottiero
stradiota.
Il
patrizio veneziano ridacchiò crudele. “Le stesse
parole
ripetute … da tua moglie … il
dì in cui
lei scappò via … da te?”, lo
provocò, giacché per lui era più
facile gestire
Mercurio Bua nell’ira cieca del tormento fisico che in quello
razionale e
gelido del tormento mentale.
Così
fu.
Hironimo
perse sia ogni cognizione del tempo sia dei pugni ricevuti
da Mercurio Bua; seppe soltanto che non riusciva nemmeno a stare in
piedi
quando, stancatosi dei suoi vani tentativi, l’albanese
dovette issarselo sulla
spalla per trasportarlo al suo nuovo carcere. Ogni parte del suo corpo
bruciava
di dolore e dappertutto odorava il ferro del sangue.
“Possibile
che con te sia impossibile conversare civilmente?”,
sbuffò il condottiero, uscendo in cortile e dirigendosi
verso un modesto
edificio. “Ché? Non hai più nulla da
dire, adesso?”
In
realtà Miani ne aveva anche fin troppe da cantargliene, se
non
si fosse ritrovato una faccia talmente gonfia, da fargli male anche
solo aprire
la bocca. Fortunatamente, la sua lingua aveva contato tutti i denti al
loro
posto. Aveva invece fallito a controllarsi il naso, anche
perché le sue braccia
non gli rispondevano più, dondolando penzoloni sulla schiena
del Bua.
“Via
quella faccia da monachella oltraggiata! Una buona dormita e
domani t’è passato tutto!”
Il
patrizio gorgogliò qualcosa d’inintelligibile,
sputando sangue,
saliva e catarro.
“Eccoci
arrivati. Ora potrai soggiornare coi tuoi simili, così non
soffrirai più di solitudine!”
Una
disgustosa pozzanghera di fieno, melma e feci avvolse Hironimo
nel suo nauseabondo e bagnato tanfo, laddove Mercurio l’aveva
gettato senza
tante cerimonie, creando poi un certo scompiglio tra le ignare mucche
le quali
muggirono il loro dissenso, battendogli ansiose gli zoccoli per terra.
“Non
sei contento? Potevo gettarti in un porcile, sai?
Fortunatamente per te, non voglio correre il rischio che tu finisca
sbranato
dai maiali”, s’informò melenso
l’albanese, mentre costringeva il giovane seduto
contro il muro della stalla, fissando le catene su di un cerchio in
modo che il
prigioniero si ritrovasse le braccia bene in alto. “Cosa si
dice?”
Fottiti! ,
gli
comunicarono i suoi occhi neri nella più velenosa delle sue
occhiatacce,
dolendogli troppo i muscoli facciali per farlo ad alta voce.
“Una
o due notti di riflessione ti gioveranno. E se proprio vuoi
annoiare qualcuno con le tue corbellerie, guarda, sei circondato da un
pubblico
molto accondiscendente”, gli spiegò Mercurio con
falsa cortesia, allargando le
braccia e indicando le ineffabili vacche. Chinandosi su di lui, gli
afferrò il
mento e gli confessò con sinistro entusiasmo:
“Riuscirò a piegarti, carino,
vedrai se non ti leverò questa dannata tua spocchia dagli
occhi!” Non voleva
leggervi lo sguardo di Caterina, non quando continuava a perseguitarlo,
rinfacciandogli ogni suo errore. “Azzarda un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il
marmocchio, lavandoti la faccia col
suo sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio
avvertimento!”, gli promise mortalmente
serio, mollando bruscamente la presa. Rimessosi in piedi e sogghignando
malevolo,
il condottiero uscì dalla stalla, sbattendo rumorosamente la
porta per sommo
chagrin delle mucche, che muggirono nuovamente il loro disagio.
Questo lo
vedremo! Ti ammazzerò, giuro che piscerò sulla
tua testa mozzata!, scoppiò
Hironimo ringhiando in uno sconquassante pianto di frustrazione,
strattonando
impotente le catene, furente, solo, umiliato, il viso ridotto ad una
maschera di
lividi, lacrime e sangue.
Avrebbe
trovato il modo di fuggire, così da dargliela
definitivamente sui corni a quel dannato! Fosse stata
l’ultima cosa ch’avesse
fatto in vita sua!
Ma prima,
doveva darsi una bella calmata e far buon viso a cattivo
gioco.
L’albanese
poteva vantarsi d’esser un uomo di mondo, ma Hironimo
proveniva dalla città del Carnevale laddove, per tre mesi,
ognuno assumeva
un’identità fasulla, a piacimento.
Si
recitasse dunque quella del prigioniero mite e rassegnato.
Tranquillizzatosi
e regolando il respiro, Miani si nettò con la
lingua il naso colante di sangue, sorridendo sghembo: costasse quel che
costasse, l’ultima risata l’avrebbe avuta lui.
***
Da
Sacile, riassunto delle lettere di sier Marco da cha’ da
Pexaro, podestà e
capitano, e di domino Antonio Savorgnan.
I nimici
hanno passà la Piave e auto Conejan, qual era stà
abandonato. Sier Hironimo Marzelo, podestà, era venuto
lì, a Sazil, et domino
Baldisera di Scipioni; scriveno, si mandi fanti de lì e si
provedi. Et per
colegio fo terminato, che Damian di Tarsia, era qui, facesse
… fanti qui et
andasse a Zazil, e cussì la matina sequente a San Zacharia
sier Lucha Trum,
executor, andò a expedirlo et dar danari a li fanti.
Da
Treviso, riassunto delle lettere di sier Zuam Paulo Gradenigo,
provveditore
generale, e di sier Lunardo Zustignan.
[…]
in consonantia, todeschi haveano passà la Piave et francesi
no, imo haveano fato comandamento e cride, niun de’ francesi
non passasse e
tutti li venturieri si partisseno de lì di campo. Item, che
sacomani andavano per
le ville dimandando lemosina di pan, et vivevano de vua, e che al
presente
saria il tempo di darli adosso dividendossi cussì, e il
campo, è in Padoa,
venisse a Noal.
Continua
…
**************************************************************************************************************
E
rieccoci qua ad un anno esatto dal primo capitolo (prologo):
27.09. 2019 – 27.09.2020!
Anniversari
a parte, adesso ci inoltreremo nella parte meno
piacevole della storia: come detto giustamente da Mercurio Bua, abbiamo
riso e
scherzato, ma sarà sempre di meno.
Ringraziamo
Semperinfelix per le dritte che sempre ci dà e che di
recente è divenuta madrina, avendo infatti nomato
Fra’ Anselmo visto che il
Sanudo ha un po’ il vizietto di lasciare alcuni personaggi
anonimi.
Di nuovo,
mi dispiace per i germanofili ma in questa guerra i
tedeschi proprio hanno fatto una figura barbina, così come
il La Palisse era
veramente maltrattato da tutti, non sono io che mi accanisco. Quanto alle vicende di Feltre, ogni lettore trarrà le sue conclusioni.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Breve
ripasso del martirologio dei santi citati: a San
Sebastiano vennero prima scagliate
tante frecce da parte dei suoi stessi arcieri, da crederlo morto;
guarito dalla
vedova Irene, ritornò ad accusare Diocleziano che lo fece
bastonare a morte. San Giorgio sconfisse
il drago
infilzandolo con la sua lancia e subì il martirio tramite
decapitazione; a Sant’Erasmo vennero
cavate le budella e San Floriano
venne gettato in fiume con
una macina al collo.
|
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Capitolo 19 *** Capitolo Diciassettesimo: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.09.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Diciassettesimo
Confiteor
(…
e
onora la madre)
Madre
è l'altro
nome di Dio sulle labbra e sui cuori di tutti i nostri figli.
(Il Corvo)
Agosto 1499
Momolo
smontò violentemente da cavallo, la gola serrata
dall’arsura e dalla collera, intanto che si slacciava furioso
il farsetto, i
lunghi capelli in battaglia, liberi dall’oppressione della
bereta. Stringeva
gli occhi, vagando alla cieca e così pure conduceva il
docile suo cavallo, le
belle gote vermiglie bruciate dal sole e dallo sdegno.
Attorno a
lui, lo circondava il verde della natura alla vigilia di
Santa Monica [1], l’aria offrente qualche raro spiraglio di
fresco in quei
torridi vapori estivi. Il cielo d’un turchino feroce tagliava
nettamente le
sagome lontane dei monti tra cui il Grappa dietro ad Asolo, illuminando
il
dolce connubio tra le viti d’uva recantina, i campi coltivati
e la foresta che
si stringeva man mano che ci s’avvicinava ai Fontanassi del
Sile, là dove il
tredicenne anelava nascondersi nel suo selvaggio abbraccio.
Aveva
infatti cavalcato alla stregua delle Erinni da Fanzolo fino a
Casacorba, poco distante da Vedelago, con l’arco in spalla e
la scusa di
cacciare aironi in bocca: in realtà, poca concentrazione gli
restava per
destreggiarsi in quel suo passatempo. Momolo avanzava piuttosto alla
ricerca
delle risorgive tra gli arbusti incolti, le erbe alte e graffianti,
imbiancate
di sputacchine e ornate da collane di ragnatele bagnate di rugiada.
Sperava di
non imbattersi in nessuno, specie negli operosi mugnai che
lì macinavano le
numerose staie provenienti dai campi arati.
L’assenza
di civiltà nella boscaglia – i casoni dal tetto di
grisole [2], le ville, le chiesette, perfino i monasteri –
ristoravano l’animo
avvelenato del giovinetto, beandosi del paesaggio imbevuto del caos
della
natura contro quello armonioso ma forzato dell’uomo. In esso
non esisteva né
logica né utilità, soltanto quel fiero disordine
che ben rifletteva i
turbolenti pensieri del ragazzo, la sua ribellione alla ragione e alla
calma.
Similmente all’acqua indomita, essi scorrevano vorticosi e
Momolo v’annegava,
soffocando nel suo malessere.
Il
fontanasso sbucò all’improvviso, riflettente il
verde delle
fronde degli alberi e dei giunchi fluttuanti. L’acqua della
possente ed
irrequieta Piave, giunta grazie al sottosuolo permeabile fino a
Casacorba,
risorgeva ora a nuova vita. Sul fondo fangoso e sulle rive laterali di
queste
che, in apparenza, parevano grandi pozze d’acqua, piccole
bocche borbottavano
in continue bolle il loro benvenuto alla nascita del Sile, lo
stridulo
richiamo di qualche uccello lontano a tener loro compagnia o
l’eco dell’acqua
sollevata dai mulini e le campane di una qualche cappella sperduta
nell’alta e
fitta vegetazione.
Momolo
era consapevole di quel limo, di come avrebbe provocato la
contrarietà di Madre, di sicuro non contenta delle macchie
grigiastre sugli
stivaletti e le braghe. In altre circostanze, al tredicenne il solo
pensiero di
un cipiglio in quel volto amatissimo l’avrebbe inorridito.
Adesso, non soltanto
non gliene importava, anzi, quasi desiderava provocarlo.
Nella
torba dunque procedette, a piedi, incurante di lodarsi, del
graffiare dei rovi, del pizzicore delle ortiche. Afferrò un
ramo secco e avanzò
battendo siepi e rovi, sia per farsi spazio sia per spaventare
eventuali bisce
nascoste. Quando raggiunse uno dei tratti nascenti del Sile -
“La Porta
dell’Acqua” -
pareva uno di quei
selvaggi che si diceva giungere dall’India, tanto che un
povero mugnaio lo
scambiò per un brigante di strada e poco mancò
che gli sguinzagliasse addosso i
cani. Chiaritisi in tempo, l’uomo per discolparsi
offrì al giovinetto di
ristorarsi a casa sua, magari di nettarsi via il sudore e il fango dal
viso.
Momolo,
invece, s’accontentò di sedersi a gambe penzoloni
sul
pontile davanti alla casa del mugnaio, le mani graffiate che gli
coprivano gli
occhi ricolmi di lacrime di rabbia e impotenza.
***
Al mondo
Madre era l’unica persona che aveva fatto sentire Momolo
veramente amato, ricco e speciale, i suoi abbracci morbidi,
rassicuranti e
profumati d’ambracane [3], un porto sicuro ogniqualvolta il
giovinetto si
sentiva agitato, nervoso, triste.
O
semplicemente felice. Molto spesso, senza un motivo apparente,
egli raggiungeva Madre e l’abbracciava tenero, inebriandosi
del suo profumo e
sospirando soddisfatto quando lei ricambiava. Questo dalla mattina fino
alla
sera, al risveglio di Madre in cui ancora in camicia Momolo le balzava
in letto
per darle il bacio del buongiorno e poi in svariate occasioni
(così giusto per)
e ovviamente nell’ora in cui Madre gli rimboccava le coperte,
egli
l’abbracciava e le baciava di nuovo le gote per poi assopirsi
contento.
Era
sempre stato così, d’altronde, ancora prima della
morte di
Padre. Solo che col trascorrere degli anni quel sentimento
s’era rafforzato,
invece di affievolirsi in uno più formalmente contenuto
com’era successo per i
suoi fratelli. Ed era strano osservare i suoi abbracci crescere con
lui, il
quale all’inizio doveva accontentarsi di
cingere le gambe di Madre
mentre negli ultimi anni la raggiungeva tranquillamente in altezza o
quasi,
apparendole più piccola, più fragile e
rinforzando quella necessità sua di
protezione nei confronti della genitrice. Aveva sofferto la prima volta
che,
abbracciandola da dietro con troppo impeto e sollevandola di peso per
qualche
istante, lei si era sciolta da lui esclamando ridendo: mo’
via,
Momolin! Sei troppo forte, mi fai male!
Il
giovinetto s’era allora staccato da lei come ustionato,
rifugiandosi avvilito in altana e madona Leonora ebbe il suo bel
daffare a
spiegargli che non lo stava rimproverando, bensì il suo
corrispondeva ad un
consiglio: stava diventando uomo, doveva far attenzione e misurare la
sua
forza, esser insomma gentile, specie con una donna.
Il fatto
era che Momolo aborriva l’idea di ferire sua madre, sia
fisicamente che spiritualmente. Vederla triste, lo rattristava. Se
soffriva,
soffriva con lei.
E
pertanto, odiava chiunque la rattristasse.
La prima
volta in cui aveva provato tal connessione era accaduto
nel 1491, quando Padre venne nominato provveditore a Lepanto.
Momolo
avrebbe ricordato per sempre quella mattina: contrariamente
alla solita consuetudine laddove il genitore doveva assentarsi da casa
per
andare o agli Uffici o ai fonteghi, quel giorno si respirava aria
pesante.
Madre colazionava avida di parole e le poche proferite secche e
taglienti.
Padre mangiava altrettanto silenzioso, vestito da viaggio al posto
della sua
solita vesta rossa e nessuno a tavola pareva incline alla
benché minima
conversazione, spiando timidamente di sottecchi la coppia. Da marzo i
due
coniugi litigavano incessanti e testardi, poiché sier Anzolo
aveva deciso
d’arbitrio di portare seco sua zia madona Andronica da
Modone, vedova di suo
zio sier Nicolò Miani, al posto della suocera, madona
Ysabeta Contarini reclita
Morexini. Padre s’era giustificato fino alla nausea che tale
disposizione non
era stata presa perché mal sopportasse la sua madona
(suocera, ndr.), bensì
perché, recandosi in terra greca, avere una madrelingua
affidabile come sua zia
gli era parsa una gran bella idea. Peccato che tal opinione non era
stata ben
accolta dalla moglie, la quale già non era contenta
d’esporre nuovamente la sua
famiglia in terre di confine (le era bastato lo spavento
dell’invasione del
Duca d’Austria nel 1487, quando sier Anzolo era stato
podestà e capitano di
Feltre), ma l’idea di separarsi un anno dalla figliastra
Crestina, la cui
gravidanza ahimè non procedeva serenamente e per di
più dalla sua anziana
genitrice l’imbestialiva e la preoccupava, paventando in una
sua morte mentre
si trovava a Lepanto.
“La Tina è
in eccellenti mani, suo marito e madona Gracimana sono sempre
lì ai suoi
ordini, molto premurosi e amorevoli, non le fanno mancare niente!
Quanto alla
vostra siora Mare, di che v’angustiate? Quella galde
d’ottima salute, vedrete
se non ci seppellirà tutti!”
“Barbaro!
Parlate così perché siete geloso di mia
madre!”
“Macché!”
“Siete un
anaffettivo!”
“Pure!”
“Non
sapete cosa significhi amare una madre, perché non ne avete
mai avuta una vera
e propria!”
“Menzogne,
io ho sempre rispettato la mia siora Maregna!”
“Appunto:
rispettato, non amato. “Maregna”, la chiamate, non
“Mare” come faceva vostro
fratello Marco, a chi Dio perdoni. E ora lasciatemi in pace, devo
preparare i
cassoni!”
Momolo,
ch’aveva origliato tutto, aveva intuito, dalla smorfia di
Padre, come quello di Madre fosse stato un doloroso colpo basso: in
effetti, da
quanto appreso dai suoi parenti, la sua nonna di sangue, madona
Crestina
Loredan Miani, era morta quando i suoi tre figlioli erano ancora dei
fantolini,
sicché era stata la loro matrigna ad averli allevati e se
sussistevano prove
concrete dell’amore portato nei suoi confronti dai figliastri
Marco e Vorzilio,
il mediano Anzolo non s’era mai sbilanciato, almeno
esternamente, dimostrandole
un composto rispetto.
“Insomma,
non siete riuscita persuaderlo?”
“Il sior
mio marido sostiene che voi siete troppo fragile per affrontare codesto
viaggio.”
“Che
jotonia! Io fragile? Ha sbattuto la testa, forse? La malaria polesana
gli ha
trasformato in sbatudin il cervello? Io, fragile?! Io, che ho
seppellito due
mariti?! Io, che da Negroponte ho dovuto riportare a Venexia le ossa
del vostro
sior Pare, con voialtri appresso ancora fanciulli! Ed io sarei
fragile?!”
Al
momento del congedo dall’unica sua figlia, madona Ysabeta
aveva
sistemato e risistemato incessantemente la cappa sulle spalle dei
nipoti, goffo
tentativo di posticipare quanto più possibile la partenza.
Madona Leonora le
aveva infine afferrato le mani e sussurrato qualcosa
all’orecchio, molto
probabilmente rassicurando la madre, il cui labbro inferiore tremava
sia di
tristezza che di rabbia per non aver potuto seguire la sua creatura. La
vedova
Morexini aveva poi salutato cortesemente gelida sia il genero sia la
sua ignara
sostituta, la quale tanto era contenta di rimettere piede nella sua
patria
d’origine, da non accorgersi della palese ostilità
della nobildonna nei suoi
confronti.
“Mamma”, aveva chiesto Momolo a Madre, approfittandone
dell’assenza di Padre e dei fratelli dal pizzuolo [4] per
conferire indisturbato
con la genitrice, rimasta lì per pudicizia, non essendo
decoroso che
deambulasse tra i vogatori mezzi nudi. “Perché
dobbiamo andare a Nepanto? A
Tata non piace più Veniexia?”
“Il
sior tuo Pare mio marido sta badando agli affari della
Signoria, come dovrai fare anche tu da grande. E poiché gli
incarichi in
territori di confine sono tra i più pericolosi, a lungo
termine però sono i più
remunerativi.”
“Perché?”
“Perché
gli permetteranno di accedere a cariche esclusivamente a
Veniexia!”
“Oh!
E perché non ha voluto portare la Nonna?” e scoccando un’occhiata furtiva a madona
Andronica, che sonnecchiava
serafica, aveva sussurrato: “Come ne porta una, ne
porta anche due! Non sarà
che anche Tata segue il detto: Per quanto bone che le sia,
le madone sta
ben sui quadri?” [5]
“No”, s’era intromesso
Padre, venuto a controllare come stesse la moglie. “Piuttosto:
perché
tre done vada d’acordo, ghe vol una viva, una morta e una
piturada su la porta!”
“Dovevate
allora lasciarmi a Veniexia e portare seco il mio
ritratto, se già in casa ne avete una viva”, e se la
risposta era parsa sarcastica, in realtà Momolo aveva notato
l’angolo della
bocca di Madre arricciarsi all’insù, quando
scherzava giocosamente birbante con
Padre.
Se a
distrarre Madre non ci fossero state le mogli del Podestà e
degli altri funzionari palatini, nonché la gravidanza della
figliastra
Crestina, alla quale scriveva quanto più possibile,
riempiendola di buoni
consigli e d’incoraggiamenti, di certo madona Leonora si
sarebbe rosa il fegato
in quell’anno di separazione dalla madre e in generale la sua
famiglia per
intero. I due anni a Feltre non le erano pesati perché
comunque erano rimasti
in suolo italico e Venezia, in fin dei conti, non era poi
così distante e
irraggiungibile come al contrario le pareva Lepanto; inoltre, madona
Ysabeta
l’aveva accompagnata per aiutarla durante la sua gravidanza,
essendo Crestina
ancora troppo cruda per gestire da sola una casa e la
servitù.
“Mamma,
siete ancora arrabbiata con Tata?”
“No, amore
mio. Sono solo un po’ triste.”
“Per colpa
di Tata?”
“Momolin,
quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del
bene, purtroppo
finiamo per ferire le persone che amiamo.”
“Io
no! Mamma, io non vi farò mai del male!”, le aveva
promesso solennemente Momolo, quando deambulando per la
terrazza-giardino del
loro palazzo a Lepanto, Madre s’era attardata a fissare
malinconica l’orizzonte
e le galee scivolare sul mare liscio e azzurrissimo, uscendo o entrando
in
porto. Le aveva afferrato la mano, drizzando le spalle e tirando fuori
il
petto, cercando di farsi più grande dei suoi cinque anni.
Madre gli aveva
accarezzato la guancia e il bambino s’era sentito
d’un colpo grande,
responsabile, contentissimo.
Avrebbe
protetto Madre da qualunque male e da chiunque. Anche da
Padre se necessario.
Perché
qualche settimana più tardi, poco prima di cena, sier
Anzolo era entrato negli appartamenti della consorte, intavolando un
discorso
che suonava a metà tra un’informazione e una scusa.
“Pensavo,
una volta rientrati, di presentare la mia candidatura a provveditore di
Zante.
È una carica bene remunerata, a soldo, e meno distante.
Avremo così i fondi
necessari, per non muoverci mai più.”
“Me ne
rallegro: dopo due anni in Grecia, potrete ambire senza problemi ad una
cattedra di greco a Padoa.”
“Lasciatemi
finire. Siccome si
parlerà d’un altro
anno fuori Veniexia, mi sembrava giusto, a questo punto,
d’invitare anche la
vostra siora Mare mia madona. Se non erro, si lamenta spesso dei suoi
reumi,
quindi potrà approfittarne per asciugarsi ossa e legamenti e
…”
A quelle
parole Madre aveva distolto lo sguardo dal suo ricamo,
trattenendo a malapena un sorrisone soddisfatto. “Non v’astierà in alcun modo,
ve lo prometto. La siora mia Mare sarà la
discrezione fatta persona, manco v’accorgerete
d’averla in casa!”, lo aveva
assicurato, alzandosi dallo sgabello e andandosi a sedere sulle
ginocchia del
marito, le mani bianche e affusolate tra i capelli di lui, scendendo
languide
lungo la nuca, dentro il colletto. “E
ora,
con vostra buona licenzia, scendo in cucina a predisporre per la cena
con
l’Orsolina.”
“Di già?
Aspettate ancora un poco!”
“No, no, è
tardi. Forse, dopo, vedremo …”
A tavola,
Padre aveva per tutto il tempo seguitato a scrutare
Madre così fissamente, che Momolo aveva creduto volerla
tramutare in pietra; né
lei si sottraeva, anzi, nel miglior suo abito ricambiava ora timida ora
civettuola, reclinando il collo tornito in un tintinnare di perle, un
mezzo
sorriso arricciato sulla bocca formosa.
Dopo
mangiato aveva poi osservato il modo in cui Padre la
conduceva spingendola verso la camera, il braccio ben serrato alla sua
vita;
tutto nel suo atteggiamento ricordava nel bambino uno strano archetipo
d’aggressione, di rapina, al punto da temere per la
genitrice, prigioniera in
un abbraccio inflessibile. Eppure, Madre ad esso non si sottraeva,
semmai lo
assecondava morbida e flessuosa, calmissima, in contrasto con
l’incalzante
nervosità del consorte. Di tanto in tanto, sier Anzolo le
scoccava un bacio
sulla nuca, lungo la colonna vertebrale, più denti che
labbra e a Momolo gli
parve un lupo pronto a divorare la sua preda.
Un’arcana
angoscia l’assalì, il desiderio di sottrarre Madre
a
quella bestia antropomorfa troppo grande, unito però ad un
nuovo senso di
rabbia e gelosia, come di scalzare Padre, come se a cingere la donna
dovesse
essere lui al posto del genitore.
Momolo
ovviamente non era riuscito a dormire quella notte,
tormentato dagli incubi. Sicché a notte fonda, quando ormai
sapeva l’intero
palazzo addormentato, decise di sgattaiolare in punta dei piedi lungo
il
corridoio fino alla camera dei genitori, onde assicurarsi che Madre
stesse
bene.
Al lume
della candela, celato dietro la tenda rossa, aveva visto i
genitori sul letto sfatto, tranquilli neanche la previa tensione non
fosse mai
esistita. Una camiciola sottile accarezzava il corpo bianco di Madre,
distesa
puntellandosi sul fianco verso il marito e impegnata in muta
conversazione con
lui, mentre questi le accarezzava la coscia, scoprendola, risalendo
fino al
gluteo, invitandola a schiudere le gambe. Padre non indossava nulla, se
non
appena il lenzuolo ai lombi, fiero contrasto il suo corpo bruno contro
il
candore delle lenzuola. Pur tendendosi egli verso la moglie, le spalle
e i
muscoli delle braccia si muovevano rilassati, appagati, forse sfiniti
da chissà
quale sforzo.
Madre gli
sorrideva ambigua, piegandosi su di lui, baciandolo a
lungo e invitandolo a distendersi di schiena mentre questi
l’abbracciava,
sollevandole la camiciola.
Fu allora
che Momolo a sua volta si sentì issato per le ascelle e
penzolone come un micio trasportato dalla gatta veniva riportato da una
brontolante Eudokia in letto.
“Cosa
fanno?”
“Quando
sarai più grande, ve lo spiegherò.”
“Lo
voglio sapere adesso!”
“L’erba
voglio non cresce neanche nel giardino del re!”
“Non
c’è re a Veniexia ed io voglio sapere che
fanno!”
Trascorse
una settimana tonda prima che Momolo potesse essere
riammesso in camera dei genitori, ma da quell’episodio egli
già aveva
incominciato a nutrire gelosia e diffidenza verso Padre, il quale
possedeva il
misterioso potere di rendere Madre sommamente felice o terribilmente
infelice.
Come
quella mattina del 18 agosto 1496.
Quando
l’ufficiale sanitario aveva bussato alla porta di
Ca’
Miani, Madre già sapeva quale tremenda notizia era venuto a
portarle; tuttavia,
non aveva resisto all’ingresso dei barellieri entrare nel
portego col loro
macabro carico. La mano di madona Leonora tremava impazzita mentre
sollevava il
telo bianco che copriva il corpo sottostante; un urlo ingolato
d’animale
agonizzante le sfuggì dalle labbra livide nel riconoscere il
volto di sier
Anzolo in quella maschera grigia e contratta davanti a lei. Gli occhi
le si
girano all’indietro, impallidì fino a competere
col marmo, cadde svenuta talmente
pesantemente tra le braccia di suo fratello sier Batista Morexini, che
questi
dovette flettersi in ginocchio per attutirne la caduta. Momolo aveva
assistito
atterrito dal modo frenetico con cui suo zio scuoteva Madre,
chiamandola a voce
alta, elargendole buffetti d’incoraggiamento sulle guance,
baciandole le
tempie, le lacrime agli occhi.
Niente,
Madre seguitava a rimanere immobile come Padre.
Giustamente,
madona Leonora aveva dovuto riprendersi e sforzarsi
di vivere per i suoi figli, però Momolo sapeva come di notte
ella piangesse tra
le braccia di Eudokia, come invocasse il marito. Egli in quelle
occasioni
avrebbe tanto voluto già esser adulto e sostituire la
fantesca candiota, nonché
trovare il modo di poter assorbire su di sé il dolore di
Madre, alleviandola
dalle sue pene.
Si
ripromise che se Padre l’aveva ferita, lui
l’avrebbe guarita,
restandole sempre accanto, aiutandola, perfino giocando al buffone per
tirarla
su di morale. Le rivoleva sul viso quel sorriso gioioso che
evidentemente
soltanto Padre le sapeva instillare, ma Momolo non era persona che si
tirava
indietro dinanzi a qualsiasi sfida.
“Sei
proprio tutto il tuo sior Pare!”, gli aveva
confidato Madre, stringendolo a sé la mattina di San Nicola
[6], quando Momolo
aveva trovato un pacchetto di biscotti ai fichi e subito
l’aveva condiviso con
lei.
Tal
paragone l’aveva all’epoca reso euforico, sapendo
quanto il
genitore fosse stato importante per Madre.
Ma
ovviamente gli altri dovevano mettersi in mezzo e rovinare
tutto.
Era stata
colpa di Jacomo Corner, il figlio del cavalier sier
Zorzi Corner e nipote di sua zia acquisita madona Morexina, la moglie
dello zio
Batista. Il ragazzo non aveva infatti digerito d’aver
perduto, a San Nicolò del
Lido, alla sfida di tiro con l’arco contro un nanerottolo
qual era ancora il
giovanissimo Miani. Sicché, staccando astiosamente dal
bersaglio le frecce,
aveva borbottato rancoroso: “Momolo
mammolon!”, perché il
giovinetto s’era vantato di come avrebbe regalato il premio a
sua madre. Al che
Momolo gli aveva elargito un calcio sui reni, saltandogli addosso una
volta a
terra e mentre lo riempiva di sberle gli gridava che male ci fosse a
voler bene
alla propria madre.
“Ma
tu esageri!”,
gli aveva urlato dietro il giovane Corner,
massaggiandosi lo scalpo e il viso doloranti. “Sei
peggio d’Edipo!”
“Non
conosco nessun “E-di-po” ma se t’azzardi
a ripetere tali
bestialità, ti strappo la lingua e te la ficco su per il
culo!”
E Jacomo
Corner c’era andato assai vicino quando Momolo, tarmando
suo fratello Carlo, aveva suo malgrado appreso a chi
il suo rivale
l’avesse paragonato.
“Chi
è Edipo?”
“Lasciami
in pace: contrariamente a te, ho da lavorare!”
“Dai!
Chi è Edipo?!”
“Avessi
trascorso un po’ più di tempo sui libri che
sull’arco, a
quest’ora lo sapresti!”
“Carlino!”
“Uffa
e va bene: è un personaggio della mitologia greca, il quale
uccise suo padre Laio e fece l’amore con sua madre Giocasta.
Contento?”
No.
“Io
non ho ucciso mio padre né ho fatto l’amore con
mia madre!”
“Ma
che diavolo …? Ohé, Momolo, dove corri? Guarda
ciò che strambazzo
…”
Un
disgusto indicibile aveva infatti nauseato il ragazzino, la sua
mente già di suo turbata dai primi accenni di
sensualità tipici
dell’adolescenza. Amava Madre d’un amore profondo e
infinito come il mare, ma
l’idea di far certe cose con
lei gli provocava feroci tremiti
di ribrezzo, similmente al paragone con Padre, associandolo ora a
quella volta
che li aveva pizzicati in letto.
Sior
Barba, voi avete voluto bene alla vostra siora Mare Querina e
alla mia siora Nonna Ysabeta?,
ne approfittò Momolo per investigare con suo
zio Batista, quando andò a trovarlo a casa sua per le
pubbliche scuse col
cugino acquisito Jacomo Corner, su insistenza di sua zia madona
Morexina la
quale a sua volta era stata tormentata da sua sorella madona Ysabeta.
Il giovanissimo
Miani aveva dunque emulato l’Imperatore a Canossa, ribadendo
però che se il
Corner avesse insistito a blaterare tali oscenità, gli
avrebbe strappato uno ad
uno i denti come Sant’Apollonia. Le occhiatacce delle sue zie
raggiunsero
livelli da Gorgone Medusa, mentre il suo avunculo ridacchiava sotto i
baffi,
orgogliosissimo.
Quella
domanda gli era sorta in testa ripensando alle antiche
accuse di Madre, di come Padre non avesse mai nutrito grande amore nei
confronti della sua matrigna. Essendo deceduta prima della sua nascita,
Momolo
non possedeva alcun brazzoler [7] di giudizio personale onde smentire o
confermare tali parole; ciononostante, ben si ricordava del funerale
del suo
prozio sier Hironimo Miani, laddove perfino quello stoico di suo padre
sier
Anzolo non era riuscito a nascondere le lacrime. Sicché,
tale analoga
situazione gli sarebbe servita per capire, se si poteva voler bene solo
alla
propria madre di sangue, anche se morta precocemente, oppure se una
matrigna
poteva supplire. Perché, guardando il rapporto tra Madre e
Crestina,
quest’ultima devotissima alla sua matrigna, che
l’aveva cresciuta come se
l’avesse partorita lei e di fatti la prima figlia femmina
della sua sorellastra
era stata battezzata Leonora. Ma lo zio Batista? Di sua madre Querina
Querini Morexini,
Momolo non sapeva pressoché nulla e il fatto che il suo
Barba non ne accennasse
mai, pur nomando una sua figlia Querina, lo intrigava assaissimo.
“Che
domande, sempioto! Anche se la
mia siora Mare è morta quand'ero fantolino
e dunque oramai non me la ricordo assai bene, so per certo che
l’amai con tutta
la mia anima! Così come voglio bene alla mia siora Maregna,
che m’ha cresciuto
amorevolmente.”
“Lo stesso bene
che volete
alla siora mia Amia vostra mojer?”
“An,
no! Quello è un tipo d’amore diverso!”
“In
che senso?”
“Eh
… nel senso che è un amore anche fisico, oltre
che spirituale.
L’amore che si nutre verso la madre è puramente
platonico, alto, puro, privo di
qualsiasi sensualità. Un po’ come quello che si
porta verso la Madonna. Quello
per la moglie è sì pieno di rispetto e dedizione,
ma in esso giustamente
sussiste anche una componente più carnale, altrimenti non si
genera prole.”
“Ma
l’amore per la Luzia Trivixan, allora?
Cos’è?”
“E
tu come fai a sapere di lei?”
“Ho
occhi per vedere sior Barba e voi non siete discreto. Né la
siora mia Amia vostra mojer l’è donna che fa la
gelosa in silenzio,
lamentandosi come il sabato mattina voi vi rechiate a prender Messa a
Santa
Caterina solo per incontrarvi con la siora Luzia e disnar poi
assieme.”
“E
ti pareva che non andasse a spettegolare in giro i fatti miei,
quella betonega de me mojer … Cos’è la
siora Luzia Trivixan? … Hé, lei è solo
carne e niente spirito … E che carne, nezzo mio, che carne
… un gran bel senato e culàta!
[8]
…”
“Sicché
dovesse la siora Luzia morire, voi non piangereste per
lei, sior Barba?”
“Cosa
c’entra adesso?”
“Sior
Barba, non mi pigliate per idiota!”
“D’accordo,
d’accordo … Sì, me ne dispiacerei,
più che altro
perché la Luzietta è di tanta compagnia
… con quella sua voce d’usignolo e le
sue conversazioni brillanti … un giorno ti
porterò ad un suo concerto, quando
sarai più grandicello … Però la moglie
è la moglie e non bisogna confondere i
due tipi d’amore. Ci sono cose che non puoi chiedere alla
moglie, Momolo, lei è
la madre dei tuoi figli, sta su di un sacro piedistallo e non puoi
pretendere
che si abbassi alle tue necessità meno onorevoli.”
“La
siora Luzia invece si abbassa?”
“Sapessi
quanto … Volevo dire, lei posso amarla d’amor
totalmente
profano.”
“Il
sior mio Pare non aveva di questi prusegini (pruriti, ndr.).
Anzi, sosteneva che donne come la siora Luzia sono fredde, artificiose,
bugiarde, addestrate sin dall’infanzia a comportarsi a
seconda dell’occasione e
del ganzo loro. Sono una e cento donne allo stesso tempo, di cui mai ti
puoi
veramente fidare. Mi diceva che chi è sincero con te e che
vuole il tuo bene
anche a costo d’apparire antipatico, allora ti ama per
davvero e che di questa
persona ti puoi fidare. Mi diceva che quando non
c’è reciproca fiducia, non
c’è
amore.”
“Il
sior tuo Pare mio cugnado, pace all’anima sua,
l’era una
bestia rara che però su molte cose aveva ragione.”
“Sior
Barba?”
“Uhm?”
“Ho
agito male a menare il Jacomo?”
“No,
ti ha detto una cosa davvero disgustosa, che poi mi sorprende
visto che la siora sua Mare mia cugnada è sempre
lì a coccolarselo. Bah. Però
la prossima volta picchialo senza testimoni.”
“Sior
Barba? Se la siora Luzia dovesse morire, voi ve ne
pigliereste un’altra?”
“Possibile.”
“E
se la siora mia Amia vostra mojer dovesse morire, voi ve ne
pigliereste un’altra?”
“Assolutamente
no: una m’è già bastata!”
“Ma
come! Se dichiarate d’amarla!”
“Ed
è vero, la mia Morexina è per me molto
importante. Però lei
non è come la Luzietta, che quando m’infastidisce
la mando via. La tua siora
Amia mia mojer la devo sopportare, anche ahimè in quei
momenti in cui la
prenderei volentieri per il collo. E lo sa, la furbastra, che lei
è la moglie e
può prendersi con me tutte le libertà che
vuole!”
“Mica
v’insulta, vi descrive per quel che siete!”
“Ossia?”
“Un
cotolon impenitente, con più amanti che anima, tanto da parer el galo de dona checa!”
“An,
quello quando lei è di buonumore!”
“Sior
Barba, secondo voi, c’è la possibilità
che la siora mia Mare
si possa risposare?”
“Non
lo so, dipenderà da lei. Le donne talvolta si dimostrano
più
pragmatiche di noi uomini e se si risposano non è
necessariamente per motivi di
cuore o di lascivia.”
“Ma
io non voglio che si risposi! Non glielo permetto!”
“Perché
mai dovrebbe risposarsi?”
“La
siora mia Mare è molto bella e qualche malintenzionato
potrebbe volerla tutta per sé, sottoponendola a porcherie
assai oscene …”
“Bah,
dubito: ormai mia sorela Leonetta l’è vecchia e
neppure più tanto
bella.”
“Balle
de musso! Come vi permettete, sior Barba? Mi meraviglio di
voi! La siora mia Mare è bellissima invece, la
donna più bella di Veniexia
e d’Italia e chi afferma il contrario è
irrimediabilmente un fiorentino
bacia-piselli come il vostro amico sier Orsato!”
Sier
Batista Morexini s’era messo a ridere di gusto, considerando
l’ultima affermazione un motto di spirito: ovvio che Momolo
guardasse la madre
cogli occhi del cuore, trovandola eternamente pulchra e affascinante
nonostante
gli implacabili segni del tempo. Ignorava, purtroppo, la sottile ansia
del
nipote dietro tale affermazione giacché ai suoi timori egli
aveva sul serio
accostato un nome e un cognome.
Esatto,
c’era per davvero chi gli insidiava la madre, non erano
chimere le sue.
E Momolo
al sol pensiero crepava di rabbia.
Fanzolo,
nella podesteria di Castelfranco e poco distante da
Vedelago, era una terra pedemontana di conformazione un po’
bizzarra, che
racchiudeva nei suoi teneri contorni di campagna fertile e gentile, le
insidie
delle torbiere e i dislivelli delle colline in vista delle montagne.
Sier
Anzolo Miani vi aveva acquistato quarantasei campi a prezzo
irrisorio, in aggiunta a quelli ereditati da sua madre madona Crestina,
dandoli
in affitto a tre famiglie di contadini con cui aveva stabilito il
personale
prezzo di due o tre staie (a seconda del raccolto) di frumento, segale,
miglio,
biada per cavalli, saggina, grano nonché di vino reccardino
che per la natura
dell’uva sua autoctona della Marca Trevigiana - grappolo e
acini grandi d’un
blu nero, pruinoso e dalla buccia consistente - non aveva bisogno di
concia.
A Momolo
era sempre piaciuto recarsi in visita alla casa di paron
Menego Storti, di paron Miorotto e di paron Mathio de Bonio, durante i
suoi
vagabondaggi per la campagna. Gente semplice ma curiosa, onesta e
pratica, di
buon consiglio e grandi lavoratori da cui imparava un sacco di nozioni
sulla
vita dei campi e sui mestieri ad essa legati e non.
Mutua
simpatia che si manifestava in particolare alla domenica,
quando tra un gioco e l’altro coi loro figlioli i fittavoli
lo invitavano per
un goto di vino e una fetta di polenta dolce nei loro casoni dalla
copertura a
cuspide, una struttura che aveva sempre affascinato Momolo per la sua
diversità
dalle case alte e strette di Venezia. Al di fuori della copertura a
cuspide era
sistemata la cucina con l’ampio camino posto sottovento e
svettante, con il
terminale conformato a campana per proteggere il tetto di paglia dalla
fuoriuscita delle scintille. La canna del camino era poi realizzata
sporgente
verso l’interno delle murature d’ambito,
acciocché anche gli ambienti al piano
superiore potessero riscaldarsi d’inverno. Nel sottotetto,
all’interno della
copertura, vi si trovava la teza, da cui si accedeva soltanto
all’esterno a mezzo
di una scala a pioli attraverso un abbaino. Lì i contadini
conservavano le
biade ed i formaggi, al riparo dalle intemperie e affidati
all’abilità
predatoria dei loro fidi gatti, in perpetua lotta contro i topi. Nulla
però
potevano contro i ragazzini che giocando l’usavano come
nascondiglio, o peggio
i giovani innamorati.
V’era
nella campagna un non so che di arcano e di selvaggio, che
aveva sempre attirato Momolo, forse l’illusione
d’ampio respiro fornito dalla
vastità di quelle terre fluviali e collinose, protette dalle
rassicuranti
montagne. O forse l’assenza di formalità e di
quelle cerimonie da cortigiani,
che da sempre pizzicavano i nervi del giovinetto, percependoli infatti
non come
segno di raffinatezza, bensì d’untuosa piaggeria.
Una via
di mezzo era Treviso, bellissima città-giardino, un cento
commerciale molto fiorente e ricercato luogo residenziale. Dal suo
cuore
antico, racchiuso tra le mura scaligere, si diramavano
tutt’intorno come raggi
otto sobborghi, creando una pianta cittadina assai armoniosa,
circondata da
giardini, orti, prati, ville, vigne, piazzette, case, chiese e
monasteri. Lì la
vita scorreva placida come i suoi due fiumi e le sue chiare fontane,
gli
abitanti di natura gaudente e assai golosa di quel “piacer
d’amor che quivi è fino”,
come poetava Fazio degli Uberti nel suo
“Dittamondo.” E di fatti, Momolo,
ch’aveva iniziato a guardarsi un po’ attorno,
spesso si ritrovava a rispondere
ai sorrisi e ad inchinarsi dinanzi a qualche giovinetta trevisana,
trovando
donne e fanciulle tutte belle, gioiose, devotissime eppur affatto
introverse,
provocandogli le prime smanie in petto.
Ogni
tanto, interrompevano il soggiorno a Treviso e a Fanzolo per
recarsi in visita a degli amici di famiglia, come ad esempio i
Costanzo, i
Pellizzari e i Morexini a burgo Tarvisii a Castelfranco, oppure ad
Asolo quando
sier Batista raggiungeva per qualche giorno la cognata acquisita, la
Regina di Cipro,
domina Catharina Corner.
Tali
visite equivalevano per Momolo ad una vera e propria tortura,
infastidito dai perpetui paragoni cogli altri suoi cugini, laddove egli
in
tutto era carente - cultura, vestiario, galateo, patrimonio.
Più che per se
stesso, soffriva per la spocchiosa sufficienza con cui trattavano
Madre, la
quale si sottoponeva a quel teatrino soltanto per compiacere suo
fratello,
sorda alle frecciatine e alla sottile perfidia contenuta nelle parole
dei
cortigiani di domina Catharina, quando accennavano alla loro
“villa rustica
dell’epoca dei Caminesi” a Fanzolo o al
“palazzetto di fronte ad un mulino” a
Treviso.
Momolo
non sopportava veder dileggiata Madre per la sua frugalità,
men che meno adesso che vestiva in perpetuo lutto, senza gioielli
tranne che
per la vera e l’anello di Padre, le trecce nascoste dalla
scuffia nera sopra
cui scendeva un pesante paneselo del medesimo colore,
tant’è vero che i
forestieri scambiavano le vedove veneziane per monache, meravigliati
dall’assoluto rigore della loro vedovanza, poiché
una volta perduto il marito
esse rinunciavano ad ogni vanità del mondo. O almeno
così davano ad intendere,
considerate alcune vedovelle che non potevano vivere se non sentivano
in casa
il passo d’un uomo.
Ad ogni
modo, dopo un anno volato via coi suoi alti e bassi,
nell’ottobre
del 1498 Momolo era dovuto rientrare ritornare a Venezia e a scuola, a
subirsi
per tutto l’inverno oltre
Cicerone e la
Bibbia anche i vanti dei parenti Miani di San Giacomo
dell’Orio perché sier
Lorenzo era stato nominato console a Palermo, nonché il
biasimo loro e degli
altri parenti Morexini poiché ai primi di marzo 1499 sier
Marin Sanudo, sier
Marco da Molin, sier Zacharia Dolfin e sier Hironimo Querini avevano
bussato a
Ca’ Miani per riscuotere un debito di 100 ducati, che Lucha
doveva ad un
protogero di Morea [9], a detta di sier Marin personaggio poco limpido
quasi
uno spione. Madre aveva spellato vivo Lucha, rimproverandolo di non
impegolarsi
in nessun prestito, che non fosse riuscito poi a pagare. Cosa suo
fratello
maggiore le avesse risposto tra un urlo e l’altro, Momolo non
lo seppe mai;
nondimeno, il danno era fatto e i parenti semplicemente godevano alla
stregua d’un riccio nel rivangare all’infinito quel
succoso pettegolezzo. Come
se loro fossero immacolati quanto la veste dei Giusti
nell’Apocalisse.
Grazie a
Crono giunse la Sensa e Momolo poté ritornare a Treviso e
Fanzolo e madona Leonora alla gestione degli affitti e dei raccolti.
Momolo,
dal canto suo, poco ci badava se non lo stretto
necessario; traeva invece maggior diletto nel seguire la crescita di un
nuovo
puledro bianco latte, ch’egli aveva ribattezzato
Eòo come uno dei cavalli del
carro del dio Febo e per il cui possesso aveva affrontato di petto i
suoi
fratelli. Giorno dopo giorno pieno d’aspettativa studiava
l’esili gambe
posteriori e braccia anteriori dell’animale e scalpitava
pensando al giorno in
cui avrebbe potuto infine cavalcarlo, intanto che
s’impratichiva cogli altri
cavalli.
Cavallo
vecchio, cavaliere giovane; cavallo giovane, cavaliere
vecchio, patron Momolo!,
gli spiegava Zulian Canestri, un veterano di
guerra e un tempo abile cavalleggero, che ora insegnava equitazione ai
rampolli
di buona famiglia, maestro assai raccomandatogli dal suo zio acquisito
sier
Antonio Trum, il primo a capire quanto quella disciplina fosse capace
di
contenere la prorompente esuberanza del nipote.
Ormai a
Momolo era chiaro come tra i suoi simili non avrebbe
svettato in altezza, il fisico snello ma al contempo robusto lo
rendevano un
cavaliere ideale e la povera madona Leonora doveva imbrigliare oltre
che al cavallo
anche il figlio, il quale non le teneva nascosto il suo progetto di
partecipare
un giorno al palio di Santa Lucia a Treviso, anche per zittire
definitivamente
quelle pettegole dei suoi cugini.
“Vuoi
gareggiare con quel ronzino?”
“Taci,
vecia ciacola invidiosa! Eòo crescerà in un
bellissimo
cavallo e assieme vinceremo il palio, vedrai!”
“Ma
tu lo sai che il mio cavallo proviene dalle scuderie
mantovane?”
“Puoi
anche cavalcare la Marchesana di Mantoa, per quel che
m’importa:
alla fine sarà io a farti mangiar la
polvere!” (e
via a
prendersi a sberle e a tirarsi per i capelli)
Screzi a
parte coi suoi cugini, madona Leonora osserva piena di
soddisfazione la ritrovata la serenità sul volto del suo
ultimogenito,
assecondando ogni sua iniziativa con grande pazienza e
generosità e a Momolo a
sua volta piaceva viziare sua madre, riempiendola costantemente di
piccoli doni
e attenzioni. Adorava il suo sorriso, si sentiva ricco
dell’amore da lei
riversatogli e non ne aveva mai abbastanza. Il suo spirito,
profondamente
scosso e ferito dal lutto e dai recenti avvenimenti a Venezia,
s’aggrappava a
quel balsamo materno, sviluppando un odio sotterraneo verso chiunque
dall’esterno s’avventurasse nella loro piccola
bolla felice.
La loro
villa a Fanzolo, pur modesta se comparata a quelle degli
altri patrizi veneziani o nobili locali, saltava tuttavia
all’occhio per la sua
sobria e raffinata armonia architettonica. Un’elegante
trifora centrale e il
delicato taglio delle finestre del piano nobile
s’accompagnavano alle grandi arcate
del porticato aperto su tre lati, cozzando con la spiccia
solidità delle altre
pertinenze rurali accanto alla villa, quali la stalla, il granaio e i
magazzini. Il tutto era circondato da un alto muro così da
creare sia una sorta
di corte che di giardinetto dove refrigerarsi e oziare. Sier Anzolo,
osservando
i palazzi di Treviso e le altre ville nella Marca, l’aveva
fatta affrescare sia
all’esterno che nelle lunette del portego, così da
nobilitarne la struttura non
particolarmente elaborata e il materiale di costruzione non ricco. Sul
muro il
senatore aveva preferito dei motivi geometrici simili ai tappeti
persiani;
nelle due lunette una Sacra Conversazione e San Giorgio che uccideva il
drago,
essendogli particolarmente garbata un’omonima tela ammirata
all’Abbazia di
Santa Maria del Pero di Monastier di Treviso. Madona Leonora, invece,
aveva
provveduto ad arredare l’interno con mobili o vecchi o di
scarsa qualità,
portandoseli da Ca’ Miani così da consumarli
definitivamente e disporne di
conseguenza. In questo modo s’era creata
un’impressione di prolungamento del
palazzo, senza sentir la nostalgia di casa e di Venezia.
Lì
i giorni scivolavano via felici, monotoni eppure laboriosi,
interrotta quella bucolica quotidianità da qualche festa
comandata a Castelfranco
e a Treviso o le odiate visite ad Asolo o al Paradiso.
E fu
lì che Momolo conobbe il Rivale.
Villa
Paradiso (così nomata per via del terreno su cui sorgeva,
cioè appunto il Paradiso) in realtà era ancora un
edificio assai austero, forse
un’antica fortezza rimaneggiata, chissà, e Momolo
non capiva come mai i Morexini
se la tirassero tanto, visto che non gli appariva più
signorile della loro a
Fanzolo. [10] Forse perché era appartenuta un tempo alla
nobile famiglia dei
Tempesta, avogari del Vescovo di Treviso, mentre la loro ad un
diossacchi però
abbastanza ricco da permettersi un’abitazione in stile
cittadino.
Con la
dedizione della Marca Trevigiana alla Serenissima Signoria
e la conseguente corsa alla compera di terreni da parte dei patrizi
veneziani,
i Morexini avevano infatti acquistato il Paradiso a burgo Tarvisii
dagli ultimi
esponenti dei Tempesta, la loro importanza politica ridottasi a Noale,
soppiantati come avogari dalla famiglia Azzoni.
Generazione
dopo generazione, era giunta a sier Orsato Morexini q.
sier Francesco, buon amico di famiglia, uomo di ingente patrimonio e
rinomata
pecora nera della sua gens. Era stato infatti pizzicato assieme
all’avvocato
sier Alvixe Zorzi q. sier Polo nel retrobottega di un barbiere in
procinto di
lavorarsi il giovane Piero Mozenigo, figlio del loro vicino di casa
sier
Francesco, cosa che a momenti Padre si soffocava a cena col boccone
d’agnello
andatogli di traverso, quando apprese del fattaccio, conoscendo infatti
egli
bene sier Francesco e Lucha e Carlo frequentavano la stessa compagnia
di Piero.
Al
conseguente arresto e processo era scoppiato un tal buferone in
contrada, da compatire quei poveracci, malmenati sia dai Dieci sia a
turno in
casa da ogni loro parente maschio.
“Insomma,
tra suo padre sier Francesco e gli altri Mozenigo non so
chi l’avesse scudisciato di più!”, aveva
raccontato madona Magdalena Miani, che non solo riscuoteva a San Vidal
gli
affitti, ma anche i pettegolezzi. “Non
si capiva più niente! Ad un certo punto pareva quasi una
partita a pallacorda:
smetteva uno e incominciava l’altro! Il tutto mentre gli
urlavano dietro ogni
sorta d’invettiva, tipo: “Con sì gran
numero di potte disponibili a Veniexia,
tu proprio sentivi la necessità di prendertelo in culo non
da uno, bensì da due
uomini?!”,
aveva per caso sentito un giovanissimo Momolo discutere i suoi
parenti da dietro la porta dello studio di Padre. “Lo dicevo, io, che il giovane Piero Mozenigo
ultimamente vestiva troppo
elegante, per le possibilità economiche del suo sior Pare!
Ed ecco qua svelato
l’arcano: s’accompagnava a quel sodomita di sier
Orsato!” Madre, beccatolo
ad origliare assieme a Marco, li aveva trascinati via assieme ad
Orsolina,
evitando con grande abilità le domande dei suoi figlioli, su
cosa fosse
esattamente un sodomita.
Un
po’ per il prestigio sociale ed economico del clan Morexini;
un
po’ perché niente d’irreparabile era
accaduto tra sier Orsato, sier Alvixe e il
ragazzo Piero Mozenigo (o almeno questo quanto emerso dalle indagini),
il
Consiglio dei Dieci aveva optato per la clemenza, limitandosi ad
esiliare il
Morexini per dieci anni da Venezia, sicché sier Orsato si
era trasferito nei
suoi possedimenti a Castelfranco, pur sorvegliato a vista dai suoi
famigliari
tramite i servitori.
Ma un
uomo ricco, anche se sodomita, rimane comunque una risorsa
socialmente utile ed ecco che sier Orsato venne riammesso a Venezia nel
1491
per grazia dei Dieci e del Serenissimo Doge Missier Agustin Barbarigo,
sotto sacra
promessa di pentirsi, di sposarsi e di generare figli. Onde favorire la
riabilitazione del suo nome, Sua Serenità gli aveva
generosamente offerto in
moglie una sua nipote, Pellegrina di sier Zorzi Nani sicché
sier Orsato,
volente o nolente, quel figlio lo dovette dare al clan, se non per
dovere o
riconoscenza almeno onde evitare una sorte ben peggiore del bando al
confine o
un altro giro di scudisciate da parte dei parenti.
All’esposizione delle
lenzuola macchiate di sangue più che un urlo di giubilo, si
narrò esser
corrisposto ad un urlo di sollievo.
Di
conseguenza l’intera famiglia aveva ritrovato la pace e
l’equilibrio interiore alla nascita della piccola e graziosa
Marina Morexini,
peccato che lì i suoi genitori si erano fermati, stavolta
non perché sier
Orsato fosse ritornato ai suoi antichi vizi, piuttosto
perché la morte per
febbre l’aveva vigliaccamente colto a Milano
nell’ottobre del 1495, dove si
trovava in qualità di pagatore di campo. Il patrizio venne
seppellito ai Santi
Apostoli a Venezia, lasciando erede universale la figlia di case, terre
e
30.000 ducati liquidi.
A Momolo
quella bimba faceva molta pena: l’essersi ritrovata da un
giorno all’altro un’appetibile ereditiera
l’aveva trasformata in una reclusa,
controllata a vista. Sua madre, infatti, ovunque leggeva tranelli per
accaparrarsi la figlia e non si poteva darle ogni torto: la Morexini
ancora si
succhiava il pollice e già ogni famiglia patrizia a Venezia
tramava per
maritarla ai propri rampolli. C’era invero da impazzire e la
vedova di sier
Orsato forse un po’ matta lo era diventata, a giudicare dal
modo in cui aveva
aggredito Momolo quando lo aveva pizzicato a passeggiare mano nella
mano con
Marina. Mossa esagerata e infelice giacché
sperimentò tutta la furia di madona
Leonora, la quale giurò a madona Pellegrina le pene
dell’inferno se avesse
osato prendere di nuovo a vergate suo figlio come l’ultimo
dei villani.
“Cosa
facevamo allora da soli in giardino? An? Avanti, piccolo
turco, che facevi con la mia Rina?”
“Parlavamo
dei nostri defunti padri!”
Le due
vedove dinanzi a tale risposta erano rimaste gelate sul
posto. Non era una menzogna: tra i due bambini s’era
instaurata una delicata
affinità, che nulla però aveva
d’amoroso. Semplicemente, la perdita del
genitore li accumunava e pertanto spendevano ore e ore a discutere su
di loro, sui ricordi che conservavano, sul vuoto che
li avevano
lasciato. Si capivano a vicenda e tentavano in maniera goffa di
consolarsi.
“Talvolta,
se mi sforzo di notte, ho come la sensazione di poter
ancora udire la voce del mio sior Pare. E tu Momolo?”
“La
mia siora Mare ha tenuto tutti gli abiti del mio sior Pare nei
cassoni. Ogni tanto vado ad aprili per vedere, se riesco ad annusare il
suo
profumo.”
“E
lo senti?”
“Ogni
giorno sempre di meno.”
“Mi
dispiace per come s’è comportata la mia siora
Mare.”
“Non
ti preoccupare.”
“Sai
che non s’è neppure risposata, perché
teme che un mio
eventuale patrigno possa rubarmi l’eredità? Almeno
tu sei fortunato, perché non
hai un granché di soldi.”
“Grazie
per avermi dato del povero! E comunque, la mia siora Mare
non si risposerà mai!”
“Tu
non comandi niente alla tua siora Mare! Se si vuole risposare,
lo farà!”
“E
invece no!”
“E
invece sì!”
“Tu
sei solo invidiosa, perché la mia siora Mare, al contrario
della tua, rimane fedele alla memoria del mio sior Pare
perché lo amava e non
perché ha paura di perdere i suoi soldi!”
Al che
Marina l’aveva buttato giù dall’altalena
e se n’era
scappata via in lacrime, giurando di non parlargli mai più
in vita sua.
Promessa
non mantenuta ché la volta dopo i due avevano ripreso le
loro conversazioni, sebbene di nascosto, quando gli adulti erano troppo
impegnati a merendare al fresco sotto le pompeiane di cedri o presso il
roseto.
Quel
particolare giorno d’estate, accadde che tra i ragazzi venne
voglia d’improvvisare una partita a pallacorda, per passare
il lungo e monotono
pomeriggio e Momolo s’aggregò immediatamente,
poiché puntava di vincere uno dei
due premi, un fazzoletto di seta finissima dai bordi merlettati secondo
la
nuova moda, per regalarlo a Madre.
“Posso
giocare anch’io?”, chiese Momolo al gruppetto di
giovanotti, tra cui figuravano domino Mathio Costanzo; Gasparo Valier;
Marco
Antonio Michiel, i nipoti di domina Catharina Corner
- Francesco,
Marco, Hironimo, Zuam e Jacomo; Francesco e Phelippo Contarini di sier
Zacharia
cavalier; Piero Trivixan; Ferigo Contarini di sier Hironimo biscugino di Madre; Francesco
Contarini del “Grillo”, i cugini più
grandi di Momolo e naturalmente suo
fratello Marco.
“Ma
dai, cosa vuoi giocare a pallacorda, con quei tuoi braccetti
corti!”, lo sfotterono inclementi i ragazzi. Perfino Marco
sghignazzava, il
turco traditore!
“Su,
vai a giocare coi tuoi coetanei!”, indicavano il resto dei
bambini, che già avevano preso posto accanto alle sottane
delle loro madri per
assistere al gioco.
“Non
ne ho voglia! Preferisco unirmi a voialtri!”
“Nah!”
“No!”
“Ma
va là!”
“Contame
naltra!”
“Sei
troppo piccolo!”, gli rivelò ridacchiando Jacomo
Corner,
provocando un feroce arricciamento di capelli da parte del tredicenne
Miani.
“Sicuramente
meno piccolo del tuo bifi!”, replicò
quest’ultimo
prontamente velenoso, mostrandogli tramite l’ausilio
dell’indice e del pollice
le supposte misure del pene del Corner, il quale divenne paonazzo dallo
sdegno
per quell’illazione.
“Ma
io ti squarto, razza di …”
“Mo
via, te la pigli per uno scherzo?”, sdrammatizzò il suo parente
Ferigo
Contarini, appoggiando una mano sulla spalla di Momolo, col duplice
scopo di
trattenerlo e di calmarlo. “Sta ben, il piccoletto vuole
giocare con noi e
donca? Hai forse paura che ti stracci?”
Jacomo
Corner alzò altero il mento. “Figurati se ho
timore di
questo ma-ca-co!”
Ferigo
sorrise carnivoro. “Pulito! Allora: il Momolo ed io
facciamo coppia; poi, vedetevela voialtri!”
Un deluso
grugnito si levò in aria: il ventenne Contarini era uno
dei migliori giocatori di pallacorda e ovviamente ciascuno progettava
di finire
appaiato con lui.
Onoratissimo
di tal privilegio e considerazione da parte di un suo parente
maggiore, Momolo gli sorrise sincero e Ferigo gli rispose tramite un
complice
occhiolino.
Il duo si
rivelò una coppia ben sortita: laddove il più
anziano
sfruttava la sua naturale inclinazione al gioco di tattica, fiaccando
l’avversario con passaggi insidiosi più che
violenti; il minore suppliva in
agilità, intercettando e riacchiappando la palla con balzi
al limite del
circense e ben presto i due giovani si portarono in finale,
fronteggiando i
fratelli Marco e Jacomo Corner.
“Zò,
Soa Santità! Volete cresimarmi di nuovo?!”,
esclamò beffardo
Ferigo, evitando in un’assai tersicorea piroetta la palla
lanciatagli da Marco
Corner (che uscì fuori dal tracciato assegnando il punto al
Contarini),
accompagnato dalla grassa risata di Momolo. Era risaputo come il
cavalier sier
Zorzi avesse intenzione d’avviare il figlio alla carriera
ecclesiastica e i
suoi amici non mancavano di sfotterlo per quello. Anche
perché, bel giovine
qual era, si sa che la Curia a Roma …
“Tase-là,
turco miscredente!”, gli mulinò Marco Corner
contro la
racchetta, atteggiamento strano per quel solitamente placido ragazzo.
La verità
è che la coppia avversaria li stava raggiungendo, rendendo
nullo il vantaggio
iniziale dei due fratelli Corner.
I quattro
giocatori fletterono le ginocchia, incurvandosi
leggermente in avanti ed evitando perfino di sbattere le ciglia pur di
non
perdersi alcun movimento della palla. Le camice di lino erano divenute
ormai
trasparenti dal sudore, rivelando il brunito dei loro torsi e
modellandosi ad
ogni loro muscolo. I ragazzi si scostavano frustrati dalla nuca gli
ingombranti
capelli o la frangia molesta, le ciocche bagnate appiccicate alla pelle
sudatissima. Perfino le braghe apparivano più aderenti, ben
delineando lo
sforzo muscolare delle gambe snelle e agili.
Ferigo
servì stavolta, imprimendo grande possanza nel tiro e la
palla sfrecciò oltre la corda e con un rumoroso grugnito
Jacomo la rispedì
indietro. Scattando alla stregua d’un grillo, Momolo la
intercettò e gridando
la ributtò dai Corner e Marco dovette sbilanciarsi non poco
per non perderla,
ma comunque riuscendo a salvarla. Il tredicenne corse perdifiato a
riprenderla
e per poco cadde in una capriola ma la palla la ricacciò ai
Corner. Jacomo
allora tentò di schiacciarla, approfittando del vuoto
lasciato da Momolo,
sennonché Ferigo gli corse incontro e con una torsione da
discobolo gli impedì
di segnar il punto, anzi, accaparrandoselo lui.
“Pari!
Dai mo’ che se li facciamo ingoiare ‘sta palla,
vinciamo!”,
incoraggio il Contarini il suo compagno di gioco.
“Momolo?”, domandò, notando
come questi si fosse imbambolato, lo sguardo torvo puntato sulla
tribuna
improvvisata.
Chi era
quel tizio seduto accanto a Madre?
Se alla
destra di madona Leonora stava la sua amica madona Alba
Donado Contarini, alla sua sinistra s’era accomodato un
gentiluomo e dal modo
in cui chiacchierava fitto-fitto con sua madre, Momolo
avvertì una gran rabbia
montargli in petto. Il viso di lei, infatti, non possedeva la medesima
gelida
cortesia che la vedova Miani rifilava a qualunque uomo, specie dopo la
morte di
sier Anzolo: v’era un non so che di dolce, pacato nel suo
sorriso e lo zenit fu
il risolino che la nobildonna coprì con la punta delle dita.
Momolo
vide letteralmente rosso, digrignò i denti al richiamo di
Ferigo e si lasciò travolgere da un’ira cieca
all’ultimo turno di punti. Ad
ogni servizio impresse una violenza inaudita per il suo corpo ancora
magro
d’adolescente, urlando imbestialito e mirando più
a colpire gli avversari che
in posti strategici, dove avrebbero faticato a salvare la palla. Le
parole di
monito di Ferigo gli scivolavano addosso come il rivoletto di sudore
sulle
tempie.
Ansimava
inferocito a guisa di tigre, figurandosi dinanzi il
misterioso gentiluomo al posto di Jacomo Corner, nelle orecchie
l’eco delle
parole di Marina Morexini. Madre non si sarebbe risposata, nessun uomo
avrebbe
preso il posto di Padre al suo fianco e men che meno il suo! Momolo
aveva
giurato che avrebbe protetto Madre, che le sarebbe rimasto sempre
accanto.
Nessuno gliel’avrebbe portata via! Già a Padre
aveva dovuto rinunciare, ma a
lei no! Lei no!
“Ah!”,
cacciò il ragazzino un urlo inumano, facendo perno sul
piede sinistro e roteando il busto portò la palla a
schizzare velocissima
contro Jacomo che rinculò comicamente all’indietro
per rispedirla indietro,
sbilanciandosi.
“Ah!”,
gridò nuovamente Momolo, che al contrario pareva ancorato
al terreno, ampliando il movimento d’apertura e la palla
viaggiò ancora più
veloce e sempre puntata contro il petto del Corner.
“AH!”,
non si accorse delle lacrime di rabbia che gli offuscavano
la vista, soltanto della frustrazione che la palla avesse colpito il
piede al
posto della gola di Jacomo, contrariamente al suo progetto iniziale.
Temerario,
il tredicenne era corso quasi sotto la corda e s’era
letteralmente buttato
addosso alla palla al mero scopo di distruggere l’avversario,
rivoltandogli
contro il tiro di rimando.
Segnò
l’ultimo punto per vincere soltanto un grande amaro in
bocca, soprattutto quando, al momento di consegnare il prezioso
fazzoletto
merlettato alla sua “dama”, Madre gli aveva fatto
un cenno nascosto di diniego,
che non stava bene regalarle platealmente il premio – lo
doveva dare a
qualcun’altra in segno di cavalleria. Seminascosto dalla sua
spalla, il
gentiluomo sorrideva compiaciuto, neanche gliel’avesse
suggerito lui al mero
scopo d’indispettirlo.
Momolo
allora strinse convulsamente la preziosa stoffa,
sgualcendola e, portatosi davanti alla giovanissima Regina Contarini
sorella di
Ferigo, glielo gettò sgarbatamente sul grembo per poi
allontanarsi a grandi
falcate, pugnalato mille volte alle spalle dalle occhiatacce assassine
delle
cugine Anzola, Maria e Querina Morexini, le quali, sotto-sotto, avevano
sperato
ricevere loro quel bel fazzoletto.
Madre lo
ripigliò al rinfresco dopo l’improvvisato torneo,
una
volta levato il campo e rivestitisi e rinfrescatisi i giocatori, e
poiché
evidentemente il destino ce l’aveva a morte con lui, il
tredicenne se la vide
arrivare col gentiluomo appresso.
“Sior
Alvixe, questi è il Momolo, il mio più
piccolo”, lo presentò
madre all’uomo, anch’egli nerovestito (ma non della
toga patrizia) e con la
barba castana macchiata di bianco. Forse coetaneo di Madre,
giudicò il
giovinetto, il cui corpo s’era teso sulla difensiva.
“Momolo, saluta il signor
Alvixe Beltramin.”
“Come
stai, Momolo? E’ un piacere conoscerti. La toa siora Mare
m’ha
parlato molto bene di te.”
Il
tredicenne serrò i denti e i pugni. “Mi stago ben,
sior Alvixe.
E per voi sono Hironimo, non Momolo”, dichiarò
battagliero, beccandosi un
furtivo scappellotto al braccio da parte di sua madre.
“Momolo!
Che maniere da turco!”, ridacchiò ella
nervosamente,
inasprendo il malessere del suo ultimogenito. “Qualche volta
è proprio un
rebégolo!” (ragazzo irrequieto, ndr.)
“No,
no ha perfettamente ragione! Ammetto d’esser stato un poco
presuntuoso a volerlo chiamare da
subito
“Momolo”, soprattutto se è un nomignolo
conferitogli dal fu suo padre”, lo
giustificò bonario Beltramin e il ragazzino
spalancò sconvolto la bocca,
voltandosi di scatto verso la genitrice, sul viso
un’espressione tradita: come
aveva potuto raccontargli quel dettaglio? Con quale diritto?
“Il
signor Alvixe è un nostro vicino a Fanzuolo, dove possiede
della terra e per mestiere, fa il mercante di vino. Ha viaggiato per il
mondo
in lungo e in largo; di fatti, mi stava raccontando alcuni interessanti
aneddoti dal Principato di Trento!'”
“Troppo
gentile, patrona. Mi dipingete più interessante di quanto
lo sia in realtà: so benissimo di non poter certo competere
col vostro parente sier
Ambruoxo Contarini, l’esploratore!”
“Oh
bella, ci terremo dunque in buona compagnia!”, e risero
complici, similmente a quelle volte in cui Padre scherzava con Madre in
altana.
Momolo si
sentì morire.
Alvixe
Beltramin di Liberale era un intraprendente commerciante di
vini e proprietario di qualche appezzamento di terra vicino ai terreni
dei
Miani e pertanto si poteva dire sufficientemente agiato da partecipare
alla
vita mondana di Castelfranco, grande amico del condottiero e
viceré di Cipro,
domino Tuzio Costanzo. La sua famiglia era originaria di Piove di Sacco
(si
sentiva forte il pavan nella sua calata) e s’era fatto da
solo, lavorando
duramente sin da ragazzo pur d’emergere
dall’anonimato cittadino. Sier Batista
Morexini, anch’egli dedito alla mercatura, aveva avuto modo
di conoscerlo a
Rialto e subito s’erano intesi bene, sicché quando
il patrizio era venuto in
visita alla vedova di sier Orsato era stato oltremodo contento di
rivederlo,
presentandolo alla moglie madona Morexina e alla sorella madona Leonora.
Per
questo e altri due motivi, scoprì in seguito Momolo, aveva
egli avvicinato Madre e incominciato a discorrere con lei: il primo era
perché
malgrado i suoi meriti un poco rimaneva snobbato e non potendo sempre
stare
attaccato alla vesta di sier Batista o di domino Tuzio Costanzo,
l’uomo doveva
pur andar da qualche altra parte, rimanendo però
puntualmente relegato
all’angolo, analogo destino che si riservava spesso e
volentieri a Madre. Il
secondo, poiché anche Beltramin era rimasto vedovo, perdendo
la moglie per il
parto di un figlio. Questo spiegava l’abito bruno e
soprattutto la barba. Con
discrezione aveva chiesto da quanto tempo madona Leonora portasse il
lutto e
lei gli aveva replicato da tre anni il prossimo 18 agosto. Al che il
signor
Alvixe le aveva domandato se ancora lei ripensasse al consorte e se
quel
dolore, che avvertiva in petto, si sarebbe prima o poi addolcito. Lei
gli aveva
confessato di no.
E
incominciarono a discorrere d’altro.
Quello fu
l’inizio di una serie di numerose visite, specie
dopopranzo quando Madre si portava assieme ad Eudokia e Orsolina sotto
il
portico della villa a ricamare, mentre il resto del personale o era a
dormire o
in giro per i fatti propri.
Malgrado
i modi di fare un po’ diretti e spicci, il signor Alvixe si
comportava da perfetto cittadino, buon conversatore e di ottima
compagnia,
conquistando piuttosto facilmente l’amicizia di Marco, con il
quale discuteva
animatamente di affari, dei mercati all’estero e degli ultimi
regolamenti sul
territorio, che si rivelarono assai utili per il governo dei loro
campi. Di
recente però i due uomini parlavano molto di politica sia
interna (di nuovo i
Turchi portavano la guerra nell’Egeo) sia estera (di nuovo
Francesi portavano
la guerra in Italia). Anche Momolo partecipava a questi dibattiti
accanto al
fratello, ascoltando in rancoroso silenzio, la sua antipatia nei
confronti
dell’uomo tenuta a freno soltanto per compiacere Madre, la
quale lo
incoraggiava ad imparare dall’esperienza dei suoi maggiori.
Non
soltanto sotto i porteghi in villa si doveva Momolo sorbire la
sua presenza: che fosse stato in piazza o al mercato a Castelfranco o
ai
ricevimenti al Paradiso; in chiesa o in borgo a Fanzolo, il tredicenne
si
ritrovava il Beltramin in ogni luogo. Marco era totalmente entusiasta
della sua
compagnia; Madre non si sbilanciava però aveva insistito
d’invitarlo a pranzo
quando Carlo l'aveva raggiunta in villa per qualche giorno,
presentandolo ufficialmente alla famiglia:a
desinare terminato il secondogenito Miani, famoso per la sua lingua da
sarto, che
tagliava e cuciva, sorprendentemente aveva cantato ogni lode del sior Beltramin.
“Momolo,
perché ti comporti sempre in maniera così
scontrosa col
signor Alvixe?”, gli domandò Madre una sera,
mentre gli sistemava il cuscino
dietro la schiena. A causa dell’intenso caldo estivo, la
nobildonna era venuta
meno ai dettami dell’etichetta, togliendosi la scuffia nera e
pertanto
lasciando respirare i lunghi capelli, le trecce sciolte in un manto di
boccoli
misti tra bianco e nero.
“Non
mi piace averlo tra i piedi!”, dichiarò
imbronciato il
ragazzino, giocherellando con quelle ciocche sale e pepe che gli
sfioravano il
petto, essendosi la donna sporta verso di lui. Alla tremula luce della
candela
il viso di lei gli appariva ancor più giovanile, risaltando
il luccichio dei
suoi occhi grandi e nerissimi e il giovinetto
s’irritò doppiamente, affatto
contento di doverla condividere con altri uomini.
Madona
Leonora sospirò, accarezzando i folti capelli scuri del
figlio. “Momolo, devi sapere che il povero signor Alvixe
soffre molto di
solitudine. Noialtri gliela alleviamo un poco.”
“Non
ha una sua famiglia a Piove di Sacco?!”, protestò
ostinato il
tredicenne, battendo il pugno sul materasso.
“Perché deve intromettersi nella
nostra?”
“La
solitudine non è solo un male del corpo, ma anche
dell’anima.”
“Balle
de musso!”
“Quando
sarai più grande, capirai.”
“Ma
anche no”, si voltò astioso Momolo dalla parte
opposta,
stringendo offeso il cuscino e imponendosi di dormire.
Non
c’era niente da capire. Cosa gli importava se Beltramin
soffriva di solitudine? Quale diritto gli conferiva
d’impicciarsi nei loro
affari? Di trascorrere ogni dopopranzo con Madre?
Perché,
tra tutte le donne della Serenissima Signoria, aveva
puntato proprio a lei? Perché non dirigeva altrove le sue
attenzioni?
Quella
notte Momolo venne tormentato da una serie di incubi, il
più orribile una rievocazione di quella volta che, appena
cinquenne, s’era per
caso trovato a spiare i genitori in letto. Ma al posto di Padre, nudo
sul corpo
di Madre c’era il signor Alvixe
Beltramin e il tredicenne si svegliò
urlando con quanto fiato avesse nei polmoni, sudato neanche avesse
contratto la
malaria e ammazzando per poco suo fratello Marco dallo spavento,
destandolo di
soprassalto.
“Che
c’è? Cos’hai?”
“Non
voglio! Non voglio!”, si tirava i capelli il giovinetto,
scuotendo il capo e piangendo disperato. “Non voglio! Non
voglio!”
“Cosa
non vuoi?”, lo spronò il diciottenne a confidarsi,
osservando ansioso i calci a vuoto del fratellino e
l’agitarsi convulso del suo
corpo. Fu costretto a bloccargli i polsi quando il tredicenne
incominciò a
pigliarsi la fronte a pugni. “Parlami, su, Momolo! De diana,
parlami invece di
gridare!”, lo supplicò disperato e notando
l’assenza di risultati e l’epistassi
dal naso che stava tingendo di rosso le lenzuola, corse a chiamare la
madre.
“Amore
mio, che ti succede?”, abbracciò ella la sua
creatura in
affanno, stringendosela al petto e tamponandogli le nari sanguinanti.
Ma se in
altre occasioni quel dolce contatto l’avrebbe rassicurato da
ogni cruccio, in
quella al contrario lo esacerbò e Momolo, singhiozzando,
vomitò sul letto per
poi cadere svenuto.
“Nervi, soltanto nervi”,
fu il
conciso responso della curandera del paese. “Qualche
tisana di camomilla e lavanda e gli passerà; se proprio
peggiora
allora provate con quella alla valeriana, ma senza esagerare, anche se
per
me il problema, patrona, non sta nel corpo
bensì tutto qui”, disse
l’anziana donna, ticchettandosi la tempia destra.
Ovviamente,
quel maledetto di Beltramin, appreso del confinamento
in letto di Momolo, figurarsi se non venne a trovarlo per informarsi
della sua
salute così d’avere un’ulteriore scusa
per trascorrere indisturbato maggior
tempo con Madre, sicché la sua malattia si
prolungò di una settimana, tra
febbriciattole, nausee e uso continuo del pitale a causa
dell’infernali tisane.
Neppure
alla Messa commemorativa di Padre il Beltramin gli
risparmiò la sua presenza e se le maledizioni scagliategli
dal tredicenne
avessero potuto far crollare l’antica chiesa romanica di
Santa Maria Assunta [11]
a Castelfranco, a quell’ora non ne sarebbero rimaste neanche
le macerie. Tra
tutti i giorni, proprio quello! Ma certo! Era una sfida alla memoria di
Padre,
per godere del suo trionfo su di lui, essendosi ormai autoproclamato
suo
sostituto al fianco di Madre!
Vedi?
Vedi? Te lo rubata! Tu sei morto, io sono vivo e ora mi
chiavo la tua donna! –
lo poteva il giovinetto quasi sentire
vantarsi con quel suo odioso accento pavano – dopodiché
venderò i tuoi
figli ai Turchi, i quali li trasformeranno in eunuchi e così
la tua discendenza
sparirà dalla faccia della terra!
“Dio
sia lodato, posso finalmente rasarmi questa barba
maledetta!”,
sospirò allegro Marco alla fine della funzione, grattandosi
enfaticamente le
gote intanto che scendevano gli scalini d’ingresso della
chiesa. “Con questa
barba e i capelli lunghi, mi pareva d’essere un monaco
greco!”
“Ti
pare?”, lo rimbeccò aspro Momolo, sul cui mento
invece ancora
non cresceva nulla, le gote morbide e lisce. “Oggi
è l’anniversario della morte
del nostro sior Pare e l’unico tuo pensiero è
quello di sbarbarti? Ma fammi una
carità!”
Secondo i
costumi di Venezia gli uomini erano tenuti a portare la
barba in segno di lutto, la durata variante a seconda del grado di
parentela.
Nel caso di sier Anzolo, i suoi figli l’avevano portata per
tre anni come di
precetto, mentre gli altri suoi zii e parenti già
l’anno successivo la morte
del Miani se l’erano rasata.
Marco
strinse gli occhi, piccato per la verità dietro quelle
parole, avendo in effetti odiato la barba più per un fattore
estetico che
simbolico. “Mo’ andiamo dal barbiere”,
bofonchiò impacciato, spingendo in
avanti il minore onde spronarlo a muoversi. Sennonché
quest’ultimo rimase ben
piantato per terra, rifiutandosi di chiudere in quattro e
quattr’otto la
questione. “Che ti prende oggi, Sior Contrario?”,
sbuffò snervato il
diciottenne, ponendosi le mani sui fianchi.
Momolo
gli indicò col mento Madre, attardatasi a chiacchierare sul
sagrato della chiesa con la moglie di domino Tuzio Costanzo e suo
figlio
Mathio; con una gentildonna assieme ad una fanciulla che il ragazzino
non aveva
mai visto fino a quel momento e, figurarsi se mancava, il signor Alvixe
Beltramin.
“Donca?”,
aggrottò Marco la fronte, piuttosto confuso.
“Mi
domando cosa voglia da noi, quello là …”
“Chi?”
“Quello
là!”
“Se
non parli schietto, non ti capisco!”
“Il
signor Alvixe!”, sputò il tredicenne il nome,
manco avesse
pronunciato un improperio. “Perché è
venuto oggi a prender Messa?”
“Per
creanza?”
“No,
perché vuole sedurre la nostra siora Mare!”
Marco
aprì la bocca, rimanendo comicamente interdetto per qualche
istante. Dopodiché, si piegò in due dalle risate
fino ad annaspare dalla
mancanza d’aria, trascinando il fratellino in un angolo
appartato dietro una
stradina secondaria tra mura, chiesa e castello.
“Burlestu?”, inquisì
divertito, asciugandosi le lacrime agli occhi.
“No!”,
batté Momolo frustrato il piede sul selciato, la sua
collera direttamente proporzionale all’ilarità del
maggiore. “Spiegami allora
come mai è sempre attaccato alle sue sottane? Ogni giorno si
presenta a casa
nostra! Dopo pranzo neanche tu puoi negare, come se ne stiano a
ciacolar
fitto-fitto, manco la zia Maddaluzza e le sue betòneghe di
contrada!”
“E
allora?”
“Non
lo giudichi il tipico comportamento d’un
corteggiatore?”
“Bah,
t’immagini le cose!”, scrollò le spalle
il maggiore,
liquidando quei dubbi alla stregua di sciocche bambinate e pertanto
accennando
a raggiungere il gruppetto, sennonché Momolo lo trattenne
per la manica,
costringendolo a rimanere.
“Scoltame
ben: quel pavan vuole la nostra siora Mare! E noi
dobbiamo assolutamente impedirgli di sposarla!”, gli
rivelò talmente ansioso
che Marco non ebbe più alcun dubbio sulla
veridicità delle parole del
fratellino. Invero non stava scherzando, glielo leggeva in faccia e
finalmente
il giovane capì la cagione dietro quei perpetui bronci nel
minore ogniqualvolta
s’imbatteva nel signor Alvixe.
“No.”
“Come
no?”, ripeté scioccato Momolo da quel secco e
infastidito
rifiuto, mollando di colpo la presa dalla manica.
“Scoltame ti
ben”, gli puntò Marco l’indice
contro il
petto, severissimo. “Io non so se ti sei bevuto il cervello o
che, però se ti
sei ammalato per questa jotonia, copandome quasi dallo spavento, giuro
che te
dago tante di quelle sberle, che a Carlevar non avrai più
bisogno d’indossare
una maschera! Secondo”, lo interruppe inflessibile, levando
in alto la mano in
un veemente scatto, “cosa te ne cale, se la nostra siora Mare
si vuole
rimaritare? Sei forse il suo sior Pare? No! Sei suo figlio e alla siora
Mare
s’obbedisce, senza tante storie! Quando tu
sarai un marito e un padre e quando possiederai
la tua casa, allora
sì che
potrai comandare e dire al mondo: Mi vojo cussì,
mi vojo cosà! Siccome
però non hai niente e non sei niente, abbassa le orecchie e
obbedisci in
silenzio. Comprendestu?”
Momolo
incassò la sferzante predica a capo chino, le gote
vermiglie e gli occhi umidi dal pianto a stento trattenuto.
“Non la può sposare!
Non la deve sposare! Non può rubarcela! Non la voglio in
casa d’altri! Non
voglio che porti un altro cognome! Non voglio un fratellastro! Non
voglio nuovi
parenti!”, insistette istericamente il tredicenne e prese ad
ansimare in
affanno, sballottato dalla perdita d’un potenziale alleato
nella sua personale
lotta contro il Rivale. “L’unico uomo cui
è maritata è il nostro sior Pare!”
“CHE
E’ MORTO DA TRE ANNI! SVEJA, IMMATONIO MACARON DE
PUJA!”,
l’apostrofò spazientito il maggiore, forse
più aggressivo di quanto intendesse,
ché infatti Momolo indietreggiò intimidito,
sbattendo la schiena contro il
muro. “Ammettendo che il signor Alvixe la voglia sposare: e
allora? Dove
sarebbe in ciò il crimine? An? Nostro padre – a
chi Dio perdoni - è
morto e nostra madre è libera di fare ciò
che meglio crede! Cosa t’impicci degli affari suoi?”
“E’
la donna del nostro sior Pare, comprendestu? Nostro. Padre!”,
si batté il giovinetto il petto onde reiterare il concetto.
“L’affare sul serio
non ti tange? Non t’importa sapere nostra madre in letto,
nuda a fare l’amore
con uno che manco è nostro pa-ahia!”, non
riuscì Momolo a terminare la frase,
che suo fratello gli aveva afferrato i capelli, tirandoglieli
crudelmente, i
denti digrignati ben in mostra.
“Ti
te sporcarie da sbisào no te le me disi,
sastu? O TE
COPO!”, l’avvertì perentorio, ogni
traccia affabile sparita dal suo viso. “La
siora nostra Mare è una nobildonna onorata, pudica di corpo
e di pensieri! E
anche se si volesse rimaritare, chi sei tu per impedirglielo, chi sei
tu per
comandarla, per dirle cosa può e cosa non può
fare? Chi sei tu?”
Suo
figlio!, avrebbe
voluto replicare un Momolo sull’orlo
dell’ennesima crisi nervosa, ma già prevedeva la
replica di Marco, ovvero che
anch’egli era figlio di Madre e di certo non si permetteva di
pontificare in
giro sul suo operato.
Era
dunque rimasto solo ad affrontare i suoi problemi, come
sempre.
***
“Zò,
patron! Saria anca horra de tornar ndrio a chaxa vuostra per
zenar!”
Momolo
trasalì alle parole mugnaio, rendendosi soltanto ora conto
delle prime luci rossastre del tramonto. Tirò su col naso e
s’asciugò le
lacrime dalle gote, ottenendo solo l’effetto di sporcarsi
ulteriormente di fango.
“Dime,
caro ti”, chiese piuttosto egli all’uomo,
rimettendosi in
piedi sul pontile, “facciamo che un giorno la Morte di colga.
Saresti contento,
se la siora toa mojer la se maridasse de novo?”
Il
mugnaio reclinò confuso il capo, grattandosi il collo
sudato,
intanto che meditava sia ad una risposta soddisfacente sia al motivo
dietro
quella bislacca domanda. “Beh, tuti i saven ch’i
morti ndove i van, no tornan
indrio: anca se mi no vorave la mia femena co naltr’om, chome
imperdighelo se
sonjo morto?! De po’, le femene gh’han senpre fato
zò che le piasen, dai tempi
d’Adam et Eva!”
“E
ciò senza tener conto dei tuoi parenti e del tuo
onore?”
L’uomo
scoppiò a ridere fragorosamente, a bocca ben larga e
mostrando
qualche dente mancante. “Il mio honor? I mii danari, ecco
zò ch’el premarà a
staltri! Co’ se more, patron, no ghe rimane al morto ni honor
ni niente, solum
Sen Michiel cum la bassacuna” [12], ridacchiò
ilare, scotendo il capo dinanzi a
tal ingenuità.
Insoddisfatto
e un poco piccato per quella non troppo velata presa
per i fondelli, Momolo raggiunse il suo cavallo, salendoci in groppa
assai
imbronciato.
“Patron”,
lo trattenne all’ultimo il mugnaio, avvicinandosi e
guardandolo serio-serio, “aricordeve ste parolle: ante de far
la moral a
qualchedun, vardé drento de vu et pensé
se vuj seti mejo o
pezo di chi volé criticar. Queo sgrandezón
(superbo, ndr.) dil luzifero fo el
primo a dir: Mi sun parfeto!”
Il
ragazzino strinse la bocca in una piega dura, ribelle a quel
consiglio come lo era nei confronti di tutti quegli altri elargitigli
dagli
adulti. Inoltre, la malcelata vanità dovuta al suo ceto gli
suggeriva di non
tener da conto i pareri di un popolano, anche se più maturo
di lui e con
maggior esperienza del mondo. Che ne sapeva quel plebeo della morale,
dell’onore? Similmente ad ogni esponente del popolo bue, egli
non era che
un’anima semplice, i cui unici scopi della vita rimanevano il
cibo, i soldi e
il sesso. Nient’altro. Inutile dunque contraddirlo e tentar
di cavar sangue
dalle rape: non ci sarebbe mai arrivato. Che vivesse dunque nel fango
alla
stregua di bestie, che gliene importava? Ma che non venisse a riempirlo
di
consigli, quello no!
“Iddio
sia teco”, si congedò il tredicenne in un tono
assai
frettoloso e scocciato, battendo i tacchi sui fianchi del cavallo.
“El
xé senpre meco, patron!”, si toccò il
mugnaio appena il bordo
del cappello di paglia a mo’ di saluto, seguitando ad
osservare con quell’aria
tra il furbo e il bonario la figura di cavallo e cavaliere allontanarsi
lungo
il fiume fino a sparire all’interno del bosco.
Quando
Momolo raggiunse la villa, oramai l’ora di cena era
bell’e
passata. Ad avvistarlo fu Trovaxo, che subito gli corse incontro ad
afferrare
il morso del cavallo, costringendolo a fermarsi definitivamente
acciocché il
padroncino scendesse.
Neanche
diede tempo al servitore d’avvertirlo o rimproverarlo, che
subito il giovinetto sfrecciava in casa, ignorando bellamente i
richiami misti
di rimprovero e preoccupazione di madona Leonora.
“Ciò!
Ciò! Ti sto parlando! Che modi sono questi?”, lo
tallonava
non senza qualche difficoltà, essendo infatti il figlio
più veloce, salendo le
scale a due a due. “Te paiono ore da rincasare? Ero spasimata
dalla
preoccupazione! Ho spedito il Marchetto a cercarti! Nessuno dei tuoi
fratelli
s’è mai comportato da turco come te
…”, brontolava la nobildonna sbuffando,
finalmente però capace di allungare il braccio per afferrare
il discolo del suo
figliolo.
Sennonché
questi, guizzando come una vipera, si scrollò
violentemente dalla sua presa, gridandole furioso: “NON MI
TOCCARE!”, e quando
la madre tentò di trattenerlo una seconda volta, questi le
schiaffò via la mano
con tal forza da sbilanciarla.
Portandosi
la mano dolorante al petto, madona Leonora studiava
confusa il figlio, neanche si fosse trovata dinanzi ad uno sconosciuto.
Non
l’aveva mai visto così arrabbiato: la bocca
tremante di piccoli spasimi,
l’assottigliarsi convulso degli occhi,
quell’ingobbirsi da gatto … La
nobildonna immediatamente riconobbe in lui le medesime crisi di collera
che
ogni tanto esplodevano nel marito. Dunque, come aveva imparato a
percepirle e
anticiparle in sier Anzolo, similmente operò col figlio.
“Momolo, come ti sei
ridotto? Sei tutto sporco di fango!”, abbassò e
addolcì ella il tono di voce,
rendendolo più conciliante. S’avvicinò
lentamente al ragazzino, quasi si
trovasse di fronte ad un animaletto selvatico. “Momolo, vieni
su, ti faccio
preparare il bagno. Dopodiché ceni e ti metti tranquillo in
letto …”
Il
tredicenne s’allontanò bruscamente dalla
genitrice. “Lasciami
stare!”, l’interruppe aspramente, acquattandosi
contro la porta della sua
camera e rifiutandosi di guardarla dritto negli occhi. “Non
toccarmi! Non ho
bisogno del tuo aiuto! Da te non voglio niente!”,
berciò pure dimenticandosi di
darle del voi da quant’era incollerito.
“Ma
se fino a ieri mi domandavi sempre d’aiutarti a lavarti
…”,
gli ricordò dolcemente madona Leonora, provocando un feroce
rossore sulle gote
del giovinetto.
“Oggi
invece non lo voglio più!”, replicò
gridando, battendo
imperioso il piede per terra. “Vermocane! Hai mai nettato i
miei fratelli a
tredici anni? No! E’ sbagliato! Indecoroso!”
L’espressione
di sua madre, da comprensiva, mutò in una severa e
inquisitrice. “Chi ti ha messo in bocca queste
parole?”, esigette di sapere,
impedendo col suo corpo ogni via di fuga al figlio.
“Nessuno!”,
sgattaiolò via ugualmente Momolo. “E comunque, non
preoccupatevi per me: tanto a breve avrete un nuovo pargolo da
accudire!”, berciò,
sbattendole in faccia la porta, che sbarrò rapidamente con
un cassone, sordo ai
richiami adesso arrabbiati di sua madre.
“Momolo!
Momolo! Apri questa porta! Ora!”, batteva irata la donna
contro la porta, cui s’unì poco dopo anche Marco,
il quale, seppur aprendo una
breccia, non poteva ugualmente entrare a causa del pesante ostacolo
postogli
dal cassone.
“Apri
la porta, peocio, o domani tu ed io faremo i conti! Ti
faccio ingoiare i denti a furia di s-ciafoni!”, gli promise
assai minaccioso il
maggiore.
Momolo,
seduto di spalle contro il cassone, aspettò di scorgere
dalla fessura della porta il viso di Marco, per rifilargli una
lunghissima
linguaccia. “Andé a zogar a la lipa!”, e
balzato sopra il mobile, spinse la
porta che per poco gli troncava il braccio, tra colorite imprecazioni e
il
tredicenne sogghignò perfido sapendo quanto Marco si stesse
trattenendo, primo
per non scandalizzare Madre; secondo, per non dargli del figlio di
puttana
senza, in un colpo solo, vituperare la genitrice e se stesso.
Una magra
consolazione: il tredicenne sapeva benissimo che
l’indomani il fratello in qualche modo l’avrebbe
agguantato e scorticato vivo a
furia di sberle, secondo la pratica ludica preferita a Ca’
Miani, il
pituffamento del Momolo.
Quella
sera, però, il vincitore rimaneva lui giacché,
tra ringhi e
insulti, Marco dovette cedere e la casa sprofondò in un
tesissimo silenzio.
Ignorando
i crampi della fame, il ragazzino si cavò la bereta, il
farsetto, gli stivaletti e le brache, gettandoli disordinatamente per
terra.
Dopodiché si buttò sopra il letto, affondando la
faccia sul cuscino e
stringendo tanto questi convulsamente quanto i suoi denti.
Quel
pomeriggio, poco dopo il pranzo, Momolo aveva cercato sua
Madre nel salone principale della villa, non avendola scorta da nessuna
parte
nel più fresco portico. Aveva avuto una brutta sensazione
nel non trovarla al
solito posto, sentimento esacerbato dal mutismo di Eudokia, che come
sempre
quando si trattava della sua padrona non sapeva e non vedeva mai niente.
Il
tredicenne allora, appurato come anche quella stanza risultasse
vuota, si era spostato alla volta della cucina per poi uscire dal retro
e fu
lì, dentro la serra, che li scovò, Madre
col cestino colmo di limoni del
Garda sottobraccio e il signor Alvixe Beltramin accanto a lei, che le
parlava
talmente fitto che le loro spalle si toccavano quasi.
“Madona
Leonora”, il tono di voce dell’uomo suonava assai
ansioso,
incalzante, “oramai ci conosciamo … solo a voi
posso dirlo francamente … Voi
sapete della mia vedovanza, di come abbia amato moltissimo la mia
povera moglie
…
tuttavia”, si morse a disagio il
labbro inferiore, incerto su come proseguire. “Che ne
pensate?”, le domandò
infine. “Credete in una seconda
possibilità?”
Momolo
si tramutò in pietra, manco più respirava. I suoi
timori
s’erano dunque avverati? Quel tanghero sul serio le stava
chiedendo di … Il
ragazzino allungò il collo, sperando di scorgere sul volto
di Madre una
qualsivoglia forma di rifiuto e fastidio per quelle avances. Al
contrario, vi
trovò un sorriso assai soddisfatto.
“Certo
che sì, signor Alvixe. La vita è troppo breve per
trascorrerla soli ed infelici. Inoltre, il vostro puttino
avrà pur bisogno di
una madre per crescere, no?”
“Sì,
sì proprio così, m’avete cavato le
parole di bocca!”,
convenne energico l’uomo, afferrandole d’impeto la
mano. “Grazie, grazie di
cuore! Siete un angelo disceso dal cielo!” e gliela
baciò gioioso.
Doveva
agire! Assolutamente! Impedire ad ogni costo quelle nozze
scellerate! Non voleva nessun patrigno, non voleva nessuno tranne
Padre, nessun
uomo gli avrebbe tolto Madre! Se soltanto non fosse stato un figlio
ribelle e
malvagio, se soltanto non avesse biasimato di continuo il genitore,
forse
Domine Iddio non l’avrebbe punito sottraendoglielo per sempre
e addirittura
infierendo con la prospettiva di dargli un secondo padre, un uomo che
Momolo
odiava con tutto se stesso.
Ma chi
poteva aiutarlo? Chi?
Lucha?
Carlo? Pah, figurarsi! Il primo, a Marostica e ignaro di tutto, avrebbe ugualmente dato ragione a
Madre come aveva fatto Marco e il secondo se ne fregava di tutto e di
tutti,
tant’è vero ch’avrebbe campato fino a
cent’anni! Crestina? Aveva da badare alla
sua di famiglia, col Gasparo che cresceva veloce e irrequieto come ogni
pargolo
in salute, riempiendole le giornate. Il mite e benevolo prozio Hironimo
detto
“il Pizzocchero” ormai cantava alla presenza del
Signore, quindi no. Il biscugino
Thomaso? Nah, quello se ne stava sempre per i fatti suoi nel fontego.
L’altro
biscugino sier Zuan Francesco s’era tutto dedicato alla
politica, candidandosi
a questa o quella carica e di sicuro non avrebbe avuto tempo per starlo
a
badare … E comunque a Ca’ Miani comandava
incontrastata Madre, ergo anche se il
biscugino avesse voluto che avrebbe potuto rimproverarle senza venir
prontamente zittito?
Il barba
Batista! Come aveva potuto non pensarci prima? Non era
soggetto alla dura lex del gineceo, tra i suoi zii era quello che
più ci teneva
a loro e vantava di una posizione di parentela abbastanza forte da
poter
ragionare con Madre da suo pari!
Balzando
giù dal letto, Momolo corse al piccolo scrittoio, intingendo
velocemente la punta della penna nell’inchiostro e tra mille
sbrodoli e macchie
scrisse in gran pressa:
Clarissimo
e magnifico sior Barba. So che molti negozi vi tengono
occupato a Veniexia e che gli affari dello Stato vengon sempre prima
dei
nostri. Tuttavia vi chiedo di porre attenzione anche al governo della
vostra
medesima famiglia, la quale senza la guida del mio sior Pare non si
mantiene
più onesta come prima. Mi duole informarvi come la mia siora
Mare vostra sorela
si comporta in maniera vergognosissima, accettando la presenza
d’un altro uomo
nella casa del mio sior Pare e non avendo né il Marchetto
né gli altri miei
fradeli alcuna volontà d’intervenire, vi supplico
di provvedere acciocché
codesto serpente tentatore nomato Alvixe Beltramin di Liberale venga
allontanato dalla mia siora Mare vostra sorela. Di vostra signoria
devotissimo
servitore, Jer.mo Miani scrisse. Fanzuolo a dì …
Ora
avrebbe dovuto trovare il modo di sgattaiolare e consegnare a
chi di dovere la lettera, prima che Marco l’acciuffasse e a
ceffoni gli
conciasse in cuoio la pelle delle chiappe.
Ogni sua
speranza di conservare Madre per sé ormai si trovava
nelle mani di sier Batista Morexini.
Come da
lui profetizzato, invero Momolo l’indomani si
ritrovò
catturato da suo fratello, entrato dalla finestra tramite una scala, e
neanche
il tempo di dirgli “Parlamento!” che il ragazzino
si ritrovava a faccia ingiù
sulle sue ginocchia a pigliarsi i giusti sculaccioni.
Dopodiché il maggiore lo
gettò di peso nella vasca a lavarsi, intanto che Orsolina
scuotendo il capo
toglieva le lenzuola sporche di fango secco, prefiggendosi una dura
giornata di
bucato.
Questo
però soltanto dopo che il tredicenne aveva già
inviato la
sua preziosa missiva a Venezia.
Saggiamente,
in attesa dello zio, Momolo optò per la tattica
dell’invisibilità, ossia di starsene quieto e di
comparire il meno possibile in
casa, anche perché pervasa dal contagiante malumore di
Marco.
All’inizio
il giovinetto aveva pensato il suo maggiore avercela
ancora con lui; più tardi, interrogando Orsolina, apprese
che il motivo per cui
suo fratello aveva un diavolo per capello corrispondeva alla sconfitta
a
Zonchio dell’ammiraglio sier Antonio Grimani da parte della
flotta turca. Le
loro basi commerciali, i loro affari in quella parte di Grecia
… tutti
compromessi! “Spero che
quell’innominabile testa di cazzo coli a picco
con la sua fottuta ammiraglia!”, avevano i ruggiti
del diciottenne Miani
scosso la villa dalle fondamenta, “Perché
non appena mostra quel suo
muso di merda a Veniexia, quant’è vero Iddio lo
impicco con le sue stesse
budella al Campanile di San Marco! s’era
sfogato ben bene, per poi
chiudersi per due giorni di seguito nello studiolo di Padre a scrivere
numerose
lettere a sier Antonio Trum, ai barba Miani e Morexini e altri suoi
agenti a
Veniexia, Candia, Cipro e perfino a Rodi per sperare che il danno della
perdita
di Lepanto e altri basi greche non avesse scalfito eccessivamente gli
introiti
totali della loro attività laniera. E mentre faceva questo,
similmente a tutti
i monelli di strada a Venezia e com'era anche dipinto sulle botteghe,
sui muri
e perfino sulla porta di Ca' Grimani, il giovane Miani ripeteva
anch'egli
l'oramai famoso ritornello: "Antonio
Grimani / Ruinà de’ cristiani / Rebello
de’ venitiani / Puòstu esser manzà
da’
canni / Da’ canni, da’ cagnolli / Ti e toi fiulli!"
Tanto
Marco era preso dalle vicende provenienti dal Levante, da
ignorare completamente quelle dal Ponente e più nello
specifico quelle nella
sua medesima casa. Altrimenti, quel pomeriggio del 30 agosto non si
sarebbe
assentato, mancando d’un soffio l’arrivo del suo
zio materno.
Avvertito
da una perplessa Orsolina dell’inaspettata (per loro)
presenza di sier Batista, Momolo scese veloce dalle scale, andando
incontro al
patrizio per salutarlo e condurlo al frutteto, là dove Madre
stava valutando
quali pere cogliere.
Il suo
Barba doveva aver viaggiato di gran pressa, presentandosi
scarmigliato e gli abiti pieni di polvere, il volto tirato da
un’espressione
talmente arcigna che il ragazzino si bloccò
sull’ultimo gradino della scala,
improvvisamente intimidito da quello sguardo di fuoco. Capì
d’aver commesso un
errore di giudizio: tanto era preso dal suo malessere, da aver ignorato
ciò che
accadeva fuori Fanzolo e non si riferiva solo alla perduta guerra di
Zonchio,
bensì del fallimento del banco dei Lipomano il 16 marzo
scorso, una vergogna
per l’intera Serenissima. Il 20 giugno, sier Batista, sier
Christofal Moro e
sier Stephano Contarini erano stati eletti nella commissione che
avrebbe dovuto
indagare sulla questione del fallimento della banca, fondata nel 1480
da sier
Thomà Lipomano, assieme ai fratelli e cognati Alvixe, Andrea
e Polo Capelo, poi
liquidati. Quest’ultimi, ironia della sorte, erano previi
cognati di sier
Christophal e come lui, anche se ormai fuori dalla società,
avevano dei
risparmi, i Capelo tredicimila ducati e sier Moro quattromila. Se Lucha
se
l’era vista brutta a saldare in tempo il debito di cento
ducati al protogero di
Morea e così evitare la galera, a quale santo doveva
appellarsi sier Hironimo
Lipomano? La sua banca contava più di mille depositanti, tra
cui settecento
nobili, i quali v’avevano messo da parte le doti per le
figlie, svanite ora nel
nulla. Da mesi sier Batista aveva dovuto affrontare
quell’ingarbugliata matassa
finanziaria, respingendo e difendendosi dai creditori inferociti, i
quali
reclamavano a gran voce il sangue di tutti i Lipomano, perfino dei loro
neonati.
Non che contrattare con sier Hironimo, sier Bortolo e sier Vitor fosse
più
semplice, protestando questi come il dissesto del banco fosse dovuto ai
troppi
crediti accordati all’Erario statale, chiamando quindi
indirettamente in causa
la Signoria.
Si
preannunciava dunque un lungo braccio di ferro tra i tre
commissario, il Consiglio dei Dieci, i creditori e i debitori e se sier
Batista
era sempre riuscito a dissimulare la sua frustrazione nelle visite al
Paradiso
o a Fanzolo, adesso, tra la sconfitta di sier Antonio Grimani e la
lettera di
suo nipote, l’ultima oncia della sua pazienza s’era
esaurita e anche lui
giungeva col coltello tra i denti.
“Schiavo
vostro, patr- …”, provò a salutarlo,
sennonché l’uomo in
due falcate lo raggiunse e, afferratolo per il polso, lo costrinse a
scendere
giù. Trascinatolo sotto la luce delle finestre, gli
sventolò sotto il naso la
lettera spiegazzata dal pugno.
“Mi
spieghi questa porcheria?”, ringhiò gutturalmente
sier
Batista, stringendo la presa tanto da strappare un piccolo guaito da
parte del
nipote, più per la sorpresa della reazione del parente che
per il dolore vero e
proprio. Non aveva minimamente immaginato poter lo zio reagire
così: invece di
mostrargli gratitudine, pareva offeso a morte dalla sua lettera.
“Non ti
vergogni a scrivere tali monade?!”
“Non
è una jontonia, è la
verità!”, pigolò Momolo, le gote tinte
di rosso. “La mia siora Mare si vuole risposare!”,
gli rivelò in un sol sorso,
fissando l’uomo pieno d’aspettativa.
Il
Morexini socchiuse sospettoso gli occhi. “Risposarsi? E con
chi?”
“Il
signor Alvixe Beltramin!”
“Hai
delle prove? Ne hanno parlato apertamente?”
“Siorsì!”
“Dove
e quando?”
“Nella
serra, meno di una settimana fa.”
“Cosa
facevano?”
“Chiacchieravano.”
“Soltanto?”
“Siorsì
…”
“Di
che cosa esattamente?”, e notando l’assenza di
risposta da
parte del nipote, l’incalzò: “Sei
davvero sicuro che la tua siora Mare si
voglia risposare?”
Momolo
serrò la bocca, cercando freneticamente una scappatoia da
quell’interrogatorio. Aveva coscientemente lasciato ambigui
molti dettagli,
onde pungolare l’orgoglio dello zio e invogliarlo a
raggiungerli a Fanzolo.
Evidentemente l’aveva giudicato male, credendolo
più impulsivo di quanto in
realtà non fosse. Le serrate domande e contro-domande cui lo
stava sottoponendo
non avevano nulla da invidiare ad un consigliere dei Dieci, tradendo la
sua
intima diffidenza.
Il
ragazzino non aveva totalmente errato i suoi calcoli, glielo si
conceda: fosse accaduta tal vicenda trent’anni addietro,
forse-forse il “da
Lisbona” avrebbe reagito con maggior impetuosità e
scatenato un buferone. Gli
anni, l’esercizio della mercatura e la sottile ambizione
d’inserirsi bene in
politica e farvi carriera avevano aiutato sier Batista a stemperare
l’irruenza
giovanile tramite l’assidua pratica della virtù
cardinale della prudenza,
ponderando ogni volta i pro e i contro prima d’agire e di
parlare. A onor del
vero s’era dapprincipio sdegnato nel leggere di tali
indecenze in seno alla sua
famiglia; dopodiché, a mente fredda, il patrizio aveva
considerato l’età del
mittente, ossia un giovinetto di tredici anni che sicuramente aveva
peccato
d’impulsiva drammaticità. Gli avessero inviato o
Lucha o Carlo tale missiva,
ancora Batista si sarebbe preoccupato: invece, essendo stato Momolo,
dubitava
della veridicità di tale faccenda, non nel senso che non gli
credesse, ma più
che altro che avesse esagerato nei dettagli, distorcendo la
realtà.
E di
questo il Morexini era venuto ad accertarsi.
“Perché
non mi rispondi?”, indietreggiò l’uomo
di un passo,
squadrando accigliato il nipote da capo a piedi.
“Perché sei così nervoso?”
“Perché
mi ponete tutte queste domande?”, replicò di
rimando
Momolo, il quale sul serio però si stava innervosendo
dinanzi a quell’occhiata
inflessibile e indagatrice.
“Non
hai forse richiesto il mio intervento? Come posso agire, se
non conosco approfonditamente l’intera faccenda?”
“Tutto
quel che c’è da sapere, lo trovate scritto in
quella
lettera! Che volete
che aggiunga? La mia
siora Mare ha il ganzo!”
Sier
Batista alzò il mento e il tredicenne abbassò il
suo. “Tu
menti per la gola”, sentenziò infine il patrizio
dopo un lungo silenzio.
“No!”,
gridò il giovinetto, scattando in avanti come se volesse
afferrare il parente per la vesta, ma trattenendosi
all’ultimo momento. “No,
no, no, sior Barba, vi giuro su quel che volete, che vi sto dicendo la
verità!
La mia siora Mare si vuole maritare!”
“Deciditi,
Momolo: ha il ganzo o si vuole maritare? Qui mi hai
scritto, che mia sorella conduce un disonesto commerzio con questo
Beltramin! Ora
però mi dici che lo vuole sposare. A quale delle due
versioni debbo credere?”
Certamente uno poteva prima fornicare e poi sposarsi, però
sier Bastita
percepiva quella persistente nota di contraddizione che non lo
convinceva. Se
davvero la sua sorellastra si fosse data a gioie disoneste con un altro
uomo,
anche se da vedova, difficilmente i suoi nipoti Lucha, Carlo e Marco
sarebbero
rimasti a guardare silenti e inattivi, sicuramente qualche
provvedimento
avrebbero preso onde troncare quella disdicevole relazione.
“Momolo”,
l’avvertì spazientito l’avunculo,
“per l’ultima volta,
dimmi come stanno veramente le cose! Varda che sun stuffo!”,
l’apostrofò severo
il patrizio. “Se t’ostini nel tuo silenzio, non ti
potrò né credere né aiutare!”
“Aiutarlo?
E in che cosa?”, s’intromise madona Leonora,
rincasando
assieme ad Eudokia. Ignorando l’irrigidimento del figlio e
del fratellastro, la
nobildonna cedette alla fantesca la sua cesta di pere, inviandola in
cucina,
mentre lei rimase lì nella sala principale. “Titta
caro, ma che sorpresa! Quando
siete arrivato? Non v’aspettavo, altrimenti vi avrei
preparato una piccola
refezione”, gli andò incontro sorridente, intanto
che si levava il pesante
paneselo nero, rimanendo solo con la scuffia d’altrettanto
colore.
“Da
poco”, replicò a denti stretti sier Batista,
gelando la sua
sorellastra che si bloccò, riconoscendo nel viso solitamente
amabile dell’uomo
un’espressione assai dura e contrariata. “Per
rispondere alla vostra prossima
domanda - perché sono qui - leggete
prima questa lettera e poi abbiate la cortesia di spiegarmi codesta
novità”,
l’esortò perentorio Batista a prendere la missiva
che le stava porgendo.
Momolo
trattenne il fiato, avvertendo il cuore sprofondargli in
pancia.
Confusa,
madona Leonora afferrò la lettera e ne lesse rapidamente
i contenuti, sbiancando peggio d’un panno appena lavato.
Levò incredula gli
occhi verso il figlio, la bocca schiusa e il labbro inferiore tremante;
rilesse
e di nuovo fissò smarrita il fratellastro, scuotendo
inconsciamente il capo in
diniego.
“Giusto
adesso ho appreso, come fra poco dovrò chiamare vossioria
madona Leonora Morexini Beltramin!”
Come
punta da una vespa, la patrizia si risvegliò, accartocciando
la lettera nel pugno. “Che asinerie andate blaterando? Io?
Maritarmi con
Bel-tra-min?” e pronunciò il nome del gentiluomo
come se l’avesse sentito per
la prima volta in vita sua, sconcertata da tal assurdità.
“Donca
per dasseno intrattenete un disonesto negozio con
quest’uomo!”, concluse sardonico il “da
Lisbona”, girandosi brevemente verso il
suo ammutolito nipote.
“Rivolgetevi
ancora a me con questo tono e – fratello o non – vi
faccio sbattere fuori di casa mia a cialz en cul!”,
s’inalberò immediatamente
la nobildonna, visibilmente offesa da quell’insinuazione.
“Il mio cuore di
donna l’ho seppellito tre anni fa nell’arca di
Anzolo! Mai e poi mai accetterei
un secondo matrimonio! Mi fate torto, missier, voi e il vostro
dubitare! Come
potete pensare che io … che io …”,
s’impappinò, non riuscendo più ad
articolare
i suoi pensieri a causa dell’indignazione.
“A
me lo chiedete? Domandatelo a vostro figlio! Domandategli
perché scrive tali barbarità! Domandategli
perché ha preferito sbottonarsi col
suo barba e non coi suoi fratelli maggiori, men che meno con sua
madre!”, esclamò
aspro Batista e indicò bruscamente un impietrito Momolo, che
abbassò lo
sguardo, incapace di sostenere quello incredulo e deluso di Madre.
“Sangue di
Cristo, che qualcuno mi spieghi una volta per tutte
quest’intrigo, poiché io
per primo fino a ieri non ne sapevo niente! Anzi! Me ne stavo a casa
mia, a
districarmi in quel … bordello ch’è il
fu banco dei Lipomano, quand’ecco che
m’arriva questa lettera dove mi s’invoca aiuto,
spiegandomi come mia sorella si
comporti da mamola (donnaccia, ndr.)!
“Mi
sono recato prima a Cha’ Miani dal Carlino a domandargli cosa significasse questa storia del ganzo. Sapete
che cosa
m’ha risposto? Che son matto; che avevo preso troppe
legnate in testa! Mi
ha quasi mangiato vivo, gridandomi come la loro siora Mare non
faccia di
queste sporcarie, che non era a conoscenza di alcuna tresca tra voi e
codesto
signor Alvixe. Avanti! Ditemi a chi debbo credere!”,
sbottò frustrato il
patrizio, pigliando il nipote per il gomito e costringendolo seduto
sulla
cassapanca foderata di cuoio. Accomodatosi anch’egli,
batté sull’imbottitura
del sedile acciocché la sorellastra lo imitasse alla svelta.
“Cul del cancaro, visto
che m’avete trascinato in questo casino, ora esigo di
conoscere tutta la
storia, dall’inizio fino alla fine!”,
esclamò sbuffando e appoggiando ambedue
le mani sulle ginocchia leggermente divaricate, si sporse in avanti
onde meglio
ascoltar la tanto sospirata delucidazione.
“Non
v’è niente da spiegare: il signor Alvixe Beltramin
è un
nostro vicino, il cui unico crimine, a quanto pare, fu di venire qui a
tenerci
un poco di compagnia.”
“E
secondo voi, lo reputate un comportamento saggio e confacente
ad una nobildonna della vostra sorte? Vi pare onesto avere un estraneo
alla
famiglia gironzolare in casa?”
“E
secondo voi, io accetto lezioni di morale da uno che fa beca
(cornuta, ndr.) la soa mojer dalla mattina alla sera?”
“Io
sono un uomo; voi siete una donna e come tale dovete
comportarvi con decoro!”
“Voi
siete marito e padre e il decoro, Titta carissimo, manco
sapete dove stia di casa!”
I due
Morexini si fissarono in cagnesco, ognuno sfidando l’altro a
proseguire nelle proprie moralistiche invettive.
Batista
si morse l’interno della guancia, congiungendo stizzito le
mani sul grembo. Leonora aveva stretto talmente le labbra, che pareva
volersele
ingoiare e dal luccichio dei suoi occhi, Momolo intuì come
si stesse
trattenendo da un pianto rabbioso.
Fu il
patrizio a rompere per primo il silenzio, allargando le
braccia tra il conciliante e l’aggressivo. “Ma alla
fine, de diana, che diavolo
veniva a fare questo gentiluomo in casa vostra?”
“A
chiacchierare un poco … E’ vedovo e solo con un
bambino ancora
in fasce …”
“Puoah,
affari suoi … Certo che a voi, sorella, i vedovi piacciono
assai … ”, commentò malizioso Batista,
beccandosi un’occhiataccia fustigatrice da
parte della patrizia che proseguì imperterrita:
“Veniva
a chiedermi consiglio.”
“A
voi?”
“A
me!”
“E
qual consiglio poteva offrigli la dottoressa, qua?”,
inquisì
beffardo il “da Lisbona”.
“La
fiozza (figlioccia, ndr.) del signor Pellizzari, no la
cognosseu?”,
replicò a tono Leonora, arcuando il sopracciglio.
“Vagamente
…”, rispose incolore il suo fratellastro,
aggrottando
la fronte e incominciando a capire dove la sorellastra stesse andando a
parare.
Si ricordava di quel passerotto di fanciulla, timida e discreta e
sempre
nascosta dietro la madre. Una biondina molto graziosa dalla pelle di
latte e
rosa.
“Il
signor Alvixe la vorrebbe in moglie e poiché sono amica
della
madre della puta, egli mi domandava: primo, d’intercedere
presso di lei;
secondo, se non fosse troppo presto per risposarsi. Se dubitate delle
mie
parole, prego, recatevi dalla siora Marta e domandatele
conferma!”, lo sfidò la
nobildonna a verificare di persona la sua giustificazione, indicandogli
tramite
un ampio gesto del braccio la porta da dove uscire. "Su, andate
controllare,
Missier Grando, chiedete a tutta Fanzuolo e Castel Francho, a chi vi
pare! Dopodiché,
m’auguro si possa chiudere per sempre quest’assurda
vicenda!"
Fu comico
osservare le diverse reazioni di zio e nipote dinanzi a
quella rivelazione: il primo si rilassò immediatamente,
neanche gli avessero
levato un grande macigno dal petto e anzi, ridacchiò pure
nervosamente,
appoggiando la schiena sui cuscini appoggiati al muro sopra la
cassapanca. Il
secondo parve invece essere schiacciato da essa, afflosciandosi quasi
su se
stesso.
“Tuttavia”,
puntualizzò Batista, “avreste forse fatto meglio a
chiarirvi prima col vostro puto. Poareto, non ha capito niente, anzi,
s’è preso
un brutto spavento e questo soltanto perché vi vuole molto
bene. Nevvero,
Momolo?”, gli accarezzò il capo senza voltarsi
né accorgersi di come il nipote
avesse sussultato, sconvolto.
Stavolta
fu madona Leonora ad abbassare il capo, ammettendo il suo
errore in quel frangente. Il suo fratellastro aveva ragione: avrebbe
forse
dovuto spiegare meglio la situazione a suo figlio, onde evitare quel
malinteso.
Ciononostante, non capiva come mai quell’ansietà
da parte sua, aveva sempre
pensato d’esser stata assai palese circa la sua
contrarietà ad eventuali seconde
nozze.
Proprio
in quel momento rincasava Marco che, raggiungendo il
gruppetto onde salutare il nuovo arrivato,
s’imbatté nel curioso spettacolo del
suo Barba un poco imbarazzato, di sua madre costernata e del suo
fratellino
sull’orlo delle lacrime.
“Dime,
caro ti”, partì immediatamente il patrizio
all’attacco. “Tu
ovviamente non ne sapevi niente, vero?”
“Sora
che?”, sbatté il diciottenne confuso le ciglia.
“Mah,
che la tua siora Mare vuol sposarsi il signor Alvixe!”
“Titta!”
“Eh?”,
mutò d’un colpo l’espressione di Marco
da disorientata a
furiosa, girandosi di scatto verso Momolo, il quale ormai vagava nel
suo mondo,
insensibile ad ogni contatto esterno, tramortito.
“An!”,
schioccò trionfante Bastita la lingua, puntando contro
l’indice al ragazzo. “Ecco qua il complice. Vedete,
Leonetta? Questi due”, e
accennò col capo a Marco e Momolo, “stanno
attaccati l’un l’altro come Juda ai
suoi trenta danari. Ma tu guarda”, asserì severo,
scuotendo il capo, “se mi
tocca giocare al re Salomon per cavarvi di bocca la
verità!”
“Marchetto,
per dasseno sapevi tutto?”, l’interpellò
mesta sua
madre, costringendo il giovane ad abbassare contrito il capo.
“Purtroppo”,
ammise, per poi scoccare l’ennesima occhiataccia al
fratellino. “Ma non fino a questo punto! Sì, siora
Mare e sior Barba, Momolo
s’era confidato con me, però subito ho tentato di
dissuaderlo dal perseguire
questa sua asineria! Non è colpa né mia
né della mia siora Mare, se questo
disgraziato non ascolta mai i suoi maggiori e agisce sempre di testa
sua!”
“Figlio mio,
potevi però
avvertirmi.”
Le
orecchie di Marco avvamparono, ammansendosi il suo tono di
voce. “E ripetervi le … le turpi schifezze che
m’ha confessato? Sarà ancora un
piccoletto, ma possiede una mente più sporca d’un
marinaio! On marso
malignasso!”
Madona
Leonora aprì la bocca per replicare in difesa
dell’ultimogenito, sennonché Bastita, captando
un’aria piuttosto tesa e volendo
evitare altri inutili discussioni, s’intromise onde
appacificare gli animi.
“Mo’
via, mo’ via! Pace e non parliamone più.
S’è trattato di un
semplice malinteso; noialtri ci siamo chiariti come gente civile e la
questione, per me, è bella che chiusa. Non vi trovate
d’accordo?” e squadrò uno
ad uno il volto dei suoi interlocutori, i quali convennero a malincuore.
“Sior
Barba, vi fermereste a cena?”, lo invitò
impacciato Marco
dopo un lungo silenzio.
“Vorrei
ben vedere! Ho una gran fame, neanche ho pranzato!”,
esclamò ilare, alzandosi dalla cassapanca foderata e
seguendo il giovane verso
l’altra sala.
“Vi
faccio anche preparare un bagno e una stanza.”
“Buon’idea:
il mio povero cavallo ancora ha da riprendersi e
d’altronde mai fidarsi di viaggiare di notte.
Ripartirò domani mattina, se non
v’incomoda.”
“No,
no, è il minimo che possiamo fare per scusarci
…”
Madona
Leonora, invece, era partita alla rincorsa di Momolo che,
appurando la perdita perfino del sostegno e considerazione dello zio,
era
zompato via in camera sua alla stregua di una lepre.
Ripigliatosi
dall’intontimento ricevuto da quell’inaspettata
batosta, il giovinetto era passato
dall’incredulità alla vergogna ad infine
alla collera più nera. Si trattava di un inganno, ne era
certo, un teatrino
architettato ad arte da Madre e il suo ganzo onde ingannare suo zio. La
figlioccia del Pellizzari … figurarsi! Momolo non
sarà stato un grande
appassionato di poesia, però la figura della donna schermo
se la ricordava bene
ed ecco che di nuovo s’era ritrovato da solo nella sua lotta
e stavolta sul
serio senza alcun alleato.
E se ne
avesse parlato col prete?
“Momolo”,
gli giunse la voce di Madre alle sue spalle,
interrompendo il suo esagitato andirivieni per la stanza. Subito il
ragazzino
si sedette sul letto, le spalle rigide sulla difensiva.
Madona
Leonora chiuse la porta, avanzando verso il suo
ultimogenito, il cuore inquieto dinanzi all’espressione
furibonda in quelle
giovani iridi nerissime: in nessuno ella vi aveva scorto tal rancore,
neppure
in Anzolo nelle sue crisi peggiori. Per un istante, per un folle
istante, le
parvero gli occhi di una creatura infernale più
d’un essere umano.
“Momolo”,
gli disse dolcemente, sedendosi accanto a lui. Il
ragazzino si scostò bruscamente, voltando il capo in
direzione opposta. Madre
sospirò. “Momolo, non sono arrabbiata.
Però, dopo quanto successo questo
pomeriggio, hai ora l’obbligo di dirmi perché ti
sei comportato così. Perché
non ti sei confidato?” e ostinandosi il figlio nel suo
mutismo, proseguì: “Ci
siamo sempre raccontati tutto … Sai bene che non ti giudico
…”, provò ad
accarezzargli i capelli, sennonché il tredicenne si
sottrasse al suo tocco.
“Momolo …”
L’interpellato
in questione serrò i muscoli della guancia,
incrociando le braccia al petto, irremovibile.
“Amore
mio, non t’angustiare: non mi risposerò. Men che
meno col
signor Alvixe, che, come ora ben sai, veniva qui allo scopo di
conoscere meglio
quella ragazza.”
“Le
solite scuse”, ribatté infine Momolo, strisciando
dall’astio
le parole. “Non appena il sior Barba rientrerà a
Veniexia, torneremo daccapo!”
Sua madre
scosse il capo. “Ma no …”
“Ma
sì, invece! Mica sono scemo! Sempre lì a
sminuirmi, quando
invece giudico le cose per quel che sono! E non rifilatemi il solito
stornello Ora sei giovane e non capisci, perché
al
contrario ho ben capito, come anche gli adulti sappiano essere
più stupidi e
ingenui dei bambini!”
“Per
questo motivo hai scritto al tuo Barba? Perché mi credevi
stupida ed ingenua?”
“Speravo
facesse qualcosa. Qualsiasi cosa”, bofonchiò
impacciato
l’adolescente, gonfiando le guance. “Ed ecco che si
rivela più mona della
mona.”
“Momolo!
Porta rispetto al tuo sior Barba!”, lo rimproverò
la
nobildonna, scontenta da quel turpiloquio che proprio non riusciva a
sradicare
dal figlio. “Cosa t’auguravi che facesse? Non ha
potuto risolvere niente,
perché non c’è mai stato niente da
risolvere! Tesoro …”, si portò ella
più
presso al ragazzino. “Il tuo Tata era la mia vita, anche se
ogni tanto ci
vedevi litigare e gli tenevo il broncio, l’ho amato dalla
prima volta fino
all’ultima in cui l’ho visto … Neanche
obbligandomi, neanche se Missier il Doxe
o il domino Patriarcha me lo comandassero riuscirei mai a sopportare un
secondo
matrimonio … Dio m’ha dato il tuo Tata; Dio me
l’ha tolto. Dio me lo restituirà
nell’ora della mia morte.”
Un feroce
groppo in gola strangolò Momolo, che si morse feroce il
labbro inferiore. “Non bestemmiate il nome di Padre
né di Dio!”, gracchiò, battendo
i pugni sul materasso. “Come potete … come potete
…?”
“Come
hai tu potuto accusare un uomo senza prove concrete?”, gli
chiese di rimando sua madre. “Scrivere tali accuse al tuo
Barba! Hai mai
pensato a cosa sarebbe potuto accadere, se qualcun altro avesse letto
la tua
lettera? Per gelosia avresti rovinato la vita ad uomo
innocente!”
“Ecco,
sempre a difendere Sant’Alvixe Beltramin, confalonier
(patrono, ndr.) dei maridi bechi et di le védoe
allegre!”, ridacchiò sarcastico
il tredicenne e pieno di tal malignità, da frustrare un poco
la nobildonna. Il
suo figliolo avrà pur ereditato l’aspetto dei
Morexini, ma in quanto a
testardaggine era tutto Miani …
“Mi
deludi, sai? Non ti facevo così maligno e
rancoroso”, gli
confidò infine, alzandosi dal letto. Un qualcosa si
ruppe nel cervello di
Momolo a quelle parole, sconvolgendogli la ragione e
letteralmente
vide rosso, il suo cuore incapace di sopportare anche quel tradimento.
Dell’opinione altrui se ne fregava, ma quella di Madre gli
era vitale. Se
dunque anch’ella lo disprezzava … “Se lo
sapesse il tuo sior Pare …”
“Ancora
avete la faccia tosta di nominarlo?”, berciò
all’improvviso Momolo, interrompendola furioso.
Balzò giù dal letto e raggiunta
sua madre le impedì di lasciare la stanza, anzi, le
afferrò di malagrazia il
polso e la costrinse a voltarsi. “Se lo sapesse il mio sior
Pare, si
rivolterebbe nella tomba nello scoprire che razza di troia
s’è preso in casa!”
Il
ragazzino scorse appena il lampo d’ira negli occhi della
madre,
avvertendo immediatamente un poderoso ceffone sulla bocca, il primo in
tutta la
sua vita da parte della genitrice. Sconvolto, si portò la
mano là dove gli
pulsava un taglio aperto, scoprendo piccole gote di sangue sui
polpastrelli:
ironia della sorte, Madre lo aveva schiaffeggiato con la mano recante
proprio
l’anello di Padre, dal quale non si separava mai.
Per un
arco indefinito di tempo i due si fissarono in silenzio
assoluto, Madona Leonora con un’espressione inflessibile da
Christus Judex e
Momolo come un’anima prava in attesa del giudizio. Entrambi,
curiosamente,
volevano in realtà parlare sennonché
l’orgoglio, la paura, lo sdegno, il dolore
e la vergogna glielo impedivano.
“Gnanca
presentate a tola.”
“Gnanca
vojo sofrir di la vuostra cumpagnia.”
Si
dissero il contrario di ciò che in realtà premeva
nei loro
cuori, ossia l’impellente necessità di perdono e
conciliazione.
Il
tredicenne represse il naturale istinto di correre dalla madre
e di abbracciarle le ginocchia, supplicandola di perdonarlo e di
confessarle in
lacrime la sua intima paura di perderla, di rimanere solo ad affrontare
quel
pazzo mondo assassino. Voleva confidarle del vuoto lasciatogli da
Padre, della
sua ira contro quell’ingiustizia divina, della sua invidia
verso i suoi cugini
benedetti da ogni fortuna, specie quella di avere un padre che li
guidava
mentre di lui nessuno si curava e ciononostante avevano
l’ardire di criticarlo
ugualmente, come se fosse facile crescere da soli. Voleva dirle che
l’ama
tantissimo, più della sua vita, che lei era
l’unica persona in cui nutriva una
fiducia assoluta, l’unica che non l’avrebbe mai
ingannato né abbandonato. Il
suo scudo, la sua aria, il medesimo sangue che gli scorreva nelle vene.
Voleva
solo proteggerla per proteggersi.
Momolin,
quando sarai più grande, capirai che anche volendo far del
bene, purtroppo
finiamo per ferire le persone che amiamo.
Tacque
invece, l’orgoglio troppo grande, la voce della sua
vanità
che gli sussurrava quanto lui fosse nel giusto, mentre la colpa stava
in Madre,
l’artefice di quell’incresciosa situazione.
Mi
sun parfeto.
Madre e
figlio si separavano e Momolo si domandò se forse, quel
lontano 18 agosto 1496, non sarebbe stato meglio se avessero trovato
impiccato
lui a Rialto al posto di Padre.
***
Madre, in
cuor suo, l’aveva ovviamente già perdonato
malgrado
Hironimo non le avesse mai chiesto esplicitamente scusa.
L’aveva riaccolto a
braccia aperte, senza mai rinfacciargli nulla e ciò
l’aveva doppiamente ferito
perché ormai sapeva d’aver varcato una linea da
cui era impossibile ritornare
indietro. La loro perfetta sintonia era stata irrimediabilmente
contaminata da
dubbi e paure ed egli non si sentiva più in diritto di
godere di quell’amore
così intenso, né di reclamarlo esclusivamente per
se stesso.
Sicché
cercò attivamente altrove.
Nei
giorni e negli anni che seguirono, Hironimo in apparenza si
comportò da figlio modello, adoprandosi nella difficile arte
della doppia vita
– un volto per la genitrice, uno per i suoi amici e
conoscenti. Pur
spiritualmente attaccatissimo alla genitrice, fece di tutto per
staccarsi dai
suoi dolci legami, vertendo ogni suo sforzo a dimostrare al mondo come
egli non
fosse uno smidollato mammone. Agli altri questo suo cambiamento piacque
assai,
finalmente si comportava normalmente, era uno di loro, conforme alla
società.
Poco importava se la sua vita stesse gradualmente divenendo sempre
più
sterile. Si trasformò consciamente in una
barca danzante alla deriva
dei flutti, lasciandosi guidare da questa o quella moda,
dall’ambizione, seguendo
i suoi capricci e i suoi istinti ma mai la voce della ragione
ch’era sua Madre,
la quale, pur rispettandola, gli divenne cadaun giorno sempre
più fastidiosa e
insopportabile.
“Momolo,
sii attento. Momolo, sii prudente”, gli
ripeteva Madre ogniqualvolta usciva “a cena” cogli
amici. Sapeva che suo figlio
non era cattivo e si sforzava nella titanica impresa di tenerlo sulla
buona
via, di non perdere quell’antico legame d’amore e
fiducia.
“Sì,
sì, non vi preoccupate. Non son più un
bambino!”
Se madona
Leonora avesse mai sospettato della verità, il giovane
Miani se lo seppe lo relegò nel dimenticatoio, giustificando
le sue come le
ennesime chimere della sua coscienza sporca e costì tirando
dritto per la sua
strada. Un giorno si sarebbe comportato meglio, un giorno avrebbe fatto
ammenda
… un giorno forse, quello del mai …
Ignorava
che così facendo, non onorava per niente Madre e il
tenerla all’oscuro delle sue baronate, non rendevano le sue
colpe meno lievi.
Ella
mi ha educato soffrendo tante volte per me i dolori del parto
quante mi vide allontanarmi da voi, o Dio. [1b]
Hironimo
ciononostante non s’azzardò mai più
d’ingiuriarla,
d’urlarle dietro, né di disobbedirle o
contraddirla. La sua espiazione
corrispose alla consapevolezza, che lui aveva e tuttora stava mancando
di
rispetto alla sola persona in tutta Venezia che lo amava
incondizionatamente,
senza aspettarsi nulla in cambio e che non lo frequentava per doppi
fini. Madre
desiderava solamente che fosse un bravo figlio e cittadino per giovare
se
stesso e la sua anima, non per compiacerla. Già lo amava per
ciò che era, anche
se poca cosa a detta di Hironimo, non necessitava che lui le
dimostrasse
alcunché o che si contendesse il suo amore ai fratelli.
Per
questo motivo, col senno di poi, Hironimo comprese perché
aveva perduto la ragione alla prospettiva di perdere Madre: dopo la
morte di
Padre, s’era sentito perduto, solo al mondo e indifeso. Ogni
certezza gli era
crollata, la vita non gli appariva più alla stregua di
un'avventura, bensì un
mostro divoratore ingiusto, crudele, ipocrita. Improvvisamente,
Hironimo s’era
sentito vulnerabile ad ogni cosa, costantemente in pericolo, solo Madre
gli
infondeva sicurezza, conforto e amore. Come gli aveva detto la
genitrice, la
solitudine non è soltanto un male del corpo ma anche
dell’anima, la quale si
accartoccia su se stessa, impazzendo dalla disperazione.
Cos’avrebbe
fatto Hironimo senza Madre? Niente. Il resto della
famiglia l’avrebbe sopportato, sobbarcandosi di lui
più per dovere che per
amore, i propri pargoli più importanti di lui. Sarebbe
finito come Thomà, se
non di peggio, con la testa sul ceppo come Gasparo Valier.
Come
aveva ringraziato la fortuna d’aver avuto l’amore
di Madre?
Insultandola, tormentandola con la sua disobbedienza, arroganza,
testardaggine.
Aveva
sputato sul dono offertogli, l’ingrato. L’ennesimo
sgarbo a
Dio che gli aveva generosamente offerto una madre amorevole e attenta.
Thomà
avrebbe costruito ponti d’oro per riavere indietro la sua
mamma e Hironimo
s’era congedato da lei senza neppure esaudire il desiderio
ultimo di madona
Leonora prima della sua partenza a Castelnuovo di Quero, ovvero che si
riappacificasse coi suoi fratelli, almeno per amor suo. Per farla
contenta. Per
non condannarla all’angoscia di sapere i propri figli morti
odiandosi l’un
l’altro, com'era accaduto coi suoi fratelli sier Batista e
sier Hironimo, deceduto
quest'ultimo sei anni addietro "in lite et in grandissimo odio" nei
confronti del minore.
Da lei
aveva preteso senza offrirle di concreto nulla in cambio.
Era partito con le migliori intenzioni – di proteggerla al
posto di Padre – per
poi divenire un parassita che si nutriva e basta del
suo amore.
Se
uscirò vivo da qui, si ripromise solennemente Hironimo,
cercando d’appoggiarsi più comodamente sul muro
umido e sporco della stalla.
Non avrebbe più commesso lo stesso errore con Padre, non
sarebbe morto senza
scusarsi con Madre e confessarle quanto l'amasse. Se
la scampo giuro
che le chiederò perdono. Andrò a Veniexia, da mia
Madre, e in ginocchio la
supplicherò di perdonarmi per ogni mia mancanza nei suoi
confronti e da quel
giorno, finché avrò vita, non farò mai
nulla che le possa recare dispiacere.
Questo si
ripeté e ripeté senza sosta fino alle prime luci
dell’alba e per la prima volta in quindici anni
sperò, sperò con ogni fibra del
suo essere in una seconda possibilità, sul serio in una
seconda possibilità.
Continua
…
*******************************************************************************************************************
Come
sempre, non sapendo un bel niente dell’infanzia del Nostro,
le maggior parte dei fatti di quest’episodio sono romanzati
(così come alcuni
personaggi quali Alvise Beltramin), tranne i cenni storici di contorno
(la
guerra veneto-turca e la seconda calata dei francesi) e le vicende di
Orsatto
Morosini. Anche l’episodio del debito di Luca Miani
è riportato dal Sanudo,
pure quest’ultimo protagonista di quella poco chiara faccenda.
Riguardo
al nome della moglie di Orsatto, purtroppo non ci è stato
possibile reperire il nome. Tuttavia, poiché sua sorella
minore era stata chiamata
Elisabetta in onore della nonna materna, la (de iure mai de facto)
dogaressa
Elisabetta Soranzo Barbarigo, non si può escludere che la
sorella maggiore
fosse stata chiamata Pellegrina, in onore della nonna paterna,
Pellegrina Zorzi
Nani. Pertanto, ci siamo presi questa licenza di così
nomarla.
Colgo
l’occasione per ringraziare Semperinfelix
per il suo sostegno e Sagitta72 per
avermi in particolare aiutata nella stesura
dell’ultima parte – grazie mille! ^^
Il
prossimo capitolo verterà ancora sull’esame di
coscienza del
Nostro: come accennato nel precedente capitolo, abbiamo raggiunto
metà storia e
ci addentreremo poi verso la seconda e ultima parte.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Santa
Monica = 26 agosto. Madre di Sant’Agostino
Dottore della Chiesa
(celebrato il giorno dopo, 27 agosto), giocò un ruolo
importantissimo nella sua
conversione al cristianesimo. Il Santo ammise in più
occasioni come non fosse
stato un figlio esemplare, riempiendola spesso di preoccupazioni. Un
parallelo
davvero affascinante col Nostro, specie il suo rapporto con la madre.
La
citazione [1b] nel capitolo è infatti dello stesso Santo.
[2] grisole (o
grisiole) = Graticci o graticciuole (arelle di valle) formate di canne
verticali.
[3] ambracane =
antico nome dell’ambra grigia, da cui si produceva
l’omonimo profumo.
[4] pizzuolo = la
cabina del comandante in galea.
[5]
gioco di
parole, tra “madonna” intesa come
“suocera” e la Madonna. Da questo motto, si
può dunque intuire l’opinione dei generi verso le
loro suocere e dove le
preferiscono.
[6]
San Nicola =
6 dicembre. Un famoso episodio della
vita di San Nicola narra di come l’allora giovane santo,
saputo di come un
padre avrebbe prostituito le sue figlie senza dote, di notte
lanciò dalla
finestra dei sacchi piene di monete così da risparmiarle a
quel triste destino.
Da allora era tradizione lasciare il 6 dicembre soldi o dolciumi o
piccoli
presenti, specie per i bambini.
[7]
brazzoler = il metro/stecca per
misure
la stoffa.
[8] un gran bel senato = il motto completo è “Quela
signora ga un gran senato!” Quella
signora ha un gran petto, dei seni prepotenti. Gioco di parole tra
“seno” e
“senato”. "Culàta", invece, è riferito alla natica, ma è anche il nomignolo dato all'estrema poppa di galee e galeazze, il cui fasciame si richiudeva in due parti quasi semisferiche tra le quali ruotava il timone. "Parer el galo de dona checa" si dice ad un uomo che non solo si innamora facilmente, ma che non va tanto per il sottile nella scelta della donna.
[9] protogero =
il capo più anziano della comunità greca.
[10]
anche
questa è una descrizione “intuitiva” di
Villa Paradiso (oggi nota come Villa
Bolasco) poiché non si sa come fosse stata prima
della demolizione e
ricostruzione nel 1509 e poi della significativa ristrutturazione del
1607, che
lo trasformò in un vero e proprio palazzo signorile senza
però intaccare la
struttura originaria del 1509.
[11]
questa
chiesa è stata abbattuta nel XVIII secolo per costruire
l’attuale Duomo. Qui si
trovava l’originaria Cappella Costanzo, dove
l’omonima famiglia nel 1503
collocherà la celebre Pala commissionata da Tuzio Costanzo
al Giorgione in
occasione della morte del figlio Matteo a Ravenna.
[12] San
Michiel cum la bassacuna = San Michele con la
bilancia. Secondo
un’iconografia molto diffusa, l’Arcangelo Michele
veniva raffigurato nel
Giudizio Universale con spada e la bilancia, misurando le anime e
smistandole
poi dove di dovere. Riprende molto l’iconografia egiziana
della pesatura del
cuore da parte del dio Anubi al cospetto di Osiride.
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Capitolo 20 *** Capitolo Diciottesimo: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l'08.10.2021
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Capitolo
Diciottesimo
Confiteor
(Non
uccidere)
A forza
di
sterminare animali, si capì che anche sopprimere l'uomo non
richiedeva un
grande sforzo.
(Erasmo da
Rotterdam)
1500 –
1502
Il nuovo
secolo chiudeva un’era e ne apriva un’altra,
sostituendola con nuovi ordini e spazzando via quelli vecchi.
Un’Italia
bruciava e moriva; Dio solo avrebbe saputo dire quale creatura sarebbe
nata
dalle sue ceneri.
Perfino a
Venezia, nel suo piccolo, quasi a sottolineare la fine
di un’epoca, moriva Missier il Doge Agustin Barbarigo. Al suo
funerale gli
vennero resi tutti quegli onori di cui, per la natura del suo ufficio,
mai in
vita godette: steso su di un feretro imbalsamato e armato di tutto
punto, il fu
Barbarigo venne trasportato nella sala del Piovego, proceduto da
stendardi, dal
suo stemma, dai marinai dell’Arsenale, dai principali membri
delle Scuole,
tosto seguiti dai funzionari palatini e dignitari, da numerosi frati
d’ogni
ordine, dal clero laico e dagli orfanelli di Santa Maria della
Pietà ciascun
con una candela in mano. Per tre giorni il popolo veneziano aveva
sfilato
davanti al suo catafalco in apparenza per pregare per l'anima sua, in realtà per maledire Barbarigo e la sua rapacità, avarizia, tenacità e superbia. Per tre
notti i
consiglieri ducali del Minor Consiglio avevano scrupolosamente vegliato
il
corpo, così come avevano fatto quando Missier il Doge era
stato ancora in vita,
spiandone e registrandone costantemente ogni azione e parola.
Dopodiché, al dì
del funerale, tutta Venezia si radunò in Piazza San Marco e
davanti alla porta
principale della Basilica il corteo funebre si fermò
bruscamente: per nove
volte i portatori alzarono e abbassarono il feretro e per nove volte
gridarono: Misericordia! Infine, a
Messa terminata, il corteo
si recò alla Chiesa di Santa Maria della Carità,
l’ultima dimora terrena del
Serenissimo Agustin Barbarigo, seppellendolo accanto
all’odiato fratello, il fu
Missier il Doge Marco Barbarigo.
Morto
dunque un Doge, la Serenissima Signoria s’affrettò
a
nominarne presto un altro e la scelta cadde, inaspettatamente, sul
procuratore
sier Lunardo Loredan q. sier Hironimo “dal Barbaro”
della parrocchia di San
Vidal e, come si soleva dir in tali circostanze, mutato
duce, mutabitur
fortuna. I maligni, ovviamente, batterono le lingue:
sier Piero Bembo
di sier Bernardo infatti adombrò che il Loredan avesse vinto
più per conoscenze
personali, che per i propri meriti. Ed in effetti, i primi a brontolare per la malasorte furono i Trum: sier Phelipo procuratore, cugino di sier Antonio, piaceva assai come candidato, giacché onesto, amico del bene pubblico, nemico dello spreco e di rara modestia oltre che ricchezza. Sennonché, il figlio del fu Serenissimo sier Nicolò aveva avuto il cattivo gusto di morire proprio durante il processo d'elezione del nuovo Doge e tale fu la sciagurata coincidenza, che si vociferava come il Trum fosse stato avvelenato. Tale notizia, avendo messo l'intera Venezia in agitazione, aveva portato ad un concitato andirivieni di magistrati e patrizi a San Stae, dove sier Phelipo viveva con le sorelle, onde assicurarsi delle cause del decesso. Sier Antonio Trum s'era ben sfogato con la nipote Crestina, dichiarando assurdo l'intero teatrino: era ovvio che il suo germano fosse morto ad appena sessantasei anni per la sua notevole grassezza, che accidenti dovevano scomodare un medico e soprattutto le cugine per un'indagine? Avrà fatto piacere a sier Piero Trivixan, loro parente, ritrovarsi all'improvviso quel gineceo da ospitare.
In ogni
modo, alla presenza di 50.000 persone accalcatesi a Piazza
San Marco, sier Lunardo Loredan sbarcò al ponte della
Paglia, scortato dai suoi
sei consiglieri ducali e le bombarde e i campanili, che fino a quel
momento
avevano riempito l’aria di spari e di vivacissime melodie,
tacquero
improvvisamente, segno che Sua Serenità era giunto. Ecco
il vostro
Doge!, s’elevò solenne
l’annuncio, mentre il Loredan procedeva con passo
silenzioso dalla porta della Basilica fino all’altare,
inginocchiandosi davanti
al primocerio il quale dopo avergli fatto prestar giuramento lo
benedisse,
cosicché fosse ben chiaro come Dio approvasse dal Cielo
ciò che gli uomini
sceglievano in terra.
Salito
sulla portantina detta “pulpito” trasportata da
duecento
marinai dell’Arsenale, il nuovo Doge attraversò la
folla festante, elargendo
ducati a destra e a manca, suo fratello sier Piero Loredan, i figli del
Serenissimi sier Lorenzo, sier Hironimo, sier Alvixe, sier Bernardo,
madona
Donata, sposa di Jacomo Guxoni da S. Vidal, madona Maria, sposa di Zuam
Venier;
Paula, moglie di Zuam Alvixe Venier ed infine Ysabeta, sposa di
Zacharia
Priuli, immediatamente dietro di lui con tutta la Signoria al gran
completo.
Niente Dogaressa, essendo venuta a mancare ante l'elezione madona
Morexina
Zustignan da San Moixé. Passata la Porta della Carta, il
corteo entrò nel
cortile di Palazzo Ducale e pareva quasi ironico che le nuove facciate,
appena
terminate, fossero state commissionate proprio dal fu Serenissimo
Missier
Agustin Barbarigo, morto prima di potersene giovare. Lì i
marinai deposero la
portantina e Sua Serenità salì sulla monumentale
scala circondata da allegorie
della Fama e della Vittoria, opera degnissima di Antonio Rizzo [1].
Soltanto
alla fine di essa, all’ultimo gradino, venne sier Lunardo
Loredan incoronato
ufficialmente Eccellentissimo Serenissimo Principe e Duca di Venezia,
acciocché
a nessuno sfuggisse il chiaro simbolismo, ossia che la sua ascensione
alla
carica più alta dello Stato non gli era dovuta per diritto
di sangue, bensì per
meriti graduali, carica dopo carica, ma soprattutto, standosene in alto
la
Signoria, come Venezia l’aveva creato Venezia lo distruggeva,
avesse egli
tentato qualsiasi stranezza a suo danno.
Dal
più giovane membro del Maggior Consiglio il Serenissimo
ricevette la bereta delle cerimonie ordinarie, mentre dal
più vecchio
consigliere il corno ducale dei giorni di festa, una vera e propria
“zoja”,
sormontato da una croce di diamanti e scintillante di smeraldi, rubini
e perle,
per un valore totale di 194.092 ducati. Un altro consigliere gli pose
sulle
spalle il manto di broccato d’oro ed ermellino. Il Gran
Cancelliere gli lesse
le norme della Costituzione, su cui Loredan giurò
solennemente di osservarle a
costo della vita. Il Serenissimo ricevette infine lo stendardo di San
Marco fra
le acclamazioni del popolo, al quale egli promise justicia
indifferenter, abondantia, et tenir la terra in paxe .
Impegno
non indifferente se considerata la delicata situazione
politica, con la guerra contro i Turchi che procedeva a fasi alterne,
coi
Francesi oramai padroni del Ducato di Milano e intenti a spartirsi il
Regno di
Napoli cogli Aragonesi di Spagna e naturalmente i Borgia impegnati ad
eliminare
dalla Romagna ogni signoria a loro scomoda.
Decisamente
il Serenissimo Lunardo Loredan non poteva esser stato
eletto in un periodo più tremendo.
In questo
clima dunque di sconvolgimenti di una realtà che
s’era
sempre creduta eterna e immutabile, Hironimo aveva preso la decisione
anch’egli
di lasciarsi quanto più possibile alle spalle i perduti
giorni dell’infanzia e
con essa ogni sensibilità d’animo da lui
coltivata, che, a quanto pareva,
all’altrui giudizio corrispondeva a debolezza al limite
dell’effeminatezza. Ciò
lo infastidiva oltre ogni dire: per quanto il ragazzo adorasse
trascorrere i
pomeriggi in compagnia delle cugine, non si era mai sentito meno
maschio né
desideroso d’emulare quei loro atteggiamenti da donzella.
Anche
perché, ultimamente non resisteva più
all’infinità di
melensaggini che avevano rincretinito le giovani Morexini. A dare il la
era
stata la loro cugina Catharina Corner:
da quando
s’era sposata in sier Zuanne Soranzo era divenuta
insopportabile, cogliendo
ogni occasione per sfoggiare la collana di perle della novizza,
l’elaborata
acconciatura e i vestiti all’ultimo biondo; non faceva che
raccontare delle
feste cui adesso poteva partecipare più agevolmente, di
quanto fosse bello
gestire una propria casa, dei cagnolini che s’era comprata e
in generale
di ricordare alle
sorelle minori e
soprattutto alle cugine Morexini ancora nubili della sua
ascensione dallo
status di vergine a moglie.
Le tose lo
desidera, le maridae lo prova, le vedove lo recorda sicché la
presenza nefasta del Soranzo instillò in Maria e Querina una
gran smania di
sposarsi anch’elle, lavorando con doppia tenacia al proprio
corredo nuziale e
non cessando di ricordare subdolamente al padre sier Batista della loro
età e
di quanto sarebbe stato disdicevole sapersi o monache o zitelle, quando
le
cugine Corner sicuramente tutte si sarebbero maritate. E tanta fu il
desiderio
d’apparire e di comportarsi più adulte della loro
effettiva età, da finire per
rendersi, agli occhi di Hironimo, ridicole, noiose e irrimediabilmente
rincitrullite,
specie Maria la quale, raggiunti come lui i quindici anni, non faceva
che
tarmarlo con i suoi sospiri su questo o quel cavaliere di non so qual
poema
ch’aveva letto; oppure delle sue confidenze circa qualche
giovanotto che aveva
intravisto in chiesa a Messa o dal balcone, descrittogli e
commentatogli
l’aspetto con la spietata pignoleria da mercante tipica della
loro famiglia. E
tramite la medesima precisione ella gli descriveva il tessuto
ch’avrebbe
utilizzato per un nuovo abito o le pietre per una nuova collana o come
si
sarebbe acconciata i capelli alla prossima celebrazione della Sensa. Il
povero
Hironimo si sforzava di ascoltarla e mostrar interesse verso cose che
manco lo
tangevano, anzi, pure arcuava indispettito il sopracciglio
all’udir cantar le
lodi dei giovani patrizi adocchiati dalla cugina; però
ahimè non riusciva a
starle dietro e spesso dimenticava quanto dettogli, temendo assai il
momento in
cui Maria, crudele, gli chiedeva di ripetere onde verificarne il
livello
d’attenzione. E Querina, che in tutto emulava la
più spigliata e volitiva
sorella, rincarava la dose con doppio vigore, onde dimostrare che non
era da
meno. L’unica a salvarsi rimaneva a piccola Marina, quel benedetto angioletto
che dall’alto dei suoi quattro anni non si preoccupava certo
del futuro, trascorrendo
le giornate a giocare in giardino o a palla coi fratellini o a vestire e ninnare le
sue
bambole.
Era un
piacere vederla correre così allegra e spensierata, le sue
risate un balsamo dopo ore e ore d’inconcludenti chiacchiere
da parte delle sue
sorelle maggiori.
“Sior
Barba, come riuscite voi ad ascoltare la siora mia Amia
vostra mojer, la Mariuccia e la Rina senza
addormentarvi ad occhi
aperti? Diamine, hanno più senso i discorsi della
Marinella!”
“E
chi ti dice che le ascolto?”
“Ma
…!”
“Dai
retta al tuo Barba: lasciale parlare, poi quando le si è
seccata la lingua e finalmente tacciono, solo allora replichi:
“Concordo
appieno, meglio non potevate dire, vi auguro buona giornata.”
E poi scappi via
senza guardati indietro, prima che recepiscano il messaggio e ti
assordino coi
loro strilli e rimproveri. Hai ben compreso?”
“Le
mie zermane ritorneranno mai normali?”
“Sì,
è soltanto la novità d’aver scoperto
d’esser “donne”. Poi
quando si stuferanno, vedrai che riprenderanno ad usare il cervello.
Solitamente questo accade dopo il primo figlio.”
“Spero
d’arrivar vivo a quel momento.”
“Per
fronteggiar una donna bisogna aver spalle larghe, nezzo mio.
Il tuo sior Pare aveva ragione, quando affermava che come il vento, le
femmine
non si comandano mai. D’altronde, è il prezzo che
paghiamo per il privilegio
d’esser nati col pene.”
Neanche
con Marina Morexini q. sier Orsato poteva Hironimo più
parlare e non per via dell’età della giovinetta,
bensì per le solite paranoie
di sua madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale,
preoccupata
dell’eccessiva intesa tra la figlia e il ragazzo, li aveva
per vie indirette
lentamente allontanati, incominciando dall’invitare sempre di
meno al Paradiso
madona Leonora e per associazione i suoi figli oppure declinava gli
inviti di
madona Alba Donado Contarini nel suo palazzo a San Trovaso, quando
sapeva per
certo come anche Hironimo si sarebbe trovato lì. La vedova
temeva infatti che
Hironimo, dall’alto della sua perfidia calcolatrice, potesse
compromettere la
virtù della figliola, dunque accaparrandosela, quando la
donna avrebbe
preferito mille martiri piuttosto di saperla maritata ad un tanghero
senza né
arte né parte quale il giovane Miani.
Sicché
Hironimo aveva dovuto cercare altrove una sua collocazione,
virando verso le amicizie virili dapprincipio da lui snobbante,
all’inizio
accodandosi ai fratelli e poi cercandole da sé.
Per
facilitarle e al contempo obliare la perenne sensazione di
vuoto nel petto, l’adolescente si gettò a
capofitto in ogni disciplina
marziale, accampandosi per poco nelle palestre e nelle scuole di
scherma,
frequentando assiduamente i corsi di tiro con l’arco a San
Nicolò del Lido e di
pallacorda a San Zaccaria. Rincasava tardi, stremato, coi muscoli
tremanti e in
fiamme, lividi dappertutto e gli avambracci rossi per via delle ustioni
da
frizione della corda dell’arco. Però almeno la
notte dormiva senza sognare e
più non pensava.
Nella
lotta libera o grecoromana o negli incontri di pugilato
Hironimo non si spaventava d’affrontare avversari il doppio
della sua stazza,
né si lagnava del vento sferzante contro il viso, dei
vestiti umidi d’acqua e
del bruciore delle vesciche, quando remava in laguna o per sfogare la
rabbiosa
sua energia o per competere contro i compagni in serrate gare da Mestre
fino al
Lido. Sprezzando la temperatura dell’acqua, o in canale o al
mare o nei fiumi,
niente e nessuno lo poteva trattenere dall’accettare una gara
di nuoto.
“Hé,
bravo, bravo! Anche io alla tua età mi dedicavo molto al
nuoto, è il miglior esercizio per irrobustirti! Sapessi da
giovane quante gare
ho vinto!”
“Quando
Anzolo non partecipava …”
“Antonio,
dovevate proprio ricordarmelo?”
Ad
allenamenti terminati, la parte della giornata che più
piaceva
al giovane Miani era quella di recarsi alle stue (stufe, ndr.) pel
bagno turco
assieme al barba materno Batista e quello acquisito Antonio Trum. Non
capiva il
perché i due gli avessero proibito di andarci da solo,
insistendo di
accompagnarlo o lui di raggiungerli. In ogni modo, rilassarsi sulle
panche e
lasciarsi cullare dall’avvolgente tepore umido e profumato
ora di rose, ora di
arancia, cannella e spezie lontane equivalevano per lui ad un balsamo
sia
fisico per rilassare i muscoli tesi e doloranti sia spirituale, cullato
dalla
sospensione di quell’ambiente vaporoso d’eterna
nebbia. Questo prima di
scoprire tutti gli altri benefici
offerti dalle stue, in
particolare durante o dopo il massaggio: Marco e Carlo si erano retti
la pancia
dal tanto ridere, quando zio Batista, perfido pettegolo, aveva
raccontato di
come, al suo primo massaggio in assoluto, ciò che credevano
morto in Hironimo
s’era invece ben risvegliato e di come il ragazzo fosse
scappato via col solo
lenzuolo addosso quando la massaggiatrice, ineffabile, s’era
offerta per un
piccolo extra di “ammollire” quella svettante
durezza.
Il
giovane Miani non osò da allora farsi fare i massaggi, se
non
dagli uomini.
Nelle
stue, che comunque continuava a frequentare volentieri,
Hironimo pianificava i suoi obiettivi, in quale disciplina concentrarsi
di più,
come migliorare la sua postura nella scrima; pensava alla manutenzione
del suo
arco; s’immaginava qualche trucco per velocizzare la vogata
… Osservava tanto e
a lungo i suoi compagni, a seconda dell’abilità li
prendeva a modello e si
prefiggeva di eguagliarli, per poi passare al prossimo più
bravo. Non gli
importava quante volte stramazzasse al suolo dai colpi infertigli, o
per un
cedimento delle gambe ridotte a ricotte. L’adolescente
ingoiava il dolore,
l’umiliazione della sconfitta, le aspre critiche e gli
sfottò, certissimo di
poter ugualmente raggiungere lo scopo prefittosi e di trionfare su
qualsiasi
ostacolo ed avversario.
La sua
determinazione e testardaggine vennero così incanalate in
questo suo esercizio, trasformandosi da difetti da tutti
rimproveratigli a
qualità degne d’elogi. Pian pianino, la sua
tenacia gli conquistò le lodi dei
maestri e il rispetto dei suoi compagni, un giorno perfino si
beccò i
complimenti del suo parente Ferigo Contarini, provocandogli gioiose farfalle allo
stomaco
ché la sua opinione, tra tutte, era per Hironimo la
più importante, avendolo
infatti sempre ammirato (Ha-ha! Ferigo di qua, Ferigo di
là … se
tu fossi femmina, Momolin, a quest’ora già saresti
a dargli il primo figlio, da
quanto gli sbavi dietro!, lo burlava maliziosa
Maria, provocando
feroci arrabbiature nel permaloso cugino). Le ragazze ripresero a
guardarlo e
stavolta con occhi ben diversi, non più come
un’informe creatura di sesso
maschile bensì come un vero e proprio uomo, garbando ai
gusti loro le sue
spalle larghe e le gambe dritte, snelle e muscolose. Anche a costo di
soffocare, Hironimo si stringeva il farsetto quanto più
possibile onde esaltare
la vita stretta e il triangolo del busto. Sfidava gli amici e compagni di allentamenti a serrate gare di lancio della palla; cavalcava per ore e ore, montando talora senza staffe; d’estate partecipava a competizioni su chi riuscisse a rimanere penzoloni più a lungo sul ramo, senza cascar giù in acqua. Solo Maria continuava a sfotterlo per i suoi
capelli
lunghi fin quasi a metà schiena, dei quali il ragazzo aveva
una cura pressoché
maniacale. Che ne capiva lei? A vent’anni se li sarebbe
comunque dovuti
tagliare e poi avrebbe avuto tutta la vecchiaia per starsene pelato,
che male
c’era nel goderseli finché poteva? Inoltre, poteva
negare alla Marinella il
divertimento di pettinarglieli?
Pah, per
le donne la Casa dei Contenti non era mai stata costruita
e meglio era rimanere tra uomini, dove lì sì che
Hironimo trovava comprensione
e riconoscimento dei suoi meriti.
“Ma
come? Stai già eseguendo l’esercizio?”
“Ho
sbagliato, sior maestro? Non dovevo?”
“No,
no … E’ che ieri non riuscivi a terminarlo senza
finir per
terra!”
“Mi
dovevo soltanto abituare … Non è difficile alla
fine!”
“Bravo,
quest’è lo spirito. Finché
s’ha fiato nei polmoni, mai
arrendersi!”
Ogni
vittoria l’esaltava, incoraggiandolo a migliorarsi ancora di
più e a tastare i suoi limiti. Quei brevi atti di euforia
gli azzeravano ogni
percezione d’impossibilità, portandolo a credere
d’esser onnipotente e di fatti
Hironimo accettava ogni sfida per il solo gusto di sapersi superiore
agli altri
partecipanti. S’ingannava dichiarando come lo facesse per
vanità e non per
sfogare quella sua rabbia segreta che da sempre tentava di seppellire.
Inaspettatamente,
una di queste discipline, la scrima, comportò un
riavvicinamento tra Hironimo e suo fratello Carlo, sorpreso il primo di
saperlo
così abile nel maneggio della spada. Era avvenuto per caso,
quando di notte,
credendosi non visto, l’adolescente sgattaiolava nel portego
e staccava dal
rastrello la spada di Padre, la medesima ch’egli aveva
adoprato nelle sue
pattuglie in galea da Chioggia fino alla Romagna a caccia di pirati e
contrabbandieri, durante la Guerra del Sale e la difesa di Feltre
contro il
Duca d’Austria e che Madre teneva sempre lucida e pulita,
come se il marito
potesse in un qualsiasi momento presentarsi a reclamare la sua arma.
Alla luce
della candela, Hironimo allora mulinava la spada, ripetendo le
posizioni impartitegli
dal maestro, il gioco di gambe, la forza nel fendere e
nell’affondare. Nella
sua fantasia egli ammazzava turchi, tedeschi, pirati saraceni,
ungheresi,
francesi, immaginando di trovarsi nelle grandi battaglie dei suoi avi,
per mare
o per terra, e sognando di divenire tanto famoso quanto il suo
trisnonno Zuanne
“il Vecchio”, valente capitano.
“Zò,
ma che fai in giro a quest’ora? Con la spada di Padre? Vai
forse a caccia di pantegane?”
“Stavo
facendo attenzione, prometto di non danneggiarla!”
“Temo
più per la tua sorte che per quella della spada: de diana,
sembri un villano che falcia il grano!”
“Tzé,
spiritoso … Che ci fai piuttosto tu in giro a
quest’ora? Non
dovevi essere in camera tua a piangere per la partenza a Roma di sier
Antonio
Zustignan?”
“Basta
asinerie e dammi qua. Guarda bene e cerca di imitarmi, così
forse non finisci infilzato al primo duello …”
Effettivamente
fu una rivelazione per Hironimo osservare la
naturalezza e fluidità dei movimenti del fratello maggiore,
avendoli
contemplati fino a quel momento solamente nel maestro e in Ferigo
Contarini.
L’aveva infatti sempre creduto un acido topo di biblioteca,
similmente ai suoi
amici, tra i quali spiccavano sier Hironimo Donado “dalle
Rose” e sier Antonio
Zustignan, quest’ultimo lettore di logica e filosofia al
Gymnasium Rivoaltinum
e di recente nominato nuovo ambasciatore a Roma in sostituzione di sier
Polo
Capello.
Carlo si
rivelò dunque un buon maestro e un avversario tenace,
riducendo certe volte Hironimo in un frustrato toro sbuffante.
“Non
attaccare quando sei arrabbiato! Mi concedi solo un
vantaggio! Su la difesa, vedi come ti disarmo al primo colpo? Dai,
macaron de
Puja!”
“Possiamo
prenderci una pausa? Sono stanco!”
“Ha!
Vallo a dire al tuo nemico in battaglia, sai che risata si
fa?”
“Te
ne stai approfittando, che non ti posso ammazzare!”
“Pfui!
Prima d’imparare ad ammazzarmi, impara a non farti battere
dal sottoscritto!”
“Posso
almanco cambiar spada? Questa qui è troppo pesante, non
riesco a muoverla bene!”
“Non
c’è niente che non vada in essa, è il
tuo braccio ch’è
imbranato! Vedi che se le scambiamo, ti sconfiggo lo stesso? La spada
è solo
uno strumento che scompare se paragonato alla mano che
l’impugna e alla volontà
di chi la guida. Su, alza la guardia e ricominciamo.”
Molto
probabilmente, l’ossessione ludica del ragazzo Miani
equivaleva non solo ad una gratificazione personale ma anche ad un
sentimento
di rivalsa verso tutti coloro, che da fanciullo l’avevano
dileggiato, specie a
seguito della morte di Padre. Nelle sue vittorie egli immaginava di
ripulire il
nome suo e del genitore, ristabilendo l’onore della famiglia
e affiancandovi la
gloria personale.
Soltanto
l’equitazione sfuggiva a quella sua triste logica.
Eòo,
anno dopo anno, era divenuto uno splendido esemplare di corsiero,
bianco latte
e talmente intelligente, che quando Hironimo gli accarezzava
teneramente il
muso, per qualche istante poteva leggere un tentativo di conversazione
nei
grandi e languidi occhioni dell’animale. Il cavallo era
l’unico essere vivente
col quale l’adolescente si sentisse completamente a suo agio,
raccontandogli
mentre lo strigliava quei crucci segreti dell’animo suo che a
nessuno osava
confessare e se Eòo avesse posseduto il dono della parola,
sicuramente
l’avrebbe capito e consolato meglio di molti cristiani.
Lanciarsi
al galoppo senza una meta, ventre a terra, l’aria che
gli scompigliava i lunghi capelli e gli gonfiava la camicia
… l’ebbrezza del
divertimento, d’assoluta libertà, quasi di poter
volare … Hironimo non se ne
saziava mai, assecondata la sua vivacità da quella di
Eòo, il suo Pegaso, col
quale sognava di poter fuggire via, lontano, lontano, verso nuovi mondi
e lì
compiervi imprese talmente mirabolanti, di cui se ne sarebbe parlato
nei secoli
a venire.
Sicché
non gli risultò difficile partecipare ai vari palii sia a
Venezia che in Terraferma e se dapprincipio bruciarono fastidiose al
suo ego le
prime sconfitte, poi col tempo e la pratica il ragazzo
incominciò a vincerle,
gongolando dinanzi alle espressioni stupefatte dei suoi cugini, i quali
non si
capacitavano della qualità di un cavallo di razza assai
incerta quale appunto
Eòo.
Il suo
massimo trionfo fu il palio di Santa Lucia a Treviso,
svoltosi il 13 dicembre, giorno di doppia ricorrenza laddove si
celebrava sia
la Santa con grande processione e in presenza delle massime
autorità civili e
religiose, dalla Cattedrale lungo via Cornarotta passando il ponte di
San
Cristoforo fino a raggiungere a piazza delle Erbe [2] la chiesa
dedicata alla
Martire; sia si celebrava la liberazione di Treviso dal giogo dei
Carraresi da
parte della Serenissima Signoria, avvenuta il 13 dicembre 1388 ed era
stato
proprio il suo antenato, sier Zuanne Miani “il
Vecchio” q. Francesco "lo S-ciavo"
ad espugnare il Castello, dove Francesco Da Carrara s'era rifugiato.
Per tale
doppia ricorrenza era stato istituito nel 1390 dal
podestà sier Ludovico Morexini anche un palio, con una
sfrenata corsa di
cavalli a Piazza Maggiore del Carrubio per il bel Bravium di velluto
consegnato
al vincitore, drappo benedetto dinanzi agli altorilievi della Madonna
del
Paveio (farfalla, ndr.) e di Santa Lucia. Il primo era un dono del
podestà sier
Lorenzo Celsi, commissionato nel 1354 allo scultore veneziano Phelippo
Calendario, altorilievo che aveva sempre affascinato d’un
gusto quasi morboso
Hironimo.
“Carlino,
tu che sai tutto, perché la farfalla?”
“Sin
dai tempi antichi, la farfalla rappresenta l’anima. Ti
ricordi Psyché? Ecco, nella devozione popolare, la farfalla
simboleggia l’anima
che ottiene, attraverso la conversione redentrice per opera di Cristo e
la
mediazione di Maria, la vita eterna nel Paradiso. Questo
perché la farfalla si
libera dalla crisalide per poter volare via in cielo.”
“Per
questo motivo, dunque, la mano del Bambino è tesa verso di
essa? Come se la stesse accompagnando?”
“Suppongo
di sì. Devi ricordare che questa chiesa ha inglobato
quella di Santa Maria delle Carceri, dove i prigionieri e specialmente
i
condannati a morte venivano a pregare prima dell’esecuzione.
Ladri, stupratori,
sodomiti, falsari, traditori, assassini … un bel bozzolo da
cui liberarsi!
Quanta feccia s’è qui inginocchiata davanti a
Lei!”
“E
convertendosi, sarebbero ritornata la loro anima a volare
leggera?”
“E’
la nostra fede e speranza.”
“Ecco
perché questo luogo mi dà i brividi.”
“Non
ci pensare. Che mali puoi aver commesso tu, razza di
paperotto? Piuttosto, vedi di vincere questo palio o ti pigliamo a
calci nel
sedere da qua fino a San Vidal!”
Hironimo
vinse il palio, sfilando in trionfo per la Piazza col
Bravium in mano e, una volta tranquilli e in tutta privatezza, sua
cugina Maria
pure lo premiò per la sua bravura con un soddisfacente bacio
sulla bocca, ad
imitazione di tutti quegli (per Hironimo) stupidi poemi cavallereschi
di cui
s’ingozzava da mane a sera. Tuttavia, quella vittoria sapeva
di amaro, incapace
egli di scacciare l’immagine della Madonna del Paveio dagli
occhi.
Che
mali puoi aver commesso tu, razza di paperotto?
Non
sapevano niente.
Non
conoscevano il bozzolo creatosi attorno alla sua anima, quel
marciume che la imprigionava abilmente celato dalla galanteria,
cordialità,
generosità, dalla sua bella presenza fisica. Invidia,
rancore, superbia,
avidità di gloria, prorompente sensualità,
attrazione verso il sangue e la
morte li facevano da oscuro contraltare.
Per
liberarsi del passato, Hironimo s’era votato a Marte, il
quale
però era un dio crudele, inneggiante alla violenza
più brutale. La medesima che
il ragazzo tentava disperatamente di dominare, ma che, complice la
rabbia
tipica della sua età e il gusto per il sangue di Venezia
ereditato dai Romei,
troppo spesso veniva incoraggiata e con effetti a dir poco strazianti
per la
coscienza del giovane Miani.
***
Settembre 1503
Nel
quartiere di San Barnaba si trovava un ponte senza parapetti,
nomato il Ponte dei Pugni, l’arena favorita di una delle gare
di pugilato più
sanguinose di Venezia, tanto che ad alcuni forestieri si rivoltava lo
stomaco
all’assistere a quelle disfide, prontamente dileggiati dai
Veneziani lì
presenti per la loro poca sopportazione: quale diletto arrecavano
giostre e
tornei? Roba quasi da signorini effeminati, se si poteva assistere a
ben altra
battaglia più cruenta e veritiera.
Tutta la
logistica attorno al Ponte dei Pugni si presentava
d’altronde adatta al combattimento, le due rive
d’uguale dimensione cosicché le
squadre potevano sistemarsi comodamente e di pari numero. I balconi, le
finestre, le altane e i luminàl degli edifici attorno si
trasformavano in
tribune degli spettatori, così come il canale per
l’occasione ripulito
pullulava di gondole e i ponti adiacenti rinforzati onde non cedere al
peso
della massa stipatasi, in una sorta di Colosseo improvvisato.
Lì tutta Venezia
v’accorreva eccitata, dividendosi i partigiani per simpatie e
già scommettendo
sulla squadra vincente, addirittura assegnando il favore degli
stranieri, a
seconda di dove fossero entrati, se ad ovest da Chioggia o ad est da
Mestre.
Sul Ponte
dei Pugni sfogavano la loro secolare rivalità i
“Castellani” - Arsenalotti, squeraioli, calafati e
pegolotti ad est del Canal
Grande - e i
“Nicolotti” ad ovest,
pescatori e barcaioli [3]. Alla Signoria tali scontri non dispiacevano
e anzi
li incoraggiava, sia per tener ben allenato lo spirito guerriero dei
suoi figli
sia per distrarli da un qualsivoglia malcontento e ribellione nei suoi
confronti.
La regola
era molto semplice: vinceva la squadra che, in una serie
di incontri individuali o di gruppo, avrebbe superato il maggior numero
di
avversari. Un punto per ciascun vittoria, due punti se uno dei
contendenti
riusciva a gettar in acqua il rivale. Curiosamente, la Guerra dei Pugni
non
concerneva soltanto gli uomini, bensì anche le loro donne,
che non disdegnavano
certo dar manforte azzuffandosi con le mogli dei rivali.
Hironimo,
abitando nel sestiere di San Marco, aveva dunque sempre
parteggiato per i Castellani, saltellando a momenti sul posto dalla
foga
dell’incitamento indiavolato e mulinando invasato braccia e
pugni si sciorinava
senza freni nella più prosaica sequela di incoraggiamenti
misti ad
imprecazioni, similmente a tutti gli altri spettatori, donne incluse,
casomai
queste più scatenate perfino degli uomini specie se erano le
consorti dei
partecipanti. Ovviamente, la Guerra dei Pugni corrispondeva
all'ennesima
occasione per Padre e lo zio Batista di litigare, giacché
appartenenti i
rispettivi sestieri alle due opposte fazioni. Le oscenità
poetate dai maggiori
della sua famiglia avrebbero fatto sanguinare le orecchie perfino al
più sozzo
dei soldati. Va' ad affogarti in rio con la tua
ganza, ludro, onto d'un
Cannaregio! San Cancian!, era infatti la cosa più
gentile che Hironimo
aveva sentito Padre urlare al cognato. Magnafasiòli
d’on San Vidal, andé a lumàr che magari
qualche danaro teo cati per pagarte la
legna! rispondeva il barba Batista, in netto svantaggio
rispetto a sier
Anzolo, poiché mentre questi poteva insinuare sulle
attività extraconiugali di
madona Morexina, lo zio non poteva per non vituperare
l’amatissima sorellastra
Leonora. Ma questo non gli impediva di dar della puttana a suo cognato,
tutt’altro.
Purtroppo,
col trascorrere degli anni, sorse in Hironimo una
grande smania di partecipare di persona a quel combattimento, invece di
rimanere spettatore passivo. Ovviamente non ne aveva fatto parola con
nessuno,
sia per la pericolosità degli scontri (alla sera si
raccoglievano i morti di
ciascun partito) sia perché non era una competizione degna
di un patrizio,
partecipandovi esclusivamente il popolino e al massimo qualche
cittadino.
Peccato
che lo spirito ribelle della sua giovane età, il fascino
verso l’ignoto e l’avventura nonché
l’aggressivo spirito competitivo del suo
sesso spinsero il giovane Miani a trasgredire quel divieto e una
mattina del 30
settembre 1503 egli riuscì a sgattaiolare fuori casa (dopo
esser rimasto
indietro con la scusa di un grave mal di pancia) e di mescolarsi tra le
squadre
dei Castellani. All’occasione aveva rubato i vestiti di Dardi
di Polo, il
nipote di Orsolina, e la sua bereta di feltro rosso, sporcandosi con
della
cenere il viso e le mani acciocché non lo si riconoscesse e
dal modo in cui i
suoi nuovi compagni lo accolsero a gioviali pacche sulla schiena, lo
stratagemma funzionò.
Era una
giornata tiepida, soleggiata e San Barnaba affollatissimo,
l’aria vibrante di grande aspettativa, ogni sguardo puntato
sui trecento
gareggianti per fazione che, salutando il loro pubblico, si vantavano
alla
stregua di galletti e insultavano pesantemente l’avversario,
spaziando dal
mestiere presunto delle loro madri alle personali porcherie, niente si
salvava,
neppure i rispettivi morti. Hironimo, dal canto suo, abbassava invece
il capo e
si portava un po’ di frangia sul viso, il cuore
però impazzito
dall’eccitazione.
Le donne
“Castellane”, con i capelli raccolti in un
fazzoletto
rosso, fischiavano, mulinavano i pugni e riempivano di gesti e smorfie
osceni
le “Nicolotte”, dai fianchi cinti dalla fascia
nera, le quali ricambiavano
altrettanto bellicose.
“Maddalusse
ingiandolìe!”
“Dorondòna!”
“Fùmia!”
“Gratapanza!”
“Gualta!”
E via
così in un crescendo inarrestabile di prosaicità.
“Ti
te sé fortunà”, confessò ad
Hironimo un Castellano accanto a
lui, “ancuò se fa la guera
ordenà!”
Il
giovane patrizio sorrise euforico: la guerra ordinata
corrispondeva allo zenit della Guerra dei Pugni, laddove non ci si
limitava più
ad accumulare punti, bensì si doveva conquistare con
qualunque mezzo il ponte
stesso. Fortunatamente, a quello la Signoria sì che poneva
freno, concedendo
saltuariamente la guerra ordinata, altrimenti Venezia si sarebbe
svuotata come
durante i cupi anni di peste.
I due
padrini dei Castellani e Nicolotti giunsero infine correndo
al Ponte dei Pugni, uno da una parte e uno dall’altra. Questi
arbitri,
contrariamente al resto dei partecipanti, erano invece dei rispettabili
cittadini la cui abilità nel pugilato li aveva concesso
l’onore d’aprire la
disfida. Appena saliti si levarono lo zipone e indossarono il guanto,
rimanendo
in manica di camicia onde evitar di ritornare a casa col prezioso
indumento a
brandelli.
“An,
ti no te me gh’ha ancor dito chome te ciami!”, si
sovvenne il
giovane uomo accanto ad Hironimo, intanto che si levava
anch’egli il farsetto
di monachino. “Mi me ciamo Zane, e ti?”
Dall’accento doveva provenire dal
sestiere di Castello. [4]
“Anzolo”,
rispose d’impulso il patrizio. Si tolse il farsetto e
s’arrotolò a ciambella la camicia alla vita,
rimanendo a torso nudo. Dopodiché,
accommiatandosi dai sandali e rimasto scalzo, infilò un
guanto sulla mano
destra.
“Sistu
de Sen Marcho?”
“Siorsì.”
“Stame
vizin, va ben? Mi te vardarò le spàe! E gnente
“sior” qua:
ché parlemo moscheto horra?”, ridacchiò
bonario.
Hironimo
al contrario annuì attento: nella guerra ordinata ne
succedevano di tutti i colori, rimanere compatti e guardarsi a vicenda
le
spalle era l’unico modo per arrivare incolumi a fine gara.
“Et
arecordate di tegnir serrà le labra!”,
s’intromise un ragazzotto
assai robusto, forse uno squeraiolo, presentatosi col nome di Nico.
“Cussì”,
gli mostrò solerte, cacciando indietro le labbra che pareva
quasi ingoiarsele.
Un altro,
nomato Lio e anch’egli di San Marco, da dietro prese a
raccogliere i lunghi capelli di Hironimo, cacciandoglieli dentro la
bereta di
feltro rosso e sistemandogli meglio la sciarpetta d'altrettanto colore.
“Se no,
i te ciapan pe i caveij e bondì sioria!”, rise,
contagiando col suo buonumore
anche il giovane Miani e i giovanotti accanto a lui.
“Speremo
de vinzer st’anno”, sospirò falsamente
tragico Nico,
stiracchiando le braccia. “La mia fameja, par ea vargogna, a
me gh’ha tegnuo el
muso duro fin squasi a Nadal!”
“El
mio vecio manco me gh’ha voluo vardar, me gh’ha
lassà fora dea
porta par tuta ea note, pèzo d’un can!”
“Pianzeu
vuialtri per st’asinerie? Voleu satre cossa xélo
capità a
mi?”, schioccò scettico la lingua Zane alle
lagnanze dei suoi compagni, “la mia
femena no me gh’ha dato par tre” e mostro ben in
alto le dita, “setimane la
mona. Tre setimane, porc’eva, tanto la gera
arabià!”
Perché
la vergogna della sconfitta comportava, oltre ad arti
doloranti, anche lo sdegno degli stessi famigliari e soprattutto delle
loro
risentite metà, tant’era vero che alcuni neppure
osavano rincasare nell’immediato,
temendo infatti d’incassare le ultime randellate della
giornata.
“E
ti, Anzolo?”
“An,
par mi xea prima volta.”
“Bia'
ti!”
“Beh,
se perdemo, sta seguro che te finisso mi a teghe en testa!”
“Pulito!
Perhò se vinzemo, ti me favorissi ea mona di la toa
femena!”
“A
bea! Mi poxjo ea boca?”
“Ti
te pol star lì a vardar, Zane, mica
m’ofendo!”
“O
femo le cosse en tre, che mi sun omo splendido (generoso, ndr.)
de gran core!”
“Alor,
splendidamente mi te dago tante di quee pèae (pedate,
ndr.), che te desmenteghi de ser stà omo!”
“Eh!
Ma almanco ‘na ciuciadina la me pol dar! Senpre te lagni
ch’ea no stagi mai zitta!”
“Zò,
ciucia sto pugnazo, folpo
sporcaciòn!”
Tuttavia
si minacciavano piuttosto allegramente, a giudicare dalle
alte risate sguaiate.
“Ohé,
scomenzemo? O femo note?”, allungò il collo Lio,
mettendosi
in punta dei piedi.
Terminato
lo scontro tra i due cittadini – finito con la vittoria
del padrino dei Nicolotti tra le urla di vittoria e i fischi
dell’avversario –
le Castellane e Nicolotte erano partite all’attacco,
lasciandole per cavalleria
sfogarsi per prime. Una donna con due braccia da marinaio
cacciò un pugno che ci
si dolse per il suo marito; un’altra perse copiosamente
sangue dal naso; alcune
sputarono i denti; altre si videro tirate i capelli e le camice
strappate e una
tal Altabella finì in canale non senza che le si fosse,
durante la caduta, sollevato
il gonnellone, mostrando all’universo mondo il pelliccione
biondo tra le gambe,
visione che pacificò per un attimo tutti i maschi
lì presenti, i quali
apprezzarono e si offrirono volontari di tirarla fuori
dall’acqua.
Conclusasi
la piccola parentesi e ripescata l’Altabella, si
passò
alla vera competizione. Essendo quella giornata di guerra ordinata,
ciascun
partito s’era ammassato sui due lati della riva e, fin dove
si poteva vedere,
esse brulicavano di lottatori. Il gruppetto di Hironimo si trovava per
loro
sommo smacco abbastanza indietro, rendendoli difficile la comprensione
di
quanto stesse avvenendo sul ponte.
“Ecco!
Ecco!”
Ricordato
a voce alta e intelligibile le “regole”, unico
momento
in cui il pubblico chetandosi ascoltava in rigoroso silenzio, i due
arbitri si
pararono di fronte agli angoli opposti dell’arena, abbastanza
da vedere ma non
dar esser coinvolti.
Un ultimo
attimo di apnea …
“San
Marco!”, gridarono i padrini, fuggendo via strategicamente e
la folla ruggì in coro il suo sfrenato entusiasmo.
In un sol
uomo le due fazioni si buttarono in avanti, spingendosi
furiose mentre lanciavano a loro volta urla sempre più
assordanti, tra
bestemmie e insulti, finché le prime file, sotto
l’effetto della pressione, e
le ali della compatta colonna di lottatori non cedettero e di botto
interi gruppi
di quasi sessanta persone caddero rovinosamente in canale a un tempo,
tra i
lazzi ingiuriosi e le risate sgangherate degli spettatori e della parte
avversaria.
I
lottatori rimasti all’asciutto invece corsero forsennatamente
fino al ponte nel tentativo d’attraversarlo e dunque
dichiarare chiusa la
partita, cozzando violentemente tra di loro come un’onda
sullo scoglio:
nell’impatto finirono o abbracciati o atterrati da una presa
brutale;
aggrovigliatisi in nodi di braccia e gambe, ci si spingeva di peso
dalla parte
opposta, o ricacciando via il nemico o avanzando sbuffando a guisa di
toro. Un
marcantonio di Castellano ghermì per il braccio e la gamba
un Nicolotto e,
sollevatolo di peso, lo lanciò giù dal ponte in
acqua, tra gli applausi del
pubblico in visibilio. Un Nicolotto invece saltò sulla
schiena, da dietro, di
un Castellano, che tentò di scrollarselo di dosso a guisa di
cavallo
imbizzarrito, intanto che quell’altro lo costringeva ad
inginocchiarsi. Cogli
avambracci si circondavano gole, ci si faceva vicendevolmente lo
sgambetto.
E poi,
ovviamente, volavano pugni come le dantesche schiere
angeliche, in un dolce coro di diretti, ganci e montanti.
Un
Castellano s’abbassò per schivare il gancio
d’un Nicolotto, per
poi bloccargli un montante di gomito. Un altro Nicolotto invece
schivò un
diretto in una piroetta ad U che provocò
l’involontaria, ma vantaggiosa, caduta
dal ponte di un Castellano (un letterale colpo di culo).
Laddove
fallivano i pugni compensavano i calci, mirando
soprattutto a stinchi e coglioni e chi aveva la miglior coordinazione
gamba-diretto sapeva colpire la virilità avversaria e subito
finirla tramite
sonoro cazzotto, spendendola a far compagnia alle anatre.
Un
Castellano intrecciò le mani per formar un solo pugno e lo
calò
tra le scapole d’un Nicolotto, tramortendolo e poi lo
calciò fuori dal ponte;
un altro Nicolotto si beccò un colpo alla tempia e non si
rialzò più. Un
Castellano invece si prese in testa un colpo che avrebbe ammazzato un
bue e
neanche quello diede più segni di vita; due contendenti si
appiattirono
contemporaneamente a gambe all’aria sulla pietra del ponte e
un Castellano
schiumante sangue dalla bocca attaccò in un balzo il
Nicolotto che si preparava
a dargli il colpo di grazia, stendendolo con un commuovente montante al
mento.
Uno
strano grappolo umano si formò ad un certo momento sul
ponte:
in una catena di prese per braccia, gambe, brache e capelli, alcuni
contendenti
penzolavano dalla struttura nel disperato tentativo di rimanere su,
incitati
dalle grida del pubblico scatenato e dall’esagitato
svolazzare di fazzoletti
dai balconi dei palazzi. I lottatori rimasti aggrappati sul ponte
tiravano su
tra fischi e sbuffi e sputi finché le vene del collo non li
s’ingrossarono
dallo sforzo; ahimè la forza del peso prevalse e tutto il
gruppo cadde in un
sonoro tuffo in acqua, bagnando anche i loro compagni sulla riva tra
grasse
sghignazzate di coloro che assistevano dalla gondola, divertiti sia
dagli
schizzi che dal piacevole moto ondoso provocato da quelle cadute.
I gruppi
retrostanti, tra i quali si trovava anche Hironimo,
incominciavano nel frattanto a scaldarsi, impazienti
d’entrare in azione.
“Spenzare!
Spenzare!”, si spronavano l’un l’altro e
anche il
giovane Miani spingeva il suo compagno davanti con ogni forza
concessagli dalle
braccia. Forti di quella nuova pressione, i Castellani guadagnarono
qualche
spanna al di là della metà del ponte, prontamente
bloccati però dai Nicolotti
che tenendoli fermi o intrecciando le mani o spalla contro spalla,
facendo
perno con le gambe assorbivano e ricambiavano tramite compatto muro
l’impeto
del loro assalto.
Ciò
frustrava le retrovie, stufe di spingere soltanto.
“Zò,
Anzolo, ti che te sé picinin, montame sora le
spae!”, gli
ordinò Zane, abbassandosi quel tanto acciocché
Hironimo potesse salirgli sulle
spalle e, issatolo, lo sbilanciò su quelle
dell’uomo davanti a lui e, trapezio
dopo trapezio, il ragazzo riuscì a portarsi più
avanti. Non fu il solo: molti
dei suoi compagni stavano salendo sui corpi dei loro compari,
arrampicandovisi
sopra e raggiungendo così le prime file che si trovarono il
pronto ausilio di
questo secondo piano di lottatori freschi e dalla mira eccellente.
“Toga
qua, bestia d’un Nicoloto, buso descusio,
magna-bifi!”,
berciò un Castellano vicino ad Hironimo, lanciando con
accurata precisione un
sasso contro un Nicolotto lì sulla riva opposta, colpendolo
alla spalla e per
la sorpresa questi cadde in acqua.
Al che il
patrizio, afferrata al volo l’antifona, senza saperlo si
ritrovò tosto ad imitarlo, e un’interrotta
lapidazione da far sembrare quella
di Santo Stefano roba da imbranati amatori si rovesciò sulla
parte avversaria,
la quale si vide dapprincipio costretta a riparare alla
bell’e meglio,
ingobbendosi.
Magro
vantaggio ché tali pratiche erano assai note: subito infatti
comparvero le retrovie dei Nicolotti che risposero con bombardate
altrettanto
gagliarde. In più occasioni un sasso o un piatto o un coccio
di ceramica
sfiorarono il giovane Miani, traendo all’occasione sangue se
questi era
appuntito. Nondimeno, pur dondolando incerto sulle spalle del suo
collega, era
difficile colpirlo giacché i suoi riflessi prontissimi lo
aiutavano, grazie
agli allentamenti alla pallacorda. Così, abbassandosi e
mostrando la lingua,
impallinava feroce il temerario ch’aveva osato scambiarlo per
un’anatra
selvatica, divertendosi un mondo.
I poveri
gondolieri dovettero intanto girare le imbarcazioni e
spostarsi, prima che la loro testa e la felze dei padroni si trovasse
nella
traiettoria dei contendenti. Qualche proiettile di fortuna arrivava
addirittura
dentro in casa attraverso le finestre, tutte saggiamente lasciate
spalancate.
“Lio!
Zò cossa fastu?”, gridò Hironimo al suo
compare, il quale si
stava scimmiescamente arrampicando su per il muro di un palazzo.
“A
catar copi!” (tegole, ndr.), gli rispose quegli, puntando al
tetto assieme ad altri compari. Una volta lì, il giovanotto
incominciò a
staccar le tegole e a lanciarle giù alla sua squadra,
accogliendole questi
simili ai rondinini col verme di mamma rondine. “Ciapa qua,
Anzolo!”, urlò Lio
e Hironimo si spostò cauto alla sua sinistra,
affinché le preziose munizioni
non cadessero per terra, frantumandosi e andando così
sprecate.
Sfortunatamente,
quella sua iniziativa lo distrasse, rendendolo
meno vigile alla mira nemica e una stoviglia di terracotta lo
colpì alla
coscia, sbilanciandolo in avanti. Se non fosse stato per un Castellano
dai
riflessi ben vispi, che lo catturò per il bordo delle braghe
e lo gettò
indietro, di certo Hironimo sarebbe cascato in acqua, coprendosi
conseguentemente
di ridicolo.
Inaccettabile.
Rabbioso,
il diciassettenne patrizio s’accucciò per terra e
incominciò a diselciare a mani nude la riva, onde procurarsi
le mattonelle
necessarie al bombardamento di quegli sfrontati scalzacani. Poco gli
importava
del sangue proveniente dalle unghie rotte, né del sudore e
degli schizzi
d’acqua salata che gli annebbiavano la vista. Munitosi
finalmente, Hironimo
sgomitò per portarsi più presso al ponte e da
lì riprese a lapidare i Nicolotti
ai lati della struttura, permettendo così ai Castellani in
prima fila di
avanzare di qualche passo.
La
piccola vittoria diede nuovo impulso alla squadra e il Miani
venne spinto anch’egli in avanti, finalmente mettendo piede
sul primo gradino
del ponte. Un passo e un passo ancora e senza neanche rendersene conto,
eccolo
faccia a faccia coi Nicolotti.
Una folle
euforia invase il ragazzo, che di riflesso alzò gli
avambracci pronto a parare i colpi e di fatti la sua preparazione
ginnica gli
fornì un pronto vantaggio contro la tecnica assai
raffazzonata dei suoi
avversari, i quali sì possedevano una forza notevole, ma
lasciavano moltissimi
punti scoperti e lì Hironimo colpiva spietato, fosse
all’addome, al fianco, sul
volto.
Colpiva,
indietreggiava, colpiva e indietreggiava, un diretto, poi
abbassamento, parata, schivata, gancio, flessione laterale, gancio,
rotazione,
bloccaggio e infine un bel montante sotto il mento che mai faceva male
(per
lui). Se non si fosse trovato in uno spazio sì ridotto e
asfissiante,
stritolato infatti dai robusti corpi dei suoi compari e avversari, di
sicuro
avrebbe anche potuto divertirsi di più tramite un grazioso
gioco di gambe,
sebbene tali raffinatezze, ragionò, erano sprecate in quella
grande zuffa
plebea. Ma oh! come se la sarebbe spassata alla prossima lezione di
pugilato
nella sala ginnica! I suoi amici, a parte qualche tafferuglio al
Carlevar, non
avevano mai fronteggiato veri avversari che menavano sul serio e non
per futile
gioco, o per guadagnar tempo e scappar via dagli Zaffi. Questo era il
suo
battesimo di fuoco e, superatolo, nessuno l’avrebbe mai
più sconfitto nelle
risse!
Tra i
Nicolotti, intanto, serpeggiavano occhiatacce malevoli e lo
sdegno misto al sospetto li portò alla conclusione che i
Castellani stessero
barando, avendo arruolato tra le loro fila un professionista, anche se
giovanissimo, forse figlio di qualche condottiero che sperava di
attirare
l’attenzione della Signoria in vista d’un futuro
ingaggio. Beh, anche no!
Hironimo
aveva appena steso l’ultimo suo avversario che un altro
subito lo sostituì e con esso il luccichio di qualcosa di
metallico, un pugnale
che teneva attaccato dietro alla cintura nera. Panicando, il ragazzo lo
afferrò
in tempo per il polso, bloccando la punta della lama a qualche dito dal
suo
viso; un suo compare da dietro tentò di spinger via il
contendente, ottenendo
però come risultato che sia lui che Hironimo si
sbilanciarono e caddero per
terra, a qualche spanna dal lato esterno del ponte.
“Corteli!
Pugnai! Arme! Arme!”, corse veloce l’avviso tra i
Castellani di sfoderare le loro di armi e di gettarsi nella pugna o,
per chi
era troppo lontano, di lanciare direttamente i pugnali e stiletti
contro i
Nicolotti, infilzandoli.
Il sangue
schizzava dappertutto, tingendo l’acqua e il selciato e
i bordi (o ciò ch’era rimasto) delle rive, in un
gran mattatoio che ricordava
quei sacrifici umani ai tempi degli Antichi o gli spettacoli gladiatori
negli
anfiteatri romani; grida, ringhi e gemiti cozzarono tra di loro
così come i
metalli nemici sfrigolavano avidi, alterandosi a pugni, morsi e
stramusoni
conditi di mattonelle. Qualcuno perse un dito, chi un pezzo
d’orecchio, chi un
occhio, chi qualche dente (o una fila di essi), chi la punta del naso,
chi
rimase sfregiato sulla guancia, chi si morse a sangue la lingua, chi si
trovò
strisci più o meno profondi sul petto, sulla coscia, sulla
braccia, chi per
poco rimase castrato e chi se ne andò direttamente al
Creatore.
La
disfida degenerò presto in una carneficina per il sommo
gaudio
degli spettatori, i quali giubilavano in estatica frenesia, battendo le
mani e
ridendo senza manco saper perché, gridando, contorcendosi
più dei posseduti dai
demòni, i capelli e gli ambiti scomposti, le lingue fuori e
penzoloni, i denti
ben in mostra, qualche filo di saliva che li scivolava dal tanto
strepitare, i
petti ansanti, gli occhi spalancati, convulsi, spirati e non
ragionavano più,
dimentichi di ogni pietà umana e colmi di perversa
esaltazione e furore,
arrivando ad abbracciare o a strusciarsi non visti con bestiale foga
sulla
compagna accanto, scene da baccanali dei più tremendi.
La
catarsi tramite la mattanza.
Tale
furia, figlia della vergogna e della paura, aveva contagiato
anche Hironimo, steso supino sul bordo del ponte, intrappolato dal
pesante
corpo del suo avversario che ancora tentava d’infilzarlo con
pugnale. Il
Nicolotto era riuscito a graffiagli ambedue gli avambracci, tuttavia il
piede
del patrizio sul suo addome gli impediva di calare oltre la lama, la
quale da
degna emula di quella di Damocle seguitava a penzolare minacciosa
all’altezza della gola. La presa stessa
del Miani, perfezionata
tramite l’apprendimento preciso e raffinato da un maestro,
aveva bloccato i
polsi dell’uomo e il diciassettenne ogni tanto premeva coi
pollici sui
legamenti o li storceva appena, provocandogli notevole dolore.
I due
rimasero bloccati in una vera prova di forza, laddove
avrebbe vinto chi dei due sarebbe resistito più a lungo,
trovando magari una
debolezza nell’altro e sfruttandola per ribaltare la
situazione.
In
questo, per quanto allenato, la giovane età non venne in
soccorso
ad Hironimo, né la sua vita relativamente comoda di
patrizio, giacché al
contrario il Nicolotto sopra di lui doveva di certo lavorar come
facchino o
comunque un lavoro di elevata forza fisica ché la gamba del
ragazzo si piegò
sotto il suo peso e il viso furente di questi
s’avvicinò ulteriormente a quello
di Hironimo, tanto che poté sentirne l’alito caldo
e qualche goccia di sudore e
saliva bagnargli la faccia. Pur bruciandogli i muscoli delle braccia,
il
giovane Miani digrignò i denti e s’impose di non
cedere alla pressione
esercitata dal Nicolotto, il quale lo fissava con una tale espressione,
che
nulla più possedeva di umano, una maschera da incubo rubata
a qualche demone
nei dipinti fiamminghi. Lo voleva ammazzare e ammazzato lo avrebbe,
inutile appellarsi
alla ragione. Al diciassettenne sfuggì una risata isterica:
se soltanto quel
folle avesse saputo chi s’apprestava a pugnalare! Si sarebbe
degolato da sé,
prima di levar la mano contro un patrizio!
La
risatina offese a morte il Nicolotto, ignaro dei pensieri del
ragazzo sotto di sé; premendogli le ginocchia sotto i
glutei, prese a spingerlo
oltre il bordo del ponte ed ecco che il giovane Miani si ritrovava
mezzo
sospeso nel vuoto a contemplare San Barnaba a testa ingiù.
In questo modo non
riusciva a coordinare i suoi movimenti, né a prevedere
quelli dell’avversario,
il sangue gli fluì alla testa e la sua difesa cedette di
conseguenza.
Sicché,
abbandonandosi all’istinto, il patrizio strinse gli
addominali e issandosi come durante gli esercizi puntò al
setto nasale
dell’uomo, elargendogli una poderosa testata che lo
sbilanciò all’indietro, le
mani corse all’osso rotto.
Hironimo
avrebbe allora potuto rifilare un dritto o un gancio
all’addome del Nicolotto. Oppure spingerlo o lontano da
sé o direttamente in acqua.
Avrebbe potuto approfittarne per gattonare via. Avrebbe potuto
tramortirlo
tramite una tallonata sulle palle e passare al prossimo.
Ma non lo
fece. O non poté farlo. Non lo sapeva, non capiva
più
niente, quanto accadde lo osservò con tale distacco che
quasi gli parve esser
un’altra persona, uno dei tanti spettatori di quella macabra
disfida.
Vide la
sua mano correre autonomamente verso il pugnale,
disarmando il gemente avversario.
Vide il
suo braccio levarsi, rapido e letale come insegnatogli dal
maestro di scrima.
Vide la
punta affondare precisa nella carne tenera della gola.
Vide il
sangue sprizzare e lordargli il volto quando la ritrasse.
Vide
l’espressione sconvolta, tradita, terrorizzata
dell’uomo.
Vide il
corpo del Nicolotto tremare convulso e rimbalzare nella
sua caduta prima per terra e poi in una grassa scia di sangue scivolare
in
acqua.
Rigiratosi
prono e aggrappatosi incredulo al bordo del ponte
pregno di sangue, Hironimo seguì ipnotizzato
l’affioramento del cadavere del
suo avversario in superficie, il rosso sulla pelle lavato via
dall’acqua, la
quale dondolava il morto assai dolcemente, quasi lo ninnasse materna
verso il
sonno eterno.
Ho
ucciso un uomo?, si
chiese disorientato il ragazzo,
scoprendosi ancora stretto il pugnale tra le dita insanguinate, il viso
gocciolante di sangue e sudore.
Era stato
dunque così facile? Recidere una vita, scendere
nell’Ade
era dunque così semplice, questione di qualche istante?
Giorni, mesi, anni per
formare un essere umano e un battito di ciglia per annullarlo? Come se
non
fosse mai esistito?
Ho
ucciso un uomo.
Anche
Padre era morto così, in un battibaleno, la sua esistenza
cancellata tramite gesti così banali? Neanche i suoi
carnefici stessero
sopprimendo una bestia?
Ho
ucciso un uomo.
Così
poco valeva la vita umana, così fragile da non metterci
niente per distruggerla?
Ho
ucciso un uomo.
Perché
quel Nicolotto voleva ucciderlo? Che gli aveva fatto
Hironimo di male?
Perché
quegli ignoti avevano ucciso Padre? Che li aveva fatto lui
di male?
La lama
tremò.
Ho
ucciso un uomo.
In un
balzo felino, Hironimo si ritrovò in piedi e cacciando un
urlo spaventoso si gettò su di un avversario a caso,
mulinando il pugnale a
destra e a manca, colpendo dove colpiva, senza tecnica né
scopo, tranne quello
di trarre sangue.
Ho
ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo. Ho ucciso
un uomo.
Non
c’era niente di eroico nella morte. Niente. Un animale che
uccide un altro animale. Semplice. E poi il nulla.
Molto
probabilmente, il ragazzo aveva osato spingersi troppo in
là, mancandogli di conseguenza il sostegno della sua
squadra. La stanchezza poi
di ore di combattimento gli avevano appesantito le braccia, rendendolo
goffo e
pesante nei movimenti e nelle sue reazioni. Sicché un pugno
allo zigomo gli
fece ruotare la testa, annebbiandogli la vista e un altro
all’addome gli mozzò
il fiato in gola, togliendogli l’equilibrio. Il mondo prese a
vorticare in una
sequela di sferzanti luci, di colori mischiati selvaggiamente tra di
loro e lo
stridulo rimbombo delle grida concitate dei lottatori e in questa
fantasmagorica gagliarda Hironimo sgambettò e
roteò sconclusionatamente, ogni
appiglio perduto così come il dominio sul proprio corpo,
ridotto ad instabile
marionetta.
Un paio
di mani (o tenaglie a forma di mani) non tardarono ad agguantarlo
e, in una buffa capriola, il diciassettenne patrizio volò
letteralmente giù dal
ponte, e trovò curioso il modo in cui il mondo si rovesciava
e roteava fino a
terminare inghiottito nel verde-bluastro delle acque del
canale.
L’impatto
dell’acqua sulla schiena non si rivelò tanto
atroce
quanto temuto dal Miani, il quale affondava rotolando in una grande
scia di
bolle. Né l’acqua fredda gli dispiacque, semmai
l’aiutò a ritrovare la calma,
sentendosi dopo tanto tempo in pace con se stesso, sensazione provata
soltanto
in sella ad Eòo. Neanche s’avvide di come non
riuscisse più a muovere un sol
dito, la mente intorpidita dal cazzotto ricevuto da rendergli
impossibile ogni
azione e confuso ogni pensiero.
Lì,
sottacqua, le grida, i tonfi, ogni suono gli giungevano
ovattati, sgradevoli echi lontani da cui desiderava alienarsi. I raggi
della
luce filtrati dall’acqua creavano piacevoli veli da cui
lasciarsi accarezzare,
mentre il suo corpo, pesante, scendeva, scendeva … le sue
braccia immobili tese
verso l’alto come in preghiera e i capelli fluenti a guisa
d’alghe lo
incoronavano di scapigliata leggerezza
… accompagnato dal profondo
sospiro del mare, quella voce greve e costante che cullava i marinai
caduti
nell’abbraccio della capricciosa Thalassa, addormentandoli
per sempre tra le
sue cupide braccia … quella voce che soltanto i delfini e
gli altri animali
marittimi conoscevano … quella voce antica come il mondo e
che non poteva
offendere, che tutto azzerava …
Il mondo
finalmente distante, sigillato dalla superficie
dell’acqua, e con lui ogni suo dolore. Il sangue
più non macchiava né le sue
mani né il suo corpo; si sentiva libero e leggero, come le
farfalle. E forse
anche la sua anima sarebbe volata via, ricongiungendosi al Nicolotto
della cui
vita egli aveva così crudelmente disposto, ricongiungendosi
magari anche a
quella di Padre …
Libero,
libero da quell’odiosa crisalide!
Hironimo
chiuse gli occhi, soffocato dall’ultima vertigine
provocatagli dal cervello concusso, ma ecco che questi gli
proiettò dinanzi al
posto del buio sempiterno l’altorilievo della Madonna del
Paveio di Treviso, i
cui occhi di pietra dalla farfalla si spostarono sul ragazzo, infelici,
quasi
stesse per piangere.
Figlio
mio, Momolo mio, cosa fai?, udì egli
la Sua voce dolente, curiosamente assai simile a quella di Madre.
Due
enormi bolle fuoriuscirono dalle narici del giovane e una
dalla bocca l’avrebbero presto seguite, se egli, ripresosi
dal suo
incantamento, non avesse saggiamente serrato le labbra e trattenuto in
gola
quel poco preziosissimo fiato rimastogli. Dominando
l’istintiva reazione di
dimenarsi scoordinatamente e così sprecare energie e
ossigeno, Hironimo sciolse
il nodo della camicia e come di lei si sbarazzò anche delle
braghe, i vestiti
pregni d’acqua trasformatisi infatti in ulteriori pesi che lo
trascinavano in
basso.
Stese le
braccia in avanti a forma di cuore, ma stavolta per darsi
propulsione in avanti, sostenuta dalla spinta della gambata che lo
avvicinò
alla superficie.
Bracciata,
gambata – su! Bracciata, gambata – su! Dai, Momolo,
dai
che sennò arrivi ultimo! Bracciata, gambata – su!
Le mani
del ragazzo s’artigliarono alla cieca al primo oggetto
solido ad esse reperibile, ottimo punto d’appiglio per lo
sforzo finale:
imitando uno di quei tritoni tanto amati dai pittori nei loro trionfi
di questa
o quella divinità classica, il giovane Miani
sfruttò l’ultima leggerezza
concessagli dall’acqua per sollevarsi in alto e lasciarsi
cadere pesantemente
scomposto e supino a bordo di quella che scoprì trattarsi di
una gondola. La testa
parve volergli scoppiare quando la batté sul duro legno.
Neanche
il tempo di giustificarsi coi proprietari della gondola,
che i suoi polmoni si contorsero in fiamme, lo stomaco sottosopra e
disgustato
dall’effetto purgante dell’acqua lagunare,
sicché il giovane patrizio riuscì
nella notevole impresa di tossire e allo stesso tempo rigettare vomito
e acqua,
perlomeno quest’ultima parte a carponi a babordo, fuori
dall’imbarcazione.
Grugnendo, respirò affannosamente l’aria
ritrovata, gli occhi brucianti dalla
salsedine, scostandosi le ciocche bagnate dalla faccia e rabbrividendo
al
contatto dell’aria pomeridiana, le tempie che gli battevano
alla stregua dei
tamburi di galea.
“Momolo?!”
L’interpellato
in questione si bloccò all’istante, tramutato in
sale neanche fosse la seconda moglie di Lot. [5] Circospetto si
voltò verso la
famigliare voce che lo chiamava, sperando che appartenesse a chi lui
sperava.
Poiché se si trattava di un suo parente, nulla
l’avrebbe sottratto all’orrido
destino del sileno Marsia, altroché. [6]
“Patrona
…”, mormorò in un buffo singulto, la
bocca storta in una
smorfia incerta tra l’accattivante e il dispiaciuto per
quella sua insolita
invasione dell’altrui gondola.
Luzia
Trivixan, cortigiana "honorata", virtuosa del canto
d’eccellentissima fama, figlia di Apollo, musa ispiratrice
dei più celebri
musicisti e compositori di Venezia, generosissima mecenate e amante
preferita
di suo zio Batista lo fissava imbambolata, il ventolino levato a
mezz’aria
quasi la donna fosse incerta se sventolarsi o picchiare Hironimo con
esso.
Fossero
quelli stati altri luoghi e altre circostanze, onestamente
al ragazzo non sarebbe dispiaciuto trovarsi in mutande a tu-per-tu con
la Diva.
Al contrario, una subitanea verecondia lo colse traditrice e il
patrizio si accovacciò
su se stesso nel goffo tentativo di celare simultaneamente petto e
inguine,
maschile imitazione dell’Afrodite Accovacciata dello scultore
greco Doidalsa.
La
cortigiana, appurata l’identità
dell’ospite imprevisto, abbassò
il ventolino di damasco, tirando un grande sospiro di sollievo.
Sorridendogli
amabile e intuendo al volo i come e i perché di quella
bizzarra entrata in
scena, Luzia staccò la spilla di diamanti e si sciolse
l’ampio zendale di seta
dalle spalle, che usò lesta per coprire Hironimo,
suggerendogli cogli occhi
intelligenti di sgattaiolare dentro la felze, operazione resa assai
complicata
dalla scoordinazione motoria del ragazzo, ancora mezzo intontito sia
dai pugni
ricevuti in testa che dal mancato annegamento e di fatti, nella felze,
egli
c’entrò a guisa di granchio.
“Ohé,
Luzietta”, cinguettò da una gondola vicina
Francesca
Ordeaschi, altra nota cortigiana honorata d’esotica bellezza,
vestita quel giorno
d’un eleganza strepitosa, di damaschetto dai fiori
d’oro e argento trapuntati
di perle, che pareva la dea Flora reincarnata. La sua imbarcazione,
contrariamente a quella della Trivixan, ospitava tre gentiluomini,
segno che la
Ordeaschi ben conciliava il negotium all’otium. “No
xélo un fià presto per la
pesca de’ bisati?”, alluse maliziosa, indicando
celere tramite il ventalino la
figura snella e muscolosa d’Hironimo seminascosta dalla
felze. Tanto colta e
raffinata quanto subdola e intrigante, quell’ambiziosissima
figlia di nessuno
qual era Francesca Ordeaschi non mancava di metter alla prima occasione
disponibile in cattiva luce le sue colleghe per accaparrarsi gli uomini
più
potenti e ricchi, sicché le cortigiane in sua presenza si
comportavano in
maniera ancor più guardinga e artificiosa, onde non esser
colte in fallo,
arrivando perfino a spiarla a loro volta tramite gli stessi clienti che
l’Ordeaschi intratteneva così da anticiparne le
mosse.
Luzia
medesima, pur all'apice della sua carriera, aveva
guerreggiato gagliardamente contro Francesca, la giovane e fresca nuova
arrivata, sennonché il suo talento canoro e nella musica in
generale le avevano
ritagliato una clientela, seppur di nicchia, alla temuta rivale
piuttosto
inaccessibile per quanto si sforzasse.
Affatto
intimorita da quella velenosa frecciatina, la cantante
rise dunque piena di sarcastica nonchalance, allargando le braccia e
roteando
enfaticamente i polsi similmente a quando s’esibiva per il
suo pubblico. “Oh
cara”, tintinnò soave la sua voce simile a mille
campanelli scossi dal vento,
“io son la Ciprigna Venere, che, poscia la dura pugna,
consola tenera tra le
candide sue braccia il bello e indomito Marte,
l’Andreiphontês, il
Miaiphonos!”, gorgheggiò la sua gola
d’usignolo in improvvisato canto, sicché
la battuta canora piacque agli altri astanti lì vicini, che
applaudirono impressionati.
L’Ordeaschi
arricciò furbetta la carnosa bocca sensuale,
replicando altrettanto ampollosamente: “Ch’el
povero Vulcan vostro non
vi sorprenda!”
“La sua Venere
saprà far giusta ammenda!”, la
rassicurò canticchiando la Trivixan, inchinandosi affettata
e, raggiunto il suo
ospite nella felze, calò i drappi laterali, concedendosi
così un po’ di
privatezza senza però rinunciare al cruento spettacolo
dinanzi a sé sul Ponte
dei Pugni. “Dorondòna petegola”,
commentò sbuffando, sventolandosi imbronciata
il ventalino.
“Oh,
poareto ti”, si concentrò poi Luzia sul suo
protetto,
sistemandosi tra i morbidi cuscini di velluto all’interno
dell’elegante felze e
invitando Hironimo ad imitarla, il quale
s’accoccolò al suo fianco, attirato
dal sia dal calore sia dal profumo di lei che gli ricordavano le
melagrane
settembrine. La cantante gli sistemò sopra una leggera
coperta, studiando con
materna apprensione i lividi sul volto e il grumo di sangue tra i
capelli
impiastricciati tra loro. “Cossa
gh’hastu combinà? Vardate, te xé
mojo chome un arnàto! [7] Che labbra blu!”, scosse
il capo, accarezzando
dolcemente e senza alcun fine di seduzione il corpo pieno di tagli e
ecchimosi
del ragazzo, il quale starnutì, stringendosi più
presso lo zendale sotto la
coperta. “Non ti sarai mica buscato qualche malanno? Tremi
neanche avessi la terzana!”
“No,
no, siora patrona, sto bene”, la rassicurò
Hironimo,
rendendosi conto solo in quel momento di come effettivamente stesse
battendo i
denti e di come le sue mani si muovessero autonomamente in convulsi
spasimi. Le
vertigini ancora non l’avevano abbandonato e gli stava
sorgendo un gran sonno,
cui il solo cicalare dell’amante dello zio gli impediva di
abbandonarvisi.
Sebbene
la bocca della cortigiana continuasse a rimanere fissa in
un tenero sorriso, in realtà il progressivo avvicinarsi
delle sue sopracciglia
tradiva il suo scetticismo. “Vieni, posa qua la tua
testina”, tamburellò le
lunghe dita bianche e affusolate sulle sue ginocchia. Quando
l’ebbe dove lo
voleva, Luzia prese a tamponargli col fazzoletto il sangue dalla ferita
sulla
testa, per poi esclamare sconvolta: “An, Momolo! Guarda le
tue povere mani! Erano
così belle, chi m’accompagnerà col
liuto, quando canto per il tuo avunculo?”,
lo acchiappò per un polso e contemplò mesta le
nocche sbucciate e le dita gonfie
della mano sinistra, avendo il giovane Miani menato pugni anche con
quella nuda
del guanto. Neppure la destra se la passava tanto bene e al ragazzo
dispiacque
aver intristito così la Trivixan, la quale traeva grande
diletto nel sentirlo
suonare durante i privati concerti famigliari, anche se la sua tecnica
era da
amatori se equiparata ai veri virtuosi che frequentavano la casa della
cortigiana.
“Non
lo so, forse il Bortolo Trombonzin Veronese?”,
replicò il
giovane, tingendo di stizza quella che doveva essere una battuta di
spirito. “Si
racconta in giro come voi due siate divenuti amici assai intimi
…”
Luzia
gettò indietro il capo, ridendo allegramente. “An,
lui lo
invito soltanto per suonarmi le sue ultime composizioni
(così da ottenere
qualche copia gratuita dei suoi spartiti) e per discutere sul serio di musica, mica per finta come
faceva a Mantoa, coi siori
Marchesi! Se lo sapesse quella spocchiosa sgrandezona della Marchesana,
che ha
sempre voluto il maestro Bortolo tutto per sé! Non ti pare
divertente, Momolo,
come io possa avere ciò che quella gran dama
d’Yxabela d’Este non avrà
mai?”, si
portò una mano sulla serica pelle del petto, asciugando
qualche molesta goccia
d’acqua. “Sta de bona voja, petusso mio, conosco
quale pensiero ti turba: non
ho promesso nulla al sior Bortolo, figurati se mi prendo per amante uno
che ha ammazzato
la moglie. Non m’importa che i siori Marchesi
l’abbiano perdonato, non m’importano
le giustificazioni di lui, di come avesse trovato la sua siora Antonia
in letto
col ganzo. Ha ucciso e questo mi basta. Ché! Crede forse che
io sia nata ieri?”
“Se
v’insolenta, se vi fa torto,
lo ammazzerò!”, le promise veemente Hironimo,
fissandola serissimo. Non
scherzava, ora che aveva visto quant’era facile sopprimere un
individuo, non ci
avrebbe pensato due volte a spedire quel veronese a far compagnia a sua
moglie
Antonia, se questi avesse osato levare la mano contro la loro
Luzietta. Non
siamo tanti dissimili, lui ed io - ammise
a malincuore.
“Ora
lo so”, ammise gravemente la cortigiana, ogni frivolezza
sparita dalla sua voce cristallina, come se potesse scorgere la
differenza nei
suoi occhi nerissimi, dell’Hironimo prima e dopo la Guerra
dei Pugni.
Non
l’aveva d’altronde chiamato Marte
Andreiphontês, l’assassino
di uomini e Marte Miaiphonos, il macchiato di sangue? La Trivixan non
sceglieva
mai a caso le sue parole, men che meno se pronunciate in pubblico e
dunque ella
sapeva o poteva intuire ciò che il giovane Miani aveva
compiuto nella
confusione della mischia. Ciononostante, la grande virtù
delle cortigiane era
la riservatezza e il rispetto delle confidenze dei propri clienti,
più fedeli
loro dei preti nel custodire ogni segreto. Luzia non gli avrebbe posto
domande
né avrebbe spifferato quanto accaduto allo zio Batista. Era
al sicuro, concluse
sollevato l’adolescente, mentre si strofinava via invisibili
macchie di sangue
dalle mani, non ancora avvezzo a quella viscosa sensazione
né la sua mente
ancora provata dalla concussione capace d’elaborare i recenti
avvenimenti.
Per il
rotto della cuffia vinsero i Castellani, annunciando per i
giorni a venire grandi festeggiamenti. Al suono di tamburi avrebbero i
vincitori percorso tutti i sestieri della loro fazione –
Castello, San Marco e
parte di Dorsoduro – in barche cariche di ghirlande e
adornate di fiori. I
patrizi lì residenti li avrebbero compensati dispensandoli
di vino e denaro e per
tutta la notte i loro allegri e grossolani schiamazzi avrebbero tenuto
sveglie
le contrade, tra cortei alla luce delle torce e festini improvvisati in
piazze,
campi e campielli.
Sarebbe
stata invero una gran bella festa, peccato che Hironimo
non se la sentì di parteciparvi, troppo scosso dalla recente
svolta della sua
vita, per quanto ardentemente desiderasse conoscere le sorti di Zane,
Nico e
Lio, se se la fossero cavata, tornando alle proprie case abbastanza
integri da
festeggiare la meritatissima vittoria.
Gentilmente
accompagnato in gondola da Luzia, Hironimo risalì di
nascosto le scale di Ca’ Miani con l’obiettivo di
sgattaiolare in camera sua e
infilarsi sotto le coperte prima che rincasassero i suoi famigliari e
il suo
piano avrebbe anche funzionato, se l’Orsolina non
l’avesse pizzicato proprio
all’uscio della sua stanza, quell’infallibile can
da guardia, manco avesse
annusato la sua presenza. Gli bastò uno sguardo per capire
come l’anziana
fantesca sapesse benissimo dove e cosa il padroncino avesse
combinato -
mal di pancia, invero!
“Seu
ussito de menocca, patron? Xéle cosse da far? Un patricio
chome vuj, comportarse da ultimo de’ villani!”, lo
rimproverò aspra la donna,
seguendolo imperterrita quando uno snervato Hironimo che manco la
filò,
preferendo entrare in camera sua tra sonori sbuffi e spazientiti
roteare di
occhi.
“Molighe,
Orsolina, ti me dà astio!”, berciò,
massaggiandosi le
tempie doloranti. “O se proprio no te pol star zitta, almanco
parla più pian,
chea vaca!”
Figurarsi
se la massera si scoraggiò davanti a tal impertinenza.
“Gh’avé mentio a la siora vuostra Mare e
al sior Zuan Francesco; seti scapà via
de chaxa pèzo d’una pantegana,
gh’avé robà i vestij dil nezzo mio.
Seti tornà
ndrio nudo bruco, pituffao bacalà, cum dosso el zendal
d’una putana! Gh’avo da
continuar? Che turcherie faseu, patron? E per cossa? Per ciaparve a
schiaffazze
cum cuatro sbisai e bastasi?”,
s’appoggiò bellicosa le mani sui fianchi.
“Ih,
quante storie!”, scrollò incurante Hironimo le
spalle,
aprendo il cassone alla ricerca di un paio di mutande asciutte, tirando
rapido
indietro le mani quando la fantesca, comparendo
all’improvviso, gli richiuse di
malagrazia il coperchio. “Zò, matta! Mi vuoi
spezzare le dita?”
Orsolina
lo guardò in cagnesco, i suoi occhi grigi, così
terribilmente
simili a Padre, saettanti di collera. “Storie? Ve podevate
morir mazato lì! Sì
horra i festejan, perhò saveu anca di tuti quei omeni, che
stanote no torneran
pì da le lhoro fameje? Che xéli morti ni per lo
stato ni per la fede ma per na
baruffa?”
La
banalità della morte, elargita così, senza un
perché.
Anche
quel Nicolotto lo sapeva a cosa sarebbe andato incontro quel
giorno? Aveva immaginato che quel letto da cui s’era alzato,
quella famiglia da
cui s’era congedato, mai più l’avrebbe
rivisti e non per via di una guerra
bensì per uno sciocco divertimento? Per una
rivalità oramai vecchia come il
cucco?
S’era
reso conto di ciò, mentre rendeva l’anima al
Creatore?
“No
gh’aveu pensà a la siora vuostra Mare?”
I denti
di Hironimo stridettero tra di loro. “Avevo calcolato ogni
rischio, mica sono andato allo sbaraglio, io. Non ho corso alcun
pericolo, mai,
neppure per un istante. Volevo divertirmi un po’, ecco tutto!
Sapevo quel che
facevo!”
Sì,
certo che il Nicolotto lo sapeva così come tutto
ciò ch’era
successo, l’aveva voluto a suo danno. Nessuno
d’altronde lo aveva obbligato a partecipare
o ad attaccarlo con un pugnale in mano, di certo il fisico non glielo
aveva
consigliato per migliorare la sua salute! Di sua iniziativa aveva
gareggiato,
di sua iniziativa aveva tentato d’accoppare Hironimo, il
quale s’era soltanto
difeso, non aveva fatto nulla di male! Se lo aveva ucciso,
s’era trattato di un
disgraziato incidente, lamentevole, però così
andava il mondo e perché dunque
addolorarsi? Quanti prima di lui aveva ammazzato quel Nicolotto senza
starci
troppo a meditare su, a compatirsi?
Inoltre,
tutti quei suoi allenamenti nella disciplina marziale non
avevano forse l’obiettivo ultimo di fronteggiare la morte?
Dov’era quindi in
quanto da lui compiuto la stranezza, lo scandalo, il rimorso che la sua
coscienza stava cercando d’inculcargli?
“Bagolo?
Bagolo?”, (divertimento, ndr.) si strozzò per poco
Orsolina con la sua medesima saliva, ascoltando incredula quelle
barbarità.
“Voléu copar de doja (dolore,
ndr.) la siora vuostra Mare per dil …
bagolo?!”
“Ancora
una parola e a finire ammazzata sarai tu!”, ruggì
il
ragazzo, scattando in piedi e premendosi i pugni agli occhi, onde
scacciar via
sia l’implacabile emicrania sia la tremenda immagine di Madre
piangente sul suo
corpo immobile e tumefatto, così com’era avvenuto
sette anni addietro con
Padre.
“El
sior vuostro Pare, anca se da zovene l’gera stà
assa’
salvadego, no se gh’ha mai portà da bestia!
Mai!”
“Io
non sono il mio sior Pare!”
“Donca
saria mejo par vu tuore esempio da lu!”
“Oh,
certo! Adesso corro a prendere la corda e vado ad impiccarmi
a Rialto!”, si portò Hironimo la mano alla gola,
fingendo di stringere.
Orsolina
impallidì, la bocca piegata in una smorfia disgustata.
“Talvolta, gh’ho da dirvelo, vuj seti squasi na
desgrassia per sta fameja”,
sentenziò delusa, incrociando le braccia al petto e
dirigendosi in un furioso
sgonnellare fuori dalla stanza. “Poara Patrona, cossa la
gh’ha combinà per
meritarse un fio cussì turcho …”
“Dove
vastu?”, la bloccò subito Hironimo, temendo
ch’andasse a far
la spia con Madre o coi fratelli.
“A
pareciarve el bagno: un corno che vuj me spusolenté de
freschin
i nezuòi (lenzuola, ndr.) néti!”,
ribatté pragmatica la fantesca dal corridoio.
Quand’ecco
ch’ella cangiò idea, ritornando sui suoi passi e,
afferrato il ragazzo per il polso, se lo trascinò seco nelle
cucine. A
quell’ora l’intera servitù
s’era riversata in piazza a godersi i festeggiamenti
e pertanto quell’ambiente di solito brulicante di gente e
d’attività giaceva in
un rilassante silenzio, vuoto.
Orsolina
pigliò la tinozza e due pingui brocche di rame,
dall’acqua ancora calda. In questo modo avrebbe nettato prima
il padroncino,
senza destar troppi sospetti in un viavai d’utensili per il
bagno. Insaponato
ben bene il diciassettenne patrizio, gli rovesciò indosso il
contenuto e
Hironimo trasalì dal cambio di temperatura e dovette
soffiarsi il naso,
essendogli entrata fastidiosamente dentro dell’acqua e pure
un poco sputacchiò.
“Mi vuoi annegare, furbastra?”, la
rimbeccò stizzito, scostandosi i capelli
divenutigli sul viso una tenda da finestra. Almeno, constatò
rincuorato, la
ferita sulla testa aveva smesso di sanguinare, sebbene pulsasse peggio
d’un
cuore.
“V’eo
meritarave!”
“Puoah,
vecia bacuca!”
“Varda!
Varda che bote! Perché ve voléu tanto mal,
patron, da
farve petuffar? Manco gh’avesse vuj chissà quali
pecai d’espiar! Mi sun segura,
che gnanca quei pia-gno-ni a Fiorensa xéli cussì
mati!”
“Perché
lo faccio? Fatti miei. E comunque, vecchia ignorantaccia,
quei piagnoni fiorentini erano matti,
li hanno arrostiti tutti
alla stregua di fagiani.”
“I
gh’ha fato ben, i gh’ha fato! Massa premura (zelo,
ndr.) de
religion, porta solum on gran mal de stomego.”
“Fai
attenzione alle tue parole, ché il sior pare del
“Pizzocchero”
da sant’uomo che l’è, dal Ciel te
scolta, te varda, te judega!”
“Bah,
piagolo!”, grugnì scocciata la fantesca che
afferrò la
seconda brocca, esitando però un attimo. “Patron
Momolo”, gli disse invece
serissima, “mi no vago a contar gnente a la siora Patrona
vuostra Mare, perhò
vuj m’avé da zurar che mai pì
parteciparé a la Guera di Pugnazi.”
Hironimo
si morse indeciso il labbro inferiore, cogitando quali
dei due mali fosse il peggiore: se rinunciare a tal pericolosa
però esaltante
competizione oppure se provocare un coccolone al cuore a Madre,
informandola di
quel suo violentissimo passatempo.
Mentre
valutava i pro e i contro il suo sguardo cadde sulle mani
appoggiate ai bordi della tinozza, a com’erano state lorde di
sangue.
Ho
ucciso un uomo.
“Te
lo giuro.”
“No,
patron, vuj gh’avé da zurar sora l’archa
dil sior vuostro
Pare.”
Le sue
dita erano talmente gonfie, che il solo schiuderle gli
risultava doloroso. Ciononostante non rimpiangeva quella sua
esperienza. Era
stata … liberatoria, quasi catartica.
“Lo
giuro sull’arca del mio sior Pare.”
Orsolina
fu di parola e così anche Hironimo, ritornato docile al
suo ruolo di spettatore passivo, all’occasione in compagnia
di Luzia, assai
divertita la cortigiana da quel loro segreto.
“Siora
Mare?”
“Dimmi,
Momolo.”
“Padre
aveva ucciso?”
“In
guerra diviene purtroppo una necessità.”
“Anche
se è condannata nei Dieci Comandamenti?”
“Se
fossimo perfetti, vivremmo ancora nel Paradiso Terrestre.”
Ma il
vaso di Pandora era oramai stato scoperchiato e d’altronde
Venezia brulicava di zuffe, mica bisognava limitarsi soltanto a San
Barnaba …
***
1504 - 1511
Da quel
30 settembre, Hironimo non aveva più avuto chissà
quanta
paura della morte, ora che aveva scoperto di poterla a sua volta dare e
anche
così facilmente.
Era
conscio tuttavia che soltanto la Serenissima Signoria
decretava come e quando essa poteva venir impunemente elargita ed egli
non era
talmente sciocco da sfidare le severe leggi veneziane, né
d’arrischiare le sue
personali ambizioni per dei banali omicidi figli di stupidi litigi o
questioni
d’onore.
A quello
ci pensava il Carlevar.
Da Santo
Stefano fino a martedì grasso, la città si
abbandonava
alla pazza gioia, dedicando mesi interi ad ogni genere di spettacolo e
intrattenimento, pubblico e privato, tra balli, concerti, palii,
regate,
combattimenti tra orsi, tori, cani, galli; settimane in cui
l’illecito diveniva
lecito, il proibito il permesso, il male bene. L’anarchia
accuratamente
programmata, in cui ognuno assumeva una nuova personalità ed
evadeva, giocando
con la sua realtà e manipolandola a proprio piacere in un
sofisticato gioco
delle parti.
Sicché
in questo disordine non mancavano anche i regolamenti di
conto, le vendette, molto spesso impunite o per incapacità
d’identificare il
colpevole o per disinteresse dell’autorità,
più focalizzate a vegliare l’intera
città che il singolo individuo. Le risse dunque erano
all’ordine del giorno e
Hironimo, due volte su tre, si trovava lì coinvolto o per
dar manforte o perché
da lui stesso provocate.
I motivi?
Molto spesso gelosia tra “innamorati” per i favori
di
questa o quella cortigiana, oppure, questo sì più
serio e valido, per
proteggere le ragazze del loro sestiere di San Marco contro le pretese
dei
giovanotti di quelli confinanti; troppo spesso, infatti, si sentivano
tra le
calli gli echi di qualche povera fanciulla rapita da queste bande di
masnadieri, trascinata a viva forza nelle loro alcove e una volta
lì ...
Hironimo voleva giustificare i morsi della sua coscienza, sostenendo
che se
scazzottava con tal marmaglia era per galanteria cavalleresca verso
quelle
povere indifese e pure di ciò si vantava con le sue
estasiate cugine e l’amante
– in realtà, di quelle giovinette poco gli
importava, la sua era una semplice
disfida personale per dimostrare agli altri la sua forza, il suo
carisma di
capogruppo, la sua dominanza verso il prossimo, il suo sprezzo verso la
morte.
Erano un pretesto, nulla più. Neppure in quelle occasioni in
cui accorrevano
gli sbirri egli si tirava indietro, anzi, per la par condicio finiva
per
pestare a sangue pure loro, gettandoli spesso e volentieri in canale.
Sapeva di
giocare un gioco pericoloso, con quel suo perpetuo
sfidare la sorte a costringerlo ad uccidere nuovamente, e in
più occasioni
rischiò di uscirne sconfitto.
Come con
quel tale di Ferrara, quel gentiluomo la cui moglie per
sbaglio Hironimo aveva approcciato all’imbarcadero, avendo
infatti equivocato
la pelliccia di volpe argentata di lei per la medesima indossata dalla
sua
amante che, disgrazia del destino, gli aveva dato appuntamento proprio
lì.
Accortosi dello scambio di persona, Hironimo s’era
immediatamente scusato con
ambedue, spiegando il malinteso, ma il ferrarese non aveva voluto
sentir
ragioni, appellandolo coi peggior epiteti e insistendo di soddisfare e
lavare l’onta
subita col sangue.
Al che,
annoiato a morte da tali discorsi e incollerito per quegli
ingiusti insulti, Hironimo da dietro la maschera gli aveva riso crudele
e
beffardo, mentre sguainava enfaticamente lo stiletto e la
spada. Sangue
avrai, Ferrarese, non rifiuto dartelo se lo cerchi. Ma bada: se
stanotte deve
scorrere, sarà a gran fiotti il tuo.
A stento
evitò d’ucciderlo, però per il suo
orgoglio perse il
gentiluomo un occhio, tornandosene a Ferrara sfigurato e col dubbio se
quel
veneziano avesse proferito o meno la verità. Quanto al
Miani, si biasimò per
aver esitato a spedire quella canaglia
nell’Aldilà, perdendo così
l’occasione e
il piacere d’alleggerire il mondo dell’ennesimo
arrogante idiota.
La
guerra, incominciata a maggio del 1509, gli portò consiglio.
Lì
non aveva nessuna remora o coscienza a fermarlo, né
famiglia, né leggi né Dio.
E come
Hironimo aveva appurato anni addietro, non c’era nulla
d’eroico in essa, nulla d’esaltante né
degno d’esser cantato da quei bugiardi
dei poetastri in infiniti e barbosi poemi. Si uccideva e si passava al
prossimo
avversario, meccanicamente, spesso con brutale gusto, la mente
proiettata
completamente nel presente, senza passato e futuro. Vivere alla
giornata con
l’incertezza del domani, l’unica consolazione era
quella di privare il nemico
di tale medesima prospettiva.
Il
giovane patrizio giudicava questa una vita assai più
lineare,
semplice e diretta. Soddisfacente quasi. Obiettivi chiari,
ordini da
impartire e da obbedire. Il nemico davanti a sé, la zagaglia
in mano e le
redini di Eòo nell’altra, l’appagamento
di penetrare con essa la carne
avversaria, conscio che ogni uccisione corrispondeva ad un danno a chi
si
prefiggeva di distruggere lui e la Signoria; conscio che ogni uccisione
era la
prova della sua bravura, della sua consacrazione a Marte.
Battaglia
dopo battaglia, il suo talento e la sua dedizione
sarebbero state ricompensate, ne era certo. Nel sangue avrebbe
trionfato
assicurandosi la gloria, la fama immortale, avrebbe reso onore ai suoi
illustri
avi, superandoli in ingegno e abilità militare. Avrebbe
definito il suo
destino, il suo posto nel mondo.
Gli ci
volle la sconfitta a Castelnuovo di Quero e il racconto di
Thomà per far comprendere ad Hironimo che, alla fine della
fiera, non s’era
comportato né meglio né peggio d’un
comune macellaio, tranne che a quest’ultimo
Dio non avrebbe chiesto conto di tutti gli animali che scannava per
riempire le
pance dei suoi clienti. Non aveva acquisito alcun merito agli occhi
della
Signoria perché ancora nessuno s’era fatto avanti
per pagare il riscatto; se
sarebbe stato ricordato, solo per quella sua umiliazione, azzerando gli
sforzi
dell’intera sua adolescenza a meno che qualcosa, qualcuno non
gli avesse
concesso un’occasione di riscatto. A patto però
che fosse sopravvissuto,
ovviamente. Ora come ora, la certezza di rimanere in vita stava
inesorabilmente
crollando. Lui non decideva niente, non era padrone del suo destino.
Ostaggio
impotente, vittima nelle mani del suo carnefice, più forte,
più astuto, più
spietato di lui. Come il Nicolotto di otto anni addietro, chi
l’aveva costretto
a quella vita? Coscientemente aveva imboccato quel cammino e adesso
doveva
pagarne le ovvie conseguenze nell’infamia della prigionia.
Fosse almanco morto
eroicamente in battaglia …
Per
questo guadagno aveva dunque compromesso la sua anima?
Riponi
la tua spada nel fodero, ché tutti coloro che avran messo
mano alla spada di spada periranno.
Non aveva
considerato questo dettaglio, nella sua cieca ed
entusiasta ricerca del successo militare. Tanto si credeva invincibile,
da non
aver realizzato come anche lui fosse sottoposto alla medesima dura lex
della
guerra, laddove prima o poi il fato l’avrebbe destinato a
fronteggiare
qualcheduno a lui superiore, che gli avrebbe inferto tutto il male
ch’egli
aveva a suo tempo sfogato sui perdenti.
A qual
pro odiare dunque Mercurio Bua, biasimandolo delle sue
disgrazie?
Fossero
stati i ruoli invertiti, Hironimo si sarebbe comportato
esattamente come lui.
Se non
peggio.
Continua
…
*******************************************************************************************************************
Continua
il nostro viaggio nella coscienza assai sporca del
Nostro, ne avremo ancora almeno per qualche capitolo, dove spiegheremo
altri
punti qui accennati, ma non sviluppati, tipo il suo rapporto con Lucia
Trevisan.
Colgo
l’occasione per un meritatissimo ringraziamento a
Alessandroago_94 che, contrariamente a quanto dice, non è
né ignorante né
inutile anzi, è stato il primo a recensire e a darmi fiducia
continuando a
leggere, dopo un prologo assai bislacco. Grazie mille!
Spero
dunque che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
oggidì questa Scala è nota come “La
Scala dei Giganti”, per
via delle scultore gigantesche di Marte e Nettuno ad opera di Jacopo
Sansovino,
lì collocate nel 1567.
[2] Piazza
delle Erbe = oggi Piazza del Monte di
Pietà. La chiesa di Santa Lucia, addossata alla chiesa di
San Vito, aveva
inglobato la chiesa di Santa Maria delle Carceri, da qui i numerosi
simboli
sulla conversione e sul destino dell’anima dopo la morte.
Infatti, oltre
all’altorilievo, c’è anche un affresco
di Tomaso da Modena raffigurante la
Madona del Paveio.
[3] Castellani:
sestieri di Castello, San Marco e
Dorsoduro (tranne per le contrade di San Nicolò dei
Mendicoli, Angelo Raffaele,
San Basegio, Santa Margherita e San Pantalon); Nicolotti:
sestieri
di San Polo, Santa Croce e Cannaregio.
[4]
Ebbene sì, a Venezia si poteva riconoscere
dall’accento da
quale sestiere uno proveniva. Questa curiosità venne persino
appuntata da
Goethe nel suo “Viaggio in Italia.”
[5] La
moglie di Lot contravvenne agli ordini degli angeli,
voltandosi indietro durante la distruzione di Sodoma e di conseguenza
tramutandosi in una colonna di sale.
