Wolf's Blood: a tale of loss and tears

di BabaYagaIsBack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** War Leftovers ***
Capitolo 3: *** A returned friend ***
Capitolo 4: *** 3. The youngest Menalcan (1/2) ***
Capitolo 5: *** The Youngest Menalcan (2/2) ***
Capitolo 6: *** A heart for a heart ***
Capitolo 7: *** Subverting this World ***
Capitolo 8: *** A jerk will never change ***
Capitolo 9: *** Who is she? ***
Capitolo 10: *** Alliance ***
Capitolo 11: *** Be prepared ***
Capitolo 12: *** The end of the truce ***
Capitolo 13: *** For you ***
Capitolo 14: *** Home (1/2) ***
Capitolo 15: *** Home (2/2) ***
Capitolo 16: *** Part of us ***
Capitolo 17: *** First letter from the Council ***
Capitolo 18: *** And it Begins (1/2) ***
Capitolo 19: *** And it Begins (2/2) ***
Capitolo 20: *** Give me the strenght ***
Capitolo 21: *** Don't Fall ***
Capitolo 22: *** Stay with me ***
Capitolo 23: *** Foolish lamb in the jaws of the wolf ***
Capitolo 24: *** This Bitter Taste ***
Capitolo 25: *** Something left behind ***
Capitolo 26: *** Closer ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




0. Prologue

L'uomo rimase in silenzio, incapace d'affrontare la situazione.
Sin dal principio aveva saputo a quali rischi sarebbero tutti andati incontro, ma accecato dalla rabbia, tanto intensa da diventare quasi asfissiante, non si era per nulla preparato ad affrontare quell'evenienza – nonché la peggiore.

Guardando il viso della giovane appoggiata sulle sue gambe doloranti, Arwen non riuscì a evitarsi di notare il pallore malsano delle labbra. Ogni minuto che passava portava con sé tonalità sempre più raccapriccianti, sfumature che lui aveva pregato di non scorgere mai su di lei. Persino il suo corpo, quello che aveva sfiorato poche volte e sempre in modo frettoloso, non sembrava essere caldo come un tempo e, la paura che potesse svanirgli tra le mani, lo portò a mordersi con ferocia la lingua, facendola sanguinare.

Aralyn stava morendo.

L'unica persona rimastagli al mondo stava venendo portata via dalla Morrigan a causa sua. Era stato lui l'orripilante demonio ad averla condannata – lo sapeva, sentiva quella certezza ancorata alle viscere in modo nauseante. Era per lui, per la sua ira incontrollata che era tornata a Villa Menalcan. Era per non perderlo che si era buttata nella carneficina di licantropi. Per lui aveva sfidato i Nobili più minacciosi con cui si fossero mai trovati a fare i conti.

Quella cosetta immobile tra le sue braccia, costretta come lui in un bagagliaio sistemato alla bene e meglio per il suo trasporto, aveva sfidato nuovamente la clemenza degli Dèi e, a causa della maledizione che lui stesso le aveva augurato di incontrare, era stata punita.

Le unghie dell'Alpha nemico avevano trovato uno spiraglio nella sua carne candida, affondandoci dentro e recidendo quanto più possibile. Seppur Aralyn gli avesse conficcato la lama del Pugnale della Luna dritto nel torace, quel bastardo era riuscito a condannarla.
Fenrir l'aveva chiamata a sé e lei, forse stanca di quelle continue lotte e perdite, sembrava aver accettato il suo invito a correre per le Lande Selvagge.

Ma come poteva abbandonarlo? Come osava lasciare suo fratello, il lupo che l'aveva allevata e amata per anni, lì da solo? Credeva davvero che lui sarebbe riuscito a sopportare la sua assenza?

Con le dita, Arwen premette sul punto in cui i bendaggi stavano provando a rallentare la perdita di sangue, anche se con fatica. Di quel passo, si rese conto, non sarebbero mai giunti a Mont Saint Michel in tempo per salvarla – il loro alleato più vicino era lì, segregato lontano dalle faide che logoravano i vari clan d'Europa, ma loro avevano davanti a sé ancora troppi chilometri.

L'albino si piegò sulla sorella, appoggiando la propria fronte su quella di lei e, muovendo le labbra senza emettere alcun suono, iniziò a pregare.

Chiamo il buon Arawn, signore del dopo,
signore dell'ultimo respiro; al solco e alla tomba tieni l'atto. 
Più vecchio del vecchio, più giusto del giusto,
i tuoi cani ululano nella notte, nell'oscurità, piangendo i morti ad Annwn. 
Paziente, le tue sono le strade,
contorto e trasformista, le tue orme sono dei perduti,
tuoi i sentieri oscuri che conducono da tutti i luoghi a un'estremità.
Arawn che aspetta, che conosce il valore di un buon amico,
la cui sala contiene tutto ciò che è sepolto nella fredda terra,
possa il tuo essere venir ricordato, la tua fama riacquistata,
il tuo nome di nuovo pronunciato con timore reverenziale;
Arawn dei racconti aggrovigliati, ti lodo e onoro.

Ti prego, non portarmela via.

Ma la ragazza non dava segni di risposta, il suo respiro si sentiva appena nel rumore del motore. E d'istinto, con la mano libera, l'uomo diede un pugno al vetro del finestrino più vicino, crepandolo e ferendosi – il dolore fisico non era nulla a confronto di quello che sentiva dentro.
Con un ringhio gutturale alzò il viso oltre il sedile posteriore: «Vai più forte!» Sbraitò subito dopo in direzione dell'autista.
Né Marion, né Garrel si voltarono, troppo occupati a fare i conti a loro volta con l'ansia e la preoccupazione. Nonostante Arwen sapesse quanto anche loro stessero cercando di mantenersi lucidi e fare il possibile per salvare sua sorella però, non riuscì a trattarli diversamente.

La donna al volante, visibilmente turbata, scosse la chioma: «Non posso, Arwen. Siamo già ben oltre il limite consentito, se accelero ancora rischiamo di essere fermati e...» L'Alpha non le diede modo di finire. I suoi versi risuonarono tremendamente minacciosi per tutto l'abitacolo, irrigidendo i due compagni.
«Non me ne fotte nulla dei rischi! Se serve ad arrivare da Killian in tempo sono disposto ad ammazzare anche degli umani, chiaro? Ora muoviti!»
E nonostante l'ovvia riluttanza, Marion non riuscì a disobbedire al proprio leader, così la vettura parve iniziare a muoversi con maggiore velocità – in fin dei conti, aveva scelto cilindrate alte per evenienze come quelle, anche se mai si sarebbe aspettato di doverne fare uso.

Solo qualche ora, piccola mia. Resisti, pensò ancora Arwen tornando a guardarla.
Cosa avrebbe dato per tornare indietro e impedirsi di prendere una decisione tanto sciocca, o schiaffeggiarsi nel momento in cui, inconsciamente, aveva permesso alla propria lingua inviperita di augurarle la morte.

Erano stati il suo orgoglio ferito e il suo cuore crepato a parlare per lui, perchè l'idea che lei potesse appartenere a qualcun altro era più fastidiosa di molte altre cose; se poi ci si aggiungeva il fatto che colui a cui sembrava essere destinata era lo stesso licantropo che gli aveva distrutto la vita, nonché parte del clan che più di tutti odiava, lo smacco diventava ancora più insopportabile.

Ma era stato tutto un errore, sin dal principio.

L'Alpha le baciò la fronte, lì dove svettava la macchia violacea di un livido di cui non conosceva l'origine - in realtà poteva solo immaginare dove e come si fosse procurata tutte le ferite che le ornavano il corpo, dal taglio sulla coscia, alle dita screpolate, dal morso sull'avambraccio, ai molteplici ematomi, fino ad arrivare a quella peggiore: le unghiate che da sotto la gabbia toracica arrivavano nei pressi del ventre.

I Menalcan avevano deturpato la persona più preziosa che aveva, per questo Arwen non si sarebbe dato pace fino a quando Gabriel e tutti i membri di quel clan non fossero stati ripagati con la stessa moneta.

Con voce tremante l'uomo si rivolse nuovamente ai due amici: «Quanto manca?» La paura di non riuscire ad arrivare in tempo lo stava logorando, così come il non poter far nulla per la sua Ara. Oltre che premere sulle bende sopra alla ferita non gli era concesso altro - ma avrebbe voluto. Se le sue gambe non fossero state tanto doloranti e la lucidità così vacillante si sarebbe messo lui stesso alla guida di quella stupida vettura, almeno non avrebbe dovuto assistere alla sempre maggiore incoscienza della sorella.

Lei però doveva resistere.
Restargli accanto era l'unica cosa che le chiedeva: i fratelli Calhum contro il mondo, giusto?

E poi non aveva più le forze per seppellire un altro membro della sua famiglia, le aveva perse tutte con Klaus e Veronika - Aralyn sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso della sua sanità mentale.

«Non chiederlo Arwen...» sibilò Garrel, conscio come chiunque altro della moltitudine di chilometri frapposti tra loro e Mont Saint Michel.
«Quanto?!» sbraitò di rimando l'Alpha. Sapeva che la risposta non gli sarebbe piaciuta, ci avevano impiegato quasi due giorni a raggiungere la Villa e la loro destinazione attuale era esattamente a metà strada.

Marion picchiò con violenza il palmo sul volante, gridando con quanta più voce possibile: «Sono dodici ore, okay? Dodici fottutissime ore!» fece una pausa, respirando a bocca aperta e facendo sentire quanto il pianto sommesso la stesse distruggendo: «Non ce la farà mai, Arwen...» i singhiozzi divennero sempre più rumorosi.

No, non ce l'avrebbero mai fatta - dodici ore erano troppe anche per un licantropo. Se solo fossero state meno... la metà, magari.

«C'è un telefono? Eh?! Rispondetemi!» l'albino tornò con il viso oltre la spalliera dei sedili posteriori, fissando gli altri con sguardo febbrile. Forse una soluzione c'era. Forse un modo per evitarle la morte e portarla in salvo esisteva; bastava solo che Killian fosse disposto a lasciare la sua fortezza per un paio di giorni, solo quello.

Garrel prese a frugare nel portaoggetti sotto al cruscotto. Ravanò per minuti interminabili, ma poi, vittorioso, alzò una mano, stringendo tra le dita quello che sembrava proprio essere un cellulare.
Glielo passò con un velo di preoccupazione sul viso: «Cosa hai in mente?» ma l'altro non gli rispose, iniziando a digitare.

Aveva imparato quel numero per i casi di emergenza e nessuno, oltre ad Aralyn, lo conosceva - forse il Duca, ma non ne aveva alcuna certezza.

Era stato lo stesso che sua sorella, in lacrime, aveva chiamato la notte in cui lui era tornato ferito al rifugio in cui vivevano al tempo e, ora, i ruoli si sarebbero invertiti: quella da salvare era lei e l'uomo avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di darle un'ultima speranza.

Il suono dell'inoltro partì, martellandogli il timpano.

Rispondi!, prese a ripetere nella propria mente, te ne prego Killian!

Ma il suono parve non avere alcuna fine.

Come poteva ignorarlo? Lui che gli aveva promesso protezione eterna, aiuto nei momenti di tale gravità, ora sembrava non riconoscere il bisogno.

Arwen mise giù, lanciando l'aggeggio contro lo sportello del bagagliaio.
No!
Non poteva davvero finire così. Non poteva perderla sul serio.

Prese a ringhiare, mordersi le labbra fino a tagliarle e strinse la ragazza a sé con quanta più intensità le ferite di lei gli concedessero. Non poteva sopportare l'idea della sua assenza.

Garrel, nonostante la mole e le ferite, abbassò lo schienale del proprio sedile, slacciò la cintura e gli si portò vicino. Afferrò la fronte di Arwen con il palmo ancora sporco di sangue rappreso e, con una forza all'amico latente, prese a pregare: «Il dovere del soldato è un fardello davvero pesante. La guerra non è romantica, come è scritto nelle nostre poesie, è una vita spesa a guardare gli amici morire nel nome della tua nazione. Combattere guerre e nemici non fanno parte della tua creazione» una lacrima prese a correre lungo la guancia dell'albino, scendendo calda sulla pelle pallida: «Nella morte c'è ricompensa e vivace celebrazione e i caduti in battaglia troveranno pace e l'ammirazione degli Dèi. Piangi i morti di guerra, onora il sacrificio di ogni soldato, ma sii gioioso per coloro che ora sono con La signora e il Padre».

E, appena la sua voce smise di riempire l'abitacolo, gravido di un annientamento emotivo che pochi avrebbero potuto dire di conoscere, un ronzio si fece largo dal fondo del veicolo.

Killian stava rispondendo.



Premessa:


 

Buonsalve lettore,
prima di addentrarti tra i nuovi aggiornamenti di questa storia mi sento in dovere di dirti che sei di fronte al 2° volume della Wolf's Bloodline Series, il proseguo di quella che è stata la mia prima storia sovrannaturale e che prese vita ben sei anni fa.
Se già sei a conoscenza degli avvenimenti del primo libro ( Wolf's Blood: a tale of love and war ) procedi pure con la lettura di questo volume, mentre se sei nuovo t'invito a fare un passo indietro per andare a scoprire i protagonisti e ciò che li ha portati fin qui - sono pressoché certa che se non lo facessi potresti non capire gran parte del testo che ti si presenterà da questo capitolo in poi.
Bene, ora che ti ho fatto quest'appunto, concedimi ancora qualche minuto del tuo tempo per dirti qualche cosina in più:

1§ La qui presente storia è ancora nella sua fase di bozza, quindi potresti imbatterti in errori ed orrori - non farti problemi a segnalarli qualora li dovessi incontrare: terrò presente le tue annotazioni per future correzioni;

2§ Le tematiche affrontate possono essere di varia natura e, avendo ognuno di noi una diversa sensibilità, urtarti o meno - ad ogni modo, cercherò sempre (nei limiti del possibile) di mantenere un linguaggio adatto a tutti;

 Persone, luoghi e azioni sono frutto della mia fantasia e pertanto ti sarei grata se evitassi di copiare e plagiare questa mia opera in qualsiasi modo. Ciononostante, sono accanita fan degli artwork e fanwork, quindi se vuoi aderire alla campagna #profanart , non farti scrupoli ed inviami pure i tuoi lavori!

Per ora questo è quanto, mi auguro che la lettura possa essere di tuo gradimento.

A presto,

Ania Yaga LochUaine

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Capitolo 2
*** War Leftovers ***





 1. War Leftovers

Più Joseph guardava il cadavere di Douglas, più cresceva in lui la consapevolezza di non provar nulla. Non era triste, men che meno arrabbiato con Aralyn o Arwen; era solo vuoto.

Nonostante gli insegnamenti, la convivenza e la parentela che li aveva da sempre legati, non riusciva a soffrire per la dipartita di suo padre - a dire il vero, negli anni dell'adolescenza, aveva sperato più volte che quel momento giungesse, ma ora, di fronte al corpo nudo dell'uomo, dove una ferita sottile e terribilmente profonda svettava con il suo rosso cangiante, non provava niente di ciò che ci si sarebbe potuto aspettare da lui. Nemmeno pietà.
Quando era morta sua madre, anni prima, il dolore aveva graffiato il suo torace. Erano stati sette giorni di lutto in cui aveva percepito realmente la sua definitiva fuga dalla Villa e dalla vita, ma con quello che era stato il suo Alpha, non vi era un solo briciolo di quei sentimenti.
Tutto ciò che lo preoccupava era il domani, la fine di quei giorni di veglia e celebrazione per un uomo che sarebbe stato giusto seppellire molto prima - quando ancora il figlio aveva qualcosa, ma soprattutto qualcuno, a cui aggrapparsi.

Dieci notti, questo era il tempo che li separava dalla Luna Piena e, una volta passata, il clan avrebbe dovuto fare i conti con il proprio destino. Un nuovo leader, tra gli eredi del precedente, sarebbe dovuto salire al potere e Gabriel aveva già da anni iniziato a tessere i fili della sua ascesa. Inoltre, era il maggiore tra loro: se né lui, né Leah, avessero reclamato il titolo di Alpha, allora sarebbe stato quell'energumeno il nuovo patriarca dei Menalcan - un'eventualità che purtroppo non potevano permettersi.
Per quando Joseph detestasse l'idea di doversi far carico del branco, se non avesse sfidato suo fratello era certo che lui l'avrebbe ucciso appena fosse stato incoronato capo. Rischiare di tenere al proprio fianco una minaccia come poteva essere un altro erede maschio non era cosa che tra i Nobili ci si poteva permettere e Gabe lo sapeva bene.
Loro sorella non era un cavillo del suo stesso calibro, i Menalcan non avrebbero mai accettato una donna al posto di Douglas, ma lui... lui era a rischio e non aveva più nessuno a cui chiedere consiglio.

Il rumore di una porta sbattuta lo riportò alla realtà, facendo cadere lo sguardo proprio sull'ultima persona che avrebbe voluto vedere.

Con addosso una canotta morbida, in modo da non infastidire le ferite sotto alle fasciature, suo fratello si avvicinò alla salma, mostrando senza vergogna i souvenir che il clan nemico, ma soprattutto Aralyn Calhum, gli aveva lasciato.
Nei suoi occhi Joseph vi lesse la medesima indifferenza che provava lui, mascherata anch'essa da un finto rammarico indossato giusto per illudere i confratelli che invece, per Douglas, avevano sempre provato qualcosa: ammirazione, affetto, stima... non importava, tutto ciò che contava era convincerli che anche loro fossero dispiaciuti.

«Stanno ripulendo?» domandò sentendo le mani formicolare nelle tasche. Aveva visto lo scempio che erano diventate le stanze della Villa, così come aveva visto fin troppi volti familiari indossare la maschera della morte e, in cuor suo, aveva pregato tutti gli Dèi di non vestire la sua amata con lo stesso ornamento - aveva ripescato nella memoria anche quelli più antichi e le preghiere più complesse, aveva fatto tutto ciò che in quel momento gli era possibile pur di non perderla.

Quando Garrel l'aveva caricata in spalla, pochi minuti dopo l'impatto con il corpo dell'animale, la sua espressione era lapidaria, un rivolo di sangue le segnava in orizzontale la guancia e i suoi arti altro non erano che carne flaccida, privi di forza per contrastare la gravità. Vedendola, il ragazzo non aveva potuto far altro che pensare al peggio, ma poi lo aveva sentito. Un sussurro, nulla più. Eppure era stato sufficiente a impedire al suo cuore di creparsi per sempre.
L'omone si era rivolto ad Arwen, ma qualcosa, come un avvertimento del proprio sesto senso, gli aveva detto che in realtà stesse parlando anche con lui.

Respira.

Sette lettere che improvvisamente erano diventate l'unica cosa davvero importante in mezzo al caos.

Lei respirava, quindi era viva.

Gabriel si portò una ciocca dietro l'orecchio, lì dove i suoi gingilli d'oro avevano lasciato posto a rovinosi tagli sul lobo che, presto, si sarebbero rimarginati da soli: «A fatica, ma sì». Il suo sguardo si perse sul viso del vecchio steso sul letto, nella stanza che aveva smesso di usare da anni. Le coperte erano tirate fino al bacino, lasciando così scoperto il petto. Oltre alla ferite e gli effetti collaterali dell'argento, un pendente troneggiava sul suo torace: il simbolo del clan.

«Ma c'è altro che puzza, qui. E non parlo né dei cadaveri là fuori, né di questo» con un grugnito e un cenno del capo indicò Douglas - esattamente come il fratellino aveva immaginato, non gliene fregava nulla di quell'uomo.

Joseph avvertì un brivido corrergli lungo la spina dorsale. Quel commento generò in lui uno strano timore, lo stesso che lo aveva accompagnato ogni giorno dal momento in cui era tornato in quell'edificio. Sicuramente non gli doveva essere sfuggito il fatto che Arwen Calhum, fino all'ultimo, non avesse riportato nemmeno una ferita degna di nota - cosa parecchio sospetta, visto che in passato era stato proprio lui a portarlo a un passo dalla morte.

«Davvero? Magari è l'odore della sconfitta a esserti rimasto incastrato nelle narici...» rispose con astio, provando a lanciargli una frecciatina. Non doveva farsi vedere diverso da come era stato per ben ventisei anni, non doveva cedere o sembrare intimorito dai suoi possibili sospetti. Se suo fratello avesse fiutato in lui un cambiamento lo avrebbe usato per ritorcergli contro i pochi membri del clan che ancora gli erano fedeli - molti meno da quando Kyle aveva finto il suo tradimento verso il branco.

Il viso di Gabe si contorse in una smorfia di fastidio: «Al tuo posto non mi azzarderei a fare simili commenti, Joseph. Ora che il vecchio non c'è più, nulla ti salva dalla mia furia» sottolineò, tagliente. Il suo sguardo baluginò nella direzione del ragazzo: «Prega che non sia io a diventare il capo qui dentro... la storia dei più grandi casati Nobili parla più di quanto possano fare le mie minacce».

Un altro tremore lieve scosse il ragazzo, partendo dalla base della nuca e arrivando ai lombi. Sì, la storia parlava, raccontava di decine di famiglie seviziate dalla sete di potere - in ultimo si era sparsa la voce che persino Ophelia avesse mandato tutti gli eredi di suo padre, Vladimir Palvov, a correre insieme a Mànagarmr nelle Lande Selvagge per assicurarsi il comando del branco. 
Gabriel non sarebbe stato da meno.
Quel verme avrebbe seppellito lui e dato in sposa Leah al primo alleato che gli avesse assicurato di tenerla lontana dalla Villa - ma non poteva succedere.

«Non ho paura di te, fratello» ringhiò, alzando gli occhi su di lui. Quell'uomo faceva la sua sporca figura: i muscoli, la furia, lo sguardo severo - ma non per questo Joseph avrebbe abbassato il capo o nascosto la coda tra le gambe di fronte alla sua presenza. Aveva una ragione di sopravvivenza abbastanza valida da impedirgli di farsi mettere i piedi in testa da lui: proteggerla. E se ciò lo avesse costretto a diventare Alpha, non avrebbe esitato a uccidere il sangue del proprio sangue: «Ti ricordo che se non ci fossi stato io, otto anni fa, Arwen Calhum ti avrebbe sodomizzato come la peggior sgualdrina che si possa trovare in giro, quindi non sottovaluterei l'ipotesi di una tua dipartita». Le labbra divennero una linea dura sul suo volto chiazzato di lividi, segni che avevano già preso a ingiallire.

L'altro grugnì, sollevando appena un angolo della bocca: «Vedremo, moccioso. Ci sono altre questioni a interessarmi ora...» con passo deciso si incamminò verso la porta da cui era arrivato, ma prima che riuscisse a sgattaiolare via, Joseph gli porse un'ultima domanda.

«Di che stai parlando?» una stretta gli prese lo stomaco, aizzando il suo sesto senso. Qualcosa, nel tono, aveva improvvisamente fatto scattare una scintilla di preoccupazione tra i pensieri del ragazzo, una sensazione che non gli piacque affatto e, quando Gabriel si volse sorridendo, ma senza aggiungere nulla, Joseph seppe con assoluta certezza che quell'uomo aveva iniziato a tessere una nuova rete di intrighi a cui difficilmente si sarebbe fatto trovare preparato. Il fatto che fosse lui il vero erede di Douglas non era poi una diceria, pensò, mentre gli scenari più improbabili presero a disegnarsi nella sua mente.


 

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Capitolo 3
*** A returned friend ***





2. A returned friend

Arwen osservò la schiena di Killian sotto alla canottiera scura studiando ogni movimento dei suoi muscoli, quasi quelli potessero spiegargli ciò che stava avvenendo al di là del trapezio di carne pallida. I lunghissimi capelli neri, raccolti in una coda bassa, oscillavano scandendo il tempo al pari del pendolo di un orologio, ricordandogli che sua sorella era priva di coscienza da una quantità di ore decisamente preoccupante.
E lui non parlava. Nemmeno mezza sillaba.
Stava lì, curvo su di lei a tamponare, disinfettare e cucire al pari di un sarto d'anime, senza però proferir parola.

Cosa gli sarebbe costato aggiornarlo sulla situazione?

Erano fermi a metà strada, a tre ore dal tunnel che collegava la Gran Bretagna con il resto d'Europa - ciò significava che, tutti gli sforzi del momento, sarebbero potuti diventare vani se uno solo dei Menalcan li avesse trovati - quindi Arwen aveva bisogno di rassicurazioni, di sapere che non stavano rischiando tutto per una causa già persa.
Con le dita tastò nuovamente sul sedile accanto a sé, alla ricerca di qualche sigaretta che il licantropo di fronte ai suoi occhi aveva imprudentemente lasciato alla sua mercé. Era l'attesa più estenuante a cui avesse mai dovuto far fronte e la consapevolezza di non sapere quando sarebbe terminata, ma soprattutto con che esito, la rendeva ancora più atroce.
Mordendosi il labbro, l'Alpha prese a picchiare il piede nudo sul pavimento del camper in cui erano rintanati. Non si era ancora concesso una doccia o un minuto di riposo, troppo teso per fare qualsiasi cosa se non star lì.
Il sangue rappresosi aveva iniziato a tirargli la pelle con fastidio, ma lui non aveva ceduto, restando su quel sedile a osservare.
Le tende chiuse e il parabrezza coperto facevano da scudo tra l'esterno e l'abitacolo adibito a sala operatoria, nascondendo così sia la sua tensione e il suo stato pietoso, sia le movenze esperte di Killian che, d'un tratto, interruppe ciò che stava facendo, piegando il capo all'indietro e sospirando.

«Non farlo...» sbuffò dopo qualche istante. La sua voce fu poco più che un sussurro, facendo quasi dubitare che si stesse rivolgendo all'altro e non a sé stesso o a una qualche divinità.

Arwen si tolse il filtro dalle labbra, spazientito: «Non fare che?» domandò poi, arricciando la smorfia. Non riusciva a capire, men che meno a dare una spiegazione al fatto che lui si fosse interrotto. Voleva forse dire che aveva finito con Aralyn? Stava gettando la spugna oppure era riuscito a salvarla?

«Non mettermi fretta» finalmente il profilo tagliente dell'uomo si mostrò agli occhi dell'albino e una pupilla completamente fusa con l'iride lo fulminò. C'era così tanta severità nel suo sguardo, un'autorevolezza che difficilmente veniva rivolta a un lupo mannaro come Arwen che, improvvisamente, si ritrovò a irrigidirsi ancora.
Da quando era salito su quel camper non aveva ancora rilassato i muscoli, ma solo in quel momento si accorse di quanto fossero tesi, dal modo in cui reagendo a Killian avevano preso a bruciare sotto alla carne.

«La fai facile tu...» con una mano si portò indietro alcune ciocche bianche, spostandole dal viso contrito.

L'altro sbuffò ancora, forse rinunciando a farlo smettere e tornando così a dargli le spalle. Si piegò con il capo su di Aralyn, poi, compiendo un gesto secco, strappò con i denti il filo dall'ago ricurvo con cui le aveva ricucito i lembi di pelle.
Aveva messo così tanti punti a quella sutura che l'albino temette il momento in cui le si sarebbe fatto vicino, scoprendo il lascito che Douglas le aveva donato.

«Affatto» disse d'un tratto l'uomo con lui. 
Usando una delicatezza quasi irreale coprì il corpo della ragazza con le lenzuola, si mise dritto dopo tutto il tempo passato in ginocchio e sospirò ancora. Non aveva fatto una sola pausa dal momento in cui lei era stata adagiata su quella specie di letto, provando così a recuperare tutte le ore perse.
Era piombato da loro il più in fretta possibile e non aveva fatto alcuna domanda, prendendosi semplicemente cura di lei - esattamente come aveva fatto con il fratello anni prima.
Non c'era stata distrazione a rallentare il suo intervento, paura a farlo tentennare. Killian aveva solo ed esclusivamente pensato alla salvaguardia di Aralyn, alla sua vita appesa a quella che, più che un filo, sembrava essere una ragnatela.
La sua figura si stagliò alta e scura sopra di lei, soffermandosi qualche istante in quello che parve un vero e proprio gesto di contemplazione: «Ho fermato l'emorragia, ma così non va» prese a raccattare tutto ciò che aveva usato fino a quel momento per curarla: le garze, i catini con l'acqua e il disinfettante, le erbe, ago e filo - poi, con le mani segnate di rosso, si era portato verso il lavandino: «Ha perso molto sangue, Arwen, ha una sorta di trauma cranico e le serve riposo. Dobbiamo fare una trasfusione il prima possibile, ma finché non saremo a Mont Saint Michel non posso far più di quello che ho già fatto, mi capisci?»

L'Alpha prese a torturarsi le labbra. Cosa voleva dire? Che nonostante le ore di attesa sua sorella non era ancora fuori pericolo?
La cenere cadde a terra, sfiorandogli le dita di un piede.

«Okay, allora andiamo. Ti darò tutto il sangue di cui ha bisogno, l'importante è che resti con me» sibilò con una convinzione tale da sembrare un ordine, più che un'asserzione.

Killian restò qualche minuto in silenzio, forse soppesando la situazione - era difficile capire cosa gli passasse per la mente, il suo viso era una maschera troppo spesso inanimata, mentre i suoi occhi due pozze oscure in cui perdersi, come in un mare di pece.
Con la mano ancora sporca si prese il viso, alla base, cingendo mento e bocca: «Non lo dubito, la ami troppo per poterla lasciare andare... ed è per questo che mi chiedo come sia possibile ritrovarci qui, in questa situazione» le dita si allontanarono, rivelando la linea dura delle labbra.
Arwen avvertì un brivido freddo corrergli lungo la schiena e la sensazione di essere stato scoperto si fece sempre più opprimente, ma non proferì parola, restando piuttosto in attesa.

«Uno storpio che guida in battaglia il suo clan, mettendo in pericolo l'unica vita che gli sia realmente cara... perchè? Cosa ti ha fatto perdere il lume a questa maniera?» colpendo appena la leva del rubinetto lasciò che l'acqua ripulisse la sua rudimentale strumentazione, abbreviando i tempi: «Anni fa non eri così stupido, men che meno impulsivo. Eri la copia sputata di Veronika. Calcolatore, riflessivo, severo... non umano come Klaus». Si conoscevano da un tempo che Arwen nemmeno riusciva più a ricordare. Nella sua memoria quel licantropo era sempre stato presente: nelle poche foto che conservava dei suoi genitori, alle cene in quella che una volta era stata la sua unica e vera casa, durante i primi giorni di vita di Aralyn, in auto con loro verso la dimora del Duca... Già, Killian era sempre stato lì, eppure la sua fisionomia da eterno trentenne non lo avrebbe mai fatto credere. Era più vecchio di quello che qualsiasi occhio avesse potuto immaginare, maledetto da un destino a cui pochi licantropi erano destinati - ed era sempre stato al loro servizio, come un angelo custode.

Gli incisivi dell'Alpha premettero sul labbro: «Come hai detto tu, sono stato troppo umano» si schiacciarono con sempre più forza nella carne, finché un rivolo di sangue non iniziò a scendere lungo il mento, bruciante come il suo orgoglio in quel preciso momento. Sì, aveva quasi decimato il proprio branco per una stupida vendetta, per una gelosia insensata.

Un imprinting, sant'Iddio!

Non era stata una scappatella, una sua scelta, la volontà di ferirlo o di mettere a tacere gli ormoni. Non era stato il piano maleficamente architettato di un nemico, bensì quello degli Dèi - e volente o nolente, lui non avrebbe mai potuto mettere a tacere quella richiamo tra sua sorella e il figlio di Douglas. Nemmeno la morte di uno dei due avrebbe potuto cambiare la situazione: Fernando ne era stato la prova per tutti gli anni trascorsi insieme e, ora, aveva finalmente ritrovato la sua Layla nelle Lande Selvagge.

Avrebbe potuto tenere Aralyn lontana da Joseph, costringerla ad amare solo lui, ma era conscio che in fondo la sua anima non avrebbe mai smesso di appartenere a quel Puro - anche se avrebbe detestato quella consapevolezza con tutto sé stesso.

Killian si strinse nelle spalle, scuotendo la testa in una sorta di disapprovazione: «Me ne parlerai con calma mentre torniamo a Mont Saint Michel. Ora ho bisogno che mandi i tuoi due lacchè qua fuori al vostro quartier generale. Devono contare i danni, curare i feriti e assicurarsi che i Menalcan non siano alle vostre calcagna. Li avete invasi nel loro territorio, dubito che lasceranno correre un simile affron-» Arwen lo interruppe bruscamente, sorprendendolo.
In un unico respiro diede all'amico la notizia più importante di tutta quella nottataccia: «Sono in lutto. Douglas è morto» con tutto ciò che era successo non era riuscito a gioire per quella vittoria, per aver abbattuto l'Alpha rivale, l'uomo da cui tutte le sue sventure avevano avuto origine.
Avevano portato gloria al Duca, gli avevano aperto le strade verso la carica di capo del Concilio e, di conseguenza, al capovolgimento della società dei licantropi - forse sarebbero riusciti a essere liberi in un domani terribilmente prossimo.

L'altro sgranò gli occhi, incredulo.
La bocca si schiuse appena: «L'hai ucciso?» domandò, chiudendo improvvisamente l'acqua e portandosi più vicino, in modo da sentir meglio.
Arwen si passò la lingua sulle labbra, portando via i resti del sangue. Per quanto sapesse di aver raggiunto un traguardo di tale rilevanza per quelli della sua specie, doveva fare i conti con l'amarezza di non essere stato lui il vero artefice di tutto ciò.
Un bruciore lieve gli pizzicò la carne e, con un cenno, indicò il corpo sotto alle coperte: «Lei. E' stata lei».

 

 

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Capitolo 4
*** 3. The youngest Menalcan (1/2) ***




3. The youngest Menalcan (1/2)

Sotto la pioggerellina di inizio primavera e nascosta da un cappello nero dalla para larga, Leah Menalcan fece la sua comparsa alla Villa ondeggiando su tacchi incredibilmente alti e sottili, due stiletti che la facevano apparire leggera come una nuvola. 
Joseph non se la ricordava né tanto slanciata, né così sensuale come gli apparve in quel momento, eppure seppe con certezza che si trattava di lei. Era diversa nell'aspetto, certo, ma dava ancora l'idea di essere la stessa sorella che aveva lasciato solo l'anno prima - sicura di sé, testarda e, nonostante questo, anche dolce e comprensiva.

Possibile che la fine della pubertà l'avesse portata a un passo da qualche copertina patinata? 
Non le era mai importato nulla della moda, men che meno del trucco o dell'apparire come una modella - a dispetto del fatto che fosse incredibilmente bella, come loro madre -, eppure ora sembrava proprio essere diventata una diva. Non un dettaglio fuori posto, non un accessorio messo senza prima aver sapientemente studiato il look. Dove era finito il maschiaccio con cui aveva passato l'infanzia?

La vide avanzare scura in viso, abbassare il capo quando qualcuno, tra i confratelli, le si avvicinava per farle le condoglianze, esattamente come ci si sarebbe aspettato da lei. Ad ogni saluto, la giovane agiva di conseguenza, apparendo davvero dispiaciuta per il lutto subìto; se l'avessero conosciuta bene quanto lui però, avrebbero saputo che in quel momento il suo, in realtà, non era altro che fastidio. 
Leah odiava Douglas quasi più di quanto lo detestasse il fratello maggiore perchè, dopotutto, essere l'erede femmina di un casato e un uomo così misogini non era poi cosa di cui essere allegri o andar fieri. Loro padre le aveva fatto pesare per ogni singolo giorno di vita la mancanza che aveva tra le gambe, arrivando persino ad allontanarla dalla Villa e rinchiuderla in un collegio Svizzero pur di non vedere le sue curve crescere e sentire il suo odore intensificarsi, diventando così desiderabile da qualsiasi maschio del branco. Quel vecchio non riusciva a concepire l'idea che una donna fosse nata dal suo seme, forse perché in cuor suo aveva sempre e solo desiderato maschi, in modo che il clan non potesse avere troppi punti deboli.

Eppure quella figlia tanto disprezzata non era da meno di altri licantropi presenti lì in mezzo. Certamente non poteva essere comparata ai due pargoli nati prima di lei, ora esemplari magnifici di una razza letale, ma non era nemmeno fonte di smacco per il nome della famiglia.

Joseph, nonostante i sei anni che li separavano, aveva sempre visto in lei un alleato, qualcuno che in futuro gli sarebbe stato accanto. Avevano entrambi vissuto il loro ruolo all'interno di quel branco con costrizione e, ora, potevano unire le forze per scrollarsi di dosso il fantasma dell'Alpha.

Così l'attese con una certa impazienza all'interno dell'androne. 
In mezzo a tutto il marasma generato dallo scontro appena passato, alle tensioni e le immagini che gli facevano trascorrere le notti insonne, per non parlare delle minacce di Gabriel, il Puro stava finalmente per poter tirare un sospiro di sollievo - anche se nulla avrebbe potuto togliergli dalla mente gli ultimi ricordi di Aralyn e ciò che suo fratello avrebbe potuto escogitare per vendicarsi di lei. Perché certamente quell'energumeno non avrebbe più lasciato in pace i Calhum dopo l'affronto subìto.

Leah varcò la soglia con uno sbuffo - le doveva costare più fatica di quanto desse a vedere star lì, tra tutti quei licantropi con cui era cresciuta ma che non aveva mai apprezzato veramente. Dovevano andarle stretti quel ritorno obbligato e la permanenza che l'aspettava lì, per onorare un licantropo sulla cui tomba avrebbe volentieri sputato; e come darle torto? I ricordi felici che aveva di quel posto appartenevano a un passato davvero lontano, a prima che la sete di potere di Douglas mietesse così tante vittime.

«Già stanca?» l'apostrofò andandole incontro con un vago sorriso stampato in viso, in modo da non insospettire troppo il resto del clan. Fu un istante appena, qualche momento di sorpresa che rallentò la reazione della giovane, ma appena si rese conto di chi le stava parlando, l'ultima figlia dell'Alpha si lanciò contro il fratello, saltandogli al collo: «Joseph!» gli gridò nell'orecchio con una spontaneità che inaspettatamente gli ricordò il branco di Arwen. A Joseph parve quasi di tornare in mezzo ai tavoli e alle panche della caffetteria, dove i gemelli Vogel si lanciavano commenti gioiosi da una parte all'altra della stanza, dove Garrel esplodeva in commenti espliciti nei confronti di Marion o dove Fernando gli si avvicinava per tirargli l'ennesima pacca sulla spalla. Già... la naturalezza di lei aveva proprio lo stesso sapore di quei ricordi, se non fosse che il corpo di uno di quei licantropi fosse stato bruciato solo il giorno prima, appena concluse le pulizie della Villa. 

«Grazie alla Madre Luna stai bene! Ho temuto il peggio quando mi hanno detto di Douglas» continuò la sorella, strappandolo con involontaria prontezza da quei pensieri.

Le mani fredde di Leah gli cinsero il viso e, ritrovandosi così faccia a faccia con lei, si vide riflesso nelle enormi lenti dei suoi improbabili occhiali da sole. In quegli specchi scuri Joseph scorse i segni lasciategli dalla guerra appena trascorsa e, di conseguenza, una morsa gli strinse lo stomaco. Le bende intorno alla testa gli parlavano del modo in cui si era rifiutato di fronteggiare Arwen per amore di una donna che, ora, non aveva la più pallida idea di dove fosse o come stesse - un cruccio che lo tormentava con eccessiva insistenza. Erano la testimonianza della sua riluttanza nel combattere per un casato, un nome e una famiglia in cui non credeva più, di cui finalmente si era reso conto non far parte.

Ma nessuno, a parte Gabriel, avrebbe mai potuto sospettarlo.

Il ragazzo si costrinse a sorridere ancora, anche se d'un tratto il suo buonumore era scemato.

Per quando sua sorella fosse per lui un appiglio, ciò che era successo in quell'ultimo mese non poteva essere dimenticato: il peso delle vite che aveva distrutto era più soffocante del sollievo che un viso amico potesse regalargli.

Lento le spostò le mani, mantenendo una compostezza che non sentiva più così familiare - il vero sé lo aveva lasciato tra i boschi del centro Europa, mentre quello che si era costretto a credere che fosse adesso non gli piaceva più.

Era bastato qualche mese per cancellare completamente anni di duro lavoro. Erano bastati dei sorrisi genuini e bevute in compagnia per fargli capire che la sua vita, quella vita, non era ciò che desiderava; ma soprattutto gli era bastato incontrare Aralyn per capire che nulla, se non la sua presenza, l'avrebbe nuovamente fatto sentire completo - peccato che gli Dèi fossero stati tanto meschini da dividerli a quella maniera.

«E ancora non hai visto Gabe» le disse ammiccando appena, quasi a volersi scrollare di dosso attenzioni che non desiderava.

Leah sembrò stupirsi. Con un dito premette sulla montatura degli occhiali, facendoli scivolare lungo i nasino perfettamente dritto: «Stai scherzando? Ma sta bene?» Non si trattava di vera e propria preoccupazione, quanto più d'incredulità. Loro fratello si pavoneggiava con chiunque per i successi conseguiti negli anni, anche quelli che in realtà non gli appartenevano del tutto, e con la sua spavalderia non faceva altro che evidenziare quanto lui, a differenza di chiunque altro, fosse nato per essere il più grande Alpha di tutti i tempi.
Gabriel sentiva di essere stato messo al mondo per uno scopo, di essere stato scelto da una qualche divinità per governare su tutti i licantropi, peccato solo che non si rendesse conto di aver a che fare solo ed esclusivamente con un'immaginazione troppo fervida e un ego eccessivamente smisurato.

«Cammina, mangia, scopa e respira, quindi sotto quel punto di vista direi che sì, sta bene, ma il suo orgoglio...»
La giovane fremette, aggrappandosi con le mani a quelle del fratello: «Lo hanno preso a calci in quel posto?» sussurrò, in modo che nessuno dei presenti nell'androne potesse sentirla. Non era felice del fatto che i nemici potessero aver avuto la meglio sulla sua gente, semplicemente era entusiasta che qualcuno, finalmente, avesse dimostrato a quell'energumeno del primogenito di non essere poi tanto "eletto" - Joseph lo sapeva bene, glielo aveva ripetuto fino alla nausea durante l'adolescenza e le telefonate scambiate in quegli anni di lontananza. Leah dopotutto era come lui: una pecora nera in mezzo a un gregge all'apparenza perfetto.

«Al tuo posto chiederei direttamente a lui, giusto per rivangare lo smacco» le suggerì con complicità, divincolandosi dalla sua presa e incamminandosi verso la scalinata di granito splendente. L'avevano ripulita con estrema minuzia, levando da ogni gradino i resti organici dei caduti e disinfettando qualsiasi punto in cui ci si potesse appoggiare.
L'odore di sangue era stato presto sostituito da quello nauseante dei detersivi, ma quantomeno non vi era più traccia di ciò che era successo - dettaglio fondamentale in caso qualche ospite si fosse recato lì per assistere al rito funebre.

Il ragazzo prese a salire, seguito a ruota dal ticchettare delle scarpe della sorella che rimase sempre un paio di passi indietro, come prevedeva l'etichetta del branco: «Quindi Arwen e i suoi vi hanno attaccati di sorpresa?» Domandò lei guardandosi attorno con curiosità e circospezione, forse cercando una qualche traccia di ciò che era successo nelle quarantottore precedenti. La giovane non aveva mai realmente partecipato a nessuno scontro, "troppo debole", a detta del padre, per essere coinvolta in attività così brutali e destinate solo a veri mastini della Luna, eppure una parte di lei aveva sempre desiderato entrare a far parte di quel mondo, come i fratelli maggiori. Più volte lo aveva confessato al ragazzo di fronte a lei, senza però riuscire a cambiare la sua situazione.

Joseph sentì improvvisamente il desiderio di afferrare qualcosa, stringerlo con forza, ma cercò di contenersi al meglio. Sapeva bene che ciò che era accaduto sarebbe stato argomento di conversazione per tutti i giorni di veglia e, probabilmente, anche per qualche mese a seguire, eppure non riusciva ad affrontare la questione senza che il lui si risvegliasse qualcosa di indesiderato.

«Sapevamo sarebbero arrivati, ma non pensavamo così presto» confessò, infilandosi i pugni in tasca. Ancora ricordava la conversazione con suo padre, quando il piano per attaccare il Rifugio aveva iniziato a prendere forma. Douglas avrebbe voluto agire prima dei nemici, prenderli alla sprovvista e rimettere in riga gli Impuri, ma non aveva idea che Arwen sarebbe sopraggiunto nemmeno una manciata di giorni dopo la liberazione della sorella - men che meno avrebbe mai sospettato che Kyle si fosse messo nel mezzo. Chissà cosa aveva detto al clan di lei, se li aveva preparati all'orda di violenza che l'Alpha avrebbe voluto lanciargli contro o se semplicemente gli aveva detto di venirla a prendere.

Fece un sospiro, faticando a pronunciare anche i concetti più innocenti: «Abbiamo toccato Arwen nel profondo, era ovvio che avrebbe chiesto vendetta».
Appena misero piede sul pianerottolo Leah si sporse verso di lui. Ora non aveva più nulla a coprirle gli occhi e il blu tetro delle iridi spiccava con eccessiva evidenza sul pallore del suo viso: «Che vorresti dire? Non lo avevate già umiliato abbastanza?» Il broncio con cui gli si rivolse lo fece sorridere. Nonostante l'aspetto ormai più vicino a quello di una femme fatale, che di una ragazzina, aveva ancora gli stessi modi infantili, quelle espressioni che sin dall'infanzia gli suscitavano una certa tenerezza.

Anche lei, come tutti nel clan, era stata istruita al disprezzo verso gli Impuri, ma non per questo era mai stata una convinta sostenitrice delle ideologie paterne. L'ultima figlia di Douglas non odiava i meticci, per lo più provava per loro una sorta di diffidenza - le poche parole aspre che le aveva mai sentito rivolgere nei loro confronti erano solo di circostanza, oppure il riflesso di opinioni condivise nel branco.

«Erano riusciti a prendere il Pugnale, Leah» le fece presente, piegando il capo nella sua direzione: «Nostro padre non glielo avrebbe mai perdonato, così gliel'ho riportato».
«Tu?» le sopracciglia sottili si arcuarono, mostrando tutta la sorpresa della ragazza - dettaglio che lasciò assai perplesso il fratello. Cosa c'era di tanto strano? Non era la prima volta che portava a termine faccende di quel tipo per conto dell'Alpha, dopotutto appena superata la maggiore età aveva dovuto rinunciare agli atti di ribellione e abbassare la testa di fronte ai doveri di un futuro leader.

«Hai qualche rimostranza?» le chiese storcendo la smorfia.
«No, assolutamente!» le mani di lei si alzarono davanti al petto in segno di resa, ma ciò non le impedì di fare una domanda ben più fastidiosa: «Quindi il vecchio è morto perché tu hai umiliato nuovamente Arwen Calhum?»

I piedi di Joseph si fermarono. Il suo sguardo calò confuso sulla figura appena dietro alla spalla.

Quell'eventualità non gli aveva mai sfiorato i pensieri, forse perché in cuor suo aveva dato per scontato, sin dall'inizio, che l'unico ad aver aggravato una situazione già precaria fosse stato Gabriel, fomentato dall'odio di Douglas per coloro che non erano purosangue.
Se loro fratello non si fosse messo in mezzo, strappando Aralyn dalle sue braccia, Arwen non sarebbe mai tornato a reclamare le loro teste - tutto però, adesso che lei glielo faceva notare, era iniziato con la sua decisione di partire per riprendersi il Pugnale.

E se non lo avesse mai fatto? Se si fosse limitato a contare i danni e preparare un'offensiva al sicuro nelle mura della Villa?

Forse avrebbe risparmiato a coloro coinvolti tutti il dolore a cui avevano dovuto far fronte.

Le labbra del licantropo si schiusero appena, senza però aver idea di cosa dire.

Fu lei a spezzare il silenzio: «Come hai fatto?» I suoi occhioni si fecero indagatori, lo scrutarono da cima a fondo provando a immaginare uno scenario plausibile, ma dopo alcuni secondi, privandolo ancora della possibilità di rispondere, si allontanarono sbattendo: «Sono certa sia una storia avvincente, avrai tempo per raccontarmela, l'importante...» d'un tratto si fece cauta, lanciando qualche occhiata nei dintorni. Non vi erano molti confratelli in giro, tra quelli morti e i feriti per i corridoi il via vai era notevolmente diminuito, ma non per questo i loro discorsi erano al sicuro.

Quando riprese a parlare, il tono di Leah divenne un sussurro: «è che il vecchio non ci sia più, anche se temo come potrà agire Gabe da ora in poi» - e non era affatto la sola.


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Capitolo 5
*** The Youngest Menalcan (2/2) ***





3. The youngest Menalcan (2/2)


 

Joseph accompagnò la sorella nelle proprie stanze subito dopo aver fatto visita alla salma del padre e lì, richiudendosi la porta alle spalle, decise che fosse arrivato il momento di dirle ciò che più di tutto aveva temuto. Sapeva di star andando incontro a qualcosa di spiacevole, eppure era conscio che l'unico a poterle dare una notizia come quella era lui - dopotutto il loro era uno dei pochi legami veri presenti in quel clan.