[6]
l’orgoglioso sileno Marsia sfidò Apollo ad una
competizione
musicale, perso contro il dio, quest’ultimo per la sua hybris
lo fece
scorticare vivo.
[7] mojo
chome un arnàto = (lett.) bagnato come
un’anatra, ossia bagnato fradicio.
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Capitolo 21 *** Capitolo Diciannovesimo: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 04.10.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Diciannovesimo
Confiteor
(Non
commettere atti impuri)
Il cuore
è
ingannevole più di ogni altra cosa.
(Geremia,
17:9)
Magnifica
domina,
come
volete dunque ch’io mi comporti? Cosa volete ch’io
faccia?
Mesi di
rigoroso silenzio da parte vostra, al punto che mi pareva
d’udire l’eco della mia medesima voce quando vi
scrivevo e ora, finalmente che
ho potuto stringere una vostra lettera, voi mi pugnalate con le vostre
ridicole
cortesie nonché impertinenti offerte d’amor di
sorella, voi, proprio voi che
con tanta passione mi giuravate al cielo e alla terra
d’appartenermi, legati
dal nodo assoluto d’amore; voi, che con ardore
m’accoglievate nella vostra
stanza, vi debbo ricordare l’impeto e il trasporto da voi
dimostratomi, quando
vi stringevo al petto? Adesso non soltanto rinnegate il nostro
sentimento,
persino volete dileggiarmi sostituendolo con un altro di ben
più misera natura,
in questa burla di lettera dal foglio mezzo vuoto, scritto in fretta,
neanche
voleste spicciarvi di un affar a voi molesto?
Vorrei
non esser mai rientrato a Veniexia se tale missiva doveva
attendermi, né tentare il fato e, ante di leggerla,
portarmela a Padoa, nella
sciocca e disperata speranza che le vostre parole, a me più
confortanti di
mille orazioni, potessero addolcire l’asprezza di questa
tremenda guerra.
Speravo, folle!, di trovare almeno un picciolo affanno da parte vostra
per la
mia salute; una spiegazione, perfino una bugia per giustificare il
vostro
inaspettato fidanzamento: nulla ch’io già non
conoscessi, ma forse voi non
potrete mai immaginare con quale perverso gusto esso mi venne
comunicato?
Orbene, nessun orrore offertomi sia dal campo di battaglia sia
dall’assedio
potrà mai far vacillare il mio spirito, come invece accadde
quando intesi dei
vostri insensibili propositi, ancor più
stomachevoli poiché avete
unito al silenzio la vostra ostinata assenza.
M’imponete
supplichevole e altera d’evitarvi e di restituirvi la
vostra pace, cessando di importunarvi ed esortandomi a dimenticarvi.
Ah! s’io
potessi, v’offrirei questo e altro, così come vi
ricordo che foste voi per
prima a cercarmi, voi per prima ad importunarmi, voi a sfruttare la mia
indifesa giovinezza e la mia ingenuità sugli artifizi
più subdoli
dell’amore, voi ad avvelenarmi per prima
l’esistenza con false
promesse e chimere! La mia naturale inclinazione verso di voi non
poteva non
arrendersi a tal passione! Se non mi fosse noto
l’ambiguo potere
della retorica, cederei alla tentazione di credere alla vostra
ritrovata
verecondia, alla vostra disperata necessità di recidere
questo nostro legame
per la salvezza della vostra anima, che il dolore che mi state
infliggendo
corrisponde ad un grave sacrificio da parte vostra. Ciò che
mi ha e continua ad
addolorarmi, è invece la certezza sempre più
inevitabile della fine di
quell’affezione che per lunghi anni ci ha tenuti saldamente
avvinti. Abbiamo
gettato allora il chicco nei rovi? S’io temevo che il vostro
silenzio derivasse
dalla mancata lettura delle mie missive e dunque m’appigliavo
all’ultima
illusione che voi mi fuggivate più per apparenze morali che
per fastidio della
mia presenza, codesta vostra assassina freddezza mi conferma che voi al
contrario le avete lette e dimenticate e soprattutto che voi non mi
amate più e
forse mai lo avete fatto, scambiandomi per un piacevole intermezzo tra
il letto
del vostro defunto marito e quello del vostro prossimo nuovo consorte.
Eppure io
non voglio credere che voi, colei cui ho donato senza
riserve e senza garanzie la parte più pura del mio cuore,
che proprio voi
abbiate deciso di burlarvi costì di me: sempre si denigra
l’incostanza e
crudeltà di noi uomini, ma oh! se voi donne ben sapete
giocare con medesima
spietata astuzia, nascondendovi dietro la presunta debolezza del vostro
sesso e
convenienti pretesti per abbindolare l’allocco di turno, per
poi scartarlo
inclementi e senz’alcuna possibilità di appello
quando più nulla ha da
offrirvi! In che cosa io vi ho mancato? Dove ho fallato al punto da
rendermi a
voi odioso? Da preferirmi l’altrui corteggiamento? Quale male
v’inflissi per
guadagnarmi tal supplizio, rendendomi mortalmente infelice?
È dunque questa la
ricompensa per avervi amato sì teneramente? Vi ho adorato
alla stregua d’un
pazzo, incurante di ogni conseguenza e morale, disposto ad ogni vostra
condizione e sedotto da qualità ch’io realizzo ora
esser di natura assai
mediocre - dove troverete altrove altrettanta dedizione, ditemi? Vi
compatisco
immaginandovi presto vittima del mio medesimo tormento, il vostro
novizzo vi
donerà il medesimo affetto che nutre per il suo cane e forse
neanche quello,
voi ridotta ad un ricco trofeo da esporre e avvizzirete anzitempo nei
vostri
scrupoli e nelle amarezze di scoprirvi ripetutamente ingannata. Dovrei
gioire
nel sapervi destinata a tal ingloriosa ma giusta fine, eppure non ho
cuore
d’augurarvi alcun male né d’odiarvi. Il
mio animo, pur dilaniato
dall’immeritata perfidia vostra, ancora spera in una
smentita, ancora si culla
nel sogno di poter trascorrere qualche tempo con voi. Vi scongiuro di
dirmi che
lo spettro di questo vostro pretendente altro non sia che una prova su
cui
temprare la fermezza del mio amore, invece dell’arca dove
volete anzitempo
seppellirlo.
Scrivetemi!
Scrivetemi che mi avete subitaneamente preso in odio,
che mi disprezzate e che mi maledite piuttosto di narrarmi come abbiate
smesso
d’amarmi - io temo più il
vostro silenzio che le vostre ingiurie.
Comandatemi d’espormi in prima linea al fuoco nemico, ma non
di dimenticarvi.
Ad ogni ordine vi sono stato docile, a questo io
contravverrò fino all’ultimo
mio respiro. Non chiedetemi di sopprimere l’amore
ch’io nutro per voi, non lo
farò. Tale fiamma non si può racchiudere in un
angolo sperduto del cuore e più
insisterete di gettarvi cenere onde spegnere ogni affezione nei vostri
confronti, più al contrariato voi ci soffierete sopra,
alimentandola. Allora
voi mi darete dell’egoista, di colui che vi vuol negare la
vostra tranquillità.
Quale? Se non la trovate, è la vostra coscienza che vi
morde, poiché chi
sprezza l’amore sincero dopo averlo conosciuto è
destinato a soffrire ogni
martirio interiore, ogni rimorso, cadaun giorno, incessantemente! E
quando mi
chiamerete poi meschino, per la mia testardaggine, ecco, io
pretenderò che me
lo sputiate in faccia e se temete in un tranello per sottoporvi a
qualche
malagrazia, rincuoratevi: piuttosto di nuocervi, mi getterei contro le
picche
dei lanzichenecchi. Di gran lunga preferisco perire tragicamente, pure
di man
vostra, acciocché la mia morte vi si marchi a ferro
nell’anima e mai voi
possiate liberarvi anche solo del ricordo di me. Vedete a che deliri mi
avete
ridotto?
Sì,
convengo con voi che dovrei dimenticarvi quanto prima, però
non posso, non posso! La vostra voce mi sussurra costantemente nelle
orecchie,
è il vostro viso che sogno la notte; neanche il furore della
battaglia può
cancellarvi dalla mia mente né la mia, lo confesso,
vendicativa infedeltà
contro di voi. Vedete come siamo ben assortiti, indegnamente degni
l’un
dell’altro? Voi mi siete stata infedele per comodo e
vanità ed io per
disperazione e rancore ed ambedue abbiamo esteso le nostre colpe su
vittime innocenti. Ironicamente,
il consiglio datomi dai miei amici si sta ritorcendomi contro, al posto
del
chiodo, scacciar amor con altro amore. Ho preso una villana nel mio
letto, una
dei tanti fuggiaschi dalle campagne, col chiaro intento di umiliarvi
non solo
associandomi ad una donna a voi nettamente inferiore, ma pure di
poterle
riservare il medesimo affetto finora esclusivamente vostro,
dimostrandovi che
voi non siete né la prima né l’ultima
donna a questo mondo e che il vostro
spirito non è così sublime come voi
v’illudete essere. Ebbene, ingannatore
finii ingannato e mi disprezzo il doppio per essermi abbassato a tal
meschinità
pur di scuotervi dal gelo che vi cinge, approfittandomi
dell’altrui disgrazia.
Vedete come per amor vostro mi stia rendendo coscientemente spregevole,
acciocché voi abbiate validi motivi per odiarmi? Aggiungo
inoltre che, malgrado
sia ben conscio di quanto anche questa mia ganza stia portando
l’acqua al suo
mulino, nella sua rusticità ugualmente ella mi dimostra
più franchezza di voi:
non mi sfugge e me ne dolgo, per non aver aperto prima gli
occhi. Quanto
amore, quanti anni sprecati!, si sospirerebbe se la parte
più inflessibile
e orgogliosa di me al contrario non mi bisbigliasse: io
non mi pento di
nulla – se per qualche misteriosa maniera
potessi ritornare indietro,
senz’alcun tentennamento ripeterei ogni mia azione, semmai
v’amerei con maggior
intensità, sapendo a quale triste destinazione doveva
concludersi il nostro
viaggio. Negatelo pure, se vi va, però noi ci siamo amati e
a nessuno debbo
chiedere scusa.
Scrivetemi!
A breve rientrerò a Veniexia, voi sapete dove
trovarmi, verrete? Mi concederete quest’ultima grazia?
Ripensandoci,
effettivamente il nostro amore è nato sotto cattivi
auspici: ad un funerale ci scorgemmo per la prima volta, ad un funerale
ci
salutammo per quella che voi avevate arbitrariamente deciso dovesse
essere
l’ultima volta. Chi fu il vostro consigliere fraudolento? La
gelosia, alle cui
sferzate molte fiate io dovetti sottostare? I vostri parenti, che
più di voi a
loro importava la sorte del vostro patrimonio? La vostra coscienza,
dove
l’avevate scordata quando la passione c’univa nel
focoso amplesso? Le vostre
amiche, appestate d’invidia? O quelle beghine della vostra
parrocchia, i vostri
preti pallidi, grossi e grassi, dalla lingua di velluto, le cui frasi
troppo
spesso di recente mi ripetevate - fornicazione,
disonesto commercio,
impuro capriccio. Impuro? Era questo dunque ciò che vi
turbava? Che vi ha
portata a cedere alle più comode e onorevoli lusinghe di un
altro? Impuro!
Avete creduto più a loro, che a me? Vi ho mai nascosto la
mia ferma intenzione
di accasarci, non appena mi fosse stato assegnato un incarico? Impuro!
No,
preferiste ascoltare il gracchiare dei pizzoccheri, di quei moralisti
dalla
vita talmente arida e sterile che nulla hanno di meglio da fare se non
criticare quella degli altri. Invidiosi che mai amati, non sopportano
che gli
altri amino; ipocriti sepolcri imbiancati, tanto retti e morali di
facciata, ma
sozzi delle peggiori lascivie nel cuore. Dal giudizio di costoro vi
siete
lasciata influenzare? Che cosa sanno questi scalzacani di noi? Del
nostro
sentimento? Che cosa? Se parlano, è a vanvera, per luoghi
comuni, incapaci di
ogni discernimento. Talmente son pronti a giudicare, che neppure
ascoltano
l’intera storia del loro imputato. Egoisti, idolatri di se
stessi e, se la
fortuna li arridesse, tirannici nei confronti del loro prossimo,
smaniosi di
spingere la loro farlocca santità giù dritta per
l’altrui gola. Ignorate che le
virtù di cui tanto oggidì ci s’ammanta,
altro non sono che abili coperture di
ben peggiori vizi? La loro è una virtù che vuole
la servile approvazione di un
gran numero di testimoni; la loro è una virtù
presuntuosa che condanna l’altrui
e mai il proprio errore. Perché avete ascoltato il loro
gracidare e non la mia
voce?
E come ho
potuto io non accorgermi del graduale raffreddamento del
vostro amore? Di scorgere i segni della vostra crescente insofferenza?
O
rimorso? Di che cosa vi siete pentita, esattamente? Nulla io ho fatto,
che voi
non abbiate voluto. Almeno, aveste avuto la bontà di non
cacciarmi via
avvalorandovi di scuse di pessimo gusto: il vostro pudore, il vostro
onore, la
vostra famiglia, il vostro novizzo. Sostenete che io, trascinandovi nel
gorgo
della fornicazione, abbia offeso il vostro pudore di matrona: e voi? Mi
avete
catturato quando io ancora possedevo il mio, di pudore, approfittando
della mia
confusione verso il vostro sesso e del disordine del mio cuore per
rigirarmi
abilmente a guisa di bambola tra le vostre mani; mi avete menato per il
naso
per anni e se io nutrivo qualche sentimento di decenza verso gli affari
tra
uomo e donna, voi m’insegnaste a non curarmene, a seguirvi
verso gli impervi
sentieri delle disoneste tresche amorose. M’accusate
d’infamarvi: ed io? Non ho
per amor vostro messo a repentaglio anche il mio di onore, esponendomi
costantemente alle severe leggi della Signoria, al pubblico biasimo,
alla
morbosa curiosità, all'unanime accusa di non stimare
né leggi né Stato né Dio,
ponendomi allo stesso livello dei munegini, come il fio dil zermano del
mio
avunculo? [1] M’informate delle vostre preoccupazioni
riguardo alla vergogna
che proverebbe la vostra famiglia, nello scoprirvi invischiata in
sì turpi
negozi. E alla mia, allora? Non avete pensato come anche la mia
morirebbe di
vergogna in caso dovessi comparire dinanzi agli Avogadori? Allo sdegno
dei miei
parenti, nel vedermi costì traviato? Per chi, poi? Per
un’infida, per un’empia
che mi vuol precipitare? Non volete mancare alla parola data al vostro
novizzo,
ma come? Non avevate giurato prima a me che a lui? Non vi avevo
promesso su
ogni cosa a me sacra, di darvi il segno e la mano appena possibile?
Così poca
fiducia dunque avevate in me? Cosa sono stato io per voi? Un cassone
per il
vostro cuore solitario? Non tediatemi poi con discolpe quali
l’uomo è l’uomo:
ebbene, anche la donna è la donna, fatta anch’essa
di carne e di sangue come
l’uomo, coi medesimi desideri dell’uomo, in nulla
sono i suoi pensieri più
nobili, sia essa nata in una stamberga o in un palazzo principesco. Il
ventre
di una villana è altrettanto accogliente come quello di una
nobildonna, ve
l’assicuro. Fossimo governati da leggi foreste, con gioia mi
avreste consegnato
alla vendetta dei vostri familiari, più per placare la
vergognosa consapevolezza
che voi non siete immune dai più istintuali dei desideri,
che non siete al di
sopra di nessuno, più che per un presunto senso di giustizia
e anche là,
attenta, perché se dovessimo determinare la sorgente del
vostro supposto
disonore e se voleste soddisfazione tramite la giustizia terrena,
ebbene
avanti! Chiedetela! E non temete che ne riceverete anche fin troppa.
Credetemi,
a questo mondo a non esser perdonati sono gli scandali, non i peccati e
i
vostri scrupoli e i vostri rancori contro di me sono dettati anche dal
timore,
che la mia presenza possa nuocere ai vostri progetti: realizzo che
finché nulla
si sospettava, voi vi siete spensieratamente accompagnata meco, per poi
abbandonarmi al primo cenno di pubblico pettegolezzo. Ma se invece
davvero voi
avete ragione, se davvero in quest’affare sussiste una colpa,
allora è
imputabile ad entrambi in egual misura sebbene, vi ripeto, io non mi
dolga
affatto d’avervi costì amata, ponendovi al di
sopra del mio onore, della mia
famiglia e oserei aggiungere perfino della mia patria carissima.
Ahimè,
quando vi ho conosciuta, io ancora sguazzavo negli
insegnamenti dei miei maggiori, ossia come l’amore fosse un
piacere e l’onore
un dovere; di come l’amore lo si dovesse piegare a qualche
virile ambizione
superiore, agli affari di Stato, alla gloria, perfino
all’orgoglio. E appunto
questo è il problema, che la nostra natura fiera e
inflessibile non
vuole né cedere né abbassarsi né
soffrire in nome dell’amore, dimenticandosi
come chi ama davvero non teme alcun sacrificio, alcun compromesso,
alcun’umiliazione se può giovare alla persona
amata. Perfino la morte per
quest’ultima assume i connotanti di una capricciosa
stravaganza che un segno di
grandezza d’animo e coerenza. Quanta vanità
mascherata da amore! Avete amato me
o il vostro amor proprio in tutti questi anni?
Ed io?
Ho amato
voi o l’idea che avevo di voi o l’amore nutrito per
voi?
Sicché s’insinua il dubbio anche in me,
s’io v’abbia sul serio amata, o se
trovavo più dolce amare ed essere amato a condizione di
godere anche del corpo
della persona amata. Chissà magari non sia io dalla parte
del torto, avendomi
condotto un’intenzione pura ad un risultato disonesto? Non
riesco a giungere ad
alcuna conclusione, tanti sono i pensieri contradditori in me, talora
neppure so
cosa io voglia da voi esattamente, oscillando tra il desiderio
disperato di
stringervi le ginocchia similmente alle schiave greche o di applicare
il vostro
consiglio e ingegnarmi a dimenticarvi, stavolta sul serio e non
sfruttando chi
non se lo merita.
Un poco
sorrido tra me e me al pensiero della vostra espressione
di puro terrore dinanzi a questa mia missiva; non temete,
già immagino che voi
non la leggerete o se lo farete, sarete impestata di sdegno e pertanto
non
recepirete appieno il mio messaggio. Poco m’importa, oramai
questa mia lettera
l’ho incominciata a Padoa, per continuarla qui a Veniexia,
dove voi tutt’oggi
mi negate un colloquio, e spero di inviarvela speditamente, salvo
contrattempi
– vi dispiacerà sicuramente sapervi subordinata ad
altre priorità? Quanto tempo
per concludere la vostra lettera! A quante esterne amarezze essa
s’accompagna!
S’avvicina la festa di Santa Luzia e prego che questi anni di
lontananza non
abbiano influito sulle vostre devozioni e mi venga esaudito il
desiderio di lì
incontrarvi, almanco casualmente.
State di
buon animo, non premuratevi di rispondere alla mia
missiva, non pretendo da voi alcuna replica né conferma di
lettura. Ho
realizzato nelle ultime settimane che sto effettivamente scrivendo
più per me
stesso che per voi, sebbene ogniqualvolta scivoli
l’inchiostro su questa carta,
io abbia la sensazione di vedervi, di toccarvi e di parlarvi. Penso che
non
stia più cercando di persuadervi a ritornare ad amarmi o ad
incominciare a
farlo – sarebbe inutile, più che umiliante. Non
m’inganno più della falsa
attesa di un colloquio che voi mai mi accorderete. Il mio unico
desiderio
rimane quello di separarci senza alcun rancore, il medesimo
ch’io scorgo nelle
rarissime occasioni in cui ottengo d’incrociare il vostro
sguardo, laddove mi
accusate tacitamente di perseguitarvi, come se potessimo sceglierci le
amicizie
e i familiari, come se voi aveste sperato nella mia morte sotto le mura
di
Padoa, mi rimproverate d’esser sopravvissuto? Quale forza
diabolica
m’attribuite, dunque, da riuscire a scampare alla furia
assassina della guerra
al mero fine di tormentarvi? Suggeritemi voi come ci si debba regolare.
Se
incontrarmi di sfuggita v’irrita, contemplarvi accanto ad un
altro, unito alla
consapevolezza che sarei dovuto trovarmi io al vostro fianco, mi
ferisce e mi
rivolta il sangue, similmente alle vostre perfide confidenze con mia
cugina,
laddove ingiustamente vituperate il mio carattere e le mie azioni.
Così tanto
mi trovate peggiorato?
La mia
famiglia potrebbe convenire con voi, preoccupata dallo
stato deplorevole del mio animo, dalla bile nera che mi ribollisce nel
petto.
Tutto d’altronde mi dà noia, ogni svago e ogni
interesse da me coltivato e
perfino questa città istessa sono fonte di un fastidio senza
fine. I miei familiari
attribuiscono il mio nuovo temperamento atrabiliare alla spietata
realtà della
guerra e per pigra convenienza glielo lascio credere, forse soltanto a
mio
fratello ho, tramite qualche sparso indizio, parzialmente confessato il
mio
tormento, oppure lui l’ha facilmente intuito
giacché vittima di medesime
angosce e artefice del medesimo crimine di cui voi sì
solertemente m’avete
assai spesso e volentieri accusato. Fu magro conforto il suo, egli ha
trovato
la soluzione contrariamente a me, di lui hanno avuto pietà.
Ho
deciso, avvicinandosi la data prevista della mia prossima
partenza a Castel Novo di Quer e a seguito delle genuine condoglianze
del
vostro ignaro marito per la morte di mia sorella, di restituirvi
assieme a
quest’ultima mia missiva tutte le vostre lettere e i vostri
favori. Ne
custodirò solo due: la prima e l’ultima che mi
inviaste e non a titolo
d’assicurazione, casomai voi un giorno vi risolveste di
vendicarvi
danneggiandomi, bensì a futuro monito per me, qualora il
tarlo dell’impellente
desiderio di amare dovesse ritornare a rosicchiarmi il cuore. Le ho
rilette
fino ad impararle a memoria, rendendomi conto, soprattutto nella prima,
della
vostra leggerezza di spirito, dell’accorto gusto nella scelta
delle parole e
della musicale grazia del raffinato scriver vostro, insomma lettere
piacevoli,
seducenti, bellissime quanto voi e altrettanto fredde nella sostanza,
più
sensate che appassionate. Ci siamo travestiti da amanti e ci siamo
divertiti e
illusi in un lungo Carnevale. Siccome per me è giunta
l’ora delle Ceneri, vi
ritorno ogni vestigia della migliore tragedia e al contempo commedia da
noi
recitata. Avrei potuto bruciare e distruggere i vostri pegni
d’amore, tuttavia
preferisco inviarveli indietro anche per rassicurarvi della mia ferma
intenzione
di non cercarvi mai più, né apposta né
per caso, e di perdonarvi ogni vostra
colpa nei miei confronti, spronandovi, se mi permettete
un’ultima mercé, a
perdonare anche me e a non odiarmi, come io non vi odio.
Cesserò per sempre
ogni corrispondenza tra di noi e, dovesse questa mia ultima lettera
commuovervi, sono io ora ad esigere di non scrivermi né di
sentirvi costretta
ad un qualsivoglia obbligo nei miei confronti.
Ho
sofferto, mi avete fatto soffrire tremendamente, però vi
ringrazio. Vedete, ante di voi io non sapevo cosa fosse esattamente
amore né
cosa significasse amare, ero innamorato del concetto di amare e ancor
meglio se
di natura eroica, accecato dalle finzioni letterarie e ansioso
d’emularle,
incapace di accettare il suo più semplicistico uso, ossia
amare per vincolo di
legge o di denaro. Non amavo ancora, tuttavia amavo
amare... cercavo
qualcosa da amare, amando amare. [2] Sono stato un giovane
sprovveduto,
senza ancora sufficiente malizia per discernere l’amor
spontaneo e sincero da
quello artificioso e galante, mi avete scovato e ghermito prima che
potessi
costruirmi le adeguate difese e forse proprio per questo mi avete
scelto e
tenuto in gabbia per anni, perché ero a voi inoffensivo,
facilmente
manipolabile e incapace di rendervi la pariglia, affrontando di petto
ogni
vostra sfida, senza alcun razionale distacco o cinico tornaconto.
Orbene, la
vostra lezione è stata magistrale, meglio di un qualsiasi
magnifico rettore
padovano. Mi avete aiutato finalmente a svegliarmi e a maturare, grazie
a voi
so cosa fare e cosa evitare, cosa voglio da una donna e cosa in lei
invece
potrebbe provocarmi gravi dispiaceri. Pur separandoci senza un degno
commiato,
soppesando i pro e i contro del nostro legame, ho realizzato che in fin
dei
conti voi mi avete reso assai felice - quanto a voi
ignoro fin dove
abbiate recitato e fin dove ci abbiate sul serio creduto!
- la mia
vittoria consiste nella consapevolezza che voi per anni mi siete
appartenuta,
anima e corpo, e niente che voi potrete dire o fare potrà
mai cambiarlo. La
bellezza di questo tempo trascorso ad amarvi non verrà
deturpata dalle vostre
ultime meschinità, né dalla triste mia
consapevolezza e unico rimpianto, di
come il destino abbia voluto unirci in un matrimonio persiano,
piuttosto che
sotto l’inflessibile egida della nostra legge. Lamento di non
avervi potuta
amare alla luce del giorno, serenamente, invece che
nell’angoscia furtiva della
notte, la mezzana degli amanti.
Forse
doveva finire così? Forse dovevamo insegnarci a vicenda in
vista di un nuovo e più casto amore? State amando voi? Il
vostro nuovo marito,
vi è di gradimento? Vi auguro di trovare in lui
l’appagamento e la tranquillità
che non trovaste in me. Quanto a voi, rimarrete per sempre nei miei
ricordi
come colei che amai teneramente, non come l’anima ingrata che
mi tradì,
ferendomi. A tal punto mi siete cara.
Per me,
ho al momento moglie nella guerra e figli nell’ambizione
di distinguermi in essa. Penserete sicuramente di un mio rinculare
nelle
convinzioni e negli insegnamenti dei miei maggiori –
ricordate? – di anteporre
gloria, onore, orgoglio ad amore. Niente di tutto ciò.
Sì, adesso amore in me è
ridotto ad un timido fuocherello, ma è lì che
attende nuovo soffio vitale per
ritornare a bruciare. Un tiro del genere, ho notato tra i miei
disincantati
compari, solitamente inselvatichisce nei confronti di nuove fiamme,
incrudelendo l’anima che, soffocata dal cinismo, fa soffrire
agli altri quanto
da essa sofferto. Pur divenuto, io spero, più guardingo e
savio, ugualmente non
permetterò a qualche delusione di negarmi la meravigliosa,
possente e tremenda
prospettiva futura di potermi di nuovo innamorare. Voglio continuare ad
amare,
totalmente, senza alcun guadagno personale, amore per amore, fino alla
consunzione, fino ad annegarci, annullato in esso. Chi mi
accetterà, mai avrà
carestia del mio amore, non sarò mai avaro nelle mie
affezioni. Il vero amante
è colui che rimane abbagliato dalla perfezione della cosa
amata e che si
sottomette spontaneamente alla sua volontà. È da
pazzi e da illusi credere
fermamente che tale miracolo possa accadere? O ancora è il
nostro orgoglio che
ci guida e ci consiglia? Io sento che tale creatura possa esistere e
che mi
aspetta, sebbene ignori quale via percorrere onde raggiungerla.
Nondimeno, di
viltà e d’accidia mai sono e sarò
tacciato e non temo di sbattere il muso
contro il muro del fallimento. Per questo motivo di nuovo vi ringrazio,
ho
scoperto nell’amore una forza prorompente d’energia
infinita, che voglio
depurare da ogni gelosia e desiderio di possesso e di dominazione,
grazie a voi
ho scoperto che mi è più caro amare che essere
amato, solo il modo dovrei
affinare, evidentemente per non arruffare l’altrui
moralistica semplicità. Che
strano! Da un disonesto commercio come il nostro, nasce una ricerca di
sublimazione
dell’amore, una spontanea ricerca di perpetuo vassallaggio
tra esso e il suo
tempio: dunque è vero, che è la melma
ciò che porta fecondo frutto, non la
fredda perfezione del cristallo. Ridete pure di me, come tutti gli
altri.
Dileggiate ciò che voi appellate deliri o disperati
sillogismi atti a
preservarmi dall’angoscia del disinganno. Fatelo, non mi
tangete.
Vi amai,
adesso non v’amo più. Mi avete reso tanto felice
quanto
infelice, senza però riuscire a levarmi la
capacità di amare sinceramente come
la prima volta. Non è così scontato, sapete,
già ve l’ho accennato nelle righe
precedenti. Malgrado le mie lascive disonestà degli ultimi
due anni, questo mio
desiderio rimane puro e attende solo d’ardere di nuova
fiamma, più degna. Non
permetterò al mio orgoglio d’infettarlo con futili
propositi di vendetta, non
reclamo alcun sangue, a che pro trascinarsi per tutta la vita il peso
d’un
inutile assassinio? Cosa ne guadagnerei di concreto se non il fallace e
temporaneo appagamento del mio egoismo? Voi non m’amate
più ed io non v’amo
più. Siamo già morti l’uno per
l’altro - a che pro infastidirci in sciocche
faide? I crimini passionali che riempiono le aule dei tribunali e le
nostre
orecchie forse vi rendono scettica circa le mie intenzioni, ebbene
voglio che
mi distinguiate dagli altri uomini che non hanno sufficiente coraggio
d’affermare: non m’importa più, anche
quando l’amante abbandonato sono loro. È
facile predicare l’atarassia quando si recide un legame,
invece di sopportarne
la recisione. Non mi è stato facile, lo ammetto, rassegnarmi
e riconoscervi la
libertà conquistata a mio danno e non vi nascondo che ad un
certo punto giunsi
ad odiarvi e a maledirvi, per poi concludere che preferisco sapermi
ricordato
da voi con affetto piuttosto che con paura. La vita è troppo
breve per dannarsi
per simili quisquiglie. Non ne ho né tempo né
voglia di corrervi dietro, sento
piuttosto che altri progetti di ben più nobile valore
aspettano la mia totale
attenzione.
Vi
restituisco dunque i vostri presenti – la ciocca di capelli,
l’anellino di zaffiro, il fazzoletto di seta merlettato, il
libro di chanson
per liuto, e altre bagatelle che m’erano più care
della vita e adesso occupano
soltanto spazio e lì languiscono dimenticate a prender
polvere – riservate loro
un destino migliore. Ignoro cosa voi abbiate fatto dei miei regali e
delle mie
lettere – ve ne siete sbarazzata? Le avete conservate?
Disponetene a vostro
piacimento, ho perduto da tempo il diritto di chiedervi
alcunché. Vi confesso
che un poco mi stuzzica la curiosità di conoscere a quale
sorte riserverete
questa mia missiva e la perdonanza se mi sono assai dilungato
– mia debolezza,
lo ammetto: voi siete stato il mio primo vero amore e quando
staccherò la
penna, asciugherò l’inchiostro e
sigillerò la lettera, ecco che con essa finirà
anche la mia giovinezza e questo momento assai definitivo e solenne mi
turba
grandemente.
In ogni
modo, s’ha da giungere alla fine: mia cugina gentilmente
s’è offerta di riportavi indietro ogni vostra
possessione e il tutto con la massima
discrezione; avrei tanto desiderato consegnarvele di persona,
ciononostante vi
debbo questa delicatezza, per non costringervi a sgraditi chiarimenti
con
vostro marito, il quale in fin dei conti è un uomo di gran
cuore e di nuovo
v’esorto a ripagarlo con tutto quell’amore da voi
negatomi.
Addio
– non vogliatemi male, perdonatemi laddove v’ho
offesa,
ricordate che mai una volta v’ho ingannata. Addio –
siete stata e perennemente
sarete l’amore della mia gioventù, profondo ed
infinito e vi ringrazio di ogni
anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora
d’amore
regalatomi. Addio, senza rancore – vi
voglio troppo bene per
congedarmi da voi adirato. Addio, mia dolcissima amante, maestra,
amica,
confidente, tormentatrice, ingrata e crudele, addio mia amata degli
impossibili. Addio.
A vostra
magnificenza ogni felicità auguro e a voi mi raccomando,
Jer.mo Miani scrisse. Veniexia, a dì 1 marzo 1511.
***
“Siora
amia, vi dispiace se porto in
camera del Momolo alcune cose che s’è dimenticato
a casa mia?”
“Certamente,
anzi, peccato che voi lo
abbiate mancato di qualche giorno, così da consegnargliele
di persona!”
“Oh
figurarsi, dubito che al mio
zermano avrebbe fatto alcuna diff - …”
“Madona
Maria, di grazia, potrei farlo
io al posto vostro? Già vi siete affaticata abbastanza a
venir fin qui …”
“Siora
amia?”
A madona
Leonora non era sfuggito l’imbarazzato ingobbirsi della
donna accanto a sua nipote, né il modo colpevole in cui gli
occhi celestrini di
lei rifuggivano il suo sguardo. Quale ansietà la spingeva a
compiere un
incarico sostanzialmente indiscreto, poco consono al buonsenso del
comun
galateo? Non sarebbe stata opportuna tale richiesta, anche se la camera
di suo
figlio Hironimo rimaneva silente e vacante, la sua presenza un
incorporeo
ricordo fino alla prossima volta in cui l’anziana patrizia
avrebbe potuto
riabbracciarlo.
Probabilmente
fu l’esitazione della zia a persuadere Maria ad
alzarsi e, presa sottobraccio l’amica, a dirigersi assieme
verso la stanza del
cugino, fermandosi però sull’uscio, in attesa, gli
occhi nerissimi di Hironimo
che assorbivano ogni movimento della visitatrice, imperscrutabili.
“Amica
cara, a che debbo questa vostra visita?”
“Lasciate
perdere i convenevoli e ditemi chiaro e tondo: che intenzioni avete col
mio
germano?”
“Prego?”
“Ho
favorito il vostro commerzio giacché mi giuraste di volervi
accasare, una volta
trascorso il periodo di lutto per voi e ottenuto il mio germano il suo
primo
incarico ufficiale. Poiché non vedo alcun incoraggiamento da
parte vostra a
santificare la vostra unione, adesso vi chiedo: che intenzioni avete?
Perché,
badate, il mio germano ci crede alla vostra promessa. Pertanto, vi
consiglio di
prendere una decisione: se lo amate, maritatevi con lui. Se non lo
amate, lasciatelo
libero e non umiliatelo più del dovuto con le vostre
disonestà!”
La
giovane contessa di Stampalia e Amorgo non conobbe mai quali
pensieri s’affollarono nella mente della donna,
quand’ella s’attardava, tra
l’accorto e il meditabondo, nella sua lenta deambulazione
della camera di suo
cugino. Su cosa rifletteva, intanto che appoggiava sul piccolo
scrittoio quello
scrigno ben sigillato? O mentre con la punta delle dita sfiorava la
ruvida e
leggiadra consistenza della penna appoggiata sbadatamente accanto al
calamaio,
la pila compatta di pallidi fogli adesso tristemente vergini di parole?
La vide
aprire la vetrinetta, sollevare appena il coperchio del
bauletto dove dimenticato giaceva il liuto e un mesto e sordo pizzico
di corda
riempì l’aria troppo primaverile e vivace per
sì malinconiche reminescenze. La
donna accarezzava il pregiato legno di quello strumento con la medesima
delicata passione d’un’amante, sospirando dogliosa
e se n’accorse: trasalì,
arrossì, impallidì, avvampò e piena di
gelo chiuse in fretta tutto, scuotendo
veementemente il capo.
“Andiamo:
io qui ho finito”,
disse la
donna alla vedova Querini, uscendo dalla camera senza guardarsi
indietro.
Quale
sentimento la tormentava? Maria non s’azzardò a
chiederle
alcuna spiegazione; le bastò captare quella piccola frase
per intuirlo e
rammaricarsene.
Ritorna
vivo e trionfante. Io non t’ho mai odiato.
Continua
…
*******************************************************************************************************************
La genesi
di questo capitolo m’ha tormentata assai, giungendo a
scrivere ben 3 versioni dai toni piuttosto differenti! XD Il tema era
un po’
complesso da sviluppare, nel senso volevo qualcosa che andasse al di
là del
semplice ravanarsi il còco in allegria coi propri compari o
a zompare nei letti
delle donnine allegre.
Forse
qualcuno ne rimarrà deluso, però questa alla fine
è la
versione che più mi ha convinta e devo dire che è
la mancanza più “perdonabile”
del Nostro, il quale come disse l’Anonimo: “il suo
amore eccelleva sulla
ragione” quindi un carattere molto passionale e generoso nel
suo amore,
anche nei suoi aspetti meno
“onorevoli”.
Farà
sorridere leggere di un uomo nella parte di Didone, però
ricordiamo che fu un uomo (Virgilio e poi Ovidio nelle Eroidi) a
scrivere i
suoi strazianti lamenti XD Scherzi a parte,
l’identità e
l’atteggiamento de “L’amata
immortale” sono lasciati volutamente ambigui,
libero lettore di trarre le sue interpretazioni. Chi è lei?
Cosa accadde tra
loro due? Fu il Nostro il vero mascalzone? Fu lei la fedifraga? Furono
ambedue
gli scemi? Chi lo sa, adoro per questo motivo il narratore inaffidabile.
Capitolo
insolitamente breve, meglio per me, così termino prima il
prossimo e rituffarci nelle vicende del Nostro, lasciato troppo a lungo
a
languire nella sua cella di fortuna, poi dopo il Bua si annoia e
somatizza.
Spero che
il capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
munegini = coloro accusati di
fornicazione con le monache. Vincenzo Morosini di San Cassian, figlio
del
cugino primo di Battista Morosini, nel 1503 era stato arrestato e
condannato
per aver folleggiato con una monaca della Vergine delle Grazie.
Malgrado la sua
fama d'esser giovane "Assa' dishonesto" - come lo definisce il Sanudo
- Vincenzo si sposa con Franceschina Boldù, la monaca
concupita.
[2]
Dalle
“Confessioni” di Sant’Agostino.
|
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Capitolo 22 *** Capitolo Ventesimo: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 04.10.2021
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Capitolo
Ventesimo
Confiteor
(Non
rubare)
Finché
Hironimo era rimasto a casa, sotto l’accorta egida materna,
o a zonzo per i campi della podesteria di Castelfranco e Treviso, egli
non
s’era curato un granché del suo aspetto fisico,
tranne per tenersi pulito e in
ordine, né la vanità l’aveva mai
stuzzicato né il bisogno di danari tarmato.
S’accontentava senza lagna alcuna delle sue scialbe braghe
monocolore, del
farsetto forse leggermente più grande di lui, del cappello
di feltro sulla
zazzera lunga e indomita e dei suoi comodi stivaletti perennemente
infanganti
per via delle sue errabonde sortite tra le torbe e canneti, affatto
turbato da
tanta spartanità. Curiosamente, la sobrietà del
suo vestire unita alla sua
giovinezza gli riserbavano gradite lodi da parte dei suoi maggiori e
delle
gentildonne che lo conoscevano, paragonandolo quest’ultime al
selvatico
Ippolito le cui irte chiome e l’aspetto brunito e agile del
cacciatore avevano
irretito il cupido cuore della sua matrigna Fedra. Credevano, infatti,
la sua
esser una bellezza un poco trascurata, citando il buon Ovidio, e
così volutamente.
Ignoravano, invece, che non solo Hironimo non aveva per niente
letto L’Arte
di Amare, dunque traendone i giusti benefici, ma che la sua
negligenza nel
vestire derivava più dall’economia domestica che
da un atteggiamento atto a
colpire positivamente l’altrui opinione.
La morte
di Padre aveva comportato una notevole e serrata
attenzione ad ogni spesa (malgrado gli aiuti economici della Signoria)
fintanto
che Lucha non avesse incominciato a guadagnare qualcosa dalle cariche
pubbliche
per rimpolpare le entrate del commercio laniero. Ogni sfizio venne
bandito e
non si comprò nulla se non lo stretto necessario, madona
Leonora ostinata nella
sua decisione di vivere più modestamente piuttosto di
licenziare anche uno solo
dei suoi servitori e operai. Di conseguenza, niente veniva sprecato a
Ca’ Miani
e tutto riciclato, incominciando dai vestiti di sier Anzolo che,
trascorso
qualche mese, grazie alle mani d’oro del gineceo vennero
immediatamente
distribuiti, smembrati e rigirati ad uso e consumo dei figli, tranne
per la sua
toga nera che madona Leonora custodiva gelosamente nel cassone in
camera sua.
Medesima sorte subirono i suoi gioielli, cappelli, mantelli, calze,
scarpe e
guanti (Hironimo pure imparò a ricucirli, quando le dita
incominciavano a far
capolino dal cuoio). D’altronde, anche a tali situazioni
aveva la Signoria
pensato, imponendo l’uso obbligatorio in pubblico della toga
nera ai patrizi a
partire dai vent’anni, un abito lungo allacciato sotto la
gola e con le maniche
a gomito, atto soprattutto a reprimere la fierezza e la
vanità giovanile,
inducendo invece gravezza e modestia, l’unico accessorio
concesso era una
cintura di velluto decorata con borchie d’argento.
D’inverno questa toga veniva
foderata o d’ormesino o di dossi e decisamente era
impossibile notare i vestiti
rigirati o di modesta qualità sotto una tal severa livrea.
Bisognò
attendere qualche anno per vedere un abito nuovo a Ca’
Miani, quando Carlo divenne avvocato del proprio mentre Lucha,
l’anno successivo,
si trasferiva a Marostica, suo podestà e capitano e poi
camerlengo a Treviso.
Ma piccole cose se comparate alla rivoluzione del
guardaroba quando
suo fratello Marco succedette Lucha nella medesima carica a Marostica,
neanche
fosse stato inviato a Brescia [1]: il ventiduenne podestà
era entrato nella
città dell’agro vicentino col lieto furore e
ottimismo della gioventù,
raggiante nel suo pesante e coprente mantello di broccato
d’oro da cui faceva
capolino l’ampia manica della sua vesta di cremisino. Sulla
spalla scendeva
morbida una stola di seta dorata e al petto una robusta catena
d’oro; sui
capelli da poco tagliati più corti aveva portato
un’aderente bereta di velluto
nero da cui pendeva una spilla di rubino dal bordo inferiore
incastonato da un
grappolo di perle. Seguendolo a piedi nella processione verso il Duomo,
Hironimo, con un abito da cerimonia invece gentilmente imprestatogli da
Lucha,
aveva seguito orgoglioso e senza alcun’invidia suo fratello,
così come aveva
fatto quando Lucha era divenuto camerlengo a Treviso e Carlo
podestà a Lonato
sul Garda. Gli importava poco di vestire gli abiti vecchi dei fratelli
che
magari erano stati pure di Padre o del biscugino Zuan Francesco.
Finché erano
in buono stato e fungevano al loro scopo, non avendo poi egli alcuna
vita
pubblica, non comprendeva perché sprecar soldi inutilmente.
Neanche
le stilettate dei parenti lo scalfivano, rispondendoli a
tono e assai divertito.
“Il
taglio perfetto di queste stoffe, l’accostamento ardito dei
colori … Dì, Momolo, quanti vestiti vecchi dei
tuoi fratelli ti sono serviti
per confezionare questo zipone?”
“Non
comprendo, sior Cujìn. Quest’abito è
nuovo.”
“Suvvia,
caro ti, so che dalla morte del sior tuo Pare non ne hai
più avuti.”
“E’
questione di punti di vista, Cujìn. Se tu intendi
“nuovo” un abito composto da stoffa appena comprata
in merceria, allora sì, non
posseggo un abito nuovo. Tuttavia, se per “nuovo”
ti riferisci ad un modello
che non hai mai visto prima d’oggi, ebbene il mio abito
è nuovo perché ieri non
vestivo uno zipone con codesta fantasia di colori, né forma.
Ho forse torto?”
Quando
incominciò ad importargli del suo aspetto fisico, della
moda? Dell’impellente necessità di danari? Quando
al posto di partecipare, come
i suoi fratelli, al ballottaggio per divenire balestriere di galea,
aveva
insistito con suo zio Batista acciocché trovasse un modo per
farlo ammettere
alla Compagnia della Calza? Quando incontrò per la prima
volta Luzia Trivixan,
la divina cantante? Quando presenziò al matrimonio di suo
fratello Marco con la
ricca Helena Spandolin o di sua cugina germana Maria con Zuane Querini
conte di
Stampalia e Amorgo?
Quando
divenne l’amante di lei? Il che
appariva
strano, poiché in pubblico la sua domina sfoggiava abiti
rigorosamente neri e
non portava gioielli, eppure si sentiva a suo confronto un perenne
straccione e
in generale un poveraccio, malessere acuito dalla consapevolezza di non
potersi
ancora permettere alcunché di suo, non avendo infatti un
ruolo definito nella
società. Il che lo imbestialiva, desiderando offrirle il
mondo e ritrovandosi
invece incapace di provvedere a quisquiglie quali vestiti nuovi,
figurarsi alla
moda. Per codesto motivo Hironimo rifiutava categoricamente un
qualsivoglia
regalo da parte della sua domina, interpretando il suo orgoglio quei
doni a un
moto di pietà nei suoi confronti, al posto del naturale e
sincero piacere di
viziare una persona amata.
No.
A
traviarlo definitivamente fu quando accettò un regalo
costoso.
Accadde
un giorno, mentre deambulava tra le calli di Rialto per delle
commissioni con suo zio materno sier Hironimo Morexini, che un malefico
piccione gli schittò in testa, rovinandogli la bereta di
feltro e l’umore, a
giudicare dalle rabbiose profanità ringhiate dal giovane
Miani, dopo aver
constatato i danni levandosi il cappello. Suo zio aveva discretamente
ridacchiato dinanzi all’incidente (come tutti gli insensibili
quando sono
spettatori e non vittime), tuttavia s’era velocemente
ricomposto, specie alla
vista di suo nipote sollevarsi il mantello di lana e coprirsi
così il capo,
neanche indossasse uno zendale, essendo la bora invernale inclemente a
Venezia.
“Via,
via, nezzo. È segno ch’è arrivato il
tempo di comprartene
una nuova, non vedi com’è lisa quella
bereta?”
“Mica
tanto, me l’ha passata Carlino!”
“An
bon, dopo che Marchetto l’ha usata largamente! Niente
putelezi, con quel mantello in testa mi sembri una sioreta dal becher!
Seguimi,
te ne compro io una nuova, non sia mai si vociferi in giro che io
m’associo ad
un accattone!”
Malgrado
la ruvidezza della risposta, invero sier Hironimo
Morexini l’aveva accompagnato in via Merceria dal suo
beretaro preferito e, a
fine visita, suo nipote si rigirava estasiato e commosso tra le mani la
sua
nuova bereta di velluto nero con applicazioni d’azzurro
chiaro. Il beretaro, inoltre,
s’era preso la libertà di spigargli come
indossarla, ossia un po’ a sghimbescio
acciocché la folta e ondulata chioma di ricci
d’Hironimo venisse risaltata
dall’accessorio.
“Grazie,
mille e mille grazie, sior Barba! E’ davvero bellissima!
Non dovevate! Anche una più semplice mi andava bene! Come
sto? È caldissima, mi
piace tantissimo, la terrò per sempre da conto!”
“Me
ne rallegro. Finalmente possiedi un capo alla moda e devo
ammettere che ti calza a pennello, manco te l’avessero cucita
in testa. Quasi-quasi
ti si scambierebbe per un duchetto.”
“In
effetti … Sennò non mi spiego perché
la gente continua a
salutarmi sì garbatamente.”
“Ha-ha,
nezzo mio! Beato il tuo candore. Mica salutano te,
salutano la tua bereta nuova!”
All’inizio
Hironimo non aveva afferrato il significato di quella
battuta, per poi realizzarlo alla prima visita ai parenti, il cui
sguardo si
focalizzò immediatamente sul suo cappello nuovo, suscitando
ora ammirazione,
ora sorpresa ora broncio e il giovane Miani si stupì di
leggere un sottile
fastidio nel volto dei suoi cugini.
“Non
capisco, siora Mare: i vostri nezzi miei zermani già
ricoprono cariche di rilievo nella Signoria; con quel che guadagnano,
possono
comprarsi tutti i cappelli di Rialto. Cos’hanno da
rimproverarmi?”
“Momolin
mio, tu possiedi qualcosa che loro non hanno e per questo
ti odiano. Così va il mondo: che sia una bereta, un palazzo,
una carica, delle
terre o semplicemente del talento, chi ha verrà sempre
invidiato da chi non ha.
E la cosa triste è che invece di sudarsi, guadagnandosele,
le loro mancanze,
preferiscono o invidiare l’altrui roba o peggio ancora
rubargliela. Ricordati:
il peccato d’Invidia sempre si marita in casa
dell’Accidia.”
Savie
parole su cui Hironimo dovette riflettere in molte
occasioni.
Infatti,
la bereta della discordia non suscitò i malumori
solamente dei suoi cugini, bensì anche dell’altro
suo zio sier Batista Morexini
e naturalmente della sua domina, la quale lo accusò
crudelmente d’ingiustizia e
ipocrisia, accettando doni dai parenti ma non da lei, bandendolo dalla
sua
presenza per all’incirca un mese, fino a ridurlo quasi alle
lacrime e supplice
alla sua porta in una crudele parodia di Canossa.
Suo zio
ci andò giù ancor più pesante,
irritato senza fine da quel
gesto a sua detta provocatorio da parte del fratello maggiore di cui
ormai mal
tollerava perfino l’ombra istessa. Me lo
vuole rubare! Me lo travia! Me
lo sta aizzando contro!, ringhiava furibondo a alla
sorellastra
Leonora e al di lei cugino per parte di madre, sier Stephano Contarini.
Da
qualche anno sier Batista e sier Hironimo si trovavano in lite tra di
loro e un
grandissimo odio li divideva, portandosi a reciproche scortesie tanto
da
preoccupare la Signoria medesima, che affidando loro incarichi distinti
sperava
di tenere i due contendenti ben separati a Palazzo. La teoria di sier
Batista
era che, con la scusa di ricoprirlo di doni, suo fratello si stesse
comprando
l’affezione dell’omonimo nipote e figlioccio,
guarda caso il prediletto
dell’ultimo maschio di Ca’ Morexini. [2] E questa
baronata sier Batista non la
sopportava. Inutilmente madona Leonora tentava di mediare tra i due,
rattristata nel più profondo da quella crepa in famiglia,
rifiutandosi
categoricamente di schierarsi a favore di chicchessia. Quanto ad
Hironimo, la questione
lo perplimeva: egli amava ambedue gli zii, gli piaceva la loro
compagnia e la
cercava contento e sincero, indipendentemente dai regali donatigli.
Perché ora
si stavano scannando su di lui?
“Lo
fa apposta, lo fa apposta per indispettirmi, quel cancaro
maladeto! Lo sta sfacciatamente manipolando per poi
farmi odiare dal
mio stesso nezzo, perdio, il mio fiozzo!”
“Ma
che mingionate andate ragliando, Titta? Già ve
l’ho spiegato:
la bereta del Momolo s’era rovinata e nostro fradelo gliene
ha comprata una
nuova! Punto! S’è trattata di
un’emergenza!”
“E
i guanti di cuoio, allora? Anche quelli erano
un’emergenza?”
“Titta
…”
“Sangue
di Cristo, smettetela di farmi il “Titta” e
ascoltatemi
bene: Momolo è mio nezzo e fiozzo e neanche un paio di
mutande mi avete
permesso di comprargli, spiegandomi che la roba nuova, se la voleva, se
la
doveva guadagnare! Adesso, quel … quel …
quell’impestato cao da brodo lo
ricopre di doni peggio di una mamola e voi non fiatate? Vi pare giusto?
Dopo la
morte di Anzolo, io v’ho sempre sostenuto, io,
non quell’indegno
caprone opportunista, e adesso scopro che mi preferite a lui?!
Cos’ha quella
cantarèla (scarabeo, ndr.) ch’io non posseggo?
Ditemelo, ché vi dimostro quanto
io sia settantamila volte sette meglio di quella bestia
innominabile!”
“Ioannes
Baptista Maurocene! [3] Basta! Basta, perdiana, basta!
Molighe! Non voglio guelfi e ghibellini in casa mia! Mi sembrate due
ottusi e
piagnucolosi tosateli intenti a misurar la lunghezza delle proprie
lance!
Dolcissima Trinità, sono stufa marcia dei vostri stupidi
litigi, delle vostre
faide! E soprattutto, non v’azzardate ad usare mio figlio
come scusa per farvi
la guerra, ché vi piglio ambedue a pedate fino a
Gradischa!” e calmandosi:
“Avete ragione: bereta a parte, Momolo non doveva accettare
regali da nostro
fradelo. D’ora in avanti non lo farà
più. Quelli ricevuti sarebbe scortesia
rimandarglieli indietro, però, anche perché,
conoscendolo, sicuramente
concluderà essere questa una decisione presa per causa
vostra ed io non voglio
buttar ulteriore paglia sul fuoco!”
Sier
Batista sbuffò iroso. “Sta bene. A patto che
anch’io dia a
Momolo un regalo, per rimettermi alla pari.”
“Oh
bone Jesu, Titta …”, si portò la
patrizia due dita alla
tempia, domandandosi se s’affermasse il vero quando si
teorizzava come,
invecchiando, si ritornasse ai medesimi ragionamenti insensati dei
fanciulli.
Ovviamente,
madona Leonora si raccomandò grandemente con Hironimo,
intimando il figlio a non lasciarsi condizionare dalle querelles degli
zii e di
rimanere fermo sui suoi principi di onesta
sobrietà: quando avrai i
tuoi danari, li spenderai come meglio credi, siccome però
ora vivi in comunità,
devi pensare al benessere collettivo ante del tuo.
Purtroppo
per la nobildonna, il seme della vanità stava
germogliando fecondo nel cuore del ragazzo, terreno arato
d’insolita invidia.
La bereta, similmente al frutto proibito dell’Eden, gli aveva
aperto gli occhi
abbastanza da scoprire la sua “nudità”:
dapprincipio a lui indifferenti, adesso
Hironimo guardava con malcelata golosità i broccati, i
damaschi, i velluti e le
sete delle maniche, dei ziponi, delle berete, dei mantelli di cugini e
amici;
pesava criticamente il valore dei loro gioielli, della fattura e della
circonferenza delle perle e delle pietre preziose; valutava il costo di
ogni
mobilio, quadri, vasellame, argenteria, statue, arazzi, tappeti e
decorazione
dei loro palazzi, nonché calcolava a mente quanto spendevano
ogniqualvolta si
bagolava a zonzo di notte per scatenarsi in gran baldoria, arrivando al
punto
da catalogare le cortigiane con cui i suoi compari
s’accompagnavano, dalla più
costosa alla più economica. Tutto il giovane Miani misurava
oramai in danari,
tutto. Sicché trovava ingiusto doversi ammettere il parente
e l’amico povero,
quello vestito cogli abiti rigirati dei suoi fratelli, quello che
poteva a
malapena offrire un giro di vino ai suoi amici durante i vagabondaggi
in
gondola e figurarsi quante volte aveva sospirato infelice davanti alle
gioiellerie nella speranza di trovare una gioia abbastanza a buon
prezzo da
regalare alla sua domina.
Sicché,
appresa della rivalità tra i suoi zii e in particolar modo
di come l’avessero eletto a misura della loro
prodigalità, Hironimo dopo
l’iniziale perplessità e dispiacere cedette alle
lusinghe della vanità e al
veleno dell’invidia: decise con malevole freddezza
d’approfittarne e trarne il
proprio utile, servendo se medesimo e i suoi scopi. Tra
i due litiganti
il terzo gode e infatti il giovane patrizio si
prodigò in esso col
massimo zelo del doppiogiochista.
L’idea
gli era sorta per caso: poco dopo la discussione con Madre,
il suo barba Batista gli aveva regalato una catena d’oro con
un pendente di
zaffiro e una grossa perla. Incautamente Hironimo l’aveva
indossata recandosi
in visita dall’altro suo zio e sier Hironimo, ghermendo il
gioiello e tirandolo
in avanti verso di sé, per poco strangolando suo nipote, gli
aveva chiesto
feroce l’identità del fautore di quel presente.
Senza pensarci, il ragazzo gli
aveva candidamente rivelato esser stato suo zio Batista al che il
furente sier
Hironimo l’aveva trascinato in gioielleria e prima ancora di
rendersene conto
un grosso e scintillante anello d’oro, il primo in assoluto
in vita sua, gli
circondava l’indice.
L’occasione
fa l’uomo ladro e in un certo qualmodo ladro Hironimo lo
divenne, sfruttando la competizione instauratasi tra i due Morexini, a
chi
fosse lo zio più meritevole (nonché il
più ricco) dimostrando a peso di ducati
il loro affetto verso il nipote, ignari che così stavano
finendo per rovinarlo,
viziandolo. Per una giubba larga di velluto nero, egli riceveva subito
dopo una
pelliccia di volpe rossa; per una scarsela di marocchino, un profumo
esotico.
Spille per cappelli; mantelli da indossare traversi alla romana;
farsetti
stretti da lasciar intravedere la camicia fin quasi
all’ombelico. E ovviamente
soldi, tanti soldi. Qualsiasi cosa volesse, Hironimo
l’otteneva e con furbizia
dissimulava per non irritare i cugini né per farsi scoprire
da Madre, alla cui
presenza seguitava ad indossare i soliti abiti spartani, per
trasformarsi in un
altro Hironimo al calare della notte, quando s’univa ai suoi
amici nelle loro
feste notturne e alle bische clandestine. Dal suo istruttore,
ex-cavalleggero,
non aveva soltanto imparato a cavalcare ma anche un paio di trucchetti
con le carte
ed i dadi, onde assicurarsi la vittoria e rimpinguare il suo
gruzzoletto
personale. Il giovane Miani, inoltre, si era infatti scoperto un
allievo assai
ricettivo e un grande osservatore, studiando accorto le varie mosse dei
bari
che riempivano le osterie, replicandole e perfezionandole al punto da
sembrare
la sua semplice sfacciata fortuna.
Vestito
all’ultima moda e col borsello pieno di tintinnanti
mocenighi e ducati, Hironimo si ritrovò maggiormente
considerato e apprezzato,
sempre al centro dell’attenzione e tutti
all’improvviso parvero volergli bene,
quando prima d’allora manco si ricordavano del suo nome.
Grazie alle
raccomandazioni e donazioni dei suoi zii lo avevano ammesso
all'esclusiva
Compagnia della Calza, dove la meglio gioventù veneziana si
raccoglieva e
socializzava. Col senno di poi - concluse amaramente l'Hironimo
venticinquenne
- avrebbe invece fatto meglio a partecipare ai ballottaggi per il posto
di
balestriere di galea: erano quattro anni in mare, sì,
però significava
guadagnarsi la priorità nelle elezioni a capitano e poi
sopracomito. E la paga
non era neanche male. Invero era stato un fannullone, un perditempo, un
mangiapane ad ufo. Ma che ne sapeva all'epoca del suo futuro, della
necessità
di costruirsi pian piano una carriera, scatenato e impulsivo ragazzo
poco
incline all'obbedienza ch'era stato? Gli si era aperto un mondo di
gaudente
lusso, nel quale Hironimo si era buttato con l'esuberanza del bambino
il giorno
dei regali dell'Epifania: gli inviti a cena, alle feste, alle
rappresentazioni
teatrali, ai freschi, a balli ora privati ora pubblici fioccavano senza
che lui
riuscisse a star dietro a tutti; imparò quanto delizioso
fosse il vino speziato
con vere e proprie spezie e non della frutta essiccata; l'unto
sfrigolante
della carne in agrodolce soppiantava il sapore quaresimale dei
molluschi, delle
sardine e del baccalà. E le pasticcerie, oh! Prima adorate
da distanza, adesso
quando entrava tutti a togliersi il cappello e quale soddisfazione
portare
tortini di mandorle dolci e fritelline alla cannella alla sua amante,
da
sbocconcellonare distesi sul letto sfatto, in complici risolini.
Perfino la sua
domina, digerito il dispetto iniziale per la sua improvvisa ricchezza,
lo
guardava con occhio diverso, compiaciuta della ricca eleganza del suo
drudo e
della sua generosità, spendendo egli i soldi degli zii per
farle a sua volta
dei graziosi regalini.
“Sicuro
che non stai corteggiando un’altra? Tutto questo lusso
…”,
insinuò ella maliziosa, beandosi dello spettacolo
offertole.
Nell’intimità
della felze, seduto tra i cuscini di velluto, il suo
diletto le appariva invero un’opera d’arte, coi
suoi tratti regolari e molto
fini incorniciati dalle ciocche ondulate dell’abbondante
zazzera bruna, cui
ella si divertiva ad arrotolare tra le sue magre e lunghe dita pallide.
Hironimo, per amor suo, quella sera aveva optato per una veste di
broccato
color ocra e rosso profondo e una sottile camicia plissettata, ambedue
molto
scollate al punto che la sua domina volendo poteva denudargli
facilmente la spalla,
gesto che puntualmente compì golosa, posandogli un rapido
bacio sulla pelle
calda che si sollevò recettiva e scossa da lievi brividi. A
completamento, il
ragazzo s’era avvolto nel mantello di pelliccia di volpe
rossa e indossava la
famosa bereta fonte della sua inaspettata fortuna, conferendogli
un’aria
leggermente civettuola, in contrasto con lo sguardo scioccato
nell’udire quella
malcelata accusa d’infedeltà.
“Non
oserei mai! M’inghiottisca il mare piuttosto!”
La
donna ridacchiò clemente, intimandogli di colmare la
distanza
tra di loro e, avutolo tra le sue braccia, gli annusò avida
i capelli
finalmente tagliati un pelino più corti. “E questo
profumo di gelsomino?”
“Una
pomata che producono le sorelle di Sen Lorenzo. Me l’ha
donata per il mio compleanno la mia zermana Anzola Morexini, la quale
vi si
reca spesso a pregare.”
“An,
così adesso pure le virtuose monachelle induci in
tentazione!
Bravo! I miei complimenti, mio giovane e licenzioso satiro! Quanto fui
sciocca
a leggerti il Boccaccio!”
“Vi
prego, non scherzate! Non mancherei mai di rispetto a quelle
pie donne!”
“Puoah!
Come se a loro dispiacesse!”
“Giuro
sulla mia vita che mi reco lì soltanto per far piacere alla
mia cara zermana: mi ha sempre voluto bene e sarebbe scortesia negarle
un sì
piccolo favore!”
“Quindi
sul serio questi begli abiti e i danari te li regalano i
siori tuoi Barba?”
“Sicuro,
chi altro?”, sbatté confuso le ciglia Hironimo e
molto
probabilmente il candore della sua schiettezza dovette luccicargli
negli occhi
nerissimi, se la patrizia si convinse della veridicità delle
sue parole.
“Nessuno
e prego Dio resti così. Ora però dammi un bacio e
tutta
la tua linguina; poi ti voglio contemplare nella tua livrea naturale
…”
Quegli
incalzanti sospetti da parte della sua domina Hironimo li
conservò tuttavia nel cuore, domandandosi infatti cosa li
avesse scatenati,
ignaro di come la nobildonna non li avesse vociati chiaramente
più che altro
per decenza, incapace lei per prima di concepire il suo amante
impegolato in
disonesti commerci per procurarsi il danaro necessario onde indulgere
comodamente nel lusso. A svelargli l’arcano fu
l’invidia di alcuni giovani
della compagnia che frequentava, cui il vino aveva sciolto la lingua in
una
pungente e accusatrice loquacità.
“Avanti,
sior Momolo, a noi lo puoi confessare: ti fai lavorare?”
Risolini
crudeli.
“Come?
Come? Io lavoro? Mi spii ai fonteghi, ora? Il tuo interesse
mi lusinga, ma come amico non credo tu incontri i miei gusti!”
“Certo,
certo … gusti … dipende quali e di che valore
…
Suvvia, poche parole: da quanto tempo fai il patiens?”
“Da
quando hai incominciato a mettermi in croce con tutte queste
tue stupide domande!”
“Non
te la prendere, si tratta soltanto di una piccola
curiosità: fino all’altroieri parevi Sen Hironimo
nel deserto, adesso vesti
quasi da satrapo persiano! È bizzarro, ecco.”
“Pure!”
“Dai,
dai … da quanto sei un patiens? Mica facciamo la spia,
né ti
giudichiamo …”
“Vorrei
ben vedere! Anche perché da troppo tempo sono stato
“patiens” [4] verso le tue stronzate!”
“Troia!”
“Succhiacazzi”
e Hironimo condì quell’insulto con un pugno ben
assestato alla bocca dello stomaco, per poi alzare in difesa gli
avambracci
quando il suo avversario lo caricò muggendo di rabbia e
indignazione. Finirono
per rotolarsi sul selciato, tra morsi, ceffoni e tirate di capelli,
finché il
giovane Miani, salendo sopra l’altro patrizio e bloccandolo
con le cosce, non
lo stordì tramite un’accurata sequela di cazzotti.
I
suoi compagni ruggirono dalle risate di scherno verso il
contendente sconfitto, peccato però che Hironimo non godette
di quella sua
personale vittoria, digrignando al contrario i denti, umiliato, le gote
rosse.
Quella sera l’occhio pesto, il labbro spaccato e il malanno
di qualche costola
incrinata nonché le occhiate di biasimo e commiserazione di
Madre gli pesarono
doppiamente sulla coscienza.
Era
questione di tempo prima che qualcuno insinuasse come
l’improvvisa eleganza e prodigalità di Hironimo
derivassero da turpi
intrallazzi con qualche facoltoso protettore. D’altronde, i
Dieci, tra le altre
cose anche strenui difensori del mos maiorum, ogni venerdì
si spaccavano la
testa su come frenare la sregolatezza e la smania di lusso nella
gioventù
veneziana, la quale non giudicava abbietto abbassarsi a lavorare e a
farsi
lavorare pur di mantenere lo stile di vita gaudente e agiato. Il
giovane Miani
conosceva tal pratica, addirittura poteva indicare chi la faceva per
negozio e
chi invece la faceva perché quella era la sua natura, come
ad esempio Anzolo
Thiepolo, [5] una persona squisita, amabile, cordialissima e generosa
e,
malgrado il suo difetto, da tutti stimato e mai una parola contro
l’onor suo
ch’egli sul serio si portava da galantuomo. Al contrario, il
giovane patrizio
disprezzava pieno di schifo chi s’esponeva a tali commerci
unicamente per
vantaggio personale. Eppure …
Non
s’era comportato ugualmente? Per carità, non era
mai giunto al
segno di giacere incestuosamente coi suoi zii tuttavia non aveva agito
in
maniera tanto diversa da qualche cortigiana che vendeva i suoi favori
al
migliore offerente, nel caso d’Hironimo il suo affetto.
S’era comportato tanto
disgustosamente quanto i suoi viziosi coetanei, almeno loro erano
onesti e si
facevano mantenere tramite un inequivocabile contratto di do
ut des,
invece d’ingannare con falso amore disinteressato, che poi
tanto falso non era,
egli adorava i suoi avunculi e ciononostante aveva spudoratamente
mercificato
quel prezioso sentimento.
Poiché
quella baldracca della dea Fortuna mai l’aveva favorito,
una volta giunto a quella realizzazione e desiderando il giovane Miani
porvi
rimedio e rassicurare i suoi zii che li frequentava perché
li voleva bene e non
per i loro soldi e i regali, ahimè l’oscuro
mietitore s’apprestava a colpire di
nuovo a suo danno.
Una
mattina di fine novembre del 1505 sier Hironimo Morexini non
s’era più alzato dal letto e il suo
decesso tosto dichiarato, adoprandosi
mesta la famiglia ad organizzare il funerale nella Chiesa di San
Cancian
secondo i dettami del suo testamento. Sennonché, esattamente
nel momento in cui
sier Batista Morexini, trascinato in chiesa a viva forza da sua sorella
madona
Leonora, s’apprestava a malincuore a baciare la fronte del
morto, ecco che
all’improvviso egli cacciò un urlo tremendo e
balzò all’indietro, neanche gli
fosse apparso innanzi lo sdegnato fantasma del defunto
fratello. Per le
dolcissime piaghe di Cristo! L’è vivo! ,
aveva gridato invasato e
all’inizio si pensò alla tipica follia del
rimorso, peccato che, tastando la
pelle del morto, con sommo orrore tutti gli astanti convennero come in
effetti
seguitasse ad essere calda e le carni molli e flessuose, la bocca
vermiglia e
così pure le gote e le gengive. [6]
Immediatamente,
Marco Miani e suo cugino Nicolò Morexini
afferrarono per le spalle e per i piedi lo zio e toltolo dal catafalco
corsero
forsennatamente in canonica con in testa il parroco esagitato, il quale
preparò
un giaciglio di fortuna nella saletta principale e ambedue i patrizi
s’erano
impegnati con ogni mezzo a rianimare il congiunto, tra scosse, ceffoni,
pizzicotti, richiami, apertura forzata di palpebre e bocca; gli
sfregarono le
gambe e le braccia e pure mandarono a chiamare un fisico, questo sotto
lo
sguardo attonito dell’intero clan e degli amici e parenti
acquisiti
dell’anziano patrizio. La vedova, madona Agnese Erizo Morexini
del fu
procuratore sier Antonio [7a], svenne tra le braccia di suo fratello
sier
Sebastian Erizo; la moglie di questi, madona Cypriana Trivixan Erizo,
per
soccorrerla dovette ricorrere ai sali mentre la figliastra Magdalena
Morexini
spronava la pallidissima matrigna a sorseggiare un goto di vin
liquoroso.
Qualcuno si sentì lo stomaco sottosopra e si gridava
ora Miracolo! ora Miserere
Nobis! Vani affanni: gli occhi di sier Hironimo
continuavano a
rimanere saldamente serrati e non reagiva agli stimoli, sebbene la sua
pelle
restasse tuttavia calda. Siccome però ugualmente non lo si
poteva seppellire,
per quel giorno si congedarono tutti i corocciosi e non si fece nulla.
Accanto
al “da Lisbona” rimase testardamente a vegliarlo
sua figlia Magdalena, dopo
aver domandando ai parenti la cortesia di riaccompagnare a casa la sua
sconvolta matrigna madona Agnese. Per i successivi due giorni lei non si
schiodò
dal capezzale del padre, accettando tuttavia di buon grado la compagnia
dei
suoi cugini germani Carlo Morexini e Lorenzo Moro figlio del suo barba
sier
Christofal, dei suoi cugini acquisiti sier Piero e sier Alvixe Diedo,
figli di
madona Helena Erizo relicta Diedo sua zia e del filosofo e dottore
valentissimo
in utroque jure sier Francesco Diedo e ovviamente di Hironimo. Il
gruppetto
s’era accampato in canonica a pregare stavolta per il
risveglio-resurrezione di
sier Hironimo Morexini e anche il giovane Miani in cuor suo
sperò ardentemente
in tal miracolo, acciocché potesse confessare al suo barba
quanto gli volesse
bene ed implorarne il perdono. Nel frattanto, la notizia del morto
resuscitato
era dilagata in tutta Cannaregio e il parroco ebbe il suo bel daffare a
cacciar
via i curiosi, che dalla finestra speravano di scorgere il corpo del
“da
Lisbona”, bramosi d’assistere ad una
rappresentazione dal vivo dell’episodio di
Lazzaro.
“Ti
sono grata, Momolo, d’esser rimasto qui con me. La
perdonanza,
ti ho giudicato male: pensavo che tu venissi a trovare il mio sior Pare
tuo
Barba soltanto per via dei regali.”
Al
che Hironimo non resistette più e, serrando i denti fin
quasi a
mordersi la lingua, si coprì il viso con la mano,
singhiozzando amaramente per
il rimorso e la vergogna. Mal interpretando quello sfogo, Magdalena lo
cinse
per le spalle, portando il disperato germano al petto, intanto che suo
cugino
Carlo gli accarezzava il capo.
“Mo
via, rasserenati: il nostro sior Barba sapeva per certo che tu
l’amavi teneramente.”
Il
giovane Miani se l’augurò, per quanto lui per
primo ne
dubitasse.
Il
miracolo non avvenne e sier Hironimo “da Lisbona”
si raffreddò,
segno innegabile della sua dipartita, sicché si
poté riprendere il funerale
interrotto, non senza qualche disagio tra i partecipanti. Dal canto
suo, il
giovane Miani osservava devastato la figura immobile dello zio,
così come aveva
osservato nove anni addietro quella di Padre, cogitando se fosse una
sua
maledizione, destinandolo a ferire chi amava senza potersi poi
riconciliare,
sottrattogli beffardamente dall’inesorabile morte.
Ladro,
parassita.
E chi non
lo era, tuttavia, a questo mondo? Ed appunto
di lì a poco incominciarono a scannarsi i parenti per
l’eredità, con tutte le
sue spiacevoli conseguenze: giocando d’anticipo sia sui Moro,
i parenti di
Magdalena Morexini per parte di madre, sia sugli Erizo, per parte della
matrigna, sier Batista Morexini aveva preso la nipote orfana sotto la
sua
protezione, dichiarando guerra a chiunque osasse intaccarne il
patrimonio,
forse allo scopo d’espiare la sua condotta ostile nei
confronti del fratello
deceduto.
La
fortuna lo assecondò: infatti non molto tempo dopo Ysabeta
Erizo, cognata di sier Hironimo “da Lisbona”, era
stata messa agli arresti,
incolpata d’avergli vilmente rubato una bella fetta di soldi
ad esequie neanche
terminate. [7b] A seguito d’un lungo e penoso anno di
processo, nel luglio del
1507 la nobildonna venne però assolta dall’accusa,
sebbene il giovane Miani
giurò d’aver sentito la sua cugina Maria Morexini
Querini confidare alla
sorella Querina, alla loro genitrice madona Morexina, a Crestina e a
Madre: “Scommetto che l’ha fatto
per procurarsi la dote, visto ch’è
l’unica delle sorelle Erizo rimasta zitella! Che mossa
disperata! Poereta, mi
fa quasi pena: costretta ad affidarsi alla carità e
all’onore dei fratelli e
dei cognati …”
Al che la
moglie di sier Batista, in un impeto di sorprendente
cattiveria, commentò: “Dopo un
anno trascorso in casa del capitano
delle carceri, nessuno la vorrà più nel suo
letto, neanche dietro
pagamento!” e prendendo nuovo filo per
l’ago. “Sempre meglio
di sua sorella, la cara siora Agnese: il letto del mio povero cugnado
non s’era
ancora raffreddato, che quella mamola di sua mojer non ha esitato a
riscaldarlo
con un altro uomo!”
“Adesso
state esagerando, Morexina: madona Agnese e sier Ferigo
Renier hanno diligentemente atteso l’anno di lutto prima di
sposarsi.”
“Scorgete
sempre del bene in coloro che non lo posseggono, mia
cara Leonora. Tre anni di matrimonio e la nostra cugnada non
è mai rimasta
incinta. Ma oh! Appena-appena terminata la festa nuziale che questo
Renier la
ingrossa e già in autunno lei si
sgraverà del primo figlio. Vi
pare?”
“Ecco
… sier Ferigo è molto più giovane del
mio povero fradelo
vostro cugnado; suo figlio Alvixe non è che un ragazzino
… E’ naturale che
madona Agnese sia rimasta subito pregna di lui …”
“Appunto,
sorela cara: appena ha intascato la sua fetta
d’eredità,
la nostra cara cugnada se l’è svignata e
bondì sioria! Voltà el canton, passà
la passion!”
“Non
sarà invece perché mio fradelo vostro marido,
dopo aver reso
il sangue amaro all’altro mio fradelo vostro cugnado, ha ben
pensato di
tarmare, per la par condicio, anche la nostra siora cugnada? In tutta
onestà,
mi fossi trovata al posto di madona Agnese, anch’io sarei
salpata via da questa
casa al primo vento favorevole!”
“In
effetti, siora amia, era penoso condividere il posto a tavola
con la siora amia Agnese, specie dopo lo spiacevole affare della siora
Ysabeta
…”
“Querina,
invece di parlare a vanvera, finisci una buona volta
quel ricamo: è più di un’ora che non
vai né avanti né indietro! Cosa dirà
il
tuo fidanzato, il sier Daniel Zustignan, a saperti così
pigra e chiacchierona?
Inoltre, madona Agnese Erizo Renier non è
più la tua siora
amia, ha voluto staccarsi da questa famiglia e da estranea allora
verrà
trattata!”
“Guardate
il lato positivo, siora Mare: il secondo matrimonio di
madona Agnese, oltre che a levarvela dai piedi, ha favorito il sior Pare
vostro
marido ad ottenere la custodia della zermana Magdalena”,
s’intromise Maria, interrompendo la genitrice prima che le
sue invettive degenerassero
in volgarità da bordello e salvando la sorella da
un’immeritata lavata di
capo.
Madona
Leonora sospirò affranta: pur di spuntarla sulla cognata,
il suo fratellastro Batista non aveva esitato a sfruttare
l’allora fidanzamento
della vedova Morexini per insinuare dubbi sulla sua
affidabilità e
morigeratezza in veste di tutrice della figliastra. Una donna che non
si fa
scrupoli di risposarsi così presto dalla morte del primo
marito, diceva, non
può allevare onorevolmente una figlia, figurarsi una figlia
non sua. E come
poteva lui, suo barba, permettere che la povera Magdalena fosse
costretta a
seguire codesto soggetto poco raccomandabile e ad andare a vivere in
una casa a
lei totalmente estranea, tra uomini non di famiglia cui nulla importava
di tutelare
la sua onestà? Quei disgraziati, pur
d’accaparrarsi le sostanze di Magdalena,
avrebbero anche potuto vergognarla e costringerla a nozze riparatrici,
per quel
che ne sapevano! Come poteva la sua famiglia di sangue rimanere
impassibile
dinanzi a tale orrenda prospettiva?
Madre
aveva disapprovato ogni singola parola di quell’arringa,
secondo lei infamante e crudele, però Hironimo sapeva che
suo zio aveva
semplicemente vociato ciò che tutti in famiglia pensavano:
ossia che madona
Agnese Erizo relicta Morexini ora Renier, altro non era che
un’avida sgualdrina,
una bugiarda e una ladra come sua sorella Ysabeta, solamente
più furba. Aveva
sfruttato lo scandalo generato dalla congiunta per defilarsi
comodamente
nell’ombra, tra le lussuriose braccia del secondo marito
più giovane di
venticinque anni rispetto al primo, che si mormorava essere stato il suo amante
quando
il povero “da Lisbona” era ancora vivo, adducendo a
somma prova di tal
disonesto commerzio sia la rapida gravidanza della nobildonna sia la
rapida
ascesa di carriera di sier Ferigo Renier, finanziato dai danari della
seconda
moglie.
Ladri.
Approfittatori. Bugiardi. Avidi. Gretti. Tirchi e meschini.
A quanto pareva, Hironimo non era l’unico adoratore del
Vitello d’Oro. Sicché,
consolatosi di questo, ogni suo senso di colpa nei confronti dello zio
e di
chiunque avesse ingannato per soldi si dissolse come la neve di
marzo.
***
La
riconquista di Padova il 17 luglio 1509 e l’eroica
testardaggine di Treviso che preferiva morire con le armi in mano
piuttosto di
sottomettersi a Maximilian von Habsburg equivalsero alla fine dello
spiraglio
di disgrazie e l’inizio dell’inaspettata riscossa
della
Serenissima. L’eterna notte che la Lega di
Cambrai voleva far calare
su Venezia invece le aveva portato consiglio, giacché
proprio di notte la
Signoria aveva recuperato Padova e la seguente mattina chi non veniva
arrestato
e deportato alle Torreselle o alle Nuovissime per tradimento, si vedeva
la casa
saccheggiata senza pietà alcuna, specie i nobili padovani.
Sier Andrea Griti
aveva scritto alla Signoria che si rammaricava di tal comportamento da
parte
dei soldati e degli Arsenalotti: in realtà, aveva gongolato
peggio d’un riccio
alla vista dei palazzi di quei traditori depredati e vandalizzati,
anche
perché, quando Padova s’era consegnata
all’Imperatore, analoga sorte era
toccata a quella dei patrizi veneziani.
Occhio
per occhio, dente per dente, razzia per razzia, ladro per
ladro.
L’ondata
d’entusiasmo rinsaldò il fronte veneziano e tra
agosto e
settembre oltre ai soldati mercenari più di 300 patrizi,
tutti volontari e a
spese proprie, erano partiti per difendere Padova che Maximilian aveva
giurato
di riprendersi, minacciando punizioni bibliche e ribollendo di stizzosa
rabbia
per averla perduta proprio mentre dormiva. Ad ambedue i fronti era
chiaro che
lì si sarebbe giocata la sorte di Venezia, sola contro tutto
il mondo.
Contagiato
dall’impeto guerriero e la smania di riscatto dopo
Agnadello, Hironimo s’era arruolato nei cavalleggeri e
assieme ai suoi fratelli
Lucha e Marco, al suo cugino germano Piero Morexini di sier Batista e
agli
altri cugini Batista e Jacomo Miani di sier Polo Antonio erano partiti
alla
custodia di Padova, tutti coi loro soldati provigionati.
All’ultimo s’era unito
anche Marco Contarini, l’amico di Hironimo, con la scusa di
controllare la
portata dei danni sicuramente inflitti alle loro proprietà a
Piazzola sul
Brenta, avendo infatti udito notizie poco rassicuranti sui pesanti
saccheggi ai
danni dei beni dei Veneziani e filo-veneziani in tutto il
padovano.
L’antico
Castello di Piazzola [9] dei Contarini era stato
costruito dai conti Dente attorno all’anno Mille a protezione
delle sue genti
dalle scorrerie degli Ungari, sfruttando l’ansa della Brenta
sia come confine
naturale sia come via di comunicazione. Secoli dopo il Castello,
divenuto nel
frattanto della famiglia Belludi, era stato acquistato da
Nicolò I da Carrara,
signore di Padova, probabilmente come strategica postazione di
controllo dei
suoi territori; Francesco I da Carrara l’aveva regalato
assieme a 1800 campi al
figlio naturale Jacopo, valoroso condottiero e peritissimo nel mestiere
delle
armi. Da lui aveva ereditato, nel 1406, sua figlia Maria natagli nel
1395 dalla
moglie madona Luzia Contarini della Madonna dell’Orto e
questo non perché Jacopo
non avesse avuto altra prole, bensì perché erano
stati proprio i suoi medesimi
figli Paolo e Bonifacio ad aver denunciato la sua alleanza con la
Repubblica di
Venezia ai danni del fratellastro Francesco Novello, denuncia che gli
era
costato l’arresto, la tortura e la morte, il 9 aprile 1405,
fatta passare dal
Novello per suicidio. In segno di ringraziamento per i servigi e la
fedeltà di
Jacopo da Carrara, la Serenissima aveva concesso a Maria la
proprietà dei feudi
paterni a scapito dei fratelli, i quali, senza più alcun
titolo e terra, erano
destinati a morire in esilio. [10]
Maria da
Carrara si era poi sposata nel 1418 in sier Nicolò
Contarini da San Cassian, portandogli quindi in dote il Castello, i
villaggi di
Piazzola, Sant’Angelo e Santa Maria di Sala, trasformando il
paesotto di
Piazzola nel fulcro centrale e sede amministrativa delle loro
proprietà,
accorgimento assai utile specie quando i Contarini si recavano in loco
per
curare l’andamento dei raccolti. Ivi avevano mantenuto gli
antichi privilegi
carraresi, ossia godevano dei diritti di mercato, pascolo, mulino, sui
passi di
barca sul fiume Brenta a Carturo, Carbogna e Camposanmartino,
nonché di guardia
armata e del giuspatronato della chiesa.
Il corpo
centrale del Castello si presentava quindi assai semplice
e funzionale all’ambiente rustico, un po’ palazzo
un po’ magazzino, con solo
due piani e coronato ai vertici meridionali da due torrette. Al termine
del
viale alberato ad est della piccola fortezza si trovava un mulino di
proprietà
dei Contarini sebbene non più funzionante poiché
posto su un’ansa della Brenta
rimasta negli anni all’asciutto. Poco distante sorgeva la
chiesetta e il
villaggio vero e proprio.
I due
giovani veneziani, attraversando quest’ultimo rapidamente a
cavallo con la loro piccola scorta, rimasero basiti e turbati dinanzi
all’impietosa miseria lasciata da quei quarantadue giorni
d’occupazione
imperiale e abbondante saccheggio dietro la scusante di rifornire
Padova: le
basse case dai tetti a cuspide si presentavano scheletriche e annerite
dal
fumo, scricchiolanti per qualche trave o pezzo di muro che si sfaldava
sotto il
loro medesimo marcio peso e cadeva rumorosamente al suolo,
l’unico rumore in
uno sconfortante silenzio da cimitero. La chiesetta aveva avuto sorte
migliore
grazie al materiale più nobile, ancora in piedi seppur
abbondantemente
depredata e dietro di essa, neanche fosse stato invaso dalle talpe, il
camposanto era tutto un tumulo più o meno fresco, senza
croci, di gran fretta.
I campi erano stati abbandonati a se stessi e gli alberi tagliati
indiscriminatamente, specie quelli decorativi del viale principale e
quelli
rimasti in piedi fungevano da forche improvvisate laddove i contadini,
prima
d’evacuare la zona, per sfiziosa vendetta avevano appeso i
soldati nemici o
quel che rimaneva di loro. Quanto al Castello, ancora portava i segni
di razzie
e bivacchi, le porte scardinate e le finestre prive d’imposte
e fracassate,
quel poco che v’era nei magazzini pignolosamente rubato
così come le scuderie e
le stalle degli animali vuote e semi-demolite. Niente però
paragonabile al
puzzo vomitevole che colpì le loro narici, non appena Marco
e Hironimo
entrarono dentro l’edificio, appestati dall’acre
odore delle feci e urine, sia
animali che umane, accompagnato da quello delle piume dei volatili che
si
libravano stizziti in aria al loro passaggio, reso difficoltoso
dall’accumulo
d’immondizia sui pavimenti un tempo lustrissimi.
“Sacramento!”,
ringhiò il giovane Contarini, nascondendo il viso
all’interno del gomito. “Sti cancari mi hanno
impestato la casa, sembra un
cagatoio! L’hanno fatto apposta perché non
c’era nulla da rubare! Maledetti!”
Evidentemente,
interpretò il ventenne, quello corrispondeva al
“Grazie!” dei saccheggiatori – qualsiasi
fosse stata la loro provenienza – nei
confronti dell’usanza dei nobili veneziani di portarsi seco i
mobili e ogni
oggetto di valore, ogniqualvolta ritornavano in laguna dalla campagna,
non fidandosi
sostanzialmente dell’onestà dei locali.
Sicché, avendo occupato il padovano
prima ancora ch’incominciasse la villeggiatura, quegli ospiti
sgraditi non
avevano trovato un granché, riempiendosi il sacco di poca
roba e di scarso
valore e a spregio avevano insozzato il Castello.
“O
sono lerci di loro e basta!”, la buttò sul ridere
Hironimo, pur
continuando a guardarsi alle spalle, insospettito sia dal poco
rassicurante eco
dei loro passi sia da un altro odore, più flebile ma fresco,
sotto quello di
fogna a cielo aperto. “Marcolin cor mio, cosa
d’aspetti da questi barbari?
Fosse per loro, ancora adorerebbero nudi gli alberi!”,
asserì lentamente,
mentre una mano scivolava sull’elsa della sua spada e
l’altra s’appoggiava
sulla spalla di Marco, costringendolo a fermarsi e a cambiar direzione,
subito
imitato dalla loro scorta, anch’essa in allerta.
Gli occhi
del giovane Contarini si sgranarono sorpresi e
intimoriti, le pupille dilatate sul punto indicatogli
dall’amico: tendendo le
orecchie e annusando ben bene l’aria, i due giovani captarono
un costante
brusio di sottofondo – voci, indubbio! –
nonché l’affumicato d’un fuoco
alimentato da legna malsana e paglia. Quand’ecco che il
borbottio s’infittì
prima e si chetò poi all’improvviso e i patrizi
coi loro compagni ebbero appena
il tempo d’alzar la difesa che dal buio di un corridoio
sbucarono urlando tre o
quattro uomini armati di picche, i quali tuttavia tanto velocemente
erano
comparsi, tanto velocemente s’impietrirono sul loro posto.
“Cul
dil cancaro! Domine Cribele! Cagasangue! Christo d’on
Christo! Fago humilentissima reverenzia a lori missieri bei
colendissimi!”, si
sciorinò il loro capo in un comico balletto
d’inchini e salamelecchi, le armi
gettate di riflesso ai piedi di Marco ed Hironimo, che li fissavano tra
il
perplesso e il guardingo, avendo riconosciuto dai loro vestiti rozzi e
laceri
dei contadini e anche male in arnese, tranne per le picche,
probabilmente
sottratte a qualche cadavere. “Vuostre stilenzie, vuostre
spaternitè
lostrissime, a me rebuto, (riverisco, ndr.) cari missieri! Bienvegnui
en tera
de Sen Marcho!”, continuò ansioso
l’improvvisato scalco zeneral, spiando di
sottecchi le affilate armi del gruppetto di veneziani davanti a lui e
ai suoi
compagni. “Cossa ve menò chialondena? (qui, ndr.)
Ze stà vinta o perdua ea
guera?”
“Ralegherati,
ti et la toa zente che se tegne fiel: par vuialtri
xé finio el timor, horra vuj seti tutti soto ea protetion di
la Signoria, la
qual fortissima governa Padoa e la custodisse dai barbari”,
replicò solenne
Marco, facendo cenno ai suoi uomini di rifoderare le spade.
Avvicinandosi al
contadino, che di riflesso s’esibì
nell’ennesima riverenza, si presentò:
“De
pì, ti te gh’ha da satre che mi sun el castelan,
el patron, el fio dil
magnifico sier Zacharia Contarini dai Scrigni!” e neanche
avesse nominato
Missier San Marco o il Serenissimo suo rappresentante in terra, ecco
che il
villano, scattando quasi sull’attenti, si girò
verso il suo compare, esclamando
sorpreso ed eccitato:
“El
paron, saivù?”
“El
paron!”, informò incredulo il suo interlocutore un
altro suo
compagno ancora e quest’ultimo si voltò, urlando a
quelli dietro: “El paron!”
“El
paron?”, s’intromisero da un angolo delle voci
femminili e di
bambini, tosto seguite dalle loro teste che facevano capolino,
incuriosite.
“Pota an l’amor che bell’om!”,
ridacchiarono tra di loro due ragazze, una delle
quali, notò Hironimo, gli ricordava per affilatezza di volto
e per fissità di
sguardo una volpe. Quella s’accorse del suo scrutinio e gli
strizzò complice
l’occhio, esibendogli un aguzzo sorriso di denti
sorprendentemente bianchissimi
e forti a guisa d’araba.
“Che
ci fate in casa mia? Chi siete? Perché non vi siete
rifugiati
a Padoa, al sicuro?”, li interrogò Marco adesso in
tono assai più colloquiale,
rilassando così di colpo l’atmosfera, tanto che i
villani tirarono un grosso
sospiro di sollievo per tal benevolenza nei loro confronti e pure le
donne e i
bambini s’azzardarono ad abbandonare i loro nascondigli.
“Se
Diè m’ai (Che Dio m’aiuti, ndr.),
missier beo, no semo ladri!
Aldì (sentite, ndr.), semo tuti scapolai di campi, di colli
… poara zente che
gh’ha corso coi soldé
et slançeman (lanzichenecchi, ndr.) drio del cul: i
nuj volé apichar, tajar en tocherin da dar a magnar
a li porzei, depo’
haber menà via le nuostre
christiane! Saivù perché? On
de sti
cancari, on can de quel fio d’on can dil Trisin, gera
vegnù a dirghe a
nuialtri: “Avé da darghe a nui biave,
fromento, bestie ché el paron gheo
comanda.” Mi gh’ho domandé:
“Et chi zelo el paron?” Queo:
“L’Imperaor
Maximiano, el Cesar Augusto!” Mi: “Ma mi
depo’, se ti te me
meni via tuto per darghe da magnar al Cesare Augusto, mi et la mia
famegia
cossa fagemo sto verno?” Queo: “V’acorderìo
cum l’Imperaor!”; Mi: “Sì,
a s’accorderón in lo culo!.”
Nuj no semo traditoron ribiegi, semo tuti per
il domini Missier Sen Marcho et a quel can mi no gh’ho
dà gnente!”, raccontò il
contadino concitatamente la sua storia, gesticolando e mimando i
dialoghi avuti
con lo sfrontato inviato di Leonardo Trissino, rappresentante del Re
dei Romani
e governatore di Padova in attesa dell’arrivo
dell’Imperatore. La pernacchia
che Treviso aveva elargito all’Habsburg aveva ringalluzzito i
villani, i quali
avevano colto la palla al balzo per ribellarsi ai nobili locali e darsi
alla
macchia se potevano, rifiutandosi di fornire il benché
minimo aiuto agli
invasori e anzi, tormentandoli in continui ed improvvisi agguati
notturni.
Aveva omesso, il contadino, il piccolo dettaglio
dell’uccisione dell’inviato e
dei suoi compari, non aspettandosi costoro quell’imboscata da
parte di
ignoranti bifolchi, quando invece loro s’erano aspettati
eccome una visita da
parte di quei ribelli traditori e già s’erano
previamente organizzati.
L’uomo
narrò poi dei saccheggi operati da parte delle truppe di
Maximilian, il quale man mano che s’avvicinava a Padova aveva
dato ordine di
sequestrare ogni cosa potesse servire come cibo, come strumento per i
guastatori e i genieri, come arma, come scaldaletto umano. Rubavano e
ammazzavano i contadini che s’opponevano, terrorizzati questi
all’idea di
perdere anche quel poco che possedevano, traditi dai loro stessi nobili
che pur
di darla sui corni ai Veneziani li gettavano in pasto alle fameliche
gole dei
Collegati. Villaggi bruciati, donne violentate e rapite, bambini uccisi
e
alberi pieni d’impiccati. I Tedeschi in
particolare soffrono di sto
gran mal della lupa: non si saziano giammai!, continuava,
paragonandoli alle cavallette, alle sanguisughe, ai
pidocchi e alle
zecche. Quand’erano in azione – spiegava - pareva
l’Apocalisse srotolarsi ai
loro occhi e dove incominciavano loro continuavano i Francesi, genia
malefica e
crudelissima, poi i Ferraresi – ladri e assassini!
– per finire con le truppe
italiane, altra marmaglia puzzolente, tutti figli bastardi di cagna
bastarda e
le cui mogli e figlie, asseriva serissimo il contadino, erano le
rinomate
puttane dei Tedeschi e dei Francesi. Tramite fosche pennellate dai
gusti molto
macabri, il contadino descrisse ai due patrizi delle lunghe marce
notturne per
campi e per i Colli Euganei; della paura di morire o infilzati o
affamati o
entrambi e perfino della paura di fermarsi a cagare, con le orecchie
sempre
tese onde captare il vociare dei nemici, il rumore dei loro passi,
delle
armature e del cigolio delle ruote di cannone. Si dilungò
infine sullo
sgozzamento di alcuni militari stranieri in cui erano sfortunatamente
incappati, morendo ammazzati questi nel sonno tra grandi convulsioni e
rantoli.
Dei loro abiti, viveri, danari, pezzi d’armatura e delle loro
picche s’erano
poi largamente serviti, non è giammai peccato rubare al
ladro.
“Orbentena,
missier beo, a ghe semo pur rivai a sto Castelo, che a
nu ghemo pí augurai d'arivarghe!”,
terminò il contadino le disavventure sue e
del suo gruppo, assicurandoli di come non avessero preso proprio nulla
dal
Castello, solo una stanza per starsene riparati, rifocillarsi, dormire
e
riscaldarsi quel giusto per levarsi l’umidità
dalle ossa dopo troppi sonni
sulla nuda terra. Già progettavano di raggiungere Padova per
dare una mano alla
sua custodia, parola d’onore che non mentivano!
“Sì,
l’altra gente?”, volle sapere Marco, non
tornandogli un
piccolo dettaglio.
“Chi?”
“La
gente di Plazóla!”
“An!
Muorti o ané (andati, ndr.) missier beo, come tutti
chialondena: chi pol se salva; chi no, dabaso!”, riassunse
l’uomo
sbrigativamente la faccenda, indicando o il pavimento sotto di lui o la
fantomatica direzione verso la città.
“Co’ ghe semo arivai, no ge gera nigun,
se no sto spion!”
“Spion?”
Rivolgendosi
al ragazzo vicino a lui, il villano lo istruì
berciando: “Moà, cori lesto a torre quea
bestia!” e ai due giovani patrizi: “Mi
criù (credo, ndr.) ser foresto e da com’el move ea
bocha mi criù ser on can de
Magna!” (Alemagna, ndr.), gli confidò compiaciuto,
neanche stesse discutendo
d’un vitello appena acquistato a buon prezzo al mercato.
“Gheo portemo a
missier el Podestà e al Provedador, per ea taja. An, el
vegne! Cancaro! Te
vegnisse ea peste roxa!”
Tirandolo
per un guinzaglio improvvisato, il giovane contadino suo
compare portò al cospetto dei due nobiluomini un uomo assai
malmenato, in
camicia e mutande, le braccia legate e costrette all’indietro
da una tavola
sulla schiena. La villanella dal viso di volpe gli elargì un
mirato e doloroso
calcio sui reni, costringendolo in ginocchio. Dal modo in cui
imprecò tra i
denti si tradì effettivamente l’accento straniero
del prigioniero, il che non
sorprese i veneziani, attendendosi infatti la presenza nel territorio
di
esploratori sia delle truppe imperiali che pontificie, onde carpire
informazioni sullo stato di difesa di Padova.
“Ora
capisco”, gli rise in faccia il giovane Contarini, le iridi
scure però dardeggianti di fuoco colmo d’odio
ferocissimo, “da dove proviene
questo tanfo di merda!”
Hironimo
si sventolò sotto il naso, sogghignando beffardo.
“I
sudditi rispecchiano sempre il loro signore, nevvero?
“Pensavi
sul serio di gironzolare indisturbato a casa nostra,
neanche fossimo un’osteria? An? Credevi che queste terre sul
serio appartenessero
al tuo codardissimo Imperatore?”
Peccato
che l’esploratore li fissasse inebetito, incapace di
comprendere quanto dettogli e dimenandosi sbrodolò nella sua
aspra lingua un
rivo sconclusionato di parole stavolta ai suoi ascoltatori
incomprensibili.
Dinanzi a
tal spettacolo il giovane Miani scoppiò in una fragorosa
risata e, acutizzando la voce in una sardonica cantilena, gli
cinguettò
falsamente compassionevole: “Ma guardatelo! Poverino, che
fai? Non capisci? Non
ci senti? Vuoi parlare? Ragli, asino? E-sen!”,
gli scandì accorto
l’ultima parola, che calmò di botto
l’esagitato prigioniero, la sua bocca
comicamente penzolante in una O giottesca.
Dopodiché,
agitandosi peggio d’un demonio nell’acquasantiera,
il
soldato tentò di balzare in avanti o per insultare o per
mordere la faccia di
Hironimo, destino risparmiatogli da un cazzotto da parte del capo dei
contadini
fuggiaschi, che lo spalmò per terra a mangiar polvere.
“Momolo
… che gli hai detto?”
“Asino,
una parola imparata dal sior mio Pare durante la
Guerra del Tirolo. Può essere che codesto somaro venga
appunto da quelle
bande.”
“Dunque
in Tirolo non dicono Esel come gli
altri
Todeschi?”
“Te
parestu che mi sonjo dotor de todesco? Se c’è una
sola cosa
che conosco bene degli imperiali, è che sono tutto stomaco e
niente spirito,
bravi ad arraffare l’altrui senza dar nulla in
cambio!”
Marco
strinse la bocca in una linea dura, istruendo i suoi soldati
di pigliarsi il prigioniero e di tenerlo ben sottocchio, questo dopo
aver
rassicurato il capo dei villani sulla tutela del suo investimento, anzi
pure
gli diede qualche ducato dalla sua scarsella a titolo di garanzia, che
non si
sarebbe intascato il premio al posto loro. L’uomo
dondolò in una serie di
profonde riverenze e fece cenno alla sua brigata di seguirlo, uscendo
assieme
ai provigionati dal Castello. Soltanto i giovani Miani e Contarini
rimasero
indietro, quest’ultimo dirigendosi di corsa verso quella che,
in estate,
fungeva da sua camera da letto.
“Zò,
Marcolin! Spetame almanco! Zò!”, gli
gridò dietro Hironimo,
partendo rapido all’inseguimento e bloccandosi di colpo alla
vista del suo
amico a bocconi sul caminetto, intento a rovistare forsennatamente tra
le
ceneri. “Cor mio …”
E per la
prima volta da quando la guerra era incominciata, Marco
Contarini scoppiò a piangere, sfogando tutta la
frustrazione, il dolore,
l’angoscia che per amor di sua madre aveva ingoiato a viva
forza.
Hironimo
si portò in un battito di ciglia accanto a lui,
inginocchiandosi, e lo cinse per le spalle sconquassate dai singulti,
portando
il viso del ventenne al suo petto, cullandolo,
accarezzandogli i
capelli castano-rossicci e sussurrandogli ogni parola di conforto che
gli
sorgeva sulle labbra, il suo sguardo puntato sul cumulo scuro dei
rimasugli di
un fuoco che doveva esser stato assai vivace.
Nella sua
stanza il giovane Contarini aveva lasciato indietro un
mobiletto di modesta fattura, che però conteneva le sue
“bagatelle estive”,
ossia quei sonetti, canzoni, poemetti e brevi commediole
ch’egli componeva per
suo diletto e per la sua stretta cerchia di amici intimi,
così da allietare i
pomeriggi e soprattutto le afose serate in campagna. Evidentemente,
cogitò il
giovane Miani, non avendo giudicato d’alcun valore quel
mobile e quei
fascicoli, i soldati nemici avevano ben pensato d’utilizzarli
come
combustibili, tenendosi probabilmente il quaderno di cuoio contenente
gli
scritti di Marco.
Ad occhi
profani, forse piangere per tali facezie poteva apparire
ridicolo e puerile, ma Hironimo sapeva che non era per i suoi
componimenti in
sé che Marco singhiozzava: era per ciò
ch’essi avevano rappresentato.
La loro
gioventù, la loro spensieratezza, la loro estate, rubata,
mutilata per sempre dall’altrui avidità e invidia.
Loro, i giovani, eletti a
capro espiatorio per le colpe e la cecità dei
padri, loro ch’avevano
appena incominciato a vivere, novelli Atlanti si dovevano sobbarcare di
una
responsabilità tremenda, costretti ad affrontare oltre alla
morte anche le
conseguenze a lungo termine della guerra, paura accompagnata
dall’incertezza
per la sorte propria e delle rispettive famiglie in caso di sconfitta.
Quanto
lontani gli apparivano adesso gli anni così lieti della
giovinezza! Il loro
mondo sicuro e stabile era stato bruciato come quei fogli pieni
d’ingenui
idilli amorosi ed eroici sogni del futuro; deturpato e inselvatichito
come il
giardino del Castello, un tempo rigoglioso e luogo di rifugio dal caldo
e di
confidenze tra amici fraterni; come il Castello stesso, violato e
insozzato.
Pensare
che finora a lui era anche andata relativamente bene: in
molte occasioni Hironimo aveva provato ad immaginare una sua reazione,
se gli
fosse mai arrivata la notizia della cattura e deportazione di uno dei
suoi
fratelli in Francia, dubitando di potersi comportare tanto stoicamente
quanto
Marco. Gli si era stretto il cuore al solo pensiero
dell’incerta sorte del suo
amico Piero Contarini, di quell’introverso e dolcissimo
pulcino “peritissimo nelle
lingue greca et latina” che tallonava tenacemente lui, Marco
e il suo più
spigliato gemello Polo, peggio d’un’ombra. Ancora
Hironimo poteva udire l’eco
della sua timida risata riecheggiare nelle stanze del Castello o nel
giardino,
quando a braccetto, in una sorta di scoordinata catena umana,
deambulavano
sghignazzanti tra i sentieri sulla collinetta decorativa o sulle rive
del
laghetto artificiale, scherzando, giocando a palla, confidandosi
segretucci o
cantando qualche frottola comodamente seduti sul soffice prato, sotto
le verdi
fronde degli alberi. Aveva avuto una tal faccia da funerale, Piero, il
giorno
in cui dovette lasciare Venezia per recarsi a Cremona insieme a sier
Zacharia,
elettovi podestà e capitano, neanche avesse inconsciamente
intuito di salutare
la sua famiglia e gli amici per l’ultima volta.
Solo
Hironimo aveva ascoltato le domande a vuoto proferite da un
catatonico Marco, mentre leggeva e rileggeva straziato e incredulo la
tremenda
notizia della caduta di Cremona e della cattura di suo padre e del
fratello e
dell’immediata deportazione a Milano; solo a lui il giovane
Contarini aveva
confidato le sue intime paure di non poter rivedere mai più
né Piero né sier
Zacharia, perduti forse per sempre, ostaggi in terra straniera, morendo
magari
in un misero tugurio senza il conforto e l’affetto dei loro
familiari, senza
poterli contemplare un’ultima volta né bearsi
degli amati contorni dei paesaggi
della loro madrepatria. Inutilmente sier Zacharia avrebbe in seguito
tentato di
consolarli, scrivendoli da Marquis, presso Parigi, che tuto
il
despiazer che io ho, è che io dubito de vostra madre e de
tutti vui più che de
mi, preoccupato egli più della sorte della sua
famiglia che della propria.
Sull’ultimogenito, invece, poche parole: Piero
è andato a Lixignan de
Lion, in uno castello sopra la strada de andar da Bles a Perpignan,
cercha 60
miglia lontan da Bles, et credo che el stagi ben ed
era quel “credo”
che tormentava e avrebbe tormentato per anni Marco, spronandolo assieme
ai
fratelli Francesco e Phelippo ed i cognati a trovare ogni stratagemma
per
liberarli. “Credo” stia bene – non
“so” che sta bene. Oh, Dio!
(In quel
momento, Hironimo poteva soltanto immaginare la pena
dell’amico; neanche un anno dopo e l’avrebbe
sperimentata sulla sua pelle, alla
cattura e deportazione di Lucha in Alemagna, quando anche lui avrebbe
dovuto
soffocare sul cuscino le proprie lacrime per non ammazzare Madre col
suo
dolore; quando anche lui e Marco avrebbero dovuto escogitare ogni
astuzia per
liberare il fratello; quando anche lui avrebbe provato una smania
assassina
verso ogni foresto, ogni traditore)
“A
sti cancari, sti baroni, sti maladeti gliela faremo pagare,
vedrai!”, mormorò solenne il giovane Miani,
circondando con le mani il viso
umido di Marco e costringendolo a guardarlo dritto negli occhi.
“Roma, Magna,
Franza, Spagna, Frara – che ci diano pure battaglia, questi
lupi vigliacchi
ch’attaccano in branco! A Padoa troveranno solo sangue e
vergogna! La vendetta
e la loro vita sono nostri e non sai che, a riscuotere i debiti, noi
Veneziani
abbiamo sempre eccelso?”
Il
giovane Contarini, tirando su il naso, abbozzò ad un timido
sorriso di sghimbescio, mentre l’amico fraterno gli asciugava
maternamente
premuroso le lacrime coi pollici. “Sangue e
vendetta”, ripeté il ventenne con
ritrovata freddezza, inspirando profondamente e una volta calmatosi,
s’erse in
piedi, pronto ad affrontare stoico quel folle mondo.
Quell’episodio,
oltre ad accrescere l’odio nei confronti dei
Collegati, aveva esacerbato il disprezzo d’Hironimo verso i
traditori sia
padovani sia in generale di tutti coloro che nel momento del bisogno
avevano
voltato le spalle alla Signoria. Non gl’importava che
quest’ultima stessa aveva
sciolto le sue città da ogni vincolò di
fedeltà pur di salvarle da saccheggi e
massacri: nell’intransigenza della sua gioventù,
dove ogni cosa è bianca o
nera, egli non concepiva alcuna giustificazione per quel voltafaccia,
quello
sputare sul piatto che li aveva nutriti e arricchiti. Nel suo intimo
provava
una perversa soddisfazione nell’apprendere delle angherie
subite dalle città
occupate, delle ruberie travestite da tasse e balzelli imposte dai
sovrani
stranieri. Se n’erano resi ben presto conto
- quei traditori! -
degli svantaggi del cambio di governo, della mano dura del nuovo
padrone, il
cui unico scopo corrispondeva allo sconsiderato sfruttamento delle loro
risorse
senza però investire in infrastrutture per consentirne un
continuo ciclo di
rinnovamento.
In casa
aveva difeso appassionatamente le razzie ai
palazzi dei nobili padovani: Hanno fatto bene,
probabilmente era roba
già rubata! E ancor di più gli
era piaciuto che avessero alloggiato
lui, i suoi fratelli e i suoi cugini in una casa a queste canaglie
confiscata.
Essa era stata risparmiata dalla depredazione molto probabilmente
poiché tra le
ultime, quando oramai l’impeto rubereccio s’era
calmato. Nondimeno la sua
proprietaria, domina Gigliola, si era dovuta ugualmente veder condotti
via il
marito e i figlioli a Venezia “per sicurezza loro e di
Padova”, senza ulteriori
spiegazioni, senza un addio e senza abiti di ricambio se non quelli
indosso. Ad
acuire il malessere della nobildonna s’era aggiunto
l’arrivo dei patrizi
veneziani e dei loro provigionati, temendo infatti ella per il pudore
delle sue
figlie: in tutta onestà né Hironimo né
i suoi parenti nutrivano alcun interesse
verso di loro, tuttavia far macerare nel dubbio la loro signora madre
era un
passatempo troppo divertente, così come punzecchiare lei e
le ragazze di
continuo tramite innumerevoli dispetti e servirsi largamente di ogni
bendiddio
della casa, a spese ovviamente della poveraccia.
Soltanto
Lucha disapprovava quel loro comportamento, più per timor
che i fratelli e cugini colmassero la misura e si cacciassero nei guai
col
provveditore, che per simpatia verso domina Gigliola che anzi pure lui
detestava. Taceva tuttavia in pubblico e, pur sorvegliando acutamente i
suoi
minori, li lasciava fare, serbando eventuali predicozzi e rimproveri
nel
segreto delle loro stanze, laddove ricordava loro di non comportarsi da
pirati
saraceni e puttanieri, specialmente Marco adesso ch’era
accasato con moglie e
figli, peccato che alla menzione di Helena suo fratello scattasse
inviperito,
ribadendogli di non necessitare dei suoi sciocchi consigli. Piccoli
screzi a
parte, dinanzi alla padrona di casa i Miani e i Morexini apparivano
saldamente
uniti nella loro ostilità mascherata da paternalistica
benevolenza e così
doveva essere, per tenere la nobildonna sottomessa e timorosa. Le
costava
obbedirli, lo notavano e ne approfittavano sfacciati, ciononostante
ella non
poteva sottrarsi né d’altronde glielo aveva
consigliato il medico di schierarsi
dalla parte dell’Imperatore, s’assumesse dunque le
sue responsabilità.
Quanto ad
Hironimo, egli aveva la sua volpetta a tenergli
compagnia dopo i turni di ronda ai bastioni, sebbene in cuor suo egli
avrebbe
di gran lunga preferito quella della sua domina. Se ancor sua lo
era, poi. L’ultima lettera di lei …
Hironimo
si bloccò davanti il portone d’ingresso del
palazzo in
cui era alloggiato, sgranando gli occhi perplesso: nel suo cupo
meditare non
s’era accorto tranne all’ultimo della presenza di
Lena all’uscio, seduta
imbronciata sugli scalini, la guancia appoggiata su di un pugno e
l’altra che
giocherellava con le cuticole delle sue dita. Che
cosa ci faceva lì? si
chiedeva, se già aveva terminato il suo turno a portar da
bere agli zappatori
alle mura, perché non se ne stava in camera sua a riposarsi?
“Lena”,
la chiamò allora Hironimo e la ragazza levò lo
sguardo in
alto verso il patrizio, per poi voltare di scatto il viso
dall’altra parte, le
labbra piegate infantilmente all’ingiù.
“Non mi saluti, ora?”, la rimproverò
scherzosamente il giovane, accarezzandole le gote con due dita.
“Paron,
stilenzia, a me rebuto”, obbedì quella di
controvoglia,
borbottando sia stizzita sia ironica, provocando nell’altro
un perplesso
arcuare di sopracciglio. Lena si scostò brusca dalla carezza
del Miani e si
passò la mano sugli occhi, strofinandoseli forte al punto
d’arrossarli.
Hironimo
si chinò su di lei, d’un tratto preoccupato,
cercando
d’incrociare i loro sguardi. “Pianzestu?”
“Siornò,
dea fumegàra (fumo, ndr.) en li ocij”, rispose in
fretta
la ragazza, ponendosi in piedi per rientrare dalla porta della cucina e
quell’atteggiamento così sospetto non piacque per
niente al giovane veneziano,
che le intimò perentorio, afferrandola celere per il polso e
così bloccandola:
“Fatti
guardare, non ho mica pressa di rientrare!”
Impossibilitata
a fuggire, Lena si morse l’interno della guancia,
incerta se soddisfare o meno il palese comando del ventitreenne
patrizio.
“Spicciati,
femena, son stanco e non ho né tempo né voglia di
giochetti!”
“Vi
servo, paron, ste’ seren”, dichiarò
stavolta più docile la
contadina, girandosi verso Hironimo e permettendogli di squadrarla da
capo a
piedi, pur seguitando ad evitare il suo sguardo, ora più
vergognosetta che
arrabbiata.
In pochi
giorni, Lena non pareva più la medesima emaciata
fuggiasca vestita di cenci e ricoperta di polvere e fango, che da
Piazzola era
giunta a Padova assieme agli altri suoi compari: il giovane Miani, cui
ella
s’accompagnava, di persona aveva provveduto a rimetterla in
sesto e adesso la
contadina già si presentava come un’altra persona,
il suo musetto di volpe più
pasciuto e roseo e l’occhio limpido e soddisfatto di chi
possedeva lo stomaco
pieno. La vecchia sottana e camicia, ambedue lerce e stracciate, erano
state
sostituite da una veste celeste alla rustica sopra ad
un’altra tela di color
biava, con un busto alquanto stretto che strizzava e sollevava il seno
pieno di
giovane donna e detto busto era allacciato con alcuni cordoncini grossi
in modo
che si vedesse la camicia bianca sottostante. Onde evitare di sporcare
l’abito
nuovo, la contadina s’era legata la veste alzandola con una
cintura di cuoio
sopra l’altra che aveva di sotto e mostrando quindi una bella
porzione delle
caviglie formose e ovviamente le pianelle.
Il
dettaglio più curioso della sua persona, quello che subito
attirò Hironimo, fu il velo di bambagia sul suo capo, visto
che di solito Lena
lo teneva allacciato al collo e lo sollevava soltanto a
mezzodì o in chiesa.
Adesso invece oltre a coprire i suoi ricci biondi celava anche mezzo
volto,
tanto da rassomigliare ad una di quelle donne turche quando
deambulavano fuori
casa.
“Coss’elo
sto negozio?”
“Gnente,
paron.”
Hironimo,
non credendole, per tutta risposta le scoperse la testa
e digrignò irato i denti all’indegno spettacolo
offertogli. “Chi è stato?”, la
costrinse a rivelargli, passando lievissimo il polpastrello sul livido
gonfio e
pulsante sullo zigomo della contadina. “An?”
“Nigun.”
“Bugiarda.”
“Cossa
v’importeu? Gi ho l’uso mi de ciaparme botte e
stramusoni,
no ze ‘na novità ...”
“Tasi!
Tu sei la mia femmina: chi t’offende, offende me!”,
l’interruppe bruscamente il patrizio, che già
ribolliva di rabbia all’idea che
qualcuno avesse picchiato la ragazza alle sue spalle, sentendosi preso
in
causa. Dopo l’affronto subìto per mano della sua
domina e del suo novizzo, non
tollerava ora di certo un secondo ceffone all’amor proprio
né tantomeno verso
roba sua. Inoltre, malgrado si fossero accordati una per sopravvivenza
e
l’altro per vendicarsi, un pelino a lei s’era
affezionato e non la voleva
sapere strapazzata da chicchessia, non se lui aveva voce in capitolo. A
suo
modo aveva promesso di proteggerla e l’avrebbe fatto fino in
fondo.
Lena
tirò su col naso, umettandosi le labbra un po’
secche per le
lunghe ore a trasportare borracce d’acqua e vino e secchie.
Un ultimo attimo
d’esitazione, valutando i pro e i contro, ed infine
rivelò al veneziano: “Zé
stà quea stomegosa de madona Ziliola: co’
rencaxavo, me gi ha dé on stramuson,
butandome forra de caxa a spentoni: Mi chialondena a
ti no te voggio,
ludra onta bisonta, cancara villana e troja!, ea
m’ha zigé. O mi criù,
ché mi nol capisso ben el tajan moscheto.”
(italiano da signori, ndr.)
Hironimo
inspirò l’aria in un rabbioso sibilo, le gote
scarlatte e
i muscoli del collo tesi allo spasimo, similmente a quelli dei pugni,
stretti
convulsi da far sbiancare le nocche. “An, così mi
racconti …”, mormorò in un
ringhio ingolato. “Corri in camera mia, risciacquati il viso
e dopo vienimi
appresso, ché chiarirò io la faccenda con la
siora patrona.”
Rise
malevolo, grato in fin dei conti di quella distrazione: la
lettera che aveva inviato a Venezia ancora non ritornava con una
risposta e
aveva una voglia matta di sfogarsi contro il genere femminile, meglio
ancora se
un suo rappresentante già di per sé gli stava
sullo stomaco.
L’aveva
rivista a Padova qualche giorno dopo la loro
perlustrazione del Castello di Piazzola e dei dintorni: allora Hironimo
aveva
già imparato a memoria la crudele missiva della sua domina,
rifiutando di
credere ad ogni singola parola ivi scritta e annegando le lacrime
traditrici
nell’acquavite, sicché al momento di rincasare
all’ora del coprifuoco se ne
stava leggermente barcollando a guisa di funambolo, incurante di
potenziali
borseggiatori o d’inciampare e sbattere il muso sul
selciato.
Incrociò
la contadina verso la strada conducente al palazzo dove
alloggiava e soltanto all’ultimo la riconobbe, infilando
celere nella scarsella
di cuoio la lettera, non desiderando ch’ella eseguisse i
proverbiali due più
due. La giovane stava arrancando sotto il
bàger alle cui estremità
erano agganciati dei secchi d’acqua. Correndole incontro,
Hironimo con molte
moine riuscì a farsi cedere il bastone ricurvo in modo da
sistemarselo sulle
sue di spalle.
“Hai
finito il turno?”
“Siorsì,
questi sono per me.”
“Dove
abiti?”
La
ragazza glielo disse.
“E’
lontano e fra poco calerà il buio, non dovresti andartene a
zonzo da sola. Manderò qualcuno ad accompagnarti. Il mio
alloggio non dista
molto lontano.”
“Paron,
siete troppo buono a preoccuparvi così per me”,
commentò
ella, levandosi lo sciugatoio dalla testa e usandolo per tamponarsi il
collo e
il petto sudati. Subitaneamente il suo viso lungo e affilato da volpe
s’illuminò d’un sorriso malizioso.
“Siete sempre così cavaliere?”
“No,
affatto”, ribatté brusco Hironimo. “Sei
sempre così ciarliera
cogli uomini?”, le chiese piuttosto acido di rimando.
“Soltanto
con quelli che mi piacciono.”
“Ed
io ti piaccio?”
“Moltissimo,
paron.”
Il
giovane patrizio piegò la bocca in un ghigno amaro,
preferendo
tuttavia rimanere in silenzio. Giunti alla porta di servizio del
palazzo, egli
batté forte sullo spesso legno, tra arditi equilibrismi col
bàger. Gli venne ad
aprire una pasciuta fantesca, la quale trasalì nel vederlo
così conciato e
doppiamente quando Hironimo le cedette sgarbatamente il bastone
ricurvo, che
s’arrangiasse a trovargli un’ubicazione.
Intuendo
d’aver forse pizzicato un nervo scoperto, la contadina lo
tallonò lesta, anticipando il veneziano quando questi
tentò di servirsi di un
boccale di vino, sottraendoglielo infatti e servendolo lei stessa.
“Perdonate,
paron, se v’ho offeso. Avete forse una cristiana a
Veniexia?”
“No.”
“Morosa?”
“Neanche.”
“Una
femena, allora?”
Hironimo
esitò un istante; dopodiché, si portò
l’orlo del boccale
alle labbra. “No”, rispose atono, ingollando in un
sol sorso il vino. Servitosi
ancora della bevanda e sovvenutosi delle buone maniere,
s’informò assai
disinteressato: “E tu? Non hai un sior marido?”
“Vivo
col mio uomo da quasi tre anni, sì.”
“Vattene
da lui dunque e non m’importunare.”
La
ragazza gli sorrise indulgente, come se stesse discutendo con
uno scolaretto piuttosto testardo. “Non si può,
paron, manco se lo volessi.”
“Perché?”,
posò perplesso il patrizio il boccale sul tavolo e si
sedette, d’un tratto coinvolto dal discorso della
villanella. “Pensavo fosse uno di quei
villani rifugiatisi a
Plazóla”, le fece cenno d’imitarlo e
perfino le servì del vino, stranamente
empatico verso di lei. “E’ morto?”
“Morto?
Sì, no, non so. Forse è ferito. Forse
è prigioniero. Forse
ha disertato e s’è nascosto in qualche buco. Forse
s’è perso o non gli riesce
di rimpatriare. È da maggio che non so più niente
di lui. Si fece soldato,
sapete, per tirarci fuori dalla miseria. Mi sa che m’ha
sprofondato doppiamente
in essa”, constatò pragmatica la ragazza, nel
frattanto che si risistemava lo
sciugatoio sui capelli biondi. “Quando ho capito che non
sarebbe più tornato,
ho preso le poche mie robe e via per i campi a cercar altri compagni di
sventura. O restavo e morivo ammazzata oppure tentavo la sorte. Quei
compari
veramente me li ha mandato la Madona, tanto gentili sono stati con me,
mi hanno
accolta senza domande … Perché mi guardate
così turbato? Poteva andarmi peggio:
ho forza e salute e qualche parente da cui recarmi per cercar lavoro.
Il resto
vien da sé o ci pensa il Padreterno.”
Hironimo
l’osservò a lungo in silenzio, studiandone i
lineamenti
volpini, la figura d’una magrezza nervosa, la saldezza della
sua presa sul
boccale, la fissità predatoria degli occhi. Una creatura
tutto istinto
determinata a sopravvivere ad ogni costo, materialista e incurante di
qualsiasi
cosa non potesse né toccare né vedere.
Così diversa dalla sua domina, ohibò,
così diversa da qualsiasi donna da lui conosciuta a Venezia.
Ecco, forse ancora
le sue fantesche possedevano quell’animalesca
vitalità, tuttavia leggermente
mitigata dalla sicurezza di un tetto sopra la testa, dalla protezione
dei loro
uomini e della certezza di tre pasti caldi al giorno. “Hai
figli?”, s’informò
incuriosito, tra un sorso e l’altro di vino.
“Uno,
seppellito lo scorso autunno. Ripensandoci, sono quasi
contenta: almanco il mio fantolino è morto nel sonno, come
un angioletto, senza
soffrire”, gli rivelò con voce tremula e una
piccola lacrima traditrice,
sincera, le colò lungo la guancia, prontamente asciugata.
“Perdonate, paron,
non so che …”
“Non
c’è vergogna alcuna nel piangere un figlio
morto.”
La
contadina gli sorrise timidamente, non sfuggendogli la dolcezza
e la genuina comprensione verso il suo intimo dolore: possedeva un
ché di
paterno, inusuale per la giovane età del nobiluomo.
“Avete creature vostre?
Magari da qualcuna delle vostre ganze.”
“No,
però ho dei nipoti che adoro; le uniche mie gioie, le mie
stelle che mi rendono più sopportabile ogni noia
quotidiana” e il viso
d’Hironimo s’illuminò per la prima volta
di un bel sorriso, sognante e pieno
d’orgoglio affettuoso, in bilico tra il possessivo e il
protettivo come se
Dionora, Gasparo, Anzolo e Crestina li avesse generati e allevati lui
stesso,
quel sorriso che Luzietta scherzosamente affermava quanto facesse di
colpo
innamorare la gente e di fatti il cuore della ragazza
sussultò e mancò di
qualche battito.
Arrossita
involontariamente e mancandole il fiato, ella commentò
sbiascicando: “Avessi avuto io un Barba così: i
vostri nipoti possono ritenersi
davvero fortunati!”
“An,
chissà …”, si schermì
modesto il Miani, passando pensoso il
dito sul bordo del boccale. Sebbene li amasse fino all’ultima
spanna della sua
anima e s’adoperasse in ogni modo per non farli mancar nulla,
dubitava talvolta
d’essere per loro un degno esempio da seguire. Dionora oramai
a breve si
sarebbe maritata; Gasparo cresceva forte e di testa fine, il cocco di
suo zio
acquisito sier Antonio Trum; Ina l'avrebbero spedita al convento per
studiare e
Zanzi … se non fosse stato per i capelli e gli occhi scuri
di Marco (e dei
Morexini in generale) sarebbe stato la copia sputata di suo nonno
Anzolo, pure
nel caratterino peperino che incominciava a saltar fuori. Probabilmente
per
questo motivo Zanzi era il suo preferito, ritrovava in lui Padre e lo
sentiva
quasi una parte di sé, più d’un nipote,
un figlio, una costola sua. “Ancora non
m’hai detto il tuo nome”, cambiò
Hironimo agilmente discorso, non garbandogli
esplorare oltre quei suoi sentimenti.
“Lena,
paron”, l’accontentò subito la
villanella.
“Magdalena?”
La
giovane fece spallucce. “Penso di sì,
m’han detto corrispondere
allo stesso nome della mia santola …
Siete per caso fratello del
magnifico missier Marco Contarini?”
“I nostri padri erano imparentati alla lontana, ma ormai lui è più
un amico di famiglia che un congiunto. Il mio nome è Hironimo, della casata
dei Miani del ramo di Carità - San Vidal.”
“An,
in effetti non v’assomigliate
affatto …”, si portò
pensosa Lena un dito sul mento, richiamando alla mente
l’immagine del viso di
Marco Contarini. “Paron, posso confidarvi una
cosa?”, si sovvenne
all’improvviso.
“Che
abbiamo fatto finora?”, si massaggiò sbuffando il
collo
Hironimo, controllando il fondo della brocca. “Avanti,
confessati, figliola.”
Lena
arricciò la bocca, divertita da quella selvatichezza.
“Non
avrei mai immaginato di poter un giorno conversare così
liberamente con un
patrizio veneziano; sempre vi si descrive come molto altezzosi e
inavvicinabili.”
Detto
patrizio grugnì sardonico, replicando leggermente offeso:
“Tipico degli sciocchi scambiare la riservatezza per
dell’arroganza!”
“Non
v’arrabbiate, riporto soltanto le dicerie.”
“Ma tu che
ne pensi?”, reclinò il capo Hironimo,
sporgendosi verso di lei e puntandole contro le iridi nerissime,
indagatrici.
La
ragazza ricambiò tale sguardo insistente, a sua volta
studiandolo. “Chi non sa di te non ti può
ferire”, sentenziò dopo un pregno silenzio
e aggrottando la fronte dinanzi alla risata amara del veneziano, il
quale,
battendo le mani, si complimentò senza particolar gusto
eppure senza deriderla:
“Brava,
bravissima! Vedo che capisci.”
Al
che Lena osò vociare il dubbio che l’aveva rosa
dalla prima
volta in cui aveva incrociato quello strano giovanotto: “Chi
vi ha ferito,
paron?”
Hironimo
sobbalzò sul posto, raddrizzando sulla difensiva la
schiena, gli occhi spalancati e increduli, induriti in un atteggiamento
però di
sfida e aggressione. Il petto, ansante, si strinse in una morsa di pura
agonia
e i denti presero a stridere tra di loro. Di riflesso si
scostò della polvere
invisibile dalle ciglia, volse caparbio il capo altrove:
così palese era stato
nella sua affiliazione? Si sentì improvvisamente avvampare
di vergogna, le
ultime difese abbattute dalle bombardate di quello spinosissimo dolore,
il più
tremendo, amare per finire odiato. Ironico come non potesse lamentarsi
con
nessuno di ciò, quando proprio da tali lai i poeti traevano
succosa materia per
sfogare le loro frustrazioni amorose. Puoah, mondo
all’incontrario che prima
feriva e poi canzonava!
Della
sua confusione Lena n’approfittò per posare la
mano
delicatamente sopra la sua. Conosceva la tristezza dell’animo
e aveva un
eccellente metodo per curarla. Sicché, nella profana
versione della vedova
Irene, ella a suo modo si prese cura delle ferite del suo Sebastiano.
Lui non
oppose resistenza, si lasciò fare, inerme e vulnerabile.
Senza favellare lei se
lo portò in camera, al lume di candela lo sanò,
leggere le sue dita sulla pelle
tesa, sudata, affannata, lì dove i muscoli si contraevano
ansiosi sotto i suoi
polpastrelli, risvegliando il sangue, i sospiri rochi e sinceri. Amò ella
osservare come la
vita riprendeva a scorrere sulle gote di lui, il bianco dei suoi denti
e l'umido
guizzare della sua lingua, unito al vibrante e improvviso gradito fuoco
nelle
iridi nerissime. In mezzo al gelo della morte che li avvolgeva e li
abbruttiva,
sfogarsi nell’atto primario del genere umano li
riscaldò nel profondo, rendendoli
anche per poco dimentichi di ogni cruccio e tormento, abbandonandosi
senza
rimorso a quegli illeciti attimi rubati. A nessuna carezza si negarono,
a
nessun bacio. L'odore pungente di lei - un misto di terra e il dolciastro dell'acqua fluviale, non dissimile a quello di qualche dea pagana dei campi e delle selve - si mescolò a quello più innaturale di lui - ferro, acciaio, cuoio, polvere da sparo - e lo ritrasformò in un uomo, estraendolo a viva forza da quel guscio di rancore e diffidenza, un'armatura senza volto dietro la celata.
Nella carne di Lena, Hironimo si rigenerò e scoprì non odiare più come prima la sua domina, un po' perché ora erano pari e patta, un po' perché finalmente non doveva più fingere, neppure con se stesso: la giovane contadina lo aveva visto nella sua nudità e l'aveva accettato senza pregiudizi o richieste.
Finalmente un legame semplice e sincero, anche se prosaico e probabilmente a breve termine. Poco importava che non s'amassero, poco importava che i loro cuori bruciassero ancora per chi li aveva abbandonati: sapevano chi erano e che cosa li aveva uniti. Ciò li bastava in quel mondo folle, che non garantiva l'indomani.
“Il
mio dovuto, paron”, allungò Lena la mano a coppa
verso
Hironimo, destandolo dal lieve sonno cui s’era abbandonato.
Le ombre vespertine
avevano ceduto il passo alle tenebre notturne, rischiarate dai flebili
raggi
lunari insinuatisi dalle sfese delle imposte. Nuda a carponi sul letto
e la
pelle riflettente il caldo arancio della fiammella della bugia, al
giovane
patrizio la ragazza pareva doppiamente ferina, una vera volpe a caccia.
Hironimo
sbadigliò e, postosi seduto di fronte a lei,
appoggiò
flemmatico il palmo della sua mano sopra quello aperto di Lena,
stringendole le
dita quasi volesse domarla. “Se tu divenissi la mia
fissa?”, le propose di
punto in bianco. In altre circostanze avrebbe dovuto strigliarsi via
l’odore di
quella donna dalla pelle e tagliarsi la lingua per
quell’offerta, che profanava
il voto di fedeltà alla sua amante; invece, la cosa adesso
gli recava un
malsano piacere, neanche avesse trovato il mezzo perfetto per
vendicarsi di
quell’infida, di quell’empia che l’aveva
menato per il naso peggio d’un
allocco.
“Io?
Vostra fissa?”
“La
tua compagnia mi aggrada.”
La
contadina ci rifletté su per qualche istante, per poi
annuire
soddisfatta col capo. “Mi sta bene, accetto.”
“Starai
con me e con nessun altro”, l’ammonì
perentorio Hironimo,
affatto desideroso di ritrovarsi nuovamente invischiato in un tiro a
due,
laddove lui era il terzo e inconsapevole incomodo.
“Ancora
meglio”, convenne Lena: l’aveva ben osservato e sul
suo
corpo non aveva trovato alcun segno sospetto, tranne delle cicatrici
frutto di
risse e combattimenti. Dal canto suo, lei aveva avuto in letto soltanto
il suo
cristiano, ergo se si congiungevano esclusivamente tra loro due,
potevano
evitare più facilmente di contrarre il malfrancese.
“Purché mi lasciate
ritornare dal mio uomo, dovesse ripresentarsi a Padoa”,
puntualizzò. Malgrado
le alterne vicende, alla fine lei aveva un obbligo nei confronti del
suo
compagno e se lui l’avesse reclamata indietro Lena doveva
obbedirgli e
seguirlo.
“Compro
i tuoi servigi, non la tua anima. Mi pare ovvio. Tu sei
libera di fare quel che vuoi, tranne ingannarmi.”
La
contadina si ritrovò
d’accordo. Quand’ecco che una
subitanea curiosità le balzò in testa.
“Mi porterete a Veniexia?”, gli chiese,
in caso esistesse la possibilità che il suo uomo non
tornasse mai più.
“Vuoi
venire?” e la serietà del veneziano le
provocò un gran riso.
“Come
mi giustificherete? Ecco la mia morosa padovana? Vi
rideranno in faccia! No, meglio di no. Di certo non sono una degna
preda di
guerra di cui vantarsi in giro. Alla prima occasione
ritornerò dai miei parenti
e poi si vedrà.”
“Cosa
diranno …?”
“…
che ho fatto la puttana per mantenermi? Niente, paron. Voi
forse vi stupite e vi scandalizzate se una donna ricorre a tali
espedienti,
proprio voi che siete i primi a richiedere tale negozio per poi
biasimare chi
lo pratica. Come dice il proverbio: chi predica il digiuno ha sempre la
pancia
piena. Noi, invece … a furia di star con
le bestie forse un poco lo
siamo divenuti anche noi. E d’altronde, mica ho intenzione di
farlo per sempre,
ché rischio di pigliarmi i franzosi? So lavorare, io.
Già aiuto gli zappatori
alle mura. Solo … pensavo di mettermi da parte qualche lira
per ogni evenienza
futura, senza contare che voi … insomma, siete ricco,
giovane, bello e gentile
…”
“…
e concludendo, unisci l’utile al dilettevole”,
riassunse
Hironimo con un rapido svolazzo della mano.
“Siete
arrabbiato con me?”
Il
giovane scosse il capo, rassicurandola. “Una donna non fa
niente per niente, l’ho ben imparato a mie spese. Qualcosa in
cambio dall’uomo
lo vuole sempre, che sia denaro, rango o il suo cazzo.”
Gli
angoli della bocca della ragazza si piegarono
all’insù,
divertiti da tanta prosaica schiettezza. “Non mentivo quando
affermavo che mi
piacete, paron. Vi servirò obbedientissima, io.”
“Me
ne consolo”, la cercò Hironimo e Lena non oppose
resistenza
quando lui la cinse per la vita e la posizionò sotto di
sé, né si spaventò
della subitanea forza impiegatavi eppure il suo tono di voce rimaneva
sempre
cortese, quasi titubante: “Vuoi?”,
inquisì e la contadina si sarebbe anche
offesa per la banalità di tal richiesta, dopo quel
ch’avevano già concluso,
s’ella non avesse letto negli occhi pur dilatati del patrizio
del genuino
timore d’un rifiuto. Sbuffò frustrata: come si
poteva sputare sulla propria
fortuna e scacciar via un amante disposto a tanta devozione e
gentilezza? Bah!
Gentiluomo
infatti Hironimo lo fu anche in letto e Lena ci trovò
nel suo negozio anche il suo spasso, l’accordo gradito ad
entrambi e
funzionante alla perfezione.
Domina
Gigliola infisse l’ago nel ricamo, levandosi in piedi e,
poste due mani sui fianchi, arcuò la schiena dolorante,
avendo dedicato infatti
quasi l’intera giornata a tale attività, non
possedendone altra con cui
ingannare il tempo. Colta da un’improvvisa ansia, si
guardò intorno,
domandandosi come mai la sua fantesca tardasse a ritornare: che si
fosse trattenuta
dalle sue figlie Biancha, Yxabela e Lucrecia? O da quegli screanzati
che da
settimane oramai le occupavano il palazzo, bivaccando allegramente? Tra
i
patrizi, i loro servitori e i provigionati, pareva di stare in
un’osteria
invece di una casa onorata, costringendo lei e le sue ragazze a vivere
da
recluse nelle rispettive stanze, onde evitare quanto più
possibile la compagnia
loro e delle sgualdrine che si portavano talora dietro.
I primi
giorni, facendo appello alla sua dignità di nobildonna,
domina Gigliola era scesa ad affrontarli nella speranza di ragionarci
assieme e
trovare un accordo di convivenza, ricevendo al contrario
null’altro se non
false cortesie al limite dello scherno e costanti provocazioni, al
punto che
alla fine v’aveva rinunciato anche perché timorosa
della sicurezza sua e delle
figlie. Aveva udito certi turpi storie da chi alloggiava in casa i
soldati,
roba da farle rizzare i capelli, specie associandole alle sconcezze
proferite
dai suoi “inquilini” quando lei, scandalizzata,
l’imponeva un minimo di decoro.
Finora s’erano limitati a parole, ma quando sarebbero passati
alle vie di
fatto?
Cielo!
Com’era giunta a quel punto? Quanti rovesciamenti in pochi
anni, mesi, giorni! V’era una fine a quella follia? Cremona
le aveva dato i
natali, quando si trovava ancora sotto il Ducato di Milano;
appartenente alla
piccola nobiltà, a corte domina Gigliola aveva presenziato
pochissime volte e
sempre con grandi spese per la sua famiglia, la quale sperava di
trovarle lì un
buon partito. All’inizio non era stata contenta di sposarsi
suo marito - un
padovano! - ma i soldi son soldi e
lei non era più
giovanissima. Ironia della sorte, Cremona stessa era passata in seguito
sotto
la Serenissima. Tuttavia, domina Gigliola aveva imparato ben presto che
il
patriziato veneziano e l’antica nobiltà di
Terraferma appartenevano a due razze
distinte, trovandosi quindi assai compatibile di mentalità
col consorte, il
quale sotto-sotto mal sopportava la soffocante intromissione veneziana
in ogni
loro questione amministrativa. Pertanto, la donna aveva gioito nel
cuore
all’arrivo di Leonardo Trissino a Padova e delle truppe
imperiali, felice di
veder cadere e deturpare l’odiatissimo leone alato,
sentendosi infine vendicata
per l’ignominiosa fine del Ducato di Milano. Finalmente la
giustizia divina
s’era abbattuta su coloro che avevano spalleggiato i Francesi
nella conquista,
era più che giusto che adesso Venezia perisse per mano loro,
dell’Imperatore,
del Papa e dei loro valorosi alleati.
Dio
però evidentemente parteggiava per i Veneziani e similmente
ai
ladri della parabola dei Vangeli, loro non avevano saputo né
il giorno né l’ora
della contromossa e quelle porte che credevano aver chiuso ai lagunari
per
sempre, con sprezzo e prepotenza quest’ultimi le avevano
forzate di nuovo,
scatenando l’ira della loro vendetta. Non
avrò pace finché non avrò
ridotto quei superbi Veneziani agli umili pescatori quali erano alle
origini!, aveva tuonato il Papa Giulio II,
sbagliandosi di grosso: non
erano pescatori, erano pirati perché se da una parte i
Veneziani erano entrati
col Griti a Porta Codalunga, dall’altra sbarcavano gli
agguerriti Arsenalotti
capitanati da sier Nicolò Pasqualigo, risaliti di notte
lungo il Brenta dalla
laguna. All’ordine del loro patron, l’Arsenale
aveva vomitato questi suoi
militari-operai, satanassi rossovestiti fedelissimi alla Signoria e sua
creatura dilettissima, da lei sguinzagliati nei momenti più
critici. Dopo aver
terminato d’occupare i punti strategici della
città, gli Arsenalotti s’erano
abbandonati ad una sfrenata orgia di saccheggi, violenze e bagordi
assieme agli
stradioti, ai cavalleggeri di Polo Contarini, ai fanti di Latanzio
Bonghi da
Bergamo, di Taddeo della Volpe e di Zitolo da Perugia, facendo
allegramente man
bassa dei beni dei “traditori gebelini.” Uomini,
donne e perfino i bambini
s’erano riversati sulle strade per aiutarli in tale
crudelissima impresa,
equiparando in ferocia i Turchi e i Mori, trascinando a spregio per le strade i vessilli di Maximilian. Circolavano poi
voci sinistre sul massacro degli imperiali al
Castello di Stra,
tagliati a pezzi per aver opposto resistenza alla rabbiosa cupidigia
della
folla. Leonardo Trissino, catturato assieme ai suoi fedelissimi, era
stato
inviato a Venezia e lì incarcerato nelle sue più
orride segrete.
Il
palazzo di domina Gigliola era stato risparmiato, ma suo marito
e i suoi figli strappateli via dagli Arsenalotti, lasciandola priva di
protezione, specialmente ora, alla mercé dei loro patrizi, o
meglio pirati
travestiti da gentiluomini. Non si fidava di nessuno, men che meno dei
suoi
servitori i quali la cremonese con suo sommo orrore aveva scoperto
esser stati
proprio gli stessi a denunciarli al podestà e ai
provveditori. Era rimasta da
sola, in trappola in casa sua. Talvolta aveva progettato di uccidere
nel sonno
quei disgraziati ma poi? Quale guadagno ne avrebbe ricevuto?
Sicuramente i loro
conterranei l’avrebbero scoperta e condannata, forse
addirittura torturata
prima di …
L’unica
sua speranza rimaneva che l’Imperatore e la Lega
riconquistassero Padova, liberandola per sempre da quei dannati,
specialmente
il più giovane di tre fratelli Miani, quel brunettino tanto
strafottente e
dalla bocca più sozza d’un marinaio. Addirittura
aveva invitato la sua ganza a
vivere sotto il medesimo tetto, sicché domina Gigliola
adesso pure una puttana
era costretta a sfamare gratuitamente! Oh, ma se quel pomeriggio non
l’aveva
rimessa al suo posto, quella sfacciata che gironzolava tutta trionfa
nel suo
palazzo, rifiutando d’eseguire un qualsivoglia suo ordine!
Quando le aveva
intimato per l’ennesima volta di raggiungere le altre serve a
pulire i
pavimenti, quella disgraziata, incrociando le braccia, le aveva
risposto
sogghignando in quel pavan alla cremonese tuttora ostico: Sbraitate
quanto volete, io obbedisco solamente al mio paron! Al
che la
nobildonna aveva visto rosso e, tra sberle e spintoni,
l’aveva buttata fuori in
strada, là dove appartenevano le troie come lei. A Dio
piacendo, presto sarebbe
toccato anche a quello sciagurato del suo padrone.
E neanche
l’avesse evocato, ecco che la porta della sua camera,
l’ultima sua sancta sanctorum, si spalancava fragorosamente
come s’egli avesse
voluto spaccarla contro il muro.
Domina
Gigliola balzò all’indietro, presa di contropiede
da quel
violento arrivo e inconsciamente la sua mano strinse il crocefisso
d’oro al
petto. Rapida corse dietro la colonnina del letto, sperando di porre
quanto più
spazio tra lei e il veneziano, ancora con l’armatura indosso
per via della
ronda appena termina, i capelli in battaglia e i denti ben in vista,
manco si
fosse trasformato nel medesimo leone marciano. A giudicare dallo
sguardo livido
e dal congiungimento delle sopracciglia, di sicuro veniva per il suo
sangue.
La
nobildonna, inutile negarlo, prese a tremare dalla paura:
l’avesse incontrato nel salone principale o altrove a
palazzo, forse sarebbe
riuscita a sostenere quello sguardo assassino ma vederselo
lì, nel suo rifugio,
equivaleva a mille violazioni e si sentiva estremamente vulnerabile.
“Co-così
quella … quella vigliacca è venuta a lamentarsi
da voi?”,
esordì domina Gigliola, raccogliendo il suo coraggio, i
pugni serrati e alzando
orgogliosa il mento.
“Come
giusto che fosse: insolentendo lei, avete insolentito me.
Eccomi qui, domina: quali rimostranze vi hanno portata a malmenarla
alla
stregua d’una ladra?”, le sorrise carnivoro
Hironimo, cantilenando affabile la
voce come il gatto ante di strappare le ali alla mosca.
“S’è
rifiutata d’ubbidirmi!”
“Giustamente,
serve me e non voi!”
“E’
una pigra, non fa niente in casa!”
“Lavora
alle mura, fa molto per la Signoria!”
“E’
una puttana!”, trillò infine snervata domina
Gigliola,
arrossendo per essersi espressa a voce alta in indecenti turpiloqui.
“Non tollero
di condividere il tetto e il pane con tal immondizia! Non
m’importa che sia la
prostituta di un patrizio o di un soldato, sempre la sua presenza mi
disonora
la casa e oltraggia la comune decenza!”
“Dunque
l’avete picchiata perché è una
puttana?”, riassunse
conciso Hironimo il succo di quell’appassionata filippica. E
girandosi verso
Lena, che se ne stava sull’uscio della porta, le tradusse per
la migliore sua
comprensione: “No sastu? Horra te ciaman putana!” E
rivolgendosi alla
nobildonna, sibilò feroce: “Sapete
perché è diventata puttana?”, fu la sua
domanda retorica, mentre avanzava lentamente verso madona Gigliola, la
quale
indietreggiò fin quasi ad appiattirsi contro il muro.
“Perché quella puttana di
vostro marito assieme a quelle puttane dei
suoi degni compari
hanno abbassato le braghe e aperto le porte di Padova e del padovano
intero a
quell’altra puttana di
Leonardo Trissino, permettendo a
quelle puttane ladre dei tedeschi
di sgavazzare a danno
soprattutto dei contadini inermi, che voi puttane avete
venduto alla stregua di bestie pur di riottenere indietro quei miseri
privilegi
ch’avevate ai tempi dei Carraresi!”,
ringhiò, sottolineando sprezzante il
sostantivo incriminato ogniqualvolta lo pronunciava.
Dopodiché, indicando Lena,
proseguì sdegnato: “Tutto a questa poveraccia
l’è stato rubato: la casa, la
roba sua, il marito …”
“…
el porzeo!”, aggiunse solenne la contadina, ché il
grasso roseo
animale possedeva per lei il medesimo valore di uno scrigno di gioielli
per una
gentildonna.
“
… il porcello. Cos’avrebbe dovuto fare, secondo
voi?”
“Meglio
morire, piuttosto di scendere così in basso!”,
replicò
fredda domina Gigliola, intransigente. “Ma
cosa può capire una
bestia come lei della parola dignità?”
“Puoah,
morire! Nessuno vuole morire a questo mondo, neanche
dignitosamente! L’uomo preferisce soffrire piuttosto di
crepare”, sghignazzò
sarcastico Hironimo, quand’ecco che una luce malevola gli
guizzò negli occhi
nerissimi. “Poiché la sua presenza vi disonora e
vi credete oltraggiata da
noialtri, perché non morite voi?
Uccidersi pur di non cedere
all’avversario, non è una fine degna di un Catone?
Oppure … le vostre sono
soltanto pompose parole da manuale, imparate a memoria e ripetute
diligentemente giusto per sentirvi superiori agli altri? È
facile vantarsi coi
villani, vi sfido dunque da mia pari.”
La
nobildonna rimase muta in ostinato silenzio, le mani strette in
una presa convulsa e deglutendo ansiosa, non attendendosi quel
capovolgimento
della situazione. Aveva contemplato d’uccidere per
l’onor suo, ma … ma suicidarsi?
Compromettere il destino eterno della sua anima per una
vanità terrena?
“Suvvia,
dimostratemi quanto valete e uccidetevi, qui, davanti a
me, se davvero ne avete il fegato!”, la provocò
inclemente Hironimo. “E
finirete di vivere nella vergogna!”
L’altra
rimase immobile, incominciando a tremare da capo a piedi,
umiliata dal suo intimo tentennamento e dall’occhiate avide e
curiose della
contadina, che seguiva l’intero teatrino attentissima,
mangiucchiandosi
l’unghia dell’indice.
“E
se proprio non vi regge il cuore e non potete dimostrarmi la
vostra grandezza d’animo, inginocchiatevi allora davanti a
colei ch’avete
picchiato ed imploratele perdono!”, proseguì
imperterrito il giovane patrizio,
indicando severo ora il pavimento ora i piedi di
Lena.
La
padrona di casa avvampò dall’indignazione,
imporporandosi
completamente e riacquistando un po’ di coraggio.
“Io umiliarmi così davanti ad
una meretrice?!”, esplose, levando il braccio onde
schiaffeggiare
quell’impudente d’un veneziano,
sennonché questi la bloccò senza sforzo alcuno,
commentando ironico:
“E’ quindi
un vostro vizio quello di percuotere chi non
dovete!” e costringendola a guardare la ragazza, aggiunse:
“Questa “meretrice”
ha un nome, sapete, si chiama Magdalena e così vi dovete
rivolgere d’ora in avanti
a lei”, la corresse gelido Hironimo, torcendo il braccio
della donna dietro la
schiena e strappandole un guaito di sorpresa e dolore.
“Avanti, chiedetele
scusa!”, l’incalzò, trascinandola al
centro della stanza verso la contadina, la
quale stava esibendo una bizzarra espressione trasognata, incapace di
credere a
quanto stesse accadendo e timorosa di aver capito male per la pochezza
del suo
italiano: sul serio quella gran dama si sarebbe scusata con lei?
“No,
no, no! Mi rifiuto! Non mi pongo al suo stesso livello! Se
l’è meritato, è una sgualdrina e
così vanno trattate tali donnacce!”,
protestò
strillando domina Gigliola, tentando di sciogliersi da quella ferrea
presa e
digrignando i denti alla lieve pressione sul polso applicatale dal
giovane
patrizio.
“Vale
più una sgualdrina fedele alla Signoria che una nobildonna
traditrice e sto proprio parlando di voi e della vostra immonda
masnada, razza
di lerci lenoni figli di cento padri! Proprio voi predicate le grandi
virtù,
che con faccia di bronzo avete prostituito la vostra madrepatria al
miglior
offerente! Meritereste mille forche, mille tenaglie ad ogni traghetto,
di
finire divorati dai cani randagi e di marcire in bocca al diavolo per
il vostro
voltafaccia!”, ruggì feroce Hironimo, spingendola
giù a carponi e, ponendole un
ginocchio sulla schiena, la costrinse a faccia a terra.
“Poche storie, schifosa
di un’ipocrita ghibellina: imploratele perdono!
Ora!”, insistette violento e
inflessibile il veneziano, strisciando pericolosamente le parole e
stringendo con
maggior forza la sua presa sul polso.
“No!
Non m’abbasso a tali vergognosi ricatti!”
“Ditele
che vi dispiace!”
“No!”
“Rassicuratela
che non l’insulterete mai più, né che
v’azzarderete
in futuro a metterle le mani addosso!”
“No!”
“Inoltre,
per farvi perdonare, ditele che le regalate uno dei
vostri abiti migliori e qualche bel gioiello. Ne possedete a bizzeffe,
no?
Potete ben separarvi da uno: vanitas vanitatum et omnia vanitas,
sorella!”, la
derise crudele Hironimo, scuotendola vigorosamente tanto che la lenza
le cadde
dalla fronte e abbondanti ciocche di capelli le uscirono dalla retina,
spettinandola.
“Fatelo
e vi denuncerò per furto!”, singhiozzò
domina Gigliola,
spasimata dall’ira e dal terrore.
Hironimo
gettò il capo all’indietro, ridendosela alla
grossa. “E
chi vi crederà?”, la tormentò,
sussurrandole quasi all’orecchio. “La parola di
una traditrice, d’origini straniere per giunta, contro la
mia? Vi rideranno in
faccia, vi daranno della pazza, della calunniatrice, della
bugiarda!”
“E
come giustificherete abiti così costosi?”, ritorse
quella,
sfinita. “È palese che siano frutto di una
ruberia! Vi denuncerò e godrò alla
vista della vostra mano appesa al collo!”,
gracchiò isterica, dimenandosi
esagitata.
“Leggete
troppe tragedie senechiane, domina. Furto? E chi parla di
un furto? La vostra è una donazione.
Racconterete come la storia di
questa povera ragazza vi abbia commossa al punto che vi siete sentita
in dovere di
regalarle qualcosa di vostro, anche ad espiazione delle vostre colpe.”
A quella
proposta a suo parere indecente la nobildonna perse in
parte il senno, urlando peggio d’un monaco infervorato nella
sua predica
fustigatrice: “Dio vede tutto! Dio sa tutto!”
“E
gli uomini sanno ciò che gli vien detto e vedono quel che
vogliono vedere!”, il cinismo nella replica di Hironimo
ammutolì di colpo
domina Gigliola, equivalendo quasi ad una frustata. “Se voi
dite che è un dono,
allora sarà un dono; la vostra parola determinerà
la loro verità”, le spiegò
egli assai spazientito e desideroso di terminare lì la
questione, non
gradendogli la presenza di quella spocchiosa che, man mano che passava
il
tempo, gli ricordava sempre di più la sua amante e
l’immagine delle due talora
si confondevano inquietantemente, tanto che Hironimo si chiedeva come
avesse
potuto perdere la testa per tale frivola, vigliacca e superficiale oca
giuliva.
“Giuro
che vi rovino! Troverò il modo per rovinarvi!”
Il
patrizio roteò gli occhi, imitandone puerilmente la vocetta
acuta. “Minacciate, adesso? Allora permettetemi di
contraccambiare: fate voi attenzione,
ché se v’azzardate a darci fastidio, una mia
parola sulla vostra dubbia lealtà
e vostro marito e i vostri figli li rivedrete cadaveri in bara! Se non
li
buttano in canale prima, le caviglie legate a dei pesi …
Insultate o alzate
ancora le mani sulle nostre donne e m’assicurerò
di farvi condividere la stessa
sorte di chi voi tanto ora disprezzate: state certa che i nostri
soldati giù in
sala semplicemente adoreranno la
possibilità di rompere il
vostro nobile e virtuoso culo nonché quello delle vostre
figlie! Già le vedo
piegate a metà sulla tavola a gemere come le cagne in calore
che in realtà
sono!”, la spintonò infine per terra, costringendo
la matrona a piantare i
palmi onde non spaccarsi il naso nell’impatto contro il
pavimento.
“Non
loro, maledetto, non loro!”, batté ella i pugni,
impotente,
angosciata dall’immagine mentale delle sue indifese figlie
tra le cupide
braccia di quella lasciva marmaglia.
“Dunque ingoiate
il vostro orgoglio e fate come
ordinatovi!”, fu la sentenza definitiva d’Hironimo,
mentre faceva cenno a Lena
d’entrare nella stanza e di porsi esattamente davanti la
faccia della prona
nobildonna. “Sto aspettando, madonna …”,
l’avvertì minaccioso, notando la sua
palese titubanza. “Volete che mandi qualcuno a far visita
alle vostre figlie?”,
parlò a ruota libera, senza freni inibitori e si sorprese
della stupidità di
quella cremonese, che sul serio lo
credeva capace di tale
nefandezza ai danni di quelle tre ragazze. Dell’onore della
madre poco se ne
crucciava, ma le fanciulle non meritavano di pagare per gli errori dei
loro
genitori voltagabbana.“Dopo che saranno divenute delle
puttane, non vi darà più
fastidio condividere tetto e tavola con quelle di vera o presunta
professione,
anche perché non noterete più la differenza tra
loro e le vostre care Biancha,
Lucrecia e Yxabela. Sapeste come ci guardano vogliose la braghetta,
quelle tre
false verginelle, non vedono l’ora di prenderselo tutto in
bocca …”
Un roco
singulto si librò nell’aria e domina Gigliola,
sconfitta,
mormorò flebile a denti stretti: “Mi
dispiace” e pianse amaramente di vergogna
per quella sua debolezza.
“L’interessata
non ha sentito.”
“Mi
dispiace!”
“In
pavan veneziano, per cortesia.”
“Me
despiase!”
“Magdalena,
cara amica mia, prendi il vestito che più ti piace
e anche la mia collana di perle, sono un mio regalo!”
“Ladro!
Furfante!”
“Domina
…”
“Magdalena
… cara amica mia … va’ a … a
torte el … el … el vestìo
che pì te piase et … anca ea colàna de
perle, zeli on … on mio presente!”
“Magdalena,
stasera cenerai alla mia tavola, da sorelle, con le
mie figlie.”
“Magdalena
… stasera ti te zenarà a la mia tola, da
… da sorée
… cum le mie fie.”
“Ora
un bacio sulla guancia e pace fatta.”
Il viso
scarlatto e rigato di lacrime, la nobildonna si ripose
barcollante in piedi, appoggiando le mani sulle spalle della divertita
contadina, la quale le porse beffarda la guancia su cui domina Gigliola
posò un
recalcitrante bacio manco le avessero domandato di sbaciucchiare un
rospo.
Dopodiché, resistendo all’istinto di nettarsi le
labbra tramite il dorso della
mano, la donna si recò in stato pressoché
sonnambolico verso uno dei suoi
cassoni, estraendo un prezioso abito di broccato d’argento e
dallo scrigno una
collana con due giri di grosse perle.
“Par
ti”, sussurrò atona la padrona di casa, cedendo
affranta alla
villanella quei due suoi averi: decisamente un condannato a morte
avrebbe
dimostrato più allegria di lei.
Al che
Lena scoppiò in una risata fragorosa e sguaiata,
strabuzzando gli occhi al punto che si vedeva il bianco dei bulbi
oculari; a
mo’ di ringraziamento l’intera sua lingua
mostrò alla gran signora che sulla
pelle sua, di sua madre, di sua nonna fino all’alba dei tempi
aveva fruttato
quel goloso lusso di cui tanto si pavoneggiava e che adesso la
contadina
ghermiva tra le sue forti dita. Poiché l’invidia e
l’avidità risiedevano sia
nel cuore del ricco che del povero, Lena non provava alcuna
pietà per le
disgrazie della nobildonna, semmai gongolava nell’apprendere
come anche la
malasorte ogni tanto si sfogasse sui cosiddetti intoccabili.
Quella
sera Lucha, Marco e i loro cugini Piero, Batista e Jacomo
si stupirono di veder scendere per la cena domina Gigliola e le sue
figlie,
solitamente più recluse delle monache di clausura, ma ancor
di più di vedere
l’altezzosa dama deambulare a braccetto con la contadina,
vestita lussuosamente
da sua pari e trattata con altrettanto raffinato garbo in una grottesca
parodia
d’intima amicizia, il tutto sotto l’occhio vigile
di Hironimo, il quale non si
perdeva il benché minimo movimento
dell’aristocratica. Davanti a tal giocondo
quadretto, nessuno dei convintati lì presenti, tranne Lucha
che dal disappunto
strinse le labbra manco volesse ingoiarle, riuscì a
trattenere il proprio
spasso e con crudele gusto stettero al gioco, rivolgendosi ossequiosi a
Lena e riempiendola di ogni galante carineria in un
carnevalesco gioco
delle parti. Invitarono a tavola perfino le loro compagne di guerra e
le
fantesche e a breve la sala si riempì d’ontissimi
schiamazzi e canzonette ancor
più sporche.
Tanto si
divertivano a bere, mangiare e sbaciucchiarsi
indecentemente con le loro ganze, da non curarsi minimamente
dell’espressioni
imbarazzate e ansiose delle damigelle Biancha, Yxabela e Lucrecia
dinanzi a tal
spettacolo da quartiere militare né di come la loro madre
domina Gigliola, tra
un boccone amaro e l’altro, ripetesse oramai ossessivamente
tra sé e sé:
“Ladro,
disgraziato, ladro, disgraziato, ladro …”
Continua
…
**************************************************************************************************
Alla
faccia della cavalleria, direte? Beh, l’Anonimo nei suoi
scritti ha mostrato con disarmante schiettezza il lato meno
“onorevole” dei
condottieri e capitani sia regolari sia di ventura e di chiunque si
desse in
generale alla vita militare, citando chiaramente le loro angherie,
ruberie e
atteggiamenti assai dissoluti.
E con
questo si conclude l’ultima digressione (ne mancano altre
tre ma saranno più in là) e nel prossimo capitolo
ritorniamo nel “presente” con
le vicissitudini del Nostro.
Capisco
che questi salti nel passato possano risultare noiosi se
non addirittura fuori contesto, invece vi anticipiamo che avranno un
ruolo
importante in futuro, altrimenti alcuni atteggiamenti del Nostro non
avrebbero
senso a voi lettori senza conoscere il suo passato.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] di tutte le città dello Stato
di Terra,
Brescia era la più ricca subito seguita da Treviso.
[2] a titolo di ripasso, il nonno materno
del Nostro, Carlo Morosini “da Lisbona”, aveva
avuto i seguenti figli qui in
ordine di nascita. Da Querina Querini: Nicolò (1430);
Piero/Pietro (1431);
Ferigo / Federico (1433); Hironimo / Girolamo (1437); Lunardo /
Leonardo
(1441); Batista / Battista (1442). Da Elisabetta Contarini: Leonora /
Eleonora
(1452).
[3] sebbene sia sempre stato chiamato
“Battista” nelle cronache del Sanudo e altrove,
nell’atto di matrimonio lo zio
del Nostro è stato registrato come Zuam Batista /Giovan
Battista o
Giambattista. Supponiamo quindi esser quello il suo nome di battesimo
per
intero.
[4] Patiens vuol
dire “colui che
tollera”; “colui che soffre”, ma nel
gergo giuridico di Venezia è anche “colui
che si sottomette”, cioè un omosessuale passivo.
L’intero dialogo è dunque un
gioco di parole, il riferimento alla croce si rifà
all’iconografia bizantina e
duecentesca del “Christus Patiens”, cioè
del Cristo sofferente sulla Croce.
[5] Angelo Tiepolo, per via di una soffiata
incentivata poi dalla promessa di una ricompensa, verrà
arrestato mentre si
trovava nella Quarantia con l’accusa di sodomia passiva
nell’agosto del 1516.
Torturato per giorni lui e la sua serva, non confesserà mai
e pertanto ci si
limitò ad esiliarlo cinque anni da Venezia. Sia Marcantonio
Michiel che Marin
Sanudo descrivono la sua condanna un’ingiustizia,
descrivendolo come una persona
“gentile” e benvoluta da tutti, malgrado il suo
“difetto”, mostrando quindi che
si sapeva e ciononostante lo si tollerava per il comportamento
evidentemente
morale dell’uomo.
[6] Narra il Sanudo in data 28 novembre
1505: Item accidit, che morì in do zorni
sier Hironimo Morexini, da
Lisbona, era governador de l’intrada, ab intestato. El qual
era in lite, et in
grandissimo odio, con suo fratello, sier Batista; ma, ita volente Deo,
successe
il tutto. E portato il corpo in chiesia di San Canzian, fo trovato in
questo
zorno una zanza, che l’era vivo, perchè pareva
fusse caldo; fo portà di chiesia
in caxa dil piovan, fregato etc., et pur morto era.
La nostra
teoria è che probabilmente Girolamo Morosini fosse stato
creduto morto per un caso prolungato di
coma. Chissà perché questo
episodio mi ha subito ricordato “La Sepoltura
Prematura” di Edgar Allan Poe …
[7a]
È
vero che Agnese si risposò
relativamente presto con Federico
Renier (1462-1542): il loro primo figlio, Giovanni, nacque infatti il
16.09.1507 e lei era rimasta vedova a fine novembre del 1505.
Calcolando un anno
di lutto, praticamente era sul serio rimasta incinta poco dopo le
nozze.
Tuttavia, che lei e Federico fossero stati amanti prima della morte di
Girolamo
Morosini e una diceria da me creata per motivi di trama –
forse i parenti
Morosini l’avranno anche veramente pensata,
chissà. In ogni modo, prendetela
per la ciancia che è, non per la verità fino a
prova contraria. Io rimango
tuttavia dell’opinione (che ho espresso tramite Leonora) che
dopo lo scandalo
della sorella Elisabetta Erizzo e soprattutto a causa della faida tra i
fratelli Battista e Girolamo Morosini, il clima a Ca’
Morosini doveva essere
stato talmente pesante da spronarla a trovarsi in
tutta fretta un
secondo marito, pur d’andarsene via da
quell’ambiente divenuto decisamente tossico.
[7b] Narra il Sanudo in data 8 luglio
1507: In questo zorno fo expedito, in do quarantie,
la retention di la
fia fo di sier Antonio Erizo, procurator, incolpada aver
robà danari a la morte
di sier Hironimo Morexini da Lisbona, so cugnado; la qual è
stà più di uno anno
retenuta in caxa dil capitanio di le prexon. Parlò sier
Hironimo Querini, olim
avogador; li rispose domino Rigo
Antonio; poi sier Antonio
Zustignan, el dotor, olim avogador; e li rispose domino Bortolo Dafin,
dotor,
avochato. E posto da poi disnar, per li avogadori la parte di
procieder: 40 di
no, et 11 di sì. E fo asolta.
Delle
quattro figlie di Antonio Erizzo – Elena, Marina, Elisabetta
e Agnese – abbiamo identificato in
Elisabetta questa “fia fo di sier Antonio
Erizo” cognata di Girolamo Morosini. Questo perché
Elisabetta era nubile (e
tale morirà) e di conseguenza appare più logica
la scelta di Sanudo di
relazionarla al padre, l’unico uomo di riferimento sociale.
Infatti, se fosse
stata sua sorella Marina, sarebbe stato più immediato
introdurla come la moglie
di Giacomo da Canal; similmente anche l’altra sorella, Elena,
che pur vedova
comunque era stata la moglie di Francesco Diedo, il quale si era
distinto come
ambasciatore, militare e filosofo dottorato. Questa menzione
esclusivamente del
padre potrebbe equivalere ad un pudore del Sanudo, forse per non
infangare la
reputazione dei mariti? Poco probabile, visto che quando
c’era da cantarle,
Sanudo le cantava, basti pensare a come riportava tranquillamente la
canzonetta
sconcia e minacciosa verso Antonio Grimani e famiglia nel 1499 (e
costui
diverrà Doge nel 1521!). Inoltre, anche Antonio Erizzo era
stata una
personalità di tutto rispetto a Venezia, perché
associarlo allo scandalo della
figlia? No, molto probabilmente questa Erizzo non aveva altri legami
maschili
se non col padre e per questo abbiamo pensato ad Elisabetta. Tenendo
poi a
mente il suo precario status di donna nubile, indirettamente ci ha
fornito il
movente per il presunto furto, ossia d’ottenere una dote per
maritarsi.
[8] Voltà el
canton, passà la
passion! = quando il corteo funebre ha
girato l’angolo, il dolore
(del coniuge superstite) se n’è già
andato (detto veneziano).
[9] adesso nota come “Villa
Contarini
Camerini””, di nuovo si tratta ricostruzione
intuitiva grazie ai pochi disegni
rimasti. Sulla pianta del castello nel 1540-46 Paolo Contarini fratello
di
Marco commissionò al geniale architetto Andrea Palladio di
costruire un nuovo
maestoso edificio, il corpo centrale della villa. E’
riportato che il figlio di
Ludovico il Moro, Francesco, vi soggiornò gradito ospite dei
Contarini, quando
lo Sforza stava praticamente rincorrendo l’Imperatore Carlo V
fin quasi a
Bologna per riottenere il Ducato di Milano.
Nella
seconda metà del Seicento, il discendente di Paolo, Marco
Contarini procuratore di San Marco, farà ampliare la villa e
abbellendo il
parco, donandole l’attuale aspetto, talmente sfarzoso che i
contemporanei la
definirono una reggia.
[10] Francesco Novello da Carrara venne
sconfitto nel 1405 dai Veneziani e perdette la signoria di Padova,
annessa allo
Stato di Terraferma. Condotto assieme ai figli Francesco III e Giacomo
a
Venezia, morirono tutti e tre in prigione strangolati nel 1406. Nel
1435
Marsilio da Carrara, l’unico sopravvissuto dei maschi di
Francesco Novello
e Taddea d’Este, tentò di
riprendere il controllo di Padova col
supporto del duca di Milano Filippo Maria Visconti ma finì
catturato e
decapitato in Piazza San Marco il 24 marzo 1435, ponendo
così fine ad ogni
pretesa della famiglia signorile sulla città.
I
superstiti, assieme agli Scaligeri di Verona, si rifugeranno in
Germania e proveranno, tra il 1487 e il 1490 a preparare un'invasione
col
supporto del Duca di Sassonia e il Duca di Baviera, concludendosi
però la cosa
con un nulla di fatto.
Per
quanto riguarda Jacopo da Carrara padre di Maria, egli
dapprincipio aveva militato fedelmente per il padre Francesco I,
distinguendosi
per il valore in battaglia e per aver riconquistato, tramite uno
stratagemma,
Padova nel 1390 per il fratellastro Francesco Novello, che gli diede
metà delle
terre di Santa Maria di Sala. Tuttavia, i due fratelli entrarono ben
presto in
conflitto per le loro vedute politiche, spostando Jacopo le sue
simpatie verso
Venezia. Denunciato dai suoi stessi figli, Jacopo venne arrestato,
torturato ed
imprigionato e ufficialmente si suicidò, sebbene
già all’epoca si vociferasse
di un’esecuzione en cachette, addirittura per mano dello
stesso Francesco
Novello (che poi anch’egli venne giustiziato in segreto, oh
ironia!)
Conquistata
Padova, Venezia confiscò puntualmente ogni
proprietà
ai Carraresi, compresi tra questi i figli di Jacopo –
Nicolò, Paolo, Bonifacio
e Antonio – cedendoli alla sorella Maria e alla madre Lucia Contarini. in segno di riconoscenza
verso Jacopo.
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Capitolo 23 *** Capitolo Ventunesimo: 16-17 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura e un Buon Natale!
H.
Aggiornato
il 18.10.2021
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Capitolo
Ventunesimo
16-17
settembre 1511
Fra’
Anselmo respirò a pieni polmoni l’aria mattinale,
deliziandosi del suo retrogusto fresco d’acqua di ruscello
nonché del tepore
settembrino catturato dai muri alti e bianchi dell’Abbazia,
riflettenti il
lilla-lavanda intenso dell’aurora che cedeva gradualmente il
posto al
pesca-arancione del giorno. Posizionata infatti a sud,
l’edificio era protetto
dal vento di tramontana e permetteva di conseguenza un microclima
temperato e la
coltura di quelle piante che, solitamente, crescevano sul Garda o in
Centro e
Sud Italia: all’avanzante rossastro e giallo acceso delle
foglie autunnali dei
roveri, querce, gelsi e dei pampini d’uva
s’accompagnava sui terrazzamenti il
sempreverde degli ulivi, generosi fornitori d’olio per i
monaci.
Il
benedettino permise al timido sole di scaldargli le ossa,
piccolo lusso che si concedeva dopo le Lodi mattutine prima di recarsi
in
infermeria dai suoi ammalati. Avanzò di qualche passo a
contemplare la valle
sottostante, là dove sorgeva il villaggio di Nervesa e il
suo porticciolo su di
una Piave ridotta da lassù a grasso serpente e dove, in
lontananza, si potevano
ammirare i vaghi monti della Patria del Friuli e la pianura di campi e
alberi
conducente a Treviso. Un raro e armonioso equilibrio,
l’industriosità umana e
la selvatichezza indomita della natura, che da anni nutriva e rilassava
l’animo
di Fra’ Anselmo quando in vena di solitaria contemplazione
fuori dal chiostro.
Una
piccola oasi d’immota serenità riparatrice dai
turbini dei
tempi.
Adesso,
invece, il piano immediatamente sotto la collina dove
sorgeva l’Abbazia era stato trasformato in un accampamento e
così anche il
villaggio, disertato in massa non appena i suoi abitanti avevano udito
dell’accoglienza delle truppe franco-imperiali da parte dei
Conti di Collalto e
soprattutto dell’Abate. I soldati avevano rigirato alla
stregua di calze ogni
casa, magazzino, bottega, rimessa pur di trovare qualche provvista o
utensili,
spingendosi fino alle ville estive dei patrizi veneziani, trovandole
però
desolatamente vuote. Le barche e zattere inutilizzate per la fuga erano
finite
bruciate dalle sempre più frequenti incursioni degli
stradioti veneziani,
rendendo inutilizzabile il porticciolo di Nervesa, almeno
nell’immediato,
fintanto che il commissario imperiale Jean d’Aubigny
Cividal di Belluno non si fosse deciso a spedire per via fluviale i
rifornimenti. Tuttavia, il ponte di barche costruito dai Collegati si
vedeva
benissimo e il monaco studiò colmo di pena in direzione
della Patria del
Friuli, pregando che Sacile, Oderzo e Pordenone resistessero, a seguito
della
nuova caduta di Conegliano che pur, magra consolazione, quei disertori
dei
soldati alemanni avevano trovato già abbandonata e senza
vittuarie.
Fra’
Anselmo cacciò fuori un pesante sospiro: anche lui e i suoi
fratelli,
forse ad espiazione della loro codardia, avevano la propria croce da
portare. I
pochi soldati tedeschi rimasti si comportavano aggressivi e rapaci
più dei lupi
d’inverno, venendo in violenta discussione sia coi loro
alleati francesi e
italiani, sia coi monaci camaldolesi che li ospitavano alla Certosa sia
con
loro i benedettini, avendo buon gioco l’Abate a negoziare le
insistenze di
monsignor de La Palice a condividere le proprie scorte con le sue
truppe in
nome della pace e della concordia.
Quale
cibo? Avevano a malapena farina per dar da mangiare ai
monaci, novizi, oblati e conversi dell’Abbazia, figurarsi a
più di quattromila
bocche; tutta l’uva dei loro vigneti era stata confiscata dal
maresciallo
francese e distribuita ai soldati per farne del mosto e così
anche le loro rape
e la carne, neanche si fossero trasformati in un mattatoio a cielo
aperto. Si
lamentavano monsignore e i suoi comandanti della scarsità di
cibo, di come non
si mangiasse pane da tre giorni e bevessero mosto invece di vino.
Hé, cosa
s’aspettavano? Il miracolo dei pani e pesci? In infermeria
Fra’ Anselmo doveva
litigare costantemente coi soldati italiani e francesi, i quali
tentavano ad
ogni occasione di rubare le razioni destinate ai loro commilitoni
ammalati. Scene
disgustose, invero, un’umanità alla sbando senza
Dio né morale, ecco l’unico
beneficio della guerra. I suoi occhi caddero sulle forche improvvisate,
penzolanti uniti nella morte disertori francesi e tedeschi e contadini
veneti,
ognuno colpevole del proprio crimine terreno e solo
l’Onnipotente conosceva
quale avrebbero esattamente espiato nell’Aldilà.
Il
benedettino si segnò tre volte, prendendo coraggio nel
Signore
che lo aiutasse a superare anche quella giornata; solo rientrando nel
suo
laboratorio e di sfuggita colse una figuretta biancovestita diretta
tutta di
corsa verso la stalla.
Quale
negozio doveva brigare un novizio lì?
Hironimo
si destò all’improvviso da un sonno inquieto,
sudato alla
stregua di Cristo nel Getsemani e colto da brividi compagni, la testa
dolorante
neanche gli avessero stretto un cerchio uncinato alle tempie.
L’escoriazione
allo zigomo gli pulsava aperta, rossa e gocciolante di umori similmente
al
taglio sul labbro inferiore, il quale gli tirava per via della
secchezza della
bocca invidiabile soltanto a quella della gola, manco avesse ingoiato
null’altro che polvere per tutta la notte. Aprendo
disorientato gli occhi
cisposi, per un istante il giovane Miani panicò nel non
riuscire più a muovere
le dita delle mani, temendo esser rimasto monco; allora si
sforzò di calmarsi,
di reclinare il collo indolenzito quel tanto per focalizzare quegli
arti
apparentemente inesistenti: mugugnò di sollievo nel
ritrovarsi tutte e dieci le
sue amiche, per quanto anchilosate in posizioni vagamente artigliformi.
Il
veneziano strinse i denti e, una ad una, s’obbligò
malgrado il
dolore da spilli d’ago sottopelle a piegare le dita,
stringendole forte a pugno
e così finché non poté di nuovo
muoverle agevolmente. Dopodiché lentamente si
pose in ginocchio, poi sollevò piano una gamba per alzarsi
in piedi, ignorando
le fitte ai muscoli intorpiditi a causa sia dalla contorta posizione in
cui
s’era addormentato sia delle contusioni provocategli dal Bua
al loro ultimo
“diverbio.” Maledizione, quel beota
l’aveva forse scambiato per una bistecca da
frollare?
E a
proposito di carne … un grugnito dolorosissimo e imperioso
gli
attanagliò le viscere, costringendo il giovane ad
indietreggiare fino ad
appoggiarsi di schiena al muro della stalla, la vista oscurata da
macchie
nero-giallastre: se all’inizio della sua prigionia aveva
sopportato la mancanza
di cibo, talvolta rifiutandolo a spregio, adesso tal digiuno forzato
incominciava a pesargli, esaurendo poco alla volta il suo corpo le
scorte di
grasso. Senza contare la disidratazione: tra un imbroglio e
l’altro, l’ultimo
liquido assunto era stata la zuppa.
I suoi
occhi, annebbiati e famelici, si posarono subitaneamente
cupidi sulle mammelle della vacca davanti a lui, la quale, manco ne
intuisse i
torbidi pensieri, si girò guardinga e muggì il
suo disappunto. Ora, cogitò
Hironimo, gli angoli della bocca umidi e gocciolanti di una saliva di
cui
neppure s’era accorto, ora il problema consisteva
nell’arrivare a quella fonte
di latte evitando d’affondare negli escrementi, aumentati
d’altezza nel corso
della notte. Fortunatamente, le catene gli consentivano
d’avvicinarsi senza
strattoni all’animale, il quale poi s’era portato
convenientemente vicino a lui
e così, in punta dei piedi brucianti per via del sangue che
ritornava a fluire pel
verso giusto, il patrizio si preparò ad improvvisarsi
mungitore e saziare fame
e sete. Sennonché, abbassandosi cauto per non spaventare la
mucca, dietro le
mammelle vide inaspettato il viso perplesso di Thomà.
“Cossa
feu, patron?”, domandò quegli, trattenendosi dal
ridere per
l’inusuale spettacolo di un gentiluomo in ginocchio tra
paglia ed escrementi
per mungere una vacca. Quand’ecco, che il luccichio birbante
svanì negli occhi
del fantolino, non appena s’accorse della pelle rossa, blu e
gialla del
veneziano. “Oh, patron! Cossa gh’avelo fato quel
tartaro a vu?”, s’informò in
un gemito, raggiungendolo immediatamente, la mano bloccata a
mezz’aria e indeciso
s’accarezzarlo o meno a mo’ di conforto.
“El
Bua”, tagliò corto Hironimo, “el me
gh’ha un fià spelucato.”
“Gheo
vedo”, fischiò Thomà, affatto convinto
del “un poco”, a
giudicare dalle vivaci ecchimosi sul corpo del patrizio, trasformato a
momenti
in una tavolozza di pittore.
“Tu
non dovevi startene in letto?”
“Mi
gero en leto et ghe tornarò.”
“Conciato
così?”, indicò il Miani
l’abito da novizio del piccino,
il quale, guardandoselo e accarezzandolo orgoglioso, gli
confidò furbo:
“Per
portarve qualchecossa da manzar e bevar, sença farme
desquèrzare (scoprire, ndr.) da frati e
franzosi!”, e dalla tasca del saio ancora
umido di lavanderia tirò fuori in maniera assai teatrale un
salame morbido e
una piccola borraccia di cuoio, ambedue rubati molto probabilmente uno
dalla
cambusa dei monaci e l’altra da qualche soldato in
infermeria. “Salàdo e mosto
per vossioria, la resti servida”, ridacchiò
compiaciuto della sua abilità.
In altre
circostanze, il giovane patrizio avrebbe rampognato Thomà
per quel suo irrefrenabile vizietto di ladro, sennonché la
fame l’aveva a tal
punto intontito da spingerlo ad allungare avido la mano, facendogli
cenno di
cedergli il malloppo e pure in fretta. “Bravo, bravissimo!
Quest’è parlar da
zentilhomo!”, lodò il fantolino, mentre
abbandonando ogni pensiero affondava i
denti sull’unta carne speziata, senza neppure premurarsi di
spelarla dal budello.
E gli dispiaceva di farsi vedere così poco galante,
divorando a grandi morsi e
masticando e deglutendo rumorosamente, ingollando il mosto a grosse
sorsate.
Thomà
nel frattanto gli s’era accovacciato davanti, fissandolo
sorridente e soddisfatto, le guance appoggiate sui pugni.
“Xélo bon, an?”, gli
chiese e malgrado l’assenza di malizia, quella domanda
risvegliò la coscienza
d’Hironimo, che tosto lo ghermì per i capelli,
tirandoli fino a rinsavirlo da
quella sua fame bestiale.
Ingoiato
l’ultimo boccone, il Miani si pulì col dorso della
mano
le labbra, leccando via ogni rimasuglio di carne tra le dita.
“Toga qua e magna
anca ti, ché te sè picenin e te gh’ha
da créssar!” gli cedette la metà ancora
intatta del salame, lamentando d’aver purtroppo svuotato la
boraccia; tuttavia
trovar da bere sarebbe stato più facile per il fantolino,
anche in tempi di
carestia un sorso d’acqua i monaci non lo negavano.
Le
pupille di Thomà si dilatarono predatrici e così
pure le nari,
vibrando il suo corpo intero d’aspettativa tanto che Hironimo
rise mentalmente,
associandolo al gatto di casa prima di balzare sul sorcio.
“Mmmh-mmmmh, che
pretioso!”, commentò il fantolino paciolando a
bocca piena e neppure in quel
frangente il patrizio ebbe cuore di rimproveralo, intenerito
dall’espressione
di pura goduria sul volto da convalescente del piccino.
Hironimo
lo condusse a sé, abbracciandolo forte e stringendolo al
petto, annusando a pieni polmoni l’odore di erbe, sapone,
sudore e paglia
impregnati sui capelli e la figuretta magrolina di Thomà, il
quale, reclinando
leggermente il capo, bofonchiò la sua perplessità:
“Patron,
cossa gh’aveu?”, non che se ne dolesse,
tutt’altro:
chissà perché, ma i rari abbracci del castellano
gli ricordavano quelli della
sua mamma ed egli ammise che non poteva riceverne abbastanza,
desiderandone
sempre di più.
“Gnente,
gnente: magna e tasi”, lo rimbeccò privo di fuoco
Hironimo, appoggiando la guancia sulla testolina del ruminante bambino,
rivangando la sua memoria le frasi terribili di Mercurio Bua.
Che mi
vuoi dimostrare? Quanto sei nobile e coraggioso pigliandoti a cuore la
sorte
della vedova e dell’orfanello? Sei un ipocrita e mi disgusti!
Sì,
all’inizio forse era stato così: salvando
Thomà, l’ultimo
rimasto della sua guarnigione, Hironimo aveva sperato di redimersi, di
mitigare
il suo totale fallimento come castellano e capitano. Adesso invece
stava
realizzando che di quello gl’importava sempre di meno;
d’altronde, quanti
insuccessi peggiori del suo avevano commesso condottieri di
più vasta esperienza
e fama? Finché restava in vita e respirava, Hironimo poteva
ancora rimediare a
quella sua magra figura, poteva ancora trovare il modo di vendicare il
suo
onore e farla pagare con tutti gli interessi al nemico – omo morto no’ fa guera [1] e
lui era vivo e ben intenzionato a
darla.
No.
Lui
lottava per la sopravvivenza di Thomà perché era
giusto così. I
bambini non dovevano pagare per le ambizioni e le malefatte degli
adulti, che
al contrario dovevano proteggerli e fornir loro un degno esempio di
vita da
seguire. Al momento il giovane Miani non poteva offrire
null’altro in
riparazione al torto fatto al piccino, tranne quello di condurlo sano e
salvo a
Treviso e lì adoprarsi acciocché sopravvivesse a
quella guerra, offrendogli
l’opportunità di ricostruirsi tutto ciò
che gli era stato crudelmente
sottratto. Forse poteva usare le sue conoscenze a Venezia per mandarlo
a
bottega presso qualche maestro d’ascia in uno dei numerosi
squeri (neanche
avrebbe sofferto la nostalgia delle sue montagne, gli squerarioli
provenivano
tutti o quasi dalle bande di Thomà) o presso qualche
falegname … forse …
Azzarda
un’altra miracolosa fuga e ti sgozzo il marmocchio, lavandoti
la faccia col suo
sangue. Hai inteso? È l’ultimo mio avvertimento!
Hironimo
serrò la sua presa sulle spalle esili del fantolino:
avrebbe cavato personalmente gli occhi al greco-albanese, se si fosse
azzardato
anche soltanto a torcergli un capello. Non temeva per sé,
non temeva di nulla,
poteva benissimo sopportare qualsiasi tormento da parte del Bua, se
poteva
ergersi a scudo umano tra lui e il bambino.
“Come
ti senti?”
“Mejo,
patron.”
“La
febbre?”
“Nola
gh’ho pì”, schioccò
Thomà le labbra, finalmente satollo.
“Perhò
vuj seti tutto on bójo (bollore, ndr.)!”,
rimarcò preoccupato.
“Non
pensare a me. Invece, fila in letto prima che il frate
s’accorga della tua assenza e te ciapi per le
orecchie!”, liquidò Hironimo
sbrigativamente le ansie del fantolino, sciogliendolo
dall’abbraccio e
spronandolo a rimettersi in piedi tramite giocose pacche sul sedere.
“Fe’
attention, patron. No ve vojo morto anca vu!”, gli
confessò
triste il bambino, rassettandosi la cottola del saio.
Il
giovane Miani gli sorrise temerario. “Manco se mi
sguinzagliassero contro tutti i diavoli dell’inferno,
riuscirebbero ad
uccidermi! Dèsso pussa via, sennò ti cattura il
castigamatti!” , lo spronò ed
in un battibaleno Thomà sgusciava da una finestrella della
stalla, giusto in
tempo prima che la porta s’aprisse. E a giudicare dal rumore
ferroso degli
speroni, non doveva certo trattarsi del monaco venuto per la mungitura.
Un
possente colpo di tosse catarrosa tradì
l’identità del nuovo
arrivato e Hironimo abbassò le spalle, rilassando la
postura. “Mal trovato al
chiarore dell’aurora, signor conte di Gambara!”, lo
salutò ad alta voce,
acciocché lo potesse localizzare dietro i robusti corpi
delle mucche.
Il nobile
bresciano si bloccò, impietrito, guardandosi sospettoso
intorno alla stregua d’un ladro colto sul fatto dal trionfo e
incavolato
padrone. Non scorgendo alcuno e riconoscendo l’accento dopo
aver respirato a
fondo per ben tre volte, l’uomo si diresse infine nel
là dove intuiva trovarsi
il vero mandante di quel saluto. “Sempre orgoglioso, messer
Girolamo, anche
nella merda”, ricambiò sardonico, evitando in un
buffo balletto di lordarsi pure
lui fino alle caviglie.
Hironimo
gli sorrise vezzoso. “Almeno questa è fisica e si
lava
via, mica come quella morale vostra!”
Il conte
Gianfrancesco di Gambara strinse la bocca in una linea
dura, rendendogli il volto pallidissimo doppiamente patito: a
confronto, il pur
strapazzato patrizio sprizzava di salute da tutti i pori. Le occhiaie
profonde
e scure cozzavano col rossore liquido degli occhi; la pelle tirata
acquistava
cadaun momento un crescente livore da cadavere, lucente di sudore
freddo del
febbricitante cronico. Le gote, ironicamente, brillavano d’un
malaticcio
rossore ed Hironimo s’allontanò inconsciamente da
lui, riconoscendo nel Gambara
il viso di chi, oltre a catarro, tra poco avrebbe incominciato a sputar
sangue.
“Poche
parole”, venne al dunque il conte, conscio del poco tempo a
disposizione per conferire col prigioniero, prima che uno degli sgherri
del
greco-albanese s’accorgesse della sua presenza o venisse a
controllare. “Che
cosa voleva sapere il Bua da voi?”
“Con
quanta gente qui all’Abbazia l’ho
tradito.”
“Piaghe
di Cristo, vi paiono tempo e luogo adatti a tali scherzi?”,
sibilò frustrato il bresciano, il pugno stretto
convulsamente. Possibile che
non si potesse conversare in maniera civile con quel dannato veneziano?
Invece
… “E chi scherza?”, ribatté
tagliente Hironimo, aggrottando
serio e pragmatico la fronte. “Voi potete giocare allo
scettico quanto vi pare,
ma ora come ora il Bua sguazza nel sospetto del geloso: non si fida di
nessuno
e scorge nemici ovunque. Crede che tra noi due ci sia una sorta di
diabolica
alleanza a suo danno. Teme specialmente di voi, della vostra
incostanza”, gli
riassunse brevemente la situazione, confidando nella coscienza sporca
del
conte, giacché soltanto chi aveva qualcosa da nascondere
poteva preoccuparsi
così tanto dei vaneggiamenti di un condottiero vittima di
manie di
persecuzione. “Ha ragione?”, insistette il giovane
Miani; doveva accettarsi ad
ogni costo della posizione del Gambara in quel gran bailamme: amico o
nemico o
approfittatore geloso del Bua. “E’
vero?”, l’incalzò, malgrado
l’eloquente
silenzio del bresciano, il quale tradiva una disponibilità
nei suoi confronti
davvero ghiotta.
Il conte
Gianfrancesco abbassò contrito il capo, per poi levare di
nuovo lo sguardo leggermente sfocato dalla malattia, pesando accorto
ogni
parola onde non compromettersi eccessivamente. “Si parla di
rientrare a
Milano”, disse infine, provocando una mezza sincope nel
giovane, che di fatti
sbrodolò genuinamente agitato:
“C-cosa?!”
“Potete
ben intuire cosa comporterebbe per voi: la deportazione,
forse perfino in Francia se il Re decidesse di togliervi al Bua per
aggiungervi
alla sua collezione di prigionieri illustri”,
seguitò imperterrito il Gambara
pur senza alcuna malizia nella sua voce, anzi, delucidandogli in
maniera
piuttosto distaccata quale destino attendeva Hironimo, avesse La Palice
deciso
di rinunciare all’impresa di Treviso e di ritirarsi in
Lombardia in attesa di
un’occasione più propizia.
Lo
stomaco del veneziano sobbalzò dolorosamente, montandogli la
nausea al punto di rigettare la previa colazione. Teoricamente,
Mercurio Bua
serviva l’Imperatore e quindi Hironimo era prigioniero dei
tedeschi. Tuttavia,
grazie alla recente diserzione di quest’ultimi, La Palice
poteva benissimo
rivendicarlo come suo prigioniero a mo’ di risarcimento dei
danni subiti, visto
che, alla fine, a pagare la spedizione rimaneva comunque il Re di
Francia e non
quello dei Romani.
La
deportazione! Se fosse finito in Alemagna, ancora qualche
possibilità di ritornare a Venezia ce l’aveva, ma
in Francia? Ripensò
immediatamente al suo amico Piero Contarini a suo padre
l’ambasciatore sier
Zacharia, già al loro secondo anno da ostaggi; conoscendo la
possessività di
Louis XII sui suoi prigionieri, il Miani avrebbe fatto prima a
rimpatriare in
bara che sui suoi piedi.
“Al
momento mi è difficile avvertire direttamente i miei
contatti
a Venezia: avete forse qualcheduno a Treviso che possa fare da
tramite?”,
continuò in fretta il conte, abbassando significativamente
il tono di voce.
Hironimo
sbatté confuso le ciglia. “Mio fratello Marco
è alla sua
custodia”, disse, paventando d’illudersi in false
speranze: troppo conveniente
per sembrare vera quella partigianeria da parte del Gambara. Dove
voleva andare
a parare? Che si trattasse di un elaborato piano del Bua per
tormentarlo? S’era
così, il greco-albanese doveva darsi alla carriera teatrale,
ché la sua collera
e sospetto non gli erano parsi così recitati …
“Sta
bene. Gli farò sapere che siete qui a Nervesa, che siete
vivo
e in … discrete condizioni.”
“Perché
dovrei fidarmi di voi? Come avete tradito la Signoria,
potreste tradire anche me!”, vociò infine il
patrizio il dubbio, che da sempre
l’attanagliava ogniqualvolta si rapportava col nobile
bresciano.
“Perché?”,
ripeté esitante l’uomo.
“Perché potrei essere l’unica
speranza che avete per fuggire via da qui”, ammise sottovoce.
“Spero di
sbagliarmi, ma ho come l’impressione che il Bua non
chiederà per voi alcun
riscatto. Non vi pare strano? Subito ha riscosso la taglia per i
capitani
Doglioni e Colle, mentre voi siete suo ostaggio da quasi tre settimane
e non
una parola dalla Signoria.”
“Può
darsi … può darsi che la Signoria mi giudichi
morto assieme
agli altri soldati di Castelnuovo di Quero”, tentò
disperatamente Hironimo di
smontare quell’orrida teoria. “Può darsi
che il Bua abbia indicato una cifra
troppo alta e che pertanto stiano negoziando!”
“Ignoro
come esattamente stiano gestendo a Venezia le trattative
per il vostro rilascio”, scosse il capo il conte,
indietreggiando verso
l’uscita della stalla. “Però conosco
abbastanza bene Mercurio Bua e non è tipo
da tirarsi indietro dinanzi ad un facile guadagno. Quali progetti egli
abbia su
di voi, da tardare di così tanto la richiesta di riscatto,
al momento mi
restano oscuri”, concluse sbrigativamente il discorso,
uscendo veloce dallo
stanzone e abbandonando Hironimo all’angoscia per il suo
futuro.
Un
ringhio rabbioso riecheggiò tra le mura della stalla.
Cancaro
maledetto! Come
sarebbe stato a dire, che non avrebbe richiesto alcun riscatto? Per
quale
motivo? A quali “progetti” si stava riferendo il
Gambara? Ché figurarsi se
Hironimo se la beveva quella grossa, grassa balla colossale che lui non
sapeva
niente! Non aveva mica intenzione quel satanasso di tenerselo stretto a
mo’ di
scudo umano e garanzia per l’intera durata della guerra?
Piuttosto gli
strappava a morsi il pomo d’Adamo, piuttosto di tollerare
all’infinito una
prigionia così umiliante – in catene alla stregua
d’un criminale o uno schiavo,
sporco, scalzo, a gambe nude, in camicia e affamato. Se soltanto
l’avesse
liberato dai ceppi e affrontato alla pari da gentiluomo, altro che
pugni! Il
Miani gli avrebbe aperto la pancia e costretto a mangiarsi le sue
merdose
budella! Gli avrebbe …
Calma!
Calma …
Hironimo
prese un profondo respiro, chiudendo gli occhi e
imponendosi di raffreddare i propri bollenti umori maligni. La collera
non lo
portava da nessuna parte, se non a percosse certe. Inutile invocare
galanteria
nei briganti: sprecata con tal feccia, bisognava sfruttare la furberia
del
disonesto. Nonostante il suo rango, Hironimo rimaneva comunque un
prigioniero e
non stava scritto da nessuna parte che Mercurio Bua dovesse restituirlo
intero
o in buona salute – gli bastava ricordare i racconti laddove
si descrivevano le
terribili e penose condizioni in cui era rimpatriato il povero sier
Zorzi
Corner, bisnonno dei suoi cugini alla lontana, dopo sette anni di
prigionie e
torture a Milano per mano di quel pazzo furioso di Filippo Maria
Visconti.
Doveva
apparirgli docile, disperato, distrutto. Così il Bua
avrebbe abbassato la guardia e, alla prima occasione, Hironimo sarebbe
scappato
via con Thomà alla faccia di quel bastardo mascalzone
malnato.
***
Francesco
Rangoni saliva trasognato la rampa di scaloni che
l’avrebbe condotto assieme ai suoi fratelli al secondo piano
di Palazzo Ducale,
quello riservato alle sale del Collegio e del Senato. Guido e Ludovico
avanzavano più composti (sebbene il capofamiglia mostrasse
un viso leggermente
teso) forse perché già familiari e a loro agio in
quell’ambiente così solenne e
testimone di tutta la storia veneziana, grazie al miscuglio di stili
architettonici e decorativi succedutisi nel corso dei secoli, dal
bizantino, al
gotico, al classico-rinascimentale. Ovunque un tripudio di marmi,
pietra
d’Istria, legni pregiati, ori, smalti, affreschi, arazzi, il
ragazzo non
riusciva a concepire tanta ricchezza concentrata in un sol luogo.
Ripensò al
loro palazzo a Modena e a San Sismondo a Bologna: accidenti, a
confronto gli
pareva esser cresciuto in una stamberga! Perfino la loro nuova casa a
Ca’
Contarini a San Paternian impallidiva.
“Adesso
capisco perché vogliono tutti spartirsi la Signoria: qui
l’aria istessa profuma d’oro!”,
sussurrò Francesco a suo fratello Ludovico, che
rapido lo zittì, rampognandolo aspro per la sua sventata
mancanza di tatto.
Fortunatamente, sier Ferigo Contarini, che li accompagnava, era troppo
impegnato
a discutere con Guido, Agustin da Brignano Gera d’Adda e Julio Manfron figlio del
condottiero Zuam
Paulo per accorgersi della piccola scenetta.
Il
gruppetto entrò infine nell’imponente Sala del
Collegio,
illuminato dalle altissime finestre del secondo piano nobile, le cui
proporzioni allungate di stile gotico fiorito ricordavano moltissimo
quelle che
Francesco aveva di sfuggita ammirato nel secondo ordine della Scuola di
San
Marco. Il giovane modenese si sentì un poco intimorito,
stringendosi inconsciamente
a Ludovico mentre lisciava nervoso le pieghe invisibili del suo zipone,
sentendosi d’un tratto svestito e vulnerabile senza i rigidi
e pesanti strati
della sua armatura. Guido, dal canto suo, avanzò
apparentemente ineffabile
verso i Pregadi dalle veste scarlatte, che lì li attendevano
coi loro tipici
sorrisi di sfinge sui volti attenti e scrutatori. Che
strano, pensava invece sier Ferigo, notando i principali
scranni vuoti, mancano Sua
Serenità e il Minor Consiglio …
Un
cancelliere, comparendogli in punta dei piedi alle spalle, gli
sussurrò discretamente qualcosa all’orecchio,
invitandolo a seguirlo senza
attirare su di sé l’attenzione. Il che non fu
difficile, avendo iniziato i
Pregadi un discorso preparatorio in attesa della Signoria, il completo
interesse degli ospiti concentrato su di loro.
Fuori
dalla sala, in un angolo ascoso, il giovane provveditore si
meravigliò di trovare ad attenderlo sier Batista Morexini
“da Lisbona”, il
quale, ringraziato il segretario, lo istruì di raggiungere
il Serenissimo e gli
altri consiglieri onde annunciarli l’imminente arrivo del
Contarini. La vesta
ducale color pavonazzo risaltava il pallore nel viso, tipico di chi da
giorni
faceva le ore piccole, una stanchezza a malapena mitigata dalla stola
di
broccato d’oro e il chiaro dello zibellino che
s’intravedeva dalle maniche
larghe e aperte.
Confortante
apprendere come anche i senatori condividessero
l’insonnia dei provveditori di campo.
“Non
sono degno di cotanto onore, sier consier”,
mormorò piano sier
Ferigo al consigliere ducale, il quale con nonchalance gli
s’era accodato e gli
camminava accanto, evitando ambedue di guardarsi in faccia mentre
discorrevano.
“Da quando in qua un consigliere scorta un semplice
provveditore?”
“Consideratevi
soltanto un bravo giovine, ch’aiuta un povero
vecchio a camminare e che gli tiene un po’ di compagnia
mentre prende una
boccata d’aria fresca”, ribatté serafico
il Morexini. Ad arte era riuscito a
coordinare quel fuggevole colloquio privato col Contarini prima di
quello
ufficiale col Doge e il Minor Consiglio, non appena l’anziano
patrizio aveva
appreso di come il provveditore avrebbe accompagnato i fratelli Rangoni
e gli altri
condottieri a Palazzo Ducale. Poco tempo per parole veloci,
giacché conscio del
loro immediato ritorno a Padova a seduta terminata.
D’altronde, neanche il “da
Lisbona” poteva intrattenersi troppo a lungo col giovane
senza destar sospetti.
“Donca?
Cossa comandela la Signoria de mi?”
“An,
non vi voglio rovinare mica la sorpresa!”
Vecchio
volpone sibillino. “Cosa vogliono i Pregai dal domino Guido
Rangon?”, cambiò discorso sier Ferigo, un poco
seccato da quell’esprimersi ad
enigmi.
“I
condottieri sono come le puttane: gran sbaglio affezionarsi a
loro!”, ridacchiò cinico il consigliere, spiando
di sottecchi il rossore sulle
gote dello stoico provveditore. “State di buona voglia, il
vostro conte
modenese in questo momento è coccolato e lodato dai Pregai,
per la sua
partecipazione attiva e gagliarda a Marostega e a Castel Francho. Gli
staranno
di sicuro comunicando, come abbiano intenzione d’assegnargli
75 degli uomini
d’arme della compagnia del fu Governatore
Generale”, spiegò succinto sier
Batista a sier Ferigo la decisione dei Pregadi, ossia di dividere e
ridistribuire l’orfana compagnia di Lucio Malvezzi ai
comandanti più
meritevoli, tra cui appunto il Rangoni e i suoi fratelli, a
quest’ultimi
spettanti cinquanta soldati da gestire personalmente tra quei
settantacinque
ereditati dal fu genero del fu Roberto Sanseverino.
“Non
m’en cale un fico seco del Rangon e della sua masnada;
è che
mi scoccerebbe perdere proprio ora un valente condottiero!”,
berciò stizzito il
patrizio più giovane, fissando ostinato il viavai di gente
sul cortile esterno
del Palazzo.
Il
Morexini sogghignò indulgente.
“Ed
io? Da me cosa vogliono i Pregai? La Signoria? Il Principe?”,
insistette testardo sier Ferigo, sul serio non comprendendo
l’assenza del Doge
e dei suoi consiglieri alla seduta: cosa dovevano comunicargli di tanto
importante, da trarlo in disparte e ritardare il loro arrivo nella Sala
del
Collegio? E perché il “da Lisbona” gli
stava facendo fare il giro più lungo per
raggiungerli?
“Abbiamo
ragionato a lungo coi provveditori sier Polo e sier
Christofal: quando voi e il conte ritornerete a Padoa,
v’unirete ai 1500
cavalleggeri di domino Meleagro da Forlì alla volta di
Trevixo per disturbare i
Francesi rimasti al di qua della Piave. Senza i Tedeschi a coprir loro
le
spalle, il campo nemico è divenuto più
vulnerabile e può essere che, credendosi
in inferiorità numerica, decidano di abbandonare
l’impresa.”
Il
Contarini strabuzzò gli occhi, disorientato. “1500
cavalleggeri
a Trevixo?”
“Sì”,
confermò il consigliere ducale. “Già
oggi sono partiti 200
stradioti al comando di domino Thodaro Paleologo …”
“Non
soltanto per la custodia Trevixo, ma anche per la liberazione
di Noal, Citadela, Bassam ed Asolo”, concluse il provveditore
degli stradioti,
afferrando al volo la strategia camuffata abilmente dietro un semplice
spostamento di truppe. “Volete far terra bruciata attorno a
La Peliza,
isolandolo da ogni possibile soccorso esterno.”
Sier
Batista lo fissò di sbieco, compiaciuto dell’acume
militare
del giovane, rimanendo tuttavia in silenzio.
La
Signoria in effetti stava accarezzando il progetto d’isolare
ad
ovest La Palice, impedendo ogni ricongiungimento delle sue truppe con
quelle
dei Gonzaga di Bozzolo e Treviso diveniva di conseguenza il trampolino
perfetto
per un attacco a sorpresa. Contemporaneamente, la Signoria si stava
arrovellando sull’elaborazione di un rapido piano di difesa
di Sacile, Oderzo,
Pordenone, Marano, Portogruaro, Gradisca e Udine: analizzati e
commentati i
rapporti da parte dei loro podestà, capitani, castellani e
nobili locali, si
preparava a ricevere a breve gli oratori delle città
friulane per accogliere
eventuali richieste ed istruirli sul da farsi. Si lavorava a ritmo
frenetico,
serrato, l’ultima seduta terminata quasi alle ore 8 di notte
(le due, ndr.)
Naturale,
quindi, che sier Batista agli occhi del Contarini
apparisse così stanco e provato: tali strapazzi i giovani li
reggevano meglio e
la primavera da tempo aveva abbandonato il corpo del patrizio. Si
poteva ben
affermare come il consigliere ducale vivesse ormai a Palazzo,
alternando alle
sedute brevi visite a Ca’ Morexini giusto per cambiarsi di
camicia e
dormicchiare qualche oretta o alle stue per levarsi l’umido
dalle ossa,
talvolta in compagnia dei nipoti e del primogenito Carlo,
l’unico dei suoi figli,
dopo la partenza di Piero alla volta di Cipro per raggiungere il suo
fratellastro Andrea ad Aleppo presso il Sofì [2], con cui
sier Batista
riuscisse a rapportarsi serenamente e ad intavolare una conversazione
civile.
“Non
capisco”, esclamò infine sier Ferigo, fermandosi
improvvisamente. “Ciò che mi state riferendo sono
cose, che potrei benissimo
apprendere da una qualsiasi seduta dei Pregai o della Signoria.
Perché dunque
volete conferire meco da solo?” Fin dall’inizio
aveva giudicato bizzarro che un
consigliere ducale si scomodasse per lui, accompagnandolo di persona
dai suoi
colleghi e il Doge quando un qualsiasi cancelliere poteva bastare.
Anche la
scelta della strada, la più lunga. Ora, il Contarini non
sarà stato pratico dei
giochi di politica però quelli della guerra sì;
di conseguenza riconosceva bene
la tattica di chi stava temporeggiando.
Il
Morexini si voltò enfaticamente verso di lui, guardandolo
per
la prima volta dritto negli occhi. “A Nervesa”,
sussurrò grave, “il mio nezzo è
prigioniero del capitano Mercurio Bua ed io lo voglio libero, qui, a
Veniexia!”
“La
sua famiglia non ha che da pagare la taglia! O la Signoria
accordare uno scambio!”, replicò spiccio sier
Ferigo, calcolando mentalmente il
tempo di cattura dell’amico suo Marco
Contarini. I riscatti
purtroppo non si risolvevano mai tanto velocemente, affari penosissimi,
curiosa
quindi l’ansietà del consigliere per la sorte del
nipote.
“Il
Bua non ha avanzato alcuna richiesta, né di riscatto
né di uno
scambio tra … prigionieri.”
Questa
neppure il provveditore se l’aspettava. “Cossa?
Chome mai?”,
inquisì confuso e un pelino incuriosito da tal comportamento
stravagante; in
tempi di guerra, ogni singolo ducato diveniva motivo d’accese
discussioni.
Infatti, quando non impegnato a combattere, il Contarini doveva
baccagliare
continuamente contro i comandanti stradioti per questioni di paga.
“Il
Bua ha intenzione di scambiare il mio nezzo con la sua mojer
madona Catharina, però né lei né la
Signoria vogliono venirgli incontro. Di
conseguenza, traete voi le ovvie conclusioni”,
condensò sier Batista quanto
appreso sia dal cavaliere Dimitri Spandolin oratore improvvisato presso
Caterina Boccali Bua, sia dalla Signoria medesima, la quale confidava
di poter
liberare ugualmente suo nipote senza bruciarsi la carta della moglie
del
condottiero greco-albanese.
“Ma
che vantajo ghalelo da tegnirlo senpre seco, s’el no polelo
scambiar?”
“Co’
el Bua gh’ha tolto na decision, xé quea. La mojer
o nissun. Pertanto
non posso escludere la possibilità che il mio nezzo rimanga
suo prigioniero per
l’intera durata della guerra, se il Griego non si stufa
prima, ammazzandolo. E
questo, se Missier Domeneddio no me tuol el zervelo, non
permetterò ch’accada”,
ribadì determinato sier Batista: per amor della sua
sorellastra Leonora e sul
cadavere di suo cognato Anzolo, aveva giurato che finché il
Padreterno gli
avesse concesso salute e mezzi, si sarebbe preso cura dei suoi nipoti
orfani,
proteggendoli da ogni male. Già aveva ottenuto con successo
il rilascio di Lucha
l’anno addietro; non avrebbe fallito certamente con Hironimo,
affatto
intimidito dalla testardaggine del capitano di ventura.
La
Signoria aveva d’altronde espresso la sua irremovibile
sentenza: giammai Mercurio Bua avrebbe riottenuto indietro sua moglie e
se lui non
s’accontentava dei soldi, hé, incominciasse a
considerarsi vedovo seppur
marito.
“La
Signoria mi vuole inviare a Trevixo, ma voi? Cossa voleu de
mi?”, andò dritto al punto sier Ferigo,
comprendendo ora il piano di fondo.
“Al
Montelo i nostri stradioti e contadini fedeli già stanno
danneggiando i francesi in imboscate, bruciando ogni burchio e zattera.
Se vi
riesce, sfruttando il marasma da loro creato, vi chiedo di liberare il
mio
nezzo.”
“Un’impresa
non da poco”, commentò pragmatico il Contarini,
delineando
mentalmente un’ipotetica disposizione del campo e del modus
operandi del
nemico: sicuramente, un prigioniero così importante il Bua
doveva tenerselo
molto stretto, onde impedirgli la fuga o un tentativo di liberazione in
agguati
e scorribande notturne. “Tuttavia Momolo è mio amico e lontano parente e non
lascerò nulla
d’intentato, acciocché non venga deportato
né in Francia né in Alemagna”,
dichiarò infine la sua disponibilità e il
“da Lisbona” emise un lungo sospiro
di sollievo, non accorgendosi di non aver respirato per qualche istante.
“Appunto
poiché quest’impresa si presenta complessa, che la
Signoria vuole affidarvela. Grazie rapporti di sier Zuam Paulo si
è elaborato
un piano non malvagio ai danni del nemico, il quale però ha
da rimanere segreto
fino alla sua approvazione”, l’avvertì
sier Batista, indicandogli attraverso un
ampio gesto del braccio di precederlo e d’entrare nella sala,
dove il
Serenissimo e il Minor Consiglio l’attendevano.
Si
trattò di un colloquio brevissimo, anche per non imbarazzare
troppo i Pregadi e gli ospiti della loro assenza, i quali, se
già prima si
sentivano onorati dai calorosi elogi da parte dei senatori, credettero
d’avvampare di gioia nel venir ricevuti dal Doge in persona.
A seduta
terminata, sul burchio diretto a Padova, sier Ferigo
rimuginava in silenzio ambedue i discorsi tenuti quella mattina, sia
col
Morexini che con la Signoria. Sordo agli entusiasti commenti di
Ludovico e
Francesco per i complimenti e gli uomini d’arme ricevuti,
mitigati dalle più
pratiche osservazioni di Guido, il giovane provveditore pianificava il
modo di
pigliare due piccioni con una fava, di soddisfare la richiesta del
consigliere
ducale e della Signoria. Sier Zuam Paulo Gradenigo non avrebbe avuto
nulla da
obiettare, se gli avesse domandando il permesso di tendere qualche
imboscata ai
francesi. L’unico problema rimaneva comunque la
responsabilità ch’egli aveva
verso i suoi stradioti: non poteva certo sacrificarli in
un’operazione
avventata e senza profitto, nossignore. L’Abbazia di Nervesa
sier Ferigo se la
ricordava, in cima ad una collina, una fortezza quasi, molto difficile
da
espugnare senza essere avvistati. Pertanto, finché il Bua vi
rimaneva arroccato
dentro, gli sarebbe stato impossibile liberare Hironimo.
Allo
stesso tempo, il condottiero non poteva rimanersene rintanato
lì per sempre, prima o poi doveva uscire da Nervesa, o per
attaccare Treviso o
per ritornarsene a Milano.
Ed era
esattamente lì che il Contarini l’avrebbe
aspettato.
***
“Aux
armes! Aux armes! Arme! Arme!”
Hironimo
scattò seduto dal suo giaciglio di paglia e ruvida ma
calda pelle di vacca, il cuore in gola e guardandosi esagitato attorno
a lui,
sebbene invano: nulla si muoveva nella buia stalla, cozzando col
cacofonico
pandemonio di urla e nitriti di cavalli proveniente da fuori e il cui
eco aveva
persino innervosito le solitamente placide mucche.
Cosa
stava succedendo? Un incendio? Un attacco?
Di
riflesso il giovane patrizio si rialzò, pompandogli il
sangue
esultante nelle vene. Sì! I francesi stavano gridando dalla
paura, qualcuno
doveva aver disturbato il loro dannato sonno intrufolandosi
nell’accampamento e
creando scompiglio! Se non proprio dato battaglia notturna!
Il Miani
non perse tempo e subito appoggiò il piede contro la
parete, tirando e strattonando nella speranza di spezzare la catena e
al
contempo torcendo e graffiando i polsi per sfilarsi le manette. Doveva
innanzitutto liberarsi; poi correre in infermeria e pigliarsi
Thomà - non
fosse mai scambiato per un paggio
francese; dopodiché si sarebbe portato ben fuori dal
combattimento, in attesa
di farsi riconoscere in un secondo tempo, non finisse lui
infilzato per sbaglio.
“Porc’eva,
porc’eva, porc’eva, porco juda, porco juda, porco
juda,
maladeto, smovate! …”
O
l’umidità o la cattiva manutenzione, in ogni modo
il chiodo, che
teneva fisso il cerchio in cui la sua catena era stata stretta, pian
pianino
prese a sfilarsi dal suo buco. Ancora qualche strattone e finalmente
sarebbe
stato …
La porta
della stalla si spalancò violentemente, illuminata
dall’ansioso
svolazzare di torce.
…
fregato.
Hironimo
si morse la lingua per non imprecare fino ad abbattere
l’Abbazia a suon di sacramenti, non appena udì la
voce di Mercurio Bua: “Eccoti
qua, meno male che sei già bello sveglio, mi sarebbe seccato
doverti dare il
bacino del buongiorno!”
Contravvenendo
al suo piano, Hironimo strillò frustrato: “E chi
te
l’ha chiesto! Piuttosto, cos’è sta
cagnara qui fuori?”
Il
greco-albanese non gli rispose, concentrato spazientito ad
aprire il lucchetto della catena stretta attorno al cerchio.
“Quando saremo
nella mia cella in foresteria, ti dirò tutto”,
tagliò corto, issandoselo sulle
spalle e istruendo Zilio Madalo e Leka Busicchio di coprirli mentre
avanzavano
nella sicurezza dell’Abbazia.
A testa
ingiù, il patrizio osservava confuso l’intenso e
sconclusionato viavai di soldati mezzi svestiti e con le armi in pugno,
i quali
occupavano disordinatamente i punti strategici del complesso abbaziale.
Quelli
al portone d’ingresso principale tentavano a gran fatica di
trattenere altra
gente altrettanto semidiscinta, che a spintoni, pugni e morsi e
randellate di
pietre in testa si facevano prepotentemente strada oltre o dentro di
esso,
creando un ingorgo di corpi spintonati in direzioni diverse e
contrarie. Alcuni,
vestiti alla tedesca, si rotolavano coi francesi ed Hironimo
catturò il
luccichio dei loro pugnali e i rantoli dei feriti.
“Les
Allemands! I
Tedeschi c’assassinano! Ils nous vont tuer! Aux armes! Aux
armes!”
“Les
Vénitiens!”
“Les
Allemands!”
Ma
che … ?
“Dentro!
Dentro l’Abbazia! Chiudete il portone, dentro!”
Il
veneziano, facendo leva sulle spalle del Bua, prese a
picchiettargli la schiena onde catturare la sua attenzione,
sovvenendosi di
Thomà, solo in infermeria e difeso da soldati moribondi e
qualche monaco.
“Dopo!”,
gli ringhiò dietro Mercurio, intanto ch’estraeva
la sua
spada per farsi largo tra un gruppetto talmente compatto da non
riconoscersi a
vicenda, se amici o nemici. “L’allarme! Date
l’allarme! Qualcuno con un po’ di
coglioni salga su quel cazzo di campanile e suoni quella fottuta
campana! Date
l’allarme, perdio, razza di femmine incapaci!”
Il
selciato prese lievemente a tremare, seguito dal rumore di
legno sfondato: i cavalli degli stradioti e saccomanni, spaventati da
quel
baccano infernale, erano fuggiti dalle loro stalle sforzando una via di
fuga.
“I
cavalli! Riportateli dentro! Chi se ne frega dei prigionieri,
lasciateli scappare! I cavalli, maledizione, quelli vi crocifiggo uno
ad uno
come San Pietro se me li perdete!”, sbraitò il
greco-albanese, respingendo
l’ultimo avversario con un poderoso calcio per
però finir a sua volta
spintonato dentro la basilica, inciampando all’indietro in
un’inversa proskynesis
greca, mentre Zilio e Leka sbarravano sbuffando il pesante portone,
finalmente
al sicuro.
“Avanti,
in piedi!”, intimò Mercurio ad un inebetito
Hironimo
ch’era finito come lui per terra sul duro e gelido pavimento,
sbattendoci però la
fronte come i penitenti del Venerdì Santo.
“Cammina!”, lo issò in piedi e lo
spinse in avanti, peccato che il giovane vedesse doppio e pure gli
venisse da
vomitare. “Agios Georgios, sei più delicato delle
tette di una monaca!” [3],
sbuffò snervato il capitano stradiota, per poi spalancare
gli occhi timoroso e
tapparsi la bocca, conscio d’aver proferito
un’oscenità nella casa del Signore.
Si segnò in fretta, appuntandosi di far più tardi
penitenza. Oh beh, non che
far da balia a quella piattola del suo prigioniero già non
lo fosse …
“Il
bambino …”, sbiascicò Hironimo, lo
sguardo torbido non
dissimile a quello d’un ubriaco, aggrappandosi ciondolante al
collo del
corsaletto del Bua. “Voglio … il mio …
il mio bambino …” Un rivoletto di sangue
gli divideva in due la faccia, congiungendosi al mento.
Maledizione.
“Più tardi te lo porto. Giuro! Adesso
però devi
camminare e raggiungere la foresteria!”
“No
…”, s’oppose ostinato il patrizio,
dimostrando una pellaccia
assai dura se pur da parzialmente concusso riusciva a tarmarlo con
ugual
tenacia di quand’era cosciente. “Lo voglio
… lo voglio … lo devo proteggere …
io devo …” e i suoi occhi rotearono
all’indietro, costringendo il condottiero
ad afferrarlo al volo, prima che il pavimento terminasse
l’opera,
rincretinendolo completamente. Invano scosse il giovane,
schiaffeggiandolo
delicato o aprendogli le palpebre: diavoli d’inferno, era
proprio svenuto e Dio
lo scampasse dal non risvegliarsi più! Altrimenti Caterina
…
“Zilio,
vola in infermeria per il marmocchio e uccidi chiunque te
l’impedisca! Ci penseranno dopo i monaci ad
assolverti”, ordinò l’uomo al suo
sottoposto mentre correva in direzione del chiostro
dall’uscita laterale sulla
destra, sotto la navata con l’affresco della Creazione.
“E magari qualche
unguento, già che sei lì!”
“Da
quando in qua pigliate ordini da quel veneziano?”,
s’impuntò
lo stradiota, affatto contento d’abbandonare il suo capitano
con soltanto Leka
a protezione.
Mercurio
gli lanciò un’occhiata assassina. “Da
quando in qua sei
così spavaldo?”, l’avvertì
tra le righe e Zilio guizzò via più rapido di una
lepre.
“Dio
del Cielo, che gli avete fatto?”
Il
condottiero digrignò i denti: e ti voleva il destino che non
incontrasse il Gambara in ogni luogo!
“Niente,
è caduto e fra poco gli spunterà un bel
bernoccolo in
fronte”, riassunse in fretta Mercurio la faccenda, tallonato
da Leka e il conte
Gianfrancesco verso la foresteria, il conte che reggeva apprensivo il
capo
ciondolante del prigioniero svenuto. “La Palice,
invece?”
“Già
fuori; il signor Giulio e il signor Galeazzo credo siano con
lui”, fece concitatamente rapporto il nobile bresciano.
“Ma che diamine è
successo esattamente? Alcuni incolpano i tedeschi, altri i marciani,
altri
addirittura i monaci - non si capisce più
niente!”, si sfogò, aprendo la porta
a Mercurio che scivolò dentro la sua cella senza neppure
degnarlo di una
risposta, sbattendogli invece la porta in faccia e chiudendosi dentro.
Tossicchiando
imbarazzato, Leka s’autoproclamò suo portavoce,
anche per mitigare la cafonaggine fuori luogo del collega:
“Ne sappiamo quanto
voi, signor conte. In fede nostra, stavamo dormendo quando
all’improvviso questo
schiamazzo infernale c’ha buttati giù dal letto!
Forse domani mattina
riusciremo a capire meglio cosa può averlo scatenato
…”
Il conte
Gianfrancesco annuì rapidamente. “Rechiamoci dal
maresciallo, vediamo d’essergli d’aiuto.”
“Eccellente
idea, così potrò anche controllare se i miei
uomini
sono riusciti a recuperare i nostri cavalli …” e
se n’andarono correndo verso
l’uscita della foresteria.
Da dietro
la porta Mercurio staccò l’orecchio dal legno,
avendo
infatti origliato ogni singola parola proferita dai due militari. Non
che
s’aspettasse una scioccante ammissione di colpevolezza o
complicità, nondimeno
sperava in una qualche parolina rivelatrice da parte del Gambara, di
solito
così guardingo nei suoi confronti.
Per
quanto si sforzasse, non riusciva a fidarsi di quell’uomo,
per
niente.
Un
flebile gemito distrasse il greco-albanese dalle sue
elucubrazioni, conducendolo al letto, là dove aveva gettato
di peso il suo
prigioniero ora riverso scomposto sul materasso, le catene ancora
avvolgenti il
suo corpo in una grottesca parodia del mito d’Andromeda e
Perseo; peccato che
il Miani non fosse una principessa etiope e il Bua un baldo eroe greco.
Infatti
gli versò in faccia la brocca d’acqua.
Appoggiandola
sul grezzo tavolino, il condottiero rimase in
paziente attesa, già pregustandosi la sfilza
d’improperi di cui sicuramente l’annaspante
veneziano l’avrebbe subissato. Ne rimase deluso:
quest’ultimo infatti si limitò
a sbattere infastidito le ciglia, provando la sua mano ad asciugarsi il
viso in
maniera piuttosto scoordinata, ottenendo l’unico risultato di
disegnarsi
arzigogolate strisce scure sul viso grazie all’impasto
d’acqua, sangue, polvere
e fango.
“Embé?
Ti sei ripreso?”, s’informò cauto
Mercurio, incrociando le
braccia al petto e sedendosi sul bordo del materasso. “Mi
riconosci?”, aggiunse
in un secondo momento, accorgendosi dello sguardo smarrito
dell’altro.
Le iridi
nerissime d’Hironimo seguitarono a vagare senza meta,
fluttuando in una preoccupante semi-incoscienza. Al che il
greco-albanese gli
diede uno schiaffo e lo pigliò per la mascella,
costringendolo a guardarlo. “Mi
riconosci?”, ripeté perentorio e scandendo
ciascuna sillaba. “Chiudi gli occhi
se capisci.”
Il
veneziano arcuò il sopracciglio. “Guarda che posso
parlare”,
gracchiò spassionatamente in un buffo borbottio a causa
della stretta alla
bocca.
Mercurio
ritornò a respirare tranquillo, avendo temuto per il
peggio e ringraziando la costituzione robusta del giovanotto.
“Adesso ascoltami
bene”, gli spiegò pacatamente, conscio tuttavia
della botta presa e non
sottovalutandone gli effetti collaterali, “per stanotte ti
tolgo di dosso
queste catene, però tu non azzardare niente di strano,
altrimenti le adopero
per strangolare te e il marmocchio. Intesi?”
“Ho
inteso”, convenne docilmente il patrizio, usando la manica
della camicia per ripulirsi la fronte dal sangue.
“Ancora
conservo le cavigliere e il collare con la palla di
cannone. Finché rimaniamo qui, vorrei limitarmi soltanto
alle manette: dalla mia
cella per certo non puoi scappare. Disobbedisci e tornerai legato alla
stregua
d’un salame. Capito?”
“Non
lo farò più”, gli promise il giovane
con voce flebile e
stanca, appoggiando la testa dolorante sul cuscino e socchiudendo gli
occhi,
molestato perfino dalla flebile luce della bugia. “Grazie”,
soggiunse dopo una piccola pausa,
massaggiandosi i polsi liberi e graffiati dal morso del ferro.
Il Bua
deglutì male e fallì per poco di strozzarsi,
sbattendo
incredulo le ciglia. Aveva udito bene? Quell’altezzoso,
linguacciuto, testardo,
pestifero, bastian-contrario d’un Hironimo Miani lo
ringraziava e si comportava
mite e remissivo peggio d’una pulzella all’altare?
Quanto
forte aveva battuto la testa? Abbastanza, constatò il
capitano, notando il crescente bozzolo giallastro incominciare a
protendere dalla
fronte rossastra. Colpa sua, avrebbe dovuto porre maggior attenzione:
in fin
dei conti, pur di fibra robusta, il veneziano non si trovava nella sua
forma
fisica migliore, naturale che adesso il suo corpo sopportasse meno gli
strapazzi. Se continuava così, rischiava di lasciarci le
penne prima che lui
potesse persuadere la Serenissima Signoria a restituirgli sua moglie
…
“Il
mio bambino.”
“Uh?”
“Me
l’hai giurato”, gli ricordò
delicatamente Hironimo, sebbene le
sue iridi nerissime tradissero una granitica tenacia.
“M’hai giurato di
riportarmelo.”
Mercurio,
palesemente a disagio, s’alzò in piedi onde porre
una
debita e sicura distanza tra loro due: alle sferzanti battute e
provocazioni
del Miani sapeva benissimo come comportarsi, ma dinanzi a tutta quella
caparbia
dolcezza proprio no. Pregò trattarsi di un malessere
momentaneo, destinato a
passargli dopo una notte di buon riposo in un letto decente.
“Per
favore … il mio puttino …”
“Smettila
di farmi quegli occhi dolci: cosa speri
d’ottenere?”,
optò il Bua per la solita strategia, quella dello scherno.
“Certo, se tu fossi
una bella fanciulla avremmo anche potuto discuterne contrattando, ma
considerato il tuo sesso, dubito tu abbia un granché da
offrirmi in cambio!”
Massaggiandosi
il bernoccolo, Hironimo non si scompose semmai
allargò il sorriso. “Se sono ancora in vita,
significa che io al contrario ho
qualcosa da offrirti in cambio. Altrimenti, m’avresti ucciso
e gettato nella Piave.
O sbaglio?”
Ridacchiando
sommessamente, Mercurio si sporse beffardo verso di lui,
appoggiando le mani all’estremità del letto e
così intrappolandolo in una
gabbia di carne. “Ti giudichi di così alto
valore?”, lo sfidò, grato di
ritrovare un po’ di spirito nel suo
prigioniero: adesso lo riconosceva e meno male, stava rinsavendo!
“Peccato di
superbia, sier Hironimo”, gli soffiò sul viso
umido.
Il
patrizio reclinò all’indietro il capo, guardandolo
sibillino dritto
negli occhi. “Se non valgo nulla”, si
nettò le labbra con la punta della
lingua, “perché non mi riconsegni alla mia
gente?”
Un
insistente tambureggiare alla porta interruppe la replica del
greco-albanese che, sbuffando, abbassò irritato il capo.
“Che volete?”
“Sono
io, capitano, Zilio”. Apertogli, il suo luogotenente si
presentò sulla soglia in rispettosa attesa con
Thomà penzoloni sottobraccio.
“V’ho portato il moccioso e l’unguento.
Tuttavia”, s’affrettò ad aggiungere
assai apprensivo, “il monaco, cioè Fra’
Anselmo, vi sconsiglia di tenervelo
presso: è ancora convalescente e sembrerebbe la febbre
essergli risalita,
sebbene in forma più leggera …”
In
effetti, il fantolino possedeva un certo rossore da febbricitante,
fortunatamente però lo sguardo appariva più
lucido e presente rispetto alla
crisi dei giorni passati. “Hai sentito?”, si
rivolse Mercurio ad Hironimo, che
per miracolo afferrò al volo il vasetto d’unguento
lanciatogli dal condottiero.
“Ordini di Fra’ Anselmo: la pulce qui per il
momento non può stare. Non appena
guarirà, te lo riprendi. Su”, esortò
invece Thomà, appoggiato nel frattanto per
terra, “vai a dare la buonanotte al tuo signor padre
…”
Il
bambino non se lo fece ripetere, scattando rapidissimo tra le
braccia aperte del veneziano e il capitano di ventura
avvertì una spiacevole
stretta al cuore, oscillando tra il rimpianto e l’invidia:
così correva la sua
Marietta verso di lui, quando lui rientrava all’accampamento
dalle sue perlustrazioni,
contenta la pargoletta di riabbracciarlo vivo e in salute e
d’arrampicarsi sul
possente corpo del padre. Un groppone in gola gli si formò
quando Hironimo pose
la mano sopra la testolina del bambino prima a mo’ di
benedizione, per poi
levarla e fingere di sputare sopra la zazzera bionda, un piccolo
incantesimo greco
per scacciar via i demòni: Caterina lo eseguiva sempre al
momento di coricare
la loro bimba, similmente a sua madre quando lui e suo fratello Teodoro
si
svegliavano la notte preda degli incubi.
A queste
cose lui avrebbe dovuto assistere, non ricordare. Sua
moglie e sua figlia vivevano, eppure per lui alla stregua di fantasmi.
“Capitano
…?”
“Com’è
la situazione là fuori?”, impedì
Mercurio al suo sottoposto
d’inquisire oltre, assumendo un’espressione di dura
e distaccata
professionalità. A che pro lagnarsi? Le lacrime non gli
avrebbero restituito la
sua Cate.
“La
Palice ha riportato egregiamente l’ordine nel campo. Onde
evitare di esser colti di nuovo di sorpresa, ha sensibilmente
rafforzato i
turni di guardia. Ha inoltre emanato una grida, nella quale si prevede
l’impiccagione per ogni disertore o sobillatore.”
Non un
granché come provvedimento, ma sempre meglio di niente.
“I
danni?”
“Difficile
determinarli con
chiarezza in questo momento: troppa confusione, non riuscivamo a
distinguerci
tra di noi, figurarsi i nemici. Certamente molti dei nostri prigionieri
sia
all’Abbazia che al campo di sotto sono riusciti a fuggire: da
una parte meglio
– meno bocche da sfamare; dall’altra …
addio riscatto! Quanto ai nostri
cavalli, mancano soltanto quelli dei nostri compagni mandati in
ricognizione
dal maresciallo.”
“Efharistò
para poli! Agios Georgios sia ringraziato, ogni tanto
una buona notizia!”, si segnò tre volte il
condottiero, baciando la medaglietta
recante l’effige del suo santo protettore. “Quanti
dei nostri ha inviato in
perlustrazione?”
“All’incirca
quaranta.”
“Tanti”,
commentò Mercurio, grattandosi il mento. “Come
mai?”
“Gradenigo
deve aver scoperto che siamo qui accampati a Nervesa e
ha mandato i suoi di stradioti ad
infastidirci. Così, come se non ci bastassero i contadini
del Montello,
dobbiamo guardarci le spalle pure dai nostri compaesani!”
“Meglio
la morte della pietà d’un Paleologo!”,
sputò quasi
Mercurio il nome dell’odiata famiglia rivale, la medesima
contro la quale suo
padre Pietro Bua Spata s’era scontrato in svariate occasioni
durante la Rivolta
di Morea. “Uhm … non ha senso … non
capisco …”, scosse poi il capo, massaggiandosi
frustrato le tempie. “I soldati urlavano: I
Tedeschi c’assassinano! Io stesso li ho visti
attaccare, le armi in pugno …
corpo d’un diavolo, uno di questi ha perfino provato a
sfilettarmi … Eppure!
Eppure mentre i nostri alleati tentavano di sgozzarci nel sonno, qui si
gridava
contemporaneamente Ai Veneziani!
… ”
Zilio
fece spallucce, non sapendone più del suo capitano.
“Ad ogni
modo, il maresciallo vi prega di raggiungerlo domani per discutere
sulle
prossime strategie d’adottare.”
“Riferiscigli
che non mancherò.”
“Buonanotte,
capitano.”
Mercurio
grugnì poco convinto. “Ah, tranquillo che non
chiuderò
occhio fino all’alba, non dopo quanto accaduto! Inoltre, come
puoi ben vedere,
ho già il letto occupato!” e indicò col
pollice i due prigionieri, intenti in
una fitta conversazione.
Al che il
luogotenente arrossì, abbassando il capo vergognoso.
“Mi
dispiace, capitano, per prima. Non intendevo mancarvi di rispetto.
È che non vi
voglio sapere in pericolo, specie dopo Treviso …”
“Lo
so e per questo non me la sono presa”, lo
rassicurò benevolo
il Bua e gli appoggiò da camerata la mano sulla sua spalla,
sorridendogli sincero
e orgoglioso. “Di te mi fido ciecamente, Zilio, non vorrei
altra zagaglia
accanto a me in guerra.”
Madalo
s’impettì assai commosso, abbozzando ad un timido
sorrisino
ebete. “Capitano …”, soffiò
impacciato, voltando la faccia verso il buio del
corridoio prima che gli occhi gli s’inumidissero di lacrime
di gioia: dopo sedici
anni trascorsi a combattere fianco a fianco per mezza Italia, tale
devozione la
giudicava naturale e logica e ciononostante gli recava sempre piacere
sentirsi
così apprezzato dal suo comandante, da lui ammirato sin dal
giorno in cui da
Cattaro era approdato a Venezia per unirsi alla compagnia diretta a
Fornovo.
“L’onore è mio!”,
sbrodolò goffamente.
“Puoi
ritirarti, ci aggiorneremo domani dopo l’incontro col
maresciallo La Palice”, tossicchiò Mercurio,
realizzando con suo sommo disagio
l’eccessiva dose di sentimentalismo alleggiante
nell’aria. Tra lui, Zilio e il
veneziano, di questo passo si sarebbero ritrovati in un battibaleno a
filare la
lana, spettegolando sugli amori delle vicine di casa. “Bene,
messere, hai
finito di sbaciucchiarti il pidocchio?”, apostrofò
smielato il suo prigioniero
che, terminato di schioccare due baci sulle gote del fantolino, glielo
cedette
arrendevole.
“Zò,
pórtate ben cum Fra’ Anselmo”,
l’ammonì dolcemente Hironimo a
voce alta e Thomà, pur non capendo il motivo dietro la
declamazione pubblica di
quel consiglio, sbiascicò
comunque un
timido sì, zampettando via furtivo dal Bua finché
Zilio non lo risollevò da
terra, riconducendolo di peso in infermeria alle solerti cure di
Fra’ Anselmo.
“Gli
vuoi davvero bene”, commentò malizioso Mercurio,
assicurandosi di chiudere bene la porta e pure appoggiandovi contro una
sedia
reclinata. Rinfoderò la scimitarra abbandonata di fretta sul
tavolo, levandosi
l’elmo e passandosi una mano tra i capelli scompigliati.
“Come
ogni padre ama suo figlio”, replicò soave
Hironimo, applicandosi
l’unguento sul gonfiore alla fronte e la stanza si
riempì d’un fresco odore
pungente, affatto sgradevole. “Scommetto che anche tu ami tua
figlia”, gli
ritorse contro l’osservazione e con tal candore, che se il
greco-albanese non
lo conoscesse, ci sarebbe pure cascato. “Maria,
giusto?”
“Come
lo sai?”, s’irrigidì immediatamente il
capitano sulla
difensiva.
Hironimo
gli sorrise indulgente. “Non esistono segreti a
Venezia”,
gli confidò magnanimo, per poi sciogliersi in
un’ambigua risata. “Mia cognata è
greca e la mia famiglia è in affari da anni col protogero di
San Biagio a
Castello, là dove vivono la maggior parte dei Greci
emigrati. Suppongo tu abbia
avuto modo di conoscere il cavaliere Dimitri da Costantinopoli?
È nostro
parente, il padre della mia cognata”, lo
tranquillizzò conciliante, pur non
resistendo alla tentazione di lanciarli una rapida stilettata.
“Mi
sono noti gli Spandounes … o Spandolin, come si fanno
chiamare
adesso. So che il cavaliere Dimitri è tributario del Signor
Turco e conosco
anche il cavaliere Matteo Spandolin da Loidoriki, grande condottiero al
soldo
della vostra Signoria e maritato ad una Cantacuzena, di famiglia
regale. Mio
padre aveva dei traffici con Loukas Spandounes, ricco commerciante di
Tessalonica. Ancora mi ricordo della sua tomba ad Hagios Demetrios:
splendida e
imponente, di marmo, costruita e trasportata direttamente da Venezia
”, si
rilassò Mercurio, constatata la conoscenza di sua figlia (e
per associazione di
sua moglie) solo tramite terzi. “Quanto alla tua previa
domanda: sì, amo la mia
Marietta e mai mi verrà imputata la colpa del
contrario”, ammise l’uomo, sedendosi
sulla fine del letto e appoggiando la schiena contro il muro. Subito
Hironimo
si scostò, portando le ginocchia sotto il mento, facendogli
spazio. “Chi è la
madre dello scricciolo?”, inquisì di punto in
bianco. Non che gli importasse
conoscere gli altarini del suo prigioniero, però rimanere
svegli e in silenzio
per il resto della notte si prospettava un’impresa assai
noiosa.
“Non
la conosci: una giovincella di Marostica”, mentì
abilmente
Hironimo, ripensando a Lena, la quale neanche a farlo apposto era
bionda come
Thomà. Tenendola ben presente davanti agli occhi avrebbe
reso più convincente
la bugia.
“E
che ci facevi lì?”
“Mio
fratello era podestà ed io l’ho
accompagnato.”
Mercurio
calcolò rapido l’età tra il moccioso e
il patrizio. “E
tua madre cos’ha commentato, quando sei tornato col
fagotto?”
“Come
nutro quattro bocche, posso nutrirne cinque.”
“Allora,
perché il marmocchio parla con una calata quasi
cadorina?”
“Sua
madre proveniva da quelle bande.”
“E
viveva a Marostica?”, piegò scettico il Bua la
bocca.
Il
giovane Miani lo fissò beffardamente pietoso.
“Dietro Marostica
s’ergono le prealpi vicentine, le quali da Lavarone fino al
territorio dei
Sette Comuni portano al principato di Trento o nei nostri domini di
Folgaria e
Rovereto attraverso le Piccole Dolomiti … Pensavo
l’Imperatore t’avesse
spiegato la geografia di base del territorio veneziano, quando
t’ha comandato
d’invaderci …”, gli spiegò
cinguettando, mieloso. “Pensavo”,
infierì, “che tu
ti ricordassi dello Stato che t’ha accolto da orfano
…”
Il
greco-albanese avvicinò il viso al suo, squadrandolo
bellicoso.
“Non dimentico niente, io”, ribadì,
sfidandolo a contraddirlo.
“Dove
ti trovavi quando nacque la tua bimba?”, saltò di
palo in
frasca Hironimo, confondendolo. Appoggiò mollemente la
schiena sul cuscino,
mangiucchiandosi incurante una pellicina molesta, come se il velato
avvertimento del condottiero non l’avesse scalfito.
Mercurio
esitò parecchio prima di rispondere, valutando cosa dire
e se ne valesse la pena. Non voleva dar troppa confidenza al veneziano,
il
quale tuttavia possedeva l’inspiegabile dono
d’incuriosirlo al punto da
trasformarsi in un inquisitore domenicano. “Nel Regno di
Napoli”, rispose infine,
“o quel che ne restava, visto che se lo contendevano Francia
e Spagna come i
cani con l’osso!” A Garigliano s’era
quasi cagato addosso dalla paura di
lasciare sole e indifese la figlia e la mo -…
Il Bua
aggrottò la fronte, colto all’improvviso da un
dubbio.
Adesso
che ci ripensava a distanza d’anni e più
oggettivamente, fu
proprio dopo la nascita di Maria che la sua Cate aveva incominciato a
remargli
contro ad ogni occasione, ben ante l’improvvisa morte del
suocero Nicolò
Boccali, in una sfilza d’infiniti litigi in cui lei gli
gridava dietro come
l’accampamento non fosse il luogo per crescere una bambina,
costringendola ad
una vita nomade, in tenda, peggio d’un tartaro, tra la
peggior feccia umana.
Voleva ritornare dai genitori malgrado le insistenze del marito.
“Prima
però servivi il Moro, giusto?”, lo costrinse
Hironimo a
ripiombare nel presente.
“Corretto”,
confermò laconico il condottiero.
Il
giovane patrizio si sporse verso di lui, due dita sotto il
mento. “Perché hai deciso di combattere per il
sovrano che t’ha sconfitto,
umiliato, privato del tuo protettore e che ti ha costretto a sette
settimane di
prigionia nella fortezza di Castellar, nel marchesato di
Saluzzo?”
Colpito e
affondato, a Mercurio non rimase che incassare il colpo,
non avendo affatto previsto quella domanda così scottante ed
introdotta a
tradimento, partendo da argomenti ad essa non pertinenti.
“Perché?”, ripeté
aggressivo, stringendo le labbra in una linea dura.
“Sì,
perché non sei tornato dalla Signoria?”, non gli
permise di
respirare Hironimo, incalzandolo inclemente. “Il tuo dovere
verso Ludovico
Sforza l’avevi compiuto, perché servire il suo
nemico?”
“Le
mie decisioni non ti concernono”, si rifiutò il
Bua di cedere,
avvertendo il familiare pizzicore alle mani, ogniqualvolta il suo
prigioniero
apriva la bocca. Forse non s’atteggiava più da
impavido e arrogante, però non
era addolcendo il tono che gli rendeva meno mordace lo strale con cui
si
dilettava a ferirlo. Maledetto, voleva inculcargli i sensi di colpa,
ora?
“Di
sicuro, però, esse concernevano tua moglie
…”
Un sonoro
ceffone zittì Hironimo, riaprendogli la ferita sul
labbro inferiore.
“Ciò
che ho fatto non devo certo giustificarlo ad uno come te!”,
l’afferrò il greco-albanese per il colletto della
camicia. “Né mi garba il tono
troppo confidenziale quando parli di mia moglie!”,
sibilò minaccioso e lo
spinse di malagrazia sul materasso, mollando la presa.
“Hai
ragione, perdonami. Non parlerò più”,
mormorò contrito il
giovane Miani, leccando via il sangue dal taglio.
S’accoccolò remissivo in
posizione fetale sul fianco meno illividito, le palpebre d’un
tratto pesanti e
l’intero suo dolorante corpo voglioso di perdersi nella
morbidezza di un letto
finalmente da cristiani. “Buona ronda”, gli
augurò sbadigliando a bocca larga;
dopodiché, impastatolo e stringendo sornione il cuscino,
s’addormentò di colpo,
genuinamente sfinito dalla fame e i sussulti dei recenti avvenimenti.
“Eh?
Senti, non mi farai mica l’offes- …”,
s’interruppe
bruscamente il Bua, rendendosi conto di come l’altro ormai
ronchisasse serafico
e incurante del mondo esterno, le spalle che s’abbassavano e
s’alzavano
regolari. Appariva talmente abbandonato al suo sonno, da competere con
un morto
e di fatti il respiro usciva flebilissimo dalle labbra secche, a
malapena
dischiuse. I capelli disordinati e impicciati si spandevano scomposti
nel
cuscino e le ciglia d’ugual colore cozzavano contro il
pallore malsano del
viso.
Mercurio
schioccò annoiato le dita, tamburellandole sul ginocchio:
ecco dunque che la sua principale distrazione e compagnia se la ronfava
alla
grossa, disertandolo all’ennesima notte solitaria.
L’aveva chetato e invece di
godere del suo trionfo si rammaricava d’aver perduto
nuovamente la pazienza. E
per cosa poi? Non aveva mica la coscienza sporca, lui! Le sue condotte
le aveva
guadagnate onestamente, così come i suoi titoli e gradi,
ognora in prima fila a
combattere e l’ultimo ad arretrare. Non aveva alcun debito
nei confronti della
Serenissima, nossignore, casomai l’incontrario,
checché ne dicesse l’ex-castellano,
quella peste di sua suocera e sua moglie. Sua moglie … Quel
birbo malnato
parlava di lei manco fossero amici di lunga data, decifrandone i
pensieri
meglio di quanto lui, suo marito, avesse potuto fare malgrado i lunghi
anni di
matrimonio … E se? Un anno da sola, senza uomini in casa
… No, no Mercurio,
no, futili sospetti
i tuoi! La sua Cate
non apparteneva a quella risma di donne e a Venezia, lo riconosceva,
nessuno badava
mai agli affari propri e tutti sapevano di tutto.
Il
condottiero si sistemò meglio contro il muro, piegando su
una
gamba sul letto. Spiò di sottecchi le prime sporgenze ossute
da sotto una
camicia ogni giorno sempre più larga. Basta tergiversare,
indipendentemente
dall’esito del consiglio di guerra tenuto
l’indomani da La Palice, la sua
decisione era presa.
Alla
prima occasione avrebbe inviato un oratore alla Signoria,
domandole chiaro e tondo lo scambio tra sua moglie Caterina Boccali Bua
e il
patrizio veneziano Hironimo Miani.
Maria
invece sarebbe rimasta per il momento da sua nonna a
Venezia, in attesa di vincere la guerra e di portarla con sé
nel suo feudo di
Soave: l’accampamento non era posto per bambini e su quel
punto Mercurio Bua
dovette riconoscere il suo sbaglio, rimpiangendo di non aver ascoltato
attentamente la
giusta obiezione di sua
moglie quando ne aveva avuto l’occasione.
***
Nelle
poche ore di sonno concessegli a seguito dell’attacco
notturno, Jacques de Chabannes de La Palice era arrivato alla
conclusione
d’aver indugiato a sufficienza nel monastero di Nervesa, in
attesa che
l’Imperatore rispondesse alle sue insistenti sollecitazioni
di scendere in
campo. Poi, vista vana l’attesa, e affatto desideroso di
finire ucciso in
trappola a guisa di un sorcio, aveva deciso di convocare i capitani
francesi
per un consiglio di guerra durante il quale aveva intenzione
d’annunciarli la
sua decisone di rimettere al Re di Francia il suo progetto di
rimpatriare in
Lombardia. Se Louis XII voleva che La Palice restasse, sarebbe restato;
altrimenti, non avrebbe esitato a raggiungere il Duca di Foix-Nemours a
Milano.
“Ho
inviato una lettera a Notre Sire le Roi, in modo da informarlo
dell’intollerabile situazione: l’autunno e la
cattiva stagione sono pressoché alle
porte; non abbiamo sufficienti cibo e munizioni; i nostri stessi
alleati ci
disertano e tentano di derubarci nel sonno. Vi pare accettabile
ch’io debba
ordinare ai nostri uomini di dormire coll’elmo in testa
più per paura de les Allemands,
che dei Vénitiens?”
Un
diffuso mormorio di assenso si levò nella stanza. Le facce
tirate e stanchissime per via del sonno interrotto e mai propriamente
recuperato, i comandanti francesi avevano trascorso la mattina a
riorganizzare
il campo, ricostruendo laddove necessario e seppellendo i morti, i
quali
s’aggiungevano al numero giù cospicuo di quelli
deceduti per febbri, fame e il
Gran Morbo.
“Perché
ieri notte siamo finiti a difenderci sia d’alemanni che da
marciani?”, vociò infine Galeazzo Pallavicino il
dubbio, ch’aveva roso ogni suo
collega per il resto delle poche ore precedenti l’alba.
“Dio
non voglia che quei debosciati d’Allemands abbiano a nostra
insaputa cangiato bandiera”, ipotizzò monseigneur
du Molard, incrociando al
petto le braccia. “Questo spiegherebbe: uno, il silenzio
assai incomprensibile
dell’Empereur nonché la sua reticenza ad unirsi
alle nostre truppe; due, quel
loro vigliacco oltrepassare la Piave alla volta del Frioul.
Più che una
diserzione potrebbe corrispondere ad un rinculo per poi massacrarci con
comodo
più tardi. Magari s’erano previamente accordati
con Venise: il nostro annientamento per la Patrie du
Frioul.”
“No,
impossibile”, smontò la sua tesi Teodoro
Trivulzio, memore
dell’atteggiamento presente e passato dell’Habsburg
nei confronti della
Repubblica. “La Sua Sacra Maestà Massimiliano odia
troppo la Serenissima per
abbassare le braghe in maniera così plateale e codarda, e la
Signoria stessa
preferirebbe bruciare personalmente ogni singola città
friulana fino all’ultimo
sparuto ammasso di casupole, piuttosto di cedere anche solo un fil
d’erba
all’altrettanto disprezzato Re dei Romani.”
“Senza
contare che il Cesare Augusto non tradirebbe mai la fiducia
del suo alleato più forte”, aggiunse il conte
Gianfrancesco di Gambara,
portandosi un fazzoletto alla bocca e tossendoci vigorosamente.
Scusatosi,
proseguì: “Sua Grazia il Re Ludovico, in caso di
voltafaccia, di sicuro
coglierebbe quest’occasione propizia per invadere i territori
dell’Imperatore e
questi lo sa e non azzarderebbe tale futile guerra per un magro
guadagno quale
la Patria del Friuli, non quando grazie all’aiuto del Re
Cristianissimo ha la
possibilità d’annettere all’Impero anche
il Veneto.”
“Il
Re dei Romani è un uomo d’onore, lo chiamano L’Ultimo Cavaliere per
qualcosa, no?”,
concluse Giulio Sanseverino. “Ha giurato di scendere a
Treviso e così farà.”
Né
La Palice né i monsignori du Molard e de Boissy si
commossero dinanzi
a tale appassionata difesa dell’Habsburg, seguitando nelle
loro espressioni
scocciate e diffidenti. Anzi, il capitano dei guasconi du Molard pure
commentò
assai sprezzante:
“Mon
cher Saint-Séverin, parlate assai bene di chi v’ha
assassinato il padre! Je
suis vraiment étonné,
mi
stupite!”
“Mio
padre, il conte Roberto Sanseverino d’Aragona, è
caduto
onorevolmente in guerra!”
“E
la Sua Sacra Maestà ne celebra la morte nei suoi
trionfi!”,
sogghignò pieno di sufficienza il capitano francese, ridendo
più forte al
tentativo di schiaffeggiarlo da parte del Sanseverino, prontamente
trattenuto
da Galeazzo Pallavicino.
“Monseigneurs,
vi prego di calmarvi, non ci troviamo in una
bettola. Avete ragione, Saint-Séverin, l’Empereur
sarà pure un uomo d’onore;
nondimeno, i tanto onorati tedeschi
ci assalgono alle spalle per cibo e munizioni, disertandoci al primo
vento
contrario”, ribatté severo il maresciallo
francese, placando gli animi e
ammonendo ambedue i contendenti con lo sguardo. “Sfortuna ha
poi voluto, che proprio
ieri notte i Vénitiens abbiano
deciso d’assalirci, quando les Allemands alla stregua di
ladri sgattaiolavano
nel nostro accampamento, unendo le forze in un’accidentale ma
infernale
alleanza! I comandanti tedeschi tacciono davanti a tale
insubordinazione e non
prendono alcun provvedimento; sicché, ai nostri occhi, sono
altrettanto codardi
e traditori quanto i loro soldati, masnade cui bisogna affidarsi il
meno
possibile.”
Leka
Busicchio scivolò dentro la stanza in punta dei piedi,
avvicinandosi di soppiatto presso Mercurio Bua e sussurrandogli celere
qualcosa
all’orecchio, la quale sortì l’effetto
di togliergli ogni rossore dalle guance.
“Brutte
notizie, capitano?”, inquisì La Palice, non
essendogli
sfuggita quella scenetta. “Se non v’incomoda
condividerle …”
Il
greco-albanese arcuò il sopracciglio, affatto contento di
quel
paternalismo da tutore. “Dico soltanto, che mentre ci
troviamo qui a discutere
allegramente alla stregua di comari al focolare, i Veneziani ci hanno
sottratto
Castelfranco e i suoi rifornimenti”, esordì rapido
e conciso, guardando in
faccia ciascuno degli altri comandanti in modo che i concetti ben si
fissassero
nelle loro dure teste.
“Dico
soltanto, che m’è appena giunta la nuova che
trenta dei miei
soldati inviati ieri in perlustrazione adesso si trovano a Treviso
prigionieri”
e adesso accusò tacitamente La Palice per aver disposto
sì sconsideratamente
dei suoi uomini, senza consultarlo, mandandoli allo sbaraglio dritto
nelle
fauci del nemico. “Dico soltanto, che siamo in trappola,
circondati dagli
stradioti dei Paleologi e dai contadini veneti. È soltanto
questione di giorni,
prima che Gradenigo organizzi un assalto mirato contro di noi e
l’Abbazia, per
quanto in posizione strategica, non è una fortezza. Quello
di ieri notte era
uno studio del territorio, come il serpente prende le misure prima di
stritolare e ingoiare la sua preda”, e il condottiero fece
una pausa d’effetto,
bevendo compiaciuto l’ansia e agitazione creatasi tra i suoi
colleghi, specie
alla menzione della trappola, timore che da tempo nutrivano ma mai
avevano
osato definire a voce alta.
“Al
che, due opzioni restano al lupo quando stretto in un cerchio
di morte: o soccombere sotto le lance dei cacciatori, oppure sbranando
aprirsi
una via di fuga. D’ora in avanti, maresciallo, suggerirei di
scortare i miei
uomini e i vostri saccomanni con la cavalleria pesante,
acciocché si possano
difendere in caso d’agguato. Quanto ai contadini rintanati
nel Montello,
scoviamo loro e avremo di che rifornirci di biave e farina. Inoltre,
suggerisco
d’elargire una tal lezione a quei bifolchi ribelli, da farli
ben capire chi sia
il loro nuovo padrone!”
La Palice
annuì soddisfatto, intimamente grato d’aver sempre
al
suo fianco quell’irriducibile capitano di ventura, sempre
ottimista e intraprendente
pur dinanzi a situazioni disgraziate. “In attesa della
risposta di Notre Sire
le Roi, manderemo un ambasciatore a Trévise chiedendo la
resa incondizionata
della città. In questo modo capiranno, che devono escogitare
stratagemmi di ben
altra natura per intimorirci e che nulla ci persuaderà a
rinunciare all’impresa
di conquistare la città”, terminò il
suo discorso il maresciallo, congedando i
capitani che ritornarono alle loro postazioni in attesa
d’aggiornamenti.
All’ultimo però trattenne il Bua, facendogli cenno
di rimanere. “Come intendete
esattamente liberarvi dei contadini?”
“I
Conti di Collalto”, rispose sbrigativo Mercurio.
“Sono nostri
alleati, giusto? Che lo dimostrino descrivendoci zolla per zolla questo
territorio, ogni fossa, ogni caverna, ogni antro che quei cenciosi
possono
usare come nascondiglio.”
“Proporrete
ai Conti di consegnarci la loro stessa gente? Non la
giudico una mossa onorevole.”
“Quando
mai c’è gloria nelle guerre tra partigiani? Anche
se
nemici e divisi da ideali opposti, sempre di sangue civile e fraterno
ci si
macchia e questo i Collalto lo sapevano, quando si sono schierati dalla
parte
della Lega. ”
***
Nelle
stinche di Treviso ferveva un viavai da formicaio, tra
smistamenti dei nuovi prigionieri catturati la notte precedente; scambi
di cella
per impedire che s’accordassero sulle risposte in vista degli
interrogatori;
evacuazione dei posti lasciati liberi da coloro che nel frattanto
avevano reso
l’anima ed infine bonari ammonimenti dei carcerieri ai
criminali locali, che dileggiavano
strafottenti al limite dell’aggressione fisica i prigionieri
franco-imperiali,
degni emuli del cattivo ladrone. La processione di barelle trasportanti
i cadaveri
dei soldati era divenuta un rituale giornaliero, per la gioia dei
becchini che
s’erano visti aumentare la paga e tanto alacremente
lavoravano, gettando calce
viva sui corpi riversi in anonime fosse comuni, da non badare ai segni
rossi
sul collo di alcuni morti.
Ciascuna
di queste operazioni era sorvegliata dall’occhio vigile
del capitano delle prigioni, il quale in particolar modo stava
attendendo
l’esito dell’esame
di paron Fortunato
su di un pericoloso ribelle, Corneto da Cividal di Belluno, noto per
essere
“cossa medema” col commissario imperiale Jean d’Aubigny: dei villani di
Castelnuovo lo avevano sorpreso e catturato mentre conduceva assieme a
due suoi
compari tre zattere trasportanti legname per costruire ponti, tavole
che gli
stessi s’erano premurati di sequestrare e nascondere a loro
uso personale.
Dopodiché, i contadini avevano condotto i tre traditori a
Treviso. Il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, ordinato di perquisirli, aveva
trovato
addosso al bellunese una lettera da La Palice, nella quale lo
sollecitava a
portar vittuarie per il campo, aggiungendo assai drammaticamente come
si
morisse di fame se non fosse stato per il soccorso di certe genti della
bassa
friulana. Insoddisfatti dalle vaghe risposte di Corneto sui contenuti
della
missiva, lo si era messo alla tortura onde carpirgli ulteriori
informazioni e
dettagli sulla sua missione, sul campo francese e sul governatore
tedesco.
Il
capitano aggrottò la fronte all’ennesimo urlo,
mentre gli altri
prigionieri nelle loro celle si stringevano tra di loro, temendo
analoga sorte:
invero paron Fortunato, il boia, si stava sbizzarrendo nella sua
creatività. Il
che significava soltanto una cosa, pensò amareggiato
l’uomo: quel ribelle non
avrebbe cantato tanto in fretta.
“Paron
Fortunato!”
“Comandeu?”
“Pì
forte cum i scasi di corda (tratti di corda, ndr.), no ghemo
tuto el dì!”
“Servo
vuostro, sior capitan!”
Contemporaneamente,
a Palazzo, il podestà sier Andrea Donado “dalle
Rose” e il provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo discutevano
sul procedimento
dei lavori alle mura assieme ai capitani Renzo di Ceri, Vitello
Vitelli, Troilo
Orsini e gli altri comandanti e patrizi veneziani. Altri argomenti sui
quali
ragionavano: l’imminente arrivo di Meleagro da
Forlì coi 1500 cavalleggeri e del
provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini; le ultime
disposizioni
della Signoria; i rifornimenti e pagamenti dei soldati; le missive
ricevute dai
provveditori di Padova sier Polo Capello e sier Christofal Moro e
infine il
rapporto di Alfonso del Mutolo e Costantino Paleologo, tornati assieme
a molti
prigionieri liberati dall’ultima vittoriosa sortita notturna.
La vasta sala del
Palazzo sembrava invasa dai tarli a causa del perenne e concitato
scricchiolio
delle penne degli scrivani, impegnati a scrivere punto per punto ogni
lettera
indirizzata ad altri podestà, capitani, provveditori,
castellani o alla
Signoria. Il tavolo stesso di sier Gradenigo era seppellito da carte e
cartine,
più non si scorgeva il legno sottostante.
“Se
non v’incomoda, domino Thodaro”, si rivolse il
provveditore al
capitano greco Teodoro Paleologo, che da poco li aveva raggiunti a
Palazzo,
“per via della mancanza di alloggiamenti in città,
la vostra compagnia di 200
stradioti verrà sistemata appena fuori Porta Santi Quaranta,
nell’omonimo
monastero, davanti al Tiveron, il quale è a sua volta
protetto dal Sile e
quindi da nessun lato vi potranno attaccare, anche se fuori le
mura.”
“Da
lì mi sarà più facile muovere i miei
uomini in perlustrazioni
e irruzioni nel campo nemico”, convenne il condottiero.
“Mi sta bene come
posto.”
“Ovviamente,
in caso d’assedio, verrete immediatamente trasferiti
in città. Non posso però garantire a ciascuno dei
vostri una stanza …”
“Non
vi preoccupate: noialtri oramai siamo abituati a far quasi
tutto in groppa a cavallo, dormire e mangiare in primis”,
scherzò Paleologo,
contagiando gli altri capitani lì presenti in un risata
liberatoria per
sdrammatizzare l’aria tesa degli ultimi giorni.
“Monsignore
de la Palisse ci ha inviato una lettera molto
insolente”, aggiornò poi sier Zuam Paulo gli
astanti, sorridendo feroce. “Anzi
neppure a noi, bensì al popolo di
Treviso che descrive oppresso e infelice sotto il giogo di Venezia,
offrendogli
giustamente la libertà sottomettendosi a quello imperiale.
Sostiene che se
porterà morte e distruzione nella Marca, sarà per
colpa nostra che
orgogliosamente rifiutiamo di arrenderci, consegnandoci alla
volontà del Re dei
Romani, e non del popolo indifeso che null’altro desidera se
non esser dominato
da un sovrano straniero. Loda la magnanimità
dell’Imperatore il quale tanto s’è
preso a cuore la sorte dei Trevigiani, che impiegherà ogni
mezzo bellico per
raggiungere questo suo scopo, bruciando, saccheggiando e massacrando a
destra e
a manca, ma risparmierà i beni e la vita del povero oppresso
popolo trevigiano
soltanto quando noi ci saremo piegati, rinsavendo a più miti
consigli”,
parafrasò l’uomo in un sarcastico riassunto la
missiva del maresciallo
francese, fissandola schifato sulla sua scrivania, manco
l’avessero spalmata
d’escrementi.
“A
me par de scoltar mea mojer co’ la brusa el rosto (arrosto,
ndr.), disendome che no xé ela che nol save cusinar, ma jo
che la gh’ho fata
ràbiar”, commentò sottovoce Marco Miani
al suo compagno di ronda, sier Alvixe
da Canal, il quale soffocò a malapena un grugnito divertito.
“E’
una mia impressione o questi contenuti mi suonano
famigliari?”, chiese Vitello Vitelli, soffocando un colpo di
tosse all’interno
dell’avambraccio.
“Sì,
ha praticamente scopiazzato la lettera dell’Imperatore,
quella dello scorso agosto ai cittadini di Venezia. I francesi non
hanno fama
di gente originale”, gli confermò Renzo di Ceri.
“Quella che invece mi
piacerebbe leggere, è la missiva inviata al Re di
Francia.”
Il suo
parente Orsini annuì. “La Palisse sta
temporeggiando:
questa richiesta di resa incondizionata è una presa per i
fondelli, anche
perché sa benissimo dove gli ficcherebbero i Trevigiani la
magnanimità dell’Imperatore.”
“Nondimeno,
dimostra che non l’abbiamo a sufficienza
scoraggiato”,
puntualizzò sier Lunardo Zustignan. “I Tedeschi
hanno attraversato la Piave e
si stanno dirigendo verso la Patria del Friuli, là dove i
sentimenti verso la
Signoria sono assai più ambigui che nella Marca. Non
possiamo escludere che
trovino supporto tra i nobili feudatari strumieri, fornendoli
quest’ultimi cibo
e munizioni, se non proprio aprendo loro le porte delle
città friulane!”
“Pensavo
che domino Antonio Savorgnan avesse sterminato quei ratti
filo-imperiali!”, esclamò perplesso Costantino
Paleologo, gli echi della
rivolta del “Crudel Zobia Grassa” giunti ad ogni
orecchio della Terraferma.
“Gli
stronzi, kyrie Konstantinos, galleggiano sempre”, gli
spiegò
lapidario in greco Marco Miani e il Paleologo non poté non
trovarsi d’accordo,
associando tale massima alle sue esperienze di vita. “Sier
provedador Zuam
Paulo”, proseguì il patrizio, “se posso
condividere una mia opinione. La Peliza
sta procrastinando un attacco che lui non vorrebbe scagliare, ma che
dall’alto
vogliono a tutti i costi. Lo vuole l’Imperatore,
perché della conquista di
Trevixo ne ha fatto una questione personale e non riterrà
vendicato il suo
“onore” finché non avrà raso
al suolo la città e massacrato la sua gente. Lo
vuole il Re Ludovico, perché tramite il saccheggio spera di
risarcirsi di ogni
ducato spento per Maximiano, ducati che non rivedrà mai
restituiti dal suo
alleato. La Peliza al contrario non vorrebbe, ma per gli interessi dei
suoi
padroni verrà qui a Trevixo, ergo ogni sua dichiarazione
d’imminente rimpatrio
in Lombardia va scartato senza tanti indugi.
“In
secondo luogo, a mio parere, i Tedeschi hanno invaso la Patria
del Friuli, certo, ma non per scappare o svernare in attesa degli
ordini
dall’Imperatore bensì per prendere quanto
necessario all’assedio e poi
ritornare indietro meglio forniti di com’erano
all’inizio, ricongiungendosi coi
Francesi. La fazione filo-imperiale degli strumieri nella Patria
è tutt’altro
che scomparsa, non scordiamoci che il destituito Patriarcato
d’Aquileia sempre
è stato sotto l’influenza tedesca, chiamando
nobili dalla Carnia e dall’Austria
per meglio amministrare quelle sue terre. Fossi in voi, io non
confiderei in
un’accanita resistenza all’invasione del Friuli,
specialmente adesso che i casi
di peste sono aumentati e la gente fiaccata dalla Zobia Grassa.
“Avete
letto come perfino domino Antonio Savorgnan abbia
abbandonato Sazil. Adesso io non voglio contestare l’intensa
fiducia che la
Signoria ripone in lui, tuttavia non mi pare questo
l’atteggiamento di chi è
disposto a difendere ad ogni costo le sue roccaforti e
città.”
“Sospettate
in un suo probabile voltafaccia?”, domandò
incredulo
sier Andrea Donado, lanciando un’occhiata ansiosa al
provveditore e al resto
dei patrizi veneziani lì presenti. “Ma
… ma domino Savorgnan e il suo casato da
più d’un secolo sono stati nostri alleati, i capi
storici della fazione
zambarlana per di più!”
“Sempre
un nobile di Terraferma rimane”, spezzò sier
Alvixe da
Canal una lancia in favore di Marco. “Ed i loro interessi non
hanno mai
coinciso coi nostri, s’è visto in
quest’ultimi due anni come i vari conti di
terra si siano inchinati servili a Francia e Impero, loro che tanto si
proclamavano boni marcheschi!”
“Domino
Antonio ha abbandonato Sacile poiché a corto di uomini e
artiglieria”, ricordò Renzi di Ceri al Miani,
“non molto cavalleresco, vero,
però la prudenza non è una colpa né
una prova di tradimento. Ritirandosi ad
Udine avrà più possibilità di
difendere la Patria. Alla fine, parliamo di città
di confine, di poco valore strategico se comparate ad Udine.”
“Evidentemente,
il Savorgnan voleva anche evitare la triste fine
di vostro fratello”, aggiunse Troilo Orsini, provocando un
bellicoso digrigno
di denti nel veneziano.
“Mio
fratello ha compiuto il suo dovere e senza i vostri sofismi
da mercenari”, berciò quegli astioso, gli occhi
nerissimi saettanti di tal
collera che l’Orsini inconsciamente indietreggiò
di qualche passo, memore della
zuffa del Miani col Batagin Bataja e della testa di
quest’ultimo sbattuta sul
piatto. “Sono orgoglioso di lui, di come
s’è comportato. Avesse abbandonato
Castelnuovo di Quero o peggio, avesse offerto la sua dedizione
all’Imperatore,
tradendo la sua famiglia e la Signoria, Dio m’è
testimone che con queste mani
l’avrei ucciso!” e il tono di voce implacabile e
l’espressione tremenda sul
viso accigliato rivelarono tanta verità nelle sue parole, da
ammutolire i
presenti.
Calmatosi
e riprendendo fiato, Marco contro-argomentò pieno di
focosa determinatezza l’affermazione
di
Renzo Orsini: “Capitano, non fraintendetemi, mi trovate
d’accordissimo con voi
e comprendo bene il ragionamento tattico del Savorgnan. Ciononostante
vi
rammento, che è lunga e perigliosa la strada da Sacile fino
ad Udine,
soprattutto quando i Conti di Porcia, Polcenigo e Spilimbergo
chiaramente
appoggiano l’Imperatore e potrebbero sbarrargli il cammino
durante la ritirata,
colpendolo sul fianco. E v’assicuro che un uomo messo alle
strette è capace di
rinnegare qualsiasi cosa, dall’onore alla fede, pur di
salvarsi la vita!”
“Cosa
proponete, sier Marco?”, lo sollecitò dunque sier
Lunardo
Zustignan, decisamente persuaso dalle argomentazioni del concittadino.
“Avevo
sei anni quando il Duca d’Austria invase i nostri confini,
puntando alla conquista di Feltre. Di quegli eventi serbo ricordi
confusi
tranne uno, ossia quando mio padre sier Anzolo Miani, consultandosi con
domino
Guido de’ Rossi, gli disse: Dobbiamo
sempre pensare allo scenario peggiore mentre pianifichiamo, per non
lasciarci
cogliere impreparati dal nemico. Qual è il nostro
scenario peggiore? La
caduta della Patria del Friuli, il tradimento del Savorgnan e dei
nobili
locali, il ricongiungimento delle truppe francesi e tedesche, la
diffusione
della peste. Se vogliamo organizzare una degna difesa di Treviso,
dobbiamo
farlo tenendo a mente tutte queste possibilità.”
Sier Zuam
Paulo Gradenigo s’alzò dalla sedia, appoggiando i
pugni
sul tavolo. “Avete ragione sier Marco”,
concordò, raggruppando le carte e
sistemandole ordinatamente su di un lato, pronte per essere raccolte
nei loro
quaderni e fascicoli o distribuite ai corrieri. “La Signoria
è fiduciosa a
riguardo ma io no: la Patria del Friuli è condannata, un
moribondo in attesa
dell’estrema unzione. Avete udito i capitoli: Treviso si
comporterà come se già
fosse sotto assedio, Nervesa non dista poi così lontana da
noi. Continueremo
con le incursioni notturne per fiaccare lo spirito del nemico, per
impedirgli
di spiare la costruzione delle nostre mura e per liberare quanti
più dei loro
prigionieri”, e scoccò un’occhiata
significativa a Marco.
“La
Palisse non attaccherà prima d’aver ricevuto una
risposta dal
Re di Francia e soprattutto d’essersi ricongiunto con le
truppe imperiali”,
ragionò a voce alta Vitello Vitelli, “questo ci
comprerà due o tre settimane di
tempo per preparaci, se i timori di messer Marco dovessero rivelarsi
fondati e
la Patria del Friuli non dovesse opporre resistenza agli
imperiali.”
“Per
allora avremo completato per certo i lavori alle mura”,
concluse ottimista Troilo Orsini.
“Troppo
tempo, troppo tardi”, lo contraddisse invece sier Zuam
Paulo. “Dobbiamo darli un’accelerata”, e
rivolgendosi al podestà sier Andrea
Donado: “Con vostra buona licenza, vorrei emanare una grida
nella quale ogni
abitante di Trevixo, uomo o donna, che possa tenere una vanga in mano e
spingere una carriola o trasportare una barella venga a lavorare alle
mura.
Ovviamente, questo provvedimento includerà anche noialtri.
Entro due al massimo
tre giorni, Trevixo avrà
le sue cinta
murarie terminate e pronte ad affrontare l’assalto
nemico.”
“Ma
è impossibile!”, esclamò scettico Renzo
di Ceri.
“Appunto!”,
reiterò Gradenigo, sogghignando malevolo.
“Perché
questi sono gli esatti pensieri dei Collegati: poiché
giudicano impossibile
quest’impresa, noi la compiremo! Poiché giudicano
impossibile che la Francia e
l’Impero possano perdere contro una città
politicamente insignificante come
Treviso, noi li sconfiggeremo, umiliandoli e spedendoli piangenti dalle
loro
madri! Poiché grazie alle titubanze del La Peliza e
all’avidità dei Tedeschi, noi
possediamo sufficiente tempo e mezzi non solo per costruire la miglior
città-fortezza alla moderna d’Italia, ma anche per
poter predisporre a nostro
piacimento il terreno su cui combatteranno. Le dinamiche della
battaglia le
sceglieremo noi e faremo ballare questi barbari alla nostra
musica!”
“Ci
vorranno turni di giorno e di notte, senza sosta né riposo.
Se
non c’ammazzano i Collegati, c’ammazzerà
la fatica.”
“Ci
riposeremo in saecula saeculorum nell’Aldilà,
capitano Lorenzo
Orsini degli Anguillara.”
Il nobile
laziale scosse il capo, eppure gli angoli della bocca
s’erano piegato all’insù in un
sorrisetto complice.
“Sior
Provedador, zelenza”, si presentò
all’improvviso il capitano
delle prigioni, recante un pezzo di carta prontamente ceduto al
patrizio, “la
confexion dil rebello, el qual ghemo tormentà fin
desso.”
Gradenigo
lesse a voce alta il
resoconto dell’interrogatorio: “El
citadin Corneto da Cividal no confessa gnente, salvo che portava le
zatre, per
comandamento di el governador todesco, fino a Narvesa per voler far
ponte per
passar la Piave. –
Tutto qui?”
“Non
accenna minimamente alla lettera di La Palisse né alle
condizioni
del campo francese”, schioccò la lingua deluso
Renzi di Ceri.
“Né
tantomeno chi nella bassa friulana e nella Marca sta
foraggiando i franco-imperiali”, precisò Vitello
Vitelli, che poi era proprio
quella l’informazione per la quale avevano torturato per ore
il ribelle
bellunese.
“Insistemo,
sior provedador?”, si propose solerte il capitano
delle prigioni.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo negò in un nervoso svolazzo della mano.
Invece, si portò accanto ad uno scrivano, domandandogli se
avesse terminato la
lettera destinata alla Signoria. Incuriositi da quel tono complice e
quell’aria
di mistero, subiti i presenti lo spronarono a condividerne i contenuti.
Il
provveditore li accontentò, svelandoli l’arcano:
“Si tratta dei
resoconti di quanto visto e udito dai nostri prigionieri scappati dal
campo
nemico. Questo punto specialmente è importante, ascoltate
bene: Rebelli trevisani che sono guide
de’ nemici:
Bortholamio Sforza; Hironimo de
Martegnago dito Barbon; Sydro e Franceschin da Martegnago,
sòo fradeli; Domenego
di Inselmi, el conte Carlo di San Bonifazio, veronese, grandissimo
rebello, el
qual perhò è sta morto in campo.
“Ville di
là di la Piave, che danno vituarie a li inimici: Voladina;
Quia; Quieto; San
Stefano; Val de Marin; Vidor; Barboza; Fontino et La Piove de Soligo.
“Noterete
che sì, questo ribelle bellunese ha coraggiosamente
affrontato la tortura e sfidato il dolore pur di non venderci i suoi
complici,
peccato l’abbia fatto per niente ché nulla sfugge
all’Occhio Destro della
Signoria. Ricordate bene i nomi, specie voi capitani degli stradioti:
una
pingue ricompensa aspetta chi riuscirà a catturare questa
feccia ghibellina.
Quanto alle città ribelli, ad assedio terminato esse saranno
le prime a venir
mondate nel sangue dal loro peccato.”
“Morire
per mano nostra o per mano dei franco-imperiali … Vi pare
una scelta proponibile?”, mormorò amaro Troilo
Orsini.
“Morire
da traditori o da nostri partigiani, ecco la loro scelta”,
lo corresse sier Lunardo Zustignan.
“Che
ne facciamo del bellunese?”, s’informò.
Gradenigo
chiuse la lettera destinata alla Signoria, imprimendo il
suo sigillo sulla cera bollente. “Processatelo e poi
impiccatelo. E che il suo
corpo sia ben visibile a tutta Trevixo, acciocché si sappia
qui come nella
Marca quale destino attende chi tradisce la Serenissima
Signoria.”
Continua
…
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Il
termine “partigiano” esisteva anche
all’epoca, sebbene oramai
sia più comunemente associato alla Seconda Guerra Mondiale e
non indicava
necessariamente chi in gruppi armati resisteva all’invasione
nemica, piuttosto
gli agguerriti sostenitori di una determinata fazione. Nel caso della
nostra
storia, i filo-imperiali (e per associazione, francesi) e
filo-veneziani.
Al povero
de La Palice non gliene va mai bene una, per adesso, ed
effettivamente se non fosse stato per l’inesauribile spirito
d’iniziativa di
Mercurio Bua, credo che sul serio se ne sarebbe ritornato a Milano,
alla faccia
dell’Orléans e di Massimiliano! XD Con tutto
rispetto, aveva appresso un branco
o d’ammalati o d’incapaci o
d’approfittatori vigliacchi. Altro che armata
franco-imperiale, piuttosto di Brancaleone!
Il Nostro
come sempre sballottato di qua e di là, a capriccio del
Bua, non riesce mai ad aver un attimo di tregua!
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Uomo morto non fa
guerra = versione veneziana del “Mortui non
mordent” (I morti non mordono)
di Plutarco e pronunciata a seguito della cattura di Francesco Novello
da
Carrara, il quale appunto venne condannato a morte assieme ai suoi
eredi maschi
con la lapidaria sentenza “omo morto no' fa
guerra”, onde sottolineare la
decisione di Venezia di finirla una volta per tutte coi rivali
Carraresi per il
dominio sul Veneto.
[2] Sofì = così si
chiamava all’epoca lo Shah di Persia.
[3] più delicato delle
tette di una monaca = modo deliziosamente veneziano per
indicare una
persona di fisico e salute fiacca, cagionevole. Sarebbe interessante
capire il
ragionamento dietro …
|
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Capitolo 24 *** Capitolo Ventiduesimo: 18-19 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 15.10.2021
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Capitolo
Ventiduesimo
18-19
settembre 1511
Michele
da Brisighella s’appiattì per terra, sfruttando il
fitto
reticolo di felci e cespugli nonché il dislivello del
terreno, che creava
conche perfette da cui osservare la strada maestra sottostante. Con la
coda
dell’occhio controllò le postazioni dei suoi
compagni esploratori e degli
stradioti veneziani, anch’essi camuffatisi nella fitta
vegetazione di roveri e
farnie, in attesa che l’eco lontano di voci e di ruote di
carri si
materializzasse dinanzi a loro.
“I
tuoi compaesani affermavano il vero”, sussurrò a
Cabriel, steso
sul fianco accanto a lui. “Ecco da dove si fanno arrivare i
viveri: non più da
ovest, bensì da est, al di là della
Piave!”
Il
giovane soldato terminò di caricare la balestra a leva.
“Noi
siamo sempre sinceri coi nostri alleati, siete voi i malfidati
opportunisti e
bugiardi”, replicò secco.
Contrariamente
all’altra squadra rientrata a Treviso a seguito
dell’assalto al campo nemico, la sua era rimasta al Montello
onde controllare
gli spostamenti dei franco-imperiali e continuare nelle azioni di
disturbo.
Cabriel, memore delle indicazioni di Malgari e di suo padre Nane, aveva
proposto di mettersi in contatto coi contadini rintanati nelle grotte,
così da
poter meglio coordinare l’assalto ai rifornimenti e muoversi
agilmente
nell’intricato bosco. Infatti, giravano voci che, pur
rimanendo sprovvisti in
gran parte, comunque delle vittuarie stavano lentamente giungendo
all’accampamento e ciò aveva agitato non poco i
loro capitani, che scalpitavano
d’apprendere maggiori dettagli a riguardo. Quella mattina,
poi, alcuni dei
villani erano spariti, così come le provviste e i marciani
invero brancolavano
nel buio, scombussolati da tal novità.
“Ho
combattuto molte guerre e assistito a troppi tradimenti per
fidarmi di chicchessia”, si giustificò altero
Michele, pur arrossendogli le
orecchie quanto la sua casacca e il palvese dietro alla schiena,
metà rossi e
metà bianchi. “Scusami se voglio riportare la mia
pellaccia da mia moglie!”
“Non
è mai stata per te una faccenda personale, la
guerra?”
“E’
il mio mestiere. Ho servito sotto i Manfredi, poi per il
signor capitano Dionigi Naldi [1] e quest’anno mi ritrovo col
signor capitano
Vitello Vitelli. Finché mi pagano e mia moglie e i miei
figli mangiano, a me
basta.”
“Il
tuo mestiere … bah, non il mio”,
replicò cupo Cabriel,
appoggiando la balestra e calibrando la mira. “Non sono mai
stato balestriere.
Qua io non ci ho guadagnato niente, tranne quella ragazza che ho
aiutato a
scappare e che ora mi aspetta. Ero ceramista, sai? Creavo oggetti utili
e belli
per la gioia dei miei concittadini e dei mercanti, non ero artista di
morte. Ma
i Collegati hanno distrutto la mia città, massacrandomi uno
alla volta tutti i
miei familiari. A Castelnuovo ho perso i miei ultimi fratelli
… Non ho voluto
io questa guerra, ci sono stato trascinato dentro e pertanto,
finché avrò vita,
darò tutto me stesso per aiutare la Signoria a vincerla, per
punire questi
scellerati assassini.”
Un
sorriso amaro si dipinse sul volto del brisighellese. “Ecco
perché voi sopravvivrete a questa tempesta, mentre noialtri
siamo crollati”,
commentò, sistemando la sua balestra e lo scudo.
“Silenzio! Ecco qua i
nostri galli.”
Era
indubbio che si trattassero di carri di rifornimenti, tuttavia
ciò che sorprese i due soldati furono alcuni aspetti a loro
completamente
nuovi: primo, non s’attendevano un sì gran numero
di mezzi, impossibile che
provenissero ciascuno dai villaggi immediatamente dopo la Piave.
Secondo,
soldati armati, addirittura Michele ne riconobbe qualcuno della scorta
personale di La Palice e i lancieri dovevano invece appartenere alla compagnia di Giulio Sanseverino. Non saccomanni o stradioti, vera e propria
cavalleria
da sfondamento. Avevano mangiato la foglia e s’erano preparati di
conseguenza.
Eh, merda.
“Che
facciamo? Li lasciamo andare?”
“Manco
per sogno”, scosse il capo Michele, dando il segnale ai
suoi compari e agli stradioti nascosti dall’altra parte del
sentiero. “Voglio
proprio scoprire da dove si riforniscono ‘sti
stronzi!”
Il sibilo
di una freccia fendette l’aria, interrompendo il ritmico
cigolio delle ruote e dello scalpitio dei cavalli. Il sordo gemito del
cavaliere colpito alla gola e il tonfo del suo corpo caduto da cavallo
scatenarono l’immediata e rumorosa reazione nei francesi, i
quali si
raggrupparono d’istinto attorno ai preziosissimi carri,
berciando ordini di
caricare le loro balestre e tenere spade e zagaglie pronte
all’assalto.
Una
seconda freccia saettò dal buio del bosco, colpendo un
soldato
più lontano dal primo ucciso. Una terza la seguì,
in apparenza a caso,
impedendo ai francesi di capire esattamente dove si nascondesse il
balestriere
e in quanti fossero.
All’improvviso
gli stradioti veneziani li caricarono sullo stesso
lato, evitando però di avvicinarsi troppo ai carri e
limitandosi a cozzare le
loro zagaglie contro le picche nemiche, scansandosi rapidissimi
così da non
fornire un bersaglio fisso ai balestrieri nemici e tenendo i lancieri e i gendarmi
[2]
focalizzati su di loro. Ché infatti, senza rendersene conto,
i francesi avevano
dato gradualmente le spalle a Michele e alla sua compagnia: in
quell’istante,
al segnale del brisighellese presero a piovere frecce dal loro lato
sicché i nemici,
cadendo come anatre in volo, si voltarono di scatto
dall’altra
parte e di ciò ne approfittarono subito
gli stradioti, stavolta
ingaggiando serrata battaglia e nulla poté più di
tanto la cavalleria pesante,
costretta a muoversi in spazi sempre più ristretti ed
insidiata dai
cavalleggeri e i fanti a piedi. Assediati da ambedue i lati, i
cisalpini si
strinsero l’uno all’altro nella speranza di
resistere alla spinta veneziana, ma
la pressione fu troppa e non li rimase altra soluzione se non
arrendersi.
Mentre i
loro colleghi tenevano i prigionieri allineati e sotto
tiro, alcuni soldati marciani balzarono agili sui carri, scoprendo i
contenuti
dei barili e casse e fischiando in apprezzamento: vino, farina, biave,
carne
essiccata, perfino qualche munizione. Gli stradioti invece si
disputavano i
cavalli dei francesi, contrattandoli animatamente tra insulti, innocue
minacce
e gioviali pacche sulla schiena.
“Questa
roba non può venire unicamente dalla Marca”,
borbottò
Cabriel, osservando pensoso il bendiddio ai suoi piedi.
“Quasi tutto o se lo
sono portati via i contadini o è finito a Treviso oppure
è stato distrutto. A
meno che …!” e il viso gli si colorì
dalla collera, immaginando il modo
mediante il quale i francesi s’erano procurati i rifornimenti.
“Le
munizioni vengono dalla Patria”, commentò un altro
balestriere. “Riconosco il marchio sui barili.”
Michele
si morse l’unghia del pollice, i suoi peggiori timori
confermati. “L’invasione della Patria del Friuli
sta dando i suoi frutti e per
di più hanno scoperto dove i contadini nascondono i loro
viveri!” e una
frustrata imprecazione gli gorgogliò in bocca.
“Non abbiamo spazio sufficiente
nelle stinche né vogliamo sprecar cibo per sfamare
‘sti pezzenti”, si rivolse
perentorio ai suoi sottoposti, intanto che prendeva posto alla guida di
uno dei
carri, raccogliendo le redini degli agitati cavalli.
“Denudate questi cani di
ogni loro bene, che ritornino dal La Palissa in mutande! Sono certo che
si
sapranno benissimo difendere dai contadini ch’hanno appena
derubato!”, aggiunse
pieno di perverso gusto, abbandonandoli alla giustizia dei villani
gabbati. Oh
beh, a Michele del loro codice militaresco e d’onore non
gliene fregava un
granché, così come della sorte di quei bastardi e
arroganti invasori. Il
discorso di Cabriel gli aveva risvegliato in petto una rabbia antica,
sentendosi dopo anni di cinico e disilluso servizio quasi patriottico.
“Questo
qua lo conosco!”, esclamò di punto in bianco
Teodoro
Madalo, della compagnia di Manoli Clada.
“Chi?”,
fece confuso Michele.
Lo
stradiota gli indicò un francese seminudo e seminascosti tra
i
suoi compagni. “Quand’ero prigioniero a
Montebelluna, l’ho visto andarsene a
zonzo assieme al cuoco de La Palissa. Da come parlottavano fitto-fitto
tra di
loro, dovevano essere amici assai intimi. Può darsi che
sappia qualcosa sulla
provenienza di questa miracolosa carovana. Si sa, i cuochi son tutti
dei gran
pettegoli.”
Il
brisighellese si ritrovò d’accordissimo e Cabriel
scese dal
carro con una corda, staccando l’interdetto e spaventato
francese dal gruppo e,
legatolo, lo issò di peso tra i barili di vino.
Il resto
dei prigionieri, ora liberati, veniva invece pungolato
dalle picche a camminare scalzi e in camicia lungo il sentiero, in
direzione
opposta alla loro.
“Porgete
i nostri saluti al generalissimo!”, gridò loro
Michele,
strafottente. “Ditegli che non si crucci se stasera non
cenerà. Ditegli che
avete già mangiato abbastanza sulle spalle
dell’Italia e che un po’ di digiuno
non v’ammazzerà di certo!”
***
Fra’
Anselmo chiuse gli occhi al soldato e incrociò le sue
braccia
al petto. Due oblati, solleciti e intuitivi, sollevarono il lenzuolo su
cui
giaceva e lo sollevarono di peso in modo da trasportarlo al camposanto
improvvisato ai piedi dell’Abbazia. Il padre confessore, dal
canto suo, terminò
le sue preghiere e benedisse il cadavere, il volto ancora verde da quel
poco
che aveva udito della sua ultima confessione. Il benedettino indovinava
quanto
fosse costato, sul piano personale, al confratello elargire
l’assoluzione al
soldato: non aveva osato origliare, tuttavia alla fine della fiera i
racconti
di quei moribondi s’assomigliavano più o meno
tutti quanti, macabri resoconti
di ogni abiezione umana immaginabile. Più conosceva gli
uomini, più provava
rispetto per gli animali, anche per quei lunghi serpenti arrampicatori
e
strangolatori che popolavano il Montello.
Il monaco
appoggiò solidale la mano sulla spalla del confessore,
confortandolo che ormai il loro dovere era compiuto,
quell’anima adesso si
trovava nel tribunale di San Pietro e di San Michele Arcangelo, i quali
avrebbero certamente saputo valutarla meglio di loro. L’altro
benedettino
scrollò le spalle, preferendo osservate il novizio che, dopo
aver gettato della
calce, preparava il letto con lenzuola pulite per il suo prossimo
sfortunato
inquilino.
Siccome
la febbre non mieteva abbastanza vittime tra i francesi,
l’assalto notturno aveva riempito l’infermeria fino
a costringere i monaci a
stendere per terra i feriti su tavole di legno improvvisate a letti.
Almeno, le
loro erano state morti o guarigioni piuttosto veloci, non una lenta e
incerta
agonia.
Via,
a che pro lamentarsi? Al lavoro, si spronò
il benedettino, scostando la tenda che lo separava dal prossimo
ammalato, onde
controllare eventuali segni o di miglioramento o di ricaduta ed aiutare
il suo
paziente a mangiare la magra colazione.
Peccato,
che detto pasto fosse in procinto d’esser svuotato da un
Thomà colto in flagrante degustazione.
“Sarai
pure un Attila!”, lo rimproverò aspramente
Fra’ Anselmo,
ghermendo il bambino per un orecchio, sebbene tale trattamento non
sortì
l’effetto di persuaderlo a mollare la presa dal piatto. E
pensare che il
benedettino, pur di curare l’ammalato, si privava del
già poco cibo rimasto!
“Attilio
te sarà ti, vecio bacuco, mi me ciamo
Thomà!”, ribatté
stizzito il fantolino, ficcandosi impunito in bocca quanto
più pane e formaggio
riuscisse, dimostrando una flessuosità d’esofago
paragonabile a quella di un
serpente.
“Rubi
il cibo agli ammalati? Sei proprio senza Dio e Madonne, eh?”
“Xéi
franzosi mica christiani, no xé pecà!”
“Cossa?
Ma io ti …!” e a quale punizione
l’indignato religioso
volesse sottoporre Thomà – neanche a lui garbavano
i francesi, però levare il
pane di bocca agli ammalati era una scortesia davvero poco cristiana
– il
piccino non ebbe modo di scoprirlo, ché
l’imponente figura di Mercurio Bua
irrompeva in infermeria, cercando convulsamente un letto vuoto e al
contempo un
monaco disponibile ad assisterlo.
Abbandonando
la sua presa all’orecchio, Fra’ Anselmo si diresse
verso il condottiero, indicandogli di seguirlo al letto appena
sgomberato. Si
morse l’interno della guancia alla vista del patrizio
veneziano pallido come un
morto, tremante convulsamente e le labbra secche, gli angoli lordi dei
residui
giallastri di vomito.
Senza
proferire parola il monaco s’attivò subito in una
celere
diagnosi, aprendogli le palpebre, controllandogli attento dentro la
bocca, ai
lati del collo, sulla gola, le ascelle e l’inguine. Storcendo
il naso, gli levò
la camicia sporca di dosso, lasciandola cadere per terra e
ripromettendosi di
bruciarla alla prima occasione. Passò lievemente la mano
sulle gambe e sul
petto ricoperti di graffi e tagli, di ecchimosi ora rosse, ora gialle
ora
viola; scorse in particolare il dito sulla ferita crostosa al fianco,
arrossata.
“L’ho
… l’ho tro-trovato così …
pensavo … pensavo stesse ancora
dormendo, poi è … è caduto dal letto e
… e …”, tartagliava
nel
frattempo Mercurio, cambiando esagitato peso da una gamba
all’altra e sarebbe
stato interessante sapere quale delle due prospettive lo terrorizzasse
di più,
se perdere il suo prezioso ostaggio o la possibilità di
crepare di peste
tramite lui.
Siccome
Fra’ Anselmo non apparteneva alla categoria degli infami,
su quel punto ci tenne a rassicurarlo: “Non è il
morbo, credo una brutta febbre
e forse un raffreddamento di stomaco … Ha avuto il
flusso?”
Il Bua lo
fissò stralunato e un poco offeso: per chi lo prendeva,
per una balia che controllava l’attività
defecatoria del suo puttino?
Brevemente, gli spiegò invece la faccenda: il giorno dopo
l’assalto all’Abbazia
il suo prigioniero se n’era stato tranquillo nella sua cella
– il greco-albanese
gli aveva lasciato perfino l’usufrutto del suo letto,
acciocché si riprendesse
dalla caduta. Gli aveva anche parlato la sera prima, dannazione!
Invece,
ritornando quella mattina dall’ennesimo incontro con La
Palice e gli altri
comandanti, Mercurio aveva ritrovato Hironimo riverso per terra
circondato da
una pozza di vomito e tremante neanche avesse – San Valentino
gliela scampasse!
– l’epilessia [3].
Il monaco
gli scoccò di rimando uno sguardo pieno di
commiserazione. “La febbre è molto
alta”, sentenziò infine, sollevando il dorso
dalla pelle d’Hironimo. Immerse una pezza nella bacinella
d’acqua e gli tamponò
la fronte, in particolare l’escrescenza e il taglio su di
essa. Il giovane aprì
per un istante gli occhi, girandoli confusamente alla ricerca di
chissà cosa e
Fra’ Anselmo vi lesse una bruciante delusione,
sicché il patrizio li richiuse
subito, affondando sfinito sul semplice cuscino.
“Finché non scende trovo
consigliabile che rimanga qui, sott’osservazione.”
“Non
se ne parla nemmeno!”, ringhiò il greco-albanese,
riacquistando la sua tracotanza. “Tu lo guarisci ora, in
questo istante!”
Adesso
Fra’ Anselmo aveva perso invero la pazienza e che San
Benedetto
suo padre fondatore lo aiutasse. “Ma per chi accidenti mi hai
preso, sentiamo?!
Per Missier Domeneddio?! Ché compio miracoli io ora?! Se il
ragazzo si trova in
questo stato pietoso, condanna la tua stupidità:
quand’è stata l’ultima volta
che gli hai dato un abito caldo, da mangiare adeguatamente, che non
l’hai
menato alla stregua d’un cane rabbioso, che non
l’hai esposto a questa
pestilenza?!”, ruggì, al punto che le teste degli
ammalati sui lettini accanto
a lui si girarono e qualche confratello arcuò il
sopracciglio tra il sorpreso e
il biasimante. “Hai mai visto uno che getta in una lercia
stalla un povero
cristo con le piaghe ancora aperte? Anni a combattere e ancora non
conosci il
concetto d’infezione?! E ti sorprendi che ora stia facendo
gli equilibrismi con
la morte?!”
Il
condottiero aprì e chiuse la bocca a guisa di pesce,
impappinandosi dopo tanto tempo in vita sua, non più avvezzo
a sentirsi oggetto
di paternali così severe e umilianti: “Io
… io non mi fido di … Hai visto
cos’è
successo, no? E se la sua gente venisse a riprenderselo?”
Il
benedettino grugnì sardonico, sferzando via da sé
un’invisibile
molestia. “Ti risparmierebbero di sicuro il fastidio di
seppellire un
cadavere!” e detto questo si concentrò sul suo
paziente, sennonché si ritrovò
improvvisamente agguantato per lo scapolare.
“Lui
non muore, intesi?”, gli lavò quasi la faccia
Mercurio, il
viso deformato in un’espressione spaventosa. “Non
m’importa cosa t’inventi,
cosa gli fai ingurgitare per resuscitarlo, ma perdiana lo devi guarire
e questo
nella mia cella, non qui, dove entrano cani e porci!”
Affatto
intimorito dai suoi modi violenti, Fra’ Anselmo si
staccò
sdegnato da lui. “A te la scelta, capitano: o ritrovarsi un
ammalato in
infermeria o un cadavere in camera tua!” Era stufo delle
continue
prevaricazioni, delle morti crudeli e assurde, delle immeritate
sofferenze,
della follia di quei bambocci arroganti, buoni soltanto ad infilzarsi
in
inutili mattanze e per questo convinti di trovarsi all’apice
della sapienza,
soffrendo invece di palesi deliri di blasfema onnipotenza!
“Tu
osi comandarmi? Di costringermi a scegliere? Vecchio, ora a te
chiedo chi ti credi di essere!”
“Se
il ragazzo muore, peserà sulla tua coscienza
perché hai avuto
la possibilità di salvarlo, ma per il tuo egoismo ti sei
rifiutato. E
ricordati, figliolo, che il male viene sempre ripagato da altro
male”, gli
puntò contro il dito. “Ché la vendetta
divina, Mercurio Bua Spata, trova sempre
il modo di colpirti dove più soffri!”
E dovette
esserci stato un qualcosa di profetico negli occhi del
monaco, ché il greco-albanese impallidì fino al
giallognolo, il labbro
inferiore tremante. Fu un attimo, però: strabuzzando gli
occhi e scotendo il
capo, l’uomo s’impose di calmarsi e di assumere un
atteggiamento
imperturbabile.
“D’accordo”,
deglutì, espirando pesantemente l’aria, i pugni
serrati convulsamente e l’intero suo corpo teso di furiosa
energia a malapena
repressa. “Per stavolta hai vinto, vecchio …
Tanto, il nostro messere conosce
quale punizione l’aspetta, in caso s’azzardasse a
fuggire …”, gli rivelò con
perfido gusto, indicando Thomà che trasalì
impaurito, avendo giudicato sicuro
origliare dietro la sottile tenda che separava i letti degli
ammalati. Rise malevolo e fu il turno di
Fra’ Anselmo di percepire del
sudore freddo colargli lungo la schiena, afferrando al volo la
minacciosa
promessa del comandante.
“Hai
finito?”, lo sfidò ugualmente, intrecciando le
mani dietro lo
scapolare, onde nascondere quanto in realtà tremassero.
“Ho
finito.”
“Allora
levati dai piedi, qui non mi servi”, gli fece cenno col
capo Fra’ Anselmo, indicandogli la porta.
Un guizzo
assassino attraversò gli occhi di Mercurio e le sue dita
inconsciamente avevano accarezzato l’elsa del pugnale.
Ciononostante si dominò,
sparendo quel lampo tanto velocemente quant’era comparso.
“Restate
servito, padre”,
sibilò velenoso, abbozzando ad un beffardo inchino
e uscendo con la medesima veemenza con la quale era entrato.
Il
benedettino cacciò fuori un sconquassante singulto,
sentendosi
finalmente libero di respirare e un poco traballante sui piedi si
sedette sul
bordo del letto, la mano appoggiata al cuore. Mio
Dio, soccorso! Non
posso più, non posso più sopportare questa
violenza, questa profanazione della
Tua casa! È questa la prova che ci vuoi dare? Per testare la
nostra
saldezza?, pregò frustrato, congiungendo
e stringendo i pugni e
portatali alla fronte, si batteva con essi. Cosa fare? Cosa fare?
L’Abate
oramai obbediva al maresciallo francese e se non a lui, alle direttive
dei
Conti di Collalto. Poco gli importava, evidentemente, dei danni fisici
e
morali, pur di scampare a questa tempesta.
Un lieve
ma costante singhiozzare lo distrasse dai suoi intimi
crucci e recriminazioni contro la guida dell’Abate. Girandosi
in sua direzione,
vide Thomà abbracciare in una sorta di bizzarra
Pietà il suo padrone,
inumidendogli il volto di pingui lacrime.
“Lo
gh’ho assassinà!”, pianse disperato,
stringendolo forte e al
contempo scuotendo il patrizio per destarlo. “Mi
gh’ho uto ea frebe ante d’elo
e depo’ gheo dà qualcossa de stranio da manzar e
bevar! El mio patron va morir par
colpa mia!”
Sorridendogli
incoraggiante, Fra’ Anselmo gli scorse una mano tra
la zazzera bionda. “Avi fe’, fio mio. Il tuo
padrone ha la pelle più dura del
marmo, non l’uccidi così facilmente. Dico bene,
sior castelan?”
Thomà
sobbalzò sorpreso e confuso, specie quando la mano
d’Hironimo sostituì quella del monaco nella sua
carezza consolatoria al capo
del fantolino. “Patron!”, esclamò
giubilante, ridendo e piangendo e
ricoprendolo di moccolosi baci manco si fosse trasformato in Santa
Marta col
redivivo Lazzaro.
Sottraendosi
da quelle effusioni d’affetto e invitando il bambino
a calmarsi onde non attirare sguardi ed orecchie indiscrete, Hironimo
si
puntellò a fatica sui gomiti, mirando i febbricitanti occhi
nerissimi contro il
monaco. “Come hai capito che fingevo?”, lo
inquisì perentorio e un pelino
curioso.
Fra’
Anselmo arricciò sardonico la bocca. “Caro ti, ero
medico
prima di rinunciare al mondo e anche qui, nella Badia, continuo a
curare i
malati. Certo, ammetto che sei stato proprio bravo a recitare la parte
del
moribondo – Veniexia in fin dei conti è la patria
del Carlevar – ma un medico
della mia sorte ed esperienza non si lascia certo corbellare da un puto
nato
ieri, siornò!”
“An!”,
puntualizzò in rimprovero
patrizio. “Peccato di superbia, sior pare, non va
bene!” e i due ridacchiarono
conniventi, tranne Thomà che li fissava confuso, tentando di
collegare gli
eventi e capire quanto stesse accadendo. Nel dubbio si strinse di
più accanto
al giovane: lui non era più in pericolo di vita e questo gli
bastava.
“Confiteor”, riprese il Miani, ritornando serio,
“che mi gero stuffo di la mala
compagnia dil Bua e gh’ho volesto ‘ndarmene da la
soa zella.”
Un
vecchio espediente ben collaudato ai tempi della prima
adolescenza, onde marinare la scuola: approfittando delle lunghe ore di
solitudine, Hironimo aveva cautamente inzuppato il petto e il trapezio
d’acqua,
così come le tempie, in modo da far credere al condottiero
d’aver sudato peggio
d’una fontana. Dopodiché, s’era cacciato
in bocca un dito e aveva punzecchiato
e irritato l’esofago finché lo stimolo non era
giunto al cardias, che aveva
rilasciato tra acidi spasimi quel poco di cibo rimastogli nello
stomaco.
Infine, riconoscendo l’oramai inconfondibile passo del Bua,
il veneziano s’era
gettato a terra e aveva incominciato la sua accurata recita e bisognava
dire
che quell’altro c’era cascato sublimemente,
portandolo là dove voleva finire,
ossia in infermeria, lontano dalla sua sorveglianza e dunque con
più possibilità
di fuga.
“Non
sopporto più questa situazione”, concluse il suo
racconto il
giovane Miani, serrando possessivamente il braccio attorno alla vita di
Thomà.
“M’è ormai chiaro come, per motivi che
non conosco, il Bua non avanzerà alcuna
richiesta di riscatto. Donca, non ho alcun’intenzione
d’attendere né i porci
comodi di quel satanasso né che si stufi di me e
m’ammazzi perché annoiato.
L’anticiperò fuggendo via.”
“Come?”
Hironimo
strabuzzò gli occhi, sorpreso da quell’ovvia
domanda. “Col
tuo aiuto, che altro? Tu conosci molto bene la Badia, così
come sono sicuro che
tu conosca come si entri e come si esca da qui inosservati, per i
sentieri del
bosco circostante.”
“Supponiamo
che sia così …”, mormorò
cauto Fra’ Anselmo. “Perché
dovrei indicarti la via?”
Il
patrizio veneziano reclinò vezzoso il capo, il viso una
maschera di complicità e malizia.
“Perché anca ti te xé stracho de ser
prexom
di sti barbari e de dar obediença ad on Abba’ che
nol te proteze ”, gli lesse
nei pensieri, verità inoppugnabile cui il benedettino non
poteva se non
acquiescere. “Sin dal primo giorno, ti ho letto la ribellione
negli occhi”,
aggiunse, mantenendo lo sguardo ben ancorato a quello
dell’altro.
Fra’
Anselmo s’inumidì le labbra, voltando il capo in
ogni
direzione sia per controllare che nessuno stesse origliando sia per
valutare se
ne valesse la pena, rischiare così tanto. In fin dei conti,
lui personalmente
si trovava in una posizione abbastanza privilegiata – gli
ammalati andavano
sempre curati e di lui si necessitava. Forse s’era lamentato
troppo, alcuni
suoi confratelli subivano angherie peggiori, sebbene nulla paragonato
alla
popolazione civile. Insomma, si trovava comunque in un luogo sicuro,
perché
compromettersi … Però, eh sì,
però. Lui aveva rinunciato al mondo, non alla sua
dignità.
“Puoi
contare sul mio aiuto”, sussurrò il benedettino e
il giovane
Miani riprese a fiatare, sciogliendo il lenzuolo stretto forte nel
pugno. “Soltanto
però quando sarai guarito, è la mia unica
condizione. Il vomito, gli spasimi … quelli
li puoi anche fingere e procurateli, ma la febbre alta, caro, ti,
quella
purtroppo per te è vera!”, gli confidò
pragmatico, appuntandosi di preparargli
entro l’ora di pranzo un infuso di tiglio e genziana per
abbassargli la
temperatura.
In
effetti, Hironimo dovette riconoscere che si sentiva ribollire
dall’interno, i muscoli doloranti e la visione ogni tanto che
si deformava,
provocandogli piccoli capogiri e brividi involontari. Tossì
forte,
riverberandogli l’eco nella cassa toracica e per qualche
istante credette di
non riuscire a respirare. Thomà, dolcemente, gli
batté apprensivo sul coppino,
porgendogli un bicchiere d’acqua. I suoi occhi rilucevano
limpidi e le gote pur
smunte avevano riacquistato colore, segno che il corpo del piccino
aveva vinto
la sua personale battaglia contro la malattia.
Ciò
riempì Hironimo di una sconosciuta gioia, nel vederlo
scampato
dal pericolo.
M’ha
affidato la sua vita e ripone in me la massima fiducia, si
ripeté il giovane patrizio, massaggiandosi la tempia destra,
le cui vene gli
tambureggiavano ritmicamente, peggio che in galea, scendendo il rigido
e
punzecchiante fastidio lungo il collo, alle cervicali, le quali gli
tiravano e
pulsavano inclementi tanto che perfino ai denti gli parve assaporare
l’emicrania. Non posso ammalarmi proprio
ora, non posso permettermi
alcuna debolezza!
Non
voglio morire così stupidamente, in un letto
d’infermeria,
senza aver concluso almeno un’azione degna di merito! e un
oscuro brivido lo percorse da capo a piedi, realizzando come, dal
giorno della
sua cattura, i pensieri di morte si facessero sempre più
frequenti e tragici,
non in circostanze eroiche e onorevoli bensì squallide e
anonime, in perfetto
contrappasso dal modo in cui aveva fino a quel momento vissuto.
Vissuto
… quale vita aveva
vissuto?
Hironimo
strinse gli occhi, corrugando la fronte al pizzicore
dell’emicrania. Basta piangersi addosso, basta desiderare
l’impossibile. Il
passato stava lì, immoto ed eterno, bisognava focalizzarsi
sul concreto
presente e l’incerto futuro. Convenne che qualche giorno di
riposo gli avrebbe
giovato, per riprendere le forze ché invero la loro sarebbe
stata una corsa al
limite della fibra umana, se volevano passare il confine sicuro delle
linee
veneziane. Un passo alla volta, senza rovinare tutto a causa della
fretta.
Il
giovane Miani concluse che del Gambara non si poteva troppo
fidare: gente come lui si comportava tanto cortese e disponibile,
finché non
cambiava il vento e abbandonava il cosiddetto
“amico” al proprio destino, che
s’arrangiasse da solo. Evidentemente il bresciano aveva
fiutato aria di
ribaltamenti del gioco, dell’alternanza di favore di quella
grande capricciosa
della dea Fortuna, che da puttana dei Collegati poteva divenire quella
della
Serenissima.
In caso
però non dovesse accadere, ecco che il conte nuovamente
avrebbe confermato la sua alleanza alla Lega, lasciando Hironimo col
culo per
terra. Nossignore, il veneziano si risolse di sfruttare la gentilezza
del
Gambara finché a lui sarebbe convenuto, evitando
però d’affidargli ogni sua
speranza. Il monaco, al contrario, possedeva i requisiti fondamentali
per i
suoi scopi: non un combattente, non un uomo in prima fila ad affrontare
i
problemi della vita; ciononostante abbastanza dignitoso da non subire
all’infinito e non troppo idealista d’anelare ad
uno sciocco martirio,
propendendo più ad una pratica sopravvivenza. Scuotere
la polvere dai
propri calzari! Invero! Prima o poi sarebbe scappato
via ed Hironimo
gli aveva elargito soltanto la spintarella necessaria per decidersi
definitivamente. Adesso doveva pensare a guarire e anche in fretta,
pianificando alla perfezione ogni passaggio della fuga.
D’altronde,
la posta in gioco per lui era altissima: neppure per
un istante aveva dubitato della serietà del Bua, quando gli
aveva minacciato di
uccidere Thomà avesse lui deciso di fuggire e anche su quel
punto, Hironimo
stava meditando alacremente su come anticiparlo, assicurandosi
perlomeno la
salvezza del bambino, poiché, in caso di fallimento, se
doveva proprio morire l’avrebbe
fatto con la soddisfazione di ridere in faccia a Mercurio Bua.
***
Il
Castello di San Salvatore dei Conti di Collalto era situato in
posizione strategica a controllo dei guadi della Piave, espandendosi
sinuoso
lungo l’intera collina e sovrastando i campi e le vigne
sottostanti. Tra la
rocca, la corte e il borgo abitato da contadini e artigiani, esso era
uno dei
complessi fortificati più estesi in Italia.
L’antichissimo
casato dominava stabilmente su quelle terre dai
tempi di Grimoaldo re dei Longobardi, navigando con accorta maestria
attraverso
le acque tempestose dei tempi, sempre riuscendo a conservare i loro
feudi e i
privilegi essenziali, malgrado i frequenti cambi di governo nella Marca
Trevigiana durante i burrascosi secoli, dal libero Comune alle signorie
degli
Ezzelini, dei Caminesi e Carraresi; dal dominio del Ducato
d’Austria a quello
della Serenissima. Gli approvati e confermati “Statuta
Collalti” li avevano
garantito l’antico diritto di governare la contea secondo le
proprie leggi, tuttavia
al costo della pubblica e perpetua rinuncia da parte di Vinciguerra I
di
Collalto nel 1471 al titolo di “Conte di Treviso”
su sollecita richiesta della
Repubblica di Venezia. Vinciguerra pertanto aveva dovuto accontentarsi
di
quello di “Conte di Collalto e San Salvatore” e
naturalmente della garanzia di
continuare ad esercitare il suo potere senza l’ingerenza del
Podestà e Capitano
di Treviso, segno della fiducia che la Signoria voleva riporre nella
famiglia
comitale per una pacifica convivenza.
Ciò
aveva evidentemente insuperbito i Conti, cullandoli nella
certezza di poter mantenere in eterno il piede in due staffe e
barcamenarsi
come loro uso, saltando all’occasione opportuna sul carro del
vincitore. Così
avevano fatto anche in occasione della rotta di Agnadello: il castello
di San
Salvatore era stato scelto come sede di vitali trattative per una
tregua tra
Venezia e l’Impero, peccato che i tedeschi, certi della loro
imminente vittoria
nella Marca e in generale sulla Repubblica, avevano rifiutato
all’ultimo
momento l’incontro coi messi di San Marco e male gliene
incorse a Maximilian,
il quale se era una persona di temperamento vendicativo, aveva
purtroppo
scoperto a suo danno un rivale altrettanto caparbio
nell’inimicizia. Di fatti,
malgrado nei seguenti due anni l’Habsburg avesse seguitato
imperterrito a
lanciare contemporaneamente appelli di tregua e alla popolazione di
ribellarsi
alla Signoria, egli a sua volta per contrappasso aveva raccolto solo no
secchi.
Gli unici alleati dell’Imperatore, e del Re di Francia per
associazione,
rimanevano le antiche famiglie feudali dell’entroterra che o
per paura o per
avidità si dichiaravano prontissime a servire i due sovrani
stranieri.
“Monsieur
le Grand Maître de France Jacques de Chabannes, signore
di La Palice, Pacy, Chauverothe, Bort-le-Comte e Le Héron,
maresciallo delle
truppe di Francia e dell’Impero!”
Sicché
Mercurio Bua non si stupì di vedere il ventottenne conte
Joanne Antonio I di Giambattista I di Collalto di Sopra, il conte
Antonio III di
Vinciguerra I di Collalto di Sotto e l’intero parentado di
ambedue i rami
venirli incontro vestiti alla francese. Né che si fosse
stabilito di pranzare
in una sala decorata di variopinti e preziosi arazzi fiamminghi e
francesi.
Ridacchiando tra sé e sé, il capitano di ventura
sperò almeno il cibo seguire
le usanze italiane.
“Il
magnifico messer Mercurio Bua Spata, principe di Morea, conte
di Soave ed Illasi, consigliere imperiale e capitano degli
stradioti.”
“Illustrissimi
domini comiti, Vostre Signorie eccellentissime”,
reclinò il capo il greco-albanese in un inchino a malapena
abbozzato ai due
Conti, gesto che in particolare Joanne Antonio ricambiò con
ugual affettata
cortesia, un sorriso magnanimo sulle labbra, e soffermandosi
specialmente sullo
zipone di broccato d’oro indossato da Mercurio,
nonché le pesanti catene
d’uguale metallo, forse calcolandone mentalmente il prezzo.
In tal
caso il condottiero si sentì assai gratificato
nell’avergli
chiaramente dimostrato quanto in nulla gli fosse inferiore. Troppe
volte
nella vita aveva sopportato sulla sua pelle la spocchia della
nobiltà italiana,
che lo considerava alla stregua d’un apolide vagabondo
affamato, pronto a
vendersi al miglior offerente. Si ricordava benissimo
l’espressione di
sfottitore divertimento sul volto della ventenne Beatrice
d’Este, quando al
termine della Battaglia di Fornovo il marchese e capitano dei Collegati
Francesco Gonzaga e suoi superiori, i provveditori veneziani sier Lucha
Pixani, Marchiò Trivixan e Bernardo Contarini lo avevano di persona presentato a lei e
al marito Ludovico
il Moro, elogiando l’audacia di Mercurio che, neanche
diciottenne, era riuscito
a sfondare le linee nemiche francesi, ferendo di striscio il medesimo
Re di
Francia e catturando il Duca di Borbone. Il giovanissimo capitano degli
stradioti si era atteso di essere trattato allo stesso modo dei suoi superiori, soprattutto da parte della duchessa Beatrice, del cui animo virile tanto si favoleggiava. Invece, non soltanto si era trovato una giovane donna che non la smetteva di civettare, ma che al contempo lo trattava alla stregua d'un ragazzino ingenuo, d'un provincialotto appena arrivato e facilmente manipolabile. Ché Mercurio non aveva mai visto una femmina in vita sua? E magari più bella? Lo zenit era giunto quando gli venne rimproverata la barba, credendola un segno d'incuria visto che, considerata l'età, ancora non possedeva la regolare foltezza di quella di un uomo. Dinanzi alla perplessità del giovane capitano, l’Estense s’era
giustificata, ridendo, su quanto
trovasse incomprensibile l’uso stradiota sia di portarla sia
di legare in
trecce i lunghi capelli. “E’
la
tradizione della mia gente, l’unico ricordo della nostra
terra che possiamo
portarci appresso!”, le aveva Mercurio
candidamente spiegato.“Oh, che
tradizione orribile!”, aveva
licenziato Beatrice la questione, accettando tuttavia il bacio sulla mano alla greca. Il giovane capitano aveva sbrigato in fretta i
convenevoli, umiliato
da cotanta cieca superficialità e ritirandosi furente nei suoi alloggi e
partecipando ai festeggiamenti soltanto perché il suo
superiore sier Bernardo
Contarini glielo aveva espressamente ordinato. “Madama
è tanto schizzinosa con chi ha salvato l'Italia, ma tanto
liberale con chi l'ha devastata! Non mi pare avesse avuto da ridire sui capelli dei francesi, sui vestiti dei francesi, su ... su ... su qualsiasi cosa loro! Ma cosa pretende? Chi si crede d'essere? La dea Venere? E' una capricciosa come tutte, ecco cosa, ed è pure brutta e scura peggio d'una fantesca turca!”, s’era
sfogato col provveditore degli stradioti, alludendo
all’opulento benvenuto offerto dai duchi ai francesi
l’anno addietro, nonché al
fatto che l’Estense, assieme alle sue ottanta dame, avesse
concesso ai nobili
cisalpini di baciarla sulla bocca, secondo la loro di usanza. Il
Contarini,
posandogli una mano sulla spalla, lo aveva allora consolato: “Così funziona in Italia: si è
cortesi
fintanto che l’amicizia risulta vantaggiosa. La gratitudine e
la reciprocità
hanno vita breve e la memoria corta, qui. Non ti curare di
ciò che dice madona
Beatrixe, sicuramente non l'ha fatto apposta e lascia che le sue truppe da giostra vengano guidate dai suoi
signorini impomatati; la Signoria ha visto il tuo valore e se ne
ricorderà.
Puoi solo salire, Mercurio, se però impedirai a chicchessia
di buttarti giù!”
Le sagge
parole di sier Bernardo gli erano rimaste scolpite nel
cuore al pari di una massima di vita, anche quando Mercurio aveva
disertato la
Serenissima per altri committenti. Da quel momento, infatti, aveva
giurato
sulla tomba del suo illustre padre, il kyrie Pietro Bua Spata capo
degli
Albanesi in Morea, che nessuno mai lo avrebbe più dileggiato
sia per la sua
abilità che per la sua provenienza. Con le unghie e con i
denti avrebbe
strappato il suo posto nelle alte sfere e trattato da pari chi vi si
trovava
più per virtù di nascita, che per merito
personale. Avrebbe elevato il nome suo
e della sua casata, indorandolo di gloria e onore e bivaccando sulle
ossa di
chiunque avesse osato sottovalutarlo. In un certo qualmodo, dunque, era
grato a
Beatrice d’Este poiché, nella sua
impulsività e ignoranza, gli aveva rivelato
il vero volto degli italiani, specie dei nobili.
Nel
frattempo che gli altri comandanti venivano presentati uno ad
uno alla famiglia comitale, a sua volta il Bua si soffermò
sugli abiti di
Joanne Antonio di Collalto, sul suo toque di
velluto nero
ornato di perle e zaffiri e da una cascante penna di struzzo,
la chemise
à encolure
dégagée e bordata di sottili
fili d’oro,
vaporosa, semitrasparente e a stento trattenuta dallo zipone a righe di
damasco
grigio dai riflessi argentati.
Costui
sarà anche un damerino fatto e finito, tuttavia gli concedo
una certa astuzia nella sua scelta di vestirsi alla francese, concluse
Mercurio, mentre i Collalto si premuravano di mostrare brevemente agli
ospiti
la Rocca. Infatti, cogitava, sarebbe stato più logico
presentarsi con abiti
alla tedesca poiché l’impresa era quella di
Maximilian; tuttavia i Conti
dovevano aver immaginato quanto a La Palice, pur servendo formalmente
il Re dei
Romani, avrebbero recato più piacere i familiari costumi del
suo paese rispetto
a quelli alemanni, specie a seguito del colpo basso ricevuto dai
disertori
imperiali.
E di
fatti il maresciallo, svestita per l’occasione
l’armatura,
ammirava tutto contento la francesità al limite del
pacchiano esposta ad arte
nel castello, il buonumore improvvisamente ritornato e non mancava di
scherzare
coi suoi anfitrioni nel suo piuttosto discreto italiano appreso a
Milano. Dal
canto suo, Mercurio trovò invece più interessante
studiarsi gli affreschi in
corso nella chiesa di San Salvatore, ad opera del maestro Zuan Antonio
de’
Sacchis, detto il Pordenone. In particolar modo, rimase piacevolmente
impressionato da un “San Girolamo nel deserto” di
Cima da Conegliano, ammirando
l’armonico passaggio dall’ocra brullo del deserto
alla pastosa verdura dei
prati collinosi e dei boschi, culminante in un complesso castello
arroccato su
di una rocciosa altura che gli ricordava proprio quella dei Collalto.
Similmente anche i piccoli borghi e le chiesette emulavano lo stile
architettonico di quelli veneti, testimoni dei fecondi anni di pace. Il
capitano di ventura si scoprì incredibilmente attratto dalla
Marca Trevigiana,
con la sua intricata rete di fiumi, l’acqua di risorgiva
leggera e chiarissima,
le campagne fertili, i fitti boschi collinari e gli svettanti campanili
che
competevano in altezza cogli alberi. Il tutto circondato da
quell’aria quasi
montana, fresca e dolce, un poco malinconica che sfumava i contorni
dell’orizzonte, conchiuso dalle sagome delle montagne e che
soltanto i pittori
veneti riuscivano a cogliere nei loro colori sfumati, indefiniti. Se
avesse
dovuto scegliere un posto ove stabilirsi nei lunghi anni della
vecchiaia, forse
… magari …
“Il
maestro Cima da Conegliano si è ispirato a queste
terre”, gli
giunse alle spalle la timida vocina di Cassandra di Collalto di Sopra,
la quale
arrossì pudica non appena il condottiero si girò
verso di lei. Una graziosa
bambolina invero, piccola e pienotta, un bocciolo d’aprile.
Su ordine fraterno
anch’ella vestiva alla francese, indossando una sopravveste
di damasco scollata
e lunga fino a terra, con alquanto strascico e tutta foderata di
pellicce
finissime, stretta alla vita da una lunga e spessa catena
d’oro. Sotto portava una
veste di velluto a maniche strette vicino alle mani, mentre quelle
della
sopraveste erano al contrario molto larghe e ricoperte delle medesime
pellicce
di cui erano all’interno foderate. Il capo della contessina
Cassandra era
ornato da uno chaperon d’ermisino
sottilissimo e lucente, tutto
ornato da diversi fili di belle perle, delle quali s’era
arricchita anche il
petto e il collo, assieme ad altre pietre di gran valore cucite sullo
scollo.
Anche se
costoso e di gran pregio, in tutta onestà quello chaperon
non incontrava i gusti di Mercurio, poiché a sua detta
rendeva la giovinetta
non dissimile da una suora, nascondendole la fluente chioma bionda e
conferendogli un’aria severa che alla sua età non
le si confaceva.
“Notate
la Piave sulla destra?”, seguitava la damigella nella sua
descrizione, ignara di quel pignolo studio della sua persona.
“E poco distante
…”
“…
l’Abbazia?”, terminò per lei il Bua,
sorridendole accattivante.
Cassandra
annuì. “La mia famiglia nutre da sempre uno
speciale
affetto verso l’ordine benedettino. E anche di San Girolamo
Dottore della
Chiesa. Avete visitato suppongo il suo eremo,
all’Abbazia?”
“Provvederò
uno di questi giorni.”
“Conoscete
per caso Giuliana di Collalto? Ancora non è tale,
però
in molti già la considerano una beata!” [4]
“Non
credo s’incontrino santi e beati nel mio mestiere!”
La
contessina si coprì la bocca col ventolino di damasco,
nascondendo un sorrisino compiaciuto e sovvenendo a Mercurio una
bimbetta
pronta a vantarsi di una qualche sua marachella particolarmente ben
riuscita. Gli
ricordò immediatamente la famosa civetteria di Beatrice
d’Este. “An, non lo
dubito. La reverenda madre badessa Giuliana di Collato era una monaca
benedettina, una mia antenata, fondatrice della chiesa e del monastero
di San
Biagio e Cataldo alla Giudecca. Le sue spoglie mortali, incorrotte,
riposano
tuttora lì. Prima della guerra mi piaceva recarmi a Venezia
per pregare sulla
sua tomba, adesso però …”
Il Bua fu
immensamente grato dell’annuncio dello scalco a
raggiungerlo per il pranzo, levandolo d’impaccio. Non
desiderava concludere il
discorso rammentando alla ragazza, che se i veneziani avessero saputo
del
doppiogioco dei Collalto, beata o non beata, la cara badessa Giuliana
sarebbe
finita in un qualche canale di scolo, a spregio della sua famiglia
traditrice.
Meglio dunque lasciare la contessina nei suoi sogni di dame e
cavalieri,
protetta dalle mura centenarie del suo castello e dalla
spregiudicatezza
politica dei suoi fratelli e parenti.
Finalmente
a tavola, La Palice e gli altri comandanti dovettero
dominarsi a viva forza dal commuoversi dinanzi al bendiddio offertoli,
sebbene
i Conti insistessero sulla sobrietà di quel pranzo, causa i
difficili tempi di
guerra. Contenti loro, Mercurio da tempo immemore non mangiava una
prima portata
completa di zuppa, frittura, lesso e fricandò; seguito poi
dalla seconda
portata d’arrosto tenero con la mostarda, di pasticci di
selvaggina, verdure
fresche per pulirsi la bocca, il tutto accompagnato da salse di ogni
colore e
densità. E vino, ovviamente, dai rossi duri del Friuli ai
bianchi gradevoli
delle vigne degli stessi Conti.
Masticando
voracemente una fetta di testina intinta nella salsa
verde, il greco-albanese fece cenno ad un inserviente
d’avvicinarsi. “Xélo
possibile metar da parte qualche vanzaùra (avanzo,
ndr.)?” Il giovinetto scoccò
un’occhiata inquisitrice al conte Joanne Antonio, che a sua
volta fissò confuso
il condottiero. “All’Abbazia ho due
cani”, gli spiegò garbatamente ironico,
“e
la mia cagna diventa particolarmente feroce, qualora non provvedessi a
sfamare
il suo cucciolo.”
“Oh,
avete dei cani con voi, signor Mercurio?”,
cinguettò
intrigato il tredicenne Manfredo di Collalto, uno dei tanti fratelli
minori del
conte, e di recente appassionato d’arte venatoria.
“A quale razza appartengono,
se posso chiedere?”
“Della
miglior razza veneziana, la madre; il cucciolo, mi sa
ch’è
uscito un po’ bastardo”, sogghignò
Mercurio, compiaciuto lui per primo del suo
scherzo segreto e delle facce spaesate dei commensali.
Pulendosi
a disagio gli angoli della bocca, la contessa Chiara di
Collalto di Sotto, sorella del conte Antonio e moglie di Joanne
Antonio,
ravvivò la conversazione domandando al conte Gianfrancesco
di Gambara: “Come
sta la vostra cara figlia, la contessa Veronica? Ho sentito che a
febbraio è
divenuta madre per la seconda volta.”
Il nobile
bresciano dovette ingollare qualche sorsata d’acqua,
onde riacquistare la parvenza di una voce umana. La sua faccia
rasentava invero
il cadaverico e Mercurio si chiedeva come facesse a rimanere in piedi
senza
stramazzare. Studiando accorto gli astanti dietro il bicchiere, il
greco-albanese notò un certo pallore anche sulle gote del
maresciallo La
Palice, il quale si portava il fazzoletto troppe volte alla bocca, da
non
destar sospetti. Forse l’incidente di quella mattina non era
stato così
improbabile, forse il monaco aveva avuto ragione: il malanno in qualche
modo
era riuscito dal campo ad insinuarsi nell’Abbazia e lui,
stoltamente, aveva
esposto il suo prigioniero a contrarlo, abbandonandolo in un luogo
sporco senza
adeguato vestimento e cibo.
“Magnificamente
bene, madonna contessa. Mio nipote Girolamo gode
d’eccellete salute e spero di poter visitare lui e la sua
famiglia assai
presto”, rispose vago di Gambara, tralasciando il doloroso
dettaglio confidatogli
dal genero Gilberto da Correggio, laddove lo informava di una tremenda
malattia
post-parto ch’aveva afflitto la sua dilettissima Veronica,
impedendole, una
volta guarita, di poter concepire di nuovo. Fortunatamente Gilberto non
se ne
crucciava, la discendenza assicurata da Ippolito l’anno
addietro e ora dal
piccolo Girolamo, il primogenito tenuto a battesimo dal cardinale
Ippolito
d’Este e la Marchesana Isabella d’Este, con la
quale Veronica intratteneva da
anni una fitta corrispondenza.
“La
contessa di Correggio scrive ancora quelle deliziose Frottole?”
“In
quest’ultimi difficili mesi, la poesia le rimane uno dei suoi
più grandi conforti. Dopo i figli e il marito,
ovviamente”, ammise intenerito
il conte Gianfrancesco.
“E
voi, signor Mercurio? V’intendete di poesia?”,
inquisì quasi
sottovoce Cassandra di Collalto, sedutagli accanto e che lo fissava
sognante,
neanche il condottiero fosse saltato fuori direttamente dalle pagine
dell’Orlando Innamorato.
“Sorella
cara, credo che il capitano non abbia di recente avuto
modo d’occuparsi d’arte”, la
rimbeccò dolcemente sua sorella Degnamerita,
ottenendo un imbarazzato rossore sul viso a forma di cuore della
fanciulla.
“Vostra
sorella ha ragione: non ho espugnato tre settimane fa
Castelnuovo di Quero declamando al suo castellano Boiardo o Ariosto o
chiunque
altro poeta laureato!”, a meno che non si considerassero
poesia gli
sboccatissimi insulti lanciatisi contro, roba da scommettitori ai
combattimenti
dei galli o da ubriachi alle bettole, cattiva abitudine che, neanche da
prigioniero, quella peste bubbonica di veneziano aveva intenzione
d’ammansire.
O beh, fino a qualche giorno addietro. Adesso se ne stava
così stranamente
zitto …
“E
come, allora, avete espugnato quella fortezza?”, insistette
curiosa Degnamerita di Collalto, impironando un pezzo
d’arrosto. “Nostro
fratello ci ha raccontato come il suo castellano, un tal messer Girardo
Manni,
avesse al contrario fortificato assai bene il castello. Addirittura era
riuscito a persuadere i podestà di Feltre e Belluno a
venirsi in reciproco
soccorso, in caso d’assedio.”
Mercurio
sogghignò amaro: un piano eccellente, peccato che il suo
patrizio non avesse calcolato l’immancabile traditore, che
l’aveva venduto
allegramente al nemico. “Non è mio uso descrivere
la guerra alle nobildonne,
non lo giudico un argomento adatto. Ed in ogni caso”, si
sentì in obbligo di
puntualizzare, “il castellano non è né
un tale né un Girardo Manni, si chiama
Girolamo Miani e così dev’essere ricordato. Ha
perso, ma ha perso con la spada
in mano, cosa che non di tutti si può dire
oggigiorno.”
Le due
sorelle, imbarazzate dalla schietta correzione, incassarono
stoicamente il colpo. “Ogni giorno da due anni i nostri
fratelli e cugini
parlano soltanto di guerra; voi pure siete nostri ospiti appunto per
discuterne
a riguardo. Non è un tema a noi alieno”,
provò timidamente a contro-argomentare
Cassandra, dimostrando dietro la maschera di soave pudicizia una
testarda forza
di volontà, aspetto che scaldò il cuore del
condottiero, rendendolo d’un tratto
nostalgico.
“La
guerra appare eroica soltanto nei libri, contessina. Sussiste
un motivo, per cui appartiene ai Quattro Cavalieri
dell’Apocalisse”, liquidò in
fretta il discorso, anzi, pure riempiendosi la bocca di carne e verdura
onde
ben sottolineare il concetto che la conversazione su quel tema per lui
finiva
lì.
“Dunque
perché la fate?”, mormorò piano
Cassandra, sgranando i
suoi occhioni di cerbiatta e corrugando la fronte.
“Forse
perché vogliamo finire in quei libri e di conseguenza far
sognare voi belle fanciulle”, ironizzò allegro il
Bua, bevendo un lungo sorso
di vino e tosto imitato dalle due nobildonne, i loro volti pieni
d’ilari
fossette.
“Signor
Jacopo, signor Nicolò”, s’era nel
frattanto rivolto
Teodoro Trivulzio agli altri due Collalto di Sotto, attirando
l’attenzione del
greco-albanese. “Abbiamo saputo del vostro perdono da parte
della Signoria. Non
l’avremmo immaginato possibile.” Alludeva il
comandante al ritiro del bando
d’esilio per i due nobiluomini, avvenuto il marzo scorso,
richiamandoli da
Udine e assolvendoli da ogni crimine.
“Neppure
noi l’avremmo mai creduto”, confermò
Jacopo, ché aveva
temuto in quegli istanti esser invece giunta la sua ora, spedito prima
alle
Orbe e poi in Piazzetta. “Ci consideriamo assai
fortunati.”
“Tale
misericordia è inconsueta da parte della
Signoria”, convenne
meditabondo Gianfrancesco di Gambara.
“Forse
ha percepito il fuoco dell’inferno attenderla e vuole fare
ammenda”, teorizzò Giulio Sanseverino,
“come se potesse riconquistarle il
favore di Dio.”
“Davvero
la considerate irrimediabilmente condannata?”
“Tutta
la cristianità o quasi le ha dichiarato guerra: nessuno
Stato è mai sopravvissuto a tal ondata; ciascuno dei
Collegati ha giurato di
non darle mai tregua, finché la Repubblica non
scomparirà dalla faccia della
terra!”, ribadì il fratello del Gran Scudiero di
Francia.
“Dunque
la nostra assoluzione ci ritorna doppiamente gradita!”,
commentò sollevato Nicolò di Collalto.
“Poiché non le abbiamo concesso l’ultima
soddisfazione di giustiziarci!”
“O
forse”, s’intromise Mercurio tra le risate dei
commensali,
“forse voi risultate più utili alla Signoria da
vivi che da morti”, insinuò
malizioso e il gelo scese nella sala, ognuno fissando a disagio il
proprio
piatto.
“Signor
Mercurio”, replicò freddamente cortese il conte
Antonio, venendo
i soccorso dei fratelli, “da anni viviamo sotto la
Serenissima e siamo certi di
poterne indovinare se non addirittura anticiparne i pensieri.”
Il Bua
levò il bicchiere in alto a mo’ di brindisi.
“I miei
complimenti, signor conte, per il vostro infallibile intuito e per la
vostra
approfondita conoscenza dell’anima nera della Signoria!
D’altronde, ve la siete
pure portata nel talamo nuziale”, esclamò
gioviale, tracannando in un sol sorso
il vino rimasto. “E un brindisi anche a voi, messer
Nicolò: la vostra moglie
veneziana immagino sarà stata assai contenta, di non essere
rimasta
precocemente vedova!”
Nicolò
di Collalto sbiancò fino a mimetizzarsi con la sottile
tovaglia di cotone, non attendendosi certo quel colpo basso da parte
del vendicativo
condottiero: sei anni addietro egli aveva impalmato madona Maria Zane,
figliola
di sier Bernardo, la quale non soltanto s’era rifiutata di
seguirlo in esilio
ad Udine, ma anche dopo l’assoluzione del consorte
s’ostinava a rimanere nella
casa paterna. Analogo destino era capitato a suo fratello il conte
Antonio,
accasato con madona Luzia Mozenigo di sier Lorenzo,
portatasi appresso a Venezia i tre figlioletti Bianca, Violante e Rambaldo. Infine, Nicolò da Collalto di Sopra era ufficialmente fidanzato con madona Maria Contarini di sier Marco Antonio e nulla al mondo era intenzionato a rinunciare alla ricca dote di lei, veneziana o no.
“Codesti
matrimoni li abbiamo tutti contratti prima della guerra,
in segno d’amicizia e collaborazione con la Repubblica. Il
che non significa
necessariamente cieca sottomissione da parte nostra”,
sibilò altero il conte
Antonio, rigirando nervosamente il piron tra le dita. “Non
reputo dunque
inconsueta la prudenza delle nostri mogli, se hanno preferito riparare
al
sicuro con i nostri pargoletti. Venezia rimane comunque la loro patria
e lì
nessuno le molesterà. Ignoriamo, infatti, fino a che punto
possiamo garantire
la protezione a queste terre e a chi vi abita.”
“E
da chi, sentiamo, dovete proteggerle? Dai Veneziani o da
noialtri?”, lo stuzzicò Mercurio, guadagnandosi
feroci occhiatacce da parte del
Trivulzio, Pallavicino e Sanseverino.
Ignorando
la stoccata e tuttavia ansioso di cambiar velocemente
discorso così d’evitare un litigio a tavola, il
conte Joanne Antonio riprese la
conversazione interrotta con La Palice: “Sapevamo della
riconquista di
Castelfranco e della scarsità di rifornimenti;
ciononostante, non comprendiamo
il motivo per il quale adombrate ad una nostra mancanza di
solidarietà. Noi vi
abbiamo sempre e sollecitamente inviato i viveri richiesti, anzi,
giusto
stamane abbiamo aggregato dei nostri carri a quelli provenienti da
Sacile e
Spilimbergo.”
“Monseigneur
le Comte”, lo tranquillizzò La Palice,
“noi non
v’accusiamo di niente. Appunto perché sappiamo
della vostra fedeltà alla Lega,
che volevamo il vostro permesso ed aiuto per stanare dei fastidiosi
sabotatori.”
“Sabotatori?”,
ripeté incredulo Jacopo di Collalto. “Nelle nostre
terre?”
“Le
truppe veneziane non possono transitare nella contea senza il
nostro consenso! La Signoria può possedere metodi
discutibili, tuttavia non ha
mai mancato ai patti!”, protestò incredulo il
ventiduenne Sartorio di Collalto
di Sopra. “Diteglielo, fratello!”, si rivolse a
Joanne Antonio, che annuì
lentamente col capo e Mercurio ben si figurava quali ragionamenti gli
tamburellassero nel cervello: se la Signoria avesse scoperto del
tradimento dei
Collalto di Sopra e di Sotto, non avrebbe avuto alcuna remora di
rimangiarsi
ogni accordo e di trattarli alla stregua dei ribelli, confiscando ogni
loro
bene e spedendoli uno ad uno dal boia tra le colonne di San Marco e San
Todero.
“Sospettiamo,
nel bosco del Montello e anche nella vostra contea,
nascondersi dei contadini ribelli, i veri responsabili degli
agguati”, delucidò
brevemente la situazione La Palice. “Di conseguenza, vorremmo
per cortesia il
vostro beneplacito nel perseguirli, qualora venissero catturati nelle
vostre
terre, o d’indicarci la geomorfologia del Montello
così da poterli affrontare e
punire. Già stamane abbiamo inviato 300 uomini in
esplorazione, in attesa della
loro relazione a riguardo.”
Il conte
Joanne Antonio strinse la bocca in una linea dura. “I
miei contadini non oserebbero mai compiere tali azioni: io li proteggo,
loro mi
devono obbedienza. Sanno fin troppo bene, che se colti in flagrante non
verrebbero giudicati dalla legge veneziana bensì dagli
Statuta Collalti e …”
“…
e non gliene importa un gigantesco fico secco!”, concluse
lapidario Mercurio, ammutolendo nuovamente la tavolata, ma stavolta il
tono del
condottiero aveva perduto ogni ironia e frivolezza, assumendo il tono
serio di
comando nei consigli di guerra. “Indovinate cosa si nettano i
villani coi
vostri statuti? Non sottovalutateli, signor Conte, non commettete il
medesimo
errore dei vostri altezzosi pari! Questi non sono dei disorganizzati
bifolchi
senza cervello, bensì squadre di partigiani pronti a morire
per un ideale,
ossia rimanere a qualunque costo sotto San Marco. Siete voi tutti
Collalto
degli uomini d’arme, nevvero? E allora onorate questi
combattenti con la
medesima cura e serietà, che riservereste ad un esercito
nemico!”
“Se
aveste evitato di costruire quel ponte di barche per
attraversare la burrascosa Piave, forse i vostri soldati non avrebbero
razziato
le campagne circostanti e i miei contadini non si sarebbero
ribellati”, non
gliela volle dar vinta il conte di Collalto di Sopra, scaldandosi.
“Ho ricevuto
notizie molto sgradevoli dal Priore della Certosa di San Girolamo, sul
pessimo
trattamento riservato ai monaci, sulle continue ruberie! Poi, ci
giungono
missive dall’Abate invece di Sant’Eustachio,
laddove, oltre alle prepotenze cui
sottoponete i monaci, mi si narra addirittura di un vero e proprio
assalto
notturno, con tanto di morti e danni ingenti ad un edificio sotto la
mia
protezione, che m’avevate giurato di non coinvolgere in
alcuno scontro
diretto!”
“In
guerra, signor Conte, non esistono né Dio né
Madonne né
Santi”, non si lasciò invece commuovere Mercurio.
“Nessun luogo è reputato
abbastanza sacro da non venir scelto come campo di battaglia,
accampamento o fonte
di bottino. A volte mi domando sul serio se voi …”
“…
abbiate mai considerato questo piccolo dettaglio”, intervenne
speditamente La Palice, chetando il suo sottoposto. “Ossia
che noi, al nostro
meglio, ci siamo in ogni occasione premurati di trattare con cortesia i
monaci
benedettini e di rispettare i loro usi e costumi, comportandoci in
maniera
quanto più discreta possibile. Così io ho voluto
e comandato. Purtroppo, i
soldati tedeschi hanno invece preferito agire di testa propria, spinti
dall’invidia e dalla loro proverbiale avidità. Non
paghi, sprezzanti di ogni
impegno preso e dell’onore militare, se la sono infine data
oltre Piave,
malgrado le mie innegoziabili ordinanze!”
“Per
davvero si sono comportati così?”
“Madame
la Comtesse”, si pose il maresciallo una mano sul cuore,
puntando gli occhi azzurri sul viso preoccupato della giovane Chiara di
Collalto. “L’onore e la cavalleria
m’impongono schiettezza sia nei confronti
dei miei alleati che del nemico. Non vi nasconderò niente:
nutro una profonda sfiducia
ne les Allemands e sulla loro costanza in quest’impresa di
Trévise.”
“L’Imperatore
ha assicurato …”
“…
molte cose, ma finora a nessuna delle sue tante promesse ha
adempiuto. Alla fine, quelli inguaiati in questo stallo siamo noi, non
i
tedeschi. Avevamo ricevuto ordini chiari dall’Empereur,
d’attenderlo qui senza
guadare per nessun motivo la Piave, ed ecco che i suoi soldati al
contrario
l’attraversano impunemente, occupando città dopo
città, facendo rifornimenti e
bottino, mentre noi costretti qui a rimanere senza né viveri
né la certezza di
non finir tagliati a pezzi da les Vénitiens. Je vous demande
pardon, mesdames”,
si scusò immediatamente il francese, conscio
d’aver usato termini troppo
macabri per le sensibili orecchie delle nobildonne.
“Quindi
voi dubitate che l’Imperatore scenda in campo?”,
domandò il
conte Antonio, scoccando una celere e apprensiva occhiata ai fratelli.
La Palice
annuì gravemente. “Da settimane
l’Empereur se ne sta
accampato a Bolzane a brigare diossacché. Il nostro legato
ci ha riferito come
neppure abbia pronto un esercito! Il suo atteggiamento corrisponde ad
un
insulto a Notre Sire le Roi, che tanta fiducia ha riposto in lui, per
venir
invece ripagato con ingratitudine e codardia!”
“Capisco
siate confusi …”, mormorò Joanne
Antonio. “Probabilmente
l’Imperatore vuole assicurarsi il ritorno delle truppe
imperiali dalla Patria
del Friuli e forse giudica queste terre ancora troppo pericolose per
arrischiare di …”
“Monseigneur
le Comte”, lo interruppe seccamente il maresciallo.
“Noi per allora potremmo già esser stati
massacrati dal nemico. Ho inviato una
missiva all’Empereur per sollecitarlo, l’ennesima,
ed una ai capitani tedeschi
nella Patrie du Frioul, in cui li comando di
tornare indietro
entro la fine del mese, o si troveranno stavolta loro da
soli
a fronteggiare i Vénitiens. Questo è il mio
ultimatum: se les Allemands non si
ricongiungeranno a noi entro la scadenza prestabilita,
quest’impresa di Trévise
non soltanto non si farà, ma sarà mia premura
sollecita di informare
personalmente le Roi sulla mancata fede dell’Empereur. Dieu
giudicherà e
s’occuperà del resto.”
A seguito
di questo severo discorso ed irremovibile decisione,
ciascuno dei commensali - dai Collalto agli stessi comandanti
francesi ed
italiani - si chiese se avesse in effetti commesso
un grave sbaglio,
avendo infatti puntato ogni sua fortuna e speranza su quel cavallo
sbagliato di
Maximilian I. von Habsburg.
Nel
frattanto che il banchetto procedeva verso il dolce e il suo
termine, lo scalco scendeva nelle cucine onde controllare i tempi
d’attesa per
la spongada. Ricevuta la precisa conferma dal cuoco, l’uomo
allora inviò alcuni
garzoni cogli avanzi del pranzo da portare agli scudieri rimasti a
guardia dei
cavalli nonché i soldati di scorta. Rammentò
severo e puntiglioso ai giovanotti
di farsi seguire dai francesi in foresteria e ivi di lasciarli
consumare
tranquillamente il pasto riparati dalla pioggia e questo senza mai
perderli di
vista, che per nulla al mondo gironzolassero nel cortile interno del
castello.
Dopodiché,
congedati i garzoni, i servitori rimasti chiusero a
chiave la porta principale della cucina e lo scalco aprì
invece una più
piccina, di servizio, quella dove i contadini portavano la carne, le
verdure e
la frutta per i loro signori.
Due
figure vestite di stracci, in apparenza medicanti, non esitarono
a scivolare dentro lesti e circospetti, stringendo vigorosamente la
mano al
maestro di casa e sedendosi accanto al caminetto su suo invito.
Prontamente li
venne offerto da mangiare una fetta d’arrosto e da bere un
bicchiere di buon
vino rosso, onde rifocillarsi oltre che ad asciugarsi.
“Bone
Jesu, che pioza, zò!”, esclamò allegro
il giovane Vio,
intingendo un pezzo di pane nel sugo della carne. “Mi credea
deboto de negar en
la Piave, co la ghemo traversà!” e appoggiato il
piatto vuoto per terra, pur continuando
a ruminare, allungò le mani sul vivace fuoco, sfregando loro
e le braccia
intorpidite dal freddo. “Uhm, i ghe magna ben,
lorssignorie!”, biascicò a bocca
piena.
“An,
savestu!”, ridacchiò una fantesca, riempiendogli
nuovamente
il piatto. “Per dasseno aveu traversà la Piave cum
sta pioza?”
“Mare
de diana! Roba da far sbiancar quei cancari de Rolando,
Rinaldo e Ruzier e le lhoro siore mari!”, esclamò
Bernardin, il fratello
maggiore di Vio, battendosi a mo’ di vanto il petto.
“Ringrassiemo perhò el sior
Mercurio Bua et el sòo ponte de barche!”, gli
concesse un po’ più modesto.
“Sença d’elo, no saremo no riussiti a
vegnir qua!”
“Amen!”,
risposero solennemente in coro il maestro di casa e i
servitori, ridendo poi ilari alla battuta.
“Donca”,
terminò di bere Bernardin il suo vino, nettandosi la
bocca col dorso della mano. “Quae bone nove gh’aveu
da contar a la Signoria?”
Gli occhi
dello scalco s’illuminarono di perversa gioia e
così
anche quelli dell’intera servitù, mentre
ripetevano per filo e per segno alle
due spie veneziane quanto visto e udito durante il banchetto nel
castello di
San Salvatore.
***
Di
Trevixo, dil provedador sier Zuam Paulo Gradenigo.
Uno
compagno del cuogo de monsignor de la Paliza, questa matina
preso et per stratioti menato de qui, è stà
examinato, dice, che monsignor de
la Paliza era passato la Piave per andar a disnar con li conti da
Colalto, e
francesi alozano soto Narvesa, sopra la Piave, e la persona di
monsignor di la
Paliza aloza ne la Badia, e che sono lanze 1200 de conduta, ma in
effeto da
zercha 1000; li capi sono questi, videlicet:
Monsignor
da la Paliza: lanze 50
Monsignor
de Boisi: lanze 50
Missier
Rubert de la Massa: lanze 50
Monsignor
de Stasom: lanze 50
El gran
scuodier: lanze 100
Monsignor
de Frontaglia: lanze 50
El conte
Zuam Francesco da Gambara: lanze 50
El
capetanio de Borgognon: lanze 100
Numero
lanze: 500
[…]Dice
che fanno preparamenti di vituarie, et alcuni dicono che
voglino venir a questa impresa, e alcuni dicono che sono per andar a la
volta
de padoana e andar a la sua via. Afferma, li todeschi volevano far
questa volta
per a brusar el tutto, et che monsignor de la Paliza diceva, non voler
acompagnarli per abrusar, perchè tornando un’altra
volta non troveriano cossa
alcuna, et che sono stati 3 zorni senza pan, et che un pan valea 4
marcheti, et
qualche volta non se haveria trovato pur un pan chi havesse voluto
pagarlo un
ducato, ma che heri sera furon portati molti cari de pan in campo,
mandato da
le parte de là de la Piave.
Item,
dimandato come l’era stà preso, dice, che tutti li
sacomani
del campo eran venuti a questa volta con una scorta de 300 homeni
d’arme per
cerchar strami, vini et biave, che pur ne atrovavano, perchè
villani non
haveano voluto condur le robe sue dentro, ma le hanno ascose, et sono
da’
nemici trovate, et che non heri l’altro monsignor de la
Paliza ha scrito al re
di Franza et a l’imperador, et per questo crede, per la
dimora che fano, che
l’haspetta la risposta.
Di
Trevixo, di sier Lunardo Zustignan
[…]
Item, per nostri è stà preso alcuni da i qual
pocho si à
potuto cavar, salvo da un garzon che dize, l’altro zorno si
trovò a Colalto i
francesi con li signori di Colalto, e che si consigliavano quello
havesse a
far, chè vedea todeschi averli soiati, dicendo, voler far
pur assai cosse, e li
havea conduti fino lì, e hora se ne stevano di là
di la Piave, e lhoro francesi
di qua, e dubitavano che, come dicesse a’ todeschi de
ritornar adrieto, che
lhoro non li vegneria in compagnia, ma anderiano a caxa sua, e lhoro
stariano
in le petole, e che stevano in gran pericolo de esser taiati a pezi, et
erano
mezi confusi.
[…]
Item hanno, etiam el conte Zuam Francesco da Gambara esser
andato in gran pressa, con 50 cavali, per la via di Seravale, e va in
Val
Sugana e a la volta di brexana; non si sa la causa.
***
Quella
mattina, svegliandosi con la nebbia fitta e la fastidiosa
pioggerellina a bagnarli il viso più di vapore che
d’acqua, la squadra al
comando di Mercurio Bua s’era domandata se davvero fosse il
caso di proseguire
nel loro piano, attaccando di sorpresa i contadini nascostisi nel bosco
del
Montello. Vero che il loro capitano s’era prodigato il giorno
precedente
d’insegnarli come muoversi a colpo sicuro in
quell’impenetrabile bosco dal
terreno irregolarissimo – cortesia delle cartine e
indicazioni dei Conti di
Collalto - ripetendo all’infinito e rassicurandoli sulle
modalità d’attacco,
tuttavia il cuore dei soldati ancora tentennava, troppo provato
dall’ansia
delle brutali imboscate subite per mano di quei villani ribelli. La
nebbia non
aiutava, semmai acuiva i loro timori, non giudicandosi abili a
sufficienza per
districarsi in quell’infido bosco e scampare ai loro tremendi
abitanti.
Oramai i
soldati consideravano i contadini del Montello alla
stregua di spiriti malevoli, inafferrabili e immortali, pronti ad
assumere la
forma degli imponenti alberi per poi balzare fuori
all’improvviso e assalirli.
Oppure li immaginavano trasformarsi in animali e costì
cacciare, affamati e
feroci, di notte come di giorno, trasalendo al bubulare della civetta,
che li
ricordava l’urlo di una donna uccisa e pertanto foriero di
sventura.
Mercurio,
dal canto suo, non condivideva tali insensate
superstizioni da balia, semmai a sentir tale lagne da parte dei suoi
stradioti,
dei lancieri del Sanseverino e perfino dei gendarmi, perse l’ultimo
granello di pazienza e li
apostrofò sprezzante:
“Se
vi cagate in mano dinanzi a quattro villani, cosa farete sotto
le mura di Treviso? V’inginocchierete e succhiandovi il
pollice, invocherete
piangendo la vostra mamma?”
Personalmente,
il greco-albanese era snervato da quella
situazione: già ritornando dal pranzo da San Salvatore,
l’ignobile spettacolo
delle truppe intente a sgavazzare e a compiere scorrerie nei villaggi
limitrofi, nelle chiese e negli stessi monasteri l’aveva
assai disgustato,
ancor più apprendendo come alcuni soldati fossero riusciti a
disertare
tranquillamente. Inutile aggiungere quanto il condottiero avesse
desiderato
pigliarli a sberle uno dopo l’altro; qualcuno della sua
compagnia pure le
ricevette.
A
peggiorare la situazione, dei trecento uomini inviati a far
provviste e a scortare i carri provenienti dai Collalto e dalla Patria
del
Friuli ne erano ritornati la metà, in camicia e mutande e
ovviamente senza né
rifornimenti né cavalli. Dulcis in fundo, il suo prigioniero
manco gli aveva
rivolto una sola parola, destandosi dal suo profondo sonno
d’ammalato giusto
per mangiare gli avanzi portatigli e, ringraziatolo distrattamente, se
n’era
ritornato a dormire incurante degli appelli del Bua a rimanere desto.
Tempo addietro
avrebbe ringraziato San Giorgio e tutta la sua legione per quel
mutismo, invece
ora la cosa lo inquietava, non presagendo nulla di buono
dall’improvvisa apatia
del veneziano. In ogni modo, aveva posto due sue sottoposti a guardia
dell’infermeria, per sicurezza.
“Maurikos,
non essere così duro nei loro confronti: a furia di
prenderle dai villani, hanno imparato a temerli”,
tentò Leka Busicchio di
spiegare al collega il motivo di tanta agitazione nella compagnia.
“Questa
nebbia poi non aiuta, credono l’abbiano evocata loro,
così come gli spiriti
dagli abissi più profondi del bosco …”
“Che!
Questo lo so fare anch’io e lo saprebbe fare
chiunque”,
replicò scettico Mercurio, stringendo le redini onde calmare
il suo impaziente
destriero turchesco. “Ma verranno poi, questi spiriti, quando
i contadini li
avranno invocati? L’unico modo per comandare il diavolo
è fronteggiarlo e
vedrete che non morderà né farà
più spavento. Oggi questi fifoni temono i
villani, ma vedrai che stasera, ebbri del loro sangue, si scorderanno
di ogni
paura previamente nutrita verso costoro.”
Azione o
paralisi, reagire o subire. Il condottiero non aveva mai
esitato sulla sua linea di condotta e s’augurò
d’aver ben inculcato tale
determinazione anche nei suoi uomini, quando, prima d’uscire
da Nervesa per
addentrarsi nel bosco del Montello, li aveva domandato se volevano dare
soddisfazione ai tedeschi, quando quest’ultimi li
ingiuriavano appellandoli
pavidi conigli.
“Li
dimostreremo che ci sappiamo difendere, che sappiamo farci
temere e che non abbiamo bisogno di loro per quest’impresa di
Treviso!”, aveva
concluso, nella speranza di riuscire effettivamente nel suo piano: come
delineato a La Palice, una volta appreso della posizione di forza dei
francesi,
i tedeschi avrebbero incominciato a sudare freddo, paventando della
vittoria
degli alleati senza il loro supporto e conseguente esclusione dal
bottino. In
questo modo, presi per la gola, sarebbero ritornati prontamente a
Nervesa.
Zanze, la
sua sorellina Zuaneta e poco distante da loro l’amica
Lussìa stavano terminando di raccogliere gli ultimi rami
secchi, riempiendo le
rispettive gerle, le orecchie ben tese in ascolto di rumori sospetti:
avevano
approfittato della nebbia per uscire e far legna, portando
l’avanzante autunno
sempre più freddo e umidità che rendeva la
permanenza nelle grotte poco
piacevole e pericolosa, quando la luce sarebbe diminuita e il freddo
avrebbe
attirato alcuni predatori in cerca di facile preda.
“Nana”,
chiamò la contadina la minore, “par
ancuò, ghemo finio.
Tornemo indrio, finché ghe xé sto caigo (nebbia,
ndr.)!” Lussìa già le aveva
anticipate, complice il pancione che le dava non poco fastidio alla
schiena,
rallentandola nei lavori.
La
ragazzina annuì, infilando le bretelle della gerla e
avviandosi
verso il campo, sennonché un sordo rimbombo e il lieve
tremore del terreno la
gelò sul posto, similmente a sua sorella che si
girò di scatto dietro di sé,
osservando il latteo velo quasi potesse intuire quale orrido mostro vi
si
celasse dietro.
“Corate!”,
gridò Zanze non appena le sue orecchie isolarono il
nitrito dei cavalli e i loro zoccoli battere pesanti al galoppo e il
sinistro
scricchiolio delle armature. “Lassa star ea gerla e
corate!”, spinse via la
giovinetta che obbedì immediatamente, arrampicandosi sul
terreno in salita, in
direzione però opposta del campo. “Nana!
Nana!”, tentò d’avvertirla la giovane
contadina, ma sua sorella ormai era stata inghiottita dalla nebbia e
pure lei
non capiva più in quale direzione stesse correndo
esattamente, l’unica sua
certezza erano i nemici alle sue calcagna.
All’improvviso,
una mano sbucata dalla nebbia la ghermì per lo
scialle e lei si sentì tirare all’indietro;
disperata, Zanze anguillò via in
una serie di buffe piroette, rinunciando al capo
d’abbigliamento e riprendendo
a scattare via veloce. Allora il soldato si sbilanciò in
avanti e l’afferrò per
la vita, sollevandola di peso malgrado lei si dimenasse impazzita e
scalciasse
e menasse pugni e schiaffi contro quell’altro che se la
rideva divertito.
L’uomo se la caricò in sella e tirò le
redini per ricongiungersi al suo gruppo,
sennonché Zanze torse il busto e gli morse
l’orecchio con tutta la forza
posseduta dai suoi denti, staccandoglielo e sputandolo per poi passare
l’altro.
Tremando accecato dal dolore, il soldato perse il controllo del cavallo
che a
sua volta si spaventò, cavalcando alla cieca e imboccando un
dislivello. La
bestia v’inciampò, perse l’equilibrio e
gli si ruppe il garretto e la gamba
anteriore cedette, rotolando essa e il suo cavaliere giù
fino alla morte, le
ossa fratturate al primo impatto contro il solido tronco d’un
rovere, mentre la
contadina si limitò a ruzzolare seppur dolorosamente, avendo
posseduto
sufficienze prontezza di spirito di gettarsi dalla cavalcatura prima
della
caduta.
Alzandosi
non senza notevoli difficoltà, Zanze riprese zoppicando
a correre, stringendo i denti insanguinati onde soffocare il dolore al
corpo,
ma una scudisciata improvvisa la gettò a terra, giunti gli
altri compagni del
soldato indirettamente da lei ucciso. Ostinata si rimise in piedi e ne
ricevette un’altra e poi un’altra ancora, credette
volessero assassinarla a
furia di frustate e forse non era disprezzabile come fine, almanco le
avrebbero
risparmiato una sorte ben più vergognosa.
La
ragazza strisciò sul terreno fangoso ricoperto di foglie, i
polmoni pieni dell’acre odore dell’humus mischiato
al suo sangue, premendo
sulle ginocchia e sui gomiti e artigliando qualsiasi cosa le servisse a
mo’ di
leva per proseguire. Ángele Dei, qui
custos es mei, me, tibi commissum
pietáte supérna, illúmina,
custódi, rege et gubérna. Amen!,
pregava
ferventemente, supplicando in un mantra ossessivo il suo Angelo Custode
di
pigliarsi la sua anima e di portarla al cospetto di Dio, prima che i
soldati si
prendessero il suo corpo.
Arrivò
infine il buio e Zanze non seppe se si trattasse della
morte o di uno scherzo del diavolo atto a tormentarla. In ogni modo,
ante
d’abbandonarvisi, la ragazza si puntellò sui
gomiti e cacciò fuori un urlo
spaventoso, neppure i dannati più abietti sguazzanti nei
recessi più orridi
dell’inferno potevano emularlo: se a lei non era concesso
salvarsi almeno lo
fosse ai suoi compagni, lanciandoli quell’avvertimento
angosciato, l’ultimo suo
contributo alla loro lotta per la fede in San Marco.
L’eco
di quel grido inumano fischiò nelle orecchie di
Lussìa,
riuscita malgrado il ventre gonfio a correre fino al loro nascondiglio
e dando
esagitata il tardivo allarme; appena ebbe il tempo di raggiungere il
suo uomo,
che le sagome degli stradioti, lancieri e gendarmi francesi si
stagliarono nere
e compatte, ai loro occhi una schiera di demoni sputati dalle viscere
della
terra.
“Toga
el tròzo (sentiero, ndr.) pel Trevixo, nuj li
trategnéremo
finché podemo!”, spingeva Berto la sua compagna in
direzione di una viuzzia
nascosta tra le piccole rocce carsiche, là dove altre donne
e bambini stavano
correndo.
“No,
ti va morir!”, singhiozzò Lussìa,
abbracciandolo forte. “Se
te mori, moro anca mi!”
Il
giovane contadino la strattonò via.
“No!”, gridò perentorio.
“Ti te va vivar: par mi, par nuostro fio; ti fasse tuto el
possibile per farlo
nassere e cressare! Zuramelo!”
La
ragazza si portò di riflesso le mani al grembo pieno,
stranamente tranquillo quasi il bimbo comprendesse la
gravità della situazione.
“T’eo zuro”,
s’asciugò le lacrime col dorso della mano,
baciando infelice Berto
più a lungo che le venne concesso.
“Corate,
lesta!”, si staccò da lei il suo compagno,
affrettandosi
nella direzione opposta, la picca in mano.
Pur
agguerriti e pieni di buona volontà, nulla poterono i
contadini in uno scontro diretto coi soldati francesi, agevolati
dall’effetto
sorpresa e dai loro cavalli che con facilità disperdevano i
già disorganizzati
villani, impedendo loro di formare un quadrilatero compatto di picche.
Simili
ai fanciulli che corrono dietro alle oche in cortile per torcerle il
collo,
così gli stradioti rincorrevano i contadini, sciabolandoli
con le scimitarre o
infilzandoli con le loro zagaglie, impennando i loro corsieri
acciocché questi
li colpissero al petto cogli zoccoli, per poi trafiggerli
più volte fino a
sventrarli.
Alcuni
villani più audaci avevano imbracciato i loro archi
raffazzonati e colpito i cavalleggeri meno coperti
dall’armatura, se non
uccidendoli perlomeno colpendoli strategicamente in modo da
disarcionarli o per
le ferite subite o perché uccisa direttamente la
cavalcatura. Ugual trattamento
lo riserbò chi, come Berto, puntava contro le bestie le
punte acuminate delle
picche o addirittura qualche torcia, spaventandole e imbizzarendole.
Stae, un
compare del contadino, con la falce ferì fin quasi ad
amputare le gambe di un
cavallo; la bestia nitrì agonizzante e cadde sul fianco,
trascinando seco lo
stradiota che prontamente venne ucciso dai due uomini.
Un
profondo ululato seguito da latrati e urla di sorpresa e di
dolore attirò l’attenzione di Berto e il cuore gli
scese nello stomaco,
realizzando la comparsa di una piccola muta di cani, i quali
sguinzagliati dai
francesi davano man forte ai loro padroni. Calciando via
l’avversario
abbattuto, il contadino strinse la picca e affrontò il
prossimo, evitando d’un
pelo l’affondo della sua spada, per infilzarlo alla gola. Un
altro lo impirò
all’inguine e un ultimo alla coscia. Aveva appena staccato la
punta dalla carne
di un saccomanno ruzzolato ai suoi piedi, che una figura scura gli
balzò contro
di peso e un dolore indescrivibile gli artigliò il braccio
viaggiando fino al
cervello.
Berto
gridò come mai aveva fatto in vita sua, la carne martoriata
dai denti del cane, il quale ringhiando strattonava, affondava i denti
giallastri nel sangue zampillante misto alla sua saliva, affatto
desideroso di
mollare la preda. Un altro di questo azzannò il contadino al
fianco e questi
cadde per terra, tremando d’acutissimo dolore e soffocato dal
vomito, invocando
la morte che però si presentò curiosamente nei
panni del suo amico Stae. Il
primo cane si ribellò alla presa alla gola da parte
dell’uomo, cercando di
morderlo ma questi, estraendo un pugnale dalla cintura, lo
sgozzò come i porci
a San Giovanni mentre al secondo cane si limitò di
piantargli la lama nelle
viscere, ammazzandolo tra i patetici guaiti della bestia.
“Berto!
Berto!”, chiamò Stae lo semisvenuto compagno,
afferrandolo
per il braccio sano e issandolo su onde nascondersi dietro un luogo
riparato.
Berto aprì la bocca, gorgogliando sangue e schiuma,
sforzandosi con ogni fibra
del suo essere d’avvertirlo nella sagoma dietro di lui, la
quale levò in aria
la scimitarra e la calò in un rapidissimo sibilo
sull’amico, in un sinistro
scricchiolio dell’ossa craniche.
Sangue e
cervella imbrattarono il contadino, trascinato per terra
dal corpo del compagno ucciso e scosso dagli ultimi spasimi, la faccia
deformata in una maschera grottesca, gli occhi improvvisamente strabici
che lo
fissavano vacui e torbidi. Anche Berto avrebbe seguito Stae
nell’Aldilà, n’era
conscio, però ai suoi termini: afferrato il pugnale dalla
mano ancora calda
dell’amico, facendo appello alle ultime forze il giovane
contadino si scagliò
contro Mercuria Bua, il quale, senza neppure battere ciglio
né scomporsi, lo
colpì di traverso per il collo, lasciandogli la testa a
malapena attaccata.
Appurata
la morte di quel pazzo temerario, il condottiero si
guardò velocemente attorno, analizzando la situazione e
giudicandola a loro
vantaggio - oramai in pochi erano sopravvissuti al
violento scontro
- urlò alla sua compagnia: “Setacciate le grotte!
Prendete ogni loro bestia,
ogni provvista! Spogliate i cadaveri di ogni loro bene! Uccidete chi
non
s’arrende e fate prigioniero chiunque lo faccia! Tutto
ciò ch’apparteneva a
questi ribelli è vostro, le loro donne comprese!”,
li comandò, mulinando in
alto la scimitarra a mo’ d’incoraggiamento.
Più
in là, in direzione dell’agognato limite del
bosco, un'ansante
Zuaneta galoppava aiutata dalla rapidità figlia della
disperazione,
incespicando di tanto in tanto e rimettendosi in fretta in piedi, il
corpicino
suo di dodicenne ridotto ad un Ecce Homo di tagli e graffi.
Un
singulto le scosse il petto nel captare l’ululato dei cani, i
quali stavano avvertendo i padroni della preda fiutata e pronta alla
cattura.
La ragazzina accelerò fin quanto le gambe glielo permisero,
ma già sentiva le
forze abbandonarla e, ultima spes, decise quindi di tentare il tutto
per tutto.
Giunta ai piedi di una farnia, s’aggrappò alla
ruvida corteccia, allungando il
braccio verso il primo ramo e pian pianino s’issò
su di esso. Puntò il piede e
si spinse a quello sopra e via così salì fino a
nascondersi tra le fronde.
Zuaneta s’appiattì al centro della farnia,
tremando tutta da capo a piedi,
tappandosi la bocca e imponendosi di trasformarsi in un silenzioso
topolino e
pregando che non la trovassero.
L’abbaiare
festante dei cani ruppe questa sua speranza, così come
i loro balzi e il continuo e inquieto graffiare sul tronco. Lo
scalpiccio di
zoccoli confermò i suoi peggiori timori e gli schiamazzi
divertiti dei lancieri
non tardarono a riverberare nell’aria, ferendola peggio di
una frustata.
Cosa
dicessero, lo ignorava. Tuttavia ben vedeva il modo in cui
uno di loro sventolava beffardo la sua vesticciola, strappatale di
dosso quando
l’altro suo compare pensava d’averla atterrata e
invece n’erano rimasto
gabbato, ché Zuaneta era sì stata allevata nella
pudicizia, ma scaltra
abbastanza da afferrare in caso di necessità i coglioni di
un uomo e
torcerglieli e stringerglieli al punto da farlo urlare, come
insegnatole da sua
sorella Zanze. Sgusciando via dal dolorante soldato, la fanciulla aveva
ripreso
la sua fuga, nuda come il giorno in cui uscì da sua madre e
forse ciò aveva
infoiato i compagni del demascolinizzato, chissà. Certamente
aveva fornito una
traccia ai cani.
L’albero
tremò, seguito da colpi di ferro, divertendosi infatti i lancieri e
gendarmi a fingere d’abbattere la farnia, tra risa, fischi e
lerce promesse su
ciò che le avrebbero fatto una volta avutala tra le mani. I
cani, nel
frattanto, saltavano sempre più in alto, ringhiando rabbiosi.
Zuaneta
guardò il gruppetto di soldati, i cani e poi il vuoto
sotto di sé. Era alto a sufficienza? Se si fosse lasciata
cadere di schiena,
avrebbe sbattuto la testa abbastanza da morire sul colpo? Domine Iddio
l’avrebbe perdonata per quel suo gesto? Lui leggeva il suo
cuore, leggeva la
sua paura, avrebbe avuto di lei pietà?
La
dodicenne s’erse in piedi, dondolando in precario equilibrio
sul ramo che già scricchiolava sotto il suo peso. Fece
lentamente tre volte il
segno della Croce, confessò al Padreterno i suoi peccati, e
s’apprestò a porre
fine a quell’immeritata sofferenza.
Quand’ecco,
una voce virile dalla calata della sua gente, le
ridiede speranza.
“Voltati,
figlio di puttana e prenditela con un uomo!”
Per
aiutarla ad addormentarsi alla sera, sua sorella Zanze le
raccontava le vite dei Santi e spesso Zuaneta sognava
d’essere la principessa
salvata da San Giorgio. Ed eccolo là, neanche fosse sceso di
persona dal Cielo,
galoppare sul suo destriero bianco latte incontro al drago antropomorfo
che l’insidiava,
la zagaglia abbassata in attacco pronta a colpire.
Il
cavaliere si scagliò ferocemente gagliardo contro il
gendarme,
colto quest’ultimo alla sprovvista: abile, egli aveva
approfittato della
visiera alzata del francese per colpirlo dritto in faccia, in mezzo
agli occhi
senza neppure concedergli il tempo di chieder perdono dei propri
peccati. Voltò
il cavallo e si preparò a fronteggiare gli altri, mentre i
suoi compagni
s’aggregavano a lui, dando battaglia senza concedere alcuna
via di scampo. Uno di
questi cavalleggeri infilzò a guisa di cinghiale i cani, i
quali s’accasciarono
in un sordo tonfo ai piedi della farnia.
Finalmente
calò il sospirato silenzio.
“Desmonta
de là! Vien zoso, putela, semo zente in fede de Sen
Marco!”, si portò sotto il cavaliere, scendendo da
cavallo e sbirciando tra i
rami. Si tolse l’elmo, liberando un’arruffata
zazzera scura e due occhi
nerissimi, incastonati in un viso addolcito da un’espressione
cortese e
rassicurante. “Non temere: non ti farò alcun male.
A casa, a Veniexia, ho
moglie e tre bambini più piccoli di te”, le
raccontò onde metterla a proprio
agio e darle confidenza.
Tirando
su col naso, Zuaneta si sporse tra il sospettoso e
l’incuriosito, chiedendo con una vocina tremula:
“Chome se ciameli?”
Il
cavaliere le sorrise teneramente. “Zanzi, Ina e Scipio. Il
primo
ha sette anni, la seconda sei e il terzo è ancora in
culla.”
“Zanzi
per Anzolo?”
“Sì.”
“Anca
la mia sorea la se ciama Anzola, ma tutti ea ciaman Zanze.”
“Che
bello! Tu invece?”
“Mi
Zuanna o Zuaneta. O Nana, perhò solo la Zanze la me pol
ciamar
cussì!”
“D’accordo,
mi riferirò a te come Zuaneta. Ma adesso, splendore,
scendi giù da lì, così ti posso
aiutare a ritrovare la sua sorella Zanze!”, le
promise il cavaliere, stendendo incoraggiante le braccia verso di lei.
Che Iddio
gliela mandasse buona, la ragazzina scese cautamente,
ponendo attenzione a non scivolare né a posizionare il piede
su di un ramo marcio
o rotto. Balzò giù dall’ultimo ramo (o
primo a seconda dei punti di vista),
atterrando esattamente davanti al cavaliere, il quale
s’inginocchiò, si sciolse
immediatamente il nodo al mantello e lo usò per coprirla,
abbracciandola di
rimando quando Zuaneta gli cinse il collo, scoppiando in un pianto
isterico e
sconquassante.
“Brava
… sei stata bravissima … più
coraggiosa di una leonessa … è
finita, sei in salvo, sei al sicuro … ssshh, è
finita …”, le accarezzava la
schiena Marco Miani, consolandola intanto che la contadinella si
sfogava in
quei singulti liberatori, battendogli sul corsaletto i pugnetti dai
palmi
spellati dalle infinite cadute per terra. Non gli diede fastidio
l’umidità
crescente al collo, irrorato delle grasse lacrime della fanciulla
né il pungente
odore di urina che la permeava per ovvi motivi. “Quanto te la
senti ti parlare,
raccontami tutto. Di tua sorella, da dove vieni,
cos’è successo alla tua gente.”
Zuaneta
sciolse la sua presa, stropicciandosi gli occhi.
“Siorsì”,
annuì e al meglio delle sue capacità gli
riassunse quanto accaduto, di come
quella mattina lei, sua sorella Zanze e Lussìa fossero
andate a raccogliere
legna, dell’arrivo dei francesi, della forsennata fuga e di
come si fosse
separata accidentalmente da sua sorella. “Questo
xé queo che mi sciò, patron”,
terminò il suo racconto, stringendosi il mantello
sull’esili spallucce.
“Brava
la mia guerriera”, le diede il Miani un giocoso buffetto
sulla guancia sporca di terra e lacrime e la ragazzina
gongolò orgogliosa,
arrossendo notevolmente.
Dietro di
lui ritornava intanto uno stradiota della compagnia di
Teodoro Paleologo, staccatosi dal gruppo in rapida esplorazione, il
quale
informò sottovoce il suo capitano. “Kyrie
Markos”, richiamò infine il
condottiero la sua attenzione a discorso terminato.
“Ditemi.”
“I
miei esploratori mi hanno riferito di uno scontro poco distante
da qua. Forse la piccoletta è da lì
ch’è scappata via.”
“Uno
scontro?”
Il greco
confermò. “Non osiamo avvicinarci troppo, non
adesso
almeno. Fra poco, se vorrete controllare. I ladri non sostano mai a
lungo dove
hanno rubato.”
Alla
categoria dei codardi gli stradioti di certo non
appartenevano, dunque sussisteva un altro motivo per il quale si
rifiutavano di
cavalcare in quel luogo di morte. “In quanti
sono?”, s’informò cauto il
patrizio. Paleologo glielo riferì.
“Sacramento!”, imprecò allora Marco tra
i
denti, stringendo stizzito le dita sull’elsa della spada.
“La cavalleria
pesante? Questa non corrisponde ad una fortuita imboscata,
bensì ad una
spedizione ben pianificata ch’andava a colpo
sicuro.”
Il
capitano di ventura si ritrovò d’accordo, grato
della
perspicacia del veneziano. “Sono troppi per noi e verremmo
sopraffati
facilmente, specie adesso che si sono insuperbiti da questa
vittoria!”
“Tranquillizzatevi,
kyrie Theodoros, condivido appieno il vostro
punto di vista. Neanche io ho alcun’intenzione di finire
prigioniero dei
francesi, men che meno di quel tartaro di Merkourios Buas. Io e lui
abbiamo un
conto in sospeso e voglio terminarlo alla pari, non certo in
catene!”, digrignò
i denti Marco, sollevando di peso Zuaneta e sistemandola sulla sella.
Inforcata
la staffa, salì in groppa anch’egli
d’Eòo. “A questo punto approfittiamone
per
cercare i superstiti, finché c’è luce.
Treviso ha bisogno di quante più braccia
possibili per terminare le mura”, suggerì poi.
Si
sforzava di mascherare il suo disappunto dietro una maschera di
distaccata professionalità; nel suo intimo ribolliva in
realtà di rabbia
scellerata, frustrato all’infinito da
quell’ennesimo imbroglio. Dai rapporti
degli esploratori aveva creduto l’Abbazia essere infine
aperta ad incursioni
notturne, impegnati i francesi a guardarsi le spalle sia dai tedeschi
che dai
contadini del Montello a sud-est, dalla valle, per realizzare la loro
scarsa
difesa al lato nord-ovest del monastero, quello che dava direttamente
sul
bosco. Se invero Mercurio Bua aveva liquidato nel sangue il problema
dei
villani ribelli, avevano purtroppo perso un validissimo alleato
ché i
superstiti si sarebbero ancora più rintanati nel bosco e
forse non avrebbero più
collaborato coi marciani, pensando soltanto a salvare la pelle.
Quel
greco-albanese … Marco dubitava d’aver mai odiato
in vita sua
una persona così tanto, ecco forse l’anonimo
assassino senza volto di suo padre
poteva superarlo nel podio per intensità … Era
stato ad un passo dal liberare
Momolo, quella notte avevano intenzione di ritentare
l’assalto e invece!
Stramaledetto
Bua, che il diavolo se lo ingoiasse e lo cagasse in
un pitale di fuoco!
“Vinceremo
questa guerra?”, gli chiese di punto in bianco Teodoro
Paleologo, squadrandolo lungamente.
Miani
arcuò un sopracciglio. “Ne dubitate?”
“Le
notizie dalla Patria del Friuli non sono buone. Tutti i nobili
friulani stanno aprendo le porte delle loro città, andando
incontro ai tedeschi
e alcuni perfino all’Imperatore.”
“Puttane”,
commentò lapidario Marco.
“Forse
davvero siamo stati maledetti, kyrie Markos. Forse è vero
che ricevendo i poteri direttamente da Theos, Maximilianos possiede
facoltà
soprannaturali …”
Il
patrizio veneziano si sganasciò dalle risate, gettando
indietro
il capo. Zuaneta levò lo sguardo in alto, incuriosita da
quello scatto
d’ilarità. “Suvvia, kyrie Theodoros, non
lasciatevi influenzare da queste
insulse storielle né dalle vostre antiche credenze sulla
figura del Basileus.
V’assicuro che Maximilianos è un uomo di carne e
sangue, che s’abbassa le
braghe e caga e piscia come noialtri, se non di più! Ed
uguale a lui anche il
Papa, il re Ludovico e tutta la loro allegra masnada
d’altezzosi piscialletto,
che si credono Missier Domeneddio in terra solamente perché
hanno avuto culo di
nascere in una reggia invece di una stalla. E a proposito di stalla,
ricordate
che solamente Uno a questo mondo fa miracoli e prima o poi anche Lui si
nauserà
delle porcate di queste bestie. Theos è con noi e ci
darà giustizia e così la
Parthena Maria. Noi dobbiamo resistere e impegnarci al meglio delle
nostre
possibilità.”
“Aiutati
che Theos t’aiuta.”
“Appunto.”
Requiem
aeternam dona eis Domine et lux perpetua luceat eis,
requiescant in pace. Amen.
Una volta rientrato a Treviso, quella sera
Marco accese una candela all’altare della Madonna
dell’Umiltà nella
chiesa-tempio di San Nicolò per le anime dei contadini morti
sul Montello,
commilitoni sconosciuti ma a lui non meno vicini e fraterni, forse
rimasti
insepolti alla mercé delle bestie notturne, senza un
funerale né una messa.
Pregò affinché Dio li giudicasse per i loro
meriti e non per le loro colpe,
concedendoli quel ristoro e quell’abbondanza negata in vita
nonché la Sua
protezione ai loro famigliari sopravvissuti, che resistessero saldi
nella
salute e nella fede fino alla liberazione. Pregò che il
provveditore Zuam Paulo
Gradenigo cangiasse idea, concedendogli di continuare ad affiancare i
Paleologi
nelle loro perlustrazioni, invece d’arrostire
d’ansia a guardia del Castello.
Pregò per Momolo e per Zanze, di riuscire a salvarli;
pregò per la sua
famiglia.
Poco
prima Marco aveva affidato Zuaneta alle cure di madona Maria
Malipiero Gradenigo, la quale dopo averla personalmente lavata le aveva
regalato un bel vestitino e delle pianelle nuove. Offertole infine un
abbondante pasto caldo, la nobildonna aveva poi accompagnato
l’intimidita
fanciulla a Palazzo, tenendole compagnia mentre suo marito sier Zuam
Paulo
l’interrogava circa gli avvenimenti della giornata.
Levando
gli occhi sull’antica immagine della Madonna allattante il
Bambino, il Miani ripercorse mentalmente la breve e sussurrata
conversazione
avuta con la moglie del provveditore, invocando soccorso e forza alla
Madre di
Dio, per non arrendersi, per mantenere in lui salda la virtù
teologale della
Speranza, verde-vestita come il Figlio nell’affresco,
sedutoLe sulle ginocchia.
“Se
non v’incomoda, sier Marco, vorrei tenere meco Zuaneta in
qualità d’assistente in ospedale, almeno
finché non si ricongiungerà con la sua
famiglia. È una brava donnina, obbediente e
lavoratrice.”
“Non
potrebbe avere protettrice migliore di voi, madona Maria.”
“Via,
adulatore!”
“Quale
missiva, se posso chiedere, è giunta a vostro marito da
spingerlo a rinchiudersi col Podestà e i capitani a Palazzo,
senza consultare
il resto del Consiglio?”
“Dubito
poterne parlare liberamente, sier Marco.”
“Suvvia,
il mio barba è consigliere ducale: ne verrei ugualmente a
conoscenza.”
“D’accordo,
a condizione però che ve lo teniate per voi: il
Consiglio dei Dieci ha inviato un piano segretissimo per la distruzione
del
ponte sulla Piave.”
“Perché
non ci è stato comunicato? Avrei potuto distruggerlo io oggi
stesso, intanto che quei dannati erano impegnati a massacrare i
contadini!”
“Perché
la Patria del Friuli è persa o lo sarà presto,
sier Marco.
Stamane in Collegio c’è stata una grande
agitazione alla notizia di come sier
Alvixe Gradenigo, luogotenente della Patria, abbia abbandonato di gran
fretta
Udene, senza portarsi via l’artiglieria o perlomeno
inchiodarla. Molti rettori
di castelli stanno disertando le loro postazioni; i Conti di Porcia
hanno
offerto la loro dedizione all’Imperatore. A Spilimbergo il
castellano esiliato
Zuane Erico ha catturato il provveditore Jacomo Boldù e
consegnato lui e la
città agli imperiali.
“Non
possiamo sbilanciarci troppo al di là della Piave. Ormai la
linea di confine s’è assottigliata. Un conto
è inviare esploratori, un conto è
distruggere il ponte: richiederebbe un’operazione perigliosa
a rischio di
troppi uomini. Non ci è concesso questo lusso, lo sapete.
Dobbiamo accettare
che questo turno lo stanno vincendo i franco-imperiali e adeguarci di
conseguenza.”
“Il
provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini ci
raggiungerà presto qui a Trevixo. E vedrete, madona Maria,
quanto più
dolorosamente cade chi ha creduto di toccare il cielo!”
“Dio
v’esaudisca, sier Marco. Dio v’esaudisca.”
***
Uno dei
privilegi di ricoprire la carica di consigliere ducale includeva
la possibilità di piombare all’improvviso in
camera del Serenissimo senza
premura d’annunciarsi, né di rispondere alle
domande delle sue guardie del
corpo sui come dove e perché di quella visita, scaltro
espediente atto ad
impedire al Doge di tramare contro la Repubblica e in generale per
comunicargli
in tempo reale urgenti notizie e altre peculiarità legate al
suo ufficio.
Un
trafelato cancellerie da Palazzo aveva strappato sier Carlo
Morexini “da Lisbona” dal sonno e dal talamo
nuziale, spronandolo a correre
difilato al piano nobile e svegliare suo padre sier Batista, il quale,
udito il
conciso messaggio, aveva spedito il segretario e i suoi emissari a
radunare
quanto prima gli altri cinque consiglieri ducali, intanto che si
vestiva alla
bell’e meglio, aiutato contemporaneamente dal figlio e dalla
moglie e soltanto
in gondola ebbe il tempo di infilarsi le pianelle rosse, raddrizzandosi
la
vesta abbottonata di traverso e la stola.
Giunto a
Palazzo Ducale e fattosi riconoscere, assieme ai suoi
colleghi era entrato negli appartamenti dove dormiva Missier il Doxe
Lunardo
Loredan, scuotendolo delicatamente e così rendendolo
partecipe, in letto e
ancora con la berretta da notte e in camicia, del disastro in procinto
d’avverarsi.
Le loro
spie avevano scoperto e riferivano come, di fronte ad una
situazione militare insostenibile e alla possibilità di
saccheggio e
distruzione di Udine, domino Antonio Savorgnan aveva accettato di
negoziare coi
messi imperiali nonché le loro generose offerte, ossia il
mantenimento di tutti
i suoi feudi e proprietà in cambio della sua perpetua
fedeltà alla casa von
Habsburg. Con le cernide di 5.000 e passa uomini al soldo del
Savorgnan; l’imminente
occupazione di Udine e l’artiglieria ivi trovata, mancava
all’appello soltanto
Gradisca d’Isonzo e la conquista della Patria del Friuli
poteva dirsi
completata.
In un sol
giorno, Antonio Savorgnan aveva disconosciuto l’alleanza
centenaria del suo casato con Venezia.
Il doge
Lunardo Loredan s’accasciò sul materasso,
sprofondando
quasi nella turchesca che l’avvolgeva. Dopodiché,
balzando giù dal letto, il
suo volto scarno e rugoso si tinse di scarlatto e scagliò
certe maledizioni
contro il conte ribelle da superare in fantasia le Dieci Piaghe
d’Egitto.
Passandosi una mano tremante sugli occhi, implorò al Minor
Consiglio e al
Consiglio dei Dieci di porvi rimedio, in qualsiasi modo ritenessero
più idoneo:
stipulare una tregua, pagare il riscatto della Patria, cercare di
persuadere il
Savorgnan a ritornare dalla parte della Serenissima, punire per la loro
negligenza sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo …
Il povero
sier Hironimo Querini, capo dei Dieci, assieme a tutti i
suoi colleghi ascoltavano il Doge costernati e indecisi su quale
soluzione
prendere, lì così su due piedi senza alcun
consulto, almeno per dar qualche
appiglio di consolazione al Serenissimo, che già piangeva la
caduta di Treviso
e la fine della Repubblica.
Al che
sier Batista Morexini dichiarò colmata la misura di quella
tragedia da due soldi e, avanzando in mezzo alla stanza,
interpellò risoluto
sier Hironimo: “Lustrissimo collega, come voi ora
anch’io feci parte del Consejo
dei X e conosco lo scopo per cui fu costituito. Se dobbiamo sporcarci
le mani
per la salute della Signoria, lo facciamo di buon cuore.
“Avé
sentio i capitoli: domino Antonio Savorgnan è un ribelle
traditore e così va trattato. È inutile corrergli
dietro alla stregua di una
donzella respinta. Il tempo della misericordia,
dell’onestà, della guerra all’italiana
è finito: Impero, Franza, Mantoa, Frara si credono
più forti e crudeli di noi? Li
dimostreremo che Veniexia al bisogno sa e può superarli.
“Dobbiamo
fare di Antonio Savorgnan un exemplum, acciocché gli altri nobili di terraferma
sappiano cosa li aspetta, in caso gh’avian el
muso di tradir la Signoria.
Lui, il figlio don Nicolao, suo fratello Zuanne, i suoi nezzi
Francesco,
Bernardin … tutta la sua casata!”
“Ma
don Nicolao è un canonico!”
“Donca?
Anche i religiosi tradiscono!”
Un
mormorio di consenso riempì la sala e il Doge stesso aveva
assunto un’espressione attenta, piacendogli la prospettiva di
fare del
traditore friulano un esempio per il resto della nobiltà
feudale di terraferma così
da infrangere la loro illusione di perpetua immunità.
“Il
cugino del ribelle, domino Hironimo Savorgnan, in questo
preciso momento si starà anche lui recando
dall’Imperatore Maximiano, forse per
capire quale profitto può ricavarne da un eventuale
vassallaggio”, seguitò sier
Batista, ripetendo quando appreso dalle spie e delineando un certo
piano, che
gli era venuto in mente durante il tragitto da Ca’ Morexini a
Palazzo Ducale. “Ora,
dalle informazioni ottenute durante il mio mandato nei X, so per certo che domino
Hironimo sempre è stato
segretamente geloso del cugino Antonio, per il suo potere e reputazione
nella
Patria, nonché per la grande stima che la Signoria nutriva
nei suoi confronti. Pertanto,
in virtù di tanta fama ed eccelse qualità, sono
pronto a scommettere che anche
l’Imperatore preferirà il Savorgnan ribelle
rispetto a quello ancora … nostro.”
All’epoca
il “da Lisbona” non aveva potuto sfruttare tale
rivalità
tra cugini; adesso invece cascava a pennello ché facendovi
leva avrebbe
impedito ai due parenti d’unire le forze e di soccorrersi a
vicenda e dove uno
aveva fallito, l’altro avrebbe rimediato. Un altro fattore non trascurabile su cui far leva rimanevano i matrimoni d'Hironimo Savorgnan: dopo la prima moglie, Maddalena della Torre, egli s'era legato al patriziato veneziano sposando le nobildonne Felicita Trum, Biancha Malipiero ed infine, due anni addietro, madona Orsina da Canal di sier Hironimo, già vedova di sier Marco Antonio Marzello.
“
“Dunque
proponete di confiscare i beni, le terre, i castelli ad
Antonio Savorgnan per cederli a suo cugino domino Hironimo?”,
concluse sier
Hironimo Querini. “In questo modo egli otterrà
ciò cui ha sempre ambito: autorità
in Friuli, la fiducia della Signoria e il ruolo di capo del partito dei
zambarlani.”
Sier
Batista annuì gravemente, seppur la bocca gli
s’arricciasse
in una piega compiaciuta assai poco raccomandabile. “Cao de
zambarlani? Certo, glielo
faremo credere”, fu la sua acuta puntualizzazione.
In
realtà, spiegò il Morexini ai suoi colleghi,
Hironimo Savorgnan
sì sarebbe divenuto il nuovo signore Savorgnan,
sì il nuovo principe-cliente di
Venezia ma capo del partito filo-veneziano in Friuli? Soltanto di
facciata e
non più autonomo com’era stato in passato con suo
cugino. I nobili friulani
avevano ripagato la fiducia della Serenissima col peggiore dei
tradimenti -
asseriva il consigliere ducale - mai più
avrebbe la Signoria abbassato la guardia né allentato la
presa su coloro che
sarebbero sopravvissuti alla sua vendetta.
“E
domino Antonio Savorgnan? Come vi pare si debba procedere nei
suoi confronti?”
Oramai
era chiaro che non ci sarebbe stato per il Conte alcun
mandato di cattura, né un processo pubblico né
alcuna offerta di
riappacificazione. Si discusse piuttosto sulla ricompensa da riservare
a
chiunque riuscisse ad uccidere il ribelle, giungendo alla ragionevole
cifra di
5.000 ducati e della revoca del bando o l’amnistia da ogni
condanna per
qualsiasi crimine commesso. In questo modo, giudicarono soddisfatti il
Doge, i
Dieci e il Minor Consiglio, nessun angolo della terra conosciuta
all’uomo sarebbe
stato sicuro per Antonio Savorgnan, in perpetua fuga e costretto a
guardarsi le
spalle fino alla fine dei suoi giorni, Deo volente assai presto. Il
contratto
d’assassinio sarebbe stato poi archiviato nella
“Secretissima”.
“Gli
strumieri ci libereranno di lui.”
“Quei
vigliacchi, ribelli traditori filo-imperiali? Dobbiamo
proprio trattare con loro?”
“Sì,
perché stavolta abbiamo un nemico in comune”,
ribatté conciso
il consigliere ducale alle giuste obiezioni degli altri senatori.
“Anche se adesso
Antonio Savorgnan parteggia per l’Imperatore, non
dimentichiamoci come egli in
passato abbia servito zelantemente la Signoria, portandolo a massacrare
per gli
interessi suoi e nostri intere famiglie di strumieri. Un fatto di
sangue che i
suoi conterranei non avranno di certo dimenticato assai facilmente.
Né perdonato.”
Alleandosi
cogli strumieri – illustrò pragmatico - sarebbero
riusciti a braccare Antonio Savorgnan in breve tempo e giustizia
compiuta senza
lordarsi direttamente le mani. Compito dei Dieci sarebbe stato di
scovare tra i
nobili friulani chi tra questi era stato particolarmente danneggiato
dai
saccheggi del “Crudel Zobia Grassa”, fomentato e
diretto dal Savorgnan stesso,
e di conseguenza disposto ad ogni compromesso pur di vendicarsi
dell’ex-capo
della fazione zambarlana.
Dategli
ciò che vogliono-
insistette sier Batista - dategli appunto sangue e
vendetta per i
massacri, gli stupri e saccheggi subiti dai zambarlani capeggiati
dall’antico
alleato della Repubblica. Che questi nobili si scannassero pure tra di
loro per
riacquistare l’onore perduto, cosicché nessuno
avrebbe potuto in seguito
affermare che la Signoria aveva in realtà architettato ogni
singolo dettaglio
di quell’esecuzione. E anche supponendo che quegli strumieri
avessero deciso di
denunciarla, esponendo al mondo la sua complicità,
hé, chi li avrebbe mai
creduti? In fin dei conti, non erano anch’essi dei traditori
filo-imperiali
esattamente come il Savorgnan? Nessuno si sarebbe stupito se la
Signoria avesse
deciso prontamente di sbugiardarli e di giustiziarli. L’ombra
della spada del
boia già accarezzava infatti il loro collo, gli strumieri
non avevano nulla né
da perdere né da rivelare. Ecco, forse potevano togliersi
l’ultima
soddisfazione di vendicare l’onore offeso delle loro donne.
“Ed
in nome dell’onore, rinunceranno alla loro libertà
e diverranno
nostri vassalli per sempre”, concluse solenne il Morexini il
suo
discorso. In nome dell’onore mostreranno
con orgoglio le nostre catene,
concluse a mente. Il consigliere tacque in
una significativa pausa
e, non ricevendo repliche, intrecciò le mani davanti a
sé, in attesa del
verdetto finale del Consiglio dei Dieci.
Missier
il Doxe Lunardo Loredan prese un profondo sospiro e,
alzandosi dal letto, sentenziò: “Vae Antonio
Savorgnano”, invitando,
se la soluzione li garbava, sier Hironimo Querini e
il resto del
Consiglio d’attivarsi onde procedere come suggerito, in via
straordinaria
ovviamente date le circostanze, da sier Battista Morexini, il quale si
scusò
timido e modesto, giustificandosi e sostenendo la sua riluttanza a
volersi far
consigliere dei Dieci. Soltanto, considerata la magra figura di due sue
membri
– videlicet sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo
– e possedendo lui un poco
(molta) esperienza come ex-consigliere e segretario dello stesso organo
esecutivo, ecco, ci teneva a condividere le sue informazioni onde
sostenere i
suoi colleghi senatori in questo difficile momento, tutto per la
salvezza della
Signoria.
D’altronde,
già era stato strano coinvolgere il Doge in quella
discussione dove solitamente lui ascoltava e annuiva a decisioni
previamente
approvate e trascritte; una piccola e tuttavia condonabile eccezione
poiché in
guerra bisognava per sopravvivere dimostrare una certa
flessibilità.
“Secondo
voi”, fermò sier Hironimo Querini il “da
Lisbona”,
proprio mentre quest’ultimo stava per risalire sulla sua
gondola. “Maximiano vincerà
questa guerra?”
Al
consigliere ducale sorse una gran voglia di grattarsi i
coglioni, soltanto che in pubblico, malgrado l’ora tarda,
proprio non sarebbe
stato il caso. Già sua moglie lo chiamava vecchio satiro
libidinoso, meglio non
coinvolgere anche l’intera Piazza San Marco. “Non
vincerà”, condivise
spassionatamente la sua opinione. “Maximiano è
abile a conquistare terre, ma
che poi sia in grado di mantenerle, hé,
quest’è un altro paio di maniche
…” se
ne sarebbero accorti i friulani, una volta giunte le esose e
irragionevoli
tasse dell’Imperatore.
Magra
consolazione? Folle speranza? Chi lo sa.
Sier
Batista, finalmente nella sua felze, si levò la bereta e si
passò una mano sulla fronte, massaggiandosi poi gli occhi
stanchi quanto la sua
anima. Arrivare all’apice o quasi del potere a Venezia
significava sobbarcarsi
delle decisioni più spietate e impopolari, soffocando ogni
afflato di rimorso e
di pietà cristiana e in quegli anni di guerra, tali
occasioni divenivano sempre
più frequenti, tanto che in alcune occasioni, a Messa,
l’anziano patrizio per
poco giurava d’udire distintamente le maledizioni
scagliategli contro da tutti
coloro che, per la sopravvivenza della Serenissima, lui e i suoi
colleghi
avevano cinicamente disposto.
Presto
Antonio Savorgnan si sarebbe aggiunto a quel coro di voci
accusatrici. E anche i senatori sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo.
“No,
vira da st’altra parte!”, gridò al pope
de casada,
indicandogli dove voleva recarsi. Non al suo palazzo, dove
l’attendeva la sua
buona ma petulante moglie. Il suo vero erede sia spirituale che terreno
Carlo,
per quanto solidale, aveva da badare alla sua bella e giovane Maria e a
Dio
piacendo una famiglia sua. Gli altri suoi figli Nicolò,
Ferigo e Hironimo? Mah,
che avrebbero capito dei suoi crucci, loro che disprezzavano quel mondo
che
neppure conoscevano, interessati più alle questioni celesti
che terrene?
Neanche Luzietta poteva consolarlo dalla solitudine e dalla malinconia,
pur
tenera e amorosa come sempre, tuttavia anch’ella sul viale
del tramonto. Ah,
l’esser vecchi e aver vissuto troppo a lungo!
Sarebbe
andato da Leonora, l’unico suo porto sicuro in gran
tempesta, l’unica a cui credesse quando lei gli sussurrava
teneramente
materna: Andrà tutto bene.
Una volta
giunto a Ca’ Miani, infatti, il servitore Baldissera non
si stupì di scorgerlo all’uscio della porta
d’acqua e lo scortò fino al piano
nobile, dove già la sua padrona, avvertita, lo attendeva.
Sier
Batista non proferì parola, si lasciò guidare
dalla sorellastra
accanto al caminetto e una volta seduta lei sullo sgabello e lui sul
cuscino,
le appoggiò il capo sul grembo come solevano fare da giovani
e nubili, quando
Leonora lo consolava per un rimprovero particolarmente severo o per una
delusione amorosa o semplicemente per sentire le sue invettive contro
l’eterno
rivale Anzolo Miani. All’epoca e adesso gli accarezzava il
capo, silente, in
attesa che il fratellastro incominciasse a sbottonarsi con lei,
aprendole il
suo cuore.
Pur
legato dalla segretezza del suo ufficio, tra lui e Leonora non
esistevano segreti. Le confessò ogni discorso, ogni
preoccupazione, quasi
cercasse da parte sua un’assoluzione, valutando il suo
giudizio migliore di
quello di un qualsiasi prete.
In
particolar modo, le rivelò quanto soffrisse per
l’infamia che
si stava per abbattere su sier Andrea Loredan e sier Piero Capelo. Il
voltafaccia del Savorgnan avrebbe trascinato nell’onta i suoi
sostenitori nel
Senato e chiunque fosse rimasto coinvolto nei recenti eventi della
politica
veneziana in Friuli, vittime innocenti di feroci rappresaglie politiche
e
nessuno, il “da Lisbona” se lo sentiva, avrebbe mai
pagato tanto quanto il
Loredan, ingiustamente poi: il giorno prima del tradimento di quel
pezzente,
gli oratori di Udine avevano persino chiesto, per via della sua
esperienza e reputazione,
di far nominare proprio sier Andrea luogotenente della guarnigione
locale,
nutrendo in lui la massima fiducia e stima. Da
alcuni senatori sier
Batista aveva poi appreso come sier Andrea avesse intenzione
l’indomani di
sborsare una notevole cifra di ducati, onde pagare di tasca propria le
truppe
stanziate a Padova acciocché potessero soccorrere Treviso.
Venezia
nelle punizioni si dimostrava cieca e implacabile, il
Morexini lo sapeva: il Loredan, Capelo e i loro
infelici compagni di
sventura sarebbe divenuto una pietra di scandalo, ostracizzati e la
loro
carriera congelata finché sarebbe piaciuto alla Signoria e
la sua collera
placata. Avevano sbagliato, certo, ma comunque spinti dalle migliori
intenzioni.
“Spero
che l’uccidano e anche presto”, mormorò
sier Batista,
nascondendo il volto stanco sul velluto della gonna nera di Leonora. La
mano di
lei si posò delicata sulla sua e soltanto allora egli
s’accorse di quanto
stesse tremando.
Perché
poi? Un tiro del genere da tempo l’aveva sospettato,
addirittura quasi profetizzato; ciononostante, per quanto ci si prepari
al
peggio, esso costantemente riusciva a sorprendere e a ferire.
Poco
importava, oramai. Questione di ore ed Udine si sarebbe
consegnata agli imperiali, indipendentemente da cosa sier Batista
avesse o non
avesse fatto per impedirlo.
Il futuro
si trasformava velocemente in presente e subito finiva
relegato nel passato; tendersi di nuovo al futuro, giocare
d’anticipo prima
ancora d’ipotizzarlo. Non c’era spazio per il
presente men che meno per il
passato.
Soltanto
il futuro, soltanto il futuro. Indefinibile, malleabile,
volubile. Un regno senza sovrano dove tutto era possibile, anche
vincere quella
stramaledetta guerra ribaltando clamorosamente i giochi.
***
Trascinando
il letto presso il muro e nello specifico sotto la
finestra, Hironimo si pose in piedi e scrutò il campo
sottostante l’Abbazia.
Stava giusto indugiando negli ultimi strascichi del sonno indotto dal
farmaco
di Fra’ Anselmo, quando cori alti e ben distinti eppure
intrecciati in strana
polifonia l’avevano destato completamente, attirando la sua
attenzione.
A quanto
pareva non si trattava dell’unico curioso: i monaci, quei
pochi pazienti che riuscivano a starsene in piedi e ovviamente
Thomà che non
stava mai fermo, tutti costoro avevano trovato il modo di guardare
quanto stava
accadendo e, a giudicare dalle facce disgustate di Fra’
Anselmo e perfino di
qualche soldato, non doveva trattarsi di un bello spettacolo.
Con lo
sguardo domandò al benedettino cosa si fosse perduto, nel
frattanto che questi l’aveva stordito tra tisane, decotti e
chissà quali altri
intrugli. Non che se ne lamentasse, avrebbe potuto andargli anche
peggio: la
sua emicrania aveva infatti raggiunto tali livelli d’agonia
che le vene del
giovane Miani s’erano ingrossate allo spasimo neanche
volessero scoppiare e il
ragazzo stesso stringeva i denti e dimenava convulsamente gli arti,
tirandogli
i muscoli tesissimi del corpo, al che Fra’ Anselmo aveva
deciso di sottoporlo
ad un salasso d’emergenza. Sennonché,
all’improvviso,una copiosa epistassi dal
naso aveva regolato la pressione nonché la circolazione
sanguigna, liberando in
parte Hironimo da quella dolorosa impressione d’indossare al
capo le tenaglie
d’una garrotta. Il monaco l’aveva allora costretto
a bere una strana bevanda
amarognola e il patrizio non aveva capito più niente,
crollando sfinito sul
letto.
“E’
da un bel po’ che continuano a far bisboccia”, gli
rivelò
invece un soldato, dal cui accento Hironimo intuì provenire
dalla Lombardia,
probabilmente al soldo di Sanseverino o Pallavicino.
“Che
vuoi dire?”
L’uomo
tossì forte, sconquassandosi il petto. Afferrò
rapido il
pitale, si raschiò la gola e vi sputò sopra un
grumo verde misto a sangue.
“Mentre tu ronfavi alla grossa, il capitano Mercurio Bua e i
suoi stradioti
hanno tagliato a pezzi quei villani là rintanatisi nelle
grotte, portando seco
quei pochi sopravvissuti, le bestie e le provviste ma soprattutto le
loro
donne. Questi lamenti che senti sono il loro canto funebre.”
Hironimo
tese l’orecchio, distinguendo tra i festanti schiamazzi
il lugubre pianto muliebre e un brivido freddo lo percorse dalla nuca
lungo
l’intera colonna vertebrale, ben intuendo il motivo dietro
quell’apparente
misericordia, dietro quel risparmiarle la vita contrariamente ai loro
uomini.
Era stato Mercurio Bua ad ordinarlo? Lo immaginava appartenere alla
peggior
razza d’avventurieri e approfittatori, ma permettere tali
… tali …
“Beh,
suppongo sia giusto così”, fece spallucce il
lombardo.
La testa
del patrizio scattò rapidissima nella sua direzione.
“Prego?”, sibilò astioso, avvertendo
l’ira vibrargli nel petto.
“Le
nostre donne sono state violentate dai francesi, mi par giusto
tocchi alle vostre, no?”
Un pugno
in faccia corrispose alla risposta del giovane Miani. E
poi un secondo per cavarsi lo sfizio di spaccargli il naso prima di
ciondolare
dalle vertigini e cadere per terra, tossendo a carponi e vomitando
anch’egli
catarro e pezzi della colazione. Uno sbuffante Fra’ Anselmo
lo trascinò via
dalla sua preda, mentre un confratello tratteneva il soldato smanioso
di
restituire il favore al patrizio.
“Daghetele
cum on legno!”, l’ammonì perentorio il
benedettino,
costringendo un ansimante Hironimo a calmarsi. “Non vorrai
mica che il Bua ti
dia per guarito e che ti rinchiuda di nuovo nella sua cella,
no?”, gli sussurrò
all’orecchio con la scusa di controllargli la temperatura,
ricordandogli
implicitamente il piano di fuga.
Hironimo
si conficcò le unghie nei palmi delle mani, traendo
sangue e battendo furioso e impotente i pugni sulle cosce. Era colpa
sua,
soltanto sua. Se soltanto non l’avessero tradito. Se soltanto
Castelnuovo
avesse retto l’assedio. Se soltanto avesse puntato una
colubrina dritta in
testa a Mercurio Bua, facendogliela saltare in mille pezzettini a guisa
di
melone. Per colpa sua li aveva tutti sulla coscienza. Era suo dovere
difendere
la via per Treviso, era … era …
“LA
MIA MAMA, A XE’ STA VERGOGNADA DI TODESCHI E LE MII SORELE
CO’
ELA. E TI TEA CIAMI JUSTITIA QUESTA?! TE SARASTU UN DIAOL, BECHO
D’UN LUMBARDO!”,
ruggì Thomà, afferrando un pitale pulito e
scagliandolo contro il soldato,
colpendolo alla spalla e sfracellandosi per terra tra lo sconcerto
generale.
“Co’ te sdormi, te degolaré!”,
gli promise minaccioso, mimando col cucchiaio di
legno uno sgozzamento.
“Aspetta
e spera, poppante”, lo derise il
lombardo,
ridacchiando incurante e a sua volta lanciando una caraffa contro il
fantolino,
prontamente intercettata da Hironimo, il quale gliela
rigettò indietro,
colpendo però il muro sopra di lui essendosi il soldato
agilmente abbassato.
“Quella
gran vacca di tua madre, quella sì che puppa forte,
tutti i cazzi di Francia!”, lo insultò battagliero
il giovane patrizio,
nascondendo il bambino dietro la sua schiena onde ripararlo da altre
balote di
fortuna. “Avvicinati a mio figlio e neanche
t’accorgi di morire!”
“Ripeti
un po’, troia veneziana? Vuoi ingoiare i denti, la lingua,
il cervello mentre crepi?”
“Avanti,
succhiacazzi buzaron, fatti sotto, ché t’impicco
con le
tue budella!”
“Qui
nessuno ammazza nessuno e fra poco aggiungerò sapone alla
vostra acqua, per nettarvi quelle vostre onte linguacce!”,
esplose infine Fra’
Anselmo, afferrando la scopa di saggina e percuotendo salomonicamente
le dure
cervici di ciascuno, secondo le buone creanze di un po’ per
uno per far male a
ciascuno. “E voi dovreste essere gli scudi e il sostegno
delle donne? Voi? Dei
collerici, immaturi, frignanti bambinetti? Povere figliole, quanto sono
cascate
male!”, strillò il benedettino, gettando via di
malagrazia la scopa e
ritornandosene furibondo alla sua postazione. Estraendo il suo rosario
e
agitandolo a mo' di frusta, puntò gli indici contro il
soldato lombardo e
Hironimo, ambedue a capo chino, includendo tuttavia anche il resto dei
pazienti
nella sua veemente filippica. “Le vostre stolte
recriminazioni mi nauseano! Le
vostre stupide rivalità pure! Invece d’insultarvi,
pensate a quanto stiano
patendo in questo esatto momento quelle disgraziate contadine e
vergognatevi!
Io pregherò per la loro salute e spero anche voi, se
v’è rimasto un briciolo di
coscienza in quelle vostre animacce nere!”
E mentre
Fra’ Anselmo impediva una zuffa da quartiere militare
nella sua infermeria e forniva ottimi spunti di riflessione non
soltanto ai
litiganti ma anche agli altri pazienti, nel campo sotto
l’Abbazia si respirava
aria di festa. Così aveva ordinato Mercurio Bua, in
apparenza a mo’ di premio
per la vittoria conseguita quel giorno, in realtà per tenere
a bada le truppe
cadaun giorno sempre più indisciplinate e irrequiete. Almeno
che dirottassero
altrove le loro energie, coloro che non stavano morendo né
di fame né di
malattia.
Stipata
in recinti improvvisati assieme alle sue sventurate
compagne, Lussìa s’accarezzava con una mano il
ventre rigonfio e con l’altra
stringeva convulsamente una ciocca miracolosamente strappata a Berto,
gli unici
ricordi terreni rimastele di lui.
Per
quanto si fosse sforzata di correre veloce, aveva indugiato
troppo a lungo ed era stata una delle prime a finire prigioniera:
fortunatamente il pesante zendale la ingoffava nascondendole la pancia,
altrimenti Dio solo sapeva come avrebbero reagito quei satanassi.
Ricondotta al
luogo dello scontro appena terminato, la giovane contadina aveva
approfittato
di un attimo di distrazione dei suoi carcerieri per staccare dei
capelli al
defunto compagno. Anche se ricoperto di sangue e la testa mezza
decollata,
l’avrebbe riconosciuto ovunque e sempre in maniera furtiva
s’era portata la sua
mano gelida e rattrappita sul pancione, quasi a chiedergli
un’ultima
benedizione per quel figlio che non avrebbe mai conosciuto.
Incessantemente,
neanche si fossero trasformate in vitelli da
macellare, quel dannato cancello s’apriva e si chiudeva e due
o tre soldati
entravano alla volta, issando di peso una piangente contadina,
trascinandola
via dal gruppo che inutilmente si stringeva a mo’ di difesa,
sperando di
rendersi invisibili o più pesanti del piombo. Quando
ritornavano,
singhiozzavano doppiamente, rannicchiandosi vergognose e doloranti
nell’angolo.
Lussìa
chiuse gli occhi, annusando la presenza del nuovo arrivato
e non oppose resistenza quando lui le afferrò il braccio,
ponendola in piedi di
malagrazia e così spintonandola in direzione della sua tenda.
Non
preoccuparti, bimbo mio, la mamma è qui. Ti
proteggerà a
qualsiasi costo.
Nessun’umiliazione
le sarebbe apparsa troppo disonorevole, se
significava offrire al piccino una possibilità di nascere.
Glielo doveva a
Berto: una vita per un’altra vita, un morto per un nascituro.
Continua
…
************************************************************************************************
Sia ben
chiaro che questo Alvise Gradenigo e il Gian Paolo nostro
non sono assolutamente parenti; sicuramente però il nostro
caro provveditore
avrà rosicato parecchio nell’esser associato (per
via d’omonimia) a chi
abbandona la propria artiglieria senza neppure manometterla
… sigh … Idem per
il doge Leonardo Loredan e Andrea Loredan.
Sulle
vicende del Friuli si potrebbe scrivere una storia a sé, ho
tentato di riassumere pur rimanendo quanto più possibile
esauriente, spargendo
di qua e di là degli indizi su quanto stesse accadendo, fino
alla sorpresina
(?) finale. Anche perché fu effettivamente una conquista
lampo – tutti i nobili
friulani s’arresero e i contadini mica avevano voglia di
farsi ammazzare – ai
todeschi: ti piace vincere facile!
Lo so che
i capitoli stanno divenendo sempre più lunghi: abbiate
pazienza, lo zenit della storia si sta avvicinando e purtroppo questi
giorni
furono assai frenetici! Superata la “crisi”,
ritorneremo a capitoli più umani,
promesso!
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] in breve, così anche da capire
il
discorso di Michele: Brisighella era stata, dopo vari tira e molla tra
la
casata e il Papa, sotto i Manfredi di Faenza, poi conquistata nel 1500
da
Dionigi Naldi per conto di Cesare Borgia e infine nel 1503 si diede
sempre su
impulso del Naldi a Venezia, quando ormai la cometa del Valentino era
passata.
Ritornò papalina dopo la rotta di Agnadello nel maggio del
1509.
[2] Gendarmi =
nel XVI secolo
s’intende il corpo specializzato di cavalleria pesante, come
i Corazzieri per
l’esercito imperiale.
[3] San Valentino (sì,
proprio
lui, quello del 14 febbraio) era invocato come protettore degli
epilettici,
avendo curato il figlio Cratone che soffriva appunto
d’epilessia.
[4] Giuliana di Collato =
nata
nel 1186 a Collalto e appartenente all’omonima famiglia,
morì a Venezia nel
1262. Per un certo periodo visse assieme alla Beata Beatrice I d'Este
nel
monastero benedettino di Santa Margherita sui Colli Euganei,
dopodiché si
trasferì alla Giudecca a Venezia, dove fondò la
chiesa e il
monastero dei Santi Biagio e Cataldo, apparsole il primo in sogno.
Beatificata
da Benedetto XIV nel 1743, il suo corpo riposa adesso a Sant'Eufemia a
Venezia,
in quanto il monastero e la chiesa vennero demoliti nel 1822 da
Giovanni Stucky
per costruire il mulino Stucky, oggidì un lussuoso hotel.
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Capitolo 25 *** Capitolo Ventitreesimo: 20-21 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 26.10.2021
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Capitolo
Ventitreesimo
20-21
settembre 1511
Il
soldato francese e Lussìa si fronteggiarono intensamente con
lo
sguardo, sfidandosi a vicenda a fare il primo passo.
La
contadina si stringeva il pesante scialle dall’interno,
nascondendo il ventre rigonfio e ingobbendosi a guisa di
un’aggressiva gatta
messa all’angolo, rifiutandosi sia d’abbassare
timorosa gli occhi sia di
spogliarsi di sua iniziativa. Anzi, sperava che l’uomo
s’accontentasse di
sollevarle le sottane e di montarla da dietro cosicché non
s’accorgesse del suo
pancione e al contempo non la costringesse a contemplare il suo brutto
muso,
intanto che si pigliava il premio del vincitore.
Il
soldato avanzò infine verso di lei e Lussìa
s’impose di non
indietreggiare né di mostrare paura: per esperienza sapeva
che opporre
resistenza peggiorava la situazione, meglio che si sbrigasse e poi
morta là.
L’uomo sbiascicò qualcosa, ciondolando un poco e
pur non comprendendo l’idioma,
la giovane intuì costui esser piuttosto alticcio il che la
rassicurò, non
durando a lungo gli ubriachi.
La mano
di lui l’afferrò lo scialle, strattonando per
toglierlo e
trovando invece una fiera opposizione in Lussìa, che pur
rassegnata
quell’indumento proprio non se lo voleva togliere;
l’uomo impiegò dunque
maggior forza, applicando pressione sulla spalla di lei e a seguito di
due o
tre brusche tirate glielo cavò di dosso, al che la contadina
di riflesso si
piegò in avanti, voltandosi acciocché
quell’altro ben capisse come doveva
concludersi la faccenda. Purtroppo quegli voleva possederla in altro
modo e la
girò ruvidamente, afferrandole i polsi e con malgarbo
aprì le braccia poste a
protezione del suo ventre, rivelandogli alla fine il suo segreto.
Un
pesante silenzio s’insinuò tra loro due e
Lussìa tremò da capo
a piedi, un doloroso groppo in gola le impediva di respirare, in
timorosa
attesa di una qualsiasi reazione da parte del soldato, pregando la
Madonna
avesse questi pietà di lei e del piccino.
Una
sfilza di sibilanti improperi francesi fuoriuscì dalla bocca
del soldato, neanche l’avessero gabbato in un cattivo
acquisto alla fiera degli
animali. Ghermitala per le spalle, la scosse feroce, le chiese
diossacché e le
rifilò poi un tal manrovescio che Lussìa vide
nero e giallo e gustò in bocca il
sapore metallico del proprio sangue. Stordita e indietreggiando tra un
incespico e l’altro, ella si lasciò dolcemente
cadere per terra. Lì stette,
immobile, il mondo roteantele attorno. Udì i passi del
francese, lo snervato
fruscio della tenda che s’apriva e si chiudeva; la ragazza
avrebbe voluto
balzare in piedi e fuggire via, purtroppo le vertigini ebbero la meglio
e lei
chiuse sfinita gli occhi dopo esser strisciata sul fianco sotto il
tavolo,
cedendo alla stanchezza sia fisica che mentale.
Quando si
ripigliò, quell’atroce notte ancora non era
terminata e
non doveva infatti esser trascorso tanto tempo
dall’involontario alterco col
soldato, ché infatti quest’ultimo era ritornato
proprio nel momento in cui
Lussìa riapriva circospetta un occhio, fingendo
d’esser ancora svenuta.
L’uomo
giungeva in compagnia d’un’altra donna, totalmente
dimentico, nel suo stato ebbro, d’aver scordato di riportare
indietro Lussìa.
Evidentemente si sentiva defraudato per quel suo raccattare una donna
incinta,
giudicandola troppo grassa e gonfia e per questo facendogli
impressione,
chissà.
La
giovane contadina riconobbe a stento Zanze nella sua sostituta:
i capelli scarmigliati senza velo, la gonna lorda di fango e foglie e
sulla
schiena s’intravedevano delle strisce rosse esacerbate dal
biancore della
camicia. Una serie di lividi sparsi le ricopriva buona parte del lato
destro
del viso, il labbro superiore gonfiatosi per via d’un taglio
e croste di sangue
permanevano sotto il naso. Il soldato, onde sbrigarsi, le
strappò dal mezzo la
camicia, liberando i seni e Lussìa notò ecchimosi
anche sul petto e sulle
braccia, così come sulle gambe quando all’amica
venne sollevata la sottana, una
volta spinta supina sulla branda.
Un conato
di vomito le bruciò in gola, quando il francese
coprì la
contadina col suo corpo, grugnendo la sua soddisfazione. Poi,
l’idea.
Zanze
fissava immobile il soffitto della tenda, astraendo lo
spirito dal corpo e permettendo che volasse leggero in un qualsiasi
luogo così
da non curarsi di quanto avveniva, relegandolo nel dimenticatoio. Aveva
imparato a sopportare tali copule sin da ragazzina: sua madre, morto il
marito
di febbre malarica, aveva fatto San Martino [1] ed era ritornata dalla
sua
famiglia d’origine, rimettendosi alla decisione di un suo
zio, il nuovo
capofamiglia. Zanze, la maggiore della nidiata, aveva pagato il tributo
al
posto della madre, troppo sformata dalle gravidanze e poco appetibile
rispetto
alla carne fresca di una dodicenne. Il prozio aveva atteso che lei
fosse un
pomeriggio andata ad urinare in un angolo e, prima che lei potesse
riabbassarsi
le cottole, l’aveva spinta in avanti e così
deflorata – ultima arrivata in
famiglia, ultima nel branco, nella gerarchia. Zanze era stata
così contenta
quando il padre di Arrigo era venuto in ambasciata per chiederla in
moglie al
figlio (in fin dei conti era carina, robusta, lavorava alla pari
d’un uomo); perfino
le aveva accordato di portare con sé Zuaneta, grazie a Dio
ignara di tutto.
Aveva creduto la contadina finalmente di trovare in Arrigo la
protezione
ch’aveva sempre sognato, il suo compagno e padre dei bimbi
che tanto voleva.
Invece, il terremoto del marzo scorso glielo aveva ucciso, sepolto
sotto le
macerie della loro casa e dall’indescrivibile paura la
contadina aveva avuto un
parto prematuro, il piccino nato morto.
Solo
Arrigo lei aveva accolto con gioia nel suo corpo, mentre il
resto null’altro se non passeggere incombenze da sopportare,
questo francese
incluso. Purché non la picchiasse o la violentasse fino a
bucarle lo stomaco,
ben inteso.
Zanze
girò casualmente la testa su di un lato, piombando
all’improvviso nella realtà. Strabuzzò
gli occhi, incredula di ritrovare la sua
amica Lussìa in un angolo, la quale si stava lentamente
alzando, l’indice alla
bocca intimandole silenzio e dissimulazione. Tra le sue mani penzolava
una
corda, che la giovane incinta arrotolò ad esse e la tese a
mo’ di cappio. Zanze
trattenne il fiato, stringendo il bordo della branda in anticipazione.
In un
balzo, Lussìa cinse il collo del soldato da dietro, serrando
e incrociando la corda sulla nuca; pose un ginocchio sulla schiena
dell’uomo e
tirò all’indietro acciocché le fibre
sfrigolando gli mordessero la carne e la
pressione esercitata alla gola gli ostruisse le vie respiratorie fino a
farle
cedere. D’istinto il francese tentò subito di
divincolarsi, Zanze però gli
pigiò i pollici negli occhi, cingendolo con le gambe per la
vita e
intrappolandolo contro di sé. La tenda si riempì
d’ansimi e grugniti,
imprimendo le donne ogni forza a loro reperibile onde sopraffare
l’avversario,
in una gara di resistenza che rasentava quasi la tauromachia. Il
francese,
paonazzo in volto, emise uno strano gorgoglio e poi cacciò
fuori la lingua,
afflosciandosi per terra ai piedi delle due contadine, le quali non
emisero
alcun suono se non quello d’ansimare pesantemente,
contemplando pietrificate
quanto appena commesso.
“Xélo
morto?”, inquisì infine Zanze, rimettendosi seduta
e
nettandosi meccanicamente tra le gambe.
Lussìa
si passò sulla sottana le mani umide di sudore e graffiate
dalla corda. “No”, rispose, accovacciandosi sul
soldato tramortito.
“Sempia!”,
strillò preoccupata l’amica, cercando
freneticamente un
coltello, un pugnale, qualsiasi cosa per terminare il lavoro incompiuto.
“Sbassa
ea vose!”, l’intimò perentoria
Lussìa, al che Zanze si
calmò subito, rendendosi conto della situazione e di come
fosse consigliabile
non farsi scoprire. “Nol gh’ho copà no
perché me despiase par elo, bensì
perché
chome femo col sangue? Non sastu poi co’ uno more, el se caga
e pissa ‘ndosso?”
L’altra
contadina annuì incerta, non afferrando il senso di quella
frase. Glielo spiegò l’amica che, rigirando il
francese, prese a slacciargli la
casacca, gettandola sulla branda ad operazione terminata e destino
analogo
riservò al resto dei vestiti, braghe e scarpe comprese.
“Vestate”, le ordinò e
il viso di Zanze s’illuminò di comprensione.
Lussìa
l’aiutò a stringere alla bell’e meglio
il seno coi resti
della camicia strappata e ad indossare gli abiti del francese, brigando
quanto
più in fretta poté a stringere i lacci almeno del
corsaletto onde conferire
all’amica un’impressione più
militaresca. All’inizio Zanze si sentì un poco
vacillare sotto il peso di tanti strati, per poi bilanciarsi avendo
infatti
trasportato gerle di legna assai più pesanti. Raccolse in
una stretta crocchia
i capelli e indossò l’elmo e poi il mantello,
ficcando un lembo di lenzuolo
strappato nella braghetta per completare la sua virilizzazione. Il
tutto con le
orecchie sempre tese e un occhio puntato all’entrata della
tenda.
“Scoltame
ben, do parolle de franzese mi gh’ho imparà en sto
campo: Mal e Pest; se
ze fermano, ti te va
dirghele e te me mostri”, l’istruì,
appallottolando della terra e cenere dal
braciere con un po’ d’acqua. Ottenuta la strana
polpetta, Lussìa se l’applicò
alla gola: grazie al buio, Deus volente, nessuno sarebbe stato capace
di
distinguere quel petaisso dai bubboni della peste. Un po’ di
cenere la cosparse
anche sul volto dell’amica, per darle la sembianza di
un’ombra di barba.
“Mal
… Pest … Mal … Pest
…”, ripeteva intanto Zanze, memorizzando
le parole chiave in caso le avessero fermate e interrogate.
“Pì
mas-cia ea vose: Mal! Pest!”
“Mal!
… Pest! …”
Lussìa
schioccò la lingua in approvazione.
“Ch’Idio e la Madona
zea manden bona!”, s’augurò, segnandosi
tre volte. “Sistu pronta?”
“N’atimo”,
si concesse Zanze un ultimo sfizio, aprendo le gambe
del soldato e, tenutolo per le caviglie, di tacco gli pestò
i gioielli di
famiglia: troppo stordito dall’urlare, il francese tuttavia
convulsò
violentemente. La contadina gliene elargì un altro, giusto
per assicurarsi che
soffrisse peggio d’un cane alla sua prossima erezione.
Dopodiché gli sputò
sopra e calciandolo lo nascose sotto la branda, coprendo il tutto con
la
coperta. “Demo”, ritornò
dall’amica, che simulò un mancamento tra le sue
braccia.
Lussìa
aveva previsto giusto: l’aria di sgavazzo aveva reso la
maggior parte dei soldati piuttosto distratta e ai loro occhi alticci
dalla
tenda uscì il loro compagno, trasportante per il braccio la
prigioniera
semisvenuta. Incoraggiate pertanto da tanta negligenza, le due donne
puntarono
verso il bosco nella speranza di lì sparire per imboccare in
seguito la strada
per Treviso, trascinandosi circospette tra le tende, evitando luoghi
affollati
e soprattutto le torce. Zanze teneva il mento quasi al petto e di fatti
era
Lussìa che con discrezione la guidava. Arrivarono
miracolosamente ignorate al
limitare dell’accampamento … ancora qualche passo
…
“Hé,
voi due! Dove ve ne andate di bello?”
Le
fuggitive gelarono sul posto, non soltanto per l’esser state
notate bensì nel riconoscere l’idioma italiano,
che pur non conoscendo alla
perfezione, potevano comprendere il significato globale.
“Furbastro,
te ne scappi con la villana, eh? Non sai cos’ha
ordinato il maresciallo? La forca a chi diserta!” e i suoi
occhi luccicarono di
delizia alla prospettiva d’assistere a tal spettacolo.
Zanze si
voltò lentamente, pur seguitando a celare il viso. O la
va o la spacca e gli animali lei sapeva sgozzarli.
“Mal”, grugnì in una voce
profonda e gutturale. “Mal!”
“Cosa?”,
sbatté confuso le palpebre il mercenario.
“Mal!”,
ripeté enfatica la giovane. “Pest!”
L’uomo
balzò terrorizzato all’indietro, specialmente
quando Lussìa
incominciò a tossire rumorosamente e a raschiarsi ben bene
la gola, sputando e
battendosi il petto, intanto che l’amica le scopriva
velocemente il collo.
“Se
davvero c’ha la peste, ammazzala o portala in infermeria, che
diamine! Tanto quelli là hanno già dentro un
piede nella fossa … un morbo in
più uno di meno … magari crepano prima
…”, protestò il soldato, spintonando le
due donne in direzione dell’Abbazia.
“Pest!
Mal!”
“Ho
capito, ma portala in infermeria a farla vedere!”,
sbraitò
frustrato l’uomo. “Cretino d’un francese!
Bah, vi ci conduco io, sennò
c’impesti tutti di qualsiasi cosa si sia presa quella
troia”, borbottò iroso,
pungolando la schiena di Zanze con la punta della spada, seppur al
sicuro nel
suo fodero, sia per spronarla ma anche per tenere una certa distanza di
sicurezza tra loro. Meglio, giudicò lei, così non
l’avrebbe guardata in viso.
Fra’
Anselmo aveva appena terminato l’ennesima corona del rosario
e si preparava alla sua ronda notturna, quand’ecco che dalla
porta
dell’infermeria entrò un curioso corteo di gente:
un soldato francese, uno
italiano, una donna piuttosto malconcia e due stradioti di Mercurio Bua
che
osservavano incuriositi dall’uscio, sporgendosi
all’interno.
“Ebbene?”
apostrofò il monaco quello che poteva capire la sua
lingua, indicando tuttavia la giovane tra le braccia
dell’altro soldato.
“Ho
pizzicato ‘sti due al limitare del bosco. Sostiene che
‘sta
qua abbia la peste, ma non ne sono sicuro, le pustole mi paiono un
po’ strane
…”, gli spiegò concitatamente il
mercenario e alle contadine mancarono qualche
paia di battiti cardiaci quando il benedettino, alzatosi dalla sedia,
esaminò
clinicamente spassionato sotto la gola di Lussìa.
“Infatti
non è peste, bensì una vescica
sanguinolenta”, sentenziò
solenne Fra’ Anselmo, appoggiando la candela
e lavandosi le mani.
“Contagiosissima in caso dovesse esplodere. Bravo, hai ben
pensato a portamela
qua.”
Malgrado
il complimento assai lusinghiero, il soldato non appariva
totalmente convinto. “Le vesciche sono
contagiose?”, domandò scettico.
Il
benedettino piegò con studiata lentezza
l’asciugamano. “Sei tu
forse medico?”, replicò garbatamente intimidatorio.
“No.”
“Hai
studiato a Padova?”
“No.”
“E
allora, cosa parli se non sai, ignorante?”,
infierì
il monaco, ergendosi in tutta la sua altezza ché
sarà stato sulla cinquantina,
ma anni a lavorare nell’orto, nella vigna e
nell’uliveto l’avevano irrobustito
quasi quanto un contadino.
“Ecco
… non è che mettessi in dubbio … solo
che …”
“Quousque
tandem abutere, stulte, patientia
nostra?”
E no, il
colpo basso del latino era davvero troppo per il povero
mercenario, che si ritirò con la coda tra le gambe,
lasciando alle cure del
gongolante Fra’ Anselmo le due fuggitive.
“Vegname
drio … qua … sentate qua …”,
condusse dolcemente Lussìa
ad un letto accanto alla sua scrivania, in modo da difenderla in caso
quei
birbi malnati dei suoi pazienti, annusato l’odore di femmina,
improvvisamente
non si dichiarassero redivivi e guariti soltanto per insidiarla. Di
solito uomini
e donne sostavano in stanze diverse, purtroppo in tempi di
sovraffollamento
tali protocolli neppure venivano considerati, figurarsi rispettati.
“El
mio puto …”
“Sì,
sì … vedaremo … horra sentate et
reposate …”, la
tranquillizzò dolcemente il benedettino, aiutandola a
stendersi e chiudendo le
cortine attorno. Si girò verso il
“francese” e una furtiva occhiata a Zanze,
ch’aveva levato il viso velocissima per poi riabbassarlo, gli
schiaffò in
faccia la dura realtà del loro segreto. Lo stomaco gli si
rigirò dolorosamente:
gli mancava pure quella. “Beh, poiché ti sei
scomodato a condurla fin qui, puoi
anche rimanere”, dichiarò a voce alta,
acciocché tutti udissero la conferma
dell’identità del soldato. “Respondame:uì”,
le sussurrò tra i denti.
“Uì!”,
gridò quasi Zanze, afferrando poi uno sgabello e
sedendovisi sopra. Appoggiò le spalle al muro e si
coprì col mantello fin quasi
al naso, finalmente comoda e rilassata. Fra’ Anselmo dal
canto suo chiuse
sconsolato gli occhi, respirando a fondo.
Certo
però, meditava nel frattempo che ripuliva Lussìa
da quei
pastrocchi al collo, che in una settimana aveva vissuto più
emozioni in
vent’anni all’Abbazia, infrangendo ogni regola del
Padre Fondatore,
arrabbiandosi di brutto, urlando, minacciando, insultando e mentendo
allegramente
senza tanti rimorsi e addirittura alle spalle della sua
comunità stava
architettando una pericolosissima fuga! Se l’Abate
l’avesse saputo, l’avrebbe
rinchiuso in una cella senza luce e a sola acqua, mummificato di cilici
e
flagellato ignudo dall’Abbazia fino alla Certosa.
Ne valeva
la pena peccare così forte? Ribellarsi?
Fra’
Anselmo spiò di sottecchi la mano di Lussìa
disegnare
confortanti arabeschi sul pancione, l’altra stretta a quella
dell’amica.
Cristo
aveva sempre scelto la gente più controversa e improbabile
per operare in Suo nome; se poi si considerava, ad esempio, come avesse
perdonato a San Pietro il suo triplice rinnegamento e San Paolo che
aveva
custodito le vesti dei lapidatori di Santo Stefano e pure era stato
implacabile
persecutore delle prime comunità cristiane …
hé, di sicuro dinanzi alle colpe
di Fra’ Anselmo si sarebbe messo a ridere – con
tutto rispetto – specie se
erano finalizzate a scopo di bene.
***
Nella sua
cella divenutagli d’un tratto claustrofobica, Mercurio
Bua deambulava inquieto avanti e indietro, incapace di pigliar sonno e
dunque
di riposarsi adeguatamente. Ignorava il motivo di tal nervosismo, aveva
alle
spalle battaglie assai più sanguinose di quella. Forse
perché
non era andato incontro a dei veri militari,
bensì a gente
improvvisatasi, in un poco onorevole gioco al massacro. Il condottiero
si batté
le tempie, esasperato: quando i nervi gli pizzicavano così
neppure il vino lo
calmava, tranne una buona scopata o meglio ancora una scazzottata.
La Palice
e gli altri comandanti s’erano all’unisono
congratulati
con lui per aver vinto quello scontro e sollevato temporaneamente il
campo
dalla penuria di rifornimenti. Tzé, scontro …
scaramuccia forse.
Sebbene
valenti e agguerriti, i contadini non avevano rappresentato
per Mercurio dei grandi avversari, ne aveva fronteggiati ben di peggio.
Se
ripensava a quando, a Fornovo, appena diciassettenne s’era
gettato assieme al
Marchese Francesco Gonzaga contro il re Charles VIII e di come
l’avesse ferito,
causa purtroppo l’intromissione del duca di Bourbon che gli
aveva impedito
d’ucciderlo e costì spedirlo al diavolo
… a confronto quei quattro bifolchi
male in arnese per lui corrispondevano ad una passeggiata di piacere!
Aveva
perseguito l’azione più logica e strategicamente
sensata,
quelle bande a briglia sciolta di villani costituivano una spina nel
fianco e
dovevano essere neutralizzati, avanti che le truppe, sempre
più indisciplinate
e scoraggiate, disertassero in massa. Ciononostante, il greco-albanese
non
gustava alcuna soddisfazione nella vittoria, al contrario lo riempiva
di
un’amarezza sconosciutagli. Aveva compiuto il suo dovere,
ciò per cui era stato
addestrato e pagato. Aveva eliminato un problema alla radice e
compensato
adeguatamente chi l’aveva aiutato nell’impresa.
Non si
dà l’osso ai cani per premio? Dunque che i soldati
celebrassero quel piccolo successo e si tirassero su di morale, se
poteva anche
distrarli dall’incerta situazione di stallo e motivarli a
combattere sotto le
mura di Treviso, anticipando ciò che li attendeva in caso di
vittoria. Era l’unico metodo sicuro per
mettere in riga i militi,
per ammansirli: cibo, danari e femmine.
Mercurio
si premette i palmi delle mani sugli occhi: il viso di
quel contadino da lui ucciso continuava a perseguitarlo. Non per la
maschera di
sangue e cervella, non per la truculenta
semi-decapitazione che
l’aveva spedito nell’Ade, no. La sua espressione.
Non quella sorpresa del Re di
Francia, non quella stizzita di un mercenario sconfitto, no, la sua era
la faccia
di chi aveva appena perduto un caro amico, di chi combatteva per
proteggere
quella moglie che forse il Bua aveva consegnato ai soldati per
divertirsi …
neanche conosceva il suo nome …
“Malakas!”,
imprecò tra i denti, battendo le nocche contro il
legno della scrivania. Necessitava di una distrazione, ora, in
quell’esatto
momento. Sua moglie, non poteva per ovvi motivi; Leka e Zilio neppure
desiderava sapere dove si fossero cacciati. Un prete neanche per sogno,
dunque
… Indossò in fretta e furia la lunga casacca
imbottita di cotone e uscì dalla
cella sbattendo la porta, in direzione dell’infermeria.
Hironimo
si sentì all’improvviso soffocare, svegliandosi di
soprassalto. Si dimenò d’istinto, spaventato e
disorientato, artigliando ciò
che in quel momento gli stava impedendo di respirare agevolmente,
scoprendo
trattarsi di una robusta mano.
“Stai
tranquillo”, si ritrovò il patrizio, a qualche
spanna dal
suo naso, il sorriso sghembo di Mercurio Bua, il quale sedendosi cauto
sul
bordo del letto liberò gradualmente la bocca e il naso del
giovane, stupefatto
quest’ultimo di non averlo sentito avvicinare e pensare che
aveva sempre
posseduto un sonno piuttosto leggero. Colpa delle tisane di
Fra’ Anselmo,
indubbio. In ogni caso Hironimo scattò seduto, fissandolo in
cagnesco in tacita
accusa dei suoi modi da turco.
“Suvvia,
non mi guardare con quegli occhioni indignati: non stavo
mica per attentare alla tua virtù, ti avrei prima chiesto di
sposarmi”, scherzò
grossolano il condottiero e il Miani arricciò il naso al
puzzo vinoso nell’alito,
segno che il suo interlocutore s’era ben goduto la sua
personale festicciola.
D’un tratto gli dispiacque d’aver sottoposto ad
uguale trattamento Lena, in
quelle rare occasioni in cui lui l’aveva avvicinata mezzo
sbronzo.
Notando
l’ostinata apatia nell’ex-castellano, Mercurio
schioccò la
lingua, espirando snervato. “Stavo scherzando, ovvio! Voglio
soltanto parlare
un po’, che diamine!”
“Beh,
io no”, replicò secco il patrizio, tornando
disteso sul
fianco e dandogli sgarbatamente le spalle.
“Qualche
oretta, che ti costa?”
“Non
è né il luogo né il momento. La
prossima volta, magari,
quando tu non sarai ubriaco ed io ammalato.”
Le dita
del Bua si contrassero in un rictus nervoso. “Spostiamoci
nella mia cella. Lì nessuno ci
disturberà.”
“Dopo
che hai minacciato di sodomizzarmi? È l’ultimo
posto al
mondo dove ti seguirei!”
“Allora
nel chiostro, in chiesa, all’inferno! Ovunque,
purché tu
muova quel tuo culo veneziano! Oppure preferisci che chiacchieri col
moccioso?”
e indicò significativamente Thomà, che ronchisava
sereno e ignaro per terra, su
di un lettuccio di fortuna.
Hironimo
scostò in un grande svolazzo le coperte, irritato al
massimo, ponendosi in piedi talmente veloce e brusco, da sballottare un
poco il
greco-albanese. “Il chiostro”, ringhiò
sottovoce, lo sguardo torvo.
Le prime
luci dell’aurora già tingevano di lilla le
flessuose
colonnine di pietra, delineando il semplice corridoio e giardinetto
interno al
cui centro sorgeva un pozzo decorato, agli angoli appena accennati di
un
quadrilatero, da vezzose foglie d’acanto. Hironimo ignorava
se i monaci
avessero o meno terminato le Lodi mattutine; sperò di no,
cosicché venissero
presto ad interromperli.
“Non
temi ch’io ne approfitti per fuggire?”, non
resistette dal
punzecchiarlo un poco, una piccola rivincita per ogni frustrazione
patita
quella sera, al pensiero della brutalità dimostrata dal
greco-albanese a danno
della sua gente.
“Tu
non scapperai”, ribatté risoluto Mercurio,
ghignando arrogante
e costringendolo a camminare indietreggiando. “Tu non
azzarderai nulla di
strano; non ti conviene e lo sai. Ti credi furbo, nevvero? Pensi
ch’io non
immagini quanto ti piacerebbe conficcarmi un pugnale tra le scapole, se
tu
n’avessi l’occasione? Peccato che ti sia
stupidamente esposto, permettendomi di
tenerti doppiamente per i coglioni. Non desideri mica ulteriori sensi
di colpa,
o mi sbaglio?”
Il
giovane Miani si sedette sul muretto perimetrale del chiostro,
su cui s’ergeva il colonnato. “Affermi il
vero”, gli concesse schietto, “non
fuggirò. Anch’io ogni tanto scherzo”,
gli restituì la pariglia, intrecciando le
mani sul grembo. Una fitta di tosse lo colse impreparato,
costringendolo a
sputacchiare qualche grumetto di saliva e catarro. Si coprì
la bocca e si
schiarì la gola. La nausea gli risalì, feroce.
Merda, aveva voluto fingerli e
invece quei crampi allo stomaco per davvero avevano incominciato a
tormentarlo.
Si passò furtivo la mano sulla fronte, storcendo la bocca
nel cogliere la
temperatura ancora calda.
“Come
ti senti?”
“Non
bene, grazie a te”, rispose aspro Hironimo, nettandosi la
mano bagnata di saliva sull’orlo della camicia.
“Dovevi proprio svegliarmi
all’alba per chiedermelo? Non si poteva attendere
un’ora meno barbara?”
Mercurio
cambiò peso da una gamba all’altra. “Ti
rispedisco subito
in letto, non ti preoccupare. Avevo voglia di rilassarmi, dopo intere
giornate
trascorse a fustigare gente indisciplinata, a far impiccare disertori,
a
combattere villani ribelli, a …”
“…
a violentare donne …”
“Io
non ho stuprato nessuno!”, si sporse minaccioso su di lui
Mercurio, battendo il pugno contro una colonnina, il viso paonazzo
d’ira.
“Possibile che ogni tua parola corrisponda ad un insulto nei
miei confronti?”
“Non
ti sto insultando”, si difese imperturbabile il patrizio,
“sto semplicemente elencando le tue imprese, mi par
diverso.”
“Io”,
scandì aggressivamente il Bua ciascuna parola, i denti ben
in mostra, “non ho mai forzato alcuna donna.”
Hironimo
lo squadrò a lungo, in silenzio. Dopodiché,
raddrizzando
le spalle, dichiarò annoiato: “Vuoi parlare,
d’accordo parliamo”, e rimase in
docile attesa, tamburellando impaziente le dita sui mattoni del muretto.
Sbuffando
deluso, il capitano di ventura gli si sedette accanto,
massaggiandosi le tempie e stropicciandosi gli occhi. Non trovando
nulla di
brillante da controribattere, si limitò a studiare il pozzo
dinanzi a sé,
strappando alcuni fili d’erba e giocandoci distrattamente.
Hironimo si portò le
ginocchia al petto, nascondendo sotto la camicia le gambe nude,
avvertendo una
certa fredda umidità molesta. Di primo acchito il Bua poteva
apparire rilassato
al limite della noncuranza, però il veneziano conosceva la
sua mimica corporea
troppo bene, cogliendo la rigidità delle spalle e la
tensione delle braccia e
delle gambe, intanto che cincionava con l’erba: il
greco-albanese lo stava
tenendo accuratamente sottocchio e se il patrizio avesse tentato di
guizzare
via da lui, gli sarebbe saltato addosso più rapido
d’un ghepardo.
I due
uomini stettero sospesi in questo limbo per un periodo
indefinito di tempo, assaporando la quiete ante il risveglio del mondo,
l’aria
dal profumo della pioggia imminente e il lontano cinguettare delle
allodole.
Gli schiamazzi dei soldati e il lamento delle donne erano stati
dispersi
assieme alle tenebre notturne dalla luce, neanche appartenessero ad un
angosciante incubo da cui tosto ci si sarebbe destati, ridacchiando
imbarazzati
del proprio sciocco timore.
“Perché
ti comporti così?”, ruppe il silenzio Mercurio,
abbandonando i fili d’erba e strofinandosi via la terra dalle
mani. “I tuoi
sono gli occhi di un combattente, di uno nato per lottare in prima
linea … la
remissività non ti s’addice.”
Appoggiando
la nuca sulla colonnina e reprimendo un violento
brivido, Hironimo socchiuse le palpebre, nauseato dalle vertigini
ch’avevano
ripreso a scuotergli il cervello. “Pensavo avertelo
già chiarito quella sera”,
quale esattamente non si sovveniva, il tempo oramai per lui aveva
assunto una
connotazione infinita e confusa. Tre settimane e mezzo di prigionia,
eppure gli
pesavano alla stregua di anni. Dinanzi all’espressione
interrogativa del Bua,
gli delucidò paziente: “Sono stanco, ammalato,
prigioniero, forse non rivedrò
mai più la mia famiglia …” e un groppo
in gola gli strozzò la voce, l’unica
punta di sincerità in quella loro bizzarra conversazione.
Tacque.
Le forze
del suo corpo si stavano gradualmente affievolendo; nel
suo intimo, per quanto s’aggrappasse caparbio alla vita e si
rifiutasse di
cedere, si stava in lui solidificando la consapevolezza di combattere
una
guerra persa, la medesima sinistra sensazione provata a Castelnuovo
quando il
Bua aveva distrutto la porta della fortezza, creandovi una breccia. Un
nemico
invisibile, più temibile del capitano di ventura e dei
franco-imperiali messi
assieme, lo consumava dall’interno, suggendogli avido il
soffio vitale in
cambio di una crescente e sconosciuta paura, paragonabile alla tipica
vertigine
di chi in bilico su di un scivoloso parapetto guarda la voragine sotto
di sé.
Quando
Fra’ Anselmo aveva recitato il rosario, la rabbia e il
dolore gli avevano provocato scatti nervosi pieni di fastidio e
ribellione a
quella noiosa litania. Ad un certo punto era stato lì per
lì d’intimare al
monaco di tacere, tappandosi snervato le orecchie. Grano dopo grano,
corona
dopo corona, le preghiere avevano incominciato ad un tratto a
scivolargli
leggere e soavi; il nome Mater, ripetuto
costantemente, non gli
suggeriva più alcuna voglia di rivolta, bensì
d’abbandono. Per un attimo s’era
rivisto bambino, sul suo lettino, la fronte calda per via di una
febbriciattola
da cambio di stagione, le dita fresche di Madre che gli asciugavano le
lacrime:
aveva pianto, terrorizzato e dolorante per via della solitudine e della
malattia. Sono qui, figlio mio, gli aveva
allora sussurrato
teneramente Madre, seguitando nella consolatrice carezza ...
“Non
mi va di sprecare energie preziose, ecco tutto.
Soddisfatto?”, gli confessò conciso Hironimo,
tamponandosi con la manica il
sudore alle tempie.
Mercurio
si girò verso di lui, gli angoli della bocca piegati
all’ingiù. Analizzò meticoloso ogni
curva dei lineamenti del viso del Miani,
ogni dettaglio alla ricerca di un inganno, di una recita da parte sua.
Quel che
vi trovò fu sul serio una stanchezza mortale di chi era
giunto al termine delle
proprie risorse fisiche e mentali. Da una parte avrebbe voluto
rimproverarlo,
se non proprio sfotterlo per quella sua debolezza – diamine,
lui era stato
prigioniero per ben sette settimane e mica ne aveva fatto una tragedia,
né
l’avevano riportato da Caterina in barella e delirante!
D’altro
canto, però, riconosceva un qualcosa di oscuro agitarsi
nel giovane uomo, una forza al greco-albanese incomprensibile, quasi
… quasi un
anticipo di metamorfosi. Il condottiero
riconosceva perfettamente
il bacio della morte sui volti altrui e invero Hironimo manifestava gli
stessi
sintomi del moribondo, ma – e qui il Bua ne rimaneva confuso
– non di un
decesso del corpo, piuttosto … dell’anima? Come,
come se una parte di lui
stesse lentamente morendo per permettere ad un’altra di
nascere. Strano,
talmente strano da rimanerne scosso e inquieto.
“E’
lamentevole”, commentò infine a voce alta,
scrocchiandosi
pensieroso le nocche. “In un’altra vita, avremmo
forse potuto essere amici.”
Gli costava ammetterlo, però sin dall’inizio
quell’orso d’un veneziano gli era
risultato alquanto simpatico. Avrà pur posseduto una
linguaccia che tagliava e
cuciva, una tendenza all’irascibilità e allo
sfottò creativo, ciononostante
aveva dimostrato un senso di lealtà, coraggio e
generosità davvero invidiabile.
Sperò di non sbagliarsi nel suo giudizio.
“Ne
dubito: sei troppo permaloso”, aggrottò la fronte
Hironimo,
l’ombra di un sorrisetto beffardo sul viso pallido e sudato.
“Allora,
avresti potuto essere mia moglie!”, lo canzonò
Mercurio,
gongolando alla vista delle spalle del patrizio irrigidirsi, manco un
gatto cui
si rizzava il pelo.
“Piuttosto
monaco stilobita in cima al Monte Pelmo!”
“Suvvia,
ti avrei corteggiato appassionatamente ed io scommetto
che sei uno scatenato sotto le lenzuola!”
“Il
tuo senso dell’umorismo m’inquieta”,
tagliò corto Miani, simulando
un disgustato conato di vomito. Quand’ecco che gli
scoccò un’occhiataccia
velenosa: “Piuttosto, perché debbo fare io la
femmina?”, inquisì irritato.
“Ho
visto come ti prendi cura del moccoloso”, gli
chiarì Mercurio,
il cui tono non tradiva curiosamente alcun’ironia, semmai
un’insolita
tenerezza. “Un padre non si comporta così coi
propri figli.”
“An,
perché tu ora sai come si comporta un padre?”
Il
condottiero grugnì sardonico. Poteva ben affermarlo: di
Pietro
Bua Spata, per quegli undici anni vissuti assieme, ben si ricordava le
sberle e
gli aspri rimproveri ogniqualvolta falliva negli allenamenti o cadeva
dal suo
cavallino o semplicemente si comportava secondo lui troppo
“da bambino”. Il suo
barba Alessio poi non aveva di certo nutrito sentimenti più
paterni, rincarando
casomai la dose di busse e sermoni. Solo sua madre l’aveva
riempito d’affetto e
di dolci parole d’incoraggiamento, baciandogli i lividi e
curandogli le
escoriazioni, confortandolo la notte durante i primi
mesi a Venezia,
dove tutto gli appariva alieno, pauroso, incomprensibile. Lei era stata
la sua
roccia e così Caterina. Adesso non possedeva più
nulla di tutto ciò e si
sentiva smarrito.
Hironimo
reclinò il capo, avvertendo un colpevole guizzo al cuore,
un timido sentimento di pietà nei confronti del suo
carceriere e tentò di
supporre cosa potesse aver provocato il subitaneo rabbuiamento nel suo
viso.
“Ti manca tua figlia?”, gli domandò
gentile, paragonando le loro situazioni; in
fin dei conti, ambedue null’altro desideravano se non di
ricongiungersi alla
propria famiglia e di proteggerla, rendendola felice e orgogliosa.
Invece,
il Bua scattò peggio di una vipera, misinterpretando la
sua genuina offerta di tregua per una provocazione. “Non
incominciare”,
l’avvertì astioso, rifilandogli
un’espressione torva e aggressiva.
Il Miani
allora ritornò immediatamente sulla difensiva,
trincerando ogni afflato d’empatia dietro le sue alte mura e
rindossando la sua
maschera di gelida indifferenza. “Conosci la soluzione per
riaverla indietro”,
gli rivelò, lasciando volutamente ambigua la frase e
sogghignando bieco dinanzi
all’irrigidimento delle spalle del condottiero, roso per
certo dai dubbi sulla
sua interpretazione. “In infermeria, alcuni soldati
discutevano su come il loro
comandante, il conte di Gambara, fosse ieri partito di gran fretta
dall’Abbazia.”
“Così
sembrerebbe. Ti dispiace?”
“Stimo
nulla di lui”, si grattò il mento Hironimo.
“Sicuro, era un
conversatore assai più civile di te, ma d’altronde
ci vuol poco …”, rigirò il
coltello nella piaga.
“Ho
notato”, sentenziò piccato il greco-albanese,
ponendosi in
piedi. “Bene”, annunciò in un enfatico
sospiro, celando a malapena la sua
intima seccatura. Il veneziano si compiacque d’aver pizzicato
un nervo
scoperto, anche perché effettivamente il conte bresciano gli
aveva di sfuggita
confidato qualcosina d’interessante, cioè, nulla
di sconvolgente, ma se
presentato sotto un’altra prospettiva …
“Basta chiacchierare, sennò quel
vecchio monaco pazzo mi spella vivo. Ti riporto indietro”,
dichiarò pratico,
allungandogli la mano per aiutarlo a scendere dal
muretto.
“Non
vuoi più sapere cosa m’ha detto il
Gambara?”, gli sorrise
obliquo Hironimo.
Le dita
del Bua si strinsero in un pugno che ritornò al fianco del
suo proprietario, il quale si sedette inconsciamente, le orecchie ben
tese. “La
febbre t’ha reso ciarliero”, appurò
stupefatto. “Avrei dovuto procurartela
prima, invece di farmi venire calli e vesciche a furia di
picchiarti!”
Il
patrizio levò in alto le mani, ammettendo le sue colpe.
“An,
non aspettarti chissà quali sconcertanti rivelazioni
… Semplicemente mi
raccontava certe divertenti bagatelle su Massimiliano. Lui è
il suo
rappresentante in campo, ti ricordi? Conosce un mucchio
d’aneddoti su di lui,
roba da scompisciarsi dalle risate … In breve, mi narrava di
quell’ordinanza in
cui ti si nominava consigliere imperiale, conferendoti maggior potere
esecutivo
in campo”, la buttò lì casualmente,
osservando attento la reazione del capitano
di ventura.
Non ne
rimase deluso: Mercurio si sistemò meglio sul muretto,
incrociando le braccia al petto. “Continua”, lo
invitò, oramai catturato dal
discorso del Miani, che obbedendo proseguì:
“Il
conte m’ha confessato il suo dispiacere nel vederti talmente
umiliato. M’ha detto, cito verbatim: trovo
assai ingiusto corbellare un
condottiero così fedele, onesto, serio e dedicato, quale
Mercurio Bua Spata.”
“Co-
corbellare?”, ripeté incredula la vittima di detta
beffa
imperiale. Si massaggiò la fronte, richiamando alla mente
ogni singolo
dettaglio di quell’ordinanza, cercando di capire dove
l’Habsburg l’avesse
fregato. Non trovando alcun dettaglio fuori posto, lanciò
un’occhiata perplessa
al patrizio, che gli espose concisamente i suoi dubbi:
“Non
ti è sembrato strano l’ordine
dell’Imperatore, che sanciva la
Piave a limite invalicabile soltanto alle
truppe francesi e ai
tuoi stradioti?”
Mercurio
deglutì male la saliva, sovvenendosi d’un tratto
di
quella piccola clausola, che all’epoca sì
l’aveva infastidito ma che poi aveva
relegato nel dimenticatoio, giacché ridimensionata dinanzi
ai doni e privilegi
concessigli dall’Imperatore. “Sì, lo
ammetto”, gli concesse a denti stretti,
“questo perché la maggior parte delle truppe
è formata da francesi e … e quindi
… voglio dire, La Palice risponde al Re di Francia e
… sicuramente l’Imperatore
…”, s’impappinò, incapace di
giustificare quell’ordine così castrante e
partigiano. A conti fatti, finora ad averci rimesso erano sempre stati
i
francesi e i suoi stradioti, mica gli …
Hironimo
avvicinò il viso al suo, finché i loro fiati non
si
mescolarono in un’unica nuvola di vapore. Le sue iridi
nerissime rilucevano di
una luce poco raccomandabile, predatrice, mentre gli esponeva il
subdolo
ragionamento del Re dei Romani:
“Massimiliano
è timoroso che voi possiate appropriarvi
indiscriminatamente di rifornimenti, di viveri e mezzi di sussistenza,
molto
abbondanti al di là della Piave, e perciò ha
consentito solo alle
milizie tedesche di varcare il fiume. Quella dei suoi capitani non
è stata una
diserzione di massa, bensì un chiaro ordine
dell’Imperatore, acciocché gli
imperiali restino sempre in vantaggio rispetto
a voi.
“Egli
teme infatti il conto che il re Ludovico gli presenterà a
fine impresa, un conto talmente salato da non poterlo saldare neppure
cedendogli l’intero bottino di Treviso.
“Il
suo piano è quindi che i tedeschi conquistino la Patria del
Friuli, riempiendosi la pancia di cibo e le botti di polvere da sparo,
mentre a
voialtri sciocchi, rimasti a guardare, non rimarrà che
soffrire la fame, la
malattia, l’impatto degli attacchi nemici. Sarete talmente
sfibrati nell’animo,
da non poter neppure protestare quando
Massimiliano incamererà
in totum la preda di guerra. E una volta incassato il malloppo, cosa
mai potrà
fare re Ludovico? Strillare che lo rivuole indietro? Dichiarare guerra
all’Imperatore?
“Tuttavia,
quest’ultimo sa che tu
non sei
completamente un idiota – al contrario dei tuoi compari
- e così ti
nomina suo consigliere imperiale e conte di Soave ed Illasi, onde
gettarti fumo
negli occhi. Perché lui sa che
tu sei l’unico con sufficienti
coglioni da mandarlo, se costretto, alla malora e di te
l’Imperatore, volente o
nolente, ha un fottuto bisogno!”, batté Hironimo
l’indice sui mattoncini del
muretto, ogniqualvolta sottolineava un concetto chiave
acciocché s’imprimesse
nella mente di Mercurio, la cui faccia impallidiva a cadauna parola, il
respiro
fattosi irregolare e sembrava in procinto di vomitare da un momento
all’altro.
L’aveva ascoltato in sbigottito silenzio, aprendo e chiudendo
la bocca
ogniqualvolta credeva di possedere argomentazioni abbastanza solide da
ribattere, sennonché ad ogni frase successiva finiva per
arrendersi, scuotendo
inconsciamente in diniego il capo, l’inattaccabile logica
finalmente denudata
ai suoi occhi.
Maximilian
li aveva menati per il naso; tutti quei sorrisi, quelle
promesse, quegli infiammati discorsi sulla cavalleria,
l’onore, la sacralità
della vendetta, quei “Mein geliebter Bruder”: oh,
sicuro! Fratello, fratello,
mio amato fratello, dissero al biblico Giuseppe avanti di venderlo!
L’Imperatore
li aveva mandati accuratamente allo sbaraglio,
nascondendosi abile dietro le quinte e da lì in attesa dei
risvolti finali
degli eventi: in caso di sconfitta, la colpa sarebbe stata imputata a
La Palice
e a Mercurio Bua che non avevano obbedito ai suoi ordini con
sufficiente
diligenza. In caso di vittoria, tutto merito del genio militare di
Maximilian,
il quale da Bolzano sarebbe volato giù fino a Treviso,
materializzandosi
all’improvviso nella città conquistata.
Keratas!
Il
giovane patrizio non concesse al Bua alcuna tregua,
incalzandolo spietato nella sua confusione e rabbia, adesso che lo
stava per
avere in pugno: “Vedi in quale considerazione ti tiene
quell’Asburgo? In tal
modo ci si comporta cogli alleati? Con chi combatte così
… arditamente per
lui?”
“Stai
cercando di seminare zizzania?”, soffiò furioso
Mercurio,
rifiutandosi di credere ad un tiro così basso e vile! Non a
lui, non se lo
meritava! Lui che aveva costantemente servito con la più
assoluta lealtà e
impegno i suoi signori, come si permetteva quel … quel
… a trattarlo alla
stregua della peggiore delle scartine?
Hironimo
negò tristemente. “Sto cercando di aprirti gli
occhi,
capitano. Provo troppo rispetto nei tuoi confronti, per vederti preso
per i
fondelli da un austriaco bugiardo e senza coglioni, che manco ha il
fegato di
mostrare il suo muso al fronte, delegando ai suoi comandanti
l’onore di morire
per le sue cause. A lui la gloria
eterna e a voi la
bocca riempita di terra!”
Le nocche
del greco-albanese si sbiancarono dalla stretta,
scrocchiando sinistramente. “Non ho intenzione di cambiar
bandiera, qualsiasi
cosa tu mi dica”, tremava dalla collera e
dall’umiliazione, tuttavia non immune
dal sospetto che forse si trattava di un’accorta bugia del
veneziano per
indurlo al tradimento.
Sicché
sussultò neanche avesse ricevuto una frustata, quando
Hironimo si sciolse in un riso sguaiato, cattivo. “Certo,
certo, com’ho potuto
scordalo? Sempio mi!”, si batté il patrizio
teatralmente la mano sulla fronte,
il bel viso deformato in una maschera beffarda e crudele. “Tu
sei troppo pieno
del latte dell’umana bontà e gentilezza e
giustamente t’accontenti delle
briciole altrui. Massimiliano con te ha concluso davvero un ottimo
affare, lode
al suo fiuto. La stragrande maggioranza dei condottieri pretende ducati
sonanti
a ricompensa delle proprie fatiche, mentre tu ti ritieni soddisfatto di
un
sorriso galante, di una pacca sulla spalla, di una stretta di mano e di
qualche
insignificante zolla di terra su cui giocare al
conte-dalle-brache-onte! Me lo
vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: Ben
fatto, Mercurio;
bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie,
Mercurio, per aver
sacrificato all’altare del mio prestigio la tua vita e quella
dei tuoi uomini;
grazie per aver rinunciato per amor mio a tua moglie e a tua figlia!”
Un pugno
alla bocca dello stomaco lo interruppe, sbilanciandolo
sulla sinistra e di fatti, grugnendo di dolore e senza appiglio,
Hironimo cadde
sull’erba, riecheggiandogli il colpo dell’impatto
dalla schiena lungo l’intero
scheletro, fino all’ultimo osso.
Povero,
povero il mio Maurikos, Conte del Niente!, tambureggiarono
di nuovo veementi le parole di Caterina nelle orecchie del Bua,
mescolandosi a
quelle di Hironimo. Braccato, in trappola, a corto di argomenti dinanzi
a
quell’impietoso e veritiero teatrino imbastitogli. Lui non
era un debosciato di
cui approfittarsi! Un figlio di papà con la pappa pronta! Da
solo s’era
costruito la sua carriera e reputazione, non avrebbe permesso a
chicchessia
d’infamarlo né di deriderlo! Ogni
volta la stessa storia con lui: molto
onor, pochi contanti! Tutt’al più se non sei del
suo paese!
Mercurio
afferrò il veneziano per la gola, spingendolo supino per
terra quando questi fece per rialzarsi, posizionandosi a carponi sopra
di lui
al fine d’immobilizzarlo. “Le tue parole puzzano di
veleno”, proferì in un
gelido sussurro, che sapeva di condanna.
“Mio
povero, povero Mercurio”, gracchiò di rimando
Hironimo. “Il
veleno non ha odore, non sai?”
Neanche
cingesse carboni ardenti al posto della pelle, il capitano
di ventura abbandonò in un guizzo la
presa al collo, balzando agile
in piedi e issando in un possente strattone il patrizio.
“Bada a guarire in
fretta: febbricitante o meno, quando leveremo il campo tu mi seguirai
ovunque
io vada e non ti perderò di vista per un solo istante,
neppure in battaglia,
dovessi legarti al vessillo!”, gli promise arcigno,
spingendolo di malagrazia
in direzione dell’infermeria.
“Un
tal spettacolo neppure il tanto osannato Boiardo sarebbe stato
in grado d’inventarselo!”, ridacchiò
divertito Hironimo, acquiescendo
all’implicito ordine del Bua.
Poco gli
importava se gli credesse o meno: la verità lui
gliel’aveva
detta, poi stava al greco-albanese trarre le sue giuste conclusioni.
Non lo
tangeva. Che decidesse di farsi ammazzare stupidamente per Maximilian,
o che
decidesse di ritornare a servire la Serenissima? Cavoli suoi.
Ciò che più
premeva al Miani era di tenergli la mente occupata, distraendolo: in
questo
modo avrebbe abbassato la guardia, fornendogli un’ottima
occasione per fuggire.
Ché arrabbiato e confuso, Mercurio Bua diveniva assai
negligente, commettendo
errori grossolani e situazioni ideali onde facilitargli il piano.
Hironimo
stava davvero giungendo al suo limite, la fuga adesso la
sua unica ragione di vita e speranza.
***
Fra’
Anselmo tamponava leggermente le ferire sul dorso di Zanze
con dell’aceto, disinfettandole, di tanto in tanto scoccando
un’occhiata
guardinga dietro di sé. La contadina, scoperta la schiena il
minimo necessario,
sussultava e sibilava al tocco bruciante del liquido, senza
però sottrarvisi e
il monaco ridacchiò al ricordo di certi suoi pazienti uomini
più agliofobici di
lei. “Ancora un poco e abbiamo finito”, la
rassicurò benevolo, impiegando un
tocco leggero e rapido.
Zanze
scrollò le spalle. “Gh’ho
soportà de pezo: el barba di mia
mare, co’, par lu, mi no ghe no lavoravo bastanza, me
cresemava (cresimare =
picchiare, ndr.) pì d’on musso!” (asino,
ndr.)
Il
benedettino storse la bocca in disappunto: credeva fermamente
nello disciplinare i giovani, per lui il mondo sarebbe finito alla
malora il
giorno in cui avrebbero smesso d’elargire qualche salutare
scappellotto alle
loro ribelli cervici; tuttavia batterli alla stregua di tamburi lo
riteneva più
nocivo che educativo, rendendoli o estremamente paurosi oppure
aggressivi, a
seconda del carattere.
Per
esempio, quel giannizzero di Thomà accanto a lui non aveva
ricevuto sufficienti sculaccioni, giacché disobbediente ad
ogni ordine, specie
quando Fra’ Anselmo gli aveva intimato di trasferirsi in
foresteria visto
ch’era guarito. Niente da fare: il fantolino s’era
costruito una sorta di
cuccia per terra, vicino al patrizio veneziano, e lì voleva
stare, cascasse il
mondo o la pazienza del monaco. Il quale, considerata
l’energia frenetica del
pargolo, l’aveva arruolato ad ergersi assieme a lui a scudo
umano, onde coprire
ulteriormente Zanze da occhi indiscreti.
“Passami
l’unguento!”, comandò al bambino,
intanto ch’appoggiava
la pezza di tela insanguinata su di una bacinella a parte.
“Coss’elo?”,
non resistette Thomà dall’annusare il cremoso
impasto.
“Una
mistura di centaurium erythraea et lamium galeobdolon!”
“L’amia
(zia, ndr.) dil galeoto? Cossa
c’entréla?”
Il
pover’uomo si pizzicò esasperato la radice del
naso: aveva
scordato l’ignoranza imperante al di là delle mura
del monastero, sicché talora
nutriva l’impressione di parlare col fantolino idiomi
diversi, manco
provenissero dai due estremi opposti del mondo.
“Baùco!”, lo rimproverò
sbuffante il benedettino, intingendo la punta di una pezza pulita
nell’unguento
e applicandolo delicatamente sulla ferita di Zanze.
“Xéi zentaurea menor e falsa
antrìga zàla (ortica gialla, ndr.), tutte e do
erbe bone par varir sbréghi
(ferite, ndr.) e secatrizar (cicatrizzare, ndr.). Depo’ la
falsa antriga zàla,
la gh’ha anca proprietà espettoranti!”
“Justo,
a xé onta e fa petòni!”
(macchie d’unto,
ndr.), schioccò le dita Thomà, fiero di
sé per aver compreso la difficile
parola da patavino dottore universitario.
“Bone
Jesu!”, guaì Fra’ Anselmo, mentre le due
giovani donne
ridacchiavano dinanzi a quella commediola degli errori. “No,
no sior mamara
(scimunito, ndr.): “espettorante” vuol dir che te
fa spuàr (sputare, ndr).”
“An!
Pulito! Ma perché?”
“Perché,
perché! Perché sputare fa bene, ti libera i
polmoni dagli
umori nocivi! Per l’appunto ho somministrato anche al tuo
patron un po’ di
falsa ortica gialla, acciò si liberi dal catarro e stia un
po’ tranquillo in
letto …”, ché quell’erba
possedeva pure benefici antispasmodici, nella speranza
che gli rilassasse abbastanza i muscoli da persuadere Hironimo a non
gironzolare sconsideratamente all’alba, in camicia e a piedi
nudi.
Infatti,
il frate lo aveva sottoposto ad una solenne lavata di
capo non appena l’aveva pizzicato rientrare in infermeria,
sordo alle vivaci
proteste del giovane patrizio, tutte accusanti la villania di Mercurio
Bua e la
sua incapacità di distinguere lui da un prete, considerate
le sue smanie di
ciarliere confessioni. Inflessibile, il benedettino l’aveva
minacciato di
legarlo al letto e costretto a bere il primo decotto della giornata,
rimboccandogli le coperte e ordinandogli di dormire. Su quel punto il
Miani
s’era ritrovato d’accordo, appisolandosi quasi
immediatamente, ambedue le mani
al ventre.
Fra’
Anselmo spostò lo sguardo alla finestra e poi verso il
veneziano: il sole già s’era alzato da che
mo’, eppure ancora non s’era
risvegliato. L’uomo s’augurò non si
trattasse di una brutta ricaduta, non
adesso che stavano terminando di progettare il piano di fuga!
Il monaco
terminò di spalmare
l’unguento sulle ferite
di Zanze, istruendo Lussìa a stringere piano le bende e,
intanto che quella
rindossava camicia e casacca, le raccomandò di dormire, se
possibile, prona e
di non appoggiarsi di schiena al muro. Quanto alla sua amica, il
bambino pareva
scalciare tranquillo e l’ansie della notte scorsa non davano
segni di
complicazioni, però queste rimanevano supposizioni del
frate, non pratico
quanto una levatrice di tali muliebri questioni. Ciò di cui
Lussìa necessitava
piuttosto era cibo e Fra’ Anselmo rinunciò
volentieri alla sua magra razione
per lei, anche per quaresimarsi in penitenza.
Accorgendosi
del risveglio d’Hironimo, Thomà disertò
il
benedettino per zampettare da lui e balzargli in letto, intanto che il
patrizio
si puntellava cautamente sui gomiti. Il piccino gli sistemò
il cuscino dietro
la schiena e, ad operazione compiuta, sussurrò qualcosa
all’orecchio del
giovane, lanciando qualche fugace occhiata al monaco e alle contadine.
“Ben
svegliato”, li raggiunse Fra’ Anselmo, chiudendo le
cortine
attorno al letto delle due donne. “Vediamo un po’
come sei messo oggi”, disse e
tenendogli il mento, mosse piano il volto di Hironimo, studiandone il
colore
della pelle, la torbidezza dell’occhio e la
quantità di bianco sulla lingua.
Gli misurò la temperatura, storcendo affatto compiaciuto la
bocca: ecco cosa
accadeva a fare i mona in giro, scalzi, coll’umido mattutino
a raffreddare
bronchi, stomaco e ossa!
“Cosa
c’è da mangiare?”, anticipò
Hironimo la paternale, che il
crucciato frate già s’apprestava ad appioppargli.
“La
tua medicina”, rispose secco quell’altro.
“E solo dopo che
l’avrai bevuta tutta, si parlerà di
colazione.”
Il
patrizio sospirò deluso, scivolando sotto le coperte.
“Morirò pisciando”,
bofonchiò e il benedettino catturò il modo in cui
ancora si reggeva la pancia,
quasi soffrisse di crampi o coliche.
Fece per
chiedergli di mostrargli là dove l’affliggeva,
quand’ecco
un confratello chiamò Fra’ Anselmo, necessitando
della sua assistenza.
Dodici
monaci lo seguivano, smunti, sporchi, gonfi di lividi e
croste di sangue, l’abito dell’ordine certosino
lacero e lordo di fango, senza
mantello. Immediatamente il frate l’identificò
provenienti dalla limitrofa
Certosa di San Girolamo, seccandoglisi la saliva in gola alla vista di
tal
scempio specie quando, tra questi poveretti malmenati, egli riconobbe
Fra’ Thomà
Patavim, una sua vecchia conoscenza.
Il
confratello spiegò al benedettino come costoro fossero
giunti
appunto dalla Certosa, scortati personalmente dal maresciallo La
Palice, dopo
che questi s’era dovuto recare d’emergenza al
monastero su sollecita richiesta
del Conte di Collalto, per indagare sulla veridicità degli
apocalittici
resoconti del loro Priore circa il vergognoso comportamento dei soldati
tedeschi accampati alla Certosa.
A
giudicare dalle facce tumefatte dei certosini, le lamentele del
procuratore spirituale si erano dimostrate anche fin troppo ben
giustificate.
Fra’
Anselmo sistemò meglio che poté i nuovi arrivati,
l’infermeria satura: chi su di uno sgabello, chi per terra,
chi appoggiato al
muro se riusciva a reggersi in piedi. Si dolse di non poter offrire
loro se non
qualche mezza scodella di zuppa di rape rosse; dal modo bestiale in cui
la
trangugiarono direttamente senza cucchiaio, l’uomo comprese
trovarsi i
certosini in condizioni assai ben peggiori delle loro.
“Cos’è
successo?”, interpellò egli sottovoce
Fra’ Thomà, con la
scusa di tamponargli un taglio sullo zigomo con dell’acqua
fredda.
Il frate
tirò su col naso, rabbrividendo al pizzicore della
ferita. “I todeschi, ecco cos’è
successo. Quei diavoli d’inferno hanno messo la
nostra Certosa al sacco! Tutto c’hanno portato via: bestie,
arnesi, viveri, lasciandoci
solo l’aria per respirare e le lacrime per piangere.
Arraffavano qualsiasi cosa
trovassero, addirittura hanno fatto irruzione in chiesa, mentre ci
trovavamo a
pregare davanti all’altare! Li abbiamo supplicati di
smetterla, di rispettare
la casa di Dio, ma quelli, ridendosela, ci hanno picchiato, minacciato,
spogliato dei nostri mantelli … E non paghi, quasi a
deriderci, dopo averci
derubati quegli sciagurati si sono tutti inginocchiati davanti al
Crocefisso,
si sono segnati, e sempre imperturbabili se ne sono andati via con la
nostra
roba!” Non avevano dimostrato alcun timor di Dio, forzando
barbaramente le
porte della chiesa, con le armi in pugno, per di più durante
l’Adorazione e
dalla paura il certosino aveva ingoiato in un sol boccone
l’Ostia, in caso quei
masnadieri avessero deciso di profanare anche Quella oltre alla casa
del
Signore.
Fra’
Anselmo inspirò profondamente, approfittando di strizzare
via
l’acqua dalla pezza per sfogare la sua rabbia. Udendo di tali
barbarità,
concluse che invero Dio era esigente nel chiedere di porgere
l’altra guancia,
una fatica sovraumana.
“Erano
furiosi”, aggiunse Fra’ Thomà maggior
dettagli a quella
squallida vicenda. “L’argenteria e gli altri
oggetti di valore in sacrestia li
avevamo già inviati al sicuro a Veniexia, ben prima
dell’arrivo di
quest’esercito di senzadio. Di conseguenza, non trovando
nulla di prezioso, i
todeschi ci hanno percossi affinché li rivelassimo dove li
avessimo nascosti.” S’inumidì
le labbra gonfie e incrostate al ricordo dei pugni ricevuti da un
lanzichenecco
per nulla soddisfatto della risposta datagli, ossia che per loro di
prezioso
non v’era alcunché da rubare.
Il
certosino proseguì: “Dopodiché
è giunto alla Certosa monsignor
di la Peliza e subito il nostro Priore gli è corso incontro,
lamentandosi delle
crudeltà usate su di noi e su di un luogo sacro. Il
maresciallo s’è
immediatamente scusato, contrito: Non
sono stati i miei francesi, e se anche lo fossero stati,
v’avrei posto rimedio.
Ed ha giurato per la fede sua di schierare quei todeschi
malnati in prima
linea, una volta messa Trevixo sott’assedio”,
concluse il suo triste racconto,
appoggiando la bocca sull’orlo della scodella e ingoiando
avidamente il
piacevole liquido caldo.
Tipica
promessa del comandante: trasformare gli indisciplinati in
scudi umani al primo scontro, piuttosto di punirli in loco, scosse
il capo Fra’ Anselmo, che ormai stava imparando a capire il
modus operandi di
tal marmaglia. “E adesso? Cosa farai?”,
inquisì invece.
Fra’
Thomà lo guardò nervosamente dietro il piatto,
per poi
riconcentrarsi colpevole sulla zuppa. Il benedettino arcuò
insospettito il
sopracciglio, ancor di più quando Mercurio Bua comparve
all’uscio della porta,
facendo sobbalzare i due monaci.
“Colendissimo
padre”, lo sfotté il greco-albanese tramite la
riverenza e Fra’ Anselmo si morse la lingua, soffocando una
degna risposta a
quell’indegno saluto, “il maresciallo La Palice
richiede la vostra assistenza.
È ritornato dalla Certosa pallido, sudato e sostiene
soffrire di dolorosissime
fitte alla testa. La sua garzona vi saprà dire di
più a riguardo. Avreste
dunque la cortesia di visitarlo e magari di preparagli una delle vostre
portentose tisane?”
Il frate
s’alzò in piedi. “Vedo cosa
potrò fare.”
“Ah,
e già che ci siete, recatevi anche dal conte di Gambara.
Stamane non si è alzato dal letto e il maresciallo vorrebbe
informarsi sulle
sue condizioni di salute: temo che la sua improvvisa cavalcata non gli
abbia
affatto giovato”, aggiunse all’ultimo il capitano
di ventura.
Per tutta
risposta Fra’ Anselmo uscì
dall’infermeria, affidando i
suoi malati al confratello e assistenti. Rimasto finalmente solo con
Fra’ Thomà
Patavim, Mercurio occupò il posto vacato
dall’altro monaco, squadrandolo ben in
faccia. “La mia offerta rimane tuttora valida”,
andò dritto al sodo, “sta a voi
accettarla o meno, però vi avverto: oggi o mai
più.”
Il
certosino appoggiò la scodella sulle ginocchia, nettandosi
la
bocca col manico del saio. Nel suo resoconto di quanto accaduto alla
Certosa,
aveva omesso di riportare a Fra’ Anselmo un piccolo
dettaglio, ovvero che il
capitano degli stradioti Mercurio Bua aveva accompagnato il
generalissimo
francese alla volta del monastero e che mentre La Palice si beccava le
lamentele, sfuriate e anatemi del Priore, il condottiero aveva
avvicinato Fra’ Thomà,
domandandogli se avesse dei parenti a Treviso. Il frate, interdetto e
un poco
intimidito dalla cruda fama del Bua, gli aveva replicato che
dappertutto nel
mondo possedeva fratelli. Al che il capitano aveva
specificato
fratelli o parenti di sangue, non spirituali. Sì, ne aveva,
aveva allora
risposto il frate e inaspettatamente gli era stato chiesto se volesse
raggiungerli, giacché Mercurio gliene avrebbe offerta
l’occasione.
“Perché
mi volete aiutare?”, gli pose Fra’ Thomà
quella domanda,
che l’aveva tormentato sin dal loro primo incontro.
“Anzi, perché ci volete
aiutare?”, si corresse, menzionando il fatto che il
greco-albanese era disposto
ad estendere il favore anche agli altri undici frati malconci.
“Perché
siete delle inutili bocche da sfamare”, non gli
zuccherò
il farmaco il Bua, provocando un indignato rossore nel monaco,
“e non abbiamo
tempo per farvi da balie, men che meno il nostro maresciallo, che in
questo
momento ha ben altre gatte da pelare, che proteggervi dai
tedeschi.” Incluso
rimanere in salute, aggiunse mentalmente lo stradiota.
“Un
comandante incapace di tenere a freno i propri soldati, non si
può certo ritenere tale!”, giudicò
inclemente Fra’ Thomà, indicando il suo viso
a chiazze rosse e blu.
Mercurio
scrollò incurante le spalle. “In ogni modo, potete
scegliere se rimanere qui a patire la fame e le percosse, oppure
scappare a
Treviso e poi raggiungere il vostro ordine a Venezia.”
“Come?”,
strinse gli occhi il certosino, sospettoso e temendo un
inganno. Dopo lo scontro coi contadini, il bosco del Montello pullulava
degli
stradioti del Bua, i quali perlustravano assieme ai gendarmi ogni zolla
di
terra, in cerca dei superstiti e di scoraggiare anche gli esploratori e
stradioti veneziani, sempre vigili e pronti ad improvvise imboscate.