Dapprima osservò Leah muoversi per quella che fino a qualche anno prima era stata la sua cameretta. La seguì con lo sguardo mentre in punta di dita sfiorava le lenzuola con sopra ricamate le rose, poi la testata del letto e infine il comodino, dove nessuno aveva spostato nulla. C'erano ancora gli ultimi libri che aveva letto in quella casa, la lampada d'epoca e la statuina di una valchiria regalatale per il suo nono compleanno; c'erano appesi ai muri i ricordi di una ragazzina appena entrata nell'età adolescenziale, mentre le tende color pesca erano state sostituite da altre bianche. Tutto era rimasto identico a come probabilmente lo ricordavano entrambi perché, grazie al cielo, la furia della battaglia non era riuscita a raggiungere quell'area della Villa - la più lontana nell'ala ovest, in esatta opposizione a quella dei fratelli maggiori.

Lì vi erano poche stanze, tutte dedicate ai membri del branco che, purtroppo per Douglas, erano nati donna. Ammassate le une sulle altre, le femmine era tenute lontane dai punti nevralgici di quel luogo, quasi a evidenziare quanto per l'Alpha la loro presenza fosse inutile; e persino sua figlia, purtroppo, era considerata a quel modo.

«Casa dolce casa» la sentì sospirare con poca convinzione. Seppur quell'edificio fosse di proprietà della loro famiglia da generazioni, pareva quasi che gli unici a non sentirlo così familiare e confortevole fossero proprio loro, gli eredi del capoclan.

Liberando la chioma boccolosa dal cappello, la ragazza si lasciò cadere sul materasso, chiudendo gli occhi in un'espressione di totale stanchezza: «Forse ora potrei sentire questo posto un po' più mio... o almeno finché quel bruto di nostro fratello non ci metterà sopra le sue-» Joseph la interruppe prima che potesse concludere. Avvertiva dentro di sé l'urgenza di metterla al corrente della morte di Kyle, di impedire a chiunque altro di darle quella spiacevole notizia - in fin dei conti, seppur alle volte ne fosse infastidito, sapeva con che occhi sua sorella guardava quell'uomo, li riconosceva: erano gli stessi con cui, all'inizio, lui aveva preso a guardare Aralyn, in un misto di piacere e desiderio. E ora rimpiangeva ogni singolo momento perso, ogni parola che si era detto pur di non cedere a quel sentimento e mettere distanza tra loro, una distanza che ora pareva sciocca se confrontata con quella che li divideva. 
L'aveva persa così presto da sentire la mancanza di tutti i ricordi che non avevano condiviso, del suo profumo che non riusciva a trovare in alcun angolo, dei suoi baci che erano stati troppo pochi. Chissà se, se non si fosse frenato in continuazione, arrendendosi prima al suo bisogno di lei, sarebbe ora stato in grado di aggrapparsi a qualcosa di diverso dai ricordi del suo viso distrutto e una semplice parola.

Respira.

Già, dopo tutti quei mesi aveva compreso cosa volesse dire perdersi per qualcuno, struggersi per la sua assenza, morire al solo pensiero di non poter più respirare la sua stessa aria o ululare alla medesima Luna; quindi, se quello di Leah fosse un imprinting o meno, poco importava - era comunque una sorta di amore e non avrebbe dato a nessuno la possibilità di schiacciare il suo fragile cuore con il peso di ciò che era successo.

Non avrebbe augurato mai, a sua sorella, il vuoto che sentiva dentro, ma soprattutto non avrebbe permesso che a generarlo fossero la bocca e la voce di qualcuno che non aveva idea di cosa si provasse - e nel suo branco, nemmeno uno dei confratelli presenti aveva mai avuto l'onore di innamorarsi; la maggior parte di loro era guidato solo da ciò che gli penzolava tra le gambe, come Gabriel aveva dimostrato più volte nel corso degli anni.

«Dobbiamo parlare» sentenziò, tenendo lo sguardo rivolto verso un punto indefinito.

Non si era preparato a quel momento, eppure doveva affrontarlo.

Leah sbuffò, ancora ignara di ciò che la stava aspettando: «Sì, sì...» fece, sventolando una mano davanti al viso: «c'è da discutere su come comportarsi dopo che il vecchio sarà stato seppellito».

Anche, pensò Joseph muovendo i primi passi verso di lei, ma quello lo avrebbero potuto fare in qualsiasi momento. Avevano ancora più di una settimana a disposizione, esattamente nove giorni, prima che la Luna Nuova si alzasse nuovamente in cielo.

Con una mano, la ragazza si sfilò gli occhiali dallo scollo in cui li aveva lasciati: «Non dovremmo chiedere aiuto anche a Kyle?» domandò ingenuamente, mentre un lieve rossore le imporporò il viso, facendo trapelare ciò che mai aveva apertamente confessato.
Il fratello sentì lo stomaco venir schiacciato da una morsa lieve, eppure fastidiosa, che gl'impedì di avvicinarsi ulteriormente. Non era certo che affiancarla fosse la cosa giusta, dopotutto non si trattava semplicemente della notizia di un lutto, ma anche di un'accusa di tradimento, di una presa di posizione da sempre rinnegata - si trattava di qualcosa di molto più complesso che, presto o tardi, avrebbe compreso anche il chi fosse Aralyn.

«No, non possiamo» soffiò in un sussurro, avvertendo il peso della notizia gravere sempre più sulle spalle. Se in passato dare simili annunci non gli aveva mai procurato alcun disagio, ora che quella perdita lo toccava così nel profondo la questione era ben diversa.

Sua sorella rotolò sul materasso, mettendosi prona: «Perché? E' impegnato?»

Sì, a correre libero per le Lande Selvagge.

Lui scrollò la testa: «Non si trova qu-»
«Tornerà per il funerale, no?» non pareva proprio voler ascoltare, forse perchè dentro di sé avvertiva l'arrivo di qualche brutta notizia a cui non avrebbe saputo come far fronte.

Joseph però, innervosito da quell'involontaria perdita di tempo, la mise a tacere con un ringhio sommesso: «Leah, ascoltami!»
La ragazza sussultò appena, sicuramente presa alla sprovvista dalla sua reazione. L'osservò con occhi grandi di preoccupazione e prima che lui potesse riprendere a parlare iniziò a scuotere la testa con veemenza, lasciando oscillare i boccoli.
«No, non voglio» disse secca, alzandosi dal letto per mettersi a frugare nella borsa che qualcuno, tra i confratelli, le aveva portato in camera insieme ai bagagli. La vide armeggiare tra tasche e taschine con sempre più concitazione: «Qualsiasi cosa tu debba dire, me la dirai dopo che sarà tornato» continuò, certamente sperando di poter allontanare la verità che sentiva prendere forma nella mente.

E a lui tutto ciò scocciò. In qualche modo aveva bisogno che lei lo ascoltasse, che accogliesse quella scomoda situazione e condividessero insieme la consapevolezza di essere da soli in un covo di belve. Privi di reali alleati se non loro stessi; ma soprattutto gli serviva che qualcuno capisse il suo vuoto.

Il purosangue avanzò, sforzando i piedi di ubbidire al proprio volere: «Dannazione!» sbottò poi, afferrandola per un braccio: «Lui non tornerà Leah! Non è più parte di questa vita!» si lasciò sfuggire, sentendo l'amaro pizzicargli la lingua.

Lei agitò il capo, spostando il proprio sguardo da lui alla borsa, dove riprese a cercare con la mano libera: «Non può essere morto» sentenziò senza alcuna titubanza nel tono.

«Ti prego, ascoltami...»

«No!» ringhiò, divincolandosi dalla sua presa. Questa volta, quando i loro occhi s'incontrarono, Joseph vide quelli di lei terribilmente umidi. Il rossore imbarazzato che le aveva colorato il viso era ora della stessa tonalità dell'agitazione e seppe, con incredibile certezza, di averle spezzato il cuore - chissà come avrebbe reagito, quando le avesse confessato che a ucciderlo era stato lui stesso. Chissà con che odio lo avrebbe guardato, che rumore avrebbero fatto gli schiaffi di sua sorella sul viso.

«No...» biascicò, mentre la bocca le si impastava a causa del pianto che stava cercando di trattenere: «Non possono averlo ucciso... lui non avrebbe mai permesso a un Impuro di abbatterlo».

Infatti non era di loro che si trattava - non del tutto, quantomeno.

Mosso dall'istinto, Joseph le cinse la nuca con una mano, portandosela al petto. La strinse con dolcezza sentendola cedere al dolore, quasi volesse confortarla - ma in realtà stava solo provando a farlo con sé stesso e, nonostante fosse sua sorella, desiderò che al suo posto vi fosse qualcun altro, una persona che non aveva idea se mai avrebbe potuto stringere ancora, il cui profumo era diventato essenziale, eppure assente sia nei polmoni, sia nei ricordi.

«Non sono stati gli uomini di Arwen, Leah...» sussurrò a ridosso della sua fronte: «Non è morto in questa guerra, ma per questa guerra» precisò, ritardando ancora di qualche istante il momento della verità.
La ragazza scostò d'un poco il viso dal torace di lui, lì dove il suo mascara, ormai alle prese con le lacrime, aveva lasciato una piccola chiazza scura sul tessuto del completo.

La sua confusione era evidente: «C-che vuoi... che vuoi dire?»

Facendosi forza, il figlio di Douglas scavò dentro di sé alla ricerca delle parole migliori con cui spiegare ogni cosa, senza però dover partire dal principio. C'erano di mezzo troppe questioni, troppe cose che ancora adesso si rimproverava. C'era Aralyn e tutto ciò che significava per lui.
«E' stato per ordine del vecchio. Kyle è morto perché ha tradito Douglas».

Senza alcun preavviso, Leah spinse via il fratello, facendolo barcollare in uno stato di incomprensione. Joseph la guardò con occhi sbarrati, incapace di capire per quale ragione si stesse comportando a quel modo.

«Menti!» la sentì tuonare appena tra loro si creò abbastanza distanza da metterli faccia a faccia: «Questa è una bugia, Joseph! Lui non avrebbe mai tradito il nostro branco, ma soprattutto non avrebbe mai e poi mai osato farlo con te, il suo Alpha!»

«E infatti sono l'unico a cui è stato fedele, tradendo tutti» sibilò, in modo che solo lei potesse sentirlo e arrivandole minacciosamente vicino, annullando così lo spazio che lei aveva posto tra i corpi. 
I suoi canini dovettero apparire più affilati del solito, così come il suo sguardo più deciso, perché la sorella trasalì appena. «E' stato condannato a causa mia...» aggiunse dopo alcuni istanti, spostando lo sguardo sul pavimento. 
La morte di Kyle era l'unica cosa di cui si sentisse realmente responsabile, insieme alla prigionia di Aralyn - due colpe che non sapeva se sarebbero mai sparite dalla sua coscienza, ma con cui cercava di convivere al meglio, vista la situazione.

«Non capisco...» Leah fece un passo indietro, improvvisamente instabile sui suoi sottilissimi tacchi a spillo e il fratello seppe con assoluta certezza che, se lei non avesse deciso di affiancarlo in quella battaglia contro Gabe, ciò che le avrebbe confessato si sarebbe trasformato nella sua fine.

Nonostante questo però, non si frenò più del dovuto: «Si è fatto uccidere per salvare qualcuno a me caro, per impedire che alla gogna finissi io. Lo ha fatto senza che io gli chiedessi nulla, eppure ora che non c'è più gli devo tutto».

Pronunciare quelle parole ad alta voce fu liberatorio. Ammettere i propri peccati sembrò allentare la morsa intorno al cuore, quella che aveva iniziato a stringersi giorni prima e che, lentamente, era certo lo stesse uccidendo.

«Per chi?» domandò la ragazza afferrando il bavero della giacca di lui, pretendendo una risposta. Voleva sapere il nome del licantropo per cui, l'uomo di cui era innamorata da anni, aveva dovuto perdere la vita. La necessità di quell'informazione era terribilmente vivida nella sua espressione - giustamente, si ritrovò a pensare il Puro; eppure non riuscì ad aprir bocca, facendola infuriare.
Leah prese a strattonarlo bruscamente, mentre le lacrime tornavano a scorrere copiosamente sulle sue guance ora sporche di trucco: «Joseph, per chi lo hai sacrificato?» gridò e, a quel punto, a lui toccò tapparle le labbra con una mano, zittirla per impedire che tutto il clan scoprisse il suo segreto - bastava già Gabriel a volerlo sotto terra.

Con movimenti lesti e sapienti, tipici di una persona abituata agli scontri, il ragazzo bloccò la sorella alla bene e meglio, cercando di calmarla: «Ti prego... smettila» era la prima volta che supplicava qualcuno che non fossero La Madre Luna, altri Dèi o l'immagine di Aralyn in un sogno che troppo presto diventava incubo - ma era anche la prima volta in cui sentiva di aver bisogno che qualcuno accettasse i suoi errori senza giudicarlo.

E forse, coscia di ciò, la giovane smise di agitarsi tra le sue braccia, lasciandosi semplicemente andare al dolore.
 

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Capitolo 6
*** A heart for a heart ***





4. A heart for a heart


 

Killian osservò Arwen. Ne scrutò con minuzia ogni dettaglio: dalla nuca su cui si riversavano i raggi dell'alba al naso lungo e curvo da cui sentiva provenire i suoi respiri. Accarezzò con gli occhi le sue spalle e la schiena piegata sotto alla felpa, soffermandosi poi sulla mano con cui stringeva senza sosta quella bendata della sorella, ancora completamente in balìa dell'incoscienza.

Era ammirevole il modo in cui le era rimasto accanto per tutto quel tempo, come persino nel viaggio di ritorno non avesse smesso per un solo momento, anche nel mezzo del racconto di come erano finiti in quella situazione, di lanciarle occhiate sofferenti e preoccupate, forse per via della terribile evenienza che il suo petto smettesse del tutto di alzarsi e abbassarsi e il suo spirito li abbandonasse.
Certo, era uno scenario improbabile visto che lui stesso l'aveva medicata al meglio di ciò che gli era stato concesso - strumentazione essenziale, tempistiche ridotte e una sala operatoria del tutto inappropriata -, ma comunque non impossibile. Poi erano finalmente giunti a Mont Saint Michel, dove l'uomo aveva speso le prime ore della sera a far passare il sangue di lui alle vene di lei, assistendoli in ogni circostanza e pregando che ciò fosse sufficiente a rimettere la piccola Aralyn in sesto. Le ferite però erano tutt'altro che innocue e la degenza sarebbe stata più lunga di qualsiasi altra a cui la giovane fosse mai andata incontro.

Un vero schifo, aveva pensato più volte da quando li aveva rivisti. Di tutti gli scenari che si sarebbe mai potuto figurare, quello era stato certamente il peggiore.
Persino il viaggio di ritorno era stato straziante: vedere i figli dei suoi migliori amici ridotti a quel modo lo aveva nauseato, eppure aveva cercato di fare per loro il possibile, senza giudicare la loro scelta di entrare a far parte di una guerra a suo avviso inutile; dopotutto era il padrino d'entrambi e non poteva permettersi di tradire la fiducia di due morti.

Così, appoggiato allo stipite della porta e con la sigaretta stretta tra l'indice e il medio, si concesse finalmente il lusso di un sospiro.

Erano salvi, tutti e due - ma il "per quanto" era un punto interrogativo che non riusciva a togliersi dalla mente e che vedeva penzolare sopra le teste dei Calhum al pari di una ghigliottina. In fin dei conti la furia dei Nobili non avrebbe trovato pace con così tanta facilità, non bastava qualche giorno di tranquillità per mettere a tacere un astio secolare, lo sapeva bene. Seppur fossero nel ventunesimo secolo, le regole, le egemonie e le mentalità dei licantropi erano ancora ben salde agli ideali e ai valori medioevali, se non quelli ancora più antichi.

Con i piedi scalzi e a passo felpato si avvicinò al letto, restando ora immobile a fissare la sagoma di lei. Guardò Aralyn con un'intensità che sentì essere eccessiva, ma non per questo distolse le proprie attenzioni dalla ragazza.

L'ultima volta che l'aveva vista era stato otto anni prima, quando aveva dovuto sacrificare la mobilità della gamba del fratello per riuscire a salvargli almeno la vita. Ricordava ancora il suo viso terrorizzato, le macchie di sangue che aveva addosso ma che non le appartenevano e le enormi lacrime che le bagnavano le guance paffute. Aveva ancora in mente il suo caschetto scompigliato, i vestiti eccessivamente larghi con cui si era fatta trovare sulla soglia del loro nascondiglio - ai tempi un piccolo agglomerato di casupole di montagna nel Nord-Ovest dell'Italia - e faticò a sovrapporre l'immagine di allora a quella di adesso.

La piccola Ara si era fatta donna, in tutto e per tutto aveva notato, ma in particolar modo era diventata madadh-allaidh: i suoi artigli si erano presi vite, le sue fauci carne, ma soprattutto aveva agito come un vero animale, ignorando le conseguenze delle sue azioni.

In qualche modo rivide in lei l'ombra dell'uomo che le aveva dato la vita ben più di vent'anni prima - e non si trattava solo del biondo cinereo dei capelli, il naso prorompente o l'espressività a renderla tale e quale al padre, in quel metro e settanta scarso scorreva la stessa volontà di proteggere coloro che si amava, la determinazione nel far parte di qualcosa che andasse al di là del proprio sé, ma soprattutto la medesima incoscienza.

Aralyn era davvero la fotocopia di Klaus, solo più lupo.

In punta di dita, usando la mano libera, le scostò dalla fronte una ciocca chiara. Era più calda di quando l'aveva operata e, sicuramente, presto sarebbe diventata scottante. La febbre, in un momento di tale delicatezza, era un sintomo di vitale importanza: se si fosse alzata avrebbe significato che il corpo stava cercando di difendersi dalle infezioni in corso, che non si era ancora arreso.

Con dolcezza passò dalla tempia alla guancia, assaporando il contatto umano dopo moltissimo tempo - escludendo quello con i pazienti, di cui però non gli importava poi molto e che era più un obbligo che un piacere, Killian aveva smesso di concedersi simili lussi.

«Così daonna da essere beathach...» si lasciò sfuggire in un sussurro a metà tra la sua lingua madre e quella parlata, riportando i propri pensieri ancora una volta su cosa, quella ragazzetta, avesse fatto.

Possibile che l'amore per suo fratello l'avesse spinta così lontano? Possibile che le menti di entrambi si fossero ottenebrate a tal punto da scordare le severissime leggi del Concilio? E come pensavano di fuggire, ora, dalle conseguenze? Non potevano certo mollare il loro branco, men che meno portarselo dietro. 
Carlyle invece avrebbe potuto dar loro poco riparo, dopotutto, da membro di quel piccolo e spocchioso gruppo di eletti, un suo rifiuto a collaborare sarebbe stato visto come un tradimento - e perdere il proprio posto tra i licantropi più potenti e facoltosi d'Europa sarebbe equivalso a una sconfitta.

Nemmeno lui, nel suo nascondiglio in quello sperduto angolo di mondo, avrebbe potuto dar loro riparo. Già da solo faticava a mantenere segreta la propria natura, figurarsi se fossero stati in tre. Inoltre, nel giro di qualche anno avrebbe dovuto anche lui andarsene da lì - il fatto che il suo aspetto non potesse mutare era una condanna, più che un privilegio e per evitare di venir scoperto aveva solo una possibilità: andarsene.

Scosse appena la testa, lasciando ondeggiare i suoi lunghissimi capelli scuri: «Ti sei cacciata in un guaio da cui non so come salvarti, mo phàisde » sospirò infine, staccando le dita dalla sua pelle. Qualsiasi idea gli venisse in mente al momento, non sembrava portare ad alcun risultato positivo.
 


 

 

Aralyn aprì gli occhi il terzo giorno. 
Le sue palpebre si schiusero con una lentezza innaturale, quasi pesassero più di quanto avessero mai fatto - e, a dire il vero, a lei parve proprio così.

Sentiva ogni muscolo del proprio corpo indolenzito, ma soprattutto avvertiva un inspiegabile e lancinante dolore al fianco, talmente intenso da farle venir voglia di gridare; peccato che la bocca fosse così impastata e le labbra incollate da impedirglielo.

Non aveva ben chiaro il motivo del male, ricordava ben poco di ciò che era successo dopo aver afferrato il Pugnale della Luna, ma sapeva di essere sopravvissuta.

Le sue membra glielo stavano dicendo con ogni stilettata, con ogni sensazione fastidiosa che si sarebbe voluta scrollare di dosso. Le stavano raccontando ciò che si era evitata - componendo una sinfonia di bruciori, fitte e pruriti- : le Lande Selvagge. 
 

Già, era riuscita a battere la morte ancora una volta, ma non era certa di esserne poi tanto soddisfatta.
In quella sottospecie di sonno in cui si era ritrovata aveva intravisto tra le ombre della mente i profili frastagliati dei pini, le vette scure di montagne tanto alte da sfiorare le nuvole; aveva udito il fragore dei ruscelli che a cascata si buttavano in altra acqua, il cinguettare dolce di uccelli che non era riuscita a identificare e aveva sentito il rumore della natura chiamarla a gran voce. Ogni cosa, di quel sogno, aveva provato ad ammaliarla e, se non fosse stato per un unico particolare, i suoi passi avrebbero continuato a muoversi verso quello scenario idilliaco.

C'era pace nel luogo che si era trovata davanti, una quiete che sapeva di riposo: niente più guerre, niente più sangue, niente più rinunce o cuori fatti a brandelli. Solo estasi per il sé animale.

Un'estasi che però le era parsa vana ed evanescente nel momento in cui, girandosi, non aveva incontrato gli occhi di Joseph. Era stato lui a trattenerla alla vita; lui che, nella sua assenza, l'aveva persuasa.

E sempre per causa sua la coscienza si era a poco a poco fatta più lucida, strappandola dalle grinfie di Morfeo.

Ora che risvegliava nel mondo del dopo però, si rendeva conto che non lo avrebbe visto, men che meno udito. Non c'era il suo corpo a saziare il bisogno di contatto che le sue mani doloranti chiedevano, non c'era il suo profumo a gonfiarle i polmoni - solo il puzzo nauseante di disinfettante e incenso al sandalo. Era stata una rinuncia per il niente, un sacrificio chiesto alla sé lupo per la parte umana, ma alla fine nessuna delle due era riuscita a guadagnare qualcosa - e la sensazione di nostalgico vuoto le si aprì nel petto, iniziando a corroderlo.
 

In quell'esatto istante capì che, visto che gli Dèi non davano mai nulla in cambio del niente, era stata graziata con la propria vita ma derubata del proprio cuore.

Così le lacrime presero a salire sino agli occhi in un moto irrefrenabile. 

Era stata mutilata, ma non fisicamente come Arwen, bensì nell'anima, in un punto in cui nessuno avrebbe mai scorto la grandezza della ferita.
Avrebbe voluto concedersi a un pianto disperato, al dolore più emotivo che tangibile, ma si trattenne, aggrappandosi con le mani alle coperte di lana pur di non cedere. Come avrebbe fatto, ora?

Lui era vivo; lo aveva sentito quando con il fiato le aveva sfiorato la pelle nuda, successivamente lo aveva visto un'ultima volta prima che il nero diventasse totalitario, ma ciò non significava che potesse tornare da lui, non dopo tutto quello che era successo.

Ma poi, cosa era accaduto realmente? Dopo il colpo che aveva preso alla nuca, come era riuscita a scampare a Douglas e Gabriel?

Quelle domande arrivarono al pari di uno schiaffo in pieno viso, arrestando il desiderio di scoppiare in lacrime e Aralyn sentì l'urgenza di capire, di mettere insieme la sequenza di eventi tra il suo ultimo ricordo e quella... stanza? Si guardò un attimo attorno, cercando di mettere a fuoco quanti più dettagli possibili.
Il legno predominava su gran parte della struttura, scuro e profumato, mentre tra una giunzione e l'altra si frapponevano pareti di calcestruzzo grezzo su cui svettavano un paio di mensole e uno specchio a figura intera da cui riusciva a scorgersi solo in parte. Sopra alla sua testa, tra le doghe del soffitto, pendevano alcuni mazzi di fiori ed erbe essiccate, intervallate di tanto in tanto da pendenti fatti di pietre colorate, dalle forme tondeggianti e i riflessi lievi. Sul comodino accanto a lei, un turibolo di ceramica lasciava che il fumo dell'incenso si librasse nell'aria senza incendiare nulla, proteggendola dalle malignità che potevano esserle rimaste appiccicate addosso dopo la battaglia - era un'usanza antica, una superstizione tramandata dagli antenati.

Sì, quella era proprio una camera, anche se le sembrò quasi di stare in un bazar oppure nell'antro di una strega, ma nonostante ciò non ne ebbe paura: c'era qualcosa, in tutto quell'insieme, che la confortava.

Ma a chi apparteneva? E perché, infondo, si sentiva al sicuro sotto quelle coperte e in mezzo a tutti quei monili?

Avrebbe voluto chiederlo a qualcuno, ma sulla sedia accanto al letto non trovò nessuno, solo il fantasma di una presenza. Così, mossa dalla curiosità e dal bisogno di risposte, provò a fuggir via dal materasso - anche se la sua corsa fu davvero breve. Le bastò spostare appena una gamba che fitte atroci la fecero gridare e, stavolta, nemmeno le corde vocali indolenzite riuscirono a impedirglielo.

Il dolore partì dal ventre e salì lungo tutto il fianco, intensificandosi nell'area centrale. Arrivò all'improvviso e senza alcuna pietà; una sensazione tanto intensa da mozzarle il fiato. Fu come venir pugnalata più e più volte, senza però morire veramente.

Prima che potesse rendersene conto, enormi lacrime bollenti presero a scenderle lungo il viso, riversandosi poi sulla stoffa che ancora le copriva buona parte del corpo.
Non c'era mai stato dolore fisico tanto brutale, pensò, scavando svelta tra i propri ricordi. Non un osso rotto o un taglio le avevano mai fatto desiderare di perdere completamente coscienza di sé - solo una volta si era ritrovata a soffrir tanto e, sfortunatamente, era stato quando Joseph le aveva spezzato il cuore.

Un nuovo verso le scappò di bocca, facendole poi stringere i denti sulla lingua a tal punto da riempirsi la bocca di sangue. Possibile che potesse sentire una sensazione così familiare amplificarsi di decine di volte?

Cosa diamine le era successo?

Sbraitando ancora qualche istante tra sé e sé, si decise a guardare il punto da cui aveva origine della sua sofferenza, ma, prima che potesse alzare a sufficienza il lembo delle lenzuola, un suono la fece distrarre, riportando il suo sguardo ai piedi del letto.
Il rumore si fece sempre più intenso, aumentò rapidamente - a tal punto che Aralyn, persino intontita, riuscì a identificarlo come una corsa un po' sbilenca.

Le ci volle un momento, poi la memoria e la sorpresa ebbero la meglio.

Arwen?
Arwen!

Ignorando nuovamente il fatto che fosse irrimediabilmente allettata cercò di corrergli incontro, ritrovandosi però a mugugnare e inveire contro il fato che l'aveva punita. Qualsiasi movimento del busto o delle gambe le faceva vedere i sorci verdi, rizzare i peli e desiderare il peggio - per questo, quando la porta si aprì, la giovane rimase a fissare il vuoto con una smorfia di dolore stampata in viso; sicuramente il saluto che nessuno si sarebbe aspettato di ricevere.

Suo fratello fece capolino nella stanza con un'irruenza che mai gli aveva visto usare dal giorno dell'incidente, colto da una foga che nelle condizioni in cui vergeva la sua gamba sarebbe stato meglio anche stavolta evitare, eppure era visibilmente agitato - ma non preoccupato.

Il cuore le saltò in gola, bloccando le lacrime che stava versato nel tentativo di scendere dal materasso. Rimase paralizzata a fissarlo, lasciando che gli occhi le si riempissero della sua figura.
Era lì con lei, stava bene e Aralyn non avrebbe saputo in che modo ringraziare gli Dèi - almeno un lato positivo, in tutta quella schifosissima storia, c'era.


I lunghissimi capelli bianchi dell'uomo erano stretti in una treccia perfetta, tanto umidi da lasciare chiazze scure sulla felpa che aveva indosso e che lei era certa non gli appartenesse, ma soprattutto erano tirati indietro, lasciando libera la fronte su cui svettava una crosta spessa e sconosciuta.

Un terribile lascito di ciò a cui erano andati incontro, questo era certo, ma anche per lui la gratificante testimonianza di essere sopravvissuto.

«Ara...» gli sentì sussurrare senza preavviso, facendola sussultare un poco. 
Che incanto sentire ancora quel nomignolo uscire dalle sue labbra, che dolcezza percepire la sua voce carezzevole sui timpani.
Quello di suo fratello fu un richiamo ricco di gioia e speranza, una sorta di "grazie" rivolto a chiunque li avesse benedetti. Nei suoi occhi divampò la fiamma dell'appagamento, lo vide illuminarsi di una felicità a cui non dava mai modo di trapelare - e lei gli sorrise di rimando, sentendosi improvvisamente invadere dalle stesse emozioni.

I fratelli Calhum avevano nuovamente fatto fronte all'ennesimo ostacolo, insieme, esattamente come in precedenza.

Un miracolo, si ritrovò a pensare. Un indescrivibile regalo degli Dèi.

Prima che potesse dirgli qualsiasi cosa però, sentì i piedi scalzi di lui picchiare forte contro le assi del parquet e poi, del tutto inaspettatamente, le labbra bollenti che solo una volta aveva avuto modo di incontrare, premersi addosso alle sue con voracità.

Arwen la baciò senza curarsi di nulla e nessuno. Ignorò tutti i pericoli che un simile gesto comportava e si schiacciò a lei con una dolcezza e un trasporto che la giovane si ritrovò a non condividere - non come in passato, quantomeno. Eppure non ebbe la forza di scacciarlo, non ebbe l'esigenza di sottrarsi al suo amore; anzi, quasi se ne sentì confortata, percependo un senso di sollievo.

Se l'amava ancora, non l'avrebbe più rinnegata.
Se la desiderava ancora, non ci sarebbe stata alcuna punizione ad attenderla.

Si ritrovò a pensare mentre il profumo di suo fratello l'avvolgeva in un abbraccio caldo e consolatorio e, susseguentemente, le parve quasi che il vuoto lasciatole da Joseph Menalcan stesse prendendo una breve pausa dallo sbranarla viva.
Forse avrebbe potuto mettere una toppa alla sua assenza, riversare l'amore per quel licantropo da qualche altra parte viste le circostanze; dopotutto dubitava fortemente che un giorno, di un qualsiasi futuro, sarebbe riuscita a tornare da lui.
Così, quando le mani dell'Alpha le cinsero il viso e le labbra si schiusero appena, Aralyn si convinse di poter trasformare Arwen nell'anestetico perfetto; perché quella mancanza non avrebbe mai smesso di avvelenarla.



 

Termini in Gaelico (Scozzese)

madadh-allaidh - lupo 

daonna - umana 

beathach - animale 

mo phàisde - piccola mia 

 

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Capitolo 7
*** Subverting this World ***





5. Subverting this World

A strappare i due fratelli da quel momento di inopportuna intimità fu Killian che, bussando sulla porta già spalancata, fece notare la sua presenza lì.
Aralyn si sentì impietrire quando i suoi occhi nero pece le calarono addosso, avvertì il cuore bloccarlesi in gola e il sangue ghiacciare nelle vene. Riuscì senza fatica a scorgere nell'espressione di lui severità e dissenso per ciò che doveva aver visto, ma non parve voler esprimersi sulla questione - o quantomeno non ne ebbe tempo.
L'albino gli saltò al collo, compiendo un gesto così spontaneo che la sorella non riuscì a credere si trattasse dello stesso licantropo con cui aveva convissuto per quasi ventitré anni. Dove era tutta la sua compostezza? E quel distacco con cui si era sempre approcciato a qualsiasi persona che non fosse lei o Garrel?

L'incredulità la lasciò priva di pensieri logici con cui spiegare quella reazione, abbandonandola in un semplice stato di contemplazione. Persino il bruno parve non essere preparato a una simile evenienza, infatti la sua espressione cambiò totalmente e, con una certa preoccupazione, si rivolse a lei in ovvia ricerca d'aiuto.

«L'hai salvata!» sentì dire a suo fratello a ridosso della spalla dell'altro: «Grazie ad Arianrhod hai le mani d'oro!» continuò.

Allora era per merito suo se non era morta e si trovava lì, constatò Aralyn. Era stato lui a impedirle, seppur in parte, di raggiungere le Lande Selvagge. Beh, dopotutto a chi si sarebbe potuto rivolgere, Arwen, se non a lui? Era stato al loro fianco in qualsiasi momento tragico e, a quanto pareva, anche la sua quasi dipartita era stata abbastanza reale e terribile da convincere suo fratello a chiamare quel numero che, sin dall'infanzia, le era stato detto di non contattare mai - se non in caso di estrema necessità.

Killian, visibilmente a disagio, picchiettò una delle mani sulla schiena dell'albino e, poi, cercò di divincolarsi: «Ringrazio la Madre Luna di tante cose, ma più che per le mie mani, per non avermi portato via anche voi». Finalmente riuscì a sfuggire alla presa dell'Alpha, scivolando silenzioso verso il letto - e più si avvicinava, più Aralyn si sentiva mancare l'aria nei polmoni. Qualcuno avrebbe potuto dire che fosse bello, anzi, quasi certamente al di fuori di lei le donne lo avrebbero pensato, ma sin da quando ne aveva memoria, la ragazza ricordava di averlo temuto. La sua presenza la metteva in soggezione, così austera, oscura e... stanca, eppure non si poteva dire che ora lo temesse come allora.

Sapeva che era buono, leale e loro amico - se non l'unica sottospecie di figura familiare che era loro rimasta -, ma nonostante ciò non era mai riuscita a dargli la confidenza che invece gli riservava il fratello. Arwen lo aveva conosciuto più di quanto avesse mai fatto lei e nei suoi racconti, quel tipo, era dipinto quasi al pari di uno zio; cosa che la giovane non seppe dire se condividesse o meno.

Le dita di lui le si premettero con dolcezza sulla fronte, controllandone la temperatura. I lunghissimi capelli scuri le sfiorarono le braccia, solleticandole la pelle e, inevitabilmente, facendola sussultare.

Il licantropo le sorrise, forse per la prima volta, cercando di rassicurarla: «Hai fame?» le chiese, senza staccare lo sguardo dal suo viso.

Aralyn si sentiva imbarazzata, ma più che per il fatto che avesse visto lei e il fratello baciarsi, per la vicinanza tra i loro corpi e quel contatto. Killian era concreto, reale, non lo spirito che aveva sempre creduto essere.

Annuì mestamente: «Poco, però».
«Quanto non m'importa, il semplice fatto che il tuo stomaco reclami cibo è positivo» i polpastrelli di lui si staccarono e con un lieve movimento del capo si volse verso l'altro uomo: «Prepareresti del tè al bergamotto? Due tazze, grazie. Inoltre, nella mensola accanto alla cappa trovi dei biscotti. Prendi anche quelli».

Il buonumore di Arwen si dissolse un poco, mostrando la confusione che lo colse alla fine di quella richiesta del tutto denigrante e inaspettata - poi mosse qualche passo in avanti con un'autorevolezza inappropriata: «Vorrei restare». Il suo tono deciso vibrò nell'aria, ma l'altro parve non venir affatto turbato da quella specie di velata imperiosità. Il bruno non era al servizio dell'albino, così come aveva rifiutato qualsiasi altro Signore e, da Solitario quale era, non avrebbe lasciato che l'influsso di un Alpha lo mettesse in ginocchio, soprattutto in casa propria. Così strinse le braccia al petto, guardando il ragazzo di fronte a sé dritto negli occhi.

«Ciò che vuoi tu, ora, non è ciò di cui ha bisogno lei, mac» sibilò.
«L'ho quasi persa, Kil! Lasciami starle accanto almeno qualche ora» e nuovamente Aralyn si ritrovò sorpresa: aveva udito bene? Suo fratello si stava davvero lamentando come un bambino capriccioso?
Al cospetto di quello scambio alquanto surreale, la lupa non riuscì a trattenere le risa, anche se presto la gioia si trasformò in colpi di tosse e guaiti doloranti - persino contrarre quelle sottospecie di addominali che si ritrovava era fonte di dolore!

Entrambi i licantropi presenti con lei si volsero nella sua direzione, piegandosi poi sull'alcova di lana e piuma d'oca in cui era costretta.
Il padrone di casa non fece alcun tipo di complimento e, con un gesto brusco, le tolse di dosso parte delle coperte che le celavano le gambe, svelando un corpo che nemmeno lei si sarebbe aspettata di trovare nudo. Fu un momento, un brevissimo lasso in cui Aralyn credette che il tempo si fermasse. L'imbarazzo fu totale, sentì persino la punta delle proprie orecchie diventare rosse e bollenti, così, in un gesto istintivo e senza rendersi conto di quali sarebbero potute essere le conseguenze, tirò la maglia che aveva indosso quanto più possibile.

Doveva assolutamente coprirsi - e non perché nessuno doveva vederla svestita, dopotutto essere un lupo mannaro voleva dire girare nudi per buona parte della propria esistenza, quanto più perché improvvisamente si sentì gelosa del proprio corpo. Gli occhi di quei due le parvero voler violare qualcosa che non gli era concesso - anche perché l'ultimo sguardo che aveva sentito su di sé, giusto prima della perdita di conoscenza, era anche l'unico a cui si sentiva appartenere.

E poi c'era Arwen. Suo fratello, l'Alpha, l'uomo di cui era stata innamorata per anni, che aveva tradito e che ora avrebbe dovuto nuovamente ingraziarsi per riuscire a sopravvivere a Joseph.

Era a lui che non voleva mostrarsi, a lui che voleva nascondersi ancora per un po', almeno fino al momento in cui la carne non avesse dimenticato le sensazioni datale da quel Puro.

Così la giovane strinse i denti e versò lacrime tanto amare da sembrar veleno, ma non mollò la presa, anche se il dolore tentò di strapparla nuovamente dal mondo della veglia.

Killian agitò le mani, tentando di farle riprendere una postura più consona, ma al secondo tentativo fallito, si protese verso l'altro: «Niente tè, prendi le cose che ho lasciato in fondo al corridoio» ordinò poi, forse intuendo qualcosa.
L'albino non se lo fece ripetere due volte. Sgattaiolò fuori dalla camera quanto più velocemente gli riuscì e, appena fu fuori, Aralyn lanciò un'occhiata di gratitudine verso il suo salvatore - ora, anche se non lo avesse capito prima, sarebbe stato impossibile non ricollegare la presenza dell'Alpha a quella reazione sconsiderata. Così, quando si iniziarono a sentire i passi di ritorno dell'uomo, il padrone di casa si fece trovare sulla soglia della camera da letto e, lì, lo placcò. Gli tolse di mano tutto ciò che stava reggendo e, forse con un lieve sorriso, inviò Arwen a non entrare: «Ora, la tisana al bergamotto» disse, quasi a mo di saluto.

«Come?»
«Se prima dubitavo che la ferita si fosse aperta, adesso ne ho quasi la certezza, quindi mi serve poter visitare tua sorella in santa pace, okay? Nel mentre, aspetto due tazze fumanti e i biscotti, così potrete prendervi un po' di tempo per voi» continuò l'uomo imperterrito e, quando l'altro provò a ribattere, lo bloccò ancor prima che la voce potesse uscirgli dalle labbra. «Non sei nella posizione per obbiettare, quindi ubbidisci don uncail» e così dicendo, gli chiuse la porta in faccia, dividendolo da loro.

***

«Posso farti una domanda?»
Aralyn alzò lo sguardo dai punti di sutura, spostandolo in direzione di Killian. L'uomo se ne stava rivolto verso la finestra e la luce pallida di una giornata uggiosa gli accarezzava il viso, mettendo ancor più in evidenza il suo pallore. A tratti, più che un licantropo, quel tizio sembrava un vampiro, un'entità oscura e malevola a cui pochi avrebbero voluto avvicinarsi - ma era buono, in fin dei conti, solo più schivo di molte altre persone.

Lo vide rimettersi la moltitudine di anelli in acciaio, senza però ricambiare le sue attenzioni.
«Perché hai seguito Arwen in questa follia?» le domandò a bruciapelo, senza lasciarle modo di rispondere al quesito precedente. La sua espressione era seria, non lasciava trapelare nulla; eppure fino a qualche minuto prima, mentre le disinfettava le varie ferite, aveva riso a ogni sua smorfia di dolore, ai guaiti e alle suppliche di far piano: cosa era cambiato, tutto d'un tratto?

La ragazza sentì la bocca riempirsi d'amaro. Conosceva bene la risposta a quella domanda, ma sapeva che non avrebbe potuto svelarla a nessuno per adesso, nemmeno a lui.

Per saldare un debito.
Ma soprattutto per rivederlo. Per proteggerlo. 
Per Joseph.

«E' l'unica famiglia che ho, Killian, farei qualsiasi cosa per lui» nel dirlo si ritrovò a stringere i pugni sull'orlo della maglia. Già, qualsiasi cosa: anche fingere di provare per lui un sentimento ormai morto pur di costringerlo vicino a sé, abbastanza d'aiutarla a tenere insieme i bordi ai lati del vuoto.

Il padrone di casa, sistemandosi una ciocca scura dietro l'orecchio, sospirò: «Arwen ti ama, Aralyn. E' palese, ma tu lo chiami famiglia» i suoi occhi calarono sul letto, colpendola come schiaffi in pieno viso: «Dubito che avrebbe rischiato la tua vita a quel modo solo per un Pugnale, quindi perché lo ha fatto? E perché tu non sei riuscita a farlo rinsavire?»

Lei si morse la lingua. Davvero aveva creduto di fregare un uomo con il triplo dei suoi anni? Anche se l'aspetto lo faceva apparire quasi come un coetaneo di suo fratello, quel licantropo aveva alle spalle più esperienza degli eredi Calhum messi insieme, non doveva pensare di poter sbeffeggiare uno come lui.

«Eppure lo aveva già fatto, in passato» provò a difendersi, sapendo però di aver già perso.

Killian le si mise accanto, stravaccandosi sull'unica sedia nella stanza. L'angolo della sua bocca si alzò: «Potrebbe sembrarlo, non lo nego» disse, mentre i suoi occhi scuri le passavano addosso con un certo divertimento: «Ma se non erro ti ha sempre circondata con i migliori sealgairean  del Clan. Sapeva che saresti tornata, ogni volta» la corsa delle sue pupille su di lei si interruppe una volta giunti al volto, rimanendo così fermi a fissarla.
Un brivido le corse lungo la schiena, riportando alla memoria qualcosa. Si sentì penetrare la carne, oltrepassare le ossa e accarezzare i pensieri, come se quel mannaro potesse leggerle dentro - e per quello che ricordava, solo in un'altra occasione si era sentita tanto vulnerabile.

Quel tizio aveva ragione. Seppur le azioni di Arwen potessero sembrare irresponsabili e stupide di primo acchito, non aveva mai lasciato nulla al caso. C'era sempre un piano b, un perché, un modo per riportarla da a casa - non era diventato Alpha solo per il sangue che gli scorreva nelle vene, la fiducia dei suoi sottoposti se l'era guadagnata.

La ragazza prese a torturarsi il labbro. Gli incisivi premettero sulla carne, senza però affondare mai veramente. Voleva davvero provare a resistergli? Voleva davvero sfidarlo?

Così, ingoiando quel boccone amaro che difficilmente sarebbe riuscita a digerire, sospirò rassegnata: «Vendetta».
«Su chi?»

Aralyn aprì bocca, poi la richiuse. Provò nuovamente a rispondere, ma si scoprì incerta.

Su chi?

Sui Menalcan? Solo in minima parte, perché in fin dei conti i mandanti delle torture che lei aveva dovuto subire erano stati loro.
Su di Joseph, che aveva rubato il Pugnale della Luna e si era preso la sua donna? Quasi certamente buona parte del merito gliela si doveva all'erede di Douglas, tanto furbo nella semplicità del suo piano da averli messi in ginocchio, ma soprattutto d'aver tolto dalle mani di Arwen tutto ciò che lo faceva sentire completo.
Su di lei? La fetta di colpe restanti, in effetti, non poteva essere data ad altri. Lo aveva tradito, sia come sorella, sia come braccio destro e, soprattutto, come sua compagna - sempre se così si sarebbe mai potuta definire, visto il contesto.
Insomma, puntare il dito solo in una direzione era impossibile.

Nella sua esitazione, Killian sembrò spazientirsi: «Devo saperlo, Ara» sibilò, protendendosi un poco verso di lei.

«Perché?»

A quella domanda, l'uomo s'infervorò, agitando una mano nell'aria e indicando punti imprecisati dello spazio intorno a loro: «Perché senza nemmeno rendervene conto vi siete cacciati in un guaio che non ho idea di come farvi sistemare. Qui c'è in ballo la vostra vita, lo capisci? Siete scampati alle Lande Selvagge ora per finirci tra...» si interruppe, contraendo la mascella. Il suo sguardo si spostò altrove, forse perché guardarla stava diventando difficile: «Non lo so quando, ma prima di quel che possiamo immaginare» sentenziò poi, lasciandosi andare sullo schienale di legno.

Che voleva dire?

Aralyn corrugò le sopracciglia: «Parli dei Menalcan?»
«Parlo del Concilio, bambina mia» gli occhi del padrone di casa baluginarono verso di lei, severi: «Hai idea di cosa hai fatto?»

Non ci volle molto prima che una risposta riempisse il silenzio. Anche se la giovane non riusciva ancora a mettere insieme i pezzi del suo disastro, lui aveva già concluso tutto il quadro - per questo, forse vedendola confusa, riprese.

«Hai ucciso un Alpha» ricordò.

«Sì, lo so benissimo, ma non -» Killian la interruppe con un gesto, mettendola a tacere.
«Se fosse stato un qualsiasi capoclan, lo sai anche tu, la nostra legge ti avrebbe obbligata a prenderne il posto nel branco, ma Douglas non è un licantropo qualunque» si prese le tempie, concedendosi qualche grosso respiro. 
La lupa rimase immobile, in attesa. Sapeva anche lei che il patriarca dei Menalcan non era certo un licantropo qualunque: oltre che essere un Alpha era a capo del Concilio, in quanto possessore ultimo del Pugnale, ma nessun Impuro poteva anelare a un simile ruolo - inoltre, lei non poteva certo prenderne il posto all'interno del branco: loro erano purosangue, ma soprattutto...! Un lampo le passò nella mente, un dettaglio che non aveva considerato in alcun modo riaffiorò dalla memoria.

Finché si era trattato solo di sogni e minacce urlate ai quattro venti non si era preoccupata di nulla: uccidere quel vecchio altro non era che un'utopia, una possibilità che aveva creduto non sarebbe mai capitata a lei. Così il continuo parlarne, immaginarlo e il fatto che non vi fossero stati casi precedenti da prima della sua nascita, aveva seppellito quel particolare in mezzo a tanti altri pensieri - fino a quel momento.

Sentì il sangue defluire dalle guance: «E' un Nobile...» disse, colta improvvisamente da un tremore.

I Menalcan, così come la famiglia di Ophelia, i Simmons e i vari membri di quel gruppo di mannari altolocati, erano licantropi eletti. Non si trattava solo di Puri, ma di dinastie nate all'alba dei tempi: il loro sangue, agli occhi del mondo di cui facevano parte, era nettamente superiore a quello di chiunque altro.

E lei lo aveva versato, senza però averne alcun diritto.
Una stupida, piccola mezzosangue priva di qualsiasi autorità o riconoscimento, aveva osato andare contro alle regole centenarie dei Figli di Mànagmàr.

Visibilmente turbato, l'uomo con lei annuì: «Sì, credo tu abbia capito. Secondo la legge solo un licantropo Alpha può ucciderne un altro che appartiene a una casta differente, altrimenti, qualsiasi lupo venisse accusato di un simile atto, sarebbe condannato a morte» fece una breve pausa, provando ad afferrarle una mano. Aralyn rimase inerme, ora troppo spaventata di fronte alle conseguenze di ciò che, nel momento in cui lo aveva compiuto, le era parso giusto. «E tu non sei né un capobranco, né un purosangue» concluse, stringendo sulle bende.
 

mac (figliolo)
don uncail (allo zietto)
sealgairean (cacciatori)


 

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Capitolo 8
*** A jerk will never change ***






6. A jerk will never change

Ripulito da cima a fondo, l'enorme tavolo di marmo a cui i figli di Douglas erano seduti, non era mai apparso tanto luccicante: una sorta di bijoux in mezzo all'austerità di quell'angusta sala in cui la famiglia dell'Alpha si riuniva per i pasti. E a furia di fissarlo, a Joseph fecero male gli occhi.