Sia
l’Abbazia che la Certosa erano occupate dagli accampamenti
dei
franco-imperiali, i quali avevano triplicato i turni di guardia.
Impossibile
quindi fuggire senza un aiuto esterno.
O interno.
“Darò
a voi e ai vostri confratelli una mia piccola scorta, la
quale v’accompagnerà al limitare del bosco, per
poi lasciarvi proseguire da
soli. Gli stradioti veneziani cavalcano in incessante esplorazione, non
tarderanno a notarvi e a soccorrervi”, gli spiegò
in breve Mercurio.
Fra’
Thomà reclinò il capo, dubbioso quanto il suo
omonimo santo.
“E tutta codesta generosità in cambio di
cosa?”, mise le carte in tavola,
arrivando al nocciolo della questione. La reputazione del Bua lo
procedeva e
pure le sue bizzarrie – tendere un’imboscata a chi
l’aveva sfidato a duello;
far catturare un suo alleato per ripicca; abbassare ad una cifra
ridicola e
simbolica la taglia di riscatto di un’intera
città; affrancare un uomo che non
aveva soldi per liberarsi; infilzare su di una picca la testa di un suo
parente
e rivale croato, per un’antica faida tra famiglie e tante
altre. Naturale che
il certosino poco si fidasse di lui, del suo carattere volubile e
appunto
mercuriale, di quel suo avvicinarlo senza un doppio scopo.
Il
greco-albanese s’avvicinò a lui, estraendo dalla
sua casacca un
foglio piegato e sigillato. “Consegnerete per conto mio una
lettera”, fu la sua
semplice richiesta.
“A
chi, nello specifico?”
“Al
magnifico e illustrissimo consigliere ducale, messer Giovan
Battista Morosini “da Lisbona.” A lui e a lui
soltanto.” Caterina non aveva
risposto ad alcuna delle sue lettere, né tantomeno suo
fratello Teodoro e i
suoi cognati Manoli e Costantino Boccali soltanto per mandarlo al
diavolo.
Silenzio totale anche dal Consiglio dei Dieci, dei Pregadi e il Doge
contava
quanto un due di bastoni, manco sprecava carta e inchiostro. A questo
punto,
considerata la situazione, era infine giunto il momento di rivolgersi
all’unica
persona su cui Mercurio poteva veramente far
leva.
“Cosa
dice?”
Il
capitano degli stradioti aggrottò la fronte, sorpreso e
piccato
da quell’eccessiva curiosità. “Non sono
affari vostri”, tagliò bruscamente
corto, spingendo la missiva sotto il naso del frate.
Fra’
Thomà incrociò testardo le braccia al petto.
“Sì, invece,
perché potrei rifiutarvi questo favore. Chi
m’assicura che non si tratti di
qualcosa di compromettente o che possa compromettermi agli occhi della
Signoria?”
“Che!
Avete la coscienza sporca?”
“La
calunnia, signor capitano, esiste dall’alba dei tempi. O mi
rivelate i contenuti o non se ne fa nulla”, fu
l’innegoziabile ultimatum del
monaco.
“E
voi rimarrete qui prigioniero e affamato”, levò in
alto i palmi
delle mani Mercurio, in realtà scocciato da tanta
testardaggine. Un conto era
comandare i suoi stradioti, un conto i civili, teste ancor
più dure. Almeno i
primi poteva sempre minacciarli con la frusta.
“Pensate
che la prospettiva mi spaventi?”, sogghignò
indulgente
Fra’ Thomà. “All’inizio non
comprendevo perché vi foste rivolto a me, ora sì:
soltanto uno interno alla Serenissima può recapitare questa
lettera al vostro
destinatario, poiché i vostri uomini verrebbero o catturati
o questa missiva
confiscata e letta da terzi e voi non desiderate ciò. Al che
vi si precludono
molte possibilità di scelta e se io dovessi rifiutarmi, voi
vi trovereste
daccapo. Ho forse torto?”
Il
condottiero batté sarcastico le mani. “Per esser
gente ch’ha
rinunciato al mondo, voi monaci la sapete anche fin troppo
lunga”, commentò
beffardo, ammettendo ciononostante la perspicacia del frate.
Sicché gli
concesse la sua richiesta, sebbene ai suoi termini. “In
breve - e
non chiedetemi ulteriori dettagli - mia moglie si
trova al momento a
Venezia e quando la Signoria avrà intenzione di
restituirmela - alle
condizioni da me elencate - invierò una
robusta scorta dei miei
migliori stradioti a prelevarla, così da levar il disturbo
alla Signoria
d’organizzare la cosa. Soddisfatto? Abbiamo un
accordo?”
Fra’
Thomà ponderò a lungo i pro e i contro,
alternando la
contemplazione della lettera al viso dell’epirota, le cui
sopracciglia si
stavano avvicinando impazienti ad ogni istante di tentennamento da
parte del
monaco. “Mi pare una richiesta ragionevole”,
sentenziò infine e Mercurio
convenne assolutamente con lui. “Sul serio ci assisterete
nella fuga?”,
sussurrò poi d’un tratto ansioso.
“Avete
la mia parola d’onore”, si portò il
condottiero una mano al
cuore, gli occhi luccicanti di febbrile eccitazione. “Possa
Iddio fulminarmi in
questo istante se mento.”
Il
certosino lo chetò tramite un deciso gesto della mano,
ritenendo inopportuno scomodare il Padreterno per tali quisquiglie.
“Accetto”,
dichiarò solenne, sfilando la lettera dalle dita di Mercurio
e nascondendola
sotto lo scapolare.
“Badate:
quanto vi ho appena confidato, resterà con voi. A nessuno
- intesi? - a nessuno dovrete ripetere i contenuti
di questa
lettera”, si raccomandò il greco-albanese,
ponendosi in piedi e squadrandolo
intimidatorio.
“Sia”,
annuì Fra’ Thomà.
“Riposatevi
adesso per qualche oretta e poi recatevi nella mia
cella: Zilio Madalo, il mio luogotenente,
v’istruirà dove incontrarvi per la
partenza. Il tutto con discrezione”, giacché La
Palice ignorava alla grossa
questa personale iniziativa del condottiero: agli occhi profani dei
francesi, i
frati erano scappati e gli stradioti del Bua partiti alla loro ricerca,
ma,
ahimè, senza successo.
Fra’
Thomà asserì di nuovo col capo, raggiungendo il
gruppetto dei
suoi confratelli per informarli a grandi linee del piano per
abbandonare l’Abbazia
alla volta di Treviso, inducendoli alla calma e circospezione onde
evitare di
destare sospetti, specialmente tra i benedettini, i quali avrebbero
potuti
denunciarli o all’Abate o al maresciallo oppure accodarsi a
loro e di
conseguenza complicarli la fuga.
Mentre i
certosini così confabulavano, Mercurio si recò a
porger
visita al suo prigioniero, trovandolo per suo sommo fastidio bianco
quanto le
lenzuola. Seduto a tenergli compagnia l’immancabile
marmocchio, interrompendolo
l’arrivo del condottiero nel bel mezzo della spiegazione
della parola
“espettorante” da lui imparata quella mattina.
“Hai
mangiato?”, s’informò perentorio il Bua,
notando la scodella
preoccupatamente vuota e asciutta. A seguito della discussione di
quella
mattina ancora risentiva il patrizio per le sue insinuazioni,
ciononostante si
sforzò di non recriminarlo eccessivamente per delle - lo
riconosceva - giuste
obiezioni sull’ambiguo comportamento
dell’Imperatore. D’altronde anche La
Palice ne diceva su di lui peste e corna, ergo …
“Gli
ultimi rimasugli di zuppa di rape se li sono pappati quei
monaci certosini”, gli rispose concisamente Hironimo,
ponendosi come suo solito
davanti a Thomà.
Potrei
stenderlo con un unico ceffone e ancora crede di riuscire a
proteggere il moccioso. “Uhm”, contemplò
pensieroso il capitano di
ventura la punta dei suoi stivali. Perché si
sentiva lui a
disagio invece di quell’altro, quando dalla parte del torto
sguazzava appunto
il veneziano? “Provvederò a farti portare
qualcosa. Anche al pidocchio, lo
so”, l’anticipò snervato, non
appena il Miani aprì la bocca per replicare.
Invece
… “No, non era questo di cui volevo
parlarti.”
“Ti
preferivo muto, sai?”, roteò gli occhi Mercurio,
affatto
desideroso di un’altra diatriba, la quale sarebbe
puntualmente terminata con
lui arrabbiato e il Miani pestato peggio d’un
baccalà.
Il
patrizio chiuse la mano in un pugno, segno che neanch’egli
aveva tempo per incominciare le solite discussioni da lavascale.
“E così hai
intenzione di far fuggire quei monaci certosini?”, gli
domandò brutalmente
schietto. “Suvvia, da quando in qua parli fitto-fitto con un
frate? Neanche se
me lo giurassi su tua madre, ti crederei così cristiano da
confessarti”, gli
delucidò con un sorrisetto compiaciuto.
Mercurio
sobbalzò, non attendendosi d’esser stato scoperto
così
presto. E adesso? Quale provvedimento questo furbastro voleva prendere
contro
di lui? Ricattarlo? Denunciarlo? Ci provasse pure, gli avrebbe estratto
le
budella dalla bocca!
“Dunque?”,
gli chiese imperturbabile. “Anche se fosse?”
Hironimo
lo trafisse coi suoi occhi nerissimi. “Come ne
sgattaiolano fuori dodici, ne possono sgattaiolare fuori quattordici
…”
Il Bua
sentì fischiargli le orecchie e divenne paonazzo.
“Stai
tentando di corrompermi per lasciarti fuggire con loro?!”,
berciò furioso, già
avanzando di qualche passo per riempire di ceffoni quel muso da
impunito del
patrizio, il quale allungò il braccio, ponendo una stizzita
distanza tra loro.
“Se
mi ascoltassi invece di continuare ad interrompermi, magari ci
capiremmo!”, lo rimbeccò al limite della sua
pazienza. “Tre settimane trascorse
a sopportarti e poi - oh! - mi
liberi
così? Senza uno scambio o un pagamento di riscatto? Dai! Non
offendere la mia
intelligenza!”, asserì offeso e perentorio. Il
giovane indicò poi il lettuccio
accanto alla scrivania di Fra’ Anselmo. “Invece,
qui in infermeria si sono
rifugiate due contadine, giunte ieri dal bosco del Montello e i come e
perché
penso tu già li conosca benissimo.”
Il
malessere oscuro provato durante l’intera nottata scorsa
investì in pieno il condottiero. Subito si pose sulla
difensiva, scacciando via
cocciuto quei vili pensieri. “Cosa vuoi da me? Che le includa
nell’allegra
comitiva?”, finse ironica disponibilità.
Non si
scorgeva un granello di spiritosaggine in Hironimo, semmai
una determinazione mista a dell’intimo disgusto e delusione,
colando tali
sentimenti nella sua spiccia risposta: “Sarebbe il minimo
dopo la porcata che hai
commesso.”
“Ti
ho detto, ch’io non forzo le donne!”,
balzò in avanti
Mercurio, sporgendosi imponente sopra di lui, ma il Miani sostenne
imperturbabile il suo sguardo, il mento ben alto in segno di sfida.
“I vostri soldati,
al contrario, l’hanno fatto
per tutta la notte scorsa! Quindi, se non colpevole, sei
perlomeno complice del
loro stupro!”, ogni parola pesava più
d’un macigno sulla coscienza del greco-albanese,
per la prima volta in vita sua. Forse perché nessuno,
nemmeno Caterina, aveva
avuto il fegato di schiaffargli in faccia le sue meschinità?
“Avresti potuto
intervenire. Trovare un altro modo per premiare i soldati. Invece, hai
preferito la via più facile e mi sorprende venire proprio da
te, che tanto
professi d’amare tua moglie e tua figlia ma al contempo non
hai dimostrato un
minimo di pietà od empatia verso quelle mogli e figlie,
trasformate per tuo ordine
in carne da dare in pasto ai tuoi cani
lussuriosi!” La sera
addietro non aveva potuto credere alle parole del soldato lombardo;
purtroppo i
racconti delle due fuggitive, riferitigli da Thomà, avevano
confermato la
sordida verità e nauseatolo al punto da rigettare per intero
la zuppa della
sera precedente.
La testa
di Mercurio guizzò dall’altra parte, neanche
avesse
ricevuto un possente ceffone. Cacciò fuori un pesante
sospiro, le mani poste
nervosamente ai fianchi e i denti martorianti la tenera carne delle
labbra. “E
che cosa ci guadagno a farle fuggire, sentiamo?”, lo
provocò stizzoso al limite
del petulante; in realtà Hironimo sapeva
che quella battaglia la
stava nettamente per vincere, a giudicare dalla fissità
dello sguardo dell’epirota,
un cane in attesa dell’ordine del padrone.
“Qualche
girone più in alto all’inferno!”,
dichiarò sarcastico il
Miani.
“Così
m’indisponi”, gli ricordò seccato il
condottiero.
Il
giovane patrizio fece spallucce. “E’ la tua
coscienza sporca,
non le mie parole.”
“Da
quando in qua un prigioniero impone alcunché al suo
guardiano?”
Hironimo
neanche degnò il Bua di una risposta, appoggiando la
schiena sui cuscini, le vertigini risvegliatesi dalla pennichella nel
suo
cervello. Lo stomaco gli gorgogliava, avvertiva un gran dolore tra le
costole e
freddo alle mani e ai piedi. Decisamente aveva più diritto
lui di giocare allo
sdegnato e offeso, rispetto a quel lunatico d’un
greco-albanese. Ignorando
completamente la sua domanda, optò per un’altra
tattica, che sperò portagli qualche
risultato soddisfacente. “Una di quelle contadine”,
e indicò una delle due
sagome dietro la tenduccia, “raccontava a Thomà
come avesse trovato il cadavere
del suo compagno mezzo decollato. Gli ha mostrato la ciocca di capelli
strappatagli per ricordarsi di lui, per mostrare qualcosa di tangibile
al
figlio che porta in grembo …” Il fantolino,
commosso, gli aveva riferito come
Lussìa avesse lavato via il sangue e intrecciato quei
capelli in una piccola
croce, acciocché l’anima del suo Berto vegliasse
su di lei e il piccino. “Ma
tanto cosa parlo a fare”, asserì amaramente il
patrizio e lisciò le pieghe del
lenzuolo, “tu possiedi un’anima nera quanto il
carbone.”
E dal
fondo nero d’essa riemerse nella mente di Mercurio il volto
di quell’anonimo contadino da lui ucciso il giorno addietro,
macchiato di
sangue e gli occhi saettanti di rabbia e disperazione. Mors
tua vita
mea, d’accordo, ma pure infierire sulla mia donna e mio
figlio?, schiumava
l’annoso quesito da quella storta bocca mutilata.
In un
battito di ciglia tale angosciante visione scomparve,
rintanandosi nella memoria prodigiosa dello stradiota, là
dove simile ad un
parassita avrebbe atteso ogni suo istante di stanchezza per
ripresentarsi a
lui, tormentandolo. Dinanzi a Mercurio rimase soltanto il viso di
pietra
d’Hironimo, raccolto impassibile nei suoi pensieri.
“Quando
cesserai d’intercedere per gli altri e incomincerai a
supplicare per te stesso?”, non si frenò dal
domandargli il Bua, genuinamente
intrigato da quella sua ostinatezza di voler alleviare le altrui
sofferenze
senza curarsi delle proprie. Certo, si trattava della sua gente,
però nulla
aveva il veneziano chiesto per mitigare l’asprezza della sua
prigionia. Una
volta, per punzecchiarlo, l’aveva minacciato che
s’avesse ceduto la sua porzione
al marmocchio, non ne avrebbe ricevuta un’altra. Sia,
era stata
gelida risposta del suo prigioniero e allora per testare questa sua
determinatezza, il condottiero sul serio non gli aveva dato da
mangiare, ma da
quell’altro non una parola di lamento né di
protesta.
“Mai”,
gli rispose stoico ed orgoglioso il Miani. “Non
supplicherò
mai nessuno.”
Il
capitano di ventura batté il piede per terra, grattandosi
pensieroso la nuca, roso dal dubbio. In fin dei conti, che gli costava?
Altre
due bocche, anzi tre, in meno contro cui contendersi il pane
… “Che
si vestano da monaci”, cedette il Bua, tornando un poco a
fiatare. “Per
evenienza”, aggiunse, levando in alto la testa e si sorprese
di trovare un
timido sorriso sul volto pallido d’Hironimo.
“Te
ne saranno molto grate”, gli sussurrò sincero.
D’accordo,
era giunto il momento di battere velocemente in
ritirata. “Non me, è te che
debbono ringraziare”, non volle
l’uomo perdere alcuna parvenza di dignità,
chiudendo la tendina e dirigendosi
verso Fra’ Thomà Patavim in modo
d’aggiornarlo circa i suoi nuovi compagni di
viaggio.
Sennonché
venne intercettato da un cupo Fra’ Anselmo, di ritorno
dalle sue visite. “Deduco dal pranzo di due giorni fa che i
Conti siano vostri
amici?”, esordì dritto al dunque il monaco.
“Affermi
il vero, frate.”
“Bene,
perché qui in infermeria non c’è
più posto e le celle non
sono il posto più salubre per due ammalati.”
“Invierò
immediatamente un nostro emissario ai Conti, chiedendo
caritatevole ospitalità nel loro castello per il nostro
maresciallo e per il
conte di Gambara”, colse Mercurio la palla al balzo:
perfetto, con la scusa del
trasferimento di La Palice e del nobile bresciano a San Salvatore,
l’attenzione
del campo sarebbe stata doppiamente rivolta altrove.
In uno
massimo due giorni la lettera sarebbe giunta nelle mani del
consigliere ducale sier Morexini e, a Dio piacendo, fra una settimana
avrebbe
finalmente riabbracciato la sua Caterina. Poi il resto poteva andare
giù per lo
scolo di fogna, non gliene fregava un gran bel fico secco.
Ignaro
dei suoi ragionamenti, Fra’ Anselmo terminava di riferirgli
la sua diagnosi: “Il vostro maresciallo dovrebbe rimettersi
senza eccessivi
fastidi, forse già per fine mese sarà guarito. Ho
adeguatamente istruito la sua
garzona sui rimedi da somministrargli. Quanto al signor conte
…” e qui la voce
dell’uomo tremò leggermente e così
anche il Bua, più che altro perché col
Gambara ci aveva lavorato a stretto contatto e maledetto fosse in
eterno quel
bresciano, in caso gli avesse appiccicato il morbo!
“Ebbene?”,
lo spronò nervoso, tentato dalla voglia matta di porre
fine di persona alle sofferenze del Gambara e poi di bruciarne per
sicurezza il
cadavere.
“Non
più di due mesi”, sentenziò grave il
benedettino, ritornando
alla sua scrivania.
“Gliel’avete
comunicato?”
“Ovvio”,
fece sorpreso Fra’ Anselmo, “così il
signor conte avrà
tutto il tempo per riflettere sulla sua vita, tirarne le somme e
riappacificarsi con Dio e cogli uomini. Contrariamente a voi profani,
che
mascherate la verità attraverso futili speranze”,
e gli puntò contro la penna,
“noi fisici siamo assai più pietosi nel descrivere
le cose per come stanno.”
“Rivelare
a quel disgraziato che gli rimangono due mesi di vita?”,
ribatté scettico Mercurio. “A me pare piuttosto
impietoso, invece.”
“Impietoso
è ciò che l’attende, se non si prepara
adeguatamente.”
“Detesto
i vostri sermoni escatologici”, sbuffò il
condottiero.
Fra’
Anselmo non se ne curò di certo. “Tutti verremo
giudicati,
figliolo, peccato che a nessuno piaccia sentirselo dire in
anticipo”, e sorrise
sornione.
Al che
Mercurio guizzò via rapidissimo dall’infermeria:
due
prediche in un sol giorno erano davvero troppe per un poveruomo.
***
Era buffo
osservare sier Zuam Paulo Gradenigo, sier Andrea Donado
e il figlio Nicolò, sier Lunardo Zustignan e sier Marco
Miani tentare
comicamente d’impironare la fetta di brasato senza arricciare
la bocca dal
fastidio, utilizzato soltanto le prime due dita, gli unici arti liberi
dalle
bende alle mani, testimoni dell’intesa attività
manuale alla cinta muraria.
I lavori
alle mura settentrionali erano miracolosamente terminati,
proprio come prefissatosi dal provveditore generale: l’intera
città vi aveva
lavorato in sincronia perfetta sia di giorno che di notte,
trasformandosi in un
operoso alveare d’api, tutti ordinatamente ai loro posti,
uomini e donne;
guastatori, genieri, soldati, patrizi, cittadini e popolani, laici e
religiosi,
in un continuo viavai di carriole e passamano di materiali edili e
calce. Poi,
quando s’era giudicata conclusa l’impresa, o
perlomeno il suo grosso, i trevigiani
erano rimasti a contemplare basiti il risultato, a bocca aperta,
incapaci di
credere al nuovo complesso murario dinanzi a loro, così
possente e arcigno e a
Dio piacendo infallibile contro le cannonate nemiche.
Dopodiché s’erano trascinati
ognuno alle proprie case, desiderando null’altro se non
dormire ed immergere le
mani gonfie e piene di vesciche e calli nell’acqua fredda.
Oltre
alle mura, ci si era attivati alacremente a demolire i
monasteri a loro ridosso o in prossimità, quali San
Girolamo; Santa Maria del
Gesù; Santa Chiara; Santa Maddalena e ciò per
creare spazio vitale e
impossibilità al nemico di rifugio. Al monastero Santi
Quaranta era stato
concesso di vivere ancora per qualche settimana, intanto che fungeva da
quartiere
per gli stradioti di Teodoro Paleologo; poi anch’esso sarebbe
stato abbattuto.
Un duro sacrificio per la religiosissima città, ma
essenziale.
Il tempio
della Madonna Grande al contrario continuava, malgrado i
continui accordi e promesse, a creare problemi, ché
distruggere quella chiesa
limitrofa alle mura equivaleva a trafiggere il cuore della popolazione
trevigiana, da secoli fedelissimi al sentito culto mariano e certi,
come
scriveva sier Lunardo Zustignan ai suoi familiari a Venezia, che
“la devotissima
Nostra Donna è lì per aiutarli” contro
i franco-imperiali e contro la
pestilenza insinuatasi in città.
Le
squadre di guastatori avevano già demolito il monastero
attiguo
dei Canonici Regolari, commissionato nel 1491 dal Patriarca di Venezia
domino
Antonio Contarini, all’epoca Priore del santuario, assieme al
tempietto e alla
sagrestia attigua. Anche il campanile era stato abbassato, riconvertito
in
torre di vedetta. Tuttavia, causa le occhiatacce torve e feroci dei
trevigiani,
i guastatori non avevano osato proseguire oltre, temendo picconate in
testa o
direttamente la lapidazione.
A seguito
di notevoli tira e molla tra le autorità civili (che a
tutti i costi voleva evitare una possibilissima sommossa popolare) e le
autorità militari (ciechi ad ogni devozione tranne
all’ottica bellica) s’era
giunti ad un compromesso: ogni parte a ridosso delle mura sul lato
orientale
sarebbe stato demolito; il tempietto lombardiano che incorniciava
l’affresco
della Nicopeia dei Miracoli invece risparmiato.
Sfortunatamente,
quel 20 settembre, il capitano Renzo di Ceri
s’era riscoperto insoddisfatto dell’accordo e aveva
ordinato, per sommo orrore
generale a cominciare dagli stessi guastatori, d’abbattere il
tempietto e il
muro perimetrale dove si trovava l’immagine miracolosa.
Immediatamente
una folla esagitata era corsa ad avvisare sottocasa
sier Zuam Paulo
Gradenigo e un furioso e pubblico diverbio n’era scaturito
tra i due
comandanti, il provveditore arrabbiato a bestia per
l’ennesima insubordinazione
del condottiero laziale, opponendosi con infiammato vigore alla
demolizione
della cappella della Madonna. I due contendenti erano arrivati al punto
di
mettersi le mani addosso, sennonché alla fine Renzo di Ceri
aveva ceduto alle
pressioni del Gradenigo o piuttosto all’espressioni crucciate
dei trevigiani lì
riunitisi a cerchio, i quali lo fissavano impestati d’odio e
già calcolando il
primo albero disponibile dove appiccare l’Orsini.
A denti
stretti Renzo di Ceri aveva accettato di dare la mano a
sier Zuam Paulo in segno di pubblica pace e concordia, ironicamente
dinanzi
all’immagine sacra che avrebbe voluto distruggere.
“Però
vi giuro”, riferì a cena sier Lunardo Zustignan
all’ancora
sbuffante provveditore, “d’aver sentito borbottare
il capitano: Dio
dice: Aiutati, che t’aiuterò
anch’io”, e che quest’opera di
demolizione non è
mal alcuno.”
La
bellissima chiesa della Madonna Grande s’era quindi ridotta
ad
un rudere informe, mutilata delle tre cappelle gotiche,
dell’abside e del
transetto. Le tre navate sarebbero state riconvertite per deposito
munizioni e
gli alloggi dei soldati, mentre una provvisoria copertura avrebbe
protetto il
tempietto lombardesco.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo abbassò il piron, stufo del brasato sul
piatto. Poi però l’appetito lo vinse, ci
ripensò su e, seppur dolorosamente per
via delle piaghe alle mani, morse il pezzetto di carne. “Mi
duole il cuore come
a tutta Trevixo; tuttavia, per un bene superiore, bisogna pur far
sacrifici.”
“La
cappella della Madonna non corre più alcun pericolo ed era
questo ciò che più premeva al popolo. Tutto bene
quel che finisce bene”, lo
consolò sua moglie madona Maria Malipiero Gradenigo, ancora
vestita del
semplice abito da lavoro, così come la moglie del
podestà madona Francesca
Gradenigo Donado e madona Helena Spandolin Miani.
La
nobildonna, troppo anziana per lavorare alle mura, ugualmente
non aveva voluto restarsene a casa con le mani in
mano e,
racimolando un gruppo di volontarie, aveva pigliato il comando
dell’Ospedale
trecentesco di Santa Maria dei Battuti, controllando le scorte di
bende,
medicinali e strumenti chirurgici, i posti letto per i
feriti e gli
ammalati, specie per quest’ultimi, il cui numero stava
crescendo sì
rapidamente, da trasferirne alcuni al lazzaretto. Né la mole
di lavoro né gli
scetticismi dei direttori dell’ospedale l’avevano
trattenuta dal rigirarseli
tra le dita: accompagnare il marito in quasi tutte le sue spedizioni
militari
non significava solamente starsene in tenda a cucire o a guardare le
sfilate
delle truppe.
“Sier
Vincenzo Salamon e sier Vincenzo da Riva torneranno domani a
Veniexia”, cangiò discorso madona Maria,
acciocché il consorte placasse la
persistente arrabbiatura verso il capitano Orsini. “Anche le
condizioni di
salute del capitano Naldo Naldi e del connestabile Domenego da Modom si
sono
aggravate. Il numero d’ammalati sta aumentando di giorno in
giorno e purtroppo
ci troviamo a corto sia di medici sia di chirurghi.”
“Sier
Andrea”, si rivolse madona Helena al podestà,
“vorrei per
cortesia domandarvi aiuto, nell’aiutarmi a persuadere il
vostro nezzo Marco a
rimpatriare anch’egli a Veniexia. Stamane, quando
l’ho incrociato mentre usciva
di casa, aveva una faccia talmente bianca da sembrarmi morto. Madona
Felicita
Cimavin, presso cui egli alloggia, m’ha inoltre riferito come
al suo ritorno,
dopo la ronda, Marco si sia buttato a letto, stanchissimo, senza
neppure
cenare. Per questo motivo non ha potuto unirsi a noi stasera e di
questo si
scusa.”
Sier
Donado spalancò la bocca incredulo, sbiancando
anch’egli alla
notizia dell’improvvisa malattia di suo nipote Marco
Contarini, prefigurandosi
la sfuriata di sua sorella madona Alba non appena si fosse rivista
rincasare il
figlio più morto che vivo. D’altronde, parecchi
patrizi erano dovuti
rimpatriare in fretta e furia per via di quella strana febbre,
spopolando i
torrioni dei loro guardiani. “Ma certo”, gli venne
in soccorso sua moglie
madona Francesca, replicando al posto suo e traendolo
d’impaccio, “parlerò io
stessa domani col mio nezzo. Grazie mille per averci
avvertito.”
Marco
Miani, al contrario, aggrottò la fronte e scoccò
un’occhiata
affatto compiaciuta anzi assai sospettosa alla moglie, domandandole
silente da
quando in qua tutta quella confidenza col Contarini, da conoscere
così
approfonditamente il suo stato di salute e da fargli perfino da
portavoce.
Imperturbabile, madona Helena gli pestò sotto il tavolo il
piede, riportandolo
a miti consigli: il piccolo Scipio era la prova vivente che Marco
doveva esser
l’ultimo sulla faccia della terra a predicarle la
fedeltà coniugale, perdendo
in aggiunta ogni diritto di farle il geloso.
“Certamente,
se sta male è giusto che Marco torni a casa”,
convenne il podestà, ripigliatosi dal suo iniziale
spaesamento e ignaro delle
diatribe sotterranee tra i due coniugi. Suo figlio Nicolò
avrebbe accompagnato il
cugino germano, così d’allietargli il lungo e
deprimente viaggio in burchio e
portare le scuse scritte dal padre a sua zia.
“Questa
mattina”, interruppe sier Lunardo Zustignan il pesante
silenzio impostosi tra i commensali, “è ritornato
da una sortita il nostro
Draganeto e i suoi esploratori. Con loro avevano due prigionieri, un
cavallaro
francese e un feltrino proveniente da Bolzam, ai quali hanno trovato
addosso
delle lettere da parte dell’ambasciatore francese indirizzate
a monsignor di la
Peliza. In esse l’oratore si lamentava di come
l’Imperatore non sembri disposto
ad organizzare alcunché per venir in soccorso ai suoi
alleati; che la cosa lo
lascia mezzo confuso e che per non attristare monsignor di La Peliza,
non vuol
dilungarsi in spiacevoli dettagli.”
Una
giovale risata riecheggiò nella sala, l’umore
decisamente
sollevato. “Poareto! Non lo vuol far piangere!”,
commentò Marco, stringendo a
mo’ di scusa la mano a madona Helena, che ricambiò
ridendo anch’ella
all’immagine del maresciallo riverso in fiumi di lacrime alla
notizia
dell’inettitudine dell’Imperatore.
“Il
signor capitano Vitello ha commentato a riguardo, che ciò
spiegherebbe
il generale malcontento dei francesi e che quindi, quella loro
testardaggine a
voler comunque porre Trevixo sott’assedio o sia figlia della
paura di una
ritorsione da parte dell’Imperatore oppure del loro smisurato
orgoglio e senso
dell’onore”, riferì Zustignan.
Sier Zuam
Paulo sbuffò dietro il bicchiere: tra i francesi a
tentennare e i tedeschi a sbravazzare nella Patria del Friuli, non si
sapeva se
ridere o piangere di quella situazione.
“Piuttosto”, chiese al nipote del Doge,
“le carte del Ducha di Frara e del Roy di Franza?”
Oltre
agli emissari provenienti da Bolzano, gli esploratori
veneziani avevano intercettato lettere provenienti dal medesimo Louis
XII,
d’Alfonso d’Este e dallo scomunicato cardinale
Federico Sanseverino, scritte in
codice cifrato e in francese, sicché si poteva ben definirla
una giornata
proficua. I traduttori e i cifristi avevano lavorato alacremente fino
all’ultima parola, traducendo e decifrando a
velocità impressionante, affinché
la Signoria ne fosse informata quanto prima. L’eco della resa
di Udine e delle
altre città friulane aveva aumentato la pressione su Treviso
e ogni
informazione poteva fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta.
“Anche
queste lettere erano destinate a monsignor di La Peliza”,
riassunse sier Lunardo, imparatene oramai i contenuti a memoria a furia
di
scrivere rapporti su rapporti alla Signoria, “in esse il
Ducha di Frara gli
ricordava la promessa fatta d’inviargli in soccorso trecento
lance nel
Polesene, così d’aiutare le truppe estensi a
Lignago. Il Ducha gli ha poi
allegato una cartina di Frara e delle terre ferraresi a ridosso del
padovano,
acciocché La Peliza sappia meglio orientarvisi.”
“Ci
state dunque dicendo, che il Ducha si crede tanto furbo e
invincibile, da spedire a La Peliza le mappe del suo ducato e da
descrivergli
nel dettaglio gli spostamenti delle sue truppe?”, non
riuscì a concepire Marco
tale ingenuità tattica. Non calcolava l’Estense,
che per raggiungere via corriere
La Palice a nord della Marca Trevigiana i suoi cavallari dovevano
passare
forzatamente per il padovano prima e per il trevigiano meridionale poi,
ergo
inciampando nella fitta rete di spie ed esploratori? Incredibile! Un
errore
così madornale se lo sarebbe aspettato da uno scolaretto
fresco di studi, non
da chi si fregiava d’essere un esperto veterano di guerra e
più soldato che
duca.
“Il
signor Ducha”, commentò spassionatamente il
provveditore
Gradenigo, “poiché ha vinto alla Polesella e
contro il Papa, non soltanto si
crede ora un gran condottiero e stratega – e questo di per
sé è già più
scusabile, chi non ha mai peccato d’hybris? – ma
addirittura s’atteggia da
vincitore e padrone del nostro Polesene, sicché la prudenza,
per lui, può ben
andarsene alla malora!”
“A
suo gran danno”, ribatté Marco, rigirando il
coltello tra le
mani bendate. L’esperienza gli aveva insegnato quanto
arroganza rimasse con
stupidità, ché soltanto il superbo crede di
conoscer tutto, sbagliando invece
clamorosamente. Come l’Estense in quest’esatto
momento. “E tutto che
danneggia monsignor di La Peliza e il suo amichetto don Alphonso
d’Este, non
può che giovare la Signoria!”
“Amen.”
Il
trinciatore s’intromise timidamente nella conversazione,
chiedendo se lorsignori desiderassero ancora un po’ di carne
prima di spedirla
indietro.
“Ieri,
sul Montelo, la compagnia del signor Renzo Manzino
s’è
imbattuta in quanto rimasto dello scontro tra il nemico e i villani,
trovando
cadaveri e cavalli sparsi ovunque per il bosco … Li hanno
seppelliti, uno
spettacolo pietoso mi raccontava … Ahimè, non ci
voleva anche questa …”, intrecciò
le mani sul tavolo il podestà sier Andrea, d’un
tratto nauseato dalla cena.
“A
tal proposito”, s’inserì Marco, tentando
nuovamente
d’intercedere presso di lui, visto che Gradenigo a riguardo
s’era dimostrato
irremovibile, “se potessi di nuovo cavalcare alla volta del
Montelo per
assicurarci che …”
“No”,
lo interruppe immediatamente il provveditore, conoscendo
l’eccessiva condiscendenza del podestà,
“sier Marco, necessitiamo della vostra
presenza alla custodia del Castello sul Terajo
per la via di Mestre: la malattia ha
sfoltito le nostre fila di gentiluomini e soldati, non possiamo
rischiare di
perdevi al nemico!”
Le nari
del Miani si dilatarono rabbiose, espirando a fondo ed
ingoiando a fatica una rispostaccia. Helena subito gli
afferrò il polso,
stringendo ed allentando, poi di nuovo stringendo ed allentando la
presa, onde
calmarlo quando gli scoppi d’ira, ereditati dal padre sier
Anzolo, rendevano
irragionevole il consorte. Sier Zuam Paulo comprendeva benissimo quale
smania
agitasse il suo conterraneo: voleva il fratello libero e anche lui,
fossero
stati i ruoli invertiti, avrebbe reagito alla stessa maniera.
Nondimeno, meglio
negoziare da vittoriosi che da perdenti e se quest’assedio
fosse finito appunto
a loro favore, a testa alta avrebbero preteso, non supplicato, la
liberazione
di sier Hironimo Miani.
“Dalla
Badia sono scappati oggi dodici frati certosini”, gli diede
però un piccolo contentino, “può darsi
che sappiano qualcosa su vostro
fratello. Dopocena, se lo desiderate, mi potreste accompagnare al
convento di
Sen Paris e Senta Crestina.”
“Per me
anche subito: non ho più appetito”,
scansò in avanti il
piatto Marco, raddrizzandosi sulla sedia e pronto a scattare in piedi.
Zuaneta
sparecchiò lesta, arrossendo e balbettando quando il Miani
la ringraziò,
sgambettando via in cucina con le farfalle allo stomaco.
“Che?”, domandò egli
spaesato ad Helena, che lo studiava attenta.
“Niente”,
rispose ella sottovoce e in greco, ridacchiando tra sé e
sé all’idea d’emulare i turchi, ossia di
vestire suo marito da capo a piedi di
un lungo telo e di coprirgli il viso, acciocché nessuna
donna glielo guardasse
troppo golosa.
La Priora
del convento delle monache camaldolesi di San Parisio e
di Santa Cristina, situato presso l’omonimo ponte e poco
distante dalla chiesa
di San Francesco, attendeva solennemente benigna sier Zuam Paulo
Gradenigo e
sier Marco Miani, ricevendoli calorosamente nel parlatorio
d’ingresso. Il suo
viso affilato e vigile, pur nascosto dalla pesante e doppia grata
traversa,
s’illuminò particolarmente alla vista di madona
Maria e madona Helena dietro i
rispettivi mariti, grata di aver finalmente trovato qualcuno cui poter
affidare
in tutta sicurezza le due contadine giunte assieme ai dodici frati
dall’Abbazia
di Sant’Eustachio a Nervesa, il cui arrivo aveva creato non
poco scompiglio in
quel rigoroso e appartato ambiente femminile. Con la distruzione dei
monasteri
fuori dalle mura, molti esponenti degli svariati ordini religiosi
s’erano
ritrovati sfollati e i conventi cittadini non avevano la
capacità d’ospitare
nelle proprie celle e foresterie sia loro che i fuggitivi dalle
campagne.
Sicché alcuni erano ritornati in casa dei rispettivi
parenti, altri erano
saliti sui burchi per Mestre, Padova e Venezia. La Madre Badessa non
s’era
tirata di certo indietro nell’assistere quei poveracci
scampati all’inferno,
ricordando severamente alle monache che la virtù teologale
della Carità doveva
vincere anche la naturale ritrosia dettata dalla pudicizia. E poi, in
tutta
onestà, si trattava di una manciata d’ore, al
massimo di una notte di sosta. La
Priora s’era arrovellata piuttosto per la sorte delle due
contadine, non avendo
sul serio più spazio all’interno del convento. La
Madre Badessa aveva inviato
una conversa in ambasciata alla Priora del monastero benedettino di San
Teonisto, ricevendo però la medesima risposta: non
c’era più posto. Figurarsi poi
la sua sorpresa della monaca camaldolese, quand’aveva
scoperto che sotto il
saio certosino si celavano due femmine, per di più una in
avanzato stato di
gravidanza! Come poteva imporle di dormire per terra nella sua delicata
condizione? Di sicuro la moglie del provveditore possedeva sufficiente
posto a
casa sua e l’avrebbero aiutate.
Davanti
alla grata nel parlatorio e accanto alla suora portinaia,
stavano in piedi Fra’ Thomà Patavim e suo cugino
germano, Zuam Batista Patavim,
accorso quest’ultimo al convento non appena informato
dell’arrivo del
congiunto, così da riportarselo a casa. Del gruppetto dei
monaci fuggiaschi,
solamente Fra’ Thomà s’era offerto di
conferire col provveditore, essendo gli
altri sfiniti dalla lunga marcia e provati dagli stenti e le percosse.
La Madre
Badessa li aveva sistemati alla bell’e meglio in refettorio,
chiusi
prudentemente a chiave e rassicurata dalla ferma intenzione dei
certosini
d’imbarcarsi l’indomani per Venezia.
“Come
siete riuscito a fuggire dalla Badia?”, interrogò
Gradenigo
senza alcun preambolo il monaco, incuriosito da tanta formidabile
scaltrezza.
Fra’
Thomà guardò interrogativamente la Priora
attraverso le
sbarre, la quale lo incoraggiò a parlare.
“Un’occasione propizia, sior
Provedador: monsignor di La Peliza e domino Zuan Francesco di Gambara
si sono
ammalati e i Conti di Colalto li hanno offerto ospitalità
nel loro castello a
Sen Salvador. Di conseguenza, approfittando della confusione generata
da questo
sanmartin, i miei confratelli ed io ne abbiamo approfittato per scappar
via.”
I patrizi
veneziani si scambiarono tra di loro occhiate
impressionate: quando si diceva fortuna sfacciatissima. Evidentemente,
dopo
averle prese in abbondanza dai franco-imperiali, il Padreterno aveva
deciso di
ricompensare la mitezza dei certosini attraverso quella ghiotta
possibilità di
fuga. Inoltre, la notizia della malattia del maresciallo francese e di
quel
gran traditore del Gambara suonava ai loro orecchi musica assai gradita.
“Cos’altro
accade da quelle bande?”, lo sollecitò il
provveditore,
avido d’ulteriori informazioni all’interno
dell’Abbazia e tra le schiere
nemiche.
“I
Conti di Colalto, dietro cospicuo pagamento, riforniscono
l’esercito nemico di vittuarie”, gli
obbedì Fra’ Thomà. “Gli
stradioti e
gendarmi francesi hanno espugnato i villani nascostisi nel bosco del
Montelo,
impossessandosi di quasi 3000 capi d’animali grossi. Molti di
questi contadini
o sono stati ammazzati oppure fatti prigionieri e li hanno tolto le
loro
donne.” Madona Maria, madona Helena e la medesima Madre
Badessa rabbrividirono
impercettibilmente a quel dettaglio, immaginando la tremenda sorte di
quelle
infelici. “Sicché adesso
nell’accampamento nemico ci sono più ammalati e
donne,
che soldati pronti alla guerra. Il cibo scarseggia, il vino
è pochissimo e
riservato ai comandanti. Tra franzosi e todeschi vige un clima di
reciproco
sospetto, ma più da parte dei primi, i quali mal sopportano
l’indisciplina
degli imperiali, i quali sbravizano assai, com’è
loro usanza.”
Mentre
raccontava, Marco si voltò verso Lussìa e Zanze,
in silente
ascolto nell’angolino, sedute a capo chino sulle panche
appoggiate al muro del
parlatorio. Quest’ultima lo colpì particolarmente,
avendo la sensazione di
riconoscere nella giovane un viso a lui noto.
“Sì”,
gli confermò a sorpresa Fra’ Thomà,
accorgendosi
dell’intenso studio del patrizio, “queste due
contadine le avevano condotte
prigioniere alla Badia e anche loro hanno approfittato della partenza
di La
Peliza e Gambara per fuggire via assieme a noialtri.”
Un
secondo violento brivido freddo percorse le schiene delle due
patrizie, tremando all’idea di cosa quelle due poverette
dovevano aver subìto
per mano dei soldati all’accampamento. Al che Marco
confidò sussurrando i suoi
dubbi all’orecchio della moglie, la quale li
riferì a madona Maria.
“Ti,
moreta, chome te ciamestu?”, domandò la consorte
del
provveditore alla contadina, la quale, scattando in piedi e inchinatasi
deferente, rispose timidamente:
“Anzola
di Bapi, siora patrona … lustrissima”, aggiunse
veloce,
tenendo lo sguardo ostinatamente per terra.
“Dime,
cara ti, non ti chiamano forse Zanze?”
La
ragazza sollevò la testa, perplessa.
“Sì, patrona?”
“Per
caso hai una sorella minore di nome Zuanna, detta Zuaneta?”
“Siorasì,
patrona! Siorasì! La cognosseu? Saveu ndove
xéla?”,
tartassò Zanze di domande la nobildonna, ansimando in panico
al pensiero di
quale triste sorte potesse aver sofferto la sua sorellina, da lei
sì
crudelmente separata.
Madona
Maria le sorrise benevola, tranquillizzandola su quel punto.
“Rasserenati: tua sorella sta bene e si trova qui con noi a
Trevixo. È stato
sier Marco Miani ad averle salvato la vita, lì sul
Montelo”, le spiegò
brevemente, sicché Zanze s’inginocchiò
ai suoi piedi, baciandole riconoscente
l’orlo della gonna. E avrebbe ripetuto tale operazione di
ringraziamento
circondando le ginocchia di Marco, sennonché la tempestiva
occhiata assassina
di madona Helena glielo impedì, costringendo la contadina a
proferire un
semplice grazie e a riprendere il suo posto accanto
all’amica, seguita a vista
dalla bellicosa greca, strategicamente posizionata alle spalle
dell’ignaro
marito.
“Poxjo
vederla?”, bofonchiò timidamente Zanze,
consideratasi
infine al sicuro dalle grinfie di madona Miani.
“Farò
di più: mi seguirai a casa del sior Provedador, tu e la tua
amica”, le offrì generosamente madona Maria e la
Priora sorrise soddisfatta del
suo intuito infallibile e lungimiranza.
“An?
Dasseno?”, cascò invece dalle nuvole sier Zuam
Paulo, subito
piccato della mancata consultazione a riguardo. Sua moglie
arcuò il
sopracciglio e strizzò gli occhi, segno che lei aveva deciso
e la questione
terminava lì. Fuori in piazza, lui era patrizio e
provveditore generale di
Treviso e faceva tutto ciò che da uomo poteva e voleva; in
casa, lei era alla
stregua di Domine Iddio e dunque i suoi abitanti soggetti alle ferree
leggi
dell’indiscussa matriarca.
“Chome
la toa patrona la comanda”, s’arrese imbronciato
Gradenigo:
ma tu guarda se dopo essersi liberato a Venezia del gineceo di casa,
maritando
le sue numerose figliole a dei bravi giovanotti, doveva ora
ritrovarsene un
altro a Treviso, strapazzato dalla tirannia di nuove sottane! A conti
fatti,
meno male ch’aveva generato pochi maschi – Andrea, Antonio,
Jacomo, Zuam (in onore
dello zio deceduto) e Justo – cosicché avrebbe
preso in casa al massimo cinque
nuore.
Le due
contadine ringraziarono all’unisono i coniugi, Zanze in
particolare stringeva contenta la mano di Lussìa dalla gioia
di riabbracciare
presto la sorellina Zuaneta.
“Mio
fratello? Lo avete per caso visto? Si chiama Hironimo Miani, era
reggente di Castel Novo di Quer e adesso prigioniero di Mercurio
Bua”, domandò
apprensivo Marco a Fra’ Thomà, supponendo che il
monaco, anche se di mero
passaggio all’Abbazia, in un qualche modo avesse avuto
occasione almeno di
scorgere Momolo.
Il
certosino trasalì impercettibilmente all’udire il
nome del suo
segreto liberatore. Imponendosi di calmarsi, scosse il capo,
dispiaciuto. “Ho notato,
in infermeria, che il capitano Mercurio se ne stava in effetti accanto
ad un
paziente lì ammalato, però non saprei dirvi se
costui fosse o meno vostro
fratello”, s’affrettò a riferirgli,
deglutendo amara saliva dinanzi
all’espressione angosciata del veneziano.
“Vuostro
fradelo sta en infermeria”, s’intromise
Lussìa e alla
conseguente domanda su come lo sapesse per certo, ella
replicò con estrema
sicurezza: “A traverso on puto nomato Thomà,
sòo famejo.”
Marco si
consultò brevemente con Helena, sospettoso: a sua memoria
non ricordava possedere Momolo un paggio o comunque un servitore di
nome Thomà,
men che meno un bambino. Che la contadina si fosse sbagliata? O che lo
stesse
ingannando per accaparrarsi la sua benevolenza e fiducia?
“En
infermeria?”, ripeté scettico e il viso stanco e
tirato della
contadina s’imporporò, offesissima.
“Perché
no?”, berciò a voce alta, incurante della regola
del
convento. “Ghe xéi tanti amalai a la Badia,
lustrissimo! I ne more ogni dì pèzo
dee mosche! Aveu sentio Fra’ Thomà? La Peliza
xé amalà, el sior conte pure! No
xé imposibile, donca, ch’anca vuostro fradelo
gh’avia buscà el morbo!”
Le
ginocchia di Marco cedettero ed egli vacillò
impercettibilmente
all’indietro, prontamente bloccato dalla moglie.
“Grassie,
dona Lussìa”, terminò sier Zuam Paulo
l’ostica
conversazione, prima che il conterraneo balzasse in sella al suo
cavallo e
dimentico di ogni ordine cavalcasse come un pazzo fino
all’Abbazia. “E anche a
voi, Fra’ Thomà. Domani mattina
v’imbarcheremo sul primo burchio diretto a
Veniexia, acciocché voi possiate riferire quanto narratoci
al Colejo. Reverendissima
Siora Mare Badessa, ve saludo e v’auguro la bona
note”, s’inchinò rispettoso
l’uomo assieme agli altri patrizi veneziani e la Priora
ricambiò prontamente il
gesto dietro la grata, ricordando al provveditore come lei e le sue
monache
stessero offrendo ogni loro digiuno e preghiera per la custodia di
Treviso e la
salvezza della Serenissima.
“Servo
vostro, sior Provedador, e della Signoria”,
ringraziò anche
Fra’ Thomà la generosità di Gradenigo,
congedandosi dalla Madre Badessa ed
esprimendo la sua riconoscenza per il caritatevole soccorso ricevuto.
“Mo
via, zerman, rincasiamo: il tuo sior barba mio padre sarà
contento di rivederti dopo tanto tempo, nonché sano e salvo
dopo quanto
accaduto alla Certosa e sul Montelo!”, lo pigliò
per mano suo cugino Zuam
Batista, incamminandosi verso la contrada dove risiedeva
l’intera famiglia
Patavim.
Fra’
Thomà annuì distrattamente, muovendo irrequieto
la testa in
apparente contemplazione degli affreschi sulle lunette dei
sottoportici, in
realtà schiacciato dallo sguardo accusatore delle numerose
Madonne col Bambino
e dei Santi ivi raffigurati, i loro occhi resi ancora più
vividi e mobili
dall’instabile chiarore apportato dalla lucerna del
germano.
“Mea
culpa … mea culpa … mea maxima culpa
…”, ripeteva a fior di
labbra ossessivamente.
“Che?”
“Nulla,
zerman. nulla. Oravo le mie laudi.”
“An”,
scrollò le spalle Zuam Batista, battendo gioviale una pacca
tra le scapole del parente. “Prega anca par le mie mani,
ciò, per ‘na spedita guarigione!”,
scherzò, mostrandogli le mani callose dopo tre giorni di
lavori estenuanti alle
mura.
Fra’
Thomà gli sorrise a denti stretti, nervoso, asciugandosi con
la manica la fronte madida di sudore freddo, la lettera di Mercurio Bua
che gli
bruciava colpevole sotto lo scapolare.
***
“Missier
consier Batista!”, esclamò un trafelato sier
Hironimo
Querini, capo dei Dieci, scendendo a quattro a quattro la Scala
d’Oro e
raggiungendo nel Cortiletto dei Senatori il suo collega sier Batista
Morexini
“da Lisbona”, sceso tra una seduta e
l’altra del Collegio per pigliare una
boccata d’aria fresca in compagnia del figlio Carlo e dei
nipoti Lucha Miani e Carlo
Miani. “Una parola, per favore!”
Tra le
accese discussioni circa la spinosissima situazione nella
Patria del Friuli e le rampognate che ancora gli fischiavano nei
timpani, il
povero “da Lisbona” si toccò infastidito
le orecchie, dolente da quel rumoroso
richiamo.
La visita
improvvisata a sua sorella madona Leonora gli era
costata la più orrida delle paternali, dal giorno in cui sua
moglie aveva
scoperto della sua relazione fissa con la cantante e cortigiana onesta
Luzia
Trivixan. Non avendolo infatti visto rincasare il mattino successivo
dalla
convocazione notturna a Palazzo Ducale, madona Morexina aveva spedito
gli
altrettanto preoccupati Carlo, Nicolò, Hironimo e Lorenzo a
cercare il loro
signor padre in casa dell’amante, l’unico posto
certo dove la nobildonna
s’immaginava aver potuto pernottare il marito. La povera
patrizia aveva creduto
d’impazzire alla risposta negativa della Trivixan, per poi
piangere isterica
davanti ai nipoti Lucha e Carlo Miani quando questi, su istigazione
della loro
madre madona Leonora, s’erano recato a rassicurare la zia
sulla salute, almeno
fisica, dello zio, accampatosi depresso in casa loro a colazionare.
Sier
Batista, persuaso a ritornare alla sua casa da statio, s’era
beccato per quella
sua fuga notturna un sonoro ceffone sia da parte della moglie sia
dell’amante,
per la prima volta straordinariamente coalizzate contro di lui,
nonché i loro
pianti e le accuse di volerle assassinare di dolore col suo insensato
comportamento, eccetera, eccetera, gli stessi discorsi che ormai il
consigliere
ducale conosceva a menadito. Sicché, alzatosi e domandato
agli impietriti figli
e nipoti se volevano anche loro prenderlo a sberle (tutti in coro
avevano
negato vivacemente, inorriditi all’idea di picchiare un loro
maggiore), il
Morexini aveva allora abbracciato ambedue le piangenti donne e
consolatele con
gravi parole, aveva promesso di non sparire mai più nel
cuore della notte senza
avvertirle dei propri spostamenti.
“Sier
Hironimo, non moritemi davanti!”, scherzò sier
Batista,
alludendo al volto paonazzo e sudato del capo dei Dieci, il quale stava
respirando a grosse boccate d’aria. “Non prima
d’aver votato la deliberazione,
almeno.”
“La
perdonança, sier Batista”, si scusò il
Querini per la sua
irruenza e per aver interrotto la conversazione tra parenti,
allentandosi il
colletto della sua toga. Dopodiché, fece cenno al Morexini
di seguirlo in un
angolo più riparato del cortile, lontano da occhi e orecchie
indiscreti. “Ci è
giunta questa missiva e noi tutti vorremo per cortesia una vostra
opinione a
riguardo, visto che sembrate tra i più informati sulle
vicende di Terraferma”,
gli rivelò sottovoce, guardingo.
“Una
missiva?”, reclinò sier Batista il capo, la sua
curiosità
stuzzicata dalla criptica spiegazione del suo collega. Di tutto
s’aspettava dai
Dieci, tranne che gli chiedessero di leggere una lettera e interrogarlo
a
proposito. E a chi era poi destinata? Alla Signoria? Al Consiglio? A
lui? Era sospetto,
davvero sospetto. Quando mai si discuteva della corrispondenza fuori da
Palazzo
e senza consultare gli altri membri del Minor Consiglio? Lo stavano
mettendo
alla prova? S’era forse troppo sbilanciato quella volta in
camera del Doge? Oppure
i contenuti di quella missiva avevano turbato a tal punto i Dieci, da
fare uno
strappo alla regola?
Il
Morexini sfilò senza esitazione la lettera dalla mano di
sier
Hironimo e, posizionandosi dove c’era più luce,
l’aprì e ne scorse avido i
contenuti, suo figlio Carlo e i nipoti che spionciavano in punta dei
piedi alle
sue spalle, altrettanto curiosi.
“Copia
di la risposta dil magnifico et valoroso signor Hironimo
Savorgnan fata al trombeta de li comessarij imperiali su
l’invictissimo monte
di Osopo, a dì 21 septembrio 1511”,
lesse sottovoce il consigliere ducale,
che domandò perplesso al Querini: “Come! Di
già?”
“Il
nostro cavallaro è stato piuttosto … incalzante
nella sua fretta
di portarci la risposta del Savorgnan”, commentò
sornione e soddisfatto il capo
dei Dieci, “nonché Maximiano un mona per aver
preferito domino Antonio a domino
Hironimo. Tutto si sta svolgendo esattamente come da voi previsto, sier
Batista.
Ma de grassia, lezete.”
Sier
Batista non se lo fece ripetere di certo due volte. “Non
reputa el fidel Savorgnan esser demerità da vuj,
excellentissimi signori
capitanei et cesarei comissarij, la presente risposta sua a la
rechiesta a lui
facta per el suo publico militar nuntio, anzi spiera, imo tien, per
constanti
da quelli reportarne non vulgar comendation, imperhò che
rapresentando le
signorie vostre la sacra cesarea majestà, qual sempre ha
detestado jure optimo
le perfidie, proditiom et rebellion di soi subditi, non dubita tal sua
fidei
intention, resposta et excusation esser ancora da quelle abrazata et
aprobata.
“Essendo
adunque Jo, Hironimo Savorgnan, con mei progenitori
nato, relevato et benemerito soto el mio excellentissimo dominio
veneto,
cognoscendo tute leze sì naturale, como civile astrenzerme a
la perseverantia
de fede et devotiom verso el mio signor, non mi par sequir le perfidie
et
exacrabil vestigie da uno altro nephandissimo proditor, indegno agnato
de la
casa Savorgnana, qual al presente, postposto ogni timor de Dio,
postposto lo
santissimo vinculo juramenti fidelitatis per ipsum praestiti, postposto
li
inmeriti beneficij da questo excellentissimo stato recevuti, postposto
lo amor
de la propria patria, postposto la propria et comune
libertà, non resguardando
etiam a li fidelissimi et devoti amici et fautori de la casa
Savorgnana,
imitando el perfido Juda Scarioto, publicamente a lo excellentissimo et
inclyto
dominio signor suo ha venduta la sua patria et propria
libertà. Etcetera,
etcetera … fidelis Hieronymus Savorgnanus …
Gran mercé, quest’uomo
è un genio!”, rise talmente forte sier Batista, da
inumidirsi i suoi occhi di
lacrime, il viso deformato in una maschera della più folle e
perversa delle
gioie.
Sier
Hironimo Querini s’unì anch’egli alla
grassa risata,
complimentandosi ancora col Morexini per l’eccellente suo
piano, ossia
d’offrire al Savorgnan ogni proprietà e privilegio
appartenenti al cugino in
cambio della sua fedeltà alla Serenissima. Non aveva
immaginato tanto livore
tra i due parenti, da persuadere domino Hironimo ad accettare seduta
stante la
proposta della Signoria.
Sier
Batista rilesse più volte la lettera del nobile friulano,
analizzando attentamente ogni singola parola e sorridendo carnivoro a
ciascuna
di essa, l’umore improvvisamente migliorato, similmente alla
smania di vendetta
nei confronti dell’Imperatore, del Re di Francia e di tutta
la loro accozzaglia
di parassiti. Un’eccellente risposta, un mirato pugno in
faccia all’amor
proprio di Maximilian, da sempre fregiatosi del titolo di Ultimo
Cavaliere e di difensore delle virtù
cavalleresche: proprio
l’Imperatore, che aborriva la fellonia, non poteva certo
chiedere ad un nobile,
per di più di antico lignaggio quale Hironimo Savorgnan, di
macchiarsi di
siffatto delitto contro la Signoria? La sua richiesta di tradire il suo
vassallaggio verso la Serenissima corrispondeva al peggiore degli
insulti,
un’offerta da Gano, non da chi si vantava di possedere le
qualità d’un Rolando,
il cavaliere dei cavalieri!
Bone
Jesu, al “da Lisbona” stava per venire un gran mal
di pancia
dal ridere, al solo pensiero della faccia dei comandanti e commissari
imperiali, ma soprattutto quanto gli sarebbe piaciuto trasformarsi in
una mosca
e volare fino a Bolzano soltanto per godersi lo spettacolo di
Maximilian
balzare giù dalla sedia, pestare i piedi per terra, frignare
petulante e
mangiarsi il cappello.
Ma il
colpo di grazia ai suoi sfruttatissimi polmoni fu l’ultima
pagina.
Soneto
fato contra Antonio Savergnano, proditore.
Ave Rabi,
iniquo traditore
Antonio
Savorgnam, non sarai lieto
Haver
monstrato il tuo malo concetto
A la tua
patria hessendo senatore.
Ma il
justo sangue de quelli di la Torre
Et altre
nobel caxe che hai decepto,
Ha
parturito in te cotal effecto
Acciò
che
’l sia punito lo tuo erore.
Non ha
persa la forza il fier leone,
Secho
verà
ogni bon castellano
D’um
voler
tutti et una opinïone.
Non ti
varà il favor de alcun villano;
Che se non
fuzi, come fu il Benzone,
Te
apicherano con sue proprie mano.
Cussì
meriti, o Gano
Star su la
forcha con un pe’ atachato,
Da’
cani
et corvi il corpo lacerato.
“Non
è proprio Petrarca, però mi piace
assaissimo!”, ripiegò
allegro la lettera il Morexini, restituendola a sier Hironimo Querini.
“La
farete pubblicare?”
Il capo
dei Dieci fece spallucce, non disdegnando l’idea di
stampare numerose copie del sonetto, anche per divertire un poco la
gente in
quei tempi di grande tensione.
“Sier
Zuam Vituri e la sua compagnia dovrebbero oramai aver
raggiunto Trevixo”, si ricordò sier Batista del
conterraneo comandante, uno dei
più validi assieme a sier Ferigo Contarini. “Se
posso darvi un consiglio, vi
suggerirei di domandare al provedador sier Zuam Paulo Gradenigo
d’inviarlo in
soccorso a domino Hironimo Savorgnan, in segno di stima e
d’amicizia perpetua
da parte della Signoria.”
Sier
Querini gli promise di discuterne per certo sia tra i Dieci
sia in Collegio, supportandolo nella votazione finale e questo
rasserenò il “da
Lisbona”, giunto alla conclusione che l’altro
patrizio aveva soltanto voluto
consultarlo sul da farsi, evitando però di rallentare i
tempi in ulteriori
discussioni ufficiali. Con più di trequarti del Friuli in
mano tedesca, la loro
era una lotta contro il tempo e ogni ora sprecata corrispondeva ad un
regalo al
nemico. Inoltre, non stavano aggirando le consuete procedure per dei
vantaggi
personali, bensì per la salvezza della Signoria, ergo non
dovevano flagellarsi
troppo nei mea culpa, purché s’agisse con
discrezione.
La
fortezza lagunare di Marano e Osoppo rimanevano grazie alla
rinnovata lealtà di domino Hironimo Savorgnan saldamente
veneziane, una
perpetua spina nel fianco dei tedeschi, levandoli il sonno e la
certezza della
totale conquista della Patria del Friuli. Ben venissero i loro
saccheggi, gli
incendi ai villaggi e alle città. Ben venissero le tasse, i
soprusi: la
popolazione friulana e gli stessi castellani si sarebbero di propria
spontanea
iniziativa allontanati dall’Imperatore tanto velocemente,
quanto s’erano a lui
avvicinati. Non si conquista l’amore dei propri sudditi a
parole, mica lo
capiva il Re dei Romani, ci vogliono fatti e bêçs (soldi,
ndr.) La convenienza. E qualora non ci fosse stata, si cerca un padron
migliore.
Anche se
perduta questa prima partita, la rivincita non sarebbe
tardata a giungere. Venezia aveva tempo. Le truppe tedesche stanziate
in Friuli
no, ché un inverno senza niente da mangiare è
cosa assai brutta da sopportare.
Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae
doman. [2]
***
Il
burchio scivolava pigramente sull’abbraccio fluviale del Sile
e
del Cagnan, staccandosi dal porticciolo tra il Ponte degli Impossibili
e il
bastione di San Polo e allontanandosi in placido dondolio da Treviso,
finché
gli alberi incominciarono ad accompagnarsi prima ed ad oscurare poi le
alte
torri cittadine.
Fra’
Thomà rigirava inquieto la missiva di Mercurio Bua, tentato
di rompere il sigillo di ceralacca e di leggerne i contenuti:
ambasciator non
porta pena, ma se invece la portasse? Come avrebbe reagito la Signoria?
Alla fine
non aveva resistito e, in un momento di privata
tranquillità, aveva confessato al cugino Zuam Batista
dell’ambasciata
incaricatagli da parte del capitano di ventura.
“Se
ti ha chiesto di consegnarla a sier Batista Morexini,
significa che si tratta di una faccenda personale tra lui e il
capitano. La
Signoria non c’entra!”
“La
Signoria c’entra sempre e dappertutto, zermano! E se
… e se
fosse qualcosa di losco? Se il consigliere si trovasse in combutta coi
francesi?
Con l’Imperatore? Dovrei rendermi complice di un tradimento?
E se poi si
scoprisse l’intero affare? Non voglio finire impiccato tre le
colonne in
Piazzetta!”
“Allora
consegnala direttamente alla Signoria!”
“Baùco!
Sier Batista fa parte della Signoria, s’impossesserebbe
comunque della lettera!”
“Io
non capisco … Il capitano Bua parlava di uno scambio, di
riprendersi sua moglie … non capisco perché
t’agiti così tanto!”
“Magari
è un linguaggio in codice! Un rebus soltanto a loro
comprensibile. Che ne sai? Se … se quella della moglie non
sia altro che una
scusa per avvicinarsi alla laguna coi suoi stradioti? Per penetrare nel
territorio e conquistare fortezze così da circondare
Trevixo?”
“Mah,
per me tu scorgi ovunque intrighi e tradimenti!”
Fra’
Thomà si morse l’interno della guancia, il cuore
in
subbuglio. Sicuramente Mercurio Bua non l’aveva ingannato
circa il suo sostegno
nella fuga, filando ogni cosa liscia come da lui promessagli. Di
conseguenza,
se lui l’assicurava dei contenuti della lettera, tecnicamente
doveva fidarsi.
Peccato,
che i recenti avvenimenti gli avessero instillato della
sana diffidenza nei confronti di chicchessia. Tutti tradivano, tutti
mentivano:
il suo Priore, i Conti di Collalto, i nobili friulani filo-imperiali,
il
maresciallo La Palice, i capitani tedeschi …
perché Mercurio Bua non doveva
sottrarsi a tale nefanda lista?
Che la
sua fuga fosse corrisposta alla farsa di una farsa ancora
più grossa? Uno scaltro complotto del Bua e del Morexini ai
danni della
Serenissima? Se il greco-albanese gli avesse permesso di fuggire, per
poi venir
ammazzato dai sicari del consigliere ducale, zittendolo per sempre?
No, non
avrebbe corso il rischio di finire implicato e magari di
trasformarsi in un testimone scomodo di cui sbarazzarsi. Aveva giurato
di non
leggere la lettera e la sua promessa fino a quel punto
l’aveva mantenuta.
Quanto al resto …
Il
certosino strappò esagitato la missiva in piccole strisce,
affidandole al vento e all’acqua, ch’allontanassero
da lui quell’amaro calice.
Al
diavolo Mercurio Bua, al diavolo sier Batista Morexini “da
Lisbona” e qualsiasi negozio li legasse: in fede sua, lui non
avrebbe portato
alcun’ambasciata, nossignore.
Continua
…
*****************************************************************************************************************
Procediamo
ad oltranza verso il clou di questa storia, anche
perché voglio ritornare a scrivere capitolo normali!
La
vicenda di Mercurio e di Fra’ Tommaso Patavino è
piuttosto
oscura.
Riferisce
il Sanudo: “[…] El (Mercurio) qual
voria che sua mojer, ch’è qui a Venecia, venisse
da lui, e la vegneria a tuor
con gran scorta, ma esso frate disse, non voler portar tal imbasata.”
Le parole
del Bua, infatti, nella sua stringatezza e da come il
monaco le ha spifferate al cugino (che a sua volta le ha riferite al
Collegio),
si presentano infatti assai ambigue. Il condottiero aveva incaricato il
frate
di portare quest’ambasciata, ma a chi nello specifico? Alla
moglie, affinché si
preparasse alla fuga? Alla Signoria per organizzare la partenza di
Caterina? O
uno scambio? Oppure, come da noi supposto, proprio a Battista Morosini,
che,
facendo parte del Minor Consiglio noto anche come Signoria, poteva
influenzare
il suo ricongiungimento con Caterina? Ma siamo sicuri in cambio di
niente?
Mercurio teneva comunque in ostaggio il nipote …
Secondo,
questo messaggio che il Patavino doveva portare mi ha
insospettita sulla fuga di questi. Impossibile che fosse fuggito e che
al
contempo fosse messaggero del piano del Bua. Questi gli ha permesso
d’abbandonare indisturbato il campo francese, appunto per
riferire le sue
intenzioni di riprendersi la moglie.
Infine,
perché il Patavino s’è rifiutato di
fare quest’ambasciata?
Lo scambio di persone non era una prassi così bizzarra, lo
stesso Luca Miani
era stato ad esempio scambiato per un capitano nemico. Inoltre, la
richiesta di
Mercurio era piuttosto innocua, voleva la moglie, non un militare.
Cos’ha
insospettito il frate? O intimorito? Forse temeva in un
raggiro del Bua, il quale sperava magari di prendere due piccioni con
una fava,
la moglie e con la sua “grande scorta” entrare
indisturbato in territorio
veneziano ed occupare fortezze?
Solo
Fra’ Tommaso lo sa e, qualunque siano state le sue
motivazioni, di sicuro a) Battista l’avrà voluto
strangolare; b) il Nostro
rimane fregato c) Mercurio piange.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto!
Alla
prossima,
Un
po’ di noticine:
[1]
San Martino =
“fare San Martino” o
“sanmartin” come
sostantivo, significa sia cambiar lavoro / cambio di lavoro che
traslocare /
trasloco, in genere poiché per i contadini in quella data
– 11 novembre -
terminavano i contratti di lavoro e di affitto delle terre lavorate e
coloro
cui non veniva rinnovato dovevano appunto cercare altrove lavoro,
trasferendosi
con l’intera famiglia.
[2]
Ancje Diu al è furlan: sa nol pae vuê al pae doman =
Anche Dio è friulano: se non paga oggi, paga domani.
|
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Capitolo 26 *** Capitolo Ventiquattresimo: 22-24 settembre 1511 ***
Ricordiamo
che parte degli eventi di questa storia, in mancanza di
descrizioni dettagliate nelle fonti, sono romanzati.
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.11.2021, buon San Martino!
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Ventiquattresimo
22-24
settembre 1511
Nessuno
ha
un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici.
(Gv 15,17)
Il
valletto del conte Antonio di Collalto di Sotto
annunciò
il suo padrone, mentre apriva la porta, scansandosi poi onde
permettergli
d’entrare nella stanza offerta generosamente al maresciallo
Jacques de
Chabannes de la Palice.
Il
generalissimo giaceva ancora in letto, tuttavia seduto e con
una piccola cappa di lana a tenergli calde le spalle, il viso provato
dalla
recente febbre già tinto del rosato di chi stava
riguadagnando salute, grazie
alle zelanti cure della sua garzona Belletta, la giovane modenese con
cui
l’uomo s’accompagnava.
“Vi
sarò per sempre riconoscente per la vostra premurosa
ospitalità”, dichiarò il francese,
interrompendo la dettatura dei dispacci al
duca di Foix-Nemours a Milano, all’ambasciatore francese a
Bolzano e ai
capitani e commissari imperiali nelle varie città friulane
occupate. Belletta
sottolineò il concetto sorridendo al conte, intanto che
girava la zuppa
destinata al convalescente.
“Dunque
saprete anche che suo cugino, Jérôme Savorgnan,
invece si
è schierato dalla parte di Vénise, conservando
saldamente le due fortezze di
Marano e Osoppo.”
Dal modo
in cui Antonio reclinò nervosamente il capo, no,
non ne era a conoscenza. “Questione di tempo, prima che
l’Imperatore lo
persuada a giurargli fedeltà.”
“Non
se il nuovo conte Savorgnan lo accusa di costringerlo alla
fellonia con la sua richiesta di tradire il secolare vassallaggio, che
lega il
suo casato alla République”, ribatté La
Palice, ammirando segretamente l’arguta
risposta del nobile friulano, una velenosissima frecciatina alla
vanità
dell’Imperatore. “Les Allemands potranno anche
espugnare Gradisca, tuttavia
senza Marano ed Osoppo non saranno mai al sicuro nei loro nuovi
territori e
l’Empereur non ha mai goduto di buona fama nei territori da
lui conquistati. Al
che m’ha indotto a reiterare il mio ultimatum ai commissari
imperiali,
restringendo ad otto giorni la scadenza del rientro delle truppe al di
qua della
Piave”, aggiunse il maresciallo. “Hanno avuto il
loro bottino; è tempo che
anche noi perseguiamo i nostri interessi.”
“Una
saggia decisione”, convenne il conte.
“Inoltre”,
proseguì il maresciallo, “ho predisposto per
domani un
parziale spostamento del campo, trasferendoci all’Abbazia di
Santa Maria di
Pero. Da lì spedirò un contingente verso sud, con
l’ordine di asportare dai
mulini del Sile grano e farina.”
“Non
dovrete faticare molto”, l’assicurò
Antonio, “la
popolazione rurale trevigiana della destra della Piave sta divenendo
sempre più
ostile alla Repubblica, ritenendola responsabile della perdita dei
raccolti e
delle distruzioni dei loro paesi. Invano il Podestà e il
Provveditore mandano
grida, acciocché rientrino a Treviso con le loro scorte: nei
granai vi
troverete tanto di quel grano, da poterne dare anche ai vostri
cavalli!”,
scherzò, trascinando nel suo buonumore anche La Palice, che
s’appuntò
mentalmente quell’informazione.
I due
nobili trascorsero il resto della mattinata chiacchierando
sulle ultime novità e potenziali strategie
d’attacco, finché un servitore non
venne a ricordare al conte di un suo impegno su alcune questioni
riguardanti la
recente vendemmia. Antonio di Collalto si scusò
graziosamente con La
Palice, augurandogli una pronta guarigione.
“Cosa
stai facendo?”, inquisì d’un tratto
l’uomo, notando il suo
valletto scrivere velocemente e in disparte su di un pezzetto di carta.
Il
ragazzo, imperturbabile, allungò il braccio, offrendogli il
foglio da leggere. “Ea lista dil bucato da far
ancuò, sior conte”, chiarì,
sgranando confuso i grandi occhi nocciola. “Poxjo ndar
dabasso a darghela a la
massera?”
Il conte
lo congedò tramite un infastidito svolazzo della mano. Il
valletto s’inchinò e corse guardingo in
lavanderia, là dove l’aspettava il
giovane Vio. Una serva chiuse la porta e si pose a vedetta; le altre
impiegarono doppia forza nello sbattere i panni, onde coprire ogni
altro rumore
sospetto.
Parola
d’ordine: sfondare il fronte di Trevixo –
v’era scritto su di un secondo biglietto abilmente celato
dalla vera lista del
bucato, più un veloce riassunto di quanto discusso tra il
maresciallo La Palice
e Antonio di Collalto.
La
giovane spia veneziana lo piegò; toltosi uno stivaletto e
sfilato il tallone dalla braga, pose la preziosissima nota sotto la
pianta del
piede e rindossò l’indumento. “El
Gàmbara?”, s’informò.
Il
valletto tirò indietro gli occhi, cacciò fuori la
lingua e
disegnò una finta linea sul collo: spacciato.
Parlando
del diavolo, il conte Gianfrancesco di Gambara invero
arrancava in un’altra stanza del castello di San Salvatore,
il corpo sempre più
debole: la cavalcata a Serravalle per il bresciano l’aveva
sfinito, rubandogli
le ultime energie concessagli dalla malattia. Il suo animo agitato,
d’altronde,
non favoriva la guarigione, semmai esacerbava quel senso
d’ineluttabilità del
suo destino così concisamente descrittogli da Fra’
Anselmo. Dapprincipio il
nobiluomo aveva pensato ad uno crudele scherzo da parte del
benedettino, una
rivalsa per tutte le angherie subite dalle truppe franco-imperiali
durante la
loro occupazione di Nervesa. Invece, negli occhi scuri del monaco non
vi aveva
letto alcuna malizia né rancore, bensì una
distaccata oggettività acquisita
dalla sua previa professione di medico e quella attuale
d’erborista e fisico del
monastero.
State
morendo, signor conte –
gli
aveva ripetuto pazientemente – ed ogni
giorno di respiro concessovi,
interpretatelo come la volontà di Dio a riconciliarsi con
Lui. Meditate sulla
vostra vita, sulle vostre parole, opere e omissioni. Invocate
pietà laddove
avete fallato e pregate per chi avete offeso e danneggiato. Il mondo
andrà
avanti anche senza di voi; lasciatelo scorrere via e preoccupatevi del
destino
eterno della vostra anima.
Le ultime
parole avevano particolarmente colpito il conte
Gianfrancesco, precipitandolo in un profondo stato di prostrazione che
neanche
le preghiere avevano potuto alleviare. Sicché, sentendosi
quella mattina
leggermente più in forze, aveva richiesto al suo segretario
carta e penna:
avrebbe scritto all’amatissima figlia Veronica e poi, alla
prima occasione,
sarebbe ritornato a Pralboino, là dove aveva intenzione di
morire, non a
Collalto, non lontano dal suo feudo ancestrale.
Vanitas
vanitatum. Tanto affannarsi nelle terrene vicende, tante
fatiche, guerre, intrighi, tradimenti e alla fine cosa di quanto
guadagnato gli
sarebbe rimasto? Cosa si sarebbe portato seco? La sua
eredità, qualsiasi essa
fosse stata, sarebbe caduta sulle spalle dei suoi figli e di suo
fratello
Nicolò. Il suo nome? Le future generazioni,
indipendentemente dalle azioni o
parole del Gambara a sua discolpa, l’avrebbero giudicato.
Niente era più in suo
controllo, sempre che lo fosse mai stato.
Il
bresciano aveva seguito il consiglio di Fra’ Anselmo, sul
serio
scorrendo e analizzando la sua vita. Davanti al foglio bianco, in cerca
delle
parole per sua figlia, il conte Gianfrancesco ripensò alla
sua prima condotta
appena quindicenne, alla sua partecipazione alla Guerra del Sale, alla
battaglia di Fornovo, all'assedio di Novara; alla spedizione nel Reame
di
Napoli per aiutare Re Ferrandino d'Aragona a riconquistare il suo regno
dai francesi;
rivisse la battaglia di Tai di Cadore e, alas, d’Agnadello,
il punto di non
ritorno, là dove la voglia di tutelarsi aveva vinto
sull’onore.
In
passato, Gianfrancesco ammetteva le sue passate intemperanze e
acredini tra lui e la Serenissima: si era dovuto pubblicamente scusare
per aver
accolto a Pralboino i suoi parenti Sanseverino, nemici della Signoria;
il suo
diverbio e il conseguente schiaffo al podestà di Brescia,
sier Andrea Loredan,
gli erano equivalsi ad ulteriori grattacapi col Collegio dei Pregadi,
fino al
suo momentaneo allontanamento dalla città fintanto che il
Gambara non avesse
avuto l’umiltà di riconciliarsi non soltanto col
podestà Loredan, ma anche e
soprattutto con alcuni nobili locali, infastiditi dal suo comportamento
a loro
detta sprezzante.
Eppure
aveva combattuto ad Agnadello, ma la paura di perire in
quella carneficina l’aveva persuaso a fuggire dal campo di
battaglia assieme ai
concittadini Luigi Avogadro e Taddeo della Motella, mitigando la sua
sorte da
morto stecchito a prigioniero di Galeazzo Sanseverino il quale, memore
dell’antica parentela che li aveva uniti, lo aveva liberato
dietro pagamento di
un riscatto.
Ma quello
era stato solo l’inizio dell’incubo, oh, solo
l’inizio!
Sua
moglie, Alda Pio da Carpi, energica militante del partito
ghibellino e antiveneziano di Brescia, suo fratello Nicolò
di Gambara e Marco
Palatini da Martinengo, l’avevano convinto a lasciar perdere
quell’antica
alleanza e d’aprire invece immediatamente le trattative coi
francesi e così di
salvarsi dal naufragio, divenendo ufficialmente capo del partito
filo-francese
di Brescia. Eppure, contrariamente al loro parere, Gianfrancesco non
aveva
potuto sopportare di rendersi complice dell’ingiusta
prigionia dell’allora
podestà, sier Sebastian Zustignan, intercedendo per la sua
libertà e per un
salvacondotto fino a Venezia.
La nuova
alleanza aveva fruttato alla sua famiglia numerosi
vantaggi, privilegi e un grande potere a Brescia, almeno in apparenza,
giacché
il rivale e potente casato filo-veneziano degli Avogadro aveva colto al
balzo
l’occasione per inasprire i rapporti tra i Gambara, il resto
dell’aristocrazia
bresciana e la popolazione stessa, in una sottile guerra di faide e
spionaggio,
forti gli Avogadro dell’appoggio della Serenissima e delle
altre famiglie
nobiliari, gelose della nuova influenza dei Gambara. Il conte
Gianfrancesco
s’era inoltre reso ben presto conto di quanto si stesse
peggio sotto il nuovo
governo, trattati dai loro alleati francesi alla stregua di utili
lacchè da
sfruttare comodamente, disprezzati e derisi per il loro
servilismo. Di conseguenza, contro
l’opinione di moglie e fratello,
egli aveva ricontattato la Signoria e tramite il cardinale Francesco
Alidosi
aveva brigato onde riconsegnare Brescia ai veneziani, rimasto, in fin
dei
conti, il suo animo prevalentemente marchesco. Niente tuttavia sembrava
seguire
il processo dei suoi piani, il destino della Serenissima incerto quanto
però
l’esito della stessa guerra e questo l’aveva
bloccato proprio nell’istante in
cui la Signoria, per quanto perplessa e sospettosa, gli aveva conceduto
un
colloquio conclusosi con un nulla di fatto. Il Gambara voleva ritornare
all’antico signore, mondarsi dell’infamia che
sapeva avrebbe perseguitato
perennemente il nome suo e del casato. Per questo motivo aveva
ugualmente
mantenuto i contatti con Francesco Contarini “dai
Scrigni”, onde agevolare
quanto possibile la Signoria, nonché di restituire alla sua
famiglia il
prigioniero di Mercurio Bua a mo’ di prova concreta della sua
ritrovata lealtà.
Dio
invece aveva disposto altrimenti, cogliendolo in pieno
conflitto interiore, se la lealtà verso la famiglia o verso
la patria. Come
l’avrebbe giudicato, una volta al Suo cospetto? A che
cos’era valsa la pena
compromettere la sua reputazione? Il suo onore? Aveva salvato
nell’immediato la
sua casata dal disastro, ma non la sua coscienza. Aveva
visto e ammesso il suo peccato più grande, il più
disdicevole,
ossia quello di mutare talmente spesso fazione da chiedersi il Gambara
se il
suo fosse un cuore o perverso o demente.
“Signor
conte?”, lo riportò
bruscamente alla realtà il suo segretario, interrompendosi
nel suo discorso non
appena s’accorse della palese distrazione del padrone.
“La lettera del
cardinale Federico Sanseverino. Cosa gli rispondete?”
Invero,
come replicare ad uno scomunicato, talmente ambizioso
d’accettare di partecipare al Concilio di Pisa per deporre
Papa Giulio II ed
eleggere l’antipapa, il cardinale Carvajal?
“Che
venga qui a Collalto, se proprio mi deve parlare”, gli
comunicò incurante il conte Gianfrancesco, intingendo il
pennino
nell’inchiostro per incominciare invece la sua personale
lettera a Veronica.
Il
mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui, gli aveva
detto quel monaco benedettino; dunque, il bresciano si
premurò di confortare gli
unici che avrebbero faticato per un po’ ad accettare la sua
assenza, prima di
proseguire il lungo cammino della loro esistenza, relegando il suo
ricordo alle
preghiere serali o al Dì dei Morti.
***
“Ea
question sta cussì: en la strada dil zimitèro di
la Badia, te
trovi on muro, el qual gh’ha no sbrego, indove pol passar on
om par volta. Innanzitutto,
ti procurerò un saio acciocché ti scambino per
uno di noi; dopodiché,
trasporteremo il puto avvolto in un lenzuolo, come facciamo per muovere
i morti
via da qui al cimitero. Di decessi ne abbiamo avuti così
tanti, che nessun ci
baderà più di tanto né si
premurerà di far domande”, spiegava sottovoce
Fra’
Anselmo il suo piano di fuga ad Hironimo e Thomà, sfruttando
la scusa di
tingere al patrizio le placche infiammate in gola.
Dominando
il riflesso faringeo sia per la manipolazione dei
muscoli involontari sia per il gusto atroce della tintura, il giovane
Miani
bofonchiò in un gutturali gargarismi: “E come la
mettiamo col resto degli
ammalati e delle guardie?”
“Niente
che un ninìn de papaver somniferum non possa
risolvere”,
ribatté pragmatico il benedettino, cessando la tortura del
suo paziente, il
quale s’espresse in una serie di comiche smorfie e sputazzi,
nauseato al limite
dal sapore in bocca lasciatogli.
“Così
vi divertite ad avvelenare la gente a destra e a manca? Xé
squasi roba da Borja!”
Fra’
Anselmo s’imporporò, ironicamente, proprio
d’un bel rosso
papavero. “Se possiedi un piano migliore del mio, avanti,
esponimelo!”
Hironimo
scosse il capo, scusandosi per la battuta di pessimo
gusto, la quale in altre circostanze avrebbe o provocato la risata o
una
frecciatina arguta da parte del monaco. Invece quel giorno
l’umore di
quest’ultimo trasudava di stizza, colpa la rampognata da
parte dell’Abate, il
quale aveva preso in disparte Fra’ Anselmo, ma non abbastanza
da impedire al
veneziano d’ascoltare. In breve, gli si rimproverava
d’aver accolto due donne
in infermeria - una perfino travestita da uomo! - incurante
di ogni conseguenza, specie se le
due erano manifeste ribelli, fuggitive e mancate assassine ed
eviratrici
dell’altrui virilità.
“La
colpa ricade sul soldato, Padre Abate. Poteva applicare il mai
disprezzabile principio di castità e rispettare la persona
e, probabilmente, il
vincolo matrimoniale di quelle poverette.”
“Su
questo punto non le biasimo; ciononostante, non dovevate dar
loro rifugio nell’Abbazia. La neutralità
è l’unica difesa rimastaci, se
vogliamo evitare rappresaglie da parte dei soldati francesi.”
“Non
potevo certo rimandarle indietro, Padre Abate. Non dopo aver
scoperto quale destino le attendeva.”
“Comprendo
la vostra crisi di coscienza, però non vi dovevate
sbilanciare così apertamente. Voi appartenete ad una
comunità e come tale siete
responsabile della sua tutela …”
“…
ma anche dei miei pazienti e degli sfortunati che m’invocano
soccorso!”
“…
e dovete obbedienza al vostro Padre Abate.”
“Poi il Signore dirà a quelli alla sua
sinistra: Via, lontano da
me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi
angeli.
Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho
avuto sete e non mi
avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non
mi avete
vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. In
verità vi dico: ogni
volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli
più
piccoli, non l'avete fatto a me. Deus absconditus
est, Padre Abate, Dio
è nascosto, tra di noi, non siede su di un trono dorato a
guardare e basta! Il
nostro dovere è d’aiutare il prossimo, la
Carità! Cos’è la Fede, a cosa serve
pregare tutto il giorno inginocchiati all’altare, fustigarci
e indossare cilici
se poi quando un nostro fratello in difficoltà ci supplica
aiuto, lo scacciamo
rimproverandolo: “Vattene da me, peccatore, questo
è il tuo giusto castigo!” Con
quale coraggio avrei potuto pregare dinanzi all’Eucarestia,
dopo aver negato il
mio sostegno a due mie sorelle in Cristo, vittime della cattiveria
umana? In
quale modo, ditemi, avrei potuto considerarmi migliore dei loro
aguzzini?”
“Siete
sconvolto, Fra’ Anselmo. Per stavolta fingerò di
non aver
udito le vostre disobbedienti parole. Badate a comportarvi
conformemente alla
Regola e al volere del vostro Padre Abate.”
Hironimo,
origliando quelle parole, aveva avvertito una stretta al
cuore, ammirando lo schietto coraggio di Fra’ Anselmo e la
sua coerenza morale,
virtù assai rara in quei giorni di sfacciato trasformismo.
Inoltre, gli avevano
riportato alla mente alcuni ricordi d’infanzia, alle visite,
quand’era bambino,
agli ospedali dei derelitti assieme a sua madre madona Leonora e le sue
parenti
e amiche, opere caritatevoli da lui abbandonate alla prima occasione,
divenutegli infatti una noiosa incombenza rispetto ad altre
attività più
divertenti e stimolanti, ma al confronto aride e fini a se stesse.
S’era ricordato
delle parole della genitrice, quando di sua mano assieme alle fantesche
impastava ed infornava il pane destinato ai poveri: Il
mondo è tanto
orfano di carità e amore, Momolin
mio. Quanto poco ci chiede Cristo
di fare verso il nostro prossimo, a confronto di quanto Lui ha fatto
per noi.
Cosa
aveva fatto lui per il suo prossimo, se non sfruttarlo per i
propri scopi? Se aveva aiutato qualcuno in difficoltà, era
stato soltanto per
ottenere un utile debitore nei suoi confronti, oppure perché
il suo gesto
l’avrebbe distinto dalla massa, esaltando le sue
qualità. Da un favore
accordato s’aspettava puntualmente un guadagno – do
ut des – e quelle poche
volte ch’aveva ceduto a quell’oscuro istinto
d’essere caritatevole, se n’era o
subito vergognato manco avesse commesso un turpe delitto, oppure aveva
minimizzato la cosa, presentandolo ai suoi amici come uno scherzo, una
stravaganza da parte sua. Il suo prossimo, in verità,
l’aveva ignorato
bellamente, talvolta biasimato e disprezzato, considerandosi
l’unico al centro
del mondo, l’unico con delle esigenze, problemi, sogni e
speranze.
Come
avrebbe reagito, fossero stati i ruoli invertiti, nei panni
di Fra’ Anselmo? Avrebbe posto la sua vita in gioco per
salvare le due
contadine? A Castelnuovo di Quero non s’era arreso per motivi
di gloria e
onore, per tornaconto personale: avrebbe messo a repentaglio la vita
per quelle
sconosciute, che nulla avevano da offrirgli in cambio, se non la
possibilità di
finire impiccato assieme a loro?
“Zò,
sveja, indormensà!”, gli schioccò le
dita sotto il naso Fra’
Anselmo, scocciato da cotanta distrazione. “Donca, come ti
stavo spiegando …”
“Domani
mattina all’alba”, lo interruppe Hironimo,
massaggiandosi
gli occhi d’un tratto brucianti.
“Cosa?”
“La
fuga. Domani mattina all’alba.”
“Matto!”,
sibilò il monaco, scrutando circospetto dietro di
sé. “Sei
ancora ammalato! A malapena ti reggi in piedi, figurarsi correre fino a
Trevixo?!”
“Posso
e voglio!”, replicò testardo il giovane Miani.
“Domani una
parte delle truppe si sposterà alla Badia del Pero, mentre
l’altra cavalcherà a
sud, per un attacco. L’intero accampamento sarà
pertanto in subbuglio,
un’occasione perfetta per scappar via da qua!”
Il
benedettino si grattò il mento, in profonda meditazione. Era
rischioso, però rinviare all’infinito non poteva
ugualmente corrispondere ad
un’opzione. Una volta mobilitato il campo, forse lui poteva
dichiararsi
sollevato dalla penosa convivenza coi franco-imperiali, ma il giovane
patrizio?
Il bambino? A quale destino sarebbero andati incontro? No, in sua fede,
non
poteva abbandonarli, né continuare a soffrire la fame e la
mala compagnia di
quei giannizzeri travestiti da cristiani.
“Sta
ben”, gli diede l’uomo una pacca sulla spalla,
sennonché la
sua mano venne trattenuta da quella d’Hironimo.
“Mi
dispiace averti provocato tutte queste rogne per causa mia. Ti
sono debitore per l’aiuto offertomi, soprattutto per aver
guarito il mio
bambino”, lo ringraziò sincero, sorridendogli
timidamente. Poi, avvicinandosi
all’orecchio del frate, gli sussurrò energico:
“Dovesse questa fuga fallire,
giurami di portare Thomà a Trevixo, anche a costo di
lasciarmi indietro. Compredestu?”
Lo
stomaco di Fra’ Anselmo sobbalzò a disagio dinanzi
a
quell’inflessibile richiesta.
“Comprendestu?!”
“Sì,
ho capito. Te lo prometto”, lo rassicurò in fretta
il
benedettino, scoccando una fugace occhiata all’ignaro
Thomà. “Ora, però, per davvero
dormi: avrai bisogno domani di tutte le tue forze”, si
raccomandò, chiudendo la
tendina.
Hironimo
s’accoccolò sotto le coperte, i crampi allo
stomaco
passati, figli del pugno dell’altro giorno da parte di
Mercurio Bua, nella
speranza che non gli avesse incrinato qualche costola o provocato danni
interni. Allungò il braccio per accarezzare la testa bionda
di Thomà, il quale
si girò con fare interrogativo, la bocca piena di una fetta
di pane, cortesia
del greco-albanese.
Avesse
prestato più attenzione a chi lo circondava, non avrebbe
permesso che un bambino di dieci anni e qualche mese militasse in una
fortezza
così pericolosa quale Castelnuovo di Quero. Avesse Hironimo
posseduto
abbastanza buonsenso e spirito di osservazione, avrebbe chiesto ad
Andrea
Trepin di spedire Thomà a Treviso o meglio ancora a Venezia,
al sicuro, non in
prima fila a combattere contro quei senzadio dei franco-imperiali. Non
era quello
il suo posto. Invece, tanto era stato assorbito in strategie militari
rivelatesi alla fine inutili; dai suoi sogni di gloria miseramente
infranti;
dai suoi problemi col senno di poi assai stupidi da non accorgersi di
nulla.
Pertanto,
il Miani doveva questo favore a Thomà, per esser stato
un pessimo comandante e una persona cieca ai suoi bisogni. Avrebbe
lottato fino
all’ultimo respiro per concedergli la possibilità
di divenire un uomo migliore
rispetto a lui.
***
Sul
porticciolo di Treviso, davanti al bastione di San Polo,
s’incrociavano in un intenso viavai burchi, burchielli,
zattere, barche, ogni
sorta d’imbarcazione disponibile nelle rimesse. I calafati e
maestri d’ascia
lavoravano alacremente onde riparare quelle danneggiate, spalmandole
poi della
tenace pece.
Sotto un
portico poco distante, il capitano Andrea Vassallo
ascoltava attento e ragionava assieme a paron Jacopo Cimavin il
Vecchio, a suo
figlio Donado e agli altri membri della Corporazione dei Mugnai, i
quali sulla
cartina della Marca gli stavano indicando con grande precisione ogni
mulino
sulle rive principalmente del Sile e degli altri fiumi e canali.
Appreso
di una prossima incursione finalizzata a rubare la farina
macinata per Treviso e la Signoria, il provveditore Zuam Paulo
Gradenigo aveva
deciso di ritirarla tutta, trasportandola via acqua al sicuro nei
magazzini
cittadini. Al contempo, avrebbe trasformato i mulini in piccole torri
fortificate, acciocché, per ripicca, i franco-imperiali non
li distruggessero,
sottraendo a Treviso una vitale fonte di sostentamento. Quanto ai
contadini
sulla destra della Piave, non ricevendo risposta ai suoi inviti se non
netti
rifiuti, sier Gradenigo aveva deciso infine di lavarsene le mani: che
si
difendessero pure da soli, se non volevano collaborare.
Sicché,
sulle imbarcazioni venivano trasportati anche falconetti,
archibugi, balestre, barili di polvere da sparo, mentre il capitano
Vitello
Vitelli raccoglieva dei cavalleggeri e stradioti acciò il
nemico imparasse a
saccheggiare altrove.
“Vegnarò
anca mi”, concluse Donado Cimavin, sorprendendo suo
padre, che infatti sobbalzò alla notizia. “Sior
pare”, lo rassicurò prontamente
il giovane uomo, “i gh’han besogno de zente forte,
che savia el sòo mestier e
soratuto che cognossa el Sil. Mi e li altri muneri e sbisai semo
abituà a tirar
suso staie; ajutando i soldà, ze manedarem (sbrigheremo,
ndr.) avanti
l’attaco.”
Jacopo il
Vecchio non poté negare una certa ansia nel sapere suo
figlio invischiato in un’operazione sì rischiosa;
ciononostante, avendo vissuto
anch’egli avventure pericolose in gioventù,
comprendeva l’allettante richiamo
al cimento e la voglia di riscattarsi facendosi onore, specie dopo la
magra
figura di Donado ad Agnadello, la pellaccia sua salvata in extremis.
“Badarò mi
a Felicita e al bocia” (bambino, ndr.), anticipò
la prevedibile raccomandazione
di Donado, il quale, appoggiò riconoscente la mano sulla
spalla del genitore.
Intanto
che il giovane Cimavin radunava i suoi operai e li
smistava sulle varie imbarcazioni, Orlando da Bergamo e altri maestri
bombardieri aiutavano alcuni fanti a trasportare
l’artiglieria leggera e ad
imbarcarla.
“Oué,
presidente”, fischiò giovale Giorgio da Otranto,
attirando
l’attenzione del bergamasco, “v’unite
alla brigata?”
“Salveregina!
Vi pare che manchi alla gita, mastro Zorzi?”,
replicò Orlando, scandendo bene le parole
acciocché il pugliese comprendesse.
“Lì sul campanél si muore di noia,
almanco fazz un po’ d’speriènsa ad
ammazzare
franzosi!”, ridacchiò, grato al provveditore
d’avergli concesso d’accompagnare
la piccola guarnigione ai mulini, più per sistemare
l’artiglieria in maniera
efficace e strategica che per combattere, necessitando Gradenigo del
suo capo
dei bombardieri a Treviso, vivo e illeso. Un’ottima
distrazione, altrimenti al
bergamasco sarebbe cresciuta la muffa sotto le chiappe a starsene
lì inattivo a
San Nicolò in compagnia dei piccioni e del campanaro.
Orlando
stava giusto terminando di legare l’ultimo falconetto
assieme al bombardiere Paolo da Corfù, quando i suoi occhi
di falco isolarono,
nel concitato viavai di donne sulla riva del fiume, la gonnella che da
qualche
giorno intrigava la sua curiosità. L’aveva scorta
tra le volontarie a servire i
pasti e ad aiutare madona Maria Malipiero Gradenigo, trasportando in
testa,
come in quell’esatto momento, gonfi fagotti di coperte o
ceste o secchi
d’acqua. Una bella morettina, soda e al contempo pastosa,
visetto dolce
d’angelo e braccia robuste da rematore. Orlando aveva in
progetto di parlarle,
peccato che quella non guardasse nessuno in faccia,
un’espressione selvatica
perennemente dipinta su quel suo visetto vispo, che neppure
l’ombra dei lividi
e dei graffi avevano scalfito.
Il
bergamasco aggrottò la fronte dinanzi ai fischi di alcuni
soldati e alle moine d’apprezzamento, sebbene ignorati
sdegnosamente dalla
ragazza, la quale proseguiva impettita per la sua strada. Il
bombardiere balzò
giù sul pontile, azzoppando per poco il suo compaesano Zuan
Antonio e Thadio da
Vicenza, non appena uno dei fanti prese a tallonare la giovane,
parlottandole
forse nella speranza di persuaderla a fermarsi. Osservati gli scarsi
risultati,
l’uomo decise allora di ghermirla per una spalla e
così costringerla a
voltarsi, sennonché, per la somma sorpresa sua e di Orlando,
la moretta
estrasse rapidissima un coltello, puntandoglielo bellicosa sotto la
gola.
“Tocame
de novo e te tajo i cojoni e te li fazzo magnar!”, lo
minacciò senza tanti giri di parole, fissandolo arcigna.
“Ohi,
zentilhomo!”, le venne in soccorso il bergamasco, conoscendo
la permalosità dei soldati, che sì potevano
all’inizio spaventarsi dinanzi a
tale audacia, ma poi, ripresisi, non avrebbero reagito certo
galantemente se
provocati. Raggiuntili, si portò in mezzo ai due improbabili
innamorati. “La
s-cèta (ragazza, ndr.) l’è meco,
sót la mia protessiù”, mentì
il capo dei
bombardieri, tranne quando appoggiò allusivamente la mano
dietro la schiena, là
dove alla cintura teneva il pugnale. “Cavat d’i
ballis”, intimò spiccio al
soldato che, levando in alto le mani, ammise il suo torto e
lasciò il campo
libero al bergamasco, credendo il territorio già marcato.
Soddisfatto,
Orlando si girò trionfante verso la giovane e magari
aspettandosi pure un sorrisone d’estasiata ammirazione,
invece quella girava
sui tacchi, rimettendosi in testa la cesta e filando via in direzione
dell’ospedale.
“Hé-oh!
Torna qua indietro: neanche un ringrassiamènt?”,
le corse
subito dietro il presidente dell’artiglierie, decisamente
preso di contropiede
da tal atteggiamento burbero. “No set chi so'?”
“On
bergamasco che co’l verze ea boca, mi no capisso na
maladeta!”, replicò secca la giovane donna, senza
neppure degnarlo d’uno
sguardo.
Orlando
rise a quella che lui accettò come una battuta,
riconoscendo la difficoltà di comprensione da parte della
ragazza, proveniente
di sicuro dalla campagna e poco avvezza a qualsiasi realtà
oltre a quella dei
suoi campi. “Volevo soltanto un grassie, bela
pötela”, ripeté più lentamente
e
mescolando veneto e bergamasco. In un balzo la sorpassò,
aprendole
cavallerescamente una defilata porticina di servizio
dell’ospedale. “Perché
set, ch’a t’è bela, no?”
“Sì,
sì, con sta fazza pittufada!”,
s’indicò scettica la ragazza i
lividi e i graffi, meno gonfi certo, ma comunque visibili.
Dopodiché appoggiò
la cesta per terra, ponendosi le mani sui fianchi e sistemandosi
scocciata lo
zendale, affatto impressionata da quella cortesia e quei complimenti.
“Co’ on
om dise a ‘na puta: quanto te sé
bea, a vol dir ch’el vol infilarghele
le man tra le cosse (coscie, ndr.)!” e riafferrato il suo
fardello, passò oltre
lo scioccato Orlando, rimasto comicamente a bocca aperta dinanzi a tal
prosaica
schiettezza.
“D’accordo,
seguirò il tuo consiglio: dimmi il tuo nome!”, si
riprese però in fretta, “Così non ti
chiamo bela pötela! E per quanto riguarda
quelli”, e indicò più serio le
ecchimosi al volto, “passano in fretta e ne ho
collezionati anche io, dappertutto.”
La
moretta esitò, arricciando pensosa la bocca e valutando da
capo
a piedi la figura del bombardiere, in paziente attesa sullo stipite
d’ingresso,
sporto in avanti. Sì, il suo atteggiamento da galletto
tradiva la tipica
tracotanza dovuta al suo rango di presidente delle artiglierie,
tuttavia il
bergamasco possedeva una faccia da buono che la rassicurava. Inoltre,
fattore
non trascurabile, si presentava generalmente un bell’omo.
“Anzola di Bapi”, gli
concesse, entrando tuttavia svelta dentro il cortile interno
dell’ospedale.
“Zanze.”
“Zanze”,
assaporò quasi il bergamasco il nome, memorizzandolo
bene. “Zanze, tesoro, ‘scoltami: co’
torno, possiamo ciacular, tu ed io?”, le
propose galante, indeciso però s’accarezzarle o
meno il braccio. Quand’ecco,
che s’accorse di alcune macchioline rosse sul selciato.
“Ti sè fag’mal?”,
esclamò preoccupato.
La
contadina sobbalzò all’indietro, fissando
sbalordita per terra;
dopodiché s’alzò di qualche spanna la
sottana, strabuzzando gli occhi alla
vista di un rivoletto di sangue scenderle dalla gamba fino al tallone.
“No!
No vojo ciacolar teco!”, rifiutò imbarazza Zanze
la richiesta
del bergamasco, anguillando via lesta e sbattendogli poco
cerimoniosamente la
porta in faccia. Per poco mancò di spaccargli il naso, che
comunque il capo
bombardiere si massaggiò, deluso da quel due di bastoni
ricevuto. Ecco però che
la porta si riaprì e la testa scura di Zanze riapparve.
“Forse”, si corresse,
rientrando dentro tanto rapidamente quant’era comparsa.
“Tra sinque zorni:
cussì la sarò ancor pì bela per ti,
senza macature!” e fu la terza ed ultima
correzione.
Un
sorrisone da gatto pasciuto illuminò il volto
d’Orlando, felice
dell’incoraggiante esito di quell’incontro; corse
rapido al porticciolo e
lavorò più di tre uomini messi insieme, avendo
ora infatti un ottimo motivo per
terminare quanto prima la missione dei mulini sul Sile.
***
Fra’
Anselmo deambulava in punta dei piedi lungo l’intero
perimetro dell’infermeria, i nervi a fior di pelle, levando
la bugia sui volti
dei suoi pazienti e sospirando sollevato ogniqualvolta li trovava
rilassati, le
membra docili sotto il giogo del succo di papavero mischiato al loro
mosto
serale. Anche i due assistenti dormivano contro il muro, uno appoggiato
all’altro, mentre il suo confratello s’era recato
alle Lodi, il suo turno
finito. L’ampio salone giaceva in assoluto silenzio,
l’eco del gran trambusto
dovuto al parziale smantellamento del campo un lontano ricordo. Fuori
il cielo
s’andava gradualmente a schiarire, preparando la terra
all’alba.
L’ora
dei ladri e dei fuggitivi.
Guardandosi
incessantemente alle spalle, il benedettino si recò al
letto d’Hironimo, appoggiandogli lievemente la mano sulla
spalla e destandolo.
Il giovane patrizio non manifestava una cera migliore del giorno
addietro né ad
esso precedenti, sicché il monaco l’aveva lasciato
dormire fino all’ultimo,
sobbarcandosi lui e Thomà dei preparativi. Il fantolino,
agile e scaltro, non
aveva avuto alcuna difficoltà a reperire dalla lavanderia un
saio per il suo
padrone (anzi conosceva sospettosamente anche fin troppo bene la
strada) e per
sé una casacca, un paio di braghe e scarpe destinate agli
oblati. Dalle ceste
accanto al forno del monastero egli aveva in aggiunta rubato una grossa
pagnotta di pane e riempito di mosto una borraccia in cuoio, non
potendo
calcolare nell’esattezza la durata di quella loro fuga. Se
tutto fosse andato
per il meglio, aveva ipotizzato Fra’ Anselmo, in giornata
sarebbero giunti a
Treviso, specie in caso si fossero imbattuti negli esploratori
veneziani.
Altrimenti, l’indomani.
Hironimo
sussultò, guardandosi confusamente attorno, la testa
dolorante dalle ormai famigliari fitte. Ricacciò indietro la
nausea e si
stropicciò gli occhi, obbligandosi a regolarizzare il
respiro, deglutendo in
continuazione dell’acida saliva. Accanto a lui,
Fra’ Anselmo lo scrutava
attento, i muscoli del viso contratti dall’ansia e dalla
pressione.
“Stetu
ben?”, s’informò in un sussurro.
Il
giovane Miani annuì, pur ansimando, avvertendo sulle guance
un
bizzarro connubio di caldo e freddo. Si massaggiò il collo
irrigidito,
roteandolo onde scrocchiarne e scioglierne in muscoli, peggiorando al
contrario
la situazione, acuiti infatti gli spasimi alle tempie.
“Demo,
donca”, l’incoraggiò il monaco,
gettandogli sul letto un
fagotto ben stretto – saio, scapolare e sandali. Dopo quasi
un mese trascorso
indossando la sola camicia, al veneziano pareva quasi strano il
contatto
d’altro tessuto sulla pelle e una piacevole sensazione di
calore l’avvolse,
specie le gambe perennemente infreddolite. “Bevi”,
non si scordò certo il frate
del suo decotto, che il patrizio ingollò in un sol sorso tra
grandi smorfie,
tappandosi il naso.
Thomà,
nel frattanto, aveva sistemato uno spesso telo in mezzo
alla stanza, avvolgendosi poi in un secondo lenzuolo. Un po’
titubante, si
stese per terra e incrociò le braccia al petto, non senza
aver dato una furtiva
grattatina sotto l’inguine.
“Ma
cossa fastu, porzeo?”, lo rimbeccò Fra’
Anselmo,
raggiungendolo assieme ad Hironimo, travestitosi alla perfezione e
già col
cappuccio calato in testa.
“Contr’ea
scarògna!” (sfortuna, ndr.), si
giustificò impunito il
fantolino, scrollando le spallucce manco il suo si trattasse
dell’atteggiamento
più naturale del mondo. “Mi fazzo el morto, ma no
ghe vojo mica serlo per
dasseno, zò!”
Il monaco
scosse il capo, borbottando un pagan! rivolto al
bambino; lui ed Hironimo si piegarono uno di fronte all’altro
e pigliate
l’estremità del telo, lo sollevarono e lo chiusero
come se volessero piegarlo,
dirigendosi lentamente verso l’uscita
dell’infermeria, il cuore in gola e il
sangue fischiante nelle orecchie.
“Dove
andate?”, vennero immediatamente bloccati dai due stradioti
posti di guardia.
Ineffabile,
Fra’ Anselmo rispose loro, acciocché
l’attenzione
fosse rivolta totalmente su di sé: “A seppellirlo:
la cancrena se l’è portato
via, i suoi umori puzzano da nauseare!” e si
sventolò enfaticamente sotto il
naso. Potere della suggestione, anche i due mercenari credettero
annusare tale
lezzo, facendo rapido cenno ai due monaci di proseguire verso il
camposanto,
abituati oramai all’andirivieni di cadaveri
dall’infermeria.
Il
benedettino ne approfittò per accelerare il passo, non
giudicando sicuro sprecare un solo istante: le Lodi non sarebbero
durate in
eterno e un conto era ingannare qualche soldato ignorante o ingenuo
confratello, un conto un’intera congregazione. O peggio
ancora, d’incrociare in
corridoio o nel chiostro Mercurio Bua, il quale non mancava occasione
di venir
spessissimo a controllare il suo prigioniero, non appena si ricavava
qualche
ora buca tra un impegno e l’altro. Fortunatamente il suo
complice aveva
afferrato al volo questa sua fretta, camminando anche lui speditamente
finché
imbroccarono l’agognato sentiero verso il cimitero, liberi
infine dal labirinto
interno dell’Abbazia.
“Ecco,
ecco!”, virò Fra’ Anselmo verso un
angolo piuttosto
defilato del muro perimetrale, seminascosto dalle edere rampicanti,
dagli irti
cespugli e qualche ramo degli alti alberi al di là della
recinzione. Appoggiato
il cargo per terra, il monaco scostò via la verzura, tirando
e rompendo alcuni
rami piuttosto ostinati, finché non comparve in mezzo al
biancore delle pietre
una piccola breccia, a malapena sufficiente per un uomo
d’infilarsi dentro una
spalla alla volta. “Dove vastu?”, sibilò
agitato ad Hironimo, il quale, aiutato
Thomà a srotolarsi dai lenzuoli, era corso alla fossa comune
a cielo aperto,
dove gettò i teli, ricoprendoli con numerosi strati della
calce lì disponibile.
“Per
non lasciare una traccia ai cani”, fu la concisa spiegazione
del veneziano e il monaco si batté la mano sulla fronte,
avendo scordato quel
dettaglio malgrado avessero, nel forno comune, bruciato ogni oggetto
venuto a
contatto coi due prigionieri e il benedettino stesso aveva ripulito e
passato
sui suoi strumenti, scrivania e sedia un liquido particolarmente
urticante alle
sensibili nari dei cani.
Thomà
scivolò tranquillamente per primo attraverso lo stretto
varco, atterrando in basso il dislivello della collinetta in un sordo
tonfo
fangoso, unito al fruscio delle foglie secche. Fra’ Anselmo,
invece, dovette
trattenere il fiato e stringere gli addominali, incontrando un fiero
attrito
tra pancia e pietre che soltanto una decisa spinta da parte
d’Hironimo lo
disincastrò, permettendogli di passare oltre. Venne infine
il turno del
patrizio, il quale ricoprì il passaggio segreto alla
bell’e meglio con edere e
rami, per poi rotolare giù dove l’attendevano il
monaco e il bambino,
altrettanto infangati.
“Tutto
ben?”
Hironimo
fece cenno di sì, mascherando al contrario una smorfia di
dolore non appena appoggiò il piede previamente slogato per
terra; issandosi
su, esso aumentò, non realizzando d’aver battuto
anche il ginocchio. “Tutto
ben”, rispose e i tre in un sol uomo presero a correre lungo
un sentiero
scosceso del bosco, verso la sua parte più interna e buia,
là dove cresceva il
sottobosco e dove i cavalli avrebbero faticato ad inseguirli.
Essendo
piovuto in gran abbondanza, il terreno rossastro creava
uno strato molle in cui i loro piedi affondavano, insinuandosi il fango
tra i
sandali del monaco e del veneziano, il quale teneva sollevato il saio,
non
avvezzo a correre sì intralciato da cottole. I rametti
talvolta spinosi dei
cespugli li ferivano, stracciando pezzi di
tessuto; le punte delle
ortiche li pizzicavano arrossando quello sfortunato lembo di pelle cui
erano
venute a contatto.
Un
retrogusto ferroso iniziò a riempire la bocca
d’Hironimo, il
petto stretto e in affanno dal crescente debito d’ossigeno.
In altre
circostanze, correre a perdifiato su qualsiasi sentiero non
l’avrebbe certo
stancato così presto; la malattia e un mese
d’inattività forzata s’erano
congiunte in uno scellerato patto, rallentandolo ad ogni falcata.
Più volte
dovette appoggiarsi ad un albero, ansimando in cerca
d’un’aria sempre più
difficile da respirare, la milza in fiamme che lo malediva. Il sudore
gli
rigava il volto e sapeva bene quanto non fosse figlio dello sforzo;
infatti si
sentiva bruciare da dentro e gelava al contempo, la vista appannata da
macchie
nere e gialle, quando ovviamente non gli deformava ogni contorno
davanti a sé.
Strinse i
denti, rifiutandosi di cedere proprio in quel momento,
di compromettere la fuga con la sua debolezza e soprattutto di mettere
a
repentaglio la vita dei suoi complici. Hironimo ignorò la
rigidità dei muscoli,
la morsa alla milza e ai polmoni; avanti, avanti, soltanto una volta
giunto a
Treviso si sarebbe lasciato stramazzare al suolo.
Un acuto
gridolino spaventò lui e Fra’ Anselmo:
Thomà, che li
correva straordinariamente avanti, era sprofondato in apparenza nel
sottobosco,
neanche la terra l’avesse inghiottito. Hironimo si
portò rapidissimo sul posto,
temendo il fantolino ferito o peggio.
Tirò
un sospiro di sollievo.“Ahia-ahia-ahia!”, si
massaggiava il
sedere il bambino, non avendo notato la discesa a picco ben camuffata
dalla
verzura e rotolato quindi ai piedi della collinetta.
“Patron?”, inquisì
perplesso Thomà, notando l’improvviso colorito
cinereo sul volto del patrizio.
Un
brivido dolorosissimo colse il decenne, nel captare dietro di
sé lo schiocco di una balestra a leva appena caricata.
A onor
del vero, Mercurio Bua non era molto entusiasta all’idea di
quella cavalcata a saccheggiare i mulini sul Sile: tale operazione
l’avrebbe
allontanato per l’intera giornata dall’Abbazia, se
non di più se doveva dare
adito ai piani di La Palice che bisognava spingersi fin quasi a
Musestre e
figurarsi se il greco-albanese avesse poi voglia di pernottare al
ritorno nell’Abbazia
di Santa Maria di Pero. Il suo prigioniero sicuramente non versava
nelle
migliori condizioni di salute per cimentarsi in futili imprese e il
monastero
pullulava di soldati, nondimeno la prudenza non era mai troppa, il
tradimento
serpeggiante in ogni corridoio e lui non voleva rischiare brutte
sorprese. Il
Gambara, primo nella sua personale lista dei sospettati, poteva anche
languire
fuori gioco nel Castello di San Salvatore, ma ciò non
escludeva eventuali
complici, specie nella sua compagnia.
Di
conseguenza, il capitano di ventura aveva discusso l’affare
con
Leka Busicchio, chiedendogli di sostituirlo; lui poi si sarebbe
inventato una
scusa da rifilare a La Palice. Inoltre, che il suo collega rimanesse
rassicurato, il Bua gli cedeva volentieri il comando di parte dei suoi
stradioti, Zilio Madalo compreso. Busicchio aveva accettato di buon
grado, non
approvando però comprendendo la circospezione
dell’altro capitano.
Mercurio
s’era quindi appena congedato da Leka, quando si diresse
verso l’infermeria, trovandola stranamente in subbuglio: il
solito benedettino
– com’accidenti si chiamava? Fra’
Guglielmo? Fra’ Antonio? – mancava dalla sua
scrivania o accanto ai letti degli ammalati, rimanendo solo il suo
confratello
e gli assistenti, quest’ultimi indossanti in viso
un’espressione assai
intontita non dissimile da quella d’un ubriaco.
L’altro monaco stava spiegando
qualcosa all’Abate, dalla sua faccia sgomenta sicuramente
grave e di fatti
trasalì terrorizzato alla vista del Bua, il quale gli si
piazzò imperioso
davanti.
“Cos’è
successo?”, domandò, leggermente inquieto da
quella
bizzarra scenetta. I pazienti ricoverati in infermeria gli apparivano
stranamente quieti, così come l’intero ambiente
troppo in ordine, conferendogli
un non so che d’abbandonato, alternandosi nell’aria
un odore pungente e uno di
tessuto bruciato proveniente dal forno, a malapena mitigato dalle
finestre
aperte per far circolare via tal fastidioso lezzo.
“Un
… un nostro frate, Fra’ Anselmo, parrebbe essere
fuggito …”,
gli spiegò vago l’Abate, evitando di guardare il
condottiero dritto negli occhi,
“a quanto pare s’è servito assai
scaltramente delle sue erbe, per addormentare
…”, ma non riuscì a terminare il
discorso, essendo Mercurio volato verso il
letto d’Hironimo, scostando veemente le tendine, il cuore
martellante in petto
e presagendo il peggiore dei suoi timori.
Vuoto.
Il
materasso nudo ai suoi occhi – senza lenzuolo, senza federa
il
cuscino, senza il suo prigioniero – lo derideva inclemente,
schiaffandogli in
faccia il suo fallimento e stupidità per aver arrogantemente
creduto quel
dannato veneziano incapace di reagire, sconfitto e soggiogato. Alla
stregua di
una vipera, gli aveva sputato il suo veleno per poi scivolargli via
agile tra
le dita e per di più – massimo scorno! –
s’era portato seco il suo
preziosissimo nanerottolo, sottraendo così al Bua
l’unica arma di ricatto in
suo possesso, rompendo l’accerchiamento cui era stato
costretto.
Si fosse
trattato dell’altrui ostaggio, Mercurio si sarebbe
complimentato in cuor suo per l’astuzia del patrizio e
biasimato la cecità del
suo guardiano; siccome però il gabbato era lui,
un’ondata di rabbia mista a
vergogna per la sua stoltezza gli provocò violenti spasimi,
costringendolo a
digrignare i denti quasi a spaccarsi mascella e mandibola, le nocche
che
potevano squarciare i guanti di cuoio da quanto stringeva i pugni. Come
aveva
potuto lasciarsi ingannare da quel teatrino? Come aveva potuto peccare
di tale
stupida ingenuità? La mansuetudine,
l’arrendevolezza, perfino la fottuta
malattia, tutta una manfrina, un abile piano atto a fargli abbassare la
guardia
e piantargli il simbolico pugnale tra le scapole. Perché?
Perché proprio adesso
doveva fuggire? Quale figura ci avrebbe fatto con lo zio di quel
maledetto, con
l’intera Signoria? Esigere presuntuosamente uno scambio,
quando in realtà non
possedeva ora nulla da cedere? Quei vecchi volponi in Senato gli
avrebbero riso
in faccia, non pigliandolo in futuro mai più sul serio! Un
buffone, un
millantatore, un miles gloriosus, ecco a quale considerazione
l’avrebbero
relegato! E Caterina? Cos’avrebbe pensato di lui, della sua
debacle? Del modo
da scolaretto in cui s’era fatto abbindolare? Quando
l’avrebbe potuta
riabbracciare? Quando sarebbe riuscito a catturare nuovamente qualcuno
di sì
gran rango per giustificare lo scambio?
A
Mercurio sorse una gran voglia d’urlare, di stracciare a
morsi
il materasso, di spaccare a pugni il letto e d’infilzare, uno
alla volta, tutti
i presenti in infermeria, complici forse ignari ma non per questo ai
suoi occhi
meno colpevoli. Invece, una strana atarassia l’avvolse, una
lucidità imparata
in sedici anni di servizio militare. Alla fine della fiera, anche
quella era
una guerra: il veneziano aveva fatto la sua mossa, ora spettava al Bua
reagire
di conseguenza.
In
predatorio silenzio uscì dalla sala, pigliando i suoi due
stradioti per la gola e sbattendoli contemporaneamente contro il muro,
li
intimò di raccontargli dettagliatamente quanto visto e udito
quella fatidica
mattina. Dunque i due fuggitivi avevano finto di seppellire qualcuno
– il
moccioso, indubbio – e costì sgattaiolare fuori?
Perfetto, quindi dovevano
essersi recati al camposanto. Ma da lì com’erano
usciti? I furbastri avevano
bruciato o ripulito qualsiasi oggetto toccato, impedendo ai cani di
fiutare una
traccia. Come localizzarli nel bosco? A meno che …
“Voi
due sellate i cavalli e seguitimi”, ringhiò
Mercurio ai suoi
negligenti sottoposti, i quali si massaggiavano il collo scuritosi di
ecchimosi. “E pregate Agios Georgios che riesca a catturare
almeno il
veneziano, altrimenti v’impiccherò al primo albero
disponibile!”, che in un
bosco significava immediatamente.
E mentre
i due stradioti correvano via in direzione della stalla,
il Bua ritornò alla sua cella, rovesciando collerico il
cassone contenente la
sua roba. Rovistò disordinatamente, lanciando di qua e di
là capi
d’abbigliamento e chincaglierie, calciò qualsiasi
cosa lo ingamberasse e
imprecò nel non reperire subito ciò che stava
cercando.
Fischiò
vittorioso nel trovare, ben nascosto in fondo all’ultimo
cassone, il farsetto ch’aveva sottratto, il giorno della
cattura, al veneziano,
quando l’aveva spogliato dell’armatura e di ogni
altra sua possessione. Un capo
d’abbigliamento d’un bel rosso accesso,
d’eccellente e robusta lana inglese
follata in modo da rendere il tessuto impermeabile all’acqua
e al sudore. Conoscitore
della qualità, Mercurio se n’era appropriato allo
scopo di disfarlo e di
ricucirselo addosso, adattandolo alla sua taglia. Grazie a Dio aveva
posticipato tale decisione, giacché, se fortunato,
l’odore del fuggitivo poteva
aver indugiato nell’indumento.
Il
condottiero corse in cortile, portando il farsetto ai cani e
mordendosi in ansiosa attesa all’interno della guancia
dinanzi alla confusione
degli animali, i quali sniffavano esagitati ma al contempo confusi,
girando in
cerchi, annusando, scodinzolando per ripetere in seguito tale
operazione.
Quand’ecco, che i loro corpi muscolosi e snelli
s’irrigidirono, la coda
fendette con maggior vigore l’aria e un lungo ululato
riecheggiò nel monastero,
intanto che i cani partivano entusiasti all’inseguimento, la
traccia
localizzata.
L’unico
inghippo rimaneva che Mercurio non poteva transitare a
cavallo lungo la fessura nel muro perimetrale del camposanto
– disgraziato lui
che non aveva controllato a sufficienza ogni pertugio in quella
stramaledetta
Abbazia! – sicché dovette frenare
l’esuberanza dei suoi cani e reindirizzarli
lungo il sentiero, soltanto dopo aver girato attorno al monastero per
una via
più agevole agli zoccoli della sua cavalcatura.
Il
greco-albanese, affiancato dai suoi due stradioti, batté
quindi
furiosamente gli speroni contro i fianchi del suo turcomanno, il quale
guizzò
in possente galoppo e i suoi sbuffi per l’inaspettato sforzo
si mescolarono al
tintinnare delle catene, con le quali Mercurio aveva intenzione di
legare la
sua ribelle preda.
Il
balestriere dinanzi ai tre impietriti fuggiaschi rimase
altrettanto immobile, reclinando il capo interdetto. Lentamente, dalla
boscaglia apparvero e gli si affiancarono altri due uomini armati di
picche, i
cui abiti grezzi e le pellicce pezzate tradivano la loro
rusticità ed
esclusione da uno specifico esercito. Il che rassicurò
Hironimo, rilassatosi,
pur avanzando a mani in alto e a passo deciso verso il soldato alle
spalle di
Thomà, malgrado i preoccupati richiami di Fra’
Anselmo.
“Semo
zente in fede di Sen Marcho!”, dichiarò a voce ben
alta,
scandendo ciascuna parola e mantenendo un solido contatto visivo col
balestriere, il quale, malfidente, replicò aspro, il dito
accarezzante la molla
per far scattare la freccia:
“Provalo!”
Il
giovane Miani guadagnò ancora qualche passo, portando il
tiro
su di sé così da permettere al bambino di
scivolare dietro la sua schiena. “In due
parole mi sbrigo: sono Hironimo Miani, figlio del fu magnifico senatore
Anzolo
Miani di Sen Vidal, castellano di Castel Novo di Quer;
costui”, ed indicò col
capo il fantolino dietro di lui, “è
Thomà figlio del fu Vetor, falegname di
Feltre, e assistente del fu bombardiere Andrea Trepin da Cividal di
Belluno.
Quest’ultimo invece si chiama Fra’ Anselmo dalla
Badia di Sen Stae, medico ed erborista.
E tu”, aggiunse all’ultimo, piazzandosi ad una
risibile distanza dal soldato. “Tu
sei Cabriel Jermin, fio del fu Piero e fradelo dil Bastian Jermin, morti
virilmente a
Castel Novo!”
O quel
frate – o presunto tale – apparteneva alla miglior
categoria di spie mai esistite sulla faccia della terra, oppure egli
affermava
il vero sulla sua identità. In ogni modo, Cabriel
abbassò ciondoloni la
balestra, la bocca aperta dallo stupore e la contentezza di rivedere il
suo
ex-comandante vivo e in un sol pezzo.
“Sior
castelan! … Lustrissimo! … La
perdonança, mi … mi no savevo
… no …”, balbettò in affanno
il balestriere, arrossendo quasi quanto una matura
fragola selvatica. “Mi ve credea prexom dil Bua …
Ve seu vestito frate?”,
domandò confuso, strabuzzando comicamente gli occhi.
“Rilassati,
hai fatto soltanto il tuo dovere, anzi, nei tuoi panni
mi sarei comportato esattamente come te. Quanto al saio, fa parte del
piano di
fuga, figurarse se io mi vesto
frate,
prete, cardinale!”, lo rassicurò Hironimo,
afferrandogli il braccio a mo’ di
saluto fino al gomito. “Però adesso dimmi: cosa ci
fai qua? Quali nuove da
Trevixo?”
“Trevixo
xè tanto fortifichato che s’il fosse do exerciti
chome
quello de’ inimici no xè da dubitar:
sarà la pì brava forteza de tutta
Italia!”, iniziò Cabriel a rispondere
l’ultima domanda, onde rasserenare il suo
superiore circa la preparazione della città dinanzi alla
costante minaccia
d’assedio. “Prima, ve confesso, non valea gnente e
c’on lanzon si haria potuto
saltar le mura, ma horra a xé stà slargate cuatro
volte pì, dal pe’ dil fosso
fin suso con do man di lote tirade per linea, chome fosse un muro, che
mai fo
visto sì ben lavorato e tuto con frasche e teren, de quello
cavano, e xé molto
mejo di repari di Padoa. Tutti li fossi xéi desfati, e parte
di cavalieri, per
slargar i fossi, se gh’ha convenuto a tajar. Xé
stà ruinà tante caxe e giese,
gerano fino su li fossi, e tutavia si disfa, che xé
‘na compassion, e potrà
andar parechij cavalli a par. In summa, sta terra no xé da
robar e manco di ser
tolta per forza. El provedador sier Zuam Paulo Gradenigo vol mandar
Zigante
Corso a la Mota per tegnirla e sier Zuam Vituri, horra provedador di la
Patria,
al castello di domino Hironimo Savorgnan, per far tremar i todeschi e
quei
lochi rebelli a la Signoria. ”
I tre
fuggitivi si scambiarono dei sorrisi pieni di sollievo,
rispecchiati da quelli di Cabriel e dei suoi due compari.
“Par mi, sun qua per
tegnir en osservation el campo”, proseguì il
balestriere nel suo racconto,
dirigendoli intanto verso un anfratto ben nascosto
all’interno di una
collinetta, là dove potevano discorrere indisturbati e al
riparo da occhi
indiscreti. “Da Colalto ghemo inteso chome ancuò
la Peliza feve spostar parte
dil campo a la Badia dil Pero, pì atachar, per sachizar, i
molini sul Sil che
masenano per Trevixo e Veniexia. Sti do”, ed
indicò i suoi compagni, “xéi
villani scampolai dil massacro. Di solito mi sto qua a tegnir stimulati
i
franzosi, perhò ancuò i xéi ussiti con
arme et artellaria e nuialtri non ghemo
possibilità di scaramuzzar sì
desvantajai.”
“Donca
ve ne tornerete a Trevixo?”
“Ancuò
sì. Depo’, s’avedarà. Sti
valenti homeni no gh’aleli alcun
scopo qui, mejo ch’i ajuden a custodir la
città”, chiarì Cabriel la situazione
ad Hironimo. Lo scontro e il conseguente massacro di parte dei
contadini
ribelli sul Montello aveva sortito l’effetto prefissatosi da
Mercurio Bua:
molti dei superstiti s’erano rintanati negli angoli
più inaccessibili del bosco
e da lì più non volevano uscire, sordi ad ogni
richiamo; altri, quelli invece
rimasti nelle campagne della bassa, si rifiutavano d’obbedire
alle ordinanze
del Podestà e del Provveditore che li comandavano di
riparare a Treviso coi
loro carri e bestiame, preferendo o morire a guardia delle loro
proprietà
oppure cederle senza combattere al nemico, piuttosto
d’abbandonarle
definitivamente.
“Puoah!”,
commentò disgustato Thomà a fine discorso, avendo
ascoltato tutto attentamente dietro il suo padrone. “Ghe
xé chi xé nato libero e
chi s-ciavo!” e sia Hironimo, Fra’ Anselmo sia
Cabriel rimasero stupiti dalla
saggezza contenuta in quelle parole pronunciate da un decenne.
“Cabriel”,
ruppe il silenzio il giovane Miani, sorgendogli
all’improvviso un dubbio. “Stamane, hai per caso
scorto il Bua tra gli
stradioti?”
Il
ragazzo strinse gli occhi e aggrottò la fronte, sforzando
intensamente la sua memoria visiva e scorrendo ciascuna faccia
individuata a
capo delle colonne di soldati. “No”,
schioccò infine la lingua, “nol gh’ho
visto. E manco tra li cavali lizieri e stratioti alla volta di molini.
Ghe gera
el sòo compare, Leka Busichio, ma no el Bua.”
Una
coltellata dritta allo stomaco gli avrebbe doluto di meno,
rispetto ai crampi generati al Miani nell’apprendere quella
notizia. Merda,
merda e ancora merda! Aveva deciso di fuggire proprio quella mattina,
confidando
nella presenza di Mercurio Bua alla spedizione a sud, ai mulini, la
quale
l’avrebbe allontanato dall’Abbazia almeno per
l’intera giornata, concedendogli
così un notevole vantaggio di tempo. La gola gli si
serrò dal panico e le sue
mani presero impercettibilmente a tremare, terrorizzato
all’idea di cosa quel
satanasso avrebbe potuto fare, in caso li avessero catturati. Il
patrizio spiò
di sottecchi Thomà, che lo ricambiava altrettanto ansioso e
così anche Fra’
Anselmo.
Se invero
Mercurio Bua era rimasto a Nervesa, sarebbe dunque stata
questione di qualche ora prima di scoprire l’inganno e
partire alla loro
ricerca. Lui e Fra’ Anselmo avevano eliminato ogni possibile
traccia per i
cani, tuttavia non si poteva escludere che il condottiero avesse
conservato un
oggetto appartenuto ad Hironimo, vanificando ogni loro scrupoloso
accorgimento.
E conoscendo la bestiale tenacia dell’uomo, il veneziano non
dubitava che li
avrebbe scovati.
Calma!
Calmati! Ancora non ci ha raggiunti, possiamo uscirne
vincitori!, si
massaggiò il giovane in maniera circolare
lo stomaco, respirando a profonde boccate d’aria onde
riequilibrare il suo
spirito sconvolto e riacquistare la freddezza necessaria per la
contromossa.
“Sior
castelano?”
“Dove
avete lasciato i cavalli?”
“Do
o tre milia pì en basso de qua, col resto di la mia
compagnia.”
Hironimo
congiunse le mani sotto il mento, calcolando mentalmente
i tempi e la velocità con la quale potevano ricongiungersi
al resto degli
esploratori veneziani. Non era una distanza impossibile, ciononostante
considerò il suo precario stato di salute e il gonfiore alla
caviglia e al
ginocchio;, nonché l’età non molto
fresca del benedettino e le gambette corte
di Thomà. Troppo rischioso azzardarsi a viaggiare uniti.
“C’è un’altra uscita
dal bosco del Montelo?”
Cabriel,
solerte, gliel’indicò, in direzione più
a sud rispetto al
loro nascondiglio. “M’a xé pì
longa”, l’avvertì, non comprendendo il
ragionamento del conterraneo.
“Tu,
i tuoi uomini e i miei compagni percorrerete la vostra solita
via. Io prenderò quest’altra.”
“No!”,
esclamò veemente Thomà, afferrando al volo
l’intenzione
d’Hironimo e abbracciandolo stretto, quasi ad impedirgli
fisicamente di
separarsi da lui. “No me lassé solo, patron!
M’avé zurà de senpre starme meco!
Nol podé farlo, nol podé! Se quel cancaro dil Bua
ve copasse, cossa fassjo?”
Afferrandogli
i piccoli e magri polsi, il Miani si staccò
bruscamente di dosso il fantolino, allontanandolo da sé.
“Thomà”,
l’apostrofò
sì duramente, che il pargolo trasalì, non
più abituato a quel tono autoritario.
“Sono il tuo comandante e mi devi obbedienza.
Compredestu?”
Il labbro
inferiore di Thomà incominciò a tremare
violentemente, i
suoi occhi velati da grasse lacrime. Deglutì un forte
singhiozzo, asciugandosi
via il pianto a stento trattenuto, il suo cuoricino straziato di nuovo
dal
medesimo dolore provato all’epoca dell’uccisione
della sua intera famiglia.
“Ci
separeremo solo per qualche tempo”, lo consolò
Hironimo,
afferrandogli il mento ad invito a guardarlo. “E ti prometto
che ci ricongiungeremo
tutti a Trevixo!”
“Dasseno?”,
pigolò affranto il fantolino. “Me lo
zurate-vuj?”
“Lo
giuro. Adesso smettila di piangere: non sei il mio ometto
coraggioso?”, l’abbracciò forte Miani,
ricambiato con altrettanta intensità dal
piccolo, il quale gli artigliava i capelli e il saio neanche
desiderasse
fondersi in un unico corpo. Il suo istinto di fanciullo,
così simile a quella
animale, aveva fiutato un che di mortifero e definitivo in quel congedo
e la
sua animuccia agonizzava all’idea di rinunciare a
quell’ultimo appiglio di
famiglia rimastogli. Allo stesso tempo la sua fiducia nel patrizio
rimaneva
talmente salda da credergli in tutto, anche di riuscire, come il
biblico
Giosuè, a fermare il sole in cielo per favorirli nella fuga.
“Ve
vojo tanto ben, sior pare”, gli sussurrò
Thomà all’orecchio
quelle tenere parole, che avrebbe tanto voluto pronunciare
più spesso al suo
vero padre, privato però dalla guerra di ogni futura
possibilità. Sicché,
incerto di un futuro troppo mutevole da prevedere, compì
quell’atto d’amore
verso chi come un padre s’era comportato nei suoi confronti,
verso chi l’aveva
difeso contro ogni incognita, senza guadagno personale, assumendosi
volontariamente un ruolo cui nessuno l’aveva obbligato.
Hironimo
non rispose, stordito dal peso di sì grande privilegio e
stima, non sussistendo al mondo fiducia più grande di quella
che un bambino
ripone in un adulto, il più indifeso e innocente degli
affetti. Gli baciò la
fronte e finse di sputargli in testa a mo’ di buon augurio,
riponendosi in piedi
e cedendo Thomà alla custodia di Cabriel.
“Bada”, l’ammonì energico,
“sto puto
xé el cargo pì pretioso che te dago. Se gli
accade qualcossa, mi te cato, te
ciapo, te copo e l’inferno te parrà el Paradiso!
Pulito?”
Il povero
Cabriel annuì velocemente, pigliando protettivamente per
mano l’infelice e rassegnato fanciullo e lo invitò
silenzioso ad incamminarsi
assieme a lui.
“Sarai
anche un turco”, indugiò un ultimo istante
Fra’ Anselmo,
sistemandoglisi di fronte, “ma allo stesso tempo sei un
valent’omo e d’onore”,
gli confidò impressionato, posandogli la mano sulla testa.
D’istinto Hironimo
tentò di scostarsi – quando mai gli aveva
richiesto una benedizione? –
sennonché desistette, la pressione del monaco troppo forte.
Provò uno strano
brivido, unito ad un’improvvisa voglia di piangere, quando il
pollice del
benedettino gli segnò una croce sulla fronte.
“Scoltame ben, razza de testòn: più
di ogni peccato, Missier Domeneddio si ricorda d’ogni buona
azione.”
“In
tutta la mia vita, non ho mai fatto nulla di buono”, fu il
massimo di confessione che il giovane Miani gli concesse, il petto
stretto da
quell’improvvisa afflizione. “Ho rifiutato Dio
quindici anni fa, a questo punto
sicuramente Egli si sarà dimenticato di me.
Perché dovrebbe oggi incominciare
ad ascoltarmi? Invece”, interruppe egli sul nascere la
contro-argomentazione di
Fra’ Anselmo, premendogli altro in quel pochissimo tempo
rimastogli a
disposizione, “per favore, porta quest’ambasciata a
mio fratello Marco: digli,
che mi dispiace tantissimo per ogni torto, ogni villania, ogni litigio.
Digli,
che mi dispiace d’essere stato così crudele ed
ingiusto con lui. Digli che
l’amo, lui e tutta la nostra famiglia. Digli che sto
bene.”
Il monaco
gli strinse la mano, accettando silente l’incarico,
avvertendo un famigliare groppo in gola. Dopodiché si
congedò dal patrizio,
seguendo rapido il gruppetto fino a sparire nella fitta vegetazione,
lasciando
infine Hironimo solo, indietro.
Digli
che sto bene, perché i morti stanno sempre bene, completò
egli a mente la frase indirizzata a suo fratello Marco,
ch’ormai non confidava
più di rivederlo se non nella casa dell’Ade. Il
giovane Miani si coprì il viso
bollente di febbre tra le mani gelate dall’umido boschivo, i
tremori ripresi
con maggior vigore di prima. Un Mercurio Bua arrabbiato già
era difficile da
gestire; uno fuori di sé dall’ira corrispondeva ad
un certo appuntamento con
l’Oscuro Mietitore, o quasi. Il veneziano non escludeva la
possibilità che,
onde vendicare il suo orgoglio ferito, il greco-albanese
l’avrebbe torturato,
forse addirittura ucciso. S’augurò mille volte
questa seconda opzione, non
nascondendo la sua paura dinanzi al supplizio, non se il condottiero
poteva
aver appreso qualche utile lezione dai turchi.
D’altronde,
si consolò, stringendo i denti e correndo in direzione
sud, verso l’uscita del bosco, quale altra maniera per
riscattarsi gli restava,
se non d’aiutare i suoi compagni ed ergersi a scudo umano?
Mercurio era lui che
voleva, dunque se la pigliasse con lui.
Per la
sua vanagloria e testardaggine Hironimo aveva sacrificato
senza guadagno la vita di quei coraggiosi soldati rimastigli fedeli e
dei suoi
servitori, nonostante l’allettante promessa di La Palice di
risparmiarli in
caso di resa. Avrebbe dovuto congedarli da ogni vincolo, un bravo
comandante
riconosce quando ha perduto la partita e s’adegua in attesa
del riscatto. Per
difendere il suo onore s’era servito delle vite altrui, vite
spezzate che mai
più sarebbero ritornate, occasioni perdute, sogni infranti,
futuri negati.
Il loro
sangue macchiava le sue mani e se doveva versare il suo
per far ammenda dei suoi errori, avrebbe più che volentieri
offerto le vene
alla lama nemica.
Hironimo
aveva disonorato suo padre a Castelnuovo e a Feltre, la
quale aveva esultato alla notizia di un Miani a comando di quelle zone,
ricordando ancora piena d’ammirazione l’antico
podestà e capitano, malgrado i ventitre
anni trascorsi dalla fine del suo mandato. Quale magro guadagno! Uno
stolto
figlio ch’aveva invece annullato ogni benemerenza del fu sier
Anzolo Miani, vittorioso
contro il tentativo di Sigmund von Habsburg d’occupare il
feltrino e la stessa
città.
Sicché
il giovane patrizio era pronto a qualsiasi sacrificio pur
di dimostrare al mondo, quanto lui non fosse da meno; di dimostrare a
Padre,
ovunque egli si trovasse, ch’egli non era una delusione, un
incapace, un figlio
che sarebbe stato meglio seppellire in culla.
Se
invero vi dovrò raggiungere presto, sior Pare, non voglio
farlo
vergognandomi alla vostra presenza.
***
Mulino
dopo mulino, senza trovare niente tranne polvere e qualche
chicco di grano, la compagnia di Leka Busicchio si era spinta fin quasi
a
Musestre, in territorio nemico, tentando la sorte giusto per non
tornare
indietro a mani vuote al campo.
Il
capitano degli stradioti fece cenno ai suoi di fermarsi,
allungando il collo e stringendo gli occhi onde accertarsi della natura
dell’edificio davanti a sé e seminascosto dai
salici piangenti ed altre fronde.
Due piani, un pergolato e un muretto perimetrale ed infine il familiare
scroscio dell’acqua manipolata dalle pale della ruota
d’acqua.
Sì,
decisamente un mulino e con un burchio legato ai pali in
colonna del pontile, ergo i preziosi sacchi di grano e farina ancora
rimasti
nel magazzino. Le finestre erano aperte, un sottile filo di fumo
serpeggiante
fuori il camino, segno che il mugnaio probabilmente si trovava
lì dentro.
Il greco
scrutò bene lo scenario, in cerca di elementi
ch’avrebbero potuto tradire una presenza militare nemica; la
vegetazione fitta,
sia degli alberi che delle canne, fornivano un eccellente nascondiglio.
Il
mugnaio, i suoi operai e la sua famiglia non avrebbero corrisposto ad
un grande
ostacolo, ciononostante Busicchio ugualmente comandò ai suoi
stradioti di non
uccidere se non necessario, già satollo di sangue dal
recente scontro del
Montello. Il loro obiettivo era di rubare il macinato e rientrare al
campo
prima che i marciani potessero reagire, quindi niente spreco di tempo
prezioso
per infierire, specie sulle donne.
Leka
estrasse la spada dal fodero, mai troppa la circospezione,
intanto che i balestrieri caricavano le loro armi a leva. Battendo i
talloni
sul cavallo, il capitano incitò i suoi uomini ad occupare
velocemente il
terreno, cogliendo di sorpresa la gente nel mulino senza concedere
alcuna
possibilità di difendersi. Man mano che si avvicinavano
però all’edificio, un
odore acre e familiare colpì le nari del capitano di
ventura, un odore che la
legna bruciata, in lontananza, aveva ben camuffato.
Polvere
da sparo.
All’improvviso,
il muretto perimetrale al mulino cedette in una
piccola valanga di mattoni e la bocca di un falconetto apparve e il suo
ruggito
bloccò la cavalcata degli stradioti, i cui cavalli
s’impennarono spaventati,
nitrendo e ribellandosi al comando dei loro padroni. Le balote,
atterrando nel
terreno fangoso, sollevavano terra e l’urto scoordinava e
sbilanciava la
colonna nemica, facendo cadere a terra molti cavalleggeri, morti o
feriti sia
dal colpo sia dalle rovinose fratture alla colonna vertebrale. Da un
altro
angolo del muro sparò un secondo falconetto e ben presto
anche dalle finestre
s’unirono, in un concerto di zolfo, gli schioppi degli
archibugi.
“È
un’imboscata!”, gridò Leka ai superstiti
rimasti della prima
linea, tirando le redini onde bloccare l’avanzata del suo
cavallo e
costringerlo a rinculare. La melma tuttavia rallentava
l’animale, gli zoccoli
sprofondanti su di un terreno instabile e scivoloso. I balestrieri
tentavano di
mirare dentro alle finestre, ma l’incalzare dei falconetti
allontanavano troppo
il tiro, rendendo le frecce inefficaci.
“Ritirarsi!
Artiglieria!”, fece eco Zilio Madalo al capitano,
segnalando ai compagni di zigzagare e disperdersi, così da
confondere i
tiratori e limitare i danni delle cannonate.
Dal piano
alto del mulino, il capitano Vitello Vitelli osservava
la confusione nel gruppo degli stradioti, i quali cozzavano in due
movimenti
contraddittori, d’offensiva e ritirata. A onor del vero, il
laziale non s’era
atteso quell’attacco, giudicando Musestre al di fuori dal
raggio d’azione del
nemico e per questo aveva lasciato i suoi mulini per ultimi
nell’evacuazione.
Fortuna che già da quella mattina stavano brigando a
convertire l’edificio a
piccola torre di vedetta, sicché non li avevano pigliati
impreparati.
“Signor
Orlando!”, urlò dabasso al capo bombardiere, il
quale strisciava
nascosto dietro al muretto onde dirigere i suoi uomini.
“Costringeteli in un
unico blocco, che non si disperdano!”
Il
bergamasco levò in alto il pugno, segno ch’aveva
compreso.
“Puntate ai fianchi!”, tradusse l’ordine
del Vitelli ai suoi colleghi Paolo da
Corfù, Giorgio da Otranto, Zuan Antonio da Bergamo e Thadio
da Vicenza, i quali
calibrarono il tiro, puntando i falconetti in modo da non concedere via
di
salvezza al nemico, specie laterale, la quale avrebbe portato ad un
possibile
accerchiamento del mulino da dietro. Se i Collegati volevano arrendersi
e
scappare, sarebbe stato solo ritornando sui propri passi.
“Fuoco! Fuoco!”
Al
pianoterra, un archibugiere chiamò Donado Cimavin, rimasto
lì
imbambolato senza alcunché da fare, gli ultimi sacchi
rimasti da trasportare ai
suoi piedi. “Sistu bon a sparar?”, gli
allungò un archibugio rimasto orfano di
padrone.
Il
giovane mugnaio guardò incerto l’arma da fuoco,
specie quando
il soldato, impaziente di una risposta, gliela cedette di peso. Donado
era un
pochino familiare con la balestra, più che altro come svago
nelle competizioni
della domenica, ma quel lungo pezzo di legno e metallo lo percepiva
alieno tra
le sue mani. Una freccia piantatasi contro lo scure della finestra lo
costrinse
in ginocchio accanto all’archibugiere, ogni indugio gettato
alle spine.
“Movete,
t’eo gh’ho zà
cargà!”, lo spronò impaziente il suo
compagno, sparando all’anonimo temerario che
l’aveva scambiato per un’anatra
selvatica.
Allora,
Donado imitò la posizione del soldato, appoggiando la
canna sulla finestra e puntò ad uno a caso dei cavalleggeri
nemici. Un altro
archibugiere gli accese la miccia da dietro, la quale
sfrigolò avida, creando
un enorme tensione nel mugnaio, meditando questi sulla prossima mossa
da fare.
Scoccò una seconda occhiata all’uomo accanto a
sé, poi agli stradioti, poi
nuovamente agli archibugieri.
“Co’
te gh’ha puntà l’arma, serra i ocij e
scansa ea testa, sennò
t’i brusi di polvare!”
Donado
deglutì e seguì immediatamente il consiglio:
prese la mira,
chiuse le palpebre e reclinò il volto quel giusto per non
riempirseli dei
pericolosi rimasugli di polvere e lo schiocco roboante
dell’archibugio fece il
resto. “Bravo! Bravo!”, udì dal buio,
persuadendolo a riaprire gli occhi. “Te
ne gh’ha ciapà on! An, la fortuna dil
prinzipiante!”, si congratulò il suo
vicino, offrendogli la mano per rialzarsi in piedi, non avendo Donado
calcolato
il rinculo del colpo appena sparato e puntualmente finito a gambe
all’aria.
In alto,
Vitello Vitelli diede alla vedetta nascosta tra i rami il
segnale convenuto e questa fischiò ai cavalleggeri marciani,
nascosti ad arte
nella boscaglia e lo stesso ai fanti tra i canneti.
Il nuovo
impeto scombussolò gli stradioti nemici, i quali si
videro insediati sui fianchi dal fuoco nemico e adesso dalle sue
zagaglie,
impegnandoli in furiosi corpo a corpo onde salvarsi la vita in quella
rovinosa
ritirata. Dal basso sbucavano inattese le picche, disarcionando i
cavalleggeri
e trascinandoli nel fango o direttamente in fiume. Uno di questi fanti
addirittura seguì in acqua uno stradiota caduto,
cacciandogli la testa
sott’acqua e tenendolo fermo mentre questi si dimenava
esagitato, finché le
ultime bolle risalirono e un’immobilità mortale
segnalò il decesso
dell’avversario.
“Zilio!”,
richiamò Leka l’attenzione del luogotenente di
Mercurio,
il quale era riuscito a respingere numerosi assalti dal suo lato.
“Dobbiamo
aprirci un varco e ritirarci. Raggruppa i tuoi abbastanza da sfondare
la linea
destra! Dobbiamo evitare il fiume!”
Lo
stradiota annuì concitatamente, nettandosi il viso coperto
di
sangue e mulinando la spada, costrinse il cavallo a roteare in
direzione
opposta, cavandosi due o tre avversari già pronti a
sbarrargli la strada.
“Avanti! Compattatevi! Compattatevi!”,
incoraggiò i suoi uomini. “Sfondate a cuneo
la lin- …” e le parole gli morirono in gola,
mollando la sua presa all’elsa.
“Zilio!”,
ruggì Busicchio alla vista del compagno inarcarsi e poi
irrigidirsi, colpito alla spalla da un colpo d’archibugio. Il
cavallo del
Madalo s'impennò all’indietro e questi
abbandonò la presa alle redini, balzato
via di sella e cadendo in un gran tonfo in acqua, sparendo tra i
canneti. Una
rabbia figlia del dolore conferì nuove energie a Leka, il
quale non si
scoraggiò, semmai infuse maggior vigore a salvare
ciò che rimaneva dei suoi
soldati.
Frustando
i cavalli alla stregua di ciuchi e premendo allo spasimo
sul fianco destro, gli stradioti riuscirono ad aprirsi un varco ed
evitarono
così il massacro e la cattura di chi rimasto ancora vivo, ma
non
necessariamente illeso.
Dalla sua
postazione, il capitano Vitelli fece cenno
d’interrompere ai bombardieri i loro tiri, concedendo ancora
qualche
schioppettata ammonitrice agli archibugieri, in modo da permettere ai
fanti e
ai cavalleggeri di rientrare in tutta tranquillità nella
fortezza improvvisata.
“Xé
finia?”, domandò confuso Donando al soldato
accanto a lui, il
quale sogghignò affermativamente. Un alto ululato di
vittoria s’elevò
nell’aria, levando ben in alto i marciani qualsiasi arma
avessero in mano,
dalle picche ai bastoni caricapolvere.
D’umore
più cauto restava invece Vitello Vitelli, che, concesso
qualche istante di liberatorio giubilo, riportò
immediatamente l’ordine e
comandò ai soldati ed operai di terminare il carico del
burchio, intanto che i
bombardieri riparavano rapidi il muretto.
“E
anche oggi, l’è andata!”, raschiava via
Paolo da Corfù gli
eccessi di calcestruzzo. “Stasera però voglio
ubriacarmi di grappa friulana
fino ad andar in letto cantando, soprattutto accompagnato da una bella
donna!”
“Uagnon,
azzardati a presentarti domani sbronzo al bastione”,
l’ammonì ridendo Giorgio da Otranto, “e
ti spacco il muso!”
“O
ti lanciamo direttamente contro i francesi!”,
rincarò la dose
Thadio da Vicenza, al che un piccato Paolo, maledicendo lo scarso senso
dell’umorismo dei suoi colleghi, si rivolse ad Orlando:
“E
voi presidente? Che fate stasera?”
Il
bergamasco ripose gli attrezzi, caricandoseli in spalla.
“Io?”,
gli rifilò un sorriso lascivamente furbetto. “Io
ci provo stasera con la
Zanze!”, con la scusa d’evacuare i mulini, non
erano rientrati a Treviso la
sera del 22 settembre e chissà se lei si stesse chiedendo o
meno che fine
avesse fatto Orlando. Per quel che lo concerneva, la contadinella gli
allietava
assai i sogni ed egli sentiva una voglia matta di concretizzarli.
Un boato
di grasse risate lo sfotté inclemente.
“Sì e fu così che
doman mattina vedremo il signor presidente coi segni rossi di due
ceffoni
stampati uno per guancia …”
“…
nonché zoppicare per la pedata in culo ricevuta!”
“Chigasang!
Maledetti!”, lanciò loro del fango un offesissimo
Orlando, “un’altra parola e v’affogo
quanti che siete!”
I
bombardieri se la risero ancora più forte.
***
Se
Mercurio Bua aveva tentennato sullo specifico modo d’agire,
una
volta ritrovatosi a tu per tu col suo prigioniero, a seguito del
racconto di Leka
Busicchio non possedeva più alcun dubbio a riguardo.
Il
veneziano non s’era fatto scovare né ricatturare
tanto
facilmente: invece di spaventarsi alla vista dei cani da traccia, il
fuggitivo
li aveva attesi in agguato e bastonati dritto sul collo, tramortendoli
o
paralizzandoli. In aggiunta, aveva costretto i loro conduttori ad
inseguirlo
per sentieri accidentati, ora in salita e ora in discesa, in un
groviglio
doloroso di rami, spine e piante urticanti e a piedi Mercurio
s’era ritrovato
separato dalla sua scorta, non agile né pratico in quel
terreno irregolare e
infido, avvolto nei suoi punti più oscuri da una sottile
nebbia, la luce
respinta da fronde fittissime. Ad un certo punto in lui s’era
formulata l’idea
d’abbandonare l’impresa, rendendosi conto di
rischiare di perdersi in
quell’antro d’inferno o di rotolare giù
lungo qualche dislivello.
Quando il
Bua s’era imbattuto nella sua preda, non l’aveva
dapprincipio riconosciuta, non subito, intabarrata com’era in
quel largo saio.
I due s’erano ritrovati quasi per caso l’uno di
fronte all’altro, inzaccherati
di fango e foglie, dei fili appiccicosi delle ragnatele e delle bave
spumose e
biancastre delle sputacchine. Il veneziano s’era bloccato,
sgomento, ma non
abbastanza da impedire di girare rapidamente sui tacchi e salire sul
pendio in
direzione opposta a quella del condottiero, il quale arrancava,
scivolando in
continuazione. Nondimeno, Mercurio non aveva per un solo istante
perduto di
vista il patrizio, balzandogli addosso alla prima occasione favorevole
e
placcandolo in un ultimo frustrato tentativo d’impedire a
quella lepre
antropomorfa di scappargli. Il fuggitivo s’era allora
aggrappato disperatamente
ad un ramo, graffiandosi i palmi delle mani quando questi, flessuosi,
si torcevano
agli strattoni del Bua onde staccarlo. Ogni volta che mollava la presa,
ecco
che il veneziano ne afferrava un altro, incurante dei rivoletti di
sangue
scivolanti dentro le maniche, issandosi per calciare in faccia o al
petto il
capitano di ventura, che grugniva e sputava dallo sforzo e dal dolore
quando il
tiro colpiva a segno. Mercurio agguantava il giovane ad ogni appiglio
disponibile, tirando e strappando pezzi del saio, elargendogli pugni
sulla
schiena, sulle spalle, sulle braccia tese e avutolo finalmente per
terra, onde
chiudere in fretta la questione, gli aveva sbattuto la testa contro il
tronco
d’un albero - doveva riportarlo vivo alla
Signoria e non
necessariamente col cervello ancora funzionate. Dallo sforzo
dell’inseguimento Mercurio
si era poi accasciato per terra, accanto allo svenuto prigioniero,
ansimando
pesantemente e contemplando il complesso intreccio di rami che impediva
di
scrutare il cielo. Purtroppo, ricongiuntosi in seguito ad uno dei suoi
uomini e
affidatogli il patrizio, il greco-albanese aveva dovuto desistere dalla
sua
ricerca del moccioso e del benedettino per invece localizzare e
riportare
indietro l’altro suo sottoposto, prima che calasse la notte e
gli esploratori
veneziani lo catturassero o i contadini se lo mangiassero alla
brace.
E il
condottiero avrebbe anche potuto dichiararsi soddisfatto, se
non fosse rientrato all’Abbazia proprio durante il ritorno
improvviso di Leka,
il quale gli aveva dolorosamente spiegato come mai Mercurio non fosse
riuscito
a scorgere Zilio in nessun luogo. “È
morto coraggiosamente, degno erede
delle genti di Megas Alexandros!”, aveva
commentato Busicchio, come se
la cosa avesse potuto consolarlo o riportare in vita una delle persone
più
oneste e leali, che l’epirota avesse mai conosciuto in tanti
anni di servizio.
D’accordo, nulla assicurava al militare di vivere una lunga
vita, però crepare
così stupidamente, senza la presenza e la guida del suo
capitano, perché quello
stramaledetto veneziano aveva deciso di scappare via, forzando Mercurio
a
scegliere tra lo scambio e la missione … No, quel dannato
avrebbe pagato anche
per la morte di Zilio.
La cella
sotterranea puzzava di muffa e di chiuso, senza luce e
senza un refolo d’aria, una vera e propria prigione ideata
per punire i monaci
ribelli. Lì il Bua aveva ordinato al suo sottoposto di
gettare il suo
prigioniero, in attesa di reperire il bambino ed attuare la promessa
fattagli
tempo addietro. Sfortuna invece aveva decretato che, almeno quel
giorno, egli
fosse ritornato a mani vuote, ma ciò non garantiva che lo
stradiota avrebbe
smesso di cercare il fanciullo.
Udito lo
scatto della serratura e le sottili strisce di luce
squarciare le dense e soffocanti tenebre, Hironimo stringendo i denti
si pose
in piedi, appoggiandosi contro il muro umido in fondo alla cella, il
cuore
impazzito battente la chamade in petto. Una volta divisosi dal gruppo,
s’era
rassegnato alla possibilità di venir ricatturato, tuttavia
sperava ardentemente
che tale sorte Thomà non la condividesse, crogiolandosi
angosciato lì nel buio
in continui incubi, laddove quell’uscio d’inferno
s’apriva e gli appariva la
figuretta del bambino, spintonato dal mercenario pronto a trasformarlo
in un
agnellino pasquale. Artigliando le ginocchia, il giovane patrizio aveva
pregato
neanche lui sapeva chi acciocché il Bua non reperisse mai il
suo piccoletto;
aveva supplicato di pigliare su di sé l’intero
impatto della collera del greco-albanese,
a patto che la vita di quel pargolo fosse risparmiata, che raggiungesse
Treviso
sano e salvo. Non chiedeva altro.
Mercurio
appoggiò la lanterna sul pavimento in terra battuta, la
sua figura ingigantita dal chiaroscuro, malgrado si fosse levato la
pesante e
lunga casacca, e ogni curva del suo viso s’ombreggiava e si
distorceva in una
maschera luciferina di pura rabbia, pareva uscito da quei paurosi
racconti sul
Barababao, il divoratore di bambini. A passi lenti, misurati e
predatori egli
occupò l’intero spazio della cella, sbattendo la
porta in un roboante tonfo il
cui eco fece fischiare le orecchie del giovane patrizio, per poi
ammutolirsi
l’aria istessa di quel fetido sepolcro.
“Ti
ho malgiudicato”, esordì il condottiero, la voce
vibrante di
una gelida ira a malapena imbrigliata, “ti credevo un
gentiluomo, una persona
d’onore di cui fidarsi e soprattutto abbastanza intelligente
da capire la
propria situazione. Sbagliavo: sei un infido, un empio, un egoista che
preferisce sacrificare gli altri al proprio tornaconto!”,
scandì egli ogni
parola con l’accuratezza di una frustata e di fatti al
medesimo modo le percepiva
anche il suo prigioniero, concordando mentalmente con
l’altro, sebbene non gli
avrebbe mai concesso la soddisfazione di saperlo sconfitto.
“Tu
vivi nel mondo dei poemi cavallereschi”, lo derise velenoso
Hironimo, artigliando i mattoni pregni di muffa per infondersi
coraggio. “Gente
come te è nata per farsi coglionare dal prossimo!”
Uno
schiocco l’ammutolì, rubandogli il fiato e
costringendolo per
terra, la mano corsa al braccio bruciante da sotto il saio strappato.
Incredulo, il giovane guardò il flagello tenuto in mano da
Mercurio, le cui
code arrotolava e allungava nervosamente, forse per
l’impazienza d’usarlo di
nuovo.
“In
tutta onestà”, riprese quegli, afferrando per i
capelli
Hironimo e trascinandolo al centro della cella, “non ho mai
compreso questa
sciocca usanza dei monaci di flagellarsi. Per cosa? Per punirsi dei
propri
peccati? Per disciplinarsi? La vita già ti flagella a
sufficienza, senza dover
rincarare la dose per mano tua. Ma” e le strisce di cuoio
frusciarono
voluttuose nell’aria assieme al tintinnio delle palline
metalliche,
scivolandogli lungo la gamba quando il Bua aprì la mano,
“se mi si dovesse
chiedere d’usare il flagello contro
qualcun altro, mi trovi in prima
fila a consigliarne l’uso!”
Il
patrizio reclinò il capo, i muscoli tesi fino allo spasimo.
“Che t’aspettavi da me? I tuoi comodi? Che
rimanessi buono e docile a subire le
tue prepotenze? Tu parli” e cercò le parole che
gli avrebbero guadagnato la
sferzata meno dolorosa, “alla stregua d’un amico
tradito, quando amici non lo siamo
mai stati. Soltanto perché mi costringevi ad ascoltare i
tuoi vaneggiamenti,
perché ti degnavi d’accordarmi da mangiare gli
avanzi degli avanzi della tua
tavola, sul serio avevi creduto d’aver
acquistato la mia lealtà?”,
balzò in piedi, levando il mento a mo’ di sfida.
“Tu sei quello che per due
anni ha massacrato la mia gente, che ha espugnato la mia fortezza, che
ha
passato a fil di spada i miei soldati, i miei servitori, che mi ha
umiliato,
affamato, costretto in catene, trattato alla stregua d’un
giocattolo da
calciare via non appena si stufava! Tu hai minacciato mio fratello, la
mia
famiglia, il mio bambino di morte; per causa tua ho beccato il malanno
e
rischiato un’infezione! Pertanto come hai potuto pensare
ch’io non contemplassi
la fuga?! Che io considerassi te un
uomo
d’onore? Un camerata? Ma neanche in mille anni, neanche se ti
fossi messo in
ginocchio a supplicarmi!”
Il
flagello sibilò nell’aria, colpendo tuttavia a
vuoto;
anticipato, pur nella penombra, da Hironimo, che indietreggiando
evitò la
frustata.
“Arrogante
figlio di puttana”, lo braccò Mercurio, tentando
di
costringerlo in continui cerchi in un angolo. “Chi ti credi
d’essere?
Bartolomeo d’Alviano? Quale altro trattamento
s’aspettava un bambinetto
viziato, sconfitto al suo primo assedio?”
Scrocchiando
le nocche al sentire così vituperata l’amata
madre,
Hironimo sogghignò però sghembo, mostrandogli i
denti. “Chi mi credo d’essere?
Un patrizio veneziano, qualcuno per la cui custodia hai lottato con le
unghie e
coi denti, coprendoti di ridicolo dinanzi a la Palissa e a tutto il
campo!”
Il Bua
balzò in avanti e il giovane di riflesso indietro.
“Non sei
l’unico patrizio che posso catturare e usare a mo’
d’ostaggio. A Treviso ne
troverò di ben più altolocati e importanti di
te!”
Hironimo
gli rise in faccia, crudele. “Puoi anche catturare il
Provveditore in persona, ma non otterrai mai ciò per cui mi
hai tenuto presso
te per quasi un mese!” e schivò un’altra
sferzata, abbassandosi come ai tempi
in cui imparava al ginnasio i primi rudimenti del pugilato, sfruttando
la
statura più bassa per anguillare via, in un continuo
balletto di cerchi
concentrici.
“Tu
non sai niente”, ringhiò il Bua, i cui occhi
guizzavano in
cerca di un punto stabile dove colpire l’avversario,
perennemente in movimento.
“Tu non mi puoi fare niente; io sì al contrario. E
sappi che continuerò a
cercare quel tuo moccioso di merda, finché non
l’avrò trovato e non t’avrò
dipinto il muso del suo sangue!”
“Tu
parli nel sonno”, preparò il Miani la sua
contromossa, il cui
labbro inferiore tremava all’orribile immagine di
Thomà sgozzato, il corpicino
scosso da mortifere convulsioni mentre il prezioso liquido vitale
zampillava
via a gran fiotti. Il giovane scacciò via forzosamente quel
pensiero e si
concentrò sulle sue prossime parole, le quali sarebbero
sicuramente corrisposte
ai proverbiali chiodi sulla sua bara, nondimeno Hironimo non accettava
di
sapere minimamente trionfante il condottiero e se poteva ferirlo e fino
all’ultimo rigirargli il coltello nella piaga, ben venisse!
Specie dopo aver
minacciato per l’ennesima volta Thomà.
“Aikaterinī … Caterina, giusto?”, e
Mercurio ammutolì all’improvviso, perdendo ogni
baldanza, il volto ridotto ad
una maschera di cera, le spalle d’un tratto curve, flaccide.
“Ti ha lasciato,
poverino”, cinguettò beffardo.
Occhio
per occhio, dente per dente, persona amata per persona
amata.
“Caterina
… è stata rapita dai suoi fratelli”,
ansimò l’epirota,
il sangue infiammatosi e ribollente nelle vene. Quella era la sua
verità, un
tiro barbino di quei cani di Manoli e Costantino Boccali, di quello
spergiuro
di suo fratello Teodoro. Ché il condottiero non conosceva la
sua compagna,
adesso? Da quando in qua fuggiva una moglie da suo marito? Per passare
tra le
fila nemiche, poi! Inconcepibile, assurdo!
“Ti
ha lasciato”, reiterò inflessibile Hironimo,
adocchiando il
flagello. “Una donna che ama il suo uomo neanche sotto
tortura lo abbandona. Ti
ha rinnegato, se n’è scappata via: evidentemente
come hai stufato me, hai
stufato anche lei con la tua cecità, vanagloria, egoismo ed
ambizione. Non ti
vuole più, Mercurio, che vita le hai offerto? A sua figlia?
Con che coraggio
può quella poveraccia raccontare alla bimba: tuo padre
è un traditore, un
assassino, uno stupratore?”
Gli
occhi neri di Caterina luccicavano di lacrime, il bel viso
rigato di lacrime. “Ti prego, concedimi di tornare a Venezia,
da mia madre,
acciocché io cresca la nostra piccina lontana da
quest’orrore! Morti, feriti,
torture, malattie, stupri … quale colpa ha tua figlia
commesso per meritarsi
quest’inferno in terra?”
“Ogni
passo da me intrapreso è stato per loro! Per elevarle dalla
miseria, dall’eterno status di fuoriuscite!”
“Non
m’importa delle vostre guerre, del tuo onore venduto al
migliore offerente! Mio padre sta morendo, colui che m’ha
dato la vita sta per
congedarsi per sempre dalla sua! Almeno le sue ultime parole abbi la
bontà di
farmi sentire! Capisco le vostre divergenze, i vostri rancori
… Ma tu già nei
sei uscito vincitore, non ti pare? Io rimarrò tua moglie
fino alla fine dei
miei giorni, ma sua figlia io lo sarò ancora per
poco!”
“No,
agivi per te stesso e per il tuo amor proprio,
ch’è così
grande e ingombrante da considerare Caterina un sovrappiù,
un ornamento, un
corpo da fottere quanto ti sorgeva il prurito! Di lei, dei suoi
pensieri, delle
sue preoccupazioni, dei suoi desideri, non te n’è
mai fregato alcunché!
Scommetto anzi che tenevi più in considerazione il tuo
cavallo! Non le sei mai
stato un vero marito e giustamente
lei t’ha abbandonato,
dimenticato!”
“Aikaterinī?”
La
giovane donna, pallidissima, gli cedette la missiva, nella
quale Mercurio lesse e apprese della morte di Nicolò
Boccali. “Vedi, è come ti
avevo detto: non l’avresti raggiunto mai in tempo, specie se
tuo padre si
trovava nella Patria del Friuli … Avresti affrontato un
viaggio inutile e …”
“Tu
m’hai detto un sacco di cose, Maurikos”,
mormorò atona
Caterina, dirigendosi in stato pressoché sonnambolico verso
il lettuccio di
Maria. Sistemò la copertina sulle esili spallucce della
bimba, fissando
trasognata un punto indefinito davanti a sé. “Ma
mai quelle giuste.”
“Lei
è mia moglie, è mia! …”
“Secondo
te, ho torto se mi recassi dall’Imperatore e reclamassi
finalmente i mancati pagamenti?”
Caterina
levò brevemente gli occhi dalla casacca che stava
rammendando, riconcentrandosi poi sul suo lavoro.
“Perché mai dovrei darti un
consiglio?”, scrollò incurante le spalle,
spezzando il filo coi denti. “Alla
fine agisci sempre e soltanto di testa tua, quindi
… Non vedi che ho
anch’io da fare? Se non ti serve sul serio aiuto, non
distrarmi ché perdo
tempo!”
Mercurio
le si sedette accanto, perplesso. “Non è vero,
all’occasione ho ascoltato la tua opinione.”
“Uhm,
può darsi … ai tempi che mai furono
…”, replicò scettica
Caterina, intrecciando le dita sull’indumento.
Sospirò profondamente. “Vai
dall’Imperatore, fatti valere. Vuole i tuoi servigi?
È ricco, che paghi. Niente
a questo mondo è dovuto, tutto va guadagnato.”
“Esattamente
quel che stavo pensando anch’io.”
“Già,
che strano.”
“Sicura
che non t’incomoda rimanere sola a Verona?”
“Tranquillo:
ho la mia Maria da badare e poi … e poi i miei
fratelli a tenermi compagnia. Non sono mai stata sola, io.”
“Spero
per loro che ti trattino bene!”
“Non
è tua, non
l’è mai stata né lo sarà!
Caterina
appartiene a se stessa, non spetta a te decidere della sua esistenza.
Lei ti
odia, ti ha dimenticato, probabilmente pure rimpiazzato e tu ti sei
sbattuto
per niente, perché anche se pagassi staie su staie
d’oro puro alla Signoria,
non otterrai mai indietro Caterina, perché lei non
ti vuole! Tu
l’hai delusa e lei ti ha ripudiato e per di più
sei un coglione perché tutto il
mondo se n’è accorto, tranne te!”
Il
sorriso di Caterina si deformò in una smorfia sghemba,
ambigua.
“Non dubitare, caro marito: Manoli e Kostantinos obbediscono
ad ogni mio
cenno.”
E
Mercurio capì.
Capì
infine il perché avesse provato quel scellerato connubio di
repulsione e fascinazione verso Hironimo. Capì il motivo per
cui non tollerava
le sue mordaci risposte. Capì come mai lo infastidisse quel
suo impertinente
sorriso sibillino, di chi celava abilmente i propri pensieri dietro una
maschera impenetrabile.
Quello
sguardo … lo aveva visto in Caterina,
l’ultima
sera prima della sua scomparsa. Della sua fuga da Verona. Da lui.
Un’espressione implacabile e tremenda, d’odio e
condanna, che lui di sua mano
aveva nutrito, giorno dopo giorno.
Mercurio
aveva sempre avuto la verità dritta e brillante davanti a
sé, soltanto che lui s’era rifiutato
d’accettarla, orgoglioso e testardo,
addossando colpe ad altri quando in realtà doveva deplorare
se stesso ed i suoi
errori. Quel disgraziato affermava il vero: Caterina l’aveva
considerata roba
sua, un premio, la figlia di una principessa di Durazzo e di un
condottiero
famoso; una moglie, una madre, un’ombra onnipresente ognora a
disposizione.
S’era giudicato un bravo consorte perché
provvedeva per lei e ogni tanto
magnanimo le chiedeva opinioni e consigli che manco ascoltava -
figurarsi
implementarli - non la consultava mai veramente. Non
la prendeva sul
serio, non le aveva mai dato la possibilità di distinguersi,
credendola
incapace di una qualsivoglia iniziativa senza il supporto e la guida di
suo
marito. Ignorava il suo spirito, le sue passioni, le sue angosce.
L’aveva sin
dal principio considerata sua,
fisicamente sua, non
concependo che sua moglie potesse
un giorno finire per
ribellarsi, odiandolo al punto da prendere la decisione
d’allontanarsi in via
definitiva da lui. Con chi aveva vissuto per tutti quegli anni? Chi era
Caterina? Aveva amato lei o l’immagine ideale che lui aveva
di sua moglie? Quella
cui per un anno intero egli s’era disperatamente aggrappato?
Cos’era?
Un’illusione? Una scusa?
Una donna
mai esistita?
Ti
strapperò di dosso quel sorriso, quello sguardo, quella tua
condanna! Mercurio
torse il busto all’indietro, caricando il flagello
e le palline metalliche tintinnarono assieme al sibilo del cuoio,
schioccando e
mordendo la carne del braccio sinistro d’Hironimo, posto in
alto a difesa e
roteato rapido, nonostante il gemito di dolore strappatogli
dall’impatto. Le
code di gatto ghermirono la loro preda, avvinghiandosi ad essa,
stracciando la
veste candida, ma troppo avide rimasero prigioniere e fu Hironimo ora a
torcerle, artigliando il manico e contendendosi al Bua il flagello.
Col pugno
destro il giovane mirò allo zigomo del greco-albanese,
il quel lo bloccò afferrandogli il polso e maldestramente
provò a piegargli il
braccio, non pratico con la sinistra. Sennonché, Hironimo
gli si buttò contro,
elargendogli una forte spallata in pieno petto, girandosi di schiena su
di lui
in un grottesco abbraccio. Gli pestò il piede,
finché il Bua non lo liberò
dalla presa e il patrizio rinculò veloce, strattonando in
sua direzione il
flagello che gli solcava la carne in una sgradita morsa.
Mercurio
piantò bene i piedi per terra e tirò forte,
sicuro della miglior
prestazione fisica rispetto al malconcio opponente, che appunto cadde,
trascinato in avanti. Gli elargì un pugno tra le scapole;
sputando saliva e
forse anche sangue, Hironimo s’issò sul ginocchio
sano e ricambiò con una
gomitata al basso ventre e più Mercurio infieriva
più lui rispondeva a tono.
Quand’ecco che il veneziano afferrò il polso del
Bua, mordendogli la mano che
reggeva il flagello e un grido indiavolato riecheggiò tra i
muri colmi di
muffa.
Entrambi
sapevano che non sarebbe stata una lotta tra
gentiluomini.
Afferratolo
per il bavero del saio, l’epirota si staccò via di
peso dal Miani, il quale pur rotolando calciò lontano il
flagello, adesso
libero da ogni padrone. Il giovane si riprese in fretta e
scattò in piedi,
correndo in sua direzione, ma il condottiero gli face lo sgambetto,
sicché
s’ingamberò e cadde sfortunatamente sul ginocchio
dolorante. Mercurio lo ghermì
per le spalle, lo girò e Hironimo mirò di tallone
alla virilità dell’opponente,
sennonché questi gli bloccò la caviglia,
torcendola neanche volesse
spezzargliela. Al che il veneziano, gridando di dolore e afferrata
d’istinto
della terra, gliela lanciò in faccia, calciandogli sullo
stomaco non appena
avvertì l’arto libero, sicché il Bua
cadde all’indietro tra bestiali imprecazioni.
Hironimo prese a strisciare verso il flagello, il ginocchio e la
caviglia in
fiamme che parevano volersi staccare dal suo corpo. Allungò
il braccio,
catturando il manico e trascinando lo strumento al petto, sotto di
sé.
Ripresosi e
scuotendo furioso il capo onde levarsi ogni
residuo d’intontimento, Mercurio si buttò di peso
addosso ad Hironimo,
coprendolo e infilando le mani onde costringerlo a staccarsi dal
flagello,
finendo i due per rotolarsi in un groviglio di calci, gomitate e
testate, uno
lottando per distruggere e l’altro per morire dignitosamente.
D’un tratto il
Bua cambiò strategia, balzando in piedi e sollevato per il
saio il Miani lo
sbatté contro il muro, mozzandogli il respiro, neanche
l’avesse scambiato per
un antico ariete d’assedio. Ogni osso del giovane
tremò, i nervi guizzando in
impazziti stimoli, tanto che credette aver sentito il movimento acquoso
dei
suoi medesimo organi, così crudelmente sballottati.
Ciononostante,
Hironimo non cedeva, il flagello ben saldo tra le
sue dita sanguinanti: non l’avrebbe assassinato peggio
d’un somaro o un
criminale, se il Bua voleva spedirlo da Padre, sarebbe stato per mano
sua o di
una lama. Non meritava tale ignominiosa fine. La sua schiena gli
traballava
contro il muro, lo scheletro supplicante di terminare quella tortura
prima di
finire disintegrato. I polmoni smisero di collaborare, respirava sempre
peggio
e la ferita alla fronte si riaprì e il viso
s’inumidì di placido liquido
vischioso, sicché all’odore di muffa
s’aggiunse quello del sangue.
Agli
spintoni si sostituirono i pugni, un’incessante grandinata,
giù e giù e giù, senza ritmo tranne
l’aumento d’intensità, colpendolo a
caso,
ora sullo stesso punto ora su di uno nuovo, finché Hironimo
cedette al loro
peso, scivolando lentamente contro il muro, la vista azzerata da ogni
colore,
ovattandosi ogni suono, perfino il dolore alla fine gli divenne
sopportabile.
Il mondo vorticò sconclusionato e una voragine nero
bestemmia spalancò le sue
fauci e lo inghiotti in una graduale incoscienza,
trasformandolo in
uno spettatore inerme. Capiva quanto stesse accadendo, ma non lo
percepiva più
su di sé, non gli apparteneva.
Madre
mia, soccorso! Madre ho paura!
Si stava
spegnendo, eppure Hironimo non provava un dolce torpore
bensì una paura indescrivibile, mentre un mortifero gelo
s’impossessava dei
suoi arti, ribelli ad ogni suo ordine. Soltanto le sue mani seguitavano
a
serbare al petto il flagello, neanche l’avesse eletto a palma
del suo martirio.
Niente però di eroico c’era in quel suo
progressivo commiato alla vita, niente
di santo. Solo orrore e disperazione per terminare lì la sua
esistenza, la sua
giovinezza rubata in una puzzolente cella di un remoto monastero.
Nessuno
avrebbe saputo della sua morte, nessuno l’avrebbe pianto,
né seppellito nella
sua città natale, accanto ai suoi avi, condannato ad
un’eterna solitudine.
Aiutami,
Madre! M’uccide! Madre! Madre! Mater! Mater perdono!
Mater salvami! Salvami! Salvami, Mater! Mater! Mater! Salvami
…
“…
Mater!”, invocò Hironimo con l’ultimo
fiato rimastogli, piegandosi
su se stesso nel disperato tentativo di proteggere la testa dai colpi.
Cadde in
un tonfo sul fianco, il corpo insensibile ai pugni del condottiero,
inerme,
quasi rilassato. Non si muoveva più, ogni funzione
annullata. Le dita gli si
schiusero e il manico del flagello rotolò per terra.
…
nunc et in hora mortis nostrae …
Era
quella dunque l’ora della sua morte? Perché il
patrizio non si
sentiva né leggero né bruciare, piuttosto pesante
e goffo, un sacco di farina
gettato malamente in un angolo, informe e sbatacchiato. Freddo e vuoto,
un
limbo senza via d’uscita, nonostante il suo spirito
graffiasse contro la porta
della sua stesse mente, incapace d’arrendersi, ostinato a
vivere ad ogni costo.
Non
aver mai paura, sei nato per lottare.
Morire
sarebbe stato ammettere la sua sconfitta contro il Bua.
Mater!
Aiutami! Aiutami a tirarmi su!
No,
morire significava non poter più proteggere
Thomà. Suo
fratello. La sua famiglia. La sua patria.
Homo
morto no fa guerra.
Hironimo
artigliò la terra cruda, alla cieca, impresse le ultime
forze sulle mani sbucciate e sanguinanti, impose ai muscoli delle
braccia
d’obbedirgli, di sollevarlo dal pavimento. Immediatamente,
una violenta
frustata gli martoriò la schiena e cadde prono, sbattendo il
mento e mordendosi
la lingua.
Mater,
aiuto! Ti supplico! Cocciuto,
il giovane si tirò su e
nuovamente venne rispedito per terra, stavolta battendo la fronte.
Spostò il
peso su di un avambraccio, inarcandosi, cercando stabilità
sui ginocchi.
Niente. L’ennesima frustata lo tramortì.
Forse era
meglio così. Se nulla di buono poteva combinare, forse
era meglio che Hironimo morisse, cavandosi dalle spese di un mondo che
non
necessitava di lui, che sarebbe andato avanti benissimo senza il suo
contributo. Gente più importante, più meritevole
di lui sicuramente aveva la
precedenza. Cosa poteva sperare d’ottenere? Cosa reclamare
per sé? Senza
castello, senza spada, senza famiglia, senza amici, senza
più alcuna dignità,
non era più nessuno, tanto valeva che anche il suo corpo si
disfacesse e di lui
si perdesse ogni ricordo.
Padre era
morto, Madre non poteva aiutarlo, i suoi fratelli
l’avevano rinnegato. Era solo dinanzi al grande abisso,
destino adeguato: aveva
voluto la libertà d’agire a suo piacere, di
scegliere da sé. Da solo dunque
avrebbe affrontato il suo destino, inutile invocare vanamente soccorso,
dopo
averlo per anni schifato.
D’altronde,
non ho compiuto alcunché di degno e non mi merito
né
aiuto né salvezza.
Il
patrizio avvertì all’improvviso una corrente
d’aria sulle
ferite, un fastidioso luccichio, l’eco di concitati passi
sulla terra e due
corpi che cozzavano contro, urla in greco, spintoni, il flagello
gettato
lontano, contro il muro, rotolante in un qualche angolo.
“Sei
impazzito?! Vuoi uccidere l’ostaggio? Ti rendi conti che da
morto non vale niente?”
“E’
il mio prigioniero e ne faccio quel che voglio!”
“Sbagliato! Noi abbiamo
espugnato Castelnuovo,
noi tutti assieme! Non tu da solo! Senza di noi, tu non avresti
combinato
alcunché! E’ la nostra preda di guerra e soltanto
perché t’abbiamo assecondato
nelle tue eccentricità, non significa che di conseguenza tu
ne possa disporre a
tuo piacimento!”
“Leka
…”
“Leka,
un cazzo! Tutte le magagne affrontante per tenerlo in vita,
tutti quegli imbrogli e fastidi … e poi tu butti alle
ortiche ogni nostro
sforzo, così? All’ultimo? Proprio adesso che ci
serve per liberare i nostri
compagni?”
“Lui
non mi serve per quello!”
“Cosa?”
“Non
lo voglio scambiare!”
“D’accordo,
d’accordo … Per denaro, allora! Infatti, giusto in
questo momento avremmo bisogno …”
“Neppure!”
“Kyrie
Eleison! Mi vuoi far imprecare peggio d’un turco? Non per
denaro, non per uno scambio … Per quale motivo lo tieni
teco, sentiamo?!”
“Per
mia moglie.”
“Eh?”
Silenzio.
“Lo
voglio barattare in cambio di Aikaterinī.”
“Tu
stai scherzando, Maurikos … No, no tu stai scherzando
…”
“Ho
già inviato una richiesta alla Signoria. Mi dispiace non
avertelo rivelato prima, però sono state settimane piuttosto
intense e … e può
darsi che mi sia passato di mente. In ogni modo, fin
dall’inizio avevo ideato
questo piano, altrimenti avrei chiesto subito il suo riscatto assieme a
quello
dei due capitani bellunesi, no?”
“Ah,
così te l’eri scordato? Complimenti, mi sento
davvero
lusingato nell’apprendere, quanto tu mi consideri alla pari
del figlio della
serva!”
“Leka
… mi stai fraintendendo …”
“Ma
vaffanculo te e chi t’ha fatto, che siete in tre! Frainteso?
Frainteso cosa?! Cazzo c’è da fraintendere, quando
invece sei stato
chiarissimo, porco diavolo d’un cane! Fino ad oggi ci hai
convenientemente
nascosto di come intendevi usare quel veneziano non per riscattare i
nostri
compagni o per riscuotere una taglia – Theos solo sa quanto
necessitiamo di
soldi in questo momento! – bensì per ripigliarti
quella fuggitiva di tua
moglie, la quale manco si cura di te e questo per appagare un semplice
tuo
capriccio?! E poi tu mi dici che fraintendo?! Oltre a fregarmi, pure mi
dai
dell’imbecille?!”
“Mia
moglie non è scappata via! L’hanno rapita! E
comunque non lo
chiamerei un capriccio, insomma non credi che …”
“Oggi
– anzi, ieri ormai – dovevi cavalcare con noi fino
ai mulini
sul Sile. Dov’eri? Perché non c’eri a
capitanare la compagnia, uh? Me lo
spieghi? Cos’avevi di meglio da fare? T’era stata
affidata una missione e tu,
tu l’hai rifiutata per startene accanto al prigioniero. Io te
l’ho lasciato
fare, mi sono lasciato persuadere nella sciocca illusione, che questo
veneziano
avrebbe potuto giovare l’intera compagnia. Avessi saputo
… e ora
Zilio è morto, Maurikos, è morto per servire il
tuo egoismo.”
“Leka,
forse tu hai trascurato il piccolo dettaglio, che questo
pezzo di merda è sul serio scappato e dunque neanche tu puoi
negare la bontà
delle mie decisioni! Mi fossi unito a voi all’impresa, a
quest’ora si trovava
questo qua bell’e allegro a Treviso ed io con un pugno di
mosche!”
“E
allora? Tanto a noi che ce ne veniva? Tu solo avresti goduto
dei vantaggi, non noi. Ci avresti perduto, lo ammetto. Però
è anche vero che se
tu avessi deciso di seguirci e di dirigere l’operazione come
ordinatoti, Zilio
non sarebbe caduto in battaglia. Risolvimi, Maurikos: che guadagno
c’è a
perdere un compagno fedele e capace, per un prigioniero?
N’è valsa la
pena, questo scambio?”
“Leka
… ascolta … sei sconvolto, lo capisco, lo sono
anch’io, però
… ”
“Stammi
lontano per oggi, non mi parlare. Forse domani mi passa,
ma non oggi. Non costringermi alla tua compagnia, Maurikos, a meno che
tu non
voglia un pugno sul naso.”
I passi
s’allontanarono e così anche i due condottieri,
segnata la
loro uscita dallo snervato sbattere della porta del greco-albanese e il
secco
schiocco della serratura, come se Hironimo avesse potuto fuggire,
paralizzato
com’era nella medesima posizione, in cui Leka Busicchio
l’aveva trovato al
momento della sua irruzione nella cella.
Il corpo
intero vibrava dolorante, un liuto dalle corde spezzate.
Il giovane Miani riuscì a malapena a rigirarsi supino,
gemendo al contatto
della pelle lacera contro la pastosità del terreno, accecato
da un pugno
all’occhio che manco si ricordava d’aver incassato
e da un buio atroce, dentro
cui ticchettavano gocce d’umidità condensata e
altri rumori sconnessi, lontani
e al contempo vicini. Non trasse alcun conforto in essi, suoni alle sue
orecchie di morte annunciata e non di consolazione per essere
sopravvissuto ad
un altro giorno.
In quelle
tenebre Hironimo si sentiva schiacciare dalla forzosa
stasi, dal desiderio mancato di riscatto; nella solitudine i suoi
fallimenti si
moltiplicavano e soffocavano qualsiasi suo pregio. A onor del vero, non
ne
trovava alcuno, di pregio. In che modo si sarebbe presentato a Padre?
Plick.
Plock. Plick. Plock.
Sulle
grandi finestre batteva feroce la pioggia, la precoce notte
illuminata dall’improvviso lampo cui faceva eco il suo sposo,
il possente tuono
che scuoteva impercettibilmente il vetro, aiutato dalla bellicosa bora.
Incominciava il Dì dei Morti, la fiammella accesa in mezzo
al tavolo e lì
accanto un bicchiere d’acqua e qualche fetta di pane
acciocché le anime,
vagando per la terra, potessero ristorarsi e proseguire il cammino fino
all’alba.
“Sen
Piero aveva una suocera [1], la
quale in vita era stata tanto avara e cattiva, che quando
morì, ahimè,
precipitò dritta giù
all’inferno”, narrava Madre seduta accanto al
caminetto, i
suoi figlioli simil pulcini che l’attorniavano, ascoltandola
attenti e
sgranocchiando le deliziose Fave dei Morti ai pinoli e le caldarroste.
“Sen
Piero se ne dolse moltissimo e pregò Nostro Signore di
risparmiarle quegli
atroci tormenti, pensando e ripensando ad una buon’azione da
parte di sua
suocera, che avrebbe potuto riscattarla. La vecchia però in
tutta la sua vita
non ne aveva compiuta alcuna, vivendo per i fatti suoi e senza aiutare
nessuno.
Quand’ecco, che Sen Piero si ricordò di una foglia
di radicchio che sua suocera
aveva donato ad un orfanello mendicante. Nostro Signore allora gli
disse:
“Benissimo: che un mio angelo cali quella foglia di radicchio
all’inferno,
acciocché lei vi s’aggrappi e venga issata su, nel
mio Regno.” L’angelo eseguì
l’ordine e la vecchia quando vide quella foglia di radicchio
si commosse e prontamente
l’afferrò, mentre l’angelo la tirava su
per trasportarla in Paradiso. Le altre
anime, però, se ne accorsero e prontamente ghermirono le
gambe della donna,
nella speranza d’essere anche loro salvati da quel pozzo
infinito di gelide
fiamme. “Portaci con te! Aiutaci, sorella!”, la
supplicavano in lacrime.
Accortasi di quegli intrusi, la vecchia invece incominciò a
dimenarsi e a
scalciare: “Via da me!”, gridava. “Questa
foglia di radicchio m’appartiene!
Sono io quella che Nostro Signore vuole liberare
dall’inferno, non voi, anime
dannate! Via da me!” Ed ecco che la foglia si
spezzò e la donna ricadde nella
voragine, da dove non risalì mai più.”
“Non
capisco”, aggrottò la fronte Carlino, esibendo
un’espressione
assai scettica: “Nei Vangeli la suocera di Sen Piero invece
s’era messa a
preparare il pranzo a Jesus e gli Apostoli, dopo esser stata guarita.
Non m’è
sembrata proprio una tal carogna da meritare addirittura
l’inferno!”
“E
che ne sai, Carlino? Forse avrà cucinato da
schifo!”
“Non
sei divertente, Marchetto!”
Madre
non si scompose, semmai ridacchiò indulgente dinanzi alla
preparazione di quel suo figliolo, che divorava più libri
che pane. “Lo so,
Carlino, ma non è questo il punto del mio
racconto.”
“E
qual è?”
“Esatto,
qual è? Luchin …?”
“An
… perché … perché la
suocera non è stata generosa con le altre
anime? La foglia di radicchio rappresentava quell’unico atto
di carità, che, in
mancanza di altri a rinforzarlo, s’è spezzato per
via del suo egoismo!”
“Più
che altro non ha avuto pietà delle altre anime, pur
trovandosi tutti insieme nella medesima situazione!”, disse
invece Carlino.
“Pur peccatrice, s’è considerata
superiore e privilegiata rispetto a loro. E
arrogante, perché diceva di conoscere cosa volesse o non
volesse Nostro
Signore. Non aveva capito che l’aveva messa alla
prova!”
Madre
annuì, sorridente. “E tu Momolin?
Cos’hai imparato dalla
storia?”
Il
bambino s’ingobbì imbarazzato, non trovando nulla
d’intelligente d’aggiungere alle osservazioni dei
fratelli. “Non lo so …”,
bofonchiò, “Luchin e Carlino hanno già
detto tutto …”
“Sì,
ma tu personalmente cos’hai capito del racconto?”,
lo
incoraggiò Madre, ponendosi il piccino sulle ginocchia.
Momolo
piegò ingiù la bocca, il cuore che gli batteva in
petto
dall’ansia e le gote vermiglie dalla vergogna per la sua
tardezza di spirito.
“Ecco … ecco io … io penso che
… che a Nostro Signore basti una foglia di
radicchio per salvare una persona, perché anche la
più cattiva-cattiva possiede
la sua foglia di radicchio … però dopo bisogna
continuare ad essere buoni-buoni
e non è facile … ”,
s’impappinò, giocherellando nervoso coi laccetti
del suo
farsetto, arrossendo dinanzi ai risolini sfottitori del fratelli.
“Ma a Nostro
Signore basta quella piccola foglia di radicchio ...”
Plick.
Plock.
“Na
fòja de radécio …”,
mormorò tremante Hironimo, due gemelle
lacrime che gli scendevano lungo le tempie. “Basta
‘na fòja de radécio
…”
All’improvviso
urlò a pieni polmoni tutta la sua angoscia, quel
grido represso da quindici anni che non era mai riuscito ad esprimere,
quell’invocazione
d’aiuto cui aveva disperatamente anelato e che per troppi
anni aveva taciuto,
imprigionato dalle catene dell’orgoglio e della rabbia e che
ora lo serravano
fameliche, strangolandolo e ritorcendosi malvagie contro di lui.
Di scatto
Hironimo si morse i polsi, ignaro se per aprirsi le vene
o per soffocare quei sconquassanti singhiozzi.
***
La gola
gli bruciava a tal punto, che il soldato giudicò aver
inghiottito per ore della ruvida sabbia, la lingua impastata di saliva
secca.
Un improvviso conato di vomito lo soffocò, portandolo a
girarsi sul fianco e a
liberarsi dell’acida bile sul primo catino disponibile.
Ansimando, l’uomo
s’abbandonò esausto sul materasso, guaendo
all’artigliante dolore sulla spalla.
“Stai
fermo, deficiente! Ti si riapre la ferita ed io non te la
ricucio di certo!”
Il
soldato aprì gli occhi, sobbalzando non appena riconobbe
quella
voce assai scocciata. Vide dinanzi a sé, chino su di lui
tipo l’Oscuro
Mietitore, Fra’ Anselmo che gli stava risistemando le bende.
Si
rilassò. Un incubo o forse un’allucinazione frutto
del delirio
della febbre. “Sono ancora all’Abbazia”,
si consolò, socchiudendo le palpebre e
lasciandosi cullare dal torpore degli oppiacei e della convalescenza.
Uno
schiaffo al braccio lo riportò bruscamente alla
realtà,
costringendolo a guardarsi meglio attorno ed in effetti
l’uomo non riconobbe
l’ambiente a lui famigliare dell’infermeria,
bensì un ampio salone più spartano
e colmo di letti per la maggior parte ancora vuoti.
“Vorresti,
stronzo!”, gli apparvero i suoi fratelli Giorgio e
Teodoro Madalo, le braccia incrociate al petto. Le guance di Giorgio
avevano
assunto un colorito porporino dallo sforzo di non ridere, mentre
Teodoro lo
fissava accigliato quanto la loro madre, quando s’apprestava
a percuoterlo cogli
zoccoli. “Altro che Abbazia, ti trovi a
Treviso!”, scosse il capo
Teodoro, chiedendosi perché Dio lo punisse tramite un
fratello così scemo.
“La
pallottola t’ha colpito alla spalla, ma come si suol dire,
l’erba cattiva non muore mai”, scherzò
Giorgio, beccandosi uno scappellotto
dietro la nuca da parte del maggiore, che seguitò severo:
“Ringrazia
Theos che ci trovavamo lì, sennò chi ti rancurava
dai
canneti, mezzo affogato?”
Zilio
Madalo, redivivo e novello Mosè, proprio non sapeva cosa
rispondere, avendo fermamente giudicata finita la partita una volta
cascato in
acqua. Nondimeno, il suo cuore si scaldò al pensiero che i
suoi fratelli,
malgrado gli schieramenti opposti, si fossero premurati di salvarlo, al
posto
di lasciarlo crepare per conto suo o d’elargirgli il colpo di
grazia.
“Cosa
ne sarà di me?”, s’informò,
ringraziandoli cogli occhi e i
due stradioti compresero e accettarono quella sua esitazione a
proferirlo ad
alta voce, sedendosi invece ai bordi del letto, sul viso
un’espressione più
conciliante.
“Sei
prigioniero della Signoria”, gli delucidò conciso
Teodoro.
“Il capitano Paleologo ha interceduto presso il Provveditore,
acciocché tu
rimanga qui all’ospedale fintanto che sarai convalescente. Il
che significa …”
…
che Zilio era legato al letto, impossibilitato a fuggire e
sorvegliato a vista dai due cavalleggeri e, in loro assenza,
d’un soldato.
“Dopodiché,
ti trasferiranno alle stinche.”
“Se
vuoi un consiglio spassionato, ti conviene cantare prima che
lo facciano!”
“Non
sono una spia! Non spiffererò niente!”,
s’impuntò testardo
Zilio, subito rimesso al suo posto da una sberla da parte di Teodoro.
“Ti
spacco il muso, se non lo fai! Ingrato! Il capitano Paleologo
poteva consegnarti al Provveditore e lasciare che
t’interrogasse o ti
torturasse così com’eri, invece t’ha
fatto curare. E’ così che ripaghi la sua
cortesia nei confronti della tua indegna carcassa? Vergogna! Pensavo
che
Pateras e Miteras t’avessero inculcato un po’ di
creanza!”
Fra’
Anselmo scosse il capo, ridacchiando tuttavia a quel giocondo
quadretto famigliare. Riacquistò la sobrietà di
spirito invece alla vista di
Thomà, seduto per terra contro il muro, le mani sulle
ginocchia e
un’espressione vuota sul visetto sporco e rigato di lacrime.
Quel
terremoto di bambino, così ciarliero e indocile, dal loro
arrivo a Treviso non aveva proferito alcuna parola, la mente rimasta
dentro il
bosco del Montello, assieme al suo padrone. Il fanciullo
s’era sistemato in
quel cantuccio dell’ospedale e lì se
n’era stato per tutto il tempo, ignorando
perfino la chiamata al refettorio per il desinare.
Thomà
scoppiò improvvisamente a piangere, quando madona Maria
Malipiero Gradenigo lo raggiunse, chiedendogli gentilmente di seguirla
per
lavarlo e spulciarlo dai pidocchi.
Continua
…
*****************************************************************************************************************
Ebbene
sì: La Palice aveva la garzona (o fidanzatina) modenese! XD
D’altronde, la moglie era in Francia e l’uomo si
sentiva un po’ solo …
Riprenderemo
il punto di vista di Fra’ Anselmo e Thomà nei
prossimi capitoli, per adesso tiriamo un sospiro di sollievo che almeno
loro si
sono salvati. Il Nostro, invece, ha toccato letteralmente il fondo del
barile.
O forse no? In ogni modo, c’attendono ancora un paio di
giorni di pura
depressione. Per questo, terrò vicino il barattolo di
cioccolato fondente
spalmabile, non si sa mai nella vita.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto! E sul serio, fatemi
sapere la vostra opinione riguardo l’annuncio.
Alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Questo racconto popolare si presenta in
diverse varianti, a seconda del paese. Ne “I fratelli
Karamazov” di
Dostoevskij, è una cipolla quella che usa l’angelo
e la protagonista è una
qualsiasi donna anziana; nella versione veneziana invece si parla di
una foglia
di radicchio e la vecchia è addirittura la suocera di San
Pietro (chissà
perché, poi); in altri parti d’Italia, pur
conservando la suocera come
protagonista, l’angelo invece intreccia una corda fatta di
bucce di patate.
Sinceramente
non so quanto sia vecchia questa novellina, però per
la storia mi pareva assai adatta.
|
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Capitolo 27 *** Capitolo Venticinquesimo: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
l’11.10.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Venticinquesimo
Confiteor
(Non dire
falsa testimonianza)
“In
nome della Santissima ed Indivisibile Trinità, del Padre,
del
Figlio e dello Spirito Santo; della gloriosa Maria, santa vergine Madre
di Dio;
di San Marco, Apostolo ed Evangelista, e dell’intera
trionfante corte celeste.
“Sia
messo agli atti che il rispettabile missier Dimitri Spandolin
di Costantinopoli, cavaliere e tributario del Signor Turco in
Costantinopoli e
mercante in Venezia, qui solennemente promette di dare la sua figlia
legittima
madonna Helena in moglie al magnifico missier Marco Miani, figlio
legittimo del
quondam magnifico missier Anzolo Miani, fu senatore
dell’illustrissimo
Consiglio dei Pregadi: il qui presente e sopramenzionato missier Marco
Miani
altrettanto solennemente promette di prendere la sopracitata madonna
Helena
Spandolin come sua legittima sposa e moglie, come comandato da Dio e
dalla
Santa Madre Chiesa. Le due parti si sono così accordate: che
il missier Dimitri
Spandolin per lui fisserà a nome di sua figlia la dote di
ducati 5.000
suddivisi nella seguente maniera …”
Hironimo
inarcò discreto il collo all’indietro, annoiato a
morte
dalle stentoree parole del notaio, il quale leggeva senza
alcun’allegria il
contratto nuziale tra suo fratello Marco ed Helena Spandolin, la
misteriosa
greca che gli aveva rubato il cuore.
Terminata
la Pasqua e i suoi festeggiamenti, i Miani e gli
Spandolin s’erano accordati d’incontrarsi al
palazzo di quest’ultimi e lì
firmare il contratto nuziale, ponendo fine alle trattative, ossia una
guerra di
logoramento su chi cedeva per primo, se il cavalier Dimitri o il
ventiduenne
patrizio veneziano. E appunto quest’ultimo dettaglio aveva
incuriosito l’intera
famiglia di Marco, quando questi aveva di punto in bianco annunciato la
sua
ferma intenzione d’ammogliarsi: non si capiva in quale modo
avesse potuto conoscere
la fanciulla costantinopolitana, fornendo pertanto a tutte le sue
parenti un
eccellente argomento su cui ragionare per interi pomeriggi fino
all’essicazione
della lingua. A tal riguardo, infatti, Marco era rimasto assai vago,
nonostante
le insistenti domande di Madre e di Lucha; li aveva piuttosto
rassicurati della
nobiltà e morigeratezza del casato romeo degli Spandounes e
in particolare
della giovane Helena. Molto probabilmente – li scriveva Carlo
le sue
supposizioni da Lonato sul Garda - il loro fratello aveva conosciuto il
cavalier Dimitri per vie traverse, o tramite i Da Ponte, avendo sier
Antonio q.
sier Zuanne sposato una figlia di questi, Regina Spandolin; oppure
tramite il
protogero, il capo del consiglio degli anziani della
comunità greca a Venezia.
In ogni
modo, quando Marco si ficcava in testa un obiettivo,
sarebbe stato più facile convincere un cane affamato a
mollare una bistecca;
sicché ottenuto il consenso di Madre e di Lucha, egli aveva
dato il via alle
trattative col cavaliere greco, senza mediatore e però
ugualmente in presenza
di terzi, temendo le rispettive famiglie che i due si scannassero a
vicenda
ante raggiungere un accordo.
Allo
Spandolin non piaceva Marco e a Marco lo Spandolin piaceva
ancor di meno; tuttavia al ventiduenne patrizio la bella Helena garbava
moltissimo, la voleva e l’avrebbe ottenuta, a costo di
straziare i nervi del
padre, il quale da bravo levantino si credeva furbo e maestro nelle
negoziazioni. Peccato ch’egli non avesse calcolato
l’ancestrale testa dura miana
ed Hironimo aveva giurato udirlo un giorno borbottare a suo figlio
Giorgio,
uscendo dalla sua casa da statio: Non ho
più saliva in gola,
parlare con quello là è come pretendere di
spaccare un muro di pietre con la
testa.
Osservando
stanco il pigro scorrere dell’acqua del rio
sottostante, Hironimo, tamburellando le dita sulla cornice della
finestra, si
portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio,
trovando più gusto nello studio
dei suoi futuri congiunti, che nell’ascolto
dell’inventario della dote della
futura cognata.
Al tavolo
di noce Dimitri Spandolin sedeva diametralmente opposto
a Madre, Lucha e Marco, assieme al figlio Giorgio e a qualche altro
parente.
Vestivano tutti alla greca, secondo i canoni del loro status nobiliare:
similmente agli Albanesi, anche loro usavano barba e mustacchi e
indossavano un
cappello morbido, di color nero per distinguerli dai mercanti, che ne
sfoggiavano al contrario uno celeste. Portavano di sotto e di sopra
vesti alla
lunga e di panni fini, sempre neri giacché abiti da giorno,
e su di essi si
stagliava una lunga fila di spessi bottoni, dalla cintura al collo. Le
vesti si
presentavano non molto larghe da basso e strette ai fianchi, cinti da
una rete
di seta torta di diversissimi colori, tranne il bianco e il giallo; le
maniche
di sopra fino al gomito invece erano alquanto larghe.
Considerando
l’abito nero dei greci; l’abito nero vedovile di
Madre e le toghe nere dei suoi fratelli, Hironimo col suo zipone blu
turchese
(uno zipone che gli pareva più una gavardina dei tempi dei
suoi maggiori, tanto
gli stava corto e stretto) balzava all’occhio peggio
d’un intruso, in quel
gruppo che più che ad un contratto nuziale pareva
presenziare alla lettura d’un
testamento.
E come il
morto anche Helena, dei cui beni si ragionava, mancava
fisicamente, ben custodita dal gineceo nell’angolo
più remoto della casa.
Quante
storie, pensava annoiato il giovane Miani, suo fratello era
giunto lì per firmare il contratto e domani ci sarebbe stato
il parentà, che
male c’era se Helena presenziava? Mica la ingravidava con lo
sguardo!
“…
e così le due parti sopracitate firmino il qui presente
contratto, e noi preghiamo Missier Gesù Cristo
acciocché vivano felici, in
prosperità e gioia, concedendoli di bearsi della vista dei
loro discendenti
fino alla terza e quarta generazione, fino alla beatitudine eterna del
Paradiso. Amen.”
“Amen!”,
risposero in coro gli scocciati presenti, i coccigi
distrutti dagli scomodissimi sgabelli pieghevoli. D’ugual
avviso si trovava il
notaio, che bruscamente solerte girò il foglio al cavaliere
greco assieme al
calamaio.
“Io,
Dimitri Spandolin q. Teodoro, mi dichiaro soddisfatto di
quanto concordato e scritto”, lesse ad alta voce
l’uomo, intingendo la
penna e firmando.
Riottenuta
la carta, il notaio la cedette adesso a Marco. “Io,
Marco Miani q. Anzolo, mi dichiaro soddisfatto di quanto concordato e
scritto”,
ripeté la medesima azione il giovane patrizio e il notaio,
firmato anch’egli,
vi appose i dovuti sigilli siglando il patto nuziale che rendeva Marco
ed
Helena formalmente novizzi. Il cavalier Dimitri terminò la
procedura ordinando
al suo famiglio di cedere ai due servitori di Marco il cassone
contenente un
quarto della dote della sua fidanzata.
Infine,
liberati da quella prima incombenza, le due famiglie
s’avviarono chiacchierando a Piazza San Marco, ragionando
sulle varie date da
fissare per lo sponsalicio. Si convenne attorno alla metà
d’aprile, così da non
cozzare il matrimonio di Marco con quello della sua cugina germana
Maria
Morexini, programmato per l’anno seguente. Il gruppetto
entrò nel cortile di
Palazzo Ducale, seguito da una piccola folla di amici e altri parenti
da
ambedue le parti, lì riunitisi su invito per ascoltare il
proclama del
banditore, elevando da privato a fatto pubblico il fidanzamento tra il
magnifico
messer Marco Miani e la magnifica domina Helena Spandolin da
Costantinopoli.
Tutti applaudirono e si rallegrarono con lo sposo.
“Ci
vedremo domani per il parentà, dunque. Per quanto riguarda
le
visite a casa mia, ci organizzeremo in
settimana”, concluse il
cavalier Dimitri, tendendo la mano all’ormai quasi-genero, il
quale non replicò
nulla, limitandosi a reclinare il capo e ad accettare il gesto di
congedo. I
due se le strinsero neanche desiderassero spaccarsi le rispettive dita.
Forse
- meditava Hironimo osservando l’intera
scenetta
- forse si trattava la loro di una naturale
antipatia tra suocero e
genero, un po’ come lo fu tra gli zii e Padre, sebbene il
ragazzo ugualmente
non si capacitasse di tanto immotivato astio, visto che ambedue le
parti avevano
ottenuto ciò che desideravano, il greco un marito veneziano
per la figlia e suo
fratello una moglie per formare una nuova famiglia. Intimamente il
giovane
Miani se la rise nel constatare, quanto il cavaliere greco si
nascondesse
dietro la morigeratezza per tenere i due fidanzati il più
separati possibile,
almeno fino al dì delle nozze religiose. Ormai a Venezia
vigeva l’uso di
consumare il matrimonio già dopo aver dato la man, senza
aspettare di dar
l’anello, evento che poteva avvenire qualche settimana se non
addirittura mesi
dopo la firma del contratto. Marco si sarebbe rosolato nel lardo
dell’impazienza, altroché.
Similmente
al fratello, sebbene per motivi più casti, il ragazzo
fremeva adesso dalla voglia di presentarsi alla sua futura cognata,
dopo averla
conosciuta per mesi solo attraverso le parole di Marco e i litigi col
padre di
lei, così da scoprire il motivo dietro la testardaggine del
maggiore a volerla
sposare a tutti i costi.
***
Il
parentà a casa degli Spandolin si svolse in maniera assai
semplice e intima, complici i costumi diversi tra le due famiglie.
Solitamente,
la novizza entrava nella sala di rappresentanza accennando ad un
qualche passo
di danza, condotta per mano dal suo maestro. Tuttavia, non possedendo
Helena né
un istruttore né delle sorelle o parenti monache da visitare
al termine della
cerimonia, ella non poté soddisfare appieno il tradizionale
rituale, mancando
quindi d’esibirsi vistosamente sia in casa sia in gondola, in
trasto, durante
il tragitto verso il monastero.
Non che
ne avesse bisogno, lei stessa era già uno spettacolo:
appena la greca s’affacciò all’uscio
della porta, Hironimo immediatamente non
riuscì a non notare la vistosissima ed esotica acconciatura
della diciottenne
fanciulla. Essa era fatta a mo’ di scatola di legni sottili e
leggeri, coperta
di una teletta d’oro e decorata di scintillanti pietre
preziose, la cui sommità
terminava a guisa di corona. Dietro scendeva su di un lato soltanto un
velo di
seta vergato, il resto stretto da un cerchio d’oro massiccio
tutto
ingioiellato, il quale cadeva dietro le spalle con alcune folte trecce
di
capelli scuri, una per tempia vicino alle orecchie, incorniciando un
viso vago
e leggiadro. Il collo morbido e il petto li aveva ornati di collane di
perle
(tra cui quella della novizza offertale da Madre come dono di
fidanzamento) di
spille cariche di pietre fini e di catene d’oro, senza un
particolare ordine o
tema. Le sottili mani Helena le teneva incrociate sopra la sottana di
raso dal
busto alto, sopra la quale ne portava altre, di ormesino bianco, lunghe
e
aperte a mezza gamba, cinta da un vivacissimo velo di seta.
Al
giovane Miani quell’abito lineare e accollato ricordava
quello
della Basilissa Irene nella Pala d’Oro così come
il medesimo sguardo d’Helena,
indecifrabile e compito, quasi severo. Tuttavia, a cerimonia terminata
e una
volta presentati ufficialmente, dopo l’inchino di circostanza
Hironimo catturò
l’incuriosito sguardo della ragazza su di lui, la quale lo
studiava con
altrettanta intensità. Pizzicata, la novizza celò
gli occhi dietro le lunghe e
seriche ciglia, reclinando appena il capo e lasciando che un verecondo
rossore
le tingesse le gote. L’esempio perfetto d’un
contrito bambino sgridato per una
sua marachella, se il diciottenne patrizio non avesse catturato la
fuggevole
ombra di un civettuolo ricciolo di sorriso sulle labbra carnose della
greca.
Gli
risultò immediatamente simpatica, accantonando ogni malumore
portatosi seco.
Helena
emulava in fatto di curiosità il suo antenato Odisseo,
tempestando a tavola durante il rinfresco i suoi futuri parenti
d’ogni sorta di
domanda su Venezia e i suoi costumi, città che conosceva
poco, avendo vissuto
per lo più a Costantinopoli, nel quartiere greco di Pera; eppure, sosteneva, per
magnifico incanto le
sembrava di continuare a vivere nel Levante, tanto simili le apparivano
l’architettura, il cibo, lo stile di vita.
“Trovo
davvero bizzarro quest’uso”, dichiarò ad
un certo punto
Helena, portando le dita all’altezza del collo e del petto,
“che se da una
parte le fanciulle nubili debbano andare in giro a viso coperto,
dall’altra le
scollature siano così generose” e il modo in cui
proferì con tale genuino
stupore quel suo dubbio, provocò dei divertiti e magnanimi
risolini tra le
donne, mentre gli uomini si guardavano imbarazzati, incapaci di
spiegare l’arcano
senza scivolare nel triviale.
La
novizza aveva infatti notato per lo più il vestito en
donzelon
di Maria Morexini, il cui busto assai corto a malapena le copriva buona
parte
del petto e lasciava nude le morbide spalle. Dal busto fregiato intorno
da una
lista di tela d’oro e perle fuoriuscivano gli intricati
merletti della camicia,
neanche volessero ulteriormente incorniciare, risaltandola, la
femminile
bellezza di quella pelle alabastrina e liscia, invitando
l’occhio maschile a
guardare e a soffrire.
“Oh
bella!”, esclamò Maria, lisciandosi ilare il
rocchetto di seta
bianca, crespa e trasparente, “Perché andiamo in
giro così?” e disegnò
nell’aria la curva superiore dei suoi seni,
“personalmente, lo ignoro. Però
potete chiedere un’opinione a vostro fratello: sicuramente
avrà una risposta
assai più esauriente della mia!”
Giorgio
Spandolin arrossì violentemente, colto in flagrante
contemplazione; le sue sorelle Regina e Chiara sghignazzarono forte
dinanzi al
suo imbarazzo, fino a farsi venire le lacrime agli occhi, ma
più di tutte se la
rideva Helena, coprendosi vezzosa la bocca con la mano, lo sguardo
puntato su
Marco quasi a studiarne le reazioni.
“Vedete?”,
riprese maliziosetta la giovane Morexini.
“Cosicché i
nostri uomini pensino soltanto a noi e non a qualche altra italica
foresta!”
“Foresta?”,
aggrottò Helena la fronte, confusa. “Non
comprendo,
che significa?” Fino a quel momento la giovane aveva
dialogato in un basico
veneziano, lentamente, scandendo bene le parole e probabilmente
già s’era
preparata in precedenza cosa dire. Adesso che deviava dal copione, si
trovava
in maggior difficoltà e le sue lacune nella lingua
rischiavano palesemente
d’emerge.
“Xeno”,
la soccorse sottovoce Hironimo, prima che ci
s’accorgesse di come la greca non avesse capito la battuta e
si coprisse di
ridicolo. Dinanzi al cenno affermativo della sua futura cognata, egli
proseguì
a voce alta: “Le nostre nobil done, giustamente, non vogliono
che corriamo
dietro ad altre italiane, straniere” ed enfatizzò
che le straniere erano queste
gentildonne e non quelle greche, specie se provenienti o dallo Stato da
Mar o
comunque residenti a Venezia.
“Sono
… sono molte belle, le altre donne
d’Italia?”, chiese
accorta Helena, ansiosa di riparare a quel suo piccolo scivolone. Aveva
preso a
torcersi le dita, nervosa, d’un tratto temendo di aver dato
una pessima
impressione di sé.
Hironimo
avrebbe voluto porle una mano sopra la sua e
rassicurarla, comprendendo la sua agitazione: per maritare le loro
figlie a
stranieri, i patrizi veneziani non si ponevano grandi problemi; al
contrario,
ammogliare i propri rampolli a straniere, quello sì che si
rivelava un affare
complesso e le potenziali candidate dovevano dimostrarsi impeccabili,
di virtù
ineccepibile, integrate ai valori locali. La pressione di dimostrarsi
all’altezza delle aspettative doveva pesare moltissimo sulle
spalle di Helena,
rendendola particolarmente inquieta dinanzi al più minuscolo
errore. Se voleva
aspirare, similmente a sua sorella Regina, ad entrare
nell’élite, lei doveva
rasentare pressoché la perfezione, nessuno sbaglio concesso.
E se s’impappinava
davanti ai parenti, quale impressione avrebbe dato al Doge e
all’intero
patriziato, il dì della sua presentazione ufficiale?
“Le
altre nobildonne italiane non sono di nostro gusto”,
anticipò
Marco la risposta di suo fratello minore, “perché
noi già possediamo le più
incantevoli”, dichiarò sincero, sorridendo
allusivamente alla sposa, la
quale abbassò vezzosa il capo, rilassandosi e ringraziandolo
del complimento.
Ciononostante, Hironimo ben s’accorse della sua espressione
soddisfatta e
pragmatica, simile a quella di un magister, che riceve la risposta
esatta da un
allievo.
“Riguardo
all’abito nuziale”, deviò domina Irene
Spandolin la
conversazione, acciocché la figlia pigliasse un attimo di
tregua. “Pensavo, se
non v’incomoda, che al posto della ghirlanda la nostra Helena
potrebbe
indossare un berrettino di panno d’oro, secondo la nostra
tradizione … Questo
ovviamente per la cerimonia privata …”
Le spalle
della ragazza s’abbassarono, mentre questa cacciava
fuori un grosso sospiro, sfinita. Allora Marco, approfittando della
distrazione
delle genitrici, sotto il tavolo le aveva accarezzato furtivamente il
dorso
della mano a mo’ di conforto. Gesto che non passò
inosservato al guardingo Dimitri
Spandolin, che però preferì mangiare e tacere.
“Hieronymos”,
lo prese brevemente in disparte Helena a fine
visita, nel frattanto che i parenti si salutavano e scambiavano mille
raccomandazioni di buona salute, “volevo ringraziarvi
…”
“Dammi
pure del tu”, la interruppe Hironimo, “fra poco
sarai mia
sorella e in casa non siamo avvezzi a tante formalità, non
tra noi coetanei
almeno.”
La greca
piegò il capo in consenso, incoraggiata. “Sta
bene.
Volevo ringraziarti del tuo aiuto. Sarebbe stato assai riprovevole da
parte
mia, imbarazzare il mio novizzo con la mia torpidezza di
spirito”, gli confidò
e dietro l’abito pomposo e ricco, Hironimo scorse una
diciottenne spaventata e
smarrita, costretta in una situazione completamente nuova e senza alcun
punto
di riferimento.
“Non
t’angustiare: la mia germana possiede un senso
dell’umorismo,
che spiazza anche noialtri”, la rincuorò il
giovane Miani. “Hai già conosciuto
il mio sior barba suo padre: ugual caratterino!”
Helena
ridacchiò nervosamente. “Sì, ho notato.
Il kyrie Ioannes
Baptistes Morezines è stato molto cortese e gentile:
s’è seduto accanto a me e
ha impedito che mi si ponessero quesiti complessi.”
“An,
lui è gentile e cortese verso qualsiasi bella
fanciulla”,
grugnì sardonico Hironimo, conoscendo la fama di cottolon di
suo zio Batista
Morexini. Quand’ecco che si schiaffò la mano alla
bocca, conscio della gaffe
appena commessa. “Ehm, volevo dire …”,
ma si rilassò dinanzi al rassicurante
risolino civettuolo della greca, confermando un poco certe dicerie
sulla loro
natura sensuale al limite dell’impudico.
All’improvviso
la ragazza assunse un’espressione seria. “Siete
tutti stati così buoni e pazienti nei miei confronti, mi
avete fatto sentire
subito la benvenuta”, gli confessò sincera e
riconoscente, inumidendosi a
disagio le labbra, “e anche Márkos mi guarda
attraverso gli occhi del cuore,
cosa però che non faranno gli altri suoi pari: mia sorella
Vassilissa – Regina
- mi ha raccontato quanto sia difficile essere accettata, costantemente
sotto scrutinio. Il mio sposo avrà
bisogno di una moglie di cui non
si possa vergognare, che non lo faccia sfigurare in società.
Ammetto la mia
ignoranza dei vostri costumi e la vostra lingua non la parlo abbastanza
bene da
poter conversare agevolmente. Figurarsi poi se debbo pure imparare il
volgare
italiano … Hieronymos, mi chiedevo se per cortesia tu
potessi aiutarmi a
migliore il mio veneziano nonché il volgare.”
“Io?”,
strabuzzò gli occhi Hironimo, non capacitandosi del suo
nuovo e inaspettato ruolo di magister, proprio lui ch’era
stato all’unanimità
eletto il somaro di famiglia, sin da quando aveva incominciato a
studiare.
“Sicuramente il tempo non ti mancherà per
apprenderlo e Marco …”
“…
sarà sempre via, per mare o per terra; in qualche
città o a
Palazzo Ducale. E il mio Patéras è irremovibile
nella sua decisione di tenerci
separati fino alle nozze religiose”, gli esplicò
concisamente Helena il destino
ch’attendeva la coppia, essendo i patrizi veneziani
più nomadi dei tuareg del
deserto. “Inoltre non voglio importunare la tua
Mitéras, né dimostrarmi indegna
del mio ruolo ai suoi occhi.”
“Ma
tua sorella Regina? Si è ben ambientata
…”
“Possiede
una famiglia numerosa cui badare, non posso
monopolizzarle il tempo.”
Hironimo
si morse l’interno della guancia, dubbioso
s’esaudire o meno
quella singolare richiesta. Da una parte non vi scorgeva alcun tranello
–
Helena e Marco erano palesemente cotti a puntino l’una
dell’altro e figurarsi
se lui era così infame da compromettere l’onore di
suo fratello. Dall’altra,
però, il ragazzo temeva appunto d’impegolarsi in
strani malintesi, in fin dei
conti non era più un bambino e la sua cognata
un’affascinante ed esotica
creatura dell’Oriente.
“D’accordo”,
cedette, poiché parente o meno a
‘na bea dona
no se nega gnente. “Ma a queste
condizioni”, frenò l’entusiasmo
d’Helena, la quale annuì velocemente.
“Primo: che anche le mie germane Anzola,
Maria e Querina studino con noi. Fra poco Maria
s’accaserà con sier Zuanne
Querini di Stampalia e Amorgo e non l’ucciderà
migliorare il suo greco;
insomma, deve conoscere la lingua dei suoi feudi. Secondo: che non se
ne
parlerà a chicchessia”, così Helena non
avrebbe sfigurato e lui non l’avrebbero
sfottuto per l’essersi improvvisato magister.
“Sarà il nostro segreto e se ci
chiederanno che cosa facciamo, diremo che t’insegno a giocare
a scacchi, o a
carte o a suonare il liuto.”
“O
a provare danze nuove!”, aggiunse la greca, intuendo in
fretta
il piano. “Così il giorno dello spon-sponsalicio
potrò ballare anche io!”
“Corretto.
Che ti pare?”
Il volto
regolare d’Helena s’illuminò di un
sorriso pieno di
fossette, lo stesso ch’aveva indubbiamente innamorato Marco.
“Come dite
voi bene in veneziano? Pulito?”
“Bravissima!
Pulito!”
Dopo il
parentà era costume per qualche tempo, prima di ricevere
l’anello, che le novizze fossero visitate un giorno dai
parenti maschi e dagli
amici del novizzo, mentre un altro dalle donne della sua futura
famiglia,
svagandosi assieme in giochi, musica e balli, in modo da eliminare ogni
estraneità ed offrire alla sposina la possibilità
di socializzare. Era il
periodo perfetto per colmare le lacune di Helena.
Convincere
Anzola, Maria e Querina a reggere il gioco non avrebbe
richiesto grandi sforzi, specie Maria, la sua tremenda germana, la
quale
avrebbe semplicemente adorato l’idea
di partecipare a quel
piccolo intrigo, doppiamente disinvolta nel mentire senza arrossire
né
confondersi e quella piccola tatina della Querina obbediva ciecamente
alla
sorella maggiore.
Insomma,
si trattava pur sempre di un’opera a fin di bene, no?
***
Purtroppo
per Hironimo, quello d’aiutare sua cognata a migliorare
le sue competenze linguistiche non sarebbe corrisposto
all’unico loro segreto
(o sfilza di menzogne a seconda dei punti di vista) bensì
una lunga serie
destinata a durare per anni, in un continuo accumulo fino a giungere al
punto
di saturazione.
Come
acutamente profetizzato da Helena, per quanto Marco si
sforzasse di trascorrere quanto più tempo possibile assieme
alla giovane sposa,
gli impegni amministrativi e politici lo tenevano spesso e volentieri
lontano
da casa, sicché era toccato a Madre ed Hironimo il duro
compito d’aiutare la
greca ad ambientarsi a Ca’ Miani. L’unica pecca di
madona Leonora rimaneva la
sua età non più incline agli svaghi e
all’esuberanza della gioventù,
limitandosi ad insegnare alla nuora come gestire le finanze domestiche
e in
generale la casa.
Invece, a
Hironimo, Querina, Anzola e Maria era toccato colmare
codesta lacuna e la futura madona Querini offriva costantemente
occasioni di
divertimento, tra una lezione e l’altra, con la scusa di
doversi preparare al
suo futuro ruolo di contessa di Stampalia e Amorgo. Il povero maestro
di ballo
si ritrovò un’allieva in più,
nonché un gruppo di scatenati adolescenti
vogliosi d’apprendere le ultime danze, in primis lo
scandaloso ballo del cappello,
laddove le dame, indossando un cappello maschile, aprivano le danze e
sceglievano loro il cavaliere, un puro sovvertimento di ogni regola
contro cui
tuonavano gli anziani. E per questo alla gioventù
graditissimo.
Maria,
ch’amava tenere banco in ogni circostanza, aggregò
al loro
gruppo anche Chiara Spandolin sorella di Helena; le cugine Anzola e
Magdalena
ed infine i suoi fratelli più grandicelli,
Nicolò, Carlo, Piero e Hironimo. In
letizia assoluta trascorrevano le ore, accoccolati i giovanissimi
patrizi ai
piedi delle loro dame, cantando e suonando frottole e madrigali al
liuto – la
musica la loro vita. Recitavano poesie o leggevano
romanzi ad alta
voce, improvvisavano commediole pastorali o si cimentavano in lunghe
partite di
scacchi o a carte. Un dì Maria aveva proposto un antico
gioco di corte
francese, “Le jeu du Roi qui ne ment pas”, laddove
il Re o la Regina ponevano
domande d’amore agli altri partecipanti. Soltanto il Re non
mentiva, mentre gli
altri forse che sì e forse che no ed era lì la
sfida, di capire chi simulasse e
chi affermasse il vero. Anche Helena nel suo piccolo contribuiva,
suonando
antiche e nuove canzoni romee della corte dei Basileus, le sottili dita
agili
sulle corde del suo bouzouki mentre la sua calda voce orientale
rievocava gli
amori di Atzemiko, le avventure di Ioanne e dei serpenti, il cinguettio
sensuale ed erotico del bellissimo Usignolo. Piero Morexini, che come
il
fratellastro Andrea tra tutti eccelleva nel greco vernacolare,
l'accompagnava
nel canto, creando piacevoli duetti.
In tal
locus amoenus avevano trascorso questi giovani una tra le
più belle primavere ed estati, lontano dal cinismo e
squallore del mondo reale,
relegato alla porta. Sier Batista li osservava di sguincio quando
attraversava
il loggiato che dava sul giardino, soddisfatto di trovare figli e
nipoti in sì
lieti spiriti. Avrebbero avuto tempo - ripeteva alla
sua scettica
consorte madona Morexina, che non approvava tanta frivolezza
- di
rinchiudersi in casa a recitare Paternostri o Avemarie o ad ascoltare
frati
predicatori e monache veggenti e ogni riferimento
all’effettivo passatempo di
sua moglie e delle sue cognate madona Ysabeta Morexini Corner e madona
Marina
Morexini Vituri era puramente casuale.
Intanto,
tanta allegria continuava poi a Ca’ Miani, la quale dopo
anni di silenziosa austera castità e morigeratezza
s’era riempita dei tipici
cinguettii notturni degli innamorati, al punto che ormai tra i fratelli
giravano già delle goliardiche scommesse, a quando il grande
annuncio. Invece,
ne arrivò un altro che rattristò non poco Helena,
che aveva appena-appena
incominciato ad ambientarsi a Venezia: suo marito Marco era stato
eletto
podestà di Marostica ed era suo dovere pertanto seguirlo. Fu
dura per lei
accomiatarsi dai suoi nuovi parenti, in particolare da Maria, temendo
infatti
di non trovarla più una volta terminato il mandato del
consorte, giacché
sposatasi e trasferitasi nel frattempo a Stampalia. La giovane greca si
consolò
tuttavia della compagnia di Hironimo, il quale le aveva promesso di
passarla a
trovare quanto più possibile e della sorellina Chiara, che
la loro madre voleva
acquisisse in tutto e per tutti usi e costumi veneziani.
Il 18
agosto 1503, dunque, Marco Miani prestò giuramento come
podestà; lo accompagnarono a Marostica il garante sier
Hironimo Soranzo, il
cancelliere sier Pasqualin di la Croxe da Mestre e il commilitone
Synibaldo
Brucalido. Nel corteo d’entrata e alla Messa al Duomo
assistettero anche Madre,
Hironimo e Lucha, venuti apposta per assistere
all’insediamento del fratello e
per restargli accanto per le prime settimane, giusto per aiutare la
coppia ad
ambientarsi.
Marostica,
nell’agro vicentino, si presentava come una città
fortemente murata, costituita da ventun torri e quattro porte: la
Vicentina a
sud, la Bassanese ad est, la Breganzina a ovest e la Pe’ dil
Monte a
nord. In cima al colle Pausolino, sulla pianta di
un’antica fortezza
romana, sorgeva il Castello Superiore, a base quadrata con quattro
torresini ai
lati ed una grande torre centrale, voluto nel 1312 dagli Scaligeri di
Verona
assieme al Castello Da Basso, che si trovava invece a valle.
Quest’ultimo, di
pianta rettangolare, era costruito a ridosso di un imponente mastio. Di
fronte
al Castello da Basso si trovava la Rocca di Mezzo, anch’essa
affacciata sulla Piazza
Maggiore, dove al centro sorgeva una grande fontana costruita sotto le
podestarie di sier Andrea da Molin e sier Piero Baxadona e dove il
martedì e il
venerdì si svolgeva il mercato. La Signoria aveva dato un
grande impulso
all’edificazione religiosa della città, costruendo
la chiesa di San Marco e la
Scoletta del Santissimo Sacramento di fronte alla chiesa di
Sant’Antonio Abate
e la chiesa di San Gottardo nel Borgo; restaurò e
ampliò il Duomo e dulcis in
fundo, commissionò anche la costruzione del convento di San
Sebastiano a est
della Pieve di Santa Maria. Sullo sfondo di Marostica,
s’ergevano le prealpi
vicentine, da Lavarone fino al territorio dei Sette Comuni, montagne
che
portavano a Trento o nei domini veneziani di Folgaria e Rovereto
attraverso le
Piccole Dolomiti. Territorio dunque di confine, perennemente sotto la
pressione
dell’Impero, specie dopo il passaggio dal Ducato di Milano
alla Serenissima
Repubblica nel 1404.
A Marco
l’idea dunque di recarsi in una città
così “a rischio” era
stranamente piaciuta (tutto suo padre, aveva
commentato scherzosamente
Madre, mentre Helena aveva ridacchiato nervosa), sia perché
amava le sfide sia
perché intimamente sperava di distinguersi, come Padre
quando gli Austriaci
avevano minacciato spavaldi il Feltrino per poi ritornarsene a casa
propria con
la coda tra le gambe. Il ventiduenne podestà aveva quindi
fatto il suo ingresso
fiducioso e ottimista, suscitando la sua aria determinata grande
ammirazione,
così come la sua giovane e bella sposa levantina.
Per
Hironimo, Marostica corrispose ad un colpo di fulmine,
dapprincipio per l’entusiasmante esperienza di soggiornare in
cima al monte nel
Castello Superiore, laddove alloggiava appunto il podestà,
nonché di esplorare
assieme ad Eòo il colle Pausolino sia dentro che fuori le
mura e gli altri
colli circostanti, lasciando a Lucha l’onore
d’istruire Marco sul suo ruolo e
le aspettative ad esso connesse. Il ventottenne patrizio aveva
ricoperto
quattro anni addietro il medesimo incarico e nella medesima
città, sicché si
era premurato di condividere le sue conoscenze col minore su Marostica,
sul suo
territorio, la sua economia, l’apparato difensivo, le sue
famiglie più in vista
e in generale sulla popolazione e le sue necessità.
Hironimo, dal canto suo,
preferiva trascorrere il tempo con le due cognate, insegnandole a
cavalcare e
organizzando facili gite fuoriporta su delle docili mule. Lontane dal
severo
giogo paterno, le due greche si divertivano assaissimo, in particolare
Chiara
che coraggiosamente osò chiedere, un pomeriggio, di montare
a cavallo,
dimostrandosi un’amazzone piuttosto discreta.
Settembre
sostituì troppo in fretta agosto e il giorno del rientro
a Venezia si presentò tanto triste, quanto
l’uggiosa giornata di pioggerellina.
Helena aveva gli occhi velati di qualche lacrima ribelle, sorridendo
forzatamente alla suocera e ai cognati. Il suo viso da qualche giorno
appariva
pallido e tirato e la ragazza si teneva a stento in
piedi,
preoccupando Madre la quale si raccomandò mille volte con
Marco, acciocché vegliasse
sulla sposa. Personalmente, Hironimo non comprendeva il nesso tra i
seri
consigli di madona Leonora e la faccia da ebete del fratello, non
avendolo mai
a sua memoria visto così felice, ogni occasione buona per
baciare e cingere per
i fianchi la sua sposa, la mano posta per merto o per caso sul
ventre.
“Luchin”, aveva
egli un giorno avvicinato esitante il
maggiore dei Miani, “volevo il tuo
permesso, se non t’incomoda, di
poter nomare mio figlio come il nostro sior Pare. Poiché sei
tu il primogenito,
non volevo te ne avessi a male, sentendoti defraudato di questo tuo
diritto”. Al che Lucha gli aveva battuto
una mano sulla schiena,
rassicurando il fratello che il suo consenso glielo dava più
che volentieri:
Dio solo sapeva quando si sarebbe ammogliato e poi, mica quella era una
regola
fissa, bastava pensare allo zio Batista, che pur ultimo dei maschi di
sier
Carlo “da Lisbona”, aveva conferito ai figli il
nome paterno, dell’avo paterno
e materno, secondo la tradizione. Marco l’aveva allora
abbracciato, commosso.
“Perché
quel discorso, Luchin?”, cedette Hironimo alla tentazione
di chiedere al fratello durante la cena. Si erano fermati a pernottare
nella
loro casa a Treviso, avendo Madre un poco sofferto il viaggio.
“Marchetto
parlava come se Helena fosse già incinta.”
Lucha
proruppe in una fragorosa risata, affogando per poco il naso
nella zuppa. “Te xé svejo chome un
indormensà! Helena è
già incinta,
da un bel po’ anche! Forse addirittura prima di partire per
Marostega!”
L’ultimogenito
di Ca’ Miani tartagliò qualcosa, sconvolto da tale
rivelazione, più che altro per la realizzazione
d’aver suggerito ad una donna
gravida di cavalcare, azzardo rischiosissimo per lei e la creaturina
nel suo
ventre. Stupido, come aveva potuto non cogliere i segni? Affanni,
nausee,
capogiri, appetito gagliardo … Ciononostante, onde evitare
l’ennesimo sermone,
il diciassettenne tacque, incassando il colpo e concentrandosi sulla
sua zuppa
alle trippe.
Madona
Leonora non tardò a divulgare la notizia della prossima
nascita del suo primo nipote di sangue: spedì la Zanetta e
l’Ufemia a chiamare
a raccolta amiche e parenti e costoro risposero entusiaste
all’appello,
imbastendo un vero e proprio Maggior Consiglio muliebre, tra una fetta
e
l’altra di focaccia dolce con melagrana.
“Mi
sembra quasi surreale ritornare a pronunciare in famiglia il
nome Anzolo, dopo tutti questi
anni”, confidò madona Crestina alla
sua matrigna, mentre porgeva all’undicenne figlia Dionora una
fetta di dolce.
“Spero l’affare non vi ponga a disagio, siora
Mare”, aggiunse sottovoce,
timorosa dei brutti ricordi associati a quel nome, quasi vi pendesse
sopra una
maledizione.
La
nobildonna scosse il capo. “E’ giusto
così, Tina”, asserì
serena, la sua bocca increspatasi in un birbante sorrisetto.
“E poi, tra di
noi, avevamo i nostri nomi …” e le due donne
ridacchiarono complici, ben
familiari ai quei segretucci tra marito e moglie.
“E’
un peccato che mia sorella partorisca a Marostica”,
asserì
madona Regina Spandolin da Ponte. “Abbiamo già
avuto una vita così raminga: un
poco di stabilità le avrebbe giovato. È sempre
stata una ragazza molto
sensibile e domestica.”
“Vi
recherete a Marostega per il parto, madona Irene?”,
domandò
Pellegrina Muazzo Miani alla madre di Helena e Regina.
La
matrona greca negò, le labbra increspate in una smorfia
delusa.
“Purtroppo no, ahimè, mio marito deve rimpatriare
a Costantinopoli per affari,
ovviamente, ed io debbo appunto seguirlo. Tuttavia, Georgios e
Vassilissa sono
qui a Venetia e la mia Clara a Marostica con sua sorella, pertanto mi
dichiaro
tranquilla: Eleni non rimarrà sola in questa
prova.”
“Forse
dovremmo visitare i cugini Marco ed Helena per il
battesimo: adoro le feste di presentazione degli infanti, specie se
primogeniti
maschi! Sicuramente parteciperanno tutte le famiglie nobili locali e ci
saranno
danze e banchetti, chissà che in quanto podestà
Marco non organizzi una
giostra!”, propose sognante Maria, immediatamente rampognata
da sua madre.
“Contegno,
figlia mia! Proprio in quel mese ti mariterai in sier
Zuanne Querini! Trovi morale disertare il tuo consorte appena terminate
le
nozze?”
“E
chi l’abbandona? Naturale che verrà con me!
Scommetto che gli
piacerà visitare la città, le sue mura, i suoi
palazzi, chiese e conventi.
Perché Marostega è molto bella, nevvero
Momolo?”
L’interpellato
in questione, seduto in un angolo accanto al seienne nipote Gasparo a leggiucchiare
un libro sulla varietà di uccelli rapaci utilizzati nella
falconeria, levò
confuso lo sguardo verso la cugina. Ultimamente, avevano notato i suoi
parenti,
da qualche settimana Hironimo se ne stava per conto suo e in inusuale
silenzio,
indossando i guanti anche in casa, sebbene fossero solo ai primi di
ottobre. Il
ragazzo s’era giustificato che il suo ruzzolone
giù per le scale l’aveva non
poco scosso, portandolo a cercare per qualche tempo svaghi
più tranquilli.
“Scusami?”, sbatté le ciglia, non avendo
seguito il filo del discorso.
“Marostega”,
ripeté vezzosa Maria. “Dev’essere un
posto molto
interessante, no? Tu ci sei stato quasi due volte, puoi
confermare!”
“Mi
piacciono molto i suoi boschi ed i colli. Un vero peccato che
abbiamo perso la stagione venatoria.”
“Sì,
ma i palazzi? Il Duomo? I conventi? Ho sentito dire che sono
davvero notevoli …”, insistette la cugina.
Hironimo
scrollò le spalle. “Sono soltanto degli edifici:
freddi,
immutabili e morti. La natura invece m’affascina appunto
perché è caduca, viva
e imprevedibile. In una chiesa è come essere vivi in un
sepolcro di marmo; in
un bosco si è vivi in un mondo vivo.”
Le donne
lì presenti si sciolsero in tintinnanti risatine.