Era la quarta cena che li vedeva lì riuniti, avvolti in un silenzio intervallato di tanto in tanto da qualche chiacchiera di circostanza. Nessuno aveva parlato né dell'eredità del vecchio lupo, né di ciò che era accaduto a Villa Menalcan nell'ultimo mese, ma qualcosa, quella sera, aveva aizzato il sesto senso del ragazzo, facendogli temere il peggio.

Per rispetto, essendo ancora in lutto, nessuno si era seduto al posto del padre defunto, ma i tre licantropi si erano piuttosto schierati sui due lati opposti della tavolata: Gabriel da una parte, solo come lo era da una vita, fronteggiato dal secondogenito e Leah, uniti ora da un dolore che stavano cercando di tener segreto, ma al contempo divisi da ciò che Joseph si era rifiutato di dire.

Se il ricordo di Kyle era per entrambi, quello di Aralyn era solo suo - non era certo sua sorella potesse capire il loro amore, l'imprinting che li legava in modo indissolubile e che stava cercando di ribaltare le regole del mondo che avevano sempre conosciuto. Così aveva taciuto tutto, creando un piccola ferita nella loro alleanza.

Gabe alzò il calice di cristallo, scuotendone la sangria all'interno. Ogni tanto qualche minuscolo pezzo di mela, pera oppure di ciliegia, sbatteva contro il vetro per venir poi risucchiato nel turbinio del vino, provando a distrarre i presenti dall'espressione eccessivamente soddisfatta dell'uomo che, finalmente, era riuscito a infilarsi nuovamente addosso uno dei suoi tanto amati completi dal colore improbabile. Le ferite procurategli dalla ragazza dovevano aver iniziato a far la crosta, pensò l'altro, e ciò gli permetteva una maggiore mobilità e sopportazione del fastidio.

«Ancora una manciata di giorni» lo si sentì constatare.

Leah da sotto al tavolo allungò una mano, aggrappandosi con le dita all'orlo della giacca del fratello. Lui la sentì tirare e non ci volle altro per fargli capire che, anche lei, stava temendo l'ultima notte di Luna - dal giorno seguente, la guerra per il potere sarebbe iniziata senza alcuna pietà.
Però, nonostante si sapessero in svantaggio, non potevano in alcun modo fargli capire quanto lo temessero: «Al momento in cui ti leverai di torno?» la domanda del giovane arrivò con uno schiocco della lingua, ma al posto di infastidire l'altro, come aveva sperato, generò in lui una sottospecie di ilarità.

Gli angoli della bocca del più grande tra i figli dell'Alpha si alzarono, così come la mano che teneva il calice. L'arto mimò il movimento di un brindisi e, ciò, non fece altro che confondere il secondogenito. Perché mai Gabriel era così tranquillo? Quale piano stava architettando in quella sua mente da animale?
Immaginarlo fu quasi impossibile.

Dopotutto lui era quello più incline ad agire con minor razionalità, quindi seguire una qualsivoglia logica per comprendere le sue azioni diveniva inutile.

L'omone prese un sorso dal calice, diluendo l'attesa fingendo di gustare il vino aromatizzato. La sua riluttanza nel voler dar loro una risposta prese a innervosire Joseph, tanto che per un momento pensò di conficcargli la forchetta che teneva tra le dita nel dorso della mano - in fin dei conti, dopo tutto ciò che aveva fatto per rovinargli la vita sarebbe stato il male minore.

«No, affatto... quanto più al momento in cui potremmo finalmente dire addio ai Calhum».

Il cuore del ragazzo perse un colpo. Aveva sentito bene? E cosa significava quell'affermazione?
La presa di Leah si fece più pesante sul bordo della giacca e per la prima volta volle scrollarsela di dosso e guizzare al collo del fratello maggiore, cercando di estorcergli informazioni il più in fretta possibile; ma doveva attendere, desistere dal mostrare il tradimento che aveva involontariamente perpetrato nei confronti del proprio sangue.

Con lo stomaco stretto in una morsa nauseante provò a ottenere qualche dettaglio in più: perché se Gabe aveva intenzione di attaccare i lupi di Arwen, nelle condizioni in cui era il loro stesso clan, era un folle. Da una sessantina di licantropi, i Menalcan si erano ridotti a una quarantina, mentre il branco del Nord poteva vantare al proprio fianco gli alleati del Duca. Carlyle non avrebbe permesso che i suoi pupilli venissero messi in ginocchio, altrimenti non li avrebbe sostenuti anche durante l'attacco di qualche notte prima.

«Non abbiamo abbastanza uomini per affrontarli con così poco preavviso...»
L'altro allargò maggiormente il sorriso, poggiando il calice. Nella sua espressione vi era qualcosa che metteva i brividi e Joseph pregò con tutto sé stesso che il fratello parlasse, spiegando nei dettagli come volesse agire - almeno avrebbe potuto escogitare un piano per mettergli i bastoni tra le ruote, per cercare di salvare Aralyn; dopotutto era per quel motivo che stava restando, per lei che non aveva abbandonato la famiglia e, sempre per lei, che avrebbe impedito a Gabriel di diventare Alpha.

«E se ti dicessi che ce ne basteranno molti meno?»

Un nuovo sussulto del cuore, seguito da una sorta di apnea. Di che diamine stava parlando? Voleva forse assoldare dei cacciatori o degli assassini? Voleva affidarsi a mani umane per dar forma alla propria vendetta?

Leah si protese in avanti, incurante del fatto che i propri ricci perfetti stessero finendo nel piatto - oh, ma chi se ne fregava dei capelli di sua sorella! C'era la vita della sua compagna nel mezzo e nulla aveva la stessa importanza.

«Di che stai parlando?» domandò lei e, quando con la coda dell'occhio Joseph ne vide l'espressione, quasi si sentì sopraffare. Nello sguardo della ragazza c'era una sorta di luce famelica, il fantasma della bestia che anche lei serbava dentro di sé e che, certamente, doveva aver iniziato a reclamare sangue come quella di chiunque facesse parte del loro clan.

Ma come era possibile?

Non si ricordava che Kyle, il suo amato Kyle, aveva dato la vita per i nemici? Si era già scordata che lui stesso le aveva confessato di essere dalla loro parte?

Però, nonostante quella reazione al commento di Gabe, la giovane non aveva staccato le proprie dita dalla sua giacca: era ancora aggrappata a lui. Che stesse fingendo, quindi?

L'uomo si lasciò andare sullo schienale della seduta, una nuova aggiunta all'arredamento visti i danni riportati, e da lì sogghignò per qualche istante, senza però dare spiegazioni. Il fatto che si stesse crogiolando tanto nella propria auto-celebrazione pareva voler indicare le cose peggiori - ma quale fosse il metro di valutazione, quando si trattava di lui, era ancora un mistero.

«Hai studiato il Codice, in quel puzzolente collegio umano, Leah?» chiese all'unica dei fratelli che pareva dargli realmente corda; e lei in risposta annuì, restando in attesa. Ogni istante che passava però, aumentava la stretta che Joseph sentiva allo stomaco e, se non si fosse imposto di non vomitare, avrebbe rigurgitato il filetto appena divorato.
Gabriel non aveva citato qualcosa di irrilevante, anzi, si stava facendo forte delle leggi più antiche del loro mondo e, questo, altro non era che monito di atroci sventure.

«Ebbene, la quinta regola».

La sorella sembrò non afferrare subito ciò che quel commento stesse a indicare, ma lui invece lo fece e, di conseguenza, avvertì il sangue defluirgli dal viso, mentre il lupo cercava di montare verso la sua coscienza e prenderne possesso, in modo da infilare la forchetta non solo nel dorso della mano di Gabe, ma anche nel torace, nel collo, negli occhi e in qualsiasi altro punto gli andasse di farlo.

Bastardo.
Bastardo, bastardo, bastardo!

Non riuscì a pensare ad altro. Suo fratello era vera feccia, un mostro, il più vile tra gli uomini che avesse avuto mai il dispiacere di incontrare - ma a renderlo ancora più schifoso ai suoi occhi, c'era il fatto che condividesse il suo stesso sangue.

Joseph non riuscì a far altro che guardarlo per interminabili minuti. Rimase muto a fissarlo, mentre con la mente immaginava i modi più atroci per ammazzarlo.

Quel verme aveva convocato il giudizio del Concilio.

Leah d'un tratto parve capire e, nel farlo, allentò la presa: «Ma Arwen Calhum è un Alpha... la legge parla chiaro: nonostante sia Impuro la sua posizione gli permette di uccidere un capoclan, anche Nobile». L'ignoranza trapelò da tutta l'innocenza di quel commento, dal modo in cui il suo finto ghigno si trasformò in rinnovata confusione. Lei non sapeva, non aveva alcuna idea di quanto complicate fossero le cose in realtà e, ripensandoci, riportando alla mente solo alcuni stralci dell'intricata rete di eventi che erano intercorsi in quell'anno, Joseph non riuscì a controllarsi.

Con un pugno picchiò forte contro il marmo, facendo sobbalzare la ragazza al suo fianco poi, con un ringhio, si rivolse al fratello più grande: «Stai scherzando, vero? Non hai mai usato un neurone in tutta la tua schifosissima vita e, ora, magicamente ti ricordi di averne?» Le unghie del suo sé animale presero a raschiare le viscere, graffiarono con violenza l'interno del corpo nel tentativo di trovare una via d'uscita ed emergere per piantonarsi nel viso che avevano di fronte.

Gabriel però di quella reazione ne fece tesoro, se la rimirò con una lentezza fastidiosa: «Cos'è che ti infastidisce tanto, moccioso? Non è forse questo il modo corretto di agire?» si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sul tavolo e sfidandolo: «Nessun uomo sacrificato, nessun piano da escogitare... è la soluzione perfetta! E poi, riunire il Concilio per quella sgualdrina tornerà utile anche a noi, per onorare Douglas ed eleggere il suo erede».

Sgualdrina...

Avrebbe tanto voluto inciderglielo in fronte, quel termine. Lo ripeteva così tante volte quando si rivolgeva a lei che avrebbe dovuto far sapere a tutti essere il suo aggettivo preferito. Eppure, quella che lui paragonava tanto a una prostituta, aveva più morale e valori di quanti Gabe potesse raccogliere in un'esistenza intera - ma soprattutto aveva più palle di quelle che lui amava tanto sventolare ai quattro venti, visto che era riuscita sia a metterlo in difficoltà, sia a uccidere un Alpha; anche se quest'ultimo particolare, ora, le sarebbe costato fin troppo caro.

«Era una nostra battaglia» sibilò, giusto per riuscire a mantenere una facciata di finta lealtà - anche se l'altro maschio aveva fin troppi sospetti su cosa vi si nascondesse dietro.

«Dici?» il primogenito alzò le spalle, poi le riabbassò in un gesto teatrale, troppo tronfio per rendersi conto di quanto stesse portando il fratellino al limite della sopportazione e a un passo da un possibile massacro - dopotutto Gabriel era certo di essergli superiore, non lo aveva temuto in passato, figurarsi nel presente e se mai lo avesse fatto in futuro.
«Io invece credo che fosse la battaglia dei Menalcan, ma non la tua» disse poi, trasformando il proprio sguardo in una lama affilata, tanto tagliente da far sentire Joseph minacciato, ormai con le spalle al muro. Era perso, confuso. 
Come obbiettare? Come far credere di non essere ferito o coinvolto da tutta quella situazione?

Grazie al cielo però, Leah si mise in mezzo distraendo l'uomo, anche se lo fece con il commento peggiore: «Di che state farneticando? Chi ha ucciso papà?»

E fu dapprima silenzio, poi gelo. Da un lato forse Gabe voleva udire come, il suo "adorato" fratellino, avrebbe descritto la questione, o magari Aralyn stessa, mentre dall'altro, il secondogenito si ritrovò con il cuore in gola. Una parola sbagliata, sarebbe bastata quella a muovere contro di lui un'accusa di tradimento e, se il branco fosse stato d'accordo, finire a sua volta in ginocchio di fronte al Concilio - un dettaglio che non poteva sottovalutare se voleva essere in qualche modo d'aiuto alla sua amata.

La ragazza ringhiò ancora, questa volta convincendo il meno rabbioso dei due a darle spiegazioni: «Non te lo hanno detto? A uccidere Douglas è stata la sorellina dell'Alpha del Nord,» di nuovo, il suo sguardo calò su Joseph: «nonché la proprietaria delle ultime cosce in cui tuo fratello si è infilato».

L'interpellato sentì la sorpresa di Leah schiacciarlo, percepì i suoi occhi su di sé al pari di macigni e seppe, con assoluta certezza, che ne rimase sconvolta.

Chissà cosa aveva pensato la sua mente fanciullesca. Chissà quali scenari contorti si era figurata per spiegare il sacrificio di Kyle.

Ma di fronte a Gabe non potevano concedersi il lusso di spiegazioni, così, costringendosi in una smorfia divertita, il ragazzo si prese il viso in una mano: «Che male c'è? Ho solo colpito Arwen nell'orgoglio, gli ho fatto vedere chi dei due è il vero Lupo, qui», ma quelle parole raschiarono la gola, brucianti. Ciò che aveva appena pronunciato aveva lo stesso sapore dell'acido - e non gli piacque affatto avvertirlo in bocca.
Forse, in un passato nemmeno così lontano, avrebbe sentito quel commento suo, veritiero, ma ora aveva tutt'altro significato; era l'ennesimo piccolo tradimento che si permetteva di compiere nei confronti della più giovane tra i Calhum. Era l'equivalente di gettare sale sulle ferite aperte di un cuore che finalmente aveva capito come sentirsi completo.

«Beh, ma a quanto pare lei non ha capito il tuo intento, oppure ha la certezza che non vi sia un secondo fine, visto il modo in cui è corsa da te quella sera...»

L'energumeno non demorse, cercando d'infliggere ancora qualche colpo basso.

«Cosa ti urta maggiormente, Gabe?» la voce di Leah, seppur lieve, sembrò tuonare per la stanza, spezzando quell'insistente, ma soprattutto infinito, lancio di frecciatine tra l'uno e l'altro fratello.

Joseph volse lo sguardo verso di lei, sorpreso dalla sua capacità di resistere e nascondere le proprie emozioni per riuscire a sostenerlo al cospetto di un contesto tanto ostile, seppur fosse certo che, in realtà, la sorella non desiderasse altro che saltargli al collo e provare a strozzarlo per ciò che, alla fine, aveva scoperto essere successo.

Sicuramente, si disse, la ragazza doveva provare per lui una sorta di ribrezzo ora che era stato svelato il motivo che aveva portato tanta tragedia - e con lei non avrebbe potuto mentire, né trovare scuse. Aveva ammesso di aver tradito il clan, di averlo fatto per una persona cara e, adesso che Gabriel aveva aperto bocca, quella che era stata per ben due giorni una chimera tra i pensieri di Leah, prendeva il nome di Aralyn Calhum.

Il giovane però non fu il solo a girarsi verso di lei, anche il maggiore tra di loro posò i propri occhi curiosi sul viso della lupa, restando in attesa di un proseguo che erano certi sarebbe arrivato. E nessuno di loro sbagliò.

La figlia più piccola dell'Alpha si bagnò le labbra con la sangria, evidenziandone il rossore, poi prese a muovere il calice di fronte all'ovale perfetto che era la sua faccia: «Perché è palese che tu sia ferito nell'orgoglio e che, per la prima volta nei tuoi trentaquattro anni di vita, ti stia sentendo impreparato ad affrontare i nemici. Ammettilo,» la sua espressione si aprì in un sorriso a metà tra l'ovvietà e la riluttanza: «I Calhum ti hanno messo in ginocchio non una, ma ben due volte» aggiunse, allargando le braccia e sporgendosi un poco in avanti. Pareva non temere in alcun modo il primogenito, forse a causa della rabbia che le stava montando dentro - perché Joseph lo sapeva, seppur si sentissero diversi dal quel vichingo bruno tutto muscoli e niente cervello, avevano alcuni aspetti del carattere simili: Leah era eccessivamente incline all'arrabbiatura, orgogliosa quanto bastava per renderla un vero e proprio peperino, mentre lui sapeva di condividerne l'indole animale.

«Quindi cosa ti infastidisce tanto? Il fatto che a differenza tua Joseph possa essere amato, anche se si tratta di un gioco, oppure il fatto di non poter sopravvivere a quei due meticci senza un aiuto? Perché sai bene come la pensava papà sui poveri Impuri: ricorrere al Concilio con loro vuol dire non saperli gestire da sé» e, inaspettatamente, il ragazzo accanto a lei si ritrovò ad alzare le sopracciglia in completa sorpresa. Sua sorella aveva davvero fatto ricorso alle parole di quel vecchio? Aveva realmente ascoltato uno dei suoi mille sproloqui sulla supremazia dei Nobili?

Fu stupefacente vedere con quanta sicurezza la giovane si fosse fatta forte dei concetti di un uomo che detestava, ma al contempo li legava, trasformando quelle frasi in spilli da conficcare nell'armatura di sicurezze del mannaro che avevano di fronte. In due anni era cresciuta moltissimo, ma soprattutto era diventata una buona erede di quel casato.

Il viso di Gabriel divenne una maschera di disprezzo. Il suo odio per la sorellina divenne palpabile nell'aria e, con quel commento, Leah si era assicurata di non venir compresa nei suoi piani per il futuro. La sua era una velata conferma sul fatto che avrebbe sostenuto Joseph in quella battaglia interna alla famiglia; che sì, forse appena avessero avuto un momento da soli lo avrebbe aggredito, ma che non lo avrebbe tradito per il primogenito: nessuno dei due voleva vederlo diventare Alpha. 

Ad ogni modo, ancora una volta era stata una ragazzetta grande la metà di Gabe a metterlo con le spalle al muro - ma il suo orgoglio non volle cedere, così dal fondo della gola sbottò: «Perché sporcarmi le mani, quando posso punirli entrambi, pubblicamente e privare quel verme di Arwen del suo tesoro più grande?» domandò, anche se fu difficile capire se fosse un quesito diretto a lei o a sé stesso, quasi per giustificazione. E, quando dopo alcuni minuti nessuno gli rispose, con un movimento brusco si alzò dalla tavola, mimando il gesto di uno sputo e incamminandosi poi verso l'uscita.

Non era una vittoria, ma sicuramente un punto di partenza - anche se ciò che li aspettava sarebbe stato molto più difficoltoso di quanto potessero immaginare.

 



 

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Capitolo 9
*** Who is she? ***



(l'immagine è di mia creazione e proprietà)

7. Who is she?

Come da previsione, Leah non gli lasciò alcuno scampo. Appena si fu alzato dal tavolo per andare in un qualsiasi luogo che fosse lontano dai latrati lamentosi della sua famiglia, lei gli corse dietro - eppure aveva bisogno di restar solo, di riflettere su ciò che Gabriel aveva confessato.
Cercò di seminarla più e più volte, senza però ottenere alcun risultato e, quando furono nei pressi delle sue stanze, la giovane gli si aggrappò al braccio con eccessiva veemenza; gli occhi blu ora furenti come il falò più ingordo.

«Non credi di aver omesso qualche dettaglio?» lo apostrofò appena prima di varcare la porta, bloccando la sua fuga proprio a un passo dalla salvezza.

Joseph avvertì i muscoli tendersi, una morsa stringergli il petto e, quando si volse verso di lei, la consapevolezza di non poter più evitare la conversazione divenne soffocante - e allora sbuffò, ormai rassegnato: «Ho le mie ragioni» provò a dire, forse in un vago tentativo di rimandare quel discorso il più a lungo possibile; peccato solo che sua sorella avesse ereditato la stessa cocciutaggine di Gabe e, per questo, non demorse.
«Non mi interessa quale scusa tu voglia usare, chiaro? Kyle è morto, l'ho perso per sempre e tutto per...» la ragazza fece una piccola pausa, si guardò attorno con circospezione chiudendosi nelle spalle: «chi? Ho bisogno di capire, Joseph, di conoscerla» sibilò poi, mentre nei suoi occhi si faceva largo l'ombra del pianto. Fu un'immagine alquanto persuasiva, capace di smuovere in lui una pietà che non credeva di poter provare per un membro di quel clan - eppure Leah riuscì a far breccia nella sua corazza.

Il ragazzo scosse la testa, conscio di quale segreto le stesse per rivelare, della gravità delle parole che avrebbe pronunciato di lì a poco - e ripensò a Kyle, a quell'amico che aveva rinunciato alla propria vita per Aralyn, anzi, per loro, per quello che aveva scoperto unirli in modo indissolubile e per ciò che sarebbero potuti diventare in futuro, vicino o lontano. Poi pensò a sua sorella, che tanto aveva amato quel licantropo, seppur in segreto, e che aveva tutto il diritto di fare simili richieste, di voler capire quanto valore avesse quella sconosciuta.

Se i ruoli si fossero invertiti, lui non avrebbe desiderato altrettanto?

Così si prese la fronte con una mano, cercando di contenere la moltitudine di pensieri che sentiva premere contro il cranio: «Okay. Okay... fammi prendere un'auto, andiamo altrove per parlarne» sbuffò infine, allontanando le dita dal viso, ora pallido.

Non aveva idea di quali sensazioni lo avrebbero assalito, non sapeva se rivangare certi ricordi avrebbe smosso in lui emozioni non del tutto desiderate, ma non sembrava aver altra scelta se non affrontare ognuna delle cose che lo aspettavano a viso aperto.

A grandi passi percorse a ritroso la strada verso i piani inferiori, torturandosi la lingua con i canini. Era pronto a condividere i suoi sbagli? A dare il ricordo di Aralyn in pasto a qualcuno che non fosse sé stesso?

Perché il viso di lei, il sorriso, le lacrime e il suo profumo erano stati tesori solo suoi e degli incubi che lo avevano perseguitato tutte le notti dalla loro separazione.

Fece per scendere il primo gradino dell'enorme scala quando, d'improvviso, allungò una mano in direzione del confratello più vicino, esortandolo con un'autorevolezza degna di un Alpha. Gli ordinò di procurargli una vettura e lasciarla in moto di fronte alla Villa; così, appena quello annuì, mollò la presa su di lui, osservandosi attorno con ribrezzo.

***

Aralyn si era trascinata a fatica fino allo specchio di fronte al proprio letto, aggrappandosi ovunque le fosse possibile per evitare che il polpaccio offeso potesse tradire la sua stabilità. Aveva cercato di muoversi silenziosamente, in modo da non attirare nemmeno uno dei due licantropi presenti con lei in quella casa. Desiderava compiere quell'impresa senza alcun aiuto, scoprirsi nella riservatezza della solitudine. Aveva bisogno di vedersi, di realizzare in totale libertà quanto si fosse rovinata nel giro di poche settimane. Così era infine arrivata al cospetto della superficie riflettente che per anni aveva confortato il suo ego, ma che per la prima volta le pareva tanto terrificante da indurla a distogliere lo sguardo dalla propria figura.

Per i giorni di coscienza passati sotto alle coperte di quella che era la sua nuova e momentanea alcova, la giovane non aveva fatto altro che scrutare con circospezione lo specchio, combattuta tra il desiderio di rivedersi e la paura di dover far fronte al dolore - sia fisico, sia emotivo -, ma alla fine aveva stretto i denti, alzandosi dal materasso in cui era sprofondata e mettendo un piede di fronte all'altro, arrivando a destinazione.

Negare la sofferenza dei tagli ancora in procinto di rimarginarsi sarebbe stato inutile quanto ridicolo, ogni falcata le era costata cara, ma nonostante le fitte lancinanti aveva continuato senza troppi indugi; solo di tanto in tanto si era concessa qualche istante per riprendere fiato. Ed ora se ne stava lì, immobile a fissarsi, mentre tremori lievi le scuotevano il corpo. Nuda con sé stessa, la maglia abbandonata a terra come uno straccio e gli occhi pieni di paura e tristezza. Si guardava, sì, senza però osservarsi veramente. 
Davanti alle sue pupille c'era come un velo, una tenda di lacrime che non voleva scostare per timore di non saper più come fermare il pianto - e allora se ne stava lì, scongiurando Arawn di non reclamarla nuovamente a sé per condurla nelle Lande Selvagge, di darle ancora qualche anno, oppure qualche mese. In realtà le importava poco del tempo, ciò che le interessava veramente era riuscire a rivedere ancora Joseph, sfiorarne la figura, assaporare il suo profumo.

Eppure sapeva non sarebbe successo. 
Ora che Douglas era morto, il figlio avrebbe dovuto fare i conti con l'eredità dell'Alpha, con il suo ruolo nel clan Menalcan e, soprattutto, con Gabriel. Lei sarebbe stata solo un'enorme spina nel fianco - non che prima fosse diverso, certo, però dopo ciò che aveva fatto le cose si erano ancor più complicate, diventando una matassa di guai a cui lei non avrebbe saputo trovare né capo, né coda.

Ma lui l'amava, no? O quantomeno lo aveva fatto se aveva permesso a Kyle di liberarla, di darle la vita - una vita che però Aralyn aveva nuovamente dato per scontata, visto ciò che la stava aspettando.

Con una sorta di ribrezzo, la ragazza passò le dita sui bordi frastagliati delle ferite, cercando di riportare alla memoria il dolore che l'avrebbe attesa. Chissà come venivano puniti, quelli accusati del suo medesimo crimine; li trapassavano con il Pugnale? Spezzavano loro il collo? Li aggredivano in gruppo? Non ne aveva alcuna idea. A dire il vero, non aveva mai visto, ma nemmeno udito, di una condanna come la sua - e come poteva? Probabilmente l'unica sciocca a compiere una cavolata del genere era stata lei, negli ultimi decenni.

D'un tratto i tremori presero a farsi più intensi, tanto che lievi stilettate presero a farle mordere la lingua per impedire ai mugolii di riversarsi fuori dalla sua bocca.

Stupida. Stupida, stupida, stupida!
Si ripetè picchiando le nocche contro la fronte, sempre più lentamente, finché le fu impossibile trattenere ancora i singulti.

Aralyn prese a piangere in silenzio, piegandosi su sé stessa nonostante il dolore, arrovellandosi sul pensiero che, alla fine, era riuscita a distruggere ogni cosa. 
Se fosse stata la medesima ragazza di sei mesi prima nulla di tutto ciò sarebbe capitato. Se fosse rimasta salda ai suoi ideali, se avesse continuato a guardare Arwen e lui soltanto, non sarebbe successo niente di tutto quello che l'aveva portata fin lì; e ora sulla sua testa non sarebbe penzolata così minacciosamente la spada di Damocle.

***

Leah girò la cannuccia colorata, prima in una direzione, poi nell'altra. Erano arrivati al locale, un lounge bar fin troppo sofisticato per la zona in cui si trovavano, da circa mezz'ora e suo fratello non aveva ancora aperto bocca. Se ne stava lì, fermo di fronte a lei a torturarsi le dita, nervoso come mai lo aveva visto essere. Possibile che ciò che dovesse confessarle fosse così segreto? Dopotutto si trattava di un'Impura che presto o tardi sarebbe morta, quindi perché essere tanto agitati?

«Allora?» domandò spazientita, appoggiando i gomiti sul tavolo e sporgendosi in avanti per catturare la sua attenzione, ma Joseph nemmeno la guardò in viso, forse troppo occupato a fare i conti con i fantasmi di ciò che lei ancora non conosceva - e odiava essere all'oscuro di così tante cose, odiava non poter capire la ragione per cui l'uomo dei suoi sogni era stato ucciso così barbaramente dal suo stesso clan.

Il licantropo di fronte a lei esitò ancora. Le sue labbra parevano sigillate con lo stagno e, a quel punto, vista la sua ovvia riluttanza nell'affrontare l'argomento, la ragazza picchiò un palmo sul tavolino, attirando a sé le attenzioni non solo del fratello, ma anche di buona parte dei presenti; dopotutto non era atteggiamento comune, il suo.

Guardandosi attorno con circospezione, Leah controllò che nessuno s'interessasse a loro più del dovuto e, poi, tornò al viso di Joseph: «Vuoi dirmi chi è?»

Lui finalmente sembrò ridestarsi dai propri turbamenti e, passandosi una mano sul viso, prese a parlare: «Si tratta della sorella minore di Arwen» esordì, già visibilmente provato dalla conversazione. Doveva davvero costargli caro rivangare certi eventi o ricordi, ciò che aveva vissuto in quegli ultimi mesi doveva essere stato un susseguirsi di esperienze capace di ancorarsi a lui con eccessiva intensità - ma perché?
«E' per lei che Kyle si è sacrificato, per lei che Douglas è morto» aggiunse, riportando il proprio sguardo su un punto indefinito del locale, pronto a tacere nuovamente. Leah però non poteva permetterglielo, aveva bisogno di saperne di più, così lo incalzò.

«Perché?»
«Che intendi?» le sopracciglia del ragazzo si corrugarono.

«Perchè Kyle si è sacrificato per lei? Che ragione avevi di fargli fare una simile stupidaggine?» la sofferenza nel suo tono era udibile, dopotutto lo aveva amato in segreto per anni e perderlo prima di potersi dare anche una sola possibilità la logorava con insistenza. Se non fosse stato per il suo affidabile cuscino, tutti alla Villa avrebbero sentito i suoi lamenti notturni, scoprendo così la sua infatuazione per un lupo ormai seppellito con la nomina di traditore. Fingere di fronte al ragazzo che le stava seduto innanzi era però un inutile spreco di energie. Lui conosceva Kyle, sapeva la verità e, per questo, non le avrebbe fatto alcuna colpa.

Ancora una volta tra loro scese il silenzio, ma a differenza di prima la giovane esitò a spronare il fratello. Vide senza difficoltà il suo petto gonfiarsi di rammarico e i suoi occhi spegnersi per qualche breve istante, andando a cercare dentro di sé la forza per continuare la conversazione - e seppe che, anche senza insistere, avrebbe ottenuto la risposta desiderata.

«Perché lui mi era fedele, Leah» i canini di Joseph si premettero nella carne con sempre più forza, minacciando la pelle nel tentativo di trattenere la confessione che stava per farle, cercando di tenere segreta una verità che sin dalle parole di Gabriel aveva preso a tormentarla. Fu quando il primo rivolo rosso scese lungo la curva del labbro che il belloccio davanti a lei aprì bocca, svelando ciò che più di tutto la ragazza stava temendo: «ed io lo sono a lei».

Per un attimo le parve di non capire. L'ultima figlia di Douglas prese a sbattere le lunghe ciglia scure, ad aprire le labbra per poi richiuderle senza pronunciare nulla. Quella rivelazione, di cui aveva già iniziato a sospettare qualcosa, la colse comunque alla sprovvista, spaesandola più di quello che avrebbe mai creduto.

Era davvero suo fratello quello che aveva ammesso tale peccato? Era davvero il lupo con cui giocava da bambina o che guardava con ammirazione negli anni della fanciullezza?

Possibile che uno tra i più spietati guerrieri del clan, nonché l'erede dell'Alpha, stesse ripudiando ogni cosa per una... meticcia?

Leah scosse la testa, sempre più incredula.

Douglas aveva cresciuto lei, Joseph e Gabriel nel disprezzo dei mezzosangue, licantropi indegni di essere definiti tali. Li aveva istruiti alla violenza, ricordando loro di essere i prescelti di tutti gli Dèi, specialmente Arianrhod, la Madre Luna - e suo fratello aveva ubbidito a quelle imposizioni per tutta la sua vita, fino a quel momento.

«Stai scherzando, vero?»
Lui negò.

Con le lacrime agli occhi la lupa si protese maggiormente, afferrandogli la mano più vicina: «Joseph... tu...» non riuscì nemmeno a trovare le parole per continuare. Lo sbigottimento e la rabbia erano tali da impedirle di formulare con logicità un qualsiasi pensiero. La loro quotidianità, la vita che avevano sempre conosciuto era stata distrutta per una nemica.

«Vorrei poterti dire che me ne pento, ma non è così» sibilò Joseph, sottraendosi al suo tocco e riservandole uno sguardo degno dei re più potenti, tanto deciso e autorevole da farla sentire indifesa, incapace di opporsi: «appartengo più ad Aralyn Calhum che ai Menalcan, Leah, e questo non cambierà mai» fece una pausa, bagnandosi il labbro e portando via i resti del sangue. Il suo sguardo tornò vivo, si infiammò come prima di uno scontro. L'azzurro dei suoi occhi divenne bollente, ghiaccio caldo di cui temerne il contatto. In quel preciso istante, in lui la ragazza poté scorgere l'ombra dell'Alpha che era destinato a essere: «quindi farò di tutto per impedire a quello schifoso di Gabriel di portarmela via» ringhiò, ponendo fine alla conversazione.


 

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Capitolo 10
*** Alliance ***




(l'immagine è di mia creazione e proprietà)



8. Alliance

Lo aveva fatto.
Aveva ammesso di essere pronto a tutto per Aralyn, per proteggerla, per salvarla - e le sue parole erano state udite, il suo tradimento svelato senza alcun ripensamento di fronte al viso esterrefatto di Leah. E lei non aveva capito. Era riuscito a leggerglielo nello sguardo con talmente tanta chiarezza da restarne deluso, per questo aveva avvertito l'urgenza di uscire dal locale, di allontanarsi da sua sorella e prendere aria, rinfrescare il sangue che sentiva ribollire nelle vene.

Aveva realmente sperato di trovare in lei un'alleata, di poter contare sul suo sostegno nella battaglia a cui aveva deciso di prendere parte, ma come degna Menalcan, la giovane aveva visto nel suo legame con un'Impura dell'orrore. Dopotutto come poteva credere che un lignaggio tanto puro potesse accettare un imbastardimento? Sì, Gabriel ci aveva già messo del suo dando alla luce i suoi nipoti, ma loro non avrebbero mai potuto reclamare alcun diritto nel mondo dei licantropi, loro madre invece, in quello umano, tutti gli alimenti che avesse ritenuto necessari.

Senza rendersene conto strinse il filtro tra le dita, tanto da poter sentire le falangi toccarsi. Era furibondo, ma dire esattamente nei confronti di chi, o che cosa, era difficile. L'unica certezza che possedeva era il suo voler tornare da Aralyn. Ovunque lei fosse, Joseph desiderava potersi nuovamente stringere a lei - peccato che ogni cosa gli fosse contro.

Sarebbe stato bello dismettere il suo completo su misura, abbandonare il gel per capelli, dimenticare il suo passato e semplicemente cercarla; un sogno!, avrebbe potuto pensare qualcuno, peccato solo che nel giro di poco sarebbe diventato un incubo. Se da un lato c'erano Gabe e il Concilio, dall'altro Arwen e il Duca, nemici indiscussi uniti da un unico obiettivo: ammazzare almeno uno di loro - anche se la giovane Calhum era momentaneamente quella più a rischio.

Nuovamente i denti gli si strinsero sul labbro inferiore, facendo riaffiorare il rivolo di sangue che aveva appena smesso di minacciare il suo viso.

Non c'era fuga alla loro condanna, ma solo un misero spiraglio di speranza: se fosse riuscito a diventare Alpha prima della sentenza del Concilio, forse, avrebbe potuto ritirare le accuse mosse da Gabriel. Ma gli avrebbero creduto? Se avesse preso il posto di suo padre, sarebbe riuscito a piegare al proprio volere gli altri membri di quella stupida setta? Inoltre, doveva considerare anche la reazione del proprio clan; nessuno dei suoi confratelli l'avrebbe perdonato con tanta facilità se avesse mostrato clemenza nei confronti degli assassini di Douglas.

Già, e non poteva certo permettersi il lusso di dare il via a un ammutinamento da parte del suo branco, come avrebbe fatto a tenere i suoi lupi lontani da lei, poi?

La frustrazione prese a crescergli nel petto, tanto dirompente da svegliare qualcosa che avrebbe invece dovuto tenere a bada.

Il suo sé animale prese a ringhiare, facendogli uscire dalla gola un suono gutturale che attirò l'attenzione degli altri avventori del locale, usciti come lui per una boccata di nicotina. Erano poco più di una manciata, divisi inequamente tra uomini e donne, ma nessuno di loro pareva rendersi conto del rischio a cui stavano venendo esposti. Così, appena Joseph incrociò i loro sguardi confusi e in parte inorriditi dal connubio di un aspetto tanto bello e di versi così innaturali, l'istinto di nascondere il proprio rancore e natura sparì, lasciandogli mostrare un angolo della bocca che sarebbe stato meglio non far vedere. Se pensavano che quello fosse l'unico dettaglio di lui a poter spaventare, si sbagliavano di grosso. I canini avevano già preso ad allungarsi minacciosamente, esattamente come gli artigli, mentre il resto di lui stava cercando di non esagerare con la mutazione - anche se la sentiva ribollire come lava sotto alla pelle.

La legge dei mannari però parlava chiaro: nessun umano doveva scoprire la loro natura e, seppur evidentemente preda della sua indole, provò a non esplodere.

Peccato solo che il giovane licantropo non fosse il solo a sentir prudere le mani e, così, forse a causa dell'alcol ingerito o della sporadica dose di adrenalina, oppure per darsi qualche tono di fronte agli occhi delle donzelle presenti, uno dei bellocci che aveva osato sfidare il suo sguardo si fece vicino. Con passo sicuro avanzò nella sua direzione, gonfiando il petto al pari di un pollo troppo tronfio e, poi, gli rivolse qualche commento da film, parole che però a Joseph arrivarono ovattate. Aveva le orecchie tappate, sorde di fronte a un mondo che non era quello che sentiva agitarsi dentro e che stava ancora combattendo una guerra che non pareva aver fine - anche se il viso di quello sconosciuto sembrava essere il pretesto perfetto per portare un po' di calma.

Così, al suo ennesimo tentativo di fare il gradasso, la sigaretta del Lupo cadde a terra e, in meno di un battito di ciglia, le dita che prima avevano stretto il filtro ora si avvinghiavano al bavero di quella che aveva tutta l'aria di essere una camicia da grandi magazzini. Si strinsero con forza, mentre le unghie ne strappavano alcune parti e, con altrettanto impeto, il suo braccio riuscì a far vacillare lo sconosciuto che aveva davanti, i cui occhi avevano preso a farsi grandi per lo stupore.

«Ehi, amico... ti conviene mollarmi, sai? Potresti pentirti di avermi sgualcito la camicia» l'umano provò in qualche modo a camuffare la propria paura, la sorpresa con cui era stato colto, ma più dalla sua bocca uscivano battute da finto duro, più l'altro riusciva a fiutare il suo disagio. E gli piacque. Il sentore di timore che stava riempiendo le narici del licantropo era quasi inebriante - chissà se anche il suono delle sue suppliche, o delle ossa rotte, avrebbe fatto sentire Joseph altrettanto bene.

E fu proprio a causa di quel desiderio che, come un fulmine a ciel sereno, nella mente del Nobile tornò a galla un ricordo che desiderò poter riportare sul fondo dell'inconscio in ogni modo; così, per evitarsi di spaccargli il naso e rivivere concretamente quell'esperienza, spintonò l'estraneo lontano da sé, il più possibile - anche se il muro non gli permise di mettere più di qualche manciata di centimetri tra loro.

Nelle sue mani poté avvertire nuovamente la resistenza dei muscoli, il calore di un corpo, il solletichio dei capelli. Poté percepire la sensazione ancora vivida della mollezza con cui, una volta spezzato, il collo di Kyle aveva lasciato cadere la testa da un lato, priva di una qualsiasi vita.

Gli era bastato bramare violenza, lasciarsi sopraffare per un istante dall'istinto cacciatore dei Menalcan per ritrovarsi ancora una volta a fare i conti con i crimini commessi - e che fossero di guerra o meno, poco importava, per lui restavano atroci. Da quando aveva giurato fedeltà ad Arwen, seppur non realmente, il calore del clan del Nord aveva dato tutt'altro valore a qualsiasi cosa lo circondasse: l'amicizia era diventata un punto di riferimento, la lealtà qualcosa da guadagnarsi con il sudore, la famiglia una questione di fiducia, più che di sangue. E per quanto detestasse Gabriel per ciò che aveva fatto e volesse sfogare la propria rabbia verso di lui in un qualsiasi modo, il ricordo di Kyle ebbe la meglio; non era ancora pronto a sporcarsi nuovamente le mani.

Lanciò un'occhiata bieca in direzione del gradasso, cercando di non provare per lui ribrezzo o pietà, ma in quel momento di sconforto e frustrazione chiunque avrebbe potuto trasformarsi nel bersaglio perfetto, persino un insulso umano.

Eppure doveva resistere. Nessuno, se non suo fratello e la loro discendenza, era colpevole di ciò che stava accadendo e, men che meno, si sentiva capace di far del male a un innocente ancora una volta - sapeva che se avesse lasciato prevale il suo sangue, gli incubi e i fantasmi non lo avrebbero più lasciato in pace. C'erano già i ricordi di Aralyn a farlo svegliare in preda al panico ogni notte, non voleva che qualcun altro si unisse a lei.

D'improvviso, a interrompere quel battibecco impari, si levò la voce di Leah. La sua figura balzò di fronte a quella del fratello e, mani ben ancorate sui fianchi, si mise a rimproverare il povero inetto che aveva osato sfidarlo: «Sentimi bene, John Rambo del momento, è meglio che la finiate qui se non vuoi ritrovarti a passare le prossime sere in ospedale!» schioccò la sua linguetta biforcuta. 
Tanto piccola e inesperta, eppure così maligna e orgogliosa: Leah non aveva nulla da invidiare a nessuno e, con quella sua uscita - squallida quanto quelle fatte dall'umano -, stava provando a dimostrare il suo temperamento.

Il tizio provò a opporsi, sicuramente meno spaventato da quella mocciosa di quanto lo potesse essere con lui, ma qualcosa, sul viso di lei, lo turbò tanto da fargli muovere qualche titubante passo all'indietro.

«Impara a reggere l'alcol, prima di buttarti in azioni suicida!» sbottò la vocetta della lupa un'ultima volta, riempiendo lo spazio dell'entrata. Quasi certamente, doveva aver fatto anche lei ricorso a una mezza mutazione dei connotati.

Joseph rimase interdetto a fissare la testolina boccoluta della sorella, incapace di spiegarsi per quale ragione, con tanta nonchalance, fosse corsa in suo aiuto - dopotutto nessun Menalcan disprezzava un po' di violenza, lei per prima era stata sospesa da scuola più di una volta a causa di qualche scaramuccia con le compagne di classe; aggressioni in cui, solitamente, Leah si ritrovava a tenere tra le mani ciocche di capelli non sue.

Appena l'umano fu abbastanza lontano da non risultare più una minaccia, la giovane si volse verso il fratello, ancora confuso. Per qualche istante rimasero immobili a scrutarsi, senza proferire alcuna parola: cosa c'era da dire, oltre a quello che si erano già confessati all'interno del locale? Nulla, visto che era chiaro che lei non capisse ciò che lo stava spingendo a ribellarsi a tutto quello che era stata la sua vita per ventisei anni. Come avrebbe potuto? Un imprinting non era certo qualcosa che capitava tutti i giorni, anzi, pochi licantropi potevano dirsi tanto fortunati da trovare la propria metà, anche se, nel caso del tizio di fronte a lei, non si poteva dire che il destino fosse stato clemente: ciò che gli aveva dato, stava cercando di togliergli.

I denti della ragazza presero a torturare il labbro inferiore, mentre con gli occhi sembrava essere alla ricerca di qualcosa sul viso di lui - un dubbio? Un ripensamento? Un vacillamento? Se era a quello che stava mirando, non avrebbe trovato nulla. Niente lo avrebbe convinto a rimangiarsi ciò che aveva detto.

Stizzito, il futuro Alpha si accinse a voltarle le spalle e infilarsi tra le labbra l'ennesima sigaretta, deciso come non mai a ignorare la sua presenza per il resto della sera perché, se non erano dalla stessa parte, allora non gli interessava condividere altro tempo con lei.
A prescindere dall'affetto che provava per quella lupa, non poteva permettersi in alcun modo di essere ostacolato.

Fece per muovere un passo, ma si ritrovò a dover cambiare idea.

«La ami così tanto da buttare all'aria ogni cosa? Morirai, se ti dovessero scoprire» sentì d'un tratto sussurrare. La voce tremante di sua sorella lo colse alla sprovvista, bloccando ogni tentativo di allontanamento e, quando tornò a fissarla, vide nello sguardo di Leah qualcosa che non seppe definire, a metà tra la paura, il dolore e un'infinita tenerezza.

Il giovane purosangue se ne stette davanti a lei, trovandosi impreparato di fronte a una simile reazione. Leah, per quanto testarda, orgogliosa e teatrale, non si era mai lasciata vedere in un simile stato, nemmeno da lui. I figli di Douglas non potevano essere fragili, spaesati, impauriti al cospetto di ciò che accadeva loro intorno; dovevano comportarsi come impassibili luogotenenti di un generale spietato e inarrivabile - per questo, ogni volta che da bimba sua sorella si era messa a piangere, loro madre aveva dovuto nasconderla agli occhi del marito e, quando non ci riusciva, le punizioni raggiungevano anche quel bel viso - ricordava bene i lividi lasciati dai palmi di quell'uomo.

Joseph si tolse il filtro dalle labbra e poi, intenerito, annuì.

«Pensi che non mi sia sentito un traditore? Pensi che non mi sia torturato giorno e notte al pensiero di ciò che mi stava succedendo? Di ciò che stavo iniziando a provare per... lei?» le chiese a quel punto, facendosi vicino. Non aveva alcuna idea di quali pensieri lo avessero tormentato, di quante volte avesse cercato di trattenersi, eppure alla fine, ogni volta che i suoi occhi si erano scontrati con quelli di Aralyn, o il profumo di lei gli aveva sfiorato le narici, o le loro pelli erano entrate in contatto, aveva finito con il minare le sue sicurezze. E quel primo bacio in mezzo al fogliame secco, dai toni caldi, era stato il colpo di grazia a una corazza che già di per sé sentiva di aver mal indossato. La loro prima e unica notte insieme, invece, aveva sancito con il fuoco il legame che li univa - e nulla, nemmeno l'ascia più resistente del mondo, sarebbe riuscita a spezzarli; in fin dei conti ne aveva avuto la prova quando, anche se le aveva mentito, lei era tornata alla Villa per lui, per stargli accanto. Sapeva che era quello il motivo per cui aveva messo piede nel loro quartier generale, ne era certo perché avrebbe fatto altrettanto.

«E' un imprinting, vero?» Con i pugni stretti lungo i fianchi, la brunetta stava visibilmente cercando in tutti i modi di capire, forse persino di accettare quella situazione - che avesse sbagliato a credere che lo avrebbe abbandonato?

Nuovamente il licantropo annuì, questa volta spostando lo sguardo verso un punto indefinito dell'asfalto sotto ai suoi piedi. Già, era proprio di quello che si trattava e nulla, ne era certo, avrebbe potuto farle capire quanto in profondità si annidasse quel sentimento, capace persino di annullare raziocinio e volontà - dopotutto, per quel che ne sapeva, l'unica persona in grado di comprendere veramente l'entità di quel laccio stretto attorno ai loro colli era morta nello scontro di qualche sera prima. Fernando avrebbe saputo come aiutarlo, avrebbe dato il giusto valore a quel dono dal retrogusto di condanna.

Leah mosse qualche passo nella sua direzione. Il rumore delle suole delle sue scarpe fu inconfondibile e, quando poi la sentì stringere le braccia attorno ai suoi fianchi, in un plateale gesto di affetto, Joseph ebbe la certezza che volesse essergli e restargli accanto in quella follia.

Era la sua alleata, l'unica.


 

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Capitolo 11
*** Be prepared ***





9. Be prepared

Killian le teneva con fermezza una mano, mentre le dita dell'altra si stringevano al corrimano di una scala che, ad ogni passo, cigolava sinistramente. Era la prima volta che muoveva qualche passo al di fuori della propria stanza se si escludevano i brevissimi viaggi verso il bagno che, sfortunatamente, era giusto la porta accanto alla sua e, per Aralyn fu quasi come scalare una montagna. La ferita al polpaccio non si era ancora rimarginata completamente, men che meno aveva fatto quella al ventre - entrambe, dopotutto, erano il risultato di artigli calati ben oltre la superficie dell'epidermide.

Ogni qualvolta concludeva un passo, stringeva con più forza la mano del licantropo che la stava accompagnando lungo quel percorso di riabilitazione - un lunghissimo lasso di tempo per i suoi standard - e alzava verso di lui uno sguardo di sofferta gioia. Sì, perché le stilettate arrivavano senza esitazione, facendola traballare sui vecchi gradini, ma allo stesso tempo stava completando una serie di tanti, piccoli traguardi.

L'uomo al suo fianco sorrise dolcemente, allungando un braccio e cingendole la vita per sorreggerla meglio: «Ne mancano due, su! La colazione si raffredda se non ti spicci». Già, perché per spingerla a uscire dalle coperte calde e dallo strano stato di torpore in cui si era rannicchiata da un paio di giorni, Killian aveva fatto ricorso a un amorevole latte-macchiato e una brioches appena sfornata, due dettagli che avevano profumato l'aria di casa sua in modo fin troppo allettante per una golosa del calibro della giovane lupa.

Così Aralyn si era ritrovata a indossare dei pantaloni non suoi e calzini di ben quattro numeri più grandi, il tutto in nome di un'unica causa: il pasto "più importante della giornata".

Quando finalmente entrambi i suoi talloni furono ben ancorati al parquet del piano terra, uno sbuffo di fatica le si riversò fuori dalle labbra, tanto sonoro d'attirare persino lo sguardo di Arwen, intento a riscaldare sui fornelli qualcosa che, dall'aspetto, le parve essere latte.

Il viso di suo fratello si riempì di un sorriso radioso, così sincero da illuminargli anche gli occhi e farlo sembrare, improvvisamente, tutt'altra persona. Ora che erano lontani da ogni cosa, racchiusi per quel breve tempo in una bolla in cui il mondo non poteva entrare, si disse lei, l'albino si stava finalmente lasciando andare a qualche emozione - dopotutto essere Alpha lo aveva reso algido, alle volte insensibile verso ciò che lo circondava, ma forse, aver rischiato di perderla per davvero, aveva smosso in lui qualcosa; e finchè fossero stati lì, nulla gli avrebbe impedito di svestirsi dei suoi doveri.

Svelto le si avvicinò, anche se, in quei pochi metri che li separavano, il suo claudicare apparve più accentuato del solito agli occhi della sorellina. Per quale ragione zoppicava a quel modo? Che fosse caduto? Oppure aveva riportato a sua volta qualche ulteriore ferita?
Aralyn non si seppe dar risposta finchè, preso dalla contentezza, Arwen non la strinse in un abbraccio. Il suo profumo era pungente, forte, mentre il cuore gli si agitava ancora nel petto come dopo l'attività fisica e, quei due dettagli, le fecero ben capire che doveva essere uscito per un irresponsabile allenamento mattutino, esattamente come gli capitava di fare ogni giorno prima dell'alba quando si trovavano alla Tana.

Le labbra del maschio le si premettero sulla fronte, tanto bollenti da farle avvertire un brivido alle guance. Il bacio che vi posò sopra non fece altro che riempirla di dolcezza, una piacevole sensazione di accoglienza, ma il fantasma di ciò che vi si nascondesse dietro la punzecchiò subito, facendola lievemente irrigidire nella presa dell'uomo.

Per quanto volesse mentire a se stessa e costringersi ad accettare l'amore del suo Alpha, se ne sentiva sempre più lontana, riuscendo finalmente a vederlo sotto la giusta luce - anche se era innegabile dire che la sua bellezza non avesse un certo effetto.

«Sei in piedi» le sussurrò, visibilmente sollevato. Forse, l'ombra che anche lei avrebbe dovuto fare i conti con la sua stessa sorte lo aveva messo in eccessivo allarme, facendogli stringere il cuore tanto quanto le si era stretto ad Aralyn di fronte allo specchio, osservando i danni collaterali dei capricci della Madre Luna.

Ridendo, la giovane gli afferrò un lembo di carne sui fianchi, premendolo tra le dita: «Se non mi dai del cibo ancora per poco, però!» Lo rimproverò, facendogli improvvisamente tornare alla mente del latte sul fornello.

Arwen si divincolò con la stessa velocità con cui l'aveva raggiunta e, in un battito di ciglia fu nuovamente alla sua postazione a mescolare la base di quella che sarebbe stata la loro colazione.

Killian le porse il braccio, conducendola come un vero gentiluomo verso il tavolo imbandito per la sua prima passeggiata per la casa. Quasi le parve di prendere parte a una festa, tanto i due uomini erano stati attenti a preparare ogni cosa per festeggiare quei primi cinque giorni di morte scampata: il profumo delle brioches calde si mischiava a quello del caffè, del latte ancora intento a bollire e delle marmellate di frutta fresca che erano state aperte. La tovaglia era sovrastata da tovaglioli colorati, tazze artigianali, piatti decorati e posate finemente lavorate, rendendo il loro convivio un vero bijoux - e per un istante la lupa sentì il petto gonfiarsi di commozione.
Non ricordava di essersi concessa un momento tanto intimo, familiare e... normale da quando erano entrati a far parte delle file del Duca; forse l'ultima volta era stato proprio con quel licantropo ora accanto a lei, che la teneva sulle proprie ginocchia mentre la faceva bere da un bicchiere che nemmeno riusciva a stringere tra le sue manine di bimba.

Per un attimo rimase ferma a contemplare ciò che aveva davanti, imprimendosi nella mente il ricordo di quel momento e, poi, quando Arwen si fece vicino con il pentolino di latte in una mano e la moka del caffè nell'altra, si riscosse, ammiccando.

Prese posto senza fare complimenti, iniziando a riempirsi tazza e piatto con quanto più le fosse possibile - anche se a fin di bene, Killian l'aveva costretta a ingurgitare minestre e minestroni per giorni, facendole bramare qualcosa di solido con ogni fibra del suo corpo.

Aralyn provò a tagliare la brioches per spalmarvi dentro la marmellata, ma appena i tendini del braccio destro si tesero la presa sul coltello venne meno, facendole sfuggire di mano la posata.
Il metallo picchiò contro la ceramica, facendole stringere le palpebre per il fastidio, andando poi a rimbalzare a terra e finire poco più in là dei suoi piedi. Quando riaprì gli occhi, si guardò intorno attonita, incapace di giustificarsi con i presenti per quanto accaduto - l'ennesima conseguenza dovuta a quel bastardo di Gabriel. I suoi denti avevano davvero fatto tanti danni? Possibile che il suo corpo faticasse tanto a riprendersi dal trauma?

Sentendosi addosso gli sguardi impietositi dei suoi compari, la giovane si morse l'interno guancia, cercando subito dopo di far passare l'accaduto per qualcosa meno grave di quel che fosse: «I-io... mi spiace, s-scusatemi, credevo di averlo afferrato meglio» biascicò, provando ad allungarsi per riprendere ciò che aveva perso e nascondere così l'imbarazzo che aveva preso possesso del suo viso. Il bruno di fianco a lei però fu più svelto e, raccogliendo l'oggetto, le riservò un nuovo sorriso, anche se stavolta non le piacque affatto.

Sapeva di essere momentaneamente invalida, ma ciò non permetteva loro di trattarla come una povera martire: non era forse stata lei a uccidere Douglas?

«E' normale, piccola. Hai tenuto tra le mani il Pugnale e questo ha intorpidito il tuo corpo. E' per colpa dell'argento se fatichi a rimetterti in sesto» Killian pulì la lama con un lembo della tovaglia, poi le prese dal piatto il cornetto e iniziò a tagliarlo per lei: «Non c'è fretta, hai tutto il tempo che ti serve per guarire».

Ma non era vero.

Il tempo era tutto ciò che le mancava, ora che la minaccia del Concilio si era unita a tutta la trafila di pensieri con cui aveva preso a fare i conti giorno e notte. Non bastavano il ricordo della prigionia, il viso di Joseph, i sentimenti contrastanti per suo fratello e il fatto di essere entrata ufficialmente nelle mire di Gabriel Menalcan, ovunque si voltasse incontrava nuove problematiche da dover affrontare.

«Non direi» sibilò sovrappensiero, allontanando lo sguardo dall'interlocutore e portandolo sul cestino di vimini che aveva di fronte. Sentiva il petto sempre più gonfio, tanto da schiacciare i polmoni all'interno della loro alcova di ossa e non aveva idea di come allentarne la pressione.

Arwen si sporse verso di lei, afferrandole il viso con ferma dolcezza. Le sue dita erano ancorate al mento della giovane, quasi imprimendo i polpastrelli nella carne, eppure non le procurarono alcun male: «Ehi, che ti prende?»

Gli occhi di suo fratello scrutarono i suoi con sempre maggior intensità, arrivando in qualche modo a trovare uno spiraglio verso i pensieri che ancora non si era permessa di pronunciare ad alta voce e, seguentemente, trascinò la sedia di lei verso di sé. Se la portò così vicino che Aralyn riuscì a percepire, come un alone, il suo calore sfiorarle la pelle nuda.

«Ascoltami bene» le disse con più fermezza di quanto lei sarebbe mai riuscita a fare in un simile momento: «non permetterò a un branco di Nobili di farti del male, mi hai capito? Che siano uno, due o cento, io ti proteggerò». Lei però non gli rispose, troppo occupata a trattenere i tremori e a sentire quelle parole vuote. Non credeva alle sue promesse, ma non perché lui non fosse affidabile, quanto più perché sui piatti della bilancia loro non pesavano abbastanza da contrastare un gruppo del genere. Nessuno avrebbe potuto salvarla se il Concilio avesse deciso di andarla a prendere, in particolare l'albino che le stava di fronte. Per quanto il suo Alpha fosse stimato, forte e cocciuto, il suo sangue bastardo gli impediva di opporsi a una forza come quella dei Purosangue.

Alle loro spalle, la voce di Killian si levò in una sorta di sussurro: «E' presto per preoccuparsi, Ara» le fece presente, confondendola.

Presto?

Ma cosa stava blaterando? Non era forse stato lui il primo a metterle in testa il tarlo di quella minaccia?

La ragazza si volse verso di lui corrugando le sopracciglia, aspettando che dalla sua bocca uscisse qualche spiegazione in sostegno di ciò che le aveva appena detto - perché era ovvio che ci dovesse essere di più.

«Per l'amor di Arianrhod, non fraintendermi. E' giusto che tu sia preparata all'evenienza di dover affrontare il Concilio, anzi... direi che dobbiamo studiarci un piano pressoché infallibile per permetterti di avere una speranza di salvezza, ma stiamo pur sempre parlando dei Menalcan». L'uomo fece una pausa, lasciando il coltello al lato del piatto e richiudendo con attenzione la brioches ora piena di marmellata d'albicocca. Rimirò il proprio lavoro e, nel mentre, riprese: «Ci stavo giusto pensando stanotte, mentre leggevo» la sua mano ingioiellata rimise il fagotto di pasta sotto al naso della ragazza, facendole involontariamente salire l'acquolina in bocca: «Sono licantropi impulsivi, tra tutti i casati nobiliari forse i più vicini alla vera essenza di lupo. Chi ci dice che non decideranno di vendicarsi come veri animali? Potrebbero sguinzagliare tutti i loro lacchè e darti la caccia, esattamente come a un coniglio» e, nel concludere, si versò il latte bollente nella tazza con una nonchalance che ad Aralyn fece quasi accapponare la pelle.

Era della sua vita che si stava parlando, non certo del programma della domenica!

«Sei serio?» gli domandò, sfuggendo dalla presa di Arwen. Non era certa che stesse parlando seriamente, anzi, dubitava fortemente che le sue parole fossero qualcosa di diverso da una battuta, ma quando Killian tornò a fissarla, finendo di mescolare il caffè versato subito dopo il latte, qualcosa le fece capire che non era così. D'un tratto, era tornato serio come i giorni precedenti, quando la questione veniva rivangata.

«Non devi sottovalutare la loro sete di sangue, mo phàiste» il nero delle sue iridi parve inghiottirla, un brivido prese a correrle lungo la schiena e, d'improvviso, una nuova minaccia si fece strada in mezzo a quelle già esistenti.

Non c'era davvero fine alla sua sfortuna. Dal giorno in cui aveva portato il Pugnale alla Tana, ogni cosa aveva preso ad andarle storto - persino il fatto di aver incontrato Joseph, se si voleva guardar bene, era stato un fattore negativo.

Il padrone di casa fece una nuova pausa, sorseggiando la sua brodaglia e, in quel frangente, l'altro uomo s'insinuò: «Quindi che dovrebbe fare? Stare in attesa del primo male che verrà a bussare alla nostra porta?»

«Non ne ho idea, Arwen» il sibilo che fuoriuscì dalle sue labbra apparve terribilmente infastidito, ma la sua posa non tradì alcuna emozione: «E' la prima volta che mi ritrovo a fare i conti con guai di questo tipo. Se tua sorella avesse riflettuto prima di agire forse...»

Le stoviglie tintinnarono, mentre il dolore prese a far tremare il braccio della ragazza: «Saremmo morti!» sussurrò, stringendo con più forza il pugno che aveva picchiato sul tavolo. Grosse lacrime calde presero a scenderle lungo le guance, cascando poi sulle cosce e macchiando i pantaloni.

Sì, l'errore era stato suo, Aralyn lo sapeva bene, ma sapeva altrettanto bene che, se non fosse intervenuta in qualche modo, entrambi i licantropi più importanti della sua vita sarebbero stati uccisi: suo fratello da Douglas, Joseph dai fratelli Vogel o da Garrel alla prima occasione buona.
Lo aveva fatto per una giusta causa, sbagliando.

Killian la guardò con malinconia, annuendo: «Sì, forse sareste morti» ammise, abbassando la tazza. Con una mano le sfiorò il polso, cingendola poco prima dei bendaggi: «E non ti biasimo per ciò che hai fatto, solo che ora dobbiamo prepararci a cosa ti aspetta, senza condizionarti troppo. Finché non capiamo chi sarà la minaccia che verrà a cercarti, non puoi logorarti fino alla rovina su questo pensiero, okay?»

La lupa si sentì incerta, incapace di affrontare quella velata richiesta.

«Vi aiuterò a cercare una soluzione, esattamente come ho sempre fatto, ma devi promettermi che non ti lascerai abbattere. Hai compiuto l'impensabile, Ara, ora devi dimostrare di non aver paura, sennò loro ti avranno in pugno».


Yaga's Note

Un altro aggiornamento "di passaggio", I know. Dovrete sorbirvi questa tipologia di capitoli ancora per un pochino, ma non disperate 🙏 le conseguenze di ciò che Aralyn ha fatto sono dietro l'angolo, così come le nuove minacce.
Sopportatemi, ma soprattutto sopportate questi aggiornamenti a rilento e dal contenuto poco... avvincente, ecco! Purtroppo ho la testa un po' altrove e i momenti che concedo alle storie sono pochi, ma confido nella vostra comprensione 🌸

Inoltre vi vorrei aggiornare su ciò che non sapete dicendo che:
1. Sto lavorando per riuscire a sistemare il primo volume della saga, sperando di colmare tutte le lacune e le imprecisioni - quindi suppongo che si andranno ad aggiungere un paio di parti extra;
2. Sto traducendo il suddetto volume anche in inglese, ma dubito della sua correttezza, anche se ci si prova.

Bene, questo è tutto ☻


 

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Capitolo 12
*** The end of the truce ***





10. The end of the truce

Un cappio, ecco cosa era la cravatta che stava allacciando intorno al proprio collo. Joseph non aveva dubbi riguardo a quanto quel completo scuro, commissionato a uno dei sarti più rinomati di Scozia, fosse una sorta di camicia di forza per il suo corpo, costringendolo a reprimere qualcosa che ancora non sapeva ben definire. Più si rimirava nello specchio nel tentativo di fare un nodo perfetto, più in quel riflesso faceva fatica a riconoscersi - eppure era ancora lui, lo stesso di sempre. O quantomeno lo era in apparenza. Già, perché nei suoi occhi la scintilla di vita era sopita, sul suo viso la linea dura delle labbra non riusciva più a inarcarsi per tendere un sorriso; era stanco, ma soprattutto turbato da tutto ciò che il fato gli stava riservando.

Così, con uno sbuffo, non poté impedirsi di volgere il capo verso il letto che lo aveva accolto per lunghissimo tempo e che, a distanza di tre anni, ora lo rivedeva tra i suoi cuscini. Anche quella notte, Morfeo non era stato affatto clemente con lui e le sfumature violacee intorno alle palpebre ne erano la prova.
Ogni volta che si coricava, la mente prendeva a giocargli brutti scherzi: dal suono del collo spezzato di Kyle, a quello del corpo di Aralyn che si accasciava a terra. E poi, a urtare ancora di più il suo riposo, c'era l'immagine della schiena di lei, curva di fronte a un pubblico di sette Nobili pronti a punirla per una colpa che, in realtà, non era poi così diversa da altre.

Gabriel però aveva giocato d'astuzia, per una volta, l'unica in trent'un anni di vita e, a dire il vero, avrebbe anche potuto risparmiare al suo povero neurone tutta quella fatica visto l'esito di tale sforzo. Certo non si poteva dire che la sua fosse stata una mossa stupida, anzi, seppur fosse il primo da quasi quattro decadi a ricorrere al Concilio per un simile affronto, la sua era stata la decisione più ponderata che Joseph gli avesse mai visto prendere; sapendo di attaccare senza certezza di vittoria, aveva preferito una vendetta più sottile.

Il fatto che a subirne le conseguenze fossero lui e la sua amata invece, solo un tragico dettaglio dall'importanza fondamentale.

E ancora una volta, dalle labbra di Joseph si levò un sospiro. Quale soluzione avrebbe potuto escogitare per salvarla? Non ne aveva idea e, al momento, non disponeva nemmeno dei rarissimi libri su cui le leggi dei licantropi erano state scritte - Douglas doveva certamente possederne una copia, il problema era capire dove li avesse nascosti e, soprattutto, trovare un modo per impossessarsene; dopotutto dubitava che gli uomini di suo fratello non lo stessero tenendo d'occhio.

Finalmente, a differenza della giornata, il nodo alla cravatta parve prendere la giusta piega. E quello fu la conferma del fatto che fosse ufficialmente pronto per andare a dare l'ultimo saluto all'Alpha che lo aveva preceduto.

La Luna Piena avrebbe svettato nel cielo notturno quella sera, segnando i dieci giorni che erano intercorsi dall'attacco a Villa Menalcan e dalla fine di ogni cosa. Dieci lunghissimi giorni che avevano preso il sapore dell'eternità, di una prigione senza alcuna via d'uscita - eppure, quasi in sordina, uno spiraglio si era fatto strada fin lì, facendogli realizzare come, l'era del minaccioso Douglas Menalcan fosse finita, mentre quella di uno dei suoi figli fosse invece in procinto d'iniziare.

Con riluttanza il ragazzo si guardò nuovamente allo specchio, studiando minuziosamente il proprio aspetto. Fu strano osservarsi con così tanta intensità, cercare quasi ossessivamente qualcosa fuori posto - solo una volta gli era capitato di comportarsi a quel modo ed era stato il giorno in cui aveva giurato fedeltà ad Arwen, aprendosi le porte verso un clan che ora avrebbe tanto voluto chiamar proprio. Come allora, ciò che si stava supplicando di fare era fingere, mettere in scena la farsa perfetta e sopravvivere, ma, a differenza di quell'occasione, stavolta aveva una motivazione ben più seria per portare a termine quella commedia. Doveva ingannare tutti, accaparrarsi qualche nuovo sostegno da parte dei confratelli e consolidare la simpatia che altri provavano nei suoi confronti, oltre che risultare una fastidiosissima spina nel fianco di Gabe.
Così, facendosi coraggio mosse il primo passo all'indietro, poi un altro e, infine, imboccò la strada verso il giardino, lì dove il branco stava iniziando a radunarsi per la cerimonia. Nel percorrere i corridoi, in cui ancora riusciva a intravedere i fantasmi dei lupi che li avevano riempiti, il silenzio parve farsi denso e appiccicoso. Se lo sentì addosso, fastidiosamente attaccato alle spalle larghe, aumentando il suo desiderio di levarsi di dosso qualsiasi cosa che non fosse la propria pelle.

Per un momento gli parve di essere tornato indietro nel tempo, a quando aveva poco meno della maggiore età - dopo che sua madre era "saltata" giù dal balcone della propria stanza, spezzandosi il collo, e prima che lui, come una furia nera, si fosse scagliato addosso al fratello di Aralyn, recidendogli i muscoli della coscia e invalidandolo per sempre. Gli sembrò di provare per la propria casa, famiglia e branco il medesimo disprezzo di allora e, come a quei tempi, si trovò a non saper che fare.

Passo dopo passo, ricordo fastidioso dopo ricordo fastidioso, Joseph riuscì finalmente a raggiungere l'atrio dell'immensa magione nonostante la moltitudine di pensieri che mai sembrava abbandonarlo e lì, del tutto colto alla sprovvista, andò a sbattere contro qualcosa. Sentì una sorta di impedimento all'altezza dell'ombelico, seguito subito dopo da un guaito fin troppo estraneo che lo riportò brutalmente al presente, facendogli abbassare lo sguardo e domandare chi, tra tutti i licantropi presenti quel giorno, potesse mai aver deciso di ostacolare la sua avanzata verso l'esterno della Villa - ciò che si sarebbe aspettato di incontrare, ad ogni modo, era tutto tranne che un visetto paffuto contornato da folti capelli scuri.

Stava forse sognando? Possibile che le sue paranoie avessero generato quella stravagante allucinazione?

Per quello che parve un lunghissimo lasso di tempo, il bambino rimase immobile a fissarlo, visibilmente impaurito dalla figura che, almeno per una settantina di centimetri, lo sovrastava con una certa imponenza; dopotutto, seppur Joseph apparisse meno minaccioso del padre o del fratello, vestito a quel modo e con quell'espressione corrucciata in viso non dava affatto l'impressione di essere innocuo.

Da quando c'erano cuccioli, nel clan? Si ritrovò a chiedersi, ogni istante sempre più confuso. A nessuna femmina gravida, né moccioso, era permesso risiedere all'interno di quell'edificio - le une a causa dei problemi ormonali e del pericolo a cui andavano incontro stando lì, gli altri per via del fastidio che avrebbero potuto causare agli uomini della famiglia. Quindi da dove spuntava quel fagottino malamente vestito da uomo d'affari?

Poi, da un angolo non molto lontano, un richiamo tuonò nelle orecchie del licantropo, avvertendolo dell'imminente arrivo di Gabriel - avrebbe riconosciuto la sua voce in mezzo a mille, ma sarebbe stata l'unica a procurargli tanto ribrezzo. 
«Oscar!» Appellò furioso il piccino che, in risposta, si ritrovò a sussultare per lo spavento, aggrappandosi involontariamente alla giacca dello zio. Già, perché quel nome, associato alla capigliatura arruffata e scura poteva appartenere solo al figlio bastardo del maggiore tra i fratelli Menalcan.

Avanzando come una furia, l'uomo raggiunse i due consanguinei, lanciando a entrambi occhiate tutt'altro che amichevoli - se da un lato l'odio per Joseph era innegabile e risaputo, dall'altro non si poteva ignorare il fatto che provasse una sorta di repulsione anche per il frutto del proprio seme, risultato di un invaghimento carnale durato un po' troppi anni per una compagna di università.

«Cosa ci fa lui qui?» la domanda fu accompagnata da un'espressione tagliente, forse persino scocciata. Quella giornata era l'occasione peggiore per portare un Impuro nelle terre del clan, eppure Gabe sembrava ignorare completamente la gravità della situazione - non solo era una mancanza di rispetto nei confronti del defunto padre, che avrebbe soffocato entrambi i cuccioli del figlio prima che qualcuno ne scoprisse l'esistenza, ma era anche un velato affronto al branco che, per colpa di quella razza, aveva subìto la perdita di un Alpha, insieme a quelle di molti altri compagni. Possibile che suo fratello non se ne fosse reso conto?

L'altro grugnì: «Vallo a chiedere a sua madre. Li ha portati entrambi dicendo che dopotutto era loro nonno».
«Un nonno che ha cercato di ucciderli...»

«Ma ha fallito» sottolineò con un certo astio l'omone, fulminando il fratellino. Anche se non li avrebbe mai realmente accettati come eredi, l'indole ferina di Gabriel non poteva impedirsi di sentire quelle due creature come proprie - portavano addosso il suo odore, avevano i suoi tratti e, in futuro, sarebbero persino potuti diventare degli arrivisti del suo stesso calibro. Erano suoi e di nessun altro, anche se avrebbe evidentemente preferito che fossero nati da un grembo animale.

«C'è andato molto vicino, e più di una volta» lo sguardo di Joseph calò sul bambino ancora aggrappato a lui e, incrociandone lo sguardo, non riuscì a vietare al proprio cuore di stringersi. Non aveva mai desiderato conoscere né Oscar, né la sorella maggiore, considerandoli solo degli sbagli di percorso fatti da un cervello troppo succube del testosterone, nonché la possibile fotocopia di un uomo la cui esistenza non faceva altro che infastidirlo, eppure ora eccoli lì, entrambi in mezzo al branco - e, nel loro essere lupi a metà in un mondo ingiusto, gli ricordarono coloro che aveva perso. Seppur così esteticamente simili a colui che li aveva generati, quei due potevano essere paragonati ai fratelli Calhum, ai gemelli Vogel, a Garrel, Fernando e persino Marion. Se ne stavano a metà di due esistenze, appartenendo un po' a una e un po' all'altra, ma nonostante questo erano respinti e schifati da entrambe - ma a prescindere da ciò, desiderosi di trovare il proprio posto. Chissà se mai, in futuro, un branco come quello di Arwen avrebbe potuto accettare quei bimbi.

«Beh, ora non può più nemmeno provarci, quindi cuciti la bocca» con la mano protesa verso il figlio, Gabe lo riportò malamente alla realtà, invitando il moccioso a staccarsi dallo zio e seguirlo. Questi però non volle dargli retta, agguantando sempre più la stoffa del completo in cui aveva trovato sostegno perché, con grande probabilità, doveva aver sviluppato nei confronti del padre un certo timore, forse simile a quello che Douglas aveva instillato in loro durante l'infanzia - dopotutto, si ricordò il giovane, il primogenito di casa Menalcan era anche il più simile al capobranco quando si parlava di temperamento.

Vedendo la riluttanza del cucciolo a seguirlo, l'uomo si protese verso di lui affiancando il fratello e, afferrandogli il braccino, gli fece storcere l'espressione in una smorfia di dolore. «Sei sordo forse?» gli domandò digrignando i denti e strappandolo dal completo di Joseph. L'impazienza stava visibilmente avendo la meglio su di lui, facendogli sfuggire dalle labbra cattiverie che avrebbe fatto meglio a risparmiarsi: «Non comportarti come la bestia ignorante che sei! Possibile che voi Impuri non siate altro che muli?» 
E, a quelle parole, il desiderio di sferrargli un pugno dritto sullo zigomo si fece impellente, Joseph sentì i palmi formicolare dal desiderio di colpirlo.

Lui non aveva alcun diritto di sentirsi superiore a nessuno.

Lui non era altro che un avido gradasso incapace di vedere al di là del proprio naso; era privo di un qualsivoglia ideale che potesse essere vagamente definito "nobile" - tra lui e gli Impuri, la vera bestia era proprio colui che non si definiva tale.

Fatto stava però, che non potesse ancora alzare le mani sul quel tizio. Il corpo dell'Alpha non era stato seppellito e, di conseguenza, l'obbligo di non-violenza era ancora vigente e lo sarebbe stato fino alla fine di quella notte. Così dovette resistere all'istinto d'aggredirlo.

Stringendo i pugni nelle tasche, Joseph s'impose di non intervenire, né a difesa del piccolo Oscar, né in quella dei licantropi come lui - dopotutto, suo fratello avrebbe benissimo potuto usare ogni sua azione o commento contro di lui il giorno in cui avrebbero dovuto scegliere il nuovo Alpha; un giorno sempre più vicino, se il Concilio non si fosse messo in mezzo.

«Ad ogni modo, tieniti stretto il tuo moccioso» sbottò infine, cercando di guardare ovunque tranne che sulla testolina ancora tra loro: «E dì a Theresa di portarli via subito dopo la cerimonia. Gli altri potrebbero non gradire la loro presenza qui».

«Sono il loro futuro Alpha, ciò che vogliono è un mio ordine» Gabe, seppur ovviamente conscio del pericolo in cui stava cacciando i figli e l'umana con loro, non sembrava affatto propenso ad accettare consigli dal momentaneo acerrimo nemico - e anche se fosse stato d'accordo con lui, non lo avrebbe mai ammesso. O quantomeno non in un simile contesto.
L'altro allungò un angolo della bocca, divertito: «Fino a prova contraria sei solo il figlio di Douglas, esattamente come Leah e me, non confiderei troppo in un'autorità che ancora non hai» e così dicendo, riprese a camminare verso l'uscita, lì dove il silenzio era totale.

«Che vorresti dire?» sentì sbraitare ironicamente alle proprie spalle: «Siamo nella stessa barca Joseph, solo che io non sono un traditore».

E per un solo istante, un frangente quasi impercettibile, il suo passo rallentò. 
Traditore.
Che suono stridulo che aveva quella parola. Che sapore amaro aveva sulla lingua. Che fastidiosa verità era, quell'appellativo associato alla sua persona. Sin dal principio, il secondo figlio dell'Alpha non era stato altro che quello: un impostore. Aveva tradito tutti, nessuno escluso, eppure colui che era stato seppellito con tale epitaffio altri non era che Kyle, l'unico uomo che non aveva mai osato voltargli le spalle.

Aveva mentito e ingannato ogni persona che gli era legata, persino le poche che lui aveva amato veramente - ma ancora non poteva smettere, nonostante sapesse che fosse la cosa giusta da fare, l'unica per trovare redenzione. Se avesse scelto una verità e l'avesse seguita fino in fondo, regalandosi liberazione e felicità, sapeva avrebbe riscattato il sacrificio del proprio migliore amico, peccato che non potesse ancora concedersi un simile lusso: prima doveva distruggere ciò che lo aveva condotto sin lì e svestire Aralyn delle colpe che era stato lui stesso a farle indossare.
 


 

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Capitolo 13
*** For you ***





11. For you

Il dolore era ancora presente, seppur meno violento. Stilettate sottili che arrivavano senza preavviso, facendole storcere la bocca e digrignare i denti avevano fatto la loro comparsa la prima mattina di Luna Crescente e, all'alba dell'ultima notte di quella Morente, Aralyn era scesa a patti sia con loro, sia con sé stessa - l'unica persona ancora da coinvolgere, ora, era Arwen.

Così si era vestita con ciò che Killian le aveva procurato: un abito lungo sia di gonna che di manica, morbido sul corpo per evitare che i punti rimasti nella carne dessero fastidio, una giacchetta a coprirla dalla frescura marzolina e un paio di stivaletti col tacco basso che dubitava avrebbero giovato ai suoi arti ancora indolenziti. Il padrone di casa aveva pensato a tutto, anche a procurarle del make-up con cui coprire i vaghi aloni della fatica - ma quello doveva essere stata la parte meno difficoltosa, viste le scorte di kajal, mascara, ombretti e smalti scuri che quel tipo teneva nascosti in bagno - e lei si era concessa, per la prima volta dopo settimane, il lusso di farsi carina.

Guardandosi ancora una volta nello specchio, Aralyn fece quasi fatica a riconoscersi. Della cosetta malandata e sfatta che era stata per giorni pareva non esserci alcuna traccia e, seppur con l'amaro in bocca, si ricordò dell'ultima occasione in cui si era agghindata come una vera signorina. Era stata la cerimonia per Joseph, il giorno in cui aveva iniziato a realizzare cosa fossero quelle strane sensazioni che le si agitavano dentro - un desiderio che si era accresciuto fino a portarla sul baratro della tragedia e da cui, ora, doveva assolutamente allontanarsi. In fin dei conti, con la imminente condanna che le gravava addosso, quante possibilità aveva di rivederlo? Nessuna, si disse, mentre una stretta prese a stritolarle il cuore.

Involontariamente prese a mordersi le labbra. Quanto avrebbe voluto guardarsi indietro senza avvertire ogni volta tutta quella malinconia, l'assenza e quella vaga rabbia che in sordina era sempre rimasta lì, accanto a lei.

Avrebbe potuto dirmelo, pensò con amarezza. Già, perché poco le importava se era il figlio di Douglas, ciò che davvero la faceva star male era il fatto che le avesse mentito persino dopo averle confessato il proprio interesse, dopo averla baciata ed esserci andato a letto. Avrebbe dovuto dirglielo. In qualche modo, un qualsiasi modo, avrebbe dovuto dirle di non essere colui di cui le aveva raccontato.

I dettagli, forse, le sarebbe importato poco scoprirli.

D'un tratto, a ridestarla da quei pensieri e dalla tristezza sempre più opprimente, le arrivò alle orecchie un toc-toc inaspettato.

La giovane alzò lo sguardo verso la porta spalancata e, lì, incrociò il viso beato del fratello. Arwen se ne stava immobile a fissarla da cima a fondo, abbandonato sullo stipite in sua attesa.

«Ti sei fatta tanto bella per me?» l'apostrofò con un sorriso, pizzicandosi subito dopo il labbro con gli incisivi, saggiando un'immagine di lei solo sua.
Aralyn avrebbe voluto sentirsi lusingata da quel complimento velato, le sarebbe piaciuto arrossire come un pomodoro esattamente come succedeva prima, ma tutto ciò che avvertì fu un mero piacere, il fantasma di qualcosa che si faceva sempre più labile. L'amore che un tempo aveva creduto essere il suo tutto, ora era poco più del niente, ma per Arwen era ancora qualcosa di inestimabile valore - e lei, seppur non avesse ben chiaro il motivo, sentiva di avere un debito nei suoi confronti.

Con una sorta di giravolta gli si fece vicina, mostrandosi in tutto il suo ritrovato splendore: «Nessuna fanciulla vorrebbe sfigurare, accanto a te!» Il suo tono, così come il sorriso, le apparvero più civettuoli del solito - un riflesso incondizionato dato dai desideri che faticava a confessare. L'amore di quell'uomo, il loro dipendere l'uno dall'altra le avrebbe permesso di non sentire il vuoto di Joseph, l'eco della sua assenza. Avrebbe ovattato ogni sensazione legata a lui, anche se in cambio le avrebbe chiesto un prezzo fin troppo alto. Ma cosa importa?, si domandò ravvivandosi una ciocca; dopotutto ogni giorno avrebbe avuto il sapore dell'ultimo da quel momento in poi e, sapendo ciò a cui stava andando incontro, non voleva assolutamente restare sola. Essere mangiata viva dai rimorsi, dai ricordi velenosi, da un sentimento cresciuto lentamente e poi esploso in un unico istante non le andava affatto: le poche settimane, o giorni che le fossero rimasti, voleva viverli meglio di così.

Il fratello sorrise, ignaro di tutti quei pensieri e, porgendole la mano, l'invitò a seguirlo. Fuori da quella dimora li attendevano i bolognini delle strade di Mont Saint-Michel, i tiepidi raggi di fine mese, la brezza della primavera e, soprattutto, la promessa di qualche prelibatezza.
Aralyn aveva programmato per la sua prima uscita una giornata di totale tranquillità che, sapeva bene, avrebbe messo a rischio con un'unica richiesta, ma pregò che anche il suo Alpha, sotto sotto, non desiderasse altro che tornare a casa - sempre se un luogo a cui tornare vi fosse stato. Così, armata di un insolito buonumore, lasciò che la mano di Arwen si stringesse intorno alla sua. Era forse la prima volta che le loro dita s'intrecciavano a quel modo, che si concedevano il lusso di una simile tenerezza in pieno giorno.

Essere un Alpha implicava tante cose, una tra tutte era la necessità di farsi vedere sempre inarrivabile, autorevole. La dolcezza era qualcosa che doveva rimanere intima, segreta come lo era stata la loro infatuazione - ma in quel momento non c'era nessun branco a vederli, nessuna malalingua pronta a condannarli, solo qualche truce occhiata di Killian che, appena li vide scendere dalle scale, mano nella mano, non poté evitarsi di storcere la bocca.

In fin dei conti lui sapeva, conosceva i veri sentimenti della giovane Calhum e, perciò, non avrebbe mai smesso di guardarla a quel modo; o quantomeno non fino al momento in cui lei non avrebbe messo fine alla farsa.

La ragazza gli passò di fronte concedendosi un momento di esitazione. Lo sguardo scuro dell'uomo sembrò quasi agganciarsi a lei, trattenendola. Per un solo e breve istante Aralyn si domandò quanto fosse giusto ciò che stava facendo, ma appena oltrepassata la soglia, quel pensiero svanì, bruciando come un vampiro alla luce del sole.

Arwen la condusse per strade a lei sconosciute fino a quel momento, la fece confondere tra una via e quella successiva finché, d'un tratto, non si ritrovarono in mezzo al vociferare concitato di altre decine di persone. I turisti salivano e scendevano per le vie scoscese, si radunavano accanto ai pochi negozietti presenti e alzavano le teste in direzione dell'enorme cattedrale posta sul cucuzzolo di quel luogo. Ignari di qualsiasi cosa che non fosse il loro quieto vivere, gli umani si concedevano momenti di pacifica serenità, la stessa che dopo lungo tempo anche la lupa sentì propria.

Stretta tra le falangi di suo fratello, la giovane si fece trasportare dall'ammirazione verso cotanta tranquillità e, con un sorriso, mosse i propri passi tra la gente. Le era mancato il caos, la vita. Le era mancato il muoversi in mezzo a così tante persone, sentire le orecchie piene di frasi e discorsi a metà e avvertire il calore della quotidianità - dopotutto, gli ultimi momenti felici che ricordava risalivano a prima della partenza per Novigrad.

Si ritrovò commossa, ebbra di tutte le emozioni che le stavano stringendo il cuore e, inaspettatamente, dovette asciugarsi l'angolo di un occhio. Non ricordava alcuna occasione in cui avesse desiderato così tanto sentirsi parte del marasma, essere schiacciata dalla quantità eccessiva di parole - e glielo avrebbe detto. Appena fosse stata pronta, e sicura di non mandare in pezzi il sogno di Arwen, gli avrebbe confessato il desiderio di voler tornare a casa, tra i loro confratelli. Gli avrebbe chiesto di concederle ancora qualche mera illusione: il sogno di non essere condannata e di non aver mai incontrato e perso il lupo a cui era destinata.

***

Gli sarebbe piaciuto sfiorarla, lì davanti a tutti. Gli sarebbe piaciuto abbandonare la propria sedia per raggiungerla sul divanetto da cui, persa, Aralyn guardava fuori dalla finestra, mentre con una mano girava sovrappensiero la cannuccia nel frullato. Ancora faticava a credere di averla quasi persa, di aver stretto il suo corpo morente tra le proprie braccia e invocato il nome di Arianrhod Arawn per concederle un alito di vita, eppure era successo. Quasi due settimane prima l'aveva vista scivolargli via dalle dita, ma era comunque riuscito ad acciuffarla e riportarla a sé - in che modo però, restava ancora un punto di domanda.

Sicuramente sua sorella era viva, al suo fianco e pronta ad affrontare nuovamente il mondo che li attendeva oltre le mura di Mont Saint Michel, ma non avrebbe saputo dire se il suo cuore fosse altrettanto presente o perso a miglia di distanza, tra i corridoi di un edificio che era divenuto, anche solo per una notte, un campo di battaglia tanto violento d'aver fatto tremare i loro animi guerrieri. 
Arwen se lo chiese con insistenza, mentre con gli occhi percorreva il profilo crudo e sgraziato di lei - ennesimo lascito di un padre che troppo presto li aveva trasformati in orfani.

Chissà se i pochi baci che erano riusciti a scambiarsi durante quella convalescenza erano stati paragonati a quelli altrui, se Joseph Menalcan ossessionava la mente di lei quanto la sua - perché quel fetido cagnaccio era lì, sempre presente in mezzo ai suoi pensieri. Era l'ombra che vedeva passare nello sguardo di Aralyn, i tremori che le increspavano la pelle. Era l'uomo che l'aveva avuta, sia nel corpo che nell'animo, il compagno che la loro essenza soprannaturale aveva scelto di legare a lei per sempre e indissolubilmente - mentre lui era riuscito a malapena a sfiorarla, era stato un misero frangente, un'infatuazione troppo presto dissoltasi.

«A cosa pensi?»

Lei parve riscuotersi da un sogno. Più volte batté le palpebre in direzione del proprio riflesso, poi con un timido sorriso tornò a fissare l'Alpha: «Al fatto che sono qui».
«E ti fa piacere?» in cuor suo, Arwen scongiurò di sentirle dire "sì". Aveva bisogno di essere rassicurato, di sapere che non lo avrebbe più lasciato. Sentiva l'urgenza di avvertirla vicina, stabile; di avere la conferma che non sarebbe più tornata dal nemico, ma sarebbe stata sua per il tempo che le restava.

«In parte» lo sguardo della ragazza si abbassò sulla coppa di frullato piena a metà, quasi andando a nascondersi. Temeva forse di potergli svelare qualcosa di indesiderato, lasciando il proprio viso alla sua mercé? 
Inaspettatamente, lo stomaco dell'uomo parve chiudersi, dissipando la gola che lo aveva spinto sino a quel locale. Forse avrebbe davvero dovuto temere il fantasma di quel Puro, forse avrebbe davvero dovuto rinunciare a sua sorella senza nemmeno poter concedere a ciò che li aveva legati un'opportunità.
«Non fraintendermi, Arwen. Stare qui, lontano da ogni cosa, con Killian e te...» con la coda dell'occhio, in concomitanza con quell'ultima parola, l'albino scorse un tremore smuovere la mano di lei. Un gesto lieve, fugace, un tentativo abortito di allungare le dita verso le sue: «mi pare quasi un sogno» le sentì sussurrare in un tono che non gli piacque affatto e, allora, intervenì prima che potesse essere lei a infrangere l'idillio di quel momento.

«Ma come per ogni bel sogno arriva il momento del risveglio, giusto?»

Aralyn annuì, mordendosi il labbro.
Pareva dispiaciuta, sofferente, eppure ciò non le impedì di proseguire: «Voglio tornare al Clan, Arwen. Ho bisogno della mia famiglia, di rivedere ognuno dei nostri fratelli» finalmente, con una decisione che per giorni era stata assente in lei, la ragazza alzò nuovamente i propri occhi dorati su di lui, dimostrandogli quanto ci tenesse. Dopo quasi un quarto di secolo passato insieme, Arwen aveva in parte imparato a leggerle il volto come una mappa: ogni ruga d'espressione era una montagna di preoccupazione da scalare, il rossore delle guance un mare di imbarazzo bollente da attraversare, mentre le fossette ai lati della bocca caverne di gioia in cui rifugiarsi. Ma la determinazione di sua sorella, a differenza di altre occasioni, in quel momento ebbe un sapore amaro.

Tornare a casa comportava molte più cose di quante, era certo, lei avesse considerato.

«E' troppo pericoloso» decretò dopo alcuni istanti di riflessione in cui, con la sua solita freddezza, aveva elencato la moltitudine di conseguenze che una simile decisione avrebbe portato.

«Sono la nostra famiglia, Arwen! E' il tuo branco, come puoi star loro lontano?» il tono lamentoso di Aralyn salì di qualche nota, arrivandogli alle orecchie come una sorta di accusa. Gli stava rimproverando la scelta di averla messa prima di ogni cosa o persona, di non voler vedere un mucchio di spocchiosi purosangue decretare la loro separazione - come poteva? Non era forse cosa scontata sacrificare tutto per colei che si amava? Non era forse stata lei, tra loro, la prima a seguirlo in un massacro pur di impedire la morte di quel verme? Perché avrebbe potuto raccontargli qualsiasi fandonia, ma ormai Arwen sapeva, era certo che qualsiasi cosa sua sorella avesse fatto dal momento in cui Fernando l'aveva riportata alla Tana era stata per Joseph - per questo lo aveva risparmiato; per questo stupido motivo aveva messo da parte la propria personale vendetta e salvaguardato quel cuore che ancora bramava.

«Perché ho te, a cui pensare!» gli sfuggì dalle labbra, a metà tra un ringhio e un sussurro. 
Non aveva alcun diritto di rinfacciargli quella decisione, non se in gioco c'era stata la sua vita.

Gli occhi di lei si fecero grandi di sorpresa, mentre le labbra secche si schiusero, lasciandola sospesa in uno stato di confusione che lo fece pentire di essersi lasciato incalzare dalle emozioni.

L'Alpha si morse la lingua, afferrandosi il setto tra indice e pollice: «Tu vieni e verrai sempre prima di qualunque cosa, Ara. Credi che menta, quando ti dico che sei tutto ciò di cui mi importa veramente?» Stranamente, così lontani da casa e da simili che potessero puntargli contro le dita, Arwen non si fece frenare né dagli altri presenti, né dai loro ruoli all'interno di quella società così ingiusta: «Tornare vuol dire metterti alla mercé del Concilio, venir nuovamente separati dalle loro imposizioni. E a me non sta bene, non dopo quello che è accaduto».

«Ma tu sei un capoclan, il branco ha bisogno di te, della tua guida...» per la prima volta, da quando si erano accomodati al tavolo, Aralyn afferrò la mano di lui, quasi aggrappandosi in cerca di sostegno: «e io ho bisogno di non sentirmi sola. Fuggire dal Concilio è impossibile, lo sai. Tu ed io non passeremo mai inosservati se decidessimo di abbandonare ogni cosa».
«Posso proteggerti, prendermi cura di te, l'ho sempre fat-»
Scuotendo la testa, in parte sorda ai tentativi dell'uomo di dissuaderla, la giovane lo interruppe: «Non voglio vivere un'esistenza in fuga, lo capisci?»

No, non lo capiva - e non perché non ne fosse in grado, ma semplicemente perché non voleva farlo. Smettere di nascondersi l'avrebbe fatta diventare un bersaglio fin troppo semplice da centrare, e lui non voleva essere l'arco da cui sarebbe scoccata la freccia della sua fine.

«Non voglio dover rinunciare ad ogni cosa per aver cercato di mettere fine all'egemonia di Douglas o aiutare te. Se mi devono giudicare, che lo facciano, mi farò trovare pronta, ma almeno concedimi l'illusione della pace prima della tempesta, fammi stare con coloro che mi hanno voluto bene ancora per un po'» lo supplicò, stringendo sempre più la presa sulle sue falangi.

Arwen guardò le loro dita intrecciarsi, diventare un unico pezzo. Si domandò se, a farsi trovare preparato, lui ne sarebbe stato in grado, oppure se alla fine i sensi di colpa lo avrebbero mangiato vivo - aveva già saggiato il sapore amaro dell'assenza di lei, quel tentativo da parte del Dio della Morte di portarsela via, ma ancora non sapeva se sarebbe riuscito ad affrontare quel retrogusto amaro per il resto della vita che lo attendeva. 
In cuor suo, l'albino aveva sempre creduto che sarebbe stato lui il primo a perire, quello che le fauci del mondo si sarebbero mangiate con atroce avidità, invece eccolo ancora lì, storpio e ferito nell'orgoglio, certo, ma vivo e con un futuro ad attenderlo, mentre sua sorella non avrebbe potuto dire altrettanto.

«Stai rinunciando a tutto, Ara».
«E' okay. A me va bene così. Chiedimi ciò che vuoi, Arwen, lo avrai, però concedimi di scegliere da sola come aspettare la chiamata del Concilio».

Quando i loro occhi tornarono a incrociarsi, l'uomo non poté fare a meno di mordersi la lingua.
Masochista, pensò scrutandone ogni connotato, cercando di vedere in lei anche solo un vago spiraglio in cui insinuarsi e convincerla a non arrendersi; eppure sul suo viso non vi fu alcun cedimento.

Egoista, si lasciò sfuggire tra i pensieri insieme a un sospiro. Sua sorella stava totalmente ignorando quanto una simile decisione potesse scavare negli animi collettivi, soprattutto il suo, però, in quella richiesta, Aralyn gli stava lasciando modo di manovrare in silenzio i fili di ciò che si sarebbe frapposto tra quel momento e la sentenza dei Nobili: «Qualsiasi cosa, lo hai detto» sibilò infine, portandosi il dorso della mano di lei alle labbra e baciandone la pelle, quasi a suggellare una sorta di accordo.

L'avrebbe protetta, lo giurò tra sé e sé. Avrebbe impedito a quella sciocca di lasciarlo solo in qualunque modo e, per farlo, avrebbe usato le sue stesse promesse.


 

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Capitolo 14
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12. Home

Killian rimase fermo sul materasso, le lunghe gambe accavallate e le braccia poco più indietro della schiena, piantonate nel copriletto per sorreggersi meglio. Silenzioso osservava Aralyn ficcare nello zaino le poche cose che lui stesso le aveva comprato e, nolente, dovette ammettere di sentirsi rammaricato da quella situazione.

Per undici giorni aveva condiviso casa con lei e Arwen, venendo catapultato indietro nel tempo, in mezzo a ricordi che aveva creduto non possedere più. Ogni volta che quella ragazzetta aveva intrapreso un discorso o si era mossa per le stanze, Klaus aveva fatto ritorno nel suo quotidiano; il sorriso di lui si era sovrapposto a quello di lei e le loro voci squillanti erano diventate una sola, scaldandogli il cuore. Quando, con la coda dell'occhio, la chioma pallida dell'Alpha del Nord aveva catturato le sue attenzioni, l'uomo aveva potuto rivedere Veronika scivolare tra un corridoio e quello successivo - era stato come riavere i propri migliori amici, un sogno che troppo presto si era reso conto non poter diventare realtà, ma che nuovamente stava per essere infranto.

«Pronta!» La sentì improvvisamente esclamare, venendo trascinato via da quei pensieri. 
Ancora malamente accucciata a terra, in modo da evitarsi del dolore inutile, la lupa tendeva verso di lui una sorta di sorriso - pareva felice, sì, ma non del tutto.

«Ne sei certa?»