“Ignoravo questo tuo spirito alla Laudato
sie, mi' Signore, cum tucte
le tue creature”, scosse Maria giocosamente il
capo. “Dovresti insegnare
agli stessi Francescani!”
“Le
tue risposte sono troppo pepate per una donna, zermana”, la
rimbeccò Hironimo, ritornando offeso al suo manuale.
“E
per un uomo, possiedi un animo più dolce del latte,
zermano”,
non si scompose la Morexini, semmai traendo gusto da quel battibecco.
“Forse
dovreste recarvi voi stessa a Marostega”, cangiò
discorso
madona Alba Donado Contarini, rivolgendosi all’amica madona
Leonora. “In fin
dei conti, siete la matrona di Ca’ Miani ed Helena
necessiterà di una figura di
riferimento e con esperienza, al di là della comare
levaressa.”
“Non
vorrei esser di troppo, né sostituirmi a
…”, nicchiò la
patrizia, scrutando di sottecchi la consuocera.
“Perdiana,
non dite assurdità!”, ribatté
vivacemente madona Alba,
“è vostra nuora, vivete sotto lo stesso tetto; per
lei, voi siete una seconda
madre. O sbaglio, madona Irene?”
“No,
no, affermate il vero. Anzi, despina Lionora, mi fareste un
grandissimo favore assistendo la mia Eleni!”
“In
tal caso, scriverò a mio figlio Marco che lo
raggiungerò
assieme ad Hironimo (e forse anche a Carlo) per Natale.”
Quand’ecco che
l’espressione dell’anziana patrizia
s’incupì. “Prego solo la Madonna che
tutto
vada bene: Helena ha molto sofferto durante i primi mesi, non vorrei le
capitasse qualche complicazione al momento del parto
…” Non aveva avuto il
coraggio di confessare a nessuno quella sua intima pena, lo svantaggio
di non
possedere in casa sufficienti presenze femminili su cui discutere di
certi
argomenti.
Crestina
strinse incoraggiante la mano della matrigna.
“Varé là,
siora Mare! Che dite? Helena è giovane, forte …
Guardate sua sorella Regina:
s’è sgravata tranquillamente, senza alcuna traccia
di febbre e anzi, dopo
quattro giorni aveva già il viso latte e rosa. Volete che
per Helena sia
diverso?”
Madona
Leonora non rispose, stringendo le labbra in una linea
dura: adesso Crestina minimizzava, però anche lei a suo
tempo aveva sofferto moltissimo
alla sua prima gravidanza, portandola a redigere il suo testamento.
Il nuovo
membro della famiglia Miani decise di venire al mondo il
6 marzo 1504 ed era stato un bene che Hironimo avesse già
ricevuto il suo
battesimo di fuoco, ché le urla infernali di Helena da
dietro la porta di
camera sua neanche si potevano paragonare a quelle della sua
sorellastra
Crestina, né della zia Morexina, né di Maria
Foscarini Miani moglie del
biscugino Zuan Francesco: nessuna delle donne aveva emesso suoni
così tremendi,
quasi avessero sottoposto sua cognata al peggiore dei supplizi,
aprendola e
squarciandola a metà senza un attimo di respiro.
Per ovvie
ragioni tecniche anatomiche, il primo figlio
corrispondeva ognora ad una grande sfida per la primipara, variando i
tempi di
nascita dalle dieci ore ad una giornata intera. Compito pertanto delle
donne
era quello di tranquillizzare la futura madre e ai parenti maschi il
futuro
padre, in un’equa partizione dell’ansia.
Costretti
dunque a pazientare nella sala di rappresentanza, Carlo
ed Hironimo tenevano bloccato in uno stretto e compatto cerchio il
povero
Marco, che ad ogni grido scattava in piedi dalla sua sedia, smanioso di
soccorrere la moglie.
“Sentate
e stà bon!”, gli poneva una mano sulla spalla suo
fratello maggiore, costringendolo seduto. “E smettila
d’agitarti: se ci muori
al primo, che ci fai al secondo? Ascendi in Cielo direttamente dalla
tomba?
Guarda i nostri siori zii, fanno tutte queste storie quando le loro
mogli
partoriscono?! Li hai mai visti strapparsi i capelli e piangere peggio
d’un
puteo?”, sbuffò snervato. Dopodiché,
accertatosi che Marco si fosse un poco
tranquillizzato: “Capisco la tua ansietà,
però credimi che quel che stai
provando adesso, l’hanno provato anche i nostri parenti e
come vedi sono ancora
tutti in piedi, sulle loro gambe!”, lo consolò
Carlo, pigliando un bicchiere
d’acquavite e costringendo Marco a berlo in un sol sorso.
“Presto sarai padre
di un bellissimo fantolino e ti getterai queste ore alle spalle,
ridendotela
alla grossa!”
“Beh,
insomma, quasi tutti
l’hanno sperimentato,
parla per gli ammogliati”, lo corresse Hironimo, zittito
immediatamente da
un’occhiataccia ammonitrice da parte di Carlo.
Muovendo
esagitato la gamba, Marco balbettò terrorizzato:
“E
allora … allora per-perché ci … ci sta
mettendo così … così tanto?
È … ormai è
quasi sera … se lei … se il bambino
…”, e onde impedirgli d’esprimersi in
altri
incoerenti e tristi presagi, gli si versò solerti del
liquore. “Mio figlio
sarebbe già dovuto nascere un paio o più
d’ore fa!”, guaì disperato, storcendo
la bocca dal bicchiere portogli, rifiutandolo schifato.
“Bevi
e tasi!”, non dimostrò Carlo alcuna
pietà, intanto che
Hironimo teneva fermo lo spiritato. “Hai voluto divertirti
con la mojer, ecco
le conseguenze. La sofferenza che stai provando è niente
paragonata alla sua!
Ergo, sii uomo e rispetta il suo sforzo comportandoti da
tale!”
“Amen!”
“Momolo,
ancor na parolla e te dago ‘no stramuson, che te spalmo
sul muro!”
“Marchetto,
il primo putelo crea sempre qualche ritardo!”,
s’inginocchiò
infine Carlo davanti al fratello, quando l’acquavite
fallì il suo scopo
d’intontirne l’ansia. Il ventisettenne patrizio
optò allora di consolare il
minore tramite spiegazione razionale e scientifica, condividendo in
questo modo
anche le conoscenze acquisite dalle numerose letture da lui intraprese,
onde
ammazzare la noia. “Per questo, secondo me, corrisponde ad
una gran cavolata il
non permettere alle donne di partorire accovacciate, come ad esempio
quando
urinano. Infatti, stando a dei recenti studi a Padoa, pare che il
canale
uterino si dilati, aprendosi, più di un quarto rispetto alla
posizione supina e
…”
“Carlino!”,
lo rimbeccò Hironimo leggermente imbarazzato.
“Che?!”
“Zò!”
Roteando
snervato gli occhi, Carlo s’alzò in piedi,
borbottando
rancoroso sul bigotto atteggiamento da farisei dei suoi parenti: un
corpo era
un corpo, che problemi c’era a discuterne a riguardo, specie
se poteva portare
ad un avanzamento del sapere medico? Bah, ridicoli!
“Se
si salva, non giacerò mai più con mia
moglie!”, ruppe Marco in
un pianto assai alticcio, nascondendo il volto tra le mani.
“Hé-oh,
zò che drammi!”, esclamarono all’unisono
i suoi fratelli,
mulinando scettici le mani in aria. Adesso il ventitreenne patrizio
parlava
così; dategli un anno o due ed ecco che ci si sarebbe ridati
appuntamento in
sala d’attesa per il secondo figlio.
Neanche a
farlo apposta, la matriarca di Ca’ Miani usciva proprio
in quel momento, seguita dagli acuti vagiti del neonato, i quali
rallegrarono
assaissimo i presenti, duramente provati da quella lunga e sfibrante
attesa e
anzi, Carlo dovette aiutare Marco ad alzarsi in piedi, le gambe di
questi molli
quanto la ricotta. Inspirando a lungo e dominando il fascio di nervi
qual era
divenuto il suo corpo, madona Leonora abbozzò ad un tremulo
sorriso,
annunciando solenne: “Mascolo! Mascolo! Mascolo!”
Poiché
suo fratello ancora non pareva aver recepito il messaggio,
rimanendosene là imbambolato a bocca aperta, Hironimo
ordinò a Menego di
correre in cantina a pigliare del Recioto della Valpolicella per un
giro di
brindisi. “Al piccolo Anzolo di Marco Miani: salute, denaro e
tempo per
goderseli entrambi!”, augurò al neogenitore,
mentre i servi riempivano i
bicchieri di passito rosso scuro. “Zò, qualchedun
daga ‘no s-ciafon a sto puto
dil mio fradelo: mare de diana, sembra ch’abbia partorito
lui!”, scherzò e in
effetti, un impensierito Carlo aveva incominciato ad elargire lievi
buffetti
sulle gote di suo fratello, non reagendo questi ancora da uomo vivo.
“Oh,
ma che bellino! Tutto rosso arrabbiato!”
“Bone
Jesu, che polmoni!”
“A
chi dici assomiglia?”
“Quando
strilla così: a te, Momolo!”
“Mo’
via, non fai ridere!”
Tutto il
Castello Superiore di Marostica festeggiò in grande
allegria il lieto evento, tra ciambelline e marzimino. Eppure,
scendendo in cucina
per pagare la comare levaressa, Hironimo giurò
d’averla sentita commentare ad
una preoccupata Orsolina: “A me gera parso, chea creatura no
la volesse
nasser.”
“Dasseno?
Cussì mal xela ‘ndà?”
La
levatrice tracannò il suo vino in un ultimo grosso sorso.
“A
sarave mejo, chea patrona non la fasesse fioi per un bel po’
…”, le rivelò
brutalmente onesta il suo parere.
E il
significato di quella conversazione, Hironimo lo comprese
appieno l’anno seguente. Vuoi la fresca passione tra novelli
coniugi, vuoi la sventatezza
della gioventù, Helena neanche il tempo di ritornare a
Venezia che aveva
concepito di nuovo e anche in quell’occasione il parto si
protrasse per
lunghissime ore, alternando urla inumane a momenti
d’angoscioso silenzio. Ciò
impensierì oltre alla famiglia anche l’esperta
levatrice, la quale aveva
appurato quanto il nascituro fosse parecchio pigro e insensibile agli
stimoli
delle contrazioni.
“Non
nasce! Non nasce!”, singhiozzava la greca, stringendo
convulsamente la mano della suocera madona Leonora e di sua sorella
madona
Regina, le quali le sussurravamo dolci parole di conforto, mentre sua
cognata
madona Crestina le tamponava la fronde madida di sudore e pallidissima
e sua
sorella Chiara, assistendo terrorizzata in un angolo, aveva
incominciato a recitare
un misto di preghiere in latino e greche, cattoliche e ortodosse.
“Zerto
che sta creatura ea nasse!”, non s’arrendeva la
comare
levaressa, testarda. “A xé ‘na meampa
(torda,ndr.), che la gh’ha da ser
costreta! Spinzé, patrona, spinzé!”
Helena
s’inarcò in avanti, digrignando i denti e ruggendo
ingolata, per poi cadere sfinita sulle lenzuola sfatte.
Fu allora
che madona Leonora decise d’uscire inaspettatamente
dalla stanza della partoriente, bianca peggio d’un cencio e
serissima in volto,
seguita da un’altrettanto grave Eudokia, sua silente ombra.
Raggiunse a passo
deciso gli uomini di casa, radunatisi in attesa nella sala di
rappresentanza,
ma stavolta la patrizia levò in alto il palmo della mano in
diniego, frenando
la sfilza di domande postale dai presenti e segno che no, non veniva a
portare
la tanto sospirata notizia. “Momolo, una parola”,
chiamò invece il figlio. “No,
Titta”, bloccò il suo fratellastro,
“restate pure accanto a mio figlio vostro
nipote.”
La
nobildonna condusse il ragazzo giù in cucina, con la scusa
di
ordinare alle fantesche di scaldare dell’acqua da portare
alla levatrice. Con
mani tremanti si servì d’un bicchiere di vino,
sospirando affranta. “Voglio che
corri a casa del medico chirurgo Yonah bar Shemu'el e che, con
discrezione, lo
conduci in camera d’Helena. Eudokia” e
indicò la sua personale fantesca, la
quale reggeva un fagotto,
“t’accompagnerà, acciocché
egli si travesta da donna.
Siamo nella settimana della Sensa: nessuno sospetterà
niente.”
Il
significato tra le righe di quell’ordine schiacciò
d’angustia
il cuore d’Hironimo, realizzando e accettando controvoglia lo
scenario, che
fino a quel momento s’era rifiutato di considerare,
sdrammatizzandolo
attraverso le solite battute ed incoraggiamenti ai danni del futuro
padre, mentre
in sala aspettavano l’annuncio ufficiale della nascita.
“In
altre circostanze”, riprese determinata madona Leonora,
“non
avrei permesso ad un uomo di … d’immischiarsi in
tali faccende, per quanto
qualificato e competente. Tuttavia, adesso la questione si riassume
nella
scelta del male minore, se violare per qualche ora la modestia di mia
nuora o
…”, e il labbro inferiore dell’anziana
patrizia tremò, “… o se lasciare che
domani mio figlio seppellisca moglie e piccino.”
“Il
patron Marco non soffrirà per ciò che non
conosce”, sentenziò
pragmatica Eudokia, insistendo sull’importanza di quella
missione. “Meglio
sorbirsi il broncio di madona Helena che il suo funerale.”
“Momolo?”
Hironimo
alzò la testa, rendendosi conto solo in quel momento
d’aver tenuto lo sguardo abbassato, fissando trasognato il
pavimento, incredulo
dinanzi a quell’inaspettato e drammatico giro
d’eventi. Ripensava a quando
aveva incontrato la greca per la prima volta; ai lieti pomeriggi a casa
delle
cugine; ai suoi sorrisi, alle lezioni, ai piccoli concerti …
soprattutto il
ragazzo rivedeva la luce di pura felicità negli occhi di
Marco il dì delle loro
nozze, alla notizia della gravidanza, quando aveva tenuto tra le
braccia il
neonato Anzolo …
“Se
salverà la vita ad Helena, non dirò
niente”, promise il
diciannovenne Miani.
Indossato
il mantello, Hironimo scivolò via furtivamente assieme
ad Eudokia e altrettanto circospetti rincasarono col medico chirurgo
giudeo,
comicamente ingoffato dalle vesti femminili e la barba nascosta dallo
spesso
velo bianco, fermato da una spilla.
“Perché
non mi avete chiamato prima?”, fu la domanda retorica di
Yonah bar Shemu'el, mentre srotolava dalla borsa di cuoio i suoi
arnesi,
scuotendo il capo dinanzi alla condizione deplorevole in cui versava la
partoriente. Si lavò le mani più volte, sfregando
bene tra le dita. “Lavati di
nuovo le mani e poi passa questa lama sulla fiamma viva”,
istruì la comare
levaressa, eletta a sua assistente e tramite, aggiungendo poi
sottovoce:
“Adesso io ti dirò cosa fare e tu esegui alla
lettera, se vuoi che questa
poveraccia arrivi viva a domani.”
La
levatrice annuì velocemente, lanciando una rapida occhiata a
madona Leonora, la quale piegò il capo in assenso. Aveva
previamente congedato
la figliastra, madona Regina e Chiara, invitandole a raggiungere gli
uomini con
la scusa ch’erano in troppe in quella stanza, rubando aria
preziosa ad Helena.
Quanto a lei, sarebbe rimasta fino alla fine con sua nuora, qualsiasi
fosse
stato l’esito.
Un’ora
dopo l’arrivo del medico chirurgo, madona Leonora usciva
per la seconda volta. “Femena! Femena! Femena!” e
con lo sguardo sfidò tutti i
presenti a non gioire di meno per via del sesso della neonata, specie
dopo aver
sottratto la puerpera alla morte per il rotto della cuffia. Il suo
fratellastro
sier Batista e suo genero sier Thomà furono tra i primi a
complimentarsi,
dimostrando quanto aver figlie non corrispondesse in fondo ad una
tragedia.
Hironimo,
dal canto suo, aveva preferito raggiungere sua madre,
insospettito dall’espressione affatto rilassata rispetto al
resto della
famiglia. “Mare, come sta Helena?”
La
patrizia lo afferrò per il braccio, appoggiandosi quasi di
peso
sul suo ultimogenito. “Lo sapremo al
mattino”, mormorò sfinita.
Al
dì della presentazione ufficiale dell’infante
Crestina, detta
Ina, madona Helena dovette ricorrere all’antico trucco di
pizzicarsi le gote,
onde renderle belle vermiglie e segno d’eccellente salute.
Sua suocera e le sue
sorelle Regina e Chiara l’avevano agghindata a guisa di
bambolina nella
speranza di celare il suo aspetto pressoché cadaverico,
rispondendo al posto
suo alla maggior parte delle domande e felicitazioni. Ciononostante,
malgrado i
bisbigli e le previsioni pessimistiche, la puerpera sopravvisse e,
seppur a
fatica, riacquistò gradualmente le forze. Il battesimo
tuttavia venne
ugualmente celebrato in casa.
“Sono
davvero grata che la levatrice abbia risolto … per un attimo
ho creduto sul serio di rendere l’anima
…”, confessò la ragazza un giorno ad
Hironimo, il quale le faceva compagnia, intanto che Marco aiutava la
moglie a
mangiare la minestra d’uovo.
“Avrebbe
potuto sbrigarsi anche prima”, bofonchiò invece
rancoroso
il marito, pulendole l’angolo della bocca. “In
quante erano dentro, tra
levatrice ed assistenti? Tre? Quattro?”
“Quattro”,
rispose la greca e prima che Marco potesse commentare a
riguardo, Hironimo la corresse dolcemente:
“Tre,
Helena, me l’ha confermato la mia siora Mare, tua madona. Si
trattava sempre della medesima assistente, solo che era scesa in cucina
per
prendere dell’altra acqua calda”, mentì
celere, forte del previo stato mentale
della cognata, la quale infatti cedette docile al suo ragionamento,
ammettendo
il suo errore frutto di una memoria confusa.
Dopodiché,
Hironimo inventò una scusa banale per sottrarsi alla
domanda già in procinto d’uscire dalla bocca di
suo fratello, deviando
scaltramente il discorso su altri argomenti.
Trascorsero
gli anni, laddove morte e vita s’alternavano.
Maria
Morexini aveva puntualmente sposato sier Zuanne Querini di
Stampalia e Amorgo, rifiutandosi però di seguirlo
nell’isola greca, adducendo
come scusa la sua celere gravidanza e sier Batista si beò
del suo nipote
Francesco Querini, bello, grasso e in salute perfetta. Peccato che
quando
arrivò il giorno di salpare da Venezia, ecco che la patrizia
era rimasta nuovamente
gravida della piccola Crestina (perché era nata lo stesso
anno della biscugina
Miani) e subito dopo ancora di Fantin, sicché si
rimandò ironicamente alle
calende greche. In realtà, Maria posticipava strategicamente
la partenza,
poiché aveva capito che, una volta attraccato a Stampalia,
ogni sua autorità
sarebbe svanita, costretta a sottostare a quella della suocera Juliana
Malipiero Querini. E poiché la Morexini possedeva la
medesima personalità
focosa, altera e imperiosa degli uomini della sua gens, o finiva per
gettare la
Malipiero giù da uno scoglio o si auto-esiliava ad Amorgo,
prospettiva che non
l’entusiasmava per niente. Di conseguenza, sfruttando le
persuasive arti
seduttive femminili, aveva convinto il consorte a restare a Venezia, a
crearsi
nella capitale utili amicizie e una reputazione invece di languire
semi-dimenticato in uno scoglio del Dodecaneso in mezzo
all’Egeo. Il suo
trionfo corrispose alla promessa di sier Zuanne di trasformare i due
edifici
distinti affacciati sul rio di Santa Maria Formosa in un unico vero e
proprio
palazzo gentilizio.
Sua madre
madona Morexina, nello stesso anno di nascita delle due Crestine, dava alla luce il suo ultimo figlio, nomato
anch’egli Francesco
e sier Batista, considerata l’età decisamente
avanzata della moglie, giurò
solennemente d’osservare una rigorosa astinenza (dal talamo
nuziale). Sier
Hironimo Morexini “da Lisbona” era lo stesso anno
morto, resuscitato e morto
ancora, sua cognata Ysabeta Erizo arrestata e poi rilasciata e la sua
inconsolabile
moglie madona Laura s’era prontamente risposata, donando
subito un figlio a
sier Ferigo Renier, Zuanne. Un altro Francesco Morexini nacque da sier
Thadio
cognato di sier Batista e da sua moglie Contarina Contarini Morexini,
biscugina
d’Hironimo. Regina Spandolin da Ponte ebbe
l’ennesimo figlio e si celebrarono
molte nozze, tra cui quella di Lugrezia Corner in sier Jacomo Contarini
di sier
Piero.
Sier
Andrea Miani q. sier Vidal morì pure lui nel 1505, alla
veneranda età di centoun anni e ben si poteva vantare di
averle viste davvero
tutte nelle vita. Le sue ultime parole furono che un poco gli era
dispiaciuto
indugiare così a lungo in questa valle di lacrime, avendo
seppellito pressoché
trequarti della sua famiglia originaria, nonché assistere
alle tremende vicende
che spesso assillavano la Signoria, rischiando più volte di
precipitarla nel
baratro. Se n’era morto contento, nel suo letto, ben satollo
dell’ultimo pasto,
confessato, comunicato e unto degli oli santi; circondato da parenti di
cui
manco si ricordava il nome e assistito dall’instancabile sua
nipote Maddaluzza,
ch’aveva visto nascere, crescere e invecchiare zitella.
Quanto ai
fratelli d’Hironimo, ormai erano lanciatissimi nella
vita pubblica e non li si vedeva quasi mai in casa: Lucha era partito
castellano a Brisighella, Carlo castellano alla Garzetta di
Brescia,
mentre Marco si preparava al prossimo incarico.
Soltanto
l’ultimogenito Miani era rimasto tra coloro
ch’erano
sospesi, indeciso su cosa fare della propria esistenza, menato di qua
e di là
dai flutti, senza meta, mentre attorno a lui ciascuno danzava o con
sorella
Morte o con sorella Vita, a seconda del voler di Missier Domeneddio.
Chi
condivideva tal perplessità sul suo destino era sua cognata
Helena. Dopo Anzolo e Crestina non era stata benedetta da alcun altro
pargolo,
malgrado le palesi prove dell’impegno suo e di Marco di
regalare ai due un
terzo fratellino.
Col
passare del tempo, la greca aveva incominciato a manifestare
segni d’afflitta irrequietezza, la medesima che Hironimo le
aveva scorto al
loro primo incontro. Invano la spronava a confidarsi, come una volta,
offrendole il suo supporto: sua cognata scuoteva il capo, cacciando via
le
perenni lacrime che le velavano gli occhi. Al funerale della povera
madona
Pellegrina Muazzo Miani, morta di parto nel dare alla luce il suo
secondogenito
Vidal, Helena aveva singhiozzato più forte del vedovo sier
Alvixe e quando
quest’ultimo morì poco dopo a Rimini, dove si
trovava in qualità di capitano
delle navi della Riviera della Marca, ella avvertì un
pesante malore e svenne
nella cappella funeraria dei Miani a Santo Stefano,
nell’esatto momento in cui
collocarono la bara di sier Alvixe nella sua arca accanto a quella
della
moglie, sigillandola. Maddaluzza Miani l’aveva incoraggiata,
rasserenandola
sulla sorte dei due orfanelli, rimasti orbati anche dello zio Piero Grioni, annegato in mare, credendo che la greca si tormentasse per
loro: non v’angustiate, mi
prenderò cura io del puttino e della
puttina! Non li farò mancar nulla, sarò per loro
padre e madre!, aveva
dichiarato davanti all’intero parentado,
nell’intimo contenta d’avere
finalmente quei figli negatigli dal mancato
matrimonio.
A tali
parole Helena annaspò, reggendosi il ventre si
piegò in due
e pianse più forte.
In ugual
maniera si dannava Marco, non comprendendo
quell’improvvisa malinconia: sua moglie non rideva
più, giungendo talora ad un
inquietante mutismo, lo sguardo perennemente abbassato da cane
bastonato; nulla
la interessava, perdendo gusto di ogni svago, abbandonando perfino le
visite a
madona Maria e alle altre cugine Morexini. Neppure il breve periodo
trascorso
ad Asola le aveva giovato e appena rientrati a Venezia, lei
s’era prontamente
murata viva in casa. Indossando unicamente i larghi
e comodi abiti
della sua terra natale, Helena se ne rimaneva in camera sua senza
vedere e parlare
a chicchessia, tranne alle sorelle Regina e Chiara e ad Hironimo,
l’unico sul
cui petto Zanzi ed Ina si calmavano, suggendo serafici il pollice e
l’altra
manina artigliata o ad una ciocca dei suoi capelli o allo scollo della
camicia.
Crescendo i due bambini avevano cessato di succhiarsi la falange,
però non di
richiedere la presenza del loro barba, al momento di coricarsi a letto
o per
giocare.
Inutilmente
tentava il ragazzo d’ammansire Marco, scopertosi
geloso di quella palese predilezione dei figli – specie il
maschio
- nei confronti dello zio. “Di recente sei
sempre nervoso, agitato,
collerico: Zanzi e Ina lo percepiscono e di
conseguenza si
spaventano”, gli spiegò paziente una sera, quando
il maggiore l’aveva scorto
tenersi in braccio la dormiente nipotina, mentre conduceva a manina
Anzolo da
Helena, acciocché li mettesse a nanna. “Zanzi ed
Ina ti vogliono bene, devi
solo controllare il tuo umore.”
“An,
così saresti un esperto di bambini adesso”,
replicò aspro
Marco, la fronte aggrottata e le mani poste bellicosamente ai fianchi.
“Che
sei? Una femmina travestita?”, lo dileggiò e un
rictus nervoso attraversò
l’occhio sinistro d’un alterato Hironimo.
“Ma
va’ en mona de toa suocera!”, sputò egli
irritato, girando sui
tacchi, sennonché suo fratello
l’agguantò per un braccio, costringendolo a
voltarsi e a guardarlo dritto in faccia.
“Se
tanto ti preme allevare fantolini”, sibilò
furioso, “fanne di
tuoi, non andare in giro a rubare quelli degli altri!”
Hironimo
spalancò la bocca, strabuzzò gli occhi,
imporporandosi
sdegnato, le mani che gli prudevano dalla voglia di scarnificare a
ceffoni le
guance di Marco. “Padre è chi cresce il puto, non
chi lo genera! E non mi fare
il geloso: tu manco la volevi la femmina! Ché non mi sono
accorto della tua
espressione delusa?”, gli rinfacciò astioso,
scrollandosi via di dosso la presa
del maggiore e dirigendosi di filato in camera sua dove
pigliò il suo mantello,
tallonato spietatamente dal fratello. “In tutta
onestà, Marchetto, quanto tempi
trascorri coi tuoi figli?”, l’accusò,
scendendo a due a due le scale. “Eri lì
ad aiutarlo, quando Zanzi ha imparato a camminare? O quando ha
incominciato a
parlare? Gli insegnerai l’abc oppure accamperai
l’ennesima scusa per delegare
l’onore a tua mojer? Ed Ina? Manco t’accorgi
ch’esiste!”
“Scusa?
Quale scusa? Sangue di Cristo, mentre tu ti trovavi qui a
Veniexia a poltrire e a sgavazzare, io guadagnavo il pane per voialtri
come
vice-castellano ad Asola, credi che stia fuori casa a
menarmela?!”, ringhiò
scocciato Marco, braccato infine il minore al portego del pianoterra.
“Guarda
che Mare ed io v’abbiamo tenuto i fantolini,
perché tu non
volevi che Helena li portasse seco! Sul serio possiedi la memoria
corta
dell’ingrato, zò!”, gli
ricordò pedante Hironimo, sistemandosi la gorra in
testa e uscendo dal portone d’ingresso che dava sulla strada:
avrebbe camminato
al primo imbarcadero e lì salito su di una gondola o
sandolo, troppa la sua
impazienza per aspettare i porci comodi del loro pope de casada.
“Non
li ho voluti, perché mi sembrava ovvio quanto fossero troppo
piccini e delicati per compiere un tal viaggio! E comunque, signorino,
non
rigirare la frittata, cambiando discorso: crescere i bambini piccoli
è il
compito della siora mare, non del sior pare. Quindi fatti un tegamino
di cazzi
tuoi e non t’immischiare!”
Hironimo
si fermò in mezzo al ponte, i pugni serrati
convulsamente. Avrebbe voluto urlare tante cose a quel tordo e cieco di
suo
fratello, avrebbe voluto urlargli che se non fosse stato per il suo
sostegno,
Helena avrebbe finito per soccombere dinanzi al peso del suo malessere,
aggravato da quello dell’educazione di Zanzi ed Ina. Non
capiva che sua moglie
non stava bene? Non scorgeva in lei la sofferenza,
l’angoscia, la malinconia
che giorno dopo giorno la stavano consumando dall’interno? Se
Hironimo non
riusciva a cavar di bocca alla cognata la ragione alla base di tal suo
comportamento, almeno poteva sostenerla compartendo il ruolo
d’educatori,
offrendole un po’ di respiro. Perché non riusciva
Marco a comprendere un concetto
così basilare?
La
verità è che per lui aiutare Helena non
corrispondeva ad un
gran sacrificio: adorava Zanzi ed Ina, così come aveva amato
Dionora e Gasparo
prima di loro. Assistere ad ogni piccolo progresso dei nipoti, vederli
spuntare
i dentini, ascoltare la prima lallazione, guidarli nei loro incerti
passettini,
sentire il loro cuoricino accompagnare il battito del suo cuore e la
tiepida
carezza del loro respiro solleticargli la nuca … Hironimo
non capiva perché i
suoi pari preferissero perdere tutto questo in nome di altre sterili
occupazioni, delegando alle mogli e alle balie tali preziosi istanti,
che mai
più si sarebbero ripetuti. C’era tempo per
l’alta carriera politica, tutta la
mezz’età!
Aver
figli suoi … certo, Hironimo l’aveva considerato e
lo progettava
anche, appena se ne fosse presentata l’occasione propizia.
Sognava d’averne
tanti, tantissimi, una marea …
“A
cosa debbo questa tua visita improvvisa?”, la voce della sua
amante lo destò dalle sue rêveries, cullato
com’era dalla mollezza post-amplesso
e il tocco rilassante delle dita di lei, che gli massaggiavano lo
scalpo in
dolci cerchi regolari, finalmente placatasi la tempesta
dell’animo suo. Le era
infatti piombato in casa e, fatto raro per lui solitamente
così amorevole e
premuroso, l’aveva baciata e posseduta con
un’irruenza alla nobildonna
sconosciuta, neppure preoccupandosi di spogliarla, limitandosi ad
alzarle le
sottane e di prenderla contro il muro. Non violento né
minaccioso, bensì alla
stregua d’un condannato a morte che si piglia
l’ultimo piacere terreno.
Hironimo
levò la guancia dall’addome di lei, sorridendole
imbarazzato. “Vi ho fatto male?”,
s’informò un poco ansioso, sospirando
sollevato al cenno di diniego da parte di quell’altra.
Riappoggiò il capo,
tracciando arzigogolati arabeschi sulla pelle bianchissima della
nobildonna,
giocherellando coll’ombelico e strappandole qualche risolino.
“Non desideravo
mancarvi di rispetto poc’anzi: mi perdonate?”, si
scusò, in realtà omettendo la
vera domanda che lo assillava, ossia come avrebbe la sua amante reagito
se un
giorno Hironimo avesse perduto il controllo, se non avesse interrotto
l’amplesso al momento giusto, sfilandoglielo prima di
riempirla del suo seme;
se avessero di conseguenza concepito un figlio. Lei
gliel’avrebbe comunicato e si
sarebbero sposati? Oppure gliel’avrebbe taciuto ed esposto
l’infante alla
ruota, se non direttamente
sbarazzatasi d’esso ingerendo della ruta?
Se quest’ultimo accorgimento lei non lo stesse già
prendendo …
Tanto
facilmente Hironimo chiese ed ottenne il perdono della sua
domina, tanto difficilmente i due fratelli si riconciliarono, due teste
talmente dure da competere con le statue d’Egina, a confronto
fragili balocchi
in terracotta. Senza la presenza mediatrice di Lucha e di Carlo, in
casa loro
erano rimasti gli unici uomini e naturalmente finivano per beccarsi,
incapace
l’ultimogenito Miani d’accettare
l’autorità di chi gli era maggiore di appena
cinque anni.
Sicché,
per non causare inutili questioni, il giovane uomo aveva
deciso di frequentare di più i suoi amici, rimanendo il meno
possibile a casa e
di soffocare quella fitta al cuore, ogniqualvolta ignorava le richieste
di
Zanzi ed Ina di giocare con loro. Forse Marco aveva
ragione: i suoi
nipoti non erano roba sua, al massimo di Madre, loro nonna paterna.
Crescendo i
fantolini si sarebbero dimenticati del loro speciale legame e avrebbero
apprezzato di più la compagnia del loro genitore, come
giusto che fosse.
Scandagliando i suoi ricordi d’infanzia, Hironimo aveva
ammesso che anche Padre
mal sopportava quando suo figlio s’attaccava alla toga del
suo barba Batista,
sollevandolo via di peso e soffiando peggio di una gatta, tra le risate
di
Madre.
“Barba
Momi …”, si sentì il ventiduenne
patrizio punzecchiare
all’improvviso sui fianchi, destandolo dal sonno pesante del
dopo-sbornia.
Maledetto Francesco Contarini e le sue divertentissime feste fino
all’alba,
niente e nessuno avrebbe salvato Hironimo da una lavata di capo per
esser
rincasato ad un orario sì indecente, puzzando peggio
d’una distilleria di grappa
friulana. Manco s’era accorto d’essersi disteso
accanto al gatto Baffo,
ch’aveva occupato il suo posto, anch’egli tornato
dalle sue avventure notturne,
tra cacce ai topi e combattimenti per le femmine. “Sveja!
Barba Momi, su sveja,
sveja …”, non cessò per un istante quel
tormenta-cristiani.
“Va’
en malhorra! Lasseme star!”, grugnì il giovane,
emergendo a
guisa di tartaruga candiota da sotto le coperte, serrando dolorosamente
gli
occhi, feriti dalla vivida luce del mezzodì. Diamine,
quant’aveva dormito?
“Barba
Momi!”, saltellava adesso sul materasso Zanzi, imperioso,
imitato da sua sorella Ina. “Vegni! Vegni! Vegni!”,
ripeteva ad ogni balzo. Il
gatto Baffo, fino a quel momento tranquillo e spaparanzato,
balzò giù irritato,
stiracchiandosi e cercando altrove un posto dove dormire indisturbato.
“Vago,
vago, vago!”, replicò a tono Hironimo,
accomiatandosi dal
tepore del suo letto, lavandosi in fretta ed infilando di malavoglia
camicia,
braghe e zipone. Pigliato per mano i nipotini di rispettivamente tre e
quattro
anni, si lasciò condurre fino alla porta della stanza dei
genitori.
“Mama
xé drento”, gli indicò serissimo il
fantolino.
“El
Tata?”
Zanzi
scrollò le spallucce. “Via”, disse,
cambiando impaziente
peso da una gamba all’altra. Sua sorella Ina
annuì, gli occhioni grigi
spalancati e apprensivi.
Perplesso
da quel bizzarro teatrino, Hironimo bussò educatamente
alla porta, avendola trovata infatti chiusa.
“Helena?”, chiamò la cognata,
alternando ai battiti. “Helena c’è qui
il Zanzi e l’Ina che vorrebbero entrare,
per favore, potresti aprire …?”
La voce
soffocata della greca l’apostrofò snervata:
“Dopo, dopo!
Adesso non posso, ho da fare!”
“Giuro
che non entro, se sei ancora in camicia!”,
sdrammatizzò
Hironimo, contento di non essere l’unico poltrone a
Ca’ Miani. “Ma i tuoi
petussi (pulcini, ndr.) sono qui davvero preoccupati, vero?”
“Sì!”
“Ditelo
alla Mama!”
“Mama!
Mama! Verzi ea … ea …”, e Ina si
portò pensierosa il ditino
alle labbra, scordatosi dalla concitazione il termine giusto.
“Porta”,
le suggerì sottovoce lo zio.
“
… porta!”
“Dopo!”,
ripeté ostinata sua madre, il tono modulato d’un
timbro
sospettosamente isterico. “Perché non lo
capisci?!”
Il
giovane patrizio aspirò l’aria, adesso
genuinamente in ansia
per la cognata. Sicché, appoggiate le mani sulle schiene dei
nipotini,
l’accompagnò tramite moine e promesse in cucina,
affidandolo alle cure di
Zanetta.
Se da una
parte Hironimo avrebbe d’istinto sfondato a spallate la
porta, dall’altra giudicò sciocco lussarsi
l’arto e buttar via i soldi dal
maragon, per sostituirla con una nuova. Non quando l’ognora
previdente Orsolina
conservava un doppione di ogni chiave di casa e di fatti
l’anziana domestica ed
Hironimo così entrarono, per poi gelare sul posto alla vista
d’Helena seduta
per terra, la gonna sollevata abbastanza da intravedere le cosce
insanguinate
mentre la sua fantesca Cleofe le porgeva dei panni puliti. Ambedue le
donne
sobbalzarono impaurite non appena s’accorsero dei nuovi
arrivati, la serva
ponendosi protettivamente tra loro e la padrona.
“Maria
Verzene ora pro nobis”, si segnò Orsolina, subito
girandosi
verso un interdetto Hironimo, che al contrario non aveva capito niente,
tranne
che sua cognata sedeva su di una pozza di sangue. “Patron
Momolo, gh’avé horra
da ussir, ve ciamarò mi co’
gh’avarò finio, saveu?” e lo
sbatté fuori dalla
stanza senza tante cerimonie.
Una volta
riammesso, Helena era stata ripulita e posta a letto, la
camera arieggiata malgrado l’odore ferroso del sangue
indugiasse ancora, seppur
labilmente.
“La
siora vuostra cugnada la gh’ha perduo ea creatura”,
gli
sussurrò all’orecchio Orsolina, la quale teneva in
mano una scatoletta avvolta
in un telo. “Co’ no la gera massa granda, no va far
gran dano”, aggiunse,
rassicurando il padroncino su quel punto. “Mi vago zoso en
cocina, se gh’avé
besogno de mi, ciamème pur.”
Hironimo
annuì distrattamente. Si sedette accanto alla cognata,
stringendo la mano di lei, fredda e umidiccia, tra le sue.
“Come ti senti?”,
inquisì cortese.
Helena
abbozzò ad un sorriso stanco. “Passerà,
non hai ascoltato
l’Orsolina? La creatura era ancora piccina-piccina, neanche
me ne sono accorta
veramente, tranne quando … quando …”,
si voltò dalla parte opposta, soffocando
a stento un singhiozzo. “Perché Theos mi sta
punendo così?”, balbettò tra le
lacrime, la voce soffocata dal pianto.
Deglutendo
a disagio, Hironimo si sforzò di consolarla.
“Forse non
era il caso che nascesse, perché …
perché magari era ammalata e … e molte donne
perdono i figli avanti il parto, sono … sono cose che
capitano … Ma Helena!”,
la consolò, scuotendole la mano. “Sei giovane,
bella, in salute
e Marco ti ama moltissimo! Hai perso questo, ne
avrai altri!
Probabilmente la morte di Alvixe e Pellegrina ti ha scossa
più del dovuto;
questa casa in effetti sembra essa stessa un sepolcro tanto
è divenuta cupa,
silente e soffocante, non aiuta certo! Parlerò con mio
fratello e gli chiederò
di portarti meco a Trevixo, a cambiar aria! E quando ti sarai rimessa,
vedrai
che il prossimo anno organizzeremo un battesimo!”
La greca
negò veementemente, tirando su col naso. “Non ci
riesco
…”, ammise, il viso contratto in una smorfia di
pura agonia. “Dopo Christina …
dopo lei … non sono più stata capace di tenerne
neanche uno …” e la sua mano
libera artigliò la coperta all’altezza del ventre,
quasi volesse scavare e squarciare
il traditore.
Suo
cognato impallidì fino al cinereo. “Non era
… non era il
primo?”, ansimò incredulo e al contempo ogni
tassello di quell’incomprensibile
mosaico s’incastrò perfettamente, conferendo una
perfetta logica dietro ogni
comportamento della giovane donna. Ecco dunque spiegati i malumori, la
magrezza, quell’aria vergognosa di chi nascondeva una grave
colpa, l’eccessivo
dolore ai funerali di madona Pellegrina e del marito …
“Tutti”,
boccheggiò Helena, il respiro irregolare e tremulo,
“tutti da quando abbiamo ripreso a …”
“Marco
n’è al corrente?”
Sua
cognata sbarrò gli occhi, terrorizzata all’idea.
“No, e non
deve saperlo!”, lo supplicò, stringendogli forte
la mano fino a conficcargli le
unghie nella carne.
“Ma
… ma …”, tentò di ribattere
Hironimo, non condividendo
quell’ingiusta omissione ai danni dell’ignaro
fratello, il quale si tormentava
in ugual misura dinanzi all’inspiegabile e improvvisa
selvatichezza della
moglie nei suoi confronti. Meglio che si compartisse la notizia,
acciocché egli
si mettesse l’animo in pace, piuttosto di lasciarlo macerare
nel dubbio di ben
peggiori ipotesi.
Peccato
che la greca non condividesse questo suo parere. “Che se
ne fa Márkos di una moglie difettosa, che non può
partorirgli i figli che le
mette in grembo?”, dichiarò ella angosciata,
piangente. “Cosa si dirà in giro?
Che avrebbe fatto meglio a prendere una del suo paese, non
un’inutile
straniera! Márkos mi ripudierà, non mi
vorrà mai più vedere!”
“Mo’
via, non viviamo più ai tempi degli Ezzelini!”, la
contraddisse
Hironimo, sudando freddo dinanzi a quell’impietoso eppure
realistico scenario,
ché la cattiveria della gente superava di continuo ogni
ardita fantasia.
L’ultimo nipote di Helena, Andrea da Ponte, era nato
sciancato e pertanto
condannato tutta la vita a claudicare, sicché prima ancora
del suo nome di
battesimo aveva ricevuto il soprannome di “Zotto” e
già si speculava sulla sua
malformazione come palese segno di malvagità e natura
diabolica, originaria
forse dall’insincera abiura della fede greco-ortodossa da
parte della madre
levantina.[1]
“Il
vostro matrimonio è più che consumato, avete
avuto due figli
in perfetta salute. Mio fratello non potrà mai ripudiarti,
neanche se lo
volesse e anche in quel caso, lo prenderemo a pugni in testa
affinché rinsavisca!”,
sdrammatizzò Hironimo.
“No,
non capirebbe”, s’intestardì Helena,
scuotendo il capo.
“Vedrebbe in me soltanto un fallimento di madre. Un peso, una
palla al piede.
Mettendo caso” e inconsciamente si segnò
all’ortodossa, privilegiando la spalla
destra invece della sinistra, “Theos e la Parthena Maria non
vogliano, però …
però mettendo caso che Angelos non sopravviva
all’infanzia? Che gli rimanga
solo Christina? Come riuscirà allora mio marito ad ottenere
degli eredi maschi
e legittimi? Certo, se vuole dei figli ne potrà avere o di
naturali o dei filii
de anima, i quali tuttavia non avranno mai il diritto di
sedere a Palazzo
Ducale tra i loro pari! Guarda tuo cugino Andreas di tuo zio Ioannes
Baptistes:
ad Aleppo s’è dovuto installare, perché
qui non ce n’era per lui! E così per
colpa mia e di questo dannato mio ventre, Márkos si
ritroverà condannato a non
aver discendenza maschile e rimpiangerà di non aver
ascoltato la sua gente,
quando l’avvertiva: moglie e buoi dei paesi tuoi! Forse
all’inizio non ci baderà,
ma poi finirà per odiarmi, lo so!”,
gridò, singhiozzando forte, i cancelli
della sua anima finalmente aperti e permettendo al pus cancrenoso delle
sue
insicurezze ed intime paure di fuoriuscire, togliendosi dalle spalle
quel
macigno portatosi per anni addosso.
Per
quanto ingiusti e strazianti, i timori di Helena non
apparivano infondati: similmente alla polis d’Atene, a
Venezia soltanto il
figlio legittimo di due patrizi a loro volta nati legittimi poteva
aspirare
alle cariche politiche, Hironimo ben si sovveniva del giorno in cui
Madre lo
aveva accompagnato in Avogaria Comun per registrarlo alla Barbarella,
confermando sotto giuramento la sua nascita all’interno di
regolare matrimonio
e pure portando a fideiussori i suoi padrini sier Jacopo Barbaro e sier
Beneto
Contarini. [2] In seno alla loro gens viveva poi l’esempio
lampante e pratico
di suo cugino germano Andrea Morexini, soprannominato
“Vendramino” giacché nato
proprio il giorno dell’incoronazione a Doge del fu sier
Andrea Vendramin [3] e
soprattutto quando ancora suo zio Batista risultava scapolo: la zia
Morexina
non aveva biasimato nessuno, accettando di buon grado il figliastro e
crescendolo amorevolmente assieme ai suoi. Ciononostante tutti sapevano
benissimo come Andrea sarebbe stato considerato per sempre un figlio di
seconda
categoria rispetto ai fratellastri legittimi, costretto a cercare
altrove
fortuna e a costruire da sé il proprio posto nel mondo.
In quale
modo avrebbe reagito Marco alla notizia
dell’incapacità
d’Helena, di portare a termine qualsiasi gravidanza futura?
Suo fratello avrà
sì posseduto un caratteraccio, però non
apparteneva alle categorie delle
carogne senza scrupoli, sebbene i suoi recenti comportamenti avessero
spiazzato
non poco Hironimo, anche perché in fin dei conti il maggiore
rimaneva comunque
un ambizioso e qualora gli si fosse balenata in testa l’idea
di presentare una
petizione di separazione al tribunale del Patriarca, indubbiamente
Marco
avrebbe smosso cieli e terra per porre fine al suo matrimonio,
determinato come
pochi.
D’altronde,
Hironimo possedeva occhi per veder e non gli era
sfuggito il disappunto nel volto del fratello, seppur abilmente
dissimulato,
alla notizia d’esser divenuto padre d’una bambina.
Al momento di sceglierle il
nome, Marco aveva optato per Crestina, come sua nonna paterna e la sua
sorellastra, giustificandosi che già sua nipote
s’appellava Leonora e dunque
non desiderava che si creasse ulteriore confusione. In
realtà, scegliendo il
secondo nome femminile più importante, inconsciamente aveva
dimostrato quanto
gli scocciasse il doversi tormentare negli anni a venire di provvedere
a un
decoroso futuro a quella bimba. Avevano buon gioco quegli splendidi dei
suoi
zii a fargli la predica: tanto, loro quattrini per le doti laiche li
avevano e
in abbondanza.
Cingendo
la cognata per le spalle e permettendole di sfogarsi
piangendo contro il suo petto, Hironimo soppesò ogni pro e
contro circa
l’informare suo fratello di tal tremenda novità.
Possibile che la sua famiglia
non potesse trovare un attimo di respiro? Perché Dio si
divertiva a tormentarli
così?
“Innanzitutto”,
esordì, massaggiando le braccia di Helena in
movimenti circolari, “Zanzi gode d’eccellente
salute e sicuramente crescerà nel
più bel giovinotto, che si sia mai visto a Veniexia,
rendendoti nonna di una
cernida di nipotini! Secondo, se anche dovesse rimanere soltanto Ina,
vorrà
dire che diverrà un’ereditiera e
convolerà a nozze importanti, divenendo madre
di un’illustre discendenza. Terzo, non
è detta l’ultima parola:
forse avete ripreso a tentare troppo presto per un terzo figlio, specie
dopo un
parto così difficile. Magari rivolgendoti ad una qualche
baba curandera, si
potrebbe trovare il modo di … di riuscire a portare a
termine la gravidanza.”
Helena
s’asciugò le lacrime col dorso della mano,
ascoltando
attenta e sforzandosi di mantenere uno spirito saldo.
“Quarto”,
continuò Hironimo, accarezzandole i capelli, “devi
dirlo
a Marco: prima o poi lo verrà a sapere e credo che
soffrirà di meno, se
l’apprenderà da te che da terzi.”
“Quando
sarà, gliene parlerò”, convenne
sibillina la greca.
Non
proprio la risposta che suo cognato voleva udire, nondimeno
s’accontentò, reputando prematuro ogni immediato
provvedimento. In questo
momento, la giovane doveva badare a recuperare le forze sia fisiche che
mentali, riappacificandosi con la sua coscienza e
poi forse si
sarebbe confrontata col marito.
“Orsolina!
Che ne hai fatto del … della scatola?”, prese in
disparte il Miani l’anziana fantesca appena sceso
giù nelle cucine, sfruttando
la scusa d’avvertire Nardo il cuoco come madona Helena
avrebbe desinato in
camera sua e di prepararle del semplice petto di piccione alle erbette,
giunto
a del pane bianco e niente vino. Madona ha i vermi
allo stomaco, aveva
giustificato la peculiare richiesta.
“La
gh’ho ancor meco”, sussurrò Orsolina,
guardandosi furtiva
attorno. “Co’ vien note, gh’ea buto en
canal.”
Hironimo
aggrottò la fronte, mulinando l’indice in diniego.
“No,
dalla a me. Lo troverò io un posto dove
seppellirla.”
“No
ve molesté, patron Momolo. Nol gh’ha gnanca forma
d’omo”, gli
sconsigliò la domestica, pur sorridendo triste, comprendendo
la motivazione
dietro quel caritatevole gesto.
Testardo,
il ragazzo reiterò: “Ma rimane carne umana, che
merita
una sepoltura da umani, non di finire cibo per seppie e
calamari.” D’altronde,
la creaturina era così piccola, lunga nemmeno un mignolo, un
angolino nascosto
nell’isola di San Michele gliel’avrebbe trovato.
Similmente
a Pandora, durante il tragitto, Hironimo aveva ceduto
alla curiosità e aperto con mani tremanti la scatolina,
contemplando a lungo
quell’esserino: neanche gli pareva un infante,
bensì uno di quei girini scovati
negli stagni, quando da piccolo si divertiva a catturare le rane per
poi
portarle a Nardo acciocché le friggesse. Così
piccino, così … neppure il sesso
poteva determinare, cosa sarebbe stato? Un maschietto? Una femminuccia?
Uno
strano pensiero sorse in mente al giovane: poteva
quell’amorfa creatura
considerarsi abbastanza umana, da venirle negato il
Paradiso? Se ai
bimbi nati morti e senza battesimo, eppure formati, veniva negata la
sepoltura
in terra consacrata, era degno quel girino antropomorfo di finire
sottoterra?
Oppure Orsolina aveva ragione, avrebbe dovuto gettarlo in canale? In
fondo la
natura stessa l’aveva scartato e comunque gli animali
l’avrebbero ugualmente
divorato, indifferentemente se fosse stato o un pesce o un verme.
Hironimo
seppellì suo nipote in un angolo nascosto del giardino
dell’abbazia accanto alla Chiesa di San Michele in Isola. Non
gli era risultata
difficile l’ammissione, anche se apparteneva ad un altro ramo
del casato Miani,
ugualmente i monaci camaldolesi lo avevano accolto ben volentieri,
memori del
generoso lascito di madona Margarita Vituri relicta Miani,
acciocché vi si
costruisse una cappella a Santa Maria Annunziata in memoria del defunto
marito
[4]. Il ragazzo si domandava se le piante lì avrebbero
tratto nutrimento da
quel grasso concime, crescendo rigogliose grazie ad un corpicino troppo
debole
per farlo da sé. Si chiese se ritornando dopo qualche tempo
e annusando i
profumi dei loro fiori, egli avrebbe sentito anche quello del nipote
senza
volto. Dafne, Mirra, Narciso, Giacinto … anche lui aveva le
sue Metamorfosi in
famiglia. Hironimo terminò il lavoro staccando un fiorellino
dal ramo,
posandolo sul tumulo, talmente piccolo da sembrare l'entrata della tana
di una
talpa, semicelato dalla tomba dimenticata di Stefano “il
Postumo” Arpadi,
marito della sua antenata Thomasina Morexini “dalla
Sbarra”, duchessa di
Slavonia e madre del re Andrea III d’Ungheria detto
“il
Veneziano”.[5]
Orsolina,
nuova complice, venne messa al corrente dell’idea del
suo padroncino, di consultare qualche baba curandera onde risolvere il
problema
d’Helena. La massera ci meditò sopra a lungo, per
poi sentenziare che
sicuramente a Venezia di tali fattucchiere ne esistevano in
grand’abbondanza,
tuttavia giudicava più prudente cercare fuori
città, specie se Marco ancora
restava all’oscuro della faccenda (e qui la donna lo
guardò di traverso in
disapprovazione).
La
fantesca pertanto consigliò i due giovani di rivolgersi a
Mamma
Gaia, comare levaressa e in generale fattucchiera di
qualità. La sua
siora Mare – aveva rivelato ad
Hironimo - ha fatto
nascere i vostri fratelli . L’unico
problema rimasto era
persuadere Marco a lasciarli partire alla volta della Marca Trevigiana
senza
porli troppe domande pericolose; a tal proposito giunse provvidenziale
l’intervento di Madre, la quale aveva esplicato al figlio la
sua intenzione di
visitare il santuario di Santa Maria Maggiore e lì pregare
dinanzi al
miracoloso affresco della Devotissima Nicopeia. Il tutto mentre madona
Leonora
fissava severa Hironimo, un’imbarazzata Orsolina alle sue
spalle, tacita
ammissione d’aver spifferato il loro piano alla padrona.
A Treviso
Mamma Gaia abitava poco distante da Porta San Teonisto,
in quel tratto di mura dove scorreva un canale derivato dal Sile e
nomato di
Cantarane. Una casetta modesta, però pulita e accogliente,
dove permaneva un
costante odore d’erbe. Ovviamente Hironimo se n’era
dovuto rimanere fuori ad aspettare,
fintanto che la comare non aveva terminato la sua visita alla cognata.
“Ci
rechiamo alla Madona Granda”, gli annunciò Madre
una volta
uscite, “vieni anche tu?”
“No,
preferisco fare un giro in Piazza”, declinò
l’offerta il
ragazzo, ignorando l’espressione delusa della genitrice, la
quale convenne
mesta, incamminandosi verso il santuario assieme alla nuora e alle
rispettive
fantesche.
“Patron”,
lo chiamò da dietro Mamma Gaia, bloccandolo,
“vistò che
gh’avé spetà fora fin desso,
vegné drento che ve dago un giozzeto d’acquavite
calda. Xé roba bona, saveu?”, gli fece
l’occhiolino la donna, invitandolo ad
accomodarsi davanti ad un modesto caminetto.
Il tepore
della fiamma, unito a quello della bevanda alcolica al
ginepro e miele, riscaldarono ogni fibra del corpo infreddolito
d’Hironimo, non
avendo creduto Treviso così fredda rispetto a Venezia:
l’aria stessa possedeva
il medesimo retrogusto ferroso delle montagne, neanche il giovane
avesse
ingoiate lame. La levaressa girava i ciocchi di legno con
l’attizzatoio,
ravvivando di tanto in tanto la fiamma, la cui luce creava soffusi
chiaroscuri,
conferendole una ieraticità da sacerdotessa e magari nei
tempi antichi
pre-romani l’avrebbero pure considerata tale,
un’ancella della dea madre,
Reitia potnia theron. [6] Doveva essere sulla trentina abbondante,
ciononostante il suo volto non dimostrava affatto la sua
età, giovanile e
indecifrabile, i capelli raccolti da uno stretto sciugatorio, gli occhi
vivaci
e scrutatori, la bocca vermiglia e un seno prepotente a malapena
nascosto dallo
zendale, talmente eretto, pieno e sodo che per un fuggevole istante
Hironimo fu
assai tentato di nascondervi il volto e strizzarglielo fuori dal
corpetto.
Il
giovane uomo deglutì a disagio, girandosi
dall’altra parte e
dandosi mille volte del caprone infoiato.
“M’arecordo
di la vuostra nassita”, ruppe Mamma Gaia il silenzio,
“la siora mia Mare la gera massa vecia par viajar a Feltre,
en autuno po’!
Vossioria gh’aveva ‘na tal pressa d’ussir
fora, che la vuostra siora Mare no la
gh’ha sentio squasi gnente, chome se vu l’amavasse
zà cussì tanto, da no
volerghele dar alcuna pena” e rise mostrando bene una
compatta fila di robusti
denti straordinariamente intatti e il patrizio
s’unì a lei, seppur un pelino
imbarazzato dall’argomento di quella discussione.
“Vuostra sorea, inveze …”,
s’incupì la levaressa, chetandosi bruscamente e
sputando sul fuoco la bacca di
ginepro cadutale per sbaglio nella bevanda.
Hironimo
sapeva d’aver avuto dei fratelli premortigli, del cui
volto non poteva sovvenirsi purtroppo neanche l’ombra di un
sogno, spiriti
leggeri custoditi nel cuore di Madre e di chi poteva ancora ricordarsi
della
loro brevissima esistenza.
“Seu
stà vossioria a consejar a madona di vegnir qua?”
“Siorasì.”
Mamma
Gaia si sporse in avanti verso di lui, puntandogli contro
gli occhi del medesimo colore del Sile, studiando immobile e
imperscrutabile i
lineamenti del volto del ragazzo. “Saveu? Co’ ve
vardo, a me par star davant’a
do omeni, on da ben et on malguajo (malvagio, ndr.), i qualli se ciapan
a crognoli
(pugni, ndr.) per tuorre dominio sora vossioria.”
Hironimo
posò stizzito il bicchiere sul tavolo, interrompendo
quello sconclusionato monologo. “Mia cognata, piuttosto. Sei
riuscita a curare
il suo malanno?”, le chiese spiccio.
Mamma
Gaia abbandonò la sua posa indagatrice, alzandosi dalla
carega e, preso il bicchiere del patrizio, glielo riempì.
“Le gh’ho consejà di
bevar di la camamila, par repossar i nervi. Co’ la mare la
stà serena, el bocia
nasse pì fassilmente. Depì, la gh’ha
d’orar la Devotissima a Santa Maria Mazor,
cognomata de’ Miracoli.”
Un brutto
presentimento raffreddò le viscere del giovane Miani, il
quale manco s’accorse d’essersi ustionato la lingua
nel sorseggiare troppo in
fretta la bevanda calda. Quasi gli leggesse nei pensieri, la comare
levaressa
aggiunse: “Vossioria, no dié la colpa al medego
zudeo: el gh’ha dato ordene de
ras-ciare drento vuostra cugnada a la perfetion, anca massa,
azzò no la
ciapasse niuna infetasion.”
Eliminando
a viva forza ogni immagine mentale provocatagli dalle
schiette e brutali parole della donna, Hironimo osò infine
pronunciare la tanto
temuta domanda: “Ma riuscirà o no a partorire un
figlio vivo?”
“Nol
podevo dir de no a
madona”, fu la secca e al
contempo compassionevole risposta di Mamma Gaia.
“Alla
fine mi sorge il dubbio, se abbia o meno compiuto la scelta
giusta facendo convocare il medico chirurgo”,
confessò all’improvviso madona
Leonora all’ultimogenito, tirandosi su la coperta di lana
sulle ginocchia.
Dopocena,
madre e figlio si erano trasferiti davanti al grande
caminetto della loro casa a Treviso, cucendo la prima e giocherellando
da solo
a carte il secondo. Zanzi ed Ina avevano giocato fino
all’ultimo, ricorrendo il
cagnolino maltese Frisopin e rincorrendosi, finché la nonna
non li aveva ricordato
ch’era giunta l’ora di coricarsi. I due fantolini
allora avevano baciato
l’avia, la quale aveva imposto la mano sulle morbide
testoline. Ottenuta la
benedizione, i due bambini erano balzati addosso allo zio, che li
ricoprì le
gote di rumorosi baci tra una risata e l’altra.
Dopodiché, sbadiglianti e
stropicciandosi gli occhietti stanchi, erano stati condotti da Ufemia
nella
loro cameretta. Rimasti finalmente soli, ecco che madona Leonora aveva
imbastito ciò che si preannunciava una spinosa conversazione.
Il
giovane patrizio si girò di scatto in direzione della stanza
d’Helena, là dove la sfinita cognata
s’era ritirata assieme alla fantesca
Cleofe appena terminato il pasto. “Perché dite
questo, Mare?”
Madona
Leonora cacciò fuori un pesante sospiro, tormentando tra le
dita il filo di lana. “Avrei dovuto consultare Marchetto
prima, si trattava pur
sempre di sua moglie. Forse questa è la punizione di Dio per
la mia arroganza e
per aver usufruito di rimedi non molto conformi alla dottrina cristiana
…”
“Mare,
se fosse così, Dio dovrebbe fulminare l’intera
università
di Padoa, di Bologna e tutti gli atenei dove sezionano cadaveri dalla
mattina
alla sera.”
“Nondimeno,
il parto rimane affare di donne e … e un uomo che si
intromette …”
“Ha
semplicemente diretto quell'incapace della comare levaressa.
Inoltre, se Dio se la piglia per queste piccolezze, non merita
d’esser
pregato.”
“Made,
Momolo!”, l’avvertì perentoria sua
madre, stringendo
arrabbiata gli occhi. Hironimo serrò caparbio la bocca, lo
sguardo duro e fisso
davanti a sé. “Sai bene come la madre di Tina sia
morta di parto”, riprese
madona Leonora la conversazione bruscamente interrotta.
“Certo!”,
replicò aspro suo figlio, incrociando astioso le braccia
al petto. “Così come so pure che al sior Pare non
importò un fico secco, semmai
se la levò convenientemente dai piedi in modo da potervi
sposare.”
“Contrariamente
alle tue malignità, il tuo sior Pare se ne dolse
moltissimo: non l’amava forse appassionatamente,
però non le aveva mai augurato
la morte, non così giovane, a malapena ventiduenne.
Un’esistenza spezzata prima
ancora d’aver propriamente vissuto …”,
la nobildonna abbassò il capo, rivivendo
il momento in cui il feretro d’Andriana Trum Miani era stato
sigillato nella
sua arca. “Ci vollero anni al tuo sior Pare per riuscire a
perdonarsi e per
accettare il fatto che quel triste epilogo non era dipeso da lui
… Quando
nacque tua sorella Emilia, io lo udivo da dietro la porta che si
malediva per
avermi messo nuovamente incinta, malgrado gli ammonimenti sia di Mamma
Gaia che
della tua siora nonna. Mi vegliò giorno e notte durante
l’intera mia degenza …
Il mese successivo, avendo mancato la piccolina di sopravvivere, il tuo
sior
Pare mi domandò perdono per aver preferito la mia vita alla
sua.”
Hironimo
aspirò aria, soffocando il groppone in gola ivi
formatosi. Con la scusa di scacciar via un ricciolo ribelle dalla
fronte,
s’asciugò quella lacrima traditrice che fino
all’ultimo non s’era reso conto
inumidirgli la guancia, sia per la sorte di quella sorella che mai
avrebbe
conosciuto in terra sia per l’inconciliabilità
delle due immagini di Padre,
quella severa e intransigente che lui ricordava e quella umana e
vulnerabile
nei ricordi di Madre. Quanto egli avrebbe desiderato condividere la
seconda
versione, invece della prima!
“Ecco
ciò che io ho rivisto quella sera”,
proseguì Madre, il volto
pallidissimo e tirato, le mani intorcolate tra di loro, “e
per nulla al mondo
volevo tale destino per Marchetto, ancor di più
perché lui ama la sua Helena.
Perciò, mi sono detta: se esiste al mondo la
benché minima possibilità di
salvarla, opterò per quella soluzione! Non
permetterò che mio figlio
seppellisca la sua adorata moglie e il loro pargolo, biasimandosi poi
fino alla
fine dei suoi giorni. Perché anche qualora dovesse
risposarsi, quel dolore gli
rimarrà per sempre, attutito forse, ma mai completamente
scomparso. Ogni volta
che guarderà suo figlio, ripenserà alla sua
perduta Helena.” Si passò una mano
sugli occhi rossi e gonfi di lacrime non sparse. “Ho
sbagliato?”, invocò soccorso
al suo ultimogenito, il quale la vide così piccola e
indifesa, povera donna
schiacciata da tante disgrazie.
Hironimo
le coprì le mani con le sue, appoggiandosi delicatamente
sul petto materno. “La nostra unica colpa, Mare, sono le
continue menzogne che
stiamo rifilando a Marchetto. Ha il diritto di sapere quanto sta
succedendo. Il
male peggiore glielo abbiamo scampato, ma non possiamo costringerlo a
vivere
felicemente ignaro in un mondo fantasmagorico, costruito su
falsità dopo
falsità, nelle quali s’illude di generare figli
che non riuscirà mai a veder
nascere. L’ignoranza lo farà soffrire
più della conoscenza. Almanco, se ne farà
una ragione.”
“Mi
trovi d’accordissimo, però allo stesso tempo
questa
rivelazione deve venire da Helena, non da noialtri”, gli
accarezzò il capo
madona Leonora, assai scoraggiata. “Conosci bene tuo
fratello: la prenderebbe
malissimo se fossimo noi a confidargli il segreto di sua moglie, invece
di
quest’ultima. Rischierebbero di non fidarsi mai
più l’un dell’altro, vivendo da
morti, il che sarebbe una prospettiva assai peggiore di quella iniziale
contro
cui abbiamo lottato.”
“Anche
questo è vero”, convenne stancamente Hironimo,
socchiudendo
le palpebre e lasciandosi cullare dal ritmico scoppiettio del fuoco e
il sordo
ululare del vento.
***
Afferma
il proverbio: il medico pietoso fa la piaga cancrenosa.
Indirettamente,
tramite allusioni, frecciatine, strabuzzamenti
d’occhi e torsioni del collo, madona Leonora ed Hironimo
spronavano in
continuazione Helena ad intavolare con Marco quella dovuta
conversazione,
liberandolo da dubbi e ansie sull’anomalo comportamento della
moglie.
La
giovane donna invece rimandava alle calende greche,
approfittando del rientro di Lucha e di Carlo dai rispettivi incarichi
per
spingere subdolamente il marito a concentrarsi altrove, invece che su
di lei.
L’annuncio del matrimonio a marzo tra Marina Morexini q. sier
Orsato e di
Jacomo Corner del cavalier Zorzi le offrì
un’ottima scusa per assentarsi da
casa ed evitare così il consorte.
Per
carità, da una parte Marco manifestava sollievo nel
constatare
quella ritrovata energica allegria in Helena, accordandole di buon
grado ogni
visita a casa della novizza, assieme a madona Maria Morexini Querini e
a madona
Querina, maritatasi l’anno addietro in sier Daniel Zustignan
q. Francesco.
Dall’altra, però, i suoi occhi scrutavano
attentissimi ogni movimento della
greca, quasi temessero un inganno e talora pareva che i due si fossero
scambiati gli umori, lei solare ed espansiva mentre lui incupito e
scontroso.
D’altronde Helena sì aveva ritrovato il buonumore,
tuttavia evitava la
compagnia dello sposo, parlandogli il minimo indispensabile e stando ai
pettegolezzi tra le domestiche, lei dormiva in un’altra
stanza e questo senza
aver consultato per niente Marco, mettendolo di fronte a decisione
presa.
Non
trovando quindi quasi mai la consorte a Ca’ Miani e appurato
quanto l’infastidisse la sua compagnia, il patrizio aveva
incominciato
anch’egli a disertarla, rincasando spesso e volentieri
tardissimo, quasi in
contemporanea ad Hironimo, cui si giustificava ch’era dovuto
trattenersi a
Palazzo Ducale; ch’era stato invitato a cena da degli amici,
etc. etc. tutte
scuse perché l’odore di vino nell’alito
suo fratello minore lo riconosceva
assai bene, indugiando egli stesso in tali sgavazzi notturni.
Inesorabilmente,
tra Marco ed Helena s’impose uno spaventevole
gelo, il che rattristò non poco i loro famigliari,
così contenti d’aver
appaiato due giovani tanto innamorati l’uno
dell’altro e che adesso sembravano
essersi trasformati in due perfetti sconosciuti. Non litigavano, no,
sebbene il
Miani esibisse certe espressioni inquietanti, ogniqualvolta sua moglie
gli
annunciava una sua visita alle cugine acquisite o alle sorelle, sempre
accompagnata da Hironimo, da lei schiavizzato a perpetuo paggio.
“Uscite?”,
da un po’ di tempo Marco aveva ripreso a dare del voi
ad Helena, per sommo chagrin di quest’ultima, la quale
afflosciò
impercettibilmente le spalle, delusa.
“Sì,
mia sorella Vassilissa mi ha invitato a cena”, gli
spiegò
concisa la greca, aggiustandosi nervosamente lo zendale in testa.
“Non ti … non
vi preoccupate, Momolo mi fa da scorta”, tentò
ella in maniera goffa di
rassicurare il marito, indicandole suo fratello che già
varcava la soglia della
porta d’acqua per salire in gondola.
Se
un’occhiata avesse potuto uccidere, Marco quanto a ferocia
avrebbe equiparato il fu Vlad III di Valacchia, detto
l’Impalatore. “Una di
queste sere dovreste invitare madona Da Ponte e la sua famiglia da noi,
a cena.
Non sia mai ci accusino d’abusare della loro gentilissima
ospitalità, visto che
tanto ricchi non sono …”, sibilò
velenoso l’uomo, risalendo le scale verso il
piano nobile.
Helena,
pur captandola, non si premurò di rispondere alla
frecciatina del consorte, anche per non adirarlo ulteriormente. Avrebbe
molto
volentieri desiderato contraccambiare sua sorella Regina,
però si vergognava e
temeva che quest’ultima captasse la disastrosa deriva, che
stava prendendo il
suo matrimonio.
“In
ogni modo anch’io farò tardi, perciò
non aspettatemi
stanotte”, giunse dall’alto la voce di Marco,
facendo sobbalzare la greca, che
corse all’inizio delle scale, incerta se raggiungerlo o meno.
“Neanche
per un’ora?”
Silenzio.
“Vedremo.”
La
giovane donna si morse il labbro inferiore, tormentandosi a
disagio le dita. “Allora … allora divertitevi.
Fate piano nel rincasare, non
vorrei si svegliassero Angelos e Christina di
soprassalto …”
“Non
mancherò”, rispose atono suo marito.
“Servo vostro, patrona”
e chiuse in via definitiva la penosa conversazione.
“Sì,
sì, servo vostro …”, ripeté
amareggiata Helena, sospirando
profondamente. Sedutasi accanto ad Hironimo all’interno della
felze, si passò
una mano sulla fronte, per poi pizzicarsi esausta la radice del naso.
“Ma che
gli è preso?”, fu la sua domanda retorica.
Ché lei conosceva benissimo la
risposta.
Anche
Hironimo intuiva quali pensieri stessero tormentando suo
fratello; dopo tanto ed inteso ragionare, finalmente aveva capito dove
avesse
già contemplato quel suo sguardo arcigno e al contempo
sofferente: sul volto
del loro parente alla lontana, sier Christofal Moro, ogniqualvolta si
menzionava sua moglie la madona Istriana Pasqualigo Moro, di cui si
mormorava
egli fosse terribilmente geloso e possessivo al punto che,
quand’era ritornato
vedovo da Cipro delle cui fortezze era luogotenente e capitano della
flotta
contro i Turchi, i pettegolezzi l’avevano indicato come
potenziale assassino
della povera donna, strangolata nel sonno - si raccontava - con tale
arte da
farla credere morta di cause naturali. Chiacchiere, ovviamente, salvo
il
dettaglio dell’ossessiva gelosia del luogotenente, quella
sì che corrispondeva
al vero e adesso Marco sguazzava nel medesimo sentimento.
Contrariamente
però al Moro, suo fratello non dirigeva né
sfogava
mai la sua frustrazione contro Helena, bensì puntava
direttamente all’origine
delle sue disgrazie (o che lui presumeva tale), sicché
Hironimo pagò di
conseguenza per tutti, così come avvenne al rientro a
Ca’ Miani a seguito del
fastoso sponsalicio tra Marina Morexini e Jacomo Corner, tenutosi il 25
marzo
1509.
Sentendosi
leggermente assetato per via delle numerose spezie
utilizzate nelle abbondanti portate e maledicendo la sua tonteria per
non aver
ordinato ai servi di lasciargli in camera una brocca d’acqua,
un Hironimo
scalzo e in camicia da notte era sceso sbadigliando nelle cucine,
sobbalzando
dalla sorpresa nel trovarvi lì Marco, ancora completamente
vestito e dinanzi al
caminetto scoppiettante.
“Forse
dovresti metterla giù”, consigliò
scherzando Hironimo al
maggiore di posare il bicchiere, dal cui odore fruttato sospettava
trattarsi di
vin bianco. “Al banchetto hai già alzato a
sufficienza il gomito” e come suo
fratello fosse riuscito a camminare dritto fino alla gondola senza
incespicare,
rimaneva un gran mistero. Perché vin rosso fa sangue, ma vin
bianco batte alla
testa.
“Embè?”,
scrollò le spalle Marco, sottraendo il bicchiere dalla
presa del minore, anzi, riempiendoselo di nuovo. “Non sei il
custode della mia
anima.”
Sospirando
snervato, Hironimo si sedette accanto a lui sulla panca
di legno, portando le ginocchia al petto in modo da scaldare sotto la
camicia i
piedi infreddoliti. “Ascolta, che noi veneziani siamo
rinomati per le nostre
abitudini beverecce, l’è cosa notanda in
tutt’Italia. Ciononostante, credo di
saper riconoscere chi beve per divertirsi e chi per affogare i propri
dispiaceri. Marchetto”, gli appoggiò una mano
sull’avambraccio, provocando un
irritato arcuare di sopracciglio nel maggiore, “per favore
dimmi cosa ti turba.
Madre l’ha notato, Luchin e Carlino l’hanno notato.
Ci stai preoccupando,
soprattutto Helena.”
Alla
menzione della moglie, Marco grugnì sardonico.
“An, sì? Lo
dimostra malissimo, credevo non l’importasse nulla di
me.”
“Mare
de diana, che follie vai mai cianciando?”,
schioccò uno
scocciato Hironimo la lingua, scuotendo il capo. “Ti vuole
tanto bene e
s’impensierisce per te.”
“Osa
affermare il contrario!”, lo sfidò veemente il
fratello,
sporgendosi bellicoso in avanti verso di lui. “Se veramente
Helena mi volesse
bene, non mi fuggirebbe neanche fossi un appestato! Mia moglie evita la
mia
compagnia; non mi parla o cerca sempre di terminare in fretta la
conversazione.
Piaghe di Cristo, ha perfino disertato il mio letto!” e qui
le orecchie del
minore s’infiammarono, non attendendosi tanta schietta
confidenza. “E per cosa
questo? Che le ho fatto? In quale modo l’ho offesa? Mi sono
comportato male, le
ho mai mancato di rispetto? L’ho sempre lasciata libera di
fare ciò che più le
piaceva!”, sfogò infine Marco mesi e mesi di bile
amara ingurgitata, provocando
feroci e colpevoli crampi nello stomaco d’Hironimo,
ch’ammetteva la sua buona
dose di complicità in quell’assurda situazione
creatasi. “Forse ho sbagliato
io”, riprese feroce suo fratello, tracannando a grosse
sorsate il vino, “forse
mi sono fidato troppo, le ho concesso eccessiva libertà.
Avrei dovuto vigilare
meglio: come affermato dal barba Batista, la femmina cade se
l’uomo attua da
macaco!”
Il minore
dei Miani incrociò scettico le braccia al petto.
“Il
sior Barba possiede una grande esperienza del mondo e sa molte cose, ma
non
tutto ciò che dice è necessariamente vero, giusto
e buono!”, contro-argomentò
il ragazzo. “Questi ultimi tempi, capisco esser stati per voi
due difficili,
nondimeno …”
“Lei
mi tradisce, ne sono certo”, arrivò la secchiata
d’acqua
gelida, che lasciò intontito Hironimo per qualche istante
abbondante, la bocca
spalancata a causa della sua incredulità verso tale stupida
supposizione.
Attraverso quale assurdo e contorto ragionamento era Marco giunto a tal
altrettanto bislacca conclusione? Helena si struggeva per lui,
sopportando
stoicamente in silenzio la sua pena per non provocarne alcuna al
consorte. E
quest’ultimo invece d’esigere magari una
spiegazione finalmente chiara e tonda,
si perdeva nell’Empireo delle congetture paradossali?
“E
con chi, sentiamo?”, lo sfidò aspramente Hironimo,
in pronta
difesa della cognata. “È sempre in compagnia di
noialtri”, aggiunse onde
sottolineare l’improbabilità
dell’adulterio.
Peccato,
che la sua affermazione ottenne il risultato opposto e un
luccichio poco raccomandabile guizzò negli occhi nerissimi
di Marco, il quale
piegò la bocca in una smorfia tra il ferino e il trionfante.
“Tu … ho notato
che tu spendi molto tempo assieme a lei …”, alluse
in un sordo ringhio. “Ogni
volta che Helena esce di casa, sei sempre ad accompagnarla. Anche
quella volta
a Trevixo … Mi pare che con te, lei si comporti in maniera
molto più rilassata
… e aperta … ”
“E
dunque? Cosa stai insinuando?”, sibilò seccato il
minore,
imporporandosi le guance di sdegno. “Cospetto, non ci
crederai mica la versione
veneziana di Paolo e Francesca, adesso?”,
ridacchiò sardonico, incapace di
concepire tale grottesco paragone e sperando in una pronta smentita da
parte
del fratello, che invece rimase serissimo, seguitando a scrutarlo
bellicosamente. “Oh Sacramento, lo pensi sul
serio?”, ansimò sgomento Hironimo,
sentendosi le budella attorcigliare.
“Io
non penso niente!”, ruggì Marco, battendo il
bicchiere con
tale foga sul tavolo, da spaccarne il fondo.
“Bugiardo!”,
s’inalberò Hironimo, balzando giù dalla
panca, i
pugni serrati e vibrando di collera da capo a piedi. “Avanti
dillo! Guardami
dritto in faccia e abbi i coglioni di chiedermi se mi scopo tua
moglie!”, lo
provocò fuori di sé. Sciocco!
Avrebbe dovuto immaginarlo, avrebbe
dovuto leggere lo sguardo torvo e obliquo del maggiore, la fronte
aggrottata
fino ad unire le sopracciglia in un’unica linea,
nonché il modo in cui
s’ingobbiva simile ad un ghepardo pronto a balzare
sull’ignara preda. In quante
occasioni aveva contemplato quell’espressione assassina,
ogniqualvolta Marco
s’appropinquava all’attacco?
Di fatti
Hironimo, pur possedendo riflessi eccellenti, si ritrovò
sbattuto contro il muro, l’avambraccio di suo fratello sulla
gola. “Ed è
vero?!”, sbraitò, le iridi nerissime che
cambiavano incessantemente di
posizione, quasi stessero leggendo avide e disperate ogni minuscolo
rictus
facciale del ragazzo, in cerca di conferma o smentita. “Lo
fai?!”, ripeté e
soltanto perché il maggiore era palesemente alticcio e
perché in fin dei conti
avrebbe potuto scansarlo con un pugno allo stomaco, che Hironimo si
calmò,
rispondendogli serissimamente ironico:
“Certo!
Mi scopo tua moglie davanti a Madre, a Tina, ai nostri e
suoi parenti, davanti a tutta la fottuta servitù per
intrattenerli! Elencami
ogni circostanza, in cui lei ed io abbiamo potuto rimanere soli!
Avanti!”, e
non ricevendo alcuna risposta – perché non
sussisteva – egli delicatamente
afferrò l’arto di Marco, sciogliendosi senza
fatica da quella presa.
Riaccompagnò suo fratello accanto al caminetto, porgendogli
stavolta un
bicchiere d’acqua e servendosene anch’egli. Solo in
quel momento s’accorse di
come le sue mani stessero tremando. “Mi addolora sapermi da
te così poco
stimato, da giudicarmi capace di tal tradimento nei tuoi
confronti!”, gli
confessò mestamente, umiliato da quella mancanza di fiducia.
Non lo si poteva
di sicuro descrivere un ragazzo d’oro, un figlio modello, ma
insidiare la
cognata no, quella carognata neppure sotto tortura l’avrebbe
il giovane Miani
compiuta. Amava troppo Marco per pugnalarlo così alle spalle
e verso la greca
provava unicamente l’innocente affetto riservato ad una
sorella.
Leggendovi
null’altro che sincerità negli occhi del minore,
Marco
perse ogni slancio aggressivo, sgonfiandosi quasi sulla panca e
coprendosi il
viso con le mani. “Perdonami, non stavo ragionando
lucidamente”, ammise in un
sospiro, massaggiandosi le tempie.
“Questo
mi pare ovvio”, sbuffò Hironimo. “Ti sei
calmato?”
Suo
fratello lo ignorò, vociando il dubbio che lo tormentava da
un
bel po’ di tempo: “Helena mi nasconde qualcosa, lo
sento.”
“Forse
lei si è semplicemente stufata delle tue ingiustificate
gelosie! Non vuol trasformarti in motivo di pettegolezzo, come sier
Christofal
Moro.”
“Ti
ha mai confidato qualcosa?”, giunse la non tanto inaspettata
domanda, la quale in verità sarebbe stato auspicabile fosse
stata posta
direttamente alla moglie, che a suo fratello minore.
Oddio,
Hironimo era assai tentato di spifferare la faccenda per
intero a Marco e così salvare capre, cavoli e matrimonio e
ritornare a respirare
liberamente. Ciononostante si ricordò della promessa fatta
ad Helena, del
discorso di Madre circa una futura perdita di fiducia del maggiore nei
confronti della consorte. Inoltre egli avrebbe dovuto anche confidargli
del
motivo del viaggio a Treviso, dei problemi fisici della moglie,
nonché
dell’intervento segreto del medico giudeo, una sfilza di
menzogne e omissioni
concatenatesi tra di loro fino a formare un soffocante cappio al collo.
Se
stupidamente il giovane Miani aveva permesso di lasciarsi coinvolgere
tra le
loro beghe, doveva perlomeno mantenere una sicura neutralità.
“Riguardo
a ciò che l’affligge, non mi ha rivelato nulla a
riguardo.”
Sicché
Hironimo tacque e mentì, augurandosi d’aver optato
per la
soluzione migliore.
***
Giunse la
tremenda guerra, la quale come arrivò a distruggere per
un soffio Venezia, ugualmente rischiò di minare il
matrimonio di Marco ed
Helena fino al punto di non ritorno.
Già
durante i mesi precedenti al conflitto, il patrizio aveva
cessato ogni gelosa ostilità nei confronti della moglie,
intensificando le ore
fuori casa e addirittura dalla città lagunare, con la scusa
di valutare alcune
terre nell’entroterra miranese, ch’aveva intenzione
d’acquistare. Il suo
atteggiamento in generale s’era di molto tranquillizzato e
anzi, manifestava
un’oscura soddisfazione che non garbava affatto ad Hironimo,
ché gli ricordava
fin troppo bene la medesima compiaciuta espressione, quando da
ragazzino Marco
gongolava trionfante a seguito di una marachella particolarmente
crudele e riuscita
alla perfezione ai danni del malcapitato di turno. Ma
certo che sto
bene, perché non dovrei?, gli rispondeva
innocentino e beffardo, in quelle
occasioni in cui il minore s’informava della salute del suo
spirito. Almeno,
pareva essersi riconciliato di facciata con Helena, dimostrandosi
sempre
gentile e cortese verso di lei, eppure l’intero concerto
suonava falso,
stonato.
“Lo
sospettavo da qualche tempo, ma ormai ne sono sicuro”,
sentenziò sier Batista Morexini, eseguendo un gambetto di
donna sulla scacchiera.
Quel pomeriggio, non sopportando più l’aria
mefitica a Ca’ Miani, Hironimo
aveva cercato rifugio nel palazzo dello zio, onde distrarsi.
Sennonché, alla
fine, lo stesso aveva finito per discutere del fratello, esplicando al
parente
i suoi dubbi.
“Cosa,
sior Barba?”
“Ch’el
Marchetto gh’ha la soa pezzetta” (ha
l’amante/mantenuta,
ndr.)
Hironimo
si bloccò fulminato, rimanendo comicamente col gomito a
mezz’aria e il cavallo gli scivolò dalle dita,
rimbalzando sulla scacchiera e
rotolando per terra. “Avete … avete la sua
confidenza?”, la buttò pateticamente
sul ridere, la gola invece secca e il cuore che gli batteva la chamade
in
petto. Come aveva potuto Marco? Una pugnalata in pieno petto avrebbe
doluto
meno ad Helena, una volta appresa la squallida notizia.
“Non
ho bisogno d’essere il suo confessore per capirlo”,
replicò
ineffabile il senatore, raccogliendo il pezzo perduto e cedendolo al
nipote.
“Tra criminali ci si riconosce”, asserì
pragmatico, da vero esperto in materia.
Il
giovane abbassò il capo, stordito e rifiutandosi di credere
della bassezza di quel gesto. Perché lo sapeva che Marco non
tradiva sua moglie
per lussuria, lo conosceva più di se stesso. No, si trattava
di una vendetta
bell’e buona, per umiliare la moglie che, secondo lui,
l’aveva rifiutato.
E mentre
sier Batista in neanche tre mosse gli faceva scacco
matto, lamentandosi della distrazione del nipote, Hironimo
indugiò in quella
sua indecisione, se giudicare suo fratello o estremamente puerile o
straordinariamente crudele. Pregò ardentemente che non si
trattasse di madona
Maria Baxadona da Molin, zia della giovane sposa di suo cugino Carlo
Morexini,
Maria da Molin. La moglie di sier Hironimo da Molin q. Antonio e Marco
erano
stati tra i più tenaci sostenitori di quelle nozze tra il
Morexini e la
fanciulla, nipote per via di madre del celebre letterato sier Alvixe
Foscarini
ed unica erede del fu sier Amadio da Molin q. sier Antonio,
un’unione che
avrebbe combinato prestigio culturale con prestigio economico. Forse
gli occhi
di Hironimo erano foderati di malizia, ma aveva notato
un’eccessiva complicità
tra madona Maria Baxadona da Molin e Marco, dietro la scusa ufficiale
di
persuadere il recalcitrante cugino Carlo a sposarsi.
Sarebbe
stata una prospettiva orribile, ritrovarsi non solo
l’amante in casa, ma pure legata a vincoli di parentela,
rovinando in un colpo
solo ben tre matrimoni. Per fortuna Padova dissipò questa
sua angoscia,
trovando conferma inoltre nella sua seconda teoria, che Marco tradisse
la
moglie più per ripicca che per altri lascivi sentimenti.
Certo,
Hironimo stesso in quel periodo non nutriva particolari
sentimenti cavallereschi verso il gentil sesso, ferito e umiliato dal
tradimento della sua domina, sicché non giudicò
la donna cui suo fratello
s’accompagnava, non all’inizio almeno. In fin dei
conti si trovavano in guerra,
ogni giorno poteva corrispondere all’ultimo,
perché non godersi quei pochi
piaceri rimastigli e al diavolo tutto il resto?
Poi,
però, osservando meglio la coppia adulterina, Hironimo
sospettò in quei due una complicità nata ben
prima di Padova. Non era strano
che alcuni patrizi si fossero portati le prostitute o le concubine da
Venezia –
meglio un lupo familiare ad uno nuovo - ma il modo
in cui Marco
interagiva con la sua ganza, in cui la baciava e se la
stringeva, manifestavano
una confidenza di vecchia data e più profonda del classico
rapporto
fornitore-cliente. Era dunque lei, lo strumento della rivalsa su Helena?
Ipotesi
che, una volta rientrati vittoriosi nella città lagunare,
si rivelò fondata, poiché Marco seguitava a
frequentare quella donna anche
quando, tecnicamente, i suoi servigi non erano più
richiesti. Hironimo tuttavia
si disinteressò in parte a tale questione, più
impegnato prima ad organizzare i
rinforzi richiesti da Lucha, poi a consolare una disperata Madre quando
giunse
la notizia della caduta di La Scala e della cattura del primogenito da
parte
delle truppe spagnole, che l’avevano ceduto ai tedeschi al
fine di deportarlo
prigioniero in Alemagna.
Soltanto
durante una notte particolarmente ventosa di fine
ottobre, il giovane patrizio osò menzionare ad alta voce i
suoi sospetti a
Marco, nell’intimità dello studio di Padre.
Naturalmente
suo fratello si scocciò, neppure degnandosi di
sollevare lo sguardo chino sulle missive che stava compilando.
“Quali sono le
tue priorità, Momolo?”,
s’informò laconico. “Arrangiare il
riscatto per nostro
fratello o discutere su chi mi porto a letto?”
“Dimmi
almanco che non si tratta della Baxadonna …”
“Della
chi?”, fece genuinamente confuso suo fratello.
Dopodiché
avvampò. “Non osare infangare così la
reputazione di Marietta, come ti perm- …”
“Oh-oh,
senti, senti. Della Marietta non
sapevo
che foste già arrivati ai diminutivi. Quindi oltre alla tua
ganza, ti scopi
anche la moglie del povero sier Hironimo? Magari quando vi recate in
visita
dalla loro nipote Maria … Mi immagino la faccia della zia
Morexina – tutta
Messe e rosari - quando apprenderà in che
razza di bordello le
abbiate trasformato la casa!”
“Taci,
idiota! Non sai niente e ti permetti pure di parlare? L’unica
ragione, per la quale m’atteggio cortesemente verso Mariet-
madona da Molin, è
per convincerla a fidanzare sua figlia Catharina con Anzolo.
È lei che comanda
in casa: se ottengo il suo beneplacito, mio figlio otterrà
per sé una moglie
molto ricca. Quindi sì, non nego di esser sembrato forse un
po’ troppo in
confidenza con madona Maria, ma non mai ho iniziato con lei alcun
disonesto
commerzio!”
“Ah
no? T’ho visto con che occhio lubrico la guardi, tutto
cicci-coccò, galante, spiritoso e pure la prendi per mano
quando sale
dall’imbarcadero! Le miagoli dietro melenso e lusinghiero,
peggio del gatto
quando scorge un uccellino sul balcone! Credi che venga da
Mazorbo?”
“Ti
giuro che non l’ho sfiorata neppure con la punta delle dita!
Voleva
ch’io persuadessi nostro cugino Carlo a sposare sua nipote
Maria, perché devi
sempre pensar male?”
“E
la femena a Padoa?”
“Un
altro discorso.”
“An!
Quindi confermi di aver tradito Helena? Per quale motivo,
poi, visto che non hai prove della sua infedeltà nei tuoi
…”
“Non
giudicarmi”, lo crocifisse feroce Marco cogli occhi.
“Anche
tu sei un adultero, non te lo dimenticare”, gli
ricordò pungente, chetando in
via definitiva Hironimo, il quale si morse l’interno della
guancia, colto in
fallo, scordatosi infatti del piccolo dettaglio di come anche la sua
Lena fosse
stata sposata. “Sussiste una ragione, per la quale il nostro
sior Barba
cornifica dalla mattina alla sera la nostra siora Amia?”
“Non
certo per vendicarsi di lei.”
Marco
appoggiò la penna, intrecciando le dita sotto il mento.
“E
se ti dicessi che la mia amante è incinta?”
“Ti
risponderei che sei un pezzo di merda”, ribatté
prontamente
Hironimo, le nocche bianche a causa dei pugni serrati, irritato dalla
nonchalance con cui suo fratello pronunciava quell’annuncio,
quasi si trattasse
di una piccola stravaganza e non invece di una stilettata a quella
povera donna
di sua moglie.
“Perché?”,
inquisì dolcemente velenoso suo fratello, il medesimo
tono usato nella Sala del Tormento verso gli indagati e i testimoni.
Perché
per anni tua moglie mi ha pianto sulla spalla, visitando in
pellegrinaggio ogni chiesa in ginocchio per un improbabile miracolo e
dannandosi l’anima per te, perché teme di
deluderti, di provocarti un dolore
acutissimo semmai tu dovessi scoprire che lei non può portar
a termine alcuna
gravidanza.
“Che
decisione hai preso riguardo al bambino?”, chiese infine
Hironimo, imponendosi la calma, il respiro irregolare
dall’ira che gli
graffiava dentro il petto.
“Lo
prenderò in casa, ti pare? È mio figlio, non
voglio cresca tra
la plebe.”
“Ti
supplico di non farlo.”
“Preferisci
che l’abbandoni alla Pietà?”
Il
ragazzo scosse il capo. “Non potrebbe piacerti la reazione
d’Helena.”
“Pensi
che mi spaventino gli strilli di una donna?”, rise malevolo
Marco, intingendo il pennino nel calamaio e riprendendo la scrittura
interrotta.
“Non
strafare nella vendetta, potrebbe ritorcerti contro”,
l’avvertì sibillino Hironimo e suo fratello
assunse un’espressione genuinamente
confusa. “Presenta l’infante come mio, tanto oramai
sono ufficialmente la
pecora nera di famiglia, non si stupiranno in caso dovessi portare un
illegittimo a casa …”, tentò debolmente
di sdrammatizzare, ottenendo purtroppo
l’effetto contrario, ché il viso di Marco si
rabbuiò, torvo.
“Non
giocare al martire, adesso.”
Da
complice involontario della cognata, Hironimo si ritrovò di
punto in bianco a dover mentire anche per il fratello, in uno spietato
fuoco
incrociato. Servitore di due padroni, per non far torto a nessuno,
soffriva lui
per ambedue.
“Che
ore sono?”, chiese d’un tratto Helena, tenendo
l’orecchio
all’eco lontano della campana della chiesa di San Vidal.
“Le
cinque di notte”, (circa le 23 attuali,
ndr.)
rispose prontamente Madre.
La greca
chiuse il ventaglio di carte che teneva in mano,
mordicchiandosi infelice il labbro inferiore. Un’altra notte
disertata dal
marito ed Hironimo sapeva benissimo perché.
“Momolo, ti ha detto per caso …?”
“An
… forse, forse sarà andato a casa di sier
Nicolò Trivixan,
sai, il novizzo di tua sorella Chiara …”,
mentì celere suo cognato, fissando
tanto intensamente le figure delle sue carte, che sembrava volerle
bucare con
lo sguardo.
“Mi
pareva d’aver sentito, che invece fosse ospite di vostro
cugino Carlo; sua moglie ha invitato il suo barba sier Hironimo da
Molin e la
sua bellissima moglie, madona Maria …”,
commentò allusiva Maddaluzza
Miani, sorridendo eloquentemente ad Hironimo, che la crocifisse feroce.
“Donca
è vero quel che si dice: che siete sorda e udite il
contrario di tutto!”, soffiò ostile, pigliandosi
un pronto rimprovero da sua
madre.
“Capisco”,
sospirò mesta Helena. E sforzandosi di sorridere:
“Se
non v’incomoda, io mi ritirerei, sono molto
stanca”, annunciò tramite un
teatrale sbadiglio e si pose velocemente in piedi, senza neppure
premurarsi di
contare i punti ottenuti nella partita.
“Ma
che diamine sta succedendo tra loro due? Pensavo avessero
chiarito”, si sfogò Lucha – liberato nel
frattempo e rimpatriato a Venezia da
qualche settimana – mentre Hironimo lo aiutava a svestirsi e
ad indossare la
camicia da notte, i nervi del gomito destro spezzati e giacente
pertanto
l’intero braccio immobile ed inutilizzabile.
“Marchetto
aspetta un figlio da una sua amante.”
Lucha si
voltò di scatto verso il minore. “Cosa?!
È impazzito?”,
si soffocò per poco con la sua medesima saliva.
“Come … come …?”
“Che
ne so io?”, lo interruppe snervato Hironimo, contento in
parte d’alleviare quel suo gran peso dallo stomaco.
“S’è ficcato in testa di
punire a tutti i costi la freddezza d’Helena, ignorando che
così danneggia
soltanto se stesso!”
“Ma
… ma … perché? Non comprendo. Parevano
così felici …”
Hironimo
invece capiva e avrebbe tanto voluto cercare consiglio
nel maggiore. “Le spezzerà il cuore.”
“E
lei gli spezzerà l’osso del collo”,
commentò sarcastico Lucha,
salendo cautamente sul letto. “D’altronde, chi
è causa del suo mal, pianga se
stesso”, dichiarò e si tirò su la
coperta con la mano sinistra, forse alludendo
alla ferita di guerra, la quale l’avrebbe reso un invalido
fino alla fine dei
suoi giorni. “Come sta la Tina? L’ho vista tanto
dimagrita e pallida …”
“Non
molto bene; non riesce né a mangiare né a dormire
di notte.
Se soltanto non fossimo in guerra … potremmo mandarla a
curarsi alle terme di
Abano …”
“Domani,
di ritorno da Palazzo Ducale, andrò a visitarla.”
“T’accompagno,
se vuoi.”
“Perché
no? Sono talmente stufo di vedere queste facce da funerale
… E nostro fratello non aiuta.”
Perché
per piangere, sarebbero di sicuro scorsi fiumi di lacrime,
altroché.
Hironimo
fu il primo a tenere Scipio tra le braccia, innamoratosi
speditamente di quella faccina grinzosa nei cui lineamenti ritrovava
una copia
sputata di Marco, tranne negli occhi grigi ch’erano quelli di
Padre. Si chiese
se i nipotini abortiti naturalmente da Helena gli sarebbero
assomigliati,
avessero avuto l’opportunità di sopravvivere.
Da quanto
appreso, la madre della puerpera non le aveva neanche
concesso di vedere il neonato, acciocché non
s’affezionasse e dunque evitando
di soffrire per la separazione. A giudicare dalla borsa di denaro
appoggiata
sul tavolo e dall’espressione soddisfatta della donna, questa
aveva concesso a
Marco di divertirsi con sua figlia dietro solenne promessa di
procurarle una
dote e, ç’allait sans dire, d’allevare
il pargolo nato da quella relazione
extraconiugale.
Cullando
lievemente il nipotino e coprendolo bene sotto la
pelliccia, Hironimo si dispiacque che una creaturina così
bella dovesse esser
stata concepita per motivi così gretti. Gli promise di
amarlo e di supportarlo
ora e per sempre, anche se l’intera Ca’ Miani
avesse finito per odiarlo, in
primis la sua matrigna.
“Piange
troppo”, osservò apprensivo Marco, seduto di
fronte al
fratello e al figlio, il quale suggeva iroso e affamato il mignolo
offertogli
dallo zio. “Non vorrei corrispondesse ad un segno di poca
salute …”
“Macché,
ha semplicemente ereditato il tuo caratteraccio. Scoltame
ben: poiché questo putelo strilla più imperioso
d’un generale, già ch’è un
Aemilianus perché non lo chiamiamo Scipio?”, gli
propose invece Hironimo e
miracolosamente il piccino si calmò, pur fissando di
traverso i due uomini,
accusandoli di negargli la meritata pappa.
“Scipio
mi piace assaissimo”, convenne Marco e il minore
ritrovò
sul suo volto la medesima contentezza ed orgoglio, che gli aveva letto
la prima
volta che gli era stato messo in braccio Zanzi. Il neopadre
accarezzò col dorso
dell’indice la guanciotta paffuta e morbida del suo
terzogenito, anch’egli
rimasto inesorabilmente vittima dell’incantesimo del coccolo
puttino.
Perché
il destino s’era accanito così crudelmente,
impedendo che
Scipio nascesse da Helena? Quanti anni di amarezze li sarebbero stati
risparmiati!
Lucha e
Carlo, alla vista del nipote, l’accolsero ben volentieri,
sebbene biasimando nel loro intimo il fratello per i suoi modi poco
ortodossi
di procurarsi quel terzogenito che la moglie si rifiutava di dargli.
Madona
Leonora, dal canto suo, sorreggeva estasiata l’infante, cui
non parve vero
d’appoggiare finalmente la testolina sul petto di una donna:
perlomeno si
facevano progressi e presto quei gaglioffi gli avrebbero offerto una
gonfia
poppa da cui suggere. Ciononostante, Madre seguitava ad osservare
ansiosa il
figlio, meditando sulla reazione della nuora e indecisa sul da farsi,
giacché
mai trovatasi in una situazione simile: l’unico illegittimo
(riconosciuto) suo
fratello Batista l’aveva portato in casa da scapolo, ergo
evitando questioni
con la consorte; pace all’anima sua, Anzolo in questo le
aveva dimostrato
fedeltà assoluta. Come avrebbe reagito, in caso si fosse
trovata nei panni
d’Helena?
Certamente
madona Leonora non sarebbe stata così stoica e
composta, quando la giovane greca venne presentata al figliastro.
Pallidissima
in volto e torcendosi le dita manco volesse spezzarle, Helena aveva
ascoltato
in silenzio assoluto le circostanze della nascita di Scipio, per poi
rintanarsi
nelle sue stanze e l’eco dei suoi singhiozzi
riecheggiò fino alle fondamenta di
Ca’ Miani e la cosa andò avanti per un paio di
giorni, al punto che da fuori ci
si chiedeva se fosse morto qualcuno in casa.
“Perché?
Perché mi hai dovuto fare questo?!”
“Perché?
E me lo chiedi? Dopo quello che tu per
anni hai fatto a me?”
Al terzo
giorno, i pianti si tramutarono in urla, che si
definirono in feroci accuse in un misto tra greco e veneziano e nessuno
osava
mettersi in mezzo ai due furiosi contendenti, i quali oltre che al
rivale
accusavano anche i supposti complici di doppiezza e abiezione delle
più
nefande, incuranti del veleno sputato a destra e a manca, il loro unico
scopo
rimaneva quello di ferire quanto più possibile, fregandosene
altamente
dell’eventuali conseguenze sull’unica vittima del
loro dissapore.
“Io
non so di che cosa tu mia stia colpevolizzando … Ti sono
sempre stata devota e
leale; quest’umiliazione non me la
meritavo!
Come hai potuto?! Mi hai giurato fedeltà nel corpo e
nell’anima! Dannato
spergiuro! Schifoso puttaniere!”
“Bugiarda,
lurida gattamorta levantina! Vuoi davvero conoscere la
tua colpa? Dunque ascolta bene e non m’interrompere: tu mi
hai rinnegato come
sposo, mi hai ridicolizzato davanti a tutta Veniexia e magari pure ti
sei
divertita a decorarmi la testa!”
“Non
è vero! … Crudele, non è vero
… ti amo, ti ho sempre amato …
non puoi pensarlo veramente … Ti ho dato
due figli! … ”
“Bel
modo d’esprimere il tuo amore! Non ne hai più
voluto sapere
di me, lo neghi forse? E siccome non sono quel genere di marito, che
con la
forza si prende i suoi diritti coniugali, pure ti permetti di lagnarti
che ho
preferito un’amante alla violenza?”
“Avresti
potuto dirmelo … Ne avremmo potuto discutere
…”
“Tu
per prima non l’hai voluto fare!”
“Tu
non capisci!”
“E
FAMMI CAPIRE PERDIO!”
Ché
se Scipio se ne stava ignaro e beato tra le braccia robuste
della balia o nella sua cuna, Zanzi ed Ina erano quelli abbastanza
maturi da
ascoltare e in parte capire le cattiverie scagliatesi contro tra i
genitori. In
più occasioni Hironimo aveva scovato i nipoti accoccolati
dietro la porta da
dove provenivano le grida furiose di Marco ed Helena, tappandosi il
cinquenne
bimbetto le orecchie, gli occhioni nerissimi colmi di lacrime. La
quattrenne
sorellina lo fissava inebetita, chiedendo soccorso con lo sguardo,
incapace di
consolare il maggiore. Allora, lo zio si inginocchiava e li abbracciava
forte
entrambi, Zanzi che gli inumidiva lo zipone ed Ina che si aggrappava a
lui
mentre li conduceva in cucina, lontani da quell’inferno.
“Perché
si devono dire queste brutte cose?”, gli singhiozzava il
fantolino contro il petto. “Perché non fanno la
pace? Perché Mama non vuole
vedere il nostro fratellino?”
Perché
i vostri genitori si sono comportati da deficienti ed io
dal Re dei Deficienti per aver taciuto la verità fin
dall’inizio, gli
spiegò
mentalmente il giovane Miani, accarezzandogli il capo e baciandoglielo
a mo’ di
scusa per il male fatto indirettamente all’adorato nipote.
“Ed
io no, sior barba?”, gonfiò le guance Ina, il suo
immaturo
cuoricino già distratto dalla gelosia verso le attenzioni
rivolte al fratello.
“A
te due, perché sei la principessa di casa!”,
l’accontentò
Hironimo, accomodandola sulle ginocchia, ritrovandosi ben presto
oberato dal
peso di Zanzi, che pure lui non voleva esser da meno.
“Tu
lo sapevi.”
Hironimo
sospirò stancamente: bene, al fine Helena aveva
confessato e come in ogni processo, dopo gli imputati ora toccava ai
testimoni.
A seguito
di una visita informale da parte del Signore di Notte
del sestiere di San Marco, allertato per via degli immondi schiamazzi
provenienti da Ca’ Miani e venuto ad accertarsi che nessuno
si stesse
ammazzando, i due coniugi avevano cessato di gridarsi dietro ogni
genere di
recriminazione, piombando di conseguenza il palazzo in un inquietante
silenzio.
L’inarrestabile malattia di madona Crestina e le pratiche per
la supplica di
Lucha d’ottenere dal Maggior Consiglio la castellania di
Castelnuovo di Quero
avevano impedito ai fratelli Miani di discutere oltre
sull’argomento,
rimandandolo a data da destinarsi.
“Hai
già interrogato Mare, Luchin e Carlino?”, si
sedette annoiato
Hironimo di fronte a Marco, sfinito dalla triste visita alla
sorellastra
Crestina, ogni giorno sempre più magra e patita, perfino il
semplice parlare le
risultava stancante.
Dal modo
in cui suo fratello tamburellava nervosamente le dita sul
tavolo, intuì di sì. “Tu sapevi tutto,
più di chiunque altro. Perché non me
l’hai detto?”, non gli addolcì Marco il
farmaco, ponendogli brutalmente secco
quella domanda sortagli immediatamente in testa, dopo la confessione
della
moglie. “Il medico giudeo; gli aborti naturali; perfino la
visita alla comare
levaressa a Trevixo … Eri al corrente di ogni cosa, in
sostanza quasi il suo
confessore …”
“E
come tale, legato al vincolo di segretezza.”
“Siamo
fratelli”, gli ricordò Marco, stranamente senza
astio.
“Ed
ambedue stupidi”, ammise amaramente Hironimo, umettandosi le
labbra secche. “Io più di te. Hai ragione: non
dovevo mentirti, avrei dovuto
informati su quanto stava accadendo. Ti ho stoltamente sottovaluto,
avrei
dovuto nutrire più fiducia nei tuoi confronti. Ma ti giuro
che non l’ho fatto
per malizia, bensì per proteggerti da una grave ingiustizia,
che nessun
genitore dovrebbe mai soffrire. Non lo capivo allora, l’ho
compreso grazie a
Mare”, disse, contemplando i palmi delle sue mani. Ovvero
di seppellire
un figlio, tuo figlio.
Marco
allungò il braccio, afferrandogli il polso delicatamente.
“Helena mi ha domandato perdono per il suo comportamento e
oggi, per la prima
volta, ha preso in braccio Scipio. Mi pare si piacciano e anche Zanzi
ed Ina
sono contenti della nostra riappacificazione”, gli
confidò malinconico. “Ho
rassicurato mia moglie, che non ha nulla di cui rimproverarsi,
piuttosto che
fosse lei ad accettare le mie scuse. Mi sono comportato da puerile
idiota, ho
peccato d’adulterio, intraprendendo un’inutile
quanto imbarazzante vendetta,
contro cosa, poi? Contro ombre partorite dalla mia mente”, si
fustigò impietoso
e mollò la presa dal polso del minore, intrecciando
nuovamente le dita. “Vi ho
accusato ingiustamente e me ne pento. Voi volevate soltanto
risparmiarmi un
grande dolore.”
Hironimo
s’esibì in un sorriso tirato. “Siamo
fratelli”, ripeté le
parole pronunciate poc’anzi da Marco. “E tra
fratelli ci si perdona tutto, no?
Anch’io posseggo la mia buona dose di colpa in questa vicenda
e vorrei aver
parlato prima, evitando così di farti soffrire inutilmente e
perdere tempo
prezioso.”
E
pronunciato il suo mea culpa, l’ultimogenito Miani
ritornò a
studiare le sue mani, ch’avevano scavato furtive e rapide
nella nuda terra una
buca dove posare quella scatoletta, ricoprendola e livellandolo
l’humus finché
il dislivello non era stato appianato. Ogni anno Hironimo si recava al
monastero di San Michele in Isola, accarezzando le piante che
crescevano sopra
la piccolissima tomba improvvisata, staccando un dente di leone o una
margherita selvatica e portandosela seco, interpretandolo come un
regalo del
nipote sconosciuto, un modo per ricordarsi di ciò che poteva
esser stato.
Avrebbe
dovuto confessarlo a Marco? Oppure lasciargli immaginare
il destino di quel figlio mai nato?
Osservando,
mesi dopo, dalle finestre di Castelnuovo di Quero la
primavera sbocciare e ricoprire di scarmigliati fiori gli alberi, le
rive della
Piave e i prati del Cesen, Hironimo giunse alla conclusione
ch’era meglio così:
inutile oberare suo fratello, da lui ferito per l’ennesima
volta, di un
ulteriore peso specie riguardo ad una creatura, che nulla possedeva
d’umano,
almeno nell’aspetto fisico.
Quella
tristezza, quel magone, quel rimpianto verso una vita
sfumata senza possibilità di vivere e mettersi alla prova,
egli li avrebbe
affrontati da solo a monito e penitenza per le sue bugie.
Continua
…
***************************************************************************************************
Questo
è la terzultima digressione del Nostro, arrivando
così alla
conclusione del suo percorso di meditazione su di sé e del
suo passato.
Sulle
dinamiche coniugali di Marco ed Elena Miani abbiamo
chiaramente romanzato,
poiché
poco o niente si conosce, specie sulla vita della greca, di cui
è riportata
soltanto la data di matrimonio (1503) e che è morta prima
del
1519. Sua sorella Regina sarà la madre
del futuro Doge Nicolò da
Ponte (per maggiori informazioni, vedi note cap.16)
Dall’unione
della coppia nacquero due figli, Angelo il Giovane e
Cristina, mentre Marco ebbe un illegittimo appellato Scipione, di cui
però
s’ignora la data precisa di nascita, ma stando al testamento
del padre, quando
quest’ultimo fece testamento per la prima volta non doveva
aver ancora compiuto
i 18 anni. In caso Scipione dovesse esser nato dopo la morte di Elena,
mi scuso
allora con Marco per come l’ho trattato in questo capitolo
^^’ Ma questo è quel
che si merita, per non averci fatto reperire l’esatta data di
morte di sua
moglie …
Quanto
alla nascita di Cristina, non ho trovato alcuna data, però
ho
ipotizzato essere figlia di primo letto, poiché nel
testamento Marco scrive: la (la seconda moglie) prego etiam li sia ricomandato Anzolo et Crestina.
Fosse stata
Cristina figlia di secondo letto, trovo decisamente incomprensibile che
dovesse
raccomandarla a sua madre.
Inoltre,
ho ipotizzato essere stata la ragazza in età da marito al
momento della morte di Marco: infatti, nelle prime versioni, egli
voleva che o
si facesse monaca o che vivesse da “pizochera”
(cioè da zitella beghina) per
non pesare economicamente sulla famiglia, per via della dote laica, e
ciò il
prima possibile. Poi però, Cristina dovette esser cresciuta
in una bella
signorina e Marco, forse sentendosi in colpa, istruì il
figlio Angelo di a)
darle una piccola rendita di 25 ducati annuali se fosse rimasta nubile;
b) 300
ducati di dote religiosa se avesse preso i voti; c) 1000 ducati in
contanti se
si fosse sposata. Quale delle tre opzioni Cristina scelse, purtroppo
rimarrà un
mistero.
Anche
storicamente vera è l’antipatia tra Dimitri
Spandolin e
Marco, giunta allo zenit con una causa del suocero contro il genero,
quando
questi gli fece confiscare tutte le merci trasportate da
Costantinopoli,
assieme all’altro genero dello Spandolin, Nicolò
Trevisan.
Riguardo
alla questione di Maria Basadonna, noi vogliamo fino alla
fine credere che sia stata solo una collaborazione a fin di bene (il
matrimonio
della nipote Maria da Molin e del cugino Carlo Morosini) e
null’altro, sebbene
ammettiamo che non si possa escludere l’ipotesi che, ad un
certo punto, lei e
Marco Miani fossero stati amanti.
Più
che scoprire, infatti, come Maria Basadonna fosse la zia di
Maria da Molin Morosini (nulla di strano, oggi come allora mogli e
mariti si
trovano più facilmente nel cerchio delle conoscenze) a
sconcertarci furono le
parole di Carlo Morosini, ossia che fu “ben astretto da ser
Marco Miani et la
moglie di ms. Hieronimo da Molin” a sposarsi. (E poi dicono
che erano le
ragazze quelle sempre prigioniere nei matrimoni combinati.) Capisco
l’ansia
della zia di contrarre nozze vantaggiose per la nipote, ma Marco che
c’entra in
tutto questo? Perché lui e la Basadonna hanno insistito?
Coincidenza? Forse sì,
forse no, perché, rimasto vedovo di Elena Spandolin attorno
al 1517-18, Marco
Miani si risposerà proprio con Maria Basadonna, rimasta
anch’ella nel frattanto
vedova. Tuttavia, appena divenuto diciottenne, suo figlio Angelo si
sposerà con
la sorellastra Caterina da Molin, ereditando un cospicuo patrimonio,
essendo
rimaste infatti solo lei e sua cugina Maria da Molin Morosini le uniche
eredi
dei da Molin. Tanta fretta di ammogliare il figlio ci ha fatto credere
che
Marco avesse già da tempo in progetto
quest’unione, unendo l’utile al
dilettevole e sposandosi la vedova così d’avere
sia la dote di Maria sia in
custodia Caterina, sottraendola ad altri eventuali pretendenti. Due
piccioni
con una fava, insomma. Curiosamente, tale procedura alla famiglia da
Molin non
era estranea, giacché la nonna di Caterina da Molin Miani
(Caterina da Canal)
era stata anche la sorellastra del nonno Antonio da Molin, figlia di
primo
letto della matrigna di quest'ultimo, Cristina Franceschi.
Un
po’ di noticine:
[1] Andrea da Ponte, detto il
“Zotto”,
fratello minore del futuro Doge Nicolò da Ponte (1491-1585)
divenne assieme
a Carlo Corner, Alvise Malipiero, Alvise Bembo e
Marco Antonio da Canal uno
dei più attivi diffusori della Riforma Protestante a
Venezia. Malgrado la
palese protezione del fratello Nicolò –
anch’egli di posizioni anticlericali e
antiromano convito, specialmente infastidito dall’Indice dei
Libri Proibiti più
per il danno economico inferto alle case editrici veneziane, che per
vera e
propria ortodossia – Andrea da Ponte venne tuttavia troppe
volte inquisito dal
Sant’Uffizio da soprassedere all’infinito e la sua
abiura al cattolicesimo lo
costrinse infine nel 1560 ad espatriare nella calvinista Ginevra dove
morì nel
1585, poco prima del fratello maggiore. Per la sua fuga e le sue idee
protestanti, il Da Ponte subì una pesante damnatio memoriae,
utilizzando i suoi
avversari la sua malformazione fisica per sottolineare la sua natura
diabolica
ed eretica.
[2] A conferma della fiscalità circa la
legittimità del sangue dei rampolli patrizi, presentiamo
degli estratti di
documenti relativi al Nostro:
Doc
1: “Anno 1506, giorno 1 dicembre. La
nobildonna
Leonora Morosini, vedova del nobile sier Angelo Emiliani q. sier Luca,
presentò
e fece inscrivere al concorso della palla d’oro, per
intervenire al Maggior
Consiglio, il nobil giovine Girolamo suo figlio, nato da essa e dal
predetto
suo legittimo consorte, e giurò essere egli
dell’età di vent’anni compiuti, ed
essere suo figlio legittimo nato come sopra; sotto le pene stabilite
dalle
leggi tanto per l’età come per la
legittimità, se risultasse diversamente.
Inoltre i nobili uomini sier Jacopo Barbaro q. sier Bartolomeo e sier
Benedetto
Contarini q. sier Ambrogio giurano la legittima nascita del detto
giovine per
pubblica voce e fama dal legittimo matrimonio dei predetti coniugi.
Questo alla
presenza dei magnifici missieri e Avogadori di Comune Taddeo Contarini,
Giovanni Corner e Giovanni Badoer, dottore e cavaliere.”
E
malgrado tutto, fin quasi al 1919 si pensò esser nato il
nostro
nel 1481 (a Venezia la targa commemorativa porta questa data),
confondendo la
data con quella di suo fratello Marco … sigh …
[3] Andrea Vendramin divenne doge il 5 marzo 1476,
data che noi ci siamo presi la licenza poetica d’attribuire
alla nascita del
figlio naturale di Battista Morosini. Andrea Morosini era veramente
soprannominato “Vendramino”, come riportato dal
Sanudo in occasione della sua
morte nel 1526.
Ora, se
costui agli inizi del Cinquecento era un mercante già
affermato in Siria e addirittura amico dello Shah di Persia, molto
probabilmente
era nato prima del matrimonio del padre, avvenuto nel 1481. Quindi,
c’è chi
crede alle coincidenze e chi non ci crede, ma guarda caso
c’è un doge ante l’81
che si chiama “Andrea Vendramin” e il nostro uomo
si chiama “Andrea” e fa
“Vendramino” di soprannome. Un omaggio al Doge?
Mancanza di fantasia? A meno
che lo zio Battista non abbia fatto il furbetto con una delle numerose
figlie
del Doge, leggasi: Felicita, Orsa, Clara, Taddea, Angela ed Elena,
sebbene sia
improbabile come ipotesi giacché le signore erano o
più anziane del Morosini o
al massimo sue coetanee. Il Titta s’è portato il
segreto nella tomba, mi sa.
[4] Nel suo testamento Margherita Vitturi
Miani del ramo di San Cassiano (per niente imparentati coi Miani di San
Vitale,
anzi lo stemma è pure diverso) aveva lasciato presso i
Procuratori una grossa
somma da donare all’abbazia dell’isola di San
Michele, acciocché costruissero
una cappella dedicata alla Vergine Annunziata in memoria del defunto
marito
Giovanni (o Giambattista) Miani. La donna morì nel 1455,
però la “Cappella
Miani/ Emiliani” verrà costruita soltanto nel 1528
su progetto di Guglielmo dei
Grigi detto Bergamasco e restaurato da Jacopo Sansovino nel 1560.
È una
cappella esterna a pianta esagonale con una cupola in pietra
d’Istria, con
all’interno tre altari ornato ciascuno da tre pale in
marmo: Annunciazione,
Adorazione dei Magi, Adorazione dei Pastori ad opera
dello scultore
Giovanni Battista da Carona, il quale scolpì anche le statue
di Santa
Margherita e San Giovanni Battista, collocate nelle nicchie esterne
alla
cappella.
[5]
Tommasina Morosini “dalla Sbarra” (1250 –
1300) era la figlia di Michele Morosini e di Agnese Corner di Andrea;
nel 1264
sposò Stefano “il
Postumo” Arpadi, figlio di Beatrice
d’Este e
d’Andrea II d’Ungheria (colui che
spodestò Ladislao figlio di Costanza
d’Aragona, poi moglie di Federico II di Svevia). Stefano
morì nel 1271 a
Venezia e venne seppellito a San Michele in Isola. Il figlio suo e di
Tommasina, Andrea III detto “il Veneziano”, assunse
il potere nel 1290 e chiamò
tre anni dopo la madre come amministratrice della Croazia, Dalmazia e
Slavonia.
Tommasina morì improvvisamente nel 1300, forse avvelenata.
Uno dei suoi
fratelli, Giovanni Morosini, fu il padre di Tommasina Morosini moglie
del Doge
Pietro Gradenigo e suocera del primo signore di Padova, Giacomo I da
Carrara,
che aveva sposato sua figlia Elisabetta Gradenigo. Giovanni Morosini
sarà
inoltre il capostipite del ramo da cui discende Leonora Morosini, madre
del
Nostro.
[6] Reitia potnia theron =
Reitia
signora degli animali era il corrispettivo della grande Dea Madre
presso i
Paleoveneti, molto venerata e i cui templi molto spesso sorgevano
presso i
fiumi.
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Capitolo 28 *** Capitolo Ventiseiesimo, parte prima: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 27.10.2021
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Capitolo
Ventiseiesimo
Confiteor
(Non
desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)
Parte 1
Era molto
facile, quasi inevitabile, desiderare la donna altrui,
anche quando in miniatura. Dal giorno della loro nascita, le nobildonne
veneziane non appartenevano mai a se stesse, preziosissime pedine di un
sottile
gioco sociale, economico e politico, destinate o a qualche ancora
incognito
patrizio o a Domine Iddio.
A
Ca’ Miani l’elemento femminile s’era
rivelato piuttosto carente:
tranne per Madre – al vertice della gerarchia - zia
Maddaluzza e le mogli dei
cugini, si poteva ben dire che in quel palazzo si respirasse
un’aria quasi da
quartier militare. Crestina non aveva lasciato una sufficiente
impressione per
mitigare quello spartano rigore maschile, né in casa
né tantomeno nel
fratellastro Momolo, essendosi sposata quando lui aveva appena tre
anni. Non
significava certo che per il piccolo Miani ella fosse morta, tuttavia
quando
voleva vedere Crestina, Momolo doveva recarsi a Ca’ da Molin
alla Maddalena, in
un ambiente a lui estraneo e relazionandosi con la sorellastra alla
stessa
maniera con cui interagiva con le matrone di Ca’ Miani,
rispettoso e serio,
niente frivolezze.
Al
contrario, a Ca’ Morexini si respirava una più
muliebre
leggerezza, tra risate civettuole, delicati profumi floreali e fruscii
di
cottole. Similmente alla tavolozza del pittore, Momolo si destreggiava
tra le
variegate personalità delle sue cugine germane, scoprendo
quanto tutte
possedessero almeno una virtù a lui gradita.
Anzola
Morexini di sier Ferigo, tanto per incominciare, era la più
buona delle fanciulle; domestica, timida e molto devota, prendeva
sempre le
difese del cuginetto e se lo coccolava al petto, riempiendolo di baci e
parole
affettuose, sia di conforto che d’incoraggiamento quando
Momolo faticava a
capire le sue lezioni o si lamentava dei suoi compagni a scuola. Anche
la sorellastra
di Anzola, Maria Bolani, era molto gentile e nulla prima della morte di Padre aveva reso
più
felice Momolo di recarsi in chiesa con le cugine, mano nella mano, e di
riempire di fiori l’altare della Madonna in primavera,
pregando assieme.
Magdalena
Morexini di sier Hironimo possedeva come la cugina
Anzola un carattere introverso, ma la sua non corrispondeva ad una
timidezza
soave, bensì a quella guardinga di chi s’era vista
orfana di madre e quasi
subito figliastra di una donna giovane, graziosa e decisamente
più nelle grazie
del padre rispetto a lei. Unica sopravvissuta dei fratelli, Magdalena
sapeva
che sier Hironimo avrebbe di gran lunga preferito al posto suo un erede
maschio
(soprattutto per dargliela sui corni all’odiato fratello
Batista) e che
l’apparente sterilità di madona Agnese Erizo
Morexini non la sollevava da certe
occhiate deluse, come se, con lo sguardo, i seni della ragazza
potessero
svanire e crescerle un pene tra le gambe. Per questo motivo, Magdalena
aveva
l’abitudine di starsene per i fatti suoi, mal sopportando la
presenza maschile
e di fatti Momolo notò come, non appena la
pubertà aveva incominciato a
virilizzare il suo corpo, sua cugina avesse incominciato a trattarlo
più
freddamente, specie quando sier Hironimo aveva preso a regalargli doni
su doni,
ignorando la figlia.
Maria, Querina, Marina e Donata di sier Batista erano
indubbiamente le principesse di Ca’ Morexini. Querina a Momolo era sempre apparsa piuttosto scialba, la
brutta
copia di sua sorella maggiore Maria: qualsiasi cosa ella facesse, la
minore la
copiava, suscitando non poche preoccupazioni in zia Morexina, il cui
carattere
esuberante di Maria le provocava mille apprensioni, temendo in una
corruzione
della sua secondogenita femmina, più ingenua ed indifesa. In realtà,
aveva scoperto Momolo, sua
cugina Querina altro non era che una gattamorta fatta e finita: Maria
era bella
e impavida come una Diana cacciatrice col cuore però di una
generosa Venere.
Querina, al contrario, con quell’aria fragile e verginale,
con il suo perenne
pigolare delle sue sfortune e la vocina sottile e cantilenante, pareva
una
Vesta ma sotto-sotto era più ambiziosa d’una
Giunone. Se gli uomini adoravano
Maria per la sua arguzia e briosa spigliatezza, l’aria dolce,
vulnerabile e bisognosa
di protezione di Querina li imbizzarriva. Marina e Donata, le più piccole, grazie a
Dio erano
libere e selvagge come Amazzoni, non curandosi ormai
più i loro genitori
d’educarle tanto rigorosamente quanto le maggiori.
Marinella e Donatella (com’erano chiamate in famiglia per distinguerle dalle omonime parenti) ridevano, scherzavano,
giocavano spensierate
con i fratelli e cugini d’ambo i sessi ed erano talmente
spontanee nella loro
vivacità da scaldare i cuori e Momolo se le issava in
braccio a turno e le faceva
roteare tutto contento, specie perché le cuginette erano le
prime che gli correvano
incontro durante le visite.
Però,
però … era Maria la sua preferita. La splendida
Maria, dalla
pelle bianca come la spuma del latte, i capelli scuri e morbidi, le
iridi nere,
vivaci e liquide. Agli occhi di Momolo ella incarnava
l’ideale perfetto di
femminilità e nulla al mondo gli recava più
piacere, d’appoggiare la guancia
sulla sua spalla mentre lei leggeva ad alta voce o di scorrere le dita
tra i
suoi lunghi capelli sciolti con la scusa di pettinarglieli oppure,
nell’altalena improvvisata, di stringersi stretto a lei,
sincronizzando il
battito dei loro cuori, mentre si sussurravano segretucci alle orecchie. S’era, insomma, scoperto innamorato e
gli scocciava di
sentire Maria parlare ammirata e sognante di cavalieri e condottieri,
volendo
essere lui l’unico oggetto dei suoi sospiri.
Ma erano
soltanto sogni, i suoi.
Momolo
aveva sempre saputo che le sue cugine germane, in primis
Maria, terminata la loro educazione in convento, sarebbero state
maritate a
qualcuno, figlie femmine troppo utili da venir sacrificate sterilmente
alla
vita religiosa, come affermato in più occasioni dallo zio
Batista. Nella sua
mente di bambino ciò significava che Maria e le altre sue
cugine non avrebbero
più giocato con lui, il che lo rattristava un poco: anche se
capricciosa al
limite del tirannico, Maria non lo prendeva mai in giro e gli insegnava
tanti passatempi
interessanti, quali giochi di
carte sia con le trevisane che coi tarocchi (inventandosi talora
all'improvviso
nuove e strampalate regole per vincere a discapito sia di Momolo sia
delle
sorelle). L’idea di doverla cedere ad un altro compagno di
giochi innervosiva
il fanciullo, arrovellandosi su come impedirlo. Perfino nei confronti
dei
fratelli di Maria nutriva una certa gelosia, poiché
condividevano più tempo con
lei rispetto a lui.
Inoltre,
l’essersi suo malgrado ritrovato a spionciare ciò
che
marito e moglie combinano nell’intimità del
proprio talamo aveva aperto a
Momolo un mondo nuovo, pieno zeppo di mille domande sugli uomini e
sulle donne,
dalle faccende tra di loro alle differenze corporali. La sua innocenza
e
genuina curiosità gli guadagnavano tuttavia risposte vaghe e
un poco
imbarazzate, oppure sghignazzanti dai maliziosi fratelli e cugini
maggiori, i
quali non resistevano alla tentazione di scioccare il minore tramite
dettagli
crudemente scabrosi, i quali però sortivano
l’effetto di rafforzare
quell’inconscia diffidenza che Momolo nutriva verso di loro,
giudicando le loro
verità scherzi di pessimo gusto.
E sempre
perché i bambini studiano, assimilano e scimmiottano i
grandi senza però giudizio alcuno, ecco che uno dei giochi
preferiti di sua
cugina Maria consisteva nel sposarsi e fingere che le sue piavole
fossero i
suoi puttini. Ovviamente, la materia prima, ossia il marito, rimaneva
un vago
concetto a destinarsi e se un piccato Momolo chiedeva alla Morexini
dove si
trovasse il sior marido, lei rispondeva con nonchalance “in
mare, patron di
galea”.
Sicché,
stufo marcio di star lì a fare sempre lo
“zio”, un giorno
Momolo osò metter in pratica quella
cosetta ch’aveva di nascosto
visto far Padre a Madre.
I due
cugini stavano giocando in giardino a Ca’ Morexini quando
Momolo, di punto in bianco, aveva afferrato Maria per le spalle e le
aveva
stampato un bacio sulla bocca, davanti alla sorella Querina, che subito
corse a
fare la spia, gelosa più che scandalizzata. Anzola e la sorellastra Maria Bolani
s’erano messe a ridere di
cuore e pure Magdalena, scuotendo
affettuosamente il
capo. Quanto a Maria, immediatamente ella storse le labbra e
cacciò fuori disgustata
la lingua, appioppando al cuginetto un sonoro ceffone.
“Ma
perché?”
“Che
schifezze fai?”
“Ciò,
quel che fanno marito e moglie!”
“Non
è vero, te lo sei inventato!”
“E
invece sì: il sior mio Pare lo fa sempre alla mia siora
Mare,
quando esce per lavorare, quando rincasa, quando è in studio
e prima di andare
a letto!”
“I
miei siori genitori non lo fanno mai, quindi stai mentendo!”
“E’
la verità, ti dico! E se vuoi giocare alla moglie, devi
baciare tuo marito!”
“Sei
un bugiardo!”
“Non
sono bugiardo!”
“E
pure porcello!”
“Non
è vero!”
“E
poi tu non sei manco mio marito!”
“Allora
sposami e poi ti bacio ancora!”
Al che
Maria lo schiaffeggiò di nuovo e corse piangendo da sua
madre, madona Morexina, accusando Momolo di comportarsi da lascivo
Tarquinio.
Ne conseguirono una tirata d’orecchi e un solenne sermone da
parte della zia,
laddove ella ricordava pedantemente al nipote della reputazione della
cugina,
la quale doveva rimanere impeccabile se desiderava trovare un buon
partito, e
in generale l’ammoniva di rispettare ora e per sempre il
pudore delle putte
onorate, che mai andava violato sì
impunemente. “Sii grato, bestiaccia,
che il tuo sior Barba ti concede di frequentare le tue zermane! In
alcune
famiglie soltanto i fratelli posso interagire con le sorelle
nubili!” Pur
arrossendo furiosamente dall’umiliazione, Momolo non si
considerò affatto
colpevole per il suo gesto, in fin dei conti lui aveva proposto a sua
cugina di
sposarlo e poi manco ci credeva ch’avesse un fidanzato,
figurarsi un marito!
Inoltre – e qui il fanciullo sorrise tra sé e
sé perfido – qualcosa gli diceva
che sua zia Morexina sotto-sotto stesse crepando d’invidia,
poiché anche a lei
sarebbe piaciuto esser baciata più spesso dallo zio Batista
e a nulla valeva
quel suo rimproverare Madre e Padre per le loro effusioni amorose, da
lei
giudicate inappropriati atteggiamenti
d’adolescenti al primo amoretto
estivo. Sicché il piccolo Miani, al rientro in
casa dello zio Batista, gli
era andato dritto incontro e, mani sui fianchi, aveva chiesto:
“Sior Barba, posso sposarmi vostra
figlia, sì
o no?” e il Morexini, ch’aveva capito
che più s’ostacolava il nipote e più
quegli remava contro, aveva risposto falsamente solenne: “Quanto diverrai Missier Capitan Generale da Mar, te
la darò in moglie”.
Furbo lui.
In ogni
modo, la cottarella verso la cugina scomparve tanto
velocemente quanto era nata, stroncata dalla morte di Padre, la quale
coincise
col trasferimento di Anzola, Magdalena, Maria e Querina al
convento, là
dove per cinque anni avrebbero migliorato le loro competenze di
matrone, in un
ambiente esclusivamente femminile e al sicuro dalle insidie degli
uomini e
dalle tentazioni carnali.
O almeno
si sperava.
Il 26
ottobre 1502 scoppiò infatti l’ennesimo scandalo
dietro le
mura conventuali, stavolta al Monastero di Santa Maria delle Vergini,
nel
sestiere di Castello. L’Avogador sier Francesco Foschari si
vide arrivare in
Quarantia Criminal una banda di munegini, tra cui sier Vicenzo q. sier
Ziprian
Morexini, il nipote di Maria Morexini Miani cugina di Madre. Nessuno
dei
Morexini di San Cassian si sorprese di tale arresto, ben avvezzi alla
sua
consolidata fama di puttaniere impenitente; eppure, nella disgrazia
sier
Anzolo, fratello maggiore di Vicenzo, vi scorse una ghiotta
possibilità per
imbrigliare finalmente quel cavallo pazzo del minore e al contempo
punirlo ad
perpetuam della sua sfrenata lussuria. Al culmine di un processo durato
ben
quindici mesi, sier Anzolo aveva costretto Vicenzo a dire che
sì, egli aveva in
più occasioni conosciuto carnalmente la giovane monaca
Franceschina Boldù di
sier Alvixe, ma in quanto spinto dall’immenso amore che
nutriva nei suoi
confronti e pertanto era prontissimo a riparare, sposandola. Ai
Boldù non parve
vero di stringere tale vantaggiosa alleanza e l’Avogador si
ritenne
soddisfatto. Vicenzo scontò dunque prima la condanna emanata
dalla Quarantia
Criminal e poi quella da suo fratello Anzolo. Perché madona
Franceschina Boldù
Morexini mica era una agnellina di primo pelo, oh no! Oltre ad essere
l’amante
di Vicenzo Morexini, costei aveva condiviso per anni il suo letto con
sier Zorzi
Contarini e con sier Bernardo Pixani, rendendo quest’ultimo
padre di più d’un
figlio.
“E come se
non bastasse”, se
la rideva la cantante e la cortigian honorata Luzia Trivixan, “il caro sier Bernardo, oltre a madona
Franceschina, se la spassava anche con madona Benedicta Lego sua
consorella! Sapete
come s’introducevano? Usando scale e le piante rampicanti!
Addirittura, codeste
monache non soltanto intrattenevano commerci carnali con patrizi e
cittadini
veneziani, ma pure da fuori: tre loro amanti se le sono portate a
Vicenza per
sollazzarsi allegramente, con la scusa di un pellegrinaggio al
santuario di
Monte Berico” e prese fiato, asciugandosi le
lacrime agli occhi. “Santa Cecilia
mia! Neppure a casa mia c’è
tutto questo viavai di uomini!”
“Ma
neanche alle Carampane!”, sbottò invece sier Batista,
sorprendendo
Momolo per il tono stranamente perentorio dello zio. “L’ho
sempre detto, che Le Vergini non è un luogo onesto: sin dai
tempi
del Doge Francesco Foschari è sempre stato invischiato in
turpi negozi, con le
sue monache più in calore delle gatte ed una di queste
adesso ce la ritroviamo
pure in famiglia! Ma che diavolo è saltato in testa al mio
cugino Anzolo d’ammogliare
suo fratello a quella mamola?!”
“Personalmente,
lo trovo un raffinato contrappasso, roba che il sommo Dante
applaudirebbe:
poiché sier Vicenzo è un disonesto dunque si
sposi una disonesta!”
“Momolo,
ti ho forse detto di smetterla d’esercitarti col liuto? Non
far perdere tempo
alla Luzietta!”
“Oh, mo’
via, sier Batista”, corse
Luzia in aiuto di Momolo,
accarezzandogli la zazzera indomita e provocandogli un attorcigliamento
di
budella. “Il vostro nezzo ha
ragione: una
puttana per un puttaniere, il castigo perfetto!”
“Ma il
Pixani? Il Contarini? Chi c’assicura che quella svioldra
cesserà d’intrattenerli?
Bone Jesu, ha avuto dei figli dal primo! Non finirà che
Vicenzo la mantiene e
gli altri se la galdono? (godono, ndr.)”
“Bah, per
me a loro non farà differenza: in inverno, vedrete, si
scalderanno in quattro
in letto!”, gettò indietro il
capo la
Trivixan, ilare. E facendo un occhiolino a Momolo, si sedette sulle
ginocchia
dello zio, ticchettandogli la punta del naso,
l’apostrofò giocosamente: “La
verità è che voi siete invidioso,
perché
sier Bernardo, sier Vicenzo e sier Zorzi hanno tutti avuto
gratuitamente
accesso alla mona di madona Franceschina, mentre voi per la mia
…” e come
terminò la frase Momolo non l’apprese, sia
perché la cortigiana honorata l’aveva
sussurrata maliziosamente all’orecchio dello zio, sia
perché l’intera
conversazione unita a quell’effusione amorosa gli stava
provocando una certa
tensione dentro la braghetta, costringendolo ad appoggiare il liuto e a
correre
via dalla stanza, le gote in fiamme.
Pettegolezzi
a parte, effettivamente Momolo aveva in più occasioni
sentito su di sé lo sguardo voglioso di educande, novizie e
perfino delle
monache da dietro le grate del parlatorio, quando si recava in visita
alle sue
cugine onde portare loro di nascosto un libro o per ciacolare del
più e del
meno. Occhiate di fuoco che lo spogliavano strato dopo strato,
confessandogli
desideri della più ormonale lascivia e non si
poté dire che il ragazzino non le
ricambiasse, avvicinandosi magari al ferro e appoggiando sopra
d’esso la mano,
intrecciando “casualmente” le dita ora con educante
e ora con postulanti o
novizie, desiderandole tutte e nessuna in particolare, ninfe ridenti e
maliziose anche se nero o biancovestite. Gli anni a seguito di Madre e
di tutte
le sottane di casa gli avevano insegnato una rara arte, declamata dal
medesimo
Ovidio, ossia di saper ascoltare le donne: qualsiasi confidenza e
conversazione, anche se banale e noiosa, Momolo le ascoltava serio e
attento,
commentando vivacemente e anzi, pure incoraggiando quelle recluse a
fornirgli
maggiori dettagli. Sicché, estasiate da cotanti riguardi nei
loro confronti, le
signorine si contendevano la sua compagnia e gli sussurravano
all’orecchio
paroline infuocate.
Tali
visite cessarono per un breve periodo, quando le sue germane ritornarono nel
mondo e vennero piazzate sul mercato, in attesa che i signor padri
pescassero
l’anguilla giusta per loro, come avvenne per Maria, la quale tre anni dopo si sposò in sier Zuanne Querini di Stampalia e Amorgo. Le visite al convento ripresero invece nel momento in
cui sua
nipote Dionora da Molin seguì le orme delle parenti,
divenuta
la giovinetta amica di Marina Morexini, figlia ed erede universale
dell’ognora vituperato e ricco sier Orsato Morexini.
Pur
divisi dall’età, la fanciulla sin da piccola aveva
dimostrato
un’incredibile precocità di pensiero, forse per
difendersi dalle follie di sua
madre madona Pellegrina Nani relicta Morexini, la quale se avesse
potuto più
che in convento l’avrebbe rinchiusa nella più alta
torre fortificata della
Serenissima, tanto temeva l’unica figlia finire vittima di
cacciatori di dote
senza scrupoli. Prima di venir bandito dalla sua presenza, giudicato
appunto
una delle sopracitate canaglie, lei ed Hironimo avevano condiviso una
delicata
amicizia, accomunati da un lutto inconsolabile, la morte precoce dei
rispettivi
padri, e pertanto conversando in sintonia perfetta. Il giovane Miani
l’aveva
rivista in via straordinaria al matrimonio di Maria, stentando di
riconoscere
l’antica amichetta in quella donnina: a confronto, la
dodicenne sua nipote
Dionora pareva fisicamente
ancora una
bimbetta, spigolosa, piatta e dai fianchi stetti, tutta gambe lunghe;
al
contrario la sua amica, di un anno più anziana, era maturata
in fretta,
prosperosa ma non troppo di seno, morbida e sinuosa.
Ma la
cosa più straordinaria era che Marina non s’era
affatto
scordata del loro legame, per quanto platonico esso fosse stato,
supplicandolo
con sospettosa arte di venirla a trovare più spesso in
convento, così da
scacciare la noia e se non per amor suo, per la povera Dionora lì tutta sola soletta.
Hironimo
s’era prestato volentieri a quello che, in fin dei conti,
per lui si trattava di un gioco: non gli dispiaceva ridacchiare a
questo o
quell’aneddoto di vita conventuale assieme alle tre educande,
né di divertirle
invitando dei burattinai ad improvvisare uno spettacolino, del quale si
giovavano anche le altre fanciulle, sempre al sicuro dietro la grata.
Aveva
accettato volentieri i fazzoletti ricamati da Marina, così
come lei divorava i
designi allegorici che Hironimo le passava, decifrando talvolta rebus
contenenti qualche battuta di spirito o la risposta ad un indovinello
che lui
le poneva. Ben presto però Marina iniziò a
replicare con altrettante allegorie
amorose e Hironimo rispose con cavalleresca leggerezza, rammentandosi
che si
trovava dinanzi ad una bambina che giocava alla donna. Non
l’incoraggiava né
scoraggiava, poiché sapeva che l’incanto sarebbe
sfumato non appena Marina avesse
terminato gli studi.
“Oggi
è il mio compleanno e non mi avete portato neanche un dono:
sappiate, che sono molto in collera con voi”, gli
confessò la quattordicenne
fanciulla, deambulando felina dietro la grata e seguita parallelamente
da
Hironimo, che ridacchiò:
“Non
vi piace il nastro di seta, che v’ho regalato?”
Marina
alzò la lunga e pesante manica, rivelando la pregiata
stoffa fasciante il polso e chiusa in un elaborato fiocco.
“Non la posso
mostrare a chicchessia”, storse la boccuccia.
“Inoltre, l’ho trovato un regalo
assai freddo.”
“Freddo?”
La
giovinetta si fermò all’improvviso, afferrando le
sbarre con
ambedue le mani. “Se voi m’amaste sul serio,
m’avreste donato un bacio!”
Il
patrizio rise di cuore, scuotendo ilare il capo. “E
come?”,
disse, alludendo alla grata, che impossibilitava tali effusioni, ideata
forse
apposta.
“Avreste
trovato il modo!”, replicò cocciuta ed imbronciata
Marina. “Vi odio, Hironimo Miani, non vi parlerò
mai più in vita mia!”
“Mo’
via, quante storie! Non fate i capricci!”, la
rimproverò il
ragazzo scherzosamente, pur avvicinandosi alla grata.
“E
voi non fatemi morire di dolore!”, piagnucolò la
fanciulla.
“Cosa
dirà il vostro novizzo?”
“Non
ho alcun novizzo; amo soltanto voi, l’unico che
desidera me e non i miei
soldi!”, sbottò Marina, asciugandosi
le lacrime che incominciavano ad inumidirle i grandi occhi allungati.
Un
po’ per colpa, un po’ per curiosità, un
po’ perché dinanzi ad
una bella ma piangente ragazza il cuore dell’uomo tende a
sciogliersi in
fretta, Hironimo cedette alle insistenze della giovinetta e si
portò due dita
alle labbra, prontamente imitato da lei. Ambedue schioccarono un sonoro
bacio
sui polpastrelli e in contemporanea infilarono il braccio dalla parte
opposta
della grata, accarezzando la rispettiva bocca, sennonché
all’improvviso Marina
gli catturò l’indice coi denti, mordendolo a
mo’ di punizione per la sua
insensibilità e poi suggerlo languidamente, provocando
un’inaspettata scarica
di caldo e freddo nel ragazzo, di mollezza e durezza di membra.
D’istinto,
mandando al diavolo (con ogni rispetto per il luogo) le conseguenze,
Hironimo
ghermì la mano di Marina e s’infilò in
bocca il sottile medio di lei,
accarezzandole la falange con la lingua, avvolgendola in un umido
abbraccio.
Senza accorgersene i due giovani si spinsero contro il muro e la grata
e
congiunsero in sincronia perfetta le loro bocche, intrecciando le mani
mentre
Marina afferrava quella destra d’Hironimo per porsela sul
seno sinistro e
massaggiarselo in movimenti circolari, il sangue ribollente nelle vene.
Quand’ecco
che l’eco dei passi li gelò, portandoli a
staccarsi
rapidissimi, il fiato mozzo e irregolare, fissandosi increduli e
complici negli
occhi.
“Verrete
domani?”, ansimò Marina, sorda al richiamo lontano
della suora
responsabile delle educande.
Hironimo
non si recò più al convento, inviando soltanto
lettere
alla nipote e senza
mai
menzionare la Morexini. La consapevolezza di quanto compiuto gli era
crollata
addosso più pesante d’un macigno: era sbagliato,
sbagliatissimo, com’aveva
potuto cedere a quella debolezza? D’approfittarsi
sfacciatamente dell’ingenua
infatuazione di Marina? Lui le era maggiore, avrebbe dovuto comportarsi
da
responsabile e impedirle di compromettersi per un capriccio temporaneo.
Non
aveva un novizzo, vero, ma si trattava di questione di tempo. Sua madre
madona Pellegrina
Nani relicta Morexini non si sarebbe certo piegata dinanzi ai
sentimenti acerbi
della figlia e il giovane Miani non l’avrebbe trascinata nel
lussurioso
adulterio per soddisfare le sue brame. Lei non era sua,
quell’ereditiera cui a
tutta Venezia faceva gola.
In tali
colpevoli pensieri e agitazione d’animo lei l’aveva
scovato e corteggiato, lasciandosi Hironimo sedurre anche per
dimenticare lo
schifo che provava verso se stesso. Inoltre, s’era ripetuto
la prima volta in
cui i due novelli amanti s’erano appassionatamente congiunti,
la sua amante era
vedova e un morto non corrispondeva ad un granché come
rivale. Anzi, al dì del
funerale, onde sottolineare il concetto, era
usanza che il compare dell’anello o un
parente del morto sfilasse pubblicamente la vera nuziale dal dito della
vedova,
segno che ogni legame terreno e spirituale col defunto veniva reciso,
che la
donna ritornava libera di sposare chiunque ella desiderasse.
(Madre a
tal riguardo aveva fatto il diavolo a quattro,
rifiutandosi categoricamente di sottostare a quel rituale tra lo
sconcerto
generale e rimproveri di melodrammaticità, stringendosi
invece caparbia la fede
e sostenendo che, da viva come da morta, ella sarebbe sempre stata la
donna di
Anzolo Miani e di nessun altro.)
***
In fin
dei conti, per motivi di spazio fisico e di storia, Venezia
aveva sempre vissuto in un mondo tutto suo, con le sue regole e la sua
morale,
infischiandosene dell’altrui opinione, semmai traendo diletto
dallo stupore ed
indignazione dei foresti, adorando semplicemente sconvolgerli e
così ridicolizzarli.
Tra i
suoi molti atipici costumi, i visitatori stranieri avevano
spesso notato come mai in nessun luogo si fossero visti tanti devoti e
tanta
poca devozione come a Venezia e ciononostante, i suoi abitanti
possedevano una
religiosità da riuscire ugualmente a stupirli: ad esempio, i
veneziani potevano
tranquillamente donare ingenti somme di denaro nei loro testamenti a
questo o
quell’ordine religioso e magari un attimo dopo schernivano
pesantemente e
strapazzavano il loro parroco o qualche pio monsignore; bestemmiavano
perfino i
morti eppure recitavano con sincero fervore i loro Paternostri e
Avemarie;
baciavano le sante reliquie e con la stessa bocca quella di una
ragazzotta
compiacente; un patrizio manteneva pubblicamente e senza alcun biasimo
una
cortigiana honorata, anche in casa al limite di un concubinato da harem,
ma allo
stesso tempo egli non avrebbe mancato la sua Messa per nulla al mondo.
D’altronde,
riguardo a quest’ultimo punto, la qualifica di
“cortigiana” non disonorava nella città
lagunare, bensì dava credito e per una di queste donne di partido, sier Zuan Moro era uscito da una rissa sfregiato sul volto, malgrado a casa sua e dei due suoi rivali li attendessero mogli molto avvenenti. E se per le cortigiane di lume gli uomini erano disposti a bagarrare, figurarsi allora l'effetto delle cortigiane
“honorate” su di loro, ricercatissime e degne eredi della
greca Aspasia. I nobili si disputavano accanitamente i loro favori e il
popolo
la loro mano, mentre i pittori le tallonavano per immortalarne il vago
volto in
una qualche santa o dea. Costoro si trovavano al vertice della
gerarchia delle
amiche di letto e permettersi la loro compagnia confermava in
società
l’importanza, la ricchezza e la cultura dei loro clienti,
nonché un’ottima
opportunità d’intrecciare utili amicizie politiche
e sociali, con la scusa di
frequentare gli eventi mondani organizzati da quelle moderne eteree.
Stanchi
delle fatiche della politica e magari delle lagne delle
mogli o il chiasso dei figli, se maritati, o vogliosi di compagnia, se
celibi,
i patrizi veneziani spesso e volentieri si abbandonavano alle piacevoli
festicciole preparate ad arte dalle cortigiane honorate, invitati a cene
raffinate nei loro stravaganti e ricchissimi appartamenti, in cui non
esistevano né censori né saggi, né
ambasciate né guerra, bensì un mondo segreto
creato esclusivamente per loro e fatto di sola effimera bellezza, dove
codeste
dee incantatrici cantavano, danzavano, suonavano il
liuto,
improvvisavano versi e donavano quel pizzico di sensualità
che, vuoi per
pudore, mancanza di slancio o semplicemente l’età,
la sposa non poteva offrire.
Qualora
la cortigiana honorata (od onesta) fosse diventata un’estensione della
famiglia del suo protettore, non era strano che si trasferisse in un
piano del
suo palazzo né che chiamasse il suo protettore (o protettori) "Mio signor" né che la moglie legittima ci pranzasse assieme,
spesso divenendo
amiche intime e ciò non per cristiana e muliebre
bontà della patrizia, bensì
per puro e gretto tornaconto personale e inoltre la mantenuta, se
sveglia, ben
le conveniva non discutere sulla gerarchia domestica.
L’amante serviva ad
intrattenere in ogni senso il marito, distraendolo dalla moglie che
rimaneva
finalmente libera dalle gravidanze e di gestire la casa a suo
piacimento. Secondo, la cortigiana era la sua spia perfetta, la quale le
riferiva
ogni spostamento del consorte. Terzo, garantiva più
possibilità all’intera
famiglia d’evitare di contrarre il malfrancese. Quarto, la
patrizia avrebbe
visto più spesso in casa il marito, risparmiando inoltre
sulla tariffa visto
che vitto e alloggio erano già inclusi.
Ulteriore
meraviglia per gli stranieri era, poi, come i patrizi
veneziani non tendessero a riservarsi il godimento esclusivo delle
amanti: pur
mantenendo una cortigiana honorata, onesta o di lume, il nobile se la divideva allegramente
con tre
o quattro dei suoi amici o parenti, la donna il loro collante e
portavoce. Tale
liberalità però non doveva esser scambiata per
incauto laissez-faire: anche in
questi piccoli e intimi gruppi vigevano regole non scritte, laddove la
mantenuta, pur seguitando pubblicamente ad intrattenere con musiche e
conversazioni brillanti, s’impegnava a cedere i suoi favori
solo alla sua
ristretta cerchia, nessun intruso ammesso. Contrariamente alle
cortigiane di
lume, oneste e honorate a briglia sciolta, la mantenuta poteva ben
rifiutare i suoi
servigi a chi non le andava o a chi le veniva proibito e a suo modo
sentirsi
“fedele” al protettore e/o protettori.
Di sicuro
non si faceva di un’erba un fascio e anche a Venezia
esistevano mogli gelose e mariti fedeli, che personalmente non
condividevano
tali pratiche, ma neanche le giudicavano, semmai scherzandoci sopra.
Rimaneva
comunque una situazione ambigua, specie per gli esclusi
dal cerchio, poiché in un certo senso la mantenuta
rappresentava il suo gruppo
e un suo sbaglio si ripercuoteva anche sulla loro reputazione,
associarsi a lei
significava essere ammesso nel circolo, uno sgarbo da un estraneo
equivaleva ad
un insulto a chi la proteggeva.
Quando
Hironimo conobbe per la prima volta Luzia Trivixan, egli
aveva appena sette anni ma ci sarebbero voluti altri anni e un secondo
incontro
ufficiale per capire meglio, chi ella fosse e che ruolo avesse nella
loro
famiglia. Nella sua ingenuità l’aveva creduta una
favolosa cantante, una
nobildonna ospite della Regina di Cipro, ingannato dal cognome patrizio
della
cortigiana, uno dei molti misteri della Diva, del cui passato ella si
dimostrava stranamente gelosa.
Di quel
lontano maggio del 1493, il Miani si sovveniva a spezzoni,
spesso sconnessi tra di loro e della Trivixan uno stralcio di
conversazione
origliato tra lei e il suo barba.
All’epoca,
sier Batista Morexini stava completando il suo mandato
come provveditore sopra il Polesine di Rovigo, assieme ai colleghi sier
Lucha
Trum di Antonio e sier Francesco Bragadin q. sier Jacomo. Purtroppo, un
qualcosa di quelle terre gli aveva raffreddato lo stomaco e in seguito
a molto
vomitare ed evacuare più acqua che feci, il Morexini aveva
scritto alla
Signoria, chiedendo e ottenendo un breve rimpatrio onde curarsi meglio,
non
confidando nella bravura dei medici rodigini né di far da
cavia a quelli
padovani. A sua moglie madona Morexina, che l’aveva
accompagnato, non pareva
vero di poter finalmente ritornare alla civiltà,
lamentandosi con la cognata
madona Leonora e domandandole il suo segreto, su come avesse fatto a
sopravvivere quando sier Anzolo aveva ricoperto la medesima carica nel
1488.
Madre le aveva raccontato che all’epoca c’era molto
da fare ed erano sempre
stati impegnati in mille attività, tra opere di bonifica, di
potenziamento
urbano e stradale, di smantellamento di ogni traccia del dominio
estense da
Rovigo e dalle altre città del Polesine. Praticamente il
fratello viveva di
rendita del lavoro del cognato e di sier Agustin Barbarigo, ora Doge ma
primo
provveditore delle nuove terre annesse alla Serenissima.
“Il
loro accento è così terribile, come facevi a
capirlo?”
“Dopo
due anni a Feltre, dove si parla un misto tra
veneto-trevigiano e ladino, nessuna parlata all’interno della
Signoria m’ha più
spaventata!”, scherzava madona Leonora dinanzi alle
perplessità della cognata.
Le era
dispiaciuto moltissimo lasciare Feltre, così come i suoi
abitanti avevano pianto commossi il dì della partenza del
loro beneamato
podestà e capitano e della sua famiglia. Leonora si era
affezionata a quella
gente montanara; al vecchio monaco della basilica-santuario dei Santi
Vittore e
Corona che le preparava deliziose tisane, talvolta solo per il gusto di
bere
qualcosa di gradevole al posto del vino. Le sarebbe mancato il sole
forte e
caldo e l’aria frizzante e tersa, nonché quel
perpetuo odore d’erba fresca e di
latte appena munto. Perfino all’ululato dei lupi in inverno
s’era abituata, non
terrorizzandola più come la prima volta. Inoltre –
e qui Madre arrossiva per
quella sua piccola vanità – rimpiangeva un poco
non trovarsi più al centro
dell’attenzione: in conformità al titolo e al
grado del marito, a Feltre la si
chiamava madonna podestaressa e capitana e
in quanto tale
doveva mostrarsi in pubblico vestita sontuosamente, le vesti di diversi
colori
di broccati, seta, d’oro ed argento ed i capelli racchiusi in
un’elaborata
acconciatura ricca di perle e d’altre gioie, a malapena
celata da un velo di
seta bianco con trine d’oro. Quando usciva dal palazzo
pretorio in visita o per
recarsi nelle varie chiese, conventi e monasteri di Feltre per questa o
quella
devozione, Leonora era sempre accompagnata da un variopinto e
civettante corteo
di nobildonne locali e da una moltitudine di serve, tenendo
così la sua piccola
corte.
Trasferirsi
a Rovigo non era stato facile, l’ambiente
tutt’altro
che amichevole, malgrado fossero trascorsi ben quattro anni dalla Pace
di
Bagnolo; forse troppo pochi per far dimenticare a certuni irriducibili,
come
sier Anzolo fosse stato capitano di galea durante la Guerra del Sale e
rivederselo ritornare assieme ai colleghi sier Andrea Venier q. Lion e
sier
Domenego Zorzi q. Francesco, non doveva aver evocato graditi ricordi.
Forse
quella sottile ostilità aveva spinto i tre provveditori
ad’intraprendere una
linea politica particolarmente dura, stufi marci di
quell’ostinatezza da muli:
la Signoria s’era dimostrata paziente e tollerante,
conservando in parte alcuni
statuti estensi ma guai a chi scambiava la sua diplomazia per
debolezza,
sperandola di gabbare. Sicché, all’ennesima
provocazione, i tre provveditori
erano scesi col piede guerra e ogni simbolo degli Este era stato
abbattuto e
rimpiazzato da quelli della Serenissima, incominciando
dall’antico castello,
bruciato prima e smantellato poi.
Inutile
dire quanto madona Leonora fosse stata contenta di
rimpatriare a Venezia l’anno successivo, sorridendo di gioia
pura alla vista
della Torre delle Bebbe, l’antico segno di confine veneziano.
Di conseguenza,
un po’ biasimava la mancanza di stoicismo nella cognata
madona Morexina, la
quale stava risiedendo in una Rovigo totalmente diversa, più
venezianizzata
rispetto a quella di cinque anni addietro.
E
parlando del diavolo – cioè gli Este –
una settimana dopo il
rientro di un sofferente sier Batista Morexini, a Venezia si
festeggiava la
Festa della Sensa cui avevano partecipato anche il marchesi di Mantova,
Francesco Gonzaga ed Isabella d’Este, giunti separatamente,
prima la moglie e
poi il marito, entrambi “domesticamente” , ovvero
senza un comitato di
benvenuto ad accoglierli. I Marchesi avevano assistito in bucintoro
allo
Sposalizio del Mare e alla sera cenato a Palazzo Ducale assieme al doge
Agustin
Barbarigo. Madona Crestina Miani da Molin, scelta per il corteo di
patrizie che
doveva accompagnare ovunque la Marchesa per l’intera durata
del suo soggiorno,
aveva raccontato ai curiosissimi parenti ogni minimo dettaglio di
quella
visita, provocandone il riso specie quando descriveva le differenze
comportamentali tra i due coniugi mantovani, tanto raffinata al limite
dell’affettato lei, quanto terra a terra e assai
volgare lui.
“Siccome
ho dato una buona impressione, mi hanno poi confermata
per far parte del seguito delle nostre prossime ospiti”,
confessò Crestina a
Madre, eccitatissima. Approfittando degli ultimi strascichi della Festa
della
Sensa, la Signoria stava lavorando puntigliosamente per accogliere al
meglio Eleonora
d’Aragona duchessa di Ferrara; suo figlio don Alfonso e la
nuora Anna Maria
Sforza e la secondogenita Beatrice d’Este duchessa di Bari,
moglie di Ludovico
il Moro, nonché un corteo di quasi 1200 persone, tra nobili
milanesi e
ferraresi. “Purtroppo non avrò tempo per ordinare
gioielli nuovi e si sa che la
Ducissa di Bari ne ha una sfilza di bellissimi …”
e chissà dei 900.000 ducati
spesi annualmente solo dalla città di Milano a Venezia
(contro il milione e
mezzo dell’intero Ducato) quale fosse la percentuale di
contributo personale
della giovane e insaziabile Beatrice d’Este, i cui ordini
includevano rubini di
Pegù, diamanti di Deccan, zaffiri, topazi e giacinti di
Ceylon, smeraldi
dall’India, turchesi del Khorassan e del golfo Persico,
onice, corniola
d’Arabia, cristallo di rocca del Zabulistan e del Badakhshan,
occhi di gatto
del Malabar, lapislazzuli della Tartaria. I vizi costano e la
Serenissima si
dimostrava solerte e generosa nel coccolare spudoratamente i suoi
clienti,
trasportando le sue agili galee ogni genere di bendiddio.
“Sì,
la Ducissa ne avrà di costosi, ma nessuno regalato
dall’Imperatrice in persona!”, la
consolò madona Leonora, abbandonando
momentaneamente il suo ricamo e, ritornata dalla sua stanza, le cedette
una
scatola laccata, dove la figliastra trovò avvolto in un
panno di velluto due
giri di pingui perle con un grosso pendente di zaffiro, incastonato in
un
cerchio di nove perle dalle dimensioni di nocciole. Era stato un regalo
di D.
Leonor d’Avis di Portogallo, defunta Imperatrice, venuta in
visita a Venezia
nel maggio del 1452 e madrina della Morexini. “Ti presto
questa collana più che
volentieri, ormai per me le occasioni d’indossarla stanno
diminuendo”, asserì
ad una commossa Crestina, la quale dimentica del suo lavoro
indossò celere il
vezzo e si ammirò allo specchio, tra i complimenti delle
altre nobildonne lì
presenti.
“Vi
ringrazio, siora Mare: s’accompagnerà benissimo
alla mia
coroncina di perle!”
Sua zia
Morexina, lì seduta accanto, non volle esser da meno e le
mise a disposizione i suoi veli di seta talmente trasparenti, morbidi e
lucenti, da sembrare vaporosi spicchi di nuvole. Inoltre, le erano
appena
giunte dal sarto delle manichette in panno d’oro, che col
vestito cremesino
della nipote sarebbero state d’incanto. Madona Barbara Moro
Morexini, moglie di
sier Hironimo Morexini, invece s’offri di imprestarle uno dei
suoi ventolini,
esotiche bizzarrie portatale da suo fratello sier Christofal Moro dal
Levante.
“Quale
preferite, mia cara, quello dal manico d’avorio e dalla
striscia di damasco o quello d’ambra dalla striscia fatta di
penne di pavone
bianco?”
“Quello
di pavone! Quello di pavone!”, le suggerì Ysabeta
Zen
relicta di sier Alvixe, biscugino di sier Anzolo, che viveva in casa
con loro.
“Giusto per vedere che faccia fa la Ducissa di
Frara!”
E le
donne risero forte fino a piegarsi quasi sui rispettivi
ricami, divertite di rara perfidia allo scherzo e inquietando parecchio
Momolo,
lì seduto in un cantuccio della stanza in attenta
osservazione di quel gineceo,
che con la scusa di ricamare e merlettare spettegolavano su tutto e
tutti, più
informate delle medesime spie della Serenissima.
“An,
quanto siete fortunata, sorela”, sospirò madona
Marina
Morexini Vituri, moglie di sier Piero Vituri, alla sorella madona
Ysabeta
Morexini Corner, moglie del cavaliere sier Zorzi Corner.
“Avrete la possibilità
di merendare a tu-per-tu con le Ducisse a casa della Reyna”,
disse, alludendo
alla festa che domina Catharina Corner stava organizzando nel suo
palazzo e
giardino a Murano. “Morexina, cara sorela, perché
v’ostinate a rifiutare
l’invito?”
Essendo
suo amico intimo nonché suo socio nella mutua, il
cavaliere aveva esteso l’invito al cognato, sier Batista
Morexini, il quale
ancora non s’era deciso se accettare o meno
l’invito, idem per sua moglie.
“Vi
pare consigliabile portare lì quel mezzo-cadavere del mio
poaro
sior marido, cussì che vomiti sul bel panno morello della
Ducissa di Bari? Inoltre, oramai la luna qui va crescendo e ogni vestito già mi sta stretto ...”, storse la bocca, allundendo al ventre che si stava ingrossando del suo settimo figlio.
“Conoscendo
il vostro sior marido, più probabile sulla
scollatura!”, scherzò madona Ysabeta, provocando
l’ennesima fitta di risolini e
un piccolo broncio nella sorella, la quale mai aveva digerito la natura
farfallona del consorte.
“Se
lo fa, lo debbono eleggere a prossimo Missier el Doxe”,
rincarò la dose madona Barbara, falsamente solenne. Poi,
alleggerendo il tono:
“Di sicuro si preannuncia una guerra all’ultimo
sfarzo, che la nostra Reyna e
domina d’Axolo potrebbe ben vincere: insomma, possiede
gioielli appartenuti
alle Reyne di Jerusalem, Cypri e Armeniae! La Ducissa di Bari
potrà comprarsene
dei più costosi, ma cos’è un vezzo
nuovo, se paragonato ad uno antico,
indossato da grandi sovrane?”
“Di
sicuro si preannuncia un trionfo dell’ipocrisia”,
commentò al
contrario cupamente Madre, il viso ben puntato sul ricamo e la fronte
aggrottata. “Per me, io non so come reagirei se mi dovessi
trovare dinanzi alla
figlia e alla nipote, di colui che ha ordinato tramite congiura
l’assassinio
del mio sior barba e del mio zerman, per di più davanti ai
miei stessi occhi,
per poi strapparmi via dal seno il mio unico figlio!”
Un gelido
silenzio s’impose nella sala, disorientando Momolo, non
capendo cosa avesse rabbuiato le nobildonne, le quali, contrariamente a
lui,
ben si ricordavano del triste passato della loro parente. Ma domina
Catharina
pur nell’isolamento e prigionia s’era dimostrata di
tempra ben più forte dei
suoi nemici, dei commissari ciprioti ed esponenti del partito
filo-napoletano
fomentato da re Ferrante d’Aragona, i quali avevano creduto
di spezzarne lo
spirito, piombandole in camera di notte e massacrandole lo zio sier
Andrea
Corner e il cugino sier Marco Bembo, accorsi a proteggerla, e
sottraendole il
figlio, il piccolo Jacques de Lusignan.
Adesso
domina Catharina dimostrava doppio coraggio a voler
fronteggiare, senza provare alcun prurito alle mani, la figlia e la
nipote del
Re di Napoli, la fonte primaria dei suoi lutti familiari,
nonché causa della
forzata abdicazione e perdita del suo regno, annesso alla Serenissima a
seguito
dell’ennesimo complotto, nonché delle
dichiarazioni di nuove nozze da parte
della regina.
Togliendosi
il vezzo di perle e riponendolo nella scatolina,
madona Crestina tossicchiò un attimo, cercando di ravvivare
la conversazione.
“Siora Amia Morexina, pensate almeno d’accettare
l’invito della Reyna alla
colazione di domani?”
Grata di
quel cambio di discorso, la patrizia convenne. “Un
po’
d’aria fresca gioverà a mio marido,
così anche da capire se sarà o meno in
grado di resistere alla festa in onore delle ducisse!”
“Posso
venire anch’io, siora Mare?”, s’intromise
ad un tratto
Momolo, stufo d’ascoltare e attirando su di sé
ogni muliebre sguardo.
“Ma
certo, tesoro, la Reyna stessa ha insistito!”,
l’assicurò
Madre, la cui cognata acquisita possedeva un rapporto un po’
ambivalente nei
confronti dei bambini: se da una parte li adorava e le piaceva
circondarsi
della piccola truppa di nipotini, dall’altra le davano sui
nervi, ricordandole
il figlioletto premortole, il suo Jacques. Evidentemente, in quel
momento la
Regina e signora di Asolo si sentiva più incline al primo
umore.
“Ho
sentito che mia cognata ha invitato anche Luzia Trivixan, per
un concerto dopo la refezione”, aggiunse madona Ysabeta,
puntando l’ago e,
alzatasi dallo sgabello, inarcando e stiracchiando la schiena
irrigiditasi.
“Trivixan?”,
ripeté madona Marina. “La moglie di chi?”
“Di
nessuno. Di qualcuno. Di tutta Veniexia”, le rispose
maliziosa
madona Barbara, il cui fratello sier Christofal apparteneva alla
medesima
categoria di cottoloni del cognato sier Batista.
“E’ una cortigiana honorata e,
dicono, a soli diciott’anni la migliore cantante della
Signoria!"
Il viso
di madona Morexina sbiancò. “Una cortigiana? Alla
presenza
dei bambini? Ma è impazzita mia cugnada? Se voleva delle
cantanti, poteva
invitare quelle eccellenti monache agostiniane!”
“Oh,
mo’ via, barbosa pizzocchera! È un concerto
diurno, di
cos’avete paura? Che la Trivixan s’abbassi la
scollatura e mostri il seno? È
una cantante, una professionista, mica una concubina turca del Topkapi!
Inoltre, cara cugnada, vi ricordo che in fatto di lasciva reputazione,
quelle
monache di gran lunga superano la Trivixan!”
Momolo si
ritrovò d’accordissimo con sua zia madona Barbara:
aveva
già visto le grosse poppe bianche delle balie di sua nipote
Dionora e dei suoi
altri cugini, ergo non ci trovava nulla di strano se anche questa
cortigiana
(cos’era poi?) gliele avesse mostrate, specie in caso ci
fossero stati
fantolini da allattare.
“Possiede
già un protettore? O protettori?”,
inquisì madona
Marina, al contrario intrigatissima.
“Questione
di tempo”, commentò allusiva madona Barbara.
“Io
l’ho già vista a Palazzo”,
rivelò Crestina, associando
finalmente un volto al nome della cantante. “Missier el Doxe,
dopo la cena,
l’ha invitata a cantare prima del ballo e vi assicuro che
nulla del suo aspetto
appariva indecente! Di più: vestiva in maniera talmente
sobria e delicata, da
scambiarla per un vergine appena uscita dal convento!”
“Senti,
senti …”
“E
com’è lei? Fisicamente, intendo.”
Il
settenne Momolo, in retrospettiva, più che del viso
di
Luzia Trivixan si sarebbe ricordato del suo abito e non
perché fosse un frivolo
damerino, bensì perché si era immaginata
quella femena publicha,
come l’appellava sdegnosamente sua zia Morexina, una sorta
d’odalisca o di
concubina del serraglio, non dissimile dall’esotiche schiave
turche, arabe o
circasse che sbarcavano a Venezia e poi vendute a Rialto.
Piuttosto
gli era parsa più stravagante la zia acquisita domina
Catharina Corner, vestita di velluto nero con un velo di seta
trasparente
orlato d’oro e fermato da una corona di perle e gioie, sopra
una scuffia in
panno d’oro trapuntato di perline, secondo l’uso
cipriota, così come alla moda
di Cipro la Regina indossava un paio d’orecchini di perle e
rubini e l’intero
petto era una ragnatela di sottilissime collane d’oro e di
perle. A confronto,
Luzia Trivixan, giunta in compagnia del compositore Alexandro Demophon
Venetus,
si poteva benissimo confondere tra le altre gentildonne lì
presenti, indossando
anche lei una veste di velluto dalle maniche lunghe e strette fino ai
piedi che
s’apriva in un triangolo perfetto, da dove
s’intravedevano la zupa e le
manichette di differente colore, le spalle coperte pudicamente da un
trasparente velo di seta. L’unico elemento che accomunava le
due donne
rimanevano gli orecchini, sfoggiando la cortigiana un paio di filza
d’oro di
tre perle.
Giovane,
più giovane della sua sorellastra Crestina, eppure Momolo
la vedeva deambulare a suo agio tra gli ospiti, conversandovi rilassata
neanche
si trattassero d’amici di vecchia data. Rideva alle battute,
scherzava arguta,
onnipresente senza però rubar la scena alla padrona di casa,
domina Catharina,
semmai reindirizzando l’attenzione degli uomini sulla Regina
di Cipro e signora
di Asolo.
Interesse
che però ricatturò quando iniziò a
cantare e a Momolo
era venuto da piangere ascoltando quella sua voce celestiale,
sprigionata da un
corpicino così fragile e minuto. Anche il maestro Alexandro
Demophon la
guardava in estasi, mentre l’accompagnava col liuto e
conduceva gli altri
musici e il coro. Sicché, preso coraggio, durante una pausa
per il rinfresco il
fantolino era partito alla ricerca della ragazza per complimentarsi di
persona,
pizzicandola in un angolo acquattato del giardino, seminascosta dalle
fronde
profumate di piante e fiori esotici.
“Come
sono andata?”, chiedeva ansiosa Luzia al maestro Alexandro,
il quale, circondandole il bel viso tra le mani, mormorò
orgoglioso e roco:
“Sublime”,
e la baciò impetuoso, mordicchiandole goloso le labbra,
di tanto in tanto accarezzandosi le punte guizzanti delle rispettive
lingue. Le
mani dell’uomo, tanto agili e rapide sul liuto, manipolavano
con altrettanta
destrezza la gonna di lei, infilandosi sotto, scoprendo una morbida e
lattea
coscia.
“Oh,
amore mio”, sospirò la cantante, infondendo ugual
trasporto nelle
sue effusioni, strusciandosi vogliosa contro il corpo del compositore e
accarezzandogli tra le gambe, sul petto, tra i capelli fino a
spettinarlo e
fargli cascare accidentalmente la bereta. “Quea gran vacha di
la Marchesana,
ch’el diaol s’ea manzi!”,
digrignò i denti, mentre accompagnava la testa
dell’amante sulla scollatura la cui linea
s’abbassava pericolosamente a ciascun
famelico bacio di lui, “il modo in cui ti guardava! Ti voleva
portar via da me,
per collezionarti tra i suoi bamboli! Chi si crede d’essere,
quea cancara de
betonega?!”
“E
il Marchese?”, replicò a tono l’artista,
seppur più leggero e
scherzoso. “Manco s’era reso conto d’aver
finito il vino nel bicchiere, tanto
ti divorava cogli occhi! A momenti scodinzolava!”
“Perdio,
mi farebbe meno impressione l’idea scaldare il letto di
Sua Serenità el Doxe, piuttosto di star sotto a quel
cinghiale antropomorfo!”,
gettò ilare Luzia il capo all’indietro e Momolo
s’unì al lazzo, immaginandosi quel
Francesco Gonzaga con la testa d’un cinghiale al posto di una
umana.
Scoperti,
i due amanti si separarono in un balzo, guardandosi
attorno apprensivi e la cantante si sciolse in un tintinnante sorriso
alla
vista di Momolo, ancora piegato a metà dalle
risate. “Ben, ben … non
lo sai che è maleducazione origliare i discorsi
altrui?”, lo rimbeccò
giocosamente Luzia, portandosi le mani ai fianchi e sgonnellando verso
il
fantolino.
“Siete
sposati?”, chiese di rimando il giovinetto, ergendosi sulla
punta dei piedi per sembrare più grande.
La
cortigiana honorata si coprì la bocca dietro la mano,
ridacchiando. “Sì, siamo sposati nella
musica!”, gli spiegò allegra, facendo
l’occhiolino al maestro Alexandro che a sua volta
abbassò la testa, ridendosela
alla grossa. “Ora però ti riporto dal tuo sior
Pare, va bene?”
“Il
mio sior Pare non c’è oggi, è a Palazzo
per conto della
Signoria. Sapete che è stato nominato provveditore a
Zacinto?”, le annunciò
impettito Momolo, orgogliosissimo. “E presto ci trasferiremo
lì, dove il sior
mio Pare e i miei fratelli combatteranno contro i pirati saraceni e i
Turchi!
Ed io, da grande, farò lo stesso! Voglio divenire un valente comandante, come fu il mio trisavolo sier Zuanne Miani che combatté nella Guerra di Chioggia con i magnifici sier Vetor Pisani e sier Carlo Zen; che espugnò Alessio, Corfù, Argo e Napoli di Romania e che catturò nel Castello di Trevixo il tiranno Francesco da Carrara! Diverrò Capitan
Generale da Mar, così mi
sposerò mia cugina Maria. Il mio Barba me l’ha
promesso e lui mantiene sempre
le promesse!”
“Bravo,
così parla un vero veneziano: sono sicurissima, che
supererai
le gesta del magnifico sier Piero Loredan!”, convenne decisa
Luzia, senza però
alcuna traccia né di sberleffo né di sarcasmo,
come se lo ritenesse sul serio
un progetto realizzabile. “Ti accompagno dalla tua siora
Mare? Oppure” e i suoi
occhi brillarono birbanti, “andiamo a mangiarci qualche
dolcetto?”
Momolo
neanche lottò contro la tentazione, saltellando felice alla
prospettiva. “Posso prendervi la mano, madona
Luzia?”, bofonchiò poi d’un
tratto timido.
“Naturalmente”,
gliela cedette la cantante, “anzi: oggi t’eleggo
mio cavaliere e da nessun altro mi lascerò
condurre!” e lanciata una
scrollatina di spalle all’amante – Cossa
vuostu far? Xé on puteo!
– la strana coppia si diresse al tavolo
del rinfresco.
Luzia,
previdente, si sedette poco distante e incaricò Momolo di
scegliere i dolciumi anche per lei; ritornato in fretta dalla missione,
il
fantolino s’impietrì e assottigliò
geloso gli occhi alla vista del barba
Batista seduto accanto alla cortigiana, parlottando fitto-fitto con
lei. Che
poca creanza! Lei era la sua dama,
che lo zio sfarfallasse
attorno a qualcun’altra, preferibilmente sua moglie!
Al che
… “La vostra siora mojer e mia Amia, se vi vede
bere tutto
quel Recioto della Valpolicella, prima vi ammazza e poi vi resuscita e
poi vi
ammazza di nuovo!”, fu il Servo vostro,
patron! del bambino,
ponendosi bellicosamente in mezzo ai due adulti e pronto ad usare il
piatto
ricolmo di dolci a guisa d’arma.
Scrutandolo
con la medesima aria accondiscendente di una mamma
gatto, che permette ai micini di giocherellare con la sua coda, sier
Batista
sottrasse allo sdegnato nipote un tortino dal piatto, ficcandoselo a
mo’ di
sfida in bocca. “Ed io riferirò alla tua siora
Mare mia sorela, come tu ti sia
strafogato di dolci, cosicché finirai in punizione da oggi
fino al tuo ritorno
da Zacinto!”, lo ricattò senza tanti giri di
parole. “Sicché pascola altrove o
vai a giocare coi tuoi zermani.”
“No
vojo!”, batté un piede per terra Momolo,
sentendosi assai
territoriale e protettivo verso la sua dama. Lui aveva visto per primo
Luzia e,
regola fondamentale, chi trova prende.
“Non
ti preoccupare, dopo torno da te”, gli promise la cantante,
aggiungendo complice: “E t’insegno a suonare il
liuto!”
“Dasseno?”
La
cortigiana honorata annuì solenne. “Ora
però vai, il tuo sior Barba
ed io dobbiamo fare discorsi da grandi.”
Momolo
grugnì il suo disappunto, trascinando enfaticamente i
piedi. Ma alla prima curva egli ritornò sui suoi passi,
sistemandosi alle
spalle dei due congiurati e ben celato dietro un cespuglio, curioso
proprio d’ascoltare
cosa avessero da raccontarsi di così importante, da
escluderlo dalla loro
conversazione.
“Che
puto prezioso!”, commentò dolcemente Luzia,
addentando appena
un biscotto.
“E’
un piccolo Mazariol” [1], replicò tuttavia
affezionato il
Morexini, paragonando il nipote al dispettosissimo folletto
rossovestito che
scorazzava per i boschi della Marca Trevigiana, burlandosi degli ignari
uomini
e delle stesse vispette fate. “In ogni
modo”, riprese, sistemandosi
meglio sulla panchina di marmo, “volevo complimentarvi con
voi per l’eccellente
concerto, lo stesso, immagino, che ha stregato i Marchesi di
Mantoa!”
“An,
non vi giurerei”, arcuò scettica Luzia il
sopracciglio, “la
siora Marchesana mi sembrava più interessata al magister
Alexandro, mentre il
sior Marchese al mio petto”, sentenziò mordace e
sier Batista si morse
l’interno della guancia per non ridere. “Dubito
abbiano apprezzato me”,
aggiunse indispettita, pigliando un secondo morso di biscotto.
“Forse
i nostri futuri ospiti saranno meglio capaci di riconoscere
il vero talento, quando li si manifesterà innanzi.”
La
cortigiana honorata assottigliò gli occhi, sospettosa.
“Siete per
caso venuto in ambasciata per conto della Reyna? Perché la
mia risposta non
cambia: io rimango agli ordini della Signoria e non suoi.”
Scombussolato
da quel cambio di tono, da cortese a battagliero, il
provveditore alzò in alto le mani. “Vi assicuro la
mia più assoluta ignoranza e
neutralità, in qualsiasi divergenza abbiate nei confronti
della mia siora
cugnada.”
Luzia
abbassò le spalle, tormentando il dolce e spezzettandolo
fino a ridurlo in briciole. “La Reyna mi ha domandato di
cantare durante la
refezione in onore delle tre pie donne”,
e lanciò i granelli per
terra, attirando qualche uccellino affamato. “Comprendete la
mia umiliazione?
Durante la refezione non la
festa! Appena l’ho
appreso, ho subito declinato l’offerta e soltanto
perché il magister Alexandro
ha insistito, ho accettato di cantare oggi per la Reyna.
L’ingiustizia del
mondo! Monsieur Cordier canterà da solista, ammirato e
lodato da tutti, mentre
io debbo farlo di nascosto, alla stregua d'un panno sporco da lavare!
Siorno!
In nulla differisco in bravura da lui e o canto in concerto o non se ne
fa
nulla!”
Sier
Batista si girò in direzione opposta e da lontano
osservò a
lungo il compositore, impegnato ad accordare il liuto e ad istruire i
suonatori
ed i coristi per la seconda parte del concerto. Dopodiché
studiò il volto
imbronciato di Luzia e di nuovo quello del maestro Alexandro e la bocca
gli
s’arricciò in un sogghigno malizioso.
“Non
sono una menestrella, che s’abbassa a cantare per un pubblico
distratto durante i banchetti, men che meno per quella grassa
nanerottola della
Ducissa di Bari, la quale più che ascoltarmi
preferirà rimpinzarsi di dolci
fino a scoppiare!”, sbottò infastidita la
cantante, battendo i pugni sulla
panchina, associando a quell’Este sconosciuta il medesimo
carattere di quella a
lei più nota, giudicandole ambedue capricciose, egoiste,
ognora pronte a
pigliarsi ciò che non le apparteneva.
“Se
la Ducissa di Bari ci morisse in casa per via di
un’indigestione, l’affare ci causerebbe non pochi
grattacapi: il nostro povero
ambasciatore a Millan lo vedo e lo piango a riferire la notizia al
Moro”,
sdrammatizzò il Morexini, afferrando il pugno della ragazza
ed invitandola a
schiuderlo, massaggiandole l’interno del polso col pollice.
“Forse per ugual
motivo, neanch’io ho tutta questa voglia di partecipare alla
festa.
V’immaginate la faccia della Ducissa di Frara, al momento
delle
presentazioni? Bentrovata, o illustrissima madonna
Duchessa, io sono il
provveditore di quelle terre, che vi abbiamo conquistato nove anni fa! In
fede mia, non desidero assumermi alcuna responsabilità
d’eventuali incidenti
diplomatici!”
“Al
contrario, voi dovreste assolutamente partecipare!”, gli
suggerì Luzia, il buonumore ritrovato, sorridendogli
monellescamente, la mano
chiusa a quella del “da Lisbona” come due
metà di una conchiglia. “Già la
Ducissa domina Leonora friggerà d’imbarazzo nel
ritrovarsi dinanzi ad una
sovrana perseguitata e deposta per colpa degli intrighi di suo padre il
Re di
Napoli; la vostra presenza, a memento della sconfitta di Frara,
renderà la
refezione ancor più gustosa.”
“Voi.
siete. davvero. tremenda!”, scosse il capo sier Batista e i
due se la risero a lungo, complici, toccandosi quasi le loro fronti e
l’uomo
aveva portato la mano della Trivixan al petto,
invitandola ad
avvicinarglisi. “In verità, non vi nascondo che la
decisione di mia cugnada mi
ha davvero sorpreso. Ci vuole una grande forza d’animo per
affrontare faccia a
faccia la famiglia, che le ha rovinato l’esistenza
… Ma il passato è il passato
e non possiamo sottrarci al futuro”, citò
cinicamente l’uomo il proverbio,
finendo il suo vino. “Un futuro però che
assomiglia pericolosamente troppo al
passato.”
Ogni
traccia di civetteria scomparve dal viso sveglio della
cortigiana honorata, sostituito da un’espressione attenta,
intrigata.
“V’ascolto”, lo incalzò,
sedendosi sulla panchina in modo da avere di fronte il
patrizio.
Sier
Batista anch’egli aveva perduto la sua affettata nonchalance
per un tono serio, analitico. “Don Ferrando è
vecchio e come tale non ha
imparato nulla dai suoi errori”, esordì, roteando
nel vuoto il bicchiere. “Dopo
la morte del Roy di Cypri, si è voluto immischiare nella
questione dinastica dei
Lusignan. Il risultato? Don Ferrando ha perso ogni influenza politica
sull’isola, ogni fondaco e accordo commerciale, sua nuora
Ciarla e per poco il
suo stesso figlio naturale don Alfonxo. Adesso, sta ripetendo il
medesimo
sbaglio, cogli Sforza di Millan. C’è da chiedersi
che cosa perderà, stavolta.”
“Credete
certa una sua sconfitta?”
“Ogniqualvolta
dalla Franza è sceso in Italia un esercito, un
casato cade e un altro ascende. È matematico,
inevitabile.”
“Il
Re e il Duca di Calabria avrebbero, quindi, dovuto ingoiare in
silenzio l’umiliazione d’Yxabela
d’Aragona? Dell’attuale Ducissa di
Millan?”
“Se
gli Aragona fossero stati dei patrizi come noialtri, la
questione sarebbe stata portata in Quarantia Criminal e il Moro
condannato per
appropriazione indebita. Siccome però parliamo di sovrani e
capi di Stato …
Quando danno via una figlia, o una nipote, l’hanno perduta
per sempre in favore
di un’alleanza, che durerà finché
farà comodo alle parti coinvolte. Non tutte
le spose sono devote o influenti o entrambe da fungere da
mediatrici.”
“Un
figlio senza un padre è facile preda delle altrui
ambizioni”,
mormorò grave Luzia, accarezzando pensosa la morbida stoffa
della sua gonna,
“quella degli Sforza era una tragedia annunciata,
così come quella della domina
Catharina, straniera e vedova, priva della protezione del Roy suo
sposo.
Sapete”, reclinò all’indietro il capo,
osservando un punto indefinito del
cielo, “forse ho indovinato perché la Reyna vuole
incontrare quelle tre donne.”
“Dasseno?
Le leggete la mente, ora?”
Il
sorriso della cortigiana honorata assunse una piega malevola.
“Per vendicarsi degli Aragona, scagliandoli contro una
maledizione, acciocché
distrugga Re Ferrando, come lui ha distrutto lei; affinché
lui perda il regno,
come lei ha perduto il suo; affinché egli seppellisca il suo
sangue, come lei
ha seppellito il suo. E quale miglior occasione di questa festa, dove
parteciperanno la figlia e la nipote amatissime del Re? Più
il tramite è vicino
alla vittima, più potente ed efficace è
l’anatema.”
Un
brivido freddo scese lungo la spina dorsale di sier Batista, il
quale, pur di natura cinica e razionale, non si sottraeva al profondo
spirito
superstizioso tipico della sua gente. “Stando così
le cose, oltre a don
Ferrando dovrebbero morire anche domina Leonora d’Aragona, e
magari anche le
domine Beatrice d’Este e Anna Maria Sforza, o chiunque
presenzi a quella
dannata festa …”, provò debolmente a
minimizzare, fallendovi, semmai
aumentandogli in petto una certa angoscia, come all’Italia
intera da quando era
incominciato quel braccio di ferro tra Milano e Napoli.
“Chissà”,
scrollò incurante le spalle Luzia, “si vocifera
che chi
sia stato maledetto, o non passi l’anno dal momento esatto
dell’anatema oppure
non superi i trentatré anni, l’età di
Domine Jesus Christo”, si scostò un
ricciolo ribelle dalla fronte. “Ma si trattano
senz’ombra di dubbio di
storielle da balia, altrimenti la popolazione si ridurrebbe
drasticamente, se
ogni uomo maledetto dall’altro dovesse morire!”
“Vi
dico solo questo: se entro l’anno dovesse morire anche un
solo
Aragona, non oserò mai più in vita mia
contraddire la siora cugnada”, le
confessò semiserio il Morexini, massaggiandosi lo stomaco,
il quale aveva
incominciato nuovamente a rigirarsi proditoriamente, serrandogli la
gola.
Dannata golosità sua unita ad inquietanti discorsi sul
sovrannaturale! “A meno
che domina Catharina non m’abbia già maledetto, al
che mi scuso, bellissima
Luzia, se mi congedo anzitempo da voi”, si pose traballante
l’uomo in piedi,
sudando freddo e ficcando la mano dietro il cespuglio dove estrasse,
issandolo
quasi di peso, Momolo, che si pigliò lesto sottobraccio.
“Vi
prego di riguardarvi, sier Batista Morexini, e v’auguro una
pronta guarigione: mi dareste una gioia immensa se decideste un giorno
di
venire a visitarmi, così da continuare la nostra
conversazione. Suonerò e
canterò per voi, dimostrandovi che non sono per nulla una
vanesia”, allungò il
braccio languidamente Luzia, acciocché il patrizio le
baciasse la mano, sotto
lo sguardo truce e geloso di Momolo. “Vi ringrazio per il
piacevole tempo
trascorso assieme e soprattutto per la vostra pazienza, prestando
caritatevolmente orecchio alle mie sciocche lamentele.”
“Non
possedete ancora nessuno, che le ascolti?”, colse sornione il
“da Lisbona” la palla al balzo e suo nipote
aggrottò la fronte, confuso: da
quando in qua il suo barba s’offriva di fare volontariamente
il confessore? Sempre
che sbuffava perché doveva sopportare le lamentele della
moglie ed ora era
disposto ad ascoltare quelle della Trivixan? E poi, perché
la cantante non
aveva invitato anche lui a casa sua? Non gli aveva promesso
d’insegnargli a
suonare il liuto?
“Uno
ce l’ho sempre, gli altri … finché non
mi stufano”, alluse Luzia
scaltramente e sier Batista s’inchinò deferente,
capendo subito il sottotesto.
“E’ stato un piacere conoscerti, Momolo. Spero di
rincontrarci in futuro” e gli
schioccò un casto bacio sulla fronte. “Fai il
bravo, veh!”
Il
bambino si girò verso lo zio, sorridendogli perfidamente
trionfante come per dirgli: hai visto? Ha baciato me
e non te! Quindi è
la mia dama, non la tua!
Peccato
che l’uomo non gli diede alcuna soddisfazione, anzi,
trascinandoselo appresso, si diresse rapido alla ricerca di madona
Morexina,
onde supplicarla di ritornare quanto prima a Ca’ Morexini o
di trovargli un
posto tranquillo dove vomitare senza un fastidioso pubblico.
“Che
orba la Marchesana di Mantoa”, commentò ad alta
voce il
provveditore, durante il viaggio di ritorno, gli occhi chiusi e
artigliandosi
le ginocchia, ingollando giù acida saliva. “Orba
proprio …”
“Perché
sior Barba?”
“Hé,
Momolo, perché non ha capito, che bisogna tenere
giù le mani
da ciò che non le appartiene …”
Il
giovinetto strabuzzò gli occhi, battendo pensoso il dito sul
mento. “Chi? Il magister Alexandro?”
“E
tu come lo sai, piccolo Mazariol?”
“Me
l’ha detto Luzia: sono sposati nella musica!”
Sier
Batista rise di cuore, arruffando la zazzera indomita del
nipote tra le sue mille indignate proteste. “Benedetta sia la
tua anima pura e
innocente, nezzo mio, benedetta sia in saecula saeculorum!” e
detto questo,
scoprì il drappo della felze e vomitò in acqua,
tra i gridolini schifati delle
sue donne di casa.
***
Ovviamente,
per Momolo l’amore era sempre corrisposto
indissolubilmente al matrimonio e per questo motivo la scoperta di
concetti
quali “amante”, “concubina” e
“cortigiana” l’avevano sconvolto,
incapace di
credere nell’esistenza di altri tipi di amori, definiti dal
biscugino sier Zuan
Francesco “immorali.”
“E
come li evito?”
“Il
peccato entra attraverso l’occhio: evita di guardare e non
vacillerai!”
Prova
assai ardua, essendo infatti Hironimo di natura vivacissima
e curiosa. Inoltre, di occasioni per “guardare” le
sfaccettature meno onorevoli
dell’umanità Venezia ne offriva in gran copia,
incominciando dallo zio Batista
quando divenne uno dei protettori di Luzia Trivixan, la cui bellezza
riempiva
di strani pensieri il ragazzo, che non sapeva spiegarsi il motivo per
il quale
percepisse l’impellente necessità di poggiare la
testa sul seno della
cortigiana honorata.
La
seconda volta che la vide, infatti, non fu l’abito
bensì il suo
aspetto a colpirlo.
Riccioli
rossi tempestati di perle, grandi occhi turchesi, languidi
e orgogliosi insieme, labbra sensuali e bocca ridente, pelle dalla
delicatezza
e candore d’un giglio, la voce un mormorio di frusciante
seta, ecco chi era
Luzia, l’usignolo di Venezia. Partito con l’idea di
dover disprezzare la fonte
dei crucci di sua zia Morexina – malgrado la simpatia
suscitatale da bambino
- al giovane patrizio era bastato un solo suo
concerto per cambiar
rapidamente d’avviso, vittima del suo fascino similmente agli
altri esponenti
del suo sesso.
La
cantante aveva saputo, tramite particolari amicizie, della
presenza a Venezia del compositore, cantore e suonare di liuto
Marchetto Cara
da Verona, stipendiato della Marchesa di Mantova e in eccezionale
visita nella
città lagunare, ospite graditissimo dei Bembo. Il veronese
non s’era lasciato
tanto pregare, anzi, vuoi per la fama della Trivixan, vuoi per le sue
civetterie irresistibili, vuoi per la presenza del famoso editore
musicale
Ottaviano Petrucci e del suo collega Bartolomeo Budrio,
dell’organista
Francesco D’Ana, del compositore e maestro di cappella
Francesco Patavin,
nonché dell’ex-collega e concittadino Bortolamio
Trombonzin (insomma di tutta o
quasi la comunità musicale di Venezia), ecco che
l’entusiasta maestro Marchetto
si presentava nell’elegante appartamento della cortigiana
honesta, lodato e
vezzeggiato e da lei trattato alla pari di un principe.
Hironimo
s’era inaspettatamente aggregato a questo Parnaso,
poiché
suo zio sier Batista aveva confidato all’amante della sua
passione musicale e
di come non fosse disprezzabile al liuto. Al che la giovane donna aveva
di buon
grado esteso l’invito e quando il sedicenne Miani la vide
scendergli incontro
lungo le scale di marmo, alla fioca e tremula luce dei candelabri, gli
parve la
medesima Venere discesa dall’Olimpo per condividere cogli
uomini il concetto di
divina bellezza.
“Gran
mercé, vi siede vestita da gentildonna rodia! Potevate
avvertirmi e mi sarei presentato a voi da cavaliere
gerosolimitano”, esclamò
sier Batista, riferendosi all’Ordine dei Cavalieri di San
Giovanni presenziante
a difesa dell’isola greca. Baciò ambedue le guance
della cantante, la quale
replicò giocosa:
“Oh, mio signor,
il vostro sprezzo per la loro regola di castità vi avrebbe
guadagnato un arresto per blasfemia! Quanto all’abito
… siamo a Carlevar e mi
voglio divertire! Anche a vostro danno, se necessario!”
“Perfida!”
“E
voi mi amate esattamente per questo, mio signor!”
Luzia
quella sera aveva optato per gli abiti tipici dell’isola di
Rodi, smaniosa di scacciare alcun tristi suoi pensieri
nell’euforia sregolata
del Carlevar. La cantante s’era dipinta di rosso le mani, le
unghie e, da quel
poco che s’intravedeva dalle scarpette, anche i piedi. I
capelli del medesimo
colore li aveva rinchiusi dentro una rete d’argento, sopra la
quale stava
un’altra di velluto e coperta da un bellissimo velo di tela
vergata, appuntato
sopra la fronte da una gemma e da cui ricadeva all’indietro,
donandole un’aria
un poco sbarazzina. Sopra la semplice sottana di raso cremesino, Luzia
indossava una veste di tela d’argento, corta fino a mezza
gamba, aperta ai lati
e legata con nastri d’oro. Una variopinta cinta di seta e una
d’oro le
circondavano la vita. Al collo pendeva una grossa collana di perle con
al
centro un pendente di smeraldo, abbinandola agli orecchini di ugual
squisita
fattura.
“Spero
che vi sentiate meglio”, le sussurrò sottovoce il
Morexini,
adesso Savio di Terraferma, scrutando accorto ogni movimento del viso
di Luzia
e cingendole protettivamente le spalle. .
“Grazie,
molto meglio”, gli confermò in fretta la
cortigiana
honorata, pur evitando di guardarlo dritto negli occhi, accarezzando la
mano del
senatore. “Suvvia, raggiungiamo i nostri illustri artisti:
non sia mai si
sparli sulla nostra poca professionalità!”,
scherzò, accettando il braccio
offertole dal patrizio, la mente sicuramente altrove ché
neanche s’era accorta
della presenza d’Hironimo.
Il quale
la perdonò senz’indugi non appena la sua voce gli
scaldò
il cuore: malgrado il coro talora di tre o di quattro, pur ridotto ad
un
contrappunto di nota contro nota, Luzia spiccava monodicamente sulle
altre
parti, conferendo alle varie frottole un che di vivo. Ella, infatti,
ora
socchiudendo gli occhi, ora lasciandosi trasportare
dall’accompagnamento del
liuto, ora storcendo il viso e modulando il tono fingeva rabbia,
malinconia,
desiderio e inscenava tramite un’accorta mimica i versi
poetici su cui il
compositore aveva musicato. Languì col Petrarca,
scherzò col Boiardo,
s’infiammò con Giovanni Filoteo Achellini, si
trasformò in un loquace uccellino
nell’inedita frottola a quattro Mentre io
vo per questi boschi del
maestro Marchetto Cara, il quale la fissava trasognato, le agili dita
scivolanti per conto proprio sulle corde del liuto. Il fosco Trombonzin
pareva
trasfigurato di nuova luce, il Petrucci se ne stava lì con
la bocca aperta,
Francesco d’Ana dondolava a ritmo il capo, il pallido
Francesco Patavin si
perdonò quel suo piccolo capriccio d’aver voluto
viaggiare da Padova fino a
Venezia per conoscere la cantante, lo zio Batista aveva gli occhi
lucidi e come
lui gli altri invitati contemplavano estatici e devoti Luzia Trivixan,
quasi si
trovassero inginocchiati innanzi l’Eucarestia
sull’altare.
“Il
concerto di stasera, signori miei, lo vorrei dedicare ad un
grande vostro collega e compositore, ch’Apollo dalla lira
dorata ha voluto
rapire per tenerlo accanto a sé, nel suo seguito immortale!
Questo è il mio
personale brindisi in sua memoria”, annunciò
enfaticamente la cortigiana
honorata, sorseggiando dell’acqua per rinfrescarsi
l’ugola. Si bagnò poi le dita
e sparse delle gocce per terra; dopodiché gettò
sul pavimento il bicchiere, i
cocci prontamente spazzati via dalla solerte fantesca. “Ora
comprendete il
perché dei miei abiti di Rodi, l’isola sacra al
dio della musica e delle arti!”
e un applauso riempì la sala, mescolandosi a piccoli
commenti sorpresi o
divertiti. Tipico della Trivixan di stupire i suoi ospiti tramite rebus
e
sciarade. Soltanto sier Batista batteva poco convinto le mani, un
sorriso
triste sulle labbra.
“Magister
Marchetto, posso chiedervi l’immenso favore di suonare,
per amor mio e del magister Alexandro Demophon Venetus, Vidi
hor
cogliendo rose ?”, pregò
civettuola Luzia il veronese, congiungendo
vezzosa le mani.
Marchetto
Cara convenne in un grave e reverente inchino, difficile
affermare se in onor del defunto collega o della cantante. Le sue dita
serpeggiarono sinuose nell’aria, in un mentale conteggio del
tempo musicale,
pizzicando infine le tese corde del liuto e seguito dal preciso attacco
della
cantante:
Vidi hor
cogliendo rose, hor gigli, hor fiori
Una
leggiadra, bella e vaga ninfa
Credo
discesa dai celesti cori …
Come
biasimare la generale fascinazione degli spettatori nei
confronti di Luzia, nonché la sconfinata ammirazione degli
artisti musicali?
Hironimo medesimo, un dilettante profano, era scosso
anch’egli nel più intimo
dalla rara potenza e perfezione canora della donna, imbrigliate
magistralmente
in quel corpicino dall’apparenza fragile.
La
cortigiana honorata saltava da un’ottava all’altra
con estrema
facilità e non improvvisava mai delle pause per riprendere
fiato, tenendo ogni
nota anche quelle più lunghe e alte, alternando acuti e
gravi in lenta discesa
o vertiginosa salita a seconda della melodia, mantenendo
un’emissione sempre
morbida dei suoni ed omogeneità del
registro. Gorgheggiava seguendo gli eleganti
arpeggi senza trascurare la dizione del testo, le parole comprensibili
e infuse
di grande sentimento, rinforzando o stemperando le note secondo
necessità, come
se stesse recitando un soliloquio.
… Hor
schiude l’auree labbra, hor con la cetra
Supera le
sirene e il dolce Apollo;
hor posa
in terra sua bella faretra
hor se
rinfresca braccia, volto, collo;
hor mostra
il vago petto, hor l’ha coperto
e lassa
stare il paradiso aperto
dove se
leva la luna col sole …
Pareva
che un dio o un angelo stesse cantando, attraverso il
sottile e lungo collo della Trivixan, l’arcana voce del mondo
e che ogni gamma
d’umana passione vi si potesse incontrare e modulare,
entrando nel cuore e
nell’anima stessa dell’ascoltatore, accarezzandola
o straziandola a suo
piacere. Come poteva tal divina grazia risiedere in una persona
considerata
immorale, impura? Era proprio vero che dal fango nascessero i fiori
più belli?
… Hor
sagitta con gli occhi ardenti sguardi;
Hor parla,
hor ride, hor balla, hor salta, hor canta,
hor col
duro arco tira i suoi dardi;
hor con la
man sfronda qualche giovin pianta
hor vien
la nocte e di riposare ha gran desire …
Hironimo
si sovvenne all’improvviso dei baci appassionati tra
Luzia ed il maestro Alexandro e per un attimo, credette di scorgerlo
lì, tra le
braccia tese della cantante, vivo, ardente d’amore, Luzia che
gli regalava il
suo respiro e una nuova voce, che gli permetteva di vivere ancora e
ripetutamente nella sua musica, per sempre, immortale. Le sarebbe stato
accanto, non l’avrebbe mai abbandonata finché al
mondo sarebbero
esistiti musicisti e cantanti, veramente i due
amanti sposati nella
musica, inseparabili.
Dispersi
nell’aria gli accordi finali, nessuno osò muovere
un sol
muscolo né proferire parola, finché Luzia,
uscendo dalla sua trance, riaprì gli
occhi ed elargì al suo pubblico un timido sorriso di
fanciulla innamorata,
indifeso.
Uno
scroscio d’applausi la investì e lei
s’esibì in un profondo e
deferente inchino, nutrendosi avida di quell’entusiaste
ovazioni e raccogliendo
da terra le rose e i gigli accoratamente lanciatigli.
La
cortigiana honorata appellò poi il suo scalco, ordinandogli di
servire la raffinata e abbondante cena, acciocché, dopo il
pane astratto
dell’arte, i suoi ospiti si nutrissero di uno più
materiale. Fu divertente per Hironimo
osservare la reazione confusa e un poco intimidita dei compositori e
solisti,
non avvezzi malgrado il loro ingegno e talento a compartire da pari la
tavola e
il pasto con l’aristocrazia, così giusto per
rimanere in allegria e in
amicizia, in un rapporto totalmente egalitario. Si scherzava spesso
quanto
soltanto Luzia Trivixan fosse capace di tali follie, permesse e
accettate
tuttavia all’unanimità, senza protesta alcuna.
Una
musica leggera e disimpegnata accompagnava il sontuoso
banchetto, una carrellata di gustosissime prelibatezze in curiosi
connubi
agrodolci, serviti gli ospiti da giovani moretti dai brillanti e
variopinti
turbanti. Tra una portata e l’altra, delle ballerine turche
deliziavano i
commensali con le loro danze esotiche, in un continuo tintinnare dei
sonagli
d’argento ai polsi e alle caviglie. S’arcuavano e
si molleggiavano sinuose
peggio dei serpenti, i fianchi generosi ondulati in maniera circolare e
spingendo il bacino in avanti, mettendo così in risalto lo
scollo
profondissimo, il quale arrivava fino all’ombelico riempito
da una gemma,
dividendo a metà il petto seminudo, la semitrasparente
camiciola di lino a
malapena coprente i turgidi seni e da cui s’intravedeva
l’ambrato dei
capezzoli.
Straordinariamente
non interessato al conturbante spettacolo,
Hironimo si concentrò su Luzia, seguendola cogli occhi nel
suo deambulare da
ospite ad ospite, sedendoglisi accanto, chiacchierandoci e scherzandoci
assieme
dietro al ventaglio di piume di struzzo e dal manicolo d’oro,
talvolta accettando
un bicchiere di vino, offertole galantemente. Infine, la cortigiana
honorata
raggiunse suo zio Batista, prendendo posto sulle sue ginocchia. Luzia
intinse
un pezzettino di pane caldo in una salsa cremosa ai ceci, limone, semi
di
cumino e, tenendo una mano sotto per non gocciolare, imboccò
l’amante,
porgendogli del vino non appena questi ingollò il bolo, lo
sguardo ognora
ancorato su di lei. Il savio di Terraferma le offrì poi di
bere dal medesimo
bicchiere, invito accettato dalla cortigiana, chinata su di lui onde
ascoltare
ciò ch’aveva da dirle. E a giudicare
dall’espressione ora mesta ora rincuorata
della giovane donna e incoraggiante e tenera di sier Batista, non
dovevano
trattarsi di focose promesse d’amore. Quand’ecco,
ricordatasi della presenza
degli invitati, la Trivixan s’accomiatò dal suo
protettore e si diresse dagli
altri suoi amanti/clienti, o riprese il giro di saluti e conversazioni
tra gli
ospiti ed Hironimo, ch’aveva osservato ogni cosa, si chiedeva
primo, come
facesse lei a non svenire dalla fame, poiché non aveva
toccato una briciola di
cibo; secondo, quale cruccio la tormentasse, da ricercare di tanto in
tanto
supporto morale in suo zio, adesso completamente assorbito
dall’ombelico
ingioiellato di una turca a qualche spanna dal suo naso.
“Noto
ch’apprezzate la cultura levantina, mio signor”,
scherzò
ilare la cantante, piazzatasi in piedi tra sier Polo Capelo, di recente
rimpatriato da Roma, e sier Marco Antonio Morexini q. Ruberto,
fratellastro
dell’attuale visdomino di Ferrara, sier Christofal Moro,
purtroppo assente da
Venezia da quasi due anni. La donna teneva una mano appoggiata sulla
spalla di
sier Marco Antonio, mentre l’altra giocherellava coi capelli
dietro la nuca di
sier Polo Capelo, il quale a sua volta la cingeva per i fianchi.
“Per
carità, troppo agguerrita!”, commentò
ridendo il “da
Lisbona”, tastando non visto il sedere carnoso e sodo della
ballerina, con la
scusa di spingerla altrove. Se soltanto la zia Morexina avesse potuto
vederlo,
l’avrebbe appeso per un piede come la Signoria puniva per
l’appunto i traditori.
Se da una parte sua moglie s’era rassegnata alle continue
infedeltà del marito,
dall’altra seguitava ad arrabbiarsi, in un’altalena
contraddittoria d’umori e
opinioni.
“Dite d’esser
stracco e stufo per via degli impegni a Palazzo, ma appena cala la sera
correte
via ben vispo dalla Trivixan e non dormite più con me
neppure per un’ora!”
“Torno
tardi e non vi voglio svegliare.”
“Spiritoso!
Se continuerete di questo passo, mi piglierò un
amante!”
“Cioè il
vaso del miele?”
In ogni
modo, per quanto tentasse d’incrociare il suo sguardo o di
farsi notare, la cortigiana honorata non s’accostò
mai ad Hironimo, né per
salutarlo né per riempirgli la coppa di vino,
sicché il ragazzo si ritrovò
costretto dalla noia a discutere di musica sacra assieme al maestro di
cappella
Francesco Patavin, appassionandosi straordinariamente
all’argomento.
Ma mai
entusiasmante quanto la sfida preferita dei veneziani a
Carlevar: due servi, inginocchiatisi per terra e le mani congiunte
dietro la
schiena, si sfidavano ad acchiappare con la bocca delle anguille da un
catino,
l’acqua intorbidita dal nero di seppia. Un fanciullo moretto
girava e porgeva
un piatto d’argento tintinnante di lire, mocenighi e ducati e
la padrona di
casa incoraggiava gli ospiti a fare le loro scommesse, su quale dei due
uomini
fosse riuscito ad estrarre per primo il muscoloso pesce.
“Fortuna
nel gioco, sfortuna in amore, eh sier Hironimo?”, lo
sfotté il Trombonzin, la cui bravura eguagliava la sua
stronzaggine. C’era da
chiedersi il motivo per il quale la Marchesa di Mantova stravedesse per
lui,
comportandosi alla stregua di un’amante tradita –
pazza proprio, pure
coinvolgendo il Marchese - quando il veronese aveva
disertato
all’improvviso la sua corte. Talento o meno, per il sedicenne
patrizio la sua
fuga sarebbe equivalsa ad una liberazione, tanto gli stava antipatico.
“Toh”,
sputò dietro le sue spalle il giovane Miani, scacciando la
malasorte.
“Gran
catarro, patron!”
“Il
prossimo è per voi!”, mugugnò
minaccioso il ragazzo,
intascando però in scarsella la vincita.
A fine
serata, il maestro veronese Marchetto Cara baciò le mani di
Luzia con un trasporto talmente sincero, che di sicuro mai aveva
riserbato ad
Isabella d’Este, ringraziandola commosso
dell’indimenticabile concerto e
dell’ottima cena. Nelle sue prossime composizioni avrebbe
indubbiamente pensato
a lei e alla sua divina voce - fu la sua solenne
promessa. Il signor
Ottaviano Petrucci, non volendo sentirsi da meno, le
assicurò una copia
gratuita del suo Odhecaton, una raccolta di
96 chanson
franco-fiamminghe [2], tra cui alcune inedite del fiammingo Johannes de
Stokem,
compositore ufficiale della corte di Beatrice d’Aragona
ex-regina d’Ungheria e
della cui scomparsa il mondo musicale s’era assai doluto.
Hironimo
si stava ancora sistemando il mantello, quando la
cantante lo raggiunse inaspettatamente, accompagnata da suo zio
Batista. E alla sua cortese domanda di circostanza,
su cosa gli
fosse parso del concerto, il ragazzo esclamò col cuore in
mano, la voce tremula
dall’emozione: “Patrona, voi non siete
un’artista: voi siete un’opera d’arte
vivente, creata dal medesimo Apollo!”
Chissà
cosa commosse la smaliziata Luzia Trivixan, che di
complimenti ben più complessi e poetici ne aveva uditi
oramai a bizzeffe, fino
alla nausea. Forse la purezza di sguardo nel sedicenne, forse il timbro
sincero
della sua voce, forse il fatto che l’avesse lodata senza
doppi fini. In ogni
modo, la cortigiana honorata gli sorrise dolcissima e, appoggiando
lievemente la
mano sulla sua guancia, gli schioccò un bacio sulla fronte.
“Sarà un piacere,
farmi da te accompagnare al liuto.”
Hironimo
avvampò, arrossì, ebbe caldo e poi freddo; le
gambe gli
divennero di ricotta e la testa gli girò per qualche
istante. Se si ricompose e
non si gettò ai piedi della giovane donna fu per rispetto
verso suo zio
Batista, che stava lì a guardarli con ambigua
bonarietà.
“Patrona”,
soffiò al limite del collasso, ma serio in volto.
“Volevo porvi, anche se in ritardo, le mie sincere
condoglianze per la morte
del magister Alexandro: mi ricordo del vostro matrimonio nella musica e
posso
capire il vostro dolore.”
Luzia
aprì la bocca, disorientata, poi la serrò, gli
occhi
improvvisamente gonfi di lacrime. Sier Batista, resosi conto del guaio
combinato, fece per rimproverare la mancanza di tatto da parte del
nipote,
quand’ecco che la cortigiana honorata
s’inchinò, sospirando in un tremulo
sorriso: “Tu sei l’unico, assieme a tuo zio, ad
esserti sinceramente
dispiaciuto della sua morte …” e detto questo
s’allontanò assieme al Morexini,
il quale si sarebbe trattenuto qualche oretta con lei, mentre Hironimo
si
diresse verso l’imbarcadero, dove l’attendeva la
sua gondola per rincasare.
Il
giovane patrizio riprese così a studiare con doppio intento
il
liuto, pur conscio di non raggiungere mai i livelli d’un
professionista
(figurarsi del fu Alexandro Demophon
Venetus) ciononostante
determinato a non sfigurare né far sembrare alla cortigiana
honorata di perdere
il suo tempo. Per compiacerla, ingoiò un bel po’
del suo orgoglio virile e
domandò soccorso a sua cugina Maria, libera infine dal giogo
del convento, cui
non parve vero di giocare al Pigmalione e inculcare una sana dose di
galanteria
in quel selvaggio del suo cugino, torturandolo impietosa tramite
robuste
letture di poesie, poemi epici, novelle, romanzi cavallereschi e altre
stramberie tanto apprezzate dalle donzelle e letterati.
In
giardino, sotto la pompeiana di Ca’ Morexini, la ragazza lo
costrinse a migliorare il suo latino e volgare italiano, arrivando a
pigliarlo
a librate in testa quando commetteva errori di pronuncia. In compenso,
Hironimo
aiutava Maria nel suo greco corrente (l’unico che conosceva,
figurarsi quello
antico!) essendo infatti la fanciulla promessa sposa al futuro conte di
Stampalia e Amorgo, sier Zuanne Querini. Anche se terre dello Stato da
Mar, era
giusto che lei un po’ di greco lo conoscesse, specie quando
avrebbe dovuto
seguire il marito qualche volta in quelle isole alla sua famiglia
infeudate.
“Mi
piacerebbe un giorno poterle dedicare qualche sonetto
…”
“Puoah,
non saresti capace di poetare manco se la tua vita dipendesse
da ciò!”
“Sempre
piena di complimenti nei miei confronti, eh? Guarda di non
far tanto l’acida, sennò il Querini
t’abbandona a Nixia come Ariadne!”
“Meglio: vorrà dire che da contessa di Stampalia diverrò la duchessa di Nixia, ho-oh,
ha-ah!”,
lo schernì Maria.
"Non puoi, il sior duca Francesco Crispo è già sposato a madona Thadia Loredan e suo figlio Zuanne è troppo piccolo per te!", la corresse petulante Hironomo e notando lo sguardo imbronciato del
cugino, la ragazza addolci l'espressione e la voce in tono più
conciliante: “La Trivixan è piena di zerbinotti
che le inviano poesie. Forse
per questo le stai simpatico: perché non la tarmi con le tue
velleità
artistiche. Lei è una vera artista e mal sopporta i
mediocri. Affermo il vero,
magister?”, si rivolse la novizza al giovane pittore che la
stava ritraendo, un
piccolo dono per il suo fidanzato, acciocché sier Zuanne
Querini pensasse a lei
e a lei soltanto fino al dì delle nozze, cuocendolo a fuoco
lento nel suo brodo
d’aspettative.
Deambulando
irrequieto per l’intero perimetro della stanza,
Hironimo giunse a spionciare dietro le spalle dell’artista,
contemplando i
lineamenti vispi della Morexini prender forma e vita sullo sfondo
scuro. Invero
il giovanotto aveva colto appieno l’espressione vivace e al
contempo sensibile
di Maria, ritraendola di trequarti e colta in un’acuta
osservazione di un
fantomatico oggetto oltre il dipinto. Su di uno sfondo verde scuro, la
veste
scarlatta e foderata di pelliccia, di foggia assai orientale, cozzava
col
biancore del velo di seta, il quale le scendeva morbido dietro la
schiena.
Nessun vezzo, nessun ornamento, tranne il rosato delicato della pelle
alabastrina e la levigata lucentezza della gioventù.
Hironimo sgranò gli occhi,
piacevolmente impressionato: l’autore si dimostrava a
malapena suo coetaneo,
eppure la mano già delineava una fermezza da veterano ed
emergeva timidamente
un gusto nuovo, moderno, differente da quello di Zentil Belini, suo
maestro.
“Troppa
buona, patrona. Non sono ancora un magister, bensì un
allievo”, si schermì modesto il pittore e le
sorrise sibillino, intingendo e
roteando il pennello nel colore, per poi punteggiare appena un piccolo
dettaglio. “I veri artisti esigono la perfezione, altrimenti
nulla ha senso.
L’arte è la loro vita e la vita e ciò
che accade tra un’opera d’arte e
l’altra”,
dichiarò conciso, ampliando ora la pennellata.
“Detto questo, patrona, se posso
chiedervi di rimanere per cortesia ferma, sarebbe per me cosa
gradita”, la
rimproverò scherzosamente, con quel suo duro accento
montanaro.
Maria
convenne vezzosamente, ripigliando la posizione abbandonata.
“O forse”, non desistette però dal
tormentare suo cugino, “forse tu le piaci
perché non l’opprimi coi tuoi desideri
carnali.”
“Prego?!”,
boccheggiò Hironimo, incredulo di tanta sfacciataggine,
dinanzi ad un estraneo, poi!
“Suvvia,
Momolo, adori la Trivixan alla stregua d’una dea, non
negarlo! Però scommetto che, se lei ti chiedesse
d’infilarti nel suo letto, tu
scapperesti via alla stregua d’un leprotto!”
“Ma
che dici?!”, arrossì il ragazzo, imbarazzato da
quel pubblico
attacco alla sua virilità. “Perché, i
tuoi fratelli già hanno goduto dei suoi
favori?”
“Tutti
quanti tranne i piccoletti”, replicò semiseria la
giovane
donna, per poi scoppiare in una cristallina risata dinanzi
all’impappinamento
dello scandalizzato cugino. “Mo’ via, Momolo! Che
credulone! Ovvio che no, la
Trivixan è roba del sior Pare e degli amici del sior Pare,
senza il cui
esplicito consenso i miei fratelli non oserebbero sfiorarla neppure con
la
punta delle dita.”
“Manco
mal che le suore dovevano tenerti ignorante del mondo e
crescerti nella modestia!”, bofonchiò il Miani,
piccato della talora eccessiva
vivace schiettezza della cugina. “Rincaso, prima che tu mi
scocci con altre
scabrose assurdità!”
Maria
rise doppiamente di gusto, gettando indietro la fluente
massa di capelli scuri, d’identico colore a quella di
Hironimo, e seminascosta
dal velo di seta. “Vien qua, razza de rustego, dammi un bacio
e facciamo pace:
ti voglio troppo bene per lasciarti andar a casa arrabbiato!”
Non
visto, il giovane Tician intanto appoggiava cauto il pennello,
pigliando il suo taccuino e scarabocchiando furtivo i due cugini, lei
ch’afferrava da dietro la recalcitrante testa di lui,
abbassandolo al suo
viso. Venere che bacia Marte per farsi perdonare,
elaborò in fretta
il cadorino un titolo provvisorio, sognando pieno d’ambizione
il giorno in cui
sarebbe stato finalmente indipendente e non più a bottega,
né chiamato a
rimpiazzare il maestro Zentil Belini quando questi si ritrovava troppo
impegnato per accettare commissioni di minor conto.
“Sior
pitor!”, la voce birbante di Maria lo fece sobbalzare e il
ragazzo s’affrettò a nascondere il quadernetto,
farfugliando qualche
sconclusionata scusa. “Poiché mi ritraete vestita
all’orientale, cosa ne dite
s’aggiungessimo anche il mio seno nudo?”
Il povero
Tician avvampò purpureo per poi sbiancare fino allo
slavato, più che altro per il timore di finire gettato alle
Orbe da sier
Batista in persona, reo di volergli concupire la figliola, rovinandosi
di
conseguenza la reputazione e di perdere la ghiotta occasione di
lavorare per
domino Jacopo Pexaro, vescovo di Pafo e capitano vittorioso nella
battaglia navale
di Santa Maura contro i Turchi, il quale stava giusto cercando qualcuno
di
bravo ed economico per realizzare una pala per un ex-voto. Dinanzi al
palese
disagio del balbettante cadorino, i due giovani sghignazzarono perfidi,
congiungendo le forze e focalizzando i loro lazzi sul loro indifeso
quasi-coetaneo.
Rincasando
verso tardo pomeriggio e riflettendoci sopra, sua
cugina però aveva ragione: Hironimo aveva posto Luzia
Trivixan su di un
piedistallo, elevandola ad amor sacro, stimando infatti più
le emozioni che lei
gli suscitava tramite il suo talento, nonché la sua vivace e
stimolante
compagnia. Il timido desiderio sensuale ch’aveva
all’inizio provato egli si
costringeva ad affievolirlo e sublimarlo in ammirazione e una parvenza
d’amicizia, non giudicando opportuno insidiare colei
ch’apparteneva a suo zio,
il quale si fidava di lui al punto di cessare, dopo una dozzina di
visite, di
presenziare ai loro piccoli concerti. Sarebbe stato da infami tradirlo
per un
tal capriccio.
Certo,
Hironimo non s’ingannava sulla professione di Luzia e
sapeva che di protettori ne aveva altri (pochi ma buoni, contrariamente
alle
cortigiane di lume o alle comuni meretrici) e che non era inusuale tra
amici
scambiarsi la medesima cortigiana. Ciononostante, per il ragazzo un
conto era
battersi per i favori della Trivixan contro degli estranei, un conto in
famiglia. Piuttosto di minare il sacro equilibrio della sua gens,
preferiva
tirarsi indietro.
Anche
perché, oggettivamente, in che cosa poteva competere lui con
lo zio? Cosa poteva offrire di meglio a Luzia?
Continua
…
**************************************************************************************************************
E con
questa domanda esistenziale, ci si vede alla seconda parte!
Il mondo
delle cortigiane a Venezia è davvero affascinante
nella
sua contraddizione: artiste poliedriche e prostitute; idolatrate e
disprezzate;
talora concubine e madri di figli illegittimi; mecenati e benefattrici;
amanti
di tutti, di nessuno o di qualche circolo esclusivo; donne indipendenti
e al
contempo dipendenti dagli uomini. Una mia ipotesi
sul perché le
mantenute (il massimo cui si potesse aspirare) fossero condivise, era
sia per
motivi economici, così da dividersi le spese visto che le
cortigiane menavano
una vita molto costosa all’insegna dello stravagante e sia un
po’ perché
fungevano da piattaforma sociale dell’epoca, in una sorta di
salotti letterari
ante litteram.
In
mancanza di fonti sulla vita “privata” dei
personaggi, gli
eventi narrati, come più volte ripetuto, sono frutto di una
nostra licenza poetica
e spero che dall’Aldilà mi si perdoni. Tuttavia la
fama di cantante di Lucia
Trevisan era davvero talmente grande, che Marin Sanudo, in occasione
della sua
morte nell’ottobre del 1514, annoterà: “In
questa matina, fo sepulta a Santa
Catarina Luzia Trivixan, qual cantava per excellentia. Era dona di
tempo tuta
cortesana, e molto nominata appresso musici, dove a caxa sua se
reduceva tutte
le virtù musicali. Et morite eri di note, et ozi 8 zorni si
farà per li musici una
solenne Messa a Santa Catarina, funebre, e altri officii per
l’anima sua.”
Purtroppo,
della sua vita non si sa moltissimo, in particolare
come mai possedesse un cognome patrizio – figlia illegittima?
Moglie di un
nobile decaduto? Donzella senza dote? Monaca mancata? Certamente doveva
esser
stata un’autorità presso la comunità
musicale di Venezia, se tutti i suoi
musicisti l’hanno così onorata, suonandole una
Messa funebre degna di una
regina.
Di nostra
immaginazione – ma non improbabile considerato il
mestiere di Lucia – è la sua relazione con
Alessandro Demophon Venetus,
compositore di frottole veneziano, attivo tra il 1480 e il 1500,
probabilmente
l’anno della sua morte. Nulla si conosce della sua vita
privata (ma va?),
tranne che fosse o un appassionato di mitologia greca –
Demophon = Demofoonte
di Eleusi? – o di origini greche. Della sua produzione
musicale non ci è giunto
moltissimo, tra cui “Vidi hor cogliendo rose” dalla
poesia dell’umanista
bolognese Giovanni Filoteo Achellini.
Vi
proponiamo questa versione su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=2u9G-OFZXSk
Piccolo
cameo anche di Tiziano Vecellio, qui ancora in veste di
allievo presso Gentile Bellini. Che il pittore cadorino fosse un
talento
precoce, lo dimostra che appena sedicenne gli venne commissionato il
primo suo
dipinto ufficiale ed autografato “Jacopo Pesaro presentato a
san Pietro da papa
Alessandro VI” – iniziato nel 1503 e terminato nel
1506. Nulla esclude che però
avesse già dei lavori alle proprie spalle, insomma non si
commissiona un
dipinto così importante ad uno sbarbatello dalle
qualità totalmente
sconosciute. Ecco dunque la nostra licenza poetica circa
l’immaginario ritratto
di Maria Morosini.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
Mazariol =
“El Mazariol” è un folletto
rossovestito e dalle scarpe a punta, appartenente al folklore
trevigiano-bellunese, il quale si aggira per boschi e vallate assieme
al suo
gregge oppure in zattera sul Piave nelle notti di luna piena, facendo
scherzi a
destra e a manca, in una versione veneta dello shakespeariano Robin
Goodfellow
“Puck”, il valletto di Oberon re
delle fate in “Sogno di una notte
di mezz’estate”. Infatti, all’elenco dei
dispetti di Puck, mi sembrava proprio
di rileggere le “imprese” del Mazariol!
La
tradizione popolare ricorda ai viandanti di non calpestare le
orme del Mazariol, le quali fanno dimenticare la memoria e la strada di
casa.
Un’altra vicenda che l’ha reso famoso è
stato lo scompiglio che avrebbe portato
coi suoi dispetti nel campo di Attila, salvando la città di
Oderzo dagli Unni.
[2] Odhecaton =
o
per intero Harmonice Musices Odhecaton è
la prima raccolta di
musica polifonica (o d’armonia come definita
all’epoca) completamente stampata
a caratteri mobili. La prima edizione venne pubblicata nel 1501 a
Venezia
dall’editore Ottaviano Petrucci, il primo stampatore musicale
italiano, e
dedicata all’umanista veneziano ed ambasciatore Girolamo
Donà “dalle Rose” (lo
zio materno di Marco Contarini), definito dal Petrucci
“suminus patronus"
delle arti. Una seconda edizione uscirà nel 1503 ed una
terza del 1504.
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Capitolo 29 *** Capitolo Ventiseiesimo, parte seconda: Confiteor ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 10.11.2021
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Ventiseiesimo
Confiteor
(Non
desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)
Parte 2
Ma la
tentazione! La tentazione dell’amor profano!
A quello
il ragazzo ci cogitava parecchio, da sveglio e dormiente,
peccato che l’implementazione non accadesse ai suoi termini,
indifferente egli
agli sfottò dei suoi amici che lo definivano uno
“schizzinoso”: a lui le
prostitute comuni non dicevano niente, piuttosto lo disgustavano, quei
fantocci
imbellettati, volgari e indifferenti. Perché accontentarsi
di polenta, quando
si poteva assaggiare pane bianco? Tecnicamente, anche Luzia Trivixan
apparteneva alla categorie delle peripatetiche, eppure nessuno la
insultava né
dopo averla posseduta i suoi clienti si dimenticavano di lei,
ritornando invece
ancor più bramosi di prima, perennemente insoddisfatti. E
lei, crudele, li
tormentava, si negava, si dava ora generosa ora avara; con intuito
pazzesco
inquadrava l’uomo e gli ritorceva contro le sue debolezze,
trasformandosi nella
donna che voleva.
Trascorrendo
i pomeriggi con la cantante, onde migliorare le sue
competenze di liutista dilettante o semplicemente per chiacchierare,
Hironimo
aveva avuto modo di studiarla con comodo, cercando di vedere al di
là dell’aura
di pura prorompente femminilità emanata dalla cortigiana
honorata. S’era sorpreso
di scorgervi, dietro all’ingannevole civetteria e aria da
perpetua bambolina,
uno spirito intrepido e avvezzo alla guerra di sopravvivenza. Il mondo
di Luzia
tanto era bello quanto effimero, un unico passo falso e lei poteva
perdere in
un battibaleno quanto conquistatosi a fatica.
Sicché
ella aveva col tempo sviluppato la medesima fredda
razionalità di un condottiero, che studia il piano
d’attacco avanti ordinare la
carica: Luzia progettava spietata la maniera di sbaragliare
l’insidiosa
concorrenza delle colleghe e sceglieva accuratamente i suoi clienti,
infischiandosene del rango, età e patrimonio di chi
rifiutava, badando più ai
benefici a lungo termine che a breve. Se l’arciere tendeva la
corda dell’arco,
di persona lei accordava il suo preziosissimo liuto, ascoltando
attentissima la
tonalità giusta; i suoi elegantissimi e preziosi vestiti
corrispondevano alla
sua armatura, i gioielli il suo vessillo, la schiera esotica di
famigli,
suonatori, ballerini e acrobati la sua compagnia di ventura. Al posto
di una
spada, la cortigiana honorata brandiva i suoi eccentrici ventagli, gli
alti
calcagnetti il suo destriero e l’arguzia mascherata da
superficialità lo scudo
dietro cui ripararsi.
Hironimo
l’aveva definita, non a torto, un’opera
d’arte vivente,
perché rispecchiava perfettamente la natura di Luzia, la
quale non viveva in
pigro e decadente lusso al pari di una concubina da harem,
bensì lavorava
costantemente al miglioramento di sé, informandosi su ogni
minuscolo aspetto
del mondo che la circondava, acciocché nessun cliente la
pigliasse mai
impreparata. S’informava sulle mode correnti e lei stessa
improvvisava il suo
stile; arrivava a leggere fin quasi all’alba gli ultimi saggi
e produzioni
letterarie, in contemporanea alle otto ore giornaliere di prove di
canto,
esercitandosi fino allo sfinimento e trasformandosi lei stessa in uno
strumento
d’affinare, fino a giungere alla perfezione di cui parlava il
giovane Tician.
Hironimo era giunto alla conclusione, che l’unico vero amore
di Luzia fosse la
musica e la necessità di continuare a coltivarlo, unito alla
consapevolezza
della caducità della sua bellezza fisica, portavano la
Trivixan a discutere coi
suoi protettori e clienti anche d’economia, su quali
investimenti puntare i
suoi guadagni, così da capitalizzarli e vivere tranquilla la
sua vecchiaia.
Alternava concerti a lezioni private, sia di canto che di musica e
Hironimo si
chiedeva quando lei dormisse e mangiasse.
Il
patrizio tuttavia amava quella sua determinazione,
quell’inesauribile energia e chiarezza
dell’obiettivo e un poco ammise
d’invidiare Luzia, desiderando poter possedere tali
qualità, invece di
bighellonare con la sua vita, ancora incerto quale strada
intraprendere. Le
persone sicure di sé e dalla forte personalità
l’avevano sempre affascinato,
portandolo a frequentarle, forse nella speranza d’imparare
anch’egli qualcosa da
loro. Luzia, aggiungendo il fattore femminile, gli conferiva poi una
dolce
sensazione di sicurezza e maturità, quasi di protezione.
Allo stesso tempo, gli
piaceva come non lo trattasse con accondiscendenza, ragionando alla
pari e se
la cortigiana honorata non aveva mai pianificato di sedurlo, esattamente
grazie
alla vivacità del suo intelletto aveva irretito il ragazzo,
divenendo
inavvertitamente l’oggetto dei suoi desideri.
Ammirazione
e passione si fusero quindi in Hironimo, influenzando
il suo modo di suonare, cambiando la voce del liuto da precisa e
senz’anima a
languida e malinconica, imitando l’umore del suo suonatore. E
poiché appunto
l’esecuzione di un brano musicale non si riduce a suonare la
nota giusta, bensì
a dargli un’interpretazione, uno spirito unico e vivo, che la
cantante talora
aggrottava la fronte, quasi colta di contropiede da un sospetto o una
rivelazione, per poi scuotere il capo. In altre occasioni, invece, lei
lo
spiava di sottecchi, indecifrabile peggio d’una sfinge, e
allora Hironimo
sbagliava apposta per distrarla, temendo che lei gli leggesse i
pensieri e che
o lo cacciasse o assecondasse il suo capriccio. Fosse la Trivixan
appartenuta
ad altri uomini, il ragazzo non avrebbe esitato a raccogliere la sfida,
stuzzicato dalla competizione di rendersi il più meritevole
agli occhi di lei e
di rubarla per sé. Peccato, però, che lei fosse
mantenuta anche da suo zio
Batista e se dei suoi amici Hironimo se ne fregava altamente, di lui
no, già
egli se ne approfittava sfacciatamente della sua generosità
e fiducia, non
poteva adesso mettere le mani sull’unica cosa che gli era
stata proibita,
seppur implicitamente. Sapeva d’essere talora un ingordo
egoista, ma non fino a
quel punto. O almeno sperava.
“Sei
distratto oggi, Momolo”, gli fece notare Luzia, chiudendo
sbuffando lo spartito ed invitandolo a riporre il liuto, le orecchie
infastidite dalla sfilza d’accordi sbagliati ma peggio ancora
dell’esecuzione
fuori tempo. “Meglio smettere, prima che mi sanguinino le
orecchie! D’accordo
che il brano parla d’addii ai propri amori, però
sarebbe in chiave ironica,
mica tragica!”, lo burlò dolcemente, aprendo la
finestra e permettendo ad un
po’ d’aria fresca di circolare nel suo studiolo
privato. “Se ci recassimo in
giardino per sgranchirci un po’ le gambe?”
Hironimo
s’ingobbì, storcendo imbarazzato la bocca.
“Mi dispiace”,
mormorò contrito, giocherellando con un laccetto del suo
zipone. “Vi giuro che
m’ero esercitato a casa”, aggiunse, non volendole
dare l’impressione d’aver
disertato gli esercizi assegnatigli. I maestri di musica costavano cari
e Luzia
– su istruzione del suo amante e protettore – gli
insegnava pressoché
gratuitamente. Il ragazzo non desiderava pertanto apparire
né un fannullone né
un ingrato.
“E
di che ti scusi?”, liquidò la donna la faccenda
tramite uno
svolazzo di mano. “Abbiamo tutti i nostri giorni cupi.
L’importante è non
indugiarvi troppo”, gli sorrise incoraggiante. La cortigiana
honorata si sedette
su di una panca foderata di cuoio e ricoperta di cuscini di velluto,
invitando
il ragazzo a seguirla. Gli porse una coppa di ceramica, dal cui liquido
all’interno proveniva un pungente profumo di rose e di menta.
“Una miscela
appena giunta dalla Siria: vostro cugino sier Andrea l’ha
regalata al vostro
sior Barba, il quale gentilmente ne ha condivisa una parte con
me.”
Hironimo,
all’udir la storia di quella deliziosa bevanda,
mancò
per poco di soffocarsi, andandogli di traverso, neanche lo zio Batista
avesse
pianificato di strangolarlo indirettamente, reo di nutrire pensieri
lascivi
sulla sua mantenuta.
“Raccontami.”
“Stupidaggini
da ragazzini”, nicchiò il giovane Miani, roteando
la
coppa, lo sguardo ostinatamente abbassato. “Nulla su cui
perderci il sonno …”
“Eppure
capaci di rubarti il buonumore”, ribatté paziente
la
cantante, bevendo con garbo il suo infuso, il
mignolo ben teso e
alzato, un’abitudine simpatica e un pelino infantile, che
suscitava i sorrisi
bonari dei suoi protettori e
clienti. “Niente che ci ferisce
è
stupido e non m’importa se tu la giudichi una fesseria da
tosatèli, ti
ascolterò ugualmente e volentieri.”
Ed ecco
un altro aspetto ch’aveva ammaliato Hironimo, quella
pazienza e oggettività dimostratagli nel sentire le sue
confidenze, senza sfotterlo
né indorargli la pillola se necessitava d’un
consiglio.
Sospirando
a disagio, il ragazzo tentò di vociare quanto lo stesse
turbando, augurandosi di non suonare ridicolo: “E’
che … è che mi
vergogno della mia pateticità.”
“Pateticità?”,
ripeté confusa la cortigiana, stringendo gli occhi.
Hironimo
annuì. “Tutti i miei amici seducono
tranquillamente ogni
donna a loro congegnale mentre io … io neppure riesco ad
aprir bocca senza
coprirmi di ridicolo … Forse, forse i miei maggiori hanno
ragione, quando
sostengono come ci sia qualcosa di storto in me …”
e ogni volta gli insulti,
seppur proferiti ridendo, lo ferivano profondamente e lo impestavano di
folle
rabbia. A nulla serviva riempire di (molto virili) pugni lo sfrontato
di turno,
perché se in questo modo la sua immagine davanti agli amici
si rafforzava,
quella che lui aveva su di sé diminuiva, aumentando quella
sua insicurezza
tipica dell’adolescenza.
“Ciacole,
ciacole”, sentenziò inaspettatamente Luzia, dopo
un
lungo silenzio di riflessione. “Non c’è
niente di anormale in te e i tuoi amici
sono degli stolti, perché non s’accorgono come tu
al contrario sia molto
chiacchierino e disinvolto con ogni donzella, basta che chiedano
conferma alla
Fantina …”, gli confidò, arcuando
maliziosa la bocca. Occhio sempre vigile,
alla cantante non erano sfuggite le furtive occhiate di Hironimo alle
sue
ballerine o acrobate durante le prove generali prima di una festa:
esibendosi
quest’ultime seminude, non gliene faceva certo una colpa,
semmai la divertiva.
Una tra le più spigliate, Fantina, con la scusa di far
sentire al giovane
quanto le battesse il cuore a furia d’esercitarsi, gli aveva
posto la mano
all’altezza della tetta sinistra, roteandola in un invitante
massaggio e il
ragazzo, ridendosela, aveva dichiarato non sentire al contrario niente,
appoggiandole l’orecchio al petto, mentre quella gli spostava
il viso in
posizione frontale tra i seni, emettendo una serie di risolini acuti
non appena
egli aveva preso a soffiare e vibrare le labbra, provocandole un
piacevole
solletico.
Hironimo
arrossì violentemente, colto in fallo e maledicendosi per
quella scherzosa ripicca al giochetto della vivace ballerina.
“Il
problema è casomai quando detta donzella
t’interessa, allora
sì che ti blocchi! E non negare, perché sai che
ho ragione!”, esclamò
trionfante la cortigiana honorata. “Quando una non ti piace sul
serio, non temi
la sua reazione o giudizio. Al contrario, se la desideri …
Non molti uomini
sono capaci di mettersi in gioco, sai? Specie se la potenziale amante
può
rifiutarli. De diana, tutti sono dei grandi seduttori con le
prostitute, no?”,
ridacchiò, strizzandogli maliziosa l’occhio.
“E
il mio sior Barba?”, inquisì d’un tratto
brusco il ragazzo.
“Come vi ha sedotto?”
“An,
quesito difficile”, non si scompose la Trivixan, riempiendosi
di nuovo la coppa di quel dolcissimo infuso. “Non certo coi
suoi soldi né la
sua posizione sociale, poiché annovero tra le mie
fila patroni più
danarosi e socialmente meglio piazzati di lui. Ama molto
appassionatamente,
però con incostanza … No, se avessi puntato solo
sulla passione fisica, a
quest’ora avrei già perduto il tuo sior Barba.
E’ la mia mente ciò ch’egli
adora di me: vedi, la tua siora Amia possiede molte qualità
e lui le vuole un
bene dell’anima, solo che lei è troppo rigida e
limitata di pensiero, mentre il
tuo sior Barba è un irrequieto vulcano d’idee. Lui
apprezza ch’io gli tenga
testa intellettualmente ed anch’io amo ciò,
sicché abbiamo stretto codesto
matrimonio persiano, anche quando la passione fisica
scemerà. Io so che lui va
con altre donne, eppure torna sempre da me.”