Aralyn battè le palpebre qualche volta, confusa: «Beh, non ho molto da mettere via...» i suoi occhi calarono sul bagaglio che teneva di fronte a sé, forse elencando tutto ciò che vi aveva messo dentro, peccato solo che la domanda fosse riferita a ben altro.

Con un movimento lento, Killian scese dal letto, inginocchiandosi accanto a lei. Le dita ingioiellate si andarono ad appoggiare su quelle di lei, ora finalmente guarite dalle abrasioni, e le allontanarono dalle cerniere per portarle verso il proprio petto - le mani della giovane erano così sottili nelle sue, fragili e inermi, eppure erano state capaci di impugnare una tra le armi più pericolose per la loro specie; chissà se sarebbero state in grado di aggrapparsi alla vita con così tanta forza da riuscire a scampare al Concilio, pensò.

«Non fare la sciocca, non lo sei mai stata» la rimproverò bonariamente, sentendosi davvero come uno zio alle prese con la nipotina.
L'espressione di lei si fece cupa, lasciando trapelare la comprensione che d'un tratto l'aveva colta: «Dici?» chiese, iniziando a torturarsi il labbro: «Eppure ho agito come tale».

«Con il senno di poi siamo tutti ottimi giudici di noi stessi, mo phàiste. Ci rendiamo conto di quante altre possibilità avremmo potuto cogliere, ma che invece ci siamo lasciati sfuggire» la bocca del licantropo si tese, cercando di darle conforto: «Ma ricordati che la Madre Luna e gli Dèi ci guidano sempre. Se ti hanno fatto agire in un modo, invece che in un altro, è perché hanno qualcosa in serbo per te».

Aralyn volse lo sguardo verso la finestra. Il cielo azzurro le si riversò negli occhi, ma loro parvero non fermarsi lì, ma piuttosto oltrepassare le nuvole e rifugiarsi in pensieri che non sembrava volenterosa di rivelare. Rimase immobile per alcuni, brevissimi istanti, poi parve scendere nuovamente con i piedi per terra: «Ci credi veramente? Intendo a questa storia dei destini già scritti».

Avrebbe voluto stupirsi di quella domanda, ma purtroppo i suoi quasi sessant'anni lo aveva preparato a molte più cose di quelle che ci si sarebbe mai aspettati: «Credo che ci vengano date delle indicazioni, dei doni e delle disgrazie con cui scrivere il futuro che ci aspetta. Io ad esempio ho questa maledizione, tu un'altra» e, senza preoccuparsi di ciò che stava per fare, Killian si sporse nella sua direzione, appoggiando i polpastrelli al centro del torace di lei, lì dove oltre il maglioncino leggero batteva il cuore.
«Chi ti dice che ci sia una maledizione, su di me?»
«Tutti siamo condannati, in un modo o nell'altro» d'improvviso, del tutto fuori luogo rispetto al suo solito atteggiamento, l'uomo fece spallucce, socchiudendo appena le palpebre: «e quando le sventure si assomigliano, ci si riconosce».

Quell'ultimo commento gli sfuggì dalle labbra senza che se ne potesse realmente rendere conto e, subito dopo, se ne pentì. Quando le pupille di lei baluginarono nella sua direzione, bloccandosi con incredibile fermezza sul suo viso, Killian non riuscì a impedirsi di mordersi la lingua e inveire contro quel moto di tenerezza che gli aveva fatto abbassare la guardia, tanto da rievocare qualcosa che sarebbe stato meglio tacere per sempre.

«Che vuoi dire?»

Il modo in cui gli si rivolse parve schiaffeggiarlo; l'espressione sul suo viso era una vera e propria maschera di severità, sembrava starsi preparando alla difesa - cosa stava temendo? Forse ciò che più volte aveva negato di ammettere? Forse quello che lui aveva sospettato sin dal principio?

«Niente d'importante».

Aralyn, con ancora la mano stretta in quella di lui, piegò le dita ed estrasse gli artigli, premendo nella carne: «Che vuoi dire?» ripetè, questa volta in un sibilo tanto sottile d'apparire tagliente. Nel suo sguardo c'era la smania febbrile della conoscenza, il desiderio vorace di capire per poi mettere a tacere - e seppur nolente, il licantropo dovette ammettere di non trovarlo affatto piacevole.

Le sue parole, che avrebbero dovuto semplicemente essere innocenti e rincuoranti, erano diventati per entrambi delle spine nel fianco. E seppur lui non volesse più tirare in ballo la questione, non dopo essersi sbilanciato a quel modo, si ritrovò a non riuscire a sfuggire alla bramosia di lei. Chiederle il motivo del vuoto che la stava mangiando viva, il suo nome, avrebbe significato ricordare anche quello del proprio - e dopo trent'anni, non intendeva incrinare il guscio di indifferenza in cui l'aveva seppellito, quindi provò nuovamente a scostarsi: «Nulla, Ara, mi riferivo a questioni del passato» ma non era vero, e seppe con certezza che nemmeno lei aveva creduto a quelle parole.

Qualsiasi fosse la causa della sua condizione così assertiva però, lui, adesso, voleva restarne all'oscuro, in modo da celare le ferite che a sua volta portava addosso.

Ma lei non demorse. Dopotutto, si ricordò l'uomo, doveva aver ereditato persino lei qualcosa dalla madre: «Ti ho chiesto che stavi insinuando!?» chiese ancora, visibilmente turbata.
Killian avvertì gli artigli di Aralyn tagliare la pelle, vide il suo viso tirarsi e la pelle cambiare grana. Il suono delle prime ossa in procinto di spezzarsi gli solleticò i timpani e, in un lampo, si rese conto di non poterle permettere di cambiare forma - già durante le tre notti di Luna era stato costretto a sedarla; una mutazione, nelle sue condizioni, avrebbe riaperto sia la ferita procuratagli da Douglas, sia quella sul polpaccio. L'argento l'aveva indebolita più di quanto ci si sarebbe potuti aspettare e lui doveva assolutamente evitare un simile disastro.

«Io... Aralyn, abbiamo solo dei vuoti simili, tutto qui...»

E lei, d'improvviso, parve perdere ogni forza. I suoi occhi si riempirono di lacrime, cercando rifugio ovunque tranne che sull'interlocutore: «Un imprintig è una maledizione?»
A quella domanda, l'uomo s'irrigidì.
Se da un lato i suoi sospetti avevano finalmente trovato una certezza, dall'altro si rese conto che avrebbe preferito non saperlo mai.

Un imprinting è una maledizione?
Sì, la peggiore.

Essere indissolubilmente legati a qualcuno, vivere nella sua vita e perire nella sua assenza - cosa ci poteva essere, di più atroce, di sapersi condannati all'altro per il resto dei propri giorni e perdere la capacità di restare a galla senza quella persona al proprio fianco? Persino lui, alcuni giorni, faticava ancora a respirare senza sentire dolore in mezzo alle costole.

«Arwen ha attaccato i Menalcan per vendetta, mi hai detto, non per il Pugnale» iniziò a dire, sapendo di star buttando sale su una ferita fin troppo fresca: «E' a causa sua?»

Silenzio. Nulla che li circondasse stava facendo rumore, anche l'aria pareva aver smesso di muoversi intorno a loro. E Aralyn se ne stava immobile a sua volta, una sorta di statua di fronte ai suoi occhi. La sua mente doveva aver ripreso a vagare altrove, lontana.

«Sì» un soffio, nulla più, poi una impavida lacrima le scese lungo la guancia, segnandole la pelle: «Sai, fino a sei mesi fa credevo che non vi fosse altro uomo se non Arwen, destinato a me. Eravamo noi due e basta, per sempre. Io lo avrei sorretto in questa vita e lui mi avrebbe tenuta con sé, amandoci silenziosamente e accettando l'ennesima negazione del nostro mondo. Avremmo combattuto insieme per cambiare le cose, per essere uguali a tutti voi» per la prima volta, la ragazza si rivolse a Killian in quanto Puro, differenziandosi da lui come mai gli era capitato prima - e l'uomo dovette accettare il sapore amaro che gli riempì la bocca, sopportando per un solo momento di dover fare i conti con un passato che aveva voluto più volte cancellare. Lei tese un tenero sorriso: «Ci saremmo guadagnati il diritto di poter fare come qualsiasi purosangue presente in Europa, esattamente come promette il Duca. Questo era tutto ciò a cui anelavo... l'imprinting era una favola che sentivo scivolare fuori dalle bocche degli altri, non mi toccava. Avevo mio fratello e andava bene così, ma poi è arrivato». Sfilando la mano dalla presa dell'uomo, Aralyn si ravvivò una ciocca dorata: «Aveva quel profumo strano, piacevole. Era un misto di calore e selvaggina, di sottobosco autunnale, eppure forte come quello di un Alpha e virile, accogliente. Ogni volta che lo sentivo nell'aria il mio corpo pareva venirne inesorabilmente attratto e quando non riuscivo a fermare i piedi mi conduceva al suo cospetto. Lui mi guardava come se fossi un mistero su due gambe, una piccola meraviglia in mezzo al caos, mentre io cercavo in ogni modo di allontanarlo. Non volevo avvicinarmi, saggiare il suo sapore, assuefarmi della sua presenza... perchè mi faceva paura, Killian» d'un tratto gli occhi di lei tornarono a fissarlo, le pupille grandi e le guance fin troppo rosse. Gli diede l'impressione di non essere altro che una bambina terrorizzata, eppure ne aveva viste più di qualsiasi sua coetanea. Avrebbe voluto stringersi a lei, farle capire che ne comprendeva le parole e le sensazioni, ma invece rimase fermo sulle proprie ginocchia, aspettando.
«Temevo il fatto che d'un tratto, dal nulla più assoluto, lui fosse comparso ed io fossi stata all'oscuro della sua presenza fino a quel momento. Non lo conoscevo, eppure lo desideravo. E temevo di fare ciò che ho fatto, cioè tradire Arwen... eppure... eppure non sono riuscita a fermarmi. Ogni giorno la sua presenza diventava sempre più rassicurante, il suo sorriso entusiasmante e... seguivo i suoi allenamenti costringendomi a non trovarlo meraviglioso, eccitante e proibito, ma più tempo passava e meno riuscivo a restar salda a ciò che mi ero ripromessa. Quando mi ha baciata ho creduto che il mondo iniziasse e finisse lì, con noi in mezzo a quelle foglie, ma poi» si morse il labbro con più veemenza: «poi a Novigrad abbiamo passato la notte insieme e lì, in quel momento, nell'esatto istante in cui siamo diventati una cosa sola ho creduto di poter sfiorare il cielo. Non avevo idea di cosa stessi facendo o di quanto in alto mi stesse portando con il suo amore, sempre se di quello si può parlare, ma poi qualcuno mi ha spinto giù. Le enormi mani di Gabriel Menalcan mi hanno strappato le ali ed io sono precipitata al suolo, distrutta» più il discorso era proseguito, più le parole di lei erano diventate via via sempre più simili ad aghi premuti nella carne, uccidendola e facendo male persino a lui.

Quelle sensazioni, tempo addietro, erano state le medesime che aveva provato anche lui - ma se Killian era riuscito a trovare un modo per andare avanti, Aralyn sembrava non avere idea di come smettere di sprofondare e, forse, nel tentare di rimanere a galla, aveva nuovamente trovato appiglio sul cuore di Arwen.

«Chi è, Ara?» le domandò in un sibilo, conscio di quale malignità le stesse facendo.

E in quell'istante, completamente in balìa delle lacrime, la vide spezzarsi come un tempo aveva fatto lui: «Ho dato il mio cuore a Joseph, Killian...» i singhiozzi arrivarono sommessi, poi sempre più intensi - e vi fu l'annichilante certezza che una parte della maledizione di lui, era quella che stava subendo lei.

***

«Vuoi che mi fermi?» La voce di Arwen arrivò da un punto indefinito accanto a lei, strappandola ai ricordi di ciò che aveva confessato a Killian. Più volte Aralyn batté le palpebre, cercando di ritrovare del contegno e sistemandosi sul sedile per poi volgersi verso di lui.

«Perché?»
«Stiamo viaggiando da due ore e mezza, abbiamo ancora tantissimi chilometri davanti a noi, la mia gamba inizia a fare male e vorrei potermi godere ancora qualche minuto in solitaria con te. Ti bastano come motivazioni?» Il sorriso che tirò gli creò due piccole fossette agli angoli della bocca, rasserenandola; vederlo così spensierato era cosa rara, ma con grande probabilità si trattava solo di un tentativo di depistaggio - dubitava che un viaggio in auto, pochi giorni dopo al funerale di Douglas Menalcan, e con il fantasma del Concilio alle calcagna potesse non urtare lo stratega in lui, ma apprezzò quel suo tentativo. Come ci si sarebbe aspettati, stava cercando di avere per lei qualche premura in più.

«Dillo che devi fare la pipì!» lo punzecchiò, cercando di apparire meno assente di quanto in realtà fosse.

Nonostante stessero tornando a casa, entrambi vivi e vegeti, non riusciva a pensare ad altro se non a ciò che aveva perduto. Non c'era alcuna soddisfazione ad accompagnarla, nessun reale motivo per sentirsi felice - solo la consapevolezza di essersi rovinata con le proprie mani nel giro di poche settimane.

«Anche se fosse non te lo direi mai così!» Rise lui, trascinandola via da quei pensieri e portandosi indietro le ciocche che avevano preso a infastidirgli il viso. Già, pensò teneramente Aralyn, cercando di trovare una ragione per non abbattersi, Arwen non aveva mai usato un linguaggio volgare con lei, se non in quei rari casi in cui era arrivato a minacciarla - occasioni più uniche che rare - e, seppur alle volte in modo un po' scostante o impacciato, aveva sempre cercato di essere gentile nei suoi confronti, facendole capire che il suo amore era ancora lì, presente e indistruttibile.

L'auto imboccò la corsia verso l'area di servizio.

Non era dell'umore giusto per fermarsi, vedere e ascoltare gente, eppure non obiettò, capendo da sola i bisogni dell'uomo sedutole di fianco. Inoltre, finché i punti di sosta erano abbastanza battuti dagli umani, non avrebbero dovuto preoccuparsi di incorrere in grandi pericoli: nessuno voleva indispettire il Concilio - nemmeno lei lo avrebbe fatto, se si fosse ricordata di quell'inutile e stupidissimo dettaglio.

Così, appena si fermarono, Aralyn provò a balzar giù dalla vettura, ritrovandosi però ad arrancare come una povera nonnina affetta dai reumatismi e dagli acciacchi dell'età - le ferite tiravano la pelle lì dove le croste si erano andate a formare, minacciando un'imminente riapertura; eventualità che avrebbe evitato con piacere, visto la poca abitudine a soffrire per così tanto tempo. 
Con le dita si arpionò alla portiera, piegandosi un poco in avanti per riuscire a lenire il dolore e prendere fiato e, nel momento esatto in cui fu certa di essere pronta ad affrontare i postumi delle fitte, si ritrovò le braccia di Arwen pronte a sorreggerla.

Per un attimo rimase incredula di fronte a quel gesto, chiedendosi come fosse possibile che, dopo anni, i ruoli si fossero invertiti a quel modo. Ricordava ancora tutte le volte in cui era stata lei a offrirsi come bastone per i suoi passi incerti, come lo aveva aiutato a compiere i movimenti più banali: togliere e mettere vestiti, andare in bagno, lavarsi o fare una sorta di passeggiata - e ora eccola lì, degente tra le braccia di chi una volta era stato suo paziente.

«Ce la faccio» provò a dire, riluttante all'idea di affaticarlo più del dovuto, ma lui parve non sentirla. Con un movimento lesto le cinse la vita, stringendola a sé. Le sue dita stettero attente a non sfiorare i lasciti di Douglas, fermandosi sulla curva dell'anca, mentre con sguardo languido la esortava a fare altrettanto con lui. Aralyn dovette combattere contro l'imbarazzo per riuscire a toccarlo, trovando quell'atteggiamento estremamente estraneo al modo in cui si erano comportati per tutti quegli anni - un po' le piacque, ma non a sufficienza da sentirsi nuovamente attratta da lui.

«Dicevo anche io così, eppure non ti sei mai allontanata un singolo giorno dal mio capezzale. Ogni volta che cercavo di alzarmi dal letto tu accorrevi come una furia».
«Era diverso, Arwen...»
«Non lo è, invece. Entrambi siamo scampati alla morte, siamo stati salvati da Killian e abbiamo l'altro a prendersi cura di noi, direi che è praticamente la stessa cosa».

La ragazza sobbalzò. In effetti l'unica differenza che diversificava le due circostanze erano i lasciti: la gamba di lui non sarebbe più tornata alla forma di un tempo, tradendolo di tanto in tanto, mentre la sua pelle avrebbe per sempre ricordato quella notte, senza però minare il futuro che aveva di fronte - misero, certo, ma comunque significante.

E guardando il viso sereno di suo fratello, Aralyn si domandò per quale ragione, alla fine, se lui era riuscito a innamorarsi di lei durante la riabilitazione di otto anni prima, lei non sarebbe riuscita a provare per Arwen i medesimi sentimenti.

Perché, il suo stupido ricordo, non riusciva a essere cancellato?


 

Yaga:

Ebbene, per una strana forma di pietà ho deciso di dividere in due il capitolo - la prima con i patemi di Aralyn, la seconda con le colpe e le gioie che tornare al clan comporterà. Oltre a questo però, l'ombra del Concilio non si dissipa mai: è lì, sta arrivando e, con lui, anche tutti i colpi di scena che fino ad adesso ho taciuto.

Sicuramente questo secondo volume avrà una narrazione più lenta del primo, ma solo perché deve dare il via a qualcosa di più "avvincente" (o quantomeno nei miei piani/pensieri), ma non temete, farò sì che ne valga la pena <3

Detto ciò, voi non potete nemmeno immaginare cosa stia nascondendo Killian e a quali intrecci il suo personaggio è legato! Però se volete fare delle supposizioni, vi invito a farlo.
Come sempre vi ringrazio per il tempo che spendete su questa storia <3 mi auguro di avere vostri feedback!


 

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Capitolo 15
*** Home (2/2) ***





12. Home

Casa non equivaleva più alla Tana. Il casermone ristrutturato in cui aveva passato gli ultimi anni era stato sostituito da un cascinale trasandato sui primi e lievi pendii liguri, lì dove la salsedine riusciva comunque ad arrivare e pizzicare il naso - un dettaglio che, sfortunatamente, non le piacque affatto. Il mare, ormai, aveva per lei un significato tutt'altro che piacevole e al posto di metterle il buonumore, glielo toglieva con fin troppa facilità.

Aralyn alzò gli occhi verso le finestre più alte, lì dove tende bianche si muovevano tra il dentro e il fuori dell'edificio facendosi cullare dal vento. Osservò quelle fessure nella speranza di veder spuntare un viso familiare, una voce amica, ma a parte qualche suono confuso in lontananza non riuscì a cogliere nulla. Ovunque i suoi occhi si posassero, non vi era niente che potesse definire come "familiare". Era straniera in terra estranea, eppure era proprio in quel posto che doveva tornare.

Storcendo le labbra notò come, sotto all'intonaco scrostato delle facciate, si potessero intravedere mattoni di un arancione slavato che i rampicanti avevano invano tentato di nascondere e, qua e là, alberi da frutta e qualche uliveto spiccavano rigogliosi, testimoniando l'assenza di inquilini da almeno un paio di primavere.

Arwen accanto a lei tirò un sospiro, catturando la sua completa attenzione. Doveva essere esausto, pensò, dopotutto con la sua gamba così rovinata guidare era più difficoltoso di quello che ci si sarebbe potuti aspettare e, seppure da metà viaggio in poi lei fosse riuscita ad accantonare per qualche momento i pensieri legati alla conversazione con Killian, non poteva certo affermare di essere stata di grande compagnia. Nelle poche soste gli aveva concesso un breve riposo, qualche tenera carezza o timido bacio, giusto per convincerlo a resistere sia al dolore sia al sonno, ma sapeva da sé che il tutto gli aveva richiesto uno sforzo non indifferente, soprattutto quando si erano trovati a fare i conti con il traffico e il gioco di freno e acceleratore era diventato fondamentale.

In punta di dita gli sfiorò lo zigomo, allontanando una ciocca. I suoi capelli altro non erano che fili di seta, accarezzavano l'epidermide solleticandola e tentando di fuggire, ma con premura lei riuscì a fissarli dietro la curvatura dell'orecchio, lì dove si accorse della mancanza di tutti gli orecchini che suo fratello era solito portare. I buchi erano spariti, come ci si sarebbe aspettato dalla guarigione repentina di cui il loro corpo soffriva, ma in un punto, uno solo, l'elice perdeva la sua rotondità per lasciare spazio a una frastagliatura - durante uno degli ultimi allenamenti con Dominick, quando ancora vivevano con il Duca, quell'idiota aveva attaccato l'amico con il chiaro intento di fargli male e, il risultato, era stato quel rovinoso ricordo.

«Casa?» chiese in un sussurro, sperando ancora di poter rivedere la stanza che per anni aveva chiamato sua. In qualche angolo di sé, la giovane sperò che allo sguardo successivo il cascinale tramutasse, diventando più simile alla Tana.
Arwen le afferrò le dita, portandosele alle labbra: «Casa» le assicurò, mandando in frantumi le sue speranze.

«Per quanto?»
«Finché non troveremo un'alternativa. Può essere qualche mese, oppure un paio d'anni».

Aralyn storse le labbra: «Questa zona dell'Italia non va bene per noi. Il confine con i territori di Ophelia è vicino, inoltre non ci sono molte aree boschive. Come faremo durante la Lu-»
«Ehi, frena!» Le sopracciglia di lui si corrugarono appena, e la sua espressione si fece tenera in un modo quasi innaturale, eppure armonioso con i suoi tratti: «L'Alpha sono io, è mio compito pensare al branco. Tu non devi far altro che goderti del meritato riposo».
«Okay, ma è colpa mia se-»
«Se nulla, Aralyn. Io ho la responsabilità di ognuno di voi, soprattutto di te, quindi accetta questo posto e il fatto che ora sei colei che ha spezzato l'egemonia dei Menalcan. Gioisci di questa vittoria e dimentica il resto, tutto il resto». 
Già, lei era la donna che aveva ucciso Douglas, la beniamina del Clan, la punta di diamante del Duca e, purtroppo, la lupa che sarebbe stata giudicata colpevole di aver agito contro il volere del Concilio - seppur inconsapevolmente e per una buona causa.

Peccato che di mezzo ci fossero solo leggi atte a difendere i Puri.

Mordendosi il labbro provò a convincersi di poter ignorare almeno qualcuno dei mille problemi che sembravano vorticarle attorno; in fin dei conti se Garrel, Marion e Fernando avevano scelto quel posto, in loro assenza, certamente non lo avevano fatto ignorando determinate necessità - dopotutto nessuno di loro era un inetto, facevano parte di quel branco da abbastanza tempo per conoscere ogni sua sfaccettatura. 
Poggiando i polpastrelli sulla maniglia e voltando lo sguardo verso la portiera,  Aralyn prese un lungo respiro, sforzandosi di scendere dalla vettura e abbandonare l'illusione di rivedere i luoghi che tanto le erano diventati cari; aveva sopportato tutte quelle ore di viaggio per arrivare sin lì, si era esposta ai pericoli peggior per rivedere ognuno di loro, perché esitare, quindi?

Suo fratello le lasciò muovere i primi passi fuori dall'abitacolo in totale solitudine, concedendosi ancora qualche istante di riposo e, quando lei si girò a guardarlo, lo vide rivolgerle un timido sorriso. I suoi tentativi di assecondarla erano così ovvi che per un attimo volle tornare indietro e dirgli di andare via, di restare soli ancora un po', in modo da ripagarlo per tutto ciò che stava facendo. Se lo meritava. Dopo tutte le peripezie a cui avevano fatto fronte, le lacrime versate e le pugnalate che si erano tirati era giusto che anche lui godesse di qualche gioia - mere soddisfazioni prima che lei sparisse per sempre dalla sua vita -, ma prima che potesse dirgli qualsiasi cosa, come uno scossone, un richiamo la riportò violentemente al presente.
Una voce acuta, rotta solo dalla commozione, la chiamò con eccessiva intensità.

Non le servì voltarsi per riconoscerne l'origine, in fin dei conti quel suono lo aveva udito decine di volte durante la sua vita; inoltre, non ebbe nemmeno modo di agire perché la stretta di Marion arrivò prima che lei potesse realmente rendersene conto.

L'impeto con cui le si scagliò contro quasi la sbatté contro la carrozzeria dell'auto a noleggio, ma ciò non fermò la donna dall'avvolgerla sia tra le sue braccia sia nella sua irruente chioma bionda. Il profumo di gelsomino divenne l'unico sentore capace di riempire le narici della lupa e l'umidità di un viso rigato dalle lacrime si fece inconfondibile premendosi contro il suo: «Ara!» La gioia dell'amica era palpabile, concreta quanto il suo corpo e Aralyn non poté impedirsi di essere sopraffare da una sensazione calda, un piacevole conforto che le fece socchiudere le palpebre e aggrapparsi a quegli avambracci abbronzati.

Era vera, si disse.
Era lì con lei, sana e salva - quanto poteva essere grata agli Dèi per una simile benedizione?

«I-io... t-t-ti credevo...» nonostante il caratteraccio e quella corazza con cui si vestiva ogni giorno da quando era diventata un licantropo, Marion si lasciò andare al pianto come una bambina. Nemmeno alla morte di Luke, o di qualsiasi altro suo spasimante, aveva mai versato così tante lacrime e soffocato i singulti - e finalmente, in quell'istante,  Aralyn seppe di essere tornata a casa. Lei, quel calore e chiunque si trovasse all'interno del cascinale erano il suo "posto", il luogo a cui avrebbe voluto far ritorno.

D'un tratto, altre braccia si unirono a loro, cingendole entrambe e stringendo sempre più. Il profumo di Garrel si unì a quello della bionda e per un lunghissimo momento rimasero lì, zitti a godersi la presenza l'uno dell'altro.

Quanto aveva desiderato tutto ciò? Quanto aveva voluto ritrovare un po' di serenità? Più di quello che si era resa conto.

«Voi due!» Chiamò Arwen: «Non stritolatela troppo, è ancora degente!» 
Li apostrofò con velata ironia, avvicinandosi abbastanza da venir inaspettatamente acciuffato dalle enormi mani dell'amico e compresso a sua volta nel gruppo, parte anche lui del sollievo collettivo. Fu forse la prima volta che un gesto di tale commozione e tenerezza coinvolse tutti loro, persino l'Alpha, eppure parve la cosa più naturale del mondo. La ragazza si crogiolò in mezzo a tanto affetto, si beò di ogni istante finché, infine, non venne il momento di separarsi.

Marion le accarezzò il viso, guardandola con occhi rossi di felicità e un sorriso tanto grande d'arrivare quasi alle orecchie: «Ce l'hai fatta, tesoro. Sei qui».
«Lo dubitavi?»
E a quella domanda, nuove lacrime presero a scendere copiosamente lungo le guance della donna che, visibilmente colpevole, annuì. Come darle torto, del resto? Chiunque, vedendo Aralyn, avrebbe dubitato che una cosetta soffice e delicata come lei potesse abbattere uno tra i licantropi più temuti degli ultimi cinquant'anni, eppure, anche se solo per fortuna, c'era riuscita - un miracolo, avrebbe detto qualcuno, e certamente lei non avrebbe potuto obiettare.

Aralyn le prese le mani tra le proprie: «Dopo sei anni di missioni insieme credevo avessi più fiducia in me!» Rise poi, cercando in tutti i modi di alleggerire il malumore che sembrava star provando ad avere la meglio e, quando le parve di esserci più o meno riuscita, con lo zaino in spalla e le dita dell'amica intrecciate con le sue prese ad arrancare verso l'edificio. Aveva voglia di rivedere anche gli altri, di stringersi ancora al corpo di qualche compagno e sentirsi bene, al sicuro.

Così, avanzando tra i ciottoli e i ciuffi d'erba, la giovane scorse altri piacevoli dettagli: alcune delle vetture che erano sempre state parcheggiate nel cortile del Clan, i panni stesi lungo fili di nylon, due tavoli ampi, coperti da tovaglie dalle fantasie differenti e, annessa, una moltitudine di sedie ora vuote - che fine aveva fatto il branco?

«Dove sono tutti?» chiese, buttando lo sguardo oltre la propria spalla, in modo da raggiungere gli uomini dietro di lei, visto che Marion pareva tutto, tranne che nelle condizioni per risponderle, troppo occupata a tirar su con il naso.
Garrel mosse lo sguardo altrove, verso quello che pareva essere un fienile: «C'è chi dorme, chi è in paese a cercare lavoro e chi invece non ha fatto ritorno, inoltre qui c'è solo la parte di noi che ha lottato».

I piedi di Aralyn si fermarono e lei, con le palpebre spalancate, si volse del tutto nella direzione dell'uomo: «Abbiamo avuto perdite? Molte? E... e gli altri?»
Lo sguardo dell'energumeno andò a terra, poi su Arwen. Si fissarono qualche istante in silenzio, cercando di interpretare l'espressione l'uno dell'altro e dopo, con uno sbuffo stanco, si volse verso di lei: «Meno di quelle che avremmo potuto, ma non così scontate come avremmo sperato. Il resto del branco è in viaggio con gli uomini di Carlyle. Lui... può proteggerli meglio di noi al momento».

Il cuore della lupa parve farsi pesante, un macigno in mezzo al petto. Per un attimo temette di ritrovarsi senz'aria: «Che intendi dire?»

La bionda al suo fianco le accarezzò un braccio, provando a farle interrompere il contatto visivo con Garrel: «Dolcezza, ne parliamo poi. Siete stanchi, dovete sistemarvi e -»
Ma Aralyn non demorse e, strappandosi via dalla presa di lei, tornò alla carica: «Sono i gemelli? E' successo qualcosa a Eike e Hugo?»

L'uomo tacque, anche se il suo viso si lasciò piegare in una smorfia tutt'altro che rassicurante.

No, pensò. Non voleva credere all'idea che qualcuno dei suoi più cari amici fosse morto per lei, per ciò che non aveva potuto far altro che subire, per il tradimento fatto ad Arwen - e inevitabilmente il suo sguardo calò sull'albino. La stava fissando. Oro nell'oro. Algido come lo aveva visto essere in decine di occasioni, suo fratello era tornato a vestire i panni dell'uomo che, nel Clan, era sempre stato. Non una smorfia ne tradiva l'austerità, non una lacrima accennava a cadere. Era freddo e distante, esattamente come lei non avrebbe mai voluto che fosse, soprattutto in quel momento.

Sprogendosi, si aggrappò con le unghie alla t-shirt di Garrel. Lui le avrebbe risposto. A furia di esortarlo e di fronte ai suoi occhi umidi non si sarebbe mai tirato indietro, avrebbe rivelato ciò che di così tragico le stavano nascondendo, ne era certa.

«Garrel, ti prego! Stanno bene?»

Lui si morse il labbro, forse costringendosi a resistere: «Abbiamo tempo, per parlare delle perdite» soffiò, visibilmente turbato, ma per lei non ci sarebbe stata alcuna fine sino al momento in cui le avrebbero risposto - era suo diritto conoscere la verità.
«Chi cazzo è morto, Garrel!?» La voce di Aralyn tuonò nel portico, riecheggiando nello spazio che avevano attorno. La sua domanda parve squarciare la tranquillità in cui quel cascinale se ne stava, arrivando forte e chiaro a chiunque si trovasse lì.

Lei doveva sapere, si disse.
Doveva conoscere coloro che aveva condannato insieme a sé stessa. Sentiva l'annichilante necessità di prendersi le proprie responsabilità, piangere i caduti, dar loro i giusti onori e pregarli di non odiarla.

Come potevano negarglielo?

E poi, dal nulla più assoluto, fu proprio la voce di uno dei due fratelli Vogel a confessare: «Fernando. Lo ha ammazzato Gabriel Menalcan».

Fernando.

Assordante, il silenzio provò a farle scoppiare la testa.

La giovane sgranò gli occhi, tanto da sentirli bruciare.
Non poteva essere vero, non doveva.

Lui l'aveva salvata dai nemici, l'aveva protetta. Lui si era stretto a lei e aveva pianto il suo dolore sotto al getto bollente di una doccia, si era fatto complice di un vuoto che Aralyn non voleva sentire e di cui non sapeva come liberarsi. L'aveva coccolata, allenata. L'aveva sorridere persino nei giorni più tristi - non poteva essersi fatto uccidere così.

Furente, si lanciò contro Hugo: «Puttanate!» sbraitò, ottenebrata dall'incredulità e dal troppo dolore interiore per avvertire la pelle tirarsi e i pochi punti presenti nella carne spezzarsi. Non voleva credere che lui, proprio lui, fosse stato l'uomo a subire gli effetti collaterali di uno scontro iniziato a causa sua - perché seppur avessero rischiato l'osso del collo altre volte, quella era diversa, non c'erano gli ideali perbenisti del Duca a scusare simili sacrifici, ma solo i suoi sbagli.
Con i connotati distorti da una mezza mutazione, la lupa l'afferrò per il bavero della camicia, schiacciandolo al muro: «Non osare dire simili puttanate!»

Stringeva e ringhiava.
Tremava di rabbia e scongiurava ogni divinità di far sì che si trattasse solo di un pessimo scherzo.

«Non lo sono!» Controbatté lui, senza però reagire all'aggressione - dopotutto, forse meglio di lei, si rendeva conto della situazione in cui si trovavano: «Dannazione, Ara, non lo sono!» Inoltre, da umano, Hugo non avrebbe mai osato sfiorarla nemmeno con un dito, troppo riconoscente per permettersi una simile mancanza di rispetto.

«M-ma... Fernando... lui...»

Non era una bugia, si rese sempre più conto. Lo sguardo del ragazzo era tanto duro da parlare di pura e semplice realtà - perché la sofferenza non mente mai, le ricordò la mente.

Fu come ricevere un pugno al centro del petto, Aralyn poté quasi avvertire l'impatto.

Chi aveva creduto non potesse essere abbattuto era stato, invece, seppellito - e chi aveva pregato morisse, era vivo e vegeto e le stava stringendo il cappio intorno alla gola.

Come aveva fatto a non pensare a quell'eventualità? Come aveva fatto a credere che sarebbe tornata e tutti, ma proprio tutti, l'avrebbero accolta e festeggiato con lei?
Fernando aveva cercato di proteggerla dal maggiore dei figli di Douglas, l'aveva allontanato per permetterle di fuggire o aiutare Arwen; perché, quindi, quando aveva visto Gabriel tornare verso di lei, muovendosi senza grosse difficoltà sulle proprie gambe, non aveva ricollegato i fatti?

Lenta, allentò la presa sul ragazzo, tornando poi alla forma più umana di sé. Rimase immobile e confusa, incapace di concretizzare realmente quella notizia - anche se sapeva essere vera - e poi, a strapparla dallo stato di momentanea trance in cui era caduta, tornò la voce di Hugo: «Merda! C'è sangue. Aralyn? Aralyn, stai perdendo sangue! Arwen, non so che succede!» La preoccupazione era palpabile, risuonava attorno a lei con eccessiva forza, così abbassò lo sguardo nella medesima direzione in cui lui era rivolto e, sul grigio della maglia, nella parte bassa, vide una piccola chiazza scura. Forse aveva fatto male a lasciarsi trasportare a quel modo, eppure non era riuscita a fare altrimenti. Ad ogni modo però, quel futile dettaglio parve non destare in lei alcuna reazione; in fin dei conti cosa erano poche gocce, se confrontate allo scempio che doveva essere stato il corpo di Fernando dopo lo scontro?

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Capitolo 16
*** Part of us ***






13. Part of Us

Alzò la mano per l'ennesima volta, poi l'abbassò ancora. Nemmeno riusciva a ricordare quanti tentativi avesse fatto fino a quel momento, forse un paio, forse una decina, eppure il risultato non cambiava mai - il coraggio scivolava via appena le nocche si preparavano a colpire la porta. E lui restava lì, immobile di fronte a un'anta anonima oltre cui non proveniva era alcun suono.
Possibile che un lupo del suo calibro, che si era scontrato con nemici di ogni fama e taglia, non riuscisse ad affrontare quella cosetta che era sua sorella? Possibile che non avesse saputo gestire né lei, con quel suo dolore lacerante, né la situazione, permettendole così di rovinare il lavoro a cui Killian si era dedicato in quegli ultimi giorni?
Arwen non seppe che rispondersi.

Più se ne stava in mezzo a quel corridoio, più faticava a dare un senso a tutto ciò che lo aveva condotto sin lì - l'unica certezza che aveva, era la consapevolezza di volerle restare accanto, di non aumentare il vuoto tra di loro. Erano dovuti arrivare a un passo dalla morte per riuscire a sfiorarsi, non poteva rischiare di rovinare ciò che aveva ottenuto con tanta fatica e sacrifici.

Abbandonando la testa all'indietro si concesse un lungo e profondo sospiro, cercando di scrollarsi di dosso la tensione che sentiva contrargli i muscoli da fin troppe ore.

Se la morte di Fernando le aveva fatto perdere il controllo a quel modo, annebbiandole il raziocinio con tanta facilità, si domandò a cosa sarebbe andato incontro se, al posto di graziare Joseph Menalcan con la sua clemenza, fosse andato fino in fondo, azzannandogli la giugulare nell'esatto momento in cui i suoi sensi erano venuti meno.

Sarebbe stata capace di aggredirlo come aveva fatto con il povero Hugo? Avrebbe potuto spingersi così in là da massacrare il sangue del suo sangue?

Un tempo avrebbe risposto di no, avrebbe avuto la certezza che Aralyn non avrebbe mai osato far del male a nessuna delle persone a lei care, soprattutto a lui, ma adesso, dopo tutto ciò che era accaduto, non avrebbe potuto esserne altrettanto sicuro. In lei qualcosa si era rotto rovinosamente dopo il ritorno da Villa Menalcan, forse persino prima - e lui, ottenebrato dai propri desideri, non si era accorto di nulla.

Mordendosi la lingua, l'uomo cercò di convincersi a fare ancora un ultimo tentativo - dopotutto, di quel passo, i suoi sottoposti avrebbero iniziato a chiedersi la ragione per cui, il loro Alpha, se ne stava imbambolato di fronte a una porta chiusa. E più gente passava alle sue spalle, più la certezza che qualcuno avrebbe pensato che fosse un ebete si faceva seria.

Così alzò nuovamente il braccio e, finalmente, riuscì a bussare. 
Le sue nocche colpirono piano il legno, sembrando quasi intimidite dalla prospettiva di richiamare le attenzioni della ragazza oltre l'anta - e forse, lei nemmeno avrebbe sentito quel rumore. Magari stava dormendo, oppure le cuffiette le impedivano di udire qualsiasi suono non fosse musica; forse era distratta, anche se con probabilità maggiore non aveva voglia di vedere nessuno, men che meno lui.
E come biasimarla? Dopotutto l'albino era stato a conoscenza di quel lutto sin dal principio. Aveva saputo della morte di Fernando prima ancora d'incontrarne il corpo tra i corridoi della Villa. Era bastato che Gabriel tornasse nello studio, ricoperto di sangue, per fargli capire l'esito del loro scontro. Scoprire il cadavere dell'amico accasciato contro un muro, con lo sterno aperto in più punti, aveva solo confermato la tragica ovvietà. Eppure, pur sapendolo, aveva deciso di tenere sua sorella all'oscuro della faccenda - in parte perché sapeva ne avrebbe sofferto, in parte per evitare di sentirsi lui stesso colpevole di quella perdita. Già, perchè Fernando aveva scelto di sostituire Garrel al fianco dell'Alpha, si era imposto su tutti per arrivare sino al cospetto di Douglas e poter vendicare Layla, i confratelli persi e, soprattutto, l'onore dei Calhum. Non aveva sentito ragioni. Persino di fronte alle rimostranze di Arwen e le lacrime di Marion aveva resistito, affermando di non poter sopportare l'idea di lasciare quel verme vivo - e lui glielo aveva concesso.

Mordendosi il labbro, l'uomo fece scivolare le dita sino alla maniglia in ferro.

Aralyn non lo avrebbe perdonato: non facilmente, quantomeno.

«Ehi...» con un movimento lieve del polso aprì la porta, pregando Arihanrod di non venir fermato in alcun modo, soprattutto violento - anche se dubitava che, vedendolo, sua sorella se ne sarebbe stata tranquilla in un angolo. Così avanzò oltre la soglia aizzando i sensi, sperando in quel modo di evitarsi sgradevoli sorprese; nulla impediva alla ragazza di scagliargli contro oggetti contundenti o, nel peggiore dei casi, usare il suo stesso corpo come arma contro di lui.

Ciò a cui Arwen andò incontro fu, però, ben diverso.

Una volta varcata la porta, l'Alpha rimase confuso di fronte al nulla più assoluto. La finestra a due battenti era chiusa, le tendine bianche tirate in modo da far entrare solo in parte la luce del sole; la cassapanca sotto a essa, così come il pavimento, era completamente libera da cianfrusaglie o vestiti appallottolati e nessun suono riempiva lo spazio intorno a lui. Aralyn sembrava scomparsa, eppure era certo fosse lì: dove sarebbe potuta fuggire altrimenti? Non conosceva quel posto, men che meno i suoi possibili abitanti. Non aveva un rifugio sicuro in cui nascondersi e, soprattutto, alle sue calcagna potevano esserci più lupi di quanto avrebbero mai potuto credere - per questo si convinse a voltare il capo altrove, riprendendo la ricerca.

Gli ci vollero alcuni istanti, ma alla fine, con sollievo, ne individuò la presenza.
Rannicchiata sotto alle spesse coperte di flanella, la sagoma di lei se ne stava immobile, respirando così piano da passare quasi per morta - la stoffa però si alzava e abbassava con regolarità, tradendo il suo tentativo di camuffarsi con il resto dell'arredo.

«Sei sveglia?»

In risposta arrivò solo silenzio: forse stava realmente dormendo.

Arrancando appena a causa della gamba ancora provata dal viaggio, l'albino si fece vicino. Un rumore lieve prese ad accompagnarlo lungo i pochi metri che lo separavano dal materasso e, quando finalmente fu a un passo da sua sorella, sentì il suo respiro fermarsi come quello di una preda in trappola.

Era sveglia, sì.

«Posso mettermi vicino a te?» le domandò in un sussurro a metà tra dolcezza e malizia, spostando solo in parte un lembo della trapunta. Da quando erano arrivati non aveva fatto altro che bramare la sua presenza accanto a sé, sia per egoismo, sia per tornare a essere l'ancòra che la teneva ferma nel maremoto delle loro vite.

Un ringhio gutturale si fece strada fino alle sue orecchie minacciandolo pericolosamente, eppure Arwen non si fece intimidire e, con cautela, la raggiunse nel suo nascondiglio.
Era la prima volta che si azzardava a compiere un simile gesto tra le mura di un qualche luogo destinato al Clan, anzi, a parte per il soggiorno da Killian e qualche rara occasione ai tempi della loro permanenza dal Duca si poteva dire che non fosse mai accaduto. Nonostante i rischi però, l'abbracciò per la vita, premendo il proprio petto contro la sua schiena ricurva.
Aralyn era calda, bollente, eppure in qualche strano modo fredda. Chissà cosa stava pensando, se quel contatto riusciva in qualche modo a darle conforto - l'Alpha avrebbe voluto saperlo, peccato che da lei non ebbe alcuna reazione. Così, mosso dallo snervante desiderio di lei, prese a passare la punta del naso dapprima sui suoi capelli dorati, poi lungo il collo nudo: «Lo so che fa male, Ara» le sussurrò quando con le labbra si fece vicino all'orecchio: «Ma è morto senza rimpianti». Le dita presero a giocare con la maglia di lei, arrovellando l'orlo tra pollice e medio. Quanto aveva desistito, negli anni, dal compiere simili gesti? Quanto aveva dovuto sforzarsi, per evitare di stringersi a lei in quel modo? Negli otto anni in cui aveva sviluppato per Aralyn quel tipo di sentimento, troppo - ma ora eccoli lì, insieme; e seppur fosse conscio del fatto che quell'amore fosse ora univoco ne trasse piacere, soprattutto ricordando i baci che si erano scambiati tra le mura di Mont Saint Michel. 

Socchiudendo gli occhi si riempì i polmoni del profumo di lei, godendosi quell'istante con estrema soddisfazione. Restò immobile per qualche momento, pensando a cosa fosse giusto e meglio fare, poi riprendendo a sfiorarle l'elice le chiese: «Ti ricordi quando stavamo da Carlyle, ai funerali di Freya?»

Lei annuì, ma nonostante ciò Arwen ricordò a voce alta, per entrambi, quel giorno.

«Il Duca aveva acceso un falò in mezzo al piazzale, quasi a ricordare un pira funebre in miniatura. Non c'era alcun corpo da bruciare, eppure lui volle dimostrare sia al fantasma di lei, ad Arawn e Garrel quanto avesse apprezzato la sua lealtà, così ci fece preparare tutto. Raccogliemmo ceppi di ogni tipo, tu quasi ti rompesti una gamba tentando di spezzare "il ramo perfetto"!» Dalle labbra gli sfuggì una risata leggera, intenerita dall'immagine che aveva nella mente - un ricordo così lontano che gli strizzò il cuore: «Li impilammo con cura, poi a sera, con la mezzaluna alta nel cielo, ci riunimmo intorno alla catasta». La mano dell'Alpha abbandonò l'orlo con cui aveva giocato fino a quel momento e, impavida, si poggiò sul ventre della sorella. Accarezzò piano le increspature delle ferite che solo quella pomeriggio si erano riaperte, suscitando in lui un'eccessiva amarezza, così si spostò lungo i bordi dell'ombelico, solleticandole la pelle: «Garrel era distrutto, così ci avvicinammo a lui. Volevamo essergli vicini, eppure non avevamo idea di cosa fare: io troppo orgoglioso, tu bambina. Così restammo lì, con gli occhi rossi e il cuore rotto, poi, dal nulla, Carlyle buttò un pezzo di carta infuocata sui rami e prese a cantare».

Arwen fece una pausa. Si bagnò le labbra secche quasi portandosi via il sapore di quel ricordo: «Era la prima volta che udivamo qualcosa di simile, fino a quel momento eravamo stati più umani che lupi, eppure sono certo che quel canto ti si ancorò dentro come a me... potremmo farlo ancora, Ara, questa volta in onore di Fernando».

E scoppiando in un pianto silenzioso, tanto da scuoterla, Aralyn annuì ancora.


 

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Capitolo 17
*** First letter from the Council ***






14. First Letter from the Council

Quella mattina, come molte altre, Joseph si trovò sveglio persino prima dell'alba. Con lo sguardo perso oltre la finestra, sulla distesa dorata dei giardini della Villa, si stava preparando a uscire per l'ennesima corsa. 
Il suo corpo richiedeva movimento, soprattutto da quando Douglas era stato seppellito e la tregua tra lui, Gabriel e qualsiasi altro Clan al di là delle loro terre era cessata, legittimando così ogni possibile attacco tra i branchi. Ora che l'addio al vecchio Alpha era stato sancito, nulla avrebbe impedito ai suoi incubi ti tornare a farsi reali, dopotutto, se il Concilio avesse deciso di riunirsi e condannare Aralyn lo avrebbe fatto di lì a poco e, perciò, aveva urgenza di svuotare la mente da simili scenari. 
Quando non c'era Leah, o qualcuno dei confratelli a lui fedeli a fargli compagnia, si ritrovava a pensare costantemente a quale fosse il piano perfetto per evitare alla sua amata la gogna, ma più idee gli riempivano la testa, meno ne trovava di plausibili - solo una, tra tutte, gli era parsa abbastanza logica da essere seriamente presa in considerazione, peccato che per metterla in pratica avrebbe dovuto compiere una follia: incontrare Arwen.
E dubitava fortemente che quell'uomo avrebbe acconsentito.

Come biasimarlo del resto? Nessuno sarebbe mai sceso a compromessi con colui che gli aveva portato via tutto: la gloria, l'orgoglio, la prestanza fisica, gli amici e soprattutto il sangue del suo sangue. Un Alpha, inoltre, non avrebbe mai ceduto alla richiesta di un nemico, anzi, forse avrebbe persino agito nel senso completamente contrario solo per dimostrare la propria forza - Joseph però sarebbe stato disposto a farlo, sarebbe stato capace di sopprimere il proprio ego; pur di salvarla avrebbe promesso a quel licantropo qualsiasi cosa, persino la sua vita.

Con uno sbuffo si passò una mano sul viso, esasperato. 
Lui non aveva alcun risentimento reale a frenarlo, quell'albino, invece, sì. E nonostante il giovane desiderasse ardentemente provare a persuadere Arwen non aveva idea né di dove fosse, come contattarlo, né di cosa dirgli per farsi concedere un colloquio o stringere quella sorta di accordo - aveva visto con i suoi stessi occhi quanto potesse essere testardo; inoltre, l'ombra di Gabriel pareva non abbandonare mai le sue spalle, seguendolo ovunque. Se suo fratello avesse scoperto anche uno solo dei pensieri che in quei giorni gli riempivano la testa, probabilmente l'avrebbe ucciso nel sonno appellandosi al fatto che stesse complottando contro il Clan - e a quel punto nulla gli avrebbe impedito di radere al suolo il branco dei Calhum.

Stringendo i denti sulla lingua, Joseph volse il capo verso la porta della propria stanza.
Doveva uscire da lì.
Doveva allontanarsi quanto più possibile da quell'aria viziata e provare a respirare un po' di pace, anche se non era certo vi fosse un luogo, in tutta la Scozia, capace di acquietare il suo spirito. Avrebbe dovuto abbandonare quei luoghi, spingersi oltre i confini del Paese e, forse, a quel punto sarebbe riuscito a trovare un po' della serenità perduta, quella che aveva lasciato nel suo appartamento di Glasgow fin troppi mesi prima, quando tutta quella storia non aveva ancora avuto inizio.

E lei, lei stava soffocando quanto lui, ora? Joseph se lo domandò avanzando a piedi scalzi lungo il granito gelido della Villa, oltrepassando lo stipite e facendosi strada per i corridoi. 
Per caso anche Aralyn avvertiva quel nauseante senso d'impotenza, o sentiva la necessità quasi asfissiante di fuggire lontano da qualsiasi cosa il loro mondo includesse? E le sue notti, avevano lo stesso sapore amaro di quelle di lui? Oppure il suo corpo veniva schiacciato dal medesimo, implacabile vuoto che lo infastidiva ogni volta che, girandosi, non la vedeva?
Chissà se erano legati sino a quel punto...
E più tempo passava, più il Nobile si sentiva impazzire, gonfio di domande a cui non sapeva dar risposta. Forse su quelli come lui, sui Puri, l'imprinting aveva un effetto più devastante che su qualsiasi altro licantropo, si disse, ma sapeva di non aver alcun modo per scoprirlo. Nessun Menalcan, per quel che ricordava, aveva mai provato una simile sensazione - o meglio, uno di certo c'era stato, ma era scomparso prima ancora che lui venisse al mondo.

Velocizzando il passo, Joseph si spinse sempre più in là, arrivando all'uscita della Villa senza nemmeno ricordare il tragitto fatto. Quando i primi raggi del sole gli baciarono tiepidamente il viso sembrò riscuotersi da una trance in cui non si era reso conto essere entrato. 
Sbattendo le ciglia scure guardò confuso l'orizzonte, lo stesso che aveva ammirato per lunghissimi minuti dalla propria stanza. Guardò l'immensità di fronte a sé, i campi che si stendevano per miglia e miglia senza incontrare nemmeno un piccolo agglomerato di casupole e si chiese se tutta quella storia, esattamente come il panorama di fronte a lui, avrebbe mai avuto fine - e se, una volta arrivato a quel punto, sarebbe riuscito ancora a distinguere la realtà da ciò che gli riempiva la mente giorno e notte. Era estenuante perdere continuamente coscienza del presente, eppure non aveva idea di come resistere a quei pensieri: ogni momento era buono per pensare a tutto ciò che stava per perdere e ciò che già aveva perduto. Gli pareva ci fosse mai una pausa abbastanza rigenerante, un lasso di tempo sufficientemente lungo da distendergli i nervi: la paranoia e le ansie stavano diventando perenni e fastidiose compagne per la sua psiche sempre più provata.

Lento, si concesse di chiudere le palpebre e respirare a pieni polmoni il profumo dell'alba.
Solo qualche ora, si supplicò poi, sperando che anche quella mattina, come altre, la mente potesse momentaneamente trovare una vaga serenità. Alle narici sopraggiunsero l'odore della terra bagnata, dell'erba appena tagliata e della rugiada, sentori che parvero pizzicare la pelle e chiamarlo a loro, pregandolo di correre senza freni tra le fronde del sottobosco intorno alla dimora del Clan - e lui a quel punto non si fece attendere.

Un piede dopo l'altro, il giovane si sfilò i pantaloni, poi i boxer e, in meno di qualche istante, si ritrovò a godere del suono delle proprie ossa che andavano spezzandosi per poi riassemblarsi l'istante successivo, muovendosi continuamente sotto alla pelle nuda. Seppur trovasse difficile cogliere un qualche piacere tra i terreni della sua famiglia, non poté negare che tutti quegli ettari di verde messi a sua completa disposizione fossero una manna dal cielo. Nessuno avrebbe potuto minacciare la sua quiete, né licantropo né umano. Era solo con la natura e qualche sporadico quanto fuggitivo incontro.

Così corse, sempre più svelto, fin quando tutto il suo corpo ferino non prese a sfrecciare tra i tronchi e il vento libero da qualsiasi fastidioso pensiero.

Di tanto in tanto incrociava tra i rami qualche confratello intento a pattugliare la zona più prossima al loro quartier generale, oppure a spiare qualcun altro intento a dar sfogo ai propri bisogni repressi visto il periodo di lutto appena passato, ma lui provò a non soffermarsi su alcun viso - non era per il Clan che si stava addentrando nella flora lì attorno, anzi: ciò che voleva era proprio scrollarsi di dosso ognuno dei loro sguardi. Ovunque posasse i propri occhi, quando si aggirava per i corridoi di quel postaccio, scorgeva la sete di vendetta del branco, il desiderio di vedere gli Impuri schiacciati dalla forza dei Menalcan - e quella vista lo nauseava, ora come mai prima. Da quando aveva preso parte all'iniziazione tra i Lupi del Nord, Joseph non riusciva più a disprezzarli, solo comprenderli. Se non avesse messo a rischio la propria incolumità avrebbe osato dire di preferire la loro compagnia a quella di chiunque condividesse il suo sangue, ovviamente escludendo Leah che, in un angolo recondito di sé, sapeva avrebbe potuto apprezzare quella vita quasi quanto lui. Niente più pugnalate alle spalle, lotte per il potere; nessuna occhiata torva a seguirli per la casa o giudizio fastidioso ad appiccicarsi addosso, ma piuttosto banchetti, giochi, spensieratezza e lotta per degli ideali più concreti, non lo stupido mantenimento di una gerarchia fatta per dividere e odiare.
Solo pensando a quei dettagli le viscere gli si riempirono di malinconica dolcezza e, senza rendersene conto, il lupo aumentò l'andatura tanto d'arrivare quasi allo spasmo.
In quel susseguirsi di lunghe falcate le zampe si alzavano da terra lasciando impronte lievi, poi vi si riappoggiavano emettendo suoni ottusi. Il pelo folto, scuro, danzava a ogni movimento che lui compiva, accarezzato da decine di mani invisibili, amorevoli.

Avrebbe voluto tornare a tutto ciò, a quei momenti, ma sapeva bene di non poterlo fare.

***
 

Il ritorno avvenne con estrema calma, mostrando la totale riluttanza del giovane a rimettere piede in quell'immenso edificio.
Con i pantaloni stretti tra le mani sporche e lo sguardo rivolto verso le finestre, Joseph si domandò se chiudendo gli occhi avrebbe potuto poi riaprirli e ritrovarsi altrove, ma più volte ci aveva provato e nessuna aveva portato risultati. Così sbuffò, spostando lo sguardo altrove. Era prigioniero, si disse - sia del proprio sangue sia delle azioni che aveva compiuto sino a quel momento e, purtroppo per lui, lo sarebbe stato in eterno. I doveri che lo attendevano erano boia minacciosi della sua condanna, frecce che gli sarebbero state scagliate addosso fino al giorno in cui sarebbe morto - forse come Douglas, oppure sua madre.
Inesorabilmente, con quel pensiero amaro a infastidirgli la lingua, il ragazzo spostò gli occhi verso una diramazione del selciato che conduceva dietro alla Villa, lì dove il mausoleo dedicato agli Alpha e i loro eredi si ergeva con discutibile bellezza.

Joseph osservò quella pallida striscia di terra con ribrezzo, ma prima che una qualsiasi considerazione potesse prendere vita tra i suoi neuroni una voce iniziò a chiamarlo da qualche centinaio di metri di distanza, avvicinandosi sempre più alle sue orecchie e irrigidendogli i muscoli.

Aguzzando un poco la vista, il giovane si mise a cercare l'origine di quel richiamo finché, tra le fronde verdeggianti intorno alla Villa, la figura di Leah si fece abbastanza distinguibile da rilassare i nervi. Con i lunghi capelli legati in una crocchia sfatta e la tuta lisa a nasconderle le forme, sua sorella si mise a correre trafelata verso di lui - e se ad una prima occhiata non era riuscito a nascondere un sorriso, rasserenato dall'idea che a cercarlo fosse lei e non qualche noioso confratello, si trovò presto a corrugare la fronte, confuso. Ad ogni metro in meno che li separava però, l'espressione di sua sorella si faceva più chiara e meno rassicurante e, quando a dividerli rimasero solo una ventina di falcate, gli fu ovvio che qualcosa di terribile lo stava attendendo.

«Che è successo?» Chiese prima ancora che lei potesse fermarsi, soggiogato improvvisamente da un'ansia che avrebbe preferito non sentire.
Leah avanzò ancora, ora rallentando la corsa. Sembrava priva di fiato, eppure il fratello sapeva che a metterla in difficoltà doveva essere ben altro. «Joseph...» Provò a iniziare prima guardandolo in viso, poi allontanando lo sguardo e prendendo a torturarsi le mani con insistenza. Era chiaro che fosse agitata anche lei, che le parole faticavano a trovare un modo per mettersi insieme, ma ad ogni secondo di attesa la situazione pareva peggiorare sempre più e la labile pazienza di lui si fece sentire.
«Che è successo?!» Ringhiò inconsciamente, troppo occupato a tenere a freno il lupo in sé.

Lei si bagnò le labbra, le morse, ma alla fine riuscì a dire ciò per cui gli era corsa incontro: «È arrivata» confessò svelta, più turbata di quanto il fratello avrebbe mai pensato potesse essere.

«Di che parli?» piegando la testa da un lato, sempre più confuso, provò a capire. Non aspettavano ospiti né nulla di particolare, ma con il senno poi si pentì di quella domanda tanto ingenua; forse con qualche secondo in più avrebbe potuto capire da solo e risparmiarsi tutta quella perdita di tempo.

«Joseph...» Leah titubò un attimo ancora, incerta sul modo in cui dare la notizia che recava con sé, poi gli prese i polsi per dargli conforto - o, più probabilmente, nel tentativo di scongiurare il peggio: «è arrivata, la la lettera del Concilio è arrivata poco fa» disse d'un fiato, rischiando persino di mangiarsi qualche sillaba per la foga - e a quelle parole, che sembrarono tanto uno schiaffo, il ragazzo avvertì il sangue defluirgli dal viso. D'un tratto il mondo intorno a lui parve sbiadire e la consapevolezza di essere arrivato al capolinea lo schiacciò a terra.

Non voleva crederci.
Aveva scongiurato l'arrivo di quel momento fino all'ultimo e, pur sapendo che la minaccia era concreta, ora che stava accadendo volle fingere che si trattasse solo di una spietata bugia.

Ma non lo era.

«Tu e Gabe siete stati convocati».

Merda!, pensò mordendosi la lingua tanto da farla sanguinare, in modo da impedirsi di perdere il controllo, mutare o compiere qualsiasi altra sciocchezza. Sapeva da sé che, nonostante la rabbia che si stava agitando in lui, correre ad ammazzare Gabriel non avrebbe portato a nulla se non un momentaneo piacere - poi, volente o nolente, Aralyn sarebbe comunque stata processata e lui avrebbe dovuto sperare ancora una volta di mentire così bene da convincere otto purosangue a non ucciderla, mettendosi però alla mercé della furia del Clan.

Il suo tutto, si disse, in quel momento aveva il sapore ferroso della morte, esattamente come la notte dell'attacco alla Villa.

Con la gola secca Joseph fissò sua sorella: «Quando?»
«I-io non lo so... Ho solo visto l'emissario del Concilio consegnare la lettera a Gabe, poi... poi si sono salutati con un "alla riunione", quindi... »
«Quindi non c'è nulla di certo» tagliò corto Joseph divincolandosi dalla sua presa, provando a illudersi di poter ancora sperare in un miracolo o del tempo per trovare una soluzione - avrebbe potuto trovare Arwen, raccontargli di ciò che aveva in mente. Forse nella missiva non si parlava del processo, forse il Concilio voleva solo discutere di chi avrebbe succeduto Douglas, oppure del Pugnale o... 

, aveva tempo, si convinse valutando tutte le opzioni possibili, eppure qualcosa parve trattenerlo.

«Non farlo» la fermezza di Leah spezzò il flusso dei suoi pensieri.

«Cosa?»
«Questo! Credere che non sia per lei, che la minaccia sia solo una chimera» la giovane si guardò attorno con circospezione, preoccupata di poter essere udita da qualcuno, poi, stringendogli nuovamente le braccia, appoggiò la propria fronte sulla sua: «Questo mondo fa schifo, Joseph, ma dobbiamo resistergli» sibilò. 

Oh, e lui lo avrebbe fatto. Avrebbe cercato in tutti i modi di impedire alle loro leggi di portagli via l'unica cosa positiva in quella perenne insoddisfazione. Avrebbe lottato fino all'ultimo per riuscire finalmente a sentirsi completo, per riuscire a trovare il proprio posto in una vita che ancora faticava a sentir propria - ma prima doveva leggere quella lettera.
 


 

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Capitolo 18
*** And it Begins (1/2) ***




Chapter 15

And It Begins
part one

Joseph entrò nella stanza di Gabriel senza nemmeno degnarsi di bussare. Per quanto sapesse di star agendo nel peggiore dei modi, il suo istinto non voleva saperne di mettersi a tacere - perché il lupo bramava sangue e l'uomo una via di fuga, eppure nessuno dei due avrebbe potuto ottenere ciò che desiderava senza mettere a repentaglio il volere dell'altro.

Così avanzò furibondo, alzando minacciosamente l'indice in direzione del fratello che, colto alla sprovvista, smise di allacciare la camicia per rivolgere uno sguardo confuso verso di lui. Sembrava davvero sorpreso di quella visita, eppure avrebbe dovuto aspettarsela visto l'arrivo della lettera.
«Che c'è scritto?» gli ringhiò contro, ora a un passo da lui e con il dito rivolto al suo mento barbuto. 
Gabe corrugò le sopracciglia, provando ad allontanare il viso per non essere toccato. Era alto, almeno una spanna più del fratellino. Il suo metro e novanta abbondante lo rendeva un colosso di carne e muscoli di fronte a cui Joseph pareva essere solo una copia sbiadita, eppure il ragazzo non parve intimorirsi da quell'evidente differenza di stazza: «Allora?» Lo incitò ancora, mentre con gli occhi provava a persuaderlo dall'iniziare l'ennesimo e stupido battibecco, come era solito fare, eppure per una volta l'erede più anziano di Douglas sembrò restio dal voler discutere con lui.

Alzando le mani in segno di resa, l'uomo rilassò l'espressione per poi fare un cenno con il capo: «Non ne ho idea» ammise sornione e, inesorabilmente, il fratellino si ritrovò a non capire. Lo stava forse prendendo in giro?

Seguendo cautamente la direzione in cui i ricci di Gabriel penzolavano, Joseph finì con il poggiare il proprio sguardo sul comò oltre le spalle dell'energumeno, lì dove, insieme alla cravatta e i gemelli che ancora non aveva indossato, se ne stava una busta rossa. La cera del sigillo era intatta, mentre la carta non presentava neppure mezza piega - possibile che non l'avesse letta?

«E' uno scherzo?»
L'altro abbassò i palmi: «No, assolutamente» sogghignò: «Stavo solo aspettando te e quella cozza che ti porti appresso» con un altro cenno, il lupo indicò la porta da cui qualche istante prima il ragazzo aveva fatto il suo ingresso e, spostando appena il capo, anche lui potè scorgere la sagoma di Leah nascosta dietro lo stipite, intenta a origliare come la peggiore tra le spie. Se Douglas si era premurato d'insegnare loro a comportarsi come veri cacciatori, lasciando poi che l'esperienza e l'istinto colmassero le lacune, a lei aveva semplicemente spiegato come azzannare e correre più veloce dei propri inseguitori, per questo alle volte falliva nel compiere anche le azioni più sciocche.

I due si misero in attesa, entrambi rivolti verso l'ingresso finché, quasi riscuotendosi, la sorella si rese conto di essere stata scoperta: «Oh, scusate, io...»
«Devi imparare a farti gli affari tuoi» la precedette Joseph con fastidio, seguito subito dopo da Gabe, sempre cordiale e amorevole come il migliore tra i fratelli maggiori: «Sennò finisce che ti ammazzo prima del dovuto».

Lei sussultò, stringendosi nelle spalle per difendersi da un pericolo che non aveva idea di quando e come sarebbe sopraggiunto. Nessuna delle minacce che usciva dalla bocca di quel tipo poteva essere considerata una mera presa in giro, lo sapeva bene - così, con un'occhiata assassina, il giovane si rivolse nuovamente all'altro uomo: «Non è necessario dar sempre voce al tuo ego, alle volte sembri più intelligente quando taci».
«Almeno io dò la parvenza di esserlo, tu che scusa hai per l'assenteismo dei tuoi neuroni?» Un nuovo sorriso, questa volta meschino. Per la seconda volta da quando l'Alpha era morto, Gabriel Menalcan dava sfoggio di un minimo di acume, ricordando al povero fratellino quanto inutili e illogici fossero stati i suoi tentativi di mettere i bastoni tra le ruote a chiunque avesse provato a minare le sue speranze - ritornare da Aralyn in primis, non doversi più preoccupare del proprio Clan subito dopo.

La frustrazione prese a graffiargli l'orgoglio e inesorabilmente si chiese come fosse possibile che avesse combinato così tanti disastri d'aver dato modo a quell'energumeno di tirargli frecciatine simili.

«Perché non l'hai aperta?» con una spallata, Joseph provò a cambiare discorso. L'idea di essere vessato da suo fratello lo stava solo fomentando maggiormente, accrescendo in lui la voglia di spaccargli il naso e spezzargli l'osso del collo - due soluzioni che in quel momento non era certo fossero le migliori.
Gabe mosse qualche passo misurato verso il comò, abbandonando definitivamente la sua vestizione e trastullandosi come un bimbo a cui è stato regalato il giocattolo più bello: «Te l'ho detto, ti stavo aspettando» ripetè passando le dita sull'involucro di cellulosa rossa. Quello scelto dal Concilio era il colore del sangue, un monito che voleva indicare la gravità della situazione che si sarebbe dovuta affrontare: un omicidio, avrebbe detto il ragazzo, una vendetta, avrebbe sottolineato suo fratello; loro, invece, avrebbero affermato che fosse una giusta resa dei conti. E tutti, così come nessuno, avevano ragione.

«Perché?» ancora una volta, a uscirgli di gola, fu un ringhio minaccioso.

«Non è ovvio?» Il licantropo più grosso allargò le braccia mostrando un sorriso entusiasta, poi si appoggiò con il sedere al bordo del mobile, in modo da fissar meglio entrambi i parenti: «Perché voglio essere il primo a vedere la tua espressione quando scopriremo che quella sgualdrina di Aralyn Calhum sarà condannata a morte!»
E per l'ennesima volta, stringendo i denti tanto da far sanguinare la lingua, Joseph dovette trattenersi dall'istinto di recidergli la trachea e metterlo a tacere per sempre. Odiava quelle parole, la prospettiva che gli si stava ponendo di fronte. Detestava la voce di Gabriel mentre pronunciava con gioia quella condanna, così come s'imponeva di non immaginare quale idilliaco scenario gli si andava a dipingere tra i pensieri. Doveva resistere e doveva farlo per il bene di entrambi. Eppure quella scelta gli costò fatica, ma mai quanto la risposta che ne seguì: «E cosa pensi di vedere? RabbiaDisperazione?» Una stretta gli cinse il cuore: «No, ti sbagli di grosso. Desidero mettere fine a questa storia tanto quanto lo desideri tu».
«Davvero? Eppure sono certo che colpendo lei, abbatterò te, sai?» e per quanto avrebbe voluto negarlo, purtroppo, non poté che dargli ragione. Lei era l'unico punto debole rimastogli e, ferendola, quell'idiota avrebbero fatto altrettanto con lui.
Fece per rispondergli, ma Leah si frappose: «Sei così stupido da non distinguere una farsa dalla realtà?» Era palese che non avesse idea di ciò che stava facendo, eppure continuò imperterrita a prendere le difese del fratello, conscia di quanto fosse importante mantenere le apparenze. Ciò che c'era stato tra Joseph e Aralyn doveva restare, almeno per i Menalcan, un piano ben orchestrato per ferire l'Alpha del Nord e recuperare il Pugnale - tutto il resto era qualcosa che avrebbero dovuto conservare con gelosia. «Se quella muore,» riprese la ragazza, «l'unico a venirne scalfito sarà Arwen» sottolineò poi, stando attenta a usare le parole migliori per non tradire la farsa. Ad Aralyn si riferì nel modo più dispregiativo e al contempo distaccato che riuscì a pensare in quel momento e, non una sola volta, abbassò lo sguardo; sapeva bene anche lei che farlo avrebbe significato sottomissione, difficoltà, arrancamento, eppure per Gabriel non fu abbastanza convincente.
«Taci, mocciosa» le ordinò digrignando i denti: «Tu non c'eri. Non hai visto ciò che ho visto io» sbraitò, iniziando a perdere le staffe.

Ma lei non cedette e Joseph ne invidiò la tenacia - un pregio che più di tutti aveva ereditato da loro madre.


«E sarebbe?» mosse un passo in avanti, impavida: «Io so solo che per i Menalcan non c'è nulla di più sacro che il sangue del proprio sangue, quando la minaccia arriva dall'esterno, e dovresti saperlo anche tu...» subito dopo quell'exploits vi fu un momento di esitazione, un vacillamento che il ragazzo al suo fianco, notandolo, non poté che interpretare come una minaccia per il loro già di per sé fragile teatrino: sua sorella era certa di poter reggere il confronto con quel colosso? Ma Leah si riscosse prima di quanto si sarebbe potuto supporre, ritrovando la voce: «Visto che Joseph non ha esitato un solo istante a spezzare il collo del lupo che aveva amato e chiamato fratello più di quanto potrebbe mai fare con te, come puoi pensare che preferisca una schifosa mezzosangue a noi?»

Kyle.

Lui che era stato il suo sacrificio, che si era immolato per loro e aveva fatto ogni cosa per permettergli di sopravvivere, provava a difenderlo persino ora, a distanza di quasi un mese dalla sua dipartita - e lo avrebbe fatto ancora, in eterno. Quale confratello avrebbe mai sospettato che si trattasse di un piano, che i due avessero tacitamente acconsentito a compiere un atto così meschino e riprovevole? Nessuno, a parte Gabe. Eppure quel gesto avrebbe dovuto scagionare Joseph da qualsiasi accusa, soprattutto quella di tradimento.

L'uomo grugnì. Era palese che non gli piacesse il modo in cui la mocciosa di fronte a lui lo stesse sfidando, dopotutto per il suo ego doveva essere abbastanza snervante sentirla opporsi senza però poterla punire; così, con fare scocciato afferrò la busta, porgendola al fratellino: «Se non vedi l'ora di liberarti di lei allora leggi! Su! Prendi questa lettera e dì a tutti cosa l'aspetta». Nei suoi occhi vi era una luce febbrile, la scintilla di una rabbia che sfortunatamente non poteva esprimere come avrebbe voluto - eppure c'era, e diventava ogni minuto sempre più intensa: ma a chi era rivolta? A loro sorella oppure a colei che lo aveva praticamente messo in ginocchio? Era difficile a dirsi e per questo l'altro non volle dilungarsi oltre per scoprirlo - oltretutto, ad aspettarlo ora c'era qualcosa di molto più importante.

Fermo dinanzi alla carta rossa, Joseph per un attimo si scoprì spaesato. Non sapeva quale fosse la cosa giusta da fare: se allungare le dita e afferrare quella lettera, in modo da scoprire l'atroce destino che attendeva Aralyn, oppure rifiutarsi e fingere di non aver più alcun interesse per la questione - però era angosciato, desiderava scoprire cosa c'era scritto più di moltissime altre cose al mondo. Il suo desiderio di conoscenza bramava l'apertura di quel sigillo tanto quanto il suo sé animale anelava il sangue del fratello. Dovette quindi combattere contro la propria riluttanza al pari di un cavaliere che lotta per abbattere il drago più minaccioso - perché ogni istante d'esitazione, sapeva bene, avrebbe minato i tentativi fatti fino a quel momento di persuadere Gabriel sulla sua lealtà verso il branco. Così, mosso da una forza che nemmeno lui seppe spiegarsi, prese l'offerta fattagli dall'altro e, rigirandosi per qualche istante la busta tra le mani, ne analizzò ogni minimo dettaglio.

Sotto ai polpastrelli la cellulosa non era liscia come gli era parsa a una prima occhiata, risultava infatti granulosa, grossolana nonostante la ricercatezza e sottigliezza della trama - ma ciò che più di tutto lo stupì fu il peso. Quella lettera era leggera, troppo per i suoi gusti e gli venne da storcere la smorfia per il disgusto. Più la teneva in mano e più si domandava come fosse possibile che una sentenza di morte pesasse così poco, però si trattenne dal commentare in qualsiasi modo. Nonostante ciò, il rigonfiamento della busta parlava chiaro: ad attenderli c'era molto più di quello che si sarebbe potuto supporre.

E lui sentiva il bisogno di leggere quelle pagine crescere smanioso.

Così, con un colpo secco, aprì.


 

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Capitolo 19
*** And it Begins (2/2) ***




Capitolo quindicesimo
And It Begins

parte seconda

Aralyn si sistemò una ciocca dietro l'orecchio poi, chinandosi, prese a respirare il profumo lieve delle camelie che aveva di fronte. Ne annusò avida la dolcezza, ma nemmeno stavolta parve convincersi: «No, non vanno bene» affermò rimettendosi dritta.
Era il terzo fioraio in cui Arwen l'accompagnava senza batter ciglio, troppo accondiscendente verso il suo malumore e improvviso perfezionismo per poterle rimproverare qualsiasi cosa; e, nonostante fosse conscia di star diventando sempre più insopportabile, lui se ne stava lì a fissarla teneramente. 
«Perché, stavolta?» Le si fece vicino, tanto che il braccio di lei gli sfiorò il petto, poi prese ad accarezzare le corolle rosate con estrema delicatezza, studiandole per trovarci qualche difetto reale.

«Non profumano abbastanza».
«Non credo sia importante, Ara».

Ed era vero. A chi importava se i fiori scelti erano profumati o meno? Dopotutto avrebbero solamente dovuto decorare la pira per Fernando, nulla più. Dovevano essere belli, colorati, gioiosi come era stato lui - il resto erano solo inutili dettagli a cui lei si voleva aggrappare per non dover far fronte a quella perdita.

«No, infatti» sussurrò d'un tratto voltandosi e riprendendo a camminare per i corridoi della serra come se quello scambio di commenti non avesse avuto luogo. 
Nonostante fosse arrivata fin lì, passando per altri due vivai, non aveva idea di come potesse essere successo. Aralyn non aveva voglia né di vedere né parlare con altre persone, men che meno desiderava doversi preoccupare di questioni all'apparenza tanto sciocche; eppure suo fratello era riuscito a strapparla dalle coperte in cui si era nascosta. Attraverso una serie di proposte sensate, anche se ora fastidiose per il suo umore, Arwen l'aveva persuasa ad abbandonare l'alcova di stoffa e seguirlo ovunque ce ne fosse bisogno, in modo da rendere l'addio a Fernando degno del lupo che era stato.

Il problema però era sorto davanti all'ingresso del primo fioraio. 
Alzando lo sguardo sull'insegna colorata, la giovane si era resa conto di non voler affrontare quel momento, non ne era pronta. Troppe volte aveva dovuto cedere i propri affetti al Dio Arawn e troppe volte aveva dovuto farlo con la consapevolezza di esserne in parte colpevole.
Nemmeno un anno prima, a causa del suo egoismo e del bisogno di portare onore all'Alpha, gli aveva dato la vita di Luke e, prima ancora, Layla era stata uccisa in una missione a cui suo fratello le aveva vietato di partecipare - e chissà quanti altri nomi avrebbe potuto aggiungere a quella lista, se si fosse soffermata a pensarci.

Ma Fernando valeva di più. Lui, esattamente come Garrel, Marion e i gemelli, era parte della sua famiglia. Inoltre, rispetto a chiunque altro, sapeva attraverso quali pene lei stesse passando; conosceva l'intensità dell'imprinting, esattamente come ne aveva saggiato la distruttività - e lei aveva bisogno di lui, della forza che avrebbe saputo infonderle per affrontare il senso di vuoto perenne. Però non c'era, non più quantomeno.

Con uno sbuffo Aralyn socchiuse gli occhi.

Era stanca. 
Stanca di lottare per una guerra che aveva le fattezze di un cane che si morde la coda, un circolo vizioso in cui i Puri riuscivano ogni volta a mantenere l'egemonia più totale e declassare il loro valore umano. Era frustrata all'idea di non aver realizzato nulla di concreto se non un omicidio che, invece di portare del bene, le sarebbe costato la vita; ed era esausta di vedersi strappar via ogni cosa che amava. E più si sentiva tale, più il bisogno di sprofondare nelle braccia di qualcuno si faceva intenso - ma quel qualcuno era ben lontano dal poterla stringere.

A quel punto, quasi sfiorando i suoi pensieri, Arwen le si fece nuovamente vicino. Con il corpo la cinse delicatamente in un gesto di inaspettato conforto, cullandola esattamente come avrebbe voluto facesse lui e, d'istinto, lei si lasciò andare contro il suo petto caldo, l'unico posto in cui avrebbe ancora potuto rifugiarsi senza temere di essere ferita. 
Suo fratello era tutto ciò che le era rimasto e l'amava in quel modo che era certa le avrebbe impedito di sprofondare nell'oblio. Il suo Alpha era ora l'ancòra che la teneva ferma a riva.

E in mancanza di Joseph, del suo profumo selvatico, del suo calore e della sua presenza accanto a lei, ci sarebbe stato lui - per questo Aralyn vi si sarebbe aggrappata disperatamente.

«Passerà, abbi pazienza».
Lei lasciò cadere il capo sul suo petto, abbandonandosi al contatto con colui che per anni le era apparso tanto estraneo e inarrivabile da diventare desiderabile più di ogni altra cosa. Per qualche istante si beò del battito dolce del cuore dell'albino, poi sbuffò: «Più cresco e meno è semplice dimenticare».
Lui allentò la presa: «Ma non devi dimenticare, Ara» le fece notare con un tono pacato e un sorriso appena accennato, «Non si dimentica mai chi si ha amato. Devi semplicemente perdonarti per le colpe che non ti appartengono».
La ragazza però non volle sentire ragioni. Non era forse per colpa del suo rapimento e amore nei confronti del nemico, se lo scontro di quasi un mese prima aveva avuto luogo? Non era forse per via del desiderio di lui di salvarla, se avevano organizzato un attacco praticamente all'ultimo momento?


«Ma è a causa mia se siamo finiti a Villa Menalcan» sibilò mordendosi il labbro.

«No, sbagli» Arwen si mosse un poco, andando ad appoggiarsi con la schiena su di una delle travi della serra, poi abbassò lo sguardo su di lei. I loro volti erano così vicini che Aralyn riusciva a sentirne il respiro scivolarle sulla fronte: «L'errore è stato principalmente mio, che sono l'Alpha, poi tuo e dell'intero Clan, ma non si può attribuire solo a una persona. Eravamo tutti così tronfi del successo che abbiamo smesso di cercare il pericolo in ciò che avevamo di fronte. Ci aspettavamo un'orda di Puri in giacca e cravatta, invece è arrivato lui» quando il licantropo pronunciò quella parola il tono gli si inasprì, mentre lei avvertì una stretta al cuore che desiderò ignorare, ma che non le impedì di arricciare le labbra in una smorfia di sofferenza, «da solo, e ci ha fregati tutti». Ancora una volta, forse immaginando i pensieri che potevano star prendendo forma nella testa della sorella, l'albino fece scivolare i polpastrelli sulla pelle di lei. L'accarezzò piano, amorevolmente, finendo poi a unire le dita con le sue. «La guerra è guerra, piccola mia, non ci sono sconti per nessuno quando si lotta per la propria esistenza, lo sapeva Joseph Menalcan quando ha varcato la nostra soglia e lo sa ognuno di noi quando giura fedeltà alla causa del Duca e scende in battaglia. Le perdite sono inevitabili» s'interruppe. Con sguardo sospettoso Arwen osservò le persone presenti, attese che si allontanassero abbastanza da non udire nemmeno mezza sillaba e, appena si furono dissipate, riprese: «Ma il problema è che siamo umani, Ara, oltre che bestie, e come tali soffriamo per ciò che ci viene tolto. Gli uomini però guariscono, sai? O quantomeno vanno avanti e noi dobbiamo fare lo stesso».

Anche lei strinse la presa sulle sue dita. Aralyn le afferrò con così tanta convinzione da riuscire a sentire le falangi ossute minacciare la carne di lui. Più e più volte si ripeté quelle frasi nella mente, cercando d'imprimersele o di farle sembrare vere, poi prese un respiro.

«Tu andrai avanti? Guarirai?» gli domandò a bruciapelo, avvertendo la costrizione nel petto farsi più intensa.

La guerra è guerra, ricordò ancora una volta, non ci sono sconti per nessuno quando si lotta per la propria esistenza e le perdite sono inevitabili.

E lei sarebbe stata la prossima.

«Che intendi?»
«Lo sai» fece, lapidaria. Suo fratello non era uno sciocco, affatto, per questo sapeva bene che persino senza chissà quale contestualizzazione avrebbe capito a cosa si riferisse quella domanda; dopotutto, non c'erano molti dolori che potessero scalfirlo.
Sforzandosi per non scoppiare a piangere, Aralyn si domandò cosa avrebbe provato, Arwen, a perdere anche lei. Dopotutto lui, tra tutti, era colui che stava subendo con maggior intensità gli effetti collaterali di quella vita. Aveva detto addio ai loro genitori, ai propri amici, alla sua interezza e ora persino a lei - quanto doveva essere profondo il vuoto nel suo cuore? Poteva essere paragonabile a quello che sentiva anche lei giorno e notte? Avrebbe voluto saperlo, in modo da lenire le sue ferite e prepararlo, in qualche modo che ancora non conosceva, a quell'ultimo colpo di grazia.

Il petto di lui si gonfiò a ridosso del suo capo, le narici aspirarono quanta più aria possibile e, mestamente, la giovane preferì allontanare lo sguardo per non vedere la sua frustrazione.

«Io... non ne ho idea» le confessò dopo qualche istante, provato dallo sforzo di trovare una risposta che non era poi così semplice formulare.
«Ma sei umano, no? Lo hai appena detto, gli umani vanno avanti» si concesse un sorriso amaro, poi un morso in punta di lingua per non storcere maggiormente la smorfia. In qualche angolo di sé sapeva che tutto ciò che suo fratello le aveva sussurrato fino a quel momento non era altro che un modo per farla sentire meglio, che sotto sotto era conscio come lei che alcune perdite non sarebbero mai apparse meno dolorose, eppure aveva provato a consolarla - e per questo gliene era grata. Alle volte persino il grande Alpha del Nord riusciva a essere dolce e amorevole come qualsiasi altra persona.

Appoggiando il mento sulla fronte della sorella, l'uomo sospirò. Come lei, anche Arwen doveva essere stanco. Quegli ultimi mesi erano stati, emotivamente, i più estenuanti che avessero dovuto affrontare e davanti a loro vi erano ancora una moltitudine di ostacoli - i più dei quali, sfortunatamente, avrebbe dovuto affrontarli da solo.
«Ma tu sei tutto ciò che ho, Ar-» d'un tratto l'Alpha tacque e le sue braccia s'irrigidirono intorno al corpo della ragazza con talmente tanta veemenza che a lei quasi si mozzò il respiro. La strinse a sé con fare protettivo, comprimendole involontariamente il torace. Fu un istante, ma quando Aralyn alzò lo sguardo sul suo viso vi  scorse le sopracciglia corrugate in un'espressione di allerta. I sensi animali si erano aizzati alla ricerca di qualcosa che, senza alcun preavviso, aveva catturato tutta la sua attenzione, bloccando il discorso a metà.

«Ch-?»
«Zitta».

A quell'ordine la giovane si sentì inesorabilmente sopraffare dal panico. Il cuore prese a batterle forte e la preoccupazione di essere stata scoperta da qualcuno di indesiderato si fece prepotente. Ciononostante, le fu impossibile non chiedersi la ragione per cui suo fratello si stesse comportando così. Cosa aveva percepito? Si trattava forse dei Menalcan?
Aggrappandosi con le mani agli avambracci di lui, si mise a scrutare tra la moltitudine di foglie e corolle alla ricerca di un qualche indizio. Fiutò l'aria per qualche secondo, poi un odore pungente e nauseabondo si fece strada fino alle sue narici - il conato che ne seguì fu difficile da fermare, eppure in qualche modo ci riuscì, ma non fu altrettanto con i pensieri.
Il sentore di sangue le offuscò la mente e subito dopo una fitta al ventre la fece schiacciare contro l'addome dell'uomo alle sue spalle. Aralyn provò dolore, il medesimo che aveva sentito quando gli artigli di Douglas le si erano conficcati nella carne, e percepì il rimbombo del granito contro la nuca: ma da dove arrivava quel tanfo?

D'istinto, forse sentendola muoversi in modo così strano e immaginando il perché di quella reazione, Arwen le prese la fronte con un palmo tentando di calmarla e lei, quasi senza rendersene conto, lo graffiò per liberarsi dalla presa - d'un tratto si sentiva costretta, prigioniera tra catene di pelle, muscoli e ossa.
I suoi bronchi chiamavano ossigeno puro, il suo corpo libertà, ma prima che potesse sfuggire da quella stretta un'ombra comparve di fronte ai suoi occhi. Fu solo allora che, colta di sorpresa da quell'apparizione, si placò, anche se l'odore non scomparve per un solo istante dalle sue narici e continuò imperterrito a minare la tranquillità della psiche.

Un uomo smilzo, alto qualche spanna più di lei e vestito di tutto punto si frappose tra loro e il resto dei visitatori occupati a scegliere il vaso migliore per la propria casetta, diventando una sorta di pallido scudo. I capelli canuti gli scivolavano lungo le spalle, arricciandosi un poco sulle punte e allungandogli il viso già di per sé ampio, mentre le rughe che si andarono ad accentuare quando sorrise ne tradirono l'età. Doveva essere molto più anziano di quanto apparisse, eppure qualcosa, in lui, dava l'idea che fosse anche altrettanto pericoloso.

Forse la licantropia, si ritrovò a pensare Aralyn con un nodo in gola.

«Ciao» salutò senza alcun preavviso in un inglese fin troppo confidenziale, spiazzando entrambi i fratelli Calhum. I due si lanciarono uno sguardo di mutua confusione e per la prima volta la giovane si ritrovò impaurita dal fatto che nemmeno il suo Alpha avesse idea di cosa stesse succedendo. Arwen si era sempre mostrato indifferente a quel genere di situazioni, allora perché in quel momento era spaesato quanto lei? Perché era evidentemente turbato?
Non ricevendo alcuna risposta, lo sconosciuto si fece qualche passo più avanti: «Sto cercando qualcuno» aggiunse dopo qualche istante. La sua voce era allegra, troppo, così come la smorfia - eppure più lo si guardava, meno ispirava sicurezza. Inoltre, considerò la lupa, il fatto che sapesse in che lingua rivolgersi loro non era affatto un buon segno.

Con le dita, Aralyn si strinse maggiormente alle braccia del fratello, cercando sostegno e lui non esitò a premersela sempre più addosso.

«Forse voi potete aiutarmi».
Stavolta Arwen ringhiò. Un suono gutturale e tutt'altro che rassicurante si fece largo dalla gola fino alle fauci: «Ne dubito». E anche se ne avessero avuto la possibilità, pensò lei, difficilmente lo avrebbero fatto, viste le premesse.

Lo sconosciuto però non si diede per vinto, men che meno sembrò intimorito dalla minaccia dell'albino e, piegando la testa da un lato, quasi a imitare il movimento di un rapace, controbatté: «Io invece no». Il suo sorriso si fece ancora più marcato e agli angoli della bocca apparvero i canini affilati tipici dei lupi - una visione che raggelò il sangue della ragazza. Come poteva, un vecchio, apparire tanto intimidatorio? Perché intorno a lui vi era una sorta di aurea nembosa che la faceva sentire così indifesa?
Sicuramente non doveva essere la sola ad averlo notato e, se a bloccarli non vi fossero stati la trave di sostegno alla serra e l'espositore con i gerani, l'Alpha avrebbe provato a farla correre via; peccato che in quella situazione fosse impossibile compiere qualsiasi movimento senza dare nell'occhio. E più il tempo passava, più Aralyn sentiva la tensione di suo fratello crescere all'unisono con la propria. 

Fu quello a darle la conferma che il peggio stava infine giungendo.

Il canuto, che fino a quel momento aveva tenuto le braccia allacciate dietro la schiena, sciolse la postura per portarsi una busta cremisi al viso. Aguzzando la vista proprio come i vecchi che devono fare i conti con la cataratta, lesse: «Aralyn Calhum». Ancora una volta sorrise: «Non sei forse tu, signorina?» 

Ma lei non volle rispondere. 
Per la prima volta da quanto era nata desiderò rinnegare quel nome, annullarsi, sparire come un fantasma e venir dimenticata; peccato che non le fu possibile - e socchiudendo gli occhi annuì.
Dopotutto, comprese da sé, fuggire era inutile.

L'estraneo allungò la mano: «Questa è per te, con gli ossequi degli otto membri del Concilio».


 

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Capitolo 20
*** Give me the strenght ***





Capitolo Sedici
Give me the Strenght

Le dita di Aralyn avevano abbandonato il braccio di Arwen senza che lei nemmeno se ne rendesse conto, in balìa di una sorta di trance in cui nemmeno sapeva di essere entrata, così quando avvertì la granulosità della busta sotto ai polpastrelli, risvegliandosi, comprese la gravità di quel gesto, dell'accettazione silenziosa del proprio infausto destino - e in parte se ne pentì.
Suo fratello l'aveva osservata senza dire o fare nulla per tutto il tempo, forse conscio quanto lei del fatto che non vi fosse alcuno scampo a quel fatidico giorno. Certamente dentro di sé doveva averla maledetta per quel gesto, doveva aver inveito contro la sua stupidità, ma dalle labbra non gli uscì nemmeno un suono. Più volte le aveva detto, durante la degenza a casa di Killian, che se avesse voluto avrebbero potuto tentare la fuga, che lui sarebbe andato con lei ovunque nel mondo, ma se il Concilio era riuscito a individuarli così facilmente dopo pochi giorni dalla Luna Piena - e quindi dalla sepoltura di Douglas e fine della tregua -, come credevano di potergli scampare?


Con un groppo in gola la giovane si portò l'epistola al viso. Sul rosso della carta svettava il suo nome. 
Ogni lettera era stata scritta con estrema precisione, e nemmeno il corsivo avrebbe potuto illudere che fosse destinata a qualcun altro: era per lei, solo ed esclusivamente.
Volgendola, in un vano tentativo di trovare la forza per aprirla, si ritrovò a osservare uno stampo in cera, una sorta di sigillo su cui prendeva forma una Mezzaluna terribilmente simile a una "C" - l'iniziale del Concilio, le ricordò la mente - e guardandola non poté che sentirsi le gambe molli. Aveva temuto quel momento, ma alla fine era arrivato e, ora, Aralyn faceva persino fatica a dare un nome alle sensazioni che sentiva agitarsi in lei davanti a quella consapevolezza.

Fuggire, in quell'istante, fu tutto ciò che desiderò, così si chiese per quale ragione avesse rifiutato l'offerta di suo fratello, ma poi, amaramente, si rispose da sola: che senso aveva vivere una vita in perenne fuga? In costante pericolo? Non avrebbe potuto costruire nulla e ogni giorno passato in viaggio le avrebbe ricordato cosa aveva sacrificato e chi era stata costretta a perdere. Tra le due scelte, quindi, accettare la lettera del Concilio era forse il male minore.

Alzò lo sguardo sullo sconosciuto: «Cosa contiene?»
«Non ne ho idea, sei tu la destinataria» e un sorriso sornione aizzò Arwen, che riprese a ringhiare. Probabilmente il modo in cui quel tipo le si rivolgeva, quasi fosse la cosa più naturale del mondo venir convocati per un processo dove la propria vita veniva messa a rischio, doveva dargli sui nervi; dopotutto era della sua Ara che si trattava.
A ridosso della schiena, la giovane sentiva la rabbia di lui trasudare da sotto i vestiti, dalla pelle, dal battito sempre più accelerato del cuore, ma provò a tenerlo a bada con una carezza sull'avambraccio, portando le dita avanti e indietro sul suo arto glabro.
Era inutile prendersela con quel tipo, pensò, dopotutto non era altro che un emissario di quei Nobili, uno sheilge, come avrebbe detto Carlyle. Il suo compito era solo quello di trovarla, recapitarle la busta e poi tornare a casa, ovunque questa fosse - del resto, cosa poteva interessargli? Lei non era nulla, solo un licantropo che aveva giocato con il fuoco senza sapere come evitare l'incendio.

«Volevo solo essere pronta» ammise in un sussurro, consapevole di quanto infantile potesse apparire in quel momento. Ancora una volta i suoi occhi si abbassarono su ciò che teneva in mano, poi sospirò. Dubitava di poter trovare il coraggio di scoprire la sua condanna, quindi conoscerla da qualcun'altro le era parsa la via più semplice.

Poi, dal nulla, un soffio le sfiorò l'elice: «Va tutto bene» sentì a ridosso del timpano, «ti sostengo io, Ara». Il viso di Arwen era affiancato al suo, le sfiorava la guancia scavata e ne solleticava l'epidermide con i capelli. Il suo Alpha era lì e lei sapeva che ci sarebbe rimasto fino alla fine. Non riuscì a dirsi se fu una sorta di amara consolazione o fragile sicurezza, però le fu sufficiente per non cadere a terra e scoppiare in lacrime.
Anche se ormai si era rassegnata a quel destino, il lei continuava a vivere la speranza che ci fosse una via di fuga - quale fosse però, era un enorme punto di domanda.
Aveva rinunciato alle Lande Selvagge quando le si era presentata la giusta occasione, quando nemmeno si era resa conto d'esserci arrivata, poi aveva nuovamente assaggiato un anelito di vita e, adesso che non era più certa di voler raggiungere tutti coloro che aveva perso, le sarebbe toccato tornarci contro la propria volontà: non era, forse, un pessimo scherzo? Gli Dèi la odiavano davvero fino a quel punto? Non era stato abbastanza, per loro, prenderle il cuore ancora palpitante direttamente dal petto? A quanto pareva, no. Quegli avidi volevano tutto: il suo passato, fatto della famiglia e delle gioie che non aveva più, il suo presente, con Fernando e Joseph, e persino quel pallido futuro che l'attendeva senza la sua metà. C'era altro che potevano chiederle? Temette di trovare una risposta.
Così Aralyn tornò a fissare di fronte a sé, ma al posto del vecchio canuto che era stato lì con loro fino a qualche istante prima, trovò il nulla. Era sparito esattamente come era arrivato.

«Dove è?» domandò in un attimo di totale confusione, provando ad avanzare nonostante il blocco delle braccia del fratello. 
Arwen allentò la presa, poi alzando il busto si mise alla ricerca dell'estraneo. Il suo sguardo vagò ovunque, ma come quello di lei non trovò nulla. Al pari del miglior Segugio, quel vecchio era scomparso in mezzo a piante, fiori e umani, lasciandoli nuovamente soli.
L'albino fiutò l'aria: «C'è ancora il suo tanfo» constatò dopo poco, lasciando definitivamente andare la presa sulla sorella e affiancandola per poterle fare da scudo. Era ovvio che si sentisse minacciato, che dentro di lui temesse che gli emissari del Concilio li stessero ancora scrutando da qualche angolo di quel vivaio, così le afferrò la mano libera, stringendola tanto da farle male. Aralyn storse la smorfia, mugolò appena, però lui non parve degnarla nemmeno di uno sguardo. I suoi sensi di lupo erano in allerta, era palese che si sentisse braccato e, per questo, nulla gli avrebbe dato pace fino a quando non fossero tornati dal branco.
«Metti via quella lettera, prendi i fiori e andiamocene» ringhiò portandola di fronte alle camelie.

***

Della lettera non si era più parlato per tutto il viaggio di ritorno. Arwen aveva silenziosamente guidato fino al cascinale, lasciandola rimuginare su pensieri tutt'altro che piacevoli, poi, una volta arrivati a destinazione, aveva ordinato a Hugo ed Eike di occuparsi dei fiori comprati al vivaio e, appena aveva finito di dare indicazioni come se nulla fosse successo, l'aveva afferrata per il polso e trascinata fino alla propria stanza. 
Le sue dita, strette intorno alla carne, le avevano fatto più volte storcere la smorfia, ma Aralyn si era trattenuta dall'emettere qualsiasi suono - temeva che aprendo bocca sarebbe finita a piangere e singhiozzare come una bambina. Così si era trattenuta e, quando il suono della serratura si era palesato alle sue spalle, si liberò della presa del fratello.