L’unica
tuttavia che Luzia gli aveva categoricamente precluso era
Francesca Ordeaschi, la sua odiatissima rivale. Alla
scoperta di
come sier Batista avesse partecipato ad una festa in cui lei aveva
presenziato,
la sua amante si era trasformata in una delle Erinni, sputandogli
addosso i
peggiori insulti e minacciandolo d’accopparlo di sua mano,
piuttosto che
cederlo alla concorrenza. Il Morexini (che sul serio manco se la filava
l’Ordeaschi, troppo volgare per lui) aveva ascoltato
calmissimo, lasciandosi
scivolare di dosso ogni invettiva, già allenato dalla sua
Santippe. L’unico
momento in cui aveva perduto la pazienza, fu quando lei in sberleffo
gli aveva
ripetuto, imitandolo alla perfezione, le sue motivazioni, ossia che
aveva
bisogno di crearsi una solida rete d’amicizie a Palazzo per
favorire la sua
carriera politica in ascesa e attorno a Francesca Ordeaschi gravitavano
appunto
quei pezzi da novanta.
“E
allora fuori da casa mia! Vi odio, vi disprezzo, mi fate
schifo! Su, su correte cagnolino, correte da lei! Io tanto mi strapazzo
per
divertire vossioria, io che vi ho donato i miei migliori anni, che ho
sperato –
Dio mi perdoni! – in una minuscola prova di
fedeltà vostra, mi vedo ripagata
così: l’Ordeaschi schiocca le dita, vossioria
perde la testa e zampetta
scodinzolante da lei!”
“Parlo
al muro, forse? Non me ne cale un accidente di quella
baldracca, bensì della gente che lei frequenta! Vi giudicavo
più intelligente,
ma a quanto pare la gelosia vi ha rivelato per la donnetta di bassa
lega quale
siete!”
“Visto
che scopate anche quelle, non dovreste amareggiarvi!”
“Attenta
a non infastidirmi: non siete l’unica puttana a Veniexia
…”
“E
voi non siete l’unico patrizio: della vostra razza, ne ho
già
cento in lista d’attesa. Meglio per loro che si sia liberato
un posto, almeno
mi divertirò di più e non dovrò
più sopportare un vecchio noioso e impotente
come voi!”
E via
così finché, non ottenendo nulla a parole, sier
Batista era
passato alle vie di fatto e, pigliata la cortigiana, l’aveva
costretta sulle
sue ginocchia, chiappe all’aria, e sollevatale le gonne
l’aveva sculacciata per
bene per la sua linguaccia. Caricatasela poi sulle spalle e gettatala
di peso
sul letto, le aveva ben esplicato tra le lenzuola come lui la
preferisse sopra
ogni altra amante; come fosse tutt’altro che vecchio, noioso
e impotente e che
mai più si ritornasse sull’argomento. In Senato,
il giorno successivo, si era
chiesto al “da Lisbona” il perché dei
graffi sulla guancia, segni che lui aveva
giustificato frutto di un’accesa discussione con la gatta di
casa. Felino che,
dopo una settimana di bronci e dispetti, gli era ritornata tutta
morbida e
ronronnante sulle ginocchia, sotto solenne giuramento di non toccare
l’Ordeaschi manco sotto minaccia di morte.
“In
quest’aspetto, tu gli assomigli molto: ti piace sì
un bel
visetto, ma ancor di più lo spirito di una
persona.”
Appoggiando
la coppa sul tavolino smaltato di foggia orientale,
Hironimo si passò una mano sulla fronte, grattando via i
pensieri. “Mi si
rimprovera che sono troppo accondiscendente verso le donne, permettendo
loro di
pestarmi i piedi e pure scusandomi quando lo fanno”,
proseguì nella sua
confessione, riversando il pus accumulato negli ultimi mesi e
sentendosi un
poco indegno di quel paragone con lo zio, il quale non si tirava mai
indietro
dinanzi alla sfida di una nuova conquista. “Mi hanno detto,
che forse dovrei
essere più – cito - rude e aggressivo nei loro
confronti, poiché così piace a
loro. Che mi lascio trattare alla stregua di uno straccio, piuttosto
d’impormi
e farmi, secondo costoro, rispettare …”
“Boff,
l’uomo lo vogliamo rude e aggressivo forse in letto, ma ti
assicuro che nella vita reale lo preferiamo gentile e
premuroso”, su quel punto
l’assicurò un’intransigente Luzia, la
quale l’ascoltava un poco in pena,
affezionata com’era all’animo sensibile di quel
ragazzo, in fin dei conti più
buono e puro di tanti approfittatori e marpioni in cui s’era
imbattuta. E
ribolliva di rabbia nell’udire quelle sue insicurezze e
recriminazioni,
inculcategli da gente che neanche gli arrivava alle caviglie. In molti
preferiscono essere amati e prendere dagli amati, in una sorta di
comodo e
passivo egoismo; in pochi invece preferiscono dare e amare,
sbilanciandosi ed
esponendosi alle delusioni ed Hironimo si ritrovava in questa seconda
categoria, degli spiriti amanti, che traevano la loro
felicità in quella della
persona amata, piuttosto che alla propria soddisfazione personale. E
per
questo, ahimè, venivano spesso o ridicolizzati o sfruttati.
Teneramente
la cantante afferrò Hironimo per le spalle e lo
invitò
ad accomodare il capo sul suo grembo, scostandogli delicata delle
ciocche scure
dalla fronte. “Come sostiene Marsilio Ficino, solo Venere
domina Marte e lui
non domina mai lei: dunque, un uomo che maltratta la sua donna non vale
niente,
se perfino lo sterminatore di uomini si accoccola mansueto e rilassato
accanto
alla sua”, gli spiegò, distendendo una piccola
ruga scettica sulla fronte del
giovane. “Tu non sei debole, Momolo, ti ho visto combattere
alla Guerra dei
Pugni contro opponenti il doppio di te; non sei né stupido
né una scartina. I
veri amatori non si vantano mai delle loro conquiste e chi afferma di
non aver
mai sofferto d’amore, allora è un bugiardo
perché non è vero, chi veramente ama
soffre, poiché non si esiste più, ci si annulla
nella cosa amata e viceversa.
In amore è facile prendere, ma difficile dare”,
ammise la donna,
accarezzandogli la testa, colta da antica malinconia.
Ripensava
al suo Alexandro, alla sua eroica rinuncia di carriera,
quando, anni addietro, la marchesa Isabella d’Este gli aveva
proposto impiego a
corte, a patto però ch’abbandonasse Luzia,
sostenendo che di cantori e amanti a
Mantova ne avrebbe avuti a bizzeffe. Egli, allora, le aveva intimato di
tagliargli la mano e così assumerlo, poiché senza
la sua musa, egli non poteva
lavorare. Una scelta sciocca, se analizzata freddamente, rifiutare una
sì
allettante offerta per amor di una cortigiana; eppure …
eppure …
“E
poi neanche a me piacciono gli spacconi, i gretti e i volgari,
il cui unico pensiero fisso si riduce al coito. Bleah, cani in calore e
senza
qualità … ”, si scosse Luzia dal suo
incantamento. Nei suoi lunghi anni da
professionista ne aveva viste di cotte e di crude e udite di ben
peggio. Per
questo motivo aveva lavorato tenacemente per elevarsi
dall’anonima marmaglia
delle prostitute, per dedicarsi alla sua arte in tutta
tranquillità, senza
scendere a scabrosi compromessi. Se i suoi clienti desideravano una
serata più
piccante, sapeva dove procurare loro le ragazze ma se volevano giacere
con lei,
scaltramente li indirizzava nelle posizioni a lei consone, facendoli
però
credere ch’erano stati loro stessi a sceglierle. Una volta
presili saldamente
per il pene, gli uomini non capivano più niente, altro
ch’esperti dominatori. E
a coloro che si lamentavano di lei, rinfacciandole come con minor
tariffa
ottenevano miglior mercanzia ai bordelli, Luzia, ridendoli in faccia,
replicava
sfrontata su cosa li trattenesse allora a casa sua; sul
perché si fossero
scomodati a dirglielo, perdendo così tempo prezioso
ch’avrebbero potuto meglio
impiegare in letti più economici.
“Quegli
infoiati là io li cedo assai volentieri alle cortigiane di
lume o alle comuni meretrici. Da loro non c’è da
guadagnarci alcunché di
concreto e molto spesso chi si pavoneggia a voce alta, poi si scopre
essere un
incapace a letto, più veloce di un gatto affamato.”
Hironimo
grugnì sotto i baffi alla battuta.
“Non
vergognarti mai di chi sei, Momolo: quando lo fai, loro hanno
vinto. Il mondo è pieno di vigliacchi pronti ad azzannarti,
ma guaiscono
spaventati non appena mostri il pugno! Mia madre, oltre al mestiere,
m’ha
insegnato a sapere come voglio esser trattata: vedi qualcuno che mi
chiami
apertamente in faccia “troia” o
“puttana”? Uomini arrapati che mi palpeggiano?
O che mi fischiano dietro? No, perché il mio atteggiamento
glielo impedisce,
sanno che se s’azzardano, ci saranno conseguenze gravi per
loro. E se ciò non
bastasse, i miei bestioni li acconciano per le feste”,
dichiarò bellicosa la cortigiana
honorata, la quale appunto onde evitare visite sgradite o aggressioni da
parte di
pretendenti respinti o di rivali, deambulava per le calli accompagnata
dai suoi
bravi, omaccioni provenienti dallo Stato da Mar, tanto truci cogli
estranei
quanto mansueti con la padrona. “Non cedere dinanzi ai
giudizi di nessuno,
conosci te stesso e vai avanti per la tua strada.”
“Quale
strada?”, obiettò Hironimo, stringendo la bocca in
una
linea dura. “Quando il mio sior Pare era vivo, non avevo
alcun dubbio quale
essa fosse, poiché progettavo di seguire le sue esatte orme.
Dopo la sua morte
… non capisco più nulla, questo mondo mi sembra
di vederlo da una lente di
vetro, distorto e assurdo, e ciononostante io voglio fare qualcosa,
rifiuto di
starmene con le mani in mano, voglio … voglio poter esser
d’aiuto e apprezzato
come lo era stato il mio sior Pare … Lo stesso anche in
ambito amoroso”, e
reclinò all’indietro la nuca, cercando lo sguardo
della cantante. “Il mio
sentimento finisce sempre unilaterale e … e se invece viene
ricambiato, è
perché lei ha pietà di me. Ecco perché
mi appellano un patetico sfortunato.”
“Pietà,
lussuria, amore sincero …”, elencò
spassionatamente la
donna, cancellando la conta nell’aria tramite uno svolazzo
della
mano, “che importa il modo, quando
l’amata è tua? In guerra ed in
amore tutto è concesso!”, disse tenera, inclinando
il viso su quello del ragazzo,
che allungò la mano, attorcigliando un ricciolo rosso tra le
sue dita e
rigirandolo pensoso.
“Affermate
il vero, patrona”, soffiò d’un tratto
roco, gli occhi
nerissimi incatenati a quelli turchesi di lei. “Ovunque al
mondo è violenza ed
io non voglio portarla tra me e la mia amata”,
mormorò, disegnando con la punta
del dito il profilo della cantante, accarezzandole la pelle
morbidissima della
guancia. Allo stesso modo non desiderava far del male a nessuno e
ciononostante, in lui percepiva spesso una forza perversa, che lo
spronava alla
malvagità, terrorizzandolo e costringendolo a domandarsi che
cosa sarebbe
successo il giorno, in cui avesse perduto il controllo.
Voleva
soltanto amare ed essere amato, perché doveva suonare
strampalata come idea e così difficile da capire da parte
degli altri?
Puntellandosi
sui gomiti, Hironimo affondò le sue dita tra le
trecce rosse di Luzia, chinandola su di lui e iniziando un bacio un
poco
rovescio, i rispettivi nasi in direzione opposta. Le labbra del ragazzo
emulavano in finezza la forza di due eserciti in pieno scontro
frontale,
avanzando e conquistando il morbido territorio pregno
dell’euforia della prima
uccisione. Si sistemò sul fianco, trascinando Luzia a
sé, la sua preda di
guerra, petto contro petto, leccandole lungo il collo e i denti
mordicchianti
il lobo del delicato orecchio. Finché le posizioni non
s’invertirono e lei si
ritrovò accoccolata sulle sue ginocchia, prigioniera tra le
sue braccia e la
gonna abbastanza sollevata da intravedere le braghesse, assecondando
diligente
i suoi movimenti, senza però prendere alcuna iniziativa, in
paziente attesa che
l’audace slancio del giovane s’esaurisse e lui
realizzasse il peso del suo
gesto.
…
la Trivixan è roba del sior Pare …
Hironimo
si fermò a mezz’aria dall’elargire
l’ennesimo bacio a
Luzia, mordendosi e tirando la pelle delle labbra ora gonfie ed
arrossate,
osservando il viso impassibile della cantante, la camiciola di seta
abbassata e
aperta fin a scoprire quasi completamente il petto, i nastrini sciolti
delle
braghesse. Il ragazzo sospirò, serrò frustrato i
denti, maledicendo tra sé e sé
la sua mancanza di autocontrollo, il suo impulsivo egoismo.
Baciò con estrema
delicatezza ciascuna palpebra della Trivixan, le cui ciglia tremarono
impercettibilmente da un lieve solletico, intanto che le sistemava le
spalline
e la camiciola, in un goffo tentativo di rivestirla.
“Patrona,
mi piacete assaissimo e vi desidero d’ugual intensa
maniera.”
“Sì.”
“Ma
amo troppo il mio sior Barba per ripagare la sua fiducia
coll’inganno.”
“Sì.”
“Vi
domando perdono.”
“Sei
perdonato”, lo rincuorò gentile la cantante,
sciogliendosi
piano dall’abbraccio del confuso e rammaricato patrizio.
Nelle sue iridi
turchesi egli non vi lesse alcun biasimo né rancore
né delusione. Forse un
pelino d’incertezza, come se l’intera situazione
stesse risultando anche a lei
sconosciuta ed ostica. “Ed è già
dimenticato”, si riprese la cortigiana honorata,
alzandosi dalla panca e lisciandosi le pieghe della gonna sgualcita.
“Suppongo
non mi vogliate più vedere.”
Luzia gli
scoccò un’occhiataccia, intanto che si acconciava
alla
bell’e meglio i capelli spettinati. “Non fare lo
sciocco. La pavana si balla in
due, la colpa è in parte anche mia”, lo
rimproverò aspra. “A furia di
frequentare uomini piuttosto maturi, avevo quasi scordato quanto i
giovani
fossero irruenti ed irresponsabili …”,
dichiarò pragmatica, riprendendo posto
accanto ad Hironimo una volta terminata la rapida toeletta, ancora
indeciso se
rimanere o scappar via dopo quella figuraccia. “Mentre tu
m’hai appena
dimostrato, che sei l’eccezione che conferma la
regola.”
“Non
datemi troppo credito, patrona”, si schermì severo
il
ragazzo, studiandosi avvilito la punta delle
scarpe, “se foste stata
la donna di qualcun altro, qualcuno magari a me in odio, non mi sarei
trattenuto.”
La
cortigiana honorata rimase in silenzio per una manciata
d’istanti, l’espressione guardinga ed indagatrice.
Sporgendosi verso di lui,
gli pose due dita sotto il mento e scandagliò accuratamente
negli abissi di
quelle iridi nerissime. “Anche in quel frangente, ti saresti
fermato. Non sei
un malvagio, è il diavolo che vuol fartelo
credere.”
“Che?!”
Ma Luzia
non gli fornì ulteriori dettagli: riacquistata la sua
aria da finta civetta, scattò in piedi e gli tese la mano,
reclamando imperiosa
il suo braccio. Costì avvinghiati, i due si diressero a gran
passi verso la
sala di rappresentanza, gremita di un frenetico viavai di servitori
impegnati a
decorarla. Osservando soddisfatta l’avanzamento dei lavori e
fornendo ogni
tanto qualche dritta, la cortigiana honorata suggerì una
controproposta ad
Hironimo: “Invece, se proprio vuoi far penitenza, aiutami ad
elaborare
un’efficace vendetta contro quello spergiuro
d’Ottaviano Petrucci, quella
viscida serpe d’Urbino!”
“L’editore
musicale?”, si svegliò dal suo incantamento il
ragazzo,
riconoscente a Luzia per aver cambiato argomento e rotto
l’imbarazzo, che lo
stava divorando vivo.
“In
tutta la sua odiosa persona!”, sbuffava a guisa di toro la
Trivixan. “Tra i suoi numerosi progetti futuri, ha incluso
una nuova raccolta
di frottole, ricercari e danze del compositore milanese Joan Ambrosio
Dalza e
mi aveva giurato – ripeto – giurato sul suo onore,
che mi avrebbe procurato in
esclusiva una copia inedita di una pavana alla
venetiana, per
suonarla al mio prossimo ricevimento ufficiale. E l’ha fatto,
secondo te? No!
Che figura farò coll’ambasciatore sier Hironimo
Donado? Ti pare si mantengano
così le promesse, Momolo? E ad aggiungere
l’insulto all’ingiuria, fonti mie
certissime hanno sentito suonare a casa della Francesca Ordeaschi
– becha
fotua, cancara proditora! – un saltarello
alla ferrarese sempre
del Dalza! Ti pare giusto? Ci scommetto il mio diamante più
grosso, che il
signor Ottaviano s’è lasciato coglionare da quella
pezzente! An, mare de diana!
Ma se pensa di cavarsela … di sfuggirmi … Domani
sera a cena gli farò vedere i
sorci verdi, altroché! Non permetto a nessuno di burlarsi di
me, men che meno
ad un marchigiano papalino imbrattatore di fogli!”
Veramente
Luzia Trivixan si comportava come se nulla tra loro fosse
accaduto, avendo sviluppato, grazie alla sua professione, una spessa
corazza
che l’aiutava a lasciarsi scivolar via ogni cattiveria,
delusione e dispiacere.
Per il resto del pomeriggio non accennò mai più
al bacio, né permise che
Hironimo si fustigasse oltre il necessario, tenendolo occupato e
riprendendo la
lezione interrotta di liuto, esercitandosi assieme su di una versione
da lei
stessa arrangiata di Adieu mes amours del franco-fiammingo Josquin
des Prez, il princeps musicorum.
“E
stavolta leggerezza, Momolo”, gli pizzicò giocosa
la guancia la
cortigiana, dopo avergli corretto la postura delle dita. “In
fin dei conti, il
nostro amico si sta lagnando che, non avendo più danari,
dovrà momentaneamente
abbandonare i suoi divertimenti amorosi!”
Adieu
mes amours, a Dieu vous command,
Adieu je vous dy jusquez au printemps …
Luzia
Trivixan era sì una commediante, una maschera che
s’adattava
alle circostanze, però sempre con Hironimo si
dimostrò spontanea e sincera,
sicché, dopo gli iniziali timori e rimorsi, il ragazzo
poté rilassarsi e
confidare nell’effettivo perdono da parte della cortigiana
honorata e soprattutto
nel suo silenzio circa l’accaduto con suo zio sier Batista.
I loro
incontri pomeridiani, per quanto diminuiti, conservarono lo
stesso tono complice e brioso e il giovane Miani si divertì
come un matto a
sentire il colorito resoconto della cantante, quando gli descrisse i
tormenti
cui aveva sottoposto il signor Petrucci, talmente bistrattato da
accordarle
speditamente tutti gli spartiti di cui ella necessitava, per
organizzare una
piccola festa in onore dell’ambasciatore sier Hironimo Donado
“dalle Rose”,
noto “suminus patronus” dell’arte, e il
cavalier sier Domenego Trivixan, da
poco rimpatriati.
Un
piccolo trionfo per Luzia, specie nei confronti della sua
peggior rivale, Francesca Ordeaschi, ed Hironimo le fu davvero
riconoscente
d’averlo incluso a quella festa esclusiva, laddove la
cortigiana honorata era
riuscita ad invitare la meglio Venezia, sia politicamente che dal punto
di
vista culturale.
In
particolare, perché il giovane Miani ebbe modo
d’incontrare
finalmente di persona l’ambasciatore sier Hironimo Donado, un
fratello di
madona Alba amica di Madre e zio del suo amico fraterno Marco
Contarini.
Conversando con lui, Hironimo capì da chi Marco avesse
ereditato la sua amabile
gentilezza e velleità poetiche e da chi suo fratello minore
Piero la sua
precoce bravura in latino e in greco, ammettendo anche una certa
somiglianza
nei tratti somatici: la veste di broccato e la ricca collana al collo
risaltavano
in sier Hironimo il suo corpo vigoroso e il viso bellissimo, dolce e
benevolo e
ben presto Hironimo appurò quanto tanta beltà
fisica s’accompagnasse a quella
dell’animo.
Felice
connubio tra prestigio politico e impegno culturale, il
Donado “dalle Rose”, oltre ad aver ricoperto
importanti cariche per conto della
Signoria, era anche dottore in artibus, poeta lirico,
d’elegie e satire;
saggista, filosofo e appassionato di studi d’astronomia e di
musica, tanto che
Ottaviano Petrucci gli aveva dedicato, il 15 marzo 1501, la prima
edizione
dell’Odhecaton. Amico di Giovanni
Pico della Mirandola, d'Angelo
Poliziano, di Galeazzo Facino, di Marsilio Ficino e dello stesso
Lorenzo il
Magnifico, d’Almorò Barbaro e di Piero Bembo,
della bellissima Cassandra Fedele
Mappelli e di moltissimi altri umanisti veneziani ed italiani, non
esisteva un
argomento in cui sier Hironimo non fosse preparato, spaziando agilmente
dalla
letteratura alle scienze, senza tuttavia apparire spocchioso o pedante,
anzi,
per la prima volta in vita sua il giovane Miani riusciva a capire
concetti –
tipo l’unità dell’intelletto o
l’immortalità dell’anima secondo
Aristotele
- che neppure prendendolo a scudisciate si era stati
capaci
d’insegnargli. Questo perché, se interrotto da una
sua domanda, l’ambasciatore
non si scocciava, semmai ripeteva e semplificava per facilitargli la
comprensione.
“Purtroppo,
non si possono servire due padroni”, gli confidò
malinconico sier Hironimo, spesso e volentieri trascinato via dal suo
otium
culturale dai turbini della politica. “Per questo, quando
troverai la tua vera
vocazione, devi perseguirla più tenace d’un
bracco, senza distrazioni e
compromessi. Altrimenti, si è destinati
all’oscurità e ad un precoce oblio.”
Completamente
ammaliato dalla sua intelligenza, Hironimo credette
d’essersi un poco innamorato di quell’uomo, al
punto d’invidiare madona Maria
Gradenigo Donado sua sposa e i suoi nove figlioli, indegni rivali che
avevano
la fortuna di tenerselo tutto per loro: fosse stato per lui, si sarebbe
accoccolato
ai suoi piedi come Maria di Betania ad ascoltarlo parlare per ore e ore
e di
fatti per l’intera serata lo tallonò inclemente,
lavorandosi poi ben bene il
cugino dell’ambasciatore, sier Francesco, anch’egli
peritissimo nelle lettere
classiche, soltanto di carattere meno estroverso rispetto al parente,
un
pensatore più che un uomo d’azione e come sier
Hironimo anch’egli propendeva a
preferire la subdola mischia della politica [1]. La scelta del giovane
Miani
d’affiancarsi a sier Francesco si rivelò
azzeccata, togliendolo d’impaccio e
perciò accaparrandosi la sua simpatia: sul volto del
trentacinquenne patrizio,
infatti, trapelava un certo disagio nel ritrovarsi in un ambiente
così frivolo,
per quanto colto. Cicalando del più e del meno, Hironimo
aveva scoperto che
tale malinconia d’animo era dovuta alla prematura scomparsa
della moglie del
Donado, fatto che l’aveva reso particolarmente devoto
soprattutto al momento di
prendere una seconda moglie, madona Maria Zustignan Donado, verso la
quale sier
Francesco nutriva una grandissima stima ed affetto.
Peccato
che il giovane Miani commise la sconsideratezza, mentre
l’indomani raccontava agli amici Marco, Piero e Polo
Contarini ogni dettaglio
della serata, quanto ammirasse il loro barba sier Hironimo, tessendogli
estasiato
ogni lode alla stregua d’una fanciulla innamorata e pertanto
scatenando una
gelosia furiosa in Marco, già di suo frustrato per la sua
incapacità
d’eguagliare la bravura letteraria dell’illustre
zio, figurarsi adesso che
scopriva quest’ultimo avergli insidiato colui che
già considerava il cor suo.
“Bestia,
allora sposatelo alla persiana e fuora de là col
diaol!”,
gli urlò Marco in lacrime, quasi spezzando in due il suo
arco d’addestramento.
Meno male che si trovavano al Lido, lontano da orecchie indiscrete
ch’avrebbero
potuto equivocare. “Io ti voglio più bene di lui e
a scuola ti ho sempre
aiutato in latino, razza d’ingrato somaro! E tu ora mi fai la
baldracca e gli
scodinzoli dietro? Ma chi sono io per te? Una latrina da usare al
bisogno?”,
prese il ragazzino a singhiozzare, aggrappandosi disperato al maggiore,
quando
questi l’abbracciò per consolarlo.
Porta
pazienza, non ha che quattordici anni, si
ricordò Hironimo mentre gli prometteva fedeltà
eterna e gli accarezzava il
capo, ricordandosi di come, alla medesima età del Contarini,
egli si fosse
scatenato in scenate di gelosia ancora più assurde e
melodrammatiche.
Certo
però sembrava quasi una maledizione, che l’uomo
fosse
destinato, due casi su tre, ad affezionarsi a chi di rimando non se lo
filava
manco di striscio.
Facilissimo,
dunque, desiderare “l’altrui” …
***
Il
rapporto tra Hironimo e Jacomo Corner di sier Zorzi il cavalier
si poteva riassumere in amici-nemici. Di caratteri simili ma
provenienti dai
poli opposti del patriziato veneziano, i due giovanotti riuscivano a
divertirsi
e bighellonare assieme, per poi un attimo dopo accapigliarsi ed
insultare loro
e i rispettivi antenati fino alla fondazione di Venezia.
Il Miani
invidiava al Corner la sua ricchezza ed appartenenza ad
una delle famiglie più influenti e meglio imparentate della
Serenissima; mentre
Jacomo invidiava il carisma naturale e la facilità con cui
Hironimo tesseva
amicizie, creandosi un piccolo suo seguito personale. Pur in generale
soddisfatti di sé, mal sopportavano ciò che
l’altro possedeva e non perdevano
occasione di ricordarselo a vicenda, talora crudelmente. Ad esempio, il
Corner
rimarcava inclemente i modesti mezzi economici del Miani;
quest’ultimo, invece,
gli chiedeva se gli bruciasse la palese predilezione di suo padre verso
i suoi
fratelli Francesco e Marco Corner.
Magre
vittorie di Pirro, poiché nella vita reale, alla fine, la
spuntava sempre e comunque Jacomo, favorito da ciò che
contava di più al mondo,
ossia danaro e posizione sociale.
Sicché,
il giorno in cui dinanzi al doge sier Lunardo Loredan
venne annunciato a Palazzo Ducale il fidanzamento ufficiale tra Marina
Morexini
q. sier Orsato e Jacomo Corner, Hironimo, ricevuta la notizia, non si
sorprese
del rictus nervoso che gli attraversò il viso, scendendo
fino alla mano mentre,
senza accorgersi, piegava in due la penna.
Da anni
non provava alcun sentimento verso Marina e, sicuro, un
poco rimpiangeva di non aver tentato (molto arditamente)
di
proporsi a sua madre come candidato alla sua mano; tuttavia lo
infastidì che,
tra tutti gli scapoli di buona famiglia, proprio Jacomo Corner avesse
dovuto
spuntarla. E al Miani sarebbe andato bene perfino un qualsiasi Corner,
ma
non quel Corner, il cocco di zia
Ysabeta, quello per le cui
marachelle lui finiva puntualmente punito, anche quando non era colpa
sua,
uscendone Jacomo sempre innocentino e perdonato.
“Era
ovvio che la pronipote del fu Serenissimo Agustin Barbarigo
si maritasse in una famiglia a sua volta discendente da Dogi, quale la
nostra –
e per nostra intendo sia i Corner che i Morexini. In fede mia, non
avrei potuto
sperare migliore alleanza per il mio Jacomo: vi immaginate? La
fanciulla più
ambita di Veniexia sarà sua moglie! Quale lustro
guadagnerà in società, come
gli assicurerà una spedita carriera politica! Per fortuna,
che abbiamo deciso
di fidanzarli in largo anticipo: costasse quel che costasse, questo
sponsalicio
dev’essere l’unico degno di nota
dell’anno, nessuno dovrà batterlo in fama e
lusso, addirittura nessuno dovrà avere perfino il coraggio
di sposarsi, tanto
abbaglieremo la città!”
“Sicché
per un anno vivremo tutti da Turchi!”, bisbigliò
Hironimo
all’orecchio di suo zio sier Batista, che grugnì
paonazzo in volto, sforzandosi
di non ridere. Sua moglie, madona Morexina, invece era divenuta
anch’ella
rossa, ma per differente motivo.
“La
tradizione indicherebbe l’abito nuziale o di raso bianco o di
panno d’argento, ma considerata la superiore
nobiltà della sposa, dire che
sarebbe più auspicabile del rastagno d’oro. Uguale
discorso per mio figlio,
ovviamente. Una tal giovane ed avvenente coppia ha il diritto
d’essere
celebrata nello sfarzo più assoluto …”
e per interminabile tempo madona Ysabeta
si vantò e si vantò e si vantò di
quell’illustre unione, che per la prima volta
dacché s’aveva memoria, sua sorella minore madona
Morexina si ribellò alla
maggiore e, battendo la mano sul cuscino del sedile dentro la felze,
esclamò
inviperita:
“Sancte
Marce! Un’altra Marina si sposa oggi, nostra sorela:
potreste almanco spender una parola di felicitazioni per lei, o vi
costa
troppo?”, e sbuffando sdegnata prese a mangiucchiarsi
stizzita l’unghia, suo
marito sier Batista che la rimirava adorante ed Hironimo genuinamente
colpito
da tanto fegato, avendola sempre creduta succube della sorella maggiore.
Ultimamente,
anzi, da quando madona Ysabeta Morexini Corner aveva
incominciato a maritare figli e figlie, un inaspettato spirito di
rivalsa aveva
piantato radici in madona Morexina, prefissandosi d’accasare
tutte e quattro le
sue figliole, costasse quel che costasse.
“Il
prossimo anno, abbiamo deciso di far sposare Lugrezia a sier
Jacomo Contarini. Non vi pare meraviglioso?”
“Invitatelo
al matrimonio di mia figlia Maria con sier Zuanne
Querini di Stampalia e Amorgo!”
Oppure
…
“Che
ne pensate, sorela? Raso o seta per l’abito nuziale della mia
Biancha?”
“Ecco,
io per mia nuora Maria avevo pensato a del raso …”
“Ma
come? E alla povera Querina più non ci pensate?”
Se madona
Ysabeta avesse chiamato barbona vagabonda sua sorella,
certamente l’avrebbe insolentita di meno, ché la
mera menzione al mancato
fidanzamento di sua figlia Querina aveva immediatamente zittito madona
Morexina, pietrificata sul posto. La granitica volontà della
patrizia di
maritare suo figlio Carlo alla ricca ereditiera Maria da Molin del fu
sier
Amadio l’aveva totalmente distratta dalla ricerca
d’un marito per la sua
seconda femmina. A complicare la già delicata situazione,
Carlo s’adoperava in ogni
modo a stracciare i nervi dei genitori, rivelando un carattere meno
remissivo
e pacato di quanto si fosse finora creduto, protestando la sua
contrarietà a
quelle nozze e adducendo un’infinità di deboli
scuse per sottrarvisi, quali il
non aver nemmeno compiuto ventun anni. Sier Batista lo fissava
stralunato,
incapace di concepire tanta irriconoscenza in quel suo figlio
prediletto: la
Molin possedeva terre, case, un cospicuo patrimonio liquido; era
giovane,
virtuosa e piuttosto carina, certamente più obbediente del
suo futuro consorte.
Insomma, che diamine pretendeva di più? Così
ripagava i suoi sforzi?
“Vuoi
divenire l’erede e prossimo capofamiglia? Impara ad
assumerti le tue responsabilità! Un uomo non è
tale se non è sposato! Puto
rimane, di nome e di fatto!” [2]
Ogni
giorno era un dramma a Ca’ Morexini, tra pianti, grida,
recriminazioni, porte sbattute, vasellame infranto per terra, promesse
di
buttarsi giù in canale o di vestirsi frate e contro-promesse
d’assassinio, in
caso d’attuazione delle preditte.
“Finché
io respiro e finché tu vivrai in questa casa, perdio, se
non m’obbedirai! Anni di sacrifici e sofferenze per dare a
te, disgraziato d’un
barabba, e ai tuoi fratelli e alle tue sorelle ogni
possibilità d’emergere,
d’avanzare in società! E tu mi ringrazi
sciorinandoti in capricci come l’ultima
delle donnicciole? Guarda tua sorella Maria! Ha protestato quando le ho
detto
di sposarsi sier Zuanne? No! Come puoi ripagare tutto il bene che ti ho
fatto,
con tanta meschina disobbedienza? Mi deludi, Carlo, mi deludi
grandemente! Non
pensi ai tuoi fratelli minori? Alle tue sorelle ancora zitelle? Uh? Se
dovessi
morire domani, come te la caveresti a mantenerli?”
“Sior
Pare, non mi costringete, vi supplico! Non la voglio! Non la
voglio! Maritatela a Nicolò o ad Hironimo o meglio ancora a
Piero! Sì, Piero è
certamente il più adatto al matrimonio rispetto a
me!”
“Sacramento!
Alzati e vattene via, mi fai venire la nausea!”
Un giorno
sier Batista s’era perfino
presentato fuori di sé a Ca’ Miani, inveendo
contro il figlio e la fortuna e
domandando soccorso a Marco, acciocché persuadesse il cugino
a piegarsi alla
volontà paterna. “Fallo ragionare, prima
che lo strangoli!”, aveva
tuonato frantumando nel pugno il biscotto offertogli. “E’
mia moglie che me
l’ha rovinato! Quella bacia-altari, quella pizzocchera, altro
che donna da
conto! Donna da prete! Con tutti quei rosari, Messe, devozioni,
pellegrinaggi,
padri predicatori e cialtronerie varie gli ha raffreddato gli umori!
Quale maschio,
che tale si possa dire, rifiuta a venti e uno anni di sposarsi una
bella
giovane?! Cos’ha, mio figlio, neve al posto del
sangue?”
“Vi
prego sier Marco”, l’aveva
supplicato madona Maria Baxadona da Molin, zia di Maria da Molin e
giunta
assieme al “da Lisbona”, “aiutateci
a convincerlo: voi possedete un grande
ascendente su sier Carlo. La mia nezza Maria è talmente una
cara e brava
figliola, virtuosa ed obbediente. Sarà per lui
un’ottima moglie”, aveva
appassionatamente
elogiato le virtù della fanciulla ed Hironimo aveva stretto
sospettoso gli
occhi davanti al modo in cui la Baxadona appoggiava una mano
sull’avambraccio
di Marco, mentre l’altra gli accarezzava il polso.
L’apice
di tal malessere s’era raggiunto una domenica pomeriggio:
il gineceo di Ca’ Morexini s’era ritirato sotto la
pompeiana in giardino,
mentre gli uomini deambulavano, chiacchierando tra di loro,
quand’ecco che le
voci femminili sovrastarono quelle maschili, coprendole. Voltandosi, i
presenti
capirono che la conversazione stava vertendo sull’abito da
comandare al sarto
per il prossimo matrimonio tra la cugina Biancha Corner e sier Vicenzo
Priuli.
Maria Morexini Querini, accarezzandosi il pancione, aveva esclamato
giovale di
non saper ormai più cosa indossare di nuovo e di come la
moda cambiasse tanto
in fretta, quanto le alleanze politiche. Al che madona Morexina aveva
ribattuto
che quello corrispondeva ad un problema universale, tranne forse per le
sorelle
minori. Querina, sentendosi presa in causa, esigette immediatamente
spiegazioni
e sua madre, alzando le spalle, le spiegò che, dovendo
indossare gli indumenti
da fanciulla, non avrebbe dovuto tanto scervellarsi sulla scelta
dell’abito, il
quale doveva apparire appunto semplice e sobrio. Querina allora si
morse a
sangue il labbro, strinse i pugni e rinfacciò furente alla
genitrice, se fosse
giusto che alla sua età dovesse
ancora vestirsi da zitella. Invece
di sprecare tempo, fiato ed energie con quella testa dura di suo
fratello
Carlo, perché non le cercavano marito? Un uomo si poteva
sposare a qualsiasi
età, lei no, perché quell’ingiustizia?
E senza lasciar spazio di replica ad una
sconvolta madona Morexina, sua figlia chiuse forzatamente la questione
in un
acuto pianto isterico, allontanandosi poi via di corsa dal giardino e
rispondendo uno sgarbatissimo “Indove ghe
vojo!” alla domanda
del padre: “Indove
corestu?” mentre saliva le scale a due a
due.
Hironimo
non aveva resistito a ricorrere la cugina, raccogliendo
lungo la via la scuffia di seta e lo zendale dei quali Querina, nella
sua
frustrazione, s’era spogliata.
“Suvvia,
Rina, non piangere: mica sei una vecchia carampana, non
hai ancora diciott’anni, non dirmi che adesso smani di
legarti a qualche
scalzacane qualsiasi e soprattutto di sorbirti una suocera
rompiscatole?”
“Oh,
Momolo! Non capisci? Hanno già un’altra figlia cui
pensare!
Maria da Molin di qua, Maria da Molin di là, Maria, Maria,
Maria! Quella
schifosa racchia ormai mi ha sostituita, non pensano che a portarla in
questa
casa e che importa se nel frattempo io vi marcisco, murata viva senza
veder un
sol cristiano?”
“Ed
io chi sono? Un turco?”
“Sei
mio cugino!”
“Dunque
peggio?”
Querina,
sollevandosi sui gomiti, gli sorrise debolmente,
stropicciandosi gli occhi arrossati. Hironimo ne approfittò
per sedersi accanto
a lei sul letto. “Il tuo sior Pare mio barba
è ricco, ha una carriera tutta
in salita a Palazzo, è imparentato bene qui a Veniexia.
Certamente qualcuno
d’interessato ci sarà.”
“E
allora perché il mio sior Pare non fa niente per cercarmi
questo qualcuno? La verità è che si sono
rassegnati tutti, qui. Sono una causa
persa per loro! Non fanno che parlare del fidanzamento di Carlo, io non
esisto
più per loro! Sono divenuta un’ombra in questa
casa! Ho deciso: prendo il velo
e morta là!”
“Oh,
bella, in convento sì ch’avresti uomini a palate
con cui
consolarti”, commentò
Maria, giunta in un secondo momento,
rallentata infatti dal ventre rigonfio. “Magari
madona Franceschina
nostra parente avrà ancora qualche nome da
suggerirti!”
“Mariuccia!”, la rimproverò Hironimo, per niente
divertito
dal sarcasmo della cugina, la quale, imperturbabile, prese posto al
fianco di
Querina e l’apostrofò perentoria:
“Innanzitutto,
smettila di piangere: ti fa brutta. E finiscila
anche con queste tue scenate da tragedie senechiane, ne ho
già abbastanza di quelle
di nostro fratello Carlo. Non sono degne di te e ti creano fama di
femmina
instabile, chi poi se la prende in casa una così?”
“Il
tuo sior Pare mio barba ti vuole molto bene: se ancora non ti
ha presentato un nome, sarà perché vuole
sceglierti bene il tuo futuro marito!”
“Esatto.
Mio marito Zuanne già gli sta proponendo dei suoi
conoscenti, sebbene, lo confesso, a me nessuno di loro piaccia
…”
“Sul
serio, Mariuccia?”
“Non
ti mentirei mai!”
E con
l’immagine della cugina Querina piangente marchiata a fuoco
nella memoria, che Hironimo s’era presentato alla porta di
casa di Luzia
Trivixan, spiegandole il tutto e domandandole aiuto.
“Tesoro,
sono una cantante, una maestra di canto e musica e una
cortigiana honorata, mica una sensale di matrimoni!”
“Voi
però possedete una fitta rette di amicizie e conoscenze: di
sicuro avrete sentito, tra una chiacchierata e l’altra, o tra
i vostri allievi,
di un qualche scapolo desideroso di sposarsi!”
“Sistemarsi,
casomai. Non tutti sono mossi dall’affetto, lo sai.”
“Sono
sicuro che voi saprete ben discernere le pecore dalle capre.
Vi prego! Vi pagherò per il disturbo, farò tutto
quel …”,
ma un
dito sulle labbra lo zittì.
“Accetto
perché mi piacciono le sfide: parola d’onore,
presto a
Ca’ Morexini si mangeranno confetti!”
D’impeto,
senza pensarci, Hironimo le baciò la bocca, in un
rumoroso schiocco, e poi la sollevò di peso in aria, tra i
risolini e le deboli
proteste della cortigiana, ringraziandola di cuore.
Appunto
perché Luzia Trivixan gli aveva promesso di trovargli un
partito decente e non un gretto cacciatore di dote, che la sua ricerca
si
rivelò lunga ed ardua.
Nel
frattanto, una nuova diatriba rinfocolava la silente ed
infinita faida tra madona Ysabeta e madona Morexina, stavolta
però non per loro
figlie, bensì per la propria sorella Marina ed era stata
quest’ultima
discussione la proverbiale goccia, ch’aveva fatto traboccare
il vaso, portando
madona Morexina a chiamare finalmente il diavolo per il suo nome e a
rimproverare la sorella maggiore, accusandola di
superficialità: certo che
sistemare la prole rimaneva la loro priorità di mogli e
madri; tuttavia si
poteva anche dimostrare empatia e solidarietà al di fuori
dell’immediata
famiglia.
Anche
perché la povera madona Marina Morexini sul serio si
meritava ogni augurio di felicità: il 29 marzo del 1508, la
patrizia era
rimasta vedova di sier Piero Vituri, senza figli e senza alcun
sostentamento
economico ad eccezione della sua dote. Il defunto marito aveva infatti
escluso
dal testamento sia lei sia i suoi nipoti, figli della sorella madona
Ysabeta
Vituri Griti, donando ogni suo bene ai frati Certosini e alla Scuola di
San
Marco. [3] Sicché, disperata dalla magra prospettiva di
rientrare nella casa
paterna e di vivere della carità dei suoi fratelli sier
Thadio ed sier Anzolo
Morexini, madona Marina aveva coraggiosamente deciso di scoprire alcuni
riccioli di capelli da sotto la scuffia nera, mentre si recava a Messa
o
attraversava campi, campielli e calli, supplicando un miracolo dal
Cielo che
qualcuno, notando la sua disponibilità a seconde nozze,
l’avvicinasse. [4]
Per
fortuna della vedova Vituri, suo cognato sier Batista
sguazzava in uno stato di grazia: tramite il solido supporto (consiglio
fraudolento) di suo nipote Marco Miani e di madona Maria Baxadona da
Molin era
riuscito (con le cattive) a far firmare (a forza) il contratto nuziale
al suo
(recalcitrante) figlio Carlo, nel quale s’impegnava
ufficialmente d’impalmare
la giovane, morigerata e benestante Maria da Molin del fu sier Amadio,
sicché
poteva ben dirsi soddisfatto e disposto ad aiutare il prossimo, anche
per
tranquillizzare madona Morexina, in pena per la sorte amara della
sorella.
Il caso
aveva voluto, che un amico del “da Lisbona”, sier
Alvixe
Malipiero, stesse anch’egli cercando una compagna, soffrendo
particolarmente la
solitudine dopo la morte della prima moglie e soprattutto dopo le nozze
dell’unica sua figliola, Malipiera, in sier Piero Marzello,
celebrate sette
anni addietro. “La dote è
conforme al rango di madona e la sua famiglia
– già lo sapete - ben imparentata.” Tranne
per quella seguace
d’asmodeo dell’ex-monaca madona Franceschina
Boldù Morexini, ma stando a sier
Anzolo Morexini, il matrimonio l’aveva ben esorcizzata dal
mal del puttanesimo. “Certo,
però, che se cercate una discendenza, temo che la siora mia
cugnada non sia
un’agnellina di primo pelo.” Sier
Alvixe aveva subito chiarito, che,
alla sua età, ormai gli unici pargoli da tenere in braccio
erano i suoi
nipotini e comunque non voleva compromettere il patrimonio con altri
eredi.
Sier Batista e sier Alvixe s’erano allora stretti la mano e
il Malipiero aveva
poco dopo iniziato le brevissime trattative di matrimonio, dove nessuno
aveva
osato obiettare alcunché contro quell’unione.
Galeotto fu il matrimonio tra
Carlo Morexini e Maria da Molin, che permise alla loro zia Marina
d'incontrare
e conversare industurbata con sier Alvixe Malipiero, quest'ultimo
sornionamente
aggiunto alla lista degli invitati. I due si piacquero al primo sguardo
sicché,
infischiandosene di ogni rispetto verso il defunto marito, la vedova
Vituri
manco aveva atteso la fine dell’anno di lutto per risposarsi,
a sua detta lei
per prima ingiuriata da sier Piero, che nella sua infinita
crudeltà l’aveva
defraudata persino di un tetto sotto cui stare. Non gli doveva
né lutto né
lacrime.
Le nozze,
quindi, si celebrarono nella casa paterna di madona
Marina e si trattò di una cerimonia molto semplice e
tranquilla, non suscitando
l’età dei due sposi molto interesse tranne negli
abitanti di Santa Maria
Formosa, dove abitava sier Alvixe. Si volle concludere lo sponsalicio
in un
giorno, iniziato alla mattina con l’inanellare della sposa,
seguito da una
gustosa colazione mattutina, per poi trasferirsi in gondola a
Ca’ Malipiero; si
partecipò ad una commuovente orazione nella chiesa
parrocchiale ed infine si
concluse la giornata in un sostanzioso banchetto e balli a
volontà.
E lo
sfogo di madona Morexina era avvenuto appunto
durante il tragitto in gondola, poiché figurarsi se madona
Ysabeta non aveva
trovato qualcosa su cui criticare, vuoi che fossero le ghirlande a sua
detta
striminzite e mezze secche, o la qualità mediocre del cibo,
o le calze rosse
dei gondolieri, o l’abito di raso verde di madona Malipiera
Malipiero Marzello,
o l’acconciatura di madona Helena Mozenigo Malipiero, cognata
di sier Alvixe, o
i gioielli, ventalini, calcagneti e cagnetti delle sorelle dello sposo
- videlicet le madone Biancha Malipiero
Zorzi, Cecilia
Malipiero Pasqualigo, Helena Malipiero Venier e Paula Malipiero
Bondumier
– ma mai quando aveva commentato
all’orecchio di sua cognata madona
Contarina Contarini Morexini: “Sono sicura
di averglielo già visto
indosso, magari alla Sensa? O all’ultima cena dogale, quando
il fu sier Piero
era ancora vivo?” riferendosi
all’abito di seta rosso della sposa.
“Perché
non riesce mai ad essere contenta per gli altri?”,
borbottò madona Morexina a sua cognata madona Leonora
durante la cena, tra un
boccone e l’altro d’oca allo spiedo. “Mia
sorea ha ottenuto tutto ciò che
desiderava dalla vita: un matrimonio illustre, numerosa prole ben
piazzata in
società, danaro, terre, palazzi … Ha conosciuto
il bel mondo d’Italia sia prima
che dopo la calata del Roy di Franza … Cos’ha
insomma da sminuire e criticare
costantemente il suo prossimo, quando già lei si trova in
cima alla gerarchia?”
La vedova
Miani sorseggiò placida il suo vino, tacendo e lasciando
parlare a ruota libera la cognata, la quale più di una
risposta necessitava di
una spalla su cui piangere e sfogarsi.
“Tutta
colpa del mio sior Pare, che l’ha viziata: Betia di qua,
Betia di là, a lei i migliori vestiti e gioielli, i migliori
precettori e
maestri di danza e di musica, mentre a noialtre gli avanzi!”,
proseguì infatti
madona Morexina, impironando feroce un pezzo di carne. In effetti,
nascere
ultima femmina aveva relegato la donna in fondo alla lista delle
priorità
paterne, dovendo lei accontentarsi spesso e volentieri delle briciole
delle
sorelle, costantemente sminuita e pertanto aveva sviluppato fortissimi
complessi d’inferiorità, nonché un
carattere sostanzialmente debole e
accondiscendente. Eppure, col suo visetto da eterna adolescente,
piccolina e
minuta, avrebbe potuto far girare tutte le teste maschili di Venezia,
se
soltanto fosse stata un pelino più sicura di sé e
meno brontolona. “Le risate
che si fece Ysabeta, gli sbeffeggianti strali, poiché fui
l’ultima a sposarmi!”
Al che
Madre aggrottò la fronte, non ritornandole i conti:
“Non fu
vostra sorella Marina?”, ma non volendo rigirare il coltello
nella piaga, colse
piuttosto l’occasione per perorare la causa della nipote:
“Appunto per questo,
perché conoscete l’amarezza
dell’indifferenza sia materna che paterna dovreste
aiutare la povera Querina. Capisco che dovevate pensare a sistemare prima Mariuccia e Carletto, tuttavia l’impressione che le date è di
trascurarla.” Ne aveva
discusso ovviamente col suo fratellastro sier Batista, il quale aveva
accettato
le critiche ma al contempo le aveva spiegato come la faccenda non fosse
di
facile soluzione, temendo il “da Lisbona” in un
cattivo affare per la figlia.
“Mi
chiamava la vecchierella, anche
s’ero la minore!”,
continuava imperterrita e petulante madona Morexina, sorda ai
suggerimenti
della cognata e dimentica del fatto d’aver scalzato sua
sorella Marina in
tempistica matrimoniale, sposandosi prima di lei e neanche un cattivo
partito,
anzi. Ma se quando per tutta la vita s’era abituati a
guardare il bicchiere
mezzo vuoto …
“Ih,
basta rivangare il passato e focalizzatevi sul presente”, la
interruppe madona Leonora, dandole la giusta (simbolica) tirata
d’orecchie.
“Avete donato a mio fradelo vostro marido sette figlioli
ma-sci e quattro belle
pute; avete allevato amorevolmente un figliastro
ch’è adesso amico del Sofì e
già siete una nonna felice! Vostra sorea mia cugnada
è soltanto una grande
materialista, che non riesce a trovare altra soddisfazione se non in
ciò che
può toccare e comperare. Vi siete costruita una vita serena
e piena di
soddisfazioni, in nulla dovete sentirvi inferiore ad Ysabeta!”
Sua
cognata appoggiò le posate, afferrando emozionata le mani
della cognata. “Siete davvero così buona e
così saggia! Vorrei possedere
un’ombra del vostro stoicismo!”
La vedova
Miani le rifilò un sorriso tirato, di circostanza: la
sua fermezza d’animo l’aveva acquisita a prezzo
altissimo, la morte del suo
amato Anzolo, e dubitava che madona Morexina avrebbe desiderato
ottenerla
attraverso uguale percorso.
“Ancora
congratulazioni, siora Amia”, baciò Hironimo sua
zia
Marina su ambedue le guance, la quale gli elargì un
sorrisone a trentadue
denti.
“Grassie,
tesoro! Sei molto caro!”, gli accarezzò lei la
guancia.
Poi, però, il suo volto si rattristò un poco:
“Mi dispiace davvero che i tuoi
fratelli non siano potuti venire, mi avrebbe fatto davvero piacere
vederli!
Siete cresciuti troppo in fretta, mi par ieri d’aver
partecipato ai vostri
battesimi!”
“Lucha
e Carlo li hanno trattenuti degli affari a Fanzolo, si
scusano moltissimo, quanto a Marco …”,
tentennò Hironimo, cercando in fretta un
modo per glissare sullo spinoso argomento familiare, “mia
cugnada sua mojer
Helena ultimamente non si sentiva bene, un raffreddamento di stomaco, e
così
lui ha deciso di restarle accanto. Tuttavia”,
cambiò tono in uno più allegro,
“vi porgono tutti le loro congratulazioni ed Helena vi relega
un rotolo di
merletto fatto da lei, da applicare al collo e alle maniche della
camicia.”
Madona
Marina lanciò un deliziato gridolino. “Che puta
pretiosa!
Lo stesso disegno che piaceva a me?” e dinanzi
all’energico cenno affermativo
del nipote acquisito, la nobildonna spiegò entusiasta alla
figliastra
Malipiera, con la quale oramai erano divenute tutte un
ciccì-coccò: “La siora
cugnada di Momolo è una greca di Costantinopoli, abilissima
nel ricamo, delle
vere mani d’oro! An, non vedo l’ora
d’aprire i doni nuziali, così da mostrarlo
per mano!”
La
giovane donna si ritrovò d’accordo, incuriosita da
tanta
bravura. “Sier Hironimo”, si rivolse poi al nipote
della matrigna, “temete sia
troppo sfacciato da parte mia, invitare la siora vostra cugnada a casa
mia per
ricamare un poco assieme? Ovviamente, quando si sarà
rimessa.”
“Sono
sicuro che apprezzerà moltissimo la vostra
compagnia”, la
rassicurò Hironimo, contento di poter offrire ad Helena
un’occasione per
svagarsi e conoscere altre nobildonne, al di là della solita
cerchia
famigliare, invece di trascorrere ore in ginocchio davanti agli altari,
pregando per improbabili miracoli. Quand’ecco che il giovane
impallidì,
rendendosi soltanto ora conto del timido rigonfiamento del ventre di
madona
Malipiera, ben camuffato dai morbidi panneggi della gonna di raso
verde. “An …
non … non avevo … le mie felicitazioni,
patrona”, farfugliò a disagio da quella
scoperta e alle potenziali reazioni ch’avrebbe potuto
scatenare in Helena.
“Vi
ringrazio, mio marito ed io siamo molto contenti di questo
nuovo puttino”, reclinò graziosamente il capo la
futura madre, allungando la
mano al consorte sier Piero Marzello, il quale aveva raggiunto la
moglie dopo
un giro di chiacchierate cogli altri invitati. “Nevvero,
carissimo?”
“Assolutamente”,
confermò il ventisettenne patrizio, appoggiando
ambedue le mani sulle spalle di madona Malipiera. “E stavolta
spero sia una
femminuccia, della vostra stessa bellezza!”
Sua
moglie schioccò divertita la lingua, scuotendo ilare il
capo.
“An, io invece spero in un altro maschietto, però
non col vostro caratteraccio,
o mi farà impazzire!”
“Ma
…!”, protestò l’uomo e madona
Malipiera, madona Marina ed
Hironimo risero di cuore alla battuta. Dopodiché, adducendo
un’abile scusa, il
ragazzo si congedò dalla famigliola e si diresse verso il
gruppetto di ospiti
nella sala accanto: le sue orecchie avevano captato della musica e gli
era
venuta una gran voglia di ballare.
Inoltre
aveva una missione da portare a termine. “Su, Querina,
suonano una piva!”, esclamò, pigliando il polso
della cugina e trascinandola
nella stanza attigua, cercando con lo sguardo l’amico di sier
Piero Marzello.
“Momolo,
non credo …! Aspetta, ciò!”
“Carissimo”,
abbracciava sier Alvixe Malipiero l’amico e
neocognato sier Batista, “vi ringrazio ancora per avermi
consigliato Mari-ehm,
vuostra cugnada: è di buon cuore, savia e d’ottima
compagnia. Va d’accordissimo
con la mia Melina e adora i miei due nipotini, meglio di
così? Sier Piero
Vituri – a chi Dio perdoni –
non se la meritava proprio questo
gran bel pezzo di donna!”
“Amen,
amico mio, amen!”, gli batté sulla spalla il
Morexini,
riempiendo allo sposo di nuovo il bicchiere di garba, un malvasia amara
dall’Epiro. “Lasciare l’intero patrimonio
ad estranei? E quando mai s’è sentita
una pazzia del genere? Credetemi, a sier Piero hanno fatto il lavaggio
del
cervello: ecco perché io, in casa mia, non voglio
né preti né suore né monaci,
né tantomeno permetterò a nessuno dei miei figli,
finché vivrò, di prendere i
voti! [5] Già in famiglia ci è toccata
un'ex-suora per colpa di quello
screanzato di Vicenzo ... Ma adesso ditemi: sul serio non vi dispiace,
che la
vostra nuova mojer possa avere delle difficoltà a darvi dei
figli?”
“Batista,
onestamente, a cinquantotto anni mi metto a fare il
padre?”, arcuò scettico il sopracciglio il
Malipiero, bevendo una grossa
sorsata di vino. “Lasciamo ai giovani tal
privilegio”, disse, guardando
amorevolmente la figlia e il genero, intenti a scherzare assieme a sier
Zuanne
Querini e a madona Maria sua moglie, confrontandosi le due matrone la
curva dei
rispettivi pancioni.
Il
“da Lisbona” soppesò a fondo le parole
dell’amico:
contrariamente a lui, il suo ultimogenito Francesco l’aveva
inaspettatamente
avuto a sessantatre anni e l’esperienza gli era bastata, al
punto ch’aveva
detto chiaro e tondo a sua moglie che soltanto legandolo al letto
l’avrebbe
costretto a concepire un altro figlio, infierendo poi dandole della
vecchia. A
onor del vero, lui si sarebbe fermato anche a Lorenzo, non volendo
infatti
rischiare stupidamente la vita di Morexina, privando prematuramente i
suoi
pargoli della madre. Peccato che la scoperta della sua tresca con Luzia
Trivixan avesse risvegliato nella moglie una strana ed inquietante
libidine,
sicché Ferigo, Marinella, Donatella e Francesco erano nati,
quest’ultimo appena
tre anni addietro.
“Se
vengono, vengono. Altrimenti … ci si accontenta,
perché farne
una malattia? Guardate il caro sier Marco Antonio Morexini: ben due
matrimoni
sterili alle spalle e s’è lasciato scoraggiare?
No, ha adottato una neonata
abbandonata alla Pietà, che lui e sua moglie madona Donata
adorano come se
fosse sangue loro. Non tutti vengono benedetti da figli e a coloro che
ne
hanno, non sempre viene concesso di vederli crescere
…”, sospirò sier Alvixe,
ripensando alla sua nidiata di pulcini, della quale rimaneva soltanto
Malipiera. “Ma via con la malinconia! Stasera si festeggia
incipit vita nova!”
Sier
Batista levò in alto il bicchiere. “E il vostro
è il
matrimonio più facile in assoluto, neanche vi dovete
preoccupare di rassicurare
la sposina!”, sghignazzò complice.
“Attacco diretto e frontale, si suol dire,
senza pietà!”
“La
mia mojer avrà pur la sua età, ma tutta in
esperienza! Peggio
per il fu sier Piero, meglio per me!”, se la rise sier
Alvixe, suggendo malizioso
un sorso di garba, mentre il cognato si strozzò per poco col
suo.
“E
come …?”, sbiascicò, nettandosi gli
angoli della bocca. E
dinanzi alla lunga e significativa occhiata da parte del Malipiero
… “No!”,
esclamò stupefatto. “Davvero?!”
“Ciò!”,
confermò quell’altro e il Morexini si
portò le nocche alla
bocca, guardandosi a destra e a manca, incredulo e divertito oltre ogni
limite.
“Vi giuro che non l’avevo minimamente pianificato.
Madona Marina ed io stavano
discutendo sul trasporto dei suoi cassoni col corredo, quando, prima di
rendermene conto, m’ha calato giù le braghe,
m’ha spinto sul letto e m’è
saltata addosso!” Tanto ormai non c’era
più alcuna verginità da provare, sulla
carta praticamente figuravano già coniugi e la futura moglie
s’era rivelata infine
un’eccellente amazzone, quindi i formalismi potevano anche
risparmiarseli. Da
quella posizione l’uomo aveva ben potuto constatare quando la
Morexini si
mantenesse ancora soda, col suo bendiddio di senato lì a
portata di mano, che
lo supplicava d’impastarlo e baciarlo.
“E
nessuno in casa ha detto niente?”
“An
… credo fossero tutti usciti per la Messa … an,
no! C’era
madona Franceschina, però dalla sua espressione non mi
sembrava essersi accorta
d’alcunché.”
Il
“da Lisbona”, dubitando assai della cosa vista la
fama della
donna, preferì servirsi d’altro malvasia e non
commentare.
“Beh,
che dire? A notti felici, amico mio!”
“A
notti felici!”, rispose al brindisi sier Alvixe, bloccandosi
però all’improvviso. “Dite,
Batista”, e indicò malizioso il gruppo di giovani
intenti a danzare una pavana, “non m’inganno o
vostra figlia Querina è già alla
quinta danza con sier Daniel?”
“Con
sier … chi?!”, si girò di scatto il
Morexini, fallendo di
spaccare il bicchiere a furia di stringerlo, alla ricerca del fellone
seduttore
per tirargli il collo.
Dal canto
suo Hironimo, con la scusa di volteggiare accompagnando
l’avvenente madona Fontana Malipiero Barozzi nipote di sier
Alvixe, [6]
gongolava soddisfatto del buon esito di quel suo intrigo: Luzia
Trivixan, tra
una ciacola e l’altra col cavalier sier Domenego Trivixan,
aveva appreso come
sier Francesco Zustignan “dalle Canove” stesse
cercando moglie per uno dei suoi
cinque figli. Fatalità, dei potenziali candidati, Daniel
Zustignan era amico
del nipote del cavaliere, sier Piero Marzello, che guarda caso era il
genero di
sier Alvixe Malipiero e con po’ di moine da parte di madona
Malipiera, messa al
corrente della congiura, il giovane Zustignan era stato invitato alle
nozze.
Cura di Hironimo era stata di spingere la sua germana Querina a ballare
e
conversare quanto più possibile con Daniel, alternandosi con
i suoi complici
sicché, a neanche metà festa nuziale, la Morexini
già era cotta per il patrizio
e quest’ultimo la tallonava neanche si fosse trasformato
nella sua ombra. E il Miani
vibrava di perverso gusto nel contemplare la faccia perplessa e
bellicosa di
suo zio Batista, il quale, a giudicare dal fitto gesticolare di sier
Alvixe,
già si stata informando sulla vita,
morte e miracoli di Daniel
Zustignan, sui suoi genitori e le famiglie dei rispettivi genitori; sui
beni
immobiliari ch’avrebbe potenzialmente ereditato; sulla sua
posizione a Palazzo
Ducale e sulla sua disponibilità di denaro liquido. Il
“da Lisbona” si sarebbe
trasformato nella più spietata copia del Missier Grando
– poco ma sicuro – e
ciononostante tenne per sé la sua nascente, ostile
diffidenza verso il giovane
patrizio, lasciandolo tranquillo a godersi la festa: c’era
tempo e modo per
interrogarlo e sbatterlo, strizzandolo, peggio d’una camicia
stesa al sole.
Quando
Hironimo si recò al tavolo per servirsi da bere,
s’era
appena terminato di ballare la pavana e sua zia Marina stava chiedendo
ai
suonatori un brano più allegro, forse una gagliarda. Il
ragazzo sbuffò,
dilaniato dalla voglia di ricongiungersi al resto dei ballerini e di
rinfrescarsi il gargarozzo. Hé, forse un turno poteva anche
saltarlo, aveva
danzato almeno una volta con tutte le nobildonne lì
presenti, due s’erano sue
parenti e tre di fila con madona Fontana, tanto bella quanto spiritosa,
gli
raccontava certi pettegolezzi da sbellicarsi, in primis sugli infiniti
amori di
sier Piero Bembo, l’eterno innamorato.
Il
patrizio fece quindi per afferrare la pasciuta ampolla di
vetro, quando una mano più lesta della sua gliela sottrasse
da sotto il naso e
i due giovani sussultarono nel ritrovarsi inaspettatamente gomito a
gomito.
“Ne
vuoi?”, gli offrì Jacomo Corner, interdetto quanto
l’altro.
“Non
mi piace il vino bianco”, mentì rapido Hironimo,
afferrando
alla cieca l’ampolla di rosso e servendosi sempre mantenendo
un guardingo
contatto di visivo col cugino alla lontana.
Il
giovane Corner fece spallucce, riempiendosi il bicchiere.
“Che
ne pensi di questo matrimonio?”
“Molto
domestico”, rispose vago il Miani, riempiendosi la bocca di
vino, onde parlare il meno possibile. Due volte su tre, quando Jacomo
intavolava un discorso, i due finivano per discutere e una su tre
degenerava in
un vero e proprio accapigliarsi.
“No,
no, io intendevo del matrimonio di per sé”, lo
corresse il
Corner, insistente. “Per me la siora Amia
non avrebbe dovuto
risposarsi, troppo vecchia. E sier Alvixe Malipiero? A che pro
risposarsi, se
la moglie non può generare alcuna prole? La tiene per
lussuria? S’è così poteva
prendersi una concubina, una moglie sterile non serve a
nulla.”
Jacomo
non l’aveva fatto apposta, non poteva sapere ciò
che stava
accadendo tra le mura di Ca’ Miani, nondimeno le orecchie
d’Hironimo presero a
fischiargli ugualmente e il sangue a risalirgli bollente al cervello:
era
esattamente per colpa di gente come il Corner, che Helena si stava in
quel
momento dannando l’anima, nel disperato tentativo di
partorire un terzogenito.
“Beh,
il nostro lontano parente sier Marco Antonio, uomo
stimatissimo a Veniexia, non è riuscito ad avere figli da
ben due mogli. Al che
vien da pensare che o sia stato davvero sfortunato o che il problema
fosse lui.
Eppure, mi pare che nessuno l’abbia mai chiamato
“impotente”, “inutile” o che
sua moglie madona Donada abbia mai espresso il desiderio di divorziare
da lui”,
sibilò Hironimo, ingollando altro vino. Il mondo invero
ruotava storto: brave
persone desiderose di figli più di qualsiasi altra cosa, ne
rimanevano invece
privati, mentre gente che manco si meritava l’appellativo di
genitori, figliava
al contrario peggio dei conigli.
“Ha
adottato una bambina”, fu la secca risposta di Jacomo.
“Sier
Alvixe già possiede una figlia legittima e gli
basta”,
ribatté il Miani. “E noi dobbiamo farci un bel
tegamino d’affaracci nostri, tu
per primo. Non sei ancora sposato e già pontifichi sugli
altrui matrimoni?
Aspetta almanco un lustro e dopo condividerai opinione ed
esperienza!”
“Invero”,
sogghignò l’altro patrizio, bevendo a sua volta.
“Come
mai non vedo qui tuo fratello Marco?
Dov’è?”, si guardò
teatralmente attorno,
già notagli l’assenza del cugino acquisito.
La dita
d’Hironimo presero a tamburellare nervosamente sul vetro,
annusando puzza di bruciato in quell’apparentemente innocua
domanda. “A casa
con la sua mojer.”
“Sicuro?”,
alluse malizioso l’altro. “E’ questa la
scusa
oggidì? A casa con la mojer?”
“Quale
scusa?”, ripeté bellicoso il Miani, digrignando i
denti.
“Quando siamo usciti, si trovava nei suoi appartamenti. Mia
cugnada non godeva
oggi di buona salute e Marco, quale marito degno di tal titolo, ha
preferito
rinunciare alla festa per prendersi cura della consorte.”
Il
giovane Corner scosse il capo, ridacchiando dinanzi alla palese
ingenuità (secondo lui) del cugino alla lontana.
“S’è già stufato della greca,
vero? Oppure è la greca, che s’è
stufata di lui? Dicono essere le orientali
molto focose, per via della penuria di uomini … Lo puoi
confermare?”
Hironimo
appoggiò con eccessiva veemenza il bicchiere sul tavolo,
macchiando di qualche gocciolina rossa la tovaglia sottostante. Come si
permetteva quel disgraziato di speculare sul matrimonio di suo
fratello,
insinuando poi infedeltà da parte di ambedue i coniugi? Non
sapeva niente dei
problemi che stavano attraversando, della disgrazia abbattutasi sulla
cognata e
sull’ignaro suo marito! Non aveva asciugato le lacrime
d’Helena, né dovuto
sopportare i malumori di Marco, né tantomeno mediare di
continuo tra loro due!
E cos’era infine quel dare, tra le righe, della poco di buono
alla greca,
povera infelice che per amor di Marco si sarebbe squarciata il petto?
Come
osava? Come …?
L’annuncio,
più goliardico che solenne, dell’ora di metter a
letto
gli sposi zittì Hironimo, impedendogli una pronta replica e
male gliene
incorse, ché forse quella sarebbe stata meno velenosa della
seconda da lui
proferita.
“Che
buffonata!”, commentò tra sé e
sé Jacomo, ma abbastanza per
l’altro giovane da udire perfettamente ogni sua parola.
“Come se dopo ci fosse
poi qualcosa da mostrare sulle lenzuola”, disse e
s’avviò a raggiungere i suoi
fratelli.
Sennonché
Hironimo lo tallonò speditamente e gli si piazzò
davanti, un’espressione assassina sul volto.
“Chissà se ci
sarà qualcosa da vedere anche sulle lenzuola di tua moglie
…”, e gli sorrise
obliquamente, il fuoco di una crudele rivalsa bruciante nelle viscere,
come se
tutti gli sgarbi ed umiliazioni ingeriti vi si fossero concentrati,
alimentando
questo bolo per poi scagliarlo contro il rivale a guisa di drago.
Le mani
del Corner si mossero convulsamente e questi avanzò
irritato verso Hironimo, costringendolo petto contro petto.
“Tu non vedrai un
bel niente, perché neanche sei invitato … Non sei
famiglia, grazie a Dio …”,
gli sputò il suo veleno. “Non sareste
null’altro se non un imbarazzo, voialtri
Miani di San Vidal, discendenti di
pescatori istriani che manco
avrebbero dovuto sedere in Maggior Consiglio! Figli di un vigliacco
suicida,
nipoti di un cospiratore esiliato e pronipoti di un delinquente
truffatore!
Poveracci senza né arte né parte costretti a
sposarsi le straniere per riprodursi,
poiché nessun patrizio veneziano sano di mente concederebbe
a tal pezzenti la
mano della propria figlia, a gente che deve accontentarsi di piccoli
incarichi
per sopravvivere o confidare nella generosità degli
zii”, elencò inclemente
Jacomo ad Hironimo, distorcendole, tutte le pecche della sua famiglia,
sottolineando accortamente il ramo, onde non infamare gli estinti Miani
di San
Cassian e i Miani di San Giacomo dell’Orio. “Si
racconta che tu trascorra molto
tempo con la Luzia Trivixan: come puoi permetterti le sue tariffe?
È sempre lo
zietto che paga? A meno che tu non gli scuota, di nascosto, la coda di
volpe
della Trivixan, alle sue spalle, il che non mi sorprenderebbe. A meno
che … ” e
qui gli occhi del Corner assunsero un luccichio maligno, “lei
non ti stia
impartendo qualche trucco del mestiere, cosicché tu possa
divertire meglio i
tuoi … benefattori?”
A tali
parole Hironimo tremava da capo a piedi, ogni nervo
pizzicato e rivoltato dai risolini crudeli di Jacomo. Il giovane si
continuava
a ripetere di non badarci, di dominare l’ira bestiale che gli
graffiava dentro
il petto e di zittire la seducente vocina alle orecchie, la quale gli
suggeriva
d’afferrare il Corner per la gola e di cavargli gli occhi.
Avrebbe potuto
intimargli di andare al diavolo; avrebbe potuto rinfacciargli che la
sua
famiglia era tanto onorata quanto la sua, sempre in prima fila ad
obbedire alla
Signoria; avrebbe potuto vantarsi che almeno lui la Trivixan
l’aveva baciata –
anche se in circostanze torbide – mentre Jacomo di lei non
n’avrebbe manco
annusato da lontano il profumo dei capelli.
Invece,
la parte d’anima nera d’Hironimo puntò
subito là dove
sapeva far male, là dove un uomo più facilmente
risultava vulnerabile e prono
ad incassare senza possibilità di difesa, non immediata
almeno. E quell’antico
ricordo, quella bagatella adolescenziale relegata nel dimenticatoio,
d’un
tratto riaffiorò provvidenziale dalla sua mente e si
trasformò in un’arma
micidiale.
“Mi
dispiace per te - caro ti
- però mi
trovo su quella lista degli invitati, che ti piaccia o meno.
E’ stata proprio
la tua novizza ad insistere e non perché siamo quasi vicini
di casa, no, l’ha
fatto per ringraziarmi in memoria dei bei tempi del
convento!” ed Hironimo
indietreggiò enfaticamente, ammirando pieno di crudele gusto
il lento lavoro
del dubbio corrodere dall’interno Jacomo, i cui lineamenti si
deformavano in
un’interessante gamma d’espressioni, dal rabbioso
all’umiliato; dallo scettico
all’incredulo. “Come? Marina non te l’ha
mai raccontato?”, simulò ignoranza
Hironimo, non concedendo un attimo di respiro all’avversario.
“Mi recavo ogni
giorno al convento e ti assicuro che lei traeva un enorme piacere dalla
mia compagnia …”
“Menti
…”, ringhiò sottovoce il Corner, la cui
mano vagava
meccanicamente ora alla cintura, in cerca forse del mancante stiletto,
ora a
qualche spanna dallo zipone del Miani, incerto dove e come afferrarlo e
quanto
fargli male. “Sei un bugiardo e uno sciocco, se pensi
ch’io creda ai tuoi
puerili tentativi d’ingelosirmi! O d’infangare
l’onore della mia sposa!”
Hironimo
aprì la bocca in finta sorpresa, reclinò vezzoso
il capo
e, congiungendo le mani dietro la schiena, dondolò di
qualche passo indietro.
“Querina”, chiamò la sua zermana,
intenta a parlottare assieme ad alcune
nobildonne. “Vien qua!”, le intimò.
Accortasi
del richiamo, la ragazza si congedò dalle sue compagne e
trotterellò allegra accanto al cugino, il quale la cinse per
la vita,
schioccandole un tenero bacio sulla fronte. “Querina,
colombella mia, il tuo
zerman Jacomo qua mi sta accusando di mentire: è vero o no,
che venivo sempre a
visitare Marina al convento?”, le chiese gravemente Hironimo,
al che Querina,
dopo essersi posta meditabonda due dita sotto il mento,
esclamò
affermativamente, sovvenendosi all’improvviso:
“Ma
certo che sì! Era il mio ultimo anno di convento,
però mi
ricordo benissimo delle tue visite! Momolo”,
spiegò ingenuamente la Morexini
all’impietrito cugino, “ci teneva molta compagnia,
anche perché al convento
studiava pure sua nipote Leonora. Le sue visite erano il momento
più bello di
tutta la giornata e sempre la Marina mi confidava: non
vedo l’ora che
sia già domani, così da rivederlo!”
e, prendendo la mano del promesso
sposo, tramite la sua innocenza gli inferse il colpo di grazia:
“Jacomo caro,
spero che tu possa divertire Marina, tanto quanto la divertiva nostro
cugino
Momolo!”
Gli occhi
iniettati di sangue, la bile risalitagli alla gola e
incurante del luogo e di ogni conseguenza, il Corner allungò
di scatto l’altra
mano in avanti per afferrare il collo d’Hironimo, il quale
reagì bloccandogli
il polso e al contempo spingendo via Querina, che l’altro non
la coinvolgesse
nella lotta. L’urletto sorpreso e dolorante della fanciulla
attirò l’attenzione
di Carlo e Nicolò Morexini, Daniel Zustignan, Andrea Corner
e di Thomà
Malipiero fratello di madona Fontana, i quali circondarono rapidissimi
e
compatti i due contendenti e li separarono senza dare troppo
nell’occhio,
intanto che con una scusa li allontanavano dalla stanza, lontano da
occhi
indiscreti.
“Cosa
v’è saltato in testa?”, li apostrofarono
a momenti in coro.
“Volete dare spettacolo?”
“Ha
incominciato lui, non ho fatto altro che difendermi!”, si
giustificò prontamente Jacomo Corner, le nari dilatate e il
viso ancora
paonazzo. “Una tal feccia dovrebbero gettarla nelle Orbe a
vita natural
durante!”
“Bugiardo
vigliacco!”, berciò Hironimo, trattenuto a
malapena per
le braccia dagli sbuffanti Nicolò Morexini e Daniel
Zustignan. “Mi hai
provocato tu per primo!”, gli sputò sullo zipone e
Andrea Corner dovettero
tuffarsi per riacciuffare il fratello, impedendogli in tempo di mordere
il naso
dell’insolente suo sbeffeggiatore, adesso sollevato di peso
da Nicolò Morexini,
per spingerlo via lontano da Jacomo.
“Tu,
lurido cane impestato, hai vituperato la mia fidanzata!”
“Tu,
marcia otre di sterco, la mia famiglia!”
E i due
rivali si gettarono in avanti, mirando ai rispettivi pomi
d’Adamo e trascinando seco i giovani uomini che, puntando i
piedi, opponevano
resistenza in direzione opposta, grugnendo nell’arduo compito
di tenerli
distanti l’uno dall’altro. Hironimo, mulinando il
braccio a guisa di gatto,
riuscì a ghermire una pingue ciocca di capelli di Jacomo,
strattonandola feroce
nel tentativo di strappagliela, mentre il Corner gli piantava le unghie
nella
carne onde costringerlo a mollare la dolorosissima presa. Scalciava
mirando
agli stinchi del Miani, colpendo all’occasione anche
Nicolò Morexini e Daniel
Zustignan. Iniziarono a volar a caso pugni e sberle, le quali, oltre ai
due
avversari, inclusero anche il malcapitato finito nella loro
traiettoria, tra
guaiti di protesta e imprecazioni. Sfidando codesti strali, Carlo
Morexini si
pose imperioso in mezzo ai litiganti, spintonandoli di malagrazia e
puntando
perentorio i palmi delle mani contro il petto d’Hironimo e di
Jacomo, in modo
da impedire ogni probabile riavvicinamento.
“Possibile
che voi due non possiate rimanere da soli in una
stanza, senza finire a parole o alle mani peggio d’un branco
di bifolchi
gallinari?”, sbuffò il Morexini, fulminando con lo
sguardo i suoi cugini
germani. “Siete imbarazzanti! E tu ancora di più,
Jacomo! Hironimo t’è minore
di tre anni e inoltre tu fra poco ti sposi, ergo dovresti dare il buon
esempio
e dimostrarti abbastanza maturo, da non pigliare sempre e troppo sul
serio le
sue monade!”, berciò spazientito e senza degnarsi
d’ascoltare la replica del
Corner – poiché manco gli interessava –
il patrizio si voltò verso il Miani,
ché mica gli sfuggiva, nossignore. “E tu, datti
una calmata! O sei talmente
stupido da non riuscire ad intavolare almanco una conversazione civile?
Sei un
litigioso, un violento! Vergognati!”
Sentirsi
rimproverare così, dal suo cugino germano preferito,
sparse ulteriore sale sulle ferite di Hironimo: l’euforia
della previa vittoria
ottenuta su Jacomo scemò rapidamente e si mutò in
un’amara sconfitta, visto che
Carlo era giunto alle conclusioni sbagliate, misinterpretando in totum
le sue
ragioni. Litigioso? Violento? Quel tanghero innominabile aveva sparlato
a
vanvera di situazioni familiari che neppure conosceva, vituperando poi
il suo
casato, perché bisognava dunque biasimare Hironimo, se lui
aveva logicamente
perso le staffe?
“An,
eccovi qua! Cosa ci fate qui nascosti?”,
s’affacciò all’uscio
sier Hironimo Malipiero, il fratello minore di sier Alvixe e padre di
Thomà, osservando
in bonaria aspettativa i volti colpevoli e chini dei giovani
lì presenti.
“Momolo!”, esclamò poi genuinamente
preoccupato, indicando l’interpellato in
questione. “Cosa t’è successo? Stai
…” e l’uomo si portò due dita
al naso,
prontamente imitato dal Miani, che soltanto in quel momento
s’accorse
dell’epistassi scendergli fino in bocca. “Seguimi,
ti faccio portare dell’acqua
fredda e un panno”, s’offrì solerte,
sennonché, tappandosi le nari gocciolanti,
Hironimo bofonchiò adirato:
“Sto
bene.”
“Ma
…
“Sto
bene! Sul serio, non vi disturbate!”, gli gridò
snervato il
ragazzo, il quale si scrollò di dosso i parenti e
s’aprì collerico un varco tra
loro, attraversando di corsa il salone principale fino al portone
d’ingresso di
Ca’ Malipiero. Hironimo camminò esagitato fino al
primo pozzo reperibile e lì
si fermò, appoggiando ambedue le mani sulla pietra bianca.
Respirò a fondo
l’aria pesante e dal retrogusto metallico, ingollando la
rabbia e le lacrime da
essa provocategli, il corpo un unico fascio di nervi.
Ingiusto,
ingiusto, era così ingiusto che Jacomo Corner se la
cavasse ogni volta con così poco, uscendone puntualmente
vincitore lui, il
povero santarellino, l’agnello sacrificale,
l’innocente martire vittima di quel
gran diavolo di Momolo! Mentre al contrario, quella bestia,
quell’infame, quel
tiranno di Momolo si ritrovava doppiamente punito, la reputazione
più nera del
carbone! Oh, ma se Hironimo si sarebbe vendicato! Eccome! Gli avrebbe
restituito tutto in un sol colpo, ovviamente aggiungendo gli interessi,
per i
rospi ingoiati!
Hironimo
non s’accorse di come avesse preso a prendere a pugni il
bordo del pozzo, né di come il candore della pietra
d’Istria si stesse
macchiando di rosso, unendosi il sangue delle mani a quello del naso.
Continua
…
**************************************************************************************************************
Un
po’ di noticine:
[1] Breve riassunto della dinamica famigliare:
Andrea Donà (Donado) aveva contratto due matrimoni: dal
primo, con Maria da
Canal, aveva avuto tra i vari figli Antonio, padre di Girolamo, Andrea
e Alba
Donà, rispettivamente in questa storia ambasciatore a Roma,
podestà a Treviso e
madre di Marco Contarini amico del Nostro. Girolamo e Andrea a loro
volta
avrebbero sposato due sorelle, Maria e Francesca Gradenigo di Alvise.
Dalla
seconda moglie Camilla Foscari del Doge Francesco, Andrea senior aveva
avuto
Alvise dal quale nacque Francesco Donà,
quest’ultimo destinato a divenire Doge
nel 1545.
[2]
Puto rimane, di nome e di fatto! = gioco di
parola, con “puto” che si riferisce sia a
“bambino/ragazzo”, ma anche a
“scapolo”.
[3] Riguardo a tale avvenimento, riporta il
Sanudo: (29.03.1508) Morite
sier Piero Vituri, era savio a terra ferma, stato assa’
amallato. Fece uno
testamento, che dete molto che dir a la terra: privò li
fiuli di soa sorella, e
lassò heriedi li frati di la Certosa et la scuola di San
Marco etc., ut in
ipso.
Posso
anche capire escludere i nipoti dal testamento, ma neanche
un lascito alla moglie, la quale manco è menzionata? Mah.
[4] era tradizione a Venezia, che una vedova
portasse una scuffia nera (fuori come in casa), nascondendo le trecce,
indossandovi
sopra un pesante paneselo nero lungo fin quasi al sedere, il petto
coperto da
una spessa camicia accollata, senza ovviamente nessun gioiello,
tant’è vero che
i forestieri scambiavano le vedove veneziane per delle monache.
Tuttavia, se la
signora si sentiva pronta a convolare nuove nozze e voleva comunicarlo
pubblicamente ma con discrezione, allora incominciava a mitigare tale
rigore,
magari usando una camicia più sottile, qualche catenina o
anellino d’oro e
ovviamente, mostrando qualche ciocca di capelli da sotto il velo e la
scuffia.
[5] E quelle di G. Battista Morosini, mica erano
parole al vento o le antenate del politicamente corretto! Proprio non
voleva
sapere i figli negli ordini religiosi - almeno i maschi. Infatti, suo
figlio
Nicolò prese i voti soltanto dopo la morte del padre,
avvenuta nel gennaio del
1518; suo fratello Federico avrebbe voluto imitarlo, morendo purtroppo
a soli
22 anni sempre nel settembre del 1518. Quanto al fratello minore
Girolamo, fu
protagonista d’un epico scontro padre-figlio. Narra il Sanudo
a riguardo (2
gennaio 1515): “E’ da saper: eri nel
monastero di San Spirito, per don
Francesco Valier prior, fo vestito frate sier Hironimo Morexini di
Batista,
qual veniva a Consejo, era di età anni … (27
anni, ndr.) et ha
voluto esser chiamato don Hironimo. Il padre prima fe’ ogni
resistentia, poi si
acquietò, et fu contento si vestisse.” Dev’essere
stato uno
spettacolo memorabile, se è finito nelle cronache del
Sanudo, così come sarebbe
interessante capire, come abbiano persuaso il Battista a calmarsi!
[6]
Fontana Malipiero Barozzi.
Piccolo angolo di pettegolezzo:
Fontana, figlia di Girolamo Malipiero e di Elena Mocenigo, nipote di
Alvise
Malipiero (e dunque cugina di Malipiera) diverrà madre, nel
1514, della
celebre Elena Barozzi, reputata una delle
donne più belle di
Venezia. Pittori quali Tiziano e Giorgio Vasari ne fecero la loro musa
e di
fatti s’ipotizza che “La Bella” di
Tiziano possa essere proprio Elena, poiché
la data d’esecuzione del ritratto, 1536, coincide proprio con
le nozze della
nobildonna col patrizio Antonio di Marco Zantani (o Centani), famoso
protettore
delle arti musicali, nel cui salotto si riunivano compositori e
musicisti tra
cui Girolamo e Annibale Parabosco, Claudio da Correggio, Baldassarre
Donato,
Francesco Londarit e Perissone Cambio. Enea Vico lo menziona nella sua
opera
"Discorsi sopra le medaglie". Non meno importante, Antonio Zantani
è
anche ricordato per aver fatto ricostruire l'Ospedale degli Incurabili
nel
1560, fondato tra il 1517 e il 1522 da Maria Malipiero, Marina Grimani
e San
Gaetano da Thiene e della cui gestione il Nostro divenne responsabile
nel 1531.
Ritornando
ad Elena Barozzi Zantani, la sua bellezza era tanto
nota da essere immortalata non solo nella pittura, ma anche nei versi:
il poeta
Lelio Capilupi le dedicò la ballata: “Ne l'amar e
fredd'onde si bagna” mentre
Fortunato Spira nei suoi versi la paragonava alle bellezze mitologiche
della
Grecia Antica e Giambattista Dragoncino alla "vaga Isotta da le trecce
bionde".
Ma fu la
sua relazione con Lorenzino de’
Medici a
sancirne la fama storica: il Medici, in fuga per l’assassinio
del duca
Alessandro de’ Medici, aveva riparato a Venezia, in Campo San
Polo per
l’esattezza, dove abitava Elena. I due divennero amanti,
malgrado le giuste
contrarietà del marito Antonio. Stando ad Orazio Toscanella,
Lorenzino avrebbe
perfino schiettamente chiesto allo Zantani di divenire suo "compare"
al che il patrizio gli rispose: "Abbiate pazienza, se voglio essere il
solo padre dei miei figli." In ogni modo, dalla relazione tra Elena e
Lorenzino nacque Lorenzina, figlia postuma
del Medici, il quale
perì assassinato dai sicari di Cosimo de’ Medici.
La bimba venne allevata dalla
famiglia di Elena e sposò in seguito Giulio Colonna.
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Capitolo 30 *** Capitolo Ventiseiesimo, parte terza: Confiteor ***
f
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 10.11.2021
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Capitolo
Ventiseiesimo
Confiteor
(Non
desiderare la donna altrui; Non desiderare la roba d'altri.)
Parte 3
Alla fine
zia Ysabeta era stata esaudita: le nozze tra suo figlio
Jacomo e Marina Morexini finirono sulla bocca di tutta Venezia,
celebrate con
fasto dogale e se la sposina era stata la donzella più
ambita, suo marito divenne
presto l’uomo più odiato, per ovvi motivi, dagli
spasimanti respinti. [1]
Hironimo
vi partecipò assieme alla sua famiglia, sorvegliato a
vista da suo cugino germano Carlo Morexini, silenzioso e implacabile
alla
stregua d’un giannizzero. Sicché al ragazzo non
rimase altro svago se non
d’offrire le sue felicitazioni alla coppia, evitando di
guardare ambedue dritto
negli occhi. Strinse (molto) forte la mano del novizzo e
baciò quella della
novizza, per poi ritirarsi nel suo cantuccio e godersi in santa pace la
festa
ch’animò San Trovaso fin quasi alle prime luci
dell’alba, filando liscia senza
brutte sorprese e perfino le tante temute lenzuola, al momento dello
sbandieramento ai convitati, mostrarono le loro brave macchioline rosse.
Insomma,
tutto bene quel che finiva bene, se Marco non si fosse
esibito in quella scena madre di gelosia nelle cucine di Ca’
Miani, guastando
l’umore d’Hironimo per i mesi a venire,
poiché le sozze insinuazioni di Jacomo
Corner parevano essersi avverate, manco avesse gettato una maledizione
contro i
due coniugi.
La crisi
matrimoniale tra il fratello ed Helena; la guerra; la
rottura con la sua domina; la cattura di Lucha e la malattia e la morte
di
Crestina … ognuno di questi elementi aveva incancrenito
l’animo del giovane
Miani ed esacerbato gli aspetti meno piacevoli del suo carattere. Si
rendeva
conto d’essere divenuto più aggressivo, dispotico,
poco incline al compromesso
e impaziente. Gli antichi passatempi gentilizi non
l’attiravano più, traviato
dalla rudezza del campo e i suoi occhi infarciti di
brutalità e squallore
avevano dimenticato come s’apprezzasse la bellezza,
pigliandosi diletto ovunque
lo trovasse e in qualsiasi forma. Se Hironimo si conteneva
però nei vizi, lo
faceva non per amor della virtù, bensì per non
compromettere il suo progetto di
distinguersi come militare: pur conscio d’essere ancora
giovane per ruoli di
spicco, nondimeno seguitava a puntare tenace alla meta, ché
se il suo amico e
cugino di terzo grado sier Ferigo Contarini era riuscito, alla fresca
età di
trent’anni, a divenire provveditore degli stradioti, allora
anche il giovane
Miani poteva ben sperare, se continuava a rigare dritto e a
comportarsi, almeno
sul campo, in maniera irreprensibile.
“Tanto
scoglionarsi per reclutare quei fanti e archibugieri, per
poi neanche riuscire ad inviargli a mio fratello …
Sacramento, avrei dovuto
partire io con loro, invece di delegare la questione a
quell’inutile capitano!
C’è riuscito Ferigo
a portargli perfino
dei vettovagliamenti, non potevo farcela anch’io?”,
borbottò frustrato
Hironimo, nascondendosi il viso tra le mani e massaggiandosi le tempie.
“Saresti
morto inutilmente”, scosse il capo Luzia, versandogli
sulla coppa un infuso siriano, regalatole dal solito sier Bastita, non
appena
suo figlio naturale Andrea gliene spediva qualche pacco da Aleppo.
“Tuo
fratello è stato anche fin troppo bravo a resistere
così a lungo”, aggiunse,
sottraendogli discreta la brocca mezza vuota di vino, non piacendole
questa
nuova tendenza del giovane.
Il
giovane Miani, accortosi invece, storse la bocca, tamburellando
nervoso le dita sul tavolo. “Con quegli uomini, avrebbe
potuto resistere ancora
di più”, grugnì, sorseggiando guardingo
la bevanda calda, trovandola abbastanza
gradevole.
Alla
notizia della caduta di Bassano, Covolo, Enego e
dell'avvicinarsi delle truppe ispano-imperiali a Feltre, i fratelli
Miani,
consapevoli dell'estremo pericolo in cui versava Lucha, avevano stretto
la
cinghia e, ai continui e urgenti appelli del fratello alla Signoria
affinché
inviasse rinforzi alla Scala, di tasca propria avevano pagato il
capitano
Domenego da Vicenza per raggiungere in fretta il maggiore. Marco, poi,
aveva
dato il meglio di sé e della sua arte oratoria in Consiglio,
infondendo
nell’impresa tutta l’energia nervosa accumulata per
colpa della crisi del suo
matrimonio. E l’aveva spuntata, il gaglioffo: a San Zaccaria
lui di persona
aveva presentato in rassegna le reclute. Magra consolazione era stato
l'inaspettato
soccorso di Ferigo Contarini, ch'era riuscito ad introdursi nella
fortezza
senza incappare nel nemico, rifornendola di vettovaglie. Tutti sforzi
rivelatisi inutili, giacché quando gli archibugieri stavano
per partire da
Treviso e i provigionati da Venezia, la Scala ormai era divenuta
irraggiungibile, la battaglia iniziata ed ogni via di comunicazione
interrotta.
Hironimo aveva voluto condurre lui stesso la compagnia, incurante del
pericolo
di venire facilmente sopraffatti: per convincerlo a desistere, Marco
l’aveva
quasi assordato con le sue urla, incrinandosi per qualche giorno la
voce. S’era
così ansioso di crepare malamente - lo aveva minacciato
- bastava un
cenno e il maggiore gli avrebbe legato una palla di granito alla
caviglia per
gettarlo in seguito nel Canal dell’Orfano.
“Pota
dell’angonaia …”, imprecò di
nuovo Hironimo, stizzito dalla
sua incapacità, per quanto si sforzasse, di poter
influenzare e cambiare il
corso degli eventi, ribelli mostri dotati di volontà propria
e con l’unico
scopo di tormentare lui e la sua famiglia. “Vermocane
d’ona sporca svioldra …”
“La
tua occasione non tarderà a venire e non mancherai di
distinguerti”, finse Luzia di non aver udito quella sequela
d’improperi,
porgendogli ineffabile dei biscotti. “D’altronde,
da come il tira il vento, ho
l’impressione che questa guerra non finirà tanto
presto: la Signoria sta
giocando il tutto per tutto, senza esclusioni di colpi né
compromessi, i nostri
condottieri al fronte e i nostri ambasciatori dal Papa.”
“Spero
che sier Hironimo “dalle Rose” riesca nel suo
intento”,
s’auspicò il Miani, roteando pensoso la coppa.
“Non
c’è obiettivo, che un uomo del suo intelletto non
possa
raggiungere: assieme al cardinale domino Domenego Grimani, è
il nostro asso
nella manica”, sentenziò grave la Trivixan.
“Ma la diplomazia, contrariamente
al campo di battaglia, necessita di tempo. Ciò che
s’ottiene in un’ora in uno
scontro armato, lo si ottiene forse in giorni e in mesi di trattative,
con
effetti però a lungo termine.”
“I
condottieri vincono le guerre, non gli ambasciatori.”
“Gli
ambasciatori però posso prevenirle o scombussolare le
alleanze nel corso di queste.”
Hironimo
sorrise, intrecciando le dita sotto il mento. “Noto che
siete rimasta la solita Luzia Trivixan”, dichiarò
tra l’affezionato e il
malinconico, soffiando sul liquido bollente.
“Ho
rinunciato alla carriera di cortigiana honorata e di mantenuta,
mica al mio cervello!”, cinguettò falsamente
scandalizzata la donna, unendosi
alla risata del patrizio, che le chiese, intrigato:
“E
vi manca quella vita?”
“Un
poco”, si passò Luzia un dito sulle labbra
carnose. “Ma d’altronde,
a lungo andare, ogni suo aspetto mi era divenuto pesante. Pertanto, ho
giudicato meglio ritirarmi all’apice della gloria, amata e
onorata, piuttosto
di scivolare lentamente nell’oblio fino a ridurmi a battere
le calli di Rialto
per qualche spicciolo e di finire i miei giorni a languire in un
qualche sozzo
letto pulcioso, nell’ospedale dei derelitti”, gli
rivelò spassionatamente la
Trivixan i suoi pensieri, mentre intingeva un dolcetto al miele nella
bevanda.
“E’ stato uno spartiacque: senza i miei favori di
letto, si è visto chi
veramente m’era amico e chi mi frequentava soltanto per
divertirsi e basta.
Grazie a Dio e a Santa Cecilia, il vostro sior Barba
m’è rimasto
straordinariamente fedele. Per questo motivo, per me, egli rimarrà sempre il "mio signor". Ah, e anche tu naturalmente non ti sei dimenticato di me”, aggiunse ella
dolce, afferrando
la mano d’Hironimo, che gliela strinse di rimando.
A
trentasei anni Luzia Trivixan ancora serbava la sua seducente
bellezza, frutto certamente dei numerosi trattamenti di bellezza, ma
anche di
uno stile di vita piuttosto rigoroso, laddove lei dormiva le sue otto
ore e non
mangiava né troppo né troppo poco, equilibrato.
Invero aveva sconvolto tutti
l’anno addietro, poco prima della guerra, con la sua
improvvisa decisione di
chiudere il sipario sulla sua avventurosa carriera di cortigiana
honorata, in un
addio commuovente e trionfante, uno dei pochi per donne della sua razza.
Già
un anno dopo, vuoi per il nuovo capitolo della sua esistenza
vuoi per le conseguenze del conflitto, Hironimo faticava leggermente a
conciliare le due Luzie, la brillante e sensuale intrattenitrice della
sua
infanzia e adolescenza con la posata matrona seduta davanti a
sé, vestita di
velluto verde scuro e dalla camicia piuttosto accollata, gli unici
indizi
dell’antico mestiere i perenni orecchini di perle e smeraldi
alle orecchie e
l’esotico turbante di seta blu notte e festechino, fermato da
una catenina
d’oro e una spilla di smeraldo col pendente di perla.
L’appartamento
stesso aveva acquisito una certa sobrietà, pur
rimanendo coccolo, elegante ed accogliente: Luzia aveva tenuto per
sé un cuoco,
quattro fantesche e un bravo a protezione; ogni oggetto inutile,
stravagante e
ingombrante l’aveva venduto e, da quanto Hironimo aveva
capito, la donna viveva
soltanto nella parte nobile dell’edificio, affittando di
persona il resto. Tre stanze, più il portego, la cucina e un mezzado. Alle pareti, notò Hironimo, figuravano più quadri a soggetto sacro di quanto si ricordasse, accanto ai cozzanti nudi profani delle scene mitologiche, illuminati dal cesendelo d'ottone e di vetro. Le credenze di noce avevano conservato soltanto gli oggetti più preziosi, per lo più piatti di maiolica, un vaso di preziosissima porcellana e numerosi bicchieri di vetro dalle forme più svariate. All'angolo, il clavicordo, i liuti, i flauti appoggiati con cura al limite del maniacale, così come la piccola biblioteca di libri sottochiave, tra cui numerosi spartiti musicali. Eppure, nella semplicità, il gusto del raffinato e del costoso continuava a permeare l'appartamento, essendosi infatti ridotto il numero, non la qualità dell'arredamento.
“I
miei investimenti nelle mude m’hanno fruttato bene e sono
certa
continueranno a farlo. Il corallo va forte in Siria ed in Egitto,
così come il
vino di Cypri e l’uva passita di Candia in
Ingaltera”, raccontava la Trivixan.
“Ora che possiedo una solida base economica, posso dedicarmi
interamente alla
musica: a quella carriera no, che vi rinuncio” e
ridacchiò soddisfatta di sé.
Infatti, pur ritirandosi dalla mondanità di letto, la donna
rimaneva ben
presente in quella culturale, circondandosi di musicisti, compositori e
altri
cantanti, facendoli da mecenate o scrivendo raccomandazioni ai
più meritevoli e
intraprendenti. Lei stessa continuava ad impartire lezioni di canto e
di
musica, esibendosi poi la sera, eppure Hironimo nutriva il sospetto
che,
sottobanco, da qualcuno i soldi per le antiche prestazioni li
accettava, come
ad esempio da suo zio Batista.
“Il
vostro sior Barba è stato davvero coraggioso ed intuitivo ad
aver insistito sul commercio del pepe. Credevamo che i Portoghesi ci
avessero
completamente rubato il settore, viaggiando diretti a Calcutta per
comprarlo.
Chi l’avrebbe mai detto, che le loro navi avrebbero invece
rovinato la spezia e
resa invendibile?”
Quando i
portoghesi erano ritornati dall’India col doppio del
carico di pepe e commerciandolo a minor prezzo, Venezia aveva panicato,
per la
prima volta dopo lungo tempo incapace di vendere alcuna spezia,
ritrovandosi i
magazzini pieni di merce a prezzo decisamente fuori mercato. Al che
s’era
perfino contemplato l’idea d’abbandonare il
centenario commercio del pepe e di
focalizzarsi sulle altre spezie, finché rimanevano
disponibili.
Al
contrario, il Morexini assieme ad altri mercanti avevano
sostenuto, insistendo a gran voce, un approccio diverso, basandosi
sulle loro
conoscenze navali e soprattutto sulla spezia in questione: passata
l’euforia
della novità, i compratori all’ingrosso si erano
accorti che, assaggiandolo, il
pepe portoghese non aveva né odore né sapore,
arrivava marcio e bagnato, poiché
le navi portoghesi, per quanto più capienti e rapide, erano
costruite con legno
insalubre di pessima qualità, non isolate e pertanto le
merci, stipate in una
stiva troppo carica per conservarle agevolmente, divenivano soggette
all’umidità, ai vermi e ai topi. In aggiunta,
l’equipaggio inesperto, le
velature insufficienti, i timoni tarlati contribuirono ad una serie di
tragici
incidenti marittimi, ponendo spesso il capitano di fronte alla dura
scelta tra
la vita e il cargo.
Sicché,
nell’arco di neanche un anno, per bilanciare il rapporto
spesa-guadagno, i mercanti portoghesi per un concetto male inteso
dell’economia
erano stati costretti ad alzare i prezzi, arrivando ad eguagliare se
non a
superare quelli del pepe veneziano, il quale ritornò in auge
sia per la
consueta sua eccellente qualità sia per il prezzo
concorrenziale. Anche perché,
sfruttando l’amicizia di suo figlio naturale Andrea col
Sofì di Persia, sier
Batista e i suoi colleghi avevano appreso come del pepe arrivasse
ugualmente in
Siria ed in Egitto e sulla costa del Malabar, aggirando scaltramente il
blocco
imposto dai Portoghesi. I mercanti arabi, infatti, mal tolleravano
quelli
portoghesi, i quali li costringevano a vendere grandi
quantità di merci a
prezzo risibile e senza possibilità di differenzazione.
Sfruttando dunque le
conoscenze del territorio, gli Arabi rifornivano Venezia del meglio
dall’India,
saldando gli antichi accordi commerciali e unendosi in un sol fronte
contro il
nemico comune [2].
“Se
la famiglia del mio sior Barba l’hanno cognominata
“da
Lisbona”, significa che i loro galletti portoghesi li
conoscono bene”, commentò
Hironimo, il quale aveva seguito appassionatamente quella vicenda,
aiutando
volentieri suo zio ad analizzare i due differenti tipi di pepe, grazie
anche
alla consulenza dalla Siria del cugino Andrea, mercante di spicco ad
Aleppo.
“E’ di questo che adesso parlate, voi e il mio
Barba? Di spezie, investimenti e
danaro?”
Luzia
reclinò vezzosa il capo. “Abbiamo sempre parlato
di molte
cose”, gli confidò in un misto di malizia e
tenerezza. “Ma ora, ahimè, gli
argomenti sono divenuti assai tristi e il tuo Barba ha trovato nella
Signoria
un’amante ancora più esigente e possessiva
… Il mio tempo è finito,
Momolo, non lo sapevo allora, lo so adesso. Forse fui profetica ad
abbandonare
appena in tempo la professione di cortigiana, così non
verranno per me.”
Il
giovane Miani si raddrizzò con la schiena, inquieto, le
orecchie tese. “Chi dovrebbe venire per voi?”,
inquisì lentamente.
La
cantante s’umettò le labbra, lisciando
nervosamente il
fazzoletto ricamato. “Ti sei mai chiesto, come mai a Veniexia
ci siano tante
prostitute e cortigiane, come mai siamo così rispettate e
tutelate dalla legge?
Perché, similmente ai mercanti, garantiamo alla Signoria un
guadagno sicuro,
siamo … quasi un arsenale statale. Patrizi annoiati;
cittadini dalle mogli non
più disponibili o dai troppi figli; giovani marinai di
passaggio e lavoratori
scapoli e desiderosi di compagnia; visitatori illustri; mercanti
stranieri;
pellegrini che vogliono aggiungere un ultimo peccatuccio veniale prima
dell’indulgenza; artisti innamorati dell’effimera
bellezza … di tutto Veniexia
offre, a chi vuole pagare. Ma … con la guerra
…” e Luzia sospirò, guardandosi
le mani alabastrine e delicate. “Ignoro se tu ne sia o meno
al corrente, ma in
Senato si parla di tassare le prostitute per finanziare
l’esercito e credo
proprio che passerà quell’ordinanza.
Già in molte, tra meretrici e cortigiane,
si sono lamentate pubblicamente col Patriarca domino Antonio Contarini,
sostenendo che non possono sostenere tali tasse, non quando non ci sono
più uomini
disponibili. Il che porterà ad un’unica soluzione:
la confisca dei beni. Io …
io posso rinunciare ai miei damaschi, ai miei broccati, alle mie sete
… posso
vendere i miei vezzi e le mie gioie, i miei ventolini ed ogni
chincaglieria,
perfino la prospettiva di vivere in una sola stanza non mi spaventa, ma
… ma i
miei liuti, i miei flauti, il mio clavicordo, i miei spartiti? No, non
potrei
mai separarmi da essi, preferire la morte piuttosto.”
Commosso,
Hironimo le prese l’altra mano, stringendogliele ambedue
a mo’ di conforto. Luzia gli sorrise tristemente rassegnata e
il patrizio
comprese appieno il significato delle parole
dell’ex-cortigiana, sul perché il
suo mondo bello, felice e dorato ma superfluo fosse finito, spazzato
via dal
crudo pragmatismo della guerra.
“Ma
adesso che non esercito più il mestiere”, si
riprese Luzia in
fretta, “non mi possono più tassare in quanto
cortigiana, dunque me la caverò!
E se anche come cantante e maestra dovessero crearmi dei problemi, mi
reinventerò e troverò qualcos’altro da
fare. La bellezza sfiorisce, la mona
s’asciuga, i danari vanno e vengono, ma finché
c’è questo” e si picchiettò
la
tempia, “e questo”, si portò una mano al
cuore, “non è mai detta l’ultima
parola!”
“Voi
siete una spada!”, esclamò Hironimo, da sempre
pieno
d’ammirazione verso lo spirito intrepido, tenace e proattivo
della donna, la
quale non si tirava indietro dinanzi a nessuna sfida della vita.
“Dovrebbero
inviare voi contro i franco-imperiali!”
“Dammi
un’ora con l’Imperatore Maximiano e Re Ludovico e
ve li
faccio ballare in catene, nudi, alla stregua
d’orsi!”, dichiarò enfatica la
Trivixan, per poi gettare il capo all’indietro e sciogliersi
in una grassa
risata, seguita a ruota dal Miani. “Oh beh, forse questo
dieci o quindici anni
fa …”, s’asciugò ilare Luzia
una lacrima.
“Non
denigratevi: voi rimarrete per sempre quell’affascinante
cortigiana, cui ai suoi piedi si prostrava tutta Veniexia.”
La
cantante gli pizzicò giocosa la guancia. “An, come
la sai bene,
mio giovane adulatore, l’arte di farti amare!”, gli
fece l’occhiolino,
sistemandogli una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Non sono arrivata
all’apice della gerarchia, se non mi fossi sempre trovata due
passi in avanti
rispetto al mio avversario. Regola che valeva allora come
adesso.” Sospirò. "Anche se, lo ammetto, ho perso la mia disfida con Francesca Ordeaschi. Sai che si trasferisce a Roma? E' rimasta incinta del signor Agostino Chigi e questi l'adora al punto, che par lui aver inventato il modo di dir "pazzo d'amore"!", gli narrò Luzia l'ultimo pettegolezzo del giorno ed Hironimo la trovò estremamente distaccata, avendola invece creduta invidiosa verso l'inaspettata fortuna della sua acerrima rivale.
"Sì, la siora Francesca dovrebbe partire verso la primavera."
"A quanto pare, la visita a Veniexia è sta molto proficua, per il signor Agostino! Se ne torna a Roma col banco sistemato, un'amante ufficiale, un figlio in arrivo e il mio Bastian appresso!" ed ecco che la voce della Trivixan cangiò di tono in uno veramente indignato. Il giovane Miani scosse benevolo il capo: Bastian de' Luciani, o del Piombo come si faceva chiamare, oltre ad essere un pittore di qualità era anche un eccellente liutista, nonché dolce e piacevole nel conversare e poco gli era bastato per conquistarsi le grazie della cantante. Luzia l'aveva infatti accolto con grande entusiasmo e benevolenza nel suo circolo di musicisti e appassionati di musica, introducendolo a molti gentiluomini ed artisti, anche dopo che il ragazzo aveva relegato il liuto a svago per far della pittura la sua vera professione. L'ex-cortigiana perfino era riuscita a strappargli la promessa di un ritratto in segno d'amicizia, sennonché ecco che quel banchiere senese, in una sfacciata terna, glielo sottraeva per portarselo via a Roma. Chissà che non fosse quello il vero suo motivo di cruccio ...
"Cercate di capirlo: dopo la morte del magister Zorzon, ormai si va dicendo che l'unico suo vero erede sia il giovane Tician. Il magister Carpaccio, perfino il nostro pittore ufficiale il magister Zuan Belini appartengono oramai al vecchio gusto, alla gente piacciono i quadri alla moderna. E Bastian dil Piombo questo l'ha capito, così com'ha capito che fra poco non ci sarà più spazio a Veniexia sia per lui sia per Tician. O uno o l'altro. A Roma avrà più fortuna, ché gli altri pittori dipingono con stili diversi dal suo e, nella varietà, potrà ricavarsi il suo spazio."
"In ogni modo, mi dispiacerà congedarmi da lui ... Suonava così tanto bene ..."
"Mi sorprende piuttosto che non siate gelosa della siora Francesca. Dite, non vi sarebbe piaciuto divenire l'amante dell'uomo più ricco d'Italia? Insomma, il signor Agostino è pur sempre il banchiere dei Papi ..."
"Bah. Non ci tengo", scrollò le spalle Luzia, incurante.
"Perché?", sprizzava Hironimo di curiosità.
"E me lo domandi? Chigi è un gran porco, fatto e finito. E come tale, non poteva non innamorarsi di quel magnifico troione di Francesca Ordeaschi!", gli spiegò la donna e rise forte, coinvolgendo il giovane Miani, che sghignazzò alla grossa. "Poco tempo fa, dopo un mio concerto, il signor Agostino mi ha offerto una grossa somma di ducati per andarci a letto, pur sapendo ormai quanto casta fossi divenuta" e congiunse le mani in burlesca preghiera, fingendo un'espressione da Maddalena penitente che pareva rubata alle immagini votive in chiesa. "Ti confesso però che un pensierino me l'ero anche fatto: insomma, lui era ricco, non di malaspetto, colto, buon conversatore ... Ci sarei anche stata, sai? Peccato che, al momento di definire i dettagli, il signor Agostino m'avesse anticipato come pianificasse di violarmi il retrobottega. Al che io gli ho detto: "Benissimo, mio signor, però a patto che uno dei miei schiavoni sodomizzi anche voi nel frattanto, perché a tre mi rende assai gaudente!" Ciò, Momolo! Solitamente uno normale scappa via a queste proposte, specialmente quando si tratta del suo, di deretano da violare: t'immagini, invece, che il signor Agostino non solo era entusiasta all'idea, ma pure ha aggiunto: e portatemelo qua, allora, questo vostro schiavone, voglio proprio vedere se davvero è lo stallone che descrivete!" Basta, non ho retto più e me la sono filata via con una scusa. Da quel momento, ogni volta che lo scorgevo tra il pubblico, ero quasi contenta che la siora Francesca fosse in sua compagna. Di sicuro, ho notato che lei camminava un po' a gambe larghe ... Ma come si suol affermare: meglio le tue, che le mie di chiappe!"
Mentre ascoltava il prosaico racconto, Hironimo divenne paonazzo dal tanto ridere, gettando indietro il capo e si pose poi una mano sugli occhi umidi, seguitando a sobbalzare dalle risate. "Cul del cancaro, è proprio vero che più sono ricchi e vecchi e più sono sporcaccioni!", sentenziò ilare, pensando anche alle sue di esperienze. Con la sua ex-amante, al massimo l'avevano fatto vestiti contro il muro e le uniche proposte indecenti a Lena comprendevano molte lance spezzate per quasi l'intera serata, senza però mai deviare dalla "diritta via". Forse costoro erano talmente facoltosi e perciò annoiati, da non trovar gusto nelle cose semplici della vita, tra cui far l'amore ad una donna che lo vuole per davvero.
"Amen! Amen!", replicò solenne Luzia. "E lo fanno perché, contrariamente ai giovani, gli si drizza una volta al dì e pertanto, co' pinciano con una puta, la gh'ha da ser memorabile!"
Una
fantesca venne a sparecchiare la tavola, mentre i due
convitati si ritiravano presso il caminetto. Il volto della Trivixan, dapprima così allegro e piacevole, s'incupì all'improvviso in un'espressione seria e piuttosto grave. “Momolo
… non vorrei giocare
all’ambasciator che porta pena, però volevo
chiederti: hai saputo della recente
scomparsa del conte Querini di Stampalia ed Amorgo?”
Hironimo
s’irrigidì sulla sedia, tamburellando nervoso le
dita sulle
ginocchia e contemplando distratto i ciocchi di legna sfaldarsi,
divorati dal
fuoco. “Purtroppo, visto che ho partecipato al suo
funerale”, asserì a denti
stretti, memore dello straziante spettacolo della povera sua cugina
germana
Maria, incinta e sorretta dal padre sier Batista e dal fratello Carlo,
i cui
strazianti lamenti avevano reso penosissima la Messa funebre del fu
sier
Zuanne. Tutto il contrario di quello di sua cugina Biancha Corner
relicta
Priuli, consolatasi in fretta l’anno addietro con un secondo
marito, sier Zuan
Antonio Malipiero.
“So
bene che sei ancora in lutto per via di tua sorella Crestina,
però dovresti visitare tua cugina Maria più
spesso e tenerle compagnia. Ultimamente
non sei molto socievole, i tuoi parenti incominciano a mormorare male
di te,
che sei cambiato, che non sei più il loro Momolo. Il tuo
Barba mi ha raccontato
di come tu abbia litigato con tuo fratello Carlo e soprattutto con tuo
fratello
Marco, che non vi parlate più e se ne duole moltissimo,
poiché eravate sempre
stati molto uniti.”
Il
giovane Miani arricciò la bocca in una smorfia sarcastica.
“Sparlavano di me anche quando ero il loro
Momolo”, borbottò
mordace, mangiucchiandosi un’unghia.
“Però concordo con voi: avrei dovuto
offrire miglior sostegno alla mia zermana. Non voglio giustificarmi,
tuttavia …
ho avuto altro per la testa” e non si riferiva soltanto alla
guerra e alla sua
futura partenza per Castelnuovo di Quero, men che meno allo stupido
litigio di
quella testa da bigoli dei suoi fratelli Carlo e Marco, che si
credevano
all’apice della sapienza, quando invece Marco aveva negli
ultimi anni
dimostrato d’essere tanto se non più puerile
d’Hironimo.
Se da una
parte il giovane Miani era stanco d’accollarsi i
problemi altrui e di rimanere l’unico saldo in quella
tempesta di casini
personali, dall’altra gli recava piacere quel sentirsi utile,
con uno scopo al
mondo. Quindi per lui era stato un onore sostituire Lucha come
castellano,
perché aveva sbagliato nel ricordarlo ai fratelli maggiori?
“Alla
prossima, dunque?”, ricordò Hironimo a Luzia,
mentre questa,
a visita terminata, lo accompagnava alla porta.
“Alla
prossima”, convenne la donna, allungandogli la mano,
acciocché il giovane gliela baciasse. “Tu e il tuo
Barba siete sempre i
benvenuti in questa casa”, gli ricordò benevola.
Un
sorrisetto poco raccomandabile increspò la bocca
d’Hironimo, il
quale con la scusa del baciamano spinse e attirò a
sé la Trivixan,
avvinghiandola stretta col braccio e prendendo possesso delle sue
labbra. Il
suo desiderio verso di lei non s’era mai propriamente
acquietato, un po’ come
quel giocattolo a lungo negato, che ogni tanto riaffiorava nella mente
del
bambino, rinvigorendone la voglia d’ottenerlo a qualsiasi
costo. E la morte di
Crestina, sommata alla guerra, l’aveva ancor più
reso ingordo nei confronti
della vita, portandolo ad indulgere in ogni suo capriccio.
La
pacatezza del cullante movimento della bocca di lui, il lento
suggere della carne umida, il battito regolare nel petto e la pazienza
dimostrata nel persuaderla a schiudere l’ultima barriera,
quei tenaci denti
dietro cui si rifugiava la nervosa lingua, rivelarono a Luzia che ormai
non la
stringeva più quell’adolescente inesperto e
impetuoso, bensì un giovane uomo di
quasi venticinque anni, sicuro di sé e della sua arte
persuasiva. Si chiese,
non senza una divertita punta di gusto, chi gliel’avesse
svezzato e voleva
complimentarsi per l’eccellente lavoro, se neppure mesi
trascorsi in cavalleria
gli avevano sottratto quella raffinatezza amatoria, che un uomo deve
dimostrare
ad una donna, se non vuol passare per un caprone infoiato, sfottuto
prontamente
alle sue spalle e allontanato poi con qualche scusa.
A lunghe
e languide carezze s’abbandonarono le loro lingue,
spostandosi il giovane sul muro, acciocché lei stesse comoda
e soltanto
prigioniera del suo corpo. Le mani del patrizio vagarono dai fianchi
della
cantante fino al petto, sfiorando e aprendo appena la camicia, per poi
risalire
lungo il morbido collo fino alla nuca. Delicatamente, senza fretta, la
invitò
ad abbandonare il capo sul suo palmo, lasciandosi sorreggere. Le
baciò le
palpebre, una alla volta, e Luzia sorrise al ricordo.
“Monellaccio”,
sbuffò ilare, accarezzandogli la guancia ricoperta
dalla barba del lutto, segno che sì, ormai lei stava
trattando con un adulto.
“Non demordi mai, vero?”, gli chiese, fingendo un
rimprovero di cui invece non
gli faceva alcuna colpa.
“Mai”,
stette al gioco Hironimo, anzi, abbracciando la donna
ancora più forte, intrappolandola completamente.
“Vi avrò seduta sulle mie
ginocchia”, le promise semiserio, soffiandole sopra le labbra
tumide, ogni
formalismo decaduto.
“Uhm”,
schioccò la lingua Luzia. “Dovrai guadagnarti il
privilegio, mi sa”, lo provocò, scorrendo le mani
sulla stoffa della casacca
nera sciallata fino alla camicia plissettata sottostante,
ch’abbassò,
denudandogli la giugulare che punzecchiò alternando delicati
morsetti e
pennellate con la punta della lingua. “Dovrai dimostrarmi in
che sei meglio,
rispetto agli altri miei amanti”, gli sussurrò
all’orecchio, catturandogli il
lobo tra i denti e suggendolo piano. “O sei uno di quegli
insicuri, che vuole
le vergini perché teme il paragone cosicché non
si dica in giro: quel suo cazzo
non val niente?”
Hironimo
chiuse sbattendo la porta e sollevò di peso la cantante,
costringendola a cingergli la vita con le gambe. “Sfida
accettata!”, replicò
ridendo di cuore e roteando in vorticose giravolte, che provocarono il
riso
anche nella Trivixan, aggrappatasi forte al trapezio del nobile,
finché
quest’ultimo inciampò per via delle vertigini,
atterrando prima di schiena
sulla panca, in un tuffo di cuscini, e in seguito scivolando di sedere
per
terra.
I due
risero, risero, risero fino al mal di pancia, rotolandosi
sui fiori stilizzati rosso brillante, blu pallido e verde chiaro del
tappeto
damasceno, facendosi a vicenda un tremendo solletico e Luzia fu la
prima a
dichiarare la resa, scalciando in aria le gambe peggio di un mulo. Al
che
Hironimo, gattonandole incontro, ne
approfittò per sollevarle la
sottana e infilarvi sotto la testa.
“A
varda zò! Indossate ancora le braghesse!”
La
cantante lanciò un gridolino falsamente indignato,
sporgendosi
in avanti in modo da sculacciare quell’impertinente.
“Vien fora, bestia!”, ma
il giovane l’afferrò per le caviglie e si
sistemò comodamente tra le sue gambe.
Le passò una mano sulla nuca e la baciò di nuovo,
scostandole a metà la camicia
e abbassandole le spalline, lo scollo del busto a vita alta che a
malapena le
copriva i capezzoli e da cui si sparsero sopra la donna e sul tappeto,
in una
vivente manifestazione della dea Flora, degli odorosi fiori di
gelsomino.
Luzia si
sciolse i capelli rosso fuoco dal turbante e si distese
sul tappeto, nel centro perfetto del disegno, invitando Hironimo a
raggiungerla.
Come la rosa di Damasco, si schiuse per il patrizio che le si
posò sopra come
l’ape, appoggiandole la fronte sul petto ed inalando piano,
in piacevole
carezza, l’odore floreale emanato in quella morbida valle.
L’ex-cortigiana, a
seconda della stagione, soleva riempirsi la fascia mammellare di viole,
di
fiori d’arancio, di petali di rose o di gelsomino
affinché la sua pelle,
svanito l’effetto del profumo, seguitasse a solleticare
piacevole l’olfatto dei
suoi ospiti. Lo stesso suo seno, adesso accarezzato in intenta
esplorazione da
Hironimo, era stato il frutto d’un accorto lavoro da
scultore, sottoponendolo
per anni a giornalieri bagni nell’acqua gelida, onde
rassodarlo e costì
mantenendolo più duro e tondo di quello di una fanciulla.
Similmente, sul collo
e sul viso Luzia s’applicava dei pezzi di carne appena levati
dalla ghiacciaia
e intinti nel latte e cannella. Si lisciava alla greca e ogni giorno si
faceva
fare massaggi per tonificare il corpo, sopportando ogni agonia e
sacrificio in
nome della bellezza. E a giudicare dagli sguardi vogliosi degli uomini
quando
si recava in Merceria o a Messa a Santa Caterina, i risultati a lungo
termine
l’avevano ripagata di tanto soffrire, vendicandola e
sbugiardando quei cafoni
che, raggiunti e passati i trent’anni, avevano osato
chiamarla vecchia, per poi
cascare bramosi ai piedi, pere cotte a puntino.
“Soltanto
questa volta”, mormorò Hironimo e nei suoi occhi
nerissimi Luzia comprese il significato tra le righe, del
tabù che stavano
infrangendo.
“Soltanto
questa volta”, ripeté lei, scivolando la sua mano
in
basso e con destrezza figlia della pratica gli slacciò la
braghetta,
infilandovi la mano dentro e trovandolo già pronto, il
vantaggio della
gioventù.
Sono
cambiato, pensò
amaramente Hironimo, rigirando tra
le dita le ciocche rosse di Luzia, la quale gli s’era
accoccolata sopra, la
guancia appoggiata sull’addome e i polpastrelli che gli
sfioravano appena la
sottile linea di peluria, la quale dall’ombelico gli scendeva
giù all’inguine.
La donna osservava pigramente i muscoli del giovane contrarsi a quella
languida
carezza, la pelle tesa e calda.
Le ombre
pomeridiane s’allungavano all’interno della camera
da
letto, entrandovi silenziose dalle lunghe e strette finestre, curiose
intruse,
e risalivano fino al soffice letto di sei materassi, avvolgendo in caldi chiaroscuri i corpi ivi
stretti
e semicoperti dalle lenzuola bianchissime.
Sì,
sono proprio cambiato,
sospirò il patrizio, ingoiandosi le
labbra e mordendole a sangue, conscio d’aver infranto
quell’antico divieto: il
se stesso adolescente non avrebbe mai commesso quello sgarbo nei
confronti
dello zio, anche a costo d’apparire rigido o stupido o
stupidamente rigido,
fregandosene dell’altrui scherno. Invero aveva ben assimilato
l’ipocrisia
comune e lo spirito di rapina e in generale disonesto dei capitani di
ventura,
prendendosi tutto ciò che gli piaceva, senza rimorsi
né timore delle
conseguenze.
Il
discreto e curioso tocco della Trivixan lo destò dal suo
incantamento: la cantante gli stava studiando la mano, tastando delusa
la
ruvida pelle. “Un tempi avevi mani così
belle”, mormorò ella tristemente,
contornando i fantasmi rosati delle croste cadute dalle nocche e il
giallognolo
dei calli sui palmi. “Creavano bellezza, non davano la
morte.”
“A
Padoa aiutavo a costruire le mura e portavo le barelle”,
avvertì inconsciamente il giovane il bisogno di
giustificarsi di quel
mutamento, il riflesso fisico di quello dell’anima.
Luzia
rabbrividì al pensiero dell’inferno scatenatosi in
quelle
tre settimane d’assedio. “Il mio tempo è
finito, Momolo”, sussurrò sibillina,
socchiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal ritmico alzarsi ed
abbassarsi
del petto di lui.
Anche
lei era cambiata,
appurò Hironimo, accarezzandole la
schiena e coprendo ambedue col lenzuolo, raffreddandosi il sudore nel
frattempo
a risultare molesto alla pelle. Alla fine della fiera, la Trivixan
stava
invecchiando, malgrado i suoi momentanei e combattivi sforzi di
rallentamento
del processo. Pur sforzandosi d’apparire stoica dinanzi
all’inesorabile
declino, in realtà ella voleva sentirsi ancora amata e
desiderata come un
tempo, l’oggetto del desiderio di tutta Venezia, la musa
ispiratrice della
comunità musicale. Era impossibile, dopo anni alla ribalta,
abbandonare
l’ebbrezza della notorietà,
l’ammirazione sconfinata della gente, il trovarsi
perennemente
al centro dell’attenzione per poi finire in secondo piano,
scartati alla
stregua di un abito passato di moda, un ricordo lontano e sfuocato,
rimpiangendo giorni gloriosi che non sarebbero mai più
tornati, costretti a
ripiegare in attività di nicchia.
Un
artista muore due volte, si dice: quando non può
più esercitare
la sua arte e quando lo sotterrano. Luzia Trivixan per sua fortuna
ancora non
era giunta a quel livello, tuttavia stava cedendo ad una sottile smania
di
ricerca di conferme. “Grazie a Dio e a
Santa Cecilia ho il mio canto e
la mia musica a consolarmi e sostenermi. Sai, quand’ero
ragazzina, prima del
mio debutto ufficiale, confessai a mia madre che progettavo di
guadagnarmi il
pane, onestamente, da cantante, solo da cantante. Lei mi rise in faccia
e mi
disse: “Vuoi cantare e basta? Fallo in strada per
l’elemosina. Vuoi cantare in
un palazzo? Allora trasformati in una sirena e attira gli uomini nelle
profondità del tuo letto.” Ed
era questa strisciante e persistente
insicurezza che la rendeva sempre più dipendente dai suoi
amici musicisti e dai
suoi allievi, dalla loro ammirazione e approvazione.
Il suo
Alexandro Demophon era morto da dieci anni, così come
alcuni dei suoi protettori storici. Sier Batista, pur rimanendo
generoso e
leale nei suoi confronti, oramai s’era votato alla Signoria,
relegando ogni
altra donna in secondo piano, perfino sua moglie istessa. La Trivixan,
aveva
notato Hironimo, più che amante si stava gradualmente
trasformando in
confidente e amica, una piccola oasi di tranquillità dove
potersi rilassare,
gli amplessi sempre più saltuari e non perché il
sangue e le voglie del
Morexini si fossero raffreddate.
Hironimo
l’aveva capito benissimo, ecco perché aveva fatto
la sua
mossa, approfittandone della malinconia e confusione di Luzia: ella
aveva
chiuso col passato, servendo se stessa e non più gli uomini;
tuttavia, la
solitudine di non possedere un compagno che l’assicurasse col
suo amore,
l’aveva resa vulnerabile nella sua inquieta voglia di sentire
nuovamente la
passione viva d’un amante, la sua forza e il suo calore,
donandole l’ebbrezza
di prendere ed essere presa, regalatale generosamente in
un’altra vita da
Alexandro Demophon.
Lui e la
Trivixan erano simili, concluse il giovane patrizio,
condannati ad anelare ciò che non potevano ottenere
attraverso vie diritte e
alla luce del sole.
***
Guardati
dai ritorni di fiamma, dice il proverbio, ché
t’arrecano
soltanto dispiaceri.
Seguendo
il consiglio di Luzia Trivixan, Hironimo si era risolto a
visitare più spesso sua cugina madona Maria Morexini relicta
Querini, per
quanto lo ferisse profondamente nell’animo: stentava di
riconoscere nella
giovane donna sciupata e nerovestita la sua vivace e amorevole germana,
invecchiata precocemente dei suoi neanche venticinque anni. I suoi
occhi
nerissimi avevano perduto ogni guizzo vitale, fissando smorti davanti a
sé, un
simulacro vuoto e senz’anima.
Maria si
disinteressava di quanto le accadesse attorno,
chiudendosi a riccio su se stessa e bandendo ogni passatempo dei giorni
felici
assieme al marito; non leggeva, né suonava, né
ricamava, né deambulava
nell’odoroso giardino interno, preferendo languire nel buio
della propria
stanza da letto, Ca’ Querini ridotta ad un sepolcro. La
patrizia si rifiutava
perfino d’uscire di casa, neanche per recarsi a Messa,
preferendo chiamare in
casa un prete per confessarsi e comunicarsi. Madre cercava
d’aiutarla a trovare
conforto nella religione, condividendo con la nipote la sua esperienza
e a
codesto trattamento un poco la vedova Querini rispondeva,
più che altro
ricattata dalla salute del bimbo che cresceva nel suo grembo, la cui
morte
sarebbe stata imputabile alla sua noncuranza.
“Come
siete riuscita a sopravvivere? Come siete riuscita a vivere
senza il vostro cuore, senza l’altra metà della
vostra anima? Come?”
“Mi
sono detta che lui è sempre meco, ovunque io mi trovi. E che
veglierà su di me, ovunque egli si trovi.”
Madona
Morexina aveva saggiamente preso in casa i nipotini
Francesco, Crestina, Fantin, Piero, Agustin
e Nicolò Querini, terrorizzata
dall’idea che la figlia potesse, in uno scatto
d’imprevedibili nervi,
svegliarsi dall’abulica sua stasi e compiere qualche gesto
azzardato, avvertita
la nobildonna dagli altrettanti ansiosi e spaventati servitori, in
particolare
dalla fantesca personale della contessa, la quale sosteneva di non
riconoscere
più la sua padrona.
“Abbiate
pazienza, siora Mare. Non posso abbandonare questa
stanza, non subito, non finché potrò ancora
percepire l’odore di Zuanne sul suo
cuscino, sui suoi vestiti.”
Sua madre
non aveva potuto non assecondarla, ordinando tuttavia
alla servitù di riferirle verbatim ogni singolo movimento e
parola a Ca’
Querini, intanto che scriveva una pepata missiva alla consuocera madona
Juliana
Malipiero Querini, invitandola a salpare quanto prima da Stampalia.
“Partirsene
così, il giorno dopo il funerale di suo figlio,
abbandonando a se stessa sua nuora, i suoi nipoti e
quell’infelice che mai
conoscerà il volto di suo padre! Capisco sier
Nicolò, per via
dell’amministrazione dei loro feudi, ma quale scusa aveva
madona Juliana?”
“Cercate
di capirla: ha perso tutti e tre i figli in così poco
tempo, naturale sia sconvolta! In ogni modo, scrivetele pure:
è tempo che si
scuota dal lutto e che s’assuma le sue
responsabilità!”
In attesa
dunque della consuocera, madona Morexina e la figlia
Querina si dividevano in casa i nipotini, quest’ultimi ancora
troppo piccoli
per capire quanto stesse accadendo. Il solo che se ne rimaneva in
disparte e
non giocava né con la cuginetta Biancha Zustignan,
né con gli zii Donatella e
Francesco Morexini era il piccolo Francesco Querini, il primogenito del
defunto
sier Zuanne, che dall’alto dei suoi sette anni possedeva
più ingegno di quanto
non gli si desse credito.
Sollevata
dalla dolorosa presenza dei figlioletti e confortata
dalla compagnia di Marinella, la quale aveva sorpreso tutti offrendosi
volontaria di trasferirsi a casa di Maria e così di
rinunciare all’ultimo anno
d’istruzione al convento, la vedova Querini pareva dar segni
di miglioramento e
anzi, con la scusa di riparare, aveva prontamente assunto un maestro di
danza e
uno di latino per completare l’educazione della sorella
minore, partecipando
anch’ella alle lezioni per ingannare il tempo e distrarsi.
Dall’altra parte
però, in segreto, Maria aveva sviluppato un interesse
morboso per l’Aldilà,
mascherandolo dietro il pietoso culto dei morti, sicché sier
Batista, informato
da Marinella, andò su tutto le furie quando
scoprì come la figlia stesse
consultando negromanti levantini per farsi dire dove il marito si
trovasse
esattamente, se fosse possibile comunicare con lui. L’anziano
consigliere s’era
dovuto frapporsi tra le due sorelle, poiché
un’indignata Maria, giudicandosi
tradita da Marinella, s’era subito avventata contro di lei,
tirandole i capelli
e chiamandola juda scariota, sporca, fumia e ingiandolia, mentre la
povera fanciulla si difendeva in lacrime, descrivendo a lei e al padre
quanto
quei maghi e indovini l’avessero spaventata a morte, specie
l’ultimo che,
irrigidendosi tutto manco uno stoccafisso, aveva aperto la bocca e
senza
muoverla l’avevano udito parlare, sostenendo questi averlo
posseduto l’anima di
sier Zuanne.
“Piaghe
di Cristo!”, era
dunque
esploso sier Batista, abbracciando protettivo Marinella, che
singhiozzava
impaurita contro il suo petto. “Te lo dico io dove
si trova tuo marito:
morto e sepolto nella sua arca, sulla quale dovresti finalmente
deciderti ad
andarci a pregare, così da rinsavire e non impegolarti in
tali negozi da pagani!
Bone Jesu, vuoi farti scomunicare?!”
Hironimo
raramente aveva visto così arrabbiato il suo barba,
tuttavia condivideva in pieno la sua frustrazione e tristezza
nell’assistere al
lento decadimento fisico e morale dell’adorata figlia. Di
conseguenza,
assumendosi volontariamente il ruolo del cattivo, egli aveva rincarato
la dose,
rimproverando aspramente la cugina e spronandola a reagire, per amore
dei suoi
bambini, dell’eredità che Zuanne le aveva
lasciato. Doveva tutelarla mentre i
suoi piccini crescevano, per la legge mai disprezzabile dei
parenti-serpenti.
Braccata
da ogni lato e sbattutale in faccia la necessità di farsi
animo e di vivere, Maria si persuase a darsi una seconda
possibilità. Fece
arieggiare Ca’ Querini, cambiare le lenzuola e, pur vestita
in rigorosissimo
lutto, ad uscire per qualche timida sortita fuori casa, accompagnata
dai
genitori, le zie ed Hironimo. Poi, su iniziativa di
quest’ultimo, la vedova
Querini s’aprì all’idea
d’invitare anche qualche altro parente, specie i
più
giovani, della cui dinamica vitalità Maria necessitava
più della malinconica
saggezza dei vecchi. Su consiglio d’Hironimo, la contessa
approfittò del
Carlevar per invitare regolarmente le sorelle Querina e Marinella (con
cui si
riappacificò e domandò ed ottenne perdono); la
cognata madona Maria da Molin Morexini
moglie di Carlo; la sua nuova cugina madona Malipiera; la cugina di
quest’ultima,
madona Fontana; le cugine Catharina, Fiorenza, Cornelia, Biancha,
Lugrezia e
Violante Corner e la loro nuova cognata, madona Marina Morexini Corner.
“Ed
io che cavolo c’entro?”, arcuò
sospettoso il sopracciglio
Marco Contarini “dai Scrigni”, incrociando le
braccia al petto.
“Tutte
quelle femmine lì riunite m’inquietano, cor mio.
Ho bisogno
di maggior presenza maschile. Sier Daniel e gli altri sior maridi, con
la scusa
della politica, hanno codardamente disertato.”
“Pensavo
possedessi cugini in grand’abbondanza per supplire, senza
giungere a scomodarmi.”
“Anche
loro se la sono data, quelle puinette (ricottine, ndr.),
lasciandomi solo in balia di quelle spettegolanti sottane!”
Il
“dai Scrigni” assottigliò gli occhi, i
medesimi acuti ed
intelligenti di suo zio sier Hironimo Donado, studiando diffidente
l’amico
fraterno.
Hironimo
sospirò, sconfitto: quando Marco gli elargiva quello sguardo,
neppure utilizzando i buoi l’avrebbe schiodato dalla sua
opinione. Guardandosi
furtivamente attorno, il giovane Miani trasse in disparte il Contarini,
approfittando della confusione in calle per via del Carlevar.
“Mi devi guardare
le spalle”, gli rivelò sottovoce, ansioso.
“Eh?”
“Ti
ricordi di Marina Morexini?”
“La
siora tua Amia, la tua zermana o la mojer dil Corner?”
“La
terza. Ecco, quando lei studiava al convento, io mi recavo
spesso lì a trovarla.”
“Non
mi dire che …”
“Bestia!
Così poco mi stimi, da giudicarmi capace
d’infilarmi di
notte nel letto delle educande, in un convento?!”
“No,
no, per carità, non stavo affatto pensando male.”
Hironimo
lo squadrò scettico: eccome, se l’amico aveva
equivocato
maliziosamente, ci scommetteva il mignolo sinistro! In ogni modo,
proseguì
concitatamente: “Dietro la scusa di porger visita a mia
nipote Dionora, ho
avuto modo di riallacciare i rapporti con Marina, mia vicina di
contrada. E ti
assicuro, cor mio, che non ho mai avuto intenzioni disoneste su di lei:
mi
svagavo più che altro a stuzzicarla, divertito dalla sua
innocenza misto al suo
desiderio di giocare alla donna adulta. Si trattava tutto di un grande
scherzo!”
“Di
cattivo gusto”, obiettò severo Marco,
“perché lei ci credeva e
tu l’hai illusa. Anche se non puntavi a concupirla,
ugualmente lei hai promesso
menzogne, pigliandola crudelmente per i fondelli e per che cosa? Per
farti una
risata? Non è stato molto cavalleresco da parte
tua.”
“Avrei
in effetti dovuto scoraggiarla fin dall’inizio”,
convenne
il giovane Miani, non sottraendosi a quella sferzata di biasimo.
Invece, aveva
perduto il giudizio e risposto a quel brevissimo scambio
d’effusioni, nonché
utilizzato tal innocuo amoretto per colpire Jacomo Corner là
dove faceva più
male. “Adesso Marina frequenta la casa della mia zermana e
lei parrebbe
disponibile a …”
“Spero
che tu non la stia corrispondendo!”, spalancò
scandalizzato
la bocca Marco, non concependo il suo miglior amico, per quanto discolo
e
irrequieto, invischiato in turpi intrallazzi adulterini.
“Mi
pigli per scemo? Con mio fratello Lucha, poi, che conosce
mezza Quarantia Criminal e di cui pure è stato
parte?”, strillò indignato
Hironimo, nauseato all’idea di sottoporre la sua famiglia a
tale umiliazione,
anche perché Lucha lo avrebbe sottoposto lui stesso ai
tratti di corda, semmai
egli fosse comparso in tribunale, imputato con l’accusa
d’adulterio e
fornicazione. E dopo aver rifiutato ogni rapporto civile e
riconciliazione con
Carlo e Marco, gli risultava insopportabile la prospettiva di perdere
anche
Lucha, l’ultimo fratello rimastogli accanto. “Per
anni non le ho più rivolto
un’ombra di parola; allo sponsalicio l’ho ignorata
completamente … Ostrega d’on
ostrega! Tre volte - tre! - che
ci siamo incontrati a
casa della mia zermana, dove abbiamo conversato superficialmente di
tutto e di
niente, e invece sembra quasi che ci siamo congedati dal convento
l’alter dì!”
Marco
increspò le labbra, pensoso, analizzando e soppesando ogni
parola dell’amico, onde delineare la situazione e trovare una
soluzione. Si
sistemò una ciocca di capelli ramati dietro
l’orecchio, cacciando fuori un
grosso sospiro: per ficcarsi in situazioni assurde, il cor suo
possedeva invero
un’abilità preternaturale! “Se tu le
intimassi chiaro e tondo di badare a suo
marito, quella là, per ripicca, minimo ti rifila un tiro
alla moglie di
Putifarre e tu certo non sei un Giuseppe[3]”,
ragionò il Contarini ad alta
voce, soppesando i pro e i contro. “La tattica migliore
rimarrebbe fare il
morto: non guardarla, non parlarle, non rispondere alle sue lettere,
evitala
teatralmente e magari diserta qualche visita a casa della tua zermana.
Se
madona Marina non è stupida, capirà che sta
abbaiando all’albero sbagliato e si
stuferà!”
Il
giovane Miani s’appoggiò al muro, contemplando
scocciato la
sagoma di Ca’ Nani a San Trovaso, neanche le rimproverasse la
nascita di quella
piattola di Marina.
In
verità, non era stato completamente sincero con Marco, nel
senso che sì, non aveva mai concluso nulla di concreto con
la giovane donna;
tuttavia allo stesso tempo, accortosi dell’interesse mai
sopito di lei, il
malevole desiderio di vendicarsi di Jacomo Corner gli aveva sussurrato
tentatore all’orecchio, trovando terreno fertile per
progettare un’epica
punizione ai danni dell’arrogante patrizio e quale complice
migliore, se non la
cara mogliettina di lui infatuata?
Per notti
intere, davanti al caminetto, ridacchiando perversamente
Hironimo aveva sognato ad occhi aperti l’intero scenario,
traendovi un diletto
pressoché fisico: sedurre Marina, tenerla come amante (tanto
lei non avrebbe
cantato comunque, anche per non perdere eredità e dote),
rispedire ogni sera a
Jacomo la moglie ben riempita del suo seme, vederle il ventre crescere
d’un
figlio suo … e quel somaro l’avrebbe cresciuto,
tutto orgoglioso nella sua
ignoranza, designando come erede il frutto d’un amore
illecito, proveniente per
di più da una famiglia dal Corner tanto disprezzata
…
Di
conseguenza, verso Marina egli aveva adoperato ogni carineria a
lui conosciuta, sempre disponibile e cortese: al suo cenno, le suonava
al liuto
frivole e maliziose frottole; le sussurrava
all’orecchio poesiole
d’amore (imparate a memoria) e le disegnava su bigliettini
lusinghiere
allegorie da innamorati. Hironimo l’elargiva vivaci sorrisi
pieni di fossette e
conversava con lei galante e con tono di voce morbido e caldo; apriva
sempre le
danze con lei e davanti al caminetto le si sedeva accanto,
appoggiandole
“casualmente” il braccio attorno alla spalla,
mentre Marina leggeva, commossa,
di un qualche infelice amore letterario. O, acquistando dei fiori di
stoffa, il
patrizio glieli appuntava ai capelli o sulla spallina, accarezzando
allusivamente i petali e godendo del rossore di lei,
dell’alzarsi ed abbassarsi
inquieto del suo petto. Al momento di salire in gondola, egli indugiava
in
furtive carezze sulla manina della nobildonna e si passava le dita
sulla
labbra, conscio di come madona Corner lo stesse osservando rapita. Le recitava con teatrale trasporto gli “Asolani” del magnifico messer (e si vociferava futuro domino) Piero Bembo di sier Bernardo, anche se l’avevano fin dalla loro pubblicazione annoiato a morte, reputandoli un ammasso di luoghi comuni da minestra riscaldata. L’unico forse con cui Hironimo andava d’accordo era Perottino, l’amante infelice, più che altro perché le femmine sempre gli avevano puntualmente portato null’altro che un gran mal di stomaco, grazie ai loro capricci e false modestie. A nulla valevano le argomentazioni di Gismondo, l’amante ricambiato, su come dovesse difendere Amore dalle “false calunnie” di Perottino. Quello stronzetto alato meritava ogni spennatura, altroché. E aveva buon gioco, sier Piero, a far dire a Gismondo come l’essere si identificasse in amore e fosse in vita in quanto amore, poiché senza d’esso non esisterebbero né l’uno né l’altra. Tanto, pensava un poco invidiosetto Hironimo, al Bembo nessuna donna, zitella o matrona, gli aveva negato il suo affetto, il Miani era praticamente cresciuto ascoltando i suoi parenti spettegolare degli amori di sier Piero, da Maria Savorgnan alla medesima duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia d’Este. Quindi, fortunato e appagato in ogni sua avventura, ovvio che il Bembo concepisse amore come forza cosmica, unificante, presente in ogni uomo, la fonte stessa della civiltà; invece, per Hironimo amore era divenuto un sentimento divisorio, bestiale, ingordo, ch’abbassava l’uomo alle azioni più indegne pur di soddisfarlo.
In ogni modo, mentre così la dilettava, Hironimo leggeva negli occhi di madona Corner
la fiamma dell’antica passione,
rinfocolata
dalla legna dei sottili e indiretti incoraggiamenti
del giovane Miani, il quale li
ammantava d’accorta ambiguità per friggerla ben
bene nell’olio del desiderio e
per farli passare inosservati, innocenti agli sguardi di terzi. Ormai
Marina
era una donna a tutti gli effetti: scavalcato lo scoglio ingombrante
della
verginità, ella adesso sapeva cosa aspettarsi da un uomo
sotto le coperte e il
patrizio gongolava nel sapere Jacomo talmente incapace, da neppure
soddisfare
appropriatamente sua moglie, se questa era disposta ad aprire le gambe
al suo
primo amoretto adolescenziale, frutto perlopiù di una
fantasia d’educanda
sessualmente frustrata.
Hironimo
si scoprì dunque a desiderare ardentemente Marina e non
per la dolcezza umida della sua femminilità o per
affinità di carattere e
pensiero, bensì per immaginarsi sul suo volto quello del
Corner, quando gli
avrebbe fottuto la bella sposina.
Ah! Lui e
tutti gli altri stronzi avrebbero ben presto pagato per
le loro cialtronerie, per gli anni di crudeli sfottò, per
aver appellato
insensibili Hironimo “figlio del suicida”,
“mammoletta”, “femminuccia”,
“patiens”, etc.! Incauti, l’avevano
creduto una sorta di cappone, un
inoffensivo eunuco cui affidare le loro donne. Oh, sì! Per
meglio agire
indisturbato e godersele tutte, alla facciaccia loro, li avrebbe
cornificati
dal primo all’ultimo e sì ripetutamente, che
neanche sarebbero riusciti ad
entrare per il portone di casa senza grattarle!
“Becchi
fottuti, vi meritate ogni corno!”, aveva gridato euforico
ad un certo punto al fuoco, vuotando il bicchiere, l’ultimo
di una lunga e
indefinita serie.
“Momolo,
che diamine stai facendo?”, gli giunse alle spalle la
voce impastata di suo fratello Lucha, sceso in camicia da notte e
scalzo a
controllare da dove provenisse tutta quella caciara. “Non
dormi?”, sbadigliò,
stropicciandosi stanco gli occhi arrossati. “Dai, che solo i
ladri e gli
adulteri a quest’ora rimangono svegli!”,
scherzò il maggiore, sollevando per il
braccio un impietrito Hironimo, la battuta cascatagli addosso
più dolorosa di
un secchio d’acqua gelida.
Momolo,
che diamine stai facendo?
Siccome
Marco Contarini era un amore – anzi, l’unico vero
amore
della sua vita e gli avrebbe scolpito un monumento per ringraziarlo
– egli
aveva accettato, soltanto per quell’occasione,
d’accompagnare Hironimo a Ca’
Querini e come previsto dal Miani, madona Marina non osò
avvicinarlo,
intimidita dalla presenza di quell’estraneo, il quale, in
aggiunta, suscitò
nelle giovani matrone e zitelle un civettuolo interesse, contente
d’ammirare un
po’ di carne fresca, mentre un sospiro di sollievo usciva dai
petti dei
fratelli minori di Maria, commossi di poter parlare con un altro
maschio fuori
dalla cerchia famigliare.
Il
vociante gruppetto si chetò all’improvviso alla
vista di
un’anziana donna, dalla pelle rugosa ed olivastra, vestita di
larghe e vaporose
sottane e d’uno scialle dai colori sgargianti, ricoperta di
bracciali e collane
d’oro al collo, ai polsi, alle orecchie e caviglie, perfino
sul naso. Una
gitana, forse, proveniente dal Levante se non addirittura
dall’India,
viaggiando raminga per la terra, il cielo l’unica sua dimora
fissa.
“Mariuccia,
avevi promesso!”, l’apostrofò aspramente
Hironimo,
afferrando la cugina per il braccio e pizzicandoglielo leggermente a
mo’ di rimprovero.
Sciogliendosi
piccata dalla presa, la vedova Querini sbottò
snervata: “Rilassati, non si tratta di alcunché di
disdicevole; l’ho chiamata
soltanto per leggerci il futuro! Gli astrologi lo fanno, che male
c’è? Non sei
curioso?”, lo sfidò beffarda. Ed esibendo un
sorrisone di circostanza: “Mo’
via, non restatevene lì impalati: che temete? Che lei vi
mangi?”, scherzò
allegra, sedendosi lei per prima onde dare l’esempio al resto
della piccola
comitiva.
“Pensi
che voglia sapere se sopravvivrà al parto?”,
domandò
sottovoce Marco ad Hironimo, nel frattanto che gli ospiti si
sistemavano
attorno alla gitana, la quale s’inginocchiava misteriosa e
ieratica davanti a
loro, leggendo a ciascuno il palmo della mano e sussurrando, come in
trance, il
sibillino responso, suscitando esclamazioni ora divertite, ora stupite,
ora
ansiose. Perfino Marinella, ancora scossa dall’esperienza col
negromante, aveva
ascoltato rapita la profezia dell’anziana donna, di come il
suo nome avrebbe
influito sul destino del suo primogenito. [4]
“Spero
soltanto che le profetizzi come ritornerà sana di
mente”,
scosse il capo il giovane Miani, esasperato dalla melodrammatica
cocciutaggine
di Maria. Se suo padre sier Batista avesse appreso di quel nuovo
passatempo,
magia bianca, nera o verde, avrebbe scudisciato personalmente la
figlia,
aborrendo tali pratiche più per superstizione che per fede
cristiana,
sentimento condiviso anche dal cognato, il fu sier Anzolo Miani. Il
quale, Hironimo
ben se lo ricordava, soleva ripetere mentre sfregava l’indice
rinsecchito di
una mummia, acquistato al Cairo: “Chi
è vivo, sta coi vivi. Chi è
morto, sta con Dio. Chi è morto e sta coi vivi, non
è un’anima defunta bensì un
demone venuto a dar tormento. Similmente, chi afferma di poter predire
il
futuro o è un ciarlatano o posseduto da un demone
ingannatore, perché Dio solo
conosce a quale destino ci ha designati. Fino a prova contraria, omo
morto no
fa guerra. Ricordatelo sempre, Momolo.”
“O
forse”, proseguì malizioso Hironimo, “le
rivelerà come, fra un
paio d’anni, si ritroverà sposata di nuovo e
più innamorata che mai!” e alla
battuta i due patrizi si coprirono la bocca, sganasciandosi di grasse
risate.
Quand’ecco,
che la gitana si piazzò davanti al Contarini, il quale
trasalì dalla sorpresa e un pelino intimorito, specie quando
la donna, senza
tante cerimonie, gli afferrò il polso e disegnò
col dito colorato di rosso ogni
linea del suo palmo.
“Nati
diversi, morirete uguali; tu ombra, l’altro luce; attraverso
il tuo anonimato lo renderai famoso e questi ti renderà
immortale.”
Marco la
fissò inebetito, manco gli avesse tartagliato di fronte
uno dei suoi balbettanti ed incoerenti nipotini. “Ma che
diamine …?”, si voltò
disorientato verso Hironimo, che fece spallucce, confuso quanto lui.
“Insomma,
caro el mio Marcolin”, lo consolò però
subito dopo
l’amico, appoggiandogli beffardo la mano sulla spalla,
“sei destinato a
rimanere l’eterno secondo dietro al tuo sior barba
Hironimo!”, e se la rise,
pure quando il Contarini, stizzito, gli schiaffeggiò il
braccio. “Dai, baba,
tocca a me”, le presentò arrogante il palmo,
pregustando la sciarada che gli
avrebbe rifilato, tipica di quegli imbroglioni levantini,
acciocché il grullo
di turno s’impressionasse senza capire al contempo un
accidente.
Il suo
sorriso gli morì sulle labbra, quando il viso da tartaruga
della gitana impallidì, stupito e al contempo commosso,
mentre i grandi occhi
neri all’orientale si velavano di lacrime. “Tu, che
hai l’anima di Lazzaro,
supererai chiunque dei tuoi pari a Venezia e fuori d’essa.
Nulla di vivo dei
re, degli imperatori, del Papa a loro sopravvivrà, ma il tuo
operato viaggerà
nel tempo e lo sconfiggerà e il tuo nome sarà
conosciuto fino agli ultimi
angoli della Terra e tutti lo ameranno, tale è la sua
grandezza” e gli baciò la
mano, imprigionandogliela quando Hironimo, imbarazzato, aveva tentato
di
sottrarla da quelle dita ossute. “E sarà
l’amore di una donna a salvarti”,
terminò la vecchia, baciandogli di nuovo il palmo.
“Aspetta!
Cosa vuol …?”, esigette il Miani un chiarimento,
il
cuore in subbuglio e lusingato dall’incoraggiante profezia,
la quale coincideva
perfettamente con le sue ambizioni, sennonché la gitana lo
ignorò, intenta a
scrutare il destino di Marina, il naso aquilino a qualche spanna dalla
mano
offertole.
“Sei
desiderata, ma non amata; l’odio lega chi ti vuole, ma
sarà
la pietà mascherata da crudeltà a preservare la
tua pudicizia”, proferì la
gitana, aggiungendo poi: “Due bimbi da un unico nome e
spirito, uno verrà dopo
che l’altro se ne andrà.”
Avvertendo
una montante sensazione di claustrofobia, il giovane
Miani s’alzò in fretta e si ritirò in
giardino, inspirando a pieni polmoni la
fredda aria invernale.
“Hironimo?”
L’interpellato
in questione sobbalzò dalla panchina, scattando in
piedi e indietreggiando di riflesso di fronte al nuovo arrivato.
Accidenti,
quanto tempo s’era trattenuto lì? A giudicare
dalle lunghe ombre, parecchio
tempo …
Marina
Morexini Corner si stagliava in controluce, avvolta da un
alone arancione che la rendeva un’apparizione
pressoché sovrannaturale,
sinistra, la luce vespertina riflettente sul vaporoso abito di seta
rossa e la
cuffia di broccato, la collana di perle e quella d’oro due
tizzoni ardenti al
collo, così come i bottoni d’oro della vesta. I
medesimi occhi rassomigliavano
alla brace nei caminetti, immobili eppure vivi di scintille.
Hironimo
esaminò velocemente la situazione, realizzando di
trovarsi proprio nell’opposto contesto prefissatosi.
Maledizione! Dov’era
finito Marco? Come aveva fatto quella furbastra a seminarlo?
“E’
tardi, ormai. Ritorno a casa”, gli annunciò
Marina, annuendo
incoraggiante col capo.
“Va
bene. S-ciavo, patrona”, giocò al gnorri il Miani,
cogliendo
al volo l’allusione e si schiaffeggiò mentalmente
per la sua smemoratezza.
Infatti,
non comprendendo il motivo per il quale il patrizio non
rispondesse al loro linguaggio in codice, la nobildonna
ripeté, confusa:
“Ritorno a casa.”
“D’accordo”,
fu altrettanto testardo Hironimo. “S-ciavo,
patrona.”
“Vado
a Ca’ Nani, non m’accompagnate?”,
tentò ella un approccio
allora più diretto.
Momolo,
che diamine stai facendo?
Lo
scombussolamento interiore aveva fatto dimenticare al patrizio,
che quando Marina gli avrebbe chiesto d’accompagnarla alla
casa materna, quello
sarebbe stato il segnale convenuto che gli garantiva libero accesso al
suo
letto, poiché sua madre madona Pellegrina Nani relicta
Morexini dormiva alla grossa
e pesantemente, coricandosi in aggiunta assai presto. La serva
personale di
Marina avrebbe poi vigilato accorta davanti alla porta e nessuno
avrebbe
sospettato di niente. Jacomo Corner non aveva inquisito eccessivamente
sul
perché la moglie avesse insistito tanto di dormire a
Ca’ Nani, credendola
semplicemente attaccatissima alla genitrice. Era il piano perfetto.
Momolo,
che diamine stai facendo?
“Marina
…”, s’inumidì Hironimo le
labbra d’un tratto divenute
secche, scandagliando le varie opzioni per meglio intavolare quella
spinosissima conversazione. “Marina, forse è
meglio se rincasate da sola
stasera.”
“Oh”,
schioccò delusa la giovane donna la lingua, imporporandosi
lievemente le guance. “Avete … avete da fare? Sta
bene, un’altra volta …”,
mormorò, tormentando a disagio la lucente stoffa rossa della
gonna.
“No,
Marina. Dovrete rincasare sempre da sola e non a Ca’ Nani
bensì a Ca’ Corner”, tagliò
corto il patrizio, il cui gelido tono di definitiva
chiusura istigò un feroce sussulto in Marina, che si
portò di riflesso una mano
al collo, stringendo la collana di perle.
“Ma
… ma voi … ma noi …”,
balbettò scombussolata, il colore
svanitole dalle guance per poi riaffiorare e stavolta d’ira e
vergogna per
quell’improvviso voltafaccia. “Pensavo che
m’amaste!”, lo accusò infine, il
viso distorto in una maschera d’angoscia e stizza ed Hironimo
rivisse quella
sgradevole sensazione di déjà vu, ai tempi del
convento, quando la Morexini e
lui amoreggiavano a parole e bigliettini, colpevolizzandolo lei di non
provare
alcun sentimento onde ricattarlo con comodo, ogni suo desiderio
esaudito.
All’epoca, però, stavano giocando e inoltre
c’era una pesante grata di ferro a
separarli; adesso, invece, soltanto l’anellino
d’oro all’anulare di Marina, che
senza una granitica volontà da parte di ambedue non poteva
di certo fermarli.
“Pensavo
che aveste finalmente capito … io … io vi ho
aspettato
dopo quel giorno, vi ho atteso per anni nella speranza che voi mi
chiedeste in
moglie, che mi rapiste durante il banchetto nuziale … Dio mi
perdoni! … Perché
mi avete fatto credere d’amarmi ancora, se non è
così?”, singhiozzò Marina,
coprendosi disperata il volto tra le mani, artigliando i capelli dalla
cuffietta, spettinandosi. “V’amo e mi sono
fidata!”
Momolo,
che diamine stai facendo?
E
va bene, giochiamo al cattivo.
“Svegliatevi,
Marina! Svegliatevi! Sono i finiti i tempi dei
giochi, delle dame e dei cavalieri, svegliatevi e benvenuta nella
realtà!”,
ingoiò Hironimo ogni minuscola parte di pietà in
lui, sopprimendola dietro una
maschera d’inflessibile cinismo. Chiunque in famiglia lo
considerava un
egoista, un violento litigioso approfittatore, benissimo, poteva
recitare quel
ruolo, se significava districare lui e Marina da una situazione
destinata a
finire per ambedue nella pubblica vergogna. Non gl’importava
della virtù,
quella non esisteva e se esisteva l’aveva da tempo perduta.
Ci teneva invece ad
evitare l’infamia ch’avrebbe gettato su
Ca’ Miani, una prospettiva che non
valeva neanche mille vendette contro Jacomo Corner. Padre aveva
faticato e sofferto
per restaurare il loro nome, compromesso da Nonno e Bisnonno, ed
Hironimo non
avrebbe vanificato stoltamente i suoi sforzi. Ben venissero i vizi,
purché
rimanessero privati e segreti. E i Corner, così ricchi ed
influenti, erano
figure più pubbliche di una meretrice.
“Volevate
che vi sposassi? E come?”, la sbeffeggiò Hironimo,
avanzando minaccioso verso di lei. “Voi eravate una ricca
ereditiera, figlia
unica di un’antica famiglia apostolica, bisnipote del Doxe
Agustin Barbarigo,
ed io? Ultimogenito di una famiglia di Ca’ Nove, il figlio
del suicida, senza
alcun incarico né posizione, credevate davvero che vostra
madre avrebbe
accettato il nostro matrimonio? I soldi sposano i soldi!”,
ringhiò a denti
stretti, costringendo la giovane donna ad indietreggiare, spaventata da
quell’atteggiamento subitaneamente aggressivo, a lei nuovo e
sconosciuto.
“Se
avessimo giaciuto insieme, vostra madre m’avrebbe accusato di
stupro e fatto condannare alle Orbe o all’esilio, magari
perfino a morte se si
fosse messa a piangere abbastanza forte dinanzi alla Quarantia! Se ci
fossimo
sposati in segreto, c’avrebbe atteso analogo destino
più il dettaglio che vostra
madre avrebbe richiesto al tribunale del Patriarca
l’annullamento delle nozze.
Pur di preservare voi ed il vostro brillante futuro, vostra madre
avrebbe
trascinato me e la mia famiglia nella rovina!”, le
rivelò inclemente, aspirando
feroce l’aria. Dopodiché, calmatosi un poco,
s’allontanò da Marina,
acquattatasi nel frattanto contro il muro del giardinetto.
“Inoltre”,
infierì Hironimo, soppesando bene le parole e
scegliendo le più insolenti, “perché
mai avrebbe dovuto interessarmi una
sciocca ragazzina, viziata e infarcita di sogni e di chimere, al di
là dei suoi
danari e di una mona stretta e vergine da rompere?”
“Io
v’ho amato tanto”, mormorò frastornata
la giovane patrizia, le
gote rigate di lacrime e il labbro inferiore che le tremava
violentemente.
“Ed
io no”, l’infilzò senza misericordia
Hironimo, il viso più
duro del marmo. “Non v’ho mai amato, né
allora né adesso. Eravate un divertente
intermezzo per spezzare la monotonia, ecco tutto” e
sogghignò cinico. “E
naturalmente non potevo non sentirmi assai lusingato, nel vedermi da
voi
preferito rispetto a vostro marito. L’ho sempre saputo, che
il Corner non fosse
altro che un pene-moscio, se neppure a due anni dalle nozze la sua
sposina già
si premura di cornificarlo per bene!”
“Quel
giorno però … io v’ho visto, eravate
davvero preso!”, gli
mostrò i denti Marina, incapace di rassegnarsi alla perdita
di quel dolce
idillio amoroso, che l’aveva consolata dalla solitudine
immensa della sua
adolescenza, trattata costantemente alla stregua d’un
prezioso gioiello,
sì, ma da rinchiudere in cassaforte.
“Non potete mentirmi, voi avete
risposto alla mia passione con altrettanta passione!”, gli
ricordò malevola. “Potete
mentirmi a parole, ma la vostra faccia affermava la verità:
vi è piaciuto, mi
desideravate e m’avreste posseduta, se non ci fosse stata
quella grata a
separarci!”
Hironimo
s’esibì in una risata crudele, tormentandola.
“Donca?”,
la canzonò falsamente pietoso. “Sul serio pensate
che ad uomo basti l’amore,
per rispondere al richiamo di una femmina in calore?”,
scivolò appositamente
nel triviale, onde imbarazzare le raffinate orecchie della gentildonna,
che di
fatti trasalì vereconda. “Eravate un gran bel toco
de mona, ingenua e disponibile
e sì, m’avete eccitato, lo ammetto”,
mormorò sornione, asciugandole una lacrima
col dorso dell’indice e stavolta, al posto
d’assecondare languida il movimento,
Marina si ritrasse disgustata da quel tocco, neanche
l’avessero ustionato la guancia.
“Ma credetemi se vi confido, che come avrei fottuto il vostro
buco, avrei
fottuto tranquillamente quello di una qualsiasi puttana di campo e
manco mi
sarei accorto della differenza!”
Un sonoro
ceffone, tutto palmo ed unghie, gli martoriò la guancia.
E per la regola di porgere l’altra, puntualmente ne
arrivò un secondo.
“Miserabile! Viscida serpe! Porco schifoso!”, lo
insultò furibonda la giovane
donna, colpendolo al viso, al petto, all’addome, Hironimo che
si difendeva
svogliatamente, alzando di tanto in tanto il braccio per deviare gli
strali
dell’umiliata ed offesa nobildonna. “Meritereste
mille forche, mille tenaglie!
Hanno ragione su di voi: siete una carogna, una troia, un senzadio, un
barbaro,
un giannizzero, una creatura del diavolo! V’auguro di morire
in battaglia, di
soffrire peggio d’un cane!”, lo tempestava di
pugni, alternandoli ai
singhiozzi. “Spero che i franco-imperiali
v’impicchino, vi squartino, vi sbudellino,
vi cavino gli occhi, che vi brucino vivo ed ogni tortura che vi
meritate!” e in
un ultimo sconquassante singulto, Marina lo spintonò via,
per poi accasciarsi
sfinita sulla panchina. “Vorrei non avervi mai incontrato!
Vorrei che quel
giorno avessero trovato voi impiccato e non il vostro sior Pare! Vorrei
… che non
foste mai nato!”
Bene,
Hironimo aveva ottenuto esattamente ciò che voleva: tanto
lei l’aveva amato intensamente, tanto ora lo odiava
d’altrettanta passione.
Forse i suoi amici e compagni non avevano torto, quando affermavano
quanto
fosse nato sfortunato. Era vero. Nessun suo desiderio né
progetto s’era mai
avverato, per quanto egli lottasse tenacemente. Anch’egli,
per un brevissimo
istante lungo un sogno, s’era illuso di poter sposare Marina
e di creare una
famiglia con lei, medesimo errore ch’aveva poi ripetuto con
la sua domina e
amante.
Per
questo Hironimo non temeva d’esporsi in prima fila al fuoco
nemico; in fin dei conti, non aveva nessuno da cui ritornare a casa,
non aveva
niente da perdere, perché la sua vita era stata un unico,
grande niente. Eh sì,
Ca’ Miani avrebbe subito una perdita minore, se fosse morto
lui al posto di
Padre, che decisamente non era una barzelletta vivente come il figlio.
Se la
sua esistenza doveva riassumersi in una serie infinita di fallimenti e
speranze
infrante, forse sarebbe stato meglio non essere mai nato o morire in
fasce come
la piccola Emilia, quella sua sorellina volata in Cielo felice e ignara
della
penosa esistenza destinatale in terra.
“Tornate
da vostro marito”, le suggerì atono Hironimo,
scostando
il volto in direzione opposta onde celarle le sue, di lacrime.
“Corner sarà uno
smargiasso arrogante, però vi vuole bene. Siategli tenera e
fedele,
rallegratelo di bei fantolini e godetevi quella poca
felicità concessaci in
questa vita.”
Adesso
Marina piangeva e si disperava, giustamente; in seguito
avrebbe dimenticato il suo amore per lui, le sue illusioni, la
vergogna, la
delusione e l’umiliazione del rifiuto. Ciascuno di questo
sentimento le sarebbe
scivolato via di dosso, poiché tutto passa, tutto scorre e
finisce
nell’indifferenza dell’oblio.
“Bestia!
Me la ripaghi tu, quella camicia?”
Ad
Hironimo era sfuggita la dinamica esatta, mediante la quale dal
giardino interno di Ca’ Querini s’era trasferito
sul morbido letto di Luzia
Trivixan, così come la sua insolita irruenza e mancanza di
autocontrollo nei
confronti di una donna.
La voglia
disperata di conforto fisico e al contempo di un tramite
per sfogare la rabbia montante l’aveva condotto in uno stato
pressoché
sonnambolico dalla cantante, irrompendo in casa sua e gettandosi su di
lei alla
stregua d’un assetato nel deserto. L’aveva
pizzicata in camicia, pronta per il
suo rilassante bagno tardo-pomeridiano, e gliel’aveva
strappata di dosso, sotto
lo sguardo terrorizzato delle fantesche. “Aspettatemi
fuori, ho tutto
sotto controllo.” Invero la
donna a quell’impetuoso slancio
s’era adattata in fretta, flessibile e versatile, rispondendo
misura per
misura, in un misto d’abbracci vigorosi e di lotta libera,
graffiandolo e
mordendolo a sangue quanto lui la stringeva fin quasi a spaccarle le
ossa,
possedendola senza finezza alcuna.
Luzia gli
assecondò i movimenti a scatti, collerici, prepotenti
finché, approfittando di un attimo di distrazione,
cambiò ella il ritmo,
costringendo il patrizio seduto e sistemandosi meglio sulle sue cosce,
l’ampio
petto di lui contro la schiena delicata di lei. La donna gli
ghermì il braccio
sanguinante di strisce rosse e pulsanti e se lo passò alla
vita, intrecciando
le dita, per poi iniziare a muovere sinuosa i fianchi, stringendo e
allentando
i muscoli, portando lo scontro alla pari e allo spasimo
l’amante: voleva la
guerra? Avrebbe trovato il suo degno avversario! Famelico fu il bacio
che Luzia
rubò ad Hironimo: afferratogli una pingue ciocca di capelli,
lo costrinse in
una dolorosa torsione a piegarsi in avanti su di lei, in un battagliero
cozzare
di denti e lingue. Il patrizio si ribellò, stringendole
vendicativamente il
capezzolo sinistro e lei allora di rimando gli morse il lobo
dell’orecchio, lui
la spalla e lei gli piantò le unghie nel fianco.
I due
duellanti seguitarono a scontrarsi come onde furiose l’uno
contro l’altro per un tempo indefinito di tempo, nessuno
propenso a cedere in
quella furiosa lotta camuffata d’amplesso. Si guardavano
dritti negli occhi, le
pupille dilatate in selvaggia frenesia, sfidandosi a vicenda in un
silente
dialogo fatto di rabbia, disperazione, rammarico, lussuria, tenerezza,
d’insulti e carezze.
Quand’ecco
che, inaspettatamente, Hironimo socchiuse le palpebre e
la baciò profondamente, languido e placido, senza urgenza
né violenza. Da
dietro la schiena e sulle braccia, Luzia avvertì i nervosi
spasimi nei muscoli
del giovane, i medesimi di uno stallone imbizzarrito finalmente
calmatosi e
docile al suo cavaliere. All’aggressività di lui,
ella aveva replicato con
altrettanta aggressività; simile trattamento gli avrebbe
riservato ora che il
patrizio era passato ad una focosa dolcezza, massaggiando e coccolando
amoroso
la sua compagna.
“Uffa,
era davvero la mia preferita”, bofonchiò Luzia,
esaminando
la camiciola mezza stracciata. Fece spallucce.
“Vorrà dire che la utilizzerò per
spolverare i mobili.”
“Te
ne comprerò una nuova, te lo prometto”, si
puntellò sui gomiti
Hironimo, riprendendosi gradualmente dalle vertigini della petite mort.
“Ci
puoi scommettere le tue mutande, che a proposito dove le hai
gettate?”, sdrammatizzò la donna, alludendo ai
vestiti sparsi alla rinfusa sul
pavimento, sui cassoni e sulle careghe. Offrendogli la mano, la
Trivixan aiutò
il giovane a scendere dai sei materassi, conducendolo verso una bassa tinozza,
pregandolo d’entrare. “Uhm, per fortuna
è ancora bella calda … Anche se te la
meriteresti gelida per raffreddare quei tuoi bollenti spiriti, razza di
giannizzero …”
Intinta
la spugna in una seconda bacinella d’acqua calda e sapone,
Luzia la strizzò e in movimenti lenti e circolari la
passò sulla pelle sudata
di Hironimo, nettandola e profumandola, per poi risciacquare con la
brocca e
ripetere l’operazione. Iniziò con le braccia,
cospargendo di piccoli baci
picchiettati sulle ferite, placando gli impercettibili sobbalzi non
appena
l’acqua insaponata o la spugna veniva a contatto con la
tenera carne aperta.
Afferratogli una caviglia, se l’appoggiò sulla
coscia e prese a sfregargli lo
stinco e il ginocchio, fino a risalire all’interno coscia,
invitando il
patrizio a flettere la gamba e a schiuderla un poco. La donna si
sciolse in un
basso risolino alla vista d’Hironimo levare al soffitto gli
occhi, le orecchie
rosse quando la spugna gli inumidì, tamponando, le parti
intime.
“Se
ti vedessero coloro che ti davano della femminuccia”,
commentò
maliziosetta Luzia, disegnandovi sopra una rapida e serpentina S con la
punta
della lingua, fingendo poi un morso all’aria, provocando sia
un nervosa risata
nel giovane sia un inconscio balzo all’indietro.
“Sul
serio non vuoi che ti ripulisca? Non m’incomoda
affatto”,
s’offrì cavallerescamente Hironimo, la voce mezza
ovattata dal panno in cui la
cantante l’aveva avvolto, istruendolo poi di sedersi sullo
sgabello accanto al
caminetto. Aveva azzardato a darle del “tu” e gli
suonava alieno alla lingua,
non avvezzo a quell’intimità di registro neppure
con la sua antica e un tempo
adorata amante, la sua domina. Né mai aveva dato del
“tu” a Marina Morexini
Corner. Soltanto a Lena, ma per motivi di superiorità
sociale che d’affetto.
“Un’altra
volta”, declinò ambigua la Trivixan, aprendo la
porta e
battendo le mani chiamò le sue fantesche, rimaste fuori
pronte ai cenni della
padrona. In silenzio e ignorando completamente il patrizio, due di loro
disfarono e cambiarono veloci le lenzuola, mentre una terza portava
sulla testa
una nuova brocca d’acqua e una ciotola di fiori di lavanda
secca.
“Gnese”,
fece Luzia cenno ad una di quelle ch’aveva terminato di
preparare il letto. “Porta a missiere una camicia pulita da
notte e un
caffettano di velluto - quello indaco per favore.
Dopodiché vai dal
cuoco e riferiscigli di preparare una cena leggera per stasera, ma
domani
mattina vorrei al contrario una colazione abbandonate: missiere
cenerà e
dormirà meco. Infine, chiudi col catenaccio, ché
per oggi non m’aspetto né
accetto ulteriori visite.”
“A
ve servo, patrona”, s’inchinò la
massera, attivandosi subito a
compiere le istruzioni datele, portando seco anche la sua collega
rimasta
inattiva.
“Polina,
piglia quei tre miei profumi nuovi”, ordinò Luzia
alla terza
e all’ultima serva, dopo che questa aveva finito di cambiare
l’acqua e di
raccogliere gli abiti sparpagliati per terra. La ragazza
s’inchinò obbediente e
si diresse verso il mobiletto della toeletta, armeggiando abile coi
fragilissimi flaconi.
La
cantante s’insaponò per bene, massaggiandosi il
corpo in
sinuosi ancheggi e piegamenti, non lasciando nulla
all’immaginazione.
Lentamente si versò addosso la brocca, sospirando a voce
alta la soddisfazione
del caldo abbraccio dell’acqua, la quale scese rapida dalla
spalla lungo la
schiena, insinuandosi tra le fossette di Venere fino al sedere e da
lì
diramandosi in rivoletti sulle gambe e ricoprendola come di una seconda
pelle,
il corpo ancora sodo e formoso modellato da quella liquida
carezza. Pur di spalle, ella percepiva lo sguardo
insistente
d’Hironimo su di sé, il fruscio inquieto del panno
e, dallo scricchiolio dello
sgabello, del continuo suo accavallamento di gambe, cambiando
irrequieto
posizione.
Sorridendo
tra sé e sé vittoriosa, Luzia si voltò
verso Hironimo.
“Mi devo asciugare”, gli annunciò
solenne, allungando il braccio in direzione
del panno attorno alle spalle del patrizio, il quale
s’alzò e, all’ultimo,
avvolse entrambi, issandola fuori dalla tinozza.
L’accomodò sulle sue
ginocchia, seduti sullo sgabello pieghevole e riscaldandosi accanto
allo
scoppiettante fuoco nel caminetto.
Polina
s’avvicinò in punta dei piedi alla coppia, recando
seco su
di un vassoio delle piccole e pasciute ampolle di vetro di Murano dai
diversi
colori e forme.
“Dunque”,
esordì Luzia, cingendo il collo d’Hironimo con un
braccio e con una mano afferrando un’ampolla trasparente e
dalla polvere d’oro,
sulla quale s’avvinghiava un fragile roseto di vetro, i
petali vermigli e verdi
i gambi, le foglie, perfino il minuscolo dettaglio delle spine. La
cantante
levò il cappuccio finemente decorato e sfilò il
sottile tubo di vetro,
portandolo sotto le nari del patrizio, tacito invito ad annusare.
“Questa
fragranza è una miscela di rosa e lavanda con un pizzico di
gelsomino. Che ne
dici? Molto tradizionale eppure raffinato ed avvolgente.”
La
Trivixan chiuse e appoggiò il profumo. Selezionò
una seconda
boccetta, più alta e snella, rossa fuoco dalle spesse
spirali dorate e un
pampino d’uva in vetro fungeva da tappo. “Fiori
d’arancio, sandalo e mughetto …
ultimamente questo va piuttosto di moda …” e
infine gli propose l’ultimo
flacone, più basso e panciuto, blu scuro avvolto da una rete
di costellazioni
dorate e il tappo un sole e una luna fusi in un volto solo.
“Oppure un qualcosa
di più stimolante e intenso?”, aprì la
fiala, sprigionando un forte odore di
zenzero e legno di cedro.
Dopo
settimane trascorse al fronte, qualsiasi profumo sarebbe
risultato gradito ad Hironimo, purché gli scacciasse dal
naso il tanfo di
polvere da sparo, di sangue, di carne putrefatta o bruciata, di fango,
di fumo,
di sudore vecchio, di vomito e feci, odori nauseabondi che non riusciva
a
scacciare via neppure a distanza d’anni, neppure annusando
per ore e ore i
sacchetti di fiori secchi di lavanda provenienti da Spalato, come se
gli si
fossero insinuati nella pelle, nel cervello, nelle vene.
“Mi
piace lo zenzero … e il cedro”, sottrasse il
giovane uomo la
boccetta dalle mani della cantante. Levò dalla punta del
tubetto di vetro
l’eccesso di profumo, disegnando piccoli cerchi sul polso
sinistro e poi destro
di Luzia. Ripeté tale azione sul collo, in seguito dietro le
orecchie,
ammirando la cascata fiammeggiante di capelli rossi cozzare contro il
biancore
del panno. “Mi ricorda il mare irrequieto, le agili galee che
spezzano le sue
onde schiumose. I porti lontani di Tripoli, Beirut, di Acri, Tiro e
Sidone …
Carovane attraversanti deserti infuocati, le antiche rovine di Palmira
e di
Petra, sotto lo sguardo centenario dei tre colossi di Bamiyan
…”, [5] scorse la
punta del naso dal gomito di lei lungo la morbida spalla, inalando a
pieni
polmoni la fragranza pungente della spezia, ricercando sotto quello
più caldo e
avvolgente del legno di cedro. Dove annusava, poi accarezzava in lenti
baci
aperti, confondendosi quegli umidi schiocchi alla legna sul
fuoco. “Viaggiare lontano, via da
Veniexia, dall’Italia, dalla
guerra … l’universo la mia terra, la mia
volontà per legge … libero, libero
dalle catene …”
“Quali
catene?”
“Ogni
catena.”
Luzia
sollevò il panno, coprendo le spalle del patrizio, la cui
testa s’era accoccolata sul suo petto in pensosa
contemplazione delle ragnatele
d’acqua sulle finestre, create, distrutte e rimodellate
dall’acquazzone
scatenatosi qualche ora addietro.
“Va
bene così, Polina. Puoi ritirarti”,
congedò ella la sua
fantesca, la quale ripose i profumi nel mobiletto e scivolò
discreta fuori
dalla stanza. “Permettimi allora di portarti
lontano”, si scostò la Trivixan,
in modo da sedersi a cavalcioni su Hironimo. Strinse le caviglie alla
base
della schiena di lui e da lì partì, scorrendo le
unghie sui muscoli tesi e
guizzanti verso l’alto fino a raggiungergli le spalle. Coi
polpastrelli Luzia
percorse e massaggiò ogni curva del viso del giovane,
soffiando appena sulla
pelle ancora umida. “Anche se per qualche istante
…”, gli circondò lo zigomo
con la mano e congiunse le labbra alle sue, tirando delicatamente
quello
inferiore, “… permettimi di farti dimenticare
ciò che ti affligge …”,
mormorò
tra i piccoli morsetti lungo la gola, la giugulare fino al centro del
petto.
Ritornarono a baciarsi, lungamente e pigliandosi tutto il tempo del
mondo,
intrecciati in un tremulo groviglio di carne e tessuto.
L’odore
dello zenzero e del legno di cedro avviluppò
l’intera
camera, provocando una lieve ma gradita vertigine in Hironimo. Non era
stato
totalmente sincero quando aveva detto a Luzia, quanto gradisse alla
follia
quella spezia. Alla fine, avrebbe apprezzato un qualsiasi profumo, che
non
appartenesse a quelli già a lui noti.
Fiori
d’arancio … la sua previa amante, la sua domina,
sceglieva
sempre quella soave fragranza, quasi a sberleffo di quel matrimonio
tanto
desiderato e che avrebbe sì avuto luogo, ma non con lui
… Lavanda … Lena gli
sistemava dei sacchetti sotto il cuscino, per contrastare il tanfo di
polvere
da sparo e di fumo, tuttavia Hironimo sapeva quanto alla contadina
piacesse
sfregare quei fiori secchi tra le mani, le medesime che lo stringevano
la
notte, nelle lunghe ore dell’attesa … Mughetto
… sua cugina Maria si cospargeva
d’esso, evocando dolci immagini di fresca primavera
… Gelsomino … la pelle di
Marina e le sue lacrime sapevano d’esso … Rosa
… Madre eguagliava quel piccolo
roseto che cresceva nel pingue vaso su in altana, lei stessa una rosa
di
maggio, un profumo intenso e inebriante che Padre si divertiva ad
applicarle ai
polsi, sul collo e dietro le orecchie … e di rose di ogni
sfumatura profumava
sempre l’altare della Vergine, nella piccola cappella votiva
…
“Questo
pomeriggio …”, si risolse infine Hironimo a
confessare a
Luzia il suo cruccio interiore, che l’aveva portato ad
assediarle la casa. Un
improvviso lampo riempì di bianco la sala, scomparendo
furtivo per cedere il
passo al fragoroso tuono. Un piccolo tavolo ovale di pino, coperto da una
finissima
tovaglia, era stato posizionato accanto al caminetto, preferendo la
coppia
cenare nella coccola intimità della camera da letto. D’altronde i commensali
stessi vestivano molto informale, ambedue già in camicia da
notte e con indosso
soltanto un largo e comodo caffettano. Ogni tanto la tortorella ricordava, sbattendo stizzita le ali, la sua presenza nella gabbia argentata, mentre la luce arancio del fuoco, ravvivato, avvolgeva i drappi bergamaschi e bresciani, infondeva viva alle figure degli arazzi e donava brillantezza agli intricati intarsi dei cassoni dorati e degli scrigni. Una cornice di rara dolcezza, se Hironimo non fosse stato impestato di fiele. “Questo pomeriggio ho
spezzato il cuore
ad una donna.”
Staccando
col piron la polpa dalla conchiglia della cappasanta e
tociandola nel suo sughetto, la cantante arcuò il
sopracciglio, cedendo la
forchetta al giovane. “Soltanto ad una?”, lo
stuzzicò, riempiendogli il
bicchiere di vin bianco. Seduta in fondo alla stanza, Polina
strimpellava un
allegro motivetto al liuto, accompagnato da una canzoncina da convito.
Gnese
ondeggiava nell’aria il bruciaincensi di bronzo, prima
d’appoggiarlo, un po’
per scacciar via l’odore di pesce e un po’ per
scacciar via la malinconia.
“Mi
sono comportato esattamente come lei”,
sputò bile
il patrizio, addentando veemente la polpa e masticando in rapidi
bocconi.
Luzia, silente, gli sottrasse la forchetta e gli preparò
un’altra cappasanta.
“Prima m’ha nutrito d’illusioni e dopo me
le ha calpestate senza alcuna
pietà!”, si sfogò per la prima volta ad
alta voce. Accortosi improvvisamente
del soggetto di quel monologo e di chi lo stesse ascoltando, Hironimo
arrossì
imbarazzato. “La perdonança, io … non
è molto educato parlare di altre amanti
davanti … ecco …”
Mentre
una terza fantesca appoggiava il vassoio d’argento ricolmo
di mazzancolle e Gnese toglieva quello pieno di cappesante vuote, la
Trivixan
roteò il piron quasi sotto al naso del giovane, in giocoso
ammonimento. “E di
che ti dovresti scusare? Non immagini quante confidenze io abbia dovuto
ascoltare, quante infinite ed insulse lagne da parte dei miei
protettori ,
clienti ed amici sulle loro mogli e, ovviamente, sulle loro altre
amanti e
cortigiane. Ergo, ho le spalle larghe, io!”,
dichiarò allegra, sfilando la
polpa carnosa dei crostacei dalla loro corazza in poche precise mosse.
“Inoltre, credi che non me ne fossi all’epoca
accorta? Avevi gli occhi
brillanti d’amore e non per me”,
cinguettò, ponendo la codina di mazzancolla
sulle labbra del giovane, invitando a schiuderle.
“Nondimeno,
ho mancato ugualmente di tatto”, ribatté testardo
Hironimo, addentando un pezzo del crostaceo.
“Donca,
debbo a questa donna del mistero il tuo imprevisto arrivo?
La tua sfrenata irruenza?”, inquisì enfatica la
cantante, nettando col pollice
l’angolo della bocca del patrizio e suggendoselo birbante.
“Immaginavi lei
mentre ci congiungevamo? Oppure quest’altra infelice, cui hai
spezzato il
cuore?”, lo pungolò scherzosa, reclinando
all’indietro il capo ed infilandosi
in bocca una mazzancolla, dall’inizio fino alla fine della
codina in un unico
goloso boccone.
Il
giovane Miani aprì la bocca, per poi chiuderla,
mordicchiandosi
incerto il labbro inferiore. Alla fine si risolse di sorseggiare un
poco di
vino, sorridendo vezzoso a Luzia. “A dire il vero, ero
totalmente affascinato
dalle tue chiappotte alte e pastose!”, le rispose per le
rime, pigliando una
lunga sorsata senza ingoiarla. Si sporse in avanti per baciare la
donna,
schiudendole le labbra e spillandole dentro il vino,
dopodiché s’assaporarono a
vicenda il gusto fruttato sulle lingue.
“Oh,
sfacciato!”, lo rimproverò giocosa la Trivixan a
bacio
terminato, fustigandolo col fazzoletto. “Stai certo, che ti
farò pentire
stanotte!”, gli promise sensualmente minacciosa, infilando il
piedino tra le
pieghe del caffettano, in mezzo alle gambe del patrizio.
La
verità era che, dopo aver crudelmente rifiutato Marina,
Hironimo s’era sentito talmente soffocare da quel suo
atteggiamento da verme
infame, d’annaspare in disperata ricerca di un palliativo che
scacciasse
quell’orrida sensazione di viscido marciume, che simili alle
piaghe gli
incancrenivano l’animo, percependole quasi fisicamente
addosso. In quei
nauseabondi istanti aveva desiderato purgarsi di quel malessere e
ritrovare la
calma, nonché di bearsi del lenitivo contatto di pelle
contro pelle, scacciando
il calore di un abbraccio quella gelida morsa di vergogna di rimorso.
Dopo
essersi sentito sbattere in faccia per l’ennesima volta la
sua inutilità al
mondo, esigeva una qualsiasi prova tangibile ch’era voluto,
apprezzato e magari
a qualcuno necessario.
Luzia gli
prestava gentilmente ascolto, però anche quello
apparteneva ad un obbligo del suo previo mestiere: chissà
fino a che punto lei
l’ascoltasse sul serio o fingesse, fin dove
l’avrebbe capito senza giudicarlo
uno sciocco frignone.
Né
Hironimo le avrebbe potuto confessare, quella notte, che cosa
egli avesse sognato da costringerlo a svegliarsi di soprassalto,
urlando, la
mano corsa al collo. Ogni notte, dall’inizio della guerra, lo
perseguitava quel
medesimo angosciante incubo, nel quale, al posto di Padre,
l’impiccato era lui
e scendeva, scendeva, scendeva in basso, sotto il pavimento di Rialto,
sotto le
fondamenta, sottacqua, sotto il fondale e le viscere stesse della terra
…
Zefiro
spira e il bel tempo rimena,
Amor promette gaudio agli animali …
Hironimo
si svegliò non senza qualche difficoltà, la testa
pesante
e riempita di cotone eppure non aveva bevuto un granché la
sera precedente.
Ciononostante, la luce livida del mattino gli feriva gli occhi e i
capelli
sulla nuca gli s’erano rizzati, come per avvertirlo di una
situazione
d’imminente pericolo. Si guardò cauto attorno, non
riconoscendo dapprincipio l’ambiente
circostante, sovvenendosi grazie all’odore di zenzero ancora
nell’aria dei
come, quando e perché fosse finito a rotolare sul materasso
assieme a Luzia
Trivixan.
Si
scoprì non essere molto orgoglioso di se stesso.
A fatica
il giovane scese dal letto, liquidando in fretta le
abluzioni mattutine e relegando al barbiere la sua toeletta;
trovò i vestiti
ben piegati e pronti per l’uso, che subito
indossò, dirigendosi in seguito
verso la sala principale, attirato dal
profumo invitante della colazione.
…
Ognun vive contento, io me lamento
Ch’amor m’ha fatto albergo di tormento.
“Oh,
bondì a vossioria! Hai fatto la grassa mattinata, eh?
Almanco
ti sei divertito ieri sera?”
Hironimo
gelò sul posto, l’intera colonna vertebrale
percossa da
un unico gigantesco tremito. Gli si seccò
la saliva in gola e dalla
bocca uscì un mezzo verso di saluto; tuttavia non si
sottrasse all’incontro,
avanzò invece lentamente verso il tavolo al centro, laddove
sedeva Luzia
intenta a suonare e cantare una frottola del Tromboncino, mentre sier
Batista
Morexini suo zio sorseggiava imperturbabile una bevanda al limone e
zenzero.
“Siediti
e mangia: non farai mica come gli inglesi, che lasciano
raffreddare fino all’immangiabile il cibo prima di riempirsi
il piatto?”, gli
intimò spiccio l’uomo, addentando una frittella.
Suo
nipote prese meccanicamente posto sulla carega davanti a lui,
sedendosi in uno sgraziato tonfo e seguitando a contemplare il
“da Lisbona”
come ipnotizzato. Il giovane Miani tentò nuovamente di
comunicargli almeno che
non aveva fame, lo stomaco chiuso in una morsa dolorosa, ma ancora una
volta la
sua gola non produsse alcun suono, neanche avesse la lingua appiccicata
al
palato.
L’intero
scenario appariva totalmente assurdo e grottesco: il suo
barba lì quasi stravaccato dinanzi a sé, intento
a colazionare come se nulla
fosse, di tanto in tanto scambiando qualche parolina con la cantante,
anch’ella
serafica e imperscrutabile. Non lo ignoravano, però si
comportavano come se
tutto ciò fosse normale, condividere la medesima tavola
assieme all’amante
della donna con cui, la sera precedente, Hironimo aveva giaciuto
più volte.
“Come
facevate a sapere che mi trovavo qui?”, vinse infine il
giovane patrizio l’iniziale stordimento, ponendo
all’avunculus quella giusta
domanda, fonte di quell’inaspettata giravolta
d’eventi.
Al che
cadde la maschera d’atmosfera in apparenza rilassata e lo
sguardo del Morexini divenne improvvisamente gelido e sferzante,
sebbene il suo
sorriso rimanesse amabile e disinvolto. “Luzietta, dolcezza
mia, potreste per
cortesia lasciarci soli un attimo?”, fu il velato ordine
dietro quella cortese
domanda.
Coltolo
al volo, la Trivixan annuì e appoggiò
delicatamente il
liuto sulla gamba del tavolo. Al cenno di sier Batista ella lo
raggiunse:
l’uomo le baciò la mano, poi la guancia ed infine
la bocca, sempre fissando di
sbieco il nipote, che non abbassò mai il suo, ingoiando
silente il lampante
messaggio ossia che, giovane o non giovane, amato o meno amato, in
famiglia
l’alfa rimaneva lo zio, sotto la cui autorità, gli
piacesse o meno, Hironimo
doveva sottostare.
“Andateci
piano con lui”, sussurrò all’orecchio la
cantante
all’anziano patrizio, schioccandogli un secondo bacio. Il
Morexini bofonchiò di
rimando qualcosa d’inintelligibile, congedandola tramite un
terzo bacio. “Vi
prego di ritirarvi, patrona”, l’incalzò
teneramente, sottraendo dispettoso
dalla treccia una lunga ciocca rossa.
“Restate
servido, mio signor”, obbedì affettata la
donna.
E girandosi verso Hironimo: “Patron”,
s’inchinò e in un frusciante sgonnellare,
Luzia scivolò fuori dalla sala, chiudendo la porta dietro di
sé e un incomodo
silenzio s’impose tra i due uomini, i quali gareggiavano a
chi avrebbe
abbassato per primo gli occhi.
“Sappi
che mi hai deluso profondamente”, ruppe gli indugi sier
Batista, intrecciando le dita sul tavolo, svanita in lui ogni aria
sorniona o
sarcastica per sostituirsi ad una di duro e inappellabile pragmatismo,
la
medesima che indossava in Consiglio e in Collegio. Hironimo
capì non trovarsi
dinanzi a suo zio, bensì ad un giudice e un senatore della
Serenissima
Signoria.
“Sior
Barba, se si tratta della Luzietta …”
“La
tua povera siora Mare”, lo interruppe di malagrazia il
Morexini, mostrandogli ferino i denti, “è venuta
in lacrime a casa mia,
raccontandomi come ti abbia atteso per tutta la notte, in piedi,
insonne,
domandandosi dove tu fossi finito, che fine avessi fatto! Ti rendi
conto,
cancaro desgrassià, quale agitazione, quale immeritato
dispiacere le hai
arrecato? Come se mia sorella non avesse pianto abbastanza in vita sua,
ti ci
dovevi mettere di mezzo anche tu?!”, batté il
pugno sul tavolo, rovesciando
qualche bicchiere e facendo tintinnare piatti e posate.
“Perché ti sovverrai,
spero, di chi fu
l’ultimo che non rincasò più a
Ca’ Miani? O
debbo rinfrescarti la memoria, testa da bigoli, sul modo in
cui questi ritornò
dalla siora tua Mare?!”, ringhiò il “da
Lisbona” ed Hironimo strinse la bocca,
colpevole, memore delle tragiche circostanze della morte di Padre e
dell’ansia
che aveva provocato in Madre, ogniqualvolta i suoi figlioli uscivano la
sera e
rientravano nel cuore della notte, incapace la donna
d’addormentarsi fintanto
che non li sapeva al sicuro nei loro letti. Questo mentre ancora
vivevano a
Venezia, poi al fronte ...
Le guance
gli bruciarono dalla vergogna al pensiero di come avesse
egoisticamente pensato unicamente a se stesso, senza penarsi di mandare
qualcuno ad avvertire Madre, almeno per rifilarle una panzana che si
fermava a
cena da un amico o da Maria, la quale certamente gli avrebbe retto il
gioco.
Tanto s’era crogiolato nelle sue sofferenze, da non
accorgersi di come ne
stesse provocando a terzi.
“Ti
paiono cose da fare? Uh? Con la guerra in corso; con tuo
fratello Lucha storpiato d’un braccio; con te che non rivolgi
più la parola a Carlo
e Marco? La vuoi uccidere, quella povera donna di tua Mare? Non hai un
minimo
di rispetto ed empatia verso il tuo prossimo? E soprattutto verso la
siora tua
Mare, cui devi la medesima devozione che riservi alla Virgo Maria Mater
Dei?
Sempre che tu ne abbia, poi, bruciacristi pagano che non sei
altro!”
“Sior
Barba … io … ieri pomeriggio
…”, farfugliò Hironimo un
tentativo di spiegazione, perlomeno sul motivo per il quale non aveva
mandato
ad avvertire Madre, tanto l’aveva sconvolto da non ragionare
più lucidamente.
“Taci!
Chi t’ha dato il permesso di parlare?”, lo
zittì in un
secco gesto sier Batista. E puntandogli contro l’indice:
“Come se non bastasse,
hai messo in imbarazzo anche i Contarini “dai
Scrigni”, ché quando la tua siora
Mare si recò a San Trovaxo a domandare al Marcolin dei tuoi
vagabondaggi,
quegli per poco non si sentiva male, avendoti fermamente creduto
rincasato ed
in letto da che mo’! Quanto amore per una carogna ingrata
come te! E
sopraffatto dai sensi di colpa, quel povero ragazzo
- di gran lunga
più sensibile e responsabile di te! – non ha mai
lasciato sola per un istante
la tua siora Mare, accompagnandola ovunque e confortandola! Pensava
quell’infelice essere colpa sua, perché non
t’aveva sufficientemente tenuto
sott’occhio! Ma tu dimmi se a quasi venticinque anni, ti si
deve ancora far da
balia, porco … porco juda scariota maladet’elo et
quei cancari d’i soi
parenti!”, sbraitò furioso l’uomo,
stringendo convulsamente i pugni. “Se ti
abbiamo permesso d’arruolarti nei cavalleggeri, era con la
speranza che
t’inculcassero un po’ di disciplina, non che ti
trasformassero definitivamente
in un turco mammalucco!”
Hironimo
era abituato da anni ad ingerire insulti e rimproveri da
chicchessia, amici, parenti e serpenti, sicché neanche la
paternale del “da
Lisbona” l’avrebbe in teoria scosso, se questi non
avesse giocato subdolamente
la carta di Madre, scuotendolo così nel più
intimo, ognora vulnerabile quando
si tirava in ballo la genitrice e saperla ferita e tormentata per
l’ennesima
sua vigliaccata, equivalse al Miani ad una pugnalata al cuore. Quanto
al resto,
suo zio aveva ragione: per l’ennesima volta aveva dimostrato
una cecità
mostruosa, badando unicamente alle sue magagne e coinvolgendo chi non
se lo
meritava nei suoi casini, confermando le comuni dicerie sul suo
caratteraccio
ed indisciplina e sputtanando di conseguenza l’operato dei
suoi genitori, i
quali s’erano prodigati con ogni mezzo di fornirgli
un’educazione da cristiano.
La
piacevole serata trascorsa assieme a Luzia non era stata altro
se non un effimero palliativo, sufficiente per esorcizzare per qualche
oretta i
sensi di colpa e scacciare la realtà fuori dalla porta del
suo cervello. Ma,
similmente alla sbornia, il giorno dopo tutto ritornava e si pagava
cogli
interessi, poiché in nome della distrazione, di sicuro
qualche altro male s’era
nel frattanto combinato.
“Chi
vi ha detto ch’ero qui?”, mormorò
Hironimo, strappandosi via
nervosamente le cuticole da sotto il tavolo.
Sier
Batista grugnì malevolo, scoccandogli
un’occhiataccia di
sufficienza. “Appartengo al Consiglio dei Dieci, furbastro.
Sarei davvero un
pessimo membro, se non sapessi neppure ciò
ch’accade sotto il mio stesso tetto,
noi che abbiamo l’incarico di sapere cosa succede in ogni
angolo della
Signoria”, e finita di sorseggiare la bevanda, si
nettò gli angoli della bocca.
“Inoltre”,
proseguì egli, piegando accuratamente il fazzoletto,
“la mia Luzietta a suo modo s’è sempre
dimostrata leale e continua ad esserlo.
Anche in questo mi hai deluso, nezzo mio: tra voi due colombelle in
amore,
speravo che fossi tu quello a pigliar coraggio e a chiedermi da uomo a
uomo di
frequentare la Luzietta e non viceversa, com’è
invece accaduto. Sì”, reiterò il
Morexini, dinanzi all’espressione sconvolta del nipote,
“lei non mi ha mai
tenuto nascosto alcunché: pacta sunt
servanda, nezzo mio, con
Luzietta avevamo stilato un preciso accordo e lei ha diligentemente
adempiuto
ad ogni suo dovere. Adesso che siamo amanti
“informali” e il contratto è stato
rescisso, Luzietta, per rispetto, ugualmente continua a chiedermi il
permesso.
Se non è vera devozione, questa!”
Ironico
come le persone tra le più vituperate si fossero, invece,
rivelate tra le più
oneste. “L’avete detto, sior
Barba: lei non è
più vostra per contratto, può fare ciò
che più le aggrada”, non si trattenne
Hironimo dallo sfidare ugualmente sier Batista, ricordandogli che,
stando così
le cose, la sua parte di colpa rimaneva, certo, ma assai
ridimensionata. Sì,
avrebbe forse dovuto discuterne almeno con Luzia, per capire come
funzionasse
la faccenda esattamente tra lei e suo zio, invece d’imporsi
prepotentemente,
manco un cervo in calore. Su quel punto aveva senz’ombra di
dubbio sbagliato.
“Perché
non ti sei mai fatto avanti con me?”, volle invece sapere
il Morexini, scrutandolo attentissimo. “Suvvia, non insultare
la mia
intelligenza. Credevi sul serio, che prima o poi non me
n’accorgessi? Non sei
il primo né sarai l’ultimo ad aver desiderato la
donna altrui. Chiunque a
Veniexia, almeno una volta nella vita, o s’è
dovuto nascondere sotto il letto o
scappare fuori dalla finestra, per evitare di farsi beccare dal terzo
incomodo”, e in questa pratica sier Batista in
gioventù aveva posseduto abilità
al limite dell’acrobatico. “Tra criminali
ci si riconosce , ti
ricordi? Se m’è bastata una sola occhiata per
capire come Marchetto avesse
la ganza – lui ch’è molto più
scaltro e dissimulatore di te – figurati quanto
poco ci ho messo per pigliare te in
castagna!”
Incrociando
le braccia al petto, il giovane Miani replicò altero:
“Avete sbagliato carriera, sior Barba: intuitivo ed
infallibile come siete,
avreste dovuto farvi frate domenicano e inquisitore!”
“Non
mi provocare, putelo, ché ancora
non m’è del
tutto passata la voglia di sottoporti alla strappata!”,
replicò acido il “da
Lisbona”, non accennando ad un benché minimo
sorriso, ergo il prurito
d’appioppare qualche ceffone al nipote discolo gli era
rimasto eccome. “Da
ragazzo, questo te l’abbono, perlomeno avevi la buona creanza
di rispettare le
regole e di stare al tuo posto: ti giuro, mi hai positivamente
impressionato
vedendoti lottare contro la tentazione, ammirandoti per la tua forza di
volontà. Ora, al contrario … guarda: non so se
arrabbiarmi con te o compatirti
… Insomma, Momolo,
cos’è cambiato? Temevi forse che ti rifiutassi la
Luzia? E perché mai avrei dovuto? Anzi, ti avrei saputo in
buone mani, piuttosto
che nel letto di una qualche bagascia poco raccomandabile.”
Oggettivamente,
Hironimo non riusciva più a formulare un pensiero
coerente, la situazione completamente sfuggitagli di mano. Aveva
creduto aver
compreso l’animo della cantante e invece lei gli si era
concessa anche per via
di una crisi di mezz’età (da lui correttamente
azzeccata) ma soprattutto perché
aveva ottenuto la benedizione del suo amante. Il quale era sempre stato
al
corrente della verità, mettendolo sornionamente alla prova e
lui, il buffone di
casa, lo aveva magari divertito nel processo.
Ma
vaffanculo.
“Luzia,
sior Barba, era la mantenuta vostra e dei vostri amici. Io
ero l’estraneo e se non avessi fatto torto a voi, lo avrei
arrecato ai vostri
amici. Non vi volevo né biasimato né
ridicolizzato per la mia sgradita
intromissione”, gli spiegò infine il giovane
Miani, optando per la sincerità in
quella situazione assai confusa e ambigua. “Adesso che Luzia
è la vostra amante
e basta … tutt’ora vi appartiene, è voi
che lei sotto-sotto anela, anche se lo
nega apertamente. Avete visto come poc’anzi v’ha
obbedito?”, ammise il giovane
a malincuore, realizzando l’amara verità.
“In me lei vede soltanto un
sostituto, una versione più giovane di vossioria.
Poiché oramai la considerate
sempre di meno un’amante, Luzietta per sentirsi ancora utile
e desiderata ha
scelto me ed io l’ho scelta, perché se lei ha
accettato, concedetemelo, un
tanghero donnaiolo come voi, può ben sopportare uno come
me” e sfogatosi ben
bene Hironimo sospirò, pizzicandosi la radice del naso e
avvertendo una grossa
spossatezza.
Uno dei
benefici acquisiti dalla carriera politica, oltre al
prestigio sociale, era stata la pazienza d’ascoltare un
discorso fino alla fine
e di non scaldarsi mai, qualsiasi fosse stato il contenuto. Anche se
l’aveva
rimproverato a guisa di scolaretto e l’aveva sminuito
attraverso appellativi
infantili, sier Batista aveva udito in concentrato e rispettoso
silenzio le
giustificazioni del nipote, il quale sarà pur stato un
pirata saraceno, ma
quando si decideva a vuotare il sacco era disarmante nella sua
sincerità. In
aggiunta, possedeva i medesimi tic di Anzolo quando
quest’ultimo gli confidava
i suoi schietti pensieri, per quanto ostici e cupi essi fossero.
“Luzia
è la mia amante, sicuro, e neppure l’unica
s’è per quello,
sebbene io le sia molto affezionato”, dichiarò il
Morexini, addolcendo il tono
e servendosi di un bicchiere d’acqua. “Confiteor:
tra tutte è stata la mia
preferita, per questo ho redatto quel contratto in comune coi miei
amici, per
tenercela più stretta e sfruttare la sua ben nutrita rete di
conoscenze. Una
mano lava l’altra. Ti sorprenderà
l’ammontare d’informazioni, che le cortigiane
riescono a carpire e, non a caso, noi Dieci le consultiamo spesso, a
titolo
d’informatrici.”
“Ecco
perché vi siete raffreddato nei suoi confronti: quando
venite da lei è per discutere degli affari della Signoria,
non per …”, concluse
Hironimo, capendo infine come mai, per non compromettersi, ambedue
avevano
dovuto mantenere un certo distacco. E rabbrividì dinanzi al
freddo cinismo
dell’avunculus, lui che tanto appariva amorevole e caloroso,
ma che al comando
della Signoria non esitava a mettere da parte o a sfruttare
l’antica amante.
“Malgrado fosse la vostra preferita, malgrado
l’abbiate vincolata in un
contratto … non vi è mai importato saperla in
letto con qualcun altro, dopo che
aveva finito con voi? Anche adesso, non vi dà fastidio che
io …?”
“No”,
fu la lapidaria risposta del Morexini. “Perché
Luzietta
è una donna,
non la donna. Soltanto su di una
non transigo e si tratta della tua siora Amia, mia mojer. Lei
è mia e di nessun
altro. Il resto delle pollastrelle? Facciano quel che li pare, la cosa
mi è
totalmente indifferente. Se loro mi cornificano per dispetto, io lo
faccio
perché m’annoiano e così siamo alla
pari e amici come prima. La moglie è la
moglie e le altre un piacevole passatempo, senza impegni e senza
futuro. Detto
ciò”, terminò l’anziano
patrizio, passando al nipote il cesto ricolmo di
frittelle, “ora finisci di colazionare ed
assicurati d’inventarti una
scusa convincente per la tua siora Mare.”
“Non
siete mai stato geloso?”, non riusciva a capacitarsi Hironimo
di tanta flemma. O menefreghismo.
“Contrariamente
a te”, spezzò a metà sier Batista una
frittella,
“io non ho mai avuto problemi a condividere i miei giocattoli
tra fratelli e
amici.”
“Dunque
la Luzietta corrisponde a questo per voi? Ad un
giocattolo?”
“Tu
ti sei comportato forse meglio?”, gli inflisse lo zio il
colpo
di grazia e al giovane patrizio non rimase altra opzione, se non
incassare
docilmente e in silenzio. Per motivi diversi eppure uguali, tutti e due
avevano
sfruttato i favori offerti da Luzia Trivixan, nessuno cercandola per
amore
sincero.
“Ascoltami
bene, nezzo mio, perché non amo ripetermi”,
aggiunse
l’ultima chiosa sier Batista, riassumendo in parte la sua
previa
perentorietà. “Io sono sempre
stato di manica larga con
tutti, molto più liberale di certa gente
che sembra uscita da un
monastero ortodosso di frati eunuchi, flagellanti eremiti e stilobati.
Ma su di
una cosa non accetto compromessi: la fiducia. Mai più
- capito?
- mai più ti devi azzardare ad
agire alle mie spalle!”, ribadì
egli intransigente il concetto, picchiettando sul tavolo a ciascuna
parola. “Ti ho mai negato qualcosa? Ti ho
mai maltrattato? La
risposta è: mai, sior Barba.
Ergo, niente giustifica quel tuo
giocare al nascondino con me, visto che mai ti ho dato un valido motivo
per
temermi!”
Di nuovo
il Morexini aveva ragione: in molti si sarebbero leccati
le dita ad avere dei parenti così generosi e tolleranti. Al
posto di farne
tesoro, Hironimo s’era comportato da ingordo, pretendendo
sempre di più,
insaziabile. Realizzò che se da una parte mirava ad emulare
Padre, dall’altra
gli piaceva la vita gaudente dello zio, due figure però alla
fine troppo
inconciliabili tra di loro, destinante a fare a pugni.
“Non
tutti, sior Barba, ragionano come voi!”
“Da
uno a dieci, sai quanto me ne cale? Io sono me stesso e tu
oramai dovresti conoscermi assai bene!”
Appoggiando
i gomiti sul tavolo e nascondendosi sfinito il viso tra
le mani, il giovane Miani borbottò sincero: “Mi
dispiace, sior Barba. Avrei
dovuto dimostrarvi maggior rispetto e riconoscenza.”
“Fai
bene a dispiacerti, però non cambia ciò
ch’hai fatto”, s’alzò
in piedi l’anziano patrizio, sgranchendosi una gamba
intorpidita. “Non ti
chiederò d’indossare cilici o il digiuno di mona
per penitenza; mi basta che tu
mi sia leale e di fidarci a vicenda. In questi tempi tremendi di
guerra, pregni
del male italico di pugnalarsi alla schiena, l’unica nostra
speranza è rimanere
uniti e quisquiglie quali rivendicare il possesso di una donna,
lasciamole ai
perdigiorno. An, Luzietta!”, cambiò sier Batista
repentinamente tono, alla
timida comparsa della cantante, venuta a controllare che i due uomini
non si
fossero scannati l’un l’altro.
“Avverto
il vostro pope, che state per scendere?”
“Dopo,
mia cara, prima finiamo la colazione. Sedetevi piuttosto,
fateci compagnia”, la invitò il Morexini e Luzia
prese posto proprio in mezzo a
zio e nipote. Notando l’irrigidimento d’Hironimo,
che non sapeva dove guardare,
e un certo disagio anche nella donna, il “da
Lisbona” esclamò: “Non vi
preoccupate, Luzietta: il mio nezzo adesso sguazza nella confusione
dell’imbarazzo.
Ma imparerà a purgarsi d’inutili gelosie, per
focalizzarle dove invece
meritano.”
Perché
Hironimo si sorprendeva di quella loro noncuranza? Perché
provava una fitta di dispetto nel cuore? Sapeva chi fosse la Trivixan,
del suo
passato, dei suoi amanti, clienti e protettori. E allora
cos’era quella
sgradevole sensazione di soffocamento?
Forse
perché, per l’ennesima volta, gli era stato
sbattuto in
faccia, quanto lui non avrebbe mai primeggiato in alcunché?
Eppure
… supererai chiunque dei tuoi pari a
Venezia e
fuori d’essa. Il subitaneo ricordo della profezia
della gitana rincuorò il
giovane patrizio, il quale piegò la bocca in un sorriso
quasi sulfureo,
massacrando la povera frittella fino a ridurla in patetiche briciole
sul
piatto.
Adesso
pativa umiliazione dopo umiliazione, l’eterno secondo,
sottomesso e impotente dinanzi ai suoi maggiori. Ma poi, oh! Sarebbe
infine
giunta l’ora del riscatto ed egli avrebbe con la sua
brillantezza oscurato
tutti. La gitana, le stelle, il Fato gliel’avevano promesso:
un grande avvenire
l’attendeva, destinandolo a grandiose imprese ed egli
finalmente non sarebbe
mai più stato il solito Momolo da sbeffeggiare o compatire.
Esatto,
esatto, segui il tuo istinto e vedrai come t’eleverai
rispetto agli altri! Non dipenderai né risponderai mai
più a chicchessia;
finiti i giorni della cieca obbedienza! La tua volontà
sarà l’unica tua legge,
libero, libero di seguire il tuo glorioso destino, senza
imposizioni! -
gli sussurrò all’orecchie quella strana e
familiare vocina – Hanno
paura di te, del tuo potenziale, per questo ti frenano,
t’ostacolano! Sono loro
gli invidiosi e presto, oh sì, avrai tu la tua personale
Luzietta, rango,
danari, finalmente chi ti disprezzava imparerà a temerti.
Non sarebbe bello,
vederli adoranti ai tuoi piedi?
“Perché
sei ancora in tempo, sai?”
Completamente
paralizzato sul pavimento di quella mefitica cella
dell’Abbazia, incerto se stesse sognando o meno, Hironimo
tentò d’urlare
e di divincolarsi dalla presa di quel …
quell’essere dalla faccia
vagamente umana, sebbene sfigurato da zanne e i bulbi oculari
completamente
neri. Ma i suoi denti rimanevano caparbiamente serrati tra di loro e
nessun
muscolo gli obbediva, mentre la creatura, aggrappandosi alle sue
caviglie,
s’issava dalla nuda terra e s’arrampicava su di
lui, famelica e trionfante.
“Mi
ci sono voluti ben quindici anni …”, si
vantò, la lingua
biforcuta che vibrava nervosa a guisa di lucertola, creando lunghe
ombre sulla
faccia color del gesso da lebbroso e petecchiale del
sifilitico.“E adesso sono
così vicino da godermi il mio premio … scusami,
il nostro premio … Io so cosa
vuoi, cosa noi vogliamo … Basta che ti abbandoni a me
… Non vuoi che la
profezia s’avveri? Non desideri più quella gloria
che fin da ragazzino sognavi?
La vendetta? L’umiliazione dei tuoi nemici? Te la posso dare
e molto di più …
Ma tu, poi, mi devi ripagare …”, e quella bocca
storta si piegò in un sorriso
orribile, tutto zanne e saliva e nel suo buio si muovevano
convulsamente
strette delle figure indefinite, come i vermi in un cadavere.
Più
l’essere avanzava sul suo corpo e più perdeva le
sue sembianze
umane, reggendosi su braccia nodose dagli arti disgiunti e riattaccati
all’inverso, le dita aguzzi artigli picconanti la carne
indifesa del giovane
immobile sotto di sé. Il collo della
creatura si piegava
gradualmente all’interno della cassa toracica, aprendosi
nella pelle altri
occhi su cui Hironimo osservava il suo terrorizzato riflesso. Braccia
sottili
fuoriuscivano dal naso mancante, dalle orecchie e dagli angoli di
quelle fauci
vermiglie, quasi quell’essere fosse composto da altre
creature al suo interno.
Quasi … quasi s’alimentasse di loro …
Il
patrizio serrò le palpebre, percependo salati rivoli di
lacrime
bagnargli le tempie. Non voglio! … Non
voglio! … , ripeteva
ossessionatamente, imponendosi d’aprire quella maledetta
bocca serrata e di
gridare soccorso. A chi poi? Chi sarebbe mai accorso?
“Non
mi vuoi? Ma come? Mi parevi ben disposto in passato! Le mie
catene sono forti! Nessuno può spezzarle! Tu stesso le hai
mostrate pieno
d’orgoglio!”
E
Hironimo d’un tratto se le vide addosso, catene di spine che
gli
martoriavano il corpo, traendo sangue, stritolandolo pian pianino
… soffocava …
non … non … Premevano verso il basso, spingendolo
contro il pavimento, tirate
esse da sotto da mani invisibili … Mancava poco e forse la
terra sottostante si
sarebbe spaccata da tanta pressione ed egli sarebbe precipitato
giù,
perennemente prigioniero …
“Non
t’attende null’altro destino, se non questo.
Perché dunque
non goderne i vantaggi in terra?”, s’ingigantiva la
creatura, quasi si nutrisse
del terrore d’Hironimo e il suo peso, aggiunto alle catene,
pesava sul torace
del giovane fin quasi a spezzargli le ossa. “Sei un
peccatore, quale speranza
ti resta? Il perdono?”, lo canzonò, imitando la
vocina bonaria dei curati di
campagna. “Ma dove? Ma quando? Sei sporco e resterai sporco!
Marchiato! Non ti
si vuole più! Verrai giudicato, condannato ugualmente e
allora manda tutto alla
malora e divertiti! Non c’è perdono, non
c’è misericordia lassù per te! Nessuno
ti vuole, nessuno ti ama, nessuno ti verrà mai in soccorso,
nessuno ti
ascolterà, hai schifato tutti con le tue iniquità
e non hai alcuna via di
scampo! Tu. Sei. Mio.!” e rise talmente
forte, da scuotere
l’ambiente attorno a sé, provocando un generale
fuggi-fuggi dei topi, che
terminarono puntualmente nelle fauci della creatura in acuti e
terrorizzati
squittii, dilaniati da quelle figure all’interno
d’essa, sprizzando sangue e
budella, macchiando inesorabilmente Hironimo, il quale
realizzò essere quella
la sua inevitabile fine.
Quegli
occhi lo puntavano fiammeggianti, bramosi quanto la lingua
biforcuta che si nettava dalle labbra da pesce i rimasugli dei topi. La
creatura si sporse golosa in avanti e gli occupò
l’intera visuale, ogni angolo
invaso senza possibilità di distogliere altrove lo sguardo.
Ogni tanto delle
squame si sollevavano e compariva un bulbo oculare che roteava in cerca
di
chissacché, oppure lingue o braccia mulinanti
all’aria.
Non
poteva fuggire. Non poteva rifugiarsi nella pietà di
nessuno.
Era sempre stato solo, giudicato, abbandonato e … per cosa,
poi? A confronto di
certa gente, le sue erano quisquiglie d’infante!
“Giusto,
giusto …”, convenne la sibilante creatura,
ridacchiando
gutturalmente, accarezzandosi la molle pancia deforme, da cui
s’intravedevano
la sagoma di mani e facce premere su di essa, similmente ai calci di un
nascituro sul ventre materno. Ma quelle spinte erano spasimate,
grattando,
scavando alla ricerca di una via d’uscita, una qualsiasi via
d’uscita, anche a
costo di squarciare quella carne squamosa e al contempo pelosa.
“La colpa non è
tua … no, no, sono gli altri che ti hanno fatto sbagliare
… tu ti sei soltanto
difeso … era il tuo diritto! … ”,
cinguettò falsamente amorevole, allungando
quelle mani-artigli verso il cuore d’Hironimo, pronto
all’estrazione.
No.
“Che?”,
si bloccò l’arto a mezz’aria, mentre la
creatura reclinava
il capo, perplessa.
No.
La colpa è mia. Soltanto mia. Io ho fatto quelle scelte.
Potevo agire diversamente, ne avevo la libertà, ma ho
preferito agire
d’impulso, d’orgoglio, credendomi chissà
chi quando in realtà non sono niente.
“Bene,
bene, altre giustificazioni?”, si batté ilare
l’essere la
zampa sulla coscia tra il mammifero e il rettile. “E a chi,
sentiamo? Chi vuoi
che le ascolti? Uh? Chi? I tuoi fratelli? Bah, li hai sempre
osteggiati!” e
nell’aria la creatura creò figure di fumo
rassomiglianti Lucha, Carlo e Marco
che lo fissavano crudeli, impietosi, colmi di rancore.
“I
tuoi parenti? Peggio ancora, ad ogni occasione li fregavi alle
spalle!” e di nuovo quelle larve si stagliarono sinistre e
minacciose dal buio,
guardandolo senza pietà alcuna e anzi gli puntavano
accusatori il dito, gli
occhi bianchissimi privi di pupille e la bocca un’unica fila
di denti.
“Tua
madre?” ed Hironimo guaì agonizzante nel vedere
Madre tra
quei fantocci, severa ed inavvicinabile, gelida nel suo rifiuto. Fece
male,
male, male, gli bruciò fino in fondo all’anima.
Eppure, gli infuse per
contrappasso una piccola speranza: perché, tra le mille
incertezze della vita,
di una cosa egli era stato costantemente sicuro, ed era
l’amore incondizionato
di Madre nei suoi confronti.
“Dopo
quello che le hai fatto? Che se ne fa di un figlio ribelle,
disobbediente, che non le ha mai dato alcuna soddisfazione? Un figlio
che forse
sarebbe stato meglio se fosse nato morto?”
Le
insinuazioni della creatura cascavano però nel vuoto,
inascoltate. A parole ed opere Madre gli aveva dimostrato per anni il
suo
affetto, mai Hironimo n’era rimasto digiuno. E
nessun’illusione, nessun
manichino col suo volto avrebbe potuto ingannarlo
dell’incontrario. Sì, egli
era stato tutt’altro che un figlio modello, ma era amato,
Madre lo amava e
quindi quell’essere almeno su quel punto stava mentendo.
Hironimo
artigliò una manciata di terra.
“Oh,
se tu fossi morto senza battesimo, mi sarei
risparmiato un sacco di lavoro, non immagini quanto quelli
là ti
vogliano a tutti i costi … quanto continuassero a mettermi i
bastoni tra le
ruote …”
Quelli
là?
La
creatura s’irrigidì, il suo corpo deforme
scricchiolando come
l’eco di una frustata. “Nessuno si cura di
te”, ribadì minacciosa, accortasi di
quel lapsus. Si chinò nuovamente su Hironimo e gli
alitò bellicosa sopra uno
scirocco di zolfo e carne putrefatta. “Nessuno
t’ascolta …”
Stavolta
il giovane non temette di sostenere quegli occhi
infernali: la fiammella dell’amore di Madre gli aveva
ricordato un piccolo
stralcio di conversazione udito anni addietro, una promessa preziosa,
un
consiglio all’epoca ignorato, ma mai obliato. Lei
m’ascolta.
“Uh?”
Madre
me l’ha assicurato. Quando nessuno mi vuole ascoltare, Lei
m’ascolta.
Un altro
schiocco fece tremare la creatura, le cui squame
s’alzarono e fremettero irrequiete di paura e di rabbia,
roteando imbizzarriti
gli occhi e le lingue farfuglianti maledizioni.
“Menti!”, berciò, reclinando
quella faccia sfregiata dalla lebbra e malfrancese fin quasi a rotearla
da
spostare il mento aguzzo
all’insù. “Hai offeso
troppo quelli là, per
sperare nella loro
mercé. Figurarsi se ti prestano
pure orecchio!”
Sì,
io ho mentito e mi sono comportata da indegna carogna. Madre
però mai con me. E se Madre ha detto che Lei
m’ascolta, Lei m’ascolta.
Suo zio
lo aveva ammonito come la fiducia fosse l’unico scudo nei
momenti di periglio e adesso Hironimo nutriva l’assoluta
fiducia nelle parole
di Madre, nella disponibilità di Mater. Aveva dubitato di
tutto e di tutti, perfino
di Pater, lontano e distante, giudice inflessibile. Aveva temuto il suo
giogo,
in realtà lieve se paragonato alle catene che per anni
l’avevano stritolato
vigliaccamente sotto pretesa di libertà, aggiungendo egli
stesso di sua mano
ciascun anello, anno dopo anno.
Forse
sarebbe stato condannato, forse il giudice non gli avrebbe
riservato alcuna misericordia, però ogni imputato aveva il
diritto ad un
avvocato ed ora Hironimo nutriva un’assoluta fiducia in
Mater, nella sua
intercessione, per quanto poca cosa potesse offrire in cambio di
clemenza.
Ma aveva
fiducia, l’aveva.
“Che
ne sai tu? Che ne sa quella becera di tua madre? Sei un
ignorantaccio, un miscredente, un lurido peccatore, un … un
…”
Lei
m’ascolta.
“No,
ti sbagli!”
Lei
m’ascolta!
“No,
maledetto! Ti ho detto di no! Quella
… la mia rivale
non vanificherà i miei sforzi! … Non ti
avrà! Non ti avrà …!”,
tremava la
creatura da capo a piedi, contorcendosi in spasimi dolorosi al sol
guardare, al
punto che Hironimo avvertì quelle torture
auto-inflittesi sulla sua
medesima pelle.
Ciononostante,
tenne duro. Lei m’ascolta e tu …
tu starai
zitto! , si ribellò dopo anni di
acquiescenza a quella voce
tentatrice, a quell’io-assassino che l’aveva spinto
alle peggiori decisioni,
portandolo poi a giustificarsi tramite arzigogolati sillogismi e a
considerarsi
candido agnellino, vittima innocente. Tendendo i muscoli del collo,
storcendo
quelli della faccia e piegando le labbra, Hironimo simile ai fantolini
concentrò ogni sua energia nel rompere la barriera di denti
e finalmente
parlare con la sua vera voce, non quella dell’orgoglio o
della maschera a lungo
indossata.
“A
me zitto? A me zitto?!?”
“M-mmmm
…”
“Tu,
ingrato, tu dovresti invece ringraziarmi! Io ti ho reso ciò
che sei! Sei la mia creazione! E pertanto mi devi obbedienza!”
“Mmm-a-aa-
…”
“Potresti
essere grande, te lo giuro! Perché rivolgersi a quegli
inutili di lassù, eh? Sempre ad ostacolarti coi loro
moralismi, mai una parola
di conforto … Sempre lì in alto a giudicarti dal
quel bel trono d’oro! A farti
sentire perennemente in colpa! Io invece t’ho sempre
sostenuto, t’ho guidato e
t’offrirò molto di più, se
t’inginocchierai ad adorarmi! Non chiedo molto, mi
pare!”
“Maa-add-o-on
...”
“PERCHE’
DEVI NOMINARLA?!? Perché vuoi rovinare tutto?! Saresti
stato il mio trionfo contro quelli!
Non credere di liberati facilmente di me! Io non ti cedo! Non ti
cedo!”
“Ma
… don … na … Ma … donna
… Madonna!”
La
creatura cacciò fuori allora un urlo ingolato e al contempo
acutissimo, che neppure un esercito di unghie graffianti il vetro
avrebbero
potuto eguagliare in stridore; né il rimbombo del cannone
dal calibro più
grosso avrebbe trovato un facile paragone. L’essere
spalancò la bocca, gridò
assieme alle altre figure dentro d’esso, si
divincolò esagitato, coprendosi
stizzito e vergognoso il volto deforme e rimpicciolendosi
sprofondò nell’abisso
sottoterra.
Hironimo
spalancò gli occhi, ululando terrorizzato e annaspando in
cerca d’aria: si guardò forsennatamente attorno,
riconoscendo il buio
inflessibile della cella e il pavimento di nuda terra sulla quale
giaceva
supino. Avvertì il peso delle catene, ma la morsa del ferro
lo rincuorò,
conferendo un aspetto reale alla sua situazione e strappandolo dalla
tremenda
prigione onirica, in cui la sua mente sconvolta l’aveva
gettato.
Ma era
sul serio stata una visione? Un incubo? O l’aveva vissuto
per davvero?
Con calma
e tremando violentemente, il patrizio s’accarezzò
le braccia
e le gambe madide di sudore, scovando i polpastrelli le famigliari
ferite
inflittegli da Mercurio Bua e null’altro. Eppure, ancora
percepiva quegli
artigli sulla carne indifesa, l’alito umido e nauseabondo
della creatura, i
suoi occhi da mosca, la pelle marcia, le sue ora lusinghiere ora
minacciose
parole sibilargli alle orecchie.
Non
ti cedo! Non ti cedo!
Battendo
i denti dal nervosismo e dalla paura, Hironimo si portò
lentamente sul fianco dolorante, strisciando le gambe intorpidite
all’altezza
del petto, chiudendosi in posizione fetale. Un’enorme
stanchezza e la
disidratazione lo stavano gradualmente indebolendo, cullandolo verso un
sonno
profondo, cui però egli resisteva tenace, lo sguardo puntato
contro il buio.
Allucinazione
o sogno … quelle figure le vedeva distintamente, le
udiva bisbigliare, indicarlo, acquattate predatrici nelle tenebre, in
attesa
che lui abbassasse la guardia per balzargli addosso e trascinarlo nella
loro
tana.
Non
ti libererai tanto facilmente di me!
“Madonna
… Santa Maria Vergine … Oh, Madonna …
Oh, Madonna … Santa
Maria … Santa Maria …”, balbettava in
lacrime Hironimo, ogniqualvolta quei
puntini brillanti s’avvicinavano troppo a lui, circondandolo,
tendendo le loro
filiforme mani ossute. Vieni con noi! ,
parevano invitarlo,
acuendo invece il terrore che paralizzava l’inerme patrizio,
il quale per
impedire d’addormentarsi aveva preso a mordersi le mani e le
dita.
“Madonna
… Santa Madonna … Oh, Madonna
…” e puntualmente, come le
bestie notturne rifuggivano il fuoco, quelle larve antropomorfe si
rannicchiavano, retrocedevano, posticipavano l’assalto
all’udire quelle
singhiozzanti invocazioni.
Che
cos’erano? Spiriti? Demoni? O i ricordi delle sue passate
colpe?
Cosa
volevano da lui? Si trovava all’inferno? Nella sua tomba? Era
vivo? Era morto?
No! No!
No! Non era morto, non era ancora morto!
Dilaniato
da tali dubbi, Hironimo trascorse l’intera notte in
sì
angosciosa veglia, il nome della Madonna costantemente sulle sue
labbra,
l’ultimo appiglio per non affogare tra i flutti
dell’eterna disperazione.
Confesso,
confesso, confesso che …
…
peccavi per
superbiam in multa mea mala iniqua et
pessima cogitatione, locutione, pollutione,
sugestione, delectatione,
consensu, verbo et opere, in periurio, in
adulterio, in sacrilegio,
omicidio, furtu, falso testimonio, peccavi visu,
auditu, gustu, odoratu
et tactu, et moribus, vitiis meis malis …
Continua
…
**************************************************************************************************************
E dunque
un finale col botto – anche per le mie coronarie,
perché
quest’ultima scena in piena notte l’ho scritta e
giustamente al minimo rumore
sobbalzavo, infilandomi sotto le coperte.
Questa
versione del “Confiteor”, per quanto possa suonare
grammaticalmente discutibile, appartiene però al IX secolo,
quindi una tra le
più antiche, e mi piaceva come ha riassunto tutti, o quasi,
i dieci
comandamenti violati.
Abbiamo
ufficialmente terminato qui le digressioni del Nostro:
ancora pochi capitoli e arriveremo alla fine della seconda parte del
racconto. Ci saranno sicuro altre riflessioni, ma
veleggiamo verso
vicende più dinamiche.
Mi sono
divertita a scrivere questi “Confiteor”, pur
soffrendo per
il talora impietoso svisceramento dei personaggi, ma hé, il
le faut bien! D’altronde,
abbiamo parlato di trascorsi poco “onorevoli” e
quindi era inevitabile mostrare
i lati più turpi del protagonista e degli altri personaggi.
Ma li amo lo
stesso!
Piccolo angolo del pettegolezzo: Francesca Ordeaschi effettivamente fu l'amante di Agostino Chigi, quando questi si recò a Venezia nel 1511 e tanto lo ammaliò, che lui se la portò a Roma. Dopo ben cinque figli, nel 1519 i due si sposarono, la cerimonia celebrata dallo stesso papa Leone X. Chigi commissionerà a Raffaello Sanzio "Il trionfo di Galatea" e "Banchetto di Amore e Psiche" ed altri affreschi per il suo palazzo, onde celebrare l'evento. Purtroppo, Agostino morirà l'anno seguente e poco dopo la stessa Francesca lo seguirà, secondo alcuni avvelenata. Quindi sì, fortunata fino ad un certo punto XD
Quanto a Sebastiano del Piombo, andrà a Roma e si distinguerà come pittore e la sua "Dorotea" è stata identificata come il ritratto dell'Ordeaschi. Ed in effetti, ha la faccia un po' da furbetta. Come mai, poi, abbiamo detto che Chigi era libertino? Beh, suo amico fu niente di meno che Pietro Aretino e chi l'ha letto, conosce il suo pensiero sulle relazioni intime ...
In ogni
modo, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla
prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Sempre il nostro Sanudo riporta
(25.03.1509): In questo zorno fu fato le noze di sier
Jacomo Corner, di
sier Zorzi, cavalier, procurator, in la fia quondam sier Orsato
Morexini,
quondam sier Francesco, in cha’ Nanni a San Trovaxo; heriede,
dà di dotta
ducati ... e più, et era da tutti desiderata.
[2] Malgrado la flotta più veloce e adatta a
viaggiare direttamente sugli oceani, invece d’affidarsi alle
carovane, i
Portoghesi non riusciranno a capitalizzare le nuove rotte verso
l’India,
appunto per i problemi tecnici riportati nel capitolo. Nel 1550 ormai
il
monopolio del pepe era ritornato definitivamente a Venezia, grazie al
sostegno
degli Arabi che fornirono più spezie di quanto potessero
fare i viaggi di Vasco
de Gama. Fra’ Agostino d’Azevedo, nel suo rapporto
al re di Spagna Filippo II,
scrisse: “Il meglio delle Indie procede verso
Venezia.” Nel 1596, malgrado lo
sfruttamento delle Americhe, i commerci in Siria frutteranno alla
Serenissima
ben due milioni di ducati annuali, sbaragliando completamente la
concorrenza
portoghese, la cui sconfitta nei trasporti navali potrà
dirsi
completa.
[3] Celebre episodio biblico di #metoo alla
rovescia. La moglie di Putifarre, l’egiziano cui Giuseppe era
stato venduto dai
fratelli, s’era invaghita dell’avvenente ragazzo,
insidiandolo di continuo e
proponendogli di andare a letto con lei. Giuseppe, invece, non voleva
assolutamente far torto al suo padrone che tanta fiducia aveva riposto
in lui,
al punto da conferirgli in casa un’autorità
seconda soltanto alla sua. Umiliata
e stizzita dal secco rifiuto da parte del giovane, la donna, durante
una
colluttazione, afferrò la sopravveste di Giuseppe mentre
egli scappava via, che
usò per accusarlo davanti al marito di tentato stupro.
Ovviamente, Putifarre
credette alla moglie, facendo sbattere Giuseppe in carcere.
[4] Dal
matrimonio
di Marina Morosini in Marco Antonio Foscarini (1515) nascerà
Andrea Foscarini (1519-1590),
distintosi prevalentemente nell’ambito navale, sia come
capitano di galee che
come governatore nel
Collegio della
Milizia da mar, provvedendo alla formazione della ciurma e
all’armamento della
flotta.
[5]
tre colossi di Bamiyan = sono le
tre statue di Gautama Buddha, nella valle di Bamiyan nel centro
dell’Afghanistan, risalenti al VI – VIII secolo
d.C. Queste tre gigantesche
statue erano considerate la summa dell’arte buddista e gupta
dall’India, con
influenze degli imperi sasanide e bizantino e del
Tokharistan.
All’interno dei colossi c’erano delle stanze
affrescate. I tre Buddha vennero
distrutti nel marzo del 2001 dai talebani per ordine del mullah
Mohammed Omar
che li aveva dichiarati degli idoli. Dal 2002 sono incominciati e,
tuttora
proseguono con enormi difficoltà, i tentativi di costruzione
e di restauro,
soprattutto dopo la scoperta di un’altra statua nel 2008, di
un Buddha
dormiente.
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Capitolo 31 *** Capitolo Ventisettesimo: 25 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 17.12.2021
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Capitolo
Ventisettesimo
25
settembre 1511
“Dicono
che i migliori uomini sono impastati
di difetti, e per lo più divengono buoni per esser stati un
po’ cattivi”
(W.
Shakespeare “Misura per Misura”, Atto V,
I)
Seduto
sul balconcino di Ca’ Querini dei Conti di Stampalia ed
Amorgo, il consigliere ducale sier Batista Morexini “da
Lisbona” studiava a
guisa di gatto i grigi e arrabbiati cirri provenienti
dall’entroterra ed
avanzanti prepotenti in direzione della laguna. Anche quel giorno
avrebbe
diluviato.
Sua
figlia la contessa vedova madona Maria l’aveva invitato a
colazione a casa sua, assieme al fratello Carlo, per confermargli il
felice
esito della missione affidatale. Non che suo padre avesse nutrito alcun
dubbio
sulla sua scrupolosità e soprattutto sulle sue doti
persuasive – era pur sempre
degna figlia sua – ciononostante, aveva ascoltato piuttosto
soddisfatto quanto
l’altero sier Francesco Contarini “dai
Scrigni” fosse capitolato dinanzi alla
civettuola richiesta di Maria d’aggiungere, nella missiva al
suo contatto in
campo francese, quella piccola “ciancia” a prova
della fiducia assoluta, che la
Signoria nutriva nei suoi confronti. Un innocuo pettegolezzo che, se
ascoltato
dalle orecchie giuste, avrebbe creato una valanga di sospetti
impossibile da
arrestare, trasformandosi da una supposizione mista a bugia ad
un’inconfutabile
verità.
L’idea
era venuta al Minor Consiglio durante una seduta dei
Pregadi verta a discutere sui recenti dispacci da Padova,
nonché sulla
testimonianza di Zorzi Plam, un prigioniero rilasciato
dall’Imperatore e
ovviamente sulle lettere scritte dal Re di Francia in persona, il suo
regio
corriere intercettato e condotto a Venezia per essere esaminato.
Si era
scoperto che il destinatario di tale missiva era proprio il
maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, cui Louis XII confidava
i propri
timori e scetticismi sull’alleanza con l’Imperatore
Maximilian, il quale, a sua
detta, non stava facendo nulla per accelerare le operazioni militari,
interessato soltanto ai propri interessi, leggasi la conquista della
Patria del
Friuli e del Cadore, già preparandosi per
quest’ultima il comandante Wilhelm
von Roggendorf. Il Re di Francia, tuttavia, aveva aggiunto che soltanto
in nome
dell’onore e della sua fedeltà al patto della pur
(formalmente) estinta Lega,
egli spronava La Palice a porre una volta per tutte sotto assedio
Treviso ma,
allo stesso tempo, l’ammoniva che se detto assedio si fosse
protratto oltre
quattro giorni, il maresciallo allora era da lui scusato e poteva
ritirarsi in
Lombardia senza se e senza ma, e che il Re dei Romani se la vedesse da
solo.
Zorzi
Plam, dal canto suo, aveva riferito i seguenti fatti:
condotto davanti a Maximilian I. von Habsburg, questi gli aveva
rivelato la sua
intenzione di svernare in Cadore, una volta terminata la conquista del
Friuli; dopodiché, l’Imperatore
aveva aggiunto come avesse
intenzione di licenziare i francesi presenti sia dalla sua corte che
dalle sue
milizie, incominciando dal governatore di Cividal di Belluno Jean
D’Aubigny, e come
volesse far pace coi Veneziani, ma questo serbando naturalmente i
territori a
loro sottratti, sottolineando come l’inimicizia tra loro
sarebbe continuata in
eterno, finché Maximilian non avesse terminato la conquista
di quelle terre,
sue di diritto. Sicché, pigliato Zorzi Plam per la barba,
gli aveva intimato
feroce di rivelargli quanta gente ci fosse a Padova e in particolare a
Treviso
e poiché l’uomo in tutta onestà lo
ignorava, esagerò i numeri della guarnigione
trevigiana e il Re dei Romani, intimorito da tanta potenza, aveva
commentato
quanto la Signoria avesse dovuto ringraziare i suoi stradioti,
ché senza di
loro Maximilian già avrebbe vinto quella guerra.
A
Gradisca d’Isonzo, pur resistendo gagliardamente
all’assedio
postagli dagli imperiali, la peste stava flagellando inclemente la
città-fortezza e fra poco si sarebbe giunti alla scelta del
male minore, se
morire tra atroci tormenti o se arrendersi e vivere qualche giorno in
più.
Infine,
dispacci da sier Christofal Moro e sier Polo Capelo
avevano avvertito la Signoria di un probabile ricongiungimento tra
Federico
Gonzaga, stanziato a Verona, col parente Giovanni Gonzaga, invece a
Vicenza,
per poi congiungersi a Treviso all’esercito di La Palice e
lì incominciare
l’assedio, i Collegati ringalluzziti dai rapidi successi
dell’Imperatore in
Friuli e certi della prossima capitolazione della capitale della Marca,
ritenuta incapace di difendersi dinanzi ad un sì possente
esercito, formato da
veterani delle più aspre guerre d’Italia.