«Dammela» aveva detto imperativo lui, continuando a fissare l'anta di legno e dandole la schiena.
«No...» la giovane sentì lo stomaco contorcersi: «è per me, Arwen. Tu non c'entri nul-» ma il suo tentativo d'opporsi andò ben poco lontano. L'uomo si voltò con uno scatto felino, spaventandola. Le afferrò il bavero della t-shirt e se la tirò tanto vicina che Aralyn, a un soffio dal suo viso, poté scorgere le iridi luminose, innaturali in quella tonalità d'oro e, solo dopo qualche istante di sorpresa, si rese conto degli zigomi ancor più alti, delle labbra scure e dei canini. Era furibondo. La sua rabbia trapelava da ogni accenno di mutazione, da ogni ringhio soffocato - era così ovvio... e come biasimarlo? Chissà quanto doveva sentirsi impotente di fronte a quella situazione, quanto odiasse se stesso per non aver impedito al Concilio di trovarla.

«Non lo ripeterò, Aralyn. Dammi quella dannatissima lettera».

Con le mani nelle tasche del giacchino, la ragazza sfiorò ancora una volta la cellulosa grezza dell busta. Fece passare le dita sul proprio nome, poi sul sigillo di cera e, infine, concedendosi un respiro profondo, la tirò fuori, frapponendola tra loro quasi come una spada pronta a colpire il ventre del nemico.

Gli occhi di lei si fecero umidi: «Che sia tu a leggerla, o che sia io, le cose non cambi-» Arwen mollò malamente la presa sulla maglia, facendola vacillare sulle gambe già di per sé molli e, subito dopo, senza nemmeno badare alle proprie azioni, le strappò la lettera dalle dita. Nemmeno la stava ascoltando, troppo occupato a dar retta ai suoi mille pensieri, ai sensi di colpa che dovevano premergli contro la gabbia toracica dal momento in cui lo sconosciuto si era presentato loro.
L'uomo soppesò la busta, la guardò e riguardò per qualche minuto, poi tornò a fissare la sorella: «No, è vero. Non cambia nulla» asserì senza giri di parole, facendola ricredere: «però ho bisogno che tu venga a sapere del suo contenuto con me» le disse infine, alzando il rettangolo rosso all'altezza del proprio viso.


Tra i due fratelli calò un silenzio teso, preoccupato. Sarebbe bastato un suono inaspettato, qualsiasi, e Aralyn era certa sarebbe scoppiata in lacrime.
Perché non importava quanto la consapevolezza di quell'eventualità si fosse fatta vivida nella sua mente, la paura restava.


«Voglio esserci, capisci? Ho bisogno di sorreggerti in caso le cose dovessero degenerare».

Lei si strinse nelle spalle, scuotendo la testa con un sorriso nervoso sulle labbra: «Sono già degenerate, Arwen» con lo sguardo si mosse dapprima sulle assi del pavimento, quelle che scricchiolando li avvertivano del passaggio di uno o dell'altro confratello, poi sui propri anfibi: «Cosa credi? Che lì dentro troverai qualcosa diverso da una sentenza di morte? Ho ucciso Douglas Menalcan al posto tuo, Sant'Iddio! Non un licantropo qualsiasi!» Il tono di Aralyn si fece più acuto e stridente, a tratti frustrato e, dal modo in cui si stava rivolgendo al fratello, era chiaro fosse esausta della pressione che le conseguenze delle sue azioni stavano esercitando sia sul suo corpicino, sia sulla sua psiche.
Sfilando le mani dalle tasche e spostandosi i capelli dal viso, in un gesto di totale esasperazione, la ragazza sentì le lacrime scenderle dagli occhi lungo le guance: piccoli fiumi bollenti intenzionati a scavare nella sua carne il proprio letto. Ora i suoi occhi erano ovunque, ma sempre lontani dal viso di lui: «Un Alpha per un Alpha, è questa la legge» sibilò infine, lasciandosi cadere su un letto a lei ancora sconosciuto.

Sì, la legge era chiara - chiarissima, a dire il vero - peccato che in guerra fosse difficile tenere a mente i limiti da rispettare e lei, esattamente come qualsiasi animale, si era lasciata prendere dalla foga e dalla paura di morire.

Scosse ancora la testa, ormai in totale balìa del pianto, e con i palmi provò a coprirsi gli occhi. Non avrebbe voluto farsi vedere così debole, eppure le sembrava di diventare ogni giorno sempre più fragile.
Arwen si fece vicino, le si inginocchiò tra le gambe. Aralyn avvertiva la sua presenza, sentiva in mezzo alle proprie cosce il busto di lui, però non liberò per un solo istante il viso dalle mani. Vederla in quello stato, ne era certa, avrebbe semplicemente peggiorato la situazione.

L'albino le prese gli avambracci, cercò in tutti i modi di farle cambiare idea. La esortò con i gesti e con le suppliche finché, ancora più nervosa, lei gli urlò contro: «Smettila! E' inutile!» Ma quando di fronte a sé vide il viso di suo fratello, ora crucciato, capì di aver involontariamente ubbidito alle sue volontà. 
Stupida!

Lui la fissò con preoccupazione e dolcezza, spostando le proprie dita lungo la pelle pallida e bollente fino ai polsi, andando poi a risalire ancora qualche centimetro e intrecciandole con quelle di lei. Portò le mani della sorella fino al proprio viso e lì le baciò i dorsi, tentando con evidenza di calmarla. Seppur in passato fosse stato algido, disinteressato e restio a quel genere di contatto fisico, con lei non si risparmiava più nessuna premura - e di ciò che Garrel e gli altri membri del clan le avevano raccontato faceva fatica a ricordarsi. Prima dell'incidente con Joseph suo fratello non si era mai vietato nessuna donna, soprattutto del Clan, ma già allora non andava oltre al semplice bisogno animale; vederlo così attento, interessato e amorevole aveva quasi dell'irreale - ma nonostante Aralyn ne fosse lusingata, in momenti di totale sconforto persino affascinata e tentata, non riusciva ad apprezzarlo come avrebbe voluto. Nella sua testa c'era sempre e inesorabilmente, come un tarlo all'interno di un tronco malato, il desiderio di qualcun altro; e sovrapporre le due immagini diventava ogni giorno più complicato, ma non avrebbe saputo dirsi se fosse per via dell'imprinting o della propria imminente dipartita. Morendo, infatti, non sarebbero stati separati solo da qualche centinaio di chilometri, ma da due mondi: quello dei vivi e quello dei defunti, sempre se esisteva davvero e non era stato semplicemente frutto della sua immaginazione.

Abbassando lo sguardo e mordendosi il labbro, accanto alle ginocchia di lui, la ragazza scorse il rosso della busta. Dal pavimento la fissava immobile, quasi minacciandola, così Aralyn si sentì costretta a riportare l'attenzione sul volto rammaricato del fratello. I suoi occhi non si erano allontanati da lei per un solo istante, avevano cercato di leggerle nella mente, ma se nemmeno lei aveva idea di cosa realmente vi stesse frullando dentro, dubitava che lui sarebbe riuscito in una simile impresa.
Fu allora che, sporgendosi, si lasciò andare finché la sua fronte andò ad appoggiarsi su quella di lui. Le loro pelli si toccarono, entrambe fresche, si premettero nell'inutile tentativo di unirsi. Avrebbe voluto la razionalità di Arwen dentro di sé, bramava la sua pragmaticità e il suo senso del dovere più di qualunque altra cosa in quel momento, ma come sempre dovette rinunciare presto ai propri desideri.

«Lo so, Ara. So che hai paura e che non sei preparata, nessuno ti chiede di esserlo» con la punta del naso Arwen sfiorò quello di lei, sfregandolo dolcemente: «però io, il tuo Alpha, ti chiedo di combattere, okay? Insieme, come sempre, ma anche da sola. Questa volta è una sfida impari, ma so che tu puoi vincere, hai capito? Ogni colpo che ti daranno non deve piegarti, piuttosto deve fomentare la tua rabbia, il lupo» allontanando le proprie dita da quelle di lei le prese il viso, ne accarezzò lo zigomo per poi percorrere il contorno della mascella, arrivando infine ad afferrarle il mento tra pollice e indice. Ora i loro occhi erano gli uni in quelli dell'altro, tanto uguali che i riflessi quasi si annullarono: «Magari non ci sarà salvezza come pensi tu, però io voglio continuare a credere che troverai un modo per ingraziarti il Concilio. Il Duca è dalla nostra parte e con lui possiamo puntare ai suoi alleati... un esilio, Aralyn, ci basterebbe quello».
Lei sorrise, nervosa. Dove trovava, suo fratello, la forza di sperare? Davvero credeva ancora che le avrebbero perdonato un simile affronto? 
«E se lì dentro ci fosse già decretata la mia fine?»

Lo sguardo dell'uomo cadde sulla busta: «Non lo crederò possibile finché non lo avrò letto».
«Allora scopriamolo».

Arwen sgranò gli occhi: «Ora?» Lei annuì. Ora. Che senso aveva esitare ancora? La paura non si sarebbe placata, men che meno l'attesa avrebbe cambiato la situazione - tanto valeva mettere fine a quella diatriba su cosa li aspettasse e scoprire la verità. E a quel punto, con uno slancio che le permise di liberarsi dalla presa di lui, Aralyn afferrò la busta. Ne strinse la cellulosa tra le dita senza prestarvi alcuna attenzione, spiegazzando un po' i bordi. Cercò di muoversi svelta, di agire senza concedersi il lusso di alcun pensiero - perché era certa che se avesse esitato anche un solo istante avrebbe perso tutto il coraggio del momento; e dubitava ne avrebbe trovato ancora in quella giornata senza fine.Infilò le unghie sotto al bordo dell'apertura, le portò vicine al fondo e poi, con un paio di colpi, mise fine a quel supplizio. Quando il sigillo in cera si ruppe, spezzando la mezza luna, la giovane sentì un peso comprimerle il petto. Era fatta.

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Capitolo 21
*** Don't Fall ***




Chapter Seventeen

Don't Fall


"Cara Aralyn,

vorrei chiederti come stai, ma temo di conoscere la risposta a questa mia terribile domanda. Se stai leggendo, sul tuo cuore starà certamente gravando un peso tutt'altro che piacevole e per questo me ne dispiaccio, ma non ho idea di come alleviare il tuo male - non ora, quantomeno. 
Oggi ti scrivo in via ufficiosa, anche se noterai tu stessa che mi sarà impossibile mantenere il giusto distacco.

So che questa convocazione era l'ultimo dei tuoi desideri, per questo, seppur sofferta, ho preso di mia spontanea volontà la decisione di scriverti di persona, impedendo a chiunque dei sette membri restanti di infliggerti una simile punizione. Purtroppo vorrei evitarti una pena di tale grandezza, ma non è possibile, non dopo ciò che è giunto alla nostra attenzione.

In queste settimane ho scambiato diverse telefonate e lettere con coloro che, insieme a me, compongono il Concilio, ma nonostante i miei sforzi non sono riuscito a impedire che questo momento giungesse. Ciò che purtroppo si è frapposto tra i miei tentativi di persuasione e gli altri Alpha Nobili è stata la denuncia di infrazione delle Leggi da parte di colui che presto potrebbe essere un nostro pari - ma che mi auguro non salga mai al potere di un Clan tanto meschino e retrogrado. 
Sfortunatamente per te, questa persona ha molto più potere di quanto mai ne potrai avere tu e, perciò, si è scelto di arrivare a questo punto.

Bambina mia, non so cosa tu abbia fatto e nemmeno voglio saperlo, in modo da poterti giudicare senza tradire la promessa fatta ai miei antenati, ai Lupi che come me portano l'effige del ducato Simmons, però voglio che tu sappia che in questi anni non ho mai smesso di amare te e tuo fratello come se foste miei figli - per questa ragione mi voglio avvalere dell'ignoranza e non conoscere nessun dettaglio di ciò che è successo quella notte.

Però qualcosa è accaduto, ed eccoci quindi qui.

Douglas Menalcan è morto e tu sei stata indicata come la sua assassina.
Nel nostro mondo, che un branco si sbrani con l'altro è cosa abbastanza risaputa, ma ci sono limiti a tutto e, purtroppo, pare che ti sia spinta più in là di quanto potessi permetterti. Sei sempre stata coraggiosa, però non avrei mai pensato fino a tal punto - sempre se è vero ciò che c'è stato riferito.

Saprai da te cosa accade quando un lupo sfida il proprio Alpha, così come sono certo che tu sappia quali siano le conseguenze di una vincita o una sconfitta, però vorrei ricordarle io per entrambi.

Nell'ultima evenienza, se il capoclan non sceglie di portare a compimento la propria vendetta, il malcapitato è costretto ad abbandonare il proprio gruppo, diventando un esiliato, o come ci piace chiamarli, un Solitario. Ebbene, quando invece a perire è colui che detiene il potere, il ruolo di Alpha viene ceduto allo sfidante - e questo sarebbe stato il tuo caso, se non avessi deciso di sfidare un Purosangue. In una circostanza del genere i fattori che entrano in gioco sono molti: differenza di ruolo e di specie, in primo luogo. Non sei un leader, non avresti mai potuto sostituire Douglas, e men che meno il tuo sangue appartiene ad Arianrhod da abbastanza tempo per farti accettare dai Puri. Il tuo gesto può essere paragonato all'omicidio di un Re da parte di uno schiavo: la sua morte non ti rende libera, ancor meno acquisti potere - al massimo sei colpevole. Non importa quanto crudele fosse l'uomo che hai ucciso, ciò che conta è che ti sei permessa più di quello che la tua posizione consente. Ecco perché continuo a credere che l'egemonia di noi Nobili, ma soprattutto dei Purosangue, debba essere distrutta: siamo tutti Lupi. Se fosse stato lui, a uccidere te, non ci troveremo a questo punto, ma soprattutto nessuno di noi oserebbe condannarlo per ciò che ha fatto; perché nel tuo caso deve essere diversamente?

Ad ogni modo, devo ora concludere il compito che mi è stato assegnato e informarti su quanto deciso. Ciò che ti sto per scrivere è qualcosa di inderogabile e, mi duole dirtelo, ti sarà impossibile fuggire.

Aralyn Calhum, il Concilio ti convoca a sé durante la prima Luna Piena dalla sepoltura del patriarca del Clan Menalcan. Resterai nelle mura del Chaisteal per una settimana, il tempo che tutti noi ci auguriamo serva per decidere del tuo destino. Potrai essere scortata in Irlanda da massimo quattro membri del tuo branco, così come qualsiasi altro ospite invitato a partecipare. Durante la permanenza non potrai in alcun modo allontanarti dai confini delle nostre terre e, pertanto, ti sarà fornito tutto il necessario per alloggiare serenamente all'interno di quella che, sono certo, considererai una prigione. Porta con te abiti e oggetti per la tua cura, esattamente come dovranno fare i tuoi accompagnatori, inoltre tieni e fai presente che non saranno accettate insubordinazioni nei confronti dei Nobili, essendo voi Impuri. In ultimo, sappi che non sono permesse vendette o atti violenti nei confronti di quelli che potresti considerare come nemici.

Attenderò te e Arwen con trepidazione e rammarico, ma sarò lieto di potervi rivedere e abbracciare dopo tutti questi anni.

Non temere l'ignoto, bambina mia, ma confida nella benevolenza della Madre Arianrhod.

A presto,
Carlyle."

Arwen cercò di sorridere, ma lo sguardo di sua sorella era ben lontano dal poterlo vedere. «E' solo una convocazione» sospirò con sollievo, senza però ottenere risposta. Con la testa appoggiata al bordo in cemento, Aralyn se ne stava accovacciata sul bancalino interno del vano-finestra guardando l'orizzonte. Il cielo rossastro le illuminava il viso con i colori del tramonto, rendendo i suoi capelli fili di fuoco dove lui avrebbe voluto passare le dita, ma si trattenne, abbassando le mani sulle cosce e stringendo appena la presa sulla carta. «Mi hai sentito?» le domandò, provando a catturare la sua attenzione - eppure lei non si volse.

«Ho sentito».

Dal materasso, l'uomo riusciva a vedere solo una parte del viso di lei, uno scorcio del profilo grezzo dove, amaramente, si accorse che i denti avevano preso a torturare il labbro inferiore. Qualcosa, ne fu certo, la stava preoccupando: ogni volta che pensava troppo, o si arrovellava su qualche pensiero scomodo, finiva con il compiere quel gesto. E a lui sarebbe piaciuto vederla smettere, saperla più serena. Da quanto non succedeva? Settimane, forse mesi.

Portando lo sguardo sulla calligrafia di Carlyle, rilesse le ultime righe e, cercando ancora una volta qualcosa a cui aggrapparsi, aggiunse: «Anche il Duca dice di aver fiducia, f-»
«Basta, Arwen» Aralyn lo zittì. Il suo sussurro fu sufficiente a farlo volgere verso di lei e, quando i loro occhi s'incrociarono, l'uomo la scoprì sul punto di piangere.

***

Joseph deglutì.
Tre settimane, poi sarebbe giunto il momento di rivederla e, con grande probabilità, persino di perderla per sempre. Il piano di Gabriel aveva ora una concretezza fin troppo palpabile, per questo doveva riuscire a parlare con Arwen il prima possibile - ma sarebbe stato saggio approcciarlo tra le mura del Chaisteal? Non ne aveva alcuna idea, inoltre non sapeva se gli sarebbe stato possibile altrimenti.

Con tutti i trascorsi che avevano alle spalle dubitava fortemente che quell'Impuro lo avrebbe lasciato avvicinare a sé, o a sua sorella e qualsiasi altro membro del Clan abbastanza per poter parlare; probabilmente, conoscendolo anche minimamente, aveva già dato ordine ai suoi uomini di aggredirlo a vista. Biasimarlo però era impossibile, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti.

«Soddisfatto?» Domandò d'un tratto all'uomo che aveva di fronte, buttando malamente la lettera sul materasso, quasi a dire che non gl'importava nulla di ciò che vi era scritto sopra. I due fogli volteggiarono nell'aria, accatastandosi poi sulle lenzuola - però, persino dal punto in cui era, con la coda dell'occhio riusciva ancora a leggere ciò che vi era scritto sopra.

Gabe grugnì: «Mi chiedo perché rimandare a domani ciò che avremmo potuto fare oggi, ma cerco di scendere a patti con quegli otto matusalemme, dopotutto dobbiamo tenerceli buoni, se vogliamo quella sgualdrina morta, no?»
Ancora una volta il ragazzo dovette deglutire per evitarsi di rispondere malamente, anche se lo avrebbe desiderato, così come avrebbe voluto prendere suo fratello per la nuca e sbattergli ripetutamente il viso contro il muro: «Se aspettare ti urta così tanto, perché non hai chiuso i conti in sospeso autonomamente? Sapevi benissimo che il Concilio avrebbe rallentato la tua vendetta».
«Mia?» Le sopracciglia dell'uomo si andarono a incontrare: «Dovrebbe essere la nostra, no? E poi con loro ho la certezza che verrà castigata come si deve, ma soprattutto pubblicamente. Gli Impuri hanno bisogno di ricevere una punizione esemplare, in modo da ricordarsi quale sia il loro vero posto» sputò, incrociando le braccia al petto. In lui vi era una sicurezza sempre più fastidiosa, quell'assoluta certezza di essere costantemente un passo più avanti degli altri - e vederlo cadere sarebbe stato tra i piaceri più assoluti che Joseph avrebbe mai potuto pensare di provare.

In risposta a quel commento però, dal fondo della stanza, Leah levò una precisazione in aiuto di Joseph: «Forse intendevi dire che così non verrai nuovamente umiliato da una mezzosangue che ti ha preso a calci nel culo, giusto?»
Se da un lato fu consolatorio saperla così pronta a opporsi a Gabe, dall'altro il giovane si ritrovò a non apprezzare affatto la saccenza del suo tono o l'espressione altezzosa sul suo viso - istigare loro fratello, ora, appariva come la mossa peggiore da fare.
Certo, tra i figli di Douglas era e sarebbe stata guerra aperta fino alla proclamazione del nuovo Alpha, ma visto ciò che li stava aspettando, cioè l'incontro con il Concilio e il processo contro Aralyn, avrebbero dovuto evitare di aizzare inutilmente la rabbia di Gabriel - dopotutto era lui l'accusatore primario e certamente avrebbe messo in atto qualsiasi strategia pur di ottenere la sua vendetta nei confronti di quella ragazza. Dovevano limitarsi in ogni modo, in particolar modo ora che avevano la certezza di essere stati convocati in Irlanda.

«Bada a come parli, mocciosa» il ringhio dell'uomo riverberò per tutta la stanza: «Ancora non ho deciso che farmene di te, una volta conclusa questa storia» la minacciò sfoggiando le zanne, evidentemente infastidito dall'ennesimo promemoria riguardante i suoi fallimenti, però a differenza di altre occasioni non perse più di tanto la pazienza, limitandosi a indicarle con un cenno del capo l'uscita.

Leah tentennò qualche istante, con lo sguardo colmo di tensione cercò Joseph, un suo segnale. Era ovvio che non le piacesse l'idea di lasciarli soli, di essere tagliata fuori dal discorso che avrebbe seguito, ma a dispetto dei suoi desideri, lui non fece nulla per trattenerla - non che in verità ci fosse molto di cui parlare con Gabriel. Tutto ciò che doveva essere detto era stato letto ad alta voce pochi minuti prima, adesso, l'unica cosa importante di cui discutere erano i preparativi per il viaggio e la loro assenza.
Così, appena la figura della ragazza fu lontana dai suoi occhi, il giovane si volse nuovamente verso il fratello, scrutandone minuziosamente l'espressione.

«Non ti vedo felice, Joseph».
L'altro strinse i pugni: «Non la considero una vittoria».
«No, certo che no» un angolo delle labbra di Gabe si alzò, rivelando una sottospecie di sorriso: «Dubito che un colpo così basso possa averti fatto piacere». Slacciando le braccia, con noncuranza, l'uomo riprese la propria vestizione. Si agganciò i gemelli ai polsi, scrollando i ricci scuri, poi iniziò a rimirarsi nello specchio.

Non doveva cedere, si disse il ragazzo. Continuare a negare la sua reale posizione in quella guerra era l'unico modo per tenersi stretto il Clan, per scongiurare la morte di Aralyn per mano dei Menalcan - resistere avrebbe potuto far la differenza, soprattutto se fosse riuscito a parlare con Arwen.
«Sì, hai ragione» disse d'un tratto, lasciando ciondolare la testa da un lato: «Dover ricorrere a un gruppo di... come li hai chiamati? Matusalemme? Sì, credo tu abbia usato questo termine» fece una pausa, avanzando verso il fratello. Gli arrivò tanto vicino che se Gabe avesse deciso di saltargli al collo non avrebbe poi fatto chissà quanta fatica a strozzarlo, ma non per questo lo temette. Doveva farsi vedere spavaldo come sempre, incurante del suo giudizio - in modo da poter agire indisturbato: «Beh, fratello» sibilò alle sue spalle: «credo sia la dimostrazione più ovvia della nostra incapacità di sottomettere un branco di inutili meticci, quindi scusami se non gioisco con te all'idea di spezzare la semplice vita di un licantropo qualsiasi». Nel pronunciare quelle parole si ritrovò a digrignare i denti e compiere una smorfia schifata che, nel riflesso alle spalle dell'altro, gli sembrò terribilmente reale.
Ecco perché si voltò subito dopo, uscendo da lì a grandi passi.

Forse aveva davvero imparato a fingere, durante i mesi con gli uomini di Arwen.


 

 

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Capitolo 22
*** Stay with me ***




Capitolo Diciottesimo
Stay with Me


 

Lunghe lingue di fuoco si alzavano dal catasto di legna verso il cielo, quasi a pregare un Dio tiranno di ridargli ciò che avevano perduto: un figlio, un amato, un fratello, un amico. Nell'aria, insieme all'odore acre di fumo e cenere, ondeggiava lenta un'atmosfera antica, un richiamo a cui i Lupi non avrebbero saputo resistere. L'ancestralità di quel rito, spesso ignorato da branchi giovani e bastardi come il loro, che delle tradizioni avevano perso memoria o rispetto, ad ogni modo ghermiva chiunque fosse presente. Aralyn poteva sentirlo, era una sensazione che avvertiva nelle ossa, sotto alla pelle e incastrata tra le vene, ma soprattutto, voltandosi alla ricerca di Arwen, poteva vederla dipinta sui visi dei confratelli stretti l'un l'altro. I loro occhi gonfi di lacrime e le espressioni serie erano testimoni di quanto, alla fine, la licantropia li avesse resi tutti uguali, simili, legati indissolubilmente alla Madre Luna e gli antenati. Ed era bello, seppur triste. Era consolatorio sapere che il proprio Clan provasse come lei un senso di appartenenza e vuoto verso ciò che avevano di fronte - un passato vecchio come il mondo, dimenticato, nascosto agli occhi degli uomini, eppure vivo, vero, concreto.

Chissà se avrebbero ricordato anche lei così...

Bagnandosi le labbra in un vago tentativo di ignorare i temibili pensieri che avevano preso a vorticarle nella mente, la giovane spostò il proprio sguardo altrove, incontrando Marion e Garrel. Se ne stavano amorevolmente abbracciati, come mai le era capitato di vederli prima, e in silenzio condividendo un medesimo dolore. La chioma bionda di lei era schiacciata sul petto di lui, mentre le dita dell'uomo scivolavano su e giù per la pelle spoglia dell'amica, accarezzandola per scaldarla oppure per farle sentire la propria presenza. I gemelli Vogel, invece, con le dita intrecciate come due bambini che affrontano un mondo a loro avviso selvaggio e pericoloso, se ne stavano ritti al fianco di Aralyn. Nonostante il suo quasi tentato omicidio nei confronti di uno dei due, non avevano smesso di restarle vicini, quasi provassero per lei un inspiegabile senso di protezione. I loro capelli rossicci, noto la ragazza, erano resi ancora più fiammeggianti dal fuoco che gli danzava davanti, mentre gli occhi, rivolti verso il centro della pira, parevano cercare qualcosa nelle sfumature calde del falò - ma non c'era alcuna bara o alcun corpo da piangere, solo il nulla.

E quando sarebbe stato il suo turno, si domandò, i suoi confratelli avrebbero avuto qualcosa da cercare in mezzo alle fiamme? Forse no, perché nessun criminale meritava un simile onore. Men che meno, avrebbe potuto sperare in una sepoltura umana. Se le fosse andata bene, pensò, sarebbe finita in qualche fossa comune e abbandonata a se stessa per sempre; solo i vermi le avrebbero fatto visita.

Già, che fine miserabile e nauseabonda.

Non avrebbe mai pensato, nei suoi più di vent'anni di vita, che ad attenderla ci sarebbe stato un destino così crudele. Aveva sperato di morire in battaglia, combattendo per una giusta causa come era accaduto a Frejya, Layla e Fernando, oppure d'invecchiare accanto al suo Alpha, non certo di essere abbattuta al pari della bestia più riprovevole; però, a essere sinceri, non è che si fosse mai realmente soffermata sul quel dettaglio della propria esistenza. Aveva sempre sprecato pochi pensieri a riguardo, forse per esorcizzare la paura, ma adesso, arrivata a quel punto, non c'era più modo di tenere quei ragionamenti lontani.

Le mani presero a tremarle. Piccoli scatti le fecero muovere involontariamente le dita.
Che schifo, sputò tra sé e sé prima di incrociare le braccia al petto, in modo da nascondere gli effetti collaterali di simili pensieri. Non poteva permettersi di cedere davanti a tutti in un simile momento - erano lì per piangere un compagno perduto, non certo per prepararsi a ricevere la notizia della sua convocazione in Irlanda. Chissà se qualcuno di loro era a conoscenza di ciò che era accaduto, se comprendeva la gravità delle azioni che aveva compiuto quella notte a Villa Menalcan e persino prima. Chissà se qualcuno sospettava del suo amore per un nemico, o dell'inganno che avrebbe tessuto attorno e indosso ad Arwen per addolcirgli quegli ultimi giorni insieme, per ringraziarlo del perdono che le aveva concesso e che, seppur anelato, sapeva di non meritare.

«Màthair Gealach agus Peathraichean Rionnag, a choimheadas tu thairis air ar cinn» Aralyn sussultò. La voce di suo fratello arrivò calda a ridosso delle orecchie, avanzando baritonale nel silenzio dei presenti e accarezzandole la nuca con incredibile dolcezza. Non la ricordava tanto piacevole, eppure l'aveva sentito cantare decine di volte negli anni. Ad ogni sbronza con Garrel aveva seguito un coretto, però mai, dall'addio a Freyja, l'aveva udito intonare canti simili.
«Bidh Mic na h-Oidhche a 'cruinneachadh còmhla, ag ùrnaigh do truas ann an sèist,
tha sàmhchair nam Bràithrean na fhuaim bodhar dhuinn...
Air chall san dubhar as dorcha bidh iad a 'coiseachd air tòir an t-solais agad, a' miannachadh fearann far a bheil coilltean sìorraidh».
L'Alpha si fece strada tra i sottoposti che, all'unisono, presero a intonare la melodia. Alcuni, come i gemelli, Marion, Garrel e persino lei, lasciarono che la voce riprendesse parte delle parole dell'uomo, accompagnandolo.

Màthair Gealach agus Peathraichean Rionnag, a choimheadas tu thairis air ar cinn,
Bidh Mic na h-Oidhche a 'cruinneachadh còmhla riut,
Air chall san dubhar as dorcha bidh iad a 'coiseachd air tòir an t-solais agad.

Arwen avanzò lento tra loro, Re e guida di un branco stremato, ferito, arrivando infine al fianco della sorella e sfiorando con il proprio palmo quello di lei, forse insicuro nell'intrecciare le dita con le sue. Chiunque avrebbe potuto vederli, ma quanti avrebbero potuto fraintendere quel gesto? Solo i due licantropi poco più in là, stretti l'un l'altra. Loro che erano stati gli amici e i compagni più fedeli di tutto il Clan ancora una volta non avrebbero proferito alcuna parola e, men che meno, avrebbero condannato un simile gesto.

«Leig Arawn iad, leig leis na corragan aige suathadh air cleòcan nan gaisgich a thuit,
O Bhràithrean a chaochail».

Fu quindi Aralyn ad afferrare la mano dell'albino, stringendola più di quanto avrebbe mai pensato - perché nonostante nei suoi pensieri vi fosse un altro uomo, in quell'istante desiderava solo Arwen. Lui era l'unico a capire realmente il suo dolore e per nulla al mondo si sarebbe negata il suo sostegno.

Màthair Gealach agus Peathraichean Rionnag, a choimheadas tu thairis air ar cinn,
Bidh Mic na h-Oidhche a 'cruinneachadh còmhla riut,
Air chall san dubhar as dorcha bidh iad a 'coiseachd air tòir an t-solais agad.

«Èist ri ar guthan, gabh iad mar ghealladh gaoil.
Suidhich thu fhèin leis an fhuil a tha a 'sruthadh bho ar cridheachan tollaidh, ach na trèig na leòinte gu bràth.
Màthair Gealach agus Peathraichean Rionnag, fosgail stairsneach na Coille do Dhia a 'Bhàis agus a luchd-aoigheachd».

L'Alpha ricambiò la stretta e, probabilmente spronato da quell'insolito atto di coraggio, si portò il dorso di Aralyn alle labbra, baciandole la pelle.

Tutt'intorno, il branco continuava a ripetere le parole e le note di quel canto a metà con una preghiera, cullando il dolore della perdita e della sconfitta comune - perché seppur Douglas fosse ormai morto, la battaglia non era ancora finita e ciò che avevano lasciato tra le mura di Villa Menalcan non avrebbe mai smesso di alimentare in loro la rabbia e quell'asfissiante senso di vuoto. Nessuno, nel mero capannello di persone presenti, poteva dire di essere uscito indenne dallo scontro; tutti avevano abbandonato qualcuno, tutti avevano perso qualcosa.

Così i fratelli Calhum lasciarono che ogni singolo membro del Clan piangesse a quel modo il proprio dolore, finché, a poco a poco, le voci si fecero poco più di un sussurro. Restarono lì in attesa che il silenzio tornasse padrone della sera, osservando le fiamme lambire la legna fino a trasformarla in tizzoni scuri e cenere. Nessuno dei due si concesse alcuna lacrima, ma Aralyn era certa che se non fosse stato per la presenza di suo fratello si sarebbe lasciata andare ai singulti per l'ennesima volta, anche se a quel punto non avrebbe più saputo dire per chi fossero. In alcuni momenti pensava a Fernando e il suo sacrificio, altri a Kyle. In diverse occasioni, invece, il pianto era arrivato senza preavviso, spezzandola al pari di un rametto secco nel pieno dell'Inverno. Ormai non aveva più la forza per opporsi, non ce n'era motivo. Tutto quello che amava si era trasformato in vapore: lo vedeva, eppure afferrarlo le era impossibile.

Restando immobili per un tempo che parve infinito, i due si riscossero esclusivamente quando la quasi totalità del buio tornò ad abbracciarli; fu allora che si accorsero d'essere rimasti soli. Alle loro spalle non c'era più alcun confratello, men che meno Garrel o Marion, oppure i gemelli - senza che se ne rendessero conto erano stati lasciati in intimità con i resti di quel rito, quasi sapessero tutti quanto fosse importante per loro. E non sbagliavano, questo era certo.

Aralyn lanciò uno sguardo fugace in direzione del cascinale ormai dormiente e, certa che non vi fosse alcuna persona acquattata nell'ombra, intenta a osservarli, si concesse un nuovo e avventato gesto. Dentro di sé sentiva crescere il bisogno di conforto, la bramosia nello svuotare la mente. Non ne poteva più di tutti i pensieri, delle malignità e di sentirsi tanto vuota; aveva necessità di aggrapparsi a qualcosa e suo fratello, in quel momento, le sembrò l'appiglio migliore - se non l'unico in cui avrebbe voluto infilare le unghie per tenersi a galla, certa che l'avrebbe sorretta in quel mare di incertezze.
Dapprima lasciò cadere la propria testa sul braccio di lui, poi strofinò la tempia a ridosso del corpo di Arwen e, infine, premette la fronte sul suo petto. Con le dita ancora intrecciate a quelle di lui, gli si schiacciò contro, annusando con voracità il profumo dei suoi vestiti.
Ricordava ancora tutte le volte in cui, durante la degenza dell'uomo, si era soffermata segretamente a inspirare quel sentore sui vestiti usati, sulle lenzuola da sistemare - e non aveva dimenticato quanto intensamente aveva desiderato ritrovarlo su di sé.

«Resta con me».
A quella richiesta lui sorrise, le fu chiaro dal modo in cui il petto sussultò, e lentamente prese ad accarezzarle la nuca. 
«Sono già con te, sciocca».
«Intendo stanotte».

I movimenti della mano di lui si interruppero. 
Aralyn non aveva mai chiesto con a suo fratello una simile follia, non si era mai permessa di palesare desideri tanto egoisti con tale serietà mettendo a repentaglio ogni cosa - ma ora diverso, lei ne aveva bisogno e, soprattutto, non poteva rischiare più della condanna che già la ghermiva.
«Lo sai che non posso...»
Sì, lo sapeva, eppure quel rifiuto fu per lei un pizzicotto inaspettato, uno sputo dritto in faccia. Possibile che d'un tratto l'antidoto che si era scelta non volesse versarsi tra le sue labbra, anestetizzando i sentimenti?

Staccandosi dall'Alpha, la giovane tirò un sorriso deluso: «Avresti detto di sì, se non fossi stata con un Menalcan».
«Ara... non è per quello».
«Per cosa allora? Per il branco? Non ci darebbero peso, crederebbero che tu abbia voluto vegliare su di me, come un vero fratello».

Arwen però non demorse e, scuotendo la testa, lasciò che sul suo viso l'incredulità e il fastidio si andassero a mescolare. «Sì, è per il branco, per ciò che siamo» le sussurrò poi, muovendo un passo in avanti nel probabile tentativo di non farsi udire in alcun modo - se davvero tutti stavano dormendo, un litigio del genere non sarebbe certo passato inosservato: «E perché tu ami quel Menalcan».
Come un colpo alla bocca dello stomaco, sentire la verità uscire dalle labbra di lui fu destabilizzante. Aralyn si sarebbe aspettata qualsiasi cosa, ma non certo che l'uomo avesse compreso così in profondità i suoi sentimenti - però, si ricordò, quella consapevolezza non gli aveva impedito di baciarla più e più volte durante i giorni trascorsi da Killian. Quindi perché, ora, si faceva simili remore? Perché non poteva accettare quella richiesta con la stessa foga?Mordendosi la lingua prima di parlare, la lupa si rese conto di non voler più stare lì. D'un tratto il fatto che suo fratello avesse voluto citare Joseph e rovinare i suoi piani divenne motivo di ulteriore distacco. Gli aveva chiesto di restare con lei per scacciare i pensieri, non certo di riportare alla mente quelli che con tanta fatica provava a tenere lontano ogni giorno.
«Lui però non è qui, Arwen. E non lo sarà mai, tu invece sì» sibilò torcendo la smorfia e girandosi verso l'edificio. 



 

Yaga:

Avete atteso settimane, ma alla fine è arrivato.
Il dubbio esistenziale sulla qualità di questo aggiornamento è onnipresente e quello che doveva essere un momento filo romantico si è trasformato in un passaggio confusionario e di scarsa resa.

Dannazione.

Ciò che mi consola è che si tratta di una bozza a cui potrò ancora lavorare (soprattutto grazie ai consigli dei lettori più appassionati). Non so, ma questa quarantena mi sta sfiancando e, dopo qualche riga, mi ritrovo ad avere mal di testa e andare avanti per una sorta di inerzia, più che per logica: a voi non capita mai?

Detto ciò, e conscia di non poter tardare così tanto tra una notifica e quella successiva, vi chedo: cosa vi aspettate nel prossimo aggiornamento?
Fatemelo sapere! 
Io intanto vi lascio la traduzione del canto di Arwen <3
Se dovesse far schifo sappiate che è per colpa delle mie scarse capacità compositive :D

 

"Madre Luna e Sorelle Stelle, che vegliate sulle nostre teste,
i figli della notte si riuniscono a voi, pregando in coro la vostra pietà.
Il silenzio dei fratelli è per noi un assordate rumore.
Persi nell'ombra più oscura, essi vagano alla ricerca della vostra luce, anelando alle terre dove le foreste sono eterne. Lasciate che Arawn li trovi, che le sue dita sfiorino i loro manti da eroi caduti, Oh, fratelli defunti. Madre Luna e Sorelle Stelle, ascoltate le nostre voci, prendetele come pegno d'amore. Saziatevi con il sangue che sgorga dai nostri cuori trafitti, ma non abbandonate i per sempre feriti. Madre Luna e Sorelle Stelle, aprite le soglie delle Selve al Dio della Morte e le sue schiere."

 


 

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Capitolo 23
*** Foolish lamb in the jaws of the wolf ***






Capitolo Diciannovesimo
Foolish lamb in the jaws of the wolf

Uno, due, tre passi. Aralyn li percorse nel minor tempo possibile per impedire alle lacrime di fuoriuscire prima del dovuto. Non voleva farsi vedere, men che meno dar prova di quanto fosse debole in una situazione così insolita.
Avrebbe voluto Joseph, lo desiderava con ogni fibra di sé stessa, eppure lui non c'era e forse non ci sarebbe più stato, mai - e allora che male avrebbe fatto stringersi a un corpo diverso, socchiudendo gli occhi, e sovrapponendo i ricordi di lui a quel momento? Non ne avrebbero tratto entrambi piacere, o quantomeno sollievo?
Si morse il labbro, lo strinse forte attraversando l'uscio del cascinale. Perché Arwen non riusciva a capire? Perché il suo sé razionale non voleva cedere nemmeno di fronte a quelle suppliche? Era così difficile assecondare i suoi stupidi desideri e accontentarla?
Pigiò ancora, sentendo la pressione degli incisivi minacciare la carne.
Non poteva mutare e correre via da lì, troppo rischioso ora che la tregua era terminata, men che meno poteva concedersi di bere tanto da dimenticare ogni cosa, il suo corpo non le avrebbe perdonato una simile stupidaggine - e allora cosa le restava, se persino la violenza della lotta le era negata? Solo quello, ma suo fratello pareva non volerle concedere nemmeno quella grazia.

Facendosi guidare dall'istinto Aralyn lasciò che le gambe la portassero nei pressi delle scale che salì in punta di piedi, per non far rumore e svegliare chi a differenza sua si era già assopito, poi, una volta arrivata in cima, si arrestò. Stretta nelle proprie spalle, rimase ferma sul pianerottolo a guardandosi attorno al pari di un animale in fuga. In quel momento di totale sconforto si scoprì incapace di ritrovare la strada per la stanza assegnatale - il pianto aveva ormai avuto la meglio, offuscando la vista a tal punto da farle perdere cognizione dello spazio. 
Lenta, e sempre più abbattuta, si rannicchiò su sé stessa, arrivando ad affondare il viso tra le ginocchia.

Se fosse stato possibile, pensò, si sarebbe strappata di dosso quel corpo muta-forma, lo avrebbe restituito agli Dèi pur di essere umana, solo e semplicemente. Quante cose si sarebbe risparmiata! Quanto dolore il suo cuore avrebbe potuto evitarsi - ma purtroppo non sarebbe servito a nulla: era un mezzo lupo e come tale doveva vivere in quel mondo violento e inclemente, accettando tutto il male che le aveva fatto in passato e che avrebbe continuato a farle fino al giorno della sua esecuzione. Della ragazza comune non aveva avuto nulla se non l'aspetto, e tutto ciò che le era parso avvicinarsi all'ideale di normalità - l'istruzione, le amicizie, la famiglia, una relazione e il futuro, con tutte le sue possibilità - si era poi rivelato una pallida imitazione. Già, perché non era bastato farla nascere tra gli oppressi di una specie che, seppur potente, doveva vivere nell'ombra per non essere cacciata e debellata dal mondo, Arianrhod e tutti gli altri si erano premurati di negarle un padre e una madre, erano stati attenti a ferire Arwen così in profondità, sia nello spirito che nel fisico, da spingerlo a cercare vendetta nei confronti dei Menalcan in ogni modo - e in quella disperata ricerca di rivalsa, a lei era stato concessa l'illusione dell'amore. L'aveva sfiorato, assaporato, e alla fine le era stato tolto dalle mani con impronunciabile forza. Nemmeno Romeo e Giulietta avrebbero potuto competere.

Così il primo singhiozzo le sfuggì di gola senza che lei riuscisse a soffocarlo, ma il secondo si assicurò che venisse contenuto tra le gambe e la bocca premutagli contro. Non poteva permettersi di farsi scoprire, soprattutto perché non avrebbe potuto sfogarsi con nessuna persona presente lì - l'unico a cui avrebbe affidato i suoi segreti era Fernando, ma sfortunatamente gli aveva appena detto addio per l'ultima volta. E Marion? Lei avrebbe saputo custodire tutte le sue pene? Non lo sapeva, non si concedevano una chiacchierata seria da prima che tutto quel putiferio avesse inizio - e se ben ricordava, aveva criticato ancora e senza esitazione per l'affetto innaturale che provava per Arwen; un sentimento che pareva essere solo una misera riproduzione di ciò che aveva sperimentato poi, tra i baci del nemico.

D'un tratto, facendola sussultare, un corpo le si appoggiò addosso. Lunghe braccia la cinsero e il profumo pungente di qualcuno di familiare l'avvolse con la medesima intensità, provando a darle conforto.
«Hai finito di fare la bambina?»
Di risposta, Aralyn scosse la testa, negando con fermezza la capacità di mettere fine allo strazio a cui stava soccombendo. Non sapeva come fare, le sembrava impossibile fermare i singulti senza una distrazione abbastanza concreta a cui aggrapparsi. Mettere a tacere la mente era la sua priorità, eppure i pensieri non smettevano un solo istante di attaccarla come demoni famelici: troppe ansie e paure, troppe pretese che sapeva non potersi permettere d'avere.
Con la punta del naso, l'uomo che aveva alle spalle iniziò a percorrere brevi traiettorie sulla sua nuca, accarezzandola in un inutile tentativo di placare i singulti - ma non sarebbe servito a nulla, in quel momento non voleva alcuna dolcezza, solo un modo per mettere fine al vortice di voci che aveva in testa e sedare il corpo insieme a tutte le soffocanti emozioni che ne conseguivano: era così difficile da capire?

«Su, vieni».
Spostando le mani sotto le ascelle di lei, il suo soccorritore fece una lieve pressione, invitandola a rimettersi dritta. Aralyn all'inizio provò a far resistenza, consapevole di voler che fosse qualcun altro a farle compagnia, ma alla fine cedette, capendo da sola che restando in quel punto avrebbe finito con l'attirare su di sé le attenzioni meno desiderate.
Delicatamente, molto più di quanto ci si sarebbe aspettati da un uomo di quella stazza, Garrel le cinse un fianco, in parte stringendola a sé, in parte sorreggendola lungo il corridoio deserto.
Passo dopo passo, in silenzio, si fecero strada fino alla camera di lei e, una volta lì, l'omaccione si premurò di farla sedere sul materasso. Per qualche istante il silenzio fu totale, nemmeno i singhiozzi sembravano voler più uscirle di bocca - solo lacrime mute cadevano dagli occhi brucianti, stanchi di ritrovarsi a compiere lo stesso gesto ancora e ancora, in un circolo vizioso che non voleva avere fine. Possibile che bastasse solo un cuore spezzato a ridurla in uno stato così miserevole? Lei, che aveva lottato per anni, ucciso e rischiato di essere uccisa senza troppi problemi, alla fine si era spezzata come un ramoscello su cui per troppo tempo viene fatta pressione e, ora, non era altro che un peso addosso a chiunque le fosse attorno, anche quando offriva loro ciò che più di tutto desideravano.

«Dovresti dormire, sai?» Garrel le spostò una ciocca dietro all'orecchio, costringendola ad alzare lo sguardo sul suo viso. L'espressione con cui la stava fissando era esattamente come quella che avrebbe dovuto avere un fratello maggiore, ma lei non riuscì comunque a trovarvi conforto.
«Ci hai sentiti. Eri lì, vero?»

Lui annuì. Li sentiva sempre, i suoi occhi riuscivano a trovarli persino nel buio più pesto - forse era per quello che Arwen lo aveva scelto come spalla, che si era affidato a lui per compiere le azioni più difficili: prendersi cura del branco mentre si riprendeva dalla ferita, allenare lei per trasformarla in un vero lupo, essere il suo primo... sì, perché seppur nessuno dei due lo avesse mai apertamente confessato, Aralyn sapeva che suo fratello gli aveva chiesto un simile favore; non avrebbe sopportato l'idea di nessun altro con lei, infatti, trovare il profumo di Joseph sulla sua pelle doveva averlo ferito più di quanto potesse immaginare.

Ed ora, come in passato, Garrel era nuovamente di fronte a lei.

«Pensavo avrebbe detto sì» sussurrò, portandosi via dalla guancia una lacrima.
«Non può, Ara».
«Lo so, ma ne avevo comunque bisogno».

Con un sospiro, l'uomo andò a chiudere la porta e, senza complimenti, si mise poi a sedere al suo fianco: «E' un gesto egoista, se quello che vi siete detti prima è vero».
«Quale parte? Il fatto che il branco potrebbe scoprirci?» si volse: «Oppure che amo Joseph Menalcan?»
Garrel distolse lo sguardo, andando a fissare le proprie mani. Sembrava star riflettendo sulla questione, quasi per la prima volta stesse realmente prendendo coscienza del problema, nonostante già lo conoscesse.
«Quindi è vero...» lo sentì biascicare dopo qualche secondo: «Marion lo ha detto sin dalla sera della sua iniziazione, sai?» spostandosi un riccio, l'uomo tirò indietro la testa. I suoi occhi si spostarono sul soffitto di travi e per un istante Aralyn pensò che stesse cercando qualcosa tra le venature del legno, magari le parole per proseguire. «Eravamo a tavola, seduti come tu ed io ora, solo un po' più brilli. Mi si è avvicinata e ti ha indicata - lo stavi seguendo fuori dalla sala. Mi ha detto "guardala, Garrel. Non è stupenda?" all'inizio non capii, forse per via dell'alcol, ma lei riprese subito, "si è innamorata e nemmeno lo sa! Di Josh, poi... e pure lui, è cotto, completamente. La guarda in quel modo, sai? Quello con cui Fernando guardava Layla. E' rinsavita, finalmente", solo in quel momento compresi che qualcuno si sarebbe fatto male, qualsiasi scelta avessi preso. Sinceramente pensavo sarebbe stato Arwen, invece è toccato a te».