Treviso,
di nuovo tutto convergeva e si riassumeva in Treviso,
replicandosi le medesime condizioni dell’assedio di Padova ed
era interessante
notare come quella città da più d’un
secolo dimenticata dall’alta politica
italiana, d’un tratto fosse divenuta la più ambita
grazie al suo granitico
rifiuto di sottomettersi.
“Sior
Pare, credete che il piano funzionerà? In fin dei conti,
quelle messe in circolazione sono soltanto dicerie prive di ogni
fondamento …”,
azzardò Carlo ad esprimere quel suo dubbio al genitore,
verbalizzando
l’occhiata inquisitiva sul volto della sorella, la quale
condivideva uguali
pensieri.
Sier
Batista terminò il suo latte caldo con miele, acquavite e
cannella, cedendo la tazza di ceramica ad una fantesca. “Il
veleno, una volta
in corpo, non si può più espellere e poco a poco,
lento e inesorabile, lo
corrode dall’interno. Quel che ci serve, tuttavia,
è un ulteriore indebolimento
di detto organismo per migliorarne l’efficacia
…”
Al che il
giovane Morexini schioccò la lingua, comprendendo
d’un
tratto il ragionamento paterno. “Qualora Franza e Alemagna
dovessero fallire a
Trevixo, non perderebbero soltanto un assedio, ma anche la faccia e
ciò quegli
altezzosi dei Franzosi non riuscirebbe mai a sopportarlo. Dopo Napoli,
Millan,
Forlì, essere sconfitti da un’anonima
città senza né arte né parte come
Trevixo
equivarrebbe alla peggiore umiliazione, dimostrando come non siano poi
così
invincibili come credono. E appunto perché la loro protervia
li acceca”,
aggiunse con malevolo gusto, “che cercheranno un capro
espiatorio onde
giustificare la loro sconfitta e la troveranno
nell’Imperatore, ai loro occhi
inaffidabile e traditore. E il piano della Signoria è di
soffiare su questo
fuocherello, trasformandolo in un incendio.”
Suo padre
annuì gravemente. “La Marca
è una terra
strana: gaudente, bonacciona e in generale tollerante, ma se
punzecchiata la
sua gente diventa improvvisamente ribelle, agguerrita e sanguinaria al
limite
del barbarico. In più occasioni ce l’ha
dimostrato, come se provocata non
guardi più in faccia nessuno: pensate al loro vescovo,
domino Bernardo de'
Rossi, consegnato alla Signoria su di un piatto d'argento, felicissimi
di
saperlo al confino.”
Di tutte
le più importanti città venete, effettivamente
Treviso
era rimasta la più fedele all’antico spirito
comunardo e di fatti, tutte le
famiglie nobili ch’avevano tentato d’instaurare
nella Marca una signoria, nell’arco
di una generazione – vuoi per sommossa popolare, vuoi per una
guerra esterna –
erano state puntualmente deposte e il loro ricordo cancellato, anche
fisicamente come la demolizione dei loro palazzi signorili.
Sporgendosi
in avanti, Maria gli domandò allora sottovoce:
“Ciononostante, non comprendo: in questo cosa
c’entrano gli Sforza?”, perché
lei non aveva questionato alcun punto delle direttive paterne da
suggerire per
vie traverse al Contarini; nondimeno, questo non l’aveva
esonerata dal nutrire
qualche legittimo dubbio, sul perché riesumare
quell’ormai putrescente cadavere
di casato. “Non appartengono al passato? Quale peso possono
ancora avere?”
“In
tutto c’entrano, fia mia, e niente è impossibile,
finché
ancora respirano”, replicò sibillino il
consigliere ducale, appoggiando su due
dita la tempia e sorridendo sulfureo.
Durante
la lettura dei dispacci di sier Moro e sier Capello, nei
quali elencavano i comandanti al seguito di Federico Gonzaga, tra di
essi era
figurato il contino di Melzo, Galeazzo Sforza, figlio naturale del fu
Duca di
Milano, Galeazzo Maria e della sua amante Lucia Marliani.
Ciò aveva scatenato
una rapida serie di associazioni nella mente del “da
Lisbona”: Galeazzo Sforza
era nipote del fu Ludovico il Moro, i cui figli Ercole Massimiliano e
Francesco
si trovavano in esilio presso la corte dell’Imperatore, come
a suo tempo in
Alemagna s’erano rifugiati gli ultimi Scaligeri e Carraresi,
cui era stato
promesso supporto onde riconquistare lo Stato sottrattogli dalla
Serenissima.
Sier Batista aveva correlato gli eventi di allora a quelli attuali e li
aveva
piegati alla medesima logica, sostituendo gli Scaligeri e i Carraresi
cogli
Sforza e la Signoria con la Francia.
Era
rimasto piacevolmente sorpreso nel constatare, quanto i suoi
colleghi senatori avessero ragionato allo stesso modo e fossero
all’unisono
giunti a quella conclusione.
Francia e
Impero, che tanto avevano sfruttato lo spirito fazioso
dell’Italia per i loro interessi, a Dio piacendo sarebbero
caduti nel medesimo
errore e così sconfitti. Già la prima frattura
nella Lega, dopo il suo formale
scioglimento, l’avevano creata col Concilio di Pisa per
eleggere un Antipapa e
male avevano fatto a sottovalutare il sanguigno e volubile Giulio II,
che come
li aveva chiamati in Italia allo stesso modo poteva invocarne la
scacciata.
Alla Serenissima rimaneva il facile compito di
spingere la
misericordia più a fondo, allargando la sottile crepa fino
alla rottura
definitiva.
Annusando
a pieni polmoni l’aria pregna di quel sentore frizzante
annunciante il temporale, il Morexini ripensò
malinconicamente alle bonarie
accuse di suo cognato il fu sier Anzolo Miani, il quale lo tacciava
d’essere un
pessimo perdente, non disdegnando il “da Lisbona”
di barare sfacciatamente pur
di darla sui corni all’avversario. Dunque, perché
non convertire questo privato
vizio in pubblico benefizio? Impero, Francia, Spagna, Roma, Mantova,
Ferrara e
Ungheria avevano loro per primi giocato sporco, in tanti contro uno e
certissimi di una rapida vittoria, forti dei loro numeri.
Benissimo,
avrebbero invece assaggiato la loro medesima medicina.
Più
tardi, a discussione terminata e su direttiva del Senato,
Missier il Doge Lunardo Loredan aveva approvato d’inviare
missive a Roma, con
duplice istruzione ai cardinali domini Domenego Grimani, Marco Corner e
all’ambasciatore
sier Hironimo Donado “dalle Rose” di mettere il
Papa Giulio II alle strette
così come dovevano pressare Don Jéronimo Vich y
Valterra, oratore del Cattolico
e l’arcivescovo di York Christopher Bainbridge, ambasciatore
di Henry VIII
Tudor d’Inghilterra.
E sempre
a riguardo del regno d’oltremanica, si scrisse una
lettera a sier Andrea Badoer, ambasciatore a Londra, per ottenere una
risposta
definitiva dal giovane e impetuoso re, il quale, malgrado le
professioni
d’amicizia verso Louis XII, scalpitava di mettersi
militarmente alla prova.
Fattore non trascurabile rimaneva che gli inglesi ancora possedevano
Calais in
Normandia e che la regina d’Inghilterra, Catalina
d’Aragona, condivideva
sotto-sotto il medesimo astio che suo padre, Fernando II, nutriva nei
confronti
dell’acerrimo rivale francese. Ora che il Cattolico aveva
completato la
conquista dei porti pugliesi, nulla gli impediva di puntare alla
Navarra e i
rafforzamenti delle fortezze catalane nel Rossiglione confermavano le
sue
intenzioni bellicose verso il suo attuale alleato nella Lega. Se re
Fernando
avesse dichiarato guerra a re Louis, la sua fedelissima figlia avrebbe
onorato
il patto d’alleanza tra Spagna e Inghilterra e avrebbe
persuaso suo marito
Henry a sbarcare in contemporanea a Calais per un doppio attacco, gli
spagnoli
a sud-ovest e gli inglesi a nord-est.
Ultimo ma
non meno importante, furono le direttive a sier Alvixe
Arimondi, ambasciatore a Costantinopoli, onde tener impegnato il
Sultano, le
cui truppe scorazzanti ai confini ungheresi stavano creando notevoli
danni al
Re d’Ungheria, lasciando a Wladyslaw
Jagiellończyk l’onore di trarre
le sue conclusioni, quale fosse la sua priorità, se
sottrarre alla Serenissima
la Dalmazia o fronteggiare gli Ottomani alle porte di Buda. Stando poi
a sier
Piero Pasqualigo, oratore in Ungheria, il re Wladyslaw aveva inviato
già un
ambasciatore presso il Sultano per negoziare, ma, non tornando questi,
ne aveva
mandato un altro senza tuttavia alcun successo e dubitava fortemente in
un
aiuto dell’Imperatore e del Re di Francia, malgrado questi lo
spronassero nella
sua ostilità contro la Signoria, garantendogli il loro
soccorso per conquistare
la Dalmazia.
I
Collegati della Lega di Cambrai aveva voluto la guerra e guerra
avrebbero ottenuto, una guerra però totale, su tutti i
fronti.
Venezia
si sarebbe trasformata in una polveriera e avrebbe fatto
saltare in aria l’Europa intera, trascinando con
sé, se necessario, tutti i
suoi nemici nell’abisso.
***
Seguendo
l’eco delle campane cittadine annuncianti l’ora
tredicesima del mattino, Fra’ Anselmo si ritagliò
quei pochi istanti per una
preghiera personale davanti alla preziosissima reliquia della Santa Croce, nella cappella detta appunto di S. Croce
dell’Ospedale di
Santa Maria dei Battuti. Accanto a lui, in ginocchio, orava un cupo
Thomà,
indossante abiti a lui più confacenti e dalla zazzera bionda
accorciata,
avendogli tagliato madona Maria Malipiero Gradenigo, durante lo
disinfestazione
dei pidocchi, le ciocche più impicciate e impossibili da
pettinare.
Il
benedettino, anche per tener fede alla promessa, aveva tenuto
presso sé il fantolino, arruolandolo ad aiutare coi malati e
gli stradioti
feriti di ritorno dalle esplorazioni, nonché di rinsegnarli
qualche preghiera
in latino comprensibile o almanco in veneziano, in modo da distrarre il
fanciullo
dall’unico pensiero che lo tormentava.
Oramai,
ammise tra sé e sé Fra’ Anselmo, erano
trascorsi due
giorni dal loro rocambolesco arrivo a Treviso; come di dovere, il frate
aveva
conferito con il podestà sier Andrea Donado “dalle
Rose” e sier Zuam Paulo
Gradenigo, riferendo loro come all’Abbazia si morisse di fame
e che la mala
compagnia dei franco-imperiali l’aveva spronato a fuggire.
[1] Aveva aggiunto
come il ponte fosse in mano agli imperiali e che da Conegliano, Oderzo
e
Collalto arrivassero nuovi rifornimenti al campo nemico, che tuttavia
seguitava
a patire ogni stento, in primis la pestilenza che falciava soldati in
gran
numero. Il frate s’era offerto poi volontario
d’aiutare all’ospedale, giacché
si sentiva sia un poco indegno di rientrare presso i suoi confratelli a
Venezia
(avendo infatti infranto la Regola disobbedendo al suo Abate) sia
perché
percepiva come un dovere morale aiutare la sua gente, dopo aver curato
volente
o nolente il nemico. Madona Maria Malipiero Gradenigo, moglie del
Provveditore,
s’era rivelata una valente collega, decisa ed energica quanto
il consorte, la
quale aveva organizzato marzialmente l’ospedale, reclutando
chiunque avesse
buona volontà e soprattutto fosse rimasto senza un tetto
sopra cui stare. Al
che Fra’ Anselmo era riuscito a convincere alcuni suoi
confratelli più altri
monaci e monache, novizi, oblati e converse di altre congregazioni
rimasti
sfollati, invitandoli a dar una mano all’ospedale e
così formando una piccola
truppa efficiente. Nondimeno, si continuava a sollecitare la Signoria
d’inviare
medici e chirurghi in vista dell’assedio.
Sicché,
costantemente impegnato, Fra’ Anselmo talora perdeva di
vista Thomà, eppure sapeva benissimo dove il bambino si
recasse: tra gli
ammalati, i fuggitivi, alle porte cittadine, in cerca del suo padrone,
nella disperata
speranza di rincontrarlo. Ed era una pena vederlo tornare la sera
abbattuto e
fosco in viso, nonché udirlo singhiozzare silenziosamente la
notte.
Ora, il
benedettino per assurdo credeva fermamente nei miracoli,
tuttavia il suo lato razionale gli suggeriva che, dopo due giorni dalla
separazione, le possibilità che Hironimo Miani fosse stato
ricatturato
rimanevano assai alte e Dio soltanto sapeva a quale destino il suo
vendicativo
carceriere, Mercurio Bua, l’avesse sottoposto. Il monaco
poteva soltanto
pregare che il giovane ex-castellano seguitasse a vivere.
Dispersosi
nell’aria l’ultimo eco della campana, si
sostituì
quello acuto di una tromba. La testa di Thomà
guizzò d’istinto verso la sua
direzione, la fronte corrugata.
“Tranquillo:
è il cambio della guardia”, liquidò
Fra’ Anselmo la
questione, ritornando alle sue orazioni.
“No”,
lo contraddisse sorprendentemente Thomà, ponendosi in piedi.
“Xéa ciamada pel i stralioti a ussir di le mura:
qualched’on xé vegnuo vizin a
Trevixo et i van a controllar!”
Un
concitato scalpiccio di zoccoli sui sanpietrini confermò la
teoria del fanciullo: una compatta colonna di stradioti si
diramò, dal loro
quartiere generale a San Martino, lungo le vie della città,
uscendo da Porta
Altinia, Porta San Tomaso e Porta Santi Quaranta,
quest’ultimi ricongiungendosi
con la compagnia di Teodoro Paleologo, alloggiato
nell’omonimo monastero.
Segnatosi
in fretta, Fra’ Anselmo e Thomà uscirono dalla
porta
della cappella che dava sulla strada e il monaco rimase sinceramente
impressionato
dalla bravura del ragazzino, il quale da quasi un anno viveva tra i
soldati e
pertanto aveva imparato a distinguere ogni loro mezzo di comunicazione.
Infatti, era stato uno dei pochi a non essersi preoccupato quando il
provveditore Gradenigo, Renzo di Ceri e Vitello Vitelli avevano
ordinato una
serie di esercitazioni, appellando i soldati alle loro postazioni, come
se ci
fossero già i franco-imperiali sotto le mura. Li avevano
fatti indossare delle
fasce colorate al braccio e li avevano mescolati tra di loro nelle
varie
compagnie: in questo modo, tutti i soldati presenti a Treviso avevano
finito
per imparare le rispettive facce a memoria, impossibilitando la
presenza di
spie esterne o ogni possibilità di diserzione.
Nonostante
i solidi preparativi per l’assedio, tuttavia nella
città si respirava un’aria pesante, le notizie
dell’inarrestabile avanzata
tedesca nella Patria del Friuli esercitante un’ulteriore
pressione sui suoi
difensori, eppure la voglia di combattere aumentava esponenzialmente
all’avvicinarsi
dei Collegati.
“Fra’
Anselmo”, gli annunciò d’un tratto
Thomà una sua decisione a
lungo meditata, “mi vago coi bombardieri, a smissiar par eli
ea polvare da
sparo!”
La testa
del benedettino scattò incredula nella sua direzione.
“Matto!”, esclamò egli stupefatto.
“Quali scempiaggini vai blaterando? Non ci
troviamo mica a Quer, dove ogni creatura dotata di braccia e mani
serviva, no
sastu?”, lo rampognò severo, temendo che il
piccoletto si cacciasse in qualche
guaio nonché apprendesse il malcostume dei soldati.
“Adesso rientriamo, ché mi
devi aiutare coi malati ed i feriti!”
L’anziano
monaco s’apprestò a pigliare il fanciullo per il
braccio, sennonché questi gli scansò in uno
schiaffo la mano, portandosi al
centro della strada. “Mi no voggio ajudar ni
malai ni feridi! Mi voggio copar franzosi e todeschi! Mi
voggio spedirli
tuti a l’inferno, quei cancari di diaoli!”,
pestò Thomà il piede per terra,
testardissimo. “Li odio! Li odio tuti!”,
gridò, correndo via in direzione degli
squeri lesto come una lepre e il povero frate, rallentato dalla tonaca
e
dall’età, non riuscì né a
riacchiapparlo né a stargli dietro, perdendolo
facilmente.
Un
bambino di dieci anni non dovrebbe proferire tali parole, si dolse
Fra’ Anselmo, mentre cercava in affanno la nota testolina
bionda tra il
concitato viavai di soldati, guastatori, genieri e bastasi. In
che
razza di mondo stiamo scivolando, dove salvare una vita diviene meno
importante
di dare la morte?
Al porto,
intanto, un mogio e livido Marco Contarini “dai
Scrigni”
s’apprestava a salire sul burchio, che l’avrebbe
condotto a Venezia. Il suo
viso lungo appariva doppiamente affilato dalla magrezza derivatagli
dalla
malattia, nonché un sottile strato di sudore gli rendeva la
pelle pallidissima
quasi trasparente, arrossata dal vento sferzante post-temporale. I
cirri grigio
fumo tuttavia seguitavano a rimanere ben ancorati in cielo, coprendo il
sole, e
i vogatori avevano fretta di partire, anticipando di qualche ora il
secondo
acquazzone.
Il
ragazzo si stropicciò per l’ennesima volta gli
occhi arrossati
e brucianti, mentre l’altra mano si sorreggeva al braccio di
Marco Miani.
Dietro di loro, li seguivano silenziosi Nicolò Donado
“dalle Rose”, cugino del
Contarini ch’avrebbe viaggiato con lui, Donado Cimavin e
madona Helena Spandolin
Miani.
“Siete
sicuro, di non voler portar seco le vostre robe?”, gli
chiese il Miani per l’ennesima volta, alludendo al piccolo
cassone che il “dai
Scrigni” aveva lasciato a casa dei Cimavin.
Il
patrizio più giovane annuì stancamente.
“Ho viaggiato leggero e
quelle poche mie cose potrebbero servire al Momolo”,
aggiunse, alludendo ai
vestiti e anche alla sua armatura. A parte la casacca nera sciallata
sotto il
mantello e la bereta da lui indossate, il Contarini cedeva ben
volentieri quei
suoi averi all’amico fraterno, nella speranza che questi
fungessero da
portafortuna, velocizzando la sua liberazione. “E’
il solo modo di contribuire
che mi resta …”, mormorò amaro,
maledicendo la febbre che gli ammorbava il
corpo e lo rendeva inadatto a combattere. Fino all’ultimo
aveva resistito e
celato la sua malattia, purtroppo essa l’aveva sopraffatto al
punto da
stramazzarlo al suolo neanche un paio di giorni addietro, rivelando di
conseguenza il suo segreto. Marco allora aveva compreso che non poteva
più
restare a Treviso, sia perché un’inutile zavorra
sia perché avrebbe rischiato
di contagiare i suoi compagni, assottigliando le fila di uomini a
difesa della
città.
Sussisteva
un bene superiore alle sue egoistiche velleità di
gloria e onore.
Cacciando
via la malinconia alla menzione del fratello, Marco
Miani appoggiò la mano sulla spalla del “dai
Scrigni”, costringendolo a
guardarlo in faccia: “Nessuno vi sta biasimando. Avrete altre
occasioni e altri
modi per servire la Signoria”, lo consolò bonario,
fino a strappare nel ragazzo
un sorrisetto assai tirato. Si era trasferito da Padova per unirsi alle
truppe
a Treviso per poter ricongiungersi ad Hironimo,
ché il Contarini non
aveva mai dubitato di rivederlo libero. Con lui al suo fianco, egli non
temeva
nulla.
“Avrei
tanto voluto riabbracciarlo …”, mormorò
tra sé e sé il
ventiduenne patrizio, stringendo convulsamente i lembi del mantello.
“Cosa?”,
strabuzzò gli occhi il Miani, la fronte aggrottata.
“Dovessi
rimettermi prima dell’assedio, non dubitate che
ritornerò
a Trevixo”, dichiarò solenne Marco, accettando la
mano di suo cugino germano
Nicolò, salito nel frattanto sul burchio.
S’ingamberò un poco, le gambe
instabili, aggrappandosi saldo al parente.
“E
noi vi aspetteremo”, convenne Marco Miani.
“Tranquilla sia
l’onda e mite il vento. Fate buon viaggio”, gli
augurò di cuore, sporgendosi in
avanti abbastanza da stringere velocemente la mano tesa del Contarini.
“Se
avete occasione di passare da mia sorella, madona Chiara
Spandolin Trivixan, porgetele i nostri saluti e ditele, che sempre
preghiamo la
Despina Panaghia per la salute di suo marito”, si
raccomandò Helena,
preoccupata per la sorte del cognato sier Nicolò,
anch’egli ripartito ammalato
per Venezia.
“Non
mancherò”, le promise Marco. “Grazie
mille dell’ospitalità”,
disse poi a Donado Cimavin, il quale si portò una mano al
petto, chinando brevemente
il capo e confermando implicitamente l’ultima disposizione
del ragazzo, di
cedere i suoi averi ad Hironimo. La siora Felicita già si
trovava d’accordo di tenerli
da conto, l’intera casa convinta di riabbracciare presto
l’ex-castellano di
Quero e orando incessantemente per lui.
Si
levarono gli ormeggi, mentre il pope gridava secchi ordini agli
sbuffanti rematori e il provier determinava la cadenza della vogata,
girandosi
pigramente il burchio, cullato dalla duplice corrente del Sile e del
Cagnan. Le
pale dei remi sferzavano e sollevavano sopra e sotto la superficie
verde scuro
in un continuo fruscio d’acqua, accompagnato dalle
esclamazioni d’incitamento
dei vogatori e l’imbarcazione, raddrizzatasi,
acquisì propulsione e imboccò la
giusta direzione per il suo lungo tragitto fino alla laguna.
Lentamente, il
molo e le mura circostanti si rimpicciolirono, così come
Marco Miani, sua
moglie Helena e Donado Cimavin si trasformarono in piavoletti, le
braccia
mulinanti in alto a mo’ di saluto, l’unico tratto
distinguibile della loro
identità.
Marco
Contarini abbandonò in fretta la poppa, portandosi verso
prua, incurante del vento più forte e una volta
lì sollevò discreto un lembo
del suo mantello, acciocché né il cugino
Nicolò né il provier e la sentina
potessero scorgervi le amare lacrime di delusione mescolarsi a quelle
provocategli dalla malattia. Una piccola vertigine gli
scombussolò l’equilibrio
e fortunatamente il suo germano lo pigliò in tempio, ante
che cascasse in
acqua.
“Su,
venite dentro”, lo condusse Nicolò per le spalle,
costringendo
il ragazzo a sedersi nell’accogliente ma affollato interno
del burchio.
“Vedrete che una volta a casa vostra, guarirete
prima!”, tentò di consolarlo.
Avvolgendosi
col mantello fin quasi all’orecchie, il “dai
Scrigni”
scrollò incurante le spalle, chiuse gli occhi e
s’affidò alle cure lenitive del
sonno, che lo strappassero per qualche ora dalle sue frustrazioni e dai
rimpianti.
“Parlava
come se il Momolo dovesse presentarsi a Trevixo da un
giorno all’altro”, commentò atono Marco
Miani, seguendo la sagoma scura e
sempre più indefinita del burchio allontanarsi e poi svanire
alla prima curva.
S’avvolse il mantello a mo’ di toga fin sulla gola,
rabbrividendo al contatto
dell’armatura raffreddata dal vento settembrino.
“Cosa sa ch’io invece
ignoro?”, si domandò, sottolineando il pronome
personale con malcelato livore,
imbevendolo di quella sottile e irrazionale gelosia che gli scattava
ogniqualvolta vedeva interagire il fratello col giovane Contarini,
sentendosi
infatti Marco spesso scalzato dal suo omonimo negli affetti del minore.
Lui
aveva visto crescere Hironimo, conosceva i suoi lati positivi quanto
quelli
negativi e ciononostante, il “dai Scrigni” sembrava
sempre essere a due passi
avanti di lui, quando si trattava di decifrare l’animo
dell’amico.
Frustrante
e fastidioso invero.
“Forse
Marcolin semplicemente nutre più fiducia in nostro
fratello, che riuscirà a trovare il modo di
scappare”, gli confidò Helena,
dirigendosi assieme al marito verso il suo cavallo, Aíthon.
Perfino Eòo, chissà
per quale capriccio nella sua testa equina, s’era rifiutato
di lasciarsi
cavalcare quella mattina, rimanendo testardo nelle stalle del Castello
e manco
per riposarsi o ruminare biada. Sicché Marco aveva dovuto
riprendersi il suo
destriero, nero e dalla muscolatura più possente rispetto
all’agile corsiero
bianco latte.
Il Miani
era giunto direttamente dal Castello, non appena il suo
turno di guardia era terminato, in modo da non perdersi la partenza del
Contarini e d’accertarsi che la moglie non
s’imbattesse in qualche birbo malnato:
non che dubitasse della scorta di Donado Cimavin, ma la prudenza non
era mai
troppa, considerato che l’ultima volta che la greca se
n’era andata in giro
senza di lui, per poco non si faceva accoppare da quei ladri dei
soldati del
Bataja.
“Sono
già trascorsi due giorni”, ribatté cupo
Marco, accarezzando
il muscoloso collo di Aíthon, che
fremette sotto il suo tocco. “Quel
monaco, Fra’ Anselmo, m’ha raccontato di come si
siano separati nel bosco del
Montelo. A quest’ora, anche se Momolo si fosse perso, i
nostri esploratori
l’avrebbero in qualche modo recuperato. Invece
…”, e il patrizio tacque,
mordendosi l’interno della guancia. “Se soltanto
Gradenigo m’avesse permesso
d’andare in ricognizione quel giorno …”
“Dobbiamo
soltanto attendere: vedrai che tornerà presto!”,
gli
pose Helena una mano sulla guancia ruvida d’un accenno di
barba. “Non è morto”,
reiterò inflessibile, guardandolo dritto negli occhi.
Digrignando
i denti, Marco sibilò allora: “Perché
dunque quelle
sue parole? Perché mi ha parlato come uno che sa per certo
di morire?”
“Hieronymos
voleva soltanto riconciliarsi con te. Ambedue eravate
in collera, non stavate ragionando e di sicuro nessuno di voi pensava
veramente, ciò che vi siete urlati contro.”
“Abbiamo
litigato a fine gennaio e per quasi due mesi l’ho
ignorato”, precisò aspro Marco, sordo ad ogni
tentativo della moglie
d’acquietare i sensi di colpa. “Neanche mi sono
presentato a salutarlo, quand’è
partito per Castel Novo di Quer. E in quei cinque mesi, invece di
tendergli una
mano, invece di consigliarlo e magari aiutarlo, l’ho lasciato
a sbrigarsela da
solo, malgrado stesse commettendo una grossa sciocchezza a litigare coi
soldati
e i locali, arrivando perfino a denunciarli ai Dieci!” Sapeva
che Hironimo non
s’era comportato così aggressivamente per
cattiveria, bensì perché Castelnuovo
di Quero era stato devastato dagli scontri degli ultimi due anni e ogni
giorno
contava più dell’oro per riedificare e potenziare
la fortezza. Solo, questa
priorità egli l’aveva comunicata nel peggiore dei
modi alla stremata e
intimorita popolazione di Quero, Alano e Vas, da lui brutalmente
precettata per
i lavori di ricostruzione. “Avrei dovuto intervenire,
portarlo a ragionare e
invece che ho fatto? Sono stato a guardare e a compiacermi delle sue
difficoltà.
Non io, bensì sier Zuam Dolfin e sier Nicolò
Balbi l’hanno aiutato.”
“Erano
i podestà di Feltre e Cividal di Belluno, ovvio
ch’erano i
più indicati. Márkos”, lo interruppe
decisa Helena, afferrandogli il volto con
ambedue le mani e costringendolo a fissarla ben bene,
“potremmo andare avanti
così per tutto il giorno. A che pro fustigarsi? Il tempo non
si riavvolge e,
come sostiene il tuo avunculus, il passato è il passato e
non possiamo
sottrarci al futuro. Non hai soccorso allora tuo fratello, lo farai
ora.
Hieronymos non t’ha chiesto perdono allora, te l’ha
chiesto adesso. I nostri
errori non ci soffocheranno mai, fintanto che possiamo porvi rimedio.
Ora
l’occasione è giunta e su di essa ti devi
focalizzare. La vita è troppo breve,
per rimpiangere e pontificare su ciò che non possiamo
più cambiare!”, dichiarò
energica.
Non
visto, protetti dai portici e dalle strette viuzze, Marco
l’abbracciò forte, affondando il viso sul morbido
incavo della sua spalla.
“Megaleío. I zoí mou
s’agapó”, mormorò piano e
affranto, abbandonandosi al
calore della dolcezza e comprensione d’Helena, delle quali,
lo ammetteva,
spesso si sentiva indegno per tutto il male fattole in passato. Non
meritava
d’avere una donna così al suo fianco, eppure Dio
misericordioso gli aveva
concesso una seconda possibilità. Avrebbe ripetuto il
miracolo, permettendogli
di porre rimedio ai suoi sbagli nei confronti del fratello minore?
“Forse
avresti dovuto partire assieme a Marcolin per Veniexia. Il
suo potrebbe oggi esser stato uno degli ultimi burchi a
partire”, confidò di
punto in bianco Marco ad Helena, rimanendo sempre avviluppato
nell’abbraccio di
lei. “Questo assedio potrebbe … ed io non
sopporterei il saperti …” e non
riuscì a definire a voce alta quei timori, che
l’assillavano all’appropinquarsi
delle truppe nemiche a Treviso. Di notte, infatti, l’ansia
della sconfitta gli
levava il sonno, presentandogli orridi scenari della città
fluviale invasa dai
Collegati, di massacri, di stupri, di devastazioni. Nello zenit di
questi
incubi, si vedeva raggiungere Helena e ucciderla di propria mano,
piuttosto di
saperla vergognata e schiava di quei cani stranieri.
“La
Parthena Maria è qui per aiutarci”,
ripeté ostinata la greca
le medesime parole pronunciate dai Trevigiani a difesa
dell’affresco
miracoloso, salvato in extremis dalla loro bellicosa devozione. Il suo
sguardo
fiducioso contagiò un poco il marito, dissipandone i foschi
dubbi. “Ti ricordi,
come ci protesse e ci garantì la vittoria due anni addietro
a Padova?”
Accidenti
se il Miani se lo ricordava. In quei giorni febbrili e
sanguinosi, una monaca si era presentata inaspettatamente a Palazzo
della
Ragione, chiedendo del provveditore sier Andrea Griti. Concessale
udienza, ella
gli aveva rivelato d’aver avuto una visione, nella quale la
Madonna, apparsale,
esortava d’inviare al suo santuario a Loreto un modellino
d’argento di Padova
del valore esatto di cento ducati, né più
né meno. Soltanto così la città
avrebbe trionfato contro i suoi nemici. Sier Griti – seguace
del
paradosso Credo quia absurdum –
non aveva né dubitato né
tentennato e di tasca propria aveva adempiuto a quel voto, informando
subito
Venezia del singolare accaduto. [2]
“L’anno
addietro – ti ricordi? – i Tedeschi avevano tentato
di
sfondare la porta della chiesa di San Lorenzo a Feltre –
là dove si trovava
quell’antica immagine della Parthena
Maria - per saccheggiarne gli
altari e uccidere quegli sfortunati, ch’ivi s’erano
rifugiati. E invece, né le
armi da fuoco sono riuscite a sfondare il portone né
l’incendio a bruciare la chiesa!”,
gli fece presente la greca, insistendo. “Sin
dall’inizio di questa guerra, la
Parthena Maria ci ha dimostrato che, malgrado tutto, anche la
scomunica, Lei
continua ad intercedere per noi presso Theos. Non ci
abbandonerà. E vedrai che
ci manderà un altro segno, a prova che Treviso non
cadrà in mano dei
Collegati!”
Un segno
… Sì, ecco forse ciò che la
città e i suoi abitanti
aspettavano apprensivi: un segno, un qualsiasi cenno di favore di Dio e
della
Madonna verso di loro, la conferma di protezione contro la minaccia
nemica. E
non chiedevano nulla d’eclatante, anche una piccolezza ma
comunque divina,
inspiegabile se non tramite la fede. Avevano bisogno della certezza di
non
esser stati abbandonati, di combattere per una giusta causa.
Marco
dischiuse le labbra per replicare, sennonché
proferì
tutt’altro: “E tu che ci fai qui?”,
chiese accigliato alla figuretta comparsa
quatta-quatta alle spalle della moglie.
Thomà
si bloccò improvvisamente, come il gatto pizzicato a
sottrarre il pesce dal banco del pescivendolo, anch’egli la
bocca spalancata,
un “Patron!” congelatosi in gola. Piegò
a trombetta le labbra e, fatto
dietrofront, s’apprestò a fuggir via,
sennonché il Miani fu più lesto e
l’acchiappò per il collo della casacca,
costringendolo a fronteggiarlo. “Chi
sei? E cosa vuoi da noialtri?”,
l’apostrofò severo l’uomo, abituato
già a
Venezia alle ruberie di quei giovanissimi accattoni.
“Mi
sun nissun, patron”, balbettò il fantolino,
intimidito da
quello sguardo inclemente e ciononostante sempre più
famigliare. Infatti, per
un istante aveva creduto … “No gh’ho
fato gnente, mi. Gero qua a … a farme i
fati mìi, patron, veo zuro su la Croxe Sancta!”
Aggrottando
la fronte e studiando accorta i lineamenti del volto
del fanciullo, madona Helena esclamò: “Oh, ma tu
sei l’assistente di Fra’
Anselmo!” e rivolta al marito. “E’ giunto
due giorni addietro, tra i fuggitivi,
alloggia in ospedale assieme a noi. Che ci fai qui da solo? Non
dovresti essere
col tuo magister?”
Se il
tono della greca appariva dolce e conciliante, quello di Marco
al contrario suonava duro e accusatorio, così come la
strizzata all’orecchio
che si pigliò il ragazzino. “An, bravo ti! Mi
menti pure! Varda a contarme la
verità, o ti scuoto a testa ingiù
finché non mi sputi le budella!”
“Márkos!
Lo spaventi, povero pulcino!”
“Avanti,
canta canarino!”
“Patron,
per caritade, no me strupiate ea recia!”, pigolò
Thomà,
liberandosi dall’inflessibile stretta del patrizio, correndo
a ripararsi dietro
la più sicura sottana di Helena. “La patrona la
gh’ha rason, mi sun vegnuo qua co
la zente fuzita dil Montelo, perhò no vesto frate come el
Fra’ Anselmo. Mi me
ciamo Thomà di Feltre, fio dil Vitor El Marangon, et arlievo
dil valentissimo
Andrea Trepin di Vitor, bombardier, morto virilmente a Castel Novo di
Quer” e
mentre parlava, l’antica tracotanza riempì il
corpicino del giovinetto, che si
portò avanti, mettendosi in punta di piedi per sembrare
più alto e importante.
E tirando fuori il petto, annunciò solenne: “Et
co’ no smissio polvare, mi me
poxo anca vantar de ser el servidor dil mio patron, el magnifico sier
Hironimo
Miani dil nobeliximo cu-on-tam sier Anzolo, castelan de Quer,
sença il qual
ajudo, mi no saria qui a parlarve!” e detto questo
tornò a rifugiarsi dietro
madona Helena, poiché doveva aver in qualche oscura maniera
offeso l’altro
patrizio, se questi aveva assunto un’espressione terribile,
allungando il
braccio per acchiapparlo di nuovo.
“Oh!”,
si coprì invece la bocca la greca, ricordandosi di quanto
ascoltato dalle due contadine fuggite anche loro da Nervesa.
“Tu sei il
ragazzino che stava con lui, vero?”
“Patrona!”,
s’appellò supplice Thomà,
abbracciandole le ginocchia
e baciandole il bordo della gonna. “Mi sun stà
ladro, xé ver, perhò solo verso
i franzosi e todeschi, i quali no xéi cristiani. No ruberave
gnente a vuialtri.
Mi gh’ho visto el vuostro sior marido co i colori dil mio
patron e squasi el
muso igual. Xéli do zorni che mi gheo zerco, che mi gheo
speto: el patron me
gh’ha promesso de tornar a Trevixo e mi ghe credo,
perché senpre el gh’ha
mantegnuo le soe promesse!”
La
nobildonna scoccò al consorte una lunga e significativa
occhiata, imponendogli la calma e d’abbassare il braccio,
acciocché il fantolino
non temesse una sua reazione negativa e raccontasse indisturbato
l’intera
vicenda. “Thomà”, invitò il
fanciullo ad avvicinarsi a Marco, posandogli
incoraggiante due mani sull’esili spalle. “Nessuno
ti accusa di niente, anzi, è
naturale che tu abbia scambiato mio marito per il tuo padrone: sono
fratelli.”
“Fradeli?”,
spalancò incredulo le fauci il giovinetto, manco si
fosse trasformato in una Bocca di Leone. “Seu el magnifico
sier …?”
“Marco
Miani”, completò per lui il patrizio, cambiando
impaziente
peso da una gamba all’altra. Il cielo s’era chiuso
nuovamente e la luce,
malgrado l’ora mattutina, sparita manco fosse giunto in
anticipo il crepuscolo,
annunciante un secondo temporale. “Sicuramente il tuo padrone
non avrà avuto
tempo di …”
“…
el mio patron me parlava di tre fradeli, perhò no
cognossendove
de fazza, donca no savevo dir chi - tra el Marco, el Carlo et el Lucha
- vuj geravate”, gli spiegò
serissimo Thomà, interrompendolo. E
ricordandosi improvvisamente delle buone maniere, il fantolino
s’inchinò fin
quasi a baciarsi le ginocchia, asserendo enfatico:
“Lustrissimo a me rebuto a
la vuostra clemenza!”
Marco
venne colto da due sentimenti contrastanti, se roteare
snervato gli occhi dinanzi a tanta pacchiana deferenza o se
asciugarseli dalla
subitanea commozione, d’esser stato nei pensieri
d’Hironimo anche durante la
prigionia, se quest’ultimo li aveva indirettamente presentati
a quel
piccoletto. E a proposito di quest’ultimo, stentava a credere
che suo fratello
si fosse preso a cuore la sua sorte, guadagnandosi una devozione quasi
filiale
da parte di Thomà, che lo descriveva alla stregua del
miglior cavaliere del
mondo, manco fosse uscito dal Roman de Troie.
Onde
tagliare la testa al toro e conservare asciutta la testa, il
Miani optò saggiamente d’incamminarsi verso
l’ospedale e lì proseguire la
conversazione. “Seguici”, invitò spiccio
il ragazzino, il quale si portò
accanto a madona Helena, giudicandola più sicura del marito,
anche perché
avvezzo all’incostanza del caratteraccio miano. “Ti
riporto da Fra’ Anselmo.
Dopodiché tu mi racconterai per filo e per segno ogni cosa
capitata a mio
fratello. E non risparmiarmi alcun dettaglio! Capistu?”
“Siorsì!”,
si mise quasi sull’attenti Thomà, felice di poter
costì
aiutare il suo benefattore, riferendo quanto visto e udito
nell’accampamento e
nell’Abbazia. Nessuno l’aveva interrogato
perché mai si dava credito
all’affidabilità delle parole dei bambini, eppure
il fanciullo possedeva una
memoria prodigiosa nell’enumerare i torti subiti.
Quanto a
Marco, oltre che ad apprendere in quali condizioni si
trovasse Hironimo l’ultima volta che lo si era visto vivo e
vegeto, voleva
conoscere esattamente a quali tormenti Mercurio Bua
l’aveva
sottoposto, così da restituirglieli settanta volte sette al
primo scontro.
***
Le
bisbiglianti ombre, il loro tapetum lucidum e il loro sinuoso e
frusciante scivolare lungo i muri, fin quasi a giungere a sfiorarlo,
scomparvero tutti all’improvviso in sordi e rancorosi ringhi
e Hironimo intuì
che doveva esser ormai giunto il mattino e ch’era
sopravvissuto ancora per
qualche tempo a quella prigionia di buio totale e solitudine.
Rannicchiato
seduto contro uno scomodo angolo, le ginocchia
portate al mento, il giovane patrizio si guardò furtivamente
attorno, gli occhi
gonfi e pesanti dall’insonnia, la testa riempita di cotone da
quanto gli
pulsava. Appurò che gli unici rumori percepiti dalle sue
orecchie – rumori
tangibili, vivi, non sovrannaturali – corrispondevano alle
gocce d’umidità
filtrante dalle vecchie pareti, gli squittii dei delusi ratti
lì pascolanti e
il gorgoglio del suo rabbioso stomaco, preoccupatissimo di quella
Quaresima
anticipata.
Il Miani
s’umettò a fatica le labbra secche e crostose dai
morsi
datisi, per forzarsi alla veglia e non lasciarsi sopraffare da quelle
ombre spaventose.
Ad ogni colpo di tosse la gola gli pizzicava, ricordandogli della sua
disidratazione e di fatti egli non si sovveniva dell’ultima
volta, ch’aveva
bevuto dell’acqua. Lentamente, il giovane uomo
staccò le mani gelide dai
polpacci, arricciando le altrettanto fredde dita dei piedi divenutigli
insensibili. Stiracchiò cauto una gamba, sentendo
scrocchiare l’anca e poi
l’altra. Aggrappandosi ad
un’irregolarità del muro, Hironimo
s’alzò incerto,
tentando piccoli passi e stringendo i denti dal dolore
ch’attraversava in un
sol fascio l’intero suo corpo, denutrito, malmenato e
intorpidito. Almeno,
magra consolazione, i suoi occhi un poco s’erano abituati
all’oscurità, sebbene
non rendendogli per niente la sua cella meno spaventosa, al contrario,
presentandogli i suoi sgraditi ospiti con maggior nitidezza.
Hironimo
mosse il piede, avanzando di un passo verso la porta, là
dove aveva intenzione di battere fino a scorticarsi la pelle,
reclamando a viva
voce dell’acqua. Volesse il Cielo, qualcuno forse avrebbe
esaudito quella sua
impellente necessità.
Invece,
neanche avesse avuto un piede caprino, il giovane
incespicò e cadde rovinosamente per terra, i suoi riflessi
rallentati dalla
malattia e dal digiuno forzato. Guaì sfinito
all’impatto del suo ginocchio,
della spalla e del braccio per terra, aggiungendosi alle altre costanti
e
lancinanti fitte. Spossato, neanche provò a rimettersi in
piedi, accoccolandosi
sul fianco e lasciando ch’accadesse quel che doveva accadere.
Quando il
ragazzo riuscì ad aprire gli occhi, innanzitutto il suo
corpo era pervaso da un dolore nuovo, bruciante, accompagnato da un
fastidiosissimo prurito e mal di stomaco. In secondo luogo, il buio era
scomparso, mitigato da una soffocante semioscurità: sopra di
sé egli
riconosceva un tetto di canne palustri, delle erbe appese e un grasso
odore
terroso gli riempì le nari, misto a paglia, latte, funghi,
salumi, fumo …
Un viso
olivastro gli si parò innanzi, contornato da riccioli
scuri a malapena trattenuti da uno stretto velo bianco.
“Resisti finché te
pol”, lo istruì la donna e con delle pinze
estrasse delle braci dal fuoco, che
mise dentro un pitale pulito. Posizionò questi tra le due
sedie sopra cui
Hironimo era disteso senza camicia, lasciando la scia compatta di
vescicole
violacee lungo il dorso ben esposta al calore proveniente da sotto.
“Ti te xé
el puto pì corajoso, che mi cognossa!”, gli
accarezzò la guancia la baba
curandera, le sue dita scure e nodose più delle radici degli
alberi e come tali
odorose di humus e verzura. Dopodiché, inginocchiatasi, ella
prese a soffiare
sulle braci.
Momolo
strinse i denti, tirando su col naso e s’irrigidì
onde dar
prova di virile audacia. Da giorni quelle bolle gli avevano provocato
febbri,
crampi allo stomaco, nonché una voglia matta di grattarsi e
non vedeva l’ora di
disfarsene, anche per poter ritornare a dormire in camera coi suoi
fratelli o
coi genitori, esiliato infatti in una stanzetta, onde non contagiare
nessun’altro a Ca’ Miani.
“Resisti.
El fogo va varirte: el va sugàr (asciugare, ndr.) le
papule, che van farse en bronse!” (croste, ndr.)
Il
pigolante fantolino annuì, il labbro inferiore che gli
tremava
violentemente dall’intima paura e, man mano che trascorreva
il tempo, dal
bruciore provocatogli dai bollenti vapori provenienti dalle braci.
Avvertì le prime
lacrime inumidirgli gli occhi, la pelle arrossarsi e i nervi
pizzicargli
imbizzarriti da quei dolorosi stimoli. Inconsciamente, prese ad
anguillare via,
sennonché la mano robusta della baba curandera lo
bloccò, intimandogli di
pazientare e di rimanere fermo.
Invece
d’assuefarsi al calore, esso acuiva il malessere
già
provocatogli dalle gonfie vescicole, asciugandole e seccandole ma
così anche
scottando la carne sana lì accanto. La donna seguitava a
soffiare imperterrita,
la pelle color cannella resa ancora più scura dalle ombre
gettatele dal
caminetto alle sue spalle. La mente atterrita e sconvolta di Momolo la
scambiò
allora per una di quei diavoli bluastri, ch’aveva contemplato
sul mosaico di
Santa Maria dell’Assunta a Torcello e gli parve di soffrire
la medesima pena
dei condannati all’inferno, rosolati lentamente e a puntino
per l’eternità.
Una
vampata particolarmente bollente ruppe l’ultima fibra di
resistenza in Momolo, il quale prese a scalciare e ad agitarsi,
frignando
dolorante e spaventato da tanto male. “Brucio!
Brucio!”, gridò, mentre la baba
curandera gli afferrava le caviglie, impedendogli che per azzardo
mettesse il
piede dentro le braci. “Tata! Tata! Mi fa male! Mi fa male!
Tata!”, singhiozzò,
allungando le braccia al cielo, aprendo e schiudendo i pugni, in attesa
d’essere preso in braccio.
La mano
grande e forte di Padre avvolse la sua piccolina, mentre
la sua testa veniva appoggiata sul ginocchio paterno. “Sono
qui”, lo rassicurò
e la visuale di Momolo venne coperta solamente dal viso di Anzolo,
seppur
rovescio.
“Tata!”,
aumentò il bambino la stretta, conficcandogli le unghie
nella carne. “Tata, brucia tutto! Brucia come
l’inferno!”
Suo padre
scosse il capo. “No, non è l’inferno:
questo è il dolore
prima della guarigione. Resisti ancora un poco. Sei così
bravo, così coraggioso
…”
“Mi
fa tanto, tanto male, Tata!”, pianse Momolo, rifugiandosi
nella carezza paterna sulla guancia. “Mi sembra di bruciare
vivo! Mi sembra …
mi sembra d’essere una di quelle anime dannate a
Torzelo!”
L’uomo
lo guardò a lungo, scostandogli la frangia umida di sudore
dalla fronte e dagli occhi umidi. “Pensa alla Madonna. Te la
ricordi? Nel
catino tutto dorato della basilica a Torzelo. Grande, maestosa, tutta
bella
avvolta dal maphorion blu.”
Il
fantolino deglutì affranto, aggrottando la fronte e
sforzandosi
di ricordare l’immagine evocata dal genitore.
Scandagliò nella sua memoria,
s’impose di trovarla e quando la Vergine Odigitria gli
riempì gli occhi, Momolo
s’aggrappò alla vesta paterna quanto il Bambino a
quella di sua Madre. “Sì!”,
asserì trionfante. “Me La ricordo!”
“Concentrati
su di Lei”, lo istruì Padre. “Odigitria,
dal greco,
vuol dire: Colei che conduce e che mostra la
direzione. Lei ti
guiderà sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani,
quando ti sentirai
perduto o non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei
soltanto
e non ti perderai mai.”
Momolo
prese un profondo respiro e, stringendo il braccio del
genitore al petto, chiuse gli occhi e fermò
l’immagine nella sua mente,
serrando i denti allo scottante vapore. Quand’ecco che li
riaprì interdetto,
avvertendo l’arto di Anzolo farsi più
inconsistente, scivolandogli via leggero.
“Tata?”, inquisì disorientato, non
comprendendo perché i contorni del viso di
Padre si stessero muovendo e colorando di verde, quasi lo stesse
contemplando
da sott’acqua. “Tata?”, ripeté
ansioso, cacciando fuori un urletto sorpreso
dinanzi al balzo nervoso di una guizzante pinna, seguito dal sibilo di
una
freccia.
“Ha-ah!
Te gh’ho ciapà, cancaro d’on
pesse!”, giubilò trionfante
Hironimo, appoggiando l’arco sul fondo basso della balotina e,
tiratasi su la
manica, issò rapido il pesce infilzato dalla sua freccia.
“Ma
vardalo, come si vanta!”, lo canzonò Marco
Contarini,
appoggiandosi sul remo. Dietro di lui sghignazzarono i suoi fratelli
gemelli
Piero e Polo e anche Agustin Miani, biscugino d’Hironimo,
coprì il suo risolino
dietro la mano. “Dai, passami l’arco, prima che si
deprima a furia d’esser
scambiato per una lenza!”, non si trattenne il “dai
Scrigni” e le gote del
Miani si tinsero di rosso, pur ridendosela anch’egli.
“Puoah!
Almanco io ho provveduto al pranzo!”
“Infatti
l’ho sempre detto, come tu sia un eccellente pescatore!”
“Tasé-là!
Od ancuò, rimani digiuno!”
Scambiandosi
i posti, Marco a prua con l’arco e Hironimo dietro di
lui, i ragazzi ripresero a vogare in sincronia perfetta e la
balotina scivolò silenziosa tra i ghebi della laguna,
aguzzando la vista in
cerca di uccelli marini sostanti sulle barene.
Uno
stormo li volò sopra nella nota formazione a
“V”, rompendo le
nubi chiare appena colorate dalla tenue tavolozza dell’alba.
Il Contarini
appoggiò appena il piede sul bordo della barchetta, tese
l’arco, puntò la
freccia dalla pallina d’argilla contro uno degli uccelli e il
suo saettante
sibilo s’unì al grido dell’animale, che
cadde stordito in un tonfo in acqua.
Rapidi i giovani ramarono onde raggiungerlo prima
ch’affogasse, afferrando
Marco la preda per il collo, torcendoglielo.
“In
effetti”, ammise Piero Contarini, alimentando il fuoco con
due
ramoscelli, “se non fosse stato per Momolo, addio
desinare!”
“Se
tu avessi avuto la testa sulle spalle e non
nell’Eneide”, gli
ricordò velenoso suo fratello gemello Polo, “ti
saresti ricordato l’arco e noi
avremmo cacciato in tre!”
“Potevi
ricordartelo tu!”
“Ero
a preparare la balotina, sempio!”
“Poteva
pensarci il Marcolin!”
“Il
Marcolin è innamorato …”
“Di
chi?”
“Di
me!”
“Momolo,
serra quella boccaccia!”
“Visto,
Pierolin? Tutti hanno una scusa, tranne te! Ammetti che ti
pesava troppo il culo, poltrone!”
Al che
Piero elargì una linguaccia a Polo, l’unica
argomentazione
rimastagli, dirigendo la sua attenzione alla cottura dei pesci impalati
nei
bastoncini. I volatili uccisi erano stati legati e pronti per le cucine
domestiche, mentre il resto della comitiva si riposava nel casoto,
recintato da
incannicci dove avevano attraccato.
“Toh,
ciapa, Pierolin!”, aprì Agustin un piccolo
fagottino di
stoffa, cedendogli una fetta di polenta avanzata dalla sera precedente.
Affamato, il minore dei Contarini “dai Scrigni”
l’afferrò cupido, ficcandosela
subito in bocca.
“Che
si dice, Piero?”, lo rimbeccò accigliato suo
fratello
maggiore Marco.
“Grazie,
Stin!”, sbiascicò il ragazzo e Agustin
scrollò le spalle,
addentando anch’egli la polenta dopo aver dato una fetta
anche a Polo.
“Ma
tu guarda, se alla sua età debbo ancora insegnargli
l’educazione”, schioccò Marco la lingua,
disapprovando appieno il comportamento
talora un poco acerbo di Piero, così diverso da quello
invece più socialmente
spigliato del gemello. Appoggiando la testa sul suo grembo, Hironimo lo
canzonò:
“L’hai
proprio allevato male, mammina!”
“No,
tu sei la mammina!”
“No!”
“Sì!”
“Bauco!”
“Macaco!”
E dopo
gli insulti si fecero i due ragazzi un misto tra solletico
e lotta libera, finendo a gambe all’aria per terra, tra
grasse risate.
“Marcolin?”,
ritornò d’un tratto serio Hironimo, approfittando
della distrazione dei due minori, impegnati a controllare la rosolatura
dei
pesci.
“Dime.”
Puntellandosi
sui gomiti, il giovane patrizio gli confidò un
dubbio sortogli da molto tempo. “Secondo te, le persone
possono seguitare ad
essere giuste, anche se si sono allontanate da Dio?”
Il
Contarini reclinò il capo, affievolendosi sul suo viso lungo
e
pallido l’ultima traccia d’ilarità.
Qualcun altro avrebbe, forse, potuto
scandalizzarsi dinanzi a tal impertinente e spinosa domanda; per
fortuna del
Miani, il suo amico possedeva il medesimo spirito inquisitore
dell’intellettuale,
ereditato dallo zio sier Hironimo, per il quale nessun argomento era
troppo
immorale da non esser sottoposto al vaglio della logica.
“Uhm
… credo … credo si potrebbe definirle
persone corrette,
ma non esattamente giuste”, ci
ragionò sopra il ragazzo,
picchiettando pensoso l’indice sul mento.
“Perché corrette?
Non possiede lo stesso significato
di giusto?”
“Senza
Dio come eterno riferimento e super partes, l’etica diventa
soggettiva e interpretabile, anche qualora venisse istituzionalizzata
in leggi. Morale diventa
ciò che è utile ad un dato scopo;
similmente, amorale diventa
ciò che può intralciarlo o danneggiarlo. Ma tutto
questo, avviene in un dato
tempo, in un dato luogo e talora anche per una data cerchia di persone
rispetto
ad altre. Non sono verità eterne e universali: per esempio,
oggi è proibito
uccidere i neonati che non si vogliono, magari un giorno invece lo
sarà e
nessuno si sentirà colpevole, perché
verrà giudicato utile dunque
giustificabile dunque morale. Ma è giusto? È
sbagliato? Come lo sappiamo? Cosa
ce lo conferma, quando il nostro intelletto al massimo ci aiuta a
distinguere
il vero dal falso, ma anche quello solo dopo molti anni
d’esperienze di vita?”
“Quindi,
anche se una cosa ci è per legge permessa ed è
moralmente
accetta, non è necessariamente giusta?”
“C’è
ancora speranza per te, Momolo: ti ricordi la tua lectio
paolina!”, sdrammatizzò Marco, avvertendo un certo
disagio a parlare di tali
argomenti, conscio di quanto l’amico saltasse su inviperito
ad ogni accenno di
religione, neanche lo stessero insultando. “Perché
questa domanda?”, inquisì
dolcemente.
Hironimo
si tormentò una cuticola. “Volevo sapere se i
meriti in
terra veramente si rispecchiano nell’Aldilà. Si
può essere stati in vita
cittadini modello, eppure finire ugualmente all’inferno? Si
può divenire grandi
sovrani, grandi papi e portare il proprio imperio al massimo splendore,
eppure
finire ugualmente all’inferno, perché quella fama
è stata costruita nel sangue
e sulle ossa di popolazioni devastate dalla guerra?”, si
chiese il giovane
Miani, osservando sull’immensa parete la sezione di mosaico
raffigurante i
Superbi avvolti dalle fiamme, sospintivi dentro dagli Angeli e
catturati dai
diavoli.
Riconobbe
Costantino Copronimo, Nestorio, Eudossia imperatrice,
[3] a loro tempo famosi, potenti e forse pure motivati da valide ed
etiche
motivazioni, eppure niente dei propri meriti in terra li aveva salvati
dalla
dannazione eterna … Avevano creduto
d’aver operato nel giusto,
invece sbagliando. Avevano creduto di fare la cosa giusta, quando al
contrario
avevano fatto la cosa in quel momento conveniente o concessali,
in base al loro status sociale, alla loro cultura, all’essere
membri di una
data epoca e di una data società.
Hironimo
si portò una mano alla gola, rendendosi soltanto ora
conto del cerchio e della palla di cannone ritornati improvvisamente,
il peso
di quest’ultima ch’andava aumentando, fino a
costringerlo in ginocchio a
guardare la fascia inferiore del mosaico, il resto
dell’inferno: i Lussuriosi …
Non
si ricordava come la dama gli fosse letteralmente cascata tra
le braccia: Hironimo, un poco alticcio e frastornato dai bagordi del
Carnevale,
s’era un attimo staccato dal rumoroso gruppo dei suoi
altrettanti ebbri amici,
quando lei, travestita da monaca, gli era inciampata addosso. La donna
aveva
riso allegra all’incidente, baciandolo in bocca senza manco
scostarsi la
maschera. “Quegli è mio marito”,
indicò ella tramite un ampio gesto del braccio
il gentiluomo travestito da frate, che stava scendendo i gradini del
ponte,
raggiungendoli. Hironimo s’esibì in un sardonico e
ampolloso inchino. “A lui
piace guardare”, gli sussurrò
all’orecchia la dama, maliziosa, passandosi la
punta rosea della lingua sui denti bianchissimi.
…
gli Iracondi immersi nelle acque gelide ...
Lo
schiaffo aveva martoriato la guancia incavata di quel
carpentiere di Quero, prima ancora che il cervello d’Hironimo
avesse elaborato
in totum il messaggio dell’uomo.
“Non
mi rifilare altre patetiche scuse del cazzo, per giustificare
la tua pigrizia! Stanco? Tu sei stanco? Siamo in guerra – de
diana! – se non
lavori e non t’impegni alla ricostruzione della fortezza, ti
darò io il riposo,
quello eterno del cimitero! Parassita, pigro pane-perso, crapulone
ingordo!
Sempre pronto a chiedere, e mai a dare!”
“Se
la mettete così, il castello ve lo ricostruite da solo,
fazza-de-merda!”
Un
pugno alla bocca dello stomaco chetò il ribelle e uno tra le
scapole lo spedì a baciare la terra. Dopodiché
Hironimo lo afferrò per i
capelli, torcendogli indietro il collo.
“Ancora
un insulto ed io ti lego una grossa balota di granito al
piede, poi ti faccio buttare nella Piave! E vedremo, quanto ti
divertirai ad
insultare i pesci!”
Il
carpentiere, ch’aveva anche moglie e figli appresso,
scoppiò
allora a piangere. “Sior castelan, de grassia, cercate di
capirmi: siamo
fuggiti da un saccheggio, abbiamo perso ogni nostro avere, sono
settimane che
dormiamo per terra, ridotti a mangiare erba! … Perfino alle
bestie viene
concesso un poco di riposo e di cibo, voi ci costringete a lavorare di
giorno e
di notte, senza tregua, lesinandoci anche le più basiche
necessità! Trattate
meglio i vostri asini di noialtri cristiani!”
Un
piccolo spasimo sussultò nel cuore d’Hironimo, il
quale si
morse il labbro inferiore, ammettendo nel suo intimo
d’essersi comportato
ingiustamente nei confronti di quel poveraccio. In effetti,
constatò, questi
mostrava sul volto i segni di un’infinita spossatezza e
denutrizione. I lavori
potevano interrompersi per qualche ora, abbastanza per concedere un
picciolo
istante di tregua a quei disgraziati.
Ma
si trattò d’un attimo di pietà.
“Appunto!
Perché i somari sono più utili di te e di quel
peso-morto della tua famiglia!”, gli diede un calcio sulle
natiche,
spintonandolo via. “Sei ti becco ancora a poltrire sul
lavoro, o peggio a
lavorare da culo”, gli puntò feroce contro
l’indice, “ti rinchiudo dentro le
stinche e spero che la tua pelle sia tanto dura quanto quella tua
testaccia,
perché stai certo che ti scuoierò vivo a furia di
frustate!”
“Il
vostro sior Pare – a chi Domeneddio perdoni! – non
era così!”,
commentò amaramente il carpentiere, dirigendosi zoppicante
verso le
impalcature.
Un
sasso lo colpì alla spalla, rubandogli un sorpreso guaito di
dolore.
“Io
sono meglio di mio padre!”, ruggì Hironimo,
rivoltando in aria
una seconda pietra e il viso trasfigurato in una maschera
pressoché demoniaca.
“Io ricostruirò in tempo questa fortezza e se
salverete la vostra ingrata
pellaccia, sarà unicamente per merito mio!”,
ringhiò malevolo e lanciò il sasso
in direzione degli attoniti operai. “Sempre a lamentarvi,
voialtri! Dormire,
mangiare, scopare … altro non riuscite a concepire dalla
vita! Ecco perché vi
ritrovate alla base della gerarchia! Non siete poveri a caso!
C’è un motivo ed
è la vostra invincibile stupidità! Sempre a
borbottare alle spalle di chi si
sbatte per voi! Incapaci di governarvi, pretendete di suggerirmi come
farlo?!
Siete buoni solo a nascondervi e ad invocare pietà, usando
lo scudo trito e
ritrito di Dio, la Verzene e tutta la Corte Trionfante! Beh, sapete che
vi
dico? Che se non vi date da fare, neanche Sen Michiel in persona vi
salva dalla
forca! Al lavoro, becchi fottuti! La scelta è vostra: se le
picche dei
lanzichenecchi o le mura ricostruite di Castel Novo! Al
lavoro!”
Quella
sera medesima Hironimo aveva informato il Consiglio dei
Dieci dell’accaduto – assieme alla scoperta del
passaggio di Scalon – e
l’indomani aveva pubblicamente frustato un sodato
perché, considerandosi
quest’ultimo all’apice della saggezza, gli aveva
consigliato di rallentare i
ritmi serrati di ricostruzione del castello, ricordandogli della favola
del
cavallo e del somaro, dandogli infine sprezzante del
“putachio imberbe,
palorbo.”
“E
tu che vuoi, pidocchio?”
Il
biondino lo fissò tranquillissimo, aggiustandosi
l’elmo in
testa troppo grande per lui. “Non c’è
vergogna nell’ammettere d’aver paura,
patron”, gli confidò.
“L’abbiamo tutti.”
Hironimo
lo spintonò via, intimandogli d’andare alla malora.
…
gli Invidiosi dai crani rosi dai vermi, come Hironimo s’era
ognora roso di rabbia nel vedersi superato dagli altri in tutto: in
bravura
intellettuale, nelle amicizie, negli amori, nella ricchezza, nella
popolarità,
malgrado i suoi sforzi di migliorarsi, di primeggiare ad ogni costo.
…
gli Accidiosi rappresentati come teschi ed ossa umane disperse.
Perché invece d’ingegnarsi e non arrendersi
dinanzi alle difficoltà, Hironimo
s’era lasciato andare, una nave senza nocchiero, vivendo alla
giornata, senza
progetti, senza un futuro.
…
i Golosi e gli Avari, gli ultimi con le teste ingioiellate.
Tanto egli era stato ingordo nella sua ricerca di soddisfazione
personale, da
però risultare avaro d’amore e comprensione verso
il suo prossimo,
circoscrivendo l’intero universo ad io, me e me stesso,
incurante di qualsiasi
altra cosa esistesse fuori da esso, intrappolato nel culto
pressoché idolatra
dell’amor proprio.
Hironimo
ghermì la catena e provò a sollevarsi eretto,
sennonché
la palla aumentò di peso e dimensioni, ricostringendolo
stavolta prono, faccia
a terra.
Quant’era
stato stupido e cieco, lasciandosi abbindolare
dall’allettanti promesse dell’antropocentrismo!
Cos’era l’uomo? Un minuscolo
tassello del maestoso mosaico ch’era il mondo, creato e
basato su leggi
razionali e funzionanti, le quali s’infischiavano di
ciò che l’uomo volesse o
non volesse. Quante volte l’uomo aveva creduto
d’aver domato la Natura e poi
essa gli si ribellava e fagocitava ogni sua impresa? Quante volte aveva
essa
dimostrato di funzionare perfettamente senza l’ausilio umano?
Similmente,
quante volte l’uomo si vantava di conoscere Dio e invece non
sapeva un bel
niente di niente? Non era conoscenza, bensì interpretazione,
spessissimo
annacquata da esperienze e tornaconti personali. Si odiava Dio
perché non si
voleva odiare se stessi e i propri difetti e limitazioni;
perché non si
volevano accettare le personali sconfitte. Non si voleva ammettere
l’impossibilità di governare il destino e il
mondo, i quali andavano avanti per
la loro strada, incuranti di progetti e desideri. Quante volte ci si
gloriava dei
propri successi, presentandoli come frutto dei meriti personali,
dell’ingegno,
della libertà umana? E invece, al primo sbaglio o vento
contrario? Chi si
biasimava immediatamente? Dio, quel Dio che, all’apice della
gloria, s’era
scartato, ritenendolo superfluo e ininfluente ma nelle miserie ecco che
diveniva tiranno e vendicativo.
In
realtà, ragionava Hironimo, in Lui si proiettavano le
proprie
frustrazioni, credendoLo una sorta di genio orientale, che tramite
miracoli
potesse risolvere ogni situazione così, a comando, con uno
schiocco di dita. Se
veramente esisti, fai questo … quest’altro
… altrimenti a che servi? Mettendosi
al centro dell’universo, s’era messo Dio in
funzione delle necessità umane. O
capricci? Hironimo aveva serbato livore contro Dio, perché
aveva scambiato la
durezza di cuore degli uomini per la Sua. Chi aveva condannato
unanimemente
Padre? Dio o la dottrina fatta istituzione? E da chi era composta e
interpretata l’istituzione? Da uomini, ergo fallibili e
limitati. Vero che la
morte di Padre era stata ambigua e che soltanto lui sapeva cosa fosse
esattamente successo quella maledetta mattina; ciononostante, la sua
famiglia
aveva dovuto agire con la vergogna dei colpevoli, elemosinando quasi un
funerale cristiano e anche dopo Hironimo aveva vissuto
l’ipocrita
commiserazione e il giudizio negativo della gente, in primis di quella
parte di
clero a conoscenza della sordida vicenda. Non sapevano niente e avevano
lo
stesso condannato Padre, sostenendo di aver letto e capito ogni singola
parola
della Bibbia, di conoscerne alla perfezione il significato e quindi
Padre ai
loro occhi era necessariamente perduto, senza possibilità
d’appello. Ma era
davvero così?
...
Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha
sì gran
braccia, che prende ciò che si rivolge a lei ... E dunque
non poteva Dio aver perdonato Padre, anche all’ultimo
momento, scardinando la
logica umana, rapida all’ira e lenta al perdono?
Perché non aveva avuto fiducia
nella Sua misericordia, piuttosto che in quella avara e saccente degli
uomini?
Hironimo
non aveva capito un bel nulla, troppo limitato dal suo
rancore, dalla paura e dalla superbia che, aggiunti al suo modesto
intelletto,
avevano soffocato ogni speranza in Dio e di conseguenza la sua fede in
Lui. Non
aveva compreso che, così facendo, danneggiava se stesso,
poiché s’era privato
d’un punto fisso nella vita, della sua stella per navigare in
quelle tempestose
acque mortali. Aveva posto fiducia in ciò ch’era
fallibile ed effimero. E di
conseguenza, era divenuto insensibile e crudele; per difendere tale
meschinità
e non provare rimorso, aveva sminuito il suo prossimo al posto di
guardarsi
dentro e riflettere, più facile porsi su di un piedistallo e
puntare gli
indici. Maestro del nulla, aveva esaltato una vuota conoscenza,
un’etica
fondata sulla sua vanità. Che negli attuali tempi, mica era
stupido farsi gli
affari propri, ma … ma in quale persona s’era
infine trasformato? Mediocre,
inconcludente, antipatica.
Ed ecco
ch’era giunto al termine della sua corsa – il
patrizio lo
percepiva nelle ossa. I maltrattamenti, la denutrizione, la febbre
l’avevano
minato nella salute e nel corpo e, per quanto possedesse una tempra e
una
volontà d’acciaio, egli non poteva competere
contro l’imparziale falce
dell’oscuro mietitore. Tergiversare, rallentarlo, magari, ma
al suo
appuntamento doveva presentarsi.
Oggettivamente,
il giovane trovò la sua una fine piuttosto
squallida. E la vide, quella baldracca, ghignargli dinanzi lugubre e
golosa,
assaporando la preda sicura e prossima. Almanco fosse morto virilmente,
la
spada in pugno e forse sbudellando La Palice e soprattutto Mercurio Bua
… di
certo avrebbe riscattato in quella sua morte eroica gli anni persi a
correre
dietro a fantasmi, sogni e chimere. Oh, beh, in molti muoiono
esattamente come
hanno vissuto e nel suo caso? Ingloriosamente, nel rancore, nella paura.
Strisciando,
schiacciato infatti da quella gigantesca ballotta e
dal bruciante calore attanagliargli le viscere, Hironimo si
portò al centro del
mosaico, là dove nella lunetta sotto la Psicostasia
– soggetto nel suo caso
quanto mai adeguato – si trovava la Madonna in posizione di
orante. E non
potendo sollevare né mani né braccia, il ragazzo
s’accucciò in proskynesis e
ripeté l’invocazione scritta sulla
lunetta: Virgo Divinum Natum prece pulsa,
terge reatum.
“O
Vergine, prega il Divino Nato, purifica il peccato!” e
che i demoni non riescano a pendere la bilancia di San Michele dalla
loro
parte, che i sacchi e le otri contenenti i miei peccati siano meno
pesanti di
quanto io so, che in realtà sono.
“Ignoro
se queste mie parole saliranno fino a Te, perché
sicuramente in questi orribili giorni starai ascoltando preghiere e
suppliche
provenienti da persone assai più meritevoli del sottoscritto.
Sono
stato un ribelle, un indegno e un idiota, non il peggiore tra
i peccatori, ma ugualmente ho perduto il senno e mi sono ostinato ad
offendere
a modo mio il Tuo Figlio. Non merito niente, io mi sono preparato
questo letto
ed è naturale che ora vi dorma sopra. Ho provato rancore nei
Vostri confronti,
perché Vi ho creduti lontani e indifferenti alla mia sorte e
alla mia pena, quando
al contrario Voi eravate sempre con me, nel mio cuore, mentre io mi
assordavo
volontariamente alla Vostra voce. Solo adesso mi rendo conto, quanto in
realtà
io sia stato protetto, scampando a punizioni ben peggiori per le mie
malefatte,
rispetto a qualche pugno in faccia o una strigliata
da parte dei
miei parenti. Pretendevo amore e comprensione e non ho mai
né amato né cercato
di capire. Volevo, volevo, volevo e non davo niente. Ogni Vostro dono
l’ho
rifiutato, cieco, avido e stolto per apprezzarlo.
Dopo
tante offese e ingratitudine, come posso sperare nel perdono?
Ciononostante,
anche un cane può mendicare qualche briciola dal
tavolo del padrone. E pertanto questo, o Madonna, io Ti chiedo, Ti
supplico, Ti
imploro: non permettere ch’io muoia in dannazione! Se la mia
vita deve finire
presto, che almeno io abbia la possibilità di mondarmi da
ogni mio peccato
mortale!
Provo un
disgusto enorme verso me stesso, per le occasioni
sprecate, per l’aver costruito il nulla, pur nato
privilegiato, con mezzi e
intelligenza a disposizione! Mi lamentavo della mia
mediocrità, maledicendo di
non possedere di più, quando non mi rendevo conto che Voi mi
avevate munificato
di ogni qualità per emergere, per agire e vivere
glorificandoVi con la mia
vita! Ho eguagliato il servo malvagio, ch’ha seppellito il
talento donatogli
per paura. Non ho fatto che compiacere me stesso e non ho amato nessuno
al di
fuori di me, crogiolandomi nel mio dolore senza affrontarlo, anzi,
usandolo
come scudo per giustificare la mia inettitudine e i miei fallimenti.
Credendomi
superiore, ho puntato il dito quando invece avrei dovuto puntarlo
contro me
stesso e migliorarmi. Non sapevo niente e mi vantavo di sapere tutto.
Che cosa
posso offrire sulla bilancia di San Michele, se non il
mio sincero pentimento? Mater Dei, non fare che i miei ultimi
sentimenti
mortali siano di paura: intercedi per me, ch’io possa morire
nella speranza del
perdono. Dammi un segno di grazia! Uno soltanto! Per amore di mia
madre, che
non mi sappia morto senza assoluzione! Per le lacrime che lei ha spento
per me,
per le sue preghiere di riportarmi sulla retta via, ch’io ho
ignorato e
dileggiato! Che non siano state invano! O Madonna! O Mater Dei! Un
figlio
t’implora! Un figlio ti supplica! Ho smarrito la via, Madonna
Santa … Aiutami!
Dammi un segno! Un segno! Se debbo morire, ch’io possa
riconciliarmi …!”
Un
possente colpo di tosse interruppe Hironimo, costringendolo a
bocconi per terra e a vomitare bile e catarro. Puntellandosi a fatica
sui
gomiti, il patrizio si nettò il viso madido di sudore e di
lacrime, bloccandosi
d’un tratto.
S’era
posto seduto facilmente e un buio pece l’avvolgeva. La sua
mano anchilosata e infreddolita si portò
all’altezza della gola, tastando e non
vi trovò alcun cerchio né palla di cannone. E di
sicuro, a giudicare dal puzzo
indescrivibile di quella cella, egli non si trovava nella basilica di
Santa
Maria dell’Assunta a Torcello. S’asciugò
le lacrime e si soffiò il naso col
lembo della tonaca già di suo lercia, peggio di
così tanto non poteva
sporcarsi.
Hironimo
si pizzicò il braccio, appurando il suo stato di veglia
e, giusto per assicurarsi totalmente, si tirò anche i
capelli. Sì, non dormiva.
Non sognava. Ma veramente s’era trattato di un sogno, come la
notte precedente?
O di ricordi? O entrambi? O peggio, d’allucinazioni e visioni
sovrannaturali,
per tormentarlo più di quanto non stesse già
soffrendo? Beh, un lato positivo
in quell’infernal marasma esisteva: se era sveglio
significava ch’era vivo,
ergo che la sua ora non era giunta, non subito, non oggi.
Poteva
ancora pregare. Rimediare.
L’unico
inghippo rimaneva come: non allenata, la sua mente aveva
scordato le orazioni insegnategli da Madre, da Crestina e da quel
povero
martire del suo precettore, il canonico del Monastero della
Carità. Poco male,
una tuttora se la ricordava a memoria, sebbene più per
narcisismo letterario
che religioso.
Affaticato
e con la tesa che gli girava, Hironimo ritornò nella
comoda posizione di proskynesis e, schiarendosi la gola,
proferì lento e
incerto quelle parole, come uno scolaretto alla sua prima declamazione
pubblica: “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,
umile e alta più che
creatura, termine fisso d’etterno consiglio …”
E man
mano che procedeva nella dantesca preghiera di San Bernardo
alla Madonna, la sua lingua divenne più sciolta ed eloquente
e il suo pensiero
più stabile, svaniva la fatica dell’animo e una
rara calma lo acquietava,
aprendogli cuore e orecchie dopo anni di sordità volontaria.
Il silenzio e il
buio gl’incutevano meno paura, così come la
solitudine, mitigata da una
presenza forte e inafferrabile, per quanto indefinita. Se il corpo si
stava
indebolendo, lo spirito si rinforzava, temprandosi. Le ombre sparivano,
sconfitte.
A questa
nuova sensazione d’atarassia Hironimo
s’abbandonò
fiducioso, ripetendo l’orazione di nuovo e di nuovo,
ininterrottamente,
alternando versi, singhiozzi e invocazioni di pietà e
soccorso.
“… in
gremio Matris iacet sapientia Patris …”
Il
patrizio s’interruppe bruscamente: e quella da dove era
saltata
fuori? Di sicuro non apparteneva al canto dantesco né si
sovveniva d’averla mai
letta da qualche parte. Gli era balzata in testa così,
spontaneamente, con la
leggerezza di un pensiero banale e comune.
“Nel
grembo della Madre giace la sapienza del Padre …”,
ripeté
egli interdetto la frase, studiandola e assaporandola sulla lingua. Da
dove
veniva? Non dal suo cervello, ché figurarsi se quel tordo
concepiva concetti
tanto complessi e di profondo significato … Da qualche
trattato teologico? E
quando mai aveva avuto tempo o voglia di leggerli? An, se avesse
prestato
un’ombra d’attenzione alle lezioni del canonico!
“Nel grembo della Madre giace
la sapienza del Padre … Nel grembo della Madre giace la
sapienza del Padre …
Nel grembo della Madre giace la sapienza del …”
La porta
s’aprì in uno stridulo garrito di gabbiano
barbaramente
strangolato e la luce molesta d’una lanterna fendette
l’offesissima oscurità e
per un istante accecò Hironimo, costringendolo a schermarsi
gli occhi dietro il
dorso della mano.
“Che
stai blaterando? Non ti sarai mica rincretinito?”,
l’apostrofò acido un soldato, appoggiando di
malagrazia per terra una ciotola
ricolma d’acqua. “Christos, che tanfo!”,
si coprì il naso all’interno del
gomito e maledisse l’avverso fato, che l’aveva
scelto per portare da bere al
prigioniero, putente peggio del cadavere d’un ratto.
“Beh, non la vuoi?”, gli
avvicinò la scodella col piede, notando come il Miani se ne
stesse lì
imbambolato in ginocchio a contemplarlo incuriosito.
“Tzé, il capitano ti ha
proprio sconquassato il cervello!”, scosse il capo lo
stradiota, chiudendo la
porta dietro di sé e borbottando il suo malcontento lungo il
corridoio, finché
la sua voce non divenne un eco distante, scomparendo poi
nell’aria mefitica.
Ripiombato
nell’oscurità, il giovane Miani
strabuzzò gli occhi,
riflettendo su quel rapido contatto umano, dopo giorni
d’isolamento forzato.
L’aveva visto, quel greco o albanese, non l’aveva
sognato. Apparteneva alla
realtà. Anche la ciotola, misera e contenente semplice acqua
– Hironimo vi
tuffò dentro la faccia, bevendo avido a guisa canina
– era solida, tangibile.
La preghiera stava allontanando le allucinazioni, gli raddrizzava i
pensieri e
lo rendeva più lucido, presente. Gli allontanava la paura,
la fame, il dolore
fisico.
Ignorava
se fosse giorno o notte, elementi di poca importanza
ormai. L’unica certezza del giovane patrizio era che
seguitava a vivere. Di
più, si voleva ch’egli continuasse a vivere. O gli
avrebbero rifilato la triste
sorte del conte Ugolino della Gherardesca.
“Nel
grembo della Madre giace la sapienza del Padre …
Farò ammenda
… Sono in tempo … Farò ammenda
…”, ripeté tra sé e
sé Hironimo, ripigliando a
pregare e preparandosi ad un’altra lunga notte di veglia, a
fronteggiare
i suoi demoni interiori, il suo
io-assassino.
Forse
aveva capito la frase di Luzia: il demone gli aveva fatto
credere di non necessitare di Dio nella sua vita, allontanandolo da
Lui; adesso
che aveva bisogno di conforto, gli aveva impedito di ritenersi degno di
misericordia, dipingendo Dio come un giudice impietoso. Un trucco molto
efficace.
“In
gremio Matris iacet sapientia Patris … Virgo Divinum Natum
prece pulsa, terge reatum.”
***
All’oscuro
delle disposizioni regali, finite in mano della
Serenissima, il maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice
aveva nel dubbio ordinato che fosse continuata la
guerra dei nervi.
Infastidito al limite dalla debacle di Musestre e dalla lentezza del
rientro
delle truppe imperiali dalla Patria del Friuli (il grosso impegnato
sotto le
mura di Gradisca) il generalissimo francese aveva inviato i suoi
capitani in
tutte le direzioni, fino al Barco, per confondere le spie veneziane e
dare
l’impressione di grande potenza. A tal scopo aveva perfino
ingigantito la
notizia dei rifornimenti provenienti dalla Patria, sia di cibo che di
cannoni.
Dopodiché, rientrate tutte le squadre e squadroni a Nervesa,
progettava di
levare in via definitiva il campo per un’avanzata frontale,
costeggiando la
Piave.
In
esecuzione a questi ordini, le compagnie francesi s’erano
presentate contemporaneamente a Porta Santi Quaranta, a Santa Bona, a
Fontanella, a Melma presso Treviso, costantemente fronteggiate e tenute
distanti dai vigilantissimi stradioti della Serenissima, in scontri
sempre più
violenti al che La Palice, notando come anche quella sera i suoi
gendarmi, cavalleggeri
e stradioti fossero rientrati a Nervesa malconci e abbattuti, si era
reso conto
che codeste scaramucce non gli portavano alcun vantaggio, semmai
ringalluzzivano l’avversario e lo privavano di uomini utili
all’assedio.
“Dobbiamo
capire dove poterci accampare, senza temere incursioni
notturne o peggio, bombardamenti notturni. Suppongo che i cannoni li
tengano
soltanto ai bastioni, giusto?”, ragionò ad alta
voce il maresciallo nei suoi
alloggi al Castello di Collalto di San Salvatore, avendo convocato il
resto dei
comandanti per un rapido consiglio d’aggiornamento.
Poiché
Mercurio Bua non pareva affatto incline a rispondere,
preferendo ascoltare impassibile, Leka Busicchio riferì al
posto suo: “Da lì
hanno sparato, quando abbiamo attaccato Treviso.”
“Il
tiro?”
“Un
miglio abbondante.”
“Bisognerà
giungere e posizionarsi nei loro punti ciechi”,
suggerì
pensoso Teodoro Trivulzio, studiando concentratissimo la cartina.
“Certamente
è da escludere Porta San Tomaso: lì si sono
difesi
assai bene”, commentò Soffrey du Molard.
“Ma
è anche vero, che si trattava di una trappola”,
puntualizzò
Giulio Sanseverino. “Ci stavano aspettando.”
“Ovunque
ci giriamo, quei dannati sbucano fuori peggio delle
talpe!”, sbuffò invece monseigneur Artus du Boisy,
snervato. “Noi li
depistiamo, tentiamo differenti manovre e non li ingaggiamo mai in
scontri
nello stesso luogo e ciononostante, ogni dannatissima volta, riescono
ad
anticiparci! Come diavolo fanno?”
“Appunto
per questo motivo dobbiamo fronteggiare les Vénitiens una volta per tutte”,
reiterò La
Palice. “Affinché non prendano coscienza della
propria forza, così da venire
loro da noi e non viceversa.”
“Se
finora non ci hanno attaccati”, suggerì Leka,
“significa che
non possiedono i numeri sufficienti per farlo. Altrimenti, conoscendo i
loro
comandanti, avrebbero osato una sortita più massiccia di una
qualche rapida
imboscata.”
“Cosa
ne dite voi, capitano Bua? Ultimamente ve ne state in gran silenzio,
non è da voi”, richiamò il Trivulzio
l’attenzione del greco-albanese, il quale
levò due dita dalla guancia, arcuando incurante un
sopracciglio.
“Non
ho nulla d’aggiungere, che il capitano Busicchio
già non
abbia eccellentemente delineato”, disse sincero e il suo
conterraneo lo fissò
stralunato, avendo creduto la sua un’acida battuta, a seguito
del loro recente
diverbio.
Al
contrario, il Bua appariva serissimo, ogni traccia di sarcasmo
e strafottenza svaniti dal viso tirato di chi non dormiva bene da
qualche
notte. La barba gli s’era un poco allungata e infoltita e al
braccio egli
teneva una banda nera, a lutto per la morte del suo fidato Zilio
Madalo. Dentro
di sé, tuttavia, il condottiero piangeva un altro tipo di
perdita, quella della
fiducia e del rispetto da parte di Caterina, da lui disprezzati e presi
per
scontati. E ora non aveva più niente, pur avendo tutto:
né i titoli
conferitigli dall’Imperatore né la gloria in
battaglia avrebbero potuto
restituirgli sua moglie, sua figlia, suo fratello e Zilio. Si sentiva
smarrito,
inutile negarlo. Doveva fare il punto della situazione.
“Forse
dovremmo inviare una squadra di stradioti in avanscoperta,
onde scovare il punto debole delle loro mura …”,
fu la proposta di Galeazzo
Pallavicino, riprendendo il discorso.
“Se
la vostra illustrissima signoria desidera mandare al macello
altri uomini”, sibilò a quel punto Mercurio, gli
occhi fissi su di un punto
indefinito davanti a sé, “può ben
inviare allo sbaraglio i suoi di
soldati. I miei domani rimarranno qui, a riposarsi. Hanno
già dato a
sufficienza.”
Il
marchese di Busseto s’imporporò piccato da quella
sferzante
replica, manco fosse l’ultimo dei paggi da sgridare.
“Queste informazioni sono
di vitale importanza, se vogliamo …!”
La Palice
interruppe l’offeso Pallavicino, annunciando gravemente:
“Domani prenderò tre squadroni e mi
presenterò di persona a Trévise.”
Un coro
d’esclamazioni contrarie accolse la sua inaspettata
decisione.
“C’est trop dangereux!”,
esclamò subito du Boisy, gli occhi fuori dalle orbite.
“Non possiamo rischiare
che vi catturino!”
“I
miei guasconi ed io possiamo recarci lì, se ne avete
bisogno,
ma non voi! E se vi sparassero dai bastioni? Quel satanasso di
Jean-Paul
Gradenigo è capace di tutto!”, insistette un
esagitato du Molard.
“Starò
a debita distanza e non m’apposterò presso i
bastioni!”,
dichiarò fermo il maresciallo. “Questa mia
spedizione sortirà il duplice scopo
d’intimidirli – sapendoci pressoché alle
loro porte – e di capire in quale
punto les
Vénitiens si
trovino
più scoperti. Perché rifiuto di crederli ovunque preparati.
Da
qualche parte saranno pur vulnerabili. E sarà lì
che li colpiremo!”, batté
insistente l’uomo il pugno sulla cartina. A furia di
pressionarli ed
intimidirli, i marciani avrebbero prima o poi commesso un passo falso
da sfruttare
a loro vantaggio.
Ad
oltre un miglio di distanza sarà difficile
stabilirlo, meditò
distrattamente Mercurio, appoggiando la schiena al muro. Però
è pur
sempre un inizio su cui lavorare. Domani ne sapremo di più.
“Nel
frattanto”, concluse La Palice, “stasera stessa
invierò un
ultimatum ai comandanti allemands rimasti sulla
sinistra della
Piave: convocazione qui a Nervesa entro, e non oltre, domani fino al
crepuscolo.”
“Mancheranno
sicuramente quelli impegnati a Gradisca e, forse, a
Marano”, puntualizzò du Molard.
“Costoro
li possiamo esonerare”, licenziò in fretta la
questione
il maresciallo francese. “Quanto agli altri, verranno
pubblicamente dichiarati
disertori e costì trattati, dovessimo imbatterci in
loro.”
“Mi
par equo”, convenne Artus du Boisy, felice nel suo intimo di
veder infine penzolare qualche tedesco ribelle.
Intanto
che il segretario di La Palice abbozzava la lettera da
inviare agli imperiali, Giulio Sanseverino avanzò un
ulteriore suggerimento:
“Maresciallo, forse potremmo sfruttare la vostra parata
dimostrativa per un
triplice scopo: incominciare lo sgombero del campo. Vedendoci quasi
sotto le
loro mura, i Veneziani si concentreranno su di voi e non avranno la
pronta
reazione di mandare esploratori al di là di Treviso. In
questo modo, ci
accamperemo in un luogo a loro sconosciuto.”
“Io
suggerirei a Torre di Maserada fino a San Giorgio”, propose
Galeazzo Pallavicino, ansioso di recuperare autorità dopo la
strigliata di
Mercurio Bua. “La prima si trova a cinque miglia da Treviso e
la seconda ad un
miglio da Ponte di Piave. Potremmo inoltre creare un blocco di barche,
impossibilitando ogni comunicazione da quel fiume.”
Il
maresciallo francese contemplò intensamente la cartina,
nello
specifico i luoghi indicatigli dal marchese di Busseto.
“C’est bien”, convenne
alla fine. “Incominceremo domani lo smantellamento, mentre
una squadra
avvertirà i nostri rimasti alla Badia del Pero a Monastier,
con appuntamento a
Torre di Maserada. Il resto delle truppe si sposterà sabato,
all’alba, e
brucerà ciò che resta del campo.”
Un
mormorio d’assenso si levò nell’aria.
Enfin, cette fois ça
commence pour de vrai, pensò La Palice, osservando uno ad uno
i comandanti uscire dai suoi alloggi. Si portò alla
finestra, terminando di
dettare la missiva al suo segretario, la mente persa tra quegli scuri
monti
risaltati all’orizzonte dal bluastro nascente della
sera. E questa
volta, mon Dieu, si vedrà da che parte stai, se dalla nostra
o quella dei
Vénitiens.
Fuori,
nel cortile del Castello, Leka Busicchio raggiunse Mercurio
Bua, il quale stava conducendo il suo baio turco fuori dalla stalla.
Impacciato, il capitano stradiota s’avvicinò al
greco-albanese, bofonchiando:
“Siamo … siamo a posto?”
Il Bua
reclinò lentamente in avanti il capo, in assenso.
“Siamo a
posto”, confermò, inforcando la staffa e issandosi
sopra la sua cavalcatura in
un fluido movimento. “Sebbene le mie scuse non potranno mai
riportarci indietro
Zilio”, aggiunse, accettando la torcia dal suo palafreniere.
“Così come una
magra consolazione sarà vincere
quest’assedio.”
Rapido,
Leka imitò il suo collega, balzando anch’egli in
sella e
allungando la torcia verso lo scudiero, onde accenderla.
“Almeno, combatteremo
in sua memoria.”
Mercurio
batté piano gli speroni sul suo destriero, iniziando una
lenta e regolare marcia. “Rimpiango di non essere stato
lì, anche solo per
seppellirlo con le mie mani. Vedi”, gli confidò
con voce un poco tremula,
“Zilio ed io abbiamo militato assieme, quando ancora ci
stavano crescendo i
primi peli sulle guance. Ne abbiamo vissute di cotte e di crude,
rendendomelo
più di un semplice luogotenente. Era un amico. Ed io non ho
neanche potuto
augurargli appropriatamente buon viaggio verso
l’Aldilà …”
“Zilio
è morto virilmente: saresti stato orgoglioso di
lui”, lo
confortò Leka, rivivendo nella mente l’immagine
dello stradiota colpito da un
colpo d’archibugio e cascato in seguito in acqua.
“Purtroppo, il fiume se l’è
portato via … Avremmo dovuto fermarci e ripescarlo,
però …”
“Hai
fatto ciò ch’era giusto”, lo interruppe
bruscamente il Bua.
“Non ti rimprovero di nulla.” Cacciò
fuori un grosso sospiro, levando in alto
il capo e permettendo all’aria fredda della notte
d’accarezzargli il volto.
“Talvolta mi pento d’aver abbandonato la mia
Morea.”
“Eh?”
Visto
ch’erano in vena di confidenze, tanto valeva esplicare
meglio al Busicchio quel suo intimo rimpianto. “Ti sei mai
chiesto come sarebbe
stata la tua vita, se tu non avessi mai abbandonato la tua terra? Io
sì. E non
sarebbe stata una brutta vita. Avrei vissuto a Napoli di Romania [4],
avrei
assunto il ruolo di mio padre di capo degli Albanesi di Grecia, avrei
combattuto gagliardamente contro quei cani dei Turchi e magari pure
riappropriandoci dei perduti territori in Morea e in Albania! Sarei
stato
acclamato come un eroe, un campione della cristianità, il
degno successore del
magnifico Gjergj Kastrioti Skënderbeu!”
“Ma
non avresti conosciuto Aikaterinī”, ridacchiò
Leka, provando a
scuotere il compatriota da quella sua malinconia.
“Per
lei, avrei assediato e riconquistato Durazzo, la patria di
sua madre. Le avrei presentato la testa del Pascià e dei
suoi figli su di un
piatto d’argento. Sarebbe ritornata ad essere una
principessa, al posto di
Contessa del Niente!”, ringhiò frustrato. Anche se
l’Imperatore gli aveva
infeudato Soave e Illasi, de facto Mercurio non aveva mai veramente
goduto dei
profitti di quelle terre, il loro dominio tanto vacillante quanto le
sorti di
quell’infinita guerra. “Sarei dovuto rimanere in
Grecia o al massimo trasferirmi
nell’Albania Veneta. Lì perlomeno la questione
è semplice: noi contro i Turchi.
E basta. Invece, quest’Italia …”, scosse
il capo, aspirando veemente l’aria.
“Tanto bella quanto crudele, marcia fino al midollo, che ti
ingoia pieno di
speranze e ottimismo per poi risputarti l’ombra di te
stesso. Se ti
risputa. Quante casate s’è pappata, quanti Stati
ha spolpato poco alla volta? È
una bestia feroce, meschina e assassina, che anche se in gabbia,
frustata e col
collare, non appena il domatore si gira, ecco che gli elargisce alle
spalle una
zampata. È una femmina malvagia per il cui possesso tutti si
scannano a vicenda
… Perdonami, Leka. Stasera proprio non sguazzo nel
buonumore!”, provò a
sdrammatizzare Mercurio, rendendosi conto di quanto avesse sparlato a
sproposito
e a ruota libera, sfogando il suo intimo malessere.
Busicchio
abbozzò ad un sorriso incoraggiante. “Sei stato
troppo
lontano dal campo di battaglia, amico mio. T’assicuro che
appena sentirai il
clangore delle armi e l’odore della polvere da sparo, ti si
rischiariranno le
idee e la malinconia prenderà il volo!”
“Ma
certo …”, convenne debolmente Mercurio, aguzzando
la vista e
intravedendo la sagoma scura dell’Abbazia di
Sant’Eustachio stagliarsi contro
il cielo brunito. Un istintuale moto di rabbia gli
scombussolò le viscere:
guardandola, gli ritornò alla mente il confronto avuto col
suo ostaggio
veneziano e la simbolica pugnalata allo stomaco ricevuta tramite le sue
rivelazioni. Era colpa di quel maledetto, se adesso il Bua si sentiva
smarrito,
demotivato.
Non
poteva ucciderlo, però poteva rendergli quanto
più amara
possibile la prigionia, così avrebbe imparato a mordersi
quella velenosa
lingua, l’ingrato.
***
Il conte
Guido Rangoni se ne stava dormendo beato nei suoi alloggi
a Padova, quando all’improvviso sier Ferigo Contarini irruppe
in camera sua,
seguito a ruota dai famigli del modenese, tutti rossi in viso e
contriti peggio
della Maddalena.
“Vostra
illustrissima signoria! Abbiamo tentato … Gli abbiamo
detto …!”, balbettavano terrorizzati da un
probabile castigo da parte del loro
padrone, il quale, tuttora intontito, si pose seduto, stropicciandosi
gli occhi
gonfi di sonno.
“Quale
villania, signor provveditore, vi ha condotto qui a
quest’ora di notte? Nella mia camera?”,
s’inviperì Guido, un poco imbarazzato
da quella palese violazione della sua intimità.
Ancora-ancora poteva tollerare
tale atteggiamento nel campo, ma a Padova? Nei suoi alloggi? Non
giovava al suo
scontento il ritrovarsi in camicione da notte davanti al patrizio,
vestito al
contrario di tutto punto.
Impunito,
Ferigo afferrò uno sgabello pieghevole e si sedette
sopra enfaticamente. “Ordini da parte dei provveditori Moro e
Capello e del
governatore Fortebracci”, gli spiegò sbrigativo.
“E
non potevate attendere il mattino?”
“No.”
Il
Rangoni sbuffò irritato, scendendo dal letto e indossando
alla
bell’e meglio una casacca, giusto per darsi una parvenza di
parità
conversazionale, dinanzi allo sguardo perplesso del provveditore.
“Dunque è un
vizio veneziano, quello d’entrare non invitati nelle stanze
altrui?”
Non
riusciva sul serio, il giovane conte, a capacitarsi del
disprezzo che i lagunari serbavano nei confronti della privatezza,
molto
probabilmente dovuta a quel loro vivere uno attaccato
all’altro, in quella
grande palafitta ch’era Venezia. Quando suo padre il fu conte
Niccolò Maria gli
aveva raccontato, di come i consiglieri ducali potessero entrare a loro
piacere
in camera del Doge e di come nessuna casa potesse rifiutarsi
d’aprire la porta
ai Signori di Notte, egli aveva giudicato quei resoconti dei
pettegolezzi o
favole da balia. Il risveglio invero non gli risultò
né piacevole né gradito,
costatandone l’autenticità.
Il
Contarini scrollò incurante le spalle. “Se non
avete nulla da
nascondere, dove scorgete il problema?”
“E
se mi fossi trovato – che so – in compagnia di una
donna?”,
ipotizzò Guido, porpora in volto al solo pensiero di venire
per davvero
pizzicato a braghe calate dal provveditore degli stradioti, il quale,
stranamente, scoppiò in una grassa risata e un barlume
d’antica spensierata
gioventù gl’illuminò il volto
solitamente serio e flemmatico:
“Oh-oh!
Meglio ancora!” e tossicchiò, asciugandosi una
ribelle ed
ilare lacrima, godendo un poco dell’imbarazzo del minore.
Quand’ecco,
ripresosi, riassunse la sua consueta espressione pragmatica.
“Voialtri, invece
di guardarci a bocca aperta alla stregua d’inutili pesci,
correte a chiamare le
loro signorie, i messeri Ludovico e Francesco!”
Il
codazzo di famigli gettarono un’occhiata perplessa al loro
padrone, che annuì veloce, approfittandone per vestirsi
appropriatamente,
mentre Ferigo si serviva d’un bicchiere d’acqua.
“Fate
come se foste a casa vostra!”, lo invitò ironico
il Rangoni,
passandosi una mano sui capelli in battaglia.
“Ma
io sono a casa mia”, gli fece presente ineffabile il
Contarini. “Ben svegliati, miei signori”,
salutò egli i fratelli minori del
conte, i quali entrarono circospetti nella stanza, chiedendo ansiosi
con lo
sguardo ulteriori informazioni al capofamiglia, giacché solo
brutte notizie
portavano le inaspettate visite notturne.
“Ebbene?”,
lo spronò Guido, una volta congedati i servi.
“I
nostri esploratori ci riferiscono, come Federico Gonzaga di
Bozzolo sia impegnato in continui andirivieni da Verona a Vicenza, dove
è
stazionato il suo parente, Giovanni Gonzaga.”
“Questo
già lo sappiamo: i due stanno rifornendo le truppe, per
poi partire alla volta di Treviso”, rimarcò il
Rangoni, accantonando imbarazzi
e sdegni, per concentrarsi e ragionare sulla prossima missione. Anche i
suoi
fratelli avevano assunto la medesima espressione attenta, prendendo
posto
accanto al maggiore.
“Ma
non che il Gonzaga di Bozzolo prende sempre la stessa via,
quella di Soave.”
“Che
si trova esattamente a metà strada tra Verona e
Vicenza”,
mormorò Ludovico Rangoni, illuminandoglisi il volto dalla
realizzazione. “Ed è
un “feudo” di Mercurio Bua, ergo un territorio
sicuro e alleato.”
“Se
lo catturassimo, quel Gonzaga ci frutterebbe parecchio!”,
esclamò deliziato Francesco Rangoni. Anche
perché, oltre ad appartenere ad un
casato illustre, Federico di Bozzolo era un valido condottiero, tra i
più
capaci della Lega. La sua cattura sarebbe corrisposta ad un duro colpo,
sia
materiale che morale. “Sarebbe una preda di gran
conto!”
“Nah,
i Gonzaga non pagano i riscatti: cambiano direttamente
bandiera! Guarda quel pluri-voltagabbana del Marchese di
Mantova!”, scherzò
Ludovico, contagiando il minore.
Sier
Ferigo Contarini concesse ai modenesi qualche istante per
sognare ad occhi aperti, trattenendo per sé il vero destino
che la Signoria
voleva riservare al Gonzaga di Bozzolo, che in quanto a ferocia contro
la
popolazione inerme non aveva nulla da invidiare ai franco-imperiali e
al
traditore Soncino Benzone. Inoltre, fonti sue certe confermavano il
sospetto
dei Dieci nei confronti di Francesco Gonzaga, la sua bugiarda
incostanza ormai
universalmente nota, e di fatti gli avevano accodato a sua insaputa
delle
vigili spie, cosicché, qualora tentasse una fuga per
riparare da quella sua
moglie “tutta franzosa”, lo facesse in mutande,
senza un soldo né un sol
soldato. Il giovane provveditore degli stradioti non concepiva come mai
i Dieci
fossero così riluttanti dallo strangolare il Marchese quando
l’avevano
imprigionato alla Torresella, magari nel sonno, o al campo mentre era
congiunto
a qualche puttana. Sarà anche stato l’eroe di
Fornovo, però quel merito
apparteneva ad un’altra epoca e ora come ora Ferigo non
provava né rispetto né
compassione verso quell’infida banderuola, che non si
meritava, a sua detta,
alcuna morte onorevole. Tanto più che a Mantova Francesco
Gonzaga contava
quanto un due di bastoni - lo sapevano tutti - lo
Stato retto dalla
Marchesa sua moglie a nome del figlio Federico, ostaggio alla corte di
Giulio
II. A quale pro, dunque, tenere in vita quell’inutile zavorra
mantovana, brava soltanto
a mangiare a sbavo, peggio d’un parassita? Avessero
compartito il medesimo
accampamento, al patrizio non sarebbe servito un granché per
spedirlo a marcire
sottoterra … Se soltanto a Casaloldo l'avesse trafitto con
la sua lancia ...
“Quindi
i provveditori e il governatore vogliono che attacchiamo
Soave?”, intuì Guido Rangoni le intenzioni dei
suoi superiori, distogliendo il
Contarini dai suoi cupi pensieri omicidi. “Tuttavia mi pare
un azzardo verso il
fato: Federico di Bozzolo potrebbe non trovarsi a Soave, o cambiare
improvvisamente percorso o aver riparato già a Vicenza e
lì stabilitosi in via
definitiva … Le varianti sono troppe per
una certa cattura.”
“In
ogni caso, riconquistare Soave significa erigere una barriera
tra Verona e Vicenza, interrompendo ogni comunicazione tra i due
Gonzaga”, gli
spiegò paziente il provveditore degli stradioti.
“La Palisse è stato chiaro: il
signor Giovanni deve raggiungerlo a Treviso, ma senza il supporto del
signor
Federico e tagliandogli la via dei rifornimenti da Verona, le sue
truppe ben
magro supporto potranno offrire ai franco-imperiali.”
“Sappiamo
chi è a guardia di Soave?”,
s’informò d’un tratto
Francesco, incuriosito.
Il
Contarini prese fiato, incominciando la conta sulle dita:
“Galeazzo Sforza, contino di Melzo e cognato
dell’Imperatore; Sebastiano d’Este
q. Nicolò, luogotenente di Federico di Bozzolo e germano del
Duca di Ferrara;
Manfredi Landriani di Milano; Benedetto de’ Rossi di Parma;
il conte Ferrante
dal Persico di Cremona e Jacomo Tristam, un manifesto ribelle
veronese.”
“Una
guarnigione totalmente italiana”, notò Ludovico.
“E’
un problema?”
“Per
niente.”
“Quanto
tempo abbiamo per prepararci?”, domandò Guido.
“Soltanto
domani: al calar della sera, partiamo alla volta di
Soave.”
Un
sorrisetto furbo s’arricciò sulle labbra del
giovane conte
modenese. “Suppongo dunque voi abbiate già un
piano, signor provveditore.”
Ferigo
eguagliò felino la sua espressione complice, estraendo
dalla scarsella un pezzo di carta e una sanguigna, delineando
puntigliosamente
ai tre fratelli Rangoni le dinamiche dell’attacco alla
città.
Continua
…
**************************************************************************************************************
Ed eccoci
ritornanti alle vicende del “presente”. Lo stallo
tra i
franco-imperiali e i veneziani sta per finire e se ne vedranno delle
belle, che
mi auguro rendere al meglio.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1] Narra il Sanudo: “Come
in questa
matina è venuti do dil campo nemico, tra li altri uno frate,
era in la badia di
Narvesa, dove è alozato monsignor di la Peliza, el qual
è partito perchè el
moria da fame e havea mala compagnia, dize, francesi sono di qua di la
Piave e
todeschi di là, e che il ponte era in man di todeschi e pur
haveano comenzà a
vegnir vituarie in campo, e ogni zorno più, e pur ancora
haveano carestia, ma
Conejan, Uderzo, Colalto e quelle ville mandano assai vituarie
[…]”
Il frate
è il nostro Fra’ Anselmo (da noi ribattezzato
perché
Sanudo ha il vizietto di lasciare anonima la gente) e il secondo, visto
che non
si sa chi fosse, abbiamo deciso essere appunto Thomà! XD
[2] Narra il
Sanudo: “Item,
che una serva di Dio parlò a esso Griti dicendoli aver auto
in vision si 'l
feva vodo mandar una Padoa d'arzento a la Madona di Loreto di valuta di
ducati
100, e cussì Idio mantegniria Padoa. E fe' il voto. S'il par
a la Signoria
farlo, si no lui el pagerà e farà dil suo etc.”
[3] Costantino V Copronimo fu
uno dei più convinti iconoclasti ai tempi delle persecuzioni
di ogni immagine
sacra. Nestorio fu un noto
eresiarca ed Eudossia,
moglie dell'imperatore Arcadio, perseguitò San Giovanni
Crisostomo. Questi tre
personaggi storici sono quelli che si possono riconoscere tra i
Superbi, nel
mosaico della Basilica a Torcello.
[4]
Napoli di Romania = oggidì
è Nauplia,
nella regione del Peloponneso (noto all’epoca col nome di
Morea), nel sud-est
della Grecia.
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Capitolo 32 *** Capitolo Ventottesimo: 26 settembre 1511 ***
Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 17.12.2021
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Capitolo
Ventottesimo
Venerdì
26
settembre 1511
Si
fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono
le labbra, scuotono il capo:
“Si
rivolga al Signore; Lui lo liberi,
lo
porti in salvo, se davvero lo ama!”.
(Salmo 21)
Prima
ancora della luce del giorno, l’accampamento di Nervesa
sguazzava in grande agitazione: i soldati raccoglievano in fretta il
minimo
necessario per la cavalcata che li attendeva, avendo ricevuto
l’ordine di
viaggiare leggeri e delegando ai compagni lì rimasti il
compito di caricare il
resto nei carri e di smantellare la tendopoli, bruciando ogni traccia
del loro
passaggio, prima di raggiungerli nel nuovo luogo designato dal
maresciallo.
Diversi
gruppi militari presero dunque la via di Montebelluna,
altri finsero di marciare verso il Barco, per dirigersi invece di
soppiatto
lungo la Piave fino alle basse. Artiglierie e carriaggi vennero diretti
verso
sud, con il Gran Maestro di Francia Jacques de Chabannes de la Palice
in testa,
armato di tutto punto e con la sua impresa ben visibile,
acciocché a Treviso lo
si riconoscesse da lontano, non giudicando savio avvicinarsi troppo
alle mura.
Il suo
piano consisteva in una parata dimostrativa, onde fiaccare
lo spirito dei marciani e far loro credere della sua grande potenza e
di ogni
mancanza di via di fuga; ciononostante, il cuore del maresciallo gli
martellava
in petto d’una sottile ansia, anch’egli timoroso di
una probabile reazione
negativa da parte degli assediati che, interpretando la sua apparizione
come un
tentativo d’attacco, avrebbero a loro volta potuto nuocergli
e in maniera
affatto dimostrativa. Fortunatamente per La Palice, egli aveva tenuto a
mente
la lunghezza della gettata dei cannoni, grazie alle informazioni
ottenute da
Mercurio Bua e Leka Busicchio, e pertanto aveva ordinato ai suoi uomini
per
nessun motivo al mondo di oltrepassare il livello soglia di sicurezza.
“Les
Allemands dovrebbero rientrare entr’oggi”,
spiegò La Palice a
Teodoro Trivulzio e a Galeazzo Pallavicino, i quali sarebbero rimasti
all’accampamento. “Assicuratevi di distruggere il
ponte, una volta che
l’avranno attraversato.”
“Dove
e quando ci riuniremo?”, s’informò il
marchese di Busseto,
intanto che il generalissimo montava a cavallo, aiutato da un suo
paggio.
“A
Torre di Maserada, non appena il grosso degli Allemands si
sarà
ricongiunto a noi”, rispose il francese. “Si Dieu
le veut, potrebbe già essere
stasera” e dopo essersi segnato, batté gli speroni
sui fianchi della bestia e
si pose a testa della colonna di gendarmi e cavalleggeri diretta a
Treviso.
Galeazzo
Pallavicino e Teodoro Trivulzio lo seguirono pensosi con
lo sguardo lungo l’intera discesa dalla collinetta
dell’Abbazia, per poi
voltarsi e rientrare nel cortile interno. Quand’ecco che nel
portone d’ingresso
s’imbatterono in Mercurio Bua e un suo famiglio, ambedue a
cavallo e vestiti
solamente della loro lunga e pesante casacca scura, sul capo il rigido
cappello
di feltro nero al posto dell’elmo, da cui
s’intravedeva sotto la fascia scura
che tratteneva le trecce tipiche dell’acconciatura degli
stradioti.
“Posso
domandarvi dove vi recate?”, inquisì acido il
Pallavicino, le
cui gote ancora bruciavano al ricordo della rampognata da parte del
greco-albanese
avvenuta il giorno precedente.
Gli
angoli della bocca del Bua si contrassero violentemente, gli
occhi scuri attraversati da un luccichio infastidito. Il suo famiglio
girò il
capo nella sua direzione, anticipando da quell’espressione
scocciata una
replica feroce e mordace a danno del marchese, dei suoi antenati e
della sua
progenie.
Contrariamente
ad ogni suo prognostico, il viso di Mercurio si
rilassò tranne per la sua presa alle redini. “A
San Salvatore, dai Conti di
Collalto, a porgere visita al povero conte di Gambara”,
rivelò infine con
sufficienza, come se stesse dialogando con un popolano e non un
aristocratico.
“Non
sarebbe un po’ troppo presto? Appena albeggia.”
“Vorrà
dire che le loro illustrissime signorie m’offriranno la
colazione”, non si scompose il condottiero, le cui nari
dilatate tradivano una
certa impazienza e insofferenza. Appunto per tagliar corto e terminare
lì
quella a lui fastidiosa conversazione, il capitano di ventura diede
un’accelerata alla marcia del cavallo, il quale
incominciò a trottare in
direzione del Castello, abbandonando lì, imbambolati peggio
di due allocchi,
gli interdetti nobiluomini lombardi.
L’obiettivo
finale della sua visita si presentava molto semplice:
se il conte Gianfrancesco ormai non poteva seguirli fino a Treviso,
sicuramente
i suoi uomini non sarebbero stati altrettanto scusati e Mercurio
meditava
d’aggregarli alla sua compagnia, giacché ambedue i
condottieri militavano per l’Imperatore.
Sarebbe stato folle, a seguito delle numerose perdite subite dai vari
agguati e
dalla pestilenza, di permettere a chicchessia di disertare il campo,
anche se
legalmente, cioè rimanendo accanto al proprio capitano
ammalato.
Tentar
non nuoceva: i bresciani del Gambara sicuramente non
appartenevano alla sua gente, però il Bua non voleva
lasciare nulla
d’intentato. Quei soldati avrebbero sempre fatto in tempo ad
essere
ridistribuiti tra le compagnie del Trivulzio, del Sanseverino e del
Pallavicino,
ma l’epirota voleva anticiparli e servirsi, alla peggiore,
dei migliori di loro
per lasciare a quei lombardi soltanto le briciole.
Come
profetato dal marchese di Busseto, in effetti l’arrivo molto
temprano di Mercurio scombussolò gli abitanti del Castello;
nondimeno, lo si
accolse ugualmente, indirizzandolo verso gli alloggi del Gambara mentre
gli
promettevano una pingue refezione.
La camera
del conte bresciano puzzava dell’acre e pesante tanfo
della malattia, un misto di sudore fresco e vecchio, di lenzuola umide
e
sporche, nonché d’umori e di feci che, malgrado la
premura del servo di
svuotare quanto più frequentemente il pitale, seguitava
testardo ad indugiare
nell’aria, ammorbandola. Mercurio storse inconsciamente per
un istante il naso,
grattandoselo come se potesse fisicamente strappare via quel lezzo
dalle
narici. S’avvicinò cauto al letto
dell’ammalato, pigliando una sedia e
sistemandosi a debita distanza.
Gianfrancesco
di Gambara sbatté le ciglia confuso, aguzzando la
vista come se non riuscisse a distinguere le forme del viso del
greco-albanese,
a malapena delineate dalla fioca luce mattutina. Si
scostò via dalla
fronte cinerea qualche ciocca di capelli bagnati e appiccicati tra di
loro,
puntellandosi debolmente sui gomiti onde poter discorrere meglio con
l’ospite
inaspettato. Il suo valletto, rapido, si premurò di
sistemargli meglio il
cuscino dietro la schiena.
“Che
posso fare per voi, capitano Mercurio?”, fu lo stanco saluto
del conte, in attesa che il famiglio terminasse di prepararlo,
avvolgendogli le
spalle con un pesante scialle di lana, poiché i brividi
avevano ripreso a
tormentarlo.
“I
vostri uomini”, venne subito al dunque il Bua,
“volevo sapere
che intenzione avete nei loro confronti.”
Il
bresciano lo fissò lungamente, per poi chiudere le palpebre
doloranti. “Starà al maresciallo La Palissa di
decidere. Per me, io li riporto
a Brescia. Alla fine non sono ancora morto e la mia compagnia non
è ancora
stata ufficialmente sciolta”, disse e i suoi occhi velati
dalla malattia
guizzarono d’un subitaneo fulgore di rimprovero.
“Indubbiamente”,
ribatté ineffabile Mercurio, incrociando al petto
le braccia. “Ciononostante, bisogna valutare ogni
possibilità ed essere pronti
all’evenienza.”
“E
voi in questo siete maestro”, sbuffò sarcastico il
conte Gianfrancesco,
guadagnandosi un’incurante scrollatina di spalle da parte del
condottiere.
“La
morte corrisponde ad una nostra fedelissima compagna”,
sentenziò quest’ultimo serafico. “Quando
mangiamo, quando cavalchiamo, perfino
quando scopiamo essa ci alleggia sempre sopra il capo.
Perché questo vostro
timore di discuterne apertamente? Ormai è risaputo che voi
siete gravemente
ammalato: potete guarire, potete raggiungere il Creatore,
però io non sono così
fatalista da dire: nulla ci garantisce il futuro. Io me lo voglio
garantire ed
eccomi qui per domandarvi di cedermi i vostri migliori
uomini.”
“Mors
tua vita mea?”, ridacchiò beffardo il Gambara,
scuotendo il
capo dinanzi a tanta pragmatica sfacciataggine.
“No,
piuttosto: fallire nel pianificare è pianificare di
fallire”,
lo corresse inflessibile Mercurio.
“Io
seguito a vivere e voi già vi volete servire dei miei
soldati?!”, s’inalberò il nobile
bresciano, verbalizzando finalmente il suo
malessere e indignazione. “Non avete neanche la decenza
d’aspettare?”
Il Bua
arricciò maligno la bocca in un sogghigno. “Vi
ricordo,
signor conte, che voi mi avete sottratto il mio prigioniero quando
caddi
ferito. Non azzardatevi a farmi la morale, in avidità siamo
colleghi.”
Il conte
Gianfrancesco mosse le labbra violacee come se volesse
difendersi da quella veritiera accusa; desistette, mordendosi frustrato
l’interno della guancia. Soltanto lui sapeva che non si
trattava d’ingordigia,
la sua, però non poteva certo rivelarlo all’altro
condottiero. “Ripeto: in caso
di mia morte, starà a La Palissa di ridistribuire la mia
compagnia. Fintanto
che vivrò, essa rimarrà ai miei
comandi”, fu la sua ultima parola e,
stranamente, il greco-albanese non si scompose, chinando in
accettazione il
capo.
Pazienza,
ci aveva provato.
“Si
vocifera che i tedeschi stiano ritornando dalla Patria del
Friuli e che il maresciallo abbia lasciato Nervesa”, riprese
più conciliante il
Gambara, interrompendo il teso silenzio interpostosi tra di loro.
“Corretto.”
“Quindi
quest’assedio si farà.”
“Così
parrebbe”, si grattò Mercurio il mento, osservando
il
paesaggio boscoso dalla finestra, là dove si stagliavano le
sagome dei monti
friulani sul cielo grigiastro e foriero dell’ennesimo
acquazzone. “Stando ai
nostri esploratori, la conquista della Patria è
pressoché completa. Gradisca è
flagellata da una pesante pestilenza e gli imperiali non demordono
nell’assedio. Ed io ho come la sensazione, che lì
i soldati non siano così
devoti da lasciarsi morire di peste per la difesa di San Marco, non se
hanno
una minima possibilità di salvare la propria pellaccia. Le
proposte di Georg
von Liechtenstein alla fine non appaiono così malvagie e
irragionevoli.”
“L’Imperatore
ne sarà contento”, asserì ambiguo il
nobile
bresciano, appoggiandosi stancamente sui cuscini. “Tutto sta
procedendo secondo
i suoi piani: ora come ora, gli manca d’occupare solo il
Cadore e Treviso. In
questo mi dispiace di deludere la Sacra Cesarea Maestà,
poiché mi trovo
impossibilitato a contribuire di persona.”
Le
orecchie vigili di Mercurio s’alzarono a mo’
d’antenna di
lumaca alla menzione del Cadore, regione mai nominata apertamente nei
piani di
conquista del Re dei Romani, non a seguito della debacle del 1509. Che
significava? Non dovevano limitarsi a Treviso? Già la Patria
del Friuli era
stato un fortunato fuoriprogramma, ma cos’erano tutte quelle
deviazioni? Senza
poi consultarlo, proprio lui che Maximilian aveva nominato suo
consigliere di
guerra!
“Abbiamo
combattuto fianco a fianco a Fornovo e a Novara. Mi
rincresce che non lo faremo anche a Treviso”,
dichiarò il greco-albanese
l’opposto dei suoi veri pensieri, studiando vorace ogni
singola reazione sul
viso stravolto del Gambara, in cerca della benché minima
informazione su quella
sgradita novità. In qualità di rappresentante
dell’Imperatore in campo, forse
egli sapeva qualcosa che Mercurio ignorava? In quel caso, doveva
apprenderlo
senza destare eccessivi sospetti. Non fosse mai che il conte
Gianfrancesco
riferisse al Re dei Romani della poca fiducia del Bua nei suoi
confronti.
“Sia
fatta la volontà di Dio”, mormorò
stanco l’ammalato,
sorprendendo il capitano degli stradioti, il quale strabuzzò
disorientato gli
occhi, sporgendosi inconsciamente in avanti, incredulo.
“Non
v’immaginavo così rassegnato”,
aggrottò la fronte, guardingo.
“Guarirete e presto anche”, fu il suo burbero modo
di consolarlo.
Peccato
che il conte Gianfrancesco non seppe apprezzare quel suo
gesto. “Nulla mi tange, nulla m’importa
più di questa guerra”, asserì infatti,
“voglio solo rivedere i miei figli e i miei nipoti prima di
morire.”
“Ritornerete
dunque a Brescia?”, si conformò mesto il Bua,
rammaricandosi nel suo intimo della svanita prospettiva di giovarsi di
quei
valenti soldati. “Non sarà un viaggio troppo
faticoso nelle vostre condizioni?”
“Dopo
l’incontro col cardinale Federico Sanseverino, sì,
ho
ottenuto il permesso da La Palissa di rientrare nei miei possedimenti a
Pralboino. Certamente sussiste il rischio che tiri prima le cuoia,
però … ”
però almeno sarebbe morto in sella, dignitosamente, non alla
stregua d’un
mendicante nell’altrui casa.
“Vi
penserò, una volta a Treviso.”
“Sì,
voi andrete a Treviso”, convenne il Gambara, abbozzando ad un
sorrisetto cospiratore. “Come condottiere della
Serenissima.”
Neanche
l’avesse punto uno scorpione, Mercurio balzò su
dalla
sedia, la quale cadde rumorosamente per terra, provocando uno
spaventato
sussulto nel servo del
conte. “Giammai!”,
ringhiò bellicoso il
greco-albanese, arrossendo alla stregua d’una mela matura,
indignatissimo da
quell’insinuazione che, se udita dalle orecchie sbagliate,
poteva costargli il
collo per tradimento e diserzione.
“Suvvia,
capitano Bua”, non si fece ingannare di certo il conte
Gianfrancesco da quella violenta reazione, semmai aumentando
l’estensione del
suo ghigno pressoché scheletrico a causa della malattia.
“Non nascondetevi
dietro un dito: voi siete un pessimo perdente, il vostro orgoglio
più forte del
vostro onore. Non sopportate l’idea di perdere: vi ricordo
che avete
abbandonato la Signoria quand’era in difficoltà a
Pisa contro Firenze; avete
abbandonato il Moro, dopo la capitolazione di Novara; vi siete stufato
di
servire il Re di Francia dopo la sua sconfitta da parte dei Cattolici a
Napoli.
Appunto perché ormai vi conosco abbastanza bene, scommetto
che, dovessero le
sorti della guerra incominciare a pendere dalla parte di Venezia, voi
ritornerete da lei, perché questa è la vostra
filosofia di vita: vincere e
sopravvivere ad ogni costo. E non vi biasimo, voi provenite da terre
infelici,
assediate da feroci e implacabili nemici, mentre noialtri
…”, e il nobile
bresciano scosse il capo, sospirando amaro, “noi ci siamo
rammolliti e abbiamo
perduto ogni dignità; ci siamo prostituiti per continuare a
vivere nei
privilegi, piuttosto di combattere per mantenere la nostra indipendenza
...”
“Massimiliano
sta conquistando con successo la Patria del Friuli e
lui stesso s’unirà alle nostre truppe
nell’assedio di Treviso. Voi farneticate
d’un futuro irrealizzabile”, si difese prontamente
Mercurio, avvertendo gocce
di sudore freddo scendergli lungo la nuca a causa della schietta e
impietosa
lista dei suoi cambi di partito. Di cosa l’accusava? Non era
forse un
mercenario? Non serviva il migliore offerente? Perché
rinfacciargli quegli
eventi passati?
“L’Imperatore
scenderà certamente, per invadere il Cadore e per
svernare o lì o in Friuli, al sicuro e rifocillato, mentre
voi e La Palissa
rischierete la vita e l’onore a Treviso”,
continuò imperterrito il Gambara,
tallonando serratamente cogli occhi ogni singolo movimento del Bua, il
quale
aveva meccanicamente raccolto la sedia, riprendendovi posto.
“Massimiliano sta
sfruttando l’esercito francese per i suoi piani di conquista
e, una volta
sottomessa l’intera Terraferma, forte della sua potenza
punterà alla Lombardia
ai danni del suo alleato il Re di Francia per rimettere sul trono
ducale di
Milano i figli esiliati del Moro, suoi cugini per matrimonio.”
Il volto
del greco-albanese si tramutò in duro granito,
inespressivo e imperturbabile, tuttavia al bresciano non sfuggirono le
lievi
contrazioni delle sue dita, tamburellanti indisciplinate sulle
ginocchia. Né
tantomeno sorpassò sul lento dilatarsi delle sue nari, come
se il condottiero
si stesse imponendo di non afferrarlo per la collottola e sguarattarlo
fino a
fargli vomitare le budella. “E se anche fosse?”,
giocò al nesci Mercurio in un
sibilo astioso, indeciso se arrabbiarsi di più contro se
stesso o contro
quell’infame dell’Habsburg, che ad ogni occasione
tentava di fregarlo. “A me
non cambierebbe nulla, poiché io servo
l’Imperatore.”
“Il
quale vi ha impedito di guadare la Piave e far provvista,
equiparandovi ai suoi alleati francesi. Vi sfrutta, ma non
v’apprezza”,
puntualizzò il conte Gianfrancesco, rinvangando sadicamente
quello spiacevole
dettaglio, il medesimo che, tempo addietro, Hironimo Miani aveva fatto
notare
al Bua.
Non
ti è sembrato strano l’ordine
dell’Imperatore, che sanciva la
Piave a limite invalicabile soltanto alle truppe francesi e ai tuoi
stradioti?
“Io
odio la Signoria e non cambierò mai bandiera!”,
gridò
subitaneamente Mercurio, onde chetare sia la voce del veneziano sia
quell’assurde calunnie da parte del Gambara.
“Eppure,
Massimiliano stesso sta nuovamente inviando proposte di
pace alla Signoria. Mi spiegate come mai uno che sta vincendo
così
sfacciatamente, all’improvviso vuole terminare in fretta la
partita? Perché sa
che non potrà conservare a lungo le sue vittorie, dovesse il
gioco proseguire
imperterrito!”
“Se
così fosse, allora vorrà dire che
militerò di nuovo per il Re
di Francia! Ma dalla Signoria non ci ritorno!”,
ribadì, battendo le mani
pesantemente sulle cosce, affatto contento di quel metterlo con le
spalle al
muro e al contempo di ridicolizzarlo. Passasse per il patrizio, che
certamente
agiva così per invidia e per confonderlo, ma pure ora il
Gambara spargeva sale
sulle ferite? Il rappresentante dell’Imperatore per di
più? Una noce nel sacco
non fa rumore, due però … Poteva sussistere la
minima possibilità che ambedue
stessero affermando il vero? Che Maximilian si stesse servendo
vigliaccamente
di loro, non stimandoli in realtà nulla?
Me
lo vedo Massimiliano cinguettarti a lavoro terminato: “Ben
fatto, Mercurio; bravo, Mercurio; ottimo lavoro, Mercurio! Grazie,
Mercurio, per aver sacrificato all’altare
del mio prestigio la tua
vita e quella dei tuoi uomini; grazie per aver rinunciato per amor mio
a tua
moglie e a tua figlia!”
“Ritornerete
al servizio della Signoria, eccome, similmente al
figliol prodigo e lei non vi lascerà mai più,
perché è matrigna: tanto generosa
quanto esigente ...”, concluse il discorso il conte
Gianfrancesco, socchiudendo
ieratico gli occhi, trionfante di quella sua certezza. Adesso il Bua
negava e
protestava, ciononostante non serbava amore per chi lo corbellava o non
gli
permetteva di guerreggiare a suo gusto, frenandolo nella vittoria.
Maximilian
lo stava sottovalutando, giudicandolo innocuo, invece del cavallo pazzo
che in
realtà era. Forse non oggi né domani
né fra un mese o un anno, ma il dì della
diserzione del greco- albanese quell’arrogante d’un
Habsburg si sarebbe pentito
di quella sua cecità e ciò sinceramente al
Gambara non suscitava alcun
sentimento di commiserazione.
“Voi
vaneggiate, signor conte. Io non abbandonerò mai il servizio
dell’Imperatore”, reiterò fumante il
capitano degli stradioti, crocifiggendo
con lo sguardo il serafico nobiluomo, che di fatti replicò
velenosamente
carezzevole:
“La
vostra famiglia l’ha già fatto, Mercurio Bua
Spata. E siete
voi forse un Caino, che leva la sua spada contro il suo medesimo
sangue?”
***
Il
capitano Andrea Vassallo controllava con un occhio l’armizzo
dei burchi, mentre con l’altro l’intenso viavai di
marinai sul barcharezo, i
quali stivavano al ritmo serrato e composto d’operose
formiche le staie di
farina sotto il bàito dell’imbarcazione.
Appollaiato in testa all’albero di
prua, stava di vedetta il gato, il quale
scrutava vigile
l’orizzonte in cerca d’eventuali sagome di
saccomanni o stradioti nemici,
prontissimo ad avvertire i suoi compagni e soprattutto i balestrieri
giunti
assieme a loro a mo’ di scorta.
Dal
fallito attacco a Musestre, tutti i duecentouno marinai giunti
da Venezia erano stati spediti a ritirare dai mulini le farine e ogni
burchio e
ganzàra ormeggiati lungo il Sile, i nervi a fiori di pelle
dall’ansia di
ritrovarsi a tu-per-tu coi Collegati. La trafelata staffetta
proveniente da
Treviso aveva avvertito il capitano Vassallo della partenza di buona
parte
dell’esercito nemico da Nervesa e di come si muovesse questi
lungo la Piave con
artiglierie e carriaggi: stessero pertanto in allerta e pronti a
possibili
assalti, avendo intravisto gli esploratori veneziani dei cavalleggeri
francesi
aggirarsi per la Callalta.
“Sior
capetanio”, s’avvicinò il
nochièr ad Andrea Vassallo,
toccandosi il bordo della bereta a mo’ di rispetto.
“Ghemo justo finio
d’armizar l’ultimo burcio. Co’
volé, semo pronti per desarmizar.”
Il
capitano annuì e ringraziò il nochièr
per il rapido ed
eccellente lavoro. “Levate el fèro!”,
comandò ai marinai, una volta salito sul
quartiero del burchio, mentre gli uomini scioglievano le cime dalle
dame e
drizzavano le vele ocra degli alborazi per navigare a
daredosso.
“Chiapar tuti i remi!”, ordinò Vassallo
ai rematori, che si preparassero
all’imminente voga.
Appena
l’ancora veniva issata a bordo della prodiera, ecco che
il gato dalla sua postazione
lanciò il temutissimo allarme:
“Cavali lizieri, sior capetanio!”
Andrea
Vassallo girò di scatto la testa nella direzione indicata
dal marinaio. Non scorgendo tuttavia niente, trovandosi troppo in
basso, si
diresse al poparìn dal pope e
da lì a sua volta gridò: “Calar
i remi in barba! Pupe, a stagando! Vogar a
la desperada!”
In
sincronia perfetta i vogatori sul lai de pope batterono i remi
in acqua e il burchio virò velocemente sulla destra, per poi
raddrizzarsi e
proseguire dritto accodandosi a quelli già in navigazione,
unitisi i prove sui
lai de mèso alla voga, al grido di “Dai de
longo!” e “Pògia la banda!”,
avendo
fortunatamente il vento in poppa, imbulando le vele e spingendo il
burchio in
avanti più agevolmente, malgrado la resistenza della
corrente contraria del
Sile. Il gato fece su cicogna e
segnalò, facendo manto, al
capitano dell’imbarcazione davanti loro
dell’avvistamento dei cavalleggeri
francesi. A catena venne l’informazione condivisa tra i
burchi e costoro
acquisirono improvvisamente velocità e l’eco di
“Premi! Premi!” riverberava
nella frizzante aria settembrina, mescolandosi al vento impetuoso
foriero di
temporale.
“Ala!
Ala!”, s’incoraggiavano tra di loro i rematori del
burchio
del Vassallo, l’ultimo della colonna d’imbarcazioni
e pertanto il più
vulnerabile. Sia i pupe che
i prove grugnivano
dallo sforzo improvviso, i volti rigati da rivoli di sudore e la loro
camicia
divenuta semitrasparente, attaccandosi alla pelle.
“Bativóga! Bativóga!”, li
esortava il portolàn davanti
al pope tra uno
sbuffo e l’altro, dando il ritmo alla vogata, sempre
più rapida e indiavolata.
“Bativóga, fioi de Sen Marcho!”, si
sgolava, sputando fuoribordo il sudore che
gli colava in bocca.
Assicuratosi
d’essersi ben allontanati dalla pericolosa riva, il
capitano Andrea ritornò allora al quartiero, coordinando
l’allineamento dei
balestrieri all’impavesata a
pògia, i quali sistemarono rapidi i
loro pavesi rossi, tenendo i saccomanni francesi sottotiro, non appena
questi
si palesarono sulla riva del fiume, uscendo finalmente allo scoperto,
anch’essi
armati di balestre.
“Zòso!
Zòso!”, fece cenno il capitano ai vogatori
d’abbassarsi
quel tanto da ripararsi dietro i pavesi, quest’ultimi che
presero a tremare dal
secco colpo incassato delle frecce nemiche. “Premi!
Bativóga!”
“Ala!
Ala!”
Un
cavalleggero francese, seguendo il tragitto del burchio e
giudicando d’aver trovato una fessura tra gli scudi difensivi
sull’impavesata,
finì puntualmente fiocinato prima ancora di prendere la mira
da un balestriere
marciano e con lui anche il compagno che l’aveva appena
raggiunto; ambedue cascarono
rumorosamente in acqua, dopo aver rotolato sulla riva fangosa e
ricoperta di
giunchi, tanto da persuadere gli altri francesi a desistere
dall’impresa e
ritornare sui propri passi, realizzando quanto pure loro si trovassero
sulla
traiettoria nemica.
Fortunatamente,
Melma non distanziava troppo da Treviso e la
sospirata sagoma del torrione di San Polo e del porto si
palesò in fretta.
“Quatro de bone!”, comandò giubilante il
capitano Vassallo, acciocché
l’equipaggio rinforzasse il ritmo e la spinta della vogata,
in un’ultima
accelerazione verso la salvifica meta finale. “Quatro de bone
e semo salvi!”
“Premi!
Premi!”
“Bativóga!
Bativóga!”
“Oh
… ehi! Oh … ehi!”
Ancora
gli ultimi tratti di fiume …
“Vòge!”,
giunse l’agognato ordine agli orecchi degli sfiniti
rematori. “Leva remo!”, gridò il
capitano Vassallo all’equipaggio di cessare la
vogata, alzando i remi fuor d’acqua, non prima che i vogatori
s’accasciassero
per qualche istante su di essi, respirando a grosse boccate e
detergendosi il
sudore dalla fronte con le maniche altrettanto bagnate. Nel frattanto,
delle barchette
guidavano le manovre dei burchi, in modo ch’attraccassero
al logo de
sbarco e i morè assieme
ai marinai meno stanchi si
prepararono a scaricare le staie di farine.
Dalla
fretta con cui venne sbrigata l’intera manovra e dalle facce
tese dei soldati al porto, il capitano Andrea intuì lesto
che lui e il suo
equipaggio non erano stati i soli ad aver avvistato e incrociato dei
contingenti francesi.
E la sua
teoria venne confermata infatti dal serrato rullo di
tamburi provenienti dalle casematte e da ogni angolo delle mura,
seguito a
ruota dalla campana del Campanón de 'l Cànpo e
dal grido di “Arme! Arme!” dalle
sentinelle a Porta San Tomaso.
“Dov’è
il magnifico sier Provedador?”, afferrò il
Vassallo un
fante per il braccio, bloccandolo. “Debbo comunicargli un
fatto molto grave!”
“Al
bastion di la Madona!”
In
brevissimo tempo, mentre il capitano correva da sier Zuam Paulo
Gradenigo, i soldati marciani si posizionavano precisi e puntuali
ciascun al
suo posto, avvezzi ormai alle continue esercitazioni; Giorgio da
Cattaro,
Michiel Scariolo, Paulo da Venezia e Gasparo de la Mola - i bombardieri
della
porta e del torrione di San Tomaso fino a quello di San Bartolomeo
- presero rapidi posizione dietro ai loro sacri,
falconetti e alle
bombardelle e spingarde, mentre i balestrieri e gli archibugieri
venivano
diretti alle loro postazioni dal condottiero Carlo Corso, il quale
mandò uno
dei suoi fanti ad avvisare il capitano Renzo di Ceri.
Un timido
sole fece capolino dalle densi nubi grigiastre,
segnalando il raggiungimento di metà mattina e soprattutto
illuminando i
luccicanti corsaletti dei tre distaccamenti di
duecento cavalieri
ciascuno, capitanati personalmente dal maresciallo Jacques de Chabannes
de La
Palice, ben visibile grazia alla sua imponente armatura e alle alte
piume del
suo pennacchio scosse dall’umido vento di levante. Un
palafreniere teneva fermo
il cavallo del maresciallo per il montante del filetto, mentre i due
vessilliferi accanto a lui sventolavano i gigli di Francia,
l’aquila imperiale
e l’impresa della casata del generalissimo.
Malgrado
la grande e minacciosa pompa e lo schieramento compatto,
le tre compagnie se ne stavano cautamente a debita distanza, muovendosi
piuttosto sul proprio lato quasi stessero costeggiando le mura, non
osando
avanzare verso di esse, chiaro segno che si trattava la loro di una
manovra
dimostrativa, senza alcun’intenzione di provocare uno scontro
diretto. Questo
finché un gruppo di sedici cavalieri francesi si
portò più presso e fu allora
che il comandante Carlo Corso diede ordine ai balestrieri di scoccare
le loro
frecce: nessun nemico venne colpito, ciononostante i francesi
rincularono
prontamente, avendo capito d’essersi appropinquati troppo, se
le balestre
potevano comodamente raggiungerli.
“Riusciamo
a colpire la Palissa?”, s’informò Renzo
di Ceri,
fissando avido dalla finestrella il vessillo accanto a cui stava
solenne e
impettito il generalissimo francese, sovvenendosi l’Orsini
del panico degli
imperiali alla battaglia di Tai di Cadore, quando Rinieri della
Sassetta aveva
infilzato con la sua picca il comandante tedesco Sixt von Trautson.
Uccidi il
pastore e il gregge si disperde, chissà se la morte di La
Palice non avesse
sortito il medesimo effetto …
Più
e più volte Giorgio da Cattaro posizionò e
riposizionò la
bocca del sacro, spingendolo quanto più possibile in avanti
onde allungare il
tiro. “No, si trova troppo lontano”,
s’arrese infine il bombardiere, piccato
quanto il capitano delle fanterie, che imprecò rabbioso tra
i denti.
Improvvisamente,
un colpo di colubrina fendette l’aria e la riempì
sia d’acre odore di polvere da sparo sia di nitriti
spaventati ed esclamazioni
di sorpresa: Girolamo da Faenza, bombardiere al bastione della Madonna,
aveva intercettato
quei sedici cavalleggeri che, malgrado l’avvertimento dei
balestrieri di Carlo
Corso, imperterriti avevano continuato a girare attorno alle mura lungo
il
fiume Botteniga. Sicché, il comandante Cipriano da
Forlì, infastidito da
cotanta arroganza, aveva dato ordine di sparare un colpo, con la
benedizione
del provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, lì a controllare
quelle manovre
sospette. Dopodiché, sceso il patrizio veneziano dal
bastione, salì egli a
cavallo per raggiunse Porta San Tomaso e il capitano Orsini.
“Per
l’intera Corte Trionfante, cosa crede di concludere La
Palissa con questa sua buffonata?”, tuonò il
capitano Vitello Vitelli,
aggregandosi al duo. Era giunto di gran fretta dalla sua postazione e
il suo
cavallo, eccitato dalla corsa, ancora si ribellava agli ordini delle
redini del
morso, scuotendo nervoso il capo e indietreggiando.
“Sarà
certamente venuto a studiare il territorio, in particolare
dove piantare le artiglierie e dove accamparsi indisturbati”,
riassunse Renzo
di Ceri la sua personale teoria. “Di sicuro si
sarà informato sul tiro dei
nostri cannoni, poiché per il momento è
impossibile colpirlo. E con seicento
cavalieri dubito voglia attaccare. Vuole soltanto
intimidirci.”
“Dunque
risponderemo alla paura con la paura”, sentenziò
spiccio
sier Zuam Paulo Gradenigo. “Capitano Vitello, uscite assieme
a tutti i vostri
balestrieri. Vi faranno da scorta le nostre compagnie di stradioti al
gran
completo.”
“Volete
ingaggiarli in combattimento?”, reclinò il capo il
condottiero, assottigliando pensoso gli occhi, confuso da quella
tattica assai
drastica.
“La
Palissa sa che non gli conviene: alla fine dei giochi, non
può
contare che su seicento uomini e per di più si trova
sprovvisto d’artiglieria.
Se vuole evitare un’inutile mattanza, non gli rimane altro
che indietreggiare e
ritirarsi, se voi avanzerete compatti”, capì
invece Renzo di Ceri l’intenzione
del provveditore, ritrovandosi d’accordo con lui: se il
maresciallo voleva
mostrare i denti, loro gli avrebbero risposto mostrando i propri.
In quel
momento si presentò il capitano Andrea Vassallo,
arrestando bruscamente la sua corsa e, piegatosi a metà,
poggiò le mani sulle
ginocchia, ansimando, prima di ripigliarsi e annunciare a sier
Gradenigo:
“Magnifico sier Provedador, zelenza. Abbiamo avvistato
pattuglie di saccomanni
a Melma: per un soffio siamo riusciti ad evitarli, portando al sicuro
tutti
burchi e le farine!”
Sier Zuam
Paulo aggrottò la fronte, affatto contento di tale
novità e al contempo non sorpreso da essa: se invero
l’esercito nemico aveva
levato il campo da Nervesa, era ovvio che prima o poi i rispettivi
soldati si
sarebbero imbattuti e scontrati tra di loro. “Non si tratta
soltanto di una
manovra dimostrativa o d’avanscoperta”,
confidò infine il patrizio i suoi
sospetti ai due capitani di ventura, “bensì di uno
specchietto per le allodole:
mentre noi ci focalizziamo su monsignore di La Peliza e i suoi
gendarmi, i
saccomanni e i cavalleggeri francesi ci saccheggiano alle nostre spalle
i
mulini del Sile e tutte le terre della bassa lungo la Piave. Astuto, il
franzoso.”
“Non
è improbabile che i suoi si trovino ancora
lì”, commentò cupo
l’Orsini, non avendo considerato anche
quell’aspetto del piano del
generalissimo francese.
“Allora
ripaghiamolo della stessa moneta”, suggerì Vitello
Vitelli, raddrizzandosi in sella. “Domanderò al
capitano Piero da Novelon di
darmi dodici dei suoi archibugieri per rimpolpare la mia compagnia,
oltre a
cento fanti, i quali si staccheranno e cavalcheranno fino a Melma a
difesa dei
mulini e in particolare per spazzar via questi molesti mosconi
gallici.”
“Oramai
quest’assedio avrà luogo, è
ufficiale”, concluse il
capitano delle fanterie, acconsento immediatamente alla richiesta del
collega
di cedergli gli uomini necessari alla sua manovra. “Possiamo
soltanto
posticiparlo di qualche giorno, ma non più
evitarlo.”
“L’importante”,
rimarcò gravemente sier Zuam Paulo, “è
che i loro
esploratori non s’avvicino mai a Porta Altinia,
poiché sappiamo corrispondere
al nostro punto debole. Mi recherò subito a conferire coi
connestabili alla
porta e ai bastioni adiacenti, nonché coi loro bombardieri.
Anche il Castello
che presidia la via per Mestre verrà allertato.”
“Alcuni
nostri esploratori ancora non sono rientrati dalla loro
perlustrazione: voglia il Cielo che già stasera scopriremo
l’esatta ubicazione
del nuovo accampamento nemico”, s’augurò
Vitello Vitelli, mentre Renzo di Ceri
domandò al provveditore:
“Orlando
da Bergamo ha ripreso la sua postazione sul campanile di
San Nicolò?”
“Dobbiamo
ringraziare quel formidabile capo-bombardiere, se
abbiamo avvistato immediatamente monsignore di La Peliza”,
gli rivelò sier
Gradenigo, trattenendo a stento un sornione sogghigno soddisfatto e
ringraziando l’occhio di falco del bergamasco.
“Bisognerà raddoppiare la
guardia e rimanere vigilantissimi: la Peliza ha fatto la sua mossa e
non si può
escludere che sia perfino riuscito a convincere i Todeschi a
riattraversare la
Piave. Ricordatevi, che quest’ultimi ritornano con provviste,
artiglierie e
munizioni sottratte alle roccaforti della Patria del Friuli. Ergo, ora
come ora
dobbiamo attenderci ogni sorta d’iniziativa da parte dei
Collegati.”
“Possano
crepare all’inferno, se s’avvicinano a queste
mura!”
“Dio
v’esaudisca, capitan Lorenzo Orsini degli Anguillara, Dio
v’esaudisca …”
Ignari di
quanto si pianificava all’interno di Treviso, il
maresciallo de La Palice, i capitani du Boisy, du Molard e Giulio
Sanseverino
studiavano in un misto di stupore e sgomento le nuove e robuste mura
difensive,
chiedendosi se in verità non avessero fatto stavolta il
passo più lungo della
gamba.
In tale
massiccia opera bellica già altrove s’erano
imbattuti, ma
mai costruita in sì poco tempo, come se Treviso li avesse
sempre attesi, pronta
a combattere.
“Non
è una città”, mormorò
esterrefatto Sanseverino, “è una fortezza
vera e propria!”
Sbatteva
le ciglia, incapace di conciliare i vaghi ricordi
d’infanzia, che possedeva della capitale della Marca, con
quanto gli si stava
presentando innanzi. Nelle occasioni in cui aveva transitato per
Treviso –
quando appena decenne aveva accompagnato i suoi fratellastri Galeazzo,
Gaspare
e Antonio Maria ad una giostra a Venezia o semplicemente quando da
lì si recava
per raggiungere i feudi di Cittadella di suo padre, il fu Roberto
Sanseverino,
condottiero della Serenissima - Giulio si sovveniva
di antiche e
cadenti mura piombate, alte, merlate, costruite di pietre cotte come ai
tempi
degli Scaligeri, facilmente abbattibili da pochi colpi di cannone. Le
undici
porte cittadine le aveva viste chiuse poi da un risibile catenaccio,
manco si
trattassero del recinto di una fattoria. E la città,
appunto, espansa
notevolmente fuori dalla mura in otto popolosi borghi, gaudente e
sonnacchiosa.
Nulla di
tutto ciò era rimasto, tranne il vorticoso abbraccio del
Sile e della Botteniga che assieme ai tre Cagnan circondava possessivo
Treviso,
due fiumi di risorgiva venerati sin dai tempi antichi, prima ancora dei
Romani,
dove valorosi guerrieri lanciavano le loro spade in offerta alla Grande
Dea
Madre loro protettrice.
“Abbiamo
assediato fortezze ben più sofisticate”,
scrollò le
spalle Soffrey du Molard, che in diciassette anni di guerre in Italia
poteva
ben vantarsi di aver ammirato (e distrutto) numerose roccaforti e
città,
“queste mura, anche se nuove, non resisteranno ai cannoni che
ci arriveranno
dal Friuli. Men che meno a quelli ferraresi giuntici da
Vérone. E non sarà
certo un misero fossato e un po’ d’acqua sporca a
fermarci”, aggiunse
tracotante.
Al che il
Sanseverino digrignò i denti, infastidito da cotanto
pressapochismo. “I nostri cannoni non potranno niente contro
la forza di ben
due fiumi, poiché quest’ultimi ci impediranno
anche solo d’avvicinarci alla
città”, ribadì in un soffio. E
proseguendo: “Il mio signor padre, il fu Roberto
Sanseverino d’Aragona, mi raccontò che, nel 1356,
il re Luigi d’Ungheria aveva
provato a costruire delle gallerie sotto le mura di Treviso, ma il
terreno era
talmente impregnato d’acqua da far crollare la loro volta,
seppellendo vivi i
genieri!”, e il labbro inferiore del capitano delle fanterie
guascone tremò
impercettibilmente dinanzi a quella macabra vicenda militare,
immaginandosi
assai vivamente le urla di quei disgraziati, soffocati da fango e acqua.
“Tutte
le fortezze posseggono un punto debole”, intervenne La
Palice per togliere d’impaccio il suo ammutolito
connazionale. “Basta trovare
quello di Trévise e lì bombardarlo senza tregua,
finché non s’otterrà una
breccia. Dopodiché, costruiremo delle zattere per entrare in
città.”
“Ma
cosa ci attenderà, lì dentro?”,
cogitò ad alta voce Sanseverino.
“Se così velocemente hanno eretto una cinta
muraria alla moderna, chi ci
assicura che non abbiano avuto tempo e modo di costruire un controfosso
all’interno, subito dopo le mura?”
In quel
caso, gli assedianti si sarebbero trasformati in sorci in
trappola, alla mercé della furia degli assediati, i ruoli
rovesciati.
“Finora
sembra che sparino soltanto dai bastioni …”,
allungò il
collo du Boisy, seguendo i movimenti dei sedici cavalleggeri mandati in
avanti
in esplorazione.
“Magari
è quel che ci vogliono far credere”, storse la
bocca La
Palice. “Attendono che i nostri si spostino davanti ai
bastioni e lì
colpiscono, acciocché non si sospetti l’esatta
ubicazione della loro
artiglieria.”
“Le
avranno posizionate anche lungo le mura?
All’interno?”
“Non
si deve escludere come possibilità.”
Un
ritmico e sordo rullare di tamburi interruppe bruscamente il
maresciallo, costringendolo a fissare interdetto il gruppetto di sedici
che,
disobbediente agli ordini impartitogli, aveva fatto scompostamente
dietrofront
e stava cavalcando rapidissimo verso le loro fila.
“Guardate!”,
indicò allarmato Giulio Sanseverino, “hanno aperto
Porta San Tomaso!”
I tre
comandanti francesi aguzzarono la vista, afferrando di
riflesso le redini delle rispettive cavalcature. Dietro ai fuggitivi,
infatti,
usciva una colonna compatta tra balestrieri a cavallo e stradioti,
occupando a
guisa di fiume in piena quasi l’intero orizzonte davanti a
loro. Tra di essi
riconobbero immediatamente i capitani Vitello Vitelli e Troilo Orsini
che
portava il vessillo dorato di San Marco, assieme agli altri capi degli
stradioti - i Paleologi, Giorgio Rati, Andrea Pera, Dimitri Megaduca e
Teodoro
Clada.
“Tenete
il passo!”, ordinò Vitelli, al che i giovanissimi
tamburini tradussero musicalmente l’ordinata marcia da
mantenere. “Se ad un
tiro di balestra i francesi ancora non si schiodano dai loro posti,
liberissimi
di caricarli! Nessun prigioniero, tranne per: La Palissa, du Molart, il
Boissi
e Sanseverino!”
“Marco!
Marco!”, risposero in coro i balestrieri e gli stradioti,
quest’ultimi battendo la zagaglia sulle targhe a
mo’ d’accompagnamento ai
tamburi.
I
marciani procedevano in tal guisa lentamente al ritmo cadenzato
dettato dai tamburini, i muscolosi cavalli che battevano impazienti gli
zoccoli
sul fango, sollevandolo; al contempo, la loro marcia possedeva un
ché di
pesante e minaccioso, le armi di ogni soldato pronte all’uso,
senza però mai
cedere all’impulso d’accelerare e caricare
l’avversario.
“Marco!
Marco!”
Il
messaggio appariva inevitabilmente lampante: se i francesi non
avessero ceduto il terreno, avrebbero trovato guerra e morte sotto le
mura.
Mancò pochissimo che ambedue gli eserciti si squadrassero
specularmente dritti
negli occhi, respirando i soldati malamente e scoccando sguardi ora
supplici
ora ansiosi verso i rispettivi comandanti, che li dessero un ordine
chiaro e
preciso, se attaccare o indietreggiare o continuare a marciare, ma che
non li
abbandonassero lì nel dubbio.
“Per
oggi ritiriamoci”, proferì infine il maresciallo
La Palice
dopo un lungo e meditabondo silenzio, cedendo dinanzi
all’impossibilità
d’uscirne vivo in caso di scontro e apprendendo quanto oramai
la sua
dimostrazione di forza avesse perduto efficacia, a confronto di quella
veneziana. “Fate suonare la ritirata! Senza dare le spalle,
non finché non
saremo fuori tiro!” e i tamburini francesi fecero da
contrappunto a quelli
marciani, in un guerresco concerto.
Gradualmente,
la linea dei Collegati indietreggiò, guadagnando
terreno rispetto a quella veneziana, che anzi aveva rallentato il ritmo
di
marcia, una volta afferrato il piano dell’avversario.
“Ho
commesso un errore”, ammise a malincuore La Palice a du
Molard
e du Boisy, aggiungendo poi a denti stretti: “Non saremmo
dovuti venire in un
sol gruppo. Domani ci presenteremo in più distaccamenti: uno
qui a Porta San
Tomaso; uno a Porta Santi Quaranta; uno a Santa Bona; uno a Fontane ed
uno
infine a Melma. E lo vedremo, se les Vénitiens posseggono abbastanza gente per
rincorrerci in tutte le
direzioni!” e detto questo calò irritato la celata
dell’elmo, avendo incominciato
a piovere.
Vous avez seulement gagné
un autre jour de paix,
pensò rancoroso il generalissimo francese,
battendo gli speroni sul fianco del cavallo. “A San Giorgio e
a Torre di
Maserada!”, comandò ai gendarmi e lancieri.
Le
milizie francesi sparirono così all’orizzonte dopo
aver
guadagnato sufficiente terreno per voltarsi e galoppare via, senza
però
accorgersi del drappello di marciani che, staccatosi dalle retrovie dei
balestrieri e stradioti, le rincorrevano in via parallela in direzione
di Melma.
***
Rientrato
fumante d’ira eppure calmissimo all’Abbazia di
Sant’Eustachio, Mercurio Bua prese subito da parte Leka
Busicchio e, ordinato
ai suoi stradioti di non essere disturbato per nulla al mondo,
riferì al
collega quanto svelatogli dal conte Gianfrancesco di Gambara, omettendo
convenientemente la bislacca profezia da parte del bresciano, che
più di ogni
altra cosa l’aveva turbato.
Leka
aveva ascoltato ogni dettaglio in rigoroso silenzio, le gote
che gli si tingevano di vermiglio ad ogni spiacevole rivelazione, in
particolare quando Mercurio gli presentò anche le
dichiarazioni del suo
prigioniero, confrontandole con quelle del Gambara. I due notarono
troppe
coincidenze da considerarle semplici calunnie per invidia o i
vaneggiamenti di
un moribondo, semmai vi scovarono una logica precisa, cinica e affatto
onorevole nei confronti dei loro sforzi per vincere quella dannata
guerra.
“E
se corrispondesse ad una strategia per aizzarci l’uno contro
l’altro?”, vociò infine Busicchio il suo
intimo dubbio, tormentando i guanti di
cuoio. Avevano favellato in greco, acciocché nessuno dei
comandanti italiani e
francesi potessero origliare per caso i loro discorsi. “Il
conte di Gambara non
ha mai dimostrato una grande trasparenza nelle sue alleanze
…”, esplicò molto
diplomaticamente la sua opinione, poiché neppure il Bua
rifulgeva di
cristallina fedeltà verso i suoi committenti.
Nondimeno,
il greco-albanese non sembrò darsene cruccio,
ribattendo piuttosto: “L’ho pensato
anch’io, che credi? Tuttavia, congetture
sospette a parte, nei fatti concreti né il Gambara
né il veneziano hanno
mentito” e si alzò dallo sgabello, pigliando la
brocca e servendo sia lui che Leka
di un abbondante boccale di mosto. “Certo, se davvero
Maximilianos avesse per
piano di pugnalare Loudovíkos alle spalle, dopo aver
terminato la conquista
della Terraferma veneta, obiettivamente a noi ciò non
farebbe né caldo né
freddo.”
“Purché
l’Imperatore non cambi partito in piena guerra,
ché
noialtri saremo i primi a crepare, sgozzati nel sonno dai nostri
ex-alleati. M’inquieta
questa sua improvvisa richiesta di pace”, commentò
secco Leka, paventando un
voltafaccia del Re dei Romani ante di permettere alle sue truppe
d’allontanarsi
in un posto sicuro. “In ogni modo, non m’appare
malvagia come strategia: alla
fine, noi serviamo Maximilianos e ci troveremmo sul carro del
vincitore, no?”
Mercurio
roteò il boccale, studiando assorto il liquido spumoso
dentro d’esso. “Io bado ai fatti”,
asserì grave, “e quest’ultimi mi stanno
parlando chiaro: riservandoci il medesimo trattamento dei francesi,
Maximilianos ci ha dimostrato quanto poco gliene cali di noialtri,
anzi, pure
ci cava dalle spese.”
“Ma
…”
“Se
davvero ci considerasse alla pari dei suoi soldati, perché
ci
ha impedito d’attraversare la Piave e di rifornirci in
Friuli?”, lo interruppe
veemente il Bua, zittendo un intimidito Busicchio, che
s’ingobbì quasi su se
stesso, sopraffatto da quello scatto violento.“Se davvero ci
tenesse a
noialtri, perché non muove quel suo culo austriaco e non si
presenta qui, a
combattere al nostro fianco? Sul serio quell’inconcludente
pusillanime è
convinto, che per amor suo il re Loudovíkos gli
regalerà altre milizie e
danari? Per chi l’ha scambiato? Per un Monte di
Pietà?”, proseguì furioso
Mercurio, puntando l’indice contro Leka, che boccheggiava
sconvolto una
parvenza di replica, abortendola subito dopo, appurando la sua
incapacità di
ribattere a quelle lecite obiezioni. “Quello che abbiamo,
abbiamo per
quest’assedio: il Re di Francia non ci invierà
altro, poiché, contrariamente a
Maximilianos, non spreca né tempo né uomini a
casaccio.”
“Di
sicuro gli imperiali già staranno rientrando a Nervesa e
…”,
farfugliò spaesato Leka, sudando freddo. “E
così … così … supereremo di
gran
numero i veneziani a Treviso … Insomma, non vuole il Re di
Francia risarcirsi
tramite bottino?”
Il
condottiere greco-albanese sogghignò malevolo.
“Quale bottino?
La conquista di Treviso andrà soltanto a vantaggio di
Maximilianos, non certo
di Loudovíkos, poiché così hanno
deciso nei patti di Cambrai: la terraferma
veneta e tutte le sue ricchezze passeranno all’Imperatore.
Quindi o il Re di
Francia rompe l’alleanza con l’Imperatore e si
prende per sé Treviso, oppure
s’impegnerà il minimo indispensabile e il biasimo
cadrà su Maximilianos, che
non è intervenuto tempestivamente.”
“E
noialtri?”
“Tra
i due medici litiganti, chi ci rimette è il
paziente”,
sentenziò amaramente sardonico Mercurio, ritornando a
sedersi accanto al
collega. “Noi moriremo, amico mio, e nessuno ci
ringrazierà.”
Il
capitano stradiota abbassò il capo, colto da subitanea e
frustrata rabbia: sapeva d’essere un mercenario, una spada in
vendita, eppure
possedeva abbastanza amor proprio da non voler essere sacrificato per
colpa
dell’altrui idiozia o avidità. E si dolse della
sua miopia, per non aver saputo
decifrare in tempo gli strani e contradditori atteggiamenti del Re dei
Romani:
tanto prodigo e affabile, quanto doppio e opportunista, che si cuciva
il manto
di gloria con le altrui pelli.
Leka si
morse il labbro inferiore, spiando di sottecchi la figura
immobile e bellicosa del suo collega; per un istante, nutrì
una certa invidia
verso di lui, rimpiangendo di non possedere il medesimo intuito
né la sfacciata
ambizione d’imporsi, anche di malagrazia, tra i grandi della
terra. Mercurio
Bua Spata dettava le sue condizioni per servire come voleva lui, non il
suo committente.
“Che
facciamo allora? Non possiamo disertare.”
Il Bua
intrecciò pensoso le dita tra di loro, portandole sotto il
mento. “Niente per il momento: tacciamo e fingiamo ignoranza,
ma al contempo
accarezziamo i francesi e ce li facciamo amici”,
bisbigliò pianissimo a qualche
centimetro dalla faccia di Leka. “Se la congettura del
Gambara dovesse
rivelarsi una calunnia e una strategia per seminare zizzania,
rivelandola
troppo presto a La Palice noi ci macchieremmo di tradimento e ci
impiccherebbero senza neppure darci l’ultima assoluzione.
Tuttavia, se il conte
stesse dicendo la verità? T’immagini quali
benefici possiamo trarne da
Loudovíkos?”
“Il
quale non sarà contento d’apprendere, come il suo
alleato stia
progettando di sottrargli Milano, per ridare il ducato ai due Sforza
esiliati.”
“Utili
marionette dell’Impero, riportando quest’ultimo
alla
medesima espansione dei tempi antecedenti al Barbarossa: questa
è la grande
missione di Maximilianos”, convenne il Bua, riproducendo
nella sua mente
l’ultimo suo incontro
tête-à-tête con Maximilian, la sua
faccia dal naso
deforme, la sua stazza robusta, il suo carattere sanguigno e collerico
ben
mascherato da cavalleresca cordialità.
Il
greco-albanese riascoltò i progetti
dell’Imperatore,
pronunciati enfaticamente dinanzi ai suoi comandanti, cancellieri e
cortigiani,
di come rivendicasse all’Impero il Friuli e la contea di
Gorizia; di come
considerasse la maggior parte delle città venete
appartenenti alla camera
imperiale e soprattutto di come insistesse intransigente sui diritti
ereditari
che deteneva sulla Marca Trevigiana. L’Habsburg
s’era perfino spinto a
progettare per Venezia un destino di città libera
assoggettata all’Impero, che
avrebbe inglobato tra quelle della Lega Anseatica, fruttandogli enormi
ricchezze e rendendolo il re dell’universo mondo, una volta
che avrebbe
sconfitto, grazie alle sue nuove galee, i Turchi.
Il
condottiere ri-analizzava gli estasiati elogi dell’adulante
seguito di Maximilian, di quel lodarlo come un rapido decisionista
contrariamente a quel temporeggiatore di suo padre, il fu imperatore
Friedrich.
Decantavano la sua genialità e il suo coraggio fuori
dall'ordinario, che lo
precipitavano nelle avventure più arrischiate, chiamandolo
osannanti “l'Ultimo
Cavaliere”. E a Mercurio non era sfuggito lo sguardo di
trionfo
dell’Imperatore, quel suo darsi arie ieratiche da
predestinato, da Cesare
Augusto redivivo, da Carlo Magno, gloriandosi fino alla nausea delle
sue
vittoriose scaramucce contro i francesi di Louis XI e gli Ungheresi e
le città
venete che gli avevano praticamente aperto le porte senza manco
combattere,
cozzando contro la magra figura di Maximilian a Padova, in un vero,
cruentissimo assedio.
Sicché,
ripensando a tutto questo e specialmente al volto del Re
dei Romani con la sua espressione perennemente soddisfatta e benevola
di chi
non aveva mai dovuto lottare in vita sua per il proprio posto al mondo,
che
Mercurio allargò perfido il sorriso mentre una sadica gioia
gli fluiva nelle
vene, realizzando che lui – un semplice condottiero, un
nobile decaduto, uno
straniero di poco conto – poteva intralciare questa sorta di
semidio in terra,
sconvolgendogli i piani; lui poteva competere con un sovrano; lui
poteva
umiliare un Habsburg.
“Se
il Gambara ha affermato il vero”, gongolò
perversamente il
Bua, tremando quasi dall’emozione che tale notizia gli
procurava, “allora egli
m’ha conferito un enorme potere sull’Imperatore, il
potere di distruggere i
suoi sogni di gloria e di conquista e di consegnarlo alla Storia come
un
perdente” e levando lo sguardo verso Leka,
continuò esaltato: “Un potere, di
cui ho intenzione di giovarmi alla prima occasione a noi favorevole.
Noi non
moriremo in questa guerra, amico mio. Noi sopravvivremo e pisceremo
trionfanti
sulle tombe dei nostri nemici!”
Busicchio
grugnì un risolino, coprendosi velocemente la bocca onde
soffocarlo e non destar sospetti.
“Nel
frattempo”, decise pragmatico il greco-albanese,
accomiatandosi dallo sgabello, “continuiamo la nostra recita.
Pallavicino e
Trivulzio si trovano al ponte in attesa degli imperiali: direi di
recarci lì
anche noi e di aiutarli.”
“La
Palice ti tiene in grande stima”, puntualizzò
Leka,
trattenendo il collega all’ultimo. “Forse anche a
lui interesserà salvare la
pelle, dovesse quest’assedio presentarsi più
complicato del previsto …”
Mercurio
annuì pensoso: effettivamente, a quell’aspetto non
ci
aveva pensato. A Louis più di tanto non importava
dell’esito dell’assedio,
tuttavia sarebbe stato sollevato nell’apprendere del ritorno
a Milano del suo
maresciallo, sano e salvo e in un sol pezzo, no?
Di
sicuro, considerato che fino a sera non potevano spostarsi
comunque da Nervesa, al capitano di ventura non rimaneva altro
passatempo, se
non di riflettere e valutare i mille
scenari spiegatisigli innanzi.
L’ennesimo
sgradito crampo serrò le viscere d’Hironimo, manco
lo
stessero straziando con le medesime tenaglie di San’Agata e
Sant’Apollonia e di
conseguenza interrompendo all’improvviso la sua litania di
preghiere. Il
giovane si strinse il ventre cogli avambracci, piegandosi in due in
avanti, fin
quasi a sbattere la fronte per terra, accucciandosi, le orecchie piene
degli
acquosi gorgoglii seguiti da spasmi muscolari. Aveva già
vomitato appena
destatosi, la bocca impastata d’un retrogusto rancido; in
seguito, erano
incominciati quei dolori atroci allo stomaco e una gran voglia
d’evacuare,
malgrado il patrizio si stesse trattenendo con tutto se stesso,
serrando
testardo le gambe.
Purtroppo
per lui, la pressione aumentò al punto che Hironimo
avvertì fluire liquidi anche involontariamente, eludendo la
sorveglianza sempre
più fiacca dei suoi muscoli. Sicché, costretto ad
arrendersi all’evidenza che
gli avevano dato da bere acqua marcia e che nulla l’avrebbe
salvato dalla
dissenteria, il giovane preferì sopportare ai suoi termini
quell’ennesima
umiliazione, piuttosto di lasciarsi cogliere impreparato. Oramai il suo
naso
aveva perduto ogni facoltà di distinguere gli odori, tanto
l’aria mefitica
della cella s’era ammorbata d’ogni sgradevole puzzo.
Alzandosi
incerto sulle gambe, Hironimo avanzò a tentoni al buio,
seguendo il perimetro murale fino a giungere al primo angolo
disponibile. Lì si
sollevò la tunica, si cavò di dosso le mutande,
allargò le gambe e concesse
quel breve sollievo al suo corpo, in realtà il primo passo
verso la più
umiliante delle morti. E mentre gli si bagnavano le gambe, il viso gli
si rigò
specularmente di lacrime: pur rassegnato del suo destino, al contempo
non
voleva lamentarsi con Dio e la Madonna anche di quello, non
giudicandosi degno
di altre richieste. Ciononostante, il suo cuore non riusciva a non
protestare
l’ingiustizia di crepare in maniera sì degradante,
per quanto adeguato
contrappasso per la sua naturale superbia.
Aveva
già domandato troppo alla Vergine d’intercedere
presso il
Padreterno, onde risparmiarlo dal fuoco dell’inferno. Pure
doveva rincarare la
dose di pretese, di una morte onorevole e famosa? Non
montarti la
testa, Hironimo, ti basti ciò che t’è
stato concesso.
Finito
ch’ebbe, il giovane si trascinò cauto dalla parte
opposta
del suo gabinetto di fortuna, guidato dalla fioca luce della fessura
della
porta, raggomitolandosi lì accanto nel tentativo di
respirare un poco d’aria
fresca e di schiarirsi il cervello divenutogli una massa informe di
lana
grezza, tanto la scarsa ossigenazione unita alla febbre gli provocavano
capogiri ed emicranie. Si leccò le labbra secche,
raschiandosi la gola e
sputando catarro. Dopodiché, spogliatosi della tunica,
l’appallottolò e se la
pose sulla pancia, così da riscaldarla e attutire i crampi.
Infine,
riprese a pregare.
Ed
orando, ricordava e meditava sulla sua breve vita, sugli errori
commessi, sulle sue superficialità ed ingratitudine. In
particolare, lo
tormentava il pensiero angoscioso di non poter riappacificarsi con la
sua
famiglia, di non poter chieder perdono a coloro che aveva offeso e,
rimpianto
più pesante da digerire, di non aver alcuna
possibilità di rimediare, di dare
un senso e una direzione alla sua esistenza.
Sebbene
nato nel privilegio e nell’abbondanza, mai aveva
considerato d’usarli per dare un utile e cristiano contributo
alla società; non
aveva mai voluto migliorarsi né nello studio né
in un’occupazione, vivendo
sugli sforzi altri. Accecato dall’egoistica ricerca di
felicità e di piacere
personale, s’era trasformato in niente di meno d’un
parassita, una sanguisuga.
Eppure da bambino era sempre stato così proattivo e pieno
d’idee! Quanto s’era
impigrito nella mollezza degli agi, il suo ingegno impiegato soltanto
al
soddisfacimento delle sue immediate voglie. Ripensò invece
ai suoi primi anni,
quando progettava di divenire Capitano Generale da Mar e
d’emulare le famose
imprese del suo trisavolo sier Zuanne Miani; quando seguiva contento
Madre
nelle sue opere di carità; ripensò ai suoi
maestri, all’agostiniano don Jacomo
Batista Aloisi e ai Canonici Regolari, i quali avevano tentato
d’educargli la
mente e il cuore, per farlo crescere nella pietà e nel
buonsenso.
Virtù
ambedue per troppi anni bellamente trascurate, adesso però
rifiorite spontaneamente: buonsenso perché Hironimo vedeva e
comprendeva i suoi
errori e altrettanto chiaramente progettava e anelava tantissimo di
porvi
rimedio; pietà perché comprendeva come Dio fosse
sempre stato presente nel suo
cuore e nella sua mente, per quanto il giovane patrizio
l’avesse accantonato
per idoli più appaganti e lusinghieri, soffocando e tacendo
la Sua presenza
nella melma dei vizi in cui era caduto, specialmente durante la sua
breve
carriera militare. Si dolse, Hironimo, di aver dovuto aspettare
l’ora della sua
morte per rientrare in se stesso, usando le parole della parabola del
figliol
prodigo, da lui conosciuta fino alla nausea e pertanto su cui mai
s’era
particolarmente soffermato a meditarne i profondi contenuti.
Ora si
sentiva come quello stolto e viziato ragazzo, che aveva
disprezzato l’amore del padre, la sua buona fortuna per una
vita di vuota e
inconcludente voluttà. Sarebbe però riuscito come
lui, si chiedeva Hironimo, ad
alzarsi dal porcile e partirsene per invocare perdono?
Era
impossibile, si disse.
Anche se
percepiva una certa purificazione della sua anima, che
diveniva più leggera e serena, allo stesso modo essa si
stava disancorando dal
suo corpo sfinito dalla malattia e dalle sevizie. Umanamente
prevedendo, era destinato
a perire, forse quel giorno stesso, o l’indomani o fra
qualche settimana …
Hironimo pregava e piangeva, supplicando di morire bene,
d’evitargli la morte
eterna. E tuttavia … morire a neanche venticinque anni, nel
fiore della sua
giovinezza, all’apice delle sue forze sia fisiche che mentali
… Aveva sprecato
tante occasioni, lo ammetteva, ma terminare così la sua
esistenza, senza una
possibilità di riscatto?
Nell’angolo
più oscuro e più tenace del suo cervello gridava
una
voce ben chiara, che no, non voleva un tale triste e anonimo epilogo,
che non
avrebbe gettato all’ortiche gli insegnamenti dei suoi
genitori, dei suoi
maestri, riducendoli ad una misera conversione in punto di morte.
Sarebbe
corrisposta all’ennesima ingratitudine da parte sua.
Ieri
t’eri tutto rassegnato di morire e avevi accettato la tua
sorte e oggi, all’improvviso, domandi di scamparla? Sei
davvero un codardo!,
gli
rimproverò un’altra voce dentro di sé.
Taci! , gli rispose caparbia
quell’altra. Sì,
voglio vivere, voglio ritornare in libertà, ma non per
continuare la vita di
prima! Voglio porre rimedio ai miei sbagli, voglio genuinamente espiare
le mie
colpe, voglio riacquistare grazia presso Dio!
Parli
così perché ti stai – letteralmente
– cagando addosso
all’idea di crepare in una cella buia, umida e puzzolente.
Una volta libero ti
dimenticherai di ogni tua promessa e saremo daccapo: muori invocando
perdono, è
più onorevole!
Hai
ragione, sono sempre stato un bue tardo. Ma ciò non
significa
ch’io mancherò di provarci e riprovarci, anche nel
fallimento! Padre mi disse,
che un uomo che non sa mantenere la parola data non vale nulla ed io
… io
m’impegno a ritornare ad essere degno d’appellarmi
cristiano …
“…
qual vuol grazia e a Te non ricorre, sua disïanza vuol volar
sanz'ali …”, mormorava Hironimo incessantemente la
preghiera dantesca,
riflettendo su ciascuna parola, dandosi coraggio e vigore nella sua
risoluzione, che non fosse dettata dal capriccio di un momentaneo
terrore,
bensì di una concreta proposta di vita.
Un’altra
reminescenza gli volò dinanzi agli occhi: Hironimo si
rivide bambino, furtivamente zampettando in camera del suo omonimo
prozio, sier
Hironimo Miani “il Pizzochero”, il quale da giorni
giaceva ammalato nel suo
letto, confortato dai parenti ed in particolar modo dal suo padre
spirituale,
uno dei Canonici Regolari, che veniva ogni giorno a confessarlo, a
pregare e a
leggergli testi sia biblici che di teologia in generale. Sier Hironimo
non
aveva mai goduto di buona salute e ora che la fibra resistente della
gioventù aveva
lasciato posto a quella delicata della vecchiaia, pur avendo raggiunto
un’età
veneranda, egli soffriva più acutamente ogni malanno che si
buscava e quello,
alas, sarebbe stato quello fatale.
Hironimo
aveva nutrito una particolare predilezione verso quel suo
prozio, il quale si dimostrava comprensivo e dolce nei suoi confronti,
quasi un
benevolo nonno, invece di quel ruvido burbero di suo figlio, sier Zuan
Francesco, che lo rimprovera costantemente, appellandolo
“pendaglio da forca”
due giorni su tre.
In quel
ricordo, Hironimo era scivolato di nascosto nella stanza
dell’ammalato, sedendoglisi accanto e cullando la sua grande
mano rugosa e
sottile tra le sue cicciotte e piccoline, quella mano appoggiata su
“Le
Confessioni” di Sant’Agostino. Il suo prozio
s’era destato dal sonnellino,
sorridendogli a mo’ di saluto e guardandolo teneramente con
quei suoi grandi
occhi buoni.
Il
giovane patrizio non si sovveniva esattamente di ogni parola
scambiatasi tra di loro in quell’ultimo incontro terreno,
tranne del regalo che
“il Pizzochero” gli fece, la famosa lettera di don
Paulo Maffei, il canonico
regolare che, moltissimi anni addietro, aveva rifiutato
l’allora adolescente e
postulante sier Hironimo, la cui salute fragile non lo rendeva idoneo
alla vita
ecclesiastica. Nondimeno, il religioso lo aveva rassicurato che anche
da laico
poteva vivere da buon cristiano e che anzi, i suoi sforzi sarebbero
risultati
doppiamente graditi al Signore, poiché chi viveva nel mondo
subiva maggiormente
il morso delle tentazioni, rispetto a coloro che vivevano fuori
d’esso.
All’epoca, Hironimo era rimasto assai deluso da quel dono,
avendo sperando in
un balocco e i contenuti di quella missiva puntualmente obliati. Ora,
però, gli
riaffiorarono nitidissimi dal profondo mare della sua memoria e poteva
quasi
udire la voce flebile del prozio recitarglieli: “Procuri
Hironimo di
condurre una vita ordinata, raccolta, laboriosa e devota; fugga le
cattive
compagnie e le occasioni di peccato con la custodia attenta e
perseverante dei
propri sensi. Col prossimo usi la massima carità, negli
esercizi di devozioni
non ricerchi lo straordinario. I miracoli, le visioni, le estasi sono
dono di
Dio, anziché questi doni cerchi sempre la grazia
santificante che rende accetti
a Dio e non concepisce neppure un sentimento di invidia verso i
privilegiati
del Signore. Un confessore pieno di prudenza e di santo timore di Dio
gli farà
da guida nel difficile cammino della perfezione.”
“E
quando ti senti lontano da Dio o indegno ai Suoi occhi, prega
la Sua Santissima Madre, poiché nessuna grazia a Lei nega:
in gremio Matris
iacet sapientia Patris, nel grembo della Madre giace la sapienza del
Padre!”,
gli aveva rivelato sier Hironimo, indicando la copia
dell’affresco miracoloso
di Treviso, un regalo dei Canonici Regolari al loro benefattore e che
“il
Pizzocchero” teneva esposta in camera sua, davanti al suo
letto quando ormai da
esso non riusciva più alzarsi.
Ecco!
Ecco dove l’aveva sentita quella frase!
Il
giovane Miani si puntellò sui gomiti, aggrappandosi al
ruvido
legno della porta della sua cella e si sedette scompostamente sui
talloni. Si
sforzava di delineare i contorni sfocati di quel dipinto,
ché sapeva aver
scorto sia nel piccolo altare di famiglia sia nel Monastero della
Carità,
gestito dai Canonici, gli stessi che si trovavano a Santa Maria
Maggiore a
Treviso. Non aveva mai avuto tempo di lì recarsi,
né per curiosità né per
devozione, non nei suoi anni adulti almeno, forse da bambino, ma senza
serbarne
alcun ricordo. Eppure tutti in famiglia avevano nutrito una grande
devozione
verso di Lei.
Pieno di
fiduciosa speranza, Hironimo congiunse le mani
rattrappite dal freddo e si rivolse piangendo alla Madonna, sperando
che non si
scandalizzasse per quel suo improvviso cambio d’idea,
domandandoLe umilmente un
altro tipo d’intercessione.
“Madona
Sanctissima, Verzene Maria”, si raccomandò allo
stremo
delle sue forze, “tante sono le mie sofferenze per i
maltrattamenti e gli
insulti inflittimi, ma nulla paragonato alle offese da me perpetuate
verso il
Tuo Dilectissimo Fiolo Jesu Cristo. So che a malapena merito di morire
a Lui
riconciliato, eppure Ti supplico d’intercedere per me presso
di Lui, affinché
mi sia concessa una seconda possibilità. Sulla mia vita, sul
mio onore, Ti
giuro che non fallirò stavolta. Mi correggerò e
mi riporterò sulla retta via.
Non Ti deluderò! Prometto, se riuscirò a
riacquistare la libertà, d’andare in
pellegrinaggio al Tuo santuario a Treviso, dove graziosamente operi
miracoli
per avvicinarci a Nuostro Missier Domeneddio e contemplare la Sua
Divina Misericordia:
mi recherò lì scalzo e in camicia, da penitente;
farò celebrare Messe di
ringraziamento …”
Per
molte, molte ore Hironimo ripeté quel suo voto, insensibile
a
qualsiasi stimolo esterno e perfino i crampi non lo tormentavano
più. In lui
era finita la paura, esisteva soltanto quella promessa alla Madonna.
Tanto
questa sua determinata orazione lo aveva privato delle poche
energie rimastigli e di conseguenza indotto ad un breve assopimento, da
non
accorgersi di come avesse appoggiato il capo sulla porta,
sicché, quand’essa
s’aprì, il patrizio si ritrovò
scaraventato malamente per terra, la vista
traballante dall’impatto.
Rapido,
tentò goffamente d’indossare la tunica, grato sia
del buio
sia d’aver avuto sufficiente premura di rinfilarsi le
mutande, dopo i dolorosi
affari nell’angolino. Purtroppo per lui,
l’indumento gli venne tolto malamente
di mano, mentre lo si afferrava per i capelli e lo trascinarono fuori
dalla
cella, spintonandolo violentemente contro il muro tra beceri insulti ed
esclamazioni disgustate in un misto tra greco e albanese.
Neanche
il tempo di capire che accidenti stesse succedendo, che
una gelida secchiata d’acqua gli venne scaraventata contro,
strappando ad
Hironimo un gemito di protesta per quell’ennesimo supplizio
alla pelle già di
suo infreddolita. Un panno pesante – che il giovane Miani non
capì se si
trattasse di una coperta o di una mantellina – gli venne
avvolto sulle spalle,
che fungesse sia da telo per asciugarsi sia da vestimento.
Dopodiché, il
famigliare e sinistro tintinnio delle catene rivelò al
patrizio come, dopo
tanti tentennamenti, il campo finalmente si fosse deciso a levarsi e
che dunque
erano venuti a pigliarlo più per quel motivo, che per
accertarsi delle sue
condizioni. Non che personalmente gli facesse alcuna differenza
– sempre
prigioniero rimaneva – però almeno Hironimo, in
cella, non aveva quella
fastidiosa palla al collo a piegarlo a momenti a metà,
né il ferro a
raschiargli a sangue l’epidermide.
Ma
muoversi da Nervesa significava avvicinarsi a Treviso e dunque
la piccola, minuscola prospettiva che qualcuno dei suoi compatrioti
mandasse
una squadra per far incursione nel nuovo accampamento, liberandolo e
costì
permettendo d’adempiere al suo voto.
Traballando,
l’ex-castellano venne scortato dai due stradioti fino
al cortile dell’Abbazia; il cielo s’era scurito
senza tingersi del tipico
arancio del vespro, ingrigito dalle nubi livide e gonfie di quella
pioggia che
cadeva incessante, impregnando il terreno di fango rossastro. Uno
scenario
deprimente, che tuttavia Hironimo assaporò dopo giorni
confinato in quella
tomba di cella, annusando a pieni polmoni l’aria fresca e
terrosa, il profumo
del fogliame autunnale, della resina degli alberi e della pietra umida
del
monastero. Gli parve di ritornare un poco alla vita.
Quand’ecco,
che un odore più nauseabondo distrusse quel piccolo
suo idillio: tanfo di stoffa bruciata, proveniente da fuori le mura
dell’Abbazia, infiltrandosi sornione e ammorbando qualsiasi
cosa su cui si
posasse, uomini, animali, piante.
“Capitano,
siete sicuro di non volerlo mettere sui carri? Neanche
si regge in piedi, ‘sto qua!”, discuteva nel
frattanto uno dei due stradioti
che sorreggeva per le braccia Hironimo, il quale trasalì,
realizzando
all’improvviso di trovarsi davanti a Mercurio Bua: il
temporaneo accecamento,
dovuto alla brusca esposizione alla luce dopo giorni di rigoroso buio,
e lo
spaesamento generale avevano impedito al patrizio di valutare
l’ambiente
circostante.
Il
condottiere lo studiava dall’alto della sua cavalcatura con
un’espressione tra il crucciato e lo schifato, segno che
ancora l’arrabbiatura
per la sua tentata fuga non gli era passata. I rivoli d’acqua
piovana sul suo
volto esacerbavano quei suoi lineamenti accusatori, così
come il riflesso delle
torce accese, svanendo ad ogni istante che trascorreva la luce diurna
per
quella serale. Il suo odio e disprezzo nei confronti del veneziano
apparivano
palesi ed Hironimo non glielo rimproverava, non tanto per aver
progettato di
scappare – reazione ovvia e naturale nella sua condizione
– bensì per aver
infierito, insinuando cattiverie su cattiverie nei confronti della
moglie del
Bua, ch’egli doveva amare assai, a giudicare da come
arruffasse le penne
ogniqualvolta la si menzionasse.
“Camminerà”,
sentenziò brutale Mercurio, battendo sui fianchi del
cavallo per raggiungere il suo soldato, il quale gli cedette
immediatamente le
catene onde condurre a piedi il suo prigioniero. “E se non
cammina, lo scuoio a
frustate!”, gli promise minaccioso, iniziando la marcia fuori
dall’Abbazia.
I primi
passi si rivelarono una tortura per Hironimo, non avvezzo
a camminare scalzo e soprattutto in un terreno così
scivoloso, affondando quasi
nel fango. Scendendo la collinetta sulla quale s’ergeva
l’Abbazia, più volte
dovette puntare i talloni onde non rotolare giù,
sbilanciandolo in avanti la
palla di cannone al collo, il cui peso aumentava anche grazie al trotto
del baio
turco del Bua. Giunti sulla piana, il giovane Miani ansimò
sfinito, respirando
male, il corpo e il viso bagnato di sudore, pioggia e limo.
Approfittando
di un attimo di pausa, Hironimo gettò indietro il
capo e, aperta la bocca, catturò l’acqua piovana,
assetato. Così facendo scoprì
anche da dove proveniva quell’immondo fetore:
l’intera tendopoli ai piedi
dell’Abbazia era stata bruciata, sennonché la
pioggia battente, avendo reso
difficoltosa l’operazione, aveva costretto i francesi ad
applicare olio e pece
per conferire presa e vigore del fuoco contro l’acqua,
ricreando uno scenario
pressoché infernale.
Tale
opinione dovettero condividerla anche le truppe tedesche
appena rientrate dalla Patria del Friuli, osservando disorientate la
desolazione che li circondava. Il grosso d’esse aveva
ripassato la Piave
portando seco un soddisfacente bottino composto da viveri, artiglierie,
munizioni e anche da gente a servizio, questo sotto gli sguardi vigili
dei
comandanti Teodoro Trivulzio e Galeazzo Pallavicino, i quali avevano
poi
ordinato ai guastatori e genieri di staccare il ponte dagli ormeggi di
sinistra
e di pilotare i barconi lungo la corrente, in attesa di nuove
istruzioni.
Malgrado
quindi un ritorno vittorioso, nessuno dei soldati
francesi e italiani guardava con amore quelli tedeschi, né
li consolava né
rallegrava la prospettiva di mangiare finalmente
qualcos’altro che non fosse
pane nero, carne secca e mosto, semmai li portava a scrutare gli
imperiali
pieni d’odio, giurando a quegli opportunisti disertori
vendetta alla prima
occasione propizia. Infatti, non sopportavano di contemplare i tedeschi
pasciuti e ben equipaggiati d’armi e danari, mentre loro
– pur in diversa
misura - avevano dovuto patire la fame e la malattia per rimanere
fedeli agli
ordini impartiti.
Il
capitano Jacob Empser e i suoi compari avanzarono verso gli
altri condottieri, allegri, spavaldi e ignorati degli strali
lanciatigli da
costoro. “Una vero successo”, si vantò
il tedesco a voce ben alta, “siamo
penetrati nella Patria del Friuli a guisa di coltello nel burro,
catturando
prigionieri di spicco” e guardò con sufficienza
Mercurio e Hironimo, il quale,
nelle condizioni in cui si trovava, pareva invero un villano qualunque,
“abbiamo ammassato un ricco bottino, specialmente un gran
numero di cannoni che
aspettano solo d’essere trasportati. A parte qualche
città ostinata, non
abbiamo incontrato grande resistenza: questo significa che la gente ben
conosce
quale sia il suo vero padrone.”
Teodoro
Trivulzio abbozzò ad un sogghigno di scherno.
“Anche qui
nella Marca, la gente ben sa chi sia il suo padrone”,
replicò ambiguo e il
marchese Pallavicino, assieme al Bua, allargarono la bocca in un
sorriso poco
raccomandabile, ogni screzio estinto dalla comune antipatia nutrita
verso il
capitano tedesco.
“Dove
si trova il resto delle vostre milizie?”,
s’informò spiccio
Galeazzo, vociando la collettiva curiosità.
“A
Gradisca d’Isonzo, al comando di Georg von Liechtenstein e di
Fran Krsto Frankopan”, rispose prontamente il capitano Jacob,
“dopodiché si
muoveranno a Motta di Livenza e da lì ci raggiungeranno. Non
abbiamo scordato
la missione affidataci dal Kaiser.”
“Me
ne consolo, per un attimo avevamo temuto il contrario”,
asserì
falsamente sollevato Mercurio, provocando un lieve rossore nelle guance
del
comandante tedesco. “In ogni modo, avrete occasione di
narrare di persona le
vostre favolose avventure al maresciallo La Palice, il quale ci attende
a Torre
di Maserada, dov’è stato allestito il nuovo
accampamento.”
Il
capitano Empser strabuzzò gli occhi. “Partiamo
immediatamente?”, balbettò, guardandosi intorno.
“Ma … abbiamo marciato senza
tregua per giungere qui in tempo, almeno un giorno per riposarci ce lo
dovete!”
A quella
protesta un’esclamazione indignata gorgheggiò in
risposta
dalle gole del Pallavicino e del Trivulzio, mentre il condottiere
greco-albanese
contorse il volto manco soffrisse di coliche, spronando il suo cavallo
ad
avvicinarsi a quello del tedesco. E una volta avutolo a qualche spanna
dal suo
naso, Mercurio gli scoccò una tale occhiata, da eguagliare
quella del dantesco
Minosse al momento del giudizio delle anime dannate.
“Potete
immaginare”, sibilò velenosissimo,
“quanto ce ne può
fottere, che voialtri siete stanchi?” e puntandogli contro
l’indice guantato.
“Il Gran Maestro di Francia ha parlato chiaro: stasera
partiamo per Torre di
Maserada e lì vi ci porterò, capitano Jacob, se
vivo o morto impiccato, starà a
voi deciderlo!”
Dall’alto
della collinetta, ritti in piedi davanti al portone
dell’Abbazia, l’Abate e il monaci benedettini
osservavano silenziosi la colonna
di fiaccole che si spostava in direzione di Treviso, nonché
i falò e i densi
fumi neri provenienti dalla piana sottostante. Man mano che
l’esercito
franco-imperiale s’allontanava, alcuni frati caddero in
ginocchio, congiungendo
le mani e piangendo il loro sollievo per la dipartita di quei satanassi
in
terra.
“Dio
mi perdoni, se per la prima volta in vita mia auguro a
qualcuno di crepare e anche male”, mormorò livido
l’Abate, le nari frementi di
rabbia dinanzi allo sfacelo e contaminazione di quel luogo di pace e di
preghiera.
***
“Maledetto
il budello cane delle loro mamme, ch’el diavolo se li
mangi e li caghi in eterno!”, imprecava il governatore di
Gradisca, il conte
Baldassarre Rimbotti di Scipione, afferrando abilissimo la picca di un
lanzichenecco: tiratolo a sé, gli piantò il
pugnale sotto il mento, facendo
fuoriuscire dalla bocca la lama insanguinata. Sfilatala, il senese
scansò via
il moribondo con un calcio, preparandosi in contemporanea a
fronteggiare il
prossimo avversario e a raggiungere i suoi fedelissimi al porticciolo,
dove li
attendevano dei sandoli e zopoli pronti a navigare l’Isonzo
per portarli in
salvo.
La rabbia
del condottiero non era rivolta unicamente agli
imperiali, che stavano dilagando peggio delle cavallette nella
conquistata
Gradisca, bensì nei confronti della sua medesima compagnia
– quei figli di
troia malnata! – che, esausti e falciati dalla peste,
s’erano ammutinati e
avevano aperto le porte ai tedeschi, accettando le tentatrici
condizioni di
resa da parte dei comandanti Georg von Liechtenstein e Fran Krsto
Frankopan,
guidati quest’ultimi dal re dei traditori, quello spergiuro
di Antonio
Savorgnan, il medesimo al cui fianco, fino a qualche settimana
addietro,
Baldassarre aveva combattuto a Conegliano e a Sacile, fidandosi del
valore e
della dedizione del conte friulano.
Gran
bella cosa, invero!
A
peggiorare le cose, Georg von Liechtenstein aveva imposto una
taglia fortissima sulla testa del conte senese, desideroso di
distinguersi agli
occhi dell’Imperatore portandogli in dono il governatore in
catene e così sia i
suoi uomini sia quelli del Frankopan stavano rivoltando sottosopra
Gradisca pur
di catturare il temibile condottiero, soprannominato
dell’Occhio a causa di una
ferita procacciatasi in un duello, che lo rese, giovanissimo, guercio
ma non
per questo meno letale in battaglia. Ed fu infatti la tracotanza e
dappocaggine
dei lanzichenecchi e pandur croati a salvare Baldassarre di Scipione,
poiché
quegli sprovveduti, notandolo losco, lo sottovalutavano e lo
affrontavano
sbadatamente, ignari della sua maestria nell’arte guerresca.
“Chi
è ancora vivo e chi è ancora fedele a San Marco,
mi segua
alle barche!”, gridò il condottiero al gruppetto
di soldati marciani allo
sbaraglio, mulinando la spada grondante di sangue in direzione del
porticciolo,
sperando che suo figlio Giulio e suo nipote fossero riusciti ad
imbarcarsi in
tempo. Li aveva perduti ambedue di vista nel furore della zuffa, non
appena
quei maledetti cani traditori s’erano ribellati,
rivoltandoglisi contro.
Gli
ultimi rimastigli fedeli, riconosciuta la voce del loro
capitano, lo seguirono velocissimi, approfittando del buio e del
marasma
generale: conquistata la fortezza, molti degli imperiali stavano
pensando più a
far bottino, che a catturare prigionieri. Baldassarre, correndo tra i
vicoletti
oscuri e infilzando chiunque gli sbarrasse il cammino, riconobbe di
striscio il
suo paggio, malmenato ma con la picca in mano e, afferratolo per la
manica, lo
trascinò seco.
Un acuto
coro di nitriti li costrinse ad arrestarsi, appiattendosi
contro il muro: una fila di centottanta fanti friulani era riuscita ad
accedere
alle scuderie e ad appropriarsi dei cavalli, galoppando e caricando i
soldati
tedeschi e croati, sciabolati e calpestati senza alcuna via di scampo,
le
strade troppo strette per scansarsi e trovar riparo. Li guidavano
Mathio,
Todaro e Franceschin Spiron dal Borgo, quest’ultimo fermatosi
un istante
davanti al conte di Scipione.
“Ci
apriamo una via tra questa marmaglia, signor Governatore”,
gli
comunicò concitatamente il condottiere friulano,
“non ci sono sufficienti
imbarcazioni per tutti: Marano la raggiungeremo a cavallo. Iddio sia
con voi!”,
si congedò, battendo di piatto la lama sul fianco del
corsiero, sparendo
inghiottito dalla notte e dalla bolgia infernale cittadina.
“Muoviamoci!”,
intimò Baldassarre al suo paggio, le armi levate e
pronti ad ogni attacco.
Sulla
riva dell’Isonzo fluttuavano sandoli e zopoli carichi di
soldati e di civili, ognuno che portava il minimo necessario per
affrontare il
viaggio fluviale fino a Grado.
“Salite!
Salite! Rapidi!”, incitava i fuggitivi il provveditore
sier Alvixe Mozenigo, aiutando le donne e sollevando lui stesso di peso
i
bambini, dalle gambe troppo corte per salire a bordo da soli.
“Vai, vai! Calar
i remi in barba! Bativóga!”, incitò
egli sia il pope sia il provier dello
zopolo, che si staccò dal barcharezo, raggiungendo gli altri
già partiti.
“Padre!”,
corse incontro Giulio al genitore e Baldassarre,
malgrado la situazione disperata, si tolse un piccolo e rapidissimo
sfizio
d’afferrare il figlio dietro la nuca e di baciargli la
fronte, ringraziando
Iddio, la Madonna e la sua concittadina Santa Caterina per aver
impedito la sua
cattura. Fu inoltre lieto d’apprendere come suo nipote
già si trovasse al
sicuro sulle imbarcazioni dirette a Grado.
“Ora
sali, svelto!”, spronò il condottiero senese suo
figlio e il
paggio, spingendoli su di un sandolo. Poi, rivolgendosi a sier Alvixe:
“Signor
Provveditore, Gradisca è perduta, le nostre compagnie in
gran parte ammutinate.
I Dal Borgo sono riusciti a scappare a cavallo, si stanno dirigendo a
Marano
con 180 uomini e armi.”
“E’
stato quel giuda iscariota d’Antonio Savorgnan a fomentare la
ribellione, vero?”, fu la domanda retorica del Mozenigo, i
lineamenti stravolti
dalla fatica di giorni d’assedio serrato, appesantito
dall’epidemia di peste.
L’ex-governatore
mostrò i denti, esauriente risposta.
“Le
artiglierie?”
“Perdute,
signor Provveditore. Non siamo riusciti a chiodarle
tutte in tempo.”
Sier
Alvixe aspirò a fondo l’aria, portandosi una mano
sugli occhi
brucianti dal fumo e dal sonno arretrato. “Se Trevixo
verrà conquistata per
mano dei miei stessi cannoni, giuro che non me lo perdonerò
mai finché campo”,
dichiarò sconfitto e umiliato per aver perduto quella
preziosissima fortezza in
terra friulana, deludendo la fiducia della Signoria, privata adesso di
ulteriori territori e sempre più indifesa.
Di
sentimenti meno drammatici rimaneva invece il conte Rimbotti,
che gli posò incoraggiante una mano sulla spalla.
“Appena saremo approdati a
Grado, voi portate questa gente in salvo in Istria, mentre io mi
recherò a
Marano, ricongiungendomi alle milizie dei magnifici messeri Giovanni
Vitturi e
Girolamo Savorgnan. L’Imperatore Massimiliano ha vinto una
battaglia, non la
guerra! Finché respiriamo, non gli concederemo un attimo di
requie!”
E Alvixe
Mozenigo capì infine, il motivo per cui il Re dei Romani
voleva in catene l’indomabile condottiere, del cui coraggio e
cinque ferite
frontali il medesimo Re di Francia s’era complimentato, una
volta avutolo
dinanzi tra i prigionieri di spicco dopo la sconfitta
d’Agnadello.
“Mi
domando”, aveva
confidato il sovrano al suo gran
scudiero Galeazzo Sanseverino, “se faccia o
meno un buon affare ad
accettare il suo riscatto e a liberarlo”.
Buono
forse per Louis, pessimo per Maximilian.
***
Tanto le
vittorie ottenute nella Patria del Friuli avevano resi
giovali e baldanzosi i soldati imperiali, tanto quelli francesi li
tolleravano
a malapena, marciando accanto a loro di malavoglia, ogni occasione
buona per
bisticciare, sicché i rispettivi comandanti
s’erano ritrovati costretti a
formare due gruppi separati, onde evitare d’attirare troppo
l’attenzione, nella
marcia notturna da Nervesa a Torre di Maserada e San Giorgio.
Hironimo
procedeva zoppicando e barcollando in stato pressoché
sonnambolico, a momenti trascinato da Mercurio, che lo costringeva a
proseguire, altrimenti si sarebbe accasciato sul primo ciuffo
d’erba
disponibile. I ceppi e le manette gli stavano scavando sulla carne viva
e i
piedi erano divenuti un’informe massa di piaghe e fango;
quanto al cerchio al
collo, il peso talvolta diveniva talmente insopportabile da impedirgli
di
respirare appropriatamente, il che non si presentava ideale,
considerato il
catarro nei polmoni.
Dietro di
lui lo seguivano gli altri prigionieri d’ambo i sessi,
anche loro fiaccati dai maltrattamenti, dalla fame e dalla pestilenza.
Ogni
tanto qualcuno tentava una disperata fuga, approfittando di un attimo
di
distrazione dei soldati e soltanto per via del buio pesto si rinunciava
ad
inseguirli. Chi invece cadeva per terra e non riusciva a rialzarsi,
finiva
seccato da un lanzichenecco, morendo tra le risate sue e degli altri
imperiali,
tra le occhiate di biasimo dei francesi e degli italiani e quelle
impotenti dei
loro compagni di sventura.
Poi, si
riprendeva in silenzio la marcia.
Il
giovane Miani socchiuse gli occhi, concentrandosi sul dolore
fisico, acutizzandolo onde rimanere vigile: non dubitava che il Bua
l’avrebbe
difeso d’analogo destino, al contempo però non
s’azzardava a tentare la sorte,
cadendo, poiché sapeva che difficilmente si sarebbe rimesso
in piedi. Le sue
labbra secche pertanto ripetevano mute continue litanie di richieste di
soccorso alla Madonna, di proteggerlo, di liberarlo, di dargli la forza
di
continuare a camminare.
“No!
No! Per pietade, no! Nol coparme! Nol coparme!”
Sia il
patrizio che il condottiere greco-albanese si girarono di
scatto verso quel grido angosciato, proveniente da un contadino,
disteso prono
per terra, il volto talmente pallido e sudaticcio da riflettere
l’arancio delle
torce. Il giovane uomo era inciampato su una qualche radice e tanto la
febbre e
gli stenti lo avevano debilitato, da impedirgli di sollevarsi, le sue
braccia e
le sue gambe troppo deboli da sostenerlo. Immediatamente, un soldato
tedesco
gli s’era parato davanti, punzecchiandolo con la punta della
propria picca,
intimandogli di rialzarsi. Ma questi piangeva e strisciava per terra,
invocando
una pietà che non avrebbe ricevuto.
“Ajudo!
Mariaverzene ajudo!”, supplicava, coprendosi
d’istinto il
capo, come se bastasse proteggere quello per salvarsi la vita.
“Ajudo!”, levò
le braccia in direzione dei suoi compagni, che s’ingobbirono,
afflitti e
impotenti, già scansati via dalle picche dei lanzichenecchi
che simili agli
avvoltoi pregustavano il pasto di carne e sangue.
“Oh,
Mariaverzene! Oh, Mariaverzene!”, e quella maschera di
terrore e disperazione s’incrociò allo sguardo
d’Hironimo, che tremò da capo a
piedi, nascondendosi il viso tra le mani.
“Avanti,
ammazzalo! Che bisogno c’è di
giocarci?”, gridò snervato
un mercenario italiano della compagnia del Pallavicino.
Il
tedesco lo fissò, sorrise e levò l’arma
per infilzare
l’indifeso contadino.
“No!
No! No!”
“No!”
La picca
cadde a metà, tranciata in due con precisione chirurgica,
studiandola il lanzichenecco incredulo e spaventato a morte.
“No”,
riecheggiò di nuovo il ruggito di Mercurio Bua, il quale
portava la punta della spada alla gola del mercenario imperiale.
“Non ci
saranno più esecuzioni”, riprese lapidario il
condottiero, la cui voce tremava
impercettibilmente come la sua lama. “Chi cade e rimane
indietro, verrà
lasciato indietro alla misericordia di Dio”,
sentenziò e nessuno, neppure i comandanti
suoi colleghi, ebbero il coraggio di contraddirlo.
“Incominciando da te”,
strisciò bene le parole a mo’
d’avvertimento, imitato dalla sua spada,
ch’accarezzava, arrossandolo, il pomo d’Adamo del
soldato tedesco, che
intimidito rientrò nella sua fila. “E
tu”, scudisciò Hironimo, il quale
incassò
in silenzio e senza colpo ferire, “guai a te, se ti cimenti
di nuovo in queste
momarie!”
“Ripartiamo!”,
l’appoggiò il marchese Pallavicino e tutte le
compagnie lì presenti, a testa bassa, obbedirono per una
volta obbedienti e
mansuete. “Avrete tempo e modo d’uccidere
Veneziani!”
Hironimo
s’accarezzò imperturbabile la nuova ferita,
neanche fosse
stato un estraneo ad aver subito la frustata, ponendosi in ginocchio e
liberando l’incredulo contadino dalla prigione del suo corpo.
Si levò il panno
dalle spalle, rimanendo praticamente nudo tranne per le mutande, e
avvolse il
corpo febbricitante e tremante dell’altro, nettandogli via il
fango dal volto
rigato di lacrime e muco. “Dammi la mano”, disse al
giovane, passandosi il
braccio sul collo, aumentando così il peso già di
suo notevole a causa della
palla di cannone. Cinse poi la vita del villano, issandolo su.
“Cammina con me,
fradelo. Ti sorreggo io.”
Stringendo
i denti e ignorando il dolore, la fatica, la pioggia
battente che gli colava sul collo e sulla faccia, lo sforzo di
sorreggere sia
la balota di granito sia il corpo non proprio leggero del contadino,
Hironimo
si riportò accanto ad un pallidissimo e basito Mercurio,
superandolo. Il greco-albanese
si costrinse a ripigliarsi dal suo torpore, il cuore che gli batteva
talmente
forte in petto, che gli pareva di sputarlo. Un istante, un istante e il
suo
prigioniero gli era sfuggito letteralmente di mano, gettandosi a guisa
di scudo
sopra quel villano, proteggendolo dal colpo di picca.
Se non
avesse posseduto riflessi abbastanza pronti …
Mercurio
scosse il capo, inducendo un lieve trotto al suo
corsiero. Sporgendosi in avanti, riprese le catene
d’Hironimo, il quale lo
fissò appena, riabbassando docile il capo e proseguendo
imperterrito nella sua
ciondolante e scoordinata marcia.
Non era
stato il gesto folle del veneziano ad aver sconvolto il
Bua – no, a quelli s’era abituato, reputando quella
peste bubbonica capacissima
di ogni stramberia.
No.
Era stato
il suo sguardo, così fermo, imperscrutabile, lontano.
Mercurio
ancora non riusciva a dargli un nome, ma sicuramente in
esso non vi trovava un uomo spezzato, semmai il contrario.
Continua
…
*******************************************************************************************************************
Tre
giorni di piogge consecutive portano consiglio e mi
sento molto solidale con ambedue gli eserciti, costretti a lavorare
notte e dì
sotto d’essa, cambiandosi soltanto in letto.
Ormai
manca pochissimo al famigerato capitolo X e speriamo di
renderlo al meglio!
Anticipo,
ma lo ripeterò, che una volta terminata la seconda parte
di questa storia, partirò con la revisione, che non
sarà drastica, lo prometto,
quindi non abbiate paura voi gentilissimi lettori che siete giunti fin
qui.
Per una
volta niente noticine: meglio per me!
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
|
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Capitolo 33 *** Capitolo Ventinovesimo, parte prima: 27-28 settembre 1511 ***
Vi
auguro una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 17.12.2021
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Capitolo
Ventinovesimo
Sabato
27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511
(prima
parte)
“Se
il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha
commessi e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e
rettitudine,
egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe
commesse sarà ricordata, ma vivrà
per la giustizia che ha praticata.
Forse
che io ho piacere della morte del malvagio - dice
il Signore Dio - o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?
[…]
E se l'ingiusto desiste dall'ingiustizia che ha
commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se
stesso. Ha
riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse:
egli certo vivrà e non
morirà."
(Ezechiele
18, 21-28)
Correva
voce che nello Stato di
Terra i campanili apparissero tanto alti da eguagliare
l’animo beghino dei suoi
abitanti; in realtà, cogitava Mercurio Bua mentre
supervisionava i suoi
stradioti montare le tende nell’accampamento, il motivo era
quello di creare
punti di riferimento e di avvistamento per colpa degli alberi svettanti
e fitti
che nascondevano gran parte dei paesi. Ciò creava un bel
problema, concluse il
condottiero, poiché le strade principali costeggiavano i
fiumi e i canali:
peccato che questi fossero battuti costantemente dagli stradioti
marciani,
vigili e rapidi nelle loro azioni di disturbo.
L’ultimo
contingente
dell’esercito franco-imperiale era giunto a Torre di Maserada
alle prime luci
dell’alba: appena il tempo di finire di sistemare le proprie
tende, che già
dovevano aggregarsi alla compagnia comandata direttamente da La Palice
per
tentare un secondo atto intimidatorio sotto le mura trevigiane. Una
staffetta
giunta dalla Patria del Friuli recava notizie
dell’appropinquarsi del resto
dell’esercito tedesco a Motta di Livenza, rincuorando il
maresciallo che non
solo vi leggeva tra le righe l’esito positivo
dell’assedio di Gradisca e dunque
l’arrivo di viveri e artiglierie, ma anche
dell’intera forza bellica a
disposizione, finalmente riunita e dai numeri decisamente promettenti,
assieme
alle truppe ausiliari comandante da Giovanni e Federico Gonzaga,
stanziate a
Soave.
Nonostante
l’euforia generale,
nel suo intimo Mercurio non era entusiasta all’idea di
sfilare in parata
dimostrativa a Treviso, ancora memore della sua debacle alcune
settimane
addietro, preferendo piuttosto guadagnare terreno fino ad accamparsi
più vicino
e da lì attendere gli ultimi contingenti rimasti. Perlomeno,
si consolava, se
proprio doveva obbedire, egli avrebbe avuto modo di studiare le mura
onde
trovare il punto debole dell’apparente impenetrabile Treviso.
E scovato lo avrebbe,
si ripromise.
Inoltre,
aveva un conto in
sospeso con un certo qualcuno in quella città, nello
specifico il fratello del
suo prigioniero, la cui ferita provocatagli sia all’orgoglio
sia alla coscia
tuttora gli bruciava, malgrado la seconda si fosse abbastanza
rimarginata. Una
sensazione di crudele compiacimento gli accarezzava l’animo
alla prospettiva di
sgozzare il Miani più anziano, anche per vendicarsi del
più giovane, la fonte
primaria di ogni suo malessere e disgrazia. Era d’altronde
colpa sua e della
sua doppiezza se il Bua non aveva potuto cavalcare a Musestre assieme a
Leka,
impedendo così che Zilio venisse ucciso … Colpa
sua e del suo valore pressoché
nullo, se quel disgraziato del suo barba ancora non rispondeva alla sua
ambasciata, di scambiar lui per Caterina … Mercurio avrebbe
intinto la sua
casacca del sangue di Marco Miani e l’avrebbe sbattuta in
faccia ad Hironimo,
costringendolo ad inalare il sangue fraterno e se ciò non
fosse bastato per
spezzare definitivamente quella testa dura …!
Il
condottiero greco-albanese
lanciò un’occhiata di sbieco all’oggetto
delle sue cupe elucubrazioni, il quale
se ne stava legato alla ruota di un carro, a capo chino e talmente
immobile,
che da lontano lo si sarebbe potuto scambiare per morto, se non fosse
stato per
il lento alzarsi ed abbassarsi del petto. La bravata della notte scorsa
era
rimasta vividissima nella memoria del Bua, così come
marchiata a fuoco era lo
sguardo del giovane, ben lungi da quello di una persona sconfitta.
Mercurio si
scoprì detestare quella che lui giudicava infinita
alterigia, domandosi come
fosse mai possibile che, a seguito dei tormenti inflittigli, quel
moccioso
viziato seguitasse nella sua imperturbabilità, neanche da
neonato avesse dalla
sua balia poppato orgoglio al posto del latte.
Hironimo
avvertì il passo del suo
carceriere prima ancora di aprire gli occhi, rimpiangendo quel fragile
sonno a
fatica conquistato dopo un’estenuante marcia notturna. Era
stato separato,
ovviamente, dal suo compagno di sventura, cacciato
quest’ultimo tra gli altri
prigionieri – pregò si sentisse meglio rispetto
alla notte scorsa.
Quanto
a lui, il giovane Miani
attendeva che il Bua si sbrigasse a montare quel suo dannatissimo
padiglione,
così da giacere finalmente su della paglia pulita
poiché, per quanto un solido
appoggio, la ruota ugualmente risultava sporca di fango e generalmente
scomoda.
Lo sterno poi gli doleva a causa degli sporadici colpi della ballotta
da 9
libbre (circa 5kg, ndr.), quando le dita gli erano divenute troppo
torpide per
reggere il suo peso o tener ferma la catena. Le braccia gli dolevano,
tremandogli i muscoli in lievi e continui spasimi fino ad irrigidirsi
ribelli e
le sue mani arrossate presentavano vene talmente grosse e sporgenti, da
scambiarle per quelle di una vecchia lavandaia. Il collo gli grattava e
così
polsi e caviglie, mescolandosi rivoletti di sangue alle croste di melma
e pus.
Aggiungendo poi la faccia ancora mezza gonfia dai colpi ricevuti, i
capelli
sporchi e appiccicaticci nonché la barba incolta, il giovane
patrizio ispirato
dal macabro umorismo del rassegnato, si considerò
né più bello né più comodo
dei prigionieri dei Pozzi.
Un
calcio alla coscia lo
distrasse da quel suo intimo scherzo e costrinse Hironimo a sforzarsi
di levare
un poco lo sguardo verso l’alto, provocandogli un unico lampo
di dolore dalla
nuca fino agli occhi, che gli parvero volergli scoppiare dal cranio.
“In
piedi!”, gli venne intimato;
il giovane Miani strinse i denti e obbedì docile, ignorando
le fitte alle piote
sanguinanti e infreddolite. “Che fai? Rabbrividisci?
Così impari a giocare al
buon samaritano!”, lo derise Mercurio, notando il discreto ma
costante tremore
lungo il corpo del patrizio, sia per la fatica sopportata sia per
l’aria
decisamente autunnale, umida e fredda. Le mani rattrappite del
veneziano
avevano assunto una tinta vagamente bluastra sotto il rosso dello
sforzo di
reggere la ballotta, così come le unghie sporche e rotte.
Fosse
stato il se stesso di una
settimana addietro, Hironimo avrebbe rinfacciato aspramente al
greco-albanese che,
a furia di servire l’Imperatore, ne aveva ereditato la famosa
tirchieria, visto
che non si penava di dargli un altro cencio con cui coprirsi. Ora,
però, la
cosa non lo tangeva. Anzi, più il Bua lo tormentava,
più gli suscitava la
medesima commiserazione di un adulto che deve sopportare i capricci di
un
bambino particolarmente petulante.
Hironimo
socchiuse le palpebre
gonfie e nere: era stanco, davvero stanco.
Il
condottiero lo trascinò alla
sua tenda, indirizzandolo al famigliare angolino dove aveva trascorso
parte
della sua prigionia a Montebelluna, con la sola eccezione che il suo
Thomà non
si trovava più con lui a tenergli compagnia, mitigando la
solitudine. Al
pensiero del piccoletto, il cuore del patrizio fremette per un istante,
sperando e pregando che sia lui sia Fra’ Anselmo fossero
giunti sani e salvi a
Treviso, lontani dal nemico e le sue insensate crudeltà.
Quella consolazione
gli avrebbe di gran lunga addolcito quell’ennesimo giorno di
prigionia …
Un
violento strattone lo riportò
alla realtà, strappandolo un gemito di sorpresa: senza
concedergli tempo
d’acclimatarsi al giaciglio di paglia, Mercurio gli aveva
levato le cavigliere
e le manette “da marcia” (come li appellava
giocosamente) per sostituirli con
altri più costringenti. Quasi stesse assistendo alla scena
fuori dal proprio
corpo, Hironimo osservava stranito i due grossi chiodi di ferro che
chiudevano
i suoi nuovi ceppi, quest’ultimi uno passato
nell’altro. Due manette senza
chiodi ne chiusero un altro paio identico, mentre attraverso due al
centro del
petto venne fatta passare una catena di anelli schiacciati
acciocché gli
avvolgesse il corpo, serrandogli le gambe, e lo forzassero in posizione
fetale
anche da seduto. Infine, il Bua chiuse un lucchetto su due anelli del
palo di
legno; un secondo sulle manette e un terzo sui ceppi.
Ad
operazione conclusa, Hironimo
constatò come neanche il più sanguinario dei
criminali della Serenissima fosse
mai stato incatenato così, a guisa di cane rabbioso. Quasi
ogni movimento gli
era impedito, oppure reso particolarmente doloroso. Si chiese come se
la
sarebbe cavata quando natura avrebbe chiamato, rabbrividendo al
pensiero di
quell’ennesima umiliazione: finché si trattava di
urinare in marcia, non visto,
poteva anche sopportarlo, ma davanti al suo carceriere …
“Così
non dovresti neppure essere
in grado di grattarti il culo”, sentenziò Mercurio
perversamente soddisfatto,
specie allo scatto della chiave nell’ultimo lucchetto.
“Figurarsi scappare via.
Ma se anche ci riuscissi”, gli si inginocchiò
accanto, sventolandogli malevolo
la chiave sotto il naso, “se anche per miracolo tu riuscissi
a liberarti da
queste catene e a fuggire, sappi che non arriverai mai a Treviso. Ti
farò
cercare, ti farò ricondurre qui all’accampamento e
ti scuoierò via la schiena a
furia di frustate, non prima d’averti fatto fottere
pubblicamente dai miei
cani!”, gli promise crudele e premette sulla caviglia gonfia,
onde ribadire il
concetto tramite una fitta acutissima di dolore.
La
gola d’Hironimo si serrò in
conato di acida bile: aveva udito di tali pratiche ai danni dei civili,
atti ad
umiliare specialmente le donne. In tutta onestà le aveva
credute leggende o
usanze turche, incapace di concepire tale vile bassezza in un cristiano
e il
pensiero di dover subire uguale sorte – unita ai suoi ricordi
circa gli
accoppiamenti tra i cani – lo spinse a sputare a malincuore
della saliva, non
avendo alcun cibo in stomaco.
Mercurio
contemplò la scena
ridacchiando, divertito dall’ansante boccheggiare dello
scioccato patrizio.
“Hai inteso?”, reiterò, afferrando ora
il giovane Miani per i capelli e
torcendogli il collo sulla sinistra, creando una doppia fitta dolorosa,
da una
parte la frizione del cerchio di ferro sulla carne viva e
dall’altra il
bruciore dei muscoli tesi allo spasimo per sorreggere la palla di
marmo.
“Rispondi, che la lingua ce l’hai quando vuoi: hai
capito cosa t’aspetta, se
proverai di nuovo a scappare?”
Il
veneziano annuì, guadagnandosi
un secondo strattone allo scalpo. “Parla, perdio!”,
lo assordò per poco il
condottiero.
“Ho
… ho compreso …”, gracchiò
Hironimo, la gola secca e ruvida, l’ultimo rivoletto di
saliva sulle sue
ginocchia. “Acqua …?”, aggiunse
timidamente, una volta libera la sua zazzera
dalle tenaglie del greco-albanese.
“Uh?”,
sbatté perplesso le ciglia
Mercurio, preso un attimo di contropiede. Poi, riavendosi:
“Hai sete?”,
schioccò la lingua, arricciando la bocca in una maniera poco
raccomandabile.
Stancamente,
il Miani rispose di
sì.
“Implorami,
allora.”
Un
altro giochetto, un’altra
prova. Hironimo scorse con la punta della lingua il taglio e le piaghe
sul
labbro inferiore screpolato, assaggiandone il retrogusto ferroso. Il
suo
spirito si ribellava dinanzi a quell’ignominia,
all’abbassarsi così
codardamente dinanzi ad un volgare avventuriero. Era un figlio di
Venezia, l’altera
mai conquistata. Con che faccia si sarebbe ripresentato alla sua
famiglia, non
solo sconfitto ma pure supplice ai piedi del nemico? Un
Miani si spezza
ma non si piega, gli aveva insegnato Padre e suo figlio anche
in quello non
voleva deluderlo.
Ma
non di solo orgoglio vive
l’uomo ed Hironimo faceva gli equilibrismi sul filo del
limite della
sopportazione fisica: la disidratazione l’aveva fiaccato
delle ultime energie,
le orecchie gli fischiavano, la vista ormai s’era tramutata
in un incessante
dondolio e la febbre non cessava di tormentarlo, riempiendolo di
brividi freddi
pur bruciandogli la faccia. Pochi giri di parole: pur nella sua
testardaggine,
Hironimo voleva vivere e per farlo doveva considerare anche i
compromessi.
Doveva, poi? Non sapeva più niente, in quel mese ogni sua
certezza gli era
stata sottratta, abbandonandolo alla stregua d’una foglia
preda dei capricci
del vento autunnale.
“Se
questa è la volontà di Dio
…”, mormorò infine il giovane Miani, le
gote vermiglie sia per la temperatura sia
per la vergogna suscitatagli dalle sue medesime parole,
“allora ti supplico di
darmi dell’acqua …”
Mercurio
tirò indietro il capo,
sedendosi sui talloni, interdetto da quell’affermazione che
nulla aveva di
disperato né di rassegnato, al contrario, gli suonava alle
orecchie alla
stregua d’una sfida. Cosa c’entrava adesso Dio e la
Sua volontà in tutto
questo?
Quel
veneziano doveva invero
essere uscito di senno.
“Ci
voleva così tanto?”, si
raddrizzò il condottiero, modulando la voce
acciocché il prigioniero non vi
catturasse alcuna traccia di sorpresa o tentennamento. “Per
stavolta ti porto
da bere e anche da mangiare. Ma bada di non allargarti troppo: al
minimo
sgarro, ti beccherai la giusta punizione”, disse, levandosi
in piedi per
dirigersi alla volta del tavolo.
“L'è
miei jessi in disgraćie di
Dio …”, [1] udì però subito
dopo alle sue spalle e il Bua si voltò di scatto,
il coltello rimasto incastrato nel pane nero che stava affettando.
“Cosa?”,
fece confuso il
condottiero, cogliendo qualche parola di quell’idioma a lui
sconosciuto. “Di
che blateri, adesso?”
Graffiando
le unghie taglienti e
mezze rotte sulla palla di marmo, Hironimo replicò
calmissimo. “Lo hai
ascoltato.”
Mercurio
mulinò nervosamente il
coltello. “Sì, ma che significa?”,
l’incalzò spazientito, tirandogli addosso la
fetta di pane, che lo centrò in pieno, rotolando per terra
ai suoi piedi.
Ineffabile, il patrizio raccolse goffamente il cibo e se lo
portò alla bocca
senza neppure soffiarci sopra, masticando lento e sul lato sinistro,
laddove
gli doleva di meno.
“Non
ti dirò più niente”, chiuse
in via definitiva Hironimo la conversazione, lo stomaco momentaneamente
placato
ma non soddisfatto. In silenzio bevve l’acqua mescolata al
mosto, avvertendo
una piccola e dolce sensazione di conforto nel corpo e
nell’anima.
Che
il greco-albanese lo
insultasse, lo minacciasse, lo tormentasse pure: non gliene importava
più
nulla, il suo spirito era al sicuro da lui, irraggiungibile. Quanto al
resto,
hé, sebbene Hironimo si fosse genuinamente pentito della sua
condotta passata,
non poteva certo cambiare radicalmente costumi dall’oggi al
domani – complice
la sua testa dura – e forse
ancora peccava della sua innata
superbia, ma su di una cosa non avrebbe ceduto: soltanto davanti a
Cristo e al
suo lieve giogo si sarebbe piegato, soltanto a Lui. Gli altri potevano
impiccarsi tutti al primo albero disponibile.
E
quella sua rinnovata
determinazione dovette trasparire dai suoi occhi neri,
giacché Mercurio non
seppe cosa rispondere, o meglio lo sapeva ma non gli parve forse il
caso, la
sua coscienza pungolata da un’inusuale pesantezza.
Si
morse dunque l’interno della
guancia ed uscì dal padiglione, pronto a seguire il
maresciallo La Palice a
Treviso. Il Bua rimase in silenzio per tutto il tempo, mentre sistemava
la
sella e le briglie del suo cavallo, perfino quando il generalissimo
francese
dava le ultime istruzioni. Non reagì neanche alla scoperta
della fuga di tre
prigionieri, tra cui quel contadino difeso da Hironimo la notte
precedente.
Perché,
si domandava Mercurio,
perché più lui tentava d’umiliare il
Miani, più lui e non il veneziano ne
usciva al contrario sconfitto?
***
Immerso
in cupi pensieri
sguazzava anche sier Marco Miani. Il patrizio veneziano aveva infatti
accolto
con gioia l’alba e l’inizio del suo turno di ronda
al Castello, avendo
trascorso la notte a fissare inquieto il soffitto del suo nuovo
alloggio, non
più allietato dal dolce solletico del respiro della moglie
Helena, bensì dal
fastidioso ronzio dell’irriducibili zanzare. Soltanto il
vento, che per
l’intera durata della breve funzione mattutina aveva
graffiato sui vetri della
chiesetta, riusciva a scuotere via il suo torpore mentale e lo
distoglieva
dalla malinconia, spronando il trentenne patrizio a concentrarsi
sull’incarico
affidatogli.
Lungo
il lato del Castello
prospiciente al Sile e lungo il canale Polveriera suo derivato, si
stava
costruendo di buona lena l’ennesima palada, ossia una
palizzata in tronchi di
rovere posta di traverso nel letto del fiume per impedire alle
imbarcazioni
nemiche di entrare in città. Gli esploratori marciani,
infatti, avevano
avvertito il Provveditore, il Podestà e i capitani delle
imbarcazioni per il
momento ancora ferme al porticciolo di Nervesa, chiaro segno che
avevano
intenzione di navigare sia la Piave sia la Piavesella raggiungendo poi
Treviso
tramite il Sile, sfruttando certamente le zattere sequestrate a Cividal
di
Belluno. A Porta Altinia, poco distante, si stava abbassando la torre e
finendo
di scavare il fosso, uno degli ultimi lavori rimasti per completare la
difesa
cittadina e sier Zuam Paulo Gradenigo aveva nuovamente arruolato sia
uomini che
donne per rispettare la sua personale scadenza di massimo due giorni.
Da
un angolo della caminada del
Castello, Marco osservava silente i genieri lavorare alla palada, ogni
tanto
spintonato all’indietro da una folata particolarmente
violenta di vento,
portandolo ad aggrapparsi al parapetto, divenuto più sobrio
a seguito dello
smantellamento delle inutili merlature scaligere. Il Miani, pur
infastidito dai
fischianti refoli d’aria malgrado l’elmo e la
cuffia gli coprissero le
orecchie, giudicò salvifico quel vento poiché
arieggiava l’imponente baluardo e
si portava via un po’ di zanzare e quel fastidioso tanfo di
marciume, che da
qualche tempo lo stava appestando.
Similmente
a Treviso, anche il
Castello aveva subìto un drastico cambiamento: sorto in
qualità di fortezza
quasi due secoli addietro per volere di Alberto e Mastino Della Scala,
e
successivamente ampliato da Francesco da Carrara che l’aveva
trasformato nella
sua residenza, originariamente esso era stato concepito a pianta
quadrata con
grosse torri agli angoli. Ora, pesantemente
rimaneggiato, il
Castello appariva a forma pentagonale, inglobato nelle mura e di
conseguenza
trasformato in un unico e ampio bastione. I lati esposti sul canale
Polveriera
e sul Sile erano stati rinforzati da una spessa muraglia e provvisti di
cannoniere alla base, mentre all’interno si trovava un
terrapieno. I lati invece
che davano verso la città presentavano cortine
più leggere, i loro vertici
adibiti a polveriere. La cappella gentilizia era stata convertita ed
ampliata
in una vera e propria chiesa, nomata San Marco dei
Bombardieri,
subito meta di gran devozione da parte degli omonimi soldati, a
giudicare dal
numero di ceri accesi e rosari improvvisati.
Marco
non si vantava di possedere
grandi nozioni d’ingegneria, tuttavia aveva incominciato a
sospettare che quel
puzzo di marcio, non dissimile a quello sul litorale lagunare quando
s’apprestava a piovere, significava che, in qualche punto del
Castello, l’acqua
s’era fermata, stagnando e di conseguenza rilasciando fetore
e zanzare.
Inoltre, aveva appurato non senza sudare freddo che la maggior parte
degli
ammalati di febbre proveniva proprio dal Castello, come suo cognato
sier Nicolò
Trivixan e sier Alvixe da Riva, ambedue rimpatriati a Venezia divorati
dalla
febbre. In aggiunta, anche sier Zuam Alvixe Dolfin e sier Aurelio
Michiel,
malgrado avessero fatto venire da Venezia dei medici apposta per
curarli, erano
dovuti rientrare velocemente. Sperò ardentemente di
sbagliarsi, ma se avesse
avuto ragione? Come intervenire e migliorare in fretta, con
l’incombente ombra
dell’assedio?
Quell’antica
fortezza- residenza,
d’altronde, non poteva rimanere uguale come ai tempi del
Carrarese: collocata
appena fuori dalle precedenti mura, se in passato era stata una geniale
intuizione per evitare di finire vittima delle insurrezioni degli
inquieti
trevigiani, adesso essa rischiava di finire isolata in caso
d’assedio e, se
conquistata, poteva divenire una strategica roccaforte per i nemici,
dove
ripararsi e al contempo sferrare i loro attacchi. Per questo motivo, si
erano
interrati ambedue i fossati che circondavano sia un lato del Castello
sia delle
mura scaligere.
Per
quanto puntigliosi e avvezzi
ad opere idrauliche, l’acqua rimaneva per chiunque una bestia
ostica da domare,
portando ognora seco lo spettro tremendo della malaria.
“Christo
d’on Christo!”, l’attirò
da giù il ruggito del capo-geniere, a seguito del mancato
rotolamento in acqua
di uno dei tronchi di rovere per la palada. Evidentemente, il vento
aveva
intirizzito le mani dei genieri, ripercuotendosi negativamente sulla
loro
presa. “Man zànche! (sinistre, ndr.)
Gh’avé man pì roèsse
(rovesce, ndr.) di la
crose di Sen Piero!”, continuava a sbraitare, rosso vino in
faccia che pareva
scoppiare da un momento all’altro e il più giovane
dei genieri, magari perfino
innocente, si beccò uno scappellotto sulla nuca per mondare
i peccati di tutti.
“Seti ‘no scandalo!”
“Poareti”,
commentò comprensivo
sier Alvixe da Canal, sporgendosi assieme al Miani onde assicurarsi che
non si
andasse al di là di qualche ceffone di rimprovero.
“Non li biasimo: questo
vento tira troppo forte, mi sta sguarattando il cervello!”,
sospirò,
massaggiandosi gli occhi arrossati dai colpi d’aria.
“Novità?”,
s’informò
infine.
“Neanche
un’ombra s’è mossa”,
rispose stringatamente Marco, indicando col capo sia il bastione degli
Spiriti
sia Porta Altinia. Non appena La Palice aveva battuto la ritirata, il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo e i capitani Renzo di Ceri e
Vitello
Vitelli avevano convocato un rapido consiglio di guerra, insistendo su
turni
serrati e specialmente sul lato meridionale, attualmente il
più vulnerabile.
“Pensate
che la Peliza ci onorerà
di una seconda visita?”, domandò sier Alvixe,
rabbrividendo e serrando stretto
alla gola il pesante mantello.
“Ovvio”,
mormorò accigliato il
Miani, lo sguardo puntato sui vocianti genieri. “Hanno preso
paura, ma non
abbastanza. Soltanto rincarando la dose li spediremo in bocca
diavolo!”,
sentenziò bellicoso, stringendo le dita guantate sul
parapetto.
“Se
non lo fanno prima i nostri
provvisionati”, ribatté sarcastico
l’altro patrizio. “Non ho quasi più
danari
per mantenerli e la Signoria mi deve ancora i miei, di arretrati. Non
si
pretenderà certo che stiano qui a combattere amor
dei!” (gratis, ndr.)
“Se
non per amor dei, per timor
mortis”, replicò sferzante Marco, il quale
tuttavia riconosceva nel suo
concittadino la difficoltà di placare le pance dei soldati
assoldati a proprie
spese, trovandosi infatti nella medesima situazione. “Dubito
però che diserteranno,
anche perché non hanno nulla dove andare, se non
sottoterra”, rimarcò cupo,
rivolgendo sconsolato lo sguardo al cielo livido e arrabbiato. Era
stato il
medesimo che il suo antenato, sier Zuanne Miani, aveva contemplato
durante la
liberazione di Treviso dai Carraresi?
Il
Dì dei Morti ancora distava
assai, tuttavia Marco rivolse una petizione a quel suo valoroso
antenato, che
aveva combattuto al fianco dei leggendari comandanti Vitor Pisani e
Carlo Zen
durante la Guerra di Chioggia; che da Capitano di Golfo aveva ottenuto
la
dedizione di Corfù, Durazzo, di Argo, di Napoli di Romania e
del castello di
Alessio; lo stesso che da provveditore era stato il primo ad entrare in
questo
Castello adesso presidiato dal suo discendente, la medesima fortezza
dove
Francesco da Carrara s’era rifugiato dai trevigiani insorti,
offrendo come
ultima spes di salvezza personale la città e la Marca ai
viscontei guidati da
Jacopo del Verme e Spinetta Malaspina. Invece anche
quest’ultimi avevano
trovato una ferrea resistenza nella popolazione, affatto disposta a
finire
sotto Milano. [2] All’intrepida anima di
Zuanne Miani, dunque, Marco
domandò soccorso onde infondergli il medesimo ardore in
battaglia e di condurre
alla rovina i nemici della patria. Gli fece perfino voto che il
prossimo nato a
Ca’ Miani avrebbe portato il suo nome, specie se Marco fosse
riuscito, in
qualsiasi modo, a farla pagare ad un certo cittadino di Napoli di
Romania,
città da sier Zuanne assai nota.
La
campana dalla torre di
avvistamento del bastione della Madonna corrispose all’Amen delle
sue preghiere, tosto seguito dal coro indiavolato dei tamburi che
chiamavano
all’assembramento i soldati, in risposta al lontano eco di
quelli dei
franco-imperiali, i cui vessilli incominciavano a far capolino
all’orizzonte.
Marco
batté le nocche sul palmo,
infondendosi coraggio e cattiveria in corpo. “Fate rientrare
immediatamente i
genieri! Archibugieri e balestrieri si tengano pronti in direzione
Porta
Altinia! Idem per i bombardieri!”, ordinò il Miani
ai connestabili e ai mastri
bombardieri. “Notificate il sior provedador, che il Castello
è pronto ad ogni
suo cenno!”
Il
bastione, dapprincipio
silente, s’animò in un frenetico vespaio di
andirivieni per poi chetarsi
all’improvviso, stavolta in paziente attesa assassina.
***
Come
il lupo osserva attento e
feroce la preda ignara e tranquilla, prima di balzarle inatteso addosso
e
morderla alla gola, così sier Ferigo Contarini studiava la
sagoma di Soave e le
sue mura, a malapena illuminata dalla tenue luce mattutina e immersa
nel suo
placido sonno. La sua compagnia aveva cavalcato da Padova tutta notte
senza
imbattersi in alcun nemico, giungendo prima del previsto e
straordinariamente
freschi e vogliosi di combattere. Infatti, il Contarini aveva
brillantemente
persuaso i recalcitranti soldati a seguirlo, puntando sul suo naturale
carisma
e soprattutto titillando la loro avidità, avendoli promesso
un grasso bottino a
mo’ di risarcimento per le paghe arretrate. Astuta volpe, al
giovane
provveditore non era sfuggito il cupido luccichio negli occhi degli
stradioti,
i quali già gongolavano all’idea
d’impadronirsi dei magnifici cavalli delle
scuderie mantovane, tipici della compagnia di Federico Gonzaga di
Bozzolo e di
Giovanni Gonzaga.
“Ebbene?”,
inquisì secco sier
Ferigo all’arrivo di Pellegrino Busicchio, assentatosi per
una rapida
esplorazione del terreno.
“Rimangono
solo due porte da cui
entrare, tutte le altre sono state murate”, spiegò
conciso il nipote di
Domenico Busicchio, anche lui presente e accanto al provveditore degli
stradioti.
“Due
ci bastano”, sentenziò il
Contarini, girandosi indietro per calcolare come meglio suddividere i
suoi
uomini. Milleduecento cavalleggeri e quattrocento fanti, le sue forbici
per
tagliare la linea di comunicazione tra i due Gonzaga. Il patrizio diede
di
sperone al suo cavallo onde portarsi al riparo all’interno
del bosco; dopodiché
scese e, estratta una carta di Soave, la aprì e la stese per
terra. Il resto
dei capitani lo imitò, stringendosi a cerchio attorno a lui.
“Conte
Guido: voi, tutti i vostri
balestrieri a cavallo e cinquanta stradioti vi porterete davanti alla
porta che va verso Vicenza”, ordinò al condottiero modenese,
indicandogli sulla cartina con la punta
della spada il punto in cui si sarebbe appostato. “Noialtri,
invece,
bloccheremo questa di Verona, acciocché nessuno della città
possa uscire. Signor
Sebastiano, voi invece disporrete la fanteria alla volta del monte,
dietro la
rocca. Sono pronte le scale?”
“Sissignore”,
lo rassicurò il
capitano bolognese. “In neanche un’ora avrete
aperte ambedue le porte.”
“Ci
conto, signor Sebastiano, ci
conto”, esclamò Sier Ferigo soddisfatto, pur
ridacchiando tra sé e sé per la
tracotanza del condottiere. E ritornando serio: “Appena
avrete superato la
prima difesa, signor Sebastiano, urlate “Marco!” e
il conte Guido ed io
bruceremo ambedue le porte: ai nemici resteranno due opzioni, se
attenderci
dentro la rocca o tentare di fuggire, finendo dritti tra le nostre
braccia. In
ogni modo, li daremo battaglia. I capitoli li conoscete molto bene: una
volta
presa Soave, fate quel che più ritenete giusto per il vostro
guadagno, ma il
contino di Melzo, l’Estense e gli altri comandanti rimangono
prede esclusive
della Signoria”, e all’ultimo tuttavia aggiunse
cupo: “Ricordate però che
queste truppe le hanno destinate all’assedio di
Treviso.”
Il
Contarini aveva dovuto
ingoiare la sua delusione nell’apprendere l’assenza
a Soave sia di Federico che
di Giovanni Gonzaga: mano sul cuore, l’aveva accarezzato la
tentazione
d’abortire il piano e di ritentare una seconda volta, quando
sarebbe stato
sicuro d’incrociare almeno uno dei due nobili mantovani.
Tuttavia rimaneva
l’annosa questione delle paghe arretrate, ch’aveva
provocato gravi malumori tra
gli stradioti, rifiutandosi quest’ultimi di trasferirsi alla
custodia di
Treviso come comandato dalla Signoria. Sicché per le leggi
di “un ho val più di
cento avrò” e di “prendere due piccioni
con una fava”, Ferigo aveva deciso di
risarcirsi con le teste di Galeazzo Sforza e di Sebastiano
d’Este, conducendoli
in catene a Padova assieme ad altri prigionieri di qualità,
intanto che
annientava l’armata ausiliare che doveva ricongiungersi a
quella del La Palice.
I provveditori sier Polo Capello e sier Christofal Moro avrebbero
gradito assai
quel suo sforzo e a Dio piacendo non si sarebbero accampate
più scuse per
posticipare la partenza per la capitale della Marca.
Quanto
ai soavesi unitisi
all’impresa, avrebbero finalmente avuto la loro vendetta per
la strage dei loro
compaesani per mano dei Collegati.
***
Cento
uomini in più rispetto al
giorno precedente – contò sier Zuam Paulo
Gradenigo dalla sua postazione al
bastione di San Tomaso, ascoltando il rapporto di uno stradiota
proveniente da
Porta Santi Quaranta, laddove gli si spiegava come una divisione di
gendarmi e
cavalleggeri francesi fosse apparsa anche lì. Il suo
capitano Teodoro
Paleologo, alloggiato al monastero fuori dalle mura, già
aveva disposto i suoi
uomini assieme, bloccando l’entrata al nemico e domandava al
provveditore se e
quando attaccare.
“Continuate
a tenere sotto tiro
il contingente di La Peliza”, si raccomandò
Gradenigo a sier Ludovico Querini e
al connestabile lì accanto a lui. “Sapete come
agire, in caso dovessero muovere
un sol passo!”
Il
suo concittadino rispose
affermativamente col capo e il patrizio scese le anguste scale fino a
giungere
al suo cavallo, spronandolo in direzione di Porta Santi Quaranta,
deciso
infatti a guidare di persona gli stradioti e i cavalleggeri
lì schieratesi.
“I
capitani Thodaro Rali e Andrea
Pera sono rientrati?”, chiese il provveditore a sier Lunardo
Zustignan,
riferendosi allo squadrone di stradioti partiti in esplorazione.
“Il
signor capitano Vitello e il
signor Lorenzo ancora attendono loro notizie”,
negò il patrizio col capo,
aggrottando preoccupato la fronte quanto l’altro veneziano.
Una
sgradevole inquietudine
incominciò allora a rodere le viscere di sier Zuam Paulo,
cogitando questi
furiosamente sul motivo di quelle continue visite da parte dei
franco-imperiali: non si trattava solo di dimostrazioni di forza,
dovevano
essere venuti in esplorazione del terreno, alla ricerca di un punto
debole
delle mura … E forse anche per compiere azioni di disturbo e
di saccheggio,
laddove possibile. Colpendoli in punti diversi sarebbe stato
più difficile
contrastarli, anche se …
Poteva
benissimo trattarsi di una
trappola da parte del maresciallo francese, onde fiaccare il loro
spirito e
privarli di uomini.
Zuam
Paulo Gradenigo sperò
ardentemente che Vitello Vitelli, quel giorno a presidio di Porta
Altinia,
fosse esentato dalla presenza di un contingente franco-imperiale. Con
Renzo di
Ceri s’era raccomandato poi di non uscire dalla
città, limitandosi a respingere
a cannonate gli assedianti, giunti senza artiglieria e dunque
più vulnerabili.
L’Orsini – forse quella mattina innervosito dalle
fitte di dolore alla gamba,
provocategli dalla piaga del malfrancese – aveva ribattuto di
lasciare agli
sbarbatelli tali raccomandazioni. Gradenigo aveva per un soffio mancato
di
ricresimare senz’olio quel laziale impertinente.
“Inviate
quest’ordine al capitano
Andrea Vassallo: dite di armare i burchi di due falconetti ciascuno ed
imbarcare archibugieri e balestrieri quanti che ne può
portare e che si
spostino a pattugliare il fiume all’altezza di Porta
Altinia”, istruì il
provveditore un suo provvisionato, il quale diede di sperone al
cavallo,
facendo dietrofront e sparendo rapidissimo tra le viuzze di
Treviso.
***
Sebastiano
del Manzino e i suoi
fanti camminavano silenziosissimi rasente muro a guisa di lucertola, e
come
tali appoggiarono le scale, pronti a scalare la rocca, le mani
leggermente
sudate dentro i guanti dalla tensione e respirando appena dal naso. Tra
i suoi
uomini s’erano uniti dei soavesi ribelli agli invasori, i
quali, conoscendo a
menadito il Castello, lo aveva condotto nel punto meno visibile al
nemico.
Il
condottiero bolognese aveva
scrutato attentamente le caminade prima dal suo nascondiglio boschivo e
poi dal
basso, cercando di capire le dinamiche di ronda del nemico, in modo
così da
calcolare quanto tempo gli sarebbe occorso per salire senza imbattersi
immediatamente in una sentinella. Finora aveva ne aveva contate
quindici, però
qualcuno in più poteva sempre sbucare fuori.
Accertatosi
come ogni scala fosse
stata posizionata a dovere, Sebastiano sguainò circospetto
la spada e,
appoggiando il piede sul primo gradino, incitò
silenziosamente il resto dei
fanti a seguirlo in fretta, in sincronia impeccabile. Ogni tanto,
udendo
qualche rumore sospetto, il bolognese e i suoi compagni si appiattivano
contro
le mura, trattenendo il fiato e serrando la presa, per poi ripartire
più veloci
di prima, finché non raggiunsero l’agognato
parapetto con le sue merlature.
Scoccando una veloce occhiata attorno e trovando la caminada sgombra di
sentinelle, il condottiero s’infilò dentro tra lo
spazio dei merli, scavalcando
la balaustra ed aiutando il resto dei fanti a raggiungerlo, aguzzando
l’orecchio e la vista, vigilantissimo.
Quand’ecco,
che un rumore
inaspettato di passi lo colse alle spalle e, girandosi di scatto,
Sebastiano si
trovò faccia a faccia con un soldato probabilmente
mantovano, il quale rimase
per un brevissimo attimo lì impietrito, il viso pallidissimo
e sgomento per
quell’inaspettata apparizione. La bocca della sentinella si
piegò tuttavia in
una smorfia allarmata, gridando a pieni polmoni: “Fate buona
guardia! Fate
buona guardia!” e girò fulmineo sui tacchi,
correndo in direzione opposta onde
avvisare i suoi commilitoni.
Il
Manzino non gli concesse tal
privilegio. “Fai tu buona guardia”,
berciò al fuggitivo e peggio d’un bracco
scattò al suo inseguimento. L’afferrò
per i capelli rimasti scoperti dall’elmo
e, tirato il mantovano a sé tramite uno strattone talmente
forte e brusco da
costringere quest’ultimo in ginocchio, affondò
dall’alto la punta della sua
spada tra spalla e gola. Un’altra guardia, giunta in tardivo
soccorso del
compagno, caricò il bolognese con la sua picca, prontamente
deviata dalla posta
di coda longa di quest’ultimo, che gli permise
d’afferrare la lancia, di
tirarla a sé e d’avvicinarsi quel tanto da
trapassare la gola anche di quell’avversario.
Nettandosi
via dal viso gli
schizzi di sangue e i rivoletti di sudore, Sebastiano portò
la lama in posta di
donna destraza e, alla vista del resto del nemico appropinquarsi ma
certo della
massiccia presenza dei suoi uomini dietro di sé,
urlò con quanto fiato avesse
nei polmoni: “Marco! Marco!” schizzando incontro
agli altrettanti determinati
difensori della rocca. “Tagliateli tutti a pezzi,
perdio!”
Appostato
ad una delle due porte
rimaste, Ferigo Contarini si calò la celata
dell’elmo non appena le sue
orecchie captarono il veneziano ruggito di battaglia tosto seguito da
“Armi!
Armi!” degli assediati che, a giudicare dal trambusto sempre
più vicino, si
stavano apprestando a serrare i ranghi e porsi in ordine, o per
combattere o
per fuggire.
“Bruciate
la porta!”, ordinò
allora il giovane provveditore degli stradioti. “Pronte le
lance! Nessuno esce
vivo da Soave, finché non s’arrendono!”
In
un battibaleno, il legno
dinanzi a loro divenne un’unica lingua di fuoco, guizzando in
alto d’arancio e
denso fumo nero verso il cielo a malapena rosato del primo mattino,
accompagnato questo falò improvvisato dalla lugubre cadenza
dei tamburi. Alte
grida di stupore e panico si levarono nell’aria e Ferigo
poteva ben immaginare
le reazioni scomposte e isteriche dei soldati intrappolati
lì dentro, del loro
frenetico ragionare in cerca di una rapida soluzione.
Tamburellò le dita
sull’elsa della spada, in attesa della loro decisione finale.
Guido
Rangoni, davanti alla
porta vicentina, diede il segnale di bruciare anche
quest’ultima, raddoppiando le
grida di sconcerto degli assediati, finiti invero come il proverbiale
sorcio.
La
prima mossa era stata fatta:
ora toccava ai Collegati.
“Si
aprono le porte! Si aprono le
porte!”
***
Mercurio,
non vedendo ritornare
il terzo squadrone staccatosi in direzione del Terraglio, aveva
richiesto e
ottenuto il permesso dall’altrettanto apprensivo La Palice di
raggiungere i
ritardatari, lasciando Leka a capo del resto degli stradioti, anche per
distrarsi dalla guerra di nervi ingaggiata sia da parte dei Collegati
che dei
veneziani, schieratisi ora non soltanto a Porta San Tomaso ma anche a
Porta
Santi Quaranta, sfidandoli ad avvicinarsi.
Per
questo motivo il greco-albanese
non aveva interpretato favorevolmente la sparizione del terzo
contingente, non
famigliare del territorio nonché il più isolato
rispetto agli altri e di
conseguenza facile preda di agguati.
E
di fatti, sopraggiungendo in un
punto piuttosto remoto lungo il fiume, il Bua
s’imbatté in quel che doveva
esser stato uno scontro particolarmente violento, scovando dappertutto
gendarmi
riversi disordinatamente nel fango e spogliati dei loro averi,
similmente agli
otto sopravvissuti già incatenati e pronti ad essere
deportati in città. I
cavalli degli sconfitti – dodici in totale - nitrivano
nervosi e tentavano di
ribellarsi alla presa dei nuovi padroni, tutti stradioti tra i quali
Mercurio
riconobbe il capitano Teodoro Ralli e accanto a lui il suo
ex-prigioniero
e fratello di Zilio, Teodoro Madalo.
Al
pensiero del suo fedele
luogotenente, il condottiero stringe convulsamente le redini mentre
estraeva la
scimitarra, deciso come non mai di ribaltare la situazione: da oggi, si
ripromise, la fortuna avrebbe smesso d’arridere ai veneziani.
“San
Giorgio! San Giorgio!”,
gridò Mercurio, dando di sperone al suo corsiero e
gettandosi quasi in braccio
all’avversario, cogliendolo impreparato e disperdendolo,
senza neppure
concedere ai marciani il lusso di capire quanto stesse accadendo.
Gli
sfortunati, che non ebbero
abbastanza prontezza di riflessi di rimontare a cavallo, furono tra le
prime
vittime, falciati via dall’impeto del primo scontro; i
cavalleggeri francesi
puntarono sui loro compagni prigionieri, rompendo le loro catene con un
colpo
di spada, issandoseli poi in sella e galoppando distante dalla mischia.
Quanto
a Mercurio, esauritosi
l’effetto sorpresa, si trovava impegnato a forzare la fila
difensiva
improvvisata dal resto degli stradioti marciani, con a testa il Ralli e
Andrea
Pera che spingevano e pressavano i fianchi dei propri cavalli contro
quelli dei
francesi in una sorta di lotta corpo a corpo, oltre che scimitarra
contro
scimitarra. Sbattendo le ciglia madide di sudore sotto a celata, il Bua
s’accorse, dagli scatti improvvisi del suo corsiero, del
piano dei due
capitani: il terreno progressivamente più scivoloso e
instabile significava che
li stavano costringendo ad indietreggiare verso le golene, per poi
buttarli in
acqua.
Inaccettabile, grugnì mentalmente il
condottiero, schivando un affondo
di Andrea Pera e battendo di piatto la sua scimitarra contro il cavallo
del
nemico; immediatamente l’animale, confuso e stizzito,
s’innervosì e s’impennò,
scalciando e rompendo la formazione, il suo cavaliere in crescente
difficoltà.
Sogghignando crudele, Mercurio si sbilanciò in avanti e
colpì il capitano Pera
prima al fianco, poi alla gamba e tentò di recidere la
cinghia del sottopancia,
sennonché il corsiero, roteando sulle braccia, rispose
agitando gli zoccoli
delle gambe contro il greco-albanese, che dovette rinculare
velocissimo. Nel
medesimo istante, l’improvviso scatto sbalzò di
sella Andrea che già ferito
cadde e batté la schiena per terra, in un sinistro
scricchiolio di ossa,
seguito da un flebile grido di protesta quando la bestia, libera da
ogni
controllo, prese a galoppare via senza direzione, trascinando seco lo
stradiota, il cui piede era rimasto incastrato nella staffa.
“Theodoros!
Vai a recuperarlo!”,
ordinò il capitano Ralli al suo sottoposto, il quale, per
tutta risposta,
balbettò qualche inintelligibile parola di protesta.
“Vai!”, ribadì suo
fratello Giorgio, serrando i ranghi così da permettergli di
staccarsi senza
creare una breccia utile al nemico.
Mercurio,
pur non afferrando ogni
singolo e perfetto lemma di quel discorso, ne intuì il
contenuto di base e girò
il suo cavallo per partire all’inseguimento di Madalo;
tuttavia, Teodoro Ralli
gli si parò innanzi, bloccandolo e armeggiando
così d’impossessarsi e
manomettere i finimenti della sua cavalcatura. Vomitando una mezza
imprecazione
e una mezza bestemmia, il Bua girò l’elsa della
sua scimitarra e sbatté il
pomello contro l’elmo del Ralli col duplice effetto di
disarmarlo e
d’intontirlo. Dopodiché, portatosi appresso, gli
circondò il braccio attorno al
collo, serrandolo intanto che decideva se strangolare il conterraneo o
di farlo
suo prigioniero. Teodoro, abbandonate le redini, d’istinto
afferrò invece
avambraccio di Mercurio e prese a battere i pugni contro di esso e il
gomito,
sfinendo la presa ferrea del ringhiante greco-albanese.
D’un
tratto, alle sue spalle,
quest’ultimo si sentì trascinare
all’indietro e sia lui che il Ralli rotolarono
per terra in un groviglio di corpi e fango. Postosi rapido in piedi e
alzandosi
la celata lercia, il Bua, perduta momentaneamente la sua arma,
sparò un gancio
a Giorgio Madalo, venuto in soccorso del suo superiore, e lo
spedì contro un
albero che però per effetto di rimbalzo glielo
riportò davanti e stavolta il
fratello di Zilio non esitò a sfilare il suo pugnale da
sotto la casacca,
sennonché due uomini del greco-albanese gli si buttarono di
peso addosso e lo
costrinsero in ginocchio, tenendolo fermo per ambedue le braccia.
Ciò permise a
Mercurio di concentrarsi su Teodoro Ralli, ancora barcollante e in
affanno per
il mancato ossigeno: caricandolo a guisa di toro, il Bua
atterrò l’uomo,
ponendosi a cavalcioni sopra di lui, e gli scaricò una serie
di
pugni ben assestati così da impedirgli
ogni sorta di reazione, fino
a renderlo totalmente innocuo.
“Oggi
vinciamo noi!”, ansimò l’epirota,
le cui nocche bruciavano pur coperte dal cuoio dei guanti.
“Oggi la Signoria ha
perso. Oggi inizia la fine di Treviso!”
Ridendo
sguaiatamente, i denti
macchiati di sangue, Teodoro Ralli gli sputò in faccia.
“Malakas!”, gracchiò.
“Hai vinto solo la tua tomba!” e prima che
l’altro potesse esigere spiegazioni
(o ammazzarlo per spregio) il sibilo di una freccia e il gorgoglio
d’un
cavalleggero morente indusse Mercurio a voltarsi di scatto e i suoi
occhi si
dilatarono d’impaurito stupore allo sgradito spettacolo dei
capitani Vitello
Vitelli e Renzo di Ceri sopraggiungere in fretta assieme ai loro
balestrieri e
fanti, già in schieramento d’attacco. La vista in
particolare delle due
anguille incrociate sull’impresa dell’Orsini degli
Anguillara [3] rievocò nel
Bua l’antica e terrificante ansia sperimentata durante la
rotta del Garigliano,
laddove anche in quel frangente i due condottieri s’erano
affrontati da
avversari.
Ghermito
e issato Ralli per un
braccio, Mercurio recuperò in fretta la sua cavalcatura e,
una volta in sella,
con dei lacci improvvisati legò al pomello i polsi del suo
prigioniero.
“Ritirata! Ritirata!”, ordinò infine ai
suoi. “Prendete ostaggio chi potete e
ritiriamoci!”
“Cammina,
Madalo!”, grugnì uno
stradiota a Giorgio, rimasto in camicia dopo che gli avevano levato
ogni suo
avere personale. Con la scusa di farsi ammanettare, ecco che il
fratello di
Zilio gli elargì un’inaspettata spallata,
approfittandone per sottrarre al suo
carceriere il pugnale e piantarglielo dritto nell’occhio;
dopodiché, giratosi,
recise la gola di un altro stradiota e scappò via per il
bosco, zigzagando a
sufficienza così da scoraggiare i cavalleggeri francesi
dall’inseguirlo,
temendo quest’ultimi la presenza d’eventuali nemici
appostati tra i fitti
alberi.
“Lasciate
perdere!
All’accampamento!”, diede di sperone il Bua e i
suoi uomini lo imitarono
svelti, evitando così uno scontro coi i marciani giunti in
soccorso dei loro
stradioti.
Tre
prigionieri soltanto –
redasse il bilancio finale Mercurio - tra cui il capitano Teodoro
Ralli. Magro
bottino, certo, tuttavia ciò che bastava per inviare un
chiaro messaggio al
provveditore Gradenigo: Treviso non era così imprendibile
come credeva né i
suoi soldati imbattibili.
Anche
perché, ripensando al luogo
dello scontro appena terminato, il condottiero credeva ora
d’aver scoperto
finalmente il punto debole della città.
***
Galeazzo
Sforza ricacciò indietro
un conato di vomito, detergendosi la fronte pallida e sudaticcia col
dorso
della mano guantata, maledicendo l’infelice connubio del
morbo che da giorni lo
tartassava e del tanfo di fumo, il quale non cessava di molestargli lo
stomaco,
sconquassandoglielo. Il suo scudiero, tenendolo per una gamba, lo
aiutò ad
issarsi fino a sedersi in sella, i suoi occhi scuri scrutanti
apprensivi il suo
signore, la cui salute non aveva minimamente accennato ad un
qualsivoglia
miglioramento. E adesso, ad aggiungere l’insulto
all’ingiuria, i veneziani
avevano attaccato all’improvviso Soave, quella che i
gonzagheschi avevano
creduto una fortezza insospettabile, fuori dal loro raggio
d’azione, e pertanto
perfetta come tappa di sosta prima di procedere verso Treviso. Invece,
le grida
inferocite dei marciani s’avvicinavano sempre di
più alla cittadella, unito ai
rantoli dei loro compagni passati a fil di spada, mentre dalle finestre
s’oscurava il panorama, coperto da dense cortine di fumo
puzzolente.
“Signor
Galeazzo!”, avvicinò
Sebastiano d’Este al contino di Melzo, scuotendolo
leggermente sulla spalla.
“Dobbiamo andare!”, lo esortò, nel
frattempo che indossava l’elmo con la mano
libera, l’altra impegnata a tenere la lancia.
Il
figlio illegittimo del fu Duca
di Milano sbatté le palpebre doloranti, aspirando in un
battito di denti l’aria
d’un tratto gelida, come freddi erano i brividi e il sudore
che gli
percorrevano la schiena, sotto l’armatura. Stringendo a
malapena le redini, lo
Sforza annuì docile e batté i fianchi del suo
cavallo, seguendo i suoi compagni
verso una delle due porte del Castello di Soave.
Resisi
conto di trovarsi dinanzi
a due scelte davvero spinose – se affrontare i veneziani
dentro o fuori le mura
– Sebastiano d’Este aveva convinto gli altri capi a
tentare una sortita in
campo aperto, confidando nella forza e nella compattezza della loro
cavalleria,
una volta che gli uomini d’arme avessero distratto il nemico.
Non confidava
certo di salvare tutti, però buona parte sì e
forse qualche possibilità
sussisteva di scampare alla cattura, riparando a Verona.
Dovevano
però agire in fretta.
“Andiamo!
Andiamo!”, incitò il
capitano Estense i suoi cavalleggeri in direzione di ambedue le porte,
così da
dividersi e tentare di sfondare almeno uno dei contingenti nemici. I
soldati
risposero in bellicoso eco, risuonando il rimbombo di numerosi zoccoli
per
terra, unendosi al clamore di ferro dentro e fuori la fortezza.
Ferdinando
dal Persico si portò
accanto a Galeazzo Sforza, cavalcando accanto a lui nelle sicure
retrovie,
assicurandosi che l’uomo, ciondolante, rimanesse in sella.
“State di buona
voglia”, lo rassicurò, raddrizzandogli il busto
ricurvo in avanti. “Presto
raggiungeremo i signori Giovanni e Federico e vedrete che vi
rimetterete in
sesto!”, disse, ricevendo un sorriso tirato da parte dello
Sforza a mo’ di
ringraziamento.
Il
conte cremonese ebbe appena
tempo d’imitarlo, che la sua bocca si piegò in una
smorfia terrorizzata: la
sortita di Sebastiano d’Este e della sua compagnia non solo
era stata respinta e la maggior parte dei soldati finiti nelle fosse a gambe all'aria
ma, in una violenta contromossa, i veneziani li stavano costringendo a
rientrare nella fortezza, i loro balestrieri a cavallo che scoccavano
incessanti piogge di frecce mentre gli stradioti infilzavano e
spingevano
indietro gli assediati. Ferdinando dal Persico riconobbe con orrore in
prima
fila i Rangoni, combattendo i tre fratelli Guido, Ludovico e Francesco
alla
stregua di diavoli dell’inferno, aprendosi questi un varco
tra i gonzagheschi e
avanzando sui loro cadaveri, i quali s’accumulavano senza
sosta, come le mosche
affogate nell’aceto.
Difendendo
col braccio il contino
di Melzo, il cremonese provò ad arretrare e a giocarsi il
tutto per tutto
uscendo dall’altra porta; purtroppo per lui, il conte Guido
lo aveva adocchiato
e gli galoppava incontro, la zagaglia pronta a colpire o lui o lo
Sforza.
Fortunatamente, un cavalleggero mantovano si frappose tra i due e il
modenese,
permettendo a Ferdinando d’afferrare le redini di Galeazzo e
di rifugiarsi
all’interno della cittadella e poi dentro il dongione, avendo
infatti scoperto
come anche la seconda porta fosse ormai in procinto di venir forzata
dai
veneziani.
Avanzando
a fatica tra la ressa
di soldati sbandati e fuggitivi, il conte cremonese si salvò
per un soffio dal
compatto muro dei fanti di Sebastiano del Manzino, sbucati
all’improvviso manco
la terra li avesse vomitati, le armature, le armi fino al viso lordi di
sangue,
tanto da risaltare il biancore degli occhi, ingigantendoli.
Emettendo
urla neppure
associabili alla razza umana, i soldati veneziani partirono
all’assalto,
spazzando via avversario dopo avversario come se stessero mietendo
spighe di
grano; quelli in prima fila, poi, allungavano il braccio ai finimenti
dei
cavalli, cercando di reciderli o di sbilanciare i loro cavalieri,
colpendoli
alle gambe, ai fianchi, ovunque riuscissero a raggiungerli. Ferdinando
dal Persico
calava alla rinfusa fendenti in difesa sua e del contino di Melzo e al
contempo
si premurava di mantenere il controllo sul suo sempre più
nervoso e spaventato
destriero, insidiato dai marciani. Portando il cavallo ad impennarsi e
a
battere gli zoccoli delle braccia contro il nemico, il conte cremonese
si creò
infine un varco e, trasferito Galeazzo sulla sua sella, Ferdinando
partì in
galoppo verso il dongione senza guardarsi indietro.
Ma
lo Sforza, pur semisvenuto
dalla febbre, sì che non poteva sottrarsi dalla grottesca
visione della strage
in cui lo scontro, pian pianino, si stava trasformando: i cavalleggeri
gonzagheschi, abbrancati dai fanti e soprattutto dai vendicativi
soavesi,
venivano trascinati per terra e lì trafitti una, dieci,
venti volte. Oppure,
scaraventati contro il primo muro disponibile e lì tramutati
in bersagli
viventi dai balestrieri. Galeazzo vide un soavese aprire a
metà la faccia di un
soldato, cui schizzarono via i bulbi oculari e parte delle cervella.
Gli
stradioti marciani, armati di picche, calando quest’ultime
perforavano sia
uomini d’arme sia cavalieri, fino a piantarli al terreno e
una volta lì
inchiodati lasciavano ai loro compagni a piedi l’onore di
terminare l’opera,
scannandoli.
Era
questa la fine che sarebbe
spettata anche a lui?
“Al
dongione! Al dongione!”
Guido
Rangoni, manovrando
nervosamente il suo cavallo in modo da girarsi attorno, scrutava avido
nel
marasma generale alla ricerca dei due conti, sfuggitigli per il rotto
della
cuffia. Spronò la sua bestia in direzione della cittadella,
saltando sopra ai
cadaveri e passando a fil di spada chiunque gli sbarrasse la strada, i
balestrieri dietro di lui a coprirgli le spalle.
“Sforza!
Persico! E Rossi! Quei
figli di puttana sono miei!”, gridò e scese da
cavallo una volta giunto davanti
al portone d’ingresso del dongione, che già ci si
stava premurando di sfondare.
“Attenzione!”,
l’avvertì suo
fratello Ludovico, riparandosi sotto la targa e appiattendosi contro il
muro,
schivando la freccia scagliatagli dai balestrieri nemici dalla
finestrella del
dongione. Senza tanti complimenti, uno della compagnia dei Rangoni lo
puntò e
lo centrò in pieno: l’avversario, esalando un roco
gemito, cadde all’indietro,
sparendo all’interno dell’edificio.
“Sbarrate
la porta! Sbarratela!”,
ordinava nel frattanto Ferdinando dal Persico, portando Galeazzo
lontano da
essa e sistemandosi davanti a lui a mo’ di scudo, la spada
sguainata. Un sudore
freddo gli colava dietro la nuca e il cuore gli martellava in gola,
attenendo
inesorabilmente il momento in cui i veneziani li avrebbero raggiunti
… Allo
stesso modo, il contino di Melzo, pur a stento in
piedi,
s’incoraggiava, ricordandosi delle battaglie
affrontate. Sei
sopravvissuto a quelle, sopravvivrai anche a quest’altra!
Non
appena il portone d’ingresso
venne distrutto, Guido e i suoi fratelli per poco non si tuffarono
dentro il
dongione: spada e daga in mano, presero a correre invasati verso le
scale,
balzando a due a due e liberandosi in fretta della strenua resistenza
mossali.
Non risparmiarono nessuno, neanche coloro che, nella ressa,
inciampavano giù
per le scale: subito i fanti e gli stradioti dei Rangoni, rimasti in
basso, li
impironavano e scalciavano via i morenti.
“Corpo
d’un diavolo!”, imprecò il
modenese, imbattendosi nell’immobile porta serrata e dalla
frustrazione le
diede un poderoso calcio. Sgomitando tra i suoi compagni, un soavese
armato
d’ascia si fece avanti e, chiedendo implicitamente al
condottiero di scansarsi,
calò la lama contro il legno, sullo stesso punto,
finché la luce prese a
filtrare dal buco creatosi e allargato dalle impazienti mani dei
marciani,
incuranti delle schegge.
Ferdinando
dal Persico levò in
alto la guardia, osservando stranito la porta finire sbrindellata pezzo
per
pezzo malgrado le sedie e i cassoni posti a mo’ di barricata.
In uno schiocco
essa cedette completamente e, scardinata, da essa sfociarono in un
fiume in
piena gli assedianti e in prima fila Guido Rangoni, il quale in un
balzo felino
si scagliò contro il conte cremonese con tal foga da
distruggere in un
battibaleno la difesa di Ferdinando, relegandolo in un angolo del muro.
Il
condottiero modenese ne approfittò per disarmare
l’avversario, di cui afferrò e
torse il polso, quando notò come si stesse preparando ad
estrarre il pugnale
dalla cintura.
“Due
pesci in un colpo solo, gran
pesca oggidì!”, scherzò macabro Guido,
premendo lievemente il filo dritto della
spada sulla gola del conte cremonese, intanto che suo fratello Ludovico
toglieva ogni arma a Galeazzo Sforza, sconfitto dopo una debole
resistenza. Francesco,
invece, era proseguito oltre alla ricerca di Benedetto de’
Rossi, nascostosi da
qualche parte nel dongione.
Occupato
con successo il cortile
del Castello, sier Ferigo Contarini seguiva impassibile
l’andamento
dell’assedio adesso mutatosi in una gara al massacro. Il
giovane provveditore,
circondato dai suoi stradioti, trottava in direzione della cittadella,
preparandosi a terminare l’impresa prima d’issare
sulla torre il vessillo
dorato di San Marco.
“Ormai
Soave è nostra”, lo
informò soddisfatto Domenico Busicchio, capitano degli
stradioti, “al vostro
segnale, possiamo chiudere qui la faccenda e incominciare a far bottino
e
prigionieri.”
Il
suo superiore strinse la bocca
in una linea dura. “Bottino sì. Prigionieri
no”, ribatté secco il veneziano. “Si
continua ad oltranza.”
“Ma
ormai abbiamo vinto!”
“Voi
e i vostri uomini volete
oro. Ma qui i soavesi vogliono sangue e vendetta. E
l’avranno, signor Domenico,
come promesso.”
Lo
stradiota scoccò un’occhiata
obliqua ad un gruppo di soavesi che s’accaniva sui
gonzagheschi, tagliandoli
letteralmente a pezzi e macchiando di rosso le mura del Castello,
insultando
dei peggiori epiteti loro, le loro madri, i loro morti e ovviamente
quella
“gran vaca putana di la Marchesana”.
Poco
distante da costoro, dei
soldati avevano incominciato a depredare i cadaveri degli sconfitti,
mentre
altri trascinavano delle urlanti donne fuori in cortile –
prostitute,
indubbiamente, a giudicare dai vestiti. Una di queste, ribellatasi,
venne
tenuta immobile per le ascelle da un fante, mentre il suo compagno,
afferrato
lo scollo dell’abito, glielo apriva strappandolo a
metà fino a trovare sotto
d’esso una cintura con una scarsella piena di danari.
Dopodiché, intascato il
bottino, l’uomo pugnalò la meretrice sul basso
ventre e lei cadde bocconi
vomitando sangue. Le sue colleghe subirono la medesima sorte, derubate
prima e
ammazzate poi, la fame d’oro più forte della carne.
“Quando
allora, signor
provveditore, potremo fare prigionieri?”
Il
Contarini si calò la celata e
diede di sperone al suo cavallo, rispondendo così a Domenico.
Ferigo
aveva finalmente
individuato il luogotenente del Gonzaga di Bozzolo, Sebastiano
d’Este, il quale
stava riorganizzando i suoi cavalleggeri in un ultimo disperato
tentativo di
resistenza. Il ghigno del giovane provveditore
s’allargò in uno talmente
ferino, da sembrar strappato al divino Marte.
I
primi ad uscire dalle due porte
di Soave erano stati gli uomini d’arme
dell’Estense, evidentemente per aprire
il passaggio ai cavalleggeri e ai loro capitani, diversivo che il
Contarini
aveva lodato per la sua audacia strategica. Ma lì finiva la
sua cortesia
cavalleresca: ai suoi occhi, costoro non soltanto erano invasori, ma
anche
complici dei francesi e dei tedeschi, di quegli assassini
ch’avevano trucidato
orrendamente 366 soavesi, bruciando il paese e
infierendo sui loro
corpi, negando a questi innocenti perfino una sepoltura cristiana. Un
groppo in
gola gli si era formato all’udire i tremendi racconti dei
sopravvissuti,
portando il patrizio ad accogliere prontamente le loro richieste di
partecipare
all’assedio per riprendersi la loro città e il
Castello.
E
il loro odio era divenuto il
suo. A Ferigo non importava delle giustificazioni dei Gonzaga, degli
Este, di
qualsiasi famiglia signorile italiana ostile alla Signoria: a lui
apparivano
tanto sporche e vili quanto i franco-imperiali. Avevano voluto allearsi
con
quest’ultimi per saltare sul carro dei vincitori? Benissimo,
ne avrebbero
condiviso la sorte, saltando nella fossa comune.
Dunque,
il giovane provveditore
lasciò che codesta fredda collera vendicatrice guidasse la
sua spada, quando
ingaggiò un serratissimo duello a cavallo contro
l’Estense, costringendolo ad
alzare costantemente la guardia senza concedergli né respiro
né una sola
apertura per la controffensiva. Voleva proprio contemplare
l’umiliazione della
sconfitta sul suo volto, ridergli in faccia, se non addirittura
staccargli la
testa. Sangue. Sangue. Sangue!
Sebastiano
d’Este bloccò infine
un suo fendente, cadendo però nella trappola del veneziano:
roteando in un
stridulo gargarismo le lame, il Contarini allontanò il
braccio dell’avversario,
rendendogli accessibile il petto che colpì tramite una
mirata e potente
gomitata alla base del collo, mozzandogli il fiato. Agguantatolo,
Ferigo lo
denudò di malagrazia dell’elmo, afferrandolo per i
capelli biondi e sudati,
costringendolo a mostrare in sottomissione la gola.
“Soave
è nostra e voi, voi siete
prigioniero della Signoria!”, sibilò trionfante
Ferigo e quello corrispose all’agognato
segnale, che decretava la fine di ogni combattimento e
l’inizio ufficiale della
tanto agognata corsa al bottino, cui i marciani
s’abbandonarono esultanti.
Trecento
bellissimi cavalli
mantovani vennero raggruppati e accarezzati in genuino apprezzamento
sia dagli
stradioti che dai cavalleggeri, i quali discutevano animatamente tra di
loro,
decantandone le qualità e mangiandoseli a momenti cogli
occhi adoranti. Alcuni
controllavano i denti degli animali, altri sotto gli zoccoli, taluni ne
accarezzavano dolcemente i fianchi nervosi, calmandoli. Più
che dei reduci da
uno scontro, parevano dei mercanti ad una fiera, se non fossero stati
circondati da corpi seminudi e mutilati, dal tanfo di fumo, di sangue,
di
escrementi. Il nemico, sconfitto, giaceva agli angoli già
dimenticato oppure in
catene, come quei trenta fortunati uomini d’arme che, per
aver resistito fino
all’ultimo, erano riusciti a salvarsi dalla carneficina.
“Signor
Pellegrino, quando avrete
ripreso fiato, partite alla volta di Padoa per riferire la notizia di
questa
nostra vittoria”, istruì Ferigo Contarini il
nipote del capitano stradiota,
finendo di scrivere un veloce resoconto di quanto avvenuto e sperando
che la
sua calligrafia risultasse leggibile, in quanto redatto ancora in
sella. “Signor
Domenico, voi invece preparate i carri: voglio che i capi nemici siano
ben
visibili, quando entreranno in città! Riguardo noialtri, una
volta raggruppata
la compagnia dei Rangoni, proseguiremo fino a Montagnana e
…”
All’udire
ciò Sebastiano d’Este
ebbe uno scatto d’orgogliosa ribellione e digrignò
i denti, agitando i polsi
costretti nelle manette. “Chi vi credete
d’essere?!”, lo interruppe indignato,
avanzando di qualche passo verso il giovane provveditore,
sennonché due fanti
lo bloccarono prontamente. “Esibirci su di un carro? Come
schiavi? Vi pensate
forse un generale romano in trionfo? Scipione
l’Africano?”, berciò malevolo,
deridendolo. “Siete bestie voialtri, senza alcun rispetto per
l’avversario!
Tipico di voi veneziani, così sprezzanti verso il prossimo e
pieni di boria e
rancore! Ma sappiate che il re Ludovico e l’Imperatore
Massimiliano non
lasceranno impunito quest’affronto, avremo la
nostra …”
“Ma
per favore, chiudete quella
fogna e smettetela di lagnarvi peggio d’un
infante!”, lo zittì perentorio e a
voce alta il Contarini, le cui gote però s’erano
tinte di scarlatto e i suoi
occhi incominciarono a brillare di una fredda luce assassina, la
medesima
quando s’apprestava a frustare sulla pubblica piazza gli
stradioti
indisciplinati.
Portandosi
davanti al
prigioniero, Ferigo afferrò il viso di Sebastiano,
stringendolo fino ad
imprimervi il segno delle unghie. “E non mi fate inutili e
patetici predicozzi:
credete che non conosca il vostro disprezzo
per noi? Cani
veneziani, gli odiatissimi veneziani, i nostri nemici giurati, ecco
come ci chiamate! Noi saremo anche alteri e
vendicativi, ma voi vi
siete piegati alla stregua di puttane al Re Cristianissimo e
all’Imperatore,
credendoli dei Giove in terra e onnipotenti, pronti a correre in vostra
difesa
al minimo accenno, razza di donnicciole petulanti e invidiose! Incapaci
nella
guerra, ma abilissimi al tradimento e a persuadere gli altri a
combattere per
le vostre cause! Mi fate schifo quanti che siete!”,
sibilò astioso il patrizio,
lasciando trapelare tutto il veleno accumulato in due anni di guerra,
depurandosi lui stesso dagli orrori cui aveva assistito e che aveva
dovuto
soffocare onde non perdere lucidità. Non si accorse dei
soavesi riunitisi
dietro di lui, del loro cupo mormorio d’assenso, degli
sguardi feroci di chi
aveva perduto casa, figli, genitori, consorti in nome delle altrui
ambizioni e
che ora esigeva la sua libbra di carne, anche se si trattava
d’un misero
sostituto.
“Concedetemi
di darvi un motivo
per cui odiarci sul serio, allora”, gli confidò
Ferigo, reclinando beffardo il
capo. “La Signoria ha destinato voi e i vostri compagni
alle Orbe.
Le conoscete?”, cinguettò crudele dinanzi
all’espressione di puro sgomento
dell’Estense. “Sono celle sotterranee, laddove non
filtra il benché minimo raggio
di sole e si dice che, a seconda della marea, esse si riempiano
d’acqua”, gli
descrisse minuziosamente, deliziandosi del terrore del suo nemico.
“Prima
perderete la vista; poi vi si spezzeranno le ossa; i reumatismi vi
toglieranno
ogni requie; vi piglierete un bel raffreddamento di polmoni e i granchi
entrati
assieme all’acqua semplicemente adoreranno nutrirsi della
vostra nobile carne.
In ogni caso, voi uscirete in bara dalle Orbe, ma non in breve tempo
– oh
no!- questo ve l’assicuro: faremo il
possibile per tenere voi e i
vostri amici ben vispi e allegri, finché non impazzirete e
invocherete la
morte. E neanche allora vi sarà concessa e, se lo
sarà, solamente quando ne
avremo voglia e con arma a nostra discrezione. I vostri corpi deformi e
ciechi
serviranno a mostrare al mondo la misericordia della Signoria, verso
coloro che
vogliono distruggerla!”, ringhiò il giovane
provveditore, mollando
violentemente la presa dalla mandibola di Sebastiano.
“Ora
odiaci pure, Estense, odiaci
pure mentre rimpiangerai questo giorno, quello in cui vi ho risparmiato
la
vita!”, concluse gelido Ferigo. Ad un rapido cenno del capo
del patrizio, i
fanti a sua custodia spinsero il luogotenente sconfitto verso il carro,
costringendolo a salire, mentre questi sputava maledizioni su
maledizioni
contro la Serenissima e i suoi diavoli che partoriva al posto di
cittadini.
Il
Contarini, sordo e cieco a
tali scenate, montò ineffabile a cavallo e si diresse verso
il dongione per
accertarsi che i fratelli Rangoni avessero catturato gli altri
comandanti, come
precedentemente raccomandatosi.
Quella
sera, a Padova, i
provveditori sier Christofal Moro e sier Polo Capello inviavano a
Venezia una
consolatrice lista per mitigare la dolorosa perdita di Gradisca:
Questi sono la nome di capi presi
et sarano conduti im Padoa.
El
contin di Melz, fo fiol dil
ducha Galeazo Maria di Milan, naturale et cugnato di lo imperator,
amalato.
El
signor Sebastiano da Este, fo
fiol dil signor Nicolò, loco tenente de signori di Bozolo et
zerman dil ducha
di Ferara, foraussito.
Domino
Manfredo de Landriano,
milanese, capo di balestrieri 50.
Domino
Beneto di Rossi, da Parma,
capetanio di homeni d’arme 50 et di balestrieri 100, al qual
lo imperator à
donato lochi per ducati XVI milia di valuta.
El
conte Ferando dal Persico,
cremonese, capo di balestrieri 50.
Jacomo
Tristam, citadino
veronese, rebello manifesto.
***
Hironimo
strisciò sulla paglia
fintanto che la catena fissata al palo glielo permetteva, cercando di
scostare
un lembo della tenda separatoria così da sbirciare quanto
stava accadendo.
Un
vivace brusio di voci più o
meno alterate e di passi concitati lo aveva distratto dalle sue
orazioni,
l’unica consolazione che gli era rimasta onde mantenere la
lucidità in
quell’eterno limbo. Ad incuriosirlo erano stata la
realizzazione che, tra i nuovi
arrivati dentro il padiglione, non vi si trovavano soltanto a Mercurio,
Leka e
ai loro stradioti: sia il tono che il timbro di voce delineavano
situazioni
diverse dalle usuali conversazioni, cui il giovane patrizio
s’era abituato.
Sbuffi, imprecazioni, un rapidissimo e ostile scambio di botta e
risposta in
greco, elementi totalmente estranei a quelli di un comandante in
procinto o di
elaborare un piano d’attacco o di impartire degli ordini.
Appoggiandosi sulla
ballotta e allungando quanto più possibile il collo
dolorante, Hironimo riuscì
a scorgere le figure di Mercurio e di Leka, in piedi e in atteggiamento
assai
intimidatorio dinanzi al misterioso terzo interlocutore, costretto
quest’ultimo
su di uno sgabello, in camicia e le mani legate dietro la schiena. A
giudicare
dalla barba e dalle trecce, doveva trattarsi anch’egli di uno
stradiota;
tuttavia, il Miani notò come i due comandanti si limitassero
a colpire il
prigioniero solo all’addome, alla schiena e ogni tanto alla
faccia ma senza
molta convinzione, e ne dedusse che doveva trattarsi di un loro
parigrado o
comunque qualcuno di abbastanza importante da non torturarlo senza
penarsi
delle conseguenze.
Un
pugno dritto al naso dello
stradiota lo costrinse a gettar indietro il capo, mentre dalle nari
straripavano
già pingui rivoletti di sangue e Hironimo a quella vista
rabbrividì, memore
della medesima cortesia subita per mano di Mercurio, quando gli aveva
gonfiato
la faccia di cazzotti.
“Ebbene?”
“Ebbene
niente.”
“Oh,
fai il coraggioso adesso?”
“Insultami
pure, tanto da me non
saprai niente!”
Il
Bua si sfilò la casacca, la
ripiegò con cura, si arrotolò la camicia e
piazzò un gancio all’addome di
Teodoro Ralli, piegandosi quest’ultimo a metà in
un sordo grugnito.
“Parla
o quand’è vero Theos, ti
ammazzo e non lentamente”, l’ammonì
calmissimo l’epirota, girando intorno al
prigioniero e colpendolo di nuovo stavolta tra le scapole.
“In quale punto la
difesa di Treviso è più debole? Quale porta
è peggio difesa? Come sono messi
con i rifornimenti? Armi? Quanti uomini ci sono alla
custodia?”
“E
quante domande fai? Chi sono
io, il provveditore?”, rise Teodoro, sputando sangue e
saliva. “Caro amico mio,
anche se potessi risponderti – e non lo farò
– queste mie informazioni ti
saranno di poco aiuto. Voialtri” e indicò anche
Leka, “state marciando verso la
vostra morte. Voi credete di porre sotto assedio Treviso, ma non avete
alcun’idea di ciò che si sta preparando alle
vostre spalle, qualcosa di molto
più grosso di una banale scaramuccia!”
“Mi
hai scambiato per Megas
Alexandros, che t’esprimi come la Pizia?”,
ruggì stizzito Mercurio, afferrando
Ralli per il colletto della camicia. “Treviso è la
chiave per arrivare a
Venezia: cosa vorresti insinuare con “una banale
scaramuccia”?!”
“Sciocco!
Anni e anni in questo
paese e ancora non hai compreso che qui, in Italia, non sono gli
eserciti a
vincere le guerre?”
Mercurio
aprì la bocca per
ribattere, bloccandosi però all’improvviso. Si
staccò bruscamente da Teodoro e
si diresse a grosse falcate verso Hironimo, il quale
d’istinto indietreggiò
spaventato nel suo angolino, dove si girò sul fianco mentre
fingeva di dormire
in maniera assai profonda.
La
tenda venne scostata
violentemente e il patrizio avvertì la presenza del
greco-albanese dietro di
lui, in particolare lo scricchiolio della paglia pestata
finché un lieve
movimento d’aria sulla sua pelle accaldata tradì
la faccia del condottiero
quasi sopra la sua, in attento studio dei suoi lineamenti rilassati ad
arte.
Fai che non se ne accorga! Fai
che ci caschi! O Mater, non farmi scoprire! Ti prego, non farmi
scoprire! ,
si ripeteva ossessivamente Hironimo, il cui viso in
apparenza inespressivo in realtà celava
dietro un panico furioso, il
suo cuore battente la chamade in petto e lo stomaco stretto in un
doloroso
nodo, già risalendogli in gola i primi acidi sintomi di
reflusso.
Non
sarebbe sopravvissuto ad un
altro pestaggio, lo sapeva. E il giovane Miani non poteva
- non
voleva! - morire così, senza aver avuto
modo d’impiegare la sua vita
in fini più nobili e utili. Senza riscattarsi. Senza render
fieri Madre e
Padre. Non voleva morire su di un pagliericcio, alla stregua
d’un cane,
seminudo, sporco, malato e ridotto ad una massa informe di sangue e
ossa. Non
voleva.
Confido in Te! Confido in Te!
Confido in Te!
Due
dita premettero sulla sua
carotide e un occhio gli venne forzatamente aperto. Non
reagire! Stai
fermo!
“Dai,
Maurikos, lascialo perdere!
Non lo vedi che sta dormendo?”, lo richiamò
annoiato Leka, un poco divertito
dal modo in cui il suo collega pendeva minaccioso sul veneziano e lo
punzecchiava coi suoi paranoici controlli, manco si fosse trasformato
in un
avvoltoio.
A
malincuore e tuttora
sospettoso, Mercurio si alzò lentamente, gli occhi fissi
sulla figura immobile
di Hironimo. Indietreggiò guardingo e senza mai distogliere
lo sguardo,
lasciando la tenda ben aperta così da controllarne ogni
movimento, in caso si
fosse destato. Anche se il giovane avesse visto e udito qualcosa, non
sarebbe
stato nulla di vitale importanza tranne assistere alla tortura di un
suo
alleato, rammentandogli quanto già inflittogli e quanto
l’avrebbe atteso, in
caso avesse giocato al furbo.
Conscio
della trappola
preparatagli, Hironimo non osò muoversi di una spanna per
l’intera durata
dell’interrogatorio, ignorando il sordo
formicolio dell’avambraccio destro,
su cui appoggiava la testa, finché di questi non ne perse la
sensibilità. Non
si “svegliò” neppure quando la vescica
prese a pulsargli dolorosa, preferendo
urinarsi addosso piuttosto d’attirare l’attenzione
del suo carceriere, le
orecchie insidiate e vinte dall’incessante schioccare di
ossa, di grugniti e
gemiti, d’impazienti domande rimaste senza risposta.
Pregò
che il suo turno non
arrivasse mai. Perché sapeva ciò che
l’attendeva: in passato lui si era trovato al
posto di Teodoro Ralli, sopravvivendo a stento; un suo passo falso e
lui
avrebbe potuto ritrovarsi al suo
posto per il terzo e ultimo
giro. Il Bua l’avrebbe ammazzato, l’avrebbe
ammazzato di botte e stavolta sul
serio.
Un
tonfo, seguito da un forte
lamento e poi da un gorgoglio strano, tipico di chi sveniva e anche
malamente.
“Portatelo
tra gli altri
prigionieri. Fra poco si riavrà e sarà cura del
maresciallo di farlo cantare.”
“Testa
dura.”
“Testa
di cazzo, vuoi dire.”
Silenzio, rotto a malapena da un gentile rumore d’acqua,
Mercurio e Leka molto
probabilmente si stavano lavando via il sangue dalle mani.
“Ma
ancora dorme ‘sto qua? Sicuro
che non sia schiattato?”
“Di
sicuro puzza come un cane
morto.”
“Cosa
intendeva dire il kyr
Theodoros con quella frase?”
“Lo
ignoro, ma forse il nostro
veneziano qua potrebbe illuminarci: quegli intriganti sanno tutto di
tutti e
tra di loro non ci sono segreti. Quando finisce di ronfare
…”
Rilassa il respiro. Non aprire
gli occhi.
“Lo
sveglio?”
Non fiatare …
“No,
non c’è fretta. Possiamo
sempre interrogarlo a Breda o a Ponte di Piave.”
“Eh?
Ma se ci siamo appena
accampati!”
… O finisci lì,
su quello
sgabello …
“Ordini
del maresciallo.”
“Contento
lui.”
“Contenti
tutti, tranne i
veneziani che non sapranno per un bel po’ dove
trovarci!”
Oh, Madonna! Oh, Madonna!
Salvami! Salvami!
Continua
…
***************************************************************************************************************
Il
prossimo aggiornamento
arriverà speriamo a breve, stavolta l’attesa
sarà meno lunga! Inoltre,
incomincia da qui la revisione ufficiale della storia.
Spero
che questo capitolo vi sia
piaciuto!
Alla
prossima,
Un po’ di noticine:
[1] Il proverbio
friulano completo è: “L'è miei jessi in
disgraćie di Dio che da justizie”,
ossia “È meglio essere in disgrazia di Dio che
della giustizia”, poiché Dio è
più misericordioso degli uomini.
[2] In breve, la
faccenda si svolse così:
Treviso,
dopo la Pace di Torino
che sanciva la fine del conflitto tra la Repubbliche di Venezia e di
Genova,
era rimasta sotto il Duca d’Austria, Leopoldo III
d’Asburgo il bisnonno di
Massimiliano (ecco perché l’Imperatore considerava
la Marca “proprietà di
famiglia”, non solo un feudo nell’orbita del SRI
per tradizione carolingia.)
Tuttavia, l’Asburgo s’era reso ben presto conto di
come quei territori
facessero troppo gola a tutti gli Stati confinanti, in primis i
Carraresi di
Padova, i Visconti di Milano e ovviamente la Repubblica di Venezia che
rivoleva
indietro ad ogni costo Treviso. Sicché, comprendendo la
situazione
precarissima, Leopoldo vendette la città ai Carraresi per un
bel po’ ducati (e
questo punto a Massimiliano dev’essere sfuggito) e se la
diede in Austria, al
sicuro da queste beghe italiche. Mossa saggia, poiché
Venezia era uno Stato con
una missione e tanta cattiveria in corpo dopo le pesanti perdite
territoriali a
seguito della Pace di Torino. In particolar modo, gliel’aveva
giurata ai
Carraresi.
Per
farla breve, in un giro
vorticoso di alleanze fatte e disfatte, nel 1388 Francesco da Carrara
si
ritrovò in guerra contro Gian Galeazzo Visconti e Venezia,
finendo sconfitto su
tutti i fronti e la sua famiglia pressoché in ostaggio a
Milano, mentre l’anziano
Carrarese s’arroccava nel Castello di Treviso, assediato
dalla popolazione
insorta. Come ultima mossa disperata, Francesco offrì a
Jacopo del Verme e
Spinetta Malaspina, i comandanti viscontei, Treviso e la Marca a Milano
così
anche da seminar zizzania tra gli alleati e guadagnar tempo. E il suo
piano
sarebbe pure andato a buon fine, se la popolazione trevigiana non si
fosse
ribellata anche alla prospettiva di finire sotto la biscia viscontea.
Infatti,
il Del Verme sarebbe
andato in giro in città a proclamare Gian Galeazzo signore
di Treviso, ma
ricevette un netto rifiuto, che risultò, stando alle
cronache, in un bel
tafferuglio tra soldati viscontei e i trevigiani, i quali costruirono
barricate
in città, in attesa dell’arrivo dei provveditori
Guglielmo Querini e Giovanni
Emiliani. L’esercito veneziano occupò dunque
Treviso ed insieme ai trevigiani
espugnarono appunto la fortezza il 13 dicembre 1388, giorno per Venezia
simbolico poiché era la festa di Santa Lucia, verso cui i
veneziani nutrivano
una particolare devozione e di fatti ampliarono la chiesa di Santa
Maria delle
Carceri cui associarono il nome di Santa Lucia, indicendo un palio a
commemorazione di questa vittoria.
Insomma,
vox populi vox Dei. Va
anche detto che Gian Galeazzo Visconti, intelligentemente, non
contestò il
ritorno di Treviso e della Marca a Venezia, rispettando i patti.
[3] secondo
altri fonti, lo stemma degli Anguillara mostrerebbe invece due serpenti
e non
due anguille, secondo una leggenda riguardante la famiglia.
|
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Capitolo 34 *** Capitolo Ventinovesimo, parte seconda: 27-28 settembre 1511 ***
Seconda
parte!
Ulteriori
note si trovano a fine pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti:
momenti assai sanguinolenti, depressione generale e altre
peculiarità.
Un
ringraziamento ai miei lettori e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix, Sagitta72
e Mrosaria. Grazie a chi ha messo
questa storia tra le seguite, preferite e ricordate.
Vi
auguro una buona lettura,
H.
***********************************************************************************************************************
Capitolo
Ventinovesimo
Sabato
27 settembre 1511 – Domenica 28 settembre 1511
(seconda
parte)
Sier
Marco Miani osservava
impassibile, dal bastione del Castello, i dieci soldati borgognoni
catturati
spinti a frustate verso Porta Altinia, in una macabra e distorta
rappresentazione dei misteri dolorosi del Venerdì Santo.
Ridotti in camicia e
scalzi, i prigionieri barcollavano sotto i colpi della sferza, delle
canne e
degli spintoni dei militi marciani, ingiuriati dalla folla che li
seguiva, le
donne in prima fila che non si risparmiavano certo di ricoprirli del
loro
catarro o di lapidarli di sassi o fango. Talora uno di questi
borgognoni cadeva
bocconi, sopraffatto; immediatamente il suo carceriere strattonava
sbuffando la
corda legatagli al collo, fin quasi a strangolarlo mentre una o
più popolane, le
quali magari avevano un vecchio conto in sospeso, anguillavano da sotto
le
braccia e le lance dei marciani per ghermire il malcapitato e
graffiarlo fino a
trargli sangue, per poi finire ricondotte bruscamente al loro posto. Un
altro
prigioniero inciampò e non riuscì più
a rialzarsi: poco importò al suo
conducente, che lo trascinò ugualmente nel limo, intanto che
i civili, da
dietro, lo randellavano senza sosta e Marco, pur da lontano e pertanto
impossibile, giurò ugualmente d’aver udito qualche
ossa rompersi.
“Morte!
Morte al franzoso! Morte
al todesco! Sangue! Vitoria a Sen Marco!”
La
seconda parata dimostrativa
del maresciallo La Palice s’era da molte ore conclusa;
ciononostante, gli
strascichi del nervosismo e dell’incertezza provocati tuttora
indugiavano
nell’animo dei Trevigiani ed essi, per acquietare tal
sentimenti, avevano
ottenuto la loro azione
dimostrativa,
gestendo a propria discrezione la sorte dei nemici catturati.
Il
Miani e il suo concittadino
sier Alvixe da Canal allungarono il collo, sporgendosi lievemente: il
grottesco
corteo aveva raggiunto il ponte e, in sincronia perfetta, le urla e i
versi
canzonatori si chetarono improvvisamente, imponendosi un silenzio
ieratico dal
gusto d’antico. In ginocchio o sporgendosi dalla Porta,
dondolandosi avanti e
indietro, le donne avevano incominciato ad intonare uno strano
mormorio, non
dissimile dal fluire irrequieto di un ruscello; i soldati marciani
s’erano
invece posti, silenti ed immobili, su ogni lato del ponte, impedendo il
passaggio. Il loro caposquadra, che aveva preferito starsene al centro,
rigirava impaziente eppur solenne la scure tra le mani. I due
gentiluomini
veneziani a presidio dell’Altinia – sier Zuam
Badoer e sier Hironimo Bragadin –
assistevano anch’essi dall’alto della loro
postazione, trasfigurati in statue
di sale, indecisi se intervenire o meno.
Marco
ebbe una sgradevole sensazione
di déjà vu, parendogli quasi
d’assistere dal vivo ad uno di quei sacrifici
narrati nei poemi d’Omero e non a caso - constatò
ipnotizzato da tale arcaica
scena - s’erano
condotti i borgognoni al
fiume Sile, luogo d’antichissima venerazione in quelle terre
ben prima
dell’arrivo degli Antichi Romani e dei loro dèi.
Simil
a docili giovenche, i
prigionieri furono
costretti ad
inginocchiarsi ai bordi del ponte; dagli acuti lamenti, Miani e Da
Canal
supposero stessero piangendo e supplicando pietà, forse
perfino protestando
eventuali nobili natali o comunque una loro qualche importanza
all’interno
dell’esercito nemico. Ultimi respiri sprecati: il caposquadra
levò in alto la scure,
calcolando bene la parabola mortale che avrebbe condotto la lama a
tranciare la
carne, le vene, le ossa del balbettante uomo ai suoi piedi. Un sibilo
da carta
stracciata, il duplice tonfo della testa che rotolava e cadeva in
acqua, mentre
il corpo, sobbalzando in spasimi, crollava sanguinante a terra, accanto
ai
terrorizzati compagni del morto, il cui turno presto sarebbe giunto. Un
acuto
grido di trionfo coprì i loro singhiozzi, distendendo le
donne le loro braccia
in un’umana apertura alare, il capo gettato
all’indietro, balzando alcune di
loro in piedi. I militi marciani serrarono i ranghi e incrociarono le
picche,
onde impedire che si gettassero a sbrindellare i miseri resti dei
borgognoni
uccisi.
Sier
Alvixe distolse lo sguardo
dalla parte opposta, il volto lievemente verdognolo e bastandogli la
vista di
quella prima esecuzione. Marco, dal canto suo, seguitò ad
assistere indefesso finché
la chioma verde-acqua del Sile non assunse tinte rossastre, come i capelli delle Anguane, le bellissime ninfe a protezione sua e della Piave. Il viscoso liquido
scivolò
via pigro e lontano da Treviso, malevole messaggero d’un
antico tributo.
Il
patrizio veneziano ignorava
dove si trovasse ora l’accampamento dei franco-imperiali:
nondimeno, pregò che
quel sangue ivi giungesse, ammorbando le bevande del nemico.
“Sangue!
Vitoria a Sen Marco!
Sangue!”
***
All’Ospedale
di Santa Maria dei
Battuti, Zilio Madalo azzardò per la prima volta
dall’inizio della sua degenza
a porsi seduto, strizzando gli occhi e grugnendo non appena la ferita
alla
spalla incominciò a tirargli sotto la benda, costringendolo
a rinunciare per
qualche istante all’impresa. Cacciando fuori uno sbuffo assai
frustrato si
sistemò sul morbido cuscino, fissando il soffitto onde
distrarsi dalla fitta di
dolore.
Si
sentiva indubbiamente in
forze, complici le solerti cure dei monaci infermieri,
sicché si trattava di
una semplice questione di tempo, prima che lo stradiota fosse di nuovo
capace
di rimontare in sella. E tuttavia, questo promettente futuro gli era
avvelenato
dalla consapevolezza che, non appena i Veneziani lo avessero giudicato
abbastanza in salute, ben presto lo avrebbero trasferito nelle
prigioni, lì
dove sarebbe stato assai ben esaminato, in quanto luogotenente di
Mercurio Bua
e dunque custode dei suoi piani di battaglia.
Madalo
s’umettò il labbro
inferiore, inquieto: da una parte, la sua assoluta lealtà
verso il suo capitano
gli impediva di spifferare alcunché al nemico;
dall’altra, Zilio si conosceva
piuttosto approfonditamente da ammettere senza vergogna che sprezzava
sì la
morte ma non la tortura, verso la quale nutriva un sacro terrore. Non
si
sarebbe messo a piangere come quei borgognoni, non dinanzi al boia
pronto a
recidergli il collo. Se invece costui gli si fosse avvicinato con le
tenaglie
roventi, allora lo stradiota non soltanto avrebbe pianto,
bensì avrebbe spento
con la sua urina gli strumenti del supplizio.
I
suoi fratelli Teodoro e Giorgio
non cessavano un sol giorno di raccomandarlo al buonsenso: Zilio il suo
dovere
verso Mercurio l’aveva compiuto; dunque badasse al proprio
tornaconto
personale, specie ora che si ritrovava prigioniero. Al che lo stradiota
aveva
rimproverato i suoi maggiori di viltà e doppiogiochismo,
dichiarando che lui
non si sarebbe mai macchiato di fellonia, che lui seguiva
pedissequamente il
codice d’onore degli avi. Teodoro e Giorgio gli avevano
allora dato senza tanti
giri di parole del cretino, lasciandolo ragionare sul perché
lui si ostinasse a
giocare al Rolando, quando al contrario serviva un Gano dichiarato. Non
aveva
il Bua per i suoi guadagni abbandonato la Serenissima Signoria? E
Ludovico il
Moro? E il Re di Francia?
Zilio
si coprì il volto con le
mani. Come agire? Quale decisione prendere? Non desiderava che il suo
capitano
perdesse l’assedio; al contempo però la vittoria
dei franco-imperiali
significava la morte dei suoi fratelli …
“Kyría
Maria! Kyría Maria!”
Lo
stradiota si pose di scatto
sul fianco, ignorando la dolorosa stilettata figlia di quel movimento
brusco; i
suoi occhi si spalancarono apprensivi, mentre egli allungava il collo
onde
cercare di scorgere la fonte di quella supplica disperata. Aveva
infatti
riconosciuto la voce di Teodoro e già il suo cervello
elaborava scenari
tremendi, con il maggiore recante in braccio il corpo esamine di
Giorgio.
“Kyría
Maria! Kyría Maria!
Soccorso! Soccorso!”
No,
non si trattava del loro
fratello; ciononostante, Zilio aveva ugualmente compreso quale
agitazione
stesse divorando Teodoro, il quale trasportava in braccio un rantolante
Andrea
Pera, sporco di fango e sangue, le braccia strette al petto come se un
qualsiasi movimento lo stesse assassinando dal dolore.
Maria
Malipiero Gradenigo corse
incontro a Teodoro Madalo, ponendo una
mano sul volto contratto del capitano ferito, sia per valutare la
gravità delle
piaghe riportate sia per calmare l’esagitato paziente.
“Seguimi”, intimò ella
perentoria allo stradiota, conducendolo al primo letto vuoto
disponibile. E
utilizzando il medesimo tono autoritario del provveditore suo consorte:
“Distendilo
qui. Togligli i vestiti così respirerà meglio.
Madona Helena, rimanete col
signor Andrea fintanto che vado a cercare il cerusico.”
Teodoro,
abbassandosi un poco,
appoggiò quanto più delicatamente sul letto
Andrea Pera, aggrottando mesto la
fronte ad ogni guaito da parte di quest’ultimo, intanto che
Helena Spandolina
Miani gli reggeva accorta la testa, acciocché
l’appoggiasse comodamente sul
cuscino.
“Tranquillo
… tranquillo …”, lo rassicurava
teneramente la greca nella loro lingua natia, detergendogli con una
pezza
d’acqua la fronte sudaticcia e impolverata. Madalo assisteva
lì in piedi,
impotente, le mani tra i capelli arruffati.
“Perché te ne stai lì
imbambolato?”, lo rimbeccò aspra Helena.
“Non hai sentito la kyrìa Maria? Devi
spogliarlo!”
Lo
stradiota annuì deglutendo
saliva amara e con mani tremanti prese a slacciare la casacca del
ferito, il
quale però sobbalzò all’improvviso,
mugulando e supplicando in pieno delirio;
Pera si rannicchiò sul fianco nel vano tentativo di
sottrarsi a quell’ulteriore
supplizio. E ogni volta che Teodoro cercava di sfilargli una manica,
ecco che
Andrea gridava ancora, le ossa e i muscoli maciullati in congiura
contro di
lui. “Ochi … Ochi … No … No
…”, piangeva impazzito, non riuscendo
più a
sopportare tale lame dentro il suo corpo martoriato.
Madalo
indietreggiò di un passo,
i palmi insanguinati verso madona Helena, pregandola tramite lo sguardo
di
trovare per lui una soluzione, incapace di continuare,
d’infliggere ulteriore e
non necessario dolore al suo superiore.
La
giovane patrizia strinse la
bocca in una linea dura, infondendosi coraggio. “Le
forbici”, gli indicò
infine, puntando il mobiletto dove si trovavano gli attrezzi. Lo
stradiota eseguì
senz’indugi, ghermendo le forbici col medesimo piglio di
quando estraeva la
spada in battaglia.
“Che
gli è successo?”, interruppe
Zilio la corsa del fratello verso la nobildonna, sporgendosi egli dal
bordo del
letto onde tirargli il bordo della casacca.
Il
maggiore si bloccò e,
stringendo le forbici al petto, gli berciò dietro astioso:
“Secondo te? Il tuo
preziosissimo capitano l’ha colpito a morte e forse, in
questo momento, starà
torturando nostro fratello per carpire informazioni su
Treviso!”
Zilio
abbandonò la presa dalla
veste, come scottato, tremandogli il labbro inferiore dalla
realizzazione che
sì, non aveva scorto Giorgio in nessun luogo. Era stato
fatto prigioniero?
Come? quando? Avrebbe osato Mercurio suppliziare suo fratello, pur di
sconfiggere i Veneziani? Avrebbe …?
Teodoro
non gli concesse altre
parole, tranne un’ultima occhiata di biasimo, ritornando al
capezzale di un
agonizzante Andrea Pera. “Sono qui, capitano, sono qui
…”, l’incoraggiò lo
stradiota. Recisi i lacci della casacca, l’uomo
afferrò la camicia e s’affrettò
a tagliarla sommariamente, per poi lacerarla in un unico strattone.
Helena
guaì alla vista delle
piaghe aperte e sanguinanti macchiare il candido lenzuolo sottostante;
tuttavia
seguitò a stringere la mano di Andrea, sempre più
fredda e umidiccia …
***
“Cul
del
cancaro!”, ruggì un livido sier Zuam Paulo
Gradenigo, battendo il pugno sul
tavolo e, stranamente, il capitano delle fanterie Renzo da Ceri
abbassò
colpevole gli occhi, conscio di trovarsi in effetti dalla parte del
torto.
“Quando vi avevo detto di non uscire per nessun motivo da
Treviso, pensavo
d’essermi espresso in chiara lingua italica e non in armeno!
Quale punto vi era
oscuro, signor Lorenzo degli Anguillara?! E anche voi, signor Vitello?
Da
codesto galantuomo mi sarei
aspettato
ovvia disobbedienza, ma da voi?! Sacramento!”
Vitello
Vitelli
non osò ribattere, limitandosi a giocherellare nervosamente
coi pennacchi del
suo cimiero. Il podestà sier Andrea Donado si vergognava per
lui, guardando un
punto indefinito davanti a sé e similmente a lui anche il
resto dei comandanti
e patrizi riunitisi a Palazzo, malgrado l’ora tarda e al
limite del coprifuoco.
Infischiandosi
dell’altrui riposo, il provveditore generale aveva convocato
tutti onde far il
punto della situazione; purtroppo, l’incontro era degenerato
in una pubblica
ramanzina non appena sier Zuam Paulo aveva appreso di come sia il
Vitelli che
l’Orsini avessero completamente ignorato i suoi ordini,
abbandonando le loro
postazione a favore di una sortita extra moenia. L’uomo era
esploso di tal
rumorosa collera da competere coi cannoni del capo-bombardiere Orlando
da
Bergamo e saggiamente non si osò contraddirlo
finché non si fosse sfogato, non
volendo finire in mezzo, accusati di connivenza.
D’altronde,
nessuno biasimava Gradenigo per quella sua sfuriata poiché
la batosta subita
dalla compagnia di Teodoro Ralli e di Andrea Pera aveva infuso una
condivisa ansietà
generale, sicché sapere i principali condottieri a zonzo
fuori dalle mura senza
un motivo apparente e a malapena armati non corrispondeva alla migliore
consolazione.
“Oggi
abbiamo
perso contro i francesi perché si è mandato i
nostri stradioti a schasafasso (di continuo, ndr.)
senz’ordine e senza un dannatissimo
piano! E adesso domino Todero non si sa se sia vivo o morto e domino
Andrea
invece …” e Gradenigo si passò una mano
sul collo, là dove la cicatrice gli
tirava, imponendosi di placare i suoi nervi e la sua rabbiosa
disperazione.
La
vista di Teodoro Madalo
trasportare in braccio l’agonizzante capitano
l’aveva sconvolto non poco, così
come il resoconto di Giorgio Madalo, giunto in serata ferito, sfinito e
in camicia,
ma ancora abbastanza in forze da raccontare dettagliatamente
l’accaduto.
Assieme ai tre prigionieri fuggiti dal campo, lo stradiota aveva
confermato i
timori del provveditore: i Collegati si stavano muovendo cadaun giorno
sempre
più presso a Treviso, in attesa forse di rinforzi, ma
soprattutto alla ricerca
del punto debole della città. Dio li scampasse da quel
pericolo …
“Come
se non bastasse, uno delle
vostre lance spezzate” proseguì furente il
patrizio, mulinando accusatore
l’indice contro Renzo da Ceri, che
s’ingobbì e indietreggiò di un passo,
“è
venuto alle armi, non alle mani, alle
armi con un caporale del capitano Mathio da Zara! Per colpa
di quelle due
teste balorde, tutta Trevixo è uscita per poco fuori di
senno dalla paura,
credendo essere penetrato il nemico in città!”
“Li
avete … li avete puniti, però
…”, borbottò l’Orsini, nel
suo intimo affatto contento di aver visto penzolare
un suo soldato per un motivo, in effetti, così sciocco.
Questi
era venuto in questione
con un caporale di Matteo da Zara per una ragione ancora non del tutto
chiarita. In ogni modo, i due soldati avevano combattuto ferocemente in
Piazza,
creando scompiglio e un gran spavento, allarmando l’intera
Treviso ch’era
accorsa armata e ancora lorda del sangue dei dieci borgognoni, credendo
i
Collegati esser riusciti a creare una breccia. Sier Zuam Paulo,
acquietati gli
animi e fatti arrestare i due contendenti, aveva ordinato di
giustiziarli
proprio nel medesimo luogo dov’era nata la zuffa, la sua
pazienza esaurita e
specialmente nei confronti degli uomini dell’Orsini, cui non
aveva ancora
perdonato la tracotante minaccia di picchiarlo con la spada e di
impiccarlo. S’assicurò
dunque che la sua sentenza venisse scrupolosamente eseguita entro le
cinque di
notte (23 circa, ndr.)
“Sicuro
che li ho puniti e ora il
capitano Mathio da Zara mi biasima, perché ho dovuto mettere
alla forca il suo
caporale!”, sbottò Gradenigo, cui la situazione
piaceva ancor meno, anche
perché il caposquadra del comandante zaratino era benvoluto
da tutti e ci si
era invero rammaricati d’aver perduto sì
stupidamente un tal brav’uomo.
Nondimeno, la decisione del provveditore era stata lodata per aver
finalmente
riportato ognuno all’obbedienza e addirittura si commentava
che, col senno di
poi, tali provvedimenti forse si sarebbero dovuti applicare assai
prima.
“Si
potrebbe inviare domino
Mathio assieme a sier Zuam Vituri a Marano o ad Osoppo ... Visto che i
duecento
stradioti di rinforzo non sono ancora partiti da Padoa
…”, tentò di negoziare
sier Andrea Donado, trasalendo dinanzi alla sferzante replica del suo
concittadino:
“E
mentre a Padoa fanno i loro
porci comodi, cianciando che Trevixo non è ben fortificata,
che quegli
stradioti servono a loro etc. etc.
io mi debbo privare dei
miei uomini, coi
francesi accampati ad un tiro d’archibugio?! Adesso che
arriveranno le
artiglierie dalla Patria del Friuli, nonché le truppe
tedesche e quelle
gonzaghesche da Soave … Non sappiamo neppure dove e come
attaccheranno! Non
possiamo privarci di un sol soldato! È fuori questione che
domino Mathio se ne
parta con sier Zuam!”
“Ma
al contempo”, insistette sier
Marco Miani, “non possiamo certo tenerci un comandante che
serve di malavoglia.
O in quest’impresa combattiamo convinti e uniti, oppure per
colpa di mai sopiti
rancori rischiamo liti e divisioni e il nemico ne
approfitterà! La coesione
interna è sempre stata la nostra forza!”
“Affiancate
Mathio da Zara e la
sua compagnia a quella di sier Zuam. Noi attenderemo gli stradioti di
sier
Ferigo Contarini: la loro reputazione incute più timore e
forse, nella
disgrazia, ne ricaveremo un guadagno”, convenne sier Lunardo
Zustignan. “Riguardo
ai piani d’attacco del nemico, dobbiamo pazientare e
attendere che rientrino le
nostre spie.”
“Da
quanto raccontato dai tre
fuggitivi, i Collegati stanno divenendo sempre più
diffidenti e impiccano al
minimo sospetto”, puntualizzò amaramente Vitello
Vitelli. “Questo rallenterà la
rattezza delle informazioni.”
Umettandosi
le labbra secche,
Renzo da Ceri dichiarò infine: “Abbiamo
contravvenuto ai vostri ordini, lo
ammettiamo”, si cosparse il capo delle dovute ceneri.
“Tuttavia, signor Provveditore,
quello squadrone nemico si stava avvicinando troppo a Porta Altinia e
dovevamo
impedirgli ad ogni costo di avvicinarsi, prima che scoprisse le parti
più
deboli delle mura. Abbiamo battuto l’area attorno per tutto
il giorno per
accertarci che non si ripresentassero. Quanto accaduto ai signori
Teodoro e
Andrea è lamentevole, ciononostante avevano soltanto
compiuto il loro dovere.”
Sier
Zuam Paulo aspirò a fondo
l’aria, grattandosi pensoso la cicatrice al collo. Il
bilancio della giornata
si presentava poco incoraggiante, mitigato soltanto
dall’esecuzione sommaria
dei dieci borgognoni, la cui notizia avrebbe forse smorzato la
tracotanza dei
franco-imperiali, sicuramente ubriachi del loro tipico delirio
d’onnipotenza a
seguito della scaramuccia vinta contro i comandati Ralli e Pera. In
aggiunta,
il provveditore riconosceva che l’impiccagione dei due
militari forse gli aveva
regalato il piccolo vantaggio di soggiogare finalmente quella bestia di
Renzo
Orsini, rampognato publice e perciò imboccato di sane
cucchiaiate d’umiltà.
“Siamo
sotto assedio, signori
miei”, sentenziò infine il patrizio veneziano.
“Ricordiamoci che ogni azione
che intraprendiamo oggi, domani ne dovremo render conto.
L’Imperatore ha
giurato la morte a questa città: vedete bene, che non
possiamo concederci il
lusso di fallire. Per il resto, non ci rimane altro che affidarci alla
Devotissima Signora di Trevixo, ch’è qui per
proteggerci”, disse e scoccò
un’occhiata feroce all’Anguillara, sfidandolo a
contraddirlo.
A
riunione terminata – ormai
erano quasi le sette di notte - ognuno ritornò alla relativa
postazione, chi
per coricarsi e chi per incominciare il proprio turno di ronda.
Fuori
dal Palazzo, nessuna stella
impreziosiva il cielo annuvolato e privo di luna, nerissimo, notte
ideale per i
ladri. Le vie e le piazze erano pertanto state illuminate quanto
più possibile,
pattugliate da un continuo viavai di uomini d’arme,
stradioti, balestrieri,
fanti, nobiluomini e con la stessa intensità del giorno,
temendo adesso Treviso
un attacco a qualsiasi ora. Nei quartieri attigui a Porta Altinia si
udiva il
costante brusio degli operai e delle donne intenti agli ultimi lavori
di
perfezionamento al terzo ingresso cittadino. Quanto al resto, ovunque
regnava
un teso silenzio, rotto soltanto dalle violentissime folate di vento,
che
sbatacchiavano contro i legni delle imposte, i gonfaloni cittadini e i
corpi
dei due impiccati, scontrandosi questi l’uno contro
l’altro come la ragione che
li aveva condotti a tal infamante morte.
“Sembrerebbe
che si stia
preparando un gran temporale. O che dal Paradiso stia per calare una
legione celeste
…”, mormorò trasognato Marco Miani,
contemplando a naso all’aria la fitta volta
sopra di sé: le nuvole, grosse e scure, si stavano muovendo
in modo vorticoso,
sempre più basso, quasi volessero formare una scala o un
corridoio. Anche il
sole vespertino, calando, aveva assunto una tinta inusuale, rossissimo.
“Mi
domando, se siano vere le parole di quel contadino …
se sia vero che abbiamo nauseato Nostro
Signore al punto da far scendere Sua Madre in questo mondo travagliato
e
puzzolente …” [1]
“Chi
se non Lei può intercedere
per noi, prima che sia troppo tardi?”, fu la mesta domanda
retorica di sier
Alvixe da Canal. “Tuttavia mi trovate d’accordo: il
tempo di questa notte mi
pare assai strano. Il cielo è coperto, eppure non un accenno
di pioggia … E quelle
nubi non si muovono in accordo col vento … ”
“Siete
fortunati”, commentò sier
Zuam Badoer, “che potrete comodamente speculare in letto su
tal meraviglioso
fenomeno.”
“Sguaraguaito
(ronda, ndr.) anche
stasera?”, s’informò sier Alvixe,
conoscendo però già la risposta affermativa.
“Alla
custodia di Porta Altinia
hanno collocato soltanto noi due”, sospirò il
patrizio mentre indicava il suo
collega sier Hironimo Bragadin, alludendo al fatto che al Castello
presidiasse
un maggior numero di gentiluomini, potendo quest’ultimi di
conseguenza alternare
più spesso i turni di ronda. “Per non dire che
lì si sta piuttosto stretti, tra
i capitani, connestabili, bombardieri, fanti, balestrieri e
archibugieri …”
“…
e le vivandiere …”
Sier
Zuam roteò infelice gli
occhi: magari ci fossero state delle donnine allegre ad allietare le
ore tra
una ronda e l’altra, così perlomeno quei
masnadieri dei soldati avrebbero
trovato una valvola di sfogo meno brutale e sanguinosa (ossia scannare
ogni
prigioniero su cui mettevano le zampe addosso, infischiandosene del
rango) e
più onorevole, finendola una volta per tutte
d’insidiare le monachelle dei
conventi attigui.
“Hé,
guardate il lato positivo:
almeno, nessuno a Porta Altinia s’ammala di febbre! Vi dovete
solo preoccupare dei
nemici”, esclamò
perfido Alvixe da Canal, ridacchiando dinanzi all’espressione
leggermente
ansiosa di sier Zuam, intanto che sia Hironimo Bragadin sia Marco Miani
ingoiavano
le labbra onde soffocare le risate.
“Noi
siamo arrivati”, annunciò sier
Hironimo una volta davanti alla Porta. “Speriamo che, almeno
per un po’, le
uniche cannonate che sentiremo siano le urla di sier Zuam Paulo a
domino
Renzo.”
“Ben
se lo merita: così impara a
beccarsi con lui e a disobbedirgli.”
“Domino
Renzo possiede molta
esperienza tuttavia coi Francesi.”
“E
sier Zuam Paulo ha sconfitto
sulle montagne dell’Albania Veneta i Turchi, i quali non son
certo più cortesi
di quest’altri senzadio.”
“Sarà.
In ogni caso, buonanotte e
buona ronda!”
“Anche
a voi, senza la ronda.”
“S-ciavo
vuostro et voggieme
ben!”
“No
t’indubitare.”
Sier
Alvixe e Marco proseguirono
in silenzio fino al Castello, affidando una volta giuntovi ai loro
scudieri i
rispettivi cavalli, affinché li conducessero nelle stalle.
Quand’ecco che da
Canal, notando come il suo compagno si stesse recando in direzione
opposta
degli alloggi cioè verso la caminada, gli domandò
perplesso:
“Non
vi ritirate?”
“Non
ho sonno.”
“Ve
lo farete venire”,
puntualizzò severo sier Alvixe, raggiungendo rapido Marco e,
afferratolo per il
braccio, lo costrinse a cambiar rotta, verso la sua camera.
“Non potete
continuare a strapazzarvi così,
v’ammalerete!”, gli ricordò
intransigente, in
risposta alla testarda e stizzita resistenza mossagli dal Miani.
Marco
si morse l’interno della
guancia, cedendo momentaneamente alle pressioni dell’altro
patrizio. Si
ripromise, tuttavia, di levarsi presto al mattino per la ronda. Non si
trattava
soltanto di una questione di zelo marziale: in cuor suo, egli sperava
di poter
scorgere, tra i fuggitivi che giungevano alle porte cittadine, il volto
di suo
fratello …
“In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti”,
s’inginocchiò
l’uomo, segnandosi, dinanzi al semplice crocifisso accanto al
letto. “Non
guardare le nostre colpe, o Signore, ma alla nostra fede in Te
… Liberaci da
ogni male, preservaci dall’inferno e spezza le nostre catene
…”, gracchiava
sommessamente Marco, abbandonandosi ad un pianto discreto e liberatore.
***
A
furia di fingere di dormire,
alla fine Hironimo s’era addormentato sul serio, piombando in
un sonno nero pece
senza sogni come se gli abissi delle tenebre l’avessero
inghiottito,
ghermendolo saldamente ed impedendogli di riaffiorare nella superficie
della
veglia.
Il
suoi arti doloranti s’erano abbastanza
adattati alle catene e all’innaturale posizione, cessando di
conseguenza ogni
fastidio; le sue orecchie avevano assunto una conveniente
sordità ad ogni rumore
circostante e perfino la sua epidermide sembrava troppo stanca, per
sollevarsi
dalla pelle oca a causa degli spifferi provenienti da sotto la tenda o
dall’umidità della terra bagnata. Quello del
giovane patrizio corrispondeva al
sonno del morto, che non ristora la mente bensì affligge un
corpo sfinito.
Una
violenta folata di vento
scosse il padiglione e un improvviso frastuono metallico, seguito da
una
sorpresa imprecazione, destò di soprassalto Hironimo, il
quale assaporò il
gusto del suo cuore in gola, soffocandosi per poco col collare quando
tentò di
balzare in piedi, giacché dimentico per un istante
d’indossarlo. Sballottato,
aveva creduto esser giunto Mercurio Bua ad interrogarlo e che quel
sinistro
rumore di ferro corrispondesse alla preparazione degli strumenti di
tortura.
Invece, la tenda divisoria non si accennava a scostarsi e, stando allo
sbuffare
di Nicho lo scudiero, dovette trattarsi o dell’armatura del
suo capitano o del
rastrello con le spade, forse caduti per terra a causa di
quell’impetuoso
vento.
In
effetti, constatò Hironimo
mentre si massaggiava stancamente il polso, le tende non cessavano per
un
istante d’ingrossarsi e poi afflosciarsi, manco fossero le
vele di una galea
sorpresa in alto mare da una terribile burrasca. Le ombre prodotte da
dietro la
tenda divisoria oscillavano vertiginosamente, come di sicuro anche le
lucerne
appese, accompagnate da un’infinità di rumori
sotterranei, quali lo
scricchiolio delle corde, il fruscio delle fronde piegate,
l’andirivieni dei
soldati di ronda, il sommesso chiacchiericcio dei bivacchi e i rantoli
dei
bracieri messi alla dura prova da un elemento di solito complementare,
ma ora
più potente.
Eppure,
il giovane Miani non
udiva il sordo borbottio dei tuoni appropinquarsi, né lo
scalpiccio o il nitrito
dei cavalli o il guaito spaventato dei cani, sempre nervosi e inquieti
dinanzi
agli sfoghi più violenti della natura.
E
tal impressione dovette
condividerla anche Mercurio Bua, che infatti espresse i suoi dubbi al
maresciallo La Palice: “Pensate ancora di trasferirvi
stanotte a Breda di
Piave? In fede mia non ho mai visto un simile vento: pare che il
Padreterno
voglia soffiarci via in un colpo solo!”
“I
cavalli, tuttavia, non paiono
risentirne …”
“Ed
è innaturale: solitamente
s’innervosiscono parecchio quando sta per scoppiare un
temporale.”
L’ennesimo
scossone di vento
allungò le ombre ballerine, finché una
d’essa s’ingigantì, oscurando parte
della tenda. Mercurio borbottò snervato qualche improperio
inintelligibile,
premurandosi di riaccendere la lucerna spentasi bruscamente.
“Se
volete partire, bisognerà
sbrigarsi: sono quasi le otto di notte.”
Hironimo
strabuzzò gli occhi:
così a lungo aveva dormito? D’accordo, aveva
notato l’assenza della luce
diurna, però non immaginava di ritrovarsi sveglio nel cuore
della notte. Almeno
aveva riposato – si consolò amaramente –
ben presto gli sarebbe toccata
l’ennesima faticosa marcia. L’ennesimo giorno di
prigionia.
Breda
di Piave, avevano detto?
Quindi … quindi si stavano spostando sulla Callalta e
significava che avrebbero
puntato a Porta San Tomaso per l’attacco finale …
“No,
forse avete ragione,
capitaine. Il vento soffia troppo forte: anche se i cavalli non
sembrano
intimoriti, ugualmente ci rallenterebbe la marcia. Attendiamo ancora
qualche
ora, se non proprio la chiaria”, convenne meditabondo La
Palice. “Alla fine non
abbiamo fretta: i cannoni da Gradisca ancora non sono giunti, quindi
non
possiamo certo incominciare da domani l’assedio.”
“Quindi
è confermato?”, s’inserì
un’altra voce, probabilmente quella di Giulio Sanseverino.
“Gradisca è sul
serio caduta?”, non tratteneva l’entusiasmo nella
sua voce.
Lo
stomaco d’Hironimo
s’attorcigliò dolorosamente alla notizia: Gradisca
d’Isonzo era stata una delle
loro fortezze di confine più importanti, non solo contro
l’Impero ma anche
contro i Turchi, pertanto fonte di continue spese di potenziamento
delle mura e
di stipendi per i soldati alla sua custodia. Perderla significava
aprire la
strada a nord-est, senza possibilità di impedire il
riversamento delle truppe
imperiali nella pianura friulana, fino alla Marca.
Alla
fine era accaduto sul serio,
insopportabile realtà: la Patria del Friuli era
inesorabilmente perduta, un
altro territorio conquistato da Maximilian e sottratto a Venezia,
un’altra
vittoria per l’ambizioso Imperatore che ora avrebbe
arrogantemente sfogato la
sua potenza contro la ribelle Treviso.
E
se l’avesse espugnata … se
l’avesse … Due anni di resistenza per cosa? Ora i
nemici della Serenissima
avrebbero rialzato la testa, ringalluzziti da questo successo e magari
avrebbero attaccato a sud, puntando su Padova …
“Esatto”,
rispose un quarto
interlocutore, ad occhio e croce Teodoro Trivulzio. “Stando
alla nostra staffetta,
la fortezza era piagata dalla peste e la guarnigione a difesa
s’è ammutinata al
proprio governatore, il signor Baldassarre di Scipione. Una vittoria
inaspettata, giacché Gradisca s’era fino a quel
momento difesa bene e pareva
imprendibile.”
“Come
Treviso?”, ridacchiò
sardonico uno dei comandanti, la cui voce però Hironimo non
riconobbe. “Se non
erro, i nostri informatori hanno sentito di una certa febbre mietere
vittime in
città. Chissà che la storia non si
ripeta.”
“Non
sottovalutate il
provveditore Gian Paolo Gradenigo, signor marchese Galeazzo”,
lo interruppe un
serissimo Mercurio Bua. “Io ho combattuto al suo fianco e so
per certo, che se
anche a Treviso dovesse esserci la peste, piuttosto di cederla a
noialtri egli di
gran lunga preferirebbe riesumare le vecchie catapulte, per scagliarci
addosso
i cadaveri degli appestati!”
Il
Pallavicino emise un
indefinito verso ingolato, come se stesse per replicare a tal sferzante
replica
da parte del greco-albanese, sennonché La Palice
seguitò ineffabile
nell’esposizione delle ultime informazioni:
“Ho
deciso di inviare Achille Borromeo al commissario imperiale Jean d'Aubigny, per invitarlo ad’incominciare ad
organizzare le
zattere da Cividal di Belluno, acciocché le artiglierie
dalla Patria del Friuli
possano essere trasferite all’accampamento il prima
possibile.”
“E
gli zattieri bellunesi
obbediranno?”, inquisì scettico Giulio
Sanseverino. “Mi pare assai improbabile
che costoro, di propria spontanea volontà, accettino di
trasportare i cannoni utilizzati
per combattere contro i loro stessi conterranei.”
“I
Bellunesi non sono più sudditi
della Serenissima, bensì dell’Empereur”,
tagliò corto il maresciallo francese.
“Così come lo saranno ben presto i Trevigiani.
D’altronde, les Italiens sono
fatti così: pronti a servire zelanti il vincitore;
irriconoscenti verso chi li
ha beneficiati e codardi, sfacciati trasformisti che pensano soltanto
al
proprio guadagno personale anche a scapito della
collettività. A loro basta
sopravvivere o - come si dice qui? - cavarsela
e poco importa chi sarà il loro nuovo padrone.
Basta mangiare e vivere
tranquilli. Per loro libertà
significa fare ciò che vogliono, gli altri possono andare a
farsi impiccare.”
Hironimo,
a tali sprezzanti
parole, digrignò i denti e si conficcò le unghie
nei palmi delle mani,
ribollendo di rabbia e sperò che una simil scintilla
d’indignazione colorisse
le gote anche di Sanseverino e Pallavicino, presi indirettamente in
causa,
giacché comportatisi esattamente come descritto dal
generalissimo francese, a
seguito della caduta del Moro e del Ducato di Milano. Il giovane Miani
poi
sbuffò sardonico, ricredendosi: come voleva che reagissero
quelle facce di
bronzo? Possedevano più peli nello stomaco d’una
scimmia, incapaci di
ricordarsi l’antico significato di parole quali dignità, fedeltà
e amor patrio.
Nella
mente del patrizio
veneziano riaffiorarono i volti della sua guarnigione trucidata; dei
suoi
servitori Menego, Trovaxo, Vico e Nadalin e dei capitano Paulo
Doglioni,
Christofal Colle e Vetor dil Pozzo: erano quelli gli sguardi di vigliacchi,
irriconoscenti trasformisti? Di gente che si credeva libera di fare
ciò che
voleva? Liberamente erano rimasti a presidiare Castelnuovo pur consci
di
perire; avevano sacrificato la propria vita di modo che i loro
conterranei
potessero seguitare a vivere liberi.
Hironimo
ripensò a Thomà, alla
sua famiglia, ai Feltrini che pur sapendo della crudelissima
rappresaglia
dell’Imperatore, ugualmente avevano scelto di ribellarsi,
preferendo una morte
da uomini liberi che da sudditi dell’Impero.
Ripensò
a Lussia e a Zanze, ai
contadini del Montello, che tutto avevano perduto, tutto li era stato
strappato
via, perfino l’onore e ciononostante seguitavano indefessi a
combattere, a
reagire, senza mai sottomettersi, più eroici dei paladini
carolingii. Hironimo
si ricordò delle parole del suo piccoletto quando parlava di
Lussia, del
sacrificio d’abbandonare il suo uomo pur di dare la
possibilità alla sua
creatura di nascere libera.
Ripensò
a suo fratello Lucha, che
avrebbe potuto cedere la fortezza della Scala e invece, solo contro un
esercito
più possente, non aveva esitato a mettere a repentaglio la
sua stessa vita,
perdendo per quattro mesi la libertà e per sempre
l’uso del braccio destro e
malgrado ciò ancora disposto a servire vigorosamente la
Signoria.
Ripensò
a Marco, a Carlo, ai suoi
amici Ferigo e Marco Contarini e a tutti gli altri suoi conoscenti che
s’erano
armati a proprie spese pur di vincere, pur di conservare libera e
indipendente la
Serenissima, offrendo chi la propria giovinezza chi
l’esperienza di mille
battaglie, così come tutti i patrizi stavano impiegando ogni
risorsa accumulata
dai loro avi onde pagare e rifornire adeguatamente
l’esercito. Cittadini,
villani, religiosi, nobili, giovani, vecchi, uomini e donne, nessuno
reputava alcun
sacrificio troppo oneroso se significava rimanere liberi, in piedi, a
testa
alta.
E se fossi libero, tornerei subito a
combattere …
Rimarrei a Treviso fin quando non avremo cacciato questi barbari dalle
nostre
terre … E non per gloria mia personale, no! Bensì
per onorare chi è morto anche
per me, per riconoscenza verso chi ha sofferto nel corpo e nello
spirito e,
soprattutto, per difendere coloro che non possono combattere.
Difendere gli innocenti contro cui i
veri vigliacchi si
scagliano.
Difendere chi ha soltanto Dio e la
Vergine rimasti come
ultimo scudo.
La mano di Dio colpisce forte, quando
la guida quella
dell’uomo; dunque, qualora riacquistassi la
libertà, voglio essere la manifestazione
in terra della Sua protezione verso i più indifesi. Fuori da
questo padiglione
io sono qualcuno, ho i mezzi e la forza e la volontà di
farlo. Se soltanto mi
fosse concessa questa possibilità, io …!
“Quanto
al resto dell’esercito
imperiale”, ritornò Hironimo ad ascoltare
attentamente il resoconto di La
Palice, “stanno puntando a Motta di Livenza e da
lì ci raggiungeranno, per poi
dividerci a Fiera.”
“Come?”
“Attaccheremo
su due lati”,
spiegò meglio Mercurio Bua, il cui tono vibrava di grande
eccitazione. “Una
volta superata Melma, ci divideremo presso il borgo di Fiera: da
lì, la parte
dell’esercito guidata da monseigneur il maresciallo
attaccherà a Porta San
Tomaso; quella invece dei reparti tedeschi, a Porta Altinia.”
“A
sud?”
“Corretto.
Ho sempre trovato
assai sospetta quella massiccia presenza di burchi e di stradioti sul
Terraglio. All’inizio pensavo volessero semplicemente
proteggere la strada per
Mestre e Venezia; invece, sono giunto alla conclusione che Porta
Altinia sia la
parte meno fortificata della città, in quanto da quelle
bande si trova il porto
e il Castello, i quali innanzitutto creano ben due potenziali aperture
per
accedere a Treviso; in secondo luogo, l’antica fortezza
scaligera sicuramente
avrà conservato parte delle sue antiche mura, è
impossibile modificarle completamente
in neanche due anni.”
“Ma
perché non concentrarci a
Porta Santi Quaranta? È più veloce da raggiungere
senza essere notati”,
puntualizzò il marchese Galeazzo Pallavicino.
“Inoltre, abbiamo visto come il
monastero lì davanti non sia stato demolito: potremmo
sfruttarlo come riparo
per piazzare uomini e artiglieria.”
“Giusta
osservazione”, gli
concesse sincero il Bua. “Il problema è che Porta
Santi Quaranta giace sullo
stesso versante di Porta San Tomaso. Così facendo,
otterremmo tutta Treviso
schierata in un unico blocco compatto sull’intera fascia.
Invece, attaccando a
sud, dalla parte opposta, spaccheremo in due la città e
rallenteremo le
comunicazioni tra di loro. Mentre i Veneziani perderanno tempo
preziosissimo - affrontando
in sostanza non uno bensì due eserciti - noi al contrario
guadagneremo terreno,
impedendo alle loro forze di congiungersi e di far fronte
unico.”
“Tuttavia,
dovete considerare che
anche noi saremo divisi, rischiando, di conseguenza, di finire nella
medesima
situazione del nemico”, obiettò Teodoro Trivulzio.
“E se i Tedeschi dovessero
venir sconfitti? I Veneziani si riconcentrerebbero tutti su di noi e
saremmo
daccapo.”
“Appunto
per questo, non appena
gli Imperiali avranno espugnato Motta di Livenza e ci avranno raggiunti
a Breda
di Piave, che prepareremo questo assedio nei minimi particolari, onde
coordinarci alla perfezione! Signori miei, abbiamo appena conquistato
la Patria
del Friuli, restringendo ulteriormente i territori della Serenissima
Signoria.
Francia, Impero, i nostri alleati Gonzaga ed Este, quale chance credete
che
abbia una città di provincia quale Treviso contro siffatta
coalizione? Niente e
nessuno può salvarla, neppure la sua preziosissima Madonna
dei Miracoli.
Guardate Motta di Livenza: lì è apparsa la
Vergine e vi pare che la stia proteggendo?”
Sentendo
di nuovo quel nome –
Motta di Livenza – Hironimo si sovvenne d’un tratto
che laggiù, l’anno
addietro, v’era effettivamente stata un’apparizione
della Vergine Maria, tosto seguita
dal prodigio del sole color del sangue. Un meraviglioso avvenimento
ch’aveva
suscitato un gran scalpore a Venezia, confermando quella mai sopita
speranza
che, forse, la Signoria non era stata completamente abbandonata al suo
destino.
Già la presenza della Madonna s’era manifestata
prima ancora della riconquista
di Padova, promettendo alla veggente la vittoria contro la Lega di
Cambrai, se
si fosse fatta per quattro giorni una processione in suo onore[2] e
questo dopo
la scomunica e l’interdizione papale, dopo la rotta di
Agnadello, dopo la
costruzione da parte di Re Louis di una chiesa votiva dedicata alla
Madonna
delle Vittorie, lì sul luogo della battaglia.
I
peccati della Serenissima e dei
suoi abitanti apparivano sì in gran numero, però
instancabile l’Avvocata
seguitava ad intercedere, a far sentire la Sua voce e a rendere nota la
Sua
presenza perfino nelle ore buie del periglio.
In
partenza per Castelnuovo di
Quero, Hironimo s’era attardato appena qualche giorno a
Treviso, ma abbastanza
per assistere alla folla di pellegrini che s’appropinquava a
festeggiare l’Annunciazione
a fine marzo. Gente ammalata, o bisognosa, o in cerca di conforto, o
piena di
riconoscenza riempiva il Santuario, accalcandosi davanti alla cappella
onde
ammirare e pregare davanti alla miracolosa immagine della Devotissima.
Hironimo
realizzò che mai una
volta s’era recato a Santa Maria Maggiore, neanche per
curiosità - figurarsi
per fede! - malgrado
a Treviso vi avesse
risieduto in più occasioni. A Madre, che lo invitava ad
accompagnarla anche
solo per un rosario o una breve orazione, rispondeva scocciato quanto
trovasse
sciocco fare la fila per inginocchiarsi davanti ad un vecchio affresco;
similmente, aveva liquidato il miracolo della puttina come una
coincidenza,
sostenendo impietoso come i suoi sprovveduti genitori si fossero
sbagliati nel crederla
sul serio morta [3]. Nel suo intimo, in verità, si era roso
d’un invidia nera
nei confronti di quei patrizi veneziani, poiché a loro era
stata restituita la
figlia dopo una sola preghiera, mentre il giovane Miani da fantolino
giorno e
notte aveva supplicato Dio e la Madonna di resuscitare Padre e nulla
era accaduto.
Sentendosi
tradito e abbandonato,
Li aveva ripagati tramite anni di caparbia indifferenza e
ostilità, voltandoLi
le spalle, anche dinanzi alle chiare e manifeste prove
dell’operato della Madre
di Dio, sia in tempo di pace sia in tempo di guerra.
Sì,
Lei era sempre lì, presente,
a vegliare, ad ascoltare. E ora che Hironimo si stava avvicinando a
Treviso, la
città che L’aveva scelta a sua unica signora
proprietaria [4], là dove
risiedeva la Sua gloriosa immagine, ecco, forse, meditava speranzoso,
forse la
Sua presenza sarebbe stata più forte, forse stavolta Lei
l’avrebbe ascoltato.
La mia promessa non cambia – chiuse il giovane gli
occhi, stringendo forte le catene
al petto – visiterò il
Tuo santuario che
da anni ho sdegnato; ci verrò scalzo e in camicia;
farò dire Messe; userò la
mia ritrovata libertà per il bene della mia gente e non per
soddisfare la mia
vanità …
E
mentre ripeteva pieno di
rocciosa convinzione questo suo sacro giuramento, il vento
più non fischiava
attraverso gli spifferi del padiglione, né il brusio
dell’accampamento animava
la notte dei suoi schiamazzi. Perfino la fitta discussione tra i
comandanti
franco-imperiali s’era affievolita, fino a zittirsi
completamente. Una quiete
solenne l’avvolse, come se gli elementi della natura non
osassero disturbare la
sua preghiera. Un silenzio paradisiaco, soave e ristoratore lo cullava
e dopo
tanti anni, Hironimo si sentì veramente contento, godendo la
sua anima di una
letizia mai conosciuta prima d’allora, una letizia che gli
infondeva un
coraggio e una forza al limite del preternaturale. Credeva, no, sapeva
di poter
superare qualsiasi ostacolo; avvertiva come un enorme macigno
sollevatosi dal
petto e finalmente riusciva a respirare, ma non con la bocca,
bensì col cuore.
La
paura era svanita: qualsiasi
cosa gli fosse capitata, mai più si sarebbe lasciato
catturare dagli spettri
del dubbio e dello sconforto. Le sue catene gli divenivano sempre
più leggere,
impercettibili quasi …
Improvvisamente
una fulgida luce
accecò i suoi occhi a malapena socchiusi, portando il
giovane Miani a
coprirseli rapido, mentre balzava seduto e si rannicchiava
nell’angolo,
sopraffatto da tale violento biancore e chiedendosi se non fosse giunta
l’ora
della sua morte, giacché aveva udito di come i moribondi,
prima di render
l’anima, contemplassero una gran luce.
Ma
no, di tutto si sentiva tranne
che prossimo alla morte, per quanto i suoi cappelli si drizzassero
dietro la
nuca e il suo cuore martellasse violentemente. Circospetto, Hironimo
osò
sbirciare tra le sue dita, notando come la luce fosse scomparsa tanto
velocemente quanto apparsagli. Che l’avesse sognata?
Oppure
… oppure …
Hironimo,
cercando di comprendere
la natura di quel bizzarro fenomeno, prese a guardarsi spaesato
attorno,
studiando attento il famigliare ambiente: la tenda divisoria, il
giaciglio di
paglia, la ciotola, il palo con l’anello dove era stato
legato e sulla sua
destra … Oh?
Oh
…
Davanti
a sé, ritta in piedi, una giovane
donna lo osservava, stringendo tra lunghe dita un pasciuto mazzo di
chiavi, le
stesse sventolategli beffardamente sotto il naso da Mercurio Bua.
Il
labbro inferiore del veneziano
prese a tremare dall’angoscia di quel ricordo, ingobbendosi
egli e avvicinando
quanto più possibile le ginocchia al petto, vergognandosi a
morte d’apparire
così brutto, sporco e in mutande, come se con la sua
indecorosa presenza stesse
offendendo la misteriosa visitatrice. La quale, oltre a possedere una
bellezza
che Hironimo in un nessun volto mortale aveva mai contemplato (e che,
giudicò, nessuna
donna del passato, del presente e del futuro avrebbe mai potuto
eguagliare)
indossava un lungo, ampio e pesante mantello bianco come se non
più della neve,
sfavillante, adorno di una fibbia dorata al collo e il cui cappuccio
conteneva
a stento dei morbidi e vaporosi capelli sciolti. Da sotto il mantello
s’intravedeva
una semplice camorra color verde-acqua, del medesimo color del Sile.
Attorno
alla giovane donna vorticava un’aura di leggiadra
autorevolezza, da stimarla
una gran dama, macché, una regina, ma neanche,
un’imperatrice!
E
ciononostante, quei suoi occhi grandi
e benigni risplendevano d’immensa umiltà e
carità, virtù troppo aliene a coloro
ai vertici della gerarchia sociale. Quelle iridi vivacissime lo
guardavano
tanto amorevoli quanto una carezza, come se l’avessero
conosciuto da una vita.
E tale gioia la dimostrava anche quel soave sorriso, la stessa di chi
aveva incontrato
un carissimo amico da cui era stato crudelmente separato e che non
vedeva più
da lungo tempo. Eccoci dunque –
parevano dire – tu ed io, uno di
fronte
all’altro, liberi di poterci parlare senza maschere, senza
formalità. Ho tanto
atteso quest’istante, d’averti qui meco, sin dal
tuo primo vagito, poiché io ti
osservavo e ti chiamavo per nome ancora nel grembo di tua madre.
Il
Miani abbassò timido gli occhi e
fece per chinare il capo in deferenza, sentendosi piccolo e indegno
dinanzi
alla bellissima sconosciuta; ma ecco che le dita di lei gli
accarezzarono
consolatrici la guancia (lui però giurò di
percepire quel tocco fin nel
profondo del suo cuore) per scivolare poi delicatissime sotto il suo
mento,
invitandolo paziente a guardarla.
Vi
amo! Vi amo! Ed
Hironimo si chiese perché la sua mente stesse elaborando
queste illogiche parole
e perché stesse piangendo peggio d’un infante e
perché, senza apparente motivo,
avesse afferrato adorante la mano della giovane donna, ricoprendone il
palmo e
il dorso di baci. Singhiozzava, rideva, stava per scoppiare di
felicità,
sebbene seguitasse ad ignorare l’identità di
quella misteriosa dama, che
tuttavia possedeva l’inspiegabile dono di sconvolgergli
l’anima.
“Tolli
queste chiave”, disse ella
infine, porgendogli il mazzo di chiavi, la sua voce più
avvolgente del primo
bacio del sole ad aprile. Hironimo si mise di riflesso bene in
ginocchio,
sull’attenti, bevendo ogni sua parola. “Apri li
cepi et fuge via.”
Non
stava sognando. La mano
morbidissima e profumata di rose della giovane donna; il fruscio del
suo
candido mantello; il peso delle chiavi tra le sue mani e il loro
ferroso
tintinnare, non potevano appartenere né al mondo onirico
né ad
un’allucinazione. Non dubito della fisicità di
tale visione, neanche quando la sua
soccorritrice scomparve nel momento in cui Hironimo distoglieva per la
prima
volta lo sguardo, onde studiare incredulo le chiavi cedutegli.
Dov’è
andata? Perché non mi ha aspettato?
Non
stava sognando e non si trattava
dell’ennesimo giochetto di Mercurio Bua, anzi, il sospetto
che il condottiero gli
avesse teso una trappola non lo sfiorò minimamente. Il
veneziano non possedeva
alcune argomentazioni a riguardo, lo sapeva e basta. Si fidava della
sua benefattrice,
ciecamente.
Devo
sbrigarmi, forse mi aspetta fuori dal padiglione. Non
voglio che corra alcun pericolo per causa mia.
Sicché,
deglutendo e infondendosi
coraggio, Hironimo infilò una delle chiavi nel lucchetto che
serrava il primo
giro di catene e che lo costringeva piegato a metà.
Prendi
queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.
Un
ordine semplice, diretto, senza
ambiguità e facile da eseguire (Deo volente). Le energie
avevano ripreso a
scorrergli vivaci nelle vene, la malattia, la denutrizione e i
maltrattamenti
un lontano ricordo. Era da Castelnuovo di Quero che il giovane Miani
non si
sentiva così in forze.
Prendi
queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.
All’improvviso
la serratura scattò e
l’anello del lucchetto s’alzò,
sfilandosi subito quelli delle catene, che caddero
molli ai suoi piedi.
Prendi
queste chiavi. Apri i ceppi e fuggi via.
Hironimo
obbedì, da bravo cavaliere.
***
Come
tutti coloro appena morti da qualche ora, il viso di Andrea
Pera riluceva marmoreo e perfetto alla luce arancione delle candele,
infondendogli una preternaturale vitalità. I suoi medesimi
stradioti l’avevano
ripulito dal sangue, dalla polvere e dal fango e rivestito di una
semplice
tunica, utilizzando il suo gonfalone a mo’ di sudario e
lasciandogli il capo
scoperto. Una volta sistemata la bara sul semplice catafalco al centro
della
cappella di S. Croce dell’Ospedale di Santa Maria dei Battuti, Teodoro
Madalo aveva
insistito per calzarlo dei suoi stivali, secondo l’uso verso
coloro deceduti o
di parto o di morte violenta. In questo modo, si credeva, il capitano
Pera
avrebbe completato la sua vita terrena nell’Aldilà
e non sarebbero rimasto
sospeso, perseguitando i vivi così da sfogare su di essi la
propria
frustrazione.
A
giudicare dalla faccia devastata della sua compagnia, rimasta
ora orfana di comandante, Helena Spandolina Miani giudicò
che la prospettiva di
ritrovarsi accanto lo spirito del kyr Andrea non avrebbe spaventato
affatto
quegli stradioti, semmai avrebbero accolto il morto a braccia aperte e
invitato
a bivaccare assieme. In particolare Teodoro Madalo, con la casacca
ancora
sporca del sangue del capitano, fissava al limite del trasognato i
lineamenti gelidi
di Andrea Pera, quasi alla ricerca del benché minimo
movimento su quel bozzolo
di carne. Giorgio gli sussurrava frasi d’incoraggiamento,
ricordandogli che più
di così non aveva umanamente potuto fare: anche se avesse
posseduto i cavalli
del dio Febo, non sarebbe mai giunto a Treviso in tempo per salvarlo.
Mercurio
Bua l’aveva ferito troppo a fondo.
“E
ti prego, non prendertela con nostro fratello: non è colpa
sua,
bensì del suo capitano”, non gli era infatti
sfuggito lo sguardo fosco di
Teodoro, mitigato appena dalla dolce sorpresa di stringere nuovamente
il minore
tra le braccia, vivo e vegeto anche se con una spalla dislocata.
“Ma
respirava ancora … io … lui … lui mi
parlava e … e … Forse, se
l’avessi afferrato in tempo, se gli avessi impedito di porsi
in prima fila …
”
Ma sapeva
ch’era inutile attaccarsi alle chimere della
possibilità: l’uomo, già parecchio
indebolito, era spirato stringendo la mano
di Helena, ritornata al suo capezzale quando lo aveva sentito rantolare
ed
invocare disperato un prete. Purtroppo, non essendoci ortodossi nelle
vicinanze, la gentildonna greca aveva richiesto ad un monaco infermiere
un’immagine sacra e poi, ponendola di fronte al moribondo,
dopo averla baciata
i due s’erano messi a pregare incessantemente Dio e la
Vergine Maria. E mentre
la giovane Spandolina recitava energicamente O
Panagia Despoina, me to Monogeni sou, ela tziai si voitha mas,
tziai dws’ mas tin eftzin sou [5],
ecco
che Andrea Pera, in un ultimo guizzo d’energia,
l’aveva ringraziata tramite un
tremulo sorriso insanguinato. “Nelle … nelle tue
mani …”, aveva ansimato in
grandissimo affanno, per poi chetarsi bruscamente. La sua presa perse
vigore,
facendosi lasca, fino a scivolare dalle dita di lei per non muoversi
mai più.
Nella
cappella dell’Ospedale ,
gli occhi incollati sulla bara scoperta, Helena notò che
qualcuno doveva aver
messo accanto al catafalco un piatto di koliva [6] e una piccola croce
di legno
tra le dita intrecciate del morto. Se il prete cattolico, che stava
officiando
la messa da requiem, disapprovava tal pratica, di certo stava
dissimulando alla
perfezione il suo dispiacere. Sospirando profondamente, la patrizia
avanzò
verso il defunto Andrea Pera, onde salutarlo e baciare la croce tra le
sue
mani. “Addio, kyr Andreas”, mormorò e,
uno alla volta, anche il resto degli
stradioti la imitò.
“Buon
viaggio, capitano”, si
congedarono uno ad uno, rimpiangendo di non poter rimanere
lì tutta la notte a
vegliare sul defunto, in quanto la guerra li obbligava a rientrare nei
loro
alloggi e riposare. Già il Provveditore e il
Podestà erano stati così gentili
d’accordare loro di restare fino ad un’ora
così tarda; giudicavano quindi
irriconoscente approfittare di tanta cortese comprensione. Nondimeno,
gli
stradioti si ripromisero di ritornare alla cappella alle prime luci
mattutine
per accompagnare Andrea Pera alla sua ultima dimora terrena.
La
giovane greca reclinò il capo,
acciocché lo zendale coprisse il suo sorriso amaro: ora, fratello, viaggerai in una patria laddove
nessun conquistatore
potrà mai scacciarti.
“Si
è fatto tardi, madona
Helena”, le s’avvicinò Fra’
Anselmo, provocandole un piccolo sussulto
colpevole. “Dovreste rincasare e riposarvi.
L’esperienza d’oggi vi deve aver
notevolmente provata: siete molto pallida, mi preoccupate.”
La
nobildonna si voltò verso il
monaco, arcuando il sopracciglio. “Come posso aiutare i
feriti durante
l’assedio, se mi stanco per uno solo? Inoltre, ormai
è notte fonda e non ho
nessuno che m’accompagni né che mi aspetti a
casa”, troncò brusca il discorso,
rientrando all’ospedale mentre si nettava via le lacrime che
le offuscavano la
vista. Si segnò sovrappensiero, a guisa ortodossa,
particolare che non sfuggì
al benedettino, che rimarcò appunto:
“Ma
egli era un vostro
conterraneo, nonché fratello in Cristo e ciò vi
ha doppiamente sconvolta,
turbandovi e allontanandovi dai giusti precetti” e dinanzi
all’espressione
interdetta della giovane, Fra’ Anselmo proseguì,
senza però alcuna nota di
biasimo: “Voi orate con la bocca da cattolica, ma seguitate a
rimanere ortodossa
nel cuore. Piangevate mentre pregavate col signor Andrea,
perché vi ha
ricordato chi siete e cosa avete dovuto abbandonare.”
“Siamo
tutti servi del medesimo
Padrone, non vedo perché dobbiate sorprendervi che io da
cristiana abbia dato
conforto ad un altro cristiano”, replicò aspra
lei, sulla difensiva,
allontanandosi via in fretta.
Sì,
vero, per sposare Marco s’era
necessariamente convertita al cattolicesimo, tuttavia non aveva
abiurato quella
che i Greci consideravano la “Vera Fede”, rispetto
alla sua versione imperfetta
ch’era quella latina. Per non sentirsi né
traditrice dell’una né bugiarda
nell’altra, Helena aveva mischiato le due ed era giunta alla
conclusione che,
in fin dei conti, erano davvero come i due servi litigiosi e miopi
della lettera
di San Paolo ai Romani.
La
patrizia si morse la lingua,
conscia di aver incautamente sparlato, proferendo riflessioni sue
personali e
assai pericolose se udite da orecchie intransigenti o ignoranti.
Asciugandosi
le ultime lacrime,
Helena ritornò alla sua postazione nella speranza di
divenire invisibile e di
sfuggire da ogni sguardo accusatore. Controllò che le bende
e gli unguenti
fossero al loro posto, in ordine e pronti per l’uso; i letti
preparati e le
cortine di lino pulite, gli ancora pochi pazienti nutriti e confortati,
cercando nel lavoro consiglio e forza morale. La giovane greca aveva dormito
malissimo la notte precedente e soltanto aiutando madona Maria
Malipiero
Gradenigo e i monaci infermieri, ella sentiva di trovare la distrazione
necessaria per dimenticare che oramai l’assedio era un fatto
certo e
inevitabile e che pertanto suo marito Marco non avrebbe più
potuto assentarsi
dal Castello, come invece aveva potuto fare prima, rientrando a turno
finito.
Neppure
il tempo di congedarsi le era stato concesso, essendo
giunto uno dei provvisionati del suo consorte a ritirare rapidamente le
sue
cose. La perdonança, patrona –
fu
l’unica spiegazione che la nobildonna aveva ricevuto
– ma da stanotte il vostro sior
marido alloggerà del quartiere del
Castello, assieme a tutti gli altri gentiluomini e soldati. Ordini del
magnifico sier Provveditore.
Helena
s’era ripromessa di non piangere nel suo letto vuoto;
ciononostante la tentazione l’aveva sopraffatta e qualche
lacrima l’aveva
spenta, più che altro perché, senza il marito
lì accanto, lo spettro funesto
della guerra e dei suoi orrori le appariva adesso più
concreto, minaccioso e
soffocante. Forse per quest’ansia ultimamente soffriva di
crampi allo stomaco e
di lievi capogiri. Quella mattina aveva avuto perfino un po’
di nausea.
Anche
madona Felicita aveva sofferto una semi-separazione dal suo
Donado, il quale instancabile era corso di qua e di là ad
aiutare lo sgombero
dei mulini e a controllare che nessuno s’avvicinasse ai
magazzini, dove si
depositavano le farine. Contrariamente ad Helena, però, la
giovane trevigiana
poteva contare sulla presenza del suocero, della madre, della fantesca,
del suo
Jacopino nonché del pargolo in ventre per tenersi
focalizzata sul presente e
non rimuginare sul passato e sul futuro. La greca rimaneva al contrario
sola
coi suoi pensieri e, per non impazzire, aveva deciso che tra sofferenze
peggiori poteva esorcizzare la sua. S’era consolata poi
ripensando a sua
sorella Chiara, appena sposata a sier Nicolò
Trivixan e già rischiava di rimanere vedova.
Ma la
morte di Andrea Pera le aveva sbattuto in faccia la
durissima realtà, abbattendo le sue fragili difese; lui era
soltanto il primo,
chissà quanti ne sarebbero seguiti. Dio e la Vergine non
volessero che anche
suo marito passasse per quel tavolo chirurgico, agonizzante e mutilato
…
“Nessuno
è migliore del proprio
Maestro né il servo è più importante
del proprio Padrone, è vero”, raccolse
Fra’ Anselmo un telo che le era inavvertitamente caduto.
Helena strabuzzò gli
occhi, impaurita, accelerando il passo d’istinto
sicché il benedettino dovette
a momenti rincorrerla. “E appunto per questo, per servire al
meglio, che
dobbiamo riposare. Per favore, rincasate: domani ogni cosa vi
apparirà
migliore. Il signor Andrea è con Dio, ma noi siamo ancora in
questa valle di
lacrime e dobbiamo farci forza e vivere anche per loro.”
La
patrizia abbassò il capo, un
poco vergognosa. “Mi dispiace d’avervi aggredito
così.”
Grattandosi
la fronte, il monaco
ridacchiò a sua volta a disagio: si era, in effetti,
lasciato trasportare
dall’ognora insidioso peccato di superbia, considerandosi
all’apice della
saggezza e della conoscenza. Proprio lui era andato a fare un velato
predicozzo
alla giovane su cosa fosse o non fosse da degni cristiani, quando lui
aveva
mentito e disobbedito al suo Priore, drogato i suoi assistenti e
pazienti e
progettato una fuga? I lunghi anni all’Abbazia di
Sant’Eustachio lo avevano
insuperbito, dimenticando egli di essere un piccolo tassello del grande
e
variegato mosaico del mondo e Dio, mettendolo costantemente alla prova
nelle
ultime settimane, glielo aveva pazientemente ricordato.
“Figliola
mia, non angustiatevi
per me: vostro cognato sier Hironimo m’ha assai ben
fortificato, quando si
trattava di cantarmele. E se non nutro rancori verso di lui -
ch’era lucido e
cosciente delle sue parole - debbo
averne nei vostri confronti, che siete chiaramente affranta?”
“Hieronymos
possiede un buon cuore”,
obiettò la greca, accennando col capo a quel contadino
ammalato, che le aveva
raccontato di come Hironimo non soltanto lo avesse salvato da morte
certa,
ponendosi tra lui e il lanzichenecco, ma anche come gli avesse donato
la sua
coperta e lo avesse aiutato a proseguire nella marcia forzata. Mi ha dato la forza di reagire, di poter
scappare! , aveva aggiunto, mostrando quel panno a
mo’ di prova, manco
corrispondesse ad una reliquia.
“Sì
lo so, per questo l’ho
perdonato!”, scherzò debolmente Fra’
Anselmo. Le campane avevano preso a
suonare mezzora dopo le sette e il frate si rassegnò a far
da scorta
all’ostinata gentildonna, non tanto perché temesse
birbonate da parte dei
pazienti, bensì per controllare che lei non collassasse a
causa o della
stanchezza o di un malore.
“Bene,
giovanotto!”, si rivolse
il benedettino a Giorgio Madalo, indicandogli il muro.
“Levati la camicia e
appoggiati lì con la schiena …”, lo
istruì e una volta avutolo tra le mani,
Fra’ Anselmo in un’unica mossa secca e decisa gli
rimise la spalla al suo
posto, strappando allo stradiota un acuto, brevissimo e intenso urlo
che
svegliò chiunque si fosse addormentato in quella stanza, dai
pazienti agli
altri infermieri.
“Ti
duole molto?”, domandò
timidamente Zilio al fratello, sistematosi borbottante sul lettuccio
accanto al
suo. Teodoro aveva fatto ritorno ai suoi alloggi in contrada San
Martino,
mentre a Giorgio era stato consigliato, almeno per il resto di quella
notte, di
rimanere in ospedale, specie dopo aver ingollato una bevanda agli
oppiacei onde
attutire il dolore alla spalla. Libero inoltre
dell’ingombrante presenza del
monaco benedettino e spostatasi madona Helena in un’altra ala
dell’ospedale
(non sia mai che, scoperta la sua identità, lei andasse a
riferire al marito e
allora sì, che Zilio sarebbe arrivato baccalà dal
boia), lo stradiota s’era
infine risolto d’affrontare il maggiore, il quale
s’era spesso dimostrato più
aperto al dialogo rispetto a Teodoro.
“No,
guarda … sto godendo come un
riccio …”, biascicò Giorgio sia per
l’intruglio sia per la naturale stanchezza,
massaggiandosi di riflesso l’arto offeso. “E ora
serra quella fogna, ché voglio
dormire”, si girò sul fianco sano, sbadigliando
sonoramente.
Zilio
deglutì a disagio, tuttavia
insistendo: “Come te la sei procurata?”
Suo
fratello aprì un occhio, per poi
sospirare pesantemente. Grugnendo infastidito, si portò
supino e volse il capo
in direzione del minore, rendendosi conto come in effetti egli ancora
non
sapesse ogni dettaglio di quanto accaduto il giorno prima.
“Il tuo capitano”,
esordì atono, “aveva disarmato il capitano
Theodoros Ralli … e lo stava per strangolare
col braccio ... Così gli sono saltato addosso e …
e siamo caduti tutti e tre da
cavallo …”, sbadigliò
di nuovo, le
palpebre pesanti. Quand’ecco, che Giorgio indicò
lo zigomo gonfio e spellato e
già tendente al blu e giallo. “Ah, dimenticavo
… anche questo è cortesia del
tuo comandante …”, e rise, manco si fosse trattato
di una zuffa tra amici,
invece di uno scontro all’ultimo sangue.
“Non
ti avrebbe mai ucciso”, gli
confessò sincero Zilio, appoggiando una mano
sull’addome e fissando infelice il
soffitto, dilaniato da quei due fortissimi affetti, verso il suo
capitano e
l’unica famiglia rimastagli.
“Bah,
gli dai troppo credito”.
“Credimi,
ti avrebbe solo fatto
prigioniero.”
“Grato
di avergli rotto le uova nel
paniere, allora”, commentò soddisfatto Giorgio,
grattandosi la barba sul mento.
“Smettila,
non sto scherzando!”,
protestò Zilio.
“Manco
io”, ribatté secco suo
fratello. “Ho promesso alla mia donna e ai nostri pulcini di
ritornare vivo e
ho ogni intenzione di farlo. Quando finirà questa guerra,
accenderò un cero
grosso così a questa Madonna di Treviso,
dopodiché invierò alla Signoria una
petizione per qualche campo da coltivare e vivremo felici. Tutto
questo”, e
indicò vagamente l’ospedale con un rapido svolazzo
della mano, “rimarrà
soltanto un brutto ricordo e nulla più.”
Zilio
annuì pensoso, realizzando d’un
tratto come avesse trascorso gli ultimi sedici anni a combattere su
questo o
quel fronte, senza tuttavia preoccuparsi di costruire una propria vita
al di fuori
del campo di battaglia. Era diverso per Giorgio, che s’era
sposato giovanissimo
e che a Venezia lo attendevano la moglie e una nidiata di figli: la
guerra per
lui corrispondeva ad una mera parentesi, mica lo scopo principale della
sua
esistenza. Per questo Zilio e Teodoro s’intendevano meglio
(quando non
litigavano): nel bene e nel male, avevano in fin dei conti intrapreso
le medesime
strade.
“Tzé,
contadino di nome e di fatto!”,
lo sfotté giocosamente Zilio in un arguto calembour. [7]
“Taci
e dormi, o ti do un pugno in
testa che ti svegli l’anno prossimo”,
borbottò Giorgio, fingendosi offeso. D’un
tratto assunse però un’espressione grave.
“Torna a casa da noi, Zilio. Ti prego”,
lo scongiurò apprensivo. “Non devi nulla
all’Imperatore, né al Re di Francia.
Loro non c’erano quando i Turchi hanno conquistato le nostre
città, rendendoci
esuli e raminghi. Non ci hanno accolto, non ci hanno aiutato. Solo la
Signoria
ed è per riconoscenza verso di essa, ch’io
combatto.”
“Siamo
stradioti, mercenari. Non è
nostro uso servire il miglior offerente?”
“Tu
e Theodoros, forse. Io no”, sentenziò
altero Giorgio, sistemandosi meglio il cuscino sotto il capo e
chiudendo
caparbiamente gli occhi, segno che la conversazione sul serio terminava
lì,
senza possibilità d’appello.
Zilio,
al contrario, pareva di
tutt’altro avviso e non demorse. Sforzandosi onde porsi
seduto, provò ad
attirare l’attenzione del maggiore, sennonché la
porta dello stanzone s’aprì
piuttosto rumorosamente, annunciando il concitato arrivo di due
soldati. Madalo
percepì del sudore freddo colargli lungo la schiena: che
fossero venuti per
condurlo alle prigioni e lì interrogarlo? Anche suo fratello
s’era posto
sull’attenti, rigido e immobile, temendo la cattiva notizia.
Invece,
i due uomini li ignorarono
completamente, passando oltre i loro letti. Sbuffavano ed imprecavano,
o
meglio, il milite dietro al primo non cessava di lagnarsi con quello
che apriva
la fila, asserendo come lo avesse inguaiato. Allungando il collo, i
fratelli
scoprirono che stavano trasportando qualcosa – o qualcuno?
– usando un mantello
a mo’ di lettiga improvvisata.
“Che
accade?”, ruppe Giorgio ogni
indugio, preferendo conoscere le cose direttamente
dall’altrui bocca, al posto
di dedurle.
Adagiato
su di un letto vuoto il
pesante fardello, uno dei due soldati gli andò incontro,
mentre il secondo
correva alla ricerca di un monaco infermiere. “Che
accade?”, ripeté snervato
quegli, stringendo la bocca in una linea dura. “Accade che se
lo sanno, ci
impiccano!”
“Ma
chi?”, insistette lo stradiota,
al limite dello sconcerto.
“Era
il mio turno di ronda a Porta
San Tomaso, d’accordo?”, ringhiò la
sentinella, cambiando peso nervosamente da
una gamba all’altra. “Era passata … che
so … al massimo mezzora dopo le otto e
me ne stavo lì tranquillo, quando …” e
aspirò violentemente l’aria, indicando
il compagno che ritornava con appresso Fra’ Mauro, uno dei
canonici regolari di
Santa Maria Maggiore trasferitosi all’ospedale assieme ai
suoi confratelli.
“Quando vedo ‘sto sempio che si dirige alla
portella. Io ovviamente lo fermo e
gli chiedo: Zò,
Marchiò, razza de bauco,
cossa fastu? E st’altro: Mi
vago a
verzer ea portela. Al che gli ricordo gli ordini del sior
Provedador: non
si apre a nessuno di notte, specie a ‘sta ora, senza speciale
autorizzazione. Ma la
patrona a me g’ha dito de verzer ea portela!, insiste
e tanto ha detto e
tanto ha fatto, che l’ho dovuto seguire fin giù
alla portella. E una volta apertala
…”, si passò una mano sulla bocca,
cangiando la sua espressione da indignata a
confusa, quasi intimorita. “Abbiamo trovato ‘sto
desgrasià, mezzo morto, lì per
terra … Io … io allora gli domando: Ma
‘sta siora patrona, chi xéla? Indove tea
g’ha vista?”
“Co’elo!”,
s’intromise Marchiò,
indicando spazientito il fagotto sul letto. “Gelmo, te
l’ho ripetuto mille
volte: ho visto in due avvicinarsi alla Porta! E uno di questi era una
donna,
che m’ha ordinato d’aprire la portella!”
Giorgio,
Zilio e Fra’ Mauro si
guardarono l’uno l’altro sconvolti, neanche
stessero assistendo alle
farneticazioni di un pazzo. E medesimo parere lo condivideva Gelmo, il
quale
esplose frustrato: “E tu spiegami com’accidenti sei
riuscito a sentire una
donna dalla caminada! Dall’alto! Ancora-ancora se si fosse
messa a gridare, ma
allora l’avrebbe sentita l’intera nostra
guarnigione! E invece l’hai sentita
solo tu! Ti rendi conto, testa- da-bigoli, che abbiamo disobbedito al
sior
Provedador? Io non voglio, per colpa tua e delle tue idiozie, andare a
fare
compagnia al caporale di Mathio da Zara!”
“Te
lo giuro sulla tomba di mia madre, che non ti
sto mentendo! L’ho udita come sto ascoltando te in questo
momento!”, divenne
Marchiò rosso in volto, stringendo il pugno. “E se
lo spieghiamo al sior
Provedador, sono sicuro che capirà e …”
“…
e forse sarebbe meglio, se voi due tornaste a
Porta San Tomaso?”, tentò Fra’ Mauro di
calmare gli animi, interponendosi tra i
due litiganti, anche per evitare che svegliassero e coinvolgessero il
resto dei
pazienti, creando più confusione del necessario.
“Il connestabile sa che siete
qui?”
Gelmo
confermò: “Sier Ludovico Querini ci ha dato
il permesso di venire: ha pensato probabilmente trattarsi di un nostro
commilitone svenuto per via di questa febbre …”,
glissò abile sui dettagli. Resosi
infatti conto del pasticcio combinato, lui e il suo complice avevano
prontamente
coperto quel poveretto con un mantello, in modo da nasconderlo dalle
occhiate
curiose ed evitare di rispondere a domande compromettenti. La
semioscurità
della porta d’ingresso aveva poi provveduto al resto.
“Perfetto!”,
batté le mani il canonico regolare, un
poco rincuorato. “Adesso però filate via, prima
che s’insospettisca. A lui
baderò io”, li esortò bonariamente,
accompagnando Marchiò e Gelmo fino alla
porta. Dopodiché ritornò al letto di colui
ch’aveva inconsapevolmente creato
tutto quello scompiglio. “Vediamo un po’
…”, mormorò tra sé e
sé Fra’ Mauro,
scostando delicatamente il mantello. Subito un pungente odore di rose
gli
invase le nari, stordendolo lievemente e costringendolo a strabuzzare
gli
occhi, incapace di conciliare quanto vedeva e quanto annusava.
“Che
storia bislacca!”, confidava nel frattanto
Zilio a suo fratello, il quale si ritrovava d’accordissimo.
“Forse si
salveranno dalla forca, ma non di certo da una solenne lavata di
capo!”
“Fra’
Mauro, chi è?”
Il frate
sobbalzò impercettibilmente dalla
sorpresa, voltandosi poi verso i due fratelli Madalo.
“E’ un giovane uomo …
bruno … poareto, è ridotto davvero male
…”, sospirò mestamente, scorrendo le
dita sui piedi ricoperti di piaghe sanguinanti e risalendo lungo le
caviglie
spellate, le gambe piene di graffi, di croste, di punture
d’insetto, nonché d’aloni
di fango secco e fresco.
Fra’
Mauro tastò l’addome incavato e giallognolo,
le costole sporgenti, storcendo la bocca dinanzi ai lividi sparsi, alla
tenera
cicatrice di una ferita recente, fino a giungere al volto lasco del
paziente,
pallidissimo, sudato, dalla barba incolta, ricoperto
anch’esso d’escoriazioni
ed ecchimosi. Colto da una grande pena nei suoi confronti, il canonico
regolare
gli accarezzò teneramente il capo, infischiandosene dei
capelli aggrovigliati e
sporchi. Ad averlo commosso, infatti, non erano state solo le
condizioni fisiche
di quel poveretto, bensì quegli orridi strumenti a prova di
quanto doveva aver
sofferto.
“Penso
sia un prigioniero … di sicuro scappato, ma
… ma da dove?”, cogitò ad alta voce,
sollevando perplesso le catene ch’avvolgevano
quel corpo sfinito e martoriato, sciolte abbastanza da permettergli
maggiore
libertà di movimento, ma in ogni caso pesanti ed
ingombranti. “Da qualche posto
vicino, perché con questi ceppi … con questa
palla ... non può aver camminato a
lungo né giungere da lontano …”
“Volete
che vada a informare il Provveditore?”,
s’offrì volontario Giorgio, alzandosi dal letto.
Dalla finestra s’udiva intanto
il coro delle campane annunciare le dieci del mattino (4 di mattina,
ndr.)
“Che
differenza vuoi che faccia? Fra due ore si
sveglierà e lo verrà a sapere
comunque”, scosse il capo Fra’ Mauro,
arrotolandosi le maniche del saio. “Piuttosto, vieni qui ad
aiutarmi a
distrigare questa matassa di catene. Il ragazzo ha più
bisogno delle nostre
cure, che il sior Provedador d’apprendere del suo
arrivo.”
Indossando
la casacca e il sonno ormai volato per
lidi oscuri, Giorgio ben volentieri accettò
l’incarico del monaco infermiere. “O
Panagia Despoina!”, fischiò impressionato,
spalancando gli occhi. “Mai visto
uno incatenato così, che diavolo stava pensando il suo
carceriere?! E poi cos’è
quest’odore di rose?”
“Mi
vuoi aiutare o preferisci filosofeggiare sul
senso del mondo?”
Lo
stradiota si chetò all’istante alla stregua
d’un
fanciullino rimproverato dal proprio magister, comprendendo infine
perché il
canonico regolare e Fra’ Anselmo avessero stretto una pronta
amicizia.
Con
delicata discrezione, i due uomini sfilarono
via uno ad uno gli strumenti di prigionia dal corpo del fuggitivo,
appoggiandoli pianissimo per terra onde non destarlo. E sempre usando
la
massima accortezza, Fra’ Mauro lo coprì di una
calda coperta di lana fino sotto
il mento. Nel sonno il ragazzo si rannicchiò in posizione
fetale sul fianco,
cacciando fuori un grosso sospiro. “Lasciamolo dormire
tranquillo”, sussurrò compiaciuto
il frate, ponendo una mano sulla spalla di Giorgio a mo’ di
ringraziamento. “Più
tardi avremo tempo e modo d’apprendere la sua
storia.”
Madalo
reclinò il capo, seguitando a studiare
incuriosito i lineamenti del giovane, i quali gli apparivano vagamente
familiari: era certo infatti d’averli già scorti
da qualche parte, peccato che al
momento gli sfuggisse il raffronto esatto …
“Oggi
è domenica, Fra’ Mauro”, si sovvenne
all’improvviso Giorgio e all’occhiata interdetta
del religioso, si spiegò
meglio: “Riacquistare la libertà, dopo la
prigionia, è come risorgere. Si torna
a vivere. Me l’ha confessato mio fratello Teodoro,
quand’è scappato dal campo
nemico …” e ridacchiò impacciato,
grattandosi il collo. “Di conseguenza stavo
pensando; di domenica c’è stata la Resurrezione,
no? Allora
dev’esser così, nascere una seconda
volta … Bah! Non fateci caso! Pensieri miei”, si
ricompose lo stradiota dalle
sue cogitazioni a voce alta, tossicchiando imbarazzato.
Farfugliò in fretta una
scusa per congedarsi, ritornandosene assai porporino al proprio
giaciglio ed
ignorando perfino le domande rivoltegli dal fratello Zilio.
Fra’
Mauro lo seguì con lo sguardo, gli angoli
della bocca piegati all’insù in un sorriso
indulgente. Non avendo null’altro da
fare, si portò uno sgabello al capezzale del suo giovane
paziente ed estrasse il
rosario, così da spendere in preghiera quelle poche ore
rimastegli prima dell’alba.
Eppure,
la mente del frate non riusciva ad
astrarsi, seguitando egli a fissare la figuretta sotto le coperte e a
chiedersi
chi fosse costui, da dove fuggisse nonché chi lo avesse
aiutato,
accompagnandolo fino a Porta San Tomaso e addirittura persuadendo una
sentinella a farsi aprire nel cuore della notte. Dove si trovava, ora,
questa
misteriosa compagna di viaggio? Nessuna delle guardie aveva
più accennato alla
sua presenza, dopo l’apertura della portella.
E
soprattutto, il canonico regolare non capiva
perché mai questo ragazzo olezzasse più
d’un giardino di rose a maggio, quando neppure
gli accattoni si presentavano tanto lerci quanto lui.
“Invero
oggi è domenica”, asserì piano
Fra’ Mauro,
riponendo il rosario alla cintola non appena i primi timidi raggi
mattutini s’infiltrarono
in punta dei piedi dalle finestre, punzecchiando dispettosi le ciglia
degli
ostinati dormienti. Colto da un subitaneo impulso, il religioso
accettò quella
carezza di luce sul volto e, congiunte le mani, recitò un
passo del Salmo 29,
ritenendolo il più adeguato a quella straordinaria
situazione: “Signore, a te
ho gridato e mi hai
guarito. Signore,
mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai
dato vita perché non scendessi nella tomba. Alla
sera sopraggiunge il pianto
e al mattino, ecco la gioia. Ascolta,
Signore,
abbi misericordia, Signore,
vieni in mio aiuto. Hai
mutato il mio lamento in danza,
Signore,
mio
Dio, ti loderò per sempre.”
Terminata
la sua orazione, il canonico regolare incominciò
ad elencare mentalmente le mansioni della giornata, in primis la
colazione da distribuire.
Una morbida quiete indugiava nello stanzone, mentre il sonno ancora
avvolgeva
ciascuno degli astanti, pellegrini in quel mondo inaccessibile e
personale,
laddove traevano quel necessario attimo di respiro, prima
d’immergersi
nuovamente nell’oceano delle vicissitudini umane.
A
Fra’ Mauro fece assai peccato doverli svegliare,
sicché non s’affrettò a scendere nelle
cucine, rimanendo lì a vegliare i suoi
pazienti per un’altra mezzoretta.
Continua
…
***********************************************************************************************
I come,
perché e quando nel prossimo capitolo! ;-)
Infinite
grazie a Sagitta72 e a Semperinfelix per i
loro consigli!
Alla
prossima!
Un po’ di noticine:
[1]
Il 9 marzo del 1510 vi fu
un’apparizione della Madonna a Motta di Livenza, dove venne
puntualmente
costruito un santuario a Lei dedicato, a seguito anche dei prodigi che
confermarono la veridicità della sopracitata apparizione e
tutt’oggi fiorente meta
di pellegrinaggi.
Il
veggente era un contadino di
nome Giovanni Cigana, il quale riferì di aver visto quella
mattina,
dinanzi al
capitello (cappella) della
Madonna col Bambino dove lui soleva pregare, una bellissima
giovinetta
biancovestita. Rivelatasi come la Madre di Dio, Ella gli
chiese di
digiunare con la famiglia per tre
sabati
consecutivi e di predicare il digiuno e la penitenza a tutta la gente
di Motta
e delle città e paesi di tutta la Marca Trevisana. Coloro che avessero
digiunato con vero
pentimento, avrebbero ottenuto misericordia e perdono dal Signore,
“sdegnato
per i troppi peccati del popolo”, come gli disse la Madonna
stessa.
Quanto
al “mondo travagliato e
puzzolente”, l’ho ripreso dal testamento dello
stesso Marco Miani, quando
questi suggerì alla figlia Cristina di farsi monaca o di
vivere da pizzocchera,
rifiutando il mondo. Poi dopo cambiò idea e le diede la dote
per sposarsi.
[2]
Narra il Sanudo (20.06.1509):
“È da saper, eri sera achadete, cossa notanda, che
nel borgo di San Trovaxo sta
una povera dona, vedoa, con 3 fioli, dorme sulla paja, et filla lanna
et nulla
ha al mondo, par che a hore 1½ di note batesse a la sua
porta una femena; et
questa, meravegliata chi bateva a quella horra, dimandato chi fosse,
disse: Apri. Et aperta,
intrò in caxa, non
havia luse, ma li paresse fusse una dona, vestita di biancho,
la qual li
disse: Va dal piovan et dili, che
’l faza
precession fin el dì di San Zuanne (San Giovanni
Battista, cioè il 24
giugno) con la madona di Ogni Santi, che
questa terra haverà vitoria contra i soi inimici, dicendo: Cussì
ho fato far a
la Madona di San Zuane Pollo. La qual femena disse: Chome volè vu, che vada, che i non me
crederà, e non si vede? E lei
disse: Va pur via; e paresse la
fosse
spenta fuora, et che fosse torze accese. Andò dal piovan, e
la dona rimase in caxa,
et li disse la cossa. Lo qual ordinò la venisse la matina;
et tornata a caxa,
la dona era partita. Et fo fato la precession, comenzata questa matina.
[3]
Dal Quarto Libro dei Miracoli
di Santa Maria Maggiore: (1511) Come una
putina morta resuscitò. Stendo morta una putina di uno
patricio veneto, de anni
quatro, havendo fede, et gran devotione in questa gloriosa immagine,
viene de
Venetia qui, co’ la sua consorte, et presentato la putina,
sula altare, com
lacrime pregano la Madonna che la facesse revivere. Et subito la putina
resuscitò già molti giorni morta, et
domandò da mangiare, li fu dato dele
solete, et sul’altar mangiò: et cussì
come piangendo veneno a Treviso co’
gaudio ritornorno alla patria sua Veneta, co’ la putina viva.
[4] A
seguito della cacciata dei Caminesi e della restaurazione
del libero comune, Treviso, oltre ad aggiungere nel 1313
l’immagine della
Madonna al proprio gonfalone, negli statuti del 1314 aveva ribadito
l’atto di
vassallaggio alla Madonna, che il Podestà ripeteva
pubblicamente a Santa Maria
Maggiore il giorno dell’Assunta.
In questo
modo, essendo la Vergine la Signora di Treviso, nessuna
famiglia nobile poteva più aspirare ad instaurare una
signoria, poiché sarebbe
stata un’usurpazione sacrilega. Ciò non
impedì purtroppo a Treviso di finire
sotto il dominio dei Conti di Gorizia, dei Tempesta, degli Scaligeri,
del Duca
d’Austria e dei Carraresi: tuttavia, tali signorie ebbero
vita assai breve
(quasi a monito?) e di fatti la Repubblica di Venezia, cui Treviso
s’era
dedicata spontaneamente, ben si guardò dal contestare questo
vassallaggio,
anzi, conservò la tradizione di far recitare al
Podestà in carica il dì
dell’Assunta l’atto di sottomissione alla Madonna,
donandoLe il pallio di seta
e molte candele a mo’ d’offerta.
[5]
(traduzione approssimativa)
Oh Vergine Maria Despina, assieme al tuo Figlio Unigenito, vienici in
soccorso
e benedicici.
[6]
Koliva = un piatto di grano e miele
con
una candela accesa al centro, per riprendere la parabola del chicco di
grano
dal Vangelo di San Giovanni (riferimento anche alla
ciclicità della vita.)
[7]
Giorgio (Georgios in greco)
significa appunto “lavoratore della terra”,
cioè contadino o agricoltore.
|
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Capitolo 35 *** Capitolo Trentesimo, parte prima: 28 settembre 1511 ***
Ecco
qua il ventinovesimo
capitolo!
Ulteriori
note si trovano a fine
pagina, ma qualsiasi domanda fatemi sapere.
Avvertimenti: altre peculiarità.
Un
ringraziamento ai miei lettori
e ai miei recensori: Alessandroago_94,
Semperinfelix, Sagitta72 e
Vanya Imaryek. Grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite,
preferite e
ricordate.
Vi
auguro una buona lettura,
H.
***********************************************************************************************************************
PARTE TERZA:
Treviso
(28 settembre
– 20 ottobre 1511)
Capitolo
Trentesimo
Domenica
28 settembre 1511
(prima
parte)
Aveva incominciato il suo cammino
determinato, sicuro e confidando nella presenza della dama fuori dal
padiglione
del suo carceriere, il quale se ne stava seduto immobile e reclinato in
avanti,
quasi l’avesse all’improvviso colto la morte.
Non s’era attardato a
meditare su
tale stranezza, spinto dall’urgenza di fuggire e di
ricongiungersi alla sua
salvatrice.
Che però non
trovò ad attenderlo.
Ogni fiammella di coraggio gli si
spense in cuore, righermendolo il gelido panico che fin a quel momento
l’aveva
tartassato; circospetto avanzò di qualche passo giusto per
nascondersi dietro
qualche carro, tenda, un qualsiasi angolo che potesse offrirgli
protezione
dalle occhiate vigili dei soldati intenti a smontare
l’accampamento per
l’imminente partenza.
Studiò il campo e ogni
singolo
movimento attorno a sé, sperando nell’altrui
distrazione o di un punto poco
sorvegliato dove sgattaiolare via indisturbato. La saliva gli si
seccò in gola,
percepiva lo stomaco contrarsi ogniqualvolta evitava, per il rotto
della
cuffia, di finire scoperto da una sentinella. Spuntavano militi da ogni
angolo,
parevano possedere mille occhi e mille orecchie, come i serpenti che
s’accorgono della preda alla minima sua movenza.
Non esisteva via d’uscita.
Erano
dappertutto. Non ce l’avrebbe mai fatta, sicuramente
l’avrebbero catturato e
ricondotto davanti al suo carceriere.
E una volta lì …
lo avrebbe … lo
avrebbe … nel peggiore dei modi … delle
umiliazioni … delle torture …
Tremò da capo a piedi,
ricacciando indietro le lacrime di paura e frustrazione: a che pro
sciogliersi
dalle sue catene, se poi doveva rimanere intrappolato
nell’accampamento? Un
ultimo istante di gioia e speranza, prima della sua definitiva caduta
nell’abisso della disperazione?
La strada, la strada!
Dov’era la
strada verso la libertà?
Non la trovava, non la conosceva,
smarrito e solo, circondato da nemici.
S’accoccolò per
terra, le
ginocchia al petto, dondolandosi sempre più in affanno
avanti e indietro,
imponendosi di recuperare la fredda calma e d’elaborare una
strategia di fuga.
Peccato che la sua mente non cooperasse, ostaggio degli affilati
artigli del
terrore.
La strada! La strada!
Dov’è?
dov’è?
“Concentrati su di
Lei”, udì
all’improvviso e nitidamente la voce di Padre, che credeva
averlo abbandonato,
invece tramite i suoi insegnamenti continuava a vivere in lui, a
guidarlo e
proteggerlo. “Odigitria, dal greco, vuol
dire: Colei che conduce e che mostra la direzione.
Lei ti guiderà
sulla strada della guarigione, oggi, ma un domani, quando ti sentirai
perduto o
non saprai quale cammino intraprendere, pensa a Lei e a Lei soltanto e
non ti
perderai mai.”
Disperato, in cerca di un segno,
La invocò nuovamente. Vieni ancora in mio sostegno, indicami
la strada …
indicami …
Una mano gli si posò sulla
spalla, afferrandolo e costringendolo in piedi …
Hironimo
gridò angosciato,
mulinando esagitato le braccia sia per difendersi sia per scacciar via
chi
stava tentando di tenerlo fermo per le spalle, chiamandolo ad alta voce
e
pregandolo di tranquillizzarsi, ch’era al sicuro.
In
questo scontro da gatti i due
indugiarono per un po’, finché il giovane Miani
esaurì le poche energie
accumulate durante il sonno, cedendo sfinito e in
attesa del suo
destino, il quale possedeva il volto benevolo e preoccupato del monaco
sedutogli accanto.
Non
apparteneva all’ordine dei
benedettini – constatò il patrizio, già
di questo sentendosi un poco sollevato
– bensì o di un agostiniano o di un canonico
regolare. Il che significava che
non si trovava più a Nervesa (e qua Hironimo si
schiaffeggiò mentalmente: ovvio,
che non era Nervesa) ed era capitato in un altro convento o monastero.
Ma dove?
Non riconosceva l’ambiente, o meglio, intuiva trattarsi di
un’infermeria o
comunque dove giacevano i malati in degenza, ma non il luogo esatto.
Dov’era
finito? Dove l’avevano
condotto? Possedeva della notte scorsa ricordi così confusi
…
Una
gentile presa dietro la nuca
lo distolse dai suoi scoordinati pensieri, conducendolo in posizione
seduta.
L’orlo d’un bicchiere
s’appoggiò alle sue labbra e il fresco liquido di
un’acqua finalmente salubre e pulita
s’infilò nella sua bocca, ammorbidendo la
secchezza in gola.
“Piano,
piano … bevi piano”,
l’avvertiva il religioso, in una curiosa prova di forza tra i
due, lui che
tratteneva l’angolazione del bicchiere acciocché
la bevanda scorresse
lentamente; Hironimo, al contrario, che insisteva su di una sua
accelerazione.
Inghiottì a rumorose sorsate, avido e assetato,
dimenticandosi sia di respirare
sia le piccole dolorose contrazioni dell’esofago fuori
allenamento, finché
qualche goccia d’acqua sfuggì al suo controllo e
scese nella trachea,
provocandogli un improvviso colpo di tosse e conseguenti sputacchi di
liquido
in eccesso. “Ecco … che ti dicevo?”,
roteò gli occhi il monaco, battendogli
delicatamente dietro la schiena.
“A-acqua
… acqua …”, gracchiò
ansimando il giovane Miani, passando la lingua sugli angoli umidi della
bocca,
asciugandoli. “Acqua …?”
L’uomo
annuì. “D’accordo, te ne
porto ancora. Basta che mi prometti di berla senza fretta,
sì?” e si alzò per
riempire la brocca vuota, uscendo momentaneamente dalla stanza.
Così
facendo, il religioso aveva
privato Hironimo di uno scudo umano, rendendolo visibile ai pazienti in
letto,
che il patrizio s’affrettò a squadrare uno alla
volta, alla ricerca d’indizi
sulla sua nuova ubicazione. Quand’ecco, che il suo sguardo
s’incrociò con uno a
lui assai noto e non in circostanze felici. La sua mano corse
istintivamente
alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, raccogliendo solo il
cuscino che
comunque afferrò.
“Tu!”,
esclamò Zilio Madalo al
limite dello sconcerto, gli occhi comicamente tanto sgranati da far
concorrenza
ad un paio di uova all’occhio di bue. “Che diavolo
ci fai qui?”
Ad
Hironimo, altrettanto
sorpreso, risultò arduo formulare una risposta adeguata a
quella domanda
legittima, ignorando lui per primo il luogo e lo schieramento
dov’era
incappato. Il suo cervello, nel frattanto, formulava imbizzarrito mille
teorie.
“Sei
vivo …”, dichiarò infine il
giovane, sbattendo disorientato le ciglia, neanche avesse le
traveggole. “Tu
sei vivo”, ripeté incredulo, mentre una rabbia
montante gli ribolliva in petto:
ogni sevizia subita per mano di Mercurio Bua, negli ultimi giorni, era
figlia
della collera del greco-albanese, il quale aveva creduto, erroneamente,
morto
il suo luogotenente per colpa (indiretta) della fuga
d’Hironimo. Vederselo
dunque lì, davanti a sé, vivo e vegeto anche se
ridotto maluccio, la giudicò la
più ingiusta delle beffe.
Simili
ragionamenti
attraversavano la mente dello stradiota, che contemplava tramite il
Miani il
fallimento del suo capitano, ogni suo sforzo per tenerlo presso di
sé
vanificati da una fuga che lui primo aveva sempre ritenuto impossibile.
“E tu non
puoi
essere qui!”, ringhiò Zilio, appoggiando una gamba
per terra. Immediatamente,
Hironimo levò in alto il cuscino, pronto alla pugna.
“Tu non devi essere qui!
Come sei scappato? Che cosa ne hai fatto del mio capitano?!”,
poiché nella sua testa
egli era giunto all’ovvia conclusione che, se
l’ex-castellano si trovava lì, di
sicuro Mercurio Bua o era stato ucciso o in ogni modo attaccato per
privarlo
del suo ostaggio.
“Niente,
s’è soltanto
addormentato, il brocco!”, gli disse la nuda e cruda
verità Hironimo, ossia ciò
che si ricordava della notte precedente.
Peccato
che Zilio non la gradì.
“Schifoso rospo di palude, io ti …!” e
avanzò furioso verso il giovane, che gli
tirò prontamente il cuscino contro, colpendolo alla spalla
ferita. Al che lo
stradiota afferrò uno sgabello e
s’apprestò a spaccarlo in testa ad Hironimo,
che si schermò con le braccia e …
“Ciò!
Siete omeni o puteli?”,
ruggì il monaco infermiere, ritornato dalla pompa
dell’acqua potabile e
osservando stupefatto e deluso i due contendenti. “Vi paiono
atteggiamenti
consoni alla vostra età?”, rincarò la
dose severo. “Di domenica, poi, giorno di
Domine Iddio!”
“Ha
incominciato lui!”, indicò
petulante Zilio il suo avversario, che, dopo avergli elargito una
solenne
linguaccia, si discolpò in fretta:
“Io
non gli ho detto niente
d’offensivo, m’ha attaccato così, senza
motivo!”
Stringendo
le labbra in una linea
dura, il religioso si portò dubbioso accanto a Giorgio
Madalo. “Chi dei due
afferma il vero?”, lo interrogò e questi
replicò salomonicamente:
“Ambedue
e nessuno dei due, Fra’
Mauro. Mio fratello gli ha parlato da zaffo, mentre questo qua ha
ingiuriato il
suo capitano. Non che ci sia nulla di male in ciò, tuttavia
mio fratello lo
adora, di conseguenza l’ha presa sul personale.”
Il
canonico regolare sospirò
snervato. “E perché mai avrebbe dovuto insultare
il capitano di tuo fratello?”
“Da
quanto sto capendo”, asserì
meditabondo Giorgio, “costui”, e indicò
Hironimo, “dev’esser stato un
prigioniero del signor Mercurio, ch’è riuscito a
scappargli da sotto il naso,
se non l’ha ammazzato nel processo.”
“Se
l’ha fatto, lo squarto a mani
nude!”, fu la macabra promessa di Zilio, nel frattanto che
Fra’ Mauro, intuendo
l’antifona, lo trascinava lontano dal giovane Miani, il quale
protestava
indignato che lui aveva visto il condottiere orizzontale in quanto
addormentato, mica morto.
“Calmati, Oreste,
siamo in guerra: morir uccisi rientra
nell’equazione!”, lo rimbeccò scocciato
Giorgio.
“Non
a tradimento!”, digrignò i
denti Zilio, posto forzatamente seduto da uno sbuffante Fra’
Mauro.
“Sì,
perché io in battaglia
t’avverto, prima d’aprirti le budella!”,
lo sbeffeggiò il maggiore, provocando
un rictus nel bizzoso minore, prontamente bloccato dal monaco
infermiere.
“Ciò,
basta voi due!”, brontolò
quegli, sfinito da tante bambinate.
“Invece, raccontatemi un po’
questa storia della fuga dal capitano Mercurio Bua!”
figurarsi se l’uomo non
conosceva bene quel nome, pronunciato col medesimo timore riservato al
Barababao. “Incominciando da te”,
incalzò Hironimo che, riprendendo possesso
del cuscino gentilmente raccoltogli da Fra’ Mauro,
cercò di riassumere in
maniera semplice ed esauriente l’intera faccenda:
“Mi
chiamo Hironimo Miani, del fu
magnifico missier Anzolo Miani da Carità-San Vidal. Sono un
patrizio veneziano
e castellano di Quero”, e deglutì, vergognoso e
furente contro se stesso al
ricordo della sua sconfitta militare. “Per un mese sono stato
prigioniero del
capitano Mercurio Bua Spata, da cui, come vedete, sono riuscito a
fuggire la
notte scorsa”, disse, glissando su di essa, fintanto che la
memoria non gli si
fosse raddrizzata, permettendogli di porre in chiaro ordine cronologico
eventi
e dinamiche.
Intanto,
nelle cucine, Fra’
Anselmo combatteva la sua personale battaglia, onde impedire che
Thomà ne
combinasse l’ennesima delle sue: il giorno scorso, infatti,
il capo-bombardiere
Orlando da Bergamo era venuto all’Ospedale a riportargli
indietro un
imbronciato fantolino, spiegando al monaco come questi avesse
approcciato i
suoi uomini, domandando se avessero bisogno di qualcuno per mescere le
polveri
da sparo.
“Perché non posso
aiutarvi? Odio
quanto voi i Tedeschi e i Francesi e conosco bene il
mestiere!”
“Stare tra i soldati nelle
casematte non è il posto più adatto ad un
bambino!”
“Balle di musso! Io ho
servito a
Castel Novo di Quer e ho condiviso il tetto con uomini, donne e bestie
senza
alcun problema!”
“Ugualmente non li servi,
hanno
già i loro aiutanti.”
“Allora prendetemi al vostro
servizio!”
“No, in campanile non ci
stai.”
“Perché
no?”
“Perché mi
saresti d’intralcio.”
“Non avete spazio per me, ma
per
ingrumarvi con la Zanze sì, eh?”
Fra’
Anselmo avvertì un certo
calore avvampargli le gote al ricordo di tal prosaico litigio tra il
bambino e
il bergamasco, conclusosi con quest’ultimo che tirava le
orecchie a Thomà,
apostrofandolo irritato e chiamandolo birba, canaglia, manigoldo.
Orecchie, a
giudicare dal rossore, che ancora bruciavano all’indispettito
fanciullo,
concentrato in quel momento a girare la polenta, borbottando
maledizioni e
improperi in un misto di veneto-feltrino e ladino.
“Suvvia,
mescere la farina di
polenta non sarà entusiasmante quanto le polveri da sparo,
ma almeno essa
produce un pasto, che aiuterà i nostri ammalati a guarire
presto e tornare a
combattere. Anche se indirettamente, lo stesso ti renderai
utile.”
Thomà
gracidò un gutturale e
profondo verso scettico.
“Ho
promesso che avrei vegliato su
di te, proteggendoti e assicurandomi che tu stessi al
sicuro”, gli ricordò
paziente il benedettino. “Fai torto al sacrificio del tuo
padrone, arrischiando
così sventatamente la tua vita.”
Il
piccoletto s’arrestò brusco,
tirando su col naso e guardando battagliero Fra’ Anselmo.
“Punto perché xéo
ancor prexon dil Bua, che mi vojo combatar: cussì quel
cancaro lo gh’avarà da
liberar, se lo spediamo a la malhorra!”
Il
monaco tentò di controbattere
quell’ostinata logica, sennonché Fra’
Mauro lo interruppe, scendendo a prendere
la colazione per i suoi ammalati. “Sei in ritardo”,
fu lieto l’uomo di cambiar
discorso, nel frattempo che una conversa scostava Thomà in
modo da levare la
pentola dal fuoco e rovesciarla su di un panno steso previamente sul
lungo
tavolo da lavoro. Un’altra delle conseguenze della parata
dimostrativa di La
Palice era che gli oblati e i novizi sia provenienti dalla
città sia tra i
fuggitivi fossero stati precettati a montar di ronda assieme ai
soldati,
rimpiazzati dunque dalle converse e le suore meno schizzinose.
“Mea
culpa”, ammise contrito Fra’
Mauro. “Purtroppo, mi sono ritrovato a separare due
litiganti, che saranno pur
ammalati, ma abbastanza pieni d’energie per menarsi
…”, si lagnò, scroccandosi
il capo indolenzito per la notte trascorsa sullo scomodo sgabello.
“Beati
i costruttori di pace”,
citò la conversa con ironica enfasi, intromettendosi, mentre
dava una forma di
cupola alla polenta con la punta del batocchio bagnato in acqua fredda.
Thomà,
in punta dei piedi, dopo aver immerso le mani sempre
nell’acqua fredda,
l’aiutava modellandola alla base.
“E’
pronta?”, tossicchiò il
canonico regolare, ignorando l’espressione divertita di
Fra’ Anselmo.
“Se
mi aiutassi …”, brontolò
sottovoce le donna, concentrandosi sul suo lavoro. “Bon da
niente”, aggiunse e
Thomà sogghignò d’accordissimo.
Fra’
Mauro, approfittando della
distrazione di lei, si guardò sospettoso intorno,
accostandosi poi al
benedettino con fare cospiratore. “Appena avrò
dato da mangiare a quelle belve,
mi recherò subito dal sior Provedador: prima lo
saprà, meglio sarà per noi.”
“Perché?
Cos’è accaduto?”,
inquisì perplesso Fra’ Anselmo, arcuando
sospettoso il sopracciglio e
conducendolo in un angolo più appartato.
“Cos’hai combinato?”, corresse la
domanda, intuendo l’imbroglio nel quale il religioso
s’era ritrovato suo
malgrado invischiato.
“Ebbene”,
fissò contrito Fra’
Mauro i suoi piedi, “stamattina s’è
aggiunto un … un paziente in più … e
…”
“E
…?”, pendeva il benedettino
dalle sue labbra, spronandolo a non cincischiare e ad arrivare al
dunque.
Thomà, dal canto suo, s’era allontanato in punta
dei piedi dalla conversa e
origliava sfacciato, smettendo quasi di respirare, le orecchie drizzate
a guisa
di gatto.
“Avrei
forse dovuto avvertire
immediatamente il sior Provedador, però …
Poareto, era giunto così malmesso e …
e m’ha fatto pecà doverlo svegliare, anche
perché, insomma, a quell’ora di
sicuro il missier Zuam Paulo se ne stava dormendo e non mi pareva il
caso di svegliarlo
…”
“Ciò,
stringi!”
“E
niente! Ho scoperto che il
nostro paziente non solo è un fuggitivo di quel barbaro di
Mercurio Bua, ma
addirittura il castellano della fortezza conquistata il mese
scorso!”, gli
rivelò Fra’ Mauro tra l’eccitato e
l’apprensivo, strabuzzando gli occhi dinanzi
all’espressione sconvolta dell’altro religioso.
“Me-Mercurio
Bua? Mese scorso?”,
balbettò stralunato Fra’ Anselmo, passandosi una
mano sulla bocca asciutta e
sulla barba pepe e sale. Vacillò indietro di un passo,
rischiando così di
pestare i piedi a Thomà, che rinculò
anch’egli, finendo contro il muro. “Ne sei
sicuro?”, esigette conferma, avvertendo la testa divenirgli
leggera.
“Ovvio
che sì, me l’ha raccontato
lui stesso”, confermò Fra’ Mauro
energicamente, nel suo intimo contento
d’essere portatore di tale novità. “Il
castellano. Sier Hironimo Miani.”
In
un attimo, due reazioni
contrastanti si svolsero sotto lo sguardo attonito del povero frate: la
prima,
in cui si vide spintonato via da Thomà che scattò
a guisa di lepre verso
l’uscita della cucina; la seconda, in cui dovette sorreggere
un Fra’ Anselmo
leggermente instabile sulle sue gambe, il tutto mentre la conversa li
fissava
disorientata.
“Fratello,
che vi succede? Vi
sentite male? Non sarà la febbre?”
“Oh,
Misericordia Divina …”, si
portò la mano al cuore l’uomo, accettando il
bicchiere d’acqua dalla solerte
donna, inginocchiatasi davanti a lui. “Quel … quel
volpone ce l’ha fatta …”
“Cosa
…?”
Sennonché,
un impaziente Thomà lo
distolse dai suoi confusi pensieri, tirandolo poco educatamente per il
saio.
“Ndove xélo? El mio patron, indove teo
gh’ha messo?”, insistette, battendo
nervoso il piede per terra. “Sto hospeal xé massa
grando!”, fu l’unica
spiegazione di cui lo degnò. “Mo’ via,
vecio! Resussita, no me vardare sì inbaucato!”
E
notando Fra’ Mauro totalmente
imbambolato, Fra’ Anselmo si ripigliò dal suo
incantamento e prese in mano la
situazione e con essa il braccio del fantolino, dirigendosi a grosse
falcate
laddove sospettava trovarsi il patrizio.
“No!
No!”, li corresse finalmente
il canonico regolare, sbracciando mentre li inseguiva.
“Dall’altra parte!
Dall’altra!”
“Ma
… e la polenta non ve la
prendete?”, rimase interdetta la conversa, lì col
tagliere in mano in mezzo
alla cucina, per poi sbuffare e correre a sua volta dietro a quegli
sciocchi
invasati.
Sicché,
entrando per l’ingresso
principale dell’Ospedale dopo la Messa mattutina e
domenicale, le madone Maria
Malipiero Gradenigo ed Helena Spandolin Miani e le loro fantesche
osservarono
sbalordite la curiosa processione ch’attraversa in fretta e
furia il cortile
interno, con Thomà aprifila diretto da Fra’ Mauro
che da dietro gli urlava le
indicazioni, seguiti da Fra’ Anselmo che teneva la mano
presumibilmente sulla
milza e la conversa che li seguiva reggendo in equilibrio precario la
polenta.
“Cos’è
tutto questo trambusto?”,
protestò indignata madona Maria, la cui bocca non riusciva a
chiudersi dallo
stupore e sconcerto. “Che razza di comportamenti sono questi?
Dove si credono
di essere? In un’osteria? In piazza il dì della
fiera?”, s’inalberò, mettendosi
subito alle calcagna dei gaglioffi col chiaro intento di rampognarli
per bene.
“Non tollero codesta gazzarra da bastasi! Di domenica,
poi!”
All’oscuro
di quanto avveniva
fuori dallo stanzone, Hironimo e Zilio seguitavano a scrutarsi in
cagnesco,
sfidandosi a vicenda a compiere il primo passo; Giorgio, invece,
spostava
apprensivo lo sguardo dal fratello al veneziano, elaborando rapido un
piano
onde evitare che s’azzannassero ambedue alla gola.
“E
così … siete fuggito?”,
intavolò un tentativo di conversazione, sperando di
distrarli tramite
cicaleggio.
“Sì”,
soffiò il giovane Miani,
gli occhi tuttavia puntati guardinghi sull’altrettanto truce
Madalo minore.
“Quindi …”, esitò, neppure
lui credendo a quell’inaspettata svolta d’eventi.
“Quindi sul serio siamo a Trevixo? Non … non mi
stai … ingannando?”
Giorgio
scosse il capo. “Perché
dovrei? Questa è Trevixo, dove siete giunto verso
… boh, manco mi ricordo …
comunque poco prima dell’alba. Due sentinelle vi hanno
condotto qui
all’Ospedale da Porta San Tomaso, purtroppo eravate svenuto o
addormentato e
non vi siete, immagino accorto di niente”, disse e
indicandosi orgoglioso il
petto: “Sono stato io che ho aiutato Fra’ Mauro a
districarvi da quelle orride,
orride catene. Ma che diamine pensava quel matto di Napoli di Romania?
Manco un
forzato nelle galee turche lo legano così! Io l’ho
sempre detto, che quello là
…” e fece un gesto sconciamente furbetto
“Il kyrie Petros, secondo me, s’è
pigliato una turca per seconda moglie, perché io non ho mai
…”
Al
che, balzando in piedi, Zilio
ruggì, interrompendo bruscamente il fratello:
“Avanti, bastardo! Confessa! Cosa
gli hai fatto? Era impossibile fuggire dal capitano, mi ricordo bene
come t’ha
incatenato! Lo hai ucciso, vero?” e d’un tratto i
suoi occhi si spalancarono
inorriditi. “E’ stato il Gambara! Tu e lui eravate
in combutta fin dall’inizio!
Il capitano aveva ragione! Quell’infame traditore bresciano!
Alla prima
occasione, giuro che … che …”,
sputò bile, impappinandosi, il collo rosso e
gonfio dallo sforzo.
“Il
Gambara, razza di cretino, si
trova ammalato a San Salvatore, dai Collalto!” , lo
sferzò snervato Hironimo,
sporgendosi in avanti e mulinandogli contro il pugno. “E non
ho ammazzato certo
il tuo moroso” qui Giorgio
ridacchiò a disagio e a Zilio andò di
traverso la saliva, “anche se Iddio m’è
testimone quante volte abbia
accarezzato l’idea di strangolarlo con le mie catene. Ma non
l’ho fatto: il tuo
capitano l’ho visto addormentato sul tavolo assieme ai suoi
degni compari,
probabilmente ubriachi della loro stessa boria!”
“Ugualmente
non potevi
scappare!”, insistette Zilio, paonazzo in volto.
“Non hai notato con che sorta
di catene sei arrivato? Nessuno avrebbe potuto camminare fin qui senza
attirare
l’attenzione, nessuno! E non ti sei guardato allo specchio?
Sei pelle e ossa,
potrei spezzarti in due come l’ala d’un
pollo!”, gli puntò contro l’indice.
“Qualcuno ti ha aiutato a fuggire! Parla! Chi è il
tuo complice? Che cosa ne
avete fatto del mio capitano?”
Inconsciamente,
il patrizio
incrociò le braccia al petto, sulla difensiva. Non
necessitava delle ovvie
constatazioni di Madalo per ricordarsi che sì, grazie al
trattamento del Bua
era divenuto più emaciato d’un gatto randagio.
“Figurati se a te vado
a raccontare i fatti miei!”, ribatté altezzoso.
“Perché
sei uno schifosissimo
bugiardo, ecco il motivo!”
“Puoah!
Non m’importa se mi credi
o no; ho detto la verità e della tua opinione, in tutta
franchezza, mi ci
sciacquo le …”
“Patron!!”
Hironimo
non riuscì a finire la
sua prosaica arringa, essendosi infatti all’improvviso
ritrovato scaraventato
all’indietro sul materasso e il viso bagnato da quelli che
suonavano come umidi
schiocchi di labbra e singhiozzi. Avvertendo un certo peso molesto
sullo
stomaco, il patrizio si sciolse da quell’inaspettato
abbraccio, afferrando il
suo assalitore per le spalle e costringendolo seduto.
“Patron!”
Gli
occhi del giovane Miani si
riempirono d’istintive lacrime di gioia: davanti a
sé, piangente e pure col
moccoletto al naso, il suo Thomà si sforzava titanicamente
di darsi un
contegno, sorridendogli però beato. Immediatamente, il
patrizio gli circondò il
viso con le mani, studiandolo fino all’ultimo dettaglio e
soltanto allora, in
quel momento, la consapevolezza che era a Treviso, al sicuro, gli si
presentò
chiara e nitida nelle fattezze del suo fantolino, che mai
più aveva sperato di riabbracciare
in quella vita.
Ed
eccolo là, invece, più paffuto
di quando l’aveva lasciato nel bosco del Montello, le gote di
nuovo rossicce e
lo sguardo sveglio e limpido. Tremante, gli passò la mano
tra i capelli biondi,
decisamente più corti e meno ingarbugliati. Era
così bello. Così perfetto. La
speranza del futuro.
Dio
l’aveva salvato. Aveva
ascoltato la sua richiesta e l’aveva condotto, contro ogni
aspettativa, in
salvo. E nella Sua infinita e imperscrutabile misericordia, gli aveva
concesso
la grazia di poterlo stringere di nuovo a sé, a
testimonianza che nulla Gli era
impossibile.
Si
portò il bambino al petto,
cullandolo, appoggiando la fronte sulla sua piccola spalla; gli
massaggiò la
schienuccia, il battito eccitato del suo cuoricino tanto dolce e
rassicurante
quanto il coro angelico dell’intera corte celeste, i suoi
baci teneri e puri
come le preghiere dei santi.
“Gh’avé
mantegnuo ea promesa,
patron!”, cinguettò contento Thomà,
mescolando risate a singulti. “Gh’avé
mantegnuo ea promesa …” e per lui, maltrattato e
disilluso dalle menzogne e
dall’opportunismo degli adulti, essa corrispondeva alla
più sublime
dichiarazione d’amore. Il suo patron gli aveva giurato di
ritornare e così era
stato, aveva mantenuto la parola data, di non abbandonarlo e di vivere
e
lottare per proteggerlo.
“Brutto
cancaro!”, s’intromise
una voce più anziana ed Hironimo, senza aver il tempo di
processare, venne
circondato da un secondo paio di braccia e il viso mezzo soffocato
dalla stola
di Fra’ Anselmo. “Ti avevo creduto
morto!”, farfugliò commosso.
“No!”,
protestò bellicoso Thomà,
sottraendogli il capo del patrizio, per tenerselo appresso,
gelosissimo. “Teo
ghavevo dito, che nol gera possibile ch’el mio patron se
fasesse copar da quel
turcho travestio da cristian!”
Il
benedettino, sopraffatto
dall’emozione, neanche si premurò di ribattere,
annuendo demente e seguitando
ad accarezzare la zazzera ingarbugliata del giovane Miani, tra i cui
capelli
sporchi indugiava ancora quell’intenso profumo di rose.
Inoltre, quando il
giovane levò la mano destra per detergere via i rimasugli
delle lacrime dalle
guance del fantolino, l’uomo s’accorse che detta
mano si mostrava
inspiegabilmente pulita, intatta, le unghie rosee e regolari,
contrariamente
alla sinistra che rimaneva sporca, graffiata, quasi una zampa
d’animale.
Com’era possibile? – si domandò confuso,
girandosi verso Fra’ Mauro, in piedi
dietro di lui, e il suo boccheggiare gli confermò che no, il
canonico regolare
non aveva avuto ancora occasione di lavare il patrizio e perfino la
conversa
assisteva in muta contemplazione, le narici dilatate dallo sforzo di
annusare
quell’odore così forte e avvolgente,
più delle corone di rose sugli altari
della Madonna a maggio.
“Una
fuga davvero straordinaria”,
mormorò Fra’ Anselmo, avvertendo nel cuore una
strana sensazione, conscio di
trovarsi dinanzi a qualcosa di misterioso e magnifico, sebbene
racchiuso in un
avvenimento in apparenza normale, quanti fuggitivi prima del Miani
s’erano
presentati a Treviso? Ma nessuno di essi gli aveva provocato quello
smarrimento
e al contempo sollievo, sentendosi testimone dell’inizio di
un progetto più
grande e imperscrutabile.
“Hieronymos!
Oh, Hieronymos!”
Degne
emule di Marta e Maria
davanti al fratello Lazzaro redivivo, madona Maria e madona Helena
erano rimaste
dapprincipio impietrite all’uscio della porta, le mani alla
bocca o al petto;
scuotendo il capo, avanzavano incerte verso Hironimo, gli occhi velati
di
stupore e per la greca di lacrime, la quale in un balzo
sorpassò la nobildonna
più anziana e raggiunse il capezzale del cognato. Si
bloccò tuttavia
all’ultimo, allungando cauta una mano, quasi temesse in
un’allucinazione.
“Eleni”,
la salutò Hironimo, le
gote vermiglie perché, sotto il lenzuolo, non indossava
alcunché, scoprendo che
la premura di Fra’ Mauro e Giorgio Madalo s’era
allargata a liberarlo dalle
mutande sporche, oltre che dalle catene.
Sua
cognata, infischiandosene del
suo palese imbarazzo, l’abbracciò
d’istinto, baciandogli ambedue le guance
barbute. Thomà si scostò pieno di gentile
discrezione, in paziente attesa però
di riavere il suo patron non appena possibile. “Ci rodevamo
dall’ansia per te!
E quello sciagurato non ci ha mai contattato né per un
riscatto né per uno
scambio! Abbiamo scritto ai nostri fratelli e allo zio Baptistes per
trovare
una soluzione … anche mio padre è andato a
negoziare con la moglie di quel
tanghero …” Il giovane Miani trattenne il fiato,
avvertendo un nodo allo
stomaco: dunque la sua famiglia s’era attivata con ogni mezzo
per liberarlo?
Non s’erano dimenticati di lui? Malgrado i suoi difetti, le
sue intemperanze e
meschinità, gli volevano ancora bene?
“Abbiamo
tentato di ottenere
informazioni sul tuo conto, di metterci in contatto con te,
però ci dicevano
che eri sempre tenuto sottocchio dal Buas e che impossibile perfino
avvicinarsi
al suo padiglione … ma …”,
farfugliò esagitata Helena e ghermitolo per il volto
e strizzandolo per le guance, lo costrinse perentoria a guardarla
dritto negli
occhi: “Ma come sei riuscito a fuggire?
Quand’è successo? Quando sei arrivato
qui?”,
lo scuoteva, incalzandolo.
“Dasin,
dasieto, madona Helena,
così finirà per ingoiare la lingua!”,
le pose madona Maria le mani sulle
spalle, invitandola a cessare il suo serratissimo interrogatorio.
“Tre domande
di fila sono troppe per questo poveretto”,
scherzò, per quanto anche la sua
voce tremasse impercettibilmente e anch’ella contemplasse
stranita il giovane
patrizio, il quale anguillava a disagio sotto le coperte.
“Non potete
immaginare quanta gioia ci arrechi il vostro ritorno”,
confessò sincera ad
Hironimo, che ricambiò in un debole sorrisetto, il lenzuolo
fin quasi sotto il
mento, da imitare il bozzolo d’un baco da seta.
“A
tal riguardo”, l’assicurò Fra’
Mauro, cogliendo l’occasione favorevole per minimizzare
l’impatto che tale
notizia avrebbe avuto sul provveditore, “mi stavo giusto
recando a Palazzo per
notificare il vostro sior marido. Di certo vorrà
anch’egli apprendere i
dettagli della fuga di sier Hironimo.”
Come
tutti all’interno di quella
stanza, d’altronde.
“Indubbiamente”,
convenne madona
Maria, riacquistando il suo usuale piglio determinato e programmatore.
“V’accompagnerò e per la via mi
spiegherete quanto già sapete”, aggiunse,
elargendo un’occhiata significativa al canonico regolare, che
tartagliò qualche
frase di circostanza su quanto la prospettiva gli recasse un immenso
piacere.
Dopodiché, sorridendo maternamente benevola al Miani:
“E voi adesso badate a
recuperare le forze. Mangiate, lavatevi, dormite. I vostri tormenti
sono
finiti: siete a casa, nella vostra terra. Sorella”, si
rivolse poi alla
conversa, che scattò sull’attenti.
“Quando avrai finito di servire la
colazione, corri a preparare una tinozza d’acqua calda e
soprattutto vai a
raccogliere della cenere di legna. Ne avrai molto bisogno
…”, le ordinò,
alludendo alla massa informe di capelli d’Hironimo, di sicuro
impestata di
pidocchi.
Ponendosi
in piedi e lisciandosi
la gonna, Helena aggiunse: “Io mi recherò invece
dal barbiere e poi a casa dei
Cimavin, a prendere i vestiti che il Marcolin ti ha lasciato.”
“Marcolin
è stato qui?”,
strabuzzò gli occhi Hironimo, incredulo e speranzoso.
“Non era a Padoa?”
“No,
s’è trasferito qui, ma poi
s’è ammalato ed è dovuto rientrare a
Veniexia e … oh, insomma! Non mi
distrarre!”, protestò falsamente indispettita la
greca, in realtà sorridendogli
raggiante, tanto da ingarbugliarsi in un contraddittorio balletto,
indecisa in
quale direzione andare, se a destra o sinistra, tipica sua reazione
quando
presa dall’entusiasmo.
“T’aggiornerò più tardi,
promesso!”
E
nell’allegra confusione
creatasi, laddove ognuno s’affannava di qua e di
là o ronzava attorno al Miani,
ricoprendolo di domande e attenzioni, tre persone erano rimaste in
disparte,
aliene da tanta contentezza: la prima, Zuaneta, ch’era
sgattaiolata via in direzione
del Castello; e la seconda, Giorgio Madalo, che fosco in volto
osservava suo
fratello mangiare ignaro la sua colazione, temendo in cuor suo come il
provveditore sier Zuam Paulo Gradenigo, venendo a conferire col
fuggitivo,
avrebbe potuto cogliere l’occasione per trasferire
definitivamente Zilio nelle
stinche e lì interrogarlo.
***
Solitamente,
niente nuove buone
nuove; peccato che l’ennesimo ritardo
d’informazioni da parte delle spie
nell’accampamento nemico più ch’ispirare
ottimismo, formasse teorie d’opposta
natura. Gli unici che ritornavano erano gli stradioti in esplorazione:
il loro
aspetto scarmigliato e le ferite riportate (uno di loro, piuttosto
grave, era
stato spedito immediatamente in ospedale) confermavano i sospetti del
provveditore di Treviso, ossia di come i Collegati si stessero
avvicinando
sempre di più alla città.
Rientrato
dalla funzione
domenicale e seduto a tavola, sier Zuam Paulo Gradenigo, disertato
dalla
moglie, aveva invitato sier Lunardo Zustignan a colazionare con lui e
non
soltanto per della mera compagnia, bensì per confrontarsi su
alcuni suoi dubbi.
Infatti, quando il trentaduenne patrizio lo aveva raggiunto, il
provveditore
aveva già compilato una lettera lunga due mani per la
Signoria, lamentando
l’eterna penuria di uomini e di danari per le paghe e, di
conseguenza,
richiedendo ambedue in gran pressa.
“Di
tasca mia ho già pagato buona
parte della guarnigione”, lo informò Zustignan,
addentando una fetta di pane,
burro e lardo. “Cosicché per altri quaranta giorni
i loro servigi – e il loro
collo, in caso d’indisciplina – sono stati
assicurati.”
“Ci
basteranno, questi quaranta
giorni?”, s’interrogò cupo sier Zuam
Paulo, appoggiando il bicchiere vuoto.
“La
Peliza ha scoperto le sue
carte”, cogitò ad alta voce Lunardo, due dita
sotto il mento. “E’ intenzionato
a porre Trevixo sotto assedio e questo significa che si sente forte dei
suoi
numeri. Non tarderà d’attaccare.”
“Dunque
o l’esercito di Zuanne
Gonzaga o dei Todeschi s’è unito a quello dei
Franzosi”, concluse amaro il provveditore,
tamburellando scocciato le dita sulla tovaglia.
“Quello
del Gonzaga dubito
assai”, replicò il patrizio più
giovane. “Ricordatevi la liberazione di Soave
da parte di sier Ferigo: quella fortezza era un punto nevralgico per i
nostri
nemici, senza di essa come collegamento tra Verona e Vicenza il signor
Zuanne
faticherà non poco ad armarsi e a raggiungere in tempo La
Peliza e se ciò
dovesse accadere, sarà o per aiutarlo ad assedio
incominciato oppure per
coprirgli le spalle durante la ritirata.” Morsicò
un altro pezzettino di pane,
masticandolo lentamente e, deglutitolo, si nettò
l’angolo della bocca. “A tal
proposito, cosa risponderete alla lettera di sier Christofal e sier
Polo?”
I
due provveditori di Padova,
oltre che ad informare il loro collega Gradenigo circa la vittoria
riportata
contro i Collegati a Soave, proponevano una seconda cavalcata e questa
volta a
Noale, onde rallentare le truppe gonzaghesche partite da Vicenza ed
isolare
ulteriormente La Palice. Sier Zuam Paulo aveva lodato tale iniziativa,
aggrottando tuttavia la fronte quando sier Moro e sier Capelo gli
avevano
richiesto di spostare parte delle fanterie e della cavalleria appunto a
Noale,
inviando Renzo di Ceri e Vitello Vitelli a sostegno degli stradioti di
sier
Ferigo Contarini.
“E’
una decisione molto
difficile”, ammise Gradenigo, “da una parte,
riconquistare Noal a qualche
giorno dall’assedio vero e proprio invierebbe un messaggio
molto forte a La
Peliza, dimostrandogli che non solo non temiamo né lui
né la sua masnada di
senzadio, ma che possediamo uomini e munizioni a sufficienza per
muovere guerra
contro i suoi alleati. Dall’altra parte,
però”, aggiunse, servendosi di un
altro bicchier d’acqua, “sappiamo benissimo che non
possiamo permetterci questo
lusso.”
Lunardo
emise un profondo
sospiro. “Stamane ne ho discusso col capitano Vitelli:
purtroppo, siamo a quota
millecinquecento di soldati ammalati di febbre, questo escludendo i
nostri
gentiluomini che sono dovuti rientrare a Veniexia. Io stesso ho dovuto
congedare uno dei miei fanti e anche sier Hironimo Capelo, sier Piero
Gradenigo, sier Alvixe Zorzi e sier Alvixe da Canal hanno perso alla
malattia
alcuni dei loro.”
“Ho
già richiesto almeno mille
fanti alla Signoria e ancora non ho ricevuto alcuna risposta a
riguardo. Non
capisco perché, ma sembra concentrata esclusivamente alla
difesa di Padoa.
Siamo forse noialtri i figli della serva? Questa terra per due anni
s’è tenuta
fedele a Sen Marcho, mai occupata, meriterebbe miglior
considerazione!”, si
sfogò l’uomo, frustrato. “Specialmente
ora, con la Patria del Friuli occupata e
il Cadore minacciato!”
“Quando
le nostre spie ci avranno
riferito i movimenti dell’accampamento nemico, otterrete
migliori
argomentazioni per supportare le vostre richieste”, lo
consolò pragmatico
Lunardo. “Dimenticatevi delle truppe del Gonzaga: non sono
che delle formichine
a confronto del vero avversario, ossia dei Todeschi i quali avranno di
sicuro
razziato ben bene la Patria del Friuli, portando a La Peliza vittuarie,
genieri, guastatori, barche, artiglierie, etc. A costoro
s’appoggia veramente
monsignor il maresciallo, non a quell’esercito da
parata dei
Mantovani.”
Malgrado
il futuro tutt’altro che
roseo, un mezzo sorriso sfuggì a sier Zuam Paulo, nel suo
intimo contento di
quel colloquio col Zustignan, che pur giovane possedeva quei nervi
saldi e
spirito calcolatore necessari a progetti a lungo termine, affrontando a
sangue
freddo ogni situazione. Similmente ai suoi fratelli Lorenzo e
Pangratio,
Lunardo s’era formato nello Stato da Mar e nel Levante,
l’unica esperienza a
detta di Gradenigo che forgiasse appropriatamente alla guerra. Quando
aveva
letto per la prima volta la lista di patrizi veneziani inviati a
Treviso, il
provveditore s’era rallegrato nel riconoscere
l’ex-sopracomito agli ordini del
capitano delle navi stanziate sul Po, sier Hironimo Contarini detto
“il
Grillo.” Era stata la rapidissima squadra navale di Lunardo
Zustignan, infatti,
ad aver liberato Loreo e Torrenuova [1a] dal giogo dei Collegati: le
sue barche
armate avevano intercettato e affondato tutte le fuste dei ferraresi, i
quali,
forti della loro vittoria a Polesella, avevano puntato a riconquistare
l’antico
avamposto veneziano o perlomeno di distruggerlo tramite un devastante
incendio.
Sfruttando il momentum e senza dar tregua ai ferraresi, “il
Grillo” e Zustignan
avevano organizzato una controffensiva nonché spedizione
punitiva nei confronti
di Are [1b] e Ariano, colpevoli non tanto d’essersi arrese
agli estensi, bensì
d’averli fornito una base d’appoggio per le loro
scorrerie a Loreo.
Di
confrontarsi con una persona
quindi avvezza alle fatiche e ai continui imprevisti della guerra aveva
bisogno
sier Zuam Paulo in quei momenti, non incontrando alcuna
affinità né tra i
condottieri dalla precaria lealtà né nel
podestà sier Andrea Donado, abile come
amministratore ma pessimo nelle questioni militari.
“Sospetto”,
proseguì Lunardo,
distogliendo Gradenigo dai suoi pensieri, “che il ritardo
delle nostre spie sia
dovuto ad uno spostamento del nemico …”
“Hanno
appena montato
l’accampamento a Torre di Maserada, perché
cambiare così improvvisamente?”
“Lo
scontro contro gli stradioti
dei capitani Andrea Pera – a chi Dio perdoni – e
Thodaro Rali li avrà
instillato il dubbio circa la nostra conoscenza della loro esatta
ubicazione,
al punto da persuaderli a cercare un luogo a noi ignoto e lì
riorganizzarsi.”
“Una
bella gatta da pelare per
noialtri”, constatò pensoso sier Zuam Paulo,
disegnando sul tavolo con la punta
del coltello dei ghirigori concentrici.
“Dobbiamo
pazientare”, s’arrese
Zustignan all’evidenza. “Anche se minaccia
battaglia, La Peliza si muove
comunque troppo lentamente per impedire una fuga di notizie e, in tutta
questa
confusione, è possibile che qualcosa trapeli o che qualcuno
…”
Un
deciso battito alla porta li
interruppe.
“An,
mojer, non v’aspettavo!”,
s’alzò in piedi il provveditore, tosto imitato da
Lunardo, che s’inchinò,
esclamando: “S-ciavo, patrona.”
Madona
Maria Malipiero Gradenigo
entrò in un vivace sgonnellare nella stanza, avanzando
dritta verso il marito,
il quale le afferrò le mani offerte, baciandogliele
lievemente. “Vi credevo
all’Ospedale”, dichiarò, aggrottando
preoccupato la fronte. “E’ successo lì
qualcosa? Vi hanno insolentita?”
“Sì
e no”, rispose ambigua la
donna, deliziandosi un pochettino del tormento del consorte.
“Nell’anticamera
v’attende Fra’ Mauro, frate canonico regolare alla
Madona Granda e infermiere:
vi supplica, in tutta cortesia, urgente udienza.”
Sier
Zuam Paulo cambiò peso da
una gamba all’altra, figurandosi in anticipo la petizione del
monaco,
arricchita da lamentele circa la penuria di medici e cerusici e
l’arruolamento
forzato di novizi e oblati, che li aveva privati d’utili
braccia.
O - Dio gliela scampasse
– il canonico forse era venuto a
denunciare l’ennesimo tentativo di Renzo di Ceri
d’abbattere la cappella di
Santa Maria Maggiore.
“Sta
bene”, sospirò
svogliatamente l’uomo, “vedrò come posso
accomodarlo.”
“Ora
però sono io che vi
supplico, sior marido, d’esercitare la vostra pazienza e
clemenza sia nei suoi
confronti sia dei suoi, per così dire, complici. Hanno agito
spinti da mera
carità cristiana, senza malizia alcuna né
tornaconto personale; meritano
pertanto la vostra comprensione e perdono, se necessario.”
“C’intrigate,
madona Maria”,
colmò Lunardo la momentanea incapacità di sier
Zuam Paulo di replicare dinanzi
a tal criptico discorso, seguitando infatti a fissarla perplesso.
“Avete
scoperto una piccola congiura?”
“A
fin di bene”, reiterò la
patrizia, la sua mano posata delicatamente sul braccio del marito,
quasi a
calmarlo preventivamente. “Fra’ Mauro si
è preso cura di un fuggitivo, arrivato
qui a Trevixo stamattina, poco prima dell’alba
…”
“Cosa?!”,
sbottò appunto
Gradenigo, livido in volto e subito sul piede di guerra.
“Hanno osato aprire il
portello di notte?! Chi è stato il folle e a quale
porta?”
“Forse
… forse è avvenuto quando
l’ultimo corriere è partito alla volta di Veniexia
…”, tentò Zustignan di
giustificare quel comportamento assurdo, in piena disobbedienza del
chiarissimo
regolamento.
Madona
Maria li chetò ambedue
tramite un deciso svolazzo della mano. “Avrete tempo e modo
d’esigere
spiegazioni, adesso vi limiterete per favore ad ascoltarmi
perché vi confesso
ch’io per prima sono basita dinanzi a quest’evento.
L’unica mia certezza è che,
per suo merito o per intercessione di questa Nostra Donna di Trevixo,
sier
Hironimo Miani è riuscito a scappare
dall’accampamento nemico e ora si trova
all’Ospedale e …”
E
suo marito e Lunardo non le
permisero di concludere il discorso, dimentichi della colazione ormai
abbandonata sul tavolo. Il provveditore, silente e sbigottito quanto il
concittadino, s’affrettò a pigliare sottobraccio
la nobildonna e i tre si
diressero quasi correndo nell’anticamera, pronti
all’interrogatorio prima del
frate e delle sentinelle e poi dello stesso Miani.
Chissà
che non fosse
l’ex-castellano di Quero la tanto sospirata “fuga
di notizie” di cui tanto
disperatamente necessitavano per la salvezza di Treviso, dei suoi
abitanti e
della Signoria.
***
“Oh,
xé la Zuaneta!”
“S-ciavo,
Zuaneta!”
“Zò,
splendore, ‘ndove corestu
cussì de pressa?”
La
ragazzina interruppe la corsa,
riprendendo fiato e sistemandosi una ciocca umida dietro
l’orecchio, sfuggitale
dalla crocchia. Si lisciò il grembiule, nettandolo da
dell’invisibile polvere e
raggiunse il gruppetto di fanti all’entrata del Castello, tra
la caserma e la
chiesetta di San Marco dei Bombardieri.
Memore
della terribile esperienza
sul Montello, Zuaneta di solito s’aggirava guardinga tra i
soldati,
considerandoli tutti imprevedibili e violenti alla stregua
d’animali selvatici,
indipendentemente dal gonfalone che servivano. Coloro che
l’avevano salutata,
al contrario, non la intimorivano un po’ perché o
avevano o le ganze o le mogli
appresso a garanzia e un po’ perché appartenevano
alla compagnia di sier Marco
Miani, il suo salvatore, i quali a loro modo l’avevano un
poco adottata,
comportandosi piuttosto protettivamente nei suoi confronti.
“Mi
voria parlar col magnifico
sier Marco Miani, de grassia”, dichiarò
forbitamente concisa la giovinetta, le
braccia dietro la schiena e il capo reclinato vezzosamente su di un
lato.
“Gh’ho un’imbasata di la soa clarissima
siora mojer …”, abbassò la voce,
ponendo la mano a cuneo agli angoli della bocca in modo che nessun
altro
ascoltasse la loro conversazione.
I
cinque fanti sghignazzarono
maliziosi. “Ahi, ahi … cossa ghalelo
combinà el missier, qua, per meritarse ambasador
et imbasada?”, commentò Cabriel, strizzando
l’occhio ed elargendo al
commilitone una giocosa gomitata. “Demo, su”, le
fece cenno di seguirlo dentro
in caserma, intanto che gli altri, rimasti alle loro postazioni,
confabulavano
peggio delle comari sulla natura del misterioso messaggio di madona
Helena al
marito.
La
peculiare coppia s’imbatté in
sier Marco proprio mentre quest’ultimo stava uscendo dai suoi
alloggi, appena
cambiatosi per il suo turno di ronda. Cabriel attirò
l’attenzione del
superiore, fermandolo e traendolo in disparte, acciocché non
intralciassero il
viavai degli altri militi lungo il corridoio. “Zelenza
colendissima, ea
tosatela qua gh’ha da comunicharve qualcossa. Xéa
vuostra siora mojer chea
manda.”
Il
Miani spostò circospetto lo sguardo
su Zuaneta, la quale avvertì un familiare calore alle
guance, avvampando
pudicamente lusingata da quell’attenzione.
“Donca?”, le domandò cortese,
intanto che infilava i guanti di cuoio. “Cos’ha la
mia siora mojer da
riferirmi?” e manteneva un tono neutro, cosicché
non tradisse alcun’ansia, non
attendendosi infatti un messaggio da parte di Helena a
quell’ora sì temprana e
già la sua mente formulava lugubri scenari circa il suo
contenuto.
“Patron”,
soffiò eccitata la
giovinetta, intrecciando le dita e saltellando quasi da un piede
all’altro, “la
vuostra siora mojer a me gh’ha comandà de dirve,
ch’el sior vuostro fradelo xé
fuzito da le man de’ inimici!”, gli
annunciò tutto d’un fiato e sorrise
complice, sperando di rallegrare il patrizio veneziano, la cui
espressione
invece si tramutò in pietra, irrigidendosi da capo a piedi
in un battibaleno.
Marco
strabuzzò gli occhi,
deglutì di traverso e arretrò d’un
passo, scuotendo la testa come per
riordinare i pensieri d’un tratto impazziti peggio
d’un vespaio. La lingua gli
s’attaccò al palato, sicché solo mezzi
versi e parole sconnesse uscirono dalla
sua bocca, mentre il suo cervello ripeteva ostinato e
all’infinito quella
semplice parolina. Fuzito. Suo
fratello, il suo Momolo,
costretto alla prigionia, separati da un esercito e da un mercenario
senza
scrupoli, il suo fratellino della cui sorte poteva solo immaginare e
per la cui
liberazione aveva incessantemente sofferto e pregato, ecco, era
scappato.
Fuggito, evaso dalla sorveglianza del nemico, scavalcando quel triste
ostacolo
che gli impediva di ricongiungersi, di figurarsi assieme.
Fuggito,
fuggito, fuggito.
Aveva
tanto sperato in
quell’evento, da non capacitarsi ora della sua
concretizzazione. Momolo era
libero. Libero. Gli era stato restituito. Gli pareva assurdo, una
beffa. Troppo
bello per essere vero.
“Non
ti stai burlando di me?”, si
sforzò l’uomo di rimanere calmo, ricordandosi che
la ragazzina gli veniva
incontro soltanto in veste d’ambasciatore e infierire su di
lei non serviva a
niente. “Mio fradelo …?”,
sbiascicò, mordendosi a sangue le labbra, il petto
stretto in una morsa dolorosa, neanche temesse che Hironimo si sarebbe
volatilizzato, se avesse pronunciato ad alta voce quelle parole.
“Patron,
ch’el liom di Missier
Sen Marcho me squarti a morseghi, se ve conto el falso!”, si
pose una mano sul
cuore Zuaneta, levando contemporaneamente l’indice e il medio
in alto. “Vuostro
fradelo stà horra a l’Hospeal, lo gh’ho
visto mi co sti ocij!”, gli raccontò
celere e il suo visetto si deformò in una triste maschera.
“Poareto, se savesse
chome lo gh’han maltrattà! Xélo
cussì secho-secho, pì dil fiol di la
miseria!”
Marco
cacciò fuori un secondo,
profondo sospiro, sforzandosi di respirare normalmente. Gli sorse
perfino un
piccolo riflusso acido in gola. “Devo … devo
informare sier Alvixe che … non
posso assentarmi senza … Torna da Helena e dille
… dille che la raggiungerò
appena potrò … non ci impiegherò molto
tempo …”, fu il suo distratto congedo
dalla ragazzina, la quale scoccò un’occhiata
perplessa a Cabriel, che replicò
tramite una scrollata di spalle.
Dal
canto suo, il Miani si
diresse nella direzione opposta, alla ricerca di sier Alvixe da Canal,
onde
persuaderlo a coprirlo per qualche ora, giusto il tempo di recarsi
all’Ospedale
e lì verificare con mano della veridicità della
notizia. Un po’ per la sua
innata santommaseria; un po’ perché fremeva dalla
voglia di stringere al petto
il suo fratellino finalmente salvo; un po’ per valutare gli
interessi da far
pagare a quel maledetto di Mercuria Bua …
“Ciò!
Ciò! Vacci piano col
mangiare! Il tuo stomaco non è abituato!”
Cacciandosi
in bocca un’intera
fetta di soppressa, previamente arrotolata ad arte, Hironimo
dissentì dal cauto
approccio di Fra’ Anselmo, che sottolineava i suoi consigli
tentando di
sottrarre qualsiasi alimento nel raggio d’azione
dell’affamatissimo giovane.
Tutto
era incominciato quando
Helena, chiedendo un’altra porzione alla conversa,
s’era sentita rispondere: “Ma
siora madona, quello era il pranzo!” e
soltanto allora la greca s’era
accorta della piccola pila di piatti appoggiata per terra, accanto al
letto. “Cosa faccio?
S’è mangiato due porzioni di stufato,
un’intera
pagnotta, una grossa fetta di formaggio, tre uova sode, mezzo pollo
… gli servo
l’altra metà? Gli preparo un brodetto di pan
fritto e uovo?”
“Basta
che te me s-ciopi!”
(esplodi, ndr.), si contese il benedettino la ciotola della zuppa ad
Hironimo,
il quale premeva una mano al petto dell’uomo e lo allontanava
da sé, intanto
che, voltato dalla parte opposta, ingollava a grosse sorsate il
delizioso
brodo. Sarebbe stato più facile strappare una bistecca ad
una tigre. “Nessuno
ti toglie né il pranzo né la cena, non
c’è bisogno d’ingozzarsi!”
“Hieronymos,
Fra’ Anselmo ha
ragione: potresti soffrire più tardi
d’indigestione …”, mediò
Helena tra i due
avversari. “Per favore, sii ragionevole!”
“Ho
fame!”
“Aspetta
magari l’ora di pranzo,
ti serviranno tutto il cibo che vorrai.”
“Ho
fame adesso!”
Thomà
convenne partecipe
all’impellenti necessità del patrizio,
approfittando dell’alterco a tre per pelarsi
indisturbato un uovo sodo.
L’intera
mattinata per fortuna
era stata spesa in modo più proficuo, avendo avuto la
conversa l’accortezza di
servire ad Hironimo la colazione solamente dopo il bagno e
l’incontro col
barbiere. Infatti, una volta addentato il primo boccone, non
c’era più stato
verso di farlo smettere di mangiare, buttandosi egli a pesce su ogni
portata.
Fra’
Anselmo e Thomà l’avevano
aiutato ad entrare nella tinozza, in quanto zoppicante per via delle
piaghe
aperte sotto le piote. Il fantolino, armato di spugna e sapone,
s’era
arrotolato le maniche e gli aveva sfregato la schiena con tutta la
forza delle
sue braccine, mentre il Miani provvedeva al resto, di tanto in tanto
interrotto
da qualche proditoria secchiata versatagli in testa da uno
sghignazzante
benedettino, rendendo il bagno tutto fuorché rilassante. Del
resto Hironimo per
primo s’era adoprato alacremente a levarsi di dosso
quell’insopportabile
sudiciume, grattando via croste, pelle morta e altre schifezze
appiccicatesigli, impaziente di contemplare infine il vero colore della
sua
pelle. Ad operazione terminata, l’acqua si presentava
talmente sporca, d’aver
assunto una tinta grigio-verdastra, manco l’avessero attinta
da una
palude.
Dopodiché,
il monaco benedettino
gli aveva disinfettato le ferite e bendato i piedi, le caviglie, i
polsi e
parte del busto, aspettando la rasatura della barba prima di fasciare
il collo,
che comunque presentava escoriazioni meno profonde. Indossare gli abiti
di
Marco Contarini aveva poi sortito un insolito effetto nel patrizio, il
quale
continuava a scorrere deliziato le dita sulle maniche dello zipone e
sulle
braghe, assaporando il tepore e la morbidezza degli indumenti contro la
sua
pelle dopo un mese di forzata nudità, perennemente
martoriata dal freddo e
dagli insetti. Soltanto i piedi aveva per il momento lasciato scalzi,
ragionando Helena e Fra’ Anselmo se fosse il caso di dargli
delle pianelle
piuttosto che delle vere e proprie scarpe, almeno fintanto che le
piaghe non si
fossero asciugate.
Non
che Hironimo dovesse recarsi
chissà dove, semmai era il mondo che veniva da lui, come il
barbiere, il quale
lo liberò sia dalla fitta barba irsuta sia dai fastidiosi
pidocchi a furia di
riempirlo di cenere di legna, questo però a scapito della
sua capigliatura. Il
giovane Miani aveva trattenuto fin allo stremo il doloroso fastidio ai
tentativi del barbiere di districare i nodi ai capelli, alcuni di essi
talmente
duri e compatti, da sembrare dei ciuffi di lana. Sicché,
scuotendo la testa,
l’uomo aveva sbrigativamente pigliato le forbici e ad
Hironimo s’era stretto il
cuore nell’assistere, una ad una, le sue ciocche scure
cascargli ora in grembo
ora ai piedi, accomiatandosi da coloro ch’erano state un suo
motivo di vanto.
“Mo’
via, patron! Vi ha
tagliato fino a quattro dita dall’orecchio! Sempre meglio di
me, che sembro
aver in testa le chiappe d’un pulcino!”
“Ecco, ed io faccio il
nido!”
In
tutta onestà? Malgrado i
disagi delle ferite, della nuova acconciatura, dei crampi della fame e
delle
liti con Fra’ Anselmo, Hironimo scoppiava di
felicità, beandosi della gioia di
trovarsi circondato da persone che gli volevano bene e che lui
ricambiava
altrettanto appassionatamente. Non ricordava l’ultima volta,
in cui aveva
provato tanta pura e spensierata allegria, sentendosi leggero e in pace
con se
stesso. Svanita la sottile e ben radicata collera, la cupezza
dell’invidia e
del risentimento, ingoiati dalla luce di una nuova serenità
interiore. I rami
pieni di spine del suo cuore s’erano seccati, lasciandolo
respirare e ritornare
alla sua iniziale morbidezza. Da un lato non trovava in sé
alcuna differenza da
prima; ciononostante, il giovane Miani era sicuro che qualcosa invece
fosse
cambiato, ma non in maniera eclatante, bensì discreta,
sottovoce ma persistente
…
“Hé-oh!
Posa quel coltello, razza
di brigante! Non incominciare, ciò!”, sottrasse
Fra’ Anselmo a Thomà la posata
indispensabile per tagliarsi la soppressa, ponendola in alto
cosicché il
fantolino ebbe il suo daffare a saltare in alto onde afferrarla.
Hironimo
ed Helena, davanti a
quel giocondo quadretto, se la risero a crepapelle, specie quando il
bambino
cambiò tattica, optando per l’arrampicata diretta
sul saio del frate.
Quand’ecco,
che la greca scattò
in piedi, correndo verso la porta. “Markos!”,
esclamò felice, stringendosi al
braccio del marito, i cui occhi fissavano indecifrabili il fratello.
“Hai visto
chi è arrivato? È riuscito a fuggire, a menare
quel tartaro del Buas per il
naso! Non è meraviglioso?”
Realizzando
l’identità del nuovo
arrivato, il sorriso svanì in un colpo dal viso
d’Hironimo, rimpiazzato dal
pallore della vergogna; d’istinto abbassò in
fretta lo sguardo, concentrandolo
sulle mani fasciate e artiglianti la stoffa delle braghe nel vano
tentativo di
zittire l’eco dell’ultimo suo diverbio col
maggiore. Inconsapevolmente, Thomà
gli coprì il dorso della mano con la sua più
piccina, quasi indovinasse il suo
malessere e volesse perciò consolarlo.
Le
orecchie d’Hironimo
riascoltavano nitidamente ogni crudeltà da lui vomitata
contro Marco e gli
altri suoi fratelli, così come l’occhio della sua
mente assisteva di nuovo
all’indecorosa scena, stupendosi ancora della sua stolta
puerilità. Il ricordo
del volto furioso e deluso di Marco, se all’epoca gli aveva
provocato un
leggero rimorso, adesso lo schiacciava, sopraffatto dal senso di colpa.
Madre
gli aveva suggerito di rinfoderare per una volta la spada
dell’orgoglio e
d’abbracciare il mite spirito di riconciliazione; ovviamente
Hironimo non aveva
seguito il suo consiglio, considerandosi nel giusto quando al contrario
era ben
conscio dei suoi sbagli e per questo aveva promesso di riappacificarsi
con
Marco, in caso di successo della sua fuga.
Perché
allora se ne rimaneva lì
seduto, imbambolato e muto?
Il
problema era l’imbarazzo -
unito al senso d’inadeguatezza e all’ansia di un
eventuale rifiuto - che gli
impediva di parlare e di conseguenza di compiere il primo passo. Marco
lo
avrebbe mai perdonato?, si tormentava interiormente Hironimo. Gli
avrebbe
concesso una seconda opportunità? Oppure era ancora
arrabbiato con lui? E se lo
avesse biasimato per il suo fallimento a Castelnuovo di Quero? E se
fosse
giunto fin lì all’Ospedale giusto per comunicargli
la sua delusione? O come lo
disconoscesse? O per deriderlo? O …
Tanto
aveva desiderato
riabbracciare il fratello, quanto adesso si vergognava anche solo di
guardarlo
negli occhi. L’amaro calice doveva esser bevuto fino in
fondo, però. Qualsiasi
fosse stato il risultato finale – se di perdono o di condanna
– Hironimo doveva
affrontarlo a testa alta, pur abbassandosi in umile supplica e
accettare il
verdetto. Defilarsi dall’inevitabile confronto gli avrebbe
guadagnato soltanto
ulteriori critiche, potenziate dall’accusa di
viltà.
E così sia. Hironimo si pose con
difficoltà in piedi, strascicando
qualche instabile passo verso Marco. Anche in quel frangente il suo
orgoglio si
rifiutava d’abbandonarlo del tutto: pur rassegnandosi
all’imminente sua
aspersione di ceneri sul capo, ugualmente il giovane Miani voleva
serbare una
parvenza di dignità e non dar spettacolo. Che suo fratello
si sfogasse pure su
di lui, purché in privato, lontano da occhi e orecchie
indiscrete, non
giudicandosi Hironimo ancora pronto d’affrontare anche le
altrui sentenze,
oltre a quelle del parente.
E
per quel legame speciale, che
li aveva uniti sin da piccini, Marco dovette intuire la
volontà del minore,
giacché si voltò verso la moglie per congedarsi
momentaneamente da lei,
rassicurandola quando Helena, temendo in uno scontro tra i due,
protestò con lo
sguardo contro quella decisione.
I
due uomini uscirono così dallo
stanzone ed Hironimo, appoggiandosi alla parete mentre scendeva le
scale
lentamente, costrinse a prolungare il teso silenzio, spingendosi fino
all’uscita interna. Avvertiva benissimo il peso dello sguardo
insistente del
maggiore sulla sua schiena, rimasto infatti Marco leggermente indietro,
la
testa reclinata appena sul lato, la medesima movenza di Madre quando
scrutava i
figli alla ricerca di che cosa li turbasse o quale menzogna le stessero
rifilando.
Suo fratello stringeva la bocca in una linea sottile, le nari
appena-appena
dilatate e il cuoio dei guanti sfrigolante a causa della ferrea presa
del pugno
stretto. Hironimo riconosceva alla perfezione i segni di
quell’apparente calma,
la quale preannunciava invece una montante collera gelida e su questo
avevano
sempre differito, essendo l’ultimogenito di Ca’
Miani vulcanico nell’ira,
rumoroso e violento e privo di senno, contro l’opposta
reazione di Marco,
silenziosa, di ghiaccio e che non colpiva mai a caso, semmai laddove
egli
sapeva dolere di più alla sua vittima. E se Hironimo dopo
l’esplosione si
calmava e voltava tranquillamente pagina, Marco no,
v’impiegava maggior tempo a
perdonare senza però mai dimenticare. Se Hironimo era rapido
nella vendetta, il
tempo per Marco non significava nulla, se ciò gli avesse
permesso di far
soffrire doppiamente chi l’aveva contrariato.
Perciò,
in quel momento, Hironimo
avrebbe preferito che il fratello pronunciasse almeno una parola, che
lasciasse
trapelare una piccola spirale d’emozione, perfino di stizza.
Pur avvezzo al suo
carattere, il giovane patrizio non sapeva come intavolare il discorso,
procedendo alla stregua d’un condannato a morte e,
ironicamente, quando
giunsero nel cortile interno dell’Ospedale egli
udì l’eco di una campana,
sicché anche il suo Malefizio era per lui suonato. [2]
Tanto
Hironimo si stava auto
flagellando in recriminazioni, da sbagliare l’interpretazione
dell’umore di suo
fratello: Marco ribolliva sì di rabbia a viva forza
repressa, tuttavia non era
il minore l’oggetto verso cui desiderava riversarla. La sua
fronte aggrottata,
i denti digrignanti dietro la bocca serrata e i guanti strizzati dalle
dita non
erano destinati a nessun altro se non a Mercurio Bua, lamentando di non
averlo
potuto torturare di più, se proprio il destino aveva
decretato di sottrarglielo
come prigioniero.
Che
cosa gli aveva fatto quel
maledetto, da ridurlo così?, s’interrogava furente
e protettivo. Suo fratello,
quand’era partito a marzo per Castelnuovo di Quero, lo
ricordava bello, fiero,
nel pieno del vigore e sicuro di sé, orgogliosamente in
groppa al suo
ubbidientissimo Eòo, il perfetto esempio
dell’esuberante speranza della
gioventù. Nulla di quel ragazzo rimaneva, al punto che Marco
dubitava
dell’identità della persona davanti a
sé: quell’incedere circospetto, la testa
china, le spalle ricurve, quel suo evitare ogni contatto fisico quasi
Hironimo
avesse paura di lui … No, non quasi. Il Miani conosceva bene
ogni movenza del
minore, quando questi provava timore verso qualcosa o qualcuno.
Perché era
spaventato? Non aveva nulla da temere da lui. Il litigio? Orrido,
certo, ma
ormai apparteneva al passato e dopo aver sperimentato
l’angosciosa prospettiva
di perdere per sempre il suo fratellino, esso gli appariva assai
futile,
indegno d’essere rivangato. Voleva soltanto abbracciare il
suo Momolo,
stringerlo al petto e scusarsi di non aver potuto né
proteggerlo né aiutarlo.
Finalmente
Hironimo individuò un
angolino tranquillo dove discorrere, interrompendo quella loro
deprimente
marcia. S’appoggiò ad un muro, gli occhi puntati
sulle pianelle da cui
spuntavano le fasciature. Marco si morse l’interno della
guancia alla vista
delle macchioline rosse comparirvi, così come
l’intero aspetto del fratello lo
straziava quanto un pugnale conficcato e roteato tra le viscere.
Pallido,
pallido, malsanamente pallido tanto da risaltare le profonde occhiaie e
le
ecchimosi sparse sul viso, una bella tavolozza di blu e giallognolo che
s’accompagnava alla macabra striscia rossa sul collo,
là dove lo aveva stretto
il collare e che il monaco infermiere non aveva ancora avuto tempo di
fasciargli. I capelli più corti e arruffati, spenti, i
vestiti decisamente più
larghi, a Marco suo fratello appariva così giovane e
indifeso, come il giorno
del funerale di Padre. Sconfitto, annientato, un guscio vuoto.
Il
Miani avanzò d’un passo verso
il minore, un braccio teso in avanti onde accarezzarlo o scuoterlo dal
suo
guscio protettivo, quand’ecco che Hironimo sollevò
inaspettatamente il capo,
alzò il mento e nelle sue iridi nerissime
fiammeggiò un ché di preternaturale,
ma al contempo di limpido e sereno che da molti anni egli non
contemplava nel
fratellino.
Indietreggiò
inconsciamente,
interdetto.
“Menego,
Trovaxo, Vico e Nadalin
sono morti”, esordì infine Hironimo, sostenendo lo
sguardo del maggiore che lo
fissava stranito, non comprendendo il motivo dietro
quell’incipit: perché non
raccontava della sua prigionia e della sua fuga, o semplicemente non
manifestava la sua gioia per la ritrovata libertà?
“Mi sono rimasti accanto
fino alla fine, non hanno ceduto d’un sol passo al nemico ed
io … ed io non ho
potuto neanche offrire loro una sepoltura cristiana, permettendo che
venissero
gettati nella Piave alla stregua di spazzatura …”,
continuò il patrizio,
grattandosi inconsciamente i polsi fasciati. “Non ho niente
da restituire
all’Orsolina su cui piangere … Niente a Zanetta
… niente ad Eudokia … Io glieli
ho strappati via per sacrificarli alle mie ambizioni, esponendoli al
nemico …
Ho giocato con le vite dei loro figli … Capisci? Ero
già il loro padrone, già
m’appartenevano i loro servigi e così …
anche delle loro vite ho potuto
disporre. Tanta devozione verso la nostra famiglia, ripagata versando
il sangue
della loro, mentre il mio … il mio continua a scorrere,
malgrado sia colpa mia,
mia, mia! …”, si batté forte tre volte
sul petto. “Potevo scegliere chiunque
altro, ma ho voluto loro perché non mi fidavo dei locali e
come biasimarli? Non
ho fatto nulla per meritarmi il loro affetto e la loro stima
… Li consideravo alla
stregua di strumenti utili ai miei obiettivi e non
m’importava un
fico secco di loro; allo stesso modo ho trattato Menego, i suoi figli e
Nadalin. Li ho dati per scontati. Sono stato cieco e imprudente, avrei
dovuto
congedarli acciocché rientrassero a Veniexia, una volta
terminata la torre. Non
erano soldati! Non dovevano morire così! Non …
non dovevano finire gettati in
acqua! Non ho mai … non mi sono mai fermato a pensare che
… Sono morti per la
mia negligenza e incapacità. Ed io ancora vivo.”
Marco
aprì la bocca, tentò in
svariate occasioni d’interrompere il cupo monologo del
fratello, finendo sempre
per tacere poiché neanche lui sapeva come replicare a quel
severo esame di
coscienza. “Sono sicuro che Menego, i suoi figli e suo nipote
non abbiano mai
nutrito alcun dubbio sulla bontà della loro
scelta”, provò a
contro-argomentare. “Erano uomini dabbene, leali, ti
avrebbero difeso fino alla
morte. A questo scopo ti avevano seguito a Castel Novo.”
“Mi
erano fedeli per amore di
Padre”, negò schietto Hironimo. “Io non
mi sono mai meritato la loro lealtà.”
“Così
fai torto al loro
sacrificio”, s’intestardì Marco.
“E
perché avrebbero dovuto
rinunciare alle loro vite in favore della mia? Possiede forse la mia
vita più
valore delle loro? In che modo? Soltanto per via del mio rango di
patrizio?
Così si misura la sostanza di un individuo? Sul ceto? Quelli
in alto sempre che
se la cavano, sempre scusati per ogni loro porcheria e quelli in basso
al
contrario schiacciati, uccisi, umiliati peggio degli animali? Menego e
i suoi
erano uomini degni di ogni rispetto, eppure non ne hanno ricevuto,
perché?!”
“Sono
morti sapendo quale fosse
il loro posto al mondo: di proteggere te e la Signoria Nostra! Hanno
vissuto
con onore e con altrettanto sono morti. Non c’è
nulla di riprovevole in quanto
successo! È stata la mano dei nemici ad averli uccisi, non
la tua!”
“Allora
il mondo gira in un buffo
verso, senza giustizia e senza pietà, se risparmia i vili e
uccide i valorosi
…”, ridacchiò amaro Hironimo, per poi
abbandonarsi ad un piccolo singulto.
“Vile?!
Benedetta Trinità, in che
modo sei stato vile? Vigliacco è stato il castellano di
Covolo di Butistone,
che pur avendo mezzi per resistere s’è arreso!
Vigliacco è stato il Batagin
Bataja che neppure ha sfoderato la spada per combattere, preferendo
fare
dietro-front e rifugiarsi sui monti! Vigliacco
è stato quel cane di
Antonio Savorgnan, che pur di salvarsi la pelle
s’è venduto al nemico! Tu, al
contrario, sei rimasto! Potevi anche tu arrenderti, scappare o cambiar
bandiera: niente di tutto ciò hai fatto, non ti sei
schiodato dalla tua
fortezza e hai virilmente affrontato la sorte. Potrei elencare molti
tuoi vizi,
ma la codardia non è certo uno di questi!”
“Perché
dunque siete arrabbiato
con me?”
Il
Miani più anziano emise un
ringhio frustrato. “E ti sorprendi? Da marzo che non ricevuto
tue notizie,
tutto ciò che ti accadeva lo apprendevo da Madre e Lucha!
Poi, perdi Castel
Novo e per un mese non sapevo neppure se tu fossi vivo o morto! E ora
che sei
riuscito - Dio solo sa come - a fuggire, mi vieni qui, mi imbastisci
questo …
sermone sulla vanità del mondo e mi domandi se sono
arrabbiato?! Per chi mi hai
preso?!”, berciò, schiaffeggiandosi subito
mentalmente: no! no! non voleva dire
questo! Idiota! Non voleva sfogare quei giorni di pena e ansia su suo
fratello,
non voleva finire di litigare come l’ultima volta! Il
trentenne patrizio scosse
il capo, appellandosi in tutti i modi stupido e attendendo la sfuriata
del
minore, il quale questa certamente non gliel’avrebbe
perdonata. E come dargli
torto? Aveva passato le pene dell’inferno, ovvio che si
presentasse così scosso
e d’umore pessimista! E al posto di trovare comprensione,
ecco che il suo
maggiore lo aggrediva e lo rimproverava alla stregua d’uno
scolaretto.
“Capisco”,
mormorò invece
Hironimo, tranquillissimo. “Capisco …”,
ripeté, sebbene il labbro inferiore
avesse preso a tremargli, scivolando lungo il muro quasi volesse
rimpicciolirsi
e sparire in esso.
Marco
scosse il capo in diniego,
si passò snervato una mano sulla fronte. “Ascolta,
ascolta”, afferrò il
fratello per le braccia, guaendo intimamente dinanzi al sobbalzo
dell’altro.
D’altronde, non era stato così il loro ultimo
diverbio? Con le mani addosso,
afferrando violentemente lo zupone del fratello? “Ascoltami:
è vero, sono
arrabbiato. Ma è soltanto perché
…” e si chetò bruscamente, notando
infine i
piccoli rii di lacrime che rigavano le gote smunte d’Hironimo.
“Ho
disonorato il nome della
nostra famiglia. Ho deluso la Signoria. Quanto costruito da Padre in
anni di
fatica, l’ho distrutto nel giro di neppure due giorni. Come
non puoi essere in
collera con me? Io sarei dovuto morire in quella fortezza, io gettato
nella
Piave! Avevi ragione: sareste stati meglio senza di me, ché
solo rogne v’ho
procurato, solo dispiaceri e vergogne! E ora dovrò comparire
a giustificarmi
davanti ai Cai di X e umiliare anche il nostro sior Barba! Sarei dovuto
morire
e sparire per sempre!”, si dolse acutamente Hironimo,
affidandosi alla
sincerità del suo pentimento, che lo soccorresse ponendogli
in bocca le parole
adeguate. “Quella volta vi ho insolentito, fradelo, merito il
vostro odio e
disprezzo. Voi e i vostri parenti avevate già messo a
repentaglio la vostra
vita per la salvezza dello Stato ed io ho onorato la vostra abnegazione
con la
calunnia, appellandovi codardi e meschini. La verità
… è che nutrivo una
fortissima invidia nei vostri confronti, perché avevate un
vostro ruolo a
questo mondo, un … uno scopo, una famiglia, dei figli
… ed io … io mi sentivo
un eterno minorenne, uno stupido incapace. Volevo dimostrarvi che
potevo
anch’io divenire qualcuno, volevo che foste tutti fieri di
me. Volevo che Padre
fosse fiero di me. Per anni mi sono considerato un fallimento, per
quanto mi
sforzassi ho procurato solo dispiaceri a Padre, a Madre e …
e non ho potuto
riconciliarmi con … dopo l’inchiostro lanciato al
priore di Santo Stefano … E’
morto senza che potessi domandargli scusa … Ho creduto
… ho creduto che fosse
una punizione divina per la mia cattiveria e pertanto ho odiato me
stesso,
dopodiché anche gli altri, soprattutto gli
altri che vivevano
felici e spensierati e ignari delle loro fortune e mi dicevo: Perché
loro sì ed io no? Li invidiavo e li
detestavo, considerandomi a loro
superiore e anche se nel processo per distinguermi ferivo le persone
accanto a
me e spezzavo cuori, ci passavo sopra perché tanto mi
ripetevo come ormai
peggio di così non potessi fare, io ero destinato a
sbagliare sempre ogni cosa
… Mi credevo all’apice della saggezza, quando al
contrario voi tentavate di
guidarmi … io facevo l’opposto credendo voleste
intralciarmi … Non
volevo mai ammettere le mie colpe, preferendo attaccarmi a qualsiasi
scusa,
anche la più fantasiosa e improbabile, per scaricare altrove
i miei sbagli.
Smaniavo d’essere capito ed io per primo mi rifiutavo di
prestare ascolto, denigrando
e scartando qualsiasi cosa accadesse al di là della mia
sfera …”
Hironimo
parlava ormai a ruota
libera, abbandonando ogni costruzione logica del suo discorso, neanche
più lui
sicuro dove volesse arrivare: aggiungeva, chiosava, riprendeva un
concetto
espresso poco prima, si sforzava, tra sospiri via via più
tremuli e pesanti, di
descrivere quel pus virulento che per quindici anni gli aveva
imputridito
l’animo. Ad un certo punto le gambe stanche gli cedettero e
si ritrovò in
ginocchio per terra, nascondendosi il viso tra le mani, sotto lo
sguardo vuoto
di Marco, il quale aveva preso a fissare impassibile le mattonelle del
muro
davanti a sé.
“…
Se volete punirmi per le mie
malefatte e fallimenti, se mi volete sottoporre al giudizio dei X, sono
qui. Però
sappiate, che nessun castigo inflittomi da voi o dalla Signoria
potrà mai
eguagliare la pena e il rimorso che porto nel cuore. Nutrivate per me
un
affetto disinteressato ed io vi ho ripagati vituperandovi e
aggredendovi. Io …
non sono degno d’essere chiamato vostro fratello …
Ma ammetto il mio egoismo,
sicché vi domando scusa per il male dettovi, fattovi e
pensato nei vostri
confronti e … Perdonatemi, fradelo. Perdonatemi. Vi supplico
d’accordarmi il
vostro perdono. Mi dispiace, mi dispiace dal più profondo
del cuore per la mia
stupidità, invidia, rancore, disobbedienza. Mi dispiace, mi
dispiace tantissimo
…” e man mano che lo ripeteva, Hironimo
avvertì una dolce sensazione di
sollievo, non dissimile al suo primo risveglio senza catene.
Ora
poteva affrontare serenamente
la decisione del fratello, qualsiasi essa fosse stata. Anche se
sbrodolando
talora maldestramente, la sua parte di promessa alla Madonna
l’aveva mantenuta
e quel benessere interiore, tipico di chi è in pace con la
propria coscienza,
risultò assai gradito al giovane Miani. Tirò su
col naso, s’asciugò le guance
bagnate col dorso della mano e attese.
“Alzati”,
soffiò Marco a seguito
d’un lungo silenzio, il capo reclinato all’indietro
e gli occhi puntati al
cielo plumbeo, manco stesse invocando dall’alto consiglio.
“Su, in piedi!”,
spronò con filino d’impazienza il minore, rimasto
immobile al suo posto e
sbattendo perplesso le ciglia.
Titubante,
Hironimo tuttavia
obbedì, meditando di che cosa quella richiesta fosse un
preludio. “M-Marco …?”,
s’azzardò, preoccupato dalla statuaria
fissità del fratello. “Io … mi
… mi
dispiace, non … non ho altro d’aggiungere, se
… se v’ho molestato me ne vado
…”
All’improvviso,
il giovane si
ritrovò in un battibaleno contro il corsaletto di Marco, la
sua mano destra
alla nuca e l’altra sulla schiena. E anticipando ogni sua
esclamazione e
neanche concedendogli il lusso d’elaborare quanto stesse
accadendo, suo
fratello gli baciò freneticamente le gote, gli occhi, la
fronte, le labbra, le
tempie, stringendolo forte come se volesse impedirgli di prendere il
volo, di
scomparire di nuovo. D’istinto Hironimo ricambiò
l’abbraccio, nascondendo il
viso nell’incavo della spalla dell’altro e
inumidendolo delle ultime lacrime,
intanto che veniva ninnato e accarezzato dappertutto sul busto, volendo
sincerarsi Marco d’averlo veramente tra le sue braccia, di
non vivere
un’illusione. Il più anziano inalò
profondamente il profumo del fratellino,
meravigliandosi dell’essenza di rose in esso, strusciando poi
la guancia contro
la sua, mentre Hironimo gli circondava il collo con le braccia,
aggrappandosi a
lui.
“Fradelo”,
si staccò Marco
dopo un po’ dal minore, incorniciandogli con le mani il viso
stanco e provato
dalla prigionia. “V’erano giorni in cui dubitavo di
udire da te questa parola.
E non negli ultimi cinque mesi, no, troppo il mio orgoglio da volerti
anche
solo sentirti nominare, bensì in questo mese,
che mi ha
aiutato a riconsiderare quanto accaduto tra di noi da una prospettiva
diversa.
Mi ha fatto capire che ho già seppellito una sorella,
perché dunque scannarsi
tra noi fratelli rimasti? Perché ostinarci in tali
stupidaggini, quando invece
dovremmo godere di ogni istante insieme? Anch’io ho le mie
colpe, anch’io sono
stato duro e ingiusto con te, gridandoti crudeltà che
nessuno dovrebbe mai
udire dal proprio sangue. Ti ho mentito quando m’auguravo la
tua morte. Ti ho
mentito quando dicevo che di te non importava a nessuno. Tutti ti
vogliamo
bene, a tutti importi. Ti sei guardato attorno? Hai visto come si sono
rallegrati della tua fuga? Se veramente stessi sul gozzo alla gente,
perché
allora ti hanno accolto così festanti? Possiedi la tua buona
dose di difetti,
sicuro, come ogni uomo che cammina sulla terra. Non sei un mostro, un
demonio,
sei soltanto un uomo di carne e sangue, fallibile, ma non per questo
indegno
d’affetto. Perché tu sei amato, sai? Tu sei amato.
Sei sempre
stato amato, anche quando ci esasperavi, perché sappiamo che
tu contraccambi il
nostro amore con altrettanta forza. Ammetto d’aver perduto in
più occasioni la pazienza
con te, d’averti rimproverato talora anche quando non te lo
meritavi. Mi rendo
conto d’averti persuaso d’essere inutile, non
ascoltando le tue opinioni anche
quando erano sensate, credendoti quell’eterno decenne che mi
supplicava al
funerale di Padre di rammentargli il suo volto. T’ho indotto
a credere che tu
mi fossi invisibile, una zavorra da sopportare. Niente di tutto
ciò: tu mi sei
carissimo. No. Io ti amo, fratello mio. Ti ho amato da quando hai
aperto gli
occhi e ti amerò finché chiuderò i
miei; ti amo per i tuoi pregi e per i tuoi
difetti; ti amo per chi sei e per come sei, incondizionatamente. Ti amo
alla
stregua d’un figlio [3], perché ti considero parte
della mia stessa carne. Sei
il mio nome sacro [4]. A me importa il mondo di te, non dimenticartelo
mai:
ovunque andrai, qualsiasi scelta farai, non dimenticarti che il mio
cuore è
sempre con te e che ti amo fino all’ultimo mio pensiero. Ti
perdono, ti
perdono, ti perdono, purché tu ti ricordi che
t’amo, t’amo, t’amo, fratellino
mio.”
E
dopo tale appassionata arringa,
nella speranza che in quell’amatissima testaccia dura
entrasse ben bene il
concetto, Marco si concesse il piccolo sfizio di posare veloce un casto
bacio
sulla fronte del fratello. Ogni parola l’aveva pronunciata
sul serio, non per
piaggeria o per consolarlo al momento, dandogli un contentino. Mica si
tirava
indietro a cantargliele, se l’occasione lo richiedeva!
Hironimo non gli
appariva affatto orribile nelle sue colpe, nulla per la quale
condannarlo ad
una misera morte o per ostracizzarlo dalla famiglia; al contrario lo
amava di
più perché nonostante tutto dietro le sue
cattiverie ancora resisteva la
volontà sua di fare del bene. Un cuore generoso e sensibile
seppellito e
prigioniero da troppo tempo nell’oscurità della
disperazione, ch’è il peccato
più grande perché toglie fiducia nel prossimo,
nella vita, in Dio. Marco si
ripromise mille volte di far tesoro dell’esperienza vissuta,
d’estirpare ogni
futile tossicità dal loro legame: troppo breve e precaria la
vita per
avvelenarla di tali sciocchezze!
Hironimo,
dal canto suo, non
riuscì a trattenere un pudico sorrisino di compiacimento.
Né un adorabile
rossore. Era come se si stesse convincendo che forse sì, non
era esattamente
una creatura da disprezzare. L’opinione di suo fratello, dopo
quella di Madre,
valeva per lui il mondo e il suo rifiuto l’avrebbe spezzato
in via definitiva.
Amava ogni suo parente, però Marco era stato
l’unico veramente accanto nei suoi
periodi più bui, l’unico che si fosse mai fermato
ad ascoltarlo sul serio, a
cercare, pur fallendo, di capire tutto il malessere urlato da Hironimo
dal
fondo del suo pozzo di livido rancore e sofferenza. L’unico,
sin da quanto
erano bambini, che si fermava e si voltava per guardare indietro, onde
assicurarsi che fosse lì e che lo stesse seguendo, per
tendergli la mano
incoraggiante.
Come
gliel’aveva tesa quella
bellissima dama, aspettandolo sorridente e fiduciosa fuori il
padiglione del
condottiero … La sua pelle fresca e leggera come
l’acqua di fontana eppure la
stretta forte e sicura da condottiero, che gli impediva
d’inciampare e di
cadere, guidandolo nelle tenebre antecedenti l’alba
… quella compagna
silenziosa che però attraverso quegli occhi ricolmi di luce
gli dicevano tutto
ciò di cui necessitava: tu sei amato.
“Momolo?”
L’ultimogenito
Miani sbatté le
palpebre, stropicciandosele imbarazzato. “Scusate
…”
“Scusami,
ancora non sono
Missier il Doxe. Poi dopo, sì, mi darai del voi e
pure ti
toglierai il cappello, ogniqualvolta c’incontriamo per casa,
per strada e per
andare alla latrina!”
Il
venticinquenne patrizio
sputacchiò una risata, coinvolgendo il fratello, che
contraccambiò di pancia,
finché altro tipo di lacrime non spuntarono agli angoli dei
loro occhi.
“Scusami”, si corresse Hironimo, il petto
sconquassato dagli ultimi risolini.
“Mi sono incantato per un istante …”
Marco
aggrottò la fronte,
preoccupato. “L’ho notato”,
asserì cauto. “Sei forse stanco? Ti riporto a
letto. Anche perché” e la sua espressione
ritornò furbetta, mentre indicava in
direzione di una delle tante finestre affacciate sul cortile,
“non vorrei che
il tuo giannizzero venisse di notte per il mio scalpo.”
“Il
mio giannizzero? Oh!”,
esclamò Hironimo, accorgendosi di Thomà che li
scrutava attentamente dalla
finestra, spinto probabilmente dal desiderio di controllare che il suo
padrone
non venisse eccessivamente strapazzato. Un tenero sorriso si dipinse
sulle
labbra screpolate: levò in alto la mano e salutò
il fantolino, che si nascose
sotto la traversa inferiore del telaio fisso. Marco assistette alla
scena in
silenzio, studiando accorto i lineamenti dell’altro e
stupendosi di leggervi il
medesimo affetto riservato ai nipoti.
“Ti
vuole molto bene”, asserì il
trentenne patrizio, “poche volte ho assistito a tanta
devozione in un bambino
verso uno, che non sia un parente di sangue. Mi domando se per patron non
intenda pare.”
Hironimo
nicchiò, scostandosi una
ciocca dalla fronte. “Spero di riuscire a mantenerla e di non
deluderlo … E’ un
briccone, ma è il mio briccone … In un certo
qualmodo, mi ha salvato, aiutandomi
a capire molti aspetti del mondo che prima ignoravo
…” Quand’ecco che il
giovane cambiò tono e argomento, fissando serissimo il
fratello: “Non esageravo
prima. Dovrò affrontare la Signoria …
dovrò giustificare la perdita di Castel
Novo e …”
“…
ed io ti resterò accanto.
Affronteremo anche questa assieme, come facevamo da fanciulli. Sempre
uniti.
Non ti abbandonerò, neanche se il mondo intero dovesse
schierarsi contro di
te”, s’affrettò a rassicurarlo Marco e
lo prese sottobraccio, acciocché si
sostenesse a lui, essendo il suo passo ancora incerto.
“Sebbene non penso sia
il caso d’angustiarsi: se ti ricordi, i X non hanno
condannato Lucha e vedrai
che neanche tu verrai punito, perché non hai mai
dato voluntarie le
chiavi del castello.”
“Non
avrei ugualmente potuto”,
gli confidò imbarazzato Hironimo. “Nella
confusione della mischia, mi devono
essere cascate in acqua …”
I
due Miani si squadrarono per
qualche istante, per poi sganasciarsi in una grassa risata di pancia.
“Lo
dirò io ad Orsolina, ad
Eudokia e a Zanetta”, dichiarò di punto in bianco
Hironimo. “Forse già lo sanno
o lo hanno intuito, ma voglio raccontarle, faccia a faccia, quanto
eroicamente
siano morti i loro figli e di quanto io sia loro riconoscente per la
loro
fedeltà e abnegazione. In fin dei conti”,
contemplò pensoso le fasce ai polsi,
là dove fino al giorno prima lo feriva il
duro morso delle manette,
“io vivo grazie a loro sacrificio. E il mio modo di onorarlo,
sarà di vivere e
combattere questa guerra non soltanto per vincerla, ma soprattutto onde
evitare
che altre famiglie si spezzino e che altre madri piangano i propri
figli. Che
altre donne vengano vergognate come quelle poverette del Montello. Per
evitare
che aumenti il numero di altri Thomà, di bambini strappati
dalle braccia delle
madri, privati dei padri; bambini corrotti dall’odio, bambini
torturati e
violentati, bambini della cui sorte poi non importerà a
nessuno, dimenticando
che quella sorte gliel’abbiamo procurata noi
…”
“E’
un proposito molto nobile. Ti
fa onore”, convenne Marco, tradendo la sua espressione un
orgoglio pressoché
paterno. “Invero sei
maturato”, aggiunse.
“Spero
soltanto d’essere
all’altezza di questo compito”, si
schermì il minore, un poco titubante dinanzi
alla gravità del suo progetto, non trattandosi, infatti, di
un progetto di
facile realizzazione, considerate le insidie e le incognite della vita.
“Solo
tentando e ritentando lo
scoprirai, senza arrenderti dinanzi ai fallimenti e alle
avversità”, gli spiegò
incoraggiante Marco. “Niente a questo mondo ti viene concesso
presto e subito.
Ai tuoi obiettivi ci dovrai arrivare poco alla volta, un passo dietro
l’altro.
E tu sei nato per lottare.”
Hironimo
gli afferrò la mano,
portandosela al cuore. “Noi non siamo altro che un piccolo
tassello …
“…
nell’immenso mosaico ch’è il
progetto di Dio”, concluse Marco quella massima da loro
imparata da Padre.
Il
minore assentì, chinando il
capo socchiudendo gli occhi affinché essi evocassero la sua
misteriosa compagna
di fuga. Se all’inizio aveva considerato la sua sopravvivenza
un peso se non
proprio un castigo, adesso la percepiva come un secondo inizio.
Per
un motivo che neanche lui si
figurava, Dio lo aveva salvato dalla strage di Castelnuovo; lo aveva
protetto
durante la prigionia, sottraendolo a tormenti ben peggiori di quelli
subiti per
mano di Mercurio Bua. Pur ammalatosi, lo aveva tenuto in vita. Aveva
disposto
della sua fuga, inviandogli la dama dal mantello bianchissimo. Li aveva
guidati
lungo tutto il cammino, indisturbati fin sotto alle mura di Treviso.
Per
anni Hironimo aveva accusato
Dio d’indifferenza, quando invece mai lo aveva abbandonato,
poiché contro ogni
umana logica, la sua vita Egli aveva deciso che non dovesse finire tra
le
macerie insanguinate di Castelnuovo.
Tu, che hai l’anima di
Lazzaro … e se in passato aveva badato
più alle allettanti
promesse di gloria eterna, adesso era l’incipit della
profezia della zingara ad
interessarlo e a turbarlo. Lazzaro l’amico di Cristo, Lazzaro
ammalatosi e
morto; Lazzaro per quattro giorni rimasto nel sepolcro
finché non aveva
incominciato a puzzare, Lazzaro per la cui morte il Figlio di Dio
versò
lacrime; Lazzaro che tra lo sconcerto e
l’incredulità generale era stato
resuscitato acciocché tutti potessero credere. Tu,
che hai l’anima di
Lazzaro … Perché proprio a lui
l’aveva la gitana comparato? Cosa li
accumunava? Era stata forse la sua un’anima morta e putente?
O forse si
riferiva al suo spirito orgoglioso? Oppure ai suoi propositi di vita,
sterili e
fini a se stessi in passato ma ora abbastanza chiari e volti a far del
bene?
E
sarebbe stato questo paragone a
Lazzaro ad influire il tipo sentiero da intraprendere, onde raggiungere
il
successo profetatogli? Abbagliato dalla prospettiva della fama,
Hironimo s’era
illuso di raggiungerla attraverso qualsiasi mezzo disponibile, anche a
costo di
pavimentare la sua via di cadaveri. Ma egli, morto e risorto come
Lazzaro,
doveva seguire un percorso ben definito per compiere il suo destino. Ma
quale?
Il
giovane Miani aprì e chiuse la
mano, la medesima ch’aveva stretto le delicate dita della
signora durante
l’intera marcia notturna. In quel frangente non
s’era sentito né smarrito né
confuso, bensì guidato e protetto da
un’invincibile alleata.
“Indicami la strada
… indicami …
non so dove andare, non conosco la strada
…”
“Dove andare, ora lo sai. La
tua
strada, ora la conosci.”
Ma
a che si riferiva? Alla strada
verso Treviso o alla strada della sua esistenza?
Se
invero lui non era che un
tassello di mosaico nelle mani di Dio, dove lo voleva collocare e in
quale
progetto?
Hironimo
non negava la sua
riconoscenza d’esser sopravvissuto al massacro di
Castelnuovo, sebbene tale
sentimento non rispondeva all’annosa questione:
perché io sì e loro no?
Che
anche l’apparente follia del
caos fosse governata dalla volontà di Dio?
E
se era così, di nuovo, perché
io sì e loro no?
Cos’hai
in progetto per me, o
Signore?
Perché
hai fatto di me un
Lazzaro?
Continua
…
*********************************************************************************************************
E
così siamo ufficialmente
entrati nella terza e ultima parte di quest’avventura. Grazie
mille a chi mi
segue dal lontano 27 settembre 2019! Speriamo di finire la storia prima
del
terzo anniversario XD
Il
Nostro è ufficialmente libero,
urrà! Incominciano le prime reazioni alla sua fuga, non
tutti i nodi al pettine
sono stati affrontati (poverino, lasciamolo riprendere fiato!); nei
prossimi
capitoli vedremo anche le reazioni fuori Treviso, tra chi si
rallegrerà e chi
un po’ meno …
Spero
che questo capitolo vi sia
piaciuto!
Alla
prossima,
Un po’ di noticine:
[1a] Torrenuova= oggi Tornova; [1b]
Are = oggi
Adria
[2] “Malefizio”,
o “Melefico”, “Renghera”,
“Dei
Giustiziati” era una delle più piccole campane del
Campanile di San Marco. Essa
annunciava che si stava preparando una condanna a morte e suonava per
tutto il
tragitto del condannato dalla prigione al patibolo. Il
“Malefizio” suonava dopo
la “Nona” per mezzora.
I
Veneziani regolavano la loro
vita a seconda del suono delle campane di San Marco, di cui oggi, dopo
il
crollo del Campanile nel 1902, è rimasta solo la “Maragona”,
la quale
suonava al sorgere del sole dei giorni feriali e annunciava
l’inizio del giorno
lavorativo, in particolare degli Arsenalotti.
“Marangon” in veneto significa
“falegname”. Un’ora prima del levar del
sole, suonava il “Matutin”, la
prima campana della giornata. A quell’ora avveniva il cambio
della guardia alla
Basilica, a Piazza San Marco e a Palazzo Ducale.
La
“Mezzana” o
“Mezzaterza” suonava nove tocchi verso le due del
pomeriggio. Era anche detta
“Dei Pregadi” e indicava la convocazione dei
senatori a Palazzo Ducale. La “Trottiera”
l’inizio delle sedute del Maggior Consiglio.
La
“Nona” batteva a
mezzogiorno dai sedici ai diciotto rintocchi. La campana “De
Le Dò” o
“De Le Do Ore” suonava dopo il tramonto del sole e
a quell’ora montava la
guardia notturna alla Basilica, Piazza San Marco e Palazzo Ducale.
[3] citazione ripresa dal
medesimo testamento di Marco
Miani: “[…] mio
caro fratelo, che sempre lo abuto per fiol,
come lui sa”.
[4] Girolamo/Gerolamo/Geronimo
derivano dal greco e
significa “nome sacro”.
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