«Non ho avuto scelta, se dobbiamo essere onesti».
«Nessuno ce l'ha, men che meno quando è Arianrhod a decidere, e questo lo sa anche lui, piccola, per questo nonostante ti abbia detto "no" mi ha mandato qui» i loro sguardi tornarono l'uno sul viso dell'altra. Aralyn avvertì la confusione farsi strada in lei, faticando così a trovare qualcosa da dire per ribattere. Aveva capito bene? Davvero suo fratello aveva chiesto a Garrel, ancora un volta, di portare a termine quello che lui non era in grado di fare? Fece per scuotere il capo, rifiutando quella sottospecie di proposta, però lui la interruppe: «eppure sta comunque aspettando qua fuori».

La confusione mutò in sorpresa, tanta che per un brevissimo momento credette che il cuore potesse perdere un battito e, senza indugi, si precipitò verso la porta. La spalancò con un impeto tale da muovere la staticità dell'aria presente nella stanza, ritrovandosi faccia a faccia con l'Alpha. Arwen era lì, realmente al di là della porta - perché? Avrebbe ascoltato in eterno le loro chiacchiere? La stava forse mettendo ancora una volta alla prova? Qualsiasi fosse la risposta, lei non volle conoscerla. Gli si gettò al collo, stringendosi forte a quel corpo tanto estraneo quanto familiare e, a ridosso dell'orecchio, lo sentì sibilare all'amico di andare via - almeno per quella volta. E quando Garrel passò loro accanto, certamente senza risparmiargli uno sguardo torvo, l'albino si affrettò a mettere un muro tra loro e il resto del mondo a prescindere da cosa sarebbe successo; perché forse, l'omaccione che l'aveva riportata nella propria stanza, aveva ragione: il suo era un atto egoista, la fame del lupo da saziare con la carne dell'agnello.


 

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Capitolo 24
*** This Bitter Taste ***




capitolo venti

This Bitter Taste

Aralyn oltrepassò la soglia del cascinale inspirando a pieni polmoni l'aria mattutina, pregna dei profumi più disparati: caffè, latte caldo, pane e marmellate di ogni tipo. Per un attimo le parve di essere realmente tornata a casa, ma bastò abbassare lo sguardo sulla misera tavolata sotto al portico per rendersi conto di non essere realmente alla Tana.
Dodici sedie se ne stavano disposte malamente sotto al sole, mentre qualche confratello si aggirava per il patio sistemando le ultime cose, esattamente come era solito accadere anche nei pressi di Berna. I gemelli parevano intenti a piegare e disporre tovaglioli a lato di ogni piatto, mentre Marion, alle loro spalle, li rimproverava con amorevole severità, esattamente come una madre o una sorella maggiore.

Fu impossibile, di fronte a quella scena, trattenere un sorriso.

«Di buon umore, a quel che vedo» Garrel spuntò senza preavviso da una delle innumerevoli porte del vecchio edificio, probabilmente quella che collegava l'esterno con la cucina, viste le stoviglie che sorreggeva tra le mani e, avvicinandosi lentamente, si concesse una frecciatina tutt'altro che apprezzata: «posso solo immaginarne il motivo».
Aralyn gli lanciò un'occhiata di tralice, ma cercò di non farsi vedere infastidita - non ce n'era ragione, dopotutto.

«Ma conoscendoti, sono certo che tu ti stia sbagliando» anche Arwen fece la sua comparsa e, a passo lento, si avvicinò a sufficienza da cingere con le lunghe braccia le spalle della ragazza, tirandola quanto più possibile a sé per prendersi ancora un po' del suo calore, come se le ore spese insieme non fossero bastate o, più probabilmente, rivendicando la propria proprietà sulla sorella. Appoggiando il mento sulla testa di lei, si rivolse nuovamente all'amico, trastullandosi con una malizia inusuale per la sua persona: «E' stata la dormita più piacevole degli ultimi anni».
Il cipiglio dell'energumeno al fianco dei fratelli Calhum fece scoppiare la più giovane dei due in una timida, ma soprattutto involontaria, risata. Aralyn provò a nascondere il proprio sorriso dietro agli avambracci dell'Alpha, incrociati davanti al suo viso, senza però ottenere grandi risultati. Garrel si stava indispettendo, eppure nessuno di loro sembrava intenzionato a placare il suo malumore.
«Mi credi fesso?»
«No, solo troppo malizioso».
Le sopracciglia dell'omaccione si corrugarono, testimoniando la sua più totale incomprensione e l'aumentare, per ora silenzioso, del fastidio - e come dargli torto, visti i presupposti? Non era la prima volta che mettevano in discussione le leggi del Concilio, men che meno che ignorassero i suoi consigli; qualsiasi cosa fosse accaduta quella notte, erano certi stesse pensando Garrel, avrebbe nuovamente messo in pericolo la loro già di per sé precaria situazione. Eppure, più lui si sentiva preso in giro dal loro atteggiamento, più Aralyn si ritrovava piacevolmente divertita. Vederlo imbufalirsi per le marachelle di due fratelli, per non parlare della loro più totale assenza di responsabilità in simili circostanze, era un toccasana per il suo attuale stato emotivo - la illudeva che vi fosse ancora qualcosa di normale, nella sua vita.
Arwen però, arrivati a quel punto, decise di mettere fine allo scherzo. Liberando le spalle della sorella da una delle sue braccia, colpì con un pugno amichevole l'uomo al loro fianco: «Non abbiamo ceduto, tranquillo. Dubito saremmo passati inosservati senza il tuo impetuoso russare!» e a quella confessione, seppur amaramente, persino Aralyn dovette annuire - già, perchè alla fine, nonostante i tentativi di convincerlo, non aveva ottenuto altro che un petto su cui appoggiare la testa mentre con delicatezza le dita di lui le s'infilavano tra i capelli, cullandola in un sonno meno irrequieto del solito.

Garrel sbarrò gli occhi.
«State parlando seriamente?» La sua incredulità era palpabile, persino un ottuso avrebbe potuto capirlo - e non c'era da biasimarlo, dopotutto anche lei sembrava ancora faticare a crederci. Appena la porta si era chiusa alle spalle del loro confratello, Aralyn aveva premuto le proprie labbra su quelle di Arwen. Lo aveva fatto fino a farsi male, cercando d'infilare la propria lingua oltre i denti di lui, ma questi erano rimasti sigillati con incredibile convinzione, impedendole di dare il via a qualsiasi cosa. Si era negato a lei. Lui, l'Alpha, il maschio che più di tutti avrebbe dovuto dar sfoggio della propria virilità, del ruolo che ricopriva all'interno della loro specie, le aveva proibito sé stesso. Non erano servite né le carezze, né i graffi. Non era stato sufficiente slacciare bottoni e provare a sfilare vestiti per mettere a nudo i corpi: suo fratello l'aveva fermata. Ed era stato come venir nuovamente pugnala al cuore. Un po' come quando nelle celle di Villa Menalcan aveva realizzato il vero significato delle parole di Gabriel - ma stavolta, a dispetto di allora, nessuna lacrima aveva osato scivolarle via dagli occhi.

Arwen tornò a stringerla, facendola sussultare. Nemmeno si era accorta di essersi distratta, così provò a camuffare il proprio disappunto: «Qui in Italia ho sentito che le persone dicono una cosa in circostanze del genere "chi tace acconsente". Direi che il nostro silenzio basta, no?»

Già, perché a essere sinceri, si disse, entrare nei dettagli non avrebbe fatto altro che farla sentire ancora più a disagio.

***

Joseph infilò la chiave all'interno della serratura, ma prima di aprire rimase fermo di fronte a una porta che da troppo tempo non vedeva più - e gli fu impossibile negare che una fastidiosa stretta si stesse formando intorno al cuore. C'erano ricordi, al di là di quell'enorme anta e lui non era certo di poterli affrontare tutti, anche se doveva, per il bene di coloro a cui teneva.

Socchiudendo le palpebre si concesse un lungo respiro. Affrontare un nemico non gli era mai parso difficoltoso come, ora, oltrepassare quella soglia, eppure sapeva bene che tra gli artigli di un lupo e le pareti di un appartamento c'era una notevole differenza: i primi avrebbero potuto ucciderlo, lacerargli le carni in modo da mettere fine alla sua stupida vita, mentre le seconde, si rese improvvisamente conto, solo schiacciarlo sotto il peso dei momenti che conservavano al loro interno. Gli avrebbero fatto male, ma non gli avrebbero impedito di riprendere la propria esistenza. Certo, bisognava dirlo, se con lui fosse andata anche Leah, forse, la pressione di quel luogo lo avrebbe fatto sentire meno soffocato, però ogni volta che lei si era proposta di seguirlo lui si era opposto con maggior convinzione - era la sua guerra, era lui quello che aveva deciso di insorgere contro la propria famiglia e coloro che dall'origine della loro specie governavano una società tanto soprannaturale quanto segreta. Inoltre, quella era la casa che per otto anni aveva condiviso solo con Kyle, tra una lezione universitaria e quella successiva, un meeting di lavoro e poi un viaggio, una questione del clan e l'altra; era l'ultimo posto che desiderava visitare con un Menalcan che non fosse il suo migliore amico.

Ma perché era tornato lì? Per quale ragione aveva deciso di farsi un simile male a una settimana dalla partenza per l'Irlanda? Non bastava la consapevolezza di rivederla senza poterle correre incontro e abbracciarla, dirle tutto ciò che non era riuscito a confessarle, prima che uno stupido gruppo di licantropi chiedesse la sua testa?
A quanto pareva, no, ma a dire il vero era proprio per lei se aveva deciso di rifugiarsi in quel luogo per qualche giorno. C'erano cose che voleva portarsi via in quell'appartamento e, soprattutto, segreti da disseppellire. Quando sua madre era morta, e prima che Douglas decidesse di trasformare quella che era stata la loro camera da letto in un mausoleo di discutibile gusto, Joseph aveva lasciato che il suo disprezzo nei confronti del padre, nonché l'istinto di ribellione tipico degli adolescenti, prendessero la meglio su di lui e, di nascosto, con il favore di una delle notti sacre ad Arianrhod e la complicità di Kyle, aveva trafugato alcuni oggetti appartenenti alla donna: libri, album fotografici, un paio di vinili e persino un cofanetto pieno di lettere ingiallite. Lì in mezzo, ne era certo, avrebbe trovato qualcosa di utile alla sua causa, anche se non aveva idea di cosa, esattamente, fosse. Ricordava con vaghezza degli appunti, un messaggio, qualche numero che non aveva mai avuto la premura di approfondire - ma se Elizabeth si era preoccupata di segnare era certamente per un motivo, forse per avere una via di fuga da quel matrimonio che dopo il secondo figlio si era accorta detestare con tutta sé stessa. E se quell'escamotage poteva contrastare l'Alpha dei Menalcan, chi negava che potesse dare una possibilità anche ad Aralyn? Un'unica chance di sopravvivenza, sarebbe bastato quello, in caso il suo piano iniziale non avesse trovato appiglio sulla coscienza, o orgoglio, di Arwen Calhum.

Così, facendosi forza, Joseph poggiò la propria mano sulla maniglia e, aprendo nuovamente gli occhi sulla porta di fronte a sé, si fece strada all'interno dell'appartamento. Con il cuore stretto in gola, e i nervi tesi come corde di violino, gli bastò oltrepassare la soglia per essere investito dal fastidioso odore di chiuso, un tanfo tanto intenso da stordirlo e costringerlo ad aggrapparsi allo stipite per non barcollare. Stringendo la presa, si ritrovò a imprecare contro i propri sensi animali, in particolare nei confronti di quell'olfatto che, a causa del suo sangue puro, gli faceva avvertire ogni sentore con maggiore intensità - e se lo aveva ringraziato innumerevoli volte in passato, in quel momento non poté che detestarlo.
Coprendosi il naso con un braccio, si mosse svelto verso la finestra più vicina e, dopo qualche strattone senza risultato, riuscì a spalancare le ante.

Nonostante la pioggia battente, sporse la testa al di là del vano murario, boccheggiando nel tentativo di racimolare quanto più ossigeno possibile: persino lo smog delle strade di Glasgow gli sembrò meno malsano del fetore dentro il quadrilocale.
Con la bocca spalancata nel vuoto, e le gocce a bagnarli il capo, Joseph si rese conto che dalla sua partenza per Berna nessuno doveva aver più messo piede in quella casa e, in assenza delle direttive di Kyle, la donna delle pulizie non si era più presentata per rassettare e arieggiare gli ambienti. Gli bastò lanciare un'occhiata fugace al di là della spalla, in direzione dei primi scaffali, per confutare i propri dubbi; la polvere se ne stava placidamente depositata su ogni mensola, in attesa di essere pulita.

Fanculo, pensò picchiando i pugni sul davanzale e decidendo di tornare ad affrontare il tanfo, certo che, data la sua intensità, avrebbe impiegato ore a dissiparsi.

Joseph tornò quindi a fissare il salotto che, al suo arrivo, non aveva degnato di alcuno sguardo, troppo occupato a non soffocare. Una sensazione strana gli fece formicolare le viscere mentre, con lentezza, i suoi occhi passavano da un elemento d'arredo all'altro.
Sul divano di pelle, lì dove ricordava di aver visto decine di film e fumato centinaia di sigarette, i cuscini se ne stavano ordinatamente sistemati, quasi nessuno vi avesse mai poggiato sopra il proprio corpo. Sul tavolino di legno, il posacenere vuoto teneva fermi alcuni fogli che, senza nemmeno doversi sforzare, ricordò di aver lasciato lì: la duplice copia delle poche fotografie che erano riusciti a scattare la sera dell'attacco alla Villa, dove l'unico corpo definibile era quello di Fernando. Ora, si disse, se avesse osservato le altre bestie presenti in quegli scatti sfocati, avrebbe saputo identificare chiunque: Garrel, Luke e persino Aralyn. Oh, lei l'avrebbe riconosciuta persino a occhi chiusi.

Con un colpo di reni, lento per paura che il tanfo potesse nuovamente mettere a repentaglio il suo equilibrio, il ragazzo si fece vicino. Senza staccare gli occhi dalla cartellina di plastica in cui erano contenute le foto, avanzò fino al centro della stanza, ma una volta arrivato al cospetto di quei reperti non osò toccarli, quasi potessero avvelenarlo.

Quante cose erano cambiate dal momento in cui aveva discusso con Kyle di quei documenti. Quanto aveva perso, ma anche trovato - e quanto ancora stava rischiando, pur di salvare ciò che ora contava davvero per lui.


 

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Capitolo 25
*** Something left behind ***




Capitolo Ventuno

Something left behind

Ai suoi piedi, come un letto di petali bianchi, se ne stavano decine e decine di fogli scritti. Joseph li osservò ancora qualche istante e poi, infastidito dal caos e dall'inconcludenza delle sue ricerche, trangugiò il contenuto del bicchiere che teneva tra le mani - il brandy peggiore che avesse bevuto negli ultimi tempi. Eppure, nonostante quella roba lo schifasse, ne aveva comprate quattro bottiglie; perchè il saporaccio del liquore sarebbe sceso bruciante lungo la gola, di tanto in tanto gli avrebbe infastidito lo stomaco a sufficienza da tenerlo sveglio, anche se sempre meno vigile.
In mezzo a quelle scartoffie non aveva ancora trovato nulla: non un nome, un indirizzo o un numero, solo annotazioni di una giovane madre frustrata, gli sfoghi di una donna a un passo dall'esaurimento nervoso - e fotografie ingiallite di un'infanzia all'apparenza felice, insieme a qualche vinile conservato con talmente tanta premura d'apparire quasi nuovo.

Nell'osservare il marasma per l'ennesima volta, il ragazzo non riuscì a trattenere un nuovo sospiro.
Era stato certo, fino a quel momento, che tra gli appunti di Elizabeth avrebbe trovato la risposta ai suoi problemi, o quantomeno un indizio per scovare qualche altro licantropo disposto a sostenerlo in una simile impresa, invece non aveva scoperto nulla.

Spostando gli occhi sul bicchiere vuoto, si convinse che fosse arrivata l'ora di prendersi una pausa - tanto rileggere quella robaccia per la centesima volta non avrebbe fatto alcuna differenza. Niente c'era e nulla avrebbe scoperto. Così, posando l'oggetto che teneva in mano sul tavolino accanto al divano, si chinò sulle custodie in cartone colorato e, attentamente, si mise a esaminare la lista di tracce musicali dietro ognuna di esse; forse, si disse tra un titolo e l'altro, l'unica cosa ad accumunare i suoi genitori, oltre la licantropia e il sangue puro, era il gusto per la buona musica. Tra le poche memorie d'infanzia che ricordava piacere, c'erano i minuti segretamente spesi a ridosso della porta della studio di suo padre, quando preso dalla noia o dal desiderio di rilassarsi, Douglas metteva nel giradischi i 33 giri di David Bowie, degli Oasis o degli Smiths - e lui se ne restava lì, accovacciato e in ascolto, finché Gabriel, Leah o Kyle non lo costringevano a sgattaiolare via per non farsi scoprire.
Fu a quel pensiero che, dopo settimane, un sorriso gli tese con naturalezza le labbra. Non se ne rese conto subito, troppo occupato a far passare lo sguardo sulle scritte, ma quando lo fece sembrò quasi restarne sorpreso; dopotutto non gli capitava spesso di ricordare con piacere suo padre o qualsiasi cosa legata al Clan, per lo più si trattava di parti della sua vita che aveva sempre cercato di evitare, seppur non riuscisse mai ad allontanarsi realmente. Un lupo, gli era stato detto dall'Alpha dopo ciò che era successo al suo primo incontro con Arwen, non può sottrarsi al richiamo del sangue, specialmente se si tratta di quello del proprio branco.

Già, pensò, ma qual è il mio branco, ora?

Un anno prima non avrebbe avuto dubbi: i Menalcan. A prescindere dalla riluttanza nell'obbedire a Douglas e il suo lignaggio, loro erano la sua famiglia, coloro che gli avevano dato la vita e insegnato a essere il lupo mannaro che era diventato nel tempo. In quell'istante però, riflettendoci, avrebbe voluto dire altro. Oltre le sue labbra premeva una risposta completamente diversa: il Clan del Nord, i lupi di Arwen Calhum, i seguaci del Duca. I nemici che erano diventati amici - per poi tornare a odiarlo.
E il sorriso spuntatogli poco prima svanì in un battito di ciglia. Quel pensiero era amaro come la verbena, anzi, peggio! Poteva essere paragonato al brandy che dalla cucina lo fissava minacciosamente, ricordandogli quanto nauseante fosse il suo sapore.

Sospirando ancora, allora, si decise a scegliere uno degli album che teneva tra le mani, in modo da distogliere la mente dai pensieri più scomodi e occuparla con i testi delle canzoni incisevi sopra. Pigramente si rimise dritto, facendosi strada tra i fogli sparsi e, una volta arrivato davanti all'impianto stereo, si concesse qualche altro istante di contemplazione.

Se gli avessero detto, prima di quei mesi, che si sarebbe ritrovato a bramare la compagnia di un mucchio di Impuri, o che la sua anima sarebbe stata indissolubilmente legata a quella di una di loro, sarebbe scoppiato a ridere, nel peggiore dei casi l'avrebbe vista come una terribile mancanza di rispetto nei confronti della sua persona. Eppure, mentre in quel momento si prodigava a estrarre il disco, non poté far altro che avvertire la solita e fastidiosa stretta allo stomaco, un'amica che non pareva abbandonarlo mai. Sentendola farsi sempre più intensa, Joseph socchiuse gli occhi, cercando di resisterle al meglio - non aveva voglia, vista la stanchezza e l'alcol ingerito, di doversi occupare anche di lei -, ma qualcosa, d'improvviso, glieli fece riaprire. Una matericità strana catturò totalmente la sua attenzione, annullando la sensazione di disturbo data dall'ansia crescente. Qualcosa non quadrava, lo capì subito. Sotto ai polpastrelli infatti, insieme alla consistenza del vinile, c'era altro.
Svelto voltò Lp e, lì, incastrata le sue dita e il bordo di quell'affare, trovò una polaroid sbiadita. La confusione fu totale. Perché non era insieme alle altre fotografie? Elizabeth non avrebbe mai permesso che un suo ricordo di gioventù potesse subire a quel modo le angherie del tempo - eppure di quello scatto non si era preoccupata: per quale ragione?

Joseph aguzzò la vista.

Nonostante le rovinose condizioni dell'immagine, e la sua testa un po' confusa per via del brandy ingoiato fino a quel momento, riuscì a definire con relativa facilità ciò che vi era sopra. Seppur sfocate, sulla pellicola c'erano solamente un divano e due persone. A caratterizzarle nel medesimo modo vi erano lunghi capelli scuri, bocche grandi, visi asciutti e della stessa tonalità chiara, mentre tra le mani stringevano qualcosa ormai indefinibile, anche se al ragazzo quel dettaglio poco importò. Nel riconoscerli, non poté che sentirsi ancora più stranito. Per quale ragione quella polaroid si trovava lì? Perché era stata abbandonata in una custodia? Che... un'idea gli balzò prepotentemente tra i pensieri: e se fosse stata nascosta?

D'istinto la volse.
La calligrafia di Elizabeth svettava nera sul bordo della fotografia, riportando quelli che parevano essere la data e il luogo in cui era stata scattata - peccato che, osservandoli con attenzione, Joseph capì subito essere altro.
11 - 9 - 1212 non era una data, dopotutto dubitava sia che nel tredicesimo secolo vi fosse quel tipo di tecnologia, sia che la donna che gli aveva dato la vita potesse essere tanto vecchia; doveva piuttosto rappresentare delle coordinate, oppure un indirizzo... un nome, forse? Ma in che modo? Con Aberdeen, invece, fu semplice trovare una spiegazione: da quello che sapeva era la città d'origine della famiglia di sua madre, situata nell'estremo nord-est della Scozia. Eppure, come si legavano insieme quei due elementi? Che ci fosse altro?

Sussultò, capendo.
Gli altri vinili!

Incurante dei danni quindi, mollò la presa su ciò che teneva tra le mani, fiondandosi sul resto della misera collezione di Elizabeth e scongiurando tutte le divinità di sua conoscenza di non averne dimenticato nessuno tra le mura della Villa - perché chissà quale fine Douglas gli aveva riservato.
Smanioso tirò fuori da ogni custodia il contenuto e, pian piano, davanti a sé si andò a creare una modesta galleria di scatti, qualcuno più e qualcuno meno rovinato del precedente.

Eccola lì, la via di fuga di sua madre dal Clan. Ecco dinanzi ai suoi occhi la strada che lo avrebbe condotto all'ultima persona che, forse, avrebbe potuto aiutarlo - il problema, adesso, sarebbe solo stato decodificarne le indicazioni.

***

Aralyn sentiva il cuore martellarle nel petto. A ogni battito il torace le faceva un po' più male, eppure cercò comunque di restare impassibile - non era il momento di cedere, non poteva farsi vedere vacillante agli occhi di nessuno dei presenti. Nonostante questo però, non riuscì a distogliere lo sguardo dalle mani di Arwen, poggiate accanto a lei sul tavolo nel patio. In quel postaccio non c'era un luogo abbastanza grande e appartato per contenerli tutti senza creare un nauseante senso di claustrofobia, solo tante, piccole stanze appiccicate l'un l'altra; così, alla fine, avevano deciso di rinunciare alla privacy per una maggior comodità - dopotutto, presto o tardi, ciò che si sarebbero detti sarebbe stato di dominio pubblico all'interno del branco. E così in lei aveva iniziato a crescere con sempre maggior forza l'ansia. Giorno e notte, quella sensazione se ne era rimasta lì, in attesa che lei abbassasse la guardia, pronta ad aggredirla e smaniosa di atterrarla come il più sadico dei nemici - e in quel momento, a soli dieci giorni dalla partenza per l'Irlanda, aveva deciso di mettere ancor più a dura prova la resistenza della giovane Calhum. Con quella riunione, sfortunatamente, avrebbero scelto chi, tra i suoi più cari amici, l'avrebbe scortata davanti al Concilio e chi, invece, si sarebbe dovuto occupare del Clan fino al loro ritorno - e la consapevolezza di cosa l'aspettasse, nonché l'entità del sacrificio che stava per chiedere loro, la stava corrodendo dall'interno.

«Sei pronta?» Il sussurro del fratello la fece sussultare, riportandola con una certa brutalità al presente da cui si era involontariamente allontanata.
Aralyn sbattè più volte le palpebre e, osservando stranita i presenti, si rese conto che no, non lo era, ma doveva comunque fingere di esserlo - in fondo che alternative aveva? Nessuna. Non poteva sottrarsi a un simile dovere, non arrivata a quel punto; così annuì, anche se desiderò poter aggiungere qualcosa di più - peccato che le labbra parvero attaccate insieme, sigillate.
«Bene, iniziamo allora» per un solo istante, negli occhi dell'Alpha la sorella vide passare una luce tetra, la testimonianza di quanto anche lui stesse faticando ad affrontare la questione - eppure, la bocca di lui risultava essere ben più collaborativa della sua.

«Vi ho chiesto di venir qui, oggi, per discutere di una questione molto importante per... noi» il palpitare di lei parve aumentare ancora, si fece così forte che fu certa di essere sul punto di avere un infarto e, quindi, si portò con noncuranza una mano al petto, afferrandosi la maglia - ma se avesse potuto, avrebbe infilato gli artigli nella carne e stretto il cuore abbastanza da farlo rallentare.

«Spero che non abbiate intenzione di affrontare nuovamente i Menalcan, Arwen... non ne abbiamo le forze, attualmente. Siamo stanchi e decimati, ci servono riposo e nuovi lupi, non un'altra guerra» Marion si protese in avanti, storcendo le labbra in una smorfia seria, severa. Il suo sguardo si fissò con determinazione sul viso di lui e, nell'osservarla con la coda dell'occhio, Aralyn si sentì una persona orribile. La sua migliore amica se ne stava a un tavolo, circondata dalle persone a cui teneva di di più al mondo, ignara del putiferio che sarebbe scoppiato di lì a poco, e lei non aveva fatto nulla per prepararla a ciò che stava arrivando; con che presunzione si permetteva di stare in sua presenza?
L'albino si portò le mani al viso: «No, non è di questo che si tratta».
«Me lo auguro per voi, Calhum, perché al momento dubito di poter sopportare l'idea di dover seppellire un altro fratello» peccato che, inconsapevolmente, nel dire simili parole la donna portò prematuramente la conversazione proprio sull'argomento della riunione, alimentando l'agitazione della ragazza sedutale di fronte. D'improvviso, il peso della notizia che avrebbero dovuto dare le fece irrigidire i muscoli. Li sentì dolere fastidiosamente sotto la pelle e, nel cercare suo fratello, Aralyn notò in lui la medesima reazione. La mandibola era serrata, tanto da tradirne la calma, così come l'immobilità del pomo d'Adamo non lasciava presagire nulla di buono - e non fu la sola ad accorgersene. I gemelli tutto a un tratto corrugarono le sopracciglia, mentre le labbra di Garrel si schiusero in sorpresa e il corpo di Marion rimise spazio tra sé e quello dei due fratelli.

«P-perché fate quelle... quelle facce?»

Ma nessuno rispose.
Dirlo spaventava. Aprire bocca e pronunciare qualsiasi cosa in quel momento sembrò richiedere il più faticoso degli sforzi. Confessare la verità, in fin dei conti, significava renderla reale non solo per loro, ma per tutti - e quindi sarebbe stato inevitabile smettere di fingere che la minaccia del Concilio fosse ancora lontana.

«Insomma... c-che diamine s-sta succedendo?»
«Arwen, che cazzo, parla!» Alla confusione di Marion si unì l'agitazione dell'omaccione alle sue spalle, seguito dalle occhiate perplesse di Hugo ed Eike. Più tempo passava, più il silenzio dell'Alpha diventava un monito alle orecchie dei presenti, un campanello d'allarme che nessuno di loro avrebbe voluto udire. Eppure c'era, insistente come un tarlo deciso a perforare i timpani; e ogni istante d'esitazione, ogni parola che si rifiutava di uscire dalle labbra di Arwen, divenne nutrimento per quello stupido insetto.

Qualcuno doveva parlare, perché tacere non avrebbe fatto altro che stimolare la mente a creare scenari sempre peggiori - come se ce ne fossero - e mettere fine all'attesa divenne quindi un'esigenza sempre più assillante; bisognava trovare un colpevole che si assumesse la responsabilità del futuro che stava velocemente avanzando verso di loro e chi, se non colei che aveva firmato la propria condanna, poteva farlo? Così Aralyn allungò una mano verso il fratello, ne strinse le dita quasi illudendolo di dargli sostegno, la forza necessaria per confessare, ma prima che lui potesse concedere ai confratelli una qualsiasi spiegazione, aprì bocca. «Sono stata convocata» disse svelta, in un sussurro che le sembrò raschiare la gola, ferendola. Fu come parlare dopo giorni di silenzio, gridare con le tonsille gonfie, eppure non se ne pentì, non del tutto quantomeno. Certo, avrebbe preferito arrivare al nocciolo della questione diversamente, andando per gradi e preparando tutti, ma alla fine quello era e quello sarebbe rimasto; nessuna parola in più avrebbe reso la verità meno terribile.

«In che senso?» domandò un gemello.
«E... da chi?» aggiunse l'altro.

Quesiti leciti, pensò, ma non meno soffocanti. Immaginare i volti dei licantropi che l'avrebbero giudicata era un po' come infilarsi al collo un cappio, mentre concedersi il lusso di supporre la condanna equivaleva a stringerlo. Avvertiva l'aria rarefarsi, i polmoni supplicare pietà, ma non si lasciò prendere dal panico - sapeva bene di non potersi permettere una simile debolezza.

«I-io... io sono stata convocata dal Concilio per rispondere della morte di Douglas Menalcan».

Il silenzio cadde grave intorno a loro, schiacciandoli. Lo sbigottimento era tale da risultare palpabile, s'infilava tra i capelli e le ciglia, poi passava le viscide mani sulla carne nuda oppure sotto ai vestiti per trovare quella nascosta. Era ovunque, una presenza lasciva che Aralyn volle scrollarsi via di dosso il prima possibile - perché sapeva che si stava accanendo su di lei, lo percepiva distintamente.

«Puoi ripetere?» D'un tratto, a interrompere il silenzio, la voce di Marion si fece strada fino a lei in un soffio. Avanzò sino alle sue orecchie come una carezza tanto lieve da mettere i brividi, ancor più fastidiosa dello stupore generato dalle sue parole. La ragazza si sentì tremare, temette che il corpo volesse ribellarsi alla sua volontà di restare impassibile e, quando alzò lo sguardo sulla bionda di fronte a lei, ne fu certa, le viscere si ribaltarono e contorsero. Non fu il pallore sul viso dell'amica, né la linea dura delle labbra, ciò che l'agitò fino a quel punto furono gli occhi vacui e fissi nella sua direzione. C'era qualcosa di preoccupante in quella visione, nel modo in cui i muscoli della donna sembravano voler preannunciare una catastrofe, eppure Aralyn non riuscì a negarle una risposta - dopotutto erano lì per quello, no?

Annuì.
«Ho ucciso un Purosangue, Marion. E non uno qualsiasi» deglutì, anche se a fatica: «Quindi ora il Concilio pretende che mi presenti a loro per subire la giusta punizione. E' per questo ch-»
«La giusta punizione?!» L'altra gridò, alzandosi con uno scatto e battendo i palmi sul tavolo. La sua rabbia era totale, incontrollata, e da quel che la ragazza poteva ricordare era accaduto solo pochissime volte, prima. «Giusta per chi? Per quei bastardi? Per quei luridi vermi dei suoi figli? Eh?!» Il modo in cui le labbra si ridussero a una linea rosa, tesa, e i denti digrignassero dopo ogni parola mise in allerta tutti. Sarebbe bastata un'unica, misera scintilla e si sarebbe fatta sopraffare dalla mutazione, per questo sia i gemelli sia Garrel parvero retrocedere di qualche centimetro: «Cosa voglio d'altro quei figli di puttana?»
«Non è ovvio?» In circostanze differenti, persino Aralyn sarebbe scattata in piedi e si sarebbe messa a gridare per tenere testa all'amica, alla sua sottoposta, ma in quell'instante si costrinse a restare seduta; sotto al tavolo, lontano dagli occhi dei presenti, le sue gambe stavano tremando: «Istigarci, Marion. Loro vogliono del sangue per poterci ricordare qual è il nostro posto, non aspettavano altro che un motivo per farlo, per sottolineare la nostra inferiorità... ed io gli ho dato un pretesto. Io -»

«Tu hai lottato per il nostro Clan! Tu hai difeso il tuo orgoglio e Arw-»
«Io non sono l'Alpha!» La gola, con quel nuovo urlo, le dolette ancora: «Non era mio diritto farlo».

Marion sembrò riscuotersi. D'improvviso i suoi occhi tornarono lucidi, la bocca si rilassò e i muscoli parvero allentare la tensione. Per quelli che sembrarono istanti lunghissimi, le due femmine rimasero a fissarsi senza proferire alcuna parola, incapaci di aggiungere altro. Che fosse giusto, punire Aralyn per quell'unico omicidio, era cosa discutibile, soprattutto quando Douglas si era macchiato di molti più crimini. Erano entrambi lupi, guerrieri, bestie, eppure lei non sarebbe mai stata sua pari. Sarebbe bastato che al suo posto, a brandire il Pugnale, vi fosse Arwen. Sarebbe stato sufficiente che a recidere le membra del patriarca Menalcan fosse stato suo fratello, l'Alpha, e tutto quello non avrebbe mai avuto luogo - però, purtroppo, era stata lei quella a colpire.

«No, è vero» la voce di Hugo, senza alcun preavviso, s'infilò tra loro interrompendo il contatto visivo. «Non era tuo diritto, Aralyn. Era tuo dovere. Quell'uomo ci ha perseguitati, ha ucciso i nostri amici... ci ha strappato la carne dalle ossa e... ti avrebbe fatto cose orribili se ne avesse avuto modo, lo sai, quindi che tu sia un capobranco o un semplice membro del Clan, poco conta».
«Sei scemo?» Eike lo fulminò: «Poco conta? Guarda che invece è l'unica cosa importante, qui. Noi non siamo Puri, nessuno di noi lo è. Okay, forse alcuni sono nati da un ventre animale, ma restiamo abomini per loro... e ai Frankenstein non è permesso fare ciò che fanno le persone vere, li aspetta la forca o la pira se ci provano».
Mai, dalla sua bocca, uscirono parole più veritiere. Aralyn si sentì stringere il cuore udendole. Eike aveva perfettamente riassunto la questione, seppur in modo assai pittoresco.


Mordendosi il labbro, il ragazzo tornò a fissare i fratelli Calhum. Dapprima si soffermò su Arwen, quasi cercasse in lui l'approvazione necessaria per proseguire, poi, non ricevendo alcuna risposta, spostò lo sguardo su di lei: «Come lo hanno saputo?»
«Saranno stati quei vigliacchi dei suoi figli, no? Gabriel e Joseph!» Il grugnito di Marion fece sussultare l'amica, ma non seppe dirsi esattamente per quale motivo. Che fosse la sorpresa? Poteva essere, ma con più probabilità si trattava del fatto che Joseph fosse nuovamente stato tirato in mezzo al discorso.
«Ma perchè?» Garrel si fece largo verso il tavolo, incrociando le braccia: «Perché d'improvviso hanno voluto convocare il Concilio?»
Passandosi una mano tra i capelli, Arwen sembrò ricordarsi di essere lì. Dopo interminabili minuti di riflessione, o guerra interiore, aveva infine deciso di prendere parte alla conversazione: «Per ferirci. E per impedire al Duca di aiutarci» sbottò. «Sono stremati e numericamente ridotti come noi, ma a differenza nostra, noi potevamo chiedere aiuto a Carlyle senza doverci indebitare. Loro che alternative avevano, se non chiamare in causa il Concilio? Chiedere a Ophelia? Ora che Douglas è morto, dubito che quella vecchia megera sia disposta a collaborare con qualcuno. Può arrivare al potere, non le è di alcuna utilità assumersi il compito di risolvere le scaramucce da due Clan nemici».

«Okay, ma... non c'è un modo per evitare ad Aralyn di... presentarsi? Non potrebbe scappare?»
«No. I Sealgairean le darebbero la caccia e... beh, sappiamo tutti che portano sempre a termine il loro lavoro. Inoltre, daremmo al Concilio un deterrente in più per condannarla».
Marion distolse lo sguardo, prendendosi il viso tra le mani. Nell'osservarla compiere quel gesto, l'amica non poté far altro che sentire propria la sua frustrazione. Riusciva a immaginare con fin troppa semplicità quali pensieri le si stessero formando nella mente, così decise di mettere fine ai suoi patemi.
«Stavolta non ci sono vie di fuga. Vorrei, ma non ne vediamo alcuna. Più cerchiamo e meno soluzioni troviamo, quindi mi presenterò a loro e risponderò delle mie azioni, volente o nolente, e voglio che alcuni di voi vengano con me».
«Sei seria?» Un nuovo grugnito, stavolta a metà con una risata: «Ci stai chiedendo di accompagnarti al patibolo?»
«Potete tranquillamente dirmi di no, Mary. Posso portare con me fino a quattro persone, ma non sono obbligata a farlo. Se serve andrò anche da sola».
«Scordatelo! Se devo scegliere tra accompagnarti a morte e lasciarti andare da sola, non ho dubbi: vengo con te».

Aralyn sorrise, anche se amaramente. In un angolo di sé sapeva esserci della gratitudine, dell'affetto, ma non riuscì a gioirne del tutto - non in vista di ciò che avrebbe detto.

«Beh, per tua fortuna non dovrai farlo» mestamente, abbassò gli occhi sulla mano che ancora stringeva quella di Arwen: «voglio che siano Eike e Hugo ad accompagnarmi, insieme a Garrel».

Il tempo sembrò fermarsi. Ogni cosa, intorno al tavolo, si bloccò. Non un suono arrivò alle loro orecchie, non un insetto osò ronzargli attorno; persino i respiri smisero di muovere l'aria.

«Mi auguro che sia una cazzata».
«Mi spiace, Mary».
«Tu stai scherzando, vero, Ara?»
«No».
Un altro colpo risuonò nel patio. I palmi della donna colpirono il legno con talmente tanta forza da creparlo: «Io sono la tua migliore amica!»
Silenzio.
«Ti sono stata vicina per anni!»
Nessuna risposta.
«Ho condiviso ogni gioia e dolore con te!»

«Non puoi farmi questo! Non puoi tagliarmi fuori! Non puoi morire così e aspettarti che io lo accetti!»

«Dannazione, Aralyn! Abbi la decenza di affrontarmi!»
Il rumore di una sedia che si sposta. Il cuore in gola.
«Perché?!»
Il tremolio delle gambe e i primi passi.
Silenzio.

«Lo ha scelto per entrambe, Marion. E se non accetti il suo volere, te lo imporrò io come tuo Alpha».
Lacrime calde presero a scorrere lungo il viso della giovane che, persino senza voltarsi, seppe dal tono dell'altra di non essere sola, in quel dolore.

«N-non puoi farmi questo! Ara!»


 

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Capitolo 26
*** Closer ***





Closer

Aralyn guardò con rammarico il capannello di licantropi riuniti davanti al casolare che in quelle poche settimane l'aveva accolta come una figlia prodiga e, nel passare per la centesima volta gli occhi sui loro visi mogi, aveva sentito il nodo in gola farsi sempre più fastidioso. Seppur riluttante si era soffermata su ognuno dei presenti nella speranza di incrociare lo sguardo di Marion, ma lei, quasi come un guanto di sfida, non si era presentata. Esattamente come aveva supposto, la sua migliore amica aveva preferito non assistere a quell'ultima partenza, eppure, pur comprendendone le motivazioni, la ragazza non riuscì a perdonarla.
Sapeva bene di essere stata lei la prima a colpire alle spalle; la prima ad aver pugnalato la fiducia reciproca senza alcun preavviso, ma nonostante ciò si sentì più vittima che carnefice - dopotutto era lei quella che stava andando incontro al patibolo, no? Era lei quella che doveva essere consolata, capita, amata... eppure sembrava la sola, tra di loro, a pensarla così.

Fino alla fine Aralyn aveva creduto che la donna si sarebbe avveduta, che avrebbe compreso la ragione per cui, tra tutti, aveva scelto di escludere proprio lei da quel viaggio, ma purtroppo non era successo e, ora, si ritrovava a salire in auto senza averla potuta vedere, abbracciare o salutare propriamente. Un peccato, certo, avrebbe preferito saperla emotivamente al suo fianco, piuttosto che il contrario, ma non per questo si pentì delle decisioni prese: avvertendola le aveva dato modo di metabolizzare la sua dipartita - ben diversa dalla dolorosa, lacerante sorpresa data da Fernando, Luke, Layla, Frejya e molti altri confratelli prima di loro - e respingendo la sua richiesta di partecipare al processo le aveva evitato di mettersi in mezzo e rendere quella disgrazia peggiore di quanto già fosse. Lo aveva fatto per entrambe, a essere sinceri, ma comprendeva bene che quello potesse apparire come il più egoista dei comportamenti - eppure Marion avrebbe dovuto conoscerla, avrebbe dovuto capire: non era forse la sua migliore amica?
In quel momento dubitò di poterla ancora definire tale.
Così, rinunciando a malincuore all'idea di vederla spuntare da qualche porta o finestra del casolare, la giovane Calhum si lasciò cadere sul sedile posteriore della vettura e, senza rendersene conto, nell'abbandonarsi sulla seduta imbottita andò a sbattere contro la spalla di Hugo.
Voltandosi, pronta a chiedergli scusa per avergli forse fatto perdere ai videogiochi, fu sorpresa, invece, nello scoprire sul suo viso un sorriso dolce, caldo e ben lontano da qualsiasi cosa si sarebbe aspettata di incontrare. Fu come scorgere una luce in mezzo alla coltre di tenebre che la stava circondando, perché da quando aveva aperto gli occhi quella mattina, tutto ciò che aveva visto erano stati sguardi cupi ed espressioni forzate. Per i corridoi del cascinale si erano sentite poche frasi bisbigliate e ogni volta che lei, o Arwen, o qualsiasi altra persona che sarebbe partita con loro aveva oltrepassato la soglia di una stanza, il silenzio era calato grave sulle loro spalle. Tutti, nel Clan, avevano capito che quel viaggio sarebbe stato diverso dal solito, ma nessuno aveva osato chiedere approfondimenti sulla questione, temendo la risposta. Sotto un certo punto di vista, Aralyn dovette ammetterlo, i confratelli avevano conservato per lei una specie di rispetto, eppure dubitava che tra di loro non fossero sorte supposizioni riguardo alla natura di quella convocazione - non erano stupidi, anche se la maggior parte non si poteva dire avvezza alle leggi del Concilio.
Per qualche istante quindi, rimase ferma a fissare l'amico. Anelava conforto più di molte altre cose e lui, in quel momento, anche se in minima parte glielo stava dando.

«Mi prometti che se ti abbraccio non mi aggredisci come l'ultima volta?» Le chiese sporgendosi un poco - e forse la tensione, oppure la reale tenerezza di quelle parole, le strapparono una risata.
Il braccio di lui allora le cinse le spalle e in un battibaleno, quasi senza rendersene conto, si ritrovò ad appoggiargli la testa al petto come un gatto in cerca di coccole.
Oltre il maglioncino leggero il cuore di Hugo batteva piano, calmo e profondo esattamente come si ricordava essere quello di Fernando e, per un attimo, Aralyn credette di averlo di nuovamente accanto, esattamente come nella doccia la notte in cui era tornata alla Tana.

«So che è l'ultima cosa che vuoi sentirti dire» la voce di lui la riscosse dall'illusione, ricordandole con una certa amarezza dove si trovasse e perché: «però... cerca di non pensare al peggio, okay?» Con la mano libera prese ad accarezzarle il polso. Le sue dita percorsero più volte, avanti e indietro, la pelle di lei. Le parve quasi che vi stesse disegnando sopra qualcosa, forse un arabesco o un concetto, ma presto comprese che i suoi erano semplici gesti di sollievo.

«La fai facile, tu.»
«Beh...» il licantropo si interruppe, soppesando i pensieri. Nella sua esitazione si poteva chiaramente udire lo sforzo che stava impiegando per riuscire a mettere insieme parole ed emozioni, poi, bagnandosi le labbra, riprese: «Non lo è, Ara, fidati» anche il movimento dei suoi polpastrelli sembrò rallentare: «Tu sei speciale per noi, lo sai, vero?» Nuovamente i loro sguardi si incontrarono: «E' grazie a te se siamo qui, vivi e circondati da una famiglia. Tu ed Arwen ci avete salvati, avete impedito che la bestia divorasse l'uomo» si lasciò sfuggire, ora con il sorriso meno tirato. Ed Eike, che fino a quel momento era rimasto appoggiato alla carrozzeria esterna in attesa dei due passeggeri mancanti, d'improvviso si sporse all'interno dell'abitacolo, avvicinandosi pericolosamente. Il suo udito doveva avergli impedito di ignorare la conversazione e, quasi giungendo in soccorso del gemello, aggiunse: «E sapere di non poter far nulla per ricambiare, per proteggerti da questo male, stanne certa, Aralyn, ci sta logorando.»
La fermezza di quelle parole, così come dei loro sguardi, le fece tremare le viscere. Si sentì sopraffare dall'affetto e dalla lealtà che le stavano dimostrando e, in un gesto del tutto inaspettato, si sottrasse dalla presa di uno per gettarsi al collo dell'altro, soffocando un singulto - stava davvero lasciando un pezzo di cuore nelle mani di ognuno di loro.

***

Joseph per qualche minuto rimase immobile, curvo davanti a una cassetta delle lettere tanto vecchia da fargli dubitare fosse ancora in uso. Sentiva i capelli appiccicarsi sempre più al viso, le gocce di pioggia che vi si infilavano in mezzo per corrergli poi lungo la nuca e il coppino, minacciandogli la pelle e inzuppando il colletto della camicia, eppure non riuscì a decidersi. Con le lunghe dita strette su una busta estremamente piccola e gonfia, se ne stette fermo sotto al temporale in attesa di... a dire il vero non lo sapeva nemmeno lui.

Era consapevole della ragione per cui fosse lì, del viscerale motivo per cui aveva scritto la lettera che nascondeva nella tasca del trench, ma nonostante questo temeva di tirarla fuori e imbucarla.
Era ridicolo, se ne rendeva conto, eppure una parte di lui, la stessa che un mese prima, in una camera d'hotel a Novigrad aveva sperato di poter restare per sempre accanto ad Aralyn Calhum, stava cercando in tutti i modi di frenarlo, di farlo desistere dal compiere quel gesto. Già una volta aveva ingenuamente creduto alle favole, sognando un lieto fine che, purtroppo, si era rivelato essere sin da principio una tragedia; e chi gli assicurava che stavolta sarebbe andata diversamente? Chi gli avrebbe dato la certezza che il destinatario di quella busta l'avrebbe ricevuta e letta in tempo per salvare colei che lui stesso aveva condannato? Nessuno, per questo le sue braccia si stavano ribellando e la sua fiducia vacillando

Però...

Con la mano libera si prese il viso, si tolse di dosso le gocce rimaste impigliate tra le ciglia e la curva delle narici e poi, con uno sbuffo, piegò indietro la testa, aprendo gli occhi sulle enormi nuvole grigie che da giorni fluttuavano placide sul cielo di Glasgow.
Però che alternative aveva, oltre a quelle che avrebbe comunque messo in atto? Non poteva affidarsi solamente alla speranza che Arwen lo avrebbe ascoltato, sarebbe stata una follia! Inoltre, c'erano anche ostacoli ben più fastidiosi di cui doversi preoccupare: Gabe per primo, poi tutti gli altri membri del Concilio e i loro seguiti.

Aveva fatto tutta quella strada per avere un piano b, per essere certo di aver fatto tutto il possibile per proteggere la sua amata; aveva rivoltato casa e rovinato i ricordi di Elisabeth che custodiva gelosamente da anni - non poteva tirarsi indietro ora.
Sì, nel peggiore dei casi non avrebbe ricevuto alcuna risposta e si sarebbe ritrovato a combattere quella battaglia da solo come già aveva previsto di fare, ma se invece Arianrhod avesse deciso di graziarlo... beh, lui sarebbe giunto in suo aiuto e a quel punto Arwen avrebbe dovuto ascoltare la sua proposta.

O almeno così credeva.

Scrutando l'orizzonte, si concesse un nuovo sospiro. Sulla sua testa aleggiavano i sensi di colpa, la paura, la frustrazione e una fitta coltre di nuvole, una coperta soffocante che avrebbe preferito scrollarsi di dosso per poter riprendere a respirare a pieni polmoni - ma sapeva bene che l'unica persona che avrebbe potuto liberarlo da quel fardello, probabilmente, in quel momento avrebbe preferito strozzarlo.

Mordendosi il labbro, Joseph strinse le dita intorno alla busta.

Se lo desiderava, pensò, glielo avrebbe lasciato fare - qualsiasi cosa, pur di dimostrarle il suo amore.

 

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